Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico
Biagio Allaria • Marco Dei Poli (a cura di)
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico
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A cura di Prof. Biagio Allaria Past Director Dipartimento di Medicina Critica Istituto Nazionale dei Tumori, Milano Chief Editor Medical Evidence Milano Dott. Marco Dei Poli UO Rianimazione e Terapia Intensiva Policlinico San Donato IRCCS San Donato Milanese, Milano
ISBN 978-88-470-1722-1
e-ISBN 978-88-470-1723-8
DOI 10.1007/978-88-470-1723-8 © Springer-Verlag Italia 2011
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Prefazione
Nell’intento di migliorare la qualità e la sicurezza in sanità, da alcuni anni ci si è occupati in tutto il mondo della rilevazione degli errori e degli eventi avversi che ne derivano. L’obiettivo è chiaro: conosciuti gli errori, dovrebbe essere teoricamente agevole mettere in atto strategie atte a non ripeterli. Questo tipo di azione, seppur faticoso, è certamente importante e incontestabile, tuttavia è almeno altrettanto indiscutibile la necessità di un’azione che migliori la cultura degli operatori soprattutto nelle attività che riguardano grandi numeri di pazienti. Nessuno discute l’importanza di approfondire le conoscenze su patologie gravi quali l’ARDS e la sepsi, sulle quali si è concentrata gran parte della ricerca e della letteratura intensivistica internazionale, ma è soprattutto importante un maggior impegno culturale nella gestione di patologie più comuni e ben più frequenti quali l’ipertensione, le coronaropatie, il politrauma, l’insufficienza cardiaca, le emorragie ecc. Anche su queste patologie è disponibile una ricchissima informazione nella letteratura specialistica (cardiologica, traumatologica, immunoematologica ecc.), ma non è così scontata la sua diffusione trasversale a specialisti che lavorano in prima linea come gli anestesisti che hanno quotidianamente a che fare con pazienti ipertesi, coronaropatici, insufficienti cardiaci, emorragici, politraumatizzati ecc. Eppure, proprio per questi pazienti “a rischio” occorre disporre di conoscenze precise e aggiornate di fisiopatologia, diagnosi e terapia per evitare quegli errori che frequentemente sfociano in eventi avversi. Lo scopo del nostro libro è proprio questo: fornire conoscenze il più possibile approfondite e aggiornate sulla gestione perioperatoria di pazienti a rischio in modo semplice e pratico, nella convinzione che questa sia la via maestra per ridurre gli errori in anestesia e le complicanze conseguenti.
Milano, ottobre 2010
Prof. Biagio Allaria
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Indice
Introduzione 1
La gestione perioperatoria del paziente con insufficienza cardiaca cronica ................................................................................................ Biagio Allaria 1.1 1.2 1.3
Introduzione ........................................................................................... Fisiopatologia dell’insufficienza cardiaca cronica ................................ Valutazione del paziente con sospetta insufficienza cardiaca cronica ..................................................................................... 1.4 Gestione perioperatoria del paziente con insufficienza cardiaca cronica ..................................................................................... 1.5 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia ......................................................................................................... 2
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio del coronaropatico ............................................................................................. Biagio Allaria 2.1 2.2 2.3 2.4
Introduzione ........................................................................................... Fisiopatologia del circolo coronarico .................................................... Prevenzione degli eventi ischemici perioperatori ................................. Identificazione dei pazienti a rischio ischemico e diagnosi precoce dell’ischemia ............................................................................ 2.5 Trattamento degli eventi ischemici ....................................................... 2.6 Gestione del paziente portatore di stent coronarici recentemente impiantati ......................................................................... 2.7 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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La gestione perioperatoria del paziente iperteso ........................................... Biagio Allaria
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3.1 3.2 3.2.1 3.3
Introduzione ........................................................................................... Fisiopatologia dell’ipertensione ............................................................ Ipertrofia del ventricolo sinistro (LVH) nell’iperteso ........................... Strategie per la prevenzione e la diagnosi precoce delle complicanze nella fase perioperatoria del paziente iperteso ........ 3.3.1 Il problema del feocromocitoma. Le emergenze ipertensive ................ 3.4 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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La gestione perioperatoria del paziente diabetico ......................................... Biagio Allaria
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4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6
Introduzione ........................................................................................... Epidemiologia del diabete ..................................................................... Mantenimento dell’equilibrio glicemico ............................................... Trattamento insulinico nel diabete di tipo 1 .......................................... Mantenimento dell’equilibrio glicidico nel diabetico di tipo 2 ............ Passaggio dagli antidiabetici orali all’insulina nella fase perioperatoria ........................................................................ 4.7 Trattamento insulinico perioperatorio nel diabetico di tipo 2 ............... 4.8 Conclusioni ............................................................................................. Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente obeso ................................................................................................ Marco Dei Poli, Armando Alborghetti, Salvatore Caporarello
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5.1 5.2 5.2.1 5.2.2 5.2.3 5.2.4 5.3 5.4 5.4.1
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5.4.2 5.4.3 5.4.4
Epidemiologia e definizione .................................................................. Variazioni fisiopatologiche legate all’obesità ....................................... Sistema cardiovascolare ........................................................................ Sistema respiratorio ............................................................................... Sistema gastrointestinale ed endocrino ................................................. Modificazioni della farmacocinetica ..................................................... Le comorbidità associate all’obesità ..................................................... Il paziente obeso nel periodo perioperatorio ......................................... Il paziente obeso è a maggior rischio di complicanze nel periodo perioperatorio? Come valutarlo preoperatoriamente? .................................................... Quale monitoraggio utilizzare in un paziente obeso? ........................... Qual è la posizione sul letto che agevola l’ossigenazione, la preossigenazione e l’intubazione nell’obeso? .................................... L’obesità è un fattore di rischio indipendente per l’intubazione difficile e per l’estubazione? .................................................................
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IX
5.4.5 5.4.6 5.4.7
In che modo dev’essere ventilato il paziente obeso? ............................ Il paziente obeso è a rischio di inalazione? ........................................... Quali dosaggi farmacologici devono essere usati nel paziente obeso? ................................................................................ Bibliografia ......................................................................................................... 6
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Il paziente affetto da BPCO Pietro Caironi 6.1 Introduzione ........................................................................................... 6.2 BPCO: definizione ................................................................................. 6.2.1 Patogenesi e fisiopatologia .................................................................... 6.2.2 Fattori di rischio .................................................................................... 6.3 Valutazione preoperatoria ...................................................................... 6.3.1 Classificazione di gravità ...................................................................... 6.3.2 Colloquio con il paziente ....................................................................... 6.3.3 Esame obiettivo ..................................................................................... 6.3.4 Esami strumentali .................................................................................. 6.3.5 Valutazione dell’eventuale riacutizzazione ........................................... 6.4 Periodo intraoperatorio .......................................................................... 6.4.1 Funzionalità respiratoria ........................................................................ 6.4.2 Sistema cardiovascolare ........................................................................ 6.4.3 Equilibrio acido-base ............................................................................. 6.5 Periodo postoperatorio ........................................................................... 6.5.1 Necessità di monitoraggio in Terapia Intensiva postoperatoria ............ 6.5.2 Funzionalità respiratoria ........................................................................ 6.5.3 Controllo del dolore ............................................................................... 6.5.4 Sistema cardiovascolare ........................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente asmatico Davide Chiumello, Silvia Coppola 7.1 7.2 7.3 7.4 7.5 7.5.1 7.6 7.6.1 7.6.2 7.6.3 7.6.4 7.6.5
Introduzione ........................................................................................... Epidemiologia ........................................................................................ Patogenesi .............................................................................................. Meccanica/fisiopatologia respiratoria ................................................... Valutazione preoperatoria ...................................................................... Ottimizzazione della terapia preoperatoria e premedicazione .............. Gestione intraoperatoria ........................................................................ Intubazione ............................................................................................ Induzione e mantenimento dell’anestesia ............................................. Ventilazione meccanica ......................................................................... Broncospasmo intraoperatorio ............................................................... Valutazione dell’iperinflazione dinamica ..............................................
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7.6.6 Estubazione ............................................................................................ 7.7 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia ......................................................................................................... 8
Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico Massimo Girardis, Emanuela Biagioni 8.1 Introduzione ........................................................................................... 8.2 Ottimizzazione preoperatoria ................................................................ 8.2.1 Identificazione del paziente ................................................................... 8.2.2 Resuscitazione precoce .......................................................................... 8.3 Gestione intraoperatoria ........................................................................ 8.3.1 Gestione dei fluidi intraoperatori .......................................................... 8.4 Il proseguimento delle cure in terapia intensiva ................................... 8.4.1 Ipertensione addominale e sindrome compartimentale ......................... 8.5 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente nefropatico Marco Dei Poli, Marco V. Resta, Chiara Colombo 9.1 Introduzione ........................................................................................... 9.2 Filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate) ................... 9.2.1 Anatomia ............................................................................................... 9.2.2 Fisiologia ............................................................................................... 9.3 Adattamento alla disfunzione progressiva ............................................ 9.3.1 Filtrato glomerulare ............................................................................... 9.3.2 Omeostasi di acqua e sodio ................................................................... 9.3.3 Effetti sull’equilibrio acido-base ........................................................... 9.4 Problemi che un nefropatico pone nella gestione perioperatoria .......... 9.4.1 Controllo del volume e ipoperfusione ................................................... 9.4.2 Meccanismi di risposta all’ipovolemia ................................................. 9.4.3 Biomarcatori di disfunzione renale ....................................................... 9.5 Anestesia e nefropatia ........................................................................... 9.5.1 Anestesia e paziente uremico ................................................................ 9.6 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente emorragico ...................................................................................... Marco Marietta
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10.1 10.2 10.3
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Introduzione ........................................................................................... Quantificazione delle perdite ................................................................. Pre-condizioni necessarie per il funzionamento del sistema emostatico ...........................................................................
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XI
10.3.1 Ipotermia ................................................................................................ 10.3.2 Acidosi ................................................................................................... 10.3.3 Anemia ................................................................................................... 10.3.4 Ipocalcemia ............................................................................................ 10.4 Monitoraggio di laboratorio nell’emorragia massiva ............................ 10.4.1 Fibrinogeno ............................................................................................ 10.4.2 Tempo di tromboplastina parziale attivata (APTT) (Fig. 10.2) ............ 10.4.3 Tempo di protrombina (PT) ................................................................... 10.5 Gli score per la coagulazione intravascolare disseminata (CID) .......... 10.6 Gli strumenti “point-of-care” ................................................................ 10.7 Tromboelastografia (TEG®) e tromboelastometria (ROTEM®) .......... 10.8 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente febbrile ............................................................................................ Marco Dei Poli, Giorgio Di Palma, Chiara Colombo
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11.1 Introduzione ........................................................................................... 11.1.1 Definizioni ............................................................................................. 11.1.2 La genesi della febbre ........................................................................... 11.1.3 Metodi di misurazione della temperatura corporea ............................... 11.2 Fisiopatologia della febbre .................................................................... 11.2.1 Febbre (ipertermia controllata) .............................................................. 11.2.2 Ipertermia non controllata ..................................................................... 11.3 Anestesia e febbre ................................................................................. 11.3.1 Febbre perioperatoria ............................................................................. 11.3.2 Febbre postoperatoria ............................................................................ 11.4 Ipermetabolismo .................................................................................... 11.5 Cenni di trattamento .............................................................................. 11.5.1 Sistema gastroenterico ........................................................................... 11.5.2 Rene ....................................................................................................... 11.5.3 Fegato .................................................................................................... 11.6 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente politraumatizzato ........................................................................... Marco Rambaldi, Stefano Busani, Maria Teresa Baranzoni, Massimo Girardis
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12.1 12.2 12.2.1 12.2.2 12.2.3 12.2.4 12.2.5
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Introduzione ........................................................................................... Fase iniziale: cosa dobbiamo monitorare? ............................................ Trauma cranico ...................................................................................... Trauma toracico ..................................................................................... Trauma addominale ............................................................................... Trauma vascolare ................................................................................... Trauma midollare ..................................................................................
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12.2.6 Coagulopatia del trauma ........................................................................ 12.3 Fasi successive: cosa monitorare in più ................................................ 12.4 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente neurochirurgico .............................................................................. Patrizia Fumagalli
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13.1 Introduzione ........................................................................................... 13.2 Monitoraggio sistemico ......................................................................... 13.3 Monitoraggio cerebrale ......................................................................... 13.3.1 Pressione intracranica ............................................................................ 13.3.2 Flusso ematico cerebrale ....................................................................... 13.3.3 Pressione tissutale di ossigeno (PETO2) ................................................. 13.3.4 Microdialisi ............................................................................................ 13.4 Emorragia subaracnoidea ...................................................................... 13.5 Posizione seduta .................................................................................... 13.6 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente sottoposto a chirurgia vascolare maggiore .................................. Marco Dei Poli, Raffaella Luci, Chiara Colombo
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14.1 14.2 14.2.1 14.2.2 14.2.3 14.2.4 14.3 14.3.1 14.3.2 14.3.3 14.3.4 14.3.5 14.4 14.4.1 14.4.2 14.4.3 14.4.4 14.4.5 14.5
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14.6
Introduzione ........................................................................................... Valutazione preoperatoria ...................................................................... Linee guida ACC/AHA ......................................................................... Apparato cardiocircolatorio ................................................................... Elementi predittivi del rischio cardiovascolare ..................................... Altre indagini preoperatorie .................................................................. Monitoraggio emodinamico intra- e postoperatorio ............................. Elettrocardiogramma ............................................................................. Valutazione preoperatoria del riempimento del circolo ........................ Cardiografia e impedenza ...................................................................... Studio della CO2 espirata (PETCO2) ..................................................... Test di carico ......................................................................................... Valutazione intraoperatoria .................................................................... Capnografia ........................................................................................... Flussimetria aortica ............................................................................... Ecocardiografia transesofagea (TEE) .................................................... PiCCO .................................................................................................... Monitoraggio emodinamico funzionale: risposta alla terapia ............... Studio perioperatorio nei pazienti a maggior rischio ............................ 14.5.1 Tonometria gastrica ................................................................... Monitoraggio e protezione renale in corso di chirurgia aortica .................................................................................
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XIII
14.6.1 14.6.2 14.6.3 14.7 14.8 14.8.1 14.8.2 14.8.3 14.8.4
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IRA: fattori di rischio preoperativi ........................................................ IRA: fattori di rischio intraoperativi ..................................................... IRA: prevenzione ................................................................................... Protezione del midollo in corso di chirurgia dell’aorta toracica ........... Monitoraggio in corso di chirurgia carotidea ........................................ Doppler transcranico (TCD) .................................................................. Pressione carotidea reflua (stump pressure) .......................................... Near-infrared spectroscopy (NIRS) ...................................................... Elettroencefalografia (EEG) e potenziali evocati somato-sensoriali (SSEP) ...................................................................... 14.9 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente sottoposto a chirurgia polmonare ................................................. Edward A. Haeusler
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15.1 Introduzione ........................................................................................... 15.2 Valutazione preoperatoria ...................................................................... 15.3 Gestione intraoperatoria ........................................................................ 15.3.1 Zone di West .......................................................................................... 15.3.2 Decubito laterale .................................................................................... 15.3.3 Ventilazione monopolmonare ................................................................ 15.4 Cosa osservare durante l’intervento ...................................................... 15.4.1 Frequenza e ritmo cardiaci .................................................................... 15.4.2 Pressione arteriosa ................................................................................. 15.4.3 Capnografia ........................................................................................... 15.4.4 Saturazione arteriosa dell’ossigeno ....................................................... 15.4.5 Parametri di ventilazione ....................................................................... 15.4.6 Portata cardiaca ..................................................................................... 15.4.7 Saturazione venosa centrale .................................................................. 15.4.8 Temperatura corporea ............................................................................ 15.4.9 Rilasciamento neuromuscolare .............................................................. 15.4.10 Ecografia transesofagea ......................................................................... 15.5 Il postoperatorio ..................................................................................... 15.5.1 La clinica e la saturimetria arteriosa ..................................................... 15.5.2 Il controllo del dolore ............................................................................ 15.5.3 Monitoraggio emodinamico .................................................................. 15.5.4 Pressione intratoracica ........................................................................... 15.5.5 La diuresi e i lattati ................................................................................ 15.5.6 Temperatura corporea ............................................................................ 15.6 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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La donna in gravidanza .................................................................................... Paolo Mariconti, Laura Landi
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16.1 La gravidanza fisiologica ...................................................................... 16.1.1 Apparato cardiovascolare ...................................................................... 16.1.2 Apparato emopoietico ........................................................................... 16.1.3 Apparato respiratorio ............................................................................. 16.1.4 Apparato digerente ................................................................................ 16.1.5 Apparato urinario ................................................................................... 16.1.6 Equilibrio acido-base ............................................................................. 16.2 L’ipertensione in gravidanza ................................................................. 16.3 Stato volemico e assetto emocoagulativo ............................................. 16.4 Monitoraggio glicemico ........................................................................ 16.5 Patologia polmonare .............................................................................. 16.6 Patologia cardiologica ........................................................................... 16.7 Obesità ................................................................................................... 16.8 Analgesia del travaglio di parto ............................................................ 16.9 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Il paziente pediatrico ........................................................................................ Ida Salvo, Federica Corvini, Anna Camporesi
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17.1 Cenni di fisiologia nel neonato e nel bambino ..................................... 17.1.1 Vie aeree e sistema respiratorio ............................................................. 17.1.2 Sistema cardiocircolatorio ..................................................................... 17.1.3 Funzione renale ..................................................................................... 17.1.4 Equilibrio idroelettrolitico ..................................................................... 17.1.5 Termoregolazione .................................................................................. 17.1.6 Sistema nervoso periferico .................................................................... 17.2 Valutazione preoperatoria ...................................................................... 17.2.1 Valutazione delle vie aeree .................................................................... 17.3 Monitoraggio intraoperatorio ................................................................ 17.3.1 Mantenimento della temperatura corporea ............................................ 17.3.2 Elettrocardiogramma e pressione arteriosa ........................................... 17.3.3 Saturimetria ........................................................................................... 17.3.4 Concentrazione inspirata di ossigeno .................................................... 17.3.5 Capnometria ........................................................................................... 17.3.6 Equilibrio volemico ............................................................................... 17.4 Monitoraggio postoperatorio e controllo del dolore ............................. 17.5 Gestione del bambino con sindrome dell’apnea ostruttiva (OSAS) ..... 17.6 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Problematiche anestesiologiche nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido ............................................................................. Andrea De Gasperi, Andrea Corti, Aldo Cristalli, Manlio Prosperi, Ernestina Mazza
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18.1 Introduzione ........................................................................................... 18.2 Terapia immunosoppressiva .................................................................. 18.3 Fisiologia e farmacologia dell’organo denervato .................................. 18.3.1 Cuore .................................................................................................... 18.3.2 Polmone ................................................................................................. 18.4 Stato generale del paziente .................................................................... 18.5 Funzionalità dell’organo trapiantato ...................................................... 18.5.1 Polmone ................................................................................................. 18.5.2 Rene .................................................................................................... 18.5.3 Fegato .................................................................................................... 18.5.4 Cuore .................................................................................................... 18.6 Considerazioni anestesiologiche generali ............................................. 18.6.1 Paziente sottoposto a trapianto di rene .................................................. 18.6.2 Paziente sottoposto a trapianto di fegato ............................................... 18.6.3 Paziente sottoposto a trapianto di cuore ................................................ 18.6.4 Paziente sottoposto a trapianto di polmone ........................................... 18.6.5 Paziente sottoposto a trapianto di pancreas ........................................... 18.7 Casi particolari ....................................................................................... 18.7.1 Chirurgia laparoscopica ......................................................................... 18.7.2 Gravidanza ............................................................................................. 18.8 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Tecnologie .................................................................................................... Biagio Allaria, Marco Dei Poli, Marco V. Resta
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19.1 Misurazione della gettata cardiaca ........................................................ 19.2 Metodiche di monitoraggio ................................................................... 19.2.1 Swan-Ganz ............................................................................................. 19.2.2 PiCCO .................................................................................................... 19.2.3 LiDCO ................................................................................................... 19.2.4 Flo Trac/Vigileo ..................................................................................... 19.2.5 Adeguatezza del segnale arterioso ........................................................ 19.2.6 Impedenziocardiografia (ICG) .............................................................. 19.2.7 Doppler esofageo ................................................................................... 19.2.8 Portata cardiaca con rirespirazione parziale di CO2 (NICO2) .............. 19.2.9 Monitoraggio dei peptidi natriuretici (BNP e Nt-proBNP) ................... 19.3 Conclusioni ............................................................................................ Bibliografia .........................................................................................................
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Elenco degli Autori
Armando Alborghetti Servizio di Anestesia e Rianimazione Policlinico San Pietro Bergamo Biagio Allaria Past Director Dipartimento di Medicina Critica Istituto Nazionale dei Tumori, Milano Chief Editor Medical Evidence Milano Maria Teresa Baranzoni Servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica Nuovo Ospedale Civile S. Agostino-Estense Modena
Pietro Caironi Dipartimento di Anestesiologia, Terapia Intensiva e Scienze Dermatologiche Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano Anna Camporesi Anestesia e Rianimazione ICP- V. Buzzi Milano Salvatore Caporarello Servizio di Anestesia e Rianimazione Policlinico San Pietro Bergamo
Emanuela Biagioni I° Servizio di Anestesia e Rianimazione Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena Modena
Davide Chiumello Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano
Stefano Busani I° Servizio di Anestesia e Rianimazione Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena Modena
Chiara Colombo UO Rianimazione e Terapia Intensiva Policlinico San Donato IRCCS San Donato Milanese Milano
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Silvia Coppola Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano Andrea Corti 2° Servizio di Anestesia e Rianimazione AO Ospedale Niguarda Ca’ Granda Milano Federica Corvini Anestesia e Rianimazione ICP- V. Buzzi Milano Aldo Cristalli 2° Servizio di Anestesia e Rianimazione AO Ospedale Niguarda Ca’ Granda Milano Marco Dei Poli UO Rianimazione e Terapia Intensiva Policlinico San Donato IRCCS San Donato Milanese Milano Andrea De Gasperi 2° Servizio di Anestesia e Rianimazione AO Ospedale Niguarda Ca’ Granda Milano Giorgio Di Palma Servizio di Anestesia e Rianimazione Policlinico San Pietro Bergamo Patrizia Fumagalli Neurorianimazione Ospedale A. Manzoni Lecco
Elenco degli Autori
Massimo Girardis Cattedra di Anestesia e Rianimazione Università degli Studi di Modena e Reggio-Emilia Modena Edward Arturo Haeusler Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Cure Palliative Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori Milano Laura Landi Servizio di Anestesia Fondazione IRCCS Ca'Grande Ospedale Maggiore Policlinico Milano Raffaella Luci UO Rianimazione e Terapia Intensiva Policlinico San Donato IRCCS San Donato Milanese Milano Paolo Mariconti Servizio di Anestesia Fondazione IRCCS Ca'Grande Ospedale Maggiore Policlinico Milano Marco Marietta Dipartimento ad Attività Integrata di Oncologia Ematologia e Patologie dell'Apparato Respiratorio Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena Modena Ernestina Mazza 2° Servizio di Anestesia e Rianimazione AO Ospedale Niguarda Ca’ Granda Milano
Elenco degli Autori
Manlio Prosperi 2° Servizio di Anestesia e Rianimazione AO Ospedale Niguarda Ca’ Granda Milano Marco Rambaldi Servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica Nuovo Ospedale Civile S. Agostino-Estense Modena
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Marco V. Resta UO Rianimazione e Terapia Intensiva Policlinico San Donato IRCCS San Donato Milanese Milano Ida Salvo Anestesia e Rianimazione ICP- V. Buzzi Milano
Introduzione B. Allaria
Nel gennaio 2009 compariva sul New England Journal of Medicine un articolo dal titolo “A surgical safety checklist to reduce morbidity and mortality in global population” (Heynes et al., 2009). A questo studio hanno collaborato Ospedali di ogni parte del mondo. L’obiettivo era quello di dimostrare che mortalità e morbidità dei pazienti chirurgici potevano essere ridotte con un proficuo scambio di informazioni fra chirurghi, anestesisti e personale di sala operatoria prima, durante e dopo l’intervento. In questo modo tutti i membri dell’équipe erano perfettamente a conoscenza della situazione clinica del paziente prima dell’intervento, di eventuali problemi occorsi in fase operatoria, dell’andamento del risveglio e potevano esprimere il loro punto di vista sulla tipologia e sulla possibile incidenza di eventi avversi nella fase postoperatoria. I risultati di questa strategia gestionale del paziente sono stati eclatanti: sia la morbidità che la mortalità risultarono quasi dimezzate. L’azione intrapresa nelle sale operatorie coinvolte nello studio era in realtà più complessa e comprendeva l’attenzione a molti particolari importanti per la sicurezza del paziente, dal contrassegno sul lato del corpo da operare, alla valutazione del rischio di intubazione difficile, al perfetto funzionamento della strumentazione ecc. Ma ciò che ci ha colpito e che costituisce una novità è il vincolante trasferimento di informazioni fra tutto il personale di sala operatoria di dati relativi al paziente in modo da consentire a tutti di essere perfettamente al corrente delle condizioni preoperatorie dello stesso, dell’andamento delle funzioni vitali durante l’anestesia e a fine intervento e da ultimo, ma non per importanza, dei problemi che ci si poteva attendere nella fase postoperatoria. Questa attenzione alle funzioni vitali del paziente da parte di tutta l’équipe, sia a quelle della fase pre- e intraoperatoria che a quelle prevedibili nel postoperatorio, è, a nostro parere, la maggior responsabile dei miglioramenti ottenuti in termini di morbidità e mortalità nei 3733 pazienti studiati. Sulla stessa rivista, nell’ottobre 2009 compariva un altro articolo sull’argomento, dal titolo “Variation in hospital mortality associated with inpatient surgery” 1
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Introduzione
(Ghaperi et al., 2009). In questo articolo gli autori hanno analizzato il decorso postoperatorio di 84 730 pazienti operati negli Stati Uniti sia in chirurgia generale che vascolare dal 2005 al 2007 utilizzando i dati dell’American College of Surgeons National Surgical Quality Improvement Program. Il risultato di straordinario interesse emerso da questo studio è stato che la mortalità variava in modo importante da ospedale a ospedale, passando dal 3,5% in quelli a bassa mortalità al 6,9% in quelli ad alta mortalità. Ci si aspettava che anche le complicanze seguissero un andamento simile: tante complicanze, tanta mortalità. Non fu così. L’incidenza delle complicanze risultò pressoché sovrapponibile in tutti gli ospedali. La conclusione era scontata: la qualità del trattamento delle complicanze era la determinante fondamentale delle variazioni di mortalità. Perché abbiamo voluto citare questi due lavori nell’introduzione del nostro libro? Perché da essi emergono dei messaggi chiari: conoscere perfettamente la realtà clinica del paziente monitorandone con continuità le funzioni vitali consente di prevenire le complicanze e la mortalità che ne conseguono ma, se le complicanze insorgono, occorre cogliere con prontezza i sintomi premonitori e intervenire precocemente e correttamente secondo protocolli universalmente condivisi. Proprio dalla lettura di questi due lavori è nata la volontà di realizzare questo libro che per “monitoraggio delle funzioni vitali” non intende il controllo strumentale della funzione cardiocircolatoria e respiratoria (il mondo è pieno di libri su questo argomento…) bensì la valorizzazione del grande network di informazioni provenienti da tutto l’organismo, dalle più semplici (semeiotica) alle più complesse (emodinamica, equilibrio acido-base, coagulazione, scambi respiratori, funzione renale, metabolismo ecc.). Una cura particolare abbiamo voluto dedicare alla scelta delle informazioni che è opportuno valorizzare nei diversi tipi di chirurgia e nelle diverse tipologie di pazienti. Così, nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare maggiore avrà largo spazio il controllo emodinamico e della perfusione coronarica, nel diabetico sarà dato spazio soprattutto al mantenimento dell’equilibrio glicemico, nell’emorragico avrà un ruolo importante il controllo della coagulazione e così via. Anche se il monitoraggio strumentale viene in questo libro considerato solo uno dei cardini della più complessa informazione che occorre ottenere per mantenere in equilibrio le funzioni vitali nella fase perioperatoria, non abbiamo voluto tralasciare di citare le tecnologie di monitoraggio spesso indispensabili per completare la conoscenza della situazione clinica del paziente. Di tutti gli strumenti citati nel libro viene pertanto data ampia documentazione nel capitolo finale.
Bibliografia Ghaperi AA, Birkmeyer JD, Dimick B (2009) Variation in hospital mortality associated with inpatient surgery. New Engl J Med 361:1368-1375 Hynes BA, Weiser TG, Berry WR et al (2009) A surgical safety checklist to reduce morbidity and mortality in global population. New Engl J Med 360:491-499
La gestione perioperatoria del paziente con insufficienza cardiaca cronica
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Riassunto L’elevata morbidità e mortalità perioperatoria dei pazienti con insufficienza cardiaca cronica o CHF (chronic heart failure) potranno certamente essere ridotte nei prossimi anni migliorando le capacità diagnostiche degli anestesisti e dei chirurghi e la qualità delle loro strategie di trattamento. (Precisiamo che in questo capitolo la sigla CHF viene usata con riferimento alla tuttora accettata definizione di “Chronic Heart Failure”; in passato la “C” della stessa sigla era utilizzata per definire “Congestive”.) Il miglioramento delle capacità diagnostiche è soprattutto legato a un affinamento delle conoscenze di semeiotica e a una paziente raccolta delle notizie anamnestiche, poiché, in fase di preparazione del paziente all’intervento, nessun esame strumentale può sostituire queste preziose procedure, anche se può essere utilmente affiancato a esse. L’acume semeiotico è stimolato in modo importante dalla conoscenza approfondita della fisiopatologia della CHF che risulterà altrettanto essenziale nella scelta delle strategie terapeutiche durante e dopo l’intervento. Per guidare correttamente il trattamento sarà tuttavia sempre necessario avvalersi di supporti strumentali che consentano almeno un monitoraggio della CVP (central venous pressure, pressione venosa centrale) e dello stroke volume (SV), atto al controllo continuo, invasivo, della pressione arteriosa. Il controllo strumentale diventerà invasivo (catetere di Swan-Ganz) nel caso di intervento non procrastinabile in paziente con CHF scompensata. Questo supporto sarà di grande importanza per guidare la terapia infusionale che costituisce un problema di rilievo nel paziente con CHF.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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1.1 Introduzione L’invecchiamento della popolazione e la maggior sopravvivenza dopo infarto miocardico acuto hanno contribuito negli ultimi decenni ad aumentare in modo consistente l’incidenza della CHF che, secondo i dati disponibili, è in continuo aumento (Felker et al., 2003). La CHF è uno dei fattori che costituiscono l’RCRI (revised cardiac risk index), unitamente ad altri che spesso l’accompagnano quali la cardiopatia postinfartuale, pregressi interventi di rivascolarizzazione coronarica, insufficienza renale cronica, anamnesi positiva per eventi cerebrovascolari, diabete insulinodipendente, soprattutto se l’intervento programmato è di chirurgia addominale, toracica, pelvica e vascolare. La CHF è la maggior causa di ospedalizzazione nei pazienti sopra i 65 anni e la sua incidenza nella popolazione non è certamente diminuita negli ultimi 20 anni nonostante il miglioramento delle cure (Roger et al., 2004). L’introduzione in terapia di ACE-inibitori, sartani e beta-bloccanti, accanto a un uso più corretto dei diuretici ha aumentato la sopravvivenza di questi pazienti. Ciò ha fatto sì che all’attenzione degli anestesisti giungano sempre più frequentemente pazienti con storia di CHF che mantengono un apparente compenso grazie a un cocktail farmacologico che può tuttavia interferire negativamente con il percorso perioperatorio che è costellato da possibili eventi quali il dolore, le emozioni, gli stimoli vagali e adrenergici, l’ipovolemia acuta, l’ipotensione, l’ipertensione, l’ipotermia, il brivido postoperatorio ecc. L’anestesista ha quindi un compito arduo, quello di mantenere un assetto emodinamico soddisfacente in un paziente fragile, poco disponibile a sopportare tanto una riduzione quanto un aumento di precarico, un’eccessiva bradicardia come una tachicardia, un aumento o un’eccessiva riduzione del postcarico. A tutto ciò si aggiunge, come si è detto, l’uso cronico di farmaci che possono interferire con i meccanismi di compenso. È dunque fondamentale conoscere la fisiopatologia di questa malattia, riconoscere i pazienti a maggior rischio, saper evitare le situazioni che possono portare a scompenso, cogliere tempestivamente i peggioramenti della CHF e altrettanto tempestivamente correggerli. È intuitivo come tutto ciò sia difficilmente attuabile senza mezzi di controllo, e anche di questo aspetto sarà indispensabile parlare.
1.2 Fisiopatologia dell’insufficienza cardiaca cronica I ventricoli si comportano come una pompa, ovvero generano una pressione atta a spostare un volume. La funzione del cuore può quindi essere descritta plottando in un grafico la pressione sviluppata dal ventricolo sinistro verso il volume del ventri-
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colo stesso. A fine diastole le fibre hanno una particolare lunghezza e tensione che è legata alla compliance del ventricolo e al riempimento. Il volume di fine diastole del ventricolo sinistro è il cosiddetto precarico (preload nella letteratura anglosassone). Il preload del ventricolo sinistro è uno dei tre maggiori determinanti dello stroke volume, gli altri due sono la contrattilità e il postcarico. Entro determinati limiti, a maggiore distensione delle fibre – e quindi del LVEDV (left ventricular end diastolic volume) – corrispondono aumenti della forza sviluppata e quindi di stroke volume che, a sua volta, è dipendente anche dalla contrattilità. Quindi lo stroke volume è condizionato dal precarico (LVEDV) e dalla contrattilità. Tuttavia l’eiezione è condizionata anche dal cosiddetto postcarico (afterload) che costituisce l’impedenza alla stessa. L’afterload è sostanzialmente costituito dalla tensione di parete (raggio × pressione della camera ventricolare) e dalla pressione aortica. Il ventricolo per esercitare la sua azione di pompa deve quindi avere un adeguato riempimento (preload), un’adeguata forza contrattile, e deve poter superare le forze che si oppongono all’eiezione (postcarico). Nell’insufficienza cardiaca una inadeguata funzione della camera ventricolare può essere infatti il risultato di una disfunzione sistolica – che è essenzialmente dovuta a un difetto di contrattilità e che è fortemente influenzata da variazioni del postcarico e del precarico – o di una disfunzione diastolica che potremmo definire come un’alterazione del rilasciamento. La disfunzione sistolica è sempre stata considerata la causa unica e fondamentale della CHF. Solo nell’ultimo decennio, il riscontro frequente di pazienti con il quadro sintomatologico classico, ma con funzione sistolica preservata al controllo ecografico, ha consentito di introdurre il concetto di CHF da disfunzione diastolica. La difficoltà di riempimento del cuore è fondamentalmente legata a due fattori: 1) il peggioramento del rilasciamento attivo; 2) l’aumento della rigidità passiva. Il rilasciamento attivo è fondato sul sistema di rimozione del calcio dal citosol assicurato da una pompa del calcio ATPasi-dipendente. Questo sistema è chiamato SERCA (sercoplasmic reticular calcium ATPase pump) e una sua inibizione causa difficoltà di rilasciamento. La proteina antagonista naturale del SERCA è il phospholamban che ostacola la rimozione del calcio dal citosol causando in questo modo una disfunzione diastolica. Il phospholamban viene inattivato per fosforilazione dall’AMP-ciclico (AMPc) che, quindi, può essere considerato un facilitatore del rilasciamento diastolico. Quindi, il SERCA favorisce il rilassamento attivo, il phospholamban lo ostacola, l’AMPc lo ripristina. Esempi di inibizione del SERCA per aumentata attività del phospholamban sono l’ipotiroidismo, l’ipertrofia ventricolare sinistra negli ipertesi e nella stenosi aortica e le età avanzate. Quando in fase perioperatoria dobbiamo gestire pazienti con CHF è bene quindi ricordare che essi possono avere una disfunzione diastolica da alterato rilasciamento attivo e che quindi sono particolarmente soggetti ad aumento della LVEDP (left ventricular end diastolic pressure) e di conseguenza della PCP (pulmonary capillary pressure) per infusioni non perfettamente calibrate.
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Peraltro ci sono pazienti, come gli ipertiroidei, nei quali un’esaltata fosforilazione (e quindi inattivazione) del phospholamban porta a un effetto opposto, cioè a una facilitazione del rilasciamento attivo. Poiché il meccanismo del SERCA che conduce a una riduzione del calcio dal citosol è un processo che richiede energia, non stupisce che l’ischemia miocardica alteri il rilasciamento attivo. La rigidità passiva è sostanzialmente secondaria al processo di fibrosi, aumenta con l’età ed è tipica delle cicatrici postinfartuali e degli aneurismi del cuore, e accompagna spesso l’ipertrofia dei miociti che, come abbiamo già detto, è anche alla base di alterazioni del rilasciamento attivo. La patologia del riempimento porta inevitabilmente all’aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro (LVEDP) con compressione del microcircolo e conseguente congestione a monte e turgore miocardico che peggiora ulteriormente la rigidità passiva. Sia la disfunzione sistolica che quella diastolica condizionano un calo dello stroke volume, la prima per un difetto della forza contrattile, la seconda per un difetto del riempimento. Il calo di gettata cardiaca e il conseguente calo di pressione sistemica vengono percepiti a livello dei barocettori dell’arco aortico, delle carotidi e del rene. Ne consegue una risposta neuroumorale di compenso che tende a ripristinare sia la gettata cardiaca che i valori pressori. Le risposte più importanti sono quelle del sistema nervoso simpatico, del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dell’ADH (antidiuretic hormone). Altre sostanze vasoattive coinvolte nella risposta al calo di portata sono l’endotelina (potente vasocostrittore) e sostanze vasodilatatrici quali il peptide natriuretico atriale e l’ossido nitrico. L’attivazione del sistema simpatico provoca sia una maggiore liberazione che una minore rimozione di noradrenalina a livello delle terminazioni dei nervi adrenergici. Il risultato è una vasocostrizione sia a livello sistemico che polmonare, con aumento del tono venoso, modificazioni che comportano sia un sostegno alla pressione che al preload. La vasocostrizione (mediata sia dalla noradrenalina che dall’angiotensina) si fa sentire anche a livello renale dove a livello glomerulare provoca una prevalente costrizione dell’arteriola efferente con effetto idraulico favorevole e mantenimento del filtrato nonostante la riduzione di flusso renale. Sia la noradrenalina che l’angiotensina incentivano il riassorbimento tubulare dell’acqua e del sodio, ambedue caratteristiche della CHF. Le concentrazioni di noradrenalina plasmatica sono proporzionalmente più elevate quanto più grave è la CHF e gli alti livelli sono correlati alla mortalità. Uno studio effettuato su più di 4000 pazienti ha dimostrato che livelli plasmatici uguali o superiori a 572 pg/ml si accompagnano a una mortalità significativamente più elevata rispetto al campione di pazienti con livello di noradrenalina plasmatica uguale o inferiore a 274 pg/ml (Arnaud et al., 2003). Da sottolineare il fatto che quanto più elevati sono i valori plasmatici di noradrenalina e/o di angiotensina II, tanto maggiori sono i benefìci in termini di sopravvivenza del trattamento con ACE-inibitori. La cronica iperstimolazione adrenergica conduce gradualmente a una desensibilizzazione dei recettori beta-adrenergici cardiaci con il risultato di una minor risposta inotropa e cronotropa (Nozaw et al., 1998). Questa desensibilizzazione è soprattutto a carico dei β1-recettori, mentre i β2-
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recettori sono relativamente salvaguardati cosicché le risposte inotrope e cronotrope sono legate nei pazienti con CHF alla stimolazione dei ß2-recettori che, a livello presinaptico, sono responsabili del rilascio della noradrenalina. L’iperstimolazione dei recettori cardiaci sembra alla base delle aritmie ventricolari spesso mortali dei pazienti con CHF. Forse per questa ragione sembra che i beta-bloccanti non selettivi (attivi anche nei confronti dei β2-recettori) siano più efficaci di quelli selettivi nel ridurre la stimolazione adrenergica del cuore nei pazienti con CHF (Newton et al., 1996). Come si è detto, la seconda importante risposta alla CHF è l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA). Come è noto, la renina viene secreta dalle cellule iuxtaglomerulari, cellule epiteliali site nella media delle arteriole afferenti glomerulari al punto di ingresso nel glomerulo. Accanto alle cellule iuxtaglomerulari è situata una porzione del tubulo convoluto distale che prende il nome di macula densa. Macula densa e cellule iuxtaglomerulari costituiscono l’apparato iuxtaglomerulare che, essendo costituito di una parte arteriosa e di una tubulare, “sente” sia le variazioni di flusso e di pressione che le variazioni di soluti nel lume tubulare. Sia una riduzione di flusso e di pressione nell’arteriola afferente, sia una riduzione di sodio nel tubulo distale (come accade nell’ipovolemia) costituiscono uno stimolo alla produzione di renina. La renina è indispensabile per la trasformazione dell’angiotensinogeno (prodotto nel fegato e presente in circolo) in angiotensina I che, grazie alla presenza dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE), si trasforma in angiotensina II che è un potente vasocostrittore. Il calo di portata che contraddistingue la CHF costituisce il fattore fondamentale che innesca la produzione di renina, ma ad esso si associa la riduzione di concentrazione di Na+ e Cl+ nel tubulo distale (e quindi nella macula densa) che costituisce un ulteriore stimolo alla produzione di renina. Ma anche la noradrenalina, che abbiamo visto aumentare nel paziente con CHF in risposta al calo di CO (cardiac output), è in grado di aumentare la produzione di renina stimolando i ß1-recettori delle cellule iuxtaglomerulari (Ganong, 2001). Come abbiamo detto, l’angiotensina II, formatasi grazie all’azione della renina e dell’ACE è uno dei maggiori vasocostrittori conosciuti ed è da quattro a otto volte più potente della noradrenalina. L’angiotensina II è inoltre responsabile in gran parte della produzione di aldosterone a livello della corteccia surrenalica e della facilitazione del rilascio della noradrenalina a livello delle terminazioni dei nervi simpatici. Una quota di aldosterone viene prodotta anche a livello cardiaco grazie all’induzione dell’enzima aldosterone synthase, sempre per stimolazione da parte dell’angiotensina 2. Il calo di portata e di pressione arteriosa viene “sentito” dai barocettori carotidei e dell’arco aortico, la stimolazione dei quali determina la “liberazione” del sistema simpatico e il rilascio di ADH oltre a provocare la sete. Gli elevati livelli di ADH contribuiscono alla vasocostrizione (tramite la stimolazione dei recettori V1A). Il maggior introito di acqua causato dalla sete e il maggior riassorbimento a livello dei collettori sono alla base della caduta diluizionale del livello plasmatico del sodio. L’iposodiemia è un segno di gravità nel paziente con insufficienza cardiaca ed è un importante predittore di mortalità.
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Prima di chiudere questo paragrafo riteniamo opportuno un cenno a un’altra sostanza, liberata dall’endotelio vascolare, che gioca un ruolo importante nell’assetto emodinamico del paziente con CHF: l’endotelina. Nella CHF l’endotelina plasmatica è aumentata (è prodotta sia dall’endotelio coronarico che dai cardiomiociti) ed è anch’essa, in parte, responsabile della vasocostrizione. Sembra inoltre che giochi un ruolo nel patologico rimodellamento del cuore che si osserva in questa patologia. I meccanismi appena descritti rendono comprensibili gli effetti emodinamici della risposta neuroumorale che si realizza nel paziente con CHF e che sono riassumibili in una vasocostrizione periferica e renale, una stimolazione alla produzione di aldosterone, un eccessivo riassorbimento tubulare di Na e H2O e una stimolazione dell’inotropismo cardiaco. Questa risposta, inizialmente vantaggiosa perché efficace nell’aumentare il precarico, portando le fibre miocardiche a meglio sfruttare la legge di Sterling e a migliorare la contrattilità, diviene presto assolutamente svantaggiosa giocando un ruolo determinante nel progressivo peggioramento della CHF. Il graduale sovraccarico del ventricolo sinistro secondario a una ritenzione cronica di acqua e di Na, in condizioni di disfunzione sistolica o diastolica o di ambedue, e in difficoltà per l’ostacolo all’eiezione causato dall’aumento dell’impedenza aortica, finisce per provocare un aumento della pressione telediastolica (LVEDP). Tale aumento si ripercuote a livello atriale e, quindi, a livello delle vene polmonari e del circolo capillare polmonare con aumento della pressione in quel contesto. La pressione idrostatica capillare polmonare (PCP) è il maggior determinante del passaggio di fluido dal capillare all’interstizio e, quindi, della formazione di edema. Normalmente, una piccola quota di liquido e proteine passa dai capillari all’interstizio e viene regolarmente drenata dai linfatici. Quando la capacità di drenaggio dei linfatici viene superata, si forma l’edema, prima interstiziale e poi alveolare. Il drenaggio linfatico della componente proteica del liquido interstiziale ne riduce la pressione oncotica favorendo quindi il processo di rientro del fluido nel capillare, dove la pressione oncotica è più elevata. Quando la permeabilità capillare è normale, la quota proteica che passa nell’interstizio è modesta, viene completamente drenata dai linfatici ed è quindi altrettanto modesta la pressione oncotica interstiziale. In queste condizioni occorre un’elevata pressione idrostatica nel capillare per la produzione di edema. Quando invece la permeabilità capillare è aumentata, la quota proteica interstiziale aumenta e con essa la pressione oncotica dell’interstizio, con passaggio di acqua dal capillare anche per modeste pressioni idrostatiche. Si comprende quindi come nella formazione dell’edema giochi un ruolo fondamentale l’interazione di quattro fattori: la pressione capillare idrostatica, la pressione oncotica interstiziale e capillare, la permeabilità capillare e il drenaggio linfatico. Di fronte all’edema del polmone, la vecchia distinzione fra edema da aumento di pressione idrostatica (edema cardiogeno) ed edema a bassa pressione idrostatica (da alterata permeabilità) è certamente arbitraria. È oggi noto, infatti, che anche nell’edema cardiogeno sono possibili alterazioni della permeabilità con formazione di edema anche per variazioni di pressione idrostatica nell’ambito della normalità. Nei pazienti con CHF le frequenti recidive di edema polmonare per cause apparentemente di scarso rilievo come sforzi modesti, emozioni, rialzi pressori, tachicardia, inter-
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ruzioni per brevi periodi del trattamento diuretico, hanno verosimilmente alla base un disturbo della permeabilità capillare (De Pasquale et al., 2003). La conoscenza di questo fenomeno è importante per l’anestesista perché, come vedremo più avanti, deve certamente condizionare la strategia infusionale nei pazienti con CHF. Nel passaggio di liquidi dal capillare all’interstizio gioca un ruolo anche la frequenza cardiaca. Normalmente, in fase sistolica, la pressione idrostatica del capillare polmonare aumenta e una piccola quota di liquido passa nell’interstizio ma, nella fase diastolica che è molto più lunga di quella sistolica, la pressione idrostatica capillare si riduce e il liquido viene riassorbito completamente. In questo modo, l’interstizio, nella normalità non è mai edematoso. Se tuttavia interviene una tachicardia, il tempo disponibile per il riassorbimento diastolico si riduce e, tanto maggiore è la frequenza, tanto più importante sarà l’accumulo di liquido nell’interstizio. Il fenomeno è ovviamente più pericoloso se coesiste un’alterazione della permeabilità capillare che, come abbiamo visto, non può essere esclusa nel paziente con CHF. Occorre sottolineare che il sistema linfatico del polmone è in grado di adattarsi alla quantità di liquido che passa dai capillari agli interstizi garantendo un efficace smaltimento. Questo processo di adattamento è lento, e in situazioni di cronicità della CHF giunge a consentire gradualmente uno smaltimento anche in condizioni di pressione idrostatica capillare molto elevata (superiore a 25 mmHg). Quando invece l’aumento di pressione consegue a un infarto miocardico acuto (IMA) o, anche più banalmente, a un overloading di liquidi, l’adattamento del drenaggio linfatico non si realizza e l’edema del polmone è una conseguenza inevitabile (Piérard e Lancellotti, 2004). In chiusura di questo paragrafo sulla fisiopatologia della CHF può essere utile un cenno ulteriore alle relazioni intercorrenti fra cuore e rene. Gli effetti vasocostrittori dell’ipertono adrenergico, dell’angiotensina II e della vasopressina si fanno particolarmente sentire a livello renale dove, come abbiamo già detto, l’ipoperfusione innesca un meccanismo di riassorbimento di acqua e Na a livello del tubulo prossimale e con essi dell’urea, che viene più attivamente riassorbita anche a livello del tubulo distale sotto lo stimolo della vasopressina. Ne risulta un aumento dell’azotemia che è tanto più importante quanto più grave è la CHF indipendentemente dalla creatininemia. Secondo alcuni Autori, nei pazienti ricoverati in ospedale per scompenso cardiaco acuto, l’aumento dell’azotemia è un fattore prognostico sfavorevole anche in assenza di una franca insufficienza renale e il controllo dell’azotemia viene proposto come utile esame per la stratificazione del rischio nei pazienti con CHF (Filippatos et al., 2007).
1.3 Valutazione del paziente con sospetta insufficienza cardiaca cronica Come abbiamo visto, la CHF è una complessa sindrome risultante da un’alterazione strutturale o funzionale del cuore che ne rende difficile l’eiezione, il riempimento
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o entrambi. La sintomatologia che ne deriva è caratterizzata dalla presenza di uno o tutti questi tre sintomi – dispnea, astenia e ritenzione di fluidi – e da un corollario di sintomi minori ai quali faremo cenno. Le raccomandazioni per la valutazione del paziente con CHF sospetta o manifesta sono contenute nell’aggiornamento del 2009 delle linee guida del 2005 ACC/AHA (Hunt et al., 2009) e poggiano essenzialmente sul riconoscimento dei sistemi legati alla ritenzione fluidica quali dispnea, ortopnea, edemi, dolore per congestione epatica, ascite, versamenti pleurici, e quelli legati al calo di portata cardiaca e quindi al calo della disponibilità di O2 per l’organismo quali astenia e facile stancabilità. Per quanto siano utili nella diagnostica la radiografia del torace, l’ecocardiografia, il dosaggio del BNP (brain natriuretic peptide) ecc., non esiste un test altamente specifico e altamente sensibile per rivelare la CHF e quindi la storia clinica e l’esame obiettivo del paziente sono essenziali. I segni di ritenzione fluidica (dispnea, edemi ecc.) non sono necessariamente associati a quelli dovuti al calo di portata (astenia, facile affaticamento) e per questa ragione oggi si tende a usare la definizione di “insufficienza cardiaca” (HF, heart failure ) piuttosto che il vecchio termine di insufficienza cardiaca congestizia (congestive heart failure) che si riferisce alla forma conclamata con ritenzione fluidica e calo di portata. (La sigla CHF rimane uguale, ma il significato della “C” cambia: “cronica” nella definizione attuale, “congestizia” nella definizione in disuso). Nella valutazione del paziente con sospetta HF è ancora molto utilizzata la classificazione NYHA (New York Heart Association) basata sulla presenza e sulla gravità della dispnea e che prevede quattro classi di HF. La più grave, la IV, è caratterizzata da sintomatologia a riposo, la III da sforzi inferiori a quelli comuni, la II da sforzi comuni, la I da sforzi di una certa intensità che potrebbero limitare la qualità della vita. Una classificazione più “clinica” che tiene conto della progressione nel tempo della malattia, il RCRI, inserisce il paziente in una di queste quattro classi: - classe A: paziente a rischio per HF (diabetici, ipertesi, dislipidemici, obesi) ma senza alterazioni strutturali cardiache dimostrabili; - classe B: pazienti asintomatici ma con alterazioni strutturali del cuore (pregresso infarto, bassa frazione di eiezione [EF, ejection fraction], ipertrofia ventricolare sinistra ecc.); - classe C: pazienti con alterazioni strutturali e sintomatologia compatibile con HF (dispnea, facile stancabilità, edemi ecc.); - classe D: come la classe C ma con grave sintomatologia a riposo, frequenti ricoveri, necessità di supporti specialistici, candidati al trapianto ecc., refrattarietà alle comuni terapie. L’RCRI è noto da circa dieci anni, ma è stato recentemente rivalutato da Ford (Ford et al. 2010) e da Goldeman (2010) che lo considerano molto utile per predire le complicanze cardiache anche se non lo ritengono del tutto accurato in chirurgia vascolare e nel predire la mortalità. Come già detto, la storia clinica e l’esame obiettivo del paziente sono determinanti per la diagnosi di CHF, tuttavia alcuni esami possono certamente essere utili per agevolare la diagnosi. La radiografia del torace può rilevare un ingrandimento
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dell’ombra cardiaca e segni di congestione ilare, l’ECG può evidenziare danni pregressi che giocano un ruolo nel determinismo della CHF (pregressi IMA, IVS –ipertrofia ventricolare sinistra), ingrandimento atriale sinistro, ischemie miocardiche in atto ecc.) ma certamente l’esame più utile è l’ecocardiogramma. Oltre a evidenziare aree ipocinetiche o acinetiche equivalenti di ischemia o di pregressi IMA, o alterazioni valvolari, l’ecocardiogramma mostra la presenza di IVS, di un rimodellamento sfavorevole del ventricolo, ma soprattutto chiarisce se la CHF è dovuta a una disfunzione sistolica con EF ridotta, o a una disfunzione diastolica con EF conservata. L’ecocardiogramma è anche in grado di dare informazioni dirette sul rilasciamento diastolico consentendo così la diagnosi precisa di CHF da disfunzione diastolica. Altri esami possono essere utili per valutare le alterazioni strutturali del cuore, come la risonanza magnetica e la ventricolografia con radionuclidi, ma non entrano nella routine quotidiana e per questo su di essi non ci soffermiamo. Un esame che va assumendo di anno in anno sempre maggior significato è il livello plasmatico del BNP. Questo peptide, liberato dai miociti quando le camere cardiache sono sotto tensione, si eleva nel plasma sia nel caso della CHF da disfunzione sistolica che nel caso della disfunzione diastolica, anche se a livelli differenti. Nella disfunzione diastolica i livelli plasmatici della normalità (<100 pg/ml) si elevano a valori intorno ai 600 pg/ml; nella disfunzione sistolica i valori sono spesso più elevati superando anche largamente i 1000 pg/ml. L’utilizzo associato di BNP ed ecocardiografia consente per lo più di differenziare la CHF da disfunzione diastolica dalla CHF da disfunzione sistolica. Infatti nella prima l’EF è in genere normale, mentre nella disfunzione sistolica l’EF è ridotta; in ambedue i casi il BNP si eleva ma, come si è detto, raggiunge i valori massimi nella CHF sistolica. Il BNP è andato assumendo un ruolo importante nell’emergenza-urgenza per la diagnosi differenziale delle dispnee. Una dispnea con BNP normale, infatti, non è verosimilmente di origine cardiaca. Esiste tuttavia una “zona grigia” nella quale il BNP non è specifico per la CHF, anche se rimane comunque indicativo, ed è quella compresa fra 100 e 600 pg/ml. In questo range di valori, infatti, possono collocarsi pazienti senza CHF ma con altre patologie come l’insufficienza renale, la stipsi, le età avanzate (Mueller et al., 2004). Ma ritorniamo all’esame obiettivo del paziente che, come abbiamo detto, insieme alla storia clinica costituisce un importante cardine diagnostico. In uno studio relativo a 259 pazienti presi in carico da un servizio di ecocardiografia per sospetta CHF, la dispnea da sforzo era un sintomo altamente sensibile (100%) ma modestamente specifico (17%); al contrario, l’ortopnea era modestamente sensibile (22%) ma abbastanza specifica (74%); la dispnea parossistica notturna aveva una sensibilità del 39% e una specificità dell’80%; gli edemi periferici avevano pari e modesta sensibilità e specificità (rispettivamente 49 e 47%) (Morgan et al., 1999). Alcune particolarità semeiotiche sono importanti nella diagnosi di CHF. La prima è la presenza di un ritmo di galoppo (3° tono) all’auscultazione del cuore. Esso è associato a una pressione atriale sinistra >20 mmHg, a una LVEDP >15 mmHg e a una elevazione del BNP. Purtroppo questo segno importante dipende molto dell’esperienza dell’osservatore e spesso non viene colto dai medici meno
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esperti. Esso è pertanto un elemento semeiotico poco sensibile anche se dotato di elevata specificità (90%). Altri elementi semeiotici utili sono il dislocamento dell’itto dalla emiclaveare verso l’esterno e il pulsus alternans. Quest’ultimo si apprezza con una leggera pressione sul polso radiale che evidenzia la presenza di pulsazioni di ampiezza differente. Anche l’uso dello sfigmomanometro può aiutare nell’evidenziare la presenza di un pulsus alternans: sgonfiando lentamente il bracciale, inizialmente si odono solo i toni di Korotkoff relativi alle pulsazioni più valide e solo sgonfiando ulteriormente il bracciale si odono anche i toni meno validi. I segni che possono far sospettare un calo di gettata cardiaca sono essenzialmente la tachicardia, la vasocostrizione cutanea, la sudorazione, a volte la cianosi periferica. Una riduzione della pressione arteriosa (PA) differenziale sotto i 25 mmHg è molto sospetta per una riduzione di cardiac output. I segni del sovraccarico liquido sono essenzialmente tre: la congestione polmonare, l’edema periferico, la distensione giugulare. La congestione polmonare è più evidente nelle forme acute e subacute di CHF perché, come si è già detto, nell’HF cronica si realizza un adattamento del sistema linfatico che mantiene a lungo un efficace drenaggio. Aggiungiamo che nell’HF cronica si realizza anche un aumento della capacitanza venosa polmonare cosicché i rantoli bibasilari tipici della congestione polmonare non sono presenti o si presentano tardivamente. L’edema periferico è più comunemente focalizzato alle zone declivi e nelle forme più avanzate di CHF e può coinvolgere il fegato e la milza che risultano ingranditi e spesso dolenti. La palpazione profonda del fegato congesto provoca un aumento del ritorno venoso e un’accentuazione del turgore giugulare (reflusso epatogiugulare). Il turgore giugulare quando il paziente è in posizione seduta a 45° è un altro segno frequentemente presente nella CHF, così come la pulsazione sincrona con la contrazione atriale delle giugulari interne. Può stupire che in un libro dedicato agli specialisti si sia dato spazio a notizie apparentemente banali di semeiotica, tuttavia, come abbiamo già detto e ripetuto, la diagnosi di HF viene posta essenzialmente al letto del paziente ascoltandone la storia e con un esame oggettivo attento e completo. Quindi anamnesi e semeiotica hanno un ruolo fondamentale.
1.4 Gestione perioperatoria del paziente con insufficienza cardiaca cronica Uno studio pubblicato recentemente e relativo a 159 327 pazienti sottoposti a interventi di chirurgia maggiore non cardiaca ha evidenziato nel 18% dei casi sintomi di CHF e un rischio di mortalità e di nuovi ricoveri ospedalieri più elevato rispetto agli altri pazienti, coronaropatici compresi (Hammil et al., 2008) Nei prossimi vent’anni, il numero di pazienti di età superiore ai 65 anni da sottoporre a intervento, presumibilmente aumenterà del 50% e poiché la prevalenza
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della CHF nella popolazione generale è in continuo aumento, non c’è dubbio che la gestione del paziente con CHF in fase perioperatoria andrà assumendo importanza sempre maggiore. Il già citato studio ha messo in evidenza che i pazienti con HF avevano un rischio di mortalità del 63% maggiore rispetto a tutti gli altri pazienti. Anche i pazienti con malattia coronarica, che pure avevano un rischio più elevato rispetto agli altri, avevano un rischio decisamente inferiore rispetto a quello dei pazienti con CHF. Anche limitando il confronto fra pazienti con rischio chirurgico omogeneo, quelli con CHF mantenevano il rischio di mortalità più elevato. Quindi, la presenza di pazienti con CHF in sala operatoria è frequente, e il rischio di complicanze e di mortalità è elevato. Stando così le cose, si comprende quanto sia importante ottimizzarne la gestione. Inizieremo col parlare della gestione preoperatoria. Un paziente con HF scompensata andrebbe trattato e riportato in compenso prima dell’intervento. Nel caso quindi di un intervento non urgente, esso andrebbe rimandato. Il trattamento in questo caso non è diverso da quello generalmente raccomandato per il trattamento della CHF. Gli ACE-inibitori e i diuretici dell’ansa sono il cardine del trattamento e, anche se essi possono favorire ipotensioni intrae postoperatorie, vanno continuati in questi pazienti perché i benefici sono maggiori dei rischi. Naturalmente i dosaggi andranno personalizzati cercando di evitare eccessive ipotensioni preoperatorie, e verificando che eventuali eccessi nell’uso dei diuretici non abbiano causato deplezioni volemiche e conseguente peggioramento della funzione renale. Non è raro, infatti, che nel trattamento di pazienti con HF cronica con edemi, siano usate dosi generose di diuretici che non sono dannose sinché la presenza di edema assicura un refilling del circolo ma che, continuati agli stessi dosaggi anche dopo la risoluzione degli edemi, finiscono per provocare ipovolemia e danni da ipoperfusione renale. Se i pazienti sono già sotto beta-bloccanti e li tollerano bene, devono continuare il loro trattamento anche in fase perioperatoria. Iniziare il β-blocco in fase immediatamente preoperatoria è una procedura tuttora discussa: non ci sono infatti evidenze sull’utilità di un trattamento di questo tipo mentre, al contrario, ce ne sono sui rischi potenziali. Soprattutto dopo i risultati dello studio POISE (Deveraux et al., 1998) non ci sembra di poter condividere l’inizio di un trattamento beta-bloccante nell’immediato perioperatorio. Nel caso sia stato possibile rimandare l’intervento di qualche settimana, l’uso di beta-bloccanti può essere considerato solo se c’è il tempo necessario per personalizzarne il dosaggio e valutarne la tolleranza. Comunque in fase di scompenso acuto non è consigliabile l’uso del beta-bloccante che andrebbe iniziato una volta recuperato il compenso allo scopo di stabilizzare il risultato. Non è raro che i pazienti con CHF siano trattati anche con spironolattone, che viene considerato un presidio importante nel trattamento a lungo termine (Pitt et al., 1999). L’uso di questo farmaco in fase preoperatoria viene accettato, ma non ci sono evidenze sulla sua utilità in fase intra- e postoperatoria. La digossina è sempre meno usata nel trattamento della CHF, tuttavia, in caso di disfunzione sistolica scarsamente reagente ai comuni trattamenti, essa viene ancora accettata. Se i livelli plasmatici della stessa sono nel range della normalità terapeutica e non ci sono segni di tossicità, essa può essere continuata in fase perioperatoria.
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Come si diceva poc’anzi, nel caso di CHF scompensata l’intervento dovrebbe essere procrastinato se non urgente ma, in regime di urgenza, ci si trova di fronte a un paziente ad altissimo rischio per la sua patologia cardiaca alla quale si aggiunge la procedura d’urgenza che è già di per sé un fattore di rischio. È questo uno dei pochi casi nel quale è giustificato un monitoraggio invasivo con catetere di SwanGanz per agevolare scelte corrette sia dei volumi da infondere che di un eventuale dosaggio di vasopressori (Sola e Beuder, 1993). Noi siamo convinti che un paziente con elevata probabilità di gravi squilibri emodinamici – per esempio con CHF scompensata – non possa essere gestito correttamente durante e dopo l’intervento senza un montoraggio invasivo. Peraltro anche le già citate linee guida ACC/AHA del 2007 suggeriscono che possa essere preso in considerazione un monitoraggio invasivo in situazioni nelle quali si possono prevedere importanti squilibri emodinamici. In ogni modo, la decisione va presa caso per caso, anche tenendo conto dell’esperienza degli operatori. Infatti, per ottenere dal catetere di Swan-Ganz le informazioni che esso può dare, occorre esperienza da parte degli utilizzatori sia nella lettura delle curve che nell’interpretazione dei dati. Il grande valore aggiuto del catetere di SwanGanz rispetto ad altri metodi di monitoraggio è costituito dalla possibilità di tenere sotto controllo la PCP che, come abbiamo visto, costituisce il fattore principale nel determinismo dell’edema del polmone. Il controllo in questi casi di SV, DO2 (disponibilità di ossigeno), SVO2 (saturazione venosa mista) e lattato consente di fare il punto sulla situazione e di correggerla, se possibile, con infusioni adeguate, eventuale uso di inotropi, ottimizzazione della ventilazione e, quando necessario, diuretici e nitroderivati. I pazienti con CHF scompensata costituiscono un vero banco di prova per l’anestesista, ma sono fortunatamente un numero esiguo visto che, in tutti i casi nei quali è possibile, l’intervento viene rimandato in attesa di ottenere una situazione di migliore compenso. Ma anche per i pazienti con CHF non scompensata la gestione perioperatoria è molto delicata. Il principale problema è certamente costituito dalla somministrazione di liquidi perché la scelta della qualità e della quantità degli stessi è fondamentale per una corretta gestione del paziente. Per affrontare il problema è doveroso fare qualche breve premessa sui cristalloidi e i colloidi. I cristalloidi isotonici si distribuiscono in tutto lo spazio extracellulare (ECV, extracellular volume) che è di circa 15 litri (12 litri interstiziali, 3 litri intravascolari). Solo 1/5 dei cristalloidi infusi rimane nello spazio intravascolare, mentre 4/5 si diffondono nell’interstizio. Da notare che l’acqua dell’ECV è solo 1/3 di tutta l’acqua dell’organismo e 2/3 dell’acqua sono intracellulari. Il destino dei cristalloidi è quindi quello di lasciare rapidamente il circolo e di finire nell’interstizio. I colloidi isooncotici sono invece destinati teoricamente a espandere la quota di ECV intravascolare, ma ciò non avviene come ci si attenderebbe. Infatti circa il 60% dei colloidi lascia il circolo entro 30 minuti (Rehm et al., 2001). Quindi solo il 20% dei cristalloidi e il 40% dei colloidi isooncotici svolgono un’azione espansiva del circolo. La differenza fra le due procedure infusionali è comunque importante visto che i colloidi isooncotici hanno una capacità espansiva del circolo all’incirca doppia rispetto ai cristalloidi.
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Ora, per rimpiazzare diuresi e perspiratio, è giustificato utilizzare i cristalloidi, anche perché il volume di infusioni necessario a questo scopo è modesto se si pensa che la perspiratio a riposo e a digiuno è di 0,5 ml/kg/h e che durante interventi di chirurgia addominale maggiore è di 1 ml/kg/h. Nel paziente con CHF l’entità del rimpiazzo per la perspiratio del periodo di digiuno perioperatorio è irrilevante, anche perché è concesso bere acqua sino a 6 ore prima dell’intervento, e quindi può essere evitata una somministrazione di cristalloidi preoperatoria. Il rimpiazzo della diuresi e della perspiratio per un intervento di chirurgia addominale maggiore, della durata media di tre ore, non supera il litro. È evidente che il ruolo dei cristalloidi è quindi modesto nella gestione di tutti i pazienti e, in particolar modo, dei pazienti con CHF (Chappell et al., 2008). Il rimpiazzo delle perdite ematiche o i cali di portata secondari a vasodilatazione da anestetici o ad ostacoli al ritorno venoso causati dalla ventilazione artificiale vanno gestiti con l’infusione di colloidi o di sangue e derivati se necessario. Ciò che si consigliava un tempo, e cioè un’infusione di cristalloidi pari a 3-4 volte i primi 1000 cc di perdite ematiche, non poggia su alcun razionale e deve essere rifiutato non solo nei pazienti con CHF ma in genere in tutti i pazienti chirurgici. Quindi, cristalloidi per bilanciare perspiratio e diuresi e colloidi isooncotici e/o sangue e plasma, se occorre, per bloccare perdite ematiche o contrastare cali di portata da vasodilatazione da anestetici o da riduzione di ritorno venoso nei pazienti ventilati artificialmente. Non è tuttavia facile ottimizzare il riempimento e l’assetto emodinamico di questi pazienti senza un aiuto strumentale. Il parametro fondamentale da controllare è lo stroke volume, che è ridotto sia nella disfunzione sistolica che in quella diastolica e può ulteriormente essere compromesso per perdite ematiche o riduzioni del ritorno venoso (per vasodilatazione da anestetici e/o per la ventilazione artificiale). Disponendo del monitoraggio dello SV, ottenibile con uno dei tanti mezzi non invasivi o a bassa invasività disponibili (vedi Cap. 19), si infonderanno boli di plasma expander sinché lo SV aumenta, sospendendo l’infusione quando a ogni bolo non si accompagna più alcun miglioramento di SV. Per quanto sia una spia poco fedele del ventricolo sinistro, anche la CVP può essere d’aiuto, anche se non determinante. Un brusco aumento di CVP senza aumento di SV costituisce una risposta al bolo di massa tipico per un paziente che ha raggiunto la sua massima possibilità di riempimento. L’obiettivo sarebbe comunque quello di ottenere una DO2I (DO2 = CO × contenuto di O2 del sangue) uguale o superiore ai 600 ml/m²/min, ma occorre dire che nell’HF è difficile ottenere le elevate DO2I raccomandate per anni nei pazienti a rischio, visto che due componenti fondamentali della DO2, la gettata cardiaca e l’Hb, sono spesso ambedue ridotte; tuttavia, per avvicinarsi almeno ai valori di DO2I consigliati, occorre non solo ottimizzare il riempimento del circolo, ma bilanciare correttamente le perdite ematiche perché il paziente con HF tollera male l’anemizzazione. L’uso liberale dei cristalloidi è sempre più sconsigliato dalla letteratura internazionale. Secondo alcuni Autori, i pazienti trattati con un regime fluidico perioperatorio restrittivo, per esempio in chirurgia addominale, evidenziano un minor aumen-
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to di peso e un più rapido ripristino del transito intestinale (Nisamvich et al., 2005). Secondo lo studio multicentrico randomizzato di Brandstrup et al. (2003), un regime fluidico restrittivo consente in chirurgia addominale una riduzione di morbidità e di mortalità, in particolare riducendo l’incidenza di complicanze cardiovascolari e di deiscenza delle ferite. In particolare, in merito all’effetto di un’infusione senza costrizioni di cristalloidi sulla deiscenza delle suture anastomotiche intestinali è di grande interesse il recente lavoro sperimentale di Marjanovic sull’impatto dei cristalloidi sulla stabilità di queste suture (Marjanovic et al., 2009). Lo studio ha dimostrato che gli animali trattati con volumi maggiori di cristalloidi avevano una stabilizzazione delle suture intestinali decisamente minore rispetto agli animali trattati con volumi di infusioni più ridotti. Il fenomeno era dovuto, secondo gli Autori, alla creazione di edema marcato della parete intestinale. Se si pensa quanta predisposizione all’edema hanno i pazienti con CHF, si comprende come in questi pazienti un uso non corretto di cristalloidi possa incidere su una delle complicanze più comuni della chirurgia addominale: la deiscenza delle suture intestinali. Qualche osservazione merita l’uso dei farmaci più comunemente usati in anestesia nei pazienti con CHF. Questi pazienti sono per lo più anziani e valgono per loro gli accorgimenti suggeriti per questa fascia di età. Sia per ragioni farmacocinetiche (distribuzione dei farmaci nell’organismo) che per ragioni farmacodinamiche (sensibilità recettoriale ai farmaci stessi) gli anziani e in particolare i pazienti con CHF necessitano di dosaggi più bassi di anestetici o di analgesici e di una somministrazione più lenta dei boli usati per l’induzione dell’anestesia. In particolare il dosaggio necessario di fentanyl si riduce del 50% nel grande anziano rispetto al giovane adulto e lo stesso vale per l’alfentanyl e il sufentanyl. L’uso combinato di fentanyl e diazepinici va fatto con grande cautela, anche per l’azione sinergica dei due farmaci che può essere causa di gravi ipoventilazioni postoperatorie. Il remifentanyl, degradato rapidamente dalle esterasi del sangue e dei tessuti, non è influenzato, come la maggior parte degli altri farmaci, dalla funzione del fegato e del rene; tuttavia, nel paziente anziano anche le esterasi si riducono e boli non personalizzati di questo farmaco possono raggiungere concentrazioni plasmatiche particolarmente elevate e produrre severe ipotensioni e bradicardie che sono particolarmente pericolose nei pazienti con CHF. Anche la dose di morfina va ridotta nei pazienti anziani con CHF: il suo volume di distribuzione è ridotto, l’eliminazione renale dei suoi metaboliti attivi è rallentata per una riduzione del filtrato glomerulare e ciò comporta la possibilità di livelli plasmatici eccessivi. Anche i miorilassanti vanno usati con attenzione negli anziani e in particolare nei pazienti con CHF: la maggior parte di essi è idrosolubile e poiché gli anziani e i pazienti con CHF senza edema hanno un’acqua corporea più bassa, il livello plasmatico dei miorilassanti risulta più elevato. Inoltre poiché alcuni di essi come il rocuronio e il vecuronio sono eliminati per via epatica e renale, generalmente compromesse in modo più o meno marcato nel paziente anziano con CHF, il loro effetto dura più a lungo; altri, come il cisatracurium (non eliminato per queste vie) non
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hanno questi problemi. Per esempio, il tempo di recupero per la curarizzazione da vecuronio è di 15 minuti per i giovani adulti e di 50 minuti per gli anziani, il tempo di recupero per il rocuronio va da 13 a 22 minuti e quello per il pancuronio da 40 a 60 (Rivera e Antognini, 2009).
1.5 Conclusioni Il più grande studio retrospettivo sull’impatto della CHF su morbidità e mortalità dei pazienti sottoposti a chirurgia maggiore non cardiaca è quello pubblicato da Hammil et al. nel 2008 relativo a 159 327 interventi chirurgici effettuati negli Stati Uniti su pazienti di età superiore a 65 anni (Hammil et al., 2008). Questo studio ha evidenziato che ben il 18% dei pazienti era affetto da CHF e che in questi soggetti la mortalità era del 63% più elevata rispetto a quella degli altri pazienti. I pazienti con malattia coronarica (CAD, coronary artery disease), pur avendo morbidità e mortalità più elevate rispetto agli altri, presentavano tuttavia un rischio minore rispetto ai pazienti con CHF. In questo studio i pazienti con CHF risultavano avere una mortalità doppia rispetto ai pazienti con CAD e senza CHF. Questi dati sono indicativi dell’importanza che può avere il miglioramento di qualità della gestione in fase perioperatoria dei pazienti con CHF. Anche il già citato lavoro di Hammil et al. conclude invitando a una maggiore attenzione e a una maggiore cultura nella scelta delle strategie di controllo e trattamento. In realtà le scelte sono molto delicate e, come abbiamo visto, non possono prescindere da una precisa conoscenza della fisiopatologia della CHF, da un utilizzo attento della semeiotica, dall’uso dei mezzi di controllo più adatti (invasivi, a bassa invasività o non invasivi). A ciò va aggiunta una buona conoscenza delle interferenze che i farmaci usati per il trattamento della CHF hanno sui meccanismi di compenso, in particolare nel caso dell’ipovolemia acuta che spesso accompagna gli interventi chirurgici maggiori. Accanto a queste conoscenze sono fondamentali le scelte infusionali (cristalloidi, colloidi, sangue) e l’uso corretto dei farmaci anestetici e analgesici, in particolare per le modificazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche che accompagnano i pazienti anziani che costituiscono la maggior parte della popolazione con CHF. L’approccio anestesiologico al paziente con CHF è quindi particolarmente complesso ma, proprio per la scarsa attenzione posta in passato a tutte le problematiche che lo contraddistinguono, sono anche particolarmente buone le possibilità di miglioramento di qualità delle cure e, ci auguriamo, dell’outcome dei pazienti.
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Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio del coronaropatico
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Riassunto Una gestione corretta della fase perioperatoria del paziente con coronaropatia non può prescindere dalla completa conoscenza della fisiopatologia dell’ischemia miocardica. Una pedissequa applicazione delle linee guida internazionali in argomento non consente infatti all’anestesista di adattare la propria condotta alle problematiche del singolo paziente. Le linee guida propongono consigli generali, ma solo conoscendo a fondo i meccanismi alla base degli eventi ischemici è possibile prevenirli; solo disponendo di una sufficiente cultura dei mezzi di controllo possiamo tempestivamente diagnosticarli; solo se ci è ben nota la farmacocinetica e la farmacodinamica dei farmaci che utilizziamo siamo in grado di trattarli. L’obiettivo di questo capitolo è quindi quello di contribuire alla conoscenza della fisiopatologia dell’ischemia e, partendo da essa, di guidare alla condotta di prevenzione, diagnosi e trattamento.
2.1 Introduzione Ciò che mi ha sempre stupito in tanti anni di attività, molti dei quali passati in un ospedale a elevata casistica di chirurgia vascolare (specialità più di altre gravata da complicanze ischemiche miocardiche) sono gli innumerevoli tentativi di stratificazione del rischio ischemico nei pazienti da sottoporre a intervento chirurgico. Di per sé questi sforzi non hanno nulla di negativo, anzi si può convenire che la conoscenza precisa del paziente prima dell’intervento consente una gestione più corretta della fase operatoria e del postoperatorio. A tali sforzi, tuttavia, non hanno fatto seguito negli ospedali di tutto il mondo comportamenti conseguenti nella gestione Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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dei pazienti. La sensazione è infatti che, una volta identificati i pazienti “a rischio ischemico”, essi percorrono gli stessi cammini degli altri: non vengono affidati ad anestesisti e chirurghi più esperti, non vengono sottoposti a un monitoraggio intraoperatorio più preciso, non vengono avviati se non eccezionalmente a un postoperatorio “protetto”. Essendo mancato questo sforzo che sostanzialmente doveva condurre a strategie di prevenzione dell’ischemia miocardica, di diagnosi precoce e di trattamento della stessa, ha avuto grande successo la proposta di una protezione generalizzata di questi pazienti con il β-blocco. Il β-blocco, sulle ali di una certa letteratura scientifica, è stato da molti accolto con entusiasmo come un grande ombrello, in grado di prevenire gli eventi ischemici del miocardio. Paradossalmente, la strategia protettiva generica con β-blocco è servita ancora una volta a “coprire” l’inefficienza dei sistemi di controllo e la scarsa qualità dei trattamenti. Poiché la tachicardia era forse il maggior determinante delle ischemie perioperatorie, anziché cogliere tempestivamente le cause della stessa e prevenirla o prontamente trattarla, si è preferito tenerla a valori costantemente più bassi con un farmaco. Sin dal tempo dei primi entusiasmi per questo tipo di “protezione aspecifica” non sfuggiva a molti di noi l’aspetto troppo semplificatore della strategia. Spesso, nel corso di un intervento chirurgico il mantenimento di valori soddisfacenti di pressione arteriosa (PA) e di gettata cardiaca vengono mantenuti grazie a un adeguamento della frequenza e questo fenomeno, anche se modesto, è un segnale per l’anestesista che ne individuerà prontamente la causa (alleggerimento dell’anestesia? Ipovolemia assoluta o relativa?) e altrettanto prontamente la correggerà impedendo che la tachicardia divenga un fattore ischemizzante. Un discreto spazio in questa trattazione sarà dedicato alle conclusioni dello studio POISE sulla reale utilità del β-blocco perioperatorio e alle discussioni che ne sono conseguite. Sin d’ora comunque vogliamo affermare che l’identificazione dei pazienti a rischio non ha alcun senso se a essa non fa seguito un controllo più approfondito durante l’intervento e nel postoperatorio, unitamente a una conoscenza aggiornata dei meccanismi che sono alla base delle complicanze ischemiche, conoscenza che è una conditio sine qua non per prevenirle, prontamente diagnosticarle e prontamente correggerle. A questi aspetti quindi daremo largo spazio, consigliando a chi volesse approfondire le poprie conoscenze sulla stratificazione del rischio le linee guida ACC/AHA del 2007 (Fleischer et al., 2007) anche se non tutti sono d’accordo sul fatto che esse siano basate su una solida evidenza (Tricoci et al., 2009). Per semplificare le cose, possiamo consigliare di utilizzare l’ormai datato indice di Lee che è strutturato su sei predittori di rischio (Lee et al., 1999): 1. malattia cardiaca ischemica nota; 2. CHF; 3. malattia cerebrovascolare; 4. chirurgia ad alto rischio; 5. diabete insulinodipendente; 6. creatinina >2 mg/dl.
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Un’estrema utilizzazione delle procedure di stratificazione del rischio è stata quella di proporre con una certa larghezza lo studio coronarografico preoperatorio allo scopo di attuare una prevenzione del rischio ischemico mediante una rivascolarizzazione sia chirurgica che mediante angioplastica coronarica transluminale percutanea (PTCA) e stent prima di procedere alla chirurgia non cardiaca se ritenuta non urgente. Questi tentativi non hanno avuto successo. I fatti hanno dimostrato che i pazienti trattati con terapia medica avevano gli stessi vantaggi di quelli trattati con rivascolarizzazione, tanto che questa procedura in fase preoperatoria è stata limitata alle sole situazioni a rischio ischemico elevatissimo come l’angina instabile. Vedremo più avanti come i pazienti trattati con stent, sia metallici (BMS, bar metal stents) sia quelli farmacologicamente trattati (DES, drug eluting stents), creino problemi importanti se sottoposti a chirurgia non cardiaca, sia di tipo emorragico (per la continuazione in fase perioperatoria del doppio trattamento antiaggregante ASA + tienopiridina) sia di tipo trombotico per l’occlusione acuta anche letale di uno stent per la sospensione del trattamento. Ripetiamo quindi che la stratificazione del rischio ischemico non serve tanto a instaurare un trattamento antischemico farmacologico o a consentire una oggi improponibile rivascolarizzazione preoperatoria, ma a innescare una serie di azioni atte a prevenire, diagnosticare tempestivamente e altrettanto tempestivamente trattare le complicanze ischemiche. Procederemo quindi, prima di tutto, a conoscere i fondamentali fisiopatologici del circolo coronarico, a essi agganciandoci per un’utile operazione di prevenzione dell’evento ischemico. Diagnosi precoce e terapia dello stesso saranno conseguenti.
2.2 Fisiopatologia del circolo coronarico Ciò che in passato si dava per scontato, e cioè che distalmente alle stenosi coronariche l’ipoperfusione fosse alla base della vasodilatazione poststenotica e che il calo di pressione a valle della stenosi consentisse di mantenere un gradiente pressorio sufficiente per garantire il flusso, non è più da tutti condiviso. Sembra infatti che il calo pressorio a valle della stenosi favorisca un collabimento del vaso e quindi finisca per aumentare la resistenza al flusso. Inoltre non si può escludere che il processo di vasodilatazione interessi ambedue le porzioni normali di arteria (prossimale e distale rispetto alla stenosi) causando un aumento relativo di resistenza al flusso. Normalmente la distribuzione del flusso è uniforme fra endocardio ed epicardio con un rapporto endocardio/epicardio solo lievemente superiore a 1. In caso di stenosi, e con paziente a riposo, questo rapporto non cambia se la stenosi è <90%. Se la stenosi aumenta, il rapporto endocardio/epicardio cala rapidamente, con il risultato di una sofferenza ischemica del subendocardio. Lo stesso rapporto cala in presenza di stenosi multiple dello stesso vaso, anche non critiche. Sempre nel paziente a riposo, se si utilizzano vasodilatatori il rapporto endocardio/epicardio cala
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anche per stenosi moderate (per esempio, del 60%) per l’insorgenza di un “furto coronarico”. Al concetto di coronary steal (furto coronarico), noto da oltre 40 anni, concorrono tre circostanze: 1. la completa occlusione di una coronaria; 2. la presenza di circoli collaterali; 3. la stenosi del vaso che fornisce i collaterali. Quando sussistono queste circostanze, l’uso di un vasodilatatore può causare il fenomeno del furto coronarico e cioè la sottrazione di flusso dalla zona perfusa dai vasi collaterali a favore di zone del miocardio sane. Il furto può essere assoluto quando il flusso è ulteriormente ridotto in una zona ischemica, o relativo quando esso non si adegua in caso di aumento del consumo miocardico di O2 (MVO2), e può essere causato sia da una vasodilatazione da sforzo che da una vasodilatazione farmacologica (ambedue di tipo arteriolare). Un farmaco che ha questo effetto è il dipiridamolo (forte dilatatore arteriolare e senza effetto sui vasi più grandi) che viene per questa sua azione utilizzato per evidenziare situazioni patologiche come quelle descritte. Associando il dipiridamolo a tecniche di imaging quali la scintigrafia miocardica o l’ecografia si realizza un furto coronarico e si creano zone di temporanea ischemia che la scintigrafia descrive come difetti di perfusione e l’ecocardiografia come alterazioni della cinesi. I farmaci che invece non hanno effetto arteriolare ma lo hanno sui grandi vasi coronarici, portano più flusso alle zone ischemiche sia in condizioni di base che sotto sforzo. Un esempio di questo tipo è costituito dai nitroderivati che hanno effetti favorenti anche sui flussi collaterali. Farmaci come la nifedipina e il nitroprussiato hanno effetto sia sulle arteriole (favorendo il furto) che sui vasi più grandi (favorendo il flusso alle zone ischemiche). Il loro effetto finale non è quindi sempre prevedibile potendo ogni volta prevalere l’una sull’altra azione (Furberg et al., 1995). Il flusso coronarico è influenzato dalla pressione del tessuto che circonda i vasi, quindi durante la sistole si riduce, soprattutto a livello del ventricolo sinistro dove la forza di contrazione è più importante, e poiché la pressione intramiocardica è maggiore a livello subendocardico, durante la sistole il flusso viene ridistribuito a favore delle zone subepicardiche. Il flusso coronarico del ventricolo sinistro cala quindi vistosamente durante la sistole per aumentare all’inizio e nella fase intermedia della diastole e calare di nuovo nella fase finale della diastole (durante la quale la pressione aortica è ai suoi valori minimi) e cessare quasi del tutto nella fase isometrica della sistole successiva. Durante la diastole la perfusione è assicurata dal gradiente pressorio fra la radice aortica (dove nascono le coronarie) e l’atrio destro (dove scaricano le vene coronariche). È ovvio che una riduzione di questo gradiente influisce negativamente sul flusso. Proviamo a pensare cosa può avvenire in un paziente anziano con BPCO (e pressione atriale destra elevata) e stenosi aterosclerotica della valvola aortica (e pressione diastolica alla radice aortica molto bassa): un soggetto di questo tipo si trova nelle condizioni più adatte per la realizzazione di un’ischemia miocardica. In realtà, come vedremo più avanti, il paziente con BPCO è da considerare a rischio
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elevato per eventi ischemici in fase perioperatoria e l’anestesista, che per lo più pensa alle complicanze respiratorie che potrebbe incontrare, sarebbe giusto che si preoccupasse anche delle possibili complicanze ischemiche. Un’ulteriore ipotensione aortica, specie se accompagnata da tachicardia, potrebbe peggiorare vieppiù il gradiente pressorio che assicura la perfusione e la tachicardia con l’aumento di MVO2, e la riduzione del tempo di diastole che ciò comporta fa il resto… In un paziente con BPCO caratterizzato da elevata compliance, la ventilazione artificiale si fa particolarmente sentire sul ritorno venoso causando frequentemente cali di portata e di pressione. In queste condizioni, anche modeste alterazioni coronariche possono causare importanti cali di perfusione subendocardica. Abbiamo fatto questo esempio per richiamare l’attenzione dell’anestesista sulle interazioni sfavorevoli fra circolo e respiro che in ventilazione artificiale possono essere alla base di eventi ischemici del miocardio in fase intraoperatoria. Per richiamare ulteriormente l’attenzione sull’importanza della tachicardia (e quindi sulla riduzione del tempo di diastole indispensabile per la perfusione) basti questa osservazione fatta da Ferro et al. già nel 1995: una riduzione del tempo diastolico dal 54% al 45% del ciclo cardiaco ha lo stesso effetto di una stenosi coronarica che passa dal 40% al 90% (Ferro et al., 1995)!! Nel determinismo della perfusione del miocardio tuttavia non giocano un ruolo solo il tempo diastolico e il gradiente aorta-atrio destro in diastole, ma anche il gradiente aorta-pressione intramiocardica in diastole. Abbiamo visto infatti come gli aumenti della pressione intramiocardica che circonda i vasi determinino una riduzione di perfusione. Un fenomeno del genere si verifica nell’insufficienza cardiaca cronica (CHF) dove un aumento di pressione telediastolica nel ventricolo sinistro può ridurre questo gradiente e di conseguenza la perfusione, soprattutto degli strati subendocardici. Anche in questo caso è utile un richiamo dell’attenzione degli anestesisti quando devono portare in sala operatoria, anche per un intervento banale, un paziente con compenso cardiaco precario. Questo paziente, proprio per la possibile elevata pressione diastolica ventricolare, ha un gradiente aorto-miocardico ridotto ed è a rischio per un’ischemia, specie degli strati subendocardici, soprattutto se il tempo di diastole si riduce per tachicardia e in particolar modo se una coronaropatia è alla base dell’insufficienza cardiaca, come accade nella maggior parte dei casi. Abbiamo ripetutamente fatto cenno alla particolare vulnerabilità degli strati subendocardici ai cali di perfusione. Il fenomeno è chiaramente comprensibile se si pensa che il flusso è massimamente agevolato nei vasi epicardici, più grandi, più superficiali e più vicini alla radice aortica. Dai vasi epicardici partono quelli che, distaccandosi perpendicolarmente, entrano nel miocardio e raggiungono infine l’endocardio. I vasi endocardici, quindi, sono più lontani dalla sorgente del flusso e più influenzati dalle variazioni di pressione intramiocardica. I sottoslivellamenti di ST che osserviamo sui nostri monitor sono proprio l’espressione di una sofferenza ischemica degli strati subendocardici. Il fenomeno è esaltato se coesiste un’ipertrofia ventricolare sinistra come avviene negli ipertesi e negli anziani. Da notare che, se l’ischemia coinvolge parti sufficientemente ampie del ventricolo sinistro, il rilasciamento diastolico viene alterato, così come la funzione sistolica, con
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la conseguenza di un aumento della pressione diastolica del ventricolo, spesso accompagnato da tachicardie che aggravano ulteriormente l’ischemia creando un circolo vizioso che, se non viene interrotto, conduce all’infarto miocardico acuto (IMA). Per questa ragione un’osservazione attenta del tratto ST durante l’intervento chirurgico dei pazienti a rischio ischemico è fondamentale per cogliere il fenomeno precocemente e altrettanto precocemente mettere in atto, come vedremo più avanti, tutte le possibili azioni per interromperlo. Una distribuzione sfavorevole agli strati subendocardici del ventricolo sinistro può anche realizzarsi trasversalmente, con smistamento di sangue dal circolo del ventricolo sinistro a quello del ventricolo destro. Nel caso infatti di una coronaria destra dominante (il cui ramo discendente posteriore irrora in parte il ventricolo sinistro) o nel caso in cui il ramo discendente anteriore irrori anche il ventricolo destro oltre al sinistro, si realizza una situazione nella quale una stessa coronaria fornisce due settori a regime pressorio differente. Se questo vaso è sede di una stenosi critica può avvenire che il sangue venga smistato verso il ventricolo destro con conseguente ipoperfusione del sinistro che, ancora una volta, verrà sentita maggiormente dagli strati subendocardici. Se in questa situazione si riesce a ridurre la frequenza cardiaca, l’MVO2 del ventricolo destro si riduce in modo importante e di conseguenza cala la sua perfusione a tutto vantaggio della perfusione del ventricolo sinistro. Ancora una volta volta, aver ragione della tachicardia porta a un risultato favorevole. In conclusione di questo paragrafo ricordiamo brevemente l’importante funzione che l’endotelio coronarico riveste nella motricità del vaso (vasodilatazione e vasocostrizione). Una patologia dell’endotelio (che si osserva non solo nella conclamata patologia aterosclerotica ma anche nei fumatori, nei diabetici, nei dislipidemici e anche nei pazienti con coronarie macroscopicamente sane ma con pesante familiarità per coronaropatie) caratterizzata da una ridotta capacità di produrre ossido nitrico (NO), riduce la possibilità di promuovere la vasodilatazione quando occorre, per esempio per un aumento dell’MVO2. Avviene quindi che in caso di necessità il flusso non possa adeguarsi alle richieste, favorendo quindi l’evento ischemico. Si pensi a un’anestesia leggera con tachicardia, ipertensione e conseguente aumento di MVO2 in un paziente con disfunzione dell’endotelio. L’adeguamento del flusso alle necessità metaboliche non si realizza e compare l’ischemia. Ma la disfunzione endoteliale non impedisce solo l’adeguamento del flusso alle necessità metaboliche, ma è addirittura alla base di risposte esaltate o paradosse che lo disturbano. Per esempio l’acetilcolina, mediatore del vago, che normalmente determina una coronarodilatazione, in caso di disfunzione endoteliale può causare una coronarocostrizione. Le amine, che normalmente hanno un effetto vasocostrittore, vedono esaltata questa attività. Quindi, in pazienti con patologia dell’endotelio che, come abbiamo visto, è presente in molti pazienti, sia stimoli vagali che adrenergici possono causare coronarocostrizione. Tutti sappiamo quanto siano frequenti eventi di questo tipo nel perioperatorio; basti pensare alle anestesie leggere, alle trazioni sui visceri, ai risvegli con brivido, alle emozioni preoperatorie e al dolore postoperatorio…
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2.3 Prevenzione degli eventi ischemici perioperatori Nella stesura di questo capitolo non ci rifaremo alle linee guida dell’ACC/AHA del 2007 né ad altre. La fragilità delle linee guida nell’affrontare le problematiche cliniche dei singoli pazienti sono ben note. Il lavoro di Tricoci et al. (2009), pubblicato su JAMA e al quale abbiamo già fatto cenno, ha analizzato le linee guida ACC/AHA e altre e ha messo in evidenza come mediamente nelle linee guida le raccomandazioni con livello di evidenza A (basate sull’evidenza di trial clinici multipli randomizzati) siano solo l’11%, mentre la stragrande maggioranza delle raccomandazioni hanno un livello C (basate solo sull’opinione di esperti, singoli casi, esperienze consolidate). Stando così le cose, pur non negando la generica utilità delle linee guida, riteniamo che nella gestione perioperatoria dei singoli pazienti a rischio per ischemia miocardica sia più importante mettere in campo azioni di prevenzione basate soprattutto sulla conoscenza del paziente stesso e della fisiopatologia dell’ischemia cercando, per quanto possibile, di non consentire l’insorgenza delle cause. Il primo comandamento nella strategia di prevenzione dell’evento ischemico è “evitare la tachicardia”. Abbiamo visto come la riduzione del tempo diastolico equivalga a una riduzione del tempo disponibile per la perfusione coronarica e come, in caso di preesistente coronaropatia, il risultato finale sia analogo a quello di un peggioramento della stenosi. A ciò si aggiunge l’aumento di MVO2 che accompagna la tachicardia e la discrepanza che ne risulta fra disponibilità e consumo di O2 miocardico può condurre all’evento ischemico. Questi banalissimi concetti sono noti da anni e hanno spinto alcuni Autori a percorrere la scorciatoia del β-blocco perioperatorio (Mangano et al., 1996; Poldermans et al., 1999): visto che la tachicardia è una causa importante di ischemia, sembrava utile mantenere costantemente bassa la frequenza cardiaca nel periodo perioperatorio. Studi come questi, pur non essendo di grandi dimensioni, sembrano dimostrare, soprattutto nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare che sono notoriamente ad alto rischio ischemico, che il β-blocco consente una riduzione di mortalità e di incidenza di IMA postoperatorio. Chi, come noi, ha lavorato per anni con la chirurgia vascolare, ha scarsamente accettato questa strategia. I pazienti sottoposti a chirurgia vascolare hanno spesso importanti squilibri emodinamici, essenzialmente per le perdite ematiche, spesso brusche e minacciose, per il clampaggio e declampaggio aortico, per le variazioni anche importanti di temperatura corporea in fase intra- e postoperatoria. In questa situazione i meccanismi di adattamento comprendono anche aumenti di frequenza. Bloccarli può condizionare cali di portata che possono ripercuotersi soprattutto a livello intestinale, epatico e renale. Un β-blocco in tutti i pazienti può forse ridurre gli eventi ischemici miocardici, ma favorisce cali di perfusione intestinale, epatica, renale e polmonare a loro volta causa di complicanze.
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Nonostante queste considerazioni, da molti condivise, sembrassero ragionevoli, i lavori citati, comparsi su una rivista prestigiosa come il New England Journal of Medicine hanno avuto un discreto seguito nel mondo scientifico tanto che il βblocco perioperatorio nei pazienti a rischio veniva ancora consigliato nelle linee guida ACC/AHA del 2007 e veniva raccomandato e considerato indice di qualità del lavoro ospedaliero dalla Joint Commission. Finalmente un importante studio, pubblicato su Lancet nel 2008 e certamente affidabile per le sue caratteristiche di numerosità del campione e di studio internazionale randomizzato e controllato - lo studio POISE (Perioperative Ischemia Evaluation) - ha ricondotto il problema della prevenzione dell’ischemia su binari più corretti (Deveraux et al., 2008). Questo studio ha concluso che non è consigliabile un trattamento perioperatorio indiscriminato con beta-bloccanti di tutti i pazienti a rischio ischemico. Una condotta di questo tipo infatti consente sì una riduzione dell’IMA intra- e postoperatorio e/o di morte cardiovascolare, ma si associa a un aumento globale di mortalità. Ciò non stupisce perché è prevedibile che in situazioni di criticità, come i cali di gettata sistolica per emorragia o per qualsiasi causa che riduca il ritorno venoso, l’adeguamento in frequenza alla nuova situazione sia un meccanismo di compenso che sostenga la portata cardiaca e quindi la perfusione di intestino, rene, fegato, polmone e dello stesso cuore. Proprio questi cali di perfusione d’organo possono essere alla base di insufficienza multiorgano (MOF, multiple organ failure) e di morte conseguente. Naturalmente l’aumento di frequenza cardiaca oltre a essere un meccanismo di compenso è anche un determinante dell’aumento di MVO2 che, unitamente alla riduzione del tempo diastolico, favorisce l’ischemia miocardica nei coronaropatici. Ma, sia la prevenzione che il trattamento di queste tachicardie compensatorie non vanno fatti per lo più con i beta-bloccanti, ma avendo cura di mantenere una replezione del circolo e un livello di anestesia sempre ottimali. In questo senso si esprimono autorevoli autori come Sear et al. (2008) secondo i quali i beta-bloccanti vanno utilizzati solo nel perioperatorio di quei pazienti che sono già in trattamento con questi farmaci. A nostro avviso a questi pazienti si possono aggiungere quelli a rischio ischemico con frequenze di base costituzionalmente elevate o tachicardie per malattie concomitanti quali l’ipertiroidismo ma, anche in questi casi, con riserva in caso di interventi durante i quali sono prevedibili larghe perdite di sangue. Non useremo invece certamente i beta-bloccanti nei pazienti tachicardici per anemia o per ipovolemie preesistenti nei quali si dovranno soprattutto trattare le cause della tachicardia piuttosto che ridurre farmacologicamente la frequenza. Da quanto detto sinora si comprende che la nostra linea è quella di prevenire o prontamente correggere le tachicardie, soprattutto mantenendo un livello soddisfacente di replezione del circolo e di profondità dell’anestesia e provvedendo altresì a evitare durante l’intervento un eccessivo calo di temperatura corporea alla quale consegue regolarmente brivido al risveglio con consumo importante di O2 e la tachicardia che lo accompagna. L’attenzione a evitare eccessivi cali di temperatura corporea avrà altresì il van-
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taggio di ridurre l’incidenza di infezione delle ferite chirurgiche, che è addirittura triplicato in caso di ipotermia anche moderata, utilizzando eventualmente anche la tecnica del riscaldamento preoperatorio oltre agli accorgimenti ben noti per evitare la dispersione della temperatura e il preriscaldamento dei liquidi da infondere (Sear et al., 2008). Non si può infine dimenticare che l’ipotermia in fase operatoria e soprattutto nell’immediato postoperatorio, quando non sono più presenti gli effetti vasodilatatori degli anestetici, produce una vasocostrizione cutanea con centralizzazione del circolo. Di conseguenza, in questa fase, un’eventuale ipovolemia viene mascherata per manifestarsi successivamente, in modo anche pericoloso, con il riscaldamento del paziente, alcune ore dopo il risveglio, quando l’attenzione al paziente è spesso diminuita. Fra i fattori che favoriscono l’evento ischemico, specie dopo chirurgia vascolare maggiore, anche questo non dev’essere trascurato. Quindi, la prevenzione degli eventi ischemici poggia su alcuni cardini fondamentali: un’attenta replezione del circolo che consenta il mantenimento di un soddisfacente stroke volume, un buon livello di anestesia, di sedazione preoperatoria e di analgesia postoperatoria e, infine, un’accurata prevenzione dei cali di temperatura corporea. La sorveglianza della replezione del circolo può oggi essere attuata in modi diversi, anche molto semplici, ma che comunque prevedono una buona conoscenza di valori e limiti dei mezzi che si utilizzano e, più in generale, della realtà clinica del paziente. Il mezzo più semplice per la sorveglianza intraoperatoria se il paziente è in ventilazione artificiale è la sorveglianza dell’andamento del picco pressorio (SPV, sistolyc pressure variation) con la valutazione continua del Δ Down, sul quale non ci soffermiamo perché, così come la variazione della pressione pulsatoria (PPV, pulse pressure variation), è dettagliatamente descritto nel Capitolo 19 di questo libro. Questi parametri, unitamente alla CVP (central venous pressure) che non ha un valore assoluto ma che è prezioso osservarne l’evoluzione, sono in genere sufficienti per diagnosticare l’utilità o meno di una infusione di liquidi. In pratica, se durante un intervento SPV o PPV aumentano, la CVP si riduce e aumenta la frequenza cardiaca occorrerà infondere liquidi tendendo a ripristinare i valori di SPV o PPV, CVP e frequenza cardiaca basali (Michard, 2005). Anche il controllo continuo dell’EtCO2 può essere utile. Infatti è ben noto da anni che, a ventilazione costante e in condizioni metaboliche stabili, un calo brusco di EtCO2 ha il significato di una riduzione di gettata cardiaca. Questa variazione, tuttavia, non coglie il calo di stroke volume (SV) ma di portata cardiaca. Ciò significa che sinché l’aumento di frequenza compensa il calo di SV, l’EtCO2 non si riduce. Il parametro quindi più utile da sorvegliare è l’SV e quindi, chi ne disponga, dovrebbe avvalersi nei pazienti a rischio ischemico di sistemi di monitoraggio (per esempio, l’analisi continua del contorno del polso) che consentono un controllo continuo di SPV o PPV e di SV. In alternativa può essere utilizzata l’impedenziografia toracica che per la sua assoluta non invasività è particolarmente preziosa nella sorveglianza di pazienti in anestesia spinale, come vedremo più avanti. Anche questi mezzi di monitoraggio sono dettagliatamente descritti nel Capitolo 19.
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Nel caso di pazienti con insufficienza cardiaca cronica (CHF) il problema del mantenimento di una corretta replezione del circolo si complica. Poiché la CHF può derivare da una disfunzione diastolica (come spesso accade negli ipertesi con ipertrofia ventricolare sinistra) o da una disfunzione sistolica (come nelle cardiomiopatie primitive o in quelle postinfartuali) o dalla presenza di ambedue, un calo di SV in fase perioperatoria va interpretato. Nella cardiomiopatia dilatativa (esempio di disfunzione sistolica) il compenso viene ottenuto con una maggior distensione delle fibre. Quindi, una perdita ematica acuta, riducendo il precarico, riduce anche la distensione ottimale delle fibre, rompendo in questo modo il compenso e provocando un calo di SV. Non è quindi raro che anche in pazienti di questo tipo sia necessario un test di riempimento con un bolo di massa per esplorare la capacità di risposta del cuore. Un cuore di questo tipo dovrà inevitabilmente ricorrere all’aumento di frequenza per mantenere la portata, con le conseguenze alle quali abbiamo ripetutamente fatto cenno. Ma, naturalmente, in questo paziente occorre anche accorgersi se si sono superate le possibilità di distensione delle fibre perché, se si raggiunge questo livello, ogni carico liquido ulteriore è destinato a ripercuotersi sul circolo capillare polmonare con formazione di edema. In questo caso, inoltre, l’aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra si ripercuote sulla rete vascolare subendocardica provocando ischemia e peggiorando di conseguenza ulteriormente l’insufficienza ventricolare sinistra. Il controllo del tratto S-T e della pulsossimetria deve essere particolarmente attento in situazioni di questo genere perché, come si deve essere pronti alla somministrazione di liquidi quando necessario, altrettanto occorre essere pronti a somministrare un diuretico dell’ansa quando si sospetti un sovraccarico. Altrettanto problematica è la gestione di un’insufficienza cardiaca da disfunzione diastolica. In questo caso anche modeste somministrazioni di liquidi in eccesso aumentano la pressione telediastolica del ventricolo sinistro, ripercuotendosi sia sul circolo coronarico che su quello capillare polmonare. Da quanto detto risulta evidente che nelle insufficienze cardiache sia da disfunzione diastolica che sistolica la chiave per una guida corretta alle infusioni è, ancora una volta lo stroke volume, ma associato alla sorveglianza della pressione telediastolica del ventricolo sinistro che è più semplicemente rappresentata dalla wedge pressure (WP) o, meglio, dalla pressione capillare polmonare (PCP, pulmonary capillary pressure), ambedue ottenibili con il catetere di Swan-Ganz. Il paziente con grave CHF, con anamnesi positiva per pregressi episodi di edema polmonare acuto, se deve essere sottoposto a interventi complessi e soprattutto se si prevedono larghe perdite di sangue, vede ancora nel catetere di Swan-Ganz il mezzo di monitoraggio più idoneo. Un’alternativa è l’ecocardiografia transesofagea (TEE) che, essendo in grado di fornire informazioni sia sul riempimento che sulla cinetica delle camere cardiache può, in mani esperte, consentire di evitare il monitoraggio invasivo. Occorre ricordare che molto spesso questi pazienti hanno una disfunzione della mitrale con una frazione di rigurgito che aumenta quando la distensione della camera ventricolare è eccessiva ed è quindi anch’essa variabile e influenzabile da un corretto riempimento.
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Ovviamente un aumento della frazione di rigurgito riduce la gettata cardiaca anterograda ed è quindi un ulteriore elemento sfavorevole. Per monitorare la frazione di rigurgito l’ecocardiografia è un mezzo insostituibile anche se un’attenta analisi del tracciato di WP può consentire di valutarne l’evoluzione. Oltre a una corretta replezione, nella gestione perioperatoria di un paziente con insufficienza mitralica è di fondamentale importanza impedire un aumento di resistenze vascolari periferiche, eventualmente utilizzando un vasodilatatore se esse sono elevate (Thomas e Lowenstein, 1979). Un cenno merita la prevenzione degli eventi ischemici nei pazienti sottoposti ad anestesia spinale che, come è noto, è quasi costantemente causa di riduzione della gettata cardiaca e conseguente ipotensione e che può quindi generare un evento ischemico in pazienti predisposti. La prevenzione dell’ischemia si identifica con la prevenzione del calo di portata e di pressione. Un ottimo lavoro pubblicato sulla rivista Anesthesia and Analgesia nel 2009 ha messo a confronto tre strategie atte a prevenire questi fenomeni: l’infusione di cristalloidi, l’infusione di idrossietilamido (HES 6%) e un Trendelenburg di 15° (Zorko et al., 2009). Lo studio ha concluso che tutti e tre i provvedimenti messi in atto subito dopo la realizzazione dell’anestesia spinale sono in grado di prevenire il calo di portata ma che: - poco dopo l’infusione di cristalloidi, se essa non viene continuata, la portata riprende a scendere; - l’effetto favorevole del Trendelenburg continua solo se esso viene mantenuto; - l’efficacia dell’HES persiste per almeno 30 minuti dopo la fine della somministrazione (il monitoraggio della CO è tuttavia durato solo 30 minuti e gli Autori affermano di non conoscere la durata reale dell’effetto). Un altro interessante lavoro pubblicato nello stesso anno sulla stessa rivista è relativo a pazienti anziani sottoposti a resezione transuretrale della prostata in anestesia spinale. In questo lavoro si dimostra l’effetto favorevole di un’infusione di cristalloidi (500 ml) + HES 6% (500 ml) rispetto alla sola infusione di cristalloidi, nel prevenire il calo di portata cardiaca. È tuttavia importante la segnalazione degli Autori che riferiscono che, pur impedendo il calo di portata, le strategie infusionali non hanno impedito i cali di pressione. Ciò è preoccupante, perché nei pazienti con stenosi coronariche critiche, nei quali i meccanismi di coronarodilatazione poststenotica sono già al massimo, il mantenimento del gradiente transstenotico che assicura il flusso è mantenuto solo dalla pressione di perfusione. In queste situazioni una cauta somministrazione di amine quali l’etilefrina o l’efedrina possono essere utili, avendo cura di non creare tachicardie e sempre sotto sorveglianza continua dell’S-T (Riesmeier et al., 2009). Da rilevare il fatto che ambedue questi studi sono stati condotti utilizzando la stessa tecnica non invasiva di monitoraggio, l’impedenziocardiografia (ICG), tecnica di facile applicazione che ci sentiamo di raccomandare per il controllo dei pazienti a rischio in respiro spontaneo nei quali non siano utilizzabili parametri come la SPV e la PPV e in alternativa ad altri mezzi di controllo dello stroke volume. Questo sistema di monitoraggio consente, oltre al controllo dell’SV, anche precise valutazioni della contrattilità miocardica e un monitoraggio continuo della
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diastole nelle sue due componenti: isovolumetrica (IVRT) e isotonica (ITRT) (vedi Cap. 19). In chiusura di questo paragrafo ribadiamo un concetto già espresso, e cioè che è importante evitare, soprattutto nel postoperatorio, stimoli emozionali e dolorifici perché i nostri pazienti potrebbero avere una disfunzione endoteliale delle coronarie e potrebbero reagire sia a stimoli vagali che simpatici con una vasocostrizione riducendo bruscamente la perfusione miocardica, o peggio, rompendo una placca preesistente e quindi causando un’ostruzione acuta con conseguente IMA. Una buona sedazione in fase preoperatoria e una buona analgesia in fase postoperatoria sono quindi provvedimenti importanti se si vogliono evitare danni ischemici del miocardio.
2.4 Identificazione dei pazienti a rischio ischemico e diagnosi precoce dell’ischemia Abbiamo sostenuto nella parte introduttiva di questo capitolo che, anche senza disporre di mezzi diagnostici particolari, dovremmo considerare pazienti a rischio ischemico i coronaropatici noti, gli ipertesi, i diabetici, i pazienti con BPCO o CHF. Tuttavia può essere utile valutare la riserva coronarica di questi pazienti per identificare quelli sui quali maggiormente concentrare le nostre possibilità di monitoraggio. L’elettrocardiogramma (ECG) da sforzo rimane un test raccomandabile a questo scopo. Tuttavia molti pazienti non possono avvalersene o perché il loro ECG di base rende difficile l’interpretazione dei cambiamenti durante e dopo sforzo, come nel caso di BBS (blocco di branca sinistro), o perché non in grado di produrre uno sforzo sufficiente, come per esempio i pazienti con vasculopatia obliterante degli arti inferiori. In questi casi sono consigliabili stress test farmacologici associati a ecocardiogramma quali l’eco-dobutamina e l’eco-dipiridamolo. Il primo riproduce una situazione simile a quella da sforzo grazie all’aumento di frequenza cardiaca e di gettata cardiaca che produce; il secondo, per l’effetto vasodilatatore arteriolare del farmaco utilizzato, riproduce una situazione di furto coronarico ed evidenzia quindi le condizioni descritte precedentemente e cioè la presenza delle tre condizioni che favoriscono il furto: (1) la completa occlusione di una coronaria; (2) la presenza di un circolo collaterale; (3) la stenosi del vaso che fornisce i collaterali. Il vantaggio in termini di costo e di tempo degli eco-stress nei confronti della scintigrafia miocardica è ormai universalmente riconosciuto, tenendo conto del fatto che fra le due tecniche non vi è alcuna differenza sia in termini di sensibilità che di specificità. Le linee guida internazionali stabiliscono l’assoluta intercambiabilità fra queste metodiche affidando la scelta solamente alle disponibilità locali e all’esperienza degli operatori (Fox et al., 2006) Nell’individuazione dei pazienti a rischio particolarmente elevato sta assumendo un ruolo sempre più importante il livello plasmatico del BNP (brain natriuretic peptide) o del pro-BNP di analogo significato. Una meta-analisi in argomento pubblicata
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nel 2008 su Anesthesia ha avvalorato l’uso di questo parametro in fase preoperatoria per identificare i pazienti da sottoporre a interventi di chirurgia vascolare particolarmente esposti alla possibilità di eventi avversi cardiovascolari nel perioperatorio. Lo studio ha dimostrato che il BNP è associato alla mortalità entro 30 giorni dall’intervento, agli IMA non fatali e agli eventi avversi cardiovascolari. Gli Autori affermano che questo tipo di controllo ha una specificità e una sensibilità nel prevedere eventi cardiovascolari nel perioperatorio sovrapponibili a quella degli eco-stress (Rodseth et al., 2008) Tutti i pazienti a rischio che, come abbiamo detto sono numerosi, devono essere attentamente monitorati per cogliere tempestivamente l’insorgenza di un evento ischemico e consentire un altrettanto tempestivo trattamento. L’ECG rimane lo strumento più adatto allo scopo ma deve essere utilizzato in modo corretto. Non basta infatti un’unica derivazione di monitoraggio, ma per avere un’informazione “panoramica” sulla perfusione coronarica occorrono tre precise derivazioni: la D2, la V4 e la V5, che vengono considerate le più adatte da molti anni, ma che tuttora non vengono regolarmente utilizzate nelle sale operatorie (Slogoff et al., 1990). Inoltre, la sorveglianza del tratto S-T non può essere affidata al solo controllo visivo dell’anestesista poiché con l’osservazione diretta si perde almeno il 50% delle alterazioni. È quindi indispensabile l’analisi automatica, che è ormai disponibile per buona parte dei monitor, sulle tre derivazioni sopraddette. Una diagnosi precoce dell’evento ischemico è naturalmente possibile anche con l’ecocardiografia transesofagea, visto che l’ischemia si accompagna invariabilmente a un’alterazione cinetica. Tale tipo di controllo è anzi più efficace dell’ECG perché quest’ultimo, pur essendo altamente specifico, è meno sensibile. L’ecocardiografia intraoperatoria tuttavia, per l’elevato costo della strumentazione e per la necessità di un operatore esperto, non è per lo più disponibile per i numerosissimi pazienti a rischio ischemico aumentato (diabetici, ipertesi, obesi ecc.), ma può essere riservata a pazienti selezionati come quelli con gravi coronaropatie note o quelli con CHF postinfartuale da sottoporre a interventi complessi, specie se si prevedono elevate perdite di sangue. Nel caso di pazienti con CHF secondaria a importanti coronaropatie, può essere preso in considerazione un monitoraggio invasivo con catetere di Swan-Ganz che, come abbiamo già detto, può consentire una più precisa guida delle infusioni perché è l’unico che consente di controllare la WP, validamente rappresentativa dell’LVEDP, e che consente di ridurre il rischio di overloading e l’aumento dell’EVLW (extravascular lung water). Questa indicazione è tuttavia discussa. Uno studio eseguito su 2000 pazienti da sottoporre a intervento di chirurgia cardiaca, ortopedica e vascolare a elevato rischio (ASA III e IV) non ha evidenziato vantaggi in termini di mortalità intraospedaliera e a un anno nei pazienti monitorati con catetere di Swan-Ganz. Da notare che gli altri pazienti erano tutti seguiti con la pressione venosa centrale (CVP). La CVP non è certamente un parametro che, come valore assoluto, consenta un giudizio preciso sul riempimento e, men che meno, sulla LVEDP, tuttavia il controllo del suo andamento unitamente a quello dello SV e, nei pazienti ventilati artificialmente, a quello dell’SPV o del PPV, permette di guidare in modo sufficientemente corretto le infusioni (Sha et al., 2005).
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All’uscita dalla sala operatoria è consigliabile che il paziente a rischio per eventi ischemici venga sottoposto a un ECG a 12 derivazioni e che lo stesso venga ripetuto almeno ogni giorno per i primi 3-4 giorni. Nei pazienti nei quali siano state evidenziate alterazioni anche transitorie del tratto S-T (e secondo alcuni Autori in tutti i pazienti a rischio ischemico) è consigliabile un controllo enzimatico. Il marker di ischemia oggi più utilizzato e consigliabile nella fase postoperatoria è la troponina cardiaca (cTn). La cTn è un marker altamente sensibile e specifico di necrosi miocardica ed è certamente più sensibile e specifico del CK-MB per svelarla in fase postoperatoria ma, mentre i valori da considerare indicativi sono ben noti nelle sindromi coronariche acute al di fuori dell’ambiente chirurgico, è stato a lungo dibattuto su come interpretare i valori di cTn in fase postoperatoria. Uno studio che ha fatto chiarezza sull’argomento è stato pubblicato nel 2003 da Landsberg et al. Questi Autori hanno studiato 447 pazienti sottoposti a interventi di chirurgia vascolare con ECG continuo su 12 derivazioni nel perioperatorio e controlli di cTn e CK-MB per i primi 3 giorni di postoperatorio. Questi pazienti sono poi stati seguiti per tre anni. La cTn è risultata più sensibile del CK-MB nello svelare gli eventi ischemici e la loro evoluzione verso l’IMA. La cTnI >1,5 ng/ml e la cTnT >0,1 ng/ml sono risultate associate ad almeno uno dei seguenti sintomi: sintomatologia soggettiva tipica, alterazioni ischemiche dell’ECG, comparsa di onde Q patologiche all’ECG. La cTn è quindi un marker attendibile di ischemia e di IMA postoperatorio e dovrebbe essere controllata quotidianamente nei primi giorni almeno nei pazienti che hanno evidenziato alterazioni ECG in fase intraoperatoria. Fra l’altro, scoprire alterazioni di cTn nella fase postoperatoria è utile per identificare pazienti che possono andare incontro anche a distanza di tempo a nuovi eventi ischemici. L’associazione fra elevazione di cTn ed episodi ricorrenti di ischemia miocardica è infatti ormai solidamente stabilita dalla letteratura (Lindal et al., 2000). Occorre tuttavia sottolineare che livelli plasmatici rilevabili con i comuni kit diagnostici sono presenti nello 0,7% di tutta la popolazione e sono in genere associati a malattie cardiache come l’ipertrofia ventricolare sinistra e le disfunzioni ventricolari sia sistoliche che diastoliche o in pazienti a rischio elevato come quelli con malattie renali e diabete. Si tratta di situazioni nelle quali i livelli di cTn sono superiori allo zero ma inferiori ai livelli critici prima descritti e che accompagnano la malattia coronarica in fase di stabilità e includono le ischemie silenti, le occlusioni di piccoli vasi, l’apoptosi di cardiomiociti, i carichi di pressione e/o di volume delle camere cardiache. Sarebbe quindi utile che nei pazienti a rischio ischemico una determinazione del livello di cTn venisse effettuata in fase preoperatoria per avere un riferimento in caso di evoluzione postoperatoria. Il valore predittivo di eventi avversi cardiovascolari consentito dalla cTn sarà verosimilmente ancor più utilizzabile in futuro quando saranno più facilmente disponibili i kit dotati di maggior sensibilità (10 volte maggiore rispetto a quelli attuali), costantemente in grado di evidenziare la presenza di danni miocardici lievi e che consentiranno un passo avanti nella stratificazione del rischio Si è a lungo dibattuto sul significato dell’evoluzione della cTn, se sia cioè solo
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un marker di danno irreversibile (e cioè di necrosi) o anche di danno reversibile. Vi sono molte evidenze a favore del fatto che un’elevazione di cTn possa indicare, specie se di lieve durata, anche solo un danno reversibile. Le elevazioni transitorie di cTn osservate negli atleti di triathlon e di maratona parlano in tal senso, così come quelle che si osservano nelle embolie polmonari (Shave et al., 2007). Un altro marker che come abbiamo già detto è andato assumendo sempre più importanza come indicatore di stati a rischio per eventi ischemici è il BNP. Nella parte sulla fisiopatologia dell’ischemia (Paragrafo 2.2 di questo capitolo) abbiamo fatto cenno al fatto che i pazienti coronaropatici “percepiscono” particolarmente gli aumenti di pressione telediastolica del ventricolo sinistro, che si fa sentire soprattutto sul circolo degli strati subendocardici. Ebbene, gli aumenti di pressione nelle camere ventricolari, siano essi dovuti a disfunzione sistolica o diastolica del ventricolo sinistro, causano una liberazione di peptide natriuretico (brain natriuretic peptide) il cui livello plasmatico aumenta. Un aumento di BNP o di pro-BNP viene oggi considerato un fattore di rischio per eventi ischemici perioperatori e dovrebbe quindi essere tenuto sotto controllo nei pazienti a rischio. In particolare l’associazione di marker diversi come cTn e BNP viene oggi considerata utile nella previsione del rischio ischemico (O’Donoghue e Morrow, 2008). Qualche considerazione meritano i pazienti con pmeumopatia cronica ostruttiva (COPD, chronic obstructive pulmonary disease). Uno studio di molti anni fa su pazienti con COPD di età superiore ai 50 anni ha dimostrato che il 50% dei soggetti era affetto da malattia coronarica, ipertensione o insufficienza cardiaca (Reynolds et al., 1982); uno studio più recente su 5800 pazienti con IMA ha evidenziato nei soggetti studiati un’incidenza di COPD del 50% circa più elevata che nella popolazione generale (Behar et al., 1992). Ancora, in uno studio osservazionale su 5648 pazienti con COPD si è rilevato che morbidità e mortalità per eventi avversi cardiovascolari sono approssimativamente due volte più elevate rispetto a quelle della popolazione generale (Hjart e Suissa, 2005). I pazienti con COPD sono dunque particolarmente a rischio per eventi ischemici nel postoperatorio. Da notare che per la loro elevata compliance questi pazienti “sentono” particolarmente gli effetti sfavorevoli della ventilazione artificiale, specie se, come spesso accade, hanno un’iperinflazione dinamica e una PEEP (positive end-expiratory pressure) intrinseca. Non è quindi raro che durante l’intervento si trovino in condizioni di ipotensione e tachicardia che, come abbiamo spesso ripetuto, sono le condizioni predisponenti più importanti per la comparsa di un evento ischemico. La correttezza della ventilazione, con un TV (tidal volume) non eccessivo e un tempo espiratorio sufficientemente lungo costituiscono la strategia più importante per prevenire cali di portata, ipotensione e tachicardia. Tuttavia, in questi pazienti è fondamentale attivare un controllo dello stroke volume con uno dei mezzi non invasivi oggi disponibili e, come per tutti i pazienti a rischio ischemico, con un monitoraggio continuo del tratto S-T sulle tre derivazioni consigliate oltre a un ECG su 12 derivazioni per i primi tre giorni di postoperatorio, utilizzando anche il controllo dei marker di ischemia come abbiamo detto poc’anzi.
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2.5 Trattamento degli eventi ischemici Di fronte a un equivalente elettrocardiografico di ischemia miocardica (sottoslivellamento di S-T o inversione di onda T), con o senza positività dei marker di ischemia, il primo e più importante atteggiamento terapeutico è quello di assicurarsi che la replezione del circolo sia ottimale ed eventualmente correggerla rapidamente con infusioni di liquidi se risulta deficitaria ai controlli dei quali abbiamo abbondantemente parlato. Se, a replezione ottimizzata, dovesse persistere una tachicardia occorre accertare che il livello di anestesia sia sufficientemente profondo in fase intraoperatoria e che il livello di analgesia sia ottimale in fase postoperatoria, o che non esistano altri fattori tachicardizzanti come ipossiemia o febbre, specie in fase postoperatoria. Tutti questi fattori tachicardizzanti devono essere prontamente identificati e altrettanto prontamente corretti. Se tuttavia la tachicardia persiste, può essere consigliabile l’uso di piccole dosi di beta-bloccanti (per esempio, 1 mg/minuto di metoprololo, raggiungendo se necessario la dose globale di 5 mg). Di fronte all’insorgenza di un fenomeno ischemico miocardico dobbiamo sempre ricordare, come si è già detto, che il paziente coronaropatico (ma anche il paziente solo a rischio di coronaropatia come l’iperteso, il fumatore, il paziente con familiarità per coronaropatie) è spesso affetto da una disfunzione endoteliale che non consente una produzione e un utilizzo di NO quando necessario e che, addirittura, risponde con una vasocostrizione a stimoli in genere vasodilatatori come quelli vagali ed è particolarmente sensibile agli stimoli vasocostrittori adrenergici, risultando quindi a rischio particolare sia per stimoli vagali che emozionali ed algogeni, che vanno frenati. L’evento ischemico può essere affrontato anche farmacologicamente con farmaci dotati di effetto vasodilatatore. Occorre tuttavia distinguere tra farmaci arteriolodilatatori, che possono causare furto coronarico (come il dipiridamolo), farmaci che hanno solo effetto dilatatore sui vasi coronarici e sulle arterie più grandi e che non hanno questo effetto negativo (come i nitroderivati), e farmaci che hanno un effetto dilatatore arteriolare modesto e più marcato sulle arterie più grandi (come gli ACE-inibitori e i sartani). In fase intraoperatoria può essere utilizzato un nitroderivato, ma meno tranquillamente un ACE-inibitore o un sartano che, bloccando il sistema RAA, bloccano anche un prezioso meccanismo di compenso in caso di ipovolemia acuta; essi potranno essere utilizzati in fase postoperatoria se l’assetto emodinamico è soddisfacente. Il nitroderivato è comunque il farmaco fondamentale nel trattamento dell’ischemia miocardica, ma anche su di esso occorre fare chiarezza. Per anni è stato ritenuto che il suo effetto fosse legato a una venodilatazione con riduzione del riempimento cardiaco e conseguente calo dell’MVO2. C’era quindi la convinzione che l’effetto antischemico del nitroderivato fosse legato a uno spostamento favorevole del bilancio disponibilità/consumo di O2 del miocardio. Da qualche anno è risaputo che il meccanismo d’azione è diverso. Il nitroderivato ha un effetto vasodilatatore sui
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grandi vasi arteriosi e ciò ha un’influenza fondamentale sull’onda riflessa che a ogni battito cardiaco torna dalla periferia verso la radice aortica. Nella normalità questa onda riflessa torna verso la radice in diastole sostenendo la pressione in questa fase e quindi favorendo la perfusione coronarica. In caso di rigidità dell’aorta e dei grandi vasi, l’onda riflessa torna anticipatamente verso la radice aortica e vi giunge in fase sistolica, sostenendo quindi la pressione in questa fase – che è spesso già elevata – e mancando di dare il suo sostegno alla pressione di perfusione coronarica in fase diastolica. Il nitroderivato, con il suo effetto dilatatore dei grandi vasi arteriosi, tende alla normalizzazione dell’onda riflessa riportandola verso la sua normale attività di sostegno alla pressione di perfusione coronarica. Questo comportamento del nitroderivato spiega la sua efficacia anche nel trattamento dell’ipertensione puramente sistolica a elevata differenziale (Nichols et al., 2005). I calcioantagonisti non diidropiridinici, come l’altiazem, possono essere utilizzati poiché il loro effetto dilatatore arteriolare è modesto e quindi possono, come i nitrati, svolgere un’azione favorevole sull’onda riflessa senza causare furto coronarico, oltre ad avere anche un’azione bradicardizzante che, come abbiamo visto, è spesso auspicata.
2.6 Gestione del paziente portatore di stent coronarici recentemente impiantati L’impianto con successo di stent coronarici viene sempre seguito da un periodo di trattamento con l’uso combinato di due farmaci antiaggreganti, l’acido acetilsalicilico (ASA) e una tienopiridina, allo scopo di prevenire la più temibile complicanza e cioè la trombosi acuta dello stent che può essere letale. Il trattamento combinato di questi due antiaggreganti espone naturalmente al pericolo di emorragie in caso di intervento chirurgico. L’anestesista si trova quindi di fronte a un doppio rischio: la trombosi acuta dello stent se il trattamento viene interrotto o complicanze emorragiche se lo stesso viene continuato. È tuttavia importante ricordare che il rischio di trombosi dello stent da sospensione degli antiaggreganti è reale per 4-6 settimane dall’impianto di stent metallici (BAR) e per 12 mesi dall’impianto di stent farmacologicamente trattati (DES). Le linee guida 2007 ACC/AHA raccomandano quindi di rimandare gli interventi di 4-6 settimane dopo l’impianto nel caso dei BAR e di 12 mesi nel caso dei DES (Fleischer et al., 2007). Non vi è infatti alcuna evidenza che trattamenti sostitutivi rispetto alla doppia aggregazione, quali eparina a basso peso molecolare, warfarin o glicoproteina IIb-IIIa, possano avere successo. Anche la sospensione della tienopiridina mantenendo solo l’ASA non può garantire un soddisfacente effetto antitrombotico, soprattutto nel caso dei DES. Il problema si pone nel caso di interventi non procrastinabili. Le linee guida, pur ammettendo che questo comportamento non può garantire un effetto antitrombotico, consigliano la sospensione della sola tienopiridina mantenendo se possibile l’ASA e riprendendo la tienopiridina il più presto possibile.
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2.7 Conclusioni Gli eventi ischemici costituiscono una delle complicanze cardiache più comuni della fase perioperatoria. Conoscerne la fisiopatologia è la base indispensabile per prevenirli. Ma se le strategie di prevenzione falliscono è necessario disporre di mezzi di controllo efficienti per una diagnosi tempestiva che consenta un altrettanto tempestivo trattamento. Esso, a sua volta, non può prescindere da un’approfondita conoscenza della farmacocinetica e della farmacodinamica dei farmaci utilizzati.
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La gestione perioperatoria del paziente iperteso
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Riassunto L’ipertensione è una patologia che in genere non costringe a rimandare l’intervento per riequilibrare al meglio i valori pressori prima dello stesso, a meno che non raggiunga valori particolarmente elevati. Tuttavia l’iperteso è un paziente fragile e particolarmente predisposto sia all’ipotensione che all’ipertensione perioperatoria e agli eventi avversi che ne conseguono. Pertanto è di fondamentale importanza conoscere bene la fisiopatologia dell’ipertensione perché da questa conoscenza nascono le scelte corrette di trattamento, le strategie gestionali atte a prevenire, tempestivamente diagnosticare e altrettanto tempestivamente trattare gli eventi avversi.
3.1 Introduzione L’ipertensione arteriosa colpisce almeno il 50% dei pazienti sopra i 65 anni. Nel mondo ne soffrono circa 600 milioni di persone e in Italia gli ipertesi sono circa 13 milioni. Visti i numeri, l’argomento è evidentemente di grande interesse per l’anestesista. Il suo approccio corretto al paziente iperteso ha una doppia valenza: la prima è ovviamente costituita dalla scelta di una strategia atta a ridurre le complicanze intra- e postoperatorie in qualsiasi modo legate all’ipertensione, la seconda è costituita dalla possibilità offerta dalla visita anestesiologica di verificare la correttezza di un eventuale trattamento già in atto e le condizioni cliniche del paziente. Non è raro che il paziente scopra di essere un iperteso all’atto della visita anestesiologica o che, sempre in quel momento, si faccia luce su un trattamento inappropriato sia per il dosaggio che per la qualità dei farmaci usati o si mettano in evidenza delle insufficienze d’organo delle quali il paziente non è al corrente. Esempi di queste situazioni sono le alterazioni della creatinina ed elettrocardioIl monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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grafiche che vengono alla luce per la prima volta in occasione della visita anestesiologica. Da questo punto di vista la visita anestesiologica costituisce un’occasione unica per iniziare il trattamento di un’ipertensione sino a quel momento ignorata, per fare il punto su eventuali sofferenze d’organo tutt’altro che rare negli ipertesi e, infine, anche con un’azione interdisciplinare (cardiologo, internista, nefrologo ecc.) per correggere un trattamento giudicato scorretto. Questo prezioso apporto dell’anestesista viene sottolineato da Fleischer del Dipartimento di Anestesia della Johns Hopkins University of Medicine di Baltimora in una bella messa a punto sulla valutazione perioperatoria del paziente iperteso pubblicato su JAMA nel 2002 che ci sentiamo assolutamente di condividere (Fleischer, 2002). Questo atteggiamento, che può comportare un ritardo di 1-2 giorni dell’intervento programmato, offre tuttavia dei vantaggi per la vita futura del paziente e rende possibile, come vedremo, un monitoraggio più personalizzato atto a ridurre le complicanze perioperatorie e, quindi, anche la durata della degenza. Nel caso di un’ipertensione lieve o moderata (PA sistolica <180 mmHg e PA diastolica <110 mmHg) non è affatto scontato che il trattamento identificato come corretto per il paziente debba essere iniziato e portato a buon fine prima dell’intervento, ma può essere applicato nel postoperatorio e come consiglio alla dimissione. Infatti, per ipertensioni di questo livello, la letteratura internazionale sembra concorde sul fatto che esse non costituiscano di per sé un fattore di rischio perioperatorio e che l’outcome non è diverso rispetto a quello dei pazienti normotesi. L’ipertensione infatti non fa parte dei sei fattori di rischio dell’RCRI (revised cardiac risk index) che è oggi uno degli indici più utilizzati per una valutazione del rischio operatorio (Lee et al., 1999). Delle sei componenti di questo indice fanno invece parte il danno renale, i danni cerebrovascolari e coronarici pregressi e l’insufficienza cardiaca, e sono proprio queste patologie (che spesso si aggiungono all’ipertensione) che meritano attenzione e che influenzeranno le strategie diagnostiche e terapeutiche dell’anestesista. Quindi, se alla visita anestesiologica, accanto a un’ipertensione lieve o moderata emergono patologie aggiuntive, come per esempio quella coronarica, non è giustificato rimandare l’intervento, ma è certamente raccomandabile mettere in atto tutte le procedure di controllo e di trattamento descritte nel capitolo di questo libro dedicato alla gestione perioperatoria del paziente coronaropatico (vedi Cap. 2). Nella maggior parte dei casi non sarà quindi necessario rimandare un intervento, a meno che ci si trovi di fronte a ipertensione severa (PA sistolica >180 e diastolica >110 mmHg). In situazioni di questo tipo è raccomandabile la riduzione dei valori con un consiglio terapeutico preciso, rimandando l’intervento di un tempo sufficiente per l’ottimizzazione dei valori pressori che comunque non può essere inferiore ad alcune settimane. Naturalmente è fondamentale la conoscenza dei reali valori pressori basali del paziente, perché quelli rilevati alla visita potrebbero essere il risultato di un’importante stimolazione emozionale. L’“ipertensione da camice bianco” è un fenomeno ben noto e non si deve correre il rischio di rimandare un intervento per un fenomeno di questo tipo. Per tale ragione la pressione va controllata ripetutamente, in posizione semisdraiata e in
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condizione di rilassamento, eventualmente ricorrendo a un Holter della pressione in caso di dubbio. Peraltro, per identificare fra gli ipertesi i pazienti realmente a rischio non abbiamo a disposizione una letteratura internazionale convincente. Mentre infatti gli studi sui fattori di rischio nella popolazione degli ipertesi al di fuori dell’ambiente chirurgico sono in buona parte esaustivi sia da un punto di vista numerico che per la correttezza metodologica, gli studi sulle complicanze perioperatorie degli ipertesi sono in buona parte datati e quindi non rispecchiano la realtà farmacologica e tecnologica attuale, oltre a essere spesso basati su piccoli numeri. Uno degli studi più citati, quello di Goldman e Caldera, è del 1979, quando non erano ancora utilizzati gli ACE-inibitori e i sartani, le possibilità di monitoraggio erano decisamente minori, i farmaci usati per l’anestesia sostanzialmente diversi; i pazienti analizzati erano solo 196, suddivisi in tre gruppi: adeguatamente trattati (79), non adeguatamente trattati (40) e non trattati (77) (Goldman e Caldera, 1979). Fare oggi riferimento a studi con queste caratteristiche non è accettabile e dobbiamo inevitabilmente basarci soprattutto e per quanto possibile sulle nostre conoscenze di fisiopatologia dell’ipertensione, sul meccanismo d’azione dei farmaci usati nel trattamento e sulla loro interazione con i farmaci usati per l’anestesia e l’analgesia e con situazioni particolari come l’ipovolemia acuta, tanto frequente in ambito chirurgico. Queste conoscenze, unite a una completa consapevolezza delle condizioni cliniche del paziente e a un monitoraggio esaustivo delle funzioni vitali sia nella fase intra- che postoperatoria sono certamente le basi più importanti per la prevenzione delle complicanze, per un loro tempestivo riconoscimento e per un altrettanto tempestivo trattamento.
3.2 Fisiopatologia dell’ipertensione Le basi fisiopatologiche fondamentali dell’ipertensione sono l’aumento delle resistenze vascolari e la riduzione della distensibilità delle arterie. Le resistenze vascolari aumentano con l’avanzare dell’età come conseguenza del calo numerico dei piccoli vasi di resistenza e della riduzione di calibro degli stessi. Poiché nell’anziano la gettata cardiaca tende a ridursi, la pressione arteriosa, che è il prodotto di flusso × resistenza, rimane spesso normale o aumenta modestamente. Nell’ipertensione del giovane o dei pazienti di mezza età, la gettata cardiaca è normale o aumentata e se le resistenze aumentano, la pressione sale di conseguenza. L’aumento della pressione all’interno dei grandi vasi elastici causa una dilatazione e un irrigidimento degli stessi. Questi vasi hanno una duplice componente: elastica e fibrosa. A valori pressori bassi lo stress viene assorbito dalla componente elastica, ma se la pressione aumenta, viene messa sotto tensione la componente fibrosa con conseguente irrigidimento del vaso. Quindi, nel paziente iperteso i vasi di questo tipo sono dilatati per la distensione della componente elastica e irrigiditi
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per la tensione della componente fibrosa. Questo fenomeno è alla base di un aumento dell’impedenza aortica all’eiezione ventricolare e di un incremento della velocità dell’onda sfigmica. Se si realizzano queste condizioni, la pressione generata dal flusso sistolico è aumentata e l’onda riflessa dalle diramazioni periferiche torna all’aorta prossimale precocemente, quando il cuore è ancora in fase sistolica, anziché più tardi, in fase diastolica, come accade nella normalità. La conseguenza è che nell’iperteso con aorta rigida l’onda riflessa non sostiene più la pressione diastolica ma quella sistolica, già elevata: in questa situazione quindi la pressione sistolica aumenta e la pressione diastolica rimane normale o addirittura si riduce, con la conseguenza di un aumento della pressione pulsatoria. Il fenomeno è ulteriormente esaltato se, come accade nel giovane, lo stroke volume (SV) è aumentato. Se il meccanismo descritto dura nel tempo, la parete arteriosa va incontro a un processo degenerativo del tutto simile a quello delle età avanzate, tanto che possiamo considerare le grandi arterie dell’iperteso come quelle di un paziente di età avanzata. Le arterie più periferiche sono invece risparmiate da questo processo di deterioramento della media che potremmo definire un “invecchiamento precoce” e sono invece colpite da una iperplasia dell’intima, da precoci alterazioni aterosclerotiche e da una disfunzione endoteliale che ne altera la vasomotricità. Tutti questi fenomeni sono ben descritti da Nichols e O’Rourke nel libro da loro curato “McDonald’s Blood flow in arteries” del quale consigliamo la lettura (Nichols e O’Rourke, 2005). Il meccanismo ipertensivo, fondamentalmente basato su un aumento di resistenze vascolari e sull’irrigidimento dei grandi vasi, innesca altri meccanismi che sostengono e aggravano l’ipertensione. L’elevata pressione arteriosa è infatti alla base di modificazioni reattive del circolo renale con riduzione del flusso e conseguente liberazione di renina e riassorbimento del sodio. La renina catalizza la formazione di angiotensina I in presenza dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE). L’angiotensina I si trasforma in angiotensina II che è un importante vasocostrittore e che stimola la produzione di aldosterone, a sua volta causa di riassorbimento del sodio e di espansione volemica. Si realizza così un circolo vizioso nel quale l’ipertensione innesca meccanismi che la mantengono e la rinforzano anche per effetto di un aumento della gettata cardiaca favorito dall’espansione volemica. Abbiamo sin qui parlato genericamente di pressione arteriosa, ma essa è un indicatore molto generico dell’assetto emodinamico. La pressione infatti, come già detto, è la risultante di un flusso (CO, cardiac output = quantità di sangue espulso dal cuore in un minuto) e delle resistenze che il ventricolo deve superare per inviare il sangue nel circolo sistemico (SVR, systemic vascular resistance = resistenze vascolari periferiche). Di fronte a una pressione arteriosa elevata, sarebbe fondamentale sapere, anche per scegliere un trattamento corretto, se essa è dovuta prevalentemente a un aumento di CO oppure a un aumento di SVR o di ambedue. In questa difficoltà interpretativa al letto del paziente ci si dibatte da anni, a partire dalle considerazioni di Wiggers, pubblicate nel 1938 e oggetto di una lettura al Convegno annuale di San Francisco dell’American Heart Association. In questa lettura, Wiggers esponeva alcune intuizioni che sono tuttora valide, come quella che l’aumento delle resistenze
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vascolari costituisce la base dell’ipertensione, ma che una modulazione della stessa è sostenuta dalla rigidità arteriosa. Egli, già allora, aveva dimostrato nel cane che, a parità di resistenze vascolari, un irrigidimento dell’aorta (che si otteneva con formalina…) causava un ulteriore aumento pressorio e che l’elevata pressione pulsatoria andava di pari passo con la rigidità dei grandi vasi (Wiggers, 1938). Veniva quindi già allora intuito ciò che oggi è scontato e cioè che la pressione arteriosa media (PAM) è il prodotto di CO × SVR, mentre la pressione pulsatoria è determinata dallo SV e dalla compliance totale arteriosa (TAC, total arterial compliance). La TAC è un parametro difficile da misurare e per questa ragione non è entrato nell’uso comune, ma negli ultimi anni è stato dimostrato che esso può essere sostituito dal quoziente SV/PP dal quale si evince che la TAC è inversamente proporzionale alla pressione pulsatoria (PP) e direttamente allo SV. Quindi, un paziente con elevata PP (per esempio, 160/70) e SV normale o basso, può essere considerato un soggetto con bassa compliance totale arteriosa. Con i mezzi di monitoraggio a bassa invasività è oggi possibile sorvegliare in continuo lo SV e, di conseguenza, poiché la PP è facilmente misurabile, si possono avere agevolmente informazioni sulla TAC anche battito/battito. Una tecnica che consente il monitoraggio continuo della TAC è l’impedenziocardiografia, esaurientemente trattata nel Capitolo 19 di questo libro (Chemla et al., 1998). Quindi, il generico termine “ipertensione” comprende situazioni emodinamiche molto diverse, con importante variabilità di CO, SVR e TAC da caso a caso. Lo studio Tecnmesh Michigan, che ha preso in considerazione un largo numero di pazienti ipertesi valutandone la gettata cardiaca, ha evidenziato che ben il 37% di essi era ipercinetico, aveva cioè una gettata cardiaca supernormale (Julius et al., 1991). In realtà, mentre nei giovani adulti l’ipertensione è spesso contraddistinta da CO elevata, negli anziani il dato prevalente è costituito da un aumento di SVR con CO ridotta. Nel lavoro di Lund e Johansen (1986), che ha seguito il quadro emodinamico di pazienti con ipertensione borderline per oltre 10 anni, è stato evidenziato che nel tempo la CO declinava progressivamente mentre le SVR aumentavano. Un ruolo importante nella prognosi del paziente iperteso è giocato dalle modificazioni alle quali va incontro il ventricolo sinistro che deve far fronte a un’aumentata impedenza all’efflusso: l’ipertrofia. L’ipertrofia del ventricolo sinistro (LVH, left ventricular hypertrophy) è un importante predittore indipendente di mortalità, soprattutto nei pazienti coronaropatici (Vakili et al., 2001). Per questa ragione ci sembra utile dedicare a questo argomento una breve discussione.
3.2.1 Ipertrofia del ventricolo sinistro (LVH) nell’iperteso Premesso che sono ormai accertate le componenti genetiche fra i fattori che concorrono a determinare l’LVH, è fuori di dubbio che essa è la risposta costante all’ipertensione borderline, anche nelle età più giovani e nelle ipertensioni solo emozionali, come le “ipertensioni da camice bianco” i cui valori pressori risultano normali nelle misurazioni domiciliari.
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La stessa mancanza di calo fisiologico notturno della pressione arteriosa documentabile all’Holter è causa di LVH. Un ruolo importante è inoltre certamente svolto anche dal sistema renina-angiotensina. Ciò è dimostrato dal fatto che l’LVH regredisce con gli ACE-inibitori e i bloccanti dei recettori dell’angiotensina II in modo decisamente più importante rispetto all’uso dei beta-bloccanti o dei diuretici, anche se si possono ottenere dei risultati anche con alcuni calcioantagonisti (in particolare il diltiazem, il verapamil e l’amlodipina). Il miglioramento della compliance del ventricolo sinistro grazie all’effetto benefico degli ACE-inibitori si fa sentire anche sull’atrio sinistro, riducendone la tensione e l’ingrandimento. Ciò è alla base dei buoni risultati ottenuti con questi farmaci nel ridurre la frequenza degli episodi di fibrillazione atriale ricorrente negli ipertesi (Okin et al., 2006). L’ipertrofia può essere concentrica (con riduzione della cavità ventricolare e quindi con difficoltà a un normale riempimento) o eccentrica (con camera ventricolare normale o accentuata di volume). In entrambi i casi, l’LVH del paziente iperteso si accompagna a un aumento di incidenza delle complicanze cardiovascolari. Uno studio interessante ha messo in relazione la massa del ventricolo sinistro con le complicanze e ha dimostrato che un aumento di 39 g/m² della massa (i valori normali variano all’eco dai 134 g/m² per gli uomini ai 110 g/m² per le donne) incrementa del 40% il rischio di complicanze cardiovascolari (Verdecchia et al., 2001). Ma quali sono i meccanismi con i quali l’LVH produce le complicanze cardiovascolari? Il principale è l’ischemia miocardica che viene favorita da vari fattori. Il primo è che nel miocardio ipertrofico c’è una minor densità di capillari e quindi una minore irrorazione. Il secondo è che l’aumento della massa ventricolare limita la possibilità di vasodilatazione coronarica in risposta alla ridotta perfusione. Il terzo è la compressione diretta dei capillari dell’endocardio. Questi fattori riducono la riserva coronarica e rendono il miocardio ipertrofico più suscettibile all’ischemia. Inoltre l’LVH può diventare causa di insufficienza cardiaca sia da disfunzione diastolica (difficoltà di rilasciamento) che sistolica (depressione della funzione contrattile). Da sottolineare anche il fatto che l’LVH può causare diverse alterazioni elettrofisiologiche come prolungamenti non uniformi del potenziale d’azione e facile creazione di postpotenziali precoci che si associano a una maggiore vulnerabilità alla fibrillazione atriale, alle aritmie ventricolari (specialmente alle torsioni di punta) e alla morte improvvisa. Si comprende quindi l’importanza che ha per l’anestesista il riconoscimento della presenza dell’LVH. L’ecocardiogramma è il mezzo più efficace per evidenziare questa patologia, ma in fase preoperatoria molto spesso non se ne dispone, anche in pazienti da tempo noti ipertesi. Diviene quindi importante il ruolo diagnostico ricoperto dall’ECG, anche se la sua sensibilità è bassa nell’ipertensione lieve variando dal 7 al 35%, e sempre comunque modesta anche nell’ipertensione moderata e severa dove non supera il 50% (Devereux, 1990). Nonostante la sua non elevata sensibilità, si può invece accettare, secondo alcuni studi, la sua specificità: pertanto il riscontro di un’ipertrofia ventricolare sinistra all’ECG ha per l’anestesista un valore importante (Norman e Levy, 1995). Vale quindi la pena di imparare a riconoscere l’aspetto elettrocardiografico dell’LVH.
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Fra i tanti metodi proposti consigliamo l’indice di Cornell che, secondo il già citato studio di Norman e Levy (1995), è il più attendibile oltre a essere di semplice lettura. L’indice di Cornell non è altro che la somma in millimetri dell’onda R in aVL + l’onda S in V3 ed è indicativo di ipertrofia quando >20 mm. Comunque, anche il vecchio indice di Sokolov-Lyon mantiene un accettabile valore: è la somma della S più profonda in V1, V2 o V3 e della R più elevata in V4, V5 o V6; è indicativo per ipertrofia quando >38 mm. Poiché nell’LVH la durata del QRS è aumentata, è stata proposta una sensibilizzazione dell’indice di Cornell moltiplicandolo per la durata del QRS. Tale prodotto è rappresentativo di una LVH quando supera il valore di 2440. Vale anche la pena di ricordare che alle caratteristiche elettrocardiografiche descritte, nell’LVH si associa spesso una negativizzazione della T in V5 e V6 con possibile sottoslivellamento del tratto S-T. A questo aspetto dell’ECG viene dato il significato di un sovraccarico del ventricolo sinistro. Come abbiamo visto, non occorre una preparazione specialistica per fare una diagnosi di LVH con l’ECG. In fase preoperatoria l’anestesista deve saper arrivare a questa diagnosi anche autonomamente perché un paziente con LVH è indubbiamente a maggior rischio ischemico e aritmico e necessita di un monitoraggio perioperatorio particolarmente attento. Abbiamo precedentemente riferito come la pressione pulsatoria (PP) e la rigidità dell’aorta e dei grandi vasi (TAC) a essa correlata siano importanti fattori di rischio. È stata ampiamente dimostrata la correlazione diretta fra LVH, PP e rigidità arteriosa e l’importanza di questa triade nel condizionare il rischio cardiovascolare. È quindi importante che l’anestesista non si limiti a considerare l’ipertensione arteriosa come una generica entità, ma impari a valutarne le caratteristiche fondamentali, eventualmente anche rilevando il valore del quoziente SV/PP che, come abbiamo visto, è un ottimo indicatore della compliance arteriosa. Gli strumenti per misurare lo SV sono ormai ampiamente disponibili ed è quindi auspicabile che anche il quoziente SV/PP divenga un parametro più frequentemente utilizzato per l’identificazione dei pazienti chirurgici a elevato rischio cardiovascolare. A questo scopo è forse più utile valutare il reciproco della TAC (PP/SV) che è diretta espressione della rigidità aortica e quindi un predittore diretto di rischio cardiovascolare. È stato documentato che ogni aumento di 0,75 mmHg/ml/m² è associato a un aumento del 79% del rischio di eventi avversi cardiovascolari (Fagard et al., 2001).
3.3 Strategie per la prevenzione e la diagnosi precoce delle complicanze nella fase perioperatoria del paziente iperteso 3.3.1 Il problema del feocromocitoma. Le emergenze ipertensive Ribadiamo che per le ipertensioni con valori di diastolica <110 non è necessario rimandare l’intervento per ottenere un migliore controllo dei valori pressori. Questa
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condotta può invece essere presa in considerazione per ipertensioni più severe perché è accertato che in situazioni del genere eventi ipotensivi e ipertensivi anche preoccupanti sono frequenti sia durante l’anestesia che al risveglio e nel postoperatorio. Naturalmente, come abbiamo già detto, occorre essere certi che valori pressori abnormemente elevati non siano dovuti alla stimolazione emozionale che in alcuni pazienti può essere importante. Pazienti con ipertensione moderata o anche con valori che oggi vengono definiti come “preipertensivi” (PA >130/80) sotto stimolo emozionale possono sviluppare valori pressori apparentemente preoccupanti, ma che a un successico controllo, dopo tranquillizzazione, si ridimensionano largamente. Nel caso di ipertensione primitiva (cosiddetta “essenziale”) non occorrono accertamenti particolari prima dell’intervento se non quelli atti a evidenziare la presenza dei danni d’organo che più frequentemente accompagnano l’ipertensione e cioè quelli che interessano il cuore, il rene e il cervello. Per quanto riguarda il cuore, in assenza di sintomatologia, sarà sufficiente un ECG, prestando particolare attenzione all’eventuale presenza di un’ipertrofia e/o di danni di tipo ischemico. In caso di dubbio, l’ecocardiogramma è di grande aiuto. Se si sospetta una coronaropatia, si potrà procedere agli accertamenti diagnostici descritti nel Capitolo 2 “Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio del coronaropatico”. Vogliamo aggiungere, nella lettura dell’ECG, un utile consiglio: ricercare la presenza, frequente negli ipertesi, dell’ingrandimento atriale sinistro, che costituisce un fattore favorente l’insorgenza della fibrillazione atriale, che a sua volta può essere alla base di pericolosi squilibri emodinamici e di eventi ischemici nel periodo perioperatorio. L’ingrandimento atriale sinistro (IAS) è contraddistinto dalla negativizzazione dell’onda P in V1. Per quanto riguarda il rene, sarà sufficiente un controllo della creatinina, ricordando tuttavia che negli anziani essa può risultare normale in presenza di insufficienze renali moderate perché la diffusa ipotrofia muscolare che accompagna le età avanzate ne riduce la produzione. Nel controllo della riserva renale dell’anziano sarebbe quindi preferibile la valutazione della clearance della creatinina che mantiene tutto il suo valore diagnostico. Il danno cerebrale per eventi pregressi di tipo vascolare è valutabile soprattutto con un’accurata anamnesi: la presenza nella storia clinica di episodi di TIA o di patologie ictali con o senza esiti danno la misura di un preesistente danno d’organo e di una predisposizione a eventi avversi cerebrovascolari in caso di ipotensione o di crisi ipertensive di una certa rilevanza. In questi casi in genere è disponibile un eco-Doppler delle carotidi eseguito in un recente passato e va preso in considerazione dall’anestesista perché stenosi carotidee critiche esaltano in modo importante il rischio di ischemia cerebrale in caso di ipotensione. Se l’esame non è mai stato eseguito, sarebbe opportuno prevederlo prima dell’intervento soprattutto se coesistono dislipidemia e diabete che, come è noto, sono fattori predisponenti il processo aterosclerotico ostruttivo. Nel caso di ipertensioni “secondarie”, dovute cioè a malattie particolari, andrebbero approfondite le cause prima dell’intervento. Se tuttavia l’ipertensione è moderata, non è indispensabile rimandare l’intervento in attesa di una definizione diagnostica: è questo il caso dell’ipertensione renovascolare se la funzione renale e
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il quadro elettrolitico sono normali. Una eccezione è costituita dal feocromocitoma che, se non adeguatamente gestito in fase preoperatoria, può avere una mortalità sino all’80% (Sellewold et al., 1985). Parliamo qui del feocromocitoma precedentemente diagnosticato e proposto all’anestesista per l’intervento di ablazione. In questo caso non si può aver fretta. Il paziente va adeguatamente preparato normalizzando i suoi valori pressori (<120/80 a paziente seduto, >90 mmHg di sistolica in ortostatismo) con un trattamento combinato di un α-bloccante e di un β-bloccante. L’α-bloccante di scelta in tutto il mondo è la fenossibenzamina che viene consigliata a un dosaggio iniziale di 10 mg aumentando di 10 mg ogni 2-3 giorni sino al raggiungimento del target pressorio; la dose finale è abitualmente di 1-2 mg/kg. La fenossibenzamina è tuttavia difficilmente reperibile nel nostro Paese e può essere sostituita dal doxazosin o dal terazosin, anch’essi α-bloccanti. Le dosi di questi farmaci vanno gradualmente aumentate sino al raggiungimento del risultato voluto partendo da una dose iniziale di 1-2 mg al giorno. Una volta raggiunto l’effetto ipotensivo, si completa il trattamento con un β-bloccante che non deve essere iniziato prima dell’alfa-blocco perché, bloccando i recettori beta-adrenergici vasodilatatori periferici, può causare una crisi ipertensiva. Il beta-blocco va iniziato 2-3 giorni prima dell’intervento e deve essere condotto con cautela iniziando con bassa dose (per esempio, 10 mg di propanololo) da incrementare gradualmente sino a raggiungere una frequenza cardiaca fra 60 e 80 battiti/minuto. La cautela nel dosaggio è dovuta al fatto che la stimolazione adrenergica continua del cuore associata al feocromocitoma può produrre una cardiomiopatia che può acutamente scompensarsi sotto l’effetto del beta-blocco sino a causare un edema polmonare acuto. Nel caso non si ottengano i valori pressori attesi con il trattamento descritto, può essere associato un calcioantagonista come la nicardipina alla dose di 30 mg 2 volte al giorno. Questo farmaco può anche essere usato al posto degli alfa-litici se questi sono mal tollerati (Lebuffe et al., 2005). Non possiamo concludere l’argomento senza cenno alla metirosina, inibitore dell’enzima idrossilasi e quindi della sintesi delle catecolamine. Questo farmaco viene consigliato alla dose di 250 mg ogni 6 ore, aumentando gradualmente la dose se necessario sino a 1000 mg ogni 6 ore (ultima dose al mattino dell’intervento) solo in caso di inefficacia del trattamento sopraddescritto. Si tratta di un farmaco con molteplici effetti collaterali (sedazione, depressione, diarrea, ansietà, incubi notturni, disturbi extrapiramidali) che va quindi utilizzato solo in caso di assoluta necessità. Non è facilmente disponibile nel nostro Paese (Steinsafir, 1997). Poiché gli ipertesi giungono normalmente all’osservazione dell’anestesista in trattamento con uno o più farmaci ipotensivi, ciò che ci si chiede normalmente è se essi debbano essere continuati o sospesi prima dell’intervento. In linea di massima i farmaci ipotensivi possono essere continuati sino al giorno dell’intervento, anzi la sospensione di alcuni di essi, come i ß-bloccanti e la clonidina, possono causare rebound ipertensivi anche pericolosi. I calcioantagonisti possono aumentare il sanguinamento postoperatorio per il loro effetto antiaggregante piastrinico, tuttavia non sembra che questo inconveniente sia tale da consigliarne la sospensione visti i loro molteplici effetti benefici (Zuccala et al., 1997). I diuretici, usati cronicamen-
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te come avviene per gli ipertesi, possono causare una deplezione potassica e volemica: queste due alterazioni vanno identificate e corrette se presenti prima dell’intervento perché predispongono alle aritmie, all’ileo paralitico e a ipotensione intrae postoperatoria (Cygan e Waitzkin, 1987). Qualche considerazione più attenta meritano gli ACE-inibitori e gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina (sartani). Questi farmaci, bloccando il sistema renina-angiotensina-aldosterone, che costituisce un utilissimo meccanismo di compenso delle ipovolemie acute, può teoricamente favorire eventi ipotensivi intra- e postoperatori. In realtà Coriat et al. (1994) hanno dimostrato che continuando gli ACE-inibitori sino alla mattina dell’intervento in pazienti sottoposti a chirurgia vascolare si sono verificati più eventi ipotensivi rispetto ai pazienti nei quali gli stessi farmaci erano stati sospesi il pomeriggio prima. Alle stesse conclusioni sono giunti Bertrand et al. (2001) riguardo i sartani che, sempre su pazienti sottoposti a chirurgia vascolare, hanno evidenziato ipotensioni più marcate nei pazienti che non avevano sospeso il farmaco il pomeriggio precedente. Da sottolineare che le ipotensioni durante anestesia in pazienti trattati con ACEinibitori o sartani sono spesso refrattarie ai comuni trattamenti con efedrina, etilefrina o fenilefrina, mentre è comunemente efficace in questi casi la terlipressina (bolo di 1 mg eventualmente ripetuto 1 o 2 volte se necessario) (Eyrand et al., 1980). Ciò che più preoccupa nella gestione perioperatoria del paziente iperteso sono le ipotensioni e i riflessi che esse possono avere sugli organi più direttamente coinvolti dal processo ipertensivo: il cuore, il rene e il cervello. Tuttavia non possiamo tralasciare gli eventi opposti, e cioè le crisi ipertensive, soprattutto frequenti nella fase postoperatoria quando stimoli come il dolore, l’emozione, il brivido svolgono il loro effetto su pazienti innegabilmente più sensibili a noxae di questo tipo. Non dobbiamo confondere queste crisi con le cosiddette emergenze ipertensive che accompagnano le emorragie subaracnoidee o intracerebrali, le ipertensioni maligne con o senza encefalopatia, la dissezione aortica ecc. che vengono per lo più trattate con il nitroprussiato. Si tratta in questi casi di eventi ipertensivi certamente meno gravi, ma che vanno trattati soprattutto perché possono essere alla base di complicanze ischemiche miocardiche per aumento di MVO2 in pazienti con alterata riserva coronarica o di complicanze emorragiche cerebrali in pazienti con vasculopatie preesistenti. I farmaci utilizzabili per via endovenosa disponibili nel nostro Paese sono l’urapidil, il fenoldopam, la clonidina, il labetalolo, l’esmololo, la nitroglicerina e l’isosorbide dinitrata. Farmaci come l’enalapril e l’idralazina non sono disponibili in Italia per via endovenosa anche se sono largamente utilizzati all’estero. Il fenoldopam è un agonista del recettore periferico 1 della dopamina e, a differenza della maggior parte dei farmaci ipotensivi, mantiene invariata o aumenta la perfusione renale. Può essere efficacemente utilizzato in infusione continua per 48 ore senza rebound ipertensivo alla sua sospensione. Si inizia con una dose di 0,1 µ/kg/min adeguando il dosaggio ogni 15 minuti in base alla risposta. È controindicato nei pazienti con glaucoma. L’urapidil è un farmaco simpaticolitico attivo come antagonista dei recettori α1 e come agonista dei recettori 5-HT1A. È in grado di ridurre del 45% le resistenze arteriolari. Può essere somministrato in bolo di 10-50 mg (le fiale sono da 25 o da
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50 mg). Una volta ottenuta la normalizzazione pressoria si può passare a una infusione di mantenimento. La dose massima da non superare è di 2 mg/min. La dose mediamente attiva per mantenere la stabilità pressoria è di 9 mg/h, ma va adeguata alla risposta del paziente. La clonidina è un α-stimolante centrale e in fase perioperatoria è molto utile anche per la sua azione sedativa che è spesso preziosa. È disponibile in fiale da 1 ml e 150 mg: può essere diluita in 10 cc di soluzione fisiologica e somministrata lentamente (1 ml/min). Nelle situazioni meno impegnative può essere utilizzata anche per via transdermica in una delle due preparazioni disponibili (2,5 mg/settimana o 5 mg/settimana). Il labetalolo è un bloccante misto degli α- e dei β-recettori e ha il vantaggio di non essere accompagnato da tachicardia. Ciò ne fa un utile alleato nelle crisi ipertensive dei pazienti con coronaropatia. La dose iniziale in bolo è di 20 mg seguita da altri 20 mg ogni dieci minuti sino al raggiungimento dell’effetto voluto. La dose massima è di 300 mg. Il labetalolo può anche essere usato in infusione continua alla dose di 0,5-2 mg/min. L’esmololo è un β-bloccante sostanzialmente cardioselettivo, rapidamente metabolizzato dalle esterasi ematiche: per questa ragione ha breve emivita (circa 9 minuti) e una durata d’azione di 30 minuti. Proprio per la sua breve durata d’azione è utile in situazioni di prevedibile transitorietà come le crisi ipertensive che accompagnano l’intubazione, il brivido e l’agitazione psicomotoria al risveglio. La dose consigliata in fase perioperatoria è un bolo di 80 mg in 15-30 secondi; mantenimento con infusione da 150 mcg/kg/min. In situazioni di importante stimolazione adrenergica come può avvenire al risveglio dall’anestesia possono essere usati dosaggi decisamente più elevati. La nitroglicerina (come il nitroprussiato) agisce producendo NO e inducendo vasodilatazione tramite la generazione di GMPc (guanosin-monofosfato ciclico) che attiva i canali del calcio K-dipendente. La vasodilatazione avviene sia a livello arteriolare che a livello venoso con una preponderanza su questo secondo distretto. È particolarmente utile, come il labetalolo, nelle crisi ipertensive dei pazienti con coronaropatia. La dose di partenza in infusione è di 5 µg/min aumentabili secondo necessità sino a 100 µg/min. L’effetto è quasi immediato (5 minuti) e la durata è breve (5-10 minuti dopo la sospensione dell’infusione). Gli effetti collaterali più fastidiosi sono la cefalea e la tachicardia. La prevenzione e la diagnosi precoce degli eventi avversi nella gestione perioperatoria del paziente iperteso poggiano su un attento monitoraggio delle funzioni vitali che, in questo caso, sono soprattutto quelle cardiovascolari e renali. Tanta attenzione è più che giustificata. In uno studio pubblicato su Anaesthesia, Howell et al. (1996) hanno evidenziato dal confronto di 78 pazienti deceduti entro 30 giorni dall’intervento con un eguale numero di pazienti non deceduti e sottoposti allo stesso tipo di chirurgia e anestesia, che l’anamnesi positiva per ipertensione era quattro volte maggiore nel gruppo dei deceduti. Quindi, gli eventi avversi, anche mortali, nel perioperatorio sono più frequenti nella popolazione degli ipertesi e vanno prevenuti. Più che in altri pazienti l’attenzione alla replezione del circolo dev’essere continua, sia in fase intraoperatoria che nei primi giorni del postoperatorio. Una iporeplezione, con gli eventi ipotensivi e tachicardiaci che l’accompagnano, può essere alla base di ischemie miocardiche alle quali è particolarmente predisposto soprat-
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tutto il paziente con ipertrofia ventricolare sinistra. Allo stesso modo sono pericolose le iperreplezioni che possono causare anch’esse ischemie miocardiche per l’aumento di MVO2 che accompagna le conseguenti crisi ipertensive e/o per i peggioramenti della perfusione coronarica a livello subendocardico causata dall’aumento di tensione di parete. Da sottolineare anche il rischio che un overloading causi un aumento acuto di pressione capillare polmonare, vista la frequente disfunzione diastolica che accompagna gli ipertesi, e che questo fenomeno sia causa di un accumulo di acqua extravascolare polmonare che si farà sentire soprattutto in fase postoperatoria con desaturazioni di O2 che, insieme alla dispnea, sono i primi segni di ciò che è avvenuto in sala operatoria. Nella rilevazione di eventi avversi di questo genere ha un ruolo oggi importante il controllo del livello plasmatico del BNP (brain natriuretic peptide) che, se supera i 100 pg/ml è espressione di una genesi cardiaca della dispnea e della desaturazione di O2. Il BNP andrebbe sempre controllato di fronte a un paziente iperteso che in fase postoperatoria ha una desaturazione di O2 e/o una dispnea in quanto consente di discriminare fra una genesi cardiaca e una disventilativa delle stesse. Ci sentiamo anzi di consigliare anche una valutazione del BNP basale negli ipertesi per poterne analizzare l’evoluzione nel perioperatorio. In questo siamo confortati dal recente studio pubblicato su Anaesthesia da Rodseth et al. (2008) che, a conclusione di un’accurata meta-analisi di 81 studi, hanno sottolineato l’importante utilità del BNP nel predire la mortalità e l’incidenza di eventi avversi cardiaci maggiori nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare. Il monitoraggio di una corretta replezione del circolo è quindi fondamentale e andrebbe eseguito con un controllo continuo di SV, CVP (central venous pressure), pressione arteriosa invasiva e SVR, tutti parametri oggi facilmente ottenibili con strumenti quali Vigileo, PRAM, impedenziocardiografia (ICG), LiDCO, PiCCO. In particolare l’ICG, del tutto non invasiva, si presta a un monitoraggio anche dell’immediato preoperatorio e delle prime ore di postoperatorio e può dare informazioni non solo sulla gettata cardiaca e sulla SVR ma anche sulla funzione sistolica e diastolica del ventricolo sinistro e su un parametro che, come abbiamo visto, è un determinante importante dell’ipertensione: la compliance totale delle arterie (TAC). Bhalla et al. (2005) in uno studio pubblicato sull’American Journal of Hypertension considerano l’accoppiata BNP + ICG vincente nella diagnosi di disfunzione del ventricolo sinistro negli ipertesi. Per un’ampia descrizione della ICG si rimanda al Capitolo 19. Qualche osservazione meritano gli effetti degli anestetici nei pazienti ipertesi. Questi pazienti sono più suscettibili sia all’ipotensione da vasodilatazione e/o da riduzione di gettata cardiaca che può essere indotta da tutti gli anestetici, in particolare dagli alogenati, sia alle ipertensioni da stimolazione adrenergica che conseguono alle anestesie leggere. Anche un piano di anestesia corretto è quindi fondamentale per mantenere un buon equilibrio emodinamico negli ipertesi. Sulla possibilità che gli alogenati possano favorire un furto coronarico nei pazienti predisposti c’è stata negli ultimi anni una letteratura discordante. Inizialmente si è sostenuto che soprattutto l’isoflurano potesse essere causa di ischemie miocardiche in quanto provocava un furto coronarico, tanto che questo farmaco era relativamente
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controindicato nei coronaropatici; più recentemente tale affermazione è stata ritenuta priva di fondamento e oggi si afferma che, di per sé, gli alogenati non sono causa di ischemie, ma lo divengono indirettamente solo se causano ipotensioni (Angueu et al., 2002). Da segnalare invece le possibili crisi ipertensive causate da dosi rapidamente crescenti di desflurano, legate a una abnorme stimolazione simpatica. Nei pazienti ipertesi questo anestetico può essere utilizzato, ma non bisogna dimenticare questo possibile effetto che non deve essere interpretato come un segno di anestesia leggera (Evers e Koblin, 2004).
3.4 Conclusioni La conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che stanno alla base dell’ipertensione è fondamentale per un corretto trattamento della stessa. Le tre fondamentali componenti del meccanismo ipertensivo, e cioè la gettata cardiaca, le resistenze periferiche e la compliance aortica, devono essere ben note all’anestesista che già all’atto della visita anestesiologica dovrebbe dare un giudizio sulla congruità del trattamento al quale il paziente è sottoposto. Ovviamente se, come spesso accade nel giovane adulto, la gettata cardiaca aumentata è una componente importante dell’ipertensione, il trattamento fondamentale sarà di tipo beta-bloccante, eventualmente rinforzato dall’associazione di un diuretico, per lo più l’idroclorotiazide. Nel caso di un’ipertensione nella quale prevalga l’aumento delle SVR, la preferenza verrà data a un vasodilatatore (per esempio un calcioantagonista). Nel caso infine di prevalente riduzione della compliance aortica svelata da un abnorme aumento della pressione pulsatoria saranno ancora eventualmente utilizzati i calcioantagonisti e/o gli ACE-inibitori e i sartani. Gli ACE-inibitori e i sartani saranno comunque sempre da tenere presenti per attenuare la risposta del sistema renina-angiotensinaaldosterone che, come si è visto, viene innescata dall’ipertensione. Particolare attenzione dovrà essere posta alla presenza dell’ipertrofia ventricolare sinistra e dell’ingrandimento atriale sinistro che predispongono il paziente alle complicanze ischemiche, aritmiche e all’insufficienza cardiaca. L’iperteso in fase perioperatoria è particolarmente predisposto sia agli eventi ipotensivi che ipertensivi e ambedue gli eventi devono essere prevenuti con un attento monitoraggio atto ad assicurare un livello soddisfacente di anestesia e una replezione ottimale del circolo. Particolare attenzione va posta anche al controllo della funzione renale che è spesso già compromessa in modo variabile nell’iperteso. La riduzione di riserve renali rende particolarmente pericolose le ipotensioni, specie se prolungate, che possono peggiorare, anche in modo irreparabile, la già compromessa funzione. Importante anche la conoscenza dei farmaci ipotensivi perché alcuni di essi devono essere continuati sino al mattino dell’intervento, come la clonidina e i betabloccanti, altri possono essere continuati come i calcioantagonisti, e altri ancora
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vanno sospesi il giorno prima dell’intervento come gli ACE-inibitori e i sartani. Una mancata applicazione di questi concetti conduce inevitabilmente a squilibri pressori intra- e postoperatori con il rischio di eventi cardiovascolari avversi. L’iperteso, in conclusione, non è un paziente tanto fragile da costringerci a rimandare l’intervento se persiste un’ipertensione lieve o moderata, ma ciò a patto che vengano attuate correttamente tutte le strategie diagnostiche e terapeutiche atte a evitare l’insorgenza degli eventi avversi ai quali egli è particolarmente predisposto.
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Riassunto Il continuo aumento dei pazienti diabetici che giungono all’osservazione degli anestesisti rende sempre più importante la conoscenza delle patologie comunemente associate al diabete e delle strategie da attuare per mantenere un equilibrio glicemico ottimale nel periodo perioperatorio. Per questa ragione, dopo aver sinteticamente descritto il metabolismo del glucosio, verrà trattato in questo capitolo il problema del corretto trattamento insulinico del diabete di tipo 1 e il passaggio dagli antidiabetici orali all’insulina nel diabete di tipo 2. In particolare in quest’ultimo tipo di pazienti è fondamentale conoscere il meccanismo d’azione e la farmacocinetica delle sulfaniluree, delle biguanidi e dei tiazolidinedioni poiché una sospensione di questi farmaci in tempi non corretti può essere fonte di ipoglicemia (sulfaniluree) o di acidosi lattiche (biguanidi). Anche la ripresa degli antidiabetici orali dopo l’intervento deve obbedire a regole precise che vengono qui precisate. Utili sottolineature verranno fatte per la CAN (cardiovascular autonomic neuropathy) che può essere causa di pericolosi squilibri emodinamici soprattutto in corso di ipovolemie acute, e per la HHNS (hyperglicemic hyperosmolar nonketotic syndrome) che può insorgere soprattutto in una fase postoperatoria mal gestita del diabetico di tipo 2 e che si complica frequentemente con la rabdomiolisi e l’insufficienza renale acuta che ne consegue.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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4.1 Introduzione Che il diabetico sia un paziente a rischio nel periodo perioperatorio è noto agli anestesisti da molti anni. Alle complicanze cardiache, vascolari e renali si associano infatti le infezioni e le alterazioni di guarigione delle ferite. Per queste ragioni il diabetico dev’essere attentamente studiato prima dell’intervento e accuratamente monitorato e trattato durante e dopo lo stesso. Lo studio preliminare è soprattutto volto a indagare la situazione cardiovascolare e renale. Non è raro infatti che il diabetico sia anche un coronaropatico e/o un vasculopatico periferico, che sia portatore di gradi diversi di insufficienza renale e, ancora più frequentemente, che sia un iperteso. Poiché nell’ipertensione del paziente diabetico sempre più frequentemente vengono consigliati gli ACE-inibitori, i bloccanti dei recettori dell’angiotensina (sartani) e a volte l’associazione di ambedue, e poiché questo tipo di trattamento può avere ripercussioni emodinamiche pesanti durante l’anestesia soprattutto nel caso di perdite ematiche rilevanti, si comprende come una buona conoscenza preliminare del diabetico sia fondamentale. In questo senso è importante ricordare che una percentuale elevata di diabetici (sino al 90% in alcuni studi) ha una patologia associata che è importante conoscere: la disautonomia che nella letteratura anglosassone viene definita CAN (cardiovascular autonomic neuropathy). La CAN comporta un danno delle fibre del sistema nervoso autonomo che innervano il cuore e i vasi con conseguenti alterazioni del controllo della frequenza cardiaca e della dinamica vascolare. L’aumento di mortalità e morbilità perioperatoria dei diabetici è in buona parte legata a questa patologia. In effetti, durante l’anestesia i pazienti diabetici hanno spesso una risposta vasomotoria alterata alla ipovolemia acuta e un compenso in frequenza ridotto o addirittura nullo. È evidente che in una situazione di questo genere i cali di portata cardiaca e le ipotensioni sono frequenti e, con essi, le ischemie miocardiche e i danni renali. Occorre aggiungere che anche in fase di risveglio e nelle prime fasi del postoperatorio questi pazienti rischiano più di altri per un’altra ragione: la CAN riduce la risposta ventilatoria all’ipossia, rompendo un altro importante compenso. Inoltre, la costante vasodilatazione di questi pazienti favorisce l’ipotermia con riduzione del metabolismo dei farmaci e ostacolo a una normale guarigione delle ferite chirurgiche. Il diabetico con CAN ha, infine, una minore percezione del dolore ischemico cardiaco ed è quindi più soggetto a ischemie silenti. Queste ultime peraltro sono favorite dalla coesistenza con la CAN di una disfunzione diastolica del ventricolo sinistro che, unitamente alla già descritta vasodilatazione generale con calo della pressione venosa sistemica, favorisce pericolosi cali di riempimento del cuore con conseguente caduta dello stroke volume. La difficoltà dell’adeguamento compensatorio della frequenza rende ragione delle cadute di gettata cardiaca così frequenti nei diabetici durante anestesia. Per questa ragione un monitoraggio dello stroke volume con uno dei tanti sistemi non invasivi oggi a disposizione può essere consigliabile nella fase perioperatoria di questi pazienti.
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Ribadiamo inoltre che il paziente diabetico è molto spesso anche un vasculopatico e ha una riserva coronarica ridotta. Pertanto occorre frequentemente controllare nel perioperatorio la perfusione coronarica, né più né meno come se fosse un coronaropatico, anche se la coronaropatia non è accertata e, a questo scopo, varranno tutte le regole descritte nel Capitolo 2 di questo volume. Per quanto riguarda la riserva renale, che nei diabetici è spesso alterata, è raccomandabile controllare sempre la creatinina clearance perché anche modeste riduzioni della stessa espongono il paziente a rischi di ulteriore peggioramento in caso di ipotensione e/o riduzione della gettata cardiaca che, come abbiamo visto, sono tutt’altro che rare nel diabetico. I diabetici di tipo 2 sono spesso anziani con masse muscolari ridotte: in questi pazienti la creatinina clearance è molto spesso ridotta del 30-50%, mentre la creatininemia può risultare normale a causa di una minor liberazione della stessa a livello dei muscoli ipotrofici. Per evidenziare negli anziani una riserva renale ridotta non è quindi consigliabile il solo controllo della creatininemia ma anche quello della creatinina clearance che conserva tutto il suo valore diagnostico. Mettere in luce una clearance ridotta della creatinina sarà fra l’altro fondamentale nella gestione di farmaci potenzialmente nefrotossici come gli aminoglucosidi che potrebbero ulteriormente peggiorare la già ridotta riserva renale. Abbiamo reiteratamente utilizzato il termine “riserva renale”. In analogia con la “riserva coronarica” che esprime la possibilità che ha il cuore di mantenere un flusso sufficiente in condizioni di normalità, anche il rene ha una “riserva renale” che esprime la possibilità di mantenere la funzione anche in condizioni di basso flusso. Prima di giungere all’insufficienza “pre-renale” da basso flusso, il rene passa attraverso una fase nella quale attiva molteplici meccanismi di compenso: la cosiddetta “insufficienza pre-prerenale” (Badr e Ichikawa, 1988). Nel diabetico, come si è detto, il mantenimento dei meccanismi renali di compenso è precario e improvvisi cali di flusso possono essere importanti nel determinare il passaggio dall’insufficienza “pre-prerenale” (compensata) a una “pre-renale” (scompensata). Occorre sottolineare che uno dei meccanismi renali di compenso che consente di mantenere un filtrato normale anche in caso di calo di flusso, è l’aumento di resistenza dell’arteriola efferente glomerulare (con effetto idraulico positivo nel glomerulo). Tale effetto è mediato dal sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAA) che viene ostacolato da ACE-inibitori e sartani, molto spesso utilizzati e consigliati proprio negli ipertesi diabetici. La sospensione in fase perioperatoria di questi farmaci è sempre consigliabile, ma lo è in particolar modo nei pazienti diabetici. Un cenno va fatto ai FANS, spesso utilizzati come analgesici nel postoperatorio. Nei pazienti come i diabetici, anche questi farmaci possono peggiorare una riserva renale già ridotta, e quindi andrebbero usati con parsimonia e cautela o, meglio ancora, sostituiti con altri analgesici. L’anestesista rianimatore non deve comunque mai dimenticare che il diabete di tipo 2 è responsabile del 41% di tutte le insufficienze renali croniche e l’ipertensione arteriosa del 27%. Queste due patologie associate, tanto frequentemente presenti nelle nostre sale operatorie, sono quindi la causa della maggior parte delle insuf-
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ficienze renali (Abbond e Heinrich, 2010). Ciò è sufficiente per convincere che il controllo della funzione renale è indispensabile e deve essere attuato il più frequentemente possibile nella fase perioperatoria. Si aggiunga il fatto che per il controllo della sua malattia il diabetico assume farmaci importanti (insulina, antidiabetici orali) che l’anestesista deve conoscere bene per poterli gestire al meglio nella fase perioperatoria e ottenere il miglior equilibrio glicemico possibile.
4.2 Epidemiologia del diabete La prevalenza del diabete di tipo 1 in Italia risulta essere fra lo 0,4 e l’1%. Molto maggiore la prevalenza del diabete di tipo 2 che è stimata intorno al 3-4% della popolazione. Tuttavia indagini più dettagliate basate su una popolazione studiata con curva glicemica da carico, parlano di una prevalenza oscillante fra il 6 e l’11%. Un recente studio italiano (lo studio IGLOO) ha evidenziato che fra le persone di età superiore ai 55 anni con uno o più fattori di rischio coronarico, una su 5 aveva il diabete senza saperlo (dati desunti da: Annali della Sanità Pubblica 2005). Il fenomeno del diabete di tipo 2 misconosciuto è di particolare importanza poiché esso, a livello internazionale, è considerato un “rischio equivalente” a quello che corrono pazienti con una coronaropatia nota. Il diabetico, cioè, presenta lo stesso rischio di ischemia miocardica di un paziente con coronaropatia. Mentre infatti secondo le cosiddette “carte del rischio” dell’Istituto Superiore di Sanità italiano il diabete è semplicemente un “fattore di rischio” di ischemia miocardica, secondo lo studio ATP III (The third Report of the National Cholesterol Education Program. Adult Treatment Panel III 2001) il diabete è addirittura un “equivalente di rischio coronarico”. Infatti, secondo questo stesso studio, l’80% dei pazienti diabetici sviluppa prima o poi una complicanza vascolare, compresa quella coronarica, o ne muore. Da quanto detto risulta evidente che la possibilità per un anestesista di imbattersi in un paziente diabetico è molto elevata, soprattutto in quel tipo di popolazione di età superiore ai 55 anni che è tanto frequente nelle nostre sale operatorie e che è destinata progressivamente ad aumentare. Fra i diabetici la maggior parte è costituita da quelli di tipo 2 (90% dei diabetici) e per questa ragione alla gestione perioperatoria di tali pazienti viene dato uno spazio particolare nel capitolo.
4.3 Mantenimento dell’equilibrio glicemico Diciamo subito che mantenere l’equilibrio glicemico nella fase perioperatoria non è sempre facile. Esso è il risultato del bilancio fra l’insulina e una serie di fattori con-
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troregolatori quali il glucagone, l’adrenalina, il cortisolo e l’ormone della crescita, tutti aumentati durante e dopo l’intervento. L’insulina stimola la captazione e l’utilizzazione del glucosio da parte dei muscoli e dei grassi e sopprime la produzione e la liberazione di glucosio da parte del fegato frenando i processi di gluconeogenesi e glicogenolisi; previene inoltre la distruzione delle proteine e lo sviluppo della ketosi. È evidente che per prevenire squilibri metabolici nella fase perioperatoria deve essere presente una quantità di insulina sufficiente per le esigenze dell’organismo. L’atto chirurgico e l’anestesia sono alla base di una risposta neuroendocrina con produzione, come si è detto, di ormoni controregolatori che portano a: - una incentivazione della produzione epatica di glucosio e della glicogenolisi; - un freno alla produzione di insulina; - una resistenza dei tessuti periferici alla stessa; - una distruzione proteica e dei grassi; - una predisposizione alla ketosi. Il grado di questa risposta controregolatrice è dipendente dalla complessità dell’atto chirurgico e dalle eventuali complicanze postoperatorie. La ketoacidosi è rara nel diabete di tipo 2, nel quale la produzione di insulina non è abolita, mentre invece è più frequente nel diabete di tipo 1 (quello più strettamente insulinodipendente). A proposito di ketoacidosi nel diabetico di tipo 1 vale la pena di ricordare che in questi casi l’insulinoterapia viene oggi condotta in modo prudente. Si preferisce cioè l’approccio secondo il cosiddetto “equilibrio a movimento lento” per evitare rapidi mutamenti nei compartimenti di liquidi ed elettroliti. Un approccio consigliato è quello di 1 bolo ev iniziale di 10 UI di insulina seguito da 1 UI/h in boli da siringa riempita con soluzione salina contenente 1 UI di insulina ogni ml. I pazienti con ketoacidosi diabetica sono ipovolemici e come tali vanno trattati con fisiologica e acqua libera (fisiologica o Ringer lattato 1-2 l nelle prime ore, seguiti da 200-500 ml/h di acqua libera o di soluzione fisiologica al 4,5%) tenendo conto che in questi soggetti c’è un maggior deficit di acqua libera che di sodio. L’HCO3 può essere addirittura dannoso ed è accettabile solo se il pH rimane <7 dopo 2-3 ore di terapia con liquidi e insulina. Va sospeso immediatamente quando il pH supera 7,1. Poiché il diabete di tipo 2 è quello che più comunemente l’anestesista si trova a dover gestire, è rassicurante sapere che raramente si troverà a dover affrontare una ketoacidosi, anche a seguito di squilibri glicemici di una certa rilevanza. Non per questo lo squilibrio glicemico può essere guardato con noncuranza. Nel diabetico di tipo 2 mal gestito può infatti verificarsi una sindrome iperglicemica, iperosmolare non ketotica, che può essere fonte di gravissime complicanze sia neurologiche che renali. Occorre quindi sempre ricordare che una scorretta gestione del paziente diabetico di tipo 1 può esitare in una ketoacidosi (anche in assenza di una severa iperglicemia) per una insufficiente produzione di insulina in una fase nella quale ve ne è una maggiore richiesta, mentre una scorretta gestione di un paziente con diabete di tipo 2 può esitare in una HHNS (hyperglicemic hyperosmolar nonketotic syndrome). Si trat-
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ta di una grave sindrome iperosmolare senza ketosi e senza acidosi, ma con disidratazione molto importante con variabili disturbi neurologici che possono giungere sino al coma. L’HHNS non correttamente trattata è spesso accompagnata da ostruzioni vascolari (mesenteriche, coronariche) e da sofferenza muscolare sino alla rabdomiolisi con le conseguenze renali che essa comporta (Venkatraman e Singhi, 2006). Come abbiamo già accennato, c’è una correlazione fra squilibrio glicemico nel diabetico e infezioni postoperatorie (Mozzilli e Leslie, 1994). Nel paziente diabetico è presente un’alterazione dei neutrofili con una caduta della loro funzione antinfettiva. Questa alterazione è proporzionale all’iperglicemia ed è parzialmente reversibile con un trattamento insulinico adeguato (Rossias et al., 1999). L’iperglicemia è anche alla base di alterazioni di permeabilità vascolare con conseguente tendenza all’edema tessutale. Il glucosio, a livelli eccessivi, è anche un mediatore proinfiammatorio ed è in grado di stimolare la produzione di citokine e di inibire la produzione endoteliale di ossido nitrico (Mark e Raghavan, 2004). Un interessante studio recentemente condotto alla Yale University ha dimostrato che i pazienti diabetici con buon equilibrio glicemico preoperatorio hanno meno infezioni postoperatorie rispetto a quelli con equilibrio glicemico preoperatorio insoddisfacente. L’esame che consente di giudicare se un diabetico ha avuto negli ultimi 2-3 mesi un soddisfacente controllo glicemico è il livello plasmatico dell’emoglobina glicata (HbA1c) che, se superiore al 7%, depone per una maggior possibilità di infezioni postoperatorie. Fra gli esami preoperatori di un diabetico l’HbA1c ha quindi un ruolo importante e valori elevati della stessa (>8%) possono far prendere in considerazione la cancellazione temporanea di un intervento non urgente, per ottenere un riequilibrio glicemico migliore in ambiente diabetologico ambulatoriale (Drouge et al., 2006). Vale la pena di ricordare che nel paziente non diabetico il valore normale dell’HbA1c è <6% e che le linee guida dell’American Diabetes Association (2005) prevedono che quando l’HbA1c in un paziente diabetico tipo 2 è >7% il trattamento dev’essere modificato con l’obiettivo di raggiungere un valore <7%. Anche se sono stati ripetutamente provati miglioramenti nella durata delle degenze e riduzione delle complicanze mantenendo un più stringente controllo dei valori glicemici nella fase perioperatoria in tutti i tipi di chirurgia, l’influenza di tale condotta sulla mortalità è stata confermata solo per i pazienti cardiochirurgici. In questo tipo di chirurgia il vantaggio del mantenimento dei valori glicemici fra 80 e 110 mg/dl tramite l’infusione continua di insulina è risultato tale da essere raccomandato in tutto il mondo, associata all’infusione continua di glucosio e K (Canadian Diabetes Association, 2005). Tuttavia, mentre non ci sono incertezze sul trattamento perioperatorio del diabete di tipo 1, nel quale sostanzialmente si tratta di continuare il trattamento insulinico passando dalla somministrazione sottocutanea a quella endovenosa, minori certezze si hanno per il diabetico di tipo 2 dove, nella fase perioperatoria, occorre sospendere gli antidiabetici orali (in alcuni casi anche 2 giorni prima dell’intervento) per passare all’insulina che sarà continuata sinché il paziente non riprenderà una normale alimentazione per bocca.
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4.4 Trattamento insulinico nel diabete di tipo 1 Nel diabetico di tipo 1 il principio generale è quello che la dose globale giornaliera di insulina che il paziente riceveva abitualmente sottocute deve essere somministrata ogni 24 ore per via endovenosa. Se, per esempio, il paziente riceveva ai tre pasti 4+12+8 UI di insulina (totale 24 UI), in fase perioperatoria si inizierà il trattamento con 1 UI/h di insulina (pari alle stesse 24 UI nella giornata assunte abitualmente). Si potrebbe pensare che, essendo il paziente digiuno, questo dosaggio possa essere eccessivo. Ciò in realtà non è per due ragioni: 1. la risposta neuroendocrina, come abbiamo già detto, tende ad alzare i valori glicemici; 2. l’infusione di insulina è, come vedremo, accompagnata da infusione di glucosio. Per queste ragioni la dose giornaliera di insulina assunta sottocute nella quotidianità, ripresa per via endovenosa non dà per lo più reazioni ipoglicemiche ed è anzi frequente la necessità di potenziarne il dosaggio. Ciò non toglie che sia consigliabile un controllo glicemico almeno ogni 2 ore quando si usa l’infusione continua di insulina. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che una reazione ipoglicemica è sempre possibile e che in anestesia generale la sintomatologia clinica della crisi ipoglicemica non è evidente. È utile ricordare che la Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations considera l’insulina uno dei 5 farmaci che esigono elevata attenzione poiché gli errori connessi alla somministrazione degli stessi possono avere conseguenze catastrofiche. Basti pensare a cosa può accadere se incidentalmente si interrompe una delle due linee infusionali separate usate per la somministrazione dell’insulina e della soluzione glucosata. Uno schema utile per guidare l’infusione di insulina è quello proposto da Marks, consistente nella preparazione di due soluzioni separate per due vie di infusione diverse. Soluzione A: - destrosio 5% in acqua; - K 10-20 mEq/l; - velocità di infusione: 100-125 ml/h (da aumentare in caso di ipoglicemia persistente); - la soluzione va sostituita con altra con destrosio 10-20% se occorre una restrizione di liquidi. Soluzione B: - 100 ml salina 0,9%; - + 100 UI di insulina rapida (1 U.I per ml); - iniziare con 0,5-1 UI/h; - controllo della glicemia ogni ora (ogni 2 ore a valori glicemici stabilizzati). L’obiettivo è quello di mantenere livelli di glicemia fra 120 e 180 mg/dl. Tuttavia, dopo lo studio di Van den Berghe et al. (2003) l’obiettivo, almeno per i pazienti post-
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chirurgici degenti nelle terapie intensive, è stato spostato a 80-110 mg/dl, anche se a tali livelli il rischio di ipoglicemia è ovviamente maggiore. Proprio per questa ragione questo regime è consigliato solo per i pazienti per i quali è possibile una sorveglianza intensiva. Occorre tuttavia non generalizzare estendendo a tutti i pazienti, anche non diabetici, degenti nelle terapie intensive, la strategia di mantenere la glicemia fra 80 e 110 mg/dl, nella convinzione che ciò sia vantaggioso. Un lavoro comparso sul New England Journal of Medicine nel gennaio 2008 ha dimostrato che una strategia di questo tipo nei settici provoca frequentemente ipoglicemia severa (<40 mg/dl) (Brunkhorst et al., 2008). Per contro, nei diabetici di tipo 1, nei quali spesso l’insulina basale è azzerata, l’infusione di insulina può essere insufficiente e, soprattutto in fase postoperatoria quando il paziente riprende ad alimentarsi, può essere utile un supplemento di insulina sottocute dopo i pasti (Clement, 2004).
4.5 Mantenimento dell’equilibrio glicidico nel diabetico di tipo 2 Nel paziente con diabete di tipo 2, anche se l’infusione di insulina in fase perioperatoria può essere fatta seguendo lo schema della Tabella 4.1, le problematiche della gestione sono più complesse. Il diabetico di tipo 2, infatti, è per lo più in trattamento antidiabetico orale, spesso con associazione di più farmaci, e tale trattamento nella maggior parte dei casi deve essere sospeso prima dell’intervento per passare all’insulina. Tuttavia, poiché gli antidiabetici orali agiscono con meccanismi differenti e alcuni di essi potrebbero, se sospesi troppo tardivamente, avere un effetto di sommazione con l’insulina creando pericolose ipoglicemie, devono essere conosciuti perfettamente dall’anestesista. Allo stesso modo è importante che l’anestesista conosca i meccanismi che stanno alla base dello squilibrio glicemico del diabetico di tipo 2. Il diabete di tipo 2 è una patologia dipendente da diverse alterazioni metaboliche tra le quali l’insulinoresistenza, l’eccessiva produzione epatica di glucosio e la ridotta secrezione di insulina. Una definizione sintetica del diabete di tipo 2 potrebbe essere quella che lo descrive come una situazione nella quale la funzione secretrice di insulina delle cellule β del pancreas non è in grado di far fronte alla comparsa di una insulinoresistenza. Per diverse ragioni, a livello dei tessuti si realizza una resistenza all’azione dell’insulina con conseguente impedimento all’ingresso del glucosio nelle cellule e alla sua metabolizzazione. Ciò comporta la necessità di una maggior produzione di insulina che tuttavia le cellule β del pancreas non sono in grado di realizzare completamente. Ne derivano elevati valori glicemici sia a digiuno che dopo i pasti che costituiscono il marker più semplice della comparsa del diabete. Ma merita di essere segnalato anche un altro meccanismo importante nel determinismo dell’iperglicemia. Nella norma, l’aumento della glicemia sopprime la produzione di glucagone impedendone l’effetto iperglicemizzante legato alla produzione di glucosio da parte del fegato. Nel pancreas del diabetico di tipo 2, accanto alla
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riduzione di massa delle cellule β produttrici di insulina, vi è un aumento delle cellule produttrici di glucagone (cellule α) e ciò è dovuto a una stimolazione delle stesse anche nelle fasi iperglicemiche nelle quali normalmente la produzione di glucagone è frenata. Vedremo più avanti con maggior precisione il meccanismo che sta alla base di questo fenomeno. L’esordio del diabete di tipo 2 è preceduto da un periodo di alterata omeostasi del glucosio che viene denominata “alterata tolleranza al glucosio”, caratterizzata da valori glicemici a digiuno appena al di sopra dei valori normali. Le distinzioni del diabete di tipo 2 dal diabete di tipo 1 operate in passato sono ormai superate. Per esempio, non è più accettata l’interscambiabilità delle definizioni diabete di tipo 1 e diabete giovanile. È infatti universalmente riconosciuto che esistono frequenti casi di diabete di tipo 1 a qualsiasi età e di diabete di tipo 2 anche in età giovanile. La differenza fra i due tipi di diabete consiste principalmente nella eziologia che è chiaramente di tipo autoimmune per il diabete di tipo 1, con conseguente distruzione delle cellule β del pancreas e insufficiente produzione di insulina, mentre per il diabete di tipo 2 sono in gioco meccanismi eterogenei che, come si è detto, conducono a gradi variabili di insulinoresistenza, di ipoproduzione di insulina e di iperproduzione di glucosio a livello epatico. La diagnosi di diabete viene posta essenzialmente sul valore della glicemia a digiuno e dopo carico orale di glucosio: - la glicemia a digiuno inferiore a 100 mg/dl viene definita normale; - quando la glicemia è fra 100 e 126 mgI/dl si parla di alterata tolleranza allo zucchero; - quando la glicemia a digiuno supera i 126 mg/dl si pone diagnosi di diabete. Dopo 2 ore da un carico orale di glucosio (75 g di glucosio anidro sciolto in acqua) il valore glicemico che fa porre diagnosi di diabete deve essere superiore a 200 mg/dl. Valori fra 140 e 200 mg/dl consentono di identificare i pazienti con scarsa tolleranza allo zucchero. Questi ultimi hanno un rischio di contrarre diabete nei successivi 5 anni del 40%. Il trattamento del diabete di tipo 2 è, almeno nei primi anni, legato all’uso degli antidiabetici orali che hanno punti di attacco molteplici nel metabolismo dei carboidrati. Alcuni farmaci, quali le sulfaniluree (per esempio, glibenclamide, gliclazide, glimepiride, glipizide), stimolano la produzione di insulina da parte delle cellule ß del pancreas; altri quali le biguanidi (per esempio, la metformina) inibiscono la produzione di glucosio da parte del fegato; altri ancora quali i tiazolidinedioni (per esempio, il rosiglitazone e il pioglitazone) sensibilizzano i tessuti all’azione dell’insulina; infine alcuni farmaci quali gli inibitori dell’α-glicosilasi (per esempio, l’acarbosio) inibiscono il riassorbimento del glucosio dall’intestino dopo i pasti. Da ultimo meritano di essere citati alcuni farmaci che bloccano la produzione di glucagone a livello delle cellule β del pancreas. Per chiarire questo meccanismo occorre una breve spiegazione. Dopo il pasto l’intestino rilascia delle incretine le più importanti delle quali sono la GLP-1 (glucagon-like peptide 1) e la GIP (glucagon dependent insulinotropic polypeptide). Questi ormoni aumentano la secrezione di insulina legata al valore della glicemia e sono responsabili della larga produzione di
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insulina che accompagna un pasto. La GLP-1, inoltre, inibisce la produzione di glucagone (iperglicemizzante) e aumenta la massa delle cellule β del pancreas sia stimolandone la funzione sia favorendone la neogenesi, sia frenandone l’apoptosi. Poiché il calo di numero, il peggioramento della funzione e la precoce apoptosi delle cellule β sono tre caratteristiche alla base del diabete di tipo 2, si comprende il recente interesse di un potenziale trattamento con GLP-1. Il problema di un trattamento del genere, tuttavia, è legato al fatto che la GLP-1 viene rapidamente inattivata dal sangue da un enzima, il DPP-4, prodotto dalle cellule epiteliali ed endoteliali di numerosi organi e sempre presente nel plasma. Per impostare quindi un trattamento del diabete di tipo 2 con GLP-1 occorrerebbe utilizzarlo in infusione continua, cosa improponibile in clinica. La ricerca ha tuttavia evidenziato la possibilità di inibire l’enzima DPP-4 consentendo così di mantenere livelli plasmatici di GLP1 sufficienti per esplicare la desiderata azione anti-iperglicemica. È evidente il vantaggio di un approccio terapeutico di questo genere che, almeno in teoria, non determina ipoglicemia e favorisce un calo di peso provocando una soddisfacente sensazione di sazietà anche con apporto calorico ridotto. Gli inibitori del DPP-4 a tutt’oggi messi a punto dall’industria farmaceutica sono tre: il vildagliptin, il sitagliptin e il saxagliptin (Kendall et al., 2006). Questi farmaci sembrano in grado di ridurre l’attività del DPP-IV del 75% e di poter quindi giocare un ruolo nel trattamento del diabete di tipo 2 consentendo i molteplici vantaggiosi effetti della GLP-1 in termini di produzione di insulina, di blocco del glucagone e di preservazione della funzionalità delle cellule β del pancreas. Il vildagliptin, recentemente approvato dalla FDA, è stato al centro di una polemica dopo la pubblicazione sul New England Journal of Medicine di un articolo che criticava aspramente l’amministrazione statunitense per aver autorizzato un farmaco che, secondo l’autore, è uno degli “ipoglicemizzanti meno efficaci e più costosi” (Nathan, 2007). A questo articolo è seguita una lettera all’editore che ribatteva enfatizzando la possibilità di seguire una via nuova di trattamento per pazienti che, come si è più volte dimostrato, perdono nel tempo la possibilità di rispondere agli antidiabetici orali e devono, prima o poi, essere trattati con insulina. L’argomento è quindi a tutt’oggi dibattuto, ma ci sembra che la via dell’inibizione dell’enzima DPP-4 non possa essere trascurata come opzione nel trattamento futuro dei pazienti con diabete di tipo 2, tanto più che farmaci per via orale di questo tipo come il saxagliptin (2,5-5 mg/die) e il sitagliptin (100 mg/die) sono ora disponibili anche nel nostro Paese. Concludendo questo paragrafo sul mantenimento dell’equilibrio glicidico nel diabetico di tipo 2 merita un cenno la valorizzazione data all’emoglobina glicata (HbA1c) come utile indicatore di iperglicemia cronica. Dagli studi eseguiti su questo argomento negli ultimi anni sembra di poter concludere che una HbA1c <7% costituisce una buona garanzia di valori glicemici sostanzialmente soddisfacenti negli ultimi tre mesi. Questo esame non esime da un controllo giornaliero della glicemia, ma agevola molto nella valutazione dell’efficacia del trattamento. Vale la pena di ricordare che nei pazienti non diabetici l’HbA1c è <6% e che è auspicabile raggiungere valori il più possibile vicini a quelli normali anche nel diabetico.
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4.6 Passaggio dagli antidiabetici orali all’insulina nella fase perioperatoria È fuori di dubbio che, a parte alcuni interventi in anestesia locale per i quali non è prevista nessuna interruzione dell’alimentazione per via orale, che non provocano risposte neuroendocrine importanti e che possono essere gestiti continuando gli antidiabetici orali, nella restante totalità dei casi la gestione dell’equilibrio glicemico deve essere attuata con l’insulina. A differenza tuttavia del paziente con diabete di tipo 1, nel quale si deve solo continuare il trattamento insulinico passando dalla via sottocutanea a quella endovenosa, nel diabete di tipo 2 non si può non tener conto del preesistente trattamento con antidiabetici orali. La sospensione troppo tardiva di una sulfanilurea o di uno secretagogo non sulfanilurea (Glibomet, Gliconorm, Amaryl, Diamicron, Daonil, Euglucon ecc.), che agiscono aumentando la produzione di insulina, potrebbe produrre una sommazione di effetti con l’insulina esogena somministrata nella fase perioperatoria e quindi essere causa di pericolose ipoglicemie. Per questa ragione è esclusa la possibilità che antidiabetici orali come quelli elencati possano essere somministrati il giorno stesso dell’intervento e può essere accettabile l’ultima somministrazione al pasto serale della giornata precedente. La sospensione di una biguanide come la metformina (per esempio, Glucophage, Metforal) segue logiche differenti. La metformina, infatti, non agisce incentivando la produzione di insulina, ma riducendo la produzione epatica del glucosio e migliorandone l’utilizzazione periferica. Da questo punto di vista, quindi, non provocando di per sé ipoglicemia potrebbe essere continuata anche sino al giorno stesso dell’intervento. Tuttavia, la metformina può causare acidosi lattica soprattutto in pazienti con insufficienza renale anche lieve e questa complicanza può essere scatenata da diverse situazioni che possono verificarsi durante un intervento chirurgico o nel postoperatorio (ipotensioni prolungate, ipovolemie acute, utilizzo di farmaci potenzialmente nefrotossici ecc.). La metformina ha un’emivita di 6 ore, ma la sua quasi completa eliminazione (90%) avviene solo dopo 24 ore. L’acidosi lattica da metformina, seppure rara, ha una mortalità molto elevata (50%) e occorre quindi tenerne conto. Si tratta di un’acidosi lattica di tipo B2, cioè il tipo associato all’uso di farmaci quali i β-agonisti, la metformina o i mezzi di contrasto, mentre quella più comunemente nota agli anestesisti rianimatori è di tipo A, dove l’acidosi è secondaria a un’inadeguata ossigenazione tessutale. La letteratura internazionale non è concorde sul momento nel quale occorre sospendere la metformina prima dell’intervento. Mercker et al. (1997), basandosi su una loro esperienza personale di un grave caso di acidosi lattica, consigliano di sospendere la merformina 3 giorni prima dell’intervento. Alberti (1991) raccomanda la sospensione 2 giorni prima. Lustik et al. (1998) suggeriscono di sospendere la metformina il giorno stesso dell’intervento per la chirurgia maggiore e di non sospenderla per la chirurgia ambulatoriale. Una recente messa a punto sull’argomento è stata fatta da Blyer e Yelon (2007) che concludono consigliando la sospensione della metformina almeno 24 ore prima dell’intervento, controllando comunque l’equili-
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brio acido-base di tutti i pazienti in trattamento con metformina il giorno precedente l’intervento. Riteniamo utile aggiungere che in fase postoperatoria non bisogna aver fretta di reintrodurre la metformina, riprendendola solo quando l’alimentazione è ripresa e ben tollerata, e solo dopo aver controllato la creatininemia e, come si è detto, la creatinina clearance nel paziente anziano. Alcuni dei casi più gravi di acidosi lattica descritti in letteratura sono infatti relativi a pazienti che avevano ripreso il farmaco nel postoperatorio da 2-3 giorni e che in quella fase avevano avuto complicanze di diverso genere, quali quelle descritte da Mercker et al. (1997) Il trattamento dell’acidosi lattica da metformina è fondato soprattutto sulla rimozione del farmaco con procedura dialitica. La CVVH (continuous veno-venous hemofiltration) sembra la tecnica preferibile, anche e soprattutto per la miglior tollerabilità emodinamica. Sull’utilità dell’infusione di bicarbonato non c’è accordo, ma sembra certo che essa a volte determini un peggioramento del paziente (Forsythe e Schmidt, 2000). I tiazolidinedioni come il rosiglitazone e il pioglitazone (Avandia, Actos) e l’acarbosio (Glucobay) possono essere interrotti il giorno stesso dell’intervento e non sembrano avere influenza sulla fase perioperatoria che deve comunque essere gestita con trattamento insulinico.
4.7 Trattamento insulinico perioperatorio nel diabetico di tipo 2 Come si è già accennato, a parte i piccoli interventi in anestesia locale nei quali l’antidiabetico orale può essere continuato se il paziente si alimenta, o sospeso nel paziente a digiuno con buon equilibrio glicemico, evitando la somministrazione di glucosate, in tutti gli altri pazienti il trattamento insulinico è d’obbligo. Il trattamento va iniziato il mattino stesso del giorno dell’intervento, anche se è programmato per il pomeriggio, utilizzando due vie di infusione: una per il destrosio e una per l’insulina, ambedue gestite con pompa per infusione. Per i diabetici di tipo 1 le soluzioni vanno preparate come indicato nella Tabella 4.1, iniziando con 0,51 UI di insulina/h e 100-125 ml/h di soluzione di destrosio; per l’adeguamento del dosaggio dell’insulina vanno seguite le indicazioni riportate nella stessa tabella (sliding scale insulin regimen). Nel caso occorrano volumi di infusione superiori a quelli assicurati dalle infusioni di insulina e destrosio potranno essere aggiunti fluidi quali fisiologica allo 0,9% o colloidi. Nei pazienti che rimangono digiuni per periodi prolungati l’apporto di NaCl allo 0,9% è indispensabile per evitare l’iposodiemia secondaria alla somministrazione di solo destrosio. I fluidi che contengono lattati (soluzione di Hartman) vanno evitati perché possono accentuare l’iperglicemia. Un trattamento insulinico alternativo per i pazienti per i quali si preveda un periodo di digiuno non superiore alle 48 ore è il cosiddetto GLIK regimen basato sull’infusione di un’unica soluzione di glucosio, potassio e insulina. Tale soluzione e la sua velocità di infusione vengono stabilite in base alla massa corporea del pazien-
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te (BMI) e al valore iniziale della glicemia. Una soluzione consigliabile è quella proposta dal Royal Liverpool University Hospital e riportata da Rahman. Essa consiste sostanzialmente nella preparazione di una soluzione base di 500 cc di destrosio al 10% alla quale si aggiungono 10 mEq di KCl e insulina a dosaggio variabile in base al Body Mass Index (BMI): 10 UI per BMI 20-30; 16 UI per BMI >30; 6-8 UI per BMI <20. La velocità di infusione consigliata è di 100 ml/h. Il dosaggio dell’insulina va modificato in caso di ipoglicemia (<90 mg/dl) o di iperglicemia >215 mg/dl). Il GLIK regimen è certamente più semplice rispetto allo “sliding scale insulin regimen” ma è, altrettanto certamente, meno preciso. Possiamo consigliare il secondo quando è assicurata la sorveglianza continua e accurata delle due linee di infusione (il blocco di una sola delle due può dare ipo- o iperglicemia pericolosa), come per esempio in sala operatoria e nel postoperatorio in terapia intensiva. Il GLIK, più agevole e meno pericoloso, può essere utilizzato nei reparti generali dove può essere accettata una minor precisione ma con il vantaggio di minori rischi di ipo- o iperglicemia. Lo svantaggio maggiore del GLIK regimen è la necessità di modificare la composizione della sacca ogni volta che il valore glicemico desiderato non si ottiene con la sola modifica della velocità di infusione.
4.8 Conclusioni Riassumiamo in quattro punti quanto descritto in questo capitolo, ricordando che essi costituiscono le parti fondamentali delle linee guida dell’American College of Endocrinology e dell’American College of Anesthesiologists (Martinez, 2007): 1. Mantenere sempre la glicemia sotto i 180 mg/dl. A questo livello vi è evidenza di un vantaggio miocardico, muscolare, immunologico, sulla infiammazione e sulla funzione piastrinica (Rahaman e Beattie, 2004). Mantenere la glicemia fra 80 e 110 mg/dl nei reparti di terapia intensiva non dimenticando che con questa strategia sono più frequenti le ipoglicemie; 2. Non riprendere gli antidiabetici orali dopo l’intervento se non si è assolutamente certi della ripresa di una efficace alimentazione per via orale, ricordando che i tiazolidinedioni non abbassano la glicemia ma sensibilizzano solo i tessuti all’azione dell’insulina. Lo stesso discorso vale per la metformina, ricordando che tuttavia questo farmaco non va ripreso dopo l’intervento a fronte di problemi renali anche modesti per non rischiare di avviare un processo di acidosi lattica di tipo B2. La metformina va comunque sospesa quando si programmino esami radiologici con mezzi di contrasto. È importante ricordare che la ripresa in fase postoperatoria di un antidiabetico orale a lunga emivita (come una sulfanilurea) espone a ipoglicemia se l’alimentazione per via orale non è ancora soddisfacente; 3. Provvedere un apporto basale di insulina, eventualmente completando lo sliding scale regimen con apporti supplementari di insulina dopo i pasti quando il paziente riprende ad alimentarsi. Una sottovalutazione dell’insulina basale sufficiente
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può determinare aumenti di glicemia anche di 45 mg/dl/h (Clement et al., 2004; Lathan et al., 2001); 4. Creare o perfezionare protocolli per la prevenzione e il pronto trattamento dell’ipoglicemia perioperatoria soprattutto quando si attiva il regime terapeutico basato sull’infusione di destrosio e insulina tramite due linee separate. Nel caso non si disponga di una sorveglianza adeguata, meglio optare per la GLIK realizzata su un’unica via infusionale. Nonostante negli ultimi cinque anni sia stato ampiamente dimostrato che il mantenimento di un equilibrio glicemico nel periodo perioperatorio influenza favorevolmente l’outcome dei pazienti e nonostante le linee guida per ottenere questo equilibrio siano sostanzialmente cambiate, troppo spesso gli anestesisti e i chirurghi continuano a seguire le loro vecchie abitudini. Ci auguriamo che queste poche pagine possano contribuire alla decisione di cambiare abitudini ormai superate e di rivedere le proprie conoscenze di fisiologia e di farmacologia sull’argomento. Ci sembra utile concludere diffondendo il consiglio contenuto in un recente editoriale di Elizabeth Martinez del Dipartimento di Anestesiologia e Medicina Critica della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora (Martinez, 2007): “thinking like a pancreas”, ovvero nel nostro approccio al paziente diabetico abituiamoci a “pensare come il pancreas” cercando in ogni modo di mimarne la funzione. Infine ci sembra quindi giusto affermare che il monitoraggio delle funzioni vitali di un paziente diabetico è soprattutto volto al mantenimento di un buon equilibrio glicemico, per ottenere il quale occorre una conoscenza il più possibile approfondita della malattia, dei farmaci antidiabetici orali e delle metodiche di somministrazione dell’insulina per via endovenosa. Collateralmente è di fondamentale importanza il monitoraggio dei punti deboli del diabetico che sono l’apparato cardiovascolare e la funzione renale, anche avendo cura di evitare farmaci che possano minarne l’equilibrio.
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Il paziente obeso
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M. Dei Poli, A. Alborghetti, S. Caporarello
Riassunto Le percentuali dell’obesità nella popolazione generale del mondo occidentale sono attestate intorno al 30% e sono in continua crescita, specie nelle fasce infantili e adolescenziali, nonostante le raccomandazioni dei Sistemi Sanitari. All’obesità si associano una morbidità e una mortalità aumentate, in particolare per sindrome metabolica, eventi cardiovascolari e disfunzione respiratoria. Le disfunzioni originate da profondi sovvertimenti della fisiologia d’organo e di sistema sono amplificate in corso di perioperatorio, nella chirurgia elettiva e a maggior ragione in quella d’urgenza. Il paziente obeso è a maggior rischio di complicanze, che possono essere valutate e previste preoperatoriamente. La ventilazione deve essere valutata e personalizzata, come il tipo di posizione sul letto operatorio. Il monitoraggio delle funzioni vitali appare particolarmente utile nel controllo delle disfunzioni perioperatorie e richiede accorgimenti specifici.
5.1 Epidemiologia e definizione Nei Paesi sviluppati il peso corporeo è in continuo aumento tanto che negli Stati Uniti è la seconda causa di mortalità prevedibile assieme al fumo. Il sovrappeso e l’obesità colpiscono in modo diverso aree geografiche diverse: circa il 30% dei francesi è sovrappeso e, di questi, il 10% è obeso; in Gran Bretagna il 40% circa è in sovrappeso con una quota di obesi del 22% nelle donne e del 23% negli Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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M. Dei Poli et al.
uomini; in India e in Cina sono in sovrappeso rispettivamente il 2 e il 5% della popolazione. Un campione della popolazione statunitense nel 2003-2004 evidenziava una prevalenza del sovrappeso del 71%, dell’obesità del 31% e dell’obesità patologica del 3% negli uomini; nelle donne le percentuali erano rispettivamente del 62, 33 e 7% (McClean et al., 2008; Ogunnaike et al., 2009; Goubaux et al., 2004). In Pennsylvania nel 2007 tra tutti i pazienti ricoverati per un intervento in un Ospedale Universitario l’8% presentava una obesità patologica (Shina, 2009). L’obesità è associata a un incremento delle complicanze respiratorie e cardiovascolari e a comparsa di diabete con una diminuzione complessiva della qualità e delle aspettative di vita. In occasione di un intervento chirurgico, il paziente obeso presenta un rischio doppio di mortalità e di complicanze rispetto al normale (Goubaux et al., 2004). In grande incremento è pure l’obesità dell’età infantile: in Europa un ragazzo su 10% è obeso. La comparsa dell’obesità in età giovanile è ancora più grave perché ha una morbidità precoce, è difficile apportare correttivi alle abitudini alimentari e comporta un aumento dei problemi psicosociali. Per obesità e sovrappeso si intende un incremento della massa grassa corporea che, nelle persone normali, rappresenta il 15-18% nell’uomo e il 20-25% nella donna. Per categorizzare il soggetto in esame si fa riferimento al peso ideale (IBW, ideal body weight). In genere per calcolare l’IBW si ricorre a tabelle assicurative o a formule, per esempio: – formula di Broca: IBW = altezza (in cm) – × (dove × = 100 per l’uomo, 105 per la donna); – formula di Lemmans: IBW= 22 × (altezza in metri)2. Il Body Mass Index (BMI), ricavato dal rapporto peso (kg)/(altezza in m)2, è universalmente accettato per definire a quale categoria appartiene il paziente (Tabella 5.1). La distribuzione del grasso è diversa nei due sessi: è detta androide quando la massa grassa si distribuisce al tronco e all’addome con incremento del grasso viscerale, e ginoide quando la distribuzione riguarda i glutei, le anche e le cosce. Esistono tabelle che pongono in relazione la circonferenza dell’addome con quella Tabella 5.1 Range di variazione del BMI. A sinistra il valore ottenuto dalla formula peso (kg)/altezza2 (m2) e a sinistra il relativo corrispondente clinico nella classificazione del paziente. Più il BMI si alza, più il paziente passa da categorie di normopeso a categorie di grave obesità kg/m2
Descrizione
<18,5
Sottopeso
18,5-24,9
Normale
25-29,9
Sovrappeso
30-34,9
Obesità (classe I)
35-39,9
Obesità (classe II)
≥40
Obesità patologica o severa
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delle anche definendo meglio l’appartenenza a una di queste due categorie (Ogunnaike e Whitten, 2009). Nel caso dell’obesità androide si considera alterata una circonferenza addominale superiore a 102 cm nell’uomo e a 88 cm nella donna. A questa distribuzione del grasso si associa la sindrome metabolica che è responsabile di un aumento di 5 volte del rischio di diabete e di 3 volte di quello di ictus e di altri eventi acuti cardiovascolari (Goubaus et al., 2004). L’incremento del peso corporeo interessa non solo la massa grassa ma anche la massa magra (massa cellulare, acqua extravascolare, connettivo, muscoli) che rappresenta circa il 20-30% dell’IBW: il parametro di riferimento è il peso corporeo magro (LBW, lean body weight), dove LBW = IBW × 1,25. L’interesse anestesiologico per questa tipologia di pazienti è legato al crescente numero di obesi da sottoporre a chirurgia urgente o programmata, sia essa bariatrica o, per esempio, ortopedica. Quando si tratta di chirurgia bariatrica giungono all’ osservazione dell’anestesista pazienti con un BMI ≥40, oppure pari a 35 ma con una o più comorbidità associate (diabete, ipertensione, compromissione respiratoria), con alle spalle approcci medici al dimagrimento (dieta, attività fisica, farmaci). Obiettivo della chirurgia è quello di ridurre l’assunzione di cibo mediante riduzione volumetrica dello stomaco (bendaggio, gastroplastica) o attraverso tecniche restrittive e di riduzione dell’assorbimento come il bypass con ansa a Y alla Roux e il bypass biliopancreatico. La buona conoscenza delle modificazioni indotte su organi e funzioni dell’obeso e l’attenzione alle principali problematiche del perioperatorio contribuiscono a ridurre e contenere le complicanze.
5.2 Variazioni fisiopatologiche legate all’obesità 5.2.1 Sistema cardiovascolare Le variazioni a carico del sistema cardiovascolare rappresentano un adattamento del circolo alla massa corporea in eccesso, all’aumentato consumo di ossigeno e all’incremento di produzione di CO2. Nell’obeso si riscontrano: – aumento della volemia (con un volume indicizzato peraltro diminuito: 40 ml /kg nell’obeso, 70 nel normale BMI) (Ogunnaike et al., 2009; Goubaux et al., 2004); – incremento della massa miocardica per infiltrazione grassa; aumento del lavoro cardiaco e della gettata cardiaca (2-3 ml/100 g di tessuto grasso totale). L’aumento dello stress di parete determina un’ipertrofia ventricolare con possibile disfunzione diastolica; l’aumento del volume circolante e la poliglobulia possono portare a uno stato dilatativo; – aumento della pressione polmonare legata sia alla disfunzione sinistra, sia alla comparsa di ipossia per insufficienza respiratoria con vasocostrizione ipossica
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secondaria e incremento delle resistenze polmonari; è possibile il progresso a cuore polmonare cronico; ipertensione arteriosa congrua con il grado di aumento ponderale (3-4 mmHg ogni 10 kg per la pressione sistolica e 2 mmHg/10 kg per la diastolica) (Goubaux et al., 2004); aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico e del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRA); malattia coronarica legata sia alle alterazioni metaboliche (dislipidemia, diabete) che ipertensive; insufficienza venosa degli arti inferiori: stasi per riduzione dell’attività di pompa a livello di polpaccio e piede, causati da sedentarietà e da alterazioni articolari di ginocchia e anche; il ritorno venoso può essere compromesso anche da fenomeni compressivi della vena cava da parte dei visceri addominali; rilascio di mediatori dell’infiammazione (citochine) da parte del tessuto adiposo: come risultato si osservano insulinoresistenza, dislipidemia e modificazione dell’equilibrio emostatico in senso protrombotico da incremento fattoriale (fibrinogeno, fattore VII, fattore VIII, fattore di von Willebrand, PAI-1); in particolare la presenza di PAI-1 (inibitore dell’attivatore del plasminogeno) induce uno stato di ipofibrinolisi: questa disfunzione si normalizza a fronte di una riduzione del 40% del peso corporeo (Ogunnaike et al., 2009; Goubaux et al., 2004).
Obesità e ipertensione sono strettamente correlate. È ben documentato come la pressione arteriosa aumenti con l’aumento di peso e diminuisca con la perdita del peso stesso. più Inoltre risulta ben evidente che l’obesità può dare il via all’attivazione simpatica così come alle modificazioni strutturali e funzionali del rene. La disfunzione renale, caratterizzata da un aumentato riassorbimento tubulare di sodio e a un resetting della natriuresi convettiva, gioca un ruolo chiave nel generare l’aumento pressorio caratteristico dell’obesità. L’aumentato riassorbimento tubulare è in relazione all’iperattività simpatica e del SRA, allo stesso modo dei cambiamenti strutturali che causano compressione della midollare renale. La vasodilatazione all’arteriola afferente, l’iperfiltrazione glomerulare, l’aumentata pressione arteriosa sono tutti compensi che tendono a superare l’aumentato riassorbimento tubulare e a mantenere l’omeostasi del sodio. Questo tuttavia porta ad aumentato stress della parete capillare glomerulare che, unito alle alterazioni lipidiche locali, all’attivazione neurormonale e all’iperglicemia, induce glomerulosclerosi e perdita nefronale nell’obeso (Scaglione, 1995). Un aumento della massa corporea induce un incremento della gettata cardiaca, motivo per cui si è soliti esprimere il dato in termini di valore indicizzato (indice cardiaco). Un ulteriore incremento di peso sia esso dovuto ad aggiunta di tessuto adiposo o muscolare determinerà a sua volta un maggior consumo di ossigeno. Il risultato finale sarà un inevitabile adeguamento della gettata cardiaca che dovrà aumentare. Anche a questo fatto viene dato valore nell’innalzamento dei valori pressori nell’obesità. In realtà la crescita concomitante, anche se asimmetrica, di tessuto adi-
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poso e tessuto muscolare, ha un significato divergente in quanto il tessuto adiposo ha caratteristiche di comparto a bassa resistenza se paragonato al tessuto muscolare. In definitiva sarebbe il tessuto adiposo a svolgere un’attività limitante nell’incremento pressorio legato all’aumento di peso.
5.2.2 Sistema respiratorio Le alterazioni a carico del sistema respiratorio sono legate anch’esse all’aumento delle necessità metaboliche e all’incremento di massa corporea. Si osservano in particolare: – aumentato lavoro dei muscoli respiratori dovuto alla resistenza data dall’esubero addominale e dal peso del grasso toracico; i pazienti non ipercapnici spendono per ventilare il 30% circa del lavoro, quelli ipercapnici quasi il doppio; – diminuzione della distensibilità (compliance) toracica e polmonare, per aumento della volemia, infiltrazione grassa dei tessuti muscolari e dei parenchimi, ridotta distensibilità dell’addome; un contributo può venire anche da eventuali iperlordosi cervicale e ipercifosi toracica; – importante riduzione della capacità funzionale residua (FRC, functional residual capacity): si tratta del volume di gas che rimane nei polmoni dopo un’espirazione normale, ovvero della somma del volume di riserva espiratorio (ERV, expiratory reserve volume) e del volume residuo (RV, residual volume). La FRC (v.n. 2,6-3,5 litri) è il volume di gas che scambia continuamente con il sangue capillare. Lo squilibrio tra le forze elastiche polmonari (+) e toraciche (+++) porta a una anomala posizione di rilassamento che riduce la FRC: nel paziente di normale costituzione sottoposto ad anestesia il calo di FRC è di circa il 1520 % mentre nell’obeso questa diminuzione può arrivare al 50%; inoltre, la posizione supina sposta il volume corrente al di sotto del volume di collasso delle piccole vie aeree e quella di Trendelenburg al di sotto del volume residuo, ancora a causa della spinta craniale che i visceri esercitano sul diaframma (Fig. 5.1). La sedazione riduce ulteriormente la FRC: la caduta del tono muscolare favorisce la comparsa di atelettasie, la cui persistenza va oltre le 24 ore dal termine dell’anestesia; – alterazione del rapporto ventilazione/perfusione, con incremento dello shunt (la quota di sangue che passa attraverso il circolo capillare polmonare senza partecipare agli scambi respiratori) che può variare fra il 10 e il 20%; – pattern spirometrico di tipo prevalentemente restrittivo con diminuzione della ventilazione massima al minuto; – infiltrazione di grasso delle prime vie aeree (lingua, faringe ecc.) che determina un aumento circumferenziale del viso, un aumento della circonferenza del collo, la diminuzione della flessoestensione del capo sul collo, la riduzione dello spazio tra mento e torace con aspetto di collo “corto”, la macroglossia, la diminuzione dello spazio faringeo per ridondanza dei tessuti (Ogunnaike et al., 2009; Boubaux et al., 2004; Shina, 2009).
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Fig. 5.1 Modificazioni dei volumi polmonari nel paziente obeso in condizioni normali e durante anestesia. A sinistra (riquadro 1) è possibile visualizzare una normale spirometria. Il volume corrente (vol. corr) si posiziona ben al disopra del volume di chiusura delle vie aeree. Nel riquadro successivo (2) è riportato il valore del volume corrente di un obeso. È interessante notare come già in condizioni normali tale volume si posizioni sotto i valori a cui normalmente si inizia ad assistere alla chiusura delle vie aeree. Il paziente obeso è quindi già predisposto a situazioni in cui è facile trovarsi di fronte ad alterazioni di ventilazione e perfusione. La situazione precipita con l’induzione dell’anestesia, aggravandosi ulteriormente con il Trendelenburg, dove il volume corrente scende addirittura sotto il volume residuo (3). CV, volume di chiusura delle vie aeree; FRC, capacità funzionale residua; RV, volume residuo; VRE, volume di riserva espiratorio; VRI, volume di riserva inspiratorio
5.2.3 Sistema gastrointestinale ed endocrino Le modificazioni a carico del sistema gastrointestinale ed endocrino sono rappresentate da: – rallentamento dello svuotamento gastrico con un volume residuo gastrico peraltro simile a quello dei pazienti non obesi (25-30 ml); il pH della secrezione gastrica è in genere inferiore a 2,5; – maggior frequenza di ernia iatale e di reflusso gastroesofageo; – incremento della pressione endoaddominale per aumento di volume e di peso del grasso addominale. – presenza di steatosi epatica (senza compromissione funzionale fino a circa l’80% di infiltrazione) e di calcolosi della colecisti (fino all’80% degli obesi); – ipotiroidismo con aumento del TSH (che tende a normalità con il calo ponderale); – dislipidemia e resistenza all’insulina; quest’ultima può essere causa di diabete di tipo 2 (nove volte più frequente nei soggetti obesi);
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– incremento della circonferenza addominale in diretta correlazione con la sindrome metabolica (obesità, ipertensione, dislipidemia, intolleranza glucidica/diabete); – la sindrome metabolica a sua volta può indurre disfunzione epatica (non alcoholic fatty liver disease, steatoepatite, fibrosi fino alla cirrosi), insulinoresistenza e diabete, e in gravidanza ritardo di crescita intrauterina, alterazioni placentari, ipertensione gravidica (Ogunnaike et al., 2002); – aumento del flusso renale e del filtrato glomerulare come già sottolineato in precedenza.
5.2.4 Modificazioni della farmacocinetica La somministrazione dei farmaci, di quelli relativi all’anestesia e di quelli per il controllo del dolore postoperatorio deve tener conto di alcune semplici regole (Ogunnaike et al., 2009; Goubaux et al., 2004; Ogunnaike et al., 2002): – nell’obeso sono aumentati il volume del tessuto adiposo e del tessuto “magro”, ma non l’acqua corporea; il volume ematico, la gettata cardiaca, il flusso splancnico sono aumentati; – sono aumentate le lipoproteine, i trigliceridi, l’α-glicoproteina: essi possono legare i farmaci riducendone la quota libera e attiva; – la lipofilìa o meno di un farmaco (come per esempio la digossina, la procainamide, i barbiturici e le benzodiazepine) ne condiziona l’emivita; – il metabolismo epatico in genere non è alterato nonostante la steatosi; l’eliminazione renale è aumentata per l’aumento del flusso renale e della filtrazione renale; – la biodisponibilità in caso di assunzione orale non è modificata.
5.3 Le comorbidità associate all’obesità L’obesità si associa a comorbidità importanti che influenzano sia le complicanze che la mortalità: – asma (fino al 30% dei pazienti obesi) (Sin e Suterland, 2008); – OHS (obesity hypoventilation syndrome), OAS (obstructive apnea syndrome) (Shina, 2009; Crummy et al., 2008); – ipertensione polmonare; – malattia coronarica; – ipertensione (severa nel 10% dei casi); – poliglobulia, ipofibrinolisi con aumento della trombosi venosa profonda; – cuore polmonare cronico e insufficienza cardiaca; – artropatie, fratture da compressione e maggior rischio di fratture traumatiche;
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– sindrome metabolica, diabete, steatoepatite; – funzione renale alterata come conseguenza più spesso della malattia diabetica e dell’ipertensione; – infezioni cutanee, difficoltosa igiene, linfedema.
5.4 Il paziente obeso nel periodo perioperatorio 5.4.1 Il paziente obeso è a maggior rischio di complicanze nel periodo perioperatorio? Come valutarlo preoperatoriamente? Nel paziente obeso la mortalità e le complicanze perioperatorie raddoppiano di frequenza, distribuite fra respiratorie, cardiovascolari e metaboliche (Ogunnaike e Whitten, 2009; Goubaux et al., 2004). Un soggetto obeso con problematiche respiratorie preoperatorie ha il 38% di complicanze polmonari rispetto al 12% degli obesi senza disfunzioni preoperatorie del respiro. Nel preoperatorio devono soprattutto essere valutati: – i sintomi dispnoizzanti, la tolleranza allo sforzo fisico e la capacità di mantenere il decubito supino; sono utilissimi la pulsossimetria (SpO2) a riposo, il tempo di tolleranza all’apnea (≥30 secondi il limite inferiore di normalità) e la modalità e tipologia del sonno; è importante valutare la presenza di un’insufficienza cardiaca e la prestazione respiratoria; – la malattia asmatica. Questa patologia si associa e peggiora con l’obesità; non è ancora chiaro se a far progredire l’aggravamento sia un meccanismo infiammatorio o una problematica di tipo meccanico (Sin e Sutherland, 2008); – la presenza di OSA o di OHS (malattia di Pickwick). Queste due patologie sono legate a complicanze perioperatorie potenzialmente gravi (Shina, 2009; Crummy et al., 2008). Nell’OHS è presente ipercapnia diurna (>45 mmHg) senza patologie polmonari o muscolari associate; è gravata da alta mortalità e da diminuzione dell’aspettativa di vita qualora non venga trattata con ventilazione non invasiva e calo ponderale; in genere costituisce l’evoluzione dell’OSA e i pazienti che ne sono affetti presentano ipertensione polmonare, centri del respiro meno sensibili alla stimolo ipossiemico-ipercapnico ma, al contrario, sono molto sensibili ai farmaci depressori del respiro. Viene definita OSA la presenza di un’apnea superiore a 10 secondi per più di 5 volte l’ora associata a obstructive sleep hypopnea (in cui è presente riduzione del flusso respiratorio del 50% per oltre 10 secondi per più di 15 volte l’ora); in entrambe le situazioni si ha una desaturazione arteriosa ≥ 4%. L’OSA si associa a ipertensione sistemica e presenta segni e sintomi di sonnolenza diurna, riposo notturno insoddisfacente, risvegli notturni, russamento intenso, alterazioni mnesiche e della concentrazione (da cui aumento degli incidenti stradali), reflusso gastroesofageo,
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ostruzione nasale (Isono, 2009; Chung e Elsaid, 2009). Il rapporto tra apnee e ipopnee è detto indice di apnea/ipopnea (AHI, apnea hypopnea index) e definisce la gravità dell’OSA: valori fra 5 e 15 indicano una sindrome di media gravità; fra 15 e 30 moderata; >30 severa (Shina, 2009; Chung e Elsaid, 2009). Il 50% degli uomini e il 40% delle donne con BMI ≥35 presenta OSA. Questa patologia è sovente misconosciuta e nel postoperatorio può favorire crisi ipertensive da ipersimpaticotono, iperglicemie da scarso controllo glicemico ed episodi ipossiemici. L’ipossiemia è tuttavia spesso presente anche negli obesi in assenza di OSA. Il paziente obeso affetto da OSA può essere: 1. difficile da ventilare in maschera (in particolare se già fa una CPAP a domicilio con valori di PEEP >7 cmH2O) 2. difficile da intubare (Chung et al., 2009). Si noti che nel 66% delle intubazioni difficili dei pazienti non obesi è diagnosticabile una OSA alla polisonnografia: la relazione OSA-problemi di intubazione è molto dibattuta (Neligan et al., 2009), ma è comunque fondamentale considerare la classe di Mallampati (≥3), la circonferenza del collo >43 cm e la presenza di OSA perché si correlano a una classe ≥III di Cormack e Lehane alla laringoscopia diretta (Shina, 2009; Chung e Elsaid, 2009; Chung et al., 2008). L’individuazione di un paziente affetto da OSA si può fare con vari test di cui uno dei più pratici e semplici è lo STOP-BANG (Snoring, Tired, Obstructive, Pressure, BMI, Age, Neck, Gender) (Chung e Elsaid, 2009). Si tratta di otto domande, dove ogni “sì”vale 1 punto: 1. sei un forte russatore? (ti sentono attraverso la porta chiusa?) 2. ti senti spesso stanco durante il giorno? 3. qualcuno ha notato che smetti di respirare durante il sonno? 4. hai la pressione alta oppure assumi farmaci per controllarla (pastiglie per la pressione)? 5. scrivi il tuo peso: …….. kg e la tua altezza: …….. m [il Medico calcola il BMI: se ≥40 = 1 punto] 6. hai più di 50 anni? 7. sei maschio? 8. la circonferenza del collo (numero di camicia) supera i 43 cm se sei maschio o i 40 cm se sei donna? Se il punteggio STOP-BANG è ≥3 un AHI >5 si associa all’84% di probabilità di OSA, un AHI >15 al 94%, un AHI >30 al 100%. Si comprende l’importanza di sottoporre in fase preoperatoria un paziente con questo punteggio STOP-BANG a uno studio polisonnigrafico per completare la diagnosi. Se il soggetto con queste caratteristiche è già in terapia domiciliare con CPAP questa dovrebbe essere mantenuta nel perioperatorio, in particolare fin dal primo postoperatorio. Nel soggetto obeso dovranno essere valutati anche: – la presenza di una insufficienza renale cronica o di proteinuria, che espongono il paziente, soprattutto se anziano, alla comparsa di insufficienza renale (IRA) nel postoperatorio; l’uso dei FANS, in questi casi, può precipitare l’IRA;
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– segni e sintomi di reflusso gastroesofageo per il rischio di inalazione; – l’uso di farmaci come la metformina (per il rischio di acidosi lattica: il farmaco va sospeso almeno 48 ore prima dell’intervento) e l’orlistat (il farmaco determina malassorbimento delle vitamine liposolubili A, K, D: attenzione alle relative alterazioni del calcio e della coagulazione), di uso frequente nell’obesità; – una pregressa chirurgia bariatrica.
5.4.2 Quale monitoraggio utilizzare in un paziente obeso? Sono indispensabili: – il monitoraggio standard (frequenza cardiaca, ECG, SpO2, pressione non invasiva) raccomandato dalle linee guida e quello della funzione respiratoria (EtCO2, spirometria, anestetici inalatori) (Ogunnaike e Whitten, 2009; Goubaux et al., 2004); – la misurazione della SpO2 è assolutamente fondamentale in tutto il periodo pre-, intra- e postoperatorio: gli episodi ipossici sono sempre da prevenire, riconoscere e trattare precocemente; – la pressione non invasiva (NIBP, non invasive blood pressure) deve essere misurata con un bracciale adeguato per dimensione (rapporto circonferenza braccio/bracciale = 1:3). L’affidabilità della NIBP nel soggetto obeso non è tale da farla preferire alla misura invasiva, dato che molti fattori possono alterare la misura (posizione, peso del braccio, appoggio degli operatori ecc.); – il posizionamento di una cannula arteriosa per il rilievo invasivo della pressione in genere è agevole (radiale > brachiale), permette il rapido riconoscimento delle variazioni pressorie e consente l’esecuzione anche frequente di emogasanalisi. In questi pazienti le variazioni pressorie possono essere repentine e sono mal tollerate (per esempio, in caso di cardiopatia ischemica). Qualora il posizionamento fosse difficile si possono utilizzare, con un training di breve durata, un ecografo e una sonda lineare per agevolare il reperimento del vaso da pungere; – il cateterismo arterioso è il requisito singolo per il monitoraggio del pulse contour, correlabile con lo stroke volume sulla base di equazioni algoritmiche complesse. Questa tecnologia e gli strumenti a essa correlati (Vigileo, Edwards, PiCCO Pulsion e altri) permettono inoltre di accedere alle funzioni del monitoraggio dinamico, in particolare nel paziente ventilato con modalità controllata. Si sfrutta in tal modo l’interazione circolo-respiro per ottenere informazioni sullo stato di riempimento del circolo, sullo stato di fluid responder, e sulla risposta alle correzioni fluidiche (stroke volume variation, pulse pressure variation, systolic peak variation); – l’incannulamento della via venosa non è sempre agevole per la scadente visibilità dei vasi venosi superficiali: se particolarmente difficoltoso, può essere sostituito dal cateterismo venoso centrale, di elezione in giugulare interna sotto guida ecografica. La via centrale ci permette di ottenere tramite un semplice prelievo venoso e la sua conseguente analisi emogasanalitica un importante parametro noto come saturazione venosa centrale;
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– il monitoraggio della profondità del rilasciamento muscolare (TOF, train of four) è molto utile al momento del risveglio e dell’estubazione; – il rilievo della temperatura permette di ridurre l’incidenza del brivido postoperatorio ed evitare la reazione neurormonale dello stress, l’ipossia, l’ischemia cardiaca e gli scompensi glicemici. Di particolare importanza il ruolo del controllo della temperatura per evitare l’ipotermia intra- e postoperatoria: l’ipotermia è correlata, fra l’altro, a un aumento delle infezioni; – la valutazione della profondità dell’anestesia, per esempio con BIS (bispectral index) o con entropia, ci aiutano nella gestione degli anestetici sia durante l’intervento, che al momento dell’estubazione; – la presenza di una check-list è utile a uniformare il comportamento intraoperatorio negli interventi sugli obesi.
5.4.3 Qual è la posizione sul letto che agevola l’ossigenazione, la preossigenazione e l’intubazione nell’obeso? La posizione sul letto è importantissima per gli obesi (Ogunnaike e Whitten, 2009; Goubaux et al., 2004) e deve mirare a: – prevenire le lesioni nervose tipicamente a carico del nervo ulnare e dello sciatico popliteo esterno (SPE). Tutti i punti che – per contatto – sono sottoposti a pressione elevata devono essere protetti accuratamente. Nel corso della procedura l’anestesia impedisce la percezione del dolore da compressione e permette lo sviluppo di una sofferenza ischemica e/o compressiva dei tronchi nervosi in particolari punti superficiali del loro decorso; – agevolare l’ossigenazione e, in particolare, la preossigenazione, cioè la somministrazione di ossigeno per alcuni minuti prima dell’induzione dell’anestesia, utile ad aumentare i tempi di tolleranza all’apnea, necessaria in fase di intubazione (l’accumulo di CO2 è tollerato per un tempo decisamente superiore e non costituisce un problema nel corso di questa fase). La preparazione del paziente con O2 100% modifica il contenuto dei gas alveolari riducendo la pressione parziale di azoto a favore dell’ossigeno. L’aumento della PAO2 permette al paziente, se l’alveolo è perfuso, di continuare a captare ossigeno anche quando inizia l’apnea (ossigenazione apneica). È intuitivo che il gas alveolare, qualora non riprenda la ventilazione, sarà progressivamente sottratto dal circolo fino al collasso dell’alveolo stesso, generando atelettasia da riassorbimento. Numerosi lavori in letteratura dimostrano come la preossigenazione determini un notevole incremento della tolleranza all’apnea (Tanoubi et al., 2009; Edmark et al., 2003). Ci sono tre modalità di somministrare l’ossigeno all’induzione: 1. respiro spontaneo con FiO2 per un periodo di alcuni minuti (5 minuti nell’obeso), in maschera oronasale a tenuta e con flusso di gas freschi >10 litri; questa è la modalità più seguita e, nonostante l’alta frazione inspirata di O2 possa aumentare la formazione di atelettasie, consente tempi di apnea superiori rispetto a FiO2 di 0,8 (Edmark et al., 2003);
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2. esecuzione di 8 inspirii profondi e relative espirazioni profonde (a capacità vitale) in 1 minuto con FiO2 di 1,0; 3. utilizzare la CPAP o la ventilazione assistita non invasiva con pressure support + PEEP se sono già in uso cronico, anche se questo non sembra allungare i tempi di tolleranza all’apnea preintubazione (Edmark et al., 2003; Delay et al., 2008). Altri accorgimenti importanti sono: – posizionare il paziente sul letto operatorio con la “testa in alto”. Questa posizione si ottiene ponendo biancheria o dispositivi specifici sotto il paziente a partire da metà schiena in modo da portare la testa e il busto in alto, come una scala che sale dolcemente: una linea retta orizzontale dovrebbe unire il meato uditivo esterno con l’angolo sternale di Louis. Il peso delle mammelle viene quindi spostato dal torace facilitando la ventilazione in maschera e viene creato spazio tra mento e sterno per l’uso del laringoscopio e l’intubazione; – mettere il paziente in posizione anti-Trendelenburg (fino a 30°) per diminuire la spinta craniale dei visceri addominali sul diaframma. La comparsa di ipotensione all’induzione obbliga a moderare il grado di inclinazione; – posizionare durante l’intervento laparoscopico il paziente in beach chair position (anti-Trendelenburg di 30° con le gambe alzate a livello dell’addome). Questa manovra, unita all’impiego di PEEP a 10 cm di H2O migliora la meccanica respiratoria e i volumi respiratori (Valenza et al., 2007); – evitare il più possibile di influire sulla caduta della FRC: in posizione supina nel paziente obeso il volume corrente scende al di sotto del volume di chiusura delle vie aeree (vedi Fig. 5.1), e questo crea le condizioni per alterare il rapporto ventilazione/perfusione, incrementare lo shunt fisiologico e portare a rapida comparsa di ipossia; – la posizione supina e di Trendelenburg sono da evitare a paziente sveglio per l’importante alterazione della FRC che ne consegue. In fase di induzione questo posizionamento può determinare l’occlusione del faringe e inventilabilità (non solo per il calo del tono muscolare, ma anche per la minore trazione esercitata sulle vie aeree superiori dalle strutture sottostanti). Può inoltre verificarsi la progressione dell’apice del tubo endotracheale caudalmente in modo selettivo in un bronco; infine questa postura può determinare compressione aortocavale con importanti riflessi emodinamici sul precarico.
5.4.4 L’obesità è un fattore di rischio indipendente per l’intubazione difficile e per l’estubazione? L’obesità viene considerata classicamente un fattore di rischio per l’intubazione e l’estubazione (Ogunnaike e Whitten, 2009; Goubaux et al., 2004; Shina, 2009): – questa difficoltà è legata sia a una anatomia anormale con diminuzione dei movimenti del capo e del collo e dell’apertura della bocca, sia alla ridondanza dei tessuti. In genere l’obeso pone una generica allerta per intubazione difficoltosa, an-
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che se esperienza e dimestichezza con questa tipologia di pazienti di fatto minimizzano i rischi connessi. Per una circonferenza del collo di 40 cm, la cosiddetta via aerea difficile si presenta nel 5% dei casi, per una circonferenza >60 cm l’impatto è del 35%. Quest’ultimo valore correla con una laringoscopia difficile; uno score Mallampati (valutazione preoperatoria della difficoltà di intubazione) di III-IV è correlato a una via aerea difficile (odds ratio 12,5), con una specificità peraltro di solo il 30%. Si potrebbe dire che la difficoltà a intubare con BMI <40 è dell’1% contro una possibile difficoltà di ventilare del 10% (Shina, 2009; Brodsky et al., 2002; Juvin et al., 2003); nel caso di una via aerea difficile in un paziente obeso sono stati validati gli introduttori (per esempio, Frova), la videolaringoscopia (Shina, 2009), la maschera laringea (LMA), la maschera laringea con device per l’intubazione (ILMA Fast Trach) (Combes et al., 2005; Dhonneur et al., 2006). Quest’ultima è una maschera laringea dotata di un mandrino metallico con impugnatura a manico per le manovre, che permette anche di ventilare e provare un posizionamento alla cieca del tubo endotracheale. Il più recente progresso è dato dalla LMA CTrach, simile alla ILMA ma dotata di visore esterno per la visualizzazione della glottide e dell’avanzamento del tubo tracheale. Alcuni studi hanno valutato positivamente questo strumento nel facilitare la ventilazione rispetto ai sistemi convenzionali (maschera facciale) e nel mantenere valori di SpO2 ≥92% (Dhonneur et al., 2006), con tempi peraltro più prolungati per l’intubazione rispetto alla laringoscopia diretta; tutti i sistemi sovraglottici hanno bisogno di training adeguato e periodico retraining. Manovrare questa maschera a mo’ di laringoscopio (movimenti in avanti o verso l’alto) può accidentalmente deposizionarne l’apice e rendere possibile un reflusso gastroesofageo; i pazienti con fattori di rischio per intubazione e ventilazione difficili (quali CPAP domiciliare con PEEP >8 cmH2O, Mallampati score di III-IV, circonferenza del collo elevata, OSA, improvvisi addormentamenti con rumori di russamento e comparsa di desaturazione durante la visita preoperatoria) sono da prendere in considerazione per l’intubazione cosciente con fibre ottiche (FOI, Fiber Optic Intubation) (Goubaux et al., 2004) in accurata anestesia locale di rinofaringe, faringe e glottide. Per realizzare la FOI la posizione del paziente è necessariamente semiseduta con O2 in maschera: è richiesta buona esperienza. Il paziente rimane comunque a rischio di reflusso gastroesofageo; l’estubazione del paziente con via aerea difficile deve essere realizzata a paziente completamente sveglio, con buon controllo antalgico, pieno recupero della muscolatura, riflessi adeguati, in ambiente protetto, in posizione di anti-Trendelenburg con testa e torace sollevati e, se possibile, con un cambiatubi lasciato a dimora nella via aerea. Qualora fosse richiesto un rapido antagonismo del blocco muscolare è suggerito l’uso del sugammadex (specifico per il rocuronio e in minor misura per il vecuronio) rispetto alla neostigmina che aumenta le secrezioni e altera la funzione dei muscoli dilatatori delle vie aeree superiori (Eikermann et al., 2008); l’estubazione in posizione laterale può essere una scelta corretta: essa facilita la rimozione delle secrezioni, sposta il peso del tessuto grasso delle mammelle e dell’addome ed è meglio tollerata dal paziente;
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– l’estubazione realizzata con pressione positiva, come per effettuare un reclutamento manuale, diminuisce la formazione di atelettasie; – la somministrazione di ossigeno dopo l’estubazione e nel postoperatorio è obbligatoria per prevenire l’ipossia; la ripresa precoce della CPAP o della BiPAP domiciliare è molto importante; la ventilazione non invasiva è efficace nel paziente obeso e migliora i parametri spirometrici nelle prime 24 ore dopo la chirurgia (Neligan et al., 2010).
5.4.5 In che modo dev’essere ventilato il paziente obeso? La ventilazione del paziente con obesità patologica è estremamente importante e deve tenere conto delle modificazioni di FRC, del volume di chiusura delle vie aeree, dello pneumoperitoneo se presente: – la PEEP migliora gli scambi respiratori nei pazienti obesi (Ogunnaike e Whitten, 2009; Goubaux et al., 2004; Pelosi et al., 1999); – l’applicazione di manovre di reclutamento (per esempio, 55 cm di H2O per 10 s + una PEEP di 10 cm di H2O) migliora nettamente la quantità di tessuto areato e gli scambi respiratori (Reinius et al., 2009). In pazienti obesi svegli la quota di atelettasia rappresenta l’1%; quando in posizione supina e in anestesia le atelettasie salgono al 3% all’apice, al 7% all’ilo, fino al 29% alla base polmonare. In anestesia la quantità di tessuto polmonare normalmente areato passa dal 70 (paziente supino e sveglio) al 50%; il tessuto scarsamente areato dal 28 al 39%; il tessuto non areato dall’1 all’11%. Le manovre di reclutamento (+ PEEP) ripetute ogni 10 minuti permettono di migliorare gli scambi respiratori e la compliance durante il bendaggio gastrico laparoscopico (Almarakbi et al. 2009); – non c’è correlazione tra elevati volumi correnti e miglioramento della PaO2 (Bardoczky et al., 1995). I volumi correnti da impiegare abitualmente sono di 6-8 ml/kg/IBW, ma nella scelta si deve tener conto delle pressioni alveolari raggiunte; – le modalità di ventilazione a volume controllato e a pressione controllata si mostrano sostanzialmente sovrapponibili in chirurgia laparoscopica; in volume controllato si ha una migliore eliminazione della CO2 (De Baerdemaeker et al., 2008); – l’applicazione di manovre di reclutamento ripetute nel tempo e mantenute da PEEP di 10 cm di H2O, combinate con la posizione sul letto sono di fondamentale importanza per il miglioramento degli scambi respiratori e della meccanica polmonare nell’obeso (De Baerdemaeker et al., 2008).
5.4.6 Il paziente obeso è a rischio di inalazione? Il paziente obeso è di solito ritenuto a maggior rischio di inalazione per le modificazioni che intervengono a carico dello svuotamento gastrico, del pH gastrico, per la presenza di reflusso gastroesofageo e ernia iatale (Ogunnaike e Whitten, 2009;
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Goubaux et al., 2004). Non c’è tuttavia dimostrazione che questo evento abbia maggiore frequenza rispetto al soggetto normopeso (Jean et al., 2008): restano comunque consigliati antagonisti recettoriali H2 o gli inibitori della pompa protonica in fase preinduttiva. Sono a maggior rischio di inalazione i pazienti obesi già sottoposti a chirurgia bariatrica: una diminuzione del tono dello sfintere esofageo inferiore e una riduzione della motilità esofagea e gastrica espongono a un rischio addizionale (Juvin et al., 2001).
5.4.7 Quali dosaggi farmacologici devono essere usati nel paziente obeso? La somministrazione dei farmaci tiene conto di IBW (ideal body weight), LBW (lean body weight) e TBW (total body weight); il dosaggio viene mostrato in Tabella 5.2. Per l’analgesia postoperatoria si deve ricorrere all’uso di FANS, paracetamolo (in genere 1 g × 4) e, se necessario, alla morfina (0,05-0,1 mg/kg di LBW), meglio se somministrata in PCA (boli di 1 o 2 mg ogni 10-20 minuti); molto importante sembra essere la somministrazione di adiuvanti quali la clonidina e la ketamina. Buoni risultati sono riportati con l’impiego di dexmetomedina, peraltro non disponibile in Italia (Tufanogullari et al., 2008). Tabella 5.2 Dosaggio dei principali farmaci anestesiologici nell’obeso Farmaco
Dosaggio determinato su:
Propofol
induzione: LBW ↑VD, clearance e steady state correlano con mantenimento: TBW TBW; affinità per il tessuto grasso, ↑estrazione e coniugazione epatica correlano con il TBW, ma la depressione cardiovascolare limita a LBW
Thiopentale
LBW
↑VD, volume ematico, ↑gettata cardiaca e massa muscolare, lipofilia correlano con TBW; ma la lunga durata d’azione e la depressione cardiovascolare limitano a LBW
Midazolam
TBW
↑VD e lipofilia danno effetto sedativo prolungato con accumulo per alterazione del citocromo P450
Succinilcolina
TBW
↑ colinesterasi plasmatiche, idrofilia
Atracurium
LBW
Eliminazione organo indipendente con VD, emivita e clearance che non cambiano
Cis – atracurium LBW
Commenti
Come sopra ma durata più lunga
Rocuronio
LBW
Inizio più rapido, lunga durata d’azione quando viene somministrato su TBW; oggi è disponibile il sugammadex antagonista specifico
Vecuronio
LBW
↑VD, idrofilico, prolungata azione se dosato su TBW; sugammadex attivo ma meno specifico
(cont.)
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Tabella 5.2 (continua) Fentanyl
LBW
Sufentanil
LBW
Remifentanil
↑VD, ↑emivita correlato meglio con LBW; si distribuisce a tutta la massa corporea; sovradosaggio se TBW
↑VD, ↑emivita correlato al peso; clearance simile tra obesi e non, la concentrazione plasmatica è sovrastimata se BMI > 40 kg/m2 mantenimento: LBW Lipofilico, ↓VD, ↓clearance nell’obeso; farmacocinetiche simili tra obesi e non; tener conto dell’età e del LBW
Dexmetomedina
TBW
Non effetti sulla ventilazione; ottimo adiuvante (non disponibile in Italia) analgesico negli obesi, effetti simpaticolitici
Lidocaina
TBW
↑VD, ↓la dose se insufficienza epatica
LBW= IBW + (20 o il 30% del IBW); IBW= altezza in cm – x (x= 100 per l’uomo, 105 per la donna)
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Il paziente affetto da BPCO
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P. Caironi
Riassunto La broncopneumopatia cronico-ostruttiva (BPCO) rappresenta una delle patologie polmonari a maggior diffusione (soprattutto in pazienti sottoposti a chirurgia maggiore) e a più alta incidenza di complicanze postoperatorie. Clinicamente evidente come riduzione del flusso espiratorio, racchiude due patologie principali: la bronchite cronica e l’enfisema. Fisiopatologicamente, la BPCO è il risultato di una reazione infiammatoria abnorme conseguente all’esposizione cronica ad agenti irritanti (per esempio, il fumo di tabacco). Durante la fase preoperatoria, è fondamentale effettuare un’attenta valutazione della gravità della BPCO, per poter meglio stratificare il rischio perioperatorio. È inoltre cruciale escludere l’eventuale presenza di una riacutizzazione. Durante la fase intraoperatoria, è estremamente importante sviluppare un monitoraggio per individuare l’insorgenza di eventi patologici quali l’iperinflazione dinamica, l’ipossiemia, disturbi dell’equilibrio acido-base e squilibri della volemia. Da ultimo, nella fase postoperatoria, oltre a valutare accuratamente l’eventuale necessità di ricovero in un ambiente a stretto monitoraggio (terapia intensiva postoperatoria), occorre particolare attenzione a due aspetti critici quali la funzionalità del sistema respiratorio in fase di risveglio ed estubazione, e il controllo del dolore.
6.1 Introduzione La patologia ostruttiva cronica polmonare (BPCO, broncopneumopatia cronicoostruttiva) presenta a tutt’oggi una delle condizioni patologiche polmonari maggiormente diffuse nel mondo, presentando un’incidenza annuale pari al 4-5% (Rabe Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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et al., 2007; Soriano et al., 2000; Menezes et al., 2005; Buist et al., 2007). Tale incidenza risulta ulteriormente aumentata se si considera la popolazione di pazienti sottoposti a chirurgia maggiore (Licker et al., 2007). Di conseguenza, il considerare attentamente le possibili problematiche specifiche a carico di pazienti affetti da BPCO nel periodo perioperatorio rappresenta una delle priorità della medicina perioperatoria di oggi. Considerando in maniera specifica il monitoraggio perioperatorio di pazienti affetti da BPCO, due considerazioni dettano la necessità di individuare linee comuni specifiche per tale categoria di pazienti. In primo luogo, questi pazienti sono ad alto rischio per lo sviluppo di complicanze postoperatorie di tipo respiratorio, una delle categorie di complicanze postoperatorie a maggior impatto clinico ed economico. In secondo luogo, è stato ampiamente dimostrato come, date tali premesse, sia reale e possibile – con l’attuazione di corrette linee guida di trattamento – intervenire e modificare l’outcome di questi pazienti. Pertanto, scopo di questo capitolo è quello di inquadrare schematicamente e brevemente le possibili problematiche cliniche di pazienti affetti da BPCO nel loro periodo intra- e postoperatorio, così da poter meglio impostare una loro valutazione preoperatoria, e di trattare le caratteristiche specifiche del monitoraggio che di conseguenza deve essere loro applicato nelle varie fasi perioperatorie.
6.2 BPCO: definizione Nel 2007 sono state pubblicate le linee guida GOLD (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease) sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, allo scopo di definire la strategia globale per la diagnosi, il trattamento e la prevenzione della patologia polmonare cronico-ostruttiva (Rabe et al., 2007). Secondo tali linee guida, la BPCO è “una patologia prevenibile e trattabile, presentante conseguenze significative extrapolmonari che possono contribuire alla gravità dei singoli pazienti. La sua componente polmonare è caratterizzata da una limitazione a livello delle vie aeree non completamente reversibile. Tale limitazione è normalmente progressiva e associata a una risposta infiammatoria anormale a livello polmonare come conseguenza dell’esposizione a particelle e/o gas dannosi” (Rabe et al., 2007). Da un punto di vista clinico, la BPCO è una patologia caratterizzata dal rilevamento di risultati anormali a test di flusso espiratorio che non regrediscono lungo un periodo di osservazione di mesi. Tale ostruzione può essere strutturale o funzionale, ma nella maggior parte dei casi è causata da un’associazione tra un’alterazione patologica delle piccole vie aeree (bronchiolite ostruttiva) (Hogg et al., 2004) e una distruzione parenchimale polmonare (enfisema). Classicamente all’interno della BPCO vengono comprese due patologie principali: 1. la bronchite cronica cararatterizzata dalla presenza di tosse produttiva cronica
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determinante una grave alterazione dei flussi espiratori (Standard for the diagnosis, 1987). La cronicità della bronchite viene definita dalla presenza di tale condizione clinica per almeno tre mesi all’anno in due anni successivi, senza differenti cause di insorgenza di secrezioni a livello delle vie aeree; 2. l’enfisema è definito come “una condizione polmonare caratterizzata da un allargamento anormale e permanente delle vie aeree a livello dei bronchioli distali e terminali, accompagnato da modificazioni distruttive della parete alveolare, e senza un’evidente fibrosi” (Standard for the diagnosis, 1987). Tali alterazioni determinano la perdita del normale ritorno elastico a livello del parenchima polmonare (per la perdita di fibre di elastina). Come conseguenza, il volume polmonare di chiusura delle piccole vie aeree aumenta al di sopra dei normali volumi polmonari espiratori.
6.2.1 Patogenesi e fisiopatologia Le caratteristiche anatomopatologiche specifiche della BPCO si ritrovano a livello sia delle vie aeree distali che di quelle prossimali. Questa sindrome presenta inoltre specifiche anomalie anatomopatologiche anche a livello del parenchima polmonare propriamente detto e a livello della vascolarizzazione della circolazione polmonare (Hogg, 2004). Tra le varie lesioni patologiche possiamo ricordare lo stato di infiammazione cronica (con la presenza di infiltrati cellulari in diverse parti del polmone) e le conseguenti lesioni ripetute di riparazione. Le caratteristiche morfologiche specifiche di questo stato di infiammazione cronica risultano generalmente aumentare con la gravità della sintomatologia, persistendo anche dopo la cessazione della pratica del fumo (Hogg et al., 2004). Pur non essendo ancora completamente chiari i meccanismi, questo stato di infiammazione cronica viene tradizionalmente considerato come una risposta infiammatoria abnorme (amplificazione) all’esposizione cronica di agenti irritanti (quali il fumo ed altri), ulteriormente amplificata da fenomeni di stress ossidativo e dalle proteinasi polmonari. Dal punto di vista clinico, la prima conseguenza dell’infiammazione cronica a livello delle vie aeree distali è il restringimento del loro calibro (in seguito al deposito di materiale infiammatorio) con la conseguente limitazione al flusso espiratorio. Diverse cause, infine, sono state imputate negli anni alla base delle anomalie osservate a livello degli scambi gassosi (ipossiemia e ipercapnia) (Rabe et al., 2007). Tra queste, l’alterazione del rapporto ventilazione/perfusione prevalentemente associata alla distruzione del parenchima polmonare e alla distribuzione disomogenea della ventilazione rappresenta l’alterazione fisiopatologica maggiore. L’attivazione infine del riflesso di vasocostrizione ipossica caratterizzante gran parte della circolazione polmonare di questi pazienti rappresenta la base per l’insorgenza, nel tempo, di ipertensione polmonare e cuore polmonare cronico, le principali anomalie cardiovascolari caratterizzanti tale sindrome.
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6.2.2 Fattori di rischio È ormai ampiamente riconosciuto che il fumo rappresenta il principale fattore di rischio associato allo sviluppo di BPCO. Questo ha permesso negli anni, tramite il forte impulso alla programmazione di campagne di prevenzione, di ottenere una riduzione importante dell’esposizione a tale fattore di rischio, con risultati incoraggianti sulla riduzione di insorgenza di BPCO. Ciononostante, ancora oggi l’esposizione inalatoria ad agenti tossici, e tra questi il fumo, rappresenta il fattore di rischio più importante.
6.2.2.1 Agenti tossici da inalazione Tra questi, il ruolo più importante è rivestito dall’esposizione al fumo di sigaretta. È stato ampiamente dimostrato che soggetti fumatori di sigaretta presentano una maggior incidenza di BPCO e una più alta mortalità per tale patologia rispetto a pazienti non fumatori (Rabe et al., 2007). Ciononostante, data la costante osservazione di pazienti fumatori di sigaretta che non sviluppano BPCO, viene ipotizzato che anche altri fattori, per esempio la predisposizione genetica, possano contribuire all’insorgenza di BPCO (Smith e Harrison, 1997). Oltre all’esposizione al fumo di tabacco, altri agenti tossici da inalazione sono stati individuati come fattori di rischio, e in particolare l’esposizione a polveri tossiche chimiche (polveri organiche e inorganiche, fumi e agenti chimici) (Balmes et al., 2003), e a polveri da inquinamento (Ezzati, 2005).
6.2.2.2 Predisposizione genetica La più importante osservazione alla base dell’ipotesi di fattori genetici come concausa allo sviluppo di BPCO è il costante dato di pazienti esposti al fumo di sigaretta che non sviluppano tale sindrome, così come il dato di pazienti non esposti al fumo o ad altri agenti inquinanti che al contrario la sviluppano. Classicamente il fattore genetico maggiormente documentato è il deficit di alfa1-antitripsina (Stoller e Aboussouan, 2005), il più importante inibitore dell’azione delle proteasi seriniche polmonari.
6.2.2.3 Predisposizione ambientale e livello socioeconomico Esistono al momento evidenze che il rischio di sviluppo di BPCO sia maggiore nei Paesi in via di sviluppo, e risulti quasi inversamente associato al livello socioeco-
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nomico (Prescott et al., 1999). Non è ancora chiaro se tale associazione risulti essere semplicemente un epifenomeno (e basata sulla maggior presenza di inquinamento ambientale in molte zone in via di sviluppo), o se esistano altri fattori che giustifichino tale associazione.
6.2.2.4 Infezioni Una storia anamnestica di infezioni recidivanti alle vie aeree durante il periodo dell’infanzia è risultata essere associata a una maggiore probabilità di insorgenza di sintomi respiratori in età avanzata e di BPCO (Shaheen et al., 1994).
6.3 Valutazione preoperatoria Se è vero che la mortalità perioperatoria direttamente associata all’anestesia risulta essere molto bassa (verosimilmente circa 1 evento ogni 250 000 procedure anestesiologiche) (Ergin et al., 1995), è altrettanto vero che soggetti a rischio come i pazienti con BPCO presentano un’incidenza relativamente alta di complicanze postoperatorie, in modo particolare di tipo respiratorio, rappresentando così una sfida per la medicina perioperatoria. In particolare è stato stimato che pazienti con BPCO possono sviluppare complicanze respiratorie postoperatorie con un rischio relativo compreso tra 2.7 e 4.7 (Wong et al., 1995; Kroenke et al., 1993). È pertanto evidente che una corretta valutazione preoperatoria di questi pazienti rappresenta una delle tappe fondamentali per un approccio clinico atto a ridurre il più possibile l’incidenza di complicanze postoperatorie.
6.3.1 Classificazione di gravità Il primo fondamentale passo da compiere di fronte a un paziente affetto da BPCO è una corretta valutazione della gravità della sua patologia di base, così da poter procedere a una precisa stratificazione del rischio perioperatorio. Essendo il maggior sintomo di questa patologia la limitazione al flusso espiratorio, la più semplice forma di valutazione della gravità è basata sull’esame strumentale spirometrico post-terapia broncodilatatrice. Nelle recenti linee guida GOLD è stata proposta una classificazione di gravità comprendente quattro stadi (Tab. 6.1): – stadio 1: la BPCO di grado 1 (lieve) viene definita dalla presenza di una lieve limitazione al flusso delle vie aeree (FEV1/FVC <0,70, con un valore di FEV1 >80% del valore predetto). La tipica sintomatologia di tosse ed espettorazione
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Tabella 6.1 Classificazione di gravità della BPCO Gravità
Valori spirometrici
Sintomatologia clinica
Stadio 1
FEV1/FVC <0,70 FEV1 predetto ≥80%
Tosse ed espettorazione (anche assente)
Stadio 2
FEV1/FVC <0,70 FEV1 predetto <80% e ≥50%
Tosse ed espettorazione; dispnea durante esercizio fisico
Stadio 3
FEV1/FVC <0,70 FEV1 predetto <50% e ≥30%
Brevità del respiro ed espirio prolungato; ridotta tollerabilità all’esercizio fisico; episodi di riesacerbazione
Stadio 4
FEV1/FVC <0,70 FEV1 predetto <30% o <50% in associazione a insufficienza respiratoria
Insufficienza respiratoria cronica; cuore polmonare cronico
cronica può essere presente o assente; – stadio 2: la BPCO di grado 2 (moderato) è caratterizzata dalla presenza di una limitazione al flusso delle vie aeree peggiore dello stadio 1 (FEV1/FVC <0,70, con un valore di FEV1 compreso tra il 50 e l’80% del valore predetto), in associazione a una sintomatologia dispnoica durante esercizio fisico e a tosse ed espettorazione spesso presenti; – stadio 3: la BPCO di grado 3 (severa) è caratterizzata da un ulteriore peggioramento della limitazione al flusso delle vie aeree rispetto alla BPCO di grado 2 (FEV1/FVC <0,70, con un valore di FEV1 compreso tra il 30 e il 50% del valore predetto). Inoltre, a questo stadio, i pazienti presentano sempre una sintomatologia importante, con brevità del respiro ed espirio prolungato, ridotta tollerabilità allo sforzo fisico e frequenti episodi di riesacerbazione della patologia di base; – stadio 4: la BPCO di grado 4 (molto severa) è definita dalla presenza di una grave limitazione al flusso delle vie aeree (FEV1/FVC <0,70, con un valore di FEV1 pari al 30%, o un valore di FEV1 pari al 50% in associazione alla presenza di segni di insufficienza respiratoria cronica). A questo stadio l’insufficienza respiratoria cronica include un valore di PaO2 inferiore a 60 mmHg, più o meno associato a eventuale ipercapnia (PaCO2 superiore a 50 mmHg). A questo stadio i pazienti possono frequentemente presentare in associazione anche una sintomatologia cardiovascolare (cuore polmonare cronico).
6.3.2 Colloquio con il paziente La fase di colloquio con il paziente rappresenta uno dei principali momenti di “monitoraggio” prima che il paziente sia sottoposto alla procedura chirurgica. Da
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una parte risulta un momento fondamentale per una corretta valutazione diretta del grado di patologia polmonare e dello stato generale del paziente; dall’altra rappresenta quasi l’unico momento “di insegnamento” presente in tutto il percorso perioperatorio, nel rapporto medico-paziente, nel quale il medico può cercare di trasmettere l’importanza della cessazione del fumo e di altre abitudini di vita atte a ridurre le possibili complicanze e comorbidità. In generale il colloquio deve comprendere un’adeguata valutazione dei seguenti aspetti (Smetana et al., 2006): 1. attività fisica quotidiana e condizioni fisiche generali; 2. presenza di eventuali segni di infezione; 3. frequenza degli attacchi di dispnea e di tosse; 4. presenza di eventuali fattori che possono esacerbare la sintomatologia respiratoria; 5. presenza di allergie concomitanti; 6. utilizzo (intensità, dose, frequenza) ed efficacia della terapia medica; 7. abitudini presenti e passate riguardo il fumo di tabacco; 8. precedenti ricoveri ospedalieri; 9. recenti e passati episodi infettivi polmonari. Data, inoltre, l’elevata incidenza di patologie cardiovascolari come ulteriori comorbidità in pazienti affetti da BPCO, nella raccolta delle notizie anamnestiche è indispensabile una precisa valutazione della presenza di condizioni conclamate, così come una corretta valutazione dell’eventuale presenza di fattori di rischio per le stesse (Fleisher et al., 2006).
6.3.3 Esame obiettivo Dopo il colloquio, l’esame obiettivo rappresenta, come in tutte le discipline della medicina moderna, la prima fase di indagine funzionale dello stato generale e del sistema respiratorio del paziente. L’esame obiettivo può così essere suddiviso nelle seguenti fasi: 1. valutazione generale: segni importanti da ricercare sono l’eventuale presenza di obesità (body mass index >35) e di anomalie della colonna vertebrale quali la cifoscoliosi (frequente nei soggetti anziani), condizioni che possono ulteriormente aggravare il rischio perioperatorio di complicanze respiratorie. In secondo luogo, l’eventuale presenza di cianosi a livello delle mucose (labbra, bocca) può fornire un’utile indicazione della funzionalità dello scambio gassoso del sistema respiratorio. Da ultimo, è estremamente fondamentale valutare lo stato muscolare generale del paziente, nell’ottica di indagare la funzionalità dei muscoli respiratori; 2. valutazione del sistema respiratorio: nella fase iniziale di ispezione, occorre valutare ritmo, frequenza e modalità della respirazione. Particolari segni di distress respiratorio associati alla presenza di BPCO sono (Fletcher, 1952):
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a) tachipnea; b) brevità del respiro ed espirio prolungato; c) utilizzo delle labbra serrate; d) utilizzo dei muscoli respiratori accessori; e) asimmetria di espansione della gabbia toracica. In un secondo momento, l’auscultazione del parenchima polmonare può individuare indirettamente il grado di alterazione del tessuto polmonare stesso e delle vie aeree. Particolari segni associati alla BPCO possono essere (Lawrence et al., 1996; Qaseem et al., 2006): a) riduzione del murmure vescicolare; b) ronchi e/o sibili inspiratori ed espiratori; 3. valutazione del sistema cardiovascolare: segni particolari di anomalie correlate alla presenza di BPCO possono essere (Salvaterra e Rubin, 1993): a) polso paradosso (definito come una riduzione della pressione arteriosa sistolica maggiore di 10 mmHg durante inspirazione); b) segni di ipertensione polmonare (accentuazione della componente polmonare del secondo tono cardiaco, distensione giugulare, epatomegalia, reflusso epatogiugulare).
6.3.4 Esami strumentali Nella terza fase della valutazione preoperatoria sono incluse tutte le eventuali indagini strumentali. È utile sottolineare che anche nell’approccio preoperatorio a un paziente affetto da BPCO occorre utilizzare le indagini strumentali più appropriate e necessarie, senza né eccedere né erroneamente limitarle alle sole indagini di primo livello: 1. indagini di visualizzazione polmonare: includono la radiografia del torace e/o la TC. Oltre ad eventuali necessità dettate dalla procedura chirurgica in programma, tali indagini rappresentano una prima chiara valutazione diretta e “visiva” del parenchima polmonare. Ciononostante, non forniscono informazioni riguardanti il grado di funzionalità del sistema respiratorio. È per questo motivo che alcuni autori non ritengono necessarie tali indagini se non nel caso di chirurgia toracica, di diagnosi di BPCO non chiara o di un’eventuale peggioramento recente della sintomatologia (Licker et al., 2007); 2. test funzionali polmonari: consistono essenzialmente nell’esame spirometrico dopo terapia broncodilatatrice. Come già ricordato sopra, il risultato di tale indagine è essenziale per una corretta stadiazione di gravità della patologia respiratoria. L’esame spirometrico ha inoltre il vantaggio di essere facilmente eseguibile e di pronta risposta. Tra i parametri misurati, il volume di capacità vitale forzata (FVC, forced vital capacity), definito come il volume massimo di aria espirata a partire dal volume di capacità polmonare totale, e il volume espiratorio forzato in un secondo (FEV1, forced expiratory
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volume), definito come il volume espirato nel primo secondo di una manovra di FVC, rappresentano le più importanti informazioni ottenute dalla spirometria. Più nel dettaglio, come già ricordato precedentemente, è il rapporto tra FEV1 e FVC a rappresentare il paramentro diagnostico maggiormente utile nella valutazione di pazienti affetti da BPCO. Da ultimo, in casi particolari come la chirurgia resettiva toracica, oltre alla misurazione diretta dei valori di FEV1 e FVC è estremamente importante stimare i valori analoghi postoperatori (in particolare il valore di FEV1), allo scopo di ottenere una stima più o meno reale dei valori attesi di riserva respiratoria postoperatoria (Okeson, 1983); 3. ECG ed ecocardiografia: nella valutazione della funzionalità del sistema cardiovascolare, l’esecuzione di ECG e l’ecocardiografia possono essere considerati esami routinari per una stratificazione del rischio perioperatorio in presenza di BPCO, tenendo anche conto della procedura chirurgica prevista. Dal punto di vista elettrocardiografico, segni da notare sono: a) basso voltaggio e scarsa progressione dell’onda R (come segno di iperinflazione); b) deviazione a destra dell’asse cardiaco; c) onda P polmonare (onda P elevata uguale o maggiore di 2,5 mm in D2 o D3, o in una derivazione periferica precardiaca); d) segni di ipertrofia cardiaca destra; e) blocco di branca destra; 4) emogasanalisi: una chiara evidenza che indichi come necessaria una valutazione emogasanalitica arteriosa preoperatoria in questa tipologia di pazienti di per sé non è presente in letteratura. Ciononostante, il “buon senso” nell’approccio fisiopatologico e clinico a questi pazienti rende questa procedura strumentale routinaria, sia per una più accurata valutazione del grado della BPCO di base, sia come guida per l’eventuale monitoraggio postoperatorio di una ripresa della funzionalità respiratoria nei limiti di norma per ciascun singolo paziente. La prima e più frequente alterazione rilevata all’esame emogasanalitico arterioso è l’ipossia, definita come valore assoluto di pressione parziale arteriosa di ossigeno (PaO2) inferiore a 80 mmHg. Sulla base del valore rilevato è possibile definire come ipossiemia lieve un valore di PaO2 compreso tra 60 e 80 mmHg, ipossiemia moderata un valore di PaO2 compreso tra 45 e 59 mmHg, e ipossiemia severa un valore di PaO2 inferiore a 45 mmHg. Quando la patologia respiratoria cronica procede ulteriormente, può essere rilevata anche un’ipercapnia (definita da un valore di pressione parziale di anidride carbonica superiore a 45 mmHg), che normalmente rappresenta un segno di scarsa riserva funzionale respiratoria; 5) esami ematochimici: oltre agli esami routinari, può essere importante in questa categoria di pazienti la valutazione dello stato nutrizionale tramite l’analisi dei livelli di albuminemia. È stato infatti ipotizzato che la presenza di ipoalbuminemia (<3,5 g/dl) possa indicare un aumento di rischio di insorgenza di complicanze respiratorie postoperatorie, come segno di uno scarso stato nutrizionale, e quindi di insufficienza muscolare (Qaseem et al., 2006).
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6.3.5 Valutazione dell’eventuale riacutizzazione Una particolare attenzione nella fase preoperatoria dev’essere data all’esclusione dell’eventuale presenza di una riacutizzazione della BPCO sottostante. Da una parte, infatti, tale evenienza richiede un trattamento immediato al fine di prevenire l’insorgenza di complicanze respiratorie e sistemiche. Dall’altra, l’individuazione di una riacutizzazione rende necessario, quando possibile, rimandare la procedura chirurgica di almeno 10 giorni, o fino alla risoluzione del quadro clinico (Licker et al., 2007). A tale scopo, ancora più della generale valutazione preoperatoria, è necessario integrare i differenti segni e sintomi rilevati sia dal colloquio con il paziente, che dal suo esame obiettivo e da ulteriori esami strumentali, tra i quali: 1. aumento o insorgenza di dispnea; 2. aumento della tosse e della produzione di secrezioni; 3. modificazioni del colore e della consistenza dell’escreato; 4. sintomi respiratori associati quali fischio inspiratorio e/o espiratorio; 5. modificazione dei reperti auscultatori, con aumento di ronchi e sibili inspiratori ed espiratori; 6. sintomatologia sistemica aspecifica associata, comprendente tachicardia, sensazione di malessere, astenia; 7. peggioramento dei risultati ottenuti con test funzionali spirometrici; 8. peggioramento della funzione di “scambiatore” del sistema respiratorio (con riduzione di PaO2 e/o aumento associato di PaCO2). In aggiunta, l’utilizzo di indagini strumentali quali radiografia del torace, ECG ed esame ecocardiografico, possono essere di aiuto nell’escludere differenti patologie che possono presentarsi con una sintomatologia similare, quali la polmonite, l’embolia polmonare e lo scompenso cardiaco congestizio su base ischemica o aritmica. Di fronte a una diagnosi di riacutizzazione, occorre instaurare rapidamente una strategia terapeutica immediata, comprendente tre aspetti principali (Celli et al., 2004; Rodriguez-Roisin, 2006): – terapia broncodilatatrice, con l’utilizzo di farmaci β2-agonisti inalatori ad azione breve, in associazione a farmaci ad azione anticolinergica qualora non si osservi un miglioramento della sintomatologia clinica; – terapia steroidea, per via orale o endovenosa, per circa 7-10 giorni; – terapia antibiotica, ogni qualvolta si sospetti un’infezione batterica alla base della riacutizzazione (frequentemente indicata dall’aumento dell’escreato e dal suo carattere purulento), più spesso da H. influenzae, S. pneumoniae e M. catarrhalis.
6.4 Periodo intraoperatorio Una volta affrontata in maniera corretta la valutazione complessiva preoperatoria
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del paziente, occorre impostare un adeguato monitoraggio intraoperatorio. Il monitoraggio di base routinariamente applicato durante gli interventi di chirurgia maggiore non verrà trattato in questa sede. Ciononostante, può essere utile ricordare che ECG, pulsossimetria, monitoraggio della pressione arteriosa (invasivo o non invasivo) e capnometria in continuo rappresentano quattro strumentazioni irrinunciabili che, insieme, sono in grado di individuare la maggior parte di complicanze acute cardiovascolari e/o respiratorie anche in pazienti ad alto rischio come i pazienti affetti da BPCO. Più che l’aggiunta di particolari strumentazioni di monitoraggio (a volte peraltro necessarie), quello che appare cruciale è la capacità di mettere insieme una serie di informazioni derivate dal monitoraggio di differenti apparati e/o funzioni per poter ipotizzare la complicanza acuta inattesa e il processo fisiopatologico sottostante, così da poter instaurare il più precocemente possibile il trattamento adeguato.
6.4.1 Funzionalità respiratoria Il monitoraggio del sistema respiratorio è sicuramente cruciale nel periodo intraoperatorio, essendo l’apparato principalmente affetto dalla patologia di base. Tale considerazione vale sia per l’inizio della procedura, al momento dell’induzione, che durante l’intera procedura di chirurgia maggiore. I parametri cardini del monitoraggio respiratorio intraoperatorio comprendono: – parametri di meccanica respiratoria: pressioni di fine inspirazione, pressione positiva di fine espirazione intrinseca (PEEPi, intrinsic positive end-expiratory pressure), volume corrente inflato; – end-tidal CO2 (EtCO2): valori assoluti e capnografia; – parametri emogasanalitici: PaO2, PaCO2 e pH arterioso. Gli eventi patologici più frequenti che possono insorgere e che necessitano di un’attenta valutazione di diversi aspetti del monitoraggio per una loro individuazione sono: 1. iperinflazione dinamica: dovuta a un episodio acuto di broncospasmo o a una iperreattività generale delle piccole vie aeree, o ancora al semplice utilizzo di ventilazione meccanica a pressione positiva in un sistema respiratorio caratterizzato da zone a elevata distensibilità e resistenza delle vie aeree, e quindi caratterizzato da tempi di “rilasciamento” relativamente lunghi. Si può rendere evidente con un aumento delle pressioni di picco di fine inspirazione, lo sviluppo di PEEPi, eventuale compromissione emodinamica associata (con ipotensione), aumento dei valori di EtCO2 e non raggiungimento dei valori di plateau alla capnografia, sviluppo di ipercapnia o peggioramento dei valori di ipercapnia basali (non più compensati). Visti gli effetti importanti che tale evenienza può avere oltre che sul sistema respiratorio anche sulla funzionalità del sistema cardiovascolare (con riduzione
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del precarico e aumento del postcarico), è importante impostare la ventilazione nel modo più adeguato possibile (aumento del tempo espiratorio, riduzione della frequenza respiratoria, impostazione di un livello di PEEP simile al livello di PEEPi se in ventilazione assistita, riduzione del volume corrente – se possibile), onde evitare un’eccessiva compromissione emodinamica (Eldrich et al., 2010); 2. ipossiemia: reperto relativamente frequente, può essere associato o allo sviluppo intraoperatorio di atelettasie (per la perdita del tono muscolare diaframmatico dovuto all’anestesia generale, o semplicemente per la presenza di abbondanti secrezioni occludenti le piccole vie aeree) o a maldistribuzione del rapporto ventilazione/perfusione. Nel primo caso, il rilevamento di ipossiemia è generalmente più acuto e in associazione a un’alterazione dei parametri di meccanica respiratoria (aumento delle pressioni di picco di fine inspirazione, riduzione del volume corrente in ventilazione a controllo di pressione); nel secondo caso l’insorgenza è meno acuta, e può essere associata a una più o meno evidente compromissione emodinamica per altre cause (riduzione della gettata cardiaca, ipotensione, ipovolemia relativa). In entrambi i casi l’ipossiemia può essere associata a un aumento dei valori di PaCO2; 3. barotrauma: dovuto alla rottura di una bolla o di una cisti parenchimale polmonare, si può manifestare con ipossiemia (o un peggioramento relativo dei valori di PaO2), aumento delle pressioni di picco di fine inspirazione, compromissione emodinamica con ipotensione e shock cardiogeno (soprattutto nei casi di pneumotorace iperteso), asimmetria dei movimenti respiratori del torace, differente trasmissione del murmure vescicolare tra i diversi campi polmonari all’auscultazione.
6.4.2 Sistema cardiovascolare Come nei casi di monitoraggio di pazienti sani sottoposti a interventi di chirurgia maggiore, anche in pazienti affetti da BPCO il monitoraggio del sistema cardiovascolare è ottenuto raccogliendo e combinando differenti informazioni: ECG, pressione arteriosa sistemica, frequenza cardiaca, pressione venosa centrale, diuresi, segni obiettivi e strumentali di ipoperfusione periferica. Due possono essere considerate le principali problematiche che possono insorgere intraoperatoriamente in pazienti affetti da BPCO: 1. eventi ischemici cardiaci: è già stato ricordato più volte come l’incidenza di eventi ischemici cardiovascolari sia, in questa categoria di pazienti, pari all’incidenza di complicanze respiratorie. Non essendo possibile basarsi sulla sintomatologia del paziente durante procedure in anestesia generale, unici segni di tale evento sono le alterazioni all’ECG (inversione onde T, sopra- e/o sottoslivellamenti del tratto ST), più o meno in associazione ad anomalie di frequenza cardiaca e ipotensione;
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2. problematiche di ipo-/ipervolemia: il monitoraggio dell’adeguatezza intraoperatoria della volemia appare critico in questi pazienti. Da una parte infatti è cruciale evitare una condizione di ipervolemia, che può peggiorare la funzionalità respiratoria (con accumulo di liquido a livello interstiziale polmonare) e può aggravare la funzionalità cardiaca (con insorgenza di scompenso cardiaco); dall’altra è altrettanto importante evitare una condizione di ipovolemia eccessiva con ipoperfusione periferica, che può aggiungere problematiche metaboliche all’equilibrio già precario di questi pazienti. Parametri utili per tale monitoraggio sono: parametri emodinamici tradizionali (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, pressione venosa centrale – se le condizioni cliniche ne consentono un’affidabilità della misura), segni di ipoperfusione periferica (marezzatura degli arti e ipotermia cutanea all’esame obiettivo, acidosi metabolica, valori di saturazione venosa mista di ossigeno inferiore al 70%, oligoanuria), parametri emodinamici ottenuti con test “provocativi” (test da carico, analisi della variazione del contorno dell’onda durante misurazione invasiva della pressione arteriosa, analisi delle oscillazioni dell’onda arteriosa invasiva – delta up/delta down) (Antonelli et al., 2007).
6.4.3 Equilibrio acido-base La valutazione dell’equilibrio acido-base durante interventi di chirurgia maggiore ha un ruolo primario nel monitoraggio intraoperatorio, in particolar modo per la tipologia e per la durata dell’intervento chirurgico, così come per le possibili complicanze che anche intraoperatoriamente possono insorgere. In tutti i pazienti, inclusi quelli affetti da BPCO, la valutazione dell’equilibrio acido-base si avvale dell’analisi e integrazione di informazioni ottenute dall’emogasanalisi di un campione di sangue arterioso (e, quando è possibile, in associazione a un campione di sangue venoso misto): pH, base excess (BE), concentrazione plasmatica di bicarbonato (HCO3–), PaCO2, PaO2. Oltre alle più comuni anomalie rilevabili in tutti i pazienti, in quelli con BPCO occorre porre una particolare attenzione alle seguenti possibili condizioni cliniche: 1. acidosi metabolica: spesso associata a ipoperfusione periferica e a ipovolemia, può essere non diagnosticata ed erroneamente interpretata come acidosi respiratoria ipercapnica, potendo non essere associata a un valore negativo di BE. L’attento monitoraggio nel tempo dell’andamento dei valori di BE, PaCO2 e pH dall’inizio dell’intervento chirurgico è indispensabile per evitare tale errore e per intraprendere una corretta azione terapeutica; 2. alcalosi metabolica con normocapnia: spesso si verifica in pazienti che presentano una BPCO di grado severo, associata a ipercapnia, in cui intraoperatoriamente l’ipercapnia viene erroneamente corretta a normocapnia. Anche in questo caso, l’attenta valutazione delle condizioni di partenza dell’equilibrio acidobase (PaCO2 e pH) è determinante nell’impostare l’adeguata ventilazione alveolare ed evitare tale complicanza.
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6.5 Periodo postoperatorio Dopo lo svolgimento della procedura chirurgica, anche il periodo postoperatorio rappresenta una fase critica dell’approccio perioperatorio a pazienti affetti da BPCO. Tale categoria di pazienti, infatti, necessita in questa fase di uno stretto monitoraggio per individuare l’insorgenza di eventuali complicanze che possono ritardare o impedire il ritorno alle condizioni funzionali di partenza. Anche in questa fase la sola applicazione di ECG, pulsossimetria, monitoraggio della pressione arteriosa e capnometria (durante ventilazione meccanica o in respiro spontaneo) permette di individuare l’insorgenza di gran parte delle complicanze più frequenti, sia respiratorie che cardiovascolari. Tale strumentazione, pertanto, deve sempre essere utilizzata fin dalle prime ore del monitoraggio postoperatorio (sia che si svolga in sala di risveglio, sia che si svolga in Terapia Intensiva postoperatoria). Un ulteriore aspetto fondamentale di questo periodo è inoltre la corretta valutazione (più frequentemente avvenuta preoperatoriamente) della necessità di un monitoraggio stretto in Terapia Intensiva. Il sempre più frequente diffondersi delle Terapie Intensive postoperatorie anche nel nostro Paese garantisce, difatti, la possibilità di avere, nei casi più gravi di patologia di base o di condizioni cliniche generali, un ambiente adeguato a un monitoraggio stretto e completo, fino al ritorno alla condizione di partenza.
6.5.1 Necessità di monitoraggio in Terapia Intensiva postoperatoria Le fasi cruciali dell’utilizzo postoperatorio della Terapia Intensiva sono rappresentate dai criteri con i quali si pianifica l’eventuale ricovero e dai criteri con i quali si decide la dimissione del paziente al reparto di provenienza: 1. criteri di ammissione: non esiste di per sé ancora chiarezza sui criteri di ammissibilità e di appropriatezza di ricovero postoperatorio in Terapia Intensiva. Due sono comunque i criteri generali per decidere un’eventuale ricovero: la gravità della patologia di base (ammissione programmata) e l’eventuale insorgenza intraoperatoria di complicanze (ammissione non programmata). Applicando tali criteri a pazienti affetti da BPCO, il ricovero in Terapia Intensiva può essere ragionevolmente applicato quando le condizioni di partenza della BPCO o lo stato generale del paziente sono gravi (BPCO di stadio 3-4 che generalmente coincide con un punteggio ASA pari a 3-4), o quando, nei casi di BPCO meno severa, la procedura chirurgica o la semplice attuazione dell’anestesia hanno determinato un aggravamento della funzionalità respiratoria e cardiovascolare tale da necessitare un trattamento e/o monitoraggio intensivo;
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Tabella 6.2 Punteggio di Aldrete modificato Funzionalità
Corrispettivo clinico
Punteggio
Capacità di muoversi volontariamente o a comando
4 estremità 2 estremità 0 estremità
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Respirazione
In grado di compiere respiri profondi e di tossire Difficoltà alla respirazione profonda o a tossire Apnea
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Circolazione
PA ± 20 mmHg rispetto ai valori preoperatori PA ± 20-50 mmHg rispetto ai valori preoperatori PA ± 50 mmHg rispetto ai valori preoperatori
2 1 0
Coscienza
Completamente sveglio Confuso Non risponde
2 1 0
Saturazione arteriosa di O2
>92% in aria ambiente >90% con ossigenoterapia <90% in ossigenoterapia
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2. dimissibilità: in generale si può ipotizzare che una dimissione sia giustificata nel momento in cui è stato raggiunto l’equilibrio delle funzioni vitali presente nel periodo precedente alla procedura chirurgica. Non sempre, però, in pazienti affetti da BPCO questo significa l’aver raggiunto gli stessi “valori numerici” di funzionalità degli scambi gassosi, in particolar modo in termini di ossigenazione. Spesso, difatti, la ripercussione di un intervento di chirurgia maggiore su una funzionalità respiratoria già compromessa richiede un periodo maggiore delle normali 24-48 ore di monitoraggio in una Terapia Intensiva postoperatoria. Di conseguenza, per poter decidere in merito alla dimissibilità, è molto più importante valutare nell’insieme il paziente, prendendo in considerazione tutti i suoi aspetti funzionali (coscienza, capacità di espettorazione, scambi gassosi, forza muscolare, tollerabilità di un programma di fisioterapia respiratoria, stato emodinamico generale, funzionalità metabolica e degli altri organi, stato nutrizionale), anziché un singolo parametro. Un utile strumento a tale scopo può essere l’utilizzo del punteggio di Aldrete modificato (Aldrete, 2006), considerando un valore maggiore di 8 come accettabile per la dimissione (Tab. 6.2).
6.5.2 Funzionalità respiratoria I parametri fondanti il monitoraggio della funzionalità respiratoria nel periodo postoperatorio non sono diversi da quanto già applicato nel periodo intraoperatorio e nella valutazione preoperatoria. Diverse, al contrario, possono essere le condizioni cliniche da affrontare.
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6.5.2.1 Risveglio ed estubazione Sicuramente questa rappresenta la prima delicata fase dell’immediato periodo postoperatorio. Dovendo affrontare la procedura chirurgica con una funzionalità respiratoria già deficitaria, è estremamente importante arrivare al momento dello svezzamento respiratorio nelle migliori condizioni possibili onde evitare l’evenienza di reintubazione e di complicanze postoperatorie respiratorie. È pertanto importante valutare il ritorno alla normalità o l’assenza di “anomalie” per le seguenti funzioni: – coscienza; – controllo del dolore; – forza muscolare (capacità di mantenere la testa sollevata per almeno 5 secondi, capacità di aprire gli occhi alla richiesta, prove di funzionalità respiratoria accettabili) (Pino, 2006); – scambi gassosi.
6.5.2.2 Ipossiemia postoperatoria È certamente un evento frequente in pazienti affetti da BPCO, e spesso associato a differenti cause. Gli aspetti che devono essere valutati e le relative cause associate possono essere: – stato del parenchima polmonare con radiografia del torace per escludere l’insorgenza postoperatoria di atelettasie; – indici infiammatori e segni di infezione in atto, per escludere l’eventuale insorgenza di un episodio infettivo anche a carico delle alte viee aree (tracheobronchite); – valutazione del piano analgesico, per escludere una ridotta ventilazione dovuta a un controllo del dolore non adeguato; – adeguatezza della volemia, per escludere l’eventuale presenza di sovraccarico del circolo polmonare. Più in generale, è di comune riscontro una diretta associazione tra l’insorgenza di ipossiemia postoperatoria e il verificarsi già nel periodo intraoperatorio di complicanze respiratorie. A tale proposito abbiamo recentemente osservato in una coorte di pazienti ricoverati nella Terapia Intensiva postoperatoria del nostro ospedale dopo interventi di chirurgia toracica (110 pazienti), che i soggetti che hanno sviluppato ipossiemia postoperatoria e che di conseguenza sono stati ricoverati per più di 24 ore hanno presentato un’incidenza di complicanze respiratorie intraoperatorie significativamente maggiore (25% versus 8%, p=0,025) rispetto a pazienti che non hanno sviluppato ipossiemia e che sono stati normalmente dimessi in prima giornata postoperatoria (Fig. 6.1).
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Fig. 6.1 Andamento nel tempo dell’ossigenazione arteriosa sistemica rilevata come rapporto tra pressione parziale arteriosa e frazione inspiratoria di ossigeno in pazienti sottoposti a interventi di chirurgia toracica dal momento dell’ingresso in Terapia Intensiva fino alla mattina del giorno successivo. La popolazione è stata suddivisa in pazienti che hanno presentato un ricovero inferiore a 24 ore e in pazienti che hanno presentato un ricovero superiore alle 24 ore. Come si può osservare, il gruppo di pazienti ricoverati per più di 24 ore ha presentato valori di PaO2/FiO2 inferiori fin dal momento dell’ingresso in Terapia Intensiva nell’immediato periodo postoperatorio
6.5.2.3 Ipercapnia L’ipercapnia è da considerarsi patologica quando non risulta “compensata” (quindi in associazione ad acidosi respiratoria) e superiore ai valori di PaCO2 di partenza. Fattori da considerare e da valutare attentamente di fronte all’insorgenza di tale complicanza possono essere: – parenchima polmonare, per escludere eventuale insorgenza di atelettasie o di processi infettivi in atto; – piano analgesico e dosaggio di farmaci oppioidi, che possono deprimere la ventilazione polmonare; – eventuale insorgenza di alcalosi metabolica (per esempio legata a terapia cronica con diuretizzanti o a ipoalbuminemia) associata a ipercapnia compensatoria.
6.5.3 Controllo del dolore La valutazione del dolore e dell’adeguatezza del piano analgesico instaurato è sicuramente un altro aspetto cruciale per l’intero esito del periodo postoperatorio. Il dolore postoperatorio derivante da interventi di chirurgia addominale e toracica
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può, difatti, enormemente limitare il respiro spontaneo dopo lo svezzamento respiratorio, e pertanto può aggravare ulteriormente una funzionalità del sistema respiratorio già precaria. Da questo punto di vista si comprende bene quanto sia fondamentale, prima ancora del monitoraggio postoperatorio, la pianificazione preoperatoria di una strategia analgesica congrua alle esigenze dettate dalla chirurgia e dal tipo di paziente. A tale proposito è importante fare due considerazioni. Innazitutto è oramai chiaro che la via di somministrazione (epidurale rispetto alla somministrazione endovenosa) è un fattore fondamentale per l’efficacia del piano analgesico. Se da un parte difatti è vero che l’analgesia toracica epidurale non è priva di rischi (insorgenza di paraplegia per ematoma spinale e arresto cardiocircolatorio per sovradosaggio), è stato stimato che in soggetti ad alto rischio con BPCO di stadio 3-4 sottoposti a interventi di chirurgia maggiore per ogni paziente con ematoma spinale (evenienza questa peraltro molto rara) (Horlocker et al., 2003) l’analgesia epidurale toracica può prevenire da 40 a 100 decessi (Licker et al., 2007). In secondo luogo, è altrettanto evidente quanto sia importante utilizzare una strategia analgesica combinata con differenti classi di farmaci (oppioidi, paracetamolo, antinfiammatori non steroidei) per migliorare l’efficacia del controllo e ridurre gli effetti collaterali, limitandone il dosaggio a quello minimo efficace (Elia et al., 2005; Marret et al., 2005). Diversi sono gli strumenti per valutare l’efficacia del piano analgesico. Tra i più utilizzati, la scala analogico-visiva (VAS, Visual Analogical Scale) e la scala di valutazione verbale del dolore (VRS, Verbal Rating Scale) possono essere facilmente applicate. Da questo punto di vista, è però importante che tale valutazione venga ripetuta nel tempo diverse volte e anche in diverse condizioni (per esempio, a riposo e durante sforzo fisico) (Savoia et al., 2010).
6.5.4 Sistema cardiovascolare La valutazione postoperatoria della funzionalità del sistema cardiovascolare è del tutto simile, per quanto riguarda i parametri da utilizzare e gli eventi da monitorare, alla valutazione intraoperatoria. Pertanto le condizioni da valutare attentamente sono l’eventuale insorgenza di eventi acuti ischemici cardiaci e l’eventuale inadeguatezza della volemia (sia come ipovolemia che come stato ipervolemico). Per quest’ultimo aspetto aggiungiamo solamente che, oltre ai paramentri classici in grado di stimare l’adeguatezza della volemia, è stato recentemente ipotizzato dal nostro gruppo di ricerca l’utilizzo di un monitoraggio in continuo della concentrazione urinaria dei principali elettroliti (sodio, potassio, cloro, ammonio) e del pH urinario come metodica standard per una valutazione dell’adeguatezza del volume circolante effettivo, che di fatto rappresenta il paramentro emodinamico più importante (Caironi et al., 2010). Dai primi risultati ottenuti (dati non ancora pubblicati), tale metodica è apparsa essere affidabile e molto sensibile nel discriminare la presenza di un volume circolante effettivo ridotto rispetto a un volume circolante effettivo normale o aumentato.
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Il paziente asmatico
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Riassunto La prevalenza della patologia asmatica è aumentata negli ultimi dieci anni e l’anestesista è perciò obbligato a una conoscenza approfondita di tale patologia. La corretta gestione anestesiologica di un paziente affetto da patologia ostruttiva delle vie aeree deve tener conto dei concetti di fisiopatologia e di valutazione della riserva funzionale respiratoria al fine di attuare strategie di riduzione del rischio perioperatorio. La valutazione preoperatoria e la gestione anestesiologica, in urgenza e particolarmente in elezione, sono momenti in cui l’anestesista può svolgere un ruolo determinante nella riduzione di complicanze respiratorie immediate e tardive. È necessario infatti ricordare sempre che si tratta di una condizione a evoluzione potenzialmente fatale.
7.1 Introduzione L’asma è una malattia caratterizzata da un’infiammazione cronica delle vie aeree, un’ostruzione al flusso espiratorio reversibile in risposta a vari stimoli e da iperreattività bronchiale. Lo stato asmatico è una condizione di urgenza/emergenza medica caratterizzata da insufficienza respiratoria progressiva dovuta ad asma refrattario alle terapie convenzionali (Albert, 2006). La prevalenza dell’asma bronchiale sta aumentando e la mortalità che ad essa consegue è cresciuta negli ultimi decenni. Tutte le categorie di medici potrebbero trovarsi a dover affrontare un paziente asmatico con distress respiratorio severo e dovranno essere in grado di iniziare prontamente un trattamento aggressivo. Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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Approfondiremo in questo capitolo l’epidemiologia, la fisiopatologia e il trattamento, affrontando la valutazione preoperatoria, la gestione delle vie aeree e della ventilazione del paziente asmatico candidato ad anestesia generale.
7.2 Epidemiologia L’asma è la più comune malattia respiratoria cronica nel mondo e la sua prevalenza è in continua crescita negli ultimi decenni. Alcune stime indicano che nel mondo ne sono affette circa 300 milioni di persone (Fanta, 2009). Il 4-5% dei pazienti asmatici ha una forma di asma grave. L’attacco asmatico acuto è una comune emergenza medica: circa il 20-30% dei pazienti asmatici che si presentano in pronto soccorso richiederà ospedalizzazione; di questi circa il 10% necessiterà di cure intensive (Fanta, 2009; Krishnan et al., 2006).
7.3 Patogenesi Alla base della patologia asmatica vi è la limitazione reversibile al flusso respiratorio dovuta al restringimento delle vie aeree causato da iperreattività bronchiale, edema delle vie aeree e aumentata produzione di muco dovuti allo stato infiammatorio (Cerveri et al., 2009). L’infiammazione cronica delle vie aeree sembra essere il principale fattore implicato nella patogenesi dell’asma; infatti, l’entità dell’infiltrato linfocitario ed eosinofilo che si osserva nelle biopsie di tessuto tracheale e bronchiale di pazienti asmatici adulti è correlato alla severità del quadro clinico. Cellule epiteliali, mastociti e linfociti T sono quindi attivati e producono citochine pro-infiammatorie, che contribuiscono alla distruzione delle cellule epiteliali rendendo le vie aeree del paziente asmatico maggiormente irritabili (Chung, 1999). A tutti il livelli dell’albero tracheobronchiale, infatti, le cellule epiteliali, soprattutto quelle ciliate, vengono distrutte, e le terminazioni nervose risultano dunque esposte. È stata evidenziata una significativa correlazione tra il grado di “denudazione” delle cellule epiteliali e la reattività delle vie aeree. Le vie aeree iperirritabili e cronicamente infiammate sono suscettibili all’ostruzione acuta scatenata da fattori come l’esposizione ad allergeni, infezione delle vie aeree, irritanti ambientali, esercizio fisico, stress emotivo, reflusso gastroesofageo e farmaci (tra cui FANS) o droghe. Tale fenomeno non è omogeneo in tutte le aree polmonari, così alcuni distretti sono aperti e normalmente ventilati, altri sono ipoventilati e gravemente ostruiti (Quiroz-Martinez et al., 2009). L’infiammazione causa inoltre ipertrofia e stimolazione delle ghiandole mucose e delle cellule “goblet” che portano a ipersecrezione e, in casi estremi, alla formazione di tappi di muco (Latinen et al., 1985).
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7.4 Meccanica/fisiopatologia respiratoria Durante un attacco asmatico l’inspirazione non è inizialmente compromessa, mentre risulta limitato lo svuotamento del polmone; l’espirazione diventa un processo attivo con incremento del lavoro respiratorio. Se l’ostruzione al flusso è molto grave, l’espirazione è interrotta dal successivo sforzo inspiratorio, prima che il volume polmonare di fine espirazione abbia raggiunto la capacità funzionale residua (Stewer et al., 1996). Tale meccanismo genera intrappolamento di aria. In acuto, l’iperinflazione è principalmente correlata all’aumentata resistenza espiratoria delle vie aeree, all’aumentata domanda ventilatoria, al breve tempo espiratorio e alla persistente attività della muscolatura respiratoria. L’inspirazione inizia a un volume nel quale il sistema respiratorio presenta una pressione positiva di ritorno elastico. Questa pressione è chiamata pressione positiva di fine espirazione intrinseca. Il fenomeno qui descritto, definito iperinflazione dinamica, è direttamente proporzionale alla ventilazione minuto e al grado di ostruzione delle vie aeree. L’iperinflazione dinamica ha un effetto sfavorevole sulla meccanica polmonare. Primo, l’iperinflazione dinamica impone al paziente di ventilare in un tratto della curva pressione-volume più svantaggioso, con conseguente aumento del lavoro respiratorio. Secondo, l’aumentata tensione delle fibre muscolari diaframmatiche (striate) è responsabile della generazione di una minore forza muscolare. Terzo, la ciclica distensione delle aree “normalmente ventilate” causa un incremento dello spazio morto a causa della compressione dei capillari alveolari, con la necessità di una aumento della ventilazione minuto per garantire un adeguato scambio gassoso (Papiris et al., 2002). La relazione tra la capacità di chiusura (CC) delle vie aeree (il volume a cui le piccole vie aeree declivi iniziano a chiudersi) e la capacità funzionale residua (FRC) determina se una data unità respiratoria è normale, atelettasica oppure se ha un alterato rapporto ventilazione perfusione (VA/Q). Quando il volume polmonare al quale alcune vie aeree si chiudono è maggiore del volume corrente (VT, tidal volume), esso non aumenta abbastanza durante la respirazione da permettere l’apertura delle vie stesse, che rimangono quindi sempre chiuse, come nell’atelettasia. Se la CC di alcune vie aeree è entro il volume corrente, con l’aumentare del volume polmonare in inspirazione esse si apriranno momentaneamente, per poi richiudersi in espirazione mentre il volume polmonare diminuisce. Siccome queste vie aeree restano aperte per un periodo più breve delle vie aeree normali, hanno minor tempo per partecipare agli scambi gassosi alveolari, circostanza equivalente a un ridotto VA/Q. Se infine la CC è inferiore al volume corrente in tutta la respirazione, nessuna via aerea sarà chiusa durante il ciclo respiratorio ed è questa la situazione di normalità. Tutto ciò che fa diminuire la FRC rispetto alla CC o aumentare la CC rispetto alla FRC, trasformerà unità respiratorie normali in aree con ridotto VA/Q, causando ipossiemia (Miller et al., 2005). L’iperinflazione alveolare a sua volta causa limitazione del flusso ematico (“capillari compressi”) e quindi aumento dello spazio morto che favorisce lo sviluppo di ipercapnia. Il grado di ostruzione è determinato dalle prove di funzionalità respiratoria e in
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particolare dalle curve flusso-volume. Il paziente deve inspirare profondamente fino alla TLC (total lung capacity) e successivamente fare una manovra di FVC (capacità vitale forzata). Questa poi deve essere immediatamente seguita da una manovra di massima inspirazione fino a tornare alla TLC più velocemente possibile. In pazienti con quadro ostruttivo vi è una riduzione dei volumi espiratori forzati come il FEV1 (il volume espiratorio forzato in un secondo) e il picco espiratorio di flusso espiratorio massimale al 75%-50%-25% della capacità vitale che sono significativamente ridotti, mentre la TLC è aumentata per un aumento del volume residuo che può essere anche del 400% (Barash et al., 2006). Tali misure sono un buon metodo per valutare e seguire i pazienti. Tuttavia, poiché l’asma è una malattia episodica, i test di funzionalità respiratoria possono anche essere normali negli intervalli di malattia e la diagnosi deve essere sospettata sulla base dell’anamnesi (Stoelting e Dierdorf, 2002). L’iperinflazione dinamica nell’asma severo porta a conseguenze cardiopolmonari significative. Innanzitutto gli elevati volumi polmonari stirano i vasi polmonari aumentando le resistenze vascolari polmonari e quindi il postcarico ventricolare destro, compromettendo la funzione ventricolare destra. Inoltre, durante l’inspirazione, la pressione intrapleurica così negativa porta a un aumento del ritorno venoso destro che, insieme all’aumentato postcarico destro, determina uno spostamento del setto interventricolare verso sinistra che può condurre a disfunzione diastolica del ventricolo di sinistra e incompleto riempimento. Inoltre l’aumentato postcarico sinistro, determinato dalle pressioni intratoraciche molto negative generate in ispirazione, ne ostacola lo svuotamento, determinando una riduzione dello stroke volume del ventricolo di sinistra e della pressione sistolica. Una variazione della pressione arteriosa sistolica >10-12 mmHg fra inspirazione ed espirazione è chiamata polso paradosso ed è uno dei criteri di gravità della crisi asmatica (Rebuck e Pengelly, 1973).
7.5 Valutazione preoperatoria La valutazione preoperatoria ha come obiettivi la stratificazione del rischio anestesiologico e l’eventuale prevenzione di complicanze intra- o postoperatorie. A tal fine deve basarsi su un criterio clinico-anamnestico, diagnostico-strumentale e sulla tipologia di intervento. L’anamnesi e l’esame obiettivo sono spesso sufficienti nella valutazione del rischio. L’anamnesi ha un ruolo centrale, con l’obiettivo di inquadrare la gravità e le caratteristiche del paziente asmatico. È necessario indagare l’età di insorgenza, gli agenti stimolanti e la storia allergologica, eventuali pregressi ricoveri ospedalieri correlati alla patologia asmatica e, nel caso, la frequenza di accessi al Pronto Soccorso e la necessità di ventilazione meccanica, la presenza di tosse ed eventuali caratteristiche dell’escreato, la terapia farmacologica in atto e l’efficacia della stessa, pregresse anestesie generali, il fumo e il reflusso gastroesofageo. L’esame obiettivo è di fondamentale importanza nell’iniziare percorsi diagnosti-
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co-terapeutici in pazienti mai valutati prima e candidati a interventi chirurgici in anestesia generale e nell’identificare pazienti meritevoli di ulteriori indagini. Occorre, infatti, ricordare che una preesistente disfunzione polmonare è il principale fattore associato a complicanze respiratorie postoperatorie quali atelettasie, insufficienza respiratoria e necessità di ventilazione meccanica prolungata, polmonite e peggioramento della patologia respiratoria di base. Il grado di ostruzione al flusso viene determinato per mezzo delle misure spirometriche, anche se spesso in molti pazienti, come già detto, le prove spirometriche possono essere normali tra gli attacchi. Le linee guida NAEPP del 2007 (National Asthma Educational and Prevention Program, 2007) raccomandano l’utilizzo della spirometria per valutare nel tempo i pazienti asmatici. Le misure più comunemente utilizzate sono il picco di flusso espiratorio (PEFR, peak expiratory flow rate), il flusso espiratorio forzato in un secondo (FEV1, forced expiratory volume in 1 second) e le curve flusso-volume. Il PEFR dipende dallo sforzo eseguito dal paziente ed è molto utile nel monitorare le modificazioni nel tempo della funzione polmonare. È normale se maggiore dell’80% del predetto per quel paziente; ma in alcuni pazienti può non riflettere adeguatamente la limitazione al flusso, come per esempio in tutti i casi di debolezza muscolare. Il FEV1 è la misura utilizzata insieme ad altri indicatori per stratificare la gravità dell’asma. Le curve flusso-volume producono un’analisi grafica del flusso e di diversi volumi polmonari e permettono in base al pattern di flusso di differenziare l’asma bronchiale da un’ostruzione al flusso dovuta ad altre cause, per esempio a una disfunzione delle corde vocali o a una compressione estrinseca. Per avere una valutazione funzionale completa è necessario valutare il grado di reversibilità dell’ostruzione al flusso dopo somministrazione di beta-agonisti. Secondo i criteri attuali si considera significativa la risposta al broncodilatatore se vi è un aumento di FVC o FEV1 di almeno il 12% o di 200 ml, sebbene non vi sia un consenso unanime (Enright et al., 1994; Pennock et al., 1983). La stratificazione dell’asma in lieve, moderato e grave si basa sulla frequenza dei sintomi, i risvegli notturni, l’uso di broncodilatatori, FEV1, FEV1/FVC, il numero di riacutizzazioni con necessità di terapia steroidea sistemica. Ulteriori indagini sono l’emogasanalisi (EGA) arteriosa di base, l’elettrocardiogramma (ECG) che può mostrare segni di ipertrofia ventricolare destra, deviazione assiale destra e blocco di branca destra, la radiografia del torace che è un indicatore di patologie clinicamente gravi, in particolare se viene evidenziata iperinflazione polmonare. Quest’ultima risulta associata con una frequenza del 33% a significative complicanze polmonari postoperatorie (Kroenke et al., 1993). È opinione diffusa che una valutazione preoperatoria della funzionalità polmonare tramite i suddetti test fornisca al medico importanti informazioni circa la potenziale morbidità respiratoria postoperatoria. Sebbene non vi sia un accordo generale circa le categorie di pazienti che devono essere sottoposte a indagini, i principali candidati sono quelli per cui esista un ragionevole sospetto di anormale funzionalità polmonare. Per evitare esami spirometrici non necessari, l’American College of Chest Physicians ha proposto una
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serie ristretta di categorie di pazienti che devono presentare una o più delle seguenti condizioni: – resezione polmonare; – storia di fumo pregresso, dispnea; – chirurgia cardiaca; – chirurgia dell’addome superiore e inferiore; – sintomi polmonari non ben caratterizzati; Occorre sempre ricordare che l’obiettivo dei test preoperatori non è quello di rilevare patologie lievi e allo stato precoce, ma di prevedere la probabilità di complicanze respiratorie. Il medico deve quindi richiedere un test qualora i risultati possano condizionare il trattamento perioperatorio o determinare un eventuale rinvio o annullamento dell’atto chirurgico. Nel caso del paziente asmatico è possibile assumere misure profilattiche sia preoperatorie che intraoperatorie per ridurre la percentuale di complicanze respiratorie postoperatorie e ciò rende spesso utile anche un’approfondita valutazione diagnostico-strumentale (Miller et al., 2005).
7.5.1 Ottimizzazione della terapia preoperatoria e premedicazione La valutazione preoperatoria dei pazienti asmatici esamina la gravità della malattia, l’efficacia della terapia farmacologica assunta e dunque l’eventuale necessità di ottimizzare la terapia farmacologica prima della chirurgia. L’obiettivo di tale valutazione è quello di prepararsi per poter garantire un piano anestesiologico che possa prevenire o attenuare gli episodi di broncospasmo. Sono considerati fortemente a rischio i pazienti con i seguenti valori di funzionalità respiratoria: FEV1 <1 litro, FEV1/FVC <50% del predetto, PaCO2 >45 mmHg. In caso di pazienti con asma intermedio (PEF >80% e sintomi minimi) raramente è necessario un trattamento aggiuntivo prima della chirurgia. Se vi è evidenza di uno scarso controllo degli episodi asmatici, occorre considerare la possibilità di una valutazione pneumologica e di una settimana di terapia con prednisolone orale (2040 mg/die) (Allman et al., 2006). In caso di pazienti con asma moderato/severo si può considerare la possibilità di un ciclo di terapia steroidea per via inalatoria o sistemica per ridurre l’incidenza di attacchi asmatici. Gli inalatori β2-agonisti o steroidei dovrebbero essere continuati fino all’intervento. Tali pazienti potrebbero essere premedicati con atropina, che in quanto anticolinergico diminuisce la resistenza delle vie aeree e riduce le secrezioni in parte responsabili di iperreattività bronchiale. Tuttavia, alcuni considerano l’atropina relativamente controindicata perché provoca secrezioni secche, che d’altra parte potrebbero stimolare un attacco asmatico. Si possono inoltre utilizzare anche farmaci anti-H1 che inibiscono la broncocostrizione e provocano un effetto sedativo come l’idrossizina cloridrato (Bishop, 1991). Per minimizzare l’iperreattività delle vie respiratorie possono essere somministrati anticolinergici e β2-agonisti per aerosol appena prima dell’intervento, oppioidi e lidocaina per via endovenosa prima di intervenire sulle vie aeree.
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Si deve ricordare che le infezioni respiratorie sono gli stimoli più comuni responsabili di gravi riacutizzazioni asmatiche; persino nei soggetti sani la reattività delle vie aeree è aumentata in seguito a infezioni virali. L’aumento di reattività può rimanere per 2-8 settimane dopo un’infezione sia nei soggetti sani che negli asmatici. È stato dimostrato che il laringospasmo e il broncospasmo sono significativamente aumentati anche nei bambini a distanza di due settimane da un’infezione delle vie respiratorie. Negli asmatici, prima di un’anestesia generale, è perciò raccomandato aspettare 2-3 settimane dopo la risoluzione clinica di un’infezione respiratoria, anche se i sintomi non sono più presenti. In generale il paziente asmatico va operato in elezione solo se l’asma è assolutamente compensata ed è in controllo clinico da non meno di 30 giorni.
7.6 Gestione intraoperatoria 7.6.1 Intubazione L’intubazione tracheale del paziente in stato asmatico è una manovra molto delicata che dovrebbe essere fatta dal rianimatore più esperto e soprattutto non da soli se possibile, dunque da eseguirsi solo e soltanto laddove richiesto dall’insufficienza respiratoria causata dallo stato asmatico stesso (Roger’s, 2008). In caso il paziente abbia un attacco asmatico severo in camera operatoria prima dell’induzione occorre somministrare la terapia medica per l’attacco. La chirurgia elettiva può essere posticipata e il paziente rivalutato attentamente ed eventualmente preparato in modo più adeguato nel preoperatorio. In caso di chirurgia d’urgenza l’intervento potrà essere iniziato dopo il termine dell’attacco fronteggiato con terapia medica (Yao, 2008). Il metodo di scelta è l’intubazione in sequenza rapida, sebbene alcuni preferiscano l’intubazione da sveglio. L’intubazione orale è da preferire, poiché permette il posizionamento di un tubo endotracheale di adeguato diametro funzionale e, di conseguenza, di ridurre le resistenze delle vie aeree e di rimuovere tappi di muco se necessario. L’intubazione nasotracheale può essere tentata in pazienti svegli, con vie aeree difficili; tuttavia essa ha la limitazione di dover ricorrere a tubi di diametro minore (Corbrige e Hall, 2005). Gli obiettivi della gestione del paziente asmatico candidato a chirurgia d’elezione devono essere: bloccare i riflessi delle vie aeree prima della laringoscopia e dell’intubazione, garantire il miorilassamento delle vie aeree, prevenire il rilascio di mediatori biochimici. Prima dell’induzione è consigliabile somministrare 2-3 puff di albuterolo e somministrare ossigeno. È importante garantire un adeguato piano di sedazione prima di somministrare succinilcolina o altro miorilassante. Un metodo alternativo per attenuare i riflessi delle vie aeree è la somministrazione per via endovenosa di lidocaina 1-3 minuti prima dell’intubazione; anche l’utilizzo di lidocaina spray potrebbe ridurre il riflesso della tosse, ma se il piano di indu-
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zione non è adeguatamente profondo la stessa lidocaina potrebbe scatenare il riflesso della tosse. Un presidio sovraglottico come la maschera laringea (LMA) può sembrare preferibile nel paziente asmatico poiché permette un relativo controllo delle vie aeree senza dover introdurre un corpo estraneo in trachea. Tuttavia la maschera laringea è da considerarsi un presidio utile laddove non vi sia un rischio concreto di aspirazione o reflusso. In tutti gli altri casi si può eventualmente ricorrere alla LMA-ProSeal con la possibilità di drenaggio gastrico e ampia cuffia che riduce il rischio sia di rigurgito sia di aspirazione del contenuto gastrico (Barash et al., 2006; Malthy et al., 2002). Dopo la preossigenazione si può procedere con una rapid-sequence intubation per via orotracheale. Questa tecnica permette di ridurre il rischio di aspirazione del contenuto gastrico. Più del 50% delle complicanze che avvengono nel paziente asmatico che necessita intubazione si verifica durante o immediatamente dopo l’intubazione. Oltre al malposizionamento del tubo, le complicanze sono secondarie al fenomeno dell’airtrapping e comprendono ipotensione e arresto cardiaco, desaturazione e pneumotorace con enfisema sottocutaneo (Zimmerman et al., 1993; Tuxen e Lane, 1987). Il monitoraggio della CO2 espirata è obbligatorio e confermerà la corretta posizione del tubo endotracheale. L’ostruzione del tubo endotracheale da parte di secrezioni bronchiali molto dense può portare, talvolta, alla necessità di sostituzione del tubo o a dubbi sul suo corretto posizionamento endotracheale. L’ipotensione arteriosa non è rara dopo intubazione del paziente asmatico: è causata dall’iperinflazione con conseguente ridotto ritorno venoso al cuore, associata all’effetto cardiodepressivo e vasodilatante degli agenti ipnotici e paralitici. Essa risponde solitamente alla somministrazione di liquidi e alla riduzione della frequenza respiratoria, tanto che il contributo stesso dell’iperinflazione all’ipotensione può essere determinato osservando la risposta pressoria alla brusca riduzione della frequenza respiratoria o addirittura a un periodo di apnea. In alcuni pazienti con asma severo, una pressione manuale sulla gabbia toracica durante l’espirazione può essere necessaria per evitare un’iperinflazione massiva. Nel caso in cui l’ipotensione e/o l’ipossiemia non rispondano alla somministrazione di liquidi e all’alterazione del pattern ventilatorio, compreso un periodo di apnea, va considerata la possibilità di uno pneumotorace (Tuxen e Lane, 1987; Werner, 2001).
7.6.2 Induzione e mantenimento dell’anestesia Durante l’induzione e il mantenimento dell’anestesia è necessario garantire nei pazienti asmatici un piano profondo di anestesia che deprima l’iperreattività delle vie aeree ed eviti la broncocostrizione in risposta a stimoli meccanici che potrebbero provocare crisi di broncospasmo anche fatali. Il propofol dovrebbe essere il farmaco di scelta per pazienti con iperreattività delle vie aeree con stabilità emodinamica. Gli studi al riguardo hanno dimostrato che l’utilizzo di 2,5 mg/kg di propofol nel soggetto asmatico è responsabile di un’inci-
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denza minore di sibili dopo intubazione tracheale, rispetto all’induzione con 5 mg/kg di tiopentone. Il tiopentone di per sé non causa broncospasmo, ma può sopprimere in modo inadeguato i riflessi delle vie aeree che possono evocare il broncospasmo. Inoltre il propofol sembra avere anche un effetto di relativa broncodilatazione. L’etomidate non deprime la funzione cardiaca, quindi garantisce stabilità emodinamica nei pazienti critici. È stato dimostrato che né etomidate né tiopentone prevengono l’insorgenza di sibili postintubazione (Eames et al., 1996; Pizov et al., 1995). La ketamina produce broncodilatazione sia attraverso meccanismi neuronali sia attraverso il rilascio di catecolamine; sembra indicata soprattutto in caso di instabilità emodinamica. È un anestetico dissociativo con potente azione analgesica che agisce in maniera simpaticomimetica inibendo il reuptake neuronale della noradrenalina e sembra anche in grado di bloccare i recettori N-metil-D-aspartato legati all’aumento del tono muscolare delle vie aeree. Viste le sue proprietà anestetiche e broncodilatatrici, la ketamina viene utilizzata soprattutto nei bambini con asma severo in ventilazione meccanica. Dopo un bolo endovenoso di 2 mg/kg, si prosegue con un’infusione continua di 0,5-2 mg/kg/h. La ketamina è molto utile come agente induttore per l’intubazione in quanto riduce la risposta di broncocostrizione all’inserimento del tubo nelle vie aeree e mantiene una stabilità emodinamica in un momento così delicato. Sono effetti indesiderati della ketamina un aumento delle secrezioni bronchiali, per cui andrebbe somministrata insieme ad atropina, e la capacità di dare allucinazioni visive, soprattutto nei pazienti adulti (L’Hommedieu e Arens, 1987; Stoelting e Dierdorf, 2002). Gli agenti di scelta per il mantenimento dell’anestesia sono gli anestetici inalatori (sevofluorano, alotano, isofluorano, protossido), molti dei quali hanno proprietà broncodilatatrici e si sono dimostrati utili nello stato asmatico refrattario. L’effetto broncodilatatore degli alogenati è di breve durata e la loro interruzione è associata a una ripresa del broncospasmo. Perciò in caso di attacco asmatico acuto la terapia medica dev’essere massimizzata prima della sospensione di un gas (Maltais et al., 1994; Saulnier e Lefebvre, 1990). Alotano e sevofluorano sono preferiti rispetto a isofluorano e desfluorano avendo questi ultimi un odore pungente che può irritare e stimolare il broncospasmo; tuttavia, come è noto, l’alotano può avere effetto cardiodepressivo e può indurre aritmie, soprattutto in presenza di ipossia, acidosi e ipercapnia e quando utilizzato insieme a β2-agonisti o aminofilline. A basse dosi (MAC <1) gli anestetici inalatori inibiscono le contrazioni tracheali chimicamente indotte; l’efficacia è alotano>isofluorano>sevofluorano. Comunque osservazioni cliniche sull’uomo indicano che il sevofluorano a MAC 1,1 sembra essere l’agente più efficace, con inoltre un onset di broncodilatazione più rapido (Rock et al., 1997). Quando una sicura ed efficace ventilazione meccanica non può essere raggiunta dalla sola sedazione si dovrà ricorrere ai bloccanti neuromuscolari. Sono da preferirsi i curari a breve durata d’azione e basso rilascio di istamina (cisatracurio, vecuronio, rocuronio). Tra questi, il cisatracurio è praticamente privo di effetti cardiovascolari, non rilascia istamina e ha un metabolismo indipendente dalla funzione epa-
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tica e renale (Miller et al., 2005). Si ricordi che l’utilizzo degli inibitori delle colinesterasi per annullare l’effetto dei rilassanti muscolari dovrebbe essere evitato o ridotto: in teoria essi potrebbero precipitare un broncospasmo secondario alla stimolazione dei recettori colinergici postgangliari a livello delle vie aeree. Ciò non sempre si verifica dopo la somministrazione di anticolinesterasici, grazie agli effetti broncodilatatori garantiti dalla somministrazione contemporanea di anticolinergici.
7.6.3 Ventilazione meccanica Gli obiettivi principali della ventilazione meccanica sono garantire un’adeguata ossigenazione e minimizzare l’iperinflazione. Nei pazienti gravemente ostruiti l’iperinflazione dinamica può ulteriormente aumentare nell’immediato periodo postintubazione come conseguenza della ventilazione meccanica. La modalità di ventilazione meccanica più adeguata può dipendere dal paziente come anche dall’esperienza del medico rianimatore. Le due strategie adottabili – ventilazione a pressione controllata o a volume controllato – presentano tuttavia entrambe chiari vantaggi e svantaggi. In modalità a pressione controllata, il picco di pressione inspiratoria è limitato e i polmoni non saranno ventilati oltre il limite pressorio impostato. Questo ha il vantaggio di limitare sempre l’iperinflazione, anche quando si verifichi un improvviso aumento delle resistenze delle vie aeree; in tal caso si ridurrà il volume corrente. Il controllo a target pressorio garantirà la forma più sicura di ventilazione ma a spese di un adeguato volume corrente, di una ridotta clearance della CO2 e di un pH minore. La ventilazione a volume controllato garantirà un volume corrente adeguato, permettendo una migliore ventilazione ed eventuale somministrazione di aereosol a spese di un aumentato rischio di iperinflazione e di barotrauma. In tal caso la pressione di plateau che deriva dalla media delle pressioni delle unità alveolari aperte può non essere indicativa di quelle aree polmonari con un’elevata pressione già all’inizio del ciclo inspiratorio e che risultano chiuse a fine inspirazione. Tali aree possono essere a rischio di barotrauma nonostante una sicura pressione di plateau (Benjamin e Medoff, 2008). Dalla letteratura non risultano particolari benefici correlati alla modalità di ventilazione controllata scelta a patto di utilizzare una strategia ventilatoria protettiva (Quiroz et al., 2009). In considerazione del fatto che il volume minuto è il principale determinante dell’iperinflazione, il principale obiettivo è assicurare un basso volume minuto e un tempo espiratorio sufficientemente lungo da permettere lo “svuotamento” del polmone, insieme con alti picchi di flusso inspiratorio. Sebbene un flusso inspiratorio elevato esponga le vie aeree prossimali a una pressione più elevata, l’aumento del picco di flusso riduce l’iperinflazione alveolare (Stather e Stewart, 2005). La strategia ottimale può essere raggiunta con un flusso inspiratorio di 70-100 l/min, un volume corrente di 6-8 ml/kg del peso ideale con frequenza respiratoria di 8-16 atti/minuto, garantendo una pressione di plateau <30 cmH2O.
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Il rapporto tempo inspiratorio/tempo espiratorio dev’essere impostato in modo da prolungare l’espirazione (rapporto 1:3-1:4). È stato dimostrato che non vi è un beneficio ulteriore nel prolungare il tempo espiratorio oltre i 4 secondi, poiché vi è un plateau nel flusso espiratorio (Leatherman et al., 2004). L’ipoventilazione impostata porterà all’ipercapnia. Questa è ben tollerata, anche quando estrema, in assenza di aumentata pressione intracranica, e un pH fino a 7,10 viene solitamente tollerato finché l’ossigenazione rimane valida (saturazione di ossigeno >90% con FiO2 <0,6). Il concetto fondamentale della ventilazione meccanica nello stato asmatico è quello di fornire un’adeguata ossigenazione minimizzando il rischio del barotrauma. Siccome tale rischio è legato all’iperinflazione dinamica dei polmoni e alle alte pressioni di plateau, va utilizzata una strategia ventilatoria che minimizzi i volumi polmonari e le pressioni delle vie aeree. La strategia corrente di ventilazione meccanica nello stato asmatico è l’ipoventilazione controllata in quanto permette un aumento della PaCO2, finché però la ventilazione minuto e la frazione inspirata di ossigeno (FiO2) siano sufficienti a mantenere un’adeguata ossigenazione tissutale. L’accettazione dell’ipercapnia in questo contesto viene chiamata ipercapnia permissiva. In sostanza il razionale di questo approccio è che l’ipercapnia presenta minori rischi rispetto a un volume polmonare molto aumentato (Darioli e Perret, 1984). Le risposte fisiologiche all’acidosi respiratoria e metabolica includono un aumento della gettata cardiaca, della pressione polmonare e della frequenza cardiaca, mentre le resistenze vascolari sistemiche si riducono e la pressione arteriosa sistemica rimane invariata. Questi cambiamenti emodinamici sono mediati dalle catecolamine endogene stimolate dall’abbassamento del pH ematico. L’infusione di bicarbonato in questo contesto riduce l’acidosi peggiorando l’equilibrio emodinamico e non si è dimostrato utile nell’aumentare la broncodilatazione o la sopravvivenza. Inoltre, siccome il bicarbonato reagisce con gli ioni idrogeno producendo CO2, i livelli di quest’ultima molecola aumentano ed essa diffonde nelle cellule causando acidosi intracellulare paradossa e peggiorando la mortalità. Per questi motivi è consigliata l’infusione di bicarbonato solo quando l’acidosi è emodinamicamente significativa. Il pH minimo di sicurezza durante l’ipercapnia permissiva non è noto (Irwin e Rippe, 2008). La complicanza più grave dell’ipercapnia è un aumento del flusso ematico cerebrale e della pressione intracranica e questo soprattutto in pazienti che hanno subìto un danno anossico secondario all’arresto respiratorio prima dell’intubazione (Tobin, 2006). L’utilizzo di una pressione positiva di fine espirazione (PEEP) nel paziente asmatico in ventilazione meccanica rimane oggetto di dibattito. Se il paziente respira spontaneamente dev’essere applicata una pressione di fine espirazione tale da controbilanciare la PEEP intrinseca (80% della auto-PEEP) per garantire un adeguato trigger di ventilazione; questo approccio è ben conosciuto e comunemente utilizzato in terapia intensiva (Marini, 1989). Nei pazienti sedati, curarizzati, in ventilazione controllata, è sconsigliato applicare una PEEP in quanto aumenterebbe il fenomeno dell’air-trapping (Smith e Martini, 1988; Tan et al., 1993).
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7.6.4 Broncospasmo intraoperatorio Se durante un intervento il paziente sviluppa un grave attacco di broncospasmo, occorre prima di tutto verificare la profondità del piano di anestesia, approfondirlo e aumentare la FiO2. La causa più comune di attacco asmatico durante un intervento è un piano inadeguato di anestesia. Il paziente asmatico è estremamente sensibile a livello dell’albero tracheobronchiale. Se l’anestesia è troppo leggera, insorgono tentativi di tosse come risultato della presenza di un corpo estraneo (tubo endotracheale) e si sviluppa broncospasmo. Quindi, in prima istanza, aumentare la concentrazione di agenti inalatori può aiutare a risolvere il problema. Dosi incrementali di ketamina possono essere un metodo rapido per mantenere la pressione arteriosa, approfondire il piano di anestesia, broncodilatare ed evitare il problema di somministrazione di anestetici inalatori in pazienti con scarsa ventilazione. Occorre eliminare eventuali stimoli meccanici: rimuovere secrezioni, controllare che il tubo non sia ostruito, piegato o malposizionato e, se necessario, scuffiare e riposizionare il tubo. Occasionalmente il tubo scivola e stimola la carena causando severo broncospasmo. È necessario chiedere al chirurgo di interrompere eventuali stimolazioni chirurgiche come trazione del mesentere, intestino, stomaco, che possono causare un riflesso vagale e indurre broncospasmo. Se non si riesce a interrompere il broncospasmo rimuovendo le cause e approfondendo il piano di anestesia, è necessaria la terapia medica con β2-agonisti inalatori e, qualora questi non siano sufficienti a risolvere il broncospasmo, somministrare elevate dosi di corticosteroidi per via endovenosa; si deve ricordare tuttavia che possono trascorrere anche ore prima che l’effetto degli steroidi diventi evidente (Bishop, 2002). L’aminofillina è raramente usata per il broncospasmo acuto a causa della stretta finestra tossico-terapeutica. La dose iniziale è di 6 mg/kg somministrata lentamente e seguita da infusione di 1 mg/kg/h per i fumatori e di 0,5 mg/kg/h per i non fumatori. È possibile anche la somministrazione di magnesio solfato per via endovenosa che ha effetto broncodilatante, il cui utilizzo routinario non è giustificato, ma può essere vantaggioso negli attacchi asmatici acuti (Rodrigo et al., 2004). In una tale situazione di emergenza si può ricorrere alla ketamina, anche se pochi sono gli studi sull’utilizzo di questo farmaco nello stato asmatico e gli effetti collaterali (tachicardia, ipertensione, delirio e riduzione della soglia epilettogena) ne limitano l’impiego clinico (Sarma, 1992; Hemmingsen et al., 1994). In attesa che la terapia medica agisca, si deve impostare un’alta frequenza respiratoria, con tempo inspiratorio ridotto e un adeguato tempo espiratorio per ridurre l’auto-PEEP, e se possibile utilizzare ventilatori da terapia intensiva anziché quelli di anestesia. È importante non dimenticare che in un severo e prolungato attacco si svilupperanno acidosi mista respiratoria e metabolica a causa della ritenzione di CO2 e dell’acidosi lattica derivata dall’ipossia tissutale, oltre che una relativa instabilità emo-
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dinamica. Dinanzi a un tale quadro di compromissione cardiorespiratoria è consigliabile chiedere l’ausilio di un anestesista esperto.
7.6.5 Valutazione dell’iperinflazione dinamica L’ostruzione severa al flusso aereo detemina un’espirazione incompleta già prima dell’intubazione e questo porta a un’iperinflazione dinamica con volumi di fine espirazione che raggiungono un nuovo equilibrio sopra alla capacità funzionale residua. Una volta impostata l’iniziale strategia ventilatoria, occorre monitorare frequentemente l’iperinflazione per stabilire il grado di ostruzione delle vie aeree e guidare le successive scelte terapeutiche. Tuxen et al. (1992) propongono la raccolta del volume di fine inspirazione (VEI = volume di gas a fine inspirazione sopra la capacità funzionale residua) misurando il volume totale di gas espirato durante un periodo di apnea, di solito 40-60 secondi, che corrisponde alla somma del volume corrente e del volume a fine espirazione sopra l’FRC. Valori di VEI >20 m/kg (1,4 l in un adulto di 70 kg) sono stati correlati a complicanze di ipotensione e barotrauma. Tuttavia tale misura non è una procedura routinaria nella pratica clinica e necessita di curarizzazione e paralisi. Misure alternative dell’iperinflazione polmonare includono la pressione di plateau (Pplat) e l’auto-PEEP. Pplat è un surrogato del volume polmonare a fine inspirazione, che correla con il rischio di barotrauma. Siccome i pazienti con ostruzione delle vie aeree hanno, tipicamente, una normale compliance del sistema respiratorio, un aumento della Pplat è solitamente indice di iperinflazione dinamica. Anche se non è stato identificato un valore di Pplat che porti ad aumentato rischio di barotrauma, un valore massimo di 25-30 cmH2O viene generalmente accettato (Tobin, 2006). Anche l’auto-PEEP può essere utilizzata come misura del grado di ostruzione delle vie aeree e stabilisce il rischio di compromissione emodinamica correlata all’iperinflazione. Se il ventilatore fornisce curve di pressione e flusso, l’auto-PEEP può essere rilevata, anche se non misurata quantitativamente, osservando che il flusso espiratorio non raggiunge lo zero prima dell’inspirazione. Tuttavia è importante ricordare che quando ci si riferisce ai target di una ventilazione protettiva Pplat deve essere inferiore a 30 cmH2O e l’auto-PEEP inferiore a 5 cmH2O. Questi valori, tuttavia, rappresentano una media delle pressioni: infatti alcune aree polmonari potrebbero essere sottoposte a pressioni maggiori rispetto a quelle misurate.
7.6.6 Estubazione Per evitare di evocare broncospasmo attraverso tosse, riflessi laringei o faringei durante l’estubazione, i pazienti asmatici devono essere estubati con un livello ancora profondo di anestesia. Tuttavia non sempre questo è possibile, come, per esem-
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pio, in caso di vie aeree difficili, blocco neuromuscolare residuo o rischio di aspirazione (gastroparesi, ascite, obesità, gravidanza). Occorre inoltre valutare sempre se è possibile estubare il paziente in camera operatoria al termine dell’intervento oppure se è necessario un periodo di ventilazione meccanica prima che il paziente possa essere considerato pronto per il risveglio. I pazienti con un attacco di broncospasmo intraoperatorio possono rispondere rapidamente alla terapia broncodilatatrice oppure possono aver bisogno di un periodo di 24-48 ore di terapia con antinfiammatori e broncodilatatori prima dell’estubazione. È consigliabile l’osservazione in terapia intensiva per altre 12-24 ore dopo il risveglio. Un attento monitoraggio e la prevenzione delle potenziali cause di broncospasmo possono aiutare a prevenire gravi complicanze polmonari postoperatorie. A tal fine particolare attenzione va riservata al controllo del dolore e del reflusso gastroesofageo, all’incentivazione respiratoria, alla mobilizzazione precoce oltre che alla terapia antiasmatica. In taluni casi in cui si verifichino attacchi persistenti di broncospasmo dopo l’estubazione si può considerare l’opzione della ventilazione non invasiva (Woods e Sladen, 2009).
7.7 Conclusioni Il paziente asmatico rappresenta un’importante sfida per l’anestesista e una corretta conoscenza della fisiopatologia, della gestione e delle possibili complicanze è una condizione irrinunciabile per migliorare la gestione di questi pazienti e la loro sopravvivenza.
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Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico
8
M. Girardis, E. Biagioni
Riassunto L’elevata mortalità perioperatoria del paziente settico da sottoporre a intervento chirurgico fa sì che grande attenzione debba essere indirizzata alla ricerca di un corretto approccio multidisciplinare al problema. La condizione di shock settico e il sequestro massivo di liquidi determinato dall’irritazione del peritoneo, elementi presenti in una infezione addominale complicata, spingono il medico rianimatore a somministrare un’aggressiva fluidoterapia per il mantenimento di un’adeguata perfusione d’organo. Peraltro una resuscitazione volemica aggressiva rappresenta un momento patogenetico nella comparsa di un quadro di ipertensione addominale favorente l’insorgenza di complicanze postoperatorie e insufficienza d’organo. In questo complicato equilibrio, il monitoraggio del paziente attraverso segni clinici e tramite una valutazione emodinamica e di perfusione d’organo rappresenta una risorsa indispensabile per ottimizzare le nostre scelte terapeutiche sul singolo caso. Il capitolo affronterà queste problematiche discutendo la gestione di un paziente con una peritonite nosocomiale nelle fasi preoperatorie, intraoperatorie e postoperatorie.
8.1 Introduzione Terapia Intensiva, ore 17:00: posti letto disponibili nessuno, è appena arrivato un trapianto di fegato che stiamo mettendo a letto; suona il telefono, è il collega di guardia delle sale operatorie: “Ciao Massimo, avete un posto? Hanno riportato in sala operatoria il signor XY, quello operato all’inizio della settimana, perché aveva una deiscenza della sutura con delle raccolte di materiale necrotico e pus intorno al pancreas. Te Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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M. Girardis, E. Biagioni
lo vorrei portare perché faccio fatica a tenerlo in pressione e ho messo su la dopamina; stamattina l’avevo visto e faceva fatica a respirare e in effetti adesso mi satura pochino, ho dovuto mettere della PEEP e l’ossigeno al 60%. Era già febbrile da alcune ore e mi è arrivato in sala estremamente tachicardico. Fa pipì, ma prima di venire in sala ha fatto il lasix su consiglio del cardiologo perché pensavano a un edema polmonare. Non ho capito ancora cosa vogliono fare, per ora hanno solo lavato; ti mando dei tamponi fatti in sala così li inviate in micro”. Incomincia la solita “danza” per la dimissione non programmata di un paziente: selezione del paziente a minor rischio (quali indicatori? Da noi SOFA, destinazione e buon senso), disponibilità del reparto destinazione (sempre dura!), preparazione paziente e documenti, comunicazione con paziente e parenti. E intanto il medico in formazione: “Massimo, mi pare che quest’anno abbiamo un po’ troppi re-interventi? Perché?” (mmh, forse è vero, vado a vedere), subito dopo l’infermiere “Dottori, dobbiamo preparare qualcosa di particolare?”. La situazione vissuta ieri e le due buone domande sono le chiavi che abbiamo scelto per sviluppare questo capitolo che affronta un problema frequente, difficile e ancora, almeno per noi, parzialmente non chiaro: quale monitoraggio e come gestire un paziente con sepsi severa e shock settico nel periodo perioperatorio.
8.2 Ottimizzazione preoperatoria 8.2.1 Identificazione del paziente Approssimativamente il 30% dei pazienti ammessi in Terapia Intensiva (TI) con infezione addominale muoiono a causa della loro malattia, e quando la peritonite compare come secondaria a un intervento chirurgico eseguito durante la degenza, la mortalità sale fino al 50% (Marshall e Illness, 2003; Evans et al., 2001). Il primo passo nel trattamento del paziente settico sottoposto o da sottoporre a intervento chirurgico (in questo caso addominale) è il riconoscimento del paziente stesso. La sepsi a partenza addominale è una sindrome clinica che si presenta come un complesso insieme di segni e sintomi causati dalla risposta infiammatoria sistemica a una noxa infettiva a partenza dal distretto addominale. Gli organi addominali sono rivestiti da una membrana di origine mesoteliale chiamata peritoneo che permette la circolazione in cavità addominale in condizioni fisiologiche di circa 100 ml di liquido ricco di cellule macrofagiche. Il peritoneo si presenta inoltre riccamente innervato e vascolarizzato. Quando si verifica uno stimolo irritativo come il contatto tra materiale proveniente dall’interno dei visceri cavi addominali e il peritoneo, si innesca una vigorosa risposta infiammatoria locale e sistemica. I mediatori della flogosi attivano la risposta immunitaria, la cascata della coagulazione e il richiamo di cellule macrofagiche che determinano il passaggio all’interno della cavità addominale di un trasudato ricco in proteine (Fig. 8.1). Il paziente con peritoni-
8 Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico
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RISPOSTA OSPITE Mediatore infiammazione Alterazione bilancia emostatica
SEGNALE TRIGGER (microorganismi, tossine)
ALTERAZIONI MACRO/CIRCOLATORIE Vasodilatazione Ipotensione
Ipoperfusione tissutale e disossia
ALTERAZIONI MICRO/CIRCOLATORIE Attivazione coagulazione: microtrombosi Disfunzione edoteliale Disfunzione mitocondriale IPOSSIA CELLULARE Disossia, citopatica
DISFUNZIONE ORGANO MULTIPLO
DISFUNZIONE ORGANO
MORTE
Fig. 8.1 Fisiopatologia della sepsi Tabella 8.1 Score di valutazione sequenziale delle disfunzioni d’organo indotte dalla sepsi (SOFA score) (Vincent et al., 1996) Punteggio
1
2
3
4
SNC GCS
13-14
10-12
6-9
<6
Respiratorio PaO2/FiO2 (mmHg)
<400
<300
<200 con supporto respiratorio
<100
Cardiovascolare Ipotensione
PAM <70 mmHg
Dopa <5 o dobutamina
Dopa >5 o adren <0,1 o noradr <0,1
Dopa >15 o adren >0,1 o noradr >0,1
Coagulazione Piastrine (103/µl)
<150
<100
<50
<20
Fegato Bilirubina (mg/dl)
1,2-1,9
2,0-5,9
6,0-11,9
>12
Renale Creatinina (mg/dl) o diuresi
1,2-1,9
2,0-3,4
3,5-4,9 o
5,0 o
<500 ml/24h
<200 ml/24 h
GCS, Glasgow Coma Scale; PAM, Pressione arteriosa media; SNC, Sistema nervoso centrale
te lamenta intenso dolore addominale prevalente nei quadranti inizialmente interessati e sviluppa i segni di risposta infiammatoria sistemica (SIRS, systemic inflammatory response syndrome). I segni di SIRS vanno sempre ricercati nel paziente con sospetta infezione addominale così come la presenza di insufficienza d’organo (Tabella 8.1).
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M. Girardis, E. Biagioni
Il paziente ricoverato in chirurgia recentemente operato per una resezione intestinale o il paziente che arriva in Pronto Soccorso per addominalgia può presentare febbre o ipotermia, tachicardia, tachipnea, stato mentale alterato, edema, leucocitosi o leucopenia, iperglicemia, proteina C reattiva plasmatica e procalcitonina elevate. Se un paziente con sospetto o certezza di infezione addominale presenta due o più di questi segni clinici, deve essere identificato come un paziente affetto da sepsi. Uno dei punti cruciali nel trattamento di questo paziente è il controllo della sorgente infettiva. Nel caso questa sia stata identificata nell’addome sarà necessario procrastinare il meno possibile l’intervento chirurgico. Se il quadro già descritto si complica con la comparsa di una o più insufficienze d’organo siamo di fronte a una sepsi severa. La definizione di sepsi severa identifica la condizione clinica nella quale una patologia infettiva determina almeno una disfunzione d’organo (sistema nervoso centrale, respiratorio, cardiocircolatorio, emocoagulativo, renale, epatico) o ipoperfusione, evidenziata da un'acidosi lattica non altrimenti spiegabile. Le singole disfunzioni d’organo possono essere definite facendo riferimento alle definizioni sviluppate e quantizzate attraverso uno score di valutazione dell’insufficienza d’organo sequenziale (SOFA score; vedi Tabella 8.1). Se un paziente affetto da sepsi grave non riceve un adeguato trattamento può sviluppare uno shock settico, cioè uno stato di insufficienza circolatoria acuta caratterizzata da una persistente ipotensione arteriosa non attribuibile ad altre cause e refrattaria a un’adeguata terapia fluidica. Per ipotensione si intende una pressione arteriosa sistemica <90mmHg o una pressione arteriosa media (PAM) <70mmHg, o una riduzione della pressione arteriosa sistolica superiore a 40 mmHg di quella basale. Per refrattarietà a una terapia fluidica si deve intendere l’infusione di 1000 ml di cristalloidi oppure di 300500 ml di colloidi artificiali ogni 30 minuti fino al ripristino di una volemia adeguata (per esempio, pressione venosa centrale >8-10 mmHg). La mancata risposta pressoria all’infusione di liquidi e, in particolare, la necessità di infondere vasopressori per mantenere la PAM >70 mmHg definiscono quindi uno stato di shock settico (Dellinger et al, 2004). Il tempo è da considerare attualmente una delle variabili più importanti nella gestione dei pazienti con sepsi e ritardi nel trattamento specifico comportano l’attivazione di processi fisiopatologici che possono causare lo stato di shock e insufficienze d’organo multiple non più reversibili (Fig. 8.1). Da qui si comprende l’importanza di creare una rete interdipartimentale di personale addestrato al riconoscimento e al trattamento precoce del paziente con sepsi (Girardis et al., 2009).
8.2.2 Resuscitazione precoce Il paziente con sepsi che deve essere sottoposto a intervento chirurgico richiede tempestivi e precisi interventi diagnostico-terapeutici per evitare il progressivo
8 Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico
131
peggioramento delle sue funzioni d’organo durante chirurgia. Il limite temporale utile per la realizzazione di questi interventi diagnostico-terapeutici urgenti è stato fissato in 6 ore (6-hours bundle), senza una reale distinzione tra pazienti chirurgici e non chirurgici. Oltre alla misura della concentrazione di lattato ematico, necessaria per l’identificazione di una eventuale condizione di shock settico, quelli che seguono sono gli interventi suggeriti prima dell’inizio dell’intervento chirurgico nel paziente con sepsi severa o shock settico. 1. Early Goal Directed Therapy (EGDT): Rivers et al. (2001) hanno dimostrato in uno studio prospettico controllato randomizzato monocentrico che la rianimazione precoce e aggressiva, denominata EGDT (terapia precoce diretta al raggiungimento di obiettivi specifici), migliora del 16% la sopravvivenza dei pazienti con shock settico in Dipartimento di Emergenza. Gli obiettivi della EGDT che devono essere raggiunti attraverso metodi precisi entro le prime 6 ore di gestione del paziente settico sono: - pressione venosa centrale (PVC) di 8-12 mmHg; - pressione arteriosa media (PAM) >65 mmHg; - diuresi oraria >0,5 ml/kg/h-1; - saturazione di O2 del sangue nella vena cava superiore (SVcO2) >70% o saturazione venosa mista del sangue dell’arteria polmonare (SvO2) >65%. Il paziente con shock settico presenta invariabilmente una condizione di ipovolemia reale (per ridotta assunzione di liquidi e aumento delle perdite per febbre, tachipnea, sudorazione profusa ecc.) e/o di ipovolemia relativa per vasodilatazione e formazione di edemi (alterata permeabilità capillare). Questa condizione comporta ipotensione e oliguria che richiede una rapida correzione tramite l’infusione di liquidi che devono essere somministrati attraverso carico fluidico di 1000 ml di cristalloidi o 300-500 ml di collodi ogni 30 min fino a ottenere dei valori di PAM >65 mmHg e/o PVC >8 mmHg. Nel paziente che arriva in sala operatoria e inizia una ventilazione meccanica occorre mantenere valori più alti di PVC (>12 mmHg) a causa dell’aumento della pressione intratoracica e questo è maggiormente vero nel paziente che presenta aumento della pressione intraaddominale. La gestione del paziente settico nell’immediato preoperatorio deve essere guidata, oltre che da parametri cardiocircolatori, anche da parametri metabolici che indicano l’efficacia dell’intervento terapeutico a livello tessutale. L’indice utilizzato nello studio di Rivers è la SVcO2 che, pur presentando dei limiti di specificità, è facilmente misurabile e sufficientemente sensibile per la valutazione clinica di uno stato di ipoperfusione. Se la SVcO2 è <70% o la SvO2 è <65% nonostante una PVC di 8-12 mmHg, si dovrebbero trasfondere delle emazie concentrate fino a un ematocrito (Ht) >30% e/o somministrare dobutamina per ottenere il suddetto obiettivo. Bisogna ricordare che nello studio di Rivers et al. (2001) oltre il 90% dei pazienti presentava shock settico per ragioni “mediche” (per esempio, polmonite, urosepsi) e che, quindi, gli obiettivi e gli interventi proposti nel protocollo EGDT non sono stati verificati nei pazienti chirurgici; 2. Emocoltura: una delle priorità nella gestione di un paziente candidato alla sala operatoria e che presenti febbre, brividi, ipotermia, leucocitosi e/o una
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inspiegabile disfunzione è l’esecuzione delle emocolture che dovrebbero essere raccolte sempre prima dell’inizio della terapia antibiotica. Tuttavia, nel paziente in condizioni critiche il trattamento antibiotico non deve essere posticipato per ritardi nell’esecuzione delle emocolture. Per facilitare l’identificazione dei microrganismi che hanno causato l’infezione, bisogna eseguire almeno due emocolture e, in particolare, una attraverso via percutanea e una attraverso eventuali cateteri vascolari, a meno che non siano stati inseriti da meno di 48 ore; 3. Terapia antibiotica: l’antibioticoterapia endovenosa è uno dei trattamenti fondamentali da intraprendere nel paziente con sepsi severa e shock settico, particolarmente se a partenza addominale (Dellinger et al., 2004, 2008). La somministrazione di una precoce e adeguata terapia antibiotica, infatti, riduce significativamente il rischio di morte del paziente con sepsi grave e shock settico (Kumar et al., 2006). La scelta empirica dell’antibioticoterapia dipende da complesse problematiche legate all’anamnesi del paziente (incluse eventuali intolleranze a farmaci), alle comorbilità, alla sindrome clinica e alla sospetta sede di perforazione. La scelta iniziale di un regime antimicrobico empirico dovrebbe mirare a uno spettro abbastanza ampio di patogeni, seguendo i suddetti criteri e agendo su tutti i microrganismi possibili, poiché il margine di errore ammissibile nel trattamento dei pazienti critici è molto piccolo. Per quanto riguarda le infezioni addominali, nelle Tabelle 8.2 e 8.3 sono riportate le indicazioni per la scelta della terapia antibiotica empirica della Surgical Infection Society and Infectious Diseases Society of America (Solomkin et al., 2010). In conclusione, nel monitoraggio iniziale del paziente con sepsi severa o shock settico da sottoporre a intervento chirurgico particolare importanza deve essere data alla quantizzazione delle disfunzioni d’organo presenti e all’identificazione di eventuali condizioni di ipoperfusione tissutale e conseguente metabolismo anaerobico. Queste valutazioni guidano rigorosamente le scelte terapeutiche che, oltre a una adeguata e precoce terapia antibiotica, prevedono l’utilizzo di fluidi, farmaci vasoattivi e inotropi.
8.3 Gestione intraoperatoria 8.3.1 Gestione dei fluidi intraoperatori La priorità nella gestione del paziente che arriva in sala operatoria per un addome acuto e con segni di ipoperfusione d’organo è quella di ottimizzare il profilo emodinamico. Come detto, la strategia infusiva proposta nel protocollo EGDT deve esse-
Cefepime; Ceftazidime; Ciprofloxacina; Levofloxacina + Metronidazolo
- Imipenem-cilastatina; - Meropenem; - Doripenem; - Piperacillina-tazobactam.
Severità alta e pazienti ad alto rischio
la crescente resistenza di Escherichia coli ai chinolonici dovrebbero essere valutate le mappe di resistenza locali e se disponibili le valutazioni di resistenza del singolo caso
Imipenem-cilastatina; Meropenem; Doripenem; Piperacillina-tazobactam; Ciprofloxacina; Levofloxacina; Cefepime + Metronidazoloa
Colecistite di gravità severa o nel paziente ad alto rischio (età avanzata o immunocompromesso)
aVista
Cefazolina; Ceftazidime; Ceftriaxone
Colecistiti non complicate di gravità lieve-moderata
Infezioni delle vie biliari acquisite in comunità (nel paziente adulto)
II) Gentamicina o Tobramicina + Metronidazolo o Clindamicina e associati o no ad Ampicillina
I) Ceftriaxone, Cefotaxime, Cefepime o Ceftazidime + Metronidazolo
Combinazione
Cefazolina; Cefuroxima; Cefotaxime; Ceftriaxone; Ciprofloxacina; Levofloxacina + Metronidazolo
- Cefoxitina; - Ertapenem; - Moxifloxacina; - Tigeciclina; - Ticarcillina-clavulanico.
-
Singolo agente
Ertapenem; Meropenem; Imipanem-ciastatina; Ticarcillina-clavulanico; Piperacillina; Tazobactam.
Severità lieve moderata
Infezioni comunitarie paziente adulto
Regime
Paziente pediatrico
Tabella 8.2 Agenti antimicrobici e regimi antibiotici da utilizzare nel trattamento empirico del paziente con infezione intraaddominale complicata acquisita in comunità (Linee guida della Surgical Infection Society and Infectious Diseases Society of America) (Solomkin et al., 2010)
8 Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico 133
8
Raccomandato
Raccomandato
Raccomandato
Non raccomandato
<20% Pseudomonas aeruginosa; enterobatteriacee ESBL +; Acinetobacter o altri germi Gram-negativi (GNB) con resistenze multiple ai farmaci (MDR)
Enterobatteriacee ESBL +
Pseudomanas aeruginosa > 20% resistente a ceftazidime
Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA)
Non raccomandato
Raccomandato
Raccomandato
Raccomandato
Piperacillinatazobactam
aVista la crescente resistenza di Escherichia coli bImipenem-cilastatina; meropenem; doripenem
ai chinolonici dovrebbero essere valutate le mappe di resistenza locali e se disponibili le valutazioni di resistenza del singolo caso
Imipenem-cilastatina; Meropenem; Doripenem; Piperacillina-tazobactam; Ciprofloxacina; Levofloxacina; Cefepime + Metronidazolo. Vancomicina aggiunta a ciascuna combinazionea
Raccomandato
Non raccomandato
Non raccomandato
Non raccomandato
Vancomicina
Infezioni nosocomiali a partenza dalle vie biliari di qualsiasi severità
Non raccomandato
Raccomandato
Raccomandato
Non raccomandato
Aminoglicoside
Imipenem-cilastatina; Meropenem; Doripenem; Piperacillina-tazobactam; Ciprofloxacina; Levofloxacina; Cefepime + Metronidazoloa
Non raccomandato
Non raccomandato
Non raccomandato
Raccomandato
Ceftazidime; cefepime + metronidazolo
Colangite acuta con qualsiasi grado di severità a partenza da un’anastomosi biliodigestiva
Infezioni intraaddominali nosocomiali a partenza dalle vie biliari
Carbapenemib
Organismi identificati localmente responsabili di infezione intraaddominale nosocomiale
Regime di terapia antimicrobica
Tabella 8.3 Raccomandazioni per la terapia antimicrobica empirica delle infezioni intraaddominali nosocomiali (Linee guida della Surgical infection Society and Infectious Diseases Society of America) (Solomkin et al., 2010)
134 M. Girardis, E. Biagioni
8 Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico
135
re applicata con attenzione nel paziente che deve essere sottoposto a chirurgia addominale d’urgenza. Nel 2008 Perel osservò che la popolazione di pazienti inclusa nello studio di Rivers era differente in termini di comorbilità rispetto alla popolazione tipica dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Questo fatto, sommato ad alcuni dubbi sull’attendibilità della pressione venosa centrale come indicatore di precarico, ha messo in discussione l’applicabilità della strategia EGDT in maniera ubiquitaria su tutte le tipologie di pazienti settici. Quali indicatori utilizzare per valutare l’adeguato riempimento e cosa significa adeguato riempimento nel paziente settico da sottoporre a chirurgia addominale rimane quindi un problema aperto. Dal punto di vista fisiopatologico, la fluidoterapia intraoperatoria nel paziente con sepsi richiede il mantenimento di un difficile equilibrio. L’ipoperfusione è sicuramente uno dei meccanismi fondamentali per lo sviluppo di ipossia cellulare e quindi di danno d’organo. Quindi una strategia fluidica aggressiva è giustificata per cercare di ridurre l’esposizione tissutale a condizioni di disossia (flusso di O2 disponibile inferiore del flusso di O2 utilizzato) (Loiacono e Shapiro, 2010). Dall’altro lato bisogna ricordare che il volume cellulare sembra essere alla base di molti dei processi metabolici indispensabili nella sintesi proteica. Le membrane cellulari sono molto permeabili all’acqua e non tollerano variazioni troppo rapide di pressione idrostatica e osmolarità cellulare, evenienze che possono verificarsi durante una resuscitazione fluidica aggressiva con conseguente edema cellulare evidenziabile a tutti i livelli, come per esempio a livello degli epatociti e delle cellule della parete intestinale. Nei tessuti ricchi di cellule macrofagiche l’edema cellulare è uno degli stimoli più importanti alla liberazione di TNFα e altre citochine pro-infiammatorie che sostengono la cascata già attivata dalla sepsi (Bryan et al., 2006). Un recente studio che ha coinvolto 198 Terapie Intensive europee ha evidenziato che, all’interno del sottogruppo dei pazienti settici, un bilancio idrico positivo rappresenta il fattore prognostico più sfavorevole insieme all’età del paziente (Vincent et al., 2006). Per cercare di mantenere questo difficile equilibrio fisiopatologico, l’unica soluzione praticabile è quella di monitorizzare scrupolosamente il paziente sia a livello emodinamico sia e soprattutto a livello di accoppiamento tra funzione cardiocircolatoria e funzione cellulare, quello che chiamiamo monitoraggio metabolico o della perfusione d’organo. Nel contesto del paziente settico, le metodiche per il monitoraggio emodinamico devono fornire informazioni attendibili riguardanti la gettata cardiaca e la valutazione del precarico cardiaco e/o della responsività ai fluidi. Una revisione di 17 studi randomizzati controllati che prevedevano l’utilizzo perioperatorio di diversi tipi di sistema di monitoraggio emodinamico (per esempio, catetere in arteria polmonare, Doppler transesofageo intraoperatorio, termodiluizione transpolmonare) per il miglioramento della perfusione d’organo e della sopravvivenza del paziente, ha concluso che non esiste un indicazione certa sul miglior sistema di monitoraggio, ma il monitoraggio emodinamico determina in generale un miglioramento dell’outcome clinico nei pazienti ad alto rischio (Boyd, 2003). Una successiva revisione sistema-
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8
M. Girardis, E. Biagioni
tica degli studi che hanno valutato l’efficacia dei sistemi di monitoraggio in terapia intensiva ha evidenziato che solo in 2 dei 15 studi sulla gestione emodinamica attraverso il cateterismo in arteria polmonare (PAC) si è osservata una riduzione della mortalità, uno dei quali è stato proprio condotto su una popolazione di pazienti chirurgici ad alto rischio (Ospina-Tascon et al., 2008). A parte l’efficacia clinica, un altro problema nell’utilizzo delle metodiche di monitoraggio emodinamico nel paziente con sepsi è la loro accuratezza nella misura della gittata cardiaca. Come è ben dimostrato, infatti, molti sistemi di monitoraggio, in modo particolare quelli poco invasivi, sottostimano significativamente la gittata cardiaca a valori superiori ai 4-5 l/min (Sander et al., 2006; Opdam et al., 2007; Mayer et al., 2007). Ciò limita fortemente l’utilizzo di queste metodiche nei pazienti iperdinamici come sono i pazienti con sepsi severa e shock settico, particolarmente se sottoposti a intervento chirurgico. In alternativa o in aggiunta al monitoraggio emodinamico, risulta molto interessante il monitoraggio metabolico. Il monitoraggio metabolico comprende un insieme di rilevazioni cliniche classiche come la diuresi, la temperatura del paziente, lo stato cutaneo e di vigilanza, e un insieme di parametri laboratorisitici come la concentrazione ematica di lattato, l’equilibrio acido-base, la misura della saturazione di O2 nel sangue venoso misto e la misura della differenza veno-arteriosa di CO2. Donati et al. (2007) hanno osservato che in una popolazione di pazienti selezionati sottoposti a chirurgia addominale maggiore, una gestione intraoperatoria goal-directed e basata su parametri di monitoraggio metabolico quali la saturazione venosa in vena cava superiore (ScVO2) e la frazione di estrazione di ossigeno (O2ER), riduceva significativamente il numero di insufficienze d’organo postoperatorie e la durata della degenza ospedaliera. La frazione di estrazione dell’ossigeno rappresenta la frazione di ossigeno trasportato alla microcircolazione che è assunto nei tessuti e può essere ricavata dalla saturazione venosa in vena cava superiore (ScVO2) e dalla saturazione arteriosa di ossigeno (SAO2 ) attraverso la formula SAO2 – SCVO2/SAO2 (Donati et al., 2007). Sempre nell’ottica di riuscire ad attuare un monitoraggio metabolico preciso, diversi studi hanno cercato un indicatore che permettesse di valutare l’ipossia tissutale al letto del paziente. Il metabolismo aerobio del glucosio prevede la formazione di prodotti finali tra cui la CO2. In condizioni fisiologiche il valore del gradiente veno-arterioso di CO2 (ΔpCO2) è compreso tra 2 e 5 mmHg e risulta correlato alla gittata cardiaca (Lamia et al., 2006). Mekontso et al. (2002) hanno osservato in uno studio retrospettivo eseguito su 89 pazienti critici che il ΔpCO2 correlato al consumo di ossigeno (VO2 ) appare essere un marcatore affidabile e rapidamente disponibile del metabolismo anaerobio. In conclusione, nella la gestione intraoperatoria dei pazienti con sepsi, seppur non sia chiaro in un bilancio fisopatologico e clinico quale sia la strada più corretta per migliorare o mantenere un’adeguata perfusione d’organo (volume, volume + amine, amine + poco volume), il monitoraggio emodinamico e metabolico devono essere la guida per scelte terapeutiche razionali e adattate per ogni singolo paziente.
8 Il monitoraggio perioperatorio del paziente settico
137
8.4 Il proseguimento delle cure in terapia intensiva 8.4.1 Ipertensione addominale e sindrome compartimentale Tra le variabili importanti da valutare nell’immediato postoperatorio del paziente settico sottoposto a chirurgia addominale c’è sicuramente la pressione intraaddominale. Nei pazienti con ipertensione addominale (IAH, intra-abdominal hypertension) è fondamentale mantenere un adeguato volume intravascolare per evitare l’ipoperfusione d’organo, ma una terapia fluidica aggressiva e il mantenimento di un bilancio positivo sono fattori di rischio indipendenti per lo sviluppo di ipertensione addominale e/o sindrome compartimentale addominale con aumento della probabilità di morte (McNelis et al., 2002). Dunque: bisogna trovare un “adeguato” volume, non essere aggressivi ed evitare il bilancio positivo… Non facile! Ma quali sono le definizioni corrette in campo di ipertensione addominale? Dopo anni di incertezze e di dubbi, la letteratura recente ha finalmente trovato un accordo: dal 2006 abbiamo delle definizioni condivise su cosa dobbiamo intendere per ipertensione addominale (IAH) e per sindrome compartimentale addominale (ACS, abdominal compartment syndrome) e su quali sono le metodiche più corrette per misurare la pressione intraaddominale (McNelis et al., 2002; Malbrain et al., 2006) (Tab. 8.4). Un anestesista-rianimatore nella sua vita professionale ne vede parecchi di pazienti con IAH o a rischio per IAH: l’incidenza stimata nello shock settico è del 50% circa (Regueira et al., 2007), mentre nei pazienti chirurgici si passa al 40% (Sugrue et al., 2003). Qualche hanno fa abbiamo condotto una ricerca sui pazienti ricoverati nella nostra Terapia Intensiva dopo chirurgia in regime di urgenza osservando che il 63% presentava IAH e che di questi il 12% aveva sviluppato ACS (Busani et al., 2006). Per rispondere alla domanda iniziale del medico in formazione (“Massimo, mi pare che quest’anno abbiamo un po’ troppi re-interventi? Perché?”) abbiamo riguardato il data-base rilevando che in effetti nella nostra TI negli ultimi anni sono aumentati i reinterventi, insieme all’età e alle comorbilità dei pazienti. Tutti fattori questi che pongono i pazienti ad aumentato rischio per sviluppo di IAH o ACS. Dal punto di vista fisiopatologico, il passaggio chiave è quello di considerare l’IAH come una patologia “a sé” in grado di determinare alterazioni delle funzioni d’organo, così come avviene per l’emorragia, la sepsi e lo scompenso cardiaco. L’IAH interferisce con la funzione polmonare, cardiocircolatoria, intestinale e renale. In analogia con quanto succede a livello cerebrale nel caso di ipertensione endocranica, l’IAH determina una riduzione della pressione di perfusione degli organi addominali con possibile sviluppo di ipoperfusione e ipossia a livello renale e intestinale (Fig. 8.2). Come è ben noto, il primo segno clinico di IAH/ACS è l’oliguria e l’organo che per primo e più frequentemente diventa insufficiente è il rene. Interessante è quello che succede a livello intestinale durante IAH/ACS: l’ipossia associata alla causa primaria di IAH può generare una risposta infiammatoria
138
8
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Tabella 8.4 Definizioni di ipertensione addominale (IAH) e sindrome compartimentale addominale (ACS) (Cheatham et al., 2007) Definizione 1
La pressione intraaddominale (IAP) è la pressione a stato stazionario presente all’interno della cavità addominale
Definizione 2
La pressione di perfusione addominale (APP) corrisponde alla pressione arteriosa media (MAP) meno IAP (APP = MAP–IAP)
Definizione 3
Il gradiente di filtrazione renale (FG) è uguale a MAP – 2 x IAP
Definizione 4
IAP deve essere espressa in mmHg e misurata con il paziente in posizione supina, a fine espirazione, senza contrazione dei muscoli addominali e con il trasduttore posizionato a livello della linea ascellare media
Definizione 5
Il metodo di riferimento per la misura intermittente di IAP è la misura attraverso il catetere vescicale dopo instillazione di 25 ml di salina sterile
Definizione 6
I valori normali di IAP sono circa 5-7 mmHg nei pazienti critici adulti
Definizione 7
L’ipertensione addominale è definita come un valore sostenuto o ripetuto di IAP ≥12 mmHg
Definizione 8
IAH è suddivisa nei seguenti gradi: • grado I: IAP 12-15 mmHg • grado II: IAP 16-20 mmHg • grado III: IAP 21-25 mmHg • grado IV: IAP >25 mmHg
Definizione 9
La sindrome compartimentale addominale (ACS) è presente quando IAP >20 mmHg (con o senza APP <60 mmHg) con associata una nuova disfunzione d’organo
Definizione 10
ACS primaria è una condizione associata a un trauma o a una malattia della regione addomino-pelvica che frequentemente richiede intervento chirurgico o di radiologia interventistica precoce
Definizione 11
ACS secondaria si riferisce a quella condizione di ACS che non origina dalla regione addomino-pelvica
Definizione 12
ACS ricorrente è quella condizione nella quale ACS ricorre dopo trattamento chirurgico o medico di una ACS primaria o secondaria
ACS (abdominal compartment syndrome), sindrome compartimentale addominale; APP (abdominal perfusion pressure), pressione di perfusione addominale; IAH (intra-abdominal hypertension), ipertensione intraaddominale; IAP (intra-abdominal pressure), pressione intraaddominale; MAP (mean arterial pressure), pressione arteriosa media
protettiva a livello tissutale con aumento dell’edema interstiziale d’organo e, quindi, un ulteriore aumento di IAH e riduzione di pressione di perfusione addominale (APP, abdominal perfusion pressure) con la comparsa di quella che viene chiamata “sindrome da distress addominale acuto” (De Waele e De Laet, 2007). Una tipologia di paziente che frequentemente può sviluppare la sindrome da distress addominale acuto è il paziente con shock settico nel quale le endotossine bat-
139
Disfunzione d’organo
Ipeertensione addominale
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Sindrome compartimentale addominale O
5
1O
15
2O
25
3O
35
4O
Pressione intraaddominale (mmHg) Fig. 8.2 Rappresentazione schematica del rapporto tra pressione intraaddominale e disfunzione d’organo
teriche e le citochine infiammatorie determinano ipoperfusione splancnica e aumento della permeabilità endoteliale con successivo sviluppo di edema intestinale e quindi di IAH. Ancora più a rischio è il paziente con shock settico a partenza addominale. Il mantenimento o il miglioramento della APP è l’obiettivo cruciale per il trattamento dei pazienti con IAH/ACS. Attualmente il valore di APP raccomandato per mantenere un’adeguata perfusione d’organo varia tra i 50 e i 60 mmHg (Kirkpatrick et al., 2006). Per ottenere questo obiettivo occorre ridurre l’IAP oppure aumentare la MAP. Il trattamento medico dell’IAH/ACS è riassunto schematicamente nell’algoritmo originale della World Society of the Abdominal Compartment Syndrome (WSACS) riportato nella Figura 8.3. Qualsiasi aumento di IAH determina alterazione della funzione respiratoria, causa di spostamento cefalico del diaframma cui consegue riduzione della capacità funzionale residua. Si verificano inoltre aumento della pressione pleurica e riduzione della compliance toracica per riduzione della compliance addominale. Cosa significa ciò nella pratica clinica dei pazienti ventilati meccanicamente? Che se non si agisce correttamente modificando la strategia ventilatoria questi pazienti andranno incontro a ipossia da basso rapporto ventilazione/perfusione. Quindi bisogna ricordarsi, particolarmente quando trattiamo pazienti con ACS associata a ALI/ARDS (Malbrain, 2002; De Laet et al., 2007): 1. di considerare IAH nella scelta della PEEP (PEEP impostata = IAH); 2. che le pressioni delle vie aeree (Paw) che rileviamo alla bocca del paziente non sono le pressioni transmurali (Ptm) che dipendono anche dalla pressione pleurica (Ppl) (per esempio, Ptm = Paw–Ppl) e che Ppl aumenta all’aumentare di IAP (circa Ppl = IAP/2); 3. di considerare l’uso di miorilassanti per ridurre la compliance addominale.
140
Le scelte sulle strategie del trattamento medico elencate qui di seguito, sono fortemente correlate all’etiologia della IAH-ACS e alla situazione clinica del paziente. L’appropriatezza di ciascun intervento dovrebbe sempre essere considerata prioritaria, al fine di implementare gli stessi interventi nelle diverse tipologie di paziente. Gli interventi dovrebbero essere applicati step-by-step (dall’1 al 4) fino alla riduzione della IAP. Se non vi è risposta al trattamento medico, si dovrebbe passare allo step successivo.
Paziente con IAP ≥12 mmHg
STEP 3
STEP 2
STEP 1
Misurare IAP/APP almeno ogni 4/6 h o continuamente. Strutturare la terapia in modo da mantenere IAP ≤15 mmHg e APP ≥mmHg
STEP 4
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M. Girardis, E. Biagioni
Evacuare contenuto intraluminale
Evacuare lo spazio intraaddominale da eventuali raccolte e/o lesioni
Incrementare la compliance della parete addominale
Ottimizzare la somministrazione fluidica
Ottimizzare la perfusione regionale/ sistemica
Inserire sondino naso/gastrico e/o sonda rettale
ECO-addome per l’dentificazione di lesioni
Assicurare un’adeguata sedazione e analgesia
Evitare un’eccessiva resuscitazione fluidica
Resuscitazione fluidica
Rimuovere qualsiasi peso, costrizione
Assicurare un BI≤0 al 3 giorno di degenza
Mantenere una APP ≥60 mmHg
Monitoraggio emodinamico per guidare la resuscitazione
Somministrare procinetici gastrocolici
Minimizzare la nutrizione enterale
TAC-addome per l’identificazione di lesioni
Evitare la posizione prona, schienale inclinato > 20°
Resuscitare utilizzando fluidi ipotonici, colloidi
Somministrare clisteri
Drenaggio percutaneo
Considerare Trendelenburg inverso
Quando il paziente stabile, rimozione fluidica tramite un’attenta diuresi
Considerare la depressione colonscopica
Considerare l’exeresi chirurgica delle lesioni
Considerare il blocco neuromuscolare
Considerare emodialisi, ultrafiltrazione
Farmaci vasoattivi per mantenere APP ≥60 mmHg
Inserire sondino naso-gastrico e/o sonda rettale
Se IAP > 25 mmHg (e APP < 50 mmHg) ed è insorta una nuova disfunzione d’organo, il paziente con IAH/ACS è refrattario ai trattamenti medici: considerare la decompressione chirurgica
Fig. 8.3 Algoritmo per il trattamento medico di IAH/ACS
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Così come per il sistema respiratorio, è abbastanza evidente nella pratica quotidiana che ogni aumento di IAP determina alterazioni cardiovascolari che variano in maniera lineare con l’aumento dell’IAP. L’aumento della pressione intratoracica riduce il ritorno venoso, dopo un iniziale aumento determinato dalla compressione dei vasi addominali, e questo riduce la gittata cardiaca. La pressione arteriosa media (MAP, mean arterial pressure) non è un buon indicatore di perfusione nel caso di IAH, perché oltre a quanto detto sopra per l’APP, la compressione dei vasi splancnici e l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone può determinare un aumento delle resistenze vascolari sistemiche con mantenimento di una MAP normale anche in caso di riduzione della gittata cardiaca. Cosa fare per evitare/trattare queste alterazioni cardiovascolari? La risposta più semplice, oltre a cercare se possibile di ridurre l’IAP, è quella di aumentare il volume circolante per aumentare il ritorno venoso, ma questo riporta all’annoso problema della gestione fluidica di questi pazienti. Infatti, oltre alla scarsa affidabilità della MAP come indicatore di perfusione d’organo, l’aumento della pressione intratoracica rende i parametri di precarico cardiaco basati su misure statiche di pressione (CVP, PAOP) assolutamente non affidabili e il loro utilizzo come valori assoluti per la resuscitazione fluidica dovrebbe essere evitato perché può causare decisioni terapeutiche inappropriate (Bloomfield et al., 1997). La soluzione sta, come detto per la gestione intraoperatoria, nel monitoraggio scrupoloso di parametri emodinamici e di perfusione d’organo (metabolica) e nella costruzione di algoritmi resuscitativi con obiettivi precisi. Come abbiamo detto relativamente al sistema cardiovascolare, i classici parametri pressori statici di precarico e di pressione sistemica sono poco utili in questi pazienti. Le alternative non mancano, in particolare per valutare la capacità del paziente di rispondere alla terapia fluidica (per esempio, la forma più corretta con la quale si parla oggi di precarico): la misura dei volumi cardiaci (attraverso ecocardio e/o diluizione transpolmonare) e dei parametri dinamici (per esempio, variazione della pressione pulsatoria) si sono dimostrati affidabili nella valutazione del paziente con shock settico e IAH (De Laet et al., 2009). Ma, a nostro parere, questi parametri sono relativamente utili, perché in un paziente nel quale si voglia evitare ogni millilitro di fluido in eccesso occorrerà titolare la terapia fluidica su parametri di perfusione d’organo (per esempio, lattato ematico, eccesso basi, saturazione di O2 nel sangue venoso misto) (Michard et al., 2003). Se il nostro paziente non ha segni di ipoperfusione, poco importa sapere se è o no responsivo ai fluidi, perché comunque non verranno somministrati. Viceversa, se il paziente presenta segni di ipoperfusione, si cercherà di somministrare la minor quantità di liquidi possibile utilizzando precocemente le amine vasoattive per garantire un’adeguata gittata cardiaca e perfusione d’organo. Bisogna chiarire che questo approccio, raccomandato anche dalle linee guida internazionali (Gutierrez et al., 2004), non è stato ancora oggetto di studi specifici prospettici randomizzati su larga scala ma, come per la small volume resuscitation nel paziente traumatizzato, si basa su principi fisopatologici solidi. Analizzata quale deve essere la strategia per la somministrazione di fluidi, rimane ancora da dire che abbiamo a disposizione qualche dato per la scelta del tipo di
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M. Girardis, E. Biagioni
fluido da utilizzare. Come atteso per pazienti con alterazione della permeabilità endoteliale, nei pazienti con IAH l’utilizzo di colloidi sintetici o naturali e cristalloidi ipertonici sembra essere protettivo rispetto all’uso di cristalloidi isotonici sia per lo sviluppo/peggioramento della IAH che per la probabilità di morte (Cheatham et al., 2000). Per riassumere i concetti espressi sopra, la resuscitazione fluidica con cristalloidi ipertonici e/o colloidi deve essere considerata nei pazienti con IAH per prevenire la progressione verso una ACS secondaria (1C) e il volume di resuscitazione fluidica deve essere scrupolosamente monitorato per evitare sovraccarico idrico (1B) (Oda et al., 2006; Cheatham et al., 2007).
8.5 Conclusioni Le conclusioni servono per rispondere alla seconda domanda chiave posta dal nostro infermiere: “Dottori, dobbiamo preparare qualcosa di particolare?”. In effetti ci sentiamo un po’ più preparati è possiamo rispondere che occorre: 1. preparare il set necessario per emocolture e richieste microbiologia per eventuale materiale proveniente dalla sala operatoria; 2. procurare l’antibiotico che è stato utilizzato in sala operatoria (nella nostra struttura: piperacillina/tazobactam); 3. preparare il materiale per il monitoraggio emodinamico standard (incluso PVC); 4. approntare la misurazione dei lattati e la SvO2 ogni 4-6 ore e se presenti segni di ipoperfusione serve monitorare la gittata cardiaca (nella nostra struttura: diluizione transpolmonarte o PAC); 5. eseguire la misurazione della pressione addominale subito e poi ogni 4-6 ore; se IAP >12 mmHg avvisare subito il medico; 6. preparare i colloidi sintetici e se l’albuminemia è bassa (nella nostra struttura: <2,0 mg/dl) richiedere albumina; 7. predisporre una pompa siringa per infusione di amine (nella nostra struttura: dopamina e poi noradrenalina); 8. eseguire il bilancio idrico ogni 6 ore. Come inizio non è male, ma l’infermiere ci ha già guardato “storto” un paio di volte...
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Il paziente nefropatico
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M. Dei Poli, M.V. Resta, C. Colombo
Riassunto Il monitoraggio del malato nefropatico è prevalentemente biochimico, e strumentale solo per quanto attiene gli aspetti perfusivi. Il rene infatti è un organo costituito principalmente da un grande circolo funzionale, addetto a molteplici funzioni, dalla filtrazione al riassorbimento alla secrezione di sostanze diverse. Per tale motivo la suscettibilità agli insulti ipoperfusivi e ischemici rende indispensabile un’attenzione costante alla correttezza dell’apporto ematico al rene, all’autoregolazione intrarenale e ai meccanismi di compenso emodinamici. Una perfetta conoscenza della fisiologia e della fisiopatologia del rene e dell’emodinamica sistemica permette di preservare la funzione d’organo, e il monitoraggio diviene in tal senso strategico. Il rene malato pone peraltro tutti i problemi legati a un imperfetto (o patologico) sistema di regolazione, sia metabolico (vedi equilibrio acido-base, elettroliti e osmoli, tossine e prodotti azotati) che circolatorio. Oltre a un’approfondita conoscenza di come il sistema stesso può deviare, sono indispensabili marcatori sensibili e precoci di malfunzione, in particolare per quanto attiene il sistema di controllo del volume plasmatico, che è alla base del regolare funzionamento di organi e sistemi.
9.1 Introduzione La nefropatia è di interesse anestesiologico in quanto altera in misura più o meno rilevante lo stato funzionale del rene, la sua performance in risposta all’attività richiesta e il grado di compenso residuo. Una nefropatia può manifestarsi a livelli diversi Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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M. Dei Poli et al.
dell’unità nefronale, in particolare può essere una glomerulopatia o una tubulopatia, può rivestire livelli diversi di gravità, può evolvere più o meno rapidamente verso l’insufficienza acuta o cronica. Affronteremo l’approccio al paziente nefropatico con una sequenza logica di questo tipo: - quali funzioni del rene vengono colpite dai processi di malattia renale; - quali adattamenti vengono messi in atto dall’organismo per fronteggiare la disfunzione (fasi precoci dell’insufficienza d’organo); - quali influenze si manifestano sui meccanismi di compenso dell’organismo. Ognuna delle funzioni alterate e le conseguenze, per esempio, sui dosaggi dei farmaci o sulla gestione della terapia fluidica, necessitano di una precisa conoscenza delle modalità di valutazione e del monitoraggio nel tempo. La funzione renale è un insieme di attività omeostatiche di importanza centrale nella vita dell’organismo. Non si tratta solamente della funzione di escrezione di sostanze indesiderate dall’organismo – urea e derivati, metaboliti di sostanze tossiche, acidi fissi –, ma di un ruolo centrale nella regolazione omeostatica, in particolare la regolazione dell’acqua corporea e dell’acqua extracellulare, seppur in concorso con altri organi e apparati (sistema nervoso centrale, sistema nervoso autonomico, sistema circolatorio ecc.), e la regolazione dell’equilibrio acido base, anch’esso con la collaborazione in particolare del sistema respiratorio. È interessante notare come la moderna visione del governo del pH dei fluidi corporei si correli in modo stretto alla gestione dell’acqua corporea e dell’acqua extracellulare. È evidente come la disfunzione del sistema escretore (con questa terminologia attribuiamo un ruolo secondario ma non trascurabile alle vie urinarie nel loro complesso) si rifletta anche drammaticamente non solo sulla funzione escretrice, ma anche sugli equilibri complessivi dell’organismo. Le nefropatie sono in continuo aumento. Negli Stati Uniti il 5% della popolazione adulta soffre di una patologia renale. L’aspettativa di vita dei pazienti con disfunzione terminale (ESRD, end stage renal disease, uremia) è notevolmente aumentata grazie ai progressi delle metodiche sostitutive extracorporee e al trapianto di rene. Nonostante ciò la morbidità e la mortalità perioperatorie del paziente nefropatico e in particolare del dializzato cronico sono a tutt’oggi molto elevate, specie nella chirurgia a elevato rischio, dove ovviamente la richiesta di compensi all’omeostasi è maggiore. Nel definire il paziente nefropatico e nel cogliere le problematiche perioperatorie possibili e attese, è indispensabile un approccio di fisiologia e fisiopatologia nefrologica.
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9.2 Filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate) 9.2.1 Anatomia Il rene è un parenchima con forte organizzazione vascolare (così come avviene per il polmone, il fegato e la milza) in cui il circolo funzionale è strutturato per un’imponente azione depurativa. Il meccanismo di base è apparentemente semplice: un’importante quota della gettata cardiaca (normalmente il 20%) viene pompata nei reni sotto forma di flusso renale plasmatico (1 litro al minuto). Incontrando nel suo percorso una struttura capillare specializzata, con caratteristiche anatomo-strutturali peculiari, la portata renale plasmatica genera flusso verso la camera di raccolta epiteliale (capsula di Bowman) e da qui in condotti di elaborazione di questo liquido, trasformandolo da preurina in urina. Il sangue in uscita dall’area di filtrazione – il glomerulo – diventa a sua volta il sangue che perfonde la struttura di elaborazione – il tubulo – favorendo secrezione netta, escrezione o riassorbimento. Il gradiente di pressione idrostatica attraverso la parete capillare glomerulare è la principale forza di spinta alla filtrazione glomerulare, mentre la pressione oncotica che si registra all’interno del capillare stesso (le proteine vengono filtrate in misura trascurabile in condizioni normali), contrasta in parte questa forza. L’aumento della concentrazione delle proteine plasmatiche lungo il capillare glomerulare, man mano che la filtrazione sottrae liquido plasmatico, fa sì che appena prima dell’uscita dall’area filtrante il flusso di filtrazione si avvicini allo zero. Ingresso e uscita dall’area filtratoria (il capillare glomerulare con le sue strutture endoteliale, epiteliale e di membrana basale) sono definiti arteriola afferente e arteriola efferente. Il nefrone è in questo modo servito da due letti capillari posti in serie, il glomerulo e i capillari peritubulari, separati dall’arteriola efferente che regola la pressione idrostatica in entrambi.
9.2.2 Fisiologia La filtrazione glomerulare dipende dalla pressione del flusso ematico in ingresso al rene, ma in modo non lineare. La principale caratteristica della risposta del rene a un calo della pressione di perfusione è l’autoregolazione (in analogia ai circoli cerebrale e coronarico), vale a dire il mantenimento di un normale flusso e di un normale tasso di filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate) anche in presenza di una pressione media al limite inferiore (per esempio, 80 mmHg) (Dworkin e Brenner, 2004). La pressione nei capillari glomerulari è condizionata dalle resistenze nell’arte-
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riola in ingresso (afferente) e in uscita (efferente). Il grado di resistenza (vasocostrizione o vasodilatazione) è mediato da meccanismi multipli di regolazione, come sempre avviene quando in gioco c’è la difesa di funzioni di importanza prioritaria per l’organismo. Il riflesso miogenico è una difesa di prima linea dalle fluttuazioni di perfusione: aumenti improvvisi di pressione producono uno stiramento delle pareti e un riflesso di costrizione dell’arteriola afferente di significato protettivo a rapida risposta (~250 ms). La risposta è speculare per improvvise riduzioni di pressione. L’autoregolazione che si verifica per una riduzione della pressione nell’arteria renale deriva principalmente da una caduta della resistenza applicata all’arteriola afferente al glomerulo, mediata in larga parte da prostaglandine: questa riduzione di resistenza sostiene la pressione capillare glomerulare, che rappresenta la forza di supporto alla filtrazione. La pressione nei capillari glomerulari è inoltre sostenuta da un aumento del tono nell’arteriola efferente del glomerulo, mediata in gran parte dall’angiotensina II (Badr e Ichikawa, 1988; Brenner, 2004). Quando la pressione di perfusione scende al di sotto della soglia di autoregolazione, i vasocostrittori endogeni incrementano la resistenza dell’arteriola afferente. Questo si traduce in una riduzione della pressione capillare glomerulare, da cui una riduzione della filtrazione glomerulare e l’induzione di insufficienza funzionale prerenale (Schrier et al., 2004). Il letto vascolare peritubulare rimane intatto nonostante il decremento di pressione e flusso, fino a che il grado e la durata dell’ischemia non portino a un danno tubulare strutturale, che a sua volta peggiora la funzionalità del rene. Cellule epiteliali tubulari e frammenti dell’orletto a spazzola tubulare formano cilindri ostruenti i tubuli, e attraverso le pareti tubulari danneggiate la preurina filtra dal lume ai capillari (back leak); l’alterato riassorbimento tubulare del sodio ne aumenta la concentrazione intratubulare e causa la polimerizzazione delle proteine di Tamm Horsfall (normale secreto dell’ansa di Henle) che, gelificando, favoriscono la formazione di cilindri (Wangsiripaisan et al., 2001). Il feedback tubuloglomerulare consiste di due componenti che agiscono sinergicamente per il controllo della filtrazione glomerulare: un meccanismo di feeback sull’arteriola afferente e un meccanismo di feedback sull’arteriola efferente. I due meccanismi dipendono da un’entità anatomica dedicata: nell’angolo formato tra arteriola afferente ed efferente si interpone una porzione di tubulo distale, che in quel preciso punto prende il nome di “macula densa” e che, insieme ad arteriole afferenti ed efferenti contribuisce alla formazione dell’“apparato iuxtaglomerulare” Una riduzione del GFR comporta una riduzione della concentrazione di sodio (Na) nella “macula densa”, che causa dilatazione dell’arteria afferente (prostaglandine e ossido nitrico [NO]), increzione di renina dalle cellule mioepitelioidi dell’apparato juxtaglomerulare, produzione di angiotensina II, e infine costrizione dell’arteriola efferente. Di qui il ripristino di una pressione idrostatica glomerulare efficace e un ritorno alla norma del GFR. Si definisce infine bilancio glomerulotubulare la capacità del tubulo renale di aumentare la velocità di riassorbimento (globale) in risposta a un aumento del carico filtrato. Il preciso meccanismo con cui ciò avviene non è del tutto noto, ma può essere in parte legato a variazioni nelle forze fisiche presenti nel tubulo e nell’intersti-
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zio (per esempio, pressione idrostatica intratubulare, extratubulare, interstiziale, e pressione oncotica interstiziale e intracapillare ecc.). La filtrazione glomerulare è in sostanza la chiave di volta della funzione renale: come funzione primaria nella produzione di urina, è quella che dà il via alla manipolazione del plasma, con la finalità di gestire acqua e soluti, macro- e microminerali, sostanze di rifiuto e tossine, in un complesso gioco di riassorbimento, secrezione e scambio. La buona comprensione dell’azione filtratoria e delle sue relazioni con la perfusione renale sono alla base della buona gestione del perioperatorio di ogni paziente, in particolare del nefropatico di base.
9.3 Adattamento alla disfunzione progressiva 9.3.1 Filtrato glomerulare La riduzione del filtrato glomerulare può avvenire in modo acuto, in risposta a meccanismi riflessi all’ipoperfusione renale, o derivare dalla perdita numerica percentuale dei nefroni esistenti. I soluti abitualmente trattati dal rene mostrano comportamenti diversi. I soluti sostanzialmente solo filtrati, come creatinina e urea, si mantengono a concentrazioni ematiche stabili fino a una riduzione nefronale del 50%, grazie a una iperfunzione compensatoria dei nefroni residui. Il transitorio aumento di GFR (iperfiltrazione) tipico di questa fase è legato all’azione amplificata dell’angiotensina II: la vasocostrizione efferente aumenta la pressione idrostatica nel capillare glomerulare e di qui la filtrazione. Raggiunto un deficit di metà della normale funzione (Schena e Selvaggi, 2008), l’incremento della concentrazione ematica (urea e creatinina plasmatiche) è progressivo e rappresenta il meccanismo con cui aumentare la filtrazione (aumento della concentrazione: aumento della filtrazione). Come si vedrà in seguito, il comportamento di urea e creatinina non sono completamente equiparabili, in quanto l’urea è fortemente influenzata anche dallo stato volemico, dato che viene avidamente riassorbita in condizioni parafisiologiche di ipovolemia marcata. Urea e creatinina possono pertanto rappresentare un indicatore di funzione renale (GFR in particolare) a condizione che la loro produzione sia mantenuta costante. Catabolismo muscolare aumentato, breakdown proteico ed eccessiva introduzione di proteine squilibrano il sistema da un lato; cachessia, impoverimento della massa magra (come nell’età senile) lo squilibrano nell’altro verso. In modo differente si comportano altre sostanze come gli ioni urato, fosfato, potassio e idrogeno, che non aumentano fino a che il GFR non è sceso a valori
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molto ridotti. Infatti per queste sostanze si attiva un meccanismo per cui, al ridursi del filtrato, l’apparato tubulare del nefrone ne aumenta la secrezione o ne diminuisce il riassorbimento, in modo tale che una maggior quota del carico filtrato venga escreta. Alcuni soluti, infine, come il NaCl, rimangono normali nell’intero progredire della disfunzione renale, e anche nel caso di insufficienza renale terminale. Ciò può avvenire solo grazie all’escrezione frazionale di quote sempre maggiori del carico filtrato di queste sostanze.
9.3.2 Omeostasi di acqua e sodio Nelle insufficienze renali cronicamente stabili il contenuto di acqua e sodio risulta lievemente aumentato, in modo subclinico. L’espansione del volume extracellulare (VEC) pare legato a un malfunzionamento del meccanismo a feedback glomerulotubulare, oltre che a una mancata cura dell’introito quotidiano: essendo isotonica e isoplasmatica, questa modificazione in eccesso del VEC non causa alterazioni della natremia, se non l’iponatremia delle fasi preuremiche. Nelle fasi iniziali (stadi 2 e 3 dell’insufficienza renale cronica) (Tab. 9.1) l’iperfunzione dei nefroni residui comporta la produzione di urine diluite, con basso peso specifico (minore di 1020). Di questo fenomeno è responsabile anche una ridotta risposta all’ormone antidiuretico (ADH) da parte del tubulo collettore. Molti pazienti, in questa fase, riferiscono poliuria (stimolo alla minzione durante la notte). Fra gli stadi 3 e 4, per il graduale esaurimento dei meccanismi di compenso, comincia a manifestarsi una moderata ritenzione idrica, con comparsa di edemi declivi. Tale situazione diventa ancora più evidente nello stadio 5. I pazienti con insufficienza renale cronica possono presentare, in fasi diverse della malattia e a seconda dell’eziologia sottostante, un alterato meccanismo di conservazione renale del sodio e dell’acqua. Questi pazienti, se non intercettati in fase preoperatoria, possono costituire un pericolo potenziale, specie quando intervengano cause aggiuntive (febbre, vomito, diarrea, stati occlusivi), di sviluppo di disidratazione e ipovolemia.
Tabella 9.1 Fasi dell’insufficienza renale cronica GFR (ml/min x 1,73 m2)
Stadio
Descrizione
1
Danno renale con GFR normale o aumentato
90
2
Danno renale con lieve diminuzione di GFR
60-89
3
Discreta diminuzione di GFR
30-59
4
Grave diminuzione di GFR
15-29
5
Insufficienza renale uremica
<15 o dialisi
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9.3.3 Effetti sull’equilibrio acido-base La produzione endogena quotidiana di acidi, derivanti soprattutto dal catabolismo proteico, è approssimativamente di 50-100 mEq/die. Il rene elimina gli idrogenioni sia secernendoli direttamente a livello del tubulo collettore sotto forma di ioni ammonio (acidità non titolabile), sia riducendo il riassorbimento dei fosfati (acidità titolabile) nel tubulo prossimale; qui avviene anche il riassorbimento del bicarbonato, principale sistema tampone dell’organismo. Tutti questi processi sono compromessi in corso di insufficienza cronica di funzione, con l’acidosi metabolica come risultante. Nelle prime fasi dell’insufficienza renale si assiste a un aumento compensatorio della secrezione dell’ammonio da parte dei nefroni residui funzionanti; tuttavia, quando il GFR scende al di sotto di 50 ml/min, anche l’escrezione dell’ammonio si riduce. Contribuisce allo sviluppo dell’acidosi anche la diminuzione del riassorbimento tubulare di bicarbonati. La concentrazione plasmatica dei bicarbonati tende a ridursi a livelli inferiori a 15 mEq/l, ma solitamente non raggiunge livelli estremamente bassi, poiché questo tipo di acidosi si instaura lentamente, dando il tempo ai meccanismi di compenso di intervenire. L’eccesso di idrogenioni può essere tamponato attraverso la mobilizzazione di calcio e fosfati dalla matrice ossea, con l’inevitabile conseguenza della graduale comparsa o aggravamento dell’osteodistrofia uremica. Grazie ai meccanismi di compenso l’acidosi metabolica dell’insufficienza renale cronica rimane per lungo tempo asintomatica. Nel corso del perioperatorio il difettoso funzionamento di una essenziale fonte di compenso metabolico può aggravare situazioni ipoperfusive: in questo caso, infatti, da un lato il rene può essere colpito da uno stato ischemico, dall’altro non può mettere a disposizione risorse integre per compensare l’acidosi lattica ipoperfusiva. Si tratta di una delle rare circostanze in cui è ammissibile l’impiego del bicarbonato di sodio nella correzione dell’acidosi metabolica.
9.4 Problemi che un nefropatico pone nella gestione perioperatoria 9.4.1 Controllo del volume e ipoperfusione Il mantenimento dell’omeostasi dell’acqua corporea, della corretta composizione e dimensione dei differenti comparti fluidici (intra- ed extracellulare, volemia), dei normali scambi di acqua e soluti, e la regolazione grossolana e fine della perfusione degli organi, sono una delle maggiori priorità del nostro organismo. La ricerca dell’equilibrio e della miglior funzione è assicurata da meccanismi di controllo in serie e paralleli, integrati fra loro e di natura differente (chimico e fisico), tali da garantire la funzione anche a fronte di patologie gravi dei sistemi stessi di regolazione.
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I principali sistemi integrati sono: – sensori barorecettoriali di eccessiva pressione (aorta, seno carotideo e arteriola afferente del glomerulo), che quando stimolati trasmettono afferenze al troncoencefalo, che inibisce l’efferenza simpatica a cuore e vasi sanguigni e stimola l’attività parasimpatica; – sensori volumetrici di distensione (atrio destro e sinistro, ventricolo destro e sinistro, cava e grossi vasi venosi, vasi polmonari), che quando stimolati limitano gli incrementi di pressione e volume relativi. Lo stiramento atriale induce una vasodilatazione riflessa dell’arteriola afferente glomerulare, un segnale all’ipotalamo per l’inibizione riflessa dell’ADH, e un feedback positivo ai tessuti produttori di peptide natriuretico. L’azione sinergica dei tre meccanismi sopraddescritti induce una diuresi acquosa (elevata clearance dell’acqua libera) coerente con il segnale; – apparato juxtaglomerulare, sensore chimico all’NaCl in presentazione al tubulo distale, direttamente correlato al sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA). Il sistema integrato è pertanto in grado di far fronte a ipervolemia (eccesso di volume-eccesso di pressione), a ipovolemia (difetto di volume-difetto di pressione) e a difetti di perfusione renale (e a tutti i segnali che mimano una ipoperfusione in ingresso al rene). Questo robusto sistema di regolazione viene messo a repentaglio da terapie di blocco recettoriale (beta-blocco) e di blocco del SRAA (ACE-inibitori, sartani), da disautonomie (per esempio, diabetica), dalla simpaticectomia regionale della rachianestesia e dalle nefropatie, anche se in grado differente e progressivo. È di grande importanza conoscere lo stato del paziente nella fase perioperatoria, le condizioni dei sistemi omeostatici e della funzione renale, e disporre di modalità di controllo e monitoraggio dei fluidi e della volemia (facendo un distinguo essenziale tra il termine “fluidi”, che riguarda l’insieme dell’acqua corporea e nello specifico l’acqua extracellulare, e “volume” o “volemia”, usato per il sangue o il plasma nel loro insieme, anche qui distinguendo fra la frazione circolante e quella stagnante o di pooling venoso).
9.4.2 Meccanismi di risposta all’ipovolemia Il calo acuto di volemia, anche se non comporta una riduzione della pressione arteriosa media (PAM), comporta praticamente almeno nelle prime fasi della sua instaurazione sempre un calo della pressione pulsatoria o differenziale (PP, pulsatory pressure, PAS – PAD): questa riduzione di PP è sufficiente a ridurre la tensione dei barocettori arteriosi che normalmente inibiscono il tono simpatico (Ganong, 2001), e una minor scarica neuronale di questi tensiocettori ne consente l’emergere di un maggior tono. Si tratta del primo e più rapido compenso all’ipovolemia, che viene seguito da al-
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tri meccanismi più lenti come l’attivazione del SRAA. La vasocostrizione si fa immediatamente sentire a livello cutaneo, viscerale e renale (distretti a bassa estrazione di ossigeno), mentre vengono risparmiati il circolo cerebrale e coronarico, in cui l’elevato consumo di ossigeno obbliga a una maggior estrazione di ossigeno. Perché le arterie di questi distretti non vengono costrette? Le arteriole cerebrali perché hanno una innervazione vasocostrittrice irrilevante da un punto di vista funzionale, le coronarie perché sono dilatate per l’aumento di metabolismo miocardico indotto dalla tachicardia. Quindi già in fase iniziale cute pallida e sudata e malessere gastrointestinale sono stimoli che rivelano i primi compensi all’ipovolemia messi in atto dall’organismo. Anche il rene partecipa a questa prima fase di compenso, realizzando una costrizione delle due arteriole glomerulari, l’afferente e l’efferente, da cui un calo di filtrazione glomerulare (calo della pressione netta di filtrazione). Un calo ancor più importante si verifica a carico del flusso plasmatico renale, cui il rene reagisce riassorbendo acqua e sale nel tentativo di espandere il volume circolante. Ne consegue che le urine sono concentrate e povere di Na: nelle ipovolemie il sodio urinario (Nau) è in genere inferiore a 25 mEq/l e può giungere a valori di 1 mEq/l. Questo estremo riassorbimento tubulare del Na è mediato dall’attivazione del SRAA (reattore a rapidità intermedia) e dal calo della pressione sistemica (reattore rapido): anche il cloro (Cl) viene rapidamente riassorbito (in analogia al Na), con conseguente basso tenore di Cl nelle urine. Le urine dell’ipovolemico in grado di compensare sono povere di Na e Cl. Un’importante eccezione è costituita dalla coesistenza di un’alcalosi metabolica (per esempio, ipovolemia in aspirazioni gastriche prolungate e vomito protratto), caso in cui il rene elimina ioni bicarbonato a compenso sotto forma di NaHCO3: l’ipovolemia in tal caso non si accompagna a basso tenore di Na nelle urine, ma dalla sola bassa cloruria (Clu) e dalla elevata concentrazione delle urine stesse. Un basso valore di Nau non è peraltro patognomonico di ipovolemia: altre situazioni in cui il tubulo renale riassorbe avidamente Na possono essere la stenosi bilaterale delle arterie renali e la glomerulonefrite. In caso di contrazioni volemiche acute, dell’ordine del 10-15% del volume globale, viene stimolata la secrezione centrale di ormone antidiuretico (ADH), con un meccanismo meno raffinato e preciso di quello attivato dallo stimolo osmolare. Ne consegue che le urine saranno più concentrate, con peso specifico superiore a 1015 e osmolarità (Uosm) elevata, superiore a 450 mOsm/l: anche in questo caso esistono eccezioni al valore diagnostico del dato. In caso di ipopotassiemia l’ADH è meno efficace, per una resistenza tubulare alla sua azione, e il compenso all’ipovolemia diviene meno significativo; si noti perciò come nella alcalosi metabolica né Nau, né Uosm sono marker affidabili di ipovolemia. Un’altra conseguenza dell’ipovolemia è l’iperazotemia, che si verifica per aumentato riassorbimento tubulare in accompagnamento al riassorbimento di Na e acqua: sarà trattata in dettaglio nella descrizione dell’urea come marcatore di funzione renale. Il comportamento di Nau, Clu e azotemia è quindi un’utile sentinella del compenso renale all’ipovolemia e al corretto trattamento della stessa.
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Tabella 9.2 Parametri diagnostici per differenziare insufficienza renale prerenale e danno renale intrinseco Indicatore
Prerenale
Intrinseca
Escrezione frazionale del Na (%) (UNa x Pcr)/(PNa x Ucr) v 100 Concentrazione Na urinario (UNa, mmol/l)
<1
>1
<10
>20
Creatinina urinaria (Ucr)/Creatinina plasmatica (Pcr)
<40
>20
Urea urinaria (Uurea)/Urea plasmatica (Purea)
>8
<3
Peso specifico urinario
>1020
<1005
Osmolarità urinaria (Uosm)
>500
<300
Urea plasmatica (Purea)/Creatinina plasmatica (Pcr)
>20
<10-15
Sedimento urinario
cilindri ialini
cilindri granulosi
Anche il quadro elettrolitico plasmatico fornisce informazioni importanti nel paziente ipovolemico, soprattutto quando consente di distinguere fra deplezione volemica e deplezione idrica o fluidica, situazioni che impongono atteggiamenti terapeutici differenti: nella deplezione volemica (perdita di sangue, plasma, acqua e Na in modo isoplasmatico) la sodiemia rimane normale; nella disidratazione (perdita di acqua in eccesso al Na) si registra ipernatremia. Ci può venire in aiuto in questo caso la clearance dell’acqua libera (ClH2O), che si calcola per sottrazione dal volume urinario del volume legato alla clarance osmolare (Closm): quest’ultimo è calcolato con la consueta formula Uosm × volume urinario/Posm, dove Uosm è l’osmolarità delle urine e Posm è l’osmolarità del plasma (Tabella 9.2).
9.4.3 Biomarcatori di disfunzione renale È verosimile pensare che la precoce rilevazione di disfunzione o danno renale possa essere clinicamente rilevante nel consentire l’interruzione del fattore danneggiante o nel prevenire un progredire del danno. È comprensibile pertanto che da sempre si sia alla ricerca di parametri, dati laboratoristici o biomarcatori utili a svelare con precocità un danno renale avvenuto o in divenire. È possibile definire le caratteristiche di un biomarcatore ideale di funzione glomerulare: una quota costante di produzione, la solubilità nell’acqua, l’assenza di legame proteico, la libera filtrabilità glomerulare, l’assenza di secrezione e riassorbimento tubulari, l’assenza di metabolismo extrarenale, una metodica di misura precisa, affidabile, rapida e di basso costo.
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A differenza di quanto oggi disponibile per la sindrome coronarica acuta, dove la troponina riflette in modo attendibile e semiquantitativo il danno miocardico ipoperfusivo, non esiste a oggi un marcatore di danno renale che si avvicini al profilo dell’indicatore ideale. La diagnosi e la classificazione eziologica del danno renale acuto si basano fortemente sulle modificazioni dei livelli di creatinina e dell’urea sierica, che pur mostrando limiti evidenti (per esempio, c’è un ritardo fra l’inizio del danno e l’incremento dei marcatori) sono gli unici di utilità pratica (inulina, EDTA, iotalamato sono riservati a studi di laboratorio e di medicina sperimentale).
9.4.3.1 Creatinina sierica Si tratta di un composto aminoacidico derivato dalla conversione non-enzimatica della creatina a fosfocreatina nel muscolo scheletrico, e al successivo matabolismo epatico a creatinina. Per un peso molecolare di 113 Dalton, viene rilasciata nel plasma a velocità costante, liberamente filtrata dal glomerulo e non riassorbita o metabolizzata dal tubulo renale. Anche per la creatinina esistono dei limiti di impiego come marcatore di funzione renale, legati alle differenze nella produzione e nella messa in circolo della stessa: l’assunzione di supplementi o la carenza legata al vegetarianismo, la consistenza della massa muscolare, legata a età e sesso, ma anche a malnutrizione, malattie neuromuscolari, cachessia, generano livelli di base differenti da situazione a situazione. In altri casi sono le patologie stesse a rendere di difficile interpretazione il dato (per esempio, la rabdomiolisi). È pertanto di grande importanza che l’anestesista pretenda una misura o una stima della clearance della creatinina nei pazienti anziani con evidente riduzione della massa magra muscolare. Un difetto funzionale può essere mascherato dalla quota di creatinina secreta dal tubulo (fino al 40%), laddove ci si affidi al solo dato del marcatore. Alcuni farmaci peraltro inibiscono questa secrezione e in certi casi possono giustificare un aumento del livello sierico: è il caso della cimetidina e del trimethoprim. La reazione di Jaffe (Molitch et al., 1980) è un’alterazione nella misura legata all’interferenza di sostanze endogene (per esempio, l’acido acetacetico nella ketoacidosi) con la metodica in uso (per esempio, il picrato alcalino), in modo analogo a quanto possono indurre farmaci come la cefoxitina e la flucitosina.
9.4.3.2 Clearance della creatinina Il GFR (ml/min) si può stimare valutando la clearance della creatinina (Stevens e Levey, 2005). La clearance renale di una sostanza è rappresentata dalla quantità di plasma che viene “ripulita” da quella sostanza nell’unità di tempo a opera del rene.
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Per misurare direttamente la clearance della creatinina occorre dosarla nel siero e nelle urine raccolte nelle 24 ore, quindi applicare la formula U×V/P dove U è la concentrazione della creatinina nelle urine, V il volume delle urine e P la creatinina nel plasma. In un soggetto sano di sesso maschile la clearance della creatinina può assumere valori compresi fra 80 e 120 ml/min. Recentemente si è chiarito che anche la sola misura della creatinina nel sangue consente di stimare con buona approssimazione la velocità di filtrazione glomerulare (VFG) e quindi di dire se una persona è affetta da insufficienza renale. La clearance della creatinina (ml/min) può essere stimata anche con una formula (formula di Cockroft e Gault) che ne permette la stima conoscendo solo la concentrazione della creatinina nel sangue, oltre al peso e all’età del paziente: Clearance della creatinina (ml/min) = (140 – età) × peso corporeo ideale (kg) / (72 × creatininemia (mg/dl) Tale valore va moltiplicato × 0,85 per le donne. La formula MDRD consente di stimare più direttamente il GFR: GFR = 186 × creatinina sierica–1,154 x età-0,203 × (0,742 se donna) dove il GFR è espresso in ml/min/1,73 m2.
9.4.3.3 Urea sierica, azotemia L’urea è una molecola solubile nell’acqua, a basso peso molecolare (60 Dalton), sottoprodotto del metabolismo proteico, impiegata come marcatore sierico della ritenzione/eliminazione dei soluti uremici). Analogamente alla creatinina sierica, l’urea mostra una relazione inversa non lineare con il GFR. Il gran numero di fattori extrarenali che influenzano la produzione endogena e la clearance renale (indipendentemente dal GFR) ne rendono problematico l’impiego per la stima del GFR. Una diminuzione si registra in corso di espansione di volume aggressiva, gravidanza, sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH, syndrome of inappropriate [secretion] of antidiuretic hormone), restrizione proteica alimentare, malattia epatica, mentre un aumento può essere osservato per una contrazione del volume circolante, eccessiva introduzione di proteine con la dieta, malattia critica (trauma, ustioni, sepsi), emorragia gastrointestinale, impiego di steroidi e tetracicline. In particolare l’estensivo impiego di steroidi nel trattamento del paziente critico (prevenzione dell’insufficienza surrenalica relativa) porta certamente a un globale ipercatabolismo, responsabile di aumenti sensibili dell’urea plasmatica nell’area tempo-
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rale corrispondente, in assenza di un incremento della creatinina sierica, come riprova di un movimento indipendente dalla funzione renale (Slotman et al., 1993). È possibile osservare, specie in pazienti critici con malattia epatica cronica, valori falsamente normali di azotemia (ridotta produzione e assunzione) e creatininemia (diminuita sintesi epatica della creatinina, aumentata secrezione tubulare, perdita di massa muscolare) pur in presenza di un filtrato (GFR) gravemente ridotto e una funzione alterata. Si vedrà nel paragrafo relativo al controllo di volume come la clearance dell’urea sia incostante in molte situazioni, visto che una quota fino al 50% può essere riassorbita passivamente a livello delle parti prossimale e distale del tubulo. L’urea impiega del tempo ad accumularsi, non è un indicatore preciso di GFR e, in casi di deplezione di volume circolante, viene riassorbita insieme ad acqua e Na, dando luogo a incrementi della concentrazione plasmatica sproporzionati ai corrispondenti incrementi di creatininemia.
9.4.3.4 Cistatina C Si tratta di un inibitore endogeno della cisteino proteinasi, di peso molecolare di circa 16 000 Dalton. Viene prodotta e secreta a velocità costante da tutte le cellule nucleate dell’organismo, per essere poi liberamente filtrata a livello glomerulare per una quota del 99%, non secreta né riassorbita, ma bensì completamente metabolizzata dal tubulo prossimale. Nelle urine non compare normalmente cistatina C: la sua elevazione nel plasma è invece un evidente indicatore di disfunzione filtratoria (Herget-Rosenthal et al., 2004).
9.4.3.5 Biomarcatori di disfunzione tubulare e di danno d’organo Lo sviluppo di danno renale acuto (AKI, acute kidney injury) (Fig. 9.1) rappresenta un problema clinico molto importante, correlato a un significativo aumento di morbilità e mortalità. La mancanza di biomarker deputati all’identificazione precoce di AKI determina un ritardo nell’inizio della terapia, con conseguenze importanti dal punto di vista clinico. Per questo nel 2005 l’American Society of Nephrology ha designato tra i suoi obiettivi prioritari lo sviluppo di nuovi biomarker per l’identificazione precoce di AKI. La comunità scientifica ha risposto con la pubblicazione di oltre 50 articoli al riguardo, con la descrizione di più di 20 diversi biomarker (Parikh e Carg, 2009), rilevabili sia nelle urine che nel siero. L’obiettivo comune degli studi è stato quello di identificare un marcatore di AKI “troponino-simile”, rilevabile precocemente, facilmente misurabile, non influenzato da altre variabili biologiche e correlabile con la gravità del danno renale. I biomarker che hanno dimostrato maggior sensibilità e specificità in determinati sottogruppi di pazienti, sono: NGAL (neutrophil gelatinase-associated lipocalin), cistatina C, interleuchina 18 (IL-18) e KIM-1 (kidney injury molecole-1) (Parikh e
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9 Valutazione su funzione renale
Valutazione su volume urine
RISK
Aumento creatinina x 1,5 o riduzione GFR >25%
Diuresi <0,5 ml/kg/h x 6 ore
INJURY
Aumento creatinina x 2 o riduzione GFR >55%
Diuresi <0,5 ml/kg/h x 12 ore
FAILURE
Aumento creatinina x 3 o riduzione GFR >75% o creatinina >4 mg/dl o aumento acuto >0,5 mg/dL
Diuresi <0,5 ml/kg/h x 24 ore o anuria x 12 ore
Classificazione
LOSS
Persistenza dell’insufficienza renale acuta o funzione renale completamente assente da > 4 settimane
ESRD
Disfunzione renale: END STAGE
Fig. 9.1 Criteri RIFLE per il monitoraggio e la stadiazione del danno renale acuto. Al progredire del danno, valutato considerando la funzione renale quantificata dal valore di creatinina o il Grado di filtrazione glomerulare (GFR) (colonna centrale) oppure valutando la diuresi (colonna a destra), corrisponde uno stadio dell’insufficienza renale. Gli stadi (colonna a sinistra) vanno dal meno grave definito come rischio (Risk) al più grave, disfunzione renale di ultimo stadio (ESRD – end stage renal disease)
Devarajan, 2008). Saranno comunque indispensabili altri studi per poter validare questi biomarker in ogni specifico gruppo di popolazione e situazione clinica.
9.5 Anestesia e nefropatia Quali attenzioni specifiche vanno poste nel pianificare l’anestesia e il postoperatorio del nefropatico? L’anestesia loco-regionale richiede un’attenzione peculiare alla neuropatia uremica e alla diatesi emorragica da piastrinopenia (vedi paragrafo successivo), ma prevede, come per l’anestesia generale, un monitoraggio standard (particolare valorizzazione andrà data al paziente nefropatico con coesistente rischio coronarico, e alle problematiche di ipo/ipervolemia dell’uremico o della disfunzione avanzata) (Dunn, 2007). Molta attenzione andrà riservata alla particolare sensibilità del nefropatico grave ai depressori del sistema nervoso centrale, impiegati in premedicazione.
9 Il paziente nefropatico
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La fase induttiva va curata per il dosaggio e la velocità di somministrazione dei farmaci impiegati, per la frequente comparsa di ipotensioni resistenti alla correzione. L’ormai infrequente impiego della succinilcolina va tarato sui livelli preinduzione del potassio sierico. Gli anestetici di mantenimento, con particolare riferimento agli alogenati sevoflurano e desflurano, possono indurre vasodilatazione e depressione miocardica. Il frequente impiego in questi pazienti degli inibitori del sistema renina-angiotensina (ACE-inibitori e sartani di fatto blocca uno dei compensi prioritari alla vasodilatazione. Gli oppiacei, e con loro alogenati e stress chirurgico, inducono un picco di ormone antidiuretico (ADH) che ulteriormente interferisce con il volume urinario (quest’ultimo di comune impiego come monitor di funzione). A questo proposito è corretto sottolineare che la diuresi a fine intervento è un parametro talora fuorviante, in quanto il volume di urine è risultante di una serie di fattori (bilancio ingressi/uscite, stato di idratazione del paziente, livello dello stress chirurgico, ipersecrezione di ADH, funzione renale pregressa e stato di compenso): più logico è accertarsi con metodiche strumentali dirette o indirette e con studio biochimico, di un’adeguata perfusione renale e splancnica, oltre che dell’assenza, in fase postoperatoria, dello sviluppo di ipertensione addominale. Il rimpiazzo fluidico perioperatorio dev’essere particolarmente attento, in parallelo con la gravità della malattia renale sottostante. Cristalloidi isotonici, possibilmente poveri in potassio, vanno preferiti, anche se importanti volumi di soluzione fisiologica possono aggravare una preesistente acidosi metabolica. Laddove l’intervento preveda un challenge fluidico importante (chirurgia addominale maggiore, chirurgia aortica, chirurgia demolitiva, chirurgia emorragica) deve essere previsto un monitoraggio di livello superiore, finalizzato in particolare all’ottimizzazione volemica (PVC, PiCCO, Swan-Ganz).
9.5.1 Anestesia e paziente uremico Il paziente uremico è quel paziente in cui la nefropatia ha raggiunto un valore limite, e nel quale la funzione d’organo non è più compatibile con la sopravvivenza. In questi casi il trattamento dialitico, in qualsivoglia forma, diviene lo strumento di depurazione extracorporea indispensabile. Nella fase perioperatoria i problemi peculiari dell’uremico sono: 1. approccio dialitico perioperatorio; 2. terapia fluidica perioperatoria; 3. controllo della potassiemia; 4. ipo- e ipertensione; 5. emostasi. Tutti questi fattori, nella loro complessità e peculiarità, rendono ragione di un 4% di mortalità nella chirurgia elettiva e di fino al 47% in quella di emergenza, e di una perioperatoria del 54% (Kellerman, 1994).
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Come approcciare queste problematiche? Non è evidente se dosi dialitiche intensive prima dell’atto chirurgico ne migliorino l’outcome. Si ritiene comunque indicato far precedere, in elezione, una seduta dialitica (Okada et al., 1998): è evidente il vantaggio nell’indurre un’anestesia con il cosiddetto “peso secco” e avere la possibilità, in un paziente anurico o oligoanurico, di disporre di uno spazio infusionale aggiuntivo. Nella gestione intra- e postoperatoria dei fluidi è di fondamentale importanza conoscere il “peso secco”: un paziente che venga sottoposto a terapia infusionale aggressiva può andare incontro a edema polmonare perioperatorio, con indicazione immediata a trattamento dialitico. In un paziente che si presenti con una rimozione preoperatoria eccessiva esiste un rischio serio di ipotensione di difficile controllo in corso di vasodilatazione indotta da anestetici (fra l’altro esiste il rischio di trombosi della fistola di accesso al trattamento dialitico in corso di ipotensioni gravi e protratte). La soluzione di rimpiazzo elettiva è la soluzione fisiologica, salvo indicazioni specifiche in situazioni peculiari. Quando la chirurgia dell’uremico ha caratteri di urgenza l’iperpotassiemia emerge come problema centrale nella conduzione del paziente. In realtà spesso questi soggetti presentano un’aumentata tolleranza all’iperkaliemia, e le alterazioni elettrocardiografiche non si manifestano se non per valori superiori ai 6-6,5 mEq/l. A generare le alterazioni elettrocardiografiche non è il valore plasmatico per sé, ma il gradiente transcellulare, di solito poco alterato nelle iperkaliemie di medio grado dell’uremico. Un intervento chirurgico può pertanto essere pianificato in un paziente uremico in condizioni stabili, in assenza di alterazioni elettrocardiografiche, anche con valori di potassiemia di 6 mEq/l, a patto di una stretta sorveglianza e monitoraggio (Weisberg, 2003). A fronte di una situazione di instabilità, con manifestazioni elettrocardiografiche già evidenti, ma per chirurgia non dilazionabile, deve essere istituito un trattamento (si rimanda a testi specifici per il trattamento dell’iperpotassiemia). Si ricorda che le opzioni terapeutiche disponibili sono: calcio gluconato endovenoso, glucosio e insulina (modalità di scelta nel paziente uremico), agenti beta-agonisti (salbutamolo; attenzione al potenziale proaritmico), bicarbonato di sodio (per il rientro del potassio dal comparto extracellulare all’intracellulare, di scarsa efficacia in assenza di acidosi metabolica), resine a scambio ionico (Kayexalate), somministrabili per via orale o rettale (attenzione al rischio di necrosi della mucosa intestinale). L’ipertensione perioperatoria del paziente in terapia dialitica deve far supporre in prima istanza un sovraccarico di volume circolante e pertanto deve portare precocemente a un trattamento dialitico di ottimizzazione. Solo secondariamente possono essere impiegati farmaci quali labetalolo, enalapril, diltiazem e nitrati. Di maggior impegno diagnostico è l’ipotensione perioperatoria, che vede in gioco meccanismi diversi: una dialisi preoperatoria troppo vigorosa generante una ipovolemia assoluta, una disfunzione ventricolare sinistra, una disautonomia (diabetica, posturale, farmacologica), un tamponamento cardiaco, la vasodilatazione da oppiacei. Sia nella insufficienza renale cronica che in quella acuta, un’accentuata tendenza al sanguinamento si registra con frequenza nei siti chirurgici (e nel trauma). La diatesi emorragica dell’uremia è principalmente legata a una disfunzione piastrini-
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ca, a sua volte legata all’accumulo di tossine uremiche, all’anemia, all’iperparatiroidismo e all’impiego di antiaggreganti. Utile l’impiego dell’aggregometria, sempre più centrale, insieme alla tromboelastografia, nel precisare le cause di un sanguinamento perioperatorio. Gli strumenti in commercio sono sempre più sofisticati e automatizzati, e nel caso dell’aggregometria permettono di distinguere fra gli effetti dei diversi farmaci attualmente a disposizione di cardiologi e altri specialistici. È comunque possibile ricorrere a un pannello di provvedimenti per migliorare la funzione piastrinica in vista di una procedura chirurgica: incremento dell’ematocrito ad almeno 25-30% mediante emotrasfusione, impiego della desmopressina (dDAVP) (Remuzzi, 1988), crioprecipitati, dialisi mirata (con attenzione particolare al timing dell’eparina intradialisi rispetto all’inizio della chirurgia).
9.6 Conclusioni Il paziente nefropatico deve essere trattato tenendo conto di molteplici problematiche che abbiamo ampiamente presentato in questo capitolo, e che sono state sintetizzate nella Tabella 9.3. Tabella 9.3 Conclusioni e punti chiave a) La nefropatia va intesa soprattutto come una disfunzione d’organo, e in quanto tale come motore di alterazioni differenti, tutte legate ai diversi compiti che il rene svolge. b) Il rene è un organo microvascolare, che si correla profondamente con la macroemodinamica. c) È un sistema fortemente condizionato dalla ipoperfusione (ischemia come causa di danno renale acuto – AKI – , cronicità legata alla malattia microangiopatica diabetica o aterosclerotica) ma anche regolatore fine del volume e dei macrosistemi di governo della pressione e della perfusione. d) Le disfunzioni che maggiormente coinvolgono l’anestesista nel periodo perioperatorio sono: – il controllo del volume e la regolazione della pressione arteriosa; – l’equilibrio acido-base; – i disturbi elettrolitici. e) Il monitoraggio deve obbligatoriamente comprendere il cateterismo venoso centrale e il cateterismo arterioso (nel rispetto del patrimonio vascolare eventualmente da preservare per confezionare accessi fistolosi). f) Il monitoraggio della volemia, dell’idratazione e dei meccanismi di controllo può trarre il massimo frutto dal monitoraggio volumetrico PiCCO e dall’ecocardiografia transesofagea. g) Il monitoraggio fondamentale sarà portato sull’urina, nella forma di diuresi oraria, biochimica plasmatica e urinaria (urea, creatinina, osmolarità e clearance relative).
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Il paziente emorragico
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Riassunto L’emorragia costituisce una temuta complicanza della chirurgia, di cui può radicalmente peggiorare gli esiti. Le conoscenze della fisiopatologia di base di questa condizione sono significativamente migliorate nel corso degli ultimi anni, grazie anche a nuovi metodi di studio della funzione coagulativa come la tromboelastografia (TEG). In questo capitolo il monitoraggio del paziente emorragico verrà affrontato in modo complessivo, iniziando dalla corretta quantificazione delle perdite, esaminando quindi le pre-condizioni necessarie per il corretto funzionamento del sistema emostatico, passando in rassegna i test dell’emostasi disponibili, vecchi (PT e APTT) e nuovi (fibrinogeno e TEG) e valutandone l’impatto sul trattamento di questi pazienti.
10.1 Introduzione “Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. (…) L’occhio non vede cose, ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola.” (Italo Calvino, Le città invisibili). Le parole di Calvino dovrebbero introdurre qualunque scritto di medicina che si occupi di segni e sintomi e della loro interpretazione, ma forse dovrebbero addirittura accompagnare l’attività quotidiana di ogni medico. La diagnosi richiede la capacità di capire e di interpretare i segni al di là del loro significato contingente, Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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come significanti di altro, senza fermarsi al loro primo aspetto. Questo è sempre vero, ma particolarmente quando si tratta di emostasi e di pazienti emorragici, perché gli strumenti diagnostici in questo specifico campo offrono visioni limitate, e a volte quasi fuorvianti, di una realtà complessa e dinamica come la coagulazione. Bisogna conoscere il quadro di riferimento per interpretare il singolo dato, così come solo se conosciamo bene un film riusciamo a riconoscerlo e a ricordarne la trama vedendone anche solo un fotogramma. Per questo, prima ancora di studiare il funzionamento del sistema emostatico con test di laboratorio, il monitoraggio del paziente emorragico richiede di esaminare in modo sistematico due elementi di capitale importanza per la successiva gestione clinica: la quantificazione delle perdite e l’analisi delle pre-condizioni necessarie per il funzionamento del sistema emostatico.
10.2 Quantificazione delle perdite Può sembrare una raccomandazione pleonastica, ma è la chiave di volta del corretto trattamento di ogni episodio emorragico, specie di particolare gravità. Le definizioni stesse di emorragia massiva o di emorragia post-partum richiedono una precisa definizione dell’entità delle perdite, ed è quindi un elemento da acquisire preliminarmente ad ogni azione clinica. Ricordiamo a questo proposito che le definizioni di emorragia massiva più comunemente accettate in letteratura sono (Shiler e Napolitano, 2009): – perdita di un volume ematico in 24 ore, essendo pari il volume ematico normale a circa il 7% del peso corporeo per gli adulti e all’8-9% per i bambini; – perdita del 50% del volume ematico in 3 ore; – perdita di 150 ml/min; – perdita di 1,5 ml/kg/min per almeno 20 minuti. Accanto a queste definizioni va anche ricordata quella di emorragia post-partum (PPH) (World Health Organization, 1990) che comprende: – perdita >500 ml dopo un parto per via vaginale (forma severa se >1000 ml); – perdita >1000 ml dopo un taglio cesareo. Questi valori meritano alcuni commenti. Anzitutto è evidente l’eterogeneità dei parametri impiegati, che deriva direttamente dalla mancanza di studi clinici con livelli elevati di evidenza. Questo complica ovviamente la gestione di questi pazienti, stante la difficoltà o l’impossibilità di standardizzare i trattamenti, mancando criteri omogenei a partire addirittura dalla diagnosi. Un secondo aspetto rilevante è che i pochi dati disponibili, oltre ad avere come si è visto evidenti limiti metodologici, si riferiscono quasi esclusivamente all’emorragia massiva del trauma o di ambiti chirurgici specialistici, come la cardiochirurgia o il trapianto di fegato, il che riduce la possibilità di trasferirli ad ambiti diversi, come quello della
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• Per entità • Per sede • Per fisiopatologia
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Paziente (patologie concomitanti) Setting (pre-H, Emergenza, ICU)
per ENTITA’ • Intraoperatoria >50-1000 ml/ora per 1 ora • Postoperatoria >200-500 ml/ora per 2 ore • Trauma penetrante >2 gr HB/ora per 1 ora • Massiva >150 ml/min per SEDE • Intracerebrale • Intraepatica per FISIOPATOLOGIA Difetto dell’emostasi congenito e acquisito
Fig. 10.1 Definizione di emorragia critica
chirurgia generale. Ulteriori elementi da considerare sono la difficoltà di una precisa quantificazione delle perdite nell’intraoperatorio e il fatto che vi possono essere sanguinamenti chirurgici clinicamente rilevanti che tuttavia non rientrano nei parametri suggeriti dalla letteratura come diagnostici di emorragia massiva. Proprio per questo è necessario che ogni Unità Operativa si doti di una propria definizione di emorragia critica, ovvero di tutte quelle condizioni emorragiche che per entità, sede o fisiopatologia possono costituire un elemento di criticità per la prognosi del paziente. La Figura 10.1 riporta il protocollo in uso nel nostro Ospedale, elaborato e condiviso da tutti gli Specialisti coinvolti nella gestione di questi pazienti: chirurghi, anestesisti-rianimatori, ematologi, trasfusionisti.
10.3 Pre-condizioni necessarie per il funzionamento del sistema emostatico Il sistema emostasi, come qualunque altro sistema, esplica la sua funzione all’interno di un organismo complesso, e pertanto la sua funzione dipende e nello steso tempo condiziona quella di altri organi ed apparati. Gli esami di laboratorio di base non sono in grado di valutare l’influenza di questi aspetti sul funzionamento del sistema emostatico, e anche i test globali più recenti, come la tromboelastografia (TEG), riescono a esaminarne solo alcuni, per cui è indispensabile che il clinico ne abbia una conoscenza approfondita in modo da poterli inserire nel proprio algoritmo decisionale per il trattamento dei pazienti emorragici.
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10.3.1 Ipotermia È stato dimostrato che l’ipotermia rallenta il processo enzimatico della cascata della coagulazione, altera l’equilibrio del sistema fibrinolitico aumentando il deficit degli inibitori intrinseci del sistema stesso (per esempio, PAI e alpha-2-antiplasmina), e non solo riduce la funzione piastrinica (Hess et al., 2008; Lier et al., 2008), ma è anche in grado di indurre piastrinopenia (Martini et al., 2005). L’entità della coagulopatia indotta dall’ipotermia è tutt’altro che trascurabile, in quanto è stato dimostrato che a una temperatura <33 °C un sistema emostatico peraltro normale ha un’attività ridotta in misura analoga a quella di un sistema normotermico con livelli di fattori <50%. Non solo, ma ipotermia e acidosi agiscono sinergicamente sulla coagulopatia (Martini et al., 2005), sia pure, come vedremo fra breve, con meccanismi differenti, considerazione anch’essa di grande importanza clinica in quanto le due condizioni sono quasi sempre associate nel paziente emorragico.
10.3.2 Acidosi L’acidosi ha grande rilevanza per il funzionamento del sistema emostatico, in quanto anche una minima variazione del pH compromette la funzione sia degli enzimi della coagulazione sia di quella delle piastrine, tanto che in presenza di una riduzione del pH da 7,4 a 7 l’attivazione della protrombina da parte del complesso protrombinasi (Xa/FVa) è ridotta del 70% (Lier et al., 2008). Un fattore che può contribuire allo sviluppo dell’acidosi nel paziente emorragico è l’età delle emazie concentrate che vengono trasfuse, il 30% circa delle quali viene conservato per più di tre settimane: in questo tempo l’Eccesso di Basi (BE) delle emazie concentrate passa da –20 mmol/l a –50 mmol/l (Raat et al., 2005) e pertanto la trasfusione massiva di sacche di emazie “vecchie” può essere un elemento che contribuisce ad aggravare l’acidosi instaurata per le modificazioni nel metabolismo aerobio secondarie al sanguinamento. Si potrebbe essere tentati di pensare che sia sufficiente correggere l’acidosi con l’uso di sodio bicarbonato (NaHCO3) o con altri tampone, quali il tri-idrossi-metil-aminometano (THAM) per riportare alla normalità anche il sistema emostatico, ma non è così. Recentemente si è infatti osservato che la correzione dei valori di pH con questi mezzi non riesce a migliorare la generazione di trombina, come se il meccanismo fosse più profondo di una semplice alterazione dell’ambiente nel quale hanno luogo le reazioni biochimiche della cascata coagulativa (Martini et al., 2006; 2007). In modelli animali è stato possibile dimostrare che l’acidosi aumenta di quasi due volte la degradazione del fibrinogeno, mentre l’ipotermia ne diminuisce la sintesi senza influenzarne il catabolismo, realizzando in tal modo una pericolosa sinergia negativa su questa molecola-chiave per il funzionamento del sistema emostatico (Martini, 2007). Questa considerazione fisiopatologica può avere importanti ricadute terapeutiche, indicando l’opportunità di garantire livelli adeguati di
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questa importantissima molecola emostatica in particolare nei pazienti ipotermici e acidotici.
10.3.3 Anemia Le emazie giocano un ruolo fondamentale non solo nel trasporto dell’ossigeno, ma anche nel trasporto radiale delle piastrine e nella loro adesione ai segnali di attivazione subendoteliali, e quindi nel processo emostatico (Turitto e Weis, 1980). In normali condizioni di flusso l’adesione piastrinica aumenta di cinque volte quando l’ematocrito (Ht) aumenta dal 10 al 40%, senza mostrare però ulteriori variazioni per valori oltre il 40%, suggerendo una saturazione della capacità di trasporto degli eritrociti che tuttavia non si osserva nelle condizioni in cui predominano i meccanismi adesivi piastrinici, come in presenza di un diffuso danno endoteliale. In quest’ultima condizione infatti l’adesione piastrinica e la formazione del trombo crescono linearmente con l’aumento dell’Ht dal 10 fino al 70% (Valeri et al., 2001). Questi dati di fisiopatologia si traducono nella considerazione clinica che il valore ottimale di Ht dal punto di vista dell’emostasi è maggiore di quello richiesto per la semplice ossigenazione. Tutto ciò non significa necessariamente che occorra rivedere al rialzo gli attuali protocolli trasfusionali, in quanto una scelta di questo genere deve tenere conto di numerosi altri elementi, compresi anche importanti aspetti organizzativo-gestionali. È però importante che l’intensivista tenga presente anche questi dati fisiopatologici per ottimizzare la terapia trasfusionale nei pazienti emorragici, considerando anche l’opportunità, come suggerito da alcuni Autori, di raggiungere e mantenere valori di Ht del 30% (Hardy et al., 2004).
10.3.4 Ipocalcemia Bassi livelli plasmatici di calcio (Ca) ionizzato sono di frequente riscontro nei pazienti critici, e si associano a un hazard ratio (HR) di morte pari a 5,1 per valori <0,90 mmol/l e a 1,8 per valori fra 0,90 e 1,15 mmol/l (Hastbacka e Pettila, 2003); inoltre l’ipocalcemia può essere aggravata dall’infusione del citrato contenuto negli emocomponenti in caso di trasfusione massiva. I pochi dati disponibili sull’effetto dose-risposta dell’ipocalcemia sull’emostasi mostrano che la produzione di trombina è ridotta solo per valori di calcemia ionizzata inferiori a 0,6-0,7 mmol/l (James e Roche, 2004). È però da notare che già per valori di calcemia inferiori a 0,8-0,9 mmol/l sono di frequente riscontro problematiche cardiache che richiedono un rapido intervento, per cui nella pratica clinica i disturbi dell’emostasi legati a questo aspetto sono raramente osservati, in quanto l’eventuale deficit di questo ione viene corretto prima che possa dare segno di sé in ambito coagulativo.
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10.4 Monitoraggio di laboratorio nell’emorragia massiva La maggior parte delle linee guida per il trattamento dell’emorragia massiva (British Committee for Standars in Haematology, Blood Transfusion Task Force, 2004; American Society of Anesthesiologists, 2006; British Committee for Standars in Haematology Writing Group, 2006; Rossaint et al., 2020) sottolineano come tipo e quantità di emoderivati utilizzati per il rimpiazzo dei volumi persi debbano essere guidati da test di laboratorio, pur riconoscendo la necessità di iniziare il trattamento con plasma fresco nel caso in cui il paziente abbia trasfuso un quantitativo pari o superiore a un volume ematico (orientativamente, 70 ml/kg) e i test dell’emostasi non siano rapidamente disponibili. I test di laboratorio di base hanno però molti limiti concettuali, che possono essere così sintetizzati: – eseguiti su plasma, non tengono conto della parte corpuscolata; – offrono una visione puntiforme di un sistema in continua evoluzione dinamica; – non rispecchiano il reale funzionamento del sistema alla temperatura corporea del paziente; – risentono in modo non omogeneo della carenza dei fattori: per esempio l’APTT risulta normale per livelli di fattore VIII >45% e di fattore XII >10%, senza però che ciò abbia una immediata ricaduta clinica. Infatti valori del fattore XII anche <10% non comportano alcun rischio emorragico, mentre livelli di fattore VIII del 50% possono essere insufficienti a garantire un’emostasi efficace in condizioni di globale compromissione del sistema, come si osserva nel paziente con emorragia massiva. Nei prossimi paragrafi prenderemo in considerazione i test di laboratorio di base secondo un ordine forse inconsueto, ma che vuole rispecchiare quello della loro rilevanza pratica nella gestione del paziente emorragico.
10.4.1 Fibrinogeno Negli ultimi anni si sono accumulati sempre più dati che hanno evidenziato l’importanza fondamentale di questa molecola per il processo dell’emostasi, specie nel setting delle emorragie massive. In modelli sperimentali di emorragia in animali resi piastrinopenici si è osservato che, contrariamente alle aspettative, il miglior risultato in termini di riduzione delle perdite ematiche e di sopravvivenza si otteneva non con la somministrazione di piastrine ma di fibrinogeno (Velik-Salchner et al., 2007). Non solo, ma studi sulle caratteristiche viscoelastiche del coagulo hanno dimostrato che le sue proprietà meccaniche correlano linearmente con la concentrazione di fibrinogeno, senza evidenza che vi sia un valore soglia. Infatti il limite di fibrinogenemia di 1 g/l al di sotto del quale le linee guida suggeriscono di iniziare la terapia sostitutiva deriva unicamente da considerazioni di laboratorio e non fisio-
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patologiche, in quanto corrisponde al valore al di sotto del quale sia il tempo di protrombina (PT, prothrombin time) sia il tempo di tromboplastina parziale attivata APTT (activated partial thromboplastin time), risultano alterati (Dempfle et al., 2008). Questo dato sperimentale ha importanti corrispondenze cliniche: si è infatti visto che in donne con emorragia post-partum livelli di fibrinogenemia <2 g/l hanno il 100% di valore predittivo positivo di evoluzione della patologia in una forma grave (Charbit et al., 2007), e che l’aggiunta di fibrinogeno (in media, 2 g a paziente) alla normale terapia sostitutiva con plasma fresco congelato (PFC) in pazienti con emorragia massiva e fibrinogenemia inferiore a 2 g/l determinava una riduzione cospicua del fabbisogno trasfusionale (Fenger-Eriksen et al., 2008). L’insieme di questi dati suggerisce la necessità di inserire anche la determinazione del fibrinogeno nell’insieme dei test di laboratorio utilizzati per il monitoraggio del paziente emorragico. In molti laboratori questo test viene eseguito automaticamente ricavandolo con algoritmi di calcolo dal PT. Questo metodo tende a sovrastimare il valore rispetto a quello di riferimento (metodo di Clauss) (Verhovsek et al., 20089), per cui è importante che nella stesura dei protocolli per il trattamento dell’emorragia si tenga conto anche della metodica usata dal proprio laboratorio quando si suggeriscono valori-soglia per la terapia sostitutiva del fibrinogeno.
10.4.2 Tempo di tromboplastina parziale attivata (APTT) (Fig. 10.2) Per ragioni assolutamente incomprensibili questo test di base dell’emostasi gode di molta meno fama fra i non specialisti del settore del suo “cugino” PT, rispetto al quale ha sicuramente una rilevanza clinica maggiore. Il test viene eseguito aggiungendo un attivatore del sistema da contatto, e quindi della via intrinseca della coagulazione, e una miscela di fosfolipidi al plasma ricalcificato da esaminare, misurando quindi il tempo necessario per la formazione del coagulo (Ng, 2009). Il test, sviluppato circa cinquant’anni fa, mostra la sua età a causa di diversi limiti: la mancanza di standardizzazione dei reagenti e quindi la variabilità interlaboratori dei risultati; la mancanza di proporzionalità fra l’allungamento dell’APTT e i difetti dei singoli fattori, con valori aumentati in modo sproporzionatamente maggiore per difetti lievi, ma di più fattori, rispetto a quelli osservati per difetti singoli, ma clinicamente più rilevanti; il fatto infine che risenta anche di elementi (come il fattore XII, la prekallikreina o il chininogeno ad alto peso molecolare) che non hanno rilevanza clinica nel processo emostatico. Nonostante ciò, l’APTT è un test da tenere in attenta considerazione nel paziente emorragico perché un suo allungamento isolato, cioè con normalità del PT, può essere segnale di una condizione emorragica congenita (emofilia A o B) o acquisita (emofilia acquisita) potenzialmente pericolosa per la vita del paziente, ma per contro suscettibile di interventi terapeutici risolutivi (Huth-Kühne et al., 2009). La diagnosi di emofilia acquisita, che può associarsi a numerose condizioni, quali neoplasie, malattie autoimmuni, patologie infettive e post-partum, è certamente di competenza specialistica e richiede il dosaggio dei singoli fattori oltre alla ricerca degli auto-anticorpi che ini-
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10 Via intriseca = APTT
Via estrinseca = PT
Fase di contatto XI
XIa XI
Tissue Factor + VIIa
XIa + VIII
XI Protrombina
XIa + V Trombina
Fibrina
Fig. 10.2 Test di base per la valutazione dell’emostasi: PT e APTT
biscono i fattori della coagulazione, più frequentemente l’VIII, ma deve semplicemente essere tenuta presente, pur nella sua rarità, in un paziente con manifestazioni emorragiche che presenta un allungamento isolato dell’APTT (Tripodi et al., 2009).
10.4.3 Tempo di protrombina (PT) Il tempo di protrombina riproduce in vitro la via estrinseca della coagulazione, in quanto l’aggiunta di concentrazioni soprafisiologiche di fattore tissutale al plasma da esaminare permette al fattore VIIa di attivare direttamente il fattore X senza il fisiologico contributo del fattore IX e VIII (Huth-Kühne et al., 2009). Il PT risente particolarmente delle carenze di fattore VII, ed è stato utilizzato come indice indiretto di funzionalità epatica, tanto da entrare a far parte dei parametri inclusi negli score Child-Pugh (Malinchoc et al., 2000) e MELD (Wiesner et al., 2003) per la valutazione della gravità delle patologie epatiche. Va però sottolineato che la modalità più frequentemente utilizzata per esprimere il PT, vale a dire l’International Normalized Ratio (INR), andrebbe riservata solamente ai pazienti in terapia anticoagulante orale, non essendo affidabile per quelli epatopatici (Tripodi et al., 2008) e verosimilmente, per analoghe motivazioni relative alla metodica di laboratorio, nemmeno in quelli emorragici. In generale, l’aumento dell’APTT e del PT che si riscontra nei pazienti con epatopatia cronica non solo non correla con le manifestazioni cliniche, ma non esprime nemmeno correttamente il reale rischio emorragico del paziente epatopatico, che è legato più a fattori emodinamici che non emocoagulativi (Tripodi et al., 2009). Infatti in questi soggetti cronici sono ridotti tanto i fattori della coagulazione quanto gli inibitori naturali, il che comporta un riassetto in basso di tutta la bilancia coagulativa, nel cui funzionamento globale entrano in gioco altri meccanismi compensatori, come un’aumentata reattività piastrinica, in
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grado di assicurare di fatto un funzionamento pressoché adeguato del sistema. Di conseguenza si può affermare che tanto il PT quanto l’APTT sono di scarso aiuto sia nel predire il rischio di sanguinamento sia nel monitorare un’eventuale emorragia nell’epatopatico cronico, e che in questo setting occorre affidarsi ad altre metodiche diagnostiche, come il test di generazione di trombina (Tripodi et al., 2008; 2009) o la tromboelastografia, di cui si tratterà diffusamente più avanti.
10.5 Gli score per la coagulazione intravascolare disseminata (CID) La decisione di trattare in questa sede la CID può sembrare non appropriata, in quanto tale sindrome costituisce un’entità clinica ben distinta dall’emorragia massiva, con la quale non deve esser confusa. In realtà però in molte situazioni di emorragia perioperatoria il dubbio che ci si possa trovare in presenza di una CID affiora, e può determinare conseguenze fatali per il paziente. La CID è una sindrome clinica che può complicare diverse patologie, quali la sepsi, le neoplasie, i traumi, il rigetto acuto di trapianti e patologie ostetriche, ed è caratterizzata da una attivazione sistemica delle vie che portano e regolano la coagulazione, con conseguente formazione di microtrombi di fibrina che possono provocare danno d’organo, consumo dei fattori della coagulazione e di piastrine e successivo sanguinamento (Levi et al., 2009). Già da questa definizione molto scolastica si possono ricavare informazioni utili per la gestione pratica di questi pazienti: – la diagnosi di CID richiede necessariamente una patologia di base capace di scatenarla, il cui trattamento è di fatto il cardine del trattamento stesso della CID. Tra queste patologie, vale la pena di osservarlo, non vi sono le procedure chirurgiche, che tranne casi eccezionali sono associate per lo più a un quadro di coagulopatia da emorragia acuta; – la CID è una patologia prima trombotica e poi, eventualmente, emorragica, e quest’ordine fisiopatologico dev’essere tenuto in grande considerazione nella diagnosi differenziale con la coagulopatia del sanguinamento massivo. Sono stati proposti numerosi score per facilitare la diagnosi di questa complessa sindrome, tra i quali scegliamo di riportare solo il “DIC score” elaborato dall’International Society on Thrombosis and Haemostasis (Toh e Hoots, 2007) per le CID conclamate (Fig. 10.3). Questo score merita alcuni commenti. L’aspetto probabilmente più rilevante, e al quale abbiamo già fatto cenno, è la necessità assoluta della presenza di una patologia di base che possa giustificare la presenza stessa della CID, senza la quale lo score non può e non deve essere applicato. Questo sta a significare che la diagnosi di CID è clinica, e non di laboratorio, e anche se le alterazioni nei test dell’emostasi che si possono osservare in corso di emorragia chirurgica sono identiche a quelle osservate nella CID, la clinica è sostanzialmente differente, ed è questa che deve guidare le scelte terapeutiche. In altre parole, è evidente che gli esami di un paziente sottoposto a chirurgia vascolare d’urgenza per rot-
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10 Criteri Patologia di base
Essenziale: in assenza, NON applicare lo score
Piastrine (x 103
D-dimero (mg/ml)
> 50 ma < 100: 1 punto < 50: 2 punti < 1: 0 punti 1-4: 2 punti > 4: 3 punti
Fibrinogeno (g/l)
< 1: 1 punto
PT (s)
Allungamento del PT (s) < 3ma < 6: 1 punto < 6: 2 punti
/μl)
Diagnosi di CID ≥5
Fig. 10.3 Score per la diagnosi di CID secondo l’ISTH
tura di un aneurisma dell’aorta potranno essere analoghi a quelli di un paziente con sepsi severa, ma è almeno altrettanto evidente che i due quadri clinici sono del tutto differenti e richiedono pertanto strategie terapeutiche completamente diverse. Va comunque sottolineato che le più recenti linee guida hanno risolto buona parte dei problemi di trattamento, ricordando che “nei pazienti con CID ed emorragia in atto che presentano allungamento di PT e APTT la somministrazione di plasma fresco congelato può essere utile. Non c’è evidenza che l’infusione di plasma stimoli la già presente attivazione della coagulazione (grado C, livello di evidenza IV) (Toh e Hoots, 2007) e analogo discorso vale per il fibrinogeno e le piastrine.
10.6 Gli strumenti “point-of-care” Uno dei limiti maggiori dei test dell’emostasi disponibili in urgenza è rappresentato dai tempi tecnici di esecuzione, che per quanto ridotti rendono comunque superate dal rapido evolvere del quadro clinico le informazioni fornite. Per ovviare a questa problematica sono stati sviluppati e validati sistemi di analisi point-of-care che permettono di eseguire al letto del paziente, spesso su sangue intero, i test di base dell’emostasi come il PT e l’APTT (Toulon et al., 2009; Urwyler et al., 2009). Questi sistemi si sono dimostrati rapidi e complessivamente affidabili, pur presentando alcuni problemi di correlazione con i normali test coagulativi, specie l’APTT (Toulon et al., 2009). Il problema però non è solo di tempo, ma anche epistemologico, in quanto i normali test dell’emostasi forniscono una visione puntiforme, istantanea, di un sistema complesso e in continuo cambiamento, e non sono in grado di esplorarne la globalità e complessità, ignorando completamente alcune fasi del sistema (per esempio,
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quella della fibrinolisi) di grande importanza clinica. Per questo negli ultimi anni sempre più interesse hanno riscosso i test globali eseguiti su sangue intero capaci di valutare le proprietà viscoelastiche del coagulo.
10.7 Tromboelastografia (TEG®) e tromboelastometria (ROTEM®) La storia della TEG è strana, ma per certi versi emblematica di come anche in medicina la fortuna delle metodiche diagnostiche possa essere legata non solo a rigorose considerazioni scientifiche ma anche alla “moda” di quel momento storico. Questa tecnica è stata sviluppata più di 60 anni fa (Hartert, 1948) ed è stata inizialmente ampiamente utilizzata per valutare la funzione emostatica, salvo essere poi soppiantata dal PT e dall’APTT, sviluppati nel frattempo, test più nuovi e soprattutto più riproducibili e affidabili: il limite principale della TEG era infatti la variabilità sia nei tracciati di risposta sia nella loro interpretazione da parte dell’operatore. La metodica è caduta quindi in disuso ed è stata snobbata dagli esperti di emostasi, salvo essere recuperata dagli anestesisti, soprattutto da coloro che si occupavano di trapianto di fegato (Kang et al., 1985) e di cardiochirurgia (Mallet e Cox, 1992). In questi ambiti specialistici divennero presto evidenti i limiti concettuali dei test di base dell’emostasi, e la loro incapacità a fornire risposte ai problemi clinici quotidiani della gestione dell’emostasi, per cui si riprese la “vecchia” TEG, che grazie anche ai miglioramenti resi possibili dall’informatizzazione divenne un punto di riferimento per quelle chirurgie, e progressivamente anche per altri settori, come per esempio il politrauma (Kaufmann et al., 1997). Inizialmente i termini “tromboelastografo”, “tromboelastografia” e “TEG” sono stati usati indifferentemente in letteratura, ma dal 1996 i termini “tromboelastografo” e TEG® vennero registrati dalla Hemoscope Corporation, e da allora si riferiscono solamente alle analisi eseguite con quello strumento. Nel contempo la Pentapharm GmbH sviluppò un’altra metodica per valutare le caratteristiche viscoelastiche del coagulo, che venne chiamata tromboelastometria rotazionale (ROTEM®). In questo paragrafo useremo le due sigle per indicare sia gli strumenti sia i rispettivi test. La TEG®/ROTEM® fornisce una rappresentazione grafica del processo coagulativo, dalla formazione del coagulo alla sua lisi. I principali componenti del tromboelastografo sono una coppetta cilindrica che alloggia il campione di sangue intero da analizzare e un ago che vi è liberamente immerso, entrambi di materiale plastico monouso. La coppetta a temperatura di 37 °C oscilla con un angolo di torsione che va da 4 a 45° ogni 10 secondi. Quando inizia il processo della coagulazione con la formazione della fibrina l’ago viene inglobato nel complesso fibrina-piastrine e inizia a oscillare in maniera solidale con l’oscillazione della coppetta. Al momento di massima solidità del coagulo corrisponde la maggiore oscillazione dell’ago, che diminuisce quando inizia il processo che porta alla lisi dello stesso. L’oscillazione meccanica dell’ago viene tradotta da un trasduttore elettromeccanico e viene convertita in un segnale analogico elaborato da un software e monitoriz-
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zato on-line da un PC portatile. La ROTEM® usa una tecnologia analoga ma leggermente diversa: il segnale che proviene dall’ago viene trasmesso da un sistema di rilevamento ottico, e il movimento è iniziato dall’ago anziché dalla coppetta (Luddington, 2005; Ganter e Hofer, 2008). È possibile eseguire i test in presenza di sostanze che accelerano la coagulazione (per esempio, caolino, celite o tissue factor) o inibiscono selettivamente alcune sostanze o cellule, come l’eparinasi, ed è anche possibile modificare la temperatura di reazione in modo da renderla uguale a quella del paziente, riuscendo in tal modo a valutare gli effetti dell’ipotermia sull’emostasi. La Tabella 10.1 riporta i test disponibili per la TEG®/ROTEM®, con le relative indicazioni di utilizzo. I principali parametri misurati dalla TEG® sono (Fig. 10.4): – il tempo di reazione R: valuta la formazione della fibrina a partire dall’attivazione dei prodotti solubili ematici che coinvolgono la via del fattore tissutale e quella della attivazione da contatto. È misurato in minuti che avanzano in condizioni di normalità alla velocità di 2 mm/min (v.n. 4-8). La diminuzione dei fattori della coagulazione congenita, acquisita o iatrogenicamente indotta, provoca un prolungamento della R. I farmaci che possono provocare un prolungamento sono quelli anticoagulanti quali l’eparina, la warfarina e i dicumarolici. La R può anche misurare la tendenza alla ipercoagulabilità: in questo caso sarà accorciata rispetto ai valori normali; – il K time o tempo di cinetica del coagulo valuta l’interazione tra la fibrina e le piastrine; è misurato come il tempo necessario (in minuti) affinché la traccia raggiunga i 20 mm di altezza (v.n.1-4). È un indice che può non essere valutabile nelle situazione di ipocoagulabilità spinta, mentre in caso di ipercoagulabilità aumenta; – l’angolo che si delimita alla deflessione della curva dopo la fine di R è chiamato angolo-α ed è un valore da riferire sempre all’interazione della fibrina con le Tabella 10.1 TEG®/ROTEM®: test disponibili Attivatore/inibitore
Significato del test
TEG® Caolino Caolino + Eparinasi ADP acido arachidonico
Test globale Rileva la presenza di eparina Valuta la funzionalità piastrinica
ROTEM® TF (ex-TEM) Attivatore da contatto (in-TEM) TF + inibitore piastrinico (fib-TEM) TF + aprotinina (ap-TEM) Attivatore da contatto + Eparinasi (Hep-TEM) Ecarina (Eca-TEM) TF (Tif-TEM)
Valuta via estrinseca e fibrinolisi Valuta via intrinseca Valuta livelli di fibrinogeno Valuta fibrinolisi Rileva la presenza di eparina Valuta inibitori diretti della trombina Specifico per monitorare attività rFVIIa
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R α°
20 min MA
60 min A60
F
Maximum amplitude (MA) • Solidità del coagulo • Correla con numero e funzionalità delle piastrne e con la loro interazione con la fibrina MA/60 • Entità della riduzione dopo 60 min • Indica la stabilità del coagulo
T
Angolo α • Fase di iniziazione • Correla con - fibrinogeno - piastrine
R+X
Tempo di reazione R • Fase di iniziazione • Correla con - fattori della coagulazione - APTT
Indici di fibrinolisi • Clot lysis index (A60/MA *100) a 30 e 60 min
Fig. 10.4 Parametri del tromboelastografo (TEG®)
piastrine. È un valore che si misura in gradi angolari (v.n. 47-74), che diminuisce nella ipocoagulabilità e aumenta nell’ipercoagulabilità; – la contrazione del coagulo, che è un indice della forza dello stesso definito MA (maximum amplitude), è rappresentata dalla massima ampiezza verticale del tracciato ed è misurata in millimetri (v.n. 55-73); – la progressiva riduzione di ampiezza del tracciato indica la lisi della fibrina a opera della plasmina. A livello dell’apparecchio viene percepita come una diminuzione delle oscillazioni dell’ago che è meno solidale al coagulo. La percentuale di lisi del coagulo a 30 o a 60 min è pertanto un indice di fibrinolisi ly30 o 60 (v.n. 0-80). Le Figure 10.4 e 10.5 visualizzano i principali parametri misurati rispettivamente dalla TEG® e dalla ROTEM® . I primi ambiti nei quali è stata dimostrata le capacità delle metodiche viscoelastiche di identificare più precocemente i difetti dell’emostasi rispetto ai tradizionali test plasmatici e di guidare meglio le scelte cliniche, con conseguente risparmio di emocomponenti, sono come si è visto quelli della cardiochirurgia (Royston e von Kier, 2001) e del trapianto di fegato (Kang et al., 1985), ma successivamente i campi di applicazione di queste metodiche si sono notevolmente ampliati, estendendosi anche alla gestione dell’emorragia massiva in corso di trauma (Rugeri et
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M. Marietta
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Clot firmness (or elasticity) Parameters of ROTEG® Analysis
Alpha-angle
MCF= Maximum clot firmness Maximum lysis (%)
Lambda-angle (Lysis rate)
Fibrinolisi Misurata come diminuzione di ampiezza rispetto al massimo. Significativa se>15%
LOT=Lysis onset time
Maximum clot firmness • Solidità del coagulo • Correla con numero e funzionalità delle piastrne e con la loro interazione con la fibrina
CT Clotting time CFT Clotting formation time
Clot formation time (CFT) o K time • Fase di accelerazione • Correla con - fibrinogeno - piastrine
Time
Tempo di reazione R • Fase di iniziazione • Correla con - fattori della coagulazione - APTT
Fig. 10.5 Parametri del ROTEM®
al., 2007). In questo settore la TEG®/ROTEM® ha consentito un fondamentale passo in avanti nelle conoscenze della fisiopatologia di base, migliorando di conseguenza le possibilità terapeutiche. Grazie a queste metodiche è stato possibile non solo approfondire alcuni aspetti di fisiopatologia, come ad esempio i meccanismi con cui ipotermia e acidosi contribuiscono alla coagulopatia del trauma (Raat et al., 2005; Martini, 2009), ma anche esplorare settori prima del tutto ignorati proprio per la mancanza di strumenti diagnostici adeguati, come la fibrinolisi, che si è visto avere importanti ripercussioni sulla sopravvivenza di questi pazienti (Levrat et al., 2008; Schöchl et al., 2009). Inoltre stanno incominciando a comparire in letteratura lavori che propongono e validano algoritmi trasfusionali basati sui dati forniti dalla TEG®/ROTEM®, dimostrando che queste metodiche permettono di ottimizzare le terapie sostitutive nei pazienti emorragici (Johansson e Stensballe, 2009) ed offrono attraenti alternative all’uso del plasma fresco, come il fibrinogeno o i concentrati del complesso protrombinico (Fenger-Eriksen et al., 2008; Schöchl et al., 2010). L’insieme di questi dati richiede comunque atteggiamenti clinici cauti e ragionati. Se è vero che la TEG®/ROTEM® rappresenta un utile sussidio per la gestione dei pazienti emorragici, non si deve però dimenticare che presenta ancora alcuni aspetti da approfondire, come la standardizzazione e il suo posizionamento nel complesso percorso della gestione dell’emorragia massiva, tanto che non a caso è
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ancora poco diffusa al di fuori di alcuni Centri specializzati, per lo più in trapianti di fegato o cardiochirurgia.
10.8 Conclusioni Pensare di poter svelare in queste pagine tutti i segni più o meno nascosti della città di Tamara (o fuor di metafora del paziente emorragico) sarebbe irrealistico e stupidamente presuntoso. L’obiettivo di questo capitolo è stato di far venir voglia di conoscere e capire meglio che cosa c’è dietro questi segni, quale complessa e per molti versi affascinante realtà stanno a significare. Questa curiosità è tutt’altro che futile, perché è proprio da essa che parte ogni processo di miglioramento della pratica clinica.
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Il paziente febbrile
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M. Dei Poli, G. Di Palma, C. Colombo
Riassunto Si definisce febbre una elevazione dei valori di temperatura corporea in seguito a diversi stimoli. Può rappresentare una reazione normale a un processo infettivo o infiammatorio oppure può essere l’esito di un grave danno centrale con la perdita completa del sincronismo tra meccanismi iperpiretici e meccanismi ipotermici. La misurazione della febbre può avvenire con diversi strumenti. Ogni strumento si adatta a diversi contesti e presenta vantaggi o svantaggi. Il cateterismo intravascolare rimane il sistema di riferimento, penalizzato dal rischio infettivo e di lesione vascolare, oltre al fatto che spesso è inserito in presidi ad altissima invasività. Altre metodiche sono invece più semplici ma non sempre attendibili. All’interno del percorso chirurgico occorre sempre identificare e inquadrare un rialzo febbrile. Nell’intraoperatorio, oltre all’anestesia loco-regionale che sembra correlata con la comparsa di iperpiressia, particolare attenzione va posta a sindromi potenzialmente fatali che bisogna saper riconoscere tempestivamente e trattare. Per la febbre postoperatoria, dopo 48 ore in cui si può attribuire con sufficiente tranquillità l’iperpiressia allo stimolo chirurgico, la persistenza di temperature elevate deve obbligatoriamente far pensare a possibili coinvolgimenti infettivi. Esistono marcatori che possono aiutare la diagnosi come la procalcitonina. Il trattamento, da ultimo, richiede attenzione per i rischi legati agli effetti collaterali di tutti i farmaci antipiretici. Nella scelta bisogna sempre tenere conto del paziente, delle sue condizioni croniche e dell’effettiva necessità al trattamento della febbre che comunque appare una reazione finalizzata al ripristino di una condizione di normalità.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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11.1 Introduzione È noto a tutti che la febbre è uno tra i sintomi di più frequente riscontro nei pazienti ospedalizzati. Circa il 30% dei pazienti ricoverati in ospedale, infatti, presenta questa condizione clinica. Nei pazienti ammessi in terapia intensiva il fenomeno dell’ipertermia supera invece il 90%. Al contrario, l'ipertermia in corso di anestesia è un evento raro, spesso legato alla disregolazione della temperatura causata dagli agenti anestetici (Lenhardt et al., 2008), mentre il riscontro di febbre nel periodo perioperatorio può essere la manifestazione di patologie come l’ipertermia maligna che, per gravità e conseguenze potenzialmente letali, necessita di un trattamento tempestivo.
11.1.1 Definizioni Per analizzare il fenomeno nella sua complessità è fondamentale iniziare a dare una definizione di febbre. La temperatura corporea centrale subisce delle oscillazioni fisiologiche che variano tra i 36 e i 38,2 °C durante il ciclo sonno-veglia, con un massimo nelle ore pomeridiane e un minimo in quelle mattutine. All’interno di questa variabilità fisiologica esistono numerose situazioni che possono modificare ulteriormente la temperatura corporea, quali per esempio la fase del ciclo mestruale, l'esercizio fisico, la temperatura esterna, l'introito nutrizionale. Nelle linee guida del 2008 dell'American College of Critical Care Medicine and Infectious Disease Society of America la febbre è definita come una temperatura centrale maggiore di 38,3 °C in due rilevazioni successive (ACCP/SCCM, 1992 ). Più precisamente la febbre è una elevazione controllata della temperatura centrale che è spesso una risposta di difesa dell'ospite ai microrganismi o sostanze inorganiche riconosciute come estranee. Diversamente l'ipertermia è un aumento incontrollato della temperatura legato a una incapacità o impossibilità dei meccanismi regolatori di dissipare il calore in eccesso. Tale quadro è legato soprattutto, come vedremo, alla somministrazione di farmaci. La distinzione tra febbre e ipertermia assume un’importanza fondamentale poiché le cause che determinano questi due eventi e i meccanismi fisiopatologici che li sostengono sono sostanzialmente diversi e di conseguenza anche i rispettivi trattamenti.
11.1.2 La genesi della febbre Il centro di controllo deputato alla termoregolazione è situato nell'ipotalamo anteriore. Da questo punto esistono interazioni con i nuclei preottico, settale e con l'organum vasculosum della lamina terminale (OVLT) che hanno come obiettivo prin-
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cipale il coordinamento di tutti i sistemi deputati alla produzione o alla dispersione di calore. Il target finale è il mantenimento di un determinato valore di “set point” a livello ipotalamico e che corrisponde a quel ridotto range di normalità in cui oscilla la temperatura corporea. In condizioni di normalità il sistema regola la perdita o la conservazione di calore in risposta alle fluttuazioni della temperatura dell'ambiente esterno. In caso di febbre si assiste a un aumento della temperatura centrale corporea che rimane controllato perché tutti questi meccanismi di termoregolazione rimangono conservati. La produzione di sostanze pirogene esogene o endogene, attraverso le prostaglandine, portano il set point ipotalamico a un livello più alto, proprio come un termostato setterebbe la temperatura a un determinato livello per mantenere costante il riscaldamento all'interno di una abitazione. L'ipotalamo stimola la vasocostrizione e il brivido per ridurre le perdite di calore e per aumentarne la produzione fino a quando la temperatura corporea non uguaglia quella del nuovo set point. Nel caso dell'ipertermia l'aumento della temperatura corporea è incontrollato a causa di una perdita del controllo dei meccanismi di termoregolazione (come la vasodilatazione e la sudorazione). Questa situazione a volta molto pericolosa, trova spesso ragione o nell’assunzione contemporanea di alcune classi di farmaci, o per esposizione a fonti di calore (per esempio, il colpo di calore delle calde giornate estive).
11.1.3 Metodi di misurazione della temperatura corporea Esistono varie metodiche per la misurazione della temperatura che differiscono in accuratezza e invasività. La temperatura centrale è misurabile in modo più accurato nelle seguenti sedi con metodiche più o meno invasive: – sangue: tale metodo prevede l'utilizzo di cateteri intravascolari. In particolare la temperatura misurata con il termistore del catetere arterioso polmonare è considerato il metodo di misurazione standard, ma poco attuabile in sala operatoria (Schmitz et al., 1995). Non meno trascurabile è il rischio di infezione di questa metodologia che non ne giustifica l'utilizzo in sala operatoria; – vescicale: i termistori dei cateteri per la misurazione della temperatura vescicale sono costosi e non sempre di facile posizionamento, ma rappresentano una valida alternativa ai cateteri intravascolari; – esofago: le sonde esofagee devono essere posizionate a livello del terzo distale dell'esofago. La misurazione con tale metodica è comparabile a quella eseguita con termistori intravascolari e vescicali. Tuttavia è necessario il corretto posizionamento della sonda per ottenere una misurazione veritiera della temperatura. Il rischio di perforazione esofagea rimane un raro ma possibile effetto avverso; – canale uditivo: la temperatura timpanica misurata tramite il termistore riflette la temperatura ipotalamica e quindi quella centrale, ma non è un metodo utilizzato di routine in sala operatoria. Diversa è invece la misurazione tramite termo-
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metro auricolare a infrarossi che è considerato un metodo accettabile in termini di accuratezza. Nella pratica quotidiana la temperatura è misurata anche in altre sedi, ma in questi casi la temperatura registrata sarà approssimabile a quella centrale per eccesso o per difetto a seconda della sede, come riassunto di seguito: – temperatura orale: sottostima di circa 0,7 °C rispetto alla temperatura centrale per la possibile interferenza della respirazione attraverso la bocca (-0,7 °C); – temperatura ascellare: sottostima di circa 1,8 °C rispetto alla temperatura centrale (-1,8 °C); – temperatura rettale: sovrastima di circa 0,9 °C rispetto alla temperatura centrale (+0,9 °C).
11.2 Fisiopatologia della febbre 11.2.1 Febbre (ipertermia controllata) Le sostanze che determinano la febbre sono dette pirogene e distinte in esogene (endotossine batteriche, microrganismi ecc.) o endogene quando prodotte dalle cellule dell'organismo (IL-1, IL-6, IL-8, αTNF, interferone α, β, γ). Queste sostanze attivano la catena di produzione dell'acido arachidonico e dei mediatori dell'infiammazione fino al rilascio di prostaglandina E2 (PGE2) che agirebbe sull’OVLT che a sua volta invia in periferia i segnali necessari affinché si innalzi la temperatura. Nella genesi della febbre si possono identificare due fasi. La prima fase è quella in cui i pirogeni, agendo sui centri della termoregolazione, portano il set point a un livello più alto. Viene quindi attivata tutta una serie di meccanismi di risposta tra cui i principali sono la vasocostrizione per ridurre la perdita di calore e il brivido per aumentare la produzione metabolica di calore. Durante questa fase la temperatura centrale è strettamente regolata intorno al nuovo set point. La seconda fase della genesi della febbre è rappresentata dalla defervescenza. Questa fase avviene quando la concentrazione delle sostanze pirogene a livello dei sistemi di termoregolazione diminuisce e la temperatura del set point si riduce fino ai valori fisiologici. A questo punto i principali meccanismi deputati alla perdita di calore, come la vasodilatazione e la sudorazione, prendono il sopravvento. È ormai noto che la febbre è un meccanismo di risposta a un’infezione (Kluger, 1978) che svolge anche una serie di azioni protettive. Il potenziamento della immunità e della citotossicità senza alcuna azione diretta sui microrganismi sembrerebbe il primario effetto antinfettivo. In particolare la febbre aumenta la motilità e la migrazione dei neutrofili e dei monociti, promuove la fagocitosi e la pinocitosi, aumenta la produzione dei radicali dell'ossigeno da
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parte dei fagociti, aumenta la produzione di interferone, e infine attiva i linfociti T e la produzione di anticorpi. Nonostante gli effetti benefici della febbre alcuni pazienti critici possono non tollerare l'elevato lavoro richiesto al sistema cardiovascolare a causa dell'aumento del tono simpatico. Durante la fase di aumento della temperatura, infatti, l'attività del sistema nervoso simpatico aumenta il tono dei vasi cutanei e del circolo di altri organi, determinando un aumento delle resistenze vascolari sistemiche. Tuttavia l'aumento è modesto poiché la vasocostrizione è già presente: l'effetto finale sul circolo della vasocostrizione su base febbrile è trascurabile. Al contrario invece il brivido può duplicare o addirittura triplicare il metabolismo aumentando marcatamente la frequenza cardiaca e la gettata (Rowell, 1983). Nella fase di defervescenza l'attività del sistema nervoso simpatico sui vasi periferici si riduce permettendo una vasodilatazione passiva. Contemporaneamente esiste una vasodilatazione attiva a causa della stimolazione delle ghiandole sudoripare dove l'elevato flusso di sangue permette la dispersione di calore attraverso la cute. La riduzione massiva delle resistenze vascolari si accompagna a un calo della pressione arteriosa media che stimola in risposta un aumento della frequenza e della gettata cardiaca.
11.2.2 Ipertermia non controllata L'ipertermia non controllata è la conseguenza inevitabile di una produzione di calore che eccede la capacità dei meccanismi di termoregolazione di dissiparlo. L'ipertermia incontrollata può essere generata da farmaci che alterano le risposte termoregolatorie o provocata dall'esposizione a eccessivo calore. Numerosi farmaci possono fungere da trigger per l'ipertermia. Il meccanismo è spesso sconosciuto e può accadere alla prima somministrazione così come a successive o, ancora, dopo l’associazione con altri farmaci. Alcuni farmaci responsabili di questi eventi sono la succinilcolina, gli anestetici volatili, l'atropina, l'amfetamina e altri farmaci psicotropi quali l’aloperidolo. Le due sindromi ipertermiche che interessano strettamente gli anestesisti sono l'ipertermia maligna e la sindrome neurolettica maligna. L'ipertermia maligna è un raro disturbo congenito trasmesso con carattere autosomico dominante. L’incidenza è di 1:15 000 per i pazienti pediatrici e 1:50-100 000 negli adulti, considerando i pazienti trattati con anestetici alogenati e/o farmaci miorilassanti depolarizzanti in generale. Questa incidenza scende a 1:5000 nella associazione alogenato e succinilcolina. Sono colpiti soprattutto i pazienti maschi, dall’età pediatrica ai 20 anni; la mortalità si attesta intorno al 7%. Esordisce spesso in modo imprevedibile in soggetti predisposti che a volte ne sono inconsapevoli. Per le sue caratteristiche di trasmissione genetica, diventa fondamentale individuare un’anamnesi anestesiologica sospetta per precedenti casi di ipertemia maligna anche tra i familiari. I farmaci trigger agiscono con un meccanismo d’azione
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che stimola l’apertura dei canali del Ca++ del reticolo sarcoplasmatico che, durante la fase acuta, persistono aperti con conseguente maggiore fuoriuscita del Ca++ nel mioplasma. Questo attiva il meccanismo contrattile a cui consegue un grave quadro di catabolismo muscolare con aumentato consumo energetico e alterazioni del metabolismo cellulare (Brandom, 2006). L’esito finale di questo meccanismo è caratterizzato da un improvviso ed eccessivo aumento della temperatura centrale causato dal rilascio incontrollato di calcio dalla muscolatura scheletrica. I meccanismi centrali della termoregolazione rimangono intatti, mentre i meccanismi di dispersione del calore vengono persi. Da un punto di vista dell’approccio è fondamentale un riconoscimento precoce dei segni e sintomi del quadro clinico sia nell’intraoperatorio che nell’immediato postoperatorio. I segni e i sintomi da riconoscere come sospetti sono: – spasmo dei masseteri con o senza rigidità generalizzata a comparsa tardiva (peggiorata spesso da ulteriori dosi di curaro); – comparsa di inspiegabile instabilità emodinamica con tachicardia a livello di narcosi adeguato; – cianosi, disadattamento dal respiratore con tendenza a tachipnea; – aumento improvviso della EtCO2; – ipertermia ingravescente anche >40 °C. Esami urgenti di laboratorio ed emogasanalisi arteriosa mostrano un quadro iniziale di acidosi respiratoria ipercapnica, che diviene poi acidosi mista con iperlattatemia, ipossiemia, ipercalcemia, iperpotassiemia, lisi muscolare con mioglobinemia e aumento di CPK, mioglobinuria, fino alla comparsa di coagulopatia intravascolare disseminata (CID), assolutamente pericolosa per la vita del paziente. La componente sintomatica prevede l’immediata sospensione dell’alogenato, la sostituzione di tutto il circuito del respiratore, la correzione dell’acidosi con bicarbonati (1-2 mEq/kg) e ventilazione ad alti volumi e frequenze per garantire un adeguato wash-out di CO2, correzione dell’ipokaliemia e trattamento delle aritmie con uso di β-bloccanti se emodinamicamente compatibili, protezione dal danno renale conseguente alla rabdomiolisi massiva con diuretici (mannitolo (0,3 g/kg) o furosemide (2 ml/kg/h), steroidi (idrocortisone: 30 mg/kg; desametasone: 1,5-2 mg/kg; metilprednisolone: 30 mg/kg) e infine correzione della CID alla sua comparsa. La temperatura va abbassata con tutti i mezzi fisici disponibili e somministrando cristalloidi senza calcio a basse temperature fino al raggiungimento dei 38 °C. Il trattamento specifico, invece, prevede la somministrazione di dantrolene a 2,5 mg/kg ev. La somministrazione va ripetuta dopo 5-10 minuti fino al raggiungimento di 10 mg/kg somministrati a una velocità di 1 mg/kg/min. Il dantrolene pertanto costituisce un farmaco indispensabile e salvavita all’interno dei nostri blocchi operatori. Un'altra forma di ipertermia è la sindrome neurolettica maligna che si manifesta in modo simile all'ipertermia maligna (Brandom, 2006; Kahn e Farver, 2000). Si tratta di una reazione idiosincrasica ai farmaci psicotropi quali per esempio feno-
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tiazine, antidepressivi triciclici e inibitori delle monoamino-ossidasi. Tuttavia, in ambiente intensivo e anestesiologico l’evenienza più riscontrabile è la sua comparsa in seguito a interazioni farmacologiche, tra cui quella fra tramadolo e farmaci antidepressivi. Esistono infine forme di ipertermia legate all'esercizio fisico o all'esposizione a elevate temperature ambientali, come nel caso dei colpi di calore, nelle quali la disidratazione gioca un ruolo fondamentale.
11.3 Anestesia e febbre 11.3.1 Febbre perioperatoria
La febbre perioperatoria può avere una causa non infettiva, come per esempio può accadere in corso di reazioni allergiche, patologie autoimmunitarie correlate o meno al motivo dell’intervento, liberazione di sostanze pirogene dal sito chirurgico (come avviene in corso di chirurgia oncologica o di interventi su siti infetti). Tuttavia l’insorgenza della febbre come evento strettamente legato all’atto chirurgico rimane un evento raro. Una spiegazione, in parte soddisfacente, deriva dall’osservazione che i pazienti sottoposti a intervento chirurgico vengono normalmente posizionati in ambienti freddi e che l’anestesia generale induce direttamente una riduzione della temperatura centrale. È dimostrato, in questo senso, che gli anestetici volatili, come per esempio il desflurano, attraverso un'azione centrale riducono la risposta febbrile in seguito alla somministrazione di pirogeni (Negishi et al., 1998). Anche l’uso dei miorilassanti in corso di narcosi contribuisce a impedire l'insorgenza della febbre intraoperatoria riducendo il rischio di brivido e il conseguente aumento della produzione di calore. Di contro, la paralisi indotta dai miorilassanti sembra avere un ruolo marginale nel ridurre la temperatura centrale (Lenhardt et al., 1998). Altra categoria di farmaci necessari per la gestione dell’anestesia sono gli oppiodi. Durante il loro utilizzo nella fase intraoperatoria si assiste a una riduzione della febbre già a dosi subanestetiche attraverso un meccanismo di azione centrale (Negishi et al, 2000). Diversi, invece, gli effetti in corso di anestesia loco-regionale. Numerosi studi hanno dimostrato che l'analgesia epidurale è frequentemente associata all'ipertermia, soprattutto durante il travaglio e dopo chirurgia. L’analgesia epidurale è associata a un aumento della temperatura oltre i 38 °C nel 10-20% delle pazienti ostetriche (Philip et al., 1999). Le cause sembrano legate alla simpatectomia del sistema autonomo indotta dall’analgesia epidurale le cui manifestazioni sono una riduzione della sudorazione nella parte inferiore del corpo (quella sotto effetto dell'analgesia) e una vasocostrizione nella parte superiore che, associate, portano a un aumento della temperatura corporea.
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11.3.2 Febbre postoperatoria Diversamente dalla febbre intraoperatoria, la febbre postoperatoria è piuttosto comune. La febbre postoperatoria precoce può semplicemente essere una manifestazione dello stress perioperatorio legato alla risposta infiammatoria acuta del sistema immunitario al danno chirurgico e non necessariamente lo specchio di un’infezione. L'incidenza varia in base al tipo e alla durata dell'intervento chirurgico, all'età del paziente, al sito di intervento e alle condizioni preoperatorie del paziente. Circa il 25% dei pazienti sottoposti a chirurgia addominale sviluppa febbre nelle prime 24 ore postoperatorie, tuttavia l'aumento di temperatura non è legato a un aumento consensuale della conta dei leucociti, ma alla normale risposta infiammatoria indotta dallo stress chirurgico (Freischlag e Busuttil, 1983). Si può ragionevolmente affermare che la febbre nelle prime 48 ore postoperatorie è un evento fisiologico e quindi non meritevole di ulteriori indagini. Al contrario, un aumento elevato della temperatura che perdura nel tempo o che si sviluppa a distanza dall'evento chirurgico potrebbe essere legato più facilmente a un’infezione (Dionigi et al., 2006). Per facilitare la diagnosi differenziale tra febbre in processi infiammatori (SIRS, systemic inflammatory response syndrome) e febbre in corso di eventi infettivi, soprattutto nella incerta fase postoperatoria, è stata di recente introdotta la possibilità di dosare un marcatore specifico di sepsi: la procalcitonina (PCT). La PCT viene prodotta principalmente dalle cellule parenchimali non neuroendocrine di tutti gli organi. Nell’individuo sano la PCT è <0,5 g/ml, mentre aumenta in maniera significativa in corso di SIRS non infettiva (politrauma, ustioni estese, interventi chirurgici demolitivi e cardiochirurgici, pancreatite acuta, infarto miocardico complicato da shock cardiogeno) e infettiva (infezioni batteriche) (Pfafflin e Schleicher, 2009; Becker et al., 2010). All’interno dell’infezione batterica alcuni autori (Charles et al., 2008) hanno anche evidenziato la possibilità di un’ulteriore distinzione tra infezione da Gram-positivi (caratterizzata dal riscontro di valori di PCT
16 mg/ml). Rispetto alla PCR, la PCT aumenta più precocemente (è dosabile dopo sole 3-4 ore dall’insorgenza della flogosi), raggiunge il plateau dopo 6-12 ore, ha un’emivita di 20 ore e persiste per 24 ore dopo la fine dello stimolo (quindi diminuisce più rapidamente della PCR con il miglioramento del quadro clinico). Queste caratteristiche la rendono un marcatore precoce e affidabile nel sospetto di una deriva infettiva del postoperatorio con febbre. In questo contesto, un valore aggiunto della procalcitonina è la possibilità di stratificare il rischio legato alla presenza di una infezione postoperatoria. La concentrazione plasmatica di PCT, infatti, correla in maniera direttamente proporzionale con la gravità del quadro clinico (e quindi con il SOFA score). Quindi, eseguendo prelievi seriati la procalcitonina non assume solo un valore diagnostico, ma anche prognostico. Livelli plasmatici costantemente elevati di PCT in pazienti con sepsi si associano a un outcome sfavorevole, mentre livelli plasmatici in rapida diminuzione nel corso dei primi sette giorni di ricovero in terapia intensiva correlano con una prognosi favorevole (Jebali et al., 2007).
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L’andamento consente anche il monitoraggio dell’efficacia dell’antibioticoterapia impostata (Schuetz et al., 2009). Il dosaggio della PCT è ottenibile con un esame semplice (basta un comune prelievo di sangue venoso), relativamente poco costoso e con tempi di risposta rapidi (3040 minuti). La procalcitonina rappresenta, quindi, un buon marker diagnostico e prognostico in corso di febbre da definire e può essere di aiuto nell’impostazione e nel monitoraggio di un’adeguata terapia antibiotica.
11.4 Ipermetabolismo La principale caratteristica del paziente febbrile è lo stato ipermetabolico in cui il consumo di ossigeno respiratorio e miocardico, le condizioni di compenso cardiocircolatorio e lo stato volemico si ritrovano strettamente legati tra loro. Lo stato ipermetabolico può svilupparsi come conseguenza di una grande varietà di insulti, come l'emorragia severa, la sepsi, l'ischemia o il danno tissutale. In sostanza si tratta di condizioni in cui il comune denominatore è la risposta a uno stress acuto: infatti l'evento iniziale comune a tutti questi eventi è il danno d'organo. In pazienti in cui le insufficienze d'organo progrediscono, l’ipermetabolismo diventa la situazione metabolica predominante. Tale fase può durare dai 14 ai 21 giorni ed è associata a un progressivo deterioramento della funzione epatica e renale. I pazienti manifestano febbre anche non elevata, leucocitosi, tachicardia e tachipnea. L'ipermetabolismo è spesso associato ad aumento della gettata cardiaca (CI >4,5 l/min/m2) e a calo delle resistenze vascolari periferiche (SVR <600 dyne × cm), iperglicemia, iperlatticidemia, elevato indice di consumo di ossigeno. Lo stesso quadro emodinamico si riscontra nella sepsi e in analogia anche la mortalità della sindrome ipermetabolica è elevata (25-40%). Con il progredire dell’ipermetabolismo il ricorso a un supporto farmacologico del circolo con la finalità di mantenere un adeguato trasporto di ossigeno ai tessuti può diventare necessario. Il metabolismo di questi pazienti può superare di due volte il metabolismo basale comportando un aumento del consumo di ossigeno, del trasporto di ossigeno e della produzione di CO2 che richiede, a sua volta, un aumento della ventilazione minuto. Tutti questi meccanismi di adattamento richiedono un'elevata spesa energetica che deriva dall'utilizzo di tutti i substrati presenti nell'organismo. In particolare viene coinvolto il metabolismo dei carboidrati caratterizzato da un aumento della glicogenolisi e della gluconeogenesi. Anche il metabolismo dei lipidi così come quello delle proteine è aumentato, con conseguente aumento dei chetoni da una parte e deplezione proteica dall'altra. L'aumentata richiesta metabolica è infatti soddisfatta dalla proteolisi scheletrica e viscerale per fornire il substrato di aminoacidi (lattati, alanina, glutamina, glicina, serina e glicerolo) per la gluconeogenesi. Proteolisi muscolare e gluconeoge-
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nesi sono promosse dagli elevati livelli di catecolamine circolanti, glucagone, cortisolo e citochine che contribuiscono così all'insulino-resistenza. Si assiste all'aumento del glucosio ematico che viene richiamato dai tessuti e prodotto a livello epatico. L'eccesso di glucosio viene così riconvertito in lattato dal ciclo di Cori che produce calore e non energia. Riassumendo si può affermare che nel paziente che per diversi motivi va incontro a una progressiva insufficienza multiorgano si assiste a una iperattivazione del metabolismo. Questa situazione patologica attiva il catabolismo di sostanze necessarie all'organismo stesso come evento compensativo alle elevate richieste energetiche. L’evoluzione finale in assenza di un trattamento è l’ulteriore danneggiamento delle funzioni d’organo fino a una condizione di terminalità. Tale processo può essere in parte arginato seguendo tre obiettivi nel trattamento del paziente. In primis è necessario controllare la sorgente dell’insufficienza d'organo trattando l'infezione, controllando le emorragie o le ustioni o gli altri quadri patologici. In secondo luogo ci si dovrà porre come obiettivo il mantenimento di una emodinamica sufficiente a garantire un adeguato trasporto di ossigeno ai tessuti e quindi ridurre la produzione di lattati, che, come abbiamo visto, comporta liberazione di calore e di scarsa energia. Per ultimo, ma non meno importante, è provvedere a un adeguato supporto metabolico precocemente, attraverso nutrizione parenterale o enterale commisurata al tipo di paziente (Pfafflin e Schleicher, 2009).
11.5 Cenni di trattamento Nel corretto approccio terapeutico alla febbre la prima fondamentale distinzione è rispetto a quale tipo di ipertermia si è di fronte. È già stata evidenziata la fondamentale differenza tra febbre e ipertermia. Nel primo caso il sistema di regolazione della temperatura è normofunzionante. La febbre assume quindi un ruolo nella risposta infettiva. Partendo da questo presupposto, il trattamento della febbre in corso di infezione è oggetto di ampia discussione. Tra le varie conclusioni sembra ragionevole accettare che la febbre di per sé non costituirebbe un problema per i nostri pazienti. Tuttavia ciò che incoraggia il clinico a trattare la febbre soprattutto in alcune tipologie di malati sono gli effetti collaterali dell’ipertermia. In pediatria, nell’età compresa tra i 3 mesi e i 5 anni, per esempio, la febbre elevata anche a 40-41 °C viene trattata soprattutto perché in queste condizioni l’incidenza di convulsioni sembra maggiore. La medesima preoccupazione clinica interessa i pazienti cardiaci e polmonari dove l’aumento del metabolismo legato alla iperpiressia può scompensare quadri già labili. Il trattamento della febbre, quindi, deve sempre tenere conto del rapporto tra benefici ed effetti collaterali derivanti dal trattamento dell’iperpiressia (Mackowiak, 2000). Per meglio valutare questo difficile equilibrio tra febbre e trattamento occorre tenere presenti gli effetti collaterali delle terapie più comuni a carico dei princi-
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pali apparati con lo scopo di aiutare a individuare il miglior trattamento rispetto a determinate caratteristiche del paziente.
11.5.1 Sistema gastroenterico L’utilizzo di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) è strettamente associato alla comparsa di lesioni delle mucose nei casi meno gravi per passare dalla comparsa di sintomi quali dispepsia e nausea fino alla perforazione gastrica e all’emorragia gastroenterica. L’incidenza di lesioni gastriche appare maggiore con acido acetilsalicilico e ketoprofene, moderata durante l’utilizzo di naprossene e quasi trascurabile nei pazienti che vengono sottoposti a trattamento con ibuprofene e acetominofene (paracetamolo). Le strategie per la riduzione delle complicanze gastroenterologiche, in accordo con le linee guida gastroenterologiche, suggeriscono una terapia con FANS di breve durata e con i farmaci meno gastrolesivi In caso di trattamenti prolungati, in presenza di pazienti con anamnesi positiva per lesioni ulcerative da antidolorifici e comunque in tutti i pazienti di età superiore ai 65 anni, la gastroprotezione è fortemente consigliata. L’utilizzo di ranitidina viene scoraggiato, mentre gli inibitori di pompa protonica (PPI) richiedono almeno 3 giorni di trattamento prima di poter garantire una efficacia. Il misoprostolo rimane il farmaco indicato anche se il suo utilizzo a dosaggi terapeutici non sempre è privo di effetti collaterali (Lanza et al., 2009).
11.5.2 Rene FANS, acido acetilsalicilico e acetominofene sono responsabili a livello renale di gravi alterazioni dell’equilibrio elettrolitico e fluidico, e generano insufficienze renali acute, nefropatie analgesico-correlate e interstiziali acute. L’inibizione prostaglandinica attuata dai FANS impedisce la vasodilatazione necessaria all’ottimizzazione del gradiente di filtrazione glomerulare con conseguente rischio di induzione di oligoanurie, soprattutto in pazienti con assetto volemico non ottimale, come peraltro accade frequentemente in corso di febbre. In questi casi il riconoscimento precoce della causa di oliguria e la sospensione della somministrazione di farmaci consentono la ripresa di una normale funzione renale. Anche la regolazione del sodio (che subisce una significativa ritenzione) può essere influenzata dalla terapia con FANS. A questa condizione segue un’importante ritenzione di acqua che può portare a quadri di overloading fino all’edema polmonare. Anche in queste circostanze la sospensione della terapia appare la scelta migliore. La nefrite interstiziale è una complicanza rara che solitamente può avere un riscontro in pazienti che prolungano il trattamento con FANS per periodi tra i 2 e i 18 mesi.
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11.5.3 Fegato Il paracetamolo o acetominofene è il farmaco antipiretico principalmente coinvolto nel danno epatico. Il dosaggio massimo consentito è di 4 g che non devono essere superati. L’insufficienza epatica che può derivarne può essere fulminante. In caso di sovradosaggio si può ricorrere alla somministrazione di acetilcisteina o metionina. La posologia dell’acetilcisteina è pari a 150 mg/kg ev somministrati nell’arco di 15 minuti, seguiti da due infusioni della durata di 4 e 16 ore (50 mg/kg in 500 ml di soluzione glucosata la prima; 100 mg/kg in 1000 ml di soluzione glucosata la seconda). La dose complessiva è pari a 300 mg/kg in 20 ore. Un altro protocollo di somministrazione prevede 140 mg/kg per os seguiti da 17 dosi di 70 mg/kg ogni 4 ore (dose complessiva: 1330 mg/kg in 72 ore). La metionina aumenta la sintesi epatica di glutatione; la somministrazione orale è più attiva rispetto a quella parenterale, anche se nausea e vomito possono ridurne Tabella 11.1 Farmaci antipiretici consigliati per categorie di pazienti BAMBINI
Paracetamolo Aspirina
ADULTI Paziente iperteso e/o diabetico Paracetamolo 500 mg × 4 o × 6 (MAX 4 g/die) × os 1 gr × 4 ev Ibuprofene
400 mg carico + 200 mg × os
Diclofenac
0,04 mg/kg/h per 2 ore quindi 0,02 mg/kg/h ev
Paziente ipovolemico Paracetamolo
Paziente disidratato Paracetamolo
Insufficienza renale Paracetamolo
500 mg × 4 o × 6 (MAX 4 g/die) × os 1 g × 4 ev
Da evitare nell’insufficiente epatico iniziale
500 mg × 4 o × 6 (MAX 4 g/die) × os 1 g × 4 ev
Da evitare o ridurre nel paziente malnutrito
500 mg × 4 o × 6 (MAX 4 g/die) × os 1 g × 4 ev
Da evitare se uso abituale
Insufficienza epatica-epatopatia Ibuprofene 400 mg carico + 200 mg × os Diclofenac
Da evitare se ipovolemico
0,04 mg/kg/h per 2 ore quindi 0,02 mg/kg/h ev
Da evitare se ipovolemico
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l’assorbimento e quindi l’efficacia. La posologia nei pazienti adulti è 2,5 g per os seguiti da 3 dosi di 2,5 g ogni 4 ore (dose complessiva: 10 g in 12 ore) (Lanza et al., 2009). La comunità scientifica appare concorde nell’identificare nel paracetamolo e nell’ibuprofene i due farmaci antipiretici con il miglior rapporto rischio/beneficio (Meredith et al., 1986). La prima scelta dovrebbe essere il paracetamolo per la ridottissima incidenza di complicanze e per il minor danno sul rene. Nei casi di patologia epatica o in caso di uso abitudinario di ibuprofene, dove il rischio di sovradosaggio è più elevato, la scelta può essere l’ibuprofene. Sullo stesso farmaco dovrebbe ricadere la scelta anche in caso di febbre refrattaria al paracetamolo (Tabella 11.1).
11.6 Conclusioni La rilevazione e il controllo della temperatura in anestesia permette di prevedere e prevenire le sindromi ipertermiche (ipertermia maligna e sindrome neurolettica maligna). Il controllo può avvenire con diverse metodiche tra cui la più attuabile e accettabile in sala operatoria è quella esofagea o auricolare. Durante la fase intraoperatoria la febbre e l'ipertemia sono eventi rari poiché l'anestesia generale deprime i meccanismi di risposta fisiologici; al contrario, l'anestesia loco-regionale è più spesso associata a ipertermia. Nel postoperatorio, invece, la febbre è un evento frequente e talvolta fisiologico in risposta allo stress chirurgico entro le 48 ore successive all'intervento. Il persistere della febbre nella fase postoperatoria deve allertare sulla possibilità di una problematica infettiva. Clinica e nuovi marcatori (PCT) possono essere di aiuto nella diagnosi differenziale, nel trattamento e nella definizione della prognosi. L'ipermetabolismo, da ultimo, in qualsiasi condizione si manifesti, comporta un eccessivo consumo di lipidi, carboidrati e proteine, e se non trattato può peggiorare l'insufficienza d'organo in modo irreversibile. Esso costituisce di per sé un importante fattore di rischio. Da ultimo la scelta terapeutica deve essere attentamente valutata. Paracetamolo e ibuprofene sembrano essere i due farmaci di scelta con la raccomandazione di ottimizzare il rapporto rischio/beneficio.
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Il paziente politraumatizzato
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M. Rambaldi, S. Busani, M.T. Baranzoni, M. Girardis
Riassunto La patologia traumatica è assai complessa, difficilmente standardizzabile da un punto di vista clinico, ed è composta da lesioni di modesto rilievo o di gravissimo impatto sulle funzioni vitali. Il monitoraggio dell’effetto e dell’evoluzione di tali traumatismi sugli organi e sui diversi apparati è mandatario per il corretto inquadramento clinico dei pazienti. La valutazione iniziale del traumatizzato deve seguire il metodo d’intervento suggerito dalle procedure dell’Advanced Trauma Life Support secondo il quale le lesioni traumatiche risultano letali sulla base di schemi temporali riproducibili. L’approccio clinico-diagnostico viene svolto attraverso l’analisi di ciascun distretto interessato dal trauma: cranio, torace, addome (pelvi, rene e vie urinarie, fegato e milza), vasi e midollo. Inoltre nelle fasi sia precoci che tardive, il monitoraggio dell’emorragia e il trattamento della coagulopatia rappresentano uno dei cardini dello standard of care nella patologia traumatica severa. Durante la degenza in Terapia Intensiva, le complicanze post-traumatiche che possono svilupparsi sono molteplici. Il monitoraggio e il controllo attento di tali complicanze, come l’insorgenza di ipertensione endocranica, ipossia tissutale ecc., portano a un miglioramento dell’outcome. Il monitoraggio sia in fase precoce che tardiva esercita ormai un ruolo chiave nella gestione dei danni diretti del trauma e delle sue complicanze sia in Pronto Soccorso, che in Sala Operatoria e in Terapia Intensiva. L’applicazione clinica di sistemi di monitoraggio sempre più evoluti ha permesso negli anni un trattamento medico/chirurgico sempre più mirato e sempre meno affetto da complicanze con un notevole impatto sulla sopravvivenza.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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12.1 Introduzione La patologia traumatica è molto complessa, difficilmente standardizzabile da un punto di vista clinico, polimorfa, composta da lesioni di modesto rilievo o di gravissimo impatto sulle funzioni vitali e sulla vita del paziente. È universalmente riconosciuto che mortalità e morbilità associate al trauma sono largamente influenzate dalla qualità delle prime cure prestate sulla scena e dall’intervallo che intercorre tra evento e cure definitive: un intervento qualificato nella prima ora dall’evento (golden hour) aumenta la probabilità e la qualità della sopravvivenza (Gomez et al., 2010). La valutazione iniziale del traumatizzato deve seguire il metodo d’approccio suggerito dalle procedure dell’Advanced Trauma Life Support (ATLS) secondo il quale le lesioni traumatiche risultano letali sulla base di schemi temporali riproducibili; l’acronimo “ABCDE” utilizzato è quindi il risultato della sistematizzazione nell’approccio al paziente, definendone l’ordine specifico di valutazione e intervento poiché l’adozione di sequenze razionali di manovre può rendere più efficace l’intervento (American College of Surgeons, 1980). Il monitoraggio clinico e strumentale riveste un ruolo fondamentale per il risultato clinico, che oltre ai classici parametri vitali deve includere la diagnostica strumentale ecografica, radiologica e laboratoristica che, in questo specifico quadro patologico, rappresenta non solo uno strumento diagnostico, ma un completo e fondamentale strumento di monitoraggio.
12.2 Fase iniziale: cosa dobbiamo monitorare? Per inquadrare al meglio il ruolo del monitoraggio nella gestione del paziente traumatizzato, in questo paragrafo abbiamo cercato di riassumere i principali concetti di epidemiologia e di valutazione clinico-diagnostiche iniziali attraverso l’analisi per tipologia di sistema/organo interessato nell’evento traumatico e riservando un sottoparagrafo al monitoraggio della coagulopatia nel paziente con emorragia massiva.
12.2.1 Trauma cranico Il trauma cranico è responsabile della mortalità di circa un terzo dei pazienti traumatizzati (Corrigan et al., 2010). Il punteggio della scala del coma di Glasgow (GCS) identifica la gravità del trauma cranico in lieve, moderato e grave. Un GCS inferiore a 8 identifica un trauma cranico con lesione cerebrale grave, tra 9 e 13 un trauma cranico moderato, mentre un GCS di 14-15 definisce un evento traumatico lieve (Teasdale e Jennet, 1974).
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La valutazione iniziale deve essere fatta attraverso un esame esterno del cranio e un attento esame neurologico ricercando il valore del GCS, eventuali deficit motori e lo stato delle pupille. Il danno neurologico dopo trauma cranico viene distinto in primario e secondario. Le lesioni cerebrali primarie sono causate dall’evento traumatico iniziale (fratture, ematomi, contusioni), mentre le lesioni secondarie sono ipossico-ischemiche legate alle alterazioni dei meccanismi di regolazione del flusso e del metabolismo cerebrale. Il gold standard diagnostico nel trauma cranico è rappresentato dalla tomografia computerizzata (TC) dell’encefalo, sempre indicata nei casi moderati e gravi e nei casi di trauma cranico lieve con testimoniata perdita di coscienza e/o sintomatologia sospetta per lesione encefalica (Jagoda et al., 2008). La risonanza magnetica (RM) dell’encefalo rappresenta un esame di 2° livello e non è indicata in emergenza. Le lesioni identificate alla TC si dividono in fratture craniche e lesioni intracraniche. Le fratture craniche più temibili riguardano la base cranica per il possibile coinvolgimento del canale carotideo e dei nervi cranici (VII e VIII). Nel paziente cosciente, le fratture della volta non vanno sottovalutate perché possono aumentare la possibilità di ematoma intracranico tardivo di circa 400 volte (Zhu et al., 2009). Le lesioni intracraniche presentano diversa morfologia radiologica (Zhu et al., 2009): – ematoma extradurale: piuttosto infrequente, alla TC ha un aspetto biconvesso. È spesso provocato dalla lacerazione di arterie meningee. La localizzazione temporo-parietale è la più frequente. La descrizione clinica classica è un trauma cranico con perdita di coscienza seguito dal recupero di uno stato di coscienza normale e, dopo un intervallo libero, da un coma a comparsa progressiva. Esistono forme subacute insidiose che si sviluppano 24 ore dopo l’evento traumatico; – ematoma subdurale: il più frequente, alla TC appare come una lesione iperdensa omogenea e concava verso la falce cerebrale. Il 50% di questi ematomi si accompagna a lesione cerebrale sottostante grave; – contusioni ed ematomi intracerebrali: hanno un’incidenza del 20-30% e si localizzano spesso nei lobi frontale e temporale. Le contusioni possono evolvere e dare origine in poche ore a un ematoma intracerebrale oppure unirsi in una contusione maggiore. In un 20% di pazienti che presentano contusioni anche minime alla prima TC dell’encefalo l’evoluzione può richiedere un’immediata evacuazione chirurgica; – lesioni cerebrali diffuse: spaziano da forme concussive lievi a gravi forme ipossico-ischemiche. Di solito gli insulti cerebrali più gravi sono causati da ipotensione o insufficienza respiratoria prolungata successive al trauma. L’edema cerebrale rappresenta spesso la manifestazione TC più frequente di questi quadri. Il quadro TC di danno assonale diffuso è caratterizzato da emorragie puntiformi maggiormente concentrate al confine tra sostanza grigia e bianca: in questo caso il danno cerebrale è grave con prognosi spesso infausta. La TC consente, oltre all’identificazione della tipologia di lesione, un’ulteriore suddivisione delle lesioni – secondo la classificazione della Traumatic Coma Data Bank – in due categorie principali: le lesioni diffuse e le lesioni di massa
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Tabella 12.1 Classificazione tomodensitometrica della Traumatic Coma Data Bank Classe TC
Descrizione
Lesioni diffuse di tipo I
TC negativa
Lesioni diffuse di tipo II
Cisterne della base presenti con shift linea mediana 0-5 mm e/o lesioni dense <25 ml (può includere frammenti ossei)
Lesioni diffuse di tipo III
Cisterne della base compresse o assenti con shift linea mediana 0-5 mm, lesioni dense <25 ml
Lesioni diffuse di tipo IV
Shift linea mediana >5 mm, lesione <25 ml
Lesione da massa evacuata
Lesioni evacuate chirurgicamente
Lesione da massa non evacuata
Lesione intracerebrale di volume >25 mm
(Tabella. 12.1) (Marshall et al., 1991). Le lesioni di massa occupanti spazio devono essere trattate chirurgicamente il prima possibile. I fattori che indicano l’immediata evacuazione chirurgica di un ematoma includono: deviazione della linea mediana cerebrale >5 mm, compressione delle cisterne basali e peggioramento acuto del quadro neurologico. Ematomi subdurali cronici possono richiedere drenaggio chirurgico, ma solitamente meno urgente di quelli acuti. Ematomi extradurali estesi di probabile origine arteriosa vanno trattati immediatamente, mentre piccoli ematomi extradurali di probabile origine venosa possono essere trattati conservativamente e monitorati con TC seriate (Koch et al., 2010). La precoce stabilizzazione cardiocircolatoria di un paziente con trauma cranico rappresenta uno dei cardini della prevenzione dell’insulto secondario sul cervello. Secondo questa logica, in un paziente con GCS ≤8 l’intubazione orotracheale per mantenere la pervietà delle vie aeree e una corretta ventilazione con PaO2 >60 mmHg è mandataria nelle fasi posttraumatiche (Brain Trauma Foundation, 2007a). Quindi, la sorveglianza continua dell’ossimetria pulsata e della CO2 espirata sono elementi ugualmente importanti al fine di evitare ipossiemia e ipercapnia o severa ipocapnia e quindi l’instaurarsi di un danno neurologico secondario. Il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa rappresenta uno strumento precoce necessario al fine di evitare ipotensioni più o meno prolungate. Il mantenimento di una pressione arteriosa sistolica >90 mmHg attraverso l’infusione di cristalloidi, colloidi o emoderivati (in pazienti con shock emorragico) è fondamentale durante la fase precoce dell’evento traumatico (Brain Trauma Foundation, 2007a). Altri importanti parametri da monitorare fin dalle prime fasi sono l’iperglicemia, l’iponatremia e l’ipertermia. Tale approccio nella cosiddetta golden hour ha mostrato un significativo miglioramento sia della morbidità che della mortalità nel paziente traumatizzato cranico grave (Zhu et al., 2009). Dopo stabilizzazione cardiocircolatoria, il monitoraggio della pressione intracranica (PIC) è raccomandato (livello II di evidenza) nei pazienti con trauma cranico severo ed evidenza alla TC encefalo di ematomi, contusioni, compressione delle cisterne basali, edema ecc. Inoltre il monitoraggio della PIC è raccomandato (livello III di evidenza) nei pazienti con trauma cranico severo, TC encefalo non patologica ma con una delle seguenti caratteristiche registrate all’ammissione in
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Pronto Soccorso: età >40 anni, deficit motori bilaterali o unilaterali o pressione sistolica <90 mmHg (Brain Trauma Foundation, 2007b). Il sistema di monitoraggio della PIC più accurato è rappresentato dal catetere intraventricolare, ma un buon livello di accuratezza è stato dimostrato anche dai cateteri intraparenchimali, che però possiedono un drift indipendente dalla durata del monitoraggio. I cateteri subaracnoidei, subdurali o epidurali sono decisamente meno affidabili (Brain Trauma Foundation, 2007c).
12.2.2 Trauma toracico I traumi del torace sono responsabili di circa il 25% dei decessi per trauma e in base all’eziologia sono suddivisi in traumi aperti e chiusi. Il trauma toracico mette in pericolo la vita del paziente attraverso tre modalità fisiopatologiche: insufficienza respiratoria, shock emorragico, shock cardiogeno (Kulshrestha et al., 2004). In corso di valutazione primaria devono essere riconosciute e trattate tutte le lesioni potenzialmente letali per il paziente (emotorace massivo, pneumotorace iperteso, lesione miocardica o vascolare) mediante manovre salvavita mediche o chirurgiche. Si dovranno monitorare: integrità della cassa toracica, funzionalità del parenchima polmonare e attività respiratoria adeguata (Soldati et al., 2008). Il primo monitoraggio si effettua con l’esame obiettivo associato alla diagnostica radiologica (Bokhari et al., 2002). L’imaging ha un ruolo determinante sia nella fase diagnostica che nella valutazione dell’efficacia del trattamento. Nonostante i limiti della metodica, il radiogramma standard del torace, eseguibile facilmente anche in sala emergenza, rimane il punto di partenza dell’iter diagnostico (Soldati et al., 2006). Negli ultimi anni, con il diffondersi dell’eco-FAST addominale, si è esteso l’utilizzo della diagnostica ecografica del torace. Questa metodica può rappresentare un’alternativa alla radiografia standard (con operatore esperto) nella diagnostica d’emergenza di pneumotorace e versamenti pleurici, in particolare se si prevede il proseguimento diagnostico con TC (Ball et al., 2009). La TC aggiunge informazioni essenziali e non ottenibili con il radiogramma del torace. È certamente un esame più preciso rispetto alla radiografia standard in posizione supina o alla valutazione ecografica, ma non è privo di limitazioni quali il costo, l’elevato numero di radiazioni e la necessità di spostare il paziente nella fase acuta di trattamento. La TC rappresenta comunque oggi il gold standard nella valutazione del trauma toracico (Deunk et al., 2010). La contusione polmonare è estremamente comune nel trauma maggiore ed è correlata all’ipossiemia posttraumatica. La lesione è caratterizzata da un’emorragia con edema interstiziale senza lacerazione del parenchima e l’aspetto radiologico è quello di un addensamento alveolare a “chiazze” spesso confluenti, che in genere si delineano da 4 a 6 ore dopo il trauma. La radiografia eseguita precocemente può essere poco significativa mentre la TC, più sensibile, fornisce un maggior dettaglio delle lesioni (Traub et al., 2007; Ayed e Al-Shawaf, 2004). Meno frequenti, ma interessanti per gli aspetti diagnostici e di monitoraggio,
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sono le lesioni tracheobronchiali. La localizzazione più frequente è la pars membranacea (Ayed e Al-Shawaf, 2004). La maggior parte delle lesioni tracheobronchiali non è riconosciuta inizialmente e può essere causa di importanti complicanze. Uno dei segni patognomonici al radiogramma del torace è “il polmone caduto” che si riferisce alla perdita del sostegno bronchiale, con collasso del polmone per il leak e caduta in basso e posteriormente dello stesso. I segni più comuni da ricercare alla TC sono: l’enfisema cervicale e mediastinico, la presenza di aria paratracheale, lo pneumotorace, lo pneumoretroperitoneo (Traub et al., 2007). Altri segni più specifici sono la deformità della cuffia del tubo endotracheale che può assumere una configurazione ovoidale o a “orecchie di mickey mouse” (Ayed e Al-Shawaf, 2004). Un attento esame clinico dovrebbe fornirne il forte sospetto sulla base del riscontro di emottisi, tachipnea, enfisema sottocutaneo, pneumotorace o pneumomediastino, fuga aerea persistente dopo posizionamento di tubo di drenaggio pleurico e, in fase avanzata, stato di shock. Un’ulteriore conferma diagnostica viene fornita dalla fibrobroncoscopia (FBS) che permette di evidenziare l’area di lesione, sangue nelle vie aeree e ostruzioni bronchiali (Molena et al., 2009). È pertanto utile ricordare l’utilità della FBS in aggiunta alle classiche indagini radiologiche sia nella diagnosi precoce che nel monitoraggio del traumatizzato toracico. Un’altra sfida diagnostica è la rottura diaframmatica. In assenza di altre lesioni viscerali, formulare tale diagnosi non è facile: solitamente è lo sviluppo di un’ernia diaframmatica con erniazione in torace dei visceri addominali a favorirne la formulazione dopo la radiografia del torace. Più ostica può essere la diagnosi di rottura diaframmatica destra poiché la presenza del fegato ostacola il passaggio intratoracico dei visceri (Per et al., 2009; Clarke et al., 2009).
12.2.3 Trauma addominale In ordine di frequenza il trauma addominale è preceduto dal trauma toracico e cranico e rende conto del 20% di tutti i pazienti traumatizzati sottoposti a trattamento chirurgico. In base al tipo di lesione si riconoscono, come nel trauma toracico, traumi aperti e chiusi che possono interessare solo le pareti e/o i visceri addominali. I traumi chiusi sono molto più frequenti (circa il 60%) (Soyuncu et al., 2007). Per la diversa vulnerabilità, il differente meccanismo patogenetico e la diversa conseguenza delle lesioni, i visceri addominali possono essere distinti in tre gruppi: 1. organi parenchimatosi: reni, fegato, milza, pancreas, surreni; 2. organi cavi: stomaco, intestino, vie biliari, vie urinarie, dotto toracico; 3. strutture portanti: mesi, pieghe peritoneali con vasi sanguigni. La rottura degli organi parenchimatosi, delle strutture portanti e in genere dei vasi addominali causa emorragia endoperitoneale o extraperitoneale (sindrome emorragica); la rottura degli organi cavi provoca spandimento, nel peritoneo o nei tessuti retroperitoneali, di liquidi e materiali settici, responsabili di peritoniti o di
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flemmone retroperitoneale (sindrome perforativa). Da ricordare la possibile comparsa di emorragie tardive e di peritoniti tardive da perforazione di aree ischemiche da cui deriva la necessità di stretto monitoraggio clinico e di laboratorio anche dopo stabilizzazione dei parametri vitali (Tinkoff et al., 2008). Tenendo conto del fatto che, alla presenza di lesioni viscerali, solo l’intervento chirurgico d’urgenza può salvare la vita del paziente e che la mortalità aumenta in maniera esponenziale con il passare delle ore, si comprende come la priorità nella diagnosi e nel trattamento di un trauma dell’addome non sia l’accurata identificazione del tipo di lesione, quanto piuttosto la determinazione dell’esistenza di una lesione intraaddominale che richiede un intervento d’urgenza (Hakan et al., 2008). La diagnostica strumentale dell’addome si basa sull’impiego di: – eco-FAST (esame di primo livello, immediato, sempre disponibile e non invasivo eseguibile in PS; ha il limite di essere operatore-dipendente); – TC total body con mezzo di contrasto (mdc) (è attualmente il gold standard nella valutazione del trauma emodinamicamente stabile e di quello critico ma compensato prima di eseguire una laparotomia esplorativa; è sconsigliato nei pazienti instabili poiché l’esecuzione necessita di molto tempo. È l’esame dotato di maggior accuratezza e permette la valutazione del retroperitoneo); – lavaggio peritoneale (fortemente raccomandato dalle linee guida ATLS nei pazienti emodinamicamente instabili poiché rapido seppur invasivo e accurato nella diagnosi; i limiti sono legati all’oversensitive, alle possibili complicanze e all’impossibilità di valutare il retroperitoneo); – laparoscopia (può avere un ruolo diagnostico nei pazienti selezionati con trauma penetrante emodinamicamente stabili, non è indicata nei traumi chiusi); – laparotomia (indicazione assoluta in caso di paziente emodinamicamente instabile, con eco-FAST positiva o con segni di peritonismo; in caso di immagini dubbie può permettere una diagnosi precoce di lesioni gravi); – angiografia (esame complementare e invasivo da riservare unicamente a pazienti selezionati ed emodinamicamente stabili; può fornire informazioni utili a individuare un sanguinamento attivo e trattarlo mediante embolizzazione); – scintigrafia HIDA (esame di secondo livello da riservare a pazienti selezionati ed emodinamicamente stabili e a quelli con sospetto leak biliare per presenza di raccolte intraaddominali alla TC e all’ecografia).
12.2.3.1 Fratture pelviche Nell’ambito del trauma addominale rientrano i traumatismi del cingolo pelvico. Le grandi ossa del bacino ricevono un notevole flusso ematico, pertanto fratture esposte in questa sede sanguinano copiosamente, inoltre i gruppi muscolari più importanti che circondano queste ossa sono anch’essi riccamente vascolarizzati (Balogh et al., 2007). Una lesione traumatica dell’anello pelvico presuppone un trauma a elevata energia che si associa frequentemente a lesione degli organi interni e ad emorragia. Lesioni del retto o dell’apparato genitourinario dovrebbero essere
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sospettate in tutti i pazienti con traumi del bacino. Le lesioni delle ossa pelviche vanno sospettate ogni qualvolta si presenti: – dolore a livello della pelvi, dell’anca, dell’inguine, della schiena; – dolore alla pressione sulle creste iliache o sul pube: – paziente incapace a sollevare le gambe; – senso di compressione sulla vescica. Il primo monitoraggio strumentale è la radiografia del bacino. Quando vi è evidenza radiologica di frattura del bacino e il paziente si trova in una situazione di instabilità emodinamica, una volta esclusa con l’ecografia l’eventuale presenza di versamento intraperitoneale, bisogna rapidamente eseguire una TC spirale con mdc ed eventuale angiografia diagnostica/terapeutica (Balogh et al., 2007).
12.2.3.2 Traumi renali e delle vie urinarie I traumi dell’apparato urinario possono essere distinti in traumi del rene, dell’uretere, della vescica e dell’uretra. Questa distinzione è motivata non solo da criteri topografici ma soprattutto dal fatto che i problemi diagnostici e terapeutici sono diversificati. L’incidenza di lesioni riguardanti l’apparato urogenitale in soggetti traumatizzati è di circa l’8-10% dei casi. I traumi renali sono le lesioni più frequenti riguardanti l’apparato urinario e in prevalenza sono traumi chiusi causati da traumatismo diretto sulla regione lombare, alla base del torace o sui quadranti addominali superiori (McGahan et al., 2005). Una corretta valutazione della lesione aiuta a identificare quei pazienti che potranno essere trattati conservativamente e senza rischi da quelli nei quali sarà necessario un trattamento chirurgico. Lesioni renali da trauma chiuso raramente richiedono un trattamento chirurgico, a differenza di quanto accade nei traumi aperti. Nella fase acuta è di fondamentale importanza l’esame obiettivo teso alla ricerca di segni (ecchimosi, tumefazioni locali o ferite aperte nonché di masse palpabili espressione di grossi ematomi sui quali è necessario intervenire chirurgicamente) e sintomi (ileo paralitico, nausea e vomito, espressione di versamento ematico retroperitoneale). L’ematuria resta comunque il segno più frequente di trauma renale, anche se la sua intensità non sembra essere correlata alla gravità della lesione (Ball et al., 2009). Le indagini radiologiche disponibili sono quelle già descritte sopra con aggiunta, in una fase successiva alla stabilizzazione del paziente, dell’urografia endovenosa: consente una valutazione diagnostica nell’85% dei casi ma, poiché più del 90% dei pazienti presenta solo contusioni renali, l’incidenza di dati anormali all’urografia è piuttosto bassa; a volte questo esame non permette un’accurata valutazione (Wright et al., 2006). Il danno renale acuto è una patologia frequente, a genesi multifattoriale, che può portare a insufficienza renale (Tasian et al., 2010). Oltre ai parametri classici di valutazione della funzione renale, la lipocalina associata alla gelatinasi neutrofila (NGAL)
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è stata identificata come un possibile biomarcatore precoce del danno renale acuto con innalzamento già dopo 2 ore dalla compromissione (contro 1-3 giorni della creatinina) (Mishra et al., 2005; Dent et al., 2007). NGAL è una proteina che in circostanze normali è presente a livelli molto bassi in diversi tessuti umani, compresi i reni. La sua espressione aumenta in misura marcata dopo ischemia renale. È quindi ipotizzabile che in futuro l’analisi di questa proteina assumerà un ruolo importante nel monitoraggio dei pazienti critici con sospetta compromissione renale (Nickolas et al., 2008). I traumi penetranti sono la causa più frequente di lesioni ureterali, spesso in associazione a lesioni di altri organi endoaddominali. Il monitoraggio di tali lesioni è clinico, poiché possono presentarsi ileo paralitico e peritonite, e strumentale con ecografia renale (può evidenziare idronefrosi) e urografia (utile per evidenziare stravasi e idroureteronefrosi da stenosi). I traumi chiusi della vescica sono più frequenti dei traumi aperti e sono di tipo contusivo. Se il trauma interessa la parte inferiore dell’addome e la vescica è piena di urina, si può avere la rottura intraperitoneale dell’organo. L’esame obiettivo evidenzia sintomi e segni quali: dolore, tensione sovrapubica o perineale, addome disteso e segni di irritazione peritoneale, difficoltà o impossibilità a urinare ed ematuria. L’indagine TC resta l’esame di prima scelta ma, nei pazienti stabili possono essere eseguite una cistografia retrograda e una radiografia diretta dell’addome per evidenziare possibili fratture di bacino. Prima di eseguire la cistografia è necessario controllare che non vi sia sangue nel meato uretrale esterno, indice di trauma uretrale, nel qual caso la cateterizzazione è controindicata (McGahan et al., 2005). Una volta accertata la presenza del trauma vescicale si devono escludere lesioni di altri organi con l’urografia. I traumi dell’uretra interessano quasi sempre il sesso maschile e sono suddivisi in lesioni del tratto posteriore (generalmente traumi chiusi da schiacciamento della pelvi e associati a frattura delle ossa pelviche) e di quello anteriore (da trauma chiuso o penetrante). All’esame obiettivo si riscontrano la presenza di sangue nel meato uretrale esterno e l’impossibilità a urinare. In questi casi è fondamentale l’esplorazione rettale poiché il riscontro di tumefazioni ed ematomi nella regione pelvica, dolore e dislocazione superiore della prostata indicano lesioni dell’uretra posteriore. Al contrario, ematomi scrotali con prostata normale all’esplorazione sono indice di lesione dell’uretra anteriore. Conferma alla diagnosi clinica si ha dall’urografia retrograda (Ball et al., 2009).
12.2.3.3 Traumi epatici I traumi epatici vengono classificati secondo la Liver Injury Scale elaborata dall’American Association for the Surgery of Trauma (AAST) che prevede la suddivisione in sei classi ad andamento progressivo valutando due parametri: profondità della lacerazione parenchimale e superficie volumetrica dell’ematoma con eventuale coinvolgimento vascolare (Moore et al., 1989).
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Il tasso di mortalità è direttamente proporzionale alla gravità del trauma e può raggiungere il 100% nei traumi di V-VI grado. Circa il 20% dei pazienti necessita di intervento chirurgico in emergenza che risulterà essere “salvavita”: fondamentale risulta perciò la gestione in PS, evitando perdite di tempo inutili (Moore et al., 1989). Segni clinici di lesione epatica sono lo shock ipovolemico, la distensione addominale e il peritonismo. Eco-FAST e TC sono gli esami strumentali di riferimento. I criteri di scelta per il miglior trattamento sono determinati dall’esperienza del team chirurgico e dai supporti sia tecnologici che di altre competenze disponibili (per esempio, radiologi interventisti). Negli anni vi è stato un crescente aumento delle indicazioni e del ricorso al trattamento conservativo, che però richiede le seguenti condizioni: – emodinamica stabile senza o dopo rianimazione; – assenza di dolore addominale; – trasfusioni <4 U; – emoperitoneo <500 ml alla TC; – possibilità di ottenere buone immagini TC; – lesioni epatiche di grado I e II; – possibilità di monitorare il paziente in terapia intensiva; – esecuzione di eco-addome ogni 24/48 ore; – rapido accesso alla sala operatoria.
12.2.3.4 Trauma splenico Attualmente in presenza di trauma splenico il NOM (non operative management, management non operativo) è considerato il gold standard. La letteratura ha infatti dimostrato che la percentuale di successo di questo approccio varia negli adulti tra l’80 e il 98%, che la necessità di trasfusioni è minore e che l’incidenza di complicanze addominali è ridotta. Requisito necessario per avviare il paziente al NOM è la stabilità dello stesso all’ingresso in ospedale o dopo l’iniziale somministrazione di colloidi e cristalloidi, con pressione sistolica ≥ 90 mmHg, frequenza cardiaca <120 bpm, lattati inferiori a 5 mmol/l. Se il paziente è instabile viene avviato in sala operatoria dopo effettuazione di eco-FAST e/o lavaggio peritoneale, così anche in presenza di una quantità di liquido libero in cavità peritoneale superiore a 300 cc (fallimento del NOM vicino al 90%) e di lesioni IV o V della milza. Se il paziente risulta stabile viene sottoposto a TC con mdc per definire: grado di lesione splenica, assenza o presenza di liquido libero in peritoneo, presenza di spandimento precoce di mezzo di contrasto, segno di sanguinamento attivo. Quest’ultimo impone la necessità di effettuare un’angiografia per embolizzazione dei vasi coinvolti. Il suo fallimento porta alla splenectomia (MacIntyre e Schiff, 2005). In caso di NOM il monitoraggio richiede la misura continua dei parametri vitali, il controllo dell’emocromo a un’ora dall’ingresso in ospedale con successivi controlli ogni 4-6 ore se persiste stabilità, l’ecografia di controllo a 24 ore ed eventuale TC a 72 ore.
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I pazienti che ricevono più di quattro trasfusioni nelle prime 24 ore e che presentano alla TC una lesione splenica di grado III, IV o V sono soggetti a rischio di fallimento di NOM. Da ricordare la non rara rottura splenica in due tempi con emoperitoneo massivo da cui deriva la necessità di attento e prolungato monitoraggio mediante emocromo seriato e rivalutazione ecografica (MacIntyre e Schiff, 2005).
12.2.4 Trauma vascolare Le sedi più frequenti di trauma vascolare sono rappresentate dall’aorta toracica (istmo e rami dell’arco) e dall’aorta addominale (emorragia retroperitoneale da distacco o lacerazione di arterie lombari). In assenza di segni di shock grave o di tamponamento cardiaco, che impongono un’aggressione chirurgica immediata, ogni sospetta lesione aortica impone l’indagine strumentale TC. La radiografia del torace eseguita come primo esame fornisce già utili informazioni per formulare il sospetto diagnostico. L’angiografia resta comunque tuttora il gold standard: permette di evidenziare i vasi sanguigni nei diversi distretti corporei al fine di studiarne morfologia e decorso e svelarne eventuali alterazioni. Questa metodica è resa possibile dall’utilizzo di particolari cateteri estremamente sottili capaci di raggiungere per via endovascolare il distretto da esaminare in modo selettivo (Nzewi et al., 2006). Ogni esame angiografico può essere condotto a scopi esclusivamente diagnostici o essere esteso anche a finalità terapeutiche: in quest’ultimo caso si parla di angiografia interventistica, ed è questa la metodica che oggi riveste il maggior interesse clinico. Una volta terminata la parte diagnostica dello studio, ogni esame può completarsi con trattamenti endovascolari atti a risolvere la condizione patologica individuata. Particolare attenzione va posta ai pazienti affetti da insufficienza renale nei quali la nefrotossicità del mezzo di contrasto richiede adeguata idratazione e diuretizzazione forzata. Per quanto concerne le lesioni associate, è da sottolineare la particolare abbondanza dei sanguinamenti da lacerazione dei plessi venosi pelvici e, più raramente, dalla cava inferiore a seguito di schiacciamento del bacino o disarticolazione del cingolo pelvico. In questi casi, nell’eseguire le manovre rianimatorie è mandatario astenersi dall’utilizzo di accessi safenici o femorali. In caso di lesioni aortiche documentate mediante TC o angiografia e per le quali non si ravvedano immediate indicazioni chirurgiche, la gestione e il monitoraggio ottimali devono ancora essere ben definiti (Kepros et al., 2002). Studi recenti, però, hanno dimostrato l’utilità dell’ecocardiogramma transesofageo (TEE) come valido sistema di monitoraggio della lesione in associazione al monitoraggio emodinamico, necessario per la gestione dell’ipotensione controllata e la prevenzione della tachicardia (pressione sistolica 80-90 mmHg, frequenza cardiaca 60-80 bpm) mediante impiego di antipertensivi e β-bloccanti. Il TEE, eseguito a giorni alterni, è infatti caratterizzato dal 100% di sensibilità e dal 98% di specificità (Amabile et al., 2004; Mandila et al., 2009).
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Nei casi di lesione vascolare, la lesione arteriosa può essere causata da rottura completa della parete, avulsioni, ferite laterali e trapassanti, lacerazioni, rotture sotto-avventiziali, lesioni dell’intima e trombosi semplici. Le lesioni arteriose possono essere complete o relative: nel primo caso si osservano assenza di polsi distali, pallore, dolore, paralisi, parestesie e ipotermia, nel secondo polsi distali ridotti. Una lesione vascolare va sempre sospettata in presenza di sindrome ischemica, emorragia esterna imponente, shock emorragico, compressione cavitaria o compartimentale, ematoma pulsante. Inoltre, segni clinici che la possono indicare sono l’arresto cardiaco, lo shock persistente, il tamponamento cardiaco, lo slargamento del mediastino e l’emotorace rifornito. L’uso dell’apparecchio Doppler portatile riveste un ruolo importante nella gestione in acuto e nel monitoraggio a distanza anche in ragione della non invasività e della possibilità di eseguirlo al letto del paziente. Buon monitoraggio offre anche il rilevamento dell’indice pressorio omero-tibiale od omero-radiale (Nzewi et al., 2006). Nella fase secondaria di gestione è utile il monitoraggio Doppler e soprattutto clinico: attenzione va posta alla sindrome da rivascolarizzazione quando i distretti muscolari vengono a essere sottoposti al ripristino del flusso arterioso. Ciò provoca una cascata di fenomeni metabolici e funzionali, in massima parte dovuti al riassorbimento dei prodotti del metabolismo anaerobio dei tessuti ischemici con acidosi metabolica importante, marcata riduzione della tensione di ossigeno e aumento della tensione di CO2 nel sangue venoso effluente dalle zone rivascolarizzate, iperpotassiemia, depressione miocardica e scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria, insufficienza renale da necrosi tubulare acuta e sindrome compartimentale grave con edema massivo, flittene e rapida evoluzione verso la gangrena (Kepros et al., 2002).
12.2.5 Trauma midollare L’incidenza di lesione midollare nel politraumatizzato è a tutt’oggi sufficientemente elevata da spiegare il grande impatto sociale ed economico di questo tipo di lesione. La gestione del traumatizzato vertebrale non può prescindere da una globale valutazione e rianimazione non focalizzata unicamente alla lesione vertebrale. La gestione di questi pazienti è prevalentemente di tipo medico, ma esistono casi in cui viene posta indicazione a stabilizzazione della colonna in caso di lesioni ossee associate, o a interventi di decompressione midollare in caso di ematomi che, comunque, vengono eseguiti anche in urgenza ma solo dopo stabilizzazione dei parametri vitali (Masson et al., 2001). L’evenienza di un trauma vertebro-midollare isolato è abbastanza rara, mentre assai frequentemente coesistono lesioni ad altri distretti corporei. I tre cardini della gestione consistono quindi nella stabilizzazione della ventilazione e dell’assetto emodinamico e nell’immobilizzazione della colonna. Ogni spostamento del paziente dall’asse spinale deve essere eseguito mediante log-roll: que-
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sta manovra deve essere pianificata ed eseguita da più persone in base alla struttura corporea del paziente, mantenendo l’allineamento in posizione neutra dell’intera colonna, prevenendo i movimenti di rotazione, flessione, estensione e curvatura laterale dei segmenti ossei, del torace e dell’addome (Talving et al., 2010). È fondamentale definire con esattezza il livello di lesione poiché: – lesioni sopra C6 possono comportare la perdita parziale o totale della funzione respiratoria; – lesioni sopra T1 provocano tetraplegia; – lesioni sotto T1 provocano paraplegia. L’esame obiettivo, in questi casi, si basa sull’esame della sensibilità e motilità analizzando dermatomeri e miomeri. La classificazione delle lesioni midollari si basa sul livello, sulla gravità del deficit neurologico, sulla sindrome midollare e sulla morfologia. Il livello è definito dal segmento midollare più caudale con funzionalità sensoriale e motoria conservata bilateralmente: il livello sensoriale indica il segmento più caudale con funzione sensoriale integra mentre quello motorio indica il muscolo più distale di riferimento col miglior punteggio di forza motoria. Gli esami strumentali indicati in questi pazienti sono la radiografia del rachide in toto, poiché il rischio di trauma vertebrale multiplo è pari al 15-30% dei casi, TC e RM come seconda scelta, quest’ultima indicata comunque per lo studio preciso del midollo spinale. Posta diagnosi di trauma midollare mediante indagini radiologiche, deve essere precocemente somministrato un bolo di 30-40 mg/kg di metilprednisolone seguito dall’infusione continua per un tempo che varia in base alla rapidità di inizio del trattamento rispetto all’evento (Tian et al., 2009). È necessaria un’adeguata terapia parenterale finalizzata a sostenere lo shock neurogeno basata sull’infusione di cristalloidi; a volte può essere necessario anche l’ausilio di amine vasoattive o il posizionamento del malato in Trendelenburg in assenza di altre controindicazioni. È indispensabile il posizionamento del catetere vescicale per prevenire la comparsa di vescica distesa e incontinente, e del sondino nasogastrico per evitare la distensione gastrica, prevenire il vomito e controllare eventuali emorragie. La gravità del trauma spesso richiede, già in fase acuta, la gestione delle vie aeree mediante intubazione ma, nelle fasi successive è fondamentale il monitoraggio emogasanalitico, oltre che clinico, al fine di identificare precocemente la possibile e non infrequente complicanza tromboembolica legata alla triade di Virchow (stasi venosa, ipercoagulabilità e lesioni intimali). Ne deriva la necessità di un’adeguata e rapida prevenzione della trombosi venosa profonda (TVP) (Talving et al., 2010; Tian et al., 2009).
12.2.6 Coagulopatia del trauma Nonostante il miglioramento dell’organizzazione dei trauma center e delle competenze delle équipe multiprofessionali coinvolte nella gestione dei pazienti politrau-
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matizzati, l’emorragia rappresenta ancora oggi la causa di morte più frequente entro le 48 ore dal ricovero in ospedale. Malgrado si tratti di un fenomeno estremamente temibile dal punto di vista clinico, l’emorragia critica nel trauma è ancora poco studiata a causa della grande eterogeneità delle sue manifestazioni. La definizione stessa di emorragia critica al momento non ha trovato univocità in letteratura, e diverse definizioni sono state avanzate (Sihler e Napolitano, 2009): – perdita di un volume di sangue in 24 ore (circa il 7% del peso corporeo ideale di un adulto e l’8-9% di un bambino); – perdita del 50% del volume di sangue in 3 ore; – perdita ematica di 50 ml/min; – perdita ematica di 1,5 ml/kg/min per almeno 20 min. L’emorragia rappresenta quindi un temibile quadro clinico nel trauma con il quale il medico che si occupa di emergenze deve fare i conti. Come corollario fondamentale dell’emorragia nel paziente traumatizzato è necessario saper trattare adeguatamente anche la coagulopatia. La coagulopatia nel trauma è un fenomeno non ancora ben compreso dal punto di vista fisiopatologico, tuttavia è ormai noto che esistono diversi fattori la cui combinazione può causarne l’insorgenza: diluizione dei fattori della coagulazione, acidosi, ipotermia, anemia e iperfibrinolisi. La coagulopatia diluizionale è causata dall’infusione di elevate quantità di cristalloidi o colloidi durante la fase resuscitativa precoce del paziente traumatizzato. Oltre al volume elevato anche la tipologia di fluidi utilizzati è importante nel suo sviluppo. L’utilizzo di HES 130/0.4 induce una diminuzione di fibrinogeno ben al di sotto dei valori attesi dal livello di diluizione (Fenger-Eriksen et al., 2009), mentre l’ipertonica salina prolunga in modo significativo il tempo di protrombina (PT) e interferisce con l’aggregazione piastrinica (Brummel-Ziedins et al., 2006). Una diminuzione anche modesta del pH compromette la funzione degli enzimi della coagulazione e delle piastrine soprattutto in presenza di ipotermia (Lier et al., 2008); inoltre una somministrazione massiva di eritrociti concentrati (EC) può peggiorare l’acidosi a causa del deficit di basi (-20 mmol/l) presenti nelle sacche di preservazione che può aumentare fino a 50 mmol/l se le sacche di EC hanno più di 6 settimane (Raat et al., 2005). L’ipotermia diminuisce l’attività del complesso fattore tissutale-fattore VIIa in modo lineare col decremento della temperatura e inoltre inibisce l’interazione tra fattore di von Willebrand e il recettore piastrinico GPIb-IX-V (Hess et al., 2008). Una temperatura <33 °C produce una coagulopatia che è funzionalmente simile a quella data da una diminuzione del 50% dei fattori della coagulazione in condizioni di normotermia. Oltre al loro fondamentale ruolo di trasporto dell’ossigeno i globuli rossi possiedono importanti proprietà meccaniche e biochimiche nel processo coagulativo; infatti, l’ematocrito è il fattore determinante per il trasporto radiale delle piastrine e per la loro adesione all’endotelio danneggiato. Un ematocrito del 35% è stato identificato come limite ottimale per una buona adesività piastrinica (Lier et al., 2008; Raat et al., 2005; Hess et al., 2008). L’iperfibrinolisi rappresenta una diretta conseguenza del trauma a causa di un elevato rilascio di attivatore tissutale del plasminogeno conseguente al danno endotelia-
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le diffuso; inoltre la sua maggiore espressione è causata dall’ischemia tissutale spesso presente nel trauma. Il recente utilizzo del tromboelastogramma nei pazienti traumatizzati ha messo in evidenza questo fenomeno e la sua gravità è correlata a peggior outcome nel paziente con trauma (Levrat et al., 2008). Il calcio ionizzato svolge un ruolo fondamentale nel processo coagulativo sia per l’aggregazione piastrinica che per la stabilizzazione del coagulo e la sua diminuzione può essere esacerbata dall’infusione di anticoagulante citrato degli emoderivati (Hastbacka e Pettila, 2003). La progressiva comprensione del ruolo di questi cinque fattori ha cambiato l’approccio al paziente traumatizzato. Un attento monitoraggio del pH plasmatico, della temperatura corporea e della calcemia è ormai da considerare obbligatorio anche nelle fasi iniziali di gestione del paziente con politrauma. Le attuali linee guida sul trattamento dell’emorragia massiva raccomandano l’utilizzo dei test di laboratorio come emocromo, PT e tempo di tromboplastina attivata (APTT), tuttavia il loro ruolo perde di significato se l’emorragia è estremamente critica (a causa della tempistica del laboratorio nel fornire i risultati), per cui negli ultimi anni si sono fatti strada nuovi sistemi di monitoraggio definiti coagulation point-of-care con lo scopo di fornire dati più veloci e affidabili come PT e APTT “real time” (Toulon et al., 2009). Ma il tempo non è l’unico problema nel monitoraggio della coagulazione del paziente con trauma; i test standard offrono una visione solo parziale e statica dell’emostasi, mentre essa rappresenta un fenomeno estremamente dinamico. Per cercare di capire l’emostasi nelle sue funzioni dinamiche sono nati nuovi tromboelastogrammi che possono superare molte delle limitazioni dei test tradizionali. Grazie all’utilizzo di sangue intero sono in grado di fornire precise informazioni sull’interazione dei vari elementi emostatici (piastrine, fattori plasmatici, globuli rossi e leucociti) nella formazione del coagulo; inoltre l’analisi dell’emostasi viene fatta alla temperatura del paziente e non alla temperatura di 37 °C come le analisi di laboratorio e, per ultimo, la tromboelastografia può essere eseguita al letto del paziente riducendo il turn around time (TAT) purché si disponga di personale adeguatamente formato (Plotkin et al., 2008).
12.3 Fasi successive: cosa monitorare in più Il monitoraggio nel traumatizzato cranico ha come obiettivo la prevenzione dell’insorgenza del danno secondario a livello cerebrale. Il flusso ematico diretto all’encefalo dipende dalla pressione di perfusione cerebrale (PPC) ed è inversamente correlato alle resistenze vascolari. Essendo PPC = PAM – PIC si deduce che ogni diminuzione della pressione arteriosa media (PAM) o incremento della pressione intracramica (PIC) portano a una diminuzione della pressione di perfusione cerebrale con conseguente danno ischemico. Per cui il monitoraggio
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invasivo della PIC per mezzo di cateteri intracranici è obbligatorio nel trattamento medico del paziente traumatizzato cranico. Negli ultimi anni ha suscitato grande interesse la misura del diametro del nervo ottico, un nuovo monitoraggio della PIC meno invasivo rispetto ai cateteri intracranici. Tale misura può essere ottenuta mdiante l’ultrasonografia oculare o la RM. Un cut-off di 5,7 mm sembra essere strettamente correlato con una PIC >20 mmHg con buona sensibilità e ottima specificità (Metzger et al., 2009). Cardine del monitoraggio nella seconda fase di gestione è la valutazione costante dei parametri che indicano la presenza di ipossia tissutale. L’aumento della concentrazione di lattato ematico e/o l’aumento della concentrazione di idrogenioni sono i parametri più frequentemente utilizzati per l’identificazione del metabolismo anaerobico correlato a ipoperfusione e ischemia. La microcircolazione, sito primario deputato allo scambio di gas e nutrienti, gioca un ruolo chiave nella perfusione d’organo. Il rilascio di ossigeno nel microcircolo non può essere prevista sulla base delle misurazioni globali emodinamiche poiché il controllo sul microcircolo viene esercitato da meccanismi diversi rispetto all’emodinamica globale. In numerose condizioni patologiche, tra le quali il trauma, sono state dimostrate alterazioni microcircolatorie ma, sfortunatamente, gli studi sull’argomento sono molto difficili nell’uomo. Si è quindi aperta una nuova frontiera di ricerca mirata al monitoraggio del microcircolo e all’implementazione di terapie capaci di sostenere la microcircolazione (Trzeciack et al., 2007). Per il trauma addominale riveste grande importanza l’insorgenza della sindrome compartimentale addominale (ACS, abdominal compartment syndrome) secondaria a ipertensione addominale (IAH, intra-abdomunal hypertension). L’IAH è stata descritta per la prima volta alla fine del 1800 e, circa 100 anni dopo, si è cominciato a parlare di ACS come conseguenza degli interventi di chirurgia vascolare addominale (Shah et al., 2010). L’IAH è una condizione clinica definita da una pressione endoaddominale superiore o uguale a 12 mmHg in tre misurazioni nell’arco di 4-6 ore. Si parla di ACS quando la pressione supera i 20 mmHg ed è associata a una o più insufficienze d’organo non presenti precedentemente. L’IAH può compromettere la funzionalità di numerosi organi e apparati (cardiovascolare, respiratorio, renale, splancnico, parete addominale e cerebrale) e rendere più complessa la gestione del paziente critico. Il ridotto ritorno venoso secondario alla compressione meccanica del letto vascolare provoca riduzione del precarico con conseguente sindrome da bassa portata; l’IAH, inoltre, inducendo stasi venosa, aumenta il rischio tromboembolico (Kimball et al., 2006; De Keulenaer et al., 2009). Anche l’apparato respiratorio subisce delle modifiche poiché il sollevamento del diaframma determina una riduzione della compliance toracica con lo sviluppo di atelettasie e riduzione della capacità funzionale residua con necessità di aumentare le pressioni di ventilazione. La bassa portata determina una ridotta irrorazione renale con conseguente insufficienza renale e oligoanuria e un minor flusso ematico splancnico ed epatico con conseguente comparsa di aree di ischemia sino a quadri di insufficienza multiorgano. All’ischemia splancnica acuta conseguono sindromi ischemiche acute dell’apparato gastrointestinale quali erosioni e ulcera gastrica da stress, epatite ischemica,
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colecistite acuta necrotica alitiasica, pancreatite ischemica, colite ischemica, ischemia mesenterica non occlusiva. Nel politrauma le indicazioni al monitoraggio della pressione endoaddominale sono: – trattamento rianimatorio dello shock (ischemia-riperfusione); – laparotomia per il damage control; – politrauma con o senza trauma addominale ma con necessità di riempimento volemico mediante cristalloidi o colloidi (>6 l) o mediante emotrasfusione (>4 U di EC in 8 ore); – ustioni maggiori (>25% della superficie corporea totale). Il monitoraggio della pressione intraaddominale viene attuato tramite la misura della pressione intravescicale che riflette la pressione endoaddominale. Una misurazione attendibile richiede il paziente in posizione supina e in assenza di contrazione muscolare addominale, previo svuotamento della vescica. Non esistono a tutt’oggi in letteratura indicazioni univoche sulla tecnica di misurazione poiché è possibile effettuarla iniettando 50-100 cc di soluzione salina o mantenendo la vescica vuota. L’ipertensione endoaddominale viene classificata in diversi gradi: – grado I: 12-15 mmHg; – grado II: 16-20 mmHg; – grado III: 21-25 mmHg; – grado IV: >25 mmHg. Per il paziente obeso i valori di riferimento sono incrementati. Alcuni Autori hanno dimostrato che la pressione di perfusione addominale, calcolata come la differenza tra la pressione arteriosa media e la pressione endoaddominale è un miglior fattore predittivo di outcome rispetto alla sola misura della pressione addominale (Cheatham et al., 2007). Complicanza di non secondaria importanza è la crush syndrome, risultato del danno muscolare nei traumi da schiacciamento per compressione prolungata su una parte del corpo, associato a stato di shock e nefropatia acuta. Le lesioni che si osservano sono a carico degli arti interessati, dove la compressione prolungata provoca una miolisi diretta con liberazione di potassio, enzimi proteolitici, mioglobina con conseguente danno renale. Nel politrauma, il più delle volte il danno renale è però riconducibile a ipotensione o rianimazione non ottimale. La comparsa di oliguria è spesso causata da ipovolemia o inadeguato apporto di liquidi, la cui infusione andrà modulata sulla base dei parametri emodinamici. In caso di crush syndrome è fondamentale il monitoraggio clinico dell’area corporea interessata per l’eventuale fasciotomia decompressiva. Il monitoraggio comprende anche il controllo dei valori sierici di potassio, azoto e creatinfosfokinasi associato al controllo cromico delle urine. L’analgesia tempestiva e appropriata mediante approccio sistemico o locoregionale è alla base del controllo del dolore nei pazienti con lesioni multiple. Il raggiungimento di questo obiettivo garantisce al paziente sollievo durante il movimento, il nursing e la fisioterapia. I vantaggi che ne derivano sono la riduzione dell’incidenza di complicanze polmonari, TVP e sindromi da dolore croni-
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co. Il monitoraggio dell’analgesia è fondamentale e può essere eseguito mediante l’impiego di varie scale (analogica visiva, analogica cromatica continua, numerica, verbale, delle espressioni facciali) (Vandromme et al. 2010). Alcune complicanze, infine, correlate alla degenza in ambiente intensivo, richiedono l’attuazione di misure preventive precoci: gastroprotezione per prevenire l’ulcera da stress, profilassi con gambali a compressione graduata o sequenziale ed eparina a basso peso molecolare per la prevenzione di TVP, rimozione di cateteri posti in emergenza, trattamento precoce delle ferite ed estubazione rapida per la profilassi infettiva.
12.4 Conclusioni Il monitoraggio sia in fase precoce che tardiva esercita ormai un ruolo chiave nella gestione dei danni diretti del trauma e delle sue complicanze sia in Pronto Soccorso, che in Sala Operatoria, che in Terapia Intensiva (Tabella 12.2). L’applicazione clinica di sistemi di monitoraggio sempre più evoluti ha permesso negli anni un trattamenTabella 12.2 Riassunto delle principali indicazioni, vantaggi e limiti degli esami diagnostici utilizzati nei pazienti con politrauma Tipo di trauma Esami diagnostici
Vantaggi, svantaggi e limiti
Trauma cranico
Gold standard
TC encefalo
Trauma toracico Rx torace TC torace Ecografia FBS
Prima scelta Gold standard Operatore esperto Lesioni tracheobronchiali
Trauma addominale
Prima scelta, operatore dipendente Gold standard, visualizza il retroperitoneo, sconsigliato nel paziente instabile Indicato nel paziente instabile, invasivo, non visualizza il retroperitoneo, oversensitive Diagnostico nel trauma penetrante Paziente instabile con eco FAST positiva Esame complementare e invasivo, solo per pazienti stabili Secondo livello, solo nel sospetto di leak biliare
Eco-addome FAST TC total body mdc Lavaggio peritoneale Laparoscopia Laparotomia Angiografia Scintigrafia HIDA Monitoraggio pressione addominale
Trauma pelvico
Rx bacino TC mdc Angiografia
Prima scelta Conferma diagnostica Solo paziente stabile (cont.)
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Tabella 12.2 (continua) Tipo di trauma Esami diagnostici
Vantaggi, svantaggi e limiti
Traumi renali
Eco addome FAST Rx diretto addome TC addome mdc Urografia retrograda NGAL
Prima scelta Scarsa utilità Conferma diagnostica Scarso impiego
Traumi epatici
Eco addome FAST Prima scelta TC mdc Gold standard Monitoraggio successivo: • parametri vitali • emocromo 2 volte/die i primi 3 giorni poi 1 volta al giorno • controllo ecografico ogni 2 giorni e TC ogni settimana
Traumi splenici
Eco addome FAST e/o Prima scelta lavaggio peritoneale TC mdc Gold standard Angiografia Solo paziente stabile con eventuale embolizzazione
Traumi vascolari Rx torace TC torace mdc Angiografia TEE Trauma midollare
Rx rachide TC rachide RM
Gold standard Esame diagnostico
Seconda scelta
to medico/chirurgico sempre più mirato e sempre meno affetto da complicanze. La medicina moderna, soprattutto in ambito intensivo, sempre più spesso esercita un approccio al paziente definito goal directed therapy in cui il monitoraggio rappresenta un cardine essenziale per guidare la terapia. Probabilmente, in proiezione futura, anche nel trauma questo tipo di approccio potrà standardizzare ulteriormente il trattamento.
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Il paziente neurochirurgico
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Riassunto La cura del paziente neurochirurgico, che è un soggetto per sua natura complesso, richiede un monitoraggio sempre combinato tra pressione di perfusione cerebrale, fornitura di ossigeno e pressione intracranica, al fine di mantenere adeguato il flusso ematico cerebrale. E all’anestesista spetta il compito decisivo di assicurare un corretto e continuo bilanciamento di tutti i valori monitorati in modo da prevenire i gravi danni secondari successivi al primo insulto. Infatti, sia per autoregolazione del cervello, sia per l’eccesso di tecniche terapeutiche applicate isolatamente, esiste il rischio di favorire una “cascata vasodilatatoria” che aumenta la pressione intracranica alterando in maniera irreversibile le funzioni cerebrali. La ricerca del necessario e delicato compromesso (compresa l’induzione di una virtuosa “cascata vasocostrittoria”) passa attraverso strumenti e tecniche di monitoraggio sempre più specifiche e raffinate che consentono, ad esempio, di misurare la pressione tissutale di ossigeno, di verificare la biochimica cerebrale con la microdialisi, di osservare la pervietà dei vasi intracranici utilizzando il Doppler transcacranico. Di questi ed altri elementi di monitoraggio si dà in questo capitolo esauriente illustrazione.
13.1 Introduzione Si è scelto di trattare il paziente neurochirurgico nel suo complesso, e non le singole patologie che lo riguardano, per puntare l’attenzione soprattutto sui meccanismi Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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neurofisiologici che stanno alla base del verificarsi del danno neurologico. È vero infatti che qualunque sia la natura del danno primario, che può essere traumatico, neoplastico o vascolare, il danno secondario che si viene a creare è determinato dalle caratteristiche del cervello che sono peculiari rispetto a tutti gli altri distretti dell’organismo. Tali caratteristiche sono state descritte già da Monro (1783) e Kellie (1824) i quali le hanno così definite: – il cervello è racchiuso in un contenitore di osso quindi non espandibile; – il parenchima cerebrale è pressoché incomprimibile; – il volume di sangue contenuto nella scatola cranica è costante; – per fare spazio al sangue arterioso in entrata è indispensabile una costante fuoriuscita del sangue venoso. Ancora oggi tutte queste affermazioni fanno parte del bagaglio indispensabile per l’anestesista che si trova ad affrontare la gestione del paziente con un danno cerebrale che inevitabilmente porta ad alterazioni della pressione intracranica. La relazione fra pressione intracranica (PIC) e volume intracranico è rappresentata da una curva pressione-volume, di compliance cerebrale, che non è lineare (Fig. 13.1): – parte piatta: scarsi volumi intracerebrali, quindi buona riserva compensatoria; la PIC resta bassa malgrado eventuali modificazioni del volume intracranico. I meccanismi di compenso sono rappresentati in prima istanza dalla diminuzione del contenuto di liquor (viene spremuto al di fuori della scatola cranica), quindi dalla riduzione del contenuto di sangue venoso; – una volta esauritisi questi meccanismi di compenso, la curva vira rapidamente verso l’alto, assumendo una forma che sale esponenzialmente. Questa porzione della curva si riferisce a una bassa riserva compensatoria e la PIC aumenta in modo con-
PIC C
A
D
B Volume
Fig. 13.1 Curva volume-pressione cerebrale: A-B, buona riserva compensatoria; B-C, scarsa riserva compensatoria; C-D, riserva compensatoria esaurita. PIC, pressione intracranica
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siderevole anche con incrementi relativamente modesti del volume intracranico; – alla fine la curva si appiattisce di nuovo raggiungendo un plateau: a questo punto i valori di PIC sono molto elevati, tanto da uguagliare la pressione arteriosa media, mentre la pressione di perfusione cerebrale si azzera. Inoltre il letto arterioso che non può più dilatarsi inizia a collassare a causa dell’ulteriore incremento della PIC (Smith, 2008). Le cause più frequenti di incremento della PIC sono: – presenza di masse intracraniche (neoplasie, ematomi, lacerazioni parenchimali); – disordini nella circolazione del liquor (idrocefalo); – processi patologici diffusi che possono interessare anche il SNC (traumatici, infettivi, neoplastici). Il cervello, organo privilegiato dell’organismo, è provvisto di un meccanismo di autoregolazione pressoria volto a mantenere costante il flusso ematico al suo interno. Rosner et al. (1995) hanno definito il ruolo della pressione di perfusione cerebrale (PPC) nell’origine del danno cerebrale attraverso la descrizione di quella che hanno chiamato la “cascata vasodilatatoria”, ovvero il circolo vizioso attraverso il quale, una volta innescato, il danno si automantiene e continua a espandersi e ad aggravarsi (Fig. 13.2). Indipendentemente dalle variazioni della pressione arteriosa sistemica, tale meccanismo è efficace per valori di pressione arteriosa media (PAM) compresi fra i 50 e i 160 mmHg. Al di sotto e al di sopra di tali valori il flusso ematico cerebrale ha invece un andamento direttamente proporzionale a quello della pressione arteriosa (Panerai, 1998).
Edema Liquor
Spontanea Ipovolemica Cardiogenica Farmacologica
PA PPC
PIC
Vasodilatazione
Volume ematico cerebrale
Metabilismo cerebrale Viscosità Ipossia Ipercapnia
Fig. 13.2 Circolo vizioso: cascata vasodilatatoria. PA, pressione arteriosa; PIC, pressione intracranica; PPC, pressione di perfusione cerebrale (da Rosner et al., 1995, modificata)
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Si introduce così il concetto di pressione di perfusione cerebrale che viene così determinata: PPC = PAM – PIC Una riduzione della pressione arteriosa di qualsiasi natura provoca una riduzione della PPC: ciò attiva l’autoregolazione, inducendo una vasodilatazione e quindi l’aumento del contenuto ematico cerebrale, con conseguente aumento della PIC. La cascata può iniziare in qualsiasi punto: una vasodilatazione può essere indotta anche da un incremento del metabolismo cerebrale (come accade per esempio durante le crisi comiziali) oppure da ipercapnia. La conseguenza sarà sempre l’incremento del volume cerebrale e l’innesco della cascata. Il meccanismo può però attivarsi anche in senso inverso. Questo significa che esiste un modello terapeutico definito come “cascata vasocostrittoria” o circolo virtuoso. Nello stesso modo appena enunciato, un incremento pressorio di qualsiasi natura induce un incremento della PPC e quindi, attivando l’autoregolazione, stimola una vasocostrizione e una riduzione del volume intracerebrale e della PIC. Il modello definito da Rosner suggerisce così un approccio sistemico al trattamento dell’insulto cerebrale: infatti la cascata vasocostrittoria può essere innescata anche dalla semplice somministrazione di fluidi (colloidi o cristalloidi) i quali, aumentando la volemia e riducendo la viscosità plasmatica, aumentano la pressione di perfusione inducendo vasocostrizione cerebrale; nello stesso modo agisce l’ipocapnia inducendo una vasocostrizione a livello delle arteriole cerebrali. Questo meccanismo fa comprendere come l’uso indiscriminato dei barbiturici e del mannitolo possa indurre un effetto paradosso: se è vero che il tiopentone riduce il consumo di ossigeno (CMR-O2) producendo pertanto vasocostrizione cerebrale e di conseguenza una diminuzione della PIC, è altrettanto vero che deprime in modo consistente la pressione arteriosa sistemica, riducendo così la PPC. Lo stesso può accadere in seguito alla disidratazione che si viene a produrre con la somministrazione di boli di mannitolo: il risultato ultimo ottenuto sarà così l’incremento della PIC (Fig. 13.3). L’iperventilazione e la conseguente ipocapnia meritano però un’attenzione particolare. Si tratta tuttora dello strumento terapeutico più noto e utilizzato nel trattamento del danno neurologico acuto malgrado le linee guida della Brain Trauma Foundation (2007) ne raccomandino un uso limitato e mirato ai soli casi di iperemia diagnosticata. Scopo dell’ipocapnia, come già visto, sarebbe quello di ridurre il volume intracranico attraverso una riduzione del volume ematico intracerebrale mediata dalla riduzione del flusso ematico ottenuta dalla vasocostrizione arteriolare (Ito et al., 2005). D’altra parte è ampiamente accreditata la teoria secondo la quale il flusso ematico cerebrale (FEC) e la disponibilità di ossigeno siano generalmente diminuite e in modo particolare il flusso ematico regionale sia ridotto durante le prime 24 ore dopo l’insulto acuto (Diringer et al., 2002; Bouma e Muizelaar, 1992). È già stato descritto come l’effetto della riduzione della PaCO2 sul flusso ematico cerebrale sia proporzionalmente maggiore di quello sul volume ematico cerebrale: una iperventilazione tale da ridurre il FEC del 30% ottiene una riduzione del volume ematico cerebrale solo del 7%, e una iperventilazione ulteriore otterrà solo una diminu-
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Edema Liquor
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Spontanea Farmacologica Volume vascolare
PA PPC
PIC
Vasocostrizione
Volume ematico cerebrale
Metabolismo cerebrale Viscosità Correzione ipocapnia Correzione ipossia
Fig. 13.3 Circolo virtuoso: cascata vasocostrittoria. PA, pressione arteriosa; PIC, pressione intracranica; PPC, pressione di perfusione cerebrale (da Rosner et al., 1995, modificata)
zione di FEC (Fortune et al., 1995). Per questo motivo l’ipocapnia, soprattutto nelle prime 24 dopo il danno cerebrale, può essere molto nociva peggiorando l’ischemia cerebrale e quindi l’outcome. La decisione di intraprendere un simile percorso deve essere pertanto attentamente ponderata, valutandone costi e benefici, e motivata dall’analisi di ulteriori parametri strumentali (Curley et al., 2010). Fin qui l’attenzione è stata prevalentemente rivolta al danno cerebrale di origine traumatica. Peraltro i meccanismi fisiopatologici analizzati riguardano il tessuto cerebrale in generale e sono quindi applicabili anche a tutte le altre condizioni patologiche condizionate da variazioni del volume intracranico di qualsiasi natura. L’anestesista che si trova ad affrontare il paziente neurochirurgico ha come scopo la riduzione del danno secondario: quindi il monitoraggio ideale dovrà consentirgli di riconoscere le situazioni pericolose prima che esse provochino un danno al cervello. D’altronde è bene ricordare, come recentemente suggerito, che un monitoraggio sempre più dettagliato può aumentare senza dubbio l’intensità terapeutica, senza per questo ottenere un miglioramento dell’outcome (Cremer et al., 2005). L’obiettivo è sempre quello di curare il paziente e non inseguire l’elemento strumentale; i dati a disposizione provengono in prima istanza dal monitoraggio di variabili fisiologiche sistemiche e tali parametri sono poi integrati da un monitoraggio cerebrale specifico.
13.2 Monitoraggio sistemico Prevede il monitoraggio delle variabili che vengono utilizzate di routine nei pazienti intensivi: elettrocardiogramma, diuresi oraria, saturazione arteriosa di ossigeno,
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anidride carbonica espirata, pressione arteriosa cruenta, pressione venosa centrale, gettata cardiaca, temperatura sistemica ed elettroliti sierici (Tisdall e Smith, 2007).
13.3 Monitoraggio cerebrale Comprende il monitoraggio di: pressione intracranica, ossigenazione cerebrale, pressione tissutale di ossigeno (PtO2), microdialisi, Doppler transcranico, elettroencefalografia, near infrared spectroscopy (NIRS), perfusion monitoring system. Tratteremo qui in dettaglio il solo monitoraggio della pressione intracranica: si tratta infatti, come si vedrà in seguito, dell’unico dato utile all’anestesista nel monitoraggio perioperatorio. Gli altri sistemi di monitoraggio più sofisticati fanno infatti parte del bagaglio della neurorianimazione e, tranne il Doppler transcranico, forniscono dati distrettuali e non riferibili alla situazione del cervello nel suo complesso.
13.3.1 Pressione intracranica La misura della pressione intracranica è fondamentale all’applicazione della terapia mirata al mantenimento di una pressione di perfusione cerebrale adeguata. È stata appunto identificata come indispensabile nel trattamento dei pazienti con gravi lesioni intracerebrali come peraltro suggerito dall’European Brain Injury Consortium (Maas et al., 2000). In particolare le linee guida della Brain Trauma Foundation (2007) indicano che tutti i pazienti neurologici con una Glasgow Coma Scale (GCS) ≤8 (Tab. 13.1) e una tomografia computerizzata (TC) anormale debbano essere monitorizzati. La tecnica considerata come il gold standard è l’inserimento di un catetere posizionandone l’estremità in uno dei ventricoli laterali. Il catetere, che è collegato a un trasduttore di pressione standard, oltre a permettere il monitoraggio della pressione, consente anche il drenaggio all’esterno del liquor, utile anche dal punto di vista terapeutico perché ottiene la riduzione del volume intracranico. Altro vantaggio è la possibilità di eseguire la calibrazione del sistema in qualsiasi momento. E tuttavia questa tecnica presenta qualche svantaggio: la difficoltà nel posizionamento in condizioni di edema cerebrale (ventricoli di dimensioni ridotte o dislocati da masse intracerebrali) e un più elevato rischio di infezioni (Lazier et al., 2002; Beckar et al., 1998). I sistemi intraparenchimali possono essere inseriti tramite un bolt di supporto nella teca cranica o tunnellizzati per via sottocutanea dopo una craniotomia (quest’ultima tecnica è decisamente poco usata). Sono disponibili cateteri a fibra ottica (Camino) oppure con un sensore di pressione miniaturizzato montato sulla punta (Codman): variazioni di pressione provocano alterazioni della riflessione della luce nel primo e modificazioni della resistenza nel secondo (Bhatia e Gupta, 2007). Entrambi questi sistemi, al contrario del catetere intraventricolare, non permettono
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Tabella 13.1 Glasgow Coma Scale (GCS) Eye opening response (apertura degli occhi) • • • •
1 - nessuna apertura degli occhi 2 - apertura degli occhi in risposta a stimoli dolorosi 3 - apertura degli occhi in risposta a stimoli verbali 4 - apertura degli occhi spontanea
Verbal response (risposta verbale) • • • • •
1 - nessuna risposta verbale, nessun suono (o paziente intubato) 2 - suoni incomprensibili 3 - parla e pronuncia parole, ma incoerenti 4 - confusione, frasi sconnesse 5 - risposta orientata e appropriata
Motor response (risposta motoria) • • • • • •
1 - nessun movimento 2 - estensione al dolore (si irrigidisce) 3 - flessione al dolore (lenta, distonica) 4 - retrazione dal dolore (si ritrae rapidamente se viene applicato uno stimolo doloroso) 5 - localizzazione del dolore (cerca lo stimolo doloroso) 6 - in grado di obbedire ai comandi
la calibrazione in vivo, e vengono azzerati rispetto alla pressione atmosferica (rispettivamente in aria o in soluzione fisiologica) solo prima del loro inserimento. Ci si può aspettare quindi una leggera variazione dello zero del sensore, con l’allungamento del tempo di permanenza dello stesso. Va ricordato che tutti i sistemi di misura della pressione intracranica descritti sono comunque sopratentoriali: la PIC non è sempre uniforme all’interno del cranio, quindi non necessariamente la misura sopratentoriale riflette anche quella al di sotto del tentorio. Le linee guida della Brain Trauma Foundation suggeriscono che il trattamento venga iniziato a valori di PIC ≥20-25 mmHg (Brain Trauma Foundation Guidelines, 2007).
13.3.2 Flusso ematico cerebrale Kety e Schmidt pubblicarono nel 1945 il primo metodo per la determinazione del flusso ematico cerebrale basato sull’utilizzo di N2O come tracciante inerte. Una recente modifica di questa tecnica è il metodo dello 131Xenon, un gas inerte che viene eliminato rapidamente attraverso i polmoni: con l’inalazione di una miscela di O2 e 131Xenon è possibile ottenere, mediante l’applicazione del metodo di Fick (Latchaw et al., 2003), l’analisi della concentrazione del tracciante nei vari distretti del tessuto cerebrale e di conseguenza la valutazione del flusso ematico (Coles, 2007).
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Un altro metodo, quello della diffusione termica, consente di monitorare il flusso regionale della corteccia cerebrale: si tratta di una sonda costituita da due piccole piastre d’oro, una delle quali è riscaldata. Attraverso la differenza di temperatura fra le due (che diminuisce con l’aumentare del flusso) viene calcolato il flusso regionale (Sioutos et al., 1995). Come si è già anticipato, l’insulto cerebrale può indurre modificazioni del consumo di ossigeno cerebrale e di conseguenza del flusso ematico cerebrale (Bouma e Muizelaar, 1992). È allora di fondamentale importanza per l’anestesista poter avere una stima del consumo di O2 in rapporto alla disponibilità. La saturazione giugulare di ossigeno (SjO2) fornisce dati non quantitativi sull’adeguatezza del flusso cerebrale che possono essere decisivi nella scelta dei parametri respiratori da adottare (si è già detto come la PaCO2 costituisca un importante stimolo all’autoregolazione cerebrale). La vena giugulare interna deve essere incannulata per via retrograda e la punta del catetere dovrebbe arrivare a livello della I o II vertebra cervicale (il posizionamento corretto deve essere confermato da una radiografia della colonna cervicale nelle due proiezioni), sopra al livello in cui la vena giugulare riceve il primo ramo tributario extracranico, la vena facciale. In questo modo il sangue prelevato dovrebbe essere integro da contaminazioni extracraniche: e tuttavia, per essere certi di evitare aspirazioni retrograde di sangue extracranico, la velocità di aspirazione deve essere mantenuta al di sotto dei 2 ml min–1 (Matta e Lam, 1997). Di norma viene incannulata la vena giugulare interna destra che è molto spesso dominante; con maggiore precisione la scelta dovrebbe essere rivolta alla vena giugulare interna la cui compressione provoca l’incremento di PIC maggiore, indicando con questo di sostenere la parte preponderante del flusso venoso refluo (Steiner e Andreaws, 2007). Attraverso la valutazione del contenuto di ossigeno nel sangue venoso di ritorno dal cervello sarà possibile ottenere informazioni sull’adeguatezza del flusso fornito. Una riduzione di SjO2 al di sotto del valore normale di 55% indica che l’apporto di ossigeno al cervello è inadeguato alla domanda: questo suggerisce che il flusso ematico cerebrale è ridotto a causa di una pressione di perfusione troppo bassa oppure in seguito alla vasocostrizione associata all’iperventilazione; d’altro canto un aumento di SjO2 indica iperperfusione che può essere indotta da vasodilatazione associata a ipercapnia oppure da diminuita domanda di ossigeno in seguito a riduzione del metabolismo o a morte cellulare (Cruz, 1998). È evidente come tale dato, malgrado non possa dare informazioni precise sul flusso regionale, risulti molto utile all’anestesista che gestisce la ventilazione nel paziente con insulto cerebrale (Tisdall e Smith, 2007).
13.3.3 Pressione tissutale di ossigeno (PtO2) La misura della PtO2 prevede l’inserzione di un microsensore nel parenchima cerebrale: il posizionamento può essere effettuato tramite un bolt inserito nel cranio come avviene per i sensori utilizzati per la misura della PIC, oppure inserito diret-
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tamente nel parenchima cerebrale al termine dell’intervento chirurgico nella zona di maggior interesse. Esistono in commercio bolt a due vie attraverso i quali è possibile inserire contemporaneamente sia il sensore intraparenchimale per la misura della PIC sia il microsensore per la PtO2. La pressione tissutale di ossigeno di norma è molto più bassa di quella arteriosa, essendo il sensore inserito non nel letto vascolare bensì all’interno del parenchima cerebrale; il valore normale misurato può variare da 15 a 50 mmHg in relazione all’attività metabolica del tessuto cerebrale (Maas et al., 1993). Attraverso tali sensori è anche possibile misurare il pH del tessuto cerebrale (range fra 7,05 e 7,25) e la pressione tissutale di CO2 (range fra 40 e 70 mmHg). Non ci sono ancora certezze intorno a questi parametri, ma alcuni dati suggeriscono che una PtO2 inferiore a 810 mmHg rappresenti un rischio elevato di ischemia; i dati relativi al pH e alla PtCO2 sono modesti, ma per il momento valori di pH inferiori a 7 e di PtCO2 maggiori di 60 sembra possano essere suggestivi di cattivo outcome (Bhatia e Gupta, 2007). Va ricordato tuttavia come si tratti di dati relativi al distretto del parenchima cerebrale all’interno del quale è collocato il sensore e non invece al cervello in toto per cui è necessario scegliere attentamente la sede del posizionamento.
13.3.4 Microdialisi Permette il monitoraggio di dati biochimici del tessuto cerebrale. Prevede infatti l’inserzione di un microcatetere (0,62 mm di diametro) collegato con una membrana dialitica in poliammide posta nel parenchima cerebrale. Tale membrana è perfusa con una soluzione di Ringer lattato attraverso una micropompa a una velocità compresa fra 0,1 e 2 µl/min. La membrana è semipermeabile e consente il passaggio di molecole con peso molecolare inferiore ai 20 000 Da, il liquido di perfusione viene raccolto in fiale che sono sostituite ogni 10-60 minuti (in relazione alla velocità di perfusione utilizzata). Il catetere dovrà essere posto nelle aree cerebrali definite “a rischio” e quindi nelle zone di “penombra” attorno alla lesione intracerebrale. È possibile misurare: – molecole collegate al metabolismo energetico: glucosio, lattato, piruvato, adenosina, xantina; – neurotrasmettitori: glutammato, aspartato, acido γ-aminobutirrico (GABA); – marker di danno tissutale: glicerolo, potassio, citochine; – sostanze esogene: farmaci somministrati. L’inserzione del catetere durante l’intervento chirurgico può consentire l’analisi di questi e altri molteplici parametri nel perioperatorio. È infatti noto come il danno cerebrale possa indurre una serie di alterazioni metaboliche insieme ad alterazioni nella concentrazione di aminoacidi eccitatori; i dati raccolti sono distrettuali, quindi è di fondamentale importanza che il catetere venga inserito nelle zone a rischio in modo da monitorarne le condizioni e consentire un atteggiamento terapeutico adeguato (Bhatia e Gupta, 2007).
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13.4 Emorragia subaracnoidea L’incidenza complessiva dell’emorragia subaracnoidea (ESA) è circa 9 per 100 000 persone-anno. I tassi di incidenza sono più elevati in Giappone e in Finlandia e aumentano con l’età; la preponderanza dei casi nelle donne inizia intorno alla sesta decade; l’ESA da rottura di aneurisma cerebrale rappresenta il 5% di tutti gli stroke (De Roij et al., 2007). La complicanza più grave dopo ESA è il vasospasmo cerebrale. Abitualmente si sviluppa da 3 a 12 giorni dopo l’emorragia, ha una durata di circa due settimane e interessa il 60-70% dei pazienti colpiti da ESA (Harrod et al., 2005). Non è ancora nota la causa esatta del vasospasmo. Sono implicati: – le modificazioni, indotte dall’ESA, di contrazione e rilasciamento biochimicamente mediate della muscolatura liscia delle arterie; – l’attività vasocostrittoria diretta di prodotti di degradazione del sangue extravascolare; – lo sviluppo di modificazioni strutturali dei vasi; – la vasocostrizione immuno-mediata. L’unico dato che sembra realmente predire lo sviluppo di vasospasmo sembra essere la quantità di sangue presente a livello delle cisterne (Piebe, 2007). La combinazione di ipovolemia e incremento della pressione intracranica aumenta la probabilità di sviluppare vasospasmo: si ritorna così alla “cascata vasodilatatoria” già descritta alla base del danno cerebrale (Van den Bergh et al., 2005) . L’ipovolemia è associata con il vasospasmo sintomatico dopo ESA; pertanto la volemia dev’essere attentamente monitorata e i pazienti mantenuti normovolemici (Van den Bergh et al., 2005). L’ESA è frequentemente accompagnata da iponatremia, ipokaliemia, ipocalcemia e ipomagnesemia. Un recente studio suggerisce come l’infusione continua di magnesio riduca i deficit neurologici tardivi e il rischio di cattivo outcome (Singh et al., 2002). Di particolare importanza è l’iponatremia che è presente nel 10-30% dei pazienti con ESA: potenziali cause sono la cerebral salt wasting syndrome (CSWS), caratterizzata da riduzione del volume extracellulare (iponatremia ipovolemica) (Wijdicks et al., 1985) e la syndrome of inappropriate antidiuretic hormone (SIADH) che può provocare iponatremia sia in condizioni di ipovolemia che di normovolemia (Levine, 2008). Indipendentemente dalle cause (difficile la diagnosi differenziale fra le due), il trattamento appropriato prevede un attento monitoraggio della natremia e la somministrazione di sodio; molti casi sono moderati e possono essere trattati con la sola somministrazione di cristalloidi isotonici o con NaCl per via enterale (Hasan et al., 1989). È importante fare molta attenzione a non somministrare a questi soggetti infusioni anche solo lievemente ipotoniche. Valori di sodio sierici al di sotto di 134 mEq/l sono stati descritti nel 34% dei pazienti con ESA e per il trattamento è stato recentemente proposto un protocollo con l’infusione di NaCl in soluzione 3% (Woo et al., 2009) (Tabella 13.2).
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Tabella 13.2 Protocollo per l’infusione di NaCl 3% Protocollo: • NaCl 3 g per os o sondino nasogastrico • poi iniziare l’infusione di NaCl 3% a 20 ml/h • controllare Na sierico ogni 6 ore e seguire il seguente schema schema: Na sierico <130 130-135 136-140 >140
Variazioni aumentare l’infusione di 20 ml/h (max 80 ml/h), se è sospesa inziare con 20 ml/h aumentare l’infusione di 10 ml/h (max 80 ml/h), se è sospesa iniziare con 10 ml/h nessuna variazione sospendere l’infusione, controllare Na ogni 6 h e seguire lo schema
Da Woo CH et al., 2009, modificata
Il danno cardiaco e le aritmie sono frequenti dopo ESA. L’ecocardiografia associata a uno screening per troponina e peptide natriuretico di tipo B possono essere utili per guidare il trattamento; la priorità rimane comunque il trattamento dell’insulto neurologico, essendo il danno cardiologico dopo ESA reversibile (Kopelnik e Zaroff, 2006). Il monitoraggio Doppler merita comunque un cenno: al di là dell’uso in terapia intensiva nel monitoraggio del vasospasmo, sistemi intraoperatori sono in grado di diagnosticare in tempo reale l’occlusione o la stenosi delle arterie perianeurismatiche nell’assistenza al neurochirurgo durante l’intervento di esclusione dell’aneurisma, soprattutto nei casi complessi in cui è necessario un compromesso fra la chiusura del colletto dell’aneurisma e il mantenimento dell’adeguata pervietà del vaso parente o adiacente. Allo scopo si usa una sonda microvascolare della frequenza di 20 mHz che deve essere applicata ai vasi con un angolo da 30° a 60° per ottenere un’insonazione efficace (Akdemir et al., 2006).
13.5 Posizione seduta La posizione seduta è stata ampiamente applicata in passato per interventi sulla fossa cranica posteriore e sulla colonna cervicale. Anche se attualmente, a causa delle complicanze connesse, è utilizzata di rado, merita un ampio cenno perché è tuttora ritenuta di scelta in alcuni casi (Gale e Leslie, 2004). I problemi principali associati a tale posizione sono l’embolia gassosa e il rischio di embolia paradossa legato alla pervietà del forame ovale. Il rischio di embolia gassosa è presente in tutti i casi in cui ci siano una vena beante e un gradiente negativo fra la pressione venosa nel sito di intervento e il cuore: tale fenomeno è particolarmente evidente in neurochirurgia a causa dell’e-
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sposizione delle lacune venose cerebrali. L’analisi di studi retrospettivi mostra come l’incidenza riportata di tale fenomeno vari moltissimo in relazione ai metodi utilizzati per la diagnosi (dal 7 al 76%) (Mirski et al., 2007). I metodi più sensibili sono l’ecocardiografia transesofagea e il Doppler precordiale: il primo è indubbiamente più invasivo, ma in grado di fornire informazioni (se usato da personale esperto) anche sulla performance del ventricolo sinistro; il secondo, pur non essendo invasivo, può determinare l’ingresso di quantitativi di aria molto piccoli. La sonda Doppler (da 2 a 5 mHz) può essere posizionata sul bordo sternale destro o sinistro (dal II al IV spazio intercostale) oppure sul dorso fra la scapola destra e la colonna. Associato al Doppler dev’essere introdotto un catetere venoso centrale multiorifici per consentire l’aspirazione di aria dalle cavità cardiache: tale catetere dev’essere inserito 2 cm al disotto della giunzione fra vena cava superiore e atrio destro (sotto controllo radiografico) (Mirski et al., 2007). Collateralmente dev’essere attentamente monitorata l’end-tidal CO2 (EtCO2), dato molto sensibile alle variazioni di spazio morto polmonare indotte dall’embolia, peraltro non specifico: è noto infatti come variazioni di tale parametro possano essere indotte da molte altre variabili (Colley e Artru, 1989). Controindicazione assoluta a interventi chirurgici in posizione seduta è la presenza di una pervietà del forame ovale, condizione che va pertanto accuratamente ricercata in precedenza. L’incompleta chiusura del forame ovale è descritta con un’incidenza dal 19 al 36% nella popolazione normale (Hagen et al., 1984); la diagnosi può essere effettuata sia tramite esame Doppler transcranico (TCD), sia tramite ecocardiografia transesofagea (TEE). La concordanza descritta fra i due metodi è del 90%: il TCD è un esame meno invasivo, che peraltro permette di porre diagnosi di shunt destro > sinistro senza dare indicazioni della sede (che può essere anche intrapolmonare); la TEE fornisce dati morfologici delle cavità cardiache. Il suggerimento è quindi quello di utilizzare il TCD come test di screening, seguito poi dalla TEE per diagnosticare la sede dello shunt (Caputi et al., 2009) .
13.6 Conclusioni Risulta evidente da questa breve trattazione come quello neurochirurgico sia un paziente particolarmente complesso. Il ruolo dell’anestesista in questo campo è fondamentale, se non decisivo, nella prevenzione del danno secondario: l’attenzione dovrà dunque essere soprattutto rivolta al mantenimento di un flusso ematico cerebrale adeguato e quindi al monitoraggio di: – pressione di perfusione cerebrale (PPC >60 mmHg); – fornitura di ossigeno (SjO2 >50 %); – pressione intracranica (PIC <20 mmHg). A questo proposito la Brain Trauma Foundation suggerisce che vengano mantenute una PPC >60 mmHg e una PIC <20 mmHg; tale compito è molto arduo
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quando ci si trova di fronte a un traumatizzato cranico che spesso è anche un politraumatizzato con trauma toracico e acute lung injury (ALI). Ma il trattamento del trauma cranico è spesso in conflitto con quello per l’ALI: mentre per quest’ultima si tende a tollerare un’ipossia e un’ipercapnia relativa, tale situazione è incompatibile con il mantenimento di PIC e PPC adeguate al trattamento del primo. Analogamente l’applicazione di una pressione positiva di fine espirazione (PEEP), aumentando la pressione intratoracica, può ridurre il ritorno venoso facendo salire di conseguenza la PIC; d’altra parte la PEEP potrebbe favorire il reclutamento alveolare migliorando l’ossigenazione e riducendo la PaCO2 , ottenendo invece un decremento della PIC. È evidente allora come si debba raggiungere un compromesso monitorando attentamente tutti i parametri a disposizione e in particolare la pressione arteriosa media (PAM) e la EtCO2 che però non devono interferire con il mantenimento di un’adeguata PPC (Young et al. 2010). È inoltre importante tenere presente in ogni momento l’eventualità di innescare e automantenere il “circolo vizioso” della cascata vasodilatatoria che porta al danno cerebrale. Il monitoraggio di PtO2 e della biochimica cerebrale attraverso microdialisi può fornire un complemento di informazioni utile, ricordando però che si tratta di dati distrettuali riferiti solo al segmento di parenchima cerebrale in cui sono rilevati. Così pure è significativo, soprattutto nei casi di emorragia subaracnoidea (ma non solo), l’attento monitoraggio dell’equilibrio idroelettrolitico e in particolare del livello di Na plasmatico che deve essere attentamente monitorato con intervalli brevi, in modo da intraprendere la correzione in tempo sufficientemente utile. Il Doppler è uno strumento molto importante nella sala operatoria di neurochirurgia, sia attraverso la sonda da 20 mHz che consente la valutazione della pervietà dei vasi intracranici, sia attraverso la sonda precordiale da 2-5 mHz per la determinazione dell’embolia gassosa durante gli interventi in posizione seduta. Non ultimo, d’altronde, è il suo utilizzo come Doppler transcranico (sonda pulsata da 2 mHz) nella valutazione preoperatoria dell’eventuale pervietà del forame ovale.
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Il paziente sottoposto a chirurgia vascolare maggiore
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M. Dei Poli, R. Luci, C. Colombo
Riassunto La patologia cardiovascolare è la principale causa di insorgenza di complicanze postoperatorie e di incremento di mortalità dopo interventi di chirurgia non cardiaca. Un’accurata valutazione preoperatoria è essenziale nella gestione intraoperatoria e postoperatoria di pazienti con malattia coronarica. Il monitoraggio delle funzioni cardiovascolari assume un ruolo fondamentale nella prevenzione delle complicanze legate all’intervento chirurgico. Obiettivo essenziale è l’ottimizzazione dell’assetto emodinamico nei pazienti critici e a rischio di scompenso cardiocircolatorio, per assicurare una buona perfusione del circolo coronarico, cerebrale, renale e midollare e un adeguato apporto di ossigeno. In questo capitolo saranno prese in esame le principali tecniche di monitoraggio della perfusione distrettuale nei pazienti sottoposti a interventi di chirurgia vascolare maggiore.
14.1 Introduzione La gestione perioperatoria dei pazienti da sottoporre a interventi di chirurgia vascolare maggiore risulta spesso estremamente impegnativa vista l’alta incidenza di comorbidità, lo stress emodinamico e metabolico associati al clampaggio e al declampaggio dei vasi, il deficit di perfusione cerebrale, cardiaco, renale e midollare durante le procedure. Ne deriva che la chirurgia vascolare costituisce di per sé un fattore di rischio per morbilità cardiaca perioperatoria. Oggetto di questo tipo di chirurgia sono per la quasi totalità le conseguenze vascolari della malattia aterosclerotica. Le lesioni ateromasiche si formano soprattutto nelle arterie di grosso e medio Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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calibro, in particolare a livello delle coronarie, della biforcazione carotidea, dell’aorta addominale e delle arterie iliache e femorali. Il loro svilupparsi presso i punti di biforcazione e lungo lo strato esterno delle superfici di curvatura dei vasi è correlato allo shear stress e alla conseguente lesione infiammatoria della superficie endoteliale (Ross, 1999; Libby et al., 2002). Sull’evidenza dell’infiammazione nella patogenesi dell’aterosclerosi gli indicatori sieroematici di flogosi possono essere impiegati come marker di rischio: alti livelli di proteina C reattiva (PCR, una proteina di fase acuta prodotta in risposta a citochine infiammatorie) sono indicativi di aumentato rischio di malattie cardiovascolari (Norris, 2006; Ridker, 2001; Horowitz e Beckwith, 2000), con incremento della probabilità di insorgenza di infarto miocardico (IMA) e di sviluppo di vasculopatia periferica (Liuzzo et al., 1994; Ridker et al., 1998). La capacità dell’acido acetilsalicilico di ridurre l’insorgenza di patologie cardiovascolari riflette la sua azione di antiaggregante piastrinico, ma anche la sua attività antinfiammatoria con riduzione dei livelli della PCR (Murray, 1997). Ne deriva che alla base dei trattamenti terapeutici contro la progressione della patologia ci sia l’utilizzo di farmaci – come le statine – che oltre a ridurre la concentrazione ematica di colesterolo LDL, svolgono azione antinfiammatoria diminuendo l’adesività dei leucociti e l’attivazione dei macrofagi (Aikawa et al., 2001).
14.2 Valutazione preoperatoria Nel paziente sottoposto a intervento di chirurgia vascolare la malattia coronarica (CAD, coronary artery disease) è la principale causa di morte nel periodo perioperatorio e di ridotta sopravvivenza a lungo termine (Mangano, 1990). Data la natura sistemica del processo aterosclerotico, meno del 10% dei pazienti candidati a chirurgia vascolare ha coronarie normali e oltre il 50% ha coronaropatia avanzata o grave (Hertzer, 1989). Nella preparazione all’intervento è essenziale un’accurata valutazione del rischio cardiaco, con eventuale modificazione della terapia farmacologica o indicazione a interventi di angioplastica coronarica o PTCA (percutaneous transluminal coronary angioplasty) o di bypass aortocoronarico o CABG (coronary artery bypass graft) prima dell’intervento chirurgico vascolare. Inoltre la valutazione preoperatoria può guidare la scelta di monitoraggi emodinamici (invasivi o non invasivi), di tecniche chirurgiche endovascolari o di procedure anestesiologiche loco-regionali. Alcuni importanti fattori predittivi di rischio possono essere ottenuti da anamnesi ed esame obiettivo: un’anamnesi di precedente IMA o scompenso cardiaco congestizio ha dimostrato di predire il rischio di morbilità cardiaca perioperatoria (Eagle et al., 2002). Alcuni marker clinici – quali età >70 anni, diabete, angor, pregresso CABG e altri – possono costituire un valido aiuto per stratificare il rischio di morbilità cardiaca perioperatoria in questo tipo di chirurgia.
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14.2.1 Linee guida ACC/AHA L’ACC/AHA ha stilato delle linee guida per la valutazione preoperatoria del rischio coronarico, la gestione di specifiche problematiche preoperatorie, la terapia perioperatoria per la coronaropatia, le considerazioni anestesiologiche, la gestione intrae postoperatoria (Eagle et al., 2002). Uno dei principi alla base di questo documento è che l’intervento coronarico prima di procedure vascolari è raramente necessario per ridurre il rischio legato alla chirurgia, a meno che l’intervento stesso non sia indicato a prescindere dal contesto preoperatorio (Krupski, 2002). Vengono presi in considerazione il tipo di chirurgia, la presenza di malattia ischemica, l’insufficienza cardiaca congestizia, le malattie cerebrovascolari, il diabete mellito, l’insufficienza renale: in base alla presenza di nessuno, 1, 2, 3 o più di questi fattori di rischio la frequenza di complicanze cardiache maggiori viene stimata rispettivamente dello 0,4%, 0,9%, 7% o 11% (Goldman et al., 1977; L’Italien et al., 1996).
14.2.2 Apparato cardiocircolatorio Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte dopo procedure anestesiologiche e chirurgiche: l’identificazione di pazienti con patologia coronarica è importante per avviare provvedimenti volti a ridurre il rischio di complicanze perioperatorie. Il rischio di IMA nel perioperatorio è tre volte maggiore nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare che nella chirurgia non cardiaca. Il rischio di insorgenza di complicanze cardiache è 2-5 volte maggiore negli interventi eseguiti in urgenza piuttosto che in procedure in elezione: un’accurata anamnesi preoperatoria con un’attenta valutazione della comorbidità permette di identificare con precisione i pazienti con elevato rischio perioperatorio e quelli che possono trarre maggiore beneficio dalle tecniche endovascolari e da anestesie loco-regionali.
14.2.3 Elementi predittivi del rischio cardiovascolare 14.2.3.1 Disequilibrio DO2/VO2 È la differenza tra fabbisogno miocardico di O2 (consumo miocardico di ossigeno) e disponibilità miocardica di ossigeno (risultante del prodotto di portata cardiaca e contenuto arterioso di O2). Nel periodo perioperatorio molti fattori possono incidere sulla discrepanza per cui il fabbisogno può superare la disponibilità. Per esempio, il fabbisogno aumenta per il rilascio di catecolamine indotto da stress chirurgico, dolore e ipertermia; la
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Tabella 14.1 Modificazioni di delivery e consumo di O2 miocardico Aumentato fabbisogno • Aumento della frequenza cardiaca • Aumento del volume diastolico • Aumentata contrattilità • Aumento della pressione arteriosa Ridotto apporto a) Ridotto flusso ematico coronarico
b) Ridotto contenuto di O2
• Vasocostrizione o trombosi coronarica
• Riduzione dell’ematocrito
• Aumentata frequenza cardiaca
• Ridotta saturazione di O2
• Aumentato volume diastolico
disponibilità (o delivery) può essere ridotta in condizioni di anemia o di ridotta perfusione miocardica (Beattie e Fleischer, 1992; Mangano et al., 1991) (Tab. 14.1). I pericoli maggiori vengono dalle condizioni in cui contemporaneamente si ha riduzione dell’apporto di O2 e incremento del consumo: tachicardia e anemia. La tachicardia determina un incremento del lavoro miocardico e al tempo stesso riduce l’apporto di O2 abbreviando il tempo diastolico di perfusione coronarica. L’anemia di per sé determina ridotto apporto di O2 nel miocardio, mentre l’aumento compensatorio della frequenza e della gettata cardiaca ne incrementano la richiesta; la prevenzione e il trattamento dell’ischemia miocardica perioperatoria richiedono un attento controllo di questi parametri. L’ischemia miocardica si verifica più comunemente nel postoperatorio, meno frequentemente nell’intraoperatorio (Mangano et al., 1991a; 1991b), quando il tono adrenergico è soppresso dai farmaci dell’anestesia (Breslow et al., 1993) ed è più frequente disporre di un adeguato controllo dell’emodinamica. Di solito si verifica nei primi giorni postoperatori (Mangano et al., 1991b), quando l’attivazione ortosimpatica indotta dallo stress chirurgico e dal dolore favorisce episodi di tachicardia e aumenti pressori. La maggior parte degli episodi ischemici è silente, clinicamente asintomatica, confusa e sovrapposta al dolore legato all’intervento, mascherata e attutita dall’analgesia da oppioidi (Mangano, 1990; Fleischer et al., 1991): spesso si manifesta solo con un incremento della frequenza cardiaca (Mangano et al., 1991b). Un adeguato controllo emodinamico perioperatorio svolge un ruolo importante nel ridurre l’incidenza di ischemia miocardica: nel contesto della riduzione del rischio cardiaco in chirurgia non cardiaca ha avuto ampio spazio la discussione sul beta-blocco perioperatorio (attuato con modalità differenti secondo gli Autori), con la finalità e l’obiettivo di ridurre la frequenza cardiaca (sotto gli 80 battiti/min) e il consumo miocardico di ossigeno. In pazienti ad alto rischio una frequenza al di sopra di 85 bpm può essere sufficiente a determinare modificazioni ischemiche del tratto ST (Frank et al., 1990). In ogni caso non appare più condivisa la scelta di una terapia indiscriminata con beta-bloccanti in tutti i pazienti coronaropatici (vedi Capitolo 2).
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14.2.4 Altre indagini preoperatorie 14.2.4.1 Ematocrito Non è chiaro quale sia il valore ottimale di ematocrito in pazienti candidati a interventi vascolari: concentrazioni di Hb >7 g/dl sono ben tollerate da soggetti senza patologia cardiovascolare (American College of Physicians, 1992). Pur in assenza di studi controllati, l’incidenza di ischemia miocardica e morbilità cardiaca nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare pare essere maggiore quando le concentrazioni di emoglobina sono inferiori a 9 g/dl nel primo periodo postoperatorio (Christopherson et al., 1991; Nelson et al., 1993).
14.2.4.2 Peptide natriuretico Un interesse sempre maggiore è rivolto alla determinazione delle concentrazioni ematiche di peptide natriuretico B (BNP) e NT ProBNP (N-terminale pro peptide natriuretico B), ormone endogeno sintetizzato nelle quattro camere cardiache (e in particolare nei ventricoli) e rilasciato in risposta a qualsiasi aumento della tensione di parete (r2 x Pventr). È un importante marker diagnostico e prognostico in condizioni di scompenso cardiaco: alti livelli si ritrovano in situazioni di dilatazione delle camere ventricolari per sovraccarico di volume, pressione o per ischemia miocardica (Atkinson e Carter, 2008). Pazienti con alte concentrazioni ematiche di NT ProBNP nel preoperatorio sottoposti a chirurgia non cardiaca o chirurgia vascolare hanno alta probabilità di sviluppare eventi cardiaci avversi nel postoperatorio e comunque presentano alta mortalità (Yeh et al., 2005; Feringa et al., 2006, 2007; Gibson et al., 2007).
14.2.4.3 Capacità funzionale Valuta il sistema cardiocircolatorio a riposo e la risposta allo stress di una chirurgia maggiore in presenza di un netto incremento delle richieste di O2 (Shoemaker et al., 1993). È stato stimato che dopo interventi chirurgici il VO2 (basale = 7 ml/kg/min) può incrementare del 40-50% (Older e Smith, 1988): i pazienti in grado di compensare questo incremento di richieste con un aumento della gettata cardiaca hanno buon decorso postoperatorio (Shoemaker et al., 1992), mentre quelli con capacità funzionale ridotta possono non essere in grado di far fronte a questo incremento di domanda (per esempio, i pazienti con scompenso cardiaco). La valutazione della capacità funzionale è fondamentale nel preoperatorio ed è
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un indice predittivo di eventi cardiovascolari perioperatori o a lungo termine (Older et al., 1993, 1999; Myers et al., 2002). Si può determinare in modo soggettivo chiedendo al paziente l’entità dello sforzo fisico in grado di eseguire, o in modo più oggettivo attraverso la misurazione dell’equivalente metabolico MET (metabolic equivalent of task). Un MET corrisponde al consumo di O2 a riposo di un uomo di 70 kg di 40 anni: circa 3,5 ml/kg/min. Per ogni incremento dell’attività fisica si ha un aumento dell’uptake di O2: il rischio cardiaco perioperatorio e a lungo termine aumenta in pazienti incapaci a svolgere attività correlate a 4 METs (Eagle et al., 2002; Shoemaker et al., 1992; Older e Hall, 2005).
14.2.4.4 Elettrocardiogramma a riposo e da sforzo Permettono di valutare l’ischemia miocardica e offrono un’idea della capacità funzionale in termini di MET. Nei pazienti con blocco di branca sinistra all’ECG a riposo sono raccomandati l’esecuzione del test da sforzo, la scintigrafia perfusionale miocardica e l’eco-stress con dipiridamolo (DSE) (vedi anche par. 14.2.4.7).
14.2.4.5 Ecocardiogramma Una frazione di eiezione (FE) <40% si associa ad aumentato rischio di eventi cardiaci perioperatori (Halm et al., 1996), mentre il rilievo di stenosi aortica aumenta fino a 5 volte la possibilità di complicanze cardiache (Kertai et al., 1004).
14.2.4.6 Metodiche di imaging Sono utili dal punto di vista prognostico: il rischio di eventi cardiaci incrementa con l’aumentare dell’entità del difetto reversibile (Etchells et al., 2002; Hendel et al., 1992; Brown e Rowen, 1993).
14.2.4.7 Eco-stress dipiridamolo (DSE) Una recente meta-analisi ha definito il DSE superiore all’imaging scintigrafico nel predire eventi cardiaci postoperatori (Beattie et al., 2006). I pazienti con oltre 5 segmenti su un totale di 16 di ischemia reversibile al DSE hanno probabilità 10 volte maggiore di eventi cardiaci postoperatori rispetto a quelli con meno di 4 segmenti ischemici.
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14.3 Monitoraggio emodinamico intra- e postoperatorio 14.3.1 Elettrocardiogramma Prescindendo dalla discussione sull’impiego dell’elettrocardiogramma (ECG) nella fase di stadiazione preoperatoria e nella selezione dei pazienti (comprendendo anche l’ECG da sforzo e l’ECG dinamico delle 24 ore), va detto che il monitoraggio elettrocardiografico rimane una pietra miliare del controllo intra- e postoperatorio (in questa come in altri tipi di chirurgia) del paziente portatore di cardiopatia ischemica. L’elettrocardiogramma, mediante il controllo della fase di ripolarizzazione (tratto ST e T), è il mezzo fondamentale per la sorveglianza dell’ossigenazione miocardica (MVO2, myocardial oxygen consumption): il tratto ST-T esplora infatti la sistole meccanica, che è la fase a maggior rischio di ipoperfusione miocardica, dato che il flusso ematico attraversa un muscolo in contrazione. La rilevazione contemporanea delle derivazioni D2 e V5, con monitor dotati dell’opzione di controllo dello slivellamento del tratto ST, si rivela enormemente più efficace dell’analisi acritica che può offrire una singola derivazione a tre cavi, e va pertanto ritenuta uno standard. In un contributo apparso su JAMA, Daviglus et al. (1999) hanno sottolineato l’importanza anche di minime anormalità del tratto ST-T nell’aumentare la mortalità da CAD o da malattia cardiovascolare in genere.
14.3.2 Valutazione preoperatoria del riempimento del circolo La valutazione preoperatoria del riempimento del circolo rappresenta un momento di fondamentale importanza nel determinare l’outcome dei pazienti da sottoporre in elezione alla chirurgia aortica maggiore. È frequente infatti che pazienti vasculopatici si trovino – in fase preoperatoria – in uno stato di relativa disidratazione e/o ipovolemia, il più sovente a causa di terapie diuretiche prolungate, motivate da ipertensione arteriosa concomitante, cardiopatia arteriosclerotica o altro. Tale condizione può essere amplificata se si sovrappongono interazioni con i sistemi di regolazione del volume, come l’impiego della rachianestesia, del betablocco perioperatorio, degli inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE-I) o degli antagonisti del recettore dell’angiotensina (sartani), dei farmaci vasodilatatori propri dell’anestesia. L’adeguamento del circolo, anche nelle ore immediatamente precedenti la procedura chirurgica, può migliorare notevolmente la risposta agli anestetici, la tolleranza alle fasi emorragiche e alle fasi di depressione del circolo. In alternativa allo studio preoperatorio delle pressioni di riempimento mediante
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cateterismo dell’arteria polmonare (PAC [pulmonary artery catheter] o catetere di Swan-Ganz) è possibile farsi un’idea precisa dello stato di replezione mediante tecniche minimamente o per nulla invasive, e sulla base di questi dati preparare adeguatamente il paziente. Possiamo indicare fra queste : 1. la impedenziografia toracica (TEB, thoracic electrical bioimpedance); 2. lo studio della CO2 espirata (PETCO2); 3. l’emodinamica funzionale “al letto del paziente”. Denominatore comune a queste metodiche è la concomitante rilevazione della pressione venosa centrale, che fornisce un’indicazione preziosa sullo stato di iporeplezione del circolo, dà un’idea relativamente fedele del normale riempimento e rimane un dato meno sensibile e affidabile nella descrizione del sovraccarico volemico. Quando misurata in corrispondenza dell’onda Q del complesso QRS dell’ECG, la pressione venosa centrale o atriale (CVP, central venous pressure) risulta ottimamente correlata con la pressione telediastolica del ventricolo destro (RVEDP, right ventricular end-diastolic pressure).
14.3.3 Cardiografia a impedenza È un metodo di misura totalmente non invasivo del volume sistolico (SV, stroke volume), basata sulla misura della variazione di impedenza del segmento toracico preso in esame, la quale genera un segnale continuo sul quale si possono effettuare misure ripetibili. La bioimpedenza può essere definita come la caduta di potenziale elettrico di una corrente alternata di bassa intensità durante il passaggio attraverso i tessuti e i componenti di un segmento toracico definito dalla posizione degli elettrodi stimolatori e sensori (piani passanti per la base del collo e il diaframma). L’impedenza è un fenomeno elettrico complesso, in quanto è il vettore risultante dalle proprietà resistive e reattive (o capacitive) dei tessuti, dei liquidi interstiziali, delle membrane cellulari: la sua misura viene espressa in Ohm. L’acqua corporea si comporta come un buon conduttore (in virtù del suo elevato contenuto di molecole ionizzate) e il grasso tissutale come un isolante puro. L’insieme dell’impedenza dei tessuti componenti il torace genera la misura dell’impedenza basale (Z0), utile nel definire eventuali stati di iperidratazione del torace (edemi polmonari o extrapolmonari di diversa natura). Le variazioni cicliche dell’impedenza toracica sono rispettivamente dovute ai cicli respiratorio e cardiaco: quest’ultimo è il solo che viene studiato dalla metodica, mediante la registrazione ed elaborazione matematica (con software dedicato) del segnale di impedenza, sia nella forma temporale (DZ) che nella sua variazione istantanea (dZ/dt). Le variazioni di impedenza fasiche con il ciclo cardiaco sono attribuite alle variazioni in volume del contenuto del cuore e dei grossi vasi toracici durante la sistole, e all’orientamento sincrono delle emazie nella fase di massima velocità eiettiva.
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Gli studi clinici di 20 anni d’impiego nei campi e nelle situazioni più disparate non hanno completamente chiarito l’applicabilità della TEB come sostituto dello studio emodinamico invasivo (PAC), specie di fronte a pazienti con indici di gravità molto elevati (massima criticità) e nelle condizioni di ventilazione meccanica con PEEP elevate, sepsi con stati iperdinamici estremi, tachiaritmie, gravi ipoperfusioni cutanee. Il suo impiego in sala operatoria è invece assolutamente proponibile – salvo che nella chirurgia del collo, del torace e dell’addome superiore – e pertanto nella chirurgia periferica la TEB è semplice da installare, totalmente scevra da rischi per il paziente, di nessun costo e che non richiede expertise specifica dell’operatore. La sua applicazione può essere presa ad esempio di una metodica di monitoraggio continuo, battito-battito, totalmente non invasiva, trasportabile attraverso tutte le fasi del perioperatorio.
14.3.4 Studio della CO2 espirata (PETCO2) Riveste uno straordinario interesse per la sua semplicità di uso e per la stabilità in corso di ventilazione artificiale.
14.3.5 Test di carico Non va peraltro trascurata la possibilità di effettuare un test di carico con cristalloidi o colloidi, nel sospetto di un’iporeplezione, misurando, prima e dopo il test, parametri semplici come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la CVP e la EtCO2 (mediante un boccaglio). Se il filling test si traduce in un vantaggio metabolico per il paziente, vale a dire se genera un incremento di portata a partire da una situazione di deficit, potrà essere registrato un incremento di EtCO2.
14.4 Valutazione intraoperatoria In fase intraoperatoria è possibile superare le remore relative a un monitoraggio che possa risultare disagevole per il paziente. L’invasività andrà valutata solo per il rischio oggettivo cui espone il paziente e per la successiva eventuale non trasportabilità al periodo postoperatorio. È sempre valido il principio che il monitoraggio è utile e giustificato solo se i dati da esso forniti sono utili a prendere una decisione non altrimenti risolvibile, e se danno una risposta non altrimenti ottenibile a un quesito clinico puntiforme.
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Consigliamo di guardare con sospetto al monitoraggio allestito in modo “generalista” o “per protocollo”, in assenza cioè di una necessità decisionale. Va sempre valutata la perdita di dati all’induzione per tutte quelle metodiche che vanno applicate a paziente addormentato, come Doppler esofageo, ecocardiografia transesofagea (TEE, transesophageal echocardiography) ecc.
14.4.1 Capnografia Elemento di monitoraggio di estrema utilità e praticità risulta ancora essere l’EtCO2, parametro strettamente correlato con la gettata cardiaca e il consumo di O2, in costanza di ventilazione e di temperatura. L’EtCO2 è di grande rilievo nella valutazione delle condizioni di circolo, quando se ne osservino brusche riduzioni. Un calo graduale è peraltro la regola nel corso di un’anestesia generale, ed è legato alla riduzione della temperatura e al rallentamento degli scambi metabolici; un’ulteriore riduzione si verifica al clamp aortico, con l’esclusione dal circolo di una larga parte del corpo. In situazioni di stabilità, invece, bruschi cali di EtCO2 hanno il significato di riduzioni di portata, a sua volta secondarie a riempimento di circolo insufficiente o a depressione cardiaca da anestetici. In steady state anestesiologico, in assenza di perdite ematiche, un rapido calo di EtCO2 deve sempre far pensare all’effetto di un anestetico volatile, poiché un alogenato può determinare calo pressorio con tre meccanismi: 1. vasodilatazione arteriolare con buon mantenimento di portata; 2. venodilatazione con calo di riempimento cardiaco; 3. depressione miocardica. Nell’interpretazione di un’ipotensione l’EtCO2 risulterà: – dilatazione arteriolare: ipotensione con EtCO2 normale; – venodilatazione: ipotensione con EtCO2 ridotta, che risponde a un test di riempimento rapido; – depressione cardiaca: ipotensione con EtCO2 ridotta, che non risponde a un test di riempimento rapido.
14.4.2 Flussimetria aortica In fase intraoperatoria risultano interessanti i flussimetri aortici che misurano la gettata cardiaca con metodica Doppler (Cardio Q – Medival, Hemosonic – Arrow). Nel Medival (Hemosonic) il problema della esatta determinazione della sezione dell’aorta viene brillantemente superato dalla misura diretta della stessa con metodica ecografica M-mode. Questo strumento misura inoltre i tempi sistolici battito-battito, integrando la misura del volume sistolico con quella di parametri pre-
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stazionali stabili come il PEP (pre-ejection period) e il PEP/LVET (pre-ejection period/left ventricular ejection time). Il Doppler aortico necessita di una sonda esofagea simile a quella usata per la TEE, che è mal tollerata dal paziente in risveglio. Questo sistema, validissimo nella fase intraoperatoria, non è adatto per il paziente sveglio e non consente né la valutazione preoperatoria, né lo studio dell’emodinamica all’induzione, né lo studio postoperatorio.
14.4.3 Ecocardiografia transesofagea (TEE) La sorveglianza del cuore in chirurgia dell’aorta trova una risposta globale nell’ecografia transesofagea, che incontra consensi sempre più vasti nonostante l’impegno umano e di risorse che richiede. Rispetto al PAC, la TEE fornisce un numero maggiore di indicazioni, che peraltro risultano complementari e non alternative al monitoraggio emodinamico invasivo. La TEE si dimostra maggiormente efficace nel riconoscere una disfunzione ventricolare sinistra, un’ischemia miocardica o uno stato ipovolemico, mentre l’invasività (PAC) è in grado fornire una miglior valutazione dello stress parietale del ventricolo sinistro e delle condizioni pressorie a rischio di edema polmonare (Kaplan e Wells, 1981; Wyatt et al., 1981). La gettata cardiaca è ottenibile con la TEE, che peraltro non si dimostra un mezzo pratico a questo scopo: i tempi di studio sono eccessivi per un impiego in ambito di monitoraggio, sono necessarie finestre dedicate, e l’attenzione viene distolta dalle ben più significative indicazioni morfofunzionali. La TEE è invece peculiare per la valutazione della funzionalità cardiaca, ottenibile in tempo reale e in continuo. A livello dei muscoli papillari – nella proiezione transgastrica in asse corto – nei segmenti inferiore, laterale, anteriore e settale della parete miocardica vengono rappresentate le tre coronarie, e questo ottimizza la possibilità di monitorizzare la cinesi segmentaria (RWM, regional wall motion, mobilità regionale di parete) del ventricolo sinistro (Smith et al., 1985). La definizione quantitativa della RWM deriva dalla definizione della parete ventricolare sinistra, dopo aver ottenuto i profili epicardico ed endocardico: si può calcolare la percentuale di ispessimento sistolico (SWT, systolic wall thickening) nel seguente modo: SWT = ESWT – EDWT/(EDWT × 100) dove ESWT (end systolic wall thickening) e EDWT (end diastolic wall thickening) sono gli spessori telesistolico e telediastolico della parete miocardica. Dato che le anomalie della cinesi parietale segmentaria e i decrementi dell’ispessimento parietale sistolico sono i segni più precoci di un’insufficiente irrorazione coronarica, la TEE si rivela il mezzo più adatto per identificare precocemente l’ischemia miocardica intraoperatoria.
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Queste alterazioni precedono nel tempo le alterazioni elettrocardiografiche – che non si verificano prima di un decremento del 75% del flusso – ed emodinamiche: l’ipocinesia compare dopo la riduzione del 50% del flusso coronarico (Clements et al., 1990). Il precarico ventricolare sinistro può essere facilmente misurato mediante il calcolo dell’area telediastolica (EDA, end diastolic area), che – a fronte di alcune assunzioni – corrisponde al volume telediastolico ventricolare sinistro (LVEDV, left ventricular end diastolic volume). La determinazione dei profili cavitari in diastole e in sistole (ESA, end systolic area) sono facilitati da procedure automatiche, anche battito-battito (come l’AQ, acoustic quantification). Dal confronto fra le due aree è facilmente computabile la modificazione frazionale dell’area (FAC, fractional area change): FAC = EDA – ESA/(EDA × 100) che presenta un’elevata correlazione con la frazione di eiezione del ventricolo sinistro misurata con tecnica radionucleare (Robin, 1985). La combinazione della tecnica a ultrasuoni e del color Doppler nello stesso strumento (TEE) permette di valutare la funzione diastolica del ventricolo sinistro in modo superiore a qualsiasi altra metodica: l’alterato rapporto fra il flusso transmitralico proto- e telediastolico, con incremento progressivo di quest’ultimo (onda A) fino al superamento del primo (onda E), è patognomonico di un alterato rilasciamento diastolico (inversione del rapporto E/A, valore normale 1,5).
14.4.4 PiCCO Il sistema PiCCO (pulse contour cardiac output), capostipite del monitoraggio emodinamico-volumetrico, è caratterizzato da una minore invasività rispetto al PAC e dalla possibilità di ottenere una quantificazione di indici volumetrici di precarico e di funzionalità cardiaca. Il PiCCO oltre alla valutazione in continuo “battito-battito” della CO, mediante analisi del contorno del “polso arterioso” (pulse contour), della pressione arteriosa sistemica, della frequenza cardiaca, del dP/dmax e della stroke volume variation (SVV, vedi successive indicazioni) consente anche la determinazione di parametri volumetrici, in particolare del global end diastolic volume (GEDV), riconosciuto indice di precarico. I valori di intrathoracic blood volume (ITBV) ed extravascular lung water (EVLW) completano l’analisi volumetrica offrendo una guida al trattamento intraoperatorio (e nel postoperatorio in Terapia Intensiva) del paziente critico basata su indici affidabili della performance cardiaca (CFI, indice di funzionalità cardiaca), del precarico (GEDV) e dell’eventuale danno di membrana alveolo-capillare (EVLW). Da un punto di vista strettamente pratico, prevede la disponibilità di un catetere venoso centrale giugulare o succlavio e di un catetere arterioso (con termistore specializzato) in arteria femorale.
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14.4.5 Monitoraggio emodinamico funzionale: risposta alla terapia Nella maggior parte dei casi di inadeguatezza del cardiocircolo è presente una deficitaria disponibilità di O2 (ridotto DO2), per cui la sua normalizzazione diviene il principale obiettivo della terapia. Nel paziente emodinamicamente instabile la risposta da dare è di solito se, e quanto, la gettata cardiaca migliorerà in funzione del carico fluidico; in altri termini andrà verificata la risposta al carico (fluid responsiveness). Il monitoraggio emodinamico volto a valutare l’effetto della terapia è noto come monitoraggio funzionale, in quanto implica un’applicazione terapeutica: per questo motivo esso consiste nella maggior parte dei casi nella lettura di una risposta a un trial terapeutico. Uno dei metodi più diffusi è la somministrazione di un bolo standard (250 di cristalloidi in 5 minuti) endovenoso osservando la variazione dallo stato basale di pressione arteriosa, frequenza cardiaca e gettata cardiaca, saturazione in ossigeno del sangue venoso misto (o centrale): la responsività ai fluidi viene definita da un progresso significativo, con un delta di almeno il 15%. Un surrogato semplice e innocuo per simulare un test di riempimento al bolo fluidico è rappresentato dal sollevamento degli arti inferiori (leg raising test), dove lo spostamento dalla periferia al centro di un quantitativo di sangue fra 200 e 300 ml può essere monitorizzato con indicatori come il volume sistolico battitobattito o, in modo meno specifico, con modificazioni della frequenza cardiaca o della pressione sistolica sistemica. Nei pazienti ventilati meccanicamente la pressione positiva altera in modo ciclico il gradiente per il ritorno venoso sistemico, riducendo la gettata sistolica del ventricolo destro successiva e, dopo 2-4 sistoli, anche il riempimento e la gettata sistolica del ventricolo sinistro. Nei pazienti responsivi al carico fluidico, le variazioni cicliche indotte dalla ventilazione possono essere sfruttate da metodiche di misura in grado di misurare la gettata sistolica battito-battito (PiCCO, Vigileo).
14.5 Studio perioperatorio nei pazienti a maggior rischio È evidente come il paziente candidato a chirurgia aortica maggiore sia un soggetto nel quale concomitano le problematiche della chirurgia maggiore e quelle delle patologie proprie del soggetto e non direttamente collegate all’atto chirurgico. Questo tipo di paziente è comunemente un vasculopatico di grande impegno, con deficit ischemici o subischemici d’organo, acuti o cronici, attuali o in esiti, a livello renale, cardiaco, cerebrale, viscerale.
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Col progredire della gravità e degli scompensi (non si dimentichi la cospicua quota di diabetici che va incontro a questo tipo di chirurgia) il monitoraggio non invasivo può cessare di rappresentare la scelta migliore, e l’opzione di un monitoraggio invasivo o maggiormente sofisticato può rendersi necessaria. Il PAC ritorna a essere una scelta prioritaria nei pazienti a elevato rischio (chirurgia maggiore nell’anziano, previsione di grosse perdite ematiche), specie in presenza di un IMA recente o se il paziente ha avuto un episodio recente e certo di insufficienza cardiaca, o se ha una coronaropatia sintomatica per angina instabile, o nei cardiomiopatici (Pinsky e Payen, 2005). Se il PAC può essere considerato il simbolo del modo invasivo di monitorizzare lo stato emodinamico di un paziente, e il TEE lo standard del non invasivo (o quasi non invasivo), la nuova frontiera del monitoraggio può essere denominata “monitoraggio terapeutico”. Il monitoraggio diventa terapeutico quando i suoi dati possono essere impiegati per guidare le modificazioni del trattamento: l’importante traslato delle moderne metodiche di monitoraggio è di correlare le misure di flusso (gettata cardiaca e correlati) e di disponibilità di ossigeno alle risposte tissutali e alle controrisposte regolatorie dell’organismo.
14.5.1 Tonometria gastrica Rappresenta uno standard nella valutazione della perfusione splancnica: nel contesto di una sindrome da bassa portata l’intestino è l’organo maggiormente esposto a vasocostrizione, cui consegue elevato rischio di ischemia mucosa, disturbata funzione di barriera, aumento della permeabilità di membrana e traslocazione batterica. La tonometria gastrica consente di monitorizzare il pH mucoso (pHi), di studiarne le diminuzioni a seguito di ipoperfusione, di studiare le variazioni del differenziale PrCO2-PaCO2 e di osservare questi dati in risposta ai tentativi di correzione con amine o terapia fluidica. Lo studio della performance cardiaca e dell’emodinamica del circolo (PAC, TEB, TEE) si è spostata perciò verso il monitoraggio dei tessuti e del metabolismo degli organi (SvO2, tonometria gastrica, capnografia o capnometria di flusso). Questo porta direttamente al “nucleo centrale” del problema emodinamico, e obbliga l’anestesista e l’intensivista a un approccio più eziologico e innovativo.
14.6 Monitoraggio e protezione renale in corso di chirurgia aortica La chirurgia vascolare è spesso complicata da disfunzioni renali postoperatorie che, in base all’entità del danno, possono restare subcliniche o evolvere verso l’insufficienza renale (IRA).
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L’insufficienza renale è una delle più gravi complicanze dopo interventi di chirurgia vascolare maggiore; la sua incidenza non si è modificata nelle ultime due decadi, nonostante significativi progressi nelle tecniche chirurgiche e anestesiologiche (Swaminathan e Stafford-Smith, 2003). In uno studio prospettico condotto su 475 pazienti, Godet et al. (1997) ne riportano un’incidenza del 20-25% dopo chirurgia aortica.
14.6.1 IRA: fattori di rischio preoperatori I principali fattori di rischio preoperatori di IRA sono: – predisposizione genetica; – insufficienza renale preesistente (Conlon et al., 1999; Chertow et al., 1997). La prevalenza dell’IRC varia tra il 3 e il 20% dei pazienti sottoposti a intervento di aneurismectomia dell’aorta addominale. Sono pazienti spesso ipertesi o diabetici che presentano un flusso ematico renale ridotto per aterosclerosi o stenosi dell’arteria renale, spesso con ridotta massa nefronale attiva per patologie correlate all’età. Ne deriva una ridotta riserva funzionale con diminuita capacità di reagire a insulti intraoperatori.
14.6.2 IRA: fattori di rischio intraoperatori Ai fattori di rischio preesistenti si aggiungono eventi intraoperatori che possono precipitare la disfunzione renale: – compromissione emodinamica; – danno da mezzo di contrasto; – insulti ateroembolici; – danno da ischemia-riperfusione; – danno da attivazione di processi di flogosi.
14.6.2.1 Compromissione emodinamica Tutti gli interventi di chirurgia vascolare sono ad alto rischio emorragico e possono richiedere abbondante fluidoterapia. La corticale renale riceve la principale quota di flusso ematico e regola la filtrazione glomerulare, la midollare riceve minore flusso ematico, ma necessita di un adeguato apporto di O2 per le attività metaboliche di concentrazione delle urine.
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Tabella 14.2 Fattori di rischio per nefropatia da mezzo di contrasto • Insufficienza renale cronica • Diabete mellito • Età avanzata • Disidratazione preoperatoria • Impiego di alti volumi di mdc • Uso perioperatorio di altri farmaci nefrotossici
Già in condizioni basali consuma la maggior parte della quota di O2 che riceve, per cui in caso di ipoperfusione – per esempio in fase di clampaggio aortico – il rischio di danno ischemico da discrepanza è elevato (Brezis e Rosen, 1995).
14.6.2.2 Danno da mezzo di contrasto Il mezzo di contrasto (mdc) altera la perfusione renale attraverso due meccanismi principali: la vasocostrizione e la discrepanza tra ridotto apporto di sangue alla midollare e incrementato consumo, in relazione al maggiore carico osmotico (Heiman et al., 1999). L’impiego del mdc si è notevolmente incrementato con l’introduzione delle metodiche endoprotesiche nelle quali il posizionamento è completamenta seguito e guidato in visione scopica, opacizzando i vasi interessati. La nefropatia da mezzo di contrasto (CIN, contrast induced nephropathy) è definita come un aumento assoluto della creatinina sierica di oltre 44 mmol/l, o un incremento relativo del 25% dal valore basale, quando possono essere escluse altre possibili cause di disfunzione renale (Barrett e Parfrey, 2006; Morcos, 1998). È correlata all’uso di mdc derivati benzenici con 3 atomi di iodio; nuovi composti idrosolubili e con minore osmolarità determinano ridotta incidenza di CIN in pazienti ad alto rischio (Tabella 14.2) (Pichel e Serracino-Inglott, 2008). Particolarmente importante è il grado di insufficienza renale preoperatoria: i pazienti con valori di creatinina basale >2,5 g/dl sembrano avere una maggiore incidenza di mortalità perioperatoria, di complicanze cardiache e renali e una degenza in Terapia Intensiva prolungata rispetto ai pazienti con valori preoperatori di creatinina nella norma (Park et al., 2006).
14.6.2.3 Insulto ateroembolico La sede e l’estensione degli ateromi lungo l’aorta sono strettamente associate all’insorgenza di disfunzioni renali postoperatorie: i reni sono particolarmente suscettibili al rischio ateroembolico durante le manovre di manipolazione aortica.
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14.6.2.4 Danno da ischemia-riperfusione Il deficit di perfusione renale può derivare da ipotensione o ipoperfusione per instabilità emodinamica. Pazienti in terapia con ACE-inibitori sottoposti a chirurgia aortica sono a maggiore rischio di disfunzioni renali postoperatorie poiché il sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRA) non riesce a compensare il deficit perfusionale.
14.6.2.5 Danno da attivazione dei processi flogistici Durante la fase del clampaggio aortico si ha drastica riduzione nella perfusione dei visceri addominali, in particolare del tratto gastrointestinale e del rene. Le tossine rilasciate dalla mucosa intestinale poco perfusa – endoteline, tromboxani (TXA2), leucotrieni (LT), prostaglandine (PGF2) – determinano contrazione dell’arteriola afferente e delle cellule mesangiali, danno tubulare diretto, lesioni dell’endotelio e trombosi microvascolari (Badr, 1992). Il danno endoteliale, a sua volta, determina perdita della produzione di molecole vasodilatatrici locali, quali ossido nitrico (NO) e prostaciclina (PC): la vasocostrizione intrarenale determina una riduzione della perfusione del viscere (Wardle, 1994).
14.6.3 IRA: prevenzione Il metodo migliore per prevenire la disfunzione renale postoperatoria è la prevenzione della stessa. Di fatto è opportuno: – ottimizzare la funzione renale: i pazienti ad alto rischio di sviluppare insufficienza renale nel postoperatorio potrebbero trarre beneficio da sedute di dialisi nel preoperatorio; – preferire le procedure endovascolari alle tecniche open: la ridotta manipolazione aortica abbrevia i tempi di ischemia renale e garantisce minore rilascio di citochine (Carpenter et al., 2001; Elmarasy et al., 2000; Wijnen et al., 2001; Sweeney et al., 2002). La durata del clampaggio aortico è il principale indice predittore di disfunzione renale postoperatoria, soprattutto se supera i 50 minuti (Wahlberg et al., 2002); – contenere l’utilizzo del mdc; – garantire abbondante fluidoterapia; – garantire buona protezione renale intraoperatoria. Nessuno dei farmaci usati a tale scopo negli ultimi 20 anni è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense: non è stata dimostrata l’efficacia terapeutica né della dopamina a basso dosaggio, né dei diuretici dell’ansa, né del mannitolo. Solo per
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il fenoldopam – agonista selettivo dei recettori D1 del circolo splancnico e renale – è stata verificata una reale azione protettiva contro lo sviluppo della nefropatia da mdc (Tumlin et al., 2002; Chamsuddin et al., 2002).
14.7 Protezione del midollo in corso di chirurgia dell’aorta toracica Negli interventi di chirurgia vascolare che interessano l’aorta toracica discendente o l’aorta toracoaddominale, il midollo spinale è spesso a rischio di danni ischemici o infartuali: paraplegia e paraparesi sono importanti complicanze di queste procedure. L’esclusione temporanea o permanente della perfusione alle arterie midollari che viene indotta nella sostituzione protesica di tratti dell’aorta toracica o dal posizionamento di graft endovascolari è alla base di danni ipoperfusivi delle strutture nervose, con una maggiore incidenza nel caso di trattamento toracotomico di aneurismi dell’aorta toracica (8-28% vs 4-7% dei trattamenti endovascolari) (Greenberg et al., 2008). Nella Figura 14.1 viene presentato un algoritmo per la gestione di una sospetta lesione ischemica del midollo.
Monitoraggio neurologico intraoperatorio con SSEP o MEP
Esame obiettivo neurologico
1. Reimpianto delle arterie segmentali 2. MAP >90 mmHg (vasoattivi) 3. CSF <10 mmHg (cateterismo spinale lombare) 4. Monitoraggio neurologico seriato
Miglioramento
Prosecuzione del trattamento
Nessun miglioramento
1. MAP >95 mmHg 2. MAP >100 mmHg 3. MRI
Fig. 14.1 Algoritmo gestionale per una sospetta ischemia midollare.CSF, liquido cerebrospinale; MAP, pressoen arteriosa media; MEP, potenziali evocati motori; MRI, risonanza magnetica; SSEP, potenziali evocati somatosensoriali
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Le possibilità di prevenzione sono sia chirurgiche che anestetiche e includono il ricorso alla chirurgia endoprotesica a cielo chiuso non appena possibile, un bypass cardiaco parziale, l’ipotermia intenzionale, il reimpianto dei vasi segmentari deconnessi o esclusi, il drenaggio liquorale (tarato sulla misurazione della pressione liquorale effettuata da un catetere in spazio subaracnoideo), l’incremento intenzionale della pressione di perfusione e il monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio. Nonostante i progressi del monitoraggio strumentale della perfusione midollare e l’avanzamento delle tecniche chirurgiche, l’incidenza delle complicanze midollari resta elevata (Ashish et al., 2010).
14.8 Monitoraggio in corso di chirurgia carotidea Gli interventi di endoarteriectomia carotidea sono accompagnati da un’incidenza di ictus perioperatorio che va dal 2 al 5% (North American Symptomatic Carotid Endoarterectomy Trial, 1991). Le cause di stroke più significative sono l’ischemia da clampaggio carotideo prolungato, la trombosi carotidea intra- o postoperatoria e la sindrome da iperperfusione postoperatoria (Riles et al., 1994). I sistemi più utilizzati nel monitoraggio intra- e perioperatorio sono lo studio dell’emodinamica cerebrale (Doppler transcranico, pressione carotidea reflua), il monitoraggio del metabolismo di ossigeno cerebrale (SjO2, near-infrared spectroscopy) e il monitoraggio dello stato funzionale cerebrale (elettroencefalografia e potenziali evocati).
14.8.1 Doppler transcranico (TCD) Viene utilizzata una sonda Doppler pulsata da 2 MHz collocata in posizione temporale in modo da consentire l’insonazione dell’arteria cerebrale media (ACM) omolaterale alla carotide operata. La sonda viene fissata al capo del paziente e la velocità del flusso viene registrata durante l’intervento e nell’immediato postoperatorio. La velocità considerata critica per la decisione di posizionare uno shunt è <40 % rispetto al valore basale (Spencer et al., 1992).
14.8.2 Pressione carotidea reflua (stump pressure) Si tratta di una misura della pressione presente nell’arteria carotide interna eseguita attraverso un ago posto a valle del clampaggio e quindi collegato a un trasduttore di pressione. In tal modo viene valutata l’efficacia del compenso fornito dalle anasto-
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mosi del circolo di Willis: il valore identificato come critico per il posizionamento di shunt è <30 mmHg. Studi comparativi fra stump pressure e TCD hanno dimostrato come il TCD fornisca una misura più accurata della situazione emodinamica intracranica: i due dati andrebbero quindi abbinati, ma quest’ultimo, da solo, potrebbe dare indicazioni all’uso dello shunt intraoperatorio (Spencer et al., 1992).
14.8.3 Near-infrared spectroscopy (NIRS) Si tratta di una tecnica non invasiva utile per osservare in tempo reale le variazioni dell’ossigenazione cerebrale regionale. Si basa sulla capacità di luce con lunghezza d’onda di circa 700-1000 nm (near-infrared) di penetrare attraverso cuoio capelluto, teca ossea e tessuto cerebrale per una profondità di alcuni centimetri. La luce viene assorbita in modo diverso dall’emoglobina ossigenata (HbO2), dall’emoglobina deossigenata (Hb) e dal citocromo aa3 (CytOx): la quantificazione dell’attenuazione è ottenuta utilizzando la spettroscopia. La misura si ottiene posizionando dei sensori sulla fronte del paziente: si rilevano in tal modo le concentrazioni relative di HbO2, Hb e CytOx, ed in più è fornito in continuo il TOI (tissue oxygen index), rapporto fra emoglobina ossigenata ed emoglobina totale. Il NIRS è pertanto uno strumento utile per identificare momenti di desaturazione cerebrale in corso di clampaggio carotideo durante gli interventi di endoarteriectomia carotidea: una caduta del TOI ≥13% è indice di grave ischemia cerebrale (Al-Rawi e Kirkpatrick, 2006).
14.8.4 Elettroencefalografia (EEG) e potenziali evocati somato-sensoriali (SSEP) Il monitoraggio con EEG può essere effettuato tramite la registrazione tradizionale e mediante l’applicazione della trasformata rapida di Fourier (FFT, fast Fourier transform); tale monitoraggio ha molti limiti, fra cui quello di riconoscere l’ischemia solo nel 59,4% dei casi in pazienti svegli, la necessità di personale con esperienza per la sua interpretazione, la grande frequenza di artefatti e la significativa influenza dei farmaci anestetici (Guarracino, 2008). Allo stesso modo l’uso dei SSEP tramite stimolazione del nervo mediano controlaterale al lato dell’intervento e la registrazione nella regione corticale omolaterale (C3’ e C4’) ha dimostrato un’accuratezza modesta (Moritz et al., 2007).
14.9 Conclusioni Negli ultimi anni sono state introdotte importanti innovazioni nelle procedure di chirurgia vascolare maggiore, sia in campo chirurgico – posizionamento di endo-
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protesi con accessi mininvasivi, sia in campo anestesiologico – tecniche di anestesia loco-regionale. Nonostante questi miglioramenti, la patologia cardiovascolare rimane ancora oggi la principale causa di insorgenza di complicanze postoperatorie e di incremento di mortalità in pazienti sottoposti a tali interventi. Resta dunque essenziale il ricorso a un accurato monitoraggio intraoperatorio e postoperatorio per la prevenzione delle più comuni complicanze perioperatorie in pazienti vasculopatici e coronaropatici.
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Riassunto La gestione del paziente sottoposto a chirurgia polmonare è composta da una parte di base, identica a quella di chiunque sia sottoposto ad anestesia, e da una parte specifica per il tipo di chirurgia. Gli studi preoperatori della funzione respiratoria, la conoscenza delle modificazioni indotte dal decubito laterale e dalla ventilazione monopolmonare, l’osservazione dei valori che i monitor ci forniscono e l’inquadramento in questa branca specialistica del monitoraggio standard sono tutti utili a ottimizzare la performance del paziente sia in sala operatoria che nel postoperatorio. La terapia del dolore adeguata e il monitoraggio corretto dopo il rientro in reparto permettono di rendere il più veloce possibile il recupero del paziente, permettendo una tempestività d’azione che evita le complicanze prevenibili.
15.1 Introduzione Per quanto possa sembrare superfluo ribadirlo, nella professione anestesiologica va sempre tenuto conto che il paziente non è “limitato” al settore anatomico sul quale interviene il chirurgo. Dal momento che questo è vero per qualsiasi paziente che affronta l΄anestesia, anche per quello che viene sottoposto a chirurgia polmonare si applicano le ordinarie prassi e regole che, in scienza e coscienza, sono dovute a tutti. Poiché queste costituiscono la base della nostra professione, è utile in questa sede soffermarsi sugli aspetti che caratterizzano in maniera peculiare la chirurgia polmonare, in particolare quella resettiva per neoplasia. Nella fattispecie sono: – alcuni aspetti della valutazione preoperatoria; – la gestione intraoperatoria con particolare riferimento al decubito laterale e alla ventilazione monopolmonare; Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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– l´utilizzo della tecnologia per il monitoraggio intraoperatorio; – la gestione del dolore postoperatorio; – la prevenzione delle complicanze postoperatorie.
15.2 Valutazione preoperatoria Dal momento che il maggior numero di interventi che si eseguono sul polmone è di chirurgia resettiva, anche la valutazione anestesiologica deve tener conto delle ripercussioni che la rimozione di una parte di parenchima polmonare possono avere sull’organismo. Se da un lato è vero che il giudizio di operabilità rimane di competenza del chirurgo e come tale un paziente viene riferito all’anestesista solo dopo essere stato giudicato operabile, è pure vero che la conoscenza dello stato del paziente ci guida nelle opzioni di gestione intra- e postoperatoria, come ad esempio la necessità di prospettare il ricovero in terapia intensiva piuttosto che il rientro in reparto dopo l´intervento o la tipologia di terapia antalgica prevista (Slinger e Johnston, 2000; 2005) Vi sono linee guida che suggeriscono che la presenza di broncopneumopatia cronica ostruttiva, il fumo di sigaretta, l’età superiore ai 60 anni, la valutazione di grado anestesiologico ASA 2 o superiore, l’incapacità funzionale di svolgere le attività quotidiane e lo scompenso cardiaco congestizio, nonché la durata dell’intervento superiore a 3 ore, un intervento di chirurgia toracica, l’utilizzo dell’anestesia generale e il valore di albumina sierica inferiore a 35 g/l depongano per un aumento del rischio di complicanze respiratorie postoperatorie (Qaseem et al., 2006). La funzione respiratoria viene valutata preoperatoriamente con lo scopo di prevedere l’andamento del paziente dopo la resezione polmonare: nessun test singolo, però, è sufficiente per rispondere a tale necessità. I test che si eseguono rientrano in tre categorie: – test di meccanica respiratoria, sulla cui base e stimando la quantità di parenchima polmonare rimosso, si può prevedere la percentuale di volume espiratorio forzato postoperatorio (ppoFEV1) rispetto a quello preoperatorio (Nakahara et al., 1988); – test di funzione parenchimale polmonare, come la diffusione del monossido di carbonio (DLCO), della quale si stima la percentuale postoperatoria prevista (Amar et al., 2010); – l’interazione cardiopolmonare, da cui si stima il consumo di ossigeno massimo (VO2 max), come il test ergometrico o la più semplice misura della saturazione arteriosa dell’emoglobina con pulsossimetro (SpO2) dopo una camminata di 6 minuti: la diminuzione dell’SpO2 di oltre il 4% rispetto al valore di base indica una ridotta tolleranza allo sforzo (Weisman, 2001). Sebbene esistano anche ulteriori indagini, come la scintigrafia ventilatoria/perfusoria, oppure lo studio della funzione cardiovascolare con ecocardiografia e occlu-
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sione selettiva di bronchi (Weisman, 2001), la combinazione dei test di cui sopra è di solito sufficiente per guidare lo svezzamento graduale dal respiratore, necessario per chi ha ppoFEV1 <30%, non preventivato per chi ha ppoFEV1 >40% e da valutare in funzione degli altri test per chi ha ppoFEV1 incluso fra il 30 e il 40%. Si può concludere ricordando che la maggior parte dei pazienti che presentano un tumore del polmone sono fumatori e che gli interventi toracotomici sono spesso vessati dall’insorgenza di aritmie cardiache: l’anamnesi cardiologica non va mai, pertanto, trascurata; ma al di là di questa, dell’esame fisico e dell’elettrocardiogramma, altre indagini cardiologiche non dovrebbero essere considerate routinarie, bensì riservate a casi particolari indicati dallo studio di base.
15.3 Gestione intraoperatoria 15.3.1 Zone di West La fisiologia è la base della comprensione della distribuzione dei gas respiratori e del flusso ematico polmonare nelle varie zone del polmone (West, 2000). A seconda della relazione fra la pressione alveolare (PA), quella arteriosa polmonare (Pa), quella venosa polmonare (Pv) e quella interstiziale (Pint), si possono descrivere quattro zone, che dall’apice verso la base in ortostasi, seguendo il verso della forza di gravità, sono: – la zona 1, in cui PA > Pa > Pv: la pressione alveolare in eccesso rispetto a quella arteriosa può determinare un arresto di flusso e quindi la creazione di spazio morto fisiologico; – la zona 2, in cui Pa > PA > Pv: il flusso dipende dalla differenza fra la pressione arteriosa e quella alveolare, anziché fra quella arteriosa e quella venosa; – la zona 3, in cui Pa > Pv > PA: il flusso è canonicamente regolato dalla differenza fra la pressione arteriosa e quella venosa; – la zona 4, non sempre presente, in cui Pint > Pa > Pv > PA: il flusso è regolato dalla differenza fra pressione interstiziale e pressione arteriosa. Inoltre la ventilazione delle basi polmonari, sempre in ortostasi, è maggiore rispetto a quella degli apici, nonostante il peso dei polmoni stessi, poiché la curva di compliance polmonare è nella sua porzione ripida quando riferita alle basi, le quali hanno più “possibilità” di espandersi rispetto agli apici, che sono invece già relativamente espansi a inizio inspirazione. La ventilazione e la perfusione polmonari aumentano entrambe dall’apice verso la base del polmone in posizione eretta, ma la perfusione aumenta più velocemente della ventilazione, sicché il rapporto fra ventilazione e perfusione diminuisce strada facendo, prima velocemente, poi più lentamente. La parte basale del polmone è pertanto più perfusa che ventilata e quella apicale più ventilata che perfusa. In considerazione delle curve di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno e per
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l’anidride carbonica, quando il sangue passa attraverso alveoli non ventilati, trattiene anidride carbonica e non prende ossigeno; quando transita attraverso alveoli iperventilati, cede anidride carbonica in grande quantità, ma non può ricevere ossigeno oltre la capacità dell’emoglobina.
15.3.2 Decubito laterale In somma sintesi, nel decubito laterale si osserva la medesima distribuzione della ventilazione e della perfusione, secondo la teoria di West. Tuttavia, trovandosi ora i polmoni a essere uno dipendente e l’altro no, le zone non sono più distribuite simmetricamente su entrambi i polmoni, bensì in maniera diversa nell’un polmone e nell’altro. In pratica, il polmone non dipendente rappresenterà la porzione apicale e media del polmone di West (zone 1 e 2), mentre il polmone dipendente ne rappresenterà la porzione media e basale (zone 2 e 3). In corso di anestesia generale, a paziente curarizzato e a torace aperto, risulterà pertanto che (Triantafillou et al., 2005): – il polmone non dipendente sarà meno perfuso, giacché per gravità il sangue si sposterà nel polmone dipendente, mentre la ventilazione sarà migliore poiché l’apertura del torace ne permette una maggior distensibilità; – il polmone dipendente sarà più perfuso, sempre per effetto della gravità, ma meno ventilato a causa del peso dell’emisoma e della compressione da parte del mediastino e dei visceri addominali (il diaframma paralizzato non oppone resistenza!). L’insieme di queste componenti, sommate al blocco della clearance mucociliare da parte degli anestetici, può causare atelettasie.
15.3.3 Ventilazione monopolmonare Quando il polmone non dipendente è escluso, lo shunt, cioè la perfusione in assenza di ventilazione, aumenta, dal momento che tutto il sangue che vi transita non scambia gas respiratori. Come detto sopra, il polmone ventilato può compensare quello non ventilato in termini di eliminazione di anidride carbonica, ma non in termini di captazione di ossigeno. Se da un lato la gravità stessa, le manovre chirurgiche ed eventualmente anche la malattia polmonare collaborano a ridurre il flusso ematico al polmone non dipendente (quindi riducendo anche lo shunt!), dall’altro interviene un meccanismo denominato vasocostrizione ipossica che determina l’aumento di resistenza dei vasi nelle zone meno ventilate, deviando il flusso ematico verso quelle più ventilate. Gli anestetici inalatori sembrano inibire parzialmente questo meccanismo negli esperimenti in laboratorio, tuttavia senza manifestazioni cliniche in vivo. Gli anestetici endovenosi, invece, sono totalmente privi di effetto sulla vasocostrizione ipossica. L’ipercapnia, la diminuzione della frazione inspirata di ossigeno (FiO2) e l’aumento di pressione delle vie aeree nel polmone ventilato, i vasocostrittori – agendo prevalentemente sulle
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zone normoossigenate – e l’ipotensione farmacologicamente indotta, possono tutti ridurre l’efficacia della vasocostrizione ipossica, riportando il flusso verso il polmone escluso.
15.4 Cosa osservare durante l’intervento 15.4.1 Frequenza e ritmo cardiaci Parte del monitoraggio standard, la funzione elettrica del cuore è particolarmente importante in corso di chirurgia polmonare per due motivi: 1. come specificato nel paragrafo sulla valutazione preoperatoria, i pazienti affetti da tumore al polmone sono molto spesso fumatori e pertanto hanno implicitamente anche un fattore di rischio per patologia cardiovascolare. Ne può conseguire una riserva coronarica inferiore rispetto alla norma, che si può manifestare sotto forma di segni elettrici di ischemia in corso di ipossiemia, la quale non è infrequente durante la ventilazione monopolmonare; 2. le aritmie (Singer e Johnston, 2005) sono complicanze frequenti degli interventi resettivi polmonari, particolarmente quando la chirurgia include la manipolazione dei grossi vasi ovvero del pericardio. Fra le aritmie frequenti, la fibrillazione atriale può comportare ipotensione, e andrebbe pertanto trattata.
15.4.2 Pressione arteriosa Può essere misurata o con lo sfigmomanometro o posizionando un catetere intravascolare per il monitoraggio invasivo. La seconda metodica è preferibile nei casi in cui siano previste grosse manipolazioni delle strutture intratoraciche, oppure quando il paziente presenti caratteristiche di cardio- e/o vasculopatia tali da far supporre che la pressione arteriosa possa subire degli sbalzi improvvisi. La presenza di un catetere arterioso permette anche l’esecuzione di prelievi per la misurazione dei gas respiratori nel sangue o emogasanalisi (EGA). L’ipotensione in corso di intervento di chirurgia toracica va valutata clinicamente e solitamente è dovuta a: 1. eccesso di farmaci anestetici generali; 2. blocco peridurale troppo potente; 3. manipolazione dei grossi vasi da parte del chirurgo; 4. riflesso per manipolazione chirurgica delle strutture intratoraciche; 5. ipovolemia. È importante ricordare che nel caso della chirurgia polmonare va valutata con
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giudizio la necessità di correggere l’ipotensione con la somministrazione di liquidi. Qualora la causa fosse effettivamente l’ipovolemia, ovviamente il trattamento non può prescindere dalla sostituzione delle perdite; tuttavia, è oramai comprovata l’associazione fra l’eccessiva somministrazione di liquidi nel perioperatorio, oltre che l’etilismo cronico e il barotrauma da ventilazione meccanica, e lo sviluppo di edema polmonare postoperatorio refrattario alla terapia nella pneumonectomia e, con minor frequenza e migliore outcome, nelle resezioni polmonari di vario genere (Licker et al., 2003), in assenza di altre cause identificabili (cardiache, infettive, tromboemboliche o da inalazione del contenuto gastrico). Un’ipotesi per evitare il sovraccarico di liquidi senza rinunciare a un volume circolante efficace sufficiente riguarda l’utilizzo di soluzione ipertonica anziché isotonica, pur con l’effetto collaterale di un transitorio aumento della concentrazione plasmatica di sodio (McAlister et al., 2010).
15.4.3 Capnografia In chirurgia toracica, così come in tutte le altre chirurgie, il capnogramma riveste molta utilità in corso di anestesia generale, ad esempio per verificare il corretto posizionamento del tubo endotracheale o come segnale di allarme di diminuita portata cardiaca ovvero di esaurimento della miorisoluzione. Tuttavia, è specifica di questa chirurgia la capnografia separata per i singoli polmoni (BhavaniShankar, 2010), grazie alla quale è possibile seguire le curve di ciascun polmone, con lo scopo di verificare che il tubo sia in sede corretta. Questo è particolarmente utile nel momento in cui non vi sia un fibroscopio prontamente disponibile e sia sospettato uno sposizionamento del tubo: in questo caso, una curva dell’endtidal CO2 (EtCO2) alterata, eventualmente associata a modificazioni nei valori delle pressioni di ventilazione, può suggerire una dislocazione del tubo e indirizzare l’anestesista verso la risoluzione del problema. Inoltre, misurando direttamente l’anidride carbonica eliminata da ciascun polmone, la capnografia bipolmonare fornisce utili informazioni sullo stato di perfusione dei polmoni (per esempio, in caso di embolia polmonare od occlusione chirurgica anche involontaria di vasi polmonari monolateralmente, il gradiente fra l’anidride carbonica arteriosa e quella espirata aumenterà notevolmente nel polmone coinvolto, ma non nell’altro). È utile, infine, segnalare due casi particolari di curva capnografica che si osservano frequentemente in chirurgia toracica: 1. una curva con la fase 3 bifasica: questo è dovuto non necessariamente ai tentativi inspiratori del paziente, come in caso di esaurimento della curarizzazione, bensì al rilascio di anidride carbonica che ha velocità diverse nei due polmoni, quando il decubito è laterale; 2. una curva che presenta la fase 3 invertita, cioè in discesa anziché in salita: è il caso di pazienti enfisematosi con ampia distruzione del parenchima polmonare.
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15.4.4 Saturazione arteriosa dell’ossigeno Crediamo che non sia un errore considerare questo parametro quello che fornisce le informazioni più specifiche in corso di intervento sul polmone rispetto a interventi che non coinvolgono quest’organo. La saturazione arteriosa dell’ossigeno viene misurata di preferenza in via continua col pulsossimetro. In caso di desaturazione in corso di intervento chirurgico, e particolarmente durante la ventilazione monopolmonare, esclusi il difetto tecnico e le anomalie di perfusione distrettuali (l’ipotermia provoca vasocostrizione periferica!), come ci si deve comportare? Classicamente l’ipossiemia viene fatta risalire a una o più delle quattro cause qui di seguito descritte.
15.4.4.1 Ipoventilazione In questa evenienza bisogna verificare sia che i parametri del respiratore siano quelli corretti, e in particolare che la FiO2 sia quella desiderata, soprattutto nei casi in cui si possono verificare incidenti come la somministrazione scorretta di protossido di azoto; sia che non vi siano cause meccaniche di ostruzione delle vie aeree, particolarmente quelle artificiali, come un tubo malposizionato o dislocato. In questo caso ci si può avvalere del capnogramma, del cambiamento delle pressioni delle vie aeree e della visione diretta col fibroscopio.
15.4.4.2 Alterata diffusione Si può manifestare, per esempio nelle broncopneumopatie croniche, per ispessimento della barriera alveolo-capillare. È una condizione che, tuttavia, dovrebbe essere stata già rilevata alla visita preoperatoria con lo studio della DLCO (diffusing capacity of the lung for carbon monoxide).
15.4.4.3 Shunt Lo shunt, ovvero la perfusione di aree non ventilate in cui il sangue non scambia gas con gli alveoli, si verifica: – nel polmone non ventilato: sempre, almeno fino a quando non si sia provveduto alla chiusura anatomica dell’arteria polmonare (in caso di pneumonectomia). Infatti, per quanto intervenga la vasocostrizione ipossica, questa non può deviare l’intero flusso del polmone non ventilato verso l’altro;
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– nel polmone ventilato: quando vi siano aree atelettasiche che, pertanto, non sono ventilate, ma rimangono perfuse. Come si può correggere questa situazione? 1. Nel caso di pazienti con un buon ritorno elastico valutato con la spirometria preoperatoria, cioè pazienti che concludono l’espirazione forzata a un volume inferiore alla capacità funzionale residua, aggiungendo una pressione positiva teleespiratoria (PEEP), che abbia lo scopo di far concludere l’espirazione alla capacità funzionale residua: questo permette di ottimizzare la resistenza vascolare del polmone ventilato, che è in questo caso al suo minimo, e quindi di limitare anche lo squilibrio nel rapporto ventilazione/perfusione dovuto alla posizione laterale e alla ventilazione monopolmonare (Slinger et al., 2001). L’applicazione di questo criterio vede, tuttavia, una limitazione tecnica nel fatto che non è semplice stabilire quale sia il valore corretto da applicare: bisognerebbe infatti poter studiare la curva pressione/volume del polmone e portare la PEEP al punto di flesso inferiore della curva di compliance. Superare questo valore può causare, infatti, iperdistensione alveolare e compressione dei vasi alveolari, simulando pertanto la vasocostrizione ipossica e rideviando il flusso ematico verso il polmone non ventilato. È stato anche suggerito (Ishikawa et al., 2010) che la compressione del polmone non ventilato migliori l’ossigenazione del sangue, spostandone il flusso sanguigno verso il polmone ventilato; tuttavia questa manovra porta a riduzione della portata cardiaca e conseguentemente del trasporto sistemico di ossigeno. Nei pazienti enfisematosi, in cui il ritorno elastico è compromesso, l’applicazione della PEEP può invece essere pericolosa se non tarata adeguatamente (Licker et al., 2009). Queste persone, infatti, presentano la cosiddetta auto-PEEP o PEEP intrinseca che quantifica la difficoltà di svuotarsi dei polmoni. Troppa PEEP può iperdistendere le pareti alveolari e traumatizzarle e rischia di “tamponare” e ostacolare il ritorno venoso; 2. Applicando una pressione positiva continua (CPAP) con un flusso continuo di ossigeno al polmone non ventilato: questo fornisce ossigeno agli alveoli e riduce lo shunt e, pur inibendo la vasocostrizione ipossica, ottiene un bilancio positivo per l’ossigenazione del sangue; 3. Applicando contemporaneamente CPAP al polmone non ventilato e PEEP a quello ventilato, secondo i criteri descritti sopra. Quale che sia la tecnica prescelta, selezionati i pazienti che possono beneficiare dell’applicazione della PEEP, questa è più efficace se utilizzata profilatticamente che non per correggere l’ipossiemia già intervenuta.
15.4.4.4 Interventi sul rapporto ventilazione/perfusione La ventilazione monopolmonare crea shunt e anche squilibrio nel rapporto ventilazione/perfusione. Per riavvicinarsi alla normalità è necessario o migliorare la ven-
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tilazione delle aree meglio perfuse, per esempio applicando CPAP e PEEP come sopra descritto, o ridurre la perfusione delle aree non ventilate, per esempio chiudendo l’arteria polmonare, anche solo temporaneamente, o eliminando i fattori prevalentemente farmacologici (se presenti!) che aboliscono o riducono la vasocostrizione ipossica. Come extrema ratio, va da sé che in caso di intolleranza alla ventilazione monopolmonare, sia necessario reintrodurre quella bipolmonare, eventualmente alternando le due, d’accordo con il chirurgo.
15.4.5 Parametri di ventilazione Sebbene siano numerosi i fattori chiamati in causa nello sviluppo del danno polmonare acuto (ALI, acute lung injury) postoperatorio (Licker et al., 2003, 2009; Fernandez-Perez et al., 2006), è oramai opinone indubbia che il trauma da ventilatore sia uno di questi. Durante la ventilazione monopolmonare, pressioni di plateau superiori a 25 cmH2O e pressioni di picco inspiratorio superiori a 35 cmH2O dovrebbero essere evitate, utilizzando volumi correnti modesti (circa 6 ml/kg di peso corporeo) e applicando PEEP estrinseca profilattica ai pazienti senza auto-PEEP, come descritto sopra, regolando infine la frequenza respiratoria per mantenere l’EtCO2 nel range desiderato (Slinger, 2006). Scegliere la ventilazione a controllo di pressione (PCV) anziché di volume (VCV) non ha dimostrato utilità in termini di prevenzione del danno alveolare (Cruz Pardos et al., 2009; Lytle e Brown, 2008).
15.4.6 Portata cardiaca Nella maggior parte dei pazienti, la stima indiretta della portata cardiaca (tramite la misurazione della pressione arteriosa e la capnografia) è sufficiente, essendo la misurazione diretta riservata a casi selezionati in cui sia nota una cardiopatia di base. Infatti, il catetere che si posiziona in arteria polmonare può risultare di intralcio alle manovre chirurgiche e, inoltre, le pressioni misurate, come anche la pressione misurata da un catetere venoso centrale, non sono accurate in corso di intervento chirurgico toracotomico (Whyte et al., 2004). Peraltro, tecnologie meno invasive, come il PiCCO (de Waal et al., 2009) o il FloTrac/Vigileo (Mayer et al., 2009) non risultano essere accurate in condizioni di torace aperto o di modificazioni emodinamiche artificiosamente indotte, ad esempio, dalle manipolazioni chirurgiche stesse. Inoltre, la sede dell’incannulamento arterioso non è indifferente (arteria radiale o arteria femorale) (Schramm et al., 2010), aspetto che nel decubito laterale rende la metodica ancor più questionabile, per cui la misurazione diretta andrebbe considerata solo quando si voglia valutare la risposta al carico di liquidi in termini di gittata pulsatoria e in condizioni di stabilità emodinamica (Camporota e Beale, 2010), condizioni che, se presenti, non pongono indicazione al monitoraggio diretto della gittata cardiaca in sala operatoria.
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15.4.7 Saturazione venosa centrale La saturazione venosa centrale (ScvO2), pur raccogliendo sangue dal distretto corporeo superiore e non dall’intero organismo, correla bene con quella mista del sangue prelevato dall’arteria polmonare, ed è mediamente di 2-3 mmHg inferiore a questa (Marx e Reinhart, 2006). Quando la richiesta di ossigeno da parte dell’organismo supera il trasporto da parte del sangue, prima aumenta l’estrazione di ossigeno (O2ER) dal sangue stesso, con conseguente diminuzione della ScvO2, e quando anche questa raggiunge il massimo possibile, s’instaura il metabolismo anaerobico (Vincent e De Backer, 2004). Nel caso della chirurgia polmonare, poiché il decubito laterale e la ventilazione monopolmonare creano uno shunt, non si può prescindere da un dato di partenza, cioè che la saturazione arteriosa di ossigeno può essere ridotta a priori, cosa che condiziona, in assenza di compenso, un calo dell’ScvO2. Se non è possibile, pertanto, misurare la portata cardiaca per poter discriminare fra una riduzione dell’ScvO2 dovuta allo shunt da quella dovuta all’alterata emodinamica, un modo seppure grossolano per valutarlo può essere calcolare l’O2ER: a estrazione di ossigeno entro range di normalità, si può presumere che l’origine sia respiratoria e quindi aumentare il contenuto arterioso di ossigeno, ad esempio migliorando la ventilazione o aumentando la FiO2 o correggendo l’emoglobinemia se è il caso; al contrario, se l’estrazione di ossigeno è aumentata, non si può escludere una componente emodinamica, e in questo caso oltre al contenuto di ossigeno, ne va migliorato anche il trasporto, cioè prendendo a target anche la portata cardiaca (Collaborative Study Group on Perioperative ScvO2 Monitoring, 2006). L’ossimetria venosa è ora considerata uno dei parametri da tenere in considerazione per decidere se trasfondere o meno un paziente con emazie una volta che l’emoglobinemia sia al di sotto dei 10 g/dl (Vallet et al., 2007; 2010); tuttavia resta ancora da chiarire se il valore dell’ScvO2 possa essere automaticamente applicato a questo scopo anche nel contesto della chirurgia polmonare.
15.4.8 Temperatura corporea Spesso sottovalutato come parametro vitale, la temperatura invece condiziona l’outcome dei pazienti al risveglio, principalmente per due motivi: 1. il recupero fisiologico della temperatura corporea richiede il brivido e il brivido consuma ossigeno (Blasco et al., 2008). Nel contesto di un possibile alterato trasporto di ossigeno dovuto alla chirurgia in questione, è opportuno che non si creino artificialmente condizioni in cui la richiesta aumenti, cosa che può portare a uno squilibrio condizionante, ad esempio, l’ischemia miocardica; 2. l’ipotermia condiziona la velocità di emersione dall’anestesia generale e l’eliminazione dei farmaci, poiché rallenta il metabolismo generale. Questo può condizionare a sua volta il recupero della funzione respiratoria, cosa altrettanto non desiderabile dopo un intervento sul polmone.
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15.4.9 Rilasciamento neuromuscolare Il monitoraggio della curarizzazione può avere un rilievo in fase di risveglio per poter valutare con sicurezza l’opportunità dell’estubazione, tenendo sempre conto che il recupero della funzione respiratoria è fondamentale in condizioni di alterazione del trasporto di ossigeno potenziale o in atto.
15.4.10 Ecografia transesofagea Pur essendo una metodica che richiede strumentazione costosa e addestramento specifico, può fornire dati utili alla gestione dell’emodinamica del paziente, valutando i volumi delle camere cardiache e la loro cinesi, senza interferire con il campo chirurgico e senza produrre gli artefatti dovuti alle manovre chirurgiche stesse. La stima qualitativa della portata cardiaca e del precarico sono eccellenti e continue (Grichnik et al., 2005).
15.5 Il postoperatorio Lo scopo del monitoraggio postoperatorio è in buona sostanza permettere di agire prima che si manifesti una complicanza. L’anestesia generale crea una riduzione della capacità funzionale residua, la formazione di aree atelettasiche e la riduzione della funzione di surfactante; contemporaneamente, l’insulto chirurgico crea lesioni ai muscoli respiratori, inibizione riflessa del nervo frenico e dolore postoperatorio (Canet e Mazo, 2010). Nel postoperatorio, poi, può manifestarsi l’effetto di una gestione intraoperatoria non ottimale con lo sviluppo di ALI (Tsushima et al., 2009).
15.5.1 La clinica e la saturimetria arteriosa La cura di un paziente non può prescindere dalla sua valutazione clinica. Nella fattispecie, il dolore, la dispnea e i sintomi dell’aritmia cardiaca (prevalentemente la fibrillazione atriale) devono indurre a valutarne l’origine per correggerla o, quantomeno nell’immediato, per trattare il sintomo. Poiché le principali complicanze parenchimali postoperatorie, come le atelettasie, causano un peggioramento degli scambi gassosi, la pulsossimetria è probabilmente il metodo più semplice per valutare in continuo gli scambi stessi. Resta scontato, tuttavia, che la desaturazione visibile al monitor può essere confermata con un prelievo di sangue arterioso da sottoporre a EGA.
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15.5.2 Il controllo del dolore Il dolore acuto causa riflessi vegetativi (tachicardia, tachipnea, elevazione della pressione arteriosa, sudorazione, rilascio di catecolamine e corticosteroidi con accelerazione del metabolismo; in una parola: stress) che hanno l’effetto di aumentare il consumo di ossigeno, esattamente ciò che non è raccomandabile in chi è stato sottoposto a chirurgia polmonare, essendo la capacità di compenso ridotta. Il dolore della ferita toracotomica, inoltre, si oppone all’espansione toracica e ostacola la capacità di tossire, riducendo quindi i volumi polmonari e l’eliminazione delle secrezioni, cosa che favorisce ulteriormente la formazione di aree atelettasiche, sulle quali può sovrapporsi un’infezione batterica. Le tecniche di analgesia loco-regionale continua risultano a tuttora essere preferibili rispetto a quelle endovenose, persino quelle a controllo del paziente (Carr e Goudas, 1999). Fra queste, la più gestibile resta sempre l’analgesia epidurale, anche se stanno prendendo piede tecniche analoghe, ma monolaterali, come i blocchi paravertebrali continui. Quale che sia comunque la scelta, l’assenza di dolore è da considerare una funzione vitale, e come tale il sintomo va valutato e corretto come tutti gli altri parametri che si rilevano dopo un intervento chirurgico (Task Force of Pain Management, 1995). A questo scopo le scale più comunemente usate sono: 1. la scala verbale semplice, che è facile da usare perché lascia libertà di espressione all’interlocutore; tuttavia impedisce il confronto fra pazienti o fra tempi diversi nello stesso paziente; 2. la scala numerica semplice, che assegna arbitrariamente il valore zero all’assenza di dolore e il valore dieci al massimo dolore immaginabile; 3. l’analogo visivo del dolore, che riporta la scala numerica su un righello sul quale il paziente indica il proprio dolore. Nella prassi ordinaria, si ritiene che un valore di scala numerica o visiva superiore a 3 richieda un intervento.
15.5.3 Monitoraggio emodinamico Dalla valutazione di base (pressione arteriosa e frequenza cardiaca, oltre che il ritmo laddove indicato) alle metodiche più invasive, lo scopo è sempre quello di interecettare le complicanze prima che si manifestino. In particolare va detto che vista la correlazione fra il sovraccarico di liquidi e il rischio di edema polmonare postoperatorio, particolarmente nelle pneumonectomie e particolarmente quelle destre, in caso di ipoperfusione indotta da analgesia peridurale, va presa in considerazione anche l’ipotesi di utilizzo di vasocostrittori. L’ecocardiografia può mostrare le disfunzioni ventricolari (Amar et al., 1996), anch’esse associate a edema polmonare postoperatorio.
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15.5.4 Pressione intratoracica Il monitoraggio del cavo pleurico dopo pneumonectomia extrapleurica può suggerire al chirurgo come intervenire sul drenaggio toracico in anticipo rispetto alla manifestazione clinica o radiologica di uno spostamento del mediastino ed evitando l’utilizzo della pressione venosa centrale, che può essere condizionata da altri fattori (Wolf et al., 2010).
15.5.5 La diuresi e i lattati L’oliguria e i lattati plasmatici sono riconosciuti come indicatori di ipoperfusione sistemica. In particolare l’oliguria va presa in considerazione poiché può rappresentare l’esordio dell’edema polmonare postoperatorio, in cui all’accumulo di liquidi nel polmone si associa ipovolemia (Slinger, 1999). In questo caso, infatti, non vanno somministrati diuretici in assenza di un adeguato monitoraggio emodinamico, per non precipitare l’emodinamica riducendo ancor più la volemia già carente.
15.5.6 Temperatura corporea Per concludere è utile ricordare che un abbassamento della temperatura corporea induce brivido con conseguente aumento del consumo di ossigeno, mentre un innalzamento può significare un processo infettivo in atto, e che anche la febbre comporta un aumento del consumo di ossigeno, condizioni entrambe non desiderabili.
15.6 Conclusioni Come si è detto, per il controllo del paziente in chirurgia polmonare non occorrono mezzi particolarmente sofisticati. Un utilizzo consapevole della pulsossimetria e della capnografia è in genere sufficiente per sorvegliare gli scambi respiratori e per consentire una tempestiva correzione delle alterazioni. Come per tutte le forme di chirurgia, tuttavia, anche per la chirurgia polmonare valgono i criteri di sorveglianza dell’apparato cardiovascolare, tenendo anche conto del fatto che spesso i pazienti sono grandi fumatori e quindi potenzialmente dei coronaropatici. Il controllo dell’ECG in fase intra- e postoperatoria è quindi indispensabile anche per cogliere prontamente l’insorgenza di aritmie, la più frequente delle quali è la fibrillazione atriale. Come sempre il controllo delle funzioni vitali in chirurgia non si deve limitare alla sorveglianza delle funzioni respiratoria e cardiaca, sebbene
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esse siano forse le più importanti, ma deve essere esteso al controllo della funzione renale, della temperatura, dell’ossigenazione e della perfusione tissutale, di cui valori critici di ScvO2 e lattato sono utili spie. Particolarmente delicato è il problema dell’infusione di liquidi che deve essere ristretto al minimo indispensabile per evitare una delle complicanze più comuni di questo tipo di chirurgia: l’edema polmonare postoperatorio.
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La donna in gravidanza
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Riassunto La gravidanza si associa a numerosi cambiamenti della fisiologia dell’organismo materno. Tali modificazioni emodinamiche, metaboliche, ormonali e strutturali costituiscono meccanismi di adattamento per il mantenimento di una favorevole omeostasi materno-fetale e devono essere note ai fini di un corretto approccio chirurgico (ASA, 2008). L’adattamento dell’omeostasi materna allo sviluppo del feto altera la riposta alla somministrazione di farmaci, analgesici e anestetici. La conoscenza di tali meccanismi è indispensabile ai fini di un’adeguata preparazione della paziente e di un corretto monitoraggio perioperatorio.
16.1 La gravidanza fisiologica 16.1.1 Apparato cardiovascolare Le modificazioni cardiovascolari e a carico del volume ematico sono tra le più evidenti modificazioni che si manifestano (Tabella 16.1). Tali cambiamenti sono in prima istanza meccanismi di adattamento atti a consentire alla donna gravida di provvedere al suo aumentato metabolismo e a quello fetale, sia durante la gravidanza sia dopo il parto. La diminuzione delle resistenze vascolari dovuta agli estrogeni e al progesterone può essere considerata il fattore iniziale. Si assiste anche a un aumento della frequenza cardiaca del 15-25% e della gettata cardiaca, con incrementi sino al 50%, conseguentemente a un significativo incremento dello stroke volume. La pressione arteriosa cala leggermente poiché la diminuzione delle resistenze periferiche supera l’aumento della gettata cardiaca. Inoltre, dal secondo triIl monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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Tabella 16.1 Riassunto delle modificazioni cardiocircolatorie fisiologiche Parametri fisiologici
Gravidanza a termine
Gettata cardiaca
Aumento del 30-50%
Volume ematico
Aumento del 30-50%
Frequenza cardiaca
Aumento di 15-20 bpm
Pressione arteriosa
Riduzione di 5-10 mmHg
Resistenze vascolari sistemiche
Riduzione
Consumo di ossigeno
Aumento del 20%
Globuli rossi
Aumento del 15-20%
bpm, battiti per minuto
mestre la compressione aortocavale da parte dell’utero gravido riduce l’efficacia del ritorno venoso al cuore, e di conseguenza diminuisce il precarico ventricolare con possibile comparsa di varici e di edemi degli arti inferiori. Da considerare anche che durante le prime settimane di gravidanza il cuore è rimodellato: si verifica in genere un ingrandimento di tutte le camere cardiache e i diametri anulari aumentano. Tali variazioni predispongono ad aritmie atriali, sopraventricolari e a cambiamenti dell’elettrocardiogramma. Una deviazione assiale sinistra è generalmente dovuta al dislocamento da parte dell’utero gravido, e spesso si registra anche la tendenza a contrazioni atriali premature, extrasistoli sporadiche, tachicardia sinusale, più raramente tachicardia parossistica sopraventricolare.
16.1.2 Apparato emopoietico L’incremento dell’attività mineralcorticoide produce ritenzione di sodio e idrica con incremento di volume di plasma e di massa circolante rispettivamente di circa il 45 e 30%. L’aumento proporzionalmente minore di globuli rossi (20%) spiega la riduzione di emoglobina, mediamente a 11-12 g/dl, ed ematocrito (35% circa) e prende il nome di “anemia fisiologica della gravidanza”. Si osservano anche leucocitosi, con valori fino a 15-18 000/mm3 in assenza di patologia, e aumento della concentrazione plasmatica di fibrinogeno fino al 50% (300-600 mg/dl). Alcuni fattori della coagulazione (VII-VIII-IX-X) aumentano, mentre PT e PTT sono lievemente accorciati. Il numero di piastrine totali (PLT) è ridotto per l’aumentato consumo.
16.1.3 Apparato respiratorio In gravidanza la ventilazione aumenta per rispondere alle necessità dell’incremento del metabolismo, a causa delle inevitabili variazioni della meccanica respirato-
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Tabella 16.2 Riassunto delle modificazioni respiratorie fisiologiche Parametri fisiologici
Gravidanza a termine
Ventilazione minuto
Aumento del 50%
Volume corrente (Vt)
Aumento del 50%
Ventilazione alveolare (Va)
Aumento del 40%
Frequenza respiratoria (FR)
Aumento del 20%
Capacità funzionale residua (FRC)
Riduzione del 20%
Volume di riserva espiratoria (VRE)
Riduzione del 20%
Volume residuo
Riduzione del 20%
Diaframma
Sollevamento di 4-5 cm
Angolo costale
Aumento del 50%
Consumo di ossigeno
Aumento del 20%
PaCO2
Diminuzione di 10 mmHg
PaO2
Aumento di 10 mmHg
Concentrazione minima alveolare
Diminuzione del 32-40%
ria e per l’aumento del progesterone. Si realizza pertanto un aumento del volume corrente da 500 a 700 ml con un limitato incremento di frequenza respiratoria (1516 atti/min), del volume minuto (VM = VC × FR = 10,2 l) e della capacità inspiratoria; per contro si assiste a una diminuzione del volume di riserva espiratoria (VRE), del volume residuo e della capacità funzionale residua (FRC), conseguente al sollevamento del diaframma e alla modificazione della gabbia toracica. Le modificazioni respiratorie sono schematizzate nella Tabella 16.2. Di fatto, la dispnea è frequente, ed è riferita da circa il 50% delle donne in gravidanza non affette da patologie respiratorie, che tuttavia in genere non interferisce con le usuali attività quotidiane, ma causa minore tolleranza allo sforzo.
16.1.4 Apparato digerente Durante la gravidanza è comune un incremento dell’appetito, ma sono frequenti nausee e vomito per diminuzione della motilità gastrica e della secrezione gastrica. Viene inoltre spesso riferita pirosi, a causa del reflusso gastroesofageo indotto dalla perdita di tono del cardias e dalla dislocazione dello stomaco. Anche la motilità intestinale si riduce a causa del progesterone e della compressione esercitata dall’utero sulle anse. La colecisti presenta contrattilità ridotta e aumentato volume residuo che facilitano l’insorgenza di calcolosi e colestasi intraepatica. Alcuni indici di funzionalità epatica sono “fisiologicamente alterati”: mentre restano invariati gli indici di danno di membrana degli epatociti (AST e ALT), è incrementata la stasi (la fosfatasi alcalina raddoppia), rimangono stabili o diminuiscono debolmente gli indici di sintesi (bilirubina, PT, PTT) e aumenta, fino a raddoppiare, il fibrinogeno.
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16.1.5 Apparato urinario Durante la gravidanza i reni svolgono un lavoro notevole, con aumento del 50% della portata plasmatica, della filtrazione glomerulare e del riassorbimento tubulare. Di conseguenza l’azotemia e la creatinina risultano ridotte, mentre la clearance della creatinina è aumentata. Si osserva aumento dell’albuminuria, tra 5 e 30 mg/die, e della proteinuria, fino a 300 mg/die, con una modesta glicosuria. Tali parametri devono essere monitorati frequentemente per evidenziare tempestivamente eventuali processi patologici.
16.1.6 Equilibrio acido-base La donna gravida iperventila, abbassando la PaCO2 da 35-40 a 30 mmHg, e provoca un’alcalosi respiratoria, parzialmente compensata dalla riduzione ematica di bicarbonati. Nonostante si registri solamente un lieve aumento del pH ematico, la curva di dissociazione dell’emoglobina si sposta a sinistra, riducendo la capacità di liberazione dell’ossigeno dal sangue materno. Tale effetto è corretto dall’aumento di 2,3-difosoglicerato negli eritrociti materni e dalla “fisiologica” acidosi intraeritrocitaria che facilita la liberazione di O2 al feto (Prowse e Gaensler, 1968).
16.2 L’ipertensione in gravidanza La valutazione preoperatoria della gravida prevede innanzitutto un attento monitoraggio emodinamico. Quadri ipertensivi non sono rari e causano incremento della morbilità e mortalità sia materna sia fetale. Ne sono maggiormente soggette le donne con un’anamnesi prenatale di diabete, nefropatia, vasculopatie o anamnesi familiare d’ipertensione (ACOG, 1996). I disordini ipertensivi in gravidanza includono l’ipertensione gravidica, di recente insorgenza, e l’ipertensione essenziale cronica, preesistente. La definizione di ipertensione è da sempre oggetto di dibattito; recentemente si è concordi nel ritenere più importante l’entità dell’incremento della PAS (pressione arteriosa sistolica) di almeno 30 mmHg e della PAD (pressione arteriosa diastolica) di almeno 15 mmHg rispetto ai valori assoluti. Misurazioni ripetute nel tempo, in almeno in due momenti differenti e in condizioni standardizzate, devono essere eseguite per valutare modificazioni significative. Il trattamento è comunque raccomandato con valori di PAS pari o maggiori a 160 mmHg, o con valori di PAD pari o superiori a 110 mmHg, e comunque anche con valori pressori inferiori se la paziente è sintomatica. La più temuta alterazione pressoria in gravidanza è costituita dalla pre-eclamp-
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sia, patologia multisistemica che si manifesta dopo la 32a settimana. È descritta dalla triade composta da edemi periferici, ipertensione arteriosa e proteinuria significativa, maggiore di 0,3 g nella raccolta urine delle 24 ore. Gli incrementi pressori sono classificati in lievi, moderati e gravi, e sono associati a ingravescenti compromissioni polmonari, cardiache, epatiche, renali e neurologiche. L’eziologia rimane a tutt’oggi sconosciuta. Si ritiene la causa più probabile l’alterato equilibrio endoteliale tra fattori vasodilatatori e vasocostrittori, a favore di questi ultimi. Gli incrementi pressori causano imbibizione tissutale con possibile interessamento polmonare e cerebrale, in particolare durante episodi di stress acuto per l’organismo, quale per esempio l’intubazione orotracheale. La proteinuria è conseguente alla glomerulonefrite da danno pressorio ed è correlata alla severità della pre-eclampsia. È quindi fondamentale in questi casi il monitoraggio della diuresi oraria, mantenendo l’output superiore a 1 ml/kg/h. Valori pressori non controllati conducono a gravi disfunzioni d’organo con comparsa di oliguria (QU <0,5 ml/kg/h), edema polmonare, incremento degli indici di danno di membrana epatica (AST/AST), trombocitopenia (PLT <100 000/mm3) e disturbi neurologici quali cefalea, scotomi visivi e alterazioni dello stato di coscienza. Il quadro clinico più allarmante è la HEELP syndrome, acronimo di emolisi (H), elevati enzimi epatici (EEL) e crollo della conta piastrinica, inferiore a 50 000/mm3 (LP). Il trattamento della gravida pre-eclamptica dipende dalla gravità dell’ipertensione, dalla presenza delle complicanze come trombocitopenia e oliguria, e dalle condizioni e dalla maturità fetale (Tabelle 16.3 e 16.4). La sofferenza del feto è, da Tabella 16.3 Schema di trattamento in pazienti ipertese Calcioantagonisti:
1a scelta nella pre-eclampsia
Verapamil
40-80 mg ogni 4-6 h × os
Nifedipina
10-20 mg ogni 4-8 h × os
Alfa-agonisti centrali: Alfametildopa
250-500 mg ogni 6 h × os
Clonidina
0,150-0,900 mg/die × os
e nella crisi ipertensiva
2a scelta
o 0,150-0,600 mg/die ev Bloccanti adrenergici periferici:
1a scelta nell’ipertensione cronica;
Atenololo
50-100 mg/die × os
alternativa all’idralazina
Labetololo
100-200 mg ogni 8 h × os
nelle forme gravi
o infusione ev fino a 160 mg/h o boli ev da 20 a 80 mg Vasodilatatori periferici: Idralazina
5 mg ev in boli successivi infusione ev 2,5-10 mg/h
Ipertensione grave e refrattaria
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Tabella 16.4 Conduzione clinica della pre-eclampsia grave Linee guida per il versante materno Parto prima possibile:
Ipertensione grave non controllata Eclampsia PLT<100 000 Necrosi epatica con dolore epigastrico Edema polmonare Insufficienza renale (Cr >4 mg/dl) Distacco di placenta Cefalea, disturbi visivi
Attesa possibile:
Ipertensione controllata Proteinuria di qualsiasi entità Oliguria che si risolve con idratazione Alterazione della funzione epatica senza dolore
Linee guida per il versante fetale Parto prima possibile:
Decelerazioni tardive ripetitive o variabili gravi AFI ≤2 cm Profilo biofisico fetalea ≤4 in due occasioni Stima ecografica del peso ≤5° percentile Reverse flow diastolico dell’arteria ombelicale
Attesa possibile
Profilo biofisico ≥6 AFI >2 cm Stima ecografica del peso >5° percentile
AFI, Amniotic fluid index; PLT, piastrine a Profilo biofisico fetale: punteggio complessivo di valutazione del tono muscolare, movimenti respiratori, livello liquido amniotico e battito cardiaco fetale
sola, indicazione a taglio cesareo in urgenza. Diversamente è possibile programmare un trattamento conservativo con controllo dei valori pressori, per garantire la maturità polmonare intrauterina del feto e il conseguente parto anche per via vaginale. La terapia farmacologica prevede il trattamento con antiipertensivi orali, αmetildopa e β-bloccanti. In assenza di risposta, le pazienti necessitano di ricovero ospedaliero e somministrazione parenterale di β-bloccanti e vasodilatatore arterioso (idralazina). In seconda istanza è possibile anche l’uso di un dilatatore venoso (nitroglicerina). Il dosaggio è titolato per ottenere un controllo pressorio di PAD di 90-100 mmHg. Per procedere a ulteriore stabilizzazione del tono vascolare e a scopo profilattico contro l’insorgenza di eclampsia e crisi tonico-cloniche, è raccomandata la somministrazione di magnesio: un bolo iniziale di 4-6 g in 20 minuti seguito dall’infusione di 1-2 g/h. Un bolo addizionale di 2-4 g in 10 minuti è neces-
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sario se si presentano crisi convulsive. È fondamentale in questa circostanza il monitoraggio della magnesiemia e dei riflessi patellari per scongiurare il rischio di intossicazione. Il parto può essere espletato per via vaginale: la tecnica di scelta, in assenza di trombocitopenia (PLT <50 000/mm3) o altre controindicazioni, è l’analgesia epidurale che, limitando il dolore, riduce sia la liberazione di catecolamine sia l’iperventilazione, fattori aggravanti l’ipertensione. L’anestesia loco-regionale è comunque raccomandata anche nel caso di taglio cesareo (TC) urgente, mentre l’anestesia generale è praticata nella grave pre-eclampsia solo quando l’anestesia regionale è controindicata o non vi è tempo sufficiente per eseguire il blocco neuroassiale epidurale o spinale.
16.3 Stato volemico e assetto emocoagulativo Oltre al monitoraggio pressorio è necessario valutare in diversi momenti lo stato volemico, emopoietico ed emocoagulativo (AB0, Hb, Ht, PLT, PT, PTT, fibrinogeno) poiché le complicanze emorragiche possono insorgere in qualsiasi momento durante la gravidanza, il travaglio, il parto e il puerperio mettendo a rischio il benessere materno e fetale. Valori pre-parto di emoglobina inferiori a 9 g/dl richiedono integrazione marziale e previsione di emotrasfusione. Emoglobina inferiore a 8 g/dl necessita di implementazione per garantire il corretto trasporto di ossigeno (Arlene et al., 2010). Importante è anche la conta piastrinica: con PLT <50 000/mm3 è controindicata l’analgesia e/o l’anestesia loco-regionale. I tempi di coagulazione (PT e PTT) allungati predispongono a complicanze emorragiche. In questi casi devono essere indagate eventuali cause farmacologiche, quali antiaggreganti o anticoagulanti orali, o cause congenite quali emofilia e deficit fattoriali. Viceversa l’eccessivo incremento di fibrinogeno e D-dimero e l’anamnesi positiva per insufficienza venosa sono indice di potenziale ipercoagulabilità con rischio di trombosi venosa periferica ed embolia polmonare. La più temuta emorragia prepartum è il distacco di placenta. Si manifesta con perdite ematiche vaginali di entità variabile e sofferenza fetale con possibile asfissia. È necessario posizionare un accesso venoso di calibro adeguato ed eseguire prontamente interreazione, emocromo e prove di funzionalità coagulatoria. La gestione anestesiologica è conseguente alla gravità del quadro clinico: importanti perdite ematiche, tachicardia, ipotensione, oliguria e alterazioni del tracciato tocografico impongono il parto cesareo urgente, normalmente in anestesia generale (AG) per il grave stato d’ipovolemia materna e la concomitante coagulopatia, che preclude l’anestesia locoregionale (ALR) (American Society of Regional Anesthesia Consensus Conference, 1998). Un aggressivo rimpiazzo volemico è fondamentale, eseguito con liquidi e con emazie, plasma fresco concentrato, piastrine e crioprecipitati. La placenta previa, possibile causa di emorragia prepartum, consiste nell’anomalo impianto della placenta sul segmento uterino inferiore, in prossimità o al di sopra dell’orifizio uterino interno, ed è classificata incompleta, parziale o marginale
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a seconda della sede d’inserzione. Si manifesta con perdite di colore rosso vivo non accompagnate da dolore, in genere alla 29-30a settimana. In questi casi il parto vaginale (o parto eutocico PE) comporterebbe trazione e lacerazione della placenta con perdite ematiche imponenti e ridotta perfusione placentare. Nei casi di placenta previa diagnosticata è perciò necessario programmare un parto cesareo. La condotta anestesiologica dipende dalla presentazione clinica. Se è in atto o è previsto un massiccio sanguinamento, è necessaria un’anestesia generale e la rapida stabilizzazione materna e fetale. Se l’iniziale sanguinamento si conclude spontaneamente o l’anomalia è marginale, può essere utilizzata l’anestesia loco-regionale (spinale e epidurale) ponendo particolare attenzione allo stato volemico (Tyagi e Bhattacharya, 2002). L’emorragia intrapartum più temuta è la rottura di utero per slaminamento di una pregressa cicatrice uterina o per un trauma interno, come nel caso di esiti di parto strumentale. I sintomi includono perdite vaginali copiose, dolore addominale, scomparsa del battito cardiaco fetale (BCF) e ipotensione. Nelle pazienti in stato di shock è necessario provvedere rapidamente al parto cesareo da eseguire in anestesia generale. Per prevenire questa complicanza emorragica, alcuni Autori precludono a donne pre-cesarizzate la possibilità di affrontare il travaglio di parto, ma ampi studi hanno dimostrato che l’anestesia epidurale può essere usata con sicurezza in queste pazienti nella gestione del parto per via vaginale. Le emorragie postoperatorie sono la maggior causa di grave perdita ematica in ostetricia. La ritenzione di placenta si verifica nell’1% dei parti e richiede la rimozione manuale dall’utero. L’anestesista deve in questi casi saper garantire il rilassamento uterino e l’analgesia, tramite un’anestesia generale inalatoria o totalmente endovenosa, oppure sfruttando il catetere epidurale posizionato per l’analgesia durante il travaglio. L’atonia uterina ha invece un’incidenza dell’1-2%. Costituisce un’emergenza ostetrica, portando anche alla perdita di 2 l di sangue in 5 minuti. Il trattamento iniziale è medico con imponente ricarico idrico a rimpiazzo della perdita ematica, massaggio uterino e utilizzo di utero-tonici (ossitocina, methylergonovine carboprost) prima della soluzione chirurgica (isterectomia). La placenta accreta e le sue varianti, placenta increta e percreta, è un’anomalia di penetrazione dei villi coriali durante l’impianto con assenza di decidua basale che costituisce l’interfaccia e il piano di clivaggio tra placenta e utero. La rimozione della placenta dopo il parto causa sgretolamento del miometrio e imponente sanguinamento e, poiché la completa separazione non è possibile, la perdita ematica continua. Spesso tale condizione anatomica è di riscontro occasionale, ma fattori di rischio sono l’associazione con la placenta previa e pregresso cesareo. Se la diagnosi è prenatale è opportuno programmare il taglio cesareo da effettuare in ALR (SIAARTI, 2006). I fisiologici cambiamenti della gravidanza aumentano il rischio di trombosi venosa profonda (TVP) dipendente dall’incremento dei fattori di coagulazione e della stasi vascolare. Aumenta di conseguenza la propensione all’embolia polmonare durante la gestazione. Fattori di rischio aggiuntivi sono l’età >35 anni, l’esecuzione di taglio cesareo, l’allettamento e l’obesità: il loro riconoscimento e la precoce deambulazione postoperatoria sono la migliore profilassi.
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16.4 Monitoraggio glicemico La gravidanza è considerata uno stato diabetogeno perché spesso la prima diagnosi di diabete è fatta nel periodo gestazionale, soprattutto durante il secondo e terzo trimestre. Il mancato controllo dei valori glicemici incrementa il tasso di mortalità materna e fetale e l’insorgenza di patologie. Il diabete di nuova insorgenza si definisce diabete gestazionale, che può essere inizialmente trattato con la sola dieta. Solo in seconda istanza viene previsto l’utilizzo d’insulina (Tabella 16.5). Le pazienti con diabete preesistente presentano un alto rischio di generare feti portatori di anomalie congenite per l’effetto teratogeno dell’iperglicemia nel primo trimestre, e disturbi della crescita fetale come macrosomia o ritardata crescita intrauterina. Tali rischi sono tuttavia ben controllati da uno stretto controllo glicemico pre-concepimento e durante la gravidanza. Le donne diabetiche presentano rischio maggiore di parto pretermine, sviluppano frequentemente ipertensione e pre-eclampsia, necessitano di parti operativi o cesarei urgenti per sproporzione materno-fetale e distocia, e insorgenza di atonia ed emorragia post-partum. Il diabete è una forte indicazione all’analgesia/anestesia regionale sia durante il travaglio di parto sia per eseguire un taglio cesareo, poiché la riduzione delle catecolamine circolanti aumenta la perfusione utero-placentare e diminuisce la richiesta d’insulina. Importante è valutare il neonato, la maturità respiratoria e l’eventuale ipoglicemia (Allwan et al., 2009). Tabella 16.5 Schema di trattamento in pazienti diabetiche Dieta ipocalorica Terapia insulinica: Glicemia (mg/100ml)
Unità insulina (U/h)
Terapia idrica (125 ml/h)
<100
0
D5LR
100-140
1.0
D5LR
141-180
1.5
Soluzione salina
181-220
2.0
Soluzione salina
>220
2.5
Soluzione salina
16.5 Patologia polmonare Preesistenti problemi polmonari devono essere individuati e precocemente trattati per evitare complicanze in gravidanza. Fondamentali sono la raccolta anamnestica e l’esame obiettivo, in seconda istanza sono richiesti esami diagnostici di secondo livello (EGA, spirometria, ecocardiografia). L’asma è il disturbo più comune e può esacerbarsi durante la gravidanza.
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Aumenta il rischio di complicanze materne, come aborti spontanei, prematura rottura delle membrane, ipertensione, pre-eclampsia e diabete gestazionale, o di complicanze neonatali quali prematurità e basso peso alla nascita. La valutazione della paziente asmatica prevede la conoscenza della storia clinica: frequenza degli attacchi asmatici, fattori scatenanti, necessità di assistenza ventilatoria, terapia in corso e accurato esame obiettivo: frequenza respiratoria, meccanica respiratoria, dispnea a riposo e da sforzo. La gestione della gravida asmatica prevede la prevenzione dell’evento acuto, il monitoraggio clinico e, quando necessario, la terapia farmacologica con somministrazione inalatoria di β-agonisti, sodio cromoglicato, teofillina e beclometasone. In casi gravi è indicata la terapia steroidea per via orale. Processi infettivi polmonari, usualmente preceduti da infezioni delle alte vie respiratorie, possono verificarsi durante la gravidanza, aumentando il rischio di prematurità, aborto e mortalità fetale. È necessario un pronto e aggressivo trattamento, ricordando la teratogenicità di alcuni antibiotici. L’edema polmonare durante la gravidanza può essere causato da aspirazione di materiale gastrico, soprattutto in seguito ad anestesia generale, pre-eclampsia, sepsi, farmaci tocolitici, sottostante cardiopatia, sovraccarico idrico iatrogeno. È trattato risolvendo la causa scatenante, con restrizione idrica ed eventuale supporto ventilatorio.
16.6 Patologia cardiologica Preesistenti cardiopatie aumentano la mortalità materna, soprattutto per cause ischemiche, tanto da rendere auspicabile la pianificazione della gravidanza. Le modificazioni fisiologiche in gravidanza quali l’incremento del volume sanguigno, della frequenza cardiaca e della frequenza respiratoria, della richiesta metabolica, del consumo di ossigeno e le alterazioni delle resistenze vascolari, aumentano il carico di lavoro cardiaco con maggiore rischio di scompenso nelle pazienti cardiopatiche. È pertanto necessaria un’équipe multidisciplinare composta da ginecologo, cardiologo, anestesista e neonatologo per valutare la gravità e l’evoluzione della patologia, e per stimare i rischi e i benefici delle procedure mediche e chirurgiche. Particolare attenzione va posta nelle pazienti ad alto rischio di mortalità: ipertensione polmonare, sindrome di Eisenmerger, coartazione e stenosi aortica, sindrome di Marfan, aneurisma aortico, cardiopatie congenite non corrette, pregresso IMA. L’anestesista deve valutare le modificazioni anatomiche e la fisiopatologia cardiologica, ottenere l’anamnesi cardiologica preconcepimento, comprensiva della terapia farmacologica in atto e pregressa e delle eventuali correzioni chirurgiche effettuate, pianificare con l’équipe medica l’espletamento del parto in termini di tempo e tecnica (PE vs TC), provvedere al monitoraggio cardiovascolare intra- e postoperatorio, con eventuale degenza in terapia intensiva (Baum e Perloff, 1993). Oltre ai consueti esami ematologici ed elettrocardiografici, sono necessari:
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– ecocardiografia per la valutazione approfondita del ritmo, della funzione ventricolare e delle resistenze polmonari; – EGA per documentare eventuale shunt sinistro-destro; – visita specialistica cardiologica; – impostazione di opportuna terapia anticoagulante, aritmica, antiipertensiva, diuretica e indicazione alla profilassi per l’endocardite batterica. La terapia anticoagulante genera notevoli ripercussioni sulla scelta dell’anestesia. Se la partoriente necessita di terapia anticoagulante per fibrillazione atriale (FA), sostituzione valvolare o pregressa trombosi venosa profonda, il warfarin è controindicato dal primo trimestre per la sua teratogenicità; è da preferire la somministrazione di eparina endovenosa o di LMWH (low molecular weight heparin) sottocute. Eparina e LMWH a uso profilattico devono essere sospese almeno 12 ore prima dell’esecuzione di un blocco neuroassiale; se il trattamento con LMWH prevede due somministrazioni/die, la sospensione è di almeno 24 ore; non ci sono controindicazioni per terapia con FANS e ASA a dosaggi <165 mg/die. Nel caso di disturbi del ritmo, bisogna considerare il tempo d’insorgenza: le aritmie benigne sono comuni in gravidanza e raramente causano scompenso. Se la terapia antiaritmica era in corso già prima della gravidanza con buon controllo della sintomatologia, deve essere proseguita evitando la somministrazione di fenitoina e amiodarone per i noti effetti teratogeni, mantenendo la terapia ai minimi dosaggi efficaci e prevedendo controlli periodici. La comparsa di fibrillazione atriale è pericolosa, spesso associata a misconosciuta patologia cardiaca o tiroidea, e necessita di terapia per controllare il ritmo cardiaco. L’opzione farmacologica di prima scelta è rappresentata da digitale e anticoagulanti; se la paziente è emodinamicamente instabile si procede alla cardioversione elettrica (CMA/RCOG, 2010).
16.7 Obesità L’obesità in gravidanza aumenta il rischio di mortalità e morbilità materna e fetale. Le fisiologiche modificazioni sono esasperate nella donna gravida obesa, con incremento del lavoro a carico del sistema cardiovascolare, respiratorio e gastrointestinale (CMA/RCOG, 2020; Wolfe e Gross, 1994). Riscontri comuni sono l’ipertensione polmonare con possibile ipossia, ipertrofia ventricolare sinistra e disfunzione diastolica e l’ipertensione arteriosa con maggior incidenza di pre-eclampsia. Lo squilibrio tra richiesta e domanda ossidativa aumenta la mortalità per causa cardiologica dipendente da ischemia, coronaropatie e aritmie maggiori. I volumi polmonari sono ristretti e la capacità ventilatoria è ulteriormente ridotta dalle dimensioni addominali causando un mismatch tra ventilazione e perfusione (V/Q) con conseguente ipossia e ipercapnia. Frequenti sono le apnee notturne, suggestive di potenziale ostruzione delle vie aeree e difficoltà di ventilazione. Le pazienti obese hanno maggior prevalenza di ernia iatale e di rallentamento dello svuotamento gastrico
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Tabella 16.6 Complicanze ostetriche associate all’obesità • Ipertensione arteriosa
• Aumentate perdite ematiche intraoperatorie
• Pre-eclampsia
• Emorragie postoperatorie
• Diabete gestazionale
• Tromboembolia
• Mancato inizio e induzione di travaglio
• Embolia polmonare
• Aumento di parti strumentali (per macrosomia fetale, sproporzione materno-fetale)
• Polmoniti • Infezioni e deiscenza di ferita
• Aumento di tagli cesarei
• Ospedalizzazione prolungata
• Prolungato tempo chirurgico
con rischio d’inalazione e sviluppo di polmonite ab ingestis. Per questi motivi le gravide obese sono considerate ad alto rischio per le concomitanti patologie mediche e ostetriche che si possono verificare, riportate in Tabella 16.6. L’obesità, di per sé non è indicazione all’esecuzione di parto chirurgico, ma il 30% delle gravide obese incorre in taglio cesareo urgente. Per questo è importante un’accurata programmazione anestesiologica con il posizionamento precoce di analgesia epidurale, utilizzabile per eventuale cesareo, e il ponderato utilizzo di morfina. L’analgesia epidurale è la miglior tecnica poiché riduce il consumo di ossigeno, il lavoro respiratorio, lo stress cardiaco e previene l’incremento pressorio. È eseguita precocemente, in posizione seduta, utilizzando dosaggi inferiori di anestetici locali e oppioidi per il minor volume dello spazio epidurale. Anche per il parto cesareo programmato o urgente, l’anestesia epidurale è la scelta di eccellenza per il miglior controllo emodinamico (anche rispetto all’anestesia spinale) e per la flessibilità nella somministrazione dell’anestetico locale (AL) e titolazione degli oppioidi. L’anestesia generale deve essere utilizzata solo nel caso in cui l’ALR sia controindicata e solo dopo attenta valutazione delle vie aeree con previsione di difficile gestione delle stesse (Shenkman et al., 1993)
16. 8 Analgesia del travaglio di parto La nuova attenzione data alla gestione del dolore durante travaglio di parto fa sì che, spesso, la valutazione preoperatoria nella donna gravida avvenga per la parto-analgesia. Le tecniche neuroassiali (peridurale, spinale o combinata spinoperidurale) sono ormai considerate di provata efficacia nella pratica clinica per il controllo del dolore di parto (ASA, 1999). Ampiamente utilizzata negli Stati Uniti (57%), in Europa la percentuale è inferiore e disomogenea: in Francia è del 37%, in Gran Bretagna del 20%, in Italia è circa 4% con notevoli variazioni regionali e tra nosocomi. L’anestesia epidurale è senza dubbio la tecnica più utilizzata ed efficace (ASA/ACOG, 1992); permette la copertura analgesica per tutta la durata del travaglio e del parto vaginale. Con dosi e concentrazioni più elevate di farmaci può essere utilizzata per l’assistenza a parto strumentale o per anestesia durante il taglio cesareo. Inoltre l’analgesia epi-
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Tabella 16.7 Controindicazioni all’anestesia loco-regionale Controindicazioni assolute • Rifiuto della paziente o incapacità di collaborare
Controindicazioni relative • Coagulopatia media (per esempio, isolato decremento di PLT)
• Infezione locale
• Patologia cardiaca severa (per esempio, stenosi aortica)
• Sepsi
• Patologie neurologiche (per esempio, spina bifida)
• Coagulopatia grave
• Severa depressione fetale
durale ha bassa incidenza di effetti avversi e riduce il ricorso all’anestesia generale nelle pazienti ad alto rischio. Attualmente ASA e ACOG (ACOG Practice Bulletin, 2002) dichiarano che tutte le pazienti, in qualsiasi fase del travaglio e indipendentemente dalla dilatazione cervicale, sono candidabili alla parto-analgesia in assenza di controindicazioni. Le controindicazioni assolute e relative sono indicate nella Tabella 16.7. La paziente dev’essere informata della procedura e delle possibili complicanze, in modo da poter esprimere un consenso informato. Dev’essere raccolta un’anamnesi patologica remota e gravidica per evidenziare eventuali co-morbilità e rischi aggiuntivi, ricordando che patologie cardiache (quali difetti valvolari, ipertensione polmonare primitiva), respiratorie (quali asma, fibrosi cistica, sindromi restrittive), endocrine (come il diabete), ortopediche, oculistiche, stati pre-eclamptici in assenza di coagulapatia e l’obesità sono indicazioni all’esecuzione dell’analgesia. La valutazione preoperatoria emodinamica ed emocoagulativa è particolarmente importante prima dell’esecuzione dell’ALR. Gli esami ematochimici (Hb, PLT, PT, PTT, fibrinogeno) devono avere validità mensile e loro anomalie sono indici di eventuali rischi emorragici e patologie che possono controindicare la procedura. Particolare attenzione va riservata alle pazienti in terapia farmacologica con antiaggreganti e/o anticoagulanti per patologie cardiocircolatorie. In questi casi si ricorrere alla consulenza del cardiologo e/o dell’ematologo per concordare il timing di sospensione e la sostituzione della terapia. Le recenti linee guida europee suggeriscono la sospensione 12 o 24 ore prima dell’ALR se il trattamento con LMWH è, rispettivamente, profilattico (1/die) e terapeutico (2/die); non ci sono controindicazioni per terapia con FANS e ASA a dosaggi <165 mg/die. Importante è la valutazione dello stato cardiocircolatorio: occorre monitorare PA, FC, BCF e ottenere un accesso vascolare poiché la posizione per la manovra e la venoplegia indotta dagli anestetici locali possono provocare ipotensione e riduzione del flusso placentare. Per evitare ciò sono indispensabili una corretta idratazione (preload) e la prevenzione della compressione aortocavale. È necessario osservare la zona lombare in cui si eseguirà la procedura per escludere infezioni locali o tatuaggi e individuare eventuali difficoltà per malformazioni del rachide. Il monitoraggio dell’intensità del dolore con scala analogica (VAS, Visual Analogic Scale), e l’osservazione della partoriente permettono di valutare e gestire situazioni impreviste come il blocco motorio da spiralizzazione o l’intossicazione da AL (tinnito, parestesie periorali, eloquio alterato, perdita di coscienza, arresto respiratorio e cardiaco). L’emodinamica materna e il BCF devono essere monitorati per almeno 15 minuti dopo ogni somministrazione di farmaci per via epidurale al fine di
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Tabella 16.8 Complicanze ed effetti avversi dell’analgesia epidurale Complicanze/Effetti avversi
Incidenza
Mal di schiena nel sito d’inserzione
75%
Inadeguata analgesia
25%
Ipotensione
Dipendente da dosaggio
Blocco motorio
Dipendente da dosaggio
Ritenzione urinaria
Dipendente da dosaggio
Riposizionamento
10%
Bradicardia fetale
8%
Incanalamento vascolare
6%
Puntura durale
2%
Cefalea postpuntura durale (PDPH)
1%
Catetere in spazio spinale
<1%
Catetere in spazio subdurale
Raro (1:1000)
Blocco spinale alto
Raro (1:10 000)
Danno neurologico permanente
Estremamente raro (1:10 000)
Ematoma epidurale
Estremamente raro (1:100 000)
Ascesso epidurale
Estremamente raro (1:100 000)
controllare pericolose ipoperfusioni fetali da ipotensione materna. A ogni nuova esacerbazione algica, che richiede l’infusione di AL e oppioidi in dose e concentrazione conseguenti alla dinamica del travaglio, il controllo pressorio e il corretto funzionamento del cateterino devono essere sempre rivalutati per evitare ipotensione e deficit neurologici. Le complicanze e gli eventi avversi sono riportati nella Tabella 16.8.
16.9 Conclusioni La preparazione di un protocollo di assistenza preoperatoria della paziente in gravidanza deve necessariamente tenere conto delle modificazioni dell’apparato cardiovascolare, emopoietico, respiratorio, digerente e urinario. Inoltre, la conoscenza della patologia della gravidanza e dei trattamenti più efficaci si rivela patrimonio indispensabile dell’anestesista. Quindi le conoscenze per esaminare adeguatamente le pazienti ostetriche ed equilibrare i parametri patologici, la condotta anestesiologica più opportuna e il monitoraggio perioperatorio, sono condizioni necessarie per ridurre il rischio anestesiologico e la morbilità materna.
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Il paziente pediatrico
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I. Salvo, F. Corvini, A. Camporesi
Riassunto Negli ultimi decenni la mortalità e la morbilità perioperatorie in ambito pediatrico sono andate declinando grazie ai miglioramenti delle tecniche perioperatorie, all’identificazione dei fattori di rischio e all’analisi delle cause potenzialmente reversibili di eventi critici. La maggior parte dei pazienti pediatrici che risulta vittima di un incidente critico durante anestesia è rappresentata da bambini sani sottoposti a procedure elettive. Una valutazione preoperatoria dettagliata è pertanto essenziale per identificare qualsiasi condizione patologica che possa richiedere un trattamento pre- e postoperatorio e determinare quale regime anestesiologico sia ottimale per il bambino. In questo capitolo saranno esaminati i più comuni problemi che si incontrano durante la valutazione preoperatoria insieme alla loro possibile correlazione con conseguenze anestesiologiche, il monitoraggio intraoperatorio e la gestione del dolore postoperatorio.
17.1 Cenni di fisiologia nel neonato e nel bambino Di seguito ricordiamo brevemente alcune differenze fisiologiche e anatomiche tra bambino e adulto utili per la gestione anestesiologica del paziente pediatrico (Tabelle 17.1 e 17.2).
17.1.1 Vie aeree e sistema respiratorio Il neonato ha il capo di dimensioni elevate rispetto al resto del corpo, con la bocca Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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I. Salvo et al.
Tabella 17.1 Parametri cardiorespiratori fisiologici per età Età
PA (mmHg)
FC
FR
35-45
120-170
< 40
65-85
45-55
100-150
24-30
70-90
50-65
90-120
24-30
6-12 mesi
80-100
55-65
80-120
20-24
1-3 anni
90-105
55-70
70-110
20-24
3-6 anni
95-110
60-75
65-110
20-24
6-12 anni
100-120
60-75
60-95
12-20
>12 anni
110-135
60-75
55-85
10-14
PAS
PAD
Pretermine
55-75
0-3 mesi 3-6 mesi
FC, frequenza cardiaca; FR, frequenza respiratoria; PA, pressione arteriosa; PAD, pressione arteriosa diastolica, PAS, pressione arteriosa sistolica
Tabella 17.2 Parametri volemici fisiologici per età Età Pretermine Neonato
Peso (kg)
Diuresi (ml/kg/h)
Volemia (ml/kg)
1
0,5-1
100
2-3
2-3
100
1 mese
4
2-3
85
6 mesi
7
2-3
85 85
10
1-2
2-3 anni
1 anno
12-14
1-2
85
4-5 anni
16-18
1
85
6-8 anni
20-26
1
85
10-12 anni
32-42
1
85
>50
1
70
>14 anni
relativamente piccola, la lingua larga e corta, l’epiglottide lunga e il faringe e le corde vocali più craniali rispetto all’adulto. Le vie aeree superiori presentano un punto di minor calibro a livello sottoglottico e i tre assi anatomici, orale (o), faringeo (f) e tracheale (t), percorrono piani diversi (Fig. 17.1). Queste differenze sono spesso la causa di difficile ventilazione o fallita intubazione. Si consiglia, quindi, di posizionare sotto la testa del paziente un piccolo spessore e di estenderla (non iperestenderla) in modo da ottenere un allineamento dei tre piani favorendo una migliore gestione delle vie aeree (Cote et al., 2009). Nel lattante fino ai 3 mesi di vita la respirazione è prevalentemente nasale. Nel neonato il volume di chiusura delle vie aeree è molto alto, spesso prossimo al volume corrente, determinando una tendenza al collasso delle vie aeree a fine espirazione. Nell’infanzia la compliance del parenchima polmonare rimane pressoché costante a differenza di quella della parete toracica che diminuisce con la crescita e l’ossificazione delle cartilagini sternocostali fino all’adolescenza. Da questo
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Fig. 17.1 Posizionamento per intubazione endotracheale. Riprodotto da Salvo et al., Memo-book di anestesia pediatrica, Medical System, 1988, con autorizzazione degli Autori
deriva una bassa FRC (functional residual capacity) e la tendenza al collasso delle vie aeree che, nel bambino sveglio, viene compensato dal freno laringeo all’espirazione e dall’attività tonica del diaframma e dei muscoli intercostali. La resistenza al flusso è influenzata soprattutto dalla variazione di calibro del condotto: ecco perché nei bambini le secrezioni o l’edema per flogosi delle vie aeree sono fattori importanti da tenere presenti prima di praticare un’anestesia generale. Fisiologicamente il neonato aumenta la ventilazione in seguito a ipossia o ipercapnia. La risposta all’ipossia diventa stabile dopo i primi 10 giorni di vita, prima dei quali si ha un’iniziale risposta in iperventilazione seguita da depressione respiratoria. Una stimolazione faringolaringea nel neonato provoca una breve apnea ostruttiva seguita da un’altra più prolungata, così come dopo un’insufflazione seguono un’apnea transitoria (riflesso di Hering-Breuer) e un’extrainspirazione prima dell’espirazione (riflesso di Head) (Villani, 2004).
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I. Salvo et al.
17.1.2 Sistema cardiocircolatorio Nei neonati il tessuto miocardico è immaturo, poco compliante e poco contrattile, per cui meno tollerante ai carichi di volume. La gittata cardiaca è dipendente dalla frequenza cardiaca per compensare una ridotta gittata sistolica. Il CO (cardiac output) aumenta proporzionalmente con la crescita. Il circolo cerebrale è molto sensibile a variazioni di pressione derivanti da ipossia, infusione di liquidi ipertonici o apnee, che possono causare rottura di capillari ed emorragia intraventricolare (Cote et al., 2009; Villani, 2004).
17.1.3 Funzione renale Nel neonato il rene ha una bassa capacità di concentrare l’urina, di riassorbire il glucosio a livello tubulare (rischio di disidratazione per poliuria osmotica) e di risparmiare sodio (frequente l’iponatremia). Alla nascita, e per le prime 48 ore di vita, la concentrazione plasmatica di potassio è molto elevata, fino a 10 mEq/l (Villani, 2004).
17.1.4 Equilibrio idroelettrolitico Nel neonato il contenuto idrico rappresenta circa il 75% del peso corporeo (85% nel prematuro) a causa di un ampio volume extracellulare. La perspiratio è calcolata intorno a 0,7-1 ml/kg/h nei neonati di peso >2 kg e di 2,5-3 ml/kg/h in quelli <1kg (Villani, 2004).
17.1.5 Termoregolazione Nel neonato in culla, in ambiente termico neutro, la perdita di calore avviene per il 39% per radiazione, per il 24% per evaporazione, per il 34% per convezione e per il 3% per conduzione (Villani, 2004). Per questo motivo è importante riscaldare l’ambiente e il piccolo paziente durante interventi chirurgici o manovre che prevedono l’esposizione corporea anche per brevi periodi di tempo.
17.1.6 Sistema nervoso periferico Il midollo spinale si estende fino al bordo inferiore di L3 fino all’anno di età (Villani, 2004).
17 Il paziente pediatrico
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17.2 Valutazione preoperatoria La valutazione preoperatoria è indispensabile nel bambino come nell’adulto. Durante il colloquio, oltre a valutare le condizioni generali di salute e il rischio perioperatorio e stabilire le norme preoperatorie quali digiuno, premedicazione e condotta anestesiologica, si deve riuscire a creare un rapporto di fiducia tra anestesista, bambino e genitori, raccogliere il consenso informato e fare in modo che il piccolo paziente giunga all’intervento nelle migliori condizioni cliniche e psicologiche possibili (Villani, 2004). La popolazione pediatrica comprende svariati individui, dal neonato pretermine all’adolescente, con caratteristiche anatomiche e fisiologiche molto diverse tra loro. Per non omettere alcun aspetto può essere utile disporre di scale e algoritmi da seguire nella valutazione dei bambini. Durante il colloquio con i genitori, oltre all’età del paziente, dovranno essere richiesti il peso attuale, la settimana gestazionale alla quale è nato (così da valutare le eventuali patologie del prematuro), il peso alla nascita, il tipo di parto (eutocico o se con taglio cesareo specificare per quale motivo), se ci sono stati problemi perinatali (punteggio di Apgar, ricovero in terapia intensiva ecc). In tutti i bambini va indagato l’accrescimento psicomotorio, la presenza di allergie o intolleranze ad alimenti, farmaci o altre sostanze, e come queste si sono manifestate (rush cutaneo, eczema, oculorinite, asma, shock anafilattico, edema della glottide). Escludere sempre un’allergia al lattice, tenendo presenti le classi più a rischio (portatori di spina bifida, malformazioni urogenitali, pazienti sottoposti a ripetuti interventi chirurgici e/o ripetuti cateterismi vescicali, bambini che a contatto con giochi di gomma presentano congiuntivite, reazioni orticarioidi o asmatiformi). Questi bambini devono seguire percorsi preordinati latex-safe in ogni loro ricovero ospedaliero (Mazon et al., 1997). Lattice e curari sono la causa più frequente di complicanze allergiche. Alcuni Autori suggeriscono, in pazienti con pregressa reazione allergica da causa ignota, di eseguire un’anestesia generale senza miorilassanti associata ad anestesia locoregionale in ambiente latex-safe (Kroigaard et al., 2007). Alcuni genitori omettono di riferire al medico segni o sintomi indicativi di specifiche patologie, episodi accaduti in passato o patologie congenite (attenzione al contesto socioculturale familiare e all’etnia per evitare incomprensioni linguistiche). A questo si può ovviare chiedendo se il bambino è mai stato in ospedale e per quale motivo, se ha mai effettuato visite o esami specialistici, se è un bambino vivace, se si stanca facilmente e se durante gli sforzi cambia di colore in viso. Circa il 70% dei bambini presenta un soffio cardiaco funzionale “innocente”. In caso dubbio o di soffio riscontrato per la prima volta alla visita è importante auscultare il bambino sia in posizione supina che in ortostatismo; un soffio funzionale risulterà più forte in posizione supina a causa dell’aumento dello stroke volume e del volume di fine diastole. È consigliabile far eseguire ulteriori indagini cardiologiche se il soffio è superiore ai 2/6, diastolico, pansistolico, o se il bambino presenta sintomi indicativi di una patologia cardiaca, altre malformazioni associate o ricorrenti
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infezioni polmonari (Roy, 1989). Ricercare in anamnesi episodi di broncospasmo, asma o laringospasmo e chiedere in che occasione si sono verificati. Verificare la presenza di apnee ostruttive o centrali in quanto gli eventi avversi respiratori sono ancora oggi la maggiore causa di mortalità e morbidità in età pediatrica a causa della ridotta FRC e quindi della bassa tolleranza all’ipossia e della tendenza al collasso delle vie aeree. L’incidenza di ipossia e laringospasmo rappresenta circa un terzo di tutti gli eventi avversi respiratori, mentre la difficoltà di intubazione solo il 13% (Tay et al., 2001). Nel paziente asmatico indagare sulle caratteristiche delle crisi e con quale frequenza si manifestano, la data dell’ultimo episodio, se il paziente è stato ricoverato in ospedale, che terapia è stata effettuata e se la terapia domiciliare è stata modificata recentemente. Durante anestesia sono diverse le manovre (laringoscopia, intubazione, stimoli dolorosi e termici, livello di anestesia poco profondo) che possono scatenare broncospasmo (Plaza et al., 2002). Il paziente asmatico deve quindi arrivare all’intervento in buon compenso. Il bambino che assume regolarmente una terapia antiasmatica dovrebbe iniziare un trattamento con corticosteroidi a partire da almeno 48 ore prima dell’intervento (metilprednisolone 1 mg/kg), mentre quello che assume farmaci solo al bisogno dovrebbe iniziare una terapia inalatoria o per os a partire da 3-5 giorni prima dell’intervento (Pien et al., 1988). Un altro gruppo a rischio di broncospasmo è rappresentato da pazienti con broncodisplasia polmonare. Questi sono solitamente lattanti ex-prematuri, con peso alla nascita compreso tra 500 e 1500 g, ossigeno-dipendenti per un periodo superiore a 28 giorni. Questo aumentato rischio persiste, generalmente, fino al primo anno di vita, soprattutto in seguito a stimoli come acidosi, ipotermia e dolore, che provocano vasocostrizione polmonare. Qualora non fosse sufficiente l’impiego di diuretici, corticosteroidi, antibiotici e broncodilatatori, occorre valutare la possibilità di rimandare la procedura chirurgica al fine di condurre questi bambini all’intervento nelle migliori condizioni cliniche possibili. Solitamente è necessario monitorare e ventilare questi pazienti per 24-48 ore postoperatorie (Maxwell, 2004). Occorre valutare accuratamente la presenza di infezione delle vie aeree superiori (IVAS), chiedendo da quanto tempo sono insorti i sintomi e se sono presenti tosse, secrezioni e febbre. L’orientamento attuale prevede che, qualora il paziente dovesse presentare tosse produttiva, rinite purulenta, coinvolgimento delle basse vie respiratorie, febbre o malessere generale, l’intervento chirurgico in elezione vada rinviato. Nel caso invece di pazienti con sintomi moderati, tosse secca, secrezioni non purulente e apiressia, gli interventi chirurgici, meglio se con l’impiego di maschera laringea, possono essere eseguiti con sicurezza. La reattività bronchiale risulta aumentata per almeno quattro settimane dopo la guarigione, quindi, se possibile e se ritenuto necessario, rinviare l’intervento di almeno quattro settimane dopo la remissione dei sintomi (Serafini et al., 2003; Steward, 1999). Il sistema neurologico e muscolare va valutato chiedendo se il bambino ha mai manifestato crisi convulsive e in quali occasioni, come sono state trattate e se assume abitualmente una terapia specifica. Bambini affetti da malattie neuromuscolari (che sono spesso difficili da diagnosticare nei primi anni di vita) sono più a rischio di complicanze anestesiologiche (per esempio, difficoltà di weaning respiratorio) a
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causa della loro debolezza muscolare. Questi pazienti, in particolare quelli affetti da central core disease e multi-minicore disease, sono più suscettibili a sviluppare ipertermia maligna (IM) durante anestesia se sottoposti a sostanze scatenanti quali gas anestetici, farmaci neurolettici e succinilcolina. L’ipertermia maligna è più frequente in età pediatrica, con un picco tra i 10 e i 20 anni e un’incidenza di 1 ogni 15 000 anestesie generali. Un’anamnesi anestesiologica negativa per IM non ne esclude la suscettibilità; si è visto, infatti, che il 30% dei pazienti risultati suscettibili al test per IM ha in anamnesi fino a 3 anestesie generali non complicate. Nessun esame di laboratorio di routine fornisce informazioni certe sulla suscettibilità (le CPK non sono specifiche). In casi sospetti o di anamnesi familiare positiva per IM, il paziente va sottoposto al test di contrattura in vitro all’alotano-caffeina, e in casi dubbi è necessario praticare sempre un’anestesia protetta (Rosenberg et al., 2007). Indagare se il bambino soffre di malattie metaboliche, disturbi endocrinologici, renali, dell’apparato gastrointestinale, epatobiliare o pancreatico. Un’attenzione particolare va posta al bambino diabetico nel quale è opportuno controllare la glicemia e l’equilibrio elettrolitico pre-, intra- e postoperatoriamente. L’intervento in questi casi deve essere programmato il mattino presto per evitare un digiuno troppo prolungato (Chadwick e Wilkinson, 2004). Chiedere se il paziente è stato recentemente sottoposto a vaccinazioni e quali. È noto, infatti, che l’anestesia deprime il sistema immunitario (riduzione degli anticorpi, dei linfociti e della loro funzionalità), e per tale motivo è buona norma rinviare l’intervento di una settimana dopo vaccini inattivati (antitetanica, antipertussica, antipolio inattivato, antidifterite, anti-Haemophilus influenzae, antimeningococcica) e di tre settimane dopo vaccini vivi attenuati (antiparotite, rosolia, morbillo e anti-TBC). Consigliare ai genitori di aspettare, dopo un’anestesia generale, almeno una settimana prima di sottoporre il bambino a vaccinazione. In caso di neonati o lattanti è invece consigliabile rinviare l’intervento piuttosto che le vaccinazioni (Short et al., 2006). Chiedere ai genitori se il bambino assume dei farmaci, tisane, infusi o medicine omeopatiche considerate comunemente “innocue”. Per esempio, olio di pesce, ginseng, aglio, mirtilli, zenzero ed estratto di semi d’uva inibiscono l’aggregazione piastrinica; camomilla e tarassaco inibiscono la tosse, e possono quindi interagire con i farmaci utilizzati durante anestesia (Kaye et al., 2004). Infine, in base allo stato di salute del bambino, andrà stabilito il rischio perioperatorio sulla base della classificazione ASA (American Society of Anesthesiologist, 1963) che tuttavia, in ambito pediatrico, non è sufficiente per stratificare il rischio reale in quanto troppo generica e limitata. Molto importante al fine di ridurre il rischio anestesiologico è, come suggerito dalla Federation of European Association of Paediatric Anaesthesia, che sia un anestesista esperto in campo pediatrico a valutare ed effettuare la procedura. È dimostrato che un team anestesiologico-chirurgico dedicato esclusivamente ai bambini riduce drasticamente la morbidità e la mortalità dei piccoli pazienti (De Lange, 2001; European Board of Anaesthesiology, 2001; Association of Paediatric Anaesthesists od Great Britain and Ireland, 2002). Considerare anche l’aspetto psicologico, diverso a seconda dell’età: in età prescolare solitamente vi è il timore del distacco dai genitori, in quella scolare del
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dolore e negli adolescenti della menomazione e della morte. Terminata la valutazione si procede a informare i genitori, o il tutore del minore, del tipo di anestesia previsto e del rischio connesso, dell’eventuale esigenza di ricovero in terapia intensiva nel postoperatorio, della terapia antalgica e a raccogliere il consenso; per i minori è necessaria la firma di entrambi i genitori, dopo i 14 anni è opportuno coinvolgere anche il paziente. Spiegare accuratamente ai genitori le modalità del digiuno preoperatorio. Le raccomandazioni ASA prevedono che il bambino possa bere liquidi chiari (acqua, the o camomilla) fino a due ore prima dell’intervento così da evitare ipoglicemia e ipovolemia preoperatorie. Per quanto riguarda gli altri alimenti il digiuno è di 4 ore per il latte materno, 6 ore per quello di formula e 8 ore per i cibi solidi e il latte vaccino (Warner et al., 1999). La preanestesia, non indicata sotto l’anno di età, diventa fondamentale nei bambini più grandi per ridurre ansia, riflessi vagali, aritmie cardiache, secrezioni delle vie aeree, favorire l’induzione anestesiologica e provocare amnesia (Sigurdsson et al., 1983). Va dosata in base a peso, età e condizioni cliniche e somministrata preferibilmente per via orale o rettale almeno 20 minuti prima della procedura chirurgica. Il farmaco più comunemente usato è il midazolam (Kain et al., 1997, 2004). Gli esami ematici preoperatori andrebbero richiesti, qualora necessari, in base all’anamnesi e al tipo di intervento chirurgico (Patel et al., 1997). Per la maggior parte degli interventi in elezione, nei bambini sopra l’anno di età, gli esami possono non essere richiesti. In caso di intervento a rischio di sanguinamento (tonsillectomia, interventi demolitivi), anamnesi positiva per coagulopatie e/o storia di emorragie pregresse o prevista anestesia loco-regionale/blocchi centrali è indicato richiedere gli esami della coagulazione. La radiografia del torace, in assenza di anamnesi positiva o segni clinici di patologia cardiopolmonare, è controindicata (Wood e Hoekelman, 1981; Gruppo di Studio SARNePI, 1999). Per contro, data l’elevata l’incidenza (1:5000) della sindrome del QT lungo congenito (Collins e van Hare, 2006) e la possibilità che gli anestetici inalatori possano allungarlo ulteriormente (Gurcan et al., 2003) è consigliato eseguire un ECG.
17.2.1 Valutazione delle vie aeree Ogni paziente deve essere valutato per verificare l’eventuale presenza di vie aeree difficili; la valutazione è rapida e semplice, ma richiede la collaborazione da parte del bambino. Si deve chiedergli di aprire la bocca e di protrudere la lingua per valutare la mobilità dell’articolazione temporomandibolare e il rapporto tra lingua e cavo orale: un palato ogivale con una ridotta apertura della bocca è spesso associato a una laringoscopia difficile. Dev’essere stimata la distanza tiromentoniera (1,5 cm nel neonato, 3 cm nel bambino), che può essere dedotta in modo molto semplice misurando l’altezza delle tre dita centrali unite del bambino. Si deve chiedere al bambino di estendere il collo. Raramente è presente una
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ridotta motilità dell’articolazione atlantooccipitale, eccetto che per sindromi specifiche come Goldenhar o Hurler. Indagare la presenza di malformazioni del capo e del collo, di infezioni (ascessi retrofaringei, adenotonsilliti), di problemi muscoloscheletrici (anchilosi mandibola/rachide cervicale, instabilità vertebrale) o di traumi. In genere l’intubazione è più facile nei bambini se si ha buona conoscenza dell’anatomia del bambino e si usa materiale dedicato.
17.3 Monitoraggio intraoperatorio Occorre monitorare le funzioni vitali del paziente dal momento del suo arrivo nel blocco operatorio fino alla sua dimissione dallo stesso. Di fondamentale importanza, anche se apparentemente banale e scontato, è avere a disposizione materiale pediatrico, sia per le procedure di routine che per l’emergenza. La presenza costante in sala operatoria dell’anestesista è indispensabile.
17.3.1 Mantenimento della temperatura corporea La dispersione di calore nel bambino è dovuta all’estesa superficie corporea ed è più elevata e rapida rispetto all’adulto. Per tale motivo è molto importante monitorare la temperatura e utilizzare sistemi di riscaldamento. Ipotermia significa grave acidosi, alterazioni farmacocinetiche, apnea nel neonato e difficoltà ad antagonizzare un blocco neuromuscolare. Prima dell’arrivo del paziente è necessario riscaldare la sala operatoria. La temperatura va rilevata a livello esofageo (1/3 inferiore), faringeo o vescicale; il corpo riscaldato con coperte termiche o lettini riscaldati, i liquidi infusi a temperatura ambiente o mediante pompe di infusione riscaldanti, le estremità e il capo fasciati con cotone di Germania. È bene utilizzare nasi artificiali/filtri per umidificare il circuito del respiratore e, durante l’intervento, limitare le superfici esposte (per esempio, se possibile coprire le anse intestinali). Con i neonati utilizzare sempre lettini termici (infant warmer) in sala e culle termiche durante il trasporto (Cote et al., 2009; Villani, 2004).
17.3.2 Elettrocardiogramma e pressione arteriosa Generalmente è sufficiente un monitoraggio ECG standard a tre derivazioni. Per la rilevazione della pressione arteriosa utilizzare un bracciale di dimensioni adeguate, che copra circa i 2/3 della lunghezza del braccio impostando una corretta pressione
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di gonfiaggio (modalità pediatrico-neonatale). Attenzione a petecchie, stasi venosa o compressione nervosa da scorretto uso dell’apparecchio (Villani, 2004).
17.3.3 Saturimetria La saturimetria va misurata utilizzando sensori di dimensioni adeguate. Cambiare spesso posizione dei sensori non-disposable per evitare arrossamenti e confrontare la frequenza cardiaca dell’ECG con quella rilevata dal saturimetro (Villani, 2004; Barash et al., 2001).
17.3.4 Concentrazione inspirata di ossigeno Prestare sempre attenzione alla concentrazione di ossigeno erogato durante l’anestesia sia per prevenire ipossiemie, sia per evitare l’effetto tossico e dannoso di alte concentrazioni, in particolare nei neonati (retinopatia, atelettasie polmonari) (Villani, 2004; Barash et al., 2001).
17.3.5 Capnometria La capnometria è il gold standard per la verifica del corretto posizionamento del tubo endotracheale. Lo studio della capnografia in continuo aiuta a rilevare particolari problemi come il dislocamento o l’occlusione del tubo, l’estubazione accidentale (evenienze frequenti nel bambino piccolo a causa delle ridotte dimensioni dei tubi), la deconnessione dal circuito, l’embolia gassosa e l’ipertermia maligna. Per maggiore sicurezza è consigliabile fissare uno stetoscopio sul torace in modo da poter auscultare il bambino con facilità in qualsiasi momento (Cote et al., 2009; Barash et al., 2001).
17.3.6 Equilibrio volemico Durante l’intervento occorre rimpiazzare il digiuno preoperatorio (ore di digiuno × fabbisogno basale) e le perdite, compresa la perspiratio, e mantenere il fabbisogno basale (Tab. 17.3) (Cote et al., 2009).
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Tabella 17.3 Fabbisogno idrico di base (Holliday e Segar, 1975) Peso (kg)
Liquidi/h
Liquidi/24 h
4 ml/kg
100 ml/ kg
10-20
40 ml + 2 ml per ogni kg >10 kg
1000 ml + 50 ml per ogni kg >10 kg
>20
60 ml + 1 ml per ogni kg >20 kg
1500 ml + 20 ml per ogni kg >20 kg
<10
17.4 Monitoraggio postoperatorio e controllo del dolore La sorveglianza in area di risveglio è affidata a personale esperto in campo pediatrico con la supervisione di un anestesista. Oltre ai parametri vitali, l’attività respiratoria, i riflessi di protezione delle vie aeree, il livello di sedazione e la motilità, va valutato anche il dolore mediante scale di valutazione diverse a seconda dell’età del paziente (Tabella 17.4) (Finley e McGrath, 1991). Il dolore è influenzato e determinato da numerosi fattori tra cui le emozioni (paura, ansia), il contesto socioculturale o precedenti esperienze dolorose (“memoria spinale del dolore”) e va considerato e trattato allo stesso modo di una complicanza postchirurgica. A volte trattamenti non farmacologici come carezze o rassicurazioni possono essere utili. Il dolore va prevenuto e spiegato già durante la visita preoperatoria (tranquillizzare i genitori e il bambino servirà a creare un clima più confortevole e meno ansioso per il paziente). La terapia antidolorifica non dev'essere impostata al bisogno, ma ad orari fissi più eventuali dosi rescue, ed è consigliabile sfruttare l’azione sinergica dei farmaci per ridurne la dose utilizzata. La presenza del genitore all’induzione dell’anestesia ha un effetto estremamente rassicurante per il piccolo e certamente contribuisce a ridurre la percezione del dolore (Lonnqvist e Morton, 2005). Molti farmaci antidolorifici sono off-label in età pediatrica. Il medico, sotto la propria responsabilità e previa informazione dei genitori e acquisizione del consenso, può impiegare il farmaco off-label se esiste una letteratura sufficiente e adeguata a garantirne la sicurezza nei bambini. Tabella 17.4 Scale di valutazione del dolore a seconda dell’età del bambino 0-1 mese
Premature infant pain profile (PIPP)
1 mese-2 anni
Objective pain scale (OPS a 4 items)
2-3 anni
Objective pain scale (OPS a 7 items)
3-7 anni
Children Hospital of Eastern Ontario pain scale (CHEOPS) +
7-14 anni
CHEOPS + Visual analogue scale (VAS) (0-10)
Faces pain scale (a 5 facce, Face Happy-Sad Scale, Wong-Baker Faces Scale)
300
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Il farmaco analgesico maggiormente impiegato e registrato in età pediatrica è il paracetamolo che ha però una debole azione analgesica e può quindi essere impiegato per dolori lievi (Anderson et al., 2001). Da alcuni anni è disponibile la forma endovenosa di paracetamolo, dimostratasi tanto più potente quanto più elevata è la concentrazione raggiunta al sito effettore, motivo per cui la somministrazione dovrebbe avvenire in un tempo massimo di 15 minuti. La dose varia in base all’età, ma soprattutto al peso del bambino (Kumpulainen et al., 2007). Contro il dolore lieve-moderato vengono impiegati i FANS, meglio se abbinati a paracetamolo per un’azione potenziata. Tra gli effetti collaterali ricordiamo l’inibizione della funzione renale, effetto aggravato dalla disidratazione. Nei neonati i FANS riducono la filtrazione glomerulare di circa il 20%, ma nei bambini sani la nefrotossicità è bassa. Possono inoltre ridurre parzialmente l’aggregazione piastrinica e, anche se in molti studi non è stato evidenziato alcun sanguinamento postoperatorio, è sconsigliato il loro uso in pazienti con disturbi della coagulazione o che assumono terapia anticoagulante (Papacci et al., 2004). Vanno usati con attenzione in pazienti asmatici, pazienti con allergie multiple o eczema severo e sono sconsigliati in bambini con storia di ulcera peptica. Se possibile, utilizzare l’ibuprofene che, tra tutti i FANS, è risultato essere quello con minori effetti collaterali e più sicuro in ambito pediatrico è utilizzabile in pazienti a partire dai 3 mesi di vita (Forrest et al., 2002; Clak et al., 2007; Houck et al., 1996). Gli oppioidi rimangono i più potenti tra gli antidolorifici, anche se con svariati effetti su diversi apparati. Uno di questi farmaci, il tramadolo, viene utilizzato intra- e postoperatoriamente contro il dolore moderato. Rispetto agli altri oppioidi presenta minori effetti collaterali quali depressione respiratoria e sedazione, ma comporta un’alta incidenza di nausea e vomito (Finkel et al., 2002). Tra gli oppioidi la morfina è il farmaco più studiato: la sua farmacocinetica nei bambini è sovrapponibile a quella degli adulti, eccezion fatta per i neonati e i lattanti nei quali la clearance e il legame proteico ridotti ne allungano l’emivita (Scott et al., 1999; Lynn et al., 1984). La codeina, efficace nel dolore lieve-moderato, viene spesso utilizzata in associazione con paracetamolo o FANS; iI suo effetto analgesico non è sicuro ed è imprevedibile in quanto metabolizzata in morfina dall’enzima di conversione CYP2D6, il quale presenta un’attività variabile nella popolazione e risulta essere molto ridotta in neonati e lattanti. Un altro farmaco utilizzato soprattutto in ambito intraoperatorio e in terapia intensiva è il fentanyl, per il quale, nei neonati, la clearance è ridotta e l’emivita aumentata (Santeiro et al, 1993). Il remifentanyl, grazie al suo rapido onset e alla sua breve durata d’azione, risulta essere un farmaco maneggevole durante l’intervento chirurgico, ma essendo un potente depressore del respiro il suo utilizzo nel postoperatorio è consigliato solo in ambiente protetto come la terapia intensiva. Tecniche di anestesia loco-regionale (blocco dei nervi periferici), blocchi centrali (epidurale, spinale o caudale) e infiltrazione locale della ferita, abbinati sempre ad anestesia generale, sono largamente utilizzati in campo pediatrico sia per il controllo del dolore intra- e postoperatorio, sia per ridurre la risposta allo stress e facilitare l’estubazione precoce.
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17.5 Gestione del bambino con sindrome dell’apnea ostruttiva (OSAS) La prevalenza di OSAS (obstructive sleep apnea syndrome) in età pediatrica è stimata intorno al 2%. Secondo l’American Academy of Pediatrics i fattori di rischio per complicanze postoperatorie in pazienti con OSAS, sottoposti ad adenotonsillectomia, sono l’età inferiore a 3 anni, OSAS severa, complicanze cardiache o dell’accrescimento, obesità, infezione respiratoria recente, sindrome di Down, anomalie craniofacciali e disordini neuromuscolari (American Academy of Pediatrics, 2002). Bambini con questi fattori di rischio andrebbero operati in ospedali dotati di terapia intensiva pediatrica e monitorati, mediante saturimetria, fino al mattino successivo all’intervento. La gravità dell’OSAS è un fattore di rischio per le complicanze respiratorie (desaturazione ed eventi ostruttivi) dopo la chirurgia tonsillare (Sanders et al., 2006; Nixon et al., 2004). La desaturazione con nadir <80%, rilevata mediante pulsossimetria e/o un indice di disturbo respiratorio (numero di eventi ostruttivi per ora di sonno) di 5 o più episodi/ora rilevato mediante polisonnografia (PSG), elevano la probabilità di complicanze respiratorie postoperatorie di almeno 5 volte. È dimostrato che i bambini più a rischio sono quelli asmatici e di età inferiore ai 2 anni (Wilson et al., 2002; Ministero della Salute, 2008).
17.6 Conclusioni L’anestesia pediatrica è da considerare una subspecialità che richiede conoscenze anatomiche, fisiopatologiche, farmacologiche e quindi anestesiologiche specifiche. Gli anestesisti che si occupano di bambini devono ricevere un training adeguato e praticare la disciplina con continuità, in quanto è noto che un team di anestesisti e chirurghi esperti in pediatria è in grado di ridurre morbilità e mortalità in questa popolazione.
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Problematiche anestesiologiche nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido
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A. De Gasperi, A. Corti, A. Cristalli, M. Prosperi, E. Mazza
Riassunto Il notevole miglioramento dei risultati e l’aumento della sopravvivenza ottenuti negli ultimi dieci anni nei trapianti di organi solidi portano un sempre maggior numero di soggetti trapiantati a essere candidati a interventi chirurgici in elezione, urgenza o emergenza. Complicanze legate a patologia vascolare arteriosa, patologie a carico di organi viscerali oppure l’insorgenza di tumori de novo obbligano non solo i Centri Trapianti di riferimento, ma anche ospedali in cui non si svolge attività di trapianto, a occuparsi di questi pazienti. In questo capitolo verranno presi in considerazione i problemi fondamentali che anestesisti e intensivisti potrebbero trovarsi ad affrontare nel periodo perioperatorio di questo particolarissimo paziente. Verranno prese in considerazione sia le modificazioni della funzione dell’organo una volta trapiantato sia le modificazioni del profilo fisiologico del paziente dopo il trapianto. Su questa base saranno discusse sia le problematiche strettamente anestesiologiche (scelta della tecnica anestesiologica e dei farmaci e analisi delle potenziali interferenze farmacologiche) che quelle, più ampie, legate alla immunosoppressione e al rischio infettivo. Il contatto con il Centro Trapianti di riferimento resta comunque un passo fondamentale e irrinunciabile nella complessa e affascinante gestione clinica di questi pazienti.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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A. De Gasperi et al.
18.1 Introduzione Il miglioramento delle tecniche chirurgiche, le nuove molecole immunosoppressive e la migliore conoscenza del complesso profilo fisiopatologico dei pazienti portatori di insufficienza d’organo terminale da parte di anestesisti e intensivisti hanno consentito l’importante miglioramento dei risultati del trapianto di organo solido raggiunti negli ultimi dieci anni: preliminare fondamentale è la donazione, che in Italia ha superato la quota di 20 donatori per milione. La sopravvivenza, per la maggior parte dei trapianti, è attualmente superiore all’85% dopo il primo anno, ed è compresa tra il 60 e l’80% a cinque anni: varia infatti tra il 40% per il trapianto di polmone e il 95% per il trapianto di rene in età pediatrica (dati CNT, www.centronazionaletrapianti.it, accesso giugno 2010). Tuttavia l’aumento dell’età dei soggetti trapiantati, le numerose comorbidità che si registrano a carico dell’apparato cardiorespiratorio e gastroenterico e la presenza di tumori de novo (Vaidic e Van Leeuwen, 2009) o di malattie linfoproliferative (Parker et al., 2010) tracciano una nuova storia naturale del paziente trapiantato. L’incidenza di problematiche chirurgiche è in aumento in questo gruppo di pazienti: un numero compreso tra il 15 e il 40% di pazienti sottoposti a trapianto di organo solido si presenta oggi in ospedale per essere sottoposto a intervento chirurgico non trapiantologico o a procedure di radiologia interventistica o di endoscopia digestiva, toracica, urologica (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006). La patologia oncologica è rappresentata nel 30% circa dei casi (Marzoa et al., 2007). Non dev’essere infine dimenticata la possibilità di trapianto d’organo in soggetti già trapiantati e per cui non era in prima istanza indicato il trapianto combinato: la letteratura per quest’ultima indicazione è assai scarsa. Condurre un’anestesia in sicurezza in questi pazienti presuppone la conoscenza di numerosi aspetti del tutto peculiari e legati sostanzialmente alla fisiologia dell’organo trapiantato e alla condizione di immunosoppressione (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006). I cardini della medicina perioperatoria in questo particolare contesto sono da una parte la precisa conoscenza delle modificazioni funzionali che l’organo prelevato subisce una volta trapiantato e i riflessi che tali modificazioni possono avere sul profilo fisiologico; dall’altro, l’assai articolata programmazione del perioperatorio (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999). Di questo secondo punto, aspetti fondamentali sono: – la valutazione preoperatoria della funzione del graft (Gohh e Warren, 2006); – la previsione delle problematiche intraoperatorie legate sia alla funzione d’organo che alle modificazioni introdotte dalla chirurgia (da cui deriverà l’indicazione a modalità avanzate di monitorizzazione perioperatoria); – la conoscenza delle eventuali interferenze dei farmaci impiegati in anestesia in rapporto alla funzione d’organo e all’uso degli immunosoppressori; – la programmazione di osservazione e/o trattamento in ambienti intensivi o semi-intensivi nel postoperatorio. Mentre la letteratura riporta in chirurgia di elezione risultati sostanzialmente
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sovrapponibili a quelli dei pazienti non trapiantati, si osserva un’elevata frequenza di complicanze nei soggetti trapiantati e sottoposti a procedure eseguite in urgenza/emergenza (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006).
18.2 Terapia immunosoppressiva Tutti i pazienti trapiantati vengono sottoposti a terapia immunosoppressiva, di solito con associazione di più farmaci di classi differenti: 1. inibitori della calcineurina (antiproliferazione linfociti T: ciclosporina [CSA], tacrolimus [TAC]); 2. inibitori sintesi DNA (azatioprina, micofenolato mofetile); 3. corticosteroidi; 4. sieri antilinfocitari policlonali (globulina antilinfocitaria, timoglobulina) o anticorpi monoclonali (l’OKT3 è decisamente obsoleto) (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Hawksworth et al., 2009; Kostopanagiotou et L., 2008). Per l’induzione dell’immunosoppressione sono attualmente disponibili molecole di ultima generazione (IL-2 receptor antagonists: basiliximab e daclizumab), decisamente più utilizzate, anche se registrate per organi differenti. Nuovi immunosoppressori recentemente introdotti nella pratica clinica sono il sirolimus e l’everolimus, apparentemente dotati di minore tossicità renale (Hawksworth et al., 2009). Il problema dell’immunosoppressione nel periodo perioperatorio è sempre di grande interesse. Si raccomanda di non interrompere la terapia immunosoppressiva per tutto il periodo perioperatorio. La ciclosporina ha un’emivita di 6-9 ore. L’iniziale somministrazione per via endovenosa (0,5-1 mg/kg nelle 24 h in infusione continua) e la successiva modificazione del dosaggio secondo i livelli ematici si sono dimostrate sicure, ma non esenti da effetti collaterali. È pertanto preferibile la via enterale in quanto i veicolanti attualmente utilizzati consentono la somministrazione di CSA e TAC entro 6-12 ore dall’intervento, con ottima prevedibilità dei livelli ematici. Numerosi fattori possono alterare i livelli plasmatici di CSA e TAC (diluizione per infusione massiva perioperatoria di fluidi [Williams e Lake, 1992], uso del bypass cardiopolmonare, derivazione biliare, presenza del tubo di Kehr, uso di farmaci che interferiscono con il metabolismo), e quindi nel periodo postoperatorio è preferibile un monitoraggio giornaliero. CSA e TAC sono metabolizzati nel fegato dal citocromo P450 IIIA (comune via di detossificazione per molti farmaci). Alcuni farmaci possono interferire sia come induttori (carbamazepina, fenitoina), sia come inibitori o substrati competitivi per lo stesso enzima (claritromicina, cotrimossazolo, eritromicina, itraconazolo, metoclopramide, fluconazolo, voriconazolo). A dif-
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ferenza di altri immunosoppressori, l’azatioprina (AZA) non richiede particolari aggiustamenti terapeutici qualora debba essere somministrata per via endovenosa (dosaggio abituale 1-1,5 mg/kg). In alternativa è attualmente utilizzato il micofenolato mofetil, di cui è possibile il dosaggio ematico giornaliero. La maggior parte dei pazienti trapiantati assume corticosteroidi come immunosoppressori: sebbene potenzialmente a rischio di insufficienza surrenalica per stress perioperatorio, l’evenienza è rara ed è sufficiente la somministrazione della dose di mantenimento di corticosteroidi senza alcun supplemento (Lee et al., 2009). Tutti i farmaci immunosoppressori presentano effetti collaterali significativi che possono influenzare la gestione anestesiologica e perioperatoria del paziente trapiantato (Hawksworth et al., 2009). CSA e TAC possono causare una diminuzione del flusso ematico renale dose-dipendente (aumentata sintesi di tromboxano A2 e probabilmente di endotelina) e conseguente disfunzione renale, più evidente nei soggetti trapiantati di cuore e polmone (20%), di solito sottoposti a una maggiore pressione immunosoppressiva rispetto ai trapiantati di fegato (Gohh e Warren, 2006). I reni dei pazienti trapiantati in terapia con CSA e TAC sono più esposti a insulti ischemici acuti (ipovolemia, mezzo di contrasto, farmaci nefrotossici). CSA e TAC causano ipertensione arteriosa nel 50-70% dei pazienti per aumentato riassorbimento di sodio (Na), vasocostrizione periferica, disfunzione renale preesistente. Complicanze neurologiche minori (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006) si osservano nel 30-60% dei pazienti trapiantati. CSA e TAC possono essere tossici sul sistema nervoso centrale e la soglia convulsivante può essere ridotta. Crisi convulsive acute, afasia, disturbi della coscienza e disturbi del linguaggio si possono associare a elevati livelli di CSA oppure in presenza di ridotti livelli di lipidi e/o di magnesio. La mielinolisi pontina centrale, complicanza rara (1%) ma particolarmente temuta poiché capace di essere gravemente invalidante, è invece prevalentemente osservata nei pazienti nel postoperatorio del trapianto epatico. Spesso rappresenta la conseguenza di un danno osmotico associato a una (troppo) rapida correzione (o modificazione) perioperatoria di una iponatremia preesistente, con un aumento del Na superiore a 25 mEq/l in un periodo inferiore alle 24 ore, oppure di un’eccessiva modificazione dell’osmolarità plasmatica (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Williams e Lake, 1992). CSA, TAC e steroidi possono causare iperlipidemia: tale riscontro è osservabile nel 55-70 % dei trapiantati di rene o cuore e nel 6-15% dei trapiantati di fegato e polmone. La terapia cronica con steroidi si accompagna a una lunga serie di effetti collaterali che includono aumentato rischio infettivo, sanguinamento gastrico, iperglicemia, ipertensione, osteoporosi (Bromberg e Baliga, 1995). Sono scarsi i dati in letteratura sulle interazioni tra CSA e TAC e farmaci dell’anestesia. Tutti gli anestetici per via inalatoria sono stati usati con successo nella chirurgia del trapianto e il possibile rilascio di residui fluorinati inorganici potenzialmente nefrotossici appare più un’evenienza teorica che una rilevanza clinica (Mazze et al., 2000). Al momento isofluorano, sevoflurano e desflurano sono gli anestetici inalatori utilizzati con maggiore sicurezza (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006). Non sembrano esserci alterazioni di livelli ematici e di clearance di CSA durante anestesia con isofluorano, pro-
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tossido d’azoto e durante infusione di propofol. L’anestesia totalmente endovenosa con propofol e remifentanyl costituisce un’opzione alternativa altrettanto valida e utilizzata. Viene riportato per CSA un potenziamento dell’effetto analgesico del fentanyl (Girella et al., 1987) e (probabilmente anche per TAC) un maggiore effetto dei farmaci miorilassanti: il meccanismo d’azione proposto per vecuronio e pancuronio sembra essere l’inibizione di ingresso di Ca++ nella cellula muscolare con prolungato blocco neuromuscolare (Siai et al., 1990; Crosby e Robblee, 1988; Gramstad et al., 1986), mentre per atracurium e cisatracurium, oltre che per vecuronio, un potenziamento del blocco neuromuscolare (Gramstad et al., 1986).
18.3 Fisiologia e farmacologia dell’organo denervato L’organo trapiantato è denervato (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006). Mentre questo può essere di importanza relativa per rene e fegato (ma devono comunque essere tenute presenti mancanza di afferenze viscerali nocicettive e mancata vasocostrizione epatica in caso di shock), possono esistere implicazioni importanti per il cuore, che nel tempo va incontro a reinnervazione e ai problemi ad essa correlati, e per il polmone.
18.3.1 Cuore L’assenza del controllo parasimpatico fa sì che la frequenza basale sia più elevata del normale (spesso >90 battiti/minuto). Mancano le risposte alla stimolazione del seno carotideo e alla manovra di Valsalva. Si ha perdita della risposta ortosimpatica a laringoscopia e intubazione, mentre è attenuata la risposta in caso di piano superficiale di anestesia. Per quanto riguarda l’innervazione autonomica, è abolita la risposta agli stimoli a partenza dal centro vasomotore per variazioni di pressione arteriosa, ma è conservata la capacità di risposta alle catecolamine circolanti. Il meccanismo di Frank-Starling rimane integro e gioca un ruolo compensatorio determinante per il mantenimento della gettata cardiaca, di solito a valori vicino a quelli osservabili nel soggetto normale (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999): il cuore denervato è pertanto precarico-dipendente (Murphy et al., 2000; Blasco et al., 2009). L’aumento della gettata cardiaca (aumento del volume di eiezione) è affidato all’aumento del riempimento delle camere cardiache (aumentato ritorno venoso) e non a uno stimolo inotropo; la frequenza cardiaca aumenta successivamente (5-10 min) in risposta all’azione delle catecolamine circolanti, e ritorna a livelli basali in circa 20 minuti al cessare dello stimolo. La risposta all’ipovolemia presenta una prima marcata diminuzione della pressione arteriosa, cui fa seguito un’esagerata risposta ipertensiva da rilascio di catecolamine (vasocostrizione).
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Per quanto riguarda i farmaci attivi sul cuore, si può verificare ipersensibilità alle catecolamine, di solito spiegata con la denervazione. Adrenalina e noradrenalina hanno un effetto inotropo aumentato e tendono ad avere un rapporto beta/alfa (inotropo/vasocostrittore) più elevato. La dopamina agisce sul cuore prevalentemente con meccanismo indiretto, liberando noradrenalina, per cui il suo effetto inotropo può essere diminuito, prevalendo gli effetti amimetici. Isoproterenolo e dobutamina non mostrano differenze significative: la risposta alla dobutamina è di solito evidente e viene spiegata con l’aumento di densità dei recettori β2 e/o con il mancato uptake presinaptico di catecolamine (Stover e Siegel, 1995). In alcuni casi la somministrazione di atropina si è rivelata inefficace. Molti degli effetti sopra citati sono tuttavia modificati dalla reinnervazione, prevalentemente ortosimpatica, e appaiono talvolta imprevedibili (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Boscoe, 1995; Stover e Siegel, 1995). L’autoregolazione coronarica sembra rimanere intatta. È invece importante evidenziare come possa osservarsi una risposta particolarmente marcata alla neostigmina, con bradicardia che può arrivare fino all’arresto sinusale: questo fenomeno, di solito contrastato dalla somministrazione di atropina, viene spiegato con la reinnervazione a opera di fibre afferenti cardiache oppure per un effetto diretto sui recettori colinergici (Beebe et al., 1994; Cheng, 1993). Da alcuni Autori viene suggerito (Toivonen, 2000; Keegan e Plevak, 2004), vista la non univoca risposta all’atropina, di avere comunque a disposizione adrenalina, isoproterenolo o dobutamina. Sono più frequenti i fenomeni aritmici ventricolari e sopraventricolari (in particolare le forme ipercinetiche per riduzione del tono vagale) e i blocchi focali (20-30% dei pazienti). Il 5% dei pazienti è portatore di pacemaker e/o di defibrillatore impiantato e devono pertanto essere conosciute le modalità di gestione di questi dispositivi (Blasco et al., 2009). È importante ricordare che nel cuore trapiantato si evidenzia spesso un’alterazione della funzione diastolica, legata in alcuni casi a episodi di rigetto oppure a presenza di coronaropatia del graft (Stover e Siegel, 1995; Keegan e Plevak, 2004).
18.3.2 Polmone Sia in caso di trapianto monopolmonare che bipolmonare, è presente una completa denervazione del/dei polmoni trapiantati e delle vie aeree distali alla sutura (bronchiale o tracheale) (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Boscoe, 1995; Keegan e Plevak, 2004). La reinnervazione, documentata nel modello animale, non è invece dimostrata nell’uomo (Boscoe, 1995). Sono evidenti modificazioni del riflesso della tosse, assente per stimolazione al disotto dell’anastomosi tracheale, ma presente per stimolo volontario e nel paziente completamente sveglio: esiste comunque il rischio di microinalazioni notturne e la clearance mucociliare è costantemente ridotta. Opinioni contrapposte sono invece riportate relativamente alla possibile iperreattività bronchiale, da alcuni descritta come frequente (Toivonen, 2000) e da altri definita rara (Kostopanagiotou et al., 1999).
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Importanti possono essere le conseguenze legate all’interruzione dei linfatici che espongono al sovraccarico emodinamico e all’edema polmonare: mentre nell’animale i linfatici ricompaiono dopo 4 settimane dal trapianto, tale ripristino non è documentato nell’uomo. In letteratura tale condizione è stata evidenziata particolarmente nel soggetto portatore di trapianto combinato cuore-polmoni (Toivonen, 2000), dove alla necessità di sostenere la gettata cardiaca con l’aumento del precarico si accompagnava il rischio di sovraccarico emodinamico del circolo polmonare (Boscoe, 1995). In questi casi il monitoraggio emodinamico invasivo con catetere di Swan-Ganz diventa essenziale.
18.4 Stato generale del paziente Il trapianto “cura” molte delle alterazioni sistemiche causate dall’organo non funzionante, introducendo importanti modificazioni sul profilo fisiologico alterato dall’organo malfunzionante: un esempio è la regressione degli shunt arterovenosi sistemici e dell’atteggiamento cardiocircolatorio iperdinamico del cirrotico dopo trapianto epatico (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999). Alcune anormalità presenti prima del trapianto possono tuttavia ancora persistere ed essere aggravate dalla terapia immunosoppressiva. In particolare ciò accade per il diabete (4-20% dei pazienti trapiantati con diabete posttrapianto) e le possibili complicanze a esso correlate (neuropatia autonomica) e per l’ipertensione arteriosa. Una diffusa degenerazione arteriosclerotica è spesso presente nei soggetti sottoposti a trapianto di rene o di cuore. Dopo trapianto di rene o di cuore (ma è riportato ormai anche nel soggetto trapiantato di fegato) è soprattutto aumentata l’incidenza di malattia coronarica, che rappresenta una delle cause più rilevanti di morte nei pazienti trapiantati di rene (Gohh e Warren, 2006) e, come osservato recentemente, anche nei trapiantati di fegato. La terapia immunosoppressiva espone il soggetto trapiantato al rischio di infezioni batteriche, virali, fungine o opportunistiche: il tipo di infezioni, come proposto da Fishman, è legato sia alla distanza temporale dal trapianto che allo stato di immunosoppressione (Fishman e Issa, 2010; Issa e Fishman, 2009). Da sottolineare da ultimo come le infezioni, specialmente intraaddominali, possono non presentare i segni e i sintomi tipici a causa della terapia steroidea in atto.
18.5 Funzionalità dell’organo trapiantato La funzionalità dell’organo dev’essere indagata accuratamente prima dell’intervento (eventualmente contattare il Centro Trapianti), in particolare riguardo all’attuale condizione di funzione dell’organo e all’eventuale potenzialità di rigetto, causa di
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progressivo deterioramento dei test di funzionalità dell’organo trapiantato e di aumento della morbilità perioperatoria (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Keegan e Plevak, 2004).
18.5.1 Polmone Anamnesi ed esame obiettivo finalizzati alla valutazione dell’autonomia funzionale (tosse, dispnea, ortopnea, tolleranza allo sforzo, necessità di utilizzo di ossigenoterapia), emogasanalisi e prove di funzione respiratoria, oltre che eventualmente test per VO2max, consentono di inquadrare la condizione di funzione del graft e il compenso cardiorespiratorio del paziente (Gohh e Warren, 2006; Keegan e Plevak, 2004). È di particolare importanza approfondire la presenza di aumento del gradiente alveoloarterioso di O2 e/o di ipercapnia, segni evidenti di malfunzione del graft che devono comunque indurre ad approfondire. Radiografia del torace ed ECG devono essere compresi nella valutazione strumentale preoperatoria: rilievi patologici o modificazioni rispetto ai controlli posttrapianto vanno opportunamente approfonditi (rispettivamente TC torace ed ecocardiogramma o ecocardiogramma dinamico). È fondamentale il contatto con il Centro Trapianti di riferimento per valutare le eventuali modificazioni dei test di base e considerare indagini più approfondite.
18.5.2 Rene Sebbene in presenza di valori di filtrato glomerulare diminuiti, i valori di azotemia e creatininemia possono essere entro i limiti di norma: la funzione renale, comprensiva del valore del filtrato glomerulare e il profilo elettrolitico devono pertanto essere inclusi nella valutazione preoperatoria, insieme ai test di funzione epatica, al profilo emocromocitometrico completo e ai test coagulativi. Conseguenza clinicamente importante legata alla modificazione del filtrato glomerulare è il prolungamento dell’emivita di farmaci eliminati prevalentemente per via renale: in particolare, attenzione deve essere posta per petidina e morfina (presenza di metaboliti a eliminazione renale, pertanto capaci di prolungarne l’azione o di determinare effetti collaterali) e la potenziale tossicità dei FANS. Vista l’elevata incidenza di patologie legate al metabolismo (diabete, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia) e di comorbidità associate al profilo cardiaco (ipertensione, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca congestizia) e respiratorio (broncopatia cronica) (Gohh e Warren, 2006; Keegan e Plevak, 2004), ECG, radiografia del torace ed emogasanalisi (e comunque saturimetria in prima istanza) sono da considerarsi obbligatori nella routine preoperatoria. L’elevata incidenza di patologia cardiaca (e coronarica in particolare) e l’età oggi sempre più avanzata dei soggetti trapiantati impone, in presenza di storia clinica ed esame obiettivo congruen-
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ti, il controllo ecocardiografico. A questo possono seguire ulteriori approfondimenti con test provocativi (imaging con sestamibi/dobutamina o dipiridamolo oppure ecocardiografia con dobutamina) in caso di reperti patologici o di anamnesi positiva per equivalenti ischemici o legati a insufficienza cardiaca congestizia. Non appare ancora codificata in questo contesto, sebbene già utilizzata, la TC coronarica.
18.5.3 Fegato Dopo trapianto di fegato i test di funzionalità, compreso il profilo coagulativo, ritornano nella norma in circa due-quattro settimane ((Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006: Keegan e Plevak, 2004). Più lento può essere invece il ritorno entro valori di normalità della bilirubinemia, specie se in presenza di precoce disfunzione del graft (early allograft dysfunction). Nel lungo periodo la modificazione di AST e γGT può indicare rigetto: in tal caso, se associata a febbre ad andamento indolente e ad astenia, dev’essere eseguito un approfondimento prima di un intervento che non sia urgente. In diagnosi differenziale, oltre a fatti infettivi virali, deve essere presa in considerazione, nei soggetti HCV-positivi, la ripresa di infezione da virus C e l’eventuale (rara per fortuna) nuova evoluzione verso la cirrosi. Tra gli esami ematochimici, devono essere considerati il profilo completo emocromocitometrico, il quadro elettrolitico, la glicemia, i test di funzionalità epatica compresi il profilo coagulativo e la capacità sintetica. Test dinamici che esplorino la funzione epatica sono disponibili (clearance della indocianina verde), ma ancora poco utilizzati; potrebbero però costituire un’interessante ipotesi in un prossimo futuro. ECG e radiografia del torace sono obbligatori come diagnostica basale. Approfondimenti strumentali della funzione cardiaca e respiratoria (ecocardiogramma, TC torace, risonanza magnetica cardiaca) sono invece da considerare in presenza di anamnesi od obiettività significative per patologia cardiaca o respiratoria o in presenza di fattori di rischio. L’aumento dell’età dei soggetti sottoposti a trapianto epatico e la presenza di numerose comorbidità impone molta attenzione nella valutazione preoperatoria e uso anche frequente di metodiche diagnostiche avanzate, specie in previsione di chirurgia addominale maggiore o toracica. In presenza di buona ripresa della funzione epatica, il soggetto trapiantato di fegato dev’essere considerato normale dal punto di vista funzionale: per esempio, la capacità di metabolismo dei farmaci di un fegato trapiantato con funzionalità nei limiti è normale e le tecniche di anestesia generale (inalatoria o endovenosa) e locoregionale non trovano sostanziali controindicazioni. Possono sorgere invece problemi per i blocchi centrali in caso di persistenza di ipopiastrinemia (109/l) o in presenza di difetti coagulativi (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006): le linee guida disponibili, a cui si rimanda (www.asra.org; www.esraeurope.org; Nordic guidelines for neuraxial blocks in disturbed haemostasis from the Scandinavian Society of Anaesthesiology and Intensive Care Medicine [Acta Anaesthesiol Scand 2010;54:16-41]) costituiscono comunque i
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documenti di riferimento. Ogni precauzione dev’essere finalizzata invece alle problematiche generali legate al rischio infettivo e alle potenziali interferenze legate ai farmaci della immunosoppressione.
18.5.4 Cuore Dopo trapianto di cuore molti pazienti ritornano alla classe NYHA-1 con vita normale. Essendo il cuore denervato, i meccanismi di compenso sono assai sensibili, come già sottolineato, alla condizione di riempimento (precarico, dipendenza). La frequenza cardiaca è di solito medio-alta (>90 battiti/minuto), con ridotta o assente risposta in frequenza per ipovolemia (Blasco et al., 2009; Boscoe, 1995; Stover e Siegel, 1995; Beebe t al., 1994). La valutazione del paziente sottoposto a trapianto cardiaco (Gohh e Warren, 2006; Keegan e Plevak, 2004) deve prevedere, oltre alla routine ematochimica relativa a quadro metabolico (glicemia, colesterolemia, trigliceridemia), funzione epatica e renale, profilo coagulativo e quadro elettrolitico, i marcatori di danno miocardico (da alcuni è sempre più spesso suggerita la determinazione della troponina I). ECG e radiografia del torace, comunque da valutare, possono essere utilmente associati a un controllo ecocardiografico. In presenza di anormalità, il consulto con il Centro Trapianti di riferimento è fondamentale per identificare problematiche legate a coronaropatia del graft o a condizioni di rigetto cronico (per cui diventa dirimente il parere del Cardiologo del Centro di riferimento). Il rigetto cronico si manifesta di solito con comparsa di aterosclerosi coronarica a rapida evoluzione (40-65% a 5 anni). Il rigetto severo può causare grave disfunzione del graft cardiaco. È importante ricordare che, sempre a causa del cuore denervato, nei primi anni dopo il trapianto possono non essere presenti sintomi anginosi, che invece ricompaiono nel medio-lungo termine (Blasco et al., 2009). I segni clinici del rigetto sono: facile affaticamento, aritmie ventricolari, scompenso congestizio, segni elettrocardiografici di infarto. Sono comuni blocchi di branca destra e aritmie atriali e ventricolari; alcuni pazienti necessitano di un pacemaker permanente (Blasco et al., 2009).
18.6 Considerazioni anestesiologiche generali Nei pazienti trapiantati sono state applicate con successo differenti tecniche anestesiologiche sia generali che loco-regionali (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Keegan e Plevak, 2004; Niemann e Eileen, 2010; Yost e Niemann, 2010). Può essere utilizzata una premedicazione standard. Da alcuni è suggerito, per la possibilità di depressione respiratoria eccessiva in alcuni pazienti sottoposti a trapianto di polmone, di somministrare la premedicazione solo in ambiente protetto e con il monito-
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raggio della saturimetria. La profilassi antibiotica dev’essere utilizzata come di routine nelle chirurgie specifiche, salvo diverse indicazioni dettate dalle condizioni del paziente: in tal caso la scelta dev’essere guidata dalla conoscenza delle evidenze microbiologiche. Non esiste consenso sull’uso profilattico di farmaci antifungini. Il monitoraggio perioperatorio è scelto in base al tipo di paziente, al tipo di chirurgia, alle necessità cliniche del paziente (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Keegan e Plevak, 2004). Se necessario (interventi dove si prevedano perdite ematiche o possibile necessità di largo impiego di fluidi; utilizzo di supporto nutrizionale postoperatorio), l’accesso vascolare centrale dev’essere considerato prioritario e il posizionamento del catetere centrale può essere facilitato dall’utilizzo di guida ecografica (Theodoro et al., 2010). Metodiche di riduzione delle infezioni associate a catetere centrale di recente introduzione (cateteri medicati o sistemi a liberazione di clorexidina) possono trovare applicazione in questo contesto, anche se non esistono evidenze (De Gasperi, Trattatto Italiano di Infezioni Ospedaliere, Rondanelli e Grossi, 2010). Il monitoraggio viene da alcuni invocato come minimamente invasivo se non del tutto non invasivo, per evitare rischio di infezioni o di complicanze meccaniche (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Keegan e Plevak, 2004). ECG, saturazione arteriosa in ossigeno (metodiche pulsossimetriche o pletismografiche di ultima generazione) (Cannesson et L., 2010; Desebbe et al., 2010), pressione arteriosa non invasiva ed EtCO2 (da considerare anche le possibilità di monitoraggio con EtCO2 con tecnologia microstream nasale in caso di sedazione profonda) costituiscono i parametri irrinunciabili. Tecniche di monitoraggio della profondità dell’anestesia (indice BIS, entropia) e monitoraggio neuromuscolare possono essere utilmente impiegati se disponibili. In particolare il monitoraggio della curarizzazione può essere importante se si sospettano possibili interazioni tra farmaci della immunosoppressione e curari anche di ultima generazione. Dev’essere sottolineato come oggi le opzioni disponibili per il monitoraggio emodinamico siano numerose e molte delle metodiche disponibili abbiano acquistato affidabilità, riproducibilità e attendibilità anche nelle condizioni più complesse. Il catetere di Swan-Ganz trova oggi probabilmente indicazione solo in pochissime circostanze: tra queste, la necessità di disporre dei valori di pressione di incuneamento polmonare o delle pressioni in arteria polmonare in caso di ipertensione polmonare. Quando indicato, e particolarmente nei soggetti trapiantati di cuore o di polmone da sottoporre a chirurgia maggiore, è oggi possibile utilizzare l’opzione del monitoraggio minimamente invasivo della gettata cardiaca con l’analisi dell’onda pressoria arteriosa radiale o femorale (Flow Trac-Vigileo, PRAM, LiDCO) (Morgan et al., 2008; Green e Paklet, 2010): nel paziente trapiantato di cuore (o comunque in tutti i casi in cui sia necessario affrontare condizioni a potenziale instabilità emodinamica), disporre di un valore di gettata cardiaca facilita l’interpretazione del quadro e la successiva ottimizzazione del profilo emodinamico in caso di ipotensione. Questo consente una più precisa gestione della volemia e del riempimento del circolo oppure l’utilizzo corretto di inotropi e/o di vasodilatatori. Al contrario, nel trapiantato di polmone, il monitoraggio minimamente invasivo della gettata cardiaca potrebbe consentire di evitare il sovraccarico fluidico intra-
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operatorio a cui il polmone è particolarmente sensibile. Il monitoraggio della saturazione venosa centrale in ossigeno (ScVO2), oggi disponibile anche con metodiche in continua, può costituire un altro parametro in grado di completare l’interpretazione di profili emodinamici e metabolici complessi. Appare interessante in ogni caso la possibilità offerta dalle nuove tecniche pletismografiche applicate alla saturimetria a polso che consentono il monitoraggio di parametri non invasivi (PVI, Plethismographic Variability Index) che si avvicinano con grandissima precisione ai valori delle variabili dinamiche ottenute con metodica cruenta (Delta down, SVV, Stroke Volume Variation, PPV, Pulse Pressure Variation), oltre che rendere disponibile un indice attendibile di perfusione e, in alcuni casi, anche il valore dell’emoglobina (Cannesson et al., 2010; Desebbe et al., 2010; Tsuchiya et al., 2010). Da alcuni è riportata la possibilità di utilizzo di metodiche di monitoraggio della portata cardiaca con i più recenti modelli di ultrasonografia esofagea. L’ecocardiografia transesofagea (TEE) costituisce un’eccellente e avanzata ipotesi alternativa di monitoraggio, capace di abbinare ridotta incidenza di complicanze grazie alla ridottissima invasività, con elevata qualità e quantità di informazioni (Blasco et al., 2009). Per la gestione delle vie aeree, l’intubazione orotracheale è preferita a quella nasotracheale per evitare la possibilità di infezione da disseminazione della flora nasale e la potenziale occlusione tubarica (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Blasco et al., 2009). In un contesto di elevata incidenza di infezioni delle vie aeree o in presenza di rischio elevato, esistono oggi tubi ricoperti d’argento che sembrano contribuire a contenere questo rischio: non esiste tuttavia né evidenza né esperienza in questo specifico contesto (Rello et al., 2010). L’uso di metodiche alternative (maschera laringea) dev’essere preso in considerazione nei contesti appropriati. Le metodiche di gestione delle vie aeree devono ovviamente comprendere sia una valutazione preoperatoria della possibilità di intubazione difficile, che la disponibilità di metodiche alternative avanzate (videolaringoscopia, broncoscopia). Sebbene raro (4% nei pazienti pediatrici e 0,8-2% negli adulti), si segnala come la malattia linfoproliferativa post-trapianto, associata di solito a infezione da virus di Epstein-Barr, possa essere responsabile di grave ostruzione delle vie aeree (Kostopanagiotou et al., 1999). Nel caso di scelta di tecniche neuroassiali dev’essere valutata con attenzione la conta piastrinica in caso di uso di AZA. I FANS dovrebbero essere evitati per il rischio di nefrotossicità, sanguinamento gastrico, epatotossicità. Comuni a tutti i soggetti trapiantati sono le possibili interazioni dei farmaci immunosoppressivi con gli anestetici (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Niemann e Eileen, 2010): sebbene esistano evidenze sperimentali, non vi sono studi clinici che rivelino interferenze maggiori. Esiste ovviamente un aumento del rischio infettivo legato alla immunosoppressione, e per questo si deve fare riferimento al rischio batterico, virale e fungino associato alla distanza temporale dal trapianto (Fishman e Issa, 2010; Issa e Fishman, 2009). Dev’essere in particolare temuta la neutropenia, peraltro non comune nel soggetto sottoposto a trapianto di organo solido.
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18.6.1 Paziente sottoposto a trapianto di rene Il paziente sottoposto a trapianto renale presenta un elevato rischio cardiovascolare, certamente ridotto ma non certo azzerato dopo il trapianto: le linee recentemente introdotte per la valutazione cardiologica preoperatoria nel paziente non cardiochirurgico sono pertanto quelle a cui riferirsi per le condizioni a rischio (cardiopatia ischemica, cardiopatia dilatativa, cardiopatia ipertensiva) (Fleisher et al., 2007; European Society of Anesthesiology Guidelines, 2010). Il diabete mellito, condizione a elevata prevalenza nei soggetti sottoposti a trapianto renale, costituisce un ulteriore fattore di rischio. Poiché la funzionalità renale può essere alterata anche in presenza di creatininemia normale (motivo della valutazione del filtrato glomerulare), è prudente utilizzare farmaci che non dipendano dal rene per l’eliminazione; inoltre devono essere evitati i farmaci nefrotossici. Bisogna prevenire l’ipoperfusione da ipovolemia ed evitare l’uso dei diuretici prima di aver valutato e corretto la volemia (SFAR Consensus Conference, 2005). Il sevoflurano presenta il problema teorico della nefrotossicità da liberazione del composto A; numerosissimi studi hanno tuttavia dimostrato la sua sicurezza in questo senso, evidenziando addirittura un effetto protettivo. Il sevoflurano si è dimostrato sicuro anche in circuiti a bassi flussi su pazienti con insufficienza renale moderata (Higuchi et al., 2001; Torri, 1998), mentre ipovolemia, ipoperfusione e uso di farmaci nefrotossici possono essere causa di danno renale durante anestesia. Sicuro appare l’uso del desflurano (Yost e Niemann, 2010). Identiche considerazioni vanno fatte per il paziente sottoposto a trapianto di rene-pancreas o di pancreas isolato, ritenendo però che, dopo il trapianto, il rischio di eventi cardiaci maggiori possa considerarsi ridotto (Lee et al., 2004).
18.6.2 Paziente sottoposto a trapianto di fegato Non esiste evidenza di aumentato rischio di epatite dopo somministrazione di isoflurano, sevoflurano e desflurano, dotati probabilmente di un effetto protettivo (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Blasco et al., 2009; Keegan e Plavek, 2004; Higuchi et al., 2001; Torri, 1998; Lee et al., 2004), anche se in letteratura sono comparse almeno due segnalazioni di tossicità epatica da sevoflurano. Dopo il periodo immediatamente successivo al trapianto, se la ripresa funzionale del neofegato è stata soddisfacente, il paziente dev’essere considerato alla stregua di un paziente che ha subìto un intervento addominale maggiore. Non esistono controindicazioni ad anestesia loco-regionale in presenza di normali parametri emostatici: attenzione dev’essere comunque posta alla conta piastrinica e agli eventuali farmaci assunti come antiaggreganti piastrinici o anticoagulanti. Deve comunque essere ricordata la difficoltà tecnica legata alla presenza di aderenze viscerali, esito del precedente intervento di trapianto, che può determinare, soprattutto nella chirurgia resettiva per tumore de novo, complicanze emorragiche
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legate più a problemi anatomici e/o chirurgici che non a modificazioni del profilo emostatico. Per la chirurgia addominale maggiore dopo trapianto epatico sono fondamentali per la sicura conduzione dell’anestesia l’incannulamento di un vaso centrale e la disponibilità di accessi venosi periferici di grosso calibro. Obbligatorio il monitoraggio della pressione arteriosa invasiva a cui oggi può utilmente essere associato, nei casi complessi o in presenza di patologia cardiaca associata, il monitoraggio minimamente invasivo della gettata cardiaca (Morgan et al., 2008; Green e Paklet, 2010).
18.6.3 Paziente sottoposto a trapianto di cuore In questi pazienti viene preferita l’anestesia generale per un possibile non adeguato compenso all’ipotensione dopo blocco neuroassiale: i blocchi centrali, peraltro non necessariamente controindicati, sono addirittura proposti in alcuni case reports (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Gohh e Warren, 2006; Blasco et al., 2009; Keegan e Plevak, 2004; Allard et al., 2004). Devono essere ricordate le numerose comorbidità, spesso associate al trattamento immunosoppressivo (ipertensione, cardiopatia ischemica, insufficienza renale, diabete, dislipidemia), e l’incidenza aumentata di aneurismi dell’aorta addominale e di patologia colecistica (Marzoa et al., 2007; Cristalli et al., 2001). È importante mantenere un adeguato precarico, evitando le brusche diminuzioni legate a ipovolemia acuta o uso non avveduto di vasodilatatori. Tecniche saturimetriche pletismografiche di nuova generazione (Cannesson et al., 2010; Desebbe et al., 2010; Tsuchiya et al., 2010) appaiono interessanti per il monitoraggio cardiocircolatorio e respiratorio non invasivo in caso di interventi minori. Il monitoraggio emodinamico invasivo diviene invece indispensabile quando si prevedano importanti variazioni di volume ematico: oggi il monitoraggio della portata cardiaca con tecniche minimamente invasive (Vigileo, PRAM, LiDCO) (Cannesson et al., 2010; Morgan et al., 2008; Green e Paklet, 2010) dev’essere considerato come ottimale in questi pazienti e come valida alternativa al più complesso cateterismo cardiaco destro con catetere di SwanGanz. L’ecocardiografia transesofagea, come già riportato, può essere un ulteriore presidio o rappresentare una valida ed eccellente alternativa al monitoraggio emodinamico invasivo (Blasco et al., 2009) .
18.6.4 Paziente sottoposto a trapianto di polmone Il grado di disfunzione polmonare precedente il trapianto, in particolare in presenza di trapianto monopolmonare, può influenzare la condotta anestesiologica (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Boscoe, 1995; Keegan e Plevak, 2004). Sono pertanto possibili quadri ostruttivi o restrittivi e condizioni di ipossia di vario grado: in particolare entro i primi mesi dal trapianto è possibile osservare
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modesta ipercapnia. Spirometria, emogasanalisi e radiografia del torace sono gli esami strumentali obbligatori per interventi maggiori: in qualche caso dev’essere considerata la TC del torace per l’interpretazione di quadri complessi da porre in diagnosi differenziale con eventi infettivi, non infrequentemente sostenuti da funghi filamentosi (Gohh e Warren, 2006; Fishman e Issa, 2010; Issa e Fishman, 2009). La perdita dell’innervazione afferente ed efferente distale all’anastomosi altera il riflesso della tosse e il tono broncomotore, anche se la reattività delle vie aeree risulta di solito conservata (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Boscoe, 1995); Keegan e Plevak, 2004); è invece ridotta la capacità di clearance bronchiale. Per il monitoraggio degli interventi minori si ripropone quanto sopra descritto per il paziente trapiantato di cuore. In caso di interventi maggiori o comunque in presenza di equilibrio cardiorespiratorio subottimale, al monitoraggio invasivo della pressione arteriosa può essere associato il monitoraggio minimamente invasivo della portata cardiaca (Morgan et al., 2008; Green e Paklet, 2010).
18.6.5 Paziente sottoposto a trapianto di pancreas Il trapianto di pancreas (isolato o associato a trapianto di rene per nefropatia diabetica terminale) è associato a un’elevata incidenza di complicanze chirurgiche e infettive (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Green e Paklet, 2010); il rigetto è invece particolarmente rappresentato nel primo anno dopo il trapianto, ed è caratterizzato da importanti squilibri glicemici. Devono essere in particolare considerate in un paziente trapiantato di pancreas e con necessità di trattamento chirurgico le problematiche legate alla cardiopatia ischemica, all’insufficienza cardiaca contrattile e alla patologia disautonomica associate al diabete (Keegan e Plevak, 2004). Il controllo glicemico nell’organo con funzione marginale è scadente ed è fondamentale disporre di algoritmi per la gestione della glicemia nel periodo perioperatorio.
18.7 Casi particolari
18.7.1 Chirurgia laparoscopica Gli interventi in laparoscopia su pazienti trapiantati sono in aumento, anche per la notevole sicurezza di questa procedura. Nei pazienti trapiantati di cuore bisogna tuttavia tenere conto di alcune peculiarità. Nel soggetto normale si osserva un’iniziale riduzione dell’indice cardiaco legata all’induzione dell’anestesia e al posizionamento del paziente. Lo pneumoperitoneo con CO2 determina effetti meccanici diretti ed effetti indiretti (risposte neuroumorali secondarie a distensione addominale e assor-
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bimento di CO2). Come effetto netto si osservano aumento di resistenze vascolari sistemiche, pressione arteriosa, pressione venosa centrale o pressione di incuneamento polmonare e riduzione di indice cardiaco (IC). Nel soggetto trapiantato di cuore, al contrario, si verificano minime modificazioni emodinamiche (Blasco et al., 2009): l’IC, dopo iniziale diminuzione, ritorna ai valori pre-induzione; non si hanno modificazioni significative della frequenza cardiaca e delle resistenze vascolari sistemiche. Questo può essere dovuto al meccanismo di Frank-Starling, all’aumentata sensibilità del miocardio alle catecolamine, alla mancanza del riflesso di Valsalva dopo pneumoperitoneo, a differenze nelle risposte neuroumorali. Per il monitoraggio si rimanda alle considerazioni già proposte.
18.7.2 Gravidanza Grazie all’importante miglioramento delle condizioni di salute e della qualità di vita dopo il trapianto, un numero sempre maggiore di donne arriva oggi alla gravidanza e potenzialmente all’osservazione anestesiologica (Toivonen, 2000; Kostopanagiotou et al., 1999; Coffin et al., 2010; Miniero et al., 2004; O’Boyle et al., 2010; Di Loreto et al., 2010; Anderka et al., 2009). L’incidenza di taglio cesareo nelle gravide trapiantate è ovviamente maggiore. Gli immunosoppressori, capaci di passaggio placentare, vengono continuati: non appaiono a oggi presenti rischi significativi di teratogenicità, salvo che per il micofenolato che è invece associato a tossicità fetale (Anderka et al., 2009). È stata segnalata la possibilità di livelli ematici più bassi di ciclosporina nelle gravide trapiantate di rene. Tra gli effetti collaterali degli immunosoppressori devono essere considerati come rilevanti l’epatotossicità e la nefrotossicità. Tra le patologie associate alla gravidanza, il rischio di pre-eclampsia sembra aumentato nelle gravide trapiantate di cuore e rene. Sono stati segnalati nel secondo e nel terzo trimestre di gravidanza, verosimilmente associati ai farmaci immunosoppressori, un aumento del rischio di basso peso del neonato e possibili effetti tossici a carico di fegato, pancreas e linfociti dei neonati. Nelle gravide è segnalata la possibilità di aumentato rischio di rigetto per formazione di anticorpi anti-HLA (O’Boyle et al., 2010), mentre da alcuni Centri viene segnalato un aumento dell’incidenza di rigetto acuto nel periodo postpartum. La più recente casistica pubblicata è relativa a gravidanze dopo trapianto epatico nel periodo 1993-2005 negli Stati Uniti (206 pazienti e 146 parti) (Coffin et al., 2010). Il taglio cesareo è risultato necessario nel 38% dei casi, con una mortalità materna pari allo 0% e neonatale al 6%. È stata segnalata un’incidenza di complicanze emorragiche postpartum (8%) e, come già riportato, un aumento delle problematiche legate all’ipertensione arteriosa; è stata infine confermata l’assenza di patologie congenite tra i neonati (Coffin et al., 2010). L’aspetto multisciplinare costituisce la caratteristica fondamentale della capacità di seguire la gravidanza in pazienti trapiantate e, come per altre situazioni non comuni, da più parti viene suggerita la creazione di un Registro nazionale o sovranazionale.
18 Problematiche anestesiologiche nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido
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18.8 Conclusioni Il profilo fisiologico dell’organo trapiantato, diverso da quello nativo, e le importanti modificazioni che l’organo trapiantato può determinare nell’organismo del ricevente costituiscono, insieme agli effetti dei farmaci immunosoppressori e alle loro interazioni, le chiavi per interpretare e gestire i pazienti che, dopo un trapianto di organo solido, giungono, per interventi chirurgici in elezione o in emergenza, all’osservazione di anestesisti e intensivisti. In pratica si tratta di un capitolo nuovo e entusiasmante della medicina perioperatoria. Se fino a pochi anni fa questo argomento era oggetto solo di sporadiche osservazioni, l’aumento del numero dei soggetti trapiantati e il notevole miglioramento dei risultati portano ormai frequentemente clinici di ospedali di ogni livello a confrontarsi con problematiche non più limitate a pochi centri specialistici. Multidisciplinarietà e contatto frequente con i Centri di riferimento costituiscono le soluzioni per affrontare in modo appropriato e aggiornato questo nuovo ramo della medicina: il ruolo degli anestesisti e degli intensivisti appare rilevante.
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Tecnologie
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B. Allaria, M. Dei Poli, M.V. Resta
Riassunto Negli ultimi anni, la criticità dei pazienti in Sala Operatoria e in Terapia Intensiva ha subìto un evidente aumento. Con questa complessità è cresciuta anche la necessità degli anestesistirianimatori di aumentare il livello di monitoraggio, soprattutto di tipo emodinamico. Nella sua evoluzione il monitoraggio ha dovuto acquisire caratteristiche particolari sotto molti punti di vista: è stato necessario embricare tecnologia e clinica fornendo molteplici soluzioni e, per rispondere alla necessità di monitorizzare in poco tempo e poco spazio (per esempio, nelle sale operatorie), si sono dovute semplificare metodiche complesse rendendole di più facile applicazione anche fuori dalla terapia intensiva, riducendo al contempo anche il livello di invasività. Ciascun tipo di monitoraggio è caratterizzato da pregi e difetti e risulta pertanto praticamente impossibile identificare quello ideale che vada bene in ogni condizione patologica e/o chirurgica o in qualsiasi paziente. La conoscenza dei vari tipi di monitoraggio può aiutare a indirizzare verso la metodica più adeguata per quel particolare contesto. Per il moderno anestesista-rianimatore questa conoscenza si concretizza nella comprensione dei razionali, dei valori aggiunti e dei principali limiti derivanti dall’utilizzo delle metodiche di monitoraggio emodinamico di più comune utilizzo e nel sapere quali sono i principali errori che possono rendere i dati inattendibili.
Il monitoraggio delle funzioni vitali nel perioperatorio non cardiochirurgico. Biagio Allaria, Marco Dei Poli (a cura di) © Springer-Verlag Italia 2011
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19.1 Misurazione della gettata cardiaca Negli ultimi anni, la criticità dei pazienti in Sala Operatoria e in Terapia Intensiva ha subìto un evidente aumento. Con il sommarsi di co-patologie severe, dell’età e della complessità della chirurgia è cresciuta anche la necessità degli anestesistirianimatori di aumentare il livello di monitoraggio, soprattutto di tipo emodinamico. In questa evoluzione il monitoraggio ha dovuto acquisire caratteristiche particolari sotto molti punti di vista. Sotto l’influenza dalla letteratura specialistica sull’argomento (per esempio, sul monitoraggio pressumetrico versus monitoraggio volumetrico) è stato possibile embricare tecnologia e clinica fornendo molteplici soluzioni e, per rispondere alla necessità di monitorizzare in poco tempo e poco spazio (per esempio, quello delle sale operatorie), si è saputo semplificare metodiche complesse rendendole di più facile applicazione anche al di fuori dalla terapia intensiva, riducendo al contempo anche il livello di invasività. Per la quasi totalità di queste metodiche di monitoraggio il confronto è stato soprattutto con il cateterismo di Swan-Ganz, che ha tuttavia mantenuto la peculiarità assoluta del monitoraggio della pressione di incuneamento polmonare (WP, wedge pressure). Ciascun tipo di monitoraggio è caratterizzato da pregi e difetti e risulta pertanto praticamente impossibile identificarne uno ideale che possa andar bene in ogni condizione patologica e/o chirurgica o in qualsiasi paziente. Inoltre, non sempre tutte le realtà ospedaliere possiedono tutta la gamma degli strumenti emodinamici disponibili sul mercato. Appare quindi sempre più corretto cercare il monitoraggio emodinamico migliore per un determinato paziente nell’ambito di una ben definita situazione clinica. Per questo motivo un aiuto importante viene innanzitutto dall’identificare il quesito a cui il monitoraggio potrebbe dare una risposta. Solo a questo punto la conoscenza dei vari monitoraggi può aiutare a indirizzare verso la metodica più adeguata per quel particolare contesto. Per il moderno anestesistarianimatore questa conoscenza si concretizza nella comprensione dei razionali, dei valori aggiunti e dei principali limiti derivanti dall’utilizzo delle metodiche di monitoraggio emodinamico di più comune utilizzo e nel sapere quali sono i principali errori che possono rendere i dati inattendibili. Le metodiche di monitoraggio emodinamico si possono raggruppare in diversi gruppi secondo criteri di: - invasività (Tabella 19.1); - razionale (Tabella 19.2); - valori aggiunti (Tabella 19.3). Tabella 19.1 Tecniche suddivise secondo in grado di invasività decrescente Metodiche invasive
Semi-invasive
Mini-invasive
Non invasive
Swan-Ganz
PiCCO
Hemosonic
ICG
LiDCO
Cardio Q
NICO2
Flo Trac/Vigileo Mostcare (PRAM)
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Tabella 19.2 Tecniche suddivise secondo il razionale su cui si basano Principio di Fick Pulse contour (PC) Miste (PC e Fick) Doppler
Impedenza
Swan-Ganz
Flo Trac/Vigileo
PiCCO
Hemosonic ICG
NICO2
Mostcare (PRAM)
LiDCO
Cardio Q
Mostcare (PRAM)
Tabella 19.3 Tecniche classificate in base ai differenti parametri ottenibili e peculiari di ogni metodica Wedge pressure
Indici volume (diretti/indiretti)
Parametri funzione cardiaca
Altri
Swan-Ganz
Flo Trac/Vigileo (SVV)
ICG
NICO2
Mostacare (PRAM) (SVV-PPV)
(PEP-PEP/LVET-ACI)
PCBF
Hemosonic (LVET)
Hemosonic (ACC-PV)
VD/Vt
ICG (LVET-IC)
PiCCO (CFI-GEF)
QS/QT
PiCCO (ITBV-EVLW-GEDV) (SVV-PPV) ACC, accelerazione massima (indice di contrattilità sinistra e FE, indipendente dal precarico, poco influenzato dal postcarico); ACI, acceleration index (indicatore di inotropismo); CFI, cardiac functionality index (indice prestazionale indipendente dal precarico); EVLW, extravascular lung volume; GEDV, global end-diastolic volume (valore assoluto di precarico); IC, index of contractility (indice di precarico); ITBV, intratoracic blood volume; LVET, left ventricular ejection time (tempo di eiezione sistolico: indice di inotropismo che risente del precarico sinistro); PCBF, pulmonary capillary blood flow (reale quota di sangue che partecipa agli scambi) PEP, pre ejection period; PEP/LVET, coefficente di Weissler (ottimo indice della contrattilità cardiaca e possibilità di precarico); PPV, pulse pressure variation; PV, picco di velocità (valuta contrattilità ma è volume-dipendente); SVV, stroke volume variation
Al fine di comprendere i punti fondamentali delle varie tecniche di monitoraggio per ognuna si cercherà di: 1. descrivere il razionale e gli eventuali limiti di applicazione della metodica; 2. illustrare le modalità di raccolta dei dati necessari a fornire i risultati finali. In quest’ambito si cercherà di identificare le possibili fonti di errore che potrebbero determinare risultati inattendibili; 3. identificare per ogni metodica eventuali valori aggiunti che possano renderla particolarmente adatta per determinate tipologie di pazienti.
19.2 Metodiche di monitoraggio
19.2.1 Swan-Ganz Una trattazione completa del catetere di Swan-Ganz (SG) e del cateterismo dell’arteria polmonare (PAC, pulmonary artery catheterization) richiederebbe da sola un
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intero volume. Per un approfondimento completo di questa metodica, sulla quale esistono innumerevoli studi, si rimanda ad alcuni autorevoli lavori sull’argomento riportati in bibliografia (AA.VV., 2003; Marini e Leatherman, 2005; Darovic, 2002). In questo capitolo ci limiteremo a focalizzare i possibili dati peculiari in grado di indirizzare la scelta verso questa metodica e come ottenerli, riducendo eventuali errori che potrebbero renderla inaffidabile.
19.2.1.1 Storia e razionale La metodica nasce negli anni ’70 grazie all’intuizione del dottor Swan, successivamente perfezionata dal dottor Ganz. Richiede il posizionamento di un catetere venoso centrale dedicato che viene fatto progredire fino all’arteria polmonare. Dal suo posizionamento si possono ottenere due dati fondamentali con due tecniche differenti.
Misurazione della pressione di occlusione polmonare o di incuneamento, detta anche wedge pressure (WP), e della pressione capillare polmonare (PCP) Questa misura di pressione si ottiene gonfiando un palloncino posto distalmente al catetere venoso e incuneando il catetere in un ramo dell’arteria polmonare. La procedura consente di registrare la pressione a valle del punto di occlusione. Ipotizzando che nel circolo polmonare non ci siano condizioni che possono alterare la pressione si assume che la pressione incuneata corrisponda alla pressione in atrio sinistro. Questo parametro è considerato un valido indice di precarico.
Misurazione della portata cardiaca (CO) con il metodo della termodiluizione Questa metodica, più semplice, prevede l’iniezione costante e rapida di un bolo di 5 o 10 ml di soluzione fisiologica o glucosata al 5% a temperatura nota dalla linea del catetere (codice colore per la via infusionale: blu) che – se il posizionamento del catetere è avvenuto in modo corretto – dovrebbe trovarsi in atrio destro. Un’attenta monitorizzazione dovrebbe permettere la lettura al monitor di una curva con morfologia tipica atriale. Tra i più comuni fattori di interferenza nell’applicazione di questa metodica e tra i rischi correlati ricordiamo la difficoltà a mantenere il bolo a temperature basse, la velocità di iniezione e la contaminazione. A tale scopo sono stati creati dei circuiti costituiti da lunghe vie di infusione che possono essere mantenute in contenitori termici con ghiaccio a temperature intorno ai 10 °C garantendo quel differenziale minimo ottimale tra sangue e bolo che è stato identificato in almeno 10 °C. Una volta che il bolo freddo è stato iniettato, dall’atrio destro prosegue fino in
19 Tecnologie
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arteria polmonare passando dal ventricolo. Il sangue misto, mischiandosi al bolo freddo, riduce progressivamente la sua temperatura. Tramite un termistore posto distalmente al PAC appositi software ricostruiscono l’andamento della temperatura nel tempo. Secondo l’equazione modificata di Stewart Hamilton viene quindi calcolata automaticamente l’area sotto la curva di decadimento termico da cui si determina il valore della portata cardiaca. Si ottiene così un valore misurato – e non calcolato – di CO (cardiac output). La determinazione di una curva adeguata è il requisito necessario per una misurazione attendibile della CO. A tale scopo c’è accordo in letteratura per eseguire da un minimo di 3 fino a 5 determinazioni per ogni misurazione della CO. Per ovviare a questa serie di variabili imprevedibili (operatore, temperature dell’iniettato ecc.), sono stati introdotti dei cateteri di Swan-Ganz particolari che consentono il monitoraggio della CO senza i boli e addirittura in forma semicontinua. Questi cateteri sono dotati di un filamento termico integrato che riscalda il sangue a livello prossimale e di un termistore che ne registra la temperatura finale a livello distale. Il termistore produce il rialzo termico per 4 secondi aumentando la temperatura del sangue fino a un massimo consentito di 41 °C. In caso di iperpiressia il sistema entra in stand-by. La misurazione viene quindi effettuata sulla media degli ultimi 6 minuti e aggiornato ogni minuto circa. Nella valutazione della metodica va infine ricordato che il razionale di base dello Swan-Ganz poggia la sua validità sull’equazione di continuità secondo la quale il sistema cardiaco dev’essere considerato un sistema chiuso. Con questa premessa valutare la gettata cardiaca destra equivale a determinare quella sinistra. Quindi qualsiasi evento che alteri questa situazione rende i dati non attendibili. Particolare attenzione va posta nei pazienti con shunt intracardiaci o polmonari, ma anche altre condizioni possono determinare alterazione dei dati forniti dal PAC quali: 1. insufficienza tricuspidale o valvolare polmonare: in sistole si verifica in questo caso un ritorno di sangue misto in atrio destro che inficia i calcoli di CO; 2. sindrome da bassa portata: in questi pazienti aumenta in maniera significativa il tempo con cui il bolo prosegue nel suo percorso elevando il rischio di alterazione della misura per un’alterata caduta di temperatura; 3. guasto al sensore termico; 4. interferenza legata a infusioni fredde che, modificando la temperatura del sangue, possono alterare la curva di diluizione termica Con lo Swan-Ganz, tramite i valori di CO e WP, è possibile ottenere una gran quantità di dati emodinamici: dalle resistenze periferiche al lavoro cardiaco fino alla valutazione della WP, della PCP e della disponibilità e consumo di ossigeno, del QS/Qt. Questa abbondanza di dati, tuttavia, deve poi essere correttamente interpretata nel contesto di ogni singolo paziente e del suo particolare quadro clinico. Attualmente l’associazione di Swan-Ganz ed ecocardiografia (transtoracica o
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transesofagea) viene considerata la metodica più completa per poter inquadrare e trattare la funzione cardiovascolare tanto del cuore destro che del sinistro.
19.2.1.2 Valori aggiunti Adeguatezza della misurazione PAP (pressione arteriosa polmonare), WP e PCP sono il vero valore aggiunto del catetere di Swan-Ganz. La loro misurazione è infatti possibile solo tramite il PAC. Tuttavia, nella loro misurazione e interpretazione è molto facile commettere degli errori che di conseguenza possono alterare il giudizio clinico. Trattandosi di pressioni basse (0-30 mmHg), per evitare un’errata stima del reale valore il primo accorgimento è la verifica della precisione del sistema di misurazione tramite un corretto zero. Un inadeguato allineamento tra il trasduttore e l’atrio destro determina alterazioni importanti nel dato. La sola mobilizzazione dello schienale del letto può innalzare anche di tre volte il valore reale della WP se non accompagnato da una consensuale mobilizzazione del trasduttore. Il secondo accorgimento riguarda la verifica dell’accuratezza dinamica del sistema di rilevazione che va controllato con il test dell’onda quadra. Il test consente di sospettare l’eventuale presenza di bolle d’aria o coaguli nel sistema di misurazione che determinano la condizione di sovrasmorzamento, una delle cause più frequenti di errore di lettura.
Materiali Il primo passo per un’adeguata valutazione della WP è il corretto posizionamento del catetere polmonare. Il catetere viene inserito attraverso un introduttore posto in una vena centrale e avanzato fino a livello delle arterie polmonari lobari o segmentarie. L’avanzamento viene eseguito con il palloncino gonfiato. Se il gonfiaggio è parziale, o peggio, se il palloncino è sgonfio, il catetere verrà inevitabilmente avanzato fino alle arterie più piccole sovrastimando i valori reali di WP. Un secondo accorgimento è la valutazione del corretto posizionamento della punta del catetere rispetto al lume del vaso. Lo spostamento della punta del PAC verso la parete del vaso determina l’occlusione dell’estremo distale del catetere da cui si misura la WP. Al gonfiaggio del palloncino si assiste a un artefatto con la scomparsa al monitor dell’onda pressoria e la registrazione di una linea continua con valori elevatissimi di pressione. Questa condizione obbliga al riposizionamento del PAC. Più subdola, invece, è la condizione in cui il catetere è sì coassiale al lume del vaso, ma il gonfiaggio del palloncino avviene in maniera anomala lasciando passare del flusso ematico oltre la punta. Questa condizione determina una sovrastima del valore di WP. Al monitor si assiste alla modificazione della curva di PAP che tende ad assumere una morfologia di mezzo fra quella della PAP e quella della WP.
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Questa modificazione impone il riposizionamento. Ciò che può aiutare a identificare il problema è la valutazione del gradiente PAP diastolica-WP, che normalmente è di circa 5 mmHg ma che, in queste condizioni, diventa minore perché la WP misurata si avvicina al valore della PAP diastolica.
Misurazione di WP e PAP La misurazione di WP e PAP deve sempre essere inserita nel contesto clinico di ciascun paziente. Un valore anomalo di uno dei due parametri o di entrambi richiede approfondite conoscenze fisiopatologiche al fine di un’attenta valutazione del significato dei dati a disposizione. Una PAP elevata non può essere trascurata trasferendo le aspettative sul valore di WP. È importante che le due misure vengano analizzate insieme, soffermandosi sul gradiente tra PAP diastolica e WP. Questo gradiente in condizioni di normalità è costante ed è, come si è detto, di circa 5 mmHg. Infatti, per le caratteristiche di elevata compliance del sistema polmonare, a fronte di un aumento di portata cardiaca, le pressioni endovascolari (PAP) non vengono modificate, mentre possono alterarsi le pressioni capillari (WP) in presenza di condizioni patologiche sul settore cardiaco sinistro. Se presenti condizioni patologiche polmonari, quali l’ipertensione polmonare primitiva, l’aumento del flusso sanguigno nel circolo polmonare determina un significativo aumento delle PAP. La lettura del gradiente PAP diastolica-WP diventa fondamentale per permettere una corretta diagnosi differenziale tra aumento delle resistenze arteriolari (PAP) e aumento della pressione nelle vene polmonari (WP). Nel primo caso il gradiente aumenta, nel secondo rimane costante o si riduce.
WP e ventilazione Come per tutte le misurazioni delle pressioni vascolari intratoraciche, esiste un’importante interferenza tra il respiro e la misura della WP. La pressione da prendere in considerazione dovrebbe essere in realtà la pressione transmurale (pressione intravascolare – pressione pleurica) che è quella che distende il letto vascolare e regola il passaggio dei liquidi transmembrana. Per tale misurazione occorrerebbe disporre dei valori di pressione pleurica, che in clinica non è semplice ottenere. Si ricorre pertanto alla valutazione della WP alla fine della fase espiratoria quando la pressione pleurica è sovrapponibile a quella atmosferica, che è quella alla quale si fa lo zero del trasduttore. A fine espirazione, quindi, la WP misurata è assimilabile alla WP transmurale (WPTM). L’identificazione della fase espiratoria risulta agevole nel paziente monitorizzato tramite capnografia dal momento che dall’analisi della curva è facile identificare la fine espirazione e porre questo punto in relazione con la curva di WP. La presenza di pressione positiva di fine espirazione (PEEP, positive end-expiratory pressure) in questi pazienti è stata dimostrata non essere un fattore interfe-
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rente nell’ARDS (adult respiratory distress syndrome), dove la trasmissione della PEEP al circolo è trascurabile per le caratteristiche del sistema polmonare (rigidità) (Teboul et al., 1989). Più attenzione va posta nei pazienti non-ARDS con polmoni normali, nei quali la PEEP può essere trasmessa sovrastimando il reale valore di WP. Negli obesi, nei pazienti con ipertensione addominale e in generale in quei pazienti con riduzione della compliance toracica, gran parte della PEEP viene trasmessa al cavo pleurico. In questi casi la sottrazione di tutto il valore di PEEP al valore di WP consente di ottenere un valore di WP transmurale sufficientemente affidabile. Ancora più corretto sarebbe poter valutare la reale quota di PEEP trasmessa. Questo calcolo è fattibile derivando il quoziente di trasmissione (QTP) della PEEP secondo la seguente formula: ΔWP QTP = —————————— plateau – PEEP dove ΔWP corrisponde alla differenza tra WP inspiratoria e WP espiratoria. Il QTP è quindi la percentuale di PEEP trasmessa al cavo pleurico. Naturalmente, facendo questo calcolo, si deve aver cura di trasformare i cmH2O (PEEP, plateau) in mmHg, visto che la WP è misurata in mmHg (1 cmH2O = 0,74 mmHg). Questa valutazione sostituisce il valore di WP misurabile deconnettendo il paziente dal ventilatore (misura nota come nadir wedge). Tale manovra ha due limitazioni importanti che ne scoraggiano l’utilizzo: 1. i pazienti che non tollerano manovre che possono determinare un dereclutamento rischiano un peggioramento del quadro clinico in seguito alla brusca perdita di PEEP; 2. i pazienti con elevata auto-PEEP non traggono alcun vantaggio dalla disconnessione dal respiratore. Un altro fattore molto confondente della ventilazione sulla misurazione della WP viene dall’interferenza dei muscoli espiratori che, se troppo accentuata, va eliminata con la curarizzazione al fine di ottenere una corretta valutazione emodinamica. La semplice palpazione addominale consente di verificare se durante l’espirazione vi è un rinforzo muscolare da attribuire a un’attività espiratoria di rinforzo. Tutte queste valutazioni hanno un razionale se la punta del catetere è correttamente posizionata e si trova nella zona 3 di West dove la pressione nelle vene polmonari è più alta di quella transtoracica (Parteriosa > Pvenosa > Palveolare). Questo solitamente accade il più delle volte; tuttavia, a fronte di dati dubbi, va sempre presa in considerazione la possibilità che il catetere sia in una zona di West sbagliata (1 o 2) (Fig. 19.1). Il corretto posizionamento può essere verificato osservando l’andamento della PAP sistolica e della WP rispetto alla ventilazione, espressione della relazione tra queste pressioni e le variazioni di pressione pleurica ed alveolare. Si
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1 Pa Pa
Pa RA
Pa 3
PA RV
Pv
2
Zona 1 PA > Pa > Pv Zona 2 Pa > PA > Pv Zona 3 Pa > Pv > PA
LA LV
Fig. 19.1 Zone di West: identificazione rispetto al rapporto tra pressione alveolare (PA), pressione arteriosa (Pa) e pressione venosa (Pv) e posizionamento catetere polmonare
identifica quindi un quoziente che mette in relazione le variazioni di PAP sistolica con la WP e che normalmente è circa 1 se la zona di posizionamento del PAC è corretta: ΔPAP sistolica ————————— ΔWP In caso di posizionamento errato, la pressione alveolare inciderà maggiormente sulla WP riducendo il rapporto a valori <1. Infatti, in zona 1 (Palveolare > Parteriosa > Pvenosa) e 2 (Parteriosa > Palveolare > Pvenosa) la pressione alveolare risulta sempre maggiore della pressione venosa. In presenza di WP simili al valore di PEEP (trasformato in mmHg), morfologia del tracciato di WP poco attendibile, rapporto ΔPAP sistolica/ΔWP <0,7, si consiglia sempre di valutare il riposizionamento del PAC.
WP e precarico Una volta verificata l’attendibilità della WP misurata tenendo conto di tutte le condizioni accennate in precedenza, rimane il problema dell’utilizzo di questo dato. Da sempre la WP è stata interpretata come un indicatore di precarico. Tuttavia questa corrispondenza non è sempre vera. La misura di WP è sostanzialmente sovrapponibile alla pressione ventricolare sinistra a fine diastole (LVEDP, left ventricle enddiastolic pressure), ma che questo dato non sempre corrisponda al precarico è facilmente intuibile considerando che la pressione all’interno della camera ventricolare a fine diastole non dipende solo dal volume di sangue che vi entra ma anche dalla distensibilità delle pareti e cioè dalla compliance ventricolare. In condizioni quali l’ipertrofia ventricolare, l’ischemia, la fibrosi, oppure in condizioni in cui viene impedito il rilassamento delle pareti cardiache come nella pericardite o durante ventilazione artificiale, la WP risulta elevata anche a fronte di un precarico normale.
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Non è quindi corretto identificare un valore normale di WP per ogni patologia, ma è corretto pensare un valore normale di WP per ogni paziente. In quest’ottica il contributo principale della WP può essere dato all’interno di un filling test eseguito contestualmente al monitoraggio dello stroke volume (SV). Fintanto che lo SV aumenta con movimento modesto di WP si può ritenere utile il riempimento. Anche il preconcetto per cui elevati valori di WP siano già predittivi di filling test negativo è stato messo in discussione (Michard e Teboul, 2002). Quello che emerge è che per valori di WP sotto gli 8 mmHg è ragionevole pensare a una fluid responsiveness, mentre solo per WP maggiori di 18 mmHg si è autorizzati a ipotizzare una possibile negatività del test da carico.
19.2.2 PiCCO PiCCO è l’acronimo di pulse contour cardiac output, comunemente utilizzato per identificare una tecnica di monitoraggio emodinamico semi-invasiva caratterizzata dal calcolo della CO tramite la formula: CO = frequenza cardiaca × SV dove SV (stroke volume) viene calcolato tramite un algoritmo che legge l’area sottesa alla curva della pressione arteriosa.
19.2.2.1 Storia e razionale I dati emodinamici forniti da PiCCO sono ottenuti combinando la metodica del calcolo dello SV derivato dall’analisi del contorno della curva pressoria con il calcolo della gettata cardiaca (CO) ottenuto tramite termodiluizione arteriosa. La prima metodica consiste innanzitutto nell’identificare sul segnale della curva di pressione arteriosa la fine della diastole (apertura valvola aortica) e il termine della fase eiettiva (chiusura della valvola aortica). Sotto questa curva viene quindi identificata un’area che viene elaborata da un algoritmo dedicato estrapolando il valore di volume sistolico (SV). Lo SV così ottenuto viene moltiplicato per la frequenza cardiaca che il sistema rileva dal monitor a cui afferisce direttamente il segnale elettrocardiografico del paziente e si ottiene così la portata cardiaca (CO). Questo dato, tuttavia, deve essere corretto tenendo conto che il sistema vascolare di ogni singolo paziente ha caratteristiche peculiari. Queste caratteristiche possono essere identificate nel valore di impedenza aortica che viene considerato introducendo nell’algoritmo un valore (ZAO) derivato dal calcolo della CO tramite termodiluizione arteriosa secondo il principio di Stewart-Hamilton. Questo algoritmo, introdotto nel 1983, è stato migliorato nel 2002 (Gödje et al.,
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2002) introducendo ulteriori fattori di correzione (cal e dp/dt) che tengono conto delle resistenze vascolari sistemiche e della compliance aortica derivate dall’analisi della forma d’onda e non solo dal calcolo dell’area sotto la curva. La formula attuale per il calcolo dello SV è quindi la seguente: CO = cal × FC × ∫ {[P(t)/SVR + CA x dl/dt} × dt dove: cal = fattore di calibrazione specifico per ogni paziente ottenuto tramite termodiluizione; FC = frequenza cardiaca ottenuta dal segnale ECG; P(t)/SVR = area sotto la curva sistolica; CA = compliance aortica; dl/dt = analisi della forma della curva pressoria. Il calcolo della CO così ottenuto viene quindi effettuato battito-battito, fornendo un monitoraggio continuo della gittata cardiaca. È una metodica considerata semi-invasiva in quanto richiede sempre l’incannulamento di un accesso venoso centrale e di un vaso arterioso di calibro considerevole: – accesso in arteria femorale con cateteri di 4 o 5 Fr rispettivamente da 16 e 20 cm (corrispondenti a cannule di diametro 17 o 15 Gauge); – accesso in arteria ascellare con cateteri di 4 Fr da 8 cm; – accesso in arteria ascellare con puntura periferica radiale con cateteri di 4 Fr lunghi 50 cm (Orme et al., 2004; Segal et al., 2002; Clemeti, 2002). Tale condizione, peraltro, è spesso presente sia nel perioperatorio di pazienti a rischio da sottoporre a chirurgia sia in pazienti critici degenti in Terapia Intensiva, almeno nella fase iniziale della loro criticità. Dall’analisi della formula appare evidente che per avere un dato emodinamico attendibile i passaggi fondamentali sono: 1. segnale arterioso attendibile che permetta allo strumento una lettura adeguata della forma d’onda arteriosa. L’insufficienza aortica grave o il contropulsatore aortico costituiscono una controindicazione importante all’utilizzo di questa metodica; 2. calibrazione con termodiluizione frequente soprattutto a fronte di repentini cambiamenti emodinamici. La casa produttrice propone una taratura ogni 8 ore in condizioni standard. Una recente review (Mayer e Suttner, 2009), tuttavia, suggerisce la necessità di calibrazione ogni 12 ore in paziente emodinamicamente stabile, che si riduce a una ogni ora in presenza di instabilità emodinamica; 3. buon segnale elettrocardiografico con assenza di aritmie significative sia dal punto di vista ritmico che emodinamico (fibrillazione atriale).
19.2.2.2 Valori aggiunti Se da un lato questa metodica fornisce dei parametri emodinamici classici, sovrapponibili a quelli di tutti gli altri sistemi di monitoraggio, è altrettanto vero che è l’unica in grado di fornire dei dati volumetrici in grado di aiutare in maniera ottimale
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alcune categorie di pazienti critici. Dai dati, dall’esperienza e dalla semplificazione di un sistema estremamente valido per la determinazione dei volumi ematici intracardiaci e intratoracici (COLD, circulation oxygenation lung water and liver function diagnosis) – che utilizzava la tecnica del doppio indicatore (freddo e verde indocianina), abbandonato soprattutto per la complessità delle determinazioni e in parte per i costi elevati del colorante – si è arrivati alla commercializzazione di una apparecchiatura in grado di stimare i volumi intratoracici scomposti nelle due componenti toracica e cardiaca. Il razionale si basa innanzitutto sull’utilizzo di un solo indicatore che viene identificato nella termodiluizione transpolmonare. È già stato accennato che la termodiluizione viene normalmente utilizzata dal sistema PiCCO per misurare la CO, determinando un fattore di correzione applicato alla portata cardiaca derivato con la formula: FC × volume (derivato dall’area sotto la curva) Durante questo passaggio viene costruita una curva di diluizione dalla quale il software calcola anche altri due parametri: 1. MTt (mean transit time), ossia il tempo di attraversamento medio dell’indicatore (temperatura) all’interno di un determinato tragitto; 2. DSt (downslope time), che rappresenta il tempo di decadimento dell’indicatore che consente di calcolare il volume maggiore (spazio intra- ed extravascolare polmonare) tra quelli attraversati dal bolo freddo, che corrisponde al volume polmonare (Newman et al., 1951). Con questi due dati e la portata cardiaca ottenuta dalla termodiluizione è possibile ottenere il termovolume intratoracico (ITTV) e il termovolume polmonare (PTV): ITTV = CO × MTt PTV = CO × DStTD Da questi parametri è possibile calcolare il volume totale a fine diastole (GEDV): GEDV= ITTV – PTV Il GEDV rappresenta un valore di precarico globale sia a livello atriale che ventricolare. Il prodotto tra CO e GEDV consente il calcolo del CFI (cardiac functionality index) secondo la formula: CFI = COa/GEDV dove “a” è un coefficiente di correzione predefinito. Questo parametro prestazionale cardiaco permette una valutazione di funzionalità, indipendente dal precarico.
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Partendo da questi parametri calcolati, Sakka et al. (2000) hanno validato la seguente correlazione lineare tra GEDV e ITBV (intrathoracic blood volume) ITBV = 1,25 GEDV In base a questa relazione con le conseguenti correzioni matematiche il PiCCO si proponeva di estrapolare una stima dell’ITBV in funzione del GEDV e di conseguenza derivare un valore, anch’esso stimato, dell’EVLW (extravascular lung water) in accordo con le formule: ITBV = aGEDV + b EVLW = CO × MTt – ITBV dove “b” è un ulteriore coefficiente predefinito. In una fase attiva di dibattito dove si è fortemente contestata l’equivalenza pressione-volume, e che non trova in questo capitolo la sede appropriata per una discussione approfondita, la possibilità di avere un valore volumetrico assume sicuramente una grande importanza (Lichtwarck-Aschoff et al., 1992, 1996). In questo senso il PiCCO è l’unico sistema di monitoraggio ad avere una stima dell’EVLW che, dal punto di vista clinico, permette una gestione fluidica accurata del paziente critico. Vale tuttavia la pena di accennare che un altro parametro, il TFC (total fluid content), la cui rilevazione è consentita dalla impedenziocardiografia (ICG) ha un significato analogo all’EVLW ed è ottenibile con una tecnica del tutto non invasiva. Ne parleremo più avanti. Non va dimenticato, peraltro, che l’EVLW valutata con il PiCCO manca di un requisito fondamentale. Il valore di ITBV non è misurato, ma derivato attraverso la dimostrazione di una relazione lineare con il GEDV. Tale relazione, comunque, appare confermata in diversi studi con campioni di pazienti numericamente significativi e in condizioni cliniche differenti, tra cui pazienti con ARDS ed emorragici. Precauzionalmente, nel suo utilizzo come indicatore di precarico e overloading, appare cauta una valutazione più del trend che non del suo valore assoluto. Questa cautela vale anche per il TFC valutato con l’ICG. Un’ulteriore serie di parametri utili per la valutazione dell’assetto volemico viene dall’analisi dell’andamento della curva di pressione arteriosa nel tempo e in relazione al ciclo respiratorio in pazienti in ventilazione meccanica. Questi parametri sono molto utili soprattutto in sala operatoria dove spesso la domanda principale è sull’adeguatezza volemica del paziente e sulle sue capacità cardiache a tollerare eventuali adeguamenti infusionali: – SVV (stroke volume variation): valore normale <10%; un valore >13-15% è suggestivo di possibile fluid responsiveness; – SPV (sistolyc pressure variation): valore normale <5 mmHg; un valore >5 mmHg è suggestivo di possibile fluid responsiveness.
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In conclusione il sistema PiCCO rimane un sistema semi-invasivo soprattutto se l’approccio arterioso viene effettuato a livello degli arti superiori dove non vengono descritte incidenze maggiori di problematiche trombotiche. Estrema facilità d’uso, misurazione della CO in continuo battito-battito, la possibilità di avere un monitoraggio volumetrico, anche se stimato, rendono la metodica unica per la tipologia di parametri forniti. Gli svantaggi maggiori di questa metodica rimangono soprattutto quelli legati alle alterazioni del ritmo cardiaco e di tutte quelle condizioni che possono modificare la forma d’onda arteriosa su cui il sistema si basa. Anche gravi alterazioni vascolari (aneurismi) così come la presenza di contropulsatore aortico possono alterare il dato condizionando la lettura del termistore sul versante arterioso. La metodica, pertanto, sembrerebbe poco idonea in chirurgia vascolare maggiore.
19.2.3 LiDCO Nell’ambito dei numerosi tentativi di rendere il monitoraggio emodinamico miniinvasivo e semplice, il LiDCO (lithium dilution cardiac output measurement) è riuscito a rispondere solo in parte alle aspettative prefissate. Per quanto riguarda l’invasività, l’utilizzo di un accesso arterioso radiale e la non necessità di un accesso venoso centrale lo inseriscono a pieno titolo tra le metodiche mini-invasive. Tuttavia la necessità di tarare il sistema con la determinazione della CO tramite indicatore lo rende poco maneggevole soprattutto nella fase di taratura.
19.2.3.1 Storia e razionale Il sistema LiDCO utilizza, come il PiCCO, la combinazione di due metodiche: l’analisi della curva di pressione arteriosa e la tecnica di diluizione transpolmonare di un indicatore, che in questo caso è il litio. Come per il PiCCO, l’analisi della curva arteriosa è affidata a un algoritmo da cui si determinano il valore di SV e la sua variazione nel tempo. A questo dato va associato il valore di CO che il sistema calcola con il metodo della diluizione di un indicatore. Nel caso del LiDCO l’indicatore è il litio a dosaggi molto bassi in modo da evitarne la tossicità. Solo a questo punto il sistema è in grado di fornire un dato attendibile di CO e dei parametri da essa derivati. La determinazione della CO non è così immediata e richiede un percorso particolare. Da un vaso centrale o periferico si inietta un volume noto di litio e tramite un sistema abbastanza complesso si va a misurare la sua concentrazione finale a livello di un accesso arterioso periferico qualsiasi (per esempio, l’arteria radiale).
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La formula per il calcolo della CO risulta essere la seguente: dose di litio (mmol) × 60 CO = ——————————————— A × (1 – PVC) (mmol/s) dove A è l’area sottesa alla curva di concentrazione prima della fase di ricircolo e PVC è l’ematocrito necessario per una correzione rispetto all’ematocrito, dato che il litio si distribuisce a livello plasmatico. Questa apparente semplicità nella determinazione dei parametri emodinamici è in parte vanificata dai vincoli legati alle caratteristiche del sensore. Per una corretta costruzione della curva di diluizione del litio, il sensore deve leggere un flusso ematico costante di 4 ml/min. Per garantire questo flusso il sistema prevede una pompa peristaltica di piccole dimensioni che dev’essere collegata al paziente per il solo momento della taratura. Una volta terminata la curva di diluizione, l’intero sistema va smontato e rimontato solo in caso sia necessaria una seconda taratura. A questo punto il sistema fornisce un dato di CO in continuo tramite l’analisi continua della forma d’onda, parametri emodinamici correlati e, come per il PiCCO, alcuni valori aggiunti legati all’interazione cuore-ventilazione. I lavori in letteratura identificano in 8 ore il tempo dopo il quale è necessario ripetere la taratura del sistema.
19.2.3.2 Valori aggiunti Come il PiCCO, il sistema LiDCO permette la valutazione di utili parametri quali SVV (stroke volume variation) e SPV (systolic pressure variation). Il valore aggiunto rispetto al PiCCO è sicuramente la PPV (pulse pressure variation). Sebbene concettualmente simile agli altri due parametri, il valore di PPV è stato identificato in diversi studi come un parametro accurato delle modifiche emodinamiche. Il suo valore di base è strettamente correlato con la percentuale di incremento della CO in seguito a rimpiazzo volemico. La sua risposta viene giudicata più attendibile rispetto alla SPV. Un valore percentuale di PPV del 13% sembra costituire lo spartiacque tra responder (>13%) e non responder (<13%) al filling test, con una sensibilità del 94% e una specificità del 96%. Come per i parametri precedenti è necessario che il paziente sia in ventilazione meccanica.
19.2.3.3 Conclusioni Il LiDCO contrappone il vantaggio di un basso profilo invasivo legato alla disponibilità di un accesso arterioso e uno venoso entrambi periferici, a una serie di proble-
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matiche. Innanzitutto l’interferenza sul sistema del litio assunto come terapia (in realtà condizione clinica non frequentissima). L’interazione si verifica anche con alcuni miorilassanti, obbligando in caso di utilizzo intraoperatorio a una taratura, non sempre agevole per la complessità della procedura, prima e dopo il miorilassante. Mentre dalla letteratura la metodica sembrerebbe affidabile anche in presenza di farmaci o situazioni che condizionano significativamente le resistenze arteriose periferiche (Linton et al., 1997), dubbi rimangono sull’attendibilità del segnale arterioso per i fenomeni di interferenza su tale segnale che spesso caratterizzano la misurazione dell’onda arteriosa periferica. Come descritto anche per il PiCCO, alterazioni significative sul circolo arterioso (rigurgito aortico grave, contropulsatore aortico e shunt intracardiaci) costituiscono una controindicazione alla scelta.
19.2.4 Flo Trac/Vigileo È una metodica a bassissimo impatto invasivo (necessita solamente di un accesso arterioso periferico), di facilissima applicazione e di estrema immediatezza nei dati forniti. Lo strumento è in grado di calcolare la portata cardiaca analizzando la curva di pressione arteriosa e correggendo i dati secondo le specifiche caratteristiche del paziente, quali sesso, età, peso e altezza.
19.2.4.1 Storia e razionale Il calcolo della CO è possibile tramite un algoritmo, periodicamente aggiornato e corretto dalla casa costruttrice (in media ogni 6-12 mesi). Il razionale consta nell’identificare una relazione diretta tra polso pressorio e SV e una relazione inversamente proporzionale tra polso pressorio e compliance aortica. Quest’ultima viene stimata sui dati antropometrici forniti all’inizializzazione del monitoraggio. Il sistema non richiede alcuna taratura iniziale e dopo circa 20 secondi dalla lettura della curva arteriosa è già in grado di fornire i dati di monitoraggio.
19.2.4.2 Valori aggiunti A differenza delle altre metodiche, il Vigileo non possiede alcun parametro particolare. In aggiunta a CO, SVR e SV è in grado di calcolare SVV e PVV. La metodica è stata validata in diverse condizioni cliniche e con l’ultimo aggiornamento è stata introdotta anche la possibilità di ottenere un monitoraggio in corso di contropulsazione aortica.
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Come per tutte le altre metodiche che si basano sul profilo dell’onda arteriosa, la comparsa di aritmie rende i dati poco attendibili, anche se nell’algoritmo è previsto un fattore di correzione per le aritmie meno significative. Il confronto con altre metodiche ha dimostrato una sostanziale validità. Le indicazioni in condizioni estreme rimangono comunque da validare e in condizioni di ipotermia severa o shock si consiglia un approccio a grossi vasi arteriosi.
19.2.4.3 Conclusioni Per le caratteristiche di semplicità e mini-invasività il Vigileo rappresenta indubbiamente un monitoraggio molto utile del paziente a rischio. Particolare attenzione va posta quando la condizione clinica diventa complessa.
19.2.5 Adeguatezza del segnale arterioso Abbiamo fin qui esaminato una serie di monitoraggi che hanno nella lettura della curva di pressione arteriosa una delle caratteristiche fondamentali. Un’attenzione particolare va quindi riservata proprio al controllo della qualità del segnale con cui ogni curva pressoria viene trasferita sui nostri monitor. Innanzitutto è essenziale la scelta di una componentistica adeguata. Le caratteristiche essenziali per un buon sistema di trasduzione sono riassumibili in: – linee non più lunghe di 90-120 cm, composte da prolunghe dedicate, caratterizzate da bassa compliance per ridurre al minimo la dispersione del segnale (Clementi, 2002); – meticolosa verifica di assenza di bolle d’aria; – utilizzo di cateteri con sezione non minore di 18 G (per il PiCCO questa problematica è risolta all’origine prevedendo il set un catetere di 20 cm con diametro di 4 Fr). Anche se adeguatamente preparato, un sistema con accurata risposta dinamica può andare incontro, nel tempo, a un deterioramento della qualità del segnale favorito dalla formazione di microtrombi o microbolle (Promonet et al., 2000). Dopo circa 48 ore si può assistere a un fenomeno di smorzamento del segnale che un semplice lavaggio non corregge. È buona norma, quindi, eseguire almeno una volta al giorno o per turno un lavaggio rapido utilizzando una siringa con 5-10 cc di soluzione fisiologica per ripristinare l’accuratezza del segnale. A fronte di valori dubbi diventa importante un confronto con la valutazione non invasiva. L’eventuale discrepanza può essere attribuita a problematiche del paziente o del sistema che devono essere attentamente valutate.
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19.2.6 Impedenziocardiografia (ICG) Nella gestione perioperatoria dei pazienti a rischio un monitoraggio soddisfacente del sistema cardiovascolare dovrebbe avere le seguenti qualità: 1. non essere invasivo ed essere di agevole e rapido utilizzo anche in mani poco esperte; 2. essere in grado di dirci: – se lo SVI è normale o ridotto; – se la DO2I è vicina a quanto ritenuto desiderabile in questi pazienti (600 ml/m²/min); – se la contrattilità del ventricolo sinistro è normale; – se l’acqua nel polmone è normale o elevata; – se la funzione diastolica del ventricolo sinistro è regolare; – se la pressione capillare polmonare è normale o patologica; – se le SVR sono normali, ridotte o elevate. Disponendo di queste informazioni è possibile evidenziare, per esempio, se è presente un edema del polmone; se esso è cardiogeno o da alterazione della permeabilità della membrana alveolocapillare; se in caso di edema cardiogeno esso è dovuto a disfunzione sistolica o diastolica del ventricolo sinistro; se una ipotensione è secondaria a bassa portata o a un calo di SVR; se una dispnea ha genesi cardiaca o respiratoria. Il mezzo di monitoraggio con tutte queste qualità è l’impedenziocardiografia (ICG).
Fig. 19.2 Il torace viene considerato come un sistema di cilindri coassiali. Il cilindro esterno è quello a più elevata resistenza elettrica e rappresenta la componente di aria, parenchima polmonare, coste e muscoli della parete toracica, mentre l’interno è un sistema a bassa resistenza che rappresenta cuore e grossi vasi. Il razionale della metodica si basa sulla possibilità di individuare le variazioni di resistenza del cilindro più piccolo tramite il passaggio di una corrente a bassissimo voltaggio e misurandone le variazioni. L’algoritmo prevede la possibilità di focalizzare la misurazione solo sulle variazioni che avvengono nel cilindro più piccolo filtrando quelle del cilindro più grande
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19.2.6.1 Storia e razionale La storia di questo strumento inizia nel 1960, quando la NASA commissionò a Kubiceck la realizzazione di un sistema non invasivo per la misurazione della gettata cardiaca (Kubiceck, 1966). Il sistema realizzato si basava sul principio che il torace può essere assimilato a due cilindri, uno dentro l’altro (Fig. 19.2). Il cilindro grande è la cassa toracica (formata da aria, parenchima polmonare, coste, muscoli) ed è caratterizzato da un’elevata resistenza elettrica (30 Ω); questa resistenza ha ampie variazioni durante la respirazione. Il cilindro piccolo è rappresentato dal cuore e dai grandi vasi e ha una bassa resistenza (0,1-0,2 Ω); le variazioni di resistenza elettrica di questo cilindro sono legate al flusso di sangue che lo percorre. Le oscillazioni dei due sistemi sono ben identificabili per il diverso range di resistenza degli stessi e per la sincronizzazione con l’ECG delle variazioni di resistenza del cilindro piccolo che generano un segnale del tutto simile a quello del flusso aortico. È quindi relativamente facile escludere elettronicamente le variazioni di resistenza del cilindro grande e focalizzare l’analisi su quelle del cilindro piccolo. Una corrente alternata di bassa intensità inavvertibile dal paziente (1-4 mA) e a elevata frequenza (30-100 KHz) viene fatta passare attraverso alcuni elettrodi autoadesivi e, attraverso altri, vengono misurate le variazioni di impedenza causate dal flusso aortico (Fig. 19.3). Poiché il sangue è un buon conduttore, l’impedenza del cilindro piccolo si riduce quando il sangue lo percorre (sistole) dando luogo a un segnale di segno negativo che tuttavia viene artificiosamente espresso positivamente per renderlo del tutto simile a quello flussimetrico dell’aorta.
Fig. 19.3 Posizionamento delle coppie di elettrodi per l’esecuzione dell’impedenziocardiografia. Per ogni coppia esiste un elettrodo che invia e uno che legge il passaggio di corrente elettrica a basso voltaggio
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È intuitivo come, avendo a disposizione un segnale del tutto simile a quello del flusso aortico e conoscendo la lunghezza e il diametro del cilindro (desunti da peso, altezza e sesso), sia possibile ottenere con algoritmi dedicati il valore dello stroke volume battito-battito. Dagli anni Sessanta gli algoritmi utilizzati sono stati via via sempre più perfezionati tenendo presenti anche le variazioni di diametro aortico che si verificano nelle varie fasi del ciclo cardiaco (ZMARC equation), tanto da dimostrarsi assolutamente affidabili. Nel confronto con la termodiluizione, il lavoro di van de Water et al. (2003) ha evidenziato un’ottima correlazione statistica fra i dati ottenuti con la termodiluizione (TD) e l’ICG. La correlazione fra CO ottenuta con TD e ICG è stata rispettivamente r/R2 = 0,811/0,658, con un bias di 0,18 e una DS di 1,09. Tale correlazione era praticamente sovrapponibile a quella riscontrata su dati intrapaziente ottenuti con la sola TD. In sostanza, fra CO ottenute con TD e ICG vi è la stessa differenza che si osserva fra i dati ottenuti nello stesso paziente con misurazioni ripetute con TD. Ad analoghi risultati ha condotto un nostro studio presentato ad “APICE 2003” a Trieste e relativo a 210 confronti fra TD e ICG su 73 pazienti ricoverati in Terapia Intensiva (Favaro et al., 2002). Ma, dire che l’ICG è una tecnica in grado di monitorare la portata cardiaca è assolutamente riduttivo. Essa infatti è in grado di dare molteplici informazioni utili per l’anestesista nel perioperatorio, come appare chiaramente dalla Figura 19.4. Le Figure 19.5 e 19.6 evidenziano la possibilità di controllare gli analoghi impedenziografici del picco di flusso aortico e delle accelerazioni del flusso che sono preziosi indicatori di precarico e di contrattilità. Un’altra informazione importante che in genere non è disponibile con il monitoraggio non invasivo è quella relativa alla PCWP (pulmonary capillary wedge pressure), che può essere stimata conoscendo il quoziente O/C dell’ICG (Fig. 19.7) dove “O” è l’ampiezza dell’onda impedenziografica durante la diastole e “C” è la massima ampiezza dell’onda impedenziografica durante la sistole. Nel lavoro da cui è stata tratta la Figura 19.7, gli autori hanno dimostrato che in un range fra 3 e 30 mmHg vi è una buona correlazione fra PCWP e O/C (2=0,92 con errore standard di 3,2 mmHg). Il valore normale di O/C è <40. Infine, poiché la resistenza elettrica di base del torace (ZO) è inversamente proporzionale al suo contenuto in acqua, 1/ZO (TFC, thoracic fluid content) si muove consensualmente con l’EVLW. L’ICG è quindi un mezzo di monitoraggio non invasivo ( Fig. 19.8) che può dare informazioni sul precarico (PEP, peak flow, ET, O/C), sulla funzione sistolica del ventricolo sinistro (PEP/ET, ACI), sulla funzione diastolica (IVRT, IVRT/filling time), sulle resistenze vascolari periferiche e sul contenuto in acqua del torace. In particolare, il monitoraggio della funzione diastolica battito-battito è un plus offerto solo dall’ICG (se escludiamo l’ecocardiografia che richiede la disponibilità di risorse sia umane che economiche ben maggiori). L’IVRT (isovolumic relaxation time) misurabile sul tracciato impedenziografico dalla chiusura della valvola aortica (punto “X”) all’apertura della mitrale (punto “O”) è un parametro importante, soprattutto se rapportato al tempo di riempimento (dall’apertura della mitrale all’onda Q dell’ECG). Il quoziente sopraddetto ha un
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valore normale 0,4+/–0,2 e un suo incremento evidenzia una disfunzione diastolica (Mattar et al., 1991). Il merito dell’introduzione dell’ICG nel monitoraggio perioperatorio si deve completamente a Shoemaker e al suo gruppo di lavoro che hanno coordinato lo studio multicentrico di confronto fra termodiluizione e ICG in 680 pazienti chirurgici, seguiti sia in fase pre- che intra- e postoperatoria, giungendo alla conclusione che l’ICG è più agevole, più rapida da attivare, meno costosa e più sicura rispetto al monitoraggio invasivo (Shoemaker et al., 1999).
Fig. 19.4 Con la disponibilità dell’ECG e della derivata prima del segnale impedenziografico (dZ/dT) è possibile ottenere: – il tempo di pre-eiezione del ventricolo sinistro (PEP) = inversamente correlato alla contrattilità e volume-dipendente; – il tempo di eiezione (ET) = altro parametro dipendente dal volume di riempimento e direttamente correlato con la prestazione; – il quoziente PEP/ET = indice prestazionale
Fig. 19.5 In realtà non si tratta di un picco di flusso. Il picco di dZ/dt è l’immagine ohmica del picco di flusso aortico. Il peak flow (PF) index è dipendente dal precarico
Fig. 19.6 L’ACI (indice di accelerazione) viene misurato automaticamente identificando la parte iniziale della fase ascendente della traccia dZ/dt. Il suo valore normale è 50-100. L’ACI è indipendente dal precarico
Fig. 19.7 Fin dal 1997 è stato dimostrato che il quoziente O/C dell’ICG è direttamente correlato con la PCWP.
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Fig. 19.8 Esempio di un’apparecchiatura ICG mobile su carrello
19.2.7 Doppler esofageo Misurazione dei parametri in tempo reale, estrema adattabilità sia in sala operatoria che in terapia intensiva, discreta tollerabilità da parte del paziente, rapidità d’uso e maneggevolezza sono le caratteristiche principali di questa metodica che vede nell’Hemosonic e nel Cardio Q le due applicazioni disponibili.
19.2.7.1 Storia e razionale La metodica Doppler è abbastanza nota da non richiedere in questa sede un approfondimento. Tramite un segnale Doppler (Hemosonic e Cardio Q) ed eventualmente un segnale M-mode (Hemosonic), ottenuti tramite una sonda posizionata in esofago all’altezza di T5 e T6, è possibile determinare la velocità del flusso ematico in aorta e la sezione della stessa (calcolandola o stimandola tramite dati antropometrici) (Gueugniaud et al., 1990). Applicando la formula: Q = A (cm2) × v (cm/s) si ottiene un dato di portata noto come aortic blood flow (ABF). Tuttavia, per ottenere una valutazione corretta della CO, occorre aumenta-
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re l’ABF del 30% circa dal momento che tale parametro non considera il flusso a monte del punto di misura (flusso alle arterie brachiocefaliche e alle coronarie). Dall’analisi della curva velocità-tempo misurata è possibile determinare una serie di dati che, sommati a quelli consueti per il monitoraggio emodinamico, rendono questa metodica di monitoraggio particolarmente interessante.
19.2.7.2 Valori aggiunti La combinazione dei tre parametri qui elencati consente di avere una buona valutazione della contrattilità e del precarico ventricolare sinistro: 1. accelerazione massima (ACC): parametro ben correlato a contrattilità e frazione di eiezione; non è precarico-dipendente; 2. picco di velocità (PV): buona correlazione con la contrattilità, ma precaricodipendente; 3. tempo di eiezione del ventricolo sinistro (LVET): la funzione del precarico è influenzata dal postcarico.
19.2.7.3 Conclusioni La metodica è di facile utilizzo e di bassissima invasività. La problematica maggiore risulta essere la necessità di immobilità del paziente causa la perdita del segnale che viene monitorizzato battito-battito, ma che risente di ogni minimo movimento. La perdita della posizione, inoltre, alterando la misura della sezione del vaso aortico, determina anche una alterazione dei dati emodinamici. I pazienti in coma, i pazienti in anestesia generale e quelli profondamente sedati rimangono i candidati migliori. I parametri ottenuti consentono un’ottima gestione del quadro emodinamico e risultano validati e affidabili per la gran parte delle condizioni cliniche. Varici esofagee, tumori esofagei e interventi chirurgici a livello della regione anatomica in cui la sonda deve essere posizionata per il monitoraggio rendono inapplicabile la metodica. Un buon campo di applicazione è l’ambito pediatrico, dove il problema del monitoraggio emodinamico è particolarmente sentito.
19.2.8 Portata cardiaca con rirespirazione parziale di CO2 (NICO2) La completa non invasività è la caratteristica principale di questa metodica, meglio conosciuta come NICO2.
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19.2.8.1 Storia e razionale Il razionale di questa metodica è il principio di Fick applicato alla CO2 per la misurazione della portata cardiaca (CO) in condizioni di rirespirazione della CO2. La rirespirazione è garantita da un’apposita valvola e da un loop di volume noto che vengono attivati nel momento in cui si vuole eseguire la valutazione emodinamica oppure in continuo ogni 3 minuti con cicli di 30 secondi. Il principio afferma che la quantità di una sostanza assorbita o rilasciata a livello tessutale è uguale alla sua differenza arterovenosa, ossia alla differenza tra la quantità di sostanza portata al tessuto meno quella che lascia il tessuto stesso. Utilizzando la formula differenziale dell’equazione di Fick (principio di conservazione della materia) in pazienti ventilati con un circuito che consenta la rirespirazione di CO2, si arriva alla formula per cui la portata cardiaca (PCBF, pulmonary capillary blood flow) viene espressa come: PCBF = ΔCO2 / (ΔCaCOv – CvCO2) Il CvCO2 essere considerato costante nel momento che la fase di rirespirazione dura circa 30 secondi (Nilsson et al., 2001). A questo punto la formula diventa: PCBF = ΔCOv / (ΔCaCO2 ) dove ΔCaCO2 diventa ΔPETCO2. Le assunzioni possono quindi essere riassunte come segue: 1. durante la fase di rirespirazione: – CvCO2 deve essere costante: affinché ciò si verifichi il paziente dev’essere ben adattato alla ventilazione e non deve inserire atti respiratori irregolari durante la fase di rirespirazione; – spazio morto alveolare costante: questa condizione può variare in tutti i pazienti che vanno incontro a situazioni di atelettasia sia in sala operatoria (per posizione o lunghezza di intervento), sia in terapia intensiva; 2. nello stato stazionario (condizione abbastanza paradossa nel paziente fortemente critico): – riserve di CO2 nel polmone e nel sangue invariate: questa condizione rende discusso l’utilizzo del NICO2 in videolaparoscopia, anche se sembra che la modificazione sia trascurabile (vedi letteratura); – CaCO2 calcolato da PaCO2 e da curva di dissociazione della CO2; – CvCO2 calcolato da PvCO2 e da curva di dissociazione della CO2. La mancanza di queste condizioni genera inattendibilità nei dati di PCBF. Ottenuto il PCBF, per ottenere il valore di CO, bisogna aggiungere la quota di shunt secondo la formula: CO = PCBF + shunt
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Il software esegue l’operazione automaticamente aggiungendo un valore di shunt derivato dalle curve isoshunt di Nunn. Anche a questo livello sono introdotte delle assunzioni per cui le curve di Nunn vengono costruite in condizioni particolari di normalità con: – PaCO2 = 40 mmHg; – C(a-v)O2 = 5 ml/dl; – Hb = 14 g/dl. Lo strumento consente, tuttavia, di correggere i dati Hb e PaCO2 che nel paziente critico spesso cambiano. Affinché il dato di CO sia attendibile, queste correzioni devono essere fatte per ogni cambiamento clinico del paziente inserendo i valori nella schermata dedicata. La valutazione con NICO2 appare realmente a bassa invasività, ma l’elevato numero di approssimazioni necessarie a ridurre la sua invasività la rendono poco attendibile in condizioni di estrema criticità. Per le sue caratteristiche, lo strumento sembrerebbe avere una buona collocazione all’interno del monitoraggio del paziente a rischio in ambienti quali la sala operatoria. Il target di questo strumento, utilizzato valutando il solo contributo emodinamico, consente di mantenere ottimizzati i dati emodinamici in pazienti che richiedono accurate condotte anestesiologiche mirate all’ottimizzazione dell’assetto fluidico-emodinamico e cardiaco. I vantaggi e gli svantaggi del NICO2 sono riassunti nella Tabella 19.4.
19.2.8.2 Valori aggiunti Tra i vantaggi del NICO2 è interessante segnalare la possibilità di utilizzare l’interazione PCBF e calcolo spazio morto alveolare nella valutazione dell’interazione cuore-polmone. Tabella 19.4 Vantaggi e svantaggi del NICO2 Vantaggi Non invasivo
Svantaggi (legati alle assunzioni della metodica e della tecnologia) Applicazione in pazienti in condizioni metaboliche e/o emodinamiche instabili
Facile, rapido Automatico
Applicazione su pazienti con patologia polmonare severa
Semi-continuo (intervalli 3 minuti)
Non misura altri parametri emodinamici
Basso costo Misura di parametri respiratori e metabolici
Lieve aumento di PaCO2 durante la manovra (2-5 mmHg)
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L’analisi delle modifiche del PCBF e dello spazio morto, per esempio in un contesto di PEEP test, consente l’identificazione del punto in cui all’aumentare della PEEP si assiste a un aumento dell’ossigenazione non seguito da una progressione del PCBF e addirittura da un aumento dello spazio morto alveolare. Disporre di un’informazione di questo tipo significa avere a disposizione un pool di parametri per l’identificazione di una PEEP ottimale e di una corretta ventilazione.
19.2.9 Monitoraggio dei peptidi natriuretici (BNP e Nt-proBNP) L’utilizzo dei peptidi natriuretici (PN) ha avuto nell’ultimo decennio un incremento di utilizzo tanto nell’ambito cardiologico quanto nell’ambito dell’urgenza nei suoi principali comparti di pronto soccorso e di area intensiva (Maisel et al., 2008; Silver et al., 2004). Questo maggior utilizzo trova giustificazione nelle svariate condizioni cliniche in cui i PN possono aiutare non solo nella diagnosi ma anche nella valutazione di efficacia di alcune terapie. L’utilizzo dei PN si è infatti dimostrato utile in ambito cardiologico, dalla fase di diagnosi a quella di follow-up terapeutico, con risvolti importanti anche di natura economico-sanitaria. In ambiente critico, l’elevata specificità e sensibilità dimostrata da svariati studi randomizzati, ha permesso di identificare nei PN un importante ausilio, soprattutto nella diagnosi differenziale delle dispnee, indirizzando con un buon grado di certezza su quelle cardiogene piuttosto che allertare il clinico su una problematica cardiaca da approfondire. Di non minore importanza il ruolo assunto dai PN nella stratificazione e nella
Fig. 19.9 A sinistra la card su cui inserire poche gocce di sangue che attivano una reazione di chemioilluminescenza. Il risultato di questa reazione viene letto dopo l’introduzione della stessa nello strumento (a destra) di dimensioni paragonabili a quelle di un telefono. Il tempo per la reazione chimica è di circa 15 minuti e il tempo di lettura di circa 5 minuti. È ovviamente possibile attivare più card contemporaneamente per più pazienti ed eseguire poi le letture. In circa 20 minuti si ottiene un dato quantitativo (range 0->5000 pg/ml) che verrà poi valutato nel contesto clinico del paziente
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Fig. 19.10 Esempio di apparecchio da laboratorio. In questo caso la determinazione dei PN oltre che al tempo tecnico del dosaggio richiede i tempi legati alla raccolta dei campioni, al trasporto e al reinvio del risultato, allungando decisamente il periodo di attesa
valutazione dei rischi perioperatori di pazienti, a volte anche asintomatici, con problematiche cardiache. Da ultimo, ma non meno importante, il ruolo dei PN nella sepsi grave e nello shock settico in Terapia Intensiva, dove permettono il riconoscimento anche precoce di insufficienze cardiache citochino-mediate e la conseguente ottimizzazione della terapia aminica. L’estrema facilità di utilizzo dei PN ne favorisce l’uso anche in clinica. Esistono due tipologie di strumenti in grado di misurare i PN: 1. point of care: sono laboratori di analisi portatili di dimensioni decisamente ridotte che nel caso dei PN (in particolare il BNP) utilizzano card dedicate ognuna delle quali tramite la reazione innescata dal contatto sangue pazientereagente, consentono di determinare differenti marcatori (BNP, troponina, CPK, mioglobina, NGAL ecc.) (Fig. 19.9); 2. strumenti dedicati ai laboratori di analisi normalmente inseriti all’interno di più complesse unità operative di biochimica e/o microbiologia e che normalmente sono centralizzati. È questo soprattutto il caso dell’Nt-proBNP (Fig. 19.10). Il campionamento è molto semplice in tutti i casi. Viene richiesto un campione ematico da sangue periferico o arterioso in una provetta dedicata che viene immesso o nella card o nello strumento dedicato. In un tempo che varia dai 20 minuti per il BNP ai 120 minuti per l’Nt-ProBNP si ottiene un risultato quantitativo da inquadrare in un contesto clinico. Il dato viene quindi letto alla luce di cut-off ampiamente discussi e validati in letteratura. Per il BNP, un cut-off di 100 pg/ml identifica il valore soglia sotto il quale la probabilità che il paziente non abbia un problema cardiologico è elevata. Per l’NtproBNp il cut-off è di circa 300 pg/ml, ma nella lettura di questo PN è meno immediato trovare un singolo valore di riferimento dovendo suddividere i valori di normalità prima per l’età (< 50 anni, 50-75 anni e > 75 anni) e, all’interno di ogni gruppo, identificare un valore differente secondo le indicazioni di letteratura. In seconda battuta bisogna identificare l’interferenza significativa di sesso, obesità e funzio-
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ne renale che complica ulteriormente l’identificazione di un singolo valore discriminante tra patologia cardiogena e broncogena. Tra tutte le cause, un ruolo importante viene rivestito dall’insufficienza renale. Le indicazioni del Consensus Panel del 2004 (Silver et al., 2004) fanno riferimento alla necessità di ritarare il cut-off del BNP a 200 pg/ml in caso di insufficienza renale e addirittura sconsigliano l’utilizzo dell’Nt-proBNP in questi pazienti. Nell’ultima revisione del 2008, l’insufficienza renale, identificata con GFR <60, viene considerata come una condizione meritevole di attenzione. Il consiglio che viene dato è, per entrambi i PN, di elevare il valore di cut-off per evitare di incorrere in errori interpretativi. Un’altra situazione di attenzione viene poi dall’identificazione negli anni di una grey zone che è univoca per gli utilizzatori del BNP ed è identificata nel range tra 100 e 400 pg/ml, mentre per chi si avvale del dosaggio dell’Nt-proBNP si identifica, a seconda delle predette classi di età, rispettivamente in 300-450 pg/ml <50 anni, 300-900 pg/ml tra 50 e 75 anni, e 300-1800 pg/ml >75 anni. Due interessanti applicazioni del BNP in ambiente intensivo riguardano l’identificazione precoce di un’insufficienza cardiaca nella fase inziale di sepsi graveshock settico mediata dalle citochine e di quadri di overloading anche a funzione cardiaca normale. L’approccio allo scompenso cardiaco in fase di shock settico è una realtà ancora nuova nonostante decadi di monitoraggio emodinamico. L’utilizzo dei PN in questo quadro clinico ha aumentato l’interesse per un aspetto a volte sottovalutato nell’ambito degli effetti devastanti delle citochine. L’osservazione, in corso di sepsi grave o shock settico, di valori di BNP <150 pg/ml ha un valore predittivo negativo del 97% rispetto alla presenza di disfunzione cardiaca. L’implicazione clinica principale di questo nuovo approccio è un’ulteriore ottimizzazione della terapia aminica. Per quanto riguarda la valutazione dei quadri di overloading a funzione cardiaca normale è utile ricordare che i PN vengono prodotti in seguito a un aumento della tensione di parete, che è il prodotto tra il raggio della cavità e la pressione esercitata al suo interno (T = P x R). Quindi, qualsiasi condizione che determini l’aumento di una delle due variabili (per esempio, ridotta distensibilità per rigidità di parete con aumento della pressione piuttosto che aumento del raggio per distensione della cavità in seguito ad aumento di volume) condiziona un aumento dei PN. Nelle applicazioni dei PN in ambito intensivo e anestesiologico, la letteratura riporta un possibile loro utilizzo in presenza di problematiche relative all’estubazione di pazienti critici. Pazienti con PN elevati più facilmente incorrono in fallimenti dell’estubazione. Il riscontro di elevati valori di PN in pazienti sottoposti a ventilazione assistita e in fase di weaning deve orientare al potenziamento della terapia respiratoria e a una ottimizzazione delle condizioni cardiorespiratorie prima dell’estubazione piuttosto che in pazienti con valori ridotti. L’inserimento dei PN tra le metodiche di monitoraggio emodinamico sembra essere, alla luce di quanto detto, una scelta appropriata. Il sempre maggiore coinvolgimento dei PN in condizioni critiche, ovviamente integrato con altri monitoraggi (tra cui il principale risulta essere quello ecocardiografico), permette di realizzare
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percorsi diagnostici differenziali in tempi rapidi, ottimizzare e controllare le terapie, raffinare i quadri emodinamici e aiutare in fasi delicate quali quelle respiratorie. Mentre il BNP risulta essere un marcatore di più semplice utilizzo e di rapida consultazione, l’Nt-proBNP presenta in questo senso qualche limitazione, perdendo di immediatezza nella lettura dei dati. Tuttavia la strumentazione centralizzata consente un maggior controllo dei costi e un contenimento della spesa.
19.3 Conclusioni È stata una scelta degli Autori di questo libro non descrivere le tecniche di monitoraggio emodinamico nei capitoli nei quali si fa cenno ad esse. Ciò per non appesantire eccessivamente la trattazione dei singoli argomenti ma, soprattutto, per enfatizzare il concetto che il monitoraggio emodinamico, seppure importante, è solo uno dei mezzi che abbiamo a disposizione per mantenere sotto controllo le funzioni vitali dei pazienti a rischio nel perioperatorio. La conoscenza della fisiopatologia, della semeiotica, della storia clinica del paziente sono i cardini fondamentali del monitoraggio, ma è inevitabile che queste conoscenze debbano essere completate dai dati provenienti dai controlli strumentali, fra i quali quello emodinamico è uno dei più importanti. Ci auguriamo che questo capitolo possa essere utile agli anestesisti per una scelta oculata dei mezzi di controllo e, soprattutto, per una utilizzazione corretta dei molteplici parametri che ne scaturiscono.
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Indice analitico
A
C
ACC guidelines 10, 14, 22, 27-28, 37, 235 Addome 74, 77, 84-85, 116, 130, 132, 140, 194, 201, 203-204, 207, 212-213, 241 Analgesia toracica epidurale 108 Anestesia 1, 16, 22, 26, 28, 29, 31, 36, 42-43, 48, 50-53, 58, 61, 63, 67-68, 77-79, 83, 85-86, 95, 102, 104, 112, 115, 117-119, 122-123, 152, 158-160, 181-182, 187, 193, 236, 239, 242, 253, 257-258, 260, 262, 266-267, 279-285, 289, 291, 293-296, 298-301, 306, 308-309, 313, 315, 317-319, 347 Anestesia pediatrica 291, 301 Apnea ostruttiva (OSAS) 301 APTT (Activated Partial Thromboplastin Time) 163, 168-173, 175-176, 209 Aterosclerosi 234, 247, 314 Atonia uterina 280 Attacco asmatico acuto 112, 119
CAD (coronary artery disease) 17, 234, 239 Capacità di chiusura 113 Capacità funzionale 77-78, 113, 123, 139, 210, 237-238, 258, 264, 267, 275 Cardiopatie in gravidanza 282 CAN (Cardiovascular Autonomic Neuropathy) 57, 58 Chirurgia 2, 4, 10, 12, 15-17, 21-23, 27, 29, 33-34, 50-52, 62, 67, 73, 75, 82, 86-87, 9192, 98-99, 101-103, 105-108, 116-117, 130-131, 135- 137, 146, 159-161, 163-165, 171, 173, 175, 177, 187-188, 210, 227, 229, 233-237, 239, 241, 243, 245-247, 249-252, 257-258, 261-262, 266, 268-270, 301, 306, 308, 313, 315, 317-319, 326, 335, 338 CHF (Chronic Heart Failure) 3-17, 22, 25, 30, 3233 CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata) 171-172, 186 CIN (Contrast Induced Nephropathy) 248 Cistatina C 157 Coagulopatia 166, 171, 176, 186, 195-196, 207208, 279, 285 Compliance totale delle arterie 52 Complicanze respiratorie 25, 74, 95, 97, 99-100, 102, 106, 111, 115-116, 258, 301 Consumo miocardico di O2 (MVO2) 24-28, 36, 50, 52, 239 Contrattilità del ventricolo sinistro 342 Cuore polmonare cronico 76, 79, 93, 96
B Bar Metal Stents (BMS) 23 Barotrauma 102, 120-121, 123, 262 Biguanidi 57, 65 Biomarker 157-158 BMI (Body Mass Index) 69, 74-75, 81, 85, 88 BNP (Brain Natriuretic Peptide) 10-11, 32-33, 35, 52, 237, 350-353 Bronchite cronica 91-92 BPCO (Broncopneumopatia Cronico-Ostruttiva) 24-25, 32, 91-106, 108
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Indice analitico
D
G
Decubito laterale 257, 260, 265-266 Desaturazione arteriosa 80 Diabete gestazionale 281-282, 284 Disfunzione - diastolica 5, 11, 30, 46, 52, 58, 75, 114, 283, 346 - endoteliale 26, 32, 36, 44 - sistolica 5-6, 8, 11, 13, 15, 30, 35, 342 Dolore postoperatorio 26, 79, 107, 258, 267, 289 Doppler - esofageo 242, 346 - transcranico 222, 228-229, 251 Drug Eluting Stents 23
Gettata cardiaca 6, 12, 15, 22, 29, 31-32, 43-45, 52-53, 58-59, 75-76, 79, 67, 102, 121, 135, 147, 185, 189, 222, 236-237, 242-243, 245246, 273-274, 309, 311, 315, 318, 326, 329, 334, 343 GLIK regimen 68-69 Glomerular filtration rate 147 GLP1 (glucagon-like peptide 1) 65 GOLD (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease) 92, 95 Gravidanza 79, 124, 156, 273-276, 279-283, 286, 320 H
E Eclampsia 277-279, 281-284, 320 Eco-dipiridamolo 32 Eco-dobutamina 32 Emorragia - massiva 164-165, 168-169, 171, 175-176, 196, 209 - subaracnoidea 226, 229 F Enfisema 91-93, 118, 200, 262, 264 FANS 59, 81, 87, 112, 191, 283, 285, 300, 312, 316 Farmaci ipotensivi 49-50, 53 Febbre 36, 130-131, 150, 181, 182-185, 187-191, 193, 269, 294, 313 Feocromocitoma 47, 49 FEV1/FVC 95-96, 115-116 Fibrinogeno 76, 163, 166, 168-169, 172, 174-176, 208, 274-275, 279, 285 Flo Trac/Vigileo 326, 327, 340 Fluidi 10, 68, 132, 135, 140-141, 146, 152, 160, 208, 220, 245, 307, 315, 349 Flusso - ematico cerebrale 121, 217, 219-220, 223224, 228 - espiratorio 91-93, 95, 111, 114-115, 121, 123 Fumo di sigaretta 94, 258 Funzione respiratoria 73, 82, 139, 207, 257-258, 266-267, 312 Furto coronarico 24, 32, 36-37, 52
Hb glicata (HbA1c) 62, 66 HHNS (Hyperglicemic hyperosmolar nonketotic syndrome) 57, 61-62 I ICG (Impedenziocardiografia) 31, 52, 326-327, 337, 342, 344-346 Ingrandimento atriale sinistro 11, 48, 53 Insufficienza renale cronica 4, 81, 150-151, 160, 248 Intubazione - difficile 1, 84, 316 - in sequenza rapida 117 Ipercapnia 80, 93, 96, 99, 101, 103, 107, 113, 119, 121, 198, 219-220, 224, 229, 260, 283, 291, 312, 319 Iperinflazione dinamica 35, 91, 101, 113-114, 120121, 123 Iperreattività bronchiale 111-112, 116, 310 Ipertensione - addominale 127, 137-138, 159, 210, 332 - gravidica 79, 276 - polmonare 79-80, 93, 98, 282-283, 285, 315, 331 Ipertermia maligna 182, 185-186, 193, 295, 298 Ipertono adrenergico 9 Ipertrofia ventricolare sinistra 5, 10-11, 25, 30, 34, 46, 52-53, 283 Iponatremia 150, 198, 226, 292, 308 Ipoperfusione 9, 13, 23, 26, 102-103, 129-132, 135, 137, 139, 141-142, 149, 151-152, 161, 210, 239, 246, 248-249, 268-269, 317
Indice analitico
Ipossiemia 36, 81, 91, 93, 99, 102, 106, 113, 118, 186, 198-199, 261, 263-264 Ipotalamo 152, 182-183 Ischemia - midollare 250 - miocardica 6, 21-22, 24, 27-28, 34, 36, 46, 60, 236-238, 243, 266 K
357
O Obesità 73-76, 79-80, 82, 84, 86, 97, 124, 280, 283-285, 301, 351 Obesità in gravidanza 283 OHS (Obesity Hypoventilation Syndrome) 79-80 Omeostasi materno-fetale 273 Ormone antidiuretico 150, 153, 159 OSAS vedi Apnea ostruttiva
Ketoacidosi 61, 155 P L LiDCO (Lithium Dilution Cardiac Output measurement) 52, 315, 318, 326-327, 338-339 Limitazione 92-93, 95-96, 112-113, 115, 117, 264, 353 Linee guida 10, 14, 21-22, 27-28, 32, 37, 62, 6970, 82, 92, 95, 115, 133-134, 141, 168, 172, 182, 191, 201, 209, 220, 222-223, 235, 258, 278, 285, 313 M Medicina perioperatoria 92, 95, 306, 321 Metodiche per la misurazione della temperatura 183 Microdialisi 217, 222, 225, 229 Monitoraggio 2-3, 14-15, 21-22, 29-33, 35, 42-43, 45, 47-48, 51-53, 58, 70, 73, 82-83, 91-92, 96, 99, 101-105, 108, 118, 124, 127-128, 132, 135-136, 140-142, 145-146, 152, 158-161, 163-164, 168-169, 189, 195-196, 198-207, 209-213, 217, 221-222, 225-229, 233, 239, 241-246, 250-253, 257-258, 261, 265, 267269, 273, 276-277, 279, 281-282, 285-286, 289, 297, 299, 307, 311, 315-316, 318-320, 325-327, 329, 334-335, 337-338, 340-342, 345-347, 349-350, 352-353 Monitoraggio emodinamico 135-136, 140, 142, 205, 239, 243-245, 268-269, 276, 311, 315, 318, 325-326, 334, 338, 347, 352-353 N NGAL (Neutrophil Gelatinase-Associated Lipocalin) 157, 202-203, 213, 251 NICO2 326-327, 347-349
Paracetamolo 87, 108, 191-193, 300 Parto-analgesia 284-285 PEEPi (intrinsic Positive End-Expiratory Pressure) 101-102 Perfusione 2, 24-28, 31-33, 37, 46, 50, 52, 59, 77-78, 84, 93, 102, 113, 127, 135-141, 147-149, 151-152, 159, 161, 209-211, 217, 219-222, 224-225, 228, 233, 236, 246, 248-251, 259-260, 262-265, 270, 280-281, 283, 316 Perfusione coronarica 2, 27, 33, 37, 52, 59, 236 PiCCO 52, 82, 159, 161, 244-245, 265, 326-327, 334, 336-341 Plasma fresco congelato 169, 172 Politrauma 173, 188, 209, 211-212 Posizione seduta 12, 227-229, 284 Postcarico 4-5, 102, 114, 327, 347 Precarico 4-5, 8, 30, 84, 102, 135, 141, 210, 244, 267, 274, 309, 311, 314, 318, 327-328, 333, 336-337, 344-347 Pre-eclampsia 277-279, 281-284, 320 Preossigenazione 83, 118 Pressione - di perfusione cerebrale 209, 217, 219-222, 228 - intracranica 121, 198, 217-219, 221-223, 226, 228 - positiva di fine espirazione 101, 113, 121, 229, 331 - tissutale di ossigeno 217, 222, 224-225 Procalcitonina 130, 181, 188-189 Prostaglandina 184 Prove di funzionalità respiratoria 106, 113 PT (Prothrombin Time) 163, 169-173, 208-209, 274-275, 279, 285 Punteggio di Aldrete 105
358
Indice analitico
R
T
Rapporto ventilazione/perfusione 77, 84, 93, 102, 139, 264 Reclutamento 86, 229 Resistenze vascolari periferiche 31, 44, 189, 346 RCRI (Revised cardiac risk index) 4, 10, 42 Riacutizzazione 91, 100 Riserva - coronarica 32, 46, 50, 59, 261 - renale 48, 59 ROTEM® (Tromboelastometria) 173-176
TEG® (tromboelastografia) 163, 165, 173-176 Tiazolidinedioni 57, 65, 68-69 Trasfusione massiva 166-167 Trauma - addominale 200-201, 210-212 - cranico 196-198, 212, 229 - toracico 199-200, 212, 229 - vascolare 205 Troponina cardiaca (cTn) 34-35 U
S Uso restrittivo dei cristalloidi 14-17 Scala VAS 108, 285 Sepsi 128-132, 135-137, 156, 171-172, 188-189, 241, 282, 285, 351-352 Sindrome - metabolica 73, 75, 79-80 - neurolettica maligna 185-186, 193 SRAA (Sistema renina-angiotensina-aldosterone) 7, 152-153 Sliding scale insulin regimen 68-69 Spazio morto 113, 228, 259, 348-350 SPV (Systolic pressure variation) 29, 31, 33, 337, 339 Sulfaniluree 57, 65 SVV (Stroke Volume Variation) 244, 316, 327, 337, 339-340 Swan-Ganz 3, 14, 30, 33, 159, 240, 311, 315, 318, 326-327, 329-330
V Valutazione - preoperatoria 85, 92, 95, 98, 100, 105, 111112, 114-116, 229, 233-235, 239, 243, 257-258, 261, 276, 284-285, 289, 293, 306, 312-313, 316 - perioperatoria 42 Vasopressina 9 Ventilazione 14-15, 25, 29, 35, 73, 77-78, 80, 8386, 88, 93, 101-104, 106-107, 112-113-115, 119-124, 131, 139, 186, 189, 198, 206, 210, 224, 241-242, 245, 257, 259-266, 274-275, 283, 290-291, 331-333, 337, 339, 348, 350, 352 Ventilazione monopolmonare 257, 260-261, 263266 W Wedge pressure (WP) 30, 326-328, 345