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JOHN LAWTON IL GRANDE BUIO (Black Out, 1995) Per WPC Patricia Angadi Women's Auxiliary Police Corps Oxfordshire 1941 -1943 Pittrice, Romanziera e Poliziotta Febbraio 1944 1 Nel quartiere di Stepney a Londra, non restava molto di Cardigan Street. Né, veramente, di Balaclava Street, di Alma Terrace o di quella piazzetta improvvisamente chiamata Waterloo Place. L'attacco aereo le aveva rase al suolo alla fine del 1940. Quattro strade esplose, ridotte a una difforme, accidentata estensione di macerie. Nella primavera del 1941 la natura le aveva riscattate, la mora selvatica e il sambuco se n'erano impossessati, le ortiche avevano affondato le loro radici giallastre tra i mattoni, ciuffi di buddleia e convolvoli erano comparsi come isole tra le rovine. Nel 1943 un giardino selvaggio aveva coperto, infine, la selvaggia distruzione operata dalla guerra. Inverno. Primi mesi del 1944. Un gruppo di bambini giocava al mondo su un tracciato segnato col gesso sulle piastrelle rosse e blu che erano state il pavimento di una cucina. Il bambino grasso con un cerotto su una lente degli occhiali era troppo goffo e non l'avevano fatto giocare. Spettatore forzato, se ne stava a bordo campo e, poco interessato alla partita, ogni tanto guardava il cielo, verso est. I bombardieri avevano ripreso a farsi vedere abbastanza spesso. Ne aveva sentito la mancanza. Come tutti i ragazzetti della sua età sapeva distinguere un Dornier da un Heinkel, un Hurricane da uno Spitfire. Quando non comparivano lassù, c'era un gioco di meno da fare. Abbassò gli occhi sul muretto di mattoni anneriti che separava ciò che una volta era stata Alma Terrace dai resti di Cardigan Street. Un cane bastardo aveva saltato
il muretto. Teneva tra i denti qualcosa di lungo e molle. Il bambino grasso lo guardò avviarsi trottando, svelto, attorno alla zona bombardata; lo vide attraversare, in una corsa ostinata, pavimenti, muri spezzati, frammenti di finestre, dentro e fuori dalle stanze sventrate, agitando ogni tanto verso l'alto il suo trofeo e scuotendosi tutto, col pelo marrone arruffato, in un'estasi di felicità. «Avete visto quel cane?», chiese il bambino grasso ai suoi amici. Non gli risposero, le loro grida avevano soffocato le sue parole. Il cane seguitava a correre senza nemmeno fermarsi per fare pipì, ma il cerchio che tracciava tutt'intorno, si andava stringendo non si capiva verso quale centro. La sua pazzia seguiva uno schema. «Ha qualcosa in bocca!». Di nuovo non lo ascoltarono. Il cane ebbe uno scatto, si diede un altro scossone e, mentre il bambino grasso tentava di seguire la sua corsa in un cerchio sempre più stretto, si voltò verso di lui con un movimento rapido e gli posò ai piedi il suo dono prezioso. Il bambino grasso spalancò gli occhi, incerto se credere a ciò che vedeva con chiarezza per la prima volta. L'irsuto segugio gli aveva offerto un braccio umano a brandelli. 2 Troy fermò l'automobile a Ludgate Hill, sotto la ferrovia. La notte era nera come l'inchiostro e fredda come la morte. La cicatrice recente che aveva sul braccio gli faceva male, si sentiva le dita intirizzite, doveva continuamente soffiarsi il naso. Cominciava a pensare che avrebbe fatto meglio ad andarsene in giro di giorno, ma Londra durante l'oscuramento aveva per lui un'attrattiva indefinibile. Una volta aveva cercato di spiegare ai suoi colleghi perché gli piaceva lavorare di notte. «È come camminare sull'acqua», aveva detto, ma nessuno gli aveva badato. «Dev'essere una questione junghiana, sento di poter sconfinare nell'inconscio collettivo della città». Avevano riso. Nella prima spiegazione, l'accenno blasfemo non era stato colto, nell'altra, con la sua complicazione, si era visto solo un pretesto per ridere. Stesse attento, gli avevano detto, altrimenti quella passione per la notte l'avrebbe trasformato in un vecchio sporcaccione. O, peggio, in un povero insonne. Sconfinare nella libera, oscura vastità della notte. Ma stavolta non era solo. Una luce, piccola come una capocchia di spillo, diventò il raggio di
una torcia elettrica che una guardia addetta al controllo della sicurezza antiaerea agitava verso di lui mentre si avvicinava all'automobile. Troy abbassò il finestrino e si dispose ad ascoltare il solito ammonimento. «Lei non può proseguire. Per poco non hanno colpito la Cattedrale. Doveva fare il giro per Ludgate Circus». «È bloccata la strada?», chiese Troy con calma. «Devo passare». «Dite tutti così: devo passare», la guardia tacque per un momento e Troy aspettò la domanda inevitabile. «È veramente necessario per lei uscire a quest'ora?». Troy era sicuro che un giorno quella domanda d'obbligo l'avrebbe spinto alla violenza. «Sono un agente di Scotland Yard. Sto andando al comando di polizia di Stepney». «Può mostrarmi un documento?». Troy teneva la tessera pronta, stretta in mano. L'alzò alla luce della torcia. La guardia lo fissò, esaminò la tessera poi lo fissò di nuovo. «Quando avevo la sua età ero in trincea». Troy l'osservò a sua volta. Era quasi completamente in ombra, ma non era difficile capire quanti anni avesse; i baffi ben spuntati, l'accuratezza nel pronunciare le parole, la rigidezza dei movimenti, facevano pensare a un uomo sulla cinquantina: una generazione che Troy era arrivato a detestare per quella mania di mettere avanti sempre i sacrifici fatti in guerra e il fervore sciovinista di mandare i figli a rischiare la pelle in un'altra guerra contro la Germania, una generazione che amava le chiacchiere, credeva nella Società delle nazioni, una generazione meschina e brontolona. Troy aveva smesso da un pezzo di considerare la sicurezza antiaerea e la milizia territoriale come qualcosa di diverso da una seccatura a carattere patriottico. «Sono un agente di polizia. Credo che basti». Troy si tratteneva a stento. Perché lo trattava come un imboscato? «La guerra è laggiù, figliolo!». No, pensò Troy, mentre premeva il motorino d'avviamento e, con un sobbalzo, avviava a retromarcia la vecchia Bullnose Morris, la guerra è qui. La guerra, come la carità, comincia a casa. Curvò verso sud, a Ludgate Circus e percorse lentamente NewBridge Street. Otto anni di polizia e quasi cinque passati a occuparsi di omicidi lo avevano portato a vedere qualsiasi rapporto umano come un conflitto. I crateri di Blackfriars e Puddledock, alla sua destra, spalancavano le loro bocche come in uno sbadiglio. C'era stata una donna, nel '38, che aveva trapassato con un ferro da calza
l'occhio di un marito infedele. Upper Thames Street e gli archi bombardati della stazione di Camion Street passarono sopra la sua testa. Nel '41, il maggiore Buffs, di ritorno in licenza, aveva fatto a pezzi con una baionetta una moglie apparentemente peccatrice. Solo apparentemente. Il maggiore era andato alla forca, assassino pentito di una sposa ineccepibile. Questi delitti non richiedevano una soluzione, i colpevoli non abbandonavano la scena del delitto o, se lo facevano, era per presentarsi alla polizia qualche giorno dopo e confessare. A sud, al di là di Tower Pier la notte su Bermondsey si spaccò con il rumore cupo e profondo di una bomba e una lingua di fuoco altissima si alzò con una lucentezza satanica nel cielo senza stelle. Lì, o molto vicino, i londinesi avevano fatto il bagno nel Tamigi, erano andati in barca sull'acqua salata dell'alta marea nelle estati calde tra le due guerre, avevano preso il sole sulla spiaggia artificiale, ricavata dove il fiume non poteva arrivare, proprio vicino a Tower Bridge. Un bambino di otto anni era annegato nel '39, nelle ultime ore di pace. Sua sorella, di undici anni, l'aveva tenuto con la testa sott'acqua. Troy aveva, con molta pazienza, raccolto la sua confessione, davanti ai genitori increduli e si era opposto con fermezza a un furibondo controinterrogatorio nel banco dei testimoni. La litania non aveva fine. Solo tre settimane prima, un uomo, a Uxbridge, aveva squartato la moglie con una scure e aveva aggredito Troy, mentre lo arrestava, staccandogli un pezzo di braccio. Inserì la terza con uno stridio mentre l'automobile girava attorno alla cima di Tower Hill e un grappolo di bombe lacerava la notte, una volta ancora, su Bermondsey. Attirato dal rumore e dalla luce, Troy si spinse fin sul ponte deserto e spense il motore. Sembrava che Londra fosse sprofondata nel vuoto. Scese dall'automobile e restò a guardare. Verso la foce del fiume, gli aerei della Luftwaffe sciamavano da sud per far piovere bombe su Rotherhithe e sui Surrey Docks. Era una delle incursioni più massicce dall'inizio della guerra. Un altro schianto, un'altra colonna di luce che si alzava nel cielo e una fiamma esplose, si gonfiò in un attimo e attraversò il fiume come un proiettile. Gli aerei miravano ai fusti di benzina sulla riva sud, ormai era evidente che li avevano individuati. La benzina si rovesciò a fiotti nelle impetuose acque salate della marea e il Tamigi s'incendiò. Fiamme azzurre e arancioni correvano danzando come grotteschi demoni verso il ponte dove Troy osservava lo spettacolo pirotecnico, assurdamente affascinante, offerto dalla guerra, il gioco stregonesco della palla di fuoco che trasformava il nero della notte in un guizzante chiaroscuro, parodia del giorno. Il cielo crepitava degli scoppiettii dei proiettili dell'antiaerea, leggeri e inutili come
sacchetti di carta gonfiati e fatti esplodere dai bambini. I traccianti sfrecciavano verso l'alto in lunghe strisce lucenti color carminio. Durante la prima incursione, sembrava passato un secolo, Troy era rimasto a guardare la hitleriana pioggia di ferro scendere sulla città perché preferiva il rischio all'aperto piuttosto che la sicurezza delle nere caverne sotterranee. Il cielo dei bombardamenti aerei, ornato di gemme, non aveva mai perso il suo fascino. Nei giorni in cui l'immaginazione e l'intuito cedevano alla ragione e all'analisi, Troy era incline a giudicare che fosse grottesco subire quel fascino, quasi fosse parte di una grossolana pazzia che, se n'era reso conto di recente, non era una sua particolarità. Era circolata la notizia che Churchill avesse creato qualche imbarazzo alla propria scorta salendo in cima a Storey's Gate, alla fine di Horse Guard's Parade, per assistere allo spettacolo, proprio come stava facendo Troy. Erano solo chiacchiere, naturalmente, ma Troy aveva visto con i suoi occhi masse di soldati americani affollarsi a Haymarket o sui gradini alla National Gallery, durante un bombardamento, e guardare estatici verso sud-est come chi, nato e vissuto in un inverno perenne, vedesse esplodere la luce della primavera. Una volta si era trovato a Trafalgar Square, in un gruppo di sottufficiali, a dividere la stessa pazzia, e uno di loro gli aveva detto: «Mai, mai avevo visto niente di simile nel Kansas.». 3 Anche l'agente di servizio al comando di polizia di Stepney sembrava fosse stato tirato fuori dalla naftalina per sostituire un collega più giovane ora inquadrato a menar colpi a Aldershot o a Catterick. «Sì?» disse. Perché, pensò Troy, nessuno mi chiama «Signore»? Almeno una volta sarebbe bene che non si badasse all'età per tributare un po' di rispetto al grado. «Sergente Troy. Devo vedere George Bonham». Di nuovo mostrò la tessera. L'agente la scrutò con palese difficoltà. Se Troy gli avesse mostrato un pesce morto sarebbe stato lo stesso. Si voltò verso la porta aperta alle sue spalle e gridò: «George! C'è qualcuno che ti vuole vedere!». Un orso comparve sulla soglia dell'ufficio dietro l'ingresso. Stivali numero quarantasette. Statura due metri e dieci abbondanti, compreso l'elmetto.
«Finalmente ti si rivede, Freddie», disse Bonham con un largo sorriso. Alzò lo sportello del bancone e venne avanti. Strinse per un attimo la mano che Troy gli tendeva per poi dargli una botta su una spalla, da vecchio zio affettuoso, ma come se volesse frantumargli la spina dorsale. «Beviamo una tazza di tè. Hai freddo? Sono passati secoli da quando sei venuto qui l'ultima volta. Secoli». Leman Street, alma mater dei novellini, era stato anche per Troy il primo ufficio di polizia. Era entrato nel reparto di George Bonham a ventun'anni, felice di essere accettato anche se era alto due dita meno del minimo richiesto. Bonham l'aveva allevato e protetto per ragioni che Troy ancora non riusciva nemmeno a indovinare. Era stato Bonham che l'aveva incoraggiato a vestirsi in borghese. Nel 1939, Troy era stato chiamato a far parte di Scotland Yard. La rapida soluzione di un'indagine complessa e, insieme, la scarsità di uomini giovani, già tutti impegnati nelle esercitazioni belliche, gli avevano fatto guadagnare il grado di sergente pochi mesi dopo lo scoppio della guerra. Ma anche ora, a ventinove anni, un colloquio con Bonham lo faceva sentire come un bambino. In ufficio, Bonham mise il bollitore sul fornello e prese da uno scaffale una scatoletta di tè. Toby sapeva che l'amore di Bonham per quell'antico rito inglese ne avrebbe prolungato all'infinito la preparazione. Si guardò attorno. La stanza non era cambiata in niente nel tempo in cui era stato a Scotland Yard, lo stesso colore biancastro, scurito in varie gradazioni di crema e ocra da generazioni di fumatori. «Chi sa che freddo hai», disse di nuovo Bonham. «George», Troy si augurò di riuscire a non mostrare quanto la cerimonia del tè lo rendesse impaziente, «posso vederlo subito?». «Guarda che non se ne può andare via da solo». «Lo so, ma ci terrei a vederlo subito». Bonham si avvicinò alla finestra, tirò il saliscendi e prese dal davanzale un pacco lungo e stretto di carta marrone. «Non avevo ghiaccio e l'ho messo al fresco sul davanzale. Non c'è rischio che vada a male, eh, in una notte come questa». Mise il pacco ghiacciato in mezzo al tavolo e tirò un lembo dell'involucro. Il contenuto ne rotolò fuori, rigido. Era il braccio di un uomo, crudelmente reciso sopra il gomito. Un braccio sinistro, con anche le dita. Sul medio c'era un anello d'oro. L'avambraccio era coperto dalla manica di una giacca di lana pesante a spina di pesce. Di sotto usciva il polsino di una camicia ancora chiuso da un gemello. Troy guardò tutto con molta atten-
zione, poi girò due volte attorno al tavolo. Si fermò, voltò il braccio con il palmo della mano rivolto verso l'alto e la osservò. Per qualche minuto nessuno parlò. Mentre Troy si appoggiava con la schiena all'armadio e, per la prima volta, distoglieva lo sguardo da quel braccio, si sentì, nel silenzio, fischiare il bollitore. Bonham versò un po' d'acqua nella teiera e l'agitò per scaldarla bene, poi sottrasse un pizzico di tè alla sua razione, che andava rapidamente calando. «Chi l'ha trovato?» chiese Troy. «Un bambino. Oggi pomeriggio, sul tardi». «Dove?». «Nella zona bombardata. A est, verso Stepney Green. È entrato, l'ha buttato lì ed è corso via. Ma non importa, lo conosco da quando era in fasce. I suoi genitori abitano nella mia stessa casa». «Dovrò parlare con lui». Bonham posò la teiera e due tazze vicino al braccio e guardò Troy. «Non stanotte, Freddie. Non può essere così urgente». «Fino a che punto può essere urgente un omicidio?». «Chi ha detto che è stato un omicidio?». «Chi ha chiesto l'intervento di Scotland Yard?». «Solo una precauzione. Mi sono preoccupato quando è risultato che non era uno di qui». «Non sono stati trovati cadaveri senza braccia?». «Li ho controllati tutti. Uno per uno. Quello è il braccio di qualcuno che non è di queste parti. Sono pronto a giurarlo». «Ci sono state incursioni massicce per tutto il mese. Londra è ingombra di cadaveri. Potremmo innalzare una muraglia di inglesi morti». «Non è dei nostri. Te lo posso assicurare». «George, la gente muore dappertutto a Londra». «Ma l'uomo che ha perso il braccio, no. I morti erano poveri ubriachi, troppo lenti o troppo storditi per entrare in un rifugio antiaereo. Ma sono stati tutti riconosciuti. Nella mia zona non manca nessuno. Abbiamo estratto tutti i cadaveri e li abbiamo identificati. A nessuno era volato via un braccio». «Questo braccio non è volato via e neppure si è staccato: è stato amputato». «Avrei dovuto guardarlo meglio». «Quattro colpi di lama, se non di più». Troy si chinò, con i gomiti sul tavolo, a guardare. «Hanno usato qualcosa di pesante, largo, con una sola
lama affilata in punta». «Un coltello da macellaio?». «È più probabile un machete o un coltello da caccia». Troy prese la tazza che Bonham gli porgeva e le sue dita intirizzite ripresero dolorosamente vita al calore. Lui trasalì appena e tornò a occuparsi del braccio. Le unghie erano pulite e ben tagliate, non erano né spezzate né mangiucchiate. La punta delle dita era gialla di nicotina. Troy sarebbe stato pronto a giurare di aver individuato un fumatore di Capstan. Il particolare più strano era la quantità di piccoli segni sulla pelle, macchioline scure e ruvide, come piccole ustioni. Per la maggior parte erano ben cicatrizzate, ma una o due sembrava risalissero a poco tempo prima, un mese al massimo. Troy si sentiva pungere la punta del pollice screpolata dal freddo. Bevve un sorso della disgustosa mistura preparata da Bonham, solo un debole ricordo di una tazza di tè anteguerra. Fece un'altra volta il giro del vecchio tavolo di olmo e si fermò vicino a Bonham, spalla a spalla, per modo di dire, perché la spalla di Bonham era molto più in alto della sua. «Era già morto», concluse, «quando, chiunque sia, gli ha tagliato il braccio». Bonham bevve rumorosamente un po' del suo tè. «Vigliacco!». «Dov'è la zona bombardata?» chiese Troy. «I bambini la chiamano il giardino. È verso Stepney Green. Prima di Hitler rientrava quasi tutta in Cardigan Street». «Mi ci mandavano agli inizi della carriera». «Beh, domani puoi tornarci». «Il bambino sta dove abiti tu?». «Sì, a pianterreno sul retro. Si chiama Terence Flanagan, altrimenti detto Botticella. Lo conosco bene, te l'ho detto. Il padre è di quelli che si attaccano alla bottiglia, ma è più facile che vizi il figlio piuttosto che si tolga la cintura e lo picchi. Hai capito che genere di uomo è? Quando l'umore è buono regala al bambino tutto quello che ha in tasca, da un penny a una moneta d'argento. Non ci bada. Ma la madre è una brava donna, lo fa rigare dritto». «Posso parlare al bambino domani mattina?». «Sì, se ti alzi presto. Vuoi dormire da me, stanotte?». «Se non ti do fastidio, George». «Nessun fastidio. Il posto non manca. La casa è quasi vuota». Troy rifletté su quelle parole. Bonham e sua moglie Ethel avevano alle-
vato tre figli in tre stanze. Due camere da letto di passaggio e un salotto tre metri per tre, con una cucina piccola come quella di un aereo, dove era stato ricavato anche un bagno. Se a Bonham la sua casa non sembrava piccolissima era perché non era mai vissuto altrove e se diceva che era quasi vuota era perché i suoi tre figli erano arruolati in marina e sua moglie era morta nel bombardamento del 1940. Troy era stato molte volte a pranzo da George e Ethel Bonham sul finire degli anni Trenta quando era entrato nella loro vita come il ragazzo più giovane che si fosse mai iscritto a Portsmouth. I coniugi Bonham lo avevano incoraggiato, nutrito, e, Troy lo sapeva, istruito durante il primo anno di polizia. Bonham si ficcò l'elmetto sotto il braccio come la testa di un fantasma e si preparò a uscire. Troy prese il braccio. «Stai scherzando?», gli disse Bonham. «No, portiamolo via». «Come vuoi». Troy avvolse di nuovo il braccio nel foglio di carta marrone e lo brandì come un filone di pane francese. Bonham aprì lo sportello del suo armadietto, ne tolse un pacchetto fatto con la carta di giornale, piccolo e macchiato di sangue e lo mise nell'elmetto capovolto. «Una specialità», disse sorridendo e, mentre il sorriso si trasformava nella risatina di chi sa il fatto suo, aggiunse: «Il macellaio è un mio amico. Mi ha servito bene, questo dovrebbe bastare per due». Mise un dito sull'elmetto con lo stesso gesto che avrebbe fatto mettendoselo sul naso, per spiegare a Troy che quello era un segreto di vitale importanza da non dividere con nessuno. «Io sono già a posto», disse Troy, indicando il braccio gelato. «Che scherzi fai?», ribatté Bonham. 4 Bonham abitava a Cressy Houses, a pochi metri da Stepney Green, in una casa a quattro piani, molto bella, anche se un po' annerita dal tempo, con una facciata di mattoni rossi, il tetto di tegole e una targa della East London Dwellings. Alla base, sul lato che dava verso Union Place, era ancora puntellata con delle travi e una impalcatura, testimonianza dell'incursione aerea che aveva causato la morte di Ethel Bonham. «Non sarà cosa da poco». Bonham diede a Troy un mazzo di chiavi ed
estrasse a fatica dall'automobile la sua struttura gigantesca. «Entra in casa e metti il bollitore sul gas. Io intanto vado a scambiare due parole con i genitori del piccolo Flanagan». Troy salì al secondo piano. L'appartamento di Bonham era molto più che «quasi vuoto». Odorava di verdure bollite e, pur essendo perfettamente pulito e in ordine, sembrava abbandonato, senza vita. Occupato, non abitato. Entrò nella cucina, minuscola, e accese il gas. Riconobbe subito la mano di Ethel Bonham, un sacchetto lavorato a ferri per le mollette da bucato appeso dietro la porta. Sembrava il segno di quanto poco restava di lei, come se Bonham avesse voluto cancellare qualsiasi ricordo della moglie morta. L'armadietto a vetri dove un tempo era esposto un assortimento di oggetti, da un cagnolino di gesso a due bruttissimi piatti rossi e oro della fabbrica Crown-Derby, adesso era vuoto, contro una parete del salotto. Nella primavera del 1936, Troy era stato la recluta più inesperta che si potesse immaginare, così legato ancora agli anni passati in campagna da ritenere tram e taxi capaci di mettere in pericolo la sua vita e le sue membra più di qualsiasi criminale. Ethel gli aveva insegnato come si vive in una grande città; dove, quando e anche come, si va a far spese nei negozi; come si rammendano le calze; come si rompe un uovo con una mano sola e come si toglie l'albume senza rompere il tuorlo. Nell'ottobre dello stesso anno, Bonham l'aveva trasportato a casa sua dopo gli scontri di Cable Street, quando il capo della polizia era stato così imprudente da far sgombrare una strada per i fascisti di Mosley mandando tutta la polizia metropolitana a cavallo contro la schiacciante maggioranza di centinaia di migliaia di londinesi. Un cavallo, impazzito per la paura, aveva colpito Troy sopra l'occhio sinistro col suo zoccolo di ferro. Ethel aveva lavato e bendato la ferita. Era rimasta una cicatrice, quasi invisibile, lungo la linea del sopracciglio. Ethel aveva insegnato a Troy a essere autosufficiente e, senza volere, l'aveva incoraggiato a scegliere l'aspetto più solitario della vita di città come, ora lui l'aveva capito, era già nella sua natura. «Tutto a posto», gridò Bonham dalla cucina. «Botticella domani mattina non andrà a scuola e ci mostrerà dove ha trovato il braccio». Bonham, alto e grosso, riempiva tutto il vano della porta tra l'anticamera e il salotto e per passare doveva abbassare la testa. Si slacciò la giacca, l'appese a una delle sedie attorno al tavolo da pranzo, e si sciolse il nodo della cravatta. Restò in camicia e bretelle; i pantaloni della divisa, a vita alta, stretti attorno alle costole, mettevano in rilievo il ventre sporgente di un fisico muscoloso che cominciava a cedere alla cinquantina. Troy non
sopportava la divisa. Gli piaceva solo la sua giacca scura, anonima. «È un bel pezzo di manzo», disse Bonham con semplicità, mentre si staccava il colletto della camicia, fissato dietro con un bottoncino. «Adesso lo metto nella pentola. Qualche patata, una manciata di verdure e, intanto, ci apriamo una bottiglia. Togliti la giacca, Freddie». Si chinò sul fornello e con un fiammifero Swan Vesta accese un bel fuoco vivido e sibilante. Troy si tolse la giacca. Bonham si mise a sedere davanti al fornello, con le ginocchia che gli arrivavano al mento, e le mani massicce che reggevano delicatamente un bicchiere di birra. «Tu non hai ancora provato che cos'è perdere una persona cara. Spero che non ti capiti mai. Ma proprio perché non hai provato non puoi capire. Per me... ecco, per me è più facile, dopo ventitré anni di matrimonio, accettare la solitudine senza tanti ninnoli e cianfrusaglie. Ma, come ti ho detto, chi non ha provato non può capire». «Prima o poi capita a tutti», disse Troy. Bonham vide in quella considerazione generica un riferimento particolare. «Credi che la guerra andrà avanti all'infinito?». «No, al contrario. La guerra sta per finire. Londra si sta riempiendo di soldati. Ce ne sono delle file nelle stazioni e sempre più spesso sono americani. Credo che la presenza di Eisenhower in Inghilterra sia il segno che presto si aprirà un secondo fronte». Bonham era un sostenitore dell'Europa. «Era ora», borbottò dentro il bicchiere. «E forse allora i vecchi la smetteranno di dirmi che sono un imboscato». «Come? Ti dicono questo?». «Non apertamente, ma chiunque abbia meno di quarant'anni viene guardato da chi ne ha di più come se dovesse vergognarsi di non essere in divisa. Capita ogni giorno». «Un poliziotto è sempre un poliziotto», disse Bonham con una sorta di tranquilla determinatezza. Non una volta Troy aveva avuto la tentazione di arruolarsi. Da nessuna parte, però, gli erano state fatte pressioni. La seconda guerra mondiale non seguiva il modello della prima. Alimentava un proprio carattere confusionale nel quale rientrava una corrente di xenofobia che aveva portato, dopo Dunkerque e l'invasione della Norvegia, alle retate di migliaia di stranieri. Era stata la sorte toccata al fratello di Troy, maggiore di lui di otto anni,
colpevole di essere nato a Vienna (entrata a far parte del Reich nel 1938 dopo l'Anschluss, l'annessione dell'Austria da parte della Germania nazista) da genitori russi che si erano spinti attraverso l'Europa alla vigilia di un'altra grande confusione passata alla storia come la rivoluzione del 1905. Rilasciato nell'autunno dello stesso anno, arrestato due mesi dopo e rilasciato di nuovo nell'inverno successivo, il fratello di Troy ora serviva il re e la nazione come comandante dei nuovi caccia Tempest. Il rancore che non portava verso il suo paese di adozione si era trasmesso, attraverso un misterioso meccanismo, a Troy. E questi, pur avendo conosciuto solo quel paese, per una serie di ragioni che non si sarebbe mai sognato di discutere fuori dalla famiglia, non lo avrebbe servito altro che come agente di polizia. «Non capisco perché non ti sei sentito offeso», aveva detto a suo fratello Rod. «Perché? Non ha senso rifiutare in blocco l'Inghilterra solo per come mi ha trattato. Per me è solo un incidente». «Un incidente!», aveva protestato Troy. «Esatto. Un errore commesso onestamente. Qualunque cosa io possa, soggettivamente, provare per il mio paese di adozione», aveva concluso con un po' di enfasi, «obiettivamente la mia patria è con gli angeli». «Un po' come lottare per la giusta causa?», aveva detto ironicamente Troy. «Se vuoi». Era una caratteristica di famiglia, quel laissez-penser. «E non ti senti un amaro in bocca?». Questa volta il fratello maggiore non aveva risposto. «Senza patria», aveva aggiunto Troy. Rod era stato ancora zitto, chiedendosi dove volesse arrivare suo fratello. «La patria, il patriottismo non significano niente per chi la patria non ce l'ha», aveva detto Troy. «Lo so». E Rod aveva pensato che suo fratello cominciava infine a dimostrare un po' di coerenza. «Non ce l'ha nel cuore», aveva concluso Troy, lasciando perdere la coerenza. «Che cosa vuoi dire?». Questa volta era toccato a Troy non rispondere. 5
Manzo bollito, niente carote e qualche verdura di specie indefinita, avevano lasciato in Troy la gratitudine per la generosità di Bonham e la voglia di capire perché la defunta signora Bonham non avesse trasmesso le sue arti al marito nella stessa misura in cui le aveva trasmesse a lui stesso. Bonham aveva preso un'altra birra e stava cercando l'apribottiglie quando qualcuno bussò alla porta. «Buonasera, signor Bonham». Troy sentì una voce di uomo ma non vide nessuno perché la schiena di Bonham nascondeva il vano della porta. In un isolato dove abitavano scaricatori, fruttivendoli ambulanti, venditori di abiti usati e domestiche a ore, Bonham rappresentava la legge e l'ordine, la rispettabilità in cui tutti credevano anche se, ogni tanto, se ne dimenticavano; era e non era uno come gli altri. Quella voce sulla soglia aveva una intonazione rispettosa, non deferente. Che ci si rivolgesse a lui chiamandolo "signore" era un diritto indiscusso di Bonham. «Ho sentito dire che ha trovato qualcosa...». Troy scattò in piedi come se l'avessero punto con uno spillo. Bonham stava invitando il visitatore ad accomodarsi, purché non si trattasse di una perdita di tempo per tutti. Un uomo basso di statura con una vecchia giacca stropicciata e dei pantaloni di tela pesante entrò, senza fretta. Era quasi largo quanto lungo, forse misurava un metro da una spalla all'altra, un saccone di muscoli alto un metro e sessanta. Bonham presentò il sergente investigativo Troy, di Scotland Yard al signor Michael McGee e indicò una sedia all'ospite. «Ho sentito dire che avete trovato qualcosa», ripeté McGee. «Mick, lei sa benissimo che di solito preferiamo non girare attorno agli argomenti». McGee si sistemò il cappello sulle ginocchia e si scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. «Wolinskj se n'è andato», disse, senza nessuna inflessione particolare nella voce. «Se n'è andato? Che significa "se n'è andato"?», chiese Bonham. «Significa che da tre giorni nessuno l'ha visto». Bonham chinò leggermente la testa e si rivolse a Troy, seduto accanto a lui con la schiena verso i fornelli. «È la prima volta che ne sento parlare. Nessuno ha denunciato la scomparsa». «Chi è Wolinskj?», chiese Troy.
«Abita quassù». Bonham levò il suo grosso indice verso il soffitto. Troy chiese direttamente a McGee: «Perché nessuno è andato alla polizia?». McGee si strinse nelle spalle. «Wolinskj è un compagno», precisò Bonham. «Lavora ai Docks George V con McGee quando ne ha voglia e quando non ne ha voglia non ci va. Io, veramente, non ho sentito il minimo rumore dal piano di sopra, però non ci ho badato. Abita solo, non fa mai molto rumore». «È scomparso da tre giorni e nessuno finora ha detto niente?». Troy sembrava incredulo. «Sono fatti così», disse Bonham. «Sono sospettosi con la polizia. Noi per loro siamo i nemici del popolo. È altre stupidaggini». McGee fece un gesto di protesta. «C'è chi dice che avete trovato un morto vicino a Cardigan Street». «Non è esattamente così», ribatté Troy. «Ma qualcosa avete trovato». «Lei pensa che sia Wolinskj?». «Come posso saperlo se non l'ho visto?». Troy si concesse una pausa per cambiare tattica. «Da quanto tempo lavora ai Docks, signor McGee?». «Ho lavorato un po' sì e un po' no da quando c'è stata la crisi dell'edilizia nel '29». «E il signor Wolinskj?». «Quasi altrettanto. È venuto dalla Polonia nel '34 o '35». «Mi mostri le sue mani, signor McGee». Il signor McGee guardò Troy, perplesso, ma obbedì e appoggiò sulla tovaglia di tela cerata le mani con il palmo verso l'alto. Troy si accorse che Bonham aggrottava le sopracciglia come se anche a lui fosse parsa strana quella domanda. Le mani di McGee erano un intreccio di cicatrici, vesciche e callosità giallastre, grosse come i duroni sui piedi di un poliziotto di ronda. «Il morto non è Wolinskj», disse Troy, «la mano che ho esaminato non presenta callosità. È la mano di un uomo che non ha mai lavorato in un dock e non ha mai avuto un'attività manuale. Il signor Wolinskj può essere vivo o morto, ma noi non abbiamo trovato né lui né una parte del suo corpo. Ora, signor McGee, vuole denunciarne formalmente la scomparsa?». L'accento legale delle parole di Troy turbò, per la prima volta, la tranquillità di McGee, che guardò Bonham quasi a chiedergli aiuto.
«Perché non aspetta un giorno o due, Mick? Peter è andato e venuto una dozzina di volte. Per ora non c'è niente di diverso dal solito e lui non la ringrazierebbe per aver coinvolto anche me». McGee parve accettare malvolentieri quelle parole rassicuranti, come se le giudicasse poco rigorose, contrarie ai principi della giustizia. «Dovreste dare almeno un'occhiata», osservò, vagamente. «Un'occhiata?», chiese Bonham. «A che cosa?». «All'appartamento. Di solito non cercate gli indizi?». McGee agitò davanti a Bonham un mazzo di chiavi lucenti. Bonham, che finalmente era riuscito a stappare la bottiglia della birra, disse che era solo una perdita di tempo, ma per Troy era un invito che assecondava la sua curiosità, ampiamente mascherata dal dovere professionale. Gli immigrati, quasi indipendentemente dalla loro origine, inevitabilmente coltivavano i ricordi dell'infanzia, delle leggende familiari, delle storielle ascoltate da bambini e di un patrimonio di dicerie sul loro paese. Quella parte della mente di Troy che era pronta ad accantonare queste debolezze contrastava sempre con la tendenza a utilizzarle. McGee sedette in salotto, ostentatamente in disparte, vicino alla porta, come a evitare di interferire in qualsiasi cosa cui Troy potesse attribuire il valore di una prova. L'appartamento era, stanza per stanza, identico a quello di Bonham, ma gli oggetti che conteneva e l'arredamento nel suo insieme non avrebbero potuto essere più contrastanti. A una prima occhiata, Troy calcolò che in salotto ci fossero da cinque a seimila libri che rivestivano tutte e quattro le pareti dal pavimento al soffitto ed erano appoggiati perfino sui ripiani delle finestre. Ma lo spazio non era bastato a Wolinskj, che aveva riunito altri libri in mucchi bene ordinati e li aveva messi sotto le sedie. Sotto il tavolo, invece, c'erano centinaia di «Daily Worker», «Picture Post», «Manchester Guardian» e una sola copia della «Pravda», tutti legati con uno spago e sistemati in modo che, sedendosi a tavola, non li si toccasse con le ginocchia. Troy diede uno sguardo agli scaffali. Tutta la Comédie Humaine di Balzac, in francese. Gran parte delle opere di Dostoevskij, pure in francese. Tutto Tolstoj in ventiquattro volumi in un'edizione russa del 1913. Das Kapital in tedesco. Alcuni scritti in inglese di Kropotkin (quasi un eretico per un marxista, pensò Troy), e così via. Sembrava che non ci fosse nessuna opera importante scritta in qualsiasi lingua europea che Peter Wolinskj non avesse letto o di cui almeno non possedesse un esemplare. Nella stan-
za accanto c'era una scrivania dove penna, inchiostro e un tampone di carta assorbente erano allineati con precisione militaresca, e altri scaffali di libri. Fisica, chimica, per Troy erano materie incomprensibili ma, mentre leggeva i titoli dei libri negli scaffali dietro la scrivania dove, a polverosi tomi in. tedesco rimasti chiusi da tempo, seguivano altri volumi in inglese, più recenti, relativi soprattutto alla resistenza dei metalli e alle dinamiche dei propellenti chimici, a poco a poco un'immagine emergeva nella sua mente. Su una parete, Wolinskj aveva trovato posto per delle fotografie. Erano due o tre dozzine, forse di più, alcune grandi come una cartolina postale, altre come un piatto di portata. Uomini giovani seduti al tavolino di un caffè; uno da solo, con una toga nera, un tocco accademico e, in mano, un simbolico rotolo di pergamena; un altro gruppo di uomini giovani e anziani riuniti, forse, per una cerimonia accademica... immagini familiari di incontri amichevoli e occasioni formali nella vita di uno studente dell'anteguerra, un polacco all'estero, nella repubblica di Weimar. Troy guardò una impressionante fotografia del Fuhrer che, pervaso da sacro furore, agitava un indice rigido verso il cielo in una delle sue teatrali esibizioni. La didascalia diceva: «Ehi lassù, voi del loggione!». Sembravano lontani i giorni in cui di Hitler si poteva anche ridere. Lì accanto Wolinskj aveva scelto, a indicare quello che sarebbe successo in seguito, la fotografia di uno spazio sorprendentemente vuoto, di una bellezza che dava i brividi. Una mattina di prima estate, in una strada di una imprecisata città bavarese, senza una figura umana, solo le case con la loro decorazione di bandiere che si estendeva all'infinito, un lungo, silenzioso tunnel di svastiche. Troy disse a voce alta a McGee che era rimasto in disparte: «Che cosa faceva Wolinskj prima di venire a Londra?». «Insegnava in una di quelle scuole tedesche». «Un'università?». «Più o meno. Mi pare che fosse a Monaco. Finché Hitler non l'ha buttato fuori». Restava solo la camera da letto. Mentre la casa, fino a quel momento, gli aveva dato l'impressione di essere abitata da un uomo meticoloso, abitudinario, a Troy parve che la camera da letto fosse stata saccheggiata. Le lenzuola erano aggrovigliate e sporche, c'era polvere dappertutto, i vestiti erano ammucchiati alla rinfusa. Non ci si poteva sedere da nessuna parte, a stento c'era un po' di spazio per stare in piedi o distendersi sul letto. Sul tavolino da notte c'era, aperto e capovolto, il libro che Wolinskj leggeva
prima di addormentarsi: Il codice dei Wooster di P.G. Wodehouse, nel quale, mentre dà la caccia alla scrematrice di zia Dahlia, Bertie Wooster riesce a sconfiggere il fascismo inglese. «Signor McGee, venga qui per favore». «Non vorrei far troppa confusione», rispose McGee dal salotto. «Mai più di quanta ne abbia fatta io. Cerchi solo di non toccare niente». McGee si avviò lentamente verso la camera da letto. «È sempre ridotta in questo stato?», gli chiese Troy. «Sì, Wolinskj vive un po' come un maiale». «Lei è in grado di capire se non mancano vestiti o se ha fatto la valigia e se n'è andato?». McGee indicò un armadio sconquassato con una impiallacciatura di mogano tutta bolle. «Il posto della valigia sarebbe là in cima. Se la valigia ci fosse». Troy riportò McGee in cucina. «E il rasoio dovrebbe essere qui». Troy indicò la mensola di piastrelle vicino al lavandino. «Il signor Wolinskj non ha la barba lunga, credo». «Oh no, qualche volta va anche dal barbiere in Mile End Road, ma ha anche un rasoio di sicurezza. Ne sono sicuro». «Lo vede da qualche parte?», chiese Troy. McGee scrollò la testa. «Allora, secondo me, dobbiamo concludere che il signor Wolinskj è andato non si sa dove di propria volontà. Rapitori e assassini di solito non t'invitano a fare la valigia. E alla Luftwaffe non si fa differenza tra chi è sbarbato e chi no». «Allora vuol dire che Peter tornerà?». «Non ha abbandonato i suoi libri a Monaco. Non lo farà neanche a Stepney». McGee non sembrò rassicurato, ma rattristato dalle parole di Troy. «Allora io che cosa devo fare?». «Dia le chiavi al sergente Bonham e se Wolinskj non dovesse tornare prima della fine della settimana vada a riferirlo al comando di Leman Street. Di questi tempi nessuno può andare a spasso per l'Inghilterra troppo a lungo». «Certo», osservò pensoso McGee, «siamo in guerra». «L'ho sentito dire anch'io». 6
Nell'uscire, Troy si fermò davanti al portone sul retro, e guardò le nuvolette che il suo respiro formava nell'aria fredda. «E guai a te se fai lo sfacciato con lo zio George», disse la signora Flanagan a suo figlio Terence, soprannominato Botticella. Troy e Bonham si scambiarono un'occhiata per quello "zio George". La signora Flanagan abbottonò il cappotto al bambino e gli rimise a posto i calzettoni che gli scendevano sempre sulle caviglie. «Non bisogna spaventare i bambini», mormorò tra sé Bonham. «Se lo dici tu, zio George», gli disse di rimando Troy, a bassa voce. «È perché non ha paura di noi che ci ha portato il braccio». «Se le dà fastidio, gli tiri un ceffone, George», insisté la signora Flanagan. «D'accordo, Patsy», rispose Bonham. Il bambino diede un'occhiata furtiva a Bonham (due metri e dieci compreso l'elmetto), come uno scoiattolo che misuri una quercia. L'occhietto visibile era vivacissimo, l'altro stava nascosto dietro il cerotto. Si avviò verso la strada senza voltarsi a guardare sua madre. Fatti pochi passi, appena entrati in Union Palace, a Troy e Bonham si presentò una prospettiva sgradevole. Sette ragazzetti, fermi in fila sul marciapiede, fissavano Bonham con l'attesa dipinta in faccia. «Oh no», sospirò Bonham, «che intenzioni avete?». Nessuno parlò. L'attesa oscillava tra la gioia e le lacrime. Il sergente Bonham aveva il potere di gestire il più grande, il più misterioso avvenimento della loro vita. Troy guardò gli impermeabili variopinti, i giacconi con la stringa in vita, gli stivali marroni, i capelli tagliati con la ciotola, le ginocchia ruvide e piene di lividi. Un piccolo esercito di soldati male equipaggiati, goffi, che solo la freschezza delle guance non faceva assomigliare a sette nani bene assortiti tra loro. A capo della fila, sporco, coi capelli rossi, Carota (e come avrebbe potuto chiamarsi diversamente?) si passava da una mano all'altra con l'abilità di un prestigiatore una lattina piena di cacao caldo, una specie di improvvisata stufetta portatile. Troy pensò che anche a lui sarebbe piaciuto averne una. «Perché non siete a scuola a quest'ora? Via, svelti!». I ragazzini non si mossero. Gli tennero testa ad armi pari. Una vita passata a bordo campo, da escluso ma da buon osservatore, non aveva lasciato dubbi a Botticella sul comportamento autorevole che avrebbe dovuto assumere quando se ne fosse presentata l'occasione. Riconobbe
l'occasione e seppe come coglierla. Fece un passo avanti tra Bonham e Troy e la fila di bambini si separò per lasciarlo passare, come davanti a Mosè. Botticella si avviò verso Cardigan Street. I ragazzi lo seguirono secondo un ordine gerarchico: nessuno lo sorpassò né tentò di affiancarglisi mentre procedeva solennemente, in silenzio e senza voltarsi indietro. Bonham e Troy venivano per ultimi e si sentivano un po' come Gulliver a Lilliput. Con le mani affondate nelle tasche per non farsi trafiggere dal gelo le punte delle dita, Troy seguitava a chiedersi come convincere il bambino con i capelli color carota a dividere con lui per uno scellino la sua invenzione. Botticella si fermò su una piccola spianata di neve fresca e aspettò che Bonham e Troy avanzassero, attraverso le macerie fino al «giardino». I ragazzi si disposero in fila, evitando rispettosamente di calpestare la pista del mondo e formando così un diabolico passaggio obbligato che Troy e Bonham avrebbero dovuto percorrere per arrivare da Botticella. Troy si fermò bruscamente alla fine dell'allineamento. «Qui?», chiese. «Vuoi dire che l'hai trovato qui?». Botticella assentì. Troy si guardò attorno. La zona bombardata aveva acquistato un aspetto uniforme sotto la coltre di neve. Bonham si fece avanti, col suo passo pesante. Era affannato. «Se ci ha portato fin qui inutilmente...». Troy l'interruppe. «Come puoi esserne così sicuro?». Botticella scavò nella neve con la punta del piede e di sotto comparve una losanga di ceramica blu. Come a un tacito segnale tutti si misero a scavare coi piedi nella neve, portando in superficie il vecchio pavimento. Troy propose al bambino color carota di tenergli la lattina di cacao mentre era al lavoro, ma lui stringendosela contro l'impermeabile, gli rispose con un'occhiataccia senza smettere di prendere a calci la neve con i tacchi dei suoi stivaletti col rinforzo di metallo. Troy guardò il pavimento della cucina con il tracciato del gioco ormai quasi cancellato. «Qui?», ripeté. «Eravamo qui», rispose Botticella. «D'accordo, ma è qui che l'avete trovato?» Troy esitava a nominare quello che avevano trovato, ma otto paia di occhi lo sfidavano a farlo. Alla fine cedette. «Il braccio», disse. «Il braccio l'avete trovato qui?». «No», rispose Botticella, «eravamo qui quando il cane me l'ha dato». Troy sentì Bonham mormorare un debole «Gesù Cristo!».
«Quale cane?», chiese. «Un cane», disse Botticella, come se fosse già in sé una spiegazione sufficiente. Troy guardò Bonham e Bonham guardò Troy, tutti e due si sentivano sempre di più come Mutt e Jeff. «È la prima volta che ne sento parlare», disse Bonham. Troy pensò che quella frase cominciava a ricorrere troppo spesso. «La storia si complica», gli rispose sottovoce, poi si rivolse a Botticella: «Mi stai dicendo che un cane è venuto a portarti quella mano mentre eri qui a giocare?». «Lui non stava giocando», intervenne il ragazzo più grande, «non lo vogliamo perché sbaglia sempre». «Allora non l'hai trovata tu la mano, Botticella». «Sì che l'ho trovata», protestò Botticella, «l'ho trovata io, solo io. Loro non c'erano. Me l'ha portata il cane. Solo a me l'ha data, a nessun altro. A me!». «Da dove arrivava il cane?». Il bambino parve non capire. «Non hai visto da dove è sbucato?». Botticella indicò il muro tra Cardigan Street e Alma Terrace, dove poche case erano rimaste in piedi e si vedeva ancora qualche decina di mattoni uno sull'altro, come li aveva disposti il muratore. «Fammi vedere», disse Troy. La processione si mosse, nella stessa formazione, verso Alma Terrace. Troy osservò la parte superiore del muro semidistrutto. La neve caduta quella mattina aveva coperto qualsiasi traccia potesse aver lasciato il cane. «Stiamo cercando un ago nel pagliaio», disse. Sentì lo stivale di Bonham, numero quarantasette, urtare contro la sua per avvertirlo di stare attento a non parlare troppo davanti ai bambini. «Dobbiamo cercare a fondo. Rimuovere tutta la neve». «Freddie, credi che abbia gli uomini adatti a un lavoro del genere?». «Che altro possiamo fare per trovare qualcosa?». «Che cosa ti aspetti di trovare?». «Il resto del cadavere. O meglio qualche altro pezzo del cadavere». Troy guardò i bambini, chiedendosi quanto avessero sentito e capito. Vide otto facce da cherubini e sedici occhi duri, spietati che lo fissavano. L'innocenza inviolata gli parve un ideale non perseguibile. «Vi piacerebbe guadagnare un po' di soldi?», disse.
«Quanti?», chiese il più grande. «Uno scellino». «Mezza corona», ribatté il ragazzino. «Ma se non sapete ancora quello che dovete fare!». «Non importa, qualsiasi lavoro le costerà mezzo dollaro». «D'accordo, d'accordo. Mezza corona a chi trova il resto». «Freddie, per l'amor di Dio», intervenne Bonham, «non puoi fare una cosa simile!». Mise una mano sulla spalla di Troy per avvicinarlo a sé e potergli parlare senza farsi sentire dai bambini. «Sei impazzito?». «Sai suggerirmi qualcosa di meglio?». «Sono bambini. Dovrebbero essere a scuola!». «Mi sembra chiaro che non hanno nessuna intenzione di andarci. E non sono dei piccoli Freddie Bartholomew, guardali bene». «Gesù Cristo!», disse ancora Bonham. «Non ti preoccupare». «La responsabilità è tua». Troy si voltò verso i bambini, disposti in un ampio semicerchio davanti a lui. «Io voglio che voi cerchiate...», esitò, non voleva pronunciare la parola cadavere, «qualsiasi cosa abbia a che fare con quello che ha trovato Botticella. D'accordo?». I bambini assentirono all'unisono. «Se scoprirete qualcosa andate subito dal signor Bonham. Non toccate niente, non vi avvicinate neppure finché lui non avrà visto di che si tratta. Capito?». I bambini fecero di nuovo segno di sì con la testa. «Altrimenti la mezza corona me la tengo io», concluse Troy. Botticella intervenne: «Più uno scellino a me che l'ho trovato e agli altri sei pence ciascuno per la ricerca anche se non salta fuori niente, altrimenti ci prendi in giro». «Va bene», disse Troy, contento che tutto si fosse concluso a livello d'affari. «Devo andare a Hendon», disse a Bonham. «È meglio avere al più presto il referto di un medico legale». «Vuoi lasciarmi qui solo con quei bambini?». «Mi dispiace, George». «E se le mammine organizzano una sollevazione?».
«Tu le conosci, ti sembra probabile?». «Sai, Freddie», disse Bonham quasi con delicatezza, «qualche volta penso che niente come lavorare per un po' a Scotland Yard riesca a indurire le coscienze». «Sto facendo il mio lavoro. Telefonami in ufficio nel pomeriggio se ci sono novità». Troy riattraversò la zona bombardata, facendo attenzione a dove metteva i piedi, e tornò alla sua Bullnose Morris col macabro pacchetto riposto nel baule. I bambini si sparpagliarono tutt'intorno, sognando ricchezze insperate. Troy sentì alle sue spalle Bonham offrire sei penny a Carota in cambio del suo scaldino. 7 Ladislaw Kolankiewicz rivestiva autorevolmente la carica di medico legale presso il laboratorio di polizia di Hendon fin da quando era stato aperto, nel 1934. Chiamato tra i primi a dedicarsi alla patologia del macabro, gravido della stima di un personaggio di rilievo quale Sir Bernard Spilsbury, Kolankiewicz veniva da molti considerato giustamente egli stesso un personaggio macabro. Troy l'aveva conosciuto nel 1937 e da allora aveva osservato i suoi capelli arretrare gradualmente fino a sparire del tutto per poi riemergere dalle orecchie, dalle narici e lungo le dita sotto forma di vigorosi germogli. Era diventato ancora più basso e più corpulento, gli si erano incurvate le spalle per tutte le ore passate, ogni giorno, chino a esaminare i cadaveri e il suo inglese non era minimamente migliorato. Minuzioso, inappuntabile in materia scientifica, il suo modo di parlare diventava osceno e contorto nell'uso quotidiano. Gli agenti di polizia di tutta Londra e delle contee andavano volentieri al laboratorio di Hendon solo per arricchire la loro riserva di aneddoti su Kolankiewicz, su quelle sue espressioni che si fondevano una nell'altra in assurde, feroci parole composte del genere «schifodunmagnacciapoliziotto», o come il saluto che ora rivolgeva a Troy: «Che pallata vieni a chiedere, stronzo?». Tom constatò con sollievo che la stanza era vuota. Troppe volte Kolankiewicz l'aveva costretto a parlare mentre segava un teschio o borbottava concise osservazioni sul contenuto di uno stomaco alla sua assistente e stenografa, Anna, appollaiata su uno sgabello in un angolo. Ma quel giorno seduto sullo sgabello c'era lui, senza grembiulone di gomma, senza sangue sulle mani, intento a mangiare un panino imbottito di carne in scatola, leg-
gendo il «News Chronicle». C'era un'aria quasi gradevole, nonostante l'onnipresente odore di disinfettante che i sensi avvertivano come un simbolo di morte. Troy mise sul tavolo il pacco e lo srotolò. Il braccio uscì allo scoperto con un sobbalzo e finì in mezzo al tavolo. Kolankiewicz sgusciò fuori dal suo angolo come un ragno che corra attraverso la ragnatela. Per un momento parve osservare con ingordigia la preda, poi scrollò le spalle e chiese a Troy: «Che cos'è questa merda?». «È un braccio». «Ha parlato luichessà!», brontolò Kolankiewicz, poi, inaspettatamente alzò la voce: «Dimmi dov'è il resto, imbecille!». «Ho solo il braccio». Kolankiewicz alzò le braccia al cielo. «Ahi ahi ahi! Che cosa credi che possa fare con questo?». «Tutto quello che è possibile. Il resto lo stiamo cercando. C'è molta stoffa. Anche un gemello da polso». «Ah sì? Mi piacciono i gemelli. Questo ha il marchio di garanzia e le iniziali dell'orafo, le dimensioni degli oggetti preziosi... può essere utile. Dov'è stato trovato? Che cosa c'era intorno, sopra, sotto?». «Niente». Troy tese una mano per tenere fermo il braccio mentre Kolankiewicz con un paio di forbici tagliava la stoffa di lana della manica. Sentì una trafittura alla parte superiore del braccio sinistro, il suo, e se lo strofinò con la mano. Piegato in due sopra il tavolo, Kolankiewicz lo guardò di sotto le sue sopracciglia cespugliose. «Bello il lavoro», disse, «ottimo l'argento. Che ti succede al braccio?». Una domanda ben costruita ed enunciata con una pronuncia corretta. Troy ne fu quasi spaventato. L'assenza dell'elemento gigionesco nella voce di Kolankiewicz lo aveva reso per un attimo troppo diverso dal nano pazzo che aveva sempre conosciuto. Kolankiewicz raddrizzò la testa: «È quello il braccio? Quello dove hai preso il colpo di scure? Che stupido!». Girò attorno al tavolo e si avvicinò a Troy. «Fammelo vedere». «No, è già a posto. Sono stato da un medico». «Anch'io sono un medico». «Sì, ma a differenza della maggior parte dei suoi pazienti io sono ancora vivo». «Tutta boria. Se ti fa male il braccio devi mostrarmelo. Senza fare l'eroe di merda».
Troy si sbottonò la giacca e cominciò a togliersi la benda. «Le dispiacerebbe, prima, lavarsi le mani?». «Eh?». «Come posso sapere per che cosa le ha usate fino a poco fa?». «Per mangiare un panino e bere un tè». «E prima?». «Oh Cristo! Va bene, va bene!». Kolankiewicz davanti al lavandino si rimboccò le maniche e si strofinò le mani a lungo, ostentatamente. Troy trasalì quando con le dita tozze, pelose e fredde gli tastò il braccio. «Sei stato fortunato, potevi perderlo il braccio. La ferita è profonda. Hai trovato un bravo medico, sei stato curato bene». «Allora perché mi fa male?». «Per poco non ti hanno tagliato il braccio in due e mi chiedi perché ti fa male?». «Adesso. Perché mi fa male adesso. Cosa c'è che non va?». «Si è gonfiato dove sono usciti i punti, forse l'ago ha fatto un po' d'infezione ma la ferita no. Ti darò un po' del nostro alcol, usalo per lavare la ferita un paio di giorni. Va tutto bene. Quando sono usciti i punti?». «Tre giorni fa». «Allora non dovresti preoccuparti. Chiediti piuttosto perché ti sei chiuso in una stanza con un pazzo armato di scure». Kolankiewicz prese da una mensola sopra il lavandino una bottiglietta di vetro marrone, versò una parte del suo contenuto su un tampone d'ovatta e lo passò sulla ferita, lunga dieci centimetri. «Quell'uomo», proseguì, «l'ho letto sui giornali, aveva ucciso l'amante della sua gentile signora, aveva mozzato due dita al postino e spezzato il polso a un poliziotto. E tu sei andato in casa sua e lo hai invitato ad arrendersi. Che imbecille! Quel pazzo che stava a Oxbridge...». «Uxbridge», precisò Troy. «Uxbridge, è lo stesso, quel pazzo, a Uxbridge, poteva ucciderti». Kolankiewicz riabbassò la manica della camicia di Troy e gli allacciò il polsino con un gesto curiosamente paterno. «No... non credo». «Eccolo l'eroe di merda». «L'eroismo non c'entra. Si trattava solo di capire che tipo era quell'uomo». «Intuito psicologico?».
«Se preferisce». «Io preferisco chiamarle fottute congetture». «Le chiami come vuole, ma, una volta che mi ha beccato...». «Beccato! Troy, sei un sacco di merda». «Una volta che mi ha beccato, ho detto, tutto è finito. Aveva avuto quello che cercava. Aveva visto il sangue. La vista del sangue per lui ha rappresentato il culmine: lo ha soddisfatto e lo ha calmato. Dopo si è trattato solo di mettersi seduti tranquilli a parlare. Non aveva nessuna intenzione di farmi a pezzi. L'unico che voleva fare a pezzi era l'amante di sua moglie». «E mentre tu, povero stronzo, gli parlavi, dov'era la scure?». «Per terra, tra me e lui». «E te ne sei stato lì, con un laccio emostatico improvvisato, sperando di non morire dissanguato prima di averlo convinto ad arrendersi». «Era la mia cravatta della scuola. La prima volta che è servita a qualche cosa». Kolankiewicz gli mise in mano la bottiglietta. «Due volte al giorno finché il dolore non se ne va. E adesso fila via. Appena possibile ti farò avere il referto». 8 La stufetta a gas, nell'ufficio di Troy, gli scoppiettò in faccia, irridendolo, e rifiutò di accendersi. In tutta Londra i gassometri se ne stavano accoccolati contro il cielo come giganteschi cappelli a cilindro. Forse, pensò Troy, durante l'ultima incursione notturna ne era stato colpito uno. Mentre girava ancora la manopola in qua e in là, sperando di veder apparire la fiamma, sentì lo scatto leggero della porta che si apriva, alzò gli occhi e vide il comandante della squadra, il sovrintendente Onions, che entrò e si fermò vicino alla scrivania, a braccia incrociate. «La cercavo», disse con il suo accento di Rochdale, basso e profondo. Troy smise di cercare di accendere la stufa, si diede un colpetto ai pantaloni nel caso ci fosse un po' di polvere e si chiese se quelle parole avessero il valore di un rimprovero. Onions aveva una struttura taurina, un metro e settantasette di muscolosa compattezza, e taurino era nella imprevedibilità, nella caparbietà e nell'aspetto poco accattivante. Troy non aveva mai saputo quanti anni avesse, pensava una cinquantina. Portava i capelli, ormai grigi da parecchio tempo, rasati fino all'inverosimile ai lati e sulla nuca e con un'ispida fascia a spazzola al centro della testa. Gli occhi, azzurri, era-
no ancora vivaci e lucenti nel viso rugoso. L'intensità aggressiva, pungente, del suo sguardo contrastava con la struttura massiccia del corpo e con una certa trascuratezza della persona. Si vestiva secondo le abitudini della generazione precedente la sua, con abiti pesanti a doppio petto, in una scura tonalità di marrone rossiccio, ravvivata solo da una sottile righetta scarlatta e col contrappunto dei neri stivali d'ordinanza della Polizia Metropolitana. Era, pensava Troy, il genere di vestiario prediletto da Hitler, che, per parte sua, sembrava avere spesso qualche difficoltà, vestendosi la mattina, a trovare i pantaloni uguali alla giacca. Troy era sicuro che nella complessità del carattere di Onions ci fosse un elemento di insicurezza, dopo tutto era pur sempre un uomo che portava sia la cintura sia le bretelle. Era stato Onions a liberare Troy dal grigiore di Lemon Street e a promuoverlo al grado di sergente. Col suo appoggio Troy stava bruciando le tappe e sarebbe presto diventato ispettore. La nomina poteva arrivare da un giorno all'altro. Ma nei rapporti con Onions avrebbe potuto verificarsi qualche tensione. Era troppo difficile indovinare quello che gli passava per la mente. Spesso, quando erano soli nell'ufficio di Troy, parlavano tra di loro con molta familiarità. Ma c'erano giorni in cui questo non era possibile. E quando non era possibile non lo era davvero. «Sono stato a Hendon, Stan», disse Troy, cercando di saggiarne l'umore. «Dovevo vedere Kolankiewicz». «Come sta? È migliorato?». «È ostico, come sempre. Non si può dire che abbia il cuore in mano». Onions posò il palmo delle mani sulla finta pelle tutta crepe della scrivania di Troy. Vedendo che non stava più a braccia incrociate, Troy si sentì un po' più tranquillo e girò di nuovo la manopola della stufetta, tra deboli fischi e scoppiettii. «Avrà un bel da fare tra poco», disse Onions. «Un delitto?», chiese Troy. «Per questo la cercavo. Durante l'ultimo bombardamento aereo un soldato americano è morto con la gola tagliata a duecento metri da qui». Le parole di Onions colpirono Troy come una scarica elettrica. «Dove?». «A Trafalgar Square. Proprio lì. Un caporale di fanteria usciva da un pub sullo Strand verso le dieci e un'ora dopo l'agente di ronda l'ha trovato con la gola a strisce». «Una bottiglia?». «Aveva ancora ficcati nella carne dei frammenti di vetro verde».
Dalla stufetta arrivarono un botto e una fiammata improvvisi, la pressione era ritornata. Troy rimise a posto la scatola di fiammiferi e andò al lato opposto della scrivania, vicino alla finestra, passando accanto alla trave che era stata messa provvisoriamente a puntellare il soffitto, danneggiato da una bomba nel 1941. Sapeva che cosa doveva aspettarsi e si sforzava di pensare al modo migliore per evitarlo. Al modo migliore per esporre la storia del braccio. In quella gara Onions aveva un cadavere tutto intero e lui solo un braccio... nemmeno tutt'e due. «Anche il mio è un omicidio», disse. «Quale omicidio?». «Quello di Stepney Green. È la ragione per cui sono andato a Hendon. Ho portato il braccio a Kolankiewicz». «Una vittima del bombardamento, no?». Onions si voltò per seguire con lo sguardo Troy che si era messo a camminare in su e in giù davanti alla finestra. «No. Un omicidio. Elaborato. Crudele». Anche Onions si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Sembrava che chiunque stesse in una stanza con la vista sul Tamigi non potesse fare a meno di affacciarsi, in attesa di una promessa superiore a quella che il fiume poteva mantenere. «Elaborato?», chiese, dubbioso, Onions. «La vittima è stata uccisa e poi smembrata... direi sistematicamente, nel tentativo di disfarsi del cadavere. E non nel cieco impulso del momento, non in preda al panico, ma a sangue freddo, secondo un piano ben calcolato. Ma, chi sa come, qualcosa non ha funzionato. Il braccio è rimasto da un'altra parte, o il cane se l'è portato via... per fortuna non l'ha mangiato, un miracolo, ed è finito nelle nostre mani. Altrimenti un povero disgraziato sarebbe sparito senza lasciare traccia». «Quali altri elementi ha?». «Solo il braccio. Bonham è sul posto e sta cercando che altro si riesce a trovare. Oggi o domani avrò un referto medico e, naturalmente, una serie completa di impronte digitali». «Non è molto». «È un delitto. E non a opera di qualcuno che disperato, furioso, perde il controllo e uccide. Questo è il lavoro di un pianificatore, deciso a farla franca, qualcuno col ghiaccio nelle vene e la spina dorsale d'acciaio, tanto da riuscire a smembrare pazientemente la vittima e superare l'orrore della propria azione. Un assassino che non fugge la morte. Per la maggior parte,
chi ha ucciso vuole essere scoperto, io ne ho approfittato spesso. Gli assassini vanno considerati, sotto un certo aspetto, come i responsabili di uno spaventoso incidente piuttosto che come degli assassini. Prima scappano e poi vengono a costituirsi o lasciano una traccia che si potrebbe seguire a occhi chiusi. Mi cercano. Io sono la redenzione. Un elemento indispensabile ad affrontare ciò che hanno commesso. Anche se, in realtà, rappresento solo una tappa sulla strada che porta alla forca. Ho visto uomini abbracciare il cadavere della loro vittima sperando di riportarla in vita, o confessare un giorno e rinnegare tutto il giorno dopo, disposti a qualsiasi cosa pur di annullare quello che era successo, o pur di ripetere la confessione. Ma questo non è un assassino come tanti altri. Chi ha commesso una volta un delitto del genere può ripeterlo». «E l'ha capito solo guardando un braccio?». Troy si strinse nelle spalle senza rispondere. «Vuol dirmi che abbiamo un maniaco a piede libero?». Perfino sulle labbra di Onions quelle parole avevano il tono scandalistico della stampa popolare. «No, non è così. Noi abbiamo, a piede libero, un assassino che è un freddo calcolatore». Onions camminava avanti e indietro tra la scrivania e la finestra e ripeteva, intanto, un suo gesto abituale: si lisciava la testa, ai lati, come se avesse una chioma folta e non quei grigi peli ispidi rasati alla radice. Bisognava comunque dedurne che stava riflettendo. «Che ne pensa di Trafalgar Square?», chiese, infine. «L'americano era stato derubato?». «No. Aveva più di cinquanta sterline nel portafoglio». «Era un bianco o un nero?». «Un bianco». «Età?». «Ventidue». «Secondo me le possibilità sono due. Gli americani hanno due vizi: vendono la roba dei loro magazzini militari al nostro mercato nero e hanno delle relazioni con le donne inglesi, nell'uno o nell'altro caso corrono dei rischi». «Il mercato nero?». Onions rifletté su questa prima ipotesi. «Se il caporale Duvitskj si fosse dovuto incontrare con uno dei tanti che, in questo periodo, vivono di espedienti, l'avrebbe fatto in qualche vicolo fuori mano. In nessun caso, neanche durante l'oscuramento, un intrallazzatore si arri-
schierebbe a uccidere in un luogo pubblico come Trafalgar Square». «Allora sarebbe meglio parlare con i soldati del suo plotone. Per un po' cercheranno di non rispondere, ma poi finiranno col dirci chi era l'amica di Duvitskj. Da qualche parte dovrà pur esserci un marito o un amante. Avrà seguito la vittima all'uscita dal pub. Forse la teneva d'occhio già da qualche giorno e, in questo caso, avremmo dei testimoni». «Un caso aperto e subito richiuso, eh, Freddie?». Onions inarcò con ironia le sue sopracciglia sale e pepe nel sentire con quale rapidità Troy accantonava la questione. «No», Troy si appoggiò alla finestra, con le mani affondate nelle tasche, «non intendevo dire che il caso è chiuso, ma che rientra nella procedura normale». «E non c'è bisogno di un detective?». «Beh... no... non c'è bisogno di me». «E lei, nel frattempo, cercherà di ricomporre, pezzo per pezzo, il cadavere del quale possiede solo un braccio. Sarà così?». «Col suo permesso, signore». «Ha mai pensato, Freddie, che un giorno le capiterà di fare il passo più lungo della gamba?». Troy si strinse nelle spalle, in silenzio. Onions gli batté una mano sulla spalla, gli disse che era un gran presuntuoso e si avviò alla porta. Prima di uscire si voltò e disse: «E se non fosse un crime passionnel? Se si trattasse di qualche traffico pesante?». «Allora chiamerò i miei informatori». Onions se ne andò. Troy si scaldò le mani davanti alla stufetta che ora ardeva di un bel fuoco vivace e si chiese quanto di quello che aveva detto a Onions fosse proprio vero, quanto lui stesso potesse veramente provare. Ogni fibra del suo istinto, ogni cellula del suo cervello gli diceva che sì, era tutto vero ma, nella sostanza, erano solo congetture. 9 Prima di quanto Troy non si aspettasse, Kolankiewicz telefonò. «Ho fatto quello che potevo col tuo braccio», disse. «Ora ti dirò tutto. Il referto sarà pronto domani». Troy prese un blocchetto per gli appunti e accese la lampada sulla scrivania. «Ecco», disse, «parli, sono pronto». «Era morto quando gli hanno staccato il braccio. C'era troppo sangue nei
vasi per poter pensare diversamente. Naturalmente, però, c'è stata un'abbondante perdita di sangue. Direi che la mutilazione è avvenuta entro un'ora o poco più dalla morte, ma non posso assicurarlo. E non chiedermi nemmeno com'è morto. L'unica cosa che so è che non è morto perché gli hanno amputato il braccio, nient'altro. Fisserei l'età intorno ai quarantacinque, ma potrei sbagliarmi di dieci anni in più o in meno. Un braccio non è la parte del corpo più adatta per dare un giudizio del genere. Se tu mi trovassi il fegato, allora potremmo riparlarne. Con la statura e il peso riesco a essere più preciso. Era piccolo e magro. Un metro e sessantaquattro per cinquantasette chili. Non era molto muscoloso. Non aveva mai usato i muscoli per guadagnarsi da vivere». Kolankiewicz s'interruppe. Troy lo sentì sfogliare le pagine degli appunti. «Ah, sì, le bruciature. Le bruciature sulla manica della giacca corrispondono a quelle sul braccio. Sulla mano sono più numerose. Le cicatrici sono vecchie di mesi, forse di anni. Solo una o due risalgono a qualche settimana fa. E sono state causate da un acido, non da una fiamma. I margini sono troppo netti. Hai preso nota di tutto?». «Sì, certo». «Ora passiamo alla manica. È di lana, in buone condizioni, senza toppe o rammendi. Il gomito non è lucido dall'uso. Pensando a come andiamo vestiti tutti di questi tempi, devo concludere che fosse stata comprata da poco. Chi può permettersi di tenere una giacca nuova nell'armadio? Solo quello che stampa i buoni per i prodotti razionati. Il tessuto è caratteristico. Un disegno a spina di pesce molto usato dai bavaresi. Anche il gemello da polso ci guida da quelle parti. Dietro c'è il marchio di un argentiere di Monaco con la data, 1907, e le iniziali W.W.L. Se non fossimo in guerra basterebbe scrivere all'associazione degli argentieri e farsi dire chi li ha creati e a chi sono stati venduti. In questo momento...», Kolankiewicz lasciò la frase in sospeso. «L'ultimo tratto della manica, al polso, è tempestato di microscopici pezzetti di metallo. Tutto quello che posso dire è che sembra una sorta di lega. Per esserne certi bisognerebbe analizzarli, ma io non ne ho la possibilità. Tutta la manica è intrisa di polvere di carbone e cenere di carbone. Il sangue è del gruppo zero. Ti ho preparato una serie di impronte molto nitide. Vuoi che ti tenga il braccio in ghiaccio finché non trovi il resto del corpo?». «Se è possibile sì, grazie». A Troy sarebbe parso giusto dire «grazie,
Ladislaw», ma non aveva sentito mai nessuno rivolgersi a Kolankiewicz chiamandolo per nome. «Come va il tuo braccio, piuttosto? Ti fa ancora male?». «No... non mi fa più male», mentì Troy. «Bene. Allora tengo questo pezzo di carne in fresco. Il referto e le impronte li affido a Dio e a qualche messaggero a cavallo». Riattaccò. Troy, seduto alla scrivania, rilesse gli appunti e quello che ne ricavò lo lasciò stupito. Un tedesco a Stepney. C'erano centinaia, migliaia di tedeschi a Stepney, ma nessuno di loro poteva avere una giacca tedesca nuova. 10 Verso sera, Troy ebbe la sensazione di avere finalmente messo in ordine l'ufficio. Aveva eliminato buona parte del mucchio di carte che si erano accumulate mentre seguiva gli ordini di Onions e si riprendeva dall'aggressione subita a Uxbridge. Aveva voglia di muoversi e stava pensando che sarebbe potuto tornare a Stepney, quando gli telefonò Bonham. «Metti mano al portafoglio, Freddie», disse, «devi mezzo dollaro a uno di quei piccoli profittatori». «George! Hai trovato il corpo!». «Veramente non è un corpo e poi io non ho trovato niente, è stato il piccolo Robertson, quello che chiamano Gamberetto». «Non è un corpo.... Vuoi dire che è stato fatto a pezzi?». «Voglio dire», rispose Bonham, «che è un maledetto puzzle. Vieni a vedere». 11 Il solito picchetto di cowboy metropolitani aspettava Troy dove un tempo Cardigan Street era collegata a Waterloo Place. Lo stesso sguardo infantile di diffidenza per qualsiasi adulto rispose al suo saluto. Erano più vecchi di otto ore, più maturi di un secolo e ora aspettavano di diventare anche più ricchi. Era d'obbligo non tendere la mano, come mendicanti, e sette bambini restarono con le mani ostinatamente affondate nelle tasche delle giacche, mentre l'ottavo giocherellava con la lattina di cacao. Bonham e Troy, in disparte, con le spalle ai bambini, contarono quanto avevano in tasca. Poi Bonham andò da loro, che lo aspettavano in fila, con
una manciata di monete e distribuì, come un sacerdote di Dio o di Mammona, la comunione blasfema. Le mani proiettate in fuori come lingue di lucertole, afferrarono e intascarono con destrezza il bottino. Troy si avvicinò al bambino che Bonham gli aveva indicato, lo ringraziò per il suo lavoro e gli diede una mezza corona un po' consumata. Il Gamberetto Robertson estrasse dalla giacca una torcia a occhio di bue, marca Ever Ready e illuminò la moneta d'argento che aveva in mano. Poi fissò Troy dritto negli occhi, con un audace sguardo di sfida che Troy tante volte avrebbe desiderato avere perché in un attimo l'avrebbe trasformato nella punta di diamante di Scotland Yard. «È buona», disse al bambino. «È solo un po' consumata». I cowboy galopparono via su immaginari cavalli, battendosi le mani sulle tasche e urlando. Gamberetto li seguì lentamente, voltandosi ogni tanto verso Troy come se temesse di essere stato imbrogliato. Troy vedeva il fascio di luce della torcia oscillare a terra. Di lì a poco, qualche vecchio matto della protezione antiaerea gli avrebbe detto di spegnerla. Bonham gli stava indicando una buca nel terreno. Due porte abbattute e mezzo rotte erano state spinte da parte e di sotto si vedeva una scala di pietra che scendeva nelle viscere della terra. «Non credo che io sarei mai riuscito a scoprirla» disse, «ma il piccolo Robertson è andato a casa per pranzo, alle dodici e mezzo, ed è tornato portando come un trofeo quella torcia, ha scostato le porte ed è sceso. È coraggioso. Quel fumaiolo», disse Bonham indicando con un gesto un camino di fabbrica annerito che sbucava dalle macerie per una decina di metri come la gamba di Ozymandias, «è collegato con la cantina. Io non ci avrei mai pensato. Mai». Accese una grossa torcia cromata e cominciò a scendere per la scala. Troy si sentì arrivare alle narici un forte odore di carburo che gli accrebbe la sensazione di avvicinarsi al primo girone infernale. Non era così l'odore dell'inferno? Un agente in divisa, in ginocchio vicino a una lampada, regolava il flusso dell'acqua. Una mezza dozzina di lampade a carburo erano disposte approssimativamente a semicerchio sul pavimento della cantina e gettavano una nebbiosa luce azzurrognola sulle piastrelle. I resti del soffitto che ingombravano il pavimento proiettavano sulle pareti ombre gigantesche, frastagliate, danzanti. L'agente scattò in piedi, quasi sull'attenti, le mani strette contro la cucitura dei pantaloni. Non aveva più di diciannove o vent'anni, lungo e sottile come un filo di spago, col pomo d'Adamo sporgente che si muoveva al
disopra del primo bottone della giacca. Per un momento Troy lo guardò come si ricordava che gli ufficiali della vecchia generazione avevano guardato lui, ma questo ragazzo, questo bambino con la divisa blu della polizia avrebbe potuto essere chiamato in guerra da un momento all'altro, sarebbe partito per Calais o per la Normandia, per qualsiasi striscia di sabbia e per qualsiasi massacro avesse deciso Eisenhower. La morte, pensò Troy, aveva già posto il suo marchio su di lui. «Accidenti, Corker», Bonham espresse quasi automaticamente il suo rimprovero, «non si poteva far meglio? Che cos'è questa illuminazione antidiluviana?». «Mi dispiace, sergente», rispose l'agente con una piccola voce acuta, «la protezione antiaerea ci ha portato via tutte le attrezzature il mese scorso. Ho preso quello che ho trovato». Troy si stava abituando all'odore del carburo, gli pareva un odore familiare, non più infernale, gli ricordava la sua prima bicicletta, avuta in regalo nel '26, e la prima bomba, costruita in casa da suo fratello, nel '27. «Guardate», stava dicendo Bonham, «hanno perfino estratto un proiettile dal muro». A mezza altezza, sul muro in fondo alla cantina, la sporcizia e la muffa erano state scavate in cerchio attorno a un buco della grandezza di un pugno. Troy vi infilò la mano e sbriciolò tra il pollice e il medio della polvere di mattoni. «Un lavoro perfetto», disse. «Scrupoloso». Vide un vecchio rubinetto ,d'ottone montato su un tubo di piombo, contorto come un serpente in un angolo del pavimento dove un condotto di scolo scavato nella pietra portava a una piccola grata di ferro. «Dio mio», disse Troy a Bonham, «questo posto è fatto su misura per un assassino. Immagino che non ci sia traccia di bossoli in giro». Bonham gli indicò, scoraggiato, le macerie di quello che una volta era stato il soffitto e adesso era un cumulo di rovine miste a escrementi di topi. «Vuoi scherzare? Anche supponendo che avesse un'automatica...». Corker sistemò il meglio possibile, a una a una, le lampade in modo che la luce fosse diretta verso la grossa fornace vittoriana, di ghisa, che occupava un'intera parete della cantina. Quel bestione antidiluviano aveva un tempo fornito l'energia a una piccola fabbrica e sulla fronte, in caratteri in rilievo, ne portava ora il superbo epitaffio: Wrigley e Butterworth, Runcorn 1888. Circa all'altezza del fianco di Troy c'era lo sportello del focolare. Bonham lo aprì con uno strattone e porse a Troy la paletta per racco-
gliere la cenere, una lunga asta d'acciaio a un'estremità della quale era stato saldato un pezzo di lamiera tagliata a mezzaluna. «Guarda tu», disse. Nonostante tenesse la torcia puntata era quasi impossibile guardare l'interno di mattoni di quella caverna. Troy mosse la paletta alla cieca e poche manciate di grigie scaglie di cenere caddero sulle macerie ai loro piedi, spargendosi in parte sulle scarpe di Troy e sugli stivali di Bonham. Corker si era avvicinato e guardava ora il mucchietto di cenere ora Troy e Bonham, sperando che gli dessero una spiegazione qualsiasi, e sorridendo nervosamente. Troy sentì la paletta incepparsi contro qualcosa che, nel ventre della fornace, gli parve più consistente della cenere e tirò con forza. Dal focolare cadde un osso che si spezzò in due sulle macerie. Corker aprì la bocca ma non disse niente. «È un femore», gli spiegò Troy. Corker lo guardò, senza capire. «Un osso che sta nella coscia», gli spiegò Troy. Scavò ancora nella fornace, sollevando di nuovo una nuvola di cenere leggera come cipria e con un odore fresco e invitante di carne abbrustolita. Tibia, fibula, clavicola, rotula, omero e una miriade di vertebre e piccole ossa della caviglia e del polso si rovesciarono fuori in un flusso di polvere e di morte, coperto dall'ingannevole odore di un pranzo della domenica. Tutto quello che restava di una vita umana era ammucchiato ai piedi di Bonham. Lui e Troy si guardarono in silenzio. Corker diventava a poco a poco sempre più pallido. Troy pensò che, qualsiasi anticipazione avesse avuto da Bonham, solo molto lentamente sarebbe arrivato a collegare quei friabili resti di una carneficina a un corpo umano. «Andiamo avanti», disse Bonham. In meno di dieci minuti, sul pavimento della cantina c'era uno scheletro quasi completo, anche se a pezzi. Molte ossa erano spezzate o bruciacchiate, altre erano indistinguibili l'una dall'altra se non all'occhio di un anatomista. Eppure, Troy ne era certo, erano tutte parti dello stesso corpo e lui non aveva visto niente che lo dissuadesse dal pensare che ci fosse un solo braccio e non due in quel mucchio. Il chirurgo dilettante aveva eseguito bene il suo lavoro. Dei vestiti della vittima non restava che polvere e qualsiasi elemento più consistente, quale un dente d'oro o il gemello della mano destra, doveva essersi fuso in una piccola massa informe, impossibile da rintracciare e identificare nemmeno se avessero insistito a frugare gior-
no e notte in quella montagna di cenere. Ma qualcosa di solido, di molto solido era bloccato contro il fondo della fornace. Troy scosse il manico della paletta avanti e indietro più di una volta e poi diede uno strattone. Una palla bianca uscì come un proiettile. Corker, istintivamente, l'afferrò come una palla da rugby, poi guardò che cosa aveva in mano e il sorriso di compiacimento per la prontezza del proprio intervento scomparve. Con un urlo, gettò il teschio a Troy e corse a rifugiarsi vicino alla grata di ferro. «Non lì», gli gridò Troy. «Cristo, dove credi che l'abbia buttato il sangue?». Corker cambiò immediatamente di posto e si slanciò in mezzo a una massa verde di canniccio marcito e calcina. Troy avvicinò il teschio alla luce della torcia di Bonham. Era ancora caldo. Mancavano la mascella inferiore e parte dello zigomo sinistro. Sulla nuca c'era un grosso foro e sulla fronte un altro, più piccolo. Frammenti di cervello abbrustolito erano ancora attaccati all'interno e la gelatina lucida dell'occhio liquefatto ricopriva le orbite. «L'ha colpito in mezzo agli occhi», disse Troy, «e il proiettile è uscito dalla nuca». «Che orrore», disse Bonham, senza molto calore. Il rumore che fece Corker vomitando li distolse dalle riflessioni su quanto avevano scoperto. Bonham viste le condizioni di Corker, che da pallido era diventato verde, lo mandò ad aspettare fuori, all'aria fresca. «È la prima volta», disse a Troy. «Ho cercato di dirgli che poi passa, ma è inutile, a me non è passato mai». Troy teneva ancora il teschio nel cavo della mano, come Amleto vicino alla tomba di Yorick. Un puzzle, l'aveva chiamato Bonham. Una definizione inadeguata. Se ne sarebbe ricordato al momento di fare un rapporto adeguato al comandante della squadra. «George, poco fa ho detto a Onions che questo non è il delitto di un maniaco». «Secondo te non è un pazzo uno che fa un lavoro del genere?». «Il pazzo più meticoloso che abbia mai conosciuto». «Una cosa non esclude l'altra. A mezzo chilometro da qui, meno di dieci anni prima che io nascessi, Jack lo Squartatore faceva a pezzetti fior di persone 'ed è sempre riuscito a cavarsela. Sapeva fare bene i suoi conti, era un meticoloso, come dici tu. Qui intorno sono in molti a ricordarsene ancora».
Troy cercò il rubinetto d'ottone. Non riuscì ad aprirlo. All'imboccatura si era formato un piccolo strato di ghiaccio. Esaminò la grata e v'infilò una mano. Quando la tolse era scura, coperta da una poltiglia appiccicosa e puzzolente. «Gesù Cristo!», esclamò Bonham. Troy si portò lentamente la mano vicino agli occhi e Bonham la illuminò con la torcia. Era ricoperta dalla punta delle dita alla base del palmo di un umore denso e viscoso che cominciava a scendere verso il polso. «Il rubinetto è ghiacciato. Il canale di scolo pure. Il calore di un corpo che brucia non basta a sciogliere il ghiaccio, perciò non hanno potuto buttare via il sangue», disse Troy, sorridendo per quel piccolo successo che aveva ottenuto e tendendo la mano verso Bonham. «Non mettermela così vicino, Freddie», disse Bonham. «Dobbiamo pensare che sia stato ucciso la settimana scorsa, quando c'è stato quel gelo». «I tempi sono ancora più stretti», precisò Bonham, «perché fino a cinque giorni fa il gelo non c'era ancora stato». Troy si tolse di tasca con cura un fazzoletto pulito, si pulì la mano e lo mise nel sacchetto delle ossa. In cima ai gradini lui e Bonham trovarono Corker che si era tolto l'elmetto, era un po' più colorito e fumava. Appena li vide lasciò cadere la sigaretta e tentò di alzarsi in piedi, ma vacillò e con gli occhi corse subito al sacchetto che Troy aveva in mano. «Finisci pure la tua sigaretta», gli disse Bonham, quasi affettuosamente, «e poi vai a ritirare le lampade. Per ora abbiamo finito». Troy mise il sacchetto nel baule della Bullnose Morris. Mentre stava per andare a sedersi al volante vide, a meno di tre metri di distanza, Gamberetto che lo guardava fisso, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni corti. Troy sapeva, l'aveva sempre saputo, che non aveva il dono di saper parlare con i bambini. «Che cosa fai in giro a quest'ora di notte?», gli chiese, con qualche esitazione. Gamberetto, a testa bassa, rigirò un mattone rotto con la punta di uno stivale. «So badare a me stesso», rispose. Troy non ne dubitava. «C'è qualcosa di nuovo?», insisté con gentilezza. «Lei sembra quello scemo che sta alla radio».
«Quale scemo?». «Sam Costa». «Senti, vuoi parlare o no?». «Dipende». «Da che cosa dipende? Hai avuto la tua mezza corona. Guardala bene da tutte le partì, è una bella moneta d'argento del Regno Unito. Puoi usarla per comprare tutte le caramelle di menta che ti passa la tessera». «Sì, lo so, lo so», mormorò il bambino, «la mezza corona è buona». «Allora che cosa vuoi?». Troy aprì con la chiave la portiera dell'automobile e fece per entrare e sedersi. «Come le ho detto», proseguì il bambino, «dipende». «Dipende da che?», chiese Troy con un piede sul predellino. «Da quanto le interessa quello che ho». Troy richiuse la portiera e squadrò dalla testa ai piedi il piccolo ricattatore. «Quello che hai...? Che cos'è? Ti avevo detto di non toccare niente». Il bambino alzò le spalle, senza lasciarsi intimidire. «Lo sai che occultare le prove non solo è stupido, ma è anche illegale?». «Non posso parlare per ora. Quello che ho le costerà mezzo dollaro altrimenti non le darò niente. E... niente scherzi, perché mio padre i poliziotti se li mangia la mattina per colazione». Quante volte, si chiese Troy, aveva sentito questa frase? «Bisogna vedere se quello che hai vale il prezzo che chiedi». Il bambino alzò di nuovo le spalle. «Mi faccia vedere il colore dei suoi soldi». Troy gli mostrò mezza corona sul palmo della mano, col braccio teso. Gamberetto gli andò molto vicino. Troy tirò indietro il braccio. Lentamente il bambino si tolse le mani di tasca, strette a pugno, con le nocche rivolte in su. Le batté tra loro e poi aprì la destra. Era vuota. Le batté ancora, sempre con i pugni chiusi, e aprì la sinistra. Anche quella era vuota. La terza volta aprì la destra di nuovo e fece una risatina. Nel piccolo palmo sudicio c'era un fazzoletto da bambino appallottolato. Troy prese quel fagottino incrostato di sporcizia e se lo aprì sulla mano. In mezzo c'era il bossolo di un proiettile di * quelli in dotazione alla polizia, di grosso calibro, 45 o almeno 44. Troy mise la mezza corona nella mano aperta del bambino che la intascò con la velocità di una salamandra.
«Vede», disse, «non l'ho toccato». Troy fece cadere il bossolo in una busta e restituì il fazzoletto. «Dov'era?». «Vicino al gradino in alto», replicò Gamberetto, «per questo sono sceso. Ci vediamo, eh?». Sparì nella notte. La luce della torcia a occhio di bue seguitò ad apparire e sparire, non si capiva bene da dove, muovendosi su e giù come il pomo d'Adamo di Corker. A Troy parve che lanciasse sberleffi per tutto Stepney Green. 12 Troy uscì infreddolito dall'automobile. Il laboratorio di polizia di Hendon era buio e deserto. Fu costretto a bussare forte alla porta prima che una guardia si alzasse dal sonno del giusto, privilegio del lavoratore notturno, e accettasse, con voce roca, di firmare una ricevuta per un sacchetto di ossa. Sempre infreddolito, Troy risalì in automobile e arrivò fino a Scotland Yard, poi proseguì a piedi per la tortuosa strada di casa di un poliziotto ficcanaso che, sfidando le squadriglie nemiche, lo portava dove i suoi piedi, non la sua mente, avevano deciso. Mentre saliva per Lower Regent Street e poi per Piccadilly Circus, si ricordò che era venerdì sera. C'erano le code per l'Eros Newsreel Theatre e il London Pavillon. Un caldo, invitante sussurrare gli veniva incontro dal Criterion Restaurant; la stessa sensazione di vitalità e libertà filtrava, all'altra estremità della scala sociale, attraverso le finestre oscurate del Lyon's Corner House. Le porte di The Monico, vicino a Saqui e Lawrence, santuario del tè pomeridiano a uno scellino e sei pence, sbattevano ininterrottamente mentre i clienti entravano e uscivano. La Luftwaffe non avrebbe avuto bisogno di vedere le luci di Londra, sarebbe bastato il traffico. Troy rifiutò il loro invito e si avviò verso Coventry Street. Aveva ripreso a lavorare solo da due giorni e gli pareva strano che la settimana stesse già per finire. Si ricordò inoltre che, se era venerdì, il lunedì successivo lo aspettava un'udienza in tribunale. Proprio quando avrebbe potuto affondare i denti nel caso Stepney. In fondo a Haymarket, passando davanti al cinema Gaumont, vicino agli uffici dell'Air France, chiusi da assi di legno, defunti ormai da lungo tempo, gli parve che qualcuno lo chiamasse per nome e si voltò a guardare, ma non vide niente di particolare, nel buio, solo sconosciuti che cercavano di evitarsi o di incontrarsi, a
seconda delle esigenze e delle promesse di un venerdì sera in tempo di guerra. La guerra, insieme a un inevitabile aumento della malavita aveva prodotto nuove plaghe oscure e una nuova libertà sessuale. La libertà da un vincolo era una sfida a liberarsi anche degli altri, e si traduceva nel suo aspetto più grossolano in un «fallo oggi perché domani potresti essere morto». Troy attraversò Leicester Square, proseguì per il Wyndham Theatre e St Martm's Lane girando dal vicolo sul retro ed entrò in Goodwins Court, dove il cancello era così stretto che Sidney Greenstreet non ci sarebbe passato, e arrivò così alla casetta dove abitava da quando aveva lasciato Stepney. Segno dei tempi, Ruby, la prostituta che di solito stava come una sentinella all'angolo tra Goodwins Court e St Martin's Lane si stava avviando verso Trafalgar Square al braccio di un uomo in divisa, che, nel buio, Troy non avrebbe saputo dire se fosse polacco o canadese, e nemmeno se fosse un aviatore o un soldato. Ma lei camminava in un modo, muovendo le natiche con una sorta di spavalderia, che era impossibile non riconoscerla, anche al buio. Prima della guerra, una prostituta sarebbe stata dieci volte più discreta e avrebbe guadagnato dieci volte di meno. Ruby si sentiva palesemente al sicuro da ogni giudizio e repressione, sapeva benissimo che Troy era un poliziotto e quando non cercava di offrirglisi direttamente, gli proponeva un'amica, perché voleva che «i suoi amici fossero amici tra loro»e in quella schiera, evidentemente, includeva anche Troy. La cena rappresentava una prospettiva incerta. Troy sapeva cucinare e rigovernare meglio della maggior parte degli uomini della sua età. La vita da scapolo non rappresentava per lui un periodo transitorio in cui crogiolarsi nella piacevole accidiosa constatazione della propria incompetenza. Era il più giovane di una famiglia con quattro figli ed era stato abituato fin da piccolo a contare sulle proprie risorse e sulla compagnia che riusciva a fare a se stesso perché aveva un fratello tanto più grande di lui da essere irraggiungibile e due sorelle gemelle che praticamente vivevano in un mondo che apparteneva solo a loro. Ethel Bonham non aveva dovuto fare altro che alimentare la naturale disposizione di Troy all'autosufficienza. Peccato che l'autosufficienza non rendesse più commestibili fette di luccio o di balena, al confronto sarebbe stato più facile moltiplicare cinque pani e tredici pesci. Troy, come i suoi connazionali, era annoiato e irritato dalle restrizioni alimentari del tempo di guerra, che più la guerra andava avanti più, a quanto pareva, aumentavano. Il pane che veniva distribuito, glielo aveva assicurato un suo zio, era quasi ineccepibile dal punto di vista nutri-
zionale, ma aveva il sapore di un giornale bagnato. Ogni tanto, a capriccio, la dieta nazionale veniva arricchita da una immissione improvvisa e rapidissima di frutta. Una volta, anni prima, erano arrivate le ciliegie, poi le arance e nei giorni successivi le strade di Londra erano state ingombre di bucce, testimonianza di un'orgia. Quella sera Troy, in cucina, trovò la salvezza in una scatola di uova che gli aveva dato sua madre. Sulle alture del Hertfordshire Maria Mihajlovna, il giorno stesso della dichiarazione di guerra, aveva trasformato il suo prato esposto a est in un pollaio e quadruplicato l'orto. Nella primavera del 1941 aveva deciso di rinunciare alle frivolezze per tutta la durata della guerra e aveva destinato la serra delle orchidee alla coltivazione dei pomodori. Nel cuore del 1942 il suo superlodato prato a sud della casa, esteso dalle finestre fino alla siepe di recinzione, era stato sacrificato alla coltivazione delle patate. Arrivata al 1943 si era resa conto che c'era poco altro che una donna potesse fare. Ai suoi figli era pronta a offrire in qualsiasi momento mezza dozzina di uova accompagnate durante l'autunno da porri freschi e durante una lunga stagione estiva da una varietà di patate nuove odorose di terra. Ogni tanto, nei momenti più impensati, l'una o l'altra delle sue sorelle bussava alla porta di Troy provvista di quella che pareva una mezza carrettata dei migliori prodotti del Covent Garden, dai più comuni tuberi ai più raffinati legumi da serra e gliela depositava sulle braccia, protestando che non telefonava e non andava a trovarle abbastanza spesso. Poi, Masha in particolare, apriva la credenza di cucina e gli faceva notare, in tono di rimprovero, quanto fosse meno fornita della sua. Troy pensava che erano cose che riguardavano lui, non lei, e le garantiva di saper badare a se stesso. La dispensa gli offrì una cipolla, che stava diventando verde all'esterno, due bei pomodori e tre grosse uova color nocciola con delle macchioline più scure. Quello che ci voleva, si disse Troy, per un'omelette spagnola, una ghiottoneria fuori stagione, un pasto che sarebbe stato considerato un lusso in qualsiasi ristorante se non altro perché ormai pochi ristoranti, in città, avrebbero servito un'omelette di tre uova. Era diventato così difficile proporre un menu completo che, gli era stato detto, qualcuno si era visto portare in tavola una cornacchia arrosto. Sotto il lavandino c'era qualche bottiglia di vino che veniva dalla cantina che suo padre si era fatta pezzo per pezzo prima della guerra. Quando era morto, alla fine del 1943, la madre di Troy aveva proposto ai suoi due figli maschi di dividersi la cantina metà per uno. Troy non aveva mai fatto molta attenzione quando suo padre, in varie occasioni, aveva cercato di insegnargli a riconoscere il buon
vino o quando, più semplicemente, ne aveva bevuto quanto bastava per fare un discorso lirico sull'argomento. Quale capacità di discriminazione possedesse Rod, non avrebbe saputo dire; per parte sua cercava solo di ricordare in quale anno avevano avuto una buona estate e qual era la scelta da seguire per accompagnare la carne o il pesce. Tre uova non davano preoccupazioni di questo genere. Prese una bottiglia di Panillac del '27, senza poter dire se si trattasse o no di una buona annata; si ricordava solo che in quell'estate suo fratello aveva fatto saltare per aria il vecchio capanno degli attrezzi con un dispositivo che aveva preparato con gas di carburo e lattine di cacao. Il vino gli parve così buono da dargli l'impressione di aver violato una riserva tenuta segreta da suo padre. Ne aveva bevuto un primo bicchiere e aveva appena finito di ammorbidire le verdure nella padella, quando sentì bussare alla porta. Insieme a una ventata d'aria fredda entrò l'agente Wildeve che annusò i profumi che venivano dalla cucina e sorrise, sperando di essere invitato a cena. «Eri proprio tu, allora! Uscendo dal Joe Lyon's ti ho chiamato, ma evidentemente non mi hai sentito». Troy richiuse la porta. «Entra, altrimenti esce tutto il caldo della casa». Wildeve lo seguì in cucina sempre annusando l'aria, sorridendo e lasciando intendere che non gli sarebbe dispiaciuto sedersi a tavola. «Santo Dio! Uova! Vere uova! Sono vere uova quelle che vedo?». «Sì. Se tu non avessi già cenato al Corner House ti proporrei di dividerle con me». «Ah... ma io non ho cenato. Avevo un appuntamento con la mia ragazza ma lei non è venuta, allora ho bevuto da solo una pessima tazza di tè e me ne sono andato. È stato allora che ti ho visto». Troy prese un altro piatto, un altro bicchiere e li mise a tavola davanti a Wildeve, insieme alla bottiglia di vino. «Credevo che non saresti tornato fino a lunedì», disse Wildeve. «Ormai stavo bene. Inoltre ho avuto una chiamata dal comando di Stepney. Il mio vecchio sergente si è trovato un morto tra capo e collo. Onions non ha avuto niente da obiettare, anche se ha cercato di incastrarmi con un altro omicidio. Credevo di vedere anche te. Sei stato molto occupato?». «Sì, in tribunale. Due giorni sempre in piedi al Bailey». Troy aprì le uova nella padella sfrigolante. Wildeve prese in mano un mezzo guscio e lo accarezzò. «Veri gusci d'uovo!».
Wildeve riusciva a essere a volte irritante e a volte, invece, addirittura stimolante. Si metteva a chiacchierare del più e del meno nei momenti che avrebbero richiesto la massima concentrazione oppure lasciava cadere in una conversazione qualsiasi osservazioni particolarmente acute come se fossero trascurabili e meritevoli solo di essere menzionate incidentalmente. Ora, affascinato, stava raccogliendo con un dito la pellicola sottilissima all'interno del guscio d'uovo. «Guarda questi puntolini. Non ho visto niente di simile... diciamo da mesi. E... impossibile! Quella è vera cipolla!». Troy decise che era meglio lasciar perdere. Riempì il piatto di Wildeve e lo lasciò tranquillo a mangiare, a bere e a parlargli della bella Wren, che di venerdì sera l'aveva lasciato solo con una tazza di tè tiepido, e di tutto quel tempo che aveva passato al banco dei testimoni all'Old Bailey. Teneva l'omelette sospesa sulla forchetta come se fosse troppo calda o volesse centellinarla al pari di uno squisito chiaretto, mentre beveva a grandi sorsate lo squisito chiaretto che aveva nel bicchiere come avrebbe fatto con un ginger beer. Mentre gli porgeva il bicchiere perché tornasse a riempirglielo, Troy lo bloccò con una sintetica esposizione della questione di cui si stava occupando. Questa volta il bicchiere restò intatto. «Strano», disse Wildeve. «Un mistero. Poverino l'agente Corker, avrei vomitato anch'io». «Il problema è», proseguì Troy, «che devo essere in tribunale lunedì. Bernard Leahy sarà processato a Winchester, accusato di strangolamento. Il fatto è avvenuto a Portsmouth. Secondo me è possibile che il giudice decida per la non colpevolezza, senza tener conto della confessione». «Ah, quindi hai bisogno del mio aiuto?», chiese Wildeve e bevve il suo secondo bicchiere di vino con una rapidità che avrebbe stupito anche il defunto Alexej Troy. «Vorrei che andassi all'ufficio stranieri, che è alla sezione B3 di Scotland House. Prova anche al CRO e presso le associazioni degli immigrati, anche se la prima cosa che vorranno sapere da noi è quella che noi vorremmo sapere da loro: un nome. Ho le impronte delle cinque dita. Sono nel primo cassetto della scrivania a sinistra. Kolankiewicz me le ha portate fino a Stepney in bicicletta». «Che uomo». «Allora conto su di te, Jack. Non abbiamo altro modo per incominciare». «Si parte sempre dal basso. Chi lo direbbe che è difficile trovare un te-
desco a Londra, eppure quando ti metti a cercarlo, non c'è». «Se fosse stato qui nel 1940 sarebbe rientrato tra quelli che hanno arrestato dopo la caduta della Norvegia. O forse l'hanno internato. In tutti e due i casi potremmo avere le impronte». «Sì, ma non è probabile, credo, che fosse a Londra fin da allora». «È questo che mi preoccupa», disse Troy. 13 Mentre Troy usciva dal banco dei testimoni l'avvocato difensore si alzò in piedi e si rivolse al giudice. Avrebbe potuto dover riascoltare il sergente Troy, quindi si raccomandava che il signor Troy non lasciasse la sede del tribunale nel corso della giornata né Winchester durante la notte. La richiesta colse la corte impreparata. Sir Willoughby Wright si concesse un falso accesso di tosse, mentre fissava Troy al disopra di un fazzoletto bianco delle dimensioni di un padiglione aperto improvvisamente in aula. Troy alzò severamente l'indice della mano destra in un movimento circolare, come aveva visto fare ai concorsi del Windmill quando un comico dilettante superava il tempo concesso dalla giuria. «My Lord», disse Sir Willoughby, «io ritengo che il sergente Troy abbia altri, pressanti impegni che lo attendono a Scotland Yard. La corte non può aspettare...». «Ma la corte aspetta, Sir Willoughby», ribatté seccamente il giudice e, rivolto a Troy, aggiunse: «Lei non se ne vada, Mr. Troy. Non è necessario che le ricordi che è ancora sotto giuramento e che non dovrà intrattenersi con nessuno su argomenti relativi alla procedura in corso». Nella sala d'aspetto, Troy imprecò ad alta voce e un tipo basso di statura con un impermeabile sporco e un cappello floscio in testa alzò gli occhi al di sopra del «News Chronicle». Era Kolankiewicz. Troy si guardò attorno per cercare l'agente di servizio, lo vide spiare dentro l'aula attraverso una fessura tra le ante della porta e tornò a sedersi sulla panca, vicino a Kolankiewicz, ma non troppo per non essere sorpreso a parlare con un altro testimone nel caso l'agente di servizio si fosse rivelato un severo custode del protocollo. «Che cosa fa lei qui? Credevo che il referto venisse fatto dal medico del luogo dove è avvenuto il delitto». «Sono dalla parte sbagliata», rispose misteriosamente Kolankiewicz senza nemmeno guardarlo.
«Che cosa vuol dire "dalla parte sbagliata"?». «Sono venuto per la difesa». «Come? Ma lei è il patologo della polizia!». «Io posso assumere impegni privati come quello di Harley Street. Leahy è innocente. Ha una mano fuori uso da un pezzo. Gli è rimasta dentro l'ingranaggio di non so che macchina dieci anni fa. Non può aver strangolato nessuno. E tu sai benissimo che non dovremmo neanche rivolgerci la parola». Kolankiewicz si rialzò il giornale davanti agli occhi e finse di leggere mentre l'agente di servizio gli passava davanti. Le porte dell'aula si aprirono e ne uscì una marea di cronisti giudiziari, con la faccia arrossata sotto il cappello di feltro, in cerca dei telefoni. «Hanno interrotto l'udienza per l'ora di pranzo», disse Troy. «Cerchiamo un posto dove bere una tazza di tè e scambiare due chiacchiere». Passarono davanti a due caffè, Troy scelse il terzo, che gli parve fosse abbastanza lontano dal tribunale. Anche lì, come ovunque, c'erano militari americani fuori servizio, che fumavano una sigaretta dopo l'altra e facevano la corte alle cameriere. Davanti a lui, nella coda, c'era un soldato biondo, molto bello che, scherzosamente, si lamentava del freddo, quasi avesse già imparato dagli inglesi a parlare del tempo prima di introdurre qualsiasi argomento. Non gli era mai capitato prima, diceva, che gli si gelasse il fiato al coperto, in un locale chiuso. Aveva un bell'accento sciolto, armonioso, non strascicato. «Da dove vieni, bello?», gli chiese la cameriera mentre lui aspettava al banco. «Indovina». La ragazza puntò lo sguardo su una carta geografica immaginaria. «Dodge City?». «Fort Smith, nell'Arkansas, signorina». E lei ne seppe quanto prima. Troy tornò al tavolo con due tazze da mezzo litro ciascuna di un tè chiarissimo. «Devo chiederle una cosa», disse Troy, mentre Kolankiewicz batteva il piattino sul bordo della tazza per far cadere lo zucchero che si era rovesciato e si metteva a bere rumorosamente. «È molto scorretto». «Maledetto Leahy. Non è di questo che voglio parlarle, ma lei crede che non sia in grado di strangolare qualcuno solo perché non ha visto i lividi sul mio braccio quando quel disgraziato l'ha afferrato mentre tentavo di
arrestarlo. Mi sono portato in giro l'impronta delle sue dita, come stimmate, per giorni e giorni. Se la cavava bene per non avere l'uso di una mano». «Hai avuto l'accortezza di fotografarli, quei lividi?». «No... comunque non è di Leahy che volevo parlare». «Non fai che ripeterlo, ma il nostro argomento è sempre lui. Io vedo in atto una distorsione perversa della verità». «A me sembra che sia lei a distorcere il corso della giustizia. Comunque io ora pensavo a quel tedesco di cui mi sto occupando». «Ah, il defunto Herr Polsino». «Esattamente. Come si è accorto che quel gemello era stato fatto in Germania?». «Te l'ho detto. Aveva il marchio di un argentiere di Monaco. Signorina», Kolankiewicz fermò una cameriera che gli passava vicino, «non ci sarebbe qualcosa come una focaccina imburrata?». La ragazza lo guardò per una frazione di secondo, mentre s'infilava tra due tavoli reggendo un vassoio di focaccine imburrate. «Non ce ne sono più», disse e posò pesantemente il vassoio davanti a una dozzina di giovani americani che ridevano esprimendole senza mezzi termini la loro ammirazione. Kolankiewicz seguì con uno sguardo deluso le focaccine che gli erano state negate mentre la cameriera annotava su un taccuino un appuntamento multiplo per la serata. Troy batté una mano sul tavolo per richiamare l'attenzione di Kolankiewicz. «Di solito questo genere di ricerche richiede qualche giorno, come mai lei ne ha avuto subito il risultato?». «Facile. Avevo ancora tutta la documentazione dell'anno scorso». «L'anno scorso?». «Sì, per quell'altro tedesco. Quello che avevano trovato sulla spiaggia, sotto il Tower, con il foro di un proiettile su una guancia. Io avevo fatto le ricerche sulla stoffa, i marchi di fabbrica, eccetera. Dai vestiti avevo capito che il morto era un tedesco. Le etichette erano state tolte, ma il tessuto parlava chiaro. Per caso non avevo mai consegnato la documentazione. Tu mi conosci, più confusione c'è, meglio lavoro». «È stato l'anno scorso, in quale periodo?». «Aprile. Maggio. Non lo so». «Perché non ne ho sentito parlare? Dov'ero?». «E che accidenti ne so io? Non riguardava l'area metropolitana. Quelli della City Police li conosci. Credo che abbia fatto tutto il loro capo, un idiota, un certo Malnick».
«Oh no! Malnick!». Malnick era stato ispettore in carica alla City of London Police nel 1939, quando Troy era appena entrato a Scotland Yard. Il sovrintendente della City Police aveva richiesto l'aiuto di Scotland Yard quando il caso del bambino di otto anni, morto annegato, sembrava aver subito una battuta d'arresto. L'ispettore Malnick si era visto mettere definitivamente in disparte dal momento in cui Onions aveva fatto intervenire il ventiquattrenne Troy, ancora agente semplice, come lo specialista di cui avevano bisogno e Troy se n'era guadagnato l'eterna inimicizia risolvendo il caso in quarantott'ore. «Io ero a Liverpool in aprile. È stato allora?». «È probabile. Ma loro non hanno chiesto aiuto a Scotland Yard. Il capo ha voluto occuparsene personalmente. E, come ho già detto, è un perfetto imbecille». «Hanno arrestato qualcuno?». «No, che io sappia. Può darsi che siano arrivati a un processo, ma a Hendon non ne abbiamo avuto notizia. La mia pratica è ancora aperta». «Perché non me ne ha parlato venerdì?». Kolankiewicz bevve un sorso di tè e prese tempo prima di rispondere. «Me n'ero dimenticato», disse infine, stringendosi nelle spalle. «È stata Anna, la mia assistente, a ricordarsene». «C'era qualche altra analogia tra i due casi, indipendentemente dal vestiario?». «Dovrei dare un'occhiata, ma confrontare un cadavere tutto intero con un braccio e un sacchetto di ossa, non offre molte possibilità». «Gli avevano sparato in faccia, mi ha detto?». «Sì, questo me lo ricordo. Una volgarità, un gesto di quelli che voi giudicate poco sportivi». «Un colpo in fronte centrato male?». «Non chiedermi di fare troppe supposizioni. È come pisciare contro vento». «C'era stato qualche tentativo di smembramento del cadavere?». «No, io l'ho avuto a disposizione tutto intero. Troy, perché non parli con Anna? Lei può cercare la pratica e dirti tutto quello che vuoi sapere». Troy andò al telefono, appena fuori dalla sala, sul retro, e telefonò a Hendon. Ma Anna non riuscì a trovare la pratica e disse che l'avrebbe richiamato. Troy non si mosse, perché nessuno gli portasse via il posto, e si accorse che Kolankiewicz scambiava astutamente la propria tazza vuota
con la sua ancora piena e, mentre squillava già il telefono, lo vide anche sottrarre da un vassoio l'ambita focaccina, mentre la cameriera ascoltava gli audaci complimenti di un soldato, con la testa per aria e la ragione pure. Tra l'esuberanza dei militari e l'imprudenza di Kolankiewicz, Troy fu ben contento di dover rispondere al telefono. «La pratica non c'è», disse Anna, «io non so che cosa ne ha fatto. Mancano anche le schede. Forse perché non voleva parlarne con lei, ma io gliel'avevo detto che lei gliela avrebbe chiesta». «Quali schede?». «Era il metodo di Spilsbury e noi l'abbiamo imitato. Per ogni pratica, teniamo anche delle schede, da consultare più rapidamente. Le avevo riempite io per Kohankiewicz, ma adesso non ci sono più, forse lui le ha prese e non le ha rimesse a posto». «Lei ricorda qualcosa della storia di quel tedesco?». «Sì, mi ricordo soprattutto che Malnick era un buffone, ma Kohankiewicz lo aveva esasperato, può immaginare. A parte questo, la vittima era, direi, sulla quarantina. Io, di solito, esamino personalmente il vestiario e gli oggetti personali. Nelle tasche non c'era niente che potesse risultare utile, le etichette erano state tolte con le forbici da unghie. Il proiettile in faccia lo aveva ucciso sul colpo. Aveva frammenti di ossa nel cervello, ma non è tutto. La ferita alla gamba, non ricordo se la destra o la sinistra, si era aggravata». «Aggravata? In che modo?». «Come se, dopo essere stato colpito, si fosse messo a correre, presumibilmente zoppicando. Il proiettile era passato netto da parte a parte, quindi non posso dire se fosse stato colpito due volte con la stessa arma oppure chi sa che altro. Ma usando i muscoli della gamba, la ferita era peggiorata. Senz'altro gli aveva provocato un dolore terribile. Perché, Kolankiewicz non gliel'ha detto? Non se la sarà svignata, spero». «Al contrario. È qui, ma finge di non conoscermi». Kolankiewicz si era nascosto dietro il giornale perché nessuno lo vedesse mangiare la focaccina che aveva rubato. Troy vide la cameriera abbandonare le frivolezze degli americani e, con le mani sui fianchi e un piglio deciso, avvicinarsi al tavolo. Non gli fu difficile immaginare che cosa stava per succedere. Erano tempi in cui si poteva morire per una cipolla e uccidere per una focaccina. «Devo scappare», disse al telefono. «La richiamerò appena possibile». «Ehi, signor svelto di mano», stava dicendo la cameriera, «dove l'ha
messa la focaccia?». Scostò il giornale dal viso di Kolankiewicz che aveva le guance piene come un criceto ma, anche davanti all'evidenza, seguitava a masticare imperturbabile e rispondeva allo sguardo della cameriera assentendo con aria beffarda e cercando di strapparle il giornale dalle mani. Mentre Troy si faceva strada a fatica attraverso i tavoli, il soldato dell'Arkansas si alzò e venne a offrire il proprio contributo. «L'ha rubata! Questo vecchio frodo ha rubato una focaccina». «Chi sarebbe il vecchio frocio?», disse Kolankiewicz che, inghiottita la prova, accentuava la sua pessima pronuncia facendo ricorso all'identità polacca in segno di disprezzo. «Come si permette una strusciona di insultare i clienti?». «Un momento, amico», intervenne l'americano, «io non capisco neanche quello che dici, ma sono sicuro che non è così che ci si rivolge a una signora!». «Una strusciona», ribatté Kolankiewicz, «è per definizione una donna che cerca la compagnia di gruppi maschili organizzati allo scopo di procurarsi e offrire soddisfazione sessuale. Si accorgerà, giovanotto, che questo è diventato un passatempo nazionale in Inghilterra». «Che cos'ha detto?», chiese il soldato. Prima che la cameriera potesse rispondergli, Troy s'infilò in mezzo a loro e prese Kolankiewicz per il gomito spingendolo ad alzarsi in piedi. «Il signore vuole scusarsi», disse, «di aver disturbato lei e la signorina e desidera saldare il conto». Troy mise un fiorino sul tavolo e guidò Kolankiewicz verso la porta. Alle sue spalle sentì la cameriera salutarli con un prevedibile «facce toste, non fatevi più vedere». Kolankiewicz si liberò della stretta di Troy e si dedicò ostentatamente a perfezionare la forma del proprio cappello. Troy sapeva che se anche lui si fosse messo il cappello gli sarebbe stato più facile sembrare un poliziotto e, per di più, un poliziotto sciocco come Kolankiewicz, che ora insisteva nell'atteggiamento di chi è stato offeso nell'orgoglio e seguitava a lisciare il suo cappello, palese simbolo di dignità. «Il proiettile che ha ucciso quel tedesco, che calibro aveva?». «Proiettili! Robaccia! Non mi fare di queste domande, Troy. Io sono un uomo di carne e sangue. Certi particolari mi restano in mente il tempo necessario per dettarli ad Anna, ma se mi chiedi le condizioni di un fegato due anni dopo che l'ho inciso col bisturi, ci sono buone probabilità che
possa risponderti». «Ha potuto guardare il bossolo che le ho lasciato?». «Quarantacinque, te lo do per certo». «La Colt quarantacinque automatica è in dotazione all'esercito americano». «Sì, ma bisogna pensare anche al mercato nero. C'è un pub a Mill Hill dove puoi comprare un howitzer semplicemente rivolgendoti al banco». Kolankiewicz indicò la vetrata del bar alle sue spalle. «I vostri cugini delle colonie sono disposti a vendervi qualsiasi cosa, da un paio di calze di nylon a un mezzo cingolato. Ti serve una fortezza volante di seconda mano? Prova a chiederla al deposito ferroviario di Mill Hill. E i soldi che gli darai li spenderanno monopolizzando tutte le focaccine imburrate della vecchia Inghilterra!». Di là dal vetro, il soldato dell'Arkansas sorrise. La sua grazia naturale aveva lasciato che le buone maniere avessero la meglio sulla collera. Ma fu una gentilezza sprecata perché Kolankiewicz prontamente gli mostrò due dita a V. L'americano pensò che volesse ripetere il gesto reso famoso da Churchill e rispose con le dita a V e la mano voltata dalla parte giusta, in segno di vittoria. Kolankiewicz inciampò, scendendo dal marciapiede e Troy pensò che aveva assistito a un'importante sfida internazionale in miniatura. 14 Troy non tornò a Scotland Yard che il giovedì mattina. Da quasi tre giorni non sapeva niente di Kolankiewicz. Wildeve era uscito, ma gli aveva lasciato un appunto sulla scrivania: «Ha telefonato Anna Pakenham. Non è ancora riuscita a trovare la pratica. Ci sono più immigrati tedeschi che pecore nelle nostre isole. JW». Troy telefonò ad Anna. «Qual è stato il verdetto?», chiese lei. «Non ho aspettato di scoprirlo. La testimonianza di Kolankiewicz mi ha fatto sembrare uno scemo». «No, Troy, lo scemo è lui. Dovrà spiegare come mai è sparita tutta una pratica. Io ho soltanto i miei appunti stenografati e temo che non saranno molto utili. Scrivo a matita e dopo dodici mesi non so cosa sarà rimasto, anche perché ho imparato da poco a stenografare, solo quando le nostre ragazze sono entrate nel Corpo Ausiliario Territoriale». «Sarebbe importante conoscere il calibro del proiettile».
«Quarantacinque. I numeri non sono stenografati». «Un'arma automatica?». «Non si può esserne sicuri. E prima che me lo chieda le dirò che il proiettile è stato ritrovato con gli abiti e gli effetti personali ed è sparito con loro». «Kolankiewicz non ha spostato niente. Crede che si tratti di un furto?». «Non lo so. Una volta un furto l'abbiamo avuto, ma io l'ho attribuito a un pazzo. Ci sono venuti a mancare solo diciassette litri di alcol puro. Non vale niente la pratica di un morto non identificato». «A meno che qualcuno non voglia essere sicuro che rimanga tale». 15 Il tempo si schiarì. Dopo un gennaio di una inconsueta mitezza, e un febbraio inaspettatamente gelido, ora marzo sembrava offrire la promessa di una piovosa primavera precoce. Alla sede centrale della polizia, Troy, seduto in un seminterrato umido mentre il sergente in servizio all'archivio frugava tra i mucchi di carte alla ricerca della pratica di uno sconosciuto trovato morto sulla riva del fiume, vicino al Tower, guardava i venti di marzo spingere le raffiche di pioggia contro i vetri sporchi, che erano spessi e opachi come le bottiglie del latte e posti in alto sulla parete, a livello del marciapiede. La neve dell'inverno si scioglieva e scorreva rumorosamente entro i condotti di scolo, fino al Tamigi. Troy sentì quel passo pesante e irregolare avanzare lungo le cataste di carta prima che il sergente Flint apparisse, zoppicando, e depositasse sul suo tavolo un fascio alto quasi trenta centimetri di cartellette formato protocollo. Era affannato e si lasciò cadere sulla sedia sospirando di sollievo. «Ma lei non zoppicava l'ultima volta che ci siamo visti», disse Troy. «È stata una scheggia di granata», rispose il sergente, «nel 1941. I medici dicono che non camminerò più come una volta. Prima della guerra un poliziotto avrebbe dovuto cambiar mestiere, ma... adesso tutto va in un altro modo». Divise il mucchio in due parti, come due giganteschi mazzi di carte. «Se non le dispiace faccio così, altrimenti non arrivo nemmeno a metterci le mani. Strano, è tutta roba recente. Menomale che il signor Malnick se n'è andato. Era maniaco dell'ordine. Bastava che mi scivolasse un foglio e me ne diceva di tutti i colori». Troy stava già sfogliando le pratiche di metà aprile e le metteva man
mano da parte a un ritmo tre volte superiore a quello che riusciva a tenere il sergente. «Dov'è stato trasferito Malnick?», chiese. «Non è stato trasferito. La RAF ha accettato la sua domanda». «Davvero? A quella età? Credo che abbia una cinquantina d'anni. Era stato rifiutato dalla RAF quando io ero qui durante l'invasione della Polonia». «E non era nemmeno la prima volta. Ha avuto un appoggio». «In che senso?». «È stato raccomandato. È uscito dalla polizia così in fretta che si sono stupiti tutti. Mi ricordo che l'aveva notato anche il sovrintendente. Il venerdì era ancora un poliziotto e il lunedì era già tenente dell'aviazione». «Quando è successo?». «Subito dopo quell'incidente di cui stiamo cercando la pratica. Credo che fosse il maggio dell'anno scorso». Troy aveva finito il suo mucchio di cartellette e guardò Flint che cominciava a sfogliare quelle del mese di maggio. Era di una lentezza snervante, come se guardare e parlare nello stesso tempo fosse superiore alle sue capacità. «Siamo rimasti sorpresi tutti, le assicuro. A me è dispiaciuto vederlo andar via. Avevo lavorato con lui per otto anni. Ma anche lei forse aveva capito che tipo era quando l'hanno mandata qui che, diciamo, non era ancora svezzato». «Grazie». «Lo chiamavano la zia Fanny. Un pignolo. Ma un pignolo per modo di dire perché in realtà non sarebbe stato capace di capire se gli avevano messo un manganello nei pantaloni... Beh, lo sa anche lei come si parla negli spogliatoi...». «Però era pignolo, meticoloso?...». «Oh sì, questo sì». Flint si era deciso a leccarsi l'indice e il pollice per voltare le pagine più in fretta e stava arrivando alle pratiche della fine di maggio. «E Malnick ha lasciato tutto in ordine?». «Sì, certo!». Troy aspettò, non voleva essere impaziente con Flint che non era in condizioni di salute perfette e che, dopotutto, era ormai alla fine della ricerca. «Strano», disse infine Flint, «non è tra i miei fascicoli e...». «Tra i miei nemmeno».
«Non capisco». «Niente di strano, ma mi levi una curiosità: quale potere, quale possibilità di accesso all'archivio bisognerebbe avere per far sparire tutte le tracce di un uomo?». Flint sospirò, con le labbra strette, tentennando la testa, mostrando di valutare una situazione che andava oltre la sua esperienza. «Lei non sa, per caso», azzardò Troy, «in quale campo d'aviazione presta servizio Malnick?». «Sì, proprio per caso lo so, ci ha mandato una cartolina a Natale. Diceva che non poteva dirci dove si trovava, ma che era impegnato in un lavoro d'importanza nazionale. Ma c'era un timbro postale, Bradwell, Essex. So che c'è un distaccamento della RAF da quelle parti, perché Henry, il figlio di mia sorella è in servizio lì. Mi ha detto che sono quasi tutti polacchi e canadesi. E qualche inglese per... fare da cuscinetto... si è espresso così mio nipote». 16 Troy impiegò buona parte della mattinata successiva a convincere gli agenti di servizio alla motorizzazione a riempire il serbatoio della Bullnose Morris quanto bastava per arrivare a Bradwell-on-Sea e tornare indietro. Nel garage di Scotland Yard un agente con la tuta sporca di grasso aveva guardato l'autorizzazione che lui gli aveva mostrato come se sospettasse che se la fosse scritta da sé. Stava preparando la borsa per il viaggio quando suonò il telefono. Era Anna. «Ah, è lei, l'ho trovata!», disse. «Ho il gruppo sanguigno corrispondente. Quel repellente fazzoletto che ci ha portato è pieno di sangue del gruppo zero coagulato. Kolankiewicz si comporta ancora in modo inqualificabile, ma mi ha chiesto di dirle che le ossa nel sacchetto facevano parte dello stesso corpo cui apparteneva il braccio, che mancano le ossa del braccio sinistro, che il destro è delle stesse dimensioni, sebbene manchino altre ossa più piccole. Sarebbero elementi sufficienti a essere portati in tribunale». «Che notizie ci sono del morto del Tower?». «Lì andiamo male. Manca tutto, tranne il cadavere, quindi mi sono informata sulla possibilità di una esumazione. Impossibile. Il cimitero è stato bombardato sei settimane fa».
«A proposito di luoghi sacri e riservati». «Una scena alla Hieronymus Bosch. Un ossario nel fango». «Dov'è Kolankiewicz, a proposito?». «Si sta preparando per una dissezione. La polizia del Cambridgeshire gli ha affidato un caso complicato, ma ha passato buona parte della mattinata a esaminare quel braccio che gli ha dato lei, brontolando non so che cosa su un paio di pantaloni». «Un paio di pantaloni?». «Così mi è parso di capire». Troy riattaccò, sperando che quando Kolankiewicz fosse riemerso dalla sua svagatezza polacca avrebbe prodotto qualcosa di costruttivo. Troy frugò nel cassetto della scrivania per vedere se gli riusciva di trovare ancora un tubetto di dentifricio e un rasoio nel caso avesse dovuto trattenersi a Bradwell anche per la notte. Alzò gli occhi. Onions era entrato senza far rumore. Aveva in mano il buono per la benzina. Si mise a sedere su una sedia con lo schienale alto, a lato della scrivania di Troy e si stuzzicò la guancia con la mano dove teneva il buono. «Devo dedurre che la questione non può essere trattata per telefono?». «Lei conosce Malnick. Qualsiasi risposta possa darmi non significherà niente se non potrò guardarlo in faccia». «Pensa che i nostri ufficiali siano bugiardi?». «No, ma questo ufficiale in particolare è stupido e ha un carattere tortuoso. Due particolarità che vanno male insieme». Onions si tolse una penna stilografica dal taschino della giacca e scarabocchiò il proprio nome sul buono della benzina. Troy chiuse la borsa e si augurò di poter partire subito. Le strade attorno a Londra erano piene di traffico in quei giorni, c'erano continui spostamenti di truppe e un viaggio poteva richiedere il doppio del tempo di prima della guerra. «Hendon?», chiese semplicemente Onions e Troy capì che non aveva scappatoie. «Già fatto. Non c'è un pezzo di carta al posto giusto». «Ah... sospetta una cospirazione?». «Se la sospetto? Io la sento, la tocco come una realtà inoppugnabile. Se Malnick ne fa parte, e credo che sia così, mi scivolerà di mano come un'anguilla. In ogni caso assumerà il ruolo dell'innocente offeso e dirà che lo sto accusando apertamente». «Perché, non è vero, forse?». La porta si spalancò e, di corsa, senza più fiato in gola, entrò Wildeve
che, senza accorgersi della presenza di Onions, cominciò a farfugliare: «Lo sai quanti tedeschi, austriaci e altri nemici di varia provenienza sono attualmente nel nostro paese?». «Circa settantacinquemila», rispose Troy. «Ah, allora lo sai». Onions si alzò in piedi. «Vi prego, fate pure come se non ci fossi». Troy avrebbe potuto giurare di aver visto Wildeve arrossire mentre Onions lo guardava. Si ricordò che, appena entrato a Scotland Yard, lo sguardo da gorgona di Onions gli era parso ancora più misterioso, sia che esprimesse una semplice curiosità sia silenzioso rimprovero. «Mio fratello è stato internato», proseguì Troy, «e mi sono informato, a suo tempo. Che cos'hai saputo?». «Dunque: hanno le impronte solo di chi è stato internato nel 1940. Si tratta di persone appartenenti in gran parte alle categorie A e B che costituiscono meno di un terzo del totale. Ritengono che, fin da allora, ce ne fossero più di cinquecento praticamente non rintracciabili. Hanno detto che non potevano organizzare una ricerca, ma io ho presentato una regolare richiesta da parte nostra e allora se ne occuperanno». «Quanto tempo ci vorrà?». «Qualche giorno. Una settimana almeno. Niente neanche al CRO e alle associazioni degli immigrati. Chiunque fosse il nostro uomo, non era iscritto da nessuna parte». Onions diede il buono a Troy e se ne andò senza aggiungere una parola. «Ho detto qualcosa che gli ha dato fastidio?», chiese Wildeve. «No, ma io l'ho messo di fronte a una verità che non sopporta. Credo che solo Hitler e la Luftwaffe non partecipino a questa cospirazione», disse Troy, «ma tutti gli altri sì». «Non capisco». «L'intreccio s'infittisce. Ora molto dipende da Malnick, per questo non voglio avvertirlo della mia visita; se gli telefonassi potrebbe far cadere la linea e avere il tempo di inventarsi una storia. Con Stan cerco di non calcare la mano, ma non mi fiderei di Malnick neanche per farlo aiutare una vecchietta ad attraversare la strada». «Credi che un poliziotto possa distruggere un incartamento?», disse Wildeve a voce bassissima come se si trattasse di una eresia impronunciabile. «Qualcuno l'ha fatto».
17 Troy prese la Bullnose Morris e, una volta ancora, s'inoltrò tra i devastati confini dell'East London. Con lentezza, deviando continuamente per evitare le buche e i cumuli di macerie, avanzò attraverso i quartieri ai lati della Lea Valley, dove intere strade avevano le case senza tetto e senza finestre, protette, dov'era possibile, da cartoni e tele cerate, e i negozi, che per un po' di tempo erano rimasti aperti più del solito, frutto di una delle stranezze di più breve durata tra quelle portate dalla guerra, adesso erano chiusi forse per sempre. Riusciva difficile a Troy credere una seconda volta nel sogno politico delle case pronte ad accogliere gli eroi. Gli eroi, come li vedeva lui, erano i civili, sessantamila dei quali erano morti e, poiché l'eroismo era una risorsa ormai esaurita, molti erano fuggiti dai bombardamenti per non tornare più. Si chiedeva quale incentivo, se non le abitudini e la sicurezza illusoria che viene dalle proprie origini, avrebbe potuto indurli a tornare, non riusciva a immaginare un East London guarito, uguale a se stesso. E inoltre, dove Londra si spingeva fino all'Essex, c'erano luoghi come Hornchurch, soffocati dalla RAF e dalla USAF, l'aeronautica degli Stati Uniti, che avevano distribuito le loro zone d'atterraggio ovunque fino alla costa est, distruggendo la tranquillità delle notti delle città dormitorio degli anni Trenta e degli avamposti rurali di Langham e Bentwaters e Bradwell. La campagna era tutto un rombare di motori. Era quasi il crepuscolo. L'insegna del Green Man oscillava al vento che soffiava dal Mare del Nord. Troy spinse la porta della saletta laterale e diede un'occhiata al bar. Era affollato di militari d'aviazione, per la maggior parte canadesi e neozelandesi, con delle facce fresche, da scolari. Solo due sembrava che avessero più di trent'anni e facessero meno chiasso degli altri, ed erano il barman e uno strano personaggio dall'aria scorbutica seduto da solo a un tavolino nel vano della finestra con un bicchiere di sherry. I capelli gli si gonfiavano in piccole increspature, come un cartone ondulato e, sebbene dimostrasse solo una quarantina d'anni, le guance un po' cascanti gli davano l'aria triste di un cane da caccia. Guardò Troy, ma parve non riconoscerlo. Troy, invece, si ricordava bene di lui, sebbene non lo vedesse dal tempo in cui suo padre, durante una delle cene che era solito dare prima della guerra, aveva cercato di convincerlo, giovane giornalista, a lasciare il «Daily Express» di Lord Beaverbrook per «l'Evening Herald», di sua proprietà. Era Tom Driberg, ora membro del Parlamento, Troy non sapeva bene in rappresentanza di quale partito. Aveva rifiutato la proposta di Ale-
xej Troy ma si era concesso ancora molte cene e molti inviti a cambiare giornale. Troy non sapeva che fosse a Bradwell. Gli si avvicinò con cautela, sapendo quello che si diceva di lui e pensando che per età e forse per classe sociale avrebbe potuto non essergli gradito. «La conosco?», si sentì chiedere bruscamente. «Sì», rispose, «sono Frederick Troy, figlio di Aleksej Troy». «Sì... sì...», disse Driberg, cercando di ricordare. «Non era entrato nella RAF?». Indicò a Troy la sedia vuota dall'altra parte del tavolo e il suo viso cominciò a perdere quell'espressione di malcelato disagio. «No, nella polizia». Troy ebbe l'impressione che Driberg si ritraesse, mentre il sangue gli scorreva via dal viso. Per rassicurarlo, si affrettò ad aggiungere: «Sono venuto a cercare un vecchio collega che si è arruolato. Credevo che fosse qui». «Che cosa posso offrirle?», chiese Driberg, superata l'incertezza. «Lo sherry secco è passabile e qui tengono da parte un vino rosso solo per me, non mi sentirei di raccomandarlo, ma... è il pensiero che conta. Dio sa dove lo prendono». Troy chiese un bicchiere di acqua tonica Indian e sedette davanti a Driberg. Di fronte a sé aveva il bar e si accorse che quello che prima gli era parso il riflesso in uno specchio della sala in cui si trovava, era in realtà la sala più grande vista attraverso i distributori di birra e le luci appese al soffitto. La folla di militari della RAF era apparentemente identica dall'una e dall'altra parte, se non per la presenza, nella sala grande, di un uomo più anziano che sembrava avesse catturato l'attenzione del suo giovane uditorio, oscillante tra le risate e la derisione. Alto, spigoloso, di almeno vent'anni più vecchio di chiunque gli stesse attorno in quel momento, l'ispettore Malnick era passato da una divisa blu a un'altra pure blu ma di una sfumatura diversa e aveva trasformato i suoi baffetti ben tagliati nella parodia di un manubrio di bicicletta. Troy lo fissava affascinato tanto che Driberg si voltò a guardare l'oggetto di tanta maleducazione. Le mani ossute di Malnick planavano nell'aria come le ali di un aereo in picchiata per poi riprendere quota mentre lui raccontava una storia che, sia pure a distanza, Troy si sentiva autorizzato a ritenere inattendibile. Gli parve di cogliere la parola «schianto» filtrata attraverso il sovrapporsi di tante voci e accreditata dalla sua attenta lettura del movimento delle labbra di Malnick. Sul petto della maggior parte dei giovani che gli stavano attorno c'e-
rano le ali del pilota o l'Os che stava per «osservatori» e i nastrini colorati spiccavano sull'azzurro della divisa da combattimento, perché era in combattimento che quelle medaglie erano state guadagnate. Nessuna medaglia ornava il petto di Malnick, che faceva chiaramente parte dell'equipaggio da terra e, come appariva altrettanto chiaro, non ne era soddisfatto. Mentre, a gesti, faceva salire l'aeroplano sempre più su, incontrò lo sguardo di Troy e per un momento non riuscì a staccarsene, con una intensità attraverso la quale passavano la paura, il pentimento, il sospetto e, più semplicemente, l'imbarazzo. Le mani gli si bloccarono per un attimo nell'aria, poi le ritrasse agitandole come se si fosse scottato. Arrossì, mentre il gruppo dei giovani militari rideva fragorosamente. Qualcuno gli batté una mano sulla spalla, qualche altro ordinò al cameriere «un'altra birra per il vecchio contafrottole». Malnick continuava a guardare Troy, attraverso la fila delle luci che pendevano dal soffitto, quasi senza accorgersi del chiasso e della propria posizione attorno alla quale quel chiasso ruotava, e Troy capì come avrebbe dovuto comportarsi con l'ispettore Malnick. «La prego di scusarmi», disse a Driberg, «ma credo di aver trovato la persona che cercavo». «Non si faccia trattenere fino a domattina. La RAF mi ha buttato fuori dal Lodge, ma in questi giorni ho affittato una casetta vicino al molo. Venga a bere qualcosa prima di andare a dormire. Se vuole posso anche ospitarla per la notte». Malnick voltò le spalle al suo pubblico e si diresse verso la porta. Troy lo incontrò nel corridoio tra le due sale. «Mi dispiace averla interrotta, ispettore Malnick». «Ma mi ha interrotto lo stesso. Devo pensare che si tratti di una ragione importante?». Troy si trattenne dal reagire a quell'arroganza. Un minimo di piaggeria in circostanze in cui Malnick non ne era fatto oggetto, avrebbe potuto risultare di qualche utilità. «Avrei bisogno del suo consiglio su una questione particolare. Che cosa posso offrirle?». «Niente, grazie. È ora che ritorni al Lodge. Se è così importante, mi accompagni». Troy capì che si stavano avvicinando al Lodge prima ancora di vederlo, nel buio della sera. C'era più chiasso che al Green Man. Un ragazzino di diciannove o vent'anni arrivava correndo lungo la strada, senza pantaloni e inseguito da una mezza dozzina di coetanei che lo minacciavano con dei
cuscini. Era il gioco del "tisoffoco", Troy se lo ricordava dai tempi del collegio, un periodo cui pensava senza nostalgia. Malnick si trasse prontamente in disparte, senza interrompere una polemica che aveva avviato sull'importanza strategica dell'equipaggio da terra del controllore di volo, elementi di cui, in realtà, l'Inghilterra disponeva già da tempo in soprannumero. Troy incontrava quasi ogni giorno uomini inquadrati nella polizia o nell'esercito per i quali la guerra era, irriducibilmente, ridotta a un conflitto personale tra Hitler e loro stessi. Erano appena arrivati all'ingresso del Lodge quando gli ufficiali armati di cuscino tornarono indietro di corsa e quello senza pantaloni s'infilò nell'ingresso andando a urtare contro un altro buontempone che aveva pensato bene di scendere la scala del '700 seduto su un vassoio di latta. «E c'è di peggio», Malnick aveva finalmente cambiato argomento, «conosco anche quelli che passano la serata a gettarsi addosso vasi da notte pieni di birra da un capo all'altro del corridoio». Troy pensò che forse all'origine dell'indignazione di Malnick c'era il disappunto di non essere stato invitato a partecipare al gioco. Doveva essere un'amara esperienza, si disse, aspirare a servire il proprio paese, e riuscire a farlo solo nelle vesti improvvisate del sorvegliante di un collegio, incapace di farsi rispettare. Malnick spalancò la porta di quella che doveva essere stata la stanza per la colazione del mattino e ora gli serviva da ufficio. Su una targhetta di legno era scritto «Ufficiale addetto alla mensa», ma la parola «ufficiale» era stata crudelmente cancellata. Malnick sedette alla scrivania di un collega grande come metà della stanza, facendo ruotare leggermente la poltrona girevole, vagamente compiaciuto dell'attenzione e del rispetto che Troy, non senza sforzo, seguitava a tributargli. Aprì con un piccolo scatto il bottone automatico di uno dei taschini superiori della sua divisa da combattimento e ne tolse una macchinetta per fare le sigarette e una scatolina di latta, rotonda, ammaccata, con il tabacco. Un'altra affettazione di giovinezza. L'ultima volta che Troy l'aveva visto, aveva fumato delle Black Cat col filtro, tolte da un pacchetto. Ora distribuì il tabacco nella scanalatura della macchinetta e l'arrotolò in un foglietto bianco, come se ogni gesto dovesse servire a sottolineare che Troy era seduto davanti a lui per ascoltarlo e apprezzarlo. Ma non era così. Troy stava pensando solo a parlargli dell'identità dell'uomo che era stato ucciso. «Lei era agente di polizia, vero?», gli chiese Malnick.
«Sì. Adesso sono sergente. Forse un giorno sarò ispettore». «Un giorno», ribatté Malnick. «Ora, qual è lo scopo della sua visita?». «Mah... Non sapevo a chi altro rivolgermi se non a lei. È una questione piuttosto complicata». Malnick si animò di orgoglio non represso. Un colpetto alla minuscola leva a un lato della macchinetta e un esile, molliccio, languido esemplare odoroso di tabacco sbucò in superficie. Malnick lo accese lo stesso. «Lei sa già di che si tratta. Un uomo è stato trovato, con una ferita da arma da fuoco in viso, sulla riva del Tamigi, presso il Tower Bridge. È successo circa un anno fa». «Me l'immaginavo!», esclamò Malnick. «Non potevano sbrigarsela da soli! Dovevano coinvolgere Scotland Yard». Malnick ridacchiava, pareva addirittura che stesse per ridere apertamente. Troy non riusciva a capire quanto ci fosse di falso in quel buonumore, ma il piacere della sconfitta altrui sembrava autentico. «Ed eccola da me», concluse, soddisfatto, Malnick. «Ed eccomi da lei. Al suo vecchio ufficio mi hanno detto che l'avrei trovata qui e allora...». Troy lasciò la frase in sospeso, sperando che Malnick si fosse almeno rassicurato sulle sue intenzioni. «Bene, bene...» mormorò Malnick, sbuffando nuvole di fumo verso il soffitto. «Pensavo...»,Troy si sforzò di trovare la misura giusta tra l'adulazione e la necessaria ammissione della propria mancanza di risorse, «al suo resoconto su quell'episodio». Malnick lo guardò e il suo sorriso presuntuoso si affievolì fino a sparire del tutto. Troy capì immediatamente di aver cominciato male e corse subito ai ripari. «Tutti sappiamo cose che non mettiamo per scritto. Sensazioni, sospetti che sulla carta non avrebbero senso. Sono le intuizioni di chi è del mestiere». «Naturalmente». Malnick tacque per un momento. «C'era una componente macabra». «Macabra?». «Direi, un'impronta di sadismo». «Sadismo?». «Vede, gli hanno sparato due volte. L'hanno portato sulla riva del fiume e gli hanno sparato a una gamba. Credo solo per divertimento». Troy non capiva. Era una interpretazione morbosa dei fatti? Non contra-
stava troppo con la fredda analisi scientifica di Anna Pakenham? «Come se uno di loro volesse fargli del male. Deliberatamente». «Che cosa le fa pensare che fossero in due?». «Niente. È solo una sensazione. Di quelle che, come ha detto lei, non si mettono per scritto». «Non c'erano orme sulla sabbia?». «La marea era risalita e si era ritirata prima che lo trovassimo. Non mi stupisce che lei ne sia sconcertato. È uno dei casi più misteriosi in cui mi sia venuto a trovare. Manca un appiglio su cui andare avanti a lavorare». «Sarebbe di grande aiuto conoscere le sue reazioni di fronte all'unico elemento concreto che possediamo: il cadavere». «Avrà visto anche lei la fotografia». «C'è un'enorme differenza tra la fotografia di un cadavere e il cadavere stesso. A me servirebbe molto che lei mi dicesse come le è parso appena l'ha visto; qual è stata, cioè, la sua prima impressione». Ora che ho cominciato non mi resta che andare avanti, pensò Troy e azzardò nella forma più concisa possibile la domanda che gli premeva: «Potrebbe descrivermi il cadavere?». Malnick parve abboccare a questo semplice tranello. Posò il mozzicone umido della sua sigaretta contorta e da una montagna di raccoglitori raggruppati in ordine su uno scaffale alle sue spalle sfilò un librone. A Troy parve un album per la raccolta dei francobolli di quelli che hanno i bambini, o almeno come quello che aveva avuto lui, grosso, sconnesso, rilegato in finta pelle verde con delle foglioline color oro pallido sulla costa e sulla copertina. Malnick posò il libro sulla scrivania con la parola Album rivolta vero Troy. «Lo tengo da qualche anno. Non so quanto possa essere importante, ma quasi certamente un giorno la cronaca di un lavoro fatto onestamente da un funzionario di polizia in servizio attivo potrebbe rappresentare un contributo alla tecnica dell'indagine». Aprì la copertina. Troy non credeva ai suoi occhi. Malnick teneva i ritagli delle cronache di tutti i casi giudiziari di cui si era occupato. Che razza di presunzione. Una raccolta non solo dei suoi successi ma anche dei fallimenti, che pure, evidentemente, non riusciva a vedere come tali. Malnick seguitava a sfogliare le pagine e infine arrivò al delitto del 1939, sulla riva davanti al Tower, il caso del bambino annegato. C'era il ritaglio di un giornale locale dove l'ispettore Malnick era fotografato orgoglioso, davanti al tribunale. L'ometto sullo sfondo con le spalle all'obiettivo, Troy ne era
certo, era lui in persona. Scorsero una dopo l'altra le testimonianze dell'egotismo di Malnick. Troy si augurò di poter far scambiare il proprio sguardo incredulo per una dimostrazione di rispettosa meraviglia. Malnick passò a un grande, scolorito ritaglio di un quotidiano che lo raffigurava davanti a una banda di ladri arrestati nel 1941 per un furto di lingotti d'oro. «Eccolo qua», disse Malnick, voltando tutte insieme un po' di pagine, «gli dia un'occhiata». La foto della polizia venti per venti occupava tutta la pagina. Era il primo piano della faccia di un uomo cui avevano sparato alla guancia sinistra. Troy trattenne il respiro con una violenza che gli fece emettere un piccolo fischio dalla gola e, spaventato, cercò di mascherare la propria sorpresa. Non riusciva a credere che Malnick avesse una copia di quella fotografia. E nessun altro l'avrebbe creduto, soprattutto quelli che erano certi di aver eliminato dalla polizia e dagli archivi del tribunale qualsiasi traccia della vittima. Troy era turbato non dalla meticolosità e dall'efficienza di Malnick ma dalla propria fortuna. Malnick aveva preso alla lettera l'invito di Troy e chiacchierò ancora fornendogli una elaborata, fantasiosa valutazione del carattere della vittima mentre Troy, che aveva sperato in una descrizione fisica, non lo ascoltava più. Voltò la pagina. C'era la fotografia completa del cadavere così com'era stato trovato, la testa reclinata a sinistra, un braccio teso in fuori e una gamba ripiegata sotto l'altra. Un burattino che rappresentava la morte. «Quel tipo strano che lavora a Hendon ha cercato di dirmi che era tedesco», stava dicendo Malnick. Troy lo guardò, in silenzio. «Naturalmente era una sciocchezza. Da quando vivo sulla costa non passa giorno che non senta dire che sono sbarcati dei soldati tedeschi e non è mai vero». Troy vide che la fotografia venti per venti era fissata al foglio con quattro angolini di carta gommata. Avrebbe potuto sfilarla in un attimo e mettersela in tasca. «Bene, bene», disse, ripetendo l'espressione cara a Malnick, «sono d'accordo, ma resta la domanda: chi era?». Sfilò la fotografia dagli angoli e la guardò più da vicino, invitando anche Malnick a ragionarci ancora, sapendo bene che la fotografia in sé poteva dare vita a infinite analisi e supposizioni. «Qui non si tratta di un delitto». «Non capisco», disse Troy. «Un delitto è organizzato in un altro modo». Per Troy l'affermazione non rappresentava niente di nuovo. Pensare che
un delitto dovesse essere organizzato equivaleva a rendere un ambiguo tributo all'efficienza della guerra. «Bande», disse Malnick con un'enfasi melodrammatica. «Sto parlando di bande. Sono certo che è stato ucciso da una banda». Troy chiuse l'album e lentamente si lasciò scivolare la fotografia sulle ginocchia. «Mi serve un nome». «Il Ragno». Troy era sorpreso. Si trovava davanti a un accanito lettore di Edgar Wallace? Il Campanaro, il Guaritore, il Luccio... il Ragno? «Il Ragno?», ripeté, sperando che non sembrasse una presa in giro. «È il nome d'arte, o come lo vuol chiamare lei, di Alfred Maxwell Golding. Gli ho parlato solo il giorno prima che mi arrivasse il trasferimento». Davvero Malnick non vedeva nessun legame tra l'omicidio di cui si stava occupando e la rapidità con la quale era stato arruolato nella RAF? A tal punto aveva ingannato se stesso da credere che fosse solo una coincidenza? «Ha negato, naturalmente, ma era soddisfatto come il gatto che ha leccato la panna. Seguitava a ripetere: "Avanti poliziotto, dimostralo. Dimostralo, se ci riesci"». Si capiva subito che all'ispettore Malnick non piaceva essere chiamato poliziotto. Troy da molto tempo pensava che fosse di gran lunga l'offesa minima che ci si potesse aspettare, la definizione più comune... però, appena gli era stato possibile, si era liberato della divisa. Invece Malnick aveva indossato la sua dal primo giorno di servizio all'ultimo con un orgoglio che non ammetteva incertezze. Aveva sopportato gli scherzi dei bambini, lo scaltro disprezzo dei criminali ma il blu della divisa gli si era impresso nel cuore come una punta di diamante. L'aveva reso dritto come un manganello e quasi altrettanto flessibile... e là stava il problema. Chi o che cos'era Alfred Golding, il Ragno? Malnick giocava con l'immaginazione o vent'anni di polizia gli avevano insegnato, sulla propria pelle, a riconoscere un delinquente? «È un capo, se non sbaglio». «È il capo. Riunisce i suoi quasi tutte le sere al Cockle and Trumpet in Cary Street. È il re dei tagliaborse e dei ricettatori. Nessuno come lui riesce a far girare il danaro, ha evitato il servizio militare fin dal primo giorno, reclutando chiunque pensasse che vendere calze di nylon rubate e falsi buoni per la benzina fosse il modo migliore per servire la patria. E oggi
sono più organizzati che prima della guerra. Competere con loro è impossibile, abbiamo anche pochi uomini». Aveva parlato in modo sensato. Troy si infilò la fotografia sotto la giacca, a poca distanza dal rifugio più sicuro, sotto l'ascella. «Non ho la certezza che ammazzi chi si mette sulla sua strada, ma sono convinto che sia responsabile di due omicidi nel distretto metropolitano. A lui piace punire. Se uccide vuole che lo si sappia, che serva da esempio. E questo omicidio ha, infatti, tutte le caratteristiche di un'azione disciplinare». Troy arrischiò una domanda ovvia. «Allora perché dice che è un caso difficile? Perché non la sorprende che Scotland Yard non l'abbia risolto?». «Perché la ricerca, per chi non conosca la materia in tutta la sua estensione, è impossibile. Nel '39 tutto andava bene per voi. Ma ora, nella maggior parte dei casi, non vi basta uscire a passeggio da Scotland Yard per mettere il dito sulla piaga. Finite col farvi fottere perché, quasi sempre, è questione di conoscenza del territorio, di un buon senso che ti viene solo se ti sei consumato le suole delle scarpe a furia di andare in giro. Quell'uomo era un membro poco importante di un gruppo, di una società, come dicono loro, che è stato castigato. L'unica ragione per cui non posso dare un nome a quella faccia è che Londra, come lei sa, è sommersa da facce nuove. C'è un cartello sulla Great North Road: "Mandateci i vostri imbroglioni, mandateci i vostri ladri"». «Davvero lei non crede che fosse un tedesco?». «Chiacchiere!», disse Malnick con un'enfasi che non doveva lasciar spazio all'incertezza. Troy simulò un leggero, improvviso prurito e sistemò la fotografia nella sede adatta. Per il momento aveva trovato quello che era venuto a cercare e anche di più. E se Malnick preferiva negare i risultati della scienza forense migliore del mondo, voleva dire che era più stupido di quanto lui avesse pensato. Malnick tornò a esporre la sua tesi. «Quando hanno trovato quel poveretto sulla riva del fiume, prima di ucciderlo l'hanno castigato. C'è qualcuno tra loro che si diverte a veder soffrire». Era l'unico aspetto delle argomentazioni di Malnick che Troy giudicasse degno di attenzione. 18
Driberg, nel tostare il pane, l'aveva bruciato. Al terzo tentativo affidò il compito a Troy e decise che stappare la bottiglia del vino gli si addiceva di più. «Dunque lei è il più giovane, vero?». «Sì», rispose Troy. «Rod ha otto anni più di me e le gemelle cinque. Io sono frutto di un ripensamento. L'unico figlio nato in Inghilterra». «E ritiene di aver conosciuto suo padre meglio di quanto non l'abbiano conosciuto i suoi fratelli?». Troy non capiva a che cosa mirasse Driberg, sapeva che gli piaceva il pettegolezzo, ma non stava diventando troppo indiscreto? Non solo aveva il fiuto del giornalista e le domande oziose facevano parte del mestiere, ma veniva dalla stessa scuola, nata tra le due guerre, di variegata politica idealista che era stata una caratteristica anche della sua famiglia. Troy sapeva per certo che Driberg era stato uno di quei comunisti che portavano sempre la tessera in tasca, anche se non era mai riuscito a capire perché i comunisti non lasciassero la tessera a casa come quasi tutti lasciavano la maschera antigas. «Ho passato con lui più tempo degli altri. Mi hanno mandato a scuola tardi. Ero uno di quei bambini che sono sempre ammalati. Mi raccomandavano continuamente di coprirmi bene, anche se era estate. Ma non credo di aver conosciuto mio padre meglio di quanto non l'abbia conosciuto mio fratello Rod. Lui gli è vissuto accanto anche da adulto, per quindici anni, io no». «Sa che mi sono sempre chiesto perché avesse accettato quello squallido titolo?». Squallido? Driberg aveva forse fatto la stessa domanda ai Sitwell? A Beaverbrook? Perché squallido? Driberg adorava i titoli e i riti, dal pomposo cerimoniale di una incoronazione alla disposizione dei coltelli e delle forchette a tavola, osservata con il rigore morboso che intimidiva le classi inferiori. Troy si ricordava che, da ragazzo, aveva guardato con indifferenza la cameriera mettere le posate a tavola senza seguire un ordine particolare, sapendo bene che suo padre sarebbe stato capace, senza batter ciglio, di consumare un pranzo di sei portate con un cucchiaio di legno, ma si ricordava anche di aver scoperto, più tardi, Driberg cambiare di soppiatto la disposizione delle posate al proprio posto secondo le regole imposte dalla tradizione. «Non l'aveva accettato il titolo, l'aveva comprato da Lloyd George quando io avevo quattro o cinque anni, infatti non ne ho alcun ricordo.
Quando sono stato abbastanza grande da chiedere, non l'ho fatto perché non m'importava. Dopotutto l'eredità del titolo non riguardava me, ma Rod. Lui sì ne aveva parlato qualche volta a mio padre e la risposta era stata sempre la stessa. Per uno straniero che volesse essere accolto nella società londinese era indispensabile un piccolo riconoscimento. Veramente, se devo essere sincero, mi sembra che non dicesse "un riconoscimento" ma "qualcosa da mettere in vetrina". Diversamente non gli sarebbe stato concesso di superare nessuna delle barriere tipicamente inglesi, mentre nessuno avrebbe escluso un aristocratico solo per il suo accento straniero. Senza un titolo, mio padre sarebbe stato assimilato ai ricchi ebrei di Westminster, nobilitati dalla ricchezza e disprezzati per lo stesso motivo, o così diceva lui. Il titolo gli serviva, e l'unico titolo che valesse la pena di avere era il titolo di baronetto. Lo ha avuto e il risultato è stato che nessuno pensa che abbia mai aspirato a entrare nella Camera dei Lord, né è stato ritenuto un arrampicatore sociale come un birraio nominato cavaliere. È, è stato, Sir Aleksej Troy, baronetto, editore, proprietario di un giornale, inglese e straniero... e nessuno ha avuto niente da ridire. Il potere ha le spalle coperte dal manto della rispettabilità. Ma perché me l'ha chiesto?». «Perché ero curioso di conoscere la parte del potere in questo gioco. Qualunque sia stato il gioco di suo padre». Troy ebbe il buon senso di non sentirsi offeso. Aveva assistito di prima mano a quel gioco in varie occasioni. Driberg aveva trovato una definizione acuta che, pensò Troy, se si fosse conosciuta la verità, sarebbe servita a descrivere suo padre meglio di tanti aggettivi che gli erano stati attribuiti, quali «saturnino» o «insondabile». Il vecchio Aleksej non era entrato nel gioco della società inglese, ma aveva giocato la sua partita con la società inglese. Troy l'aveva visto intrattenere Sir Oswald Mosley, intollerabilmente brillante, e cioè brillante per definizione dei suoi pari, intollerabile perché lo sapeva e ne abusava; l'ampolloso, chiassoso, poco affascinante Bob Boothby, fresco del suo incontro con Hitler e il timido, testardo Harold Macmillan, genero del duca di Devonshire, il quale aveva cercato di allontanarlo dal Partito Conservatore in piena Depressione, quando era apparso ovvio che Macmillan non avrebbe seguito la linea del governo che accettava la povertà come un male inevitabile che andava oltre la possibilità di un intervento. Alex Troy si era mostrato favorevole a un intervento, ma i risultati erano stati scarsi. Boothby e Macmillan non erano più tornati a pranzo da lui e, per quanto ne sapeva Troy, Mosley non era mai stato invitato. Driberg, al contrario, sì. La famiglia di Troy era una di quelle
sulle quali ci si poteva basare per incontrare un vasto settore della vita politica inglese di segni opposti, anche se mancavano i Boothby e i Mosley. Dove altro avrebbe potuto trovarsi seduto tra il fervore di A.J. Cook, leader dei minatori e la banalità di Chips Channon, membro del parlamento per il partito conservatore e socialmente inafferrabile? Dove altro avrebbe potuto apprezzare l'apparente incoerenza di un proprietario di giornale che aveva condannato Stalin per il patto nazi-sovietico e poi si era affannato a suggerire in un editoriale scritto da lui stesso che tutti gli uomini giusti dovevano aspettare tempi migliori, proprio nel momento in cui i giusti bruciavano le loro tessere di appartenenza al partito comunista e i filocomunisti facevano di tutto per staccarsi da un'organizzazione cui non erano mai appartenuti? Ma neanche Aleksej Troy era mai stato iscritto al partito comunista, era stato, in patria, una sorta di seguace di Plechanov, forse l'unico, e aveva, in quel caso, seguito una personale inclinazione. Aveva visto le vendite dell'«Evening Herald» calare del venti per cento dopo il suo editoriale, ma era andato avanti a protestare il proprio parere, a scrivere lettere di dissenso fino alla settimana prima dell'invasione della Russia quando, in un altro articolo di fondo, aveva detto: «È tempo che ci mettiamo al fianco del nostro nuovo alleato, l'Unione Sovietica». La storia gli aveva dato ragione. Anche troppo presto. Il gioco continuava. L'ultimo anno della sua vita era stato ancora improntato a una saturnina stravaganza. Uno straniero titolato, inafferrabile come un elfo. Intorno a lui era sempre viva la curiosità di sapere che cosa avrebbe detto dopo. Per essere un simpatizzante andava anche troppo oltre, e sempre più pendeva dalla stessa parte. Il baronetto, era solito dire scherzando, aspettava i tempi migliori. «Mi chiedevo», stava dicendo Driberg, «che cosa avesse pensato Sir Aleksej della sua scelta di fare il poliziotto. Per tutta la vita aveva punzecchiato il colosso dell'ordine costituito come un moscerino sulla schiena di un dinosauro e lei, invece, ha scelto la legge e, con la legge, l'ordine che lui disprezzava. Ne sarà stato addolorato profondamente.». «Perché lo pensa?». «Lo penso», rispose Driberg, voltandosi per dargli il colpo di grazia, «perché non me ne ha mai parlato». Forse aveva ragione, si disse Troy. Le parole uscivano con facilità dalle labbra di suo padre. Chi parlava spesso come un marinaio irlandese su una barca in mezzo alle onde non poteva avere qualche volta un buon motivo per star zitto? Il vecchio Troy non aveva mai risposto, per esempio, alle domande sull'origine della sua fortuna economica. A che cosa sarebbe ser-
vito dire la verità e cioè che aveva rubato più di un milione di sterline in gioielli nel 1905? Che importanza poteva avere? Meno della puntura di un moscerino. «E mi chiedevo», proseguì Driberg, «se anche questo non facesse parte del gioco». Troy non rispose. Guardò la fetta di pane sulla punta del forchettone prendere fuoco e cadere nel camino, sentì Driberg che imprecava e il fiotto generoso del vino rosso che andava a riempire il bicchiere. 19 Da solo, l'indomani, in ufficio, Troy appoggiò contro l'apparecchio del telefono la fotografia che aveva preso a Malnick (neanche col pensiero avrebbe usato il verbo «rubare») e la guardò, mentre l'ultima luce del pomeriggio scendeva obliqua da ovest a cogliere il viso del morto e scintillava, debole e ambigua, sull'ottone del calamaio. Una giornata per riflettere, metà della quale passata a riportare Driberg a Londra in un silenzio caldo e gradevole, gli aveva lasciato nella mente uno schema solo accennato. Era sabato, ed entrando a Scotland Yard aveva trovato una particolare tranquillità. Wildeve non c'era e Onions, quasi certamente, era andato ad Acton a coltivare il suo pezzetto di terreno vicino a una ferrovia abbandonata. Troy non sapeva chi fossero quei tedeschi, ma pensava che ci fosse un legame tra i due delitti e che la verità fosse nascosta appena sotto la superficie dei dati di cui lui disponeva. Per un po' gli fu di aiuto considerare i due cadaveri come uno solo, una creatura a due teste uscita dal castello del barone Frankenstein. Squillò il telefono. «Penso», disse, con un tono di voce indolente, Kolankiewicz. «Ho sentito». «Penso ai pantaloni». «Ho sentito anche questo». «A come sono belli i pantaloni». «Forma e funzione in armonia perfetta. Due buchi esattamente in corrispondenza con le gambe». «Ma la bellezza, la bellezza vera sta nei risvolti, Freddie. Nella loro capacità di catturare, di immagazzinare per rivelare poi, a un attento scrutinio, i particolari più impensabili fino allora trascurati». «Che cos'ha trovato?». «Tu che cosa avresti voluto che trovassi?».
Troy guardò gli appunti che aveva scarabocchiato sul retro di una busta. Le parti disparate di un intero che esisteva solo nelle sue congetture. «Non so, ma penso al legame che potrebbe esserci tra tutti i frammenti di cui disponiamo. Penso soprattutto a quanto hanno rivelato gli esami scientifici. Frammenti di una lega di metalli incastrati nel tessuto di una manica, così lei mi ha detto. Bruciature da acido, anche questo mi ha detto. E mi chiedo che cosa manca ancora, quale elemento la cui presenza dovrebbe essere ovvia in questi tempi di morte e di gloria». «E la risposta è?...». Troy s'interruppe, temendo che la parola magica, solo se imprudentemente pronunciata, avrebbe provocato il diniego divino. «La cordite», disse infine. «Lei ha trovato della cordite nel risvolto del defunto Herr Pantaloni». «Mi dispiace averci messo tanto tempo. Quando, come capita a me, si vedono tanti morti si finisce col trasformarli in un unico, gigantesco cadavere. La carcassa universale. Mi ci ha fatto pensare, solo un'ora fa, un odore, qualcosa che arrivava nell'aria dal mucchio di concime nel terreno dei vicini, ed eccolo lì il ricordo della cordite, delicatamente coperto dal nero puzzo del fango del Tamigi dove quel poveretto era stato trovato. Dopo dodici mesi, vivido all'odorato come la petite madeleine sulla lingua. Sai cosa penso che potrebbe essere quel morto? Un operaio di una fabbrica di munizioni. Acido, metallo, cordite. Se li metti insieme fanno bum». «Un operaio di una fabbrica di munizioni, tedesco? Due operai di una fabbrica di munizioni, tedeschi?». «D'accordo, d'accordo. Ci vuole un po' d'immaginazione. Mi fido di te». «Fino a che punto lei ha cercato sulla manica di Herr Polsino i frammenti di metallo?». «Per tutta la lunghezza del braccio». «E al disopra dei primi cinque centimetri, ha trovato niente?». «No, te l'ho già detto». «E di Herr Risvolto che cosa mi dice?». «È una questione da rivedere in base alla cordite. Che le tracce ci fossero è certo. Il mio naso dice sempre la verità. Sono il Proust della sporcizia. L'odore di un fegato in via di decomposizione trova sempre modo di raggiungermi attraverso gli anni. Mi rende impossibile mangiare in un ristorante inglese». «Bene. Atteniamoci a questo, per ora. Ma un operaio di una fabbrica di munizioni porta una tuta, non si mette la sua giacca migliore per andare a
lavorare. Lei che cosa si mette, di solito, quando lavora?». «Lo sai benissimo», Kolankiewicz, irritato, si era messo a parlare con un forte accento polacco, «mi hai visto centinaia di volte. Cristo, che cosa vuoi che mi metta, un camice!». «Dal quale sporgono cinque centimetri di polso. È una legge cui non si sfugge. La fetta di pane tostato cade sul tappeto sempre con la parte imburrata. I camici da laboratorio non hanno mai la misura giusta. Io credo che abbiamo a che fare con un membro della sua confraternita, dottor Kolankiewicz. Herr Polsino, come probabilmente Herr Risvolto era un ricercatore, un tecnico di laboratorio. Più presto lei riesce ad analizzare quei frammenti di metallo e meglio è». «L'ho già fatto, ma credimi, quella lega è qualcosa che non ho mai visto prima». «Mi sta dicendo che...», Troy non riuscì a trovare la parola che cercava, «... è nuova...?». «Nuova? Troy, quella è una lega che viene da un altro pianeta! Per quanto ne so io è arrivata dritta dalla nave spaziale di Flash Gordon!». E, all'improvviso, Troy capì esattamente che cosa avevano scoperto, parlando tra loro in quel momento, e quali complicate e pericolose ramificazioni avesse in sé quella scoperta. 20 Lo zio di Troy, Nikolaj, lo aveva sempre fatto pensare a un personaggio di Edward Lear, a un soggetto per la strofetta di un limerick. E poiché non ne aveva trovato nessuno già pronto, a dieci anni ne aveva inventato uno, «C'era un uomo gentile e carino con un viso piccino piccino», ma non era andato più avanti di così. Il viso di Nikolaj non era tanto piccolo, ma sembrava che lo fosse perché era nascosto da una massa di capelli, da una barba molto folta e spesso anche da un paio di occhiali. Nell'insieme, dire che aveva un «viso piccino» non era sbagliato. Era alto meno di un metro e sessanta e per arringare la folla la domenica mattina allo Speaker's Corner non gli bastava salire su una cassa di sapone, gliene servivano due. Troy sapeva che stava anche sulla punta dei piedi per guadagnare quei pochi centimetri in più che gli permettevano di sporgersi oltre il leggio improvvisato e gesticolare verso l'uditorio. Lo aveva sorpreso, durante un discorso che era quasi un'arringa, nella celebre posa di Lenin, il braccio sinistro che reggeva un fascio di fogli, il
destro teso verso la folla in un ampio gesto attirante che implicava una generosa voglia di fratellanza, un bisogno di stabilire una comunità di intenti alla quale nessuno sfuggiva, nessuno o pochi, perché la mano chiusa lasciava libero l'indice, come se le parole che nessuno poteva sentire e l'indice puntato, proprio a quei pochi si riferissero. «... Ed è all'Inghilterra degli anni postbellici cui ora dobbiamo guardare. È giunto il momento di affrontare questioni importanti...». «Di cavoli e regnanti», gridò dalla folla un buontempone sensibile alla rima. «Di cavoli marci ne ho mangiati tanti negli ultimi cinque anni», replicò un altro, più arguto. Era impossibile vedere se sotto i riccioli grigi che gli circondavano il viso, Nikolaj Rodyonovich sorridesse o no. «Dopo l'ultima guerra noi avevamo avuto delle promesse...». «Noi? Chi?», gridò una voce tra la folla. «Tu sei inglese come un piatto di crauti!». «Io sono russo, e lei lo sa bene, signor Robinson, perché ha già cercato di polemizzare con me, nell'estate del '38, e in termini così ingiuriosi che un rappresentante della polizia londinese si è sentito in dovere di imporle di controllarsi». Il poliziotto in questione era lui, Troy. Fuori servizio, ma in divisa. C'erano stati troppi incidenti allo Speaker's Corner in quell'estate di generico antisemitismo e violenze antiarabe. Era stata una vaga ondata di xenofobia, inconsueta in Inghilterra, musulmani esclusi. Senza dire niente a suo padre, Troy si era impegnato con se stesso a offrire a Nicolaj, in qualche misura, la sua protezione. Era strano, pensava, che riuscisse sempre ad avere un buon numero di ascoltatori come se avesse un proprio seguito personale, un anno dopo l'altro, e si ricordava che il signor Robinson, un uomo rissoso con un incrollabile odio per tutti gli stranieri, aveva avuto quel che si meritava per aver gridato a Nikolaj «comunista, trombone, giudeo, rottinculo tornatene a casa tua». Nikolaj non aveva nessuna intenzione di tornarsene a casa. Nel 1919, quando il padre di Troy, di dieci anni circa più vecchio di Nikolaj, aveva presentato la domanda di naturalizzazione per la sua famiglia, lo aveva fatto per la moglie, per le figlie e per se stesso (il figlio minore non ne aveva bisogno, era nato in Inghilterra), ma con il primogenito e con il proprio fratello si era limitato a suggerire che facessero altrettanto perché riteneva che dovessero decidere da soli. Non aveva insistito. Per questo Rod, nato a Vienna mentre i suoi genitori attraversavano
l'Europa imperiale a passo di lumaca, si era ritrovato, all'inizio della guerra, cittadino austriaco, schedato come straniero, e a Nikolaj era stato impossibile affermare la propria fedeltà alla corona perché per quasi cinque anni a nessuno era stata concessa la naturalizzazione. Eppure lui riteneva di essere inglese. L'Inghilterra era la sua casa, e l'amava con tutto il cuore. Troy non era sicuro che questo sentimento potesse essere comunicato alla folla, ma per quale altra ragione il vecchio Nikolaj, ogni settimana, dall'alto di quelle due cassette, parlava dell'Inghilterra, se non perché quello era il paese che gli era caro? «A noi», diceva con enfasi, come se volesse sottolinearlo tre volte, «erano state promesse case fatte per degli eroi. Una promessa che sapevamo sarebbe svanita entro pochi anni. Ora ci dicono che è diverso. Questa è stata una guerra totale, che ha richiesto un livello di coinvolgimento così esteso da costringere il governo a informarci, a istruirci in una misura pari quasi alla delusione che ci ha inflitto. E al culmine di questa nuova basilare consapevolezza, secondo la quale se non saremo uniti certamente affogheremo uniti, eccoli arrivare a concepire una nozione che li lascia sbalorditi e che immaginano dovrebbe lasciare sbalorditi anche noi. Sir William Beveridge ha parlato di un sistema, di una organizzazione delle nostre risorse umane che dovrebbe offrirci assistenza, protezione e istruzione, dalla culla alla tomba. Una organizzazione che va con il nome di Previdenza Sociale e dovrebbe preoccuparsi del benessere della nazione. A chi dobbiamo credere? Dobbiamo credere che Churchill permetterà che ciò che egli ritiene un accordo ladro modifichi la vita di una nazione, che venga eretto a dignità di legge? Dobbiamo fidarci di chi ha represso la ribellione della città di Tonypandy?». Troy avvertì un mormorio tra la folla. Churchill, un paio di anni prima, era sopravvissuto a un caotico voto di sfiducia del parlamento e da allora era stato virtualmente inattaccabile. Era sopravvissuto a fallimenti come lo sbarco a Dieppe e si era opposto alle pressioni che gli venivano fatte in patria e da parte degli Alleati per l'apertura di un secondo fronte. Ma, per le masse aveva il carisma della regalità e si comportava in conseguenza. Un attacco a Churchill non poteva essere bene accetto. Dove avrebbero portato le argomentazioni di Nikolaj? «Dobbiamo fidarci di un uomo che si è messo contro i lavoratori nel 1926, in un momento in cui i minatori lottavano per un salario che consentisse un livello di vita accettabile contro i tagli imposti dalla proprietà?». Il mormorio s'infittì. Molti giravano la testa per scambiare qualche
commento con il vicino. Un uomo al fianco di Troy disse tranquillamente: «È matto a parlar male di Winnie in un momento come questo». Troy si guardò intorno per controllare se ci fossero divise in vista. Lui era in borghese e se fosse dovuto intervenire lo avrebbero messo in minoranza. In prima fila uno di quelli che si facevano un puntiglio di intervenire con qualche argomento imbarazzante, approfittò dell'interrogativo di Nikolaj, cui era seguita una pausa. «Che cosa ci vai dicendo? Di votare laburista? Non ho bisogno che me lo consigli nessuno. È l'occasione che mi manca. È dal 1935 che non fanno votare. E non solo me, anche voi! Sono dieci anni che abbiamo questo governo di merda!». «Caro amico», riprese Nikolaj, «io mi rivolgo a te da questo podio fin dal 1928. In tutto questo tempo ti ho mai fatto pressioni perché votassi per l'uno o l'altro partito? Più d'una volta il signor Robinson mi ha chiamato comunista. Ti ho mai detto di votare comunista o di iscriverti al partito comunista? Siamo stati testimoni, in questi ultimi cinque anni, delle trasformazioni più radicali che la società inglese abbia mai subito. Ci siamo fatti animo, è naturale, altrimenti Hitler col suo passo dell'oca oggi avrebbe marciato fino al palazzo del governo. Abbiamo aderito a una forma più intensa di cooperazione e, con essa, a una nuova forma di democrazia. Anche il re ha il suo libretto di tagliandi per i beni razionati!». Troy pensò che questa era una frivolezza. Quando il palazzo reale era stato colpito durante il bombardamento, la regina Elisabetta aveva detto, e la frase era rimasta famosa, che finalmente avrebbe potuto guardare di nuovo l'East End negli occhi. Una parità fittizia. Solo quando Buckingham Palace fosse stato raso al suolo, la famiglia reale dispersa, le giovani principesse caricate su un treno affollato diretto nella zona più buia del Derbyshire con un involto di carta marrone invece della valigia e un cartellino col nome appeso al collo, Troy avrebbe ammesso che esisteva l'uguaglianza. Non si fidava di questa nuova definizione di democrazia. Ma, a differenza di suo zio, non poteva dire con sicurezza di amare il suo paese. «Che cosa porterà la fine della guerra?». Un'altra voce si levò dalla folla. «Non è finita! Non si sa quando finirà!». «Porterà un rafforzarsi della collaborazione il cui valore abbiamo appena scoperto o la getterà al vento per farci tornare alla chiusa semplicità di un sistema bipartitico che lascia inalterate le fondamentali ingiustizie sociali? Quali risultati potrà raggiungere nelle mani dei laburisti, per non parlare del partito conservatore, la tesi di Beveridge se non un rabberciamento di
leggi economiche basate sull'ingiustizia? Con quanta rapidità saremo portati a dimenticare che abbiamo lavorato uniti e siamo sopravvissuti uniti? Che abbiamo riconosciuto per la prima volta dal basso, in nome del popolo, la necessità dell'aiuto reciproco?». Troy capì finalmente che Nikolaj stava seguendo una linea nel suo discorso, capì che quella digressione portava all'argomento che uniformava tutti i suoi interventi pubblici degli ultimi trent'anni, la conferma dell'anarchismo della vecchia Russia, del trasferimento a livello di base di tutto ciò che poteva essere fatto funzionare a quel livello, la fabbrica come villaggio, il campo come officina, la comunità come fondamento di un nonordine sociale, la fine della società gerarchica, secondo Krapotkin, senza Tolstoj e senza troppo odore di bolscevismo. Aveva già sentito tutto questo. Quando ebbe la certezza che Nikolaj l'avesse visto si allontanò, andò a sedersi su una panchina in fondo al parco e si mise a leggere il «Manchester Guardian» del giorno prima, chiedendosi se avrebbe trovato qualche notizia sfuggita alla censura o se tutto quello che gli inglesi dovevano sapere in una bella mattinata di primavera era che parlare imprudentemente poteva costare vite umane e che una tavoletta di Mars avrebbe a suo modo contribuito allo sforzo bellico soprattutto se tagliata a fettine come il Battenberg. Un quarto d'ora dopo, Nikolaj aveva concluso il suo discorso e l'uditorio, ridotto da quaranta o cinquanta persone a una dozzina di fedeli seguaci (se così si potevano definire visto che erano rimasti solo per disturbare) si stava disperdendo. Nikolaj non era molto lontano. Si passava le dita tra la barba come per districarla. Vedendolo così, nel suo lungo cappotto con il colletto di astrakan, il cappello floscio spinto indietro sulla fronte, si capiva perché venisse spesso scambiato polemicamente per un ebreo. Lui reagiva ammantandosi di ebraismo così come se gli avessero detto che era un assiro (certo la minore tra le minoranze) sarebbe riuscito a trovare un giro di frase per confermarlo e si sarebbe lanciato in una identificazione e difesa totali. Forse il nocciolo dell'anarchismo stava nel rifiuto di essere catalogato, nella propensione ad assumere qualsiasi identità. «Ehi, ragazzo, ho una sorpresa!», gridò Nikolaj, avvicinandosi. Troy restò stupito dal contrasto tra il tono americano della frase e la disattenzione con la quale Nikolaj si era lasciato andare a ripetere l'accento della lingua d'origine. «Perché non mi chiedi addirittura "Che cosa ti ha portato da queste parti, nipote?". È più americano».
«Ah... Devo mostrarmi sorpreso di vederti? Sei un poliziotto e i poliziotti stanno dappertutto. Ora basta chiacchiere e vieni a vedere». Spesso Nikolaj gli ricordava Kolankiewicz. Se la Polonia non era un paese ma uno stato d'animo, la Russia più di un paese, più di uno stato d'animo, era una forma di isterismo del cuore. Nikolaj lo guidò di buon passo fino all'inizio di Park Lane. Là, appena fuori sulla strada c'era una grossa tela cerata che nascondeva qualcosa agli occhi di Dio. «Voilà!», gridò Nikolaj. Sollevò un angolo della tela cerata e la tirò via. «Ecce moto!». Qualunque cosa fosse era enorme. Una motocicletta con il sidecar, tutto su scala colossale. «Che cos'è?», chiese Troy. «È la poesia, è la gloria, è un cielo incastonato in uno splendore argenteo, le ruote dell'uomo e le ali degli angeli. In breve è una Matchless Modello X 1000cc VTwin del 1936». «Davvero?». «Ero andato a trovare tua madre, la settimana scorsa, a proposito dice che non ti fai mai vedere, e da qualche parte aveva trenta litri di benzina. Era un bel pomeriggio, così abbiamo preso la vecchia Crossley 6, sai il modello due-litri 1930, l'abbiamo tirata giù dai blocchi perché era ferma da tanto tempo e siamo andati a fare una di quelle che tua madre si ostina a chiamare "corsettine in campagna". Lo Hertfordshire è spesso bellissimo di questa stagione. Siamo passati davanti a una fila di villette a schiera e abbiamo visto una ragazza in divisa da ausiliaria del servizio territoriale con una distesa di roba da vendere. Stivali di cuoio, una serie completa di attrezzi per la pesca, uno o due fucili da caccia, un grammofono e, guarda caso, una moto con il sidecar Matchless Modello X. Le ho chiesto come mai la vendeva e mi ha risposto che mentre lei era partita per portare il suo contributo alla patria in guerra, suo marito si era consolato tra le braccia di un'altra ausiliaria di stanza a Londra e lei ora si vendicava così. Ah, poesia della vendetta! Sono stato costretto ad ammirare l'immaginazione di quella ragazza. Mentre lui era andato a riunire in covoni il raccolto del padrone lei vendeva tutta la sua roba al primo che passava per strada e al diavolo anche il marito. Ho comprato la moto e uno dei due fucili da caccia. Gli stivali purtroppo erano troppo grandi e quanto alla pesca sono anni che ho smesso di andarci». «Ma riesci a farla partire? Qui ci vuole qualcuno che le dia un calcio come un asino arrabbiato». «Per far partire una moto messa bene a punto basta farle il solletico e,
visto che non ho la possibilità di comprare la benzina a buon mercato, ho convertito il motore per farlo girare con l'alcol, che dopotutto posso procurarmi da solo. Adesso basta il soffio di un angelo a farla partire, la coccolina!». Nikolaj afferrò il manubrio e sollevò un piede da terra. Troy gli batté una mano sul braccio. «Un momento, che cosa fai?». «Perché?». «C'è l'altra tela cerata, quella avvolta intorno al sidecar». «Quella è la sorpresa». «Credevo che la sorpresa fosse la moto». «Sì, ma non è tutto». Troy prese l'iniziativa e tolse la copertura dal sidecar. Incastrata con la punta in giù c'era una bomba. Le pinne della coda puntavano arditamente contro il cielo dal quale era caduta. «È disinnescata». Nikolaj sorrise a Troy per rassicurarlo. «Che significa: è disinnescata? Che differenza c'è tra una bomba disinnescata e una bomba inesplosa? Solo un pazzo attraverserebbe Londra su un affare del genere. Potresti ammazzarti insieme ad altre duecento persone!». «Calma. Credimi, è disinnescata. È uno dei nuovi pezzi da centocinquanta che fanno in Germania. Una bomba relativamente piccola, ma con effetti devastanti. Erano settimane che cercavamo di averne una intatta. Esplodono come fossero da cinquecento. Ora abbiamo il sospetto che i tedeschi stiano lavorando a qualcosa di assolutamente nuovo». Quando Nikolaj parlava al plurale, alludeva a un gruppo di lavoro dell'Imperial College dove, con il professor Troitskij, conduceva, presso la sezione di fisica applicata, una ricerca su qualsiasi cosa capace di volare o esplodere. «Questa l'ho trovata al Royal Army Ordinance Corps stamattina presto. Era caduta nel cimitero di Islington ieri notte. Credimi, è sicura come le mura di casa». Era un paragone poco indovinato e non servì a tranquillizzare Troy. Troppe case a Islington, in quei giorni, non erano più che mucchi di pietrisco e polvere. «Guarda», disse il vecchio Nikolaj, Si tolse dalla tasca del panciotto una pipa ricurva e batté il fornello sul copertone della moto. «Io qui non salgo finché c'è una bomba inesplosa nel sidecar. Se scoppia
dovranno seppellirci in un setaccio». A metà di Park Lane, Troy fu costretto a riconoscere che Nikolaj aveva messo bene a punto il motore. Stava aggrappato, perché aveva cara la pelle, ed ebbe la certezza, mentre il vecchio zio gli mostrava i pregi della sua motocicletta, di sentire il ticchettio della bomba oltre al suono leggero e uniforme del motore. Girarono attorno ad Apsley House a più di ottanta all'ora e attraversarono velocissimi il Knightsbridge in direzione di Kensington Gore e dell'Imperial College, seminascosto dietro l'Albert Hall. Voltando appena la testa, con il cappello ora ben calcato sulla fronte, Nikolaj disse a Troy che su un rettilineo era sicuro di riuscire a toccare i centocinquanta. 21 Nikolaj sgombrò una sedia da un fascio di giornali, riviste e da un groviglio di stracci unti d'olio che aveva usato per pulire la motocicletta e invitò Troy a sedersi. Gettò il cappello sul piolo dell'attaccapanni vicino alla porta e si guardò allo specchio dietro la scrivania lisciandosi la barba, come aveva fatto al parco, e brontolando contro la mancanza di barbieri in tempo di guerra, tutti impegnati a rasare nuche e basette al campo militare di Aldershot. Infine, senza abbandonare la propria immagine nello specchio, chiese a Troy per quale motivo se ne andava in giro di domenica mattina. Troy aveva riflettuto a lungo sul modo migliore di affrontare l'argomento. S'infilò una mano nella tasca interna del soprabito e ne tolse la fotografia in bianco e nero venti per venti di Herr Risvolto. «Il motivo è questo», disse. Nikolaj si scrollò di dosso il soprabito, lasciandolo cadere per terra. Prese la fotografia dalle mani di Troy, sedette alla scrivania, senza appoggiare la schiena alla sedia, e accese la lampada da lettura schermata di verde. Dal suo posto Troy riusciva a distinguere il suo viso in piena luce. Lo guardò frugare tra la confusione di quello che avrebbe dovuto essere il piano della scrivania, mettersi gli occhiali con le lenti a mezzaluna, sistemarseli meglio sul naso e osservare la fotografia, socchiudendo gli occhi. Vide allora che negli occhi gli si formavano due lacrime che gli scendevano lentamente lungo le guance. Non era questo che si era aspettato. Níkolaj seguitò a fissare la fotografia più a lungo di quanto Troy riuscisse a sopportare. Stava per rompere il silenzio con una frase qualsiasi, quando lui lo guardò. «Quando è successo?», chiese.
«Quasi un anno fa... Non credevo che lo conoscessi...». «Non è per questo che sei venuto?». Nikolaj finalmente posò la fotografia. Senza imbarazzo si asciugò gli occhi e tornò a guardare Troy, perché gli rispondesse. «Sono venuto perché ho capito che doveva essere uno scienziato, un ricercatore. Presumibilmente proprio nella tua materia. Non so chi fosse, non immaginavo che lo conoscessi, altrimenti non avrei...». «No, no, non scusarti. Era più che ragionevole pensare che conoscessi la maggior parte dei ricercatori che lavorano in questo settore. È un ambiente piccolo. O almeno lo era prima della guerra». Nikolaj si tolse gli occhiali, si appoggiò allo schienale della sedia e si asciugò ancora l'occhio destro con il dorso della mano. «Quando avevi circa diciotto anni, nell'estate del '33, l'anno in cui tuo padre voleva che andassi a Oxford e tu non volevi, io lavoravo ancora con Handley Page, in una sorta di competizione. Avevo partecipato all'ultimo convegno dell'Università di Monaco, dico l'ultimo perché Hitler non avrebbe più permesso che uno scienziato tedesco scambiasse i risultati delle proprie ricerche con un inglese; per quanto, veramente, anche gli inglesi mi avessero fatto firmare l'Officiai Secrets Act prima di partire. C'erano delle belle teste, come dite voi, in tutta Europa, gente della mia età, ma c'erano anche molti giovani, ben più brillanti, laureati da poco. In quel periodo io ero interessato, in particolare, allo sviluppo delle leghe leggere. Avevo presentato una relazione su questo argomento, anche se dopo che l'aveva rivista Handley Page era rimasto ben poco che un ragazzino di dodici anni non potesse leggere in un libro di scuola. Io ho trovato spesso... come dire... corroborante... rinfrescante... mi rendo conto che uso delle espressioni adatte a una bibita... scoprire nei giovani l'entusiasmo per le idee e gli studi cui ho dedicato tutta la mia vita... forse anche perché non ho figli. Mi ero scoperto a cinquant'anni a rimettere in discussione il mio lavoro. Alcuni di quei giovani erano molto brillanti, ma nessuno più di lui». Accennò alla fotografia. «Non mi hai detto chi è», insisté Troy con gentilezza. «Ah, sì... era Gregor von Ranke. Nato a Hesse. Molto, molto intelligente. Poco tedesco. O almeno poco tedesco per noi che finiamo sempre col pensare ai tedeschi come se fossero prussiani. Citava i poeti... mi parlava di Goethe con grande vivezza. Abbiamo passato delle serate in cui lui leggeva a voce alta in tedesco e poi traduceva per me... Io, in cambio, gli leggevo Blake, la storia di Orc... l'angelo scese fiammeggiante... In seguito ci
siamo scritti per anni. Ho sprecato pagine e pagine per convincerlo a lasciare la Germania prima che fosse troppo tardi. Era una persona sensibile. Vedeva il nazismo come una maledizione divina. Non ho mai capito perché non sia venuto via dalla Germania». «Non sai che cosa è stato di lui?». «Posso solo fare delle supposizioni, ma se Speer non lo avesse reclutato per il progetto Todt dovrei credere che i tedeschi sono molto più stupidi di quanto non pensassi». «Il progetto Todt?». «L'organizzazione, l'organizzazione Todt. Franz Todt era il responsabile delle risorse belliche. Era il gestore amministrativo della guerra. È morto in un incidente aereo nel '42. Da allora è subentrato Speer. L'organizzazione si occupa di tutto, dai materiali grezzi agli scienziati o come li vuoi chiamare. Sotto molti aspetti la Germania è disorganizzata. Questa è la ragione per cui vinceremo questa guerra. Da noi il coinvolgimento è totale. Tutta la nostra economia ne è condizionata. In Germania non è così. Speer è un raro esempio della efficienza fascista vantata da Hitler. Riesce a ottenere qualcosa di più che fare arrivare in orario i treni». Nikolaj si tolse gli occhiali e li pulì, stemperando in quel gesto un momento di commozione. «Gregor von Ranke era un uomo molto sensibile... non ne ho mai conosciuto un altro come lui. Perché, Frederick, perché gli hanno fatto una cosa simile? Come hai avuto dalla Germania questa fotografia?». «Non è stata fatta in Germania. Lui è stato trovato sulla riva del fiume vicino al Tower». Nikolaj inarcò le sue sopracciglia cespugliose. «Allora si era deciso a venire». S'interruppe. «Ma se l'hanno ucciso qui... chi...». «È quello che mi chiedo. Che cosa era venuto a fare? Chi l'ha ucciso? Perché? Non credo che von Ranke abbia passato a Londra questi anni di guerra». «Può darsi, ma a me piace pensare che, se fosse venuto a Londra, si sarebbe messo in contatto con me. Sono quasi certo di poter dire che l'avrebbe fatto. E soprattutto sarebbe stato internato nel 1940 e qualcuno, nei corridoi del palazzo del governo, avrebbe capito chi era e l'avrei saputo anch'io. Sono andato a trovare una dozzina e più di uomini geniali rinchiusi all'isola di Man. C'era un poveretto che lavorava per noi nei sottomarini... si è ucciso appena gli hanno detto che sarebbe stato internato. Io credo che avremmo messo in galera anche Einstein. Gregor avrebbe potuto parteci-
pare in modo molto concreto allo sforzo bellico. Anche per conto proprio, senza il resto del gruppo». «Quale gruppo?». Nikolaj si mise a frugare nel cassetto centrale della scrivania. «L'avevo messa qui...», disse, «era una fotografia fatta quell'estate, a Monaco... Ah, l'ho trovata». Troy girò dietro la scrivania e guardò, dietro le spalle di suo zio, la fotografia giallognola che lui teneva sollevata sotto la luce della lampada, facendo scorrere un dito lungo la fila di persone, venti o poco più, cui cercava di dare un nome. «Vedi, questo è Gregor. E questo sono io, qua in fondo. Lui lavorava con altri due, uno era tedesco, credo di Monaco... Bertoldi... accidenti... lui li chiamava solo per nome nelle lettere... parlava sempre di loro ma senza indicare il cognome, magari scriveva le iniziali... Bertoldi B... ah sì... Brand, Bertoldi Brand. Il secondo lo conoscevo meno bene. Un polacco. È qui, all'altro capo della fila. Ho il suo nome sulla punta della lingua ... sulla punta della lingua...». Ma Troy quel nome lo sapeva. «Wolinskj», disse a bassa voce. «Peter Wolinskj». 22 Troy prese un treno della linea Districi fino a Stepney Green. Era irritato con se stesso per essere andato al parco a piedi invece che con la Morris. E soprattutto non si perdonava di non aver riconosciuto suo zio nella copia della fotografia che aveva visto dieci giorni prima in casa di Wolinskj. Era meno magro, meno grigio, ma era lui. Ora gli pareva di averla davanti agli occhi quella fotografia, tra l'immagine di Wolinskj in abito accademico e la visione agghiacciante di una strada deserta nelle prime ore del mattino con la luce del sole che illuminava le svastiche. Arrivato a Mark Lane il rammarico aveva lasciato il posto alla preoccupazione sempre più intensa, quasi una certezza, che il conto dei cadaveri da due dovesse salire a tre. Anche se, naturalmente, mancavano le prove della morte di Wolinskj. Forse l'efficienza dell'assassino seguiva una crescita graduale. Cadavere n°1: ritrovato intatto; cadavere n°2: introvabile se non per un braccio; cadavere n°3: scomparso. Ma scomparso davvero? Bruciato, gettato nel Tamigi o eliminato secondo qualche nuovo, orripilante sistema di occultamento? L'indomani mattina avrebbe dovuto far fronte allo sgradevole compito di
informare Onions che un delitto insoluto nella loro zona di competenza, nel corso di un tranquillo fine settimana si era triplicato. La porta d'ingresso della casa di Bonham era socchiusa. Mentre stava per entrare, Troy sentì un'altra porta, al piano di sopra, chiudersi di scatto. S'infilò in anticamera, ascoltò il veloce battere dei tacchi di una ragazza che scendeva le scale e la vide, alta e magra, passargli davanti e sparire in fondo al pianerottolo. Mentre il rumore dei suoi passi saliva ancora dalla rampa di scale che portava al piano di sotto, Troy staccò l'impermeabile marrone di Bonham dal gancio dietro la porta ed entrò nel salotto. Bonham, in camicia e bretelle, leggeva un volantino che spiegava come fare una bistecca e un pasticcio di rognone con un pezzo di cartone e un mucchietto di foglie di tè. Alzò gli occhi, sorpreso, ma fu svelto a prendere l'impermeabile che gli aveva lanciato Troy. «George! Dall'appartamento di Wolinskj è appena scesa una ragazza. Seguila, stalle alle costole, scopri chi è e dove abita. Non puoi sbagliarti, con quei tacchetti sarà alta un metro e ottanta, gonna e giacchettina nere tagliate in modo da costare un occhio, e, nell'insieme, molto bella». Bonham rispose in fretta «d'accordo, d'accordo», s'infilò l'impermeabile e, nell'uscire, prese l'elmetto. «George, con quell'elmetto in testa non puoi seguire nessuno!». Bonham guardò gli stivali da poliziotto, misura quarantasette, che aveva ai piedi. «Pazienza per quelli, cerca solo di non far rumore». Bonham assentì, perplesso ma obbediente, e un attimo dopo scendeva già le scale, col suo passo pesante che risuonava sui gradini di cemento. Troy prese il mazzo di chiavi lucenti che McGee aveva lasciato sulla mensola del camino e salì al piano di sopra. La porta dell'appartamento di Wolinskj era chiusa a chiave. Non si era sbagliato, c'era stato un tintinnio metallico dopo il rumore secco della porta che sbatteva. Entrò. Nella prima stanza c'era un profumo che gli era familiare. Sembrava cannella bruciata. Non era, pensò, quello preferito da entrambe le sue sorelle, ma spesso le aveva sentite lamentarsi che, dopo la caduta di Parigi, era più difficile trovare i profumi e non sempre si poteva scegliere secondo i propri gusti. La stanza appariva intatta, esattamente come l'aveva vista la prima volta. Guidato dalla traccia del profumo entrò nella stanza di mezzo. Anche quella era perfettamente in ordine, ma la ragazza non gli era sembrava il tipo da mettere a soqquadro una stanza. Se non si era sbagliato al primo sguardo, era più probabile che preferisse sfogliare le pagine di «Vogue» piuttosto
che svuotare cassetti e cestini per la carta straccia. Proprio davanti a sé aveva la parete che fungeva da piccola galleria di ritratti, ma nella confusione di fiori rossi e verdi della tappezzeria c'era un rettangolo chiaro, sgombro, pulito. Tra il mattino assolato pieno di svastiche e il giovane con il rotolo di pergamena in mano, mancava lo zio Nikolaj. Niente altro era scomparso, solo la fotografia di quel gruppo di studiosi di materiali esplosivi fatta nel 1933. Troy entrò in camera da letto e non sentì più la scia di profumo. Lì la ragazza non era entrata. Troy tornò a guardare la parete con le fotografie e pensò che solo per quello era andata a casa di Wolinskj, per prendere la fotografia. Come esserne sicuro? Avrebbe dovuto cercare dappertutto. Si guardo attorno. Preso alla lettera, l'impegno era scoraggiante. Ma, a parte la camera da letto, Wolinskj era ordinato, meticoloso. Avrebbe cominciato dai cassetti della scrivania. Un'ora dopo,Troy non ne sapeva di più. Wolinskj non aveva conservato niente. La spinta ad accumulare che gli aveva fatto mettere da parte le copie del «Manchester Guardian» ordinatamente riunite in fasci legati con uno spago, aveva agito solo sulla vita intellettuale. Nel cassetto della scrivania non c'era altro che qualche bolletta del gas e la matrice di un libretto di assegni... La trasformazione della propria vita in quella di un operaio era stata totale per Wolinskj. La scrivania di Troy era stipata di fogli scritti, simbolo della vita di un uomo della sua classe sociale, conti del sarto e del calzolaio, note di spese fatte presso i negozianti del quartiere. Bonham, lo sapeva, non aveva un libretto di assegni e nessun operaio l'aveva. Onions sì, perché apparteneva a uno strato sociale diverso, ma spesso non riusciva bene a leggere i rendiconti della banca. Come se la cavava Wolinskj? Ma non solo: il sentimento, il potere della memoria, le relazioni sociali sembrava si fossero interrotte in lui con l'esilio. Nessuna delle fotografie appese alla parete era stata fatta in Inghilterra, eppure nei cassetti non c'erano né lettere né cartoline da parte di nessuno. Un settore di uno scaffale conteneva dei diari relativi agli ultimi anni Venti e ai primi anni Trenta, ma l'ultimo si fermava al 1933 e nessuno riguardava l'Inghilterra. Wolinskj era caduto sul suolo inglese come una noce fresca cade dall'albero. Troy, dibattendosi col suo tedesco da scolaro, lesse un conciso resoconto di Wolinskj sul suo incontro con Nikolaj, giudicato «indescrivibilmente eccentrico, sia pure con le migliori intenzioni». Anche la vita di lavoro di Wolinskj sembrava essere stata annotata in codice: convegni, scambi di opinioni erano indicati sommariamente con «labor tutta mattina con B». Oppure, «discusso con G. Cannot. D'accordo sui particolari». Anche se Troy avesse
conosciuto la terminologia usata dai fisici non gli sarebbe servito perché era chiaro che le cose importanti Wolinskj le aveva tenute a mente, come se anche allora si fosse preoccupato di cancellare le proprie tracce. Era vissuto come se nella sua vita ci fosse un segreto e in segreto, pensò Troy, forse era morto. Herr Risvolto (Troy non riusciva a pensare a lui come a Gregor von Ranke) aveva tagliato con le forbici le etichette dai suoi vestiti. Peter Wolinskj aveva fatto lo stesso con la sua vita. 23 La mattina dopo alle sette, Troy sentì battere alla porta di casa con un pugno, al punto da farla tremare. «Apri, Freddie, o muoio congelato!». Era la voce di Bonham. Gli aprì e Bonham entrò barcollando. Aveva l'impermeabile lucido di rugiada ghiacciata, la pelle grigia, le labbra viola e le borse sotto gli occhi più gonfie che mai. «Dio mio», gli disse Troy, «metti paura». «Anche tu metteresti paura se fossi stato in piedi tutta la notte». Troy stava bevendo la sua seconda tazza di surrogato d'orzo. Bonham gliela strappò di mano e ne bevve un lungo sorso. «Che schifo!». «Lo so che è cattivo, ma non c'è altro». «Neanche un po' di zucchero», brontolò Bonham. Là da dove proveniva Bonham, la raggelante cortesia di «una o due zollette?» non era ancora arrivata. Nei caffè di Leman Street per rifiutare lo zucchero nel tè non c'era altro modo che coprire la tazza con la mano. Un'abitudine cui andava riconosciuto solo il merito di aver salvaguardato i denti di molti inglesi. Bonham si mise a sedere sul bordo del divano e allungò le mani verso il bagliore arancione della stufetta a gas. Troy versò un cucchiaio di zucchero in polvere nella tazza e se ne riempì un'altra per sé. «Fino a mezzanotte non è tornata a casa. Quella non ha sangue nelle vene. È rimasta buona parte del pomeriggio seduta in Kensington Gardens senza un soprabito addosso, a leggere i giornali, bada bene, non un giornale, Freddie, ma una mezza dozzina. Poi se n'è andata passo passo verso South Kensington e ha preso il tè seduta in un locale lì vicino, chiacchierando...». Troy l'interruppe. «Chiacchierando? Con chi? Con un uomo o una don-
na?». «Calma, calma. Con una donna. Sembrava una vecchia bambinaia, di quelle, sai, che in divisa spingono le carrozzelle nel parco. Sa Dio quante ne ho viste a Kensington Gardens. Secondo me era stata la sua bambinaia. Sembrava proprio che recitasse la scenetta del tè con la buona vecchia domestica. Scommetto che è capitato anche a te». Era capitato anche a Troy, infatti. «Poi è andata a una conferenza al Wigmore Hall, sul futuro del genere umano, o qualcosa di simile. C'erano molti cervelli qualificati. Ho dovuto pagare uno scellino per entrare. Vorrei essere rimborsato, se non ti dispiace. Alle nove, nel momento in cui pareva che fosse tutto finito, possa morire qui se non è vero, si mettono a fare quattro chiacchiere e quando arriva il custode a dire che se loro non hanno una casa lui sì e ci vuol tornare, sono già le dieci e mezzo. Lei prende un taxi. Io che faccio? Salto su un altro taxi e la seguo. Va' a convincere un tassista, a Londra, che sei un poliziotto quando non hai l'elmetto in testa! Comunque, il taxi mi è costato un altro scellino e quattro pence. Lei scende a Chelsea. Tite Street. Seguendo la corrente del fiume, al numero 55. Ho visto spegnersi le luci alle finestre a mezzanotte meno un quarto. Ma non sapevo ancora chi era. Allora mi sono seduto sui gradini della casa di fronte e ho aspettato il ragazzo che porta il latte. È arrivato alle sei e un quarto. Gli ho mostrato gli stivali, la camicia azzurra, le bretelle, lui ci ha pensato un po', ha deciso che forse non ero né un traditore né una spia, ma un onesto poliziotto londinese e mi ha detto che quella si chiama Diana Brack. B-R-A-C-K. Non è sposata. Abita al numero 55 con una cameriera e una cuoca. C'era anche il cameriere, ma è stato chiamato sotto le armi». «George, hai fatto un lavoro che vale un tesoro». «Mi accontento dei miei due scellini e quattro pence». Un po' di calore cominciava a penetrare nel corpo infreddolito di Bonham, che si tolse l'impermeabile e bevve un po' della sua sciropposa tazza d'orzo. «L'hai vista consegnare niente? Aveva una borsa nera sotto il braccio. Hai visto se l'ha aperta?». «Sì, varie volte. Ha pagato il conto quando ha preso il tè e poi ha pagato il taxi». «Ma non l'hai vista toglierne niente che potesse somigliare a una fotografia?». «No, ma non ho potuto tenerla sempre sotto gli occhi, altrimenti mi a-
vrebbe scoperto». «Non sai con chi altro abbia parlato al Wigmore? Nessuno ha colpito la tua attenzione?». «Un vecchio le ha detto che era qualcuno della BBC, ma il nome non l'avevo mai sentito. Il conferenziere si chiamava Strachey. John Strachey. Ma lei non gli ha parlato. Io non potevo avvicinarmi troppo, a meno di non fare la figura del cretino. Qualcuno mi ha rivolto la parola, ma ho detto che ero un amico del custode e aspettavo che chiudesse per andar via con lui. La verità è che sono un poliziotto e si vede. Anche quando non sono in divisa si vede lo stesso». Bonham s'interruppe. Posò la tazza per terra e guardò dritto in faccia Troy, stringendosi il nodo della cravatta. «Freddie, ti dispiacerebbe dirmi che cosa sta succedendo? Perché ho dovuto seguire quella ragazza? McGee è venuto in ufficio venerdì pomeriggio e ha detto che tu l'hai autorizzato a denunciare la scomparsa di Wolinskj. Pensi che si possa veramente considerarlo scomparso?». «No, George. È morto». «Gesù Cristo», disse Bonham a bassa voce. Riprese la tazza e la tenne tra le mani, a testa bassa, bevendone un sorso ogni tanto. Poi, lentamente, si raddrizzò, bevve ancora un pochino e appoggiò la testa allo schienale guardando il soffitto sempre stringendo la tazza come se volesse ridurla in briciole. «Gesù Cristo», ripeté. «Gesù Cristo». 24 Quando Troy arrivò a Scotland Yard si rese conto che aveva lasciato un poliziotto grande e grosso che si scaldava davanti al fuoco per un altro tale e quale. Onions, infatti, stava seduto comodamente davanti al camino sbuffando fumo da un Woodbine e intanto leggeva la posta del mattino. Wildeve era alla scrivania e scattò in piedi quando Troy entrò. «Il sovrintendente la sta aspettando», disse tutto d'un fiato con un tono acuto, formale. Troy posò la borsa di pelle sulla scrivania di Wildeve, che si avviò alla porta, ansioso di sfuggire, finalmente, ai soffocanti silenzi di Onions, ma Troy gli mise una mano sulla spalla perché tornasse a sedersi. «No, non andartene Jack. Sia il sovrintendente sia io avremmo qualche cosa da chiederti. Buongiorno, Stan». «Oh, lei si alza all'alba!».
«Sì». Troy voltò la sedia che stava di fronte alla scrivania di Wildeve per poter guardare Onions in viso mentre parlava. «Ho parlato al telefono con l'ex ispettore Malnick», esordì Onions. «Era... come dire...». «Inviperito?». «Sì, esatto. Ritiene che lei sia in possesso di qualcosa di suo». Troy aprì la borsa e diede a Onions la fotografia. «Ah... quel morto vicino al Tower». «Nome in codice Risvolto. Ma io so anche il suo nome vero». «Ha una identificazione attendibile?». «So chi è. È Gregor von Ranke». Onions ascoltò, assentendo ogni tanto, mentre Troy lo metteva al corrente del suo colloquio con Nikolaj e delle notizie raccolte da Bonham su Diana Brack. Poi gli fece la stessa domanda che Troy aveva rivolto a Nikolaj. «Un gruppo? Quale gruppo?». «Pare, da quello che mio zio sapeva di loro, che fossero poco meno che delle menti geniali. Stavano lavorando alla produzione di leghe leggere, resistenti, inossidabili, fluide e anche a dei statoreattori, non so di che si tratti, qualcosa di relativo alla propulsione chimica, un po' come i razzi che si accendono nei giorni di festa. Ho chiesto a Nikolaj come avrebbero potuto essere utilizzati e mi ha risposto che il loro potenziale militare era enorme, li vedeva simili a bombe volanti, senza pilota». Onions corrugò la fronte in silenzio, ma era come se dicesse: «guarda un po' dove sta andando a finire il mondo». «Missili a velocità infinita con testate a fissione nucleare. Ma loro inseguivano un sogno, non pensavano a un'arma da mettere a servizio del Reich. Dicevano che se avessero avuto a disposizione le risorse necessarie, nel 1960 sarebbero riusciti a portare un uomo sulla luna». Onions taceva. Troy pensò che era vecchio, nato in un altro mondo. Era cresciuto leggendo i romanzi di H.G. Wells e Jules Verne, aveva sette anni quando due fabbricanti di biciclette avevano portato il loro sogno a Kittyhawk, nella Carolina del sud e lo avevano fatto alzare in volo. Fino a quel momento la bicicletta era stata all'avanguardia delle conquiste dell'età moderna e l'automobile era solo un mezzo di trasporto rumoroso che non interessava a nessuno. Per Troy il 1960 era lontano. Per un uomo di cinquant'anni era di lì a due giorni e l'automobile qualcosa con cui solo da poco sentiva di poter venire a patti.
«Dio mio», mormorò, poi aggiunse: «Allora lei è sicuro che il braccio, perché di questo noi ora ci stiamo occupando, appartenesse a quello scienziato, quel Bertoldi Brand?». «Mi sembra logico». «Che cosa faceva qui? E anche gli altri, che cosa facevano qui? Come spie mi sembra che fossero stati scelti male». «Non credo che fossero spie. Wolinskj, almeno, aveva una posizione regolare da immigrato. Come vanno le ricerche, Jack?». Wildeve sussultò, perché stava pensando ad altro. «Ehm... io... beh, io non ho fatto molti progressi. C'è un mare di carte e senza nomi era impossibile trovare un'indicazione, adesso so che devo cercare un Ranke e un Brand e sarà più facile. Speriamo di non restare di nuovo con un pugno di mosche». «Anche se erano in regola come immigrati, non so quanto riusciremo a scoprire», disse Onions. «Sono venuti qui, sono stati immatricolati, sono morti. Non abbiamo i moventi, non sappiamo di chi sospettare. Quella ragazza, la Brack, può rappresentare una traccia, ma non ci sono elementi per sospettare di lei». «Il movente va ricercato senza dubbio in ciò che queste persone sapevano e nel lavoro cui si dedicavano. Ma, naturalmente, non sono venuti qui come immigrati. Nikolaj era stato impegnato a riconoscere tra gli internati appartenenti a paesi nemici chi avrebbe potuto collaborare. Se loro fossero stati ufficialmente classificati come immigrati, a meno che non fossero riusciti a nascondersi, sarebbero stati arrestati nel 1940 e prima o poi Nikolaj l'avrebbe saputo». «E Wolinskj?». «Wolinskj era uno straniero, ma non un nemico e come tale gli sarebbe stato comunque permesso di occuparsi dei fatti suoi. Una volta seppellitosi ai Docks, in mezzo ai suoi libri, nessuno gli avrebbe badato». «Allora quale sarà la prossima mossa?». «Vorrei incontrare qualcuno del MI5, del controspionaggio. Chi di loro tiene i contatti con la polizia metropolitana?». Onions prese un'agendina dalla tasca interna della giacca, si leccò un dito e la sfogliò. «Pym. Il capo divisione Pym». «Neville Pym?». «Le iniziali sono N.A.G. Pym. Lo conosce?». «Siamo stati a scuola insieme».
«Ahi, ahi, ahi! I legami scolastici saranno letali per lei». «Gli parlerò». «Posso sapere perché?». «Solo un sospetto. Ho l'impressione che questo potrebbe essere un affare loro piuttosto che nostro». «I cadaveri trovati per le strade di Londra sono sempre affari nostri», obiettò Onions. Con la coda dell'occhio, Troy vide che Wildeve tentava di intervenire senza riuscirci. «Sputa il rospo, Jack». «Ecco... lei ha detto che la ragazza che ha fatto seguire si chiamava Brack. Diana Brack, ha detto. Diana Armond-Brack?». «Sì, forse sì». «Bene... io la conosco. O almeno la conoscevo. È la figlia del vecchio Fermanagh». «Dovrei indovinare chi è?», disse Onions, e Wildeve diventò color barbabietola. «Io conosco solo il vecchio MacDonald, quello della canzoncina». «Jack voleva dire il marchese di Fermanagh», gli spiegò Troy. «È un potente, molto vicino alla corona. Uno di quei conservatori che hanno grandi facoltà decisionali. Si dice che abbia contribuito a tenere Churchill in disparte per dieci anni». «Un tempo era amica di mio fratello», disse Wildeve, arrossendo ancora di più per quell'eufemismo cui gli era parso di dover ricorrere. «Bene bene», Onions si alzò in piedi e spense il mozzicone dell'ultimo Woodbine sulla mensola del camino. «Il mondo è piccolo. E, visto che tra tutti e due non avete altra traccia da seguire, è meglio che vi lasci ai vostri Pym e ai vostri Fermanagh, non vorrei pestarvi i piedi in questa quadriglia. Non sia mai che debba mettermi stivali marroni e divisa blu». La porta si richiuse alle spalle di Onions e Wildeve, riacquistato un colorito quasi normale, chiese sottovoce: «Era una battuta sarcastica?». «Probabilmente», rispose Troy. Wildeve si alzò in piedi. «È meglio che torni alla B3». «No, Jack, di' al tuo superiore solo quello che deve sapere. Lascia che sia lui a restare con un pugno di mosche». «Sembri molto fiducioso». Troy si strinse nelle spalle. «Credi che Diana Brack si ricordi di te?». «Solo di nome. Avevo quattordici o quindici anni quando l'ho conosciu-
ta». «Appena possibile vai in Tite Street. Guarda, segui, poi torna a raccontarmi tutto. Dimmi lei chi vede, dove va. È troppo presto per avvicinarla e farla parlare». Wildeve raccolse una quantità di carte sparse per la scrivania e le mise tutte nel vassoio di Troy che, mentre dalla finestra guardava il Tamigi, lo sentì aprire e richiudere silenziosamente la porta. Non c'era solo sarcasmo o antisnobismo nelle parole di Onions. La cospirazione di cui gli aveva detto che si poteva quasi toccare come una realtà inoppugnabile richiedeva la presenza di uno o due cospiratori dotati di un enorme potere. Ma i Pari del regno non avevano assassini pronti a intervenire solo per coprire l'imprudenza di una figlia ribelle. O sì? Possibile che fosse questo che pensava Stan? Troy chiamò il MI5, in St James Street e chiese del capo divisione Pym. Al centralino impiegarono un po' di tempo a passargli la comunicazione. Troy sentì un seguito di crepitii lungo la linea e cominciava a pensare che stessero mettendo in atto una sorta di meccanismo di controllo quando un suono secco, metallico, annunciò il contatto. «Capo divisione Pym», disse una voce forte e brusca. «Buongiorno. Sono Frederick Troy». Ci fu momento di silenzio. «Troy?». «Frederick Troy». Il silenzio si ripeté, greve, prolungato, poi Pym chiese, sottovoce: «Che cosa vuoi?». «Ho bisogno di parlarti». Troy non ebbe il tempo di ricorrere alle solite chiacchiere sulla necessità di avere delle informazioni, alle lusinghe del «solo tu puoi aiutarmi», alla bugia di un «si tratta solo di una banale questione che riguarda la polizia», perché Pym, a voce ancora più bassa disse: «Non qui. Non ora». «Scusami», replicò Troy, «sei occupato?». «Santa innocenza, certo!», rispose Pym. «Sono sempre occupato», poi, dopo un altro silenzio, concluse: «Vieni a casa mia stasera alle sette. Albany. E6». Aveva riattaccato. E6 non era un indirizzo dell'East End, era il numero dell'appartamento e Albany, avrebbe detto Onions, era l'indirizzo «più spocchioso» che potesse avere, a Londra, un uomo che viveva solo. Un bell'edificio, esclusivo, sul lato nord di Piccadilly, che sarebbe stato adatto
sia a Lord Peter Wimsey sia ad Albert Campion, anche se, ammesso che le letture giovanili di Troy non lo ingannassero, era Raffles che aveva abitato lì, e Raffles non stava dalla stessa parte di Troy. Come residenza per uno scapolo, con i suoi portieri in divisa e il suo famoso cortiletto, Albany non aveva niente che potesse starle a pari in tutta Londra. Pym si era sistemato bene. Dall'ufficio del MI5, al Quartier Generale, poteva tornare a casa in pochi minuti. Se Pym era un uomo alla moda, ecco che, appena smesso di lavorare, in un battibaleno, si ritrovava nel suo mondo. 25 Troy sopportava male una intera giornata di lavoro alla scrivania. Al portiere di Albany, col suo cappello a cilindro, mostrò la tessera, ma si rifiutò di dire lo scopo della sua visita e non volle nemmeno essere annunciato. Pym gli era sembrato così poco invitante che non voleva dargli la possibilità di rifiutarsi di riceverlo. Quando gli aprì la porta, al secondo piano, indossava una giacca da smoking color amaranto e fumava una Passing Cloud, una ridicola sigaretta non rotonda ma ovale, come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. Troy pensò che solo uno stupido esibizionista poteva fumare una sigaretta come quella. «Sei in anticipo», gli disse Pym, guardando dietro le sue spalle con tanta attenzione che Troy si voltò per vedere se ci fosse qualcuno. «Sei venuto da solo?». «Certamente». Mentre Troy gli passava accanto per entrare, Pym diede un'occhiata sul pianerottolo, poi richiuse la porta e introdusse Troy in un grande salotto finto palladiano. L'altezza dei soffitti sarebbe bastata da sola a intimidire il visitatore, ma Pym vi aveva aggiunto un costoso apparato di mobili reggenza. Troy giudicò opprimente tutto quel rosso e oro, gli parve un addobbo da circo e trovò i mobili scomodissimi. Pym si fermò davanti a una credenza e riempì un bicchierino di sherry per Troy, che si era messo a sedere su una di quelle poltroncine da circo. Pym restò in piedi vicino al camino e prese il suo bicchiere dalla mensola. Da quando Troy l'aveva visto l'ultima volta gli si erano ingrigite le tempie e aveva acquisito la mollezza del viso tipica di chi si muove poco e trae il massimo diletto nel cenare al ristorante. Stava perdendo rapidamente il proprio vigore fisico e pareva volesse goderne ogni attimo fino in fondo. Forse da qualche parte,
in soffitta, teneva un ritratto che non sarebbe invecchiato mai. «Non c'è motivo per non avere una tranquilla e civile conversazione», disse con una leggera arroganza, unica incrinatura nella sua voce pastosa come un buon vino, ricca di toni, suggestiva, che ricordava a Troy il tempo in cui erano a scuola insieme e non la falsa ruvidezza da Royal Air Force con la quale l'aveva salutato al telefono o il bisbiglio, altrettanto falso, che aveva concluso la telefonata. Ma Troy non capiva che cosa intendesse dirgli. «Non sei il primo che telefona da Scotland Yard e viene a strisciare qua intorno». Troy non aveva ancora capito che cosa passasse per la mente di Pym, ma quell'espressione, «strisciare» gli parve insopportabile. «Sto solo facendo il mio lavoro», disse. «E secondo te qual è il tuo lavoro? Non dirmi che venire a scocciare me è un servizio pubblico». «Non era questa la mia idea. Non posso dirti che si tratti di normale amministrazione perché non è vero, è una questione abbastanza grave che è di competenza della polizia». Troy vide il sangue scorrere via dal viso di Pym proprio come era successo a Driberg nel sentir pronunciare la stessa parola. «Polizia hai detto? Allora sei imbecille, un totale imbecille». Pym posò di nuovo il bicchiere. Troy vide che era sempre più pallido ed ebbe paura che stesse per svenire. «Pym, io non so a che gioco stai giocando con me, o in quale malinteso ti stai dibattendo, ma sei o non sei l'agente di collegamento tra il MI5 e Scotland Yard? Se non è così dillo, tienti il tuo sherry e spiegami a chi devo rivolgermi». «Sei qui come poliziotto?». Troy non capì. Non l'aveva detto anche a quella ragazza al telefono che chiamava da Scotland Yard? Che cosa si era messo in mente Pym? E finalmente tutto gli fu chiaro. Driberg aveva reagito allo stesso modo per la stessa ragione: la paura che l'omosessuale ha della buoncostume. A scuola Pym, di qualche anno più vecchio di Troy, era stato un prepotente, ma tutti gli allievi anziani usavano delle prepotenze ai più giovani e Pym non era tra i peggiori. Non gli piaceva la brutalità che consentiva ai prefetti di infliggere pene corporali ai ragazzini, di lui si temevano le parole, la capacità di prevaricare e mortificare solo con le parole, non altro. Charlie, il più caro amico di Troy era stato il ragazzo di Pym, non il fag, lo studente gio-
vane che deve fare i servizi più umili per l'anziano, quello era un ruolo poco invidiabile che per qualche tempo aveva svolto lui stesso, Charlie era stato l'amante di Pym. Troy non se n'era interessato. La sua posizione aveva rappresentato per Charlie una sorta di difesa di cui un tredicenne che somigliava a una bionda principessa nordica aveva certamente bisogno in un ambiente che, almeno nei limiti della vita di scuola, era prevalentemente omosessuale. Charlie, ormai da tempo, aveva cambiato abitudini. La possibilità di avere dei contatti anche con delle ragazze, nel mondo esterno, lo aveva messo in condizione di scegliere e lui aveva scelto. Anche Pym aveva fatto la sua scelta e Troy, mentre lo guardava cercare a fatica di ritrovare la calma sbuffando furiosamente il fumo della sua Passing Claud, appoggiato al camino come un personaggio di una commedia di Noël Coward, capì che aveva scelto di non cambiare. «Neville», disse, arrischiandosi, con qualche incertezza, a chiamarlo per nome, «io sono nella squadra omicidi, la buoncostume non c'entra con la questione di cui mi sto occupando». Pym finì il suo sherry in un sorso, si versò un cognac e andò a sedersi di fronte a Troy. «Non puoi immaginare quanti mi girino ancora attorno. Compagni che credevo non avrei mai più rivisto da quando erano usciti dai cancelli di quella fottuta scuola e se n'erano andati ciascuno per la sua strada. Spesso penso che i nostri genitori abbiano sbagliato a immetterci in un ambiente che ha prodotto solo una massa di disgraziati che si presentano qui, come "vecchi amici". Non avrei mai pensato di avere tanti amici. Mezza dozzina di volte, negli ultimi due anni, mi sono sentito chiedere un prestito, di solito accettato con un sorridente "grazie, è solo per superare questo momento difficile"». «Se ti hanno ricattato devi denunciarli». «Nella mia posizione?». Troy si strinse nelle spalle. «Meglio che mi spieghi perché sei venuto». «Mi sto occupando di un omicidio. Credo che la vittima sia un tedesco. E al novantanove per cento non era un immigrato. Sono quasi sicuro che fosse arrivato da queste parti solo da poco». «E poi?». «Se era una spia e a voi manca all'appello una spia, ho bisogno di saperlo». «Un morto, hai detto. Te l'hanno scaricato sulla porta di casa o che al-
tro?». «Gli hanno sparato, l'hanno fatto a pezzi e l'hanno bruciato». «Troy, noi non spariamo alle spie, le spostiamo. E se non possiamo spostarle o non sappiamo più che farcene le processiamo e poi le impicchiamo. Ti posso dire subito che la risposta è no. E prima che tu me lo chieda, aggiungo che le probabilità che i tedeschi abbiano delle spie a Londra, spie che anche Scotland Yard possa identificare come tedesche, senza che noi ne siamo al corrente, sono praticamente nulle». Era la risposta che Troy si era aspettato. Guardò Pym aspirare, indugiando con le labbra sul bordo del bicchiere panciuto, il profumo dello sherry e pensò a come formulare là sua prossima domanda. Né con Onions né non Wildeve aveva voluto affrontare quell'argomento. «C'è un'altra possibilità», disse. «Ho bisogno di sapere se i vostri agenti hanno fatto uscire dalla Germania o dai paesi occupati qualcuno che, in seguito, è risultato scomparso». Pym bevve un sorso di cognac e rifletté un momento. «Questa è una richiesta inattuabile». «Non più dell'altra». «Le spie arrivano e vengono catturate. Lo sanno tutti. I tedeschi sono noti per mandare qui dei poveri olandesi in barche a remi armati solo di un vocabolario di parole in codice. Lo fanno perché le loro famiglie sono in ostaggio. Un minuto dopo lo sbarco sono già morti. I tedeschi farebbero meglio a sparargli addirittura un colpo in testa. Tu mi chiedi che cosa stanno facendo i nostri agenti in Germania. Non sono autorizzato a risponderti, anche se si tratta di Scotland Yard». «Ma», disse Troy, «potresti chiederla, l'autorizzazione». Pym si alzò e, con l'aria di chi è stato offeso nella sua dignità, ferito nel suo orgoglio, andò nella stanza accanto. Troy sentì un succedersi di brevi suoni al telefono, come quando si chiama un numero di una località molto distante. Assaggiò lo sherry. Non gli era mai piaciuto e anche questa volta si confermò nella sua opinione. Cercò se ci fosse lì vicino una pianta per rovesciare il bicchiere nel vaso. In quasi tutte le case inglesi aveva trovato a portata di mano un'aspidistra messa bene in vista sul suo supporto, ma Pym non aveva piante. Tavoli, nicchie, erano occupati da una serie di sculture, una sorprendente schiera di nudi maschili. Vicino alla porta dalla quale Pym era appena uscito c'era una grande copia in gesso del David di Michelangelo. Si raccontava che quando la regina Mary aveva visitato il British Museum fosse stata messa una foglia di fico a coprire il conturban-
te membro del calco della statua. Pym non aveva di questi pudori. Il membro sbocciava Libero, alla vista di tutti. Qualsiasi «vecchio amico» fosse andato a spillare a Pym un biglietto da cinque avrebbe capito subito di aver scelto la persona giusta. Pym invitava al ricatto? C'erano tanti altri luoghi dove lui e Troy avrebbero potuto incontrarsi se riteneva di dover evitare il MI5. Troy pensò per un momento che forse, semplicemente, gli piaceva il rischio. Lo vide tornare dopo cinque minuti e rimettersi in posa accanto al camino. «Mi sono informato presso la sede adatta, e la risposta è no. Non c'è nessuno, proveniente da altri paesi su nostra sollecitazione, di cui non possiamo rispondere. E, tieni bene a mente, questo non equivale ad ammettere che, in assoluto, non ci siano state da parte nostra sollecitazioni del genere». «Va bene», disse Troy. Dopotutto, anche nella tensione di quel momento di panico, Pym aveva avuto la prudenza di non parlare della propria omosessualità. Era un'ammissione sottintesa, implicita. «Quasi mi dispiace averti importunato». Troy si alzò e si riabbottonò il cappotto. Pym prese dal camino un grosso accendisigari da tavolo, di pietra dura e si accese un'altra delle sue infernali sigarette. Quel «quasi» che aveva accompagnato il «mi dispiace» aveva urtato Pym, che aveva ripreso il proprio atteggiamento sussiegoso. «C'è un'ultima cosa», disse Troy prima di arrivare alla porta, mirando a far apparire ciò che occupava il primo posto nell'elenco delle priorità quale un semplice ripensamento (un espediente di bassa lega, frequente nei romanzi polizieschi, che aveva imparato dal padre di tutti i detective di bassa lega, Porfirij Porfirovich in Delitto e castigo). Pym soffiò uno sbuffo di fumo dal naso. Troy si era reso conto anche altre volte che quell'espediente, peraltro efficace, risultava estremamente sgradevole. «Il nostro non è l'unico esercito presente su queste isole». «Che cosa vuoi dire?». Pym sembrava sorpreso. «Voglio dire che è presumibile che anche gli americani abbiano fatto uscire dal suo paese qualche straniero che potesse servirgli». Pym non rispose, aspettò, senza sollecitarla, che Troy gli ponesse una domanda precisa. «Avrò bisogno di una risposta anche da parte loro». «Vedrò quello che posso fare». «Ne avrò bisogno presto».
«Come ti ho detto, vedrò quello che posso fare. Non sono in grado di parlare a nome degli americani. Cercherò di informarmi e domani ti telefonerò». 26 L'indomani alle nove e mezzo, prima di quanto ci si potesse aspettare, Pym telefonò. La pioggia batteva a scrosci contro i vetri; Troy seduto alla scrivania, dando le spalle a quel torrente in piena, stava ascoltando il confuso, noioso resoconto di Wildeve sugli spostamenti di Diana Brack la sera prima, quando suonò il telefono. «Troy, ascolta», disse Pym con un tono autoritario, «gli americani vogliono parlare con te. Dio solo sa perché, ma è così». «Lo dici come se fossero al disopra della legge». «Quello di cui non ti rendi conto, Troy, è che adesso tutto è in mano loro. Ma è un argomento di cui non intendo discutere con te. Li vuoi vedere o no?». «Certo che li voglio vedere. Quando?». «Temo che sia alle undici di questa mattina o niente. Hanno un ufficio in St James Square, a Norfolk House. Devi chiedere di un certo Zelig, colonnello Zelig». «Chi è, uno che occupa il posto corrispondente al tuo?». «Non lo so, ma è lui che risponderà alle tue domande. Non ti basta?». «Certo. Ti ringrazio del tuo aiuto, Neville». Sentirsi chiamare per nome parve pungere Pym sul vivo, come un affronto. «Ti avverto, Troy, che con questo hai esaurito i favori che ti dovevo. Ricordatelo». Riattaccò prima che potesse rispondergli e a Troy non fu del tutto chiara la ragione di quello scatto di collera. Alzò gli occhi a guardare Wildeve che cercava di asciugarsi i capelli con il pullover, mentre la giacca che si era appena tolta fumava davanti alla stufetta a gas e le scarpe formavano una pozzanghera sotto il cestino della carta straccia. «Stamattina parlerò con un americano». «Che rapporto c'è con il lavoro che sto facendo?», chiese Wildeve. «Non ne ho idea». «Ah, dov'ero rimasto?». «Tu e Lady Diana eravate a teatro. La commedia era Il maggiore Barba-
ra». «Giusto». Wildeve, seduto di fronte a Troy, si scostò dagli occhi una ciocca di capelli bagnati. «Usciti dal teatro, lei è andata a casa a piedi. L'avrei strangolata. Con tutti i soldi che ha, invece di prendere un taxi se ne va sola da Shaftesbury Avenue a Chelsea. Lo sai quanto tempo ci si mette da...». «Lascia perdere, Jack. Piuttosto non ti pare strano che una ragazza della sua classe sociale faccia sempre tutto da sola?». «Come?...». «Entra a bere qualcosa al Cri, va a teatro, sempre sola. Non credi che dovesse vedere qualcuno che è mancato all'appuntamento?». «Freddie, tu l'hai vista Lady Diana. Solo un cieco mancherebbe a un appuntamento con lei». «Eppure segue le tappe obbligate delle persone che fanno parte della sua classe sociale senza essere accompagnata da nessuno». «Forse gli eletti non erano disponibili. Saranno arruolati tra i Dandy d'assalto o nella Cavalleria dei proprietari terrieri. Sono sicuro che in passato Diana sarà stata corteggiata da tutti gli smidollati londinesi con le carte in regola, a cominciare dai miei due fratelli, con in più un tocco di gigolo e tipi da cinematografo. Si è chiacchierato parecchio su di lei e Jack Buchanan e Al Bowlly, si diceva, era quasi impazzito perché si sentiva tenuto a distanza». «Arriviamo al dunque», disse Troy, controllando l'orologio che aveva al polso con quello appeso al muro, poco più che all'altezza della testa di Wildeve. «Scusami... quello che volevo dire è che Lady Diana è un altro tipo di ragazza. È una intellettuale scatenata, e intendo tutte e due le cose anche se prese una per una: è un'intellettuale ed è una scatenata. Ho sentito qualche volta, da ragazzo, con quali argomenti contestava il vecchio Fermanagh. È una che disprezza usi e costumi della sua classe sociale. Johnny Lissadel mi aveva detto di lei, una volta, che avrebbe preferito passare una serata col socialista Sidney Webb piuttosto che una giornata con l'Aga Khan». Troy sorrise per il paragone tra i due personaggi. Conosceva quel tipo di polemica, la classe sociale di Lady Diana era la sua e quella di Wildeve e pensava che, se non avessero in qualche misura disprezzato usi e costumi della loro classe, non avrebbero fatto i poliziotti. Si chiese se anche Wildeve se ne rendesse conto. «Finora non ho visto niente che mi abbia lasciato sorpreso. Una scoccia-
trice dai gusti spartani. Quello che ci potevamo aspettare». «L'hai seguita fino a casa?». «Sì. Non si è fermata a parlare con nessuno finché non siamo arrivati alla piazza che è all'estremità nord di Tite Street. Ora è adibita a campi da coltivare. Ha parlato con un vecchio che lì alleva un maiale». «Hai notato qualcosa di particolare?». «Le sue buone maniere, nient'altro. Una parola gentile a un inferiore». «Dovremmo dare un'occhiata a quest'uomo?». «Direi di no. Era nella Difesa Civile. Squadra di soccorso per la contea e città di Londra. Avrà una sessantina d'anni, grande, grosso e completamente calvo. Qualunque cosa faccia e pensi Lady Diana oggi, fa parte della sua seconda natura trattare rispettosamente chi appartiene a una classe dalla quale ci si aspetta di essere trattati con rispetto. Ho scambiato due parole con quell'uomo. Lady Diana ha il campo vicino al suo, ultime vestigie di un breve periodo passato nella Milizia Territoriale. Se non ricordo male l'avevano reclutata e poi buttata fuori in meno di sei mesi». «E dopo aver parlato col vecchio è andata a dormire?». «Già. Ma io non mi sono mosso di lì finché non ho avuto la certezza che non uscisse di nuovo». Troy si avvicinò alla finestra schivando con lo sguardo la trave che impediva a Scotland Yard di cadergli sulla testa. Fuori c'era il tempo che lui chiamava da arca di Noè. Per strada a piedi non c'era nessuno, gli autobus erano pieni e il Tamigi era alto contro l'argine della banchina di Bazalgette. Wildeve teneva la testa reclinata da un lato nel tentativo di asciugarsi un orecchio con un grande fazzoletto ornato di un monogramma. Sembrava il ballerino di una danza folcloristica, non un poliziotto. «Jack», gli disse Troy, «torna a casa, stasera. Mi occuperò io di Lady Diana». «Grazie, mi fa piacere. Detesto annegare aggrappato a un filo di paglia». Al di là dell'aria ingenua e della leggerezza che gli veniva dall'appartenenza a una classe sociale elevata, Wildeve ogni tanto lasciava stupito Troy per la sua schiettezza. «Un collegamento c'è ed è sicuro», disse. «La Brack è andata a casa di Wolinskj e ha rubato una fotografia dell'uomo di cui ci stiamo occupando». «Per essere precisi», ribatté Wildeve, «ha rubato una fotografia di qualcuno che riteniamo possa essere l'uomo di cui ci stiamo occupando. Ma non potrebbe darsi che lei stessa fosse legata a un assassino?».
27 I tergicristallo della Bullnose Morris reggevano a stento l'incalzare della pioggia. Troy girò lentamente attorno a St James Square con il finestrino abbassato per cercare le indicazioni, non difficili da riconoscere, di una base americana. Due soldati della Military Police, con le mantelle impermeabili e l'elmetto bianco stavano davanti all'ingresso di Norfolk House, sul lato est. Mentre Troy andava a fermarsi dietro una grossa Packard a grandi chiazze mimetiche, uno dei due soldati si avvicinò e batté sul tetto della Morris. Troy scese contro un muro di pioggia e vide il soldato che gli indicava la Packard gridando, al disopra del fitto tamburellare delle gocce sulla carrozzeria delle due automobili: «Non può fermarsi qui!». «Servizio», disse Troy, scese e corse a mettersi al riparo sotto la tettoia davanti alla porta. «Chi cerca?». Una volta al coperto, Troy si tolse di tasca la tessera. L'altro soldato si era portato una mano al fianco sotto la mantella come a stringere il calcio della pistola. «A posto, Lou», disse il primo soldato. «È un poliziotto». Ridiede la tessera a Troy e chiese: «Con chi vuol parlare?». «Con Zelig. Il colonnello Zelig». Il soldato fece cenno a Troy di seguirlo. Appena entrati, staccò una tabella dal muro, si tolse un guanto e fece scorrere un dito lungo un elenco di nomi. «Alle undici. Giusto?». Troy assentì. «Nel seminterrato. Deve scendere due piani». Indicò la scala che scendeva a spirale lungo la grata d'ottone che chiudeva la tromba dell'ascensore. «Quando arriva giù, mostri la tessera a quello che sta in corridoio». Scesi due piani e adempiuto al cerimoniale, Troy si trovò in una stanza molto calda, senza finestre, a dodici metri sotto le strade di Londra. La stanza era vuota. Tante misure di sicurezza, pensò Troy, solo per proteggere un tavolo e una macchina da scrivere. La porta si spalancò ed entrò di spalle un'ausiliaria, tenendola aperta col fianco si girò per guardare Troy. Reggeva con una mano una tazza di caffè e con l'altra un sacchetto di carta unto e fumante. Si voltò e Troy si trovò davanti una ragazza bionda piccola e bella con i capelli corti, quasi a spazzola.
«Cerca Zelly?», chiese con una voce in cui le vocali avevano una gustosa tonalità gutturale. «Mi dia il suo nome. Lo avvertirò che lei è arrivato. Lo trova proprio nel momento in cui prende il suo caffè delle undici». «Molto inglese», osservò Troy. «Anche molto Zelly», ribatté la ragazza. «Tutte le scuse sono buone per mangiare». Ripeté gli stessi movimenti: abbassò col gomito la maniglia della porta che dava all'interno e la spinse col fianco. Troy si affrettò a tenergliela aperta, lei lo ringraziò con un rapido sorriso mentre si piegava per passare sotto il suo braccio. «Come si chiama?», gli chiese con un bisbiglio un po' roco. «Troy», bisbigliò lui a sua volta. Entrando, dietro di lei, vide il colonnello alzarsi dalla scrivania e fingere di guardare una carta geografica dell'Italia appesa al muro. «Accidenti! Non si bussa alla porta?», borbottò Zelig. Gettò un'altra occhiata alla carta della Francia, con una pantomima intesa a ostentare la massima segretezza. L'ausiliaria posò sulla scrivania il caffè e il sacchetto. «C'è il signor Troy. È della polizia, credo. Aveva appuntamento alle undici». Senza curarsi di Troy, Zelig aprì il sacchetto. La porta si richiuse alle spalle dell'ausiliaria. Zelig non aveva ancora mostrato di accorgersi della sua presenza. Diede un morso all'hamburger e gridò, con la bocca piena di pane e carne. «Toscà!!!». L'ausiliaria si affacciò alla porta. «Che cosa vuole?». Troy pensò che era uno strano modo per un sergente di rivolgersi a un colonnello. «È maionese questa? Io avevo chiesto la maionese. Io l'hamburger l'ho sempre mangiato con la maionese». «È inglese», disse tranquillamente la ragazza. «Che cosa è inglese?». «La salsa. Ci condiscono l'insalata». Zelig, con una faccia disgustata, guardò il pane e la carne morsicati che aveva in mano. «Credo», aggiunse la ragazza, «che la usino quando non hanno la maionese. È un surrogato». Se ne andò e richiuse la porta. Zelig stava ancora guardando il suo ham-
burger che corrispondeva circa alla razione settimanale di un cittadino inglese. Troy si mise a sedere sull'unica sedia disponibile, di fronte alla scrivania. Zelig parve non accorgersene. Diede un altro morso all'hamburger e tornò a sedersi. Per quanto non gli piacesse sembrava deciso a finirlo in tre bocconi. Troy pensò che se avesse continuato a non rivolgergli la parola, per distrarsi avrebbe potuto contare quanti menti e quanti capelli aveva. Pesava poco meno di un quintale ed era calvo, aveva solo un'aureola stopposa attorno alla testa, proprio sopra le orecchie. «E allora?», disse Zelig, spargendo sulla scrivania una grandinata di briciole. «Sono il sergente Troy della Squadra omicidi di Scotland Yard. Mi manda da lei il capo divisione Pym, del MI5. Abbiamo qualche difficoltà che lei, forse, potrebbe aiutarci a superare». «Ne dubito». Zelig inghiottì un boccone che avrebbe potuto soffocarlo una volta per tutte, poi diede un altro morso al panino e insieme bevve un gran sorso di caffè. L'hamburger era ridotto ormai a una falce di luna. Per essere tanto palesemente un drogato del cibo, Zelig pareva trarne un piacere relativamente scarso. «Ho bisogno di sapere se i suoi hanno fatto uscire qualcuno dalla Francia o dalla Germania». «I miei?», chiese Zelig, calcando la voce, come se non avesse capito. «I suoi...»,Troy cercò la parola più appropriata, «agenti... Lei ha agenti in Europa?». «Non rispondo». Troy lo avrebbe picchiato. Era sicuro che Pym gli avesse almeno accennato al motivo della sua visita. Altrimenti perché avrebbe accettato di vederlo? Ma allora perché lo costringeva a mettere tutti i puntini alle i e i taglietti alle t? «Mi sembra che lei non sia stato aggiornato, colonnello». «Allora mi aggiorni. Sono tutto orecchie». O tutto stomaco, pensò Troy. «Stiamo indagando su una morte... Riteniamo che si tratti di un assassinio, e che la vittima sia un tedesco». «Un Crauti in meno di cui occuparci». Troy non rilevò l'osservazione. «Ho stabilito che non si tratta di una spia e, a quanto mi risulta finora, nemmeno di un immigrato. Per questo mi chiedevo se non potesse essere...». A Troy parve che non esistesse la possibilità di esprimere con una sola
parola quello che pensava fosse stato il defunto Herr Brand. Ma Zelig aveva capito, perché rispose: «Niente da fare». La porta si aprì, l'ausiliaria entrò in fretta e mise un appunto davanti a Zelig. «Ehi, un momento sergente!», disse Zelig. Lei si fermò sulla porta e voltò la testa a guardarlo, ritrosa e civettuola. Troy seguì lo sguardo di Zelig che le scendeva lungo la schiena fino ai tacchi a spillo. «Gliela fornisce l'esercito quella sottanina?». «È verde, no?», ribatté il sergente. «Anche i dollari sono verdi, anche le mele. È troppo stretta, le sta incollata al culo. La fa camminare come se avesse le gambe legate all'altezza delle ginocchia. Per non parlare delle scarpe». «Che cos'hanno le mie scarpe?». «Neanche loro fanno parte della divisa». «Ma vada a farsi...», esclamò Toscà ridendo e uscì. Troy pensò che c'era una certa coreografia in quella scenetta che sembrava preparata per evitare che Zelig arrivasse a dare una risposta. Sembrava che non ricordasse più di che cosa stavano parlando, ma Troy riprese l'argomento nel suo migliore stile da «poliziotto sul banco dei testimoni». «Avete fatto uscire dalla Germania qualche tedesco del quale in seguito siano state perse le tracce?», chiese con poche parole che cercò di rendere chiare il più possibile. «Come le ho già detto», rispose Zelig quasi con noncuranza, «non c'è niente da fare». «Significa che li avete fatti uscire o no questi tedeschi?», insisté Troy. «Significa che non sono fatti suoi». Per qualche secondo restarono uno di fronte all'altro in un silenzio accentuato dal rumore che faceva Zelig nel finire l'hamburger e il caffè. Troy cercò di valutare la situazione sotto diversi aspetti. Se Zelig era quello che sembrava, allora era probabile che non sapesse niente. Dopotutto l'esercito inglese era pieno di ufficiali messi a una scrivania a maneggiare qualche foglio di carta per impedire che ripetessero la carica della Light Brigade e quale uso migliore avrebbe potuto fare l'esercito americano del colonnello Trementi se non quello di affidargli l'incarico di tenere i rapporti con gli inglesi? Ma se invece avesse recitato, come un buon attore, la parte dello stupido, deciso a non rivelare una parola di quello che sapeva? Era un mi-
stero per il momento insolubile. Perché Zelig si era preso il fastidio di incontrarsi con lui? Solo per il gusto di rispondergli di no? Troy si alzò, ringraziò Zelig nella forma più breve che la buona educazione consentiva e si avviò alla porta. Nel richiuderla, lo sentì borbottare un «Arrivederci» e di nuovo rivide il sergente Toscà, ma ebbe subito la sensazione di essere importuno. Un americano alto, dall'aria languida, in divisa da maggiore, stava seduto sulla scrivania, facendo ciondolare con grazia una gamba, e lento, carezzevole si chinava verso il sergente, come a dividere un segreto. Troy tossicchiò. Il sergente gli sorrise e visto che ormai la sua presenza era una realtà ineluttabile gli chiese: «Ha già finito?». Il maggiore tolse una sigaretta da un portasigarette d'argento, lo richiuse con uno piccolo scatto e batté l'estremità della sigaretta sulla scrivania. «Ha da accendere?», chiese a Troy. Troy scosse la testa e batté le palpebre mentre la Toscà accendeva uno Zippo e lo tendeva al maggiore, che si chinò, aspirò una prima boccata e mormorò qualche parola che Troy non riuscì a sentire. La ragazza, ridendo, ascoltava il maggiore ma guardava Troy. «Sì, grazie. Abbiamo finito», disse Troy. Se ne andò, con la sensazione che un gioco cui non aveva partecipato avesse concluso i suoi rapporti con il più importante alleato dell'Inghilterra. Entrando in automobile, mentre la pioggia batteva sul tetto, si chiese quanto del risultato di quel colloquio fosse imputabile a Pym e quanto alla naturale cattiva disposizione di Zelig. Possibile che Pym si fosse spinto fino a quel punto solo per prenderlo in giro? Aveva voluto liberarsi di una responsabilità, lasciando che insistesse nel fare a Zelig delle domande di cui lui conosceva già la risposta? La Packard era ancora lì davanti. L'autista, un tenente delle ausiliarie, scese, girò dietro il baule, tra la Packard e la Morris e andò a mettersi dritta, immobile, vicino allo sportello del passeggero. Troy guardò indietro, verso Norfolk House. Uno dei due soldati della Military Police si stava avvicinando con un ombrello aperto. L'altro non staccava lo sguardo dalla porta. Troy capì a un tratto, senza paura di sbagliare, chi stavano aspettando. Toccò il gradino del marciapiede mentre Eisenhower entrava sotto l'ombrello e capì di avere oltrepassato una barriera invisibile. Un avambraccio, chiuso in un guanto di cuoio, lo fermò, di scatto, all'altezza del petto, un soldato della MP gli disse tranquillamente: «Fermo, amico. Non
so quello che vuoi, ma non è il tuo momento». Per un attimo Troy e Ike si trovarono di fronte, poi Ike salì sull'automobile di servizio che entrò in St James Square. «Scusi, ma non era qui per lui, vero?», disse il soldato. «No», rispose Troy, «non per lui». La pioggia cominciava a passargli attraverso il cappotto e tornò in fretta a prendere l'automobile. Era giusto insistere? Un americano calvo valeva probabilmente quanto un altro americano calvo. L'unica differenza stava nel numero di fregi dorati sul berretto. Ma, fregi a parte, Troy era certo che Ike, a tavola, si comportasse meglio. 28 La ragazza al centralino del MI5, al Quartier Generale di St James Street, guardò la tessera che Troy le mostrava e alzò il telefono. «Il capo divisione Pym è in riunione», disse a Troy. Per tutto il giorno, a intervalli diversi, gli aveva risposto allo stesso modo quando lui aveva chiamato da Scotland Yard. Alle sei Troy si era trovato a dover scegliere se parlare con Onions, incastrare Pym ad Albany o dare il cambio a Wildeve in Tite Street, come gli aveva promesso. Telefonò a casa di Pym, il numero lo aveva tenuto a mente. «È tutto il giorno che ti cerco». «Me l'hanno detto. Troy, tu non capisci quando è il caso di darsi per vinti?». «Sarebbe un misero pretesto per un poliziotto darsi per vinto davanti all'ostruzionismo di uno come Zelig». «Questo non mi riguarda. Io per te non posso fare più di quanto non abbia già fatto». Troy si accorse che a Pym tremava la voce, in una via di mezzo tra l'irritazione e la collera. «Se Zelig è deciso a non dirmi niente, perché ha accettato di vedermi?». «Non lo so e prego il cielo che tu smetta di chiedermelo. Non posso, non posso e non posso parlare con te». Troy restò zitto per un momento. Sentiva il respiro un po' affannoso di Pym e capiva che si era lasciato sfuggire qualcosa di cui si era pentito. Quali parole di ammonimento aveva dovuto ascoltare durante tutto quel giorno? Quali torture gli erano state inflitte che ora trapelavano attraverso la sua stanchezza e il suo nervosismo, fino a fargli dire l'unica cosa che
doveva tacere? «Neville, tu lo sai che se vuoi che mi dia per vinto non c'è niente di peggio che dirmi quello che mi hai appena detto. Chi ti ha proibito di parlare con me?». Ora Pym era più calmo, la collera si era attenuata, era attraversata da momenti di stanchezza. «Troy, non ti posso aiutare. Davvero non posso. Se soltanto sapessi... Se avessi la percezione di... se... per l'amor di Dio, non insistere». «Non posso, devo insistere per forza». «Allora, almeno non trascinarmi a fondo con te». Troy sentì Pym abbassare il ricevitore. Se aveva dubitato che si volessero coprire l'omicidio di von Ranke e le cause che l'avevano provocato, così come per Brand e forse per Wolinskj, ora ogni incertezza era sparita in un soffio. Pym aveva acceso la sua immaginazione, se la sentiva bruciare fin sulla punta delle dita. Era il piacere della caccia. Prese l'autobus al Chelsea Embankment per andare da Wildeve. 29 Troy non riuscì a trovare Wildeve all'angolo tra Tite Street e Royal Hospital Road. Meglio così. Se non lo vedeva lui voleva dire che non lo vedevano neanche gli altri. Andò verso il Chelsea Embankment. «Pss...», sentì mentre passava di fronte al numero 55. «Pss...», di nuovo. E con un'insistenza sproporzionata alla banalità di quel richiamo. Troy vide una mano di Wildeve che cercava di afferrarlo per una caviglia dallo spazio d'accesso al seminterrato di una casa. «Vieni quaggiù!». Troy aprì il cancelletto; Wildeve, seduto sui gradini, gli indicò con lo sguardo il pianterreno. «Questi hanno chiuso tutto fino alla fine della guerra», bisbigliò. «Un nascondiglio perfetto, eh?». «Se non c'è nessuno, perché parli così a bassa voce?». Wildeve stava per rispondere, ma Troy lo fermò con un cenno della mano. «Che cos'è successo?». «Assolutamente niente. Sono arrivato a mezzogiorno. Ci ho messo un bel po' ad asciugarmi. Lei è in casa. L'ho vista due volte passare davanti alla finestra del primo piano». «È sola?».
«Credo di sì. Andava e veniva. C'è stato il solito passaggio di fornitori dal seminterrato ma nient'altro. Se ci fosse qualcun altro in casa con lei dovrebbe essere lì da stamattina, perché io non ho visto arrivare nessuno». «Va bene», disse Troy. «Adesso va' a casa a scaldarti». «Ah, grazie. Cominciavo a temere che non arrivassi più». «Con chi hai appuntamento stasera?». «Ho trovato un'altra Wren. "Tutti i bravi ragazzi amano un marinaio"». Wildeve guardò in qua e in là, dall'alto dei gradini, come un bambino che imparasse ad attraversare la strada e si avviò verso il fiume. Dopo un'ora e mezzo, Troy, seduto sui gradini al buio, si sentiva infreddolito e annoiato. Com'era riuscito a resistere Wildeve per sei ore e più? Si alzò perché gli era venuto un crampo alla gamba destra, si strofinò la ferita al braccio che, con l'umidità, gli faceva più male, e si tolse la polvere dai calzoni. Improvvisamente, al primo piano vide accendersi una luce e colse in un lampo un viso e una mano che sistemava meglio la protezione che oscurava i vetri. Era la ragazza che aveva visto a Stepney. Gli era bastato uno sguardo a riconoscerla. Un viso come quello era difficile da dimenticare. Troy attraversò la strada, senza staccare gli occhi dalla finestra, ma non vide né la luce né qualcuno dietro i vetri. Allora venne preso da un impulso. Suonò il campanello. Sentì un passo pesante, affaticato salire dal seminterrato, poi la porta si aprì, ma solo un poco. Sulla soglia c'era una giovane cameriera, con la cuffietta di traverso, le calze molli, come se le avesse infilate in fretta. «Prego?», disse. «Sergente Troy». Le mostrò la tessera. «Passi dall'ingresso dei fornitori, in fondo alla scala», rispose la ragazza. Troy bloccò la porta con un piede mentre stava per chiudersi e la tenne ferma con la mano. L'ingresso dei fornitori! Non aveva un tono di voce da persona colta e beneducata? Erano bastati i pochi anni passati in servizio di ronda a farlo assomigliare al garzone del macellaio? Si tolse dalla tasca della giacca un biglietto da visita, di quelli che si era fatto fare prima della guerra, senza qualifica professionale e ancora con l'indirizzo dei suoi genitori. «Lo porti a Lady Diana. Le dica che il signor Troy vorrebbe parlarle. Glielo dica subito». La ragazza prese il biglietto e corse via, lasciandolo in piedi in anticamera. Dopo qualche minuto di silenzio totale, ricomparve.
«La signora ha detto di farla passare», annunciò, quasi in un bisbiglio, e aggiunse, sempre a bassa voce, con impudenza: «Per i poliziotti di solito c'è la porta di servizio. L'ha detto la cuoca». Diana Brack diede al proprio ingresso nel salotto una suggestione teatrale. Attraversò la stanza, in tutta la sua ampiezza andando incontro a Troy con la mano tesa. Aveva una stretta forte, decisa. «Signor Troy, sono mortificata. I soliti preconcetti. Non si può più contare sul personale, oggi». Era alta almeno un metro e settantacinque, vestita alla Vesta Tilley. Un paio di pantaloni, imitazione nel taglio e nel tessuto della moda maschile degli abiti rigati, le cadevano con sciolta eleganza attorno alle gambe, ma erano molto stretti in vita. E le gambe erano lunghe, la vita sottile. Una camicetta di seta nera, con i gemelli d'argento ai polsi, tesa sulle spalle larghe le s'increspava sul petto esile. Al collo aveva un piccolo filo di perle. Un particolare femminile che contrastava con un aspetto che era un'irrisione alla femminilità. Il viso era di un candore perlaceo, i capelli neri, folti e lucenti, le scendevano, ondulati, di poco oltre le spalle e, a tratti, le ricadevano con noncuranza su una guancia. Lei li scostò, dopo aver stretto la mano a Troy, che la guardava negli occhi espressivi, di un verde intenso. Troy pensò che aveva davanti l'immagine di una canzonatura della moda, ostentata, presuntuosa e raffinata. Un'affascinante elaborazione in bianco e nero. Capì che cosa aveva turbato i fratelli di Wildeve e il povero Al Bowlly. Per il viso di Diana Brack si poteva uccidere o morire. Era certamente una delle più belle donne di Londra. Suo padre, si disse Troy, forse si tormentava al pensiero che a ventiquattro anni non fosse ancora sposata. Non dimostrava, fisicamente, più della sua età, solo i modi erano più sicuri di quelli di una ragazza. «Si sieda. Che cosa posso offrirle? Daisy mi ha detto che lei è un poliziotto. Stranissimo!». Stavano uno di fronte all'altro, ai lati di un grande camino di quercia, lei era seduta su un divano Knole, con le gambe accavallate, un piede che oscillava appena appena e lasciava intravedere la caviglia, la calza nera. Troy cercava di resistere a un invito all'indolenza che pareva emanare dalla sua poltrona. A terra, tra loro, c'era una confusione di giornali e sopra, aperto a metà, con le pagine in giù, un libro. Troy lesse il nome dell'autore e il titolo e inarcò le sopracciglia: Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra. «Davvero non posso offrirle niente?», chiese di nuovo Lady Diana e,
come prima, parve non aspettare una risposta. «Niente, grazie. Devo solo farle qualche domanda, poi andrò via». «Qualche domanda? A me? Santo Dio!». Quell'aria di falsa ingenuità era irritante, era un invito a un intervento drastico. «Sto indagando su un omicidio», disse Troy. Era una frase che turbava, di solito, l'interlocutore, ne alterava l'espressione. Il viso di Diana Brack restò impassibile. Non sorrise ma nemmeno parve preoccuparsi. Solo la sua voce risultò leggermente alterata, Troy non lesse niente nei suoi occhi verdi. «E lei vuole parlarne con me e farmi qualche domanda? Chi è stato ucciso?». «Non glielo posso dire». «E allora le sarà difficile farmi delle domande». «Perché domenica sera lei è stata a casa di Peter Wolinskj?». Le parole colpirono nel segno, ma appena appena. Diana Brack cambiò impercettibilmente posizione. Inclinò la testa e una ciocca di capelli le ricadde sugli occhi. Lei la scostò con la mano e tornò a guardare Troy. Sul dorso delle sue mani, ora strette intorno alle ginocchia, con le dita intrecciate, aveva delle piccole vene azzurre in rilievo. «Dio mio! Non vorrà dirmi che Peter è stato ucciso?». «No, non sto dicendo niente del genere. Le ho solo chiesto perché lei era a casa sua». «Solo per curiosità. Non mi aveva più telefonato. Sono passata a trovarlo». «È passata di lì per caso?». «No, naturalmente. È impossibile passare per caso da Stepney Green. Bisogna andarci apposta! Ma lei come sa che ero lì? Non l'ho negato neanche per un istante, ma mi dica come lo sa». «L'hanno vista». «Ah, mi hanno vista! Sono spiata, signor Troy?». All'innocenza si aggiungeva l'irritabilità? L'intenzione di mostrarsi offesa? Lady Diana voleva menarlo per il naso? La vide riprendere un atteggiamento più tranquillo, sciogliere le dita allacciate così strette e appoggiare le spalle al divano. Troy intuì che quel tono solo un po' risentito era una risposta inadeguata a quello che lui aveva lasciato intendere. Non reagiva così, di solito, chi si sentiva leso nei propri diritti dall'invadenza della polizia. E questo valeva per tutti, dal ladruncolo al lord. Le parole di Diana
avevano una sottigliezza che non poteva corrispondere all'innocenza. Erano troppo ben giocate. Ma le avrebbe dimostrato lui chi aveva in mano la partita. «No, assolutamente«, disse, «nessuno la sta spiando, ma il signor Wolinskj risulta scomparso e noi saremmo curiosi di sapere dov'è andato a finire». «Beh, io non ho sue notizie da più di due settimane. Se qualcuno mi ha visto avrà anche visto che non era in casa quando sono passata di lì». «L'ultima volta che...». Diana Brack prevenne la domanda. «È stato al Bricklayers Arms, il pub all'angolo della strada di casa sua. E no, non ha fatto o detto niente che potesse apparirmi preoccupante. Non sembrava inquieto. Certo non mi ha detto che voleva scappare». Troy cambiò tattica. Se pensava di poterlo fermare con una barriera di parole, sbagliava e se ne sarebbe accorta. «Come mai conosce Wolinskj?». «Abbiamo interessi in comune». «Interessi?». «Sì, in politica». «Wolinskj, se non sbaglio, è comunista». «Non è vietato dalla legge, vero? Sì, ho conosciuto Peter al Partito Comunista. È stato circa un anno fa, a Whitechapel». «Ma lei non è iscritta, vero?». «No, signor Troy, non sono iscritta». «Allora è filocomunista? Segue le idee del partito?». Gli rispose con un gran sorriso. Aveva dei bei denti, mai profanati dalla odontoiatria anteguerra. «Signor Troy, intravedo un accenno di snobismo nelle sue parole. Possibile? Non ho il dovere, almeno credo, di denunciare le mie tendenze politiche o di scusarmene. Del resto meglio seguire che essere inseguiti». Anche Troy sorrise. Se l'era cercata quella risposta. «Lo vede, ogni tanto, il signor Wolinskj?». «Non lo vedo ogni tanto, lo vedo spesso». «Ma non recentemente, è così?». «Credevo di averlo già detto». «E domenica sera non è entrata nell'appartamento del signor Wolinskj?». «Nel suo appartamento...». Aveva parlato con lentezza, diluendo ogni sillaba. «Peter non c'era. Ho bussato. Nessuno ha risposto. Me ne sono
andata. Non so dove sia e perché non abbia dato notizie. Mi dispiace molto, ma non vedo come potrei aiutarla». Dopo questa battuta, in una commedia di John Boyton Priestley, il padron di casa si sarebbe alzato per tirare il cordone del campanello e incaricare il maggiordomo di mostrare al detective, insieme alla porta, anche la sua posizione sociale. Ma la posizione sociale di Troy, lui lo sapeva, era evidente in ogni parola che pronunciava. Solo una cameriera ottusa poteva non accorgersene. Diana Brack se n'era accorta. Però mentiva. Troy sapeva anche questo. Aveva ben chiaro nel ricordo il rumore di quella porta che si chiudeva. E ora il profumo di cannella bruciata, che l'aveva guidato attraverso le prime due stanze della casa di Wolinskj, gli arrivava di nuovo, mentre Diana Brack si sporgeva verso di lui quasi con fervore. «Senta: lei viene da me e mi avverte che sta indagando su un omicidio. Non mi spiega chi è morto. Però non mi dice neanche che è Peter. Mi dice che qualcuno mi ha visto, come se la mia amicizia per Peter fosse qualcosa da nascondere. È chiaro che mi ha seguita fin qui. Ora, mi spieghi cosa pensa che sia successo a Peter e perché dovrei entrarci in qualche modo. Credo di avere il diritto di saperlo». «Io non so che cosa gli sia successo. Sono preoccupato, come è preoccupata lei. Avevo sperato che potesse vedere un po' più chiaro di me nella sua scomparsa. Tutto qui. Ora», aggiunse Troy, togliendosi dalla tasca del cappotto il libretto degli appunti, «spero proprio che mi avverta se le verrà in mente qualcosa che possa essermi d'aiuto». Scrisse su un foglietto Whitehall 1212, un numero che qualsiasi essere pensante in Inghilterra conosceva benissimo, e intanto, mentre la spiava con la coda dell'occhio, la vide lanciare uno sguardo rapido verso la porta aperta della stanza accanto. Uno sguardo fugace, quasi impercettibile. Quando Troy alzò gli occhi incontrò di nuovo quelli sorridenti di lei ma, mentre le dava il foglietto, ebbe la certezza che nella stanza accanto fosse nascosto qualcuno. 30 Troy aspettò cinque minuti, poi attraversò la strada e tornò a mettersi in fondo ai gradini che portavano al seminterrato della casa di fronte. Dopo un quarto d'ora, vide aprirsi la porta del numero 55. La Brack uscì, guardò da un lato e dall'altro del marciapiede e poi si voltò verso la porta. Troy la sentì bisbigliare un «via libera» e un uomo alto, elegante, con un imperme-
abile di gabardine marrone stretto in vita dalla cintura, scese i gradini e la strinse tra le braccia. Poi alzò la testa per mettersi il cappello e, alla luce che usciva dalla porta aperta, Troy lo riconobbe. Era il maggiore americano che aveva visto nell'ufficio vicino a quello di Zelig, anche se era in borghese, non si poteva dubitare che fosse lui. Salutò la Brack con lo stesso sorriso che aveva rivolto al sergente Toscà, il sorriso del lupo a Cappuccetto Rosso. La Brack lo guardò attraversare la strada e quel gesto affettuoso durò più di quanto non avrebbe fatto comodo a Troy, perché, quando la porta si richiuse e la strada tornò al buio, la sua preda era scomparsa. Aveva sentito l'eco dei passi allontanarsi per tutta la lunghezza della strada, fino all'angolo; attraversò di corsa Royal Hospital Road e, all'angolo di Christchurch Street, si fermò. Dell'americano non c'era traccia. Seguitò ad andare verso nord e arrivò al limite di Tedworth Gardens, una piazza cui da tempo era stata tolta la recinzione di ferro e sostituita con un groviglio di filo spinato e assi di legno. Troy, il cui sguardo cominciava ad abituarsi all'oscurità, vide che la piazza era stata suddivisa in campi coltivati. C'erano anche dei capanni Nissen, lunghi e stretti come tunnel, con la base di cemento e il tetto di lamiera ondulata e anche dei rifugi antiaerei Anderson, prefabbricati, con il tetto a volta. Troy s'incamminò tra le strisce di terra coltivata a verdura. Dal buio gli venne incontro una voce. «Cerchi il maggiore?». Poi comparve anche una faccia illuminata dalla debole scintilla del mozzicone di un sigaro che un uomo aspirava tentando di riaccenderlo. Troy si avvicinò. L'uomo era grasso e calvo. Portava il giubbotto della Squadra di soccorso, proprio come gli aveva detto Wildeve. Stava seduto su una vecchia sedia senza spalliera. Ai suoi piedi c'era un grosso maiale bianco. «Buonasera», disse e il maiale aggiunse al saluto il suo grugnito. «Volta a destra verso St Leonard, poi a sinistra in Smith Street. Ti troverai in King's Road. Più in fretta di così non si può arrivare alla fermata di Sloane Square. Se corri riesci a trovarlo, il maggiore. Però, attento a non farti vedere, tu ti porti scritta la parola poliziotto dalla testa ai piedi». Troy non fece domande. Forse l'uomo era un complice e aveva detto quello che gli avevano insegnato, ma il tempo era poco, non consentiva scelte e corse verso Smith Street. Entrando in King's Road pensò che solo un mago avrebbe potuto pronunciare quelle parole senza che nessuno gliele avesse suggerite. La strada era piena di gente e molti avevano l'impermeabile e il cappello, era la stagione, ma l'americano se non altro aveva la
statura a distinguerlo. Non erano molti gli inglesi alti più di un metro e ottantacinque. Troy seguì le indicazioni del vecchio e andò verso Sloane Square. Camminava in fretta e aveva paura di andare a sbattere, nel buio, alle spalle dell'americano. Attraversata la seconda strada fu quasi certo di averlo individuato tra la folla, non molto fitta, che si dirigeva verso King's Road. Attraversarono la piazza una decina di metri l'uno dall'altro e Troy lo vide scendere nella metropolitana. Aspettò in strada il tempo necessario a lasciare che comprasse il biglietto e si dirigesse ai marciapiedi. Poi scese fino a metà la scala che portava al marciapiede est, la direzione per il centro. C'erano una dozzina di persone che aspettavano il treno. Quanto bastava per tenersi nascosto. Si mise in coda al gruppo, col bavero rialzato e cercò di non guardare dalla parte dove guardavano tutti. Appena arrivato il treno si sarebbe avvicinato, ma senza salire finché non avesse visto l'americano fare altrettanto. Sarebbe salito a una carrozza di distanza dalla sua. Mentre guardava, di là dai binari, il marciapiede di fronte, sentì lo sferragliare del treno diretto verso ovest. I passeggeri in attesa si predisposero a salire. E tra loro, proprio di faccia a lui, l'americano, che aveva la testa voltata verso il treno in arrivo. Se avesse spostato lo sguardo oltre i binari si sarebbe trovato Troy davanti agli occhi. Il treno si fermò in mezzo tra loro due. Troy salì di corsa i gradini, attraversò il passaggio nell'atrio della biglietteria e scese dall'altra parte appena in tempo a entrare prima che si richiudessero le porte. La District Line correva così vicino alla superficie che il treno era stato oscurato, secondo il regolamento della protezione antiaerea e solo attraverso piccole losanghe intagliate nei pannelli scuri filtrava un po' di luce. Il buio all'esterno era preferibile alla opprimente semioscurità all'interno del treno. Era come entrare in un girone infernale. La carrozza era piena al massimo. L'americano era circa a metà, vicino alle porte, voltato di spalle rispetto a Troy, a poco più di sei metri. Il treno si fermò stridendo alla stazione di South Kensington, una delle poche all'aperto. L'americano scese tra i primi e si diresse verso l'ascensore che portava alla Piccadilly Line. La coda davanti all'ascensore era lunga e Troy si arrischiò a scendere le scale fino al marciapiede di sotto, perché prendere lo stesso ascensore era impensabile, ma se avesse dovuto aspettare quello successivo sarebbe arrivato troppo tardi. Toccò l'ultimo gradino mentre le porte dell'ascensore si aprivano, aspettò e vide l'americano uscire e andare verso la linea nord, che l'avrebbe portato verso il cuore di Londra, dopo le fermate di Knightsbridge e Piccadilly. A quel livello, il più basso, spostarsi lungo il marciapiede significava
scontrarsi con la massa di coloro che la notte cercavano nella metropolitana un riparo contro i bombardamenti. Troy se n'era quasi dimenticato. Si serviva raramente della metropolitana e non l'aveva mai usata come rifugio antiaereo. A tre metri di profondità, migliaia di londinesi si accampavano con le brandine, i fornelletti Primus, per scampare alle bombe di Hitler. Questo aspetto della vita londinese era diventato parte del folclore durante i bombardamenti del 1940 ed era ripreso con le pesanti incursioni che erano ricominciate in febbraio. La gente non aspettava più che la sirena annunciasse l'arrivo della Luftwaffe ma, la sera, scendeva nella metropolitana il più presto possibile. I bambini si accaparravano fin dal mattino lo spazio che serviva a tutta la famiglia, senza aspettare le quattro del pomeriggio, l'ora consentita durante l'inverno. Partito l'ultimo treno, i marciapiedi, i corridoi e perfino le scale mobili, ormai bloccate per la notte, erano ingombri di corpi umani addormentati. Con la seconda ondata di bombardamenti, tutti si erano organizzati, file di brandine di ferro, anche a tre ripiani erano allineate lungo i marciapiedi, all'inizio e alla fine dei quali erano occultati i gabinetti chimici. La presenza soffocante di duemila persone e più in poco spazio, per quanto tutti cercassero di migliorare gradualmente la propria sistemazione, rendeva preferibile restare sotto il cielo aperto. La scelta era tra l'odore di umanità, pesantemente coperto dall'odore di disinfettante, e quello di cordite; tra il rischio di morte e la sicurezza di una prigione sotterranea solo chiamata con un altro nome. L'estendersi della popolazione notturna nella metropolitana, lasciava poco spazio agli ultimi viaggiatori della sera. Arrivato sul marciapiede, Troy non riuscì a muovere un passo senza sollevare le proteste dei rifugiati e dei passeggeri. Cercava di non farsi notare, si rendeva conto che le grida di «dove crede di andare, lei?» attiravano sulla sua persona proprio quell'attenzione che voleva evitare. Si unì al gruppetto più vicino ai binari, ma non poteva stare a più di qualche metro di distanza dall'americano senza rischiare di restare poi bloccato dalla folla. Dietro di lui, una giovane madre cercava di mettere a letto una bambina. Vicino a loro una donna sui settant'anni si preparava una tazza di tè. Dall'alto di una brandina ciondolava la testa di un vecchio che russava già. Troy guardava gli avvisi pubblicitari per evitare il contatto con una vita privata resa, in modo imbarazzante, pubblica. Era convinto che gli inglesi delle classi privilegiate mandassero i loro figli alle scuole private (e capiva perché si chiamassero public school, nonostante fossero così palesemente esclusive) proprio per insegnare loro il valore della riservatezza costringendoli a vivere gli anni della formazione in pubblico. Il
bagno, il sonno, le punizioni in pubblico. Non poté resistere alla tentazione di voltarsi e guardò dietro le sue spalle la madre e la bambina. La madre era evidentemente a disagio, la bambina no, chiacchierava allegramente mentre veniva infilata per la notte in un sacco che finiva come la coda di una sirena. Troy prese il treno per il centro, entrò nella carrozza dietro quella dell'americano. Tra l'una e l'altra c'era un finestrino a saliscendi aperto e Troy vide che l'americano si era seduto vicino alla porta, con la testa bassa su una copia dell'«Evening News». Le fermate si succedevano, una dopo l'altra, Hyde Park Corner, Green Park, Piccadilly Circus, ma lui non si muoveva. Alzò gli occhi quando il treno entrò in Piccadilly Circus ma solo per controllare il nome della stazione, poi riprese subito a leggere il giornale. A Leicester Square e Covent Garden non alzò nemmeno gli occhi. Dove stava andando? Troy si era aspettato di vederlo scendere alla fermata di Leicester Square o a quella di Piccadilly Circus, dalla quale si raggiungeva il West End e il Rainbow Corner, il grande club americano per i militari. Ma quando il treno stava per arrivare a Holborn, l'americano si alzò, s'infilò il giornale in tasca e si avvicinò alla porta. Un attimo prima che si aprisse, si diede un puntiglioso colpetto all'ala del cappello e uscì sul marciapiede, mentre la porta gli scorreva a fianco. Holborn era ancora più affollata di South Kensington, i passeggeri dovevano sostenere una lotta per guadagnare l'uscita mentre dai sottopassaggi arrivava altra gente ancora. Cercando di inseguire l'americano, Troy urtò una gamba. La gamba gli restituì il calcio. Qualcuno gridò che non gli conveniva uscire perché era iniziata un'incursione aerea. Con gli occhi fissi sulla schiena del maggiore americano che stava ormai per sparire del tutto, Troy proseguì per la sua strada. Passò accanto a una massaia di mezza età e a un caporale americano in divisa che litigavano. Seguitò a farsi largo. Il maggiore americano aveva guadagnato terreno. Ancora pochi secondi e l'avrebbe perso di vista completamente. Sentì dietro di sé la lite esplodere clamorosamente e ne avvertì nello stesso istante il pericolo. «E io le dico, signora, che gliela farò pagare». «Andiamo, non la vede che ha quindici anni? Vuole correre dietro a una bambina?». Troy, istintivamente, si voltò. Il caporale aveva afferrato una ragazza per un braccio e con la mano libera gesticolava verso la massaia. Troy si guardò alle spalle. L'americano era quasi all'uscita.
«Io non corro dietro a nessuno. È lei che mi ha fatto tirar fuori cinque sterline e io la faccio finire in galera!». «Ma non vede che è troppo giovane per certe cose?». «Giovane o no non m'interessa. Mi si è buttata addosso!». L'americano scomparve nel sottopassaggio. Troy si voltò giusto in tempo per vedere il caporale che, con un pugno, colpiva la ragazza in viso. Accorse, senza badare chi urtava o calpestava, e lo afferrò per il braccio libero. Il caporale lasciò andare la ragazza e, con uno spintone, lo fece cadere sopra una massa di corpi umani, poi, mentre Troy cercava di rimettersi in piedi, tornò ad afferrare la ragazza per trascinarla via. Lei gridava. «Mamma, non è vero! Non è vero! Non ho fatto niente!». Troy si buttò in avanti e afferrò il caporale per le gambe, ma non era abbastanza forte per tirare a terra, come in una partita di rugby, un avversario alto un metro e ottanta e pesante almeno ottanta chili. Si sentì afferrare per il bavero del cappotto e rimettere in piedi e poi scaraventare di nuovo contro la fila delle brandine. Nel cadere riuscì a colpire sul naso il caporale che per un attimo lo lasciò andare e si coprì la faccia con tutte e due le mani. Attorno a loro le donne gridavano. Prima che Troy si rimettesse in piedi del tutto il caporale lo strinse alla gola e lo trascinò in un sottopassaggio dove la scala di sicurezza saliva a spirale sulla strada. Lo sbatté contro il muro, poi lo tirò verso di sé, lo fece girare in cerchio, e lo sbatté ancora contro il muro; di nuovo lo fece girare su se stesso e lo mandò a urtare violentemente dall'altro lato della scala. Lasciò la presa e lo colpì con una scarica di pugni. Troy si accasciò ma, da terra, gli tirò un calcio nei testicoli e mentre si allentava la gragnola di pugni che gli si stava scaricando addosso fece scivolare una manetta attorno al polso del caporale, la richiuse e si assicurò l'altra al polso sinistro. Con la mano destra tirò tre o quattro colpi netti in faccia all'avversario, che si abbatté su di lui. A un tratto tutto diventò nero e insopportabilmente caldo in un soffocante odore di cordite. Le grida cessarono. 31 Troy avanzava strisciando in un grande spazio fangoso sotto una luna rosso sangue. In lontananza, su una collina, c'era una figura della quale riusciva a vedere solo i contorni, ma che sapeva di dover raggiungere. Cercò di alzarsi in piedi, ma si accorse che il fango lo risucchiava con forza e continuò a strisciare mentre la figura gli faceva segno di andare avanti. Si
accorse di avere indosso una camicia da notte che, per il sudore, gli stava appiccicata alla schiena. Sopra la sua testa, in cielo, si accese una girandola di razzi infuocati. Chino su di lui c'era un uomo. Il suo viso si stava componendo, a poco a poco, da una macchia confusa, in una fisionomia sempre più nitida, mentre la luna si ritirava alla luce del giorno e la figura sulla collina svaniva nell'aria. «Freddie?». Era Wildeve. Che cosa faceva lì? «Jack, che cosa fai qui?». Davvero aveva parlato? Gli era sembrato che le parole arrivassero da un'altra parte. «Freddie, lo sai dove siamo? Al Middlesex Hospital di Mortimer Street. Ti sei trovato nel pieno di un bombardamento». «Come?». «Sei stato ferito dallo scoppio di una bomba». La stanza, dietro le spalle di Wildeve, prese forma. Era una corsia di ospedale. Troy vide il letto davanti al suo, dov'era seduto Wildeve. «Scusa, Jack, ero fuori dal mondo». «Hai rischiato di restarci per sempre, fuori dal mondo». «Spiegami che cos'è successo». «Ti hanno trovato in un sottopassaggio ai piedi della scala di sicurezza della stazione Holborn. Ti ricordi?». Troy assentì. «Una bomba ha colpito la presa d'aria. È entrata nella spirale della scala come un coltello nel burro. Dev'essere esplosa circa a quindici metri sopra di te. La scala non esiste più. Tu eri ammanettato a un soldato americano. Ti ha salvato la vita. Ti ha protetto completamente dall'esplosione. Lui non aveva più la schiena. Un pezzo di scala gli è passato attraverso e si è fermato prima di arrivare a te. Dev'essere morto subito. E credo anche gli altri». Troy si rese conto che Wildeve parlava quasi in un bisbiglio per non diffondere quelle notizie allarmanti, ma non poté trattenersi dal fargli altre domande. Tutto era troppo vago. «Gli altri? Quali altri?». Wildeve si guardò attorno per essere certo che nessuno stesse ascoltando e si avvicinò ancora di più a Troy. «Quelli che erano lì per ripararsi». «Ma...».
«Sono morti tutti nel sottopassaggio, solo tu sei vivo. Anche la maggior parte di quelli che erano sul marciapiede sono rimasti uccisi. Gli uomini della squadra di soccorso hanno fatto il conto che i morti saranno circa seicentocinquanta. Sei stato fortunato a cavartela. Ammanettato a un cadavere!». Wildeve tacque. Troy sospirò profondamente, per la stanchezza, non per l'emozione. Non aveva ancora ben capito che su seicento persone solo lui si era salvato. Una parte del suo cervello era ancora paralizzata. Rivedeva quel giovane americano che lo sbatteva contro il muro del sottopassaggio una volta e poi ancora, ancora e risentiva il dolore alla testa e alle spalle, ma tutto era successo così in fretta che solo ora sapeva di aver provato quel dolore. «Che cosa facevi lì?». «Stavo seguendo un americano. Era uscito dalla casa della Brack. L'ho seguito fino a Holborn». «Oh, allora quella traccia è morta con lui». «No, non era lo stesso americano». «Come?». «L'americano che avevo ammanettato non era quello che avevo seguito. Lui, invece, è scappato per il sottopassaggio che va all'uscita». «Un uomo fortunato». Troy urtò con la gamba Wildeve, per farlo alzare dal letto, poi scostò le coperte e cercò di mettere i piedi a terra. Gli girò la testa e la stanza prese quel colore rosso sangue che aveva visto in sogno. Wildeve, con delicatezza, gli posò le mani sulle spalle e l'obbligò a tornare a letto. «Non fare sciocchezze. Hai avuto un trauma cranico. Vorranno trattenerti almeno fino a domani». «Ancora? Ma da quanto tempo sono qui?». «Tre giorni». «Ah Dio», sospirò Troy. «Jack, è meglio che vai a cercarlo in Tite Street». «Ma io non mi sono quasi mai mosso da Tite Street. Adesso sono qui solo perché so che Diana non si alza presto la mattina. Sono solo le sette. Tu non lo sai, immagino. È sabato mattina. Ora dimmi chi è questo americano». Troy gli disse tutto quello che sapeva. «L'unico americano di cui mi avevi parlato era Zelig», osservò Wildeve. «Non credevo che fosse importante. Mi sbagliavo. Ora dobbiamo scopri-
re chi è». «Bene, me ne occuperò io. Tu è bene che per un po' ti tenga in disparte». Wildeve tacque, cercando di ricomporre le notizie che Troy gli aveva dato un po' per volta. «Pensi di essere stato visto?». Troy ricordava un americano che si allontanava lentamente e silenziosamente mentre lui lo seguiva, si rivide scavalcare i corpi proni, addormentati, correre verso la ragazza con il viso stravolto dal terrore. Era sopravvissuta? Era saltata in aria, smembrata, bruciata viva? Wildeve lo toccò su una spalla, lo riportò al presente. «Eh?». «Ti ho chiesto se pensi di essere stato visto». «No, sono quasi certo di no. Lui ha scelto una direzione tortuosa per andare in centro ma credo che l'abbia fatto perché è abituato a prendere sempre misure precauzionali. Non per sfuggirmi». «Credi che sia lui il nostro uomo?». «Non lo so, ma le coincidenze sono strane. Era nell'ufficio di Zelig e poi in casa della Brack, dove si è tenuto nascosto. Non voleva che io lo vedessi. Zelig non mi ha parlato di un possibile collegamento tra i tedeschi e le operazioni americane, ma qualcuno ha spellato vivo Neville Pym per avermi lasciato la possibilità di capirlo. Ora noi sappiamo di poter collegare l'americano, Diana Brack e Wolinskj a Brand e von Ranke». «Ho le idee confuse. Non ho capito quello che dicevi a Onions lunedì e credo che anche Onions non ne abbia capito molto». Troy cercò di parlare, mentre il dolore che sentiva alla testa si faceva più forte, partiva dalla tempia sinistra e, come una nuvola rossa in movimento esplodeva davanti ai suoi occhi, sotto la spinta delle sue parole. «Non posso spiegarti per il momento. Niente è ancora chiaro, nemmeno per me. Sono solo frammenti». Troy non avrebbe saputo dire se Wildeve gli credesse o no, sperò solo che, per il momento, non insistesse. Wildeve si alzò in piedi. «È meglio che me ne vada», disse. «Tornerò domani con i vestiti». «Quali vestiti?». «I tuoi. Abbiamo dovuto farli pulire. Il cappotto è venuto bene, ma la camicia no. È stato impossibile togliere le macchie di sangue. Ne ho ordinata una nuova al tuo camiciaio in Jermyn Street. Onions mi ha dato i tagliandi, ha detto che glieli devi restituire, ma Onions secondo me non consuma in un anno i tagliandi di un mese. Ad ogni modo verrà anche lui a
trovarti». Troy sospirò di nuovo. Non gli piaceva l'idea di una visita di Onions. Per ogni domanda che gli aveva fatto Wildeve ne avrebbe fatte una dozzina in più e non sarebbe stato altrettanto facile convincerlo a non insistere. La nuvola rossa premeva all'angolo dell'occhio. Cercò di allontanarla passandosi una mano sulla fronte. Si strofinò la tempia e sentì la traccia granulosa dell'esplosione. Aveva i capelli pieni di scaglie di cemento. Per molti giorni, in seguito, gli parve di trovarne dappertutto. 32 Dopo tanto tempo passato al gelo e al buio aveva finito con l'essere tentato di battere i piedi e strofinarsi le mani come un vetturino infreddolito, almeno per non intorpidirsi del tutto, ma sarebbe stato, per definizione, il modo peggiore per spiare qualcuno senza essere visti. Si appoggiò, sbadigliando, nel vano del portone del numero 23 di St James Square, vide i clienti della London Library andare verso la piazza, i commessi che uscivano dopo la chiusura e si preparò a mostrare la tessera all'agente di zona. Guardandolo, fermo davanti a lui sul marciapiede, con la mantellina e l'elmetto, gli parve ridicolo e si rallegrò con se stesso per aver smesso di portare la divisa. Lucido di pioggia, schizzato di fango, l'agente non mostrava di avere problemi di quel genere. Guardò Troy dritto in faccia e gli disse bruscamente: «Che si fa, aspettiamo qualcuno?». Perché, oh perché, pensò Troy, nessuno si rivolge a me chiamandomi «signore»? Mostrò subito la tessera. L'agente la guardò, inclinando la lanterna semioscurata, poi gliela restituì e Troy se la rimise in tasca. «Sono in servizio», disse, «si allontani». «Come vuole», rispose l'agente. «Se ha bisogno di me rifaccio il giro tra quaranta minuti». Si allontanò a passi lenti che risuonarono, regolari, sul marciapiede, dando una rapida occhiata dentro ogni portone. Troy lasciò indugiare lo sguardo su di lui per una frazione di secondo in più. Nel buio dell'oscuramento anche un quarto di luna serviva a poco e, quando voltò di nuovo la testa, vide che stava per non accorgersi di una donna in divisa che passava all'altro lato della piazza. Se era lei, per raggiungerla avrebbe dovuto mettersi a correre. Quando arrivò a Norfolk House la vide voltare a destra in Charles II Street. Nello sforzo di non perderla di vista, dimenticò tutte le sensazioni sgradevoli che l'avevano afflitto durante l'attesa. Perché nascondersi, dopotutto? Prima o poi avrebbe pur
dovuto parlarle. Che cosa le avrebbe detto? Non lo sapeva ancora, ma avvicinarla ora gli sembrava più importante di qualsiasi altra cosa. Per qualche ragione che Troy non riuscì a capire, lei attraversò la strada, diede un'occhiata in giro, poi l'attraversò un'altra volta. I tacchi alti non parevano impedirle di camminare in fretta, dentro e fuori dal buio, a un passo che Troy trovava difficile seguire. Era quasi arrivata a Regent Street e Troy non aveva ancora raggiunto quel distacco di dieci, quindici metri che riteneva il più adatto a pedinare qualcuno. Lei entrò in Lower Regent Street e scomparve, ma dopo poco la vide tornare indietro e venirgli incontro, guardandolo in faccia. Non c'erano vie traverse per le quali allontanarsi e poi era chiaro che l'aveva visto. Gli si fermò a poco più di un metro di distanza. Non fosse stato per quei tacchi non sarebbe stata alta più di un metro e quaranta e, nella sua divisa, rigorosa, perfetta, si ergeva, col petto in fuori, come un piccioncino, pronta a confrontarsi. Troy la sovrastava come un torrione, ma senza intimidirla. «Mi sta seguendo?». Troy si cercò in tasca la tessera. «Troy», disse timidamente, «sergente Troy». Lei diede solo un'occhiata alla tessera, poi tornò a fissarlo, dura e interrogante. «E allora perché non è in divisa?». «Non tutti da noi portano la divisa». «Ah. Anch'io sono sergente». «Lo vedo». Con quelle tre vistose strisce su ciascuna delle maniche verde oliva sarebbe stato difficile non accorgersene. Lei fece per allontanarsi, poi tornò indietro e lo fissò dalla testa ai piedi. Aveva gli occhi di un castano chiaro, uniforme, senza un riflesso verde o nocciola chiaro. Sembrava volesse leggergli in faccia le sue intenzioni. Troy pensò che anche a lui sarebbe piaciuto conoscerle. La bocca a bocciolo di rosa tremolò in un accenno di sorriso. «Ah, smettiamola di comportarci come due detective da quattro soldi. Andiamocene via. Dove, da te o da me?». Troy non rispose. Non capiva di cosa stesse parlando. Lei sgranò gli occhi e sorrise. Di nuovo Troy non disse niente, e quando lei si incamminò restò a guardarla finché non fu quasi all'angolo della strada. Aveva ragione Zelig. Quella gonna era troppo stretta, il sedere le si muoveva come due uova di struzzo in un sacco. Lei tornò indietro.
«La facciamo una scopata o no?». «Ma... io...». Troy restò senza fiato. Aveva sentito parlare così solo le ubriache ai comandi di polizia. «È da stupidi stare qui. Forse sei tu che sei stupido. Non possiamo farlo sul marciapiede. Vieni, scuotiti. Non è lontana casa mia, seguimi, è in Orrnnij Street». Troy si passò e ripassò nella mente quell'Orrnnij Street e poi capì che era Orange Street, una stradina stretta, tortuosa tra Haymarket e Charing Cross Road, due pub, una cappella e poche case in stile georgiano. Passarono per Lower Regent Street e Haymarket in silenzio, quasi affiancati. Ogni tanto lei lo guardava come se fosse un idiota e tale, infatti, Troy si sentiva. In Orange Street la poca luce scomparve del tutto, c'era freddo e silenzio. Troy sentiva il ticchettio dei tacchetti sul marciapiede ma non la vedeva e quando si fermò la urtò e la sentì imprecare sottovoce. Poi lei prese le chiavi e nella notte si aprì uno squarcio che li inghiottì. «Quinto piano a piedi. Stammi vicino perché non ci sono lampadine oscurate, mancano addirittura le lampadine». Lui la seguì, tenendo una mano sulla sua, lungo la ringhiera. La pioggia e la luce della luna entravano da un vetro rotto al secondo piano e per un attimo la vide, dal virino di vespa in giù. Inciampò e batté un ginocchio sul gradino. «Te l'avevo detto di fare attenzione. Stammi vicino o va a finire che ti rompi l'osso del collo prima di arrivare a metà scala». Lo prese per mano, chinandosi verso di lui, che in quel po' di luce riuscì a vederle il viso. «È la prima volta che mi porto a casa uno imbranato come te». Lo guidò, tenendolo appena appena stretto, fino a una porta sull'ultimo pianerottolo e di nuovo prese le chiavi. «Perché hai aspettato tanto tempo sotto la pioggia? Lo sai dove lavoro, no? Beh, entra». Accese la luce e richiuse la porta. Troy si trovò in un soggiorno-camera da letto grande come tutto l'ultimo piano della casa. Verso la facciata e sul retro il tetto scendeva fino quasi a incontrare il pavimento, ma al centro della stanza c'era spazio per un letto doppio, un tavolo da pranzo, un vecchio divano imbottito di crine, un grammofono a tromba e una massa di indumenti femminili sparpagliati dappertutto. «Non ti chiedo scusa per il disordine. Lavoro tutto il giorno. Ora che ci penso, se mi avessi avvertita la settimana scorsa, che volevi venire a cercarmi, te l'avrei detto che non esco mai dall'ufficio prima delle nove».
Gettò via le scarpe, si avvicinò a un grosso frigorifero Kelvinator e guardò Troy che la seguiva con gli occhi. Poi si tolse la divisa, la tirò sul divano e, sorridendo, aprì lo sportello. «Bourbon?». Quasi spariva dentro il frigorifero. «Non so, non l'ho mai assaggiato». Le era quasi impossibile arrivare allo scomparto del freezer, diede solo un'occhiata in punta di piedi e cercò con la mano i cubetti di ghiaccio. «Ecco, qui c'è il ghiaccio e da qualche parte dev'esserci anche un buon whisky di malto del Tennessee». Lo sportello cigolò e si richiuse con uno scatto. Lei mise due bicchieri su un vassoio di alluminio che era sul tavolo. «Abbiamo uno spaccio discreto. Non sempre trovo il Tennessee, ma... siamo in guerra». S'interruppe e di nuovo guardò Troy dalla testa ai piedi, silenzioso, incerto, con le mani in tasca come uno scolaro recalcitrante. «Vuoi toglierti il cappotto o no?». Per qualche ragione che si rifiutò di approfondire, nello sbottonarsi di fronte a lei il cappotto nero inzuppato, Troy si ricordò di quando si spogliava davanti a sua madre a dieci, undici anni, troppo grande per aver bisogno di un aiuto o di una supervisione e troppo piccolo per convincerla della necessità di un po' di riservatezza. Toccò un grosso calorifero di ghisa per vedere se era caldo e vi mise ad asciugare, bene aperto, il cappotto. Quando si voltò lei aveva trovato la bottiglia e stava versando il bourbon in due bicchieri ciascuno con due cubetti di ghiaccio. Gli porse un bicchiere attraverso il tavolo. Era straordinariamente piccola, senza divisa e senza scarpe. Col suo metro e settantacinque scarso Troy si sentiva come un grosso, ingombrante animale domestico. Prese il bicchiere di whisky tanto per tenere le mani occupate. Lei ne bevve un lungo sorso e sospirò di piacere, con gli occhi e il sorriso ancora rivolti a Tory. «Il primo della giornata. Sempre il migliore». Per un minuto o poco di più si guardarono attraverso il tavolo. Lei appariva animata anche quando stava immobile e zitta. Troy si sentiva arrossire, tremare e lo trovava grottesco. C'era solo il tavolo tra loro due, ma capiva che solo un terremoto o, più verosimilmente, una bomba, lo avrebbe indotto a muoversi. A illuminare la stanza non c'era che una lampadina da sessanta watt, velata da uno schermo e da qualche anno di polvere, ma si sentiva come se gli fosse stato puntato addosso un riflettore. Lo sguardo di lei gli pareva aperto, sincero e bruciante. La vide finire il bicchiere di bour-
bon e posarlo sul tavolo con un piccolo colpo secco. Seguitò a bere il suo a piccoli sorsi. Con un movimento rapido lei si tolse la camicetta non regolamentare e la fece volare sopra la divisa. Anche il reggiseno di seta nera era fuori ordinanza e mentre la gonna le scivolava sulle caviglie, Troy vide che le mutandine erano uguali, e certo non in dotazione all'esercito. Come le calze, del resto, sottili e proprio vere, anche se sembravano dipinte sulle gambe. «Che ti succede, baby? Il gatto ti ha mangiato la lingua? Vuoi che spenga la luce? È questo che vuoi?». «Sì». «Sì che cosa?». «Sì, voglio che spegni la luce». Nel buio, avvicinandosi al letto, Troy sentì una sferzata improvvisa mentre lei scostava le coperte. «Solo una cosa... come ti chiami?». «Troy». «Questo è il cognome e lo so già, sciocchino. Il nome». «Frederick». «Va bene, ti chiamerò Troy. Tu chiamami Lara». Troy sentì due volte scattare un elastico e le molle del letto cigolarono quando Lara vi si distese. «Lara?» ripeté. «Sì. È il diminutivo di Larissa». «È un nome russo». «Sono russa solo per parte di mia madre». Troy si tolse una scarpa. Aveva i piedi tutti bagnati. All'improvviso, liberatosi dallo sguardo di lei, avvolto dall'oscurità che gli era congeniale, gli parve un sollievo togliersi anche i vestiti. 33 Verso l'alba fu una bomba a scuoterlo dal sonno. Un tonfo sordo, prolungato, che veniva dal sud della città, lo svegliò e lo spinse ad alzarsi per andare alla finestra. Cercò con la mano la camicia ai piedi del letto, se l'infilò e scostò un angolo della tenda da oscuramento. Si vedeva una parte della colonna di Nelson e la piazza fino a Charing Cross. Al di là di Lambeth Palace, in un punto non ben definito, brillava una luce arancione rossastra.
«Ehi, stai bene?». La voce di lei lo fece sussultare. «Sì, sto bene. C'è un bombardamento. Stavo guardando». «È vicino?». «No, è a New Cross o a Lewisham. Lontano da qui». «Grazie a Dio. Detesto scendere di notte nella metropolitana. Puzza. Lo sai che puzza moltissimo?». «Mezza Londra dorme lì tutte le notti». Ancora un tonfo sordo e una fiamma nella stessa direzione. Una sola, grossa bomba dirompente seguita da altre bombe incendiarie più piccole. Troy si voltò. Lei lo stava ancora guardando. Quello spiraglio di tendina aperta ritagliava uno spicchio di luce nella stanza. «Perché ti sei messo la camicia?». «Non lo so». «Vieni qui». Troy si avvicinò lentamente al letto, fino al vertice del triangolo di luce. «Levatela. Non ci sono scuse. Levati la camicia». Troy sedette sul bordo del letto e si gettò la camicia alle spalle. «Attenta, non abboccherò all'amo. Almeno non più di quanto abbia fatto finora». Lei lo accarezzò sul petto, su una spalla, lungo il braccio. «Ehi, sei una massa di cicatrici». «Incerti del mestiere». «Sei un aviatore? Un soldato?». «Ma...». «Hai detto che sei un sergente. Sergente di che cosa?». «Sono un poliziotto». «Eeh?». Lei si mise a sedere sul letto quasi con un grido. «Ti ho fatto vedere la tessera». «Non l'ho neanche guardata. Credevo che fosse la tessera di un club». Ricadde con la testa sul cuscino, le mani strette alle tempie e un'aria di ironico sbalordimento. «Dio mio, Dio mio, non avevo mai provato la scopata col poliziotto!». «C'è sempre una prima volta», disse Troy. «Infatti». Lara si rialzò e lo baciò sulle labbra. «E va bene. Adesso spiegami dove ti sei fatto queste ferite». Gli toccò una cicatrice sulle costole. «Questa è una ferita da coltello».
«Un coltello a serramanico?». «No, veramente... un coltello per sbucciare le patate». Nel buio, Troy la vide sorridere. «Mi sono trovato in mezzo tra una moglie irlandese ubriaca che picchiava e un marito irlandese ubriaco e picchiato. E lei mi ha pugnalato con un coltello per sbucciare le patate». Lei si morse le labbra, per non ridere e, in silenzio, gli passò le dita sul braccio. «Qui mi hanno sparato con una Webley 38. Ero andato ad arrestare un membro della Cavalleria al servizio di Sua Maestà che ha cercato di impedirmelo con la sua pistola d'ordinanza». «Ma sei riuscito lo stesso ad arrestarlo?». «Sì, ci sono riuscito». «Allora non sei un fifone». «Che cosa ti ha fatto pensare che lo fossi?». «Oh... avresti dovuto vederti due ore fa!». «D'accordo». Lei gli fece scorrere la mano lungo la gamba, fino al ginocchio. «E questa qui piccolina e profonda?». «Questa non c'entra con il lavoro. Mio fratello mi ha fatto cadere dalla bicicletta quando avevo undici anni». «E tutte queste altre, nuove nuove?». «Quali?». «Questi taglietti sulle mani, ancora con le crosticine?». Troy si alzò davanti agli occhi il dorso delle mani. Non vide niente, ma, strofinandole una contro l'altra, sentì i tagli e le scalfitture che gli avevano lasciato i mattoni e il cemento dopo l'esplosione. Si ricordò come se li era fatti e ritornò di colpo alla questione che per un'ora o due si era concesso di dimenticare. «È scoppiata una bomba nella metropolitana. E proprio mentre stavo seguendo un tuo amico». «Un mio amico?». «Il maggiore. Quello che stava seduto sulla tua scrivania. Tu gli hai acceso la sigaretta». Troy sentì che lei si agitava nel letto, non voleva ascoltarlo, si tirò più in alto il lenzuolo. «Allora... non sei fuori servizio. Dimmi, scopi sempre nelle ore di lavoro?».
«Credevo che avessi capito chi ero». «Certo, ma bada bene a quello che ti dico: dovrai aspettare fino a domani mattina per arrestarmi, prima devo fare il sonnellino della bellezza». Troy girò attorno ai piedi del letto e si infilò sotto le coperte dall'altra parte. Per un minuto o due restarono distesi come due cucchiai nel cassetto delle posate, poi lei si stiracchiò, si mise con la schiena contro di lui e mormorando un impercettibile «poliziotto di merda» si dispose, sospirando, a dormire. Prima di addormentarsi a sua volta, Troy fu quasi sicuro di averla sentita russare. 34 Il fischio del bollitore pieno che tintinnava sulla piastra di ferro del fornello elettrico, strappò Troy dal sonno. Si guardò attorno. La Toscà era seduta su uno sgabello davanti all'asse da stiro e leggeva una copia tutta sciupata di Huckleberry Finn. Era perfettamente vestita, si era messa anche la cravatta, ma non la gonna che era infilata sull'asse in attesa di essere rimessa in ordine con un rudimentale ferro da stiro elettrico. «Bentornato sulla terra, raggio di sole». Versò un mezzo litro d'acqua nella caffettiera. «Oggi posso offrirti un vero caffè». «Dio, ti ringrazio». «Viene dal nostro spaccio, come tutto il resto. Stai con me e te la passerai bene». «Superpagata, supersessuata, supertutto», disse Troy. «Tornerai?». «Sei la smentita a un vecchio stereotipo». «Supersessuata... è a questo che ti riferisci?». La guardò al disopra del libro come una seducente segretaria, una Katharine Hepburn o una Barbara Stanwyck. «Leggo tutti i giorni dieci pagine di Huck. Tutti i giorni. È la mia Bibbia. Mi riporta a casa». «Dov'è la tua casa, nel Missouri?». «Stupido! A New York!». Chiuse il libro e portò sul tavolino da notte la caffettiera e due tazze. Era elegante e strana in divisa verde oliva e tacchi alti, nuda e strana senza la gonna. «Vivo a Manhattan. O pensavi che parlassi così per divertimento?».
Troy si mise a sedere sul letto, sentendosi ridicolo per la sua nudità, per la bianchezza della sua pelle nella luce del mattino. «Ho visto un uomo nudo anche prima di te». Troy smise di stare aggrappato al lenzuolo e cercò di essere meno timido. «Dunque... si parlava di Jimmy». «Di chi? Ahi!». Troy si bruciò le dita con la tazza del caffè e la riappoggiò sul tavolino da notte. «Jimmy. Jimmy Wayne. Era con me quando sei venuto a disturbarmi, incurante del clima d'intimità che c'era tra noi». «Sì, il maggiore Wayne. Qual è il suo reggimento... cioè, il suo reparto?». «L'OSS». Troy la guardò senza capire. «Office of Strategic Services. Sporchi espedienti. Sgradevolezze oltreoceano. Lo sai, no, come sono queste cose». «E qui, che cosa fa?». «Niente. È solo di base a Londra». «Lavora per Zelig?». «Sì e no. Una specie. È come se fossero... pari». «E Zelig per chi lavora?». «Vuoi dire da chi prende ordini direttamente? Da Bruce, che è a capo della sezione OSS di Londra e, prima che tu me lo chieda, ti dirò che tutta la baracca è diretta da Donovan, noto anche come il selvaggio Bill. Ma non so perché». «E lui per chi lavora?». «Per Ike, naturalmente. Tutti, in un modo o nell'altro lavoriamo per Ike. Perché lo vuoi sapere? Che cos'ha fatto Jimmy?». Bevve il caffè d'un fiato, mentre Troy lo trovava ancora così caldo che temeva di scottarsi la gola, poi tornò a dedicarsi alla sua gonna. Qualche esperto colpo di ferro e le pieghe tornarono a posto prima che Troy avesse pensato a cosa risponderle. Lei gli si avvicinò e si voltò di spalle. «C'è un gancetto con un anellino... non riesco mai ad arrivarci. Mi aiuti?». Troy si sporse dal letto e si provò ad allacciarle la gonna. «È per questo, secondo me, che le ragazze si sposano. Per avere qualcuno che le aiuti ad allacciarsi i vestiti sulla schiena. Però tu non mi hai ancora risposto, eh? Che cosa aspetti?».
Toscà s'infilò il cappotto della divisa, si guardò nello specchio dell'armadio, si passò un velo di rossetto sulle labbra, buttò un bacio a Troy e si avviò alla porta. «Vai via quando vuoi tu, poliziotto. Chiudi la porta con un colpo, non serve la chiave. E quando deciderai di dirmi che Jimmy fa dei pasticci con i tagliandi alimentari, fammelo sapere. Forse ti potrò aiutare. Va bene per te stasera alla stessa ora?». Prima che Troy potesse risponderle, se n'era già andata. La sentì ticchettare giù per le scale e la casa tremò quando lei uscì sbattendo il portone. Troy riprese la sua tazza di caffè e lo bevve a piccoli sorsi, si chiese che cosa le avrebbe risposto la prossima volta e perché Huck Finn dovesse a tutti i costi far pensare a New York e si sentì avvolgere da quella inquietante mescolanza di senso di colpa e felicità che conosceva molto bene. 35 Quando era ragazzo, Troy era molto turbato dal carattere delle sue sorelle. Non riusciva a capirne le contraddizioni, i capovolgimenti improvvisi. Solo quando suo fratello gli aveva regalato un'edizione di Saki per il tredicesimo compleanno, si era reso conto che Sasha e Masha erano entrambe, contemporaneamente Aunt e Clovis in un solo personaggio diviso in due parti uguali. Potevano mostrare, imprevedibilmente, l'autorità e la mancanza di umorismo di una vecchia governante per diventare poi trasgressive e maliziose, sostituendo all'immagine di Aunt il gusto di Clovis per le complicazioni e l'ironia. E adesso erano lì, sulla porta di casa sua nella tranquillità delle prime ore della sera. Preoccupate per lui. Zelanti. Avevano telefonato a Scotland Yard e gli era stato detto che era a casa ammalato. Masha si era messa a riordinare la cucina, apriva la credenza, tirava fuori tutto, si rendeva insopportabile. Sasha rifaceva il letto, raccoglieva i vestiti da terra, annusava la camicia, scuoteva la testa osservando una traccia di rossetto sul collo e lo metteva in guardia contro le donne che usano profumi scadenti. Poi, quando lui meno se l'aspettava, la svolta. «Usciamo». «Come?». «Usciamo, andiamo fuori. Fuori, fuori! C'è un concerto all'Adelphi. Una novità di Tippett, lo conosci no? Potresti accompagnarci». Quel «potresti» era una finezza, un bizantinismo, che non concedeva la
possibilità di un rifiuto. Periodicamente il germe della mondanità aggrediva l'una o l'altra delle sorelle là nell'Hertfordshire dove erano andate ad abitare con la madre di Troy in volontario esilio da quando i loro mariti si erano arruolati volontari, Hugh in marina, capitano di un dragamine e Lawrence nell'esercito, con un misterioso incarico amministrativo al ministero della guerra; allora si presentavano a Londra come due disinvolte fanciulle, preoccupate di essere escluse, tagliate fuori, curiose di sapere questo e quello, ansiose di vedere qualcuno che fosse veramente qualcuno. Troy non ne sapeva più di loro, che ne approfittavano per trascinarlo nei percorsi tradizionali, che portavano al Four Hundred, in Piccadilly; al Millroy, in Berkeley Square o al Bon Viveur in Shepherd Market, per fare un cenno con la mano a qualche membro minore della famiglia reale e per ricevere gli abbracci soffocanti degli esiliati europei, esuberanti nel fisico e nel temperamento. Troy trovava intollerabile ogni attimo di quelle esperienze. Non gli interessava vedere il conte tale o il principe talaltro, aborriva qualsiasi ristorante o club scegliessero le sue sorelle, quasi per principio e non applaudiva alle esecuzioni della musica di moda che le esaltava. Spesso capitava che gli telefonassero dalla Wigmore Gall o dalla National Gallery, sicure che avrebbe smesso di occuparsi di qualsiasi cosa, fosse pure un omicidio, per il piacere di vedere Myra Hess nella luce del mezzogiorno. Di solito rifiutava, ma sapeva di deluderle e lo temeva, anche perché tra tutte e due avevano una capacità di memoria pari a quella della media dei cani. Non aveva mai sentito nominare un compositore di nome Tippett, ma prevedeva una serata di sgradevoli, disarmonici suoni di strumenti a corda. «No», rispose, «ho un impegno». «Con quella del rossetto, immagino». Aveva tacitamente promesso alla Toscà di andare da lei alle nove. Se n'era reso conto solo quando aveva cercato di pensare a una bugia da dire alle sue sorelle. Fino allora si era ricordato del proprio silenzio, senza capire che era diventato un assenso. Non immaginava che cosa la Toscà si aspettasse, ma ora sapeva che, se fosse stato libero di decidere, alle nove sarebbe andato in Orange Street. Per quanto quella verità fosse emersa di fresco dalle pieghe dei suoi pensieri, non poteva servirgli come scusa. L'ultima cosa che poteva desiderare era la partecipazione delle gemelle a qualsiasi ulteriore aspetto della sua vita. Arrivarono all'Adelphi con dieci minuti di anticipo e Troy seppe che le sue sorelle avevano prenotato un palco dal quale poter vedere ed essere viste dai loro amici. Non sopportava la loro eccentricità per le stesse ra-
gioni che gli facevano amare l'eccentricità di Nikolaj o anche di Kolankiewicz. Era una caratteristica poco inglese. Sbandieravano i loro sentimenti con una capricciosità russa, ora prepotenti ora troppo tenere, vestite in un modo quasi burlesco. Sembravano delle piccole Anne Karenine, identiche anche nei particolari dei loro velluti neri, degli stivaletti alti, con le stringhe e i manicotti. Per non assumersi il ruolo di cavaliere tra due dame, Troy sedette alla sinistra di Masha. Nel poco tempo che mancava all'inizio del concerto, lei si sforzò di spiegargli di che si trattava. «Figlio del nostro tempo è la storia di un esule ebreo-polacco che fugge dai nazisti». Troy non accettava con facilità il principio che la musica rappresentasse o potesse rappresentare una vicenda, ma ascoltò la composizione e fu sorpreso di dover ammettere che non gli era dispiaciuta. Poi entrò il coro che eseguì uno spiritual, Steal away. Troy si chinò all'orecchio di Masha. «Credevo che fosse una storia di ebrei», disse. «E lo è. È una storia di schiavitù e di libertà. In questo brano i neri sono al posto degli ebrei». «Sono al posto...». «Diciamo allora che sono gli ebrei. Il compositore li vede come il simbolo di una razza resa schiava da un'altra. Privata della propria condizione di essere umano». «Un'analogia un po' forzata», osservò Troy. Si guardò attorno dalla posizione vantaggiosa che gli consentiva quel palco centrale in prima galleria. All'estrema destra una ragazza stava sporta in avanti con le mani sul bordo del palco e il mento appoggiato alle mani. Troy prese il binocolo che sua sorella teneva in grembo e guardò la ragazza attraverso la platea. Teneva gli occhi chiusi e sorrideva serenamente, quasi rapita dal potere della musica, dalla innegabile, drammatica suggestione delle voci. Steal away, now, steal away, fuggi, non farti sentire... Era lei, Diana Brack. E proprio alle sue spalle c'era un uomo che fumava una sigaretta, seminascosto nell'ombra del palco. Le luci in platea si alzarono insieme agli applausi alla fine del brano di Tippett. Troy prese di nuovo il binocolo. La Brack si era ritratta dal bordo del palco e ora si vedeva in viso anche il maggiore Wayne, che chiacchierava con lei e intanto si allacciava l'impermeabile. Troy lasciò cadere il binocolo e corse via. Calcolò che il palco dov'erano la Brack e Wayne fos-
se il quarto dalla fine della fila e, mentre oltrepassava la curva del corridoio, vide che la porta era aperta. Scese i gradini a tre per volta e arrivò a livello della strada mentre dalla platea gli spettatori fluivano nel ridotto. Si fece largo tra la folla e uscì. La strada non era illuminata. Guardò su e giù lungo lo Strand. Dell'americano non c'era traccia. Dire che era sparito nel nulla sarebbe stata una banalità inadeguata. Restò fermo sui gradini, incerto se rinunciare a quell'impresa che pareva impossibile. Il pubblico gli passava accanto, si riversava sulla strada chiacchierando. Si sentì stringere per un braccio e Masha lo risospinse verso il ridotto. «Eccoti, finalmente. Non ti trovavo più. Ti ricordi di Diana, vero?». Seguì il suo sguardo e vide la Brack che assentiva con un'espressione amichevole e garbata al fatuo chiacchiericcio di Sasha. Gli rivolse quel suo sorriso largo, con i bei denti regolari e Masha colmò il silenzio ripetendo anche a lei la stessa domanda. «Diana, ti ricordi del mio fratellino, vero?». La Brack gli tese la mano. Che altro poteva fare se non stringergliela? «Certo che mi ricordo di Freddie, anche se è passato tanto tempo. Dio, come sei cresciuto! Quanti anni sono? Venti? No no, adesso lo so. Era l'anno dello sciopero. Il 1926. Io avevo sedici anni, tu undici o dodici, ti avevano regalato una bicicletta per il tuo compleanno. Le tue sorelle mi avevano invitato a passare due settimane da voi quell'estate, dopo la fine della scuola, e tu cercavi di imparare ad andare in bicicletta, sei caduto, ti sei fatto un graffio a un ginocchio, piangevi e io te l'ho lavato e fasciato. Te lo ricordi? Non puoi essertene dimenticato». Troy si ricordava, certo, del male che aveva sentito a quel ginocchio. Quello che lei chiamava un graffio aveva richiesto otto punti. E si ricordava anche di una ragazza con le mani delicate e un profumo esotico che gli aveva lavato la ferita con l'acqua tiepida, l'aveva disinfettata, mettendolo in imbarazzo con la sua premura, e alla fine gli aveva dato un bacio, non su una guancia ma sulle labbra e l'imbarazzo si era trasformato in un vago turbamento dei sensi. Si ricordava della bicicletta, della lampada a carburo, e con quel ricordo gli tornò in mente l'ossario di Stepney che puzzava di gas di carburo. Solo di Diana Brack non si ricordava. Si rese conto che lei lo aveva riconosciuto e, anche se era certo che questo non avesse influito sulla questione essenziale che l'aveva portato da lei, pure era sempre più convinto che la calma, la sicurezza con la quale aveva risposto alle sue domande venivano dal sangue freddo e dal senso di superiorità di chi partecipa a una partita a due con la consapevolezza di essere
il solo a conoscere le regole del gioco. Fino a che punto l'avrebbe spinta il suo sangue freddo? Fino al di là della legge? Cercare di inseguire Wayne adesso era impossibile. Le sarebbe bastato voltarsi per accorgersene e Wayne era l'unico elemento concreto nelle mani di Troy di cui lei non fosse a conoscenza. Non si poteva sprecarlo infilandosi nella folla che usciva da un teatro del West End con la discrezione di un elefante in un negozio di porcellane. E così Wayne gli era sfuggito. Un'altra volta. Guardò l'orologio. Erano passate da poco le dieci. Avrebbe potuto mettere le sue sorelle in un taxi e mandarle a casa di suo padre, a Hampstead, ed essere a letto entro mezz'ora. Il pensiero di essere atteso, superatteso in Orange Street, gli era passato del tutto. 36 Wildeve si era formato nella mente un'immagine abbastanza chiara del maggiore Wayne. Anche se, durante l'oscuramento, il particolare degli occhi che erano «smorti», datogli da Troy, era di dubbia utilità, se ne stava seduto sui gradini davanti al seminterrato di Tite Street presumendo che qualsiasi uomo alto di statura fosse uscito dal numero 55 avrebbe potuto essere l'americano. Era rimasto lì tutta la sera solo su questo presupposto, senza nemmeno sapere se Diana Brack fosse in casa o no. La foschia che saliva, scivolando via dal Tamigi e invadendo la strada, gli metteva il gelo nelle ossa ma verso le dieci e mezzo, quando la testa cominciava a ciondolargli per il sonno, si scosse perché aveva sentito sbattere il portone di fronte. Guardò in alto, sul marciapiede. Un taxi stava ripartendo e all'interno della casa si era intravista una luce prima che fosse riabbassata la tenda scura. Qualcuno è entrato, pensò, e io non l'ho visto. Mezz'ora dopo il portone si aprì di nuovo. Un uomo alto uscì e si avviò a piedi verso il fiume, un fantasma nella nebbia. Silenziosamente Wildeve scese in mezzo alla strada. Wayne era fermo all'angolo tra Tite Street e il Chelsea Embankment. Finché restava lì, Wildeve non poteva muoversi. Lo vide alzare una mano per fermare un taxi. Salì, il taxi si rimise in moto. Wildeve corse verso l'Embankment e riuscì solo a scorgerlo inserirsi lentamente nel traffico. Per caso, per fortuna, un altro taxi, a una decina di metri, stava venendo verso di lui. Lo fermò. «Dove, amico?», chiese il tassista. «Segua l'altro taxi, lì davanti». Il tassista voltò la testa a guardarlo, incredulo e un po' sprezzante.
«Polizia. Mi creda», disse Wildeve, con un tono privo di qualsiasi potere di convinzione. Il taxi curvò in Chelsea Bridge Road. Il traffico era scarso a quell'ora di notte, ma la foschia che saliva dal fiume ora aveva la consistenza di una zuppa di piselli e i due taxi procedevano lentamente verso Sloane Street per uscire poi a Knightsbridge. La nebbia aveva preso il caratteristico colore giallognolo di una nuvola omicida. «Non è tanto facile, sa», disse il tassista, senza voltare la testa, «non si vede una mano neanche se te la metti davanti agli occhi, figuriamoci un taxi». Wildeve non rispose. Abbassò il finestrino per guardare fuori ma riuscì solo a fare entrare una scia di soffocante bruma londinese. Nonostante le sue proteste, il tassista pareva avere due occhi da gatto. Wildeve non sapeva più neanche bene dove fossero, nell'intrico delle strade del centro. Capì dal mutare del livello del traffico, dopo una curva a destra, che si stavano dirigendo verso Park Lane, ma subito dopo non riuscì più a orientarsi perché il taxi cominciò a svicolare attraverso le stradine di Marylebone diretto a nord di Marble Arch. Sentì il bisogno di saperne di più. «Non l'abbiamo perso, vero?», chiese, affacciandosi al vetro che lo separava dal tassista. «Se non l'abbiamo perso è solo perché lei è fortunato. Dev'essere proprio qui davanti a noi, ma non lo giurerei sulla Bibbia». «Sa dove siamo?». «In Manchester Square, capo. Questo sì che lo potrei giurare». 37 Il taxi si spinse gradatamente attorno all'angolo nord-ovest della piazza e si fermò, perché il traffico era bloccato. La nebbia era così fitta che gravava come una cappa di silenzio. Solo qualche isolato, inutile suono di clacson interrompeva quella calma avvolgente. Impaziente, il giovane poliziotto aprì la portiera e si sporse a guardare il poco che era possibile. Rari punti luminosi tremolavano nell'oscurità come i gocciolanti colori di un acquerello. Il giovane poliziotto non riuscì a distinguere niente. Qualcuno diede uno strattone alla portiera e mentre lui cercava di non perdere l'equilibrio uno sparo lo fece cadere all'indietro. Era già morto prima di toccare con la testa il sedile. Una gialla lingua di nebbia penetrò attraverso la portiera aperta e andò a leccare il cadavere.
38 Troy stava dormendo un bel sonno ricco, caldo, indolore quando si sentì penetrare a forza da una serie di colpi insistenti alla porta, come il crepitare di un mucchio di piselli secchi su un tamburo di latta. Era a letto con le mutande e le calze, si avvolse nella coperta per andare ad aprire e per poco non cadde dalla scala. Aprì uno spiraglio della porta. La notte era una nuvola color senape avvolta attorno alla corporatura massiccia di un sergente di Scotland Yard in servizio di notte. «Signor Troy, si vesta. C'è stato un omicidio in Manchester Square. Ho la macchina in fondo alla strada. L'aspetto. Avevo telefonato, ma lei non mi ha risposto». «Mi dispiace», disse Troy. Fece entrare il sergente, lasciò che la porta si richiudesse da sola e tornò in camera da letto. Mentre s'infilava i pantaloni gridò di sotto: «In Manchester Square dove?». «Proprio nella piazza. È successo lì, in mezzo al traffico, così mi hanno detto. Mentre andiamo le racconto il resto». Troy cercò di finire in fretta di vestirsi, s'infilò dalla testa una camicia ancora abbottonata e sentì un leggero profumo. Il profumo della Toscà? Aveva preso la camicia che Sasha, scandalizzata, aveva lasciato sul letto. Era strano che quel profumo fosse così persistente e provocante. Non se n'era accorto quando era con lei, mentre il ricordo del profumo di Diana Brack era vivido come quello di un'immagine. Gli bastava pensarlo per sentirlo e allora era come se la vedesse. Ma lui non aveva mai considerato la Toscà come una persona di cui sospettare e gli odori erano per lui quello che per Kolankiewicz erano i resti di un corpo umano. Mise da parte le astrazioni e guardò l'orologio. Era uscito dal concerto con la testa in fiamme e, appena a casa, si era buttato sul letto. Era quasi mezzanotte. Aveva dormito meno di un'ora ma era stato come passare degli anni su un altro pianeta. Uscirono sulla strada e, istintivamente, Troy si avvolse più stretto nel cappotto, si rialzò il bavero e si ficcò le mani in tasca. Sentì i frammenti minuti di cemento rimasti dopo lo scoppio della bomba entrargli sotto le unghie e, per una frazione di secondo, la nuvola rosso sangue ricomparve davanti ai suoi occhi e gli diede un sussulto di dolore prima che riuscisse ad allontanarla oltre l'orizzonte. «Lo so», disse il sergente, interpretando male l'espressione del suo viso,
mentre lo guidava verso St Martin's Lane, «non ho mai visto niente di simile. Quell'assassino stanotte ha fatto la parte della Luftwaffe». 39 Una guardia giurata stava vicino alla portiera aperta di un taxi, avvolta nella mantella. Troy chiese una torcia elettrica al sergente in servizio notturno e gli disse che poteva andare. Ci sarebbe stata fin troppa confusione con due poliziotti e un fotografo. La guardia giurata sorrideva. Era un'assurdità, eppure sorrideva. Era grasso, sulla cinquantina e sorrideva. Forse per qualcuno che si era arruolato volontario come guardia giurata non c'era niente di meglio che un buon omicidio. «Allora?», disse Troy. «Non ho toccato niente. Sono rimasto di guardia da quando ho sentito il grido». Sembrava una frase tolta di peso dalla retorica del vecchio poliziotto. Troy ne fu infastidito. Diede la torcia alla guardia ed entrò nel taxi dallo sportello posteriore. La guardia diede un'occhiata dietro le sue spalle. «Che roba!», disse, mentre la torcia illuminava sangue e materia cerebrale. «Che roba!». Del viso era rimasto poco. Un proiettile aveva colpito la vittima a una guancia, un altro era finito in bocca e un terzo, entrato dalla fronte era uscito dietro la testa. Parte del cervello era schizzata contro il finestrino posteriore, i vestiti erano inzuppati di sangue. Il cadavere era riverso sul sedile, con la testa ripiegata indietro, gli occhi senza vita rivolti verso l'alto. «Tenga ferma quella torcia», disse Troy, «voglio guardargli in tasca». Con gli occhi chiusi mise una mano nella tasca interna della giacca del morto e tirò fuori un portafoglio e un cartoncino pieno di sangue. Lo ripulì con la mano. «Era un poliziotto», disse a voce bassa. «Questa è una tessera della polizia metropolitana». «Che roba!», ripeté la guardia giurata. Troy lesse il nome sulla tessera e uscì, di spalle, dal taxi. La guardia sorrideva ancora. Forse quella era la sua espressione, una smorfia che portava stampata sulla faccia. «Dov'è l'agente che era con me?», chiese Troy. «Dietro la siepe», rispose la guardia. «Sta vomitando la cena. L'ha presa male».
«Lo vada a chiamare». Troy risalì sul taxi. Tastò la giacca del poliziotto ucciso trattenendo il respiro per non sentire quell'odore di morte. Cercava il libretto degli appunti, ma non c'era. «Freddie?», disse una voce flebile. Sul marciapiede c'era Wildeve, con il viso color della cenere. «Chi era, Freddie?». «Miller. Melvyn Miller. Sergente del reparto investigativo. Sezione speciale. Come stai? ti senti di parlare?». «Sì, credo di sì». «Allora raccontami che cos'è successo». Troy lasciò la guardia giurata vicino al taxi e si allontanò con Wildeve verso il margine del parco. «Mi dispiace, Freddie. Non ho visto niente. Il traffico era bloccato. Ho aspettato due o tre minuti poi mi ha preso la fretta di muovermi e ho pensato che anche Wayne doveva avere la stessa fretta, così sono sceso dal taxi per vedere se anche lui era andato avanti a piedi. Ero due automobili dietro il taxi dov'è morto Miller. Credevo che fosse quello di Wayne. Anche il mio tassista lo credeva. Diceva che era il taxi che aveva seguito da Tite Street. Quando sono arrivato, la portiera era aperta, lui, dentro, era morto e il tassista era a faccia in giù sul volante con un grumo di sangue dietro la testa grosso come un uovo. Sono quasi svenuto. Per due o tre minuti sono rimasto E, senza sapere che fare, poi sono corso al primo telefono della polizia che ho trovato e ti ho chiamato. La guardia è arrivata quasi subito ma il traffico si era sbloccato e Wayne l'avevo perso. Se si può dire così, visto che in un certo senso non l'avevo mai trovato». «Non hai sentito gli spari?». «No. Probabilmente è stato usato un silenziatore». «Anche col silenziatore qualcosa si dovrebbe sentire, ma la nebbia soffoca i rumori». «Freddie, secondo te Wayne credeva che ci fossi io in quel taxi?». «Al tuo posto, cercherei di non pensarci». «Sembra che tutto sia dipeso dal caso... La nebbia e quel poveretto che ha avuto la sfortuna di infilarsi tra Wayne e me». «Jack, era un agente della sezione speciale, questo non ti dice niente?». «Non so». «Vorrei mandarti a casa a dormire, ma non si può. Devi tirare Onions giù dal letto e raccontargli tutto. Poi, appoggia la testa sulla scrivania, in
ufficio, finché non ti mandiamo a chiamare. È mezzanotte passata. Bisogna mandare a prendere Onions ad Acton con un'automobile e ci vorrà almeno un'ora e mezzo». Troy guardò il fotografo della polizia al lavoro. Poi arrivò un'ambulanza a portare via il cadavere. Allora rientrò nel taxi a cercare i proiettili che avevano ucciso Miller. La luce della torcia elettrica era troppo debole. Con la punta delle dita, dopo aver calcolato la traiettoria dall'angolo dov'era il cadavere, toccò punto per punto il sedile inzuppato di sangue. Il cuoio era lacerato in qualche punto dai proiettili. Guardò nel baule e ne trovò uno conficcato in una vecchia coperta che il tassista usava per avvolgere il motore e che aveva ripiegato almeno sei volte fino a formare una massa compatta che aveva trattenuto il proiettile come un sacchetto di sabbia. Altri due erano finiti nel catrame della strada. Troy li esaminò con la punta del temperino che aveva in tasca, ma erano incastrati in un modo che rendeva impossibile riconoscerli. Solo uno dei tre era ricuperabile. Kolankiewicz sarebbe stato in grado di identificarlo. Era un 45? Se solo ne avessero avuto un altro per confrontarlo. La guardia giurata, carponi sul marciapiede, cercava i bossoli. Troy lo sentiva brontolare e imprecare perché nel buio non gli capitavano sotto le mani altro che mozziconi di sigarette e schegge di vetro. «Che fregatura», diceva, «che fregatura...». Ma «Ecco qua!» gridò infine, trionfante, e consegnò a Troy due bossoli vuoti. Quel sorriso che portava stampato sulla faccia adesso sembrava solo un sorriso di soddisfazione. 40 Onions prima di uscire di casa si era fatto la barba. Niente nel suo aspetto lasciava intuire che fosse stato costretto ad alzarsi dal letto all'una di notte e ad attraversare tutta Londra a un'andatura lentissima, tanto da arrivare in ufficio da Troy quasi alle quattro del mattino. Ora, seduto alla scrivania, con indosso l'impermeabile, sembrava che aspettasse il primo treno dei pendolari. «La vedo ridotto male», disse a Troy. Troy si rese conto che aveva la giacca e i polsini della camicia ancora sporchi, era senza cravatta e con le scarpe bagnate di sangue. Wildeve, vicino a lui, era nelle stesse condizioni, e in più puzzava di vomito e stentava a tenersi sveglio. Troy lo vedeva lottare perché non gli si chiudessero
le palpebre. «Ho chiamato da casa la sezione speciale», disse Onions. «Ho parlato con Charlie Walsh, l'ispettore capo dal quale dipendeva Miller. Si è mostrato un po' ostile su tutta la questione, ma lascerà che seguitiamo a occuparcene noi». «Questo non gli impedirà di portare avanti a sua volta un'indagine. Li ho sempre visti intervenire direttamente su tutto quello che li riguardava». «Non capita spesso che un agente della sezione speciale sia ucciso in servizio, anzi non ricordo che sia mai successo. È più facile che capiti a noi. Gli dia tempo un giorno o due per organizzarsi». «Come?». A Troy la proposta parve addirittura oltraggiosa. «C'è stato un delitto. Un poliziotto è stato ucciso sulla strada e lui chiede un giorno o due?». «Ho l'impressione che Miller fosse uno che lavorava per conto proprio». «E che cosa c'entra? Che discorsi sono?». «Per conto proprio», il tono di voce di Onions era cambiato di poco, ma in un modo che voleva dire molto. «Li conosce anche lei, quelli che non tengono aggiornati i superiori. Quelli che se ne vanno in giro per conto loro». Troy capì di avere esagerato, non avrebbe dovuto permettersi di alzare la voce parlando con Onions, che ora si era alzato dalla scrivania e si stava avvicinando allo sventurato Wildeve che dormiva, con le gambe accavallate e un piede ciondoloni. Onions diede un calcio a quel piede ozioso sospeso nell'aria, Wildeve perse l'equilibrio e per poco non cadde dalla sedia. «Sveglia!», gli gridò Onions nell'orecchio. «Sì, scusi...», disse Wildeve, girando la testa qua e là nel disperato tentativo di orientarsi. Troy gli posò una mano sulla spalla per tranquillizzarlo e gli rivolse uno sguardo che significava «non dire e non fare niente». «Abbiamo parecchio lavoro da svolgere», proseguì Onions. «Sì, me ne sto occupando. I proiettili sono stati mandati a Hendon, dove li esamineranno. Ho svegliato Thomson e Gutteridge e ora sono di guardia, uno in Tite Street e l'altro a Norfolk House. Due agenti in divisa stanno controllando il registro degli autisti di taxi per scoprire chi guidava quello dove viaggiava Wayne. Il tassista di Miller è al Paddington Hospital. Non mi permettono di vederlo fino a domattina. Alle sette potrai parlare con Walsh». «Con l'ispettore capo Walsh, per quanto la riguarda».
«Ha potuto stabilire almeno se Miller stava seguendo Wayne?», azzardò Troy. «È una strana coincidenza, vero?». «Ma Walsh ha confermato che stava seguendo Wayne?». «Io sono convinto che lo stesse seguendo». «Perché?». Stavano in piedi l'uno davanti all'altro, ai lati della scrivania. Onions preferì smorzare il tono della discussione, tornò a sedersi, si lisciò i capelli con il gesto che gli era abituale e tacque per qualche secondo, finché Troy non si mise a sedere a sua volta. «Conosco Charlie Walsh da quasi vent'anni. Se avrà un piccolo problema...». Un «piccolo» problema? Troy si morse la lingua e riuscì a non dire niente. «... e avrà bisogno, diciamo, di ventiquattr'ore di tempo, gliele concederò. Sappiamo che Miller stava seguendo Wayne. È questo che conta. E alle sette lei sarà molto occupato con la MI5. Non è il solo a tirargli fuori i cadaveri dagli armadi. Ho chiamato al telefono quell'omosessuale, quel Pym, e gli ho detto che volevo vedere lui e Zelig e chiunque altro si stesse occupando di questa storia, il più presto possibile. Mi ha proposto di vederci a mezzogiorno, poi ci siamo accordati per le sette del mattino». Per nessuna ragione Troy avrebbe voluto trovarsi nei panni di Neville durante quella telefonata. «Oh», disse, «capisco. Prima di parlare, Walsh deve passare attraverso i canali autorizzati». «Non è questo che ha detto». «Ma è questo che ha inteso dire». Onions appoggiò i gomiti sulla scrivania. «Lei sta menando fendenti a delle ombre, Freddie. Gli dia tempo fino a domani sera, anzi ormai si può dire a stasera. Se non si fa vivo, gli telefoni. Attento che se parla con lui come ha parlato con me è capace di farle saltar via la testa dal collo. Adesso se questo giovane brillante di nome Wildeve apre gli occhi avete due ore di tempo per raccontarmi tutto prima che lei e io andiamo a parlare con i fantasmi. E se dico tutto è tutto». Onions si tolse di tasca un pacchetto di Woodbine e una scatoletta di Swan Vestas. Accese il suo sigaro e, appoggiato allo schienale della sedia, si dispose ad ascoltare, autorevole e paziente.
41 Se lo sguardo potesse uccidere, Pym avrebbe assassinato Troy in un battere di palpebre. Era pallido e tirato in viso quando aveva aperto la porta del suo ufficio, a lui e a Onions. Non era cosa per lui alzarsi presto la mattina. Troy non l'aveva mai visto in divisa. L'azzurro spento della RAF contrastava troppo con la variopinta immagine che dava di sé fuori servizio. L'ufficio riusciva appena a contenere il numero delle persone presenti. Davanti alla scrivania di Pym era seduto Zelig, rivolto verso il centro della stanza. Alla sua sinistra, quasi in un angolo, c'era una signora vestita con un completo di maglia grigio antracite. Pym prese la sedia alla destra di Zelig. Ne restavano due, di fronte, per Troy e Onions. Un piccolo cerchio di antagonisti. «Le presentazioni sono inutili», disse Pym. Nella sua voce si avvertiva la noia, una sottile aria di condiscendenza. Troy non conosceva la signora con il completo grigio. Oltre a Onions era l'unica ad apparire tranquilla e a proprio agio a quell'ora impossibile. Era piccola di statura, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, ma si vedeva che era stata bella. I segni dell'età apparivano più evidenti attorno agli occhi e alle labbra, erano occhi che erano stati chini per anni sulla carta stampata alla luce di una lampada, labbra che avevano aspirato il fumo di troppo sigarette. Non aveva una faccia segnata dal sorriso o dalle risate. Aveva uno sguardo poco incline al buonumore, che metteva soggezione. Teneva le braccia strette attorno a un fascio di cartellette color nocciola, appoggiate al petto come una barriera che allontanasse gli importuni. Forse era proprio la sua identità che Pym si era preoccupato di non rivelare. Zelig tossicchiò e guardò a terra, nello spazio tra le quattro sedie. Aveva un colorito giallognolo e appariva indubbiamente avverso alla situazione in cui si trovava. «Il colonnello Zelig desidera leggerci una dichiarazione», disse Pym. Zelig spiegò il foglio che si era tenuto fino a quel momento sulle ginocchia. Lo lesse con una voce esitante, a scatti, come se le parole che vi venivano usate non gli fossero familiari. Spesso s'interrompeva per tossire e aveva, evidentemente, fatto colazione in fretta perché dal suo stomaco veniva un costante brontolio di sottofondo. «Siamo stati informati dal nostro collegamento con la MI5 che Scotland Yard ha avviato un'indagine su alcuni colpi di pistola sparati in Manchester Square la notte scorsa, attorno alle undici e un quarto. Siamo a cono-
scenza della richiesta di un colloquio, a proposito di detto incidente, con il maggiore James Wayne dell'Ufficio Servizi Strategici. L'Alto Comando delle Forze Statunitensi in Inghilterra e il Comandante delle Forze Alleate desiderano collaborare in qualsiasi modo sia atto a favorire l'interesse della giustizia. Tra le ore ventidue e trenta della notte del diciannove marzo e le tre del mattino del giorno successivo, venti marzo, il maggiore Wayne si trovava a un colloquio di pianificazione del Comando Operativo presso il Quartier Generale in Chenies Street, WC1, presenti i generali Eisenwoher e Patton». Zelig alzò gli occhi, ripiegò il foglio e, per la prima volta, si trovò a guardare Onions dritto negli occhi. Non riuscì a resistere più di un secondo, distolse lo sguardo e lo fissò su Pym che stava dicendo: «Il nostro incontro, signori, è così concluso. Spero che le loro domande abbiano trovato una risposta». «Tutto qui?», esclamò Troy, «tutto qui? Avete messo insieme un alibi che è una bugia e mi dite che l'incontro è concluso? Altro che concluso! Dov'è Wayne? Voglio parlare con Wayne». «Non è possibile». Troy si sporse in avanti verso Pym e lentamente, a bassa voce, cercando di trattenere la collera, disse: «Ho un testimone che ha visto Wayne a Chelsea alle undici di ieri sera. Io stesso l'avevo visto sullo Strand alle dieci e dieci. Non era a un colloquio con Ike e voi lo sapete benissimo. Tirate fuori il maggiore Wayne oppure, lo giuro, io emetto un mandato d'arresto a suo carico con l'accusa di omicidio». «Non può!». La voce di Zelig suonò rauca, strozzata. «Il maggiore non è un suo uomo. E poi non ha sentito? È completamente estraneo all'episodio. Questa è la prova», e agitò debolmente il foglio. «Potrò avere una firma di garanzia del generale Eisenhower?». «Non diciamo stupidaggini», intervenne Pym. Troy si rivolse a lui. «Io non sono venuto qui per ascoltare buffonate. A che gioco giocate? Ci troviamo di fronte a un omicidio. E non c'è solo un morto, i morti sono quattro. A uno hanno sparato, un altro è stato fatto a pezzetti e bruciato, un terzo è svanito nel nulla e adesso un agente della polizia metropolitana viene ucciso a colpi d'arma da fuoco in piena faccia per le strade di Londra. Non potete nascondere Wayne dietro a niente, perché niente basta a nasconderlo». Onions sedeva in silenzio, guardando di volta in volta chi stava parlando, senza che il suo viso tradisse la minima impressione.
«Tu dimentichi, Troy, che esistono questioni di sicurezza nazionale. È una definizione che ricorre frequentemente. Il maggiore Wayne, mi assicurano i nostri alleati, è impegnato in una questione di sicurezza nazionale. Non è possibile avere una sua deposizione se non nella forma che ti è già stata messa a disposizione». Troy si alzò in piedi. «Cristo», gridò, «si tratta di omicidio, ve l'ho già detto! Non potete nascondere l'omicidio dietro la sicurezza nazionale». La signora con il completo grigio antracite parlò, dal suo angolo, con una voce ferma e profonda infrangendo la collera di Troy con l'enfasi che mise nel pronunciare il suo nome, e attirando su di sé tutta la sua attenzione parlando con quel tono di voce sotto un normale livello di conversazione. «Signor Troy, in tema di sicurezza nazionale...». Pym si voltò verso di lei, sorpreso. Zelig si contorse sulla sedia nello sforzo di guardarla in faccia. Né l'uno né l'altro, era chiaro, si aspettavano che arrivasse un intervento da quell'angolo della stanza. La signora approfittò dell'attimo di vuoto e, una per una, gettò sul tappeto ai piedi di Troy e Zelig le cartellette che aveva tenute raccolte contro il petto. Sulle etichette, a lettere alte più di due centimetri, stava scritto: Troy Sir Alexej;Troitskji Nikolaj; Troy Rodyon e Troy Frederick. L'ultima cartelletta sovrastava le altre in modo che il nome di Troy fosse ben visibile a tutti. Zelig, preso dal panico, con i tre menti sussultanti, fissava ora le cartellette ora la signora in grigio. Pym emise un debole sospiro, il sospiro stanco di chi vede in una lotta tra uomini e topi vanificati gli sforzi di entrambe le parti. Troy guardò la signora. Aveva sempre sospettato che esistesse quella documentazione, la sorpresa era inferiore a quanto potesse essersi aspettata. Ma pensava che il gesto di esibire le cartellette non fosse destinato in primo luogo a lui. «L'importanza di un nome, signor Troy!», disse la signora. Per mezzo minuto il silenzio fu totale, poi Onions si alzò e aprì la porta. «Buongiorno a tutti, signora e signori», disse, come se niente fosse accaduto, come se non fosse rimasto per tutta la riunione senza aprir bocca. Non rivolse uno sguardo a nessuno e uscì. La signora non trattenne un sorriso di autocompiacimento. Troy seguì Onions. Un attimo prima che qualcuno chiudesse loro la porta alle spalle sentì Zelig chiedere: «Qui che accidenti succede?». 42
Onions parlò col suo autista attraverso il finestrino dell'automobile. «Faccio due passi. Aspettami davanti alla scalinata di Carlton House». Lui e Troy s'incamminarono lungo King Street, girarono in senso antiorario attorno a St James Square. Quando cominciarono a intravedere Norfolk House e il voluminoso agente Gutteridge, Onions, infine, parlò. «Chi era quella? Lo sa?». «Muriel Edge. Del MI5. Capo della sezione F4». «La conosce?». «No. L'ho vista oggi per la prima volta. Ma c'è una sola donna al suo livello in tutta l'organizzazione e se è così documentata su tutta la mia famiglia è ovvio che appartenga all'F4, che controlla le sinistre in Inghilterra e poiché dire F4 significa dire Edge, la signora è Muriel Edge». «Perché non ne avevo mai sentito parlare?». Questa è una domanda indiretta, pensò Troy e rispose: «Direi che si tratta di uno degli inconvenienti del grado. Alle orecchie di un sergente arrivano più notizie che alle sue». «Ho capito. Ma perché ha fatto quella orribile messinscena?». Attraversarono Pall Mall in direzione di Waterloo Place. Onions camminava con un passo fermo, regolare, senza guardare Troy, che lasciò trascorrere qualche attimo di silenzio, mentre si chiedeva che cosa rispondere. «Non lo so», disse esitando. «Lei non mi nasconde qualche cosa, vero Freddie?». «Non ho niente da nascondere. Le ho detto tutto. Se hanno un incartamento sul mio conto è perché ne hanno anche uno su mio padre e uno su mio zio, la cui attività politica è di dominio pubblico. La mia no. Il mio voto riguarda me e non ha importanza. Visto poi che non ci sono elezioni dal 1935, la questione è del tutto irrilevante». Arrivarono in fondo a Waterloo Place, in cima alla scalinata di Carlton House, ai piedi della quale, sul Mall, l'automobile era già in attesa. Onions si fermò vicino alla statua del duca di York. «Si attaccano alle minuzie», disse Troy. «Non sono i soli». Onions scese un gradino e si voltò a guardare Troy, quasi gli occhi negli occhi. «La sua prova è debole, lo sa anche lei, vero?». «Sì». «Se chiederà un mandato lo avrà, ma Wayne sparirà di nuovo in cinque
minuti». «Un mandato di comparizione?». «Diventerebbe un caso aperto e chiuso. O si formula un'accusa o è meglio lasciar perdere. Io non punterei sulla identificazione del nostro yankee fatta da Wildeve in una notte di nebbia, contro la parola dello stato maggiore del generale americano. A quanto so, Wildeve non aveva mai visto prima Wayne. Lei, del resto, l'aveva visto alle dieci e dieci. Giusto il tempo che gli sarebbe stato necessario per arrivare al bunker di Ike alle dieci e mezzo. Sono stati fortunati. I tempi della loro storia coincidono con i fatti. Se quel pazzo di un polacco, là a Hendon, ci dirà che il proiettile che lei ha trovato in Manchester Square corrisponde a quello che, ancora lei, ha trovato a Stepney, sapremo che Brand e Miller sono stati uccisi dalla stessa arma. Ma Wayne ormai l'avrà fatta sparire. Non riusciremo mai a incastrarlo su questo punto. Se trovassimo l'autista del taxi che aveva preso ieri sera, forse potrebbe esserci utile, ma per il momento siamo immobilizzati». Troy non sapeva che cosa pensare. Onions respirava profondamente tra una parola e l'altra, come se volesse trattenere il proprio pensiero. Possibile che giudicasse inutile insistere? Che volesse convincerlo a rinunciare? «Non mi piace che si tenti d'ingannarmi», proseguì Onions, «non voglio farmi raccontare una storia incredibile da un mucchio di fantasmi che si sono appropriati del concetto di interesse nazionale solo perché gli fa comodo. Nessuno potrà dirmi che ho mancato al mio lavoro e al mio dovere solo perché un alto ufficiale con un accento alla Gabby Hayes mi ha sventolato un pezzo di carta sotto il naso e mi ha detto che un assassino ha un alibi di ferro purché io, a mio rischio, non cerchi di vederci chiaro. Voglio vedere se parlerà così anche alla polizia metropolitana. Voglio vedere se quella merda di Zelig e quel culo di Pym racconteranno le stesse storie, e con quel sorrisetto idiota sulla faccia, al sovrintendente di Scotland Yard». La collera di Onions stava per esplodere. La faccia gli diventava sempre più rossa, aveva alzato la voce fin quasi a gridare. Agitò una mano verso i Royal Parks e fissò lo sguardo su Troy. «Nessuno può permettersi di sparare a un poliziotto per le strade di Londra per poi venirmi a dire di guardare da un'altra parte, perché tanto non ci posso fare un accidente. Se ne occupi lei, Freddie. Mi porti quell'assassino!». «Lei vuole che trovi la prova?». Troy si pentì subito di quella domanda tiepida, inadeguata. Il silenzio
avrebbe avuto maggiore incisività. «La prova? Certo! E la deve trovare subito, sergente, adesso! Piuttosto se la inventi! Si metta al lavoro!». Troy seguì Onions con lo sguardo fino in fondo alla scala e lo vide salire in automobile lasciando dietro di sé tangibili frammenti di collera. 43 Troy, con il telefono appoggiato tra il collo e la spalla, aspettava, giocherellando col tampone della carta assorbente che qualcuno gli rispondesse al telefono. All'undicesimo o dodicesimo squillo sentì una voce. «Sezione speciale». «L'ispettore capo Walsh, per favore». «Chi parla?». «Sono il sergente Troy». «Un momento». Troy colse un bisbiglio soffocato come se l'agente che gli aveva risposto tenesse una mano sul ricevitore. Ha già... Zelig... Wayne... Segnò le parole sulla carta assorbente, aggiunse qualche puntino di sospensione e poi il nome Edge, seguito da un punto interrogativo. Edge. Istintivamente lo sottolineò. «Pronto Walsh». Era una voce più profonda, più vecchia e più ferma di quella che aveva sentito prima. Troy vi sentì la sicurezza che veniva dal grado. Quando si arriva al solo cognome è segno che non si dubita della propria posizione. «Sergente Troy, della squadra di Stanley Onions». S'interruppe, sperando di non doverlo ripetere lettera per lettera. Waslh non disse niente. «Il mio ufficio è due piani sotto il suo, posso salire da lei?». «Ho già parlato con il suo superiore». Sì, per dirgli di lasciar perdere, pensò Troy. «Vorrei parlarle personalmente». «Va bene, ma non qui». «Dove, allora?». «Conosce il Princess Louise, a Holborn?». «No, ma posso trovarlo». «Stasera alle sei. Se arriva per primo cominci a ordinare. Per me una pinta di chiara». «Come potrò riconoscerla?».
«Sarò io a riconoscere lei, sergente Troy». La telefonata era conclusa. Walsh aveva pronunciato le ultime parole con una certa enfasi. Troy strappò la striscia di carta assorbente ma non la gettò nel cestino. Se fosse sparita la documentazione, avrebbero frugato anche nei cestini della carta straccia. Nel tardo pomeriggio mentre andava verso nord, lungo il Victoria Embankment, gettò via i pezzetti della carta assorbente e lasciò che il vento di marzo li trascinasse attraverso il Tamigi. Alle sei di una sera di marzo, il Princess Louise non era ancora oscurato. La giornata era stata limpida, tonificante e a Troy piacque vederne l'ultima traccia sparire nell'aria, sfiorando il vetro smerigliato dell'ingresso e la scritta «Saloon». Non sembrava un locale che potesse avere dei clienti fissi, era troppo west end per essere il pub del quartiere e troppo east end per la vita notturna di Soho. Era quasi anonimo nei suoi colori vittoriani verde e marrone. Troy pensò che Walsh l'avesse scelto proprio per questa caratteristica e perché era poco frequentato, secondo un principio contrario a quello di Troy che avrebbe sepolto una conversazione privata in mezzo alla folla e al rumore. Più semplicemente, forse, Walsh aveva scelto quel pub per il suo camino. La sala era vuota per tre quarti: una mezza dozzina di americani, in piedi davanti al fuoco, non davano molto da fare al barman che sembrava stranamente impegnato in una conversazione con un cane del tipo che Troy aveva sempre chiamato un Bill Sykes, con la macchia nera sull'occhio, accucciato sopra il banco. Il barman si rivolgeva al cane e il padrone, appoggiato al banco, rispondeva; non si guardavano tra loro due, era come se il cane fosse presente nella veste essenziale di mediatore. Era un cane tranquillo e mentre Troy chiedeva al barman un quarto di Guinness e una pinta di chiara gli rivolse un'occhiata mansueta. Il barman aveva appena posato i boccali sul tavolo quando entrò un uomo grosso e pesante, con l'aspetto inconfondibile del poliziotto. Aveva spinto la porta, ed era entrato, lasciandosela sbattere alle spalle e si era messo a sedere, senza una parola, sulla sedia di fronte a quella di Troy. Apparteneva, come Onions, alla vecchia scuola. Bombetta, cappotto vecchio e pesante, stivali e un paio di baffi ormai quasi grigi che gli nascondevano il labbro superiore. «È mia?», chiese, indicando la birra chiara. Troy si chiese se sarebbe riuscito a farsi dire quello che voleva senza che Walsh ricorresse a troppe parole. Somigliava a Onions anche nel modo di parlare e Troy si augurò che lo stesso approccio concreto portasse alla stessa breve esposizione dei fatti, magari anche con lo stesso schietto, lar-
go accento del Lancashire. «Signor Walsh», lo salutò Troy con una giusta sfumatura di deferenza. Walsh bevve due dita della sua birra e cominciò a frugarsi nelle tasche del cappotto. Un ricciolo schiumoso gli restò attaccato ai baffi come una bava zuccherina. Da una tasca venne fuori una pipa col cannello dritto, dall'altra una borsa per il tabacco. Lentamente Walsh, guardando ogni tanto Troy, riempì la pipa. Troy aveva sempre pensato che la pipa fosse un modo per spacciare la vacuità per concentrazione, l'espediente di un uomo superficiale che volesse apparire pensoso. «Vorrei confrontare quello che so con quello che sa lei, signor Walsh». «Ha da accendere?». «No». Walsh si sbottonò il cappotto e posò la bombetta sulla sedia vuota lì accanto. Portava una giacca grigia a doppio petto e sotto un cardigan con dei piccoli bottoni di pelle marrone che sembravano degli amaretti e Troy si accorse, osservandolo mentre cercava i fiammiferi, che aveva anche un panciotto. Tutti quegli indumenti, uno sull'altro, davano più consistenza alla sua figura, le conferivano quell'imponenza cui lui, evidentemente, teneva. O era solo freddoloso? Accese la pipa e lanciò, attraverso il primo sbuffo di tabacco, la prima freccia che teneva al suo arco. «Non abbiamo niente da confrontare. Lei non ha in mano niente». «Come lo sa? È ancora in contatto con il mio superiore?», chiese Troy, cercando di porre come una domanda ciò che era semplicemente un'ovvietà. «Certo. L'indagine è vostra, ma pensa che non sappia come procede, trattandosi di uno dei miei uomini?». «Non sta portando avanti un'indagine anche per conto suo?». Walsh aspirò a fondo il fumo della pipa, lo soffiò in aria e «No», rispose. «No». «Come è possibile!», esclamò Troy quasi con un sussulto di sorpresa. «Un agente della sezione speciale viene ucciso e lei non apre un'indagine?». «Gli omicidi sono di competenza del vostro dipartimento. È o non è la sola funzione dell'ufficio del sovrintendente Onions quella di indagare sui delitti avvenuti entro l'area metropolitana e ovunque altro venga richiesto?». Walsh bevve altre due dita di birra e guardò Troy, appoggiandosi con la schiena contro la sedia, cercando di fargli capire che la sua pazienza aveva
un limite. «È un'assurdità. Voi indagate sempre direttamente per quanto riguarda i vostri agenti». «Sempre? Può darsi, ma stavolta no». Walsh si sporse di nuovo in avanti e introdusse una nota confidenziale nel tono della sua voce e nel gesto con il quale batté sul piano del tavolo il dito medio sporco di nicotina che aveva usato per schiacciare il tabacco nel fornello della pipa. «Mi è stato ordinato. Da qui in avanti il caso è chiuso. Ordini. Mi capisce? Ora, come le ripeto, lei in mano non ha niente. Non ha trovato l'autista che guidava il taxi dell'americano, o almeno, a quanto ne so, in quasi ventiquattr'ore nessuno si è fatto avanti; testimoni non ne ha; l'americano non è reperibile e, mi pare di capire, risulta avere un alibi. Anche se potessi aprire un'indagine, non avrei niente cui appigliarmi per incominciare. Qual è l'alibi, a proposito?». «Il suo colonnello dice che lui e Wayne erano a una riunione con l'alto comando americano. Una riunione tanto riservata che può dirmi solo quando è avvenuta, ma non dove né a che proposito. Tra i presenti c'erano anche Patton e Eisenhower e nessuno ha intenzione di chiedere a Ike di intervenire a confermare un alibi». «L'hanno fregata, caro ragazzo, non lo capisce?». «No, non lo voglio capire. Io capisco solo che hanno sparato in faccia a un poliziotto per le strade di Londra». Walsh si guardò in giro per controllare se qualcuno avesse colto lo scoppio di collera di Troy, poi gli si fece più vicino con la testa, attraverso il tavolo. Abbassò la voce e il tono confidenziale assunse l'autorità che il grado consentiva. «Mi ascolti bene, sergente. Io faccio questo mestiere da trentadue anni. Nessuno spara ai miei uomini come se niente fosse quando ho una possibilità, sia pure minima, di intervenire, ma sono un funzionario di polizia, esattamente come lei, e ho capito, il giorno in cui mi sono arruolato, che è l'obbedienza a farci andare avanti. Se non sappiamo obbedire agli ordini, se non rispettiamo i nostri superiori, allora significa che siamo come tutta questa gentaglia», indicò la strada, con il bocchino umido della pipa, «significa che siamo feccia, plebaglia». Si scostò dal tavolo, rosso in viso, alterato. Gli si era spenta la pipa e laboriosamente, succhiando e sbuffando, riuscì a riaccenderla. «Io ho avuto degli ordini. Lei ha avuto i suoi. Non c'è altro». «A me è stato ordinato di andare avanti», disse Troy tranquillamente,
con fermezza. «Allora le auguro di farlo nel modo migliore. A quanto ho sentito, eseguire gli ordini non è il suo forte». «Voglio vedere la scheda di Miller su Wayne». «Mi dispiace, non posso aiutarla». Walsh bevve ancora una lunga sorsata di birra, ormai l'aveva quasi finita. La Guinness di Troy era intatta. Fin da principio non aveva avuto neanche l'intenzione di assaggiarla, non aveva toccato alcol dopo la notte passata con la Toscà, ma gli era parsa una manifestazione di ostilità non avere, come Walsh, un bicchiere davanti. «Non capisco», obiettò, «lei ha detto al mio superiore che Miller stava seguendo Wayne». «Non ho mai detto niente di simile». «Ho bisogno di vedere quella scheda. Se non ho insistito su questo punto la sera scorsa è solo perché pensavo che anche lei avesse aperto un'indagine». «Io non ho nessuna scheda». Walsh si concesse una pausa a effetto. «Ammesso che sia mai esistita». «Miller stava seguendo Wayne. Annotava tutto. Lo si fa sempre. Quelle note sono un documento. La scheda ci deve essere». Troy aveva cercato di mostrare quanto fosse ragionevole la sua richiesta, ma si trovò di fronte allo stesso secco rifiuto. «Come le ho già detto, non posso aiutarla». «Lei non apre un'indagine e non consegna quella scheda: si potrebbe parlare di sottrazione di prove. Se mi costringe, dovrò inoltrare la richiesta attraverso i canali ufficiali. Non m'importa degli accordi di reciproca correttezza che possono essersi svolti sopra la mia testa... lei mi obbliga a procedere secondo le regole... convincerò Onions a farlo». Troy si aspettava da parte di Walsh, poco abituato a essere minacciato dagli inferiori in grado, una reazione violenta. Invece vide che aspirava un'ultima volta, a lungo, il fumo e poi batteva la pipa capovolta sul bordo del portacenere. Prese dal taschino del panciotto un ferretto d'argento e, grattando e picchiando si dedicò alla cerimonia della pulitura del fornello senza smettere di guardare Troy ogni due o tre secondi. «Sergente, lo sa lei che cos'è una inchiesta interna?» chiese, inarcando le sopracciglia con un'espressione di falsa incredulità. «Vagamente». «Beh, quella che è stata condotta su di lei l'ultima volta è risultata esat-
tamente, e non "vagamente", al limite della espulsione. Io lo so. L'ho condotta io nel 1940, quando c'era il panico della quinta colonna. Sciocchezze, lo sappiamo tutti, ma se lei insiste nel ficcare il naso dappertutto, può andare a sbattere contro il principio di "importanza nazionale" che impone il controllo su tutti e tutto, dal prezzo delle uova alle armi segrete. Indurrebbe così i nostri superiori e padroni a esaminare quell'inchiesta sul suo conto e a considerare, come dire... la sua posizione al limite...». «Lei sta parlando della mia famiglia». «Anche. Quel suo zio dell'Imperial College è un po' troppo esuberante... certi discorsi allo Speaker's Corner... non le pare? Insomma è un po' un pagliaccio. E suo fratello... dentro e fuori dai campi d'internamento. Tutte circostanze che vanno ad aggiungersi una all'altra. E che si aggiungono all'opportunità che lei non s'immischi in questa storia». «Mio fratello riceverà dal re, il mese prossimo, la croce al valore aeronautico», disse Troy. «Non per questo lei va considerato un eroe. Mi ha capito, vero?». «Allora non devo chiedere una scheda che non esiste?». «Vedo che finalmente tutto è chiaro. Mi dispiace non esserle stato d'aiuto». Bruscamente com'era comparso, Walsh prese la bombetta e se ne andò. Per una ventina di secondi, Troy restò al suo posto, amareggiato e incredulo, poi finalmente capì. Uscì correndo dal Princess Louise e guardò lungo la strada. Walsh camminava a passo fermo, con le spalle curve, tenendosi il cappello con una mano perché la brezza della sera non glielo facesse volare via. Andava verso il viadotto di Holborn. Troy lo rincorse, lo afferrò per la manica e gridò: «Lei non mi può dare quella scheda perché non ce l'ha. E non ce l'ha perché Miller non faceva riferimento a lei, non le diceva niente!». Walsh liberò il braccio dalla stretta di Troy e lo squadrò dall'alto del suo metro e ottantacinque; massiccio com'era, dava la sensazione di poterlo schiacciare sotto un piede come uno scarafaggio. «Lei vuole spaccare il capello in quattro, signor Troy». Troy seguitava a camminargli al fianco finché Walsh non si fermò di nuovo. «Miller non riferiva niente a lei, ma a chi faceva capo, allora?». Walsh sospirò come se fosse infastidito da un bambino stupido e insistente. «Lei è un buon poliziotto, Troy. Ho spesso considerato con ammirazione
il suo lavoro. E non solo io, tutti. Non è facile arrivare tanto in alto in così poco tempo. Ma bisogna che impari a obbedire agli ordini. Se noi non obbediamo agli ordini, lo spirito della legge ci annienta e chi non capisce questo non è uno di noi. Le auguro la buonanotte, Troy. Se non smette di seguirmi le metto le manette e l'attacco a una cancellata». Seguitò a camminare con quel passo fermo e pesante da poliziotto, diretto verso la parte ovest della città. Il vento sbatteva contro il suo cappotto come se volesse strapparglielo di dosso, Troy lo guardò sparire tra la folla della sera che si affrettava verso la metropolitana. Stava fermo, pensava, finché un uomo lo urtò, colpendolo alla schiena con la custodia della maschera antigas e gli gridò dove aveva la testa. Ma in quella testa una incerta fila di puntini aveva acquistato una consistenza, una concretezza che portava a un nome: Edge. 44 Troy e Wildeve s'incontrarono all'ora di pranzo a St James Park. Troy non aveva fame e non aveva portato niente con sé. Wildeve aveva i panini che gli erano stati preparati dalla padrona di casa. Niente poteva essere meno appetitoso del pane di guerra, appena sporco di burro e con uno strato di marmellata vecchia di quattro anni. Wildeve avrebbe dato un braccio o una gamba per uno sformato di vitello e prosciutto o una bella fetta magra di arrosto sul pane bianco. Invece aveva dato i suoi tagliandi alimentari alla padrona di casa e se n'era amaramente pentito. «Non posso mangiare questa robaccia. Non ci riesco», disse a Troy. «Credo che neanche tu...». Troy si alzò dalla panchina, prese i panini e si avvicinò al laghetto. «Vediamo se li vogliono le anitre». Wildeve restò seduto, rabbrividendo. «Poi forse potremmo mangiare le anitre. Anche se né per amore né per forza qualcuno ci darà mai l'arancia. Sai che oggi ci sono bambini che non hanno mai visto una banana o un uovo che non esca da una busta sotto forma di una squallida polverina per fare la crema?». «Smettila di lamentarti, Jack. Siamo in un parco reale. Quelle anitre sono proprietà del re. Potresti essere accusato di alto tradimento». Troy spezzò quel pane greve, scuro e indigesto e lo buttò al gruppetto starnazzante delle anitre che gli erano venute intorno. «C'è un gelo bestiale, Freddie. Proprio qui dovevamo vederci?».
Troy lanciò il resto del pane in mezzo al laghetto e una mezza dozzina di anitre corse a mangiarlo. Wildeve stava seduto con le spalle al Mall, Troy si voltò verso di lui e diede un'occhiata a destra e a sinistra lungo il viale. Dalla sua posizione poteva vedere chiunque arrivasse da una parte o dall'altra a trenta metri di distanza. «Non voglio orecchie incollate ai divisori degli uffici o ai buchi delle chiavi. Non voglio che si sappia quello che tu dovrai fare». «Io?». «Calma, Jack. Sono ordini dall'alto». «Ordini di chi?». «Miei, agente Wildeve». «E Onions?». «Onions non sa niente e voglio che continui a non sapere niente. Se finirà male, si potrà sempre dire che avevi eseguito degli ordini e la responsabilità si fermerà a me». «Ah!». «Voglio che tu metta Muriel Edge, capo del MI5, sezione F4, sotto sorveglianza». Wildeve borbottò un «merda», si ficcò le mani in tasca, si mise a passeggiare per il vialetto e, con un calcio, mandò un sasso a ruzzolare lontano. «Merda», ripeté più forte. «Merda, merda, merda». Aveva abbandonato la sua aria ingenua, non era più lo scolaro infreddolito e svogliato. Rivolse a Troy il viso ancora fresco e riposato prima delle fatiche della giornata e incontrò il suo sguardo acuto e cinico. «Voglio che sia seguita dal suo ufficio in St James Street a casa, voglio che la casa sia sorvegliata, voglio sapere quando e come posso parlare con lei senza che nessuno dei suoi lo sappia, visto che ci sarà sempre qualcuno della sezione speciale che le gira intorno». «Merda!», disse ancora Wildeve. «Può anche darsi che, come capo sezione, abbia una guardia del corpo fissa. A me serve uno spazio nella sua giornata in cui possa essere certo che sia sola». Wildeve guardò in lontananza la Horse Guards Parade, verso Whitehall, e parve soppesare la gravità del suo compito. «Freddie, non credi che dovresti dirmi perché?». «Sì, non c'è ragione per non farlo. Ieri sera ho visto Walsh, della sezione speciale. Gli hanno detto di non occuparsi della morte di Miller. Lui pren-
de ordini direttamente dal MI5. Mi ha detto... e gli credo... che non ha la scheda di Miller su Wayne». «Ma deve averla. Miller era uno dei suoi». «In questo caso non avrebbe mollato l'osso. È fatto così, credimi. All'inizio ho creduto che mi stesse imbrogliando, come Zelig, ma in realtà non ho mai visto nessuno muoversi con una intelligenza pari a quella di Walsh. Mi ha messo nella direzione giusta, mi ha avvertito di stare in guardia e chiunque avesse origliato alla porta in quel momento avrebbe sentito solo un ispettore capo che dava istruzioni a un sergente. Ha le mani legate, ma si è assicurato che cerchiamo l'assassino di Miller. Miller non faceva capo a lui ma direttamente alla Edge. Se una documentazione esiste, è lei ad averla». «Ma allora è stata lei che ha detto a Walsh di non occuparsene». «Non credo. L'iniziativa, secondo me, è partita da qualcuno che sta più in alto». «Per esempio?». Troy tacque. Un agente del servizio civile, con in testa un cappello a bombetta si avvicinò all'acqua, aprì la custodia della maschera antigas, tirò fuori delle croste di pane, le gettò alle anitre e andò via. «Per esempio?», ripeté Wildeve. «Non lo so... qualcuno che può far ballare la Edge. Il superiore diretto della Edge è il capo divisione Roger Hollis, che credo risponda a sua volta direttamente a Sir David Petrie. Chiunque li abbia fatti ballare, il fatto è che hanno ballato... l'uccisione di Miller è stata accantonata. Tu e io siamo i soli che se ne occupino». «Ma se è così, perché non l'hanno impedito anche a noi?». «Semplicemente perché noi non prendiamo ordini dalla MI5. Solo Onions e l'ispettore capo della polizia metropolitana possono dirmi di interrompere un'indagine. La strada che porta dal MI5 all'ispettore capo passa per il ministro degli interni e non credo proprio che ci tengano a spiegare a Herbert Morrison perché questa città sia cosparsa di cadaveri. Pym e gli americani possono ostacolarci non rispondendo alle nostre domande o invocando la sicurezza nazionale, ma se non vanno dal ministro degli interni e lo convincono a parlare con l'ispettore capo tutto quello che possono fare per spingerci a desistere conta zero». «Salvo aggiungerci al mucchio dei cadaveri». «No, no, non lo faranno. Non per il momento, almeno. La morte di Miller ha sconvolto i loro piani... Non so perché, ma dubito che vogliano ri-
schiare ancora». «Ma Petrie non è un ex poliziotto? Non riesco a capire come possa trattare la morte di un altro poliziotto come una briciola da nascondere sotto il tappeto». «Molti di loro sono ex poliziotti. Credo che sentano poco la lealtà verso il passato comune. La Edge, poi, non ha mai fatto parte della polizia e Hollis nemmeno. Questa storia forse non è nemmeno arrivata alle orecchie di Petrie. L'ordine a catena forse si è fermato prima di arrivare a lui». «Capisco. E Onions?». «Non è che non voglia informarlo, sono sincero, Jack: in questo momento è lui che preferisce non sapere. Vuole dei risultati. Se glieli porterò, applicherà il suo occhio cieco al telescopio. Io non posso seguire personalmente la Edge perché mi conosce. Qualsiasi impegno le abbiano affidato le avranno anche detto di guardarsi da me. Te ne devi occupare tu, Jack». Troy sparse le briciole dei panini, accartocciò il sacchetto e lo buttò nell'acqua. «Dove abita la signora Edge?». «Al numero 52 di Edwards Square». «Posso chiederti chi te l'ha detto o non mi è permesso?». «Infatti non ti è permesso. Ho solo fretta di sapere». Tre giorni dopo, Troy fu accontentato. 45 Edwards Square è nella parte occidentale di Londra, a sud di Holland Park. Uno spazio tranquillo e frondoso di una tarda eleganza georgiana. Tranquillo perché è al riparo da Cromwell Road e Kensington High Street e le case sono solo su tre lati. Frondoso perché la piazza è essa stessa un grande parco privato protetto da alte inferriate, a beneficio di chi vi risiede. Prima della guerra lo scenario che si presentava davanti agli occhi di Troy sarebbe stato illuminato dall'opaco splendore di antichi fanali a gas ancora appesi di traverso ai loro lunghi steli dalle scanalature profonde. Era un'idea hollywoodiana di Londra. Mantelli, cappelli a cilindro e carrozze a due ruote, il sottile, compiuto cerimoniale dei tempi di Chesterton e del Club degli strani commercianti. L'agente in borghese sulla porta era impaziente, guardava sempre più spesso l'orologio. Dal lato più buio della piazza, all'ombra del muro che corre, alto, dietro il retro delle case in High Street, Troy l'osservava e pen-
sava che apparteneva a un genere che lui conosceva bene, più che quarantenne, buon bevitore di birra, poco interessato a far carriera ma piuttosto a raggiungere indolentemente, guerra permettendo, il pensionamento anticipato e una poltrona accanto al camino. Se le informazioni di Wildeve erano esatte, di lì a poco avrebbe alzato i tacchi e se ne sarebbe andato al pub, sull'angolo sud-est della piazza e ci sarebbe rimasto una buona mezz'ora. L'agente finì di fumare la sua sigaretta e ripose con cura il mozzicone in una scatoletta di latta che s'infilò nella tasca del cappotto. Un gesto accurato e meschino a un tempo, ma era ormai abbastanza frequente vedere qualcuno prepararsi una sigaretta mettendo insieme una decina di mozziconi. L'agente si alzò il bavero del cappotto, diede uno sguardo distratto alla piazza e si allontanò. Il cancello del parco era aperto. Ci sarebbe stata luce ancora per una ventina di minuti. Troy riuscì a distinguere la signora Edge, accovacciata davanti a una bella aiuola fiorita ben curata, protetta dalla strada da una fitta variegata siepe di ligustro. Qualcosa gli scricchiolò sotto i piedi. Era sicuro che lei avrebbe sollevato la testa, invece la vide continuare a sradicare e strappare le erbacce che sciupavano l'aiuola. Un piccolo pechinese, che aveva drizzato le orecchie a quello scricchiolio, si fece avanti, prudentemente, e poi con un acuto da soprano tornò di corsa ad annunciare la presenza di Troy. La Edge si rialzò in piedi, aggrappandosi a un piccolo fusto bruno e avvizzito. Senza voltare la testa, disse: «Le mie povere fucsie... non sopraviveranno mai all'inverno inglese». Le sbriciolò tra le mani, poi si tolse i guanti da giardino e si rivolse a Troy. «Che cosa l'ha trattenuta finora?», gli chiese tranquillamente. Troy si mise a sedere su una panchina, mentre lei si toglieva il fazzoletto di seta che aveva in testa e lo metteva nella tasca del suo vestito color nocciola. Senza il fazzoletto in testa non sembrava più una gentildonna di campagna. «Una banale questione di sicurezza», rispose Troy, «e l'agente davanti alla sua porta». La Edge si mise a sedere vicino a lui, sembrava che sfiorasse appena il bordo della panchina, con la schiena dritta come una canna di fucile. «Mi dà molto fastidio, ma cerco di ripetermi che è per il mio bene». Si mise una mano in tasca e ne tolse dei fogli ripiegati più volte. «Sono un po' sciupati, ma credo che il nostro amico si sarebbe insospettito se mi avesse visto venir via con uno schedario sotto il braccio».
Era troppo tardi per mettersi a leggere. Troy si limitò a osservare la consistenza del mucchietto di fogli e a infilarseli nella tasca interna del cappotto. «Il sergente Miller prendeva solo nota dei fatti. Scriveva quello che vedeva con in più qualche osservazione. Mancano le deduzioni ma non credo che ne avesse la capacità o la preparazione. Non è così per tutti voi, del resto?». Troy si chiese se una frase offensiva, posta sotto forma di domanda, richiedesse una risposta. «Che cosa aveva detto lei a Miller?». «Quanto bastava, spero, perché capisse che cosa doveva cercare». «Non quanto bastava a impedirgli di farsi ammazzare?». Il sarcasmo di Troy si disperse nell'aria mentre la Edge posava su di lui il suo sguardo azzurro, duro, intenso. Le rughe ai lati della bocca le si erano fatte più profonde. Fissava Troy come un crudele uccello da preda. «Lei sapeva che Wayne era un assassino, vero?» insisté Troy. «Lo sospettavo. Ma di sospetti ne ho sempre tanti. Il lavoro del sergente Miller doveva farci scoprire che cosa fosse vero e che cosa no». «Wayne aveva ucciso un uomo non più tardi dell'aprile scorso». «A quell'epoca non sapevo nemmeno della sua esistenza. No, signor Troy, non sapevo che fosse un assassino. Ho chiesto l'intervento di un agente della sezione speciale solo a novembre. Se ne renderà conto lei stesso. Gli appunti del sergente Miller non risalgono che all'ultima settimana di novembre. Avevo ricevuto troppi rapporti su questo misterioso americano che lo collegavano ai comunisti presenti a Londra. Loro possono anche essere tanto stupidi da prenderlo per buono, io no, io l'ho sempre visto come un personaggio poco chiaro. Si trattava di scoprire esattamente a che cosa mirava e risalire...» la Edge cercò per un momento la parola adatta, «... alla sorgente», concluse. «Alla sorgente?». «A chi lo comanda. A chi ha autorizzato la penetrazione americana». Troy la sentiva vicina a lasciarsi prendere dalla collera. Non poteva mettersi a gridare senza attirare l'attenzione ed entrambi volevano evitarlo, ma le tremavano le spalle nello sforzo di trattenersi. Troy aveva la sensazione che volesse pietrificarlo con lo sguardo. «Signor Troy, io sono un capo sezione. Lo sa quello che significa?». Anche questa volta la domanda non richiedeva una risposta. «Da quando ho raggiunto l'età della ragione, lavoro per il mio paese. Amo il mio paese. Morirei piuttosto che vederlo diventare un paese bol-
scevico. Ma non per questo ne cederei la più piccola parte a una potenza straniera solo perché questa potenza mi assicura che stiamo combattendo la stessa battaglia. Non pretendo che lei mi capisca, lei è solo un poliziotto, ma Wayne fa parte dell'OSS, Office Strategic Services. Questa pericolosa organizzazione ha qui una sua base d'appoggio, concessa in virtù della causa comune... dei rapporti speciali di parentela...». Aveva pronunciato la definizione di Roosevelt con un disprezzo che certamente lui non aveva inteso attribuirvi. «La guerra è quasi finita. Stiamo già combattendo quella che verrà dopo. E anche per gli americani è così. Sappiamo tutti chi sarà il prossimo nemico comune. Ma combattere questa guerra nel nostro paese usurpando la nostra sovranità, l'autorità che mi è stata concessa... questo no. Sarebbe come attirare una pestilenza per evitarne un'altra. Ma... se l'OSS riesce ad arrogarsi la prerogativa della caccia ai comunisti adesso, che cosa gli impedirà di continuare così nei prossimi vent'anni? Capisce quello che voglio dire?». Ora la Edge sembrava più calma, meno incline alla retorica e, infine, sinceramente interessata alla risposta che Troy poteva darle. «Che cosa...», Troy s'interruppe, «che cosa vuole da me, signora Edge?». «Che cosa voglio? Voglio che lei lo incastri!». «Mi ha appena detto che questo è un suo privilegio». «Non un privilegio, signor Troy, ma un dovere». «E allora faccia il suo dovere, signora Edge». Lei sospirò. Smise di stare impettita come una scolara e si appoggiò allo schienale della panchina quasi consumata dalla propria impulsività. «No, ho bisogno di lei per questo». «Segua i canali ufficiali. Parli con Hollis. Hollis parlerà con il ministro degli interni...». «Non posso. Questa storia non deve arrivare al ministro degli interni. Non l'ha ancora capito?». «Certo che l'ho capito, ma non posso fare a meno di chiedermi perché. Petrie è un ex funzionario di polizia. Mi è difficile credere che voglia lasciare un assassino Libero per le strade di Londra, soprattutto l'assassino di un poliziotto». «E il suo ispettore capo è un ex militare, quindi non mi ponga questo genere di obiezione. Non serve a niente. La lasci da parte. Ci sono dei canali ufficiali e questi canali sono bloccati, per comune assenso, a un livello
più alto del suo e del mio. Mi creda, Troy, se potessi prendere un telefono e chiamare direttamente il suo superiore lo farei, ma equivarrebbe a tagliarmi la gola con le mie mani. C'è la procedura e c'è il protocollo, se lei non lo capisce resterà un sergente per tutta la vita». «Quando ci si serve di me, preferisco saperne la ragione. Signora Edge, non posso fare a meno di pensare che il ministro degli interni non venga informato perché non si sa da che parte potrebbe stare». La Edge si alzò in piedi e si tolse dal vestito qualche ramoscello e qualche granello di terra. Il cane sollevò il muso e si stiracchiò in attesa che la dura prova cui era stato sottoposto avesse termine. «Faccia il suo dovere, signor Troy». Il cane guardò, pieno di speranza, prima la Edge poi Troy e viceversa. «Senza paura e con imparzialità?». «Non capisco». «Fa parte del mio giuramento di poliziotto, signora Edge». Troy si alzò a sua volta per andarsene. Il cane si mise a saltargli intorno dalla gioia. «Era proprio necessario», chiese Troy, «che lei esprimesse dei dubbi sulla mia imparzialità?». «Come? ... Ah sì. Non le fa piacere che le si ricordino le sue origini, ma diciamo che mi era necessario guadagnarmi prima di tutto la sua attenzione». «E per questo sollevare sospetti in tutti gli altri?». «Credo che Pym e Onions sappiano tutto su di lei. Suo zio è un libro aperto. Se lo ritenessi qualcosa di più che un uligano svagato e teorico avrei già un fascicolo alto così sul suo conto». «E Zelig?». «Zelig non conta niente. Non ha iniziative né autorità. Dà mano libera a Wayne e lascia che sia la sua segretaria a prendere le decisioni. Se sospettasse di lei, Troy, delle sue motivazioni o di quello che potrebbe fare, sarebbe un piccolo miracolo. Gli aggiungerebbe solo una briciola di sana animosità. Si metta al lavoro, Troy. Legga gli appunti di Miller, troverà la prova di cui ha bisogno, mi creda. Buonanotte. Non ci rivedremo». 46 Tornato in Goodwins Court, Troy sparpagliò sul tavolo le quindici pagine degli appunti di Miller, scritte malamente a macchina. La Edge ne ave-
va colto un aspetto essenziale: Miller non aveva una mente speculativa. Le ore, i giorni, i luoghi erano scrupolosamente annotati, ma non c'era mai una parola che indicasse come si potessero interpretare, anche se Troy aveva la sensazione di toccare con mano l'affidabile consistenza di quelle testimonianze... «partiva in direzione ovest esattamente alle ore 11,37 antimeridiane...». Un lavoro lungo e faticoso, messo insieme pietra su pietra. Una onestà priva di immaginazione. Un uomo che non capiva quando stava perdendo tempo. E non capiva quando la sua vita era in pericolo. In novembre non era segnalato niente di interessante, solo che Wayne aveva altre amiche oltre a Diana Brack e ogni tanto andava a cercare qualche prostituta a Soho, bene equipaggiato, senza dubbio, con una scorta di preservativi forniti dal governo degli Stati Uniti per non rischiare malanni mentre era al servizio della patria. Troy calcolò che Miller avesse cominciato veramente a controllare Wayne circa a partire dal dicembre. Per due settimane lo aveva seguito ai suoi appuntamenti nei pub dell'East London, e due volte al Bricklayers Arms in Hannibal Road, pochi metri lontano dalla casa di Wolinskj e poco di più dal luogo dove era stato ucciso Brand. Aveva partecipato a riunioni in case private di Jubilee Street e Jamaica Road e Miller, dopo una scrupolosa ricerca presso l'ufficio del registro elettorale, aveva trascritto i nomi dei padroni di casa, Edelmann, Sidney Lewis e McGee, Michael Eamonn. Poco dopo il Natale del 1943, Miller aveva cominciato a perdere le tracce di Wayne nelle stazioni della metropolitana del centro. Ogni volta aveva scritto «persa di vista la persona sospetta a Moorgate... Holborn... Liverpool Street... Monument» e, una volta o due, Wayne lo aveva manifestamente menato per il naso «perso di vista a Earls Court... Hammersmith... Paddington...». Da quel momento in poi, Miller aveva sprecato due mesi senza annotare niente se non i passatempi della vita di società ad alto livello di un ufficiale americano molto ben pagato. Nella notte del 24 febbraio, quella della morte di Brand, almeno presumibilmente, visto che Kolankiewicz insisteva sulla possibilità di un margine di errore perché la temperatura era sotto zero e lui aveva potuto lavorare solo su un braccio del morto, Miller aveva finalmente recuperato Wayne, sventando il suo tentativo di sfuggirgli alla stazione di Baker Street, ma l'aveva perso a quella di Liverpoorl Street Troy pensò che era lì che Wayne doveva scendere per andare a piedi fino a Stepney. Così, ad ogni modo, aveva fatto Miller. Con un lampo d'intuito, il solo che avesse mai mostrato, era andato in Jubilee Street e aveva aspettato davanti a casa di Edelmann. Wayne, e c'era da aspettarselo,
non era comparso. Troy era sicuro che avesse incontrato Brand e Wolinskj a casa di Wolinskj o in un pub e avesse ucciso Brand o tutti e due dopo averli attirati tra le macerie di Stepney Green. Attirati? Troy ebbe l'impressione fastidiosa che la logica lo portasse alla ricostruzione di un romanzo poliziesco, ma poi si ricordò del cadavere di Miller, della sua nuca spaccata in una decina di pezzi dentro un sacchetto di cellophane, dei buchi neri che aveva in faccia e sulla fronte, uguali a quelli della faccia di Von Ranke, della testa di Brand. Era morto così anche Wolinskj? Gli appunti di Miller erano sempre più incerti, incompleti. Per giorni e giorni, fino alla fine di marzo, Miller non aveva avuto niente da osservare. Wayne era stato particolarmente inattivo, o più abile del solito. Miller non aveva menzionato nemmeno la sua visita a Zelig né la presenza di Troy davanti a casa della Brack. Le ultime due settimane di marzo non figuravano nel rapporto. Miller non aveva trascritto niente dal suo libretto di appunti. Sembrava diventato indifferente, sciatto, aveva copiato a macchina le annotazioni solo una volta alla settimana prima di consegnarle alla Edge. Una trascuratezza che lo aveva portato alla morte. Possibile che non avesse collegato la presenza di Wayne nell'East End il 24 febbraio con quel braccio che era stato trovato solo tre giorni dopo? Non sapeva che stava seguendo le mosse di un uomo che aveva ucciso e che provava piacere nell'uccidere? Ma forse non aveva più rintracciato Wayne fino a quella sera in cui si era imprudentemente infilato tra lui e Wildeve che lo inseguiva e Wayne lo aveva visto. Troy si chiese perché Wayne non avesse ucciso Miller prima. Avrebbe potuto farlo molte altre volte. Forse l'aveva classificato come un incompetente del quale non valeva la pena di preoccuparsi, fino... fino alla comparsa di Troy? Ma quella sera Wayne non avrebbe corso il rischio di uccidere Miller sapendo di essere inseguito da lui o da Wildeve. Solo un pazzo lo avrebbe fatto. Wayne non sospettava che Troy o Wildeve fossero proprio dietro di lui. Era probabile, forse certo, che non avesse visto Troy quella notte a Holborn. No, Miller era morto per quello che era scritto nei suoi appunti. Wayne aveva deciso di sapere con sicurezza tutto quello che Miller sapeva sul suo conto, si era procurato un alibi perfetto, e ora, per ragioni che Troy non riusciva nemmeno a supporre, l'autorità costituita aveva deciso di sostenerlo. Eliminando Miller, Wayne si era, effettivamente, sbarazzato della sezione speciale. «Troverà la prova di cui ha bisogno», aveva detto Muriel Edge. Ma, in realtà, dagli appunti di Miller si potevano ricavare solo due dati: la con-
ferma che Wayne era stato poco lontano dal luogo del delitto il giorno in questione e i nomi di Edelmann e McGee. «Zelig non conta niente», aveva detto anche Muriel Edge, «lascia che sia la sua segretaria a prendere le decisioni». Troy si ricordò di avere silenziosamente promesso, quattro sere prima, a quella segretaria di tornare a casa sua. Era la sera della morte di Miller. La morte di Miller aveva cancellato quell'impegno, ma ora c'erano altre ragioni per mantenerlo. 47 La Toscà gli chiuse il portone in faccia. «Sei in ritardo di una settimana, verme!». Nella mente di Troy si affollarono le più trite giustificazioni del repertorio maschile. «Posso spiegarti tutto, credimi». Spinse il portone. Lei si scostò. La vide, nel buio, avvolta in una coperta dal petto alle caviglie; aveva indosso la camicia della divisa e la sua espressione non era quella di chi è disposto a perdonare. Si voltò e corse su per le scale. Prima di seguirla, Troy chiuse il portone senza far rumore e cercò con la mano la ringhiera. La porta dell'appartamento era socchiusa, una striscia sottile di luce tagliava a metà la ragnatela di buio che avvolgeva il pianerottolo. Troy entrò lentamente nella stanza. La Toscà, pensò, aveva tutte le caratteristiche di chi si difende scagliando contro l'avversario la prima cosa che trova a portata di mano. La vide alzare un braccio e un cuscino, mal diretto, urtò pesantemente, ma senza far rumore, contro la parete, a poco più di un metro da lui. Lei stava seduta sul letto, attorno c'erano i resti di un festino consolatorio. Krapfen sbocconcellati, la stagnola di qualche tavoletta di Hershey e mesi e mesi di vecchie copie di riviste americane, «Life» e il «Saturday Evening Post». La radio era accesa e trasmetteva un programma di musica leggera con una grande orchestra. Elsie Carlisle cantava in tono sommesso con la sua voce seducente «Mi hai fatto piangere ancora». «Credi di poter capitare qui come se niente fosse solo quando ti fa comodo?». «Ma... io...». «Perché non mi hai telefonato?». «Non mi è stato possibile. Sono successe tante cose da quando ci siamo
visti l'ultima volta». «Tranne l'apertura del secondo fronte, e in questo caso l'avrei saputo prima io di te, non vedo altre scuse accettabili». «Il maggiore Wayne...». Troy non poté proseguire perché Toscà si mise a strillare. «Nooooo! Non me lo nominare! Non unire scopate e lavoro!». Troy richiuse con un piede la porta, corse sul letto e le mise una mano sulla bocca perché non gridasse tanto da attirare i vicini, l'antiaerea e i pompieri, tutti in una volta. Lei gli morse il palmo della mano perché la tirasse via, ma aveva capito, perché proseguì a bassa voce, in un sibilo. «Se credi di poter acchiappare due piccioni e una fava come direste voi, aforisticamente, con la vostra testa da inglesi, se credi di cercarmi per farmi dire quello che so, sbrigartela in cinque minuti e poi buttare via il tempo a parlare, pensaci prima, poliziotto. Adesso spogliati oppure vattene via subito!». Troy era stordito. Sapeva che la Toscà non usava mezzi termini, ma era riuscita a stupirlo lo stesso. «Vuoi che...?». «Ci puoi scommettere. Sai come si dice? Se ce la fai, fa' quel che sai o sono guai!». «Dio mio!», esclamò Troy quasi senza volere. «Dio mio!», lo invitò lei. Uscì di sotto le coperte e in ginocchio sul letto, con la camicetta e le calze e cominciò a disfargli il nodo della cravatta. «Gli uomini saranno la mia morte». Premette le labbra contro quelle di Troy e con la lingua, delicatamente, lo forzò ad aprirle, poi si gettò con la schiena sul letto, ridendo, con una luce tenera negli occhi scuri. Gettò la cravatta da parte e cominciò a slacciargli i bottoni del cappotto. «Se parli ancora di lavoro, del tuo o del mio, prima della luce del giorno, sei morto. Capito?». Troy fece segno di sì con la testa. «Adesso mio caro, tonto bambino londinese, sdraiati qui e pensa all'Inghilterra». Gli tolse i vestiti e Troy si ritrovò nudo prima di accorgersi che la luce era ancora accesa, ma a quel punto non valeva più la pena di badarci. Non aveva mai fatto l'amore con la luce accesa. E nemmeno con la radio accesa, e con una musica così sentimentale che era meglio cercare di non pensarci. Ma la Toscà non conosceva l'incertezza.
48 Troy era a letto, sveglio. Lei si stiracchiò nel buio e tese un braccio verso di lui. «A che cosa stai pensando?». «All'Inghilterra». «Non devi pensare all'Inghilterra anche dopo, solo durante. Altrimenti è come se volessi distogliere la mente dal sesso. Ma quando pensi all'Inghilterra, a che cosa pensi? A Churchill? Al re? A Hyde Park? Ai Beefeater?». «No, penso a tutt'altro. Penso al giallo delle primule in primavera. Alle pieghe lanuginose delle foglie di quercia che si aprono col loro bel verde scuro». «Eh? Alle pieghe lanuginose?». «Al lungo nastro candido del biancospino quando sboccia a maggio e ricopre i campi del Hertfordshire». «Del Hertfordshire? È lì che sei nato?». «Sì, e quando ci penso, penso anche alla crema alla vaniglia e al cavolo bollito». «Che cosa c'entra il cavolo con la primavera?». «Niente, ma quando penso all'Inghilterra prima o poi penso anche alla crema...». «E al cavolo bollito?». «Beh, sì». «Sai che ti dico? Che hai fame». «Sì, ma non voglio mangiare un cavolo bollito, anzi dovessi non mangiarne più non m'importerebbe». «Basta una settimana di astinenza e non ci si ricorda più che il sesso toglie agli uomini tutte le energie. Si agitano per trenta secondi e un momento dopo dormono per svegliarsi quando hanno fame». Saltò nuda dal letto e corse al frigorifero. Lo sportello resistette per un attimo, poi con un soffio e un ultimo riluttante risucchio concesse i propri tesori. «Ho una cosa che va bene per te. Adesso è fredda e invece credo che la si debba mangiare calda, ma mi è sempre parsa discreta anche appena tolta dal frigorifero». Si avvicinò al letto e Troy spostò lo sguardo dal suo seno al piatto che gli veniva offerto.
«Che cos'è?». «Prova a indovinare». Era uno strano pasticcio, una superficie confusa rosso sangue e bianca che ricordava vagamente i colori del marchio della società ferroviaria London Midland and Scottish. «Avanti, fai l'americano, mangia con le mani». Troy staccò un pezzo di quel cibo dall'aspetto disordinato. «Niente male. Che cosa sono queste cosine marroni?». «Acciughe». «E le palline?». «Capperi, credo». «E queste strisce colorate?». «Peperoni». «Non c'è male davvero. Come si chiama?». «Pizza». «Come?». «P-i-z-z-a. L'ho presa allo spaccio. Hanno allestito un forno da qualche parte, in campagna, per i cibi che piacciono agli americani. Serve a tenere alto il morale delle truppe». «Credevo che ci volesse ben altro». «Invece no. Abbiamo casse che contengono un'intera fabbrica per l'imbottigliamento della Coca Cola di riserva per il D-Day. A ogni testa di sbarco cominciamo a imbottigliare la Coca Cola per i nostri ragazzi». Troy rideva. «Dico davvero. Ma tu non devi saperlo. Sono informazioni interne. Sei pronto a ricominciare?». Troy assentì, pensando che parlasse della pizza. «Lo sapevo che, se fosse stato per te non me l'avresti mai chiesto. Bisogna darsi da fare per andare a letto con qualcuno in questa città!». Con una mano lo tenne stretto perché non cambiasse idea, con l'altra spense la luce e Troy si lasciò trascinare da lei e dall'oscurità. 49 Quando si svegliarono si resero conto di un inconveniente che capitava abbastanza spesso dopo un'incursione aerea. «Accidenti! Di nuovo senza gas». La Toscà camminava scalza per la stanza, imprecando a bassa voce.
«Niente colazione. Niente caffè. Come crede Hitler che io possa arrivare a stasera?». Troy scivolò fuori dal letto. A giudicare dalla posizione del sole che brillava obliquo su Trafalgar Square attraverso la sporcizia della finestra sul retro della casa, era ancora presto. Aveva un po' di tempo davanti a sé. S'infilò la camicia. «Che cosa mangi di solito per colazione?». «Uova, pane tostato, caffè. Muffins inglesi quando li trovo allo spaccio. Strano che ce ne siano proprio in Inghilterra. Voglio dire, è francese il pane bagnato nell'uovo e nel latte prima di abbrustolirlo "alla francese"? I messicani mangiano il chili? Sono cose che incrinano la fiducia nell'ordine universale». Chiacchiere a vuoto, Troy non rispose e aprì il frigorifero. C'erano una dozzina di uova e un panetto di burro da mezzo chilo ancora chiuso. Non aveva visto tanto burro in una volta sola dall'inizio della guerra. «Bene. Siediti». «Dove?» «Dove vuoi, dove stai più comoda». Lei si mise a sedere per terra, con le gambe incrociate, tra il frigorifero e il letto, ancora sorprendentemente nuda e Troy preparò la colazione. Prese i piatti, i coltelli, una spatola da pesce e accese il ferro da stiro. Poi le si sedette di fronte. Voltò il ferro con la piastra in su e glielo porse. «Aspetta, non lo faccio più da tanto tempo. Ma per una quindicina di giorni, dopo la pyima incursione aerea, mi sono fatto da mangiare solo così. È importante soprattutto che il ferro stia ben fermo. Forse dovresti anche metterti qualcosa addosso». La Toscà alzò le spalle, con un piccolo broncio, i suoi seni si mossero per un attimo, lei gettò a Troy un bacetto di sfida sulla punta delle dita e restò com'era, senza niente addosso. «Come vuoi». Troy aprì il pacchetto del burro, unse la piastra del ferro e aspettò di sentirlo soffriggere. «Stai scherzando!». «No. Per piacere, tienilo fermo». Lei strinse il manico del ferro con tutte e due le mani. La piastra calda incombeva a qualche centimetro dalle sue gambe nude. Troy aprì un uovo sul bordo del piatto e lo fece scivolare, sfrigolando, sulla piastra. «Dio mio, cuoce!», esclamò Toscà. «Cuoce davvero!». «Bisogna aspettare un po'. Abbi pazienza».
«Certo, intanto possiamo parlare. Abbiamo tante cose da dirci». Troy non rispose, aspettò che fosse lei a cominciare. «Per esempio che Jimmy non fa imbrogli con i tagliandi alimentari. O sì?». Troy scosse la testa. Guardava l'uovo, non lei. «Allora è una cosa seria. Se fai quella faccia da "io sono la coscienza del mondo" vuol dire che è una cosa seria». «Ha ucciso quattro persone». «Cooosa?». Allentò la stretta, il ferro s'inclinò e l'uovo scivolò da un lato. Troy lo prese con la spatola da pesce prima che le cadesse addosso, ma il burro bollente le gocciolò sulle cosce. «Ahi, ahi!». «Basta per ora. La colazione riesce meglio se parliamo d'altro». «No, andiamo avanti. Non puoi lasciarmi così, in sospeso. Guarda che io sono molto forte, è solo che non mi aspettavo niente del genere. Chi ha ucciso?». Troy fece scivolare ancora l'uovo sulla piastra e tagliò una fetta di pane per poi mettercelo sopra. «Due rifugiati tedeschi. Un polacco che lavorava ai docks. Un poliziotto che lo seguiva». «Santa merda! Perché l'ha fatto?». «Perché è il suo lavoro. Sporchi espedienti, l'hai detto tu». «Ma ho anche detto non qui». «Qual è esattamente la sua funzione nell'esercito?». «Perché ti aspetti che lo sappia?». «Perché so che lo sai». «Jimmy è uno spaccone. Non sa stare zitto. Se fa qualcosa di speciale, prima o poi cerca di farlo capire. Durante l'anno passato, si è chiarita più o meno la sua posizione. È uno di quelli che sono stati paracadutati nella Francia occupata. Ha fatto qualche eroica acrobazia e poi l'hanno fatto tornare indietro. Parla bene il francese e il tedesco. Pare». «Fa mai espatriare qualcuno? Francesi, tedeschi, esponenti della resistenza, gente che potrebbe collaborare con noi a questa guerra?» «Noi lo facciamo spesso, ma non saprei parlarti di casi particolari. Zelig non lascia che io sia informata sulle singole operazioni di espatrio. Non dà mai particolari e non mette mente per scritto». Troy sistemò l'uovo sulla fetta di pane, tolse il ferro dalle mani della To-
scà e lo mise, capovolto, sul tappeto. Poi le passò il piatto, lei mangiò un boccone di uovo e, mentre il tuorlo le colava sul labbro inferiore, non distolse da Troy il suo sguardo attento e perplesso. «Peccato che non ci sia il caffè». «Potresti scoprire se ha fatto espatriare un tedesco circa nel febbraio di quest'anno?». «Mi stai chiedendo di spiare Zelig?». «Sì». «Potrei, forse. Non mi entusiasma, ma se non passassi metà del mio tempo a spiarlo saprei, sulle operazioni alleate, solo quello che mi fa scrivere alla distribuzione viveri per protestare contro la mancanza al nostro spaccio di burro di arachidi e maionese». Finì in silenzio di mangiare la sua fetta di pane con l'uovo. Era chiaro che stava seguendo un pensiero. «Chi è l'ultimo che ha ucciso?». Troy le ridiede il ferro e cominciò a preparare la colazione per sé. «Il poliziotto. Martedì notte». «La notte in cui dovevi venire da me». «Invece ero in Manchester Square a infilare frammenti di cervello nei sacchetti di cellofan». Lei trasalì, con una piccola smorfia, ma seguitò a parlare: «Mercoledì mattina in ufficio c'era una situazione di panico. Zelig era arrivato prima di me, un avvenimento del tutto inconsueto. Non smetteva mai di telefonare. Ho incollato l'orecchio alla porta. Ha parlato con Jimmy e poi con qualche ufficiale superiore ed era di un umore bestiale. Ha parlato anche con due funzionari del vostro MI5». «Poco prima avevamo avuto un incontro al MI5». «Tu l'hai preso di mira, eh?». «Sì, ma quello che mi preme è sapere chi ha preso di mira me». Troy parlava seguitando a mangiare. Lei con un dito gli tolse dalle labbra un prezioso pezzetto di uovo e se lo mise in bocca. «La prima volta che ti ho vista, sapevi che sarebbe venuto Wayne?». «No, passa da noi ogni tanto, ma non lo aspettavo in particolare per quel giorno. L'unico appuntamento di Zelig era con te e gli aveva fatto salire la pressione. Certo non aveva voglia di vederti». «Infatti mi sono sempre chiesto perché non ne abbia fatto a meno. Non mi ha detto assolutamente niente». «Strano».
«Forse non era lui che doveva vedermi, ma Wayne». «Non capisco». «Forse Wayne è venuto apposta per vedermi. Sapeva che un poliziotto lo stava seguendo, era il sergente Miller della sezione speciale. Lo spaventava l'idea che si fosse messo in contatto con Zelig. È venuto per vedermi e per farsi vedere. Se mi avesse riconosciuto come il poliziotto che lo seguiva, se fosse risultato che ero io Miller i suoi timori sarebbero stati confermati. Miller era troppo vicino alla verità e Wayne sapeva di doverlo uccidere. Ma non ero io il poliziotto che aveva visto. Io ero io. Non ero collegato né a Miller né al compito affidato a Miller. Non avevo capito che quello era Wayne, altrimenti se avessi mostrato minimamente di riconoscerlo a quest'ora sarei anch'io all'obitorio con una pallottola nella testa. Il sergente Miller ha guadagnato qualche giorno di vita. Wayne l'ha ucciso quando gli è parso più opportuno, ma altrettanto facilmente avrebbe potuto uccidere me. Quello che non sapeva era che io, lo stesso giorno, più tardi, l'avrei visto uscire dalla casa della sua amante e che avrei tratto una deduzione che lui non sospettava potessi trarre. Se avesse capito che mi ero messo sulle sue tracce, forse non avrebbe ucciso Miller». «È entrato nel mio ufficio. Ha chiacchierato un po' senza dire niente di particolare e se n'è andato. Ma tu a che conclusione sei arrivato? Stai indagando sugli omicidi? Che cosa aveva capito quel Miller?». «Niente, è solo una mia supposizione, ma credo che sia riuscito a infiltrarsi in una cellula comunista nell'East End». «Impossibile. Non fa parte del suo ruolo. Lui è a Londra solo per un periodo di attesa, di riposo, di vacanza, chiamalo come vuoi. Non ha nessun incarico in Inghilterra». «Però qualcosa fa, ammazza». «I comunisti? Ammazza i comunisti? Mi avevi detto che erano due tedeschi. Non ci capisco niente». «Neanch'io». Per un minuto o due Troy seguitò a mangiare in silenzio. Poi lei si alzò e andò a frugare nel primo cassetto del mobile da toeletta. Gettò una chiave per terra e tornò a sedersi con in mano un foglio di carta bianco e rigido. «Prendi», disse, «non ho altro per ora. Stasera forse avrò qualcosa di più». «Io ho bisogno subito del suo indirizzo». «Non lo sai?». «No, neanche lontanamente. L'ho visto in Tite Street e...».
«Nel mio ufficio. Quel tipo in St James Square è un incapace. No, Jimmy non si farà vedere. Ufficialmente abita in uno di quegli appartamenti che abbiamo affittato in Curzon Street per gli ufficiali. Marriot House. Due stanze, ma non mi è mai capitato di trovarlo lì. Credo che usi quell'indirizzo solo per farsi spedire la posta. Ci sono dovuta andare, una volta. C'era odore di chiuso. Tiene lì un cambio di vestiti, ma secondo me non ci dorme quasi mai. Sta con le sue donne, qua e là. Per il momento accontentati di questo». Stese il foglio in terra, rivolto in su. Era una pagina tutta di piccolissime fotografie. Circa trenta file di sei o sette ciascuna. Ritrattini in miniatura del maggiore Wayne, leggermente diversi uno dall'altro, come in una sequenza cinematografica. «Si chiama polifoto. Si fa con una macchina ad avanzamento automatico. Ne andavano matti a Washington l'estate prima della guerra. Io ne ho fatto uno per mandarlo a mia madre. È un sistema che serve a tirar fuori l'aspetto più carino di una persona. Io credo che anche Jimmy pensi di essere carino, anche se Dio sa che tu sei di un altro parere». Sotto le fotografie c'era la firma «Jimmy». Il labbro superiore pieno, morbido, molto più grande di quello inferiore; lo sguardo brillante, sorridente. In una miriade di goffi atteggiamenti. «Non gliele ho chieste io. Me le ha date lui. Non so nemmeno perché le ho conservate». Mentre tornava a Goodwins Court per fare un bagno e cambiarsi, Troy ripensò alla reazione della Toscà. Aveva accettato tutto quello che lui le aveva detto. Ne era rimasta colpita, ma non aveva fatto obiezioni, non aveva chiesto «come lo sai?» o «ne sei proprio sicuro?». Ma Wayne aveva il compito di uccidere. Tutti i soldati avevano in realtà quel compito, durante la guerra, ma non era la stessa cosa. Poco prima le aveva mentito, sapeva perché Wayne si era infiltrato in una cellula dell'East End e l'aveva distrutta, ma non aveva immaginato che l'avesse fatto senza un incarico, andando oltre gli ordini ricevuti. Come sempre, stava anticipando le conclusioni, eppure non poteva fare a meno di trovare la descrizione modesta che la Toscà aveva dato del proprio ruolo a Norfolk House in contrasto con la versione che ne aveva avuto dalla Edge. Non aveva recitato una farsa con lui? Era veramente così naturale il suo modo di stare con gli uomini? Ma dove, nel linguaggio disinvolto di Manhattan c'era posto per un avverbio come «aforisticamente?».
50 Kolankiewicz stava appollaiato su una sedia davanti alla stufetta, nell'ufficio di Troy, leggendo il «News Chronicle». Wildeve cercava di smaltire una immensa montagna di carte e ogni tanto sbadigliava. Troy passò vicino, in silenzio, a tutti e due e andò a fissare con una puntina da disegno il polifoto sul riquadro di legno del promemoria appeso al muro. «Questo è il nostro uomo», disse. Kolankiewicz ripiegò il giornale, si alzò e andò a guardare le fotografie di Wayne tenendosi fermi gli occhiali sul naso con una mano. «Brutto affare», disse. «Da che cosa lo intuisce?». «Da quella espressione cattiva». «In quale fotografia?». «In tutte». «Giusto. Lei dovrebbe fare il detective». «Non prendermi per il culo. Quando vedrai quello che ho per te resterai impressionato». Aprì una valigetta, ne tolse tre sacchetti di cellofan e li mise sulla scrivania di Troy. «Ho notizie buone e notizie cattive. Primo, secondo e terzo proiettile provenienti da Manchester Square. Tienili da conto. Ciò che sparisce una prima volta può sparire la seconda. Sono calibro 45. Provengono, come hai detto giustamente, da un'arma automatica. Le striature ai lati, lasciate da un caricatore a compressione, non fanno pensare a una pistola. Adesso arrivano le buone notizie». Kolankiewicz prese due grandi fotografie e le attaccò al riquadro di legno, vicino alle facce di Wayne. «Ecco: in mancanza di altri proiettili da confrontare, ho dovuto darmi da fare con il poco di cui disponevo. Questi ingrandimenti serviranno a spiegare meglio che cosa intendo dire. Posizionando le incisioni lasciate dal caricatore sulle ore nove, in tutti e tre i casi quelle del percussore indicheranno le due e dieci... se si trattasse di un tiro all'arco, direi che abbiamo fatto centro. Sono indicazioni minime, non sono prove. Resta sempre troppo spazio per le coincidenze. Ma...». Prese altre due fotografie dalla valigetta e le attaccò sopra le altre. «Guarda queste. Sono ingrandite 50 volte. Confronta la forma del percussore e quella della cartuccia».
Troy guardò il più attentamente possibile. «Sono identiche». «Infatti. Partendo dalla stessa posizione delle lancette, i proiettili di Stepney e quelli di Manchester Square portano i segni di essere stati sparati dallo stesso percussore o, per assurdo, da due percussori consumati esattamente allo stesso modo». «Ma... è geniale!». «In realtà i due proiettili sono partiti dalla stessa arma. Certo non possiamo arrivare a una conclusione determinante come se avessimo anche il proiettile che ha ucciso Herr Polsino, ma... scientificamente il risultato si può considerare esatto. Ora le brutte notizie...». «Le brutte notizie?». «Questi argomenti non sono tali da reggere in tribunale, o almeno non ci sono precedenti, nessuno ci ha mai provato». «È un guaio». «Pensa alla gamma di somiglianze che presentano le impronte digitali. E pensa che, molto probabilmente, il nostro uomo avrà già buttato l'arma in un fosso». «Io penso, invece, che spesso, quando arrestiamo un assassino, scopriamo che ha tenuto con sé l'arma del delitto, quasi le fosse affezionato. La conservano, anche se è più pericolosa del cane di Bill Sykes». Kolankiewicz si strinse nelle spalle. «Prendi quanto ti ho detto per quello che vale. Personalmente ho la sensazione che siamo in possesso di una prova indiziaria, che si disperderà come piscia al vento. Certo, si può portarla in tribunale ma sarebbe la prima volta». Troy abbassò la testa per guardare meglio le fotografie. Sentì che Kolankiewicz gli toccava la nuca, infilandogli le dita sotto i capelli. «Che cosa sta cercando?». «Ho saputo che ti sei trovato nella mischia. Hai ancora un bel bozzo qua dietro. Quando te lo sei fatto?». «È stato... è stato...». Troy si rese conto che non avrebbe saputo dire quando era scoppiata quella bomba mentre lui era nella metropolitana, alla stazione di Holborn. Ricordava il dolore alla testa, la nuvola colore del sangue, erano sensazioni ancora presenti, ma non sapeva se la bomba era scoppiata una settimana o un mese prima anche se ora, per una frazione di secondo, aveva visto Kolankiewicz attraverso una nebbia rossastra, lo aveva sentito parlare attraverso il battito di un vaso sanguigno sopra il suo occhio sinistro. «Due settimane fa», disse Wildeve.
Così poco? Kolankiewicz osservò tutto in giro la testa di Troy, tra mormorii ed esclamazioni di sconforto, poi stringendogliela con tutte e due le mani lo voltò col viso verso la finestra per guardargli gli occhi. «Hai degli occhi come un deposito polacco di torba. Ti hanno dimesso troppo presto». «È stato lui che si è dimesso da solo», disse Wildeve. «Crede di essere più furbo degli altri». «Lo so, non fa che ripetermelo». «Un colpo alla testa può essere pericoloso. Hai dolori?». Troy non rispose. «Ah, capisco. Troy, va' da un medico. È un favore che ti chiedo. Non si scherza con la testa, è lì che sta il cervello». «Non si preoccupi, andrò dal medico», mentì Troy. 51 La luce argentea della luna coglieva in Cable Street ogni spaccatura, ogni buca. I tratti di superficie intatti scintillavano come se l'asfalto fosse stato lucidato col Brill e rimandavano quel raggio penetrante verso la luna che errava in un cielo senza nuvole. Troy e Wildeve lasciarono la Bullnose Morris vicino all'ufficio postale di Leman Street e s'incamminarono per Cable Street lungo gli archi della linea London Tilbury appena oltre Fenchurch Street. Due ubriachi, malfermi sulle gambe, venivano verso di loro da Shadwell. Uno era taciturno, intontito dal bere, l'altro saltava da una buca all'altra senza smettere di chiacchierare con la voce rauca. «Luna d'argento, luna di miele io la amo lei mi ama e non so come si chiama...». Si fermò con i piedi in una pozzanghera. «George, mi sono dimenticato le parole». George non parve in grado di aiutarlo. Con un rutto fragoroso considerò la situazione e disse: «Cantane un'altra. Canta quella del pettirosso sulle bianche scogliere di Dover. È da tanto che non la sento. Almeno da stamattina. Dove andremo a finire con questa guerra? Lo chiedo a te. Canta quella di quando Vera e Lynn scopano sulle bianche scogliere di Dover e non c'è nessuno. Neanche uno schifo di poliziotto». «È così che arrivano le disgrazie. Sono dietro l'angolo. I tedeschi sulle bianche scogliere di come si chiama, aspetta e vedrai...».
Troy e Wildeve si separarono per mettersi ai lati di quell'uccello canterino che oscillava sul bordo di un cratere profondo tre metri. L'uccello fece un altro passo e cadde seduto in una pozzanghera. «Ahi, mi sono bagnato il culo!». Per la prima volta parve accorgersi che lo stavano guardando. «Dammi una mano, amico», disse a Troy. Troy guardò gli occhi supplichevoli dell'ubriaco. «Mi dispiace, amico. Qui ci vorrebbe uno schifo di poliziotto, invece quando lo cerchi non lo trovi mai». L'ubriaco emise un gemito di autocommiserazione. Forte come il fischio di una sirena. Troy e Wildeve proseguirono, scansando George, lungo la fila di archi. «Freddie, che cosa stiamo cercando, esattamente?». «Segni di vita». «Non vorrai dirmi che c'è qualcuno che vive qui». «Non esattamente, ma Bonham ritiene che Edelmann abbia qui una specie di rifugio antiaereo». Quando c'era stato il primo attacco aereo su Londra, lo stato dei rifugi si era rivelato disastroso. Sydney Edelmann, comunista e consigliere municipale aveva scatenato un pandemonio, sollecitando la presenza di rappresentanti del parlamento e della stampa nell'East End perché fossero note le condizioni di vita degli abitanti della zona. Aveva colpito il cuore della società privilegiata, guidando al Savoy una marcia di protesta contro la costruzione di un rifugio a grande profondità cui solo i clienti e il personale dell'albergo potevano accedere. Decine di abitanti di Stepney, decisi a far rispettare i loro diritti, appena suonata la sirena dell'allarme aereo, erano entrati nell'albergo e avevano chiesto di poter scendere nel rifugio solo per creare l'occasione di uno scontro con la polizia. Leggendo l'indomani sui giornali la cronaca dell'avvenimento, Troy aveva riso clamorosamente alla notizia che Edelmann aveva affrontato e vinto la sua battaglia invocando una vecchia legge sui doveri dei proprietari di locande, dimostrandosi così il miglior sostenitore della necessità di costruire dei rifugi. Troy era quasi certo che senza quell'intervento la decisione non sarebbe stata presa con tanta sollecitudine e a livello così esteso e i poveri avrebbero continuato a passare la notte in scantinati puzzolenti senza servizi igienici. Ottenuta questa vittoria, quando gli aerei erano tornati, Edelmann, tuttavia, non aveva usato i nuovi rifugi, ma aveva preferito, si diceva, disporre della riservata tranquillità di un'arcata della ferrovia.
Troy e Wildeve erano già passati accanto a una dozzina di arcate. Per la maggior parte erano protette da lamiere ondulate e servivano come deposito di rottami di ferro («Aiuta a costruire uno Spitfire» diceva la scritta di vernice scrostata all'ingresso di un'arcata, reliquia della Battaglia d'Inghilterra dell'estate) oppure come improvvisate officine meccaniche, ma da una di esse emergeva uno stretto camino contorto che lanciava un pennacchio di fumo bianco nell'aria limpida della notte. Troy si fermò e tirò leggermente Wildeve per la manica del cappotto. «Forse ci siamo». Wildeve guardò, senza capire, la porta di ferro. Il fumo diminuiva tra piccoli sbuffi e non c'era segno di vita. «Non potevamo andare a cercarlo a casa?». «Edelmann non farebbe mai entrare un poliziotto in casa sua senza un mandato. Guarda, il camino è acceso». Il camino prendeva di nuovo fiato, il fumo saliva verso il cielo. «Ma tu pensi che passino qui tutta la notte?». Troy bussò alla porta. Sentirono un lento scorrere di catenacci e catene e la porta si aprì appena appena. «Chi è?». «Il vecchio Bill». «Non conosco nessun Bill». Ecco dove va a finire l'antico gergo, pensò Troy. «Dica a Sydney che c'è il sergente Troy di Scotland Yard». La porta si richiuse. Passò un minuto, forse più. Lo sferragliare di un treno coprì qualsiasi rumore provenisse dall'interno dell'arcata. Poi la porta si riaprì, in un benvenuto al buio. Dal fondo arrivò una voce irreale. «Chi non muore si rivede, Troy!». Un uomo piccolo e scuro venne avanti, trascinandosi faticosamente nella luce della luna. Aveva la schiena curva sotto il perenne fardello della gobba, la spina dorsale così malamente contorta che per guardare Troy e Wildeve doveva tenere la testa piegata su una spalla con un occhio spalancato e l'altro semichiuso. «Ragazzi, che sorpresa! Il mio vecchio amico, l'agente Troy!». Edelmann tenne spalancata la porta e con l'altra mano li invitò a entrare. Con le nocche delle dita toccava quasi fino a terra. Troy entrò e Wildeve lo seguì, guardandosi attorno in quella terra sconosciuta. Una seconda porta li introdusse in una colossale scatola di metallo, quadrata, entro la volta di mattoni dell'arcata. Cinque o sei uomini sedevano attorno a una stufetta
messa al centro. Alcuni giocavano a carte su una cassa da imballaggio rovesciata, gli altri leggevano, prima di essere disturbati da quelle chiacchiere. Lungo le pareti erano disposti dei letti a castello. Occhi attenti come quelli delle volpi nelle tane fissavano i visitatori. Il luogo era ordinato, pulito, a terra c'era addirittura un tappeto; l'atmosfera, a parte quella intrusione, si indovinava calda e amichevole. I suoni, nella vastità dello spazio, si disperdevano in un bisbiglio, come in una cattedrale d'acciaio. «Adesso sono il sergente Troy, Sydney». «Ohi ohi, ti stai facendo strada nel mondo, ragazzo mio. L'avevo sempre detto». «Non lasciamoci andare alle scenette dickensiane. Tu non sei Bransby Williams e io sono qui per parlare di affari». «Certo. Certo. Orace, porta qualcosa di caldo al signor Troy e al suo amico. Io vado a parlare con il sergente nel mio ufficio». Passò, trascinandosi davanti a Troy, e lo fece entrare in uno stanzino ricavato sovrapponendo delle casse da imballaggio. «Hai detto che vuoi parlare di affari?». Troy posò su una cassa la fotografia di Von Ranke. Edelmann disse soltanto: «Più morto di così, poveretto...». «Non lo conoscevi?». «No». Troy, allora, mise accanto all'altra la fotografia di Brand da giovane, ricavata e ingrandita da quella di gruppo. «Neanche questo». «Ne sei certo?». «Sì, altrimenti te lo direi. Che male ci sarebbe? Ma, prima che tu mi faccia la prossima domanda, qualunque sia, ti avverto che comincio ad averne abbastanza». Troy mise sulla cassa la terza fotografia. Un ingrandimento ricavato dal polifoto che gli aveva dato Toscà. Edelmnn non disse niente. Abbassò gli occhi, poi guardò di nuovo Troy. «E quale sarà la prossima domanda? Parla prima che ti risponda adesso basta». «La domanda è: sapevi che avevate degli infiltrati?». Edelmann trasse un sospiro, emettendo un impercettibile fischio. Raddrizzò la testa, e così lo sguardo obliquo dell'occhio semichiuso scomparve, mentre lui si appoggiava allo schienale della sedia come disponendosi a dare un giudizio su Troy.
«Supponendo, dico supponendo che la risposta sia affermativa, che prove mi puoi dare?». Troy puntò un dito sulla fotografia di Von Ranke. «È stato lui. Gli ha sparato in faccia». «Orribile». «Quest'altro», Troy indicò Brand, «l'ha fatto a pezzetti». Edelmann scosse lentamente la testa e Troy non capì se per incredulità o disperazione. «E credo che abbia ucciso anche lui». Troy mise sulla cassa l'ingrandimento di una fotografia di Wolinskj da giovane come un giocatore che metta sul tavolo una briscola. Edelmann si alzò e si allontanò. A Troy, rimasto seduto ad aspettare, arrivò la sua voce attraverso il divisorio. «Horace, non arriva questo tè?». Troy sentì ancora il passo strascicato di Edelmann. Sembrava che andasse su e giù per la stanza, anche se, trattandosi di un uomo quasi deforme, era difficile giudicare. Dopo qualche minuto lo vide tornare con due boccali da mezza pinta ciascuno e sederglisi di fronte. «Ti ascolto», disse, «hai tutta la mia attenzione». «Io credo che Wayne... tu lo conosci come Wayne, no?». Edelmann assentì. «Credo che sia un killer, un militare che uccide per conto dell'esercito americano. So che ha ucciso questi due uomini, colleghi di Wolinskj prima della guerra. Il primo un anno fa, quando cercava di arrivare a Wolinskj. Il secondo quando ha trovato Wolinskj. E poi ha ucciso anche Wolinskj». «Nessuno l'ha più visto da settimane» disse Edelmann con calma. «È sempre stato considerato a rischio. Io lo intuivo. O, se preferisci, lo sapevo. Quello che non sapevo era il perché». «Il perché non lo so neanch'io. Quando l'hai visto l'ultima volta?». «In febbraio. Il 24 febbraio». «Come mai ti ricordi il giorno esatto?». «Il 24 di ogni mese abbiamo dei gruppi di studio. Ho visto Peter nel pomeriggio. Mi ha detto che sarebbe venuto. C'era anche Wayne. Erano nove mesi che andava e veniva». «Perché l'avevate ammesso?». «Per un eccesso di fiducia. Qualche numero l'aveva. Il cognato di mia sorella aveva confermato dalla Pennsylvania che, negli anni Trenta, era stato iscritto all'United Workers of the World. Per me, sono sincero, era
una soddisfazione. Il movimento si allargava in una direzione inattesa. Di russi e polacchi ne avevamo a decine. Era confortante credere alla possibilità di ricevere informazioni dall'America, ci dava la sensazione di essere sulla buona strada. Wayne ci avrebbe dato le notizie sul sindacato americano. Ci avrebbe confermato che il New Deal era un errore, e via dicendo». Edelmann parve per un attimo aver esaurito gli argomenti. «E Diana Brack?», suggerì Troy. «Veniva con lui, ed era una garanzia in più. Io la conoscevo. Aveva partecipato a convegni e riunioni cui ero presente anch'io. Capita sempre che intervenga qualche giovane elegante, colto... Ne ho sempre visti. Ci sono quelli solo curiosi e quelli seri. Che tu lo creda o no, era stato H. G. Wells a presentarmi a lei. Forse era un modo di mettere alla prova tutti e due. Un saluto veloce e una stretta di mano. Wells mi ha chiamato il Quasimodo di Stepney. Lei ha sorriso. Ho sorriso anch'io. A quel bastardo di Wells». «Non hai fatto qualche controllo su Wayne attraverso i tuoi contatti?». «E quali? Credi che abbia il numero di telefono del Cremlino? Non ho neanche quello di Harry Pollit. Non lavoro così. Non l'ho mai fatto». «Wayne era amico di qualcuno in particolare?». «Amico? Non siamo un club». Troy avrebbe avuto qualcosa da ribattere, ma tacque. «Si intratteneva con qualcuno più spesso che con gli altri? E Diana?». «No, all'inizio Wayne non cercava nessuno. Interveniva quando trattavamo qualche argomento che conosceva. Poi tendeva a stare insieme a Diana. Io lo conoscevo meglio della maggior parte degli altri, ma non significava molto. Con Diana è diverso. Lei sceglie qualcuno e stabilisce un rapporto di confidenza. L'ha fatto con me la seconda volta che ci siamo incontrati. Mi ha visto all'altro capo della sala ed è passata attraverso la ressa, come non le interessasse altro, senza badare a nessuno. Fa sempre così. Quando cercano di mettersi a chiacchierare, lei risponde col suo sorriso da ragazza beneducata e tira dritto, gentile come una signorina che sa stare al mondo, e loro lasciano perdere. Le piace avere un amico e basta. Tra noi era Wolinskj. Ricordo che dopo una riunione aveva detto che era l'unico da cui avesse qualcosa da imparare». «Era la sua amante?». «Non saprei. Non abbiamo una mentalità poliziesca, nonostante quello che dicono i giornali». «Questa amicizia particolare... includeva anche Wayne?».
«No, non l'ho mai visto scambiare una parola con Pete. Wayne non è un intellettuale. Peter con lui si sarebbe annoiato, l'avrebbe trattato con distacco». Edelmann tacque per un momento. «E quel 24 febbraio?...», suggerì Troy. «Quel 24 febbraio c'era anche Wayne. Abbiamo bevuto insieme una birra al Merchant, in Matlock Street, e poi siamo saliti alla riunione. Erano passati dieci minuti o poco più quando Alf, il proprietario del Merchant, è venuto ad avvertirmi che Peter aveva telefonato per dire che non ce la faceva ad arrivare. Era fatto così, Peter. Sempre corretto, premuroso. Diana non c'era, ma l'aspettavo, doveva venire anche lei. Di solito era puntuale. Comprava una quantità di libri per i miei ragazzi. E anche se quei somari non avevano voglia di leggerli, lei però sapeva sempre tutto quello che c'era scritto. Ma quella volta non è venuta e non ha fatto sapere niente. Da allora non l'ho più vista. Due o tre minuti dopo la telefonata di Peter, Wayne si è alzato e se n'è andato con una scusa. Non mi ricordo che cos'ha detto, ma è stata l'ultima volta che l'ho visto. Non avevo messo insieme tutte queste coincidenze. Almeno non a livello di coscienza. Finché non sei arrivato tu. Forse me lo aspettavo. Tu, o qualcun altro. Ti avrei mostrato la porta o forse ti avrei preso in giro. E adesso mi dici che Wayne, quel giorno, se n'è andato per uccidere Peter. È così, no? È questo che mi stai dicendo?». «Sì, credo di sì». «Poveri noi», disse Edelmann e bevve un gran sorso di tè. «E ora devo contare su di te per avere giustizia. Poveri noi!». «È il mio lavoro». Edelmann non disse niente. Spinse il boccale con il tè verso Troy attraverso la cassa di imballaggio. Un treno arrivò rombando dalla parte di Tilbury. Restarono seduti in silenzio. «Non sopporto i poliziotti», disse infine Edelmann, tranquillamente, «ma sopporto ancora meno di dover dipendere da loro». Un altro treno passò nella direzione opposta. Troy contò i suoni secchi sulle traversine, come una musica ritmata dal battito di un metronomo nella immensa pace della notte e ascoltò Edelmann sorbire rumorosamente il suo tè e pensare a come gli era insopportabile avere a che fare con la polizia. Era venuto il momento di andarsene. Si alzò e disse: «Ti farò sapere». «Certo, ci mancherebbe altro». Nel vano centrale del rifugio, Troy si guardò attorno per cercare Wilde-
ve, senza accorgersi subito che era seduto di spalle, poco lontano da lui, nel gruppo attorno al fuoco. Gli parve strano. Non si sarebbe aspettato di vederlo inserito tra persone come quelle. Chino in avanti, partecipava a una fervida discussione, quasi bisbigliata, assecondando l'atmosfera sepolcrale del rifugio con il tono rispettoso della propria voce, come quando si parla in chiesa. Solo quando gli altri alzarono gli occhi su Troy anche lui si voltò a guardarlo. Due di quegli occhi appartenevano a Michael McGee, che per primo, senza sapere, aveva mostrato a Troy l'appartamento di Wolinskj. Fuori, Troy si abbottonò il cappotto, aspettò che Wildeve lo raggiungesse. Uscì per primo McGee. «Che cosa farà adesso?», chiese con calma. Sembrava rassegnato senza sapere bene a che cosa. «Devo arrestare una persona», disse Troy tranquillamente. Wildeve era uscito in tempo per sentire la risposta di Troy. Ci fu un momento di silenzio imbarazzato. McGee aspettava che gli venisse detto di più. Troy e Wildeve aspettavano che si rassegnasse a non sapere altro e rientrasse nel rifugio. Troy si avviò lungo Cable Street. Wildeve lo seguì e gli si mise al fianco. «Freddie... dimmi solo chi stiamo per arrestare». 52 Due ore dopo, mentre le lancette dell'orologio avanzavano lentamente verso le dieci, Troy, seduto sul bordo della scrivania, guardava il fiume. Quando era tornato con Wildeve da Stepney, Onions se n'era già andato. A Troy aveva fatto piacere. Un giorno o anche solo una notte di tregua prima di quello che si preparava a fare non avevano prezzo. Sentì aprirsi la porta, voltò appena la testa e vide entrare Wildeve. «Sono arrivati», disse. A Troy era parso meglio non andare personalmente e non mandare nemmeno Wildeve. Il compito era toccato a Thomson e Gutteridge. «L'ho lasciata ad aspettare nella stanza degli interrogatori». Troy scese dalla scrivania e cominciò a riabbottonarsi il cappotto. «No. Mettila in cella». «Ma come...?». «Non è qui per collaborare all'indagine. È in stato di arresto». «E il mandato?». Troy si tolse di tasca i guanti. Wildeve si rese conto che stava per andar-
sene e ne fu sconvolto, esasperato. «Non serve. Ho detto a Thomson di portarla qui con un provvedimento d'urgenza. Non c'è bisogno di un mandato. Provvedi solo, prima di rinchiuderla per la notte, a dirle quali sono i suoi diritti. Se ti chiede un avvocato, fingi di non sentire. Se ti chiede da mangiare, falle portare pane e margarina. Se ti chiede una tazza di tè bada che sia tiepido. Vedremo come reagirà a questo trattamento iniziale». Troy si avviò per il corridoio. Wildeve gli corse dietro. «Sei impazzito? Un provvedimento d'urgenza! Fermanagh ci caverà gli occhi!». «Fermanagh è in Irlanda. Si è ritirato lì dopo Dunkerque. Passerà del tempo prima che la notizia si fissi nel suo cervellino. Il provvedimento d'urgenza è assolutamente legale. Abbiamo due morti, provenienti da un paese nemico. In più, abbiamo un polacco che sembra essere scomparso e un americano che scappa. Il legame tra la Brack e tutto questo ora è evidente. Un provvedimento d'urgenza è più che appropriato». Wildeve passò avanti a Troy, per le scale, e riuscì a fermarlo mettendogli il palmo di una mano sul petto. «Mi vuoi spiegare che cosa speri di ottenere chiudendo Diana Brack in cella per una notte?». «Pensaci. Come avresti reagito tu, se ti fosse capitato lo stesso quando ancora non sapevi come vanno le cose alla polizia? Tu, e anch'io, avremmo trovato insopportabile essere sbattuti in una cella con una coperta ruvida e un cibo disgustoso. Mettiti nei suoi panni. Nei panni di una principessa sul pisello. Stanotte non chiuderà occhio. Forse domani mattina si sentirà di rispondere a qualche domanda. È stata lei l'ultima a vedere Wayne. È il momento di farla parlare». «E se non parla?». «Abbiamo tre giorni prima di lasciarla andare o di modificare il provvedimento d'urgenza. Se nel frattempo non sarò riuscito a sapere la verità o una parte della verità, ti ridarò la tessera e smetterò di fare il poliziotto». Wildeve accettò di malavoglia le ragioni di Troy. Uscirono insieme dall'ingresso di Scotland Yard su Whitehall. «Dove vai?», chiese Wildeve. «Ho altri impegni». «A quest'ora? Di notte?». «Perché, che c'è di male?». «Ah, niente... Solo, mi pareva che Kolankiewicz pensasse che avevi bi-
sogno di riposo». Troy s'incamminò lungo Whitehall, verso Trafalgar Square. E verso Orange Street. Entrò con la chiave che gli aveva dato la Toscà e quel gesto l'obbligò a un attimo di pausa. Soppesò la chiave sul palmo della mano. Gli parve che accettarla avesse significato accettare molte altre cose più gravi. Salì le scale. La porta era aperta. La luce era spenta. Lei era nella stanza sul retro, davanti alla finestra che dava verso sud, sul Pall Mall e la piazza. Aveva indosso la camicetta dell'uniforme, ma non aveva né le scarpe né la gonna. Stava in piedi, nel riflesso della luce lunare, solo con la camicetta e le calze. Troy capì che quello era il suo modo di concludere la giornata. Si liberava della divisa e con la divisa anche del lavoro. Un'abitudine, come il primo bicchiere della giornata che aveva tenuto nella mano destra mentre gli premeva l'altra sulla nuca per costringerlo ad avvicinare il viso. Ora, per salutarlo, gli attorcigliò un piede, chiuso nella calza, attorno a una gamba, sotto il ginocchio, poi rise e cominciò a cantare in un sussurro, a imitazione della Dietrich. «"E nella notte bruna / il cielo guarderò, / ed alla bianca luna / ancor domanderò... / Ma tu / pallida luna perché...". S'interruppe e con lo sguardo vivace, muovendo la testa, lo invitò a cantare con lei il ritornello. Ma Troy non capiva nemmeno che canzone fosse. «Dio mio, possibile che nessuno sappia più una canzone? È Blue Moon, sciocchino. La musica è di Rodgers e il testo di Hart. Non li conosci?». «Scusa. Conosco la canzone, ma ne so fischiettare solo qualche pezzetto». «A me veramente non piace la luce della luna, non lascia posto per nascondersi». «Ma tu devi nasconderti?». «No, volevo esprimere un concetto poetico, ma evidentemente è tempo perso». «La luce della luna è come un nastro d'argento sul fiume». «Che meeerda! Non sai inventare niente di meglio?». «Merda ha una sola e, non tre o quattro». «Adesso sta' zitto». Lo baciò sulle labbra e riprese a cantare. Aveva una voce leggera, non gutturale come quando parlava, e particolarmente intonata. «"Tu sai che baci mi sapeva dare"» cantò ancora, tenendogli le labbra vicino all'orecchio e Troy sentì il suo respiro caldo. «È un'allusione, l'hai capita?».
Troy restò fermo in silenzio. «Su, canta!». «Che cosa devo cantare?». «Devi cantare con me». «Non mi sento preparato». «Che poliziotto noioso!». Si staccò da lui e andò a combattere la sua battaglia quotidiana con lo sportello del frigorifero. «Chiudi la tendina dell'oscuramento e fammi un po' di luce da questa parte». Una volta accesa la luce gli preparò un bicchiere di bourbon. Vicino, sul tavolo, c'era una grossa cartelletta verde. Lei vi batté sopra con un dito. «Cerca di ricavarne il più possibile. Domani mattina deve tornare al suo posto o ci rimetto il culo». Troy l'aprì e bevve un sorso di bourbon. Lei abbassò il volume della radio. La musica della Ambrose's Orchestra arrivava, impalpabile, attraverso le onde sonore. «Dove l'hai trovata?». «Nello stesso posto dove ho trovato questa». Toscà posò sul tavolo, da dietro le spalle di Troy, un'altra cartelletta color nocciola, formato protocollo. Troy lesse il nome che vi era scritto e, senza dir niente, alzò gli occhi verso di lei. «Chi è?». «Mio padre». «Beh... a quanto pare un giorno o l'altro sarai ricco. Ti basterà ereditare anche solo una parte di tutto quello che ha tuo padre». «Già fatto. Mio padre è morto in novembre». «Mi dispiace. La cartelletta non è aggiornata. Era nella cassaforte di Zelly. Ce n'è anche una col tuo nome, ma è vuota». «È vuota?». «Sì, una cartelletta nuova di zecca e vuota». Dunque, pensò Troy, la Edge aveva barato. Troy sfogliò la cartelletta verde, senza spostarla. «A che cosa corrisponde questo OHQ5?». «A Cockfosters. Abbiamo una base lì. Una vecchia casa di campagna che gli inglesi hanno requisito per noi». «Bene, leggerò tutto domani mattina». Troy chiuse la cartelletta e prese il bicchiere del bourbon.
«Ma... ho sentito bene? Non vuoi sapere tutto subito? Puoi aspettare? Hai, Dio ce ne guardi, qualcosa di più importante di cui occuparti?». Troy non rispose. Lei posò il bicchiere e si avvicinò in punta di piedi ma era ugualmente troppo piccola di statura per arrivare a guardarlo negli occhi. Gli tolse il bicchiere di mano, gli passò le braccia intorno al collo e alzò la testa. «Bravo, vedo che cominci a imparare le regole della casa». «Sarebbe meglio che le stampassi e le appendessi alla parete. Come in una pensioncina al mare. Vietato sputare per terra. Vietato ricevere visite in camera dopo le dieci di sera». «Dopo le dieci di sera! Ma di che cosa vi preoccupate in questo paese?». Lo baciò sul lobo dell'orecchio. «Lo fanno gli uccelli, lo fanno le api e anche...». «Le pulci ammaestrate», suggerì Troy. «Sì, anche le pulci ammaestrate!». Toscà alzò la voce fino a una ironica drammatica invocazione. «E PERCHÉ NOI NO?». Si lasciarono andare di traverso, sul letto, Troy finì sopra di lei che lo baciò sugli occhi, sulle orecchie, sulla gola, poi si fermò, con la fronte aggrottata, e gli mise un dito sulle labbra. «Lo sai, è la prima volta che non devo trascinarti tra le lenzuola. Ma, perché la fretta non appaia sconveniente (che frase, eh? Perché la fretta non appaia sconveniente... Neanche l'avessi letta in Jane Austen) ho qualcosa di buono per te. Guarda in frigorifero». «Che cos'è?». «Guarda, te l'ho detto». Troy si lasciò cadere dal letto e la giacca gli si sfilò e scivolò a terra mentre si chiedeva che intenzioni avesse lei. Il frigorifero era quasi vuoto, ma sul ripiano di mezzo c'era un vasetto color crema con il tappo a vite. Troy lo prese e lo guardò alla luce. Maionese J.P. Davidson. Prodotta e confezionata a Baton Rouge, Louisiana. Ingredienti: olio d'oliva vergine, uova fresche. Guardatevi dalle imitazioni prive del marchio Ole JP. «Non credevo che potessi avere anche cose del genere». «Infatti. Ma Zelly può, e chiude tutto in cassaforte». «Non se ne accorgerà?». «Ma no, ne avrà almeno una ventina di vasetti. Se se ne accorgerà, peggio per lui. Come ha detto Maria Antonietta, se non hanno pane, mangino maionese». Troy sedette sul bordo del letto, voltandole le spalle, e svitò il coperchio
del vasetto. «Che buon odore», disse, «peccato che non c'è niente con cui mangiarla». «No, qualcosa c'è», ribatté lei, nascosta dietro di lui. «Davvero?». «Ci sono io!». Troy si voltò. Lei si era tolta la camicetta e si stava slacciando il reggiseno, liberando un vertiginoso splendore. Prese il vasetto, lo capovolse e se lo versò addosso. «Assaggiami!». 53 Lei dormiva, nella prima luce del mattino. Troy era seduto sul letto. La documentazione gli aveva detto quello che sapeva già e due o tre cose in più. Le missioni compiute da Wayne erano descritte anche nei particolari. Si erano svolte per la maggior parte nella Francia occupata, tranne un solo, breve soggiorno nella Svezia neutrale e altri in Svizzera. Per tre volte era stato nella zona attorno a Lille. Aveva preso parte a riunioni clandestine. Erano segnalate le occasioni in cui aveva assicurato all'OSS che le persone incontrate a quelle riunioni gli avrebbero procurato un incontro con Brand, l'uomo che era comparso solo come un braccio tra le mascelle di un cane, quello che Kolankiewicz aveva soprannominato Herr Polsino, e, nel viaggio conclusivo, l'incontro con Brand e la fuga con lui in Inghilterra, grazie a un audace atterraggio notturno in Francia di un piccolo aereo dell'aeronautica USA. Quello che non era scritto era perché volessero Brand. Ma Troy si disse che la documentazione serviva ad annotare le azioni, non le cause, preservando così una segretezza che, ad esempio, avrebbe potuto essere violata da eventuali piccole incursioni della Toscà nella cassaforte. La relazione riportava anche una osservazione di Wayne secondo la quale Brand si era mostrato stranamente disponibile durante il periodo passato a Cockfosters in cui aveva fornito informazioni. Seguiva una nota firmata solo con le iniziali B Mc K, «Abbiamo l'uomo giusto? Due volte di fila. Probabilmente è una talpa. A che gioco credono di giocare i francesi?». Ma Troy sapeva che Brand non era una talpa. Aveva accettato tutto quello che gli americani gli avevano proposto e poi, la mattina del 24 febbraio era sparito da Cockfosters e nessuno l'aveva più visto. La documentazione non parlava di inseguimento o cattura, ma Troy pensò che sarebbe stato co-
munque improbabile. Era stato applicato un timbro in data 27 febbraio e uno sgorbio nerastro indicava che il caso era chiuso. La sigla era JW. La Toscà si rotolò su se stessa in un groviglio di lenzuola e coperte e si puntò sulle braccia per sollevarsi sul letto come un gatto insonnolito. Poi sbadigliò e si voltò verso Troy facendogli un seguito di smorfie. «Auh! Ooh... che schifo. Mi sento come se mi avessero incollato le gambe. Peggio», abbassò gli occhi sul cerchio che le lenzuola le formavano attorno alla vita «mi si sono fuse le tette». «Quando ero piccolo costruivo dei modellini di aerei della grande guerra col legno di balsa e li incollavo con la maionese». «Ti pare il momento di scherzare?». Si alzò barcollando dal letto, prese un asciugamano e aprì la porta. Di fronte, sul pianerottolo, c'era un bagno. Troy accese il bollitore, s'infilò la camicia e i pantaloni, lasciò a lei il tempo per entrare nella vasca e poi la seguì, con la cartelletta verde in mano. Era immersa nella schiuma fino al collo e il vapore, nella luce del giorno, attraversava i raggi di un sole primaverile. «Che felicità! Non sopporto quei giorni in cui non c'è l'acqua calda. Ma un uomo romantico non se ne starebbe appollaiato sul cesso come fai tu, lascerebbe cadere a terra i vestiti ed entrerebbe nella schiuma. Hai acceso l'acqua per il caffè?». Troy fece segno di sì con la testa. Lei chiuse gli occhi con un sospiro di soddisfazione. «Non hai trovato notizie su un certo Von Ranke, relative all'aprile scorso?» chiese Troy. «No. Io ho trovato solo molti vasetti di maionese, molta cioccolata e un'agendina nera con il numero di telefono di qualche ragazza. Un po' di cioccolata l'ho rubata e, se ti ricordi, verso mezzanotte l'hai anche mangiata. Quanto ai numeri di telefono ho pensato che incontrerai tante puttane nel tuo lavoro da poter fare a meno dell'agenda di Zelly». Aprì per un momento gli occhi. «Pensi ancora che Jimmy abbia ucciso quell'uomo?». «Sì». «Hai trovato le prove nella documentazione?». «No. Solo elementi da aggiungere alla prova indiziaria, ma non basta. Mi serve un testimone». «Non posso aiutarti, mi dispiace». «Perché l'OSS lo ha mandato in paesi neutrali?».
«Le ragioni potrebbero essere tante». «È stato in Svezia all'inizio di quell'anno. Solo una volta. In Svizzera una mezza dozzina di volte dal 1942». «Abbiamo il nostro collegamento in Svizzera. È un paese comodo per entrare in contatto con i tedeschi». «In contatto coi nemici?». «È sempre così. Se non parli con loro come puoi sapere quando sono pronti a mollare? La Svezia è un'altra questione. Dal nostro punto di vista ha un'importanza limitata. Solo una base per profughi in fuga dai loro paesi. Se Jimmy ci è andato di persona vuol dire che c'era qualcuno di speciale. Lui non è uno che si mette ad aiutare le vittime del nazismo perché gli fa bene alla salute. Evidentemente pensava di trovare qualcosa che gli serviva. C'era stato un gran subbuglio in Svezia non molto tempo fa. Non so perché, ma i nostri che erano là avevano per le mani qualcosa d'importante». «Qualcosa? Non qualcuno?». «No, ne sono certa. Era tutto scritto in codice, ma si capiva lo stesso. Zelly sembrava impazzito, "Dove si è cacciato Jimmy? Possibile che quando c'è da entrare in azione non si riesca mai a trovarlo?"». «Entrare in azione?». «Si è espresso esattamente così». «In che senso?». «Non lo so, è una frase ambigua, difficile da interpretare». Si reimmerse nella schiuma. Stringendosi i seni uno contro l'altro creò una montagna di bolle di sapone e le soffiò addosso a Troy, in faccia e sulla camicia. Si mise a ridere e Troy capì che l'udienza era finita. Preparò il caffè e se ne andò. Lei non gli chiese quando sarebbe tornato, ma Troy pensò che era solo perché lo sapeva già. Non esisteva forza al mondo che lo avrebbe trattenuto quella sera, neanche l'omicidio. 54 Troy lasciò che Diana Brack stesse ad aspettare, nella convinzione che l'attesa in sé fosse qualcosa cui non era abituata. Aveva fatto sgombrare una delle stanze più grandi di Scotland Yard perché lei restasse seduta lì, sentendosi rimpicciolita da tutto quello spazio vuoto, solo con un'agente della polizia femminile a tenerle compagnia, una compagnia di poco conto, visto che Troy aveva dato ordine che non si rivolgesse la parola alla pri-
gioniera. «Mi dirai, immagino, che si tratta di una manovra psicologica», aveva suggerito Wildeve. «Sì, se ti piace la definizione», aveva risposto Troy senza alzare gli occhi dalla scrivania. Ormai la Brack aspettava da più di quattro ore. Troy aveva letto il giornale da cima a fondo, ed era pronto per lei. «Vienimi a chiamare tra un'ora», disse a Wildeve. «Eh?». «Vienimi a chiamare, ti dico. Interrompimi. Inventa una scusa. Una telefonata. Qualsiasi cosa». Diana Brack stava camminando su e giù per la stanza quando Troy entrò. La sua collera era temperata dalla prudenza, era chiaro che non intendeva lasciarsi sopraffare dalle più banali tecniche della polizia. Non si sarebbe lamentata della cella, del tè, del cibo. «Devo ritenere», disse, «che lei abbia delle buone ragioni per aver fatto tutto questo». Troy sedette davanti al tavolo a cavalletti e con un ampio gesto della mano la invitò a metterglisi di fronte, sull'altra sedia libera. Lei restò in piedi, dietro la spalliera. Non portava le tracce di una notte in cella. Aveva un aspetto fresco. Troy nascose il proprio disappunto dietro l'assenza di espressione tipica del poliziotto e già a lungo sperimentata nel corso della sua carriera. Davanti a sé sistemò una serie di cartellette. Tutte vuote. Era il trucco della Edge e valeva la pena di imitarlo. «Perché non mi dimostra che c'è una legge che le permette di tenermi qui?». «Posso citarle il Provvedimento d'urgenza, fissato nel 1939 e tuttora in vigore. C'è anche la parola "difesa", messa tra parentesi. Lady Diana, perché non si siede? Prima risponderà alle mie domande e prima uscirà di qui». Lei esitava. Troy capì, guardandola, che non gli credeva. Infine si mise a sedere, sollevando di qualche centimetro la lunga gonna nera, accavallò le gambe e lasciò ricadere il mantello dietro lo schienale della sedia. Troy s'inoltrò nella torpida, obbligata ripetizione di orari, di date, di luoghi e di morti e ascoltò le spiegazioni e gli alibi che gli venivano dati. Non trovava motivo di non crederle. Se gli diceva che la sera del 24 febbraio era andata a letto presto perché aveva l'emicrania era propenso ad accettare questa affermazione. Avrebbe poi, del resto, potuto controllarla interro-
gando la cameriera che, per quanto devota potesse essere, non avrebbe resistito più di qualche minuto alle pressioni della polizia. La notte della morte di Miller ricordava di aver camminato con la Brack e le proprie sorelle dallo Strand a Trafalgar Square, di aver aspettato un momento, nella nebbia, che finissero di chiacchierare e di averla vista, poi, far segno a un taxi di fermarsi, circa venti minuti dopo aver perso le tracce di Wayne, come lei gli stava ricordando in quel momento. Ma quelle risposte non erano più interessanti di quanto non fossero le sue domande. Era improbabile che i delitti di Wayne. avessero avuto dei testimoni oculari, certo non del genere di Diana Brack, ma testimoni che ora si sarebbero tormentati nel rivivere un incubo. Non insisté. Dopo un'ora, Wildeve venne a chiamarlo, come gli era stato raccomandato. Sulla porta Troy esitò e, voltandosi appena, chiese l'unica cosa che gli interessava. «Dov'è il maggiore Wayne?». «Lo chiedo a lei». Troy la lasciò ancora ad aspettare da sola, in silenzio. Nel pomeriggio le ripeté la stessa domanda, più e più volte. Riuscì a portarla all'esasperazione, ma fu un lavoro lungo. La Brack rispondeva alle domande senza nascondere di esserne infastidita. Troy aspettava che glielo dicesse quanto le dava fastidio, ma lei si tratteneva dal dargli anche la minima soddisfazione. C'erano alcune piccole varianti nelle sue risposte che servirono a convincere Troy che diceva la verità. L'esattezza avrebbe tradito un piano prestabilito. Alle sei di sera la fece riaccompagnare nella sua cella dopo averle ripetuto quell'unica, fondamentale domanda senza ricevere una risposta. «Perché?», gli chiese poi Wildeve. «Perché lo sa». «Che cosa sa?». «Che Wayne uccide. Lo sa, lo nasconde, ma non a se stessa. Le dà forza saperlo. Non ho mai conosciuto nessuno forte come lei. Vorrei che avesse finalmente esaurito le sue risorse quando mi racconterà tutto su Wayne». «Che cosa potrà raccontarti? Hai detto che non è una testimone». «Può testimoniare sull'uomo, non sulle azioni». Troy se ne andò. Andò in Orange Street. 55 Nella tarda mattinata del secondo giorno, la Brack si vide porre le stesse
inutili domande e mostrò il primo segno di impazienza. «Sono andata a letto. Avevo l'emicrania! Quante volte devo ripeterlo?». Troy era soddisfatto. Il ghiaccio si era incrinato. Batté la matita sul piano della scrivania. Si alzò in piedi lentamente e si passò una mano tra i capelli. Un gesto di chi è a corto di parole. «Bene», disse quasi svogliatamente, «mi parli del maggiore». «Che cosa vuole sapere?». Troy tornò a sedersi, sempre con aria indolente, sbadigliando, ma attento alle minime variazioni nella voce di lei, al ritmo del suo respiro. «Qualsiasi cosa... Come vi siete conosciuti... Ecco, sì, mi dica come vi siete conosciuti». Per un momento Troy pensò che non avrebbe abboccato, invece la vide sospirare e guardare il soffitto, arrendevole, sollevata che si fosse cambiato argomento. «Non vedo come possa interessarle... Ci siamo conosciuti a una discussione sulla letteratura di sinistra al "Circolo letterario di sinistra", a Bloomsbury». «Ah! Non avevo giudicato il maggiore come un intellettuale». «Lei non può giudicarlo in nessun modo, visto che non lo conosce. E se lo conoscesse si renderebbe conto che i suoi sospetti sono assurdi. Io penso che lei abbia parlato con Edelmann e che ripeta parola per parola quello che ha detto lui. Jimmy non è un intellettuale. Ma che importa? Ha un'intelligenza che Edelmann non è nemmeno in grado di percepire. Una intelligenza naturale, sostanziale. Stimolata da un'infinità di cose. Un'intelligenza animale. Lo capisce?». Troy lo capiva perfettamente. Intelligenza animale corrispondeva all'idea che si era fatto del maggiore Wayne. «Chiunque la conosce, signorina Brack, la descrive come un'intellettuale e non riesco a immaginare che cosa una donna come lei possa trovare in un uomo come Wayne. Un comune soldato». «Wayne è molto lontano dall'essere un comune soldato. Proprio come lei è lontano dall'essere un comune poliziotto». «Che cosa intende per un comune...?». Troppo tardi la prudenza aveva consigliato a Troy di non insistere. Ormai lei gli stava rispondendo e non poteva fermarla. «Che cosa intendo per un comune poliziotto? Intendo qualcuno che porta degli stivali numero quarantatré, un vestito da cinquanta scellini e la camicia con il colletto di celluloide. Le sue scarpe, signor Troy, vengono
da Jermyn Street e un solo paio corrisponde allo stipendio mensile di un poliziotto. Il suo vestito esce dalle mani di un sarto di Savile Row con il quale suo padre avrà probabilmente aperto un conto il giorno stesso in cui lei ha messo per la prima volta i calzoni lunghi. Le sue camicie sono fatte su misura in St James Street o da quelle parti e il suo cappello, se lei fosse così convenzionale da portarne uno, verrebbe da Cork Street. Lei, quindi, non è un poliziotto qualsiasi e lo sa benissimo». Troy era stupito che si fosse accorta di tante cose. Ascoltandola, si era preoccupato di assumere un'espressione annoiata. «A suo modo, Jimmy è diverso dalla norma quanto lei». Diana Brack tacque, come se non sapesse bene fin dove poteva spingersi. «Provi a immaginare come sono io. Ho passato gran parte della mia vita circondata da persone che avevano scelto di non pensare e mi incoraggiavano a fare altrettanto. Provengo da una classe sociale che sostituisce al pensiero il consenso. Provi a immaginare la mia infanzia. Sono stata allevata da uno dei tanti, oscuri tiranni inglesi. Un padre che, all'epoca in cui avevo dodici anni, aveva trasformato la sua vita in una perenne, risentita lamentela contro chi non gli aveva consentito di realizzare le proprie capacità. Il destino o, peggio, il suo partito, avevano cospirato per defraudarlo del suo ruolo di guida. Già nascendo l'avevo offeso profondamente perché non ero un maschio e durante l'adolescenza avevo commesso la colpa di diventare uno di quei figli noiosi che fanno delle domande. Ho avuto come risposta la prepotenza. E non io soltanto, anche i miei fratelli. Se non obbedivamo ai suoi ordini venivamo picchiati. C'è da stupirsi che George e Johnny siano diventati due lucertoloni stesi al sole, sempre ubriachi? Io sono da sempre per mio padre una fonte di irritazione, i miei fratelli una fonte di disagio. Lui trova più facile superare il disagio. Paga le loro multe, paga le madri dei loro figli e paga, ogni tanto, le cliniche, per farli disintossicare. Quello che non è mai riuscito ad affrontare sono le domande. Non voleva che andassi all'università, solo perché le donne non vanno all'università. Se avesse saputo che cos'era Oxford tra le due guerre non avrebbe trovato motivo di preoccuparsi. Sembrava di essere soci di un inutile club alla moda. Se avesse letto Evelyn Waugh lo avrebbe capito, ma la lettura non è il suo forte. Quando sono uscita dall'università, nel 1931, credo che avesse un'ultima speranza, quella di vedermi fare un buon matrimonio che lo liberasse di me. Ma io gliel'ho tolto subito dalla testa». Troy sapeva bene come glielo aveva tolto dalla testa. A lui lo aveva rac-
contato Wildeve. La sua relazione, non ufficiale ma nota a tutti, con H.G. Wells, aveva probabilmente portato Fermanagh sull'orlo della pazzia. Dopo Wells, Al Bowlly aveva rappresentato, probabilmente, un momento di sollievo. «Avevo bisogno di lanciare delle sfide», aggiunse Diana Brack con semplicità. «Lei ha rifiutato la famiglia e l'appartenenza a una classe, ma non mi dirà che ha rifiutato anche la vita di società». «No, non glielo dirò e nemmeno cederò al pettegolezzo. Non sono mai stata particolarmente interessata alla vita di società, ma so che esiste e qualche volta mi diverte stare al gioco. Dopotutto le sollecitazioni sono tante che cedere qualche volta allenta la tensione. Non ho mai avuto difficoltà a conciliare una riunione mondana con una riunione politica. Non capisco perché ci sia chi le ritiene incompatibili. Perché immiserire le proprie idee politiche giustificandosi con frasi come "è utile conoscere il proprio nemico" o "bisogna vedere come vive l'altra metà del mondo"? Io lo so come vive l'altra metà del mondo. Appartengo a quella metà, io sono quella metà. Posso sempre rientrarvi e qualche volta lo faccio. Ma non è questo l'importante. L'importante è la metà del mondo che le si oppone. Cercare di descriverla non è facile, non vorrei farla sorridere. Non credo che lei e io abbiamo frequentato le stesse persone. Se fosse così, lei capirebbe subito. Il "Circolo letterario di sinistra", i fabiani, i comunisti sono un modo per incontrare gente che pensa mentre Londra è piena di gente che non pensa». Diana Brack s'interruppe, sforzandosi di arrivare a una conclusione. «Mi ascolti: ha mai conosciuto Sidney Webb?». Troy aveva conosciuto molte persone a pranzo da suo padre. Compresi i coniugi Webb. «Ha una mente eccezionale. La vitalità di un uomo con la metà dei suoi anni. Ma parlargli è come discutere delle fognature municipali con un burocrate della circoscrizione amministrativa. E ce ne sono tanti come lui. Pianificatori sociali che vogliono vivere l'avventura delle idee, ma non hanno idea di cosa sia l'avventura. Tanta limitatezza è sempre opprimente. Dopo aver dedicato al socialismo dieci anni della mia vita ero sul punto di abbandonare non la fede politica ma l'organizzazione quando ho conosciuto Jimmy. Lui è tutto quello che i fabiani non sono. Quando è entrato in quella sala, a Bloomsbury, è stato come se vi avesse immesso... una carica elettrica. Si è comportato in un modo diverso da chiunque avessi conosciu-
to prima. Era calmo e convincente. Parlava e ascoltava con una compostezza che era nuova per me. Il rischio della sinistra è l'aver scambiato, molto tempo fa, la costrizione, l'aggressività con l'efficienza e la capacità di persuasione. Non immagina a quante risse inutili ho assistito. Ero quasi arrivata al punto da non sopportarli più quando, all'improvviso, è comparso qualcuno che finalmente aveva la vita dentro di sé. Edelmann ha ragione, ma solo in senso limitato. Jimmy è intelligente, ha un modo di arrivare alla radice dei problemi con pochi, semplici tratti, poche domande. Ha introdotto nuove prospettive, nuove...». Diana Brack guardò Troy, turbata. «Dio mio, lei non ha idea di cosa le sto parlando, vero?». Troy aveva l'impressione di capire molto bene di che cosa stesse parlando, anche se sarebbe stato meglio non capire. In Wayne la Brack aveva visto qualcuno capace di togliere le ragnatele alla vecchia, lenta macchina del socialismo inglese. Era tempo. Anche lui la conosceva, ne aveva portato il peso fino a istupidirsi durante tutta l'infanzia. Capiva, non solo, era anche d'accordo, ma lei si era lasciata attrarre da una messinscena allestita da un uomo che Troy aveva riconosciuto come un impostore. «Che cosa ha potuto farle Wayne per indurla a mentire per lui?». «Non capisco». «Lei ha rubato la fotografia. Lo ha fatto nascondere quando ero venuto a casa sua in marzo. Che spiegazione le aveva dato? Che cosa le aveva detto?». «Niente. Mi aveva detto che non voleva incontrarsi con lei e mi aveva chiesto di prendere quella fotografia. Tutto qui». «E non gli ha chiesto perché?». «No, non c'era ragione che glielo chiedessi». «Lei ha passato la vita a fare domande e non ha chiesto a Wayne perché voleva evitare di incontrare la polizia?». Diana Brack fece appello alla propria inclinazione alla sfida e non gli rispose. Guardava fisso dietro di lui, ma non era più calma, la sua fermezza si era incrinata. «Wayne ha ucciso tre uomini. E forse ce n'è un quarto. Lady Diana, non è un forma di degradazione morale cercare di ingannare se stessi fino a questo punto?». Troy ebbe l'impressione che stesse per piangere. «Dov'è Wayne?». «Non lo so», rispose lei per l'ennesima volta, ma c'era molta tristezza
nella ripetizione di quella bugia. La voce era debole, incerta. Troy sapeva che stava mentendo. La mattina dopo la fece chiamare alle sei e mezzo e lei parve contenta di vederlo. Una notte insonne passata da sola, con i propri pensieri, indipendentemente dalla loro natura, era peggio di qualsiasi colloquio. Troy aveva pensato che se l'avesse fatta parlare di suo padre le parole sarebbero corse come un fiume in piena. E infatti lei parlò, parlò moltissimo. Il tono era lo stesso, provi a immaginare, provi a capire... Ma se Troy avesse capito, sarebbe riuscito a vedere Wayne come lei lo vedeva e non l'avrebbe più inseguito. Ascoltò tranquillamente, senza intervenire, quella confusa autobiografia, quella storia di una dilettante del radicalismo inglese. Aveva disposto le cartellette sul tavolo, davanti a sé. Questa volta non erano vuote. Lei non temeva più il pettegolezzo e si lasciò andare a paragonare Wayne a Wells, le loro doti intellettuali e di comportamento. Troy le fece osservare che l'omicidio non faceva parte delle offese che Wells aveva recato alla società. Ma le colpe di Wells non contavano molto rispetto a quelle del vecchio Fermanagh... Diana passava da uno all'altro rapidamente e in un modo così tortuoso che Troy stentava a starle dietro, tanto che a un certo punto gli parve che tutti, Wayne, Fermanagh e Wells, rappresentassero tre aspetti diversi della stessa persona, una creatura titanica costruita da lei stessa. Troy aprì una cartelletta mentre Diana Brack si accalorava parlando dei rapporti con suo padre. Sfilò una fotografia del cranio spaccato di Brand e gliela mise davanti. Lei sussultò. «Che cos'è?». Troy non rispose e le mostrò la fotografia di Von Ranke. «Perché me le fa vedere?». Troy la guardava. Lei guardava le fotografie. «Sono gli uomini che pensa siano stati uccisi da Jimmy?». Troy assentì. «La sorprenderebbe sapere che sono gli stessi della fotografia che lei ha preso in casa di Wolinskj?». «No, no... quello era Wolinskj». «E c'erano anche Brand e Von Ranke. Il cadavere di Wolinskj comparirà un giorno o l'altro. O lei può dirmi come il maggiore ha pensato di disporne?». Pallida, incredula, la Brack guardava ora le fotografie ora Troy quasi cercando di essere rassicurata.
«Non è stato Jimmy. A nessuno Jimmy potrebbe aver fatto una cosa simile». Troy tolse dalla cartelletta anche la fotografia del sergente Miller tutto insanguinato, presa solo qualche minuto dopo la morte. Lei emise un breve grido strozzato. Per un momento non riuscì a trovare né la voce né le parole. Stava con la testa china, gli occhi fissi sulla fotografia. Quando rialzò la testa e lo guardò, togliendosi una ciocca di capelli dal viso, Troy ebbe l'impressione di vedere un accenno di lacrime agli angoli dei suoi occhi. «Non è stato lui», ripeté. «Ha sparato in faccia a ciascuno di questi tre uomini. È una tecnica americana, no? Lo stampo del crimine organizzato. Al sergente Miller sono stati sparati tre colpi a distanza ravvicinata. Uno alla bocca, uno alla guancia e il terzo, quello che l'ha ucciso, gli ha portato via la parte dietro della testa. Ho raccolto io i frammenti del suo cervello dal sedile posteriore del taxi». Troy indicò sulla fotografia i fori delle tre pallottole, battendo l'indice sul tavolo. La Brack aprì la bocca in un urlo silenzioso poi se la coprì con la mano. Cercava le parole, ma riuscì a dire soltanto, ancora una volta: «Non è stato lui! Non può averlo fatto». Troy si alzò in piedi e cominciò a raccogliere le cartellette, ma le lasciò la fotografia di Miller davanti agli occhi. «E invece io penso che lei sappia benissimo che è stato lui. Penso che l'uomo di cui lei ha passato due giorni a descrivermi la stupenda, affascinante diversità, le appaia diverso proprio perché può uccidere». Diana Brack respirò profondamente per qualche secondo e riuscì a riguadagnare un po' di voce, un po' di padronanza di sé. «Che cosa significa? Non capisco». «La lascerò qui a pensarci, insieme al defunto sergente Miller». Prima che Troy arrivasse alla porta, lei trovò la forza di gridargli: «Io lo so che non è stato lui, lo so! Mi creda, Troy, lo so! Troy, la prego!». Nel primo pomeriggio, la Brack venne accompagnata ancora nella stanza degli interrogatori. Le imposte erano chiuse e le luci spente. Troy stava in piedi, rivolto verso la finestra buia, al lato estremo della stanza. Lei entrò, la porta si richiuse alle sue spalle. Restò ferma per un momento, ma, poiché Troy non si voltava a guardarla, istintivamente attraversò la stanza e andò verso di lui. Troy contò i suoi passi e, quando gli fu vicina, alzò la sbarra che teneva chiuse le imposte e la lasciò oscillare come un pendolo contro lo stipite di legno. Poi scostò una delle due ante e una striscia di luce entrò nella stanza. Troy aprì anche la seconda anta e, prima che si
voltasse a guardarla, la Brack si era messa a urlare e niente sulla terra avrebbe potuto interrompere quelle urla. La striscia di luce si era allargata, coglieva in ogni particolare i buchi incrostati di sangue nella faccia e sulla testa del cadavere che giaceva sulla barella tra la Brack e la finestra. Lei si teneva le mani strette sulla bocca e le grida uscivano attraverso le sue dita contratte, ma teneva gli occhi fissi su Miller e finché le gambe non le cedettero e si accasciò, penosamente china in avanti, non cercò di distogliere lo sguardo. Passò qualche minuto. Le grida divennero lamenti. Lei seguitava a ripetere «No» soffocando i singhiozzi. Troy stava immobile, nella cornice della finestra aperta e il sole che veniva da sud proiettava l'ombra della sua testa sul viso di lei. La porta si aprì e Onions si fermò sulla soglia. Dietro di lui c'era un agente. A bassa voce gli disse: «Porta quella roba via di qui e chiama un agente della polizia femminile». Si trasse in disparte, con le mani in tasca, mentre le ruote della barella gli scorrevano accanto. Senza la minima espressione in viso, guardò la Brack. Lentamente si avvicinò a Troy e guardò dalla finestra, calmo come chi controllasse la fioritura delle proprie rose dalla finestra di una casa fuori città. «Ne valeva la pena?», disse a bassa voce, guardando la luce del sole tremolare sopra il Tamigi. «Sta ottenendo molto?». Diana Brack singhiozzava così forte da coprire il suono delle voci. «Solo bugie», rispose Troy. «Bugie». «E non avrà di più, almeno per ora. Fuori c'è suo padre. Ha portato un avvocato. Sono arrivati in aereo dall'Irlanda», disse Onions con un tono di voce il più concreto possibile. «Era prevedibile. Non può farlo aspettare?». «L'ho già fatto aspettare per quasi un'ora». «Ha chiesto di vedere sua figlia?». «No, ha chiesto di vedere lei, Troy». «Allora è meglio che gli parli». Erano rimasti sempre rivolti verso la finestra, poi si avviarono alla porta. Non guardarono, né l'uno né l'altro, quel mucchio di vestiti, a terra, che era Diana Brack, le passarono a lato, uno per parte, come se volessero evitare un mendicante importuno che ingombrasse la strada. Nell'andarsene videro arrivare un'agente della polizia femminile che guardò la Brack e tornò indietro per parlare con Troy. «Che cosa devo fare?».
«Niente. Non faccia niente e non dica niente». Onions» era andato avanti lungo il corridoio. Troy affrettò il passo per raggiungerlo. Aveva deciso fin dall'inizio che la Brack dovesse faticosamente elaborare da sola la verità. L'intrusione di Onions non era stata d'intralcio, anzi forse era stata addirittura opportuna. Il marchese di Fermanagh stava, un po' curvo, vicino a una finestra, quando Onions e Troy entrarono nella sala d'attesa. Si voltò lentamente, ergendosi in tutto il suo metro e novantacinque di statura. Era alto come Bonham e pesava, probabilmente, la metà, appariva scheletrico, con un naso sottile e appuntito e una massa lucente di capelli bianchi pettinati indietro, con la fronte scoperta. Troy pensò che poteva avere settantaquattro o settantacinque anni. Aveva gli occhi verde scuro, come quelli di sua figlia, ma le labbra erano sottili, come un tratto di matita su quel viso cadaverico. Somigliava moltissimo all'attore Ernest Thesiger, soprattutto, pensò Troy, nella parte del genio impazzito che aveva interpretato nel film La moglie di Frankenstein. Lo trovò subito sgradevole, come il rappresentante di un potere politico mal concepito, indipendentemente da qualsiasi richiamo cinematografico. Era impossibile non vederlo con gli occhi di sua figlia. Sembrava che negli ultimi tre giorni Fermanagh si fosse affiancato a Wayne come un fantasma in agguato nello spazio tra Troy e Diana Brack. L'avvocato di Fermanagh tentò di avviare le presentazioni, ma il suo cliente lo interruppe battendo sul tavolo il pomolo d'argento del bastone. «Basta! Basta! Silenzio Pumphret! Il sergente sa benissimo chi sono. L'importante è quello che ha da dirci lui per giustificarsi». Onions abdicò prudentemente alla propria autorità. Si mise a sedere in disparte, vicino a un calorifero e assunse un atteggiamento indifferente. Fermanagh sedette al tavolo. Troy gli si mise di fronte e lasciò che l'avvocato stringesse nervosamente la spalliera di una sedia, incerto se scostarla dal tavolo e sedercisi o se restare in piedi. Un cenno di Fermanagh l'obbligò a sedersi e Troy capì che non ci sarebbe stata una conversazione a tre, ma un dialogo. L'avvocato Pumphret era stato convocato soltanto perché, con la cartella e la bombetta, desse una parvenza di legittimità alla contrattazione che Fermanagh intendeva condurre, anche se gente come lui non era abituata a trattare. Troy dichiarò: «Trattengo sua figlia con un provvedimento d'urgenza. Ho ragione di ritenerla in possesso di notizie relative a un'indagine della quale mi sto occupando, che coinvolge l'attività di alcuni stranieri appartenenti a nazioni nemiche. A meno che lei non riesca a ottenere un'ordinanza
di comparizione da parte del giudice io non rimetterò sua figlia in libertà». Troy sentiva che Onions, al disopra della testa del marchese, lo guardava fisso. Gli era difficile capire le intenzioni di Fermanagh, per un momento gli era quasi parso che preferisse vedere avviare un'inchiesta. Perché non gridava semplicemente le proprie ragioni, protestando contro la violazione della legge, tuonando contro l'opposizione? Da quando uomini come Fermanagh si preoccupavano dei fatti invece di blaterare a vuoto per intorbidare le acque? «Lady Diana è stata vista uscire dalla casa di un uomo strettamente collegato all'indagine. L'uomo è scomparso. Molto probabilmente è stato ucciso. Sua figlia è entrata in casa sua quando già la scomparsa era stata denunciata e ha preso con sé una fotografia nella quale comparivano due stranieri, nemici, e questo terzo uomo». «Ha un testimone?». «Sì». «Un testimone che ha identificato mia figlia?». «Sì». «Chi è?». Troy non 'aveva nessuna intenzione di rispondere che il testimone era lui. «Non posso dirlo». «E il testimone ha visto mia figlia in casa di quest'uomo dichiarato scomparso?». Troy aveva sentito il profumo di Diana Brack, non aveva avuto bisogno di vederla per riconoscerla, ma non era un particolare da dire a Fermanagh. «Sì», mentì tranquillamente. «Ma quest'uomo scomparso, che lei chiama il terzo uomo, è uno straniero, proveniente da un paese nemico?». Troy pensò che Fermanagh stava conducendo abilmente il colloquio. Con poche, semplici mosse era riuscito a portarlo fino al punto più debole della sua argomentazione. Onions, lo sapeva, avrebbe mantenuto il rifiuto di ammettere e definire il proprio ruolo come testimone, ma era comunque improbabile che sostenesse una bugia. «No», ammise Troy, «non proviene da un paese nemico». «È uno straniero?». «Sì». «Sia più preciso, sergente, se è possibile». «È un polacco».
«Ah... allora è un alleato?». Troy non rispose. Fermanagh parve soppesare tutta la questione. Pumphret contemplava l'ala della sua bombetta. «È poco, direi, pochissimo. Lei che ne pensa, Pumphret?». Pumphret non rispose. «Stranieri, appartenenti a un paese nemico. Una storia sporca. Cose da quinta colonna. I nazisti tra noi». Fermanagh pareva riflettere ad alta voce. Troy ricordava di aver letto sul giornale di suo padre, negli anni Trenta, che Fermanagh aveva fatto parte di un gruppo di autorevoli conservatori incaricati di una serie di incontri con Hitler che avevano confermato «l'era di pace» di Chamberlain, come un «giusto accordo con il nostro naturale alleato» invece di ammettere che si trattava solo di rimandare una guerra che tutti sapevano ci sarebbe stata. Era un particolare che non influenzava il suo giudizio. Il patriottismo era l'ultimo pretesto cui non mancavano mai di ricorrere i farabutti come Fermanagh. Troy sapeva esattamente a quale conclusione tendeva. «Ma lei non ha la prova di alcun contatto diretto tra mia figlia e quelle persone, è così?». Troy lo guardò in silenzio, deciso a non rispondere se non vi fosse stato costretto. «E senza questa prova... non può incriminarla... non può trattenerla in base al decreto 18 b...». Il decreto 18 b, che consentiva la detenzione senza processo, era stato usato per internare centinaia di stranieri e decine di cittadini inglesi sospettati di cospirazione, tra cui i Mosley. Troy non intendeva rifarsi a quel decreto e Fermanagh lo sapeva. Pumphret aveva l'aria stupida ma aveva bene indottrinato il suo cliente. «Lei dunque...», concluse il marchese, «deve lasciarla libera». Troy aspettò a rispondere il più a lungo possibile, sperando che Fermanagh, infine, riempisse il silenzio. E fu così. Vedendo che non apriva bocca e non batteva ciglio, Fermanagh, con sfrontatezza e non per imbarazzo, mostrando in un sorriso superficiale i suoi denti da lupo, aggiunse con indifferenza, senza alcuna necessità, «Prima o poi». «Poi», ribatté Troy, con la mossa rapida di un serpente che sta per mordere, «quando lei si sarà procurato l'ordinanza di comparizione». Il castello di carte di Fermanagh, costruito con tanta attenzione, era crollato anche se lui continuava a sorridere. Troy si era reso conto che Fermanagh non aveva nessuna intenzione di
ricorrere all'ordinanza. Ora gli era facile capire le sue intenzioni, il suo gioco. Non era venuto per salvare sua figlia, ma per salvare l'onore del proprio nome. Della figlia non gl'importava. Altrimenti si sarebbe preoccupato per lei prima di avviare quella partita di politica poliziesca. Quel «prima o poi» faceva sospettare che il vecchio mascalzone pensasse che un giorno o due di prigione erano quello che si meritava una figlia ribelle che da dieci anni aveva quasi rinnegato. Troy si rendeva conto che non c'erano prove per trattenere la Brack, che Fermanagh avrebbe potuto andarsene insieme a lei, perché gli sarebbe bastato muovere un dito per ottenere l'ordinanza di comparizione, ma sapeva che non era disposto a portare la questione in tribunale. Aveva giocato d'azzardo con Troy, senza accorgersi che anche lui aveva barato; aveva fatto conto sul potere intimidatorio della classe sociale e del titolo e aveva perduto. Troy si alzò in piedi. «Chiedo scusa, signore», disse a Onions e uscì. Per tutto il corridoio, sentì Fermanagh gridare il suo nome. Troy disse all'agente della polizia femminile che poteva andare e si mise a sedere a circa due metri di distanza dalla Brack. Lei mostrò di essersi accorta della sua presenza alzando una sola volta gli occhi. Il trucco le scorreva in rivoli neri lungo le guance. I suoi singhiozzi, anche se soffocati, si avvertivano ancora e, mentre Troy aspettava il momento di ricominciare, sembrava andassero aumentando fino a riempire la stanza con l'infinita profondità del suo dolore. Venti minuti passarono così, solo con quei singhiozzi. Poi lei alzò di nuovo gli occhi. «Non è stato lui», mormorò, «non è stato lui a... fare una cosa simile». Troy la guardò a sua volta, con fermezza. «Sì, è stato lui», disse, a voce ugualmente bassa, «e lei e io siamo i soli, tra i vivi, a saperlo. I soli a conoscerlo per quello che è». Diana Brack ebbe un lampo negli occhi verdi, poi abbassò di nuovo la testa e riprese il suo lento, ritmico singhiozzare. La porta si aprì. Onions mise dentro la testa e fece un cenno a Troy che uscì e richiuse la porta senza far rumore. «Che cosa dice Fermanagh?». «Una quantità di sciocchezze sulla necessità di rispettare il corso della giustizia, salvo ricordare ogni tanto che lui conosce bene il primo ministro...». «Winston non muoverà un dito per Fermanagh». «... e metà del consiglio, per non parlare dell'ispettore capo della polizia
metropolitana, anche se, naturalmente "la legge è legge". È tutto un seguito di "sotto un certo aspetto... considerato che"... Chiacchiere inutili. Credo che vorrebbe strangolarla, Troy, ma preferisce che lo faccia io. Lascia intendere molte cose, senza dire niente». «Andrà dall'ispettore?». «Non credo. Però...», Onions s'interruppe, poi concluse, «la farò rilasciare». «Non sono ancora pronto». «Lei non mi ha capito, sergente. Io la farò rilasciare». «Non è necessario. Fermanagh tenta di imbrogliarci. Non cercherà di avere l'ordinanza di comparizione. Non ne ha bisogno. Gli basterebbe insistere nella protesta per andarsene da qui insieme a sua figlia, ammantato nella propria dignità con o senza l'ordinanza, perché io non ho una prova sulla quale contare e lui lo sa. Ma non è così semplice, perché la verità è che non vuole andarsene di qui con lei. Non vuole nemmeno vederla. Si diverte ad agitare con me questioni legali per poi riversare tutto sul suo avvocato. Non chiederà mai quell'ordinanza». «Perché?». «Perché sa che mi basterebbe telefonare al direttore di uno dei giornali di mio padre per far passare a tutto il gruppo e, di conseguenza, a tutti i quotidiani, la notizia che la figlia del vecchio Fermanagh è stata arrestata con un provvedimento d'urgenza. A quel punto diventerebbero inutili le proteste sue e della sua schiera di avvocati. Si è presentato qui sicuro che, aggredendoci con i suoi titoli e la sua reputazione, avremmo ceduto subito. Forse gli è sempre riuscito, forse fuori Londra i poliziotti si mettono sull'attenti appena lui apre bocca. Ma io no e lei nemmeno. Perciò ha cercato di sviarci infuriando su elementi inconsistenti e, nello stesso tempo, spingendoci a trattare, ma si è messo in difficoltà, questa tattica mista non ha funzionato, era così fragile da essere trasparente. Non ha il coraggio di battersi per liberare sua figlia e, soprattutto, non ne ha nessuna voglia. La conosce abbastanza da sapere che è impegnata in qualche cosa che lui comunque non vuole che si sappia. È venuto qui per cercare di capire fino a che punto io fossi informato sull'attività di sua figlia, non per liberarla. Non è lei che gli preme ma la propria reputazione. Dopotutto poche notti in prigione non rappresentano niente per chi frustava una figlia, da bambina, con una cinghia di cuoio fino a farle perdere i sensi e la chiudeva, di notte, nello stanzino del carbone». «Ma lei come lo sa?».
Troy non riuscì a rispondere. Forse gli erano tornate alla mente le confidenze tra Diana Brack e le sue sorelle quando erano ragazze, ascoltate per caso e poi dimenticate fino a quel momento. «Non è importante, l'importante è che la Brack è ancora qui con noi perché suo padre, per il momento, non è riuscito a farla liberare». «Che altro spera di farsi dire?». Troy capì che era inutile rispondere, sinceramente, che non sapeva che altro avrebbe potuto dirgli Diana Brack e che proprio lì stava la questione. Onions non avrebbe accettato l'inconsistenza di un ragionamento secondo il quale, se la Brack, sapendo che Wayne era colpevole, e Troy non dubitava che lo sapesse, si fosse decisa ad ammetterlo, molte altre verità sarebbero venute in seguito. Scelse una giustificazione più semplice. «Spero che mi dica che cosa hanno fatto sia lei sia Wayne la notte della morte di Brand». «Crede che sappia dov'era Wayne quella notte?». «Ne sono certo». Onions spalancò la porta della stanza. La Brack non si era mossa. Stava ancora avvolta su se stessa, con la testa ripiegata, come un cigno morente in una pozzanghera. Era ancora scossa da deboli singhiozzi. Stava piangendo da più di un'ora. «C'è più di un modo per frustare una persona fino a farle perdere i sensi e inoltre, in questo caso, mi pare mutile insistere, non riuscirà a farsi dire altro», affermò Onions a bassa voce ma senza incertezza, «questa è la mia opinione e intendo comportarmi di conseguenza. Facciamola uscire». Richiamò l'agente della polizia femminile, che aiutò la Brack ad alzarsi mentre lui e Troy aspettavano, in disparte. Vicino all'agente, la figura di Diana Brack, anche se piegata dalla disperazione, aveva eleganza e prestigio. L'agente più bassa di statura, faceva del suo meglio per sostenerla e sospingerla nel corridoio fino all'atrio, dove le avrebbero riconsegnato le cose che le avevano fatto lasciare entrando in carcere. Passò vicino a Troy con la testa bassa, lo superò di qualche passo, poi si voltò e lo colpì alla guancia sotto l'orecchio sinistro con un colpo violento che la liberò dalla mano dell'agente e fece cadere Troy a terra. Lei lo sovrastava, alta, col respiro affannoso, e lo guardava attraverso le lacrime. Aveva colpito a segno, con l'abilità di un uomo ma non con la stessa forza. Troy era sconvolto, ma non si era fatto male. La guardò sparire lungo il corridoio. Onions non disse niente, ma se ne andò senza tendere una mano per aiutarlo a rialzarsi. Troy pensò che era come se avesse voluto ammo-
nirlo con un «io glielo avevo detto». Ancora a terra, stanco, maledisse Onions per la sua imprevedibilità e la sua prudenza e si rammaricò che entrambe troppo spesso dovessero coincidere. 56 Troy tornò a casa più tardi di quanto non avrebbe desiderato. In Goodwins Court, Ruby la puttana era al suo posto di lavoro, reduce da una scorreria tra le truppe d'assalto e in attesa di nuovi ordini. Puntò contro il muro una gamba rivestita di una calza di nylon senza smagliature e gli bloccò l'ingresso nel vicolo. «Non hai bisogno di me stasera, Fred». Troy non aveva mai bisogno di lei. Ci fu un momento di silenzio mentre aspettava che abbassasse la gamba per farlo passare. Niente al mondo lo avrebbe indotto a prendere quella gamba e spostarla per farsi strada da solo. Ruby portò avanti lo scherzo, si mise sull'attenti battendo i tacchi e sporse le labbra per assumere un'espressione autoritaria, poi gli buttò un bacio sulla punta delle dita. Troy era fermo a meno di due metri da lei. Mancava qualcosa nella commedia abituale di Ruby. La richiesta. Le sue parole contenevano un'affermazione non una domanda. «Perché dici così?», le chiese. «Perché quella è una bellezza, bambino, e guarda che io non mi sbaglio». «Chi è?». «Non lo so. Ma sta davanti alla porta di casa tua da un'ora e mezzo». Non c'era luce. Troy si avvicinò alla porta silenziosamente, almeno quanto gli consentivano le suole di cuoio. Non un rumore, un fruscio interrompeva la tranquillità della notte. Il vicolo, deserto, era immerso nel buio, senza un alito di vento. Troy infilò la chiave nella serratura e una mano si posò sulla sua. «Devo parlarle», gli disse lei quasi all'orecchio. «Ha avuto tre giorni per parlarmi, non le sono bastati?». La mano strinse la sua, l'obbligò ad aprire o a scrollarla via. «Devo parlarle», ripeté lei. Troy non rispose. Fermo sulla soglia guardava la sua figura, il suo viso uscire dal buio, delinearsi a poco a poco. La voce era diventata una traccia, la traccia un'ombra e quando l'ombra parlò Troy vide il bianco dei denti. Gli occhi no, ma sapeva che erano fissi nei suoi.
«Se n'è andato». «Certo che se n'è andato. Una metà dei poliziotti di Londra lo sta cercando da giorni». «No, voglio dire che se n'è andato davvero. Stava nel nostro appartamento al Savoy. E adesso non c'è più. Questa volta è scomparso davvero». «Dio mio», mormorò Troy ed entrò in casa. Si chinò davanti alla stufa a gas in salotto e l'accese con un fiammifero. Lei lo aveva seguito in silenzio e quando lo vide tentare inutilmente di accendere la luce, disse: «Manca la corrente elettrica in tutto il West End». Si materializzò dall'oscurità nella vampa rosa della stufa a gas. In ginocchio, protese le mani per scaldarle. «Sono gelata fino alle ossa. Sono rimasta là fuori per un secolo». «Non potevo saperlo. Perché non mi ha parlato del Savoy oggi pomeriggio?». «Crede che non sappia che cos'è la lealtà?». «Verso un assassino?». «Questa è un'affermazione che non accetto». «Perché è venuta qui, allora?». «Perché non sapevo dove andare». Si lasciò scivolare il mantello dalle spalle e si rannicchiò a terra. Troy stava in piedi vicino a lei, con le mani in tasca. Aveva ancora indosso il cappotto. Toglierselo e mettersi a sedere sarebbe stato ammettere che lei era lì perché l'aveva invitata e non contro la sua volontà. «Lei ha una casa elegante in Tite Street, un appartamento nella proprietà di suo padre in Irlanda e un cottage nel Suffolk». «Volevo dire che non sapevo da chi andare». Ci fu un lungo silenzio durante il quale Troy seguitò a fingere di non aver capito e a pensare se non avrebbe fatto bene a sollevarla di peso e buttarla in mezzo alla strada. Sentendola trarre a tratti qualche sospiro profondo pensò che si fosse messa a piangere, ma decise che non si sarebbe lasciato commuovere a casa più di quanto non si fosse commosso a Scotland Yard. «È stato mio padre», disse infine Diana Brack, «a prendere quell'appartamento al Savoy nel 1938. Aveva paura dei bombardamenti. Tutti ne avevano paura, ma lui vedeva già Londra rasa al suolo e il Savoy ha uno dei rifugi più sicuri di tutta la città. Quando è tornato in Irlanda, nel 1940, ha passato a me il contratto d'affitto. Non per generosità, ma perché non riusciva a venderlo. Io, veramente, non sono mai scesa in quel rifugio. Quan-
do c'era un'incursione non riuscivo a sradicarmi da dove mi trovavo, spegnevo la luce e guardavo dalla finestra gli aeroplani che passavano sul fiume. Così ho smesso di usare anche l'appartamento. Poi ho conosciuto Jimmy e non sapevamo dove andare per stare soli ogni tanto. Quando lei si è fatto avanti con i suoi stupidi sospetti, l'appartamento al Savoy è diventato prezioso. Nessuno sapeva che l'avessi io in affitto. Nemmeno i camerieri dell'albergo». «Nemmeno gli americani». «Nemmeno loro, certamente. Jimmy è rimasto lì mentre lei lo cercava. Io potevo andare a trovarlo solo quando gli uomini che lei aveva messo di guardia a casa mia erano distratti. Capitava abbastanza spesso». Diana Brack s'interruppe, un po' affannata, poi proseguì. «Appena uscita da Scotland Yard, naturalmente sono andata lì. Ho camminato lungo il fiume, nessuno mi ha seguita, sono arrivata in pochi minuti. Lui se n'era andato». Troy era esasperato. Si lasciò andare a sedere su una poltrona vicino alla stufa. Diana era quasi ai suoi piedi. «Lei penserà che mi sono comportata male, vigliaccamente, ma è stata l'unica bugia, se le avessi detto dov'era Jimmy...». Troy si sporse in avanti con le mani tese come se volesse strozzarla, la voce come un urlo soffocato. «Doveva dirmi dov'era! L'avrei arrestato! Lo capisce che rischio corre lei adesso?». La Brack gli prese le mani e le strinse tra le sue. Troy capì di avere trasgredito alle regole, aveva superato la linea sottile che li separava. Non avrebbe mai dovuto permetterle di stargli così vicino. Ora gli aveva posato la fronte sul dorso delle mani. Sentì che tratteneva il respiro come se stesse per piangere e strofinava il viso contro le sue dita. Arrivarono le lacrime. Troy disse alle sue braccia di ritrarsi, ma le braccia non si mossero. Disse alle sue dita di districarsi da quella ragnatela, ma le dita sembravano paralizzate. Disse alle sue gambe di aiutarlo ad alzarsi in piedi, ma loro lo ingannarono e lo fecero cadere in avanti sul pavimento, contro il viso di lei, come due cani che annusassero l'uno le intenzioni dell'altro. Lei sciolse dalla stretta una mano e gli passò le dita tra i capelli, sulla tempia. Troy pensò ancora che era stato lui a trasgredire alle regole. «Tanti anni fa ero affascinata da quel ragazzo fatto di tenebra. I capelli neri e folti che coprivano la fronte. Sono ancora così. Il nero degli occhi, che più nero non si può immaginare. Il nero, il niente, la forza del silenzio. Chi era quel ragazzo, esisteva davvero? È attraverso gli occhi che vedi che
cosa c'è dentro una persona. I tuoi occhi riflettono chi li guarda, non rivelano niente. Io guardo dentro i tuoi occhi e mi vedo in uno specchio, vedo quella bambina che voleva trovare un modo per costringere i tuoi occhi silenziosi a risponderle». Quel bacio soffocante. Troy pensò agli occhi della Toscà, limpidi, di un castano uniforme che gli sorridevano comunque, qualsiasi cosa volessero esprimere. Agli occhi innocenti di Wildeve grandi, di un azzurro slavato, come le uova delle taccole. E agli occhi della Brack, verde scuro. Lui, se ne rese conto, non si guardava mai in uno specchio, tranne quando si faceva la barba. Il «niente» che gli era stato rimproverato lo conosceva bene, ma, nella vita, non era stato quasi mai consapevole dell'effetto che poteva produrre sugli altri. «Quel bacio soffocante», disse a voce alta e in quel momento pronunciò un invito che non poteva sfuggirle. Sentì le sue labbra premergli sulla bocca. Si scambiarono uno sguardo, poi lei chiuse gli occhi e il passato sommerse il presente, il suo profumo fu come una minaccia di morte per annegamento e al profumo si mescolarono l'odore del gas di carbonio e il turbinare della carneficina, poi i sensi lo trascinarono lontano e non ci fu spazio per altro. Le toccò un seno, lo tenne chiuso dentro una mano. Lei gli fece scorrere la lingua sulle labbra, per aprirgliele, allora la strinse alle gambe spingendole in su la gonna per infilarle una mano calda e umida sotto le mutandine di seta. Lei se le fece scivolare fino alle caviglie. Staccò la bocca dalla sua, riaprì gli occhi e lo guardò ancora una volta. Poi sollevò le ginocchia, si sfilò le mutandine e le tirò dietro le spalle di Troy. «Non riesco a vederti», disse soltanto. In una posizione da crampo imminente, Troy, goffamente accovacciato, si tolse il cappotto, si sbottonò frettolosamente i pantaloni e ricadde su di lei che gli strinse le mani dietro la nuca e lo attirò contro di sé. «Voglio venire», disse lei, con dolcezza e a Troy parve una promessa fatta a se stessa. Invece fu lui il primo. Immediatamente. Quasi immobile. Dentro di lei come un fluire di onde. Si sollevò su un gomito, il viso rivolto verso l'opaco rossore della stufa. La Brack, supina, distese una gamba. Il bagliore della fiamma rifletteva la sua figura di profilo. Sorrideva? Troy non l'aveva vista sorridere dalla sera in cui l'aveva impietrito, all'Adelphi, con la storia del bambino caduto dalla bicicletta. Non aveva più avuto una ragione per sorridere. Ora, forse, si era addormentata. Aveva un respiro molto regolare, come se davvero dormis-
se. Sembrava passato un secolo. Aprì gli occhi. Li chiuse. Li riaprì. Si voltò di pochissimo verso di lui. Gli passò un dito sullo zigomo e affondò la mano nei suoi capelli. «C'è un letto da qualche parte, vero?». «Al piano di sopra». «Aiutami ad alzarmi». Troy, in piedi, si vide ridicolo, con i pantaloni in fondo alle caviglie. L'aiutò ad alzarsi, lei gli passò accanto e salì la scala. La sentì mentre camminava nella stanza di sopra e faceva cadere con un piccolo tonfo le scarpe sul pavimento. Anche lui se le tolse, sfilandosele con la punta del piede dietro il tallone, poi si liberò anche dei pantaloni. Si accorse che non sapeva fino a che punto spogliarsi, se salire la scala vestito, semisvestito o nudo. Nudo no. Si levò la giacca, le calze e la cravatta e restò un momento a riflettere in camicia e mutande. Quando non poté più aspettare, si concesse ancora una frazione di secondo per spegnere giudiziosamente la stufa e andò al piano di sopra. La Brack aveva acceso una candela vicino al letto e si stava spogliando, con le spalle alla porta. La fiamma danzava negli spifferi d'aria della vecchia casa. Lei si sfilò la blusa dalla testa con quel gesto, a braccia incrociate, che solo le donne sembra sappiano fare. Si slacciò il reggiseno con le mani dietro la schiena. La linea del suo corpo nudo si stagliò alla luce della candela, la curva della vita, le spalle larghe, le gambe sottili, i fianchi dritti. Troy la trovò irresistibile. Stava ferma, non si capiva se in attesa, le spalle leggermente inclinate dal peso del respiro che, anche se appena percepibile, sembrava riempire la stanza. Troy si avvicinò e la baciò sulla nuca, all'attaccatura dei capelli. Lei scosse la testa con un movimento brusco, si voltò tutta verso di lui e lo baciò sulla bocca tenendogli le braccia strette al collo. Anche scalza era più alta di almeno otto centimetri, un'ombra che si profilava su di lui e interrompeva la luce danzante della candela. Piegò la testa da un lato e gli mordicchiò il labbro. Troy teneva le mani strette all'attaccatura delle sue gambe, sentiva la pelle increspata, ruvida dove il suo seme si era seccato su di lei. Affondò le dita e si sentì mordere più forte il labbro. Intensificò la sua carezza, lei si distese sul letto, guardandolo negli occhi. Ridicolo. In camicia e mutande. Il bambino troppo timido per fare la doccia con i compagni. Il bambino che aveva bisogno di una luce accesa tutta notte accanto al letto ma per spogliarsi chiedeva alla mamma di voltarsi da un'altra parte. Si slacciò la camicia e la lasciò cadere a terra. Ridicolo, sempre più ridicolo. Un uomo in mutande. L'erezione le
sollevava come il paletto di una tenda da campo. Lei lo guardava. Non avrebbe parlato, non lo avrebbe alleggerito di quel senso del ridicolo con un allegro, liberatorio «toglitele». Alla fine si decise, se le tolse e sedette in fondo al letto. Non si sentiva più ridicolo. Lei piegò un braccio e si passò, con un movimento indolente, le dita su petto, sopra il seno sinistro. Troy sentì lo sfiorare delle unghie sulla pelle. Le si avvicinò, carponi. Lei si sollevò, gli strinse tra i denti un muscolo del torace e gli prese il membro tra le mani. Troy sentì il suo desiderio crescere e bruciare, il petto gli pungeva come se vi fossero infilati degli aghi. La spinse contro i cuscini, le arruffò i capelli folti e neri. La prese e non la lasciò più andare, mentre lei inarcava la schiena per respingerlo, torcendosi inutilmente per mordergli le mani. Il vento scosse i vetri della finestra agitò la fiamma della candela che si spense e nel buio lei gridò. 57 Troy si svegliò al rumore di qualcosa che sbatteva. Non gli sfuggì l'ironia di quella sorta di applauso. Era quasi l'alba. Era solo. La finestra della camera da letto era aperta e la tenda dell'oscuramento sbatteva nella brezza mattutina che si andava alzando. Scese silenziosamente la scala. La porta d'ingresso era aperta e quel venticello la spostava avanti e indietro. Troy vide i pantaloni che aveva lasciato lì la sera prima e se li infilò. Scalzo, senza camicia, uscì in strada, quasi aspettandosi di trovare lei ad aspettarlo. Per quanto ne sapeva sarebbe stato in carattere con il personaggio. La luce del giorno non era ancora penetrata in Goodwins Court. Guardò a sinistra, verso St Martin's Lane, la strada che tutti prendevano di solito. L'impressione fu quella di un pugno duro, compatto, rapido che lo colse dall'alto sulla tempia destra, tra il sopracciglio e l'orecchio, come un colpo di scure. Gli calò una coltre verde davanti agli occhi, ma non perse conoscenza almeno quanto bastava per capire che qualcuno lo stava prendendo a calci. Calci alla testa, alle reni, alle costole. Poi la coltre verde diventò rossa. Foschia rossa, luna rossa. Era una sensazione che conosceva. L'accolse quasi volentieri. Sapeva di aver trasgredito alle regole. 58 Si svegliò di nuovo. Era disteso sul divano in salotto, gli avevano messo una coperta. Ruby la puttana, seduta su una poltrona, beveva una tazza di
tè. Si rese conto di riuscire a parlare. Il colpo sulla testa gli aveva risparmiato la mascella. «Da quanto tempo...?». «Circa dieci minuti. Ho sentito il frastuono dall'altro capo del vicolo, ma quando sono arrivata quello se n'era già andato». Troy emise un lamento. Aveva un sapore di sangue in bocca. A ogni respiro che gli dilatava la cassa toracica provava un dolore lancinante. Sporse la testa dal divano e vomitò. «Coraggio, Freddie, butta fuori tutto, dopo starai meglio. Ne ho vista nella vita di gente presa a calci. Tu, per essere ridotto così, hai avuto a che fare con un professionista». Troy, con uno strappo, si tirò su di nuovo sul divano e sentì tutto il suo corpo riprendere vita attraverso il bruciore di una scossa. «Che ore sono?». «Quasi le sei e mezzo». «Chiama Bayswater, 6242. Chiedi di Jack». Vomitò un'altra volta. Prima di perdere conoscenza, sentì Ruby formare il numero di Wildeve. Quando riaprì gli occhi, Wildeve era in piedi vicino a lui. Si sollevò, appoggiato a un gomito. Wildeve aggrottò la fronte. «Come ti senti?». «Massacrato». «Hai bisogno di un medico». «No. Aiutami solo a rimettermi in piedi». «Freddie, sei pazzo? Non ti vedi? Qualcuno ti ha cavato l'anima a pedate!». «Qualcuno? Qualcuno? Lo so io chi è stato!». «Chiamo un medico». «No». «Perché no?» «Perché se questa storia arriva all'orecchio di Onions mi mette in licenza per malattia. Invece siamo vicini, ma così vicini...». «Vicini? A che cosa?». «A lui. Lui è qui anche se lei crede che abbia preso il volo». «Lei chi?». «La Brack». «Freddie, che cosa vuoi dire?». Troy ricadde indietro sul divano. «Wayne è tornato».
«È stato Wayne a conciarti così?». «Perché, non l'avevi capito?». «È... è... possibile. Ma perché avrebbe dovuto rischiare? Freddie, devo chiamare un medico. Hai una ferita sulla testa che seguita a sanguinare». «No. Cerca Kolankiewicz. Non posso permettere a qualche medicone pignolo di ridurmi a zero proprio adesso. Dobbiamo correre là! È tornato! È tornato!». Troy vide l'espressione del viso di Wildeve, gli sguardi che si scambiavano lui e Ruby e capì che si era messo a gridare e che loro lo giudicavano un povero stupido isterico, pesto e sanguinante. Cercò di respirare più a fondo, per rallentare i ritmi del cuore e della mente, Ruby gli si avvicinò e, in silenzio, si affaccendò a sistemargli la coperta fin sotto il mento, a sprimacciargli il cuscino spingendoglielo bene dietro la testa in modo che potesse vedere Wildeve senza allungare il collo, ad asciugargli i rivoletti di sangue sulla tempia. Wildeve si chinò su di lui per un momento poi, con un'espressione di represso disgusto, gli voltò le spalle. Per qualche momento ci fu solo la percezione del ritmo di una arteria palpitante, la stanza ondeggiò, poi si fermò come una nave che si raddrizzi dopo aver sbandato, e infine Troy sentì Wildeve che, al telefono con Kolankiewicz, diceva che sì, sapeva che era presto, ma... e ancora ma. «Viene subito. Stai meglio?». Troy fece segno di sì con la testa. «Allora spiegami tutto. Adagio». «Onions non deve saperne niente. D'accordo?». «D'accordo. Ti farò da copertura finché non ti sarai rimesso in piedi». «Va bene, va bene. Wayne si nascondeva al Savoy, e ora, probabilmente, è tornato lì». «Che mi venga un accidente! Quante corse inutili!». Wildeve s'interruppe, poi aggiunse, solo con un accenno di incredulità: «Ma come lo sai?». E Troy, per la prima volta, si rese conto di non poter dire a Wildeve come aveva avuto quella informazione. Peggio, non poteva nemmeno inventare una bugia plausibile. 59 Ruby dormiva lunga distesa davanti alla stufa. Wildeve beveva una tazza di tè e si teneva un po' in disparte e Kolankiewicz gridava: «Che cosa ti avevo detto? Che cosa ti avevo detto!».
Accese la sua pila-stilo davanti agli occhi di Troy e gli sollevò le palpebre stringendole tra due dita. Troy sussultò per il dolore e per il fastidio che gli dava l'alito di Kolankiewicz. Quale creatura nel pieno delle proprie facoltà mentali poteva mangiare salsicce di fegato all'aglio come prima colazione? Dove se le era procurate? Non rientravano tra i cibi distribuiti con le tessere alimentari. «Quante dita sono queste?». Dozzine di diabolici manici di scopa come nell'Apprendista Stregone di Walt Disney danzavano davanti agli occhi di Troy, che esitò a rispondere. «Di' la verità, per una volta nella vita». «Due», azzardò Troy. «Dio Cristo! Cinque, imbecille! E pretendi che ti aiuti? Io sono un medico. O ti fidi di me o ti do un altro calcio nelle palle». «Erano troppe le dita. Non riuscivo a contarle». «Non fare il furbo, Troy, ascolta. Hai un vaso arterioso che preme sul nervo ottico. Niente di grave, ma hai bisogno di stare tranquillo al buio. Se diminuisce il gonfiore alla testa diminuisce anche la pressione sul nervo. Ma se te ne vai in giro come un incosciente, ti metti nei guai. Mi hai capito?». «Che genere di guai?». «I guai sono guai. Corri un rischio». «E cioè?». «Cioè puoi diventare cieco». Kolankiewicz frugò nella sua borsa e tirò fuori un ago ricurvo di acciaio inossidabile. «Devo darti qualche punto sulla testa e sul petto. Due o tre per parte. Non ho portato un anestetico e spero di farti male, forse così ti convincerai a smetterla di tentare la sorte. Altrimenti ti preannuncio che hai molte probabilità di entrare tra breve nella categoria dei miei clienti abituali». Sperava di fargli male e gli fece male. Troy gridava. Wildeve mormorò qualche parola di scusa e si rifugiò in cucina. Ruby si svegliò di soprassalto e lo seguì. Kolankiewicz fece l'ultimo nodo e di nuovo frugò nella sua vecchia borsa a soffietto. Troy guardò le gocce sprizzare dall'ago della siringa ipodermica che Kolankiewicz alzava verso la luce. «Ehi», protestò, «ma allora ce l'aveva l'anestetico!». «Questo non è un anestetico», rispose Kolankiewicz, «è un sedativo», e infilò l'ago nel braccio di Troy prima che potesse ribellarsi. «Hai cinque minuti per salire le scale e andare a letto. Ti ho iniettato una
dose sufficiente a stendere un cavallo da tiro. Se ti fai vedere a Scotland Yard prima che passi una settimana, racconto tutto a Onions. D'accordo? Bene. Adesso scusami, ma i morti mi aspettano». Uscì. Troy sentì il primo stordimento paraorgasmico della droga e chiamò Wildeve, che gli mise un braccio intorno alle spalle e lo accompagnò al piano di sopra. Troy vide la scala fluttuargli davanti agli occhi e sentì che le gambe gli cedevano mentre una deliziosa, confusa euforia gli fluiva rapidamente nelle vene. Il mondo era diventato un luogo incantevole dove non esisteva il dolore. Al di là della sfera di cristallo, sentì la voce supplichevole di Wildeve. «Freddie, e io che cosa racconto a Onions? Dove gli dirò che sarai la settimana prossima?». Troy cercò di usare le poche facoltà mentali che ancora gli restavano. «Norfolk», mormorò «Suffold... Tante... basi... basi aeree. Sono andato a... prendere...». Cercò di non lasciarsi attirare da quel gorgo di luce calda, rosata, invitante, perché c'era un'altra cosa che doveva dire a Jack, una cosa molto importante... molto importante. Se almeno... «Savoy», mormorò confusamente, «un appartamento... va' a vedere. Wayne. La Brack. Cerca l'appartamento...». La testa gli cadde sul cuscino. Ruby spinse Wildeve da parte e da chissà dove produsse un pigiama di un pesante cotone a righe. Prima di chiudere gli occhi, Troy la vide levargli i pantaloni e cercare di infilargli le gambe nel pigiama. 60 Si svegliò dopo aver sognato di volare su Hampstead Heath come un aquilone legato al polso di Wildeve che lo faceva turbinare al disopra delle nuvole agitando il filo. Londra, di sotto, offriva uno spettacolo terrificante. La notte cadeva con una eccessiva rapidità, la notte rutilante dei trucchi fotografici. Londra era illuminata come Regent Street a Natale. E non si vedeva un aereo da bombardamento. Seduto sul letto, Troy si chiese da dove gli fosse venuta quella immagine della città, spaventato come da un'allucinazione, quando si ricordò di aver visto un bombardamento, di notte, dall'alto di Primrose Hill, qualche anno prima, durante il quale le bombe incendiarie fischiavano come becchi a gas. Non era un'allucinazione ma il ricordo di qualcosa che aveva visto davvero. Mise le gambe giù
dal letto. Era tutto indolenzito ma non provava niente che si potesse definire un dolore. Si sollevò la giacca del pigiama. Due o tre dita sotto il capezzolo destro il sangue aveva formato tre piccoli grumi neri. Gli parvero parte del suo corpo, eppure estranei. Si passò una mano tra i capelli e sentì la sutura sull'orecchio destro. Si alzò in piedi. Non gli girava la testa ma si sentiva senza peso, come se i piedi non toccassero terra mentre il cervello, blandamente, gli ordinava di muoversi. Dall'alto delle scale vide Ruby, voltata di spalle, che stava accompagnando un uomo alla porta, spingendolo garbatamente per le reni. La porta si richiuse e lei vi si appoggiò per infilarsi un biglietto da dieci scellini nella calza. Infine si accorse che Troy la stava guardando. «Non fare il moralista. Devo pure guadagnarmi la vita e ho pensato di farlo qui, altrimenti chi ti teneva compagnia?». Troy non rispose. Si era messo a sedere su un gradino a mezza scala. Ruby sorrise. «Potrei versarti una percentuale, ma sarebbero soldi guadagnati in modo disonesto». Gli tese una mano, Troy si alzò e scese pesantemente le scale, ingoffato nel pigiama troppo grande. «Che ore sono?». «Le otto appena passate. È domenica mattina. Ti sei fatto un bel sonno, da venerdì fino adesso. Quel simpatico signor Klankiwitch ha telefonato ieri sera per sentire come stavi. Gli ho risposto che dormivi come un neonato». Troy si ripropose di chiedere a Kolankiewicz che razza di sedativo gli avesse iniettato. Quando Ruby aprì le tende, si accorse che non poteva calcolare il tempo che era passato da quando non aveva più visto la luce del giorno, gli pareva che tutto fosse successo in un'altra vita. Il sole del mattino arrivava obliquo da est nello spazio davanti a casa. Una volta tanto sembrava che fosse davvero un sole di primavera. Un allettante sole di primavera. Fece il bagno, si vestì e uscì. Mentre stava per richiudersi la porta alle spalle, vide Ruby che lo guardava dal disopra di un giornale illustrato. Non aveva idea di quanto ancora intendesse trattenersi, ma non perse tempo a riflettere se fosse opportuno o no che una prostituta esercitasse la professione nel suo salotto. Sorrise, immaginando quale sarebbe stata la reazione di Onions. Forse non si era ancora liberato dell'effetto del sedativo, altrimenti avrebbe trovato meno divertente l'iniziativa di Ruby. Si diresse ver-
so ovest. Se ce l'avesse fatta ad arrivare fino a Green Park, allora forse sarebbe riuscito anche a capire dove aveva intenzione di andare. Sempre che volesse andare da qualche parte. A Piccadilly si fermò e si voltò indietro, a guardare da dove era venuto. Su Leicester Square il sole splendeva glorioso in un cielo più azzurro che mai, quasi senza nuvole, come non ricordava di aver mai visto prima. Stava tutto avvolto nel suo cappotto nero, disposto a considerare quei lividi come una malattia dell'infanzia, e a obbedire alla voce che maternamente lo aveva incitato a non uscire senza cappotto. Sedute ai piedi della statua di Eros, due giovani donne, con abiti a maniche corte, sfidavano il sole primaverile dividendosi un'unica sigaretta. Troy imboccò Piccadilly, guardando la propria ombra che gli danzava davanti. In quella luce brillante, le condizioni della città apparivano in un pungente contrasto con la stagione. Londra si apriva al disgelo. Londra germogliava. Londra soffriva. Come un muscolo teso troppo a lungo sotto sforzo, la città spasimava nel bisogno di riposo. La fatica, la sensazione che fosse giunta allo stremo delle forze era tangibile e Troy si accorse che si andava chiedendo se non sarebbe morta al primo soffio di primavera come un vecchio cui, consumate tutte le energie per sopportare la durezza dell'inverno, non ne fossero rimaste per godersi il semplice piacere di vivere. Il sole rivelava una città di superfici scrostate, rigonfie, di finestre senza più vetri e chiuse da assi di legno, di muri crollati e tetti scoperti, di quattro lunghi anni passati ad arrangiarsi per sopravvivere. Una città bruciata e sfregiata, rattoppata e cenciosa nella luce primaverile. All'altezza di Half Moon Street attraversò ed entrò in Green Park. Un gruppo di americani della Military Police, con gli elmetti e le ghette bianche stava sull'attenti. Da qualche parte, nel parco, suonavano The StarSpangled Banner. Mentre si avvicinava alla banda, ancora senza vederla, la sentì intonare Little Brown Jug. I soldati, allora, diedero il via a un seguito di esercitazioni ritmate dall'arrangiamento di Glen Miller, facendo scattare i fucili dalla spalla a terra e passandoseli a ruota sull'altra spalla. Un balletto ispirato all'addestramento militare. Seduto su una panchina, guardava, meravigliato, tanta perfezione, chiedendosi cinicamente a che cosa sarebbe servita su una spiaggia francese di lì a qualche settimana. Con più cinismo ancora aveva scommesso con Onions dieci scellini che il secondo fronte sarebbe stato aperto in Normandia. Onions aveva accettato, fermamente convinto che lo sbarco sarebbe avvenuto al Pas de Calais. Nessuno, nemmeno quei pochi belgi che Troy
conosceva, avrebbero scommesso sulla costa del Belgio. Di Dunkerque ormai si parlava sempre come a sottintendere che «ci sono forme di coraggio...», ma chi, con un po' di buon senso, ci avrebbe riprovato una seconda volta? I soldati si erano disposti in formazione di marcia al suono di Chattanooga Choo Choo. Si era riunita una folla di un centinaio di persone e si levò un applauso mentre gli americani si avviavano cantando in coro, compatti, Pardon me, boy. Tutto intorno a Troy il parco si placò nelle sfumature dei verdi delle foglie, quelle scure del biancospino, quelle più chiare delle querce e dei castagni. C'erano anche, in ritardo sugli altri, con un solo germoglio da mostrare, l'olmo e il frassino... il frassino, sempre l'ultimo a mettere le foglie in maggio e l'ultimo a perderle, riluttante, indugiando a volte fino ai primi di dicembre. Per tutto il parco, i profumi della primavera si mescolavano e gli venivano incontro. Biancospino, di questo era certo. Lillà? Non era troppo presto, troppo ottimistico pensare ai lillà? I rami erano divisi come corsi d'acqua. Sì, erano lillà. Lillà. E insieme, di nuovo, la dolcezza dei lillà cedeva al profumo più acuto del biancospino, mai del tutto lontano, il più delle volte, dalla pipì del gatto. Una coppia passeggiava la mano nella mano. Il profumo di una ragazza che chiacchierava al braccio di un tenente si unì, nel vento leggero, a quello dei fiori e a un tratto Troy seppe dove stava andando. Rientrò in Piccadilly, si fermò sul marciapiede, sentendo che la testa gli girava e i piedi era come se si muovessero nel vuoto. Fermò un taxi. «Tite Street». In Tite Street disse al tassista di proseguire. Passarono davanti all'agente investigativo Gutteridge che, in servizio all'angolo della strada, furtivamente, fumava. A Tedworth Gardens, Troy fermò il taxi e pagò la corsa. Aveva ceduto a un sospetto irrazionale, come capita spesso, e non si era sbagliato. Là, nella vecchia piazza adibita a campi da coltivare, con la schiena china e una zappa in mano, Diana Brack ripuliva il terreno dalle erbacce. Sembrava vestita di stracci, con dei vecchi pantaloni da cavallo, un paio di stivali e un maglione di Shetland a disegni, mangiato dalle tarme. Si era raccolta i capelli con un nastro. Troy entrò attraverso un'apertura nella recinzione e si avvicinò, con le mani in tasca. Poco lontano da lei, l'uomo grande e grosso con la divisa della Squadra di Soccorso stava in ginocchio davanti a una grossa tinozza di ferro e lavava il maiale. Il maiale guardò Troy che fu certo di vederlo
sorridere, ammiccando tra grugniti di piacere, mentre le setole della spazzola lo mandavano in estasi. «Ehi, poliziotto», disse il vecchio. La Brack si voltò a vedere con chi stava parlando. Raddrizzò le spalle e guardò Troy dalla testa ai piedi. «Che cosa ti è successo? Sembra che ti sia passato addosso uno schiacciasassi». «Più o meno». «Aspetta un minuto», disse lei e scomparve dentro uno dei capanni Nissen, al margine del suo campo. Troy guardò l'uomo che seguitava a lavare il maiale con la spazzola, si chiese se il maiale gli avesse davvero sorriso, ammiccando, e promise a se stesso di uccidere Kolankiewicz che gli aveva dato una droga così potente da fargli credere che i maiali sorridessero e ammiccassero. «Ti hanno fatto un occhio nero», osservò il vecchio. Troy si strofinò l'occhio con la mano. «È stato l'altro giorno», rispose, «quando sono passato di qui che era buio. Come lo sa che sono un poliziotto?». «Prova a ragionare, amico. Correvi dietro al maggiore. E io, mesi prima, l'avevo pedinato, perché per me è un tedesco travestito. Ho passato anch'io il tempo a cercare la gente, come fai tu. Per questo vi riconosco subito. Prima della guerra, lavoravo per un investigatore, era un signore, bada bene, uno che lo faceva per passione. Ci starei ancora con lui, ma si è arruolato, fa uno di quei lavori segreti. Quando tornerà avremo ancora tanti delitti da scoprire e tanti delinquenti da mettere in galera». Il vecchio diede uno spintone al maiale che uscì dalla tinozza e si scrollò come un cane, poi passò vicino a Troy, si strusciò contro la sua gamba e, col naso a terra, si allontanò verso l'altro lato del campo. Il vecchio buttò via l'acqua e appese la tinozza sul fianco del capanno Nissen. «Guarda qua», disse invitando Troy a seguirlo lungo il sentierino tra il suo campo e quello della Brack. «Lo sai che cosa sono?». «Cavolfiori», disse Troy. «Broccoli», ribatté il vecchio, orgoglioso delle proprie nozioni, «broccoletti bianchi invernali». «Comunque li chiami, sono sempre cavolfiori». «L'odore è lo stesso, ma sono grandi meno della metà. Li ho piantati l'anno scorso a maggio e il prossimo maggio, diciamo tra una decina di giorni, avrò dei broccoli con un cuore così grosso che allora sì sembreran-
no cavolfiori. Ne farò sette, otto chili. A me il cuore e al maiale le foglie. È giusto o no?». Troy guardò, lì vicino, il campo della Brack, pieno di erbacce. «Non ha il pollice verde, eh?». «Ci prova, amico, ci prova. Il maggiore glielo aveva zappato per l'inverno, ma tutto quel gelo le ha spaccato il terreno. Adesso strappa le erbacce, così quei porri che aveva seminato in febbraio e sono ancora al caldo lì sotto, spunteranno fuori come aghi verdi. Anche l'aglio ha piantato. Ci farà qualche schifoso piatto forestiero, io non sono d'accordo, ma lei non mi dà retta». «Perché ha detto che per lei il maggiore è un tedesco travestito?», chiese Troy. Ma prima che il vecchio potesse rispondere, la Brack uscì dal capanno, vestita di nuovo con la gonna e la giacca nere, i capelli in ordine, infilandosi i guanti. «Si interessa di giardinaggio, signor Troy?». «No, solo quando ero più giovane. Ora abito in Goodwins Court, in una casa senza giardino». «Oh, peccato», proseguì la Brack, a uso del vecchio. Poi si avviò lentamente lungo il sentierino verso il lato nord della piazza, nella stessa direzione che aveva preso il maiale. Il vecchio non parve tener conto della distanza, né fisica né metaforica, che lo separava da Lady Diana, prese una zappa e ricominciò a zappare il proprio campo. «Ho detto che è un tedesco travestito perché fa la corte alla signorina e lei più hanno qualcosa di strano più le piacciono. Non lasciarti trascinare, amico, altrimenti finisci a pezzi». Troy raggiunse la Brack mentre era già all'altro lato della piazza. «Non possiamo andare a casa mia», disse lei, «perché ci hai messo un agente di guardia». Si interruppe. «Però puoi sempre dirgli di andarsene». Si fermò e guardò Troy, aspettando che le rispondesse. «Non posso. Non si deve nemmeno sapere che sono a Londra». «Allora verrò io da te». «Sì». «È questo che vuoi, vero? Che io venga da te». «Sì, credo di sì». «Allora verrò». Ripresero a camminare intorno alla piazza, verso l'angolo di Tite Street. «Che cos'è successo? Che cosa ti hanno fatto alla faccia?».
«Mi hanno aggredito. Due notti fa. È stato un uomo». «Un uomo?». «Quell'uomo. Lui». «No, ti sbagli. Te l'ho detto che se n'è andato». «Come puoi esserne sicura?». «Ne sono sicura perché se fosse qui mi avrebbe cercata e mi avrebbe trovata, anche con quell'agente che mi hai messo alla porta». Arrivati all'angolo si fermarono. Ancora un metro e Gutteridge avrebbe riconosciuto Troy. «Stasera», disse lei. «Sì». «Appena è buio». 61 Era quasi il tramonto. Troy si era trascinato senza scopo per tutto il giorno. Era uscito di casa alle nove, nove e mezzo. Dopo un'ora circa si era incontrato con la Brack e non avrebbe saputo dire con esattezza quello che era successo dopo. Alle quattro del pomeriggio era entrato nella sala da tè russa di Davíes Street, un po' a nord di Berkeley Square. Non l'aveva più frequentata da qualche tempo, almeno da prima di Natale. L'avevano aperta, la primavera dell'anno precedente, due signore russe che servivano il tè con il samovar. Lui non ci andava per il tè che, fatto nel samovar, gli pareva un brodo cotto a fuoco lento, anche se i dolci erano abbastanza buoni, ci andava perché gli piaceva quel sibilante mormorio di voci russe. Gente che discorreva in russo senza obbligarlo a parlare di sé, come gli capitava in famiglia. Poteva ascoltare una conversazione senza parteciparvi, sentire parlare russo senza subire i ricatti morali delle sue sorelle o il disprezzo con il quale Kolankiewicz, nella sua stravaganza, gli si rivolgeva ogni tanto. Sempre più si rendeva conto di quale mescolanza etnica rappresentassero gli Stati Uniti, sentendo i soldati canadesi e americani ordinare il tè e chiacchierare con le cameriere al banco in un russo disinvolto, fluente, anche se con un po' di accento. Forse le sue origini non erano così evidenti se due giovani soldati seduti di fronte a lui discutevano in russo dell'arretratezza degli inglesi, certi di non essere capiti. Trovavano preoccupante la mancanza di frigoriferi e discutibile la qualità della birra. «Sembra una matassa di lana liquida», diceva uno dei due e paragonava alla produzione inglese quella della città di Milwaukee. Troy ascoltava, senza parere, e
imparava, nella lingua della sua infanzia, di essere entrato, crescendo, a far parte della razza meno godereccia esistente sulla terra. Ma lo sapeva. La Toscà glielo aveva detto. Gli aveva detto tante altre cose la Toscà. Quel nome si dibatté nella sua mente semivuota, narcotizzata, senza uno scopo e senza una conclusione. In un felice stato di assenza si sentì libero da qualsiasi desiderio, asessuato, con tutti i sentimenti offuscati. I legami che lo univano a lei, gli sembravano leggeri come bandierine che gli fluttuassero davanti agli occhi, ma non riusciva a fissare la sua immagine, non bastava la magia di un nome a evocare una faccia. Quando tornò a casa trovò, sulla mensola del camino, un biglietto di Ruby. «Capisco quando sono di troppo. Vado a casa a fare un sonnellino. Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi... in fondo alla strada a partire da mezz'ora dopo la chiusura dei negozi. Per piacere, non avvicinarti se vedi che sto concludendo un affare. Non posso trascurare il lavoro solo perché si vede anche da lontano che sei un poliziotto. Con affetto R. Post Scriptum: Klankiwitch sembrava diventato matto quando gli ho detto che eri uscito». Era buio, ormai. Troy si mise a sedere davanti al fuoco spento, con il cappotto addosso e gli occhi fissi sulla porta. E quando non ce la fece più a guardare, aprì il chiavistello, lasciò la porta socchiusa, si tolse il cappotto e le scarpe e, in punta di piedi, salì a distendersi sul letto. Sentì scattare la serratura, un leggero rumore di passi sulle scale, e vide la Brack nella cornice della porta che si lasciava scivolare dalle spalle il mantello nero e ricacciava indietro la ciocca che le cadeva sempre sugli occhi. Lo prese una voglia di lei acuta, violenta. Il torpore scomparve e insieme ripresero a dolergli le fratture, i lividi. Lei si avvicinò alla finestra, nell'ultima luce del giorno, e lentamente si sbottonò la camicetta. Troy si alzò e restò in piedi alle sue spalle. Lei si sollevò la gonna fino ai fianchi, si appoggiò al davanzale e gli si offrì. Lui la prese finché non resse più, cadde e sentì i muscoli del proprio corpo lacerarsi come se volessero liberarsi l'uno dell'altro. Non ne era certo, ma gli parve che lei lo sollevasse da terra e lo mettesse disteso sul letto. China sulle sue labbra, lo baciò, avvolgendolo in quel profumo che gli era familiare. «Come si chiama?». «Che cosa?». «Il tuo profumo».
Seduta sul bordo del letto, lei si tolse quello che ancora le restava indosso. «Je Reviens», rispose, quasi in un bisbiglio. «Molto costoso. Molto parigino. E, dopo la caduta della Francia, molto difficile da trovare. Ormai dev'essere passato di moda. Lo porto da quando ero ragazza». Troy lo sapeva. Si ricordava di quel profumo insieme alla bicicletta, al ginocchio ferito e a quel primo bacio così imbarazzante. Diana lo sollevò, con una mano dietro la nuca e con l'altra gli levò la camicia, perché fosse nudo come lei. Gli si allungò sopra e lo baciò dietro un orecchio. Troy sentì i suoi capezzoli sfiorargli il petto e la fiamma divampò di nuovo. Non sapeva dove il desiderio attingesse le energie. 62 Quando si svegliò c'era la luce del giorno ed era solo. S'infilò i pantaloni e scese le scale. La porta d'ingresso era chiusa. Sulla mensola del camino c'era un biglietto. Diceva solo «A presto» ed era firmato «D». 63 Poco dopo pranzo telefonò Wildeve. «Ti ha chiamato un'americana. Non ha lasciato il nome. C'è qualcosa che posso fare?». «No, no. Altre novità?». «Stupidaggini. Non ho concluso niente. Una volta tanto posso dire, onestamente, che la tua presenza sarebbe inutile. Al Savoy non c'era nessuno, o meglio nessuno che si chiamasse Wayne o Brack. Il portiere ha riconosciuto la fotografia di Wayne che mi avevi dato. Ha detto che era stato in albergo per molto tempo ma che non lo vedeva da martedì scorso, cioè dal giorno che abbiamo arrestato Diana. «E Onions?». «Va e viene. Non ha ancora chiesto di te, così non ho dovuto dire una bugia». Troy non dubitava che prima o poi Onions avrebbe chiesto di lui. E che Jack avrebbe detto una bugia. Quella sera aspettò tranquillamente la Brack, ascoltando un concerto alla radio, sprofondato in una poltrona, con una luce soffusa, sentendo il dolore ai muscoli allontanarsi lentamente e respingendo la nuvola rossa che ogni
tanto gli fluttuava davanti agli occhi. Lei, quella sera, non venne. La sera dopo nemmeno. La mattina del terzo giorno, Troy si sentì meglio e cominciò ad aver voglia di muoversi. A metà pomeriggio non resistette più a star seduto, la radio gli dava fastidio, non riusciva a concentrarsi per leggere, si mise il cappotto e, passando per Seven Dials, andò verso Bloomsbury, senza avere in mente una meta particolare. Attraversò High Holborn, di fronte a Staple Inn, dove Chancery Lane, con poco rispetto per la geometria, sfugge a Gray's Inn Road e arrivò all'incrocio tra Theobald's Road e Clerkenwell Road. Vide avanzare come un galeone terrestre il tram numero 65, diretto a est, verso Mimehouse. Solo quando sferragliando e mandando ogni tanto qualche scintilla, il tram superò la stazione metropolitana di Aldgate East e proseguì per Commercial Road, Troy capì dove aveva deciso di andare. Scese in fondo a Jamaica Street e proseguì a piedi verso Unione Place, salì le scale e bussò alla porta di Bonham. Si sarebbe fatto dare una tazza di tè e sarebbe tornato indietro con un altro tram. Le probabilità che Bonham fosse o no in casa erano pari. Non c'era. Troy si appoggiò con le spalle alla porta. Improvvisamente si sentiva stanco. Era scoppiato uno di quei temporali violenti che vengono in primavera. Con le mani nelle tasche del cappotto, Troy si dispose ad aspettare che finisse, di colpo com'era cominciato. Sentì tra le dita l'anello delle chiavi, in mezzo alla polvere, alle briciole e ai frammenti minuscoli delle macerie dell'ultimo bombardamento, ormai ineliminabili dall'interno della cucitura. Infilata nell'anello, insieme alla chiave di casa sua c'era anche la chiave della casa di Wolinskj. L'appartamento odorava di chiuso e di polvere, l'odore delle case vuote. Troy si fermò nella prima stanza, buia, greve del peso della carta stampata. Passò quasi in punta di piedi davanti alle file di libri ed entrò nell'altra stanza. Si mise a sedere su una sedia che era ancora lì in mezzo, dove l'aveva lasciata lui l'ultima volta che era andato a frugare nella scrivania di Wolinskj. Gli facevano male le gambe. Cominciava a chiedersi se Kolankiewicz non avesse avuto ragione a raccomandargli con tanta insistenza di non muoversi. Ancora una volta scacciò la nuvola rossa dal proprio orizzonte. La pioggia scorreva lungo i vetri della finestra, il pomeriggio si andava ingrigendo in una sera prematura, non c'era quasi più luce. Per molto tempo restò seduto a guardare, nella penombra, le fotografie appese al muro, quella mitteleuropa che gli ricordava i vecchi album che sua madre conservava, ricordo degli anni passati a Vienna dalla famiglia Troy, le bambine neonate, Rod ancora malfermo sulle gambe, anni in cui lui non
c'era e nessuno pensava che ci sarebbe stato. Quando era piccolo, sua madre, per prenderlo in giro, lo chiamava il suo inglesino. Troy guardava quelle facce oneste, che esprimevano puri ideali, ora perdute in un caos che la loro onesta, idealistica società lottava per tenere a bada. Pâtisserie democratica. Un dito sporco di crema al cioccolato come diga di sbarramento all'Europa in piena. C'era solo uno spazio in quel muro di facce, dov'era stata appesa la fotografia di Nikolaj con Brand e Von Ranke. Gli occhi di Troy scesero dal riquadro vuoto fino a terra. Vicino allo zoccolo di legno brillava un piccolo oggetto bianco. Troy lo raccolse e si rimise subito a sedere perché, chinandosi, gli era girata la testa. Era un orecchino con una sola perla montata su un fermaglio d'argento a molla, come portano le donne che non hanno il buco all'orecchio. Lo guardò, tenendolo sul palmo della mano. L'ultima volta non l'aveva visto. Ma davvero non c'era? Si era guardato attorno con tanta cura e, per piccolo che fosse, non poteva non averlo visto. Se lo tenne chiuso in mano e alzò gli occhi a guardare i rivoli di pioggia sui vetri sporchi. La nuvola rossa ritornò, diventò viola, da viola nera e Troy non vide più che quelle file di facce mitteleuropee che gli erano rimaste impresse sulla retina. Restò seduto lì in silenzio, senza sapere per quanto. Poi la porta si aprì e sentì dei passi nell'altra stanza. I passi vennero verso di lui e qualcuno lo chiamò per nome. «Chi è?», disse a sua volta. «Non mi riconosci? Sono io, Edelmann». «Che ore sono?». «Le otto, credo. Da quanto tempo te ne stai qui al buio?». Troy capì che aveva passato un secolo in quella strana immobilità, in quella oscurità terrificante. «Da cinque ore circa. Non ho il coraggio di muovermi». «Non hai il coraggio di muoverti?». Sentì la mano di Edelmann sulla sua spalla. «Perché? Che cosa ti succede?». Edelmann lo guidò per le scale, a casa di Bonham. Troy stava aggrappato alla balaustra, perché non riusciva a indovinare lo spessore e il numero dei gradini, la curva, il pianerottolo. Sentì Edelmann bussare alla porta e Bonham rispondere «Calma, sto arrivando», poi venne sospinto in casa da una confusione di mani e di domande. «Non ci vede», disse Edelmann, «l'ho trovato al piano di sopra, seduto su una sedia. Cieco come un pipistrello!».
64 Edelmann mise nelle mani di Troy una tazza di un rimedio universale, ma l'odore quasi rancido del tè col latte per poco non lo fece vomitare. «Sei proprio scemo, eh?», brontolava del tutto a vuoto Bonham. «Ma già, con te è inutile parlare». Qualcuno bussò alla porta e interruppe quel monologo da vicemadre. Bonham, prima, era corso alla cabina del telefono con una manciata di monetine per chiamare un medico, che era arrivato con una eccezionale rapidità. Troy lo sentì entrare e fare a Edelmann e Bonham una quantità di domande come se lui fosse non solo cieco ma sordo. Seguitò a bere quel pessimo tè fino a quando non sentì, insieme a una zaffata di tabacco da pipa, le mani del medico posarglisi sugli zigomi per sollevargli il viso. Il raggio filiforme di una piccola torcia elettrica si aprì un esile varco nell'oscurità che aveva intorno. «Vede un po' di luce?». «Sì, un punto. Una capocchia di spillo». «Lei è ridotto male, sergente Troy. Mi hanno detto che si è trovato vicino allo scoppio di una bomba». «Sì, ho preso un colpo alla testa». «Ha avuto una commozione cerebrale?». «Sono rimasto senza conoscenza per due giorni». «Che cosa dice? E l'hanno dimessa?». Bonham dovette intervenire. «Si è dimesso da solo. È fatto così». Il raggio di luce passò all'altro occhio. Una fiammella in fondo a un lungo tunnel. Poi le mani gli tastarono la scatola cranica, le ammaccature, le cicatrici, i punti che gli aveva dato Kolankiewicz. «Questi sono recenti. Questione di giorni. La bomba non c'entra». «No, infatti. Sono stato aggredito venerdì scorso. Mi hanno preso a calci», disse Troy, quasi scusandosi. Sentì che il medico sospirava, poco propenso a credergli. «Lei dovrebbe assicurarsi contro la vocazione a farsi del male, sergente. Se va avanti così si uccide. Le consiglierei l'ospedale, ma non credo che mi darebbe ascolto. Se sarà fortunato perderà la vista. Se sarà ancora più fortunato la perderà solo temporaneamente. Se manterrà un riposo assoluto può anche darsi che guarisca del tutto. Le benderò gli occhi. Per qualche
giorno sarà costretto a non usarli, ma se non ascolterà il mio consiglio non li userà mai più. Mi ha capito? Ora, prima di tutto, devo toglierle i punti». Troy provò un dolore acuto mentre il medico gli toglieva i punti, poi sentì le sue mani abili e delicate fasciargli la testa. Qui ci vorrebbero aceto e carta da pacco, pensò, il rimedio ideale. «Ora», disse il medico, «sia gentile, mi dia il nome del suo superiore». «Eh?». «Il nome del suo ispettore, del suo capo». Troy sospettò il peggio. Tutti i suoi progetti stavano andando in fumo. «Ma lei chi è?», chiese. «Chi sono? Sono il medico della polizia». Bonham riaccompagnò Troy con un taxi in St Martin Lane. «Non ci ho pensato. Era lì. Non credevo di sbagliare». «Non importa, George, non potevi saperlo». «Avevi bisogno di qualcuno che ti curasse subito. Lui stava dall'altra parte della strada, in Leman Street. Mi è parso naturale chiamare uno dei nostri». Bonham ci pensò un momento. «Forse», disse, «non farà un rapporto a Scotland Yard». «George, ti prego!». Non fu facile convincere Bonham a non restare a tenergli compagnia. Troy gli assicurò che, una volta a casa, sarebbe stato benissimo. Che male può succedere a chi sta in casa propria e la conosce palmo a palmo? Così Bonham se ne andò e Troy inciampò dappertutto in salotto e in cucina e quasi si ustionò per fare il tè. Al quinto tentativo riuscì ad accendere la stufa a gas e a tastoni trovò il divano. Più tardi si sarebbe imposto lo sforzo di trovare anche la radio. Per il momento era esausto e, chiedendosi come sarebbe riuscito a sopportare quella tortura, cercò di stare tranquillo nel suo buio. 65 Nel suo buio entrò... Il poliziotto. «Freddie, sono io, Jack. Stai bene? Ho provato tante volte a telefonarti, ma non c'eri mai». «Non riuscivo a trovare il telefono. Ho battuto gli stinchi contro il pianoforte e stavo per cadere lungo disteso a terra». «Sì, certo. Scusami se non ci ho pensato, Freddie».
Troy lo sentì trarre un lungo sospiro di preparazione a un discorso imbarazzato e confuso. «Quando sono entrato nel tuo ufficio, stamattina, c'era Onions. Sai come fa lui. Sta lì, appollaiato vicino alla stufa a fumare il suo Woodbine. Ha chiesto un resoconto dettagliato dal giorno in cui è stato ammazzato Miller. Non avevo molta scelta, credo. Il medico aveva mandato il rapporto su di te...». «Hai fatto bene, Jack. Non preoccuparti». «Non si è arrabbiato, no, niente del genere. Sarebbe stato meglio. Quei silenzi tra una domanda e l'altra sono logoranti. Ho avuto l'impressione che appena potrà verrà da te. Oh, dimenticavo che ha telefonato tua sorella. Una delle due, non specificano mai. Le ho detto che eri a Norfolk. Norfolk sta diventando la tua Bunbury, eh?». Troy avrebbe avuto bisogno di una Bunbury. Era sempre mancata nella sua vita una buona Bunbury cui nessuno avesse niente da obiettare. Troy aspettò. Sentì la suola ferrata degli stivali di Onions avvicinarsi alla porta, il lento cigolio dei cardini. «È una cattiva idea non chiudere a chiave». Troy sedeva in direzione della voce di Onions. «Serve a risparmiare una quantità di fastidi. È incredibile, ma si conosce poco la propria casa». «Si aspettava qualcosa di diverso?». Troy avvertì un fruscio e capì che Onions si stava levando il cappotto. «Vorrei una tazza di tè. Stia lì, lo faccio io». Onions si mosse rumorosamente qua e là per la cucina. Troy sentì il botto del fornello a gas, l'acciottolio delle tazze, il passo pesante di Onions che tornava in salotto, lo scricchiolio del divano sotto il suo peso, lo stridio del fiammifero mentre si accendeva un Woodbine, il primo sbuffo di fumo, l'effluvio del tabacco. «Ho fatto una chiacchierata con quel suo aiutante. È un ragazzo intelligente. Almeno quel tanto da capire quando bisogna smettere di dire bugie». «Se avessi parlato, lei mi avrebbe sospeso dall'incarico. Non avrei potuto occuparmi più di questo caso». «Beh, sì. Per quattro o cinque giorni. Ora non può occuparsene a tempo indeterminato». «Finché non mi guariscono gli occhi». «Appunto. Non si sa quando». Troy non disse niente.
«Il medico di Stepney non ha fissato una data e io non gli ho chiesto per quanto tempo dovrò fare a meno di lei. Il guaio è che avrei bisogno di lei adesso». Troy avrebbe voluto dire che gli dispiaceva, ma capì che Onions era già partito in un'altra direzione. Non era andato da lui né per esprimergli solidarietà né per ricevere scuse. «Lei è per me un collaboratore prezioso», proseguì Onions. «Non conosco nessuno che abbia un intuito pari al suo». «Stavolta l'intuito mi è servito a poco». «No, non finga di non capire. Lei aveva una prova minima e con quella è andato avanti, avanti e avanti. Non è stato facile, ma ha identificato la vittima e ha identificato l'assassino. Non minimizziamo questi risultati». «Siamo vicini alla soluzione». Ci fu una lunga pausa. Onions trasse una lunga boccata dal suo Woodbine. «No. Non è vero. Non è questo che intendevo. Mi dica la verità, Freddie. Ha fatto qualche progresso da quella mattina al MI5? Ha ottenuto qualcosa di più che una prova indiziaria? Ha scoperto una traccia di Wayne dalla morte di Miller?» Troy non rispose. «Non ho mai avuto un agente investigativo con un intuito pari al suo», riprese Onions. «E ora che ho bisogno di lei, al suo posto ho Gutteridge e Thomson». S'interruppe. Troy non aveva mancato di avvertire con quanto disprezzo aveva nominato Gutteridge e Thomson. «Ho due delitti per le mani. Uno è di ieri sera e un altro di stamattina. Avrei bisogno di lei, subito». Troy vinse un'altra volta la tentazione di chiedergli scusa. «E invece ho Gutteridge e Thomson». «Li ha tolti alla mia indagine?». «Non avevo scelta. Anche se sono peggio che inutili. Se tutti e due sono ancora in servizio è che non riesco a trovare nessun altro. In guerra non li hanno voluti perché sono troppo vecchi. Questa è la mia situazione: dispongo di due impiastri che anche l'esercito ha rifiutato. Sono vecchi e lenti. Non che non lo sapessi. È per questo che avevo fatto in modo che lei non fosse arruolato». «Ma che cosa mi sta dicendo?». «L'avevano richiesta nel 1940. Li ho fermati».
«Lei ha fermato la mia chiamata sotto le armi? E non mi ha detto niente?». «Voleva andarci?». «La questione è un'altra». «Non è vero. Lei non ha mai nascosto la sua avversione per l'esercito. Io ho cercato di tenerla con me perché ne avevo bisogno. Come lei si tiene quel ragazzo, Wildeve. Se non ci si fosse messo di mezzo lei l'avrebbero chiamato da mesi. Dunque, io ho bisogno di tutti e due voi e invece, al suo posto, caro Troy, ho Gutteridge e Thomson». «Non fa che ripeterlo». Si sentì il fischio del bollitore. Onions si alzò. Troy restò seduto in silenzio finché non sentì che Onions lo toccava su un braccio, gli diceva «Stia attento a non rovesciarlo», gli metteva i suoi tre cucchiaini di zucchero nel tè e lo mescolava. Il tè di Onions era pessimo, troppo carico, con poco latte, buono solo per tingere una pelle di daino. «Non faccio che ripeterlo perché è il mio incubo. Sono in difficoltà. Una ragazza, un'adolescente in Golders Green (che cosa ci si può aspettare?), ha messo il veleno per i topi nella teiera e si è sbarazzata di tutta la famiglia. O così pare, per il momento». «In che senso?». «Nel senso che questa è la prima impressione. Non si può certo chiederle "Sei stata tu?". E poi abbiamo un altro guaio, di quelli adatti al sergente Troy, due marinai hanno litigato per una prostituta, poi uno dei due è stato ritrovato a faccia in giù nella Serpentine e l'altro giura che non ne sa niente. Ha capito quello che voglio dire? Lei, due indagini così le risolverebbe in due o tre giorni. Ma non c'è». «E al mio posto ci sono Gutteridge e Thomson», lo prevenne Troy. «E non è tutto», insisté Onions, «la verità è che io avrei bisogno anche del ragazzo». Troy sapeva che doveva mostrarsi calmo. L'unica forma di rispetto che Onions chiedeva per il suo grado era la calma. Gli si potevano porre domande offensive, ci si poteva rifiutare di obbedire ai suoi ordini, ma sempre con calma. «Temo che così perderemo Wayne», disse. «L'abbiamo già perso». «Se lei toghe Wildeve dall'indagine, farò fatica poi a riavviarla». «Io ho già tolto Wildeve dall'indagine un'ora fa e gli ho affidato le altre due. Non ho potuto evitarlo. Aiuterà Tom Henrey che ha già da fare fin sopra i capelli».
Henrey era un ispettore della squadra investigativa, ma per una leggera differenza di grado e una rilevante differenza nella capacità di immaginazione era pari a Troy nel gruppo che dipendeva da Onions. Uno scrupoloso, onesto sgobbone che non aveva mai creato fastidi. Ma, a quel punto, la domanda era inevitabile. «E io?». «Vedremo. Cieco, lei mi serve a poco, e se non fosse cieco, ora le affiderei le ultime due indagini. Se, quando riprenderà il lavoro, il delitto Stepney non sarà ancora archiviato, vedremo. Può darsi che Tom riesca a sbrigarsela in fretta con Golders Green e Hyde Park e può darsi di no. Non mi fraintenda, Freddie. Non le voglio ricordare, per il momento, che ha cercato di chiudermi gli occhi ed è stato scoperto, lei ha fatto un ottimo lavoro, ma è sempre importante sapere quando bisogna fermarsi». «Sembra ieri quando mi diceva...». «Lo so quello che dicevo. Non mi rinfacci le mie parole. Gliel'ho spiegato: vedremo». Aveva parlato da bravo papà. La tattica del rinviare le decisioni. Non c'era altro modo per definirla. Vedremo. L'opposto del solito «se vuoi», che usava il padre di Troy. «Vedremo», ripeté ironicamente Troy. «Se ci vedrò. Non mi sono ridotto così con le mie mani». «Ci troviamo di fronte a un altro caso irrisolto». «No, lei sa benissimo chi è stato!». «Non mi dica che è stato Wayne. Non è possibile. Nessuno l'ha visto dopo l'assassinio di Miller. Al Savoy non c'era. Secondo Wildeve non c'era più andato dal giorno in cui lei aveva arrestato Diana Brack. È improbabile che sbuchi fuori da qualsiasi nascondiglio gli americani gli abbiano procurato, solo per il piacere di cavare il sangue a lei, Troy». Troy non interruppe la pausa che seguì a quelle parole, temendo di sentirsi chiedere perché nel suo rapporto su quanto aveva saputo dalla Brack non aveva parlato del Savoy. Onions si mise a picchiettare col cucchiaino contro la tazza e quel rumore insistito suggerì a Troy che il colloquio era concluso. Onions gli aveva detto quello che intendeva dirgli e non era disposto a concedergli la possibilità di ribattere. Sentì cigolare le molle del divano mentre si alzava in piedi, il fruscio della stoffa ruvida del suo cappotto mentre se lo infilava. «È meglio che me ne vada. Ha un medico che si occupi di lei?». «Sì. Kolankiewicz mi toglierà le bende tra cinque o sei giorni».
«Contento lei. Io mi rivolgerei a uno scanna maiali piuttosto che a quel pazzo di Kolankiewicz. Non devo chiudere a chiave, vero?». Onions se ne andò lasciando sbattere la porta, come quando era entrato. Nell'aria rimase l'odore dei suoi Woodbine. Nel suo buio entrò... La Puttana. Andava tutte le sere, tra le sette e le otto. Chiacchierava allegramente e preparava una cena per due. Troy la ricambiava nel modo che lei preferiva, con dei sì, degli uh e degli oh e altre esclamazioni soddisfatte senza spingersi agli eccessi del tradizionale «non avevo mai assaggiato niente di così buono». Lei non gli parlava mai dei suoi occhi malati, neanche con un'allusione, bastava la sua presenza lì, nel ruolo che aveva scelto. Poi se ne andava, dicendo che quando il dovere chiama, bisogna rispondere e qualche volta aggiungeva una battutina spiritosa sul proprio contributo allo sforzo bellico. Nel suo buio entrò... Un Medico. O quasi. «Troy?». Troy si risvegliò da un attimo di sonnolenza. Dalla radio veniva un sottofondo musicale. La voce disse: «Troy, sono io». Ma Troy non capiva. «Sono Anna Pakenham». «Eh?». «Mi ha mandato Kolankiewicz. Ha detto che è ora di toglierle le bende». Troy cercò di alzarsi in piedi, ma lei con la mano lo risospinse a sedere. «Non ci pensi nemmeno. Stia lì e mi lasci fare». «Dov'è Kolankiewicz?». «Sega ossa. Letteralmente. L'ultima volta che l'ho visto era impegnato a staccare la calotta cranica a un disgraziato. Le porto i suoi saluti fraterni con un migliaio di raccomandazioni». Troy sentì il suono metallico delle forbici mentre gli tagliava le bende. «Non ho più fatto questo lavoro da quando studiavo medicina all'università, perciò non si muova o le porto via un orecchio». «Non sapevo che fosse un medico». «Infatti non lo sono. Ero all'ultimo anno nel 1940. Il mio ragazzo era arruolato negli Hurricanes. Pensava che presto tutto sarebbe finito per noi, e così perché non sposarsi e, senza fare più calcoli, lasciarsi trascinare dagli avvenimenti? Io gli ho creduto. Il risultato è stato che ho passato i primi
sei mesi del 1941 credendo di essere rimasta vedova. I tedeschi sono capaci di farti aspettare un secolo prima di dirti che hanno qualcuno in un campo per prigionieri di guerra. Io non riuscivo più a pensare ad altro, così ho chiesto un'aspettativa fino alla fine della guerra. Adesso... non posso più tornare indietro. Lavoro per quella belva polacca. E Angus l'hanno sbattuto a Colditz». Mentre parlava si era spostata dietro le sue spalle e gli aveva liberato la testa dalla fasciatura. Troy pensò che non vedeva quasi mai Anna ed era strano che proprio lei dovesse apparirgli per prima davanti agli occhi. Ma tolta la benda, gridò: «Non ci vedo! Sono ancora cieco!». Lei lo prese per il mento e gli parlò, standogli vicina. «Non mi vede? Non vede neanche una sagoma, una luce, niente?». «Non vedo un accidenti». «Bisogna aver pazienza, Troy. Una gran pazienza». Nel suo buio entrò... L'Amante. Troy era stato un discreto pianista da bambino, poi, da ragazzo, aveva trascurato la musica e ora suonava meglio che poteva ogni tanto, al massimo ogni due settimane, per dovere o per noia. Nel pomeriggio del settimo giorno di cecità dimenticò il dolore agli stinchi, depose i vecchi rancori nei confronti del pianoforte verticale che sua madre gli aveva dato come un elemento atto a rendere più caldo l'ambiente domestico e decise di sperimentare quanti Préludes di Debussy riusciva a suonare a memoria. Lo animava non tanto il ricordo delle esecuzioni di Debussy cui aveva assistito prima della guerra (sua madre lo aveva portato ad ascoltare Walter Gieseking a Hannover) quanto i recenti concerti del pianista cieco George Shearing nei club londinesi. E con lo spirito di chi dice «cercherò di fare del mio meglio» andò a tentoni alla tastiera e cominciò a storpiare la Danseuse de Delphes. Accennò il quinto preludio e arrivato al decimo eseguì, senza sbagliare una nota, la Cathédrale engloutie. Smise di suonare alle sette e mezzo per lasciare chiacchierare un po' Ruby; mangiò, con gratitudine, la cena che gli aveva preparato, sentendosi meglio di quanto non fosse stato da giorni e l'accontentò suonando qualcosa che conosceva anche lei. «Sai, qualcosa che si possa canticchiare». Strimpellò The Lambeth Walk, Any Old Iron, facendola soffocare dal ridere e, preso dall'ispirazione, passò a Someone to Watch Over Me, di Gershwin. Aveva colpito nel segno. La sentì più volte tirar su col naso e, quando il brano finì, lei lo definì «appassionato» e disse che purtroppo doveva scappare via. Soddisfatto
dei propri sforzi, Troy riprese il motivo e stava ancora suonando quando la porta si aprì. Pensò che fosse Ruby che aveva trovato un pretesto per tornare, ma la brezza della sera gli portò, da fuori, il profumo di Je Reviens e seppe così che era la Brack. Lei gli passò le dita sull'orecchio e poi le fece scendere lungo lo zigomo. Gli aprì le labbra con il mignolo e gli fece danzare la lingua su un orecchio. Troy stava fermo, con le mani sui tasti, paralizzato, percosso da un'ondata di piacere. Si voltò sullo sgabello per affondare la testa nei suoi vestiti, per immergersi nel suo profumo. «Ehi, non smettere di suonare. Sai che vado pazza per Gershwin?». Troy emise un grido, si alzò di scatto dallo sgabello, inciampò, sbatté la testa contro il muro e cadde a terra. Il profumo di Je Reviens gli venne più vicino. «Che ti succede? Ti ho fatto spaventare?». Lei lo prese per mano, ma non aveva la forza di sollevarlo. «Su, da bravo. Vieni dalla mamma». Troy si alzò, ancora stravolto. La Toscà lo abbracciò, lo baciò sulle labbra, confondendolo sempre di più. «Hai cambiato profumo», disse, infine, Troy. «E pensare che credevo che non te ne saresti mai accorto. Abbiamo richiamato uno dei nostri da Parigi. I tedeschi gli stavano alle costole. Me l'ha portato in regalo. Dice che qui, di questi tempi non si potrebbe averlo né per amore né per danaro». «Ha ragione», disse Troy, ancora senza fiato. «Senti, ora te ne devi andare». «Me ne devo andare? Ma se sono appena arrivata! Non ti sei fatto vedere per più di due settimane. Cominciavo a pensare che ti fosse capitato qualcosa di brutto. E non è facile trovarti. Perché non mi hai mai detto dove abitavi? Se avessi saputo che eri così vicino...». «No! No!», disse Troy, quasi mettendosi a gridare, «te ne devi andare adesso! Non puoi stare qui, è... è... pericoloso!». «Pericoloso? Pericoloso per chi? Ah, ho capito. Parli di Scotland Yard?». Troy si attaccò a quel pretesto. «Sì. Il mio capo. Passa di qua tutte le sere». «Vuoi dire che potrei crearti dei fastidi se mi trovassero qui? Non potrei essere tua cugina Katie che vive a Kalamazoo?». «No. Ti prego. Devi andartene prima che...».
Troy sentì qualcosa che gli si muoveva davanti agli occhi. Era lei, che agitava una mano. «Dio mio, ma tu non ci vedi!». Non le rispose. Lei gli abbassò la testa tenendogliela stretta tra le mani, per guardarlo negli occhi. «Ma allora avevo ragione quando pensavo che ti fosse successo qualcosa di male!». «Passerà. Davvero. Mi hanno tolto le bende ieri. Tornerò a vederci come prima. Ci vuole solo un po' di tempo». Se avesse saputo con certezza dov'era la porta, l'avrebbe avviata da quella parte. «Ti prego», disse, sperando con tutto il cuore che non gli chiedesse spiegazioni e, soprattutto, che non volesse sapere che cosa gli era successo agli occhi. Lei lo baciò un'altra volta. «Va bene, va bene... però appena riacquisti la vista, vieni a trovarmi». Lo baciò ancora. Troy la sentì trarre un sospiro che preludeva a un congedo e capì che aveva creduto alla bugia che lei stessa gli aveva messo sulle labbra. La porta cigolò nell'aprirsi. Sulla soglia, la Toscà si fermò. «Troy, mi ami ancora, vero? È stato per gli occhi che non sei venuto da me? Non c'è qualcosa d'altro che non so?». «No», disse Troy. «Nient'altro». Gli parve, in quel momento, che la sua vita fosse avvolta in una ragnatela di bugie tutta intessuta da lui. Capiva perché aveva avuto tanta paura quando si era accorto che era la Toscà ad avere il profumo di Je Reviens. Lo aveva spaventato il pensiero che la Brack potesse arrivare mentre lei era ancora lì, ma non era tutto, quella paura aveva radici più profonde, che risalivano alla sua infanzia... dopotutto non aveva più visto la Brack da prima di prendere quel tram che lo aveva portato a Stepney. Non era passata un'ora che dalla porta venne ancora quel lento cigolio. Un'altra ondata di Je Reviens. Il cuore di Troy batté più in fretta. Gli mancò il respiro. La serratura scattò. «Cominciavo a temere il peggio», disse la Brack. 66 Gli scivolò di dosso. Lui stava abbandonato, svuotato. Lo baciò leggermente sulle palpebre, come a concludere un rito, poi si distese sulla schie-
na per dormire posando la testa sul suo braccio ripiegato. Troy la sentì respirare con il ritmo che dà il sonno e dopo pochi minuti si addormentò a sua volta. Quando si svegliò era giorno. Lei era ancora lì. Per la prima volta. La vista gli era ritornata. Aveva dovuto lottare per qualche secondo contro le immagini che si sovrapponevano doppie e triple, prima di rendersi conto che ci vedeva ancora. Scoprì che, concentrandosi molto, riusciva in breve e quasi perfettamente a mettere a fuoco un oggetto. Provò a fissare la finestra, ne vide quattro, tre, poi una, allora lasciò che gli occhi si riposassero e l'immagine si dissolse. Cercò di mettere a fuoco la Brack, così vicina, e a poco a poco gli apparve una ciocca di capelli che le sfiorava un orecchio. Le toccò quell'orecchio. Lei mormorò qualche parola indistinta, nel sonno, ma non si mosse. Troy le fece scorrere di nuovo le dita sull'orecchio e, con uno sforzo, provò a guardarlo meglio. Vide un orecchino ad anello infilato nel lobo. Aveva ancora nel taschino del cappotto, dove l'aveva messo qualche giorno prima, l'orecchino di perle con il fermaglio d'argento a molla. Chiunque l'avesse perso in casa di Wolinskj, non poteva essere stata la Brack. Aveva quasi sperato di sì, perché sarebbe stato più semplice, ma la semplicità non è tutto. Lei preparò la colazione per due. Si era fatta dare la sua vecchia vestaglia di seta e si affaccendava in cucina al borbottio baritonale della radio. Due chiacchiere avrebbero allentato l'imbarazzo di quella scena domestica, ma la Brack non era tipo da chiacchiere. Gli mise davanti un uovo alla coque in equilibrio precario su un portauovo a forma di pulcino. Troy la vedeva a frammenti, simili a schegge di vetri colorati in un caleidoscopio. Riuscì a fissare quelle immagini in movimento e lei si chinò ad aprirgli con un taglio netto la parte superiore dell'uovo. Quando tornò a sedersi la vide nitidamente e si accorse che sorrideva, con la sua bella bocca grande dai denti bianchi e regolari, scostandosi dietro l'orecchio la ciocca di capelli che le andava sempre fuori posto. Dalla sera in cui si erano incontrati al Tippet, non l'aveva più vista sorridere se non nella vulnerabilità del sonno. Ora per la prima volta riusciva a trovarle una somiglianza, gli ricordava l'attrice Judy Campbell, che aveva visto spesso nelle commedie di Noël Coward e che, a sua volta, sembrava una Greta Garbo disegnata da Modigliani. «Che cosa guardi?». «Niente in particolare. Guardavo per il piacere di poterlo fare».
Aveva lasciato il proprio uovo intatto davanti a sé e la osservava mangiare, colpito dalla grazia dei suoi gesti. Intingeva il cucchiaino nell'uovo, nient'altro, ma a lui, al suo sguardo ancora incerto, sembrava che ripetesse un cerimoniale giapponese. Minuzioso, elegante e incomprensibile. «Mangia l'uovo», gli disse lei. Lui consumò la sua colazione chiedendosi che cosa lo attirava tanto in lei, senza riuscire a trovare le parole per spiegarselo. Per quel viso si poteva uccidere o morire, questo aveva pensato appena l'aveva vista in Tite Street. Ma era passato un secolo, non sapeva più che cosa poteva significare quel pensiero. «Ti sei guardato in uno specchio, stamattina?», gli chiese lei, guardandolo finire di far colazione. «Hai la barba di una settimana». Troy si passò una mano sulle guance. Non aveva nemmeno provato a farsi la barba, senza pensare a come poteva apparire agli altri. «Domani», rispose, «non sono ancora pronto». La Brack andò in bagno e tornò con un rasoio, la cinghia per affilarlo e un pennello di tasso. Fece una schiuma di sapone nel lavabo e mise davanti a Troy un catino d'acqua calda. Poi, prima di annunciare una decisione ormai ovvia, gli legò intorno al collo un asciugamano. «Ti faccio la barba». «Hai già provato qualche altra volta?». «Sì». Gli insaponò la faccia. Troy chiuse gli occhi e cercò di cogliere l'ultima sfumatura di cannella bruciata che fosse ancora rimasta su di lei. Si sentì sulla gola la lama che strideva delicatamente, gli scivolava sulle guance, gli passava, obliqua, sopra il labbro superiore. La Brack non diceva una parola. Troy aveva la percezione acuta del suo respiro, calmo, profondo, rassicurante, seducente nella sua regolarità. Lei gli asciugò la faccia. Si soffermò con le dita per un attimo sulla guancia sinistra, due o tre centimetri sotto l'occhio, passò il polpastrello del pollice con insistenza sempre nello stesso punto. L'acciaio della lama tornò a toccargli la faccia, fermo, immobile, poi con uno scatto rapido gli penetrò nella guancia. Troy aprì gli occhi, sentì scorrere un rivolo di sangue, vide la Brack chinarsi a baciargli la ferita. Lei si rialzò. Si leccò le labbra. Sul labbro inferiore le rimase un po' di sangue. Sorrideva, ma Troy sapeva che l'aveva fatto apposta. 67
Tre giorni dopo, gli occhi funzionavano normalmente, il taglio sulla guancia era una crosticina ondulata e sottile, la nuvola rossa un ricordo fastidioso e Troy si rimise al lavoro. Era mattina presto, Wildeve non era ancora arrivato. La sua scrivania era sgombra, con le solite carte ben ordinate in un mucchio. La scrivania di Troy era ancora più sgombra, c'era solo il tampone della carta asciugante e il calendario da tavolo, fermo come un orologio all'ultimo giorno in cui aveva visto la Brack. Le pagine non erano state voltate per settimane. Le strappò con un solo gesto e mentre le guardava sentì battere al montante della porta aperta. «Finalmente! Cominciavo a dubitare della sua esistenza». Onions stava appoggiato allo stipite e sorrideva, per quanto fosse possibile a Onions sorridere. «Non ho mai avuto bisogno di lei come oggi». «C'è qualche difficoltà?», chiese Troy, pieno di speranza e di voglia di intervenire. «Conosce il Black Swan, a East India Dock Road?». Troy scosse la testa. «Hanno trovato un uomo morto nella sua camera. C'era sangue dappertutto. La porta era chiusa dall'interno. Una storia alla Sherlock Holmes. Ci vada subito, altrimenti troveremo una quantità di impronte. Siamo stati avvertiti alle sette e quarantaquattro. Il poliziotto di zona dice che l'hanno scoperto alle sei e mezzo. Troverà già lì il medico della polizia». Troy avrebbe voluto chiedere dov'era Wildeve, quando poteva rimettersi a lavorare con lui e se Tom Henrey aveva concluso le indagini. Solo l'ultima domanda gli pareva possibile, ma Onions lo prevenne. «Porti con sé Wildeve, o gli lasci un'indicazione. È Libero, almeno per il momento». Troy guardò ancora quella montagna di carte sulla scrivania. «Tom ha risolto il Golders Green e l'Hyde Park?». «Non esattamente. Ci è riuscito il ragazzo, Tom gli è riconoscente, ma si sente un po' a disagio. Lei capisce, no?». Troy capiva perfettamente. La batteria della Bullnose Morris era scarica. Troy aspettò in garage che ripartisse e il motore aveva appena ripreso a scoppiettare quando arrivò di corsa Wildeve e gli sedette accanto. «Scusa. Mi sono svegliato tardi». «Il sonno del giusto, eh?», disse Troy, avviando l'automobile verso
l'Embankment. «Hai saputo? Non riesco a vincere la sensazione di essere uscito dal seminato». «Perché? Risolvere un delitto è il tuo lavoro. Non devi giustificarti. È un problema di Tom, non tuo. Quando diventerai più bravo di me, allora sì dovrai preoccuparti». «Stai scherzando, Freddie?». 68 Troy riconobbe subito la voce del medico della polizia che, in un altro mondo, in un'altra vita, gli aveva bendato gli occhi e tolto i punti. «Spero che lei si sia rimesso, sergente». «Mi sento bene». «Infatti la vedo molto meglio dell'ultima volta». Troy scostò il lenzuolo sporco che copriva il cadavere. Un giovane che poteva avere intorno ai vent'anni giaceva in una pozza di sangue appiccicoso e in parte disseccato. Era a faccia in giù, con le mani schiacciate sotto il corpo e i gomiti che sporgevano ai lati. Scalzo, la camicia senza il colletto e con le maniche rimboccate... ne aveva visti tanti così, avrebbe potuto essere un lavoro sgradevole ma di tutto riposo e invece c'era qualcosa che gli dava da pensare. Si guardò attorno per la stanza. Sentiva sgocciolare il rubinetto di un lavabo e vide che era sul lato opposto alla porta. Poi fece segno al medico di procedere. Seduto accanto alla porta l'osservò voltare il cadavere, già rigido. Nella stanza erano percepibili rumori a vari livelli, l'acqua, più una sensazione che uno stillicidio: gli scricchiolii infiniti di un piccolo albergo di legno che per secoli era stato lì, a farsi scuotere dal vento; i bisbigli, carichi di suggestione, che venivano dalle scale. Il tonfo che a Troy parve di sentir risuonare dentro di sé, dal profondo. «Non è morto da molto. Lei che ne pensa, sergente?». «È possibile stabilire un'ora?». «Direi tra la mezzanotte e le quattro del mattino». Troy guardo l'orologio. Erano le otto e mezzo. Wildeve si affacciò alla porta. Alle sue spalle s'intravedeva una piccola folla, dieci o dodici persone morbosamente curiose di vedere il morto. Troy disse a Wildeve di fare scendere tutti a pianterreno e cominciare a
interrogarli, impedendo comunque, in qualsiasi modo, che disturbassero il lavoro del medico. Guardò il cadavere, rovesciato sulla schiena come un grosso insetto, gambe e braccia raggelate nella posizione in cui erano state colte dalla morte. Il medico stava tagliando la camicia sul davanti. «È stato accoltellato», disse. «Proprio al cuore. La morte è stata, probabilmente, istantanea». «Ci sono altre ferite?» «È difficile dirlo in questo stadio avanzato. Non posso battergli il martelletto sul ginocchio, le pare?». Il medico si ripulì le mani e lasciò cadere la salvietta nella borsa. «Lo porterò in laboratorio, anche se veramente preferirei aspettare che si allentasse il rigor. Così com'è, sarà difficile metterlo su una barella. Lo guardi anche lei, ma non credo che vedrà più di quello che ho visto io». Ma Troy sapeva che qualcosa di più avrebbe visto. Se la morte era stata istantanea, perché le gambe erano spostate, una avanti e una indietro? L'uomo aveva fatto due o tre passi e, colto dalla morte, era caduto in mezzo alla stanza. Che cos'era quel bianco nell'orecchio destro? Perché il rubinetto era ancora aperto? Si avvicinò al lavabo e lo chiuse. Di colpo la stanza fu libera da quel rumore di sottofondo e Troy poté sentire il medico brontolare a bassa voce mentre cercava di far combaciare le due metà della borsa a soffietto ma, al di là di quel borbottio, gli arrivò alla mente un lento tamburellare che veniva dal sangue, mentre una sillaba premeva per farsi sentire. Fece scorrere una mano sul bordo del lavabo e guardò l'anello scuro e lanuginoso che gli si era raccolto sulla punta delle dita. A pianterreno, Wildeve era stato costretto a gridare per farsi dar retta, ma pareva aver raggiunto qualche risultato. «L'inserviente che lavora all'albergo, ha dato l'allarme quando si è accorto del sangue che gocciolava dal soffitto. Insieme al proprietario, quell'ometto grasso che là, nell'angolo si sta cacciando in gola un bicchierino dopo l'altro, ha forzato la porta. Tutti e due giurano che era chiusa dall'interno. Il guaio è che non è un albergo dove ti chiedano i documenti e segnino il tuo nome su un registro, perciò non si può sapere chi era il morto. Tu pensi che sia un suicidio?». Troy allontanò Wildeve dall'atrio e lo portò in una saletta laterale. Chiuse la porta e le voci si abbassarono fino a diventare un brusio indistinto. Wildeve, entrato ormai nell'atmosfera del romanzo poliziesco, era tutto affannato, gli brillavano gli occhi. «Freddie, qui ci troviamo di fronte a un lavoro fuori dal comune».
«No... non credo». «La porta chiusa dall'interno. Il morto in mezzo alla stanza. Sembra una scena da Sherlock Holmes!». «L'ha detto anche Onions, ma vi sbagliate tutti e due». Wildeve stava per parlare ancora, ma Troy lo fermò con un gesto. «Il medico dice che è morto tra la mezzanotte e le quattro del mattino. Proviamo a pensare che, al più tardi, sia morto alle cinque. E che sia stato ucciso, visto che è molto difficile darsi una coltellata al cuore. Perché è così che è morto. Pugnalato». «Eh, davvero?». Wildeve era emozionato, incredulo. «Pugnalato. Mentre si faceva la barba nel lavabo. L'hanno colpito attraverso il pannello di legno che divide la sua stanza da quella vicina. Ha della schiuma da barba nelle orecchie, il rubinetto era aperto e lui stava per risciacquare il lavabo quando qualcuno ha infilato una spada o un coltello lungo come una spada attraverso una fessura tra le assi del divisorio di legno. Erano sporche di sangue proprio sotto lo specchio. Lui ha fatto due passi indietro, si è portato le mani al petto e questo ha impedito che il sangue sgorgasse subito, poi si è voltato verso la porta, cercando di uscire ma è caduto, morto con le gambe ancora nella posizione che avevano assunto camminando. Era un marinaio di un mercantile. Si preparava a salpare con la marea delle sei. Guarda sulle carte nautiche, se in questa stagione la marea non si alza tra le sei e le sette mi mangio il cappello. Fruga tra la sua roba, troverai un libro mastro o qualcosa del genere. Scopri chi stava nella stanza vicina. Ormai se ne sarà andato, ma almeno fattelo descrivere. Trasmetti la descrizione con il nome, se avremo la fortuna di averlo, alla polizia fluviale. Chiedi che fermino tutte le navi in partenza con l'alta marea. Chi l'ha ucciso doveva conoscerlo, non è morto per caso. Io sarò in ufficio, mi troverai lì». Troy si avviò alla porta. «Freddie, tu non puoi far così, non puoi arrivare al cuore del problema e andartene. Non è una storia semplice». «Credimi, è andata come ti ho detto. Ma neanch'io penso che sia una storia semplice». Troy uscì. «Freddie», gli disse Wildeve mentre si allontanava, «non so quale intrigo stai cercando di provare, ma non è a me che devi provarlo!». Ma Troy riusciva a sentire una sola parola, «Wayne». Gli pulsava nel sangue, gli colmava le orecchie con un ritmo soffocante.
69 Troy restò tutto il giorno in ufficio. Aveva davanti quella montagna di pratiche sul tavolo di Wildeve, ma non ne prese in mano neanche una. Guardava il sole danzare sul Tamigi la danza di diamante dell'estate che stava per arrivare. L'estate stava per arrivare? Abbassò lo sguardo sul cestino della carta straccia dov'erano ancora i fogli che aveva strappato dal calendario. Era il 1° giugno. L'estate era già arrivata. Dio del cielo, quanto tempo aveva passato in fondo al pozzo? Alle cinque andò a piedi al Savoy, mostrò la tessera e lo fecero entrare nell'appartamento di Diana Brack, con la sua vista sul fiume, vuoto, in ordine e con un vago profumo di Je Reviens. Si mise a sedere sul bordo del letto e assorbì profondamente l'aria che gli stava intorno, incerto se la presenza di lei fosse davvero tangibile come gli sembrava o non fosse piuttosto il frutto della propria immaginazione. Restò così fin verso sera, poi cominciò a frugare disordinatamente nei cassetti e negli armadi. Le sete e i rasi si rovesciarono a terra, formarono sul tappeto un lago luccicante di vestiti, calze, sottovesti, mutandine. Troy si lasciò scorrere tra le dita una calza, come una materia liquida. Affondò la faccia in una sottoveste, sentì il fruscio della seta, nella solitudine e nell'ombra, cercò il profumo che conosceva e sentì solo un odore di scaglie di sapone. Non c'erano indumenti maschili. Wayne non si era lasciato tracce alle spalle. Tornò a casa e aspettò, pensando che forse sarebbe venuta da lui quella notte. Ma non fu così. Wildeve lo raggiunse in ufficio, l'indomani mattina. Insieme, bevendo il tè delle otto, esaminarono le pratiche sulla scrivania. Troy aveva l'impressione che Wildeve stesse maturando una protesta. «Certo, avevi ragione», gli disse infatti dopo poco, «ma non è questo l'importante». «No?». «No e poi no». «Che cosa hai saputo?». «Ho bloccato il fuochista Alan Bone, in partenza per Lagos sul piroscafo Good Hope. Rabbioso, bugiardo, colpevole come un demonio. E comunque non è questo l'importante». «Dov'è adesso?».
«Al Wapping Old Stairs, con la polizia fluviale. Freddie, perché non smetti per cinque minuti di fare il capo e fai solo il poliziotto?». «Sì, certo». «Quello che mi preoccupa...». «Sì?». «Quello che mi preoccupa è... che cosa dirà Onions». «Si congratulerà con me per aver delegato un compito alla persona giusta e con te per essere arrivato a una rapida soluzione del problema». «Ma io non ho risolto proprio niente. Sei stato tu. Anche se...». «Anche se?». «Nel modo sbagliato». «Jack, tu vai oltre le mie capacità di comprensione. Non ci sono i modi giusti e i modi sbagliati. Ci sono le soluzioni, nient'altro. Perché non vai a Wapping e metti per un po' il signor Bone sulla graticola?». Wildeve se ne andò, in uno stato d'animo, pensò Troy, che solo di poco si scostava dalla tragedia. Guardò quella montagna di carte sulla scrivania, e capì che sarebbe rimasta intatta per un giorno ancora. Uscì dal portone su Whitehall, prese un autobus per Kensington Gore e scese all'Albert Hall, vicino all'ufficio di suo zio all'Imperial College. 70 Passò metà della serata in casa, a desiderare un buio che il tempo di giugno gli negava. Non si era nemmeno curato di togliersi la giacca o di accendere la radio. Aveva rimuginato fatti e supposizioni di quella giornata trascorsa con Nikolaj quando verso le nove, ancora defraudato del buio tranne che per un primo accenno di crepuscolo, vide la porta aprirsi con cautela e la Brack fermarsi sulla soglia. «Dove sei? Questa stanza è nera come il carbone». «Sono qui. Vicino alla stufa». Lui la vedeva molto bene. Era elegante, ma in un modo diverso dal solito, aveva un vestito nero, forse di crèpe de Chine, un modello con le spalle scoperte che sottolineava il suo collo lungo, la vita sottile, le spalle larghe e vi aveva aggiunto un particolare frivolo, poco in carattere con lei, un boa di struzzo. Posò il mantello su una sedia vicino alla porta e gli fece un mezzo giro intorno, sorridendo, cercando la sua approvazione. «Sembri vestita per uccidere». «No, io mi svesto per uccidere. Per andare al Berkeley mi vesto!».
«Andiamo al Berkeley?». «Certo!». «Ma... io non ho un vestito adatto, il mio vecchio smoking è mangiato dalle tarme». «Troy, da quanto non vai al Berkeley o in qualche posto del genere? È dal 1940 che gli uomini non portano lo smoking. Un qualsiasi completo va benissimo. Cambiati la camicia e cerchiamo un taxi». «Sarei troppo in contrasto con te. Hai un vestito che ha l'aria di essere costato un patrimonio». «Certo che è costato un patrimonio! Perché credi che voglia uscire? Ho aspettato sei mesi per avere questo vestito, l'ho ordinato da Victor Stiebel prima di Natale. Voglio andare da qualche parte a farmi vedere». «È questo che non mi piace», ribatté Troy e salì a cambiarsi la camicia. Poco dopo, nell'uscire, appena richiusa la porta, Troy si rese conto che non erano mai stati visti insieme. Scopriva di avere una chiara percezione del rischio sapendo, nello stesso tempo, che non avrebbe fatto niente per evitarlo. Lei corse allo sbocco del vicolo per fermare un taxi. La seguì, tranquillamente. Alla curva del vicolo si sentì un rumore alle spalle. Si voltò, due mani lo spinsero violentemente contro il muro e vide incombere su di sé la sagoma di un uomo molto alto. «Freddie, non fare lo stupido!». «Lasciami andare, Jack», bisbigliò. «Che cosa stai combinando?». Wildeve non aspettò una risposta. «Lo sapevo. Lo sapevo. Accidenti a me, perché non l'ho capito prima? Hai perso la testa?». Troy ora riusciva a vederlo in faccia. Lo fissò senza espressione. Wildeve allentò la stretta. Troy sentì da St Martin's Lane stridere i freni di un taxi. «Troy», gridò la Brack dalla strada, «vieni, presto!». Troy voltò le spalle a Wildeve e andò via in fretta. «Freddie, non puoi! Non puoi!». Troy non si voltò. Wildeve non lo seguì. La Brack era vicino alla portiera aperta di un taxi. Sembrava che non riuscisse a star ferma, si spostava ora su un piede ora sull'altro. Dall'ombra più fitta Troy sentì la voce di Ruby. «Chi vuol essere il fortunato?». Sedette sul sedile posteriore del taxi. Lei gli prese la mano tra le sue e gli posò la testa su una spalla. Mentre il taxi curvava in Piccadilly Circus,
Troy si sentì battere il cuore. La piazza era quasi deserta, c'erano solo poche persone uscite di casa per la serata e, oltre ai soliti gruppetti al Ranbow Corner, qualcuno in divisa. Un pensiero si era insinuato in lui, una sensazione che lo aveva spinto a correre, con gli occhi della mente aveva visto Wayne e non Wildeve stringergli per un attimo le mani intorno al collo. Per settimane aveva seguitato a ripetersi che sarebbe stato sempre pronto ad affrontare il maggiore Wayne, invece si sarebbe lasciato cogliere di sorpresa. E lo turbavano ancora di più i dubbi sulla Brack, affiorati e affogati in quel breve spazio di tempo, senza concretarsi in un pensiero. «Quando ci sei andato l'ultima volta?», gli chiese lei. «Dove, al Berkeley? Io non ci sono mai andato». «Mi viene il sospetto che fossi un po' un pesce lesso, Troy». «Forse sì». Avrebbe potuto dirle che aveva trovato nella polizia la strada per sfuggire alle esigenze della classe e della casta. Suo fratello aveva accettato quello che gli era stato offerto ed era andato a Cambridge. Le sue sorelle erano state presentate a corte e poi avevano raccontato, tra risatine soffocate, che la regina Mary sembrava una trota e che loro avevano suscitato una gran confusione fingendo di essere ora l'una ora l'altra. Una mattina, nel 1931, suo padre aveva alzato gli occhi dal leggio sul quale teneva appoggiato il suo giornale del mattino (il «suo», pensò Troy, era sempre il giornale di un altro, un giornale dell'opposizione) e gli aveva chiesto: «Tu che sei antimperialista, rispetterai le regole del gioco degli inglesi?». Era come se avesse sempre saputo che non sarebbe stato così, che il suo ultimo figlio era diverso dai maggiori. Non rientrava nelle sue abitudini forzare le decisioni dei suoi figli, ma in quell'occasione sembrava aver anticipato la risposta. «Non so», aveva detto Troy e la questione era rimasta in sospeso fino al giorno in cui aveva annunciato di essere stato accettato nella polizia metropolitana. «Sei sicuro?», gli aveva chiesto suo padre. Nient'altro. E Troy ora si chiedeva fino a che punto gli aveva dato un dispiacere. Che cosa aveva inteso dirgli Driberg con quella osservazione a proposito del silenzio che suo padre aveva sempre mantenuto sulla sua scelta? Non si trattava di obbedire alle regole del gioco, il suo lavoro non lo vincolava socialmente. Poteva comportarsi come voleva, evitandosi la noia di seguire il percorso obbligato della Londra sofisticata. Da anni non entrava in un night. Aveva constatato che fare il poliziotto poteva offrire ogni tanto una splendida scusa per cedere all'egoismo.
Il taxi si fermò all'angolo tra Piccadilly e Berkeley Street, di fronte all'hotel Ritz. Il capo cameriere del Berkeley conosceva Lady Diana Brack di vista e di nome. La salutò come una cliente apprezzata che si faceva vedere troppo di rado e disse che le avrebbe dato il solito tavolo. Vennero fatti accomodare su divanetti ricoperti di seta verde. «Grazie, Ferraro», disse la Brack. «Crede che riuscirebbe a farci avere anche una bottiglia di champagne?». Il cameriere si allontanò con il suo mantello sul braccio, dicendo che avrebbe cercato di accontentarla. Lei sorrise a Troy guardandolo al disopra del menu. «È un'occasione particolare?», chiese Troy. «Sì e no. Avevo bisogno di uscire. Un bisogno disperato. Come se avessimo passato una vita intera chiusi in casa». «Una vita intera?». Lei riabbassò la testa sul menu. «Non c'è molto da scegliere, è naturale, un menu da cinque scellini è pur sempre un menu da cinque scellini. Ma io sono venuta per la musica. Prima della guerra la musica, qui, era meravigliosa. Meravigliosa». Troy guardò il palco dell'orchestra, vuoto. Sui leggii, in caratteri corsivi inclinati, era scritto Romero, un nome che non significava niente di particolare per lui. Conosceva l'orchestra di Lew Stone, quella di Harry Roy, ma poche altre. La sala era affollata, ma, come aveva detto la Brack, non c'erano uomini in smoking, quasi tutti erano in divisa, gli ufficiali della marina o dell'aviazione si equiparavano come numero con in più qualche ufficiale dell'esercito. Cinque scellini trasformati in una minestrina e un pesce. Una minestrina così acquosa che sembrava la farinata d'avena di Oliver Twist. Il pesce era buono, una trota di fiume fresca che chiedeva a gran voce un contorno di patatine del Jersey che non avrebbe avuto. Lo champagne rimediò a tutto. Guardando quello splendore dorato che spiazzava dal bicchiere Troy pensò che anche la Brack, quella sera, sembrava sprizzare gioia. Non l'aveva mai vista così. Gli raccontò, tra la chiacchiera e il pettegolezzo, che cosa aveva fatto durante la settimana. Era stata a far visita a H.G. Wills, a Hanover Gate. Troy sentì di dover fare un commento qualsiasi e chiese come l'aveva trovato. «Vecchio», rispose lei. «È naturale, ha ottant'anni».
«Settantasette. Ma intendevo dire proprio vecchio vecchio. Era rimasto giovane per tanto tempo da farmi pensare che la vecchiaia l'avrebbe risparmiato. Ora, invece, temo che non vedrà la fine della guerra». «Ma la guerra è quasi finita». «Lo credi davvero? Da un po' di tempo mi capita spesso di pensare a quello che farò dopo la guerra». «Forse perché non se ne può più di sentire discorsi che cominciano tutti allo stesso modo: "prima della guerra..."». Lei sorrise e alzò una mano come se volesse fare un giuramento. «Mai più le mie labbra pronunceranno quelle parole!». Rise e Troy la guardò come se venisse da un altro pianeta. Non l'aveva mai vista ridere. Pensò alla prima risata della Garbo in Ninotchka e ne fu stupito e spaventato. Provava un seguito di sensazioni che si mescolavano l'una all'altra come chiazze d'olio sull'acqua. I suoi sorrisi, pieni o solo accennati, le sue risate lo attiravano profondamente e, nello stesso tempo, il suo modo vivace, aperto di parlare, gli ricordava quei tre giorni in cui, secondo Onions, l'aveva frustata fino a farle perdere i sensi come faceva suo padre. Lei gli rivolse il suo sorriso perfetto e si scostò la ciocca di capelli dalla fronte, trattenendovi per un momento la mano. «Volevo parlarti della fine della guerra», disse, e i capelli le ricaddero di nuovo sulla fronte. «Non ci ho ancora pensato». «Nemmeno io». «Che cosa faremo?». La domanda lo lasciò stupito. Aveva sentito bene? «Dopo la guerra, che cosa faremo?», ripeté lei e Troy cercò di capire dal suo tono di voce il significato di quelle parole. Un applauso sommesso annunciò il ritorno dell'orchestra. Romero era un sudamericano che aveva superato la mezza età, robusto, con dei baffi tinti col sughero bruciato e i capelli folti pettinati con la fronte scoperta e impastati di brillantina. Accennò un inchino al pubblico, poi si voltò verso l'orchestra e attaccò Night and Day di Cole Porter. Il centro della sala si affollò di coppie ondulanti in quel blando, pubblico abbraccio che è il ballo. «Mi piace questa canzone. Balliamo?». «Come? Voglio dire... non so nemmeno che tipo di ballo sia...». «Un fox lento, sciocchino». Lei si alzò e gli tese la mano. Il sorriso limpido, i capelli neri neri e gli occhi verdissimi lo trascinarono sulla pista da ballo.
«Non sono molto bravo», mormorò. Con i tacchi lei era alta quasi un metro e ottanta, Troy le arrivava al mento e doveva guardare in su per parlarle. Si sentiva spaesato, sperava solo di non pestarle i piedi. Poi cominciò a capire che, senza parere, era lei a guidarlo, con sicurezza, nel ballo. La teneva tra le braccia, ma certamente era lui nelle sue mani. Sul finire dell'ultima nota il pubblico applaudì. Lei gli prese la testa tra le mani e lo baciò sulla bocca. Un bacio così intenso che Troy pensò che gli avesse lasciato il segno. Lei si staccò e gli passò un dito sulla guancia dove il taglio del rasoio aveva lasciato un piccolo segno rosso. «Che cosa faremo dopo la guerra?», chiese ancora e, prima che Troy potesse rispondere, disse che doveva assolutamente, assolutamente, dire una parola a Romero e si allontanò verso il palco dell'orchestra. Troy tornò al tavolo e finì di bere lo champagne che gli era rimasto nel bicchiere. Che cosa faremo, gli aveva chiesto. Non era possibile, pensò, che avesse voluto dare alle parole il significato che pareva dovessero avere. Eppure era quello che esprimevano i suoi occhi. La vide tornare attraverso la sala. Ogni suo movimento aveva una bellezza che non pareva di questo mondo, non aveva mai un gesto che fosse privo di grazia. Troy si alzò in piedi. L'orchestra ora suonava Smoke Gets in Your Eyes. Le tese la mano, per invitarla a sedersi prima che fosse lei a invitarlo a ballare, ma la vide fermarsi e guardare dietro le sue spalle, verso l'ingresso. Anche lui si voltò. Fermo sull'ultimo gradino c'era Wayne, con il mantello di lei sul braccio. La guardava, come se non si fosse neanche accorto che tra loro c'era Troy. Spiegò il mantello come le ali di un pipistrello ad aprirle lo spazio per raggiungerlo. Troy si voltò. Diana era irrigidita. Il sorriso di quella sera era scomparso. Poi i suoi piedi si mossero, non come se camminasse ma se scivolasse, quasi senza toccare terra e quando gli fu accanto gli prese la mano delicatamente nella sua, senza stringerla. Fece qualche passo, con la testa voltata a guardarlo negli occhi, finché le loro braccia non furono così tese che fu necessario staccarsi. Troy sentì la sua mano sfuggirgli, le sue unghie gli sfregarono il palmo e infine solo le loro dita si toccarono. Lei si fermò, lo guardò un'ultima volta, ritrasse la mano e corse via. Troy passò in mezzo alle coppie che ballavano e uscì. C'era molta gente in strada. Dal Ritz si riversava una folla di soldati americani per la maggior parte alterati dall'alcol, che ingombravano la strada e il marciapiede per
dirigersi cantando confusamente verso Berkeley Square e Piccadilly Circus. Troy vide Wayne fermare un taxi davanti al Ritz. Attraversò, mentre altri soldati 'scendevano lungo Berkeley Street con un impeto che lo trascinò come un relitto. Guardò la Brack voltarsi un'ultima volta, mentre Wayne saliva frettolosamente sul taxi e la tirava dietro di sé; poi, spinto dalla folla come da una marea, andò a sbattere contro una colonna del Ritz e finì a terra, calpestato da centinaia di piedi. Il chiasso diminuì. La strada si alleggerì come una nebbia che si schiarisca al vento. Troy era seduto sul marciapiede. Stava fermo. Gli pareva di non potersi muovere. Aveva le gambe intorpidite, l'unica parte viva in lui era l'ingannevole traccia lasciatagli sulla mano dal tocco delle sue dita. Sentì un passo, un ticchettio sull'asfalto. «Alzati!». Guardò le scarpette col tacco alto, le calze di seta. Lei era lì, piccolina, col petto in fuori e gonfia di rabbia. «Alzati!», ripeté e, poiché lui non si muoveva, gli porse una mano e lo tirò in piedi, poi liberò la mano e gli diede un pugno sulla guancia. Troy si sentì in bocca il sapore del sangue. «Vigliacco!», gridò la Toscà e si avviò per Piccadilly. Un giovane soldato le si avvicinò. «Ehi, tesoro!». Lei gli diede un pugno più forte di quello che aveva dato a Troy. Il soldato piombò a sedere per terra, come colpito da una mannaia. Troy, nel passargli vicino per raggiungere la Toscà, gli mormorò un «Mi dispiace». Fino a Grange Street lei non gli disse una parola anche se si accorgeva benissimo che la stava seguendo e Troy non osò metterlesi al fianco. 71 Lei si preparò un grosso bicchiere di bourbon, senza offrirglielo. In piedi, dall'altra parte del tavolo, Troy la guardò togliersi le scarpe e la divisa, secondo le sue abitudini, ma il silenzio rendeva ogni gesto nuovo, privo di una tranquillizzante familiarità. «Sai,» disse infine la Toscà, con gli occhi fissi sul bicchiere «ti avevo cercato per dirti che Jimmy era tornato. Pensavo che ti premesse saperlo. Sono andata a casa tua, ma la puttana che sta nel vicolo mi ha detto che non c'eri, che ti aveva visto salire su un taxi con una che ha definito «un bel pezzo di signorona elegante» e che tu avevi detto al tassista di portarvi al Berkeley. Così sono venuta al Berkeley e fino a quando non l'ho vista
con Jimmy non ho neanche pensato a chiedermi che razza di signorona elegante poteva essere. Voglio dire...», alzò la voce, «voglio dire...» l'alzò ancora di più, «conosci una più scema di me? Sei un vigliacco, Troy. Un porco fottuto vigliacco!». Troy sedette al tavolo, si versò un altro bourbon, lo bevve d'un fiato e se ne versò un terzo. «Non so come spiegarti», disse Troy. «Grazie a Dio. Almeno non devo ascoltare bugie». «Adesso me ne devo andare», aggiunse timidamente Troy. «Da quanto tempo vai a letto con Diana Brack? Perché è lei, vero, è Diana Brack!». «Sì». «E tu te la scopi, sì o no?». «Sì». «Da quanto tempo?». «Non me lo ricordo». «Maiale», disse la Toscà, ma la rabbia nella sua voce aveva ceduto a una tristezza che le chiudeva la gola. «Porco, maiale». «Devo andare», disse ancora Troy e si mosse verso la porta. Con uno scatto, lei corse a tenerla chiusa con tutte le sue forze, scalza, alta poco più di un metro e mezzo, sfidandolo, impavida. «Se te ne vai adesso, qui non torni mai più. Mi hai sentita? Mai più!». «Non posso restare. Wayne è al Savoy». «Sì che puoi restare. Wayne non se ne andrà». «Perché?». «Perché domani mattina alle sei ha un appuntamento con Zelly. Di domenica mattina. E sarà impegnato anche lunedì per tutto il giorno». «Per tutto il giorno?». «È un D-Day». «Come?». «Lunedì è un D-Day. Anzi, il D-Day. Un giorno importante. Non chiedermi di ripetertelo. Non tradisco tre volte di fila neanche per far piacere a te. Jimmy non scappa. Non può scappare. Domenica andrà da Zelig. Forse è il giorno più importante della sua vita. È quello che farà sabato a preoccuparmi». «Non capisco». «Siediti, Troy. Dobbiamo parlare». Ingaggiò la solita lotta con il frigorifero e ne estrasse una pizza grande
come la ruota di un camion. «Non ho altro. Lo spaccio è in ribasso. Non l'hai ancora assaggiata calda, vero?». Troy fece segno di no con la testa. Toscà accese il forno e vi mise la pizza sul suo vassoio di carta stagnola. «Ricordami tra un po' di tirarla fuori». Prese un altro bicchiere dallo scolapiatti, notò con disappunto che era sporco sul bordo ma lo mise lo stesso davanti a Troy insieme alla bottiglia del bourbon. «Voglio andarmene da questa casa. È un postaccio». Troy si guardò attorno. «Potresti provare a pulirla». «Non rischiare troppo, Troy. Guarda che io non perdono niente. Siamo qui solo per parlare d'affari». «Tuoi o miei?». «Non lo so. So soltanto che Jimmy sta combinando qualcosa di grosso». «Un D-Day tutto suo forse è troppo». «Voglio dire qualcosa che gli è congeniale, un'azione da Jimmy. Oggi era molto animato, come se il sangue gli scorresse più in fretta nelle vene. Credo che gli abbiano affidato una missione. Si comporta sempre così quando ha qualcosa di importante da fare. Alza la cresta. Lui e Zelly non hanno fatto che parlare tra loro e Zelly aveva la sua aria da scemo preoccupato come se avesse paura che Jimmy lo facesse colare a picco insieme a lui. Ad ogni modo, qualsiasi cosa sia, sarà sabato. L'ho sentito che diceva a Zelly: "Sabato provvederò" e Zelly gli ha risposto: "Certo, certo" e intanto sudava». La Toscà fissò di nuovo il fondo del bicchiere, senza alzare gli occhi su Troy, e a voce bassa, quasi in un soffio, disse: «Dio mio, Troy... ho paura». Troy si levò la giacca e le scarpe, girò dall'altra parte del tavolo e, in ginocchio, le sollevò il mento con una mano. Lei aveva, negli occhi asciutti, uno sguardo di profonda ansietà, ma, almeno per il momento, sembrava che riuscisse a dominare le proprie emozioni. Troy si rese conto che non sapeva di che cosa avrebbe potuto essere capace. «Ammazzerà qualcuno. So soltanto questo». «Chi?». «Dio, Troy, se lo sapessi te l'avrei già detto. Non capisci che non lo so?». «Non sai neanche dove?».
«No. So soltanto che sarà domani notte». Troy rifletté per un momento. Sentiva il bisogno di rassicurarla, ma non sapeva quale parola, quale gesto avrebbe accettato da lui. «Ci penserò io. Non preoccuparti», disse e le posò una mano sul ginocchio coperto dalla calza di seta. «Oh Cristo! Hai passato due mesi a dirmi che quello è un assassino, che si diverte a uccidere, che uccide perché gli piace!». «L'ho detto perché è vero», ribatté Troy tranquillamente. «E allora, che accidenti pensi di fare?». «Lo arresterò. È il mio lavoro». Lei sospirò, irritata. Troy la baciò su un orecchio e le infilò una mano sotto la gonna. «La vuoi smettere?». Scosse con violenza la testa, come se le si fossero ingarbugliati degli insetti nei capelli. «Fa parte del tuo lavoro rincorrere i maniaci?». «Non sarebbe la prima volta». Con cautela Troy spinse la mano più su, seguitando a pensare che non era quello il momento di essere cauti. «Che altro ti passa per la testa?». «Niente. Assolutamente niente». Le strinse il lobo dell'orecchio tra i denti. Lei si divincolò e batté a terra un piede calzato di seta. «Va' all'inferno, Troy! Quando sei venuto qui la prima volta non distinguevi l'elastico delle mutande da una stringa di liquirizia. Adesso credi di aggiustare tutto portandomi a letto. Allora vuol dire che proprio non ti conosco!». Troy non rispose e avviò un periglioso tentativo di abbassarle le mutandine. «Dico davvero! Non sapevo nemmeno che suonassi il pianoforte». «Non me l'avevi mai chiesto». «Che cosa avrei dovuto fare, nominarti tutti gli strumenti di un'orchestra? Amore, suoni il flauto? O picchi con le bacchette sul tamburo? Per Dio, Troy, smettiamola!». Troy finse di non sentire. La stanza cominciò a riempirsi di un odore di formaggio sciolto. Un odore così anteguerra, così familiare, da vecchia Inghilterra, che era quasi gradevole in se stesso ma risultava impreziosito dal profumo di basilico, un'ipotesi di vita continentale: aglio e calze di seta
nera, il gusto del proibito. «La pizza è quasi pronta», disse Toscà. Si alzò dalla sedia, l'elastico delle mutandine scattò nella mano di Troy come uno yo-yo che rimbalzasse indietro e la seta gli restò chiusa in pugno mentre le tirava verso di sé. «Prima o dopo la pizza?», gli chiese lei. 72 La Toscà lesse le sue dieci pagine di Huck Finn mentre Troy preparava le uova strapazzate e il pane tostato. Gli fece osservare che era la terza volta, da quando l'aveva conosciuto, che rileggeva tutto il libro da cima a fondo. Stavano bevendo il caffè del mattino, seduti sul pavimento, poco vestiti, uno di fronte all'altro. «Dove sei arrivata?». «Dove il duca di Bridgewater viene coperto di pece e piume. Ci sarebbe molto da dire sulla capacità di riconoscere quando si è in pericolo». Toscà prese la tazza con tutte e due le mani e bevve un lungo sorso di caffè. «Ah, mm, che buono!». «Lavori, oggi?», le chiese Troy. «Mancano due giorni all'Armageddon, lo scontro conclusivo tra le forze del bene e del male, potrei non lavorare? Certo che lavoro! Sono stati sospesi tutti i permessi. Quei cretini che occupavano Piccadilly ieri notte probabilmente avevano avuto ordine di andarsene in giro ubriachi per lasciar credere che Londra fosse ancora piena di americani. Ma tu non ti sei accorto, la settimana scorsa, che Londra era deserta? Sono tutti sulla costa meridionale. Scommetto che nel Dorset non trovi più nessuno che ti dia una tazza di tè col latte». «Allora sarà in Normandia?». «Ne dubitavi?». «Sinceramente no». «Utah, Omaha, Juno, Gold, Sword». «Eh?». «Sono le spiagge. Noi le chiamiamo così. Io ho scelto Juno. Ho pensato che alla guerra mancava una impronta femminile. Ike ha detto che non avrebbe mai permesso che i suoi ragazzi sbarcassero su una spiaggia chiamata Fanny, quella che avrei scelto per prima, così ho optato per la moglie
di Giove. Mi sono appropriata del mio pezzo di storia». Alzò la tazza per farsi versare dell'altro caffè. Troy gliela riempì. «Devi farmi una promessa», gli disse. «D'accordo». «Non affrontare Jimmy da solo, come volevi fare ieri notte. Vai al Savoy con un bel gruppo di uomini e arrestalo. Promesso?». Troy ci pensò un momento. Si era aspettato di sentirselo chiedere. «Non posso», rispose. Lei appoggiò bruscamente la tazza a terra e si versò il caffè sulla gamba nuda. «Dio, Troy!». «Non posso, perché mi mancano le basi per arrestarlo». «Storie... sono due mesi che cerchi di arrestarlo!». «No, sono due mesi che cerco le prove per arrestarlo, per smontare il suo alibi. Non ci riesco. Ho contro di me una dichiarazione di Ike. Perché credi che nessuno collabori con me? Perché dimostrare che l'alibi di Wayne è falso equivale a dire che il comandante supremo delle forze alleate è un bugiardo». «Tutti possiamo sbagliare. In realtà, quando arrivi a conoscerlo, Ike non è male. Non è uno scocciatore e non ha alzate d'ingegno. Insomma come generale è perfetto. Non lo si vorrebbe come presidente, niente del genere. Io credo che qualcuno gli abbia detto che si trattava dell'interesse della nazione, come dite voi, e credo che questo qualcuno sia stato Jimmy». «Qualsiasi progetto abbia Wayne per stasera, per me è necessario coglierlo in flagrante delicto.» «Eh?». «Devo coglierlo sul fatto. Mi serve una prova». Lei era spaventata. Stava con la bocca aperta e non diceva niente. Poi prese fiato e con la voce alterata disse: «Troy, Troy, Troy, non affrontare Jimmy!». «Non ho scelta». «Ti prego, Troy... tu non sai... non immagini... arrestalo con una scusa per una infrazione qualsiasi, scegli un pretesto, ma portalo via prima che venga sera. Non correre rischi, levalo dalla circolazione e basta». Troy le rispose solo con uno sguardo, in silenzio. «Almeno prenditi una pistola. Lo so che voi poliziotti non lo fate, ma stavolta è necessario. Insomma, non è che ti chieda molto, no?». Si vestirono. La Toscà, in tutti i modi possibili, gli disse che era uno stu-
pido. Troy rinunciò a risponderle, finché lei non guardò l'orologio ed esclamò: «Ehi, devo correre. Vieni a trovarmi stanotte, almeno per farmi vedere che sei ancora tutto intero». Stava in piedi davanti al tavolo da toeletta, già tutta in ordine, con la sua divisa verde oliva, e si toccava con un gesto impaziente il lobo di un orecchio. Guardò dentro la scatola dei gioielli, vi buttò qualcosa e disse: «Possibile che mi succeda sempre così?». Si voltò verso Troy. Lo baciò sulle labbra, tirò indietro la testa, lo guardò, lo baciò ancora e disse: «Torna sano e salvo». Poi uscì. Troy cercò il telefono e, dopo qualche minuto, lo trovò sotto il letto, coperto da una montagna di calze smesse e di riviste americane. Lo liberò, lo spolverò e chiamò Wildeve, che esplose, a bassa voce, in una protesta fatta di collera e di preoccupazione. «Freddie, dove diavolo sei?». «Sono a casa. Ascolta...». «Da quanto tempo sei a casa?». «Che cosa importa?». «Ho aspettato davanti a casa tua tutta la notte». Solo Ruby, a quanto pareva, aveva impedito a Jack di incontrare la Toscà. «Sono arrivato solo da un'ora». «Troy, ti prego di non dirmi più bugie. Sono stato lì davanti fino a venti minuti fa. Dove sei?». «Non te lo posso dire». «In Tite Street?». «No». «Sei uno stronzo, Freddie». «Forse, ma lo stronzo ha trovato Wayne». Ci fu un momento di silenzio. Troy aveva l'impressione di ascoltare il corso dei pensieri di Wildeve, come se parlasse. «Non devo chiederti come, vero?». «No, non devi». «Ma se cercassi di dirmelo, giustificheresti...». «Io non ho bisogno di giustificazioni. Mi sono comportato da stronzo, hai ragione, ma in questo momento il maggiore Wayne smaltisce con un sonno al Savoy le fatiche di una notte pesante». «Metterò di guardia Thomson e Gutteridge». «Alle due uscite sul davanti e sul retro?».
«Certo. Quando ti vedo in ufficio?». «Tra un paio d'ore. Devo farmi la barba e vestirmi». «E se Wayne se ne va?». «Non se ne andrà. C'è qualcosa di speciale in vista». «In vista? Che cosa significa "in vista"?... Oh, lascia perdere. Ma come lo sai? Te l'ha detto lei?...». «Non ho bisogno che me lo dica nessuno. È il suo modus operandi. Lui lavora di notte». «Mi stai dicendo che è tornato per ammazzare un altro?». «È tornato perché...». Troy cercò le parole giuste e trovò solo quelle che aveva usato la Toscà, «... perché è in missione». «In missione? In missione? Che espressioni usi? Freddie, che cosa sai?». «Non te lo posso dire». «Non ripeterlo più!». «Adesso basta, Jack. Troviamoci alle due e mezzo al poligono di tiro». Troy riattaccò. Ai suoi piedi c'era un groviglio di calze smesse. L'unica superficie libera era quella del tavolo da toeletta. Staccò la spina e posò il telefono vicino alla scatola dei gioielli. Era aperta. Sul rovescio del coperchio c'era un orecchino con una sola perla montata su un fermaglio a molla d'argento. 73 L'ex sergente maggiore di reggimento Peacock assomigliava per puro caso al defunto Lord Kitchener, somiglianza, appunto, casuale in quanto sarebbero bastati due baffi da tricheco a far assomigliare chiunque al defunto Lord Kitchener. «Non mi sembra di conoscere il suo ragazzo», disse. «È l'agente investigativo Wildeve», rispose Troy, «il mio sostituto». «Piuttosto giovane, eh?». «Veramente...» protestò Wildeve col tono di uno scolaro risentito, ma Troy gli diede un colpetto di gomito e lo indusse subito al silenzio. «Signor Peacock...». «Signor Troy?». «Per favore, una pistola», disse Troy. Peacock lo guardò attentamente. Troy non nutriva sentimenti particolari nei suoi confronti, né in un senso né nell'altro, ma non sopportava la disapprovazione silenziosa, che riteneva sintomatica di una generazione.
Quella gravità presuntuosa che lasciava filtrare un ipocrita giudizio negativo in circostanze che avrebbero richiesto solo una risposta o un gesto gli sembrava un atteggiamento dietro il quale i vecchi nascondevano la loro falsa rispettabilità. I vecchi... Peacock era sulla cinquantina o poco più, ma dodici anni passati come sergente maggiore di reggimento gli avevano lasciato il marchio di una boriosa meschinità. Troy pensò che era fatto con lo stesso stampo del vecchio capo giardiniere o del maggiordomo della casa di suo padre, che, qualsiasi domanda gli facesse da bambino, rispondevano in modo ambiguo, lasciando intendere che c'erano cose ben note agli uomini, ma saggiamente tenute nascoste ai bambini. Neppure da adolescente o da adulto Troy era stato iniziato a quel riserbo. Suo padre, una volta che gliene aveva parlato, aveva detto che non era questione di età ma del temperamento degli inglesi. Qualunque fosse la causa di quella interruzione prolungata e inutile, se Peacock subito o entro dieci minuti gli avesse detto di scusarlo perché doveva andare a lavarsi le mani, Troy lo avrebbe preso a pugni. Peacock si arricciò la punta di un baffo. «Quanto è passato, signor Troy?». «Come?...». «Da quanto tempo non viene al poligono?». «Senta, non sono qui per chiedere di fare il tiro al piccione. Circostanze inerenti al mio lavoro richiedono che io sia armato. Non c'è motivo di...». «Certo, certo. Una questione di autodifesa. Lei non sarebbe qui se non ci fosse là fuori o da qualche altra parte un tedesco armato. È logico. Ma quello che vorrei sapere è se lei sa sparare». Merda, merda e ancora merda, pensò Troy. «Perché non andiamo qui al poligono e vediamo come se la cava? Facciamo provare anche al ragazzo, tanto per fargli capire subito che, anche se vince, non gli regalano un orsacchiotto». Peacock, convinto che la sua battuta fosse esilarante, si avviò ridacchiando al poligono. Troy e Wildeve lo seguirono. «Tra poco lo ammazzo», bisbigliò Wildeve a Troy. «Fa' presto, se no arrivo prima io», rispose Troy. Peacock si avvicinò al supporto metallico dei bersagli, ne prese due nuovi a cerchi concentrici e ve li incastrò fino in fondo. «Credevo che avremmo sparato a delle sagome umane», osservò Wildeve. «Lei ha visto troppi film con George Raft. Crede che siamo l'FBI?», re-
plicò Peacock. Estrasse di sotto la giacca un grosso mazzo di chiavi, facendole tintinnare allegramente e aprì un enorme armadio di legno a due ante. Su una rastrelliera divisa in scomparti erano disposte in bell'ordine, come bottiglie di vino, circa venticinque pistole con l'impugnatura rivolta verso l'esterno. Peacock prese un'automatica nera, lucente. Con i movimenti rapidi, esperti di un prestigiatore da music-hall che riesca a ingannare l'occhio di chi guarda, riempì il caricatore che aveva tolto dal cassetto alla base dell'armadio e diede la pistola a Troy. Ma Troy la sentì pesante, estranea. «Mi sembra che abbia qualcosa di sbagliato», disse, incerto. «È semplicemente diversa», rispose Peacock, «è fatta per essere diversa. È più leggera. È stato perfezionato il rapporto peso-potenza». Il rapporto peso-potenza. Erano le sole parole autorevoli, concrete che Peacock avesse usato fino a quel momento. «A me sembra che abbia qualcosa di sbagliato», insisté Troy. «Sono pistole moderne. Piacciono molto in America. Ci sono appena arrivate. Le produce la Colt. 45 automatiche. Bloccano anche un elefante». Troy guardò la pistola e capì perché gli era parso che avesse qualcosa di sbagliato. Era il modello di quella usata per il delitto. La posò sul banco, turbato dalla forza della superstizione e incapace di superarla. «Non andavano bene le vecchie Webley?». «Appunto: le vecchie Webley. L'ha detto lei, non io». «Mi troverei meglio con una pistola che conosco bene». «Come vuole. Se sapesse quante difficoltà ho dovuto superare per avere le Colt, ci penserebbe due volte...». «Proverò io la Colt, se è possibile», intervenne Wildeve. Peacock restò di nuovo zitto per un momento, poi gratificò Wildeve di uno sguardo di contenuta approvazione. «Ecco, figliolo. Direi che questa fa proprio per te». Gli consegnò la pistola, prese dalla rastrelliera una Webley 38 e, tenendola sul palmo della mano sinistra, inserì i proiettili nel caricatore, poi lo fece ruotare col polpastrello del pollice e diede la pistola a Troy. «Il signor Wildeve a destra, il signor Troy a sinistra. Niente stranezze. Niente esibizionismi. Fuoco a volontà». Il braccio di Wildeve sussultò violentemente al primo rinculo e il proiettile colpì il bersaglio lontano dal centro. La seconda volta, un tiro più controllato colpì il centro e altri quattro proiettili, sparati uno dopo l'altro, andarono a segno.
Wildeve guardò Troy, sorridendo. Troy sentiva che la Webley era pesante. L'odioso Peacock aveva ragione. Non si era ricordato che le Webley pesavano una tonnellata e ora gli pareva di essere un ciabattino con una forma da scarpe di ferro appesa al polso. Tese il braccio che tremava come un ramoscello in mezzo alla tempesta e cercò di prendere la mira. Non gli riuscì, sparò un colpo approssimativamente nella direzione giusta, sentì che il braccio per poco non gli era uscito dall'articolazione, mentre Peacock esprimeva, con un'esclamazione tra i denti, il suo disprezzo. «Bel tiro, signor Troy. Dritto sul sacchetto di sabbia. È uscito di un metro e più». Troy sparò gli altri cinque colpi e li sbagliò tutti. Peacock ricaricò le pistole. Ora guardava Wildeve con più simpatia. Un minimo di abilità, evidentemente, modificava il suo giudizio. Gli girò il bersaglio e disse che era inutile cambiare quello di Troy perché «non era stato neanche sfiorato». Troy prese in considerazione l'eventualità di sparare a Peacock invece che al bersaglio. «Il signor Wildeve a destra. Il signor Troy a sinistra. Niente stranezze. Niente esibizionismi. Fuoco a volontà», ripeté Peacock, secondo la sua formula. Si sentì squillare il telefono sulla scrivania e andò a rispondere. Wildeve e Troy si scambiarono un'occhiata, Troy alzò il braccio per prendere la mira e poi lo lasciò ricadere. Wildeve fece lo stesso. «Freddie», disse Wildeve con un tono che lasciava prevedere tutto un seguito di domande, «tu non puoi spiegarmi che cosa sta succedendo, vero? E io mi sono sempre distinto nel non fare domande. Mi hai imbrogliato quando eri all'ospedale dopo la bomba a Holborn e forse avevi le tue ragioni, ma adesso sai quello che sta succedendo e si lavorerebbe meglio se lo dicessi anche a me». «Non è tanto semplice». «Me lo immaginavo». Troy voltò la testa a guardare Peacock, ancora al telefono. Sparò un altro colpo che finì di nuovo in un sacchetto di sabbia. «Credo che sia in atto una caccia agli scienziati tedeschi prima che se li accaparrino i russi. O prima che la RAF li spedisca tutti dove nessuno li raggiungerebbe più. Credo che gli americani usino le loro reti oltremare e la Resistenza in Francia e in Germania per trascinarsi via i migliori. C'è stata una degenerazione, e della peggiore specie». Troy gli fece un cenno e Wildeve tirò un paio di colpi che andarono drit-
ti al bersaglio. Anche Troy sparò ancora, ma peggio di prima. «Hanno ucciso un primo uomo, Von Ranke, e sono stati così imprudenti da lasciare che se ne trovasse il cadavere. Poi, coperte le proprie tracce il meglio possibile, hanno ricominciato. Meno di un anno dopo hanno preso il secondo scienziato, Brand, ed è successa la stessa cosa. Questa volta hanno usato l'accortezza di far sparire il cadavere. Se non fosse stato per un cane bastardo che girava per Stepney, non ne avremmo saputo niente». Wildeve sparò un'altra volta. «In particolare, credo che Wayne insegua il progetto missilistico tedesco. So che nel mese di marzo è stato in Svezia e, si tratti o no di una coincidenza, ci è stato quando un prototipo tedesco è uscito di rotta ed è caduto in Svezia. La resistenza norvegese si è presa tutti i pezzi possibili. Credo che Wayne sia stato incaricato di andare sul posto e riportare a casa qualcosa anche lui. Ecco perché, probabilmente, ci sono quei vuoti nel diario di Miller». «Ma tu come lo sai?». «Non te lo posso dire. Credilo e basta, come al vangelo. Nikolaj ha confermato la mia fonte d'informazione. Ho passato con lui quasi tutta la giornata di ieri. Ha un bel pezzo di quel missile tedesco nell'ultimo cassetto della scrivania». «Mi sento calato in un clima da fantapolitica». «Secondo Nikolaj è simile a un sigaro volante. Ha una testata massiccia e, quello che è peggio, è silenzioso». «Silenzioso? Com'è possibile?». «È più veloce del suono. Finché non colpisce, non ci si accorge che sta arrivando. Nikolaj sa anche il nome, i tedeschi lo chiamano Vergeltungswaffen che significa vendetta». «Ah Dio mio», disse Wildeve, «Dio mio», ripeté, «non sopporto queste cose misteriose. Vorrei occuparmi di un bell'omicidio vecchio stile». «Si tratta comunque di omicidio, Jack, nonostante la novità delle elaborazioni». «C'è qualcosa che non quadra: Wayne è importante, sei d'accordo? E noi stiamo ficcando il naso ovunque, dando un gran fastidio a tutti. Sei d'accordo anche su questo?». «Come ti ho già detto, si tratta pur sempre di omicidio». «Certo. Lavoro da polizia, non si discute nemmeno. Ma... accidenti Freddie, c'è qualcosa che non quaglia». «Perché?».
«Wayne è così importante che i nostri alti ufficiali sono disposti a coprire le sue tracce. E questo posso capirlo. Non capisco, invece, perché queste tracce le abbia dovute lasciare». «Quelli scappavano. Se la davano a gambe. Prima Von Ranke, poi Brand. Tutti e due comunisti. Grati per essere stati messi in salvo, ma tutt'altro che disposti a diventare prigionieri degli Stati Uniti e del capitalismo. Si sono rivolti all'unica persona che conoscevano, Wolinskj. Ma dopo Von Ranke hanno puntato il fucile su Brand e su Wolinskj e li hanno tolti di mezzo tutti e due». «Lo so. Me ne sono reso conto anch'io ed è questo che non mi convince. Perché ucciderli? È stato eccessivo. Inutile. E se Wayne è importante come dici, perché rischiare di attirare l'attenzione della polizia metropolitana? Non quadra. Non si corrono rischi quando non è indispensabile. Ci manca un aggancio. Non sappiamo tutto». «È stato eccessivo», ripeté Troy. Era una domanda e, insieme, un modo di riflettere su quell'affermazione. «Tre uomini colpiti a morte e uno di loro fatto a pezzi. Non pare troppo anche a te?». Wildeve scaricò contro il bersaglio i proiettili che gli restavano senza smettere di guardare Troy. I colpi andarono ugualmente a segno. L'eco restò sospesa per un attimo nell'aria e poi si spense. Anche il mormorio della voce di Peacock si interruppe in lontananza, con il rumore secco del ricevitore del telefono che veniva rimesso a posto. Senza fretta, Troy sparò quattro colpi in fila, con un impegno quasi commovente. Wildeve aveva fatto centro con tutti e sei ed erano finiti così vicino da formare un solo foro. Troy, falliti quei quattro colpi, mancò il bersaglio una quinta volta e infine, alla sesta, fece centro. La tentazione di sorridere per quella piccola soddisfazione gli venne tolta dalla solita esclamazione tra i denti accompagnata dallo stridere dei supporti di ferro mentre Peacock toglieva tutti e due i bersagli, confrontandoli tra loro, come se fosse necessario. «Scusi la franchezza, signor Troy, ma lei non saprebbe sparare neanche a una gallina». Troy non rispose. «Va bene, Dio non ci ha creato con la pistola in pugno, ma tutti voi di Scotland Yard siete proprio negati, anche i suoi colleghi. Non le consiglio di insistere a esercitarsi perché mi risponderebbe che il delitto non aspetta, quindi mi limito a augurarle che... quel tipo qua fuori non sia armato o che spari peggio di lei».
«Grazie», disse Troy, tranquillamente. «Io, Jack, prenderei la Webley se sei d'accordo». «Sì, io mi trovo bene con la Colt». «Un momento, solo il tempo di vedere la vostra letterina di autorizzazione». Troy si tolse di tasca il foglio piegato in due. Peacock passò dietro la scrivania e lo aprì, sotto la lampada. «Che scarabocchio», disse dopo aver guardato con attenzione la firma. «Aveva fretta?». Troy non rispose. «Terrò le pistole a vostra disposizione, ma dovete chiedere al signor Onions di ripetere la firma». Peacock ridiede il foglio a Troy, che stava sempre zitto. Wildeve glielo tolse di mano. «Niente di male, è questione di un attimo. Sono le tre, lo troverò ancora in ufficio». Si avviò alle scale. Troy gli riprese il foglio. «No, ci penso io». Lui e Peacock si guardarono negli occhi. Peacock per primo abbassò lo sguardo sulla scrivania e Troy se ne andò, seguito da Wildeve. «Freddie», gli disse mentre scendevano le scale, «per me non è niente, vado io, così tu puoi restare ancora qui a...». Tese la mano per riprendere il foglio. Troy se lo mise in tasca. A pianterreno, Wildeve esclamò: «Perché sono così cretino?». «Mah! Io so che la firma è falsa. Peacock sa che la firma è falsa. Peacock sa che io so che lui sa. E tutto va via liscio». «Falsifichi spesso la firma del tuo superiore?». «Sì. Quando temo che lui non firmerebbe. Solo che questa volta mi è venuta male». 74 Quattro ore dopo,Troy in un caffè di Old Compton Street s'incontrò con un giovanotto brufoloso cui si rivolgeva come a Herbert, in sostituzione del suo abituale nom de guerre che era Danny il disertore. Con la promessa di venti sterline in un prossimo futuro e di un tacito debito di gratitudine, ottenne una piccola pistola calibro 22 di fabbricazione italiana, dalla quale era stato raschiato via il numero di matricola.
Troy, con la pistola nella tasca sinistra del cappotto, uscì in strada e si rialzò il bavero per ripararsi dalla pioggerella che cominciava a scendere nella sera, promessa estiva di un tiepido acquazzone. Non era ancora buio, la giornata di giugno pareva senza fine, quando lui e Wildeve diedero il cambio a Thomson, all'Embankment, ma il sollievo che aveva illuminato la faccia di Thomson sparì quando Troy gli disse di raggiungere Gutteridge dall'altra parte, all'imbocco dello Strand. Lo guardarono allontanarsi, poi Wildeve disse: «Lo sai come ci chiamano, noi due? I dandy ammazzasette». «Io Thomson lo ammazzo davvero se si lascia sfuggire Wayne senza avvertirci». «Pensavo una cosa...». Troy guardava in su, verso l'appartamento della Brack. Vide una luce rosata, l'ombra di qualcuno che passava fugacemente dietro i vetri, sentì il sangue scorrergli più in fretta nelle vene e soffrì per il contrasto tra la voglia di vederla comparire e il bisogno di trovare Wayne, di sapere che era lì, a portata di mano. «Tu hai parlato di una missione...» «Non l'ho scelta io la parola», disse Troy e si sarebbe morsa la lingua, ma Wildeve parve non aver fatto caso alla obiezione. «Freddie, davvero vuoi lasciare che Wayne vada avanti?». Tutto era immobile al terzo piano. Troy guardò Wildeve. «Non ho altra scelta». «È un grave rischio». Troy tacque. «Sarà armato. Noi no». Troy strinse nella mano la canna della piccola pistola argentea ma non disse niente a Wildeve. 75 Dopo un'ora era ormai quasi buio. Di sotto gli alberi dei Victoria Embankment Gardens che li tenevano entrambi nascosti, Troy guardò il cielo e si chiese se gli sarebbe bastato a seguire Wayne quello spicchio di luna che sbucava a tratti tra le nuvole grigie dalle quali scendevano rare gocce di pioggia. Abbassò lo sguardo lungo la facciata della casa, oltre il terzo piano, fino alla pensilina di vetro. Wayne emerse dalla porta dell'albergo e si fermò sulla soglia. Teneva sul braccio un impermeabile, in mano un
cappello, e anche lui guardò il cielo. Si mise il cappello in testa, abbassò l'ala sul davanti, con un gesto ampio, a effetto, scosse l'impermeabile e se lo infilò chiacchierando amabilmente con il portiere. Si strinse la cintura alla vita senza allacciare i bottoni, come voleva la moda. Si tolse di tasca un pacchetto di sigarette, una scatola di fiammiferi e ne accese una, tenendo la fiamma chiusa tra le mani per proteggerla. In quel breve attimo di luce, Troy lo vide in faccia distintamente. Era solo la terza volta, se ne rese conto, che aveva davanti a sé la sua preda, eppure quei lineamenti gli si erano impressi nella memoria da settimane, la morbidezza del labbro superiore un po' gonfio, gli occhi celeste pallido che anche in quel momento sembravano sorridenti come quando li aveva visti tanto tempo prima nell'ufficio della Toscà. Era un sorriso soddisfatto. Troy lo avvertì come una provocazione. Quel sorriso poteva significare troppe cose. Wayne scosse forte nell'aria il fiammifero per spegnerlo e guardò un'altra volta il cielo. «Da che parte andrà?», bisbigliò Wildeve. «Verso la metropolitana. Conosco il suo modus operandi, te l'ho detto. «È ancora fermo». «No, ecco, ora si sta avviando». Wayne uscì di sotto la pensilina, voltò a sinistra e, in fretta, si diresse a est, verso l'Embankment. «Va verso il Tempie. Corri all'altro capo della strada». «Non dovremmo restare insieme?». «Jack, non c'è un momento da perdere, fai come ti ho detto, per l'amor di Dio, assicurati che quei due morti di sonno ti seguano». «Freddie, come possiamo?...». Ma Troy se n'era andato. Ancora una volta nella tana del coniglio. Wayne prese un biglietto a un distributore automatico e scese al marciapiede est delle linee Districi e Circle. Troy restò sulla scala finché non arrivò il treno della Districi, diretto a Plaistow. Quando ebbe la certezza che Wayne si fosse seduto, un attimo prima che si chiudessero le porte, s'infilò nella carrozza dietro la sua. Dall'interno lo vide, accanto a una vecchia signora vestita di nero, leggere il «Daily Mail». Non alzava gli occhi dal giornale. Neanche per strada Troy l'aveva visto voltare la testa, come se temesse di essere seguito. Pensò che non solo era la prova di una certa spavalderia, ma la dimostrazione che la Brack non gli aveva confessato di aver parlato del loro nascondiglio. Troy fu esaltato e commosso da questo tributo di lealtà, l'unico, perché non era certo che lei avrebbe tenuto il segreto e neanche, in assoluto, che sapesse tenere un segreto qualsiasi.
Le fermate si susseguivano, ma Wayne non alzò la testa dal giornale fino a Mark Lane, dove la District e la Circle si dividevano. Molti cambiavano treno, se anche Wayne fosse sceso, per Troy sarebbe stato difficile nascondersi. Wayne guardò verso il marciapiede, come per controllare il nome della stazione, poi riprese a leggere il giornale. Quando il treno ripartì, Troy cominciò a sospettare che fosse diretto a Stepney. Gli parve assurdo. Assurdo che l'assassino tornasse sulla scena del delitto. Uno schema da romanzetto. A Whitechapel, Wayne scese. Forse non andava a Stepney? Voltò a sinistra per Mile End Road, attraversò la strada davanti al Blind Beggar Pub e di nuovo voltò bruscamente a destra in fondo a Jubilee Street. Troy si tenne distante il più possibile e quando Wayne voltò a sinistra, in Adelina Grove, corse fino all'angolo. Wayne era a una quindicina di metri e andava con passo deciso verso Stepney Green. Non si era mai voltato. Troy camminava rasente i muri, temendo che i suoi passi risuonassero come zoccoli di cavalli nel silenzio della strada vuota, quasi strisciava, ma all'angolo tra Hannibal Road e Jamaica Street, o quello che restava di Jamaica Street, si rese conto che Wayne era scomparso. Era a pochi passi da Cressy Houses, a poche rampe di scale dalla casa di Wolinskj ma, dagli appunti di Miller, non risultava che Wayne fosse mai andato a casa di Wolinskj, erano segnalati solo gli incontri al Bricklayers Arms e lui ora si trovava proprio lì davanti. Spinse la porta con la scritta «boccale e bottiglia» e si trovò nel locale adibito alla vendita della birra anche da asporto, una stanza grande come un armadio dove sembrava a stento possibile brandire sia la bottiglia sia il boccale. Il proprietario, che faticava a tenere a bada la folla del sabato sera per dar da bere a tutti a meno di un'ora dalla chiusura, alternava ai rimbrotti alla cameriera per la sua lentezza, le esortazioni alla clientela impaziente. Troy si allontanò dal banco e dalla luce e cercò Wayne. Pensava che, essendo più alto della media dei londinesi e con le spalle più larghe, non avrebbe stentato a trovarlo. Invece non riusciva a vederlo. La cameriera si scostò dal banco e andò verso il fondo della stanza dov'era una fila di luci intermittenti; nello stesso momento anche il proprietario si allontanò e Troy riuscì a guardare lungo tutto il banco, fino all'estremità che toccava quasi la parete con una ribalta a cerniera. Wayne era lì, davanti a una pinta di birra, appoggiava i gomiti al banco e non sembrava più tanto alto. Parlava fitto con un ometto seduto su uno sgabello, nell'angolo. Troy lo vedeva di spalle. C'era qualcosa di familiare nella sua schiena curva, gobba. O stava così solo per ascoltare quello che gli diceva Wayne? Poi
l'ometto si voltò e Troy riconobbe Edelmann. Lo vide parlare con il barman, mettere una mezza corona sul banco e poi dare uno sguardo svagato alla stanza, così svagato che non poté non incontrarsi con quello di Troy. Nessuno dei due distolse gli occhi e il maggiore Wayne non poté non accorgersene. Aveva il bicchiere accostato alle labbra e quando, seguendo lo sguardo di Edelmann, vide Troy, le labbra gli si raggelarono, posò il bicchiere ancora intatto e scappò. «Merda!», esclamò Troy ad alta voce. Si voltò, si trovò di faccia un vecchio che andava a farsi riempire il boccale e restò incastrato contro il banco. Cercò di muoversi, spingendo a ritroso il vecchio fino alla strada. Il vecchio imprecò, cadde, il boccale si ruppe. Troy corse via. Wayne aveva già guadagnato terreno, ormai era quasi a Union Place. Si voltò a guardare se Troy lo stesse inseguendo e si inoltrò per Stepney Green, verso un mucchio di macerie dal quale emergeva, solitario, un camino, come un faro. Troy maledisse la propria sfortuna. Perché Edelmann si trovava proprio lì? Perché si era voltato e l'aveva visto? Perché, dopo tutto quello che sapeva di Wayne, chiacchierava con lui come con un vecchio amico? E Wayne, perché era scappato? E perché lui gli stava dando la caccia? Wayne ora non poteva far niente, niente se non correre e farlo correre fino a ridurre entrambi a pezzi. L'appuntamento era andato a vuoto. Chiunque Wayne avesse dovuto incontrare, chiunque Wayne avesse dovuto uccidere, chiunque... chiunque... Avrebbe mai saputo chi era? Scavalcò i resti di un muro e si trovò di nuovo sul pavimento di cucina che il bombardamento di Cardigan Street aveva messo a nudo, tra le ortiche e i rovi del «giardino», dove i ragazzi avevano tracciato col gesso lo schema del gioco del «mondo». Ora Wayne non si vedeva più. Troy corse verso il camino. All'improvviso Wayne sbucò da dietro un muro che lo aveva tenuto nascosto fino a quel momento. Non scappava più, gli stava andando incontro. Troy si fermò, altrimenti avrebbero sbattuto l'uno contro l'altro. Era una situazione assurda, se ne rendeva conto. Si mise le mani in tasca e trovò un po' di sicurezza nel toccare la piccola pistola d'argento che vi stava nascosta. Era quasi sotto quel grande, strano camino, con la luna che ogni tanto sbucava tra le nuvole e la pioggia leggera che gli si mescolava in faccia a rivoli di sudore. A una decina di metri da lui, Wayne si fermò, le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile, la pioggia che scorreva dall'ala del cappello. Da qualche parte, in lontananza, una sirena lanciava il suo appello lamentoso, era il solito falso allarme, da settimane non c'erano incursioni aeree. A Troy parve di sentire la pioggia più forte
della sirena, il respiro di Wayne più forte del battito del proprio cuore. Poi ci fu un gran silenzio e il rombo lontano di un motore attraversò il cielo con tutta la forza di un'illusione notturna. «Ho pensato che fosse venuto il momento di incontrarci», disse Wayne. Troy tacque. Non riusciva a pensare a niente. Guardava Wayne, che aveva le mani affondate nelle tasche e si chiedeva dove tenesse la Colt, cercava di ricordarsi se per caso non fosse mancino. «Ho saputo che si è divertito quando io non c'ero». Wayne aspettò che Troy gli rispondesse, ma Troy tacque. «È stata buona con lei?». Troy strinse la canna della pistola e con l'indice cercò il grilletto. «Allora, è stata buona?», ripeté Wayne. «Perché quando è buona lo è davvero, ma quando fa la cattiva, ah, quando fa la cattiva è meglio ancora». Wayne si tolse di tasca tutte e due le mani e unì i pollici con gli indici a formare due nitidi zero alati, quasi per indicare una oscena valutazione positiva, sciolse le dita e poi le intrecciò premendosele contro lo stomaco. Più tardi, con un tempo infinito per recuperare le immagini, con un dolore infinito per esercitarsi al gioco del senno di poi, Troy ripensò migliaia di volte a quei gesti. Che cosa aveva indotto lui stesso a staccare le dita dalla pistola, a togliersi le mani di tasca e a intrecciarle come aveva fatto Wayne? Perché? Che cosa era successo? Aveva obbedito a una convenzione tra gentiluomini? Forse un latente spirito inglese gli aveva suggerito che non era leale puntare una pistola contro chi non stava facendo altrettanto? L'ultima cosa che ricordava era il motore di un aereo in lontananza, avrebbe potuto giurarlo, quasi un ronzio, mentre il proiettile fischiava e lo gettava a terra. Poi un terribile, bruciante dolore al fianco sinistro e la sensazione che gli venisse rovesciato del tè caldo attraverso la camicia. Aveva la faccia nel fango, gli occhi pieni di fango mentre guardava Wayne che teneva ancora le mani strette contro lo stomaco e lo fissava di sotto l'ala del cappello inzuppata di pioggia. Wayne sciolse le dita e disse a qualcuno che stava alla sua sinistra: «Finiscilo». Troy non vedeva chi era. Stava disteso sul fianco, dove il proiettile l'aveva colpito. Tese lo sguardo, piegò la testa e cercò la pistola nella tasca sinistra del cappotto. Un uomo alto, vestito di nero, scarpe nere, calzoni a righe nere sottili, impermeabile nero lucido e cappello nero con l'ala larga, incombeva su di lui. Appesa alla mano destra teneva una grossa automati-
ca nera. Troy non riusciva a distinguere i lineamenti del suo viso. Lo vide uscire dall'ombra e venire verso di lui, il dito sul grilletto, strisciò nel fango e nel sangue, ma con il corpo pesava tutto a sinistra, dalla parte della pistola e il cane gli si era impigliato nella fodera della tasca. Si sforzò di guardarsi oltre la spalla. L'uomo si era fermato e lentamente alzava il braccio per mirargli alla testa. Troy, con uno strattone, liberò la pistola e, nello sforzo, si trovò contorto con tutto il corpo verso il suo assassino e in un unico movimento ininterrotto puntò e sparò. L'aveva mancato. Dio, l'aveva mancato! L'uomo era ancora lì, in piedi, con la canna della pistola verso di lui. Perché non sparava? Abbassò il braccio... oscillò quasi scosso da una mano invisibile, cadde all'indietro, lungo disteso a terra, schizzando fango dappertutto, ancora con la pistola in mano. Troy, barcollando, si alzò in piedi. Pensò che ci avrebbe messo un secolo a liberarsi dal fango che gli stava appiccicato addosso e dal dolore che lo trascinava di nuovo giù. Ma Wayne era fermo, irrigidito, davanti a lui. Cercò di puntargli contro la pistola, ma il dolore era troppo forte. Eppure Wayne non voleva rischiare, perché restava immobile. Il ronzio dell'aeroplano si fece più vicino. Troy lottò contro i propri muscoli e riuscì ad alzare la pistola. Wayne tese le braccia, con il palmo della mano rivolto verso di lui, in una supplica silenziosa o in un inconsapevole, inutile tentativo di parare i colpi. Il ronzio adesso era sopra le loro teste e attenuava, assorbiva, alterava, disperdeva la violenza di quel momento. Nell'oscurità parvero delinearsi delle forme dietro le spalle di Wayne, i sassi rotolavano, dai mattoni veniva un sussurro che si univa al ronzio che scendeva dall'alto. Le ombre diventarono figure, il sussurro si concretò in un incrociarsi di voci, il ronzio si trasformò in un rombo, profondo, cupo, risonante, che gli bollì nel sangue e gli fece precipitare il mondo addosso, mentre ancora si sforzava di mettere Wayne a fuoco e premere il grilletto. Puntò la pistola, ma il dito sul grilletto non gli obbedì. Poi fu come se attorno gli esplodesse un tuono e la terra si aprisse per inghiottirlo. 76 «Lei è stato proprio fortunato», gli disse l'infermiera appena si svegliò, ma quel risveglio durò solo pochi minuti e Troy ricadde subito in un sonno indolore, popolato di sogni in cui la Brack lo baciava meglio del meglio come avrebbe detto lei, e gli sorrideva come non gli aveva mai sorriso.
Quando tornò a svegliarsi, un'altra infermiera gli disse che era al London Hospital e presto si sarebbe rimesso e anche lei aggiunse che poteva considerarsi fortunato. Troy chiese che giorno era e seppe che era mercoledì, ma questo significò ben poco perché non riuscì a ricordarsi che giorno fosse l'ultima volta che gli era parso importante saperlo. Dunque si trovava al London Hospital, in una camera da solo ed era mercoledì. Era il 1944... o almeno l'ultima volta che ci aveva pensato era il 1944. Il mese no, quello proprio non riusciva a immaginarlo. Dormì ancora e sognò lo scantinato dove lui e Bonham avevano trovato i resti di Brand... solo che c'erano i resti ma c'era anche lui tutto intero, come una bambola di stracci su quel mucchio puzzolente e sgretolato di canniccio e pezzi d'intonaco, con l'odore di morte misto a quello di carburo, ma il sogno aveva trasformato l'odore di carburo nel profumo di Je Reviens e lui non vedeva la Brack, eppure doveva essere lì. Sporse la testa, ma il collo gli faceva male... c'era una figura alta, vicino alla fornace, vestita di scuro, era Bonham, Bonham col profumo di Je Reviens. Il giorno dopo il dolore tornò e, col dolore, la memoria. Aveva ucciso un uomo. Quasi certamente aveva ucciso un uomo. Gli aveva puntato la pistola alla testa e non l'aveva mancato, per uno strano colpo di fortuna non l'aveva mancato. Dopo aver fatto colazione restò disteso per un'ora. Dalla strada veniva il rumore del traffico. Un'infermiera entrò, aprì le finestre e gli disse che era una bella mattinata piena di sole e che l'aria fresca gli avrebbe fatto un gran bene. C'era anche Wildeve. Fermo sulla soglia. «Jack... chi era? Chi ho...?». Onions passò davanti a Wildeve, col cappello in mano lungo il fianco. Onions detestava i cappelli. Non c'era da aspettarsi niente di buono da Onions se gli era parso che la circostanza richiedesse l'uso del cappello. L'infermiera, nell'uscire, gli passò vicino in fretta e gli disse di non stancare Troy. Aveva avuto una brutta ferita anche se era stato molto, molto fortunato. Onions appoggiò il cappello sul tavolino a rotelle e, per un momento, guardò dalla finestra, poi si ravviò i capelli ai lati, col suo gesto abituale, mentre riuniva le idee. «Non so veramente da che parte cominciare». Si voltò e fissò Troy in faccia, col suo occhio severo. «Lei ha disobbedito agli ordini, ha preso iniziative personali, ha falsificato la mia firma su un'autorizzazione, ha comprato un'arma illegale, ha inscenato una sparatoria alla OK Corral... l'elenco è infinito!».
Onions stava curvo in avanti, con le mani strette sulla spalliera ai piedi del letto. «Senza questo ragazzo lei sarebbe morto. Se ne rende conto? Non avesse avuto il buon senso di prevenire i suoi movimenti, lei adesso sarebbe disteso sul tavolo dell'obitorio. Perché si è comportato così, Freddie, perché? Non si è reso conto del rischio?». Onions alzò una mano per impedirgli di rispondere, ma Troy non aveva nessuna intenzione di farlo. «So che lei ha affermato che Wayne era in missione. È così? In missione. Era tornato per eseguire un altro dei suoi lavoretti. Doveva ammazzare qualcuno. Lo capisce chi era questo qualcuno?». Questa volta Onions parve aspettarsi una risposta, ma Troy si limitò a guardarlo in silenzio. «La missione di Wayne consisteva nell'ammazzare lei, Troy. Una vendetta personale. Le ha teso una trappola, insieme a quella sua donna, e lei ci è cascato in pieno. Wildeve ha valutato la situazione per quello che era. Ma lei, era cieco?». Troy guardò Wildeve che, con l'espressione del viso e perfino con l'atteggiamento della persona pareva dicesse «Mi dispiace». Ma Wildeve non aveva niente di cui dispiacersi. Troy sapeva che gli aveva salvato la vita. Tra le sagome, i sussurri che avevano preso corpo e consistenza in mezzo ai mattoni, aveva riconosciuto la sua figura e la sua voce. Wildeve gli fece segno di no con la testa. Non aveva parlato a Onions di lui e della Brack. Troy guardò Onions: se avesse saputo della storia tra lui e «quella donna», l'avrebbe messa in cima al suo elenco «infinito». «Non è tutto. Sappia che lei non ha capito niente di Wayne. Ha lavorato per dodici settimane all'indagine per dirmi che aveva la natura dell'assassino, che gli piaceva uccidere e adesso abbiamo constatato che a uccidere è stato un altro. Wayne era troppo orgoglioso per sporcarsi le mani. Non ha ucciso Brand, non ha ucciso Von Ranke, non ha ucciso Wolinskj. Aveva un boia che lo faceva per lui. Qualcuno di cui non abbiamo mai sospettato l'esistenza». E lui, Troy, l'aveva ucciso. In un incrociarsi di pensieri e di sentimenti prima di tutto avrebbe voluto sapere chi era quell'uomo. Era già stato identificato? «Chi era?» chiese infine a voce tanto bassa che lo si sentì a stento. «Diglielo!» ordinò Onions a Wildeve. «Mah... non lo sappiamo. Non l'abbiamo noi il cadavere. L'ha portato
via Wayne. Aveva lasciato un'automobile vicino al Green, pronta per poter fuggire. Ha preso il cadavere e se n'è andato. Mi è rimasta solo la pistola». Onions si rivolse infuriato a Troy. «Contento? Soddisfatto del risultato? Ci è rimasta la pistola». «No», bisbigliò Troy. «No?» tuonò Onions. «Possiamo accusare Wayne di favoreggiamento in tentato omicidio... il mio». «Lei non è al corrente, Freddie. L'omicidio c'è stato e con tutte le regole: Edelmann è morto». Perché Edelmann, pensò Troy, lo aveva lasciato al Bricklayers Arms. «Edelmann?». «Morto. Gli hanno sparato con la stessa pistola che a lei ha portato via mezzo rene». Troy rifletté per un momento, prima di parlare. Non sapeva come avrebbe reagito Onions. «Allora lo abbiamo in mano», disse a voce bassa. «In mano! In mano! Lei ha perso il conto. Lo sa che giorno è oggi?». «Giovedì», rispose Troy «giovedì...». «Giovedì. Due giorni dopo il D-Day, per essere precisi. Il D-Day è stato martedì. La Normandia è così piena di schegge che sembra il cortile di un ferravecchio. Wayne è stato mandato in Francia fin dal primo giorno. È intoccabile». «Perchè?». «Perché l'unica possibilità che avevamo era di fermarlo entro la nostra giurisdizione. In Francia dovremmo convincere i militari e loro avrebbero una raccolta di alibi come un blocchetto di buoni alimentari. Se n'è andato, Freddie, e per sempre». Troy appoggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. Onions abbassò la voce, come se fosse riuscito a smorzare parte della sua profonda agitazione. «Di regola, dovrei sospenderla. Ma questi ciarlatani dell'ospedale mi dicono che sarà fuori servizio per tre mesi, forse di più, quindi lasciamo che gli avvenimenti seguano il loro corso, non svegliamo il can che dorme, dorma anche lei, glielo consiglio». E Onions prese in mano il suo detestato cappello floscio. «Verrò a trovarla alla fine della settimana», concluse con una voce quasi normale e se ne andò. Wildeve venne avanti e sedette sul bordo del letto. Per qualche minuto
solo il brusio del traffico della strada ruppe il silenzio. «Va tutto bene», disse Wildeve, «hanno assicurato che quando uscirai di qui sarai perfetto». «Perfetto?», sorrise Troy. «Hai perso parte di un rene, ma anche con uno solo si mantengono intatte tutte le proprie funzioni». «Le proprie funzioni», ripeté Troy, meccanicamente. Wildeve si decise ad affrontare una spiegazione inevitabile. «Non so come dirtelo. Io me lo immaginavo che Wayne sarebbe andato a Stepney. Avevo sempre pensato che per lui fosse una specie di lavoro lasciato in sospeso. Veramente mi preparavo da settimane. Ero rimasto in contatto con Edelmann fin da quando mi avevi portato sotto l'arcata della ferrovia. Credo che ti volesse bene davvero, ma di solito un vecchio bolscevico queste cose non vuole che si sappiano». Troy pensò che soprattutto lo disorientava la rapidità con la quale si affastellavano gli avvenimenti nella esposizione che ne faceva Wildeve. Di che cosa stava parlando? Come aveva capito di dover andare a Stepney? Lui stesso non se n'era reso conto fino a quando... «Come mai ci sei andato? Ti sei lasciato guidare dal fiuto del poliziotto?». «Sì, se ti piace pensarlo». Era come sentir parlare se stesso, la costruzione della frase, l'intonazione della voce, così si esprimeva Wildeve. «Anche se forse mi avvicinerei di più alla verità se ti dicessi che a tutti quegli eroi sbandati, Wayne aveva fatto troppe domande. Avevo la sensazione che ci fosse qualcos'altro. Mi sbagliavo. Ucciderti non poteva essere quel qualcos'altro. Quindi il qualcos'altro c'è ancora... non so se capisci che cosa voglio dire». Più me stesso che mai, pensò Troy. «Sabato non ho fatto quello che tu mi avevi detto. Sono andato al Savoy e ho telefonato a Edelmann. Poi ho preso un taxi e sono corso a Stepney. Se ci fosse stato meno traffico, sarei arrivato prima di te. Edelmann aveva ad aspettarlo la sua auto a nolo. C'eravamo già messi d'accordo. Lui ha cercato di trattenere Wayne il più a lungo possibile, ma non ci è riuscito e Wayne mi ha fatto fare un volo mentre usciva dal pub. Sono rimasto stordito per un minuto o due, Edelmann mi ha aiutato ed è stato un errore perché non potevamo permetterci di perdere tempo tutti e due. L'abbiamo pagata cara. Quando tu ti sei messo a rincorrerlo ti abbiamo seguito, ma
eravamo troppo lontani. Ho sentito quell'altro tirare a caso contro di te, chi sa di dove era sbucato, mi aveva colto di sorpresa. Ti ho visto sparargli e sono corso da te, quando è scoppiata la bomba e...». «La bomba? Sono stato colpito da una bomba?». «No, la bomba è caduta a un centinaio di metri, ma tu eri proprio sopra quella maledetta cantina e lo spostamento d'aria l'ha scoperchiata. È stato come se si fosse aperta la terra e ti avesse inghiottito». La terra l'aveva inghiottito. Si ricordava di aver avuto quella sensazione. Ed ecco che si spiegava il sogno. In quella cantina c'era stato davvero, non se era sognata. «Wayne ha raccolto la pistola e si è buttato il cadavere di quell'altro sopra una spalla come un sacco di patate. Strano. Wayne è robusto ma sembrava che l'altro non pesasse niente. Poi ci ha visti e ha cominciato a sparare». Wildeve mostrò la manica della giacca e infilò un dito nel buco del proiettile. «Sei stato fortunato», disse Troy a bassa voce. «Edelmann no, purtroppo. Il proiettile che non ha colpito me, ha ucciso lui, poveretto. Io ho tirato un mezzo mattone addosso a Wayne e gli ho fatto cadere la pistola, ma è scappato, con quel cadavere sulle spalle, è scappato. Ancora non riesco a crederci. Perché non l'ha lasciato lì?». Troy ci pensò. E pensò che a quel perché avrebbe saputo rispondere. «Ma hai detto che la pistola ce l'hai». «Sì, è piena di impronte. Se riuscissimo a confrontarle con quelle di Wayne lo inchioderemmo». Wildeve restò zitto per un momento, poi disse: «Freddie, davvero non sapevi che eri tu quello che voleva uccidere?». «No, non lo sapevo. E tu?». «No... non ne avevo la minima idea. Invece...», Wildeve si strinse nelle spalle. «Invece ha ucciso Edelmann», disse Troy. Wildeve fece segno di sì con la testa. Aveva gli occhi bagnati di lacrime. «Dove sono i miei vestiti, Jack?». «Come?». Troy scese di scatto dal letto, sentì un dolore forte al fianco, ma non vi badò e aprì l'armadio. «Freddie, che cosa ti sei messo in mente?». I vestiti erano piegati in ordine dentro l'armadio. Troy prese i pantaloni. «Dobbiamo fare un lavoro».
«Freddie!». «L'hai sentito, non sono stato sospeso. Godo ancora della licenza conferitami dal re. Sei venuto in automobile?». «Sì, qui di fronte c'è la tua vecchia Morris, ma non possiamo...». «Sì che possiamo. Aiutami a infilarmi la camicia». Wildeve stava fermo. «Jack! Fa' presto!». 77 Corsero in automobile lungo l'Enbankment. Poi a Chelsea e dritto in Tite Street. «Ti ripeto che l'ho cercata in Tite Street. Non c'è. La cameriera non l'ha più vista da venerdì sera. Accetta la verità, Freddie: se n'è andata. E quel povero scemo di Gutteridge è rimasto lì notte e giorno». Troy faticava a respirare. Si era mosso troppo in fretta e la sorpresa di trovarsi sul fianco un taglio di quindici centimetri con una buona dozzina di punti aveva inciso sulla sua energia iniziale. Aveva pensato, chi sa perché, di non portare più tracce, fisicamente, di quella sparatoria, se non, forse, un piccolo foro di proiettile. «Non la casa», bisbigliò, «la piazza». «Quale?». «Quella dove il vecchio alleva il maiale». Passarono davanti all'agente Gutteridge, che aveva perfezionato l'arte di dormire in piedi con gli occhi aperti e si fermarono davanti alle siepi cespugliose della piazza. Lo sforzo di scendere dall'automobile diede l'affanno a Troy e Wildeve lo aiutò. Troy lo guidò tra le patate e i cavolfiori al capanno Nissen dove la Brack teneva gli attrezzi. Il maiale era nel porcile, e dal naso sporto oltre il recinto di lamiera ondulata sbuffava allegramente nel sole del mattino. La porta del capanno era chiusa con un lucchetto. Wildeve le diede un calcio, accese la torcia elettrica ed entrò. «Oh Dio», disse, «oh Dio!». Troy gli tolse di mano la torcia mentre stava per lasciarla cadere. Wildeve si piegò sulle ginocchia, indietreggiò barcollando verso la luce del giorno e vomitò sulle piante di patatine novelle che, in una nitida fila verde smeraldo, s'inchinavano con grazia al vento leggero, pateticamente inopportune.
Troy alzò la torcia. Sapeva bene che cosa aveva visto ma non poteva fare come lui, doveva guardare e guardare ancora. Era nuda, tenuta a fondo dentro la tinozza di ferro dalla lastra di marmo di un caminetto appoggiata sopra il diaframma. Aveva gli occhi aperti e una piccola macchia nera, come quella che Troy aveva immaginato di trovarsi sul fianco, le spiccava in mezzo alla fronte. La tinozza era piena d'acqua, ma il naso e la punta delle dita emergevano in superficie e galleggiavano come erbe su uno stagno. Così strano è il meccanismo della mente umana che Troy, istintivamente, pensò alla Ofelia di Millais, fluttuante sull'acqua tra i fiori, più bella da morta che da viva. Anche se smorzato dall'acqua l'odore di morte riempiva l'aria. L'aveva sentito appena era entrato nel capanno. Si appoggiò alla parete di ferro. Wildeve aveva smesso di vomitare, ma restava in disparte, ingobbito, piangendo silenziosamente. «Perché ha fatto una cosa simile?» disse. «Perché...? Le ha sparato.... l'ha affogata...? Non capisco». «Non l'ha affogata. L'acqua è solo il tentativo di diminuire l'odore del cadavere. E non le ha sparato. Sono stato io». Wildeve alzò la testa e si pulì con la manica della giacca un filo di saliva che gli colava dalle labbra. Il vecchio correva verso di loro, grande e grosso, per il vialetto, la luce del sole brillava sulla sua testa calva e il maiale grugniva di gioia. «Ehi, proprio di te avevo bisogno. Accidenti a Adamo ed Eva, un delinquente mi ha rubato la tinozza, sai, quella che uso per lavare il maiale...». «L'ho trovata», disse Troy tranquillamente. «Grazie a Dio! Dov'è, nel capanno?». Troy cadde a terra, in avanti, sentì il sangue colargli dalla fronte. Il vecchio lo afferrò, lo sollevò tra le braccia come avrebbe fatto un padre con un bambino piccolo. «Ehi, amico, tutto bene? Come sei pallido!». Reggendolo senza fatica con le sue braccia robuste lo riportò fino alla vecchia Bullnose Morris e lo posò delicatamente sul sedile accanto al posto di guida. «Attento al capanno», disse Troy, «meglio non entrarci». «Hai ragione, amico. Si stava meglio una volta. Quando torni?». «Non so», rispose Troy senza più voce, «ma torno». Wildeve appoggiò la fronte sul volante, aveva ancora l'affanno nel respiro.
«Non capisco, Freddie. Non capisco». «Voglio andare in Orange Street», disse Troy a bassa voce. «Dovresti andare all'ospedale». «In Orange Street». Wildeve accese il motore e inserì la marcia. «Dove ci porta tutto questo, Freddie?». «In Orange Street», rispose Troy, «ci porta in Orange Street». 78 Troy disse a Wildeve di aspettarlo in automobile. Dopo la prima rampa di scale pensò che il suo corpo stesse per spaccarsi in due. Non aveva mai provato un dolore così forte. Seguitò a salire, sapeva che se ci avesse messo troppo tempo Jack sarebbe venuto a cercarlo. Si teneva il palmo della mano schiacciato contro i punti con la sensazione che già conosceva, di una tazza di tè caldo che gli si rovesciasse addosso attraverso la camicia. La porta dell'appartamento della Toscà, all'ultimo piano, era chiusa. Si frugò nella tasca della giacca e trovò, infilata nell'anello insieme alle altre, la chiave che lei gli aveva dato. Aprì la serratura e spinse leggermente la porta lasciando che girasse sui cardini. Entrò, si abbandonò contro il muro con tutto il suo peso e, senza più fiato, guardò il disordine che aveva intorno. Sul tavolo c'era la caffettiera mezza piena, preparata per due, come se non avesse voluto ammettere che lui non era tornato. Una pizza mezza mangiucchiata ornava la tavola. Huck Finn era a faccia in giù sull'asse da stiro. Le calze erano state messe ad asciugare su un filo sopra il lavandino, mucchi di indumenti smessi stavano appesi alla spalliera delle sedie o erano sparsi per terra, alla rinfusa, come li lasciava lei di solito... e c'era sangue dappertutto. Sangue sulle lenzuola, sangue sulle pareti, sangue sul pavimento. Scuro, secco, increspato. Un mattatoio all'ultimo piano di una casa. Sangue, tanto sangue che ne sentiva il sapore sulla lingua e sulle labbra... ma quell'altro sangue non era della Toscà, era il proprio sangue che gli scorreva tra le dita, lungo le gambe e gli formava, ai piedi, una piccola pozza che si aggiungeva a quell'altro sangue raggrumato. 79 Troy aveva dormito. Era passato un secolo. Durante il sonno e al risveglio c'era stato tutto un fluire di visite.
Sua madre, artritica, che, tra due bastoni e due figlie, era venuta in città per la prima volta dopo la morte di suo marito. Non parlava inglese con lui, ma il russo ha mille modi diversi per dire stupido. Il fratello Rod, il petto adorno di nastrini, l'eroe redivivo, il capo della famiglia, era andato a trovarlo per dirgli che tutto era a posto, la camera era stata pagata e lui non doveva preoccuparsi di niente. Ma Troy era preoccupato. Voleva star solo e non ci riusciva. Bonham, con l'elmetto stretto tra le ginocchia, gli aveva sbucciato un'arancia, una cosa rara, preziosa in quel momento. Il profumo era rimasto sospeso nell'aria e tutti e due lo avevano aspirato in silenzio, come un soffio che li riportasse al passato. Bonham si era rimesso l'elmetto, aveva annusato la buccia dell'arancia e si era rifiutato di assaggiarne anche un solo spicchio, perché l'aveva portata solo per Troy. Poi aveva tirato un gran sospiro e aveva borbottato qualcosa che poteva essere un'invocazione o una bestemmia. Quando, un giorno, Troy si svegliò da un sonno pomeridiano vide che nella stanza c'erano Kolankiewicz, Anna e un bambino. Anna era voltata verso la finestra e guardava la vivida luce di giugno ravvivare la facciata della casa di fronte. Kolankiewicz stava giocando a carte. Troy capì che il bambino era Gamberetto Robertson che stava insegnando a Kolankiewicz il gioco delle tre carte. Troy osservò come a Kolankiewicz venisse concesso di vincere due volte e si divertì della sorpresa del bambino quando Kolankiewicz, dicendogli che ora si faceva sul serio, gli portò via più di mezza corona. Anna si voltò e vide che era sveglio. «Buongiorno, sconosciuto», disse. Kolankiewicz e il bambino alzarono gli occhi dalle carte. «Il signor Robertson ha qualcosa da dirle, Troy. Non è così, signor Robertson?». Nel pronunciare la domanda, Anna si era rivolta verso il bambino, che nonostante sembrasse imbarazzato, non arrossì. Si avvicinò al letto. «Noi pensavamo che eri un perditempo», disse, senza incertezze. «Ah», rispose Troy, chiedendosi a che cosa preludesse quell'affermazione. «Poi mio padre ha letto sul giornale che tu cercavi chi aveva fatto a pezzi quell'uomo, quello del braccio, Solo che era stata una donna, una gnocca di lusso e tu l'hai trovata in una capanna vicino a Chelsea. Era stata lei, vero, a farlo a pezzi?». «Sì», rispose Troy, «era stata la gnocca di lusso».
«E forse, anzi è quasi sicuro, ha ammazzato lei anche l'uomo ombra». «Chi?». «L'uomo ombra. Wolinskj. Mio padre lo chiama così. Lui ha il negozio di barbiere vicino a casa, in Mile End Road. Ogni volta che entra, diceva mio padre, anche se è giorno sembra notte». «Ah». «Così abbiamo capito che non eri un perditempo, eri un eroe». «Quando l'avete deciso?». «Beh... ti hanno sparato». «Per questo sono un eroe?». «Non solo per questo! Comunque abbiamo fatto una colletta per te e abbiamo raccolto mezzo dollaro. Solo che adesso me l'ha vinto questo signore alle tre carte». «Lui ha vinto, ma non devi sentirti mortificato perché lui è un maestro alle tre carte e tu non lo sapevi. Non conosco nessuno nella polizia metropolitana e nemmeno nella polizia di tutte le contee intorno a Londra che accetterebbe di giocare con lui». Il bambino taceva. «Col vostro permesso», disse Kolankiewicz, e lasciò cadere sul letto di Troy, come una pioggerella, una mezza corona fatta tutta di monetine da un penny e da mezzo penny. Entrò l'infermiera e disse che Troy doveva riposare. Anna gli diede un bacio, gli passò una mano tra i capelli e gli disse che l'aveva sempre saputo che era uno stupido. A Troy non restò che chiedersi quanto sapesse sul suo conto. Sulla porta, che l'infermiera teneva aperta per incoraggiarli ad andarsene, il bambino si fermò. Aveva qualcosa in mente. «Ehi, è stata la gnocca di lusso a spararti, eh?». «Sì», rispose Troy. Dormì. Passò un altro secolo. L'infermiera gli portò un biglietto. Qualcuno chiedeva di vederlo. Troy lesse «Frederick, marchese di Fermanagh» col suo indirizzo in Irlanda. Dietro c'era scritto: «Devo parlarle, per piacere». «Gli risponda "No"», disse Troy. Avevano lo stesso nome. Ma non si ricordava che lei l'avesse mai chiamato così. 80
Era tornato all'ospedale da una settimana quando una macchina scoppiettante, con il motore che batteva in testa, attraversò i cieli. Così vivo era il rumore che poteva vederla con gli occhi della mente, un vecchio, decrepito macinino, peggio, molto peggio della sua vecchia Morris che in strada buttava fuori dal tubo di scappamento un fumo nerastro. Ma quella macchina non era in strada, era in cielo. Poi il rumore s'interruppe e si sentì un sibilo, simile a quello di un ramo che cadesse di schianto durante un temporale e un colpo secco, violento, come se le porte di ferro dell'inferno si fossero chiuse di colpo. Le finestre della sua stanza si trasformarono in frammenti di cristallo che gli inondarono il letto di schegge scintillanti. Non si tagliò, ma si trovò tutto coperto come di polvere. Accorse l'infermiera. Disse: «Povera me, povera me», con un piede liberò il freno alla base del letto e lo spinse in corridoio. L'aveva sentito! L'aveva sentito! Nikolaj aveva detto che nessuno l'avrebbe sentito arrivare. «Se lo senti sei morto!». Dicembre 1948 81 Non era stata una bella guerra. L'aveva odiata. E quando era finita l'aveva rimpianta. Era tornato a lavorare in ottobre. La collera di Onions si era trasformata in un silenzio costante. Era sottinteso che della sua promozione non si sarebbe più parlato. Wildeve era stato nominato sergente. Se l'era meritato. Lo aveva sostituito brillantemente durante la sua assenza ed era emerso dalla torbida vicenda della «Vacca nella tinozza», secondo la crudele definizione di Scotland Yard, senza macchie sul suo stato di servizio. Per quanto ne sapeva Troy, non aveva parlato con nessuno dei suoi rapporti con Diana Brack e quando Troy aveva denunciato l'assassinio del sergente maggiore Larissa Toscà, dell'esercito degli Stati Uniti, e l'aveva classificata come «informatrice», non gli aveva fatto domande né aveva azzardato supposizioni. Per qualche tempo avevano avuto lo stesso grado e avevano diviso lo stesso ufficio, poi, nell'estate del 1945, due giorni dopo la vittoria sul Giappone, tre giorni prima del suo trentesimo compleanno, per Troy era arrivata la promozione. Era stato nominato ispettore. Onions si era pla-
cato. Nonostante tutto, Troy non lasciava passare una settimana di lavoro senza pensare a dare le dimissioni. Neppure con l'aumento della criminalità nel dopoguerra era riuscito a dare un senso alla sua professione. Odiava la pace più di quanto non avesse odiato la guerra. Suo fratello Rod non era dello stesso parere. Era arrivato alla fine della guerra come un eroe, adorno di medaglie e gli si erano aperte nuove prospettive. Aveva annunciato la propria intenzione di candidarsi al Parlamento non appena Churchill avesse sciolto la coalizione. Durante l'estate si era candidato per il sud Hertfordshire e quando il lungo, lento spoglio era stato completato, si era scoperto, e tutti ne erano rimasti sorpresi tranne lui, che aveva vinto il seggio per il partito laburista. Nel 1948 sedeva ormai al banco dei ministri come Sir Rodyon Troy, baronetto, Comandante di squadriglia della Royal Air Force (Riserva), membro del parlamento, decorato per meriti speciali, croce al valore aeronautico, vice ministro dell'aeronautica. Rod amava la pace. La pace era stata buona con lui quanto la guerra. Poche cose, raramente, alteravano la sua tranquillità. Un giorno telefonò a Troy, apertamente infastidito: «Perché Tom Driberg vuole il tuo numero di casa?». «Non lo so», rispose Troy. «Daglielo e lo scopriremo». Lo sentì dire qualche parola alla sua segretaria e capì che teneva una mano sul ricevitore. «Freddie, non so di che cosa tu ti stia occupando ma è meglio tenersi lontani da Driberg... non ha una gran reputazione. E se lo merita, visto che mi ha attaccato un bottone al telefono all'ora del tè». «Non mi sto occupando di niente che debba preoccuparti. Se sta cercando un modo per sfuggire all'ordine burocratico, digli che mi chiami a casa». «Non sapevo nemmeno che lo conoscessi». «Papà lo invitava alle "cene con chiacchiere", come le chiamavi tu, non ti ricordi?». «No, non mi ricordo. Eppure difficilmente avrei potuto dimenticarmene. Come mai? Dov'ero?». Riattaccò. Troy pensò che non vedeva Driberg da quando, nel 1944, era andato sulla costa a cercare l'ispettore Malnick. A giudicare da quello che scriveva sui giornali, passava molto tempo all'estero, contrastando così, a quanto diceva Rod, il compito dei funzionari di partito incaricati di garantire la presenza in aula dei loro parlamentari.
A casa, in Goodwins Court, Troy sedette al pianoforte. Aveva scoperto da poco Thelonious Monk e gli piaceva studiare una musica che lo attirava pur essendogli completamente estranea. Che cosa aveva provato Debussy quando aveva usato il ragtime per la prima volta in Children's Corrier? Suonò il telefono. Era Driberg. «Ho bisogno di parlarle. Non potrebbe venire a casa mia?». «Perché non viene lei da me?». «Preferisco di no. Si tratta di una questione personale. Non sarebbe opportuno che io fossi visto far visita a un poliziotto». «Mentre è opportuno che un poliziotto sia visto far visita a lei?». Driberg non raccolse l'obiezione e diede a Troy un indirizzo in Knightsbridge. Troy disse che sarebbe arrivato entro un'ora. Si augurava che Driberg non avesse avuto di nuovo delle noie con la polizia. In quel caso non avrebbe potuto aiutarlo. Era un dicembre molto freddo. Giorni e notti di un gelo persistente, che l'insufficienza delle razioni alimentari rendeva più difficile da sopportare. Perfino il pane, quella pappa grigiastra, era razionato. Andò a Knightsbridge, con indosso due cappotti, uno sull'altro, pensando a come sarebbe stato bello avere un'automobile col riscaldamento. Driberg lo accolse con un saluto caldo e accogliente. Aveva perso un po' di capelli sulle tempie, ma quelli rimasti gli s'increspavano ancora in piccole onde come un cartone ondulato e aveva sempre quello sguardo da cane spaventato. «Molto gentile da parte sua, Troy», disse, «molto gentile». Lo aiutò a togliersi i vari strati di lana di cui era ricoperto e Troy si sentì dieci chili di meno addosso. «Se la questione è personale devo pensare che non riguardi la mia professione», azzardò Troy. Driberg aprì la porta che dall'anticamera dava in salotto. «Ho detto personale? Intendevo delicata». Troy l'aveva capito. Seduto su una poltrona c'era un uomo. Era di spalle, Troy vedeva solo la parte superiore della testa. Non si era alzato, sentendoli entrare, ma aveva incurvato le spalle, e si era sporto un po' in avanti. Driberg s'inoltrò nella stanza, e chiese a Troy se voleva uno scotch. Troy si avvicinò lentamente al camino e si voltò a guardare l'altro ospite. Strano, pensò, quanto si riusciva a capire dalla cima di una zucca semipelata. «Neville?», chiese con cautela, quasi incredulo. Pym alzò gli occhi dal bicchiere, reggendolo ancora con tutte e due le
mani. Era pallido, sembrava che non dormisse da molti giorni. Il tempo non era stato clemente con lui da quando si erano visti al MI5 più di quattro anni prima. «Come va,Troy? Sei stato gentile a venire subito». Driberg gli si mise accanto, con la schiena verso la fiamma del camino e diede a Troy il bicchiere con lo scotch. «Come mai non mi hai chiamato tu, direttamente?». «Non ero sicuro che mi avresti risposto», disse Pym, «il nostro ultimo incontro non è stato particolarmente felice». «Ho l'impressione che anche l'incontro di oggi non sarà diverso». «Si tratta di una questione delicata», intervenne Driberg. «Non è sempre così?». «Perché non si siede, Troy? È meglio che sia Pym a spiegarle tutto». Troy sedette sul bordo di cuoio del parafuoco, bevve un sorso del suo scotch e lasciò che Pym parlasse. Qualunque cosa potesse dirgli, era certo di essere stato chiamato per le possibilità che offriva la sua professione. Pym si appoggiò allo schienale della poltrona e gli ci volle un po' di tempo per decidere da che parte cominciare. Driberg guardava nel vuoto. Troy valutava la qualità eccezionale dello scotch. «Ho passato la notte scorsa in prigione» disse bruscamente Pym. Troy assentì, serio in viso, con gli occhi fissi sul bicchiere per evitare che i loro sguardi si incontrassero. «Sono stato arrestato in Holloway Road, mi hanno portato al comando di polizia... sempre lì, in Holloway Road e... io... insomma... io...». «Neville», lo interruppe Troy, «coraggio, parla». «Oh Dio» mormorò con un gemito Pym. Inghiottì un grosso sorso di scotch e riprese a parlare. La reticenza aveva ceduto a un accento disperato. «Ero nel bagno di un pub in Holloway Road. Mancava, credo, mezz'ora alla chiusura. Di solito è il momento buono. Quelli che hanno bevuto troppo sono già passati a fare pipì e se ne stanno andando a casa... e se uno gira attorno al cesso degli uomini sa che anche gli altri cercano la stessa cosa. In quel locale, soprattutto, il mercato è interessante, io ci vado abbastanza spesso, c'è gente giovane. All'andata prendo la Piccadilly in centro e torno indietro in taxi se trovo qualcuno che mi posso fidare a portare a casa. La notte scorsa andava tutto bene, eravamo una mezza dozzina... nessuno che conoscessi in particolare... ci si faceva qualche giochetto l'un l'altro, un lavoro di gruppo, guardi e scegli quello che ti va meglio. È andata male. Di
colpo è entrato un poliziotto in divisa, grande come un armadio, ci ha gridato un "porci schifosi" e tutti sono scappati». Pym s'interruppe. Tremava, gli si abbassava la voce. «Perché non sei scappato anche tu?», chiese Troy. «Non ci sono riuscito. E neanche il ragazzo che era con me». S'interruppe e finì di bere il suo scotch. Driberg gli tolse subito di mano il bicchiere e glielo restituì quasi pieno. «Ero in ginocchio, gli davo una succhiata e... il ragazzo...». «Il ragazzo?». «Sedici anni, non meno». «Così ti hanno beccato». «Già». «Un agente semplice o...?». «Un sergente. È importante?». «Con un agente semplice sarebbe stato più facile intervenire. Quanti anni aveva?». «Una quarantina». Troy pensò che avrebbe avuto poche possibilità di indurre alla ragione un poliziotto di carriera che a quarant'anni andava ancora in giro in divisa e certamente non avrebbe gradito l'ingerenza nel proprio lavoro di un ispettore investigativo che aveva dieci anni meno di lui. «Ci ha portato tutti e due al comando lì vicino. Col ragazzo non so com'è andata a finire. Quanto a me, mi hanno buttato fuori alle sei con un'accusa di grave oltraggio al pudore. Gli ho dato un nome falso, ma loro mi hanno frugato in tasca, hanno trovato la patente, due lettere con l'indirizzo... Gli ho detto che ero un giornalista. Non mi pare che l'abbiano creduto». «Tu adesso dove lavori, Neville?» chiese Troy. «Dio buono, Troy, non hai ancora capito qual è il problema? Io sono ancora al MI5!». Cadde nella stanza un silenzio improvviso. Si sentiva solo il ticchettio di un orologio da tavolo e insieme il respiro rauco di Pym. «Cominci a capire perché ti abbiamo mandato a chiamare?», chiese Driberg. «Neville è venuto da me e io ti ho telefonato. Ho pensato che saresti stato... comprensivo». «Ah sì, lo sono, ma... secondo voi che cosa posso fare?». «Qualunque cosa tu riesca a fare, te ne sarò grato», disse Driberg con calore. «Non posso lasciare che si sappia quello che è successo», proseguì Pym,
«per me sarebbe la fine. Perderei ogni affidabilità. Direbbero che sono suscettibile di ricatto... anche se uscissi dal tribunale assolto e con le scuse della polizia, sarei compromesso, mi troverei immediatamente al bando». «Ci sono altri che, meglio di me, potrebbero far mettere tutto a tacere», obiettò Troy. «Non conosci nessuno di cui poterti fidare?». «Troy, la questione non è se ci sia o meno qualcuno di cui mi possa fidare, è che nessuno si fida di una checca!». «Quello che pensavo», intervenne di nuovo Driberg, con calma, «è che se tu potessi occuparti, per esempio, di liberarlo dall'accusa con una cauzione, non risulterebbe mai che non è un giornalista e la notizia non arriverebbe alla stampa». Troy guardava ora l'uno ora l'altro. Non riusciva a capire perché avessero scelto proprio lui, se non perché lo conoscevano entrambi, e perché pensassero che, come aveva detto Driberg, sarebbe stato «comprensivo». Anche se, dopotutto, lo era davvero. Si tolse di tasca il suo libretto degli appunti con la copertina nera e lo aprì a una pagina nuova. «Come si chiama il sergente?». 82 «Parliamoci chiaro», disse il sergente con enfasi grottesca «gliel'aveva preso in bocca e glielo succhiava». «Non ne dubito», affermò Troy. «L'ho visto con i miei occhi! Li ho separati con le mie mani!». «Conosceva il ragazzo?». «No, non c'è niente a suo carico». «L'avete trattenuto tutta la notte?». «No, me lo sono portato fuori e gli ho fatto sputare merda». Troy si chiese a che genere di accordo fossero arrivati con il ragazzo. Lo avevano rilasciato in cambio di una denuncia contro Pym? «Quanti anni aveva?». «Sedici. Se fosse stato più giovane, avrei fatto sputare merda anche all'amico che le sta a cuore, Troy». Pym era stato fortunato a non aver preso botte, anche se in quel caso per Troy sarebbe stato più facile cercare un accordo in suo favore, ed era stato fortunato ad aver scelto un ragazzo dell'età giusta, anche se al momento quasi certamente non ci aveva pensato.
«Non è un mio amico». «Davvero? Lei difende le checche che neanche conosce?». Se Troy si era illuso di impressionare il sergente con la superiorità del grado, ormai non ci contava più. Non era uomo da convincere o blandire e Troy cominciava a pensare che fosse inutile seguitare a provarcisi. «Io lo so perché lei è qui», proseguì il sergente, «l'ho capito da come parla. Parla come quell'altro. Stessa categoria. Compagni di scuola? Dove eravate, a Eton?». «A Harrow», rispose Troy, con leggerezza. «E così vi sentite al disopra della legge, eh? Cultura da fichetti, una legge per i ricchi e una per i poveracci. Ma con me non funziona, signor Troy. Io la conosco bene, tutti la conoscono alla polizia metropolitana, lei è uno dei migliori, tutti lo sanno, alla fine della guerra era una leggenda, circolavano più storie su di lei e sulla Vacca nella tinozza che sul dottor Crippen e sui cadaveri rubati a Edimburgo, messi insieme. Lei è famoso, signor Troy, è un personaggio, ma quello che sta facendo non è degno di lei, dovrebbe occuparsi di qualcosa di meglio che proteggere le checche. Lasci perdere, signor Troy, non ho altro da dire». 83 «Neville, sono Troy. Non ho buone notizie, purtroppo. Il sergente non si smuove. Se fosse un agente semplice potrei ricorrere ai suoi superiori, ma non c'è ispettore di sezione che voglia rischiare, con un'azione di forza su un proprio sergente, una spaccatura interna che sarebbe insanabile». «Capisco», rispose Pym, stanco, a voce bassa, «di insanabile resta la mia situazione». «Potresti tentare di ridurre l'imputazione». «Hai mai sentito che riducano l'imputazione in un caso come questo? Ti ringrazio, Troy», una profonda irritazione gli alterò la voce, «ma non credo che né tu né io possiamo fare altro». Pym riattaccò e Troy si trovò col ricevitore in mano, senza interlocutore. Quel «né tu né io» era stato pronunciato con un tono enfatico, addirittura tagliente. Troy non pensava di esserselo meritato. A meno di una settimana da Natale, Pym gli telefonò a casa. «Credi che potresti venire da me ad Albany, Troy?». «No, Neville, non credo proprio». «Ti prego, Troy, è importante», Pym era stato un momento zitto. «An-
drebbe bene alle nove? È l'ultima cosa che ti chiedo». Troy avrebbe dovuto cogliere l'avvertimento che c'era in quelle parole. La porta non era chiusa a chiave. Pym era riverso accanto al camino, le pareti erano imbrattate di materia cerebrale. Si era puntato la canna della pistola di servizio contro il palato e aveva premuto il grilletto. Appoggiata all'orologio sulla mensola del camino, c'era una busta sporca di sangue indirizzata a Troy. Con un angolo della busta, Troy fece schizzare via da una di quelle poltrone coi colori da circo equestre un pezzetto di materia grigia e sedette a leggere la lettera. Portava la data del 19 dicembre 1948 e Pym aveva scritto anche l'ora, le 8 e 35 di sera. Caro Troy, ho scelto la via d'uscita più semplice, spero che non la giudicherai anche la più vile. Ho spedito una lettera a Driberg e una a mio padre. Se tu facessi in modo che la notizia della mia morte non gli arrivasse prima, te ne sarei grato. In cambio, c'è una piccola cosa che posso fare per te. Il vero nome di Wayne è John Baumgarner. È colonnello alla Central Intelligence Agency, ora chiamano così l'OSS, l'ex ufficio dei servizi strategici. Se l'erano presa non poco con lui perché aveva lasciato andare in giro quella pazza con licenza di uccidere, ma gli serviva troppo e non potevano lasciarlo a te. Adesso gli è stato ordinato di non rimettere piede in Inghilterra. È a capo del ponte aereo di Berlino. Tuo Pym 84 «Ho bisogno che tu mi metta su un volo per Berlino». «Che cosa dici?». «Rod... devo andare a Berlino». «Sei impazzito? Stalin tiene la città cucita a filo doppio, come il culo di un cammello». «Perché credi che abbia telefonato a te?». «Freddie, noi spediamo tutto per ponte aereo tranne l'acqua del rubinetto, altrimenti muoiono di fame. Gli mandiamo anche il carbone!». «Appunto. Io non posso prendere un aereo civile. Tu mi devi mettere su un volo della RAF».
«È una richiesta ufficiale?». «Te lo chiederei se non lo fosse?». «D'accordo, ci penso io. Non prometto niente, ma vedrò che cosa posso fare». Troy riagganciò il telefono. Wildeve lo guardava. Si dava dei colpetti sui denti con una matita e intanto lo guardava. «Sto pensando». «Lo vedo». «Quale giurisdizione abbiamo in Germania?». «Ho un mandato firmato da un giudice di pace inglese. Una parte della Germania è inglese. Una parte di Berlino è ancora inglese». «Sì, ma questa parte è soggetta alla legge militare, non civile. E inoltre, che possibilità hai? Wayne è nella zona inglese?». «Non so, con tutto quello che avevo da fare...». «Infatti, mentre tu parlavi col coroner e cercavi il volo, ci ho pensato io. Freddie, tu non puoi mettere neanche un dito su Wayne». «Si chiama Baumgarner!». «Va bene, Baumgarner. Almeno fino a quando è in Germania». «Devo provare, Jack. Non lo capisci?». «Sì, lo capisco. È una fortuna che tu ne abbia ritrovato le tracce e una fortuna più grossa ancora che Onions abbia deciso di passare il Natale a Warrington, a gustare le delizie del sanguinaccio e dello spezzatino con le patate». «Se non ci riesco, non c'è bisogno che sappia niente. E se tutto va bene, che c'è di meglio del successo?». «È vero», disse ancora Wildeve, «penso solo che avremo bisogno di un po' di aiuto oltre a un po' di fortuna». «Per esempio?». «Ho un amico che è stato appena incaricato dei rapporti con l'Interpol. Lascia che veda se riesco a ottenere un nome. Quello che ci serve è qualcuno alla polizia di Berlino. Qualcuno che abbia esattamente quel po' di fantasia di cui tu e io ci vantiamo e che manca alla media degli esseri umani». Wildeve, sorridendo, concluse: «Lascia che ci pensi io». 85 Rod ottenne quello che Troy gli aveva chiesto. Gli trovò un posto su un Douglas Dakota della RAF che partiva da Brize Norton diretto all'aeropor-
to di Gatow a Berlino, via Hannover, per il tardo pomeriggio del 22 dicembre. Lo accompagnò fino all'aereo; attraversarono insieme la pista di decollo che, illuminata solo da faretti nascosti ai lati, spazzata da un vento gelido, tagliente, dava a Troy la sensazione del Natale vicino, come se quelle centinaia di luci fossero candele che miracolosamente si rifiutassero di tremolare al vento. Si sentiva grosso e pesante dentro un giubbotto della RAF di pelle di pecora infilato sopra la giacca e il cappotto, come uno strano Babbo Natale che si avviasse ondeggiando verso la slitta in attesa. I due motori del Dakota da trasporto erano già accesi e Rod lo fece salire e sedere su una delle panche di legno della fusoliera. A stento si riusciva a sentire quello che diceva, ma sembrava deciso a parlare a tutti i costi. «Avrai un freddo bestiale in volo». «Ho già un freddo bestiale, Rod». «Non scherzare, intendo un freddo come non hai provato mai. So, per esperienza, che l'importante è avere le mani e le orecchie ben coperte. Il pilota ti chiederà di metterti il casco prima del decollo. A lui serve per parlarti e a te per avere un po' di caldo in più». «Perché dovrebbe parlarmi?». «Questo non è un volo passeggeri, Freddie. Lui deve poter parlare con l'equipaggio e tu, in teoria, ne sei parte. Ti raccomando di fare tutto quello che ti viene detto. A proposito», aggiunse Rod sempre a voce altissima, «hanno telefonato al comando dieci minuti fa», mise in mano a Troy una busta gialla. Troy l'aprì e lesse: «Dieter Franck. Ispettore presso il comando di polizia della Uhlandstrasse. Zona inglese. Parla bene inglese. Limpido come l'acqua. Ti aspetta nel pomeriggio. Saluti. Jack». Un sergente dell'aviazione si affacciò allo sportello e si portò la mano al berretto. «Siamo in ritardo. Ancora sei o sette minuti». «Grazie», disse Rod. Poi si rivolse a Troy. «Sai, finisce col diventare naturale aspettarsi il saluto. Credo che le abitudini prese in tempo di guerra non se ne andranno facilmente». «Lo so, me l'hai detto, hai avuto una buona guerra. La storia è stata generosa con te». «Ma non con te». «Nel mio lavoro, non è molto importante». I giri del motore si abbassarono e Troy finalmente riuscì ad ascoltarsi pensare.
«Un tempo», osservò Rod, «il tuo lavoro mi sembrava ripugnante». Troy non rispose. Scrollare le spalle sarebbe stato un gesto insulso in un momento in cui i pensieri, a vari livelli, si sovrapponevano in lui. Si sforzò di assumere un'espressione di insensibile vuotaggine. «Appena finita la guerra, nel 1945, avevo pensato che fossi completamente impazzito. Poi ho riflettuto e, per la prima volta, ho guardato a come era andata per me e, sì, hai ragione tu, ho avuto una buona guerra ...». «Imprigionato dagli inglesi, sparato dai tedeschi e decorato due volte come premio di consolazione». «Ti sbagli, io non ho alcun rancore per essere stato internato. E quanto al resto, ho passato un paio d'ore nell'acqua vicino a Sheerness e poi mi hanno ripescato. Non ne sono rimaste tracce su di me. Me la sono cavata. La guerra, come hai detto tu, è stata generosa con me. Penso quasi che mi sia piaciuta. Ma per te è diverso. Sei stato ferito...». «Due volte». «Accoltellato». «Quattro volte». «Bombardato...». «Altre due volte». «Picchiato». «Troppe volte, non riesco a contarle. Dove vuoi arrivare? A dimostrarmi che sarei stato più furbo se mi fossi arruolato volontario?». «Credevo che avessi passato un periodo spaventoso...». «Certo, la guerra è un picnic riuscito male. Milioni di persone massacrate per alimentare il rimpianto dei sopravvissuti...». «Non è questo che volevo dire. Io credevo che ti fossi preso solo un seguito di batoste da tutte le parti. Poi, ripensandoci, mi sono ricordato della prima truppa che ho guidato, il mio primo squadrone, nel 1941. Guardavo i miei soldati e non capivo. Li vedevo correre verso quei vecchi macinini, ficcarcisi dentro, uno addosso all'altro per partire. Mi sono chiesto se ero mai stato così. No. Ho capito che loro avevano qualcosa che a me mancava. Erano quello che io non ero. Avevano l'istinto di uccidere. E l'ho capito perché l'avevo già visto in te, fin da quando eravamo ragazzi. Tu mi hai odiato per anni perché ti avevo fatto cadere dalla bicicletta e per una dozzina di altre ragioni che non avrebbero dovuto avere importanza. Era un vero odio, di quelli che non perdonano, non un risentimento passeggero. Una persecuzione implacabile, spietata». «È una vocazione alla giustizia. È il mio lavoro».
«Già. Ma non vorrei dover pensare che vai a Berlino per un regolamento di conti». «Rod, io faccio il poliziotto. Le parole che suonano più dolci alle mie orecchie sono "L'arresto in nome della legge". Non devo ucciderlo. Non devo uccidere nessuno. La legge è la legge e dovrebbe bastare». Rod gli batté una mano sul fianco, all'altezza della tasca, dove Troy aveva la pistola. «Non c'è niente di male, vero, a controllare?». L'elica del Dakota riprese a girare. Il rombo dei motori li sovrastò, non c'era più tempo di dirsi altro. Rod sorrise e scese dalla scaletta d'acciaio sulla pista. Troy strinse la mano attorno alla pistola e si chiese perché Dio avesse fatto in modo che i fratelli maggiori la sapessero sempre tanto lunga. 86 Un caporale corpulento, dall'aria infelice, andò incontro a Troy, al campo d'atterraggio di Gatow. «Sono venuto con una jeep, l'ufficiale comandante mi ha detto di portarla dove vuole lei», disse con uno squallido accento di Birmingham. «Grazie...», Troy guardò le strisce che aveva sul braccio, «caporale...». «Clark, signore. Lancia-bombardiere Clark. Artiglieria». «Detto Lampo?», azzardò Troy. «No, Freccia, perché sono alto poco più di un metro e mezzo, peso novantacinque chili e la velocità non è il mio forte. Sono un interprete. Qualsiasi cosa voglia dire, si rivolga pure a me. Parlo correntemente il tedesco». Troy trovò difficile credergli, perché aveva l'impressione che non parlasse correntemente nemmeno l'inglese. «Conosce il comando di polizia della Uhlandstrasse?», chiese. «Certo, signore». «Ho un appuntamento con l'ispettore Franck». «Lo so. Ha telefonato per dire che andava a casa». Troy sospirò, senza dir niente. «Lei è in ritardo di due ore, signore. L'ispettore Franck ha detto che può riceverla domani verso mezzogiorno». Troy sospirò di nuovo. Aveva già perso mezza giornata. «È meglio che trovi un posto dove sistemarmi», disse.
«Tutto a posto, signore. Potrà alloggiare al circolo ufficiali sul Kurfürstendamm». 87 A mezzogiorno Troy e Clark aspettavano l'ispettore Franck nel suo ufficio. Faceva poco più caldo dentro che fuori. Troy mise una mano sul calorifero. Era freddo come il marmo. Clark alzò il coperchio di una vecchia stufa di ferro. «C'è ancora una scintilla, signore. Credo che la caldaia centrale sia senza carburante. Ci vuole l'arte di arrangiarsi». «Quante altre volte nella vita dovremo sentire questa frase?». «Con un po' di legna, signore...». Troy guardò dalla finestra. Una lacera squadra di manovali stava sgombrando dalla strada quello che restava di una casa bombardata. Un uomo grosso, pesante, con un impermeabile marrone raccolse una bracciata di legna, poi si allontanò in fretta attraverso le macerie. Un agente in divisa entrò con due tazze di caffè e disse a Troy qualcosa in tedesco. Troy guardò Clark senza capire. «Ha detto che il caffè servirà a scaldarla, signore». Troy lo sorseggiò lentamente, era bollente, ma sembrava che fosse stato fatto e rifatto per giorni fino a spremere dai chicchi l'ultima goccia. Non riuscì a non far trasparire questa sensazione dal suo viso e Clark disse: «Lo so. Siamo a Berlino». La porta si aprì e l'uomo corpulento che aveva raccolto la legna tra le macerie entrò, reggendo il suo bottino. Andò alla stufa, scostò il coperchio col gomito e rovesciò tutta la legna che poteva esservi contenuta. «Ci vuole tempo», disse, «ma a poco a poco stiamo riempiendo la pancia alle nostre stufe con la vecchia Berlino. Questa è la terza casa della strada che abbiamo ripulito dopo l'assedio». Si spolverò col palmo delle mani l'impermeabile marrone. «Franck», disse, tendendo la mano a Troy con un sorriso aperto. «Dieter Franck. Mi chiami Dieter, la prego». Troy ricambiò la stretta di mano, ma disse solo il proprio cognome e presentò Clark come l'autista che lo aveva accompagnato. Mentre l'ispettore si scaldava vicino alla stufa che aveva cominciato confortevolmente a palpitare, Troy pensò che doveva avere circa la sua età, anche se dimostrava di più. Aveva una figura ispessita all'altezza dello
stomaco, la fronte stempiata, ma il sorriso gli illuminava il viso largo, pieno, con una espressione di disarmante onestà. Non era una faccia da poliziotto, pensò Troy. «Ora parliamo di lavoro. Il suo collega, il sergente...». «Wildeve». «Sì, sì, il sergente Wildeve mi ha telefonato ieri mattina. Lei sta cercando il colonnello Baumgarner, è così?». «Ho un mandato d'arresto per lui». «Ah... come la invidio!». L'ispettore Franck cedette a Clark la stufa, aprì un mobile a cassetti vicino alla scrivania e prese una grossa cartelletta legata con uno spago. Sfilò lo spago e lasciò cadere tutto l'incartamento sul piano della scrivania con un tonfo, a sottolinearne il peso. Due fotografie in bianco e nero erano scivolate fuori. Baumgarner era più grasso di Wayne, aveva un incipiente doppio mento e un gonfiore attorno agli occhi. Troy pensò che ormai aveva circa quarant'anni, ma non c'erano dubbi che fosse la stessa persona. «Baumgarner è arrivato meno di due anni fa, nel gennaio scorso. Ho cominciato a sentir parlare di lui verso il mese di giugno, voci sul giro della malavita; poi ho avuto qualche conferma. Il colonnello è di quelli che hanno sempre un'attività secondaria, qualunque cosa facciano... a Berlino di solito si tratta di armi e droga». «Droga?!». «Morfina. Rubata o, vista la posizione di Baumgarner, dirottata, dalle consegne autorizzate, al commercio clandestino e venduta a prezzi esorbitanti. Mi sono allarmato, ma poi ho saputo di peggio. La Germania, come lei immagina, è stata sommersa dalle armi alla fine della guerra. Il primo delinquente che vuole una pistola può procurarsela senza difficoltà. Le armi più richieste sono quelle americane, simbolo di vittoria, molto più preziose di quelle tedesche. Il ragazzo che agita una Colt o una Smith and Wesson davanti al suo avversario lo impressiona di più che con una vecchia Luger. Wayne alimenta questo mercato. Rifornisce un piccolo esercito illegale, già bene equipaggiato, di armi più perfezionate. Favorisce la crescita di una criminale guerra sotterranea». «Quali prove ha trovato?». «Sono stati arrestati giovani malviventi con queste armi americane. È emersa la figura di un uomo misterioso che gliele procura. Dall'autunno scorso abbiamo scoperto una mezza dozzina di bande assassine e tutte ci hanno riportato all'origine del commercio delle armi e della droga. Niente
che possa inchiodare direttamente Baumgarner, ma molti elementi si vanno sommando a quanto già era nell'aria. I nostri informatori dicono che all'origine del traffico c'è uno straniero. Alcuni hanno parlato addirittura di un americano. Uno o due hanno fatto anche il suo nome, ma nessuno l'ha visto nell'atto di commettere un'azione criminosa. La maggior parte pensa ancora che sia un tedesco, anche perché parla tedesco come me. Ma è Baumgarner, non ho dubbi. L'ho studiato parecchio, il colonnello. Ho messo insieme pezzo per pezzo un suo profilo e penso ormai di conoscerlo abbastanza bene, anche se non l'ho mai visto». Troy ascoltava. Lo affascinava l'idea che di Baumgarner fosse stato tracciato un «profilo», era il nuovo gergo della polizia, in parte presuntuoso e urtante. «Provi a immaginare un tipo d'uomo spinto sa Dio se dai suoi ormoni, dalla sua composizione chimica o da quello che vuole lei, a soddisfare le proprie esigenze solo nell'azione. Un uomo che deve vivere sul filo del rasoio perché una vita senza rischi per lui è inconcepibile. In tempo di guerra si ha bisogno di uomini così, vengono cercati e usati. L'Inghilterra stessa ne ha prodotti a centinaia, uomini e anche donne, paracadutati sulla Francia occupata ad affrontare il loro destino contro un nemico spietato. Ma la maschera della legittimità crea un equivoco e la corsa sulla lama del rasoio diventa, in qualche modo, autorizzata. Se lei è il colonnello Baumgarner, allora l'OSS, l'Ufficio dei Servizi Strategici, e la CIA sono, per natura, suoi amici, ma il loro consenso incanala le energie ai propri fini, così che esse sono costrette a trovare un'altra via d'uscita. Gli uomini come Baumgarner hanno bisogno di un'attività a lato ed è quasi inevitabile che questa attività sia illegale. Per un po' di tempo ho pensato che penetrare nella malavita berlinese e trarne la possibilità di un personale commercio clandestino potesse soddisfarlo, ma era una scelta troppo banale per lui dopo le emozioni che gli aveva dato la guerra. È della trasgressione estrema che ha bisogno e presto o tardi la conclusione potrà essere solo l'omicidio. Verrà il momento in cui un adolescente mascalzone tradirà il bravo colonnello o cercherà di minacciarlo e diventerà la prima vittima, poi le vittime cadranno tutte in fila come birilli e si scoprirà che la città è piena di cadaveri». Dieter s'interruppe, poi osservò. «Lei non parla, ispettore Troy. L'uomo che ho descritto le sembra diverso da quello che lei conosce? Ammetto di aver avuto meno di due anni per studiarlo, rispetto a lei...». «Io ho avuto meno di quattordici settimane. Non avevo idea che esistes-
se un profilo di Baumgarner fino a quando non me ne ha parlato lei. Ci siamo incontrati faccia a faccia solo tre volte. La prima mi ha chiesto da accendere, la seconda non ha detto niente e la terza ha cercato di uccidermi». Dieter rise come di una frase spiritosa. Per qualche secondo Troy fu lasciato a riflettere su che cosa avesse detto di divertente. «Bene, evidentemente non su tutto si può teorizzare. Imparerò a essere più cauto. Stavo già per ipotizzare che la chiave per arrivare a Baumgarner è la certezza che non uccide direttamente, perché sarebbe troppo semplice per lui. Dicono, infatti, le chiacchiere che abbia un accolito, un banale delinquente, o forse un giovane psicopatico che spara per lui. Ne ho dedotto che il piacere di uccidere per Baumgarner è il controllo su un altro essere umano, la sua manipolazione. Una pistola in carne e ossa cui poter dire "Spara". Una chiacchiera, come le ho detto, forse senza fondamento». Troy era incerto. Aveva riferito a Scotland Yard, con i particolari esatti, che Wayne aveva tentato di ucciderlo ma, da quel momento, ci aveva ripensato unicamente con una forma di stenografia mentale. Dicendo che Baumgarner aveva cercato di ucciderlo aveva alterato la verità e anche il ricordo ne era risultato alterato, proprio come lui voleva conservarlo: Baumgarner aveva cercato di ucciderlo. Risentì ancora la sua voce meccanica, atona che diceva «Finiscilo». «No, no», disse, «lei ha assolutamente ragione. A Londra, nel '44, ha fatto uccidere quattro persone esattamente così. Io avrei dovuto essere il quinto, ma non ha premuto lui il grilletto». «E chi allora? Un succubo? Uno psicopatico?». «Un... una... donna», rispose Troy e capì che non avrebbe potuto dire altro in proposito senza mentire. «Strano», disse Dieter «ma tutto quadra, no?». «È vero. Immagino che non le dispiacerebbe levarselo dai piedi». «Infatti. Ma prima mi serve una prova inconfutabile». «Ce l'ho». Dieter inarcò le sopracciglia. «Ho una pistola con le sue impronte digitali. Un rapporto di polizia secondo il quale provenivano da quella pistola i proiettili rinvenuti a seguito degli omicidi che ha commesso e infine una mezza dozzina di persone pronte a testimoniare di averlo visto sparare a un uomo, a Londra». «Personalmente?». «Era con le spalle al muro. Non aveva via d'uscita. Contrasta con la sua
teoria ammettere che, rimasto senza via d'uscita, abbia potuto, per quanto abile manipolatore della psiche altrui, uccidere non per procura?». «No, non contrasta affatto. Provo... un piacere particolare nel sapere che può sgarrare e che noi abbiamo la possibilità di incastrarlo». «Ma dovrei riportarlo in Inghilterra». «Lo so. È quello che ho detto al suo sergente. Se il suo mandato fosse valido qui, sarei felice di trascinare quel bastardo lontano da queste strade e portarlo fino a lei in manette, ma...». Dieter lasciò la frase in sospeso. Si alzò, si stiracchiò leggermente dopo l'impegno che aveva messo in quel colloquio. «Mi dica, le piacerebbe vederlo?». «Certo. Lei sa dov'è?». Dieter scosse la cartelletta rigonfia e rovesciò decine di pagine sulla scrivania. «Lei non parla tedesco?». Troy scosse la testa. «Parlo un tedesco da scolaro e non faccio che peggiorare di anno in anno». «Questa è in inglese». Gli spinse davanti agli occhi, attraverso la scrivania, una decina di fogli fotografati. «È la sua agenda», osservò Troy stupito. «Com'è riuscito ad averla?». «Non ci sono segreti a Berlino. O almeno non ci sono segreti che possano restare tali a lungo. Ho... organizzato una rapina nel suo ufficio. Un intervento discreto. L'agenda copre tutto il dicembre. Purtroppo se prende nota degli incontri con i suoi scagnozzi lo fa in codice, ma gli impegni di lavoro sono scritti normalmente e oggi a mezzogiorno al Fredericksplein, nella zona francese, distribuisce i regali di Natale ai bambini. Fa parte anche questo dello zelo del nostro parente acquistato di fresco, lo zio Sam». «Attenti a quello zio. È come il protagonista del film Il signore resta a pranzo. Non se ne va più». Dieter batté l'indice sulla pagina del 23 dicembre. «Con la sua jeep impiegheremo venti minuti». 88 A Troy le zone bombardate sembravano tutte uguali. La RAF non aveva lasciato pietra su pietra e quando anche una pietra fosse rimasta sull'altra, sarebbe bastato il calcio di un soldato russo a ridurre a zero Berlino. Dieter
era abituato a quello spettacolo. Troy sedeva sul sedile posteriore della jeep e la tela gli sbatteva addosso mentre Dieter si chinava verso Clark e gli dava delle istruzioni in tedesco. Ma quando si fermarono con un sobbalzo era ancora come se fossero fuori dal mondo. «Eviteremo di attirare l'attenzione superando a piedi gli ultimi isolati, sempre che non dispiaccia a Herr Clark aspettarci qui». Clark si aprì il colletto del cappotto e tirò fuori da un tascone dei pantaloni della divisa un volume della Penguin New Writing con le pagine accartocciate. «Non si preoccupi per me», disse. «Starò benissimo». Pochi minuti dopo Troy e Dieter arrivarono alle spalle di una folla abbastanza fitta riunita in una piazza che un tempo, se non elegante (l'eleganza era poco prussiana) era stata almeno imponente. L'interesse dei presenti che si manifestava con mormorii di adulti attraversati dalle grida estasiate dei bambini, era concentrato su un camion militare scoperto dove s'intravedeva un uomo in piedi, senza cappello, con un impermeabile grigio. Troy, a gomitate, si spinse più avanti. Dieter lo seguì, bisbigliando in tedesco parole di scusa, e trattenendolo per la manica del cappotto. «Sia prudente. Non credo che lei voglia disturbare queste persone. In un trambusto, non servirebbe a niente sventolare un mandato di cattura. È la loro grande occasione, non permetteranno che qualcosa s'interponga tra loro e il contenuto di quel camion. C'è chi per anni non ha potuto offrire niente ai propri figli. Non gli pesti i piedi, in senso figurato e non». «Mi scusi, ma devo vederlo», disse Troy. «È lui, è Baumgarner, non è vero?». «Sì. E se cercassi di arrestarlo in questo momento la folla ci farebbe a pezzi». Troy guardò di nuovo verso il camion. Era Baumgarner. Distribuiva cioccolata, frutta e regali avvolti in carte dai colori vistosi a una moltitudine di bambini urlanti e di adulti esultanti. Si rivolgeva al pubblico come il direttore di un circo o la presentatrice di una pantomima, prolungando l'attesa per poi produrre all'improvviso la ricompensa in un tedesco veloce che Troy non capiva ma che non si sarebbe stupito di sentir paragonare al gergo di un venditore ambulante. Baumgarner era ingrassato, ora, vedendolo, si aveva la conferma dell'impressione che davano le fotografie. Gli si erano ispessiti la vita e i fianchi. La sua magrezza volpina si era trasformata, sviluppata in una fisionomia più volgare e ancora più bestiale. Ma lo sguardo era sempre lo stesso. I suoi occhi, che scorrevano attraverso l'udi-
torio, fissandosi per un attimo anche su Troy ma palesemente senza riconoscerlo, erano celesti e noncuranti, come se il mondo lì attorno gli fosse estraneo, come se le sue parole fossero distaccate dai suoi pensieri; il grasso venditore ambulante manipolava la folla, nella mente del lupo quelle facce sorridenti, affilate dalla fame erano musi di pecore. Troy si guardò attorno. Quei tedeschi erano magri, consumati, i loro cappotti logori e sporchi avevano visto troppi inverni, le loro guance incavate, grigie, divorate dagli occhi, testimoniavano gli anni del pugno di ferro. Troy si sentì affiorare spontaneamente alla memoria il ricordo delle fotografie delle ultime settimane di guerra, quando si erano aperti i cancelli del campo di Belsen e i primi soldati inglesi si erano trovati di fronte i morti viventi. Era solo un'impressione, quei tedeschi erano vivi, presumibilmente sani, le loro privazioni erano sopportabili, il loro stomaco non era vuoto, chiedeva solo qualcosa di più, ma non se l'erano meritato? Gli occhi si illuminavano, risuonavano risate e applausi a quelli che Troy intuiva fossero scherzi ammanniti da Baumgarner con voce tonante perché anche ai margini dell'uditorio potessero sentirlo. Ogni volta che estraeva un oggetto dal fondo del camion si sollevava un'ondata di folla ansiosa di impossessarsene. Una tavoletta di cioccolato roteò sulla testa di Troy e cadde due file avanti a lui. Dieci, dodici bambini, forse di più, vi si gettarono come piranha. Troy non aveva visto niente di simile in Inghilterra in tutta la durata della guerra. «Per me può bastare», disse. Dieter gli fece strada per uscire dalla folla. «Quegli imbecilli gli mangiano nel palmo della mano». «Per loro è un eroe, deve capirli, Troy». «Un eroe?». «Sì, hanno un bisogno disperato di eroi». Si fermarono davanti a un cumulo di mattoni rossi alto più di un metro e mezzo, resto di un bombardamento aereo. «Nel 1945 eravamo una nazione sconfitta, un popolo cui era stata data la certezza della vittoria e che, invece, aveva perso. È stato essenziale per noi, psicologicamente, identificarci in qualsiasi modo con chi aveva vinto. Non ero ancora tornato a Berlino quando Churchill ha deciso di farci visita. Stava passando attraverso le rovine dei bombardamenti, un panorama simile a questo, quando la sua automobile e quelle della scorta si sono trovate sostanzialmente circondate da tedeschi. I berlinesi si sono avvicinati il più possibile, qualcuno è riuscito anche a schiacciare il naso contro il fine-
strino, ma la scorta ha capito che non erano ostili. Churchill ha insistito per scendere dall'automobile. Si sono fermati vicino a un mucchio di macerie, proprio come questo». Dieter si arrampicò in cima al cumulo di mattoni. «Churchill è sceso e, con l'aiuto del bastone ha fatto come me adesso, è salito sulle macerie di Berlino. Si è acceso uno dei suoi avana e ha agitato la mano a V, in segno di vittoria, poi ha infilato il cappello in cima al bastone e tenendolo alto nell'aria ha soffiato un anello di fumo verso il cielo. E loro lo hanno applaudito, applaudito e applaudito». Dieter ripeté con la mano la V di Churchill, lanciò qualche imprecazione gratuita all'indirizzo dei nazisti e si inchinò a una folla inesistente. «Alla fine la guardia del corpo ha dovuto pregarlo di scendere, e quando è sceso tutti si sono ammassati uno sull'altro per riuscire a battergli una mano sulla spalla o solo per sfiorarlo. Mi creda, Troy, neanche il papa ha mai avuto un'accoglienza simile. Per loro era un santo». «Un santo che non è venerato in patria. Da noi non è più in carica». Dieter scese a terra con un salto. «Una circostanza irrilevante, direi. Churchill è cittadino del mondo. Quel giorno era un tedesco. Rappresentava il conquistatore, più di Carlomagno, Bismarck e Hitler messi insieme. Oggi Baumgarner è tedesco. Baumgarner è il simbolo della vittoria. E questa folla è solo una piccola parte della popolazione per la quale Baumgarner è intoccabile». «Meno di un'ora fa lei mi ha detto che, se potesse, sarebbe felice di trascinarlo in manette lontano da queste strade». «Se potessi, ma non posso. Se lei e io riuscissimo ad allontanarlo da Berlino sarebbe diverso. Bisogna ammettere, purtroppo, che qui, in questa città, non abbiamo potere su di lui. Se l'è comprata, da cima a fondo. Dalle brave persone, dai cittadini inoffensivi che lei ha appena visto, ai delinquenti. Non so che cosa potremo fare, ma dovrà essere, comunque, lontano da Berlino». Clark li riaccompagnò al comando di polizia. Il cervello di Troy era un tumulto di idee. Berlino gli passò accanto senza che lui se ne accorgesse. 89 «Che cosa intende lei per "codice"?», chiese Troy. Dieter si sporse attraverso il tavolo e fece scorrere il dito lungo la fotografia scura, granulosa di una pagina dell'agenda di Baumgarner. «Guardi anche lei. Mercoledì scorso... JBP al 2200 di KG».
«Non mi sembrano parole in codice ma abbreviazioni». «Può darsi, ma sono ugualmente incomprensibili. Non sappiamo chi è JBP e KG potrebbe essere una ventina di posti diversi. Guardi», Dieter voltò una pagina. «Ultima settimana di dicembre. "H. 55K. Chi è H? E 55K è un peso, sono soldi o che altro?». Troy aveva soffermato la sua attenzione sul 27 dicembre. Quel giorno era il 23 e fino al 27 non era scritto altro. Teneva il dito puntato sulla data, e Dieter insisté. «Lo vede? Ci risiamo. Chi è LH 133? Dove vuole andare alle 10.00? Che cos'è Id 2200? Il numero di telefono di Freud? E il giorno dopo quel DC 0145? Poi, finalmente, abbiamo un nome per intero GEORGE TOWN. Mai sentito un nome più falso di così». «Dieter, dove ha imparato l'inglese, in Inghilterra?». «Sono stato in Inghilterra dal 1938 al 1941». «Prima che arrivassero gli americani. E non è mai stato in America?». «Parli chiaro, Troy. Se ho detto delle cretinaggini preferisco saperlo subito». «LH 133 sembra una di quelle abbreviazioni usate dalle linee aeree per indicare i numeri dei voli. Id corrisponde probabilmente a Idlewild, l'aeroporto internazionale di New York. DC sta certamente per Washington. E su GEORGE TOWN lei ha lavorato di fantasia fino a vedere uno spazio che non c'è. Georgetown non è una persona, ma un sobborgo di Washington. Baumgarner torna a casa!». «Perché con un aereo civile? Con tutte le possibilità...». «Io, se dovessi attraversare l'Atlantico, non lo farei con un apparecchio dell'Air Force. Sono venuto a Berlino con la RAF e non è stato un viaggio comodo. Lui ha scelto il modo migliore per tornare a casa». Dieter tolse bruscamente l'agenda dalle mani di Troy e imprecò ad alta voce. Poi prese il telefono, chiamò il centralino e si fece passare un numero. Troy guardò Clark, dietro le sue spalle, chiedendosi con quanta attenzione potesse averli ascoltati, ma Clark teneva il naso sul libro, si era slacciato il cappotto e aveva allungato le gambe davanti alla stufa. Se aveva sentito quello che si erano detti lui e Dieter, la sua ostentata indifferenza, aggiunta alla discrezione professionale, bastavano a creare una barriera insormontabile. Dopo due o tre minuti Dieter riagganciò il telefono e guardò Troy con tacita ammirazione. «Ho un amico all'aeroporto. C'è un volo Berlino-New York alle dieci del
mattino del 27 dicembre. Baumgarner si è già prenotato». «Ci sono fermate?». «A Hannover e a Shannon». «Merda!». «Shannon è in Irlanda, mi pare. Il suo mandato non è valido in Irlanda?». Troy non rispose subito, ma trasse un respiro profondo e, con semplicità, espresse quella che gli pareva l'unica soluzione possibile. «Non possiamo lasciare che quell'aereo atterri a Shannon». «Troy... lei scherza! Vuol dirottare un aereo?». Dieter si alzò in piedi, spingendo indietro la sedia e andò a scaldarsi le mani vicino alla stufa. Clark alzò gli occhi dal libro. Un'ombra passò nel suo sguardo, ma riprese subito a leggere. «Troy... forse io le ho dato un'impressione sbagliata sulle nostre possibilità di azione a Berlino. Io mi sono procurato la copia dell'agenda di Baumgarner con un sotterfugio. Potrò sempre negare la mia partecipazione, la mia responsabilità. Se lei pensa di chiedere di far atterrare un aereo a Londra senza una regolare autorizzazione, ci rinunci. Oggi Berlino è una città dove si può comprare una pistola per strada ma non si può chiedere a un burocrate di spianarti la strada. Mi sono spiegato?». «Il suo amico potrebbe scoprire il nome del pilota?». «Troy, la prego!». «Può scoprirlo o no?». «Sì». «Bene. Non intendo chiedere favori. Non intendo rivolgermi a un rispettabile burocrate. Mi cerchi qualcuno che possa corrompere». 90 Clark e Troy tornarono alla jeep. «Deve trovare il modo di ammazzare il tempo, eh, signore?», chiese Clark. «Vuole visitare la città?». «Ho visto tante macerie che mi bastano per tutta la vita». «Oh, non ci sono solo macerie. C'è la Porta di Brandeburgo, c'è il Reichstag... avessimo qui il Consiglio della Contea di Londra ci sarebbe una bella targa azzurra a ricordare che "Marinus van der Lubbe" è stato lì, noi invece lo abbiamo scritto solo col gesso». Erano sulla jeep, seduti uno accanto all'altro. Clark non aveva nemmeno
girato la chiave dell'accensione prima che Troy gli dicesse dove voleva andare. «Non cerco una guida turistica. Mi porti in un bar, dove vuole lei». «Dovrebbe esserci un camioncino bar al Tiergarten». «Non fa un po' troppo freddo per un bar all'aperto?». «Sì, ma il Tiergarten può interessarla professionalmente... i tranvieri non lo chiamano più Tiergarten ma "mercato nero"». Il caffè del camioncino contrastava piacevolmente con quello della Uhlandstrasse, era appena fatto ed era vero caffè. Probabilmente rubato. Troy guardò, al disopra della tazza, quel va e vieni di spaventapasseri, uomini scheletrici che si aggiravano con degli involti di carta marrone sotto il braccio, donne che spingevano carrozzine senza bambini. L'impressione, anche troppo presente nella memoria, era quella di un cortometraggio di prima della guerra su un paese evacuato. L'universale immagine del profugo. Ma quegli uomini e quelle donne non andavano da nessuna parte. Camminavano avanti e indietro, si urtavano e deviavano come palle da biliardo. Clark rivelava una inattesa disinvoltura. «L'ispettore è un filosofo, non le pare?». «Ormai ho imparato a non aspettarmi mai risposte brevi e concrete, ma immagino che sappia quello che dice». «Oh sì. La riabilitazione della Germania. Un buon argomento per una tesi di laurea o per un lavoro di ricerca destinato alla Fabian Society». Troy lo guardò di sottecchi, chiedendosi che cosa nascondesse sotto quell'apparenza di costante infelicità. «E invece Dieter si sbaglia», aggiunse Clark. «In che cosa?». «Tutto si riduce a una sola questione, signore. Comunque la si ponga. A chi vuoi comprare l'anima? Di chi è il bambino che vuoi mettere nel forno per farne uno sformato irrorato di sangue verginale? In questa città solo chi è morto non è in vendita. Non disapprovo l'ispettore per aver voluto far apparire la realtà nella luce migliore, dopotutto questo è il suo paese, ma credo che si sbagli. Se la domanda non è indiscreta, signore, quanto danaro ha portato con sé?». «Duecentocinquanta... sterline». «Beh... credo che possa corrompere un arcivescovo e trovarsi ancora in tasca qualche scellino da spendere in più con una vergine di passaggio. Un pilota non dovrebbe costituire una difficoltà. A Berlino, Stalin ha plasmato
chiunque sia in gioco... e dico chiunque». «Chiunque?». Clark abbassò la voce e chiese con un accenno di falsa complicità: «Mi dica, signore, lei è sposato?». «Perché me lo chiede?». Clark si aprì di colpo il cappotto: calze di nylon, mutandine di seta, giarrettiere di merletto erano appese a un piccolo telaio con nastrini e spille di sicurezza. «Perché se lei avesse una moglie... sono sicuro che potrei offrirle qualcosa della sua misura». Espresse le proprie possibilità, Clark si riabbottonò il cappotto. «Ho venduto io il caffè al proprietario del camioncino. Roba NAAFI, in dotazione alle forze armate, qualità ottima, ben tostato. Buono». 91 Troy fece un piccolo affare con Clark, scambiò il «Manchester Guardian» del giorno prima con il suo Penguin New Writing e si ritirò nella sua stanza mal riscaldata sulla Kurfürstendamm. Gli fu difficile concentrarsi nella lettura. Si chiedeva se la definizione che Wildeve aveva dato di Dieter Franck, «limpido come l'acqua» e che aveva inteso solo come una garanzia, non fosse da considerare come un intralcio. Non credeva in assoluto alla teoria di Clark su Berlino, gli sembrava che equivalesse a cedere a un luogo comune, a una «berlinizzazione» generale. D'altra parte Clark gli aveva detto che in quasi tutti i comandi di polizia della città si beveva un buon caffè. Era già buio quando gli telefonò Dieter. «Troy, ho il nome del pilota dell'LH 133. Marius Von Asche. È qui, a Berlino. Ha due giorni di vacanza prima del volo per New York». «Possiamo vederlo?». «Gli ho già parlato. Vuole incontrarsi solo con me, non con lei. Non ancora». «Perché?». «È andato tutto bene finché non gli ho detto che lei era inglese. Alcuni di noi non perdonano, Troy... mi è parso un brutto segno». «In che senso?». «Ho dei sospetti». «Per l'amor di Dio, Dieter, parli chiaro!».
«Non posso. Davvero, non posso». «Lasci che venga con lei». «Sinceramente, non è possibile». «Allora dovrà occuparsi della trattativa». Ci fu un silenzio. Proprio come Troy si aspettava. «Ma io... non posso». «Dieter, ho i soldi. Non intendo lasciarmi sfuggire questa occasione». «Troy, la prego, mi lasci fare. Forse, se vorrà veramente incontrarmi e gli potrò parlare apertamente, accetterà anche di vederla». Si salutarono. Troy pensò che Dieter, più che di parlare apertamente, si preoccupava di mettersi al riparo. 92 Quando Dieter arrivò in ufficio la mattina dopo, Troy lo stava già aspettando, vicino alla finestra. Il rombo costante degli aeroplani faceva vibrare i vetri. Pareva che a Berlino non si potesse stare un attimo senza avere un aeroplano sopra la testa. Per molti anni il rumore più frequente a Londra era stato il lugubre lamento delle sirene. Ora, tornata la pace, Troy era colpito da un risuonare costante di voci umane che gli sembrava sovrastare il traffico. A Berlino, il rumore caratteristico era il palpito ininterrotto, narcotizzante di eliche e pistoni. Lo si portava con sé andando a dormire, lo si ritrovava al risveglio e poi lungo tutta la giornata. Clark non pareva farci caso, aveva ripreso la sua posizione abituale davanti alla stufa, quasi volesse avvolgerlesi intorno e stava con gli occhi incollati al Treno per Istanbul di Graham Greene. Aveva avuto, però, la precauzione di portare con sé un po' di legna e il caffè. Quando Dieter era entrato nella stanza, la stufa mandava ormai un calore così vivo da far sobbalzare il coperchio della caffettiera. «Che profumo!». Clark alzò gli occhi dal libro. «Prego, signore. È un omaggio alle forze armate». Dieter non fece domande sulle modalità di quell'omaggio, si riempì una tazza e sedette alla scrivania aspirando il profumo del caffè come se troppo a lungo ne fosse rimasto privo. Nell'accostarsi la tazza alle labbra, incontrò lo sguardo di Troy, ma Troy non era nello stato d'animo adatto alle cerimonie mattutine. «E allora?».
Dieter posò la tazza. «Senta, che cos'ha fatto lei, durante la guerra?». «Riguarda il pilota von Asche?». Dieter bevve un altro sorso di caffè. «Sì. Abbia un momento di pazienza». «Ho fatto il poliziotto». «Perché?». «Perché? Perché è quello che ho fatto, quello che faccio e quello in cui credo». Dieter assentiva, comprensivo e nervosissimo. «Certo, certo. Io ho passato gli anni di guerra in Inghilterra e in Norvegia nel settore delle Operazioni speciali. Sono arrivato a Berlino con gli americani, nel '45». Troy l'aveva immaginato. «È stato, come ha detto lei, "quello che ho fatto". Von Asche era nella Luftwaffe». «Ah!». «Ha preso parte alle ultime incursioni su Londra. Si vanta di aver bombardato la città fino al D-Day. È quello che ha fatto. Quello in cui...». «Quello in cui ha creduto. Ma che c'entra? Nessuno ora ci crede più!». «Esatto» disse Dieter, in un modo così irrevocabile che perfino Clark alzò la testa e dimostrò che stava ascoltando. «Allora è un nazista! E siccome è impossibile che creda ancora nell'ideologia nazista, in che cosa crede? Nel danaro?». «Nel danaro, nel danaro e ancora nel danaro. Ha intenzione di renderci la vita difficile. Ha detto esattamente: "Spero che il suo amico abbia abbastanza". A proposito, quanto ha con sé?». Troy glielo disse. Dieter commentò con un fischio. «Sono più di tre mesi di stipendio, Dieter». «Lo so. Spero che bastino a soddisfare qualcuno che ha solo il danaro in cui credere. Ha acconsentito all'incontro. Alle due nell'atrio dell' Hotel Wilhelm I». Clark alzò di nuovo gli occhi dal libro. «Lo conosce?», gli chiese Troy. «È un albergo di lusso. L'ultimo rimasto a Berlino. Oro e velluti tra le macerie. Dal punto di vista di un poliziotto, l'importante è che ha più uscite di una conigliera e dispone di almeno centocinquanta stanze. Qualunque cosa avvenga, avviene in pubblico. Ho l'impressione che il suo amico vo-
glia avere le spalle coperte. C'è anche un buon caffè, glielo raccomando». Ammiccò ostentatamente a Troy, da dietro il libro. Sembrava che gli procurasse un piacere speciale alludere ai propri traffici illeciti davanti a due poliziotti. Troy dubitò di aver mai bevuto, a Berlino, una tazza di caffè che non provenisse dall'ambiguo commercio di Clark. 93 Giovani camerieri con giacche tarmate da morti di fame passavano tra i tavoli distribuendo porzioni di strudel da due centimetri quadrati e fettine di torta alla frutta sottili come bacon. Ogni tanto uno di loro compariva con una scopa e una paletta col manico lungo e ingaggiava una battaglia persa in partenza con le scaglie d'intonaco che, come una lenta nevicata, cadevano sui clienti del pomeriggio. Lusso, ori, non era sbagliata la descrizione di Clark. Il rivestimento dorato si andava sfogliando, i soffitti e le pareti erano pieni di crepe, i tappeti erano logori, ma l'orgoglio imperiale era ancora evidente dove gli stucchi erano rimasti intatti anche solo per un metro e le aquile prussiane facevano capolino attorno ai buchi dell'intricato disegno del tappeto. Una cenciosa eleganza caratterizzava anche gran parte della clientela. Faceva troppo freddo nella sala per togliersi il cappotto e quasi tutti sedevano ai tavoli tenendoselo avvolto addosso, una foresta di lane e astrakan che sapeva di vecchio e di umido; era il piacere accarezzato, ostentato di rappresentare un mondo dal quale gli anni Venti e Trenta erano stati esclusi. Le chiacchiere, l'acciottolio delle tazze toglievano il freddo dalle ossa e creavano una convivialità da vigilia di Natale che le privazioni comuni servivano solo ad accrescere. In quel recupero di abitudini elitarie i tedeschi, pensò Troy, avevano lo stesso atteggiamento di quegli inglesi per i quali l'assedio di Londra da parte della Luftwaffe assumeva il carattere di un'età d'oro in cui bonhomie e complicità sociale avevano vinto su una mortale avversità. Per un momento si sentì in patria. Von Asche gli apparve diverso da quello che si era atteso. Era pallido, ascetico, leggermente affettato e delicatamente profumato. Un viso sottile, emaciato, il naso aquilino, le mani dalle dita affusolate con le unghie ben curate. La pelle, sul dorso delle mani, sugli zigomi e sulla fronte aveva la levigatezza, la lucentezza che lasciano gli interventi chirurgici dopo una bruciatura. Sembrava che Asche non si fosse accorto che la sala non era riscaldata. Aveva appoggiato sullo schienale della sedia un vecchio cappotto nero con un collo di pelliccia consumato e, in un completo scuro a
doppio petto, sfidava il freddo. Troy decise tra sé che era un vanesio. La vita stretta, giovanile, non si sarebbe notata se avesse tenuto il cappotto e, ostacolato dalla pesantezza delle maniche, avrebbe mosso meno bene le sue belle dita dalle unghie a mandorla. Si era alzato in piedi e aveva teso la mano a Troy che aveva ricambiato la stretta. Dieter no, aveva finto di non vedere. Un ragazzo con la giacca da cameriere che gli stava appesa alle spalle magre, comparve dal nulla con un vassoio in mano, mise sul tavolo una cafetière con tre tazzine e se ne andò. Von Asche prese una sigaretta dalla tasca interna della giacca. L'accendino era un ovale d'argento con una pietra dura dov'era inserita una piccola svastica nera. Troy e Dieter rifiutarono la sigaretta, Asche si accese la propria e aspirò a fondo la prima boccata. Poi si avvicinò un portacenere che era al centro del tavolo e con l'indice batté l'estremità di una lunga sigaretta americana. Tutti e tre stavano seduti di fronte al loro caffè, intatto e inevitabilmente americano in attesa di superare la necessaria pausa introduttiva. «Due poliziotti», disse infine Asche. «Non so se devo sentirmi intimidito o lusingato». Il piacere che gli dava la sua posizione stava tutto nel poterlo ostentare di fronte ai suoi interlocutori. «Bene. Immagino, signor Troy, che per lei debba trattarsi di una questione estremamente importante. Chi è questo passeggero che dev'essere dirottato in Inghilterra?». «Non glielo posso dire». «Oh oh, suvvia Herr Troy, scopra le sue carte e stia al gioco». Troy tacque. Citasse pure Asche tutto il «Drake's Drum» per dimostrare che d'inglese ne sapeva abbastanza da metterlo nel sacco, a lui premeva solo che stabilisse una cifra. «Certo non si tratta di un tedesco, altrimenti il collega che l'ha accompagnata qui lo arresterebbe in mezzo alla strada. Allora: è inglese o americano? Come lei può capire, sono curioso di saperlo». «È americano» ammise Troy. «Ah, ah, ah!». Von Asche soffiò nell'aria un anello di fumo, godendosi tutto il piacere di quell'attimo. Troy sentiva crescere la collera di Dieter e si augurava che avrebbe mantenuto la promessa di non interferire. «Dunque cane mangia cane. Lei non può sapere quanto mi rallegri sapere che i vincitori litigano tra loro, anche se non intendo, per questo, farle
uno sconto». Si parlava di soldi, finalmente. «Allora farà quello che le ho chiesto?». Von Asche lasciò che la pausa si prolungasse. Troy temeva sempre di più che Dieter parlasse. I silenzi dovevano seguire il loro corso. Parlare per riempire il silenzio altrui di solito spingeva all'indiscrezione. «Vuol sapere se atterrerò in Inghilterra?». «Sì». «Dovrei fingere un guasto... un'emergenza?». «Quello che vuole». «E dove dovrei atterrare?». «Nella parte occidentale di Londra. C'è un nuovo aeroporto in costruzione al limite estremo di Hounslow. Si chiama Heath Row». «Ah! Da tanto tempo desidero vedere l'Inghilterra», disse Asche, assorto. «Allora farà quello che le ho chiesto?». «Avevo sperato di andarci nel 1940, ma non è andata così. Anche adesso sarebbe bello vederla». Sorrise a Troy. Lo stava sfidando, per esasperarlo con una cruda affermazione di patriottismo. «Lo farà?» ripeté Troy. «Quanto è disposto a pagare?». «Le darò cento sterline. In contanti». Von Asche rise, gettando indietro la testa. «No, no, no, Herr Troy. Lei ha parecchio di più. Quanto ha portato con sé? Duecentocinquanta?». «Duecento». «Ci pensi bene». «Duecentocinquanta. La mia ultima parola». Von Asche schiacciò nel portacenere il mozzicone della sigaretta e ne accese subito un'altra. Soffiò il fumo verso Troy e sorrise. «La sua ultima parola? Non crede che l'ultima parola dovrebbe essere la mia?». Si sporse attraverso il tavolo e abbassò la voce fino a un bisbiglio, «Und das Wort ist "mille"». Troy capì che Dieter stava per alzarsi in piedi e con discrezione tese una mano per fermarlo. «Non posso», rispose tranquillamente a von Asche.
«Allora, forse, questo americano non è importante come lei crede». Dieter non riuscì più a trattenersi. «Troy, è una pazzia. Quest'uomo è un imbroglione». «È lei che chiede un imbroglio», disse Asche rivolto a Troy, senza curarsi di Dieter. «Per questo è venuto a cercarmi, se lei vuole un imbroglio fatto da questo imbroglione, allora il prezzo è di mille sterline. In contanti». «Duecentocinquanta, in contanti. E un assegno a saldo». Von Asche scosse la testa. «No, no, no, Herr Troy. Tutto in contanti. Non vorrei vedermi rifiutare il suo assegno e nemmeno vedere il suo collega comparire con un paio di manette al momento dell'incasso». Von Asche si voltò verso Dieter con un sorriso ironico, godendo del suo disagio. La pelle lucida attorno ai suoi occhi si era increspata come un cellofan. «Troy», disse Dieter sull'orlo di uno scatto di collera, «lei non può fare questo». Troy non gli rispose. «D'accordo, in contanti», disse a Von Asche. Dieter si alzò, si tolse ostentatamente di tasca un po' di danaro e lo gettò sul tavolo vicino alla propria tazza. «Io ne ho abbastanza. Aspetto alla jeep». Von Asche alzò gli occhi a guardarlo. Si stabilì un silenzio durante il quale parve crescere l'insieme delle voci dai tavoli intorno, mentre Troy e Von Asche aspettavano che Dieter si allontanasse. «Non mi sembra che il suo collega sia interessato quanto lei a recuperare quell'uomo. Perché ci tiene tanto? Che cosa le ha fatto?». Anche Troy si alzò e mise il danaro per il caffè vicino a quello lasciato da Dieter. «Il prezzo è di mille sterline. Lei non può fare altre domande». «Come vuole. Domani farò qui il mio pranzo di Natale, tra mezzogiorno e le due, la invito con il suo collega. Se la polizia di Berlino troverà questo incontro a tavola poco digeribile venga da solo» e, attraverso una gigantesca nuvola di fumo, Von Asche sorrise a Troy. «Verrò», rispose Troy. 94 Dieter aspettava in strada, battendo i piedi non si capiva se perché era ir-
ritato o aveva freddo. Clark, seduto al volante della jeep con il cappotto allacciato fin quasi alle sopracciglia, leggeva ancora. Dieter si voltò sentendo Troy che si avvicinava. «Troy, che cos'ha fatto? Che cos'ha fatto? Mille sterline! Una pazzia! Lei non le ha mille sterline!». «Mi dia un telefono e le avrò». Dieter parve riflettere per un momento, poi sospirò. «Va bene, va bene, torniamo al comando di polizia a telefonare». Erano le sei e mancava ancora la luce quando il centralinista chiamò la famiglia di Troy nel Hertfordshire. A parte qualche crepitio la linea era sgombra. Rod ascoltò in silenzio quello che gli diceva Troy. «Va bene, Freddie», disse infine, «lascia che veda se ho capito bene», e Troy seppe subito che intendeva mettersi a discutere. «Tu vuoi che vada alla banca, alle sei e mezzo di una vigilia di Natale nera, nerissima, dopo aver tirato fuori il vecchio McCrimmon dal suo club o da qualsiasi altro buco dove vada a rifugiarsi un vedovo la vigilia di Natale. Dovrei chiedergli un ordine di pagamento di settecentocinquanta sterline, e farlo trasmettere a una banca di Berlino che dovrà aprire apposta per te, per consegnarti il danaro necessario a corrompere un pilota che finga un atterraggio di emergenza in Inghilterra. A questo punto tu presenterai il tuo mandato emesso da Bow Street e arresterai il delinquente che, da quando eravamo in guerra, è diventato il tuo incubo. Ho capito bene, Freddie? Rispondimi: è questo che tu vuoi da me la vigilia di Natale?». «Sì», disse Troy, anche se gli pareva una risposta inadeguata. «Ma sei fuori di te!», proruppe Rod. «Freddie, è la vigilia di Natale. I miei bambini scuotono i pacchetti sotto l'albero per cercare di capire che cosa c'è dentro, le tue sorelle, al piano di sopra, si scambiano vestiti e luridi pettegolezzi, mia moglie offre a tutti un bicchiere di sherry, tua madre chiede, imbarazzata, a che ora arriverai e perché solo tu al mondo non sai che cosa sia la puntualità. Che cosa devo risponderle, che sei impazzito?». «So quello che faccio». «Ma un poliziotto non può mettere in moto una macchinazione come questa che hai montato tu!». «Rod, ti prego, è importante. Tu puoi aiutarmi. Non ti chiedo molto». «Certo che posso. Però non voglio. Non voglio disturbare McCrimmon di sera, a Natale...». «Rod, abbiamo milioni in quella banca!». «Non c'entra niente. È un vecchio. Ha diritto a essere lasciato in pace.
Non gli farò un tiro come questo e non permetterò che glielo faccia tu. È un'ossessione la tua, non te ne accorgi? Cerca di liberartene. Sono passati anni. Non puoi seguitare a far ruotare la tua vita attorno a una vecchia, brutta storia». Con uno schianto secco Clark aprì il coperchio della stufa e vi buttò dentro un'altra fetta della vecchia Berlino. Alla luce rossa della fiamma, Troy vide che Dieter, i gomiti appoggiati alla scrivania, il mento sulle mani, lo stava guardando. Le parole di Rod erano evidentemente risuonate nella stanza. Sentì un bisbiglio all'altro capo del filo e poi un'altra voce, più profonda, più stanca, con un accento particolare. «Freddie, sono Nikolaj. Torna a casa, figlio mio, è tutto finito. Le persone sagge capiscono quando è il caso di mettersi il cuore in pace». «Non posso». «No, tu puoi, altrimenti ci rimetti la vita». Troy chiuse il telefono. Dieter lo guardava ancora, ma non stava più appoggiato alla scrivania col mento sulle mani. «È la vigilia di Natale», disse. «Lo so. Non fanno che ripetermelo tutti». «Mia moglie tra poco preparerà la cena. Io dovrei tornare a casa per mettere a letto le bambine. Perché non viene da noi? La carne è scarsa ma il vino abbondante. Potrei, da vero prussiano, dar fondo alle riserve di schnaps». Troy guardò Clark. Era voltato di spalle, ma lo si sentiva girare le pagine mentre procedeva nella lettura. «Può procurarmi un volo?». «Per stasera non credo». «Va bene. Domani, allora». Clark controllò la sua agenda alla luce della fiamma. «Di mattina sarà difficile. Molti, alla RAF, vanno verso ovest. Nel tardo pomeriggio, sì. C'è un charter per l'Inghilterra circa alle sei. Non dovrebbe neppure fermarsi a Hannover». «Va bene», disse Troy e, per la prima volta, si sentì lambire dalla rassegnazione. «Sarò in gita turistica». «Posso accompagnare qualcuno?», chiese Clark. Troy si rivolse a Dieter. «A casa sua si può andare a piedi?». «Volendo sì, sono tre chilometri». «Allora grazie, signor Clark. Lei è libero. È la vigilia di Natale». Clark si alzò e si rimise il libro nella tasca dei pantaloni.
«Non fanno che ripeterlo tutti», disse. Dalle profondità del suo cappotto estrasse un pacchettino e lo posò sulla scrivania davanti a Dieter. «Una sciocchezza per la signora», disse. «Che cos'è un pranzo di Natale senza un bicchiere di brandy e, per finire, una buona tazza di caffè? Io non posso offrire il brandy, ma il caffè sì. Buonanotte. Noi ci vediamo domani al Gatow, signor Troy». Uscì. Le luci comparvero tremolando per qualche secondo, poi le lampadine scoppiettarono e tornò il buio. Troy pensò che era stato così anche per lui nell'ultima settimana, o anche prima. 95 Con delicatezza, Dieter avvertì Troy che avrebbe preferito, arrivati a casa, non parlare della questione che li aveva fatti incontrare. Voleva tenere separati vita privata e lavoro. Due mondi. Troy non riusciva nemmeno a immaginare che potesse esistere una condizione simile. Per molto tempo era vissuto in un mondo soltanto. Dieter sollevò tra le braccia due bambinette che gli saltavano intorno per salutarlo. Le invitò ad augurare la buonanotte al signor Troy e le portò di peso a letto. Frau Franck, Cosima, era piccolina, bionda e parlava volentieri, in un inglese sciolto e veloce come quello di suo marito. Prese il cappotto di Troy, gli offrì un bicchiere di Hock e lo fece sedere in un salotto piccolo, col soffitto alto, decorato con dei festoni fatti in casa e perfino con un albero di Natale, pure fatto in casa, messo davanti alla finestra. Dieter lo aveva costruito con qualche pezzo di legno della vecchia Berlino, aveva fissato i rami ad angolo retto col tronco e dipinto tutto con la vernice verde. Un Natale alla Marcel Duchamp. Attorno al secchio di zinco che serviva da supporto c'erano decine di pacchettini avvolti in carta colorata. Troy si ricordò con quanta chiarezza Rod si fosse servito del Natale per convincerlo a tornare a casa. Quando le bambine, avuta la loro dose di lettura serale, si furono convinte contro ogni evidenza che era venuto il momento di dormire, Dieter scese in salotto e lui, Troy e Cosima mangiarono in tre trecento grammi di arrosto di maiale che sarebbero stati più adatti a una cena per due. In compenso c'era molto da bere. Invece dello schnaps, Dieter aveva trovato una mezza bottiglia di Armagnac sfuggito chi sa come alle bombe inglesi e alla fante-
ria russa. Dieter era diverso nel suo mondo diverso. Discorreva con un tono di voce pacato, sembrava aver lasciato sulla soglia di casa l'abitudine a teorizzare su tutto. Aveva un talento particolare per conversare con leggerezza. Era molto affettuoso con la moglie. Spesso le accarezzava una mano, con una lieve pressione, senza stringerla nella propria. Un gesto abituale, la rassicurante complicità del matrimonio. Cosima era rimasta a Berlino per tutta la durata della guerra. Aveva visto il mondo capovolgersi, dissolto nella polvere, come se dovesse sparire per sempre. Troy osservava le sfumature dei gesti di entrambi e intanto ascoltava la descrizione di quell'inferno. Dopo la morte di Ethel Bonham non aveva più visto niente che si avvicinasse a tanta armonia coniugale. Nonostante il continuo toccarsi la mano e il gesto delicato con cui Cosima, come un gattino, strofinava ogni tanto la testa su una spalla di suo marito fossero diversi dalla riservata, sobria intimità dei coniugi Bonham, pure il paragone reggeva. Dieter e sua moglie erano adatti l'uno all'altra e questo appariva sorprendentemente naturale. Davano un'immagine di bellezza, equilibrio, sicurezza, pace e di un grande piacere reciproco. Troy pensò che lui aveva rifiutato quel modo di vivere o che, più semplicemente, se l'era lasciato passare accanto e che ora, a trentatré anni, era improbabile che gli venisse offerto. Ma preferiva così. A mezzanotte, le poche campane che non erano state tolte dai campanili delle chiese, presero a suonare. A Troy parve giusto andarsene per non turbare un momento di vita privata che era piacevole osservare ma dove non c'era posto per lui. «Le chiamò un taxi», disse Dieter. «Preferisco camminare», rispose. «Ma sono più di tre chilometri». «Meglio. Ho bisogno di prendere un po' d'aria». Troy ringraziò Dieter per tutto quello che aveva fatto per lui e, lungo le strade vuote, tornò al Kurfürstendamm. Si chiedeva se la sensazione non sgradevole dalla quale si sentiva pervadere venisse dal sollievo di sentirsi liberato da quell'inseguimento impossibile o solo dal Hock e dall'Armagnac. Ora basta, disse a se stesso, basta. Gli pareva che il suo stato d'animo, ora, fosse così diverso. La frustrazione provata all'inizio, parlando con Dieter, aveva ceduto a un sentimento molto simile alla gratitudine per essersi opposto con fermezza e onestà ai suoi tentativi di andare contro qualsiasi regola, di infrangere qualsiasi legge. Stava nevicando appena appena, radi fiocchi grandi come monetine gli
turbinavano attorno. Una magica notte di vigilia di Natale. Il mondo era tutto bianco. Nella neve che si era ammassata a terra sentì un passo, si voltò a guardare e allora tutto il mondo gli parve diventato verde. Una bella tonalità di verde, il vecchio verde vittoriano di un buon tavolo da biliardo. Suo padre ne aveva uno proprio di quel colore. 96 Troy stava disteso in un dormiveglia nella veranda, lunga, bianca un po' scrostata, della casa di suo padre nel Hertfordshire. Non sapeva bene perché fosse lì. Gli sembrava che fossero passati tanti anni da quando era stato disteso così l'ultima volta, eppure aveva la sensazione precisa di trascorrere ancora una lenta convalescenza dopo una delle tante malattie che lo avevano perseguitato da bambino. Era avvolto fino al collo in una coperta calda, ma gli pareva di avere la testa appoggiata con dei cuscini al carrello di un facchino, come una valigia in attesa di essere ritirata. Il sole era alto a ovest. In giardino, ai margini di un prato grande più di quattromila metri quadri vedeva la figura alta e curva del suo nonno paterno, Rodyon Rodyonovich. Aveva più di settant'anni, era stato sempre legato alla cultura russa, teorico della vita semplice, amico del defunto conte Tolstoj; ora Troy lo vedeva vestito alla maniera di un contadino russo nell'atto di brandire una falce pesante per tagliare l'erba alta, incolta del prato, fingendo, con tenero cuore, che fosse grano russo. Il padre di Troy aveva comprato quella casa nella tarda estate del 1910 per nessun'altra ragione se non che la lunga veranda esposta a sud gli era parsa simile a quella che aveva in patria. Ridendo chiamava quello sgretolato edificio georgiano la sua dacia. Quando qualcuno che abitava lì vicino gli aveva fatto notare, con non poco intuito, che non c'erano alture tra quel piccolo villaggio di una contea vicino a Londra e i monti Urali, l'attaccamento di suo padre al luogo era stato completo. «Non c'è niente», diceva «che mi separi da Mosca». Nel novembre dello stesso anno Tolstoj era morto come un povero contadino in una casetta di legno nella piccola stazione di Astapovo, assistito solo dalla sua famiglia, dai discepoli, dal vescovo di Tula e dal mondo della stampa. Solo il prestigio mondiale di quel vecchio aveva tenuto a bada la polizia segreta, ma senza di lui non c'era possibilità di sopravvivenza in Russia per un tolstojano. Prima di Natale il nonno si era trasferito
nel Hertfordshire dove aveva passato il resto della sua vita vestito del costume di lino grezzo dei contadini, rifiutando di imparare una sola parola d'inglese, scrivendo lunghe lettere al «Times» (gliele traduceva la nuora), riempiendo la testa ai suoi nipoti con i racconti del vecchio mondo e della rivoluzione pacifica e bevendo grandi quantità di buon vino. Il vecchio ora aveva posato la falce e, con passo pesante, si stava avvicinando, appoggiava le mani alla balaustra della veranda (Troy avrebbe potuto contare i peli sul dorso delle sue mani) e chinava il faccione da orso verso suo nipote. «Sei sveglio?», gli chiedeva in russo. Poi, rivolto a qualcuno dietro le spalle di Troy, diceva: «No, non è ancora sveglio». Troy si sforzò di aprire gli occhi e si accorse che erano bendati. Sentiva in lontananza uno sgocciolare d'acqua e un odore di muffa e di marcio. «Toglietela», disse una voce di donna in russo. Troy batté le palpebre e a una luce non schermata accesa sopra la sua testa vide una ragazza piccola di statura con due uomini accanto, uno per parte, come colossali reggilibri. «Che succede, baby? Ti dà fastidio la luce? I miei ragazzi ti hanno picchiato troppo forte?». Troy guardò i due uomini. Grandi, scuri, anonimi nei loro cappotti neri. Larghe, brutali facce slave, l'una molto simile all'altra. «Devono proprio stare qui?». Lei fece segno ai due uomini di andarsene. La porta sbatté alle loro spalle, Troy si sollevò di scatto e strinse la Toscà alla gola. «Credevo che fossi morta!». «Lasciami andare, baby!», mormorò lei, con voce strozzata. Troy allentò la stretta. L'aveva spinta contro il muro di mattoni, la collera gli aveva dato una forza che non pensava di avere. «Credevo che fossi morta! C'era sangue dappertutto!». «Lasciami andare e ti spiego». Troy allentò la stretta. Gli tremavano le gambe, ma seguitava a guardare quei limpidi occhi castani. «Credevo che l'avessi capito». «Che cosa dovevo capire?». «Lo sai, è un vecchio trucco. Ero sicura che te ne saresti accorto. Oh, via baby, abbiamo parlato di quel benedetto libro la prima volta che sei venuto a casa mia. Ti ricordi? Huck Finn?».
«Il gruppo sanguigno corrispondeva al tuo. L'avevo fatto controllare con la tua scheda sanitaria militare. Credevo davvero che fossi morta. Huck Finn aveva usato il sangue di un maiale!». «Ma dove lo trovavo un maiale a tre isolati da Trafalgar Square? E poi non ne occorre mezzo litro! Basta spargerlo un po' dappertutto e hai subito l'idea del massacro». «Una messinscena?». «Certo. E che altro, se no?». «Un trucco del Commissariato del popolo per gli affari interni, del NKVD?». «Adesso lo chiamiamo in un altro modo. Anche la sigla è cambiata». «E immagino che in questo momento siamo nell'Est, o no?». «Beh, non siamo più nel Kansas, Toto». 97 Le fatiche dell'amore non fecero precipitare Troy nell'abbandono sazio e vulnerabile del sonno. La Toscà dormiva, ma lui aveva l'impressione che non avrebbe dormito mai più, per tutta la vita. Capire così poco lo teneva in un pungolante stato d'allarme. Sentiva un battito continuo dietro la testa. Si infilò la camicia senza allacciarla, avvolta attorno come una vestaglia e, incespicando, si lasciò guidare dalla striscia sottile di luce che veniva da una fessura tra le persiane, come una lunga scheggia. Quante volte si era aggirato, strascicando i piedi scalzi, nella sua camera da letto, dentro e fuori dalla luce, cercando di mettere insieme le tessere del mosaico che lei gli aveva messo davanti, mescolate con tanta apparente naturalezza, stuzzicandolo come un bambino? Lei aprì gli occhi all'improvviso, faceva sempre così, senza un battito di palpebre ad aiutarla a uscire dal sonno. Si era svegliata di colpo, completamente, e fissava su Troy il suo sguardo duro e limpido. «Oh Dio, ma tu non dormi mai?». «Aspettavo». «Per carità! Che cosa aspettavi?». «Che tu mi dicessi quanto sono stato cretino». «D'accordo. Sei strato cretino. Cretino e zuccone. Adesso torna a letto». «Quando hai cominciato a imbrogliarmi? A imboccarmi con le tue chicche, per farmi credere quello che volevi. Fin dall'inizio?». «Sono sicura che preferisci non saperlo. Ne sono sicura».
«Mi hai ingannato. Merito una spiegazione». «Povera me, sei diventato anche ampolloso!». Troy si era avvicinato troppo al letto. Una mano robusta lo afferrò per un braccio. La Toscà tirò fuori un piede, lo colpì all'altezza della vita e lo costrinse a sedersi a terra. La stretta sul braccio era molte forte. «Allora vuoi che parli? Parlo. La storia è lunga, devo tornare indietro di anni». «Ma io ho la pazienza di Giobbe». «Non è vero. Tu hai la vocazione al martirio di quegli scocciatori dei santi cristiani». Era la prima volta che Troy sentiva uscire dalle sue labbra qualcosa di simile a una nozione. «D'accordo, d'accordo. Ascolta. Sarà una scocciatura totale. 1905: mio padre, come il tuo, rinuncia alle speranze della rivoluzione. Esce dalla Russia. Pensa che la rivoluzione non si farà mai. Salpa per New York. Va a vivere nel Lower East Side, dove abitano gli italiani e gli ebrei, una dozzina per stanza. Là incontra la mia mamma, un'italiana dolce, piccolina. Aveva solo diciassette anni quando l'ha sposata, nel 1910. Nel 1911 arrivo io. Nata in America, allevata come un'americana. A quel punto quello che non era successo prima, succede. È il momento della rivoluzione e mio padre vuole tornare indietro, non vede l'ora, ma non ci riesce. In Europa tutti combattono contro tutti. È il 1919 quando finalmente riesce ad avere un passaggio per San Pietroburgo. Attraversiamo il confine tutti e tre. Io vomito tutti i giorni per due settimane. Ma mio padre è felice, ci scarica in un lurido appartamento a Mosca, sventola la tessera del partito e, all'improvviso, parte. Mascalzone. Non lo vediamo più per due anni. Lotta per la Madre Russia. Il soldato più rosso dell'Armata Rossa. Alla fine della guerra gli attaccano tante medaglie sulla giacca che devono usare la cucitrice. È a casa, ha un occhio di meno, gli mancano tre dita e ha il petto pieno di nastrini. Sembra una zucca a Halloween. Io ho undici o dodici anni. Parlo russo benissimo, ma poco importa, visto che tutto quello che mia madre riesce a fare è gridare in un miscuglio di inglese e italiano che vuole tornare a casa. No, a casa non si torna. Si sta qui per sempre, le dice lui. E per dimostrarglielo si serve dei propri privilegi e le procura un appartamento molto bello e mi iscrive all'ala giovanile del partito. Tutte le notti lei si addormenta piangendo». Troy aprì la bocca per parlare e la Toscà gli bloccò il respiro a metà, mettendogli un dito sulle labbra.
«Qualunque cosa tu stia per dire, trattieniti. Taci. Hai voluto tu che parlassi, quindi sta' zitto o smetto. «Dunque, siamo arrivati al 1924. Lenin è morto da tre mesi. Trockij sta perdendo terreno. La sfilata del 1° maggio è finita. I gorilla scendono dal podio e un pazzo grida: "Lunga vita alla Santa Madre Russia!" e punta una pistola contro Trockij. Che cosa fa, allora, mio padre? Quell'imbecille emerge dalla folla si lancia davanti a Trockij e si becca una scarica di colpi in pieno petto. Avrà i funerali che si tributano a un eroe, naturalmente. Ma noi lo sapevamo già che era un eroe e, per la verità, a mia madre non importava un bel niente. Tutto quello che riesce a pensare è che lui è sepolto in tre posti diversi, perché un occhio è rimasto in Siberia e tre dita le ha lasciate in Ucraina. Il giorno dopo il funerale chiede di partire; come un bambino che non sopporta di restare a scuola, chiede "Posso andare a casa?". Ne ha abbastanza delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. C'era da immaginarsi che le dicessero di no, e glielo dicono, infatti, ma solo fino al '31, quando vengo chiamata al Quartier Generale del Partito. L'hanno pensata bella. Ecco che mi chiedono se sono un leale membro del partito. Certo che lo sono, rispondo, anche perché un "no" equivarrebbe a chiedere un biglietto di sola andata per le miniere di sale. Ho solo vent'anni, ma lo so benissimo. Come vedo il futuro dell'Europa, mi chiedono, e qui faccio un passo falso. È una domanda troppo difficile per me. Mi pare di avere una vaga nozione sull'inevitabile crollo dell'imperialismo britannico in corrispondenza con l'inarrestabile crescita del movimento operaio in quella piccola isola piovigginosa. Taglia corto, mi dice l'alto ufficiale. Usa una quantità di parole, ma la sostanza è una sola. Gli inglesi non c'entrano. Bevano pure il loro tè. E i tedeschi? Ero, come ti ho detto, una ventenne piuttosto sveglia. Il problema è Hitler, rispondo. Un anno o due, cinque al massimo, e quel piccolo caporale potrebbe diventare cancelliere di una repubblica di cartapesta. Risposta giusta. Centro. Buca. Mi piacerebbe tornare negli Stati Uniti? Per un momento o due mi sento spiazzata. Non stavamo parlando della Germania? Ora siamo passati all'America. Ho capito tutto. La mamma può tornare a casa, però io devo andare con lei e ci devo andare come agente dell'Unione Sovietica. «Una bella pensata, te l'ho detto. Ci inventano un passato per coprire quei dodici anni in Russia: siamo state a raccogliere i limoni sulle colline intorno a Napoli, o qualcosa del genere. E poiché siamo tutte e due cittadine americane, non ci viene fatta nessuna difficoltà al rientro. Io mi arruolo. Dopo un periodo di addestramento in Virginia, entro al servizio dello zio
Sam, ma in realtà servo allo zio Joe, perché quello che temono i russi è che quando verrà la guerra ( e di questo sono sicuri) l'America resti neutrale e l'Europa si affossi e con l'Europa anche la Russia. Quindi hanno bisogno di aver qualcuno... dall'interno. Comincio a capire che non sono sola, che ce n'è almeno un'altra decina e anche più che avanza con me. Ma non ho la minima idea di quello che succederà e non so in che cosa credo. «Poi, passati i mesi di addestramento, mi hanno affidato un lavoro d'ufficio a Washington. Era l'aprile o il maggio del '32. La primavera in cui migliaia e migliaia di poveretti, quasi tutti veterani della prima guerra mondiale hanno marciato su Washington e si sono accampati alla periferia della città in una colossale tendopoli. Chiedevano solo un risarcimento, qualcosa che gli era dovuto per aver fatto la loro parte in guerra. Vuoi sapere come gli ha risposto la patria del coraggio, il paese della libertà? Gli ha distrutto le tende con i bulldozer e Mac Arthur, Ike e quel pazzo di George Patton hanno mandato la cavalleria contro quei sacchi d'ossa ambulanti. Io c'ero. Ho visto. Troy, se prima non credevo in quello che stavo facendo, ci ho creduto dopo. Non ho più avuto dubbi sulla libertà e il perseguimento di tante stupidaggini». «E adesso in che cosa credi?». «In che cosa credo? Chi ti dà il diritto di chiedermelo?». Saltò dal letto, battendo pesantemente i piedi per terra, pestò i pugni contro le imposte chiuse, facendo tintinnare i vetri. Poi si voltò verso Troy, rossa di collera, le braccia in aria, scuotendo i seni nudi. «E tu in che cosa credi, eh, Troy? No, non rispondere! Te lo dico io. Tu, Troy, non credi in niente». S'inginocchiò ai suoi piedi, gli prese le mani, lo attirò a sé, poi gli strinse la testa, accostò il viso al suo, con la punta delle dita di una mano gli tastò il bernoccolo sulla nuca e il taglio sulla tempia, gli premette il palmo dell'altra contro lo zigomo. «Troy», bisbigliò con voce un po' rauca, «se tu credessi in qualche cosa crederesti nella giustizia o, nella legge, chiamala come vuoi. Io preferisco chiamarla giustizia. Da principio pensavo che fosse quella a guidarti. La giustizia. Ma non è così. Se prendi qualcuno, non t'interessa che poi venga liberato o no, a te piace una cosa sola: la caccia. Tu hai il gusto dei mezzi e non t'interessa il fine. Non vedi oltre la caccia. Sei come il quinto cavaliere dell'Apocalisse. Dopo la guerra e la carestia, arriva il demone della vendetta. Non chiede dove la vendetta lo condurrà, ma non demorde. È come se tu non facessi parte dell'ordine che seguirà, l'ordine in cui anche quello che
fai avrà una collocazione. Io sono diversa. Io so quello che faccio, e ne valuto le conseguenze. Tu non sei così. Non lo sei mai stato. Perciò non domandarmi in che cosa credo». Da santo e martire a demone della vendetta in poche facili mosse, pensò Troy, ma non parlò perché lei teneva la bocca contro la sua. Quando smise di baciarlo e lo guardò, vide quattro anni di rabbia e di dolore affiorare per un attimo nei suoi occhi. Gli leccò via le lacrime, lo baciò sulle palpebre, sulla fronte, su tutta la faccia. Stretto contro la morbidezza delle sue guance, intenerito dal suo profumo, Troy ripeté, quanto più chiaro gli fu possibile: «Credevo davvero che fossi morta». «Va bene. Allora è il momento di scopare il fantasma», disse lei e gli sfilò la camicia dalla schiena. 98 Il calorifero gemeva, ansava dal suo angolo e ogni tanto emetteva un botto che risuonava e andava morendo per tutta la casa. Troy, in piedi vicino alla finestra, guardava la strada. Era una giornata molto grigia. In giro non c'era nessuno. Il silenzio di una mattina di Natale senza gioia era interrotto solo dal rombo continuo degli aeroplani, ormai quasi inavvertibile a livello di coscienza. La Toscà non usciva più dal bagno, lui si era già completamente vestito e, con le mani nelle tasche del cappotto, aspettava. Qualcuno bussò leggermente alla porta. Troy aprì e vide un uomo bruno, piccolo di statura, sepolto in un enorme cappotto grigio, il viso seminascosto da una sciarpa avvolta intorno al mento e un cappello di feltro calcato sulla fronte. «Mi scusi», disse, in un inglese quasi perfetto e sporse in avanti una valigetta che aveva in mano, per chiarire il suo desiderio di entrare. Troy si fece da parte per lasciarlo passare. L'uomo posò la valigetta sul letto e si voltò a guardarlo. Era armato? Troy si chiese se la Toscà avesse una pistola. Ma il visitatore si allentò il nodo della sciarpa, si scostò il cappello dalla fronte e rivelò una di quelle facce che sembrano in ombra a ogni ora del giorno. Troy pensò che doveva avere circa quarantacinque anni. «Finalmente», disse. «Finalmente? Finalmente che cosa?». «Finalmente ci incontriamo. Un po' in ritardo, ma non tanto, spero, da impedirmi di esprimere la mia gratitudine». Troy era stupito. Non riusciva a collocare né quella faccia né quell'ac-
cento. Chi era? Un cecoslovacco? Un polacco? Uno di quegli aviatori così numerosi in Inghilterra fino a qualche anno prima? «Lei non sapeva quello che faceva per me ma, mi creda, l'impressione che a qualcuno interessasse la mia morte, anche se presunta, ha accresciuto la mia fiducia nell'umanità e, per quanto possa sembrare strano, mi ha fatto provare, mio malgrado, un rispetto per la polizia metropolitana che non avevo mai avuto in tanti anni passati a Londra». Una fotografia color seppia, un riquadro più chiaro sui fiori di una tappezzeria dove una volta era stata appesa, tornarono in mente a Troy fino a fargli ricordare con esattezza il disegno di quei fiori. «Lei è Peter Wolinskj», disse. L'uomo diede uno sguardo impaziente alla porta del bagno. «Sì», rispose, «ma, mi perdoni, non posso trattenermi a lungo. Sia tanto gentile da avvertire il maggiore Toskevitch che sono passato di qui». «Toskevitch?». «Se un giorno lei dovrà scegliere per sé un nome falso, le verrà spontaneo di sceglierne uno simile al suo nome vero. Credo che anche il suo compianto padre abbia seguito questa regola. Sa, è sempre stato dei nostri, ma non credo che abbia avuto modo di dirglielo. Le auguro una buona giornata». Aprì la porta. Troy lo trattenne per la manica. «Anche mio zio?». «Ma no, lui no! È un vero individualista. Quale nazione, a meno che non sia una nazione di pazzi, vorrebbe un agente segreto che racconta la verità stando in piedi su una cassa di sapone rovesciata allo Speaker's Corner? Solo un agente dei Servizi Segreti paranoico e con la mente tortuosa potrebbe mai prenderlo per uno di noi». Wolinskj se ne andò. Troy guardò la valigetta, sentì che in bagno il rubinetto era ancora aperto, fece scattare le serrature e alzò il coperchio. Dentro c'era solo un grosso involto di vecchi biglietti da cinque sterline. Troy guardò ancora la porta del bagno. La Toscà l'aveva aperta senza far rumore, stava ferma sulla soglia, vestita e truccata. Si chinò per infilarsi le scarpe e disse: «Tienili, sono tuoi». Troy prese in mano l'involto e sfogliò qualche biglietto tra le dita. «Sono buoni?». «Neanche per sogno. Credi che sprecherei mille sterline per uno schifoso nazista? Ne abbiamo stampati un vagone durante la guerra. Nessuno li ha mai usati. Me ne sono presi una manciata anch'io».
«Dieter mi ha detto che c'erano pochi segreti a Berlino», disse Troy, incerto. «Von Asche non si accorgerà della differenza. Sono quelle riuscite meglio. Paga e tenta la sorte. L'idea è buona. Poteva venire in mente anche a me». «E l'idea del messaggero è tua?». «No, credo che Peter fosse semplicemente curioso. Voleva farti sapere, dopo tanti anni, che era ancora vivo. Più o meno così. Li conosci questi polacchi, non sono come noi due. Tanto per cominciare sono un po' matti». «Allora tu e io ci assomigliamo?». Troy divise il danaro in due parti che mise nelle tasche del cappotto. La Toscà s'infilò la pelliccia e disse che era il momento di uscire. In strada, Troy le chiese da che parte sarebbe dovuto andare. «È semplice. Siamo sulla Schadowstrasse. Alla fine di questo isolato ti ritrovi sull'Unter den Linden, dritto sputato davanti alla porta di Brandeburgo». «E arrivato lì che cosa faccio? Passo come se niente fosse?». Lei lo prese sottobraccio, inclinò la testa sulla sua spalla e camminarono così, nel freddo pungente, come due giovani amanti. «Certo», rispose. «Che cosa vuoi che ti chiedano quando sei con me? Passa tranquillamente nella zona inglese. Mi conoscono da queste parti. Credimi, baby, mi conoscono benissimo». Si staccò da lui per un piccolo tratto di strada marciando al passo dell'oca. «Io non ci vedo niente di divertente», disse Troy. Alla porta di Brandeburgo c'erano quattro soldati, annoiati e infreddoliti. Troy si chiese se avrebbero salutato la Toscà o se lo avrebbero fermato. I soldati, invece, guardarono entrambi senza mostrare né di riconoscere lei né di preoccuparsi di chi fosse lui e, mentre la Toscà passava sotto l'arco, due di loro si misero il mitra sulla spalla e si allontanarono, come se avessero qualcosa da fare altrove. L'arco era scheggiato, bucato dai proiettili si scrostava quasi sotto gli occhi. Il Reich, vecchio mille anni, era ridotto in polvere. «Ci vediamo stasera al Gatow», disse la Toscà e gli diede un bacio frettoloso su una guancia, immagine perfetta della moglie di un pendolare che saluta il marito al treno da Weybridge delle otto e dieci. «Ma...». «Credevo che la RAF ti avesse procurato un volo notturno».
«Infatti, ma tu come pensi di entrare in una base inglese?». «Oh, baby, è facilissimo. Ascoltami e vedrai che è come due più due uguale quattro. Gatow è un campo di aviazione. Questo significa che vi atterrano gli aeroplani, no? Ora, come atterrano gli aeroplani? Sì, lo so che ci vogliono i piloti, ma, mio angelo stupido, ci vuole anche il controllo del traffico aereo altrimenti andrebbero a finire uno in culo all'altro come tacchini del New England in una tempesta di neve. E chi credi che gestisca il controllo del traffico aereo? Noi. Non c'è apparecchio che attraversi il corridoio aereo per atterrare se noi non diamo via libera ai tedeschi di questa zona». «Il tuo mondo», disse Troy, «si compone di tante sfumature di grigio che... non mi sento di fare altre supposizioni». «Come vuoi, ma lo zio Joe e il merciaio del Missouri hanno qualche questioncella qua e là. Non mi stupirebbe che Stalin ricevesse una brutta cravatta per Natale. Fidati di me. Ci vediamo al Gatow. Non farmi aspettare, non ho tempo da perdere. C'è Bob Hope stasera al Tempelhof e non voglio mancare per nessuna ragione al mondo!». «Strano...». «Fa parte del gioco». «... quello che è strano...», riprese Troy. «Tu non conoscevi mio padre, vero?». Lei scosse la testa, ridendo. «E nemmeno Tom Driberg?». «Non dire sciocchezze». La baciò di nuovo su una guancia, si voltò e quasi saltellando, avrebbe detto Troy, tornò indietro lungo l'Unter den Linden. Troy guardò le sentinelle. Una di loro fece un cenno verso ovest e poi gli voltò le spalle. Troy passò sotto l'arco, sentì, in un silenzio immenso, i propri passi battere sull'acciottolato come se in tutta Berlino ci fosse lui solo. Dappertutto la neve caduta nella notte aveva trasformato i mucchi di macerie in bianche montagne scintillanti, ma niente sulla terra avrebbe potuto far apparire naturali le rovine volute dall'uomo. Un paesaggio bianco attraversato da linee frastagliate, che a Troy ricordò quel giorno di quasi cinque anni prima in cui, insieme a Bonham aveva seguito il piccolo sgangherato esercito di scolari di Stepney per le strade bombardate del Green. Un altro paesaggio di detriti bellici rivestito di una bianchezza abbagliante. Il silenzio venne infranto da un rombo di aeroplani. Non più Heinkel, non più Dornier, ma Douglas Dakota che si alzavano dal Tempelhof.
99 Clark guidò Troy in uno scomparto nella sala mensa del Gatow. La sala era quasi vuota, i pochi presenti, una dozzina, al bar, sembravano costretti a compensare la mancanza di clienti festeggiando il Natale bevendo e vociando quanto più potevano, in uno squallido seguito di variazioni sul tema della gioia. «Sono gli scapoli che non hanno avuto i lasciapassare, signore. Gli sposati sono in famiglia e gli altri, con il lasciapassare, avranno trovato qualcosa di meglio. Lei può aspettare qui, se vuole». Guardò dalla finestra del primo piano i fiocchi di neve turbinare di là dai vetri e posarsi a terra, dove gli spazzaneve stentavano a tenere sgombra la pista. «Al suo posto non sarei sicuro che tutto scorra liscio». «No, è tutto a posto. Vada pure, io starò benissimo». «Mi dispiace che sia stata solo una perdita di tempo». Troy guardò Clark. Non era una frase detta per scherzo, lo pensava davvero. «Non è stata una perdita di tempo. Ho dato i soldi ad Asche a mezzogiorno». Clark parve sorpreso, poi un sorriso aprì una breccia in quella ingannevole facciata di infelicità. «Scusi se glielo chiedo, ma l'ha detto all'ispettore Franck?». «No. Credo che preferisca non saperlo. Non è di questo parere anche lei?». Clark gli strinse la mano, un po' imbarazzato. «È stato un piacere, signore». «No, signor Clark, è stata una lezione». Clark attraversò la sala per andarsene. Era appena arrivato alla porta quando la Toscà entrò, di spalle, in divisa da sergente maggiore e, scuotendosi la neve di dosso, andò quasi a sbattere contro Clark. Con un sorriso gentile, gli lanciò un frettoloso «Ehi, Freccia!», e corse da Troy, raggiante. «Uffa, non ne posso più di questo brutto tempo». Sedette di fronte a lui. La stessa divisa, la stessa faccia di allora, solo il taglio dei capelli era diverso. «Credevo che non ce l'avrei fatta». «"Ehi, Freccia"?», disse Troy. «Conosci Clark?».
«Certo. E lui conosce me. Dove credi che l'abbia preso il caffè che hai bevuto stamattina? Te l'ho detto che tutti sanno chi sono da queste parti. Vengono qui abbastanza spesso, anche se ogni volta che mi metto la divisa vedo che è diventata più stretta. Strano che riesca ancora a infilarmela dopo tanti anni». Trattenne il respiro e si batté una mano sullo stomaco. «C'è al mondo qualcuno che non conosci?». «Credi che non sappia perché me lo chiedi?». «Da quanto tempo conosci Wolinskj?». «Da molto meno di quello che credi». «Ma era un agente russo a Londra, è vero?». «Certo non era a Londra per vendere le polpette». «Ma tu lo conoscevi?». «La vuoi smettere? Glielo avevo detto che era meglio che non si facesse vedere, perché ti avrebbe messo una quantità di idee in testa. Ora parliamo d'altro!». «Quando te ne sei andata da Londra, con quella messinscena macabra, che cosa credevi che avrei pensato?». «Che fossi morta. Dovevo fartelo credere. Era indispensabile». «E hai lasciato lì tutto?». «Certo, dovevo evitare che mi cercassi. Sapevo che saresti venuto da me, sempre che fossi riuscito a salvare la pelle, e che se avessi pensato che ero viva non ti saresti dato per vinto. C'era veramente il rischio che tu mi facessi scoprire. Il mio lavoro era finito, non ero a Londra per controllare Jimmy, non sapevo che cosa stesse facendo fino a che non sei arrivato tu... e non ero a Londra nemmeno per controllare Wolinskj, l'ho conosciuto solo nel 1946. Ero a Londra per controllare che niente intralciasse l'apertura del secondo fronte. Dopo il D-Day il mio incarico si era concluso. Forse non mi avrebbero richiamato così in fretta, ma dopo la tua sparatoria con Jimmy non vedevo l'ora di cavarmela. Zelly era rosso dalla rabbia, chi sa, forse sarà rosso così ancora adesso, e Jimmy è stato spedito in Francia due giorni dopo». «A Scotland Yard hanno detto il giorno dopo». «Certo, potevano farlo, ma anche due giorni dopo non dev'essere stato bello lo stesso. Non volevano che rischiasse l'osso del collo il primo giorno. Ma, dico io, nemmeno a Churchill è stato concesso di andarci il primo giorno!». «Quindi tu hai lasciato perdere tutto?».
«Sì. Chi avrebbe creduto a un delitto vedendo che avevo fatto le valigie? Certo ho perso un bel po' di roba. Quel vestitino di seta così elegante... tutti i gioielli...». Troy non aveva bisogno che gli ricordasse i gioielli. «Ho qualcosa di tuo», le disse con calma. «Hai preso un ricordino?». «Sì, il tuo Huckleberry Finn». «Puoi tenerlo, se vuoi». «E un paio di orecchini di perle col fermaglio d'argento». Lei lo guardò incerta, sorridendo all'idea che tra tante cose avesse scelto proprio gli orecchini, ma poi capì e si nascose la faccia tra le mani, chinò la testa e parlò attraverso le dita. «Dove l'hai trovato?». «In casa di Wolinskj. Non la prima volta che ci ero andato e nemmeno la seconda. La terza. Ti era caduto nella stanza di mezzo. Credo in maggio. Ci sei andata quando ci conoscevamo già e io ti avevo già parlato dell'indagine di cui ora dici che non sapevi niente». «Non sapevo niente, infatti. Credi che ti avrei lasciato entrare nella sfera di Jimmy senza dirti tutto?». «Non so che cosa pensare. Mi dicevi le cose un po' per volta, mi tiravi dove volevi tu, ti servivi di me...». «Non è vero! Non lo conoscevo nemmeno Wolinskj. Non ho mai preso parte alla sua attività nell'East End. Solo per caso il suo destino si è incrociato con quello di Jimmy. Ciascuno di noi aveva un numero per le chiamate di emergenza, da quando Brand era stato ucciso e, credimi, io non sapevo chi era stato. Wolinskj mi ha telefonato. Doveva andarsene subito. Io l'ho messo in contatto con le persone giuste e gli ho procurato i soldi che gli servivano per sparire. Non l'ho mai visto. I soldi glieli ho fatti avere fermo posta. Poi arrivi tu. Niente fa ritenere che io abbia ancora a che fare con Wolinskj. Invece lui mi telefona dalla Scozia. Ha lasciato il codice nell'appartamento di Londra, un accidenti di libro pieno di cifre. Gli dico di lasciar perdere, nessuno lo scoprirà mai e, del resto, noi quel codice non lo usiamo più. Lui non sente ragione. Fa il rompiscatole e dice che vuol tornare a prenderlo. Allora ci vado io. Mi ci vuole un mucchio di tempo a trovarlo, non so più quanto. L'orecchino devo averlo perso nell'arrampicarmi su quegli scaffali. L'unica cosa che non ti ho raccontato è che Wolinskj era ancora vivo, ma non riuscivo a trovare il modo. Però,Troy, quando dici che mi sono servita di te, perché non ti chiedi che cosa hanno
fatto le altre? Ti ho mandato allo sbaraglio perché non sapevo combattere come un uomo la mia battaglia? No, questo l'ha fatto Muriel Edge. Ti ho tirato per il cazzo fino al momento di spararti addosso? No, questo l'ha fatto quella pazza...». «Non dirlo!». «Scusami». Era la prima volta da quando la conosceva che gli chiedeva scusa. «Perché tutti la chiamano "quella vacca, quella pazza"?». «Non sarà perché un po' lo era?» provò a dire la Toscà con cautela. Ci fu un silenzio freddo, interrotto solo dalle grida dei soldati ubriachi e dal rombo degli aerei. «Vuoi che te lo mandi per posta l'orecchino?». «Noo! Me lo darai la prossima volta che verrò in Inghilterra». «Verrai davvero in Inghilterra?». «Certo». «Sarà mio dovere arrestarti come nemico della corona». «Bello! Dovresti sentirti: "nemico della corona"». «Ho parlato sul serio». «No, non mi arresterai». «Perché?». «Perché, baby, se mi arresterai non potrai dormire con me». «Se non altro», disse Troy, «hai migliorato il tuo vocabolario». 100 Di Heathrow si parlava come di un aeroporto. Una definizione fantasiosa che Troy pensò dovesse servire a distinguerlo da Croydon, che era stato sempre chiamato aerodromo, o da Brize Norton che restava un campo d'aviazione. Era una raffinatezza verbale, una manipolazione della lingua che si traduceva nella realtà in un insieme di baracche, bulldozer e montagne di fango gelato, all'estrema periferia di Londra, così lontano da tutto da sembrare parte di un altro paese. L'impressione di Troy era che, in quella stagione, avrebbe potuto benissimo essere al Polo Nord. Il vento spazzava la neve farinosa, la faceva turbinare in piccoli vortici bianchi attorno alle gambe dei primi passeggeri che scendevano sulla pista ripulita di fresco, ringraziando Iddio a voce alta per aver toccato terra sani e salvi e chiedendosi l'un l'altro quale poteva essere stato il guasto. Troy stava in piedi tra la calda sicurezza dell'edificio centrale e la folla dei pas-
seggeri che si apriva per fluirgli attorno come un fiume ai lati di un macigno, tumultuosa, incurante della sua persona. Baumgarner non c'era. A Troy parve di vedere, in fondo, al disopra delle teste dei passeggeri, un uomo molto alto. Prese la pistola e la tenne stretta nella mano sinistra, lungo il fianco. All'improvviso, allora, ci si accorse di lui. Qualcuno lo indicò agli altri, gridando e la folla che gli passava accanto sempre divisa in due come i bracci di un fiume corse via in un impeto di paura. Non restò più nessuno tra Troy e l'uomo ai piedi della scaletta dell'aereo. Baumgarner, con una sigaretta spenta tra le labbra, si tastava le tasche del cappotto per cercare i fiammiferi. Infilò una mano nella tasca destra. Da lontano, Troy gli puntò la pistola all'altezza della testa. Come se avesse avvertito quel gesto compiuto in silenzio, Baumgarner alzò gli occhi e, per la prima volta, si accorse della presenza di Troy. Si tolse la mano di tasca, accese un fiammifero e lo avvicinò alla sigaretta, proteggendola dal vento con tutte e due le mani. Aspirò profondamente, soffiò un anello di fumo verso il cielo e, a sua volta, guardò Troy. Con i suoi occhi . celesti, umidi e inespressivi, il labbro superiore sporto in fuori in modo irritante, sorrise appena appena. Con la mano destra si rimise in tasca i fiammiferi e la lasciò lì, stretta a pugno. Poi si tolse di bocca la sigaretta e parlò con quella lenta, noncurante, strascicata pronuncia occidentale che Troy per tanto tempo si era sentito risuonare nelle orecchie. «Strano, eh, Troy? Le è bastato uccidere una volta per provarci gusto». Solo per il piacere di sentire il rumore, Troy fece scattare il cane della pistola. FINE