JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ IL GIURAMENTO (Le Serment Des Limbes, 2007) Per Laurence e i nostri figli I MATHIEU 1 Né vita, né...
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JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ IL GIURAMENTO (Le Serment Des Limbes, 2007) Per Laurence e i nostri figli I MATHIEU 1 Né vita, né morte. Eric Svendsen aveva una passione per le formule e io lo odiavo per questo. Perlomeno oggi. Per me, un medico legale doveva limitarsi a un rapporto tecnico, netto e preciso. Basta. Ma lo svedese non poteva farne a meno: declamava le sue frasi, ne cesellava la costruzione... «Luc si sveglierà fra poco», continuò. «Oppure mai. Il suo corpo funziona, ma la sua mente è a un punto morto. In bilico fra due mondi.» Ero seduto nella sala d'aspetto del reparto di rianimazione. Svendsen stava in piedi, in controluce. «Ma dov'è successo?» domandai. «Alla sua casa di campagna, vicino a Chartres.» «Perché l'hanno trasferito qui?» «Quelli di Chartres non erano attrezzati per tenerlo in rianimazione.» «Ma perché qui, all'Hôtel-Dieu?» «Hanno creduto di far bene. Dopotutto l'Hôtel-Dieu è l'ospedale dei poliziotti.» Mi acquattai sul sedile. Un nuotatore olimpionico pronto a tuffarsi. L'odore del disinfettante proveniente dalla doppia porta chiusa si mescolava al calore dell'ambiente e mi dava la nausea. Nella mia testa le domande si rincorrevano. «Chi l'ha trovato?» «Il giardiniere. Ha rinvenuto il corpo nel fiume, accanto alla casa. L'ha ripescato in extremis. Erano le otto del mattino. Per fortuna il SAMU, il pronto intervento sanitario, non era lontano. Sono arrivati giusto in tempo.» Immaginavo la scena. La casa di Vernay, il prato che si apriva sui cam-
pi, il fiume mezzo nascosto dalle erbe che segnava il confine con il sottobosco. Ci avevo passato tanti di quei weekend... Pronunciai la parola proibita: «Chi ha parlato di suicidio?». «Quelli del SAMU. Hanno steso un rapporto.» «Perché non potrebbe essersi trattato di un incidente?» «Il corpo era zavorrato.» Alzai gli occhi. Svendsen aprì le mani in segno di costernazione. La sua sagoma sembrava ritagliata nella carta nera. Corpo filiforme e capigliatura crespa tonda come una pallina di vischio. «Attorno alla vita Luc aveva dei blocchi di cemento fissati con filo di ferro. Una specie di cintura da immersione.» «Perché non un delitto?» «Non dire scempiaggini, Mat. Avremmo ritrovato il corpo con tre pallottole nella pancia. Invece nessuna traccia di violenza. Si è buttato, e bisogna accettarlo.» Pensai a Virginia Woolf, che si era riempita le tasche di pietre prima di lasciarsi andare a fondo in un fiume del Sussex, in Inghilterra. Svendsen aveva ragione. Il luogo stesso in cui la cosa era accaduta era una confessione. Qualunque poliziotto della Squadra si sarebbe ficcato una pallottola nella tempia, usando l'arma di servizio. Luc aveva il senso del cerimoniale, e dei luoghi sacri. Vernay, quel casale che si era dissanguato a pagare, restaurare, arredare. Un santuario perfetto. Il medico legale mi posò una mano sulla spalla. «Non è il primo poliziotto a mettere fine ai suoi giorni. State tutti sull'orlo dell'abisso e...» Altre frasi: non ascoltavo più. Pensavo alle statistiche. Erano un centinaio i poliziotti francesi che l'anno precedente si erano tirati un colpo. Ai nostri tempi il suicidio era ormai un modo come un altro per mettere fine alla carriera. L'oscurità del corridoio sembrò farsi più profonda. Odore di etere, caldo soffocante. Da quanto tempo non avevo parlato con Luc? Quanti mesi erano passati senza che ci incrociassimo? Guardai Svendsen. «E tu, che ci fai qui?» Si strinse nelle spalle. «Mi hanno portato un cadavere, alla Rapée. Uno scassinatore che ha avuto un attacco, in piena azione. I ragazzi che l'hanno condotto da me tornavano dall'Hôtel-Dieu. Mi hanno parlato di Luc. Ho piantato tutto in asso per venire qui. Dopotutto, i miei clienti possono aspettare.» Come un'eco alle sue parole risentii la voce di Foucault, il mio vice, che
mi aveva telefonato un'ora prima: «Luc si è suicidato!». L'emicrania mi martellava la testa. Osservai meglio Svendsen. Senza il camice bianco non sembrava del tutto reale. Ma era proprio lui: naso piccolo e adunco, occhialini tipo pince-nez. Un medico dei morti al capezzale di Luc... Gli avrebbe portato iella. La doppia porta di servizio si aprì per lasciare passare un medico tarchiato, tutto stazzonato nel suo camice verde. Lo riconobbi subito: Christophe Bourgeois, anestesista-rianimatore. Due anni prima aveva tentato di salvare un magnaccia di tendenze schizoidi che aveva sparato nel mucchio durante una rissa nel XVIII arrondissement, in rue Custine. Aveva steso due agenti prima che una pallottola calibro 45 gli attraversasse il midollo spinale - quella pallottola l'avevo sparata io. Mi alzai e gli andai incontro. «Ci conosciamo, no?» disse aggrottando le sopracciglia. «Mathieu Durey, comandante alla Criminale. Il caso Benzani, marzo 2000. Un malavitoso ucciso da una pallottola, deceduto qui. Ci siamo rivisti al tribunale di Créteil, l'anno scorso, per il processo in contumacia.» L'uomo fece un movimento come per dire: «Ne vedo talmente tante...». Aveva i capelli folti e bianchi. Capelli che non erano sinonimo di vecchiaia, ma piuttosto di vitalità e seduzione. Lanciò un'occhiata verso il reparto di rianimazione. «Si trova qui per il poliziotto in coma?» chiese. «Luc Soubeyras è il mio migliore amico.» Fece una smorfia, come se gli annunciassero una grana supplementare. «Se la caverà?» Il medico si sciolse i lacci del camice dalla schiena. «È già un miracolo che il cuore si sia rimesso a funzionare», decretò. «Quando lo hanno ripescato era morto.» «Vuole dire che...» «Morte clinica. Se l'acqua non fosse stata così fredda non ci sarebbe stato niente da fare. Ma l'organismo si è messo in ipotermia, rallentando l'irrorazione del corpo. Quelli di Chartres hanno avuto un'incredibile presenza di spirito. Hanno tentato l'impossibile riscaldandogli il sangue. E l'impossibile si è realizzato. Una vera resurrezione.» «Come sarebbe a dire?» Svendsen, che si era avvicinato, intervenne: «Poi te lo spiego». Lo fulminai con lo sguardo. Il medico consultò l'orologio.
«Non ho molto tempo adesso.» La collera mi accecò. «Il mio migliore amico è in agonia nella stanza accanto. Aspetto che lei mi spieghi!» «Mi perdoni», disse il medico con un sorriso. «Per il momento la diagnosi non è completa. Stanno facendo dei test per valutare la profondità del coma.» «Fisicamente, come sta?» «La vita ha ripreso il suo corso, ma non si può fare assolutamente niente per svegliarlo... E se si sveglia non si sa in quale stato sarà. Tutto dipende dalle lesioni cerebrali. Il suo amico ha attraversato la morte, capisce? Il suo cervello è rimasto senza ossigeno, il che probabilmente ha provocato dei danni.» «Esistono diversi tipi di coma, no?» «Sì, è così. Lo stato vegetativo, nel quale il paziente reagisce a certi stimoli, e il coma vero e proprio, l'isolamento totale. Il suo amico sembra tenersi in equilibrio fra i due. Ma dovrebbe parlare con Eric Thuillier, il neurologo.» Presi nota sul taccuino. «È lui che attualmente dirige i test. Prenda appuntamento per domani.» Gettò un'altra occhiata all'ora e aggiunse a bassa voce: «Un'altra cosa... Non ho osato chiederlo alla moglie, ma il suo amico si drogava, vero?». «Assolutamente no. Perché?» «Abbiamo notato delle tracce di punture, nella piega del gomito.» «Forse faceva una cura...» «La moglie dice di no. È categorica.» Il medico si tolse il camice, poi mi tese la mano. «Adesso devo proprio andare. Mi aspettano in un altro reparto.» Gli strinsi la mano e vidi le porte riaprirsi. Laure, la moglie di Luc. Anche lei portava un camice di carta e una cuffia arricciata intorno alla fronte. Avanzava barcollante. Mi affrettai verso di lei. Laure si ritrasse, come se la mia voce o la mia presenza le facessero paura. Aveva un'espressione fredda, indecifrabile. «Laure, se hai bisogno di qualunque cosa, io...» Lei fece segno di no con la testa. Non era mai stata graziosa ma in quel momento sembrava uno spettro. Mormorò in tono precipitoso: «Ieri sera ci ha detto di rientrare senza di lui. Voleva restare a Vernay. Non so cosa sia successo. Non so...». Il suo mormorio si fece impercettibile. Avrei dovuto abbracciarla, ma ero incapace di una tale familiarità. Adesso come sempre. Buttai lì: «Se la
caverà, ne sono sicuro. Ora...». Lei mi osservò con freddezza, un lampo di ostilità degli occhi. «È colpa del vostro mestiere. Mestiere di merda.» «Non si può dire questo. È...» Non finii la frase. Laure era scoppiata a piangere. Di nuovo avrei voluto abbozzare un gesto di compassione, ma non riuscivo a toccarla. Abbassando gli occhi, notai che la sua giacca, sotto il camice, era abbottonata di traverso. Questo particolare per poco non fece venire anche a me le lacrime agli occhi. Lei bisbigliò, dopo essersi soffiata il naso: «Devo andare... Le bambine mi aspettano». «Dove sono?» «A scuola.» Mi ronzavano le orecchie. Le nostre voci erano come ovattate. «Vuoi che ti ci porti io?» «Sono in macchina.» Si soffiò di nuovo il naso. La osservai. Viso stretto e denti da coniglio, incorniciati da riccioli già ingrigiti che assomigliavano alle peot di un rabbino. Istintivamente, mi venne in mente una riflessione di Luc. Una di quelle frasi ciniche che erano la sua specialità: «La donna. Risolvere il problema il più in fretta possibile, per non doverci pensare più». Era esattamente quello che aveva fatto, «importando» questa ragazza dalla sua regione d'origine, i Pirenei, e facendole fare due figli, uno dietro l'altro. Non mi veniva in mente nient'altro, così dissi: «Ti chiamo stasera». Annuì e si allontanò verso il guardaroba. Mi voltai: l'anestesista si era dileguato. Restava Svendsen, l'inevitabile Svendsen. Scorsi il camice che il medico aveva abbandonato su una sedia e lo afferrai: «Vado a vedere Luc». «Lascia perdere», disse bloccandomi con mano ferma. «Il medico ce l'ha appena detto: lo stanno sottoponendo a degli esami.» Mi liberai stizzoso, ma lui aggiunse con voce calma: «Torna domani, Mat. Sarà meglio per tutti». L'ondata di collera rifluì. Svendsen aveva ragione. Dovevo lasciare che i medici facessero il loro lavoro. Cosa ci avrei guadagnato a vedere il mio amico bucherellato di sonde e flebo? Feci un gesto di saluto e scesi le scale. Il mal di testa stava scemando. Istintivamente, m'incamminai verso il centro medico-carcerario, dove venivano ricoverati i sospetti feriti e i drogati in crisi di astinenza, ma di colpo il timore d'imbattermi in qualche poliziotto conosciuto mi fece cambiare
strada. Non avevo nessuna voglia di sorbirmi lacrimevoli condoglianze o parole di compassione. Mi diressi invece verso l'ingresso principale. Sulla soglia tirai fuori il pacchetto di Camel senza filtro e mi accesi una cicca con il mio grosso Zippo. Inalai avidamente la prima boccata. Gli occhi mi caddero sulla scritta che campeggiava sul pacchetto: FUMARE PUÒ PROVOCARE UNA MORTE LENTA E DOLOROSA. Feci qualche tiro, addossato al cancello, poi presi a sinistra, verso il cuore della mia esistenza: il 36 di quai des Orfèvres. Ma cambiai presto idea e girai a destra, verso l'altro cardine della mia vita: la cattedrale di Notre-Dame. 2 Fin dall'atrio cominciavano gli avvisi: ATTENZIONE AI BORSEGGIATORI, PER RAGIONI DI SICUREZZA I BAGAGLI SONO VIETATI, SI PREGA DI RISPETTARE IL SILENZIO... Eppure, nonostante la folla, nonostante la mancanza d'intimità, provavo sempre la stessa emozione quando oltrepassavo la soglia di Notre-Dame. Mi feci largo fra la gente e raggiunsi l'acquasantiera di marmo. Intinsi le dita nell'acqua e mi feci il segno della croce, inchinandomi al cospetto della Vergine. Sentii il calcio della USP 9 mm Para premermi contro l'anca. Per diverso tempo la mia arma di servizio aveva costituito un problema. Si poteva entrare in una chiesa con quella roba addosso? All'inizio l'avevo nascosta sotto il sedile della macchina, ma poi mi ero stufato di fare ogni volta tutto il giro del parcheggio del 36. Nasconderla fra i bassorilievi della cattedrale? Troppo pericoloso. Alla fine mi ero rassegnato a compiere l'oltraggio. Forse che i crociati deponevano la spada quando entravano nel tempio? Risalii la navata sul lato destro, fiancheggiai distese di ceri, superai i confessionali sormontati dalle bandierine che indicavano le lingue parlate dai sacerdoti officianti. A ogni passo la mia calma aumentava: l'ombra della chiesa aveva un potere benefico. Contraddittoria come situazione: un cargo di pietra che scivolava su flutti di oscurità, distillando però una leggerezza acre e pungente, quella degli effluvi d'incenso, dei profumi di cera, della freschezza del marmo. Incrociai le cappelle di Saint-François-Xavier e di Sainte-Geneviève, alcove chiuse al pubblico, tappezzate di grandi dipinti cupi, le statue di Gio-
vanna d'Arco e di santa Teresa, evitai la fila d'attesa davanti alla sala del Tesoro e, attraversato il coro, raggiunsi la «mia» cappella, il luogo di raccoglimento dove venivo a pregare ogni sera. Nostra Signora dei Sette Dolori. Pochi banchi fiocamente illuminati, un altare adorno di ceri falsi e di oggetti liturgici. Scivolai a destra, fra gli inginocchiatoi, al riparo dagli sguardi. Chiusi gli occhi e sentii dentro di me risuonare una voce: «Guarda come sonnecchiano». Luc era al mio fianco, un Luc quattordicenne, magro e discolo. Non ero più a Notre-Dame ma nella cappella del collegio di Saint-Michel-de-Sèze, attorniato dagli allievi di terza. «Quando sarò prete», stava dicendo Luc con la sua voce sferzante, «tutti i miei fedeli staranno in piedi. Come in un concerto rock!» L'audacia di questo adolescente mi lasciava stupefatto. All'epoca vivevo la mia fede come una tara inconfessabile, fra gli altri ragazzini che consideravano l'insegnamento religioso come la peggiore delle materie. Ed ecco che questo marmocchio affermava di volere farsi prete: un prete rock'n'roll! «Mi chiamo Luc, Luc Soubeyras. Mi hanno detto che tenevi nascosta una Bibbia sotto il cuscino e che non si era mai visto un simile idiota. Allora volevo dirti che di idioti così ce ne sono altri qui: io.» Congiunse le mani e declamò: «Beati i perseguitati, perché di essi è il regno dei cieli». Poi tese il palmo verso il soffitto del coro perché gli dessi il cinque. Lo schiocco delle mani mi ricondusse alla realtà. Sbattei le palpebre e mi ritrovai nel mio rifugio di Notre-Dame. La pietra fredda, il vimini degli inginocchiatoi, gli schienali di legno... Sprofondai di nuovo nel passato. Quel giorno avevo fatto la conoscenza del personaggio più originale di Saint-Michel-de-Sèze. Parole a raffica, arrogante, sarcastico, ma consumato da una fede incandescente. Erano i primi mesi dell'anno scolastico 198182. Luc, terza B, aveva già alle spalle due anni di De Sèze. Alto, allampanato, come me, si agitava con gesti febbrili. Oltre ad avere in comune la statura e la fede, portavamo entrambi il nome di un apostolo, lui quello dell'evangelista che Dante chiamava «scriba», perché il suo vangelo è quello scritto meglio, io quello di Matteo, il doganiere, il guardiano della legge che seguì Cristo e trascrisse ogni sua parola. I punti comuni finivano qui. Io ero nato a Parigi, in un quartiere chic del XVI arrondissement. Luc Soubeyras era originario di Aras, villaggio fantasma degli Hautes-Pyrénées. Mio padre aveva fatto fortuna nella pubblicità, durante gli anni Settanta. Luc era il figlio di Nicolas Soubeyras, inse-
gnante, comunista, speleologo dilettante che si era fatto conoscere nella regione trascorrendo interi mesi nelle viscere della terra e che ne era stato inghiottito, tre anni prima. Io, figlio unico, ero cresciuto in seno a una famiglia che aveva eretto il cinismo e l'ostentazione a valori assoluti. Quando non era in convitto, Luc viveva con una madre funzionaria, cristiana e alcolizzata che aveva dato i numeri dopo la morte del marito. Fin qui il profilo sociale. Anche la nostra condizione di scolari era diversa. Io mi trovavo a Saint-Michel-de-Sèze perché quell'istituto, di obbedienza cattolica, era uno dei più rinomati di Francia, uno dei più cari e, soprattutto, uno dei più lontani da Parigi. Non c'era il rischio che il weekend sbarcassi dai miei, con le mie idee lugubri e le mie crisi mistiche. Luc faceva i suoi studi lì perché, come orfano, aveva beneficiato di una borsa dei gesuiti che dirigevano il pensionato. In fin dei conti, questo creava un ulteriore punto in comune fra noi due: eravamo soli al mondo. Senza legami, destinati a interminabili weekend nel collegio deserto. Lunghe ore a disposizione per discutere della nostra vocazione. Ci divertivamo a romanzare le nostre rispettive rivelazioni, prendendo a modello Claudel, toccato dalla grazia a Notre-Dame, o sant'Agostino, investito dalla luce in un giardino milanese. Nel mio caso era successo a Natale, quando avevo sei anni. Contemplando i giocattoli ai piedi dell'albero, ero letteralmente precipitato in una faglia cosmica. All'improvviso, stringendo fra le dita un camioncino rosso, avevo captato la presenza di una realtà invisibile e incommensurabile dietro ogni oggetto, ogni dettaglio. Una smagliatura nella tela del reale che celava un mistero, e un appello. Indovinavo che la verità stava in quel mistero. Anche se, soprattutto se, non possedevo ancora una risposta. Ero all'inizio del cammino, e le mie domande costituivano già una risposta. Più tardi avrei letto sant'Agostino: «La fede cerca, l'intelletto trova...». In contrasto con questa rivelazione discreta, intima, quella di Luc era stata esplosiva, spettacolare. Pretendeva di aver visto, visto con i propri occhi, la potenza di Dio, mentre accompagnava suo padre durante una ricognizione in montagna, alla ricerca di un pozzo. Era il '78. Aveva undici anni. In un'iridescenza della roccia, aveva scorto il volto di Dio. E aveva capito la natura olistica del mondo. Il Signore era dappertutto, in ogni ciottolo, ogni filo d'erba, ogni folata di vento. E dunque ogni parte, anche la più infinitesimale, conteneva il Tutto. Luc non aveva più fatto marcia indietro sulla propria convinzione.
Il nostro fervore - in forma maggiore per lui, minore per me - aveva trovato a Saint-Michel-de-Sèze il luogo dove dispiegarsi. Non perché la scuola fosse cattolica - al contrario, disprezzavamo i nostri professori, impastoiati nella loro fede melensa di gesuiti - ma perché gli edifici del pensionato sorgevano attorno a un'abbazia cistercense, situata su un piccolo poggio. Lassù avevamo i nostri luoghi di appuntamento. Dal primo, ai piedi del campanile, si godeva una vista panoramica sulla valle. Il secondo, il nostro preferito, era sotto le volte del chiostro, dove si ergevano statue raffiguranti gli apostoli. All'ombra dei volti corrosi di san Giacomo Maggiore con il suo bastone di pellegrino o di san Matteo con la sua accetta, rifacevamo il mondo. Il mondo liturgico! Addossati contro le colonne, schiacciando i mozziconi in una scatola di ferro, evocavamo i nostri eroi: i primi martiri, che avevano predicato la parola di Cristo ed erano finiti nelle arene, ma anche sant'Agostino, san Tommaso, san Giovanni della Croce... Noi stessi ci immaginavamo come guerrieri della fede, teologi, crociati della modernità, tesi a rivoluzionare il diritto canonico, a scuotere i cardinali incartapecoriti del Vaticano, a trovare soluzioni inedite per convertire nuovi cristiani in giro per il mondo. Mentre gli altri collegiali organizzavano incursioni nel dormitorio delle ragazze e ascoltavano ossessivamente i Clash sul walkman, Luc e io discutevamo senza sosta del mistero dell'Eucarestia, confrontavamo nei testi Aristotele e san Tommaso d'Aquino, commentavamo il Concilio Vaticano II, che non era stato granché innovativo. Percepivo ancora l'odore di erba tagliata del patio, la consistenza dei miei pacchetti di Gauloises stropicciati e le nostre voci, quelle voci in piena muta che deragliavano nell'acuto per finire in uno scoppio di risa. Invariabilmente, i nostri conciliaboli si concludevano sulle ultime parole del Diario di un curato di campagna di Bernanos: «Che importa? Tutto è grazia». Quando si era detto questo, si era detto tutto. L'organo di Notre-Dame mi richiamò all'ordine. Diedi una sbirciata all'orologio: le 17.45. Cominciavano i vespri del lunedì. Mi scossi dal torpore e mi alzai. Un dolore violento mi piegò in due non appena la realtà mi si riaffacciò alla mente: Luc, fra la vita e la morte; un suicidio, sinonimo di una disperazione senza uscita. Cominciai a muovermi, quasi zoppicante, premendo la mano contro l'inguine. Mi sentivo fluttuare nel mio impermeabile grigio. I miei soli punti di ancoraggio erano le mani premute sul ventre e l'USP Heckler & Koch
fissata alla cintura che da tempo aveva rimpiazzato la Manhurin regolamentare. Un fantasma di poliziotto la cui ombra gli serpeggiava davanti, complice dei lunghi drappi bianchi che dissimulavano le impalcature del coro in corso di restauro. Fuori, ricevetti un altro shock. Non causato dalla luce del giorno, ma da quella di un altro ricordo che mi trafisse come un punteruolo. La faccia lattea di Luc che rideva a crepapelle. I capelli rossi, il naso curvo, le labbra sottili e i grandi occhi grigi che brillavano come pozze d'acqua scintillanti dopo la pioggia. In quell'istante ebbi una rivelazione. Quel giorno mi era sfuggito l'essenziale. Luc Soubeyras non poteva suicidarsi. Era di una semplicità elementare. Un cattolico della sua tempra non mette fine ai propri giorni. La vita è un dono di Dio di cui non si può disporre. 3 Squadra criminale, 36, quai des Orfèvres. I suoi corridoi. Il pavimento grigio scuro. I cavi elettrici, ammassati contro il soffitto. Gli uffici mansardati. A questi luoghi non prestavo ormai alcuna attenzione. Lì dentro era per me come muovermi in un'ovatta neutra. Non percepivo nemmeno più l'odore del tabacco o del sudore. Tuttavia, mi accompagnava sempre un'impressione di umidità vagamente nauseante, come se camminassi dentro un organismo vivente in via di putrefazione. Si trattava di un'allucinazione, ovviamente, legata al mio passato africano. In Africa avevo contratto una deformazione, un modo di percepire gli oggetti solidi come esseri umidi, organici... Attraverso le porte socchiuse colsi delle occhiate inequivocabili: erano tutti già al corrente. Accelerai il passo per non dover dare notizie di Luc o scambiare banalità su quanto il nostro mestiere potesse essere disperante. Afferrai la posta che si era accumulata nella cassetta e richiusi la porta dell'ufficio. Quegli sguardi mi facevano già capire quale sarebbe stato il seguito. Ognuno si sarebbe interrogato sull'atto di Luc. Sarebbe stata ordinata un'indagine. Si sarebbe privilegiata l'ipotesi della depressione, ma i poliziotti dell'Ispezione generale dei servizi (IGS, la polizia della polizia) avrebbero frugato nella vita di Luc: verificare se fosse dedito al gioco, se avesse debiti, se avesse bazzicato troppo i suoi informatori al punto di es-
sere invischiato in affari illegali. Un'indagine di routine, che non sarebbe approdata a nulla ma che avrebbe insozzato tutto. Nausea, voglia di dormire. Mi tolsi l'impermeabile e mi tenni addosso la giacca, malgrado il caldo. Mi piaceva la sensazione familiare della fodera di seta. Una seconda pelle. Mi sedetti sulla poltrona e considerai la mia terza pelle: il mio ufficio. Cinque metri quadrati senza finestre, dove i dossier si ammucchiavano fino a coprire i muri. Lanciai uno sguardo alla catasta di carte che avevo collezionato. Verbali di audizioni o di interrogatori, bollette del telefono dettagliate, estratti conto di individui sospetti, autorizzazioni finalmente accordate dai giudici. E anche: la rassegna stampa criminale che arrivava mattina e sera dal gabinetto del ministero degli Interni, e i telegrammi che riassumevano i casi più importanti dell'Ile-de-France. La melma abituale. Il tutto coperto dai post-it incollati dai miei assistenti, per segnalare i risultati o le impasse della giornata. La nausea, fortissima. Nessuna voglia di ascoltare i messaggi, né sul cellulare né sul telefono fisso. Contattai invece la gendarmeria di Nogent-leRotrou, la città più vicina a Vernay, e domandai di parlare al capitano che aveva soprinteso al salvataggio di Luc. Questi mi confermò le informazioni di Svendsen. Il corpo zavorrato, il trasferimento d'urgenza, la resurrezione. Riattaccai, mi tastai le tasche, trovai le mie senza filtro. Ne tirai fuori una, presi l'accendino e, immerso nelle riflessioni, assaporai ogni dettaglio del rituale. Il pacchetto frusciante, intimo; il profumo orientale che si sprigionava, misto agli effluvi di benzina dello Zippo; i frammenti di tabacco che mi restavano sulle dita, come tante particelle d'oro. E, infine, il sorso di fuoco che m'inondava il petto... Le sei del pomeriggio. Cominciai a decifrare i post-it. Messaggi di solidarietà: «Sono con te. Franck», «Niente è perduto. Gilles», «È il momento di tirare fuori il coraggio! Philippe». Scollai i foglietti e li misi da parte. Era giunto il momento di dedicarsi al lavoro, di valutare i dati positivi e quelli negativi della giornata. Foucault m'informava che la DPG, la Divisione della polizia giudiziaria di Louis-Blanc, rifiutava di trasmetterci il dossier riguardante un cadavere coperto di tagli rinvenuto nei pressi di Stalingrad. Questo omicidio poteva essere connesso a un regolamento di conti fra spacciatori sul quale indagavamo da un mese, alla Villette. Il rifiuto non mi sorprendeva. La solita vecchia rivalità fra la DPG e la Criminale. Che ognuno si faccia i fatti suoi e i cadaveri saranno ben custoditi.
Messaggio seguente, più costruttivo. Quindici giorni prima un compagno di corso in servizio presso la DPG di Cergy-Pontoise mi aveva chiesto consiglio su un delitto: una donna, cinquantanove anni, estetista, assassinata nel parcheggio sotto casa. Sedici ferite da taglio. Non era stata derubata né violentata. Nessun testimone. Gli inquirenti avevano ipotizzato un delitto passionale, poi l'atto di un pervertito, e si erano infine trovati in un vicolo cieco. Osservando le foto del cadavere avevo notato tutta una serie di dettagli. Gli angoli d'attacco della lama rivelavano che l'assassino aveva più o meno la stessa statura della vittima, una persona piuttosto piccola. L'arma era singolare: uno stiletto all'antica, di quelli che ormai si trovano solo dai rigattieri. Uno strumento del genere poteva appartenere anche a un assassino di sesso femminile. È il tipo di arma che viene usato nei regolamenti di conti fra prostitute - per sfigurare la rivale - mentre gli uomini ricorrono piuttosto al coltello e colpiscono al ventre. La cosa più importante, però, era che le piaghe si concentravano sul viso, sul petto e sul basso ventre. L'omicida aveva infierito sulle parti che designavano il sesso, soffermandosi in particolare sulla faccia, tagliando il naso, le labbra, gli occhi. Sfigurando la sua vittima, l'assassino si era forse concentrato sulla propria immagine, come se mandasse in frantumi uno specchio. Avevo anche notato l'assenza di ferite provocate da reazioni della vittima, che normalmente avrebbe lottato e tentato di difendersi: l'estetista doveva conoscere il proprio aggressore. Avevo domandato al mio collega di Gergy se la defunta non avesse una figlia o una sorella e lui mi aveva promesso di interrogare nuovamente la famiglia. Il post-it diceva succintamente: «La figlia ha confessato!». Passai a un altro incartamento, fresco di stampa: il verbale del sopralluogo su una scena del delitto che mi ero perso il giorno prima. L'agente Meyer era l'esperto di procedura della squadra, lo scrittore della banda. Laureato in lettere, redigeva questi verbali con una cura tutta particolare: era un vero maestro nell'evocare i luoghi del delitto. Fui subito dentro la storia. Le Perreux, mezzogiorno, due giorni prima. All'ora di pranzo uno o più aggressori avevano fatto irruzione in una gioielleria. La proprietaria non aveva fatto in tempo ad azionare l'allarme e i malviventi si erano portati via la cassa, i gioielli... e la donna. L'avevano ritrovata l'indomani mattina, assassinata, semisepolta nei boschi che fiancheggiano la Marne. Era questo il luogo descritto da Meyer: il corpo a metà nella terra, l'humus, le foglie morte. E le scarpe della vittima, posate
perpendicolarmente accanto alla sepoltura. Perché le scarpe? Mi si affacciò un ricordo. All'epoca delle mie aspirazioni umanitarie, prima dei viaggi in Africa, avevo girato la periferia nord in un autobus che forniva cibo, indumenti e cure mediche alle famiglie nomadi che sopravvivevano sotto i ponti della périphérique. Per l'occasione avevo studiato la cultura dei rom. Dietro la sporcizia e l'aria da delinquenti avevo scoperto un popolo fortemente strutturato, che segue regole molto precise, in particolare quando si tratta dell'amore e della morte. Durante un loro funerale ero rimasto colpito da una particolarità: prima di inumare il cadavere, gli zingari gli avevano tolto gli stivali e li avevano posti vicino alla sepoltura. Perché? Non me lo ricordavo, ma la similitudine meritava di essere approfondita. Presi il telefono e chiamai Malaspey. Il più freddo del mio gruppo, e il meno chiacchierone. L'unico che non rischiava di parlarmi di Luc. Senza preamboli, gli ordinai di trovare uno specialista dei rom e di controllare i loro riti funerari. Malaspey raccolse il messaggio e subito riattaccò. Nessuna frase di carattere personale, come previsto. Ritornai alle scartoffie. Tempo perso. Concentrazione zero. Lasciai perdere e contemplai il caos che regnava nel mio ufficio, le pareti tappezzate di pratiche «inevase», ossia, nel linguaggio poliziesco, casi non risolti. Storie vecchie che rifiutavo di archiviare. Ero l'unico investigatore della Squadra a conservare quel genere di documenti. Ero anche l'unico a prolungare il loro termine di prescrizione - dieci anni per i delitti di sangue - conducendo di tanto in tanto un interrogatorio o trovando un fatto nuovo. Il mio sguardo si posò sulla fotografia di una ragazzina fissata al muro sopra una pila di carte. Cécilia Bloch, il cui corpo bruciato era stato rinvenuto a qualche chilometro da Saint-Michel-de-Sèze, nel 1984. Il colpevole non era mai stato trovato: il solo indizio a disposizione erano le bombolette usate per appiccare il fuoco al corpo. Collegiale a Sèze, ero stato ossessionato da questa vicenda. Una domanda non mi dava pace: l'assassino aveva prima ucciso la piccola o l'aveva bruciata viva? Diventato poliziotto, avevo riesumato il caso. Ero tornato sul posto. Avevo interrogato i gendarmi, la gente che abitava nei paraggi, senza risultato. C'era la foto di un'altra bambina sulla parete. Ingrid Coralin. Un'orfana che doveva avere ormai dodici anni e che cresceva passando da un istituto all'altro. Una ragazzina cui avevo indirettamente ucciso i genitori, nel 1996, e alla quale versavo anonimamente un sussidio. Cécilia Bloch, Ingrid Coralin.
I miei fantasmi familiari, la mia sola famiglia... Guardai l'orologio: erano quasi le otto, tempo di muoversi. Andai al piano di sopra. Composi il codice di accesso della Squadra degli Stups, l'antinarcotici, e penetrai negli uffici. Incrociai sulla destra l'open space del gruppo d'indagine di Luc. Non un'anima. C'era da credere che si fossero tutti dati appuntamento altrove, forse in uno dei loro bar abituali per bere in silenzio. Gli uomini di Luc erano i più duri del quai des Orfèvres. Auguravo buona fortuna ai ragazzi dell'IGS che li avrebbero interrogati. Loro non si sarebbero lasciati sfuggire una parola. Oltrepassai la porta di Luc senza fermarmi, lanciando un'occhiata nelle stanze vicine: nessuno. Tornai sui miei passi, girai la maniglia: chiuso. Estrassi di tasca un mazzo di passepartout e in qualche secondo feci scattare la serratura. Entrai senza far rumore. Luc aveva messo ordine. Neanche una carta sulla scrivania. Nessun avviso di ricerca sulle pareti. Per terra, neanche una pratica in ritardo. Se Luc avesse davvero voluto andarsene, non si sarebbe comportato diversamente. Il gusto del segreto: una delle chiavi del personaggio. Immobile, osservai la stanza. La tana di Luc non era più grande della mia ma disponeva di una finestra. Girai intorno alla scrivania - un mobile degli anni Trenta che Luc aveva comprato da un rigattiere - e mi avvicinai al pannello di sughero dietro la poltrona. C'erano ancora fissate delle foto. Non scatti professionali: ritratti di Camille, otto anni, e di Amandine, sei anni. Nell'oscurità i loro sorrisi galleggiavano sulla carta lucida come sulla superficie di un lago. C'erano anche dei disegni infantili: fate, case abitate da una piccola famiglia, «papà» armato di una grossa pistola che insegue i «mercanti di droga». Sfiorando con le dita le immagini mormorai: «Cosa hai fatto? Cazzo, cosa hai fatto?...». Aprii un cassetto dopo l'altro. Nel primo, articoli di cancelleria, manette, una Bibbia. Nel secondo e nel terzo, dossier recenti e casi risolti. Rapporti impeccabili, note di servizio superleccate. Luc non aveva mai lavorato con quell'ordine maniacale. Sembrava una messinscena. Un ufficio da primo della classe. Mi soffermai davanti al computer. Non mi aspettavo certo che il PC contenesse qualche spettacolare rivelazione, ma volevo fugare ogni dubbio. Premetti istintivamente sulla barra dello spazio. Lo schermo si accese. Presi il mouse e cliccai su una delle icone. Il programma mi domandò la password. Digitai la data di nascita di Luc, un tentativo come un altro. Bocciata. I nomi di Camille e Amandine. Niente da fare. Stavo per fare un
quarto tentativo quando si accese la luce. «Che cavolo ci fai qui?» Sulla soglia c'era Patrick Doucet, detto «Doudou», numero due del gruppo di Luc. Avanzò di un passo e ripeté con voce sibilante, a labbra strette: «Che cavolo ci fai in questo cazzo di ufficio?». Ero rimasto senza fiato, senza voce. Doudou era il più pericoloso della squadra. Una testa calda, un drogato di anfetamine che aveva iniziato la carriera alla Squadra di ricerca e intervento e viveva per le irruzioni. Sulla trentina, una faccia d'angelo malato, spalle da culturista, strette in un giubbotto di pelle logoro. Portava i capelli corti ai lati, lunghi sulla nuca. Doudou indicò il computer acceso. «Sempre a rovistare nella merda, eh?» «Perché merda?» Non rispose. Trasudava violenza. Dal giubbotto aperto spuntava il calcio di una Glock 21, una calibro 45, l'arma in dotazione al gruppo. «Puzzi d'alcol», osservai. Avanzò ancora. Io indietreggiai, mi metteva paura. «Non c'è forse un buon motivo per mandare giù un bicchiere?» Avevo visto giusto. Gli uomini di Luc erano andati a sbronzarsi. Se gli altri ricomparivano adesso, già m'immaginavo nella parte dello sbirro linciato dai colleghi di un servizio rivale. «Cosa cerchi?» mi lanciò secco. «Voglio sapere come Luc sia arrivato a questo.» «Basta che guardi la tua vita. Avrai la risposta.» «Luc non avrebbe mai rinunciato all'esistenza. In nessun caso. La vita è un dono di Dio e...» «Non cominciare con le tue prediche.» Doudou non mi toglieva gli occhi di dosso. Ci separava solo la scrivania. Notai che non era molto sicuro sulle gambe e mi sentii un po' sollevato. Era completamente ubriaco. Optai per le domande franche: «Com'era queste ultime settimane?». «Che te ne frega?» «Su cosa lavorava?» Lui si passò la mano sulla faccia. Scivolai lungo il muro e mi allontanai. «Dev'essere successo qualcosa...» continuai senza perderlo di vista. «Forse un'indagine che gli ha sbattuto il morale a terra...» «Cosa cerchi?» sogghignò Doudou. «Il caso che uccide?» Nel suo stato di obnubilamento, aveva trovato la parola giusta. Era una
delle mie ipotesi per spiegare il suicidio di Luc, se di suicidio si trattava: un'indagine che l'avrebbe fatto precipitare in una disperazione senza vie d'uscita. Un caso che avrebbe sconvolto la sua fede cattolica. «A cosa cazzo stavate lavorando?» insistei, continuando a indietreggiare, mentre Doudou mi seguiva con la coda dell'occhio. Mi rispose con un sonoro rutto. «Non fare il furbo», gli dissi con un sorriso. «Domani saranno quelli dell'IGS a rivolgerti questa domanda.» «Che vadano a farsi fottere.» Mollò un pugno al monitor. Il braccialetto mandò un luccichio. «Luc non ha niente da rimproverarsi, è chiaro?» urlò. «Non abbiamo niente da rimproverarci!» Puttana merda! Tornai sui miei passi e spensi lentamente il computer. «Se è così», mormorai, «ti conviene cambiare atteggiamento.» «Adesso parli come un avvocato.» Mi piantai davanti a lui. Mi ero scocciato del suo disprezzo a buon mercato. «Ascoltami bene, cocco», dissi. «Luc è il mio migliore amico, OK? Allora smettila di trattarmi come un ficcanaso. Troverò la ragione del suo atto, qualunque essa sia. E non sarai tu a impedirmelo.» Mi diressi verso la porta. Mentre oltrepassavo la soglia Doudou sbottò: «Nessuno canterà, Durey. Ma se smuovi la merda, insozzerà tutti». «E se tu mi raccontassi qualcosa di più?» gli lanciai da sopra la spalla. A mo' di risposta il poliziotto fece un gesto eloquente alzando in aria il dito medio. 4 A cielo aperto. Una scala a cielo aperto. Quando avevo visitato l'appartamento per la prima volta mi era stato subito chiaro che l'avrei preso proprio per questo particolare. Dei gradini lastricati di piastrelle di cotto, sovrastanti un cortile del XVIII secolo, avvitati attorno a una balaustra di ferro coperta d'edera. Avevo provato subito una sensazione di benessere, di purezza. M'immaginavo di rientrare dal lavoro e salire questi scalini rasserenanti, come se attraversassi una camera di decontaminazione. Non mi ero ingannato. Avevo investito la mia parte di eredità in questo appartamento di tre locali nel Marais e da quattro anni sperimentavo ogni
sera la virtù magica della scala. Quali che fossero gli orrori della giornata, la spirale e le sue foglie mi pulivano. Mi spogliavo già sulla soglia, ficcavo i vestiti in un sacco per la lavanderia e mi tuffavo sotto la doccia, completando così il processo di purificazione. Tuttavia quella sera la scala pareva avere perso i suoi poteri. Arrivato al terzo piano mi bloccai. C'era un'ombra ad attendermi, seduta sui gradini. Nella luce incerta individuai il cappotto di daino, il tailleur color prugna. Proprio l'ultima persona che desideravo vedere: mia madre. Stavo per arrivare in cima quando la sua voce rauca mi rivolse il primo rimprovero della serie: «Ti ho lasciato dei messaggi. Non hai richiamato». «Ho avuto una giornata pesante.» Non era il caso di spiegarle l'accaduto: mia madre aveva incontrato Luc solo un paio di volte, quando eravamo adolescenti. Non aveva fatto commenti, ma la sua espressione la diceva lunga - era la stessa smorfia di quando scopriva una famiglia rumorosa nella sala business a Roissy, o una macchia su uno dei suoi divani - sulle terribili note false che doveva sopportare nella sua vita di donna di mondo a tutto campo. Non mostrò segno di volersi alzare. Mi sedetti accanto a lei, senza curarmi di accendere la luce del pianerottolo. Eravamo al riparo dal vento e dalla pioggia e, per essere il 21 ottobre, la temperatura era piuttosto mite. «Cosa volevi? Qualcosa di urgente?» «Non ho bisogno che si tratti di qualcosa di urgente per venirti a trovare.» Accavallò le gambe con eleganza e potei notare il tessuto della gonna, un tweed di lana bouclé. Fendi o Chanel. Il mio sguardo scese sulle scarpe. Nero e oro. Manolo Blahnik. Quel gesto, quei dettagli... La rivedevo accogliere i suoi invitati a colpi di pose languide durante le sue imperdibili cene. Altre immagini si sovrapponevano. Mio padre che mi chiamava affettuosamente il «mio piccolo bigotto» e mi metteva a capotavola; mia madre, che si faceva sempre indietro quando mi avvicinavo, per paura che le sgualcissi il vestito. E il mio muto orgoglio di fronte alla loro distanza e al loro misero materialismo. «Sono settimane che non pranziamo insieme.» Usava sempre la stessa inflessione dolce per distillare i suoi rimproveri. Ostentava le sue ferite affettive, ma era la prima a non crederci. In materia di sentimenti, mia madre, che viveva per gli abiti griffati e le denominazioni di origine controllata, si muoveva all'insegna della contraffazione. «Mi spiace», ribattei. «Non mi sono reso conto del passare del tempo.»
«Non mi vuoi bene.» Aveva il dono di proferire frasi tragiche nel bel mezzo di una banale conversazione. Stavolta aveva usato il suo tono imbronciato di ragazzina. Mi concentrai sul profumo d'edera umida, sull'odore dei muri, appena ridipinti. «In fondo, non vuoi bene a nessuno.» «Voglio bene a tutti, invece.» «Questo è quello che dici tu. Il tuo sentimento è generale, astratto. Una specie di... teoria. Non mi hai mai nemmeno presentato una fidanzata.» Guardai il riquadro di notte che si ritagliava obliquo al di sopra della rampa. «Ne abbiamo parlato mille volte. Il mio impegno è altrove. Cerco di amare gli altri. Tutti gli altri.» «Anche i criminali?» «Soprattutto i criminali.» Si coprì le gambe con i lembi del cappotto. Osservai il suo profilo perfetto, incorniciato dalle ciocche ramate. «Sei come uno psicanalista», aggiunse. «Presti interesse a tutti, ma non ti fai coinvolgere da nessuno. L'amore, tesoro, è quando si rischia la propria pelle per un altro.» Non ero sicuro che la predica venisse dal pulpito giusto, però mi sforzai di rispondere: questa dissertazione doveva avere un motivo nascosto. «Trovando Dio, ho trovato una sorgente viva. Una sorgente d'amore inesauribile e che deve risvegliare lo stesso sentimento negli altri.» «I tuoi soliti sermoni. Vivi in un altro tempo, Mathieu.» «Il giorno in cui capirai che queste parole non appartengono a una moda né a un'epoca...» «Non fare il saputello con me.» D'un tratto fui colpito dalla sua espressione. Sebbene abbronzata ed elegante come sempre, aveva l'aria affaticata, preoccupata. «Sai quanti anni ho?» mi domandò di punto in bianco. «Voglio dire: la mia vera età.» Era uno dei segreti meglio custoditi di Parigi. Quando avevo avuto accesso al casellario giudiziale, era stata la prima cosa che avevo verificato. Per farle piacere, risposi: «Cinquantacinque, cinquantasei...». «Sessantacinque.» Io ne avevo trentacinque. A trent'anni, subito dopo che aveva sposato mio padre, in seconde nozze, il suo istinto materno si era risvegliato. Si e-
rano trovati d'accordo su questo progetto, d'accordo come quando dovevano acquistare una nuova barca a vela o un quadro di Soulages. All'inizio la mia nascita doveva averli divertiti, ma si erano presto stancati. Soprattutto mia madre, che aveva entusiasmi di breve durata. L'egoismo, l'ozio le prendevano tutta l'energia. L'indifferenza, quella vera, è un'occupazione a tempo pieno. «Cerco un sacerdote.» Mi sentii invadere dall'inquietudine. Di colpo immaginavo una malattia mortale, uno di quegli sconvolgimenti che rimettono tutto in questione. «Non sarai...» «Malata?» fece un sorriso di superiorità. «No. Certo che no. Voglio confessarmi, tutto qua. Fare pulizia. Ritrovare una specie di... verginità.» «Un lifting, insomma.» «Non scherzare.» «Credevo che il tuo genere fossero piuttosto le dottrine orientali. O New Age, che so.» Scosse il capo, guardandomi di traverso. I suoi occhi chiari, che spiccavano nel viso abbronzato, erano ancora di una seduzione impressionante. «Ti fa ridere, eh?» «No.» «Hai una voce sarcastica. Tutto il tuo essere è sarcastico.» «Ma dai.» «Non te ne rendi nemmeno conto. Sempre questa distanza, questa altezzosità...» «Perché la confessione? Vuoi parlarmene?» «A te? Saresti l'ultima persona. Hai un nome da consigliarmi? Qualcuno a cui potrei affidarmi? Qualcuno che abbia delle risposte...» Mia madre, in piena crisi mistica. Decisamente non era una giornata come le altre. Mormorò, mentre riprendeva a piovere: «Dev'essere l'età. Non so. Ma voglio trovare una... coscienza superiore». Afferrai una penna e strappai un foglio dall'agenda. Senza riflettere, scrissi il nome e l'indirizzo di un sacerdote che vedevo spesso. I preti non sono come gli psicanalisti: si possono condividere in famiglia. Le tesi il foglietto. «Grazie.» Si alzò in un'ondata di profumo. La imitai. «Vuoi entrare?» «Sono già in ritardo. Ti chiamo.»
Infilò le scale. La sua silhouette di daino e tweed era in perfetta sintonia con la brillantezza delle foglie, con il bianco dei muri. Era la stessa freschezza, lo stesso nitore. D'un tratto fui io a sentirmi vecchio. Feci dietrofront verso il pianerottolo dove luccicava la mia porta verde smeraldo. 5 In quattro anni non avevo ancora finito di sistemare l'appartamento. Gli scatoloni di libri e di CD ingombravano ancora l'ingresso e facevano ormai parte dell'arredo. Ci posai sopra l'arma, mi liberai dell'impermeabile e mi tolsi le scarpe, gli eterni mocassini Sebago, lo stesso modello dall'adolescenza. Accesi la luce in bagno, incrociando il mio riflesso nello specchio. Una sagoma familiare: abito scuro, di marca, liso fino alla trama; camicia chiara e cravatta grigio scuro, anch'esse piuttosto vissute. Avevo l'aria di un avvocato piuttosto che di un poliziotto sul campo. Un avvocato alla deriva, in troppo assidua compagnia dei delinquenti. Mi avvicinai allo specchio. Il mio viso ricordava una landa tormentata, una foresta agitata dal vento, un paesaggio alla Turner. Una faccia da fanatico, con occhi chiari infossati e riccioli bruni sulla fronte. Misi la faccia sotto il rubinetto, meditando sulla strana coincidenza della giornata. Il coma di Luc e la visita di mia madre. In cucina, mi versai una tazza di tè verde dal thermos preparato al mattino. Poi inserii nel microonde una ciotola del riso che cucinavo il weekend per tutta la settimana. In fatto di ascetismo, avevo optato per la tendenza zen. Detestavo gli odori organici, né carne, né frutta, né roba cotta. Tutto l'appartamento era pervaso dai fumi dell'incenso che bruciavo in continuazione. Ma, soprattutto, il riso mi permetteva di mangiare usando le bacchette di legno. Non sopportavo né il rumore né il contatto delle posate di metallo. Per questa ragione non ero un grande frequentatore di ristoranti o di cene fuori casa. Quella sera, impossibile mangiare. Dopo due bocconi gettai il contenuto della ciotola nel secchio delle immondizie e mi versai un caffè, proveniente da un secondo thermos. L'appartamento era suddiviso in soggiorno, camera e studio. Il classico trittico dello scapolo parigino. Era tutto bianco a parte i pavimenti, di parquet tinto di nero, e il soffitto del soggiorno con travi a vista. Senza accendere la luce andai direttamente in camera e mi stesi sul letto, lasciando li-
bero corso ai pensieri. Luc, ovviamente. Ma invece di pensare alle sue attuali condizioni - un'impasse - o alla ragione del suo atto - un'altra impasse - scelsi un ricordo. Uno di quelli che riflettevano uno dei tratti più strani del mio amico. La sua passione per il diavolo. Ottobre 1989. Ventidue anni, Istituto cattolico di Parigi. Dopo quattro anni alla Sorbona avevo appena conseguito la laurea con una tesi intitolata Il superamento del manicheismo in sant'Agostino e stavo ora per iscrivermi all'Istituto. Miravo a un dottorato canonico in teologia. Il tema della mia tesi, La formazione del cristianesimo attraverso i primi autori cristiani latini, mi avrebbe permesso di vivere per parecchi anni accanto ai miei autori preferiti: Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano... All'epoca osservavo già i tre voti monastici: obbedienza, povertà, castità. Come dire che non costavo granché ai miei genitori. Mio padre disapprovava le mie scelte. «Il consumo è la religione dell'uomo moderno!» proclamava, citando probabilmente Jacques Séguéla. Ma il mio rigore lo induceva al rispetto. Quanto a mia madre, faceva finta di capire la mia vocazione che, a conti fatti, andava a vantaggio del suo snobismo. Negli anni Ottanta era più originale annunciare che il proprio figlio si preparava a entrare in seminario che non ammettere che divideva il suo tempo fra la discoteca e la cocaina. Ma si sbagliavano se credevano che vivessi nella tristezza e nell'austerità. La mia fede era fondata sull'allegria. Vivevo in un mondo di luce, una navata immensa, dove migliaia di ceri brillavano in permanenza. Mi appassionavo ai miei autori latini. Erano il riflesso della grande svolta del mondo occidentale. Volevo descrivere questo sconvolgimento, questo shock assoluto provocato dal pensiero cristiano, situato agli antipodi di tutto ciò che era stato detto o scritto in precedenza. La venuta del Cristo sulla terra era un miracolo spirituale ma anche una rivoluzione filosofica. Una trasmutazione fisica - l'incarnazione di Gesù - e una trasmutazione del Verbo. La voce, il pensiero umani non sarebbero più stati gli stessi... Immaginavo lo sbalordimento degli ebrei di fronte al suo messaggio. Un popolo eletto che aspettava un messia potente, bellicoso, su un carro fiammeggiante, e che scopriva un essere compassionevole, per il quale la sola forza era l'amore, che sosteneva che ogni sconfitta è una vittoria e che
tutti gli uomini sono degli eletti. Pensavo anche ai greci, ai romani che avevano creato degli dèi a loro somiglianza, con le loro stesse contraddizioni, e che di colpo vedevano un dio invisibile presentarsi come uomo. Un dio che non schiacciava più gli umani ma che, al contrario, scendeva fra loro per elevarli al di sopra di ogni contraddizione. Era questo grande giro di boa che volevo descrivere. Quei tempi felici in cui il cristianesimo era un'argilla che prendeva forma, un continente in cammino, di cui i primi scrittori cristiani erano stati al tempo stesso il motore e il riflesso, la vitalità e la garanzia. Dopo i Vangeli, dopo le epistole e le lettere degli apostoli, gli autori laici prendevano il testimone, valutando, sviluppando, commentando l'infinito materiale che era stato loro consegnato. Stavo attraversando il cortile dell'istituto quando qualcuno mi batté sulla spalla. Mi voltai. Era Luc Soubeyras. Viso latteo sotto la zazzera rossa; silhouette esile, persa in un montgomery, strangolata da una sciarpa. «Cosa ci fai qui?» domandai stupefatto. Abbassò gli occhi sulla cartellina che teneva in mano. «Quello che ci fai tu, suppongo.» «Prepari una tesi?» Si aggiustò gli occhiali senza rispondere. Sbottai a ridere, incredulo. «Dove sei stato tutto questo tempo? Non ci vediamo da quando? Da quando abbiamo fatto la maturità?» «Eri tornato alle tue origini borghesi.» «Ma va'! Non ho smesso di chiamarti. Dov'eri finito?» «Ho proseguito gli studi qui, all'Istituto cattolico.» «Teologia?» Batté i tacchi e si mise sull'attenti. «Yes, sir! E prima mi sono laureato in lettere classiche.» «Ma allora abbiamo fatto lo stesso percorso.» «Avevi qualche dubbio?» Non risposi. Gli ultimi tempi, a Saint-Michel, Luc era cambiato. Sarcastico più che mai, la sua familiarità con la fede si era trasformata in presa in giro, in una costante ironia. Non avrei più potuto scommettere sulla sua vocazione. Dopo avermi offerto una Gauloise ed essersene accesa una, mi domandò su cosa facessi la tesi. «Sulla nascita della letteratura cristiana. Tertulliano, Cipriano...» Emise un fischio d'ammirazione. «E tu?»
«Mah! Forse sul diavolo.» «Il diavolo?» «Il diavolo come forza trionfante del secolo, sì.» «Ma piantala!» Luc s'infilò tra alcuni gruppi di studenti e si diresse verso i giardini in fondo al cortile. E io dietro. «Da qualche tempo m'interesso alle forze negative», disse. «Quali forze negative?» «Secondo te, perché Cristo è sceso sulla terra?» Non risposi. La domanda era troppo grossolana. «È venuto per salvarci», proseguì lui. «Per riscattare i nostri peccati.» «E allora?» «Allora il male c'era già. Molto prima di Cristo. Insomma, c'era da sempre. Ha sempre preceduto Dio.» Liquidai la riflessione con un gesto. Non avevo fatto quattro anni di teologia per tornare a ragionamenti così terra terra. «Dov'è la novità?» replicai. «La Genesi comincia con il serpente e...» «Non sto parlando della tentazione, ma della forza dentro di noi che risponde alla tentazione. Che la legittima.» I prati erano disseminati di foglie morte. Piccole chiazze bistro od ocra, lentiggini dell'autunno. «A partire da sant'Agostino», tagliai corto, «si sa che il male non ha alcuna realtà ontologica.» «Nella sua opera Agostino usa la parola "diavolo" 2300 volte. Senza contare i sinonimi...» «Come figura, simbolo, metafora... Bisogna tenere conto dell'epoca. Ma per Agostino Dio non può avere creato il male. Il male non è che un'assenza di bene. Una défaillance. L'uomo è fatto per la luce. È la luce, perché è coscienza di Dio. Ha solo bisogno di essere guidato, di essere talvolta richiamato all'ordine. "Tutti gli esseri sono buoni perché il creatore di tutti è, senza eccezioni, supremamente buono"...» Luc sospirò. «Se Dio è grande, come spieghi che sia sempre tenuto in scacco da una semplice "défaillance"? Come spieghi che il male sia dappertutto, e che ogni volta trionfi? Cantare la gloria di Dio vuol dire cantare la grandezza del male.» «Stai bestemmiando.» «La storia dell'umanità», disse Luc fermandosi e girandosi verso di me,
«non è che la storia della crudeltà, della violenza, della distruzione. Nessuno può negarlo. Come lo spieghi?» Non mi piaceva il suo sguardo dietro le lenti. Gli occhi gli brillavano di una luce febbrile, malata. Mi rifiutai di rispondere, per non trovarmi a confronto con quell'enigma vecchio quanto il mondo: il versante violento, malefico, disperato dell'umanità. «Te lo spiego io», riprese lui posandomi la mano sulla spalla. «La ragione è che il male è una forza reale. Una potenza grande almeno quanto il bene. Nell'universo, due forze antitetiche lottano per il predominio. E la battaglia è tutt'altro che vicina alla fine.» «Si direbbe che siamo tornati al manicheismo.» «E perché no? Tutti i monoteismi sono dualismi mascherati. La storia del mondo è la storia di un duello. Senza l'arbitro.» Le foglie scricchiolavano sotto i nostri passi. Il mio entusiasmo per la ripresa delle lezioni si era dileguato. Avrei volentieri fatto a meno di questo incontro. Accelerai il passo verso l'ufficio delle iscrizioni. «Non so cosa tu abbia studiato in questi ultimi anni», dissi, «ma sei caduto nell'occultismo.» «Ti sbagli», disse, «sono incappato nelle scienze moderne! Il male è in azione dappertutto. Sia come forza fisica che come moto psichico. La legge degli equilibri: semplicissimo.» «Sfondi delle porte aperte.» «Queste porte si dimenticano troppo spesso con il pretesto della complessità, della profondità. A livello cosmico, per esempio, il potere negativo regna sovrano. Pensa alle esplosioni di energia delle stelle, che finiscono per diventare dei buchi neri, degli abissi negativi, che nella loro scia aspirano ogni cosa...» Capii che Luc stava già preparando la tesi. Lavorava a non so quale delirio sul rovescio del mondo. Una sorta di antologia del male universale. «Prendi la psicanalisi», proseguì gesticolando. «Di cosa si occupa? Del nostro versante oscuro, dei nostri desideri proibiti, del nostro bisogno di distruzione. O il comunismo, to'. Bella idea all'inizio. Per arrivare a cosa? Al più grande genocidio del secolo. Qualsiasi cosa si faccia, qualsiasi cosa si pensi, si torna sempre alla nostra parte maledetta. Il XX secolo ne è il manifesto supremo.» «Potresti raccontare in questa maniera qualsiasi avventura umana. È troppo semplicistico.» Luc accese una sigaretta dal mozzicone. «Perché è universale. La storia
del mondo si riassume in questa lotta fra due forze. Per uno strano difetto dello sguardo, il cristianesimo, che tuttavia ha dato un nome al male, vuole farci credere che si tratta di un fenomeno secondario. Non si guadagna niente a sottovalutare il proprio nemico!» Ero arrivato all'ufficio amministrativo. Salii il primo gradino e chiesi irritato: «Cosa vuoi dimostrare?». «Dopo la tesi, entri in seminario?» «Durante la tesi, vorrai dire. L'anno prossimo conto di andare a Roma.» Un ghigno gli deformò la faccia. «Ti ci vedo proprio mentre predichi in una chiesa semivuota, davanti a una manciata di vecchi. Non corri grandi rischi scegliendo questa strada. Mi fai pensare a un medico che si cerca un ospedale di pazienti in perfetta salute.» «Cosa suggerisci?» gridai di colpo. «Che diventi missionario? Che parta a convertire degli animisti ai tropici?» «Il male», replicò Luc in tono calmo. «Ecco la sola cosa importante. Servire il Signore vuol dire combattere il male. Non ci sono alternative.» «E tu, cosa farai?» «Vado sul campo. A guardare il diavolo negli occhi.» «Rinunci al seminario?» Luc strappò le carte per l'iscrizione. «Certo», disse. «E anche alla tesi. Te la sei bevuta, eh? Non ho nessuna intenzione di mettere la firma quest'anno. Sono venuto solo per ritirare un certificato. Questi idioti mi hanno rifilato i moduli d'iscrizione perché mi hanno preso per un fessacchiotto come te.» «Un certificato? Per cosa?» Luc aprì le mani. I frammenti di carta si sparpagliarono tutto intorno, raggiungendo le foglie morte. «Parto per il Sudan. Con i Padri Bianchi. Missionario laico. Voglio affrontare la guerra, la violenza, la miseria. Il tempo delle parole è finito. Largo ai fatti!» 6 Avrei potuto andare a Vernay a occhi chiusi. Le auto sfrecciavano sull'autostrada per Chartres, ma la pioggia tratteneva la luce dei fari, tracciando linee nette, striature luminose simili ai filamenti dentro una lampadina. Alle sette del mattino non faceva ancora giorno. Riflettevo sulle informazioni raccolte all'alba. Dopo un sonno a intermittenza, alle quattro ero completamente sveglio. Avevo digitato su Google le
quattro lettere fatidiche: COMA. Erano usciti migliaia di articoli. Per instillare una nota di speranza nella mia ricerca, e per circoscriverla, avevo aggiunto un'altra parola: RISVEGLIO. Per due ore avevo letto testimonianze di risvegli improvvisi, di ritorni progressivi alla coscienza, e anche di esperienze di morte imminente. Ero sorpreso dalla frequenza di questo fenomeno. Su cinque vittime di un infarto che aveva provocato un coma momentaneo, almeno una subiva questa «morte temporanea», segnata in un primo momento da una sensazione di «decorporazione», poi dalla visione di un lungo tunnel e di una luce bianca, per molti una manifestazione di Cristo. Anche Luc aveva fatto l'esperienza di questo grande flash? Sarebbe un giorno tornato cosciente per raccontarlo? Superai la cattedrale di Chartres, con le sue due guglie asimmetriche. La pianura della Beauce si stendeva a perdita d'occhio. Mi formicolavano le mani, stavo avvicinandomi alla casa di Vernay. Dopo una cinquantina di chilometri presi la bretella d'uscita di Nogent-le-Rotrou e m'immisi sulla statale. Mi tuffai allora in aperta campagna, proprio nel momento in cui il sole compariva all'orizzonte. Un paesaggio di colline e di valli, con i campi neri, coperti di brina, che scintillavano nel chiarore mattutino. Abbassai il vetro e respirai i profumi delle foglie, gli odori dei concimi, l'aria fredda della notte che non voleva cedere al giorno. Ancora trenta chilometri. Girai attorno a Nogent-le-Rotrou e presi una provinciale, al confine fra l'Orne e l'Eure-et-Loir. A sinistra, dopo dieci chilometri, apparve un cartello: PETIT-VERNAY. Imboccai la stretta carreggiata e proseguii per trecento metri. Alla prima curva mi si profilò davanti un cancello di legno bianco. Guardai l'orologio: le otto meno un quarto. Avrei potuto fare la mia ricostruzione quasi spaccando il secondo. Parcheggiai l'auto e proseguii a piedi. Il Petit-Vernay era un antico mulino ad acqua che comprendeva una serie di costruzioni disseminate lungo il fiume. L'edificio principale era ridotto a una rovina, ma le dipendenze erano state ristrutturate e trasformate in case di vacanze. La terza sulla destra era quella di Luc. Duecento metri quadrati calpestabili, un bel pezzo di terreno, il tutto a centotrenta chilometri da Parigi. Quant'era costata a Luc quella catapecchia sei anni prima? Un milione di franchi dell'epoca? Di più? La regione del Perche era sempre più quotata. Dove l'aveva trovata Luc tutta quella grana? Mi ricordavo di un film di Fritz Lang, Il grande caldo, che esordiva
con il suicidio di un poliziotto. Più avanti si scopriva che era un individuo corrotto. A tradirlo era stata proprio la sua residenza secondaria, troppo cara, troppo bella. Risentii la voce di Doudou: «Se smuovi la merda, insozzerà tutti». Luc nella parte del piedipiatti disonesto? Impossibile. Superai la casa con i suoi tre abbaini, poi mi diressi verso il fiume. L'aria odorava d'erba zuppa di umidità. Il vento mi sferzava la faccia. Mi abbottonai l'impermeabile e proseguii. Una barriera di carpini nascondeva il corso d'acqua. Mi giungeva solo il suo lieve fruscio, come il riso di un bambino. «Cosa ci fa qui?» Un uomo emerse dai cespugli. Un metro e ottanta, capelli a spazzola, un abito nero di tela spessa. Mal rasato, sopracciglia arruffate, sembrava più un barbone che un contadino. «Chi è lei?» insistette avvicinandosi. Sotto la giacca portava solo un maglione bucato. Agitai al sole la tessera tricolore: «Vengo da Parigi. Sono un amico di Luc Soubeyras». Il tipo parve tranquillizzarsi. Aveva piccoli occhi di un verde-grigio molto intenso. «L'avevo presa per un notaio. O un avvocato. Uno di quei farabutti che s'ingrassano sui cadaveri.» «Luc non è morto.» «Grazie a me», disse. Si grattò la nuca e aggiunse: «Sono Philippe, il giardiniere. Sono stato io a salvarlo». Gli strinsi la mano. Le sue dita erano macchiate di nicotina e di erba. Odorava di creta e di cenere fredda. Distinsi anche un sentore d'alcol. Non di vino, piuttosto di calvados o di altra roba forte. «Non ha niente da bere?» chiesi con l'idea di rendermi simpatico. La sua faccia si chiuse. Rimpiansi la mia trovata, ero andato troppo in fretta. Tirai fuori le Camel e gliene offrii una. Rifiutò con un cenno della testa, continuando a studiarmi con la coda dell'occhio. Finì per accendersi una delle sue Gitanes maïs. «È un po' presto per bere, no?» bofonchiò. «Non per me.» Fece una risataccia e cavò di tasca una fiaschetta arrugginita. Me la tese. Senza esitare, buttai giù un sorso. Mi sentii bruciare fin nei pettorali. Il tipo voleva mettermi alla prova. Parve soddisfatto della mia reazione e tracannò a sua volta una buona dose. Facendo schioccare la lingua, si rimise in tasca il torcibudella. «Cosa vuole sapere?» domandò.
«Voglio dei dettagli.» Philippe sospirò e andò a sedersi su un ceppo vicino all'acqua. Lo seguii. Il canto degli uccelli saliva nell'aria gelida. «Mi piaceva il signor Soubeyras. Non capisco cosa gli sia passato per la testa.» Mi addossai contro l'albero più vicino. «Viene a lavorare qui tutti i giorni?» «Solo il lunedì e il martedì. Sono venuto oggi, come al solito: non mi hanno detto di non farlo.» «Mi racconti.» Affondò la mano nella tasca, prese la fiaschetta, me la tese. Declinai l'offerta. Mandò giù un sorso. «Quando sono arrivato vicino al fiume, l'ho visto subito. Mi sono tuffato e l'ho ripescato. In quel punto l'acqua non è profonda.» «Dov'è successo esattamente?» «Dove ci troviamo adesso. A qualche metro dalla chiusa. Ho chiamato i gendarmi. Erano qui nel giro di dieci minuti. C'è mancato un attimo. Se fossi arrivato un minuto dopo, la corrente l'avrebbe trascinato via e non avrei visto niente.» Scrutai la superficie dell'acqua. Perfettamente immobile. «La corrente?» «Stamattina non ce n'è, perché la chiusa è sbarrata.» «E ieri era aperta?» «Era stato il signor Soubeyras ad aprirla. Aveva previsto tutto. Voleva che la corrente lo portasse via...» «Mi hanno detto che si era zavorrato con dei pesi.» «Per questo ho fatto una fatica boia a tirarlo fuori dall'acqua. Pesava una tonnellata. Si era messo dei blocchi di cemento alla cintura.» «Come aveva fatto?» Philippe si alzò. «Venga.» Costeggiò la siepe. In fondo al giardino, incassato fra il sottobosco e il filare di carpini, c'era un capanno di legno nero. Dei ceppi protetti da un telone di plastica erano addossati alla parete di tavole. La mia guida aprì la porta con una spallata. Si trasse da parte per lasciarmi vedere l'interno. «Lo scorso fine settimana il signor Soubeyras mi aveva chiesto di sistemare qui dei vecchi blocchi di cemento che se ne stavano da una vita sull'altra riva del fiume. Mi ha anche domandato di spaccarne alcuni in due. Non avevo capito il perché, ma adesso lo so: voleva usarli come zavorra. Aveva calcolato il peso di cui aveva bisogno per andare a fondo.» Diedi un'occhiata all'interno, senza indugiare troppo. Ormai dovevo ac-
cettare il gesto di Luc. Arretrai, stordito. «Come li ha fissati?» «Con il filo di ferro, a triplo giro perché fosse ben solido. Una vera e propria cintura di piombo, come quella dei sub.» Inspirai una grande boccata di aria fredda. L'acidità mi mordeva il ventre. La fame, il torcibudella, e anche l'angoscia. Cos'era successo a Luc? Cosa aveva scoperto per decidere di farla finita? Per abbandonare la famiglia e la dottrina cristiana? «Ma, diavolo! era suo amico, no?» disse il contadino chiudendo la porta. «Il mio migliore amico», risposi in tono assente. «Non aveva notato che era giù di corda?» «No.» Non osai confessare a quello sconosciuto che con Luc non parlavo - nel senso vero del termine - da mesi, e dire che eravamo separati da un solo piano. Feci invece un'ultima domanda, un tentativo: «A parte questo, non ha notato niente di strano? Voglio dire: ripescando il corpo?». L'uomo vestito di nero strizzò i piccoli occhi verdi. Sembrava in preda a un nuovo attacco di diffidenza. «Non le hanno detto niente della medaglia?» «No.» Si avvicinò. Soppesava la mia sorpresa. Poi mi mormorò quasi nell'orecchio: «Nella mano destra c'era una medaglia. Almeno è quello che credo io. Ho visto solo sporgere la catena. Stringeva le dita su quella cosa». Quando si era immerso nell'acqua Luc aveva con sé un oggetto. Un feticcio? No. Luc non era superstizioso. L'uomo mi tese nuovamente la fiaschetta, accompagnando il gesto con un sorriso sdentato. «Dica un po', per essere un carissimo amico le teneva segrete un bel po' di cose, no?» 7 L'ospedale principale di Chartres, l'Hôtel-Dieu, s'innalzava in fondo a un cortile disseminato di pozzanghere e di alberi troncati. L'edificio, crema e marrone, faceva lontanamente pensare a una torta Brossard, decorata di strisce di cioccolata. Ignorai la doppia scala esterna che portava all'accettazione al primo piano e m'infilai nel piano terra. Entrai in un grande refettorio. Piastrelle bianche e nere, volte e colonne di pietra. In fondo, un porticato inondato di sole dava su un giardino. Passò un'infermiera. Chiesi di parlare al medico che aveva salvato Luc Soube-
yras. «Sono spiacente: è a pranzo.» «Alle undici?» «Dopo opera.» «Lo aspetto qui», dissi estraendo il tesserino. «Gli dica di portarsi il dolce.» La giovane schizzò via. Detestavo queste manifestazioni di autorità, ma la sola idea di affrontare la mensa, con i rumori di stoviglie e gli odori del cibo, mi faceva stare male. Dei passi nella sala. «Cosa vuole?» Un tipo alto in camice bianco e con l'aria infuriata veniva verso di me. «Comandante Mathieu Durey. Squadra criminale di Parigi. Indago sul tentato suicidio di Luc Soubeyras. L'ha accolto ieri nel suo reparto.» Dietro gli occhiali, il medico mi osservava. Sui sessanta, capelli bianchi mal pettinati, un lungo collo da avvoltoio. «Ho inviato il rapporto ai gendarmi ieri sera», replicò. «Non l'abbiamo ancora ricevuto alla Criminale», bluffai. «Prima di tutto mi dica perché l'ha trasferito all'Hôtel-Dieu di Parigi.» «Non eravamo attrezzati per un caso simile. Luc Soubeyras era un poliziotto, allora abbiamo pensato che l'Hôtel-Dieu...» «Mi hanno detto che il suo salvataggio è stato qualcosa di prodigioso.» Il medico non poté trattenere un sorriso d'orgoglio. «Luc Soubeyras ritorna da lontano, è vero. Quando è arrivato qui, il suo cuore aveva smesso di battere. È solo grazie a un concorso eccezionale di circostanze che siamo riusciti a rianimarlo.» Estrassi taccuino e matita. «Mi spieghi.» Il medico affondò le mani nelle tasche e fece qualche passo in direzione del giardino, la figura incurvata. Gli andai dietro. «Primo elemento favorevole», cominciò. «La corrente ha trascinato il corpo per parecchi metri, facendogli sbattere la testa contro una pietra. Soubeyras ha perso conoscenza.» «Perché sarebbe favorevole?» «Quando si va sott'acqua viene istintivo trattenere il respiro, anche se ci si vuole suicidare. Poi, quando l'ossigeno si rarefà nel sangue, si apre la bocca. È un riflesso condizionato. Si annega in pochi secondi. Soubeyras ha perso i sensi subito prima di questo momento cruciale. Non ha avuto il tempo di aprire la bocca. I suoi polmoni non contenevano acqua.» «Era comunque asfissiato, no?»
«No. In apnea. Ora, in questo stato, il corpo umano rallenta naturalmente la circolazione sanguigna e la concentra negli organi vitali: cuore, polmoni, cervello.» «Come se fosse in ibernazione?» «Esatto. Il fenomeno è stato accentuato dall'acqua molto fredda. Soubeyras era in un grave stato di ipotermia. Quando i soccorritori gli hanno preso la temperatura hanno visto che era scesa a 34 gradi. In questa situazione, il corpo ha capitalizzato le particelle di ossigeno che gli restavano.» Continuavo a prendere appunti. «A suo parere, per quanto tempo è rimasto sott'acqua?» «Impossibile dirlo. Secondo i soccorritori, il cuore aveva appena smesso di battere.» «Gli hanno praticato un massaggio cardiaco?» «No, per fortuna. Sarebbe stato il modo migliore per spezzare questa sorta di stato di grazia. Hanno preferito aspettare di essere qui. Sapevano che io potevo tentare una tecnica particolare.» «Che tecnica?» «Mi segua.» Il medico oltrepassò la soglia e costeggiò un edificio moderno prima di accedervi. Il reparto chirurgico. Corridoi bianchi, porte a doppio battente, odori chimici. Un'altra porta. Ci trovavamo adesso in una sala quasi completamente spoglia. C'era solo, contro una parete, un cubo di metallo, alto come un cassettone, montato su ruote. Il medico l'orientò verso di me, e vidi delle serie di pulsanti e di numeri. «Questa è una macchina bypass, ossia "circolazione extracorporea". La si utilizza per abbassare la temperatura dei pazienti prima di un intervento importante. Il sangue passa nella macchina, che lo raffredda di qualche grado, poi viene reiniettato. Quest'operazione viene ripetuta un po' di volte finché non si raggiunge un'ipotermia artificiale che favorisce una migliore anestesia.» Continuavo a scrivere, senza capire dove volesse arrivare. «Quando Luc Soubeyras è arrivato, ho deciso di tentare una tecnica recente, importata dalla Svizzera. Usare questa macchina all'inverso: non per raffreddare il sangue ma per riscaldarlo...» Il naso sul taccuino, terminai la frase per lui: «E ha funzionato». «Al 100 per cento. Al momento del ricovero la temperatura del corpo era di appena 32 gradi. Dopo tre cicli eravamo arrivati a 35. A 37 il cuore ha ripreso a battere, molto lentamente.»
Alzai gli occhi. «Vuole dire che, durante tutto quel lasso di tempo, era... morto?» «Non c'è ombra di dubbio.» «Quanto è durato questo stato?» «Difficile dirlo. Forse una ventina di minuti.» D'un tratto mi ricordai di una cosa. «L'intervento del SAMU è stato molto rapido. Era una squadra che veniva da Chartres, vero?» «Un altro fattore positivo. Erano stati chiamati, per un falso allarme, nella regione di Nogent-le-Rotrou. Quando i gendarmi hanno telefonato, quelli di Chartres si trovavano solo a pochi minuti dal luogo dell'incidente.» Scarabocchiai qualcosa al riguardo e riattaccai con le domande. «C'è una cosa che non capisco. Il cervello non può restare senza ossigeno se non per pochi secondi. Come ha potuto riprendere l'attività dopo venti minuti di morte?» «L'organo cerebrale ha continuato a funzionare sulle sue riserve. A mio parere ha ricevuto ossigeno durante l'intera fase di morte clinica.» «Ciò significa che Luc non subirà conseguenze al suo risveglio?» «Nessuno può dare una risposta a questa domanda.» Luc sulla sedia a rotelle, ridotto a movimenti da lumaca. Dovetti diventare terreo. Il medico mi batté dolcemente sulla spalla. «Venga. Qui si muore di caldo.» All'esterno, il vento freddo mi rianimò. Terminato il pranzo, alcuni anziani facevano quattro passi in giardino, al rallentatore, come degli zombi. «Posso fumare?» domandai. «Certo.» La prima boccata mi rimise in pista. Passai all'ultima domanda: «Mi hanno parlato di una medaglia, di una catena...». «Chi gliel'ha detto?» «Il giardiniere. L'uomo che ha ripescato Luc.» «Quelli del pronto intervento gli hanno trovato una medaglia nel pugno chiuso, è vero.» «L'ha conservata?» Il medico s'infilò la mano nella tasca del camice. «Eccola.» Nel suo palmo l'oggetto mandava un bagliore opaco. Una moneta di bronzo, patinata, erosa, dall'aspetto molto antico. Mi chinai. Mi bastò un'occhiata: sapevo di cosa si trattava. La medaglia recava incisa l'effigie di san Michele Arcangelo, principe
degli angeli, portinsegna di Cristo, tre volte vittorioso su Satana. Rappresentato nello stile della Legenda aurea di Iacopo da Varazze, il personaggio indossava un'armatura e impugnava la spada nella mano destra, la lancia di Cristo nella sinistra. Con il piede destro schiacciava il drago ancestrale. Il medico disse qualcos'altro, ma non l'ascoltavo più. Le parole dell'Apocalisse di Giovanni mi risuonavano nella mente: Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. La verità era chiara. Prima di precipitare nell'inferno Luc si era protetto contro il diavolo. 8 Dicembre 1991. Erano due anni che non vedevo Luc. Due anni che seguivo la mia strada, sgobbando sugli autori paleocristiani, vivendo con l'Apologeticum di Tertulliano e l'Octavius di Minucio Felice. Dal mese di settembre ero entrato in seminario a Roma. Il periodo più felice della mia vita. L'edificio dai muri rosa al numero 42 di via Santa Chiara. Il grande cortile cinto da un porticato di un tenue color ocra. La mia stanzetta dalle pareti gialle che vedevo come un rifugio per il mio cuore e la mia coscienza. La sala degli esercizi dove inscenavamo già i gesti liturgici. «Benedictus es, Domine, Deus universi...» E la terrazza dell'edificio, aperta a centottanta gradi sulle cupole di San Pietro, del Pantheon, della Chiesa del Gesù... I miei genitori avevano insistito che rientrassi a Parigi per Natale: era importante, «essenziale», diceva mia madre, che festeggiassimo insieme la fine dell'anno. Quando ero atterrato a Roissy avevo trovato la sorpresa: mamma e papà erano partiti per una crociera alle Bahamas, sulla barca a vela di un partner finanziario di mio padre. Era la sera del 24 dicembre, e provai un certo sollievo. Lasciata la vali-
gia a casa dei miei in avenue Victor Hugo, andai a zonzo per Parigi. Senza alcuna meta. I miei passi mi guidarono fino a Notre-Dame. Giusto in tempo per assistere alla messa di mezzanotte. A malapena riuscii a entrare nella cattedrale stipata di gente. M'infilai tra la folla, sulla destra. Uno spettacolo indicibile: migliaia di teste protese verso l'altare, volti raccolti, il grande silenzio avvolto da effluvi d'incenso e risonanze. Anonimo fra tanta gente anonima, assaporavo quel fervore di una sera, dimenticando per un istante il declino della fede cattolica, il calo delle vocazioni, la diserzione dalle chiese. «Mathieu!» Mi girai, ma non riconobbi nessun viso tra la folla. «Mathieu!» Alzai gli occhi. Appollaiato sulla base di una colonna, Luc dominava la massa dei fedeli. Il suo viso bianco, spruzzato di macchie color rame, brillava come un cero solitario. Si tuffò fra la folla e dopo pochi istanti mi tirava per il braccio. «Vieni. Ce la svigniamo.» «È appena cominciata la messa...» In fondo al coro il sacerdote declamava: «In te, Signore, la mia speranza! Senza il tuo sostegno sono perduto...». Luc subentrò: «"...ma reso forte dalla tua potenza, non sarò mai deluso..." La conosciamo questa, no?». Il tono sarcastico si era fatto aggressivo. La gente intorno cominciò a protestare. Per evitare lo scandalo accettai di seguirlo. Giunto vicino al muro afferrai Luc per la spalla. «Sei tornato in Francia?» chiesi. «Approfitto dello spettacolo», disse, strizzandomi l'occhio. Dietro le lenti, il suo sguardo era ancora più acceso che in passato. I tratti scavati gli disegnavano delle ombre sulle guance. Se non l'avessi conosciuto così bene, avrei pensato che si faceva. Luc s'intrufolò tra le file serrate e si fermò vicino al confessionale, accanto al vetro protettivo. Aprì la porta trasparente e mi spinse dall'altro lato: «Entra». «Vuoi scherzare? Tu...» «Entra, ti ho detto!» Atterrai nel confessionale. Luc passò per l'altra porta, quella del prete, e abbassò le due cortine. In un secondo eravamo tagliati fuori dalla folla, dai canti, dalla messa. La voce di Luc filtrò attraverso la grata di legno: «L'ho visto, Mat. L'ho visto con questi occhi».
«Chi?» «Il diavolo. Dal vivo.» Mi chinai, tentando di distinguere il suo viso oltre la grata. Quasi fosforescente. I suoi tratti erano percorsi da un fremito. Si mordeva senza sosta il labbro inferiore. «Vuoi dire in Sudan?» Luc si ritrasse nel buio del confessionale, senza rispondere. Si sarebbe messo a piangere o sarebbe scoppiato a ridere? Negli ultimi due anni ci eravamo scambiati solo qualche lettera. L'avevo informato di essere stato ammesso al seminario di Roma. Lui mi aveva risposto dicendomi che continuava il suo «lavoro», scendendo sempre più a sud, dove i ribelli cristiani combattevano contro le truppe regolari. Le sue lettere erano strane, fredde, neutre, impossibile intuire il suo stato d'animo. «In Sudan», ridacchiò, «non ho visto che l'impronta del diavolo. La carestia. La malattia. La morte. A Vukovar, in Iugoslavia, ho visto la bestia in azione.» Sapevo dai giornali che la città croata era appena caduta in mano ai serbi, dopo un assedio durato tre mesi. «Neonati decapitati dalle bombe. Ragazzini a cui avevano strappato gli occhi. Donne incinte sventrate prima di essere bruciate vive. Feriti ammazzati a bruciapelo dentro gli ospedali. Adolescenti costretti a violentare le loro madri... Tutto questo, l'ho visto. Il male allo stato puro. Una forza senza freni, dentro l'uomo.» Immaginavo me stesso, per contrasto, nella mia cella gialla. Ogni mattina ascoltavo le notizie su Radio Vaticana. Ben riparato e al caldo. «Come... come ti sei salvato?» domandai. «Un miracolo.» «Per quale associazione lavoravi?» «Nessuna.» Ridacchiò ancora, accostandosi alla parete che ci separava. «Ho impugnato le armi, Mat.» «Cosa?» «Soldato di pace volontario. La sola soluzione per sopravvivere laggiù.» D'un tratto mi sfiorò l'idea che Luc si stesse confessando, ma avevo torto: non era affatto pentito. Al contrario, era fiero di essere passato all'azione. Diventai aggressivo: «Come hai potuto?». Luc si raggomitolò di nuovo nel buio. Nella chiesa i canti cessarono. Udii allora un rumore molto più vicino: i singhiozzi di Luc. Piangeva, il viso
tra le mani. Cambiai subito tono. «Devi dimenticare tutto questo. Quello che hanno fatto loro, quello che hai fatto tu... Non puoi giudicare l'umanità basandoti su questo parossismo. Eri nella peggiore delle situazioni, là dove l'uomo diventa un mostro. Tu...» Luc rialzò il capo e si fece nuovamente vicino. Le lacrime gli brillavano sugli zigomi, ma lui sorrideva. Un sorriso forzato che gli deformava il viso. «E tu, sempre al seminario?» domandò. «Da tre mesi.» «Non sei venuto con la tonaca. Sei in incognito?» «Non prendermi in giro.» Rise, tirando su con il naso. «Sempre il tuo ospedale di pazienti in perfetta salute?» «A che gioco vuoi giocare? Hai aspettato di avere ventiquattro anni per scoprire la violenza? Ti ci voleva Vukovar per misurare l'entità della crudeltà umana? E adesso cosa farai? Partirai per un altro fronte? La luce è dentro di noi, Luc. Ricordati di quello che diceva san Giovanni nella sua prima lettera: "Per questo venne il Figliuol di Dio, per distruggere le opere del diavolo".» «È arrivato troppo tardi.» «Se pensi questo, vuol dire che hai perduto la fede. Non rientra nel nostro ruolo essere affascinati dal male, noi dobbiamo tendere al bene, guidare...» «Sei un imboscato, Mat. Sei in gamba, ma sei un imboscato. Un piccolo borghese della fede.» Afferrai la grata. Sotto la navata, i cantici erano ripresi. «Cosa cerchi? Cosa vuoi?» «Andare avanti.» «Riparti per la Iugoslavia?» «Sono iscritto a Cannes-Ecluse.» «Cos'è?» «La scuola degli ufficiali di polizia. Sessione di gennaio. Farò il poliziotto. Fra due anni, poliziotto di strada. Non ci sono altre soluzioni. Voglio affrontare il diavolo sul suo terreno. Voglio sporcarmi le mani. Afferrato il concetto?» La sua voce era calma, determinata. Dentro di me, invece, qualcosa si schiantava. Di nuovo san Giovanni: «Sappiamo che siamo nati da Dio: e tutto il mondo sta sotto al Maligno». Chiusi gli occhi e rividi noi due ad-
dossati alle colonne dell'abbazia di Saint-Michel-de-Sèze. Avremmo cambiato la chiesa, cambiato il mondo... «Buon Natale, Mat.» Quando alzai le palpebre, il confessionale era vuoto. Lo shock durò mesi. Al seminario, non avevo più la stessa convinzione di prima. I sacramenti, la liturgia, la preghiera, la confessione... Ascoltavo senza sentire, ripetevo i gesti automaticamente. Radio Vaticana mi forniva notizie sulla Iugoslavia. A ogni massacro, a ogni orrore, pregavo o digiunavo. Provavo disgusto per me stesso. Un imboscato. Un piccolo borghese della fede. Non smettevo di pensare a Luc. Come poteva questo intellettuale, questo appassionato di teologia, diventare un semplice poliziotto? Non trovavo una risposta. Ma le sue battute sarcastiche continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Ogni giorno credevo un po' meno nella mia missione. La mia formazione mi pareva sterile. E talmente comoda! Avevo scelto l'ascesi ma vivevo come un pascià. Nutrito, alloggiato, protetto, a dire tranquillamente le mie preghiere e a dedicarmi a ciò che più amavo: i libri. M'immaginai la mia carriera. Non sarei mai stato un parroco di campagna. Dopo la tesi, sarei rimasto a Roma per entrare all'Università gregoriana o alla Pontificia accademia ecclesiastica. Qualche incarico presso nunziature europee e poi avrei percorso tutte le tappe in seno alla teocrazia fino ad accedere alle cariche più prestigiose della curia romana. Mi sarei fatto una «posizione», sotto il segno dell'agiatezza, del potere. Tutto quello che avevo odiato nei miei genitori adesso mi riacciuffava, sotto un'altra forma. Confidai i miei dubbi ai padri superiori, ma ne ricavai solo delle risposte accademiche, il consueto bla-bla dei religiosi, balsamo insipido applicato ai tormenti dell'anima. Il 29 giugno 1992, il giorno stesso dell'introduzione dei futuri sacerdoti «nel corpo della santa chiesa cattolica, apostolica e romana», rinunciai alla tonaca. Luc si sbagliava, non ero in un ospedale di pazienti in perfetta salute. Ero in un cimitero. Qui erano tutti morti. Me compreso. Tornai a Parigi e andai dritto all'arcivescovado. La lista delle organizzazioni umanitarie religiose era lunga. Mi fermai sulla prima che stava per inviare delle missioni nel continente che avevo scelto: l'Africa. Terre di speranza, un'associazione di francescani belgi che accettava dei laici nelle
sue file, mi sembrò perfetta. Era il gruppo che s'inoltrava di più nei territori a rischio. All'inizio del 1993 mi lanciai nella mia prima avventura. Il Ruanda, un anno prima del genocidio. I cartelli che indicavano l'uscita dall'autostrada mi strapparono ai miei ricordi. Imboccai il tunnel della Porte d'Orléans, continuando a pensare a Luc e ai nostri destini sfalsati. Aveva sempre avuto una battuta d'anticipo su di me. A questo pensiero rabbrividii. Mai lo avrei seguito sulla strada del suicidio. Ma adesso dovevo ammettere questo atto, e trovarne la ragione. Era accaduto qualcosa, qualcosa di inconcepibile che aveva strappato Luc al proprio destino. Dovevo fare luce sulla sua decisione. Solo a questa condizione sarebbe riaffiorato dal buio. 9 Ufficio. Scartoffie. Post-it. Chiusi la porta e aprii un nuovo pacchetto di sigarette. FUMARE PUÒ NUOCERE AGLI SPERMATOZOI E RIDUCE LA FERTILITÀ. Questi avvisi avevano il dono di innervosirmi. Diedi un'occhiata ai foglietti gialli incollati sui fasci di carte. «Ore 11: chiamare Dumayet», «Ore 12: Dumayet», e ancora: «Ore 14: Dumayet. URGENTE!». Nathalie Dumayet, commissario capo e caposezione alla Squadra criminale, era la responsabile dei gruppi d'indagine del 36. Guardai l'orologio: solo le tre. Troppo presto. Mi tolsi l'impermeabile e sfogliai i documenti, senza trovarci quello che speravo. Ascoltai i messaggi sul cellulare e sul telefono fisso: niente di niente. Feci il numero di Malaspey. «Non hai richiamato», attaccai. «Novità sugli zingari?» «Esco adesso dalla facoltà di Nanterre, dove ho parlato con un professore di lingua tzigana. Avevi ragione tu. Quella faccenda delle scarpe è proprio rom sputato. Secondo questo tizio, il nostro cliente potrebbe aver levato le scarpe alla vittima per evitare di essere perseguitato dal suo fantasma. Roba da gitani.» «OK. Lancio una ricerca nell'archivio della polizia giudiziaria. Prendi nota di tutti gli zingari del campo 94 che in questi ultimi tempi hanno fatto delle rapine a mano armata.» «Già fatto. Stiamo lavorando di concerto con il commissariato centrale di Créteil sulle comunità della zona.»
«Dove ti trovi adesso?» «Sul lungosenna. Fra poco sarò al Quai.» «Passa da me», dissi posando il medaglione di san Michele Arcangelo sui fascicoli che avevo davanti, «prima di stendere il verbale. Ho qualcosa per te.» Riattaccai e convocai Foucault. Giusto il tempo di passare in rassegna i crimini della notte e sentii bussare alla porta. Il mio vice sembrava un teppista, genere allegro. Capelli ricci, spalle strette, fasciate in un bomber, sorriso smagliante. Foucault era il ritratto di Roger Daltrey, il cantante degli Who, all'epoca di Woodstock. Esordì con un tono lugubre, per commentare la tragedia di Luc. Lo bloccai con un gesto. «Ho bisogno che mi aiuti. Una faccenda particolare.» «Di che genere?» «Voglio che sondi i compagni di Luc. Vedere cos'avevano sul fuoco.» Fece segno di sì, ma gli occhi tradivano un certo scetticismo. «Sarà dura.» «Invitali a mangiare un boccone. Falli bere.» «Be', vediamo.» Mi ero già fatto un'idea della buona volontà della squadra la sera prima, con Doudou. «Ascolta», proseguii, «nessuno conosce Luc quanto me. Il suo gesto ha una ragione esterna. Qualcosa di inspiegabile che gli è precipitato addosso, niente a che vedere con una depressione o l'essere giù di corda.» «Tipo?» «Non ne ho idea. Ma voglio sapere se stava lavorando su un caso particolare.» «OK. È tutto?» «No. Passa al setaccio la sua vita personale. Conti in banca, crediti, cartelle delle tasse. Tutto. Recupera le sue bollette del telefono: cellulare, ufficio, casa. Tutte le sue chiamate, da tre mesi a questa parte.» «Sei sicuro che ne valga la pena?» «Voglio essere certo che Luc non avesse segreti. Una doppia vita o chissà cosa.» «Una doppia vita, Luc?» Le mani nelle tasche del giubbotto, Foucault mi guardava attonito. «Contatta anche il Centro di valutazione psicologica della PG. Da qualche parte deve esserci un fascicolo su Luc. Ovviamente agirai nel modo
più discreto possibile.» «E i Bœufs dell'IGS?» «Battili in velocità e tienimi al corrente.» Foucault levò le tende, l'aria sempre più scettica. Neanch'io ci credevo tanto a quell'indagine. Se Luc aveva avuto qualcosa da nascondere, avrebbe cominciato col nascondere le proprie tracce. Non c'è di peggio che cacciare un cacciatore. La porta non si chiuse alle spalle di Foucault: sulla soglia era apparso Malaspey. Ben piantato, impassibile, imbacuccato in un maglione adatto al Polo Nord, portava sempre a tracolla una minuscola sacca intrecciata all'indiana. I capelli grigi legati a coda di cavallo e una pipa fra i denti completavano il quadro. Si sarebbe detto un professore d'istituto tecnico piuttosto che un poliziotto della Criminale con quindici anni di servizio sulle spalle. «Volevi vedermi?» La pipa gli faceva smozzicare le parole. Aprii un cassetto, presi una busta trasparente e v'infilai dentro la medaglia di san Michele. «Scava su questa cosa», dissi lanciandogli la busta. «Va' a trovare gli specialisti di numismatica. Voglio sapere l'esatta origine di questa medaglia.» Malaspey rigirò la busta davanti agli occhi. «Cos'è?» «È quello che voglio sapere. Consulta i professori. Setaccia le facoltà.» «Ho l'impressione di tornare a scuola.» S'infilò il medaglione in tasca e scomparve. Passai un'altra ora a studiare i documenti accumulatisi sulla scrivania: niente d'interessante. Alle cinque mi alzai per andare a far visita alla mia superiore. Bussai. Fui invitato a entrare. Atmosfera spoglia, con un leggero profumo d'incenso, mi ricordava casa mia. Nathalie Dumayet era del tipo brutale, ma niente nel suo aspetto lo lasciava trapelare. Sulla quarantina, carnagione chiara, fisico da indossatrice, portava i capelli tagliati a carré, sempre spettinati ad arte. Una bellezza spigolosa, addolcita da grandi occhi verdi, calmi. Sempre in tiro, griffata persino, portava capi di grandi marche italiane alle quali il Quai non era abituato. Quanto a personalità, Dumayet era in sintonia con la Squadra: dura, cinica, accanita. In precedenza aveva prestato servizio nell'Antiterrorismo e con gli Stups, con risultati esemplari. Due dettagli la riassumevano. Prima
di tutto gli occhiali, dalla montatura flessibile e infrangibile, che potevi comprimere nella mano e che riprendeva subito la sua forma di partenza. Dumayet era uguale: sotto le sue maniere sciolte, non dimenticava niente e non perdeva mai di vista l'obiettivo. L'altro dettaglio erano le sue falangi. Aguzze, prominenti, ricordavano i martelli ultrasottili dei tagliatori di diamanti, così duri da riuscire a spaccare le pietre preziose. «Le preparo un Keemun?» domandò alzandosi. «Grazie, va bene così.» «Lo faccio comunque.» Si diede da fare con un bollitore e una teiera. Aveva dei gesti da studentessa ma anche da gran sacerdotessa. Dal suo rituale si sprigionava qualcosa di antico e di religioso. Circolavano voci che Dumayet frequentasse dei locali scambisti. Diffidavo delle voci in generale e di questa in particolare. «Può fumare, se vuole.» M'inchinai ma non tirai fuori il pacchetto di Camel. Rilassarsi? Non se ne parlava neanche: la convocazione «d'urgenza» non lasciava presagire niente di buono. «Sa perché l'ho fatta venire?» «No.» «Si sieda.» Mi spinse davanti una tazza. «Siamo tutti sconvolti, Durey.» Presi posto e rimasi in silenzio. «Un poliziotto del calibro di Luc, così solido, è scioccante.» «Ha qualcosa da rimproverarmi?» La brutalità della mia domanda la fece sorridere. «A che punto siete con il caso Le Perreux?» Pensai alla mia alzata di genio. Troppo presto per cantare vittoria. «Procediamo. Forse degli zingari.» «Avete delle prove?» «Dei sospetti.» «Attenzione, Durey. Niente pregiudizi razziali.» «È per questo che non mi sbottono. Mi lasci un po' di tempo.» Approvò con un cenno distratto del capo. Questo era solo un preambolo. «Conosce Condenceau?» «Philippe Condenceau?» «IGS, sezione disciplina. Sembra che Soubeyras stesse lavorando a un
caso sensibile.» «Sensibile? Cioè?» «Non so. Mi ha chiamata stamattina. Mi ha richiamata poco fa.» Non fiatai. Condenceau era uno di quelli che godono solo quando mettono sotto accusa uno dei colleghi. Un imboscato che provava gusto a distruggere gli uomini che lavorano sul campo, fargli ingoiare il loro orgoglio di eroi. «È lui che si occupa di redigere il rapporto su Luc. Procede a un'indagine di routine.» «Come d'abitudine.» «Secondo lui, dei poliziotti se ne stanno già interessando. Questo pomeriggio qualcuno ha contattato la banca di Luc. Non è stato troppo difficile identificare il ficcanaso.» Foucault non aveva perso tempo, ma, quanto a discrezione, non aveva preso lezioni sufficienti. Piantò i suoi occhi liquidi nei miei. In un lampo, s'indurirono come diamanti. «Cosa cerca, Durey?» domandò. «Come l'IGS, come tutti, voglio capire il gesto di Luc.» «Una depressione non ha spiegazioni.» «E chi dice che Luc fosse depresso?» dissi alzando il tono. «Aveva due bambine, una moglie: cazzo, non poteva abbandonarle. Dev'essergli caduto addosso qualcosa di stratosferico!» Dumayet prese la tazza e soffiò sull'orlo senza replicare. «C'è qualcos'altro», aggiunsi a voce bassa. «Luc è cattolico.» «Siamo tutti cattolici.» «Non come lui. Non come me. La messa tutte le domeniche. La preghiera tutte le mattine. È contro la nostra fede, capisce? Luc ha rinunciato alla vita, ma anche alla sua salvezza. Devo trovare la spiegazione a un simile rifiuto. Le inchieste in corso non ne risentiranno.» Il commissario bevve un sorso, con la delicatezza di un gattino. «Dov'era stamattina?» chiese posando con garbo la tazza di tè. «In provincia», esitai. «Certe cose da verificare.» «A Vernay?» Incassai in silenzio. Lei volse lo sguardo verso la finestra socchiusa sulla Senna. Cominciava a farsi sera. Il fiume sembrava di cemento. «Levain-Pahut, il capo di Luc, mi ha contattata a mezzogiorno. I gendarmi di Chartres gli hanno telefonato. Un medico dell'ospedale li aveva informati di avere ricevuto la visita di un poliziotto di Parigi. Un tipo alto dall'aria invasata. Le dice niente?»
Mi chinai di scatto, afferrando i bordi della scrivania: «Luc è il mio migliore amico. Glielo ripeto: voglio capire cosa l'ha spinto a compiere un atto così estremo!». «Niente ce lo restituirà, Durey.» «Non è morto.» «Capisce benissimo cosa voglio dire.» «Preferisce che siano i ficcanaso dell'ICS a fare il lavoro?» «Ci sono abituati.» «Abituati a indagare su poliziotti drogati, con la passione del gioco o magnaccia. La ragione del gesto di Luc sta altrove!» «Dove?» chiese lei in tono ironico. «Non lo so», ammisi spingendo indietro la sedia. «Non ancora. Ma esiste un motivo reale per questo tentato suicidio. Un qualcosa di molto speciale che scoprirò.» Lentamente, lei fece ruotare la poltrona. Con un movimento sensuale, stese le gambe e posò i tacchi alti sul radiatore. «Non c'è un omicidio e quindi non c'è istruttoria. Tutto ciò non rientra nella nostra competenza. E lei non è l'uomo della situazione.» «Luc è come un fratello per me.» «È proprio quello che sto dicendo. Lei è vulnerabile.» «Devo prendermi qualche giorno di vacanza o cosa?» Non mi era mai apparsa così dura, così indifferente. «Due giorni. Per quarantott'ore lascia perdere tutto il resto e si fa un'idea. Dopodiché ritorna alla sua routine.» «Grazie.» Mi alzai e raggiunsi la porta. Nel momento in cui giravo la maniglia lei aggiunse: «Un'ultima cosa, Durey. Lei non ha l'esclusiva della tristezza. Anch'io ho conosciuto bene Soubeyras, quando era da noi». La riflessione non richiedeva commenti. Tuttavia, mosso da un'intuizione, gettai uno sguardo indietro da sopra la spalla. Ne ricavai la certezza, per l'ennesima volta, che non avrei mai capito niente delle donne. Nathalie Dumayet, la donna che dirigeva la Criminale con pugno di ferro, la poliziotta che aveva strappato confessioni ai terroristi del GIA e smantellato il giro dell'eroina afghana, piangeva in silenzio, il viso abbassato. 10
Il Limbo. La parola mi venne in mente quando oltrepassai le porte del reparto di rianimazione. Il Limbo. Il luogo dove le anime dei giusti dell'Antico Testamento si trovano rinchiuse nell'attesa che Gesù venga a liberarle. Lo spazio misterioso dove soggiornano i bambini morti prima di essere battezzati. Un ambiente indefinito, oscuro, soffocante, dove si aspetta la soluzione della propria sorte. «Né vita, né morte», aveva detto Svendsen. Con addosso un camice, un berretto e copriscarpe di carta, risalii il buio corridoio. A sinistra, l'ufficio dell'infermiera, rischiarato da una lampada da notte. A destra, una parete vetrata, suddivisa in tante piccole cabine. Nell'oscurità, si udivano solo i clic dei respiratori artificiali, i bip dei Physiogard. Pensai ai versi di Dante, nel IV canto dell'Inferno: Vero è che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. Numero 18. La stanza di Luc. Era legato con delle cinghie a un letto inclinato di trenta gradi. Due tubi trasparenti gli serpeggiavano intorno. Una sonda penetrava in una narice, un'altra nella bocca, collegata a un mantice nero che si apriva e chiudeva con uno schiocco. Una flebo nel collo, un'altra nell'avambraccio. Una pinza, stretta su una delle dita, brillava come un rubino. A destra un monitor nero, attraversato da scie verdi. Sopra al letto, sacche trasparenti con dentro i liquidi che passavano nelle flebo. Mi avvicinai. Dicono che bisogna parlare alla persona in coma. Aprii la bocca ma non ne uscì niente. Restava la preghiera. M'inginocchiai e mi feci il segno della croce. Chiusi gli occhi e a fronte bassa mormorai: «Spero in te, mio Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo...». Mi bloccai. Impossibile concentrarmi. Il mio posto non era lì. Il mio posto era nella strada, a cercare la verità. Mi rialzai, dentro di me una certezza: potevo svegliarlo. Potevo salvarlo. A condizione di trovare la ragione del suo atto. La mia luce l'avrebbe strappato a quel limbo!
Nell'atrio del reparto, chiesi a una segretaria di chiamare il dottor Eric Thuillier, il neurologo che il giorno prima l'anestesista mi aveva consigliato di sentire. Dopo qualche minuto il medico arrivò. Sulla quarantina, il tipo dello studioso. Camicia Oxford, maglione girocollo, pantaloni di fustagno, troppo corti e stazzonati. I capelli a ciocche scomposte gli davano l'aria trascurata, smentita però dagli occhiali in tartaruga. «Il dottor Thuillier?» «Sì.» «Comandante Mathieu Durey. Squadra criminale. Sono un amico di Luc Soubeyras.» «Il suo amico ha avuto molta fortuna.» «Ha qualche minuto per parlare?» «Devo andare a un altro piano. Venga con me.» Lo seguii per un lungo corridoio. Thuillier prese a espormi la situazione, senza dirmi niente di nuovo. Lo interruppi: «Ha qualche possibilità di svegliarsi?». «Non posso pronunciarmi. Il suo stato comatoso è molto serio. Ma ho visto di peggio. Ogni anno più di duecentomila persone sprofondano nel coma. Solo il 35 per cento di loro ne esce indenne.» «E le altre?» «Morte. O ridotte a vegetali.» «Mi hanno detto che è rimasto senza vita per quasi venti minuti.» «Il suo amico soffre di un coma anossico, provocato da un arresto respiratorio. È evidente che per un certo tempo il suo cervello non è stato ossigenato. Ma per quanto tempo esattamente? Miliardi di neuroni sono probabilmente andati distrutti, in particolare nella regione della corteccia cerebrale, che condiziona le funzioni cognitive.» «Concretamente, cosa significa tutto questo?» «Se il suo amico si sveglia, avrà inevitabilmente delle conseguenze. Forse leggere, forse gravi.» Sbiancai. «E noi? Voglio dire: quelli che gli sono vicini. Possiamo fare qualcosa?» «Potete dedicargli certe attenzioni. Massaggiarlo, per esempio. O strofinarlo con balsami per impedire l'essiccazione della pelle. Sono momenti di condivisione.» «Bisogna parlargli? Dicono che possa avere effetto.» «A essere onesti, non ne so niente. Nessuno ne sa niente. Secondo i test
che ho fatto, Luc reagisce a qualche stimolo. Si parla in questo caso di "manifestazioni di coscienza residua". E allora perché no? Magari una voce familiare gli farà bene. Parlare al paziente può aiutare anche chi gli parla.» «Ha conosciuto sua moglie?» «Le ho detto la stessa cosa.» «Come le è sembrata?» «Scossa. E anche, come dire... un po' ostinata. La situazione è tragica. Non c'è altra scelta che accettarla.» Spinse una porta e scese le scale. Gli andai dietro. «Volevo chiederle una cosa», mi disse da sopra la spalla. «Il suo amico non seguiva per caso una terapia? Iniezioni?» Era la seconda volta che mi facevano quella domanda. «Me lo chiede per i segni di punture?» «Ne conosce l'origine?» «No. Ma posso garantirle che non si drogava.» «Benissimo.» «Cambierebbe qualcosa?» «La mia diagnosi deve tenere conto di tutto.» Giunto al piano inferiore, si voltò verso di me, con un sorriso impacciato sulle labbra. Si tolse gli occhiali e si sfregò la curva del naso. «Be', devo andare. Resta solo una cosa da fare: aspettare. Le prime settimane sono decisive. Mi chiami pure quando vuole.» Mi salutò e scomparve oltre una porta a due battenti. Scesi al piano terra. Tentavo d'immaginare Luc nei panni di un tossico. Non aveva senso. Ma da dove venivano quei segni? Era malato? Poteva averlo tenuto nascosto a Laure? Dovevo verificare anche questo. Nel cortile del pronto soccorso, vicino all'ingresso del centro medicocarcerario, le uniformi blu erano numerose quanto i camici bianchi. M'infilai tra due furgoni di poliziotti e mi accostai al cancello. Mi girai: avevo l'impressione di essere spiato. Una serie di sedie a rotelle erano incatenate le une alle altre, come i carrelli di un supermercato. Sull'ultima, Doudou. Aveva abbassato al massimo lo schienale, utilizzando la sedia a mo' di sdraio. Teneva gli occhi puntati su di me, e una sigaretta nella mano destra. Gli feci un vago cenno con la testa e oltrepassai il cancello. "Un segreto", mi dissi. "Gli uomini di Luc hanno un maledetto segreto."
11 «Non fare rumore, le bambine dormono.» Laure Soubeyras si fece da parte per lasciarmi entrare. Guardai automaticamente l'orologio: le otto e mezzo. Chiudendo la porta aggiunse: «Sono esauste. E domani c'è la scuola». Annuii, senza avere la più pallida idea dell'ora in cui i bambini devono andare a letto. Laure mi prese il cappotto e mi fece accomodare in soggiorno. «Vuoi un tè? Un caffè? Un alcolico?» «Un caffè, grazie.» Si allontanò. Mi sedetti sul divano e mi guardai intorno. I Soubeyras abitavano in un modesto appartamento di quattro stanze a Porte de Vincennes, in uno di quei palazzi di mattoni costruiti dall'azienda immobiliare della città di Parigi. La coppia l'aveva acquistato subito dopo il matrimonio, inaugurando una lunga serie di fidi. Qui tutto era fatto in economia: parquet galleggiante, mobili di compensato, ninnoli da pochi soldi... Il televisore funzionava in sordina. Su questo appartamento, Luc avrebbe potuto dire la stessa cosa che diceva delle donne: «Risolvere il problema il più in fretta possibile, per non doverci pensare più». In effetti, non gli importava niente del luogo in cui viveva. Se fosse stato solo, il suo antro sarebbe stato simile al mio: niente mobili, nessun tocco personale. Condividevamo la stessa indifferenza nei confronti del mondo materiale, e soprattutto delle comodità borghesi. Ma Luc aveva scelto di stare al gioco, in apparenza. Il bozzolo parigino, la casa di campagna... Laure riapparve con un vassoio: caffettiera di vetro, due tazze di porcellana, zuccheriera e coppetta di biscotti. Pareva allo stremo delle forze. Il suo viso allungato, reso ancora più sparuto dai riccioli grigi, era teso e stanco. Per la millesima volta, m'interrogai su quell'enigma: perché mai Luc aveva sposato quella donna scialba, priva d'intelligenza, amica d'infanzia del paese natale? Faceva la segretaria presso un medico e la sua conversazione assomigliava a una partita di Scarabeo con poche lettere. Mi ricordavo una battuta salace di Luc su sua moglie: «La posizione del missionario e nient'altro». In alto i cuori. Si sedette di fronte a me, su uno sgabello, dall'altra parte del tavolino. Dopo qualche banalità sulle condizioni stazionarie di Luc, Laure annunciò:
«Organizzo una messa per Luc». «Cosa? Ma Luc non è...» «Non è questo. Ho pensato...» Esitò. Si fregava lentamente le mani, palmo contro palmo. «Vorrei riunire i suoi amici. Fare un incontro. Che ci sia un appello...» «Vuoi dire un appello a Dio?» Laure non era credente, un'altra differenza con Luc. E non mi piaceva questa idea di un estremo SOS lanciato al cielo. La gente si ricordava di Dio solo nelle grandi occasioni: battesimi, matrimoni, decessi... «Non c'è solo l'aspetto religioso», continuò. «Ho letto delle cose sul coma. Dicono che chi gli sta intorno può svolgere un ruolo importante. Esistono dei casi di persone che si sono svegliate solo perché qualcuno aveva parlato con loro o perché erano circondate dall'affetto.» «E allora?» «Vorrei riunire i suoi amici. Per creare una sorta di concentrato di energia, capisci? Una forza che Luc potrebbe sentire.» Si sconfinava nella New Age. «In quale chiesa?» chiesi in tono secco. «Sainte-Bernadette. È a due passi. Luc aveva l'abitudine di andarci.» Conoscevo la cappella, si trovava lungo avenue de la Porte-deVincennes. Una specie di bunker costruito in un seminterrato, gestito da una comunità tamilica. Qualche anno prima venivo a rifugiarmici all'alba era l'epoca in cui appartenevo ancora alla Squadra di repressione del prossenetismo, l'ex Buoncostume - dopo avere setacciato i boulevard esterni e il loro esercito di prostitute. «Il responsabile della parrocchia non accetterà mai», dissi. «Perché?» «L'atto di Luc lo condanna.» Fece un sorriso acido. «Sempre i vostri principi idioti. Ma lo dici tu stesso: Luc non è ancora morto.» «Questo non toglie niente al suo atto.» «Vuoi dire che è dannato?» «Piantala. La chiesa segue certe regole e...» «Ho appena parlato al prete», m'interruppe. «Un indiano. La cerimonia avrà luogo dopodomani mattina.» Cercai in me qualche motivo per rallegrarmi della notizia. Niente da fare. Mi vedevo come un cristiano integralista, chiuso e retrogrado. Mi ricordai della medaglia di Luc, la sua protezione contro il diavolo. Laure a-
veva ragione: lui e io vivevamo nel medioevo. «E tu», chiese, «perché sei venuto stasera?» Nel suo tono si percepiva la diffidenza. Laure mi aveva sempre considerato un nemico, o perlomeno un avversario. Io rappresentavo la parte oscura di Luc, la sua parte mistica, quella profondità che le sfuggiva... E anche, naturalmente, il suo mestiere di poliziotto. Tutto quello che, ai suoi occhi, spiegava oggi il suo gesto. «Volevo farti qualche domanda.» «Ovvio. È il tuo lavoro.» «Devo capire cos'aveva in testa.» Lei annuì, prese un fazzoletto di carta che teneva infilato nella manica e si soffiò il naso. «Non ha lasciato niente? Due righe? Un messaggio?» «Te ne avrei parlato.» «Hai verificato a Vernay?» «Ci sono andata questo pomeriggio. Non c'è niente.» Fece una pausa e aggiunse: «Sempre i suoi misteri. Non voleva che capissimo». «Non era mica malato?» «Perché?» «Non so. Non ha fatto delle analisi, visto un medico?» «No.» «Com'era ultimamente?» «Di buonumore, allegro.» «Allegro?» Mi lanciò uno sguardo. «Parlava a voce alta, era sempre in movimento. Qualcosa era cambiato nella sua vita.» «Cosa?» Dopo un breve silenzio, la mazzata. «Penso che avesse un'amante.» Per poco non caddi dal divano. Luc era un giansenista. Si poneva non tanto al di sopra quanto al di fuori dei piaceri dell'esistenza. Era come sospettare il papa di fregare le reliquie del Vaticano per rivenderle. «Hai delle prove?» «Indizi. Un sacco d'indizi. È così che li chiamate, no?» «Che indizi?» Non rispose. Gli occhi bassi, faceva a pezzetti il fazzoletto di carta con gesti convulsi. Non era più dolore il suo, era rabbia. «Il suo umore non era più lo stesso», riprese infine. «Era eccitato. Le
donne avvertono questo genere di cose. E poi, spariva...» «Dove andava?» «Non ne ho la più pallida idea. Dal luglio scorso. All'inizio il fine settimana. Con la scusa del lavoro. Poi, in agosto, mi ha detto che andava a Vernay. Due settimane. E, dopo, viaggi in Europa. Ogni volta per una settimana. Voleva farmi credere che si trattava di un'indagine, ma non la bevevo.» «E quando sono finiti questi viaggi?» «All'inizio del mese di ottobre continuavano ancora.» I sospetti di Laure erano grotteschi. Luc le aveva semplicemente detto la verità: un'indagine personale. Una faccenda su cui doveva lavorare con discrezione... «Non hai proprio idea di dove andasse?» Mi elargì un nuovo sorriso, astioso. «Niente di preciso. Ma ho fatto una piccola indagine. Ho frugato nelle sue tasche, curiosato nella sua agenda.» «Hai frugato...» «Tutte le donne lo fanno. Le donne ferite. Tu non ne sai niente.» Il suo fazzoletto era ormai disintegrato. «Ho trovato un unico indizio. Un biglietto per Besançon.» «Besançon? Perché?» «E che ne so? La sua troia doveva abitare là.» «Che data aveva il biglietto?» «Sette luglio. Quella volta è stato via almeno quattro giorni. L'Europa, pensa tu...» Laure mi offriva una pista preziosissima. Un'indagine aveva portato Luc nel Jura. Tentai di farla ragionare: «Stai prendendo un granchio. Luc, lo conosci bene quanto me. Meglio di me, anzi. Non è portato per il sesso». «Ah no, certo», sogghignò. «Ti ha detto la verità: conduceva un'indagine, è tutto. Una cosa personale, al di fuori delle sue ore di lavoro.» «No. C'era una donna.» «Come lo sai?» «Era cambiato. Cambiato fisicamente.» «Non capisco.» «Non mi sorprende.» Riprese fiato, prima di aggiungere in tono neutro: «Dopo la nascita delle bambine, non mi toccava più». Mi agitai sul divano. Non avevo voglia di sentire quel genere di confidenze.
«Un classico», proseguì lei. «Io non insistevo. Il sesso non l'ha mai interessato. Sempre le sue indagini, sempre le sue preghiere. Poi, quest'estate, è cambiato tutto. Il suo appetito sembrava... tornato. Era addirittura insaziabile.» «Direi che questo sia un segno che si concentrava sul vostro rapporto, no?» «Povero Mathieu! Facevate proprio una bella coppia voi due.» L'aveva detto senza la minima tenerezza. «Uno dei segni dell'adulterio», aggiunse, «è proprio questo ritorno di fiamma. Il marito ritrova il gusto per il sesso, capisci? C'è anche il rimorso... Una specie di compensazione. Dato che fa l'amore con un'altra, il maritino ti offre un risarcimento.» Ero decisamente a disagio. Immaginare i Soubeyras a letto era un po' come sollevare la tonaca di un prete. Scoprire un segreto che nessuno ci tiene a conoscere. Mi alzai per tagliare corto e confessai la vera ragione della mia visita. «Potrei... Posso vedere il suo studio?» Lei si alzò a sua volta, lisciandosi la gonna grigia coperta delle briciole del fazzoletto. «Ti avverto che non ci troverai niente. Ho già frugato dappertutto.» 12 Lo studio era uno specchio. Lo stesso ordine artificiale che regnava nella stanza del Quai. Chi aveva fatto pulizia, Laure o Luc? Chiusi la porta, mi tolsi la giacca, mi slacciai la fondina. A prima vista qui non c'era niente da scoprire. Ma nessuno è infallibile, e io avevo tutto il tempo. Girai intorno alla scrivania dov'era posato l'iBook di Luc per contemplare le foto disposte su un mobile basso, lungo la finestra. Amandine e Camille, in piena attività: pony, piscina, confezione di maschere... Una cartolina da Roma, mandata da me: «Conoscevamo la fabbrica. Ho trovato l'officina!». La «fabbrica» (sottinteso: di preti) era un'allusione a SaintMichel-de-Sèze, l'«officina» indicava il seminario di Roma. Un'altra foto mostrava un uomo in tuta termica, in testa un caschetto con una lampada frontale. L'aria trionfante, brandiva corde e moschettoni davanti all'ingresso di una grotta. Doveva essere Nicolas Soubeyras, il papà di Luc, lo speleologo. Luc ne parlava sempre con ammirazione. Era morto nel 1978, in fondo alla grotta di Genderer, duemila metri sotto terra, nei Pirenei. All'e-
poca ero invidioso di quel padre, di quell'eroismo, persino di quella scomparsa, io che non avevo altro che un papà pubblicitario, morto di infarto qualche anno dopo a Venezia, all'Harry's Bar, dopo una cena troppo annaffiata. Si ha quel che si merita. Mi chinai sul mobile a serranda: chiuso a chiave. Provai l'armadio: idem. Mi sedetti dietro la scrivania e accesi il computer. Picchiai qualche tasto e mi accorsi che stavolta non avevo bisogno della password per aprire i file. Niente d'interessante. Un computer domestico, pieno di conti, di scadenzari, di fotografie delle vacanze, di giochi. Aprii la casella di posta. Neanche le mail personali presentavano un grande interesse: ordini per corrispondenza, pubblicità, storielle divertenti... Solo qualche messaggio catturò la mia attenzione. Tutti inviati allo stesso destinatario, erano stati cancellati subito dopo la spedizione. Restava in memoria solo la riga che segnalava l'invio. L'ultimo risaliva alla vigilia del tentato suicidio di Luc. L'indirizzo portava al sito: www.unital6.com. Lo trascrissi sulla barra del browser. Doppio clic. Un logo. La silhouette di Bernadette Soubirous, con la sua cintura azzurra, apparve su una veduta di Lourdes. L'immagine era accompagnata da un testo scritto in italiano, lingua che avevo imparato quando ero in seminario. L'Unital6 era un'associazione di volontariato che organizzava dei pellegrinaggi a Lourdes. Perché Luc aveva contattato quella fondazione? Di nuovo mi riassaliva il sospetto di una malattia mortale... Ma Laure pareva sicura del fatto suo e i medici dell'Hôtel-Dieu avrebbero subito individuato la presenza di un tumore o di un'infezione. Questo sito era forse legato a un'indagine? Perché contattarli quando aveva già deciso di farla finita? Percorsi le varie sezioni del sito. L'Unital6 si occupava anche di altre attività: seminari, ritiri in abbazie italiane. Lessi l'elenco delle conferenze. Il solo tema che avrebbe potuto attrarre Luc era quello di un convegno sul «ritorno del diavolo», previsto per il 5 novembre a Padova. Mi ripromisi di telefonare agli specialisti della polizia informatica, forse loro sarebbero riusciti a recuperare i testi di queste mail. Lasciai perdere il computer e mi concentrai sulla scrivania. Nei cassetti trovai solo delle carte di carattere amministrativo: note bancarie, bollette dell'elettricità, ricevute di assicurazioni, moduli della previdenza sociale... Nell'ultimo cassetto, un'agenda: nomi, numeri scarabocchiati, iniziali. Alcuni mi erano familiari, altri no, altri ancora erano illeggibili. M'infilai il taccuino nella tasca della giacca e continuai a frugare, imbattendomi in un mazzo di minuscole chiavi. Alzai gli occhi: l'armadio, il mobile a serranda...
La cortina di assicelle di quest'ultimo si aprì. Cartelle di tela grigia chiuse da fettucce, allineate fitte su un ripiano, con una «D» sul dorso sormontata da date: 1990-99, 1980-89, 1970-79, e via dicendo fino all'inizio del secolo. Presi la cartella più a destra, quella che recava scritto «2000...», la posai a terra e snodai il laccio di tela. Due cartelline: 2000 e 2001. Aprii quella del 2001 e mi trovai davanti le immagini dell'attentato dell'11 settembre. Le torri avvolte in vortici di fumo, corpi che precipitavano nel vuoto, esseri stralunati, coperti di polvere, che correvano su un ponte. Poi comparvero altre foto: cadaveri cui erano stati strappati gli occhi, corpi di bambini straziati sotto cumuli di macerie. C'era scritto: «Grozny, Cecenia». Continuai a sfogliare: resti di scheletri, un cranio con le mascelle strette su un paio di mutandine da donna. Non c'era bisogno di didascalie. La scena era l'esumazione delle vittime di Emile Louis, nella regione di Auxerre. Perché Luc conservava quegli orrori? Rimisi a posto la cartella e aprii quella degli anni Novanta. Pescai a caso fra i fascicoli al suo interno. 1993. Gente sgozzata nel vicolo di un villaggio algerino. 1995. Corpi smembrati, fra pozzanghere di sangue e lamiere carbonizzate. «Attentato suicida, Ramat Ash Kol, Gerusalemme, agosto 1995.» Mi presero a tremare le mani. Intuii che una cartella doveva essere dedicata al mio incubo personale. Corpi neri nel fango rosso, volti sfregiati a colpi di lama, carnai a perdita d'occhio: «Ruanda, 1994». Richiusi il fascicolo prima che le immagini mi fossero sbattute in faccia. Dovetti armeggiare un po' per riuscire ad annodare la fettuccia. Un sudore ghiacciato mi colava sul viso. La paura era tornata prepotentemente, come nei giorni peggiori. Mi rialzai, scostai le tende della finestra e scrutai il cortile di mattoni immerso nell'oscurità. Nel giro di qualche secondo mi sentii meglio, ma, ancora una volta, ero deluso, umiliato, nel vedere fino a che punto il Ruanda era radicato dentro di me. Tornai a Luc. Era così dunque che trascorreva le serate e i fine settimana. Cercando, ritagliando e catalogando le azioni umane più abiette. Riesaminando gli scaffali, scelsi un'altra cartella: «1940-44». Mi aspettavo un catalogo delle violenze naziste, ma mi si pararono davanti delle immagini di provenienza asiatica. La vivisezione di una donna praticata da giapponesi in camici e mascherine da chirurgo. La didascalia recitava: «Violentata e fecondata dal ricercatore dell'Unità 731 chiamato Koyabashi, quello stesso che sta estraendo il feto che la donna porta in grembo». Le mani guantate del ricercatore, il corpo insanguinato, gli uomini in abiti civili, in secondo
piano, anch'essi con indosso la mascherina. Tutto questo era puro orrore. La cartellina successiva era quella che mi aspettavo: il nazismo e i suoi abomini. I campi di concentramento. I corpi smagriti, corrosi, annientati. I cadaveri rimossi con la spalatrice. Mi soffermai su un'immagine. Blocco 10 di Auschwitz, 1943: un'esecuzione in cui i condannati, nudi, la faccia rivolta verso il muro di piastrelle, aspettavano che l'ufficiale gli sparasse un proiettile in testa. La maggior parte erano donne e bambini. Un particolare mi strinse ancor più il cuore: le due trecce nere di una ragazzina, accentuate dalla grana fotografica, che risaltavano sulla sua schiena bianca e gracile. Rimisi tutto a posto: avevo avuto la mia dose. Sugli altri scaffali la cronologia andava indietro nei secoli: XIX, XVIII... Avrei potuto nuotare nell'orrore fino all'alba. Incisioni, dipinti, scritti, sempre sugli stessi temi: guerre, torture, esecuzioni, assassini... Un'antologia del male, una tassonomia della crudeltà. Ma cosa significava quella «D» scritta sul dorso di ogni cartella? D'un tratto capii. D come «DIAVOLO» o «DEMONIO». Pensai a Dancing with Mister D. dei Rolling Stones. Le opere complete del diavolo, o quasi... La suoneria del cellulare mi fece sobbalzare. «Foucault. Esco da una cena con Doudou.» Erano quasi le undici. Avevo ancora negli occhi quelle immagini atroci. «Com'è andata?» mi sforzai di chiedere. «Mi è costato un'abbuffata non da ridere, ma qualcosa è saltato fuori. Negli ultimi tempi Luc s'interessava a un caso in particolare.» Foucault parlava con voce impastata, sembrava completamente sbronzo. «Quale caso?» «L'assassinio di Massine Larfaoui.» «Il grossista di bibite?» «Exactly.» Conoscevo il cabilo dall'epoca della Buoncostume. Uno dei più importanti fornitori di bevande per bar, ristoranti e locali notturni di Parigi. Nemmeno lo sapevo che era stato ammazzato. «Quando lo hanno fatto fuori?» «All'inizio di settembre. Una pallottola in testa e due al cuore, a bruciapelo. Un lavoretto da professionisti.» «Perché non ci è stato affidato il caso?»
«Quelli della Squadra antinarcotici tenevano già sott'occhio Larfaoui. Il tizio spacciava un po' di tutto: cannabis, cocaina, eroina. Si sono accordati con il Servizio regionale di polizia giudiziaria competente per aggiudicarsi l'indagine.» «E come procede?» «Non procede. Nessun indizio, nessun testimone, nessun movente. Un fascicolo vuoto. Il giudice ha in mente di archiviare il caso, ma Luc rifiutava di mollare l'osso.» Questo delitto non dissipava il sospetto di corruzione. Al contrario. Larfaoui aveva sempre intrattenuto degli oscuri rapporti con i piedipiatti, procurando delle agevolazioni ai suoi clienti «caffettieri»: concessione di una licenza per la vendita di alcolici, tolleranza per una bisca, protezione contro eventuali taglieggiatoli... Gli sbirri restavano le migliori guardie del corpo. Luc aveva subodorato qualcosa sotto quell'omicidio? Magari copriva qualcosa? «Su Larfaoui», ripresi, «hai dei particolari? Dove si è fatto stendere?» «In casa sua. Una villetta ad Aulnay-sous-Bois. Il 7 settembre, intorno alle undici di sera.» «La pallottola, l'arma?» «Doudou non si è sbottonato, ma la cosa ha l'aria di una vera esecuzione. Un regolamento di conti o una vendetta. Potrebbe essere stato un qualsiasi killer professionista. Magari anche un poliziotto.» «È quello che pensava Luc?» «Nessuno sa quello che pensava.» «Doudou non ti ha parlato dei viaggi che Luc faceva in questi ultimi tempi?» «No.» «Chi è il giudice che si occupa del caso Larfaoui?» «Gaudier-Martigue.» Brutta notizia. Un coglione dalla mente gretta, con idee preconcette. Nessuna probabilità di ottenere delle informazioni dalla banda. Figurarsi consultare il dossier. «Va' a dormire», conclusi. «Domani avrò altre cosette da chiederti.» Foucault scoppiò a ridere. Ubriaco fradicio. Riattaccai. Non erano queste le notizie che mi aspettavo. Era impossibile che l'esecuzione di un grossista-spacciatore facesse sprofondare Luc nella disperazione. Tornai a esaminare le cartelle. Alcune, sul ripiano inferiore, riportavano sotto la «D» delle lettere minuscole, in ordine alfabetico. Aprii la prima e
capii: i serial killer. C'erano tutti, di ogni epoca e continente. Da Gilles de Rais a Ted Bundy, da Joseph Vacher a Fritz Haarmann, da Jack lo Squartatore a Jeffrey Dahmer. Rinunciai a passare in rassegna questi documenti, conoscevo la maggioranza dei casi e non avevo la minima voglia di rotolarmi in quel fango. Né tantomeno me la sentivo di consultare l'ultima fila in basso, visibilmente dedicata alla pornografia e a tutte le turpitudini che la carne può inventare. Mi fregai gli occhi e mi alzai. Era ora di mettersi al lavoro sul grande armadio. Ne aprii le ante e scoprii altre cartelle, sempre contrassegnate dalla lettera «D», stavolta però all'insegna di un tema diverso: si trattava di un'immensa iconografia del diavolo, le sue rappresentazioni attraverso i secoli. Afferrai le cartelle di sinistra e le aprii sulla scrivania. L'antichità, con i primi demoni della storia umana, scaturiti dalla tradizione sumera e da quella babilonese. Mi soffermai su una delle principali creature di questa mitologia: Pazuzu, di origine assira, signore delle febbri e dei flagelli. Ai tempi dell'università avevo seguito un corso di demonologia. Conoscevo quel mostro, con le sue quattro ali, la testa di pipistrello e la coda di scorpione. Personificava i venti malefici, portatori di malattie e infermità. Osservai il suo grugno rincagnato, i denti caotici. Aveva ispirato secoli e secoli di tradizione diabolica. E quando si girava un film importante sul diavolo, come L'esorcista di William Friedkin, era ancora Pazuzu, angelo nero dei quattro venti, che veniva riesumato dalle sabbie dell'Iraq. Continuai a sfogliare: Seth, il demone egizio; Pan, dio greco del desiderio sessuale, con la testa caprina e il corpo villoso; Lotan, «Colui che si contorce», che in seguito avrebbe ispirato il Leviatano... Le altre cartelle. L'arte paleocristiana, dove il Male, secondo la Genesi, assume la forma di un serpente. Poi il medioevo, l'età dell'oro di Satana. A volte era un mostro tricefalo che divorava i dannati al momento del Giudizio Universale; oppure un angelo nero dalle ali spezzate; oppure ancora prendeva corpo nelle chimere, sculture grottesche con teste orrende, grugni adirati, denti acuminati... Bussarono piano alla porta. Laure entrò senza rumore. Era mezzanotte. Lanciò un'occhiata ai fascicoli aperti. «Metterò tutto in ordine», mi affrettai a dire. Fece un gesto stanco: non importava. Aveva pianto. Colando, il mascara le aveva disegnato due occhi neri. Ebbi un pensiero assurdo, e crudele: mia madre non avrebbe mai fatto un errore del genere. La rivedevo, nell'auto
che ci portava al funerale di papà, passarsi sulle ciglia del mascara waterproof, in caso di lacrime. «Vado a letto», disse Laure. «Ti serve qualcosa?» Avevo la gola secca, ma feci segno di no. L'ora tarda, questa improvvisa intimità con Laure... Non ero a mio agio. «Se lavoro tutta la notte, è un problema?» Lei abbassò gli occhi sulle fotografie. Il suo sguardo costernato indugiò su una maschera di demone tibetano. «Passava i fine settimana nel suo studio, a collezionare questi orrori», disse, lasciando trapelare nella voce un sordo rimprovero. Fece dietrofront, afferrò la maniglia, poi cambiò idea. «Volevo dirti una cosa. Mi sono ricordata di un dettaglio.» «Cos'è?» La fissai, strofinandomi le mani contro i pantaloni: ero coperto di polvere. «Un giorno gli ho chiesto che cavolo facesse in questo caos. La sua risposta è stata: "Ho trovato la gola".» «La gola? Non ha detto nient'altro?» «No. Aveva l'aria di un pazzo. Allucinato.» Tacque, in preda ai ricordi. «Se decidi di andartene durante la notte, tirati dietro la porta. E non dimenticare la messa, dopodomani.» «Ho trovato la gola.» Che avrà voluto dire? Era una gola nel senso fisiologico del termine? O geologico? Parlava di un dettaglio fisico di una persona o di un canyon, di un pozzo di pietra? Trascorsero le ore. In compagnia degli affreschi diabolici del Beato Angelico e di Giotto, delle pitture malefiche di Grünewald e di Bruegel il Vecchio, del diavolo con la coda di topo di Hieronymus Bosch, del diavolo-porco di Dürer, delle streghe di Goya, del Leviatano di William Blake... Alle tre del mattino attaccai l'ultima fila di fascicoli. Al tatto, mi resi conto che le cartelle non racchiudevano più delle stampe fotografiche ma radiogrammi, risonanze magnetiche che rappresentavano sezioni del cervello. Lessi le descrizioni. Malati psichici in stato di crisi, in particolare schizofrenici violenti. Non bisognava essere un genio per indovinare l'approccio di Luc. Ai suoi occhi le rappresentazioni contemporanee del diavolo potevano essere queste convulsioni cerebrali, colte sul vivo, all'interno dell'organo. Tutto ciò s'iscriveva in una stessa logica: identificare il male, in tutte le sue forme...
Passai rapidamente in rassegna il materiale, conservando qualche scatto per il mio dossier e qualcuno per Svendsen. Mi sedetti alla scrivania, esausto. Non avevo l'energia per andarmene a quell'ora. I miei pensieri presero a farsi meno nitidi, mi sentivo sempre peggio. Non era solo una questione di fatica. Un senso di malessere mi opprimeva fin da quando avevo esaminato le prime cartelle: il Ruanda. La semplice vicinanza delle immagini del massacro mi aveva messo KO per la notte. Capii che, sfinito com'ero, non avrei potuto resistere. Ero pronto per l'inferno. Il pozzo dei miei ricordi. 13 Quando ho scoperto il Ruanda, il paese non esisteva più. In ogni caso per il resto del mondo. Una delle nazioni più povere del pianeta, ma senza guerre né carestie, senza catastrofi naturali; niente che motivi l'organizzazione di un concerto rock o l'attenzione dei media. Arrivo lì nel febbraio 1993. Tutto è già scritto. Il Ruanda vive nell'energia dell'odio, così come un moribondo si regge in piedi a forza di nervi. Un odio che oppone la minoranza tutsi, popolo dalla corporatura slanciata, elegante, alla popolazione hutu, gente tarchiata, di bassa statura, che rappresenta il 90 per cento degli abitanti del paese. Comincio il mio lavoro umanitario fra i tutsi oppressi. Dall'altra parte, i miliziani hutu sono armati di fucili, di manganelli e, già allora, di machete. Ai quattro angoli del paese colpiscono, uccidono, bruciano le capanne dei tutsi, nella più assoluta impunità. Nell'ambito dell'organizzazione Terre di speranza attraversiamo il paese con viveri e medicinali, costretti a lunghe trattative a ogni posto di blocco hutu, arrivando sempre troppo tardi. Senza contare le gioie dell'organizzazione umanitaria: gli errori di consegna, i ritardi delle merci, le sabbie mobili amministrative... Fine del 1993. Le vie di Kigali risuonano dei messaggi di odio della RTLM (RadioTelevisione Libera delle Mille Colline), organo hutu che chiama al massacro degli «scarafaggi». Quella voce mi perseguita fino al dispensario dove dormo. Rimbomba nelle strade, negli edifici, s'infiltra nelle crepe dei muri, nell'aria afosa.
1994. Le premesse del genocidio si moltiplicano. Vengono importati 500.000 machete. I posti di blocco sono sempre più numerosi. Racket, violenza, umiliazioni... Niente può fermare lo «Hutu Power». Né il governo, né l'ONU che ha inviato una forza impotente. E la voce delle Mille Colline continua: Quando il sangue è colato, non si può più raccoglierlo. Ne sentiremo presto parlare. Il popolo è il vero esercito. Il popolo è la forza! Prego ogni mattino, ogni sera. Senza speranza. In questo paese per il 90 per cento cattolico, Dio ci ha abbandonati. Questo abbandono è iscritto nella laterite rossa. Traspare dalla voce dell'abominevole radio. Ecco i nomi dei traditori: Sebukiganda, figlio di Butete, che vive a Kidaho; Benakala, quello che tiene il bar... Tutsi: vi accorceremo le gambe! Aprile 1994. L'aereo del presidente Juvénal Habyarimana salta in aria. Nessuno sa chi ha fatto il colpo. Forse il fronte ribelle tutsi, in esilio, oppure gli estremisti hutu che ritengono troppo debole il loro presidente. Oppure una forza straniera, per oscuri interessi. In ogni caso, è il segnale del massacro. State ascoltando la RTLM. Stamattina mi sono fatto uno spinello. Saluto i ragazzi del posto di blocco... Non un solo scarafaggio deve sfuggirvi! A ogni sbarramento vengono chiesti i documenti, i tutsi sono identificati e poi gettati nelle fosse appena scavate. Nel giro di tre giorni si contano parecchie migliaia di morti nella capitale. Gli hutu si organizzano. Si sono posti un obiettivo: mille morti ogni venti minuti! A Kigali s'innalza un rumore che non dimenticherò mai. Il rumore dei machete sfregati contro il manto stradale, in segno di minaccia, in segno di gioia. Le lame stridono contro l'asfalto, prima di abbattersi sui corpi. Le lame insanguinate urlano dopo avere colpito... Le rappresentanze diplomatiche straniere vengono evacuate. Noi di Terre di speranza decidiamo di restare. Ci sistemiamo al Centro di scambi culturali franco-ruandesi, dove i soldati francesi hanno fissato la loro base. Dei tutsi vengono qui a nascondersi, in cerca di protezione, ma i soldati se ne stanno già andando. Devo spiegare ai rifugiati che non c'è più niente da fare. Devo spiegare loro che Dio è morto. Riesco a partire in ricognizione con gli ultimi Caschi blu di Kigali: l'ONU ha richiamato il 90 per cento delle sue truppe. Solo allora scopro i carnai che bloccano le strade, i ponti di cadaveri con i pantaloni abbassati.
Sento nelle ossa le scosse dei corpi che sobbalzano sotto le ruote. Vedo i villaggi distrutti, dove il sangue scorre a fiumi. Vedo le donne incinte sventrate, i feti schiacciati contro gli alberi. Vedo le ragazze violentate, le scelgono vergini, per non prendersi l'AIDS. Sono prima violate per il piacere, poi con bastoni, con bottiglie, che vengono frantumate all'interno della vagina. Non so dare una data precisa alla mia prima crisi. Alla fine del mese di maggio, forse, quando avvengono le operazioni di pulizia, quando si bruciano con il diesel i cadaveri putrefatti. O forse più tardi, quando prende il via l'operazione Turchese, la prima azione umanitaria importante, organizzata in Ruanda sotto la bandiera francese. Una certezza: la crisi inizia nei campi di rifugiati, là dove la malattia e il marciume prolungano il genocidio. Comincia con la paralisi del braccio sinistro. Si pensa a un infarto, ma un medico di Medici senza frontiere dà il suo verdetto: non esiste una causa organica ai miei sintomi. In altre parole, succede tutto nella mia testa. Rimpatrio. Destinazione: Centro ospedaliero Sainte-Anne, a Parigi. Non ce la faccio. Non so più parlare. Ho creduto di incassare l'orrore, di tollerare il sangue. Ho pensato di averlo assimilato, come un uomo che arriva a vivere con una pallottola dentro il cervello. Mi sono sbagliato. Comincia il rigetto. Il rigetto è questa paralisi. Primo segno di una depressione che mi stritolerà. Al Sainte-Anne cerco di pregare. Ogni volta mi sciolgo in lacrime. Piango, come non ho mai pianto. Tutto il giorno. Con un misto di sofferenza e di sollievo. Al mio dolore morale fa eco un sopimento fisico. Quasi animale. Sostituisco la preghiera con le pillole, il che mi sembra completare la mia distruzione. La mia percezione del mondo è la mia fede. Influenzare questa percezione equivale a barare con la mia coscienza, dunque con Dio. Ma ce l'ho ancora la fede? Non sento più nessuna convinzione, nessun freno, nessuna protezione. Basterebbe che mi aprissero una finestra davanti e salterei nel vuoto. Settembre 1994. Cambio di cura. Meno pillole, più sedute dallo psicologo. Io che non ho mai rivelato i miei peccati a nessuno se non a un prete, che non ho mai affidato a nessuno i miei dubbi se non al Signore, devo spiattellare tutto a uno specialista
dell'indifferenza che non rappresenta alcuna entità superiore, il cui silenzio è uno specchio nel quale deve contemplarsi la mia coscienza. La sola idea mi sembra atroce. Fondata su una visione dell'animo umano agnostica, riduttiva, disperata. Novembre 1994. Malgrado me, malgrado tutto, compaiono segni di miglioramento. La paralisi regredisce, le crisi di lacrime si fanno meno frequenti, si attenua il desiderio di suicidio. Da dodici compresse al giorno, passo a cinque. Ricomincio a pregare. Balbettii, parole slegate, saliva. Nel senso proprio del termine, gli antidepressivi mi fanno sbavare... Ritrovo la via di Dio. E mi allontano dall'idea di dovere, io, perdonarLo per quello che ho visto laggiù. Ricordo la frase di uno dei miei maestri a Roma: «Il vero segreto della fede non è perdonare, ma chiedere perdono al mondo così com'è, perché non abbiamo saputo cambiarlo». Gennaio 1995. Ritorno al mondo reale. Scrivo diverse lettere a fondazioni religiose, luoghi di ritiro, monasteri, sollecitando un impiego anche modesto, qualsiasi cosa, a patto che sia in compagnia di altri uomini. Un centro di formazione in teologia, nella Drôme, risponde favorevolmente alla mia richiesta, nonostante il mio stato. Non ho tenuto nascosta la mia malattia. Mi prendono come archivista. Malgrado il braccio invalido, mi do da fare, ordino, classifico. Circondato di cartelle, di polvere, di seminaristi che fanno il loro tirocinio, mi integro nell'ambiente. Grazie a una manciata di pillole al giorno e a due sedute settimanali da uno psicologo di Montélimar, me la cavo. E riesco a nascondere il mio stato depressivo, che anche qui, soprattutto qui, provocherebbe disagio. Talvolta sopravvengono delle crisi. Mi tremano le mani, mi agito in tutto il corpo, sono preso da un nervosismo inspiegabile. Altre volte, invece, sono come un vegetale. È l'apatia. Impossibile alzare un dito. Per parecchie ore resto così, annientato dalle idee che mi sommergono: la morte, l'aldilà, l'ignoto... In quei momenti, Dio è di nuovo scomparso. Ma i ricordi, loro ci sono sempre. Malgrado le mie precauzioni, ogni volta vengo preso alla sprovvista. Ho un bello stare alla larga da radio, televisione e altri suoni diffusi: se per disgrazia mi giunge ai timpani un rumore bianco o un crepitio, provo immediatamente una nausea implacabile, un terremoto in fondo alle budella. Non un solo scarafaggio deve sfuggir-
vi! Corro a vomitare al cesso la bile, la paura, la vigliaccheria... per finire, come sempre, in una crisi di lacrime. Altro esempio. Ho chiesto di non mangiare insieme agli altri per evitare ogni rumore di posate, ogni stridore di metallo. Il solo raschiare di un tavolo sul parquet mi scaraventa sulla via principale di Kigali. Gli assassini urlano e fischiano, i corpi si accumulano nelle fosse, corpi che non si contano più, che non contano più... Emetto un grido prima di cadere in preda alle convulsioni. Mi ritrovo in infermeria, sotto sedativo. E capisco, una volta di più, che non sono guarito, che non lo sarò mai. Gennaio 1996. Lascio il centro di teologia per raggiungere un monastero isolato, negli Hautes-Pyrénées. Esperienza interiore. Conoscenza trascendente. Ricerca del Verbo divino. Tra i monaci cistercensi ritrovo la forza, la speranza, la vitalità. Fino al giorno in cui questo quotidiano non mi basta più. Dopo quello che ho visto, mi è impossibile restarmene lì, in ginocchio, a parlare al cielo quando l'inferno è sulla terra. I monaci che mi circondano sono dei novizi in fatto d'anime. Io ho viaggiato in altri territori. Ho visto il vero volto dell'uomo. Pelle strappata, muscoli messi a nudo, nervi scorticati. Il suo odio irriducibile. La sua violenza senza limiti. Bisogna guarire l'essere umano dal suo male, e non sarà nel silenzio e nell'isolamento che potrò farlo. Allora mi ricordo di Luc. Per due anni non ho praticamente pensato a lui. Ora la sua figura e la sua voce sono di nuovo presenti, con una nuova evidenza. Luc è sempre stato un passo avanti rispetto a me. Ha sempre presagito le verità scioccanti, contraddittorie, sotterranee, della realtà. Oggi, di nuovo, capisco che devo seguire la sua via. Settembre 1996. Entro all'isola dei Corvi. L'ENSOP, la Scuola nazionale superiore degli ufficiali di polizia, situata a Cannes-Ecluse, nel dipartimento di Seine-etMarne, così soprannominata perché lì tutti indossano l'uniforme. Non sono spaesato. Ho portato la tonaca. Adesso sfoggio la giubba blu marino. Superato il primo scoglio, dove gli ufficiali-addestratori mi guardano storto con i miei diplomi sarei potuto entrare a Saint-Cyr-au-Mont-d'Or, la «fucina di commissari» - i risultati parlano per me. Mi aggiudico i voti migliori in tutte le materie. Diritto penale. Diritto co-
stituzionale. Diritto civile. Procedura. Scienze umane. Nessun problema. Senza contare lo sport. Atletica. Tiro. Combattimento corpo a corpo... La mia vita ascetica, il mio gusto per il rigore fanno di me un temibile avversario. È però durante lo stage sul campo di fine corso che viene fuori la mia qualità migliore: il senso della strada. Intuizione dei luoghi, istinto alla caccia, psicologia... E, soprattutto, il dono del camuffamento. Nonostante il mio fisico magro e dinoccolato e il mio curriculum da intellettuale, riesco a confondermi in qualunque ambiente, adottando il linguaggio dei delinquenti, facendo comunella con la peggiore gentaglia. Giugno 1998. Alla fine del corso sono il primo in graduatoria. Ho trentuno anni. Questo risultato mi dà il diritto di scegliere la mia destinazione fra i posti vacanti. Qualche giorno dopo sono convocato dal direttore della scuola. «Ha chiesto di essere assegnato alla SRP? L'ex Buoncostume?» «E allora?» «Non è interessato a un ufficio centrale? Il ministero degli Interni?» «Qual è il problema?» «Mi hanno detto... Lei è cattolico, no?» «Non capisco cosa c'entri.» «Rischia di vedere delle cose bizzarre in quella squadra e...» Esita, poi si scioglie in un sorriso paternalistico: «Ho passato dieci anni della mia vita alla SRP. È un universo molto particolare. Non sono sicuro che i depravati che vi bazzicano abbiano bisogno di un poliziotto del suo valore». Gli restituisco il sorriso. «Lei non ha capito. Sono io ad avere bisogno di loro.» Settembre 1998. M'immergo negli arcani del vizio. In pochi mesi arricchisco il mio vocabolario. Coprofilia: deviazione sessuale consistente nel nutrirsi di escrementi. Ondinismo: pratica nella quale il piacere è provocato dalla vista o dal contatto con l'urina. Zoofilia: metto le mani su uno stock di cassette che non hanno bisogno di commenti. Necrofilia: organizzo un'azione memorabile, in piena notte, al cimitero di Montparnasse. Si conferma il mio talento per il mimetismo. M'infiltro ovunque, diventando «amico» di magnaccia e di puttane, scoprendo con il sorriso le per-
versioni più contorte. Locali per lo scambio delle coppie, club sadomaso, serate speciali... Sorprendo, osservo, arresto. Senza disgusto né emozione. Sono in servizio pressoché permanente. La notte, per essere sulla scena dell'azione. Il giorno, per raccogliere le testimonianze dei querelanti, dare conforto alle prostitute, alle famiglie delle vittime. Spesso sono sulla breccia per ventiquattr'ore di fila. Tengo un cambio d'abiti in ufficio. Tra i miei colleghi passo per un drogato del lavoro, un arrivista. A questo ritmo diventerò presto capitano, lo sanno tutti, ma nessuno capisce la mia vera motivazione. Questa prima esperienza nella Buoncostume non è che una tappa. Il primo girone dell'inferno. Voglio approfondire il male, sotto tutte le sue sfaccettature, per combatterlo meglio. D'altronde, come sempre, si sbagliano sul mio stato d'animo. Sono felice. Osservo una regola dentro la regola. Nelle vesti del poliziotto, la mia vita si articola attorno ai tre voti monastici: obbedienza, povertà, castità. Ai quali ne ho aggiunto un altro: solitudine. Indosso questa disciplina come una cotta di ferro. Ogni giorno, prego a Notre-Dame. Ogni giorno, ringrazio Dio dei risultati che strappo. E del perdono che Egli mi concede, ne sono certo, per i metodi che adotto. Violenza. Minacce. Menzogne. Lo ringrazio anche per l'aiuto che offro alle vittime, e il perdono ai colpevoli. La mia malattia non è stata debellata. Anche in piena Parigi, sul boulevard de Strasbourg o a place Pigalle, sobbalzo ancora al brusio intermittente della mia radio o al raschiare di una cassetta di ferro sul marciapiede. Ho trovato però una soluzione per mitigare il mio malessere. Annego la violenza del passato nella violenza del presente. Settembre 1999. Un anno di fango, un anno di esperienze devianti. Il grosso del lavoro non sono i pervertiti, ma i magnaccia. Giornate intere di appostamenti, di pedinamenti, sulle tracce di mafiosi slavi, di delinquenti maghrebini, di loschi individui, ma anche di notabili, di uomini politici dai gusti particolari. Notti intere a visionare cassette, a navigare su Internet, diviso fra il disgusto e l'erezione. Devo anche chiudere gli occhi su quello che succede dietro le quinte del mio stesso posto di lavoro: i colleghi che si fanno fare i pompini dai travestiti, gli stagisti che requisiscono i videoregistratori per il loro uso personale. Il sesso è ovunque, su entrambi i lati dello specchio. Un oceano nero nel quale sto in apnea.
Col passare dei mesi noto un cambiamento. La mia personalità suscita meno diffidenza. I giudici, che prima vedevano in me solo un ambizioso, adesso mi firmano le perquisizioni che richiedo. I colleghi cominciano a parlarmi, apprezzano la mia disponibilità ad ascoltare. Le loro confidenze diventano confessioni, e mi rendo conto fino a che punto la lotta contro il male ci contamini, ci obblighi ogni giorno a oltrepassare la linea. Sempre di più mi merito i soprannomi che mi hanno dato: il Cappellano o l'Elemosiniere. Penso a Luc. Dove sarà oggi? Dai tempi del Ruanda ho perso qualsiasi contatto con lui. Spero d'incontrarlo, d'imbattermi in lui durante un'indagine, passando per un corridoio. Un'intonazione di voce in un ufficio, una silhouette in fondo a una sala di tribunale, e credo sia lui, mi precipito... e resto deluso. Tuttavia, non voglio cercarlo. Mi affido al nostro percorso comune: camminiamo sulla stessa strada. Finiremo per rivederci. Di tanto in tanto, un'altra figura del passato mi tira fuori dalla melma quotidiana. Mia madre. Con l'età, e la scomparsa del marito, si è riavvicinata a me. Nei limiti del ragionevole: pranziamo insieme una volta alla settimana, in una sala da tè della Rive Gauche. «E il lavoro, come va?» chiede titillando il suo cheesecake. Penso al pervertito che ho sbattuto dentro il giorno prima, accusato di violenze su un adolescente, un malato che inzuppa il pane nei vespasiani della Gare de l'Est. O al piromane trovato morto quella stessa mattina, schiattato per un'emorragia interna dopo essersi fatto sodomizzare dal suo doberman. Bevo il tè, il dito alzato, e rispondo laconicamente: «Tutto bene». Poi la interrogo sui nuovi lavori di sistemazione della sua casa di campagna, a Rambouillet, e tutto è in ordine. L'inferno si consuma così, a fuoco lento. Fino al mese di dicembre del 2000. Fino alla faccenda dei Lilas. 14 A volte, un fiasco è meglio di una vittoria. Un fallimento è più benefico, più ricco d'insegnamenti di un trionfo. Così, quando accolgo la testimonianza di Brigitte Oppitz in Coralin, non m'immagino neanche alla lontana che qualche ora più tardi scoprirò un vero macello. Così come non ho l'ombra di un sospetto che questa operazione mancata mi varrà, oltre a dei rimorsi eterni, la mia promozione alla Criminale.
12 dicembre 2000. La nostra squadra entra in azione in seguito a una denuncia sporta dalla moglie di Jean-Pierre Coralin. La donna accusa il marito di farla prostituire nel domicilio coniugale, dove deve subire delle pratiche sadiche. Il rapporto del medico conferma: vagina escoriata, bruciature di sigarette, segni di flagellazione, infezione anale. Secondo la sua testimonianza, questi maltrattamenti non sono altro che una goccia nell'oceano. In realtà, suo marito rifornisce una clientela diversa, attratta unicamente dai bambini. In quattro anni ha rapito sei ragazzine nel campo nomadi; dopo averle sfruttate, le lascia morire di fame. Attualmente, due di loro sono ancora vive nella loro villetta ai Lilas, dove ogni notte subiscono gli assalti dei pedofili. Prendo nota della denuncia e decido d'intraprendere un'operazione in solitaria, con la mia squadra. A trentatré anni, organizzo la mia prima irruzione. Alle due del mattino circondiamo la villetta in rue du Tapis-Vert, ai Lilas, ma non troviamo nessuno se non la figlia dei Coralin, Ingrid, dieci anni, addormentata in salotto. I genitori sono in cantina, si sono fatti saltare le cervella dopo avere ammazzato le due prigioniere. Nel giro di poche ore la donna aveva cambiato idea e avvertito il marito. Esco dalla villetta in stato di shock. Mi accendo una sigaretta nell'aria gelida, illuminata dai lampeggiatori delle ambulanze e dei furgoni parcheggiati a spina di pesce. Attorno a noi le villette si sono svegliate. Vicini sulla soglia di casa, in vestaglia. Un agente in uniforme porta via la piccola Ingrid. Un altro viene verso di me: «Capo, c'è la Criminale». «Chi li ha avvertiti?» «Non so. Il responsabile l'aspetta. La Peugeot grigia, in fondo alla strada.» Frastornato, cammino fino alla vettura, pronto a incassare la prima lavata di capo di una lunga serie. Giunto all'altezza della Peugeot, il vetro dalla parte del guidatore si abbassa: all'interno c'è Luc Soubeyras, imbacuccato in un parka. «Soddisfatto?» Non trovo la forza di rispondere. La sorpresa mi mozza il respiro. Luc non è cambiato di un pelo. Occhiali dalla montatura sottile, ossa a fior di pelle, lentiggini. Solo qualche ruga attorno agli occhi tradisce il passare degli anni.
«Vieni», mi dice. «Facciamo un giro.» Butto la sigaretta e salgo in macchina. Odore di fumo, di caffè freddo, di sudore e di urina. Chiudo la portiera e ritrovo la voce: «Che cazzo ci fai qui?». «Ci hanno chiamati.» «Palle. Nessuno era al corrente.» Luc concede un sorriso. «Ti tenevo d'occhio da un po'. Sapevo che lavoravi su un colpo grosso.» «Mi sorvegli?» Luc tiene gli occhi fissi sulla strada. Alcuni lettighieri entrano nella casa spingendo delle barelle. Poliziotti in cerata nera delimitano il perimetro di sicurezza, facendo allontanare i vicini strappati al sonno. «Com'è all'interno?» Accendo un'altra Camel. «Atroce», dico dopo il primo tiro. «Un mattatoio.» «Non potevi prevederlo.» «E invece sì. La donna ci ha fregati. Non ho...» «Non hai capito cosa c'era sotto, tutto qua.» «Cioè?» «Brigitte Coralin non è venuta a parlarti perché era in preda ai rimorsi, o perché voleva salvare le ragazzine. Ha agito per gelosia. Amava quel bastardo. L'amava quando la torturava, quando le infilava delle sigarette nella fica. Ed era gelosa delle ragazzine. Delle loro sofferenze.» «Gelosa...» Luc prende una Gitane. «Già, amico mio. Hai sottostimato il cerchio del male. Sempre più ampio, più vasto di quanto si creda. Brigitte Coralin avrebbe ucciso persino sua figlia se suo marito l'avesse guardata con troppa attenzione.» Butta fuori una nuvola di fumo, con calma, con cinismo, e aggiunge: «Avresti dovuto trattenerla in stato di fermo». «Sei venuto a farmi la lezione?» Luc non risponde. Un sorriso gli gela le labbra. Arrivano gli uomini della Scientifica, nella loro tuta bianca. «Non ti ho mai perso d'occhio, Mat. Abbiamo seguito la stessa strada. Vukovar per me, Kigali per te. La Giudiziaria per me, la Buoncostume per te.» «Quale Giudiziaria?» «Louis-Blanc.»
La Divisione di polizia giudiziaria di Louis-Blanc copre gli arrondissement più caldi di Parigi: XVIII, XIX, X. La scuola dei duri. «La stessa strada, Mat. Per giungere allo stesso obiettivo. La Criminale.» «Chi ti dice che io voglia entrare nella Criminale?» «Loro.» Luc addita le bambine morte che gli infermieri trasportano fino all'ambulanza. I teli argentati sbattono lungo le barelle, lasciando intravedere i corpi. Luc mormora: «"Sono vivo senza vivere in me / E il mio desiderio è così potente / Che muoio di non morire"... Ricordi?». Il chiostro di Saint-Michel. L'odore di erba tagliata dei giardini. La scatola di ferro con dentro i mozziconi. San Giovanni della Croce. L'essenza dell'esperienza mistica. Il poeta rimpiange di non essere morto per potere finalmente intravedere la grandezza del regno di Dio. Ma c'è un'altra lettura possibile di questi versi. Ne parlavamo spesso Luc e io. La morte necessaria al vero cristiano. Distruggere in sé colui che vive senza Dio. Morire di fronte a sé stessi, agli altri e a ogni valore materiale, fino a rinascere nella Memoria Dei... «Muoio di non morire», sant'Agostino aveva già pronunciato questa verità quattro secoli prima. «C'è anche un'altra morte», aggiunge Luc come per telepatia. «Tu e io abbiamo lasciato alle spalle il materialismo per vivere nel solco di Dio. Ma questa vita spirituale è un nuovo conforto. Adesso è tempo di lasciare questa fede rassicurante. Dobbiamo morire ancora una volta, Mat. Uccidere il cristiano che è in noi per diventare poliziotti. Sporcarci le mani. Braccare il diavolo. Combatterlo. Capirlo. A rischio di dimenticare Dio.» «E questa battaglia passa per la Criminale?» «I delitti di sangue: è l'unica strada. Ci stai o no? Vuoi staccarti sul serio da te stesso?» Non so cosa rispondere. Dopo il sesso e le sue devianze, il cerchio di sangue è la tappa che ho sempre contemplato. Ma non voglio essere pilotato da un altro. Luc tende la mano verso i fasci azzurri che lampeggiano come stroboscopi. «Stanotte ti sei messo in gioco. E non devi rimpiangere niente. Bisogna correre dei rischi. I veri crociati hanno le mani macchiate di sangue.» Finisco per sorridere di fronte a questo sermone magniloquente. «Chiederò l'assegnazione.» Luc cava di tasca un fascio di carte. «Eccola qua. Firmata dal prefetto. Benvenuto nel mio gruppo.» Me ne esco in una risata nervosa. «Quando si comincia?»
«Lunedì. Trentatré anni: l'età giusta per rinascere!» Il capodanno del 2000 sigillò la nostra associazione. Seguirono dodici mesi di perfetta efficienza. Il nostro gruppo, che contava otto ufficiali di polizia, era soprattutto un tandem. Le nostre strategie differivano e si completavano. Io facevo la parte del Padre Rigore, chiedendo un'incriminazione solo quando avevo in mano degli elementi a prova di bomba, ricorrendo alle perquisizioni quando sapevo già cosa cercavo. Luc correva dei rischi e usava ogni sorta di metodi per confondere i sospetti. Minacce, violenza, e teatro. Le sue tecniche preferite: simulare un compleanno negli uffici del Quai per ammorbidire un tizio in stato di fermo; recitare la parte del pazzoide incontrollabile per terrorizzare qualcuno sotto interrogatorio; bluffare sulle prove di cui disponeva fino al punto di spedire il sospettato al carcere della Santé e farlo confessare durante il tragitto. Io ero un camaleonte, discreto, preciso. Luc era un attore, un istrione, sempre calato nel ruolo dello sbruffone. Mentiva, manipolava, colpiva e tirava fuori la verità. Godeva di questa situazione che dava ragione al suo cinismo. Per riuscire, era sempre disposto a tradire la propria dottrina, usare le armi del nemico, diventare un demone per il demone! Amava questo ruolo di martire costretto a corrompersi per servire il proprio Dio. Da parte mia, non avevo più illusioni. I miei pudori di cattolico erano scomparsi già da un pezzo. Impossibile rimestare nella merda senza esserne inzaccherati. Impossibile ottenere una confessione senza diventare violento o falso. Ma la mia linea di condotta non era mai adottata a cuor leggero: questi metodi non erano prioritari per me, e quando dovevo servirmene mi sentivo sempre rimordere la coscienza. Avevamo trovato un equilibrio fra queste due diverse posizioni. E la bilancia era tarata al milligrammo, grazie all'amicizia. Ci ritrovavamo, da adulti, come ci eravamo scoperti da adolescenti. Lo stesso senso dell'umorismo, la stessa passione per il lavoro, lo stesso fervore religioso. I colleghi finivano per apprezzarlo. Bisognava sopportare le bizzarrie di Luc, i suoi picchi di adrenalina, le sue zone d'ombra, il suo strano modo di esprimersi. Parlava con la stessa disinvoltura sia dell'influenza del diavolo o del regno del demonio, che del tasso di criminalità o della curva dei delitti. Gli capitava anche di pregare ad alta voce, nel pieno di un intervento, e spesso l'impressione era quella di lavorare con un esorcista. Quanto a me, non ero certo da meno, con la mia avversione per i rumori metallici, la mia allergia alla radio e la mia dieta a base di riso e tè verde, in un mondo in cui gli uomini mangiano pesante e bevono forte.
Facemmo scintille. In un anno, più di trenta arresti. Una battuta circolava nei corridoi del Quai: «La criminalità aumenta? No: i bigotti si sono rimboccati le maniche!». Ci piaceva questo soprannome. Ci piaceva la nostra immagine, diversa e fuori moda. Ci piaceva, soprattutto, fare squadra. Anche se sapevamo che, prima o poi, il prezzo del successo sarebbe stato, giustamente, la separazione. Inizio del 2002. Luc Soubeyras e Mathieu Durey sono ufficialmente promossi comandanti. Luc alla Squadra degli Stups, io alla Criminale. Sulla carta, maggiori responsabilità e uno stipendio più elevato. Sul campo, a ciascuno il suo gruppo d'indagine. Appena il tempo di dirsi arrivederci, subito risucchiati dalle inchieste in corso. Ci promettemmo tuttavia di continuare a trascorrere insieme la pausa pranzo e di passare dei bei momenti a Vernay, durante il weekend. Tre mesi dopo ci incrociavamo nel cortile del Quai senza vederci. 15 «Li prendo io i biscotti.» Quando aprii gli occhi mi risuonava ancora nella testa la risata di Luc al Soleil d'Or, la brasserie più vicina al Quai. Sbattei le palpebre e mi ritrovai davanti il medico giapponese dell'Unità 731, occupato a eseguire la sua vivisezione. La foto era lì, sulla scrivania. «Mamma, lo faccio io!» A che ora mi ero addormentato? Un'occhiata all'orologio: le otto e un quarto. «Non toccare, te li do dopo!» La voce della ragazzina, dietro la parete, era coperta dal rumore dei piatti, dal tintinnio delle posate. Camille e Amandine. Una colazione familiare con ricca scelta di corn-flakes prima di andare a scuola. Mi strofinai il viso per scacciare il malessere e ritrovare la lucidità. M'inginocchiai e misi in ordine le foto, le radiografie, gli appunti e i documenti nelle loro rispettive cartelle. Risistemai tutti i fascicoli sugli scaffali, seguendo l'ordine cronologico. Quando uscii dallo studio le scolare erano nel vestibolo, con le cartelle sulla schiena. Odori di dentifricio e di cacao aleggiavano nel corridoio.
«E la mia borsa per la piscina?» «È là davanti alla porta, tesoro.» Le due ragazzine si girarono verso di me. In pochi istanti erano fra le mie braccia, chiedendo se avevo un regalo per loro. Laure le richiamò verso l'uscita. «Credevo fossi andato via.» «Scusami. Mi sono addormentato.» Abbozzai un sorriso, ma la vista di Laure, sola con le sue bambine, mi dava un groppo alla gola. Tornai nello studio, agganciai il fodero con la pistola alla cintura e m'infilai l'impermeabile. Quando tornai nel vestibolo, Laure se ne stava immobile, con le spalle contro la porta chiusa. «Vuoi un caffè?» mi chiese. «No, grazie. Sono già in ritardo.» «Non ti dimentichi, per domattina?» «Cosa?» «La messa.» La baciai, con la mia solita maldestria. «Ci sarò. Conta su di me.» Un'ora dopo filavo verso l'XI arrondissement, uscito fresco da una doccia, rasato, pettinato. Afferrai il cellulare. Foucault. «Mat, mi sento di schifo.» «Coraggio, amico. Hai fatto il tuo dovere!» «Ti assicuro, sono a pezzi.» «Ti ricordi almeno di Larfaoui?» «Il caso di Luc?» «Hai un bel po' da fare. Su vari fronti. Chiama la balistica, l'obitorio, il commissariato di Aulnay, tutti quelli che potranno darti delle informazioni, tranne il giudice e gli Stups. Trovami anche il fascicolo del cabilo.» «C'è altro?» «Sì. Voglio che contatti l'SNCF. Luc è andato a Besançon il 7 luglio scorso. Verifica se non ci sia andato altre volte intorno a questa data. Controlla anche gli aeroporti. In questi ultimi mesi Luc si è mosso parecchio.» «OK.» «Chiama anche l'Hôtel-Dieu. Il servizio che esamina i nostri ragazzi ogni anno. Cerca di sapere se Luc non avesse problemi di salute .» «Hai una pista?» «Troppo presto per dirlo. Prendi anche nota di questo sito Internet: www.unital6.com.»
«Cos'è?» «Un'associazione italiana che organizza pellegrinaggi. Cerca tutte le informazioni possibili.» «In italiano?» «Arrangiati. Voglio la lista dei pellegrinaggi, dei seminari di quest'anno, di tutte le loro altre attività. Voglio il loro organigramma, lo statuto legale, le risorse finanziarie, tutto. Dopodiché, li contatti.» «In inglese?» Soffocai un sospiro. La polizia europea non era alle porte. «A questa gente Luc ha inviato almeno tre email, poco prima di buttarsi nel fiume. Le ha cancellate. Cerca di recuperarle dalla loro posta.» «Carburerò ad aspirina.» «Carbura come ti pare. Portami notizie a mezzogiorno.» Direzione La Grappe d'Or, grande brasserie in rue Oberkampf, gestita da due fratelli, Saïd e Momo, un tempo miei informatori. Perfetti per farmi un quadro dell'ambiente. Mi preparavo a mettere in funzione il lampeggiatore perché si erano formati degli ingorghi, quando squillò il cellulare. «Mat? Malaspey.» «A che punto sei?» «Ho messo le grinfie su un esperto di numismatica. Ha identificato la medaglia.» «Cosa dice?» «L'oggetto in sé non ha alcun valore. È la riproduzione di una medaglia di bronzo fusa all'inizio del XIII secolo a Venezia. Ho il nome della bottega che...» «Lascia perdere. A cosa serviva?» «Secondo il tizio era un feticcio. Un arnese che proteggeva dal diavolo. I monaci amanuensi se la portavano addosso. Vivevano nel terrore del demonio. Erano nevrotici, ossessionati dalla vita di sant'Antonio e...» «Conosco la storia. Sai da dove proviene la riproduzione?» «Non ancora. Il tipo mi ha dato qualche suggerimento. Ma si tratta solo di un arnese senza...» «Richiamami quando avrai scoperto qualcos'altro.» All'ultimo momento, pensai all'assassinio della gioielliera di Le Perreux. «E contatta gli sbirri di Créteil, per vedere se hanno novità sugli zingari.» Riattaccai. Dunque avevo visto giusto. Luc aveva arraffato un talismano prima di gettarsi nel fiume. Un oggetto dal valore semplicemente simbolico che lo proteggeva contro Satana. In che razza di contraddizione doveva
trovarsi, se temeva al tempo stesso sia la vita che la morte? Rue Oberkampf. Parcheggiai a cento metri dalla brasserie. I rumori della circolazione si alleavano ai gas tossici per peggiorare il mio cerchio alla testa. Accesi un'altra cicca, sempre a digiuno. Mi tirai su il collo dell'impermeabile e mi calai nei panni del poliziotto. Ma anche nei panni di qualcun altro: il tipo stremato dopo una notte passata in bianco, che ha familiarità con le osterie, che è capace di farsi un calvados di buon mattino. Le dieci. La brasserie era deserta. Mi accomodai su uno sgabello all'estremità del banco. Poco più il là, alcuni tizi si facevano un bicchiere senza fretta. Degli studenti erano seduti a un tavolino, durante una pausa dalle lezioni. Proprio un'ora di calma. Mi rilassai. I fratelli avevano rifatto l'arredo. Finto legno, finto rame, finto marmo: i soli elementi autentici erano la puzza di acquavite e il tanfo di tabacco stantio. Respiravo anche un altro odore, passeggero: birra e muffa. La botola della cantina era aperta, sulla destra. Facevano rifornimento. Momo si materializzò all'altra estremità del banco, reggendo una bracciata di baguette. L'osservai senza manifestare la mia presenza. Una montagna d'argilla in canottiera bianca, una faccia grossolana sotto una zazzera crespa, segnata da due folte sopracciglia e da un mento tagliato con l'accetta. Era l'ombra brutale e colossale del fratello più giovane, Saïd, esile e vizioso. Non avrei saputo dire quale fosse più pericoloso, ma il tandem era da prendere con le pinze. Nel '96, dei commando del GIA avevano attaccato il loro villaggio natale. Si raccontava che i due fratelli fossero tornati a casa: avevano rintracciato gli assassini, evirato i capi e fatto mangiare i loro organi agli altri. Con questo ricordo in testa mi dissi: "Sta' in campana, Mat". Intanto Momo mi aveva visto: «Durey!» esclamò con un sorriso che gli fece ondeggiare il mento. «È un sacco di tempo.» «Mi fai un caffè?» chiesi. Obbedì. Fra i getti di vapore sembrava un sommergibilista in sala macchine. «Com'è che non è al lavoro a quest'ora?» domandò facendo scivolare sul banco una tazza bavosa. «Ho finito adesso. Pieni i coglioni di fare gli straordinari.» Momo spinse verso di me la zuccheriera e piantò i gomiti sul banco. «I suoi capi la scocciano?» «Me lo ficcano in culo, vorrai dire! Riesco a malapena a sedermi.» «Faccia come noi, si metta per conto proprio! Può fare il detective priva-
to.» Se ne uscì in una grassa risata: l'idea gli sembrava buona. «Si ha sempre un padrone, Momo. Tu, per esempio, hai i grossisti di birra.» Lui mise il muso: «I grossisti non dettano legge. Siamo noi a decidere di tutto». «Non farmi ridere. Larfaoui vi tiene per i coglioni.» Momo fece la faccia del portiere che non ha visto partire il colpo. Tirai fuori una Camel e la picchiettai sul banco. Poi affondai il coltello: «Non è lui quello che vi rifornisce?». «Larfaoui è morto.» Accesi la sigaretta e sollevai la tazza. «Pace all'anima sua. Che cosa puoi dirmi al riguardo?» «Niente.» «Il mondo sarebbe più semplice se la gente fosse più chiacchierona. Per esempio, qualcuno mi ha detto che avevate aperto un nuovo bar a Bastille.» «E allora?» Teneva lo sguardo inchiodato sulla botola aperta. Saïd era là sotto. Dovevo fare in fretta, prima che risalisse il fratello sveglio. Cambiai registro: «Ho ancora degli amici al Servizio Igiene. Potrebbero venirvi a trovare. L'igiene, la salute, le licenze...». Momo si sporse verso di me, sprigionando un odore bizzarro, una miscela di sudore e incenso. «Non so da quale film lei salti fuori, ma gli sbirri non fanno più queste cose oggi.» «Larfaoui, Momo. Fammi un riassunto e levo le tende.» A guisa di risposta, un rumore di motore. L'arco del montacarichi emerse dalla botola. Apparve Saïd, in piedi sulla passerella, un vero ammiraglio fra i suoi barili di metallo. Maledizione. «Salve, capitano. Sono contento di vederla.» Abbozzai un sorriso, per l'ennesima volta colpito dal contrasto con il fratello. Momo era il blocco non scolpito, Saïd il pezzo compiuto. Il viso era affilato sotto i folti capelli neri lisci. I suoi lineamenti suggerivano una gamma di sentimenti contrastanti: dolcezza, disprezzo, rispetto, crudeltà... Tutto ciò oscillava in fondo ai suoi occhi a mandorla, sulla punta delle labbra carnose, sensuali. Scavalcò i barili e venne a sedersi sullo sgabello accanto. La festa era finita.
«Le faccio le mie condoglianze.» Chinai la testa, passandomi nervosamente la mano sui riccioli. Saïd era già al corrente di quanto era successo a Luc, doveva avere fatto il collegamento con l'indagine Larfaoui. Fece un segno discreto al fratello, che gli servì un caffè. «Noialtri volevamo bene al capitano Soubeyras.» La sua voce acuta era come il resto, melliflua, sprezzante. E il suo accento rotondo e ondeggiante, come se parlasse con una manciata di olive in bocca. «Luc non è morto, Saïd. Non parlarne al passato. Può svegliarsi da un giorno all'altro.» «Lo speriamo tutti, capitano. Glielo giuro.» Saïd mise lo zucchero nella tazza. Portava una giacca militare e una quantità di roba d'oro: catena, bracciale, anelli. «Capisco la sua tristezza. Ma noi non sappiamo niente. E non saranno le sue domande a far tornare il capitano.» «Stai tranquillo, Saïd. Non faccio che riprendere le sue inchieste in corso.» «Non è più alla Criminale?» Sorrisi e pescai un'altra sigaretta dal pacchetto. Decisamente più scafato del fratello. «Do una mano a un amico. Cosa puoi dirmi sul caso Larfaoui?» Saïd fece un risolino. Non guardava mai in faccia l'interlocutore. Abbassava gli occhi, battendo rapidamente le palpebre, oppure guardava di lato, come se riflettesse intensamente. Ma era tutta una messinscena: le sue risposte, Saïd le conosceva prima di avere ascoltato le domande. E intanto non aveva ancora risposto alla mia. «Luc è venuto a interrogarvi su questo omicidio, sì o no?» «Certo. Conosciamo bene il quartiere. La gente, chi va, chi viene, questo sì. Ma in quel caso non sapevamo niente. Glielo giuro, capitano. La morte di Massine è un puro mistero.» Rivolsi un gesto esplicito a Momo per avere un altro caffè. Saïd cominciava a darmi sui nervi con il suo tono untuoso. Più era gentile, più aveva l'aria di prendermi per i fondelli. Lo guardai dritto negli occhi, la migliore strategia era non averne nessuna: la franchezza. «Ascoltami, Saïd», dissi. «Luc è il mio migliore amico, d'accordo?» Saïd girava lentamente il cucchiaio nella tazza, in silenzio. «Nessuno si aspettava questa... disgrazia. Soprattutto io. Allora, voglio
sapere perché l'ha fatto. In che situazione era, dentro di sé, nel lavoro. Ricevuto?» «Perfettamente, capitano.» «Indagava da solo su Larfaoui e il dossier aveva l'aria di ossessionarlo. Quello che penso è che abbia trovato qualcosa in quel merdaio. Un qualcosa che ha giocato un ruolo nella sua depressione. Allora, spremiti le meningi e dammi un'informazione!» Avevo quasi urlato. Diedi un colpo di tosse e ritrovai la calma. Imperturbabile, Saïd negò di nuovo scuotendo il caschetto di capelli lisci. «Non so niente di questa storia.» «Larfaoui non aveva casini con gli altri grossisti?» «Mai sentito parlare di roba del genere.» «E con il gestore di qualche bar? Un tizio indebitato che voleva vendicarsi?» «Non è così che succede qui da voi, lei lo sa bene.» Saïd aveva ragione. Larfaoui era stato fatto fuori da un professionista. Il padrone di una bettola non avrebbe mai fatto ricorso a un killer di mestiere. «Larfaoui non era soltanto un grossista. Faceva il trafficante.» «Quanto a questo non posso aiutarla. Noi non abbiamo a che fare con la droga.» Cambiai strategia. «Quando Luc è venuto a interrogarvi, aveva già un'idea sull'omicidio?» «Difficile dirlo.» «Prova comunque a rifletterci.» Lanciò il suo famoso sguardo obliquo, simulando la riflessione, poi parlò: «È venuto due volte. Una prima volta in settembre, quando Larfaoui si è fatto stendere. Poi all'inizio del mese. Era completamente nel pallone». «Non venirmi a dire che si è confidato con te.» «Cinque vodka in meno di mezz'ora sono di per sé una confidenza.» Luc aveva sempre avuto un debole per la bottiglia. Non ero sorpreso che negli ultimi tempi ci avesse dato un po' dentro. Saïd si avvicinò. Sempre con i gomiti sul banco, si trovava ormai a pochissimi centimetri da me. A sua volta, rinunciava a qualsiasi strategia: «Secondo me sulla faccenda di Massine lei può andare più lontano del capitano». «Perché?» «Perché lei è un vero credente.» «Anche Luc era un cristiano.»
«No. Non era più un vero praticante.» Buttai giù il caffè, provando un bruciore allo stomaco. «Dove vuoi andare a parare?» «Anche Larfaoui era molto religioso.» «E allora?» «Pensi alla sera dell'omicidio.» «Il 7 settembre.» «Che giorno della settimana?» «Non ne ho idea.» «Un sabato. Cosa fa un musulmano il sabato?» Riflettei. Non capivo dove Saïd volesse arrivare. «Fa festa», continuò. «Dopo un venerdì di preghiere, un vero credente si rilassa. La carne è debole, come dite in Francia...» «Vuoi dire che quella sera se la spassava con una donna?» «Larfaoui aveva le sue piccole abitudini. La sua famiglia era in Algeria.» «Aveva un'amante?» «Non un'amante. Delle puttane.» Feci due più due. Larfaoui era stato ammazzato in casa sua verso le undici. Con ogni probabilità, non era solo. Nessuno aveva parlato di testimoni, né di un secondo cadavere. Una ragazza era riuscita a scappare, e aveva visto tutto. «La ragazza, la conosci?» «No.» «Non fare l'idiota con me.» «Creda a me», disse sorridendo. «Lei ha i mezzi per ritrovarla.» Pensai alla mia esperienza alla Buoncostume. Conoscevo tutti i canali. Ma cercare una prostituta senza conoscere le preferenze del suo cliente era come cercare un bossolo dopo un assalto degli Hezbollah. «I suoi gusti... Cos'è che gli piaceva?» «Cerchi, capitano. Sono sicuro che sa cavarsela.» Un ricordo vago mi attraversava la mente, senza definirsi. «Ne hai parlato a Luc?» «No. Lui non cercava esaminando le circostanze, ma i moventi. Aveva l'aria di credere a un regolamento di conti. Un problema... Un problema collegato alla polizia. Una faccenda interna...» «Te l'ha detto lui?» «Non mi ha detto niente, ma era nervoso. Molto nervoso.» Il sospetto di corruzione, di nuovo. Mi alzai.
«Forse verranno dei tizi. Dell'ufficio.» «I Bœufs?» «A loro non dici niente.» «Chi non vede non sente, come si dice in Francia!» Mi diressi verso la porta a vetri. La brasserie cominciava a riempirsi: era l'ora dell'aperitivo. Mi girai verso Saïd: «Un'ultima cosa: Larfaoui non era per caso coinvolto in storie di satanismo?». «Cosa?» «La gente che venera il diavolo.» Fece un'altra delle sue risatine. «Noi i nostri demoni li abbiamo lasciati a casa.» «Chi sono i vostri demoni?» «I Ginn, gli spiriti del deserto.» «Larfaoui s'interessava a questa roba?» «Qui nessuno s'interessa ai Ginn. Non hanno attraversato la frontiera, capitano. Fortunatamente per Sarko!» 16 Visitai altri due proprietari di bar e un grossista amico di Larfaoui. Non venni a sapere niente di più, né sull'omicidio del cabilo, né sulla sua eventuale compagna di quella notte. Dopo una breve sosta in una rosticceria cinese per buttar giù una porzione di riso passai all'istituto medico-legale per lasciare a Svendsen le lastre che avevo preso nello studio di Luc: volevo sapere a quali malattie del cervello si riferivano. Infine, ritorno all'ovile. Mi ero appena seduto quando squillò il telefono fisso. Foucault, ricaricato come una batteria. «Non rispondi mai al cellulare?» «Ascolto i messaggi.» «Figurarsi. Ho novità sull'omicidio Larfaoui.» «Dimmi.» «Ho parlato con uno della balistica. Si ricorda di tre proiettili. L'ipotesi dell'esecuzione trova conferma.» «Perché?» «Secondo il mio contatto, l'arma usata è una MPKS.» L'MPKS era una pistola mitragliatrice in dotazione alle truppe commando francesi. Mi ci ero già imbattuto durante gli stage di balistica. La maggioranza dei modelli sono in polimero per eludere i radar. Un'arma del ge-
nere implicava che il killer di Larfaoui fosse un militare d'élite. «Cos'altro ti ha detto?» «Il tizio ha usato un silenziatore. I tre proiettili presentavano delle striature significative. Ma c'è qualcosa di più interessante. Il mio tecnico ha calcolato la velocità delle pallottole basandosi sul loro punto d'impatto. Non chiedermi come ha fatto, non ci ho capito niente. Secondo lui la velocità era subsonica. La pallottola ha viaggiato meno veloce del suono. Ora, l'MPKS è supersonica. Raggiunge il bersaglio prima che si senta la detonazione.» «Neanch'io ci capisco niente.» «Significa che l'omicida ha manomesso l'arma per ridurre la velocità!» «Perché?» «Un'astuzia da professionista. Per non rovinare la pistola. Alla lunga, l'onda supersonica deteriora la canna, e soprattutto il silenziatore. Il nostro amico coccola il suo gingillo. Sembra che sia un trucco corrente presso i soldati, i parà, i mercenari. Secondo il mio specialista, deve essere stato per forza un militare, o un esperto, a fare il colpo.» Perché qualcuno aveva ingaggiato un professionista per eliminare un grossista di bibite? Mentre l'ascoltavo mi accorsi che mi aveva già messo sulla scrivania il fascicolo della prefettura su Larfaoui. Aprii la cartella e mi trovai davanti una foto recente della vittima: un grosso cabilo dall'aria accigliata, mal rasato, i capelli imbrillantinati. C'erano poi dei fogli: la fedina perfettamente pulita del tizio, che aveva flirtato più volte con la polizia giudiziaria. Tornai a concentrarmi su Foucault. «Hai indagato su Besançon?» «Luc ci è andato cinque volte. Ti farò avere le date.» «Altri viaggi?» «Catania, in Sicilia, 17 agosto scorso. Cracovia, 22 settembre. Non ero convinto, ma l'idea di una scappatella prendeva punti. Forse Luc andava dietro alla sua innamorata.» Non ci credevo. Luc non poteva avere un'amante. «E le altre informazioni? Gli estratti conto, le bollette del telefono?» «Li avrò stasera, domattina al più tardi.» «Il referto medico di Luc?» «Ho parlato a un dottore. Stava d'incanto.» «Il profilo psicologico?» «Quello possiamo scordarcelo.» Passai a un altro argomento: «E l'Unital6?».
«È tutto in regola. Organizzano viaggi a Lourdes per gli handicappati, ritiri in vari monasteri in giro per l'Italia, a volte in Francia. Tengono anche convegni.» «Ne è previsto uno sul diavolo.» «Già, in novembre.» «Potresti procurarmi l'elenco dei relatori, dei temi trattati ecc.?» «D'accordo.» «E come si finanziano?» «I pellegrini fanno delle donazioni. Sembra che sia sufficiente.» «E le email?» «Ho parlato al segretario. Giura di non avere ricevuto niente.» «Mente. Luc ha inviato loro almeno tre messaggi. Il 18 e il 20 ottobre.» «Quel tizio non ne sa niente.» «Cerca ancora.» Mi congratulai con Foucault per il lavoro svolto. «Mat», disse, «ho dei problemi con i Bœufs.» «Lo so. Ti hanno contattato?» «Peggio, convocato. Condenceau e un altro tizio.» «Cosa gli hai detto?» «Ho tentato di farli abboccare. Ho detto che Luc lavorava con noi a un caso, che non aveva fatto in tempo a passarci tutte le sue informazioni.» «Cos'hanno detto?» «Si sono sbellicati dalle risate. Ci staranno continuamente alle costole, è sicuro.» «Dumayet ci copre per quarantott'ore, contando da ieri.» «Un po' pochino.» «Ragione di più per muovere le chiappe.» M'immersi nel fascicolo Larfaoui. La memoria mi si rinfrescò fin dalle prime righe. Mi ero già imbattuto in quell'individuo: Larfaoui, Massine Mohamed. Nato il 24 febbraio 1944 a Oran. Troppo giovane per aver fatto il servizio militare durante le «operazioni francesi di mantenimento dell'ordine» in Algeria ma abbastanza vecchio per entrare nelle fila del Fronte di liberazione nazionale. Fortemente sospettato di avere piazzato delle bombe ad Algeri. Dieci anni dopo, con i soldi dell'eredità - i genitori facevano i droghieri - apre un bar a Tamanrasset, alle porte del Sahara. Nel 1977 attraversa il deserto e mette su un albergo-ristorante ad Agadez, in Niger. Anni prosperosi. Il cabilo possiede qualcosa come otto caffè o alberghi nell'Africa nera, con una zona d'influenza che si estende fino a
Brazzaville e Kinshasa... Conoscevo questi dati, ma adesso mi tornavano in mente con precisione. A Parigi, anche quando era diventato uno dei grossisti di bibite più importanti, Larfaoui era ancora soprannominato «l'Africano», ed era conosciuto per il suo gusto per le africane. Gli veniva duro solo davanti a un bel culo nero. Ecco quello che mi aveva suggerito Saïd. Una puttana, sì, ma una puttana di pelle nera. «Lei ha i mezzi per ritrovarla», aveva detto la faina. Allusione diretta alla mia conoscenza dell'ambiente africano e della sua rete di prostituzione. Le sei del pomeriggio. Inutile usare il telefono per tuffarsi in quella giungla. E accostarvisi in pieno giorno era fuori questione. Bisognava aspettare che facesse buio. Anzi, notte fonda. Chiamai Malaspey. «Su Le Perreux, a che punto sei?» «Hai intuito giusto. Agli zingari gli si è sciolta la lingua. Negli accampamenti di Grigny e di Champigny c'è un nome che ricorre: un rumeno, un gitano dell'etnia Kalderash. Un malato, pare. Violento, paranoico, mistico. I ragazzi di Créteil ne stanno verificando l'alibi.» «Ottimo. Chiama Meyer e raccontagli tutto. Digli di redigere un bel rapporto. Lo voglio domattina sulla scrivania di Dumayet.» «Ha una famiglia, ricordi?» «È un'emergenza. E la medaglia?» «Una riproduzione standard. Roba da poco. Fabbricata in serie da un laboratorio del Vercors e...» «Voglio una nota completa per domani.» «Mat...» «Cosa? Vuoi ricordarmi che hai una famiglia anche tu?» «No, ma...» «Allora, al lavoro.» Staccai il cellulare, disinserii la linea fissa, chiusi a chiave la porta dell'ufficio. Inclinai al massimo la poltrona, presi l'impermeabile come coperta e spensi la luce. Regolai la sveglia dell'orologio da polso sulla mezzanotte. L'ora giusta per attaccare il continente nero. 17 La notte africana. Era come una seconda notte, diversa dalle tenebre parigine. Una terra confusa di cui si potevano captare in lontananza i bracieri
smorzati, il rumore sordo. Un regno segreto, ritmato dalla musica e profumato al rhum, che scoprivi attraverso le porte socchiuse dei locali notturni, negozi di alimentari dietro la cui facciata si celavano bar clandestini... scale che si aprivano su cantine ristrutturate... Conoscevo quelle luci. Dalle più sfolgoranti alle semplici lampade a petrolio, alle porte di Parigi o nella periferia nord. Dai tempi della Buoncostume mi ero fatto una lunga pratica di quei luoghi di ritrovo che oltre alla musica e all'alcol offrivano sempre amore a pagamento. Cominciai il mio giro dalla Rive Gauche. A Saint-Germain-des-Prés si trovava il must della prostituzione africana. Il Ruby's, in rue Dauphine. Il locale che preferivo, per la sua intimità, la sua nonchalance, la sua inattesa collocazione: una porta rosso scuro, alla cinese, in fondo a un cortile lastricato seicentesco, in pieno quartiere letterario. Vi ritrovai delle vecchie conoscenze: portieri e frequentatori abituali. Mi trattenni per qualche minuto nell'ingresso, il territorio dei maschi neri, essendo il bar, la pista da ballo e i divani riservati alle donne e ai clienti delle prostitute: i bianchi. Poi lasciai quella fauna e sgusciai verso il guardaroba, alla ricerca di Cocotte. Cocotte era una zairese che avevo sempre visto dietro il suo banco. Una figura ineludibile dell'«Africa by night». «Sono contenta di vederti, Fiammifero! Come vanno gli amori?» «Fiammifero» era il mio soprannome presso i Black. «Calma piatta. E tu? E Mister Muscolo?» «Non parlarmene! Stavolta lo pianto! LO PIANTO! Lui e il suo pisellino!» Risate. Cocotte aveva un compagno culturista che abusava di prodotti dopanti, androgeni che gli distruggevano la spermatogenesi e lo rendevano sterile. Cocotte s'imbestialiva a vedere quella montagna di muscoli rimpinzarsi di testosterone, lei che non sognava altro che avere dei rampolli... «Come mai da queste parti, tesoro?» «Cerco Claude.» «Non lo troverai qui. Ha litigato con il padrone. Piuttosto, va' al Keur Samba.» Claude era uno dei miei ex informatori. Un ivoriano che, senza essere un vero e proprio magnaccia, era diventato un consigliere, un intermediario fra le varie etnie, le reti, i clienti danarosi. Un uomo «necessario» alla comunità. Baci sulle guance. Feci per dirigermi verso l'uscita ma cambiai idea.
"Giusto un'occhiata", pensai. Tornai sui miei passi e mi avvicinai alla sala. Nella penombra, la musica - zouc remixato - mi aggredì violenta. Rimasi impietrito. Erano là sulla pista: alte, nere, quasi immobili, si flettevano sotto l'effetto della musica. Concentrate e al tempo stesso distanti, disinvolte. Pareva percepissero ciò che nessun altro in quel momento captava: una fluidità, uno speciale languore nel ritmo, che ciascuna esprimeva in un modo tutto suo. Cerchi magici con le anche, mani protese, come un addio alla terraferma; fianchi ondeggianti, come se salissero all'assalto di una parete invisibile; colpi di reni sincopati... L'emozione mi stringeva il basso ventre. Come avevo potuto dimenticare tutto QUESTO? Me ne andai alla chetichella, senza voltarmi, fuggendo l'ombra dei miei desideri. Ripresi l'auto e mi avviai sul lungosenna. Senna nera e lenta, luci scompaginate dalle onde, impressione di risalire un altro fiume, noto solo a me, lungo il quale apparivano i pontili delle rive africane. Al Grand-Palais attraversai la Senna, direzione VIII arrondissement. Il Keur Samba. Più chic del Ruby's, ma meno familiare. Mi piaceva soprattutto la scenografia. Pareti di vetro retroilluminate, con motivi stilizzati della giungla, leoni, foglie di palma, gazzelle... Un acquario stile boudoir in gradazioni color cognac. Costeggiai il bar sfiorando creature di seta nera, alte quanto me, e raggiunsi le toilette, dove mi aspettava un'altra conoscenza. Merline stava dietro un banchetto coperto di sigarette e di scatole di preservativi. Viso affilato, sormontato da un'enorme capigliatura nera laccata, che le scendeva a ciocche sulle tempie. Non appena mi vide scoppiò in una delle sue risate stridule. «Ciao, mio bel toubab!» «Ciao, Merline.» Toubab era il termine usato nei paesi dell'Africa occidentale per designare l'uomo bianco. Cinque anni prima avevo salvato dal marciapiede questa ragazza recentemente approdata a Parigi da Bamako. All'epoca le facevano già patire la fame perché non vomitasse nel corso delle sue prime fellatio. «Non avere paura delle ragazze, avvicinati.» Salutai le donne che l'attorniavano: cinque o sei fiori di carbone lascivi, appoggiati contro le pareti di velluto viola. I loro grandi occhi neri ricordavano l'Incantatrice di serpenti di Rousseau il Doganiere. «Avevi nostalgia di me?»
«Non so come ho fatto ad aspettare così tanto.» Diede in una risata di gola che sembrava un ruggito. Ogni volta che scoppiava a ridere, i suoi denti davano l'impressione di prendere il volo. Osservai le «ragazze». Erano tutte drappeggiate di stoffe marezzate e traforate da piercing: labbra, narici, ombelico. Osservai con interesse soprattutto le loro acconciature: trecce, ciocche rossastre, cotonature anni Sessanta, alla Diana Ross... «Lascia perdere. Sono tutte troppo care per te.» «Non sono qui per quello.» «Dovresti. Ti distenderebbe. Cos'è che vuoi?» «Claude. Ho bisogno di vederlo.» «Prova all'Atlantis. Ha un debole per le Antille in questo periodo.» Salutai Merline e la sua corte. Lasciando il Keur Samba, mi resi conto di non avere incrociato nessun personaggio celebre della comunità: né musicisti, né figli di ambasciatori, né calciatori. Dov'erano tutti quella sera? L'Atlantis aveva sede in un hangar, proprio vicino al deposito delle moquette Saint-Maclou, al quai d'Austerlitz. Sotto un immenso porticato, delle barriere di ferro delimitavano l'ingresso del locale. Per entrare bisognava passare il metal detector e sottoporsi a una perquisizione corporale. Come mi vide, uno dei vigilanti, un colosso congolese soprannominato Nounours, sbraitò: «Arrivano gli sbirri!». Grassa risata. A mo' di scusa mi timbrò la mano con una sigla blu che dava diritto a una bevanda gratuita. Lo ringraziai e mi tuffai nel capannone. Dall'alta moda passavo ai grandi magazzini. L'Atlantis, il paese dove lo zouc è un oceano. La vibrazione della musica mi sollevò da terra. Diverse migliaia di metri quadrati, immersi nel buio, con tavoli e divani sparpagliati ovunque. Più che con gli occhi, mi orientai con l'istinto. Ero come il bagnante che si abbandona alla corrente. Finalmente raggiunsi il banco stracarico di bottiglie. Uno dei barman era sopravvissuto ai miei anni d'assenza. «Claude non c'è?» urlai. «Chi?» «CLAUDE!» «Deve essere da Pat. C'è una festa stasera.» Ecco perché non incontravo nessuna faccia nota. Erano tutti là. «Pat? Quale Pat?» «Il droghiere.» «A Saint-Denis?»
L'uomo fece segno di sì e si abbassò per prendere una manciata di cubetti di ghiaccio. Il suo movimento mi fece scorgere, nello specchio che avevo di fronte, una sagoma che non quadrava con l'ambiente. Un bianco, faccia livida, vestito di nero. Mi voltai: nessuno. Allucinazione? Allungai una mancia al barman e smammai. 18 Presi la périphérique a Porte de Bercy e poi, subito dopo Porte de la Chapelle, l'autostrada A1. Percorso un chilometro, scorsi le grandi pianure scintillanti della periferia. Le tre del mattino. Sulle quattro corsie soprelevate non c'era più una sola auto. Proprio in quel momento, vidi - o credetti di vedere - nel retrovisore la faccia smorta che avevo colto nello specchio dell'Atlantis. Sterzai di colpo e sbandai prima di riprendere il controllo dell'auto. Rallentai e scrutai il retrovisore: nessuno. Niente auto dietro di me. Mi tuffai sotto il ponte autostradale e presi a sinistra, seguendo l'asse d'asfalto sopra di me. Di lì a poco le villette e i grandi condomini cedettero il passo ai grandi muri dei capannoni e delle fabbriche inattive. LeroyMerlin, Gaz de France... Voltai a destra, poi di nuovo a destra. Una stradina, luci fioche, capannelli di persone davanti ai portici. Spensi i fari e avanzai traballando sulla carreggiata dissestata. Muri sgretolati, aperture tappate con tavole di legno, auto poggiate sui loro assali, niente parchimetri: la Zona, quella vera. Superai i primi gruppi di uomini: tutti neri. Al di sopra degli immobili si disegnava, come un braccio minaccioso, l'ombra dell'autostrada. C'era aria di pioggia. Parcheggiai discretamente e m'incamminai, ancora più discretamente, sentendo che stavo ormai per penetrare nel cuore del territorio nero: 100 per cento africano, 100 per cento impermeabile alle leggi francesi. M'intrufolai fra i nottambuli, superai la saracinesca della drogheria di Pat ed entrai nell'edificio successivo. Conoscevo il posto e non mostrai alcun segno di esitazione. Mi ritrovai in un cortile echeggiante di voci e risate. Sulle scale a sinistra il guardiano mi riconobbe e mi lasciò passare. Non foss'altro che per questo risparmio di tempo e di saliva, gli allungai venti euro. Infilai il corridoio e raggiunsi il retro della drogheria, chiusa da una ten-
da di conchiglie. La bottega africana meglio fornita di Parigi: manioca, sorgo, scimmia, antilope... Erano in vendita persino delle piante magiche, efficacia garantita. In una sala attigua, Pat aveva aperto una bettola: un ristorante clandestino, dove ci si lavava le mani con l'Omo e la cui aerazione lasciava francamente a desiderare. Attraversai la bottega. Dei neri conversavano, seduti su casse di Flag, la birra africana. Mi feci strada nel ristorante, stipato all'inverosimile. A giudicare dagli sguardi che mi lanciava la gente non ero il benvenuto. Avevo superato da un pezzo la zona turistica. Raggiunsi una scala. Il ritmo martellante proveniente dal seminterrato faceva tremare il pavimento. Cominciai a scendere, mentre la musica e il caldo mi salivano incontro stordendomi, lampade a griglia illuminavano i gradini. Di sotto, un cerbero in tuta mi sbarrò la strada davanti a una porta scorrevole di ferro. Mostrai il distintivo. A malincuore, l'uomo tirò a sé lo sbarramento e i miei occhi furono colpiti da un'autentica allucinazione. Un locale notturno di dimensioni ridotte, buio, vibrante, come picchiettato di luce, una pelle d'oca fosforescente su un'epidermide nera. Le pareti, di un blu malva, erano punteggiate di stelle fluorescenti; colonne sostenevano un soffitto che sembrava ora incombere ora dilatarsi. Strizzando gli occhi, vidi che lassù erano tese delle reti da pesca. Alle porte di Parigi, parecchi metri sotto terra, avevano creato un bar marinaro. Sui tavoli coperti di tovaglie a quadretti c'erano delle torce a vento. Almeno, questo è quello che credevo di indovinare, in quello spazio invaso da una marea umana che ballava sotto le reti. Pensai a una pesca miracolosa di teste nere, di boubous multicolori, di tubini satinati... M'immersi fra la folla alla ricerca di Claude. In fondo alla stanza un gruppo ancheggiava, scandendo accordi ripetitivi, ossessivi, su una pista striata di luci rosa e verdi. Musica africana doc, allegra, raffinata, primitiva. Un bagliore illuminò un chitarrista che roteava la testa come se avesse un perno al posto del collo; vicino a lui un nero riverso all'indietro cavava urli dal sassofono. Scordatevi l'R&B o lo zouc delle Antille. Quella musica ti faceva uscire di sentimento, ti scuoteva le viscere, ti saliva alla testa come un incantesimo vodoo. Le coppie ballavano con sofisticata lentezza. Madido di sudore, avanzai ancora: era come trovarsi sul fondo di una pozza melmosa. Notai delle facce note, quelle stesse che avevo inutilmente cercato altrove. Il manager di Femi Kuti, il figlio del presidente dell'ex Congo belga, diplomatici, calciatori, animatori radiofonici... Erano tutti riuniti qui, senza distinzione di et-
nia né di nazionalità. E finalmente scorsi Claude in fondo a un'alcova in compagnia di altri tizi. Mi avvicinai e distinsi meglio il volto ambiguo del mio informatore. Naso schiacciato che gli mangiava tutta la faccia, sopracciglia aggrottate che increspavano una fronte preoccupata, e grandi occhi meravigliati che gridavano insistentemente: «Sono innocente!». «Mat! Amico mio toubab! Vieni a sederti con noi!» esclamò agitando un braccio. Presi posto, salutando con un cenno del capo i suoi compagni, dei giganti colossali. Risposero al saluto con scarso entusiasmo. Avevano tutti fiutato lo sbirro. In segno di pace, coprii l'arma con un lembo del cappotto. «Bevi qualcosa?» Feci segno di sì, senza distogliere lo sguardo dagli altri convitati: girava uno spinello, il fumo aleggiava sopra le teste in volute azzurrine. Uno scotch mi si materializzò nella mano. «La sai quella di Mamadou?» Senza aspettare la mia risposta, Claude tirò una buona boccata e partì in quarta: «C'è una giovane bianca che sta per sposarsi. Presenta il fidanzato al padre: Mamadou, un nero alto un metro e novanta. Il padre fa il muso. Passa al torchio il fidanzato. Lo interroga sul suo lavoro, gli studi, quanto guadagna. Il nero ha tutte le carte in regola. Il padre non ne può più. Alla fine dice: "Voglio che mia figlia sia felice a letto! La darò solo a un uomo che ce l'abbia lungo trenta centimetri!". Il nero, con un grande sorriso, risponde: "Nessun problema, capo. Quando Mamadou ama, Mamadou taglia"». Claude scoppiò a ridere, passando lo spinello al vicino. Mi stampai un sorriso sulla faccia e buttai giù una sorsata di whisky: avevo sentito quella barzelletta una buona decina di volte. Tutto contento, Claude mi diede una pacca sulla spalla. «Per cosa sei venuto, toubab?» domandò. «Larfaoui.» La risata di Claude si spense. «Capo, non venire a rovinarci la serata.» «Quando il cabilo si è fatto stendere non era solo. Cerco la ragazza.» Claude non reagì. Aprì il cellulare, con l'aria di leggere un SMS. Probabilmente un cliente. Ma la sua faccia non esprimeva niente. Non si sarebbe potuto indovinare se la chiamata fosse importante o no. Richiuse il telefono. «Dov'è la ragazza?» dissi dopo avere vuotato il bicchiere. «Dov'è la put-
tana?» «Non ne so niente, toubab. Te lo giuro. Non so un accidente di questa storia.» «Eri tu a rifornire Larfaoui?» «Non avevo il genere di articoli che lo interessava.» Temendo il peggio, domandai: «Cos'è che lo eccitava?». «La carne giovane. Per Larfaoui, passati i quattordici eri una vecchia signora.» Fui quasi sollevato. Temevo che venissero fuori storie di animali o di escrementi. Era comunque una brutta notizia. Si bazzicava un altro mondo, quello degli anglofoni. Solo lì esportano delle minorenni. Nei paesi in guerra come la Liberia o sovrappopolati come la Nigeria, va bene tutto pur di guadagnare qualche soldo. Era un ambiente totalmente chiuso, che conoscevo a malapena. Le puttane vi vivevano in autarchia, molto spesso senza parlare una parola di francese né d'inglese. «Chi lo riforniva?» «Non conosco quei giri.» Rigirando il bicchiere fra i palmi, osservai gli altri neri. Il lembo del mio cappotto si era scostato, lasciando intravedere il calcio della 9 mm. Lo spinello continuava il suo giro. «Mio caro Claude, sento che finirò sul serio per rovinarti la serata.» La faccia del nero era imperlata di grosse gocce di sudore. Le luci vi aggiungevano un luccichio colorato. Bloccò il mio gesto circolare afferrandomi per il polso. «Va' a trovare Foxy», disse. «Può darti una dritta.» La prostituzione africana ha una particolarità: i magnaccia non sono uomini ma donne, le mammas. Spesso delle ex puttane, salite di grado. Dei donnoni, coriacee, facce scarificate, che non escono mai dal loro appartamento. Mi ero imbattuto in Foxy una volta o due. Veniva dal Ghana. La ruffiana più potente di Parigi. «Dove abita adesso?» «Al 56 di rue Myrrha. Scala A. Terzo piano.» Mi ero già alzato quando Claude mi avvertì: «Stai attento. Foxy è una maga. Una mangiatrice d'anime. Veramente pericolosa!». Le ruffiane africane non tengono in pugno le loro ragazze usando la violenza, ma grazie alla magia. In caso di disobbedienza, le minacciano di fare un sortilegio alla loro famiglia, rimasta nel paese di origine, o a loro stesse. Le mammas conservano sempre pezzetti di unghia, peli pubici o
capi di biancheria sporca appartenenti alle loro ragazze, per le quali questa minaccia è più terrificante di qualsiasi sevizia fisica. Immaginai d'un tratto delle maschere africane contorte in una smorfia, gli occhi cerchiati di rosso. La musica, il caldo, gli effluvi d'erba mi davano alla testa. Gli stridori del sax cominciavano ad assomigliare al raschiare dei machete sulla strada, ai colpi di fischietto degli hutu assetati di sangue... Stavo per avere una delle mie crisi quando alcuni ballerini arretrarono verso di noi, spingendomi contro il tavolo. Lo scotch traboccò dai bicchieri. Claude si scottò con lo spinello. «Porca puttana!» urlò. Con la manica inzuppata d'alcol, mi girai verso la pista: uomini e donne si scostavano, come se dalle reti fosse caduto in mezzo a loro un serpente. Mi alzai sulla punta dei piedi e scorsi un nero steso a terra, scosso dalle convulsioni, la bava che gli schiumava sulle labbra. Doveva essere soccorso, subito, ma nessuno gli si avvicinava. La musica continuava. I ballerini ripresero le loro circonvoluzioni, evitando di venire a contatto con l'uomo in trance; altri batterono con le mani, come se volessero cavar fuori il male dal posseduto. Mi feci largo a gomitate per prestargli i primi soccorsi, ma Claude mi trattenne. «Lascia stare, toub. Gli passerà. Un gabonese. Quella gente non sa comportarsi.» «Un gabonese?» I gabonesi formavano a Parigi una piccola comunità tranquilla. Il paese di Omar Bongo era ricco di petrolio e i suoi cittadini erano sempre studenti a posto e discreti. Niente a che vedere con i congolesi o gli ivoriani. «Ha preso un prodotto locale. Roba delle sue parti.» «Una droga?» Claude sorrise, occhi socchiusi. Stavano portando via l'allucinato, rigido come un tronco d'albero. «Sembra efficace», commentai. Claude rise, la testa gettata all'indietro. «Noi neri ce ne intendiamo quando si tratta di farsi!» 19 Rue Myrrha, le cinque del mattino. Degli operai della nettezza urbana lavavano il marciapiede senza lesina-
re sull'acqua mentre un furgone della polizia pattugliava procedendo con lentezza. Sotto i portici, alcune prostitute facevano l'amore con l'ombra, aspettando le luci del giorno per dileguarsi. Qui ritrovavo il lato scalcagnato del quartiere africano di Parigi. Non era servito a granché insediare un commissariato in rue de la Goutte-d'Or, aprire un Virgin Store in boulevard Barbès, ristrutturare la maggior parte degli edifici: rue Myrrha aveva sempre l'aria di traverso, un che di sgangherato e minaccioso. Giunto davanti al 56, usai la mia chiave universale, quella dei postini,1 e sbloccai il portone. Cassette della posta sfondate, edifici cadenti, lettere dipinte sui muri per indicare le scale. Un caseggiato abbandonato, pronto per una speculazione immobiliare. Individuai la lettera «A» e m'intrufolai all'interno. Ogni piano si apriva su una caverna di macerie o su un corridoio sbarrato da assi inchiodate. Al terzo, m'insinuai sotto i cavi elettrici che penzolavano dal soffitto. Tutto sembrava immerso nel sonno, persino gli odori. Un nero gigantesco sonnecchiava su una sedia. Esibii di nuovo la tessera, a mo' di «Apriti Sesamo». Lui alzò le sopracciglia, come se mancasse una parte del messaggio. Mormorai «Foxy». Si tirò su per scostare lo straccio che fungeva da porta e mi precedette nella caverna. Varie stanze si aprivano ai due lati del corridoio. Un dormitorio, a sinistra, poi un altro, a destra: amazzoni infagottate riposavano su stuoie, fili di biancheria stesa ad asciugare attraversavano le stanze. Qui l'odore si svegliava, come una foglia che viene calpestata, un miscuglio di spezie, sudore, polvere; e quel profumo caratteristico dei tropici: miglio arrostito, carbone di legna, frutti decomposti... Un'altra apertura, un'altra tenda. Il colosso si apprestava a picchiare sullo stipite. Bloccai il suo gesto. «It's OK.» Senza lasciargli il tempo di reagire, scivolai sotto la cortina. L'allucinazione della notte continuava. Le pareti erano rivestite di tessuto scuro striato d'argento; candele, coppette contenenti olio, bastoncini d'incenso bruciavano sul pavimento di legno; oggetti tradizionali erano posti su cassoni dipinti a mano collocati lungo le pareti: scacciamosche in crine di cavallo, ventagli di piume, statuette votive, maschere... Ovunque si allineavano flaconi, boccali, bottiglie di Coca, chiusi da tappi di sughero o 1
A Parigi i postini sono dotati di una chiave universale in grado di aprire tutti i portoni: così possono entrare nell'atrio e lasciare la posta. [n.d.t.]
da nastro adesivo. Paraventi e tappeti appesi segmentavano la stanza e moltiplicavano le ombre vacillanti, contribuendo alla confusione di quel bazar. «Hi, Match, good to see you again.» Il suo vocione, inimitabile. Ero sorpreso, e lusingato, che Foxy si ricordasse di me. Oltrepassai il pannello che la celava alla vista. Era affiancata da due altre maghe. Alla sua sinistra, una spilungona dalla faccia chiara, con una testa di dreadlock dorati che le davano l'aria di una sfinge. Alla sua destra, una tipa rotondetta dalla pelle nerissima. L'ampio sorriso ne metteva in mostra i denti distanziati - i denti della fortuna. Tutte e tre erano sedute a gambe incrociate sul pavimento. Mi avvicinai. Foxy era avvolta in un boubou scarlatto che faceva pensare al sipario di uno spettacolo operistico. Il suo viso, cosparso di cicatrici, era incorniciato da un foulard dello stesso tono. Vedendola, mi venne in mente una teoria di certi farmacologi secondo la quale l'organismo dei maghi era modificato. A forza d'ingerire sostanze, erano capaci di emanare, attraverso il respiro o i pori della pelle, dei veleni, delle sostanze allucinogene. Replicai in inglese: «Ti disturbo, bellezza? Sei in riunione?». «Honey, dipende dal motivo che ti porta qui.» Parlava un inglese strascicato, con voce indolente. Palpebre abbassate, con le mani stranamente magre - si sarebbe detto che la carne attorno alle ossa fosse bruciata - frantumava delle polveri in una grossa ciotola di legno. Accese un ramoscello. «Lo faccio per le mie ragazze. Purifico la notte. Notte di vizio, notte di sudiciume...» «Di chi è la colpa?» «Mmm, mmm... Bisogna che rimborsino i loro debiti, Fiammifero, lo sai bene. Debiti enormi...» Piantò il ramoscello incandescente fra le assi del parquet. «Sei sempre cristiano?» Avevo la gola secca. Bruciata dall'alcol, dalle sigarette e, adesso, dall'atmosfera di questa cloaca. «Sempre», dissi allentandomi il nodo della cravatta. «Ci possiamo intendere, noi due.» «No. Non siamo sulla stessa sponda.» Foxy sospirò, imitata dalle altre due. «Sempre le solite contrapposizioni...»
Denti della Fortuna pronunciò in inglese, ironica: «Il credente prega, il mago manipola...». Dreadlock subentrò, nella stessa lingua: «Il cristiano venera il bene, il mago venera il male...». Foxy tirò a sé una bacinella rossa dove galleggiava una cosa orribile: scimmia o feto. «Honey, il bene, il male, la preghiera, il controllo, tutto questo viene dopo.» «Dopo cosa?» «Dopo il potere. Conta solo il potere. L'energia.» Adesso stringeva nella mano una sorta di scalpello dalla lama di ossidiana. Con un colpo secco, fendette il cranio della creatura nel recipiente. «Poi, ciò che se ne fa è una faccenda personale.» «Per il cristiano, conta solo la salvezza.» Foxy scoppiò a ridere. «Ti adoro. Cosa vuoi? Cerchi una ragazza?» «Sto indagando sull'omicidio di Massine Larfaoui.» Le tre maghe ripeterono all'unisono: «Indaga su un omicidio...». Foxy mise il frammento di cranio nella ciotola di legno e riprese a schiacciare con il pestello. «Per cominciare, dimmi perché ti interessi a questo omicidio. Non è la tua squadra a indagare su questo delitto...» Foxy non possedeva doni di divinazione. Era semplicemente un'informatrice che aveva i suoi canali alla polizia giudiziaria di Louis-Blanc, alla Buoncostume e anche all'Antinarcotici. «Questa indagine era diretta da un amico. Un amico carissimo.» «È morto?» «Ha cercato di suicidarsi, ma è ancora vivo. In coma.» Fece una smorfia e commentò: «Brutto... Due volte brutto. Suicidio e coma. Il tuo amico fluttua fra due mondi... Il m'fa e l'arun...». Foxy apparteneva agli Yoruba, un vasto gruppo etnico stanziato lungo il golfo del Benin, culla del culto vodoo. Avevo studiato questo culto. M'fa significa «zoccolo» e rappresenta il mondo visibile; l'arun è il mondo superiore degli dei. Mi arrischiai: «Vuoi dire che fluttua nel m'doli?». Il m'doli costituiva il ponte fra i due mondi, una passerella dove agiscono gli spiriti, il territorio della magia. Il viso della maga si aprì in un sorriso. «Honey, con te si può veramente parlare. Non so dove si trovi il tuo amico, ma la sua anima è in pericolo. Non è né morto né vivo. La sua anima fluttua: è il momento ideale per rubargli... Ma non mi hai ancora risposto,
tesoro: perché t'interessa questa indagine?» «Voglio capire il gesto del mio amico.» «Che rapporto c'è con Larfaoui?» «Il mio amico indagava su questo omicidio. Forse ciò ha avuto un ruolo nella sua... caduta.» «È cristiano anche lui?» «Come me. Siamo cresciuti insieme. Abbiamo pregato insieme.» «E perché io dovrei sapere qualcosa di questa storia?» «A Larfaoui piaceva la donna nera.» Scoppiò a ridere, subito imitata dalle altre due. «Questo lo puoi proprio dire!» «Eri tu che gliele procuravi.» Foxy aggrottò le sopracciglia. «Chi te l'ha detto? Claude?» «Non ha importanza.» «Pensi che io sappia qualcosa sulla sua morte perché gli presentavo delle ragazze?» «Larfaoui è stato ucciso il 7 settembre. Era un sabato. Larfaoui aveva le sue abitudini. Ogni sabato invitava una ragazza a casa sua, a Aulnay. Una delle tue ragazze. È stato fatto fuori intorno alle undici. Non era solo, ne sono sicuro. Nessuno ha parlato di un altro cadavere. Quindi la ragazza è riuscita a fuggire e, secondo me, lei sa qualcosa.» Feci una pausa. Avevo la gola più secca di un pezzo di legno. «Penso che questa ragazza tu la conosca. Penso che tu la nasconda.» «Siediti. Ho del tè caldo.» Mi accoccolai sul tappeto. Lei spinse da parte la sua immonda ciotola e afferrò una teiera azzurra. Serviva il tè alla tuareg, sollevando il braccio molto in alto. Mi tese la bevanda in un bicchiere. «Perché dovrei dirti qualcosa?» Aspettai a rispondere. Poi optai, ancora una volta, per la sincerità. «Foxy, sono in un tunnel. Non so niente. E non ho nessun ruolo ufficiale in questa storia. Ma il mio amico è fra la vita e la morte. Voglio capire perché si è gettato nel fiume! Voglio sapere a cosa stava lavorando, quale verità l'ha sconvolto! Tutto ciò che potrai dirmi resterà fra noi. Te lo prometto. Allora, c'era o no una ragazza?» «Tu e io ci ricorderemo di questa notte...» «Ce ne ricorderemo, ma non sono più alla Buoncostume.» «Sei alla Criminale, tesoro, ed è ancora meglio.» Stavo stringendo patti con il diavolo. Già mi vedevo, un mese, un anno
dopo, coprire un caso di omicidio, alla salute dell'esperta di sortilegi. Foxy aveva una buona memoria. «Ce ne ricorderemo», ripeté, «sì o no?» «Hai la mia parola. C'era una ragazza quella notte?» Foxy si prese il tempo di bere un sorso di tè, poi posò la tazza sul pavimento. «C'era una ragazza.» L'atmosfera sembrò distendersi, provai una sorta di liberazione. E al tempo stesso una nuova tensione. Le vene, le arterie si restringevano, l'incubo stava solo per cominciare. «Devo vederla. Devo interrogarla.» «Impossibile.» «Foxy, hai la mia parola, io...» «È scomparsa.» «Quando?» «Una settimana dopo la famosa notte.» «Racconta.» Fece schioccare la lingua e inchiodò gli occhi nei miei. «Quella notte, quando è tornata, era in preda al terrore.» «Ha visto l'assassino?» «Non ha visto niente. Quando Larfaoui si è fatto ammazzare lei era in bagno. È uscita dalla finestra e si è arrampicata sul tetto. Diceva che l'assassino non l'aveva scoperta, ma sette giorni dopo è scomparsa.» «Chi l'ha fatta sparire?» «Tu cosa pensi? Il tipo l'ha cercata e l'ha trovata.» Un altro indizio: il mercenario, che usava un'arma automatica, era anche in grado di intrufolarsi nell'ambiente africano anglofono. Un militare che era stato in Liberia? «Avresti qualcosa di più forte?» chiesi tendendo il bicchiere vuoto. «Foxy ha tutto quello che serve.» Ruotò il busto, senza muovere le gambe incrociate. Una bottiglia si materializzò fra le sue mani adunche. Mi riempì il bicchiere di un liquido trasparente dalla consistenza oleosa. Presi un sorso - sembrava etere puro. «Era una ragazzina?» chiesi con voce impastata. «Si chiamava Gina. Aveva quindici anni.» «Sei sicura che non abbia visto niente?» La mangiatrice d'anime alzò gli occhi al soffitto, pensosa. Una tristezza teatrale le si dipinse sulla faccia. Aveva gli occhi umidi.
«Povera piccola...» Buttai giù un'altra sorsata e gridai: «Ha visto qualcosa sì o no, cazzo?!». Abbassò gli occhi su di me. Le sue labbra si arrotondarono con indolenza. «Quando si trovava sul tetto ha scorto l'uomo che andava via...» «Com'era? Alto? Basso? Robusto?» «Un uomo alto... Alto e magro.» «Com'era vestito?» Foxy si servì a sua volta un bicchiere di torcibudella e v'intinse le labbra. «Siamo d'accordo tu e io? Da stasera sei in debito con me?» «Sono in debito con te, Foxy. Parla.» Bevve ancora, poi pronunciò con voce sepolcrale: «Portava un cappotto nero e un colletto bianco». «Un colletto bianco?» «Man, Gina diceva che era un prete.» 20 Le sette del mattino. Per poco non dimenticai la messa di Laure. Avevo giusto il tempo di passare da casa, fare una doccia e cambiarmi. Puzzavo di tropici e di stregoneria. Al volante dell'auto, tentai di fare il punto. Elementi eterogenei, frantumati, senza il minimo legame. Un suicida protetto da san Michele Arcangelo. Un'iconografia del diavolo. Un'associazione che organizzava dei pellegrinaggi a Lourdes. Delle incursioni nel Jura, cosiddetti adulteri. Una frase enigmatica: «Ho trovato la gola». L'assassinio di un grossista di birra-trafficante... E, soprattutto, il personaggio del prete assassino, che batteva tutti i record di assurdità. Un tiratore con il colletto romano, un professionista del grilletto, capace di insinuarsi negli ambienti africani più impenetrabili. Non stava in piedi. Non più del sospetto di corruzione che incombeva su Luc, eventuale motivo del suo gesto... Se tutti questi fatti erano collegati in un'unica trama, allora non avevo il codice di accesso, e non ero vicino a ottenerlo. Le nove. Spinsi la porta della cappella Sainte-Bernadette, i capelli ancora umidi. La chiesa, una costruzione seminterrata, assomigliava a un bunker antiatomico. Soffitto basso, colonne di cemento, strette finestre di vetro rosso
che convogliavano la debole luce del giorno. Intinsi le dita nell'acquasantiera, mi feci il segno della croce e scivolai sulla sinistra. Erano tutti là, o quasi. Mi era raramente capitato di vedere tanti poliziotti al metro quadro. La squadra degli Stups al completo, naturalmente, ma anche i capi di altre squadre, responsabili di uffici centrali, commissari di polizia giudiziaria... La maggioranza era in uniforme nera galloni d'argento e foglie di quercia -, a sottolineare ulteriormente il piglio marziale della cerimonia. Eravamo molto lontani dalla riunione intima immaginata da Laure... Dubitavo che Luc avesse conosciuto personalmente tutti quei pezzi grossi, ma bisognava fare presenza. Mostrare il coinvolgimento dell'autorità, la solidarietà di tutti nei confronti di quell'«atto disperato». Il prefetto di polizia, Jean-Paul Proust, risaliva il corridoio centrale a fianco di Martine Monteil, direttrice della Giudiziaria. Dietro di loro, Nathalie Dumayet, elegante nel suo cappotto scuro, li superava di tutta la testa. Quella sfilata mi dava sui nervi. Seppellivano Luc prima ancora che avesse esalato l'ultimo respiro. Quella cerimonia idiota avrebbe finito col portargli scalogna! Per di più, quei piedipiatti formavano il più bel parterre di atei che si potesse immaginare. Nessuno dei presenti credeva in Dio. Luc avrebbe aborrito una simile pagliacciata. Nelle prime file, sulla destra, individuai gli uomini del suo gruppo. Doudou, la testa infossata nel giubbotto, sguardo ansioso; Chevillat, dritto come un fuso, ciuffo sull'occhio, stretto in un cappotto di pelle; Jonca, con l'aria di un Hell's Angel, mal rasato, baffi cadenti e capelli unti sotto un berretto da baseball. Tre poliziotti di strada, duri, pericolosi. La chiesa continuava a riempirsi, con un amplificarsi di mormorii e di fruscii di cappotti. Doudou lasciò il suo posto. Lo seguii con lo sguardo. Si avvicinò a un uomo, accanto al confessionale, all'estrema destra. Piccolo, tarchiato, capelli grigi tagliati a spazzola. Era infagottato in un impermeabile blu notte. Tutto il suo aspetto evocava un'uniforme invisibile, ma non quella dei poliziotti. D'un tratto capii: un sacerdote. Un religioso, in abiti civili. Girai attorno alla prima fila di sedie e attraversai la navata. Solo dieci metri mi separavano ormai dai due uomini. In quell'istante Doudou depose furtivamente un oggetto nelle mani dell'altro. Una specie di astuccio in legno verniciato. Accelerai il passo, ma una mano mi afferrò per la manica. Laure.
«Cosa fai? Tu starai vicino a me.» «Certo», dissi sorridendo. «Dove vuoi metterti?» La seguii, lanciando uno sguardo verso i cospiratori. Doudou stava già tornando al suo posto; l'uomo in blu, dietro una colonna, si faceva il segno della croce. Stupore. Un segno della croce al contrario, cominciando dal basso, come lo fanno certi satanisti, riproducendo il simbolo dell'Anticristo. Laure mi aveva fatto una domanda. «Scusa?» «Hai scelto il tuo testo?» «Che testo?» «Avevo previsto che tu leggessi un brano della Lettera ai Corinzi.» Altro sguardo verso destra: l'uomo era scomparso. Merda. «No... Se non ti spiace, io...» «Benissimo», fece Laure in tono secco. «Lo leggerò io.» «Sono desolato. Non ho chiuso occhio.» «Credi che io abbia passato una buona nottata?» Si volse verso l'altare. Il rimorso mi stringeva al ventre. Ero il solo cristiano dell'assemblea e non mi davo la pena di leggere qualche riga. Ma i miei interrogativi spazzavano via tutto: chi era quell'uomo? Cosa gli aveva dato Doudou? Perché si era fatto il segno della croce al contrario? La cerimonia iniziava. Il prete, vestito di un camice bianco ornato dell'agnello pasquale, aprì le braccia. Un puro tamil. Narici grandi come monete, occhi neri, umidi, di uno strano languore. Cominciò, con una risonanza non lontana da un effetto Larsen: «Fratelli, eccoci riuniti...». Sentii la fatica tornare di colpo. L'officiante fece un segno esplicito: tutti si sedettero. La voce monocorde andò via via dissolvendosi... Un fruscio di fogli mi svegliò. Stavano tutti maneggiando il testo dei canti del giorno. Il prete diceva: «Canteremo adesso la terza lode». Addormentarmi alla messa del mio migliore amico... Gettai uno sguardo verso Doudou. Non si era mosso. «Questo canto s'intitola "Come sono belle le tue opere". Il brano comincia con: "Ogni uomo è una storia sacra / l'uomo è fatto a immagine di Dio...".» Le parole suonavano un po' bizzarre in quella cappella affollata di poliziotti agnostici e disincantati. Eppure l'assemblea riprese in coro, in un brusio esitante... «Mi prendi in braccio?» Amandine, due trecce bionde sotto un berretto color cioccolato, mi ten-
deva il suo foglio: «Non so leggere». La presi sulle ginocchia e intonai: «Ogni uomo è una storia...». Respirai l'odore di tessuto pulito e di calore infantile. I pensieri si persero per sentieri indistinti, dove Mathieu Durey, sbirro ossessivo, trentacinque anni, senza moglie né figli, avanzava verso il nulla... Trenta minuti e non poche inopportune suonerie di cellulari più tardi, il prete, che non sospettava proprio niente, si lanciò in un sermone-fiume sull'Eucarestia. Temevo il peggio: avrebbe proposto la comunione a quella banda di miscredenti? Occhiata a Doudou: cominciava ad agitarsi, gettando sguardi smaniosi verso la porta. Era chiaro che aveva più fretta degli altri. Mi alzai, deposi Amandine sulla mia sedia e mormorai a Laure: «Ti aspetto fuori». 21 Sull'avenue de la Porte-de-Vincennes individuai la moto di Doudou. Un pezzo da collezione: una Yamaha 500, modello Trial. Mi diressi verso la moto pescando il cellulare di tasca. Composi il numero del servizio ora esatta, poi ficcai l'apparecchio fra il sellino e il parafanghi. Aspettai cinque minuti buoni prima che la folla emergesse dalle catacombe della cappella. Assunsi un'espressione di circostanza e tornai verso il gruppo, cercando con lo sguardo Laure. Tutti le si affollavano intorno per salutarla, indirizzandole dei gesti affettuosi. M'infilai fra i cappotti scuri. «Ti chiamo fra poco», le mormorai all'orecchio, e già mi allontanavo afferrando al passaggio il giubbotto di Foucault. «Puoi passarmi il tuo cellulare?» chiesi. Me lo tese senza fare domande. Vicino alla moto, Doudou s'infilava il casco integrale. «Grazie. Te lo restituisco al Quai, a mezzogiorno.» «A mezzogiorno? Ma...» «Scusa. Ho dimenticato il mio.» Senza aspettare una replica, corsi verso la mia Audi A3, parcheggiata a cinquanta metri di distanza, sul controviale. Girai la chiave dell'accensione nel momento in cui Doudou premeva il tallone sul kick. Misi la prima, e intanto componevo un numero che conoscevo a memoria. «Sono Durey, Squadra criminale. Chi è di guardia?»
«Estreda.» E vai! Uno degli operatori che conoscevo meglio. «Me lo passi.» Doudou era scomparso nel traffico. Sterzai, poi frenai prima di immettermi nella circolazione. Sentii la voce di Estreda: «Come va?». «Mi hanno scippato il cellulare.» «Complimenti poliziotto!» «Puoi localizzarlo?» «Se il tizio sta telefonando non c'è problema.» Da poco era possibile seguire un cellulare passo a passo, a patto che fosse connesso. Il principio era semplice. Si identificava la cellula satellite sollecitata dal telefono. Nelle città queste cellule erano sempre più numerose e il loro campo d'azione si limitava a due o trecento metri. «Hai culo», disse Estreda. «Il tizio è in linea.» Ficcai il cellulare sotto il mento, misi la prima. «Quindi?» «Hai un computer?» «No, sono in macchina. Mi devi guidare tu.» «Puzza d'imbroglio la tua storia.» «Dai. Sto andando.» «Non mi starai estorcendo un pedinamento senza autorizzazione?» «Ti fidi o no?» «No. Ma il tizio si è appena immesso sulla périphérique. Porte de Vincennes.» Partii come un razzo. «Che direzione?» «Sud.» Attraversai la piazza a tutta velocità, fra lo stridio delle frenate e i clacson degli altri veicoli. Usare la sirena era fuori questione. Imboccai la rampa d'accesso a più di ottanta chilometri all'ora. «Sembra avere fretta. Sta scappando o cosa?» Non risposi e notai l'innovazione: un nuovo software permetteva di calcolare in tempo reale la rapidità del passaggio da un terminale all'altro. Un vero videogame. «Ha già oltrepassato la Porte de Charenton.» Superai i cento chilometri orari e mi posizionai sulla fila più a sinistra. La circolazione era fluida. Ero sicuro che Doudou non rientrava al Quai. Estreda mi confermò che il nostro aveva oltrepassato la Porte de Bercy.
Porte de Bercy. Quai d'Ivry. Porte d'Italie... «Sembra che rallenti...» Tagliai la strada in diagonale per mettermi sulla corsia di destra. «Esce? Dov'è?» «Aspetta, aspetta...» Estreda si appassionava al gioco. Aveva capito che stavo alle calcagna del mio «ladro». «Prende l'A6. La direzione di Orly.» L'aeroporto? Doudou che prendeva un volo d'urgenza? Era anche la direzione dei mercati generali di Rungis. Immaginai subito un legame con il mondo dei grossisti di bevande. «Dov'è?» Nessuna risposta da parte di Estreda: probabilmente il segnale non aveva ancora cambiato terminale. «Dove accidenti è? È uscito a Orly o cosa?» Davanti a me vedevo avvicinarsi la separazione delle due direzioni: a sinistra, Orly, a destra, Rungis... Ormai mancavano poche centinaia di metri. Tolsi il piede dall'acceleratore, tentando di trattenere i secondi. All'improvviso, il portoghese gridò. «Vai! Direzione Rungis.» Avevo visto giusto. I depositi di bevande. Schiacciai l'acceleratore a tavoletta. La circolazione era miracolosamente scorrevole, mentre in senso inverso era quasi bloccata. «Sta rallentando...», comunicò Estreda. «Esce... ZA Delta. Verso i mercati generali.» Conoscevo la strada: ero già venuto in questo «mercato d'interesse nazionale». Superai il pedaggio e mi trovai davanti a una batteria di cartelli: ORTICOLTURA, PRODOTTI ITTICI, FRUTTA E VERDURA. Inchiodai e afferrai il cellulare. «Dov'è? Dammi almeno l'orientamento!» «Cazzo, il segnale non si muove più.» «Vuol dire che il tizio si è fermato?» «No. Ma ci sono vari terminali satellitari a Rungis. Sono spesso saturi.» «E allora?» «E allora forse il tuo amico è ancora in movimento, ma il suo segnale resta sulla stessa banda, perché le altre non riescono a captarlo. C'è un sistema che smista le chiamate in caso di...» «Cazzo!»
Picchiai sul volante. Già mi vedevo a setacciare l'immensa zona commerciale e i suoi viali, alla ricerca del trabiccolo di Doudou. «Va bene», dissi, «mi arrangio.» «Sei sicuro che...» «Richiamami se il segnale si muove.» «Richiamarti? Ma se il tuo cellulare...» «Me ne hanno prestato un altro. Dovresti vedere il numero sullo schermo.» «OK... Aspetta: ho un nuovo terminale!» «Dimmi.» «È quello della rotonda dei mercati generali, non lontano dalla Porte de Thiais.» Capii che Estreda conosceva il posto. «A Rungis siamo di casa, capo», confermò infatti. «I nostri camion ci vanno tutti i giorni.» «Conosci una sezione specializzata in bevande?» «Non una sezione, no, ma c'è la Compagnie des Bières. Un magazzino di grossisti, in rue de la Tour.» Ingranai la prima e partii sgommando. 22 La moto di Doudou era parcheggiata davanti al magazzino. Mi fermai a cinquanta metri di distanza, spensi il motore e aspettai. A quell'ora i viali erano deserti. Cinque minuti dopo il poliziotto apparve sulla soglia, accompagnato da un omaccione in tuta Adidas. Lo riconobbi: un fornitore di cui non ricordavo il nome, a capo di una grossa ditta che consegnava birra in vari arrondissement parigini. Si guardò intorno, la fronte aggrottata, sembrava avesse fretta di sbarazzarsi del suo visitatore. Doudou aveva l'aria sovreccitata, sull'orlo del collasso nervoso. L'altro tizio s'infilò una mano in tasca e ne trasse una spessa busta. Doudou se la fece scivolare sotto il giubbotto, lanciando a sua volta un'occhiata tutt'intorno. Mi rincantucciai sul sedile, nell'attesa che finissero le loro manovre. Sfoderai la pistola, misi la pallottola in canna, poi presi un paio di manette nel portaoggetti. L'omaccione si eclissò nell'hangar mentre Doudou raggiungeva la moto. Non appena mi girò le spalle per infilarsi il casco, saltai fuori e corsi verso di lui, pistola contro la gamba. Reggeva il casco a due
mani sopra la testa quando gli piantai alla nuca la canna della mia HK. «Non ti muovere, bastardo», mormorai. «È così che mi piaci.» Avendo riconosciuto la mia voce, Doudou ridacchiò. «Non oserai mai.» Con una pedata gli falciai le gambe. Crollò a terra, il casco sbatté sull'asfalto. Si girò urlando. Gli conficcai l'automatica sotto la gola. «Vuoi scommettere?» Lo colpii con il calcio sulla carotide. Ebbe un sussulto e vomitò. Lo afferrai per il collo, sentendo la sua bile bruciarmi la mano, e lo schiantai contro il marciapiede, testa in avanti. Il naso si ruppe di netto. Ancora una volta recitavo la parte che odiavo di più: quella del poliziotto violento. Gli tastai il giubbotto, trovai la busta, inzuppata di vomito. Diecimila euro, come minimo. Misi in tasca il malloppo e con un calcio alle reni sbattei il poliziotto ventre a terra. Avevo già le manette pronte. Gli bloccai le mani dietro la schiena. Sbraitò: «Stronzo!». Gli presi l'automatica, me l'infilai alla cintura, poi gli palpai le gambe dentro ai jeans. Alla caviglia di destra, un'altra fondina. Una Glock 17, la più discreta della serie. Me la cacciai in tasca. «È il momento di confessare, cocco.» «Va' a farti fottere!» Lo afferrai per i capelli e lo tirai in piedi. Con un calcio nel culo lo spinsi all'interno dell'edificio. Un vasto hangar, pieno di cassette di plastica e di barili d'acciaio. Gli uomini che pilotavano i carrelli elevatori s'immobilizzarono. Cercai nervosamente in tasca il tesserino. «Polizia! È l'ora della pausa. Sparite! Tutti!» I magazzinieri non si fecero pregare. Gli ultimi passi risuonavano sulla soglia quando mormorai a Doudou: «Conosci le regole. O parli ed è tutto finito in due minuti, oppure fai lo stronzo e confesserai con le cattive». Doudou sogghignò, il viso coperto di sangue: «Porca puttana, sei ancora qua? Ti ho detto di andare a farti fottere!». Andai verso la grande porta. «Che cazzo fai?» gemette Doudou. Senza rispondere, la chiusi e tornai verso di lui. Lo afferrai per la collottola e gli infilai il muso fra due fusti d'acciaio. Girai intorno ai barili e mi piantai davanti a lui dall'altro lato. «Tutto OK? Mi senti?» urlai come se avessi davanti un sordo. Doudou sputò sangue e proferì qualche parola incomprensibile. Sparai a bruciapelo contro il fusto di destra. La birra mi sgorgò ai piedi mentre la pallottola sibilava.
«E adesso, mi senti?» L'espressione del poliziotto era deformata dal dolore. Mirai al barile di sinistra e tirai di nuovo. Getto dorato. Sibilo acutissimo. Forse i timpani di Doudou erano già scoppiati. Mi piazzai a pochi centimetri da lui. «Continui a non sentirmi?» Il disgraziato non riusciva nemmeno più a gridare. La sua faccia era una smorfia di puro terrore. Lo presi per i capelli e gli tirai su il viso. «Risponderai alle mie domande o svuoto il caricatore in questi merdosi barili!» Doudou scosse la testa. Impossibile dire se capitolava o se mi provocava ancora. Misi via la pistola ed estrassi la busta di tasca. «Cos'è questa?» Il poliziotto aprì la bocca. Del sangue cadde nel lago di schiuma. Balbettò: «Amico, è... è rischioso per me... bisogna... bisogna che me la squagli». «Perché?» Le lacrime gli colavano sulle guance. Anche a me veniva voglia di vomitare, ma i vapori di birra anestetizzavano il disgusto. «Di cosa hai paura?» «I Bœufs... Indagheranno su Larfaoui... Scopriranno i nostri traffici...» «Sei implicato nella sua morte?» «NO! Cazzo... Toglimi la testa di qui...» Scostai i barili. La sua testa fece splash nella pozza di birra. Lo afferrai per le manette e lo tirai violentemente all'indietro per metterlo seduto. «Voglio sapere tutto dall'inizio alla fine. Larfaoui. Il suo omicidio. Il ruolo di Luc e il tuo in questo merdaio.» «Con Larfaoui avevamo un patto...» «"Avevamo" chi?» «Io, Jonca, Chevillat. Facevamo rilasciare delle licenze per il cabilo. Passavamo nei bar, facevamo i gradassi per mostrare che Larfaoui aveva degli agganci con i piedipiatti. Chiudevamo gli occhi sui clandes...» «L'omicidio di Larfaoui, siete implicati?» «Ti ho detto di no! Non c'entriamo assolutamente!» «Perché hai addosso tanta paura allora?» «I Bœufs passeranno al setaccio gli ultimi casi seguiti da Luc. Studieranno il fascicolo Larfaoui e si accorgeranno che non è chiaro...» «Luc conosceva i vostri intrallazzi?» «Secondo te, furbone?» «Stai mentendo. Non avrebbe mai accettato questo...»
«Luc ha sempre chiuso gli occhi!» Doudou sogghignò. Lo scaraventai con tutte le mie forze contro i barili. Gli effluvi di birra mi davano sempre più alla testa. «Vuoi dire che intascava la sua parte?» «Oh, faceva ben di peggio, il tuo caro amico... Non gliene fregava proprio niente della grana. Chiudeva gli occhi sui nostri traffici e se ne serviva contro di noi. Capito?» «No.» «Ci teneva per le palle, porca puttana. Diceva che se ne infischiava dei nostri maneggi, a condizione che facessimo le quattro cose che voleva lui.» «Sarebbe a dire?» «Giornate di ventiquattr'ore. Perquisizioni senza mandato. Prove confezionate. I metodi di Luc per incastrare i clienti.» Voglia di vomitare, più che mai. Riconoscevo Luc e la sua logica contorta. Coprire un brutto affare a patto di ottenere più risorse contro un altro. Ricattare i propri uomini per farli diventare schiavi della sua crociata contro Satana. «Parlami dell'indagine su Larfaoui. Com'è che avete seguito voi questo caso che sarebbe spettato alla Criminale?» «Luc conosceva il giudice. E aveva anche un dossier sui ragazzi della polizia giudiziaria. Diceva che era l'unico modo per soffocare i nostri traffici.» «Cos'ha scoperto sull'omicidio?» «Niente. Mistero totale. Un lavoretto da professionisti. E neanche l'ombra di un movente.» Doudou era sincero, lo sentivo. Eppure insistetti. «Luc era ossessionato da questa storia, perché?» «Non ne era affatto ossessionato.» «Non era questo caso a farlo andare fuori di testa?» «No.» I fumi dell'alcol già mi annebbiavano la vista. «Lavorava su qualcos'altro?» Doudou non rispose. La testa gli ricadeva sul petto. Gli tirai su il viso con la canna della pistola. «Stronzo di merda, rispondimi!» «Stai sbagliando strada, amico...» «Perché?»
«Besançon...» proferì con la voce strascicata dell'ubriaco, «lavorava su un caso a Besançon...» Finalmente un dato che quadrava con un altro. I viaggi di Luc. Il biglietto ferroviario trovato da Laure. «Cosa sai al riguardo?» «Toglimi le manette.» Avevo voglia di svuotare il caricatore nei cilindri d'acciaio, ma lo afferrai per la spalla e lo girai. Era tempo di gettare un po' di zavorra. Sentivo che la mia volontà si andava affievolendo: i vapori della birra... Gli levai le manette. Doudou si massaggiò i polsi, poi si tastò le orecchie, inebetito. «Allora? Questa indagine?» «Un omicidio nel Jura. Il corpo di una donna, alla frontiera svizzera.» «Dove esattamente?» «Non so. Il nome del posto è Sarty o Sartoux. Luc me ne ha parlato solo una volta.» «Quando è successo?» «L'estate scorsa. In giugno, credo.» «Cosa sai su questo omicidio?» «Una cosa orribile, pare. Un delitto satanista... Luc ne era assolutamente sconvolto...» Un delitto satanista: secondo clic. Gli elementi del puzzle cominciavano a incastrarsi. «Cos'altro sai?» «Niente, te lo giuro. Luc lavorava da solo su questo caso. È andato sul posto parecchie volte. A volte andava e tornava nello stesso giorno. Passava ore a studiare i suoi appunti, le sue foto della scena del delitto.» «Questo dossier, dove si trova?» «Ha messo tutto in versione elettronica...» «Hai il documento?» «Se gli succedeva qualcosa, dovevo darlo a un tizio...» Terza tessera del puzzle. La scena della chiesa, due ore prima. «È la scatola che hai dato al tipo in chiesa?» «Già, proprio quella.» «Chi è quell'uomo?» «Non ne ho idea.» «Perché gliel'hai consegnata?» «Luc mi aveva dato istruzioni. Se succedeva qualche guaio grosso dovevo chiamare un numero. Il tizio all'altro capo del filo avrebbe risposto con
una parola d'ordine.» «Qual era?» Doudou rise, un gorgoglio orribile che terminò in tosse convulsa. «"Ho trovato la gola." Non è idiota come parola d'ordine?» Le informazioni finalmente si articolavano, ma senza produrre il minimo senso. Un'indagine segreta. Un delitto satanista, legato a un uomo che si faceva il segno della croce al contrario. Una frase che funzionava da chiave. «Sai cosa vogliano dire quelle parole?» «Buio assoluto. Ieri ho fatto la telefonata. Il tizio mi ha detto di portare la scatola alla messa. Gliel'ho consegnata. Fine della storia.» «Quell'uomo è un prete, no?» «Perché?» Doudou non capiva di cosa stessi parlando. Gettai la busta con il denaro nella pozza di birra. «To'. Ubriacati alla mia salute. E non lasciare Parigi.» Doudou alzò gli occhi, stravolto. «E i Bœufs?» «Me ne occupo io. Vado a parlare con Dumayet. Lei chiamerà LevainPahut. Se la sbroglieranno loro con Condenceau.» «Perché lo fai?» «Per Luc. Il vostro gruppo deve restare unito. Ti restituirò i tuoi gingilli al 36.» «Ma se Luc...» «Luc si sveglierà, capito?» Aprii la porta dell'hangar e affrontai la luce mattutina. Lungo il muro, mi costrinsi a vomitare, nient'altro che bile acida. Accesi una Camel per spazzar via il gusto di violenza che avevo in gola. Recuperai il cellulare sotto il sellino della moto. Interruppi la connessione con il servizio di ora esatta e diedi un'occhiata al display. Il mio forfait mensile era giusto esaurito. 23 Di ritorno al mio appartamento, mi cambiai e chiusi le imposte. Al buio, m'installai davanti al computer e cominciai la ricerca su Google, digitando: Sarty, Sartoux o Sarpuits, associando le parole ai vari dipartimenti della France-Comté. Fra le varie risposte ottenute, la più plausibile era «Sar-
tuis», nell'alto Doubs. Una cittadina situata nei pressi di Morteau, lungo la frontiera svizzera. Nuova partenza, nuova ricerca. Per iniziare, i giornali locali. «L'Est républicain», con sede a Nancy; «Le Courrier du Jura», a Besançon; «Le Progrès» al centro, a Lione; «Le Pays» nel Nord-est, a Mulhouse. Mi collegai con l'archivio dell'«Est républicain» e digitai varie parole chiave: Sartuis, giugno, 2002, cadavere, omicidio, donna... Ottenni un solo articolo, nell'edizione del 28 giugno: RITROVAMENTO DI UN CORPO A NOTRE-DAME-DEBIENFAISANCE Il corpo di una donna nuda è stato ritrovato ieri mattina a pochi chilometri da Sartuis, nel parco naturale della fondazione di Notre-Dame-de-Bienfaisance. In base alle nostre informazioni, il corpo è stato rinvenuto da Marilyne Rosarias, la direttrice della fondazione, sul pianoro che sovrasta il monastero. Con ogni probabilità, il cadavere, coperto di muffe e in avanzato stato di decomposizione, doveva trovarsi da parecchio tempo nei boschi. Le abbondanti piogge degli ultimi giorni hanno favorito l'accumulo di fango sul pendio, facendo scivolare il corpo fino alla zona priva di vegetazione. Qual è l'identità della defunta? Quando è deceduta? Qual è la causa della sua morte? Al momento attuale, né i soccorritori, né i servizi della gendarmeria sono in grado di dare una risposta, ma prevale l'ipotesi di un incidente. Sportiva, appassionata di trekking, la donna sarebbe morta in seguito a una caduta, sul colpo o dopo giorni, nell'isolamento della foresta. Sembra tuttavia strano che né le guardie forestali, né gli ospiti della fondazione, che spesso si raccolgono in questi boschi, abbiano visto il cadavere. Si profila un'altra ipotesi. La donna sarebbe stata assassinata e poi trasportata nel parco naturale... L'autopsia, prevista oggi all'ospedale Jean-Minjoz di Besançon, dovrebbe fornire dei chiarimenti. Nel frattempo i servizi scientifici della gendarmeria perlustrano i luoghi alla ricerca di indizi. Per il momento il giudice istruttore incaricato del caso, Corine Magnan, non si è espresso, al pari del procuratore generale. Quanto al sindaco di Sartuis, la città vicina, anche lui serba il silenzio. Nella regione ognuno spera che questo mistero troverà al più presto una spiegazione e non comprometterà la stagione turistica che
è già iniziata lungo il Doubs. Ero perplesso. Il luogo della scoperta - la proprietà di una fondazione religiosa - poteva collimare con quello che cercavo, ma non c'era nemmeno la certezza che si trattasse di un omicidio. E non c'erano accenni a mutilazioni né a simboli malefici. Niente che potesse evocare la «cosa orribile» o il «delitto satanista» di cui aveva parlato Doudou. Pestai ancora sui tasti. I giorni successivi, nessun articolo sull'argomento. Nessuna notizia dell'autopsia. Nessuna dichiarazione del procuratore, né del giudice. Perché questo silenzio? Le indagini erano approdate a un fatto così insignificante che i giornalisti non si erano nemmeno presi la briga di scrivere un articolo? No. Un cadavere non è mai insignificante. Estesi la mia ricerca al mese di luglio. Niente. Visitai l'archivio del «Courrier du Jura». Stesse parole chiave. Stessa ricerca. Incappai in un articolo del 29 giugno che forniva delle precisazioni: SARTUIS. LA MALEDIZIONE DI UNA CITTÀ È stato identificato il cadavere della donna rinvenuto l'altro ieri mattina sul pianoro del parco naturale di Notre-Dame-deBienfaisance. In realtà, i pompieri incaricati di trasportare il corpo l'avevano già riconosciuto sul posto. Si tratta di Sylvie Simonis, 42 anni, artigiana orologiera a Sartuis. Per tutti gli abitanti dell'alto Doubs, questo nome rievoca funesti ricordi. Sylvie Simonis non è altri che la madre della piccola Manon, otto anni, assassinata nel novembre del 1988. Una triste vicenda sulla quale non è mai stata fatta luce. L'annuncio di questa nuova morte e le sue misteriose circostanze risvegliano tutti i timori. E ripropongono tutte le domande. Innanzitutto, impossibile precisare la causa del decesso e le ragioni della presenza del corpo sulla proprietà dell'antico monastero. Incidente? Omicidio? Suicidio? Secondo le prime testimonianze, lo stato del cadavere non consente di pronunciarsi e i risultati dell'autopsia, effettuata all'ospedale Jean-Minjoz di Besançon, non sono ancora stati resi noti. Da fonte sicura, si sa che Sylvie Simonis, abile orologiaia che lavorava in proprio per i prestigiosi laboratori svizzeri di Le Locle, era scomparsa da una settimana. Nessuno ci aveva fatto caso. Sylvie Simonis era una donna estremamente riservata. Faceva re-
golarmente la spola fra la Svizzera e la Francia, e a volte se ne stava per parecchie settimane chiusa nella sua casa di Sartuis senza dare segno di vita, occupata ad assemblare i suoi orologi. Se si tratta di un delitto, esiste un legame fra questo omicidio e quello di Manon del 1988? È troppo presto per formulare la minima ipotesi, ma a Sartuis, e anche a Besançon, le voci corrono già... Da parte loro, sia il Servizio ricerche della gendarmeria di Sartuis, sia il magistrato incaricato dal tribunale di Besançon, Corine Magnan, sembrano decisi a mantenere il riserbo più assoluto. Il giudice istruttore ha già avvertito il nostro corrispondente: «Contiamo di lavorare su questo caso in tutta obiettività, lontano dalle passioni e dalle indiscrezioni. Non tollererò alcuna ingerenza dei media, alcuna pressione di sorta». Tutti ricordano che già nel 1988 l'indagine sull'omicidio della bambina era stata condotta nella più grande riservatezza, al punto che per noi giornalisti era diventato impossibile rendere conto dell'evoluzione della vicenda. Le ragioni di questo black-out sono note: il trauma causato dal caso Grégory, a qualche chilometro dal nostro dipartimento, dove l'onnipresenza dei media aveva ostacolato il corso dell'indagine. Speriamo comunque che nella presente occasione saremo tenuti aggiornati, così da potere diffondere l'informazione a tutti... L'articolo terminava con un'arringa in favore del diritto dei giornalisti a fornire notizie. Alzai lo sguardo e riflettei. Forse c'ero. Avevo individuato la «cosa orribile». L'ossessione di Luc. Ma ancora nessuna allusione a Satana. E, soprattutto, c'era un particolare che stonava. Rilessi l'articolo, poi tornai a quello dell'«Est républicain». Nel testo del 28 giugno si parlava di un «cadavere coperto di muffe e in avanzato stato di decomposizione». In quello del 29 era scritto che la donna era stata subito identificata dai pompieri. Era incompatibile. O il corpo era putrefatto e irriconoscibile, o era intatto e identificabile. Estesi la ricerca al mese di luglio sul «Courrier du Jura». Neanche una riga. I due quotidiani non avevano più fatto il minimo accenno al caso. Tentai di mettermi in contatto con gli autori degli articoli. Né l'uno né l'altro erano presenti al giornale, ed era fuori questione ottenere per telefono i
loro recapiti. Ottenni però le informazioni per mettermi in contatto con l'ufficio dell'AFP a Besançon. Al telefono mi rispose una voce giovane e dinamica. Probabilmente uno stagista. Mi presentai e menzionai il caso Simonis. «Conduce un'indagine?» chiese il giornalista in tono entusiasta. «Raccolgo informazioni. Cosa può dirmi al riguardo?» «Sono stato io a redigere il primo comunicato. Un vero scoop... che si è sgonfiato. La scoperta di un cadavere vicino a un monastero: una notizia coi fiocchi, no? Soprattutto trattandosi di Sylvie Simonis! Be', i gendarmi non ci hanno più fornito la minima informazione. Ho contattato il giudice, niente. Il medico legale, niente di niente. Ho persino fatto il viaggio fino a Notre-Dame-de-Bienfaisance. Non mi hanno aperto.» «Perché questo silenzio?» «Hanno voluto farci credere che si trattava di un incidente escursionistico. Che la vicenda non aveva niente d'interessante. Penso però che sia proprio il contrario. Stanno zitti perché hanno scoperto qualcosa.» «Tipo?» «Non ho idea, ma la loro storia dell'incidente non sta in piedi. Tanto per cominciare Sylvie Simonis non era una sportiva. In secondo luogo hanno sostenuto che era scomparsa da una settimana. In questo caso, perché il suo corpo sarebbe stato in quelle condizioni?» «Il corpo era veramente decomposto?» «Brulicava di vermi, pare.» «Lei l'ha visto?» «No. Ma sono riuscito a parlare con i pompieri.» «Un articolo del "Courrier du fura" afferma che i soccorritori ne hanno riconosciuto il volto.» «È questa la cosa allucinante! Il corpo era al tempo stesso decomposto e... intatto!» «Come sarebbe a dire?» «Le parti inferiori erano completamente putrefatte, ma il busto era meglio conservato. E il viso era ancora integro! Come se... Come se la donna fosse morta più volte, si rende conto? In momenti diversi!» Ciò che descriveva il mio interlocutore era impossibile. E quella stranezza poteva benissimo essere il punto di partenza di Luc. «Si sa almeno se è un omicidio?» «No. In ogni caso, non ci hanno detto niente. Capisco comunque la loro discrezione. Sylvie Simonis è un soggetto tabù nella regione.»
«A causa dell'assassinio della bambina?» «Assolutamente sì! È il caso Grégory del Jura! Quattordici anni dopo non c'è nemmeno l'ombra del colpevole, e le ipotesi più folli continuano a circolare a Sartuis!» «Pensa che le due vicende siano collegate?» «Sicuro. Tanto più che il ruolo di Sylvie non era chiaro nella storia di Manon.» «Cioè?» «A un certo momento è stata persino sospettata dell'omicidio. Ma è stata scagionata. Aveva un alibi di ferro. Adesso, quattordici anni dopo, ecco che lei muore e le autorità rimettono il coperchio sull'indagine. Per me, hanno scoperto qualcosa di enorme!» Un corpo vicino a un monastero. Una donna morta più volte. Una bambina assassinata. Un sospetto d'infanticidio. C'era posto per il diavolo in una storia simile. Mi soffermai su un altro fatto che non quadrava: «Se questo caso la interessa tanto, perché non ha scritto altri comunicati? Perché nessuno ha più scritto una parola al riguardo?». «Non avevamo la minima informazione.» «Un tale black-out è di per sé una notizia. Un soggetto per un articolo.» «Abbiamo ricevuto istruzioni.» «Che genere di istruzioni?» «Dato che non c'era niente da dire, meglio non rimestare nel fango. È controproducente per la regione. Sartuis si trova a sette chilometri dalla cascata del Doubs. S'immagini se si raccontasse che il fiume trasporta dei cadaveri, in piena stagione turistica!» «Come ti chiami?» chiesi passando al tu. «Joël. Joël Shapiro.» «Età?» «Ventidue.» «Credo che verrò a trovarti, Joël. Dopotutto la stagione turistica adesso è finita.» 24 Al Quai mi aspettava il solito guazzabuglio di carte. Verbali, rapporti di intercettazioni telefoniche, telegrammi dello stato maggiore, rassegna stampa... Presi il tutto e lo gettai sulla scrivania. Mi sedetti, avvolsi in una pelle di daino le due automatiche di Doudou e le infilai in uno dei miei
cassetti provvisti di chiave. Sollevai la cornetta e chiamai Laure per scusarmi della mia partenza precipitosa dopo la messa. Pronunciai le formule d'uso, aggiungendo, dopo un'esitazione: «Volevo anche dirti... Ho indagato sui viaggi di Luc». «E allora?» «Non c'era nessuna donna. Non nel senso che pensi tu.» «Ne sei sicuro?» «Assolutamente. Ti richiamo.» Riattaccai senza sapere se avevo rinfrancato il suo orgoglio di donna o acuito il suo dolore di moglie. Scartabellai i documenti e lessi la nota di Malaspey sulla medaglia di Luc. Una cianfrusaglia senza il minimo valore. Ciò che aveva contato per Luc era decisamente il simbolo, san Michele. Trovai anche il rapporto di Meyer sull'individuo sospettato per il caso di Le Perreux. Il gitano Kalderash. Lo scorsi rapidamente, un buon lavoro. Ottimo per mostrare a Dumayet che l'indagine progrediva. Contattai Foucault e gli dissi di venire a riprendersi il cellulare. Chiamai anche Svendsen. Volevo sapere se c'erano novità sulle radiografie trovate nello studio di Luc. Non mi lasciò terminare la frase. «Sono immagini prese con un Petscan, una macchina che permette di visualizzare l'attività del cervello umano in tempo reale. Queste provengono dal dipartimento di medicina nucleare del Brookhaven National Laboratory, un centro di ricerca molto rinomato che ha sede nel New Jersey.» «Di che attività cerebrale si tratta in questo caso preciso?» «Da quanto mi hanno detto, si riferiscono a pazienti in piena crisi. Degli schizofrenici pericolosi.» «Dei criminali?» «Dei violenti, in ogni caso.» Proprio quello che avevo immaginato. Nel medioevo, la presenza diabolica assumeva la forma di una chimera. Nel XXI secolo, quella di un'«alterazione omicida» del cervello. «Ho trovato altre informazioni», proseguì Svendsen. «Questi pazienti presentano anche delle deformazioni fisiche, legate alla loro schizofrenia. Torso più largo, viso asimmetrico, apparato pilifero più sviluppato... Il corpo, si direbbe, è trasformato dalla malattia mentale. Una sorta di mister Hyde...» Indovinavo ciò che interessava Luc in questi casi di mutazione. Il male «possedeva» questi esseri fino al punto di deformarli. Salutai Svendsen nel momento in cui Foucault faceva la sua apparizione sulla soglia.
«Grazie», dissi tendendogli il cellulare. «Hai ritrovato il tuo?» «Tutto a posto. Che mi dici?» «Ho verificato, per scrupolo, se Larfaoui avesse delle reti nella regione di Besançon. Negativo.» «La banca?» «Ho in mano tutto. Niente da segnalare. Tutto normale nei conti di Luc, come nelle bollette del telefono. Le sue chiamate, anche quelle da casa, riguardano il lavoro. Ma Besançon non figura. Secondo me, usava un altro abbonamento. È sempre più frequente nel caso di mariti infedeli e...» «OK. Voglio che scandagli ancora le attività di Larfaoui. Vedi un po' in cosa trafficava, a parte i suoi beveraggi.» Non disperavo di scoprire un dettaglio che, in un modo o nell'altro, potesse integrarsi nell'insieme. Dopotutto l'assassino del cabilo era, a quanto pareva, un prete. Il che poteva stabilire un legame con il diavolo... «E le email dell'Unital6?» «Quelli dell'associazione hanno controllato tutto da cima a tondo. Giurano di non avere ricevuto niente!» Eppure non avevo sognato: quei messaggi Luc li aveva inviati. Decisi che per il momento avrei lasciato perdere questa pista. «La lista dei tizi che parteciperanno al convegno sul diavolo?» «Tieni.» Diedi un'occhiata alla colonna di nominativi: sacerdoti, psichiatri, sociologi, tutti italiani. Non un nome che mi accendesse una lampadina. «Ottimo», dissi posando il foglio. «Ultima cosa: parto stasera.» «Per dove?» «Questioni personali. Nel frattempo, manda avanti tu la baracca.» «Per quanto tempo?» «Qualche giorno.» «Sarai raggiungibile sul cellulare?» «Sicuro.» «Veramente raggiungibile?» «Leggerò i messaggi.» «Hai parlato a Dumayet di questa tua passeggiata?» «Vado adesso da lei.» «E... per Luc?» «Condizioni stazionarie. Non si può fare niente di più.» Esitai, poi aggiunsi: «Ma, là dove vado, sarò accanto a lui».
Il mio collaboratore scosse debolmente la testa di riccioli. Non capiva. «Ti telefono», dissi con un sorriso. Guardai la porta richiudersi, poi presi il rapporto steso da Meyer. Andai fino all'ufficio di Nathalie Dumayet. «Ha fatto bene a venire», disse il commissario mentre entravo. «Le sue quarantott'ore sono trascorse.» Le allungai il rapporto. «Ecco intanto per Le Perreux.» «E il resto?» Chiusi la porta, mi sedetti davanti alla scrivania e mi misi a raccontare. La morte di Larfaoui. I maneggi del cabilo. I nomi: Doudou, Jonca, Chevillat. Invischiati fino alle orecchie. Ma stetti zitto sulla condiscendenza di Luc, sul suo gusto della manipolazione. «Gli Stups dovrebbero occuparsi dei fatti loro prima di immischiarsi in quelli degli altri», concluse. «A ciascuno la sua merda.» «Ho promesso a Doudou un suo intervento.» «In nome di cosa?» «Mi ha fornito altre informazioni... importanti.» «Ciò che succede agli Stups non ci riguarda.» «Può chiamare Levain-Pahut. Contattare Condenceau. Deviare i Bœufs su un'altra pista.» «Che pista?» «Luc lavorava sull'omicidio di Larfaoui. Lei può imbrogliare le carte parlando di infiltrazione fra i grossisti di bevande.» Mi lanciò uno dei suoi sguardi glaciali. «Valgono così tanto le informazioni di Doudou?» «Forse spiegano il gesto di Luc. In ogni caso l'indagine che l'ha ossessionato sino alla fine.» «Che indagine?» «Un assassinio, nel Jura. È giovedì. Mi dia tempo fino a lunedì.» «Neanche per sogno. Le ho fatto una gentilezza, Durey. Adesso si torna al lavoro.» «Mi faccia prendere qualche giorno di riposo.» «Dove crede di essere? Alle poste?» Non risposi. Lei sembrava riflettere. Le sue dita sottili tambureggiavano sul sottomano di cuoio. Da quando ero arrivato alla Criminale, non avevo preso un giorno di vacanza. «Non voglio casini», disse infine. «Dovunque lei vada, non ha alcuna legittimità.»
«Sarò discreto.» «Lunedì?» «Sarò in ufficio alle nove.» «Chi altri è al corrente?» «Nessuno, a parte lei.» Approvò lentamente, senza guardarmi. «E i casi in corso?» «Se ne occupa Foucault. La terrà informata.» «Dovrà essere lei a tenermi informata. Ogni giorno. Buon weekend.» 25 Una pistola automatica Clock 21, calibro 45. Tre caricatori di sedici cartucce a punta cava. Due scatole di proiettili blindati e semiblindati. Munizioni Arcane, in grado di attraversare i giubbotti antiproiettile. Una bomboletta di gas paralizzante. Un coltello Randall commando a lama seghettata. Un vero arsenale di guerra. Tessera di poliziotto o no, legittimità o no, dovevo aspettarmi il peggio. Infilai le armi chiuse in sacchetti di cordura nero a tenuta stagna fra le camicie, i maglioni e i calzini. Nella borsa misi due completi invernali e una serie di cravatte, prese a caso. Aggiunsi dei guanti, un berretto e due pullover. Meglio abbondare: non escludevo di trattenermi più del previsto nel Jura. Fra i vestiti infilai anche il computer portatile, una macchina fotografica digitale, una torcia Streamlight e un kit della polizia scientifica per il prelievo di sostanze organiche e il rilevamento delle impronte. Aggiunsi una documentazione sulla regione, pescata su Internet, e un ritratto recente di Luc. Infine una Bibbia, le Confessioni di sant'Agostino e la Salita del monte Carmelo di san Giovanni della Croce. In viaggio, mi limitavo sempre a quei tre libri. Ore 19. Un ultimo caffè corretto con il rhum, e partenza. Non raggiunsi direttamente la périphérique. Prima la Senna, il ponte della Cité, poi la Rive Gauche, rue Saint-Jacques. Aveva ripreso a piovere. Parigi brillava come un quadro appena dipinto. Regnava una sorta d'impazienza, d'irrequietezza, nell'alone azzurrino dei riverberi.
Mi fermai in rue de l'Abbé-de-L'Epée. Cacciai le borse nel bagagliaio, lo chiusi a chiave e mi diressi verso la chiesa di Saint-Jacques du Haut-Pas. Spinsi la porta laterale. Un segno della croce e ritrovai, intatta, immutabile, la dolce chiarezza del luogo. Anche a quell'ora, sotto le luci elettriche, la chiesa appariva aerea, intessuta di sole. Dei passi. Apparve padre Stéphane, occupato ad azionare i commutatori per spegnere tutti i lampadari. Si dedicava a questo rito ogni sera. L'avevo conosciuto all'Université catholique di Parigi, ai tempi era professore di teologia. Raggiunta l'età della pensione, gli avevano affidato questa chiesa, il che gli permetteva di rimanere nello stesso quartiere. Percepì la mia presenza. «C'è qualcuno?» Superai una colonna. «Sono venuto a salutarti. Parto per un viaggio.» Il vecchio mi riconobbe e sorrise. Aveva una testa rotonda, occhi altrettanto tondi, sgranati come quelli di un bambino che guarda il mondo con stupore. Mi si avvicinò, spegnendo al passaggio un'altra lampada. «Vacanze?» «Tu che dici?» Indicando i sedili, mi fece segno di sedermi. Afferrò un inginocchiatoio e lo piazzò all'esterno della fila, di traverso, davanti a me. Il sorriso riscaldava i suoi tratti ingrigiti. «Su», disse battendo le mani, «cos'è che ti ha portato qui?» «Ti ricordi di Luc? Luc Soubeyras?» «Certo.» «Si è suicidato.» Il suo viso si spense. I suoi occhi tondi si velarono. «Mat, ragazzo mio, non posso fare niente per te.» Il prete fraintendeva le mie intenzioni. Pensava che venissi a elemosinare un funerale cristiano. «Non è questo», dissi. «Luc non è morto. Ha tentato di annegarsi ma adesso è in coma. Non sappiamo se ne uscirà. C'è il 50 per cento di probabilità.» Scosse lentamente il capo, con una sfumatura di biasimo. «Era così esaltato...» mormorò. «Si buttava sempre, in tutte le cose...» «Aveva la fede.» «Ce l'abbiamo tutti la fede. Luc aveva idee pericolose. Dio non ammette la collera, il fanatismo.» «Non mi chiedi perché abbia voluto farla finita?»
«Cosa si può capire di simili atti? Persino noi, spesso, non abbiamo il braccio abbastanza lungo per ripescare queste anime...» «Penso che si sia ucciso a causa di un'indagine.» «La cosa ha un legame con il tuo viaggio?» «Voglio finire il suo lavoro», replicai. «È il solo modo che ho per capire.» «Non è l'unica ragione.» Stéphane leggeva in me come in un libro aperto. «Voglio ripercorrere le sue tracce. Portare a termine la sua indagine. Penso... Insomma, credo che se scopro la verità lui si sveglierà.» «Diventi superstizioso?» «Sento che posso ripescarlo. Strapparlo alle tenebre.» «Chi ti dice che non abbia lui stesso completato l'indagine? Che non sia proprio la sua conclusione ad averlo gettato nella disperazione?» «Posso salvarlo», risposi in tono ostinato. «Solo il Signore può salvarlo.» «Certo. Credi al diavolo?» chiesi cambiando argomento. «No», rispose senza esitazione. «Credo in un Dio onnipotente. Un creatore che non condivide il proprio potere. Il diavolo non esiste. Quello che esiste è la libertà che il Signore ci ha accordato e lo spreco che ne facciamo.» Approvai in silenzio. Stéphane si chinò verso di me e assunse il tono con cui si rimproverano i bambini. «Fai finta di pormi delle domande ma sei molto sicuro di te. Hai qualcos'altro da chiedermi, no?» Mi agitai sulla sedia. «Vorrei confessarmi.» «Adesso?» «Adesso.» Assaporavo l'odore dell'incenso, della paglia intrecciata delle sedie, la risonanza delle nostre parole. «Seguimi.» «Possiamo restare qui, no?» Stéphane inarcò le sopracciglia, sorpreso. Dietro i suoi modi bonari c'era un uomo molto legato alla tradizione, al limite del reazionario. All'epoca del corso di teologia evocava sempre quell'architettura invisibile, quei punti di riferimento - i riti - che devono strutturare il nostro cammino. Eppure, quella sera, chiuse gli occhi e congiunse le mani, mormorando una pre-
ghiera. Lo imitai. Poi si chinò verso di me. «Ti ascolto.» Parlai di Doudou, dell'episodio di Rungis, delle menzogne e delle porcherie che insudiciavano già la mia indagine. Parlai dei locali notturni africani, delle tentazioni che mi avevano suscitato. Parlai di Foxy, della realtà immonda che rappresentava e del patto che avevo dovuto stringere con lei. Gli esposi la logica del peggio, consistente nel chiudere gli occhi su un male per sbaragliarne un altro ancora più grave. Confessai la mia vigliaccheria rispetto a Luc, non avevo avuto il coraggio di passare all'ospedale prima di partire. E anche il mio disprezzo nei confronti di Laure, di mia madre, di tutti quei poliziotti che avevo incrociato al mattino nella cappella. Stéphane ascoltava, gli occhi chiusi. Mentre parlavo, capii che peccavo anche allora. Il mio rammarico non era sincero: godevo di quel momento di condivisione, di serenità. Provavo piacere anche dove avrebbero dovuto esserci contrizione e penitenza. «È tutto?» domandò. «Non ti basta?» «Fai il tuo mestiere, no?» «Non è una scusa.» «Potrebbe essere una scusa per sprofondare nell'indolenza del peccato, dell'indifferenza. Cose da cui mi sembra tu sia lontano «Allora sono assolto? Così?» dissi schioccando le dita. «Non essere ironico. Recitiamo insieme una preghiera.» «Posso sceglierla?» «Non è un menu alla carta, ragazzo mio», disse sorridendo. «Che preghiera vorresti?» Mormorai: La mia vita non è che un istante, un'ora passeggera La mia vita non è che un giorno Che mi sfugge e svanisce. «Teresa di Lisieux?» Quando eravamo adolescenti, Luc e io disprezzavamo le donne celebri della storia cristiana. Santa Teresa d'Avila: un'isterica. Santa Teresa di Lisieux: una sempliciotta. Hildegard von Bingen: un'esaltata... Ma, con l'età,
le avevo scoperte e ne ero rimasto soggiogato. Teresa di Lisieux, la sua freschezza. La sua innocenza era una quintessenza. La pura semplicità cristiana... «Non molto ortodosso», borbottò Stéphane. «Ma se ci tieni...» Sussurrò: La mia vita non è che un istante, un'ora passeggera La mia vita non è che un giorno Che mi sfugge e svanisce. Tu lo sai, oh mio Dio, per amarti sulla terra Non ho che oggi! Ripresi il seguito insieme a lui. Oh! Ti amo, Gesù! Verso di te aspira la mia anima. Per un giorno soltanto resta il mio dolce sostegno. Vieni a regnare nel mio cuore, dammi il tuo sorriso Solo per oggi! Il contrasto fra il volto stanco e segnato del prete e queste parole squillanti, impazienti, mi commosse fino alle lacrime. Abbassai il capo. Il sacerdote mi tracciò una croce sulla fronte. «Va' in pace, figliolo.» D'un tratto capii cos'ero venuto a cercare. Un'anticipazione. Un'assoluzione, non per le mie colpe recenti ma per quelle future... Anche Stéphane l'aveva capito. «È tutto quello che posso fare per te. Buona fortuna», disse con semplicità. II SYLVIE 26 Mi svegliai in una piazzola dell'autostrada. Fuori del tempo, fuori dello spazio. Semiaddormentato, consultai l'orologio: le quattro e dieci del mattino. Dovevo trovarmi da qualche parte fra Avallon e Digione. Verso mezzanotte avevo deciso di riposarmi per qualche minuto in un'area di par-
cheggio. Risultato: quattro ore di coma totale... Anchilosato, scesi dall'auto. Dei grossi autotreni sonnecchiavano sul parcheggio. Il vento polare sconquassava gli alberi. Una rapida pisciata e risalii in macchina, battendo i denti. Accesi una sigaretta. La prima tirata mi raspò la gola. La seconda mi bruciò la laringe. La terza fu quella buona. Delle luci, in lontananza. Una stazione di servizio. Girai la chiave dell'accensione. Il pieno, per prima cosa. Poi un caffè, urgentemente. Qualche minuto dopo ero di nuovo in strada e passavo mentalmente in rassegna le informazioni racimolate sulla mia destinazione. Il Doubs serpeggiava fino a millecinquecento metri d'altitudine, a cavallo fra la Francia e la Svizzera. Sartuis si trovava nella parte alta del fiume, alla sommità di una zona formata da strutture geologiche diversificate e intersecata da piccole valli. Tentai d'immaginare quei territori appena francesi e non ancora svizzeri. Una vera no man's land. Besançon, alle prime luci del giorno. La città era costruita in una conca, sulle vestigia di una fortezza. Via via che si scendeva verso il centro non si vedevano che bastioni, fossati e merlature, inframmezzati da giardini. Il tutto evocava uno di quei percorsi di addestramento per reparti d'assalto dove bisogna correre, arrampicarsi, saltare, ripararsi... M'installai in un caffè, aspettando che si facesse giorno. Dispiegai la pianta della città e vi cercai la corte d'appello. Scoprii che era proprio l'edificio fortificato che si ergeva davanti a me, e la cosa mi parve di buon augurio. Mi sbagliavo: l'edificio era in fase di ristrutturazione. La procura aveva provvisoriamente trovato sede all'altro capo della città, sulla collina di Brégille. Ripartii, e fu solo dopo aver girato per mezz'ora che riuscii ad arrivarci. Il tribunale si era insediato in un'ex fabbrica di orologi. Un edificio industriale, immerso nei boschi della collina. Sulla porta d'ingresso era ancora inciso il logo FRANCE EBAUCHE. All'interno tutto ricordava l'attività industriale: i muri in cemento dipinto, i corridoi abbastanza larghi da lasciar passare il montacarichi che fungeva da ascensore. Rudimentali cartelli indicavano il nuovo ruolo di ogni stanza: servizio permanente, cancelliere, corte d'appello... Presi le scale e salii al piano dei giudici istruttori. Incrociando l'ufficio del sostituto procuratore, optai per una piccola deviazione, tanto per tastare la temperatura. La porta era aperta. Un giovane era seduto dietro una scrivania, affianca-
to da due donne. Una picchiava sulla tastiera del computer, l'altra era al telefono, con il vivavoce, e prendeva appunti. «Un suicidio. Sei sicuro?» Feci segno all'uomo, che si alzò sorridendo. Mi presentai sotto un nome falso e con una falsa professione: giornalista. Il sostituto indossava pantaloni attillati di velluto verde e una camicia marroncina che gli davano un'aria da Peter Pan. Era disponibile, ma quando pronunciai il nome di Sylvie Simonis smise di sorridere. «Non esiste un caso Simonis.» Alle sue spalle, la donna proseguiva la conversazione telefonica. «Non capisco», diceva. «Si è asfissiato da solo?» Decisi di bluffare. «In giugno abbiamo ricevuto parecchi comunicati a proposito del corpo di questa donna, rinvenuto nel parco di un monastero. Poi, più niente. L'indagine è chiusa?» Peter Pan si agitò. «Non vedo come questa storia possa interessarla.» «C'erano delle contraddizioni nelle informazioni che abbiamo ricevuto.» «Contraddizioni?» «Per esempio, il cadavere è stato identificato dai soccorritori. Il viso era dunque intatto. Un altro comunicato parla di avanzato stato di decomposizione. La cosa ci sembra impossibile.» Il sostituto si grattò la nuca. Dietro di lui, la voce della donna saliva di tono. «Con un sacchetto di plastica? Si è soffocato con un sacchetto di plastica?» «Non ricordo questi dettagli», rispose l'uomo, con scarsa convinzione. «Conosce almeno il giudice, no?» «Certo. È la signora Corine Magnan.» Adesso la funzionaria stava urlando nella cornetta. «Gli altri? C'erano degli altri sacchetti di plastica?» Mio malgrado tesi l'orecchio per captare la risposta del gendarme. «Ne abbiamo trovati una dozzina», disse una voce grave. «Tutti chiusi con lo stesso tipo di nodo.» Mi rivolsi alla donna: «Gli domandi se la vittima aveva un fazzoletto in bocca, sotto il sacchetto». Lei mi guardò interdetta. Prima che potesse reagire arrivò la risposta del gendarme. «Aveva la bocca piena di ovatta. Chi ha parlato lì vicino a lei?» «Non è un suicidio», dissi. «È un incidente.»
«Che ne sa lei?» chiese la donna fissandomi. «Probabilmente l'uomo si masturbava», risposi. «La mancanza di ossigeno aumenta il piacere sessuale. O almeno è quello che raccontano. È una tecnica che si ritrova già in Sade. Il suo tizio deve essersi annodato il sacchetto attorno alla testa dopo aver morso dell'ovatta, per non soffocarsi con la plastica. Sfortunatamente non è riuscito a disfare il nodo in tempo.» Un silenzio accolse le mie spiegazioni. La voce all'altro capo del filo ripeté: «Chi c'è lì con lei? Chi è che parla?». «Al momento dell'autopsia», aggiunsi, «sono sicuro che constateranno che i vasi capillari del pene erano gonfi. Il membro dell'uomo era in erezione. Un incidente. Non un suicidio. Un incidente erotico.» Il sostituto era rimasto a bocca aperta. «Come sa queste cose?» «Specialista di cronaca. A Parigi fatti come questo sono all'ordine del giorno. Dov'è l'ufficio di Corine Magnan?» M'indicò la porta in fondo al corridoio. Dopo aver bussato, entrai. Mi trovai di fronte a una donna di una cinquantina d'anni, attorniata da scatole di fazzolettini di carta e affiancata da due scrivanie vuote. Era una rossa, e subito fui colpito dalla somiglianza con Luc. La stessa pelle bianca e secca, le stesse lentiggini. Tutto però in tono più spento. I capelli, lisci e con un taglio carré, avevano il colore del ferro arrugginito. «La signora Corine Magnan?» Fece un cenno con la testa e si soffiò il naso. «Chiedo scusa», disse tirando su. «C'è un'epidemia d'influenza nel mio reparto. È per questo che oggi sono qui da sola. Cosa vuole?» Mi feci avanti e declinai la mia falsa identità. «Giornalista?» ripeté. «Da Parigi? E si presenta qui senza avvisare?» «Ho corso questo rischio, sì.» «Che coraggio! Quale caso le interessa?» «L'assassinio di Sylvie Simonis.» Il suo viso s'indurì. Non era un'espressione di sorpresa come quella del sostituto. Era piuttosto un atteggiamento di diffidenza. «Di che assassinio sta parlando?» «Spetta a lei dirmelo. A Parigi abbiamo ricevuto dei comunicati che...» «Ha fatto settecento chilometri per niente. Sono spiacente. Non conosciamo la ragione della morte di Sylvie Simonis.» «E l'autopsia?» «Non ha dato alcun risultato. Né in un senso, né nell'altro.» Ignoravo quanto valesse Corine Magnan come giudice, ma come bu-
giarda faceva schifo. E non si dava nemmeno la pena di essere credibile. Appeso al muro alle sue spalle, notai un grande mandala ricamato: la rappresentazione simbolica dell'universo per i buddhisti tibetani. C'era anche un piccolo buddha di bronzo, su uno scaffale. «Apparentemente il corpo presentava stadi di decomposizione diversi», insistetti. «Oh quello... Secondo il nostro medico legale, non è affatto straordinario. La decomposizione organica non è soggetta a regole rigorose. Tutto è possibile in questo campo.» Rimpiansi di essermi fatto passare per un giornalista. La magistrata non avrebbe mai osato ammannire una tale cretinata a un poliziotto della Criminale. Si soffiò nuovamente il naso e prese una scatolina di ferro rotonda. Passò le dita all'interno, poi si massaggiò le tempie. «Balsamo di tigre», m'informò. «È l'unico a darmi sollievo...» «Di cosa è morta la donna?» «Non se ne sa niente, glielo ripeto. Incidente, suicidio: è impossibile capirlo in base al cadavere. Sylvie Simonis era molto solitaria. Neanche l'indagine di prossimità ha dato risultati.» Esitò e mi lanciò uno sguardo scettico. «Non ho capito per quale giornale lavori...» Abbozzai un gesto di saluto prima di chiudere la porta. Nel corridoio, le cime degli alberi sferzavano le finestre. L'indagine si annunciava ancora più difficile di quanto mi ero aspettato. 27 Quartiere Trépillot, a ovest della città. Dietro la piscina municipale si trovava la Divisione centrale di gendarmeria. M'introdussi nell'area di parcheggio senza alcun problema, non c'era nessuna sentinella all'ingresso. M'infilai fra due Peugeot. Avrei dovuto schizzare direttamente a Sartuis, ma prima volevo vedere le facce di quelli che avevano indagato su un cadavere così ben protetto. Scelsi l'edificio più imponente, trovai una scala e salii. Non un'uniforme in vista. Gettai un occhio nel corridoio del primo piano e intercettai un cartello: SERVIZIO RICERCHE. Nessuno. Al secondo, nuovo cartello. COG: Centro operativo di gendarmeria. La porta era socchiusa. Due guardie sonnecchiavano davanti a un centralino telefonico sovrastato da una carta della regione. Mi presentai, sempre con la mia falsa identità, e domandai di vedere il responsabile dell'indagine
Simonis. I due uomini si guardarono. Uno dei due si eclissò senza una parola. Cinque minuti dopo era di ritorno e mi accompagnò al terzo piano, facendomi entrare in una stanzetta piuttosto spartana. Pareti bianche, sedie di legno, tavolo di formica. Giusto il tempo di dare un'occhiata fuori della finestra ed ecco profilarsi sulla soglia un tizio alto e filiforme con un bicchierino di plastica in ogni mano. L'odore del caffè riempì la stanza. Non portava né chepì, né uniforme. Soltanto una camicia azzurra, collo sbottonato, galloni sulle spalle. Senza una parola, posò un bicchiere sul tavolo vicino a me, poi andò a sedersi dall'altro lato. Messaggio chiaro: mi sedetti anch'io, senza fiatare. Il funzionario mi studiava. L'osservai a mia volta. Trent'anni a malapena e tuttavia, ne ero certo, responsabile dell'indagine Simonis. Da tutta la sua persona emanava una forte determinazione. I capelli cortissimi facevano pensare a un cappuccio nero che gli incorniciava la testa. Gli occhi scuri, troppo vicini al naso, brillavano intensamente sotto le folte sopracciglia. «Capitano Stéphane Sarrazin», si presentò. «Corine Magnan mi ha telefonato.» Parlava troppo in fretta, sfiorando appena le sillabe. Cominciai la mia tiritera. «Sono un giornalista di Parigi e...» «A chi vuole darla a intendere?» M'irrigidii. «Lei è della Criminale, no?» «Non sono in missione ufficiale», ammisi. «Abbiamo già verificato. Cosa sa di Sylvie Simonis?» Avevo la gola sempre più secca. «Niente. Ho letto solo due articoli. Sull'"Est républicain" e sul "Courrier du Jura".» «Perché le interessa questo caso?» «Interessava un mio collega: Luc Soubeyras.» «Mai sentito.» «Ha tentato di suicidarsi. Adesso è in coma. Era un amico. Cerco di sapere cosa avesse in testa al momento della sua... decisione.» Sfilai di tasca il ritratto di Luc e lo feci scivolare sul tavolo. «Mai visto», fece dopo un rapido sguardo. «Sta prendendo una cantonata. Se il suo amico fosse venuto a ficcare il naso nella faccenda ci saremmo incrociati. Dirigo il gruppo di ricerca.» Le pupille nere erano dure, ostinate, pronte a trapassarmi il cranio. «Per-
ché si sarebbe interessato a questa storia?» Non osavo rispondere: «Perché era ossessionato dal diavolo». «A causa del mistero.» «Che mistero?» «La causa della morte. La decomposizione anormale.» «Lei mente. Non ha fatto questo viaggio per una storia di larve.» «Le giuro che non so nient'altro.» «Non sa chi è Sylvie Simonis?» «Non so niente. E sono qui per imparare.» Il funzionario prese il bicchiere e vi soffiò sopra. Per un attimo credetti che stesse per passarmi un'informazione, ma mi sbagliavo. «Sarò chiaro», fece. «Ho il suo nome, quello del suo commissario capo, tutto. Grazie alla sua targa. Se se ne va adesso, lascerò stare il telefono. Se scopro che domani è ancora qui in giro... saranno guai!» Mi presi il tempo di bere il caffè. Era insapore, inconsistente. Come quella conversazione: una soperchieria. Mi alzai e mi diressi verso la porta. Alle mie spalle il capitano ribadì: «Ha il resto della giornata, tempo sufficiente per visitare il forte Vauban». Mi diressi verso il centro, dove si trovava l'ufficio dell'AFP. Lasciai l'auto nei pressi di place Pasteur e m'incamminai nella zona pedonale. Individuai l'agenzia, una mansarda appollaiata in cima a un immobile dall'architettura tradizionale. Joël Shapiro si gustò il mio racconto. «Le hanno fatto proprio una bella accoglienza!» Era un giovanotto già avviato alla calvizie, con i riccioli superstiti che gli disegnavano una specie di corona d'alloro intorno al cranio. Per ristabilire l'equilibrio, portava un pizzetto sotto il mento. «Cosa pensi di questo atteggiamento?» chiesi continuando a dargli del tu. «Non vogliono dire niente.» «Ma tu, in questi ultimi mesi, non sei venuto a sapere niente di nuovo?» Si servì abbondantemente di corn-flakes. «Zero assoluto. Hanno messo il chiavistello, mi creda. E io non sono la persona più adatta per racimolare notizie.» «Perché?» «Non sono di queste parti. Nel Jura, la biancheria sporca si lava in famiglia.» «È da tanto che ti sei trasferito qui?» «Sei mesi. Avevo chiesto l'Iraq. Ho avuto Bezak!»
«Bezak?» «È così che qui chiamano Besançon.» «Sarrazin ha accennato alla personalità particolare della vittima. Sylvie Simonis.» «Sta qui il succo della storia.» «La faccenda dell'infanticidio?» «Ehi, non così in fretta! Non è mai stato provato niente. C'erano tre altri sospetti. Tutto questo per finire in un bel niente.» «L'assassino non è mai stato identificato?» «Mai. Ed ecco che Sylvie Simonis muore in circostanze misteriose...» «Corine Magnan mi ha detto che non c'è stata nessuna conferma che si tratti di un omicidio.» «Figurarsi! Ci hanno messo una pietra sopra, tutto qua.» Osservai gli scaffali allineati sotto il tetto mansardato, stipati di cartelle grigie e di scatole di fotografie. «Hai degli articoli, delle foto dell'epoca? Voglio dire, del 1988?» «Nada. Quando sono trascorsi dieci anni i materiali tornano all'archivio della sede principale, a Parigi.» «In giugno non hai fatto rispedire tutto qui?» «Sì, ma poi ho rimandato tutto indietro. D'altronde, non c'era granché.» «Torniamo a Sylvie Simonis. Hai delle foto del corpo?» «Niente.» «Cosa sai sulle anomalie del cadavere?» «Solo dei sentito dire. Sembra che, in alcuni punti, fosse decomposto fino all'osso. In compenso il viso era intatto.» «Non sei venuto a sapere nient'altro?» «Ho parlato con Valleret, il medico legale di Besançon. Secondo lui, questo genere di fenomeno non è raro. Mi ha portato degli esempi di corpi non putrefatti, dopo anni, in particolare quelli di certi santi.» «Può capitare che un cadavere non si decomponga, ma mai che si decomponga solo a metà.» «Bisognerebbe sentire Valleret. Un luminare. Viene da Parigi, ma là ha avuto dei guai.» «Che genere di guai?» «Non so.» Cambiai argomento. «Ho sentito dire che è stato un delitto satanista. Ne sai qualcosa?» «No. Non ne ho mai sentito parlare.»
«E il monastero?» «Notre-Dame-de-Bienfaisance? Non è più in attività. Voglio dire che non ci sono monaci né suore là dentro. È diventato una sorta di rifugio. Ospita missionari che vanno lì per un periodo di riposo. Anche persone che hanno perso una persona cara.» Mi alzai. «Faccio un salto a Sartuis.» «Vengo con lei!» «Se vuoi renderti utile», dissi, «fa' una capatina alla corte d'appello. Vedi un po' se la mia visita ha smosso qualcosa.» Parve deluso. Gli tesi un osso. «Ti chiamerò più tardi.» Per concludere gli mostrai la foto di Luc. «Hai già visto quest'uomo?» «No. Chi è?» C'era da pensare che Luc avesse evitato Besançon. Senza rispondere, mi avviai verso la porta. «Un'ultima domanda», dissi sulla soglia. «Conosci dei giornalisti locali a Sartuis?» «Certo. Jean-Claude Chopard, del "Courrier du Jura". Uno specialista del primo caso. Voleva persino scriverci sopra un libro.» «Credi che vorrà parlare con me?» «In confronto a lui, io ho fatto voto di silenzio!» 28 «Un medico legale di nome Valleret? Mai sentito nominare.» Andai in direzione sudovest, verso il quartiere di Planoise, dove si trova l'ospedale Jean-Minjoz. Avevo appena chiamato Svendsen. Lui conosceva tutti i grandi medici legali di Francia e anche d'Europa. Era impossibile che non avesse sentito parlare di uno specialista, un «luminare» di Parigi. Shapiro aveva anche parlato di «guai». Forse Valleret esercitava un'altra specialità nella capitale? La medicina legale era talvolta un rifugio per quelli che sfuggivano i vivi. «Al Jean-Minjoz, a Besançon. Puoi informarti? Credo abbia avuto dei problemi a Parigi.» «Un cadavere nell'armadio, forse?» «Molto divertente. Te ne occupi o no? È urgente.» Svendsen ridacchiò. «Lascia libera la linea, cocco.»
Chiusi il cellulare ed entrai nel parcheggio dell'ospedale. Era un lugubre edificio di cemento, punteggiato di strette finestre, che risaliva probabilmente agli anni Cinquanta. Degli striscioni sventolavano al primo piano: NO ALL'ASFISSIA!, SOVVENZIONI, NON RIDUZIONI!. Mi accesi una sigaretta. Contavo i minuti. Dovevo sbrigarmi: il capitano Sarrazin non mi avrebbe mollato. Non solo mi avrebbe seguito passo a passo, ma io contavo su di lui perché precedesse ogni mia azione. Forse aveva persino già chiamato Valleret... La suoneria del cellulare mi fece sobbalzare. «Il tuo tizio ha tutto l'interesse a limitarsi ai cadaveri.» Guardai l'orologio. Svendsen ci aveva messo meno di sei minuti a trovare l'informazione. «In origine era un chirurgo ortopedico. Un pezzo grosso, pare. Ma ha avuto un esaurimento nervoso. Ha dato i numeri. Un intervento riuscito male.» «Cioè?» «Un ragazzino. Un'infezione. Valleret ha avuto un colpo di sonno mentre operava e ha inciso un muscolo. Il bambino è rimasto zoppo.» «Come ha potuto addormentarsi?» «Sbevazzava e abusava di ansiolitici. Non è il massimo per operare...» «Cos'è successo dopo?» «I genitori l'hanno denunciato. La clinica lo ha difeso, ma per lui era finita. Ha seguito un corso di formazione come medico legale ed eccolo spuntare a Besançon. Divorziato, senza un soldo, sempre strafatto di pillole. Un altro che ha scelto la medicina legale come purgatorio. Eppure la medicina dei morti è l'arte più nobile, perché cura l'anima dei vivi e...» Troncai il suo slancio. «Il nome della clinica? La data?» «Clinique d'Albert. 1999. Les Ulis.» Ringraziai Svendsen. «Voglio un rapporto dettagliato», ribatté. «Sono sicuro che sei incappato in qualcosa di grosso. È nel tuo interesse. Senz'altro Valleret ha cannato sulla metà del cadavere. Bisogna essere portati per il linguaggio dei morti. Io...» «Ti richiamo.» Attraversai di corsa il cortile. Sopra il portone, uno striscione ammoniva: LA VOSTRA SALUTE NON È UN OSTAGGIO! L'obitorio era al piano 3. Mi orientai verso gli ascensori, senza uno sguardo per il gruppo di infermiere che facevano un sit-in.
Nel seminterrato la temperatura si abbassò di una buona decina di gradi. Il corridoio era deserto, non c'era l'ombra di un'indicazione. Seguendo l'istinto, mi diressi a destra. Dei tubi neri correvano sul soffitto; tratti di cemento spogli e tetri apparivano lungo i muri. Ancora qualche passo, poi, a sinistra, una saletta neutra. Dei sedili, un tavolino. Di fronte, una porta a due battenti. Su una parete, una grande fotografia di un prato verde. Tentava di rallegrare l'atmosfera ma la battaglia era persa in partenza. Aleggiava un odore misto di disinfettante, caffè e candeggina. Una lettiga su rotelle emerse dalla doppia porta, spinta da un robusto infermiere con capelli da vichingo legati a coda di cavallo e con indosso un grembiule di plastica. «Desidera, signore?» La voce era dolce, in netto contrasto con l'aspetto da barbaro. Un assistente che aveva l'abitudine di parlare a famiglie affrante. «Vorrei vedere il dottor Valleret.» «Il dottore non riceve. Io...» Per tagliare corto, mostrai il tesserino. I battenti si spalancarono in senso inverso, e la lettiga rimase abbandonata. Qualche secondo più tardi apparve un uomo alto e curvo, con la sigaretta in bocca. Il suo sguardo era pieno di diffidenza. «Chi è lei? Non la conosco.» «Comandante Durey, Squadra criminale, Parigi. M'interesso al caso Simonis.» «I gendarmi sono al corrente?» Era rimasto accanto alla porta, appoggiato allo stipite. Mi avvicinai senza rispondere. Era alto quasi quanto me. Il camice aperto era macchiato. Aveva un modo curioso di portarsi la sigaretta alle labbra, velandosi con la mano la metà del viso. Visto che fino ad allora le frottole non mi avevano portato fortuna, optai per la sincerità. «Dottore, non ho nessuna autorità su questo territorio. Il giudice Magnan mi ha dato il benservito e il capitano Sarrazin mi ha apertamente minacciato. Tuttavia, non me ne andrò da questa città finché non avrò saputo di più sul cadavere di Sylvie Simonis.» «Perché?» «Questo caso appassionava un mio amico. Un collega.» «Come si chiama?» «Luc Soubeyras.»
«Mai sentito questo nome.» Valleret abbassò la mano. Anche adesso che la sua faccia era visibile i tratti apparivano sfuggenti, illeggibili. «Posso farle qualche domanda?» «No, evidentemente. Quella è la porta.» «Mi sono informato su di lei. Clinique d'Albert. 1999.» «Ah, davvero?» fece sorridendo. «Vuole spaventare i miei pazienti?» «Besançon è una piccola città. La sua immagine potrebbe risentirne se io...» Il medico scoppiò a ridere. «La mia immagine?» disse schiacciando la sigaretta sul pavimento. «Non ha molto intuito lei.» Tornò serio. Parve riflettere, farsi pensoso. «La mia immagine? È da un pezzo che non prendo in esame questo concetto...» L'istinto mi suggeriva che quell'uomo recitava la parte del cinico disperato, ma aveva ancora i nervi scoperti. Forse la franchezza avrebbe scalfito la sua corteccia. «Luc Soubeyras è il mio migliore amico», dissi alzando un po' il tono. «Adesso è in coma, dopo avere tentato di suicidarsi. È cattolico e il suo atto è doppiamente incomprensibile. Negli ultimi mesi indagava sulla vicenda Simonis. Forse è stato questo caso a spingerlo alla disperazione.» «Ce ne sarebbero tutte le ragioni.» Trasalii. Era la prima volta che si dava credito alla mia idea del «caso che uccide». Valleret avrebbe parlato, ma dovevo spingerlo ancora un po', giusto un colpettino. «Secondo lei, Sylvie Simonis si è suicidata?» «Suicidata?» ripeté lanciandomi uno sguardo di sbieco. «No. Non penso che avrebbe potuto infliggersi quello che ha subito.» «Si tratta allora di un assassinio?» Con un gesto, spinse la porta e mi fece segno di passare. «Il più folle, il più raffinato mai commesso al mondo.» 29 Sulla superficie di acciaio lucido erano disposte dieci fotografie. Valleret aveva detto: «Voglio che sappia di cosa parliamo. Esattamente». Non ero più tanto sicuro di voler sapere. Le immagini raccontavano, l'una dopo l'altra, la storia di una decomposizione umana. La prima era una
visione d'insieme. Una radura in pendenza, contornata di abeti, che si apriva su una falesia. Una donna nuda vista di schiena, girata su un fianco, come se dormisse. Il corpo aveva l'aspetto di un burattino disarticolato, costruito assemblando frammenti disparati. La testa, incassata nelle spalle, e il busto, inarcato, erano di normali proporzioni, ma dalle anche in giù il corpo andava assottigliandosi fino alle ossa dei piedi, come la coda di una sirena da incubo. La seconda fotografia era un primo piano dei tarsi e metatarsi tenuti insieme da esili filamenti di carne annerita. La terza riprendeva solo le cosce, verdastre, incartapecorite. Sulla quarta, le anche e il sesso brulicavano di vermi ed erano ricoperti da grumi di pupe e di fibre. Poi il ventre, putrido, violaceo, gonfio, anch'esso animato dai necrofagi... Si risaliva così, di foto in foto, sino al busto, meno deteriorato, anche se già scavato dal lavoro delle larve, e alle spalle, soltanto illividite. La testa, infine, era intatta, ma terrificante nella sofferenza che esprimeva. Il volto non era che una bocca, spalancata, impietrita in un grido d'eternità. «Tutto quello che vede è opera dell'assassino», disse Valleret dall'altro lato del tavolo. «Questo cadavere presenta tutti gli stadi della decomposizione. Simultaneamente. Il processo di Putrefazione si sviluppa dai piedi fino alla testa.» «Com'è possibile?» «Non è possibile. L'omicida ha organizzato l'impossibile.» «Come se la donna fosse morta più volte», aveva detto Shapiro. Questa putrefazione a tappe era dunque frutto di un lavoro, di una cura particolare... «All'inizio», riprese il medico, «quando hanno trovato il corpo, i pompieri e quelli del SAMU hanno pensato che fossero state le condizioni meteorologiche a provocare queste diverse reazioni fisiche. L'ho sostenuto anch'io, per calmare gli animi. Ma, come lei di sicuro sa, sono pure idiozie. In circostanze normali, una decomposizione totale ha luogo solo nell'arco di tre anni. Come aveva potuto la parte inferiore degradarsi a quel punto in meno di una settimana? Questo fenomeno è stato provocato dall'assassino, che l'ha concepito e ha creato ogni singola fase della degenerazione.» Riabbassai gli occhi sulle fotografie mentre Valleret recitava a bassa voce: Risplendeva su quel marciume il sole, Come per cuocerlo a puntino,
E per rendere centuplicalo alla grande natura Tutto quello che essa aveva congiunto. Un medico legale poeta! Faceva il paio con Svendsen. Conoscevo quei versi. Una carogna di Charles Baudelaire. «Ho pensato a questa strofa non appena ho visto il cadavere», commentò. «C'è una dimensione artistica in questo scempio. Una scelta estetica, un po' come in quelle tele cubiste che mostrano, su un unico piano, tutte le angolazioni di un oggetto.» «Ma come? Come ha fatto?» Il medico girò attorno al tavolo e mi si mise accanto. «Dal mese di giugno ho sempre questo cadavere in testa. Tento d'immaginare le tecniche dell'assassino. Secondo me, per le parti più deteriorate ha usato degli acidi. Nelle zone superiori ha iniettato dei prodotti chimici sotto pelle, nei muscoli, per ottenere l'aspetto "pergamena". Questi diversi stati del corpo implicano anche un trattamento particolare delle temperature e della luce. Il calore accelera i processi organici...» «Dunque il corpo sarebbe stato trasportato successivamente nella radura?» «Naturalmente. Tutto è stato fatto nel chiuso di una stanza, o addirittura in un laboratorio.» «Pensa che l'assassino abbia una formazione da chimico?» «Sicuro. E ha accesso a prodotti molto pericolosi.» Il medico prese una fotografia, poi una seconda, e le mise sopra la serie delle altre. «Prendiamo degli esempi. In questa foto, il sesso è in piena fase colliquata, che si ha quando la morte risale da sei a dodici mesi prima. È la fase in cui appaiono gli umori e la carne comincia a decomporsi. In quest'altra, la parte alta dell'addome è nella fase dei gas: fermentazione ammoniacale, evaporazione dei liquidi saniosi. Tutto ciò è stato provocato, frenato, controllato... Il folle è un vero direttore d'orchestra.» Tentai d'immaginare l'assassino al lavoro. Non vidi niente. Un'ombra forse, maschera sul viso, chino sulla sua vittima in una sala operatoria, maneggiando siringhe, strumenti sconosciuti. «Inoltre c'è qualcosa di curioso...» proseguì Valleret. «Ho trovato, nella gabbia toracica, un lichene che non aveva niente a che fare con il resto. Niente a che fare con la decomposizione. Una cosa strana che l'assassino ha iniettato sotto le coste.»
«Che genere di lichene?» «Non ne conosco il nome, ma ha una particolarità: è luminescente. Quando i soccorritori hanno trovato il corpo, il petto brillava ancora dall'interno. Come una zucca di Halloween con la candela dentro, hanno detto quelli del SAMU. «Altre parti sono più "semplici"», continuò il medico. «Le spalle e le braccia erano solo colpite da rigor mortis, che interviene circa sette ore dopo il decesso e scompare, a seconda dei casi, nel giro di qualche giorno. Quanto alla testa...» «La testa?» «Era ancora tiepida.» «Come ha potuto ottenere un simile prodigio?» «Niente di eccezionale. Quando l'abbiamo trovata, la donna era morta da poco, tutto qua.» «Vuole dire che...» «Che Sylvie Simonis era ancora viva quando ha subito gli altri trattamenti, sì. È morta per le sofferenze. Non saprei dire quando esattamente, ma è morta alla fine del supplizio, questo è certo. Lo dimostra lo stato di freschezza del viso. In ciò che restava del fegato e dello stomaco ho rinvenuto tracce di lesioni di gastrite e di ulcere duodenali, sintomi di uno stress intenso. Sylvie Simonis ha agonizzato per giorni e giorni.» La testa mi ronzava. Una profonda angoscia mi comprimeva il cranio. «Se volessi azzardare un'immagine», aggiunse Valleret, «direi che l'ha uccisa... con gli strumenti stessi della morte. Non ha dimenticato niente. Neanche gli insetti.» «È stato lui a piazzarli?» «Li ha iniettati, sì, nelle piaghe, sotto la pelle. Per ogni tappa ha scelto gli esemplari necrofagi che corrispondevano. Mosche sarcofaghe, vermi, acari, coleotteri, farfalle... Tutte le squadre della morte sono state convocate seguendo una cronologia perfetta.» «Ciò significa che alleva questi insetti?» «Assolutamente sì.» Nel frastuono che avevo in testa si delineavano dei punti precisi: un chimico, un laboratorio, un allevamento... Delle vere piste per braccare il mostro. «In questa zona c'è uno dei migliori entomologi d'Europa, uno specialista di questi insetti. Mi ha aiutato per l'autopsia.» Valleret scarabocchiò su uno dei suoi biglietti il nome «Mathias Plinkh»,
seguito dall'indirizzo preciso. «Possiede anche lui un allevamento?» «È la base della sua attività.» «Potrebbe essere sospetto?» «Lei non perde un colpo! Vada a trovarlo. Si farà un'idea. Per me, è bizzarro ma non pericoloso. Il suo allevamento si trova nei pressi del Mont d'Uziers, sulla strada di Sartuis.» Tornai a guardare i primi piani, costringendomi a osservarli minuziosamente. Carni gonfiate dai gas. Piaghe aperte piene di mosche. Vermi bianchi che succhiavano i muscoli rosa... Nonostante il freddo, gocciolavo di sudore. «Ha notato altre tracce di violenze?» «Non ne ha a sufficienza?» «Parlo di un altro tipo di violenze. Segni di colpi inferti al momento del rapimento, per esempio.» «C'è il segno dei lacci, naturalmente, ma soprattutto i morsi.» «Morsi?» Il medico esitò. Asciugai il sudore che mi pizzicava le palpebre. «Né umani, né animali. Secondo quanto ho osservato, la "cosa" che le ha fatto questo dispone di numerosissimi denti. Direi piuttosto zanne disordinate, rovesciate. Come se... Come se quei denti non fossero piantati nello stesso senso. Una mascella sorta dal caos.» Un'immagine mi si presentò alla mente. Pazuzu, il demone assiro dell'iconografia di Luc. La creatura con la coda di scorpione all'opera nella sala operatoria, il muso da pipistrello chino sul corpo. Udivo il suo grugnito rauco. I rumori di suzione, di carni lacerate. Il diavolo. Il diavolo incarnato, in flagrante atto di assassinio... Valleret venne in mio soccorso. «Tutto ciò che posso immaginare è un randello tappezzato di denti di animale. Iena o bestia feroce. In ogni caso un'arma munita di un manico. L'assassino avrebbe colpito con questa il corpo di Sylvie Simonis in diversi punti: braccia, gola, fianchi. Ma c'è il problema dei segni di mascelle. E perché questa specifica tortura? Non va d'accordo con il resto. Io...» s'interruppe di colpo e mi osservò. «Tutto a posto, amico? Non ha l'aria di sentirsi molto bene.» «A posto.» «Vuole che ci andiamo a bere un caffè?» «No. Grazie, davvero.»
Per ritrovare il sangue freddo passai a fare delle domande da poliziotto, terra terra. «Attorno al corpo, hanno trovato delle tracce?» «No. Devono aver portato lì il cadavere durante la notte, ma la pioggia del mattino ha cancellato tutto.» «Sa dov'è situata la scena del delitto rispetto al monastero?» «Ho visto delle fotografie. Sulla sommità di una falesia, sopra l'abbazia. Il corpo sovrastava il chiostro, come un affronto. Una provocazione.» «Si è parlato di un delitto satanista. C'erano dei segni, dei simboli sul corpo o intorno a esso?» «Non ne sono al corrente.» «Cosa può dirmi sull'assassino?» «Tecnicamente, il suo profilo è preciso. Un chimico. Un botanico. Un entomologo. Conosce bene il corpo umano. Forse persino un medico legale! È un imbalsamatore. Ma un imbalsamatore al contrario. Non preserva. Accelera la decomposizione. La orchestra, gioca con... È un artista. E un uomo che prepara da anni il suo colpo magistrale.» «Ha detto tutto questo ai gendarmi?» «Certo.» «Si sono mossi su piste precise?» «Non ho l'impressione che facciano scintille, ma è anche vero che il giudice e il capitano della gendarmeria si attengono alla massima discrezione. Forse hanno in mano qualcosa...» Rividi Corine Magnan con il suo balsamo di tigre e il capitano Sarrazin che si mangiava le parole. Cosa potevano fare contro un crimine simile? Presi un'altra direzione. «Vede un legame fra l'omicidio della bambina Simonis, nel 1988?» «Non conosco molto bene quella vicenda. La piccola Manon è stata annegata in un pozzo. È orribile, ma niente a che vedere con la raffinatezza dell'esecuzione di Sylvie.» «Perché "esecuzione"?» Alzò le spalle senza rispondere. Mentre raccontava si era rinfrancato e aveva acquisito una certa sicurezza. Adesso riassumeva la sua posizione curva. «Qual è l'obiettivo perseguito dall'assassino, secondo lei?» insistetti. Ci fu un lungo silenzio. Valleret cercava le parole. «È un principe delle tenebre. Un intenditore del male che agisce per amore della raffinatezza. Non sono sicuro che ne ricavi un qualche piacere. Di ordine sessuale, in-
tendo. Glielo ripeto: un artista. Mosso da pulsioni... astratte.» Capii che non avrei ottenuto niente di più. «Avrebbe una copia del suo referto di autopsia?» chiesi per concludere. «Mi aspetti qui.» «Ha conservato anche dei campioni del lichene?» «Ne ho alcuni, sì. Sotto vuoto.» Si eclissò. Pochi istanti dopo mi ficcava tra le mani una cartella di tela grezza. «Tutto il malloppo», disse. «Il mio rapporto, i verbali dei gendarmi, le fotografie scattate sul posto, il bollettino meteorologico, tutto. Ho aggiunto anche due sacchetti di lichene.» «Grazie.» «Non mi ringrazi. Le passo la patata bollente, amico. Un regalo avvelenato. Per anni sono stato ossessionato dall'incidente che mi ha distrutto la vita, in sala operatoria. Da quando ho fatto questa autopsia, non faccio che sentire le urla di questa donna rosa dai vermi.» Sorrise amaramente. «Chiodo scaccia chiodo, indipendentemente dal marcio che c'è in tavola.» Ritrovai con sollievo il mondo della superficie. Il mio malessere si stemperò quando attraversai il cortile dell'ospedale, nella luce di mezzogiorno. Eppure, azionando il telecomando dell'auto, rimasi per un attimo impietrito. Si era materializzata nella mia mente l'immagine del demone che piantava i denti nelle carni di Sylvie Simonis, circondato da una nuvola di mosche, e in sottofondo il verso di cani ringhianti. Mi ricordai di una cosa che avevo appreso ai corsi di teologia. Belzebù proviene dall'ebraico Beelzeboul, che a sua volta deriva dal nome filisteo Beel Zebub. Il Signore delle mosche. 30 All'uscita dalla città, m'immersi sotto un turbinio di foglie gialle e ocra. A seconda della specie di alberi, attraversavo pozze di tè, foglie d'oro, toast bruciacchiati. Tutta una tavolozza di toni smorzati eppure intensi. Mi ero fermato a comprare una guida e le carte dei vari dipartimenti della Franche-Comté. Imboccai la statale 57 e presi la direzione di PontarlierLausanne, verso la regione dell'alto Doubs e la frontiera svizzera. Con l'altitudine, i toni dell'autunno si diradavano lasciando spazio al solenne verde scuro degli abeti. Il paesaggio sembrava uscito da una pubblicità per il
cioccolato. Declivi verdeggianti, paesini con campanili a forma di cipolla, rustici con il caratteristico frontone tronco, i lunghi tetti poligonali. Il quadro era perfetto, con tanto di mucche e campanacci di bronzo. Un cartello: Saint-Gorgon-Main. Le cime del Jura si avvicinavano. La strada rettilinea, cinta da abeti e terra rossa, faceva pensare alle lande interminabili del Sudovest della Francia. Costeggiai questi verdi bastioni fino alla deviazione per il calvaire di Uziers. Secondo la carta, Mathias Plinkh, l'entomologo, viveva da quelle parti. Ben presto le curve si fecero più frequenti, aprendosi talvolta sulle pianure, in fondo alla valle. Infine apparve la croce. Poi un pannello di legno annunciò: FATTORIA PLINKH, MUSEO DI ENTOMOLOGIA, PERIZIE DI TANATOLOGIA, ALLEVAMENTO D'INSETTI. La nuova strada serpeggiava fra le colline. D'un tratto apparve una casa, come incuneata fra i pendii ombrosi. Una costruzione moderna, a un piano, a forma di L. Alternando il legno e la pietra, ricordava certe case delle Bahamas, molto piatte, traforate da lunghe superfici vetrate e circondate da un terrazzo. Le due parti della L offrivano due stili diversi: da un lato, numerose finestre; dall'altro, una facciata cieca, dotata solo di qualche stretta finestrella. L'ala destinata ad abitazione e l'ecomuseo. Un vecchio poliziotto che avrebbe dovuto farmi da guida agli esordi, e che in realtà era stato una palla al piede, diceva sempre: «Un'indagine è semplice come un colpo di campanello». Tutto da verificare. Parcheggiai e premetti il pulsante. Poco dopo risuonò una voce grave, dall'accento nordico. Mi presentai, senza fare misteri. «Entri nella prima sala: vengo subito. E ammiri le tavole!» Penetrando nel grande cubo bianco dell'ingresso, capii che Plinkh parlava di una serie di schizzi scientifici dipinti a mano che erano esposti sulle pareti. Mosche, coleotteri, farfalle: la precisione del tratto ricordava quella degli acquarelli cinesi o giapponesi. «Le prime tavole di Pierre Mégnin sugli insetti necrofagi, 1888. L'inventore dell'entomologia criminale.» Mi girai verso la voce e mi trovai di fronte un gigante in giacca nera con collo alla Mao. Capelli grigi, occhi verdi, braccia incrociate: un guru New Age. Tesi la mano. Congiunse i palmi, alla maniera buddhista. Poi chiuse gli occhi, con il fare mellifluo di un gatto. Il suo modo di atteggiarsi tradiva il calcolo, l'artificio. Rialzò le palpebre e fece un cenno verso destra: «La visita per di qua...». Un'altra stanza, altrettanto bianca. Qui, i quadri alle pareti contenevano degli insetti appuntati con spilli.
«Ho riunito qui i principali gruppi. I famosi "squadroni della morte". Questa sala ha un successo strepitoso. I ragazzini vanno matti per questa roba! Se gli parli d'insetti e di ecosistema, non ti degnano della minima attenzione. Se gli spieghi che ci sono di mezzo dei cadaveri, ti ascoltano religiosamente!» Si avvicinò alla bacheca che conteneva file di mosche bluastre. «Le famose Sarcophagidae. Tornano sul posto dopo circa tre mesi. In grado di fiutare un cadavere a trenta chilometri. Quand'ero nel Kosovo, in qualità di esperto, ci bastava seguirle per individuare le fosse dei cadaveri...» «Signor Plinkh...» Si fermò davanti a una serie di bacheche più profonde, tappezzate di carta di giornale. «Qui ho raggruppato qualche caso tipo. Fatti di cronaca in cui gli insetti hanno permesso di smascherare il criminale. Ha notato la trovata? Ogni scatola è decorata con i ritagli stampa relativi alla vicenda.» «Signor Plinkh...» L'entomologo fece ancora un passo. «Ecco degli esemplari eccezionali, risalenti alla preistoria. Rinvenuti nei resti congelati di mammuth. Lo sa che l'esoscheletro di una mosca è indistruttibile?» Alzai la voce. «Signore, sono venuto a parlarle di Sylvie Simonis.» Si bloccò all'istante, abbassando lentamente le palpebre. Poi un sorriso gli si disegnò sulle labbra. «Un capolavoro.» Congiunse nuovamente i palmi. «Un autentico capolavoro.» «Si tratta di una donna che ha patito un martirio atroce. Di un pazzo che l'ha torturata per giorni.» Aprì gli occhi di scatto, come un gufo. Occhi da russo, iride chiarissima, pupilla molto scura. Aveva l'aria sinceramente stupita. «Non parlo di questo. Parlo della distribuzione. La ripartizione delle specie sul corpo. Non mancava un solo insetto! Le mosche Calliphoridae, che arrivano subito dopo la morte; le Sarcophagidae, che s'insediano subito dopo, al momento della fermentazione butirrica; le mosche Piophilidae e i coleotteri Necrobia rufipes che sopraggiungono otto mesi dopo, quando evaporano i liquidi saniosi... Era tutto perfetto. Un capolavoro.» «Sto cercando di capire che metodo è stato usato.» La testa grigia girò come su un perno, l'effetto di rotazione accentuato
dal collo alla Mao. «Il metodo?» ripeté. «Venga con me.» Lo seguii in un corridoio rivestito di legno di pino. Oltrepassata una porta tagliafuoco, sigillata con l'ovatta, penetrammo in una grande stanza immersa nella penombra i cui due muri laterali erano coperti di gabbie protette da teli di garza. L'atmosfera era quella di un vivaio. Un calore soffocante. Odore di carne cruda e di prodotti chimici. Al centro dell'ambiente, una scatola rettangolare coperta da un lenzuolo era posata su un banco bianco. Temetti il peggio. Plinkh si avvicinò al banco. «L'assassino è come me. Nutre i suoi insetti. Dà a ciascuno l'organismo in mutazione che gli si confà...» Tirò via la tela. Sotto c'era un acquario. Dapprima non distinsi che una massa in un vortice di mosche. Poi credetti di vedere una testa umana, brulicante di vermi. Mi sbagliavo: era solo un grosso roditore, e gli insetti ci avevano già dato dentro. «Le soluzioni non sono infinite. Bisogna preservare l'ecosistema di ogni specie, ossia la putrefazione che gli corrisponde.» «Dove... si rifornisce?» «Be', nelle fattorie, dai cacciatori... Compro quasi sempre dei conigli. Una volta che una specie si è nutrita, basta dare la carogna alla famiglia seguente e così via...» «Posso fumare?» domandai. «Preferirei di no.» Lasciai il pacchetto in tasca. «M'interrogavo sul trasporto del cadavere», ripresi. «Secondo lei, come l'avrà organizzato? Il trasferimento deve avere scompigliato la sua messinscena.» «No. Penso che abbia infilato il corpo in una fodera di plastica per poi toglierla una volta sul promontorio.» «E gli insetti? Avrebbero dovuto volare via o morire, no?» Plinkh scoppiò a ridere. «Ma c'erano delle riserve! Migliaia d'uova con un certo periodo d'incubazione. Larve che hanno una durata di vita precisa. Le mosche, quelle sì, devono essersi riprese la loro libertà, ma senza andare troppo lontano. Avevano sempre fame, capisce? Del resto, lei non ha del tutto torto: il corpo non si trovava là da molto tempo. È una certezza.»
«Perché? «Questi predatori non vanno molto d'accordo fra loro. Non coabitano mai, perché sono attratti da fasi di decomposizione diverse. Se s'incrociano si divorano l'un l'altro. Dato che erano tutti compresenti, direi che il cadavere è stato portato là solo qualche ora prima che venisse scoperto.» «Ciò potrebbe significare che l'assassino vive nella zona.» «Certo che vive nella zona!» «Come fa a dirlo?» «Possiedo un indizio.» «Quale?» Plinkh sorrise. Pareva trovare la cosa estremamente divertente. A quel tipo doveva mancare una rotella, volevo sbrigarmi in fretta. «Quando ho studiato il corpo ho fatto numerosi prelievi. C'era un insetto che non era di qui. Voglio dire: non proveniva da territori a clima continentale come i nostri.» «Da dove veniva?» «Dall'Africa. Uno scarabeo della famiglia Lipkanus Silvus, affine ai nostri Tenebrio. Sono coleotteri che si presentano al momento della riduzione scheletrica, per la pulizia finale.» Un indizio con i fiocchi, in effetti. Ma non vedevo come dimostrasse la vicinanza dell'assassino. «Lasci che le racconti un aneddoto», proseguì Plinkh. «Lavoro attualmente all'allestimento di un ecomuseo per la regione che riunirà le diverse specie delle nostre vallate. A tale scopo ho ingaggiato dei ragazzi che vanno a caccia per me: cetonie, farfalle, acari ecc. Tempo fa uno di loro mi portò un esemplare molto particolare. Un coleottero che non avrebbe dovuto esserci.» «Lo scarabeo?» «Un Lipkanus Silvus, sì. Il ragazzo l'aveva trovato nei dintorni di Morteau. Un simile esemplare non poteva che essere scappato da una collezione privata. Ho cercato nei dintorni un allevamento nello stile del mio, ma non ho trovato niente. Neanche dal lato svizzero. Quando ho scoperto il secondo esemplare, sul corpo di Sylvie Simonis, ho capito subito. Il primo proveniva dalla stessa fonte: la fattoria dell'assassino.» «Quando è stato?» «Nell'estate del 2001.» «L'ha detto ai gendarmi?» «Ne ho parlato al capitano Sarrazin, ma neanche lui ha trovato niente.
Altrimenti avrebbe ripreso contatto con me.» «Allora, secondo lei, l'assassino alleva una specie tropicale?» «O viaggia, e senza volerlo si è portato a casa un esemplare che si è insinuato nel suo allevamento. Oppure sviluppa deliberatamente questo ceppo e ha messo queste bestie sulla sua vittima, per una ragione misteriosa. Propendo per la seconda ipotesi. Lo scarabeo è una firma. Un simbolo che non sappiamo interpretare.» «È possibile vedere questo insetto? L'ha conservato?» «Certo. Posso anche lasciarglielo. Le darò anche la grafia esatta del suo nome.» L'allusione alla firma mi fece ricordare un altro elemento. «Le hanno parlato del lichene nella gabbia toracica?» «Ero presente all'autopsia.» «Cosa ne pensa?» «Un altro simbolo. O qualcosa che ha una ragione d'essere specifica...» «Anche questo lichene potrebbe provenire dall'Africa?» Ebbe un'espressione sdegnata. «Sono un entomologo, non un botanico.» Immaginai il luogo in cui si producevano simili deliri. Un allevamento d'insetti, un laboratorio, una serra. Che cazzo facevano i gendarmi? Era impossibile non trovare un posto del genere nelle valli della regione. «È qui», disse Plinkh, come se seguisse i miei pensieri. «Vicinissimo a noi. Posso sentirne la presenza, con i suoi squadroni, in qualche parte delle nostre vallate... Il suo esercito, identico al mio, pronto per un nuovo attacco. Sono le sue legioni, capisce?» Lanciai uno sguardo alla mia destra, verso le gabbie velate di garza. Tutto mi apparve come dietro una lente d'ingrandimento. Acari che trotterellavano su una ciocca di capelli; una mosca, gonfia di sangue, che si alimentava a una piaga gocciolante; centinaia d'uova, caviale grigiastro, in fondo a una cavità putrefatta... Domandai con voce sorda: «Possiamo tornare nell'altra sala?». 31 Prima di andare a Sartuis volevo passare da Notre-Dame-deBienfaisance. Curve brusche, precipizi, muraglie, baratri e, giù in fondo, muraglie verdi e torrenti argentati. Gli indicatori di altitudine si susseguivano: 1200 metri, 1400 metri... A 1700 metri un'insegna annunciò Bienfaisance.
Cinque chilometri più in là apparve il monastero. Un grande edificio quadrato, austero, affiancato da una cappella dal campanile tornito. I muri grigi erano interrotti solo da strette finestre; l'ingresso, sbarrato da un portone nero, dava il tocco finale a quella tetraggine. Una sola macchia di colore alleviava la cupezza dell'insieme: una parte del tetto era rivestita di tegole variopinte che richiamavano le esuberanze di Gaudi a Barcellona. Lasciai l'auto nel parcheggio e affrontai il vento. Subito, il posto mi ispirò una strana malinconia. Bienfaisance era il genere di luogo in cui mi sarebbe piaciuto isolarmi. Un luogo che concretizzava il mio desiderio di vita monacale. Sottrarsi al mondo, restare soli con Dio, alla ricerca di beatitudine... Una sola volta, da quando facevo il poliziotto, mi ero ritirato presso i benedettini - dopo aver ammazzato Eric Benzani, il magnaccia schizzato, nel marzo del 2000. Avevo deciso di rinunciare al mio mestiere e di dedicare alla preghiera il resto dei miei giorni. Era stato Luc che, ancora una volta, mi era venuto a cercare. Mi aveva convinto che il mio posto era sulla strada, al suo fianco. Dovevamo accettare la nostra seconda morte, quella che ci allontanava da Cristo, per servirlo meglio... Diedi uno strattone alla campana appesa accanto alla porta. Nessuna risposta. Spinsi il portone: aperto. Il cortile centrale era circondato da una galleria vetrata. Fuori, due donne imbacuccate giocavano a scacchi su un tavolo pieghevole. Coperto da un plaid, un uomo anziano sonnecchiava accanto a un albero. Un sole gelido si posava su queste comparse immobili e assegnava loro, non so perché, un'aria da inverno cinese. Avanzai nella galleria fino a un'altra porta. Se il mio senso dell'orientamento non m'ingannava, doveva immettere nella cappella. Su un tavolo, l'etichetta di un quaderno indicava: «Annotate i vostri propositi. Ne terremo conto nella preghiera comune». Mi chinai e lessi qualche riga: preghiere per le missioni lontane, per i defunti... Una voce dietro di me: «Qui è privato». Scorsi una donna tarchiata che mi arrivava al gomito. Portava un berretto nero che le cingeva la fronte e una mantella scura. «Il rifugio è chiuso per la stagione.» «Non sono un turista.» Aggrottò le sopracciglia. Incarnato scuro, tratti asiatici, pupille che evocavano due perle grigie infossate in ostriche vischiose. Impossibile darle un'età precisa. Oltre la sessantina, molto probabilmente. Sembrava di nazionalità filippina.
«Storico? Teologo?» «Poliziotto.» «Abbiamo già detto tutto ai gendarmi.» Una voce nasale, senza l'ombra di un accento. Mostrai la tessera, con un sorriso. «Vengo da Parigi. Il caso presenta, diciamo, qualche problema.» «Ragazzo, sono stata io a scoprire il cadavere. Sono al corrente.» Guardai il patio con l'aria di cercare un posto dove sedersi. «Potremmo metterci da qualche parte?» La missionaria restava immobile. I suoi occhi acquosi non mi lasciavano. «C'è qualcosa di religioso in lei.» «Ho studiato al seminario francese di Roma.» «È per questo che la mandano qui? È uno specialista?» L'aveva detto come se fossi stato un esorcista o un parapsicologo. Sentii che avevo una carta da giocare. «Esatto», mormorai. «Mi chiamo Marilyne Rosarias», disse. Mi prese la mano e me la strinse con vigore. «Dirigo la fondazione. Mi aspetti qui.» Scomparve da una porta che non avevo notato. Il tempo di respirare l'odore della pietra consumata, soffermandomi a guardare i pensionanti del monastero in cortile, e lei era di ritorno. «Mi segua. Le faccio vedere.» La sua mantella sbatteva come l'ala di un pipistrello. Un minuto dopo eravamo fuori, ad affrontare il vento della montagna. Il fiato si cristallizzava in sbuffi di vapore, materializzando i nostri pensieri inespressi. Ci saremmo dovuti sorbire la salita della falesia, sopra il monastero. Marilyne attaccò ardimentosa un sentiero scosceso, bordato di paletti di legno. Dopo una decina di minuti penetravamo in un sottobosco di pini e betulle punteggiato di rocce coperte di muschio. Seguivamo il fiume. I rami erano rivestiti di velluto verde, i sassi che affioravano dall'acqua rilucevano della stessa lanugine. Il sentiero si fece più largo: terra ocra e abeti neri, inestricabili. A poco a poco il rumore delle fronde che stormivano al vento ebbe la meglio sul ribollire della schiuma. «Ci siamo quasi!» urlò Marilyne. «Il punto culminante del parco è qui, al di sopra della Roche Rêche e della sua cascata!» Apparve una grande radura in lieve pendio che si apriva su un precipizio. Adesso il monastero era ai nostri piedi. Riconobbi lo scenario delle foto. Marilyne confermò, tendendo l'indice. «Il corpo era laggiù, ai margini
della falesia.» Scendemmo il declivio. L'erba era folta come su un terreno da golf. «Viene a raccogliersi qui ogni mattina?» «No. Resto sempre sul sentiero.» «Come mai ha scoperto il corpo, allora?» «A causa della puzza. Ho pensato alla carogna di un animale.» «Che ore erano?» «Le sei del mattino.» Indovinai un altro dettaglio. «È stata lei a riconoscere Sylvie Simonis, vero?» «Certo. Il viso era intatto.» «La conosceva?» «La conoscevano tutti a Sartuis.» «Voglio dire: personalmente?» «No. Ma l'assassinio di sua figlia ha traumatizzato tutti qui.» «Cosa sa di quella vicenda?» «Cosa vuole che sappia?» Lasciai che s'insediasse il silenzio. Cadeva la notte. Un leggero nevischio pigmentava l'aria. Mi sarei acceso volentieri una Camel, ma non osavo: il carattere sacro della scena del delitto, molto probabilmente. «Mi hanno detto che il corpo sovrastava il monastero.» «Ovvio.» «Perché ovvio?» «Perché quel cadavere era una provocazione.» «Da parte di chi?» Ficcò le mani sotto la mantella. Il suo viso bruno e rugoso evocava un quarzo nero. «Del diavolo.» "Ci siamo", pensai. Malgrado il carattere assurdo della riflessione, provavo una sensazione confortante: il nemico era stato identificato, sotto un buono strato di superstizione. Scelsi le mie domande di conseguenza. «Perché il diavolo avrebbe scelto il vostro parco?» «Per imbrattare il nostro monastero. Corromperlo. Come si può pregare adesso qui? Satana ha gettato su di noi la sua scia di marciume.» Mi avvicinai al precipizio. Il vento mi incollava il cappotto contro le gambe. L'erba dura si schiacciava sotto i miei passi. «A parte la scelta del luogo, cos'è che la induce a pensare a un atto satanico?»
«La posizione del corpo.» «Ho visto le fotografie. Non ho notato niente di diabolico.» «Il fatto è che...» «Cosa?» Mi lanciò uno sguardo in tralice. «Lei è proprio uno specialista?» «Gliel'ho detto. Delitti rituali, assassini satanici. La mia squadra lavora direttamente con l'arcivescovado di Parigi.» Parve rasserenata. «Prima di chiamare i gendarmi», disse abbassando la voce, «ho cambiato la posizione del corpo.» «Cosa?» «Non avevo scelta. Lei non conosce la reputazione di Notre-Dame-deBienfaisance. I suoi martiri. I suoi miracoli. La tenacia dei nostri padri nel difendere questo luogo costantemente minacciato di distruzione. Noi...» «Qual era la posizione iniziale?» Esitò ancora. I fiocchi di neve volteggiavano attorno al suo viso scuro. «Era stesa là», mormorò, «sulla schiena, a gambe aperte.» Mi sporsi: cento metri più sotto si dispiegavano il complesso religioso e il suo fiume. Dunque il cadavere esibiva la sua vagina brulicante di vermi proprio sopra il monastero. Adesso sì che mi era chiara la «provocazione». Satana, il principe ribelle, l'angelo caduto, sempre mosso dalla volontà di schiacciare la chiesa sotto la sua potenza e le sue turpitudini... «Marilyne, lei mi racconta delle storie», feci raddrizzandomi. «Il diavolo non fa mai le cose a metà. C'era qualcos'altro. Dei segni nell'erba? Dei pentagrammi? Un messaggio?» Lei si avvicinò. Gli alti fusti degli abeti mugghiavano dietro di noi, come le canne di un mostruoso organo vegetale. «Ha ragione», ammise. «Ho nascosto un elemento. Dopotutto, non era così importante. Per l'indagine, voglio dire... Ma per la nostra fondazione era essenziale. Quando ho scoperto il cadavere, ho capito subito che si trattava di un attacco satanico. Sono tornata al monastero a prendere un paio di guanti. Guanti di caucciù, di quelli che si usano per lavare i piatti. Ho spostato il corpo per nascondere... be', la sua intimità.» Immaginavo la scena, le condizioni del cadavere. Questa donna aveva una buona dose di sangue freddo. «È stato quando le ho girato le gambe che ho visto la cosa.» «Quale cosa?»
Un altro dei suoi sguardi obliqui. Due biglie di piombo, sparate da una pistola ad aria compressa. Si fece il segno della croce e si buttò, senza tirare il fiato: «Un crocifisso. Sant'Iddio: aveva un crocifisso piantato nella vagina». Questa rivelazione mi diede quasi sollievo. Eravamo in territorio familiare. Quell'oltraggio era un classico della profanazione. Niente a che vedere con la follia delirante dell'omicidio. «Suppongo che il Cristo fosse crocifisso al contrario, con la testa in basso», commentai. «Come lo sa?» «Non dimentichi che sono un esperto.» Si segnò di nuovo. Stavo per tornare sui miei passi quando fui preso da vertigine. Qualcuno, da qualche parte, mi osservava, nella penombra. Uno sguardo denso di collera che mi faceva l'effetto di un contatto nauseabondo. D'un tratto mi sentii di una vulnerabilità totale. Insozzato e messo a nudo da quegli occhi brucianti che non vedevo, ma che mi trapassavano come un ferro incandescente. Una mano mi sostenne. «Attenzione. Stava per cadere.» Guardai Marilyne con stupore, poi scrutai gli abeti. Niente, ovviamente. «Quel... quel crocifisso», chiesi con voce alterata, «l'ha conservato?» La sua mano scomparve sotto la mantella. Ne emerse con un oggetto avvolto in uno straccio. «Prenda», disse posandomelo sul palmo. «E se ne vada.» Mi diede il suo numero di cellulare. «Nel caso che». A mia volta, le mostrai il ritratto di Luc: mai visto. Mi avviai in direzione degli abeti. «Perché ci ha lasciati?» domandò Maryline alle mie spalle. Mi fermai. Lei mi raggiunse. «Mi ha detto che aveva fatto il seminario. Perché abbandonarci?» «Non ho abbandonato nessuno. La mia fede è intatta.» «Abbiamo bisogno di uomini come lei. Nelle nostre parrocchie.» «Lei non mi conosce.» «Lei è giovane, integro. La nostra religione sta morendo con la mia generazione.» «La fede cristiana non poggia su una tradizione orale che scompare con i suoi officianti.» «Oggi i nostri giovani prendono altre strade, scelgono altre battaglie. Come lei.»
Mi ficcai il crocifisso in tasca. «Chi le dice che non si tratti della stessa battaglia?» Marilyne indietreggiò, turbata. L'avevo intrappolata nella sua stessa rete: Dio contro Satana. Ripresi il cammino, senza voltarmi. Era solo una frase buttata lì, ma avevo fatto centro. Il corpo profanato di Sylvie non era una semplice provocazione. Era una dichiarazione di guerra. 32 Era buio quando arrivai a Sartuis. Mi aspettavo il classico borgo del Jura, con fattorie a colombages e campanile di pietra. Era invece una città moderna tutta in cemento. Una via principale, come tracciata con la sega, attraversava il centro. La maggior parte degli edifici erano laboratori di orologeria, chiusi da una vita: lo testimoniavano le lancette dei pendoli delle loro insegne, immobili. "Sartuis", pensai, "la città dove il tempo si è fermato." Conoscevo la storia della regione. Dall'inizio del XX secolo l'alto Doubs aveva conosciuto uno straordinario sviluppo economico sotto il segno dell'orologeria e della meccanizzazione. Si avevano grandi aspettative per il futuro. Fino a costruire, negli anni Cinquanta, una città come Sartuis. Ma il sogno si era infranto. La concorrenza asiatica e la rivoluzione del quarzo avevano mandato in frantumi le grandi speranze del Jura. Capitai sulla piazza principale: lì l'architettura era più tradizionale. Prima della febbre degli orologi, qui c'era stato un vero paese, con le sue stradine, la sua chiesa, la sua piazza del mercato... Neanche l'ombra di un albergo. Tutto era avvolto nel buio e nel silenzio. Solo i miei fari squarciavano le tenebre. Quei fasci di luce erano peggio della notte e del freddo. I chiodi della bara che si richiudeva su di me. Proseguii e incrociai la gendarmeria. Pensai a Sarrazin. Si sarebbe accertato che non portassi le mie Sebago a spasso da quelle parti. Forse sarebbe addirittura venuto di persona e avrebbe controllato gli alberghi... Sterzai e tornai verso la piazza. La chiesa era un assemblaggio di blocchi di granito con un tozzo campanile. M'infilai nel vicolo che costeggiava le mura. Una costruzione arretrata affiancava l'edificio, in fondo a un orto ben curato. Un presbiterio all'antica, con i muri coperti d'edera e il tetto d'ardesia. Al suo fianco si ergeva un'altra costruzione, più recente, che dava su un campo da pallacane-
stro. Parcheggiai, afferrai la borsa e mi diressi verso il cancello. Il cielo era chiaro, le stelle impassibili. La ghiaia scricchiolava sotto i miei passi. In questo luogo regnava una solitudine assoluta. Suonai al cancello del giardino e, senza aspettare che uscisse qualcuno, attraversai il terreno coltivato sistemandomi il cappotto. Stavo per bussare alla porta quando questa si aprì di scatto. Un atleta stagionato apparve sulla soglia. Sessant'anni, capelli bianchi un po' radi, portava una maglietta Lacoste bombata sulla pancia e un pantalone di velluto informe. Sul viso aveva un'espressione di stupore contrariato. La mano destra stringeva la maniglia, la sinistra un tovagliolo. «Il signor curato?» L'uomo assentì. Rispolverai la versione del giornalista. Non era il momento di metterlo in agitazione. «Piacere», disse, sfoderando un sorriso di circostanza. «Sono padre Mariotte. Se è per un'intervista, torni domattina, in parrocchia. Io...» «No, padre. Vengo solo a domandarle ospitalità per la notte.» Il sorriso scomparve. «Ospitalità?» «Ho visto il padiglione qui accanto.» «È per la squadra di calcio. Non c'è niente di pronto. È...» «Non cerco la comodità.» Poi aggiunsi, un po' crudelmente: «Quand'ero al seminario mi hanno spesso ripetuto che un buon prete lascia sempre la porta aperta». «Lei... è stato in seminario?» «A Roma, negli anni Novanta.» «Be', se è così, io... entri.» Si fece da parte per cedermi il passo. «Con un nome come il suo, ero sicuro che avrebbe potuto darmi ospitalità.» Il sacerdote non parve cogliere l'allusione alla catena di alberghi americana. Era un parroco all'antica. Tagliato fuori dal mondo, cura il suo gregge, il coro e la squadra di calcio con la stessa mano ferma, al di fuori di tutto. «Mi segua», disse imboccando il corridoio. «L'avverto, è piuttosto rudimentale.» Passando accanto alla sala da pranzo, non poté impedirsi di mugugnare alla vista della cena che diventava fredda. Fatti pochi passi, trafficò con un
pesante mazzo di chiavi che portava alla cintura e fece scattare la serratura di una porta di rovere, seguita da una di metallo che recava scritto TAGLIAFUOCO. Accese un lungo tubo di neon e avanzò con passo sicuro. Nel corridoio, a destra, scorsi delle docce collettive da cui emanava un forte odore di candeggina. Sul fondo, una porta vetrata: doveva dare sul campo da pallacanestro. Entrò nella stanza di sinistra e premette un interruttore. C'erano due file raffrontate di cinque letti. Ogni letto era circondato da una tenda sostenuta da un telaio. Sembravano tante cabine elettorali. «È perfetto», dissi con entusiasmo. «Non fa il difficile, lei», mormorò Mariotte. Tirò una delle tende e mise a nudo un letto sepolto sotto una trapunta gialla. Alla parete era appeso un crocifisso di legno. Non avrei potuto sognare un rifugio migliore. Silenzio, semplicità, discrezione... Il prete batté con energia le mani. «Be', allora la lascio sistemarsi. La porta vetrata là in fondo resta sempre aperta. Se vuole uscire... Quanto a me...» Si bloccò nel mezzo della frase, realizzando la situazione. «Vuole... forse le andrebbe di unirsi a me per la cena?» «Volentieri.» Nel corridoio notai una cabina di legno scuro, suddivisa in due compartimenti. «È un confessionale?» «Lo vede, no?» «Non ce ne sono in chiesa?» «Questo è per le emergenze.» «Che emergenze?» «Se qualcuno prova il bisogno, diciamo, insopprimibile di confessarsi, entra dalla porta in fondo e suona. Io vengo ad ascoltarlo.» Poi, in tono tagliente, aggiunse: «Come dice lei: "Un buon prete lascia sempre la porta aperta"». «La gente di qui è così credente?» Fece un gesto vago e ripartì in quarta. «Allora, viene?» Nella sala da pranzo Mariotte impugnò la casseruola posata sulla tavola. «Ovviamente è tutto freddo.» «Ha un microonde?»
Mi fulminò con lo sguardo. «E perché non un lanciarazzi? Mi aspetti. Riscaldo la roba a fuoco dolce e torno. Prenda un piatto e le posate nella credenza.» Preparai il mio posto a tavola. Assaporavo l'atmosfera di quella casa. Un profumo di legno lucidato a cera si mescolava all'aroma del cibo. In un angolo della stanza ronzava una caldaia. Alle pareti non c'erano altro che un crocifisso e un calendario con l'immagine della Madonna. Tutto era semplice, naturale, e tuttavia quell'atmosfera confortevole sembrava il frutto di un'attenzione minuziosa. «Assaggi un po' questo», proclamò Mariotte posando nuovamente la casseruola sulla tavola. «Pasta con quaglie e spugnole. Specialità della casa!» Aveva ritrovato il suo buonumore. Lo osservai meglio. Nel viso roseo spiccavano gli occhi chiari, amichevoli, attorniati da mille piccole rughe. Si spingeva ripetutamente indietro i radi capelli bianchi. «Il segreto», sussurrò, «è il coriandolo. Qualche pizzico all'ultimo momento e... puf... gli altri sapori si risvegliano di colpo!» Riempì i piatti, misurando i gesti, come un ladro fa la cernita dei gioielli del bottino. Ci furono alcuni minuti di silenzio, dedicati ad assaporare il cibo. La pasta era deliziosa. Il gusto di segale, l'aroma delle spugnole, la freschezza delle erbe creavano alleanze contraddittorie, una combinazione vincente. Infine, il prete riprese la parola, sciorinando i temi all'ordine del giorno. La parrocchia agonizzante, la città moribonda, l'inverno che si annunciava precoce. Il suo accento non lasciava dubbi che fosse originario della regione: tagliava le frasi a colpi decisi di consonanti gutturali. Ma una cosa lo preoccupava in particolare. «Non ha le gomme da neve? Bisogna che ci pensi.» Approvai, con la bocca piena. «Delle Contact.» Brandì la forchetta. «Le servono delle gomme Contact!» Al formaggio, si buttò su un altro cavallo di battaglia: la salute dei giovani tramite lo sport. Approfittai di una breccia - fra il roquefort e il bleu de Bresse - per passare all'argomento del mio «reportage». Sylvie Simonis. «La conoscevo appena», glissò subito Mariotte. «Non veniva a messa?» «Sì che ci veniva.» «Era praticante?»
«Troppo.» «Come sarebbe a dire?» Mariotte si asciugò la bocca e bevve un sorso di vino rosso. Continuava a sorridere, ma adesso avvertivo in lui una tensione nascosta. «Al limite del fanatismo. Credeva nel ritorno alle origini.» «La messa in latino? Questo genere di tradizioni?» «Secondo lei bisognava piuttosto dirla in greco!» «In greco?» «Proprio così, caro ragazzo! Aveva una passione speciale per i primi secoli dell'era cristiana. I balbettii della nostra chiesa. Venerava santi e martiri poco noti. Io non ne conoscevo nemmeno il nome!» Mi spiaceva non avere conosciuto Sylvie Simonis. Avremmo avuto delle cose da dirci. Quel profilo di cristiana appassionata poteva costituire un movente: l'omicida, apostolo di Satana, aveva scelto una cattolica dura e pura. «Cosa pensa della sua morte?» «Lasci perdere questo argomento, giovanotto. Non voglio evocare quella tragedia.» «Ha avuto un funerale religioso?» «Ovviamente.» «Le ha accordato la sua benedizione?» «E perché no?» «Si è parlato di suicidio...» «Non so niente di questa catastrofe, ma di una cosa sono sicuro, ed è che non si tratta di suicidio.» Buttò giù un altro sorso di vino, gomito alzato. «Questo proprio no!» Passai ad altro, en souplesse, «Era già qui quando Manon, la ragazzina, è stata uccisa?» Dilatò gli occhi, poi aggrottò le sopracciglia: tutto questo annunciava il sopraggiungere della collera. «Senta, ragazzo, le offro ospitalità, divido con lei la cena... Non si metta a torchiarmi!» «Mi scusi. Ho in mente di realizzare un importante reportage su Sartuis e questo doppio fatto di cronaca nera. Non posso impedirmi di fare delle domande.» Afferrai la fruttiera, vicino a me. «Un frutto?» Scelse una clementina. Dopo un breve silenzio borbottò: «Non verrà a sapere niente sull'assassinio di Manon. È un totale mistero». «Cosa pensa dell'ipotesi dell'infanticidio?» «Un'idiozia fra le tante. Forse la più grottesca.»
«Si ricorda della reazione di Sylvie? Lei le ha dato conforto?» «Ha preferito ritirarsi in un monastero.» «Che monastero?» «Notre-Dame-de-Bienfaisance.» Avrei dovuto arrivarci da solo. La fondazione offriva un rifugio spirituale a chi aveva subito la perdita di una persona cara. Marilyne mi aveva preso per i fondelli. In realtà lei conosceva benissimo Svlvie, che aveva soggiornato a Bienfaisance nel 1988. Si creavano delle connessioni. L'assassino aveva scelto Sylvie Simonis per il suo sacrificio satanico perché lei era una cristiana fervente. Aveva piazzato il cadavere nel parco di Notre-Dame-de-Bienfaisance, un luogo cristiano. Il movente poteva essere una forma di profanazione. Ma che connessione c'era con l'omicidio della bambina? Chi aveva ucciso la madre aveva ucciso anche la figlia? «Sylvie Simonis», ripresi, «è sepolta a Sartuis?» «Sì.» «E Manon?» «No. All'epoca sua madre ha voluto evitare il martellamento dei media...» «Dov'è la tomba?» «Oltre il confine, a Le Locle. Non prende più niente?» «No, grazie. La lascio. Sono esausto.» Mariotte sbucciava il frutto, separando gli spicchi con le grosse dita rosse. «Conosce la strada.» 33 «Sei ben sistemato?» Foucault non nascondeva la sua ilarità. Mi guardavo i piedi che fuoriuscivano dal letto, i compartimenti formati dalle tende di fronte a me, le foto di alpinisti attaccate alle pareti. «A meraviglia», risposi nel ricevitore. «Cos'è successo oggi?» «Abbiamo arrestato il rom. Il caso Le Perreux. La gioielliera assassinata.» «Ha confessato?» «Ci ha quasi ringraziati di averlo messo dentro. Era terrorizzato dal fantasma della vittima.»
«Larfaoui?» «Niente. Siamo in pieno nel territorio degli Stups e...» «Lascia perdere Larfaoui. Ho qualcos'altro per te.» Gli riassunsi la situazione. L'indagine di Luc nel Jura, l'assassinio di Sylvie Simonis, il sospetto di una pratica satanista che si profilava. «Cosa posso fare?» «Delle ricerche su omicidi dello stesso genere, nella regione del Jura ma anche in tutta la Francia.» Precisai le principali caratteristiche del rituale. «Sono riuscito a recuperare il referto dell'autopsia», aggiunsi. «Lo spedisco domattina a Svendsen. Dacci un'occhiata. La tua cultura criminale ne uscirà arricchita.» «Inserisco i dati nel SALVAC?» Il Sistema di analisi dei legami della violenza associati ai crimini era un nuovo sistema informatico che recensiva gli omicidi commessi in territorio francese. Un'imitazione del famoso VICAP americano. Ma il dispositivo era ancora allo stadio embrionale. «Sì, ma invia soprattutto un messaggio interno a tutti i servizi di polizia e di gendarmeria di Francia, evitando le caserme della Franche-Comté. Per questa regione chiama il Servizio regionale di polizia giudiziaria di Besançon. Non voglio che i gendarmi vengano a sapere che ce ne stiamo interessando.» «OK. È tutto?» «No. Informati sugli allevatori d'insetti della zona.» «Quale zona?» Steso sul mio letto da adolescente, afferrai la guida. «Tutta la Franche-Comté: Haute-Saône, Jura, Doubs, Territoire de Belfort. Già che ci sei, chiama anche gli svizzeri. Cerchiamo un entomologo. Forse specializzato sull'Africa. Allarga le tue indagini ai dilettanti illuminati, agli appassionati della domenica...» Silenzio: Foucault prendeva appunti. «Poi?» «Fai un elenco dei laboratori di chimica della regione. Vedi anche se puoi mettere le mani su dei botanici. Specialisti di funghi, muschi, licheni. Anche qui, i professionisti e gli amatori.» Cercavo un sospetto che fosse tutte quelle cose insieme. La mia speranza era che da quelle informazioni sgorgasse un solo nome. «Informati anche su un monastero, diventato una fondazione.» Feci lo spelling di Notre-Dame-de-Bienfaisance e diedi l'indirizzo esatto.
«Sull'omicidio vero e proprio», disse Foucault, «non c'è niente di più preciso? Dei verbali degli interrogatori? Un'indagine di prossimità?» «I gendarmi hanno tutte queste scartoffie, ma ti assicuro che per loro non sono il benvenuto.» «Sei sicuro che Luc s'interessasse a questa storia?» Non una sola persona ne aveva riconosciuto la fotografia. Neanche una volta mi ero imbattuto nelle sue tracce. Eppure risposi: «Sicurissimo. Datti da fare. E non dire una parola lì al Quai. Ci risentiamo domani». Composi il numero di Eric Svendsen. Gli riassunsi i fatti in poche frasi. Lo svedese pareva scettico all'idea che Valleret fosse riuscito a compiere un'autopsia professionale. «Ho il referto», replicai. «E delle cose da fare analizzare. Ti spedisco il tutto domattina.» «Per posta?» «Con il treno.» Scorsi gli orari del TGV che mi ero procurato telefonicamente. «Do il fascicolo al macchinista del TGV 2014, che parte da Besançon alle 7.53. Sarà a Parigi alle 12.10. Vai a recuperarlo sul binario, Gare de l'Est. Voglio il tuo parere. Sapere come l'omicida abbia ottenuto un tale risultato. E non esitare a chiedere consiglio», aggiunsi per pungolarlo. «Fai dell'umorismo o cosa?» «Aspetta di vedere il referto. Avrai bisogno di un entomologo. E di un botanico. Ti invio uno scarabeo, un insetto predatore di origine africana, e un campione del lichene luminescente con cui l'assassino ha tappezzato la gabbia toracica della vittima.» «Accidenti! Roba che scotta.» «Che brucia, vorrai dire. Quel bastardo è ferrato in tutte queste materie. Ricomincia da zero. Immagina ogni sua minima manipolazione. Ogni tappa del suo rituale. Voglio la ricostruzione del suo metodo, è chiaro?» «D'accordo, io...» «Sii alla stazione domattina.» Riattaccando, mi resi conto dell'infuriare del vento che s'infiltrava negli infissi della finestra. Il telaio soffiava come un bollitore. Avevo scelto un letto della fila di destra e aperto le tende del letto vicino per posarvi la borsa e il suo pericoloso carico. Nonostante la fatica, pensai di recitare una preghiera. M'inginocchiai ai piedi del letto, lungo le cortine tese. Un Padre nostro. La più semplice, la più luminosa delle preghiere. Il bastone che mi aveva accompagnato nel
mio cammino. Quel Padre nostro era le mie ginocchia doloranti delle prime messe, dove lo recitavo senza soffermarmi sulle parole per l'impazienza di uscire a giocare. La grande immersione di Saint-Michel-de-Sèze, quando avevo scoperto la profondità della mia fede. La litania zelante, vigorosa, del futuro sacerdote stregato dalle campane di Roma. Poi la richiesta di aiuto, in Africa, fra l'odore dei cadaveri e lo stridore dei machete. Era infine la preghiera del poliziotto, pronunciata nelle chiese in cui m'imbattevo, per lavarmi dei miei stessi crimini. Padre nostro che sei nei cieli, Sia santificato il tuo nome... Un rumore stridulo risuonò nel corridoio. Sobbalzai e tesi l'orecchio. Niente. Abbassai gli occhi: impugnavo già la mia 9 mm. Il riflesso era stato più rapido della coscienza. Ascoltai ancora. Niente. Pensai a una sirena d'allarme. per un incendio. Nel momento in cui il mio corpo si rilassava, quel suono riprese, lungo, stridulo, ostinato. Mi precipitai verso la porta. Il tempo di aprirla ed ecco di nuovo tornato il silenzio. Mi appostai sulla soglia e lanciai uno sguardo nel corridoio. Nessuno in vista. A sinistra, la porta tagliafuoco del presbiterio. A destra, la porta vetrata che dava sull'esterno. Tutto era immobile. La mia attenzione fu attratta dalla cabina di legno, a qualche metro dall'uscita di sicurezza. Capii cos'era quello che avevo udito. La suoneria del confessionale. Padre Mariotte doveva dormire della grossa. M'infilai l'HK dietro la schiena e camminai lentamente verso la «scatola». A cinque metri mi fermai. Un chiarore verdastro trapelava dalla tenda. Fui lì lì per impugnare nuovamente la pistola, ma non mi parve necessario. Ripresi ad avanzare in silenzio. Afferrai la tenda e la scostai d'un colpo secco. L'interno era vuoto. Ma sul pannello di fondo era tracciata un'iscrizione. Riconobbi d'istinto il materiale che spiccava sul legno scuro. Il lichene luminescente che tappezzava le carni putrefatte di Sylvie Simonis. La scritta recitava: TI ASPETTAVO.
34 L'esca si agitava sulla superficie dell'acqua. Seguii con gli occhi il filo e scorsi, tra il fogliame, l'estremità della canna da pesca. Il nylon brillava nella luce mattutina, erano appena le dieci. Dopo la sinistra scoperta dell'iscrizione avevo perlustrato da cima a fondo il presbiterio e la sua dipendenza: nessuno. Avevo svegliato Mariotte, il quale si era limitato a decretare: «Vandalismo. Puro e semplice vandalismo». Non avevo fatto nessuna fatica a persuaderlo a non chiamare i gendarmi. Mi disse che non era il primo atto vandalico contro la sua parrocchia. Avevo proposto di lavar via i «graffiti». Mariotte se n'era tornato a letto senza farsi pregare e io avevo effettuato, in tutta tranquillità, alcuni prelievi del lichene ancora fresco, dopo avere fotografato la scena. Mentre il flash digitale accendeva di lampi quel TI ASPETTAVO, si faceva sempre più forte la certezza che il messaggio fosse indirizzato a me. Impossibile dormire. Avevo acceso il Mac portatile e trascritto tutto quanto era accaduto dopo il mio arrivo. Un buon modo per smettere di rimuginare su chi aveva scritto quel messaggio nel confessionale. Inserii le immagini scattate e passai allo scanner i documenti in mio possesso: il referto di Valleret, la carta della regione, sulla quale segnavo tutti i posti visitati e i personaggi incontrati, gli appunti di Plinkh... Alle sei del mattino avevo scovato una fotocopiatrice nell'ufficio del presbiterio. Avevo fatto due copie del referto dell'autopsia, l'una destinata a Foucault, l'altra a Svendsen, poi avevo preparato il plico per lo svedese: i campioni luminescenti prelevati da me, lo scarabeo, il lichene trovato sul corpo di Sylvie. Esitavo a spedire anche il crocifisso, un banale oggetto liturgico, di fabbricazione piuttosto scadente. Decisi di conservarlo. Avevo effettuato anche il rilevamento delle impronte, ma ovviamente non avevo trovato niente. Quanto al sangue coagulato, ne avevo aggiunto un sacchetto «per analisi» destinato a Svendsen. Alle sei e mezzo del mattino ero di nuovo in viaggio, direzione Besançon. Continuavo a ricacciare indietro le domande che mi si affollavano alla mente, alle quali non trovavo l'ombra di una risposta. Alle sette e qualche minuto, stazione di Besançon, ad aspettare il macchinista del «mio» treno. Questo genere di spedizione mi era stato ispirato dai fotografi-reporter in-
crociati nel Ruanda: consegnavano le pellicole ai piloti o agli steward dei voli di linea. Dopodiché mi ero preso il tempo di bere un caffè al bar della stazione. Mi sentivo meglio, l'aria, il freddo, la luce. Ero poi partito in direzione delle montagne, alla ricerca di Jean-Claude Chopard, il corrispondente del «Courrier du Jura». Avevo fretta di attaccare l'altro versante dell'indagine: l'omicidio di Manon Simonis, avvenuto quattordici anni prima. «Il signor Chopard?» L'erba si mosse. Apparve un uomo in tenuta mimetica, nell'acqua fino alle ginocchia. Portava stivali a metà coscia color verde oliva e calzoni della stessa tinta, con tanto di bretelle. Il viso era nascosto da un berretto da baseball, color kaki. I suoi vicini mi avevano dato l'informazione: il sabato mattina «Chopard "cacciava" la trota». Mi avvicinai, curvo tra il fogliame. «Il signor Chopard?» ripetei a bassa voce. Il pescatore mi lanciò uno sguardo furioso. Tolse una mano dalla canna, che teneva piantata nell'inguine, poi agitò le dita. Prima l'indice e il medio, a forbice, poi la mano chiusa, davanti alla bocca. Non ci capivo niente. «Lei è Jean-Claude Chopard, vero?» Agitò la mano libera in un gesto che voleva dire: «Lascia stare». Risollevò la canna, effettuò una serie di rapidi mulinelli, poi avanzò verso l'argine, scostando al passaggio rami e foglie. Quando feci il gesto di aiutarlo ignorò il braccio che gli tendevo e si issò sulla terraferma aggrappandosi alle canne. Portava appesi alla cintura due panieri di metallo, vuoti. «Non conosce il linguaggio dei segni?» chiese con voce rauca. «No.» «L'ho imparato in un centro per sordomuti. Un reportage, vicino a Belfort.» Si schiarì la gola e sospirò: «Se le dico "pesca" cosa mi risponde?». «Mattiniero. Solitario.» «Già. E anche silenzioso.» Staccò i panieri dalla cintura. «Vede cosa voglio dire?» «Le chiedo scusa.» L'uomo bofonchiò una frase incomprensibile e abbassò gli stivaloni. Li sfilò con un solo movimento, fece saltare i ganci delle bretelle e sgusciò dai pantaloni come un'enorme farfalla dalla sua crisalide. Sotto, portava una camicia hawaiana e dei pantaloni militari. Ai piedi, delle Nike nuove fiammanti. Mi accesi una sigaretta. Mi guardò di traverso. «Lo sai che fa male alla salute?»
«Mai sentito.» Si ficcò fra le labbra una Gitane maïs. «Neanch'io.» Gli accesi la cicca e soppesai il fenomeno. Sulla sessantina, massiccio, capelli grigi che gli uscivano dal berretto come paglia. La barba di tre giorni faceva pensare a della limatura di ferro e anche le sue orecchie erano ispide di peli. Un vero porcospino. Il viso era squadrato, sormontato da grandi occhiali. Un mento lungo e appuntito, sporgente, gli dava un'aria arcigna, alla Braccio di Ferro. «Lei è Jean-Claude Chopard?» Si tolse il berretto e disegnò un otto nell'aria. «Per servirti. E tu chi sei?» «Mathieu Durey, giornalista.» Scoppiò a ridere. Estrasse una valigetta di ferro cacciata fra i cespugli e vi ficcò dentro stivali e pantaloni da pesca. «Ragazzo mio, se vuoi vendere le tue storie dovrai cambiare registro.» «Scusi?» «Trent'anni di cronaca, ti dice qualcosa? Fiuto i piedipiatti a dieci chilometri di distanza. Allora, se hai delle domande da fare, giochi a carte scoperte, chiaro?» L'accento del giornalista non somigliava a quello di Mariotte. Erano le stesse sillabe gutturali, spezzate, ma senza la lentezza del prete. Mi chiesi se non avessi perso il mio talento di camaleonte. «OK», ammisi. «Sono della Squadra criminale di Parigi.» «Così mi piace. Sei qui per i casi Simonis?» Feci segno di sì. «Missione ufficiale?» «Ufficiosa.» «Dunque sei qui di straforo.» Pescò nella valigia e ne trasse una bottiglia giallastra. «Vuoi assaggiare il mio "vinello da dessert"?» «Non vedo il dessert.» Rise. Nell'altra mano reggeva due bicchieri, che fece schioccare come delle nacchere. «Dimmi tutto», disse, riempiendo i bicchieri posati sull'erba. Riassunsi la situazione: l'indagine di Luc, il suo tentato suicidio, gli indizi che mi avevano portato lì. La mia ipotesi di un collegamento fra l'indagine Simonis e il suo atto disperato. Per finire, gli mostrai la fotografia di Luc e incassai il solito «mai visto». Gli insetti ronzavano sotto il sole abbagliante. Si preannunciava una splendida giornata.
«Sulla morte di Sylvie», disse dopo essersi annaffiato la gola, «non posso dirti granché. Non mi occupo della cronaca di questo caso.» «Perché?» «Pensionamento anticipato. Al "Courrier" hanno deciso che avevo fatto il mio tempo. Il caso Sylvie Simonis è caduto a proposito. Un'occasione di "buttare fuori" Chopard.» «Perché questo caso in particolare?» «Si ricordavano della mia passione per il primo omicidio. Secondo loro, mi ero fatto coinvolgere troppo. Hanno preferito inviare uno giovane. Una matricola. Uno che non avrebbe fatto molto rumore.» «Volevano che l'indagine non avesse molta eco?» «Proprio così. Non bisogna sporcare l'immagine della regione. È una cosa politica. Ho preferito salutare e andarmene.» Mi portai il bicchiere alle labbra, un vino giallo del Jura. Eccellente, ma non ero dell'umore giusto per la degustazione. «Ha condotto una sua indagine personale, no?» «Non era facile. Impossibile ottenere la minima informazione dai gendarmi.» «Anche per lei?» «Soprattutto per me. I vecchi graduati, i miei amici, sono in pensione. C'è una squadra nuova di zecca, arrivata da Besançon. Delle teste di cazzo.» «Come Stéphane Sarrazin?» «Un idiota.» «E la famiglia di Sylvie? Non l'ha interrogata?» «Sylvie non aveva famiglia.» «Nessuno mi ha parlato di suo marito.» «Sylvie era vedova da anni. Lo era già quando Manon è stata assassinata.» «Di cosa è morto?» Chopard non rispose subito. Aveva posato il bicchiere, già vuoto. Sistemava con cura le esche, gli ami, i fili nei cassettini della valigetta da pesca. Infine, lanciò uno sguardo malizioso da sotto la visiera. «Vuoi sapere l'intera storia, eh?» «È lo scopo del mio viaggio.» Il giornalista depose una serie di ganci in uno scomparto. «Frédéric Simonis è morto in un incidente d'auto, nel 1987.» «Un incidente?»
«Un incidente targato Ricard, già. Beveva parecchio.» Ritratto di famiglia: un marito alcolista, morto sulla strada, una ragazzina assassinata in un pozzo. E adesso, la sopravvissuta, orologiaia, uccisa nel peggiore dei modi. Non c'era il minimo collegamento, se non la presenza costante della morte. Chopard parve avvertire il mio disagio. «Frédéric e Sylvie si erano conosciuti al politecnico di Bienne, nel cantone di Berna. La più famosa scuola di orologeria della Svizzera. Erano agli antipodi. Lui, figlio di papà. Un'importante famiglia nel ramo del tessile, a Besançon. Lei, figlia di un vedovo, artigiano orologiaio a Nancy, morto quando lei aveva tredici anni. Lui, un buono a nulla raccomandato dai suoi. Lei, borsista, tenace, un genio dell'orologeria. Aveva una "mano d'oro", come dicono qui. Nessun ingranaggio, nessun meccanismo aveva segreti per lei.» «La coppia ha funzionato?» Il pescatore chiuse di colpo la valigetta. «Stranamente sì. All'inizio, in ogni caso. Si sono sposati nell'80. Hanno avuto Manon, poi le differenze tra i due sono saltate fuori. Frédéric si è dato all'alcol. Sylvie si è affermata nel suo mestiere. Lavorava in un atelier, per Rolex, Cartier, JaegerLeCoultre, i più prestigiosi. Assemblava orologi inestimabili per principi arabi, famiglie di banchieri... I due s'intendevano ancora sulla ragazzina. Erano in adorazione davanti a lei. Lo scoglio erano i suoceri. Non hanno mai accettato Sylvie. Alla morte di Frédéric hanno persino tentato di prendersi Manon. Hanno dovuto arrendersi. Nonostante tutti i loro soldi, non hanno potuto fare niente. La madre era irreprensibile.» «Dopo la scomparsa di Manon, perché Sylvie non si è trasferita altrove? L'indagine, le voci, le accuse, i ricordi: perché non si è sottratta a tutto questo? Niente la tratteneva più a Sartuis.» Chopard si riempì di nuovo il bicchiere. «È quello che tutti si aspettavano. Ma nessuno poteva influenzarla. Inoltre aveva appena comperato una casa. Un posto molto conosciuto nella zona. La Casa degli orologi. Un edificio costruito da una stirpe di famosi orologiai. Per Sylvie era un'autentica vittoria. Si è messa per conto suo, si è chiusa là dentro e ha lavorato sodo ai suoi meccanismi. La sua ascesa è continuata. Malgrado i drammi. Malgrado l'ostilità degli altri.» «L'ostilità?» «Sylvie non è mai stata amata a Sartuis. Dura, di talento, altezzosa. E soprattutto: forestiera. Veniva dalla Lorena. Quando qui le cose sono andate male, negli anni Ottanta, ha cercato lavoro dall'altra parte della frontiera.
Fu visto come un tradimento. Senza contare che dopo la morte della bambina la metà della città pensava che Sylvie fosse colpevole. Nonostante il suo alibi.» «Qual era questo alibi?» «Al momento dell'omicidio lei era ricoverata all'ospedale di Sartuis per una cisti alle ovaie.» Chopard si alzò, impugnò le canne e la valigetta. Mi offrii di aiutarlo. Mi ficcò fra le mani i due panieri. Lo seguii lungo il sentiero. «Secondo lei, i due omicidi sono collegati?» «Sicuro! E si tratta anche dello stesso assassino.» «Da quanto ne so i metodi sono piuttosto diversi...» «Fra i due omicidi sono passati quattordici anni. Questo consente una certa evoluzione, no?» Accelerai il passo, per tenergli dietro. «Ma quale sarebbe il movente? Perché accanirsi sui Simonis?» «Questa, amico, è la chiave dell'enigma. In ogni caso, è impossibile capire l'omicidio di Sylvie senza studiare quello di Manon.» «Mi può aiutare al riguardo?» «Se ti posso aiutare? Per un anno ho scritto su questa vicen da un pezzo alla settimana. Ho conservato tutto.» «Potrei leggere questi articoli?» «Come no! Andiamo, ragazzo!» 35 «Courrier du Jura», 13 novembre 1988 LA MORTE COLPISCE A SARTUIS Sartuis, la famosa città degli orologiai dell'Alto Doubs, è appena stata teatro di un dramma ignobile. Verso le 19, ieri, 12 novembre 1988, il corpo di Manon Simonis, otto anni, è stato rinvenuto in fondo a un pozzo, nei pressi del depuratore della città. Secondo il procuratore della repubblica di Besançon (Doubs), la pista criminale è fuori dubbio. Alle 16.30, come ogni giorno, Martine Scotto è andata a prendere Manon all'uscita della scuola. La bambina e la sua tata si sono recate a piedi al quartiere Corolles, domicilio della signora Scotto, poco fuori Sartuis. Erano le 17. Dopo avere fatto merenda,
Manon è scesa nell'area giochi, sotto le finestre dell'appartamento. Qualche minuto dopo Martine Scotto ha voluto verificare che la bambina stesse giocando con i suoi amichetti. Ma Manon non era con loro. Nessuno l'aveva vista. La tata si era subito messa alla sua ricerca, controllando le scale, le cantine e il parcheggio, situato a cento metri di distanza, sul versante della collina. Niente. Le 17.30. Martine Scotto ha avvisato la polizia. Nuove ricerche, mentre cadeva la notte. I gendarmi hanno dapprima setacciato la zona per un raggio di cinquecento metri. Le 18.30. Due squadre di rinforzo sono arrivate da Morteau. Le ricerche si sono estese per un raggio di un chilometro. Volontari civili hanno affiancato gli uomini in uniforme. Alle 19.20, sotto una pioggia battente, è stato rinvenuto il corpo di Manon in uno dei pozzi della stazione di depurazione, a nord della città, vicino al calvaire di Rozé, a settecento metri da Corolles. Secondo le prime constatazioni, la profondità del pozzo è di cinque metri e l'acqua riempie solo la metà del budello. Ma la bambina non aveva nessuna possibilità di scampo, il pozzo è troppo stretto per poterci nuotare e l'acqua mortalmente gelida. Quando i soccorritori hanno tirato su Manon, le sue pupille erano fisse, il cuore non batteva più. La temperatura centrale del corpo era scesa sotto i venticinque gradi. Il procuratore della repubblica ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni. Sappiamo che quella stessa notte Martine Scotto è stata interrogata nei locali della gendarmeria di Sartuis. Stamattina, la Scientifica era impegnata nell'esame della scena del delitto. Oggi l'intera regione è sotto shock. Tutti pensano a un precedente assassinio, altrettanto orribile, perpetrato quattro anni fa non lontano dal Jura: quello di Grégory Villemin. Un crimine sul quale non è mai stata fatta luce. Come accettare che si ripeta un simile abominio, e sempre nelle nostre montagne? Nonostante il silenzio del procuratore, corre voce che i gendarmi dispongano di piste serie. Il magistrato ha promesso di rilasciare un comunicato nelle prossime ore. Non possiamo che sperare in risultati rapidi. Se l'ignominia non si può riparare, che almeno la si punisca! Alzai gli occhi dallo schermo del computer: Chopard aveva tutti i suoi
articoli in formato elettronico. Un centinaio di questi copriva il periodo dal novembre 1988 al dicembre 1989. Dopo avere dato un'occhiata generale all'insieme, mi stavo adesso concentrando sulle svolte cruciali dell'indagine. Accesi una Camel. Il giornalista mi aveva autorizzato a fumare nel suo antro al primo piano. Uno studio rivestito di legno d'abete, con delle scaffalature che sembravano sul punto di schiantarsi sotto il peso delle scatole, delle pile di libri, delle montagne di giornali. C'era anche un visore, sepolto sotto classificatori di diapositive. La tana di un giornalista di cronaca. Mi alzai e aprii la finestra per non affumicare tutta la stanza. La casa di Chopard era una villetta senza fronzoli. Una terrazza, coperta da tela catramata, guardava sulla strada a sinistra e si apriva, sulla destra, su un giardino disastrato: piscina di plastica sgonfia, pneumatici bucati, sedie pieghevoli... tutto sparso nell'erba alta. Lasciai la finestra aperta e mi immersi nuovamente nella lettura. «Courrier du Jura», 14 novembre 1988 CASO SIMONIS: L'INDAGINE SI ORGANIZZA Di fronte alla crudeltà dell'assassinio di Manon Simonis, in poche ore Sartuis si è trasformata in una fortezza militare. Ieri, 13 novembre, tre nuove squadre di gendarmi sono arrivate da Besançon e da Pontarlier. Nel pomeriggio, il procuratore della repubblica ha annunciato la nomina di un giudice istruttore, Gilbert de Witt, e di un capo inquirente, il comandante Jean-Pierre Lamberton, del Servizio ricerche di Morteau. «Due uomini di grande esperienza, che hanno già dato prova della loro capacità nei nostri dipartimenti», ha precisato. Il comunicato del magistrato si è però fermato lì. Nessuna nuova informazione sull'indagine. Niente sul referto dell'autopsia. Niente sui testimoni ascoltati. Il procuratore non ha neppure precisato le ipotesi per cui propendono i gendarmi. Pur essendo questa discrezione lodevole, gli abitanti di Sartuis hanno il diritto di sapere. Al «Courrier du Jura» conduciamo una nostra indagine personale. Abbiamo appreso che, dopo essere stata operata, Sylvie Simonis ha lasciato l'ospedale ieri mattina. Nessuno sa dove si sia trasferita, la sua casa per il momento è vuota. Dall'altro lato, la te-
stimonianza di Martine Scotto non ha dato alcun indizio. Regna il mistero: perché nessuno ha visto Manon nell'area giochi? Da che parte è uscita? Come, e con chi, è andata fino alla stazione di depurazione? Manon era una bambina poco socievole che non avrebbe mai seguito un estraneo. Ecco perché i gendarmi si concentrano piuttosto sulla cerchia dei conoscenti. Altri enigmi persistono. Come l'assenza di impronte di passi o di pneumatici sul luogo del delitto. O la causa esatta della morte di Manon. Secondo i soccorritori, il decesso per shock termico è più probabile di quello per annegamento. Ma perché le autorità non ci forniscono precisazioni al riguardo? Perché questo silenzio sul referto dell'autopsia? Gendarmi e magistrati devono smetterla con questa omertà! Negli articoli seguenti Chopard diventava il portavoce di una popolazione impaziente. Gli investigatori mantenevano il silenzio. Al punto che Chopard faceva fatica a scrivere le righe necessarie per il suo pezzo settimanale. Secondo lui, la realtà era che i gendarmi non avevano niente da dire. Quell'omicidio era un autentico enigma, privo di logica e inspiegabile, senza un punto debole né un movente. Eppure, dieci giorni dopo i fatti, il 22 novembre, Chopard scovava uno scoop: UN PERSECUTORE MISTERIOSO NEL CASO SIMONIS! Nonostante la discrezione degli inquirenti, siamo riusciti a scoprire un fatto decisivo nella vicenda Simonis: prima dell'omicidio, un autore di telefonate anonime minacciava la famiglia! Fin dal primo giorno, c'è una cosa che lascia stupiti. Come mai i gendarmi, durante le prime ricerche, hanno avuto l'idea di scandagliare un pozzo che era - l'indagine l'ha dimostrato - sigillato da un coperchio di metallo? È semplicissimo: erano stati informati. Alle sei del pomeriggio, quel giorno, Sylvie Simonis ha ricevuto una telefonata all'ospedale, un'altra l'hanno ricevuta i suoceri, a Besançon. In queste chiamate si parlava di un «pozzo» in cui si sarebbe potuto ritrovare il corpo di Manon. Adesso sappiamo che c'è stata una lunga serie di altre telefonate. Da un mese, Sylvie e i suoceri subivano gli assalti ripetuti di un persecutore. Secondo le nostre informazioni, la voce che chiamava era stata distorta, molto probabilmente con l'aiuto di uno strumento che
permette di alterare il timbro vocale. I gendarmi hanno interrogato il personale delle tre ditte della regione che fabbricano questo genere di «giocattoli». Per motivi che ignoriamo, gli investigatori sembrano pensare che il persecutore non abbia comprato questo filtro in un negozio, ma se lo sia procurato alla fonte, in una di queste ditte. La pista di un vagabondo o di un omicida occasionale è dunque definitivamente scartata. C'è stata una rivendicazione. Si tratta di un atto di pura malvagità da parte di qualcuno che ha preso di mira la famiglia Simonis. Le ricerche dei gendarmi si concentrano più che mai sulla cerchia di Sylvie e della sua bambina. Un loro conoscente lavora magari in una di queste ditte? Forse gli investigatori intendono organizzare dei test per smascherare l'assassino? Oggi questa pista sembra essere una delle più solide. Mi accesi un'altra sigaretta. Le somiglianze con il caso Gregory erano incredibili. Come se l'omicida di Sartuis si fosse ispirato al caso di Lépanges. Feci scorrere le cronache. I gendarmi si erano concentrati sull'aspetto della voce. Avevano provato vari modelli di dispositivi e organizzato sedute di registrazione con persone della cerchia dei Simonis. Avevano sottoposto questi test a Sylvie e ai suoi suoceri. Nessuna delle voci ricordava loro quella del Persecutore. All'inizio di dicembre, all'improvviso, c'era stata una nuova svolta. «Courrier du Jura», 3 dicembre 1988 CASO SIMONIS: ARRESTO DI UN SOSPETTATO! Fulmine a ciel sereno, l'altroieri, nel caso Simonis. Ne siamo stati informati solo questa notte perché gli eventi si sono svolti in Svizzera. Il 1° dicembre, alle 19, un uomo è stato interrogato al suo domicilio dalla polizia elvetica. Richard Moraz, quarantadue anni, artigiano, orologiaio da Moschel, a Le Locle, nel cantone di Neuchâtel. Secondo le nostre informazioni, sull'orologiaio gravano dei sospetti da due settimane. Il suo interrogatorio, sul territorio elvetico, poneva evidenti difficoltà giuridiche. I nostri due governi si sono accordati per organizzare l'imputazione dell'uomo e Gilbert de Witt, giudice istruttore, scortato dai gendarmi di Sartuis, ha in-
cominciato il suo interrogatorio dall'altro lato della frontiera. Chi è Richard Moraz? Un collega di lavoro di Sylvie Simonis che non è mai riuscito a digerire la promozione di Sylvie avvenuta nel settembre scorso a suo scapito. Questa delusione coincide esattamente con l'inizio delle telefonate anonime... Un simile movente - la gelosia professionale - sembra insufficiente per spiegare il delitto. C'è però un altro indizio: Delphine Moraz, la moglie del sospettato, lavora presso la Lammerie, ditta che fabbrica, guarda caso, trasformatori di voce. Abbiamo scoperto, al «Courrier du Jura», altri due fatti. Il primo: Richard Moraz non è sconosciuto alla polizia federale svizzera. Nel 1983, quando insegnava alla scuola di orologeria di Losanna, l'artigiano è stato accusato per abuso di minore. Il secondo: Moraz non possiede un alibi per il giorno e l'ora dell'omicidio. Alle 17 del 12 novembre si trovava al volante della sua auto, diretto verso il suo domicilio. Questi elementi non fanno di lui un colpevole. E Moraz non appartiene alla cerchia dei conoscenti che avrebbero potuto convincere Manon a seguirlo. Fisicamente, l'artigiano è un colosso di oltre cento chili che non ha niente di rassicurante. C'è chi mormora che avrebbe potuto avvalersi della complicità della moglie. I colpevoli sarebbero due? Se non ottiene una confessione, Gilbert de Witt dovrà liberare il sospettato. In ogni caso il giudice e il comandante Lamberton farebbero bene a mettere fine alla loro strategia del silenzio. Potrebbero calmare gli animi e ridurre i sospetti. A Sartuis, la temperatura sale ogni giorno un po' di più! Poco dopo, Richard Moraz era stato rilasciato. Il suo dossier d'accusa era così evanescente che un colpo d'aria l'avrebbe fatto passare sotto la porta. La città degli orologiai era di nuovo precipitata nello sconforto. Le voci continuavano, le opinioni si moltiplicavano. E Chopard ci ricamava sopra. All'approssimarsi del Natale la situazione si era calmata. I giornali locali diradavano gli articoli. Lo stesso Chopard si era stancato di fare le sue cronache. Il caso Simonis si spegneva a poco a poco. All'inizio dell'anno successivo, tuttavia, nuovo colpo di scena. Rilessi l'articolo del 14 gennaio 1989.
CASO SIMONIS: L'ASSASSINO CONFESSA! La notizia ha colto tutti di sorpresa ieri sera. Sartuis è sotto shock. L'altroieri pomeriggio, 12 gennaio 1989, i gendarmi hanno posto in stato di fermo un nuovo indiziato. L'uomo ha confessato l'omicidio di Manon Simonis. Trentun anni, originario della regione di Metz, Patrick Cazeviel è un habitué dei servizi di polizia. Ha già scontato due pene di reclusione, rispettivamente di tre e quattro anni, per furti con scasso e aggressioni. Come sono arrivati i gendarmi di Sartuis a quest'uomo violento e asociale? È semplicissimo: Cazeviel è un amico d'infanzia di Sylvie Simonis. Orfano sotto la tutela dello stato, all'età di dodici anni ha soggiornato in una casa d'accoglienza di Nancy: è lì che ha conosciuto Sylvie, tre anni più giovane di lui. Nonostante le differenze di carattere e di ambizioni, i due ragazzini erano inseparabili, e molto probabilmente Cazeviel non ha mai dimenticato la sua passione di adolescente. Quando Sylvie ha ottenuto la borsa di studio e ha cominciato i corsi di orologeria, Cazeviel è stato arrestato per la prima volta. Le loro strade si sono divise. Sylvie ha sposato Frédéric Simonis, poi ha avuto una bambina. Questo abominevole assassinio è quindi forse legato a una storia d'amore. Cos'è accaduto l'autunno scorso? Sylvie Simonis e Patrick Cazeviel si sono rivisti? Forse lui è stato respinto. Forse ha voluto vendicarsi distruggendo il frutto del matrimonio di Sylvie. Era lui ad assillare la famiglia con le sue chiamate anonime? Finora il giudice e i gendarmi non hanno rilasciato alcun commento: si sono accontentati di annunciare l'arresto di Cazeviel e di registrarne la confessione. L'uomo sarà presto associato al carcere giudiziario di Besançon. A Sartuis, tutti pregano perché questa sia la fine dell'incubo! Cazeviel era stato rilasciato due mesi dopo. Contro di lui non era stata raccolta nessuna prova diretta. Effettivamente, fin dal primo annuncio, c'era qualcosa che stonava. Chopard aveva tratteggiato una descrizione del sospettato: un uomo pericoloso, solitario, emarginato, ma certamente non l'assassino di Manon. Abbandonato dai genitori alla nascita - «Cazeviel» era il nome del paese dov'era stato trovato - e messo sotto la tutela
dell'amministrazione, era stato battezzato Patrick nella prima struttura che l'aveva ospitato, a Metz. Da un centro sociale all'altro, da una famiglia d'affido all'altra, i termini che ricorrevano a suo riguardo erano: instabile, indisciplinato, violento. Ma anche: vivace, brillante, disponibile... Era per questo che aveva potuto accedere alla casa d'accoglienza di Nancy, dove l'istruzione scolastica era di buon livello e dove aveva incontrato Sylvie. La sua parte oscura aveva poi preso il sopravvento. Furti con scasso, violenze, arresti... Malgrado i soggiorni in carcere e i suoi disparati mestieri (era stato taglialegna, conciatetti, giostraio), non aveva mai perso di vista Sylvie. I due orfani erano legati da un patto, una solidarietà di bambini smarriti. Alla morte di Frédéric Simonis, nel 1987, Cazeviel si era forse fatto avanti? Sylvie l'aveva respinto? Un tale rifiuto avrebbe potuto spiegare la sua rabbia, e il suo delitto. Ma non ci credevo. Pensavo anzi che il delinquente avesse offerto la sua protezione a Sylvie, non allontanandosi mai da Sartuis. L'assassinio di Manon aveva dovuto provocare in lui una sorta di rimorso, non aveva saputo difendere «la sua vedova e la sua orfana». D'altra parte, perché confessare l'omicidio? Nelle settimane successive i gendarmi avevano cozzato contro un muro. La perquisizione del domicilio di Cazeviel non aveva dato alcun risultato. Neanche i test con la voce deformata. La ricostruzione del delitto, in febbraio, non aveva retto. In marzo, su consiglio dell'avvocato, l'uomo aveva ritrattato, dichiarando di aver confessato solo perché costretto dalle pressioni dei gendarmi. Per rappresaglia contro questi ultimi, il giudice de Witt aveva affidato l'indagine all'SRPG di Besançon. I poliziotti avevano imboccato una strada del tutto diversa. Nel maggio 1989 il commissario Philippe Setton aveva indetto una conferenza stampa per annunciare che le indagini privilegiavano ormai la pista dell'incidente. Tutti nella sala erano insorti: un incidente? ma se il pozzo era sigillato da un coperchio di metallo! se il Persecutore aveva rivelato che il corpo di Manon si trovava in un pozzo! Setton non desistette. Secondo certi indizi, diceva, si poteva immaginare un gioco fra ragazzi. Un gioco che era finito male. L'ipotesi risolveva due enigmi: che Manon si fosse apparentemente recata di sua volontà sul sito e che sul terreno ghiacciato non ci fossero impronte, a causa del peso leggero dei protagonisti, dei bambini. Soprattutto, però, questa pista apriva un campo di possibilità cui nessuno aveva pensato: i sospetti s'indirizzavano sui ragazzini presenti quella sera nell'area gio-
chi. La polizia si concentrò su Thomas Longhini, tredici anni, un ragazzo più grande di Manon, che era il suo migliore amico. I due ragazzi si ritrovavano ogni sera davanti al condominio delle Corolles. E quella famosa sera? Interrogato una prima volta il 20 maggio 1989, al municipio di Sartuis, Thomas era stato rilasciato. Convocato una seconda volta all'inizio di giugno, all'SRPG di Besançon, poi ascoltato dal giudice de Witt e da un magistrato del tribunale dei minori. Era stato posto in stato di fermo, sotto le condizioni drastiche previste nei casi di detenzione di minore. Era stata comunicata la versione ufficiale: Thomas Longhini sospettato di omicidio involontario. Aveva giocato con Manon, sul sito del depuratore, con estrema imprudenza. La bambina era caduta accidentalmente. Philippe Setton aveva spiegato tutto questo ai media. Era però stato costretto ad ammettere che l'adolescente non aveva confessato. «Non ancora», aveva ripetuto, sostenendo lo sguardo dei giornalisti. Due giorni dopo, Thomas Longhini veniva rilasciato e i poliziotti erano criticati e scherniti per i loro metodi e la fretta con cui avevano agito. Gli stessi gendarmi avevano preso le parti dell'adolescente, sottolineando l'assurdità del ragionamento della polizia, insistendo sulle minacce telefoniche. Se Manon Simonis era morta in un incidente, chi avrebbe rivendicato il delitto prima che questo fosse reso pubblico? Chi minacciava da mesi Sylvie Simonis? La pista Longhini fu l'ultimo atto dell'indagine. Nel settembre 1989 Jean-Claude Chopard aveva smesso di scrivere sull'argomento. Per tutti, il caso Manon Simonis era archiviato, e insoluto. Mi sfregai le palpebre indolenzite. Non ero sicuro di avere appreso granché. E mi mancava sempre l'elemento essenziale. Neanche l'ombra di un collegamento fra questo sinistro fatto di cronaca e l'assassinio di Sylvie Simonis, commesso quattordici anni dopo. Eppure provavo una confusa sensazione che qualcosa fosse «passato» durante la lettura di quegli articoli. Un messaggio subliminale che non avevo saputo cogliere. Gli inquirenti, gendarmi o poliziotti, tutti quelli che si erano occupati di questo delitto, avevano dovuto provare lo stesso disagio. La verità era là, sotto il nostro naso. C'era una logica, una struttura sotterranea, dietro quella vicenda, e nessuno aveva trovato il modo per decifrarla. Una voce proveniente dal pianterreno risuonò nelle scale: «Non addormentarti sulla mia prosa. Aperitivo!».
36 Chopard mi aspettava sulla terrazza, davanti a un barbecue fumante: delle belle trote rosate crepitavano sulle braci. Mi ricordavo dei suoi panieri vuoti. Lui scoppiò a ridere, come se potesse vedere la mia espressione anche se ero alle sue spalle. «Sono andato a comprarle al ristorante qui vicino. Faccio sempre così.» Indicò un tavolo di plastica, circondato da sedie da giardino, già preparato per il pranzo: tovaglia e piatti di carta, bicchieri e posate di plastica. La cosa mi dava conforto: nessun rischio di stridori metallici. «Siediti. Le munizioni sono all'ombra, sotto la tavola.» Trovai una bottiglia di Ricard e dello chablis. Optai per il vino bianco e mi accesi una Camel. «Mettiti comodo. È pronto fra un minuto.» Presi posto. Il sole ricopriva ogni oggetto di una sottile pellicola di calore. Chiusi gli occhi e tentai di rimettermi in sesto. Le migliaia di parole che avevo letto in quelle ore mi vorticavano ancora in testa. «Allora, cosa ne pensi?» Chopard mi depose nel piatto una trota croccante accompagnata da patatine fritte. «Bello stile.» «Non dire fesserie. La tua impressione?» «A volte si dilunga un po' inutilmente.» Il giornalista alzò in aria il forchettone. «Mi arrangiavo con quello che mi davano! I gendarmi erano ossessionati dal segreto. La verità è che non avevano in mano niente. Zero assoluto. Non hanno mai avuto niente...» Fece cadere una trota nel piatto e si piazzò di fronte a me. «Ma l'indagine: cosa ne pensi? M'interessa il tuo parere di piedipiatti.» «Ho visto passare qualcosa, ma non so cosa.» Chopard picchiò il dorso della mano destra contro il palmo sinistro. «È questo! Proprio questo!» Si chinò verso di me dopo aver vuotato il bicchiere. «C'è come una nebbia... Una nebbia di colpevolezza che fluttua su tutta questa storia.» «Il colpevole sarebbe uno dei tre sospettati?» «Tutti e tre, a mio parere.» «Cosa?» «È una mia intuizione. Ho avvicinato tutti e tre. Ho potuto persino inter-
rogarne due, a mio piacimento. Posso assicurarti una cosa: non erano puliti.» «Vuole dire che avrebbero commesso l'omicidio... insieme?» «Non ho detto questo. In fondo, non sono nemmeno sicuro che sia stato uno dei tre.» «Fatico a seguirla.» «Mangia o diventa freddo.» Si riempì il bicchiere e lo vuotò in un colpo solo. «C'era in ciascuno di loro una parte di responsabilità. Una sorta di... percentuale di colpevolezza. Diciamo: il 30 per cento. Tutti e tre insieme formavano l'assassino ideale.» Assaggiai il pesce: squisito. «Non capisco.» «Non ti è mai capitato in un'indagine? La colpevolezza aleggia su ogni sospettato, ma non si posa mai. E, anche quando hai scoperto il vero assassino, l'ombra non lascia gli altri...» «Mi capita tutti i giorni. Ma il mio lavoro m'impone giustamente di attenermi ai fatti. Di arrestare quello che aveva in mano l'arma. Torniamo all'assassinio di Manon. Se lei dovesse scegliere un colpevole, su chi s'indirizzerebbe?» Chopard tornò a riempire i bicchieri. Aveva già vuotato il piatto. «Thomas Longhini, l'adolescente», decretò. «Perché?» «Era il solo che la piccola avrebbe seguito. Manon diffidava degli adulti. E me li immagino bene quei due sgattaiolare via di soppiatto, mano nella mano. Passare per l'uscita di sicurezza o per la cantina.» «Condivide dunque la teoria dell'SRPG?» «Il gioco che sarebbe finito male? Non ne sono sicuro... Ma Thomas ha la sua parte di responsabilità, è chiaro.» «Se è un delitto classico, quale sarebbe il movente?» «Chi lo sa cosa passa per la testa di un ragazzino?» «Gli ha parlato?» «No. Dopo la sua liberazione, la famiglia ha lasciato Sartuis. Il ragazzino era in stato pietoso.» «I poliziotti l'avevano maltrattato?» «Setton, il commissario, aveva la mano pesante.» «Sa dove si trovi oggi Thomas?» «No. Credo addirittura che la famiglia abbia cambiato nome.» Buttai giù un sorso di vino. «Gli altri due, Moraz e Cazeviel, sa dove
posso trovarli?» «Moraz non si è mosso. È rimasto a Le Locle. Lo stesso per Cazeviel, è qui nei paraggi. Si occupa di un centro di svaghi, vicino a Morteau.» Tirai fuori il taccuino e presi nota dei loro indirizzi. «E gli altri? Gli investigatori dell'epoca? C'è modo di incontrarli?» «No. Setton è diventato prefetto, da qualche parte in Francia. De Witt è morto.» Presi una Camel dal pacchetto, per coprire il sapore del vino. «E Lamberton?» «Sta morendo di cancro alla gola. A Jean-Minjoz, l'ospedale di Besançon.» Chopard mi riempì nuovamente il bicchiere, poi tese l'accendino per accendermi la sigaretta. Mi girava la testa. «I suoceri?» «Si sono trasferiti nella Svizzera romanda. Inutile telefonargli. Mi sono già rotto le corna. Non vogliono più sentire parlare di questa storia.» «Ultima domanda, a proposito di Manon: sulla scena del delitto, non c'erano segni di pratiche sataniche?» «Croci o roba del genere?» «Sì, proprio così.» Vuotai il bicchiere. Piegando la testa all'indietro, persi l'equilibrio. Mi aggrappai al tavolo, come a un parapetto. Credetti di essere lì lì per vomitarmi sulle scarpe. «Nessuno ne ha mai parlato», disse Chopard chinandosi verso di me, incuriosito. «Hai una pista?» «No. E sull'omicidio di Sylvie, si è fatto un'idea?» Riempì nuovamente i bicchieri. «Te l'ho già detto: è lo stesso assassino.» «Ma quale sarebbe il movente?» «Una vendetta, messa in atto a quattordici anni di distanza.» «Una vendetta per cosa?» «È la chiave dell'enigma. È questo che bisogna cercare.» «Perché aspettare tanti anni per colpire di nuovo?» «Spetta a te trovare la risposta. Sei qui per questo, no?» Feci un movimento incerto e credetti di nuovo di perdere l'equilibrio. Tutto diventava spugnoso, instabile, oscillante. Inghiottii un boccone di pesce per arginare la sensazione di ebbrezza. «Longhini potrebbe quindi essere anche l'assassino di Sylvie?» «Rifletti un po'. Perché tanta differenza tra i due delitti? Perché l'assassi-
no è cambiato. La sua pulsione criminale è maturata. Nel 1988 Thomas Longhini aveva quasi quattordici anni. Oggi ne ha ventotto. Per un assassino è l'età cruciale. Il periodo in cui la pulsione criminale esplode. La prima volta è stato forse un incidente, legato al sadismo di un gioco. La seconda volta è un omicidio, perpetrato con la freddezza della maturità.» «Dove si trova oggi?» «Te l'ho già detto, non se ne sa niente. E non sarà facile scovarlo. Ha cambiato nome, vive altrove.» Il sole si era oscurato. Eravamo giunti al termine del nostro incontro. Mi alzai, vacillante. «Potrebbe stamparmi i suoi articoli?» «Già fatto, ragazzo mio. Ho una serie bell'e pronta.» Si alzò e scomparve dentro casa. Fissai i riflessi di cielo grigio sulle piastrelle di vetro che sovrastavano la terrazza, le superfici disuguali oscillavano come onde. «Ecco qua!» Chopard mi tese una cartellina chiusa da un fermaglio nero. All'interno era infilata una busta. Mi appoggiai contro la balaustra. Cervello e budella parevano nuotare nell'alcol, tipo coq au vin. «Ti ho messo anche una serie di foto. Archivio personale.» Lo ringraziai, sfogliando i documenti. Un gorgoglio mi fece alzare gli occhi. «Ma non vorrai andartene prima del bicchiere della staffa!» 37 Mi fermai in una radura, dopo qualche chilometro, e respirai l'aria gelida. Presi la cartellina di Chopard e tirai fuori la busta. Le prime fotografie mi fecero tornare subito sobrio. Il corpo di Manon. Foto scattate in fretta, immagini inquadrate di traverso, fissate con il flash. La giacca a vento rosa, il metallo della barella, la coperta di sopravvivenza, una mano bianca. Un'altra foto. Un ritratto di Manon, viva. Sorrideva all'obiettivo. Un visetto ovale. Grandi occhi chiari, curiosi, avidi. Capelli biondi, quasi bianchi. Una bellezza spettrale, fragile, come sovraesposta dalla chiarezza delle ciglia e delle sopracciglia. La foto successiva rappresentava Sylvie Simonis. Era bruna quanto la figlia era bionda. E di una bellezza singolare. Sopracciglia folte alla Frida Kahlo. Bocca grande, profilata, sensuale. Un incarnato olivastro, incorniciato da una pettinatura all'indiana. Solo gli occhi erano chiari. Due bolle d'acqua azzurra, come prigioniere dei ghiacci. Curiosamente, la bambina
sembrava più vecchia della madre. Non si assomigliavano proprio per niente. Chiusi gli occhi. Alle due del pomeriggio il sole stava già calando. L'ombra si richiudeva sulla foresta. Era ora di organizzare la mia indagine. Presi il cellulare. «Svendsen? Durey. Sei riuscito a dare un'occhiata al dossier?» «Magica. La tua storia è magica.» «Smettila di fare l'idiota. Hai trovato qualcosa?» «Valleret ha fatto un buon lavoro», ammise. «Soprattutto per quanto riguarda gli insetti. Si sarà fatto aiutare, no?» «Un tizio di nome Plinkh, specialista di entomologia. Lo conosci?» «No, ma ci ha azzeccato. L'assassino gioca con la cronologia della morte. Terrificante, e al tempo stesso magistrale!» «Che altro?» «Ho incominciato a elencare gli acidi che potrebbe avere utilizzato.» «Prodotti di difficile accesso?» «No. Ospedale o laboratorio chimico. Non intendo solo un laboratorio di ricerca, potrebbe essere qualsiasi unità di produzione, degli ambiti più diversi: dai gelati alle pitture industriali...» Avevo chiesto a Foucault di recensire i laboratori della regione, ma soltanto nell'ambito della ricerca. Bisognava allargare il campo. «Secondo te, si tratta di un chimico?» «O di uno che bazzica un po' tutto, per passione. Chimica. Entomologia. Botanica.» «Dimmi qualcosa che non so già.» «Avrei preferito un vero cadavere, con vere ferite! Ho messo al lavoro parecchi colleghi, ciascuno secondo la sua specialità. Ci stiamo impegnando tutti al massimo. Per quanto mi riguarda, ho individuato un errore da parte di Valleret.» «Che errore?» «La lingua. Per me, ha preso un granchio.» «Cosa, la lingua?» «Non ti ha detto che era sezionata?» Soffocai una bestemmia. Non solo lui non me ne aveva parlato, ma io non avevo letto il rapporto con sufficiente attenzione. Imprecai, cercando le sigarette. «Vai avanti.» «Secondo Valleret, la vittima si è mozzata la lingua da sola, quand'era
imbavagliata.» «Non sei d'accordo?» «No. Sarebbe piuttosto complicato spiegartelo ma, in base al volume di sangue nella gola, è escluso che la vittima si sia ferita da sola. O l'assassino ha tagliato la lingua quando la donna era viva e ha cauterizzato la piaga, oppure, ed è più probabile, ha praticato l'ablazione post mortem. A mio parere, è la sola ferita inferta dopo il decesso. Il tipo non l'ha fatto per semplice piacere. È un messaggio. O un trofeo. Voleva l'organo.» Un riferimento diretto alla parola o alla menzogna. Un'allusione a Satana? Il Vangelo secondo san Giovanni: «Non c'è verità in lui. Quando parla il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna». «E il lichene?» «Valleret non se n'è occupato per niente. Avrebbe dovuto inviare un campione agli specialisti di...» «È quello che hai fatto tu?» «Ci stanno lavorando tutti a questo caso, te l'ho detto. Ci diamo da fare qui, caro mio.» «I tuoi specialisti, non ti hanno ancora detto niente?» «Questo lichene si trova sotto terra, nell'oscurità delle grotte. Ma bisogna ancora procedere a delle analisi.» Un'intuizione. La pianta luminescente svolgeva un ruolo preciso. Doveva fare luce sull'opera dell'assassino. Era un proiettore naturale sulla gabbia toracica gonfia di larve, corrosa dalla putrefazione... Una luce venuta dagli abissi. Un altro nome del diavolo era Lucifero, il «portatore di luce». In quell'istante ebbi una folgorazione. Il corpo di Sylvie Simonis era, simbolicamente, costellato di nomi. I nomi del diavolo. Belzebù, il Signore delle mosche. Satana, il Maestro della menzogna. Lucifero, il Principe della luce. Una sorta di trinità contrassegnava il cadavere. Una trinità invertita, quella del Maligno. Il rozzo simbolo del crocifisso non era che un indizio per decifrare i segni più sofisticati del corpo. Il mio assassino non si considerava solo un servitore del diavolo. Rappresentava, da solo, tutte le figure consacrate della Bestia. Svendsen mi stava ancora parlando. «Ehi, mi ascolti?» chiese. «Scusa, dicevi?»
«Ho fatto degli ingrandimenti dei morsi. Quella roba mi dà da pensare.» «Cosa puoi dirmi al riguardo?» «Per il momento, niente.» «Fantastico.» «E tu? Dove sei esattamente? Cosa combini?» «Ti richiamo?» Svendsen mi aveva certamente parlato dello scarabeo, ma non avevo sentito. Quell'onnipresenza del diavolo mi procurava un malessere indefinibile. Qualcosa che andava oltre il disgusto abituale degli omicidi. Una nuova Camel e feci il numero di Foucault. «Ho letto il fascicolo, è folle», disse subito. «Hai lanciato la ricerca, su scala nazionale?» «Un messaggio interno. Ho anche consultato il SALVAC e fatto delle telefonate.» «È saltato fuori qualcosa?» «Niente. Ma se l'assassino ha già colpito prima, salterà fuori. Il suo metodo è piuttosto... originale.» «Hai ragione. Gli allevatori d'insetti?» «In cantiere.» «I laboratori?» «Idem. Ci vorrà qualche ora.» «Contatta Svendsen. Ti darà una lista più ampia dei siti chimici.» «Mat, io...» «Notre-Dame-de-Bienfaisance?» «Ho la storia del monastero. Niente da segnalare. Oggi è un rifugio per missionari che...» «Non hai nient'altro?» «Per il momento no, io...» «Non ti ho chiesto solo di consultare Internet. Un po' d'iniziativa, cazzo!» «Ma...» «Ti ricordi l'Unital6? L'associazione alla quale Luc ha inviato delle email. Controlla che non abbia un legame con Bienfaisance.» «D'accordo, è tutto?» «No. Ho un'altra cosa da chiederti, più complicata.» «Mi rassicuri.» Riassunsi la storia di Thomas Longhini. Accusato di omicidio involontario nel gennaio 1989. Messo in esame dal giudice de Witt, interrogato dalla
polizia giudiziaria di Besançon, poi rilasciato. Spiegai il cambio di nome, l'assenza totale di una pista per risalire a lui. «Complicata, questa roba.» «Foucault, non voglio ripeterlo. Non lavori alle poste. Fatti aiutare dagli altri. E trovami qualcosa!» Il poliziotto bofonchiò una risposta, poi tornò a modi più educati. «E tu? Tutto bene? Fai progressi?» Scrutai intorno a me la foresta rossa che sprofondava nel buio. Avevo sempre lo stomaco in gola e la testa piena di fantasmi. «No», mormorai, «non va bene, ma è il segno che mi sto muovendo nella buona direzione.» Riagganciai e girai la chiave dell'accensione. Le distese di abeti, le colline spoglie, le nuvole basse si misero in movimento. Una neve diafana si spargeva nell'aria. Presi la circonvallazione e fiancheggiai i quartieri colorati che cingevano Sartuis. Notai degli edifici bianchi dalle imposte bordeaux. Il complesso Corolles. Dov'era scomparsa Manon, una sera di novembre del 1988. Non rallentai, ma sentii attraverso i vetri il freddo e la solitudine di quegli edifici. Dopo un chilometro apparvero dei bunker di cemento, giù in basso, acquattati sotto i larici. Rallentando, distinsi delle canalizzazioni, delle tubature a gomito, delle vasche rettangolari. La stazione di depurazione. Il luogo del delitto. Cercai una piazzola per lasciare l'auto. Presi la torcia e la macchina digitale dalla borsa e mi misi in cammino. Non c'era un sentiero. Le rocce che sporgevano tra le felci erano di un rosso funesto, chiazzate di muschi verdastri. M'immersi nella sterpaglia. In fondo al pendio, l'erba, l'edera, i rovi si abbandonavano a un vero festino di pietra. Sotto gli abeti, seguii i tubi. L'odore di resina si spargeva intenso. Quando scostavo i rami per aprirmi un varco, se ne sprigionavano delle scintille verdi. Sopra di me, la neve continuava a volteggiare, chiara, immateriale. Incrociai un primo pozzo, poi un secondo. Avevo sempre immaginato dei cilindri di cemento. In realtà erano rettangolari, delle voragini ad angoli retti. Quale era stata la tomba di Manon? Seguii ancora le condutture. Il vento era caduto. Calma piatta. Non provavo niente. Né paura né repulsione. Giusto la sensazione di una pagina voltata. Il luogo non vibrava più di alcuna risonanza, a differenza di
certe scene del delitto dove è ancora possibile immaginare l'assassinio, avvertirne l'onda di shock. Mi chinai su uno dei pozzi. Mi sforzai di visualizzare Manon, i suoi capelli fluttuanti sulla superficie nera, la sua giacca a vento rosa gonfia d'acqua. Non vidi niente. Guardai l'orologio, le 14.30. Scattai qualche foto, poi girai i tacchi e mi diressi verso il pendio. In quel momento udii l'accenno di una risata. Un'immagine si materializza, folgorante, accanto a un pozzo. Delle mani afferrano la giacca a vento rosa. Non è una visione lampo. Piuttosto una rivelazione sorda, che costringe a strizzare gli occhi, a tendere l'orecchio. Mi concentro, spiando una nuova immagine. Niente. Sto per andarmene quando, di colpo, sono colto da un nuovo flash. Delle mani spingono la giacca rosa. Strofinio dell'acrilico sulla pietra. Grido ingoiato dall'abisso. Caddi fra i rovi. Il luogo era ancora abitato dall'orrore. Lì c'era l'impronta dell'assassinio. Non si trattava di un fenomeno paranormale. Era piuttosto la capacità dell'immaginario di proiettarsi nella sfera di una scena violenta, di decodificarla, di assimilarla a un altro livello di coscienza. Cercai di far tornare questi frammenti. Impossibile. Ogni tentativo li allontanava, proprio come un sogno che al risveglio svanisce sempre più, per quanto ci si sforzi di ricordarlo. Mi rimisi in cammino, fra i rami e le spine. Il terreno sembrava sprofondarmi sotto i piedi. Era giunto il momento di oltrepassare la frontiera. 38 Sulla soglia, un cartello informava: CHOUCROUTE A VENTI FRANCHI, BIRRA A VOLONTÀ. Spinsi le porte tipo saloon della Ferme Zidder. Il ristorante tutto in legno evocava la stiva di una nave. Stessa penombra, stessa umidità. All'odore di birra si sommavano quelli di tabacco stantio e di crauti rancidi. La sala era vuota. I tavoli recavano ancora le tracce dei pasti consumati. I suoi vicini mi avevano informato che ogni sabato Richard Moraz pranzava in questo ristorante bavarese. Ma erano le 15.30. Arrivavo troppo tardi. Solitario, in fondo al bancone, c'era però un uomo enorme in tuta a righine che leggeva il giornale. Una montagna di carne, dalle pieghe tettoniche. L'articolo di Chopard parlava di un «colosso di oltre cento chili». Forse il mio orologiaio... Era immerso nella lettura, penna in mano, occhiali sul naso, un boccale di birra accanto. Portava dei grossi anelli, praticamente uno a ogni dito.
Mi sedetti qualche sgabello più in là, con gli occhi puntati su di lui. Aveva lineamenti duri e uno sguardo ancora più duro. Dal viso, incorniciato da una barba alla Cavour, si sprigionava però una certa nobiltà. La mia convinzione si rafforzò: Moraz. Ed ero d'accordo con Chopard. Davanti a lui si pensava subito: «colpevole». Ordinai un caffè. «Piccolo nero. Sei lettere», disse il gigante al barista, gli occhi sul giornale. «Caffè?» «Sei lettere.» «Espresso?» «Lascia perdere.» Il cameriere mi allungò una tazza. «Pigmeo.» Il grassone mi lanciò un rapido sguardo al di sopra degli occhiali. «Voce interiore. Nove lettere», enunciò. «Juke-box?» buttò lì il tipo dietro il banco. «Coscienza», suggerii. Mi osservò con più attenzione. «Mancano di cultura. Sette lettere», propose senza togliermi gli occhi di dosso. «Incolti.» Agli inizi, quando stavo in appostamento, avevo passato ore a riempire caselle di parole crociate. Conoscevo a memoria quelle definizioni che giocavano sui doppi sensi. Il tizio sorrise poco amichevolmente. «Un campione, eh?» «Iella. Sei lettere.» «Sfiga?» Schiaffai il tesserino sul banco. «Sbirro.» «Dovrebbe essere divertente?» «Spetta a lei deciderlo. Lei è Richard Moraz, vero?» «Qui siamo in Svizzera, amico. La tua tessera puoi ficcartela dove dico io.» Rimisi in tasca il documento e gli offrii il mio più bel sorriso. «Ci penserò. Nell'attesa, le va di darmi delle risposte a qualche domanda, velocemente e senza storie?» Moraz vuotò il bicchiere e si tolse gli occhiali, che infilò nella tasca centrale della tuta. «Cosa vuoi?» «Indago sull'omicidio di Sylvie Simonis.»
«Originale.» «Penso che questo omicidio sia collegato a quello di Manon.» «Ancora più originale.» «Allora sono venuto a trovarla.» «Amico, sei proprio sensazionale.» L'orologiaio si rivolse al barista che lustrava la macchina del caffè. «Dammi un'altra birra. L'idiozia fa venire sete.» Non raccolsi l'insulto. Avevo già inquadrato il personaggio: muso duro, aggressivo, ma più furbo di quanto lasciasse pensare la sua rudezza. «Quattordici anni dopo devono ancora venire a rompermi con questa storia», commentò con voce scocciata. «Conosci il mio dossier d'accusa, no? Non c'era una riga che stesse in piedi. Il loro pezzo forte era un aggeggio per deformare le voci, fabbricato dalla ditta dove lavorava mia moglie.» «Sono al corrente.» «E non ti scappa da ridere?» «Sì.» «È ancora più divertente se si pensa che ero in attesa di divorzio. Con quella baldracca ormai ci parlavo solo per raccomandata. Non male per dei complici, no?» Impugnò il nuovo boccale e ne ingurgitò la metà in un colpo solo. Quando lo rimise sul banco, aveva la barba striata di schiuma. «Tutto questo se l'erano messi in testa gli amici francesi!» concluse asciugandosi con la manica. Gli osservai di nuovo le mani, gli anelli soprattutto. Uno rappresentava una stella, incastonata in un intreccio bizantino. Un altro era tutto arabeschi. Un altro ancora s'incavava a formare un cerchio, sbarrato da un'asticella, come il collare di un prigioniero. Una voce mi mormorò di nuovo: «colpevole». Era la voce di Chopard, con la sua teoria del 30 per cento. «Lei aveva già avuto a che fare con la giustizia.» «L'abuso di minore? Amico, sono io che avrei dovuto sporgere denuncia. Per molestie sessuali!» Mandò giù un altro sorso, alla salute del suo umorismo. Mi accesi una sigaretta. «C'è anche la sua mancanza d'alibi.» «Le cinque e mezzo: cosa si fa a quell'ora? Si rientra a casa. Con voi sbirri bisognerebbe sempre organizzare un cocktail all'ora del delitto. Così un centinaio di persone possono servirvi un alibi su un vassoio.»
Buttò giù il resto della birra e posò pesantemente il boccale sul banco. «Più ti guardo», disse, «e più mi dico che non conosci il mio fascicolo. Non hai l'aria di essere al corrente, vecchio mio. Ho il sospetto che tu non abbia la minima autorità su questa storia. Nemmeno in Francia.» «Aveva un movente.» Ridacchiò. La conversazione sembrava divertirlo. A meno che la birra non mettesse le ali alla sua gioia di vivere. «Questo è proprio il massimo. Avrei ucciso una bambina per gelosia professionale?» disse tendendo la grossa mano davanti a sé. «Guarda questa zampa, amico. Sa fare miracoli. Sylvie aveva la mano d'oro, è vero. Anch'io, lo puoi chiedere ai colleghi. D'altronde, ho finalmente avuto la mia promozione. Tutto questo è un mucchio di stronzate.» «Avrebbe potuto telefonare a Sylvie, per mesi e mesi, se non altro per scocciarla.» «Non sai proprio niente. Se ti fossi informato meglio, sapresti che la sera del delitto l'assassino è andato fino all'ospedale per telefonare a Sylvie Simonis. In una cabina, a pochi metri dalla sua stanza.» Ignoravo questo particolare. «Ha usato la cabina telefonica nell'atrio dell'ospedale. Mi ci vedi, con la mia stazza, a infilarmi dentro una cabina? Eccolo qua il mio alibi», disse battendosi il ventre. «Forse eravate più di uno.» L'orologiaio scese dallo sgabello. Cadde pesantemente sulle gambe e si piantò davanti a me. Era meno alto di me ma doveva pesare centocinquanta chili. «Adesso smamma. Qui sei nel mio paese. Non hai alcun diritto. A parte quello di beccarti un pugno sul muso.» «La mano d'oro, eh?» Gli bloccai il braccio destro sul banco e schiacciai la Camel su uno dei suoi anelli. Tentò di alzare il pugno, ma io mantenni la presa. «Mi chiamo Mathieu Durey», dissi, «Squadra criminale di Parigi. Puoi informarti: si potrebbe tappezzare questa stanza con i miei verbali di arresto. Ed è solo perché rispetto le regole...» L'uomo ansimava come un cagnolino. «Sento che sei implicato in questo merdaio, grassone. Fino alle orecchie. Non so ancora come, né perché, ma puoi stare sicuro che non leverò le tende prima di avere ottenuto delle risposte. E né i tuoi avvocati, né la tua frontiera di merda ti proteggeranno.»
Il suo viso trasudava odio da tutti i pori. Gli lasciai il braccio, afferrai la tazza e la vuotai in un colpo. «Dissolvenza al nero, dodici lettere.» «Oscuramento?» «Carbonizzato. A presto, "amico".» 39 La mia prima incursione svizzera mi lasciava l'amaro in bocca. Passata la dogana, mi diressi a nordest, verso Morteau. Via via che mi avvicinavo alla città, dei cartelli a forma di salsiccia mi auguravano il benvenuto. Una meraviglia. Ed ecco la città, incuneata in una valle stretta. I suoi tetti bruni si moltiplicavano, color oppio, o, per restare in tema, color sanguinaccio. Patrick Cazeviel lavorava in un centro per il tempo libero, vicino al monte Gaudichot, a sud di Morteau. Seguii la carta e presi una provinciale. Presto, un cartello indicò la direzione del centro ricreativo, elencando le possibili attività: kayak, free climbing, mountain bike... Facevo fatica a immaginare Cazeviel in quel contesto. Dopo la tragedia di Manon, era stato sospettato varie volte di furti gravi. Non vedevo un elemento simile nei panni di un animatore. Più che di un reinserimento, la cosa aveva tutta l'aria di una redenzione miracolosa. Seguii una strada sterrata e mi trovai davanti una grande costruzione di tronchi neri che ricordava i ranch dei primi coloni americani, isolati nelle foreste vergini. Come misi piede fuori, fui accolto dal chiasso dei bambini. Era sabato: il centro doveva essere superaffollato. Abbassai la maniglia e mi trovai in un refettorio. Decine di cappotti erano appesi agli attaccapanni. Una grande portafinestra si apriva su un pendio d'erba rasata che scendeva fino al lago. Una quarantina di bambini correvano, si agitavano, urlavano, come se dal prato si sprigionasse un'ebbrezza particolare. Trovai un'altra porta e uscii all'aperto. C'era nell'aria un profumo di gioia, di allegria irresistibile. Il lago grigio, gli alberi verdi, l'odore d'erba fresca, quelle grida che si alzavano squillanti... Tutto ciò mi smuoveva dentro una parte nascosta, dimenticata. Non un ricordo d'infanzia, ma una promessa di felicità, che ci si porta sempre dentro, senza poterla mai formulare, neanche addirittura concepire. Un sapore di paradiso, irragionevole, senza una giustificazione concreta. Una voce mi distolse dalle mie fantasticherie. Un animatore voleva sapere cosa ci facevo là.
Inventai che ero un amico di Cazeviel. Lui mi indicò, oltre l'ala destra dell'edificio, i boschi che sovrastavano lo specchio d'acqua. Tagliai attraverso il prato, evitando una partita di calcio, girando attorno a una di palla prigioniera, e capitai su un sentiero che serpeggiava verso gli abeti. Al margine del bosco, un orto dispiegava i suoi viali neri e simmetrici. Vicino a una carriola, un uomo accovacciato si affaccendava. Andai verso di lui, fra le lattughe e i pomodori. «Patrick Cazeviel?» L'uomo alzò il capo. Torso nudo, le mani nella terra, aveva la testa rasata, tratti regolari, ma con qualcosa d'inquietante. Quella bella faccia aveva anche un che di Freddy Krueger, l'assassino di Nightmare, con le lame di ferro al posto delle mani. «Patrick Cazeviel?» Si tirò in piedi, senza una parola. Ciò che avevo scambiato per un'illusione ottica, l'ombra del fogliame sulla sua pelle, era reale. Favolosamente reale. Il torso dell'uomo era tutto tatuato. Disegni frenetici, intrecciati, gli coprivano il petto e le braccia. Due draghi orientali gli si arrampicavano sulle spalle; un'aquila dispiegava le ali sui pettorali; un serpente blu notte si arrotolava intorno ai suoi addominali. Assomigliava a una creatura coperta di scaglie. «Sì, sono Patrick Cazeviel», disse lanciando una lattuga nella carriola. «E lei chi è?» «Mi chiamo Mathieu Durey.» «Viene da Besançon?» «Parigi. Squadra criminale.» Mi scrutò da cima a fondo, senza farsi riguardi. Pensai al mio aspetto. Il cappotto svolazzante, il vestito stazzonato, la cravatta di traverso. Eravamo entrambi molto caratteristici, il piedipiatti e l'ex carcerato. Due caricature nel vento pomeridiano. Cazeviel abbozzò un sorriso. «Sylvie Simonis, eh?» «Già. E sua figlia Manon.» «Siamo un po' lontani dalla sua giurisdizione, no?» Gli sorrisi di rimando e gli offrii una sigaretta. Rifiutò con un cenno del capo. «La mia proposta», dissi accendendo la mia, «è una conversazione amichevole.» «Non sono sicuro di volere amici come lei.» «Qualche domanda, e io ritorno alla mia auto e lei alle sue insalate.»
Cazeviel scrutò il lago che si estendeva alla mia sinistra. Argento grigio e azzurro del cielo. Si tolse i grossi guanti di tela e li sbatté l'uno contro l'altro. «Caffè?» «Volentieri.» Si lasciò cadere su un cumulo di terra e tese il braccio dietro la carriola. Afferrò un thermos e un bicchiere. Svitò il tappo della bottiglia e lo capovolse per ottenere una seconda tazza. Vi versò con precauzione il caffè. Vedevo i muscoli guizzare sotto i tatuaggi. Aveva quarantacinque anni, lo sapevo dagli articoli, ma il suo fisico ne dimostrava trenta. Presi il bicchiere che mi tendeva e m'installai su una montagnola di argilla. Cadde il silenzio. Cazeviel sembrava insensibile al freddo. Io pensavo al ragazzo orfano che aveva fatto un giuramento a Sylvie Simonis. «Cosa vuole sapere?» «Quello che vogliono sapere tutti.» «Amico, è storia antica. È un pezzo che non mi scocciano più con questa roba.» «Non sarà una cosa lunga.» «E va bene.» «Che cosa l'ha spinta a confessare l'omicidio di Manon?» «I gendarmi.» Bevvi un sorso di caffè tiepido, ma buono. «L'hanno malmenata e lei ha dato i numeri?» dissi ironico. «Proprio così.» «Sul serio, che le è preso?» «Volevo rompergli le palle. Per loro, ero per forza colpevole. Se ne fregavano che Sylvie fosse per me come una sorella. Per quegli stronzi contava solo la mia fedina. Allora gli ho detto: "OK, ragazzi, portatemi dentro".» Incrociò i polsi, come in attesa delle manette. «Volevo spingerli fino al limite della loro logica di merda.» Cazeviel parlava con una lentezza, con un'indolenza che mi turbavano. Un che di sinuoso che ricordava i rettili tatuati sulla sua pelle. «Con i suoi precedenti, era un po' arrischiato, no?» «Ci vivo, io, con il rischio.» L'uomo rifletteva da vicino l'immagine del protettore che mi ero fatta. Un angelo custode, ma inquietante, minaccioso. Tornai su un dettaglio che mi preoccupava. «Nel 1986 lei usciva di prigione.»
«È tutto scritto.» «Sylvie era sposata, madre di famiglia, brillante orologiaia. Era rimasto in contatto con lei?» «No.» «Come l'ha ritrovata? Non portava più il suo nome da ragazza.» Mi guardò con curiosità. Il nemico era più pericoloso di quanto si aspettasse, ma questa scoperta non pareva fargli né caldo né freddo. Sorrise. «La sigaretta, è sempre valida?» Gli offrii una Camel. Ne approfittai per prenderne una anch'io. «Ti farò una confidenza. Una cosa che non ho mai detto a nessuno.» «A cosa devo l'onore?» «Non so. Forse perché hai l'aria schizzata quanto me. Dopo la prigione, mi sono stabilito a Nancy, con dei colleghi. La nostra tattica era di attaccare la Svizzera. Ogni notte attraversavamo la frontiera di nascosto. Dall'altra parte ci aspettava un'auto. Rubavamo a Neuchâtel, a Losanna... A volte persino a Ginevra.» «Non dimenticare che sono uno sbirro», dissi passando al tu. «C'è la prescrizione, amico. Per farla breve, abbiamo capito che c'era della buona grana anche da questa parte della frontiera, in certe case di notabili. Sartuis, Morteau, Pontarlier... Una notte, abbiamo svaligiato un laboratorio bizzarro, pieno di orologi preziosi. E lì ho visto delle fotografie. Fotografie di Sylvie e di sua figlia. Merda: ero in casa sua! L'amore della mia giovinezza, che si era sposata e aveva una bambina.» Prese un tiro per digerire, ancora una volta, la sua sorpresa, e la sua amarezza. «Ho detto agli altri di rimettere tutto a posto. Hanno fatto un po' di storie ma poi si sono calmati. Dopo questo fatto, ho ricontattato Sylvie.» Soffiò sull'estremità incandescente della sigaretta, che si fece di un rosso vivo. «Mi sono fatto delle idee, è vero. Ma le nostre strade non potevano più incrociarsi.» «Essendo cristiana, ti faceva la predica?» «Non era il suo genere. E non era abbastanza ingenua da pensare che con qualche chiacchiera da curato avrei ripreso la buona strada. Seppellirmi in una segheria, per un salario da miseria.» «È quello che però hai fatto, qualche volta.»' «Qualche volta, sì. Nei miei periodi di calma.» «Come oggi?»
«Oggi è diverso.» «Cos'è che è diverso?» Cazeviel mandò giù un sorso di caffè senza rispondere. «Alla morte di Manon, come hai reagito?» «Collera. Rabbia.» «Sylvie ti aveva parlato delle telefonate anonime?» «No. Non mi aveva detto niente... Altrimenti... l'avrei protetta. Non sarebbe successo niente.» «Confessare il delitto ai gendarmi non era un grande segno di rispetto verso il suo dolore.» Mi lanciò uno sguardo assassino. Tutto il suo torso si tese, i suoi tatuaggi si animarono. Per un istante credetti che mi sarebbe saltato alla gola, ma continuò con voce calma. «Amico, era un problema fra me e gli sbirri, capito? Non insistetti. «Sylvie aveva dei sospetti sul vero assassino?» «Non ha mai voluto dirmi niente. La sola cosa di cui sono sicuro è che non credeva all'indagine dei gendarmi. Le loro piste inconsistenti e i loro moventi senza senso.» «E tu cosa ne pensi?» Guardò ancora una volta il lago, aspirando dalla sigaretta fino al filtro. «Per accusare ci vogliono delle prove. Nessuno ha mai saputo chi ha ucciso Manon. Forse uno squilibrato, che ha colpito a caso. O un tipo che odiava Sylvie e sua figlia, per una ragione ignota. Una cosa è certa: il disgraziato è ancora libero.» «Per te, è lo stesso uomo che ha colpito a quattordici anni di distanza?» «Non c'è dubbio.» «Hai dei sospetti?» «Me ne frego dei sospetti.» «Non hai mai indagato, per conto tuo?» «Non è detta l'ultima parola.» Mi alzai, spolverandomi il cappotto. Mi imitò, gettando il thermos e i bicchieri fra le lattughe nella carriola. «Adiós, sbirro. A ciascuno la sua strada. Ma se scopri qualcosa e me lo fai sapere...» «E viceversa?» Approvò senza rispondere e impugnò la carriola. Lo guardai allontanarsi e capii che mi ero perso il tatuaggio più bello. Sulla schiena, un diavolo magnifico, corna attorcigliate e lungo muso di caprone, apriva le sue ali di
pipistrello. Pensai a quella strana storia d'amore e di amicizia fra un uomo selvaggio e un'orologiaia ricca di talento. Una bella pièce, con personaggi accattivanti. C'era solo un problema: era tutto falso. Ne ero sicuro: Patrick Cazeviel mi aveva mentito su tutta la linea. 40 Ripresi la strada, pensando al terzo uomo: Thomas Longhini, il ragazzino scomparso. Dovevo ritrovarlo, urgentemente. Ascoltai la segreteria del cellulare. Niente messaggi da parte di Foucault. Giù in basso, la vallata di Sartuis e i suoi edifici variopinti si accendevano nel crepuscolo. Notai un gruppo di edifici dai toni più sobri. Delle ville tradizionali, circondate da giardini. Le loro grandi superfici vetrate erano immerse nell'ombra, ma i vasistas, sui tetti, scintillavano ancora. Quelle residenze erano tutte orientate a est. Questo fatto mi ricordò un particolare che avevo letto sulla guida. Un tempo, gli atelier degli orologiai guardavano sempre verso est, in modo da approfittare del sole il prima possibile la mattina. Gli artigiani dell'alto Doubs, che erano anche agricoltori, si mettevano al lavoro all'alba, prima di occuparsi dei campi. Questa idea ne richiamò un'altra: la Casa degli orologi di Sylvie doveva trovarsi in quel quartiere. Verificai nei miei appunti. Chopard mi aveva fornito l'indirizzo: 42, rue des Chênes. Valeva la pena fare una deviazione. Le costruzioni ristrutturate esibivano una profusione di frontoni spezzati, rivestimenti di legno, colombai. I giardini erano rigogliosi, le automobili parcheggiate lungo i marciapiedi o nei box aperti erano tutte di marca tedesca: Audi, Mercedes, BMW. Non c'era bisogno di essere un'aquila per indovinare che quel quartiere residenziale era abitato dall'élite delle ditte di micromeccanica o di giocattoli che in queste valli avevano rimpiazzato l'attività orologiaia. Mi ritrovai in una strada che saliva all'assalto di una collina: rue des Chênes. I riverberi si diradavano, le ville si facevano rare, i parchi che le circondavano sempre più vasti. Scalai la marcia e mi arrampicai nell'oscurità. La Casa degli orologi era l'ultima, arretrata rispetto alla strada. Un blocco massiccio, con un tetto dalle falde molto inclinate che formavano una
piramide d'ombra. All'altezza del primo piano i muri erano rivestiti di tavole di legno, mentre al piano terra erano intonacati di bianco. Mi aspettavo una sorta di castello stravagante, un portone nero, delle torri incombenti. La casa evocava invece una grossa fattoria di quelle parti, dotata di un garage sulla destra, in fondo al pendio. La superai senza rallentare, salii fino a una rotonda e m'infilai in una stradina senza uscita, dove parcheggiai sotto gli alberi. Nessuno in vista. Ridiscesi verso l'oggetto del mio interesse, attraverso i campi, lontano dalle luci. Capitai dalla parte della facciata posteriore. Niente porte. Verificai tutte le imposte sbarrate. Una non era perfettamente chiusa. Infilai la mano nella fessura, trovai il gancio e liberai lo scuro. Dietro c'era una finestra basculante. Tentai d'insinuarvi le dita. Niente da fare. All'interno, la maniglia era abbassata: il telaio era bloccato. Optai per un intervento decisivo. Raccolsi una pietra, l'avvolsi nel cappotto e colpii il vetro con un colpo secco. Il vetro andò in pezzi. Infilai il braccio nel buco e alzai la maniglia. Qualche secondo dopo ero all'interno. Richiusi l'imposta e posai sul pavimento i frammenti di vetro che avevo raccolto all'esterno. Con un po' di fortuna, sarebbero passate settimane prima che qualcuno notasse l'intrusione. Restai immobile, per abituarmi all'atmosfera del luogo. Lontano, un cane abbaiò. Non sapevo in che parte della casa mi trovavo. Il silenzio, il buio mi facevano l'effetto di un'immersione improvvisa in acque ghiacciate. A poco a poco gli occhi si adattarono all'oscurità. Davanti a me, un corridoio. Alla mia destra, una scala. A sinistra, delle porte chiuse. Seguii il corridoio e raggiunsi il soggiorno. Un ambiente vasto, aperto fino al tetto. In alto si snodava un ballatoio che probabilmente dava accesso alle camere. Niente mobili, tranne qualche scaffale di metallo e un grande tavolo da lavoro inclinato vicino alla portafinestra. Una serie di pendole, carillon e clessidre ornavano gli scaffali. Mi avvicinai. Non sapevo niente in materia, ma a naso distinsi varie epoche; antichi quadranti solari, clessidre medievali, orologi con i meccanismi a vista, cerchi dorati sostenuti da angioletti: si andava dal rinascimento all'età classica o al periodo dell'illuminismo. C'era anche una vetrina di orologi da taschino, di fogge e materiali diversi: argento cesellato, zinco patinato, smalto colorato... Neanche un tic-tac, silenzio totale. Come dappertutto a Sartuis, anche qui il tempo si era fermato.
Attraversai la stanza e mi avvicinai al tavolo da lavoro, di fronte alla portafinestra. Vi erano ancora radunati gli strumenti di precisione, come se Sylvie avesse appena completato una regolazione. Mantici, pinze, punte così sottili da far pensare a un set di microchirurgia. Posai la mano sullo schienale di cuoio del sedile. Immaginai Sylvie, china sugli ingranaggi, a manipolare le maglie del tempo, mentre nasceva il sole. Tornai nel corridoio e aprii la prima porta. Una sala da pranzo, arredata all'antica. Mobili massicci, tavolo rotondo coperto da un drappo bianco, parquet tirati a cera. Chi pagava per tenere in ordine la casa? A chi spettavano tutti questi beni? Mi domandai se Sylvie Simonis avesse ancora dei lontani parenti. O se fosse la famiglia acquisita, e detestata, che avrebbe ereditato. Azionai l'interruttore a parete. La luce invase la stanza. Per riflesso, gettai uno sguardo alle imposte chiuse: nessun rischio che mi scorgessero dall'esterno. Perquisii ogni mobile, tempo sprecato. Servizi da tavola, posate, tovaglie, tovaglioli. Non un solo oggetto personale. Spensi la luce e lasciai la sala. La seconda porta si apriva sulla cucina. Anche questa linda, neutra. Piastrelle scintillanti, piatti immacolati. Le alte credenze di legno erano piene di utensili da cucina, di elettrodomestici di ultima generazione. Non una fotografia alle pareti, non un promemoria sul frigorifero. Avrebbe potuto essere un appartamento in affitto già ammobiliato. Tornai sui miei passi e salii la scala. In alto, il ballatoio dava accesso a due stanze, totalmente vuote, e poi a una terza: quella di Sylvie, lo intuivo. Mobili della regione, lucidi e scuri. A terra, un parquet spoglio, senza tappeti. Alle pareti, intonaco grezzo. Quanto al letto, un telaio di rovere, senza materasso né piumino. Aprii i cassetti, gli armadi. Vuoti. Qualcuno aveva passato al setaccio la stanza. I gendarmi? I legatari della casa? Un'occhiata all'orologio: le sette e dieci. Più di mezz'ora che mi aggiravo lì dentro senza il minimo risultato. Alla fine del ballatoio trovai un'altra scala, ripida e stretta. Mi arrampicai fino al granaio ristrutturato, il cui soffitto mansardato era tappezzato di lana di vetro. Due vasistas si aprivano sul tetto. Qui non potevo accendere la luce, ma ci vedevo a sufficienza. Doveva essere l'ufficio di Sylvie. Sul pavimento, una moquette in tinta écru. Alle pareti, pannelli di tessuto chiaro. Il mobilio si riassumeva in un ripiano posato su due cavalletti, qualche classificatore, un armadio. Ci guardai dentro. Gli scomparti erano vuoti. Lì doveva esserci stata la contabilità di Sylvie, le sue carte, ma tutto era stato ripulito.
Malgrado il freddo, il mio corpo si surriscaldava. Il cappotto pesava tonnellate, la camicia mi s'incollava alla pelle. Un non so che mi tratteneva ancora. Sentivo che c'era nascosto qualcosa in quella casa. Un posto segreto dove Sylvie aveva conservato tutto ciò che era legato alla morte di sua figlia. Un'idea. Ridiscesi nel soggiorno e aprii con precauzione le vetrine. Gli orologi. I piedistalli. Le casse. Recessi e profondità per dissimulare un segreto. Maneggiai le pendole, sollevandole, scuotendole, aprendone le viscere. Alla quinta, trovai un cassetto inserito nella base. L'aprii e non credetti ai miei occhi: un'audiocassetta. Pensai alle registrazioni delle telefonate dell'assassino. Afferrai il bottino e riposi l'orologio. Una prima scoperta. Altri oggetti dovevano contenere ulteriori indizi... Sentii la canna di un'arma piantata nella nuca. «Non si muova.» Rimasi pietrificato. «Si giri lentamente e metta le mani sul tavolo.» Riconobbi la parlata. Stéphane Sarrazin. «Pensavo che ci fossimo messi d'accordo, lei e io.» Ruotai di trenta gradi e feci atterrare le mani sul tavolo da lavoro. L'altro mi perquisì rapidamente e s'impossessò della mia automatica. «Si giri. Faccia verso di me.» I suoi capelli neri si stagliavano netti sulla fronte. Gli occhi ravvicinati tracciavano, con l'ala del naso, una croce oppure un pugnale. Assomigliava a Diabolik, l'eroe dei fumetti. Impugnava un'automatica in ogni mano. «Violazione di domicilio. Distruzione d'indizi. È messo male.» «Quali indizi?» Tenevo la cassetta nella mano chiusa. «Avete già setacciato tutto qui.» «Non ha importanza. Il giudice Magnan apprezzerà.» «Perché diffidare di me? Perché rifiutare il mio aiuto?» «Il suo aiuto?» «Siete in un vicolo cieco. Quattordici anni fa i suoi colleghi non hanno trovato niente. E anche ora non avete avuto alcun risultato. Il caso Simonis è un enigma.» Sarrazin scosse la testa con indulgenza. Portava il maglione blu d'ordinanza, sbarrato da una riga bianca. I suoi galloni scintillavano nel buio. «Le avevo detto di sparire», disse rinfoderando l'arma e infilandosi la mia alla cintura.
«Perché non collaborare, fare squadra?» «Ha la testa dura. Cosa gliene frega del caso Simonis?» «Glielo ripeto. Quest'indagine interessava a un amico.» «Balle. Se il suo amico fosse venuto qui a svolgere delle indagini lo avrei incontrato.» «Forse era più discreto di me. Sembra che nessuno l'abbia visto.» Il gendarme si girò verso la portafinestra, le mani dietro la schiena. Si ammorbidiva. Fuori, Sartuis affondava nelle tenebre. «Durey, la porta è alle sue spalle. Venga domattina a prendersi l'arma alla gendarmeria e sparisca. Se a mezzogiorno è ancora a Sartuis, chiamo il Proc.» Indietreggiai verso il corridoio, fingendo un misto di collera contenuta e di docilità. Aprii la porta principale e mi beccai una violenta raffica di vento in faccia. Seguii la strada fino alla rotonda, senza tagliare per i campi. La notte era pura e chiara. Il cielo sfolgorava di stelle. Raggiunsi la strada senza uscita dove avevo lasciato l'auto. Lanciai uno sguardo dietro di me, in direzione della casa. Sulla soglia, Stéphane Sarrazin mi osservava, in posizione marziale. M'infilai in macchina e arrischiai un sorriso. La cassetta era sempre nella mia mano. 41 La bambina è prigioniera, Nella casa dei passi perduti. Aghi di pino, aghi di ferro, La bambina non canterà più... Era una filastrocca per fare la conta. Cantata su poche note. Una melodia che suonava stonata. La voce, soprattutto, era malsana. Un timbro atrofizzato, né grave né acuto, né maschile né femminile. Solo dissonante, e al tempo stesso stranamente dolce. Fermai il registratore. Avevo già ascoltato il nastro una ventina di volte. Ero nel dormitorio, chiuso dentro a doppia mandata, con il registratore di padre Mariotte. La registrazione conteneva tre messaggi, senza data né commento. Telefonate del persecutore anonimo che Sylvie Simonis aveva conservato. A-
vevo già copiato tutto sul mio Mac, suono e testo. Nessuno mi aveva avvertito di quel dettaglio sofisticato: le telefonate anonime non erano parlate ma cantate. Seduto sul letto, avvolto dalle tende beige, premetti il tasto PLAY. La bambina è in pericolo, Peggio per lei, tutto è perduto. È troppo tardi, l'ora è suonata La bambina non canterà più... Immaginai la bocca che produceva quei suoni, il viso da cui usciva quella voce. Un essere sfigurato, una faccia zoomorfa. Oppure una faccia ferita, fasciata, nascosta... Ripensai alla faccenda del trasformatore della voce, la pista che i gendarmi avevano seguito e che era sfociata nell'arresto di Richard Moraz. Non capivo come Lamberton e i suoi uomini avessero potuto ostinarsi in quella direzione. Avevo già udito delle voci deformate artificialmente, con l'elio, un Vocoder o qualche altro filtro elettronico. Non somigliavano per niente a questa, una voce priva di timbro, alterata sì, ma stranamente... naturale. Terzo messaggio: La bambina è nel pozzo, Peggio per quelli che non hanno creduto In fondo all'acqua tutto è finito La bambina non canta più... Bloccai l'apparecchio. Doveva essere l'ultimo messaggio, quello che aveva indirizzato i gendarmi verso la stazione di depurazione. Sylvie aveva avuto la presenza di spirito di registrarlo mentre si trovava in ospedale. In quale stato d'animo poteva mai essere? Perché aveva lasciato la figlia senza protezione malgrado le minacce? Mentre cercavo il registratore nella biblioteca di Mariotte, mi ero imbattuto in un libro sulle tradizioni della regione: Racconti e leggende del Jura. Al capitolo 12 c'era un brano dedicato alla famosa Casa degli orologi. All'inizio del XVIII secolo, spiegavano gli autori, una famiglia di orologiai aveva costruito quella casa sul fianco di una collina per difendersi dalle gelide burrasche del nord e proteggere il loro paziente lavoro. In realtà, la loro intenzione era nascondersi da sguardi indiscreti. Quegli artigiani e-
rano alchimisti. Erano riusciti a fabbricare delle pendole con virtù magiche. Ingranaggi così precisi, movimenti così infinitesimali da operare delle incrinature nella successione del tempo. Delle fenditure che a loro volta si aprivano su un mondo atemporale... C'erano altre versioni della leggenda. In una di queste, gli orologiai appartenevano a una stirpe di maghi. La loro dimora era stata costruita su una palude pestilenziale e le incrinature delle loro pendole si aprivano direttamente sull'inferno. Queste «porte» funzionavano nei due sensi. Fra due monogrammi gotici, i demoni potevano accedere anche al nostro mondo. Immaginai un demone dalla testa di vampiro che fuoriusciva da un orologio e si accaniva su Svlvie Simonis, mordendola, avvelenandola, lasciando le proprie impronte sul suo corpo. Satana e la lingua mozzata. Belzebù e le sue mosche ronzanti. Lucifero e la luce che filtrava sotto le costole... Scacciai l'immagine orrenda e continuai la lettura. Secondo una terza variante, con le loro ricerche gli artigiani maledetti avevano attirato una sequela di catastrofi su Sartuis. Fatti accertati dalla storia. Epidemie di peste nel XVIII secolo, colera e incendi nel XIX, massacri, esecuzioni e violenze omicide durante le due guerre mondiali, senza contare una forma d'influenza dilagante che aveva decimato la popolazione nel 1920. Nelle valli attorno a Sartuis, questi flagelli venivano attribuiti alla Casa degli orologi e alla sua rete idrografica avvelenata. I più superstiziosi la ritenevano persino responsabile del fallimento industriale della contea. Mi stropicciai gli occhi. Le due del mattino. Non vedevo perché mi dovevo bruciare delle ore di sonno con queste fesserie. C'era una domanda che tornava assillante: perché Sylvie Simonis era rimasta in quella città di merda, fra quelle mura funeste, con il fantasma di sua figlia? Rivedevo il tavolo da lavoro, gli strumenti di precisione. A cosa pensava, in quegli anni, mentre gendarmi e poliziotti annaspavano? Aveva conservato la cassetta del persecutore e, probabilmente, nascosto altrove altri elementi connessi alla tragica fine di Manon. Non aveva cercato di voltare pagina. Perché? Di colpo, seppi perché. Sylvie Simonis cercava l'assassino. Aveva portato avanti una propria indagine, per quattordici anni. Con pazienza, rigore, ostinazione. Aveva seguito le sue piste personali, dato retta ai propri sospetti. Ecco perché era rimasta in quella città ostile dove non aveva conosciuto che infelicità. Voleva vivere vicino all'assassino. Voleva fiutare la sua presenza, e identifi-
carlo. Sì: questa ostinazione corrispondeva al suo carattere tenace e alla sua pazienza di orologiaia. Non aveva mollato l'osso. Voleva la testa dell'assassino. Era riuscita nel suo intento? La sua morte poteva essere una risposta. L'estate precedente, chissà come, aveva smascherato l'assassino di sua figlia. Invece di informare le autorità, aveva voluto tendergli una trappola forse eliminarlo con le sue stesse mani - e la cosa era finita male. L'assassino di Manon l'aveva sacrificata al suo nuovo rituale. Un sacrificio che, come un cancro, era maturato negli anni in fondo al suo cervello. Schiacciai la sigaretta nel portacenere, strapieno di mozziconi. Ero immerso in un'autentica nebbia di fumo. Aprii le tende attorno al Ietto. La mia storia si reggeva in piedi, ma era inutile rimuginarci sopra tutta la notte, senza poterla verificare. Socchiusi la finestra e spensi la luce. Sbattei le palpebre, mi apparvero alcune delle pendole di Sylvie Simonis. Clessidre a forma di ellissi, casse lavorate a traforo, figurine di bronzo dorato che reggevano un arco, una mazza, una tromba. Sprofondai nel dormiveglia, mentre una parte di me restava all'erta. Orologi da taschino... Quadranti decorati di conchiglie... Ornamenti a forma di foglie, globi, lire... Di colpo, un'ombra si materializzò fra le lancette di un orologio. Una silhouette nera, in redingote e gibus. Non potevo vederne il viso, ma sapevo che aveva intenzioni malvagie. Pensai a Mefistofele. Al Dapertutto dei Racconti di Hoffmann. L'ombra si chinò su di me, la bocca vicino al mio orecchio, e mormorò: «Ho trovato la gola». La voce non era quella della cassetta ma quella di Luc. Mi tirai su, giusto in tempo per vedere i suoi occhi, iniettati di rosso e di furore, sotto il cappello. Erano gli occhi che mi avevano osservato sul belvedere di NotreDame-de-Bienfaisance. 42 «Superstizioni. Semplici superstizioni.» «Ma questi flagelli sono davvero esistiti nella regione?» «Non sono uno storico. Credo che tutto questo non sia altro che un cumulo di stupidaggini. Lo sa cosa dicono sulle leggende: hanno sempre un fondo di verità. A Sartuis, c'è solo il fumo, senza l'arrosto.» Alle sette del mattino, padre Mariotte inzuppava una fetta di pane imburrato nel caffelatte, con l'espressione concentrata di un biologo che prepara
un vaccino. Cinque ore di sonno erano servite a riposare il mio corpo, non la mia mente. «E la Casa degli orologi, è davvero costruita su una palude?» Mariotte fece una smorfia irritata. Gli sciupavo la colazione. «Bisognerebbe verificare la rete idrografica. So che la circonvallazione, un po' più a est, è stata costruita su terre umide che sono state prosciugate e bonificate. Ma la casa di cui parla, perlomeno per quanto riguarda le fondazioni, risale a due secoli fa o giù di lì. Come saperlo? Ha veramente bisogno di tutte queste informazioni? È per il suo reportage?» Era ormai l'unico uomo in città a credere che fossi un giornalista. Straordinario esempio dell'isolamento della chiesa nel mondo contemporaneo. «In realtà sto scrivendo un libro. Vorrei descrivere l'ambiente con precisione.» «Un libro?» chiese lanciandomi un'occhiata sospettosa. «Un libro? Su cosa?» «La storia dei Simonis.» «Mi domando a chi potrebbe interessare.» «Torniamo agli abitanti di Sartuis. Credono che la città sia perseguitata dalla sfortuna? Che la casa sia maledetta?» Il prete bevve il suo caffelatte. «La gente di qui è pronta a credere a qualsiasi cosa», bofonchiò. «Quanto alle altre vallate, basta farci un giro per sentire il vero nome di Sartuis: la Valle del diavolo.» «L'omicidio di Manon non ha certo migliorato la situazione, no?» «È il meno che si possa dire.» «Neppure quello di Sylvie.» Posò la scodella e mi guardò dritto negli occhi. «Senta, le do un consiglio: non si faccia prendere da questa cosa.» «Quale cosa?» «Le superstizioni di qui. È come il pozzo di san Patrizio.» «La prima sera, lei mi ha detto di avere installato un confessionale per i casi urgenti. I suddetti casi urgenti sono legati a queste superstizioni, no? I parrocchiani hanno paura del diavolo?» Mariotte si alzò e consultò l'orologio. «Le sette! Sono già in ritardo. È domenica.» Si sforzò di ridere. «Il parroco è di corvée oggi! Messa al mattino e partita al pomeriggio!» Quasi a dargli ragione, le campane della chiesa presero a suonare. Afferrò scodella e piatto. «Lasci. Ci penso io», proposi.
Mi ringraziò con uno sguardo e scomparve in uno sbattere di porte. Questo prete non brillava certo per franchezza. Diceva la verità, ma sulle sue parole aleggiava sempre una zona d'ombra. Sparecchiai la tavola, sistemai posate e piatti nella lavastoviglie. L'ideale per riflettere. Sentivo ancora che sotto i fatti si nascondeva altro. Quelle leggende malefiche giocavano un ruolo nei due delitti, ne ero sicuro. L'assassino ne aveva tratto ispirazione. Forse agiva addirittura sotto l'influenza di quei racconti di diavoli e orologi... Dopo una doccia gelida negli spogliatoi del dormitorio, infilai i nuovi elementi - l'audiocassetta, il libro sulle leggende del Jura - nella borsa e la ficcai nel portabagagli. Non escludevo una partenza precipitosa. Di lì a non molto, Stéphane Sarrazin mi avrebbe scacciato manu militari. Le otto. Un po' presto per attaccarmi al telefono, soprattutto di domenica, ma non avevo scelta. Girai attorno al presbiterio e mi accesi una sigaretta mentre camminavo avanti e indietro sul campo da pallacanestro. Prima chiamata: Foucault. Nessuna risposta. Né sul cellulare né sulla linea privata. Provai con Svendsen. Uguale. Accidenti. Sarei rimasto bloccato con le mie domande e le mie nuove piste. Consultai l'agenda, tremando per il freddo, e contattai una vecchia conoscenza. Tre squilli e, infine, una risposta. Quando riconobbe la mia voce, l'uomo all'altro capo del filo scoppiò a ridere. «Durey? Qual cattivo vento?» «Una ricerca. Urgentissima.» «Di domenica? Sempre fuori tema, a quanto vedo.» «Puoi o no?» Jacques Demy, omonimo del cineasta, era un ex compagno di corso e un genio della guardia di finanza. Alla polizia dei numeri, lo avevano soprannominato «Facturator». «Dimmi.» «Verificare i conti di una francese, stipendiata in Svizzera, morta nel giugno scorso: è possibile?» «Tutto è possibile.» «Anche di domenica?» «I computer non vanno in vacanza. Si trova in Francia o in Svizzera la sua banca?» «Lo devi scoprire tu.»
Gli diedi il nome e tutte le informazioni di cui disponevo. «Cosa cerchi?» «Forse effettuava un versamento regolare, da vari anni.» «A chi?» «È quello che voglio sapere.» «Dammi almeno uno spunto.» Formulai la mia ipotesi, che non poggiava su niente. «Penso a un'agenzia investigativa. Un detective privato.» «Suppongo che sia per ieri?» Pensai a Stéphane Sarrazin, che doveva già aspettarmi nei locali della gendarmeria. Dissi di sì. «Ti richiamo il prima possibile», mi rassicurò Facturator. Questa prima telefonata mi ridiede energia. Sufficiente per passare a un'altra, più difficile. Laure Soubeyras. «Ieri non hai chiamato», fece notare lei, la voce pastosa e assonnata. «Come sta Luc?» «Stazionario.» «E tu?» «Idem.» «Cosa dicono le bambine?» «Mi domandano quando torna papà.» Sentii un fruscio di lenzuola, un tintinnio di bicchieri. La svegliavo. Doveva essere imbottita di sonniferi e ansiolitici. «Fai qualcosa con loro, oggi?» dissi a caso. «Cosa vuoi che faccia? Le lascio dai miei e vado all'ospedale.» Silenzio. Avrei potuto rischiare una parola di consolazione, ma non mi andava di usare le solite formule vuote. «E tu?» chiese. «A che punto sei?» «Sono sulle sue tracce. Nel Jura.» «Cos'hai trovato?» «Ancora niente, ma seguo il suo percorso.» «Hai visto dove l'ha portato...» «Ti prometto che troverò una spiegazione.» Un altro silenzio. Udivo il suo respiro. Sembrava inebetita. Non sapevo cosa dire. «Ti richiamo. Promesso», conclusi, in mancanza di meglio. Riagganciai, la gola otturata. Dovevo muovermi. Dovevo cercare.
Corsi all'auto. Un ultimo tentativo prima che Sarrazin mi piombasse addosso. 43 La scuola Jean-Lurçat si trovava a nord della città. Il citofono del portone proponeva due alternative: «Scuola» e «Signora Bohn». Direttrice o portinaia? Schiacciai il secondo tasto. In capo a qualche secondo rispose una voce femminile. Mi presentai nella mia veste di poliziotto. Ci fu un attimo di silenzio, poi il microfono crepitò: «Vengo subito». Ed eccola, rapidissima. Più che camminare, rotolava. Doveva pesare sui cento chili e, imbacuccata nel suo loden, sembrava una mostruosa campana di feltro. Immaginavo i soprannomi che dovevano affibbiarle i ragazzini. «Sono la direttrice dell'istituto.» Le mani infilate nelle maniche, alla tibetana, un viso largo, troppo truccato, circondato di riccioli biondi fissati dalla lacca. «È per il caso Simonis?» aggiunse, con le labbra strette. «Esatto.» «Mi spiace. Non posso esserle di aiuto. Manon non era nella nostra scuola. Lei non è il primo a sbagliarsi.» «Che scuola frequentava?» «Non lo so. Forse quella di Morteau. O una scuola privata, dall'altra parte della frontiera.» Era una bugia madornale. La cronologia dell'assassinio la conoscevano tutti e nessuno aveva mai accennato a un viaggio in macchina dalla scuola al quartiere Corolles. Scrutai i suoi occhi chiari, stranamente prominenti. Silenzio. «Mi scusi di averla disturbata», dissi. «Non fa nulla. Ci sono abituata. Arrivederla, signore.» Agitò una mano da bambola, bella paffuta, poi girò sui tacchi. Aspettai che avesse oltrepassato la soglia dell'edificio prima di scavalcare il cancello. Dovevo procurarmi le informazioni da solo. Trovare l'archivio, forzarlo e scovare i libretti scolastici di Manon Simonis. Quante possibilità avevo di riuscirci? Diciamo il 50 per cento. Stavo attraversando il cortile quando scorsi, sulla destra, fra l'edificio principale e la palestra, delle cabine a cielo aperto. Le toilette. Mi venne un'idea.
M'infilai nella corsia centrale lungo la quale si allineavano i lavandini. In fondo, c'era un piccolo giardino ornato di bambù e pioppi. Questo particolare cambiava tutto. Non mi trovavo nei volgari gabinetti di una scuola, ma in una rêverie cinese, incorniciata dalla vegetazione... Tastai il legno delle porte, il cemento dei muri, valutandone l'età. Quante erano le possibilità di scovare qui quello che speravo? Scommisi su mille a uno. Aprii la prima porta e scrutai le pareti color kaki. Fessure, macchie di sporcizia, graffiti infantili. Alcuni a pennarello, altri incisi nell'intonaco. «La maestra è stupida», «cazzo figa culo», «Amo Kevin». Passai alla seconda cabina. Un filo d'acqua mormorava da qualche parte, mescolandosi allo stormire delle fronde. Lessi altri geroglifici. «Sabine succhia Karim», «Inculare»... Disegni di cazzi o di tette corredavano i testi. Evidentemente, le toilette servivano anche da valvole di sfogo. Ne uscii dicendomi che la mia idea era assurda. Spinsi la porta successiva e restai di sasso. Fra due tubi, una scritta maldestra era incisa sulla pietra: MANON SIMONIS, IL DIAVOLO TI STA ADDOSSO! Non mi aspettavo tanto. Avevo sperato solo in un nome, un'allusione. Attraversai il cortile di corsa, penetrai nell'edificio e salii al primo piano. Finii come un razzo nell'ufficio dove stava la direttrice. «Mi prende per un imbecille?» Sobbalzò. Con in mano un nebulizzatore, era occupata a coccolare le sue piante verdi. «Vengo dalle toilette del cortile. Il nome di Manon Simonis figura in una scritta sul muro.» «Una scritta? Nelle toilette?» «Perché mi ha mentito?» «Ma si rende conto? Sono dieci anni che chiedo dei fondi per la ristrutturazione delle...» «Perché questa bugia?» «Io... Mi hanno telefonato. Per avvisarmi del suo arrivo.» «Chi?» «Un gendarme. Non ho capito subito, ma mi ha parlato di un poliziotto alto, che s'interessava a Manon. Mi hanno ordinato di liquidarla su due piedi.» La risposta mi calmò. Come avevo previsto, Sarrazin anticipava le mie
mosse. «Si sieda», ordinai. «Mi bastano pochi minuti.» «Devo annaffiare le piante. Posso rispondere in piedi.» «Non biasimo il capitano Sarrazin», feci più dolcemente. «Il caso Simonis è una questione delicata.» «Viene da Parigi?» La sentivo pronta per la balla che avevo già servito a Marilyne Rosarias. «Quando un'indagine diventa sensibile, viene contattato il nostro reparto. Sette. Delitti rituali. Ai normali investigatori non va a genio che ficchiamo il naso nelle loro procedure. Noi abbiamo dei metodi tutti nostri.» «Capisco. Sylvie Simonis è stata assassinata? È ufficiale?» «Questa morte ha riportato alla ribalta il caso precedente», dissi eludendo la domanda. «Lei dirigeva già la scuola quando la frequentava Manon?» La signora Bohn premette sul nebulizzatore, provocando una nebbiolina d'acqua. «All'epoca ero una semplice maestra», disse. «È stata mia allieva il penultimo anno.» «Com'era?» «Vivace. Discola. Quasi... troppo. Il suo carattere non andava d'accordo con il suo viso d'angelo.» «Credevo che fosse una bambina timida e riservata.» «Lo credevano tutti. In realtà, era una peste. Sempre pronta a combinare qualche guaio. Persino pericolosa, a volte.» «Pericolosa?» «Non aveva paura di niente. Una vera temeraria.» Questa rivelazione modificava il contesto del rapimento. «Avrebbe potuto seguire uno sconosciuto?» «Non ho detto questo. Era, al tempo stesso, molto poco socievole.» «Come descriverebbe la sua relazione con Thomas Longhini?» «Inseparabili.» «Avevano cinque anni di differenza.» «La scuola elementare e le medie condividono lo stesso cortile. E poi si vedevano al quartiere Corolles.» «Gli investigatori hanno sostenuto che Manon non avrebbe potuto seguire che Thomas quella sera. È d'accordo?» Esitò, e riprese le sue manovre con lo spray. L'odore di terra umida saliva, fresco e lugubre allo stesso tempo. Pensai alla terra dei morti, che si riverserà su ciascuno di noi.
«Facevano il paio, è sicuro. Manon non avrebbe esitato a seguire Thomas.» «È la sua ipotesi?» «È possibile, sì, che siano andati alla stazione di depurazione, e che abbiano inventato un gioco finito male.» Dovevo ritrovare a tutti i costi questo Thomas Longhini. «Se si è trattato di un incidente, come spiegare le minacce del persecutore?» «Una coincidenza, forse. Sylvie Simonis aveva molti nemici. Ma perché rivangare tutto questo, quattordici anni dopo?» «E lei, alla scuola, non ha mai ricevuto delle strane telefonate?» «Sì, una volta. Un uomo. Mi ha informata che aveva il cazzo più grosso di tutti e che me l'avrebbe infilato dentro.» Sobbalzai: la signora Bohn aveva pronunciato questa frase in tono neutro. «Sto ancora aspettando», aggiunse con aria delusa. Restai senza parole. Lei mi lanciò uno sguardo e sorrise. «Mi scusi. Era una battuta.» Decisi di passare a un altro argomento. «Conosce la Casa degli orologi?» «Certo. Sylvie ci si era appena trasferita.» «Ne conosce la storia? La leggenda che circola al suo riguardo?» «Come tutti.» «Nelle toilette della sua scuola, qualcuno ha inciso sul muro "Manon Simonis, il diavolo ti sta addosso!". Perché, secondo lei, hanno scritto questa cosa?» «Sono corse delle voci, fra gli scolari.» «Tipo?» «Si era diffusa la voce che un diavolo dava la caccia a Manon.» «Che genere di diavolo?» «Non saprei.» «Perché dicevano questo?» «Storie di ragazzi. Non so da dove sia saltato fuori. Né cosa volesse veramente dire.» Sorrise, con aria confusa. Indovinai che quella donna, come tutti coloro che avevano avvicinato Manon, viveva in un rimorso indelebile. Avrebbero potuto prevedere un delitto? Sarebbero riusciti a evitarlo? «È sempre più facile giudicare dopo, no?» mormorò. Pensai ai Lilas, al mio errore di valutazione che aveva ucciso due bam-
bine e reso orfana una terza. In una vita d'azione non c'è spazio per i rimpianti. Rinunciai a sussurrarle qualche parola di compassione cristiana. La ringraziai e me ne andai. Sulle scale, ascoltai la segreteria telefonica. Nessun messaggio. Che cazzo facevano Foucault, Svendsen, Facturator? Che cazzo facevano tutti? Le undici. Stéphane Sarrazin non mi aspettava davanti al portone della scuola, ma potevo sentirne la presenza. Era in città, pronto a spedirmi sull'autostrada. Corsi verso l'auto e partii in quarta, direzione Corolles. 44 Sui prati, il sole aveva attratto delle famiglie. Borse termiche, lattine e piatti di cartone. I bambini scorrazzavano nelle aree giochi. I genitori si facevano allegramente un bicchiere. Dietro, gli edifici delle Corolles, con i loro muri bianchi e le imposte rosse, assomigliavano a costruzioni di Lego. Lasciai l'auto nel parcheggio, su in alto, e scesi lungo il pendio. Proseguii dietro la fila di ligustri che fiancheggiava il primo edificio, per evitare la gente intenta al picnic, e camminai fino alla tromba delle scale del 15, dove abitava Martine Scotto, la tata di Manon. Atrio angusto, penombra. Niente citofono. Solo un pannello con l'elenco degli inquilini. Cercai il nome: secondo piano. Salii a piedi e suonai. Nessuna risposta. Martine Scotto non era in casa. Forse era di sotto, con gli altri. Non avevo nessun modo di riconoscerla. Ero deluso. La mia eccitazione era scemata strada facendo. Mi ero arenato - e avevo ormai a disposizione solo pochi minuti. La suoneria del cellulare nella tasca. Facturator. Non ci avrei scommesso. «Hai trovato qualcosa?» «Sì. Sylvie Simonis effettuava dei versamenti regolari. Ce n'è uno che potrebbe quadrare con ciò che cerchi. Un bonifico trimestrale, su un conto svizzero.» «Da quando?» «Tutt'altro che recente. Ottobre 1989. All'epoca, quindicimila franchi ogni tre mesi. Oggi siamo a cinquemila euro. Sempre al trimestre.» Picchiai il pugno sul muro. Ci avevo preso! Dopo il fallimento dell'indagine, dopo i fiaschi di Moraz, Cazeviel e Longhini, Sylvie aveva deciso di
agire e si era rivolta a un detective privato. Che aveva lavorato per lei per tutti quegli anni! «Hai il nome del destinatario?» «No. I soldi sono versati su un conto numerato.» «Si può risalire al nome?» «Nessun problema. Basta che tu abbia un mandato di perquisizione internazionale e le prove concrete che i soldi in questione sono illeciti.» «Merda.» «Da dove viene questa grana?» domandò Facturator. «Dai suoi guadagni, immagino. Sylvie Simonis era orologiaia.» «Allora te lo puoi scordare, cocco.» «Non c'è nessun altro mezzo?» «Devo vedere. Secondo me, questo gruzzolo transitava solamente sul conto numerato. Chi lo incassa lo fa probabilmente girare su un altro conto, nominativo stavolta.» «Puoi seguire il transfert?» «Devo vedere. Se il tizio va di persona a prelevare i contanti allo sportello, siamo fregati.» Lo ringraziai e interruppi la comunicazione. Scesi al piano terra, scartando la possibilità che Sylvie avesse semplicemente messo dei soldi da parte o versato una rendita a un lontano parente. Sentivo, di pancia, che avevo visto giusto. Pagava un detective privato. Un uomo che doveva avere in mano una quantità stratosferica di informazioni. Un uomo che forse conosceva l'identità dell'assassino! Mi fermai davanti alle porte vetrate dell'atrio. Fuori, indolenza e dolce vita stavano in bella mostra sul prato spelacchiato. Gli uomini portavano baffi e tute; le donne, fuseaux e magliette sgargianti. I bambini si scatenavano sugli attrezzi da ginnastica. Tutto quel piccolo mondo arrostiva al sole come salsicce su un barbecue. Ricomposi il numero di Foucault. Dopo due squilli, la risposta. «Foucault? Durey.» «Mat? Parlavamo proprio di te.» «Con chi?» «Mia moglie. Siamo con il bambino, al parco André-Citroën.» Stentavo a crederlo: aspettavo notizie dell'indagine dal mattino e quello stronzo se ne stava tranquillo a spasso nel parco! Ingoiai la rabbia, pensando a Luc che ricattava i suoi uomini per renderli più servizievoli. «Non hai niente di nuovo per me?»
«Mat, il concetto della domenica ti dice niente?» «Sono spiacente.» Lo sbirro scoppiò a ridere. «No. Non ti spiace per niente. E neanche a me. Chiami per Longhini? Il tuo ragazzino è come l'uomo invisibile.» «Hai il suo nuovo nome?» «No. La prefettura di Besançon fa ostruzionismo. La pubblica sicurezza non ha niente. Quanto al casellario giudiziale, esiste un dossier speciale.» «Che significa?» «Un dossier riservato, presso i gendarmi. Hanno protetto la sua fuga, all'epoca.» I gendarmi avevano dunque preso le parti dell'adolescente contro i poliziotti, al punto da aiutarlo a nascondersi. Se così stavano le cose, non c'era alcuna speranza di ritrovarlo. Girai le spalle alle porte vetrate e risalii il corridoio fino al retro dell'edificio. «Posso dirti la mia impressione?» fece Foucault. «Come no?» Aprii l'uscita di sicurezza e mi ritrovai ai piedi di un ripido versante erboso. In alto, alcuni abeti ondeggiavano lentamente, lasciando filtrare di tanto in tanto lame di sole ghiacciato. Mi appoggiai contro il muro. «Durante il fermo, gli sbirri hanno sicuramente strapazzato il ragazzino. Era in stato di shock.» «Come puoi dirlo?» «Ha consultato uno psichiatra.» «Come lo sai?» «Una storia di assicurazioni. All'epoca la compagnia ha continuato a versare i rimborsi al vecchio indirizzo della famiglia. I gendarmi hanno provveduto a farli inoltrare. La mutua ha conservato tutta la documentazione, compresa quella relativa alle sedute psichiatriche.» «Mi stai dicendo che hai il nome dello psichiatra?» «Il nome e l'indirizzo.» «E me lo dici adesso?» «L'ho chiamato ieri. Non ha mai avuto il nuovo recapito del ragazzo e...» «Sganciami i dati.» Avevo già tirato fuori il taccuino. Foucault esitava. «È che...» «Cosa?» «Non ce li ho adesso... Mi trovo al parco.» «Ti do dieci minuti per correre all'ufficio. Eseguire.»
Foucault stava per riagganciare quando domandai: «Aspetta. E l'altra ricerca? Quella dei delitti dello stesso genere?». «Niente.» «Neanche su scala nazionale?» «Nessuno ha risposto alla mia richiesta. Nel SALVAC non c'è l'ombra di un delitto che assomigli al tuo. È la prima volta che uccide, Mat.» «Ti restano solo nove minuti.» Riattaccai e chiamai Svendsen. Il medico rispose al telefono. Ero fortunato. «I miei collaboratori ci stanno lavorando, ma finora nessuna novità.» «Ti chiamo per un'altra cosa.» Sospirò, simulando lo sfinimento. «Dimmi.» «Foucault non ha trovato altri delitti nello stesso stile del nostro.» «E allora? Può darsi che sia il primo.» «Sono sicuro del contrario. Bisogna inserire altri criteri nella nostra ricerca.» «E io che c'entro?» «Foucault è partito dal delitto. Forse bisogna partire dal corpo.» «Non afferro.» «L'hai detto tu stesso: la firma dell'assassino è associata al processo di decomposizione. Gioca con la cronologia della morte.» «Vai avanti.» «Un medico legale distratto avrebbe potuto non notare queste diverse fasi in un cadavere roso dai vermi...» «Distratto e sbronzo.» «No. Seriamente, vorrei lanciare una ricerca relativa a tutti i cadaveri trovati in uno stato di decomposizione avanzata, su scala nazionale.» «In che periodo?» «1989-2002.» «Sai che montagna di cadaveri sarebbe?» «È possibile o no? Attraverso gli istituti medico-legali?» «Comincio con il controllare alla Rapée. E chiamerò i colleghi di cui ho i numeri di telefono personali. Aspettando lunedì. In ogni modo, ci vorrà del tempo.» «Grazie.» Riagganciai e mi lasciai scivolare lungo il muro, schiacciato dai pini neri sopra di me. Fra due spicchi di sole, la loro ombra mi avvolgeva di freddo. Alzai il collo del cappotto, aspettando la chiamata di Foucault.
Le ipotesi mi vorticavano nella testa, senza che nessuna penetrasse veramente nel mio campo di coscienza. Nascosto sul retro dell'immobile, mi sentivo al sicuro. Almeno, qui Sarrazin non mi avrebbe pescato... 45 La suoneria del telefono mi scosse. Mi svegliai di soprassalto. «Sono Foucault. Hai da scrivere?» Consultai l'orologio. Le due e dieci. Ci aveva messo meno di venti minuti per raggiungere il Quai. Niente male. «Prendi nota o cosa?» «Vai!» «Il tipo si chiama Ali Azoun. Oggi vive a Lione. Ti avviso che non è uno che ama scherzare.» Scarabocchiai i dati personali dello psichiatra e ringraziai Foucault. «Ormai resto in ufficio», replicò. «Fregato per fregato, passerò il pomeriggio in archivio a cercare qualcosa che assomigli, anche da lontano, al tuo assassinio. Non si sa mai. Ti richiamo.» La sua reazione mi scaldò il cuore. Il cemento dell'indagine faceva di nuovo presa. Mi rialzai con difficoltà e rientrai nell'edificio. Composi il numero dello psichiatra. Dopo essermi presentato, affrontai l'argomento senza preamboli. «È a proposito di Thomas Longhini.» «Ancora? Mi hanno già chiamato ieri per questa storia.» «Era il mio assistente. Ho bisogno di qualche precisazione.» «Non risponderò a nessuna domanda per telefono», replicò dopo qualche attimo di silenzio. «Soprattutto senza avere visto un documento ufficiale. Già il suo collega mi è parso molto esitante. D'altronde i gendarmi possiedono un dossier completo sull'argomento. Non ha che da...» «Abbiamo dei nuovi elementi.» «Che elementi?» «Thomas Longhini potrebbe essere legato ai due omicidi, quello di Manon e quello di sua madre, Sylvie Simonis.» «Ridicolo. Thomas non può essere implicato in un assassinio.» Azoun non si era mostrato sorpreso all'annuncio della morte di Sylvie. I gendarmi dovevano averlo già illuminato. «La sua opinione sulla sua colpevolezza», incalzai, «è precisamente
l'oggetto della mia telefonata.» Altro silenzio. «Perché non aspetta lunedì?» propose poi in tono più conciliante. «M'invii un fax e...» «Non la chiamo per organizzare una consegna di cioccolatini. Si tratta di un'indagine criminale. Urgente.» Il silenzio perse un po' della sua intensità. «Qual è il nuovo nome di Thomas Longhini?» ripresi. «I gendarmi lo conoscono. Non gliel'hanno detto? Io non l'ho mai saputo.» «Perché l'idea della sua colpevolezza le sembra ridicola?» «Thomas non è un assassino, tutto qui.» «È stato sospettato dell'omicidio di Manon.» «A causa dello stupido zelo dei suoi colleghi! Il povero ragazzo ne ha viste di tutti i colori con quei poliziotti.» «Mi parli del suo trauma. Delle sue reazioni.» «Non è in questo modo che mi farà parlare, comandante. Mi faxi domani un documento ufficiale nel quale si dica che un giudice l'ha incaricata di questa faccenda, e parleremo.» «Voglio solo guadagnare una giornata. Se è una falsa pista, meglio abbandonarla subito.» «Completamente falsa. E, soprattutto, non vada a tormentarlo di nuovo! Ne ha passate abbastanza.» Individuai un punto debole nell'intonazione. La misi sul compassionevole. «Era davvero mal ridotto?» Azoun sospirò e si lasciò sfuggire qualche parola. «Soffriva di una forma di distorsione del reale caratteristica della pubertà. Questo era quanto avevo scritto nel mio rapporto. L'ho seguito per tutta l'estate.» Sobbalzai. Thomas Longhini era stato sospettato nel gennaio 1989. «L'estate del 1989?» «Ma no! L'estate del 1988!» «Manon Simonis è stata uccisa il 12 novembre 1988.» «E allora? Non si è guardato il dossier?» «Mi spieghi.» «Ho curato Thomas prima del delitto. I suoi genitori mi hanno consultato nel maggio 1988. Poi, all'inizio dell'anno successivo, gli uomini della
polizia giudiziaria di Besançon mi hanno interrogato. Perché conoscevo bene Thomas. Del resto, ho testimoniato in suo favore.» Foucault aveva fatto casino con le date. Vedendo che nella storia c'era di mezzo uno psichiatra, ne aveva dedotto che fosse stato consultato per prestare aiuto al ragazzino traumatizzato. E invece Ali Azoun aveva avuto in cura Thomas l'anno precedente! Mi schiarii la gola, cercando di non farmi prendere dall'eccitazione. «Qual era il problema a quell'epoca?» «I genitori erano preoccupati. Il ragazzino faceva discorsi deliranti. Ossia, che loro consideravano deliranti.» «Per esempio?» «Parlava soprattutto di un diavolo.» Alzai gli occhi. Avevo come l'impressione che la montagna palpitasse, che cozzasse contro il cielo. «Sia più preciso.» «Diceva che Manon Simonis - la considerava come una sorella minore era in pericolo. Che un diavolo la minacciava.» «Chi era questo diavolo? Che forma assumeva?» «Thomas non ne sapeva niente. Avrebbe voluto che incontrassi Manon. Sperava che con me le sarebbe stato più facile parlare.» «Perché lei?» «Non so. Un adulto, un medico.» «Ha contattato la madre di Manon?» «No. Credo... Insomma, secondo Thomas, la madre era collegata a questa minaccia.» «Vuole dire che era lei la minaccia?» «La cosa era più confusa di così.» «E allora lei cosa ha fatto? Ha visto la bambina?» «No. In quel momento, avevo davanti a me un adolescente turbato. A quell'età le allusioni al diavolo sono un classico. Inoltre, il suo rapporto con Manon, di cinque anni più giovane di lui, non era chiaro. Le mie sedute si orientavano piuttosto verso questo problema. Si tratta sempre di gestire il proprio desiderio, capisce?» «E si è fermato lì?» «Senta, è sempre facile giudicare gli psichiatri dopo che sono successi i fatti. A ogni recidiva, ci coprono d'insulti, di rimproveri. Non siamo mica indovini!» La signora Bohn mi aveva fatto lo stesso discorso. Questi adulti non potevano ammettere che le fantasie paurose di due bambini avessero potuto
rivelarsi reali. «Oggi, a distanza, penso che Manon fosse effettivamente minacciata», riprese lo specialista, «e che però non accettasse tale minaccia da parte di un adulto. Ecco perché parlava di "diavolo". Inventava una presenza malefica.» «Perché non avrebbe ammesso l'identità del suo aggressore?» «Forse era programmata per amarlo. C'era un conflitto nella sua psiche. È piuttosto frequente nei casi di pedofilia, per esempio.» «Pensa dunque che la madre di Manon fosse pericolosa?» «La madre o un parente.» «Thomas non ha mai fatto nomi? Lasciato trasparire un indizio?» «Mai. Parlava di un "diavolo", di un "demone".» «Ha rivisto Thomas in seguito? Voglio dire, dopo la sua imputazione?» «Dopo il suo rilascio, sì. I genitori volevano che seguissi il figlio in quei momenti difficili. Anche loro erano completamente scombussolati.» «Thomas si è ripreso?» «A mio avviso, era più solido di quanto si è detto. Per lui, il vero trauma non era l'accusa di omicidio ma la morte di Manon. E soprattutto il fatto che nessuno l'avesse ascoltato quando ci aveva avvisato del pericolo. Ce l'aveva con il mondo intero. Ripeteva che sarebbe tornato. Per vendicare Manon.» La lista di vendicatori non smetteva di allungarsi. Sylvie Simonis, che faceva condurre un'indagine privata. Patrick Cazeviel, che non aveva «detto la sua ultima parola». E adesso Thomas Longhini, che aveva giurato di tornare a Sartuis. «I genitori hanno lasciato la regione», concluse Azoun. «Non ho più rivisto Thomas, ma sono convinto che sia uscito da quel periodo nero. Ecco. Ho detto anche troppo.» Mi beccai nell'orecchio il segnale di linea libera. Feci scivolare il cellulare in tasca e soppesai l'ipotesi ventilata durante la conversazione: Sylvie Simonis implicata nell'assassinio della sua bambina. No: preferivo restare sulla mia idea di indagine personale e di detective privato. E attenermi alla sola ipotesi valida per il momento. Un solo e unico assassino per i due delitti. Mi avviai verso la mia Audi. Le tre del pomeriggio, e già la notte avanzava. Le famiglie disertavano i prati. Il tempo concessomi volgeva alla fine e non avevo trovato niente. Aprendo la portiera, presi in considerazione l'idea di recarmi alla gendarmeria per tentare di stabilire una tregua con
Sarrazin. Era l'unica soluzione per restare in città. Una mano mi si posò sulla spalla. Preparai un sorriso di circostanza, pronto a trovarmi davanti la faccia del capitano Sarrazin. Ma non era lui. Era uno dei patiti del picnic, vestito di una tuta acrilica. «È lei il reporter?» Non capii la domanda. «Il reporter: padre Mariotte mi ha parlato di un giornalista.» «Sì, sono io», dissi infine. «Ma adesso non ho molto tempo.» L'uomo si guardò dietro le spalle, come se ci potessero essere orecchie indiscrete. «C'è una cosa che potrebbe interessarla.» «Mi dica.» «Mia moglie fa le pulizie all'ospedale.» «E allora?» «C'è uno che è arrivato questa settimana. Un tipo che dovrebbe vedere...» «Chi?» «Jean-Pierre Lamberton.» Uno schiaffo gelido. Il comandante che aveva diretto l'indagine su Manon Simonis. Chopard mi aveva detto che stava morendo di tumore all'ospedale Jean-Minjoz. «Non è a Besançon?» «Ha voluto tornare a Sartuis. Da quanto ha sentito mia moglie, non ne ha più per molto e...» «Grazie.» L'uomo disse qualcos'altro, ma lo sbattere della portiera coprì le sue parole. Misi in moto: direzione centro della città. 46 L'ospedale di Sartuis assomigliava a quello di Besançon. Stessa architettura anni Cinquanta, stesso cemento grigio. In scala ridotta. All'interno, la somiglianza continuava. Pannelli di sughero alle pareti, banco dell'accettazione plastificato, luci smorte. Corsi dritto verso l'accettazione e chiesi il numero di camera del comandante Lamberton. «È della famiglia?» Piazzai il tesserino sul banco. «Della grande famiglia, sì.» Dirigendomi agli ascensori, lanciai uno sguardo a sinistra, verso il di-
stributore di bevande. Proprio accanto c'era una cabina telefonica. Era da lì che l'assassino aveva contattato Sylvie Simonis, la sera del delitto. Tentai d'immaginarne la sagoma dietro i vetri sporchi della cabina. Non vidi niente. Impossibile dare un volto all'assassino. Impossibile concepirlo come un essere umano. Presi le scale. Secondo piano. Delle famiglie aspettavano nel corridoio. Mi recai alla camera 238 e girai la maniglia. «Cosa fa?» Un uomo in camice bianco mi stava alle spalle. «Sono il medico di servizio», aggiunse con voce autoritaria. «Lei è un parente?» Tirai fuori di nuovo il tesserino. Stavolta fece molto meno effetto che al piano terra. «Non può entrare. È finita.» «Vuole dire...?» «È questione di ore.» «Bisogna assolutamente che lo veda.» «Le dico che è finita: non le sembra chiaro?» «Senta, anche se può dirmi solo poche parole, per me è fondamentale. Forse Jean-Pierre Lamberton possiede la chiave di un'indagine. Un'indagine criminale sulla quale ha lavorato.» Il medico parve esitare. Mi si affiancò e aprì lentamente la porta. «Pochi minuti», disse fermandosi sulla soglia. «È un moribondo. Il tumore si è diffuso ovunque. Stanotte il fegato è scoppiato. Il sangue è infetto.» Si fece da parte e mi lasciò entrare. Le veneziane erano abbassate nella stanza spoglia: niente fiori, neanche una poltrona, niente. Non c'erano altro che il letto e gli strumenti di sorveglianza. Sospese sopra il letto, delle sacche di plastica coperte di adesivo bianco. «Le sacche di trasfusione», mormorò il medico che aveva seguito il mio sguardo. «Abbiamo dovuto nasconderle. Non sopporta più la vista del sangue.» Avanzai nell'oscurità. «Cinque minuti. Non un secondo di più. L'aspetto fuori.» Richiuse la porta. Mi avvicinai. Sotto il groviglio di tubi e lacci, c'era un uomo, debolmente rischiarato dalle luminescenze intermittenti dei Physiogard. La testa si stagliava contro il candore del guanciale. Sembrava galleggiare, nera, distaccata. In contrasto con le braccia ossute, il ventre sotto
il lenzuolo era gonfio come quello di una donna incinta. Mi feci ancora più avanti. Mi chinai per scrutare quella testa nera. Non era solo calva: era completamente glabra. Un cranio raschiato, abraso, bruciato dalla radioterapia. Ai tratti del viso si erano sostituiti i muscoli e le fibre, che tendevano la pelle in un rilievo atroce. Ormai mi trovavo a pochi centimetri da lui, e allora capii perché quel cranio pareva staccato dal busto. La gola era fasciata da una benda, il cui biancore si confondeva con quello del guanciale, dando l'illusione di una testa mozzata. Chopard aveva parlato di un cancro alla gola o alla tiroide, non ricordavo bene. Era impossibile interrogare quell'uomo, anche supponendo che, drogato di morfina, fosse in grado di ragionare. Probabilmente non aveva più né trachea, né laringe, né corde vocali. Di colpo mi ritrassi. L'uomo aveva aperto gli occhi. Le pupille erano fisse, ma esprimevano un'attenzione estrema. Il braccio destro si alzò e indicò, appesa all'attrezzatura medica, una cuffia audio collegata con un cavo alla fasciatura della gola. Un sistema di amplificazione. Mi misi la cuffia. «Ecco dunque il bel cavaliere... alla ricerca di verità...» La voce era risuonata negli auricolari, ma le labbra del malato non si erano mosse. L'uomo parlava direttamente da dentro il suo corpo. «Il poliziotto che aspettavamo tutti...» Ero stupefatto dalle sue parole. Lamberton aveva fiutato in me il poliziotto. E, in punto di morte, mi sfotteva apertamente. «Sono della Criminale di Parigi», dissi a bassa voce. «Cosa può dirmi dell'assassinio di Manon?» «Il nome del colpevole.» «L'assassino di Manon?» Lamberton abbassò le palpebre, in segno affermativo. «CHI?» Le labbra serrate pronunciarono: «La madre». «Sylvie?» «È stata la madre. Ha ucciso sua figlia.» La penombra prese a palpitare. Un brivido mi percorse il viso, raspandolo come carta vetrata. «Lei l'ha sempre saputo?» «No.» «Da quando lo sa?»
«Ieri.» «Ieri? Come ha potuto venire a sapere qualcosa qua dentro?» Il sorriso si accentuò. I muscoli e i nervi disegnavano dei cupi meandri. «È venuta a trovarmi.» «Chi?» «L'infermiera... Quella che aveva testimoniato.» Gli ingranaggi della mia mente si misero in moto. Jean-Pierre Lamberton parlava dell'alibi di Sylvie Simonis. Ogni sospetto su di lei era caduto perché, al momento del delitto, era sottoposta a delle cure proprio qui, in questo stesso ospedale. L'orribile ventriloquo continuava a parlare. «È venuta a trovarmi. Mi ha confessato tutto. Lavora ancora qui.» Indovinai la storia. Per una ragione o per l'altra, all'epoca un'infermiera aveva mentito. Da quattordici anni viveva con quel rimorso. Quand'era venuta a sapere che Lamberton era ricoverato qui, in fin di vita, gli aveva confessato la verità. «Katsafian. Nathalie Katsajian. Vai a parlarle.» «Thomas Longhini», mormorai. «Sotto quale nome si nasconde?» Non mi arrivò nessun suono. Picchiettai automaticamente sulla cuffia. Il colloquio era finito. Lamberton si era girato verso la finestra. Stavo per andarmene quando la voce gracchiò di nuovo. «Aspetta.» Mi bloccai. I suoi occhi mi fissavano di nuovo. Due biglie nere, dai contorni giallastri, che erano sopravvissute a tutte le radioterapie, a tutte le distruzioni. «Fumi?» Mi tastai le tasche ed estrassi il pacchetto di Camel. Avevo il collo della camicia inzuppato di sudore. «Fumane una... per me...» mormorò il moribondo. Accesi una sigaretta, buttando fuori il fumo sopra il viso che sembrava carbonizzato. Pensai a un frammento di meteorite, una concrezione di cenere. In un certo modo, riaccendevo la sua memoria del fuoco. Lamberton chiuse gli occhi. La parola «espressione» non significava più niente per un volto simile, ma l'intreccio dei suoi muscoli «esprimeva» una sorta di piacere. Le volute azzurrognole aleggiavano sopra il corpo; e i miei pensieri giravano a basso regime. Bam-bam-bam... Realizzai che lo sguardo giallo mi stava di nuovo fissando. «Non è la sigaretta del condannato. È il condannato della sigaretta!»
Una risata terrificante risuonò negli auricolari. «Grazie, amico.» Mi strappai la cuffia, schiacciai la Camel sul pavimento e gli strinsi il braccio con affetto. La messa era finita. 47 Uscii dalla stanza, i nervi caricati a mille volt. Il medico mi aspettava: gli chiesi dove potevo trovare Nathalie Katsafian. Colpo di fortuna: quella domenica era di turno, al piano inferiore. Mi precipitai giù per le scale e, nel corridoio, mi trovai faccia a faccia con una donna in casacca e pantaloni bianchi. Sulla quarantina, senza bellezza, un'espressione di fermezza all'ombra di una mèche biondo cenere. «Nathalie Katsafian?» «Sì?» L'afferrai per un braccio. «Cosa fa?» protestò. Scorsi una porta con su scritto RISERVATO AL PERSONALE. L'aprii e spinsi dentro l'infermiera. «Ma che fa?» Richiusi la porta con il gomito, premendo al tempo stesso l'interruttore. I neon si accesero. Scaffali di lenzuola piegate, di camici bene in ordine: la stireria. «Abbiamo bisogno di calma, lei e io.» «Mi lasci uscire!» «Solo una breve conversazione.» La donna tentò di aggirarmi. La spinsi indietro e brandii il tesserino. «Squadra criminale. Sa perché sono qui, no?» L'infermiera non rispose. Aveva gli occhi fuori della testa. «Manon Simonis. Novembre 1988. Perché ha mentito?» Nathalie Katsafian si afflosciò sul pavimento. Il suo viso era esangue, più bianco delle lenzuola intorno a noi. Misi un ginocchio a terra e la tirai su contro lo scaffale pieno di biancheria. «Ripeto la domanda: perché ha mentito nel 1988?» «Lei... lei svolge delle indagini sull'assassinio di Manon?» «Risponda alla mia domanda.» Si passò la mano fra i capelli. Il terrore le sfigurava il volto. «Ho... ho avuto paura. Avevo venticinque anni. Quando i gendarmi sono
venuti all'ospedale mi hanno domandato se, alle 17 del giorno prima, Sylvie Simonis si trovava nella sua stanza. Ho risposto di sì.» «Non era così?» «In realtà non ne ero sicura.» «Perché non l'ha detto?» Prese il tempo di inghiottire la saliva. La paura si trasformava adesso in un'espressione di sorda rassegnazione. Come se, da quattordici anni, aspettasse quell'istante di verità. «Stavo facendo il tirocinio. La capoinfermiera era molto severa sul regolamento. Le 17 è l'ora in cui si misura la temperatura. Le infermiere devono farlo personalmente e prenderne nota sul registro.» «E non è così che fate?» «No. Veniamo più tardi e i pazienti l'hanno già misurata da soli. Ci basta guardare il termometro sul tavolino da notte e trascrivere il numero.» «Dunque il malato può non essere nella sua stanza?» «Sì.» «Ed era il caso di Sylvie Simonis?» «Credo di sì.» «Sì o no?» urlai. «Sì. Quando sono passata, lei non c'era. Ho annotato la temperatura e sono uscita.» «Non sa quanto tempo sia durata la sua assenza?» «No. Era libera di muoversi ed era in stanza da sola. Avrebbe potuto stare via per delle ore. Nessuno se ne sarebbe reso conto.» Non commentai. L'alibi di Sylvie Simonis non esisteva più. L'infermiera tentò di giustificarsi. «Ho mentito, ma in quel momento non era così grave. Nessuno la sospettava. Era talmente orribile ciò che era accaduto. Lei era la vittima, capisce?» «Lei sa qualcos'altro.» «Io...» La donna si tastò il viso, con la punta delle dita, come se avesse ricevuto dei colpi. «È stato più tardi, in effetti. Mesi dopo. Quando è stata organizzata una ricostruzione dei fatti.» «Con Patrick Cazeviel?» Fece segno di sì. «I giornali parlavano di un pozzo, nella stazione di depurazione. E anche di una griglia arrugginita che non era più al suo posto. Questo mi ha fatto venire in mente un particolare. La sera del delitto, quando i gendarmi hanno dato la notizia a Sylvie, lei ha preparato la sua borsa. I medici avevano detto che poteva essere dimessa. L'ho aiutata. Il
suo impermeabile... recava tracce di ruggine.» «Questo particolare l'ha colpita?» «Erano dei segni strani. Formavano una specie di trama. E sembravano... recenti. Quando ho letto l'articolo, ho pensato alla griglia e ho capito.» «Perché non ne ha parlato?» «Era troppo tardi. E... non riuscivo a concepire una cosa così orribile.» Stetti in silenzio. «C'era anche un'altra cosa...» proseguì Nathalie Katsafian. «Nello stesso periodo, avevo sentito i medici discutere fra loro, a proposito della cisti di cui soffriva Sylvie. Una cisti all'ovaio. Parlavano di un film americano nel quale una ragazza si provoca volutamente una di queste cisti, assumendo degli estrogeni. Io... Insomma, mi sono detta che Sylvie aveva potuto fare la stessa cosa. E tramare il tutto.» «Aveva qualche indizio per pensarlo?» «Sì. Avevo notato un dettaglio nella sua stanza da bagno. C'erano dei farmaci.» «Degli estrogeni?» «Non so.» «Dove vuole arrivare?» «Le compresse all'interno... non erano la medicina indicata sulla confezione.» «Erano ormoni o no?» «Non lo so!» Nathalie Katsafian scoppiò in singhiozzi. La testimonianza di questa donna sarebbe stata sufficiente a spedire Sylvie Simonis in carcere per vent'anni - o in un ospedale psichiatrico, sezione UMD, l'Unità per malati difficili. La bocca mi si riempiva di cenere. Sylvie Simonis, madre infanticida. Era lo stesso mosaico, costituito dalle stesse tessere, ma disegnava un altro ritratto. Una Medea, più vera del vero. Posai le mani sulle spalle della donna e mormorai una preghiera. Supplicai con tutta l'anima il Signore di concederle la pace, un'esistenza senza rimorsi. Mi rialzai, e avevo già afferrato la maniglia della porta quando mi ricordai di qualcosa. Mi frugai nelle tasche e tirai fuori la fotografia di Luc. L'infermiera la guardò. Il pianto si fece irrefrenabile. «Oh, mio Dio...» «Lo conosceva?» «È venuto a interrogarmi, sì», singhiozzò.
Un colpo in pieno petto. Era la prima volta, in quella schifosa città, che qualcuno riconosceva Luc. «Quando esattamente?» «Non so. Quest'estate. In luglio, credo.» «L'ha interrogata su Sylvie Simonis?» «Sì... Ossia, no. Ne sapeva più di lei. Cercava una conferma. Aveva indovinato che l'alibi dell'ospedale non stava in piedi. Diceva di avere già avuto un'esperienza analoga in un caso famoso. Francis Heaulme, credo.» Esatto. Nel maggio 1989 Francis Heaulme era stato scagionato dall'omicidio di una cinquantenne commesso nelle vicinanze di Brest. Al momento del fatto pare si trovasse al centro ospedaliero Laennec di Quimper. Lo attestava la sua rilevazione della temperatura. Successivamente, l'alibi era stato smontato. Una voce dentro di me: «Luc è un poliziotto migliore di te». «Che cosa gli ha detto?» «Quello che ho detto a lei.» Aprii la porta e mi eclissai. Un solo pensiero mi martellava nella mente. Luc Soubevras aveva trovato il suo diavolo a Sartuis. E quel diavolo si chiamava Sylvie Simonis. 48 Scrollai ogni pendola. Palpai, rovesciai, auscultai ogni zoccolo, ogni meccanismo. Casse decorate, quadranti cerchiati d'oro, clessidre di legno dipinto. Neanche l'ombra di un nascondiglio, né di un pannello scorrevole. Avevo deciso di rovistare da cima a fondo la Casa degli orologi. Di non trascurare un millimetro di quella baracca. Se era qui che Sylvie Simonis aveva venerato il demonio, quel culto doveva avere lasciato qualche traccia. Quando deposi l'ultimo orologio al suo posto sullo scaffale, dovetti arrendermi all'evidenza. La pesca era stata totalmente infruttuosa. Diedi un'occhiata intorno. Mi avvicinai al banco, studiai ogni strumento, capovolsi la tavola che faceva da ripiano, esaminai le gambe. Niente. Osservai le assi del parquet, la superficie dei muri. Niente di niente. Nessuna parete ruotante, nessuna che suonasse cava dall'altra parte. Mi tolsi il cappotto. Salii le scale a quattro a quattro, mi fiondai sul ballatoio e infilai la scala del granaio. L'ufficio di Sylvie. Avrei proceduto con
rigore, perquisito ogni stanza partendo dall'alto per scendere fino alla cantina e al garage. Mi dedicai ai mobili dell'archivio - l'interno, l'esterno: niente da segnalare. M'inginocchiai, tastai il fondo di ciascun classificatore. Nessuna fessura, nessuna prominenza. Le pareti erano rivestite di tela. Spostai il mobilio verso il centro della stanza, afferrai un cutter e tagliai il tessuto. Staccai ogni pannello. Niente. Picchiai sul muro in vari punti, spiando una risonanza. Zero assoluto. Passai al soffitto mansardato, rivestito di lana di vetro. A colpi decisi, squarciai la superficie con il cutter in diversi punti e tuffai la mano all'interno, estraendo grandi manciate di lana... Nient'altro. Niente oggetti nascosti, niente aperture dissimulate. Strappai la moquette. Affondai la lama nelle scanalature dell'assito, percorrendole meticolosamente, l'una dopo l'altra. Nada. Premetti su ogni tavola, nella speranza di scoprirne una che non fosse fissata. Senza risultato. Mi rialzai, madido di sudore, e contemplai il pavimento, il legno nudo cosparso di fiocchi di lana, di brandelli di tessuto e di moquette. Ero sulla falsa strada? Scesi al piano inferiore, ispezionando al passaggio ogni gradino. Calava la notte. Accesi la torcia elettrica. Le pile erano scariche. Merda! Mi ricordai di avere nel portabagagli una confezione di stick luminosi. Mi precipitai giù per le scale e corsi fino all'Audi, anche stavolta parcheggiata in fondo alla strada senza uscita. Aprii la scatola e mi ficcai gli stick a manciate nelle tasche. Ritornai nella casa costeggiando l'ombra. Nella camera di Sylvie, ruppi un primo stick. Un alone verdastro mi avvolse. Mi ficcai il bastoncino fra i denti e cominciai la ricerca. Mobili, muri, parquet. Come al piano di sopra, non ottenni niente, salvo una sudata supplementare. Cominciai a dubitare. Mi sedetti a gambe incrociate e mi sforzai di riflettere sul crimine machiavellico di Sylvie. L'alibi dell'ospedale. Aveva realmente preso degli estrogeni e coltivato la malattia nel suo corpo? Com'era venuta a sapere dello scarto degli orari ospedalieri a proposito della misurazione della temperatura? Mi si riaffacciò davanti l'immagine del diavolo che scaturiva dalle lancette dell'orologio. Quel diavolo era la stessa Sylvie e il suo alibi era perfetto. Si era sottratta alle leggi del tempo per uccidere la sua bambina. Era sfuggita alla successione delle ore per commettere l'innominabile. Per rendere ancora più credibile il proprio alibi, aveva immaginato il tocco finale: la telefonata dell'assassino, la sera stessa, all'ospedale. Un e-
lemento che, per una logica naturale, la faceva uscire dal numero dei sospettati. Eppure, la macchinazione era semplice. Quand'era tornata dal sito di depurazione, si era insinuata nella cabina del telefono. Aveva composto il numero del centralino, chiesto il proprio nome e, mentre la chiamata veniva trasferita, aveva raggiunto la sua stanza e sollevato la cornetta. Dopotutto, nessuno aveva mai udito la sua conversazione... Il riso sarcastico di Richard Moraz mi risuonò nei timpani: «Mi vedi, con la mia stazza, infilarmi dentro una cabina?». No, non ce lo vedevo proprio, ma m'immaginavo perfettamente Sylvie, un metro e sessantatré, cinquantuno chili. Quella sera aveva contattato anche i suoceri e usato un dittafono per lasciare l'ultimo messaggio. «La bambina è nel pozzo...» Come aveva truccato la voce? Perché ispirarsi a una filastrocca del Jura? Perché questa estrema ricercatezza? Lo stick fluorescente si spense. Ne ruppi un altro. Non avevo le risposte, ma una convinzione generale sì. Sylvie Simonis, cristiana arcaica, aveva bazzicato il Maligno. Il diavolo che stava addosso a Manon era lei. Il diavolo temuto da Thomas Longhini era lei. Il diavolo che frequentava la Casa degli orologi era sempre lei. A meno che non fosse il contrario, che lei avesse subito l'influenza di quella casa e delle sue leggende. Comunque fosse, Sylvie Simonis aveva venerato Satana e sacrificato la figlia in suo nome. Quel culto aveva dovuto lasciare delle tracce. Quella casa doveva portare l'impronta del demonio. Nel corridoio feci lo stesso carosello, strappando la carta da parati, ispezionando i parquet. Niente. La stanza da bagno. Tutto inutile. Le due stanze per gli ospiti. Zero. Al piano terra passai in cucina. Neanche l'ombra di un nascondiglio. La sala da pranzo e i suoi mobili tipici della regione. Il niente assoluto. Ritornai nel soggiorno. Alzai gli occhi e mi soffermai sulle due travi che s'incrociavano sotto il tetto, a cinque metri d'altezza. Inaccessibili. A meno di scavalcare la ringhiera del ballatoio... Sulla passerella, mi piazzai fra i denti un altro stick e mi arrischiai sulla trave centrale. A quattro zampe, una mano dopo l'altra, avanzavo lentamente, evitando di guardare il vuoto. Via via che progredivo picchiavo sul legno dai due lati, in cerca di una nicchia. Niente, ovviamente. Ma al punto d'incrocio delle due travi, forse... Arrivai all'intersezione. Una trave verticale sovrastava l'insieme, piantata
al punto d'incrocio. Mi sedetti a cavalcioni e circondai con le braccia quel pilastro centrale. Ripresi fiato e, con precauzione, picchiettai la parete sopra di me, nella speranza che da qualche parte mandasse un suono vuoto. La mia mano si fermò. Un dislivello, proprio dietro la trave verticale. Infilai le unghie nella fessura, sollevai una tavola. Feci scivolare sotto la mano, una manovra alla cieca, con la guancia incollata alla trave. Un contatto familiare: un sacchetto di plastica che racchiudeva degli oggetti. Riuscii a estrarlo dal nascondiglio. Un pacchetto avvolto in un foglio di plastica trasparente, sigillato da vari giri di nastro adesivo. Mi sistemai il sacchetto sotto il braccio, sputai lo stick luminoso e, fatto dietrofront, ripartii verso il ballatoio. Sul pavimento, dopo essermi infilato dei guanti di latex, aprii il pacchetto. Mi armai di un nuovo stick e contemplai il tesoro. Un crocifisso rovesciato. Una Bibbia dalle pagine imbrattate. Alcune ostie macchiate. Una testa di demone orientale, nera e ostile. Lasciai cadere lo stick e mormorai una preghiera a san Michele Arcangelo: ... e voi, principe della milizia celeste, respingete nell'inferno, grazie alla virtù divina, Satana e gli altri spiriti maligni che errano nel mondo per perdere le anime... Avevo centrato in pieno. Sylvie Simonis venerava il diavolo. Gli aveva sacrificato sua figlia, in nome di un patto o di chissà quale altro delirio... Imballai il bottino, l'avvolsi nel cappotto e mi alzai. Scosso dai tremiti, mi strofinai le braccia, le spalle. Avevo trovato ciò che c'era da stanare in quella casa. Adesso che era una certezza - calpestavo il territorio del diavolo - dovevo parlare con un uomo che mi aveva mentito fin dall'inizio. Un uomo che Manon e Thomas, due bambini che si credevano minacciati dal Maligno, erano sicuramente andati a trovare. Il solo che aveva potuto ascoltarli. 49 «Che le prende?»
Afferrai padre Mariotte per la maglia e lo inchiodai contro la porta di un armadietto. Stava ripiegando le maglie della sua squadra. La sacrestia assomigliava a un guardaroba. Due file di scomparti di ferro, una panca centrale, sormontata da una struttura di attaccapanni. «È l'ora della verità, padre. Vuoti il sacco, altrimenti rischio di innervosirmi. Sul serio. Tonaca o non tonaca.» «È impazzito?» «Lei ha sempre saputo di Manon e Sylvie.» «Io...» «Sapeva che il pericolo era là. Che il male abitava quella casa!» Lo spinsi nuovamente con forza contro gli armadietti. Scivolò e si accasciò sul pavimento. Stringeva a sé le maglie. Il labbro inferiore era mosso da un tremito. Le vene gli palpitavano sulle tempie. La pelle tendeva al violaceo. Oli piazzai il tesserino sotto il naso. «Non sono un giornalista, padre. Proprio per niente. Allora è tempo che metta le carte in tavola prima che l'accusi di complicità in omicidio. Qui tacet consentire videtur!» La frase latina - «chi tace acconsente» - parve dargli il colpo di grazia. Aspirava l'aria a grandi boccate, come un pesce sulla sabbia. «Lei...» «Thomas è venuto da lei. L'ha avvisata che Manon era minacciata, che sua madre era una svitata in combutta con Satana. Ma lei non ha preso sul serio quelle storie. Lei è un prete moderno, no? Allora, lei...» Mi bloccai. Sulla sua faccia si era dipinta un'espressione di stupore. «Sylvie Simonis posseduta?» farfugliò. «Cosa sta blaterando?» Rimasi perplesso. Era evidente che non sapeva di cosa parlavo. «Ho trovato degli oggetti satanici nella Casa degli orologi», dissi con più calma. «Thomas Longhini, prima del delitto, aveva avvertito i suoi. Parlava di un diavolo che minacciava Manon. Parlava di un pericolo reale. Ma nessuno lo ha ascoltato.» Lo fissai dritto negli occhi chiari. «Non è venuto a trovarla, forse?» «No, non lui...» Il prete si rialzò con difficoltà e si sedette sulla panca. «Chi è venuto?» «Sylvie... Sylvie Simonis. Varie volte.» «Era nel suo stato di invasata?» Padre Mariotte fece segno di no. Dall'espressione che aveva sul viso si capiva che era sincero, e anche costernato.
«Sylvie non è mai stata posseduta. Era Manon che presentava segni...» «COSA?» «Si sieda», mormorò. «Le racconterò tutto.» Mi lasciai cadere sulla panca a mia volta. L'edificio che avevo appena costruito crollava miseramente. Mariotte aprì uno sportello e ne tirò fuori una bottiglia dai riflessi dorati. «Lei sembra averne di coraggio», disse tendendomi la bottiglia, «ma questo non le farà male.» Rifiutai e mi accesi una Camel. Il prete buttò giù un sorso. «Mi racconti.» «Sylvie è venuta la prima volta nel maggio 1988. Secondo lei, sua figlia era posseduta.» «Quali erano i segni dell'influenza del Maligno?» «Manon organizzava delle cerimonie, dei sacrifici.» «Mi faccia degli esempi.» «Vicino alla loro prima casa c'era una fattoria. I contadini si erano lamentati. Manon rubava anelli alla madre e li metteva intorno al collo dei pulcini. Le bestiole morivano nel giro di qualche giorno, soffocate dalla loro stessa crescita.» «I bambini a volte possono essere molto crudeli. Questo non fa di loro dei posseduti.» «Aveva anche mutilato la sua tartaruga. Prima le aveva mozzato le zampe, poi la testa. L'aveva sacrificata al centro di un pentagramma.» «Chi le aveva mostrato quel simbolo?» «Sylvie pensava che fosse stato suo padre, prima di morire.» «Era coinvolto nel satanismo?» «No. Ma era alla deriva. Secondo Sylvie, voleva corrompere sua figlia, per pura perversione.» «C'era qualcos'altro fra padre e figlia?» «Sylvie non ne ha mai parlato. Affermava che Manon non era una vittima. Era proprio il contrario. Era... malefica.» «Cosa le ha detto?» «Ho cercato di tranquillizzarla. Le ho dato dei consigli spirituali. L'ho esortata a vedere uno psicologo...» «L'ha fatto?» «No. È tornata da me un mese dopo. Ancora più agitata della prima volta. Diceva che era la casa a essere demoniaca. Che Satana era emerso da uno dei suoi orologi, che adesso abitava il corpo di sua figlia. Come avrei
potuto credere a delle storie simili?» «Aveva compiuto altri atti sadici, Manon?» «Uccideva animali. Pronunciava oscenità. Quando Sylvie le chiedeva perché si comportava così, rispondeva che seguiva i loro ordini.» «Gli ordini di chi?» «Dei demoni.» «Mi allunghi la bottiglia.» Bevvi un sorso. Il liquido mi bruciò il petto. Rividi la bella ragazzina bionda. Adesso mi pareva inquietante, subdola, malefica. «Stavolta l'ha presa sul serio?» chiesi, restituendo la bottiglia. «Sì, ma non nel modo che avrebbe voluto lei. Le ho ordinato di andare al più presto a vedere uno psicologo di mia conoscenza, a Besançon.» «Le ha dato ascolto?» «Assolutamente no.» «Cosa avrebbe voluto Sylvie?» «Un esorcismo.» Di nuovo il mosaico si frantumava e si riformava, disegnando un altro motivo. Sylvie aveva paura di Manon. Aveva paura del diavolo. Aveva paura della sua casa. Cristiana fervente, si credeva circondata da spiriti che l'attaccavano attraverso ciò che aveva di più prezioso: sua figlia. «Ho trovato degli oggetti satanici nella loro casa», ripresi. «Una croce al contrario, una Bibbia imbrattata, una testa di diavolo... A chi appartenevano?» «A Manon. Sylvie li aveva trovati nella sua stanza.» «È assurdo. Chi mai le avrebbe dato quegli oggetti?» «Nessuno. Li aveva trovati in cantina. Sotto le fondazioni della casa. La leggenda diceva che quella baracca era stata costruita da qualche stregone e...» «Sono al corrente. Ma quegli oggetti non sono tanto antichi. Poi cos'è successo?» Padre Mariotte non rispose. Si lisciava lentamente i radi capelli sul cranio rosa. Il suo viso si era disteso, ma adesso sembrava appesantito, più vecchio. «Durante l'estate, niente», mormorò, dopo un altro sorso di liquore. «Quella storia mi ossessionava. Mi aggiravo continuamente in bicicletta davanti alla loro casa. Ero tentato di suonare, di chiedere notizie. Sylvie non veniva più a messa. Ce l'aveva con me perché non partecipavo al suo gioco.»
«Il suo "gioco"? Lei lo chiama un gioco?» «Senta», disse con voce più ferma. «Nessuno poteva immaginare che le cose si sarebbero spinte così in là. Nessuno, capisce?» «Pensava che Sylvie avesse inventato tutta la storia?» «Quella famiglia aveva un problema, è tutto. Una vera psicosi. Ai nostri giorni, chi crede ancora alla possessione?» «Alla curia romana ne conosco un bel po' che ci credono.» «Sì, d'accordo. Ma io sono un prete...» «Moderno, ho capito. Perché Sylvie non ha traslocato?» «Lei non l'ha conosciuta. Testarda come un mulo. Si era dissanguata per comprare quella casa. Lasciarla? Non se ne parlava nemmeno!» «È tornata da lei?» Mariotte bevve ancora. Eravamo al momento cruciale della storia. «A fine settembre», disse con voce rauca. «Stavolta era calma. Sembrava... non so come dire... tornata in sé. Si era come rassegnata alla perdita della bambina. Diceva che Manon era morta. Che adesso qualcun altro viveva accanto a lei nella sua casa.» «Manon persisteva nel suo comportamento?» «Aveva orinato su una Bibbia. Si era masturbata davanti a un vicino. Parlava latino.» Diverse verità si sovrapponevano. Quando Thomas Longhini parlava di un diavolo che minacciava Manon, non alludeva a Sylvie ma a una forza orribile che trasformava, a poco a poco, la sua giovane amica. Quando la signora Bohn accennava a dei «giochi pericolosi», non era Thomas a iniziarli ma Manon. Tutto ciò avrebbe dovuto risolversi in un istituto, con l'assistenza di specialisti in schizofrenia. «Quel giorno», proseguì Mariotte, «Sylvie mi ha posto un ultimatum. Mi ha avvisato che, se non intervenivo io, avrebbe agito lei stessa. Sul momento, non ho afferrato. Quella storia mi lasciava completamente disorientato. Per tutto il mese di ottobre mi è stata addosso, ripetendomi che non capivo niente. Che non ero un vero prete. Non smetteva di citare un brano della seconda lettera di Paolo ai tessalonicesi: "Allora l'iniquo si manifesterà, e il Signore Gesù lo distruggerà col fiato della sua bocca e lo annichilirà con lo splendore di sua venuta".» Tirò il fiato. «Non sapevo più cosa fare. Un esorcismo! Perché non un rogo? Ogni volta ripetevo a Sylvie che l'unica cosa da fare, e subito, era consultare uno psichiatra. Alla fine le ho annunciato che me ne sarei occupato io stesso. In un senso... penso di avere precipitato le cose. Non ho mai saputo la verità su Manon, ma Sylvie
era pronta per il manicomio.» Mariotte aveva ragione, ma la follia di Sylvie possedeva una propria logica. La donna non aveva agito in base a una decisione inconsulta, spinta da un accesso di panico, ma aveva accuratamente predisposto il suo piano. Non per evitare la prigione, ma per salvare la memoria di sua figlia. Affinché nessuno, mai, potesse sospettare il motivo che l'aveva indotta a compiere quell'atto. «Nel mese di novembre non è più venuta. Ho creduto, sperato, che la situazione si fosse normalizzata. Conosce il seguito. Lo conoscono tutti.» Padre Mariotte fece una pausa. Si rendeva conto dell'enormità dei suoi errori. «Da quel giorno», riprese con voce appena percepibile, «vivo nel dubbio.» «Dubbio?» «Non ho alcuna prova formale contro Sylvie. Dopotutto, la verità è forse ancora un'altra...» «Perché non ha avvertito i gendarmi?» «Impossibile.» «Perché?» «Lei sa benissimo perché.» «Sylvie le parlava sotto il sigillo della confessione?» «Ogni volta, sì. Quando sono venuto a sapere della morte della bambina, ho fatto a pezzi il confessionale a colpi d'ascia. Non l'ho mai ricostruito. Non potevo più accogliere una confessione in questa chiesa.» «È per questo che c'è quella cabina nel corridoio?» Il suo silenzio era una conferma. L'evocazione della cabina mi ricordò un altro fatto. «Secondo lei, chi può avere scritto "Ti aspettavo" all'interno?» «Non lo so. Non voglio saperlo.» Lasciai cadere il discorso, adesso mi premeva completare la cronologia dei fatti. «Dopo il dramma, ha rivisto Sylvie?» «Certo, questa è una piccola città. Ma lei mi evitava.» «Non è più venuta a confessarsi?» «Mai più. Il suo silenzio era come una pietra.» Aprì le mani e tese le braccia in avanti. «Un'enorme pietra che si era richiusa sui miei interrogativi. Ero murato là dentro, capisce?» «Cos'ha pensato quando ha appreso della morte di Sylvie Simonis, l'esta-
te scorsa?» «Se le ho detto che non voglio saperne più niente!» «C'è forse qualcuno, in questa città, che conosceva la verità. Qualcuno che ha deciso di vendicare Manon.» «L'assassinio è confermato? I gendarmi non hanno mai detto che...» «Glielo dico io. Cosa pensa di Thomas Longhini?» Il sacerdote ritrovò la sua espressione di sgomento. «Thomas?» «Quando se n'è andato dopo essere stato accusato dell'omicidio di Manon, ha promesso che sarebbe tornato. Potrebbe avere vendicato la ragazzina.» «Lei è pazzo.» «Non ho inventato il cadavere di Sylvie.» «Mi lasci. Devo pregare.» Aveva le guance rigate di lacrime. Sul viso, un'espressione impassibile. Più niente sembrava poterlo toccare. Mormorava già il celebre salmo 22: Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti. [...] Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge, in mezzo alle mie viscere. La sua voce si spense alla mie spalle mentre attraversavo la chiesa. Sul sagrato, respirai la notte a pieni polmoni! La piazza era immersa nel buio e offriva un riflesso esatto del mio stato d'animo. Una zona nera, gelida, priva di punti di riferimento e di luce. All'improvviso, un lampeggiare di fari squarciò la notte. Un'auto era parcheggiata sulla piazza. La Peugeot blu del capitano Sarrazin. "Alla buon'ora", pensai dirigendomi verso il veicolo. 50 «Salga.» Girai attorno alla Peugeot e mi sedetti dal lato del passeggero. Nell'abitacolo aleggiava un odore di pulizia impressionante. Un rigore impeccabile, che ti escludeva e ti faceva temere di sporcare il tessuto dei sedili. «Beve in servizio, comandante?» Il mio alito era saturo d'alcol.
«Non sono in servizio. Sono in vacanza.» «Ci vede più chiaro adesso?» Non risposi. Nel buio, il gendarme sorrideva. Mi posò sulle ginocchia la mia pistola automatica, poi riprese, in tono paziente: «Esce dalla chiesa. Ha l'aria rintronata. Deve avere interrogato Mariotte». «E se lei mi parlasse della sua di indagine? Risparmieremmo tempo.» «Le ho lasciato la giornata. Mi dica quello che sa. Vedrò se vale la pena aiutarla.» M'interrogavo su quel cambiamento d'umore. Ma non avevo più niente da perdere. Riassunsi la situazione. Manon posseduta. Sua madre che la uccideva per distruggere il demone in lei. L'elaborazione dell'alibi. La vendetta per l'infanticidio, quattordici anni dopo. Il capitano restò in silenzio. Non sorrideva più. «Chi ha vendicato Manon, secondo lei?» chiese infine. «Chi l'amava come una sorella. Thomas Longhini.» «L'ha ritrovato?» «No. Ma è la prima cosa da fare.» «Perché avrebbe agito quattordici anni dopo?» «Ma proprio perché all'epoca il ragazzo non aveva che quattordici anni. Il suo piano ha preso forma, la sua determinazione si è intensificata. Aveva promesso di tornare, ed è tornato.» «Dunque è anche lui un pazzo furioso?» Non risposi. Abbozzai un gesto istintivo verso il pacchetto di Camel. Accendere una sigaretta in quella macchina era quasi una profanazione. Cadde di nuovo il silenzio. «Tocca a lei, adesso. A che punto è la sua indagine?» «Più o meno al punto in cui è la sua.» «È d'accordo con le mie conclusioni?» «La seguo sulla colpevolezza della madre. Ma non possiedo più prove di lei. E non ho mai potuto consultare il dossier d'indagine. C'è la prescrizione su un delitto così lontano nel tempo. Secondo me il giudice de Witt ha distrutto la documentazione.» «Perché?» «Troppo tardi per domandarglielo. È morto due anni fa.» «Sul colpevole dell'assassinio di Sylvie è d'accordo?» «No. Non Thomas Longhini. Impossibile.» L'inflessione della voce implicava una certezza. «Cosa ne sa? L'ha ritrovato?»
«Non l'ho mai perso di vista.» «Dov'è?» gridai. «Davanti a lei.» La mia bocca diventò collosa. «Sono io Thomas Longhini. Avevo promesso di tornare e sono tornato. Avevo promesso di portare a termine l'indagine e sono diventato gendarme. Capitano anzi, a Besançon. Quando Sylvie si è fatta ammazzare, sono riuscito a farmi affidare il caso.» «La gente di qui lo sa chi è lei?» «Nessuno lo sa.» «Non le credo. La sua storia è impossibile.» «È la morte di Manon che è impossibile. Non ho mai potuto accettarla.» «L'ha sempre saputo che Sylvie era un'infanticida?» «Quand'ero adolescente ne ero certo. Manon aveva paura: paura di sua madre. Più tardi, ho avuto dei dubbi. Adesso ne sono di nuovo convinto.» «Secondo lei, chi ha ucciso Sylvie?» Non ebbe alcuna esitazione. «Il diavolo.» Sorrisi. Non avevo voglia di affrontare una nuova storia di superstizione. «C'è qualcosa che lei non sa», aggiunse Longhini-Sarrazin. «Un elemento fondamentale per capire i fatti. Manon era realmente posseduta. Il diavolo l'aveva scelta.» Era una cospirazione. Una cospirazione di svitati! Rinfoderai la pistola e abbassai la maniglia. «Ho sentito abbastanza», dissi. Sarrazin bloccò la portiera. «È il nocciolo della storia. Abbia le palle di andare fino in fondo.» Il sapore di colla mi seccava la gola. Avevo la lingua gonfia, la bocca impastata. «Ero con lei quando è successo tutto», riprese. «Eravamo inseparabili. Lei è diventata qualcuno di diverso. Un demone.» «E, oggi, il diavolo è tornato per vendicarsi, vero?» «Non le sto parlando di un fauno con la testa di caprone. Le parlo di una potenza oscura, che ha agito servendosi di un altro.» «E chi sarebbe?» «Ancora non lo so. Però lo scoprirò.» «Che prove ha?» «È semplice. Il diavolo si vendica sempre allo stesso modo. Ci sono stati altri casi di assassini con insetti, licheni e il resto.»
«No. Ho fatto una ricerca in questo senso. Su scala nazionale. Mai nessuno ha subito le torture di Sylvie Simonis. Mai nessun assassino ha decomposto un corpo usando acido e insetti.» «In Francia, no. Altrove, sì.» «Dove?» «In Italia. È là che la Bestia ha colpito. A Catania, in Sicilia. La Bestia non conosce confini.» Sarrazin parlava con sicurezza. Abbastanza da instillarmi un nuovo dubbio. Vidi passare la maschera di Pazuzu, poi recuperai il senno. Non era escluso che un assassino potesse prendersi per il diavolo e impazzare in giro per l'Europa... «In ogni caso», aggiunse Sarrazin, «il suo amico era d'accordo con me.» «Chi?» «Luc Soubeyras.» «L'ha visto? Lo conosce?» «Abbiamo lavorato insieme. Ma lui credeva al diavolo. Lei, invece, bisognava che la mettessi alla prova. È per questo che ho lasciato che se la sbrogliasse da solo.» «Cos'aveva scoperto Luc?» «Era al punto in cui sono io, e in cui è lei. Poi è partito per l'Italia. E non ha più dato segno di vita.» Un flash, ghiaccio e fuoco mescolati. Un'informazione di Foucault: Luc era partito per Catania il 17 agosto scorso. «Ecco la mia proposta», disse Sarrazin. «Lei va in Italia. Io continuo a indagare qui. È lei che ha proposto di fare squadra.» Non perdevo niente a conservare un alleato qui. Quanto a me, se esisteva veramente una pista in Sicilia, dovevo seguirla. «Prima verifico la sua informazione sull'Italia. Se è confermata, corro.» Aprii la portiera. Sarrazin mi afferrò il braccio. «Prima di andarsene, torni a Bienfaisance. Nel luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere.» «Perché?» «Il diavolo ha firmato il suo crimine.» Per un istante pensai al crocifisso, ma il gendarme parlava di qualcos'altro. «Dove devo cercare?» «Lo trovi da solo. Tutto questo è un'iniziazione, capisce?» «Certo. Ha delle pile?»
51 «Pronto?» Avevo composto il numero di cellulare di Giovanni Callacciura, sostituto procuratore di Milano. Un anno prima avevo lavorato con lui all'assassinio di un medico romano a Parigi. Delitto di sangue per me, vendetta e corruzione per lui. E una solida amicizia fra noi due. «Pronto?» Mi sistemai la cornetta sotto il mento: la strada era ormai una curva dietro l'altra. A sbalzi, il vento sollevava l'auto, mentre i rami degli abeti si piegavano sul fascio di luce dei fari. Correvo a tutta birra verso NotreDame-de-Bienfaisance. «Sono Mathieu Durey.» «Mathieu? Come stai?» Il riso nella voce. La freschezza nell'intonazione. Lontano anni luce dal mio incubo. Gli spiegai l'oggetto della mia chiamata. La natura del delitto. La possibilità di un crimine identico, in Sicilia. Il mio italiano scorreva fluido. Il magistrato scoppiò a ridere. «Non potrei mai lavorare su storie simili. Troppo sinistre. Cosa vuoi che faccia?» «Trova le informazioni su questo delitto, a Catania.» «Ok. Hai l'anno?» «No. Penso però che sia piuttosto recente.» «Ed è urgente?» «Scotta.» «Faccio la ricerca da casa mia. A fra poco.» Lo ringraziai. Neanche una parola sul fatto che erano le nove di una domenica sera. Neanche un commento sul fatto che non chiamavo da sei mesi. La mia concezione dell'amicizia: nessun dovere, se non quello di rispondere «presente» al momento giusto. Continuavo la mia corsa con il piede sull'acceleratore, salendo sempre più di altitudine. Ripensavo alla mia prima visita a Bienfaisance: la montagna viva, il trionfo delle acque... Adesso, tutto era nero. Un intreccio di minacce e di fogliame, tormentato dal vento. In testa le parole di Sarrazin, che si riversavano a ogni curva, come grosse ondate sul ponte di un cargo allo sbando. Ecco il cartello della fondazione Notre-Dame-de-Bienfaisance. Accelerai ancora. Non era il caso di suonare alla porta dei missionari, né di farmi mezz'ora a piedi. Doveva esistere un'altra strada, più su, che portasse diret-
tamente al belvedere. Dopo due chilometri m'imbattei in una strada sterrata che conduceva alla Roche Rêche, come l'aveva chiamata Marilyne Rosarias. Avanzai sobbalzando per una decina di minuti. Un parcheggio di terra rossa alla mia sinistra. Un cartello: LA ROCHE RÊCHE, 1700 METRI DI ALTITUDINE. Ignorai l'area di sosta e m'inoltrai un po' più in là fra l'erba alta. Un assurdo riflesso di discrezione. Spensi il motore, aprii il portaoggetti e piazzai nella torcia elettrica le pile che mi aveva dato Sarrazin. Fuori, il vento mi colpì in piena faccia. A momenti le folate sembravano volermi strappare il cappotto, poi, subito dopo, me lo appiccicavano addosso con forza, come se volessero farmelo entrare nella carne. Curvo nella tempesta, seguii il sentiero. Portava a un grande spiazzo aperto, disseminato di tavoli e di panche di legno. Più lontano, in basso, scorsi la radura. In mezzo, il ribollire nero degli abeti. M'immersi nella foresta, facendomi guidare dal suono della cascata che mi giungeva a intermittenza fra il mugghiare del vento. La densa vegetazione mi opponeva resistenza. I rami mi scorticavano la faccia e i passi erano intralciati dai rovi. Sotto i piedi, via via che mi facevo strada fra i cespugli, i ciottoli scricchiolavano, rotolavano. Ed ecco che mi ero perso, confondendo il rumore dell'acqua con lo stormire delle foglie. Decisi di avanzare ancora, di seguire il pendio: in fondo doveva pur esserci un'apertura. Alla fine emersi dagli alberi come da dietro un sipario e mi trovai sulla radura. Pura fortuna. Mi fermai e osservai lo scenario che conoscevo già. Un cerchio d'erba rasata che si estendeva fino al precipizio. Sotto la luce della luna, la superficie sembrava argentata. Ancora qualche secondo per raccogliere le idee e ripresi il cammino. Longhini-Sarrazin aveva detto: «Il diavolo ha firmato il suo crimine». Qui c'era dunque una traccia, un indizio satanico. I gendarmi l'avevano trovato? No. Solo Sarrazin era tornato sul posto e aveva scoperto quel dettaglio. Adesso ero al margine della falesia, come durante la mia prima visita. Mi girai verso la superficie d'erba e riflettei. I gendarmi - dei professionisti della Scientifica di Besançon - avevano ispezionato lo spazio con rigore, rivoltando ogni particella, ogni ciuffo d'erba, secondo il metodo a griglia. Cosa potevo fare di più, da solo e in piena notte? Mi concentrai sugli abeti in fondo. Assomigliavano a una falange di guerrieri neri. Forse i gendarmi avevano limitato le ricerche alla sola radura...
Nessuno aveva pensato a perlustrare a fondo i boschi. Nessuno, tranne Sarrazin. Risalii il pendio e mi fermai all'orlo delle conifere. Il compito si presentava impossibile. Scrutare al buio il terreno, le radici, i tronchi. E per trovare cosa? Rinunciando a riflettere, mi tuffai nelle tenebre e accesi la torcia. Cominciai dal centro, nell'asse in cui era stato deposto il corpo, cento metri più in là. Chino sul terreno, cercai di scorgere qualcosa. Esaminai uno a uno i tronchi degli alberi, spostando i rami e il fogliame. Niente. In dieci minuti avevo perlustrato solo pochi metri quadrati. I rami degli abeti cominciavano molto in basso: se c'era qualcosa da scoprire un'iscrizione nella corteccia, un messaggio di altro genere - questo qualcosa doveva trovarsi nella parte di tronco che andava da terra ai primi rami. Piegato in due, quasi in ginocchio, continuavo il mio minuzioso esame, concentrandomi sulla base dei tronchi. Dopo una mezz'ora mi rialzai. Il respiro si cristallizzava davanti a me in nuvole di vapore. Il vento mi raggiungeva anche qui, malgrado fossi al riparo dei rami. Mi rituffai sotto gli aghi. Ansimando, rabbrividendo, scostando con una mano le spine, palpando con l'altra il legno dei fusti. Niente. All'improvviso, sotto le dita, una linea. Una lunga incisione, contorta, zigzagante. Strappai i ramoscelli per lasciare penetrare il fascio luminoso della torcia. Il cuore mi si bloccò. Distintamente, a colpi di coltello, qualcuno aveva inciso lettere aguzze e appuntite: IO PROTEGGO I SENZA LUCE. La firma del diavolo? In quindici anni di teologia non avevo mai sentito quel termine. Notai un altro dettaglio. La forma rozza delle lettere. Riconoscevo la scrittura. Quella dell'iscrizione luminescente nel confessionale. Una stessa mano aveva inciso la frase nella corteccia e l'avvertimento «TI ASPETTAVO». Pensavo: "Un nemico, uno solo", quando il cellulare prese a vibrare. Senza distogliere gli occhi dall'iscrizione, mi districai dai rami e riuscii a infilare la mano in tasca. «Sì?» «Pront...»
La voce di Callacciura, ma la ricezione era pessima. Mi voltai e gridai: «Giovanni? Ripetimi!». Girai su me stesso e captai le sue parole, come portate dalle raffiche di vento. «Ti richiamo più tardi», stava dicendo, «se la ricezione è...» «NO! Adesso ti sento. Hai già novità?» «Ho trovato il caso. Esattamente lo stesso delirio: la putrefazione, le mosche, i morsi, la lingua. Allucinante.» «La vittima è una donna?» «No. Un uomo, Salvatore Gedda. Sulla trentina. Ma non c'è alcun dubbio: è la copia esatta.» C'era dunque un serial killer che colpiva in giro per l'Europa, usando lo stesso metodo. Un assassino che si prendeva per lo stesso Satana... «C'erano dei simboli religiosi accanto al cadavere? Aveva subito degli atti sacrileghi?» «Sembrerebbe di sì. Aveva un crocifisso in bocca. Come se... Be', puoi capire.» «È successo in Sicilia?» «Sì, a Catania.» «La data?» «Aprile 2000.» Pensai: mobilità geografica, delitti scaglionati su parecchi anni, persistenza del modus operandi. Nessun dubbio, un serial killer. «Vuoi che ti spedisca il fascicolo?» «No. Vengo di persona.» «A Milano?» «Adesso sono a Besançon. Solo qualche ora di strada.» «Sicuro?» «Sicurissimo. Non posso spiegarti per telefono, ma la cosa sta prendendo forma. Un serial killer, che si scambia per il diavolo. Ha colpito qui a Besançon, il giugno scorso. E probabilmente anche altrove in Europa. Contatto d'urgenza l'Interpol. Dopo l'Italia e la Francia, è...» «Scusa se t'interrompo, Mathieu. Il delitto di Catania, non è stato il tuo svitato a commetterlo.» La ricezione era di nuovo peggiorata. «Cosa?» «Ho detto che l'omicidio di Catania non c'entra niente con il tuo squilibrato!»
«Perché?» «Perché abbiamo il colpevole!» «COSA?» «È una donna. La moglie della vittima. Agostina Cedda. Ha confessato. E fornito tutti i particolari: i prodotti utilizzati, gli insetti, gli strumenti. Un'infermiera.» «Quando è stata arrestata?» «Qualche giorno dopo il delitto. Non ha opposto alcuna resistenza.» Ancora una volta, la mia trama andava in mille pezzi. Era impossibile che quell'italiana avesse ucciso Sylvie Simonis se si trovava in carcere. Ma era altrettanto impossibile che due diversi assassini usassero un metodo così particolare. Posai le dita sulla corteccia incisa. IO PROTEGGO I SENZA LUCE. Cosa significava? «Al New Bristol. Domattina alle undici!» urlai nel ricevitore. III AGOSTINA 52 Durante il viaggio, richiamai Sarrazin e gli confermai quello che avevo scoperto. L'iscrizione nella corteccia, l'assassinio di Salvatore Gedda. Ora era il momento di collaborare. Un'indagine a due, con scambio d'informazioni. Il capitano era d'accordo. Per lui, la pista italiana si era interrotta bruscamente. Aveva raccolto solo qualche dato su Agostina Gedda grazie a una conoscenza all'Interpol, ma non era riuscito a proseguire l'indagine al di là delle Alpi. Oltrepassai la frontiera svizzera alle undici e attraversai Losanna intorno a mezzanotte. Nonostante la tensione e lo sfinimento, mi colpì la bellezza del paesaggio nella notte. Le città - Vevey, Montreux, Losanna - sembravano frammenti di Via Lattea piovuti sulle colline. Avevo chiamato più volte Foucault, ma scattava sempre la segreteria telefonica. Di sicuro stava passando la domenica sera comodamente seduto davanti alla televisione con moglie e figlio. Per contrasto, il freddo e l'ostilità della notte mi sembravano ancora più violenti. Pensavo ai miei tre voti: obbedienza, povertà, castità. Ero in riga. Per non parlare del voto supplementare, quello che non mi dava tregua, la solitudine.
Mezzanotte e mezzo. Foucault richiamò. Gli chiesi di estendere la ricerca sugli omicidi con gli insetti fin dalle prime ore del mattino seguente. Rastrellare l'Europa intera, contattare l'Interpol, i servizi di polizia delle capitali. Foucault promise di fare del suo meglio, ma l'indagine continuava a non avere un carattere ufficiale, e Dumayet gli avrebbe chiesto spiegazioni sui casi in corso della Criminale. Promisi di chiamare il commissario capo (avrei dovuto timbrare il cartellino nel giro di poche ore) e riagganciai. Dopo la città di Aigle le luci scomparvero. Si distinguevano solo le masse scure delle Alpi all'orizzonte. La strada, immersa nel buio, era deserta. A eccezione di due fari bianchi che scintillavano da qualche minuto nello specchietto retrovisore. L'una del mattino. Martigny, Sion. La mole delle montagne si avvicinava. Imboccai il tunnel di Sierre. A più di centocinquanta chilometri orari, sorpassai diverse automobili. Vedevo i loro fari allontanarsi e tremolare nello specchietto retrovisore. Invece i due fari biancastri non mi mollavano. Centosessanta, centosettanta all'ora... Gli occhi erano sempre là. Fari allo xeno che perforavano la trama della notte come due aghi. I tunnel si susseguivano. Fauci a semicerchio scavate nella roccia; gallerie traforate, incollate al versante; tubi di vetro sospesi a fianco delle montagne. Infine, i fari scomparvero. Provai un oscuro sollievo. Forse era solo paranoia, ma l'iscrizione nel confessionale non mi usciva dalla testa: TI ASPETTAVO. E anche quella nella corteccia: IO PROTEGGO I SENZA LUCE. L'idea che un omicida fosse sulle mie tracce non era poi così assurda. Una statale a due corsie. A ogni città, mi sforzavo di rallentare. Visp. Brig. Il cuore del Vallese. Il paesaggio mutò ancora. La strada si fece più stretta, l'oscurità più profonda. Nessun riverbero, nessun cartello. Rallentai. Ero ormai al passo del Sempione. La strada salì bruscamente. Apparve la neve. Ai due lati della carreggiata affiorarono le falesie, di un bianco fosforescente, come se qualcuno le avesse cosparse di luminol. Ammassi di aghi d'abete volteggiavano sotto le ruote, mentre le conifere si facevano sempre più rade. Nessuno in vista. L'Audi era sferzata dal vento. Il freddo si insinuava nella vettura. Avevo fretta di arrivare dall'altra parte del valico e di iniziare la discesa. Le gallerie si moltiplicavano ancora. Cominciai ad avere delle visioni. I fiocchi di neve diventavano uccelli, arabeschi, ideogrammi cinesi che volteggiavano davanti al parabrezza. Rinunciai agli abbaglianti, perché la neve rifletteva la luce.
La fatica s'impadroniva del mio corpo, mi anestetizzava i riflessi, mi appesantiva le palpebre. Da quanto tempo non mi facevo una bella dormita? Il cambiamento di altitudine mi comprimeva i timpani, aumentando il torpore... Decisi di fermarmi dall'altra parte del passo, alla frontiera italiana, per dormire qualche ora. Dopotutto, ero in anticipo sulla mia tabella di marcia. Potevo ripartire verso le sette per arrivare a Milano alle dieci. Di colpo, il lunotto si illuminò. Accelerai e lanciai un'occhiata allo specchietto. Non vidi nulla tranne l'alone bianco. Il mio inseguitore aveva regolato i fari al massimo. Tornai a guardare la strada: non vedevo più niente, la neve si era fatta più fitta. E la luce accecante sfolgorava nello specchietto. Lo abbassai e mi concentrai sui cumuli di neve ai bordi della strada, gli unici punti di riferimento per seguire il nastro d'asfalto... Riuscii a distanziare i fari. Una curva, e l'auto era scomparsa. In preda alla paura, mi chiesi chi potesse essere. L'assassino di Sartuis? Qualcun altro implicato nell'indagine? O soltanto un conducente aggressivo? Mi rispose un sibilo. Una pallottola aveva sfiorato il tetto della mia auto. 53 Colpo d'acceleratore. Dentro di me cresceva il panico, paralizzandomi i sensi, i pensieri, i riflessi. Al pericolo dei proiettili si aggiungeva quello di una strada ghiacciata, con le curve troppo strette. Dovetti rallentare. La luce riempì nuovamente il lunotto. Per un secondo mi persuasi di avere sognato: il sibilo non era quello di una pallottola. Un conducente concentrato su quel tipo di strada non sarebbe riuscito a spararmi addosso mentre guidava. Per tutta risposta un nuovo colpo investì l'Audi, facendo vibrare la carrozzeria. Dunque erano in due. Un conducente e un tiratore. Un'accoppiata perfetta per una caccia all'uomo. Nuova accelerazione. Non avevo alcuna possibilità di scampo. La loro automobile sembrava più potente della mia. Erano in due, erano armati. E io ero solo, assolutamente solo. Il mio futuro somigliava a quella strada, una fuga in avanti, al buio, incontro alla mia rovina. La testa incassata nelle spalle, le dita aggrappate al volante, cercavo dentro di me, nei recessi della mia angoscia, qualche brandello di speranza. Mi ripetevo: «Non c'è niente di rotto... Non sono ferito... Non...».
Il lunotto si frantumò. Il freddo e la luce invasero l'abitacolo. Nello stesso istante le ruote slittarono. Il motore ruggì. Sbandai a sinistra, poi recuperai l'aderenza al terreno sulla destra. Un nuovo proiettile si perse nella tempesta. Un altro colpo al volante, un altro ancora, fino a tornare in asse. Un tunnel comparve in mio soccorso. L'illuminazione e la strada in rettilineo cambiarono le carte in tavola. Regolai lo specchietto e osservai i miei nemici. Una BMW. Una berlina dai vetri oscurati, con la carrozzeria nera e brillante come quella di un carro armato laccato. Il bagliore dei fari m'impediva di decifrare la targa. Non potevo vedere il conducente, ma il passeggero con il volto coperto da un passamontagna si era sporto dal finestrino con tutto il busto, impugnando un fucile di precisione munito di mirino e silenziatore. Era il quadro della mia morte. Per una frazione di secondo rimasi soggiogato dalla bellezza dell'immagine: le luci riflesse sulla lamiera lucente, i fari che irradiavano linee rosate sotto l'arco della volta, l'assassino curvo sulla sua arma... una perfetta macchina da guerra, levigata, precisa, implacabile. Stavolta accelerai a fondo. Audi contro BMW: il duello continuava. Ingoiavo l'asfalto, il cemento, le luci. Nel mio retrovisore, però, la BMW si avvicinava ancora. Era il momento di reagire, adesso o mai più. Strappai il velcro della fondina e sfoderai l'arma. Mi voltai, impugnando la mia 9 mm Para. Il muso della BMW era poco distante. Urlai e premetti il grilletto. Per la violenza del rinculo, l'arma quasi mi sfuggì di mano, ma in un battito di ciglia vidi la BMW inchiodare di colpo, slittando con la parte posteriore e stridendo tra i fumi della frenata. Quasi una vittoria. Il cielo, la neve, poi un nuovo tunnel in vista. Del tipo a colonne, costruito sul fianco della roccia. Spinto da un'intuizione, attesi fino all'ultimo momento prima dell'ingresso, poi sterzai a destra, imboccando la carreggiata di servizio che saliva sul fianco della falesia. Dopo qualche sobbalzo tra i sassi stavo già viaggiando sul tetto del tunnel. La berlina era svanita nel cono d'ombra dietro di me. Una nuova tregua. Di breve durata. Avrebbero potuto aspettarmi all'uscita... A quel punto ebbi la tentazione di mollare tutto e di scappare a piedi. Ma per andare dove? Per perdermi in mezzo alle montagne? I miei inseguitori
dovevano essere attrezzati di termorivelatore. La caccia all'uomo sarebbe stata quanto mai simile a un tiro al bersaglio. Misi la prima e procedetti al passo, a fari spenti, dondolando sulla strada sassosa, cercando un'idea, una via di scampo. La neve intanto s'infittiva e i margini della carreggiata si perdevano fra le tenebre. Infine, la strada tornò a scendere per congiungersi con quella principale. Non avevo trovato nessuna soluzione, ma la quiete circostante mi restituì qualche speranza. Al bordo della carreggiata, mi appostai in ascolto: neanche il più tenue suono di un motore, nessuna traccia di fari. Misi la prima, poi, lentamente, molto lentamente, ripartii. Nessuna automobile. L'inseguimento era finito? Avevano rinunciato? Avevo appena impugnato la leva del cambio quando tutto diventò bianco. I fari. Non dietro di me, né davanti a me. Sopra di me! Mi raggomitolai sul sedile e afferrai il retrovisore, cercando le luci nel riquadro dello specchietto. Gli uomini erano appostati sul tetto della galleria. Immaginai cos'era successo. All'interno della galleria avevano trovato un altro accesso alla strada di servizio. Erano saliti anche loro, seguendomi con i fari spenti sino all'imbocco della via principale. Poi si erano piazzati sul promontorio, in posizione di tiro. Iniziarono a piovere proiettili. Il parabrezza si frantumò, i finestrini esplosero, mentre slittavo tentando di avviare l'auto. Gli pneumatici mordevano l'asfalto. Nel retrovisore apparve l'impossibile: i due fari planavano come due palle di fuoco incandescenti nella notte. Gli assassini si erano lanciati nel vuoto. La carcassa della loro auto si schiantò, in una furia di neve e scintille, poi si scagliò in avanti. Accelerai a fondo e riaccesi i fari. L'inseguimento ricominciava. Abeti scheletrici, pareti rocciose, cumuli di neve. La tempesta si stava placando. Tornava un po' di visibilità. Tentai di raccogliere le idee. Ma non ne avevo. Non mi veniva in mente niente, se non la fuga sino alla frontiera e ai doganieri. Per quanti chilometri dovevo ancora resistere? Trenta? Cinquanta? Settanta? Un'altra occhiata allo specchietto. I due occhi bianchi erano sempre là, spuntavano a intermittenza, al ritmo delle curve. All'improvviso, una curva a U. Frenai. Troppo tardi. Le ruote si bloccarono, ma l'Audi, lanciata, continuò la sua corsa. Sterzai ancora, ma la parte anteriore dell'auto era fuori controllo. La scarpata incombente, la neve scivolosa, la collisione, brutale, soffocata, e il motore che cala di giri. Poi il silenzio. Ero senza fiato, con il volan-
te nelle costole. Frastornato, trovai la chiave d'accensione. Il motore recalcitrava, poi si avviò. In retromarcia, mi divincolai dall'ammasso di neve e feci manovra per rimettermi sulla carreggiata. Malgrado il contrattempo, i miei inseguitori non mi avevano preso. Un barlume d'ottimismo, presto smentito da un problema ai pedali. L'acceleratore non rispondeva più. Un'occhiata al cruscotto. L'indicatore della temperatura dell'acqua aveva oltrepassato la zona rossa. E ora? Guardai dietro di me: i fari allo xeno erano a una curva di distanza. Schiacciai il pedale con foga. Niente, nessuna reazione. Picchiai sul volante, urlai. Al momento della collisione doveva essersi ammassata della neve nel radiatore, otturando il sistema di ventilazione. L'auto era surriscaldata. Stava già uscendo del fumo dal cofano. Questa volta ero proprio spacciato. In quell'istante, un cartello: SIMPLON DORF. Senza riflettere, spensi i fari e imboccai a ruote libere la bretella, proprio nel momento in cui la BMW spuntava dietro di me. I killer, lanciati sulla carreggiata principale, mi videro troppo tardi. Sentii una frenata alle mie spalle. Nonostante tutto ero riuscito a guadagnare qualche secondo. Una radura, ingombra di spalatrici, bulldozer e materiali da costruzione. Con una sterzata portai l'auto in quella direzione. Vidi, davanti a me, una catasta di assi innevate. Chiusi gli occhi e lasciai andare l'auto. Di nuovo l'impatto. Di nuovo l'eco della collisione nel mio corpo. Con una spallata aprii la portiera, tossii e mi gettai fuori. Il freddo del terreno fu la mia prima sensazione. Facendo leva su un ginocchio, mi alzai e andai a ripararmi dietro un cumulo di blocchi di cemento. Un rinvio della pena. Presi coscienza della notte, del silenzio. Non nevicava più: la temperatura era abbondantemente scesa sotto lo zero. Sentii sbattere delle portiere. Mi arrischiai a guardare. Nessuno. Fuggire attraverso i boschi? Raggiungere il paese? Quante possibilità avevo di svegliare qualcuno prima che mi trovassero? Mi prese la paura. Iniziarono i brividi. Sulle sopracciglia e sui capelli si formavano dei cristalli bianchi. Stavo congelando. Mi tastai nelle tasche, trovai un paio di guanti in lattice e me li infilai maldestramente. Mi ricordai delle descrizioni di come si muore per assideramento fornitemi da alcuni missionari del Grande Nord, degli oblati conosciuti al seminario di Roma. Inizialmente si trema, ed è un buon segno: il corpo reagisce, tenta di riscaldarsi. Poi si diventa incapaci di lottare contro il freddo. Il corpo perde un grado ogni tre minuti. I brividi cessano. Il battito cardiaco
rallenta e il sangue non affluisce più alla superficie della pelle né alle estremità degli arti. La «morte bianca» sopraggiunge di lì a poco. Quando si sono persi undici gradi, il cuore cessa di battere, ma allora è già sopraggiunto il coma. Quanto tempo mi restava? Un'altra occhiata. Questa volta li vidi. Camminavano con circospezione, fucile alla mano. Portavano dei lunghi soprabiti di pelle nera. Una nuvola trasparente usciva dalle loro bocche. Uno di loro urtò contro lo spigolo di un bulldozer. Sembrò non reagire, anestetizzato dal freddo. Stavano congelando anche loro. Eravamo tutti e tre nella stessa trappola. Prigionieri della notte, prossimi a rimanere pietrificati come statue. Dovevo muovermi. Fare qualunque cosa per riscaldarmi. Feci oscillare il busto avanti e indietro e, ripetendo questo movimento più volte, mi lasciai cadere affondando i gomiti nella neve, in silenzio. Strisciare fino ai pini per ripararmi almeno dal vento. Dei passi, vicinissimi. Rotolai su me stesso e tentai, schiena a terra, di prendere l'automatica. Dovetti afferrare il calcio con due mani: le dita non rispondevano più. A un tratto ero nel mirino. Sollevai la testa: il killer era lì, l'arma in pugno. La nebbiolina che usciva dal passamontagna formava un'aureola azzurrognola. Chiusi gli occhi e feci quello che ogni uomo farebbe in simili circostanze, che sia cristiano o meno: pregai. Invocai, con tutte le mie forze, l'aiuto del Signore. Poi, udii una voce: «Wer da?». Voltai la testa. Vidi, con le lacrime agli occhi, le torce elettriche, i galloni argentati. Una pattuglia di doganieri svizzeri! Guardai di nuovo davanti a me: il killer era sparito. Udii, attutito dalla neve, il rumore di una corsa precipitosa. Delle parole in tedesco. Un motore che si avviava. L'inseguimento ricominciava, ma questa volta con i cacciatori nel ruolo delle prede. I doganieri non avevano visto la mia auto sotto le assi. Riuscii a farmi scivolare l'automatica in tasca, poi a girarmi sul ventre. Piantando i gomiti nella neve, con le gambe inerti, strisciai fino alla macchina. Non sentivo più il mio corpo né il freddo. Finalmente, la portiera. Dando la schiena all'abitacolo, mi issai come un paralitico che ha perso l'uso degli arti inferiori. Una volta sul sedile, tastai sotto il volante alla ricerca della chiave di accensione. La girai con due mani, e ci fu un altro miracolo: il rombo del motore. L'impatto doveva aver liberato il radiatore dal
ghiaccio. Il riscaldamento riprese a funzionare. Con il gomito, regolai la ventilazione al massimo. Rannicchiato vicino alle bocchette, le mani protese, aspettai che il calore arrivasse a risvegliarmi il sangue nelle vene. A poco a poco prendevo coscienza del silenzio intorno a me. La foresta deserta. E la frontiera probabilmente a qualche chilometro. Quando riuscii finalmente a muovere le dita e i piedi, misi la retromarcia e mi districai dalla catasta di legna. Altre pattuglie non sarebbero tardate ad arrivare. Feci un'inversione, ingranai la prima e presi il largo. Qualche minuto dopo ero in viaggio verso l'Italia. Il motore non aveva più il minimo dinamismo, ma funzionava. E io ero vivo, incolume! In realtà, ero in un vicolo cieco. Non avevo alcuna speranza di passare la frontiera con un'auto in quello stato... Attraversai un paese di nome Gondo e vidi una stradina in discesa: forse portava a un fiume o a una radura. Mi addentrai tra gli abeti e sentii che il vento si placava. Avevo trovato un riparo. Fermai l'auto, lasciai girare il motore, riscaldamento al massimo. Scesi con passo malfermo e presi la borsa da viaggio dal baule. Mi tolsi l'impermeabile e infilai due maglioni e un K-way prima di rimettermelo. Un berretto, dei guanti - guanti veri - e diverse paia di calze. Mi sistemai sui sedili anteriori, il più vicino possibile alle bocchette di ventilazione da cui usciva un flusso d'aria calda che puzzava di olio di motore. Quando mi fui scaldato, pescai dalla tasca il cellulare e composi il numero di Giovanni Callacciura. Mormorai nella segreteria telefonica, in italiano: «Chiamami appena senti questo messaggio. È urgente!». Poi mi rannicchiai sul sedile, di fronte al debole flusso di aria calda. Senza alcun pensiero. Solo una sensazione: la vita. Mi bastava ampiamente. Mi addormentai, stringendo il cellulare come fosse un minuscolo cuscino. 54 La luce del giorno mi svegliò. Mi tirai su, gli occhi semichiusi. La vista era splendida. Il disco del sole tra le montagne, come una ferita sanguinante. Nuvole sfilacciate sulle creste. Intorno a me la neve era scomparsa. Sostituita da pendii erbosi disseminati di foglie morte. Guardai l'orologio: le sette e mezzo. Avevo dormito quattro ore. Callac-
ciura non mi aveva richiamato. Composi il suo numero. Ormai il mio telefono funzionava su una rete italiana. «Pronto?» «Sono Mathieu. Ti ho lasciato un messaggio stanotte.» «Mi sono appena svegliato. Sei già a Milano?» Gli raccontai la mia avventura e gli riassunsi la situazione: l'auto crivellata di proiettili, il mio aspetto da barbone, l'impossibilità di passare la frontiera. «Dove ti trovi esattamente?» «All'uscita di un paese, Gondo. C'è una stradina sulla destra. Io sono in fondo a questa strada.» «Ti richiamo tra qualche minuto. Capito?» Trovai in tasca il pacchetto di Camel. Me ne accesi una con gusto. Recuperai la lucidità, e con essa le domande che mi assillavano. Chi erano i miei aggressori? Perché prendersela con me? Avevo un'unica certezza: i miei inseguitori non avevano niente a che vedere con l'assassino di Sylvie Simonis. Da un lato, due professionisti. Dall'altro, un serial killer, prigioniero della sua follia. Il cellulare vibrò. «Segui bene le mie istruzioni», disse Callacciura. «Torna sulla strada principale, la E62, percorrila per un chilometro. A quel punto vedrai una cisterna sulla quale è scritto CONTOZZO. Ferma l'auto lì dietro e aspetta. Due poliziotti in borghese verranno a prenderti entro un'ora.» «Perché dei poliziotti?» «Ti scorteranno fino a Milano. Ci vediamo, come d'accordo, alle undici.» «E la mia auto?» «Ce ne occuperemo. Tu prendi le tue cose e vai, senza esitare.» «Grazie, Giovanni.» «Di niente. Proprio stanotte ho ricevuto altri elementi sul tuo caso. Devo parlarti.» Riagganciai. Un'altra sigaretta. Malgrado le raffiche di vento che penetravano nell'abitacolo, il motore continuava a funzionare, e con lui il riscaldamento. Scesi dall'auto per pisciare. Il mio corpo era indolenzito fino alla paralisi, ma la vita reclamava i suoi diritti. Imboccai un sentiero, e sentii il sangue e i muscoli che si riscaldavano. Provai una vertigine. La fame. Intravidi un fiume, giù in basso. Bevvi dei lunghi sorsi d'acqua gelida, gustando la colazione più pura del mondo.
Risalii in auto e mi avviai in direzione del luogo dell'appuntamento. Mi appostai ai piedi della cisterna e lasciai ancora una volta ronzare il motore. Consumai quasi un'ora e tre sigarette in questo modo. Nessun doganiere in vista, neanche un fattore curioso. Ma delle riflessioni, confuse. Nella testa, una ridda di pensieri. La colpevolezza di Sylvie Simonis. La doppia identità di Sarrazin-Longhini. L'uccisione di Sylvie. La comparsa di un crimine identico, in Italia, firmato da una donna che aveva confessato. E ora, questi assassini... Un caos, in cui ogni risposta poneva una nuova domanda. Un dettaglio catturò la mia attenzione. Impulsivamente, composi il numero di Marilyne Rosarias, direttrice della fondazione di Bienfaisance. Le sette e tre quarti. La filippina doveva terminare a quell'ora le preghiere del mattino. «Chi parla?» Diffidenza e ostilità. «Mathieu Duray», dissi, schiarendomi la gola. «Il poliziotto. Lo specialista.» «Ha una voce strana. È sempre qui nei dintorni?» «Ho dovuto partire. Lei non mi ha detto tutto l'ultima volta.» «Mi sta accusando di mentire?» «Per omissione. Non mi ha detto che Sylvie Simonis era venuta a cercare conforto a Bienfaisance dopo la morte di sua figlia, nel 1988.» «Abbiamo un vincolo di riservatezza.» «Quanto tempo è rimasta alla fondazione?» «Tre mesi. Veniva la sera. La mattina andava al lavoro.» «In Svizzera?» «Cosa cerca ancora?» All'improvviso, una convinzione: Marilyne era a conoscenza dell'infanticidio. O aveva accolto le confidenze di Sylvie, o aveva intuito la verità. «Forse cercava di dimenticare le sue colpe», dissi per tastare il terreno. Silenzio. Quando Marilyne riprese a parlare, il suo tono di voce era più grave. «È stata perdonata.» «Di cosa sta parlando?» «Qualunque cosa abbia fatto, Sylvie ha implorato il perdono del Signore, ed è stata ascoltata.» «Ah, lei lavora all'ufficio del Purgatorio?» «Non scherzi. Sylvie è stata perdonata. Ho la prova di quel che dico, ca-
pisce?» Vidi apparire, a cinquecento metri, una berlina grigia di marca Fiat, in condizioni non molto migliori della mia Audi. La mia scorta. «Tornerò a trovarla», avvisai Marilyne. «Non ho nulla da dirle. Ma pregherò per la sua salvezza. Lei ha troppa rabbia dentro per poter comprendere questa storia. Deve essere assolutamente puro per affrontare il nemico che l'aspetta.» «Che nemico?» «Lo sa bene.» Riappese. La Fiat era arrivata. Il contatto con i poliziotti italiani si ridusse al minimo. I due uomini dovevano avere ricevuto ordini. Neanche una parola sullo stato della mia vettura. Né sulla mia condizione di francese errante, sperduto a pochi passi dalla frontiera. Presi la borsa e dissi addio alla mia auto. Attraversammo il posto di confine italiano senza problemi. Adagiato sul sedile posteriore, contemplavo il paesaggio. Era lo stesso del versante svizzero, ma avevo l'impressione di avere attraversato uno specchio, di addentrarmi nel riflesso italiano di quelle stesse montagne che avevo ammirato all'alba. I torrenti mi salutavano e i ponti, via via più numerosi, sostituivano le gallerie... Non pensavo più. Sentivo solamente i deboli palpiti del mio corpo martoriato. Non ci misi molto ad addormentarmi. Quando mi svegliai, avevamo superato Varese. Non era più tempo di abeti e torrenti. Sfrecciavamo sull'autostrada. La lunga pianura lombarda sembrava filare dritta fino a Milano. Alle dieci e mezzo raggiungevamo la periferia della città. Traffico intenso. I miei compagni non misero il lampeggiatore. Calmi, silenziosi, impenetrabili, mi ricordavano le guardie del corpo che avevo incontrato durante il mio primo viaggio a Milano, quelle che proteggevano i magistrati dell'operazione Mani Pulite. Milano era fedele ai miei ricordi. Città piatta, rettilinea, cupa e chiara insieme. Aleggiava nei suoi viali una leggera malinconia, non collegata all'amore o al ricordo di un'età romantica, ma a quello di una passata era industriale. Qui non si rimpiangevano la quiete di un lago o amori tormentati, ma lo slancio degli anni Sessanta, il rumore delle macchine, i tempi degli imperi Fiat e Pirelli. In questa vallata in cui il vento era sempre assente, spirava ancora il caro vecchio sogno del padrone capitalista, isolato nella sua villa moderna, intento ad accarezzare il progetto di costruire un mondo nuovo, pieno di ingranaggi,
di ciminiere e di soldi. Corso di Porta Vittoria. Il palazzo di giustizia era un tempio massiccio, con lunghe colonne squadrate. Tutta l'area circostante sembrava rispondere alla sua severa geometria. Le cabine telefoniche, a parallelepipedo sul selciato, i binari dei tram arancione, perpendicolari alle linee del palazzo. Le undici in punto. Scesi dall'auto e raggiunsi il New Boston, proprio di fronte al palazzo, all'angolo di via Carlo Freguglia. Ogni mio passo suonava come un miracolo. 55 «Hai un aspetto fantastico!» Giovanni Gallacciura era un cultore delle freddure. Era un pezzo d'uomo, fronte alta e baffi sottili su una bocca imbronciata. Vestito Prada dalla testa ai piedi, era più snello di quanto il suo volto tondo lasciasse supporre. Quel giorno indossava pantaloni di lana grigia, maglione girocollo di cachemire marrone e giacca blu trapuntata. Sembrava appena uscito da una vetrina di corso Europa. Gli indicai la sedia di fronte alla mia. Il sostituto procuratore si sedette e ordinò un caffè. Il New Boston era un tipico bar milanese: lungo bancone, profumo di caffè nell'aria, panini e brioche disposti su ampi vassoi cromati. Le sedie erano color prugna e le tovaglie rosa. Ogni tavolino rotondo sembrava una gigantesca pasticca per la gola. «Parlami della tua notte brava», disse Callacciura togliendosi gli occhiali da sole. «Prima tu: sai se i tizi che mi inseguivano sono stati arrestati?» «Sono scomparsi.» «Scomparsi? A pochi chilometri dalla frontiera?» «Anche tu ti eri imboscato bene...» Bevvi un sorso di caffè. Puro estratto di terra bruciata. Osservai il cornetto al cioccolato che avevo ordinato, senza riuscire a toccarlo. «Si può fumare qui dentro?» chiesi. «Ancora per poco.» Callacciura prese un cigarillo, poi spinse verso di me il pacchetto di Davidoff. Mi servii. Gli avvisi comparivano anche da questa parte della frontiera: FUMARE UCCIDE. Il magistrato notò le mie dita illividite dal freddo.
«Vuoi farti vedere da un medico?» «No, sto bene.» «Cos'è successo stanotte?» Gli esposi brevemente i fatti, informandolo sui particolari significativi: i modi professionali dei killer, il loro fucile d'assalto... Niente a che vedere con dei volgari rapinatori di frontiera. Senza lasciarmi il tempo di riprendere fiato, Giovanni ordinò: «Parlami della tua indagine. Quella che ti ha condotto qui». Raccontai: l'omicidio di Sylvie Simonis, l'infanticidio, quattordici anni prima, il misterioso filo rosso che collegava i due crimini. Menzionai anche la collaborazione che avevo instaurato con Sarrazin-Longhini, gendarme vendicativo che mi sembrava affidabile solo al 50 per cento. Evitai di parlare del punto di partenza di quell'incubo: Luc Soubeyras e il suo tentato suicidio. Per non mettere troppa carne al fuoco in una faccenda già confusa. Callacciura rimase in silenzio per un buon minuto. Apriva e chiudeva le asticelle degli occhiali da sole, il sigaro fra le labbra. «Difficile far combaciare tutto questo», disse infine. Mi massaggiai la nuca, ancora dolorante per l'impatto. «Soprattutto quando mi chino.» Non si prese il disturbo di sorridere. Affondò la mano nella borsa portadocumenti e posò sul tavolino una smilza cartella rossa. «È tutto quello che ho. Milano è lontana dalla Sicilia. Quando mi hai parlato della tua storia, ieri, non mi era scattata la molla. In realtà l'omicidio ha destato non poco scalpore due anni fa. All'inizio si credeva che si trattasse di uno di quei crimini selvaggi tipici della Sicilia. Ma tutto è cambiato quando è stata scoperta l'identità dell'assassina.» «Cioè?» «Una lunga storia. Una storia italiana. Lascerò che tu la scopra da solo. A Catania, non farai fatica a recuperare tutti i dettagli.» «Fammi un sunto dei fatti.» L'italiano finì di bere il caffè con un gesto rapido. «Agostina Gedda», disse, «era un'infermiera come tante, viveva a Paternò, nella provincia di Catania. Aveva sposato un amico d'infanzia, Salvatore, che faceva l'installatore di cavi elettrici. Tutto normale. Poi, improvvisamente, due anni fa, lei lo ammazza. Nel peggiore dei modi.» «Il movente?» «Non ha mai voluto dare spiegazioni.»
«Sei sicuro che in questo delitto si ritrovino gli stessi elementi del caso che sto seguendo io?» «Nessun dubbio. Le decomposizioni. Gli insetti. I morsi. La lingua mozzata. Mi hanno parlato persino di licheni sotto la gabbia toracica: ti dice qualcosa?» Annuii. Come potevano due omicidi così simili essere stati commessi da due persone diverse? E c'erano parecchi altri particolari che non quadravano. «Un omicidio di questo genere», ripresi, «richiede conoscenze specifiche, materiali difficili da reperire.» «Agostina era un'infermiera. Aveva accesso a sostanze acide. Per quanto riguarda gli insetti, ha sostenuto che li raccoglieva da carcasse di animali, nelle discariche. Difficile verificare.» Allungai le dita verso il fascicolo, ma subito Callacciura vi appoggiò sopra la mano. «Devo avvertirti di una cosa.» «Di cosa?» «In fondo a questa faccenda c'è un elemento... mistico.» Avrei piuttosto detto: malefico. «Non c'è in ballo solo la polizia», aggiunse. «Anche il potere religioso s'interessa al caso di Agostina.» «Quale potere religioso?» «L'unico, il solo: il Vaticano. È la Santa Sede che ha difeso Agostina. Ha inviato i suoi avvocati.» «Perché?» Il sostituto procuratore accennò un lieve sorriso: «Lo scoprirai da te». Estrasse dalla tasca un foglio piegato. Un biglietto aereo elettronico per Catania. «Ti ho preso un biglietto in business. Lo pagherai all'aeroporto. Se non ricordo male, i mezzi non ti mancano.» «Ti preoccupi del mio benessere?» «Mi preoccupo del tuo aspetto. Avrai accesso alla Caravaggio Lounge, il salone dei VIP. Ci sono le docce. Quel che ti serve per rimetterti in ordine.» Tra le sue mani si materializzò una busta. «Questa è una lettera per Michele Gepu, il capo della questura di Catania. Con lui dovrebbero aprirsi tutte le porte.» Stavo per ringraziarlo, ma Giovanni levò la mano.
«Niente effusioni. Ora, vai alle toilette. Uno dei miei uomini ti aspetta. Consegnagli la tua arma.» «Ma...» «Non abusare della mia cortesia. Conosci la regola: un solo miracolo alla volta.» Su queste parole, si alzò e mi strizzò l'occhio. «Voglio un rapporto dettagliato su tutto quello che scoprirai di nuovo», disse simulando un brivido. «Sai, sono un semplice impiegato... Le tue storie di delitti mi eccitano!» 56 Neanche sotto la doccia bollente riuscivo a riscaldarmi. Un po' come quei piatti surgelati che qualche volta ho provato a cucinare: caldi all'esterno, ma sempre ghiacciati all'interno. Nei bagni della Caravaggio Lounge mi rasai e mi cambiai d'abito. Finalmente recuperai la lucidità per riflettere sulla mia ipotesi del giorno: l'assassinio di Sylvie Simonis apriva le porte a un'altra realtà, che travalicava l'omicidio rituale. Un sapere occulto, una logica superiore che, per essere preservata, imponeva di uccidere. Ecco perché avevano tentato di eliminarmi. Luc aveva detto: «Ho trovato la gola». Ero in viaggio verso quella gola. Non sapevo cosa significasse, ma i miei inseguitori di stanotte lo sapevano di certo. In aereo, sfogliai il dossier di Callacciura. Niente di più di quello che mi aveva raccontato a voce. Il corpo di Salvatore era stato scoperto a nord di Catania, in un cantiere abbandonato. Agostina Gedda era stata arrestata a casa sua qualche ora dopo. Non aveva opposto resistenza e aveva confessato tutto subito. Sosteneva di avere rubato gli acidi all'ospedale e praticato le torture nel luogo in cui era stato rinvenuto il corpo. Gli inquirenti avevano ritrovato i flaconi, le cinghie, i residui organici. Agostina non aveva dato spiegazioni sulle tracce di morsi, sul lichene o sulla lingua mozzata, ma conosceva questi elementi. Non c'era motivo di sospettare che s'inventasse tutto. Ma perché questo omicidio? Perché tanta atrocità? Tanta complessità? L'infermiera era rimasta muta. La cartella conteneva anche i ritratti dei protagonisti. Salvatore Gedda era un giovane dall'espressione dolce, con gli occhi chiari ombreggiati da lunghe ciglia. Agostina aveva un viso dai tratti fini e regolari, incorniciato da capelli neri tagliati corti. Occhi scuri, brillanti come il fondo di un ca-
lamaio, un naso sbarazzino e una bocca a forma di fragola. Il suo ritratto era un cliché antropometrico. Eppure, la donna splendeva di una luce e di un'innocenza che contrastavano violentemente con il contesto. L'aereo iniziò la discesa. Quasi le sei. Sulla Sicilia calava la sera. Diversi viaggiatori che occupavano la fila di sedili opposta alla mia si sporgevano verso i finestrini. Alcuni filmavano, altri scattavano fotografie. Non capivo il loro entusiasmo. Nell'oscurità, Catania non doveva offrire un panorama straordinario, tanto più che la città è costruita in pietra lavica nera. Dopo l'atterraggio, passai la dogana e cercai le agenzie di noleggio d'automobili. L'agitazione che animava l'aeroporto mi parve strana. Troupe televisive raccoglievano le loro attrezzature. Pattuglie di soldati attraversavano le sale a passo di corsa. Mi ero perso qualcosa? Scelsi l'unico sportello che non era preso d'assalto dai giornalisti. Optai per un modello discreto - una Fiat Punto - e firmai i fogli che l'agente mi porgeva. «Può indicarmi un buon albergo a Catania?» gli chiesi. «Certamente.» L'uomo infilò la mano sotto il banco e prese una cartina. «Giornalista?» «Perché pensa che sia un giornalista?» «Non è qui per l'eruzione?» «L'eruzione?» L'uomo scoppiò a ridere. «Ieri l'Etna si è svegliato. È una fortuna che siate riusciti ad atterrare. Domani la pista sarà coperta di cenere. Probabilmente il suo volo sarà l'ultimo per un bel po'.» «Ma lei non sembra particolarmente inquieto.» «Inquieto? Proprio per niente, ci siamo abituati!» Però era proclamato lo stato d'emergenza. Sulla strada, i carabinieri avevano organizzato degli sbarramenti per impedire ai veicoli di prendere la direzione del vulcano. Accesi la radio e trovai un notiziario. L'eruzione di quel 28 ottobre non era un evento ordinario. Erano decine d'anni che l'attività del vulcano non raggiungeva una tale intensità. Si erano prodotte delle spaccature su due versanti contemporaneamente. Una prima eruzione sul versante nord, verso le due del mattino, aveva devastato la località turistica di Piano Provenzana, a duemilacinquecento metri di altitudine. Un'altra eruzione si era riversata sulla parete sud, avvicinandosi a un altro rifugio, sopra il paese di Sapienza. Ora si parlava di faglie gigantesche che si spalancavano su un'ampiezza di due chilometri.
Spensi la radio. Mi sembrava di sentire un sordo boato, scandito da una serie di deflagrazioni. Mi fermai sulla corsia d'emergenza e tesi l'orecchio. Era vero: dei tuoni brevi, compatti. Le detonazioni dell'Etna nelle tenebre. Potevo sentire le onde sismiche nel sottosuolo. Ripartii, affascinato più che spaventato. Secondo la cartina, mi trovavo in corrispondenza del versante sud del vulcano. Riuscivo già a scorgere il bagliore rosso di una delle faglie, oltre alle fontane e alle colate di lava incandescente che disegnavano delle scie nella notte. Quando l'Etna fu ben visibile mi fermai. Sulla strada, un susseguirsi di veicoli che correvano a tutta velocità, lampeggiatori accesi e sirene urlanti, in un'atmosfera da fine del mondo. Il vulcano innevato era sormontato da un denso alone arancione, che ricordava un gigantesco tuorlo d'uovo. Tutt'intorno, fiammelle e schizzi incandescenti screziavano il cielo, come se fossero stati lanciati con la catapulta. La lava colava sui versanti, lenta, poderosa, ineluttabile. Restai ipnotizzato. Impossibile non vedere, in questa eruzione, un presagio. Era il respiro del diavolo che mi accoglieva. Pensavo a un passo dell'Apocalisse di san Giovanni: «Il secondo angelo suonò la tromba, e cadde sul mare come una grande montagna bruciante...». Tra le esalazioni di fumo nero che si sprigionavano dal cratere, si disegnava un volto. La faccia deforme di Pazuzu, le labbra distorte da una smorfia, gli occhi iniettati di sangue. Tra gli sbuffi di vapori, l'Angelo nero ghignava e mi mostrava la lingua. Una lingua di carbone, lacerata, che leccava le fiamme del vulcano e m'invitava ad avvicinarmi fino a perdermi nel fondo del cratere. 57 L'indomani mattina, al risveglio, accesi la televisione. Non dovetti cercare a lungo per trovare notizie sul vulcano. La lava continuava la sua avanzata. La colata del versante nord era scesa fino a millecinquecento metri di altitudine, su un fronte di quattrocento metri. La pineta di Linguaglossa era in fiamme, e i Canadair gettavano acqua sugli alberi nel tentativo di contenere il disastro. A sud, il fronte lavico si estendeva per più di un chilometro. I proietti di cenere avevano imposto l'evacuazione di Sapienza. Per arginare la colata, dei bulldozer innalzavano dighe di terra ai due lati. Immagini impressionanti. Torrenti di lava incandescente colavano sulle pendici, alla velocità di diversi metri al secondo. Il magma fuso strisciava,
avanzando come un gigantesco serpente in un crepitio di vetro frantumato, provocando esplosioni e geyser di lava che illuminavano le tenebre. Erano le sette del mattino. Faceva ancora buio. Accesi la lampada accanto al letto e osservai la stanza. Uno spazio esiguo, reso ancora più angusto dai disegni della carta da parati. Il letto quasi toccava il televisore, che a sua volta sfiorava le tende della portafinestra adiacente al bagno. Uscii sul balcone. La mia camera era al quarto piano. Una superba vista sui tetti di Catania, che si risvegliava nell'azzurro dell'aurora. Le antenne e le cupole sembravano le lance e gli scudi di un esercito in marcia. Le finestre illuminate evocavano i riquadri dorati di un calendario dell'avvento. Mi accesi una Carnei e sorrisi di fronte alla bellezza dello spettacolo. Non conoscevo Catania, ma conoscevo Palermo. Sapevo che la Sicilia non è un frammento staccato dell'Italia, ma un mondo a parte, ancestrale, pieno di gravità e di silenzio. Un mondo che sa di pietra, selvaggio, autonomo, bruciato dal sole e dalla violenza. Decisi di fare colazione fuori, per familiarizzare con la città. Assemblai i pezzi della mia seconda automatica, una Clock, che avevo dovuto smontare per passare con discrezione all'aeroporto (l'arma, in polimero, sfuggiva ai metal detector), poi la riposi nella sua fondina di cordura nero. Nell'atrio della pensione, squadre di reporter erano già sul piede di guerra. I fotografi controllavano le loro attrezzature. I cameramen s'infilavano batterie nelle tasche come fossero munizioni. I giornalisti si battevano al telefono per ottenere dei lasciapassare. Fuori, in compenso, tutto era calmo. Nell'oscurità, gli ornamenti delle facciate, dei portoni, dei balconi sovraccaricavano le strette vie della città. A queste ingombranti decorazioni si aggiungevano le auto, parcheggiate l'una appiccicata all'altra, che si inerpicavano sui marciapiedi, costeggiavano i muri, assediavano i cartelli che indicavano il divieto di sosta. Trovai una trattoria con i vetri colorati. Un caffè nero ristretto e un cornetto alla marmellata mi schiarirono le idee. Prima cosa da fare: andare in Questura. Speravo che Michele Gepu mi desse informazioni precise sul caso Gedda e mi aiutasse a ottenere il permesso per un colloquio con Agostina nel carcere di Malaspina. In seguito, sarei andato a rovistare tra gli archivi dei giornali alla ricerca di articoli sull'omicidio e sul passato della donna. Ci misi almeno mezz'ora per rintracciare la mia auto nel caos delle carrozzerie e nel groviglio delle strade. Ritrovare una Fiat Punto con la targa coperta di cenere vulcanica per le vie di una città siciliana era una vera
prodezza. Finalmente, alle otto e mezzo in punto, ero al volante. Era ormai giorno. A Catania muri, marciapiedi e carreggiate tendevano tutti al nero. Si avanzava in un mondo minerale, dai rilievi attenuati, smorzati, quasi impercettibili. Di quando in quando, spuntava un giardino verdeggiante in fondo a un portico, o una Madonna dalla pittura scrostata dentro una nicchia. Pensavo a quello che avevo letto su questa città quando vivevo a Roma, sfogliando il «Corriere della Sera» o «La Repubblica». Per gli episodi di violenza, Catania vantava il primato in Italia, nonché in Europa. La mafia, con i suoi conflitti, le sue evoluzioni interne, le sue lotte per il potere, imperava sovrana. Una mattina, in piazza Garibaldi, ai piedi del monumento all'eroe nazionale, avevano addirittura trovato la testa mozzata di un uomo d'onore che non era più gradito. Il traffico cominciava a intensificarsi. Sotto il cielo basso regnava un misto di panico e indifferenza. Davanti a ogni chiesa si riunivano dei fedeli, si organizzavano processioni, si pregava per la salvezza della città. Intanto i negozianti spazzavano placidamente la cenere dalle loro soglie. Alle nove trovai la questura. Ne uscivano furgoni a tutta velocità, mentre nel cortile principale c'era un gran movimento di agenti che imbracciavano fucili ricoperti di vernice ignifuga color kaki. Mi rivolsi a una guardia, che m'indicò l'ufficio stampa, per le autorizzazioni. Gli mostrai il tesserino: volevo vedere il questore in persona. M'indirizzò verso l'edificio in fondo al cortile. Sulle scale, stessa agitazione. Uomini che si precipitavano giù per i gradini. Voci che rimbombavano sotto gli alti soffitti. Da qualche parte, una televisione a tutto volume. Si avvertiva nell'aria una tensione, una corrente di adrenalina che non risparmiava nessuno. All'ultimo piano trovai l'ufficio del questore. Nello scompiglio generale, superai non visto la postazione della segretaria e m'infilai nella porta successiva, che immetteva in un locale vasto quanto una palestra, scandito da ampie finestre. In fondo, proprio in fondo, il questore leggeva dietro la sua scrivania. Senza lasciargli il tempo di accorgersi della mia presenza, attraversai la sala a grandi falcate e tirai fuori il tesserino. Il questore alzò gli occhi. «Lei chi è? Da dove se n'è uscito?» Accento del Sud. Le parole gli rotolavano in gola. Mostrai la lettera di raccomandazione e, intanto che la leggeva, l'osservai. Largo di spalle, portava un abito blu petrolio che sembrava l'uniforme di un ammiraglio. Il suo
cranio calvo e scuro era di una solidità quasi aggressiva; gli occhi neri, sotto le folte sopracciglia, brillavano come due olive. Dopo aver letto la lettera, posò le mani pelose sulla scrivania. «Vuole vedere Agostina Gedda? Perché?» «In Francia sto lavorando su un caso che potrebbe avere dei collegamenti con questo.» «Agostina Gedda...» Ripeté il nome più volte, come se gli avessi menzionato un'altra catastrofe accaduto nella sua città. Gli occhi tornarono a scrutarmi da sotto le sopracciglia. «Ha un'autorizzazione, qualcosa, per indagare in Sicilia?» «Niente. Solo questa lettera.» «Ed è una cosa urgente?» «Urgentissima.» Si passò una mano sul viso e sospirò. «Sembra che lei non ne sia al corrente, ma l'Etna ci sta esplodendo in faccia.» «Non avevo previsto queste... circostanze esterne.» Dietro di me, la porta si aprì. Il questore reagì con un gesto d'impazienza. La porta si richiuse immediatamente. «Agostina Gedda...» riprese, gli occhi fissi sulla lettera. «Il fascicolo è a Palermo. È lì che si svolge l'istruttoria.» «Voglio solo incontrarla.» «Non mi piace questa storia.» «Non è molto simpatica, in effetti.» «È un mistero. Qualcosa di irrisolto.» «Allora, posso incontrarla o no?» Il questore non rispose. Continuava a guardare la lettera. In quei pochi istanti si era di nuovo immerso nel caso Gedda, e quel tuffo nel passato non sembrava piacergli. Alla fine sollevò le sopracciglia e prese una penna. «Vedo cosa posso fare.» «Pensa che io abbia qualche possibilità di vederla... in tempi rapidi?» Scarabocchiò qualcosa a margine della lettera. «Conosco la direttrice di Malaspina. Ma ci sono gli avvocati difensori.» «Sono più di uno?» Posò su di me i suoi occhi neri. Captai un bagliore d'indulgenza. «Ha l'aria di non essere molto informato.» «Sono appena arrivato a Catania.»
«Questa ragazza è protetta dai migliori avvocati d'Italia. Gli avvocati del Vaticano.» «Perché la curia romana dovrebbe proteggere un'assassina?» Sospirò di nuovo e posò la lettera alla sua destra, a portata di mano. Dietro di me, la porta si aprì di nuovo. Questa volta il questore si alzò. «Studi il dossier prima di andare a conoscere il fenomeno.» Attraversò la stanza con passo serrato. Degli ufficiali lo attendevano sulla soglia. «Mi lasci il suo recapito», mi disse senza voltarsi. «La chiamo in giornata. Al più tardi domattina.» 58 Le nubi erano scomparse. Nel cielo azzurro risaltava solo la zona, scurissima, del vulcano. Andai a bere un caffè, non lontano dal quartier generale dei carabinieri. Non sapevo cosa pensare delle promesse del questore. Chiamai il servizio informazioni telefoniche per chiedere l'indirizzo del principale giornale siciliano, «L'Ora». Poi ripresi l'auto e scoprii la città nella calda luce del giorno. Era pieno autunno, ma qui l'autunno era smagliante. Si spargeva sulla città scura un pulviscolo luminoso, con un effetto che faceva pensare a una spolverata di zucchero a velo su un dolce al cioccolato. Catania, città in bianco e nero, dove la lava e il sole non cessano di confrontarsi, di contrapporsi, ma anche di rispondersi, producendo perpetui riflessi, spruzzi incandescenti. Il traffico non si normalizzava. Gli sbarramenti chiudevano le vie d'accesso verso nord, i camion della manutenzione procedevano a passo d'uomo, sgombrando la strada dalla cenere. Gli ingorghi si trasformavano in spettacoli da commedia dell'arte: gli automobilisti si sporgevano per insultare i carabinieri, che rispondevano con gestacci eloquenti. Trovai la sede del giornale, in via Santa Maria delle Salette. La sua architettura suggeriva più una struttura istituzionale - palazzo di giustizia o sede del senato - che una redazione moderna. Parcheggiai dove capitava e oltrepassai l'alto portale. L'archivio era nel seminterrato. Mi diressi verso gli ascensori, scontrandomi con diversi gruppi di giornalisti che partivano al galoppo. Al piano di sotto, invece, calma piatta. Una sala con grandi superfici vetrate, tappezzata di scaffali metallici traboccanti di buste kraft. Sul bancone al centro si allineavano visori e computer per la ricerca. Lì, in quella stanza
poco illuminata, ritrovai l'atmosfera che avevo spesso respirato in altri archivi dove mi avevano condotto le mie indagini o le ricerche riguardanti le mie missioni umanitarie. Era la stessa impressione di scantinati polverosi, di segreti sopiti in cui pulsava ancora, debolmente, il cuore dei fatti di cronaca. Gli arcani dell'animo umano... Un archivista mi aiutò a orientarmi. Su ogni schermo potevo fare una ricerca per tema, per nome o per data. Il programma mi avrebbe indicato lo scaffale in cui cercare. Poi, bisognava tuffarsi nella marea di carte. Digitai il nome di Agostina Gedda. Apparve una scheda alla data del 2000. Poi, dopo qualche secondo, il computer indicò un altro anno, il 1996, poi un altro ancora, il 1984. Cosa poteva aver fatto Agostina, a soli dodici anni, per meritare una serie di articoli sull'«Ora»? Cominciai dall'inizio e trovai, tra gli scaffali, la busta del 1984. La portai al banco, poi, con un gesto, chiesi al custode seduto dietro la sua scrivania se potevo fumare. Contro ogni aspettativa, l'uomo mi rispose con un ampio sorriso. Con una sigaretta fra le labbra, aprii la busta. Conteneva diversi ritagli di giornale e fotografie di una ragazzina dall'aspetto gracile. Alcune la ritraevano in un letto d'ospedale. Già leggendo i titoli, compresi le allusioni di Callacciura e del questore. L'assassina non era una donna qualunque. Agostina Gedda era una miracolata. Una miracolata di Lourdes. «L'Ora», 16 settembre 1984 MIRACOLO A CATANIA A dodici anni guarisce in una sola notte da una cancrena mortale! La nostra città è abituata alle storie uniche, ai personaggi straordinari che fanno di Catania una delle gemme della Sicilia. La storia di Agostina Gedda ne è un esempio: succedono cose meravigliose nella nostra città! All'inizio di questa vicenda Agostina Gedda è una bambina come tutte le altre. Figlia di un falegname di Paternò, nella provincia di Catania, è una bimba dolce e giudiziosa, che ottiene buoni risultati a scuola. Ma ecco che, una domenica del febbraio 1984, tutto precipita. Giocando con altri bambini mentre i genitori sono in spiaggia a
Taormina, Agostina cade da una decina di metri e perde conoscenza. Viene immediatamente ricoverata alla Clinica ortopedica dell'Università di Catania. Ha riportato fratture alle due gambe ma nessuna ferita mortale. Agostina resta per cinque giorni in ospedale, poi torna a casa con le gambe ingessate. Dopo due settimane lamenta forti dolori. Dalle gambe stilla del pus. Torna in ospedale. I medici aprono d'urgenza i gessi. Le ferite non si sono cicatrizzate: è subentrata la cancrena. Gli specialisti parlano già di amputazione. Sofia, la madre di Agostina, si accascia per la disperazione. Il padre, invece, esige spiegazioni. I medici non possono pronunciarsi. In realtà lo sanno già: Agostina è condannata. La sua morte è questione di settimane. Anche l'amputazione è un'operazione inutile... A Paternò si costituisce un movimento di solidarietà. Si promuove una colletta, di porta in porta, per offrire ad Agostina il viaggio della speranza: un pellegrinaggio a Lourdes. Una nota associazione italiana, l'Unital6, organizza dei viaggi nella città mariana. Se i Gedda accettano, Agostina potrà essere inserita nella prossima comitiva in partenza... Il 5 maggio, finalmente, Agostina parte accompagnata dai genitori. Durante il viaggio la bambina è felice. È la prima volta che prende la nave e il treno! Tutti si prodigano, tutti le offrono qualche leccornia, tutti la colmano di attenzioni... Ma, a Lourdes, Agostina è colta dal panico. Tutti quei malati, quegli storpi che affollano le strade, quelle vetrine piene di statuette, quelle infermiere con la veletta azzurra... Non capisce: perché si trova qui? Quando la portano alle piscine, rifiuta di bagnarsi, poi si lascia convincere. Al contatto con l'acqua ghiacciata - la temperatura non supera i dodici gradi - Agostina urla disperatamente. Non resta immersa per più di un minuto. Tornata a Paternò, la bambina non guarisce. Ormai pesa solo diciassette chili. La cancrena si espande ogni giorno di più. In luglio, la famiglia festeggia il suo compleanno. Agostina ha dodici anni. Le restano solo pochi giorni da vivere. Sua madre sta già cucendo gli abiti con cui sarà deposta nella tomba. Il 5 agosto, alle otto di sera, Agostina entra in coma. Il sangue ha smesso di circolare, provocando i'anossia del cervello. Sofia
chiama subito il medico. Quando questi arriva, ha uno shock: Agostina è in piedi, si sorregge alla maniglia della porta. È riuscita a camminare fino alla cucina. La sua espressione ha già perso la livida gravità della malattia. Il medico la visita. Non c'è alcun dubbio: la cancrena regredisce. Nei giorni seguenti, a Catania, si effettuano degli esami approfonditi. La diagnosi è identica. Agostina sta guarendo. Mostra persino segni di cicatrizzazione. In una notte, la bambina è guarita da un male incurabile, senza il minimo trattamento! Per gli abitanti di Paternò, questa storia è ben nota. La notizia del miracolo si è diffusa in tutto il paese con la stessa rapidità del suono delle campane. Oggi a Catania si commenta il prodigio, mentre i media di tutta Italia se ne stanno già impadronendo. Però, nel corso di una conferenza stampa, monsignor Paolo Corsi della diocesi di Catania si è espresso con prudenza: «Gioiamo della guarigione di Agostina. È un magnifico esempio di speranza e di fede. Ma ci vorrà del tempo, molto tempo, prima che la chiesa apostolica romana si pronunci sull'effettività di un miracolo...». Agostina ha ripreso un'esistenza normale. È anche tornata in classe per l'inizio dell'anno scolastico, a settembre, come qualunque altra bambina della sua età. Ma nessuno ha mai dimenticato che questa bimba reca l'impronta di un'esperienza unica. Cattolici o non cattolici, si è costretti a constatare che poche settimane dopo il pellegrinaggio a Lourdes si è verificata una guarigione inspiegabile. Anche i più scettici dovranno trarne delle conclusioni! Mi accesi un'altra sigaretta e riesaminai le fotografie. Agostina a undici anni e mezzo nel suo letto d'ospedale. Agostina sulla sedia a rotelle, circondata dal comitato di solidarietà di Paternò. Agostina tra un lungo corteo di malati, a Lourdes... L'infermiera è stata proprio una buona cliente per i giornalisti dell'«Ora». Miracolata a dodici anni, assassina a trenta: decisamente poco banale... Dopo una lunga boccata riflettei. Dietro la contraddizione dei fatti, intuivo una logica interna. Era impossibile che due avvenimenti così antitetici fossero il puro frutto del caso. Passai alla seconda busta: aprile 1996.
«L'Ora», 12 aprile 1996 FINALMENTE RICONOSCIUTO IL MIRACOLO DI AGOSTINA! Dopo una perizia durata dodici anni, Agostina Gedda è stata riconosciuta dalla diocesi di Catania e dalla Santa Sede come un'autentica miracolata Era da quasi dodici anni che attendevamo questa notizia. Nessuno, in Sicilia, ha dimenticato la storia di Agostina Gedda, guarita in una notte da una cancrena mortale dopo un pellegrinaggio a Lourdes. Tutti i catanesi avevano gridato al miracolo, ma i membri della chiesa cattolica si erano mostrati cauti. Monsignor Corsi, arcivescovo di Catania, aveva avvisato: «Dobbiamo essere molto prudenti. La chiesa non vuole dare false speranze ai fedeli. E le questioni mediche non rientrano tra le competenze della chiesa. Per pronunciarci dobbiamo fare appello ad altri specialisti, le cui perizie richiederanno degli anni». Non meno di dodici anni: è questo il tempo che c'è voluto perché un comitato di esperti internazionali, designati dalla Santa Sede, poi una commissione del Vaticano deliberassero finalmente sul miracolo. In primo luogo, la guarigione è stata attestata non solo da un ospedale di Catania ma anche dall'Ufficio delle constatazioni mediche di Lourdes. Il dottor Bucholz, responsabile dell'Ufficio, spiega: «Prima di proclamare l'esistenza di una "guarigione improvvisa e inspiegabile", dobbiamo accertare la natura incurabile della malattia e l'assenza di terapie in corso. Dopo che la persona sembra guarita, aspettiamo diversi anni per essere sicuri che il risanamento sia definitivo. Allora e solo allora, in collaborazione con la chiesa, sottoponiamo la documentazione a un Comitato medico internazionale, che riunisce una trentina di medici, neurologi, psichiatri di ogni nazionalità, cattolici e non cattolici. Al termine di uno studio approfondito, questi specialisti decidono se ammettere o non ammettere la natura inspiegabile della guarigione». Dopo che i medici hanno riconosciuto i fatti, la Santa Sede ha ripreso il dossier e si è occupata della componente spirituale della vicenda. Monsignor Perrier, vescovo di Lourdes, commenta: «Per
la chiesa, la guarigione fisica è solo uno degli aspetti del miracolo. È la manifestazione esteriore di una guarigione più profonda, che interessa il piano spirituale. Ecco perché seguiamo sempre l'evoluzione psicologica della persona guarita. Ad esempio, rifiuteremmo il caso di qualcuno che volesse trarre dei guadagni dalla sua esperienza o che non manifestasse alcuna fede dopo la guarigione. Nella maggioranza dei casi, i miracolati hanno un percorso spirituale ineccepibile, e ciò dimostra che hanno anche raggiunto uno stato superiore». Agostina Gedda corrisponde a questo profilo. Con il passare degli anni, la bambina è diventata un'infermiera, e non ha mai smesso di recarsi a Lourdes per aiutare i malati e i pellegrini. È opinione di tutti che Agostina sia una creatura infinitamente dolce, che continuamente si prodiga per il prossimo. Quando la si incontra si resta colpiti soprattutto dalla sua discrezione e dalla sua umiltà. Oggi, a ventiquattro anni, emana un'autentica luce interiore. Abita ancora a Paternò, e divide la sua vita con il marito Salvatore, che lavora nei cantieri elettrici. La coppia conduce un'esistenza semplice, in un modesto appartamento in affitto tra le case popolari del CEP (Consorzio edilizia popolare). Ora che il suo miracolo è stato ufficialmente riconosciuto, come vive Agostina l'idea di essere un'eletta del Signore? Sorride, quasi confusa: «La mia guarigione non è stata un caso, ma al tempo stesso nulla può spiegare questo intervento divino. Ero una bambina come tante altre. Pregavo a malapena e avevo una visione molto ingenua della religione. Ho riflettuto molto su questo mistero. Credo che, in fondo, la mia storia sia coerente con le Sacre Scritture. Ero una persona comune, anonima tra gli anonimi. E credo sia proprio per quello che la Vergine Maria mi ha scelto. È stata salvata una bambina, tutto qui». La donna dai due volti. Un titolo da film. Metà angelo e metà demone. Come si spiega che Agostina, eletta da Dio, sia diventata la folle carnefice di suo marito? Provai ancora una strana sensazione. Da un lato, questi due fatti non collimavano: totalmente antitetici. Dall'altro, tra il miracolo e l'assassinio doveva esistere un legame, ancora da scoprire... Per ora, rilevai soltanto un accenno di risposta a una domanda antica:
l'Unital6. Perché Luc si interessava a questa associazione che promuoveva pellegrinaggi? Perché Agostina aveva viaggiato con questa fondazione. Ne era anche diventata un'assidua volontaria. Cosa cercava Luc dentro questa organizzazione? Passai alle fotografie contenute nella busta. Agostina, a quindici o sedici anni, che faceva l'inchino a papa Giovanni Paolo II. Agostina, a vent'anni, che spingeva una sedia a rotelle tra la folla di Lourdes, indossando la veletta azzurra delle volontarie della città mariana. Infine, Agostina al lavoro: il camice bianco e un delicato sorriso. Una santa. Un esempio di umiltà, che profondeva la sua gentilezza e la sua compassione nel corso di una quotidianità senza storia. Era l'una. Ancora niente da Michele Gepu, il questore. Ero solo in quella vasta sala, sprofondato negli abissi del passato, al riparo dal presente: dall'eruzione, dallo stato di emergenza che crepitava sopra la mia testa... Tornai tra gli scaffali e prelevai la busta «2000». Niente di nuovo. Il corpo di Salvatore rinvenuto in un cantiere. Agostina arrestata a casa sua. La sua confessione immediata, ma senza una parola sul motivo del suo atto. Un'istruttoria come questa avrebbe dovuto concludersi in fretta. Eppure Agostina era ancora in attesa di giudizio. La procedura sembrava interminabile. Immaginavo che i suoi difensori - i famosi avvocati della Santa Sede - ci avessero messo lo zampino. C'erano altre fotografie: il corpo così com'era stato rinvenuto. Conoscevo quelle di Sylvie Simonis, ma anche queste non erano male. Arti rosicchiati fino all'osso. Bacino brulicante di larve. Torso crivellato di piaghe. Crocifisso in bocca. Le squadre di periti, tutti con la mascherina, sembravano titubanti di fronte al fetore del cadavere. Alzai lo sguardo. L'archivista seguiva gli sviluppi dell'Etna, incollato a un piccolo televisore. Discretamente, feci scivolare qualche fotografia sotto il cappotto. In guerra tutto è concesso. Una fotografia del corpo torturato; la foto segnaletica di Agostina; e un'altra foto in cui la donna aveva l'aria di un angelo sotto la sua veletta azzurra. Sistemai le buste in ordine cronologico, disponendole sul banco. Con un gesto della mano salutai il custode. Ora volevo andare a Paternò. 59 Il CEP era un quartiere di edifici ad affitto contenuto raggruppati in
blocchi di quattro. Negli anni Cinquanta i quartieri di case popolari erano fioriti in tutta Italia. Una tale espansione mi faceva pensare a un'eruzione vulcanica che fossilizzava tutto al suo passaggio, come a Pompei. Qui il cemento aveva pietrificato la miseria, la disoccupazione, l'isolamento delle classi più svantaggiate. Facciate dall'intonaco sporco, giardini che somigliavano a terreni incolti, orti che confinavano con parcheggi dove arrugginivano carcasse di automobili abbandonate, alberi scheletrici che circondavano decrepite aree di gioco. Continuai per la mia strada, incrociando lampioni spezzati, campi da calcio spelacchiati. Non era un quartiere in abbandono, privo di futuro. Era un mondo in cui la morte costituiva una condizione perpetua. L'unica prospettiva per l'avvenire. Vidi una cappella costruita in prefabbricato, con un tetto di lamiera ondulata, che confinava con una discarica pubblica. Immaginai gli abitanti del quartiere che si recavano lì a pregare per la guarigione di Agostina, e che facevano collette per il suo viaggio a Lourdes. L'immagine fece scattare un ricordo. Le parole di Agostina nell'intervista: «Ero una persona comune, anonima tra gli anonimi. E credo sia proprio per quello che la Vergine Maria mi ha scelto». Allo stesso modo, non poteva esistere un quartiere migliore per accogliere la storia di Agostina. Perché niente, assolutamente niente, distingueva Paternò. In questi luoghi si toccava con mano l'essenza della tradizione cattolica: quella della nascita nella stalla, delle elemosine e dei piedi nudi. Quella che proclama che «coloro che hanno fame saranno saziati», che «coloro che piangono saranno consolati» e che promette che la miseria sulla terra aprirà la via alla felicità celeste. Trovai la casa di Agostina: palazzina D, scala A - il suo indirizzo era scritto in basso nella foto segnaletica. Scesi dall'auto. Ero venuto per respirare quei luoghi: capii subito che era l'ultima cosa che potevo fare. L'atmosfera era soffocante. Un violento odore di zolfo impestava l'aria. Dall'edificio spuntò un uomo con il viso avvolto in una sciarpa. Mi premetti il collo del cappotto sulla bocca e corsi verso di lui. Gli chiesi cosa stesse succedendo. «Sono le salinelle!» rispose senza togliere la sciarpa. «Pozzi di fango salino che circondano il nostro quartiere. Quando ci sono delle eruzioni escono gas dappertutto. Sono un po' i nostri piccoli vulcani personali! Li conosciamo qui nella zona!» Scattai rapidamente qualche fotografia e tornai in macchina, cercando
riparo dalle esalazioni. Mi fermai vicino a un piccolo parco giochi deserto, a qualche isolato di distanza, dove l'odore era meno insopportabile. Da una barra di ferro pendevano delle vecchie altalene. Al suono delle catene che cigolavano nel vento, ripresi le mie riflessioni. Il miracolo di Agostina: non ero sicuro di crederci. Istintivamente, diffidavo delle manifestazioni divine di carattere spettacolare. Dopo il Ruanda, ero l'adepto di una fede austera, solitaria, responsabile. Dio non interviene sulla terra. Ci ha lasciati con gli strumenti per affrontare il nostro viaggio. Ci ha donato il suo messaggio, insieme alla libertà di camminare fino a lui. Spetta a noi resistere alle tentazioni, sfuggire alle tenebre. In parole povere, dobbiamo cavarcela da soli. È questa la nostra grandezza: la possibilità di cooperare alla creazione di noi stessi. Ecco perché diffido degli interventi soprannaturali. Il Signore che improvvisamente sceglie un eletto e compie un prodigio? Questa cosa è estranea al senso della dottrina cristiana. L'unico miracolo che può verificarsi, nella nostra realtà quotidiana, è l'ascesa della creatura mortale verso Dio. Solo la fede può permetterci di superare la nostra condizione. D'altronde, è proprio questo che interviene in una guarigione del genere. Lo spirito umano si mostra più forte della materia: ed è già molto. La vicenda di Agostina era un altro problema. L'omicidio che aveva commesso - o che dichiarava di avere commesso - cambiava tutto. Un miracolo è sempre la storia di un'anima salvata. Intuivo perché il Vaticano avesse delegato i suoi avvocati. Non era per dimostrare la sua innocenza Agostina si professava colpevole - ma per limitare i danni. Il rumore intorno alla faccenda. La Santa Sede aveva commesso un errore madornale dichiarando ufficialmente miracolato un simile mostro. Bisognava mettere a tacere lo scandalo. Calava la sera. I prati scivolavano nel buio, il quartiere svaniva nell'oscurità. E ancora nessuna notizia di Michele Gepu. Congelato dalla testa ai piedi, decisi di raggiungere l'auto e fare un po' di telefonate. Prima Foucault. «Novità?» esordii. «Nessuna. Le ricerche sugli omicidi a livello internazionale non hanno dato frutti. Per ora. Bisogna aspettare.» «E gli entomologi, nel Jura?» «Niente di niente.» «Vacci piano con il Jura.» Pensavo a Sarrazin e alla sua suscettibilità. «Hai verificato se esistevano legami tra l'Unital6 e Notre-Dame-de-
Bienfaisance?» «Sì. E non ho trovato niente.» «Indaga ancora sull'Unital6. I loro pellegrinaggi, i loro seminari.» «Cosa devo cercare?» «Vedi un po' tu. Trova la lista dei viaggi, la loro frequenza, i prezzi. Vai a fondo, insomma!» Avevo detto queste cose senza entusiasmo, e Foucault doveva essersene accorto. «In ufficio? Tutto bene? Le acque sono calme?» chiesi. «Più o meno. Dumayet mi ha fatto il terzo grado su di te.» La sera prima le avevo mandato un semplice SMS dicendo che prolungavo le mie «vacanze». Un messaggio di quel genere richiedeva delle spiegazioni a voce. Ma non mi ero azzardato a chiamarla quel giorno. «Cosa le hai detto?» «La verità. Che non avevo la minima idea di cosa stessi combinando.» Salutai il mio vice e chiamai Svendsen, per avere notizie del lichene, dello scarabeo e anche delle ricerche di altri corpi decomposti. Il medico legale non mi aveva dato alcun segno di vita. Quindi non fui sorpreso quando mi annunciò che i botanici erano ancora al lavoro, senza risultati. Si consultavano immensi cataloghi di essenze e di ceppi. Sullo scarabeo, gli esperti avevano confermato il verdetto di Plinkh e avevano fornito la lista dei siti di allevamento. Nessuno di questi era vicino alle valli del Jura. Per quanto riguardava i corpi, lo svedese aveva fatto delle telefonate. Invano. Aveva diffuso un messaggio a tutti gli obitori. Le risposte non erano ancora arrivate. Gli chiesi se fosse possibile estendere ricerche di quel genere su scala europea. Svendsen brontolò, ma non era un rifiuto categorico. Sapevo che si sarebbe dato da fare. Poi chiamai Facturator. Le notizie non erano buone. L'intestatario del conto svizzero andava personalmente a prelevare il contante. Non c'erano mai stati versamenti nominativi a favore di un altro conto corrente. Chi incassava queste somme? Nel nuovo contesto che si stava profilando, la mia ipotesi del detective non reggeva più. A chi versava i soldi, Sylvie? La ricattavano? Si dedicava a donazioni per alleggerirsi la coscienza? Non c'era modo di saperlo, perlomeno non un modo alla mia portata. Ultima telefonata, a Sarrazin. Avevo già un giorno di ritardo rispetto al nostro accordo. Il gendarme mi aveva lasciato due messaggi. «Cosa vuol dire?» sbottò. «Hai messo un altro poliziotto sul caso?»
Era la prima volta che mi dava del tu. «Di che parli?» risposi sullo stesso tono. «Degli entomologi. Mi hanno detto che un altro poliziotto di Parigi ficcava il naso nella faccenda. Attento, Durey. Gioca leale con me, sennò...» Diedi un taglio alla sua sfuriata spiegandogli che, in effetti, uno dei miei collaboratori stilava l'elenco degli entomologi del Jura. Quelle ricerche erano iniziate prima del nostro accordo. Gli avevo giusto dato l'ordine di fermare tutto. Sarrazin si calmò. «E tu? Hai novità in quella direzione?» chiesi. «Niente. Sono ripartito da zero. Ma non ho ottenuto nulla. Qualche appassionato nella regione e basta. Studenti, pensionati. Niente che corrispondesse al profilo.» Di nuovo in un vicolo cieco. Eppure, mi tornavano sempre in mente le parole di Plinkh: «È qui, mi creda. Vicinissimo a noi. Posso sentirne la presenza, con i suoi squadroni, in qualche parte delle nostre vallate». Bisognava cercare. Cercare ancora. Sarrazin mi chiese se ne avevo io di novità. Rimasi sul vago. In fondo, non volevo condividere le mie informazioni con il gendarme. Ero frenato da una diffidenza inspiegabile. Forse era l'equazione di Chopard: la legge del 30 per cento... Promisi di richiamare l'indomani. Girai per la città fino all'ora di cena. Nell'oscurità della sera le arterie di lava assumevano un aspetto funebre e imponente. I vicoli si aprivano come faglie nella roccia, rivelando i loro misteri, i loro tesori. Catania, la città nera, si svegliava sotto i lampioni, vibrante, lucida, luminosa, come un nottambulo che si sveglia in piena forma all'ora in cui tutti gli altri vanno a dormire. Cercai invano un ristorante giapponese - riso, tè verde, bacchette. Alla fine cenai in una pizzeria, da solo con il mio cellulare che rifiutava di suonare. Estraniandomi dai rumori di coltelli e forchette attorno a me, mi concentrai su altre sensazioni. Profumo di acciughe, pomodoro e basilico. Arredamento in legno scuro, decorato da conchiglie e da velieri imbottigliati che ricordavano il rifugio di un marinaio. Donne vestite di velluto e camoscio, sulle gradazioni del bruno, come deliziosi marrons glacés. Uscii dal ristorante alle otto. Gepu non chiamava. L'impazienza di incontrare Agostina mi torceva i nervi. Sentivo che alla prigione di Malaspina avrei trovato un elemento cruciale. O almeno lo speravo. Un'intuizione, una luce su questo labirinto incomprensibile. Tornai in albergo. Televisione. L'Etna sempre al centro dell'attenzione.
Le fontane di lava continuavano a sgorgare, a nord come a sud, e cominciava a dilagare il panico, specialmente nei paesi a sud: Giarre, Santa Venerina, Zafferana Etnea... Migliaia di persone venivano evacuate, fra processioni e preghiere. Quest'eruzione era infinitamente più violenta di ogni altra. Bisognava avere paura? Temere la collera del vulcano? Ancora una volta vedevo un presagio in questa atmosfera. Il diavolo mi aspettava da qualche parte tra i solchi del cratere. Tirai fuori il portatile e il cavo di alimentazione. Volevo fissare le riflessioni del pomeriggio e mettere in formato digitale le fotografie. Finalmente, il cellulare vibrò. Mi precipitai. «Pronto?» «Gepu. È per domani. L'aspettano a Malaspina alle dieci.» «Non avrò bisogno di un'autorizzazione firmata?» «Nessuna autorizzazione. La cosa dev'essere fatta con discrezione.» «Non ha avvisato gli avvocati?» «Cosa? Vuole aspettare un mese?» «La ringrazio.» «Non c'è di che. Agostina le piacerà. Buona fortuna!» Stava per riagganciare quando dissi: «Volevo chiederle... Un'ultima cosa. Sa dirmi se esistevano delle prove materiali contro Agostina?». Gepu scoppiò a ridere. «Sta scherzando? Sul luogo del delitto c'erano le sue impronte dappertutto!» 60 Lastre di roccia che luccicavano al sole, come specchi agitati da due mani invisibili. Cumuli di pietre che disegnavano lividi totem. Pianori sterili, violati dall'insostenibile splendore del cielo. Cento metri più in basso, ai piedi della falesia, il mare sfavillava in miriadi di lame che ferivano la retina per la violenza del bagliore. Tutto il paesaggio vibrava. Abbassai il parasole e tentai di scorgere l'estremità della strada che si perdeva tra la bruma arida. Erano le nove passate. Avevo perso tempo all'uscita di Catania. Alla fine della notte, la città si era risvegliata nelle tenebre. La famosa pioggia nera. Le strade erano coperte da uno spesso strato di cenere. I bulldozer tentavano di sgombrare le vie e bloccavano la circolazione. Fuori città era ancora peggio. Bisognava tenere in funzione i tergicristalli. Il fondo stradale era scivoloso come una pista da pattinaggio,
e si moltiplicavano gli sbarramenti. A quaranta chilometri da Catania ero uscito da quell'inferno, come un aereo che si divincoli dalle nubi di un temporale. Adesso ero in ritardo. Secondo la cartina, dovevo ancora seguire la costa per venti chilometri, poi prendere la direzione nordovest. Incrociavo piccole case, catapecchie aggrappate alle colline, talvolta dei paesini perduti tra gli anfratti della pietra. Altrove c'erano costruzioni abbandonate, che già sembravano delle rovine. L'Italia del Sud si era specializzata in quei cantieri nati morti, meri pretesti per ogni genere di intrallazzi immobiliari. Voltai a sinistra e m'inoltrai tra quelle terre. Non c'erano cartelli che segnalassero la prigione di Malaspina. Il paesaggio stava cambiando. Il deserto cedeva il passo a una pianura monotona, irta di giunchi e sterpaglie ingiallite, che ricordava una palude disseccata. Quelle lingue di terra evocavano uno sfinimento e un senso di abbandono che mi filtravano sotto le palpebre fino a ipnotizzarmi. Mi pizzicavano gli occhi quando apparve, finalmente, il nome di Malaspina. Improvvisamente, la strada diventò un sentiero non asfaltato. Forse non avevo notato una curva, un'indicazione. Ritorno al deserto. Altro cambiamento di scena. Ora dei picchi rocciosi si ergevano come sculture spezzate, le colline mordevano l'orizzonte, rose a loro volta da una luce troppo viva. Non erano ancora le undici e le ombre cadevano già nette, piantate nella terra secca. Tutto diventava lunare, arido, screpolato. Cominciavo a dubitare di avere preso la strada giusta quando apparve, appena visibile, il carcere. Un rettangolo di tre piani, come schiacciato ai piedi dei versanti. La strada continuava, sempre dritta, e finiva davanti alla prigione. Non c'erano altre vie, né per entrare, né per uscire. Posteggiai. Come scesi dall'auto fui investito dal vento e dalla polvere. Il calore del sole e le raffiche invernali si annullavano a vicenda per offrire una temperatura neutra, né calda, né fredda. In bocca, il sapore della cenere. Il viso punto dai granelli di sabbia. Le gambe che inciampavano contro sterpi sradicati. Inforcai gli occhiali da sole. Mi guardai intorno, e il mio sguardo si fermò su un punto. Non credevo ai miei occhi. Su un piccolo poggio si stagliavano tre sagome nere. Piuttosto dei fantasmi di sagome, liquefatte nell'aria densa. In mezzo al deserto, quegli uomini mi osservavano. Delle guardie? Portai la mano alla fronte a mo' di visiera e strizzai gli occhi. Erano dei preti. Tre tonache nere agitate dal vento, tre colletti bianchi sormontati da facce livide, senza età, abitate
dalla morte. Chi erano queste figure inquietanti? Mi voltai: il portone del carcere si stava aprendo sferragliando, proiettando un'ombra triangolare nella mia direzione. Lanciai un'ultima occhiata ai preti: erano scomparsi. Avevo sognato? Corsi verso la porta, temendo che la richiudessero prima che potessi entrare. Tutte le prigioni si assomigliano. Un muro di cinta compatto, traforato solo da feritoie, torrette sormontate da sentinelle, fregi di filo spinato o lamette da barba in cima ai muri. Il penitenziario di Malaspina non faceva eccezione alla regola, reso ancora più opprimente dal deserto. Lasciai il mio nominativo all'ingresso e passai diversi controlli, percorrendo corridoi neutri, incrociando degli uffici. L'unica nota originale erano i colori delle sbarre, delle inferriate, delle porte. Giallo, rosso, blu, tutti stinti, tutti scrostati, che tentavano di rallegrare l'ambiente, ma tradivano il tedio e l'usura che pretendevano di mascherare. Mi fecero attendere in un atrio, vicino a un cortile protetto da una doppia inferriata. Attraverso le maglie, riuscivo a scorgere le prigioniere che camminavano a braccetto, probabilmente verso la mensa. In tuta da ginnastica, avevano l'atteggiamento rilassato di una domenica passata in casa, una domenica che durava anni. Procedevano a capo chino, rimuginando le stesse riflessioni e le stesse confidenze del giorno prima e del giorno dopo. Anche il riquadro del cielo era chiuso da una rete metallica. Nelle prigioni il cortile non è un'apertura ma una messa a fuoco. Serve solo a ricordare ciò che si è perso. Dei passi. Una donna con un'uniforme verde oliva veniva verso di me, un grosso mazzo di chiavi appeso alla cintura. «È in ritardo», mi disse prima ancora di essermi vicina. Poi si presentò, ma non afferrai né il suo nome né il suo ruolo. Ero colpito dalla sua sensualità. Una bruna dalla carnagione olivastra, bocca carnosa, sopracciglia folte, che emanava vere e proprie onde magnetiche. Sarà stato per le sue forme, chiuse nell'inviolabile uniforme, o per il suo viso di una ruvida bellezza e gli occhi dai riflessi dorati, ma fui colto da vertigine. Quelle sopracciglia, quei tratti selvaggi, erano come delle promesse, il preludio a un pube ampio e soffice. Immaginavo il suo corpo color tabacco biondo, con le areole nere dei seni e il triangolo scuro del sesso. Ce n'era abbastanza da perdere la testa. «Scusi, come ha detto?» «Sono la direttrice. La ricevo perché conosco Michele Gepu, e perché mi fido di lui.»
«Agostina Gedda è d'accordo sul nostro incontro?» «Lei è sempre d'accordo. Adora mostrarsi.» «Quanto tempo mi concede?» «Dieci minuti.» «È troppo poco!» «È ampiamente sufficiente per farsi un'idea del personaggio.» «Com'è?» La direttrice abbozzò un sorriso. Una fitta dolorosa mi colse al basso ventre. Un desiderio di rara violenza. «Posso solo darle un consiglio», rispose, con la voce roca che spesso hanno le italiane. «Sarebbe?» «Non ascolti le sue risposte. Non si deve mai ascoltarla.» Il suo consiglio suonava assurdo: ero qui per interrogare Agostina. «È una bugiarda», aggiunse. «Il diavolo è bugiardo.» 61 Il parlatorio. Una grande stanza dalle pareti spoglie, con tanti piccoli tavoli e sedie da scuola, anch'essi colorati e stinti. In alto, lucernai aperti sulla luce di mezzogiorno. Gli unici ornamenti erano un crocifisso appeso alla parete, un orologio e un cartello che proibiva di fumare. Il locale era deserto. La guardiana sbarrò la porta dietro di me. Rimasto solo, camminai avanti e indietro per ingannare l'attesa. Sotto i piedi sentivo una strana morbidezza. C'era della sabbia sul pavimento: ne notai degli strati sottili accumulati agli angoli delle finestre e delle pareti. La polvere filtrava all'interno del locale dalle fessure di un'altra porta chiusa, che doveva dare direttamente sul deserto. Rumore di chiavistelli. Dei passi. Mio malgrado, strinsi i pugni: non dovevo perdere il mio sangue freddo. Contai fino a cinque prima di voltarmi. La secondina richiudeva già la porta. Agostina, vestita di un camiciotto azzurro cielo, si stava sedendo, docile e ben diritta. Non sapevo esattamente a cosa mi ero preparato, ma certo non a questa irradiazione così forte, così potente. Agostina risplendeva come una santa. Mi avvicinai, e sentii un calore confortante. Come se la donna fosse stata toccata da una fonte indicibile di cui si avvertiva ancora l'impronta. Era il
segno del miracolo che l'aveva salvata? Lottai contro queste impressioni. Ero venuto a interrogare l'assassina di Salvatore Gedda, non un'eletta del Signore. Scostai una sedia e mi sedetti. Un ricordo mi attraversò la mente. Le parole degli scettici, all'epoca delle apparizioni di Bernadette Soubirous. I funzionari, i poliziotti che rifiutavano di credere alle rivelazioni si erano inchinati quando avevano visto la giovane donna: «Il suo viso è come il segno esteriore del suo incontro divino, un riflesso...». Eravamo seduti faccia a faccia. Agostina Gedda sorrideva. Sembrava più giovane di quanto apparisse nelle fotografie: non più di venticinque anni. Esile, minuta, tradiva una certa fragilità. In compenso, i suoi tratti erano nettamente disegnati. Occhi neri, scintillanti, all'ombra di alte sopracciglia. Naso all'insù, come una virgola sbarazzina. Bocca rossa, ben delineata, un piccolo frutto posato in una coppa di gelato. Il suo incarnato pallido era accentuato dai capelli neri, tagliati corti, che disegnavano una cornice intorno a questo quadro delicato. Aprii la bocca, ma Agostina mi anticipò. «Come si chiama?» La voce era flebile, dolce, ma sgradevole. Risposi in italiano. «Mi chiamo Mathieu Durey. Sono un poliziotto della Squadra criminale di Parigi.» «Una novità», disse con una smorfia divertita. «Di solito vengono a trovarmi solo dei preti.» Le feci scivolare davanti la fotografia di Luc. Volevo ottenere prima di tutto una certezza. «Non sono il primo poliziotto francese a venire qui. Ha visto quest'uomo, vero?» «Nel suo caso era diverso. Lui non s'interessava a me.» «Chi è che lo interessava?» Un sorriso le si disegnò sulle labbra. «Lei lo sa benissimo.» Davanti ai miei occhi sfilarono delle immagini. Pazuzu e il suo muso da pipistrello. Un angelo dalla testa di fauno, con grandi ali spezzate. L'uomo in redingote e cilindro, con gli occhi iniettati di sangue. Una colonna sonora di cani ringhianti, un ronzio furioso di api. Mi schiarii la voce. «Posso farle qualche domanda?» «Dipende dall'argomento.» «Il delitto dell'aprile 2000.»
«Ho già detto tutto ai poliziotti, agli avvocati.» «Facciamo così. Io la interrogo. Lei risponde solo quando vuole. D'accordo?» Un piccolo cenno di assenso. Il vento ruggiva intorno a noi. Un lungo lamento, lugubre, animale. Immaginavo la polvere che penetrava nella stanza per seppellirci vivi. «Suo marito è stato ucciso in circostanze singolari. È stata lei a ucciderlo?» «Eviti le ovvietà. Risparmieremo tempo.» «Cosa l'ha spinta a confessare questo crimine?» «Non avevo niente da nascondere.» Agostina sembrava a suo agio. Le sue risposte lasciavano intuire che non era tesa. Decisi di sottoporla a un vero interrogatorio, di quelli duri, come se Agostina si trovasse davanti a me in stato di fermo. «Questo delitto è particolare. Non parlo di morale, né di movente. Parlo del metodo. Personalmente, non credo che lei avesse le conoscenze necessarie né i mezzi tecnici per organizzare un simile sacrificio.» «Questa non è una domanda.» «Come si è procurata gli acidi?» «In ospedale. È tutto nel dossier.» «Gli insetti?» «Ho prelevato le uova e gli insetti dalle carogne. Dalle carcasse di animali che trovavo nelle discariche di Paternò e di Adrano.» «C'era un lichene sotto la cassa toracica della vittima. Dove l'ha trovato?» «Nelle grotte delle falesie, vicino ad Acireale. È molto diffuso qui.» Mentiva. Quel lichene era molto più raro di un semplice fungo. C'era poi lo scarabeo africano, ma rinunciai a parlarne. Certamente aveva anche per quello una risposta bell'e pronta. «Il corpo presentava diversi stadi di decomposizione, cosa che implica delle tecniche di conservazione distinte, e complesse. Come ha fatto?» «Era aprile. Faceva freddo sul cantiere. Bastava riscaldare certe parti del corpo e lasciare le altre esposte alla temperatura esterna.» Agostina non smetteva di sorridere. «Perché scegliere delle tecniche così complicate?» «Prossima domanda?» «Non vuole rispondere?» «Era il nostro accordo. Prossima domanda.»
Le guardai le mani: avevano lo stesso candore del viso. Sottili vene azzurre correvano sottopelle. Non riuscivo a immaginare quelle dita che infierivano sul corpo di Salvatore, o che gli tagliavano la lingua. «Perché questo omicidio? Qual era il motivo?» «Perché dovrei risponderle?» chiese disinvolta. «Non ho mai detto niente a questo proposito. Né ai poliziotti, né ai giudici, e nemmeno ai miei avvocati.» Il vento continuava a gemere. Pensai a Luc, e tentai di incastrarla con un bluff. «Non ha scelta. Ho trovato la gola.» Scoppiò a ridere. Una risata convulsa, che terminò in un suono roco, profondo. «Stai mentendo. Se fosse vero, non saresti qui a farmi le tue domande da sbirro di periferia.» Malgrado il suo sarcasmo e l'arroganza nel darmi del tu, sentivo di aver segnato un punto. Agostina sapeva che procedevo a tastoni, ma il temine «gola» provava che stavo seguendo una pista diversa da quella della polizia di Catania. L'unica pista valida, quella che non capivo ancora. «L'ho fatto perché dovevo vendicarmi», mormorò. «Di chi? Di Salvatore?» Annuì più volte con il capo, con entusiasmo, come fanno i bambini per rispondere a un'offerta golosa. «Cosa le aveva fatto?» «Mi ha assassinata.» Salvatore nei panni del marito violento. Salvatore che picchia a sangue la moglie. Agostina che giura di vendicarsi e di eliminare il marito. Non avevo mai letto neanche una riga, neanche un'allusione a fatti di questo genere. E quando ci si vendica di un marito violento, si scelgono metodi più rapidi. «Mi racconti.» Agostina mi osservava con i suoi occhi intensi. Granelli di sabbia volteggiavano nell'aria e mi s'incollavano alla faccia madida di sudore. «Mi ha assassinata quando avevo undici anni.» «Quando è caduta dalla falesia?» «Sì. È stato lui a spingermi.» Salvatore nei panni di un bambino omicida. Un ragazzino che spingeva una coetanea nel vuoto, a sangue freddo. Impossibile. «Salvatore era brutale... nervoso... imprevedibile. Stavamo giocando,
sull'orlo del precipizio. Tutt'a un tratto mi ha spinta. Così, tanto per vedere cosa succedeva.» «Non ne ha mai parlato dopo l'incidente.» «Non me ne ricordavo.» «E ha sposato Salvatore?» «Le ho detto che non me ne ricordavo.» «Chi le ha risvegliato il ricordo?» «Vuoi davvero saperlo, ragazzo2 ?» Di nuovo, il muso rincagnato del demonio. Un angelo caduto, malvagio, subdolo, che sussurra questa rivelazione alla ragazza per meglio ispirare la sua vendetta. Non mi restava molto tempo. Tre minuti di orologio. Quando tornai a guardare Agostina, la sua bocca era distorta in un sorriso atroce, depravato. Gli angoli delle labbra ripiegati in senso opposto, uno verso l'alto, l'altro verso il basso. Tossii e decisi di stare al suo gioco. «È il diavolo che le ha spifferato la verità, non è così?» «Sì, è venuto lui, in fondo alla mia anima...» Fece scivolare la mano sotto la camicia e si accarezzò i seni. Ebbi la sensazione che un freddo terribile invadesse la stanza. «È il suo ispiratore?» Il freddo, e anche un odore denso, nauseabondo, putrido. Abbassò la mano e se la passò tra le gambe. «È stato un sogno...» mormorò. «Me l'ha ordinato, sì, ma il suo ordine era una carezza... Una gioia. Da quanto tempo non scopi, ragazzo?» «Ed è stato lui a suggerirle il metodo?» All'improvviso, Agostina trattenne il fiato, poi espirò lentamente, come se avesse toccato un punto sensibile, nel profondo della sua intimità. I suoi occhi si allungarono come quelli di una volpe. Riprese i movimenti della sua masturbazione. La temperatura sembrava abbassarsi sempre più. E il fetore aumentava. Un tanfo di acque putride, di uova marce, ma anche di ruggine. Qualcosa tra gli escrementi e il metallo. Solo due minuti. «Lei è una miracolata», dissi stringendo i denti. «La sua guarigione, fisica e spirituale, è stata riconosciuta dalla chiesa apostolica romana. Perché Satana avrebbe dovuto venire proprio da lei?» Agostina non rispose. L'odore era soffocante. Lottavo contro la sensazione di una presenza in mezzo a noi, in quella stanza. Agostina si sporse 2
In italiano nel testo.
sopra il tavolo. Aveva lo sguardo velato. «Hai trovato la gola, eh?» Si alzò di scatto e mi afferrò la nuca. Mi leccò l'orecchio. Aveva la lingua dura come un dardo. «Non preoccuparti, stronzo, sarà la gola a trovare te...» La respinsi con fermezza. Provavo la stessa repulsione che avevo avvertito a Notre-Dame-de-Bienfaisance, quando mi ero sentito insozzato da uno sguardo misterioso. Ora tutto si confondeva nella stanza: il freddo, il vento, il fetore. E «l'altro». «Vuoi che te lo succhi?» bisbigliò. «Sono stufa di lesbiche e di fiche.» «Conosce il nome di Manon Simonis?» Sollevò la mano da sotto il tavolo e la portò alle narici. «No.» «Sylvie Simonis?» «No», disse leccandosi le dita. «Ha ucciso la sua bambina, Manon, pensando che fosse posseduta dal diavolo.» «Nessuno può ucciderci», sogghignò. «Lui ci protegge, capisci?» «Cosa deve fare per lui?» «Io inquino, infesto. Sono una malattia.» Il suo timbro di voce si era abbassato di diversi toni. La sua parlata era strascicata, rauca, malsana. Allo stesso tempo, dalle ultime sillabe di ogni parola sembrava uscire un sibilo discordante. «Qui, in prigione?» la provocai. «Io sono un simbolo, ragazzo. Il mio potere attraversa i muri. Torturo i pederasti del Vaticano. Vi inculo tutti!» «Gli avvocati della Santa Sede la difendono.» Agostina scoppiò a ridere, una risata greve, catarrosa. Teneva le mani sempre contratte tra le gambe. «Sei proprio lo sbirro più coglione che abbia mai visto», mormorò con voce lasciva. «Credi veramente che quegli stronzi mi difendano? Mi osservano, sì. Mi annusano il culo, come cani in calore.» Era vero. Le autorità pontificie volevano limitare i danni, ma soprattutto studiare la «loro» miracolata. Volevano capire il fenomeno che si era impadronito del corpo e dello spirito di Agostina. Si strinse nelle spalle, fremendo, come se avesse appena provato un orgasmo violento, un piacere che l'aveva scossa fino al midollo. «Mi aveva detto che saresti venuto», gracchiò. «Luc Soubeyras? Il poliziotto della foto?»
«Mi aveva detto che saresti venuto.» La paura mi attorcigliava le budella. Agostina parlava del demonio, certo, una presenza reale che aveva dentro di sé. Una presenza che avvertivo lì tra noi. Sorrise di nuovo, con le labbra distorte. Il suo viso sembrava lacerato come carta straccia. Ancora un minuto. «Sai come mi sono procurata gli insetti?» ridacchiò, sardonica. «Facile. Basta che io mi tocchi... Mi bagno, e il mio sesso si apre, come una carogna. Allora, le mosche arrivano. Non senti, ragazzo? Le chiamo con il mio sesso... Adesso arrivano...» Abbassò la testa e si mise a salmodiare. Scandiva strani suoni a tutta velocità, oscillando avanti e indietro. All'improvviso, i suoi occhi si rivoltarono, completamente bianchi. Mi sporsi e tesi l'orecchio. Agostina parlava latino. Cercai di cogliere, una a una, le parole che ripeteva continuamente. «...lex est quod facimus lex est quod facimus lex est quod facimus lex est quod facimus...» LA LEGGE È QUELLO CHE FACCIAMO. Perché quelle parole? Cosa significavano in bocca a lei? Ora stava grugnendo come un maiale. Il suo rantolo si accompagnava a un sibilo atroce, come un'eco dissonante. Tutto d'un tratto, le sue pupille riapparvero. Giallastre. Mi sputò in faccia e urlò, dal profondo della gola: «MANGERAI LA TUA MERDA ALL'INFERNO!». Il chiavistello si aprì alle mie spalle. I dieci minuti erano trascorsi. 62 Appena fuori Catania, la nuvola di ceneri era ancora più scura. Non si riusciva nemmeno più a vedere i pannelli con scritto SABBIA VULCANICA. I tergicristallo stridevano, frenati dai minuscoli granelli. Proseguivo a passo d'uomo, allungando la mano sul parabrezza per liberarlo dalla sabbia. Anche il vulcano era cambiato. Due immensi pennacchi si elevavano dai versanti. Uno era pigmentato, grigiastro, fatto di ceneri polverizzate, l'altro torbido e tremolante, composto unicamente di vapore acqueo. Gli elicotteri che sorvolavano la zona davano l'idea delle dimensioni di questi fumi: parecchi chilometri di altezza. Fra le due bocche spalancate, delle vene rosseggianti si snodavano lungo
i pendii e scoppiavano in getti incandescenti. La montagna si trasformava, e anch'io. Il mio presente si scollava, si apriva, s'inclinava fino a farmi precipitare nella notte primitiva del mondo. Attorno a Catania vennero intensificati gli sbarramenti. Maschere da chirurgo sulla fronte, i funzionari della guardia di finanza verificavano identità e lasciapassare. Gli automobilisti, immobili nella fila, leggevano tranquillamente il giornale. Era la fine del mondo e nessuno se ne preoccupava. Le tre del pomeriggio, via Etnea. Adesso volevo sentire di persona l'arcivescovo di Catania, monsignor Paolo Corsi. Volevo avere l'opinione chiara della chiesa sul caso di Agostina Gedda e sullo scandalo che esso rappresentava. La città era immersa nell'ombra, ma all'arcivescovado sembrava si fossero ripromessi di non usare l'elettricità. C'era la stessa atmosfera d'urgenza che regnava alla questura o alla redazione dell'«Ora», ma al buio. Dei preti correvano nei corridoi, infilandosi i paramenti o portando croce e incensori. Ne bloccai uno e gli chiesi dove potevo trovare monsignor Corsi. Fece tanto d'occhi, senza rispondere. Lo piantai lì e m'inerpicai su per le scale, facendomi largo a gomitate nel caos generale. Trovai infine, all'ultimo piano, il rifugio dell'arcivescovo. Bussai, per la forma, ed entrai. Nella penombra, seduto dietro una scrivania, un uomo in tonaca nera, non più giovane, scriveva. Una grande finestra alle sue spalle lasciava trapelare una debole luce che gli rischiarava la testa calva. Alzò su di me il suo sguardo grave, senza muovere il corpo massiccio. «Chi è lei? Chi le ha permesso di entrare?» Brandii il tesserino e mi presentai. Entrai subito in tema: Agostina Gedda. Non avevo più tempo per i salamelecchi. Il prelato abbassò gli occhi sui suoi fogli. Aveva Una faccia da bulldog, imperturbabile. «Esca di qui», disse calmo. «Non ho niente da dirle.» Chiusi la porta e avanzai verso la scrivania. I quadri alle pareti sembravano dei monocromi neri. «Credo invece che lei abbia molte cose da dirmi. Non me ne andrò di qui prima di averle sentite.» L'arcivescovo si alzò lentamente, poggiando i pugni sul tavolo. La sua mole comunicava una forza spettacolare. Un colosso di una sessantina d'anni che avrebbe ancora potuto portare sulle spalle una croce di rovere
durante una processione. O farmi volare fuori dalla finestra. «Che toni sono questi?» tuonò picchiando sulla scrivania, improvvisamente incollerito. «Nessuno qui mi parla così!» «C'è sempre una prima volta.» L'ecclesiastico strizzò gli occhi, come per vedermi meglio. Sul suo petto, la croce d'oro mandava un tenue bagliore. «Lei è pazzo», disse più calmo, scuotendo la testa. «Non si è accorto che il mondo si sta schiantando intorno a noi?» «Aspetterà che io conosca la verità.» «Lei è pazzo...» L'arcivescovo si lasciò cadere sulla sedia. «Cinque minuti. Cosa vuole sapere?» «Il suo parere di uomo di chiesa: come spiega il delitto di Agostina Gedda?» «Quella donna è un mostro.» «Agostina Gedda è un'eletta di Dio. Una miracolata ufficialmente riconosciuta. Dalla sua diocesi. Dal suo comitato di esperti e di ecclesiastici. Dalla curia romana. Avete ratificato la sua remissione fisica e spirituale. Come ha potuto cambiare così... drasticamente? O piuttosto: come avete potuto sbagliarvi, voi, fino a questo punto? Non vedere la sua follia latente?» L'arcivescovo teneva le palpebre abbassate. Si osservava le mani, grandi, grigie, immobili nell'oscurità. «Avevo giurato di non parlarne mai più», mormorò. «Mi risponda!» Sollevò le palpebre. Il suo sguardo chiaro aveva una densità, una potenza eccezionale. Doveva soggiogare l'auditorio quando saliva sul pulpito e fissava il suo pubblico. «Ci siamo sbagliati, ma non nel modo in cui crede lei.» «Cosa credo io?» «Ci siamo sbagliati di campo. È tutto.» «Non capisco.» «Agostina non è una miracolata di Dio. È una miracolata del diavolo.» Restai di sale. «Una... miracolata del diavolo?» «Agostina è stata salvata dal demonio. Ora ne abbiamo la certezza. Ci ha beffato. Con le sue preghiere, i pellegrinaggi, il mestiere d'infermiera. Era tutto un'impostura. Quando si è svegliata dal coma, Agostina era posseduta. È stata salvata da Satana. Ha recitato una parte per insultarci meglio. Il
diavolo è bugiardo. Legga san Giovanni: "Quando parla il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna".» Ero in piena vertigine, ma abbastanza lucido da cogliere un fatto cruciale: monsignor Paolo Corsi, e con lui molto probabilmente tutta la sua diocesi e le autorità pontificie, riconosceva al demonio il dono di guarire. Vale a dire che riconosceva la sua esistenza in quanto istanza superiore - o inferiore, se si vuole giocare sulle parole. Satana, considerato una forza fisica e soprannaturale! «Come può parlare così? Non siamo più nel medioevo!» Il prelato afferrò un foglio di carta con l'intestazione dell'arcivescovado. Scarabocchiò un nome e un indirizzo, poi concluse con voce stanca: «I suoi cinque minuti sono scaduti. Se vuole saperne di più, vada a trovare gli specialisti della Santa Sede. Forse il cardinale van Dieterling accetterà d'incontrarla». Spinse il foglio verso di me, dicendo: «Ecco l'indirizzo». «È un esorcista?» Corsi scosse la sua testa da bulldog e sorrise schiettamente nell'oscurità. «Un esorcista? Stavolta è lei che crede di essere nel medioevo.» 63 Fuori, era notte fonda. Il fenomeno era prodigioso: le ceneri volteggiavano nell'aria disegnando grandi forme che subito si disfacevano, come stormi di uccelli al momento delle migrazioni. Il duomo, che si trovava a due passi, era a malapena visibile. I catanesi avevano tirato fuori gli ombrelli, i tergicristallo delle automobili erano in azione, ma non c'era ancora la minima traccia di panico in vista. Risalii via Etnea e trovai l'auto prima che fosse totalmente sepolta. Alzai gli occhi verso la strada. Sul marciapiede di fronte, a circa cinquanta metri, una sagoma, annebbiata dalla polvere, risvegliò un ricordo. Un uomo alto e allampanato, chiuso in un lungo soprabito di pelle. Non ne distinguevo il viso, ma il cranio calvo spiccava per il suo biancore. Ma certo! Era uno dei due killer delle Alpi! Ne avevo scorto la sagoma sul cantiere innevato, lo stesso soprabito, lo stesso fisico sottile, la stessa rigidità nella posizione. Senza riflettere, attraversai il viale. I granelli mi entravano negli occhi, nelle narici, nella bocca. Mi sentivo forte. La folla era con me, la tempesta era con me. Il killer non poteva osare niente. E qualcosa di sordo, di duro,
mi era rimasto in gola: l'umiliazione della caccia all'uomo di due giorni prima. Mi vedevo ancora rannicchiato contro i blocchi di cemento, ridotto allo stato di bestia presa in trappola. Avevo un debito da onorare. Un debito verso me stesso. L'uomo indietreggiò, poi girò sui tacchi. Accelerai il passo. Evitai gli ombrelli, le scope, gli ammassi di fuliggine che piombavano giù di colpo per poi risalire verso il cielo. Facevo lo slalom fra i passanti, correvo a brevi falcate, alzandomi sulla punta dei piedi per non perdere di vista la preda. La pioggia di ceneri non cessava. Facciate, vetrine, marciapiedi: ogni minima superficie era bombardata, screziata come la trama inchiostrata di un giornale. Insensibilmente, tutto sembrava scorporarsi, smaterializzarsi, sotto i miei occhi aggrediti. L'ombra era scomparsa. Mi schermai gli occhi con le mani a visiera per tentare di vedere meglio. Nessuno. Mi misi a correre sul serio, a caso, ingoiando sempre più scorie vulcaniche. Respiro arso, polmoni sul punto di esplodere. Una stradina, sulla destra. Mi ci tuffai d'istinto, realizzando, da qualche parte in fondo alla coscienza, che mi allontanavo dalla folla, e che non portavo armi. Cinquanta metri per accorgermi che ero in un vicolo cieco. Cento metri per rendermi conto che mi stavo cacciando in una trappola. Nessuno per strada, neanche un negoziante in vista. Bidoni d'immondizia e auto parcheggiate come unici testimoni. Mi fermai. Il tempo di arretrare e il killer emergeva da un portico. I lembi del suo soprabito di pelle disegnavano due linee oblique rispetto al terreno. Feci dietrofront. Davanti a me, il secondo killer mi sbarrava la strada. Così grosso, così largo, che le sue braccia aperte parevano toccare i muri del vicolo. Portava lo stesso soprabito nero dell'altro, ma taglia extralarge. Né l'uno né l'altro aveva un volto. Solo una faccia grigia e pigmentata, coperta di polvere. Pensai ad argille viventi, a maschere formicolanti di vermi. E lontano, molto lontano nei recessi del cervello, qualcosa mi diceva: «Conosco questi due uomini. Li ho già visti, altrove». Mi voltai di nuovo. Nella mano guantata del killer calvo era apparsa un'automatica munita di silenziatore. Prima ancora che potessi tentare qualcosa, l'uomo premette il grilletto. Non successe niente. Né fiammata, né detonazione, né azionamento del grilletto. Niente. Le ceneri. Avevano inceppato l'arma! Girai su me stesso e colpii alla cieca con i pugni. Anche il grassone aveva sfoderato la pistola. Il colpo la
fece schizzare via. Lo spinsi da parte con una spallata e corsi verso i contorni indecisi del viale. Ero nel panico, ma non abbastanza da perdere il senso dell'orientamento. In qualche secondo ero davanti alla mia auto. Telecomando: nessuna reazione. La polvere aveva messo fuori uso anche il ricevitore del segnale. Soffocai una parolaccia, sapore di terra in bocca. Trafficai con la chiave: non entrava. La fuliggine. I secondi galoppavano. Trovando un rimasuglio di sangue freddo, m'inginocchiai e soffiai, dolcemente, molto dolcemente, sulla serratura. La chiave scivolò all'interno. M'infilai nella Fiat Punto. Misi in moto. Slittai un istante, poi mi tuffai nella circolazione. Due colpi di volante ed ero lontano. Da nessuna parte in realtà, ma vivo. Ancora una volta. L'aeroporto di Catania era chiuso dal giorno prima. Per volare a Roma dovevo partire da un'altra grande città. Un'occhiata alla carta stradale. Potevo raggiungere Palermo in due ore. Con un po' di fortuna, là avrei trovato un volo. Mentre mi dirigevo verso l'uscita della città, chiamai l'aeroporto di Palermo: c'era un volo per Roma alle 18.40. Erano le tre e mezzo. Feci la prenotazione e riagganciai, asciugandomi gli occhi e tossendo. Avevo l'impressione di essere coperto di granelli di polvere, persino dentro il mio corpo. Chilometri e chilometri. Superai Enna alle quattro e mezzo, poi Caltanissetta, Resuttano, Caltavuturo. Alle cinque correvo lungo il mare Tirreno e incrociavo Bagheria. Alle sei ero nei pressi dell'aeroporto di Palermo. Lasciai l'auto all'agenzia di noleggio e corsi al check-in. Alle sei e mezzo consegnavo la carta d'imbarco alla hostess. Sembravo uno spaventapasseri. Ogni piega del cappotto nascondeva chili di polvere, ma ero sempre sulla breccia, la borsa in mano, il dossier sul cuore. Mi rilassai solo quando fui seduto in prima classe, mentre lo steward mi proponeva una coppa di champagne. E guardai in faccia la realtà: per un'ignota ragione ero un uomo da abbattere. Volevano eliminarmi per impedire che scoprissi qualcosa su questo caso. Ma di quale caso si trattava? Dell'omicidio di Sylvie Simonis o del delitto di Agostina Gedda? Erano collegati? Non c'era, dietro a questi delitti, una posta in gioco superiore? Pensai alla mia visita a Malaspina. Sullo stato mentale di Agostina non avevo dubbi: era una schizofrenica, buona per il manicomio. Non ero né
psichiatra né demonologo, ma la ragazza soffriva di uno sdoppiamento della personalità e avrebbe avuto bisogno di cure intensive. Perché non era ricoverata in una struttura adatta? Gli avvocati della curia preferivano tenerla in osservazione a Malaspina? Gli esperti del Vaticano non si preoccupavano di guarirla. E nemmeno cercavano di difenderla contro la giustizia italiana. Nessuno in Vaticano si curava della legge secolare degli uomini. Volevano solo capire come una miracolata di Dio potesse essere sotto l'influenza del Maligno. O piuttosto, per dirla tutta, determinare se poteva esistere una miracolata del diavolo. Il che equivaleva a provare, fisicamente, l'esistenza di Satana. Certamente, durante la mia visita, si erano verificati dei fatti inspiegabili. Il fetore, il freddo improvviso. Avevo sentito la presenza dell'Altro... Ma forse ero stato vittima della mia immaginazione. Dopotutto, l'odore poteva provenire dalla stessa Agostina. Il suo funzionamento fisiologico, governato da una mente contorta, poteva essere seriamente alterato. Quanto al freddo, mi ero sentito così vulnerabile in quel parlatorio che non c'era da stupirsi che avessi perso la capacità di riscaldarmi. Scossi la testa: no, non c'era stata nessuna presenza esterna. Il Principe delle tenebre non si era autoinvitato all'interrogatorio. Avevo un solo e unico nemico, sempre lo stesso: la superstizione. Lottare contro quelle credenze rimosse che mio malgrado riaffioravano. Satana non apparteneva al dogma, e io non ci credevo. Punto e a capo. Lasciai vagare lo sguardo sulle nuvole. Una frase mi risuonava nella mente. Lex est quod facimus. La legge è quello che facciamo. Gosa aveva voluto dire Agostina? Chi era quel «noi» di cui si serviva? La legione dei posseduti? E qual era questa «legge"? La cosa poteva essere un riferimento alla regola del diavolo, che appunto si apre su una libertà totale. LA LEGGE È QUELLO CHE FACCIAMO. Mi ripetevo ossessivamente queste sillabe, come una sura, con l'idea che la litania mi avrebbe finalmente comunicato il suo segreto. E invece mi appisolai, e non sentii nemmeno il carrello d'atterraggio che rientrava nella fusoliera. 64 Roma. Finalmente un posto familiare.
Le otto di sera. Diedi all'autista del taxi l'indirizzo dell'albergo e gli indicai un itinerario preciso. Volevo che passasse per il Colosseo, poi su per via dei Fori Imperiali fino a piazza Venezia, per imboccare infine il labirinto di viuzze e chiese fino al Pantheon, dove si trovava il mio hotel, non lontano dal seminario francese di Roma. Non era un tragitto scelto per guadagnare tempo, ma solo per rivivere il passato. Roma, i miei anni migliori. Gli unici trascorsi nel segno di una relativa tranquillità. Roma era la mia città, forse ancora più di Parigi. Una città dove lo spazio e il tempo si compenetravano, al punto che cambiando strada si cambiava secolo; spostando lo sguardo si invertiva il corso del tempo. Antiche rovine, sculture rinascimentali, affreschi barocchi, monumenti di memoria mussoliniana... «Ci siamo.» Scesi dal taxi, quasi sorpreso di non essere intralciato dalla tonaca. Quell'abito che in vita mia avevo indossato solo per qualche mese. Ora ero un esperto di vizi umani e riuscivo a centrare in posizione di contrattacco un bersaglio posto a cento metri di distanza. Un'altra scuola. Il mio albergo era una modesta pensione. Vi avevo alloggiato diverse volte all'epoca delle mie prime ricerche nella biblioteca vaticana, quando non ero ancora entrato in seminario. Avevo scelto questo posto per non dare nell'occhio. I killer non mi avevano seguito fino a Catania: mi ci avevano preceduto. Per qualche ragione sconosciuta riuscivano ad anticipare i miei spostamenti. Forse adesso erano già a Roma... Banco di legno verniciato, portaombrelli laccato, luci anemiche: l'atrio della pensione era già tutto un programma... Salii in camera. Avevo diversi contatti presso la curia di Roma. Uno era un mio amico dei tempi del seminario. Avevamo ancora un legame intermittente, tramite email e SMS. Gian Maria Sandrini, un piccolo genio, uscito come migliore studente dalla Pontificia accademia ecclesiastica. Occupava ora un posto importante presso il Segretariato di Stato, sezione Affari generali. Feci il suo numero. «Sono Mathieu», dissi in francese. «Mathieu Durey.» Il prete rispose nella stessa lingua. «Mathieu? Avevi voglia di sentire la mia voce?» «Sono a Roma per un'indagine. Devo incontrare un cardinale.» «Chi?» «Casimir van Dieterling.»
Un breve silenzio. Van Dieterling non sembrava essere un nome qualunque. «Di che si tratta?» «È troppo lungo da spiegare. Mi puoi aiutare?» «È un pezzo grosso. Non so se avrà il tempo per...» «Quando saprà il motivo della mia indagine mi riceverà, credimi. Gli puoi fare arrivare una lettera?» «Non ci sono problemi.» «Stasera?» Di nuovo silenzio. Mi ero perfettamente calato nella parte di uccello del malaugurio. «Se ti metto fretta è perché si tratta di una questione importante.» «Lavori sempre nella Squadra criminale?» «Sì.» «Non mi è molto chiaro come la curia...» «A van Dieterling invece sarà chiarissimo.» «Ti mando un diacono. Sarei passato volentieri di persona, ma ho una riunione stasera e...» «Lascia stare. Ci vedremo in un'occasione più propizia.» Gli diedi le indicazioni per l'albergo e poi mi misi al lavoro, dopo essermi procurato alla reception carta da lettere e buste. Scrissi in italiano. Cominciai dal caso di Agostina, poi descrissi il caso Simonis, con tutti i particolari, mettendo in evidenza i punti in comune tra i due omicidi. Poi bluffai sul mio stato di poliziotto internazionale, in missione per conto dell'Interpol, con l'incarico di stabilire i legami tra questi due casi specifici. Per concludere, lo ringraziai anticipatamente dell'udienza immediata che, speravo, mi avrebbe accordato e lasciai il mio recapito cellulare e quello della pensione. Rilessi una volta il testo, con la speranza di aver insistito a sufficienza circa l'urgenza della mia richiesta. Cercai di rilassarmi sotto la doccia, una cabina di plastica simile a un impianto di disinfezione, poi passai l'asciugacapelli sui vestiti per togliere tutta la cenere. Ero nel bel mezzo delle pulizie quando squillò il telefono. Mi aspettavano di sotto. Il diacono camminava avanti e indietro nell'ingresso. L'abito talare si intonava perfettamente con i tappeti logori e i grandi portachiavi in ottone della reception. Sembrava una scena del XIX secolo, o magari del XVIII. L'uomo infilò la lettera sotto la tonaca e se ne andò subito. Erano le nove, e non avevo nessuna fame. Non mi sentivo lo stomaco,
né il corpo. La mia stanchezza era talmente profonda che si trasformava in una sorta di ebbrezza che annullava qualsiasi altra sensazione. Risalendo in camera, controllai il cellulare. Un SMS, firmato Foucault. CHIAMAMI. URGENTE. Lo feci. Il mio vice non mi lasciò il tempo di parlare. «Ne ho trovato un altro.» «Cosa?» «Un omicidio, con l'acido, insetti e tutto il casino.» Mi lasciai cadere sul letto. «Dove?» «A Tallinn, in Estonia. Il caso risale al 1999.» «Sei sicuro dei punti in comune?» «Certo.» «Come lo hai trovato?» «Svendsen. Ha chiamato tutti i medici legali che conosce in Europa. Ce n'è uno a Tallinn che si è ricordato di una storia simile. L'ho verificata a mia volta. I commissariati di polizia, in un'ottica di cooperazione europea, hanno fornito i loro fascicoli più scottanti all'ufficio centrale, a Bruxelles, per costituire il SALVAC. In Estonia c'è un caso proprio identico a quello tuo del Jura. Lo stesso tipo di omicidio.» «Dimmi di più. I fatti. Il contesto.» «Hanno identificato il colpevole: un tizio di nome Raïmo Rihiimäki. Un musicista, ventitré anni. La vittima è suo padre. È successo nel maggio del '99. L'indagine non ha presentato particolari problemi. C'erano le impronte di Raïmo sul corpo e nella rimessa da pescatore dove è stato torturato il vecchio.» «Ma il tuo Raïmo ha confessato?» «Non ne ha avuto il tempo. Dopo avere ucciso il padre, è partito per una specie di giro della morte attraverso il paese. I poliziotti l'hanno preso a novembre. Era armato. È stato fatto fuori durante l'operazione.» Tre omicidi simili in diverse parti d'Europa. 1999, Estonia. 2000, Italia. 2002, Francia. I tratti dell'incubo si disegnavano sulla mappa della Comunità europea. E questo era solo l'inizio, me lo sentivo. V, «Hai parlato con la polizia estone?» incalzai. «Sì e no.» «Che vuoi dire?» «Voglio dire che... abbiamo parlato in inglese. E io, con l'inglese...» «Ti manderanno il fascicolo?» «Lo sto aspettando. Ne hanno una versione in inglese.» Seguendo un'intuizione, gli chiesi: «Il tuo estone, prima dell'omicidio,
non aveva per caso avuto un incidente o una malattia grave?». «E tu che ne sai?» «Parla.» «Due mesi prima dell'accaduto, Raïmo Rihiimâki aveva fatto a botte con il padre. Due ubriaconi patentati. È successo sulla barca del padre, era un pescatore. Raïmo è caduto in acqua. Quando l'hanno ripescato, sembrava spacciato. Annegato. O meglio: congelato. Sono riusciti a rianimarlo all'Ospedale maggiore di Tallinn. Un effetto dell'acqua gelida, non ho ben capito...» «E poi?» «Quando si è risvegliato, era un tipo diverso.» «In che senso?» «Aggressivo, chiuso, violento. Prima era solo un bassista inoffensivo. Suonava in un gruppo new metal satanico, Dark Age, e...» Non lo stavo più ascoltando, assorbito dalle somiglianze con il caso di Agostina. Come lei, l'estone era sfuggito a un tentativo di omicidio. Come lei, era stato in coma. Come lei, era tornato in vita e si era vendicato di chi aveva cercato di ucciderlo. Non era solo lo stesso omicidio. Era lo stesso caso, per filo e per segno. Era anche lui un «miracolato del diavolo»? Ringraziai Foucault e gli chiesi di inviarmi per email il rapporto non appena lo avesse ricevuto. Non gli chiesi nulla sugli altri fronti dell'indagine: ne avevo a sufficienza per quella sera. Chiusi il cellulare. Stavo proprio investigando su una serie. Ma non una serie di crimini, una serie di criminali. 65 Non era una piscina, ma piuttosto una grande vasca a cielo aperto. Aveva una forma rettangolare e bordi in cemento armato. Mi trovavo in cima alla collina a strapiombo sulla vasca e sentivo l'erba frustarmi le caviglie. Come sempre accade nei sogni, c'erano alcuni dettagli incoerenti. Così, ero il Mathieu di trentacinque anni, con l'impermeabile leggero, una 9 mm alla cintura, ma allo stesso tempo ero un bambino, in calzoncini e sandali di plastica, con un asciugamano di spugna sulle spalle. Ero eccitato all'idea di immergermi in quella vasca, ma provavo anche un malessere. Il colore dell'acqua - bronzo o acciaio - dava una sensazione di freddo e di melma. I bagnanti erano tutti bambini gracili, fragili, malati.
I corpi bianchi brillavano sotto il sole. La sensazione era quella di una minaccia incombente. Scesi per il versante, attirato dallo specchio d'acqua trasformato in una gigantesca calamita. In quell'istante notai che tutti gli asciugamani stesi sul cemento erano arancioni. Un segnale. Un segnale di pericolo. Forse delle compresse giganti, imbevute di soluzione antisettica. Percepivo ora le risate dei bambini, i fruscii dell'acqua. Tutto era gioioso, vibrante, eppure quei rumori erano come dei colpi sotto la mia carne, degli avvertimenti. Solo io conoscevo la verità. Solo io capivo quando la morte era nei paraggi... In quel momento, girai la testa. Anche l'asciugamano sulla mia spalla era arancione. La malattia mi aveva già intaccato. Era tutto scritto. La mia morte, la mia sofferenza, la mia... La suoneria del cellulare mi strappò ai singhiozzi. «Pronto?» «Sono Gian Maria. Stavi dormendo?» «Più o meno, sì...» «Sono le sette», disse il prete ridendo. «Hai dimenticato i nostri orari!» Mi tirai su e mi passai una mano tra i capelli. Avevo appena fatto un sogno molto vecchio, un sogno ricorrente nella mia adolescenza. Perché tornava? «Alzati in fretta», disse l'uomo di chiesa. «Hai un appuntamento tra un'ora.» «Con il cardinale?» «No, con il prefetto della biblioteca vaticana.» «Ma...» «Il prefetto è un intermediario. Ti accompagnerà lui dal cardinale.» «Un prefetto? Un intermediario?» Un prefetto in Vaticano era l'equivalente di un ministro in un governo laico. Gian Maria rise di nuovo. «L'hai detto tu: è una questione importante. In effetti, a giudicare dal loro tempo di reazione, lo è sul serio. Il cardinale chiede di portargli anche il dossier completo. Il prefetto ti aspetterà nei giardini della biblioteca. Si chiama Rutherford. Passa dalla Porta Angelica. Ti scorterà un diacono. Buona fortuna. E non dimenticare il dossier!» Rimasi qualche minuto inebetito, con ancora dei rimasugli del sogno sulle palpebre. Da quanto tempo non facevo quel sogno? Negli anni della mia gioventù mi ossessionava ogni notte... Fascicolo sotto braccio, mi affrettai a piedi verso piazza San Pietro. Vo-
lenti o nolenti, che si viva qui o altrove, la meraviglia è sempre la stessa. La basilica sovrana, le colonne del Bernini, la piazza sfavillante, i piccioni che aspettano i turisti sopra le fontane di pietra... Persino il cielo cristallino sembrava complice di questa grandezza. Risi tra me e me. Ero tornato all'ovile! Nel mondo delle tonache di seta e dei mocassini di vernice. Il mondo dell'autorità apostolica romana, dei congressi pontifici, dei seminari eucaristici. Il mondo della fede e della teologia, ma anche del potere e del denaro. Avevo vissuto tre anni all'ombra della Città del papa. La Santa Sede mi aveva sempre fatto pensare a una Monaco ecclesiastica, senza la sua futilità e i suoi intrallazzi. Un incredibile concentrato di ricchezze, che accumula beni e privilegi ereditati nei secoli. Come proprietario fondiario più grande del mondo, la città pontificia e la sua banca vantavano attivi lordi superiori al miliardo di dollari e utili annuali di oltre cento milioni di dollari. Di fronte a cifre simili avrei dovuto essere disgustato, io, che ero l'apostolo della miseria e della carità; invece ci vedevo il segno del potere della chiesa. Del nostro potere. In un mondo in cui conta solo il denaro, in un'Europa dove la fede cattolica è agonizzante, quelle cifre mi rassicuravano. Dimostravano che bisognava ancora fare i conti con l'impero cattolico. Costeggiai la fila di turisti in attesa di visitare la basilica di San Pietro. Sulla piazza erano state installate pedane e gradinate. L'indomani, il 1° novembre, il papa avrebbe probabilmente fatto un'apparizione pubblica. Al suono delle campane i piccioni si alzarono in volo. Le otto. Mi affrettai e passai sotto le colonne del Bernini. Risalii la via di Porta Angelica. Incrociai gli scrittori (segretari) e i minutanti (redattori) della curia, colletto bianco e giacca nera, che si dirigevano rapidi verso i loro uffici. Ero di umore allegro. Rivivevo quell'atmosfera di formicaio cattolico. L'orrore di Agostina mi sembrava lontano e avevo quasi dimenticato che ero un uomo da far fuori. A Porta Angelica mostrai il passaporto alle guardie svizzere. Mi diedero subito un lasciapassare. Le guardie, in costume rinascimentale, si scostarono e varcai gli alti cancelli in ferro battuto nero. Un diacono mi guidò attraverso i dedali degli edifici e dei giardini. Di corsa. Erano le 8.05 e il mio ritardo non si confaceva al grande ordine clericale. Fui abbandonato in un cortile, davanti a una facciata rosa e gialla, punteggiata di vasi antichi. Dei fazzoletti d'erba contornavano una vasca
circolare. Alcuni getti d'acqua zampillavano in un fresco vapore iridato. Di fronte a due brevi salite che terminavano davanti a piccole porte misteriose c'erano aiuole di fiori e alcune piante tropicali. L'intera decorazione profumava di sole e terracotta. Non dovetti attendere a lungo. Un uomo in completo nero fece capolino da una delle porte e venne giù rapido dalla rampa di sinistra: sembrava scivolare sopra il parapetto. Sulla quarantina, con la testa incorniciata di capelli rosso cenere, occhiali sottili in tartaruga, era perfettamente coordinato all'ocra chiaro dei vasi e delle vasche. «Sono il prefetto Rutherford», disse in un perfetto francese. «Dirigo la biblioteca apostolica del Vaticano.» Mi strinse la mano calorosamente. «Non si può dire che la sua visita capiti nel momento migliore», aggiunse in tono gioviale. «Domani il sommo pontefice parlerà in piazza San Pietro. E deve essere ordinato un nuovo cardinale. Che giornata!» «Mi spiace», m'inchinai. «Questa urgenza non dipende da me.» Spazzò via le mie scuse con un gesto benevolo. «Mi segua, sua eminenza ha espresso il desiderio di riceverla in biblioteca.» Attraversammo il cortile per raggiungere l'edificio sul lato opposto. Sulla soglia, Rutherford si fece da parte. «Prego.» Fummo accolti dall'ombra e dalla frescura del marmo. Rutherford tolse il catenaccio da una porta e s'infilò in un corridoio bianco e grigio. Gli andai dietro. Il sole filtrava dalle crociere nere. Eravamo soli. Mi aspettavo di sentire scricchiolare le scarpe lucidate della mia guida e invece no: camminava nel silenzio più assoluto. Un'occhiata: indossava delle Tod's in morbida pelle scamosciata che avevano quasi lo stesso colore dei suoi capelli. Come san Pietro, Rutherford aveva le chiavi del paradiso. Davanti a ogni porta, maneggiava il mazzo di chiavi e aveva la meglio sulla serratura. Azzardai una domanda. «Qual è il ruolo esatto di sua eminenza?» «Lei chiede un incontro urgente e nemmeno lo sa?» «Monsignor Corsi, a Catania, mi ha solo dato il suo nome, precisandomi che sua eminenza avrebbe potuto aiutarmi nelle indagini.» «Il cardinale van Dieterling è una figura di spicco nella Congregazione per la dottrina della fede.» Dopo il Concilio Vaticano II, quello era il nuovo nome del Santo Uffizio. Gli eredi dei tribunali dell'Inquisizione e dei roghi in serie. I censori
della fede e dei buoni costumi. Coloro che ogni giorno decidono il confine tra il bene e il male, tra l'ortodossia e l'eresia. Coloro che danno la caccia alle devianze e alle anomalie rispetto alla linea cattolica. E a proposito di anomalie il caso di Agostina non scherzava affatto. Altre chiavi, altre stanze dalle pareti decorate di grandi affreschi. Fontane dipinte, spalliere di fiori, figure di santi. Con i loro dolci colori pastello, quei dipinti ricordavano i mosaici delle ville romane dell'antichità. «Casimir van Dieterling», chiesi ancora, «di che origini è?» «Lei è proprio un poliziotto», sorrise il prefetto. «Vuole sapere tutto. Sua eminenza è di origine fiamminga. Dobbiamo salire e passare dalla Sala Sisto V per evitare i lettori.» «Ci sono lettori a quest'ora?» «Alcuni seminaristi. Hanno una deroga.» Fece di nuovo tintinnare il mazzo. Una scala. Un giro di chiave ed ecco che la Sala Sisto V si dischiuse con i suoi pilastri dipinti e le sue due navate, immense e dorate nel sole mattutino. Gli affreschi sulle pareti estenuavano gli occhi a forza di fregi, dettagli, personaggi. Il soffitto non aveva neanche un millimetro spoglio. L'azzurro delle volte si staccava netto sull'ambiente bruno dorato. «Lei conosce questa sala, vero?» Annuii. Avrei potuto citare a memoria ogni luogo, ogni scena raffigurata nelle pareti dipinte. Le antiche biblioteche che avevano preceduto il Vaticano dall'antichità, i concili ecumenici, gli episodi del pontificato di Sisto V. E, su ogni pilastro, gli inventori della scrittura, veri o mitici. Avevo attraversato questi posti centinaia di volte per recarmi nella stanza da lavoro. Attraversammo la sala deserta incrociando, al centro, alcuni vasi giganti di porcellana con sfondo blu e oro, crocifissi e candelabri di bronzo, vasche di pietra levigata. Dalle vetrate a sinistra potevo scorgere il cortile del Belvedere. In fondo alla sala, Rutherford aprì un'altra porta. «Possiamo tornare giù.» Tutte quelle precauzioni sapevano di incontro segreto. Al piano inferiore, si aprì un nuovo spazio, dove troneggiavano degli schedari con tanti cassettini etichettati. Rutherford girò intorno a uno di quei mobili, poi si rassettò la giacca davanti a una porta chiusa. Quando sollevò la mano per bussare, gli buttai lì un'altra domanda. «Sa perché sua eminenza ha accettato di ricevermi così presto?» «Non dovrebbe saperlo lei?»
«Ho una mia idea, ma a lei ha detto qualcosa?» Bussò sorridendo. Indicò con lo sguardo il fascicolo che tenevo in mano. «Lei ha qualcosa che gli interessa.» 66 Il cardinale Casimir van Dieterling era in piedi vicino alla finestra di un ampio ufficio ingombro di fotocopiatrici e di un'infinità di piante verdi. Su un tavolo si ammonticchiavano dossier, schede, libri. Doveva essere l'ufficio del prefetto Rutherford. E ciò confermava le mie supposizioni: l'incontro si svolgeva in tutta clandestinità. L'uomo indossava gli abiti dei generali della città vaticana quando non devono presenziare a una celebrazione. Tonaca nera con bottoni rossi sotto una mantellina bordata di scarlatto, cintura di porpora imperiale, sulla testa uno zucchetto di seta, anche questo rosso. Persino in tenuta «casual» l'ecclesiastico non aveva l'aspetto ruvido dell'arcivescovo di Catania. Ormai eravamo in mezzo all'aristocrazia della fede. Dopo qualche secondo il cardinale si degnò di voltarsi verso di me. Era un gigante, alto quanto me. Impossibile stabilirne l'età: poteva avere tra i cinquanta e i settant'anni. Viso lungo, imperioso, come arrossato dal vento del mare aperto. Somigliava a un irlandese con il suo mento pronunciato, lo sguardo chiaro sotto le palpebre basse, il fisico ben piantato di uno abituato a sollevare tonnellate nei vicoli di Cork. «Mi hanno detto che ha frequentato il seminario.» Colsi il messaggio. Dovevo rispettare le regole del gioco. Mi avvicinai e misi un ginocchio a terra. «Laudeatur Jesus Christus, Eminenza...» Baciai l'anello cardinalizio sulla mano che l'uomo di chiesa mi tendeva. Mi tracciò un segno della croce sulla testa. «Quale seminario?» chiese. «Quello francese di Roma», risposi alzandomi. «Perché non ha concluso la sua formazione?» Parlava francese con un leggero accento fiammingo. La voce era grave, lenta, ma l'elocuzione precisa. Sceglieva le sillabe con la stessa attenzione con cui si scelgono i fiori di un bouquet. «Volevo lavorare sul campo», risposi rispettosamente. «Quale campo?» «La strada, la notte. Là dove regnano il vizio e la violenza. Là dove il si-
lenzio di Dio è assoluto.» Il sole gli inondava le spalle e gli infiammava la nuca scarlatta. Gli occhi azzurro turchese risaltavano in controluce. «Ho paura che il silenzio di Dio sia dentro l'uomo. È lì che dobbiamo operare.» Mi chinai in segno di approvazione. Però replicai: «Volevo lavorare là dove questo silenzio provoca delle azioni. Volevo agire là dove il silenzio di Nostro Signore lascia campo libero al male». Il cardinale si girò di nuovo verso la finestra. Le lunghe falangi picchiettarono sullo stipite. «Mi sono informato su di lei, Mathieu. Gioca a fare l'umile, ma ha conosciuto l'atto supremo: il sacrificio. Ha fatto violenza a sé stesso. È arrivato agli antipodi di ciò che lei è veramente. E ha provato una certa soddisfazione. Persino questo ruolo da martire è un peccato d'orgoglio!» Il colloquio si stava trasformando in un processo. Non ero disposto a subirlo. «Faccio il mestiere di poliziotto nel miglior modo possibile. Questo è quanto.» Il cardinale fece un gesto che voleva dire «lasciamo stare». Si girò verso di me. Indossava la croce pettorale come tutti i dignitari della Santa Sede: appesa a una catena, ma trattenuta in alto da un bottone di velluto, tracciando sulla tonaca nera due morbide anse. Da solo, quel crocifisso era una cerimonia. «Nella sua lettera parla di un dossier...» Gli tesi la cartelletta rigida. Senza proferire parola, la sfogliò. Si prese il tempo di leggerne alcuni passaggi, di osservare le foto. Nessuna espressione sul volto. Ma il caso Simonis sembrava interessarlo. Alla fine posò l'incartamento sulla scrivania. «Si sieda, prego», disse. Un ordine più che un invito. Obbedii mentre anche lui prendeva posto dietro la scrivania. «Ha fatto un buon lavoro, Mathieu. Qui non abbiamo degli investigatori del suo calibro. Siamo troppo occupati a indagarci a vicenda.» Prese la cartelletta e la porse al prefetto che mi stava accanto. In italiano, gli chiese di farne delle fotocopie. Aggiunse che bisognava farle lì. «Nessuno le deve vedere.» I suoi occhi chiari tornarono a posarsi su di me. «Ho saputo che ha incontrato Agostina Gedda ieri mattina.» Mi vennero in mente quei tre preti disincarnati intravisti nel deserto e la
sorveglianza clericale di cui mi aveva parlato Agostina. «Che idea si è fatto?» mi chiese il cardinale. «Mi è sembrata molto... alterata.» «Cosa ne pensa della sua storia, il miracolo e poi l'omicidio?» «Non mi convincono né l'uno né l'altro.» «La guarigione inspiegabile di Agostina Gedda è stata riconosciuta ufficialmente dalla Santa Sede.» Dovevo pesare ogni parola. «Non metto in dubbio la remissione del suo corpo, Eminenza. Ma il suo spirito non è quello di una miracolata...» «...di Dio. Certo. Comunque, c'è un'altra ipotesi...» «Me ne hanno parlato. Ma non credo al diavolo.» Il cardinale abbozzò un sorriso, scoprendo i denti irregolari, consumati. La fotocopiatrice dietro di noi aveva cominciato a funzionare. «Lei è un cristiano moderno.» «Penso che Agostina abbia soprattutto bisogno di uno psichiatra.» «È stata sottoposta a perizia e poi a controperizia. Secondo gli specialisti, è sana di mente. Mi parli piuttosto del crimine. Quali sono le sue riserve?» «Eminenza, lavoro alla Squadra criminale di Parigi. L'omicidio è il mio pane quotidiano. La mia specialità. Agostina non aveva né i mezzi tecnici né le conoscenze necessarie per commettere un crimine così... sofisticato.» «Qual è la sua idea?» «Un solo omicida. Dietro l'assassinio di Salvatore e quello di Sylvie Simonis. Il mio caso del Jura.» L'uomo di chiesa alzò le sopracciglia. «Perché Agostina Gedda avrebbe confessato un crimine che non ha commesso?» «È quello che sto tentando di scoprire.» «Secondo la polizia di Catania, la donna ha rivelato dei particolari che solo il colpevole poteva conoscere...» «È difficile spiegare la mia intuizione, Eminenza, ma penso che quella donna conosca l'assassino. Lui le ha raccontato quei dettagli e lei lo ha coperto per qualche ragione sconosciuta. È la mia ipotesi. Non ne ho la minima prova.» Il cardinale si alzò. Stavo per fare lo stesso, ma con un gesto mi ordinò di restare seduto. Fece qualche passo attorno alla scrivania, prima di riprendere la parola. «Lei può andare lontano con questa indagine. Ed esserci molto utile. Può andare lontano, a patto di essere indirizzato...»
Il prefetto aveva finito di fare le fotocopie. Le posò sulla scrivania e mi rese il fascicolo. Van Dieterling lo ringraziò con un cenno del capo. Il prefetto indietreggiò senza il minimo rumore. Le pupille turchesi piombarono di nuovo su di me. «In fondo, lei e io siamo d'accordo», mormorò il cardinale. «Agostina non è l'assassina di Salvatore. Noi sappiamo chi è il colpevole.» «Voi...» «Aspetti. Le devo prima spiegare alcune cose. E lei deve disfarsi delle sue certezze... razionali. Non sono degne della sua intelligenza. Lei è cristiano, Mathieu. Quindi sa che la ragione non ha mai avuto niente a che fare con la fede. Anzi, è uno dei suoi nemici giurati.» Non capivo dove volesse arrivare ma avevo una certezza: stavo per ascoltare delle rivelazioni capitali. Van Dieterling tornò davanti alla finestra. «Prima di tutto deve dimenticare la guarigione di Agostina. Parlo della remissione del corpo. Né lei né io abbiamo i mezzi per giudicarne il carattere miracoloso. In compenso, possiamo interessarci al suo spirito. È la nostra specialità! Il nostro territorio per eccellenza.» «Eminenza, mi scusi, ma non la seguo molto bene...» «Arriviamo dritti al punto. Siamo profondamente convinti -voglio parlare a nome dell'autorità che rappresento, la Santa Congregazione per la dottrina della fede - che lo spirito di Agostina sia stato teatro di un fenomeno soprannaturale. Una visita.» «Una visita?» «Lei sa cos'è un'esperienza di pre-morte? In inglese l'espressione deputata è NDE: "Near Death Experience". A volte si parla anche di "morte temporanea".» Mi balenò in mente qualcosa. Il materiale che avevo raccolto sul web su questo argomento, quando cercavo informazioni sul coma. «So che all'avvicinarsi della morte», riassunsi, «alcune persone vivono un'allucinazione. Sempre la stessa.» «Conosce le tappe di questa "allucinazione"?» «La persona inanimata ha dapprima la sensazione di lasciare il proprio corpo. Per esempio può osservare, come se fosse dall'esterno, la squadra di soccorso che si dà da fare intorno alle proprie spoglie.» «E poi?» «Ha la sensazione di sprofondare in un tunnel buio. A volte intravede i suoi cari defunti. In fondo al tunnel si diffonde una luce intensa che l'inon-
da, senza abbagliarla.» «I suoi ricordi sono piuttosto precisi.» «Ho letto dei testi sul tema non molto tempo fa. Ma non vedo come...» «Vada avanti.» «Secondo le testimonianze, questa luce ha un potere. La persona si sente colma di un indescrivibile sentimento di amore e compassione. Questo sentimento è così piacevole, così esaltante, che l'inanimato accetta persino di morire. In generale a questo punto una voce l'avverte che non è giunto il momento di sparire. Il paziente riprende allora coscienza.» Van Dieterling si era riseduto. Aveva un'espressione imbronciata, ma i suoi occhi brillavano. «Cos'altro sa?» «Al risveglio, il sopravvissuto ricorda perfettamente il proprio viaggio. Per questo motivo, la sua concezione del mondo viene modificata. Innanzitutto, non ha più paura della morte. Poi, affronta ciò che lo circonda con più amore, generosità, profondità.» «Bravo. Conosce alla perfezione l'argomento. Non deve neanche ignorare la dimensione mistica di questa esperienza...» Avevo l'impressione di aver superato un esame orale importante, ma nel contempo non riuscivo a cogliere cosa ci fosse sotto a quell'interrogatorio. «In tutte le testimonianze le componenti sono sempre le stesse», ripresi, «ma le connotazioni religiose differiscono a seconda dell'origine e della cultura della persona. Nel mondo occidentale, quella luce è spesso identificata con Gesù Cristo, l'essere di luce e compassione per eccellenza. Ma questa esperienza viene descritta anche nel Libro tibetano dei morti. Credo ci sia un'evocazione della vita dopo la morte anche nella Repubblica di Platone, che riprende le caratteristiche di quel viaggio.» Il sole cominciava a inondare l'ufficio, disegnando sul pavimento delle figure geometriche, bianche e luminose. Il cardinale manteneva lo sguardo basso sull'anello pastorale. Il rubino vibrava sotto la luce. «Lei ha ragione», disse alzando gli occhi. «Queste esperienze vengono vissute in tutto il mondo e aumentano sempre di più grazie alle tecniche di rianimazione che permettono di strappare alla morte migliaia di persone ogni anno. Lei sa che, su cinque individui colpiti da infarto che sono sprofondati in un coma momentaneo, almeno uno vive un'esperienza di premorte?» Sì, me lo ricordavo. Il cardinale scrollò lentamente il capo, tenendomi in sospeso. «Pensiamo che Agostina abbia vissuto un'esperienza di questo ti-
po», mormorò infine, «un attimo prima di guarire, quando è caduta in coma, dopo il suo viaggio a Lourdes.» «È quella che voi chiamate una "visita"?» «Crediamo che questa esperienza sia stata di un tipo particolare.» «In che senso?» «In senso negativo. Un'esperienza di pre-morte negativa.» Non ne avevo mai sentito parlare. Van Dieterling si alzò di nuovo e afferrò la tonaca con gesto di stizza. «Esistono delle situazioni, molto più rare, in cui il soggetto prova una forte angoscia. Le visioni sono sconvolgenti, l'avvicinarsi della morte lo terrorizza e da questo viaggio riemerge depresso, spaventato. Un gruppo ristretto vive persino la versione antitetica della NDE classica. Il soggetto ha l'impressione di abbandonare il proprio corpo, ma in fondo al tunnel non c'è luce. Solamente delle tenebre rossastre. I volti che intravede non sono quelli dei suoi cari affettuosi, ma di figure al supplizio, torturate, gementi. Al posto dell'amore e della compassione ci sono angoscia e odio. Quando il paziente si risveglia, la sua personalità è totalmente cambiata. Inquieta, aggressiva, pericolosa.» Il cardinale parlava a capo chino, camminando avanti e indietro. La tonaca di lana nera si frapponeva alle chiazze di sole. Ogni parola sembrava suscitare in lui una'collera sorda. «Non occorre che le spieghi il significato metafisico di questa esperienza. I superstiti non credono di avere contemplato la luce di Cristo, ma l'esatto contrario.» «Mi vuole dire che pensano di avere incontrato...» «Il diavolo, sì. Nel profondo del Limbo.» «È la prima volta che sento parlare di un fenomeno simile.» «Questo vuol dire che facciamo un buon lavoro. La Santa Sede si sforza da secoli di nascondere questo tipo di visioni. Vogliamo evitare di dare nuova credibilità al demonio.» «Da secoli? Vuol dire che ci sono testimonianze antiche?» Van Dieterling ritrovò il suo sorriso duro. «È arrivato per lei il momento di incontrare i Senza Luce.» «Come li ha chiamati?» «Dall'antichità, questi rianimati negativi hanno un nome. I Senza Luce. I Sine Luce in latino. I sopravvissuti del Limbo. Nella nostra biblioteca abbiamo raccolto le loro testimonianze. Venga. Ne abbiamo selezionate alcune per lei.»
Non mi alzai subito. Tra me e me mormorai: «Sulla scena del crimine dove è stato rinvenuto il corpo di Sylvie Simonis c'era un'iscrizione sulla corteccia di un albero: "Io proteggo i Senza Luce..."». La voce ruvida di van Dieterling s'impose sulle mie riflessioni. «È tempo che lei sappia, Mathieu. Questi omicidi fanno parte di un tutto. Appartengono allo stesso cerchio. Un cerchio infernale.» Mi voltai verso di lui. «Agostina ha vissuto un'esperienza negativa? È una Senza Luce?» Il cardinale fece segno al prefetto, che aprì la porta. «La peggiore di tutti», decretò. 67 Di nuovo, i corridoi, il prefetto e le sue chiavi di san Pietro. Eravamo i viaggiatori clandestini del Vaticano. Ma non eravamo più soli: due preti con un fisico da culturisti ci scortavano. Il cardinale, più imponente della sua guardia del corpo, camminava con passo rapido e deciso. La croce pettorale, o un rosario che non avevo notato, tintinnava al ritmo del suo incedere. Una nuova scalinata. Rutherford tolse il catenaccio a un'altra porta. Ci eravamo ormai inoltrati nei sotterranei. Secondo i miei calcoli stavamo camminando sotto il cortile della Pigna. Avevo sentito parlare dell'archivio segreto del Vaticano. Quello vero, non quello aperto ai ricercatori. Il fondo contenente la memoria nascosta della Santa Sede. Niente quadri o cesellature qui. Spogli soffitti di cemento. Le lampade erano semplici lampadine racchiuse da griglie. Un succedersi di stanze con scaffalature d'acciaio gremite di fascicoli gialli o beige. Avremmo potuto essere nell'archivio di un qualunque ufficio. L'odore della carta e della polvere prendeva alla gola. Né van Dieterling né Rutherford degnavano quella visita di un commento. Altra porta, altro giro di chiave. Immerso nella penombra, si dischiuse uno spazio di dimensioni più umane. Addossati alle pareti, degli scaffali ospitavano centinaia di libri. Si percepiva che la qualità dell'aria, oggetto di un'attenzione indefessa, veniva preservata e regolata. Rutherford lo confermò. «Qui la temperatura non supera mai i diciotto gradi. E l'umidità viene controllata. 50 per cento massimo...» Mi avvicinai a delle rilegature grigie con i dorsi decorati di lettere dora-
te. Tutti quei libri avevano lo stesso titolo: INFERNO 1223, INFERNO 1224, INFERNO 1225... La voce di van Dieterling risuonò alle mie spalle. «Lei sa cos'è l'"inferno" di una biblioteca, vero?» «Certo», risposi, senza distogliere lo sguardo dai dorsi numerati. «È la stanza in cui vengono confinati i testi proibiti: libri erotici, opere violente, tutti gli argomenti sottoposti a censura...» Il cardinale si avvicinò e sfiorò con le lunghe dita i libri ammassati. «Tutti i poliziotti dovrebbero essere intellettuali. O meglio, tutti i poliziotti dovrebbero avere fatto il seminario. Qui in Vaticano abbiamo qualcosa di unico. Possediamo un "inferno nell'inferno" dove sono repertoriati i libri che trattano del demonio.» «Tutte queste opere parlano del diavolo?» «Un tema fecondo, che ci ha sempre interessati.» Indicò un vano in fondo alla stanza che non avevo notato. «Prego.» Scoprii un'altra stanza, ancora più piccola. Una scrivania troneggiava al centro, con un computer e una lampada: una sala di lettura. «In questo inferno», dichiarò il dignitario, «abbiamo creato un "sottoinferno" totalmente dedicato ai Senza Luce.» I volumi grigi sugli scaffali. Le stesse decorazioni dorate: INFERNO... «Qui abbiamo raccolto tutte le testimonianze sulle NDE negative. Testi, ma anche dipinti, disegni, materiale di qualsiasi genere. È un'esperienza rara ma che si è ripetuta nel corso dei secoli e di cui si trovano tracce nelle civiltà più antiche. Cambiano le parole, le credenze anche, ma è sempre la stessa storia. La decorporazione, il tunnel, l'angoscia, il demonio...» «Perché le nascondete?» «Gliel'ho detto. Non vogliamo dare alcun credito al Maligno. Immagini se i media si impossessassero di un tale segreto. Un viaggio psichico che permette di entrare in contatto diretto con il demonio. Per mesi non si parlerebbe d'altro. Il satanismo sta già vivendo un ritorno di interesse. Solo in Italia stimiamo che esistano almeno tremila sette sataniche. Non c'è bisogno di peggiorare la situazione.» Il cardinale trascinò una sedia davanti alla scrivania. «Si accomodi. Le abbiamo preparato dei testi significativi.» prima che potessi sedermi, van Dieterling inforcò gli occhiali e digitò un codice sulla tastiera del computer. Vidi apparire lo stemma della Santa Sede: la tiara e le due chiavi incrociate di san Pietro. «Non possiamo mostrarle i documenti originali. Nessuno li tocca da anni.»
Afferrò il mouse che comandava il cursore. «Legga e memorizzi», disse cliccando su un'icona. «Non le lasceremo portare via nessun documento. Nemmeno una riga può uscire da questa stanza.» Mi sedetti. Il programma stava già girando. «La lascio con questo esercito terribile, Mathieu. L'esercito dei maledetti. Che siano perdonati. Lux aeterna luceat eis, Domine.» 68 Il primo testo risaliva al VII secolo a.C. In base ai commenti introduttivi, era il frammento di una tavoletta d'argilla scoperta tra le rovine del tempio di Ninive, antica città dell'Assiria, oggi situata in Iraq. Una versione tarda di un episodio dell'epopea di Gilgamesh, eroe sumero, re di Uruk. Il computer mostrava un'immagine scannerizzata di uno stralcio di testo redatto in scrittura cuneiforme, con una trascrizione in italiano moderno. In questo episodio, Gilgamesh abbandonava il proprio corpo per poi cadere in un abisso oscuro, in fondo al quale brillava una luce rossa, in un turbinio di mosche e volti. In quelle tenebre lo aspettava un demone. Il frammento s'interrompeva nel momento in cui Gilgamesh dialogava con quella creatura. Cliccai sul secondo nome della lista. La fotografia di un affresco. Secondo la leggenda, questa serie di disegni decorava la stanza funeraria di una regina a Napata, città sacra affacciata sul Nilo, nel nord del Sudan. La civiltà kushita si era sviluppata all'ombra di quella egizia, intorno al VI secolo a.C. Il commento precisava che quelle dinastie di re soprannominati i «Faraoni neri» erano ancora poco conosciute. Ma l'affresco, dal punto di vista dei Senza Luce, non dava adito ad alcun dubbio. Vi si distingueva una donna dalla pelle nera, distesa, sopra la quale emergeva un'altra donna, più piccola. Simbolo lampante: la decorporazione. La seconda figura camminava in un corridoio scuro dove erano disegnati, con tratti più chiari, alcuni volti. In fondo al corridoio un vortice rosso, una specie di sifone, si apriva su un occhio nero. Passai al terzo documento e capii che le testimonianze dei Senza Luce erano apparse insieme all'arte e la scrittura. Forse un giorno verrà trovato anche un disegno rupestre su quest'esperienza terribile... Il nuovo testo era un palinsesto: il testo greco era stato cancellato e sostituito con un estratto in latino delle lettere di san Paolo ai Romani. Recuperate, le righe iniziali
erano datate al I secolo a.C. Il testo raccontava la storia di un uomo di Tiro che, dato per morto, era quasi stato sepolto vivo e si era risvegliato all'ultimo momento. L'uomo descriveva la sua esperienza nel nulla: «Non vedevo più nessuno degli oggetti che ero abituato a vedere ma una valle di una straordinaria profondità. Distinguevo dei volti sul fondo, e udivo delle grida...». Non potevo aprire tutti i documenti - la lista era lunga e il tempo tiranno. Feci scorrere il cursore e cliccai sulla decima riga, saltando così diversi secoli. La riproduzione di un dipinto su legno nella cappella di Moines, a Sercis-la-Ville, risalente al X secolo. Una rappresentazione del miracolo di san Teofilo, suddivisa in diverse scene. Conoscevo la leggenda, molto popolare nel medioevo. È la storia di un mercante dell'Asia Minore che ha venduto l'anima al diavolo e che, preso dai rimorsi, prega la Vergine Maria perché lo aiuti. La Madonna strappa a Satana il contratto e lo restituisce al peccatore pentito, diventato santo. Su questo dipinto, la scena del dialogo con Satana non rappresentava Teofilo nell'atto di redigere il contratto con il sangue, come avviene nell'iconografia tradizionale. Teofilo si librava invece nell'aria, a occhi chiusi, sopra uno stretto passaggio dove comparivano innumerevoli volti. Sul fondo si distingueva una faccia contratta in una smorfia che stava per essere inghiottita in un vortice. Nessun dubbio: l'artista si era ispirato a un'esperienza di pre-morte negativa, vissuta o raccontata. Saltai di nuovo diversi documenti per fermarmi su un poema del XIV secolo, firmato da un certo Villeneuve, discepolo di Guillaume de Machaut. Poeta e teorico della corte di Carlo V e poi di Carlo VI - precisava il commento - Villeneuve aveva rischiato di essere sepolto vivo in seguito a una caduta da cavallo. Si era risvegliato il giorno dei suoi funerali e non aveva voluto raccontare la sua esperienza. Tuttavia, in uno dei suoi poemi si notava questo brano, tradotto dal francese antico in italiano dagli amanuensi del Vaticano: ...conosco luoghi tenebrosi senza chiarore né luce né cieli né limbo né, inferno dal corpo mio l'anima si separa e all'infinito vola nell'oscurità... Era stata aggiunta una nota. Gli annali giuridici di Reims attestavano che
Villeneuve, undici anni dopo l'incidente, nel 1356, era stato impiccato per aver ucciso tre prostitute. La conferma di quanto raccontatomi da van Dieterling: coloro che vivevano l'esperienza in modo negativo diventavano esseri violenti e crudeli. Lo attestava anche l'esempio seguente, tratto dall'Archivio del Santo Uffizio di Lisbona. Il frammento, del 1541, riguardava l'interrogatorio di un certo Diogo Corvelho. Avevo studiato quel periodo. Nel XVI secolo l'Inquisizione era tornata in forze sotto l'impero di Carlo V. Non si trattava più di perseguitare dei posseduti ma degli eretici di un'altra specie: gli ebrei convertiti al cattolicesimo, sospettati di professare in segreto il loro culto originario. L'estratto riportava però l'interrogatorio di un vero posseduto, un uomo di Lisbona accusato di intrallazzi con il diavolo, ma anche di mutilazioni di bambini e di infanticidi. Una parte era riportata in italiano. Diogo Corvelho parlava di una «ferita del corpo... dalla quale era fuggita la sua anima». Parlava di un «pozzo di tenebre animate» e di un «demone, prigioniero di ghiacci rossastri». Gli inquisitori erano tornati su questo punto, perché nelle confessioni stereotipate cui erano abituati si evocavano piuttosto le «fiamme dell'inferno», la «bestia dagli occhi di brace»... Ma Corvelho aveva ripetuto, variando i termini, «ghiaccio», «brina», «crosta». Dietro la parete di ghiaccio descriveva anche un «volto ferito, lattiginoso, attraversato da lampi e come ricoperto da una membrana...». Notai che tutti quei termini erano presenti negli scritti apocrifi dei primi secoli cristiani che descrivevano l'inferno. Erano stati influenzati anche loro dalle visioni dei Senza Luce? Corvelho era stato giustiziato nel secondo autodafé di Lisbona, nel 1542, insieme a centinaia di ebrei accusati di eresia. Una nota era stata spedita a tal proposito alla Santa Sede. Il Palazzo Apostolico raggruppava già gli autori di quelle testimonianze sotto il nome di «Senza Luce». Venivano anche chiamati i «passeggeri del Limbo». Guardai l'orologio: quasi le due. Dovevo sbrigarmi. Scorsi rapidamente le testimonianze del XVII e del XVIII secolo. Da qui in avanti gli uomini del Santo Uffizio cercavano sempre di ricostruire la sorte dei testimoni. Ogni volta facevano la stessa fine. Stupri, torture, omicidi. Gente predestinata al patibolo. I passeggeri del Limbo. Un esercito di assassini nel corso dei secoli. Mi fermai a caso su una citazione più lunga, del XIX secolo. Negli anni
Settanta un medico criminologo francese, Simon Boucherie, aveva raccolto le testimonianze di numerosi omicidi in carcere. Sperava così di creare degli archivi sulla devianza e scoprire le cause della pulsione omicida. Boucherie ne identificò due principali, all'apparenza contraddittorie. Il fatto sociale: «Non si nasce criminali, lo si diventa, a causa della società e dell'educazione», e il fattore ereditario: «Si nasce criminali: una cattiva regolazione nel sangue porta alla violenza». Conoscevo quel criminologo e le sue fumose teorie. Quello che non sapevo è che alla fine della sua esistenza si era dedicato a una terza pista: quella della «visita». Il suo caso di studio era Paul Ribes, imprigionato nel 1882 nel carcere di Saint-Paul a Lione. Pluriomicida, Ribes era stato arrestato per l'assassinio di Emilie Nobécourt: aveva pugnalato la vittima, l'aveva squartata, poi sezionata in dodici parti. In carcere, aveva confessato altri otto omicidi, sempre perpetrati nel quartiere della Villette a Lione. Quando Boucherie gli chiese di scrivere la sua esperienza criminale, Ribes insistette su quella che lui chiamava la «fonte della sua disgrazia», uno svenimento prolungato in conseguenza di un trauma cranico all'età di vent'anni. Gli inquirenti pontifici si erano procurati l'originale della testimonianza. Il fascicolo che avevo davanti conteneva il campione scannerizzato del testo manoscritto. Scelsi di leggerlo così, redatto dalla mano malferma dell'assassino lionese: Mentre ero in stato di incoscienza, ho sognato. I dottori dicono che è impossibile, ma io lo giuro: ho sognato. [...] Mi sono distaccato dal mio corpo. Quando lo scrivo, io stesso non riesco a spiegarlo, ma non ero più nel mio corpo. Fluttuavo nella stanza del dispensario. Mi avvicinavo al soffitto e provavo una paura che mi avvolgeva come nebbia... Poi ho attraversato il soffitto. Non sapevo più dove fossi. Era tutto buio. A un certo punto ho trovalo un orifizio, un pozzo, proprio sotto di me. Riuscivo a vedere le pietre delle pareti. Erano dei volti. Persone che urlavano in silenzio. Era raccapricciante. Guardando il fondo del pozzo ho avuto una vertigine e sono caduto... Volevo gridare ma la velocità me lo impediva, comunque non avevo più volto, né bocca, niente... E dopo, a poco a poco, i gemiti mi hanno cullato, i volti, con la loro sofferenza, mi hanno cal-
mato... Quelle teste sanguinanti (erano ferite) diventavano degli indumenti caldi, morbidi, confortevoli... A quel punto, l'ho visto. Era là che si aggirava, volteggiava, sotto una crosta rossa, vicinissimo alla parete... Mi ha parlato. Non saprei dire in quale lingua l'abbia fatto ma l'ho capito, oh sì, nel profondo l'ho capito. La mia intera esistenza, a partire dalla mia nascita, è diventata pura, trasparente, e ancora di più ciò che avrei vissuto, che avrei fatto... Non posso dire di più, ma supplico coloro che mi leggeranno di credermi: qualunque cosa abbia fatto, non avevo scelta. Non ho mai più avuto scelta... Nel maggio del 1883 Paul Ribes era stato trasferito a Riom, poi a SaintMartin-de-Ré, sull'isola di Ré, e infine mandato nella prigione di Cayenne, dov'era morto di malaria cinque anni più tardi, nell'agosto del 1888. Secondo un rapporto del medico della prigione, durante la sua agonia Ribes aveva detto: «Non ho paura della morte. Vengo da lì». Gli inquirenti della Santa Sede avevano aggiunto una seconda nota. Lo stesso dottor Boucherie era stato ucciso nel 1891, proprio quando stava ancora lavorando alla «terza pista», cercando nuove testimonianze in tutto il mondo. Era stato pugnalato nei pressi della prigione di Piedras Negras, vicino a Lima, in Perù. Pensai a Luc. Avrebbe apprezzato questi materiali. E ora mi si prospettava una verità. Un punto cardine della mia indagine. «Ho trovato la gola», aveva detto a Laure. Parlava di questa esperienza di pre-morte negativa. Avrebbe anche potuto dire: «Ho trovato il pozzo» o l'«abisso», una delle parole utilizzate da quei miracolati. Sì, Luc aveva scoperto la pista dei Senza Luce. Era venuto qui? Aveva stretto un patto con van Dieterling? No. In tal caso il cardinale non si sarebbe interessato al mio dossier. Quale strada aveva seguito? Come aveva scoperto l'esercito del Limbo? Passai rapidamente in rassegna i fascicoli successivi, tra cui lo stralcio di un'opera inglese, Phantasms of the Living (1906), che riportava un brano del diario scritto dal cappellano della prigione di Birmingham nelle West Midlands. Il religioso, terrorizzato, raccontava il caso di un prigioniero posseduto dal demonio, «un uomo che aveva viaggiato fuori dal suo corpo e aveva incontrato il diavolo», e sollecitava le autorità a trasferire il detenuto al Manchester Royal Lunatic Hospital, un importante istituto psichiatrico dell'epoca. Mi soffermai su un caso simile, segnalato trent'anni più tardi da una
coppia di ricercatori americani, Joseph Banks e Louisa Rhine, i pionieri della parapsicologia scientifica. Questi ricercatori dell'università di Duke avevano raccolto migliaia di dichiarazioni su esperienze rimaste inspiegate. Nei loro archivi citavano il caso di Martha Battle, dichiarata morta e poi rianimata, nel 1927, a Minneapolis, Minnesota. Secondo i familiari, al suo risveglio, la donna aveva perso la ragione. Sosteneva di avere viaggiato in una «valle oscura», dove «Satana l'aspettava per fare l'amore». Martha era stata arrestata due anni più tardi per avere avvelenato i suoi sette figli e in seguito era stata impiccata nello stato del Missouri. Anche se mi aspettavo che la porta della stanza si aprisse da un momento all'altro, decisi di leggere un'altra testimonianza. Un capitolo dei taccuini personali di John Goldblum, psichiatra americano che nel gennaio del 1946, in seno al tribunale militare di Norimberga, aveva interrogato degli ufficiali nazisti per fornire perizie psichiatriche. Tra gli interrogati, il medico Karl Liebermann, aguzzino nei campi di Sachsenhausen e di Auschwitz, corrispondeva al profilo tipico dei Senza Luce. I censori del Santo Uffizio avevano tradotto una parte del suo interrogatorio condotto da Goldblum: «Non lavoravo per il Führer, né per il Terzo Reich.» «Per chi allora?» «Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto dietro suo ordine.» «Di chi parla?» «In gioventù, prima della guerra, ho vissuto un'esperienza.» «Che esperienza?» «Una complicazione cerebrale. Sono morto e poi risuscitato.» «Che rapporto ha avuto con le sue... attività?» «Quando ero morto, è entrato in contatto con me.» «Chi?» «Satana. La Bestia. Il Tentatore. Il Malvagio. Lo chiami come vuole. Ogni nome sarà solo una menzogna in più. Un tentativo fallito di definirlo.» (Silenzio.) «È tutto quello che ha trovato come sistema di difesa?» «Non devo difendermi.» (Silenzio.) «Questo demonio, com'era?» «Non ha un aspetto. Non ne ha bisogno. È dentro di noi.»
«Cosa le ha detto questo diavolo?» «Non si è espresso. Non nel modo in cui l'intende lei.» «Cosa voleva? Come descriverebbe ciò che voleva?» «Vuole conoscere la sua volontà? Guardi cosa ho fatto nei campi. Guardi quello che hanno iniettato le mie mani. Prima della mia morte cerebrale, la mia vita era una domanda. Dopo, la mia vita è stata la risposta.» La conclusione del dossier precisava: Karl Liebermann è stato condannato a morte e giustiziato nel 1947, in particolare per la sua responsabilità nella serie di esperimenti umani realizzati con il gas mortale «iprite» a Sachsenhausen nel 1940, e inoltre per il suo contributo agli esperimenti sull'ipotermia e la partecipazione al programma di sterilizzazione, ivi incluse la castrazione e l'esposizione ai raggi X, nel campo di Auschwitz. I passeggeri del Limbo. La legione delle tenebre. Non soltanto assassini, ma torturatori, sadici, manipolatori, che agiscono in tutti i campi del male. Come angeli neri dai mille volti... Mi attaccai all'idea che quegli uomini e quelle donne avevano subito un trauma psichico, punto e basta. Ma era forte la tentazione di concludere che avevano incontrato il diavolo, quello vero, tra la vita e la morte. Un diavolo che si appostava ai confini dalla coscienza umana per ghermire i suoi adepti. Una potenza negativa in attesa che si aprisse la porta per acciuffare le anime, come i buchi neri aspirano la luce nei loro campi cosmici. Le quattro del pomeriggio. Restavano ancora parecchie testimonianze le cui date erano sempre più ravvicinate. Diedi un'occhiata ad alcune. Una donna cipriota ricoverata in rianimazione che si era sentita trasformare in un blocco di ghiaccio, quando invece le sue mani scottavano, fino a che non aveva visto spuntare una «luce rosa»... Un uomo colpito da infarto che scambiava le flebo sospese per ganci da macellaio. Dopo la decorporazione era sprofondato in un tunnel dove una voce lo aveva avvertito: «Morirai». Solo allora si era calmato e aveva visto apparire una forma zoomorfa dietro una crosta rossastra...
Cliccai a caso sullo stralcio di un rapporto della polizia federale di Saint Louis, Missouri, datato 2 maggio 1992, firmato dal detective Sam Hill. Il rapporto riguardava il decesso di Andy Knightley, sedici anni, ucciso a bruciapelo, all'una del mattino, nel quartiere del Settimo distretto. Andy era stato ritrovato morto, colpito al petto da un colpo di fucile a pompa calibro 12. La nota specificava che si trattava di un ghetto di Saint Louis, abitato totalmente da neri, dove si fronteggiavano due bande, i Crips e i Bloods. Il seguito del testo era più stupefacente. Quelli del pronto intervento erano riusciti a rianimare Andy (il detective Hill lo chiamava deadman). Al sesto elettroshock, il cuore aveva ripreso a battere. Sotto ossigenazione e flebo, Andy era stato trasferito nel reparto di rianimazione dell'ospedale battista di Saint Louis. Dieci giorni più tardi, il delinquente, ammanettato nel suo letto d'ospedale, veniva interrogato da Sam Hill. Il file includeva una registrazione sonora, inviata dalla polizia di Saint Louis. Una nota metteva tuttavia in guardia sull'accento afroamericano del giovane gangster nonché su una particolarità legata alle bande - Andy Knightley, come membro dei Crips, non aveva il diritto di pronunciare la lettera «B», la lettera del nemico - i Bloods. Ogni volta, dunque, saltava quella consonante. Feci partire la registrazione audio. Non riuscivo a resistere alla tentazione di ascoltare direttamente un'esperienza vissuta. Mandai avanti velocemente l'interrogatorio, fino al passaggio chiave: «Cioè, mi sono sentito partire.» «Ti sei sentito morire?» «No, amico. Ho lasciato il mio corpo.» «In che senso?» «Non posso spiegartelo. Ma non ero più nel mio corpo. Volavo sopra la strada quando sono arrivati gli sbirri con le loro auto. Vedevo i loro lampeggianti e tutto il quartiere. Un vero sballo, amico: come se fossi su un elicottero.» «Eri sveglio?» «Amico, ero morto. Lo sapevo e me ne fottevo. Il faro mi chiamava.» «Che faro?» «Il faro rosso, in fondo al buco.» «Avevi assunto della droga.»
«Ero morto e il faro si trovava in fondo al buco. Hai afferrato?» «Vai avanti». «Volavo lì dentro. Come in un canyon, con le pareti che si muovevano. E c'erano delle voci che piangevano.» «Quali voci?» «Delle facce. Era buio, ma si potevano vedere lo stesso. Come un televisore regolato male.» «Queste facce... cosa dicevano?» «Piangevano e basta. Ne ho riconosciute un bel po'. C'era pure mia madre.» «Piangevano perché eri morto?» (Risatine.) «Non credo che mia madre piangerà il giorno in cui morirò.» «Perché piangevano?» «Stavano male. Avevano paura.» «Di cosa?» «Del faro. La luce rossa si avvicinava. Come un occhio.» «Un occhio?» «Sì, amico. Un occhio sanguinante che... respirava. E mi diceva delle cose...» «Quali cose?» «Non te lo posso dire.» «Non capivi?» «Capivo. Ma è un segreto.» «Chi ti parlava? Una presenza... divina?» (Risate.) «Capo, non hai capito. Quello che mi parlava era Lucifero.» «Il diavolo?» «Oh sì, l'occhio, il sangue e la voce. Ho capito bene il messaggio.» «Che messaggio?» «Capo, sono sulla buona strada. Non devi sapere altro.» La registrazione terminava con questa conclusione che sapeva di profezia. E infatti: una nota precisava che Andy Knightley era stato ucciso l'anno seguente dagli uomini del Saint Louis Police Department, dopo che aveva ammazzato undici persone in una chiesa. Secondo le testimonianze,
Andy urlava che c'erano dei Bloods dappertutto, quando invece nell'edificio, nel bel mezzo della messa, c'erano solo donne e bambini. Ne avevo abbastanza. Tirai fuori il taccuino. Van Dieterling non poteva impedirmi di prendere degli appunti. Scrissi in fretta e furia i punti in comune tra le varie esperienze. Riassunsi ogni tappa con poche parole: «decorporazione», «abisso, pozzo, valle, tunnel, orifizio, canyon, caverna», «volti, gemiti», «angoscia, benessere», «luce rossa, faro, occhio», «ghiaccio, brina, lava, sangue», «diavolo, Maligno, "lui", Lucifero»... Sollevai la penna, colpito da una verità stridente. Scoprendo la «gola» e i Senza Luce, Luc non era rimasto terrorizzato, come me. E ancora meno si era sentito scettico. Ai suoi occhi quell'esperienza era un vero e proprio mezzo per entrare in contatto con il demonio. La prova fisica della potenza nera nella quale lui aveva sempre creduto. Cos'aveva scoperto per essere spinto a rinunciare all'indagine, e alla propria vita? Mi asciugai il sudore dalla fronte con il risvolto della manica. Stavo mettendo via il taccuino quando la voce del cardinale risuonò dietro di me. «Convinto?» 69 La domanda non richiedeva risposta. Girai la testa. Il cardinale van Dieterling si fece avanti. Sembrava quasi scivolasse sul pavimento. «Quindi Agostina Gedda appartiene a questa specie?» chiesi. «Ci ha raccontato la sua esperienza, sì. Suppongo gliene abbia parlato.» «Direi che ha evocato un sogno. Il diavolo le avrebbe ispirato la vendetta. Secondo lei - o piuttosto secondo "lui" - è Salvatore che l'ha spinta dalla falesia quando aveva undici anni.» «È la verità. Lo abbiamo verificato. Abbiamo rintracciato gli altri bambini che erano là.» «Potrebbe anche essersene ricordata lei stessa, no?» «La smetta di negare l'evidenza: risparmierà tempo.» Agostina mi aveva detto esattamente la stessa cosa. Mi alzai. Dietro di me, Rutherford stava già spegnendo il computer. Presi di petto l'uomo in nero e porpora. «Eminenza, qual è la sua convinzione? Crede davvero che il demonio sia apparso ad Agostina? Che sia apparso a tutte quelle persone rianimate? Voglio dire: un diavolo vero? Una potenza ispiratrice e distruttrice?»
Van Dieterling non rispose. Mi resi di nuovo conto di quanto fosse fresca e umida la stanza. «Ciò che penso ha poca importanza», disse infine, passando la mano sui dorsi sbiaditi e dorati delle rilegature. «Agostina ha vissuto un'esperienza psichica che l'ha trasformata. Questo cambiamento è stato lento. Le ci sono voluti diciotto anni. Ma alla fine la miracolata di Paternò era diventata un'assassina. Abyssum abyssus invocat.» L'abisso invoca l'abisso. Presi la palla al balzo. «Giustamente. Sarei incline a credere a un "semplice" trauma psichico. Un'allucinazione che ha modificato la sua personalità. Ma c'è la guarigione fisica. Poco fa, lei ha fatto un rapido cenno a questa remissione. Questo prodigio potrebbe essere una prova concreta dell'esistenza del demonio. Avrebbe salvato la bambina e le sarebbe apparso nello stesso istante. E forse altre volte, molto più tardi.» L'ecclesiastico accennò un sorriso. «Ma lei non crede a Satana...» «Io faccio l'avvocato del diavolo. Tutte queste testimonianze evocano una presenza, dietro una luce rossa. Un essere di tenebre che ha parlato loro. E ho notato che tutti si rifiutano di raccontare questo incontro...» «Il Giuramento del Limbo.» «Cosa?» «Il patto con il Maligno. Una tradizione antichissima gli ha conferito questo nome: il Giuramento del Limbo.» «Cosa vuol dire?» «Il diavolo non dà nulla per nulla. Nel momento in cui il soggetto muore, Satana gli propone un affare. Avere salva la vita in cambio di una totale sottomissione. La promessa di fare del male. Questa "transazione" viene chiamata il Giuramento del Limbo. Il patto faustiano, ma in versione psichica. La famosa cedula, la dichiarazione di alleanza firmata con il sangue dell'eretico. Qui, il giuramento ha luogo interiormente. Non c'è bisogno di sangue, né di convenevoli. Lex est quod facimus. Il posseduto scriverà la nuova legge attraverso i suoi crimini.» Le parole di Agostina. Dei formicolii mi mordevano la nuca. Tutto diventava logico. I fatti prendevano una piega troppo convincente, troppo... inoppugnabile. «Ma lei», chiesi brutalmente, «ci crede?» «La smetta di preoccuparsi di ciò che credo io. Dobbiamo lavorare insieme.» «Ha il mio fascicolo.»
«Vogliamo il seguito. Vogliamo essere informati di ogni nuovo elemento.» Fece un passo verso di me. L'abito nero odorava di incenso e vetiver. «Lei e io pensiamo la stessa cosa. Un solo assassino. Lei crede a un assassino in carne e ossa. Io credo a un sovrassassino che si nasconde tra le pieghe del coma. Lo chiami come le pare: diavolo, bestia, angelo delle tenebre, ma questo "ispiratore" impartisce i suoi ordini dal fondo del Limbo. Noi lo dobbiamo smascherare. Insieme.» «Non posso aiutarla. Non condivido le sue opinioni. Io...» «Zitto. Tutto sta cambiando e lei è al centro di questa mutazione.» «Che mutazione?» «Lo stile dell'ispiratore. Un tempo si accontentava di ordinare ai posseduti la violenza, la tortura, la morte. Il modo aveva poca importanza. Adesso, detta loro un rituale particolare. Gli insetti, i licheni, i morsi, la lingua mozzata... È lui che suggerisce questi dettagli alle sue creature. Lei ha il fascicolo Simonis. Noi abbiamo quello di Gedda. Ce ne sono altri.» Pensai a Raïmo Rihiimäki, l'estone. Quanti altri ce n'erano sul pianeta? Van Dieterling aveva ragione e anch'io lo avevo già capito: non era una serie di crimini, ma una serie di assassini. Assassini che, in questa logica, diventavano gli indizi riconducenti a un omicida trascendente, metafisico. Quello che tirava le fila, in fondo alla «gola». «Come sa che ce ne sono altri?» domandai. «Lo sappiamo. Lo immaginiamo. E ora, abbiamo bisogno di uno che agisca sul campo. Un vero poliziotto. Senza frontiere né princìpi. Un uomo come lei, che si trova a suo agio nella violenza e nella menzogna. Pronto a tutto pur di raggiungere i propri scopi.» Incassai l'insulto. Dopotutto, non era molto lontano dalla verità. «Lei deve ritrovare questi miracolati del diavolo», continuò il prelato. «Sta per emergere una nuova razza di assassini. Dobbiamo capire perché il demonio salva questi uomini, queste donne, e li spinge a vendicarsi con un metodo così preciso!» «Non ho neanche un indiziato nel caso Simonis.» «Lo troverà. Ogni volta è la stessa storia. Qualcuno viene ucciso, poi salvato dal demonio. Successivamente si vendica, a volte molto tempo dopo, utilizzando acidi, insetti, licheni e non so cos'altro ancora. Vogliamo la lista di questi omicidi. Vogliamo capire perché adesso il diavolo agisca, per mano dei suoi emissari, come un serial killer, con le sue ossessioni, il suo metodo, la sua firma. Pensiamo che lì sotto ci sia un messaggio da de-
cifrare. Una profezia.» Dunque era questo. I nomi della Bestia sui corpi delle vittime. Le mutilazioni che ricordavano le armi stesse della morte. Un messaggio. La promessa di Lucifero... Vertigine. La mia indagine non si svolgeva su un piano terrestre, ma escatologico. Alla fonte degli omicidi non c'erano dei semplici assassini, ma Satana in persona. Un demonio che agiva attraverso i suoi spiriti vendicatori... Pensai ancora una volta a Luc. Era approdato anche lui a quei risultati? Aveva scoperto la profezia del Maligno? Mi frugai nelle tasche e trovai la sua foto spiegazzata. «Conosce quest'uomo?» Le labbra del cardinale si arcuarono in una piega d'indifferenza. «No. Chi è?» «Un mio amico. Poliziotto anche lui. Lavorava su questo caso.» «Cosa gli è successo?» «Si è suicidato.» «Allora ha fallito. Non fallisca, Mathieu Durey. Non mi deluda!» Si voltò in un fruscio di vesti. Un avvertimento nero e rosso. L'Inquisizione era tornata, insinuandosi attraverso un misterioso varco dei secoli. 70 «La lascio qui. Non deve fare altro che seguire la direzione della visita. In fondo alla sala, giri a destra nella galleria. Alla fine, troverà l'uscita.» Il tono mieloso di Rutherford contrastava con la voce imperiosa di van Dieterling. Eravamo risaliti in superficie. Dallo spiraglio della porta, intravidi la Sala Sisto V. «D'accordo», dissi con voce assente. Salutai Rutherford e feci per andarmene, ma lui mi bloccò prendendomi per il braccio. «I nostri recapiti», disse infilandomi un foglio piegato nella tasca della giacca. «Nel caso li avesse persi.» Sorrideva sempre, ma la presa era vigorosa. Scivolai tra la folla che avanzava a gruppetti nella Cappella Sistina. Impermeabile sul braccio, tenevo il fascicolo come un turista venuto a prendere appunti. Dopo quelle ore di solitudine e di rivelazioni, ero inebetito. Non facevo caso né alla gente né al baccano che mi circondavano. Vedevo solo i dipin-
ti. Sisto V tendeva il braccio verso i progetti della nuova biblioteca che gli venivano presentati. L'imperatore Augusto, fondatore della Biblioteca Palatina, veniva avanti tra uomini di lettere simili a eremiti, barbuti e nudi. Alcuni prelati troneggiavano durante il Concilio di Costantinopoli, mentre alcuni soldati li designavano con il dito. Le mitre bianche, gli elmi color bronzo dorato, le vesti rosse e zafferano: tutto questo mi dava alla testa. Ogni dettaglio mi provocava una sensazione fisica, concreta quanto un sorso di tè bollente o una sferzata di acqua ghiacciata. Il brusio delle voci, il caldo dei corpi sembravano fondersi in uno stato di malessere... Ero nel bel mezzo della sindrome di Stendhal. All'improvviso, mi sentii svenire. Mi appoggiai a una spalla, ricevendo in cambio uno spintone accompagnato da proteste in lingua scandinava. Dovevo uscire di lì, subito. Scivolai nel flusso dei visitatori. Sfilavano i dipinti. Di fronte a me un Cristo brandiva una tavola su cui era scritto: EGO SUM. Le lettere mi si impressero a fuoco nel cervello. Alla fine raggiunsi la galleria. Non provai nessun sollievo: era sovraffollata di affreschi, sculture, antichi strumenti di astronomia. Presi a destra e m'incuneai nella corrente umana, costeggiando le finestre che davano sui giardini del Vaticano con i suoi pini. Mi si oscurava la vista, la pelle mi si accapponava. All'improvviso, un malessere nel malessere. Una sensazione acuta, diversa. Ero seguito. Non da un uomo di van Dieterling, né dallo sguardo astratto di Pazuzu. Qualcos'altro. E in una frazione di secondo mi fu chiaro: gli assassini. Occhiata di ricognizione a 360 gradi. Nulla. Tranne i turisti che procedevano a rilento, ammirando i dipinti, i mappamondi, i globi celesti. Eppure mi sentivo individuato, spiato, minacciato. E quella folla era un terreno perfetto per un'esecuzione discreta, all'arma bianca. Il flusso mi avrebbe trascinato fino all'uscita, con il coltello piantato nel ventre. Mi feci largo, accompagnando i miei passi con dei «scusi», «pardon», «sorry» e ricevendo in risposta grugniti e gomitate. Infine, oltrepassando le guardie che vegliavano sul gregge, mi cacciai in un angolo, contro una porta a vetri, e ripresi fiato. Di fronte a me, da una vetrata blu e rossa, Maria e Gesù Bambino mi fissavano con autorità. Quello sguardo mi ordinava di continuare a camminare, senza timore. Mi sentii sollevato. Mi affidai al Signore e mi mescolai di nuovo alla folla. Fine della galleria. Qui, la massa di turisti sembrava ancora più densa,
come un fiume alimentato da mille corsi d'acqua. Per uscire dai musei bisognava superare un'ultima prova: la grande scala elicoidale in bronzo di Giuseppe Momo. Un pendio dolce che con le sue linee svasate ricorda una struttura in fuga verso l'infinito. «Scusi, pardon, sorry...» Mi intrufolai tra i gruppi. Gli anelli elicoidali si succedevano come giri della morte. Mi assalì un pensiero: quella scalinata a spirale era in sintonia con la struttura profonda dell'essere umano. C'era una comunanza tra quella forma e l'architettura interna dell'uomo. Stavo pensando all'elica del nostro DNA quando un individuo grande e grosso imboccò la rampa davanti a me, sbarrandomi il passaggio. Con la sua stazza occupava tutto lo spazio. Gli diedi un colpetto sul braccio e dissi alzando la voce: «Scusi!». Il tizio non si spostò. Al contrario, le sue dita si aggrapparono al corrimano di bronzo. Capii, un secondo troppo tardi. Mi gettai contro il muro. Un coltello sibilò dietro di me. La lama si piantò nell'avambraccio del pachiderma. Mi girai: non vidi nulla. Solo alcuni turisti che cominciavano a spingere perché non andavo più avanti. Mi girai di nuovo: anche il braccio ferito era sparito. La scena si era svolta in modo così fulmineo che mi chiesi se non avessi sognato. Ma in quel momento, qualcuno mi afferrò. Un uomo - niente volto, solo un berretto da baseball con la visiera abbassata - mi sollevò e tentò di spingermi oltre la ringhiera. Resistetti, tenendomi stretto al corrimano, mollando impermeabile e fascicolo. Il disordine divenne caos. I turisti si spintonavano. La ringhiera contro lo stomaco, il vuoto di fronte a me. Mi schiacciai contro il parapetto, facendo peso con tutto il corpo per non perdere l'equilibrio. Le mani mi tiravano incessantemente. Il flusso di turisti si spostava per passare, senza fermarsi davanti alla nostra lotta. Nessuno sembrava accorgersi che tentavano di uccidermi. Sferrai un pugno. Il colpo si perse nella folla ma la morsa si allentò. Mi stesi di traverso sulla salita. Un clamore salì dall'ellisse. Rotolai per diversi metri, trascinato da un groviglio di piedi. Tutti si accalcavano verso il parapetto. Cosa stava succedendo? Mi rialzai e capii. Nel parapiglia, l'assassino si era sbilanciato all'indietro. Cercando di liberarmi, dovevo avergli falciato le gambe provocando la sua caduta. Mi rialzai, raccolsi la mia roba. In stato di shock, scesi precipitosamente. Nessuno aveva fatto caso alla nostra lotta. Nessuno mi afferrava per un braccio urlando: «Assassino!». Arrivai così al pianterreno. Si era formato un capannello di gente intorno al corpo, al centro della
struttura. Alcune guardie gridavano per farsi largo. M'infilai dietro di loro. Il corpo giaceva in una posizione innaturale. La gamba sinistra contorta al punto che il piede toccava l'anca. Il braccio destro, infilato dietro la schiena, si era spezzato di netto. L'osso bucava la camicia all'altezza della spalla. Il berretto era stato sbalzato un metro più in là e il cranio lucido si era fracassato sul marmo chiaro. Un'immensa aureola scura andava disegnandosi intorno al viso che, per contrasto, sembrava ancora più pallido. La vista di un cadavere è sempre agghiacciante ma io avevo una ragione in più per essere sconvolto: conoscevo quell'uomo. Patrick Cazeviel, il secondo sospettato nell'omicidio di Manon Simonis. L'ex carcerato, tatuato dalla cintura alle spalle, il prigioniero degli angeli e dei demoni. Un particolare, sotto la clavicola sinistra, attirò la mia attenzione. Un tatuaggio che ricopriva gli altri segni e arabeschi bluastri. Un disegno che aveva la precisione del numero di un campo di concentramento o di una cicatrice, ma che non avevo notato durante il nostro primo incontro. Una sorta di gogna, o un collare di ferro, legato a una catena, come quelli che portavano i detenuti di un tempo. Avevo già visto quel simbolo. Ma dove? 71 «Aeroporto internazionale di Fiumicino.» Mi fiondai nel taxi. Una sola urgenza: scappare da Roma. Prendere il primo aereo, mettere quanti più chilometri possibili tra me e quella morte violenta. «Un incidente», mormorai. Le parole mi tremavano in bocca. «Un incidente...» A via de Lungara, pensai al mio borsone da viaggio rimasto nella pensione. «Pantheon!», urlai. «Via del Seminario!» L'auto fece un'inversione repentina e attraversò il Tevere, sul ponte Mazzini. Ancora una volta, cercai di raccogliere le idee, di ritrovare la calma e il controllo. Impossibile. Le mie dita picchiettavano sul finestrino, il collo era madido di sudore. Per la prima volta provavo una voglia viscerale di piantare tutto. Tornare a Parigi e interpretare il ruolo del bravo poliziotto nel suo cantuccio, al quai des Orfèvres. Il taxi si fermò. Salii in camera, preparai i bagagli, saldai il conto e saltai in auto. Sulla strada per l'aeroporto di Roma, mi arresi all'evidenza: non avevo nessun posto dove andare.
Il dossier Gedda era chiuso. E anche quello di Raïmo Rihiimäki, l'estone identificato da Foucault. Quanto al caso Sylvie Simonis, non avevo trovato nulla. Nessuna notizia da Sarrazin, da Foucault, da Svendsen. Nessuna delle piste che avevo seguito aveva fruttato granché: lo scarabeo, il lichene, l'Unital6, i controlli incrociati di tutte le informazioni... Niente di niente. Alla fine riuscii a mettere ordine nei miei pensieri. La mia trama era ormai costituita da tre fili differenti. Il primo era l'assassinio di Sylvie Simonis. Un omicida a Sartuis. Quello che aveva torturato l'orologiaia e vendicato Manon. Che aveva inciso sulla corteccia: IO PROTEGGO I SENZA LUCE e nel confessionale: TI ASPETTAVO. Era anche lui uno scampato alla morte, come Agostina, come Raïmo? Il secondo filo era la teoria di van Dieterling. Non un solo omicida, ma una serie di omicidi. Bisognava considerare i nuovi Senza Luce nel loro insieme, decifrare il significato del loro rituale, comprendere ciò che esso celava. «C'è una mutazione», aveva detto. Mutazione e profezia. Il paesaggio scorreva via. Cosa fare? Cercare ancora altri casi nel mondo? Con quale scopo? Allungare la lista degli assassini che avevano confessato? Completare l'archivio del prelato? Identificare, come lo chiamava lui, il «sovrassassino» nascosto dietro la serie? Se si fosse trattato davvero di incastrare il diavolo in persona, facevo fatica a immaginarmi mentre gli mettevo le manette... Ma, soprattutto, questo approccio significava ammettere l'esistenza del demonio. E questo era assolutamente fuori questione. Dovevo concentrarmi sulla sola domanda concreta, il solo enigma degno di un poliziotto della Criminale di Parigi: chi aveva ucciso Sylvie Simonis? Ritorno al punto di partenza. Rimaneva il terzo filo. Gli assassini che avevo alle calcagna. Anche quelli mi riportavano al caso Simonis. Uno dei due era Cazeviel. Chi era l'altro? Perché mi volevano eliminare? Erano gli assassini di Sylvie? No, questi mercenari proteggevano un segreto. L'esistenza dei Senza Luce? La loro recente mutazione? O un altro segreto dietro il dossier Simonis? Anche su questo versante, la pista era a un punto morto. A meno che il secondo assassino non tentasse di nuovo di farmi fuori e che riuscissi a interrogarlo... La prospettiva non mi allettava. Le quattro del pomeriggio. Aeroporto di Fiumicino in vista.
La notte scendeva sulla periferia di Roma. Nuvole violette, cielo giallastro. Pensai a Luc. A questo punto dell'indagine, che cosa aveva deciso? Come aveva potuto spingersi oltre? C'era una differenza fondamentale tra lui e me. Luc credeva a Satana, io no. L'ostacolo principale sulla mia strada era il mio spirito cartesiano. Ero l'ultima persona che poteva andare avanti su questo caso... Luc doveva aver seguito la pista dei Senza Luce, studiato gli indizi ed essersi avvicinato all'anima malefica... Un'idea: verificare, una buona volta per tutte, l'esistenza del demonio. In fondo, l'unico elemento soprannaturale del caso Gedda era la guarigione fisica di Agostina. Il solo fatto inspiegabile. Durante il coma la bambina poteva aver avuto un'allucinazione. Una NDE infernale. Poteva essere stata traumatizzata da quell'esperienza ed essersi trasformata in un'omicida. Questo non provava nulla, dal punto di vista metafisico. In compenso, il miracolo della sua guarigione era un'altra storia. Guarire da una cancrena in pochi giorni: ecco qualcosa di concreto. Il taxi si fermò. Eravamo arrivati a Fiumicino. Pagai la corsa. Air terminal. Banco informazioni. Un solo posto al mondo per capire quello che era successo dentro il corpo di Agostina, una notte di agosto del 1984. L'hostess mi sorrise. «Quale destinazione?» «Lourdes.» Da Roma, le navette per la località mariana erano frequenti ma l'alta stagione era finita, quella sera non sarebbe partito nessun volo. La prossima partenza ci sarebbe stata l'indomani mattina. Acquistai un biglietto in business class per poi mettermi alla ricerca di un hotel. Trovai un'«officina del sonno» in aeroporto, non lontano dalle piste. Chiusi a chiave la porta e crollai sul letto, ancora vestito. Gli abiti erano appiccicosi per via del sudore, gualciti, strappati. Chiusi gli occhi. Il rombo degli aerei, sopra l'edificio, filtrava dalle pareti e mi trapassava il cranio. Una lama fendette la folla, sulla scalinata di Giuseppe Momo. Affondò in un braccio carnoso, proprio davanti ai miei occhi. Sussultai alla vista dello schizzo di sangue. Le palpebre mi pulsavano. Di chi era quel braccio? Chi era quell'obeso, complice di Cazeviel, che già due volte mi aveva sbarrato la strada, a Catania e in Vaticano? Avrebbe indovinato la mia prossima destinazione? Speravo persino in un nuovo attacco. Strinsi la mia Glock, d'istinto. Il mio corpo si distese. Dormiveglia. La
voce di Luc: «Ho trovato la gola». "Anch'io", risposi mentalmente, "l'ho trovata." Almeno, sapevo della sua esistenza. Ma come avvicinarla? La mia coscienza procedeva a ritroso. Adesso, fluttuavo in un corridoio di tenebre. Un labirinto serpeggiante sottoterra. Un fanale rosso brillava debolmente. Tesi la mano. Una voce improvvisa. Era la voce, dolce e viziosa, di Agostina Gedda. Lex est quod facimus. LA LEGGE È QUELLO CHE FAGCIAMO. 72 Rispetto alla sua leggenda, Lourdes faceva una magra figura. Circondata da colline, costruita attorno a rocce sporgenti, la città mariana era minuscola. Tutto era stipato a ridosso di un fiume che aveva piuttosto l'aria di un torrentello. Nonostante la basilica superiore, da cui svettava l'alto campanile, nonostante le molte chiese e cappelle moderne, per il ruolo che rivestiva, Lourdes era imbrigliata in dimensioni troppo contenute. I luoghi di preghiera si erano moltiplicati senza che si pensasse a estendere la superficie edificabile. Lourdes era la rana che aveva inghiottito il bue. Le nove del mattino. Ero già stato qui da adolescente, in gita con la classe: Sèze distava pochi chilometri da Lourdes. Poi non vi ero più tornato. Non mi piacevano quei luoghi chiassosi, dove la superstizione lotta ad armi pari con la fede. Lasciavo le città miracolose ai creduloni, ai cristiani ingenui, ai disperati. Non avrei mai espresso il mio giudizio ad alta voce, ma di fronte a quei luoghi di pellegrinaggio mi sentivo più o meno come un cinefilo nei confronti dei film del sabato sera. Era Ognissanti. Nei parcheggi, all'entrata della città, erano posteggiate decine di vetture, con targhe di tutta Europa. A mia volta posteggiai l'Audi presa a noleggio e cominciai a salire. Le strade erano una curva continua e rivelavano una città tutta sbilenca, attraversata da correnti d'aria. Ovunque s'incrociavano sorgenti e fontane, come in una località termale, ma anche altari e statue. Era impossibile dimenticare la natura consacrata della città. In particolare, le vetrine dei negozi straripavano di souvenir. Statue della Vergine, effigi di Bernadette, con la sua cintura azzurra e le due rose gialle ai piedi, cristi che aprivano o chiudevano gli occhi a seconda che ci si av-
vicinasse o allontanasse. E naturalmente tutti i prodotti derivati dalla sorgente. Bottiglie contenenti l'acqua di Lourdes, caramelle all'acqua di Lourdes, flaconi d'acqua a forma di Madonna... Dalla parte alta della città proveniva un frastuono. Dei canti. La cerimonia era cominciata. Continuai a salire, seguendo la direzione della basilica superiore e della grotta di Massabielle. L'arcivescovado non doveva essere lontano. Primo obiettivo: interrogare monsignor Perrier, il vescovo di Lourdes. Poi, recarsi all'ufficio delle constatazioni mediche, per incontrare il dottore che aveva seguito il caso di Agostina. Superai dei ritardatari. Famiglie riunite intorno a una sedia a rotelle, infermieri che affrettavano il passo, preti affannati con le tonache scosse dal vento. In fondo all'ultima strada, abbracciai con un solo sguardo il luogo della celebrazione. All'improvviso mi emozionai fino alle lacrime. Ai piedi della gigantesca basilica migliaia di fedeli stavano immobili, con lo sguardo rivolto alla grotta delle Apparizioni, inghiottita dall'edera e dai ceri. Bandiere e striscioni sventolavano nell'aria. PEREGRINOS DE UN DÍA, PILGER FÜR EINEN TAG, POLKA MISSA KATOLIK. Ombrelli e coperte blu riparavano i malati, formando innumerevoli macchie nella folla. Riconobbi anche i vari ordini o congregazioni: le vesti nere dei benedettini, i sai di lana grezza dei cistercensi, i crani rasati dei padri certosini, la croce rossa e blu dei trinitari. C'erano anche donne. Veli bianchi con righe azzurre delle piccole guerriere di Madre Teresa o, molto più raro, il mantello nero con croce rossa sulla spalla delle Dame del Santo Sepolcro di Gerusalemme: quelle che venivano soprannominate le «sentinelle dell'invisibile». La folla ricominciò a recitare in coro l'Ave Maria. Quel climax di fervore penetrò in me come una lama, allo stesso tempo dolorosa e salutare. Adoravo quei grandi incontri da cui si elevava una fede universale. Messe di mezzanotte, le parole del papa a piazza San Pietro, il raduno estivo a Taizé... Un uomo con la tonaca, dall'aria indaffarata, mi passò davanti. Dava le spalle alla cerimonia. Forse un prete del posto. Gli feci segno. «Mi scusi, cerco la residenza del vescovo.» «Monsignor Perrier?» «Lo devo incontrare il prima possibile.» Lanciò un'occhiata oltre la sua spalla, verso il sagrato. «Oggi sarà difficile. È giorno di celebrazione.»
Tirai fuori il tesserino. «È urgente.» Delle rughe gli solcarono la fronte. Non ero molto opportuno. «Deve aspettare la fine della messa.» «Dov'è la sua residenza?» «In cima alla collina, un po' più su.» «Lo aspetterò lì.» «Ci sono le indicazioni per la residenza vescovile. In fondo a un parco. Vado alla grotta. Gli dirò che lo sta aspettando.» Ripresi il cammino. Il cielo grigio si rifletteva sulla strada umida, sprigionando dei riflessi duri, cangianti. In queste viuzze incolori, con le facciate di granito troppo strette le une sulle altre, c'era qualcosa di straziante, di infinitamente triste, ma nello stesso tempo di molto forte, d'indistruttibile. Oltrepassai il cancello del parco, sapendo già che non avrei avuto la pazienza di aspettare lì. Andare dritto all'ufficio degli accertamenti sanitari? Attraversai il giardino, per poi scoprire l'abitazione del vescovo, un presbiterio di dimensioni industriali. Entrai nell'atrio. Muri intonacati, una grossa croce sospesa orientata verso l'ingresso, una panca di legno. Mi sedetti e accesi una sigaretta. In fondo al corridoio, lo sbattere di una porta. Apparve un prete, che gridava in un cellulare. «I miei esperti saranno lì tra due ore. Vengo di persona a cercare il fascicolo del paziente, dato che ve ne infischiate di inviarcelo. L'ufficio sarà aperto, no?» Mi spostai per lasciarlo passare. In un secondo indovinai che stava parlando dell'ufficio delle constatazioni. Lo seguii all'esterno e lo interpellai mentre chiudeva il cellulare. L'uomo si fermò, con aria ostile. Sembrava uscire direttamente da un romanzo di Bernanos. Le guance scavate, lo sguardo da fanatico, la tonaca resa lucida dall'usura. Gli chiesi se l'ufficio fosse aperto. Me lo confermò. «Lei ci sta andando, vero?» aggiunsi. «Ci devo andare anch'io.» Mi squadrò dalla testa ai piedi, poco simpaticamente. «Chi è lei?» «Sono un poliziotto. Lavoro su un caso di miracolo ufficiale.» «Quale?» «Agostina Gedda. Agosto 1984.» «Non troverà nessuno che le parlerà di Agostina.» «Al contrario, penso di ottenere il dossier completo e interrogare monsi-
gnor Perrier e il medico che ha seguito il caso.» L'uomo ebbe un ghigno. «Nessuno le dirà l'essenziale.» «Nemmeno lei?» Si avvicinò. La tonaca puzzava di muffa. «Satana. Agostina è stata salvata da Satana.» Un altro estimatore di diavolerie. Proprio quello che mi ci voleva. Sfoderai un tono ironico: «Il diavolo a Lourdes: c'è conflitto di interessi, no?». Il prete scosse lentamente la testa. «Al contrario», disse con un sorriso che era a mezza strada fra il disprezzo e la costernazione. «Il demonio viene qui per reclutare. La debolezza, la disperazione: sono i suoi terreni prediletti. Lourdes è il mercato dei miracoli. Qui la gente è pronta a credere a tutto.» «Chi ha seguito il caso di Agostina?» «Il dottor Pierre Bucholz.» «Lavora sempre all'ufficio?» «No. È in pensione. Lo hanno "messo" in pensione.» «Perché?» «Per essere un poliziotto, lei non mi sembra molto sveglio. Ricopriva un ruolo importante, capisce? Stava diventando scomodo.» «Dove posso trovarlo?» «Sulla strada per Tarbes. Prenda la D507. Proprio prima del paese di Mirel, una grande casa di legno scuro.» «Grazie.» Gli girai intorno. «Faccia attenzione», mi avvertì prendendomi il braccio. «Non è solo in questa ricerca.» «Che cosa vuol dire?» «Vengono qui, anche loro.» «Chi?» «Cercano i miracolati del demonio. Sono più pericolosi di quanto lei possa immaginare. Hanno regole, ordini.» «Chi è che spia? Chi riceve gli ordini?» «Nelle tenebre, ci sono più fronti. Quelli hanno una missione.» «Quale missione?» «Devono raccogliere il suo Verbo. Non hanno un libro, capisce?» «Non capisco un accidente. Di cosa diamine sta parlando?» Il suo sguardo si fece compassionevole. «Lei non sa nulla. Sta procedendo alla cieca.»
Questo corvo cominciava a darmi sui nervi. «Grazie per l'incoraggiamento.» «Lasci stare! Lei si trova sul loro territorio!» E su queste parole imboccò il sentiero, sorpassandomi e immergendosi nell'ombra degli alberi. Rimasi lì per qualche istante, guardando sparire la tonaca grigiastra. Non avevo capito l'avvertimento, ma ero sicuro di una cosa: senza saperlo, quello sconosciuto aveva appena parlato dei miei assassini. Uomini che stavano cercando anche loro i Senza Luce e che erano pronti a far fuori tutta la concorrenza sul loro cammino. 73 Il prete non aveva mentito. Trecento metri prima di Mirel c'era la casa di legno. Arretrata rispetto alla strada, era perfettamente in tono con il paesaggio lugubre. Posta ai piedi delle colline brulle che si sovrapponevano all'orizzonte, era circondata da alberi spogli e campi nerastri. Raggiunsi il cancello e suonai la campanella del giardino. Un cane si mise ad abbaiare, poi di nuovo il silenzio. La recinzione di legno era più alta di me: non distinguevo nulla. Stavo quasi per desistere quando udii lo scatto di una portafinestra che veniva aperta. Dei passi sul ghiaino, l'ansimare del cane. Il cancello si aprì. Mi fu subito chiaro che il dottor Pierre Bucholz si sarebbe classificato al primo posto nella lista degli allucinati che avevo incrociato fino a lì. Alto, massiccio, indossava una giacca pied-de-poule con le toppe e pantaloni di lana nera. Sulla sessantina, una fronte alta che lo faceva somigliare a un grosso ciottolo grigio, sfoggiava un'austera barba alla Cavour. Nel volto contratto, due occhi penetranti, vividi, un po' da pazzo. Occhi da inquisitore che contemplano il rogo crepitante. «Che cosa vuole?» urlò. Parlava come se fossi distante una decina di metri. In realtà ero così vicino che mi ero anche beccato qualche schizzo di saliva. Gli spiegai il motivo della mia visita. Si aggrappò al montante del cancello con un movimento teatrale, poi mormorò, massaggiandosi il petto con l'altra mano: «Agostina... Che tragedia...». Aggirai il cane - un molosso a pelo raso - e seguii il medico nel suo antro. La casa nera era disseminata di vetrate con le giunture dissestate.
Bucholz si fermò per togliersi le scarpe e infilarsi delle ciabatte. Proposi di lasciare lì anche le mie scarpe. L'idea sembrò piacergli ma ci ripensò: prese solo il mio impermeabile. Nell'ingresso c'erano un portaombrelli, un attaccapanni nonché il kit del perfetto cacciatore: stivali, poncho da pioggia, cappello di feltro. Il fucile a pallettoni non doveva essere lontano. Il medico mi indicò il salotto, una stanza sovraccarica di soprammobili, effigi della Vergine, di Cristo, dei santi. Rosari in bella mostra nelle vetrinette. Croci, bicchierini di metallo, ceri su ogni mobile. Dal camino spento proveniva un odore di fumo stantio. «Si sieda.» La proposta non ammetteva repliche. Il cane ci aveva seguiti. Placido, era evidentemente abituato alla voce roboante del padrone. Attraversai con cautela la serie di oggetti e mi sedetti sul divano, di fronte alla portafinestra. Bucholz si chinò su un piccolo carrello zeppo di bottiglie tintinnanti. «Posso offrirle qualcosa da bere? Ho della chartreuse, del liquore di ciliegie prodotto dai domenicani, del calvados dei padri della cappella di Montligeon, dell'eccellente acquavite dell'abbazia di...» «Grazie, ma per me è un po' presto.» Intravidi sul tavolino un catechismo del 1992, segno che non ero proprio in casa di un cristiano fautore di nuove tendenze. Si lasciò cadere su una poltrona di fronte a me e si piantò le mani sulle ginocchia. «Cosa vuole sapere?» «Per prima cosa vorrei avere una sua opinione in generale.» «Su che cosa?» «Sul fenomeno del miracolo. Come se lo spiega?» Emise un sospiro da far vibrare i vetri. «Mi sta chiedendo di riassumere venticinque anni della mia vita. E cinquanta di fede!» «Ma esiste una spiegazione scientifica?» «Come medico, mi creda, mi piacerebbe sapere come queste cose avvengono, tecnicamente. Ne ho viste talmente tante...» Cercai con lo sguardo un posacenere. Invano. Non valeva la pena chiedere se potevo fumare. Il profumo della cera e l'odore di prodotti a base di candeggina tradivano un maniaco della pulizia. «Si parla sempre della sessantina di miracoli riconosciuti dalla chiesa», continuò Bucholz, «ma non è che una parte delle guarigioni censite dall'ufficio delle constatazioni mediche! Secondo lei, quanti miracoli sono stati constatati dopo le apparizioni della Vergine?» «Non lo so.»
«Mi dica una cifra.» «Onestamente, non ne ho idea. Cinquecento?» «Seimila. Seimila casi di guarigioni spontanee, senza la minima spiegazione.» «È un effetto dell'acqua?» Negò con vigore. Nei suoi gesti si leggeva una sorta di risentimento aggressivo. Mi faceva pensare a un prete che aveva rinunciato ai voti, o a un militare degradato. «L'acqua non ha alcun potere», disse. «È stata analizzata, senza alcun risultato.» «L'influenza spirituale del luogo? Un processo psicologico?» Scacciò via quell'ipotesi agitando la grande mano cosparsa di macchie. «No. Se ci sono sospetti di isteria o di psicosomatismo, il caso viene escluso.» «E allora cosa?» «In venticinque anni di esperienza», disse con voce più bassa, «mi sono fatto un'opinione.» «L'ascolto.» «È una questione di appello e di energia. Prima di Lourdes, prima dell'acqua, dietro ogni miracolo c'è un appello. Una preghiera. Una speranza. Quella di una famiglia, o di un intero villaggio. Queste persone concentrano una formidabile forza d'amore che agisce come una calamita. Tale forza attira una potenza superiore, di ordine cosmico ma della stessa natura. È questa potenza benevola a guarire. Un altro modo di dire che l'appello viene ascoltato da Dio.» Niente di nuovo sotto il sole. «Dietro ogni pellegrino», sottolineai, «c'è sempre una preghiera, una speranza.» «Concordo. E non riesco a spiegarmi la selezione divina. Perché un certo soggetto sì e un altro no? Di quando in quando, però, la calamita funziona. La preghiera scatena... il magnetismo divino.» «L'acqua della sorgente, dunque, non gioca nessun ruolo?» «Forse quello di conduttore», ammise. «L'energia di cui parlo sarebbe equiparabile a una sorta di elettricità trasmessa dall'acqua di Lourdes. Lei è cristiano?» «Praticante.» «Benissimo. Allora può capire di cosa sto parlando. Questa forza non è un prodigio, un'energia sovrannaturale. Oggi, anche i più grandi astrofisici
sono giunti a questa conclusione. Cosa c'è dietro gli atomi? Chi li orienta e li ordina? Conosciamo le quattro forze elementari che hanno sovrainteso alla creazione del cosmo: le due forze nucleari, quella "forte" e quella "debole", la forza di gravità e la forza elettromagnetica. Forse c'è una quinta forza: lo spirito. Sempre più scienziati avanzano l'ipotesi che dietro l'organizzazione della materia agisca una potenza simile. Secondo me, questo spirito è amore. Che cosa c'è di incredibile nell'immaginare che di quando in quando questa forza riconosca uno di noi? Si focalizzi per venire in aiuto di un semplice mortale?» Era giunto il momento di entrare nel vivo del discorso. «È ciò che è successo ad Agostina Gedda?» Reagì bruscamente. «Niente affatto. Non è stata quella la forza che ha salvato la piccola.» «Ce ne sarebbe un'altra?» Un sorriso gli ravvivò il volto. «Una versione corrotta. Una forza negativa. Il Male. Agostina Gedda è stata salvata dal demonio», disse alzando un indice minaccioso. «Io l'ho sempre saputo! Non c'era bisogno di aspettare che facesse fuori il marito per riconoscere la sua natura malefica.» Non aggiunsi nulla. Bastava attendere il resto della storia. Bucholz si lisciò la fronte. «Il suo viaggio a Lourdes non aveva portato ad alcun risultato. Era evidente. In genere la guarigione è un fatto immediato, al massimo si verifica nei giorni successivi all'immersione. Con Agostina non è successo nulla. La cancrena ha continuato a progredire.» «Lei ha seguito il caso?» «Mi ero affezionato alla piccola. Prima delle immersioni in piscina, è obbligatorio recarsi all'ufficio medico per una visita. Quella bambina di undici anni, sulla sedia a rotelle, che deperiva a vista d'occhio: mi ha sconvolto. Il mese dopo, a luglio, sono andato io stesso a verificare la diagnosi. Non c'erano più speranze.» «Però Agostina è guarita, qualche settimana dopo.» «Il diavolo ha agito quando la piccola è entrata in coma.» «Come lo sa?» Di nuovo silenzio, di nuovo il gesto sulla fronte. «Avevo dei sospetti fin dall'inizio.» «Cioè?» Sbuffò, come se dovesse imbarcarsi in una spiegazione molto complessa.
«Glielo ripeto. Ho diretto l'ufficio per venticinque anni. So come funziona questo posto. Conosco le associazioni che organizzano i pellegrinaggi. Alcune hanno una cattiva reputazione.» Pensai all'Unital6. Feci quel nome. Bucholz annuì. «Giravano delle voci. Si diceva che all'interno di quell'organizzazione a volte le speranze deluse venivano consolate in modo bizzarro... Oltre un certo grado di disperazione, l'uomo è pronto ad ascoltare di tutto. A provare di tutto.» «Come rivolgersi al demonio?» «Degli elementi corrotti dell'Unital6 approfittavano di certe miserie per proporre quella alternativa. Messe nere, invocazioni, e non so quale altra...» L'ammonizione del prete emaciato: «Nelle tenebre, ci sono più fronti». Per il momento, ne contavo tre. I Senza Luce e i loro omicidi sotto l'influsso di qualcuno. I miei killer che sembravano proteggere la porta del Limbo. E ora questi imbroglioni dell'aldilà, mercanti di miracoli in nero... «Lei pensa che i genitori di Agostina si siano lasciati convincere?» «La madre, non il padre. Lui non credeva a niente. Lei, credeva a tutto.» «Ha pagato per una messa nera?» «Ne sono sicuro.» «E questa volta l'appello è stato ascoltato?» Aprì le mani e poi le richiuse, come il sipario di un teatro. «Possiamo supporre un'antiforza opposta allo spirito dell'amore, alla stregua di un'antimateria nell'universo. È questa potenza contraria che ha agito su Agostina. Una sovrastruttura di odio, di vizio, di violenza ha fatto regredire la malattia e l'ha salvata. La si può chiamare "demonio". La si può chiamare in qualsiasi modo. L'angelo caduto, malvagio, che minaccia la nostra civiltà cristiana, non è che il simbolo di questa energia corrotta.» «Quando Agostina si è risvegliata dal coma, nulla indicava che fosse posseduta.» «È vero. Ma sapevo che Lourdes e Nostro Signore non c'entravano minimamente. Subodoravo il complotto. Diffidavo della madre, ignorante, superstiziosa. C'era pure l'Unital6, che puzzava di zolfo...» «Lei ha interrogato la bambina?» «No. Ma ho visto crescere Agostina. Ho visto crescere il serpente.» «Come?» «Particolari del comportamento. Alcune parole. Degli sguardi. Agostina aveva l'aria di un angelo. Pregava. Accompagnava i malati a Lourdes. Tut-
to finto. Una cortina di fumo. In lei c'era il diavolo. Si espandeva come un cancro.» Il dottor Bucholz mi dava soprattutto l'idea di uno con qualche rotella fuori posto. «Ha già sentito parlare dei Senza Luce?» «Il segreto meglio custodito dal Vaticano!» «Ma ne ha sentito parlare.» «Venticinque anni di Lourdes, le dice qualcosa? Sono una vecchia sentinella. I Senza Luce, il Giuramento del Limbo...» «Crede che Agostina abbia stretto un patto con il demonio?» Aprì di nuovo le mani. «Deve capire un principio basilare. Il diavolo aspetta l'ultimo momento per apparire alle sue vittime. Aspetta la morte. Solo in quell'istante le ripesca. Accade tutto nel Limbo, quando non c'è più vita ma la morte non ha ancora compiuto la sua missione. Ora, quanto più a lungo il soggetto rimane tra queste due rive, tanto più il suo rapporto con il demonio è profondo, intenso. Nel caso delle esperienze di pre-morte positive, il principio è lo stesso. Più l'esperienza è lunga, più i ricordi sono precisi. E più la vita, dopo, ne è sconvolta.» «Agostina è stata clinicamente morta?» «Sì.» «Come lo sa?» «Mi ha chiamato la madre.» «Ha chiamato lei? A mille chilometri di distanza?» «Si fidava di me. Ero l'unico medico che era andato a trovarla a casa loro, a Paternò. Mi ascolti. Agostina muore. Secondo le informazioni in mio possesso il suo cuore ha cessato di battere per almeno trenta minuti. Questo ha dell'eccezionale. Il demonio l'ha marchiata in quell'istante. Nel profondo.» «Ma Agostina non gliene ha mai parlato.» «Mai.» Ero venuto per far luce sul miracolo malefico di Agostina. Ero servito. A modo suo, quell'uomo seguiva una logica ferrea. «Ha parlato con qualcuno delle sue congetture?» «Con tutti. La resurrezione di Agostina non è un miracolo. È uno scandalo, nel senso etimologico del termine. Dal greco skandalon, ostacolo. Un abominio. Agostina è un ostacolo per l'amore. La prova fisica dell'esistenza del diavolo! L'ho detto a chi voleva ascoltarmi. Da qui, il mio pensio-
namento anticipato. Persino tra i cristiani non è una buona cosa dire la verità.» Il suo ragionamento non faceva una grinza, ma Bucholz era soprattutto un originale che aveva finito per convincersi delle proprie ipotesi. Osservandomi con la coda dell'occhio, parve fiutare il mio scetticismo. «Conosco un altro caso», disse. «Una bambina, rimasta ancora più a lungo in fondo al Limbo.» Trattenni il fiato. «Una storia terribile», continuò. «Per più di un'ora la piccola non ha dato il minimo segno di vita!» Tirai fuori il taccuino. «Il nome?» Pierre Bucholz aprì la bocca ma non emise alcun suono. Qualcosa aveva picchiato contro il vetro. Restò immobile un secondo, poi collassò sul tavolino. La schiena bagnata di sangue. Lanciai uno sguardo verso la portafinestra. Un bagliore. Mi gettai a terra. Un altro plop. Il cranio del cane esplose. Contemporaneamente il corpo di Bucholz si accasciò sul pavimento, tirandosi dietro la collezione di boccali di Fatima disposti sul tavolino. I liquori dei monaci schizzarono in aria. Le statuette della Vergine e di Bernadette furono polverizzate. Le candele, i bicchierini, le vetrine andarono in mille pezzi. Scivolai sotto il tavolino. La casa si disintegrava, senza l'ombra di una deflagrazione. Le vetrate si frantumarono. Le poltrone, il divano, i cuscini si sollevarono per poi ricadere, ridotti a brandelli. Cassettoni e armadi si schiantarono, sventrati. Pensai: "Un cecchino silenzioso. Il mio secondo killer". Potevamo finalmente regolare i conti. Quest'idea mi diede un'energia inaspettata. Arrischiando un'occhiata verso la vetrata fracassata, scoprii l'angolo di tiro dell'aggressore. Appostato in cima alla collina che dominava l'edificio. Maledissi me stesso: ancora una volta non avevo preso la pistola. E non potevo uscire allo scoperto per andare a prenderla nell'auto. Chino sotto la pioggia di pallottole, uscii dal mio nascondiglio e mi diressi in cucina, alla mia sinistra. Afferrai il coltello più robusto che trovai e individuai una porta sul retro. Schizzai fuori, dalla parte dei campi, pronto per il duello. Un duello ridicolo. Un tiratore scelto contro un macellaio.
Un fucile da assalto contro un coltello da cucina. 74 Strisciai nel giardino e osservai la collina. Nessuna speranza di intravedere il tiratore, né il riflesso del cannocchiale del fucile: al giorno d'oggi le mire ottiche sono in polimero e la lente di precisione è affumicata. Cercavo tuttavia un segno, un indizio, passando in rassegna con lo sguardo ogni cespuglio, ogni arbusto, in alto sulla collina. Niente. Al riparo in un avvallamento del terreno, curvo tra l'erba, cominciai a salire. Ogni cinquanta passi, risalivo il fianco del fossato e davo un'occhiata. Ancora niente. Il cecchino probabilmente era nascosto sotto un tappeto di rami e foglie, in tenuta mimetica. Forse, come i cecchini di Sarajevo, si era persino creato un corridoio di tiro di diversi metri... Salii ancora. Sopra di me, il vento fischiava tra i cipressi. All'improvviso, mentre stavo dando ancora un'occhiata in giro, vidi un lampo. Furtivo, impercettibile. Un qualcosa di metallico, che brillava al sole. Un anello, un bracciale, un gioiello. Presi a correre, tentando di non far rumore. Non pensavo più, non analizzavo più. Andavo verso il combattimento, tutto qui, concentrato sul bersaglio posizionato a duecento metri, secondo una linea obliqua di trenta gradi. Ecco infine il punto culminante della collinetta. Ancora un passo e il campo di visione si aprì a 180 gradi. Era là, ai piedi di un albero. Enorme, mimetizzato, impossibile scorgerlo dal basso. Indossava un poncho kaki, con il cappuccio sulla testa. Un ginocchio a terra, stava smontando l'arma, o forse la stava ricaricando. Un colosso. Sotto la mantella, più di centocinquanta chili di carne. Il grassone che mi aveva già ostruito il passaggio due volte. In un vicolo cieco a Catania. Sulla scalinata dei musei vaticani. Feci un giro largo e mi avvicinai a lui da dietro. Non distavo più di dieci metri. Stava svitando il silenziatore del fucile. Il tubo doveva essere bollente. Lo prendeva e lo rimetteva giù in continuazione, come quando si vuole afferrare un oggetto troppo caldo. Tre metri. Un metro... In quel momento, ispirato da un sesto senso, girò la testa. Non gli lasciai finire il gesto. Mi buttai su di lui, serrandogli la gola con il braccio sinistro, puntandogli il coltello sotto il mento.
«Lascia il fucile», lo minacciai. «Altrimenti giuro che finisco il lavoro.» Rimase immobile, sempre in ginocchio. Inarcato sulla sua schiena, avevo l'impressione di strangolare un bue. Lo infilzai con la lama per un buon centimetro. Il grasso aderì al metallo, senza sanguinare. «Mollalo, cazzo... Non sto scherzando!» Esitò ancora, poi lanciò l'arma a un metro da lui. Non proprio una distanza di sicurezza. «Ora girati lentamente e...» Un luccichio nella sua mano, un movimento arcuato, sulla destra. Mi scansai rapido. Il coltello da commando sibilò nel vuoto. Gli piantai un ginocchio nelle reni, costringendolo a curvarsi. Abbassò di nuovo l'arma per prendermi da sinistra. Evitai ancora il colpo, le gambe piegate, i talloni piantati nel terreno. Cercò di girarsi. La sua forza era allucinante. Un altro colpo, dall'alto. Questa volta mi prese di striscio la spalla. Gemetti e, con un movimento riflesso, gli piantai il coltello sotto l'orecchio destro. Fino all'impugnatura. Uno schizzo di sangue arterioso striò il cielo. Il bisonte si sporse in avanti, bilanciandosi su un ginocchio e poi sull'altro. Seguii il movimento senza mollare il coltello. Lo muovevo veloce avanti e indietro, proprio come un macellaio che trancia la testa di un bue. Il sangue mi scorreva sulle dita, surriscaldandomi la pelle già bollente. Le sue carni si richiudevano sul mio polso in un bacio abominevole, come la stretta di un mollusco sottomarino. Bruscamente, mise un tallone a terra e riuscì a sollevarsi, per poi ricadere all'indietro. I suoi centocinquanta chili si sfracellarono su di me. Mi si mozzò il respiro. Per un istante persi conoscenza, poi mi ripresi. Stringevo ancora l'arma. Il peso del bestione, che dimenava gambe e braccia come un polipo gigante, mi faceva affondare nel fango. Il suo sangue colava e mi sommergeva. Mi stavo asfissiando. Tra pochi secondi sarebbe stata la fine anche per me. Non avevo ancora raggiunto il mio obiettivo: risalire nelle carni fino all'orecchio sinistro. Afferrai il manico del coltello con entrambe le mani per finire il lavoro. Poi lasciai la presa e, in un ultimo sforzo per liberarmi, spinsi con la schiena e i gomiti. Finalmente il gigante barcollò di lato. Sollevò il braccio per colpirmi ancora una volta, ma la sua mano non stringeva più il coltello. Rotolò due volte su sé stesso, cadendo per diversi metri in discesa, invischiato nel suo sangue e nelle pieghe del poncho.
Mi tirai fuori dal fango, mi appoggiai all'albero, riprendendo fiato. Polmoni stritolati, gola bloccata. All'improvviso sentii un violento spasmo salire dal ventre. Mi girai e vomitai ai piedi del tronco. Il sangue mi pulsava talmente forte che sembrava fendermi le tempie. Il mio volto era ricoperto di una patina ghiacciata, una patina di morte. Restai prostrato, in ginocchio, per svariati minuti. Estraneo a tutto. Alla fine, mi tirai su e guardai il cadavere. Era in posizione supina, le braccia allargate, cinque metri più giù. Cappuccio scostato, che svelava un faccione contornato da una barba corta. La ferita alla gola gli disegnava una seconda collana, nera e atroce. Il mio coltello si era spezzato nella caduta. Sotto le pulsazioni della mia testa si fece lentamente avanti un'idea. Anche quello lo conoscevo. Richard Moraz, il primo sospettato del caso Sylvie Simonis. L'uomo delle parole crociate. Nella taverna bavarese gli avevo detto che ci saremmo rivisti. E così era stato. Su tutte le dita, degli anelli. Quelli che mi avevano inviato segnali sotto il sole. Sul suo medio sinistro notai una chevalière particolare. A un tratto, quadrò tutto: era su quel dito che avevo visto il simbolo di Cazeviel. Il ferro da galeotto legato a una catena, sbarrato da un'asta orizzontale. Mi avvicinai e osservai l'anello. Esattamente lo stesso simbolo dorato in rilievo. Alzai la manica destra del cadavere, per verificare: il braccio presentava una medicazione. La strappai: la piaga era netta, longitudinale, di circa dieci centimetri. Era stato proprio il ciccione a beccarsi la coltellata di Cazeviel nella ressa dei musei vaticani. Avevo appena finito di risolvere la seconda parte del mio problema. Quello che era cominciato al passo del Sempione. 75 Il paesaggio era bruciato dall'inverno. Alberi spogli, carbonizzati. Campi di terra nera, rivoltati come tombe. Cielo bianco, che irradiava una luce acuta, radioattiva. Su questo sfondo, mi spinsi indietro e contemplai l'albero in cima al poggio, che si ergeva in totale solitudine. Prigioniero della terra, teso verso il cielo, pietrificato dal freddo. Pensai alla mia situazione. Un morto a terra, la verità lassù, e io in mezzo.
Da un bel pezzo, non ero più io a condurre l'indagine. Era lei che conduceva me dritto all'inferno. Decisi di pregare. Per Moraz, forse legato al segreto dei Senza Luce e al caso di Manon Simonis, e per Bucholz, vittima innocente la cui maledizione, fin dall'inizio, aveva portato il nome di Agostina Gedda. Poi scesi dalla collina, con passo incerto. Il deserto che mi circondava aveva un solo vantaggio: nessun testimone in vista. Rientrai in casa di Bucholz e afferrai l'impermeabile rimasto all'ingresso. Controvoglia diedi un'occhiata alla stanza distrutta, dove era steso il cadavere del medico. Mentalmente, ricostruii i miei spostamenti nell'abitazione per essere sicuro di non aver lasciato la minima impronta. Richiusi la porta d'entrata, con la mano dentro la manica. Misi venti chilometri tra me e il luogo del massacro, poi mi fermai in un sottobosco. Lì, tirai fuori una camicia pulita dal borsone e mi cambiai. Sentivo delle fitte alla spalla, ma la ferita era superficiale. Ammucchiai camicia, cravatta e giacca intrise di sangue, aggiunsi il coltello che avevo recuperato e diedi fuoco. Ne approfittai per accendermi una Camel al volo. Quando non restò altro che un po' di cenere e l'osso del coltello, scavai una buca e sotterrai i resti del mio crimine. Tornai all'auto e controllai l'ora: le cinque. Decisi di trovare un albergo a Pau. Sonno e oblio erano il mio unico desiderio a breve termine. Presi per Lourdes, poi verso nord per imboccare l'autostrada dei Pirenei. Lungo il tragitto, chiamai la polizia da una cabina telefonica, tanto per mantenere aggiornata la loro necrologia. Al volante dell'auto mormorai un'altra preghiera. Questa volta per me. Il Miserere, salmo 51 di Davide. La mia testa ammaccata sembrava piuttosto un colabrodo e non riuscivo a ricordare il testo completo. Ben presto, l'indagine, con le sue morti, le domande, le questioni aperte, tornò a tormentarmi la mente. Mi venne in mente Stéphane Sarrazin. Da Catania non avevo più avuto contatti con lui e mi aveva lasciato tre messaggi il giorno prima. Avrei dovuto chiamarlo nel momento in cui avevo scoperto l'identità di Cazeviel. Era la persona più indicata per riesumare il passato dell'assassino. Feci il suo numero. Segreteria. Non lasciai messaggi, ammutolito da un riflesso dettato dalla prudenza, e tornai alle mie elucubrazioni. L'autostrada era sempre scorrevole. Ancora una volta, decisi di fare il punto sui miei tre casi e di confrontarli.
Maggio 1999. Raïmo Rihiimäki uccide il padre secondo il metodo detto «degli insetti». Una vendetta a caldo, ispirata dal demonio. Aprile 2000. Agostina Gedda uccide il marito Salvatore nello stesso modo. Una vendetta a freddo, anche questa ispirata dal diavolo. Giugno 2002. Sylvie Simonis viene sacrificata secondo lo stesso rituale. Ancora una vendetta. Quella della morte di una ragazzina posseduta, quattordici anni prima. Un unico problema: la bambina è morta e sotterrata da quattordici anni. Non può aver commesso lei il crimine. Chi era il Senza Luce del caso Simonis? Chi era l'assassino che tornava dal Limbo, ispirato da Satana? Inchiodai in mezzo all'autostrada e sterzai verso la corsia d'emergenza. Spensi il motore e scossi il capo. La risposta era evidente, ma era così folle, così assurda, che non avevo mai azzardato un'ipotesi simile. Adesso, una vocina mi sussurrava di provare, solo per vedere. A Sartuis, c'era una cosa che non avevo mai visto e che avrebbe dovuto colpirmi, per la sua stessa assenza. In nessun momento avevo letto o avuto una prova tangibile della morte di Manon Simonis. Silenzio dei magistrati, discrezione degli inquirenti, ignoranza dei giornalisti. In ogni caso, non avevo mai visto uno straccio di certificato di decesso o di referto d'autopsia. E se Manon Simonis non fosse morta? Inserii la prima e sgommai lasciando un po' dei miei pneumatici sulla ghiaia. Dieci chilometri più avanti trovai l'uscita per Pau. Pagai il pedaggio e feci un'inversione a U, con stridio di gomme. Direzione Tolosa. Prima tappa della mia traversata laterale della Francia. Una corsa notturna per raggiungere Sartuis. 76 A mezzanotte ero a Lione. Alle due a Besançon. Alle tre arrivai a Sartuis, la città degli orologi fermi. Pioveva a dirotto fin da quando mi ero ap-
prossimato alle valli del Jura. Ora la pioggia scorreva sui tetti, gonfiava le grondaie, formava torrenti lungo i marciapiedi. Trovai la piazza principale e, con essa, il municipio. Costruzione moderna senza anima né passato che sprofondava nel fango del temporale. Feci il giro a piedi, portandomi dietro una scia di foglie morte e schizzi d'acqua, e trovai la casetta del guardiano. Bussai alla finestra con le inferriate. Rimbombarono i latrati di un cane. Bussai ancora. Dopo due lunghi minuti, si aprì la porta. Un uomo mi lanciò uno sguardo sbalordito. «Lei è il portiere del comune?» gridai nel fracasso della pioggia. L'uomo non rispose. «Lei è il guardiano, sì o no?» Il cane non la smetteva di abbaiare. Fui felice che il tizio non avesse aperto completamente la porta. «Ma ha visto che ora è?» grugnì alla fine. «Cosa c'è?» «Lei ha le chiavi del municipio o no, cazzo?» «Non parli così o le sguinzaglio il cane! Sono l'impiegato municipale. Faccio due giri notturni. Punto.» «Prenda le chiavi. Ci andiamo adesso.» «Perché?» Gli sventolai il tesserino sotto il naso. «Anch'io lavoro per l'amministrazione pubblica.» Cinque minuti più tardi, l'uomo era al mio fianco, incappucciato in un enorme parka. Aveva con sé una torcia. «Ho lasciato il cane al caldo. Ne ha bisogno?» «No. Devo solo consultare dei file. Tra un'ora sarà di nuovo a letto.» Una manciata di secondi e fummo nel cuore della costruzione. Avanzavamo nei corridoi come nelle stive di una nave, i timpani alla mercé delle raffiche di vento e dei fruscii della pioggia. «Ma cosa sta cercando esattamente?» «Lo stato civile. I decessi.» «Bisogna andare al primo piano.» Una scala, un nuovo corridoio, poi l'uomo puntò la torcia verso una porta. Una nuova chiave ed entrammo in una grande stanza, attraversata dai lampi obliqui del temporale. Premette l'interruttore. Il locale somigliava a una biblioteca. Alcune strutture in metallo formavano diverse gallerie, dove si trovavano allineati i fascicoli ingialliti. A sinistra, una scrivania troneggiava solitaria. Sopra,
un computer nuovo di zecca. «Lo sa usare?» gli domandai. «No. Ho un cane. Faccio le ronde. E basta.» Mi voltai verso le scaffalature. «È l'archivio?» «Secondo lei?» «Intendo: conservate ancora una versione cartacea di ogni certificato?» «Che ne so. Tutto quello che le posso dire è che quei coglioni sono sempre sepolti dalle scartoffie, e...» Mi tuffai nei corridoi e scrutai i fascicoli. Nascite, matrimoni, decessi: era tutto lì. Una parete era dedicata ai dispersi, dal periodo del dopoguerra fino a oggi. Trovai subito gli anni Ottanta. Afferrai la cartella «1988» e sfogliai le schede fino a novembre. Nessun certificato a nome di Manon Simonis. Mi tremavano le mani. Mese di dicembre. Niente. Rimisi tutto a posto. Un rumore sordo mi risuonava dentro. Un'ultima cosa da verificare. Di notte, Le Locle sembrava ancora più selvaggio di Sartuis. Un ampio viale da città del Far West, alcuni immobili-bunker battuti dalla pioggia. E la voce di padre Mariotte, in fondo alla mia mente, che mi spiegava che Manon era sepolta dall'altra parte della frontiera. «Sua madre ha voluto evitare il martellamento dei media...» Il cimitero si trovava ai margini della città. Parcheggiai l'auto, presi la torcia e risalii il viale di abeti. Scavalcai il cancello e ricaddi in una pozzanghera, dall'altra parte. La morte rende gli uomini uguali. I cimiteri, anche. Le lapidi, le croci: chiavistelli di pietra che sigillavano tutto, le vite, i destini, i nomi. Andai avanti e valutai il mio compito: sei viali, che da una parte e dall'altra davano su svariate decine di tombe. A dir poco, tre o quattrocento tombe da decifrare. Imboccai il primo sentiero, puntando la torcia. La pioggia era così fitta da sembrare una cortina ininterrotta. Il vento soffiava a raffiche, davanti, dietro, di lato, con la violenza di un pugile che si accanisce su un outsider inchiodato alle corde. Primo viale: nessuna Manon Simonis. Secondo, terzo, quarto, quinto: sempre nessuna Manon. Il fascio di luce della torcia scivolava sulle croci, sui nomi, ed era come un conto alla rovescia che mi proiettava verso una verità allucinante. Da
quanto tempo lo avevo capito? Da quanti secondi la mia ipotesi si era trasformata in certezza assoluta? Alla fine del sesto viale caddi in ginocchio sulla ghiaia. La bambina non era morta nel 1988. Era una notizia buona e cattiva allo stesso tempo. Buona: Manon era sopravvissuta al proprio assassinio. Cattiva: era opera del demonio. Una Senza Luce che aveva ucciso sua madre. IV MANON 77 Prima urgenza. Regolare i conti con Stéphane Sarrazin. Lo sbirro aveva sempre saputo che Manon era viva. Quando era stato incaricato dell'indagine Simonis, aveva dovuto consultare il dossier del 1988. Sosteneva che quel dossier non esisteva più, ma mentiva, adesso ne ero certo. Aveva dovuto contattare anche Setton, che nel frattempo era diventato prefetto, e gli altri inquirenti. Lui sapeva tutto. Perché non mi aveva detto l'essenziale? Passai di nuovo la frontiera, in preda alla rabbia. E tentai di ricostruire com'erano andate le cose. Novembre 1988. Per evitare di essere assediati dai media, la madre e i responsabili dell'indagine decidono di non rivelare che la bambina è sopravvissuta. Il giudice de Witt, il comandante Lamberton, il commissario Setton e gli avvocati tengono la bocca chiusa. Quanto al procuratore, dirama qualche comunicato sibillino e poi tutto tace. Il segreto dell'istruttoria non lascia più filtrare nulla. Dicembre 1988. Sylvie Simonis vive un periodo di grande confusione. Ha ucciso sua figlia per distruggere il diavolo che era in lei, ma la bambina è sopravvissuta. Che cosa può pensare? Da brava cattolica, non può non considerare questa resurrezione come frutto dell'intervento divino. È la storia di Abra-
mo. Dio non ha voluto che sacrifichi sua figlia. E così dà a Manon un'altra chance. Il miracolo doveva avere purificato la sua anima, scacciando la Bestia che era in lei. Il seguito lo vedevo chiaramente, le immaginavo intente a pregare nel loro nascondiglio. Sylvie aveva allevato Manon in gran segreto, da qualche parte nelle valli del Jura. O altrove. Un particolare acquistava ora un nuovo significato: i bonifici che da quattordici anni faceva su un conto svizzero non erano destinati a un ricattatore né a Sylvie stessa, ma ai tutori di sua figlia! Chi erano? Manon aveva vissuto in Svizzera? Aveva conservato il suo vero nome? Sarrazin aveva tutto l'interesse a vuotare il sacco. Mi aveva dato il suo indirizzo personale. Non abitava nella caserma di Trépillot ma in una casa isolata, all'uscita sud di Besançon, nella frazione Les Mulots. Sarrazin mi aveva parlato di uno chalet appartato. Aggirai il paese e trovai il cartello. Al disotto della strada, il tetto di legno fluttuava nell'oscurità. Mi fermai cinquanta metri prima, al riparo dagli sguardi, e presi la borsa dal sedile dietro. Tirai fuori i pezzi della Glock 21 e la montai rapidamente. Infilai un caricatore di pallottole Arcane e tolsi la sicura. Soppesai l'arma. Anche se di polimero, era più pesante della 9 mm Para. Un'automatica compatta, devastante, che corrispondeva perfettamente al mio stato d'animo. Speravo di sorprendere Sarrazin a letto e di rimettergli a posto le idee. Scesi dall'auto senza far rumore, con la pistola in pugno. L'acquazzone era finito. La luna proiettava i suoi riflessi sull'asfalto bagnato. Scesi verso lo chalet e mi fermai davanti all'uscio. La porta era socchiusa, nello spiraglio una pozza di pioggia. Brutto segno. Sgusciai dentro, gli occhi bene aperti. Dopo il vestibolo, una sala rettangolare su cui si aprivano tre finestre. Una voce mi avvisava dell'incombente disastro, ma per il momento la tenevo a distanza. «Sarrazin?» chiamai. Nessuna risposta. Superai la cucina, una camera perfettamente in ordine, e raggiunsi la scala. Ero scosso dai brividi, e i vestiti bagnati non aiutavano. «Sarrazin?» Non aspettavo più una risposta. Quel posto puzzava di morte. In cima alla scala, un altro corridoio. Un'altra camera. Quella di Sarra-
zin, probabilmente. Sbirciai dentro. Vuota, impeccabile. Mi si riaccese la speranza. Era forse partito in missione? Un ronzio mi diede la risposta. Mosche, dietro di me. A centinaia. Seguii gli insetti, che si erano radunati in fondo al corridoio, vicino a una porta socchiusa. Il bagno. Il ronzio era diventato un rombo, le mosche si accalcavano attorno ai cardini. L'odore di putrefazione era ora chiaramente percepibile. Mi avvicinai. Rinfoderai la pistola, trattenni il respiro e spinsi la porta con il gomito. Il fetore della carne in decomposizione mi afferrò alla gola. Stéphane Sarrazin era raggomitolato nella vasca da bagno, piena di un'acqua scura e immobile. Il suo torso emergeva alla superficie, la testa rovesciata all'indietro, in un arco di sofferenza. Il braccio destro pendeva fuori della vasca, ricordando La morte di Marat di David. Sulle piastrelle, sopra di lui, le scie di sangue sembravano formare un motivo, confuso dal riflesso della luna sulla ceramica. Trovai l'interruttore. Luce spietata sull'orrore. Sarrazin non aveva più volto: era scuoiato dalle sopracciglia al mento. Le dita della mano erano bruciate. Il busto era aperto dallo sterno al pube, si intravedeva lo squarcio nell'acqua bruna. Le viscere si erano srotolate lungo i fianchi e le gambe erano ripiegate. Sopra di lui, nugoli di mosche come impazzite. Indietreggiai. I tremiti si trasformavano in spasmi e non avevo più alcuna concentrazione per analizzare la scena del crimine. Volevo una cosa sola: togliermi di lì. Ma mi costrinsi a guardare ancora. Vicino alla vasca scorsi un resto inequivocabile: il sesso di Sarrazin. L'assassino lo aveva castrato. Guardai di nuovo i segni sulle piastrelle. Formavano una frase, a lettere di sangue: l'omicida aveva usato il sesso della vittima come un pennello. In maiuscolo, aveva scritto: SOLTANTO TU E IO. La calligrafia era la stessa del confessionale. Ed ero certo che il messaggio, ancora una volta, era indirizzato a me. 78 Mi allontanai a tutta velocità da Besançon. Avevo una sola idea in testa:
l'assassino poteva espiare i suoi crimini soltanto con il proprio sangue. La legge del taglione. Occhio per occhio. Sangue contro sangue. In un paesino addormentato trovai una cabina telefonica. Mi fermai e chiamai il Centro operativo di gendarmeria di Besançon. Telefonata anonima. Un nuovo nome nell'elenco dei morti del dossier. Quasi una routine. E poi via a tutto gas. Mi sentivo sprofondare in un incubo. Il diavolo voleva che io, soltanto io, seguissi le sue tracce. E mi stava aspettando, da qualche parte in una valle del Jura. IO PROTEGGO I SENZA LUCE. Un diavolo che vegliava sulle sue creature e le vendicava nel modo peggiore, eliminando per esempio Sarrazin, investigatore troppo curioso. Un albergo, al più presto. Una camera, un luogo chiuso dove pregare per la salvezza del gendarme e, magari, dormire qualche ora. Scorsi sul bordo della strada un edificio sormontato da un neon spento. Rallentai. Era proprio un hotel, coperto dall'edera selvatica. Un due stelle per viaggiatori di commercio. Svegliai il portiere e mi feci guidare in una camera. Mi spogliai, mi infilai sotto la doccia e poi pregai, in mutande, al buio. Pregai e pregai ancora per Sarrazin. Senza riuscire a cancellare i miei sospetti. Nonostante la sua agonia, nonostante il nostro accordo, sospettavo ancora in lui un lato oscuro. Il famoso 30 per cento di colpevolezza. Raddoppiai il fervore delle mie preghiere finché le ginocchia, sul ruvido tappeto, non mi fecero male. Soltanto allora mi misi sotto le lenzuola. Spensi la luce e lasciai che i pensieri mi si affollassero in testa, senza ordine né logica. Le domande sorgevano nella mia coscienza come i grani di vetro colorato di un caleidoscopio. A ogni secondo i motivi cambiavano, disegnando verità contraddittorie, interrogativi e angosce. Poi Manon si riaffacciò alla mia mente, occupandola tutta. Mi concentrai su di lei per tenere a distanza gli altri enigmi. Se era davvero viva, che cosa poteva essere stata la sua vita? Sprofondai di nuovo nei miei pensieri e lasciai Manon per raggiungere Luc. Si era spinto più in là di me? Aveva ritrovato Manon viva ormai ventiduenne? Era stata questa scoperta a spingerlo al suicidio? Mi svegliai alla luce del giorno. Le otto e mezzo. Mi vestii e ficcai gli abiti del giorno prima in fondo alla borsa. Poi scesi a bere un caffè nel ristorante vuoto dell'albergo, dove scorsi rapidamente i giornali. Niente sugli omicidi di Bucholz e Moraz, eravamo a quasi mille
chilometri da Lourdes. Niente sul cadavere di Sarrazin: troppo presto. Una giornata di tregua per mettere in atto la mia strategia. Ricostruire la storia del salvataggio di Manon. Trenta minuti dopo mi fermai davanti alla caserma dei pompieri di Sartuis. Cielo azzurro, nuvole bianche. Tutto sembrava calmo. La notizia della morte di Sarrazin non era ancora arrivata. Nessuno chiacchierava in cortile, nessuno parlava al cellulare con aria esterrefatta. Un sabato come gli altri. Girai attorno all'hangar principale tremando di freddo. Sull'ala destra un giovane aspirante pompiere con i capelli a spazzola indirizzava svogliatamente un getto d'acqua su una lastra di cemento. Lo interpellai. Spense con qualche difficoltà l'idrante e, con una voce in falsetto e gli occhi fissi sul mio tesserino della polizia, chiese: «Per che cos'è?». «Una vecchia storia. Manon Simonis. Una ragazzina annegata nel novembre 1988. Cerco i soccorritori che hanno recuperato il corpo.» «Per questo deve parlare con il comandante. È...» «Che cosa succede qui?» Un uomo corpulento spuntò da dietro il giovane. Cinquant'anni, un volto segnato che li dimostrava tutti, i capelli pettinati all'indietro, un naso a patata. Galloni d'argento brillavano sulle spalline del suo pullover. «Sono il comandante Mathieu Durey», mi presentai con voce marziale. «Sto indagando sull'omicidio di Manon Simonis.» «E a che proposito? Il caso è caduto da tempo in prescrizione.» «Sono emersi dei fatti nuovi.» «Ah! E quali?» «Non posso rivelarglieli.» Mi stavo bruciando, ma avevo bisogno dell'informazione. Costasse quello che costasse. Il resto era secondario. L'ufficiale aggrottò le sopracciglia nella luce del mattino. Mille rughe gli convergevano attorno agli occhi. «Perché è venuto qui?» chiese in tono curioso. «Vorrei interrogare i pompieri che hanno recuperato il cadavere della bambina.» «Facevo parte anch'io di quella squadra. Che cosa vuole sapere esattamente?» «Ricorda in che stato era il corpo?» «Non sono un medico.» «La bambina era proprio morta?» Il graduato lanciò uno sguardo sorpreso all'aspirante pompiere. «Non
c'era alcuna possibilità di rianimare Manon?» insistei. Sembrava deluso dall'aver concesso la sua attenzione a un folle. «La piccola aveva trascorso almeno un'ora nell'acqua», rispose. «La sua temperatura corporea era scesa sotto la soglia dei venti gradi.» «Il suo cuore non batteva più?» «Quando l'abbiamo ripescata non presentava più il minimo segno di vita. Pelle cianotica. Pupille dilatate. Che cosa le serve ancora?» Continuando a tremare nel mio trench, chiesi: «Dov'è stato trasferito il corpo?». «Non lo so.» «Non ha parlato con quelli del pronto intervento?» Guardò prima me, poi il suo allievo. Infine ammise: «È successo tutto molto in fretta. L'hanno trasportata in elicottero». Rimontai mentalmente le immagini e le feci scorrere a tutta velocità. 12 novembre 1988, ore 19.20. Pioggia battente. I gendarmi scoprono il corpo, nella stazione di depurazione. I pompieri si calano prontamente nel pozzo. La barella sale alla luce dei proiettori e dei lampeggiatori delle ambulanze e delle auto della polizia. E a questo punto i medici decidono di utilizzare un elicottero. Perché? Dove avevano portato Manon? «L'avranno portata a Besançon. Per l'autopsia», suggerì l'ufficiale. «Dove staziona l'elicottero del SAMU?» chiesi. «A Besançon?» L'uomo mi fissò, come per scoprire un senso nascosto nelle mie domande. Poi, scuotendo la testa, dichiarò: «Per questo genere di trasporti ci si deve rivolgere a un privato, a Morteau». «Il nome?» «Codelia. Ma non sono sicuro che siano stati loro a...» Ringraziai i due pompieri con un cenno del capo e corsi verso l'auto. Un quarto d'ora più tardi ritrovavo la capitale della salsiccia, annidata in fondo alla sua piccola valle. L'eliporto era all'uscita della città, sulla strada per Pontarlier. Un capannone di lamiera ondulata che si apriva su una pista d'atterraggio circolare. Un solo elicottero era parcheggiato sulla pista. Mi fermai cento metri prima e riflettei. Era un lascia o raddoppia: gli uomini dell'eliporto potevano essere estranei a quella storia e mi avrebbero lasciato consultare i loro archivi, oppure la mia tessera della polizia non sarebbe stata sufficiente e la mia pista si sarebbe fermata lì. Non potevo correre questo rischio. Ripartii, oltrepassai l'eliporto e parcheggiai dopo la prima curva, sotto gli alberi. Tornai indietro a piedi, avvicinandomi all'hangar da dietro. Lan-
ciai uno sguardo di lato. Tre uomini discutevano sulla pista vicino all'elicottero. Con un po' di fortuna, avrei trovato gli uffici vuoti. Camminai rasente al muro e mi infilai dentro. Mille metri quadrati di open space. Due elicotteri mezzi smontati che sembravano insetti con le ali strappate. Nessuno. A sinistra, sul mezzanino, gli uffici. Nessuno nemmeno lassù. Salii la scala e spinsi la porta a vetri. Un computer in standby sulla scrivania principale. Premetti un tasto. Lo schermo si illuminò, affollato di icone. Ero fortunato. Era tutto lì, in bella mostra: i voli, i clienti, i consumi di gasolio, i libretti di manutenzione, le fatture... Nessuna password, niente liste labirintiche o programmi sconosciuti. Molto fortunato. Cliccai sul documento «Urgenze» e trovai un dossier per ogni anno. Lanciai un'occhiata dalla finestra: ancora nessuno in vista. Aprii il file «1988» e feci scorrere l'elenco fino a novembre. Le missioni nella regione non erano numerose. Trovai il foglio di rotta che mi interessava: F-BNFP Jet-Ranger 04 12 novembre 1988, ore 19.22, CHIAMATA XM 2453: SAMU/Ospedale Sartuis DESTINAZIONE: Stazione di depurazione Sartuis CARBURANTE: 70% 12 novembre 1988, ore 19.44, TRANSFERT XM 2454: SAMU/Ospedale Sartuis DESTINAZIONE: padiglione di Champs-Pierres del Centro ospedaliero universitario valdese (CHUV), Losanna, Centro di chirurgia cardiovascolare. CONTATTO: Moritz Beltreïn, caposervizio CARBURANTE: 40% Accusai il colpo. Manon non era stata trasferita in un ospedale di Besançon. L'elicottero aveva attraversato la frontiera svizzera ed era andato direttamente a Losanna. Perché là? Perché portare una bambina annegata in quel centro cardiovascolare? Le sinapsi del mio cervello funzionavano alla velocità del suono. Dovevo parlare con il medico che aveva organizzato il trasferimento di Manon Simonis. L'idea di quella destinazione poteva essere solo sua.
«Ehi, che cosa sta facendo qui?» Un'ombra entrò nel mio campo visivo, sulla sinistra. «Le spiegherò tutto», feci io con un largo sorriso. «Sarà difficile.» L'uomo stringeva i pugni. Un metro e novanta, una montagna di carne di almeno cento chili. Pilota o tecnico. Un colosso capace di spostare un elicottero a mani nude. «Sono un poliziotto.» «Trovati una scusa migliore, ragazzo.» «Lasci che le mostri il tesserino.» «Se ti muovi ti stendo. Cosa cazzo fai nel nostro ufficio?» Nonostante la tensione, pensavo solo alla mia scoperta. Il Centro di chirurgia cardiovascolare di Losanna. Perché l'avevano portata là? C'era forse un mago capace di rianimare Manon? L'uomo si avvicinò alla scrivania e afferrò il telefono. «Se sei davvero un poliziotto, chiamerò i tuoi colleghi della gendarmeria.» «Nessun problema.» Pensai allo spreco di tempo: le spiegazioni al quartier generale di Morteau, le chiamate a Parigi, la notizia della morte di Sarrazin che si sarebbe aggiunta alla confusione. Almeno tre ore sulla graticola. Mascherai la rabbia dietro il sorriso. Prima che il colosso alzasse la cornetta, il telefono squillò. Avvicinò il ricevitore all'orecchio. La sua espressione cambiò all'improvviso. Prese un blocco per appunti, annotò delle coordinate e mormorò: «Arriviamo». Riagganciò e posò lo sguardo su di me. «Sei proprio fortunato. Adesso togliti dai piedi», mi ordinò indicando la porta. Salvato in extremis. Una chiamata urgente arrivata al momento giusto. Indietreggiai fino alla porta e mi precipitai giù per le scale. A metà discesa il tizio mi superò. Saltò a terra e uscì di corsa, tenendo in mano un foglio e mimando l'elica con l'altro braccio. Gli altri si misero subito a correre verso l'elicottero. Quando le pale iniziarono a muoversi, avevo già varcato il cancello dell'eliporto. L'apparecchio decollò mentre continuavo a camminare. Sfiorò la vegetazione del bosco, strappando agli alberi le ultime foglie rosse. Alzai lo sguardo e mi sembrò che il pilota, il colosso dell'ufficio, mi stesse guardando attraverso il lunotto.
Mi allontanai anch'io, in mezzo al turbinare di foglie e ramoscelli sollevati dalle pale. Losanna. La chiave di tutto era là. 79 La sede distaccata di Champs-Pierres del Centro ospedaliero universitario valdese era situata sui colli di Losanna, nei pressi di rue Bugnon, non lontano dal CHUV. Era un piccolo edificio di tre piani circondato da un giardino alla giapponese con ciottoli grigi e piccoli pini piantati in file serrate. Risalii a piedi il viale principale, con le conifere sagomate, il ghiaino e globi di luce che sembravano sospesi rasoterra. L'insieme era al tempo stesso pacifico come un vero giardino zen e inquietante come il labirinto di Shining. Il cielo si era coperto. La bruma mi evocò il polline dei fiori di ciliegio. Il Centro di chirurgia cardiovascolare si trovava al secondo piano. Il nome del medico che aveva accolto Manon era impresso nella mia memoria: Moritz Beltreïn. Operava ancora lì, dopo quattordici anni? All'ingresso del reparto scorsi una minuscola reception. Dietro il banco una ragazza senza uniforme né telefono si stagliava sullo sfondo di un poster delle valli svizzere. Chiesi gentilmente di parlare con il medico. Lei mi sorrise. Era bella, e, nonostante tutto, questo particolare riuscì a colpirmi. Mi fissò da sotto i suoi capelli neri pettinati all'indiana masticando dei Tic Tac. «Non lavora più qui?» insistei. «È il grande capo», disse infine. «Non si è ancora visto, ma arriverà. Viene ogni giorno, anche i weekend. A metà giornata.» «Posso aspettarlo?» «Solo se mi intrattiene.» Finsi di stare al gioco e assunsi un'espressione divertita. Non so a cosa assomigliassi, ma i miei sforzi la fecero scoppiare a ridere. «Mi chiamo Julie», disse stringendomi vigorosamente la mano. «Julie Deleuze. Lavoro qui soltanto durante i fine settimana. Un lavoro da studente. Non è mica costretto a intrattenermi sul serio!» Mi appoggiai con i gomiti sul banco e le sorrisi. Arrischiai qualche do-
manda personale: studi, vita quotidiana, passatempi a Losanna. Ogni domanda mi costava tanta fatica che nemmeno sentivo le risposte. Un telefono invisibile squillò. Lei allungò una mano sotto il banco e rispose. Mi fece l'occhiolino infilandosi in bocca un altro Tic Tac. La sua pelle olivastra mi ricordò le squaw troppo truccate dei western tedeschi degli anni Sessanta. «Era lui», mi annunciò riagganciando. «È nel suo ufficio. Può entrare se vuole.» «Non l'ha avvertito?» «Non serve. Bussi alla porta ed entri pure. È molto simpatico. Buona fortuna.» Indietreggiai. «Ripasserà a trovarmi?» Mi fece l'occhiolino tra le ciocche nere. I suoi occhi erano verde anice. «Difficile», risposi. «Ma conserverò il ricordo del suo sorriso.» Era l'unica risposta buona. Lucida e ottimista. Lei rise, poi indicò: «Dietro di lei. Il corridoio. La porta in fondo». Dopo pochi passi avevo già dimenticato la ragazza, i suoi occhi, il suo sorriso. Ero tutto teso verso la nuova tappa. Bussai alla porta e ottenni prontamente una risposta. Girando la maniglia pronunciai una breve preghiera per Manon. Una Marion viva. Il medico, in piedi nella stanza bianca, stava sistemando dei dossier in un armadio metallico. Tarchiato, era alto meno di un metro e settanta. Occhiali spessi e capelli con la frangia. La somiglianza con Elton John era notevole, tranne per i capelli grigi. Doveva essere sulla sessantina, ma il suo abbigliamento - jeans stinti e felpa - ricordava piuttosto uno studente di Berkeley. Portava ai piedi delle Stan Smith. «È lei Moritz Beltreïn?» chiesi. Annuì e mi indicò una sedia davanti alla sua scrivania. «Si sieda», mi ordinò senza alzare lo sguardo dal dossier che aveva in mano. Non mi mossi. Trascorsero alcuni secondi. Lo scrutai attentamente. La sua silhouette evocava una massa di insolita pesantezza. Come se la sua struttura ossea fosse particolarmente densa, compatta. Alla fine sollevò gli occhi. «Che cosa posso fare per lei?» Declinai le mie generalità. Nome. Origine. Attività. L'espressione del
chirurgo, tagliata a metà dalla frangia e dagli occhiali, era indecifrabile. «Ripeto la mia domanda», disse in tono neutro. «Che cosa posso fare per lei?» «Sto indagando su Manon Simonis.» Sulle sue labbra si disegnò un sorriso. I suoi larghi zigomi toccarono la gigantesca montatura. Gli occhiali scintillavano ma le lenti erano opache. «Ho detto qualcosa di buffo?» «È da quattordici anni che aspetto uno come lei.» «Come me?» «Un estraneo al caso che abbia finalmente capito la verità. Non so quale strada ha preso, ma è arrivato a destinazione.» «È viva, vero?» Ci fu un istante di silenzio. Fu come un punto di scambio cosmico. Un giro di boa che sentivo avrebbe impresso un nuovo orientamento a tutta la mia vita. A seconda della risposta che avrei ottenuto, la mia esistenza, anzi, in un certo senso, tutto l'universo avrebbero preso una direzione decisiva. «È viva o no?» «Quando ho conosciuto Manon, era morta. Ma non abbastanza da impedirmi di rianimarla.» Mi lasciai cadere di peso sulla sedia. «Mi racconti tutta la storia. È molto importante.» Il tono supplicante mi aveva tradito. «Per la sua indagine o per lei?» mi chiese il chirurgo incuriosito. «Che differenza fa?» «A che punto è arrivato nell'indagine?» «Glielo dirò quando mi avrà raccontato tutto. Quello che mi dirà determinerà il significato di tutto il resto.» Il medico scosse la testa. Rimise nell'armadio il dossier ed emise un profondo sospiro, come se dovesse piegarsi a un dovere, scritto sulle tavole della Legge. Si sedette di fronte a me e cominciò a parlare. «Lei conosce la storia. Voglio dire: da un punto di vista criminale. Sa che una telefonata anonima ha orientato le ricerche verso un pozzo dove...» «Conosco il dossier a memoria.» «I gendarmi si sono dunque diretti verso i pozzi più vicini al quartiere Corolles. Erano già accompagnati da una squadra di soccorso. Quando hanno trovato la bambina, quelli del pronto intervento ne hanno constatato
la morte. Pupille fisse, arresto cardiaco, temperatura interna di ventitré gradi. Inequivocabilmente morta. Ma il medico che era con loro, il dottor Boroni, che aveva lavorato qui l'anno precedente, conosceva la mia specialità.» «E qual è, a proposito, la sua specialità?» Non riuscivo ancora a capire come la rianimazione potesse riguardare un chirurgo cardiovascolare. «L'ipotermia», rispose Beltreïn. «Da oltre trent'anni mi interesso ai fenomeni fisiologici provocati dal freddo. Come per esempio in tali circostanze l'irrorazione sanguigna possa rallentare. Ma torniamo a Manon. Quel medico, Boroni, sapeva che in caso di grande freddo resta una speranza, minuscola, anche quando la morte è dichiarata. Ha quindi proceduto come se la bambina fosse viva. Ha chiamato l'elicottero che partecipava alle ricerche e mi ha contattato. Dopo sessanta minuti di volo, le speranze di riportarla in vita si sarebbero ridotte a zero. Valeva tuttavia la pena di tentare con il mio metodo. Sa che cos'è un bypass?» Il nome mi ridestò vaghi ricordi. «Ogni unità operatoria», Beltreïn proseguì, «è dotata di una macchina per la circolazione extracorporea che utilizziamo per raffreddare il sangue dei pazienti prima di un grosso intervento. Il metodo consiste nell'estrarre il sangue del malato e raffreddarlo di qualche grado prima di reiniettarlo. Il procedimento viene ripetuto più volte per provocare un'ipotermia artificiale.» Il mio ricordo si precisò. Avevano utilizzato la stessa apparecchiatura per salvare Luc. Incredibile ironia della sorte. «Volevate usare il procedimento inverso, per riscaldare il sangue della bambina», conclusi al posto suo. «Esattamente. Avevo già tentato questo esperimento nel 1978, su un ragazzino morto per asfissia, ed ero riuscito a rianimarlo. Negli anni Ottanta l'avevo ripetuto più volte. Oggi è una tecnica praticata correntemente in molti paesi.» Non riuscì a trattenere un sorriso d'orgoglio. «Una tecnica di cui io sono l'inventore.» Fece una pausa per consentirmi di valutare la grandezza del suo genio, poi continuò: «Il sangue di Manon è passato una prima volta nell'apparecchio, poi le è stato reiniettato alla stessa temperatura, ma riossigenato. Quindi abbiamo fatto un altro passaggio, questa volta a ventisette gradi, e poi un altro ancora a ventinove... Quando abbiamo raggiunto i trentacinque gradi, i monitor hanno registrato un primo segno. Dopo un nuovo ciclo,
sono ricomparse le oscillazioni. A trentasette gradi i battiti cardiaci sono diventati regolari. Dopo essere stata clinicamente morta per quasi un'ora, Manon è tornata in vita». Le spiegazioni di Beltreïn si conciliavano con la mia visione cartesiana. Per la prima volta non mi si parlava di un miracolo. Né di Dio o del diavolo. Era stato soltanto merito della scienza. Il medico sembrò leggermi nel pensiero. «La remissione di Manon sembrava un prodigio. In realtà era stata resa possibile dalla convergenza di tre fattori favorevoli, connessi all'età della bambina.» «Quali?» «Innanzitutto le proporzioni del suo corpo. Manon era una bambina gracile. Pesava meno di quindici chili, e il suo peso ha favorito un raffreddamento immediato. Il suo corpo è andato in ibernazione. Il cuore ha cominciato a battere più lentamente, da ottanta pulsazioni al minuto è sceso a quaranta. Anche le reazioni biochimiche hanno registrato un rallentamento. Il consumo di ossigeno delle cellule si è notevolmente abbassato. Un fattore essenziale che ha permesso al cervello di continuare a funzionare, a basso regime, mentre non era più irrorato dalla circolazione sanguigna.» Beltreïn parlava ora in tono concitato, ma io lo interruppi. «Sta parlando di un corpo che funzionava al rallentatore, ma Manon era già annegata. I suoi polmoni dovevano essere pieni d'acqua.» «Non proprio, ed è questo il secondo fattore positivo. Era asfissiata, non era annegata. Nemmeno una goccia d'acqua le è entrata in gola.» «Temo di non capire.» «I bambini possiedono un diving reflex, chiudono istintivamente le corde vocali per impedire all'acqua di entrare nei polmoni. Nel pozzo Manon si è tagliata fuori dall'ambiente esterno e si è messa a funzionare a circuito chiuso.» Ebbi una visione dell'interno del corpo di Manon. Gli organi, rossi e neri, pulsavano a un ritmo molto debole, conservando la vita nell'acqua ghiacciata. Beltreïn si riaggiustò gli occhiali. «Ci sono delle teorie a proposito di questo riflesso. Alcuni pensano che si tratti di un residuo arcaico delle nostre origini acquatiche. Quando un delfino o una balena si tuffano in acqua, un meccanismo innato blocca istantaneamente la respirazione e concentra il sangue verso gli organi vitali. È esattamente quello che è successo a Manon. Durante l'immersione si è trasformata in un piccolo delfino. Si è rifugiata, per così dire, in fondo a sé
stessa. Come se una paleomemoria...» Di nuovo, Beltreïn tacque, lasciando che le sue parole mi risuonassero nella mente. Il prodigio della sopravvivenza di Manon era ancora più spettacolare di quanto lui pensasse. Una bambina che credevano posseduta, assassinata dalla madre, era sopravvissuta grazie alla sua memoria di delfino... «A questo punto», riprese il chirurgo, «è importante che lei capisca un fatto essenziale. Non c'è stata lotta.» «Intende tra Manon e il suo assassino?» «No. Tra Manon e la morte. Non si è battuta, il freddo l'ha subito pietrificata. È per questo che è sopravvissuta. Il minimo sforzo l'avrebbe fatta annegare. In un certo senso, la bambina ha accettato la morte. È uno dei segreti delle mie ricerche. Se si accetta il nulla, se ci si lascia scivolare verso di esso, si può restare sospesi in una sorta di... mondo intermedio. Una mezza morte che è anche una mezza vita...» Pensai a quella parentesi cruciale nell'esistenza della bambina. Chi aveva visto Manon durante questo «arresto del tempo»? Il diavolo? Intanto mi concentrai sugli aspetti fisiologici della sua traversata. «Prima ha parlato di tre fattori.» «Mi piacciono i poliziotti», disse sorridendo. «Siete degli allievi molto attenti.» Fece schioccare la lingua. «Il terzo fattore concerne la remissione completa di Manon. Nonostante tutto quello che le ho spiegato, si potevano temere dei gravi postumi. Ma al risveglio Manon era in possesso di tutte le sue facoltà cognitive. Nessuna difficoltà di elocuzione o di ragionamento, solo una relativa amnesia. Il suo cervello funzionava perfettamente.» «Qual è la spiegazione?» «Ancora una volta, la sua età. Più giovane è il cervello, maggiore è il numero delle sue cellule. Il che significa che ha a disposizione un vasto territorio per ripartire le sue funzioni. È evidente che l'organo di Manon ha subito delle lesioni, ma le sue facoltà mentali si sono trasferite altrove, dove i neuroni erano ancora attivi. È quella che viene chiamata mobilita cerebrale. Ci sono stati casi di bambini che dopo un incidente hanno raggruppato tutta la loro attività mentale in un solo emisfero.» Questa allusione all'amnesia mi ispirò una tipica domanda da poliziotto. «Quando Manon si è risvegliata, ricordava la scena del crimine? Ha detto qualcosa sul suo aggressore?» Il medico scacciò questa idea con un gesto della mano. «Non le ho fatto
domande a questo proposito. Era compito degli inquirenti.» «E loro l'hanno interrogata?» «Sì. Ma non ricordava nulla. È abbastanza comune quando si esce dal coma. L'amnesia può anche essere volontaria. Il cervello approfitta in qualche modo del trauma per occultare un episodio spiacevole.» Manon aveva cancellato quell'orribile scena dalla sua memoria, ma sua madre doveva essere ancora sotto shock. Aveva visto in quella amnesia una seconda chance per lei. E per il loro avvenire. Se Manon non ricordava nulla, tutto poteva ricominciare daccapo. Un altro intervento divino... Beltreïn si inserì nel flusso dei miei pensieri. «Quando ho annunciato la resurrezione di Manon a sua madre, lei ha preso una strana decisione. Non ha voluto rivelare a nessuno che la figlia era sopravvissuta. Forse temeva la minaccia dell'assassino, o il battage dei media. In ogni caso, ci siamo messi d'accordo con il giudice e con gli inquirenti per non diffondere la notizia.» «Ho fatto delle indagini a Sartuis ma non ho scoperto alcuna traccia della sua esistenza segreta.» «Nessuno avrebbe potuto scoprirlo. Manon è rimasta qui, in Svizzera. I suoi nonni si sono trasferiti a Losanna.» «Intende i genitori di Frédéric, il padre di Manon?» «Sì. Credo che Sylvie, la madre, fosse orfana.» I bonifici bancari effettuati in Svizzera. I nonni, ricchi imprenditori, non avevano bisogno di quel denaro, ma Sylvie aveva voluto pagare una pensione mensile. Uno a uno, i pezzi del puzzle trovavano il loro posto. «È rimasto in contatto con Manon?» «Non l'ho mai persa di vista.» «Che cosa ha fatto? Voglio dire: com'è stata la sua vita?» «Un'esistenza come le altre. Una giovinezza elvetica, piena di gioia di vivere. Manon è l'allegria fatta persona.» «Ha studiato?» «Biologia. A Losanna. Adesso è laureata.» Un brivido mi salì lungo la schiena. Beltreïn parlava di Manon al presente. La ragazza viveva, respirava, rideva. Avvertii un'oscura apprensione. «Dov'è adesso?» Il medico si alzò senza rispondere e si piazzò davanti alla finestra. «Dov'è? Posso vederla?» ripetei, con voce alterata. Beltreïn si sistemò gli occhiali con l'indice e si voltò verso di me: «È
proprio questo il problema. Manon è scomparsa». Mi alzai di scatto dalla sedia. «Quando?» «Dopo la morte di sua madre. Lo scorso mese di giugno. È stata interrogata dai gendarmi francesi e poi è svanita nel nulla.» Appena riapparso, il fantasma mi sfuggiva di nuovo. Mi lasciai cadere di nuovo sulla sedia, non potevo crederci. «Non ha più avuto sue notizie?» «No. L'omicidio della madre ha ridestato i terrori della sua infanzia. È fuggita.» «Devo trovarla. Assolutamente. Ha una pista, un indizio?» «Nulla. Tutto quello che posso fare è darle la sua identità svizzera e il suo indirizzo a Losanna.» «Ha cambiato nome?» «Evidentemente. Dopo la resurrezione sua madre ha voluto farla ripartire da zero. Da quattordici anni, Manon Simonis si chiama Manon Viatte. Ma questa informazione non le sarà di alcuna utilità. La conosco bene. È abbastanza intelligente per non farsi trovare.» Misi in tasca l'indirizzo. Il profilo di Manon non quadrava con il ritratto degli altri Senza Luce. Non sembrava esserci nulla di malefico in quella ragazza. «Ha una sua foto? Recente?» «No. Nessuna fotografia. Le ho detto che Manon conduceva un'esistenza normale. Anche se non è del tutto vero. Ha vissuto nella paura, nell'ossessione dell'assassino della sua infanzia. Si è sottoposta a varie psicoterapie, qui a Losanna. Era fragile. Molto fragile. La madre e i nonni la proteggevano. Al compimento della maggiore età Manon è diventata indipendente, ma non ha abbassato la guardia. Per ogni minimo spostamento prendeva precauzioni esagerate. Il suo appartamento è un'autentica cassaforte. Evitava come la peste le macchine fotografiche. Non voleva che il suo volto si imprimesse da qualche parte. Non voleva lasciare nessuna traccia. Mai. È un peccato. Mi manca terribilmente.» Ritorno ancora una volta al punto di partenza. «Perché mi ha raccontato tutto questo?» chiesi con aria stupita. «Non le ho nemmeno mostrato il mio tesserino.» «La fiducia.» «Perché questa fiducia?» «Per via del suo amico.» «Quale amico?»
«Il poliziotto francese. Mi aveva avvisato che lei sarebbe venuto.» Luc mi aveva quindi preceduto anche lì. Ancora una volta avrei seguito le sue orme. Aveva già previsto di suicidarsi? Mi tastai il cappotto. In tasca avevo ancora la sua foto stropicciata. «Sta parlando di quest'uomo?» «Luc Soubeyras, sì.» «Ha raccontato tutto anche a lui?» «Non ne ho avuto bisogno. Ne sapeva già abbastanza.» «Sapeva che Manon era viva?» «Sì. Era sulle sue tracce.» Un solo nome poteva spiegare il vantaggio di Luc: Sarrazin. Il gendarme gli aveva fatto delle rivelazioni. Perché a lui e non a me? Luc possedeva una moneta di scambio? O uno strumento di pressione su Sarrazin? «Che cos'altro le ha detto?» «Discorsi deliranti. Era... come dire... esaltato.» «In che senso?» «Se posso permettermi, lei mi sembra un po' nervoso, ma il suo amico, lui, rasentava la patologia. Sosteneva che Manon fosse una miracolata. E dal diavolo, per di più! Come un'altra ragazza, in Sicilia.» «E lei che cosa ne pensa?» Beltreïn lasciò sgorgare una secca risata. «Mi rifiuto di ascoltare queste farneticazioni. Ho consacrato la mia vita a un metodo unico di rianimazione. Ci ho messo tutto il mio talento, tutte le mie conoscenze in questo ambito. E non l'ho fatto per sentire la gente attribuire i miei risultati a superstizioni e sedicenti miracoli!» «Luc le ha parlato delle esperienze di pre-morte?» «Certo. Secondo lui il diavolo aveva comunicato con Manon mentre lei era in coma.» «E lei che cosa pensa di questa ipotesi?» «Assurda. In queste esperienze non c'è nulla di sovrannaturale o di mistico. Un banale fenomeno biochimico. Una sorta di offuscamento cerebrale.» «Mi spieghi meglio.» «Le esperienze di pre-morte non sono provocate da altro che dalla progressiva asfissia del cervello. Alla soglia della morte il cervello non è più irrorato e questo determina la massiccia liberazione di un neurotrasmettitore, il glutammato. Si suppone che il cervello, per effetto di questa saturazione, liberi un'altra sostanza che provoca l'allucinazione»
«Quale sostanza?» «Non ne sappiamo nulla. Ma alcuni ricercatori stanno seguendo questa pista. Prima o poi avremo la risposta. In ogni caso, non si tratta di una visita metafisica, né di Dio né del diavolo!» La versione di Beltreïn era rassicurante. Ma non potevo sottoscriverla in pieno. Tutte le rivelazioni mistiche si sarebbero potute descrivere allo stesso modo, in termini di secrezioni e fusioni chimiche. Questo non avrebbe tuttavia tolto nulla alla loro realtà e alla loro grandezza. «Luc Soubeyras mi aveva avvertito che lei sarebbe stato latore di gravi notizie», concluse il medico. «Che cosa è successo?» Un'altra conferma: Luc aveva premeditato tutto. Quando era andato da Beltreïn sapeva già che avrebbe messo fine ai suoi giorni. O temeva soltanto di essere eliminato da quelli che avevano cercato di uccidermi? «Luc Soubeyras ha tentato di suicidarsi.» «È sopravvissuto?» «È incredibile, ma è stato salvato dal suo metodo. Si è annegato vicino a Chartres. I medici del pronto soccorso l'hanno trasferito in un ospedale attrezzato con un apparecchio per la trasfusione sanguigna. Hanno utilizzato la sua tecnica. Attualmente è in coma.» Beltreïn si tolse gli occhiali e si stropicciò le palpebre. Li rimise a posto e mormorò con voce sognante: «Straordinario, in effetti... Si era così appassionato alla storia di Manon. Ed è stato salvato nello stesso modo. Un particolare importante per la sua indagine, no?». Mi alzai, senza rispondere, e passai alle domande di rito. «Il nome Agostina Gedda le dice qualcosa?» «No.» «Raïmo Rihiimäki?» «No. Chi sono? Dei sospetti?» «È troppo presto per risponderle. I delitti si succedono. E anche i colpevoli. Ma dietro questa serie di omicidi si cela un'altra verità.» «Pensa che Luc avesse scoperto questa verità?» «Ne sono certo.» «E sarebbe questa la ragione del suo suicidio?» «Non ho alcun dubbio nemmeno a questo proposito.» «Sta seguendo la stessa pista?» «Non abbia timore. Non sono un kamikaze.» Aprii la porta. Beltreïn mi raggiunse sulla soglia. Mi arrivava alla spalla, ma era due volte più largo di me.
«Se ritrova Manon me lo faccia sapere.» «Promesso.» «Mi prometta un'altra cosa. Sia delicato con lei. È una ragazza molto... vulnerabile.» «Ci conti.» «Insisto. La sua infanzia l'ha segnata per sempre.» Le sue premure cominciavano a irritarmi. «Gliel'ho detto: conosco il suo dossier», risposi seccamente. «Non sa tutto.» «Cosa?» «Devo rivelarle una cosa che non ho detto a nessuno. Nemmeno a sua madre.» Lasciai la maniglia della porta e tornai nello studio, cercando sempre di cogliere lo sguardo del medico dietro le lenti opache. Impossibile. «Quando Manon è entrata nel mio reparto l'abbiamo sottoposta a una visita accurata.» «E allora?» «Non era più vergine.» Il sangue mi si gelò nelle vene. Gli anelli del serpente si moltiplicavano ancora una volta. Una nuova idea si impadronì di me. Mi immaginai Cazeviel e Moraz come terribili corruttori. Erano stati loro, soltanto loro, a traviare Manon. Il diavolo che «stava addosso» a Manon non erano altro che quei due bastardi. L'avevano influenzata. Le avevano dato degli oggetti satanici. E l'avevano violentata. «La ringrazio della sua fiducia», dissi con voce rotta. Attraversando il giardino zen, con le palle di luce sospese, un'altra idea si insinuò nella mia mente. Se Sylvie Simonis ne fosse stata a conoscenza, avrebbe sospettato un altro colpevole. Satana in persona. 80 La perquisizione dell'appartamento di Manon Simonis non avrebbe dato alcun frutto, ne ero convinto, ma dovevo seguire quella pista. Prima ancora, però, c'era un'altra cosa che dovevo regolare. Oltre a Sarrazin, un'altra persona mi aveva mentito. Qualcuno che aveva sempre saputo la verità su Manon e che mi aveva lasciato procedere a tentoni. Marilyne, la missionaria di Notre-Dame-de-Bienfaisance. Sentivo ancora la sua voce: «Sylvie è
stata perdonata». Marilyne sapeva tutto. Aveva accompagnato Sylvie Simonis nella sua redenzione durante il ritiro a Bienfaisance. Feci il suo numero. Dopo tre squilli udii la sua voce nasale. «Pronto? Chi parla?» Rividi i suoi occhi da ostrica e la mantellina nera. «Mathieu Durey.» «Che cosa vuole?» «Ristabilire la verità. Non mi piacciono le menzogne.» «Le ho detto tutto. Sylvie Simonis ha soggiornato alla fondazione per tre mesi. La morte di sua figlia...» «Io e lei sappiamo che Manon non è morta.» Ci fu un istante di silenzio. Il suo respiro risuonava nel cellulare. Poi riprese, con voce stanca: «È un miracolo, capisce?». «Questo non toglie nulla al crimine di Sylvie.» «Non sono qui per giudicarla. Mi ha raccontato tutto. All'epoca era in lotta contro delle forze... terribili.» «La conosco anch'io la storia. La sua versione della storia.» «Manon era posseduta. Il gesto stesso di Sylvie era stato provocato, indirettamente, dal demonio. Dio le ha salvate entrambe!» «Com'era Manon quando si è risvegliata?» «Era trasfigurata. Non manifestava più alcun segno satanico. Ma bisognava stare in guardia. Ricorda il libro di Giobbe? Satana dice: "Ho fatto il giro della terra e l'ho percorsa tutt'intera". Il diavolo è sempre in agguato.» E adesso la domanda essenziale. «Dov'è Manon?» «Vive a Losanna.» «Voglio dire adesso.» «Non è più là?» Non fingeva. Nuova impasse. Cambiai approccio. «L'ha conosciuta bene?» «L'ho vista qualche volta a Losanna. Si rifiutava di attraversare la frontiera.» «Non andava mai da qualche parte? Una casa di campagna? Da amici?» «Manon non viaggiava. Aveva paura di tutto» «Non aveva un fidanzato?» «Non ne sono al corrente.» Feci una pausa, anticipando la violenza della mia prossima domanda.
«Pensa che abbia potuto uccidere sua madre?» «Il colpevole lo conosce. È Satana. È tornato a vendicarsi.» «Attraverso Manon?» «Non lo so. Non voglio saperne nulla. Spetta a lei trovarlo. Annientare la Bestia, nel fondo delle anime.» «La richiamerò.» Accesi il motore e cercai la direzione per il centro, dove si trovava il pied-à-terre di Manon. Dopo qualche minuto sentii vibrare il cellulare. Consultai lo schermo. La linea privata di Luc. Non ebbi il tempo di dire «pronto». «Devo vederti. È urgente.» La voce di Laure era concitata. Temetti che fosse accaduto il peggio. «Che cosa è successo? Luc non è...» «No. Le sue condizioni sono sempre stazionarie. Ma voglio farti vedere qualcosa.» «Dimmi.» «Non al telefono. Devo vederti. Dove sei?» «Non a Parigi.» «A che ora puoi essere da me?» Il tono non ammetteva repliche. Riflettei. Manon non aveva lasciato alcun indizio alle sue spalle. La perquisizione dell'appartamento non avrebbe fornito nessun nuovo elemento. Consultai l'orologio: le due e quaranta. «Posso essere da te in serata.» «Ti aspetto.» Sotto un cielo nebuloso, sfrecciai alla stazione centrale e depositai la mia auto a noleggio. Un TGV per Parigi partiva alle tre e venti. Acquistai il biglietto e mi rifugiai in prima classe. Temevo quel viaggio. Le mie ossessioni mi avrebbero assalito di nuovo. Mi rincantucciai nel mio sedile e mi concentrai sulle spiegazioni di Beltreïn. Sì, il ritorno alla vita di Manon era un miracolo, ma il suo salvatore non aveva nulla di divino o malefico. Portava degli occhiali fumé e delle Stan Smith. A furia di rimuginare, finii per addormentarmi. Quando mi risvegliai, eravamo ormai a mezz'ora da Parigi. Le mie angosce si ridestarono all'istante. Il pensiero di Manon mi lacerava il ventre. Angelo o demonio? Non potevo continuare a chiedermelo. Dovevo trovarla, a tutti i costi. Gare de Lyon, le sette di sera. Mi precipitai in un'agenzia di autonoleggio e scelsi un'Audi A3, per non
sentirmi spaesato. Direzione rue Changarnier, vicino alla Porte de Vincennes. Faceva meno freddo che a Losanna ma un violento rovescio inondava l'asfalto. Quando Laure mi aprì, rimasi scioccato. In otto giorni aveva perso parecchi chili. Tutto il suo corpo sembrava disseccato sotto una pelle color cenere. «Ho appena messo a letto le piccole. Entra.» Boiserie di legno chiaro, soprammobili, libri: ogni cosa al suo posto. Anche l'odore di cera e disinfettante. Mi accomodai sul divano. Laure aveva fatto il caffè. Lo servì con gesti bruschi. Presi la mia tazzina, e lei era già sparita. Ritornò con in mano una grossa busta gialla che sembrava contenere degli oggetti. La posò sul tavolino e si sedette di fronte a me. «Ho deciso di vendere la casa di Vernay.» «Posso fumare?» chiesi. «No.» Posò i palmi delle mani sul tavolino. «Ascoltami. Ieri sono tornata laggiù. A mettere a posto. Era da tempo che volevo farlo, ma non avevo il coraggio di entrare in quella casa, capisci?» «Sei sicura che non posso fumare?» Mi folgorò con lo sguardo. «Ho rivoltato la baracca da cima a fondo, dalla soffitta al garage. Ed ecco che cosa ho trovato in soffitta.» Prese la busta e la svuotò sul tavolino. Ne uscirono degli oggetti: una croce invertita, un calice macchiato di sangue, ostie incrostate di materie brune e biancastre, candele, figurine nere che ricordavano i demoni dell'Asia Minore. Una piccola collezione di oggetti satanici. Mi domandai a voce alta: «Che cosa vuol dire?». «Lo sai benissimo.» Presi le ostie con la punta delle dita. Erano sporche di escrementi e sperma. Quanto alle candele, una tradizione satanica voleva che quelle per le celebrazioni sacrileghe fossero fatte di grasso umano. «Luc stava facendo delle ricerche sul diavolo», dissi con voce incerta. «Questi oggetti devono essere...» «Smettila. In soffitta ho trovato tracce di sangue. E anche altre tracce. Luc praticava delle cerimonie. Si masturbava su quelle ostie. Si sodomizzava con un crocifisso! Invocava il diavolo! In casa nostra!» «Luc stava indagando su dei satanisti e...» Laure batté i palmi delle mani sul tavolino. «Erano mesi che Luc prati-
cava il satanismo.» Restai senza parole. Era assurdo. Luc non poteva essersi immischiato in quelle turpitudini. Poco ispirato, chiesi: «Che cosa vuoi che faccia?». «Prendi questa merda e sparisci.» Il suo tono era rancoroso e stremato. Rinfilai nella busta gli oggetti, cercando di toccarli il meno possibile. Mi ispiravano un'irresistibile repulsione. «Tutto questo era scritto. Ed è anche colpa tua», sentenziò la voce di Laura. «Che cosa vuoi dire?» «La vostra religione. I vostri grandi discorsi. Vi siete sempre creduti al disopra degli altri. Al disopra della vita.» Chiusi la busta senza rispondere. Lei continuò, lasciando sgorgare le lacrime. «E quel vostro sporco lavoro di poliziotti... È sempre stato una scusa. Questa volta bisogna accettare la verità. Luc ha perso il controllo.» Scosse la testa, quasi ridendo tra le lacrime. «Il satanismo...» «Luc era un vero cristiano, non puoi metterlo in dubbio. Lui non si sarebbe mai abbassato a simili pratiche.» Tra due singhiozzi, Laure fece un sorriso cattivo. «Fa' uno sforzo, Mathieu. La teoria dei due estremi, non ne hai mai sentito parlare?» Vedevo i capillari rotti nel bianco dei suoi occhi. Le colava il naso, ma lei non si curava di asciugarselo. «A forza di eccessi, gli estremi si ricongiungono. A forza di essere mistico, Luc è diventato satanista. Il principio è noto. Tutte le religioni hanno un versante estremo, che finisce per rovesciare i loro valori fondamentali.» Il suo discorso mi stupiva. Non me la immaginavo riflettere sui confini del misticismo. Eppure aveva ragione. Io stesso avevo studiato questa inversione dei poli nella religione cattolica. Le splendide pagine di Huysmans a proposito di Gilles de Rais, compagno di Giovanna d'Arco, mistico appassionato divenuto omicida seriale. Huysmans analizzava come, a certi livelli, conti solo l'eccesso, e come, in questa vertigine, si possa attraversare lo specchio. «Dammi tempo», tentai ancora. «Troverò una spiegazione...» «No», rispose lei alzandosi. «Non voglio più sentire parlare di indagine. E non voglio che tu venga all'ospedale. Se Luc si risveglierà, dovrà dimenticare la vostra fede malsana e il lavoro di poliziotto.»
Mi alzai anch'io, con la busta sottobraccio, e mi diressi verso la porta. «Non mi hai detto come sta.» «Nessuna novità.» Sulla porta fece una pausa. I suoi occhi erano di nuovo asciutti. Adesso era la collera a consumarla dalla testa ai piedi. «Secondo i medici può durare anche anni. Oppure finire domani.» Si asciugò le mani sulla gonna. «Ecco che vita faccio!» Mi spremetti le meningi per trovare una frase confortante. Invano. Balbettai qualche parola d'addio e mi precipitai giù per le scale. Mi fermai davanti alla portiera dell'auto, sotto la pioggia. Un biglietto era infilato sotto il tergicristallo. Mi guardai attorno: la strada era deserta. Presi il foglio. Appuntamento alla Missione cattolica polacca, 263 bis, rue Saint-Honoré. Ore 22. Rilessi più volte la frase. Un appuntamento in una chiesa polacca. Una trappola? Esaminai la grafia: regolare e sicura. Nulla a che vedere con i «TI ASPETTAVO» e «SOLTANTO TU E IO» del mio diavolo. Erano le otto di sera passate. Mi misi in tasca il foglio e salii in macchina. Mezz'ora dopo ero nel mio appartamento. Non ci mettevo piede da una settimana ma non provavo la minima sensazione di conforto. Avevo sempre in testa la stessa domanda. Chi aveva scritto quel biglietto? Pensai a Cazeviel, a Moraz. Un terzo omicida? Dopo aver fatto la doccia ed essermi rasato, indossai un completo. Annodandomi la cravatta mi venne un'idea. Un'idea spuntata dal nulla, ma che assunse subito la forza di un'evidenza. Era stata Manon Simonis in persona a darmi quell'appuntamento. Mi aveva rintracciato, forse mi aveva seguito in Svizzera o altrove. E adesso voleva incontrarmi. Questa idea, basata su niente, si radicò sempre più nella mia mente. E mi provocò uno strano calore. Nonostante i cadaveri che si ammonticchiavano e i sospetti che gravavano sulla ragazza, ero impaziente e felice di incontrarla. Presi la mia arma. Verificai che la sicura fosse inserita, in posizione da viaggio. Fissai la fondina alla cintura, a sinistra, con il calcio girato verso destra, come al solito, poi la copersi con il lembo della giacca. Spensi le luci, scrutai dalla finestra la strada luccicante di pioggia. Una Camel, una nuvola di fumo contro il vetro.
Fremevo d'impazienza. Stavo per incontrare Manon Simonis, ventidue anni, sopravvissuta al Limbo. 81 All'altezza del 263, rue Saint-Honoré combinava le boutique di lusso ai lavori di ripristino della carreggiata. In quel caos, all'angolo con rue Cambon, tentava d'imporsi la chiesa polacca. Posteggiai sulle strisce pedonali e corsi verso la scalinata evitando le pozzanghere. Aveva ricominciato a piovere di brutto. Salii velocemente le scale che portavano all'ingresso e mi scrollai l'acqua di dosso. L'edificio era cupo e sporco. Tutt'intorno, le vetrine scintillanti dei negozi chic sembravano lanciargli sguardi di riprovazione, sprofondandolo ancora di più nel suo luridume. Il portico sembrava un peristilio bruciato, delimitato da colonne sbilenche. La pioggia s'infiltrava tra i lastroni mal squadrati. Nonostante l'ora, davanti alla chiesa regnava una certa attività. Uomini con facce da forca grugnivano in polacco, mani in tasca, berretti calcati fino agli occhi, di certo dei clandestini in cerca di un lavoro in nero. Una religiosa, il cui velo color crema fluttuava nell'oscurità, affiggeva dei piccoli annunci a una bacheca. Spinsi la porta di legno. Oltrepassai il piccolo atrio e m'infilai oltre l'altra porta. La chiesa era rotonda. E nera. La navata e il coro formavano un grande ovale su cui erano sospesi dei lampadari, delle corone in ferro battuto con lampade di vetro colorato che diffondevano una luce anemica, color ambra. Dovetti battere ripetutamente le palpebre per adattarmi all'oscurità. File oblique di banchi erano disposte davanti all'altare, che si riassumeva in un gradino sovrastato da un'enorme croce, qualche cero e un dipinto indecifrabile. A destra, in fondo all'abside, tremolava il lume rosso del Santo Sacramento. Tutto sembrava vago, indistinto, sospeso nell'ombra pervasa dagli odori dell'incenso e dei fiori marci. Sfiorai l'acquasantiera, mi segnai e avanzai di qualche passo. Alla luce dei lampadari, scorsi i quadri sulle pareti. I santi, gli angeli, i martiri non avevano volto, ma le cornici d'oro antico, illuminate dai ceri, sembravano consumarsi a fuoco lento. In alto, sotto la cupola, le vetrate brillavano debolmente. La pioggia martellava sui vetri e sui piombi, distillando una sensazione di opprimente umidità.
Nessuno in vista. Nemmeno un fedele sui banchi, neanche un pellegrino davanti all'altare. E soprattutto nessuna traccia di Manon. Consultai l'orologio: le dieci. Che aspetto aveva? Ricordai i ritratti da ragazzina. Molto bionda, ciglia e sopracciglia invisibili. Aveva ancora quell'aria da albina? Non immaginavo nulla. Ma una sorda eccitazione palpitava in fondo alle mie vene. Uno scricchiolio alla mia sinistra. Qualcuno si era mosso nei primi banchi. Distinsi dei capelli grigi, spalle robuste e un colletto bianco. Un prete. Mi avvicinai. Ma poi subito indietreggiai, colpito dalla perfezione del quadro. L'uomo era in ginocchio, parallelo all'inclinazione dei banchi, la nuca argentata era china come per ricevere una spada sacramentale. Quello che vedevo non era soltanto un religioso in preghiera ma, ne ero certo, un combattente. Uno di quei preti-soldati polacchi, lontani eredi degli ordini militari dei crociati. Un duro, un puro, di una stirpe antica. L'uomo si alzò e, dopo avere fatto il segno della croce, si avviò lungo la navata. Nella semioscurità distinsi il suo volto e trasecolai. Lo conoscevo. Era il prete in abiti civili alla messa di Luc. L'uomo al quale Doudou aveva dato l'astuccio di legno nero. Quello che si era segnato al contrario. Feci un passo indietro per nascondermi, ma lui mi aveva già individuato. Senza esitare, avanzò verso di me. Le sue robuste mascelle facevano il paio con le spalle atletiche infagottate nella veste nera. «È venuto.» La voce era netta, clericale. Senza traccia di accento. «È lei che mi ha dato appuntamento?» chiesi stupidamente. «Chi altri?» Ero di una lentezza preoccupante. «Chi è lei?» «Andrzej Zamorski, nunzio apostolico del Vaticano. Distaccato in vari paesi, tra cui la Francia e la Polonia. Un destino curioso, il mio: ambasciatore straniero nel mio stesso paese.» Al secondo ascolto affiorava un leggero accento. Così leggero che non si poteva dire se questa inflessione provenisse dalla sua lingua materna o da tutte quelle che aveva parlato nella sua vita. Feci un gesto verso la navata. «Perché questo incontro? Perché qui?» Il prelato sorrise. Adesso vedevo chiaramente il suo volto. I tratti muscolosi, affilati dai capelli grigi sulle tempie. Le pupille chiare, di un azzurro
glaciale. Il naso non,era in sintonia con tutto il resto: fine, dritto, quasi femminile, incongruo in quella faccia da istruttore militare. «In realtà non ci siamo mai lasciati.» «Mi sta seguendo?» «Inutile. Camminiamo sulla stessa strada.» «Al punto in cui sono, non ho più pazienza con gli indovinelli.» L'uomo fece una breve genuflessione e indicò una porta laterale. «Mi segua.» 82 Rivestita di legno chiaro, la sacrestia evocava una sauna svedese. C'era odore di pino e di incenso. Ma l'analogia si fermava qui: faceva un freddo cane. «Mi dia l'impermeabile. Lo faremo asciugare.» Ubbidii docilmente. «Tè o caffè?» Zamorski aveva posato il mio trench su un piccolo radiatore elettrico. Aveva già in mano un thermos, che svitò rapidamente. «Caffè, grazie.» «C'è solo Nescafé.» «Va bene.» «Posso fumare?» «Certo.» Il polacco mi mise accanto un portacenere. Quella gentilezza, quelle maniere cortesi tra due sconosciuti, accomunati da una storia di possessioni e omicidi, aveva un che di surreale. Accesi una Camel e mi sedetti. Dovevo ancora mandare giù la delusione: nessuna Manon, nessuna donna segreta dietro le vetrate di quella chiesa. Ma questo nuovo incontro sarebbe stato fertile, lo sentivo. Il polacco prese un'altra sedia e si sedette a cavalcioni, incrociando le mani sullo schienale. Il suo atteggiamento aveva qualcosa di teatrale, la sua disinvoltura era studiata. «Sa che cosa mi interessa, vero?» «No.» «Allora ha fatto meno progressi di quanto pensassi.» «Sta a lei aiutarmi. Chi è? Che cosa cerca?» «Le iniziali K-U-K le dicono qualcosa?»
«No.» «Un circolo di intellettuali cattolici nato a Cracovia dopo la seconda guerra mondiale. Giovanni Paolo II, quando si chiamava ancora Karol Wojtyla, apparteneva a quel circolo. All'epoca di Solidarnosc i suoi membri hanno contribuito a cambiare le sorti del paese. Almeno quanto Walesa e la sua banda.» «Lei fa parte di questo gruppo?» «Dirigo un ramo specifico, che è stato creato negli anni Sessanta. Un ramo... operativo.» «Mi ha detto che era nunzio del Vaticano.» «Rivesto anche funzioni diplomatiche. Funzioni che mi consentono di viaggiare e di arricchire, diciamo così, la mia rete.» Indovinai il seguito. Una nuova organizzazione religiosa che si occupava dei Senza Luce e dei loro crimini. E lo facevano di certo in modo molto più energico di van Dieterling, il teorico. Dei poliziotti ecclesiastici. «È il mio dossier che le interessa?» «Seguiamo con partecipazione la sua indagine. Per essere un poliziotto abituato a casi terra terra, lei ha dato prova di una grande apertura mentale.» «Sono cattolico.» «Giustamente. Avrebbe però potuto avere i pregiudizi della sua epoca. Credere soltanto nella psichiatria e ridurre le possessioni a semplici malattie mentali. Questo atteggiamento che si proclama moderno non affronta il nocciolo del problema. Il nemico è in agguato. Violento, onnipresente, fuori dal tempo. Quando si parla del diavolo, non c'è modernità, non c'è evoluzione. La Bestia è all'origine e ci sarà anche alla fine, mi creda. Cerchiamo solo di farla indietreggiare.» Parole e immagini mi sfilavano nella mente: le predizioni di san Giovanni e la sua Apocalisse, l'inferno brulicante che si spalancava per il Giudizio Universale, gli esorcisti al capezzale di bambini posseduti, lottando mano nella mano contro i dèmoni, in Brasile, in Africa... Ero sprofondato mio malgrado al cuore di una crociata sotterranea. «Non si può dire che lei mi abbia aiutato molto», replicai seccamente. «Ci sono strade che si devono percorrere da soli.» «Ma avrebbe potuto salvare delle vite.» «Non lo creda. Siamo in anticipo su di lei, è vero. Ma non su di "lui". È impossibile prevedere dove e quando colpirà.» Cominciavo ad averne abbastanza di sentir parlare del diavolo come di
un personaggio reale e onnipotente. Rimisi la palla al centro. «Se sa già quello che so io, che cos'è che le interessa?» «Innanzitutto, non sappiamo esattamente fino a dove lei è arrivato. Secondariamente, lei ha esplorato territori per noi inaccessibili.» Van Dieterling e i suoi archivi. I due gruppi dovevano essere rivali. Zamorski non sapeva nulla, o quasi, di Agostina Gedda. Forse avrei potuto «vendere» due volte il mio dossier d'indagine e lavorare per due entità, come il servitore di due padroni di Goldoni. Il polacco confermò, con un tono desolato: «La sinergia dei nostri ranghi è lungi dall'essere quella che dovrebbe. Soprattutto in materia di demonologia. Gli italiani del Vaticano pensano di avere il dominio in questo campo e si rifiutano di cooperare». Non era difficile immaginare le due fazioni che si facevano la guerra. Van Dieterling aveva Agostina. Zamorski doveva avere anche lui i suoi dossier. «Se vuole le mie informazioni», dissi, «mi proponga una moneta di scambio.» Il prete si alzò. Il suo sguardo d'acciaio diceva: «Stia attento a dove cammina», ma la sua voce pacata pronunciò: «Può considerarsi molto fortunato a essere ancora in vita e sano di mente, Mathieu. Senza saperlo, è finito al centro di un'autentica guerra». «Vuole dire una "guerra interna", tra diversi gruppi religiosi?» «No. Le nostre rivalità non costituiscono che un epifenomeno. Le sto parlando di un vero conflitto, che oppone la chiesa a una potente setta satanica. Le sto parlando di un pericolo imminente, che ci minaccia tutti. Noi, i Soldati di Dio, ma anche tutti i cristiani del pianeta.» Non ero certo di riuscire a seguirlo. «I Senza Luce?» Zamorski fece qualche passo con le mani incrociate dietro la schiena. «No. I Senza Luce sono piuttosto la posta della battaglia.» «Non capisco.» Il nunzio si avvicinò a un vecchio tabellone sbilenco, dietro i leggii che sostenevano le partiture, e prese un pennarello. «Conosce questo segno?» Tracciò un cerchio, lo barrò nella parte inferiore del foglio con un tratto orizzontale e poi disegnò degli anelli. Il tatuaggio di Cazeviel e il simbolo dell'anello di Moraz. Quel simbolo designava quindi una setta satanica? «L'ho già visto due volte.» «Dove?»
«Tatuato sul torso di un uomo. Inciso sull'anello di un altro.» «Tutti e due morti, secondo le mie informazioni.» «Se conosce le risposte, perché fa le domande?» Zamorski sorrise e rimise il cappuccio sul pennarello. «Patrick Cazeviel. Richard Moraz. Il primo è morto sulle scale del Vaticano il 31 ottobre. Il secondo vicino alla casa del dottor Bucholz, nei pressi di Lourdes, il giorno dopo. Lei li ha uccisi entrambi. Se vuole che facciamo un accordo, deve essere sincero con me.» «Chi ha parlato di accordo?» Picchiettò le dita sul pannello. «Non vuole sapere che cosa significa questo disegno?» «Lo scoprirò da solo.» «Certo. Ma possiamo farle guadagnare tempo.» L'ecclesiastico misurava la stanza a passi lenti. Cominciavo ad averne abbastanza delle sue circonvoluzioni. «Come si chiama la setta?» «Gli Asserviti. Si considerano gli schiavi del demonio. Da qui il loro simbolo: il collare di ferro. Sono chiamati anche Scribi. Le sette sataniche sono la mia specialità. Il mio vero lavoro è rintracciare questi gruppi in ogni parte del mondo. E fra tutti quelli che ho conosciuto o studiato, gli Asserviti sono di gran lunga i più violenti e i più pericolosi.» «Qual è il loro culto?» Zamorski fece un largo gesto che annunciava una digressione. «Nella maggior parte delle sette sataniche, il diavolo non è che un pretesto per abbandonarsi alla depravazione, alle droghe e a varie attività più o meno illecite. Talvolta queste pratiche si spingono più in là e finiscono sulle pagine di cronaca nera dei giornali. Omicidi, sacrifici, incitamenti al suicidio... Ma in genere queste sette non sono pericolose e il più delle volte si limitano a profanare cimiteri. Una forma deviante di delinquenza, senza nulla di trascendente. E quando questi depravati cercano di entrare in contatto con il loro "padrone", lo fanno con cerimonie piuttosto ridicole.» «Immagino che gli Asserviti non appartengano a questa categoria.» «Proprio così. Gli Asserviti sono degli autentici satanisti che vivono per e con il male. Conducono una vita ascetica, esigente, implacabile. Assassini, torturatori, stupratori: praticano il male a freddo, con ordine e rigore. Sono l'equivalente dei nostri monaci. Potenti, numerosi... e invisibili. A loro non interessa fornicare sotto l'altare di una chiesa o baciare il culo di un caprone. Sono dei veri criminali, che cercano la trascendenza attraverso il
male e la distruzione. La loro comunione è l'assassinio, la sofferenza, la depravazione. E, per di più, sono incredibilmente uniti, legati da un progetto segreto.» Accesi un'altra sigaretta, per nutrire il mio piccolo inferno interiore. «Che sarebbe...» «Raccogliere i comandamenti del diavolo. Quando non uccidono, gli Asserviti cercano la parola di Satana.» Zamorski riprese fiato e ricominciò a camminare avanti e indietro nella stanza. La sua andatura marziale faceva pensare a un generale durante una campagna. «Il dogma satanico», proseguì, «soffre di una lacuna fondamentale: non ha un libro sacro. Nemmeno l'ombra di un testo. Nella storia del satanismo troverà una sfilza di bibbie nere, volumi di demonologia, libri di magia o testimonianze, ma mai un'opera che pretenda di trascrivere il Verbo del demonio, nel senso consacrato del termine. Contrariamente a quanto si dice, il diavolo non è molto loquace.» Rividi il prete di Lourdes, con la sua logora sottana. «Non hanno un libro, capisce?» Il fanatico parlava degli Asserviti. «Dove si trova il suo Verbo? Dov'è scritto?» Un ghigno gli illuminò gli occhi. «Proprio lei mi fa questa domanda? Non è questo lo scopo della sua indagine?» Avrei dovuto pensarci. I Senza Luce. I soli esseri al mondo ad avere avuto un contatto reale con il demonio durante il loro coma. «Gli Asserviti cercano i Senza Luce?» «Sono lo scopo della loro ricerca. Per loro, quei miracolati sono i depositari del Verbo. Un verbo che devono consegnare al loro libro. È per questo che vengono chiamati anche "Scribi". Scrivono sotto dettatura del diavolo.» «Immagino che cerchino soprattutto di decifrare il Giuramento del Limbo.» Zamorski annuì. «Il loro progetto si riassume in questo: decifrare il Giuramento. Le parole che consentono di raggiungere il Maligno e di stringere patti con lui.» «Cazeviel e Moraz appartenevano a questa setta?» «Da lunga data.» «Da prima dell'annegamento di Manon?» «Certo. Sono stati loro a corromperla. L'hanno condizionata e le hanno ispirato gli atti satanici che commetteva all'epoca. Non sappiamo che cosa
cercassero esattamente di fare. Senza dubbio volevano formare una specie di creatura malsana che avrebbe attratto l'attenzione di Satana in persona.» «Quando hanno saputo che Manon era viva?» «Al momento della morte di Sylvie Simonis.» «Sa come ne sono venuti a conoscenza?» «Attraverso Stéphane Sarrazin.» Il nome del gendarme mi fece sobbalzare. «Perché lui? Perché li avrebbe dovuti avvisare?» Il nunzio represse un sorriso. «Perché era loro complice. Stéphane Sarrazin, quando ancora si chiamava Thomas Longhini, era un Asservito. Era in combutta con gli altri due per corrompere la ragazzina.» Ancora una verità mancata. Avevo sempre sospettato una complicità fra i tre uomini senza poterla mai provare. Il famoso assioma del 30 per cento... Moraz, Cazeviel, Longhini avevano provocato la morte di Manon. Ma ero ancora scettico. «Nel 1988», ripresi, «Thomas Longhini aveva tredici anni. Era uno scolaro. Moraz faceva l'orologiaio. Cazeviel lo scassinatore. Come avrebbero potuto conoscersi?» «Non ha scavato abbastanza nel loro passato. Richard Moraz non faceva soltanto l'orologiaio. Era un collezionista, e anche un ricettatore. È così che ha conosciuto Cazeviel, che gli vendeva oggetti rubati.» «E Thomas?» «Thomas era un pervertito. Un vizioso. Quello che lo eccitava era entrare di notte nelle case degli altri. Osservarli o rubare soprammobili. È per questa via che ha incontrato Moraz. Gli vendeva anche lui oggetti rubati.» Moraz, Cazeviel, Longhini: tre uccelli notturni, accomunati dal furto e dalle intrusioni notturne. In seguito avrebbero scoperto un'altra aspirazione comune: il culto del diavolo. Immaginai il seguito. Nel corso dei mesi Thomas Longhini si doveva essere affezionato a Manon e non la voleva più traviare. Aveva paura. Ne aveva parlato ai suoi genitori e poi allo psichiatra, Ali Azoun, senza però potergli confessare tutta la verità. Longhini voleva spezzare il maleficio operato su Manon. Quello che era iniziato come un gioco perverso, la corruzione della bambina, stava diventando pericoloso. Manon agiva realmente come una posseduta. E sua madre, perso ogni controllo, era pronta a distruggerla. «Se capisco bene», continuai io, «soltanto quest'estate i tre complici hanno scoperto che Manon era viva. E allora hanno pensato che potesse
essere una Senza Luce. Una creatura salvata dal demonio. Quindi un essere che poteva aiutarli nella loro opera.» «Esattamente. Solo che nel frattempo Manon è scomparsa. Forse perché ha sentito la minaccia di quei fanatici, o perché temeva l'assassino di sua madre.» Pensai che Zamorski escludeva la colpevolezza di Manon e mi sentii inspiegabilmente sollevato. Non volevo che Manon fosse colpevole... Per il resto, le mie scoperte coincidevano con le sue rivelazioni. I tre uomini cercavano Manon, come me. Moraz e Cazeviel avevano deciso di eliminarmi per impedirmi di trovarla prima di loro. Longhini, alias Sarrazin, aveva al contrario deciso di associarsi con me. Perché? Pensava di uccidermi in seguito, quando avessi compiuto la mia missione? O contava su di me per trovare altri Senza Luce? Tornai al punto di partenza. Zamorski sapeva dove si nascondeva Manon? La domanda mi bruciava sulle labbra, ma volevo prima sondare il mio eventuale socio: «Perché mi racconta questo?». «Gliel'ho detto: le sue informazioni mi interessano.» «Ha l'aria di saperne molto più di me.» «Sull'indagine Simonis. Ma ci sono altri aspetti del dossier.» «Agostina Gedda?» «Per esempio. Sappiamo che lei l'ha interrogata, a Malaspina. Vogliamo una trascrizione della sua testimonianza.» «Van Dieterling non collabora con voi?» «Come le ho già detto, abbiamo punti di vista diversi. So che l'ha ricevuta alla curia romana. All'interno della biblioteca apostolica del Vaticano ha un archivio della massima importanza. Documenti che lei ha consultato.» Il cardinale non mi aveva dato nulla, ma decisi di bluffare. «È vero, ho dei testi che potrebbero arricchire i suoi dossier. Ma lei? Che cosa può darmi in cambio? La rivelazione degli Asserviti non basta. Prima o poi avrei scoperto la loro esistenza.» «Era la parte gratuita del nostro affare. Per convincerla che non brancoliamo nel buio.»? «Ha in mano un'altra moneta di scambio?» «Una moneta irresistibile.» «Quale?» «Manon Simonis.» «Sa dove si trova?» «A dire il vero la teniamo sotto la nostra protezione.»
Mi sentii mancare il respiro, ma riuscii a chiedere: «Dove?». Zamorski afferrò il mio impermeabile e me lo lanciò. «Non ha paura di volare, vero?» 83 Nel cuore della notte l'aeroporto di Bourget sembrava quello che ormai era: un museo a cielo aperto. Un Louvre dell'aeronautica le cui sculture erano Mirage, Boeing, razzi Ariane. Nella piovosa oscurità si intravedevano gli aerei sotto i teli, gli hangar con le macchine volanti, le fusoliere luccicanti e le ali ornate di coccarde. La Mercedes nera di Andrzej Zamorski scivolava sul vialetto lucido di pioggia. Ammiravo il lusso dell'abitacolo, i vetri fumé, i sedili di pelle, il soffitto imbottito e le portiere decorate di radica. «Il mio piccolo paese ha delle risorse», commentò l'emissario del Vaticano. «Quando sono inviato in una terra ostile, mi vengono concessi tutti i mezzi necessari.» «La Francia è una terra ostile?» «C'ero solo di passaggio. Venga. Siamo arrivati.» L'auto si fermò davanti a un edificio con il piano terra illuminato. Presi la mia borsa dal bagagliaio. Zamorski aveva accettato di passare da me per consentirmi di prendere qualche effetto personale e soprattutto il famoso dossier. Nella sala due piloti rileggevano il piano di volo e steward che sembravano guardie del corpo ci offrirono champagne, caffè e stuzzichini. All'una di mattina si sforzavano di essere freschi come fiori. Un Falcon 50EX manovrava sulla pista deserta, trafiggendo la notte con le sue luci. In piedi davanti alla vetrata, riflettevo. Un prelato capace di affittare un jet privato in piena notte: Zamorski non era decisamente un religioso come gli altri. Ma non mi stupivo più di niente. Mi lasciavo trasportare dagli eventi, cullare da una sensazione di irrealtà, guardando i fari riflettersi sulla pista bagnata. «Venga. Il pilota si spazientisce.» «Non c'è nessun controllo? Niente dogana?» «Passaporto diplomatico, mio caro.» «E dove andiamo?» «Glielo spiegherò in volo.» Mio malgrado, mi ribellai. «Non metterò piede a bordo senza sapere la
destinazione.» Il polacco mi prese la borsa. «Andiamo a Cracovia. Manon è nascosta là. In un monastero. Un luogo molto sicuro.» Seguii l'ecclesiastico sulla pista. Il suo abito nero scintillava come l'asfalto bagnato. Guardando il suo pugno stretto sul manico della mia borsa, mi dissi che in quella mano un'arma automatica non avrebbe sbagliato un colpo. Per associazione, pensai alla Glock che portavo alla cintura. Quella partenza clandestina aveva un vantaggio: nessuno mi aveva perquisito. La cabina del Falcon ospitava sei sedili di cuoio, con braccioli e tavolinetti di mogano verniciato. Ci attendevano cesti di frutta e bottiglie di champagne affondate nei secchielli per il ghiaccio. Sei posti, sei privilegiati sopra le nuvole. «Si sieda dove vuole.» Scelsi il primo sedile a sinistra. I due preti che ci accompagnavano da quando avevamo lasciato la chiesa polacca si sedettero dietro di me. Due colossi che di religioso avevano solo l'abito e che finora non avevano detto una parola. Zamorski si installò di fronte a me e allacciò la cintura. Il clic fu come un segnale e i motori rombarono. L'aereo prese quota in un'atmosfera di sogno e di fluidità. Dall'oblò guardai le prime nuvole che si sfilacciavano, e dietro di loro il cielo blu scuro. Uno specchio senza contorno né limite, che attraversammo con grande rapidità. Non era più la notte, era il rovescio del mondo. «Beve qualcosa?» Zamorski aveva già affondato la mano nel secchiello. Rifiutai con un cenno. Quello che volevo era una sigaretta. Il polacco indovinò ancora una volta i miei pensieri. «Può fumare. È uno dei vantaggi dei voli privati: è come essere a casa propria.» Accesi una Camel, sentendo riaffiorare la diffidenza di fronte a tante premure. Chi era in realtà questo prelato che si nascondeva dietro le sue raffinate maniere? Quali erano le sue intenzioni? Dove mi stava realmente portando? Cominciai a temere di essere caduto in una trappola la cui esca si chiamava Manon. Dopo un lungo tiro di sigaretta, dissi: «Mi parli di Manon». «Che cosa vuole sapere?» «Come è venuto a conoscenza del suo caso?» «Nel modo più semplice del mondo. Attraverso il curato della sua parrocchia, padre Mariotte. Dopo il tentato omicidio, nel 1988, si è confidata
al prete esorcista di Besançon. La notizia è risalita fino a me. Le nostre reti sono molto articolate.» «All'epoca sapeva che Manon era viva?» «Una rapida indagine ce l'ha fatto scoprire. Da quel momento l'abbiamo sempre tenuta d'occhio.» «Pensavate che fosse posseduta?» «Diciamo che c'erano forti indizi.» «Perché?» «Abbiamo raccolto parecchie testimonianze sui suoi comportamenti, prima dell'assassinio. E c'erano anche sospetti su Cazeviel, Moraz e Longhini. Erano già nelle nostre liste. Quella storia puzzava di satanismo.» «E poi?» Zamorski si strinse nelle spalle. «La piccola è cresciuta, senza problemi o devianze. Non ha più manifestato il minimo segno di possessione.» «È stata seguita da degli psicologi.» «Nulla a che vedere con il diavolo. È stata semplicemente traumatizzata da tutta questa storia. Il che è piuttosto comprensibile.» Non avevo più tempo per le precauzioni. «Pensa che abbia ucciso sua madre?» «No.» «Da dove questa certezza?» «È nel nostro monastero da tre mesi. È innocente. Nessuna donna potrebbe simulare a tal punto. È una vera... sorgente di luce.» Anche Agostina Cedda era stata una sorgente di luce. Per poi diventare un mostro. Ma avevo voglia di credere a Zamorski. «Secondo lei non ha quindi vissuto un'esperienza negativa durante il coma?» «Manon non ha alcun ricordo di quell'episodio. E comunque adesso quello che ha vissuto in quei momenti non influenza la sua personalità.» Annuii con il capo ma pensai agli avvertimenti che mi erano stati dati a Catania, a proposito di Agostina. Alle raccomandazioni di van Dieterling. Alle istruzioni del rituale romano. «Innumerevoli sono gli artifizi e le furberie del diavolo per ingannare gli uomini...» A chi si poteva credere in un tale contesto? Ritornai a chiedere informazioni generali. «Pensa che i Senza Luce esistano davvero? Pensa realmente che siano degli assassini che agiscono sotto un'influenza demoniaca?» «L'esperienza negativa esiste. E può essere traumatizzante.»
«Al punto di trasformare chi l'ha subita in una persona aggressiva, un assassino?» «In certi casi, sì.» «Ma crede che dietro a tutto questo ci sia il diavolo? Una vera entità negativa? Un agente corruttore?» Zamorski sorrise. Le luci della cabina erano state abbassate. I sedili di cuoio luccicavano sotto le plafoniere. Di tanto in tanto le luci delle ali, strappando le nuvole, illuminavano i nostri profili attraverso gli oblò. «Studiamo da anni questi fenomeni. Aspetti di essere a Cracovia per capire meglio la nostra posizione.» «Torniamo allora ai casi specifici. Agostina Cedda è davvero una posseduta?» «Secondo van Dieterling non c'è alcun dubbio. E da quello che ne so, tutto sembra confermarlo.» «Raïmo Rihiimäki le dice qualcosa?» «Certo.» «Un Senza Luce?» «Ha avuto un'esperienza negativa, non c'è dubbio. Raïmo è ricorso all'aiuto di uno psichiatra. Gli ha raccontato la sua visione. Quella prova l'ha trasformato in una macchina per uccidere.» «Agostina e Raïmo sono quindi gli autori degli omicidi di cui li si accusa?» «Lei sta bruciando le tappe, Mathieu. Aspetti di essere a Cracovia. Noi...» «Questi miracolati sono o non sono degli assassini? Hanno usato degli acidi, iniettato insetti, messo licheni nella cassa toracica della loro vittima, agito esattamente allo stesso modo a migliaia di chilometri di distanza?» Zamorski teneva in mano una coppa di champagne piena di bollicine. Bevve un sorso e poi ammise: «Nel corso degli anni il nostro gruppo si è fatto un'opinione». «Quale?» «Accanto all'esperienza negativa potrebbe esserci un altro fattore. Una circostanza particolare.» «L'ascolto.» «Un essere esterno, che contatterebbe e aiuterebbe questi assassini... "rivelati".» Zamorski esprimeva l'ipotesi che avevo avanzato fin dall'inizio, senza averla mai approfondita. Un complice dei Senza Luce. Un ispiratore, in
carne e ossa. Quello che aveva inciso sulla corteccia: IO PROTEGGO I SENZA LUCE. «Un uomo li aiuterebbe a uccidere in questo modo?» «Li inciterebbe, in ogni caso.» «Un uomo che pensa di essere il diavolo?» «O che pensa di agire in nome del diavolo.» «Ha delle prove a sostegno di questa ipotesi?» «Soltanto delle analogie. Il metodo, prima di tutto. I Senza Luce non l'hanno mai applicato prima. Si può presumere che un uomo, una presenza nascosta, detti loro questa tecnica.» Van Dieterling parlava di una «mutazione», di una profezia da decifrare attraverso la reiterazione di questi omicidi rituali. Il mio istinto di poliziotto mi faceva propendere per la versione di Zamorski, più tangibile: l'intervento di un terzo, un complice nell'ombra. «E poi, la moltiplicazione dei casi», continuò il polacco. «Nel corso dei secoli i Senza Luce sono molto rari. Adesso, di colpo, ce ne sono tre a distanza ravvicinata: 1999, 2000, 2002... E ce ne sono probabilmente altri. Perché questa accelerazione? Forse qualcuno ha favorito il processo. Un criminale che non sarebbe concretamente l'assassino ma l'ispiratore di questi deviati. Una sorta di emissario del demonio che li indurrebbe a passare all'azione.» Le mie supposizioni, fino a quel momento vaghe, trovavano un'eco concreta nelle parole del nunzio. Quel volo notturno mi riscaldava il cuore. Era tempo di svelare gli enigmi del caso. «Dieci giorni fa l'ho vista alla cappella Sainte-Bernadette, a una messa celebrata in onore di un poliziotto in coma.» «Luc Soubeyras. Lo conosco bene. Era impegnato nella sua stessa indagine. O, più precisamente, lei sta svolgendo la sua stessa indagine.» «Ha cercato di suicidarsi. Ne conosce il motivo?» «Luc era troppo esaltato. Sempre sull'orlo di una crisi di nervi. Questa indagine gli è costata la vita.» «È tutto?» «In questo caso si deve essere pronti a varcare certi limiti. A visitare certi territori. Ma, soprattutto, si deve essere capaci di tornare indietro! Luc, nonostante la sua passione, non era abbastanza forte.» Non risposi. Pensavo agli oggetti satanici scoperti da Laure. Luc aveva superato il confine? Tornai a Zamorski e alla sua conversazione con Doudou nella cappella. Gli chiesi della scatola che era passata tra le loro mani.
L'astuccio di legno scuro. «Il dossier di Luc», fece il polacco. «Salvato in una chiave USB. Luc mi aveva avvertito. In caso di problemi, il suo assistente mi avrebbe consegnato dei documenti. In un certo modo, eravamo soci.» «Secondo Doudou la vostra parola d'ordine era: "Ho trovato la gola". Qual è il senso di questa frase?» «Luc era ossessionato dalle esperienze di pre-morte. Il vortice, il pozzo, la gola...» «È anche quello che ha detto a sua moglie prima di suicidarsi. Perché, secondo lei?» «Per la stessa ragione. Lui viveva soltanto per quel tunnel. Era la sua idea fissa. Ma quella porta, quella famosa "gola", gli restava inaccessibile. In fondo, credo che il suo suicidio sia l'ammissione di un fallimento.» Zamorski si sbagliava. Luc non aveva tentato di uccidersi solo per disperazione. D'altro canto non aveva fallito, ma si era spinto più lontano di me, ne ero certo. Troppo lontano? «Alla messa a Sainte-Bernadette l'ho vista farsi il segno della croce al contrario.» «Una semplice precauzione», rispose lui sorridendo. «Quel segno della croce al contrario mi avrebbe protetto dagli elementi satanici dell'astuccio. Curare il male con il male, capisce?» «No.» «Non è grave. È soltanto un dettaglio.» Si avvicinò all'oblò e poi guardò l'orologio. «Stiamo per atterrare.» Sentii i timpani che si tappavano. L'aereo cominciò a scendere. Ma io non allentai la presa. «Mi ha detto che la sua specialità sono gli Asserviti. Che c'entrano con il caso dei Senza Luce?» «Gliel'ho già detto: li cercano, li braccano.» «E lei cerca di mettersi tra questi due fronti?» «Seguendo i Senza Luce incrociamo gli Asserviti, sì.» «Quali sono i loro rapporti con i Senza Luce? Li venerano?» «In un certo senso sì. Li considerano come degli eletti. Ma la loro priorità è strappargli una confessione. E per fare questo non esitano a rapirli. A drogarli e a torturarli. La loro ossessione è il Verbo del diavolo. Tutti i mezzi sono buoni per decifrarlo.» «Quando dice che gli Asserviti sono una delle sette più pericolose, che
cosa vuol dire concretamente?» Zamorski inarcò le sopracciglia. «Ne ha avuta una dimostrazione con Moraz e Cazeviel. Gli Asserviti sono armati e addestrati. Uccidono, stuprano, distruggono. Respirano il male come noi respiriamo l'aria che ci circonda. Il vizio è il loro ecosistema naturale. Si automutilano e si sfigurano. Sadismo e masochismo sono le due facce della loro esistenza.» «Come fa a sapere queste cose su una setta così segreta?» «Abbiamo delle testimonianze.» «Dei pentiti?» «Non ci sono pentiti. Soltanto sopravvissuti.» Guardai le nuvole screziate fuori dagli oblò. I timpani mi si chiusero ancora. «Dove andiamo ci sono degli Asserviti? Voglio dire, a Cracovia?» «Sfortunatamente sì. Il fenomeno è recente. Nella nostra città si sono da poco verificati dei fatti di sangue rivelatori della loro presenza. Barboni torturati, smembrati, bruciati vivi. Animali mutilati e sacrificati. Questa scia di sangue è il loro marchio.» «Sanno che Manon è a Cracovia?» «Sono là per lei, Mathieu. Nonostante tutte le nostre precauzioni, l'hanno localizzata.» «Sono quindi convinti che lei sia una Senza Luce?» Zamorski osservò le luci che scintillavano sotto l'ala del Falcon. «Stiamo arrivando.» «Mi risponda! Per gli Asserviti, Manon è una Senza Luce?» Il suo sguardo si posò su di me, più duro di una sonda piantata nel permafrost. «Pensano che lei sia l'Anticristo in persona. Che sia tornata dalle tenebre per proclamare la profezia del diavolo.» 84 Cracovia, scolpita nelle tenebre. I suoi muri erano crepati, le strade dissestate, la nebbia si avvolgeva intorno alle sue torri e ai suoi campanili. Tutto sembrava pronto per una notte di Valpurga. Mancavano solo i lupi e le streghe. Viaggiavo su una fiammante limousine come a bordo di una nave fantasma. Sempre prigioniero di quella strana sensazione di piacevole distacco.
L'auto si fermò davanti a un grande edificio scuro, bordato da un giardino pubblico, vicino a una zona pedonale con stradine strette. Dei preti ci attendevano. Presero i nostri bagagli, aprirono le portiere. I loro colletti bianchi si muovevano nella notte come fuochi fatui. All'interno distinsi un patio, alberi potati, gallerie di colonne, volte scure. Prendemmo una scala esterna, sulla destra. Gli stivali dei preti risuonavano militarescamente. Impossibile non pensare a una ronda notturna. Mi aprirono una cella. Muri di granito decorati da un crocifisso. Un letto, una scrivania e un comodino neri come i muri. In un angolo, dietro un paravento di iuta, una minuscola e gelida stanza da bagno. Le mie guide mi lasciarono solo. Mi lavai i denti, evitando di guardarmi allo specchio, e mi infilai sotto le lenzuola umide. Prima che il mio corpo si riscaldasse sprofondai in un sonno senza sogni. Quando mi svegliai, un raggio di luce attraversava la stanza. Risalii alla sua origine: una finestrella a crociera incendiata dal sole. I due battenti di vetro, incrostati di bolle traslucide, amplificavano la luminosità come una lente. Guardai l'orologio: le undici del mattino. Balzai dal letto e restai paralizzato dal freddo della stanza. Ricordai tutto. Zamorski. Il viaggio sul jet privato. L'arrivo in questa cittadella nera, in una città sconosciuta. Tuffai la testa sotto l'acqua gelata, indossai dei vestiti puliti e uscii. Un corridoio con un pavimento fatto di lunghe assi di legno. Alle pareti cupi quadri di santi tormentati intagliati nel legno, di vergini allucinate levigate nel marmo. Avanzai fino a un'alta porta con la cornice scolpita. Angeli che spiegavano le ali, martiri trafitti dalle frecce o con la testa sotto il braccio che benedicevano i loro carnefici. Pensai alla Porta dell'inferno di Rodin. Girai la maniglia e mi ritrovai all'esterno. Quattro edifici chiudevano il patio, suddiviso in regolari tappeti erbosi e gruppi di alberi ben potati. Solidità. Un bastione della fede che aveva dovuto tenere testa ai bombardamenti nazisti e agli assalti socialisti. Ogni edificio di due piani era traforato da file di arcate e balaustre. Mi trovavo verso il fondo, al primo piano. Risalii la galleria fino a una scala. Lanterne e barre di ferro punteggiavano le volte. Tutto era deserto. Nessuna tonaca in vista. Appena calpestai la ghiaia del cortile le campane si misero a suonare. Sorrisi e inspirai la luce bianca e fredda. Volevo riempirmi di questo istante così puro, che aveva un che di prodigioso.
I giardini sembravano rinascimentali: cespugli potati formavano quadrati e rettangoli e, al centro, attorno a una piazza circolare, si raggruppavano dei cipressi. Nelle gallerie si trovavano delle panche e in fondo alle volte le finestre a vetrate rilucevano di riflessi colorati. Attraversai la corte. Udii un vocio assordante. Cambiai direzione e spinsi un'altra porta. Il refettorio, inondato di luce e con lunghi tavoli allineati. Brocche d'acqua scintillanti, piatti di inox che fumavano come locomotive. Seduti a gruppi di otto, i preti mangiavano e bevevano. Le loro uniformi impeccabili, austeramente bianche e nere, contrastavano con i loro scoppi di risa e con il rumore delle stoviglie. Regnava un'atmosfera bonaria e salutare. Si diceva che durante la guerra fredda i preti polacchi fossero stati gli unici a mangiare bene grazie ai loro orti. Da un tavolo si levò un braccio. Zamorski era seduto in disparte. Mi feci strada fra i tavoli e lo raggiunsi. Gli altri non mi prestarono alcuna attenzione. «Dormito bene?» Il polacco mi indicò la sedia davanti a lui. Mi sedetti, rimpiangendo di non essermi fumato una sigaretta in giardino. Adesso era troppo tardi. Abbassai gli occhi sulla tavola. Apparecchiata per due, era coperta da una tovaglia damascata sulla quale brillavano bicchieri di cristallo e posate d'argento. Mi passai una mano sulla faccia. «Sono desolato», dissi confuso. «Non ho visto l'ora...» «Anch'io mi sono appena alzato. Abbiamo perso la messa. Sèrviti.» Il passaggio al tu, quella mattina, mi sembrava giusto. Non sapevo che cosa scegliere. Era un menu slavo. Pesce marinato, disposto in sottili lamelle, caviale agglutinato in coni, pane nero e bianco e una moltitudine di frutti rossi: more, mirtilli, fragole. Mi chiesi dove avessero potuto trovarli in quella stagione. «Vodka? O è troppo presto?» «Caffè, piuttosto.» Il nunzio fece un cenno. Un prete uscì dall'ombra e mi servì con una discrezione da fantasma. «Dove siamo?» «Al convento Scholastyka, nella città vecchia. Il feudo delle benedettine.» «Delle benedettine?» Zamorski si chinò verso di me. Il suo naso delicato brillava al sole. «È l'ora della sesta», disse in tono confidenziale. «Mentre le suore pre-
gano nella cappella noi ne approfittiamo per fare colazione.» «Condividete il monastero?» Aprì un uovo alla coque con un colpo di cucchiaino. «Una coabitazione molto rigida. Non possiamo praticare nessuna attività insieme.» «Non è molto... ortodosso.» Scavò nel bianco dell'uovo che teneva tra due dita. «Giustamente. Chi cercherebbe dei religiosi, soprattutto del nostro genere, in un convento di benedettine?» «Qual è il vostro genere?» «Mangia. Quello che non uccide ingrassa, come si dice da noi.» «Qual è il vostro genere?» Il nunzio sospirò. «Sei decisamente un giansenista. Non sai approfittare della vita.» Svuotò l'uovo in poche cucchiaiate e poi spinse indietro la sedia. «Prendi la tua tazza. Mangerai più tardi.» Preferii bere il caffè in un sorso solo. Il bruciore mi esplose in fondo alla gola. Non feci in tempo a incassare questa sensazione che Zamorski stava già uscendo dal refettorio. Nella galleria, i raggi del sole e le ombre delle colonne formavano un quadro in bianco e nero. Il freddo, misteriosamente, acuiva questa bicromia. Il prelato svoltò a destra e prese una scala che sembrava scendere direttamente verso il medioevo. «Abbiamo installato i nostri uffici nel sottosuolo.» Si aprì un tunnel, illuminato in maniera uniforme senza nessuna sorgente di luce visibile. I muri di pietra erano levigati dai secoli, eppure l'atmosfera era moderna e tecnologica. Quando Zamorski posò l'indice su una placca di analisi biometrica, non ebbi più dubbi. Avevo visto la superficie di quella fortezza. Stavo per scoprirne il cuore. Una parete di acciaio si aprì su una grande sala dal soffitto a volta che assomigliava alla redazione di un giornale. Scintillanti schermi di computer, stampanti che ticchettavano, telefoni, fax, telescriventi che suonavano e vibravano dappertutto. Preti che si agitavano in maniche di camicia. Pensai a una redazione distaccata dell'«Osservatore romano», organo ufficiale della città pontificia, ma qui l'ambiente era militare, aveva un che di servizi segreti. «La sala di sorveglianza», confermò Zamorski. «Sorveglianza di cosa?»
«Del nostro mondo. L'universo cattolico è continuamente minacciato, aggredito. Noi vegliamo, osserviamo, reagiamo.» Il prelato si avviò lungo il passaggio centrale. Si poteva sentire il calore dei computer e il ronzio del sistema di ventilazione. Uomini con il colletto bianco parlavano al telefono in arabo. «La nostra fede deve confrontarsi con nemici di ogni sorta», spiegò Zamorski. «Non sempre è possibile regolare i problemi con la preghiera o la diplomazia.» «Si spieghi più chiaramente, per favore.» «Per esempio, questi preti sono in costante contatto con i ribelli del Sudan. Degli animisti che sono anche, spero, un po' cristiani. Noi diamo loro una mano. E non soltanto con i sacchi di riso. Fare indietreggiare l'islam: è questo che conta!» «Mi sembra un punto di vista semplicistico.» «Siamo in guerra. E la guerra è un punto di vista semplicistico sul mondo.» Il nunzio si esprimeva senza acrimonia, con buonumore. La lotta di cui parlava era nell'ordine naturale delle cose. Alla nostra destra quattro preti si esprimevano in spagnolo. «Lavorano in Sudamerica, dove la situazione è molto complessa. Laggiù non possiamo entrare in conflitto con quelli che detengono il potere, quello della droga, delle armi, della corruzione. Dobbiamo negoziare, temporeggiare e talvolta persino allearci con i peggiori delinquenti. Ad maiorem Dei gloriam!» Si avvicinò a un altro gruppo che leggeva dei giornali in lingua slava. «Un lavoro ancora più sporco in Croazia. Proteggere dei torturatori, dei carnefici. Sono cristiani e ci hanno chiamati. Il Signore non ha mai rifiutato il suo aiuto, vero?» Mi tornarono alla mente alcuni ritagli stampa. I giudici del tribunale internazionale dell'Aia per l'ex Iugoslavia sospettavano il Vaticano e la chiesa croate di nascondere dei generali accusati di crimini contro l'umanità in alcuni monasteri francescani. Quindi era vero. «Non fare quella faccia», temporeggiò Zamorski. «Dopotutto facciamo entrambi lo stesso lavoro, ma ognuno a modo suo. Non sei l'unico a sporcarti le mani.» «Chi le ha detto che ho le mani sporche?» «Il tuo amico Luc mi ha spiegato la vostra piccola teoria sul mestiere di poliziotto.»
«Non è che una teoria.» «Be', io mi trovo d'accordo. C'è sempre bisogno di qualcuno che faccia il lavoro sporco affinché gli altri, tutti gli altri, possano vivere con la coscienza pulita.» «Posso fumare?» «Usciamo.» Ci installammo sotto le volte nere vicino a una fontanella di pietra. Odori di resina, di foglie umide, di ghiaia scaldata dal sole. Aspirai la Camel con voluttà. La prima sigaretta del giorno... Una rinascita ogni volta intatta. «Ieri», ripresi, «mi ha parlato del KUK. Mi ha detto che appartiene a un ramo specifico. Qual è il suo nome?» «Non ha nome. Il modo migliore per serbare un segreto è che non ci sia segreto. Siamo dei monaci-cavalieri, gli eredi dei milites Christi che proteggevano la Terra Santa, ma non abbiamo un ordine stabilito.» Ancora una volta, nella mia mente scorsero delle immagini. Conventifortezza nella Spagna della Reconquista del XII secolo, castelli che si ergevano nei deserti della Palestina, dove i crociati seguivano una regola monastica. Il chiostro dove mi trovavo faceva parte di questa tradizione. «Si occupa quindi anche dei problemi di satanismo?» «I nostri nemici sono innumerevoli, Mathieu, ma il principale, il più pericoloso, il più... permanente è quello che è riuscito a farci credere che non esisteva più.» Non gli feci notare la citazione dallo Spleen de Paris di Baudelaire: «La migliore astuzia del diavolo è farci credere che non esiste». Zamorski declamò un altro testo: «"Il male non è più soltanto un difetto, è l'opera di un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. È questa la terribile, misteriosa e temibile verità", sai chi l'ha scritto?» «Paolo VI, per la sua udienza generale del 15 novembre 1972. Una dichiarazione che ha fatto molto scalpore, all'epoca.» «Esattamente. Il Vaticano prendeva già sul serio il diavolo, ma con l'avvento di Giovanni Paolo II la nostra posizione si è ulteriormente rafforzata. Sai che Karol Wojtyla ha praticato personalmente degli esorcismi? Tutto quello che hai visto là sotto è finanziato da lui. E la maggior parte dei nostri fondi sono consacrati alla lotta contro il diavolo. Perché questa è la madre di tutte le lotte, l'occhio del ciclone.» Mi appoggiai allo stipite della galleria, con la schiena al sole. Zamorski si era seduto su una pietra macchiata di lichene. Da quando ero entrato in
quel bunker, una domanda mi assillava. «Luc Soubeyras è venuto qui?» «Una volta.» «Il posto gli sarà piaciuto.» «Luc era un vero soldato. Ma te lo ripeto: mancava di rigore, di disciplina. Credeva troppo al demonio per poterlo combattere.» Pensai agli oggetti satanici scoperti da Laure. «Per lottare contro Satana», continuò il prelato, «bisogna saperlo tenere a distanza. Non credergli mai, non ascoltarlo mai. È un paradosso, ma per affrontarlo, in tutta la sua realtà, bisogna trattarlo come una chimera, un miraggio.» Schiacciai la sigaretta contro la pietra e mi misi in tasca il mozzicone. Zamorski si ergeva dritto contro una colonna. Le spalle squadrate, il colletto bianco, i capelli grigi: tutto in lui emanava la limpidezza e la potenza del guerriero. Esercitava un fascino segreto e trasmetteva una strana sensazione di sicurezza. «E lei, lei crede al diavolo? Alla sua realtà fisica e spirituale?» chiesi. Il prelato scoppiò a ridere. «Per risponderti mi servirebbe tutta la giornata. E forse anche la notte dopo. Hai letto Le salaire de la peur?» «Molti anni fa.» «Ti ricordi la citazione all'inizio?» «No.» «Georges Arnaud scrive in sostanza: "L'esattezza geografica non è altro che un'illusione: il Guatemala, per esempio, non esiste. Io lo so, ci ho vissuto". Ti potrei rispondere lo stesso sul diavolo: "Il Maligno non esiste. Io lo so, è da quarant'anni che lotto contro di lui".» «Lei sta giocando con le parole.» Zamorski si alzò ed espirò rumorosamente. «La realtà del demonio è ovunque, Mathieu... In tutte queste sette dove i peggiori valori sono incarnati da uomini corrotti. Negli ospedali psichiatrici, dove gli schizofrenici sono persuasi di essere posseduti. Ma soprattutto in ognuno di noi, quando il desiderio, la volontà, l'incoscienza scelgono l'abisso. Non se ne può forse dedurre che una forza magnetica reale, una sorta di buco nero immanente, aspiri le nostre anime?» «Crede dunque a un'entità maligna preesistente al mondo? Una potenza non creata, trascendente, che sarebbe la fonte del male nell'universo?» Zamorski fece un sorriso discreto, furtivo, come rivolto a sé stesso. «Penso soprattutto che abbiamo molto lavoro da fare. Vieni, il tuo ap-
puntamento si avvicina», disse guardando l'orologio. «Quale appuntamento?» «Alle cinque Manon ti aspetterà qui, nel giardino. Su quella panca laggiù.» 85 Il sole tramontava prima in Polonia. Oppure si preparava un temporale. Oppure era la mia percezione della luce a non essere più la stessa. Quando tornai in giardino, all'ora convenuta, mi sembrava che gli alberi, i cespugli e le vetrate fossero già sprofondati nell'oscurità. Persistevano solo dei riflessi di mercurio fra le foglie dei cipressi, fra i rami di bosso, fra i personaggi racchiusi dai profili di piombo delle vetrate. Avanzai nel cortile. Tutt'a un tratto distinsi una macchia bianca ai piedi di una colonna che sosteneva san Stanislao. Scorsi i capelli chiari che sembravano riecheggiare l'angolo grigio della panca. Impossibile non pensare alla Manon di Massenet, che tante volte avevo ascoltato durante i miei studi, e alla frase che l'eroina pronuncia quando incontra per la prima volta il cavaliere Des Grieux: «Qualcuno! Presto, alla mia panca di pietra...». Ancora tre passi e l'emozione mi attraversò come una pallottola nel petto. Lei era là. Manon Simonis. Il fantasma che sfioravo da due giorni senza sapere se esistesse veramente. Era appoggiata alla colonna, la testa china su un libro. Non ero riuscito a figurarmi come potesse essere oggi - conservavo ancora il ricordo della bambina con le sopracciglia bianche - ma in nessun caso avrei potuto immaginare la silhouette che si stagliò di fronte a me. Manon era sempre bionda, forse un po' più castana, ma il suo fisico non aveva più nulla a che vedere con quello della bambina ritratta nelle foto. Era diventata una donna robusta e atletica. Sotto il pullover bianco a trecce, le sue forme erano imponenti e le sue mani, alla distanza in cui mi trovavo, mi sembrarono enormi. Avanzai ancora e distinsi il suo profilo. Solo allora ritrovai i tratti perfetti della bambina di Sartuis. Il suo naso era un modello di proporzioni. Dritto, delicato, sovrastato da due lunghi occhi abbassati. Manon leggeva. Aveva un'espressione puntigliosa, sovrastata da un sopracciglio circospetto, sotto i capelli con la riga in mezzo. Tossii. Lei sollevò la testa e mi sorrise. Poi accadde qualcosa di così for-
te e violento che mi sembrò di essere proiettato fuori da me stesso. Ero come abbagliato. Ma non ero nemmeno più io a provare questa sensazione. Ero diventato una coscienza esterna, un riflesso del mio essere che misurava l'ampiezza del fenomeno esercitato sul mio doppio. Una voce mi sussurrò: «Eri pronto per questo. Tutta la tua indagine era scritta per questo incontro, questa commozione». «Lei è il poliziotto francese?» Sorrise e tra le sue labbra filtrò il riflesso degli incisivi. Manon si scostò per farmi posto sulla panca. Il movimento fece risaltare le sue forme opulente. La bambina anemica si era trasformata in una pin-up da calendario Playboy. Brandì il libro con la copertina ingiallita. «Ho trovato in biblioteca dei libri in francese. Soltanto testi religiosi. Ormai li conosco a memoria.» Elencò dei titoli ma io non l'ascoltavo. Tutti i miei sensi erano obnubilati dallo shock dell'incontro. Come quando una detonazione ti assorda i timpani o una forte luce ti acceca. Cercai con grande sforzo di tornare al presente. «Sa perché sono qui?» le chiesi. «Andrzej me l'ha spiegato. Lei è venuto a interrogarmi.» «Non sembra stupita dalla mia visita.» «È da tre mesi che mi nascondo. Me l'aspettavo che mi avreste trovata. La polizia adora interrogarmi.» Che cosa sapeva dei recenti sviluppi dell'indagine? Era al corrente del gesto di Luc? Della morte di Stéphane Sarrazin? No. Chi avrebbe potuto informarla tra queste austere mura? Certamente non Zamorski. Mi sedetti sulla panca. «Non sono un investigatore. Non nel senso in cui lo intende lei. Non ho alcun ruolo ufficiale», dissi. «E allora perché è qui?» «Sono un amico di Luc. Luc Soubeyras.» Manon scosse nervosamente la testa. Il suo sorriso era nascosto sotto le ciocche liscissime. Nel chiaroscuro, ricordava le fotografie di David Hamilton, o le immagini del flower power degli anni Settanta. Collane di semi e fiori tra i capelli. Ero troppo giovane per avere conosciuto quell'epoca, ma l'avevo sempre immaginata come un periodo felice. Un'era di idealismo, rivolta, esplosione musicale. Davanti a me c'era una di quelle fate. «Come sta Luc?» chiese distrattamente. «Molto bene», mentii. «È stato trasferito. Io ho ripreso l'indagine.»
«Allora ha fatto il viaggio per niente.» «Perché?» «Non posso dirle nulla. Sono solo una signorina che fa "no-no-no".» Chinò la testa di lato e cominciò a enumerare meccanicamente: «Ricorda che cosa è successo il 12 novembre 1988? No. Sa chi ha tentato di annegarla nel pozzo? No. Ha conservato qualche ricordo del coma che è seguito? No. Ha dei sospetti sull'assassino di sua madre? No. Potrei continuare così all'infinito... A tutte le domande ho un'unica risposta». Chiusi gli occhi e respirai l'odore di linfa e di foglie diventato più intenso con l'umidità della sera. Era proprio un temporale quello che stava arrivando, ma in una versione più fredda, più opprimente che nel Jura. Una versione polacca. Per la prima volta da un'eternità non avevo voglia di fumare. Osservai la coperta del libro: La porta stretta di André Gide. «Le piace?» domandai, a corto di argomenti. Assunse un'espressione indecisa. Le sue labbra carnose mi fecero pensare alle areole dei suoi seni. Com'erano? Tenere e rosee come quella bocca? Una forza sorgeva lentamente in me. Non un desiderio acuto, turpe e contorto come quello che avevo provato per la direttrice di Malaspina. Ma una voglia piena, rigogliosa, slegata da qualsiasi pensiero. Cercai di concentrarmi sul libro. «Non le piace la storia?» «La trovo... piccola.» «Non si riconosce nella ricerca della giovane donna?» «Per me la religione è una finestra spalancata. Non qualcosa di soffocante come in questo romanzo.» Da adolescente avevo letto venti volte il libro di Gide. Il destino di una giovane donna che preferiva Dio al fidanzato, l'amore spirituale a ogni relazione carnale. Attualmente non ne conservavo alcun ricordo, tranne di due adolescenti che si esprimevano come pietre tombali. Arrischiai un commento. «Gide parlava del sacrificio di sé richiesto dalla comunione con il Signore. Questa difficoltà stessa è una porta, un passaggio, un filtro. Al di là c'è la purezza che...» Liquidò la mia riflessione con un gesto disinvolto. Immaginai ancora una volta le rotondità sotto il pullover, le piccole vene blu sotto la sua pelle bianca. Sentivo salire in me un calore irreprimibile e familiare. Avevo un'erezione. «Quale sacrificio?» chiese lei con voce più salda. «Ci si dovrebbe auto-
distruggere per raggiungere Dio? È vero il contrario! Si deve essere sé stessi, ascoltarsi, per trovare la salvezza. È questo il messaggio di Cristo: il Signore è in noi!» «Lei è cattolica?» «Se non lo fossi stata, lo sarei diventata. Non c'è altro da fare qui!» Sfogliò distrattamente il libro. La sua espressione diventò grave. Capii che la prima Manon non era che l'anticamera di un'altra, più profonda. Adesso il suo volto era duro, teso, cupo. Nella ragazza si celava, come un segreto, una seconda personalità: grave, severa, angosciata, di una bellezza notturna. Mi accorsi che stava ancora parlando. «Mi scusi. Faccio fatica a concentrarmi...» dissi. Lei fece una risata roca, quasi maschile. La luce tornò subito. I piccoli incisivi brillarono tra le sue labbra, vivi come un frammento di neve eterna. «Possiamo darci del tu, no? Non ricevo spesso visite, qui.» «Lei... ti annoi?» «A morte, puoi dirlo.» Le nostre battute sembravano quelle di un film, ma non avevano alcuna logica né alcuna coerenza, come se avessero mescolato le pagine della sceneggiatura. «Prima», riprese Manon, «ero studentessa di biologia. Avevo amici, esami, bar dove mi piaceva passare il tempo. Ero guarita dalle mie vecchie paure, dal mio stato d'allerta permanente...» Aveva ripiegato una gamba sotto la coscia, fasciata dai jeans. «E poi l'estate scorsa mia madre è scomparsa. Mi sono ritrovata da sola davanti ai poliziotti, minacciata da non so cosa, da non so chi. L'incubo è tornato di colpo. È apparso Andrzej e mi ha convinta a venire a rifugiarmi qui. È molto persuasivo. Oggi non so più a che punto sono. Ma almeno mi sento al sicuro.» La pioggia iniziò a cadere. La galleria fu inondata da una nuova frescura. Restai in silenzio. La mia espressione doveva essere sinistra. Manon rise e mi accarezzò la guancia. «Spero che tu resti. Così ci annoieremo in due!» Il contatto delle sue dita mi elettrizzò. Il mio desiderio fu sostituito da una sensazione più vasta, più universale. Un'ebbrezza che somigliava già all'intorpidimento dell'amore. Ero in trappola. Dov'era la Manon che avevo immaginato? La piccola posseduta che aveva attraversato la morte? La
donna sospettata di omicidio, di un patto con il diavolo, di propagare il male? «È l'ora di Radio Vaticana», esclamò guardando l'orologio. «È l'unica distrazione, qui. Non c'è nemmeno la televisione, ci credi?» Si alzò. La pioggia s'infiltrava nella galleria, depositando goccioline sui nostri volti. «Vieni. Poi ci faremo un grappino!» 86 Quella notte, nella mia cella monacale, affrontai il mio nemico più intimo. Il deserto della mia vita sentimentale. Ci sono stati due periodi diversi. Il primo era stato quello dell'amore di Dio. Senza pecca né corruzione. Fino al seminario romano non c'era stata nessuna avventura femminile. Non ne soffrivo, non ne sentivo la mancanza: il mio cuore era occupato. Perché accendere un fiammifero in una chiesa piena di ceri? L'illusione reggeva. A volte, naturalmente, le pulsioni torturavano la mia coscienza, come selci che mi squarciassero il basso ventre. Entravo allora in un ciclo estenuante di masturbazioni, preghiere e penitenze. Una camera di tortura personale... Tutto era cambiato in Africa. Laggiù mi attendevano la terra, il sangue, la carne. Alla vigilia del genocidio ruandese avevo varcato la linea, in fondo a una capanna di lamiera ondulata. Non me ne ricordavo più. Era come il vago ricordo di un incidente stradale. Uno shock, uno sconvolgimento interiore che annullava ogni circostanza esterna. Non avevo provato il minimo piacere, il minimo sentimento. Ma ne avevo tratto una certezza: quella donna mi aveva salvato la vita. Avevo provato per lei una muta riconoscenza per la deflagrazione, la liberazione sopravvenuta in me. Se non l'avessi incontrata avrei perso la ragione. Ma quella mattina me n'ero andato senza un saluto, come un ladro, mentre nelle strade di Kigali la radio delle Mille Colline diffondeva i suoi appelli all'odio... Mi ero rifugiato in una chiesa di Butamwa, a sud di Kigali, e avevo pregato senza chiudere occhio per tre giorni, implorando il perdono del cielo, consapevole che quello che avevo fatto non si poteva cancellare e che, in
un certo senso, adesso avrei pregato meglio e amato di più Dio. Ormai ero libero. Avevo infine accettato la mia natura incapace di resistere alla carne, alla sua violenza. Non era un problema esterno - la tentazione - ma interno: non riuscivo a vincere il mio desiderio. In fondo ero sincero con me stesso e cercavo di raggiungere, anche se in modo contraddittorio, una maggiore purezza d'animo. Stavo pensando a questo quando erano arrivati i primi rifugiati. Era il 9 aprile. L'aereo del presidente Juvénal Habyarimana era appena stato abbattuto. Il mio pensiero era subito tornato a quella donna, l'avevo lasciata senza uno sguardo, senza un bacio. E lei era una tutsi. Ero tornato a Kigali per cercarla nelle chiese, nelle scuole, negli edifici amministrativi. Non avevo che un pensiero: lei mi aveva salvato la vita e io non l'avevo salvata dalla morte. Avevo continuato le ricerche giorno e notte, inoltrandomi tra i cadaveri. Lungo le strade, nelle fosse vicino agli sbarramenti e nei carnai dove i morti si ammassavano sanguinanti, smembrati, osceni. Aguzzavo lo sguardo, sollevavo teste e tuniche. Le mie mani puzzavano di morte. Il mio corpo puzzava di morte, e l'amore, l'amore fisico mi ricordava quelle vittime in decomposizione. Un cadavere dentro di me. Non ho più trovato quella donna. Le settimane seguenti mi ero lasciato andare alla deriva. I massacri, le fosse aperte, gli autodafé. In quell'inferno avevo ancora cercato l'amore. Avevo avuto altre amanti nei campi umanitari di Kibuye, alla frontiera con lo Zaire. Non smettevo di pensare alla donna di Kigali. Il rimorso e il disgusto mi sopraffacevano. Ma, in mezzo ai miasmi del colera e della putrefazione, mentre le escavatrici seppellivano i corpi a migliaia, io continuavo a fare l'amore, a caso, trovando le mie partner nel buio delle tende. Rubando una notte o un'ora al nulla e alla colpa. Ero frastornato e, come tutti gli altri, sopraffatto dalla paura, dal panico e dalla disperazione. La mia paralisi mise fine a questa frenesia sessuale. Trasferito al centro ospedaliero Sainte-Anne, a Parigi, il desiderio morì con la depressione e i farmaci. Ero anestetizzato. La bestia era KO. Per anni, calma piatta. Nessuna attrazione per le donne. Poi il mio orgoglio cristiano era tornato alla superficie. Giurai ancora una volta un amore esclusivo a Dio. Il mio cuore e il mio corpo erano destinati solo al Signore. Mi ritrovai così in un altro vicolo cieco.
Non avevo più la forza di essere prete. E non avevo il coraggio di essere un uomo. Il mestiere del poliziotto mi venne in soccorso. Capitano della Buoncostume, cominciai a frequentare i soli esseri che potevano aiutarmi: le prostitute. L'amore senza amore: era quella la mia via. Dare sollievo al corpo senza impegnare lo spirito. Era l'intricata soluzione che mi avrebbe salvato. Avevo conservato il sapore della pelle nera, sigillo della prima esperienza, e moltiplicai gli incontri al Keur Samba e al Ruby's. Bazzicavo anche le agenzie di accompagnatrici asiatiche, vietnamite, cinesi, thailandesi... L'esotismo, le lingue sconosciute fungevano da filtri, da barriere supplementari. Impossibile innamorarsi di una donna di cui non si capiva nemmeno il nome. Mi lasciai andare ai miei fantasmi, che esigevano l'umiliazione, il possesso e la dominazione delle mie partner, riducendole a semplici oggetti sessuali e preservando il mio cuore. «Avrete il mio corpo, non la mia anima!» L'illusione non durò a lungo. Avevo rinunciato all'amore ma lui non aveva rinunciato a me. Quando ritrovai la lucidità, dopo una sordida notte di sesso, mi sentii opprimere da un'infinita tristezza. Quella notte avevo ancora mancato qualcosa. E quel «qualcosa» mi era rimasto di traverso in gola. Anche se protetto dalla mia fede, dall'esotismo, dalla carne stessa, l'assenza era sempre più profonda e amara. I miei simulacri erano sacrileghi. Calpestavo l'amore e, viziato, denigrato, profanato, l'amore mi ritornava in piena faccia, sotto forma di una ferita implacabile... Le dieci di sera. Dopo la trasmissione radiofonica in biblioteca mi ero rifugiato nella mia cella, disertando la cena e le preghiere. A trentacinque anni, provavo già una paura viscerale di fronte a Manon che, con due sorrisi, mi aveva messo al tappeto, minacciando di far crollare miseramente tutte le mie strategie autoprotettive. Mi decisi a riprendere in mano l'indagine. Senza mai togliermi di dosso il trench, rabbrividendo per il freddo, presi possesso dell'ufficetto dove, unica concessione ai tempi moderni, era installato un computer. Su Internet mi collegai ai giornali che mi interessavano. Sulla «République des Pyrénées» si parlava del ritrovamento di due corpi vicino a Mirel, nei pressi di Lourdes. L'articolo parlava del dottor Pierre Bucholz, eminente personaggio pubblico della città mariana, e trac-
ciava il profilo del killer: Richard Moraz, cittadino svizzero di cinquantasei anni, orologiaio. Ci si chiedeva poi chi avesse ucciso Moraz e il movente dell'omicidio di Bucholz: perché un artigiano svizzero aveva ucciso a mille chilometri da casa sua un medico in pensione, specialista in miracoli? Passai al «Courrier du Jura», che dedicava un lungo articolo a Stéphane Sarrazin, capitano di gendarmeria, trovato assassinato nella sua vasca da bagno. Non si faceva alcuna menzione alla scritta sulle piastrelle o alle mutilazioni. Una precauzione dei gendarmi o del procuratore? L'indagine era stata affidata a un capitano del servizio investigativo di Besançon: Bernard Brugen. Era stato nominato il giudice istruttore: Corine Magnan, la stessa del caso Simonis. L'articolo non si perdeva in congetture, il delitto era semplicemente inesplicabile. Nessun movente, nessun testimone, nessun sospetto. Il giornalista tracciava anche un ritratto di Sarrazin: ufficiale modello e uomo di grande valore. Notai che non avevano ancora scoperto la sua vera identità, alias Thomas Longhini, implicato nell'indagine Simonis del 1988. Non ci sarebbe voluto molto. Immaginai le reazioni a catena. Da Sarrazin sarebbero risaliti al caso di Simonis madre. E da qui al dossier di Simonis figlia. Per poi scoprire che Manon era ancora viva. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che i media sollevassero il coperchio? Prima che i gendarmi di Besançon tornassero alla caccia di Manon? Presi il cellulare e ascoltai i messaggi. Niente, tranne mia madre che mi ringraziava per il «contatto» spirituale che le avevo dato. Si sentiva molto più «in sintonia con sé stessa» da quando aveva parlato con padre Stéphane. Sorrisi. Queste notizie mi sembravano venire da un altro pianeta, ma una visita al prelato non avrebbe fatto male neanche a me. A parte questo, nessuna notizia da Foucault, Malaspey e Svendsen. Dovevo di nuovo dar loro una mossa. Composi il numero di Foucault. Nell'udire la mia voce, il mio assistente urlò: «Cazzo, Mat, dove sei?». «In Polonia. Non c'è tempo per spiegarti.» «Dumayet ci taglierà la testa e...» «La chiamerò.» «Hai già detto così una volta. Qui è un casino.» «Non hai lasciato nessun messaggio. Niente di nuovo?» «Tutto il Jura è in ebollizione. Un gendarme è stato ucciso ieri e...»
«Ne sono al corrente.» «È collegato al tuo caso?» «È il mio caso.» «Mi piacerebbe sapere di cosa si tratta.» «È tutto? Nessuna novità?» «Ha chiamato Svendsen. Non riesce a mettersi in contatto con te. I tizi del Jardin des Plantes hanno confermato le informazioni di Mathias Plinkh. Lo scarabeo può provenire da molti paesi: Congo, Benin, Gabon... Siamo andati in tutti gli allevamenti del Jura, ma è stato inutile.» Facevo fatica a seguire le sue parole. Queste vecchie piste mi sembravano lontane anni luce. Raddoppiai la concentrazione. «Abbiamo fatto ricerche tra i collezionisti», continuò il poliziotto. «Ma non siamo risaliti a nulla. Si scambiano le uova per posta. Senza contare quelli che ritornano dall'Africa con degli esemplari nel risvolto dei pantaloni. Il tuo scarabeo può essere sbarcato ovunque e in qualunque modo.» Ero di nuovo sulla sua lunghezza d'onda. «E il lichene? Svendsen ha novità?» «I botanici hanno individuato la famiglia. Un'essenza africana che cresce all'interno dei grandi alberi tropicali, sotto la corteccia, durante la loro decomposizione. Sembra che cresca anche in alcune grotte europee, se ci sono abbastanza calore e umidità. Ma secondo gli specialisti è presente soprattutto nell'Africa centrale.» «Negli stessi paesi dello scarabeo?» «Praticamente sì. Gabon, Congo...» Gabon. Me ne avevano già parlato una volta, nel corso dell'indagine, ma non ricordavo quando né come. In ogni caso non bastava per considerare questo paese un elemento ricorrente. Ma l'ipotesi di un sospetto che avesse soggiornato nell'Africa centrale si affacciò alla mia mente. «Cerca di scoprire se c'è una comunità gabonese o centroafricana nei dipartimenti del Jura. Controlla anche se nella regione ci sono dei vecchi espatriati.» «Sarà dura.» «Utilizza la rete amministrativa. Lo stato civile. I poliziotti... Cerca anche in rete usando queste parole chiave.» Foucault non ebbe il tempo di rispondere che già ero passato a un altro capitolo. «Hai ricevuto il dossier di Raïmo Rihiimäki?» «Non ancora. Ma ho riparlato con la polizia di Tallinn. Rihiimäki ha
commesso almeno cinque omicidi, tra cui quello di una donna e della sua figlioletta di sette anni in un villaggio del Nord. Senza contare due stupri, tre furti con scasso... Una sorta di folle errante, alla Roberto Succo. Tuttavia non è stato abbattuto a bruciapelo come avevo creduto di capire. È stato stanato dalla polizia in un villaggio sperduto dal nome impronunciabile e picchiato a morte. Emorragie infraoculari, fratture craniche, traumi multipli... I poliziotti si sono scatenati. Era da un mese che il tizio terrorizzava il paese.» «E il coma?» «Quale coma?» «Quello che ha subito dopo l'annegamento.» «Nessuno l'ha collegato con i suoi crimini. Soltanto tu...» «Pensi di poter recuperare la cartella clinica?» «In estone? Buona fortuna, socio!» «Puoi recuperarla o no?» «Provo a vedere. Se siamo fortunati, sarà redatta in russo!» Non mi presi il disturbo di ridere. «Tienimi al corrente.» «Dove?» «Sul cellulare.» «E tu? Se mi dicessi qualcosa di più?» Toccava ora a me dargli qualche biscottino. «L'omicidio del gendarme, nel Jura. Il suo nome è Stéphane Sarrazin. Ma è falso. In realtà si chiama Thomas Longhini.» «Il ragazzino che cercavamo?» «Proprio lui. Diventato gendarme e satanista a tempo perso. Il suo omicidio è collegato al mio caso.» «In che modo?» «Non lo so ancora. Chiama la polizia giudiziaria di Besançon e chiedi se ci sono i risultati delle analisi. C'era una scritta tracciata con il sangue sulle piastrelle.» «Tu c'eri?» «Sono io che ho scoperto il corpo.» «Non ti si può lasciare cinque minuti.» «Ascoltami. Verifica che abbiano analizzato l'iscrizione. Se non c'erano impronte o altri indizi. Ma non parlare con i gendarmi, capito? Non devono sapere che ci interessiamo a questo delitto. Soprattutto il giudice, una donna di nome Corine Magnan.»
«Nient'altro, mio generale?» «Sì. Contatta alla direzione generale il gruppo specializzato nelle sette. Verifica se hanno un dossier su un gruppo satanista. Gente che si fa chiamare gli Asserviti. O a volte gli Scribi.» Silenzio. Foucault prendeva appunti. A mo' di conclusione, dissi: «Fai tutte queste cose. Tornerò presto e ti racconterò i dettagli al mio ritorno». Riagganciai. Nutrivo sempre la speranza che tutte queste trame si incrociassero. Un punto d'intersezione che mi avrebbe indicato non un nome, ma almeno una direzione. Chiamai Svendsen. Nonostante l'ora tarda il suo «pronto» era vivace. Appena riconobbe la mia voce, protestò: «Finalmente ti fai vivo! Non c'è modo di raggiungerti. Non hai più nemmeno la segreteria telefonica!». «Sono in Polonia.» «In Polonia?» «Lascia perdere. Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.» «Ho un bel po' di novità.» «Lo so. Ho appena parlato con Foucault.» Lo svedese borbottò qualcosa, deluso di non potermi rivelare lui stesso le sue scoperte. «C'è stato un omicidio a Besançon», proseguii. «Un gendarme.» «L'ho letto su "Le Monde" di ieri.» Il delitto aveva quindi attratto l'attenzione dei quotidiani nazionali. Era un segno: il caso Simonis stava per esplodere. I miei uomini non dovevano più evitare solo i gendarmi ma anche i media. «Ci sarà l'autopsia. Voglio che tu chiami Guillaume Valleret, medico legale dell'ospedale Jean-Minjoz, a Besançon», continuai. «Non lo conosco.» «Ma sì. Ricordi che ti avevo già chiesto delle informazioni su di lui?» «Il depresso?» «Proprio lui. Chiedigli i risultati dell'autopsia.» «E perché dovrebbe dirmeli?» «Mi ha già parlato, a proposito di Sylvie Simonis.» «I fatti sono collegati?» «È lo stesso omicida, secondo me. Gioca con la putrefazione dei corpi. Chiedi a Valleret se ha fatto la stessa cosa con Sarrazin.» «Il corpo era già decomposto?» L'odore nelle narici, le mosche, le piastrelle macchiate di sangue. «Non come quello di Sylvie Simonis, ma l'omicida ha accelerato il pro-
cesso.» «Hai visto il cadavere?» «Chiama Valleret. Interrogalo. E poi richiamami.» «Questo omicida è l'uomo che cerchi fin dall'inizio?» Sulle piastrelle del bagno: SOLTANTO TU E IO. Sul legno del confessionale: TI ASPETTAVO. Era lui a cercarmi. Mi strappai dai miei pensieri e conclusi: «Vedi con il medico legale. Sei tu che devi ottenere le risposte». Spensi il cellulare. Sdraiato sul letto, osservai i muri che mi circondavano. Neri, spessi, indistruttibili. Gli stessi muri che proteggevano Manon... Tutt'a un tratto lei tornò al centro dei miei pensieri. Pensieri frementi, adolescenza febbrile... «No», feci scuotendo la testa. Dovevo concentrarmi sull'indagine e nient'altro. Interrogare Manon Simonis. Sondare la sua memoria e lasciare la Polonia. Prima di perdere ogni obiettività su questo caso. 87 Mercoledì 6 novembre. Da due giorni vagavo per Cracovia facendo attenzione a evitare Manon. Non c'era modo di affrontare la principessa. Avevo contratto una malattia e mi stavo ancora dibattendo, rifiutandomi di sprofondare nei miei stessi sentimenti. O, per dirla altrimenti: ero terrorizzato dall'idea di non piacerle... Avevo dimenticato il mio caso, sprecando le mie giornate a zonzo per la città, senza ascoltare nemmeno i messaggi sulla segreteria telefonica. Ma quel mattino, al risveglio, avevo deciso di rimettermi al lavoro. Mi alzai e accesi il cellulare. Ascoltai i messaggi vocali. Foucault. Svendsen. Più volte e sempre più impazienti. Li richiamai subito. Segreterie. Erano le sette del mattino. Mi vestii senza farmi la doccia - troppo freddo - e accesi il computer. Aprii la posta elettronica. Il dossier inglese di Raïmo Rihiimäki non era ancora arrivato. Nessun messaggio degno di nota. Mi collegai ai soliti giornali: «République des Pyrénées», «Courrier du Jura», «Est républicain». Gli articoli sugli omicidi di Bucholz e Sarrazin occupavano sempre meno spazio. Conchiglie vuote.
Ritornai al presente. Da quella notte, un'idea si stava facendo strada in sordina. Curiosare un po' intorno nel convento-monastero, le cui attività mi parevano sempre più oscure, nonostante la visita guidata di Zamorski. Avevo cercato di tornare nel quartier generale sotterraneo. Impossibile. Sensori biometrici, telecamere, cellule fotoelettriche. La zona era più protetta di un centro militare. Anche altre stanze, al piano terra, offrivano la loro parte di mistero. La notte prima avevo tracciato una pianta del chiostro. Gli edifici attorno alla corte centrale si dividevano in due «L», ognuna occupata da un ordine: le benedettine a nordest, i preti a sudovest. Ogni zona aveva la sua cappella e non c'era nessuna area in comune oltre al refettorio, dove uomini e donne consumavano i loro pasti in orari diversi. Mi concentrai sulla parte sudovest. Avevo segnato a matita i locali già ispezionati. Al piano terra, gli uffici amministrativi. Poi una biblioteca dove dei seminaristi preparavano le loro tesi su episodi della storia religiosa polacca. La cappella e un'area relax. Mi restavano quindi solo due stanze, al congiungimento delle «L». Scommisi che si trattava dell'ufficio di Zamorski e di una sala riunioni segreta... Mi infilai il cappotto e decisi di fare una ricognizione mattutina. Le benedettine pregavano all'Angelus e i preti facevano colazione. L'ora ideale. Risalii il viale e poi discesi. Il giorno si levava a fatica. All'angolo delle due gallerie mi fermai davanti alla porta della stanza più grande: poteva essere la sala segreta. Tirai fuori il mio passe-partout. La freschezza della pietra. Odore di bosso e di cipresso. Il freddo isolava ogni sensazione. Infilai la prima chiave e mi resi conto che la porta non era chiusa. Un'altra cappella. Più lunga, più stretta, più misteriosa. Strette finestre da cui filtrava l'azzurro dell'alba. File di sedie sormontate da leggii con i coperchi chiusi si succedevano fino al coro. Niente altare né croce. Soltanto un rosone nella vetrata bianca sul fondo, che sembrava carta stagnola stropicciata. Avanzai di qualche passo. Quello che mi colpì di più furono il totale silenzio e la purezza del freddo. I miei occhi si adattarono alla penombra. Adesso distinguevo anche i colori. Le colonne erano bianche, il pavimento di terracotta color ocra, le pareti verde pastello. Non c'era niente per me in quel luogo, ma una forza misteriosa mi induceva a restare lì. All'improvviso si accese la luce. «Il bianco, il rosso e il verde. I colori del principe Jabelowski, il fondatore del monastero.»
Mi voltai. Zamorski era sulla porta della sala, la mano ancora sull'interruttore. Finsi indifferenza. «Che cos'è questa sala?» «Una biblioteca.» «Però non vedo i libri.» Zamorski avanzò lungo l'ala centrale e sollevò il coperchio di un leggio. Vidi rilegature di cuoio che brillavano come lingotti d'oro. Il nunzio prese un volume. Si sentii un tintinnio: il libro era legato con una catenella. Avevo sentito parlare di queste biblioteche rinascimentali. Luoghi dove i libri erano prigionieri. «La sala è del XV secolo», confermò il nunzio. «È sopravvissuta alle guerre, alle invasioni, al nazismo e al comunismo. Un luogo simbolico, che ci interessa immensamente.» «Vuole farne un museo?» domandai in tono ironico. Zamorski lasciò cadere il pesante in-folio, che produsse un rumore lugubre. «Questo luogo è emblematico della nostra lotta, Mathieu. Il principe Jabelowski fece costruire il chiostro negli anni Cinquanta del Quattrocento, dopo la guerra ussita che aveva distrutto numerosi siti religiosi. Aveva in mente un progetto. Fondare una nuova congregazione, dopo avere subito un'esperienza mentale, diciamo così, particolare...» «Vuole dire che...» «Un Senza Luce, sì. Dopo una caduta da cavallo, Jabelowski era entrato in coma. Quando si è svegliato, pretendeva di aver visto il diavolo. E doveva essere convincente, poiché molti monaci hanno seguito le sue orme. Da allora la vocazione del monastero è stata quella di raccogliere il Verbo del Maligno. In questo senso, si può considerare Jabelowski come il fondatore della setta degli Asserviti.» Tutto era in tutto: un Senza Luce aveva iniziato l'ordine degli Asserviti, e oggi questi ultimi davano la caccia ai Senza Luce... «Se questo monastero è maledetto, perché vi siete installati qui?» chiesi. «Il gusto del paradosso, senza dubbio.» «La smetta di giocare con me. Per gli Asserviti, Scholastyka deve essere un luogo speciale, no?» «È la loro basilica di San Pietro! Jabelowski è stato sepolto nelle sue fondamenta.» «E non cercano di acquistarla? Di visitarla?» Il sorriso di Zamorski fu eloquente. Avevo finalmente capito.
«Ha trasformato questo luogo in un bunker perché sta aspettando la loro visita.» «Tutto lascia credere che prima o poi cercheranno di introdursi qui.» «E lei si augura che lo facciano. Questo monastero è una trappola. Una trappola nella quale lei ha messo un'esca: Manon.» Il polacco scoppiò a ridere. «Dove credi di essere? A Fort Alamo?» A dispetto della sua aria divertita, sapevo di aver visto giusto. I religiosi volevano attirare i satanisti in questo bastione. Quella che si stava annunciando sarebbe stata una battaglia medievale. Feci qualche passo nella sua direzione. Adesso eravamo faccia a faccia. «Gli Asserviti hanno ben altre attività», sospirò. «Noi cerchiamo soprattutto di ostacolare la loro corsa.» «Quale corsa?» «La corsa al male. Cieca, sfrenata.» Sollevò un altro leggio. Non conteneva incunaboli incatenati ma dei raccoglitori a spirale metallica. Ne aprì uno su una fotografia plastificata. «Conosci la citazione: "Non ci sono idee, ci sono soltanto azioni"?» Mi porse il raccoglitore. Il volto di un cadavere, la bocca aperta, un gancio avvitato nella lingua. Pensai alle descrizioni infernali delle Apocalissi: «Alcuni dei dannati erano appesi per la lingua». Il polacco voltò la pagina. Un tronco umano i cui quattro arti erano sparsi in una discarica pubblica. Nuova pagina. Un cadavere di bambino, minuscolo, rinsecchito come una mummia, tagliuzzato, imprigionato in una gogna. Poi un cavallo con gli occhi strappati e i genitali tagliati che sembrava galleggiare in un'immensa pozza nera. Alzai gli occhi, quasi indifferente. Ero anestetizzato contro l'orrore. «Questo genere di cose dovrebbe riguardare piuttosto la polizia, non le pare?» «Certo. Noi non siamo che delle sentinelle. Degli osservatori. Noi spiamo questi crimini. Ne annotiamo i luoghi, le loro convergenze sulla carta geografica dell'Europa. Da quello che sappiamo, gli Asserviti si acquartierano alle frontiere del vecchio continente. Non abbiamo infatti nessuna segnalazione dagli Stati Uniti.» «Che cosa fate in concreto?» «Sorvegliamo. Li localizziamo. Nel migliore dei casi li anticipiamo e avvertiamo le autorità, che però ci prestano scarsa attenzione. Alla polizia non interessa sanare, e men che meno prevenire.» «Come riuscite a localizzarli prima che agiscano?»
«Gli Asserviti hanno un tallone di Achille. Una debolezza che ci consente di individuarli. Si drogano.» «Che tipo di droghe?» «Una sostanza specifica. Gli Asserviti non si accontentano di rintracciare il Verbo del Maligno. Ma cercano anche di compiere loro stessi il viaggio.» «Non capisco.» «Il viaggio nell'aldilà. La morte temporanea. Sprofondano volontariamente nel coma per cercare di avvicinarsi al demonio.» «Esistono droghe capaci di provocare stati simili?» «Una sola: l'iboga. Una pianta africana molto potente e molto pericolosa che viene utilizzata in alcune cerimonie. Il suo nome esatto è Tabernante iboga. Contiene ibogaina, uno stimolante psichedelico che permette di ricreare l'esperienza della pre-morte, chiamata anche la cocaina africana.» «Posso immaginare che una droga provochi una NDE, ma come si può essere certi che questa esperienza sia negativa?» Zamorski sorrise. «Mi piace discutere con te, Mathieu. La tua vivacità ci fa guadagnare tempo. Hai ragione. Esiste una droga ancora più specifica, che garantisce un risultato negativo. L'"iboga nera", una varietà molto rara della pianta. Non è un prodotto che si possa trovare facilmente, credimi. Gli Asserviti sono sempre in cerca di questa sostanza. E a noi basta seguire le tracce dei trafficanti per risalire ai nostri satanisti.» Una scintilla nelle profondità del mio cervello. Come un fiammifero che si accende nel buio. Questa inattesa pista africana entrava in risonanza con altri elementi della mia indagine... Per la precisione, con un dossier che avevo da tempo abbandonato. Massine Larfaoui, spacciatore legato all'ambiente africano, ucciso da un killer professionista una notte di settembre del 2002. Era possibile che anche il suo caso rientrasse nell'ambito della mia indagine? Ma prima dovevo capire il principio del viaggio. «Questo trip», chiesi, «equivale davvero all'esperienza dei Senza Luce?» «No, certo. Nulla può essere come la morte. La porta del nulla. Ma gli Asserviti tentano comunque di andarci vicino, a rischio di perdere la ragione o persino la vita. L'iboga nera è una pianta troppo pericolosa.» «Come agisce? Voglio dire, sul cervello?» «Non sono uno specialista. L'ibogaina è un alcaloide che blocca alcuni recettori dei neuroni. In questo senso, provoca sensazioni analoghe a quelle dell'asfissia. Ma ancora una volta, la trance artificiale non ha nulla a che
vedere con una vera NDE negativa. Per incontrare il diavolo bisogna rischiare la propria pelle. Viaggiare nella morte.» «Dove cresce esattamente la pianta?» «Nel Gabon, come l'iboga comune. Là l'iboga è al centro del più popolare culto iniziatico, il bwiti fang.» Il Gabon, luogo d'origine dello scarabeo e del lichene. Una nuova illuminazione. Adesso ricordavo quando avevo già sentito parlare del Gabon. Saint-Denis. Il ballerino in trance. La faccia ilare di Claude: «Ha preso un prodotto locale. Roba delle sue parti». L'uomo aveva ingerito iboga. Nessun dubbio, i fili si intrecciavano. La prima indagine su Larfaoui. L'ambiente africano con le sue droghe specifiche. Gli Asserviti a caccia di iboga... Calai le mie carte. «Luc Soubeyras indagava anche sull'omicidio di uno spacciatore.» «Massine Larfaoui. Ne siamo al corrente.» «Larfaoui aveva un legame con l'iboga nera?» «Ne era il fornitore ufficiale. Lo tenevamo d'occhio, credimi.» «Sapete chi l'ha ucciso?» «No. Un altro enigma. Forse un Asservito. Forse un cliente in crisi d'astinenza. È sempre pericoloso avere frequentazioni simili.» «Larfaoui non è stato ucciso da un dilettante. È stato soppresso da un professionista.» Zamorski fece un gesto evasivo. «L'indagine si è fermata. Nemmeno Luc si era spinto più in là su questa pista. E d'altronde nulla ci autorizza a pensare che l'omicidio sia legato all'iboga.» Zamorski non avanzava un'altra possibilità, come per esempio che un membro della sua brigata avesse eliminato lo spacciatore per una ragione o per l'altra. Dopotutto, Gina, la prostituta testimone dell'assassinio, aveva parlato di un prete... Ancora una volta mi figurai il nunzio con una pistola in mano. L'immagine mi sembrava sempre più calzante. «Questa non è altro che una pista secondaria», riassunsi. «Gli Asserviti si concentrano soprattutto sui Senza Luce, giusto?» «Giusto. Ai loro occhi nulla può prendere il posto della confessione di colui o colei che ha "visto" il diavolo.» «Qualcuno come Manon?» Gli occhi d'acciaio di Zamorski si posarono su di me. «Non sappiamo ancora se Manon abbia realmente vissuto un'esperienza negativa», mormorò.
«Per saperlo, bisognerà che ritrovi la memoria.» «O che giochi a carte scoperte.» «Lei pensa che menta? Che simuli l'amnesia?» «Spetta a te dirmelo. Eri tu che dovevi interrogarla.» La sua voce era cambiata. Dalle sue parole traspariva l'autorità. Era la conferma di un sospetto che avevo avuto fin dal mio arrivo: Zamorski se ne fregava del mio dossier. Mi aveva «importato» in Polonia per far sbottonare Manon. Perché mi guadagnassi una fiducia che lui non era mai riuscito a conquistarsi. «Che gioco stai facendo con Manon?» mi domandò, improvvisamente irritato. «È da due giorni che la eviti.» «Mi fa pedinare?» «Non ci sono segreti in questo chiostro. Ripeto la mia domanda: a che gioco giochi? La chiave dell'indagine è in fondo alla sua memoria!» Indietreggiai e fissai il rosone che sovrastava il coro. La grigia giornata faceva vibrare i suoi petali d'argento. «Non se la prenda. Ho la mia strategia.» 88 In fatto di strategia, non avevo ancora superato la mia paura. E non c'era in vista alcun cambiamento. Mi precipitai nella mia cella e controllai il cellulare. Due messaggi. Foucault, Svendsen. Chiamai il primo. «A che punto sei?» esordii bruscamente. «Nel Jura non è emerso niente. I poliziotti non riescono a sbrogliare il caso Sarrazin. Gli scarabei restano ben nascosti e in tutta la regione ho scovato solo sette gabonesi. Tutti inoffensivi.» «Gli espatriati?» «Difficili da localizzare. Ma ci stiamo dando da fare.» «Hai scoperto qualcosa sugli Asserviti?» «Niente. Nessuno li conosce. Se è una setta, è il gruppo più segreto della...» Interruppi Foucault ordinandogli di abbandonare la ricerca. Tanto valeva attenersi alle informazioni fornite da Zamorski, specialista in tutti i campi. «Hai sempre il dossier Larfaoui?» gli domandai invece. «Il caso degli Stups?»
«Sì. Forse ha un legame con la nostra storia.» «Nostra? Non ho l'impressione che fino a ora tu abbia condiviso molto con me.» «Aspetta il mio ritorno. Riprendi il profilo di quello spacciatore. Cerca di scoprire con gli Stups se conoscono i suoi fornitori, i giorni delle consegne, i clienti regolari. Riascolta le sue ultime chiamate prima che lo uccidessero, studia la sua contabilità. E scopri chi ha preso il suo posto. Fatti aiutare da Meyer e Malaspey.» «Che cosa cerchiamo?» «Una rete specifica, che ruota attorno a una droga africana, l'iboga.» «Viene dal Gabon?» «Non ti si può nascondere nulla. Quel paese ha un ruolo in tutto questo, ormai è chiaro. Ma non so ancora fino a che punto. Richiamami questa sera.» Chiusi la comunicazione e chiamai Svendsen. «Ci sono novità», disse lo svedese tutto eccitato. «E grosse. Avevi ragione. Il corpo di Sarrazin è stato lavorato.» «Continua, ti ascolto.» «I suoi visceri erano in avanzato stato di decomposizione, come se fosse morto almeno un mese prima. Mentre le sue spalle manifestavano solo un lieve rigor mortis.» «Hai una spiegazione?» «Una sola. L'omicida gli ha fatto bere dell'acido e ha atteso che le sue interiora gli marcissero dentro l'addome. Poi gli ha aperto il ventre, dal basso all'alto.» Anche l'assassino di Sarrazin aveva quindi giocato con la morte. Era lo stesso che aveva ucciso Sylvie Simonis? Un Senza Luce? O l'ispiratore dei miracolati? Rividi le parole incise sulla corteccia: IO PROTEGGO I SENZA LUCE. Una sola certezza, e tutt'altro che trascurabile: non era stata Manon a uccidere Sarrazin. All'epoca lei era già in esilio a Scholastyka. «Il bastardo ha operato una vivisezione», continuò Svendsen. «Ha pazientemente srotolato i visceri della vittima nella vasca da bagno mentre il poveretto era ancora vivo... e cosciente.» Con la mia abituale imperturbabilità ricordai che la vittima non aveva segni di legacci. «Sarrazin non è stato legato?» «No. Ma le analisi tossicologiche rivelano tracce di potenti sostanze pa-
ralizzanti. Non poteva muoversi mentre l'altro Io macellava.» Rividi la scena del crimine. Il corpo in posizione fetale. La vasca piena di visceri. Le mosche che ronzavano nell'aria fetida. «E gli insetti?» «Abbiamo trovato uova di mosche Sarcophagidae e Piophilidae. È lo stesso folle che ha ucciso quella donna, Mat. Non c'è alcun dubbio.» «Ti ringrazio. Ti hanno inviato il rapporto?» «Valleret me lo inoltrerà. Un tipo simpatico.» «Studia ogni dettaglio. È molto importante.» «Perché non mi dici qualcosa di più?» «Più tardi. Tutti questi fatti rivelano un metodo. Una sorta di... supermetodo che un uomo mette a punto attraverso altri assassini...» «Non ci capisco nulla», fece Svendsen, «ma sembra appassionante.» «Appena arriverò a Parigi ti spiegherò tutto.» «È una promessa, vecchio mio.» Sprofondai di nuovo nel mio dossier, tentando ancora una volta di trovare il filo comune di tutte quelle trame. Le campane del monastero suonavano le undici quando sollevai gli occhi dai miei appunti. Non mi ero accorto del passare del tempo. L'ora di colazione delle benedettine. Il momento giusto per eclissarmi senza correre il rischio di incrociare Manon, che condivideva il pasto con le suore. Infilai alcuni maglioni uno sopra l'altro e poi indossai il cappotto. Mentre camminavo speditamente sotto gli archi una voce mi salutò. «Salve.» Manon era seduta ai piedi di una colonna, avvolta in un grande giubbotto imbottito, con sciarpa e berretto di lana. Deglutii faticosamente, la gola improvvisamente secca. «E se tu mi spiegassi?» «Spiegare cosa?» «Dove scompari tutto il giorno da quando sei arrivato.» Mi avvicinai. Sul suo viso tutte le tonalità del rosa. Il freddo le aveva cristallizzato il sangue. «Devo forse renderti conto di qualcosa?» Sollevò in aria le mani, come se la mia aggressività fosse un'arma puntata contro di lei. «No, ma non farti illusioni. Qui nessuno è libero nei suoi movimenti.» «È quello che credi tu. Che ti piace credere.» Si staccò dalla colonna e si stirò. Poi, sorridendo, mi chiese: «Puoi spie-
garti meglio?». Stavo dritto davanti a lei, le gambe divaricate, il corpo teso. La caricatura di un poliziotto che vuole fare il duro. Ma avevo sempre la gola secca e dovetti faticare un po' per riuscire a parlare. «Questa situazione ti conviene. Restare qui, al sicuro in questo convento mentre in Francia è in corso un'indagine sulla morte di tua madre.» «Vuoi dire che sono fuggita dalla polizia?» «Forse sei fuggita dalla verità.» «Non ho l'impressione che la verità sia in vista. Non potrei fare nulla di più in Francia.» «Non vuoi quindi sapere chi ha ucciso tua madre?» «Sei tu che te ne occupi, no?» Più le sue risposte mi suonavano giuste più montava la mia irritazione. Il suo sorriso persisteva. La trovai brutta. Due rughe le solcavano le guance facendola apparire più dura, più vecchia. «Sei proprio una stupida studentella.» «Grazie tante.» «Non hai alcuna coscienza di quello che realmente accade.» «Merito tuo. Non mi hai detto nulla di quello che sai.» «Per il tuo bene! Stiamo tutti cercando di proteggerti! Che cos'hai nella testa?» dissi picchiandomi la fronte. Non sorrideva più. Le sue guance adesso erano rosse. Si alzò e aprì la bocca per rispondermi nello stesso tono. Ma all'improvviso si ricredette e mi chiese con voce dolce: «Non starai mica cercando di sedurmi?». Rimasi impietrito. Ci fu un istante di silenzio e poi scoppiai a ridere. Cracovia - Krakow - costituiva un mondo a sé, con i suoi colori, le sue luci e i suoi effetti materici. Un universo coerente e specifico come quello di un grande pittore. I toni compassati di Gauguin, i chiaroscuri di Rembrandt... Un mondo dai colori di terra, fango e mattone, dove le foglie morte sembravano dialogare con i rivestimenti color sangue dei tetti e i muri anneriti dal tempo. Manon aveva fatto scivolare il suo braccio sotto il mio. Camminavamo spediti, senza parlare. Nella grande piazza del mercato rallentammo sotto la Sukiennice, con le sue arcate rinascimentali gialle e rosse. Voli di piccioni, gelide raffiche di vento. Una specie di intensa suspence, di tensione infuocata, sembrava aleggiare su di noi. Osservai furtivamente il profilo di Manon. Sotto l'ombra dei capelli, il
naso perfetto ricordava misteriosamente l'infanzia e il regno marino. E quelle sopracciglia sempre inarcate, in una perenne espressione di stupore, che sembravano interrogare il mondo, metterlo di fronte alle sue verità. La realtà aveva già detto troppe cose o non abbastanza... Riprendemmo a camminare con passo rapido. Non prestavo più attenzione ai luoghi che avevo notato i giorni precedenti. Seguivamo a caso strade e viali. Qui avrebbero potuto aggredirci in qualsiasi momento, ma non avevo paura: Manon era potuta uscire dal monastero a condizione che uno o più angeli custodi ci seguissero a distanza. Non li cercai ma sapevo che c'erano, e che vegliavano su di noi. Colletto bianco, muscoli tesi. Riprendemmo a parlare, alla stessa velocità dei nostri passi. Come per riappropriarci del tempo perduto, i giorni in cui mi ero negato. La nostra agitazione non portava a nulla, perché il tempo non passava più. La successione dei minuti non esisteva più per noi. Era come se ogni istante si ripetesse, sempre più forte, sempre più denso. Come quando una particella sfiora la velocità della luce e acquista sempre più energia, senza però poter mai oltrepassare quella frontiera. Eravamo giunti a questo limite estremo. Dentro di noi l'eccitazione continuava a crescere, ad amplificarsi, senza che potessimo superare una sorta di soglia di indicibile felicità. Manon mi tempestava di domande. «Ti piacciono i romanzi polizieschi?» «No.» «Perché?» «Le parole non reggono mai il confronto con la realtà.» «E i videogame?» Il mio unico contatto con questa attività era stato uno stock di software rubati trovati nella casa di un omosessuale assassinato. Seguendo quella pista eravamo potuti risalire fino al suo complice, che era anche il suo amante e il suo assassino. Inventai una risposta che speravo divertente. «Ti fai le canne?» A ogni domanda di Manon cercavo di dare una risposta spiritosa, leggera, complice. Cercavo di distogliermi dalla mia gravità naturale. I miei sforzi erano vani, lo sapevo. Non ero portato per la spensieratezza, al contrario di Manon, che sembrava rapita da quella passeggiata, al di là della mia presenza e di tutto quello che potevo dire. I nostri passi si fermarono in cima a una collina, vicino al castello di Wawel. Davanti a noi la Vistola, cupa e immobile, invischiata nella sua stessa massa. Avevamo la sensazione di scoprire tutt'a un tratto la materia
prima nella quale tutta la città era stata plasmata, scolpita, costruita. Stava scendendo la notte. Un momento strano, angosciante, che conoscono tutte le città, quando cala l'ombra e i riverberi non hanno ancora preso vita. Ora misteriosa in cui la vera notte riprende i suoi diritti, cancellando secoli di civiltà. Al di là del fiume la città sprofondava nelle tenebre. I muri assumevano riflessi azzurrini che viravano al grigio violetto. Strade e marciapiedi si accendevano di malva mentre le finestre si incendiavano agli ultimi bagliori del sole. «Rientriamo?» chiese Manon. Senza risponderle, la guardai. Il giorno si spegneva nei suoi occhi mentre la penombra, per contrasto, la rendeva più pallida. Rabbrividiva nel suo giubbotto punteggiato di goccioline. Eravamo seduti su una panchina. Poiché io non accennavo a muovermi, lei mi prese la mano, come una bambina che attira a sé il mondo, lo adegua ai suoi desideri. «Vieni.» Resistetti. Pensavo a Manon Simonis assassinata dalla madre perché era posseduta. Alla bambina violentata che uccideva animali e proferiva oscenità. Alla bambina morta che era resuscitata grazie a Dio o al diavolo. Mi tornava alla mente tutta l'indagine di Sartuis. E a quel punto, senza nemmeno capire quello che facevo, attirai a me Manon e la baciai appassionatamente. 89 Taverna di un colore bruno-dorato, divanetti di skai, lampadari di vetro colorato. Su una pedana, degli zingari suonavano freneticamente il violino e lo zimbalon. Era l'unico rifugio che avevamo trovato nelle stradine della sera. Nonostante il baccano, il fumo e le zaffate di alcol e grasso, ci sentivamo leggeri e soli al mondo. Un tête à tête esclusivo, segreto, soggiogato. In ogni sua osservazione, nel modo stesso in cui la formulava, coglievo un'intesa, una complicità unica tra noi. Manon mi rubava le parole di bocca. Aveva un modo tutto suo di sollevare il mento, di alzare la voce per prendere la parola e pronunciare esattamente quello che volevo dire io. Questa fusione ci colmava di una felicità che trascendeva la nostra differenza di età e quella dei nostri destini, e il fatto che ci eravamo appena conosciuti. Le ore passarono. I piatti passarono. I nostri occhi lacrimavano per il
fumo. Al dolce accesi una Camel e la interrogai sul suo passato. Si irrigidì immediatamente. «Vuoi mettermi sotto torchio?» «No», feci io esalando una boccata di fumo che raggiunse le nuvole sul soffitto. «È solo per sapere se hai qualcuno nella vita.» Sorrise e si stirò in quel suo modo particolare. Parve ricordarsi che ormai il sospetto, la resistenza, non avevano più senso tra noi. E allora parlò. Senza divagare né eludere. Mi raccontò la sua infanzia traumatizzata, gli anni del pensionato, ossessionata dalla minaccia di un assassino, le strane visite di sua madre, che non smetteva di pregare. Poi l'adolescenza a Losanna, gli studi al liceo e all'università, dove si era fortificata. Aveva una rete di amicizie e di luoghi «sicuri», oltre ai legami famigliari: la madre, che dopo la sua «rinascita» era venuta a trovarla tutti i weekend, i nonni paterni, che vivevano a Vevey, e anche il dottor Moritz Beltreïn, il suo salvatore, che era diventato per lei una sorta di benevolo padrino. Diciotto anni. Aveva cominciato a viaggiare, a non chiudere a chiave la porta, a non voltarsi continuamente per vedere se era seguita. Era iniziata per lei una nuova esistenza. Fino alla morte di sua madre. All'improvviso tutto era crollato. La pace, la fiducia, la speranza. Gli antichi terrori erano tornati, ancora più forti. Quell'omicidio dimostrava che era tutto vero. Un pericolo incombeva sulla sua famiglia. Un pericolo che aveva colpito lei nel 1988 e sua madre nel 2002. Quando Zamorski le aveva proposto di partire per la Polonia, nell'attesa che l'assassino fosse arrestato, lei aveva accettato. Senza la minima esitazione. E adesso contava i giorni, aspettando che il suo mistero fosse svelato. Tutto questo lo sapevo, o l'avevo indovinato. Per contro, quello che lei ignorava - perché non se ne ricordava - era che dei pervertiti l'avevano corrotta e che sua madre aveva cercato di ucciderla. Ma non sarei stato io a dirglielo. Né quella sera né il giorno dopo. Sorrisi, inebetito dalla vodka, constatando che non avevo ancora l'informazione che mi interessava. «Hai qualcuno a Losanna?» Manon scoppiò a ridere. L'odore di fritto, il caldo, la voce della cantante, tutto questo per lei non esisteva. E nemmeno per me. Ero come in fondo al mare, assordato dalla pressione, ma distinguevo alcuni rumori con straordinaria chiarezza. Come quando, durante un'immersione, si percepiscono dei ticchettii acuti o delle risonanze gravi portati dall'acqua. «Ho avuto una storia», disse lei. «Con uno dei miei professori all'univer-
sità. Un uomo sposato. Una storia penosa illuminata da qualche sprazzo di felicità. Io stessa non ero stata chiara con lui.» «Che cosa vuoi dire?» Lei esitò, poi riprese con voce grave: «In realtà, quello che amavo era il segreto, il dolore. E la vergogna. Quella specie di... degradazione. Come quando si beve troppo. Assaporiamo ogni sorsata pur sapendo che ci stiamo distruggendo, precipitando più in basso a ogni bicchiere che scoliamo». Unendo il gesto alla parola, bevve d'un sorso la sua vodka. «Io credo... Questo gusto della morte, del proibito, mi ricordava la mia vita. La mia familiarità con il nulla, il segreto.» Posò la mano sulla mia. «Non sono sicura di poter vivere una storia limpida, angelo mio.» Rise di nuovo con leggerezza, ma senza gioia. «Sono fatta per il trash! Ho gusti da zombie.» Se cercava un morto vivente, il suo uomo ero io. Anch'io, dopo il Ruanda, appartenevo alla morte. Il ricordo era sempre in fondo ai miei pensieri, succhiava ogni istante della mia esistenza... Gli stridori metallici, la voce crepitante alla radio, i corpi che sobbalzavano sotto le mie ruote. E quella donna che non avevo potuto salvare... Riempii i bicchieri e bevvi, rassicurato. Quell'episodio non alterava la purezza di Manon. Nulla avrebbe potuto intaccare la sua innocenza. Anche se quella innocenza proveniva da un'infanzia malefica e da un crimine atroce. Anche se il suo unico ricordo amoroso era un'avventura adultera. Sentivo in lei un'esigenza, un rigore che riconoscevo. Una forma di trasparenza che non aveva nulla a che vedere con la verginità, ma che traeva al contrario la sua forza dalle prove e dalle lordure. Un'aspirazione, un richiamo spirituale che si levava al di sopra degli abissi, e attingeva la sua bellezza dalla lotta. «Andiamo?» disse tutt'a un tratto, afferrando il suo giubbotto. Avanzammo nella nebbia, planando sopra i nostri stessi corpi. La città appariva instabile, irreale. Edifici, monumenti, strade fluttuavano nella nebbia, come un'immensa nave spaziale che decolla in una nuvola di fumo. Non avevo alcuna idea di che ora fosse. Forse mezzanotte. Forse più tardi. Ma non ero abbastanza ubriaco da dimenticare il pericolo, sempre presente. Gli Asserviti, che si aggiravano per la città alla ricerca di Manon... Continuavo a voltarmi, scrutando dietro gli angoli, sotto i portici. Quella sera avevo con me la Glock, ma la mia vigilanza era compromessa dall'alcol. Mi augurai che i cerberi di Zamorski fossero ancora sulle nostre trac-
ce, e che avessero bevuto meno di me. La strada sembrava non finire più. Il punto di ritrovo era il Planty, il grande parco che cinge la città vecchia. Una volta arrivati ai giardini dovevamo solo seguirli e lasciarci andare fino al centro. Sotto il portico di Scholastyka, Manon suonò la campanella. Un uomo senza volto né colletto bianco ci aprì. L'accogliemmo con uno scoppio di risa, vacillando sulle nostre stanche gambe. Avanzammo lungo la galleria in silenzio. Non ridevo più. L'avvicinarsi dell'intersezione delle due «L» mi colmava d'ansia. Il momento di separarsi, il momento di dire qualcosa... Mi lambiccai il cervello per trovare una formula, un gesto che non fosse un'azione ma un invito. Arrivammo alla porta prima che riuscissi ad aprire bocca. Manon viveva nella parte delle benedettine. Balbettai qualcosa quando lei mi posò le dita sulla nuca. La sua lingua mi scivolò in bocca e sussurrò altre parole, parole che io non avrei mai saputo trovare. Indietreggiai verso il muro. Sentivo la pietra fredda sulla schiena mentre Manon premeva contro le mie labbra fino a soffocarmi. Mi liberai dalla stretta senza scostarmi da lei. Dovevo riprendermi o avrei perso completamente il controllo. Manon mi scrutava dalla penombra. Sembrava avere dieci anni di più. L'emozione aveva scavato i suoi tratti. I suoi occhi erano neri come quarzi vulcanici. Nuvolette di vapore le uscivano dalle labbra frementi. La sentivo tra le mie mani, ebbra, scarmigliata, e vedevo nel suo viso una sorta di sforzo per non scomparire, non essere inghiottita dalla notte. Presi l'iniziativa e mi tuffai di nuovo verso la sua bocca. Ma lei mi fermò, sussurrando: «No. Vieni». 90 All'inizio, il freddo della sua camera. Poi, la porta che si chiude alle sue spalle quando la bacio, spingendola con le labbra contro la parete. Le tolgo il giubbotto, lei mi strappa il mio. I nostri gesti sono goffi, impacciati. Le nostre bocche sono incollate l'ima all'altra. L'immensità gelida ci circonda. Cadiamo sul letto. Le sollevo il maglione. Il suo respiro mi entra nell'orecchio. Nella penombra, la sua pelle si svela, appare un reggiseno bianco e io sento un dolore fisico, il mio desiderio è un'esplosione, un'incrinatura. Il suo volto, pieno di notte, non mi è mai parso così puro, così angelico, mentre il suo corpo ridesta in me un impero, un mondo nascosto che ho
sempre rifiutato. Cado, e mi nutro intensamente di questa caduta. Siamo ancora ostacolati dai vestiti, impediti da maniche e bottoni. Presto lei indossa solo le figure geometriche della sua biancheria bianca. Figure dalle linee aguzze, implacabili. Punte che mi feriscono e mi attirano, mi tagliano e mi affascinano. Sono già pronto a esplodere, in senso organico: schizzi di sangue e fibre. Cado sulla schiena. Sopra di me, i suoi seni nudi: pesanti, teneri, adorabili. Miracoli di gravità e squisite fonti di calore. I loro fremiti mi inebriano. Mi raddrizzo. Lei mi blocca di nuovo le spalle e si getta tra le mie braccia. Perdo definitivamente ogni controllo. Nulla ha più senso. Eccetto il fatto che ci teniamo stretti, intimoriti, travolti dal desiderio. Lei mi accarezza, mi guida, mi manipola. È come se mi togliesse altri vestiti: gli strati che si sono accumulati su di me durante tanti anni, le decisioni che mi hanno forgiato, le menzogne che mi hanno rassicurato. Un istante che concentra nella sua violenza la dilatazione delle particelle del tempo già vissuto e degli anni ancora da vivere. Sento il cuore martellarmi nel petto, un'ondata di debolezza e languore. I suoi seni gonfi, bianchi, liberi, con i capezzoli neri che fremono, mi sfiorano il viso. Bruciante di desiderio, allungo la mano per toccarli. Ma le carezze adesso non bastano più. Manon, raccolta sul mio ventre, mi infila le mani sotto la nuca. Non capisco cosa stia succedendo. È la lezione di vita più violenta della mia esistenza. Lei si aggrappa al mio collo, china su di me, e inizia a muovere le anche. Insegue ostinatamente il suo piacere, lo sfiora, lo perde e poi lo ritrova. Un lavoro d'amore, brutale e delicato, preciso e barbaro, da cui io sono escluso. Assecondo i suoi ondeggiamenti, inseguendo lo stesso piacere. Ci muoviamo ora in perfetta sincronia, come fossimo un unico corpo, per rubare quello che l'altro tiene in serbo per noi. Tutto si accelera. Le labbra si fondono, le dita si intrecciano. C'è un culmine che possiamo raggiungere, a portata del nostro respiro, dentro il nostro ventre. Carne contro carne, beccheggiamo, cerchiamo, sondiamo. Lei è sempre a cavalcioni sopra di me, i talloni puntati sul materasso. Ha abbandonato ogni pudore, ogni ritegno, concentrandosi solo sul suo piacere. All'improvviso si inarca e urla. L'afferro per i capelli e la riporto a me. Ancora attimi di tormento e di vertigine, una vampata di calore e poi il piacere, come una corrente elettrica che mi attraversa le membra. Ancora una frazione di secondo. Mi stacco da lei e la divoro per l'ultima volta con
gli occhi: le braccia alzate, i seni sodi, il ventre teso, il pube nero... Un istante dopo torno in me. La trance è già lontana. Mi sento nuovo, puro, ripulito. Sprofondo nella disperazione. La vergogna. La lucidità. Penso alle menzogne degli ultimi quindici anni. L'amore esclusivo per Dio. La compassione per gli altri. Il sesso riservato alle amichette esotiche. Un bricolage illusorio... Il desiderio mal soffocato dall'amore cristiano. Quasi ce l'ho con Manon, per avermi sputato in faccia tante verità con qualche carezza. Poi fluttuo su un'onda di calore e ritrovo la felicità. «Tutto bene?» La sua voce roca aveva ora un tono benevolo, leggero. Senza rispondere, frugai nelle tasche dei pantaloni alla ricerca di una sigaretta. Camel. Zippo. Mi lasciai ricadere di traverso sul letto. Manon mi posò l'indice sul viso, seguendo la linea della fronte, del naso. Trascorsero così parecchi minuti. La stanza, prima gelida, si era trasformata in un forno. Il vapore appannava le finestre. «Facciamo un gioco», sussurrò lei. «Dimmi che cosa preferisci in me...» Non risposi. Avevo avuto un flash. Come un'iniezione di eroina pura. Un immenso torpore, un'infinita stanchezza. «Forza», insistette Manon. «Dimmi che cosa ti piace di me...» Mi sollevai puntellandomi su un gomito e la contemplai. Non solo il suo corpo, tutto il suo essere si era messo a nudo davanti a me. La notte strappa le maschere, e anche i volti. Non resta che la voce. E l'anima. Svaniti tutti i tic, le convenzioni sociali e le menzogne con cui ci travestiamo. Avrei potuto dirle che non era l'amante ma il cristiano a essere turbato di fronte a quella messa a nudo. Eravamo come dopo una confessione. Sgravati di tutte le colpe, liberati dall'ipocrisia. Paradossalmente, non ci eravamo mai sentiti così innocenti come dopo quel peccato carnale. Ecco cosa avrei potuto mormorarle... Invece farfugliai qualche banalità sui suoi occhi, le sue labbra, le sue mani. Parole così logorate dall'uso da aver perso ogni significato. Lei ridacchiò. «Sei un disastro, ma non è grave.» Si sdraiò sulla pancia reggendosi il mento con le mani. «Allora te lo dico io che cosa mi piace in te...» La sua voce era colma di riconoscenza, non per me ma per la vita, le sue sorprese e le sue gioie. Aveva sempre creduto in queste promesse e quella notte le aveva dato ragione. «Amo i tuoi riccioli», disse infilandomi un dito tra i capelli. «Sembrano sempre umidi, come piccoli ricordi di pioggia.» Mi fece scorrere l'indice
sotto gli occhi. «Amo le tue occhiaie, che assomigliano alle ombre dei tuoi pensieri. Il tuo viso, così allungato. I tuoi polsi, le tue clavicole, le tue anche, che fanno male ma sono al tempo stesso così morbide e dolci...» Toccava ogni parte, come per assicurarsi che tutto fosse in ordine. «Amo il tuo corpo, Mathieu. Voglio dire, la sua vita, il suo movimento. Il modo in cui esprimi i tuoi sentimenti con i gesti. Come alzi bruscamente una spalla in segno di incertezza. Come ti sorreggi il mento con due dita per dare un sostegno alle tue parole. Come ti siedi, esausto, pronto ad addormentarti, e al tempo stesso scalpitante, teso come un arco. Amo come ti accendi le sigarette con il tuo grosso accendino, la sigaretta tra le tue dita così sottili... Sembra quasi che tutto s'infiammi: la mano, il braccio, il viso...» Manon continuò, accarezzandomi le tempie: «Amo tutti questi scatti, queste rotture, questi fremiti. Sembra che ti costi sempre una grande fatica trovare il tuo posto in questo mondo. Ci entri sempre all'ultimo momento, troppo veloce, troppo brutalmente. Senza mai essere sicuro di quello che fai... Non prenderla male, Mathieu, ma in te c'è qualcosa di femminile. È per questo, credo, che stasera con te ho provato tanto piacere. Conoscevi d'istinto i miei piccoli segreti, i miei punti sensibili... Per te era un terreno familiare, quello che si è rivelato a poco a poco sotto le tue dita...». Scoppiò a ridere, prendendomi la mano e accarezzandomela. «Non fare quella faccia! Ti sto facendo dei complimenti!» E aggiunse poi in tono confidenziale: «Sento anche una distanza, un rispetto, quasi una paura di me che mi procura un piacere... irresistibile. Tu sei un maschio, Mathieu, su questo non c'è alcun dubbio. Ma hai una complessità che mi fa venire i brividi dalla testa ai piedi. Tu riunisci in te tanti contrari! Caldo, freddo, solido, instabile, volitivo, timido, maschile, femminile...». Sentii di nuovo il freddo. Mi era difficile convincermi che l'estraneo che descriveva ero io. Mi passò un braccio attorno al collo e mi baciò. «Ma soprattutto, in fondo a te c'è un nocciolo che ti rode e che ti dà una realtà, una presenza che non ho mai incontrato in nessun altro.» «Nemmeno in Luc?» La domanda mi era sfuggita dalle labbra. Lei si raddrizzò. «Perché mi parli di Luc?» «Non lo so. L'hai conosciuto, no? È venuto qui?» «È rimasto parecchi giorni. Non ti assomigliava. Molto meno solido.» «Meno solido, Luc?»
«Aveva l'aria determinata, ma in lui non c'era nessun punto forte, nessun fondamento. Era in caduta libera. Tu, invece, sei aggrappato a non so quale filo...» «C'è stato qualcosa tra di voi?» Nuova risata. «Che idee ti fai? Non c'era posto per l'amore in lui. Non quel tipo di amore, in ogni caso.» «Non è questo che ti chiedo. Tu hai provato qualcosa per Luc?» Mi scompigliò i capelli. «Sei geloso?» Appoggiò la testa nell'incavo della mia spalla. «No. Non mi sarebbe mai passato per la mente. Luc era su un altro pianeta. Diceva di amarmi, ma suonava falso.» «Lo diceva davvero?» «Continuava a ripeterlo. Dichiarazioni selvagge. Ma io non gli credevo.» Un lampo mi attraversò la mente. Una possibilità che non mi aveva mai sfiorato. Un suicidio d'amore. Luc aveva perso la testa per Manon. E per lei aveva voluto suicidarsi. Si era annientato perché una ragazza gli aveva detto di no. Luc aveva amato Manon con tutta la passione del fanatico, e lei lo aveva respinto con una risata, precipitandolo nell'inferno. «Come puoi essere così sicura di te?» le chiesi in tono brusco. «Magari Luc ti amava alla follia.» «Perché ne parli al passato?» Non le risposi. Avevo commesso un errore. Quello che ci si aspetta da un sospetto, nel cuore della notte, durante l'interrogatorio. Manon mi guardò con espressione grave. «Che cosa è successo? Mi hai detto che Luc era stato trasferito.» «Ti ho mentito.» «Gli è successo qualcosa?» «Ha cercato di uccidersi. Due settimane fa. Si è salvato, ma è in coma.» Manon si mise in ginocchio di fronte a me. «Come? Come ha cercato di uccidersi?» Le diedi i particolari. Il tuffo nel fiume, la cintura di sassi, il salvataggio, l'uso della macchina per le trasfusioni. Come lei. Calò il silenzio. Poi Manon si alzò, nuda, e scrutò nella notte dalla finestra, la fronte appoggiata contro il vetro. Volgendomi le spalle, mormorò in tono costernato: «Sei il poliziotto più stupido che abbia mai conosciuto». Agostina Gedda mi aveva già detto qualcosa del genere. Avrei finito per
convincermene... Ma qualcosa non reggeva nella sua affermazione. Mi aspettavo una sfuriata per non aver detto la verità. Non quel tono deluso. «Avrei dovuto parlartene prima, lo so, ma...» ribattei. «Luc non voleva suicidarsi», fece lei voltandosi e avanzando verso di me con sguardo furioso. «Come cazzo hai fatto a non averlo capito?» «Che cosa?» «Non voleva suicidarsi. Ha ricreato punto per punto le circostanze del mio annegamento!» Non capivo che cosa volesse dire. Sempre in piedi, mi afferrò con violenza i capelli. «Non capisci? È sprofondato volontariamente nel coma per vedere quello che ho visto io! Ha cercato di provocare un'esperienza di pre-morte nella speranza che fosse negativa!» Non dissi nulla, rimasi ad ascoltare il rumore che facevano le tessere del mosaico ricomponendosi nella mia mente. Dopo pochi secondi furono tutte al loro posto. E seppi che Manon aveva ragione. Sporgendosi verso di me, lei urlò: «E tu pretendi di conoscerlo? Di essere il suo migliore amico? Merda, non hai proprio capito niente. Luc è un fanatico. Era pronto a tutto per ottenere le risposte alle sue domande. Ha proseguito la sua indagine nell'aldilà! Si è ucciso per vedere anche lui il diavolo!». Ogni parola era come un'esplosione di lava. Ogni pensiero, un palo nel cuore. Non riuscivo più a parlare, e d'altronde non c'era nulla da dire. In una frazione di secondo Manon aveva trovato la risposta alla domanda che mi assillava da due settimane. «Ho trovato la gola», aveva detto Luc a Laure. Significava che aveva trovato il passaggio, il modo per entrare in contatto con il demonio. Entrare in coma per scendere nel Limbo! Luc era partito alla ricerca del diavolo, negli abissi dell'inconscio umano. 91 Fuori aveva ricominciato a piovere. Attraverso il lucernario osservavo i filamenti di luna che colavano sul vetro, assecondandone le impurità, attorniandone le bolle, scivolando come zucchero fuso. Un'altra sigaretta. Camminavo mentalmente sull'orlo del vuoto, ma a ogni nuovo pensiero la terra si consolidava sotto i miei piedi.
Gli elementi si rimettevano al loro posto. Luc aveva organizzato tutto per sprofondare nel coma. Aveva riprodotto tutte le circostanze dell'annegamento di Manon non per morire ma per sopravvivere. Si era zavorrato calcolando il proprio peso per sprofondare più rapidamente e abbassare subito la temperatura del corpo. Aveva aperto la chiusa per essere trasportato dalla corrente contro le rocce e restarvi intrappolato. Ma aveva avuto cura di tuffarsi cinque minuti prima dell'arrivo del giardiniere. Giusto il tempo necessario per morire. C'era un altro dettaglio nel suo piano. Il medico di Chartres mi aveva detto che quel giorno il SAMU si trovava casualmente nella regione. Una chiamata senza seguito aveva convocato l'équipe. Era stato Luc stesso a chiamarli. Per essere trasportato più rapidamente all'ospedale. E non uno qualsiasi: l'Hôtel-Dieu di Chartres, attrezzato con un'apparecchiatura bypass in grado di riscaldargli il sangue e salvargli la vita. Esattamente come Manon nel 1988. Luc non aveva alcuna certezza di fare un'esperienza di premorte. E tanto meno negativa. Ma ammesso che fosse riuscito ad attraversare la morte, voleva attraversarla nell'angoscia e nelle tenebre. Ecco perché si era premurato di invocare il diavolo. Ecco perché Laure aveva trovato quegli oggetti di culto satanico a Vernay. Prima di annegarsi, Luc aveva dato appuntamento al diavolo nelle profondità del Limbo! Ma a dispetto di tanta determinazione, doveva essere divorato dall'angoscia. Allora aveva voluto dotarsi di un'arma. Anche se simbolica. Era questa la spiegazione della medaglia di san Michele che stringeva in pugno. Luc non temeva di andare all'inferno, aveva scelto lui quella destinazione. Sperava però di uscirne indenne, senza subire danni spirituali, grazie all'effigie dell'Arcangelo. Sembrava ridicolo, ma non potevo più giudicare il progetto folle di Luc. Il rosso aveva corso un rischio inaudito. Fisico, certo, ma anche psichico. Quello che era possibile per una ragazzina non lo era più per un adulto. Secondo Moritz Beltreïn, Manon ne era uscita senza conseguenze grazie alla sua età e alla mobilità geografica del suo cervello. Luc, a trentacinque anni, ne sarebbe uscito anche lui indenne? Si sarebbe risvegliato, un giorno? Il suo fanatismo era agghiacciante. Ma era la coerenza del suo destino a sorprendermi ancora di più. Aveva sempre voluto vedere il diavolo, provare al mondo la sua esistenza. E aveva dedicato tutta la vita al raggiungimento di questo obiettivo: il tuffo volontario negli abissi e la riemersione
con le prove in mano. Un'altra sigaretta. Le cinque del mattino. Manon si era addormentata. Nonostante la sua collera nei miei confronti. Nonostante la sua disperazione per Luc. Nonostante l'ansia crescente per il suo stesso destino. Perché Luc, dalla sua camera d'ospedale, aveva ridato fuoco alle polveri. Se un uomo era capace di un simile sacrificio, questo non dimostrava forse che c'era una realtà da scoprire? Che Manon stessa aveva visto qualcosa in fondo alla «gola»? Aspettavo le sei per chiamare Laure. L'ora delle perquisizioni. Un vecchio riflesso da poliziotto. Era da quattro giorni che non la chiamavo e adesso, all'improvviso, avevo un insopprimibile bisogno di avere notizie. Non c'era ragione di credere che ci fossero state delle evoluzioni, ma il coma di Luc aveva cambiato natura. Dovevo parlare con Laure, con i medici, gli esperti... Fissai il quadrante dell'orologio osservando scorrere i minuti. Le sei, finalmente. Dopo cinque squilli mi rispose una voce assonnata. «Laure? Mathieu.» «Dove sei?» farfugliò lei. «È da tre giorni che ti chiamo.» «Mi spiace. È colpa del cellulare. Sono all'estero. Io...» «Mat...» fece lei con un sospiro. «È incredibile... Si è risvegliato!» Ci misi un secondo ad assimilare la notizia. Né Foucault né Svendsen ne erano al corrente. Altrimenti me ne avrebbero parlato. Gli eventi stavano precipitando. Ma anziché essere contento per la sua guarigione, provavo un oscuro presentimento, prevedendo il peggio. Delle lesioni irreversibili. Luc ridotto allo stato vegetale. «Come sta?» domandai in tono neutro. «Benissimo.» «Non ci sono conseguenze?» «No, nessuna conseguenza.» Il suo tono aveva un che di reticente. «Qual è il problema?» «Dice che... ha visto qualcosa. Mentre era in coma.» Sentii il ghiaccio sotto la pelle, che mi bruciava i nervi e mi bloccava le membra. Conoscevo il seguito, ma rischiai: «Che cosa?». «Vieni. Vuole parlartene lui stesso.»
«Arriverò questa sera.» Spensi il telefono e svegliai dolcemente Manon. Le spiegai la situazione. Come me, non ebbe il tempo di gioirne. Un'altra minaccia stava già incombendo: la presenza del diavolo nella mente di Luc. Se pensava di aver visto l'inferno avrebbe concluso che nel 1988 Manon aveva visto la stessa cosa. E tutt'a un tratto lei sarebbe diventata una Senza Luce. Sospettata numero uno dell'omicidio della madre. Manon accese la lampada e afferrò i vestiti. Notai tracce di iniezioni sulle sue braccia. «Che cosa sono quei segni?» «Niente.» Si infilò slip e reggiseno. Le presi un braccio e guardai meglio. «Sono i medici», disse lei divincolandosi. «Mi fanno dei prelievi.» «Ci sono dei medici, qui?» «No. Vengono da fuori. Mi controllano ogni giorno.» «Ti hanno fatto altre analisi?» «Sono andata più volte all'ospedale», disse infilandosi la maglietta. «Hai subito degli esami?» «Biopsie, TAC. Non ne ho capito molto. Vogliono che sia in gran forma», disse sorridendo. Prevedere sempre il peggio, per evitare le brutte sorprese. Quello che avevo sospettato fin dall'inizio trovava ora conferma. Zamorski mi aveva mentito. Lui e la sua cricca non proteggevano Manon: la studiavano come una volgare cavia, persuasi che fosse posseduta fino alla radice dei capelli. Una creatura malefica, fisicamente diversa dagli altri esseri umani. Avevo voglia di vomitare. Con la sua aria rilassata e le sue tirate da vecchio guerriero, il nunzio si era preso gioco di me. Era esattamente come van Dieterling. Credeva ai Senza Luce e alla presenza del demonio in fondo all'anima umana. Era certo che Manon fosse una Sine Luce. Forse addirittura l'Anticristo in persona! Afferrai il telefono fisso sul comodino. Svitai il ricevitore e trovai un microfono. Sollevai l'abat-jour e lo voltai: un'altra pulce. Per poco non scoppiai a ridere: eravamo in piena farsa. Orientai la lampada verso il soffitto e in un angolo scorsi l'occhio di una microcamera a infrarossi. Pensai alla notte d'amore che avevamo trascorso sotto lo sguardo attento dei prelati. In un accesso di rabbia, scagliai la lampada a terra. «Che ti succede?» Impossibile rispondere. La saliva mi restava bloccata in gola. Mi infilai
camicia, pantaloni e pullover. Il tempo di calzare le Sebago ed ero già fuori, nella galleria. Mi precipitai nella mia cella. Nella corte la pioggia picchiettava incessante, rimbalzando sulle pietre e sui tetti. Nemmeno quel diluvio avrebbe potuto lavare la merda che regnava nel convento. Entrai in camera, presi la pistola e uscii di nuovo. Immaginavo dove fosse l'ufficio del nunzio e speravo di trovarlo già al lavoro. Scendendo al piano inferiore, percepii attraverso il fragore della pioggia un rumore di attività nell'ala opposta: le benedettine si stavano preparando per l'Angelus. Entrai senza bussare. Zamorski era seduto alla scrivania, chino sul computer, gli occhiali sul naso. Attorno a lui, sugli scaffali, reliquiari di ogni tipo: cofanetti d'argento cesellato, coppe di rame... «Che cosa state facendo a Manon?» Il nunzio si tolse lentamente gli occhiali senza manifestare alcuna sorpresa. «La proteggiamo.» «Con scanner e microfoni?» «La proteggiamo da sé stessa.» Chiusi la porta con un colpo di tacco e avanzai di qualche passo. «Avete sempre pensato che fosse posseduta.» «È un'eventualità che non possiamo escludere.» «L'avete trasformata in un topo da laboratorio.» «Manon è un caso unico.» La flemma di Zamorski era impenetrabile. «Siediti. Ci sono ancora alcune cose che devo spiegarti.» Non mi mossi. Il nunzio assunse un tono stanco, accuratamente calcolato. «Siamo costretti a mantenere questa... veglia fisiologica.» Scoppiai a ridere. «Che cos'è che cercate? Un 666 tatuato?» «Stai fingendo di non capire. Manon è il marchio del diavolo. Ogni battito del suo cuore è un atto del demonio. Ogni secondo della sua vita è un dono di Satana. Nel mondo di Dio Manon dovrebbe essere morta! È un'aberrazione secondo le leggi di Nostro Signore.» Le parole di Bucholz a proposito di Agostina: «La prova fisica dell'esistenza del diavolo». «Manon è una miracolata dal diavolo», confermò Zamorski. «È entrata
in contatto con lui mentre era in coma. È stata salvata da lui e ha ricevuto i suoi ordini.» «Pensa dunque che abbia ucciso sua madre?» «Senza alcun dubbio. E ha fatto tutto da sola.» «Merda!» esclamai, quasi ridendo. «Lei parlava di un ispiratore, di qualcuno che agisce nell'ombra.» «Ho detto così per non spaventarti, ma c'è un unico ispiratore: il diavolo.» Provai una stanchezza infinita. Mi lasciai cadere sulla sedia davanti alla scrivania, con la pistola tra le gambe. «Conosco bene il dossier. Manon non sarebbe stata capace di commettere un crimine come quello. L'assassino è un chimico. Un entomologo. Un botanico. Nemmeno Agostina può esserne stata capace, e la sua ammissione di colpa non regge. Ma nel caso di Manon è ancora più assurdo!» Il polacco sorrise di nuovo. Strinsi le dita attorno al calcio della Clock. Il solo contatto fisico con l'arma mi placava i nervi. Il nunzio si alzò e girò attorno alla scrivania. «Non lo conosci poi così bene il tuo dossier», disse assumendo un tono compassionevole. «Biologia, chimica, entomologia, botanica sono proprio le materie che Manon ha studiato alla facoltà di Losanna. Verrebbe quasi da pensare che le abbia scelte in funzione del suo crimine.» In qualità di poliziotto, queste informazioni avrebbero dovuto destare il mio interesse, ma la spossatezza mi aveva rammollito il cervello. La voce del prelato mi giungeva ora ovattata, sempre su quel suo tono confortante. «Non abbiamo alcuna certezza. Ma dobbiamo sorvegliarla.» «Crede quindi al diavolo? Alla sua realtà... fisica?» «Certo. È l'antiforza, Mathieu. Il lato oscuro dell'universo. Tu pensi di essere un cattolico moderno, ma sei pieno dei pregiudizi del secolo scorso. Il secolo delle scienze! Credi che si possano risolvere questi problemi con una terapia psichiatrica o chimica. Vedi solo la superficie delle cose. Ricorda le parole di Paolo VI: "Il male non è più soltanto una deficienza, è l'opera di un essere vivente, spirituale, pervertito e pervertitore". Sì, Mathieu, il diavolo esiste. E ha ridato la vita a Manon. La vita che Dio le aveva tolto.» «Ma perché tutte quelle analisi, quei prelievi?» «Se il diavolo è un'infezione, come ci insegna la fede, allora Manon reca la traccia della malattia. Manon è totalmente infettata.» «Che cosa cercate?» chiesi sogghignando. «Un vaccino?»
Zamorski mi posò una mano sulla spalla. «Non scherzare su queste cose. Manon, Agostina, Raïmo sono alla convergenza di due mondi: quello fisico e quello spirituale. Uno spirito è venuto in soccorso dei loro corpi. E i loro corpi recano ora il segno di questo spirito. Lo spirito nero della Bestia. E in Manon c'è il ceppo del Male!» Mi alzai. Avevo sentito abbastanza. Mi diressi verso la porta. «Si è sbagliato di secolo, Zamorski. Lei doveva nascere sotto l'Inquisizione.» Con sorprendente rapidità il nunzio mi aggirò e si piantò davanti a me. «Che cosa hai intenzione di fare?» «Manon e io ce ne andiamo. Rientriamo in Francia. E non cercate di trattenerci.» «Manon sa qualcosa», disse il polacco impallidendo. «E deve dircelo.» «Lei non sa nulla. Non ricorda niente.» «Il messaggio è in fondo alla sua anima.» «Quale messaggio?» «Il Giuramento del Limbo.» «Siete dunque arrivati a questo punto? Cercate la stessa cosa che cercano gli Asserviti?» «Il patto esiste. Dobbiamo conoscerne il contenuto. A qualsiasi costo!» replicò alzando la voce. «È per questo che mi avete fatto venire qui?» Il nunzio sorrise, recuperando il suo sangue freddo. «Manon non ha mai avuto fiducia in noi. Abbiamo allora pensato che un giovane venuto dalla Francia... E abbiamo avuto ragione. Dopo questa notte...» Mi sentii arrossire. Immaginai i preti nelle loro tonache che si lustravano la vista seguendo la nostra performance sui monitor. «Manon ha fiducia in me, è vero», dissi girando la maniglia. «Ma mi servirò di questa fiducia per sottrarla alle vostre grinfie!» «Se uscirai di qui non potrò più fare niente per te.» «Sono abbastanza grande per cavarmela da solo.» «Tu non sai niente. Non immagini i pericoli che vi attendono là fuori.» «Oggi siamo rimasti in città fino a tardi e non ci è successo nulla.» Zamorski ritornò alla sua scrivania e prese un giornale polacco, l'edizione del giorno prima della «Gazeta Wyborcza». In prima pagina c'era la fotografia di un cadavere immerso in un lago di sangue, su un marciapiede. «Non leggo il polacco.» «"Nuovo omicidio rituale a Cracovia." Il quinto barbone ucciso in meno
di un mese. Divorato dai cani. Sul marciapiede, un pentagramma disegnato con le sue viscere. Senza contare i due cadaveri di bambini trisomici ripescati della Vistola la settimana scorsa. L'autopsia ha confermato che erano stati costretti a violentarsi a vicenda.» «Vuole forse farmi paura?» «Sono qui, Mathieu. Sono venuti a cercare Manon. Possono essere i barboni là fuori o dei preti che pregano nella chiesa vicina. Sono dappertutto. Aspettano il loro momento.» «Vado a sfidare la mia sorte. La nostra sorte.» «Non hanno nulla a che vedere con gli assassini che insegui di solito. Loro sono dei soldati, capisci? Gli eredi di secoli di abomini. La versione moderna dei demoni che accompagnano Satana sulle facciate delle cattedrali.» Gli feci vedere la mia automatica. «Anch'io ho degli argomenti moderni.» «Ti scongiuro, non uscire di qui.» «Torno a Parigi. Con Manon. E non cerchi di impedircelo. Potrei andare all'ambasciata e accusarla di rapimento, sequestro di persona, abuso di potere. Riprenderò la mia indagine. È quello che voleva, no?» «E lei?» «Starà a casa mia.» Zamorski scosse lentamente la testa. «Ti sei cacciato in un bel pasticcio, Mathieu... Contro il diavolo avevi previsto tutto. Tranne l'amore.» Aprii la porta guardandolo torvamente. «Non lascerò che la usiate. L'avete trasformata in una cavia da laboratorio. Un'esca per gli Asserviti, o forse addirittura per il diavolo in persona... Sperate che Satana si risvegli all'interno del suo corpo. Siete pronti a tutto per provocare questa venuta. Ho conosciuto dei poliziotti come voi. Poliziotti capaci del peggio in nome del meglio. Poliziotti che si credevano al di sopra della legge, al di sopra di Dio.» «Non essere blasfemo.» «Continuerò il mio lavoro, Zamorski. A modo mio. Senza menzogne né manipolazioni.» Il nunzio si scostò di malavoglia. «Se mi attenessi a questi princìpi mi accontenterei di pregare per te e Manon. Ma vi proteggeremo, vostro malgrado.» «Non ho bisogno di nessuno.» «In tempo di pace, forse. Ma la guerra è cominciata.»
92 Mezzogiorno. E il giorno non era ancora sorto. Una spessa bruma incombeva sulla città. Le strade non esistevano più. Gli edifici sembravano masse minerali, montagne le cui vette bucavano le nuvole, come nelle stampe cinesi. Alcuni rami bassi scintillavano di umidità, ma i loro contorni si perdevano nel vapore madreperlaceo. Tutto era deserto. Cracovia si era svuotata. Solo qualche auto scivolava nella nebbia per poi subito svanire come un vascello fantasma. Non avevo previsto questo. Lasciavamo un'oppressione per un'altra. Il portone di Scholastyka si chiuse pesantemente alle nostre spalle. Strinsi la mano di Manon e avanzai con lei sul marciapiede. Portava con sé un bagaglio leggero. Lanciai un'occhiata a sinistra, poi a destra. Non si vedeva a più di tre metri di distanza. Abbozzai qualche passo esitante. Il mondo non era soltanto scomparso: la nebbia ci sommergeva per cancellarci a nostra volta... Credetti di ricordare. Scendendo a sinistra e prendendo la via Sienna, avremmo incrociato il viale Sw. Gertrudy, dove avremmo trovato un taxi. I nostri passi risuonavano sul marciapiede. L'umidità conferiva loro una sorta di brillantezza sonora. Camminavamo in silenzio. Come se la minima parola potesse scatenare le nostre paure. I palazzi parevano essersi disancorati e avanzare con noi, lacerando lentamente le creste d'argento come dei frangighiaccio. Passò un'auto. Ci scostammo appena in tempo. Senza rendercene conto, stavamo camminando in mezzo alla strada. Il veicolo ci superò, al rallentatore. Sentii i suoi tergicristallo scandire la cadenza, ciac ciac ciac... poi svanì. Riprendemmo il cammino. Il velo di garza si apriva con reticenza e subito si richiudeva sui nostri passi. Non ero più nemmeno sicuro di essere sulla via Sienna. Impossibile leggere le targhe con i nomi delle strade. L'unica traccia che riuscivo a seguire era la linea dei riverberi. Le luci accese ad alcune finestre perforavano l'opacità delle facciate. Immaginai cucine calde dove si preparava il pasto di mezzogiorno e mi sentii ancora più solo. Mi sforzai di ricordare. Tra poco avremmo superato via Mikokajska, alla nostra sinistra, che descriveva un'ampia curva. Speravo di scorgere le insegne luminose che mi avrebbero confermato di essere sulla strada giusta, ma non vidi nulla.
All'improvviso la nebbia diventò più fitta e più fredda. Eravamo ancora sulla strada? Un odore di terra umida mi invase le narici. Non eravamo più sulla via Sienna. Forse non ci eravamo mai stati... Cercai ancora di ricordare, disegnando mentalmente la pianta del quartiere. Allora capii. Il Planty. Il parco che cinge la città vecchia. Avevo sbagliato strada fin dall'inizio. Me lo confermò lo scricchiolio della ghiaia sotto le suole delle scarpe. Gli alberi disegnavano linee fantomatiche, sospese, senza radici. Apparvero anche delle braccia, delle teste nere: le sculture dei giardini. Avevo voglia di urlare. Eravamo soli, persi, completamente vulnerabili. «Che cosa succede?» sussurrò la voce di Manon vicino al mio orecchio. Non ebbi il coraggio di mentirle. «Siamo nel Planty. Il parco.» «Ma dove esattamente?» «Non lo so. Se lo attraversiamo possiamo raggiungere il viale Sw. Gertrudy.» «Ma se non sappiamo nemmeno dove siamo?» Le strinsi le dita senza rispondere. All'improvviso vidi dei lampioni fluttuare nell'aria. Un viale. Mi sforzai di assumere un passo più sicuro, per riconfortare Manon che tremava tutta sotto il giubbotto. Più che camminare, mi sembrava di nuotare... Non smettevo di voltarmi a destra e a sinistra, strizzando gli occhi, ma continuavo a non vedere nulla. Per contrasto, il mio udito si era fatto più acuto. Mi sembrava di sentire le gocce che si condensavano lungo i rami, il crepitare del ghiaccio sulle statue e il sordo rumore della terra gelata sotto i nostri piedi. Tutt'a un tratto, un altro rumore, molto più presente. Uno scricchiolio di ghiaia. Mi bloccai e misi la mano sulla bocca di Manon. Il rumore cessò. Ripetei l'esperimento. Due passi e poi fermo. Il rumore riprese e cessò di nuovo. Sembrava un'eco, ma era troppo vicino per i miei gusti... Sfoderai la pistola. Non c'erano che due possibilità. Gli uomini di Zamorski o gli Asserviti. Tolsi lentamente la sicura della Clock, propendendo per i satanisti. Sorvegliavano le entrate e le uscite del «loro» monastero, e ora il loro momento era arrivato. Manon, la preda che inseguivano da settimane, si era persa insieme a uno sconosciuto in un parco immerso nella nebbia.
La pistola mi tremava nel palmo. Non riuscivo a ritrovare il sangue freddo che mi aveva fino ad allora salvato nelle peggiori situazioni. Forse era la stanchezza. O la presenza di Manon... O quella città estranea e invisibile... I miei pensieri diventarono caotici. Sparare alla cieca in direzione dei passi? Non ero nemmeno sicuro della loro provenienza. Sparare ai lampioni per oscurare completamente il parco? Assurdo. Avremmo perso la nostra unica possibilità di orientarci. Lo scricchiolio ricominciò. Si stavano avvicinando. Mi immaginai delle creature soprannaturali con occhi infuocati. Pupille di zolfo, capaci di vedere attraverso la nebbia. Andai nella direzione che mi sembrava più lontana dai passi. Ma ormai non ero più sicuro di nulla. Stavamo ancora seguendo il viale? In lontananza fluttuava la luce di un lampione, inaccessibile. Accelerai, tendendo le mani in avanti per evitare gli ostacoli. Una sensazione di pietra fredda. Il metallo di una balaustra. Non ricordavo che ce ne fossero in quel parco. L'afferrai e la seguii febbrilmente. Il riverbero mi appariva sempre molto lontano. La ringhiera di ferro si fermò, e io con lei. Un istante dopo udii i passi, molto più vicini. Mi voltai e attraverso la nebbia vidi avanzare delle ombre, fianco a fianco. Ombre senza volto che sembravano tutt'uno con la nebbia. Sentii il cuore esplodermi in petto e per un attimo tutto mi parve perduto. Il panico mi aveva vinto. Non avevo più alcuna consistenza fisica. In quel momento i mostri avrebbero potuto vincere, ma furono troppo lenti. Mi ripresi prontamente escogitando un piano di attacco. Non c'era alcuna ragione di credere che vedessero meglio di noi. Si orientavano semplicemente attraverso il rumore dei nostri passi. L'unico vantaggio che potevano avere era quello numerico, e una migliore conoscenza del parco. Ma il nostro handicap - la mancanza di visibilità - era anche il loro. Dovevo privarli del loro unico riferimento: i rumori. Afferrai Manon e feci un salto di lato. Dopo pochi passi sentii delle foglie e poi un terreno diverso, erba o terra. Una superficie tenera, che assorbiva i rumori. Un'altra idea mi attraversò la mente. Approfittare del silenzio e avanzare verso i nostri nemici. Potevano immaginare che eravamo nascosti dietro un albero, ma non che stavamo camminando verso di loro. Risalii il prato usando la mano libera come una sonda con cui sfioravo i cespugli e accarezzavo i tronchi degli alberi. Udii di nuovo il rumore dei passi. Erano a pochi metri da noi, a sinistra. Avanzai ancora. La mia mano
toccò la corteccia di un albero. Attirai a me Manon e la misi fra me e il tronco. Lei cessò di muoversi, di respirare. Sentivo i suoi capelli ghiacciati sfiorarmi il viso. I capelli di una morta. Allora successe qualcosa. La nebbia si sollevò rivelandoci i nostri inseguitori. Per un secondo che mi parve un'eternità li potei osservare. Indossavano cappotti di pelle nera che sembravano usciti dalla Wehrmacht. Dalle maniche spuntavano falci, lame e uncini. Armi bianche che parevano innestate nella carne. Sembravano feriti di guerra passati in un'altra dimensione. Infermi trasformati in macchine per uccidere. Immaginai membra amputate, mani mozzate e sostituite con minacciosi strumenti per tagliare, squarciare, lacerare... Uno di loro indossava una maschera antigas, un altro quella dei medici del XVII secolo che curavano i malati di peste, un lungo becco nero con due buchi. Un terzo camminava a volto scoperto. La sua pelle bianca come porcellana era solcata da profonde lacerazioni. Capii subito che si era inflitto da solo quelle ferite. Vivere per e attraverso il male. La sofferenza inflitta agli altri e a sé stessi. I denti di Manon presero a battere così forte che dovetti metterle la mano sulla bocca. Rinunciai a qualsiasi strategia. Fuggire. Non importava dove, purché lontano da quell'incubo. Lasciai il nascondiglio, mi guardai attorno, poi presi la mano di Manon. Lei mi trattenne e mi sfiorò la guancia. Mi girai per incoraggiarla con lo sguardo e mi accorsi che non era stata lei a toccarmi. Un Asservito mi stringeva le dita e mi accarezzava lentamente il volto con un uncino di ferro, come per testarne la morbidezza. In una frazione di secondo i particolari si sovrapposero. Vidi tutto. I suoi lunghi capelli. Le cicatrici. L'apparecchio respiratorio applicato al buco dove un tempo c'era il naso. Vidi il suo braccio alzarsi. Con all'estremità l'uncino collegato a un dispositivo di cavi. Sentii il sibilo nella nebbia. Mi abbassai di scatto per schivare il colpo. Un dolore mi attraversò, partendo dalla spalla per esplodermi nel petto. Lasciai cadere la pistola. Un sapore di ferro mi inondò la bocca. L'uncino si alzò di nuovo, mi mancò e affondò tra le foglie. Senza capire quello che facevo - ormai sentivo solo dolore - mi gettai sull'uomo colpendolo con la spalla ferita e trascinandolo a terra insieme a me. Gli afferrai con le due mani il polso, gli appoggiai sopra il ginocchio e tirai con tutte le mie forze, finché non sentii il rumore dell'osso che si spezzava.
Indietreggiai prontamente mentre l'assassino si voltava verso di me. Il suo cappotto si era aperto. Sotto, era a torso nudo. La pelle del petto era così sottile e abrasa da essere trasparente. Distinguevo nettamente il suo cuore che batteva attraverso quella pelle da pesce. Mi tuffai tra il fogliame e trovai l'uncino che era schizzato via, con tutti i suoi cavi. Lo afferrai, ferendomi il palmo, e mi girai. Il mostro stava tornando all'attacco, brandendo nella sinistra un altro uncino. Si gettò su di me. Gli sferrai un poderoso calcio alle gambe. L'Asservito barcollò. Brandii l'uncino e mirai al cuore chiudendo gli occhi. Il metallo penetrò nella sua carne. Sentii il suo cuore spaccarsi. Il sangue mi schizzò addosso. Sollevai le palpebre e vidi la creatura a pochi centimetri da me. La maschera gli era caduta, rivelando l'orrendo buco che si apriva al posto del naso e le fenditure che gli segnavano l'intera faccia. Mi morsi le labbra per non urlare e rotolai di lato. Il mostro si raggomitolò, sussultando negli spasmi dell'agonia. Manon, rannicchiata contro un albero, aveva gli occhi fuori dalle orbite. Mi precipitai verso di lei e la strinsi forte, sentendo il dolore invadermi come un'arborescenza di fuoco. Tutt'a un tratto udii lo scricchiolio della ghiaia allontanarsi. Gli Asserviti non avevano visto né udito nulla e continuavano la loro perlustrazione! La Glock mi era caduta a terra. Tastai l'erba finché non la ritrovai. La rimisi in tasca e mi guardai attorno. Nessuno. Avevamo vinto. Ma non ebbi il tempo di assaporare quella vittoria. Altri passi si stavano avvicinando e intravidi, come fuochi fatui incerti, dei colletti bianchi avanzare nell'oscurità. I preti. Gli uomini di Zamorski che ci cercavano nel parco. Nello stesso istante i fari di un'auto fendettero la nebbia. Eravamo quindi a pochi metri da una via cittadina. Una vera strada con vere auto! Afferrai Manon per il braccio e attraversai i cespugli che ci separavano dal mondo umano e reale. Le foglie si richiusero alle nostre spalle mentre immaginavo la feroce battaglia che si sarebbe combattuta nel Planty. Satanisti contro Soldati di Dio. L'Apocalisse secondo Zamorski. 93 Vivere con i propri morti.
Avevo un bel ripetermi le parole di Zamorski: «È finito al centro di un'autentica guerra»; era una ben magra consolazione. Chi mi avrebbe assolto per tutto il sangue versato? Quando sarebbe finito quel massacro? t Eravamo nella sala VIP dell'aeroporto di Cracovia. Una denominazione altisonante per uno spazio piuttosto lugubre. Luci anemiche, sedili sdruciti, vetri sporchi con vista sulla pista d'atterraggio crepata... Il locale era tuttavia confortante. Tutto lo sarebbe stato dopo quello che avevamo vissuto. Un volo per Francoforte decollava verso le tre. Corrispondenza per Parigi, arrivo al Charles-de-Gaulle alle sette. Quando la hostess mi aveva fornito queste precisazioni per poco non l'avevo abbracciata. La sue parole per me avevano tutto un altro significato: saremmo riusciti a fuggire! Stretta tra le mie braccia, Manon era prostrata. Come i miei, anche i suoi vestiti erano ancora zuppi di nebbia. Quell'umidità ci si era incollata addosso insieme alla nostra angoscia. Chiusi gli occhi e sprofondai in un benefico torpore, sentendo ancora nelle vene gli effetti dell'anestetico. Mentre ci stavamo dirigendo all'aeroporto in taxi, avevamo trovato un dottore che aveva medicato la mia spalla. La lama era penetrata fino alla clavicola, ma senza romperla o tagliare il muscolo. Dopo un'iniezione antitetanica - gli avevo raccontato di essere caduto su una macchina agricola il medico aveva chiuso la ferita con dei punti di sutura e mi aveva fasciato tutto il torso. Secondo lui non c'era da temere alcuna complicazione. Una sola raccomandazione: riposo assoluto. Avevo annuito, pensando a Parigi e a quello che mi attendeva. Mi sentivo sollevato anche perché avevo la convinzione che il problema degli Asserviti fosse risolto. Avrebbero potuto seguirci, ma ormai era troppo tardi. Manon adesso era sotto la mia protezione. E presto nel mio territorio. A Parigi sarebbe stata sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro dai miei uomini, poliziotti agguerriti capaci di affrontare quegli invasati con le loro protesi omicide e persino, perché no?, di sbatterli in cella. I miei pensieri deviarono per fermarsi ancora una volta su Luc. Il suo piano. Il suo machiavellismo. La sua follia. Ero stato senza saperlo una pedina del suo gioco. Il poliziotto degno di confidenza che avrebbe raccolto le prove e ricostruito la sua storia. Sapeva che non avrei mai ammesso il suo suicidio, che avrei ripreso la sua indagine e seguito, passo dopo passo, il cammino che l'aveva portato al sacrificio. Ero il suo apostolo, il suo san Matteo che avrebbe redatto il vangelo della sua lotta contro il diavolo. Alcuni dettagli della mia ricostruzione erano cambiati. Come per esempio la medaglia dell'Arcangelo Michele. Mi ero sbagliato. Luc non l'aveva
usata per proteggersi, ma soltanto per mettermi sulla pista del demonio. Voleva che trovassi la gola e che cogliessi, più in fretta possibile, la posta in gioco della sua traversata. La sua non era stata un'indagine come le altre: aveva affrontato l'angelo delle tenebre! «Ha visto qualcosa», mi aveva detto Laure. «Signore, il suo volo è stato annunciato.» Con passo incerto, seguimmo la hostess fino alla sala delle partenze. Passaporto, foglio d'imbarco. Compimmo tutti questi gesti con la vivacità di un pugile al tappeto. Finché non ci sedemmo ai nostri posti nella cabina. Quando la hostess finì di illustrare le misure di sicurezza, eravamo già addormentati, come due viaggiatori che non vedevano un hotel da settimane. A Francoforte sembravamo ancora dei fantasmi. La sala della prima classe era nuova fiammante, piena di uomini d'affari chini sulla loro copia dell'«Herald Tribune». Schivai gli sguardi obliqui e sospettosi che ci lanciavano. Feci sedere Manon su una poltrona e partii alla ricerca di viveri. Coca-Cola, caffè, stuzzichini. Ma non toccammo né il cibo né il caffè. Bevemmo soltanto la Coca-Cola, per purificarci le budella dall'orrore che avevamo accumulato. Qualche ora dopo sorvolavamo le luci di Parigi. Mi sporsi verso l'oblò e rividi la notte, il freddo, e la nube inquinata che avvolgeva la capitale. Anche attraverso il vetro, sentivo che non era lo stesso freddo che avevo provato a Cracovia. In Polonia era una morsa permanente, una pietrificazione che sublimava ogni dettaglio, rivelandone l'essenza. A Parigi era uno strato cupo, fangoso, indifferente. Tuttavia ero felice di ritrovare quella monotonia. Quella noia cronica era il mio ecosistema naturale. Giovedì, le sette di sera. Autostrada trafficata. Pioggia battente. Aprii il finestrino del taxi e respirai a fondo. Odori di asfalto bagnato, gas di scarico, rumore di schizzi di pozzanghere. E i guidatori immobili dentro le loro macchine, come tanti fermo-immagine. Quando l'auto giunse finalmente in rue Debelleyme, fui invaso da un'angoscia da neosposo. Come avrebbe reagito Manon a questa nuova vita? Al mio appartamento? Non aveva mai messo piede a Parigi. Le magnificai la mia famosa scala a cielo aperto. Lei l'accolse con un sorriso gentile, distratto. Era sempre in stato di shock. La violenza di Cracovia aveva risvegliato la bambina terrorizzata di un tempo. Nemmeno io mi ero completamente ripreso. Tuttavia, dietro la paura e l'atrocità c'era in
me un'altra sensazione. Una febbrilità, un'eccitazione associate a uno strano torpore. L'amore? Manon si sedette sul divano in soggiorno. Le proposi un tè, lei declinò. Alcol? No. Pietrificata, fissava il suo giubbotto. Le dissi che dovevo ripartire subito per l'Hótel-Dieu. La sua reazione non mi sorprese: «Vengo con te». Era la prima volta dopo Cracovia che articolava tre parole di seguito. «Impossibile», cercai di convincerla. «Devo dare delle disposizioni ai miei uomini a Parigi. Devo proteggerti.» «Non so nemmeno dove sono.» Fui improvvisamente colto da un'infinita pietà, nel senso letterale del termine. Comunione, empatia totale con il suo dolore. La sua tristezza era la mia. Il suo smarrimento il mio. Mi inginocchiai davanti a lei e le presi le mani. «Devi fidarti di me.» Manon sorrise. Mi sentii inondare di calore. Una sorta di emorragia, sorda e deliziosa. Un deliquio dal gusto mortifero e dolciastro. «Lascia che ti protegga. Lascia che...» mormorai. Non riuscii a concludere la frase. Mi aveva preso il volto e portato la mia bocca alle sue labbra. Sentii crollare tutta la mia volontà. Il calore si liberò attraverso tutto il mio corpo. Le forze vitali mi abbandonarono e provai la sensazione più soave che avessi mai conosciuto... Due ore dopo ero diretto all'Hôtel-Dieu. Ricordi ancora vivi sotto la pelle. Manon. Le sue mani sul mio corpo. Il ritmo del mio sangue. I nostri ultimi momenti. Toccava in me punti sconosciuti, superfici insospettate. Un'agopuntura dell'amore... Luc Soubeyras era stato trasferito in un altro reparto. Non più limbi fiocamente illuminati e camici di carta. In un grande corridoio bianco ampie vetrate si aprivano su camere spaziose. All'interno i pazienti erano ancora attraversati da tubi e fili, ma sotto la luce cruda dei neon. Avanzando lungo il corridoio, tornai infine al presente. Avrei ritrovato Luc, vivo e cosciente. Quando lo vidi dietro il vetro, per poco non mi misi a urlare. Aveva sempre dei tubi nel naso, elettrodi sul collo e sulle tempie, ed era ancora più magro. Ma i suoi occhi erano aperti. Mi precipitai verso di lui e in uno slancio di entusiasmo gli presi le mani. «Vecchio mio, sono così...»
«L'ho visto.» Mi bloccai. La sua voce non era che un soffio. Sussurrò ancora: «L'ho visto, Mathieu. Ho visto il diavolo». V LUC 94 «Adesso chiuda gli occhi.» Luc era seduto, a torso nudo, su una poltrona reclinabile. Il suo cranio rasato era costellato di elettrodi che controllavano il ritmo delle onde cerebrali. Il petto cosparso di cerotti che misuravano i battiti cardiaci, la tensione muscolare, la risposta galvanica della sua pelle. «Si decontragga. Prenda lentamente coscienza di tutto il suo corpo.» Il bicipite sinistro era avvolto in un bracciale che rilevava la pressione arteriosa. Una pinza a infrarossi attorno a un dito registrava la sua risposta alla saturazione di ossigeno. Questi strumenti dovevano non solo registrare i suoi processi fisiologici, ma anche preservarlo: Luc usciva dal coma e le sue condizioni generali di salute restavano precarie. «Le sue membra si distendono. I suoi muscoli si rilasciano. Non c'è più alcuna tensione.» Qualche giorno dopo la mia visita Luc aveva chiesto di rivivere il suo viaggio psichico sotto ipnosi e davanti a testimoni. Voleva riguadagnare l'altra sponda attraverso la memoria e consegnare per iscritto tutti i particolari. Eric Thuillier, il neurologo che lo curava all'Hôtel-Dieu, si era rifiutato: troppo rischioso. Ma Luc aveva insistito e uno psichiatra di nome Pascal Zucca, caporeparto dell'ospedale di Villejuif, aveva dato parere favorevole. Secondo lui la seduta poteva essere salutare: una catarsi che avrebbe consentito a Luc di superare il trauma. Thuillier aveva capitolato. All'espressa condizione che l'esperimento si svolgesse all'Hôtel-Dieu, nel suo reparto e sotto la sua sorveglianza. «Adesso le sue mani e i suoi piedi sono più pesanti...» Era giovedì 14 novembre. Dalla cabina di controllo osservavo attraverso il vetro il mio migliore amico, bianco come un lenzuolo, circondato da tubi e cavi elettrici. Era piazzato al centro di una stanza vuota rivestita di lastre d'insonoriz-
zazione e di linoleum chiaro. Alla sua sinistra un carrello su cui erano posate ampolle, siringhe e un defibrillatore elettrico. Di fronte a lui, Pascal Zucca, camice bianco e spalle larghe, ci voltava la schiena. Curvo sulla sua sedia sembrava un allenatore di boxe che sussurra gli ultimi consigli al suo campione. La scena era ripresa da parecchie videocamere. Mi voltai verso i miei vicini che formavano una fila immobile nella cabina. Il giudice Corine Magnan si era portata dietro da Besançon tutta la sua commissione rogatoria. Al suo fianco, Eric Thuillier osservava i monitor di controllo. Un po' più in là, uno psichiatra di cui non avevo capito il nome era stato incluso dal magistrato in qualità di esperto. Esperto di cosa? La seduta era una pagliacciata. Dietro quei tre c'era Levain-Pahut, commissario di divisione degli Stups, venuto a verificare che non torturassimo uno dei suoi uomini migliori. Seduto nella penombra, il cancelliere di Magnan prendeva appunti, mentre delle infermiere armeggiavano con i monitor e le tastiere dei computer. Ma il migliore di tutti era, all'estrema destra, l'invitato speciale di Luc. «Padre Katz, prete esorcista dell'arcivescovado di Parigi, rappresentante della chiesa cattolica, apostolica e romana», si era presentato. L'uomo in nero era immerso nella lettura di un libricino rosso, il Rituale romano. Non riuscivo a credere che Luc fosse riuscito a riunirci tutti attorno al suo delirio. «I suoi piedi sprofondano nel suolo. Le sue dita si intorpidiscono...» Mi veniva da ridere, ma non era il caso. La presenza di Magnan e del suo cancelliere dimostrava che il magistrato buddhista prendeva seriamente questa testimonianza. Mi ero informato: in Francia una testimonianza sotto ipnosi non era mai stata considerata valida. Secondo la legge francese un testimone deve sempre esprimersi «nel completo possesso delle proprie facoltà», il che esclude il ricorso a un metodo di suggestione o al siero della verità. Eppure Corine Magnan era lì, e il suo scriba non si perdeva una briciola. Dal diffusore nella cabina ci giunse la voce di Zucca che mormorava: «C'è un grande peso dentro il suo corpo... Le sue membra, i suoi muscoli sono pesanti...». Luc sembrava più vulnerabile che mai. Sotto la sua pelle lentigginosa quasi trasparente pareva di vedere palpitare gli organi. Pensai al mostro del Planty con il suo cuore a vista e scacciai subito quell'immagine. «Il peso diventa luce... Una luce che inonda il suo spirito e il suo corpo... Non sente più nient'altro... Il peso, la luce la riempiono completamente...»
Luc respirava lentamente, gli occhi chiusi. Sembrava rasserenato. «La luce è azzurra. La vede?» «Sì.» «La luce azzurra è uno schermo sul quale lei proietta delle immagini, dei ricordi... Finché sentirà la mia voce, le immagini continueranno a scorrere. D'accordo?» «Sì.» Lo psichiatra lasciò passare qualche secondo e poi riprese: «Vede delle immagini?». Luc non rispose. Lo psichiatra si voltò verso la cabina e fece un segno interrogativo a Thuillier, che si rivolse a sua volta alle infermiere. Poi il neurologo disse in un microfono sulla consolle: «Siamo pronti». Zucca sentì la risposta nell'auricolare e annuì, abbassando la testa. «Adesso le vede, Luc?» Luc fece di sì con la testa, lentamente. «Seguirà la mia voce e descriverà le immagini. D'accordo?» Nuovo cenno affermativo con la testa. «Che cosa vede?» «Acqua.» «Acqua?» Nella cabina ci scambiammo degli sguardi interrogativi. Poi tutti capirono. Il fiume. Il viaggio stava cominciando. 95 «Sia più preciso.» «Sono sulla sponda di un fiume.» «Che cosa fa?» «Avanzo. Sento il peso.» «Che peso?» «Il peso dei sassi. Alla mia cintura. Entro in acqua.» Mi sembrava di provare ogni sua sensazione. Il freddo diventava una sonda nelle mie ossa. Ma era il fanatismo di Luc a darmi i brividi. Lo rivedevo sulla sua auto, nel dicembre del 2000, dopo il mio fiasco ai Lilas, che citava san Giovanni della Croce: «Muoio di non morire». Luc non aveva vissuto che per quella indagine. L'ultimo sacrificio. Il suo appuntamento
con il diavolo. «Quali sono le sue sensazioni?» «Nessuna sensazione.» «Come mai?» «Il freddo annulla tutto.» «Continui.» «Il mio corpo si dissolve nel fiume. Sto morendo.» «Segua la mia voce, Luc. Descriva la scena.» Dopo un breve silenzio Luc mormorò: «Io... io non sono più nulla». «Parli più forte.» «Il fiume viene a me. Mi sfiora la bocca. Io...» Luc si morse le labbra, come per impedire all'acqua di entrargli in gola. Nuovo silenzio. Nella cabina la tensione saliva. Ognuno di noi si era immerso in acqua con lui. «Luc, è ancora con noi?» Silenzio. «Luc?» Non si muoveva più. I suoi tratti si immobilizzavano, si pietrificavano come gesso. Zucca si rivolse a Thuillier attraverso l'auricolare: «A quanto siamo?». Il neurologo lanciò uno sguardo al Physiogard che emetteva i suoi bip come il sonar di un sottomarino. «38. Se il ritmo cardiaco non accelera fermiamo tutto.» Zucca fece un altro tentativo. «Luc, mi risponda!» Thuillier si chinò verso il microfono sulla consolle. «Siamo a 32. Ci fermiamo... Merda!» Il neurologo si precipitò verso la porta ed entrò nella stanza. Tutti gli sguardi si volsero in direzione del monitor: l'onda era ormai una linea piatta che emetteva un sibilo continuo. Luc aveva vissuto mentalmente la sua morte... al punto di morire un'altra volta. Le infermiere erano già alle spalle di Thuillier. Tutti si indaffaravano attorno al carrello. «Adrenalina. 200 milligrammi», ordinò il neurologo inclinando la poltrona di Luc. Zucca era ancora chino su Luc. «Mi risponda, Luc. Segua la mia voce.» Nella cabina l'elettrocardiogramma fischiava come una pentola a pres-
sione. I fruscii dei camici ci giungevano amplificati dai microfoni. Eravamo anche noi in piena agitazione, senza sapere cosa fare. «LUC! MI RISPONDA!» urlò Zucca. Thuillier lo scostò con una spallata. «Togliti di mezzo. L'iniezione, presto!» Un'infermiera mise in mano al medico una siringa e poi voltarono Luc, il cui torso sembrava duro come un tronco d'albero. Un'altra donna brandiva le ventose del defibrillatore. Thuillier imprecò sottovoce: «Puttana merda... Sta per morirci tra le mani». Zucca, di nuovo chino su Luc, gli stringeva i polsi. «LUC! MI RISPONDA!» «Sono qui.» Tutti si immobilizzarono. Zucca curvo sulla poltrona; Thuillier con la siringa in mano; le infermiere con il defibrillatore. Nella cabina si sentì di nuovo il bip dell'elettrocardiogramma. «Luc... mi sente?» balbettò l'ipnotizzatore. Lui non rispose subito. La sua testa si era rovesciata all'indietro, gli occhi erano chiusi e la parte inferiore del volto era ancora pietrificata. Il vero Luc era altrove, quella che vedevamo era solo un'ombra. Una voce cavernosa disse: «La sento». Zucca fece segno a Thuillier di tornare nella cabina. Il neurologo ubbidì a malincuore. Le infermiere posarono silenziosamente il materiale sul carrello e lo imitarono. Ognuno riprese il suo posto nella cabina. Il cerchio dell'ipnosi si era di nuovo formato. Lo psichiatra rialzò con delicatezza lo schienale di Luc e tornò a sedersi sulla sedia davanti a lui. «Dov'è, Luc? Dov'è... adesso?» «Ho lasciato il mio corpo.» Il timbro della sua voce era remoto, sinistro. Zucca non riprese la parola. Stava raccogliendo le idee, traendo le nostre stesse conclusioni. L'esperienza della pre-morte stava cominciando. «Che cosa vede?» «Me stesso. In fondo all'acqua. Sto andando alla deriva verso una roccia.» «Quali sono le sue sensazioni? Voglio dire le sensazioni di colui che è fuori del suo corpo?» «Fluttuo. In assenza di gravità. Vedo una luce.» «La descriva.»
«Bianca. Larga. Immensa.» Nella cabina si diffuse una sensazione di sollievo. La luce: il classico segno di un'allucinazione. L'incubo ci sarebbe stato risparmiato. Ma Luc si raddrizzò. «È sparita... Io... Non è più che un puntino... Una capocchia di spillo... In fondo a un tunnel... Sono io che mi allontano a tutta velocità... Io...» Emise una specie di rantolo. La sua voce si spezzò. «Mi allontano... È tutto nero... Io... No, aspetti...» Deglutì a fatica. Girò la testa a destra e a sinistra cercando affannosamente di respirare. «La luce ritorna... È rossa...» «Guardi meglio. Descriva questa luce.» «È sorda... incerta... viva...» «Come?» «Lampeggia...» «Come un faro? Un segnale?» «No... Pulsa... Come un cuore...» Il silenzio nella cabina, sempre più profondo. Una pressione accumulata, capace di far esplodere il vetro. «Mi ricorda... La luce mi ricorda...» «Che cosa sta facendo?» «Vado verso la luce. Fluttuo in un corridoio.» «Mi descriva il corridoio.» «Le sue pareti sono vive.» «Che cosa intende dire?» Luc fece una risata sarcastica, poi si inarcò, come se avesse una fitta alla schiena. «Le pareti... sono formate da volti... Facce immerse nell'ombra, pronte a balzare fuori... Soffrono...» «Sente le loro grida?» «No. Gemono... Sentono dolore... Non hanno bocche... Al loro posto ci sono delle ferite.» Pensai alla «valle d'abisso dolorosa» di Dante, che «'ntrono accoglie d'infiniti guai». Pensai alle testimonianze del Vaticano. Luc aveva raggiunto il suo scopo, vivere una NDE infernale. Era diventato un Senza Luce. «Vede sempre la luce rossa?» insisté Zucca. «Si avvicina.» «E adesso?»
Luc non rispose. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Sembrava calarsi dentro di sé, attraversare strati interni fisici e mentali... «Luc, che cosa vede?» Ebbi l'impressione che un odore si stesse diffondendo all'interno della cabina. Un odore acre, medicamentoso, un misto di canfora ed escrementi. Lo riconobbi subito: l'odore di Agostina, a Malaspina. Luc scoppiò a ridere. Lo psichiatra alzò il tono della voce. «Che cosa vede?» Luc tese la mano, come se cercasse di toccare qualcosa. La sua voce si affievolì diventando appena percepibile. «La luce rossa... è una parete. Di brina... o di lava... Non lo so. Dietro vedo agitarsi delle forme...» «Quali forme?» «Vanno e vengono... Si direbbe... si direbbe che nuotino... in un'acqua ghiacciata. Allo stesso tempo sento che là sotto c'è un grande calore, come in un cratere...» Una crosta glaciale, che avrebbe preservato il dolore puro. Un magma rosseggiante che ospita l'agonia delle anime. Il «cratere» di Luc si presentava come una porta aperta su un mondo rigoglioso, infinito, atemporale. L'inferno? «Mi descriva quello che vede. Anche se si tratta di frammenti. Di dettagli.» «Vedo... un volto... Brucia. Sento il suo calore, io...» «Descriva il volto, Luc. Si concentri!» «Non posso. Sento il calore e il freddo. Io...» «Segua la mia voce e fissi quello che vede...» Luc si contorse sulla poltrona. I cavi attorno al suo cranio vibrarono. Il suo corpo era scosso da tic e soprassalti di terrore. «Segua la mia voce, Luc!» «Due occhi... due occhi dietro la brina...» Luc era sull'orlo delle lacrime. «Il volto... è ferito... Vedo del sangue... labbra strappate... zigomi tagliuzzati... Io...» «Continui. Segua sempre la mia voce.» La sua testa ricadde inerte sul petto. «Luc?» Aveva gli occhi aperti. Le lacrime gli colavano sulle guance e al tempo stesso sorrideva. Non sembrava soffrire più, né avere paura. I suoi tratti erano distesi. Sembrava il ritratto di un santo del rinascimento, aureolato di
luce celeste. «Che cosa succede?» Il suo sorriso si torse, maligno. «È qui.» Qualcosa di inesprimibile si insinuò nella stanza. L'odore di putrefazione sembrò intensificarsi. Guardai gli altri. Corine Magnan tremava. LevainPahut si grattava la nuca. Katz, l'esorcista, stringeva il suo Rituale romano pronto ad aprirlo. «Luc, chi è? Di chi stai parlando?» «Non rispondo a questa domanda.» La voce di Luc era ancora cambiata. Una specie di borbottio autoritario. Lo psichiatra non si lasciò intimidire. «Mi descriva quello che vede.» Luc sogghignò, con il mento abbassato. Il suoi occhi fissavano Zucca con un'espressione carica d'odio. «Ho detto che non rispondo a questa domanda.» Zucca gli si avvicinò. La vera lotta cominciava adesso. «Lei non ha scelta, Luc. Segua la mia voce e mi descriva chi sta vedendo dietro la parete di brina. O di lava.» Luc si accigliò. Il suo viso era ora freddo, cattivo. Un'espressione maligna deformava i suoi tratti. «Non c'è più brina», sussurrò. «Che cosa c'è adesso?» «Il corridoio. Soltanto il corridoio. Nero. Nudo.» «C'è qualcosa all'interno?» «Un uomo.» «Com'è?» «È un vecchio.» Zucca lanciò un'occhiata alla cabina. Il suo viso tradiva la sorpresa. Anche noi non ci capivamo più nulla. Ognuno di noi si aspettava un'immagine consacrata del diavolo: corna, zoccoli, coda biforcuta... «Com'è vestito?» «Di nero. Ha un completo nero. Si confonde con l'oscurità. A parte i filamenti.» «Filamenti?» «Brillano sopra la sua testa. Ha dei capelli fosforescenti, elettrici.» Nella cabina aumentò la sensazione di malessere. L'odore di escrementi era sempre più forte e sembrava portato da una corrente gelida. «Descriva il suo volto.»
«La sua pelle è bianca. Livida. È un albino.» «I suoi tratti a cosa assomigliano?» «Un ghigno. Il suo viso non è che un ghigno. Le sue labbra... sono sollevate sulle gengive. Gengive bianche. La sua carne non conosce la luce.» Luc parlava ora in tono meccanico. Quello di una relazione fredda e neutra. «I suoi occhi, come sono?» «Glaciali. Crudeli. Iniettati di sangue o di brace, non so.» «Che cosa fa? È immobile?» Luc fece una smorfia. La sua espressione era come l'ombra proiettata dall'uomo nel corridoio. Il riflesso dell'intruso nel profondo del suo spirito. «Balla... Balla nel buio. I suoi capelli brillano sopra la sua testa...» «E le sue mani, riesce a vederle?» «Rattrappite. Incrociate sul ventre. Assomigliano al suo ghigno, alla bocca distorta. Tutto in lui è atrofizzato.» Luc sorrise. «Ma balla... Sì, balla in silenzio... È il Male che si agita... Nel sangue universale...» «Le parla?» Luc non rispose. Con il corpo inarcato, il collo dritto, sembrava tendere l'orecchio. Non ascoltava Zucca ma il vecchio in fondo alla gola. «Che cosa le dice? Ripeta quello che le dice.» Luc farfugliò qualche parola incomprensibile. Zucca alzò la voce. «Ripeta. È un ordine!» Luc sollevò la testa, come sotto l'effetto di un violento dolore. Il suo volto era scosso dalle convulsioni, la voce spezzata. «Dina hou be'ovadâna», urlò. «DINA HOU BE'OVADÂNA!» Nella cabina tutto si fermò. Il fetore. Il freddo. Nessuno si muoveva. Tutti sentivano una presenza. Qualcosa. «Che cosa significa?» tentò ancora Zucca. «Che cosa vuol dire quella frase?» Luc scoppiò a ridere convulsamente. Poi la testa gli ricadde sul petto. Priva di conoscenza. L'ipnotizzatore lo chiamò ancora. Nessuna risposta. La seduta era finita, la «visione» di Luc si era chiusa su queste parole incomprensibili. Zucca parlò all'auricolare: «È svenuto. Trasferiamolo in rianimazione». Senza dire una parola Thuillier e le infermiere entrarono nella stanza. Gli altri erano ancora immobili. Mi sembrava che l'odore e il freddo stessero diminuendo. Ci scambiammo qualche parola per rassicurarci, condividere un po' di calore, e soprattutto tornare al più presto alla realtà.
Al di sotto delle voci percepivo un mormorio diffuso. Voltai la testa. Padre Katz, con lo sguardo fisso e le mani strette sul suo Rituale, bisbigliava: «...Deus et Pater Domini nostri Jesu Christi invoco nomen sanctum tuum et clementiam tuam supplex exposco...». Con piccoli gesti spargeva dell'acqua benedetta sulla console e le apparecchiature della cabina. Il prete esorcista faceva le pulizie dopo il passaggio del diavolo. 96 «Ridicolo.» «Ti sto semplicemente raccontando quello che è successo.» «Siete dei buffoni.» Manon sembrava raffreddata. La sua voce aveva un tono nasale. Le avevo appena raccontato la scena all'Hôtel-Dieu. Era seduta a gambe incrociate, a piedi nudi, sul letto. La camera era perfettamente riordinata. Il piumone non era neanche spiegazzato. In pochi giorni Manon si era sentita come a casa sua e non smetteva mai di strofinare e lustrare. «Gli altri sembrano averlo preso sul serio.» «È tutta la vita che sono circondata da folli. Mia madre e le sue preghiere, Beltreïn e le sue apparecchiature... Ed ecco che voi, i poliziotti, siete ancora peggio!» Mi associava ai suoi aggressori. Lasciai perdere. Manon oscillava sul letto, le mani appoggiate sulle gambe. La penombra mi lasciava scorgere frammenti del suo viso per poi subito riprenderseli: la curva della guancia, la striscia della fronte, lo sguardo cupo. Fuori la pioggia cadeva senza rumore. «In ogni caso», riprese lei, «il delirio di Luc non prova che io abbia vissuto la stessa cosa.» «Affatto. Ma l'omicidio di tua madre ci riporta sempre a questa esperienza negativa. L'omicida potrebbe avere agito sotto l'influsso di un trauma psichico di questo genere e...» «Io?» Non risposi. Con il piede allontanai un cartone dal muro, lo spostai di fronte a Manon e mi ci sedetti sopra. «Il giudice esaminerà tutte le possibilità», continuai in tono rassicurante. «Sembra sensibile a questo genere di...» «Siete tutti matti.»
«Non ha in mano niente, capisci? Non un indizio, né il minimo movente...» «Allora vi resta l'orfanella?» «Non devi temere. Magnan ti ha già interrogata. Sarrazin ha redatto un verbale. Tutti sono persuasi della tua buona fede.» Lei scosse la testa, senza convinzione. I suoi capelli erano perfettamente separati in due bande lisce, come nelle illustrazioni dei racconti per bambini. «E perché Luc fa tutto questo?» «Vuole andare fino in fondo alla sua indagine. È convinto che l'omicidio di tua madre sia opera dei Senza Luce.» «E crede che appartenga anch'io a quella banda di dementi. Crede che io sia l'assassina.» Non era una domanda. E poi Manon aggiunse: «Per convincere tutti dovrei tentare anch'io la stessa cosa, no? Svelare i miei ricordi sotto ipnosi». «È troppo presto per considerare una simile eventualità.» Un istante dopo capii che Manon mi aveva teso una trappola. Voleva soltanto sapere se avevo già pensato a questa possibilità o se al contrario l'idea mi avrebbe fatto inorridire. «Andate a farvi fottere», mormorò lei. «Non mi presterò mai ai vostri deliri.» Si lasciò cadere all'indietro sul letto, poi si coprì la faccia con un cuscino. Nel movimento il suo pullover si era sollevato, lasciando apparire l'ombelico. Fremetti. Anche in mezzo a tutta quella tensione sentii montare il desiderio. Ma le cose erano cambiate tra di noi. Ero diventato un nemico come gli altri. Manon si risollevò all'improvviso e gettò via il cuscino. I suoi occhi erano colmi di lacrime. «VAI A FARTI FOTTERE!» Direzione: il Quai. Nella mia nuova auto a noleggio, radunai le idee. Dopo il ritorno a Parigi avevo indagato sulla formazione universitaria di Manon e sulla sua mancanza di alibi per l'assassinio. Zamorski diceva il vero. Nessuno l'aveva vista per circa una settimana all'epoca dell'omicidio. Avevo parlato al telefono con il poliziotto svizzero che l'aveva interrogata prima di Magnan. Manon era stata trovata nel suo appartamento il 29 giugno, due giorni dopo la scoperta del cadavere. Non era stata in grado di spiegare come avesse
trascorso gli ultimi giorni. Quanto alla sua formazione universitaria, il polacco aveva ancora ragione. Avevo ottenuto via fax il suo curriculum completo. Aveva un master in «biologia, evoluzione e conservazione», al quale si aggiungevano tre certificati di studi complementari in tossicologia, botanica ed entomologia. Aveva anche un diploma in farmacia. Ma questo non provava niente, tranne che Manon aveva le competenze necessarie per torturare un corpo umano nello stesso modo in cui era stata torturata sua madre... Corine Magnan doveva saperlo, ma non esisteva alcuna prova diretta contro Manon e il magistrato aveva dovuto abbandonare quella pista. Presto avrebbe dovuto archiviare tutto il caso. Ma adesso l'intervento di Luc riaccendeva tutti i dubbi. Manon aveva visto qualcosa durante la sua NDE nel 1988? Quell'esperienza l'aveva trasformata, come Agostina? Aveva provocato una forma di schizofrenia che poteva nascondere una seconda personalità, violenta, crudele e vendicativa? Entrai nel mio ufficio e depositai le carte che avevo recuperato nella casella. In segreteria numerosi messaggi, tra cui due di Nathalie Dumayet. Voleva notizie sulla seduta di quella mattina. Da quando ero tornato, il commissario mi teneva il broncio. Non aveva apprezzato la mia scomparsa, né le spiegazioni laconiche che le avevo dato al mio ritorno. Uscii subito dall'ufficio. Tanto valeva liberarmi subito di quell'incombenza. In poche parole riassunsi l'esperienza del mattino. Per concludere, le suggerii di chiamare Levain-Pahut per ulteriori informazioni. Stavo già indietreggiando verso la porta quando lei mi propose un tè. Rifiutai. «Chiuda la porta.» L'aveva detto sorridendo, ma in un tono senza appello. «Si sieda.» Mi piazzai sulla sedia davanti a lei, che mi fissò con i suoi occhi chiari. «Che cosa ne pensa di tutto questo?» «È compito degli psichiatri. Dobbiamo sapere se riuscirà a venirne fuori senza conseguenze e...» «Si tratta proprio delle conseguenze. Pensa che Luc ne uscirà indenne?» Feci un gesto vago. Al mio ritorno le avevo raccontato la mia indagine solo per grandi linee. I dossier Simonis, Gedda, Rihiimäki ridotti ai loro punti in comune. Avevo menzionato delitti satanici, ma non i Senza Luce né gli Asserviti. «Non credo al diavolo», riprese. «Ancora meno di lei, visto che non cre-
do nemmeno in Dio. Ma si può immaginare che una simile allucinazione trasformi chi la vive e lo induca a commettere un crimine... singolare.» Non reagii. «Non faccio altro che enunciare le sue stesse conclusioni.» «Non le ho dato delle conclusioni.» «Implicite. Ha scoperto tre omicidi, ai quattro angoli dell'Europa, il cui metodo è identico. In due casi almeno conosciamo gli assassini. Dei soggetti che hanno vissuto una NDE negativa. È così, vero?» Una pausa e poi continuò: «Adesso Luc è nelle stesse condizioni. In piena... mutazione». «Nulla ci dice che si trasformerà.» «Mi sembra comunque che sia sulla buona strada.» «Potrebbe essere soltanto sotto shock.» «C'è forse un'altra ipotesi?» «È troppo presto per parlarne.» «Troppo presto? Penso piuttosto che sia un po' tardi. Ci sono altri casi da risolvere. Deve rimettersi al lavoro.» «Ma lei mi aveva detto...» «Le ho già concesso una settimana di vacanza. È scomparso per dieci giorni e da quando è tornato non si è ancora rimesso al lavoro. Voleva scoprire le ragioni del gesto di Luc. Adesso lo sappiamo, il dossier è chiuso.» «Mi dia ancora qualche giorno. Io...» «Come sta la sua protetta?» «La mia protetta?» «Manon Simonis. Sospetta numero uno dell'omicidio di sua madre.» «Lei non conosce il dossier», dissi irrigidendomi. «Manon non è sospettata. Non ci sono prove, né un movente.» «E se avesse avuto un'esperienza negativa, come la sua italiana o il suo estone? In questa storia il movente è soltanto un trauma psichico.» Restai in silenzio. «Non sto cercando di metterla con le spalle al muro, Mathieu. Voglio semplicemente metterla in guardia. Corine Magnan vuole interrogare di nuovo Manon.» «Per quale motivo?» «L'avventura di Luc ha instillato nuovi dubbi.» «E per quale motivo dovrebbe dare risposte diverse da quelle del primo interrogatorio?»
«Lo chieda a Magnan.» «Vogliono sottoporla a ipnosi? Iniettarle un siero della verità?» «Non ne so nulla. Ma il giudice ha parlato di una perizia psichiatrica.» Mi morsi le labbra. «Non si fidi di lei, Mathieu.» «Sa forse qualcosa che io non so?» «La Magnan ha contattato la procura di Colmar. Vuole recuperare il dossier David Oberdorf.» «Chi è?» «Un tizio che ha ucciso un prete nel dicembre 1996. Un caso di possessione.» Mi alzai e mi avviai verso la porta. «È assurdo. Quel giudice è fuori di testa.» «Aspetti, Mathieu.» Mi fermai sulla soglia. «Ho comunque una buona notizia da darle. Condenceau, dell'ICS, ha chiuso il caso Soubeyras.» «È qual è la sua conclusione?» «Tentativo di suicidio. Questo semplifica tutto, no? Luc se la caverà con qualche seduta psichiatrica.» «E Doudou e gli altri?» «Contro di loro non c'è niente. Levain-Pahut si farà i fatti suoi.» Stavo girando la maniglia quando Dumayet aggiunse: «A proposito, non ha forse indagato sull'assassinio di Massine Larfaoui?». «E allora?» «Non ha scoperto niente?» «Niente più di Luc e dei suoi uomini.» «Davvero?» Dumayet aveva le sue fonti, oppure mi leggeva nel pensiero. Non le avevo parlato dell'iboga, né del suo ruolo in questa storia. «C'è forse un legame con il caso Simonis e con tutta la serie di omicidi», ammisi. «Quale legame?» «Ho bisogno di tempo.» «In un modo o nell'altro, Magnan sta per agire. Riempia i vuoti del suo dossier prima che lo faccia lei. Con i silenzi della sua protetta.» 97
L'una del pomeriggio. Chiusi a chiave lo sgabuzzino. Adesso volevo risolvere una questione che mi tormentava da quella mattina. Digitai il numero diretto del prefetto Rutherford, in Vaticano. Nonostante la giornata grigia, non avevo acceso la luce in ufficio. Un minuto dopo parlavo con il responsabile della biblioteca. Non sembrava disposto a passarmi il cardinale van Dieterling. Dovetti parlargli di «rivelazioni fondamentali» per fare inoltrare la mia chiamata all'ufficio di sua eminenza. «Che cosa vuole, Mathieu?» La voce roca del fiammingo. Nessun preambolo, nessuna formula di cortesia. Preferivo così. «Proseguo la mia indagine, Eminenza. Ho un'informazione da chiederle.» «Non dovrebbe prima dirmi che cosa ha scoperto?» Dalla mia visita al Vaticano non gli avevo più dato alcun segno di vita. «A meno che non abbia cambiato campo», proseguì, «che non abbia stretto un'alleanza con degli altri.» Allusione trasparente al mio soggiorno in Polonia. «Non mi sono alleato con nessuno», risposi in tono fermo. «Seguo la mia strada, e quando saprò la verità la dirò a tutti.» «Che cosa ha scoperto?» «Mi dia ancora qualche giorno.» «Perché dovrei fidarmi ancora di lei?» «Eminenza, mi permetto di insistere. Sto per fare una scoperta fondamentale. Al cuore della mia indagine c'è un nuovo caso di Senza Luce.» «Il suo nome?» «Tra qualche giorno.» Il cardinale fece un rumore strozzato con la gola, una specie di risata. «Le accordo ancora la mia fiducia, Mathieu. Anche se non so perché lo faccio. Che cosa voleva sapere?» «Avete interrogato Agostina Gedda sulla sua esperienza di pre-morte?» «Certo. I miei specialisti hanno avuto molti colloqui con lei.» «Vi ha parlato di colui che ha visto in fondo al "corridoio"?» Percepii un'esitazione nel mio interlocutore. «Che cosa vuole sapere? Vada dritto al punto.» «Qual era l'aspetto del visitatore di Agostina?»
«Ha parlato di un giovane pallido, molto alto. Secondo lei fluttuava nel tunnel. Come un angelo. "Un angelo"», ripeté in tono costernato, «sono le sue stesse parole.» «Non ha parlato di un vecchio?» «No.» «Né di capelli elettrici, luminescenti?» «Per niente. È la descrizione che le ha fatto il suo Senza Luce?» Elusi la domanda. «Quell'angelo non aveva niente di terrificante? Qualche particolare malefico?» «Era un mostro, vuole dire. Secondo Agostina non aveva palpebre e dalla sua bocca aperta spuntavano denti aguzzi, taglienti come rasoi. E ricordo che c'era anche un'altra cosa... Esibiva una specie di falso sesso, enorme, di alluminio... O una mostruosa fodera penica, questo particolare non era chiaro. Lei ha conosciuto Agostina e conosce i pensieri malsani che la ossessionano.» «È tutto? Nessun altro particolare raccapricciante?» «Non le basta? La sua descrizione era molto precisa. E questo è in sé già un fatto nuovo.» «Un fatto nuovo?» «Ricordi che fino a ora i Senza Luce erano incapaci di descrivere il loro demone. Oggi i ricordi sono più precisi. Fa parte della mutazione.» Ancora la sua teoria dell'evoluzione. I Senza Luce avevano ora un nuovo profilo, caratterizzato dal rituale degli acidi e degli insetti, ma anche un ricordo più preciso della loro NDE. Riflettei ad alta voce: «Secondo lei, perché questi posseduti vedono tutti un diavolo diverso? Una creatura che non ha nulla a che spartire con l'immagine convenzionale del demonio, con le corna e la coda?». «"Mi chiamo Legione perché siamo una moltitudine." A Satana piace assumere sembianze diverse. Ma sotto c'è sempre la stessa potenza maligna.» «Ogni Senza Luce vede un essere diverso, quasi... personale.» «Che cosa vuole dire?» «Questo "visitatore" potrebbe ispirarsi a un personaggio del loro passato. Una sorta di costruzione psichica basata sui loro ricordi.» «Ci abbiamo pensato. Abbiamo scavato nella storia di Agostina. Ma non c'era traccia di un angelo dalla carnagione pallida, né di una creatura con denti da vampiro. Perché mi fa queste domande, Mathieu? Lei è un poliziotto, deve indagare sui fatti reali, concreti.»
«È quello che sto facendo, Eminenza. La richiamerò al più presto.» Sfogliai rapidamente i miei appunti. Foucault mi aveva lasciato il recapito dello psichiatra di Raïmo Rihiimäki: Juha Valtonen. L'uomo che l'aveva interrogato quando si era svegliato dal coma. Digitai le cifre del suo cellulare. Sentii il telefono squillare. Stava nevicando a Tallinn? Non sapevo nulla di quel paese, soltanto che era il più settentrionale dei paesi baltici. Immaginavo coste grigie, rocce nere, un mare cupo e ghiacciato. «Hallo?» Mi presentai in inglese. L'uomo mi rispose senza difficoltà nella stessa lingua. Aveva già parlato con Foucault. Era al corrente della nostra indagine e disposto ad aiutarmi. Iniziai subito a interrogarlo sulla NDE di Raïmo. «Aveva dei ricordi», confermò lo psichiatra. «Le ha descritto il suo visitatore?» «Raïmo parlava di un bambino.» «Un bambino?» «Un adolescente, piuttosto. Un personaggio molto giovane, grassottello, che fluttuava nell'oscurità.» «Le ha descritto il suo volto?» «Sì. Ha parlato di una faccia sfigurata, o scorticata, carni lacerate. Un muso da bulldog coperto di sangue...» Di nuovo una scena orrenda. Ma nulla a che vedere con il vecchio di Luc o con l'angelo di Agostina. Ogni Senza Luce aveva il suo demone. Gli espressi la mia idea. «Pensa che questa creatura possa essergli stata ispirata da qualcuno che conosceva?» «In che modo?» «Un personaggio del suo passato, che sarebbe risorto deformato dalla visione?» «No. Ho fatto delle ricerche sulla sua storia, sul suo ambiente. Che io sappia non conosceva nessuno che assomigliasse a quella creatura. D'altronde, chi potrebbe essersi imbattuto in un simile incubo?» La mia pista psicanalitica era arrivata a un punto morto. «Ha altre testimonianze di questo tipo?» chiese Valtonen. «Alcune, sì.» «Mi interesserebbe leggerle. Esiste una versione in inglese?» «Sì, ma siamo in un'emergenza. Appena avrò più tempo le farò avere tutta la documentazione. Promesso.» «Grazie. Ho un'ultima domanda.»
«Dica.» «Gli altri testimoni sono diventati assassini?» Pensai a Luc. E, mio malgrado, a Manon. «Non tutti», risposi in tono secco. «Tanto meglio. Altrimenti sarebbe stata come un'epidemia di rabbia.» Chiusi la comunicazione ringraziandolo ancora. Le due. Era arrivato il momento di ricostruire l'indagine precedente alla mia e di dare una conclusione a tutti i suoi capitoli. Il momento di interrogare Luc. 98 Luc era ricoverato al centro ospedaliero specializzato Paul-Guiraud, a Villejuif. Il termine «specializzato» era un eufemismo per «psichiatrico». Aveva firmato personalmente la sua domanda di ricovero e poteva quindi uscire quando voleva. Le tre. Arrivai all'istituto quando il sole stava già per calare. Un vasto complesso in mezzo a una periferia di villette. Pascal Zucca, lo psichiatraipnotizzatore, mi aveva spiegato dove trovare Luc. Varcai il cancello, girai a sinistra e avanzai lungo il viale costeggiato da edifici a due piani. Ogni padiglione sembrava l'hangar di un aeroporto, con muri beige e tetto bombato. Trovai infine il padiglione 21. Alla reception un'infermiera prese un mazzo di chiavi e mi guidò lungo un corridoio su cui si aprivano porte a oblò che mi ricordava l'interno di un sommergibile. Bisognava attraversare ogni stanza per raggiungere la successiva: refettorio, sala TV, atelier di ergoterapia... Era tutto nuovo: muri gialli, porte rosse, soffitti bianchi con luci al neon. Camminammo silenziosamente sul linoleum color ardesia. A ogni porta, l'infermiera usava una nuova chiave. Incrociai dei pazienti che contrastavano con quell'architettura moderna. Loro non erano stati rimessi a nuovo. La maggior parte mi fissava con la bocca spalancata, facce senza espressione e sguardi vuoti. Un paziente aveva il viso tutto tirato da un lato, come se fosse stato preso all'amo. Un altro, piegato in due, mi osservava con sguardo torvo. Avanzai evitando di guardarli.
I più terrificanti erano quelli che non avevano nessun elemento distintivo. Personaggi grigi, spenti, la cui follia era nascosta nei recessi del loro essere. Invisibile. Uno di loro mi indirizzò un cenno della mano continuando a piegare dei foglietti di carta. Aprendo un'altra porta, l'infermiera commentò: «Un dentista. È qui da sei mesi. Trascorre tutte le sue giornate piegando quei fogli. Lo chiamiamo "Origami". Ha ucciso la moglie e i suoi tre figli». Nel nuovo corridoio osservai: «Non ci sono sistemi d'allarme? Non vedo campanelli o roba del genere». La donna brandì il suo mazzo di chiavi. «Basta toccare con una chiave un qualsiasi oggetto metallico per far scattare l'allarme.» Eravamo arrivati alle camere. Contai sei oblò, che si aprivano su altrettante stanzette. «È qui», disse l'infermiera fermandosi davanti a una porta e armeggiando con le chiavi. «È chiuso dentro?» «L'ha chiesto lui.» Entrai nella camera. L'infermiera richiuse la porta a chiave. Luc era lì, circondato da quattro pareti bianche e nude. Cinque metri quadrati di pavimento rivestito di linoleum chiaro, una finestra sul giardino, un letto sospeso. Nulla distingueva quella stanza da una qualsiasi camera di ospedale. Notai soltanto che la finestra non aveva la maniglia. In tuta da ginnastica azzurra, Luc stava scrivendo su un ripiano a destra. «Stai lavorando?» gli chiesi in tono caloroso. Si voltò di tre quarti, senza alzarsi, tutto concentrato sulla sua stilografica. Il suo cranio rasato sembrava un pianeta secco, sperduto tra i venti solari. «Lascio tutto per iscritto. È importante.» Posai la mano sull'unica poltrona e mi sedetti a un metro da lui. Le ombre della sera si insinuavano nella stanza come una lenta inondazione. «Come ti senti?» «Esausto, svuotato.» «Ti danno dei farmaci?» Mi gratificò di un sorriso così evanescente che si sarebbe potuto vedere attraverso. «Qualcuno, sì.» Riavvitò lentamente il coperchio della stilo. Mi tastai meccanicamente le
tasche. Luc decifrò il mio gesto e disse: «Puoi fumare, ma apri la finestra. Mi hanno dato un attrezzo per farlo». Mi lanciò una specie di chiave e aprii la finestra. Dopo essermi infilato una Camel tra le labbra, gli porsi il pacchetto. Lui fece di no con la testa. «Non ho più fumato da quando mi sono svegliato.» «Bravo», feci io. Feci scattare lo Zippo. Inalai il fumo a pieni polmoni e lo ributtai fuori gettando la testa all'indietro. «Grazie, Mat», disse Luc alle mie spalle. «Di cosa?» «Di quello che hai fatto. Per Laure, per me, per l'indagine.» «Era quello che ti aspettavi da me, no?» Sorrise. «È vero. Ero certo che non avresti accettato l'idea che mi ero suicidato. Potevo crepare tranquillo... Tu avresti spiegato la verità a tutti.» «Non sarebbe stato più semplice darmi un dossier completo, come a Zamorski?» «No. Tu dovevi condurre l'indagine in prima persona. Altrimenti non ci avresti creduto. Nessuno ci avrebbe creduto.» «Non sono sicuro di crederci nemmeno ora.» «Ci arriverai.» Mi voltai verso di lui e mi addossai alla finestra. «Luc, sono venuto a fare il punto con te. Ho bisogno di mettere tutte le tessere al loro posto.» «L'hai già fatto.» «Voglio conoscere il tuo percorso. Noi due insieme possiamo vederci più chiaro.» Luc chiuse il quaderno e mi riassunse la sua storia. Non disse nulla che non avessi già indovinato. Tutto era iniziato il giugno precedente, con l'omicidio di Sylvie Simonis. Luc sorvegliava la regione, famosa per le sue attività sataniche. Aveva condotto la stessa mia indagine, ma insieme a Sarrazin fin dall'inizio. Aveva via via scoperto la pista dei Senza Luce, di Agostina Gedda, e poi quelle di Zamorski e Manon... «E Massine Larfaoui?» «La ciliegina sulla torta. È successo a settembre, quando ero già immerso nel caso. Conoscevo gli Asserviti. Sapevo dell'esistenza dell'iboga. Non mi è stato difficile mettere insieme le due cose.» «Sai chi l'ha ucciso?» «No. È uno degli enigmi del dossier.» «E l'Unital6?»
Luc fece un sorrisino. «Banali truffatori. Niente di interessante.» «Perché li hai contattati poco prima di scomparire?» «Per te, per lasciarti una mia traccia. Tutto qui.» «Come la medaglia di san Michele?» «E tante altre.» Non sapevo se provare compassione o collera. «E la pista degli Asserviti? A che punto eri arrivato?» «Gli Asserviti non mi interessano. Sono dei satanisti, solo un po' più crudeli degli altri. Tutto qui. L'unico elemento rilevante era l'iboga.» «In che senso?» «Che c'era qualcosa da tentare.» «Vuoi dire che...» «Che ho fatto il viaggio, sì. Più volte. In una forma adattata, un'iniezione. Mi sono fatto aiutare da alcuni esperti in farmacologia.» Ricordai tutt'a un tratto i misteriosi segni di iniezioni sulle braccia di Luc. Aveva provato quell'esperienza per parecchie settimane prima di fare il grande salto. «E allora?» domandai in tono neutro. «Niente. Più che altro sono stato male. Ma non ho visto quello che mi aspettavo.» «Dove hai trovato la pianta?» «Da Larfaoui. Aveva in casa uno stock di iboga nera. Il suo assassino non l'ha toccata.» La domanda era ancora senza risposta: perché l'assassino non aveva frugato nella villetta del cabilo? Non cercava la droga? Non aveva alcun legame con gli Asserviti? O era stato disturbato dalla presenza della prostituta? Luc continuò con voce sognante: «L'iboga ha avuto un unico merito. Accelerare la mia decisione. Ho capito che per vedere il diavolo dovevo realmente rischiare la pelle. Al demonio non piacciono le mezze misure, Mat. Vuole vederci crepare. Vuole essere lui a decidere i salvataggi e le sue apparizioni». «Ma perché correre tanti rischi?» «Era l'unica soluzione. L'esperienza negativa è la chiave di volta dell'indagine. La sorgente nera degli assassini. I Senza Luce.» «Pensi allora che Manon sia una Senza Luce?» «Senza dubbio.» «Credi si sia vendicata del suo assassino, di sua madre?»
«Non lo credo. Lo so.» Luc mi fissò dritto negli occhi. «Ascoltami, Mat. Non mi ripeterò. Mi sono tuffato nelle tenebre per amore di Manon. Ho visitato gli Inferi come Orfeo. Ho rischiato la mia pelle. E la mia anima. Tutto questo l'ho fatto per lei. E contrariamente a quanto potrai credere, ho pregato di non trovare nulla in fondo all'abisso. Per scagionarla. Ma invece è accaduto il peggio: ho visto il diavolo e adesso conosco la verità. Manon ha vissuto quello che ho vissuto io ed è un'assassina.» Lanciai il mozzicone dalla finestra. Non volevo entrare in quel conflitto. «Allora anche tu sei un Senza Luce?» «In divenire.» «Hai invocato il diavolo con tre cianfrusaglie, ti sei tuffato nell'acqua ghiacciata e hop...» «Non devo convincerti.» «Hai sentito il Giuramento del Limbo?» «Non posso rispondere a questa domanda.» Senza accorgermene, alzai il tono della voce. «Di chi ti vendicherai? Di te stesso? O pensi semplicemente di commettere una serie di omicidi gratuiti?» «Comprendo i tuoi dubbi. Mi hai accompagnato fino a un certo punto. Non speravo che ti saresti spinto oltre.» Poi, indicando il quaderno, aggiunse: «Finché posso farlo, scrivo. Registro tutti i particolari della mia evoluzione. Presto non ci sarà più niente da fare. Sarò passato dall'altra parte. Non dovrete più ascoltarmi, più credermi. Dovrete semplicemente rinchiudermi». Per quel giorno poteva bastare. Gli posai una mano sulla spalla. «Devi riposarti. Tornerò domani.» Mi afferrò il braccio. «Aspetta. Voglio dirti un'altra cosa. Non ti sei mai chiesto perché fossi ossessionato dal diavolo?» «Ogni mattina. Da quando ti ho conosciuto.» «È tutto legato alla mia infanzia.» Sospirai. Che cosa avrebbe tirato fuori, adesso? Tutt'a un tratto sperai che mi raccontasse di un vecchio conosciuto durante la sua gioventù. Un vecchio che assomigliava alla sua visione. Invece Luc disse: «Ti ricordi mio padre?». Rividi la foto nel suo ufficio: Nicolas Soubeyras, il conquistatore degli
abissi, in tuta e casco con torcia frontale. Senza attendere la mia risposta, aggiunse: «Il peggior bastardo che abbia mai conosciuto». «Pensavo che tu lo ammirassi.» «A undici anni si ammira sempre il proprio padre. Anche quando è una merda.» Aspettavo il seguito. «Un bastardo che picchiava mia madre e ci infliggeva una disciplina ferrea. Ossessionato dai suoi record e dalle sue imprese. All'epoca soffrivo di una lesione del nervo trigemino. Un'affezione rara nei bambini, che provoca un dolore atroce. Mio padre mi nascondeva gli analgesici e gli antinfiammatori per rendermi più agguerrito nei confronti del dolore. Capisci che tipo era?» Quello che non capivo era il legame tra questa storia e la sua ossessione per il diavolo. Luc aveva finito per scambiare suo padre per il demonio? «Sai come è morto?» continuò. «È rimasto ucciso durante una spedizione speleologica, no?» «La grotta di Genderer, nei Pirenei, nell'aprile 1978. Non lontano da Saint-Michel-de-Sèze. È sceso ad almeno mille metri di profondità. Il suo obiettivo era restare sottoterra per sessanta giorni, senza alcun riferimento temporale né alcun contatto con la superficie, per studiare il suo orologio interiore. Non è mai risalito. Una frana l'ha intrappolato in una grotta. È morto asfissiato.» Restai in silenzio. Ancora nessun rapporto con Satana. «Accanto al corpo i soccorritori hanno trovato un blocco di schizzi. Quando ho visto quei disegni, Mat, ho saputo che la mia vita non sarebbe più stata la stessa.» «Che cosa raffiguravano?» «Tenebre.» «Non capisco.» «Imprigionato nella grotta, mio padre aveva disegnato ogni giorno l'ambiente che lo circondava alla luce della sua torcia. Le stalattiti, i contorni della cavità, le sacche d'ombra.» «Era sempre lo stesso disegno?» «No, appunto. Nel corso dei giorni le rocce si trasformavano. Le stalattiti si deformavano. Diventavano artigli che si avvicinavano per afferrarlo.» Immaginai Nicolas Soubeyras murato vivo, agonizzante, in preda alle visioni. Ostinandosi a disegnare alla luce declinante della sua torcia, aveva visto l'ambiente che lo circondava cambiare a poco a poco. L'ultimo terrore
prima dell'uscita di scena. «Negli ultimi schizzi», sussurrò Luc, con una voce che sembrava provenire da quella stessa grotta, «la volta si era trasformata nelle ali di un pipistrello, le stalattiti in nervature nere, e dall'ombra era spuntato un volto.» «Quale volto?» «Quello che mio padre ha visto prima di morire.» Mi sentii invadere dal terrore. Lui giocherellò nervosamente con il cappuccio della stilo e disse: «Il diavolo. Mio padre ha visto Satana prima di esalare l'ultimo respiro. L'angelo delle tenebre era sorto dal profondo della terra per portarlo con sé. Non dimenticherò mai quel volto. Quel blocco di schizzi è stato la mia bibbia nera...». Luc mi aveva sempre raccontato che durante una passeggiata con il padre aveva visto Dio scintillare tra le falesie. Adesso scoprivo che aveva visto anche il diavolo, disegnato da Nicolas Soubeyras, all'interno di quelle stesse montagne. «Devi riposarti.» «Non parlarmi come a un malato! Non sono matto. Non ancora. Ti voglio dire un'ultima cosa, Mat. Ho richiamato Corine Magnan. La rivedrò.» «E che cosa le dirai?» «Deve osservarmi. La mia trasformazione è il pezzo forte del dossier. Bisogna studiarmi, analizzare la mia metamorfosi per discernere la vera personalità di Manon.» Trasalii. «Manon è posseduta, Mat. Lo so perché anch'io lo sono. E non smette di mentire, sedurre, manipolare in nome del male. Come me, presto...» In piedi, con l'impermeabile sul braccio, compresi finalmente la situazione. Lo scisma si era consumato: o lui o Manon. Gli posai ancora una volta la mano sulla spalla e mormorai tra ì denti: «Non sei pronto a uscire di qui». 99 «C'è il professor Zucca?» Volevo approfittare della mia presenza nell'istituto per interrogare lo psichiatra. La segretaria mi rispose con un sorriso: «È l'ora del suo jogging». «È già andato via?»
«No, corre qui fuori nel parco.» Lasciai la sala gialla e rossa e girai attorno al padiglione 21. Era quasi notte. Mi installai sugli scalini dell'ingresso laterale, che dava sul vialetto. Zucca avrebbe fatto più volte il giro dell'isolato ed ero certo di incrociarlo lì alla fine del suo allenamento. Presi una Camel e chiamai Corine Magnan al cellulare. Lasciai un messaggio in segreteria chiedendole di contattarmi al più presto. Composi poi il numero del cellulare di Manon. L'accoglienza fu meno ostile di quanto temessi. Il telefono l'aveva svegliata. Dal nostro arrivo a Parigi, Manon aveva delle vere e proprie crisi di sonno. Il suo sonno pesante, profondo, aveva qualcosa di letargico. La televisione borbottava in sottofondo. Le promisi di rientrare per cena. Lei chiuse con un sommesso «ti bacio» che non significava nulla. Mi accesi la Camel e mi sforzai di conservare la calma, osservando il paesaggio che si spegneva davanti a me. Distese d'erba spelacchiata, foglie morte e boschetti di carpini. Nemmeno un'anima sul vialetto né sui campi sportivi di fronte ai padiglioni, e neanche l'ombra di un'auto. Pensai a Manon prigioniera nel mio appartamento da quasi una settimana: quale destino ci stava aspettando? Dopo qualche minuto apparve Zucca, correndo a piccole falcate. Mi alzai e buttai la sigaretta. Appena lo psichiatra mi scorse, venne trotterellando verso di me, la bocca semiaperta come un cane da caccia ansimante. La sua faccia era tutta rossa per lo sforzo. «È venuto a vedere il suo amico?» mi chiese tra due respiri ansimanti. «Volevo anche parlarle.» Con un cenno della testa indicò la Camel che avevo appena buttato a terra. «Ne ha una anche per me?» «Lei corre e fuma?» «Sono un cumulista.» Prese una sigaretta dal mio pacchetto. E intanto continuava a saltellare sul posto. Si chinò sull'accendino. Le chiazze di rossore sul viso sembravano proteggerlo da qualsiasi espressione. Una faccia blindata. Fece una smorfia inalando la prima boccata. «Che cosa vuole sapere?» «La sua opinione su Luc. Sulle sue condizioni psichiche. Pensa che peggiorerà?» «Troppo presto per dirlo.»
«Senta, Luc Soubeyras è il mio migliore amico e...» Mi fermò con un gesto. «Rendiamo le cose più semplici. Lei mi risparmia la sua litania sentimentale e io evito il gergo scientifico. Guadagneremo tempo tutti e due. Sono sicuro che ha in mente delle domande precise. Delle piccole teorie personali...» Zucca riprese a muoversi sul sentiero d'asfalto, sempre saltellando. Quella mattina mi aveva fatto pensare a un allenatore di boxe. Quella sera somigliava lui stesso a un pugile. «Non credo all'esperienza negativa di Luc», esordii. «Penso sia vittima delle sue convinzioni. Si è tuffato volontariamente nel nulla per "vedere" il demonio. Adesso è convinto di esserci riuscito. Ma forse si è solo lasciato trasportare dalla sua immaginazione.» «Non sono d'accordo.» Zucca fissò per un istante la sua Camel che rosseggiava al vento e poi proseguì: «Durante la seduta abbiamo controllato numerosi parametri fisici e psichici. Parametri analoghi a quelli usati per smascherare le menzogne. Luc Soubeyras non ha mentito. I suoi ricordi erano autentici. Le apparecchiature sono state chiare». «Forse è stato sincero. Ha creduto di vedere...» «No. Gli elettrodi ci hanno permesso di registrare le onde emesse dal suo cervello. È un po' complicato da spiegare, ma Luc stava ricordando davvero. Nessun dubbio al proposito. Senza contare che la tecnica dell'ipnosi è affidabile. Luc ha lasciato parlare la sua memoria. Ha rivissuto una NDE.» Pensavo di trovare un alleato, ma mi ero sbagliato. Presi un'altra sigaretta. «Quindi secondo lei ha visto il diavolo?» «Ha visto quello strano vecchio, in ogni caso.» «Da un punto di vista psichiatrico, come spiega quella visione?» Il medico si fermò e corrugò le sopracciglia. «Queste informazioni sono davvero importanti per la sua indagine? Pensavo si occupasse dei fatti concreti, delle prove incontrovertibili.» «In questo caso non ci sono più distinzioni tra il concreto e il mentale, il reale e il trascendentale. Voglio capire che cosa è successo nella testa di Luc.» Zucca riprese un passo normale. Il ritmo del suo respiro rallentò. «Da un punto di vista psichico le NDE sono banali.»
«Le esperienze negative sono molto più rare.» «Esatto. Ma che siano positive o negative, il processo ci è noto.» Ricordai le spiegazioni tecniche di Beltreïn. Zucca disse più o meno le stesse cose: surriscaldamento dei neuroni e secrezioni chimiche. In realtà, non era la spiegazione «meccanica» a interessarmi. «Ma le visioni in sé», insistetti. «Come spiega questi... fantasmi? Perché durante l'esperienza negativa si vede sempre un... demone?» «Il surriscaldamento di cui le ho parlato favorisce l'affioramento di immagini dal nostro inconscio collettivo. Figure culturali ancestrali, profonde.» «Il problema è proprio qui. La creatura incontrata dai soggetti dovrebbe corrispondere a un archetipo. Avere per esempio l'aspetto tradizionale del diavolo. Corna, coda biforcuta...» «Sono d'accordo.» «Ma non è così. L'abbiamo constatato questa mattina. E secondo le mie informazioni ogni sopravvissuto "vede" un personaggio diverso. Ogni superstite incontra il suo diavolo. Come spiega questa singolarità?» «Non la spiego. Ed è questo che trovo agghiacciante.» «Perché?» «È come se Luc Soubeyras si fosse ricordato di una cosa che gli è realmente accaduta. Non un miraggio, un'illusione stereotipata, ma un vero incontro. Con una creatura unica, un'incarnazione del male che nessun altro avrebbe potuto immaginare e che l'ha accolto nelle profondità del Limbo.» Era il momento di avanzare la mia teoria psicanalitica. «Avevo immaginato una spiegazione per questi "incontri".» «E quale sarebbe? Sono sicuro che è venuto qui per questo.» «Il soggetto conferisce al suo visitatore il volto o l'apparenza di una persona che appartiene al suo passato. Qualcuno che ha detestato o temuto.» «Continui.» «Questo intruso non sarebbe altro che un ricordo riciclato. La deformazione di un conoscente che gli ha fatto male o l'ha spaventato durante l'infanzia. La NDE farebbe emergere una costruzione individuale, metà ricordo, metà allucinazione.» Zucca annuì, ma in modo ironico. «Pensa alla figura del padre, vero?» «Sì. Ma mi sono già informato per i casi che conosco e né il padre né un conoscente dei testimoni assomiglia al loro "diavolo".» «Ha un'altra sigaretta?» La fiamma del mio Zippo volteggiò nella notte. Zucca aspirò il fumo,
fece una pausa, poi confessò: «Penso che la verità sia più semplice. Più semplice e più terrificante». Con la sigaretta, indicò il padiglione 21: avevamo fatto il giro degli edifici. «In una certa misura sono d'accordo con lei. L'aspetto del diavolo è collegato al passato dei soggetti. C'è qualcosa di nascosto, di segreto che riaffiora, è evidente. È una rappresentazione individuale del male. Una messa in scena intima di un personaggio del passato. Ma non sono d'accordo con lei sulla natura del regista.» «Che cosa vuole dire?» «Per lei tutto questo non sarebbe altro che una produzione dell'inconscio, un'illusione della psiche. Per me invece interviene anche un agente esterno.» Rabbrividii. Il freddo, la notte... e la mia paura. «Crede a un intervento... sovrannaturale?» «Sì.» «Piuttosto insolito da parte di uno psichiatra.» «Uno psichiatra non è un ingegnere che spiega il funzionamento cerebrale con le secrezioni chimiche o con un insieme di strutture mentali. Il nostro cervello è una stazione di ricezione. Una sorta di radio. Capta dei segnali.» Ero venuto a cercare un sostegno razionale. Avevo decisamente sbagliato persona. Zucca continuò, cambiando tono: «La mia idea è che il surriscaldamento dei neuroni riattivi una percezione primitiva. O se preferisce, apra una porta su una realtà parallela. Per farla breve, una porta sull'aldilà». Mi sentivo sempre meno a mio agio. Anch'io credevo a questa porta. Era una delle chiavi della fede cristiana. L'estasi di san Paolo sulla via di Damasco, le apparizioni di san Francesco d'Assisi, le visioni di santa Teresa d'Avila non erano altro che bagliori trascendentali filtrati da quel varco. Zucca continuò: «Luc si è avvicinato alla fine, no? Perché non immaginare che il suo cervello sia stato "iper-ricettivo" e abbia intravisto l'altra sponda?». Le parole si fecero strada nel mio cervello e assunsero tutto il loro significato. Stavo per cogliere una verità peggiore di tutte le altre. «Se ho ben capito», replicai, «ci sarebbe quindi un demone che ci attende dall'altra parte della vita? Oppure dei personaggi detestati della nostra esistenza terrestre che ci farebbero la posta alle soglie della morte per farci
soffrire... eternamente?» «È quello che ci lascia intendere la seduta di questa mattina.» «Sa di che cosa sta parlando?» Mi fissò freddamente. «Certo.» «Sta parlando dell'inferno.» «Fin dall'inizio, non si sta parlando d'altro.» 100 La nave dei folli. Viaggiavo a bordo di un vascello di folli e non c'era più modo di scendere. Dal giudice buddhista allo psichiatra visionario, passando per il poliziotto posseduto. Mi sentivo solo in questo circolo di dementi, disperatamente aggrappato alla ragione come all'albero maestro in piena tempesta. La tentazione del soprannaturale era tuttavia sempre più pressante. Zucca aveva ragione. In un certo senso era la soluzione più semplice. Un vecchio dai capelli luminescenti. Un aggressivo angelo con le zanne. Un bambino con le carni sanguinanti. Sì, davanti a simili creature, c'era di che pensarlo. Il diavolo e la sua armata erano la spiegazione più plausibile. Ma io continuavo a resistere. Dovevo trovare una spiegazione razionale a quel caos. Partii a sirena spiegata verso il centro di Parigi, le mani contratte sul volante. Nei pressi di Notre-Dame, Rive Gauche, mentre voltavo sul pont Saint-Michel in direzione del quai des Orfèvres, mi venne un'altra idea. Quella mattina padre Katz, il prete esorcista, mi aveva dato il suo biglietto da visita. Il suo ufficio, al centro diocesano di esorcismo, era a cinquanta metri, in rue Gît-le-Cœur. Nuova sterzata. Proseguii sulla Rive Gauche verso lo studio di padre Katz. Lo rividi spargere l'acqua benedetta nella cabina. Tanto valeva esaurire subito la lista degli invasati. «Il diavolo è il nemico», ripeté il vecchio padre con l'indice puntato verso il soffitto. «L'ostacolo. "Satana" proviene dalla radice ebraica stn, ovvero "l'oppositore", "colui che ostacola", che in seguito è stato tradotto con il greco diabolos, dal verbo diabàllein, ovvero "fare ostacolo"...» Scossi educatamente la testa contemplando la stanzetta dell'esorcista. Stretta e lunga, si apriva in fondo su una finestra a mezzaluna che la faceva assomigliare alla cabina di un galeone di pirati. Tuttavia, si stava bene nella stanza del soldato di Dio. Non mancava nulla: i vecchi volumi esoterici,
le scartoffie ingiallite, il crocifisso alla parete e, sopra la scrivania, il piccolo dipinto che raffigurava la discesa dalla croce. Katz continuava la sua esposizione: «Non lo si dice abbastanza, ma il diavolo è quasi inesistente nell'Antico Testamento. È assente perché Dio, Yahvé, non è ancora totalmente buono! Si assume il male che fa. Non ha bisogno di un responsabile per i suoi bassi bisogni. Ricordi Isaia: "Dio fa il bene, ma crea anche il male...". Satana appare nel Nuovo Testamento, dove con 188 citazioni è quasi onnipresente! Questa volta Dio è perfetto e bisogna trovare un colpevole per il male che regna sulla terra. C'è un'altra ragione. Come si direbbe oggi: un problema di casting. Se il figlio di Dio è sceso sulla terra, è per affrontare un avversario del suo calibro. Un essere soprannaturale, potente, deviante, che tenta di imporre la sua legge: il Principe delle tenebre. Gesù era un esorcista, non dimentichiamolo! Nelle pagine dei Vangeli non smette di cacciare gli spiriti cattivi dai corpi dei posseduti che incontra...». Questa lunga introduzione era il prezzo che dovevo pagare per le risposte più precise su cui contavo. In ogni caso, mentre ero seduto sulla sua comoda poltrona di cuoio, riconsiderai il mio giudizio sul vecchio padre. La mattina mi era sembrato esaltato, ossessionato, pericoloso. Quella sera era sorridente e benevolo. Un appassionato che parlava di Satana come don Camillo parlava a Gesù. Il vecchio si riassumeva tutto nel suo enorme naso. Tutti i suoi tratti confluivano alla sua base come un villaggio attorno al campanile. Era una curva arcuata che partiva brusca dalla fronte alta per attraversare il viso grigio e arrotolarsi al di sopra delle labbra secche. Colsi la sua pausa per entrare nel vivo della conversazione. «Ma lei», feci indicandolo con il dito, «che cosa ha pensato della seduta di questa mattina?» Mi guardò in silenzio, con un sorriso appena accennato. «Abbiamo assistito a un flagrante delitto. Un flagrante delitto d'esistenza!» «Del diavolo?» Si curvò sulla scrivania. «Oggi si pensa che Lucifero non sia mai esistito. In un mondo in cui Dio sopravvive a malapena, il diavolo è relegato a un ruolo di superstizione. Un cliché di un'altra epoca. Quanto ai casi di possessione, non si tratterebbe d'altro che di alienazione mentale.» «Direi che comunque abbiamo fatto un progresso, no?»
«No. Abbiamo gettato il neonato con l'acqua del bagnetto. L'esistenza dell'isteria non nega quella del diavolo. Il fatto che le nostre società industrializzate abbiano sotterrato questa paura ancestrale non significa che il suo oggetto sia scomparso. In realtà molti religiosi pensano che il XX secolo abbia segnato il trionfo dell'Anticristo. È riuscito a farci dimenticare la sua presenza. Si è insinuato negli ingranaggi della nostra società. È ovunque, ovvero in nessun luogo. Diluito, integrato, invisibile. Avanza senza rumore né volto, ma non è mai stato così potente!» Katz sembrava soggiogato dalle sue stesse parole. Ritornai al mio soggetto. «L'esperienza di Luc è stata quindi una finestra su un'altra realtà?» «Una finestra sul cortile», ridacchiò lui. «Sì. Questa mattina ci è apparso il diavolo, quello vero. Un essere malvagio, ostile, crudele, un maestro dell'apostasia che opera in fondo a ogni spirito, la "bestia immonda che si annida nelle nostre viscere". Luc Soubeyras, morendo, l'ha avvicinato. L'ha visto e ascoltato. E adesso è impregnato di questa presenza. Posseduto nel senso più forte del termine.» «Ma che cosa pensa della creatura che gli è apparsa? Quel vecchio dai capelli luminescenti? Perché quell'aspetto?» «Il diavolo è menzogna, miraggio, illusione. Moltiplica i volti per meglio confonderci. Non dobbiamo fermarci a quello che vedono i nostri occhi, a quello che odono le nostre orecchie. San Paolo ci esorta: "Indossate l'armatura di Dio, al fine di essere capaci di resistere alle astuzie del demonio!".» Non c'era modo di arrestare quel pozzo di citazioni. Presi slancio e feci l'unica domanda che, in fondo, mi importava in quel momento. «Alla fine della seduta, quando Luc ha urlato, la lingua era aramaico?» Katz sorrise ancora. Un sorriso che irradiava giovinezza. «Certo. L'aramaico della Bibbia. L'aramaico dei manoscritti del mar Morto. La lingua di Satana quando ha parlato a Gesù nel deserto. Il suo uso da parte di Luc potrebbe essere considerato come un sintomo ufficiale di possessione, poiché egli non conosce questa lingua...» «La conosceva. Luc Soubeyras aveva seguito un corso all'Istituto cattolico di Parigi. Ha studiato molte lingue antiche.» «In questo caso è ancora più grave. Una possessione invisibile, senza sintomi, senza segni esteriori, assolutamente... integrata!» «Ha capito che cosa voleva dire?» «Dina hou be'ovadâna. La traduzione letterale è: "La legge è nei nostri
atti".» «"La legge è quello che facciamo", potrebbe andare bene?» «Sì Ma in aramaico non c'è il presente. Sarebbe, per così dire, un presente universale.» La frase di Agostina. La frase del Giuramento del Limbo. LA LEGGE È QUELLO CHE FACCIAMO. La libertà totale del male, elevata a legge. Perché Luc ripeteva quelle parole? Come le conosceva? Le aveva davvero udite in fondo al nulla? Tutti gli elementi rafforzavano la logica dell'impossibile. «Ultima domanda», dissi concentrandomi sulle mie parole, «aveva parlato con Luc prima della seduta di questa mattina?» «Sì. Mi aveva chiamato.» «Le ha chiesto di essere esorcizzato?» «No. Al contrario.» «Al contrario?» «Sembrava, come dire, soddisfatto del suo stato. Si autosserva, vede. È il teatro di un'esperienza. Il soggetto della propria dannazione. Lux aeterna luceat eis, Domine!» 101 Quando fui di nuovo in strada controllai il cellulare. Nessun messaggio. Merda. Salii in auto e decisi di rientrare direttamente a casa. Non riuscivo a cambiare marcia senza grattare e quando dovevo frenare inchiodavo. Ogni volta che giravo il volante il dolore alla spalla si risvegliava. Dovevo assolutamente riposare, almeno una notte. A casa, nuova delusione. Manon dormiva ancora. Mi liberai di pistola e fondina e andai in cucina. Aveva preparato la cena secondo i miei gusti. Germogli di bambù, fagiolini, olio di soia, riso bianco e sesamo. A fianco c'era un thermos pieno di tè. Ammirai il servizio e i coperti, accuratamente disposti sul banco: l'insalatiera in legno di giuggiolo, i bastoncini di lacca, le coppette, la tazza... Mio malgrado, dietro quelle delicate attenzioni scorsi un significato nascosto. Sempre lo stesso: «Vai a farti fottere». Attaccai il pasto in piedi, senza il minimo appetito. I pensieri cupi continuavano ad assediarmi. In fondo, non valevo molto più degli invasati con i quali avevo trascorso la giornata. Avevo perso dodici ore per trovare una conferma a improbabili ipotesi. Perché avevo sprecato tutto quel tempo sulle visioni di Luc, semplice miraggio psichico? Avrei dovuto invece
concentrarmi sull'indagine concreta: trovare l'assassino di Sylvie Simonis. Era questa l'unica cosa importante: provare l'innocenza di Manon. Dal mio ritorno non avevo fatto un solo passo in più in quella direzione. Ero incapace di indirizzare i miei uomini su piste costruttive. Quella del Jura non aveva fruttato nulla. E così pure quella del Gabon. E nel frattempo la squadra doveva affrontare altre inchieste. Dumayet aveva ragione: ero fuori strada. Interruppi il mio simulacro di cena, misi il cibo in frigorifero e piatti, coppette e bastoncini nella lavastoviglie. Presi la bottiglia di vodka dal congelatore e mi riempii la tazza. Poi, portandomi dietro la bottiglia, mi buttai sul divano. Non avevo acceso la luce. Restai nella penombra, osservando le ombre sul soffitto. Attraverso le finestre chiuse sentivo il rumore della pioggia e del traffico. Dovevo trovare una nuova pista. Abbandonare le visioni di Luc e la pretesa esistenza del diavolo. Snidare nuovi elementi nel Jura, sugli insetti, il lichene, gli acidi... Dovevo circoscrivere la mia indagine. Dopotutto avevo una colpevole in Italia. Un altro in Estonia. Dovevo concentrarmi su quello di Sartuis. Solo dopo avere individuato i miei assassini avrei potuto concedermi i lussi della metafisica. Portai la tazza alle labbra e mi bloccai. Un'idea mi aveva attraversato la mente. Da molto - da quando avevo scoperto l'esistenza dei Senza Luce sospettavo che ci fosse qualcuno, nell'ombra, che fomentava quei «visionari». Non avevo mai veramente creduto alla completa colpevolezza di Agostina e di Raïmo. Né l'ima né l'altro avevano le competenze per eseguire il sacrificio con gli insetti. Un uomo nascosto, sì, ma non solo. Un vero e proprio killer. Un assassino che uccideva al posto dei Senza Luce e che, in un modo o nell'altro, riusciva a convincerli della loro colpevolezza. Van Dieterling aveva evocato un «sovrassassino». Zamorski un «ispiratore». Ma entrambi parlavano del diavolo in persona. La verità era un'altra: un uomo, un semplice mortale, uccideva all'ombra dei Senza Luce. Un demente che rintracciava i sopravvissuti in tutta Europa e li vendicava. L'iscrizione sulla corteccia a Bienfaisance non diceva forse: IO PROTEGGO I SENZA LUCE? Non dovevo cercare un colpevole per l'omicidio di Sylvie Simonis. Ma un unico responsabile per tutti e tre i casi, e forse molti altri ancora!
Un assassino che viveva nel Jura, ne ero certo, e il cui campo d'azione era tutta l'Europa. Non solo un manipolatore di acidi e un allevatore di insetti, ma anche un uomo capace di penetrare nel cervello dei Senza Luce per convincerli di avere ucciso al suo posto... Una nuova folgorazione. E se fosse stato proprio lui a creare i Senza Luce? Se riuscisse a entrare nel loro inconscio e a generare quelle visioni negative? Non un demone, ma un demiurgo. Un uomo che tirava le fila dei tre omicidi. Un uomo che orchestrava le visioni che sembravano precederli. Il Visitatore del Limbo. Dovevo riportare con i piedi per terra tutto quel macabro balletto. Il vecchio luminescente, l'angelo vampiro, il bambino sanguinante: queste visioni componevano il volto di un solo uomo. Un folle che si travestiva assumendo sembianze diverse e che triturava le coscienze. Un assassino che torturava i corpi e moltiplicava le parvenze demoniache. Un demente che si prendeva per Satana e fabbricava i propri Senza Luce! Un altro sorso di vodka. Altri pensieri inquietanti. Come faceva a suggerire ai miracolati le loro visioni? Come si manifestava? Nessuna risposta. Mi lasciai tuttavia convincere da quella nuova certezza. Il Visitatore del Limbo. Un mostro simile esisteva, e gli avrei messo le mani addosso. Era lui che mi aveva scritto «TI ASPETTAVO» e «SOLTANTO TU E IO». Quel demonio stava aspettando il suo Arcangelo Michele per il duello finale! Mi versai un altro bicchiere per brindare alla mia perspicacia. La vibrazione del cellulare mi fece sussultare. Pensai a Corine Magnan. Era invece Svendsen. «Forse ho delle novità.» «Su cosa?» «I morsi.» Avevo svuotato mezza bottiglia di vodka e le supposizioni mi si affollavano in testa. Non capivo di cosa stesse parlando Svendsen. Ma dopo qualche secondo ci arrivai. Avevo quasi dimenticato quel particolare che accomunava i delitti: i segni di denti. Avevo scartato quell'indizio per paura di scoprire una prova fisica dell'esistenza di Pazuzu, il demone con la te-
sta da pipistrello. «Forse so come fa», proseguì il medico legale. «Sei alla Rapée?» «Dove vuoi che sia?» «Arrivo.» Mi alzai con qualche difficoltà, rimisi la bottiglia nel congelatore, presi l'impermeabile e mi misi il fodero alla cintura. Poi fissai la porta della camera. Scrissi un biglietto per spiegare a Manon che ero dovuto uscire «per l'indagine» e lo posai sul tavolo del soggiorno prima di eclissarmi senza fare rumore. Attraversai la strada e bussai al finestrino dell'auto appostata sotto casa mia. Da quando eravamo tornati a Parigi avevo piazzato due uomini a sorvegliare il mio palazzo e gli spostamenti di Manon. Il finestrino si abbassò sprigionando un odore di MacDonald's e caffè freddo. «Sarò di ritorno al massimo tra due ore. Tenete gli occhi aperti.» Un poliziotto dalla faccia color cartapesta fece cenno di sì senza aprire bocca. Mi precipitai verso la mia auto. Sollevai meccanicamente lo sguardo verso le finestre di casa mia. Tutt'a un tratto mi parve di distinguere una forma, agile, rapida, dietro le tende della camera. Manon si era svegliata o era soltanto il riflesso dei fari di un'auto di passaggio? Aspettai un minuto buono. Non accadde nulla. Partii senza essere nemmeno sicuro di quello che avevo visto. Le dieci di sera. Circolazione fluida, asfalto bagnato. Accesi una sigaretta. Il sapore della vodka svaniva e stavo ritrovando la lucidità. Questa uscita imprevista mi risollevava. Tuttavia, quando entrai nell'obitorio, il senso di malessere si riaffacciò. Svendsen mi aspettava davanti a due machete posati su un tavolo da autopsia. Sentii in gola il sapore del Ruanda. Un bruciore acido, intriso di vodka e di terrore. Mi appoggiai a un carrello. «Che cosa vuol dire?» La mia voce era alterata. Lo svedese sorrise. «La tua soluzione. Dimostrazione.» Prese un vasetto di colla industriale e ne cosparse una delle lame. Poi prese una manciata di frammenti di vetro che sparse sulla colla. Prese il secondo machete e lo posò sopra, come una fetta di pane sul prosciutto di un panino.
«Ecco fatto.» «Fatto cosa?» Avvolse i due manici con del nastro adesivo per tenerli uniti. Si voltò verso una figura sotto un lenzuolo. Senza esitare denudò il busto di un vecchio dalla faccia tumefatta, sollevò l'arma e la fece calare violentemente sul torso. Ero esterrefatto. A volte Svendsen era incontrollabile. Tolse quindi a fatica i frammenti di vetro dalla carne e mi ordinò: «Avvicinati». Non mi mossi. «Avvicinati, ti ho detto. Non preoccuparti, questo cadavere è qui da una settimana. Un barbone. Nessuno l'ha identificato e nessuno protesterà.» Feci controvoglia un passo avanti e osservai la ferita. Simulava perfettamente segni di morsi. Perlomeno dei «miei» morsi. Quelli della iena o belva che aveva infierito sul cadavere di Sylvie Simonis. «Hai capito?» Svendsen brandiva tutto fiero il suo doppio machete. Attorno a noi le pareti d'acciaio brillavano debolmente sotto la luce dei neon. «Se avessi avuto il tempo di trovare dei veri denti di animale l'illusione sarebbe stata perfetta», aggiunse lo svedese. I cocci di vetro scintillavano nella luce argentata. Il Ruanda si eclissava a vantaggio di altri orrori. La doppia lama che si abbatte su Sylvie Simonis. I rumori sordi dei colpi. Il respiro sincopato dell'assassino. Le carni di Sylvie torturate, lacerate. «Da dove ti è venuta questa idea?» «Un regolamento di conti tra neri a place de la République. L'aspetto delle mutilazioni mi ha indotto a fare qualche telefonata ai medici che avevano prestato la loro opera di soccorso in conflitti recenti. Ruanda, Sierra Leone, Sudan...» «Nessuno utilizzava questa tecnica in Ruanda.» Svendsen sollevò la testa. «È vero. Tu lo sai. In effetti parlo piuttosto della Sierra Leone. Mi sono informato. Gli anni Novanta. Le milizie di Foday Sankoh. Alcuni gruppi usavano questo metodo per far credere alle popolazioni che avevano come alleati gli animali della foresta. Sei andato in quei posti, non occorre che ti racconti com'è.» Non sapevo nulla della Sierra Leone, ma ricordavo che gli uomini di quelle milizie si agghindavano con maschere spaventose. Immagini famose: soldati bardati di cartucciere, con in pugno fucili automatici, che si adornavano di maschere e parrucche abominevoli.
Osservai ancora il doppio machete di Svendsen. Quell'arma crudele mi riconfortava. Dava corpo alle mie ipotesi pragmatiche. Un solo e unico assassino. In Estonia, in Italia, in Francia, ogni volta si era servito di quest'arma da lui confezionata. Era anche un nuovo indizio in direzione dell'Africa. Il mio visitatore aveva vissuto là. Aveva fatto i suoi esordi nel continente nero. Aveva partecipato ai conflitti locali, studiato gli insetti e la botanica di quei paesi. Stava iniziando a prendere forma un uomo in carne e ossa. E Pazuzu usciva di scena. Mi complimentai con Svendsen e partii di corsa. Ora più che mai dovevo riprendere l'indagine su basi concrete. Il Visitatore aveva fatto di tutto per assomigliare al diavolo e farsi credere una creatura soprannaturale. Ma i segreti della sua tecnica si stavano svelando e avrei presto scoperto l'origine dell'incubo. 102 Consultai la segreteria. Corine Magnan mi aveva cercato. Finalmente. Digitai il suo numero nel cortile dell'obitorio, sotto una fine pioggerella. «Mi scusi se l'ho richiamata così tardi», esordì lei. «Le mie giornate qui a Parigi non finiscono mai. Che cosa posso fare per lei? Temo non molto. Non sono nemmeno autorizzata a parlarle.» Aveva messo le mani avanti. Alzai la bandiera bianca. «Volevo proporle il mio aiuto.» «Durey, la prego: resti fuori da questa storia. Ho già chiuso gli occhi sul suo intervento nel Jura. Le ricordo che questo caso non è di sua competenza.» Il tono era secco, ma capii che lo faceva per difendersi. Sola a Parigi, senza sostegno né conoscenze, circondata dai cerberi della Giudiziaria, Corine Magnan sfoderava le unghie per imporsi. «Ok», feci io in tono conciliante. «Allora mi dica soltanto che cosa ci faceva questa mattina all'ospedale. Lei si occupa di istruire il dossier dell'omicidio di Sylvie Simonis: che rapporto ha con i deliri di Luc?» Ci fu un breve silenzio. Magnan riordinava mentalmente le sue informazioni. Quello che poteva o non poteva rivelarmi. «L'esperienza di Soubeyras ha gettato una nuova luce sulla mia indagine», disse infine.
«Crede a quelle storie di visioni e possessioni?» «Poco importa se ci credo. Quello che mi interessa è l'influsso di questi traumi sui protagonisti del mio caso.» «Sia chiara. Quali protagonisti?» «La mia sospetta numero uno è Manon Simonis. La ragazza avrebbe potuto fare la stessa esperienza di Luc Soubeyras. Nel 1988, quando era in coma.» «Manon non ha alcun ricordo di questo tipo.» «Questo non esclude che abbia avuto una NDE negativa.» «Ammettendo che l'abbia vissuta, e che questa esperienza l'abbia trasformata in un'assassina, il che è già duro da digerire, quale sarebbe il suo movente?» «La vendetta.» Continuai a recitare la parte dell'idiota. «Di cosa?» «Durey, la smetta di prendermi in giro. Sa meglio di me che è stata sua madre a tentare di ucciderla, nel 1988. Manon potrebbe ricordarsene, nonostante quello che ha detto.» Era come se degli aghi ghiacciati mi fossero stati conficcati nel viso. Corine Magnan ne sapeva molto di più di quanto pensassi. «Mi lasci riassumere», ribattei in tono scettico. «Quando è annegata, Manon avrebbe vissuto una NDE negativa. E questa prova l'avrebbe lentamente trasformata in una spietata vendicatrice che avrebbe atteso quattordici anni prima di colpire?» «È un'ipotesi.» «E il suo unico indizio è lo stato di shock di Luc Soubeyras?» «E la sua evoluzione, sì.» «Ci vogliono delle prove concrete per arrestare la gente.» «È per questo che finora non ho arrestato nessuno.» «Vuole interrogare ancora Manon?» «Voglio ascoltarla prima di rientrare a Besançon.» «Lei non lo sopporterà.» «Non è di porcellana.» La sua voce si era raddolcita. «Durey, lei è un po' troppo coinvolto in questa storia. E sembra anche avere i nervi a fior di pelle. Se vuole davvero aiutare Manon, esca dal cerchio. La sua presenza non può che peggiorare le cose.» Mi sentii di nuovo invadere dalla collera. «Come può cavare qualcosa dalla testimonianza di un uomo appena uscito dal coma? Conosco Luc da oltre vent'anni. Non è in uno stato normale.»
«Sta fingendo di non capire. È proprio questo stato che mi interessa. L'influsso psichico di una NDE infernale. Voglio capire se un tale trauma possa realmente indurre al crimine. E se durante la sua morte temporanea Manon ha vissuto un'esperienza simile...» La situazione era sempre più chiara. Il mio migliore amico come prova a carico della donna che amavo. Un autentico dilemma corneilliano. Come per darmi il colpo finale, Magnan aggiunse: «So molte più cose di quanto lei immagini. Agostina Gedda. Raïmo Rihiimäki. Non sarebbe la prima volta che una visione infernale induce a un crimine di questo tipo». «Chi le ha parlato di questi casi?» «Luc Soubeyras non ha soltanto testimoniato, mi ha dato anche il dossier della sua indagine.» Vacillai. Avrei dovuto pensarci. «Il suo lavoro non è altro che una serie di supposizioni senza fondamento», balbettai. «Non ha niente contro Manon!» «Allora non è il caso che si agiti», ribatté in torto ironico. «È tardi, comandante. Non mi richiami più.» Giocai la mia ultima carta e urlai: «Una testimonianza sotto ipnosi non è giuridicamente accettabile! Dove lo mette il "consenso libero e informato" del testimone?». «Vedo che si occupa anche di diritto, bene», fece lei sarcastica. «Ma chi parla di testimonianza? Ho registrato l'esperienza di Luc Soubeyras nell'ambito di una perizia psichiatrica. Luc è un testimone volontario. Devo prima verificare il suo stato mentale. In questo contesto, l'ipnosi non pone alcun problema. Si informi, ci sono stati dei precedenti.» Magnan trionfava. Risposi senza convinzione: «La sua istruttoria è un castello di carte». «Buonasera, comandante.» Il segnale di linea libera mi risuonò nella mano. Fissai stupidamente il cellulare. Avevo perso la manche ed ero sicuro che Magnan non mi aveva detto tutto. Digitai un altro numero. Foucault. A mezzanotte e mezzo la sua voce era chiara. «Ho appena finito la mia giornata», disse ridendo. «Su cosa stai lavorando?» «Una storia alla Isle-Adam. Un annegato. Senza però acqua nei polmoni. E tu dove ti eri cacciato? È da più di una settimana che...» «Una battuta di caccia, ti va bene?» «Di che genere?»
«Non al telefono. Sei in ufficio?» «Stavo per andare a casa.» «Raggiungimi al giardino Jean-XXIII.» Saltai in macchina e attraversai il ponte d'Austerlitz. Risalii il lungofiume in direzione di Notre-Dame. Parcheggiai vicino alla chiesa di SaintJulien-le-Pauvre, sulla Rive Gauche, e poi attraversai a piedi il ponte dell'Arcivescovado. Foucault era già lì, seduto sullo schienale di una panchina. La sua zazzera riccioluta si stagliava contro i muri grigi della cattedrale, in fondo al giardino. «Che cos'è?» chiese ridacchiando. «Un complotto?» «Un favore.» «Dimmi.» «Un magistrato di Besançon, attualmente a Parigi.» «La donna che si occupa del tuo caso?» «Sì, Corine Magnan.» «Dove si trova?» «Spetta a te dirmelo. L'ho incrociata questa mattina. Si fa assistere da quelli della Giudiziaria, ma non sono sicuro che lavori nei loro locali.» «D'accordo, la rintraccio. E che cosa faccio?» «Voglio sapere tutto quello che ha in mano sulla figlia di Sylvie Simonis, Manon.» «Quella che vive da te?» Le notizie volavano veloci. Per discrezione, avevo arruolato la mia squadra di sorveglianza tra gli uomini della BAC, la Brigata anticrimine. Ma non esistono segreti nella polizia. Ignorai la domanda e continuai: «Mi serve il suo dossier». «Solo questo? Se lo terrà addosso giorno e notte.» «A meno che non pesi una tonnellata.» «Se pesa una tonnellata non potrò portarlo fuori. Né copiarlo.» «In qualche modo devi sfangartela. Copia solo le parti che riguardano Manon. Voglio sapere che cosa c'è a suo carico.» Foucault balzò a terra. «Mi ci metto subito. Ti richiamo domani mattina.» «No. Appena hai delle novità.» «Contaci.» Gli strinsi un braccio. «Apprezzo molto quello che fai.» Lo vidi scomparire sotto i salici piangenti della piazza. Il vento e gli o-
dori dell'asfalto umido tornarono ad avvolgermi. Rabbrividii, e tuttavia avvertivo una calorosa sensazione di familiarità. Parigi era lì, con tutti i suoi bei ricordi. Mi sedetti a mia volta sulla panchina. La pioggia era diventata un'acquerugiola quasi impercettibile che vaporizzava la notte. Ripresi il filo dei miei pensieri da dove l'avevo lasciato due ore prima. L'ipotesi di un solo omicida, capace al tempo stesso di decomporre un corpo vivo e di insinuarsi nelle coscienze. Il Visitatore del Limbo... Gli interrogativi non mancavano. Come faceva a influenzare le menti? Era riuscito a ricreare un'esperienza di pre-morte? In tal caso, perché le sue vittime erano persuase di avere vissuto quel «viaggio» subito prima o dopo il periodo di incoscienza? Era riuscito a confondere anche i loro ricordi? Dovevo approfondire l'aspetto tecnico di questa allucinazione: i prodotti chimici, le droghe o i metodi di suggestione che permettevano di indurre quei miraggi. Tutt'a un tratto ebbi una nuova rivelazione. Solo una sostanza avrebbe potuto indurre quelle allucinazioni: l'iboga nera. Grazie a essa il Visitatore poteva forse creare il suo proprio Limbo per «apparire» ai miracolati. Li proiettava ai confini della morte per poi sorgere davanti a loro in carne e ossa, dalle profondità del loro coma. Un nuovo anello nella mia indagine. L'iboga, la pianta dalla quale era iniziata la mia indagine... C'era finalmente un collegamento diretto tra l'omicidio di Massine Larfaoui, spacciatore di iboga, e quelli di Sylvie Simonis, Arturas Rihiimäki, Salvatore Gedda... Il Visitatore del Limbo acquistava forse l'iboga nera da Larfaoui. Da lì a pensare che fosse anche l'assassino del cabilo, non c'era che un passo. Mi alzai e respirai a fondo. Dovevo ributtarmi nel dossier Larfaoui. Seguire la pista dell'iboga. Ma prima di tutto verificare se la mia ipotesi reggeva dal punto di vista «medico». 103 Un nome mi si affacciò subito alla mente: Eric Thuillier. Il neurologo che aveva in cura Luc dal suo trasferimento all'Hôtel-Dieu. Guardai l'orologio: l'una e mezzo. Digitai il numero dell'ospedale e chie-
si di parlare con il dottor Eric Thuillier. Esisteva una possibilità su dieci che fosse di guardia quella notte. C'era, ma non potevano passarmelo: era impegnato con un paziente. Chiusi la comunicazione senza lasciare messaggi e mi avviai verso l'HôtelDieu, che distava appena una cinquantina di metri. Reparto di rianimazione. Mi fermai davanti al corridoio, dietro la porta a vetri. Luminescenze verdastre, riflessi d'acquario. Odori di catrame e di disinfettante. Aspettai il neurologo che sarebbe uscito da una di quelle stanze. Un'ombra apparve nel corridoio. Riconobbi il mio fantasma, malgrado il camice, la mascherina e gli zoccoli. Appena varcò la porta lo salutai. Abbassò la mascherina, non parve sorpreso di vedermi. A quell'ora, e in quel reparto, niente era sorprendente. Si tolse il camice nella hall. «Un'urgenza?» domandò, arrotolando il camice di carta. «Per me, sì.» Lanciò il camice in un cestino fissato al muro. «Volevo semplicemente esporle una mia teoria.» Sorrise. «E non poteva aspettare domani?» Sorrisi a mia volta. Avevo ritrovato il primo della classe che avevo incontrato all'inizio della mia indagine. Colletto Oxford, occhialetti tondi, pantaloni di velluto a coste troppo corti. «Si può fumare, qui?» «No», rispose Thuillier. «Ma ne voglio una anch'io.» Gli porsi il pacchetto. Il neurologo fece un fischio di ammirazione. «Senza filtro? Le compra di contrabbando o cosa?» Prese una sigaretta. «Non sapevo che se ne trovassero ancora.» Ne presi una anch'io. In qualità di poliziotto sapevo quanto fossero importanti le prime parole. Era spesso il primo minuto a decidere l'esito di un interrogatorio. Quella notte sembrava che fossimo sulla stessa lunghezza d'onda. Thuillier indicò una porta socchiusa alle mie spalle. «Andiamo di là.» Lo seguii. Mi ritrovai in una stanza senza finestre né mobili. Un locale inutilizzato dell'edificio, o semplicemente la saletta riservata ai fumatori. Thuillier si sedette sull'unica panca e prese dalla tasca una scatola d'alluminio di pasticche alla liquirizia: il kit del vero tabagista. «Allora, questa teoria?» «Vorrei parlarle dell'esperienza di Luc Soubeyras. Quella che ci ha raccontato questa mattina.»
«Straordinaria. Eppure ne ho viste tante, mi creda.» Approvai con un cenno del capo e cominciai: «Una questione cronologica, prima di tutto. Luc ha raccontato il suo viaggio come se l'avesse vissuto al momento del suo annegamento. Pensa che abbia invece potuto viverlo al risveglio?». «Forse. Potrebbe confondere i due momenti: perdita di coscienza e rianimazione. È frequente. Sono zone confuse, un buco nero.» «Avrebbe anche potuto avere questa allucinazione nei giorni successivi, quando la sua mente era ancora... appannata?» «Non la seguo molto bene.» Mi avvicinai e misi nelle mie parole tutta la mia forza di persuasione. «Mi chiedo se la NDE possa essere stata provocata da qualcuno.» «Come sarebbe a dire?» «Immagino che gli sia stata "iniettata" una sorta di... illusione mentale.» «E in che modo?» «Mi dica intanto se è ipotizzabile.» Il neurologo inalò una boccata di fumo, prendendo il tempo di riflettere. Sembrava divertito. «Si può sempre drogare qualcuno. O suggestionarlo. Zucca, questa mattina, ce ne ha dato un ottimo esempio. Aveva, letteralmente, Luc nelle sue mani.» «La coscienza di un uomo che esce dal coma è particolarmente vulnerabile, no?» «Certo. Per molti giorni il rianimato non riesce a distinguere tra sogno e realtà. E la sua memoria è imprecisa.» «Luc era quindi una preda facile per una simile manipolazione?» «Vorrei essere certo di capire. Un intruso sarebbe entrato nella sua camera e gli avrebbe somministrato un qualche cocktail allucinogeno?» «Proprio così.» Thuillier assunse un'espressione scettica. «Da un punto di vista pratico, mi sembra difficile. Il nostro reparto è praticamente blindato e sorvegliato ventiquattro ore su ventiquattro. Nessuno può avvicinarsi a un paziente senza compilare un formulario o incontrare un'infermiera.» «Nessuno tranne i medici.» «Sta dicendo sul serio?» «Penso ad alta voce.» Il neurologo spense la sigaretta nella scatolina. «Mettiamo che sia così. Ma quale sarebbe lo scopo della manovra? Dro-
gare o ipnotizzare un paziente che esce dal coma è un po' come buttare in un burrone una vittima di incidente stradale appena dimessa dall'ospedale. È puro sadismo.» «Ma in teoria è possibile.» Mi guardò perplesso. «Ha solo dei sospetti o anche delle prove?» «Penso che l'uomo che sto cercando abbia potuto usare una pianta africana. L'iboga.» «È un'ipotesi un po' avventata. L'iboga è un potente psicotropo. Il suo dottor Mabuse avrebbe fatto assumere questa sostanza a Luc, appena uscito dal coma, per fargli credere di avere vissuto una NDE?» «È possibile o no?» «Tenderei a escluderlo. L'iboga ha effetti molto violenti. Vomito, convulsioni. Luc si sarebbe ricordato di questi disturbi. Senza contare il problema dell'assunzione. L'iboga si assume sotto forma di infuso e...» «Ho sentito parlare di un preparato iniettabile.» «Per fare una cosa simile dovrebbe essere uno specialista in grado di estrarre il principio attivo, trattare la molecola. E poi l'iboga è una pianta pericolosa, un veleno. In Africa ha fatto molte vittime.» Alzai una mano. «La questione, non si pone in questi termini. Il mio sospetto è in ogni caso un assassino psicopatico. Un uomo che si prende per il diavolo e agisce senza la minima considerazione morale.» «Sta cominciando a mettermi paura.» «Continuiamo allora a immaginare l'operazione. È possibile associare l'iboga ad altri anestetici?» «Solo un esperto potrebbe farlo.» Un chimico. Un botanico. Un entomologo. E adesso un farmacologo o un anestesista. E anche un medico capace di introdursi in Rianimazione all'Hôtel-Dieu. Il profilo dell'assassino diventava sempre più preciso. «Pensa quindi che la mia ipotesi possa essere plausibile?» domandai. «Mi sembra un po' tirata per i capelli. E troppo macchinosa. Si dovrebbero mescolare più sostanze: una per intorpidire il paziente, un'altra per prevenire gli effetti secondari dell'iboga, e poi l'iboga stessa, diluita in un composto...» «E anche qualcosa per rendere il soggetto più suggestionabile.» «In che modo?» «Durante l'operazione, il mio manipolatore appare al paziente mascherato da diavolo. Entra nelle sue allucinazioni in una sorta di rituale biochimico.»
«Come il vecchio di cui ha parlato Luc?» «Esattamente. Quando il soggetto ha l'impressione di uscire dal suo corpo e vede il tunnel, gli appare l'assassino, truccato e camuffato...» «Ma se il suo soggetto è incosciente?» «Non del tutto. E una questione di dosaggio delle varie sostanze, no? Il mio apprendista stregone induce forse uno stato di semicoscienza...» Thuillier rise nervosamente. «Non pensa di mettere troppa carne al fuoco? Perché architettare tutto questo?» «Penso di avere a che fare con un genio criminale, un assassino che gioca con la patologia delle vittime. Un uomo che ha creato il proprio universo malefico, lontano dalla specie umana. Un omicida metafisico.» «Luc Soubeyras sarebbe stato drogato al momento del risveglio?» «È quello che suppongo.» «Nel mio reparto?» «Capisco che le sia difficile accettare questa idea. D'altronde non ho l'ombra di una prova, e nemmeno un indizio. Tranne la presenza dell'iboga ai margini della mia indagine.» Thuillier sembrò riflettere. «Ha un'altra sigaretta?» chiese infine. Gli lanciai il pacchetto, poi ne presi una a mia volta. La stanza cominciava a somigliare a un bagno turco. Attraverso la nuvola di fumo che lo avvolgeva, il neurologo mormorò: «Si sta muovendo in un mondo piuttosto... terrificante». «È il mondo di colui che sto cercando. Non il mio.» Per qualche istante ci fumammo le nostre sigarette in silenzio. Poi, dopo essermi riordinato le idee, proseguii: «Se ho ragione, questo significa che il visitatore si è introdotto con un pretesto qualsiasi nel suo reparto. Oppure che fa parte dell'équipe che si è presa cura di Luc. Posso avere l'elenco dei medici che gli si sono avvicinati?». «Nessun problema. Ma mi creda, conosco i colleghi che...» «In ogni caso il mio uomo è stato informato del risveglio di Luc. Chi ne era al corrente?» Thuillier si passò la mano nei capelli. «Bisognerebbe fare una lista. I medici, ma anche gli infermieri, gli anestesisti, il personale amministrativo... Un bel po' di gente, in realtà. Senza contare Internet. La notizia può essere stata annunciata in molti modi. Anche attraverso la richiesta di alcuni farmaci specifici.» Annotai mentalmente le diverse piste possibili. Thuillier sollevò la testa.
«Se ho ben capito, Luc non sarebbe l'unica vittima?» «Sì, sospetto ce ne sia più di una.» «E ogni volta il suo uomo si troverebbe al loro capezzale?» «Non sempre, no. Penso li abbia condizionati anche molto dopo il risveglio. Approfitta della fragilità delle loro menti. Quando, anni più tardi, il soggetto subisce questa allucinazione, pensa naturalmente di ricordare una NDE vissuta durante il coma. Come se un velo si levasse d'un tratto sulla sua memoria.» Enunciando le mie supposizioni, sentivo accelerare i battiti del mio cuore. Sentivo che il sangue freddo stava per abbandonarmi. Sotto le mie parole e le mie riflessioni prendeva corpo il Visitatore del Limbo. Un creatore di Senza Luce. Il diavolo incarnato sulla terra per reclutare la sua armata. Il neurologo si alzò e mi diede un'amichevole pacca sulla spalla. «Andiamo a berci un caffè. Ha l'aria molto tesa. Le scriverò la lista che mi ha chiesto. E le darò anche del materiale sull'iboga. L'anno scorso uno dei miei studenti ci ha scritto sopra la tesi. C'è sempre chi si appassiona a queste storie psichedeliche!» 104 Il venerdì notte rue Myrrha manteneva le sue promesse. Bar scalcagnati, conciliaboli sui marciapiedi, drogati che rasentavano i muri, puttane anglofone intirizzite dal freddo sotto i portici... e le solite pattuglie di sbirri. La pioggia offuscava le cose, ma io non ci avevo mai visto così chiaro. Avevo il mio filo rosso. L'iboga. Come gli Asserviti, il mio Visitatore aveva bisogno di questa pianta. Ritorno al punto di partenza. Da Foxy, la maga. La tromba delle scale brillava di mille luci minuscole. Dai buchi tappati, dalle fenditure delle porte, dalle fessure dei parquet, trapelava lo scintillio degli appartamenti illuminati da lampadine spoglie, lampade a gas e candele. Mi avventurai su quella spirale, affrontando gli odori di manioca, di olio fritto e di urina. Il marcantonio al piano di Foxy mi riconobbe. Mi lasciò passare senza fare una mossa. Attraversando il dedalo delle stanze, scorsi le ragazze che si preparavano: in ginocchio sulle stuoie, come se pregassero, si guardavano in piccoli specchi o si facevano le unghie con cura da artista.
Sollevai la cortina di tela. I soprammobili, le cassepanche, le bottiglie, i fumi che salivano lenti nell'aria: ogni dettaglio era al suo posto. Un mondo strisciante e magico, sul quale incombevano zampe di animali, mazzi di piante, corone di conchiglie... Foxy era sola. Seduta sul pavimento avvolta nel suo boubou, maneggiava frammenti di favi pieni di miele e li sgranocchiava come fossero biscotti. Ridacchiò mentre mi avvicinavo. «Honey, hai ritrovato la strada», disse in inglese. «Sono molte le strade che portano a te, Foxy.» «Cosa vuoi, mio principe?» «Sempre la stessa cosa. Informazioni su Massine Larfaoui.» «Storia vecchia.» «L'altra volta non mi hai detto tutto. Non mi hai parlato dell'iboga nera.» Spezzò un favo, il miele le colò fra le dita. Posai un ginocchio a terra. «Me ne frego dei tuoi traffici, Foxy. Puoi vendere quello che vuoi, a chi vuoi.» «Non vendo iboga nera. È una pianta sacra. Pericolosa per la mente. Non troverai nessuno che te la venda.» Non mentiva. L'iboga nera era probabilmente tabù, eppure era circolata a Parigi. Zamorski me l'aveva confermato e mi fidavo delle sue fonti. «Larfaoui se ne procurava. Come faceva?» «C'è sotto un imbroglio. Non voglio parlare di questo.» «Resterà fra noi.» Lasciò perdere i nidi dorati e mi prese la mano. Le sue dita erano appiccicose. «Ti ricordi del nostro accordo?» mormorò con tono noncurante. Annuii. Le sue cicatrici brillavano alla luce delle candele. «È a causa delle mie ragazze.» «Le tue ragazze?» Scosse il capo, come una bambina sconsolata. «Larfaoui chiedeva loro di procurargliene.» «Qui da te?» «Ti ripeto che non ho niente a che fare con questa roba! E questa radice non cresce nel mio paese. Avevano altri contatti.» «Cabonesi?» «Altre ragazze, sì, che conoscevano un santone. Storie di negre.» «Quando hai scoperto il traffico?» «Proprio prima della morte di Larfaoui.»
«Come?» «Il grossista di birra è venuto a trovarmi. Aveva bisogno di maman.» «Perché?» «Cercava dell'iboga nera. Pensava che potessi aiutarlo. Si sbagliava.» «Perché chiederlo a te? Ti ha parlato del traffico delle tue ragazze?» «Larfaoui mi ha spiattellato tutto. Era tesissimo. Aveva bisogno della pianta. Per un cliente... speciale.» Mi sentii elettrizzato. A torto o a ragione, intuivo che mi avvicinavo al Visitatore del Limbo. «Cosa ti ha detto a proposito di questo cliente?» «Niente. Tranne che ne voleva sempre di più. E il cabilo aveva paura.» «Quando è successo esattamente?» «Te l'ho detto: due o tre settimane prima della sua morte.» «Ti è sembrato che temesse per la propria vita?» Alzò su di me i suoi grandi occhi indolenti. Mi aveva lasciato la mano per riprendere a occuparsi dei favi. «Rispondimi», insistei. «Pensi che quel cliente avrebbe potuto far fuori Larfaoui?» «Tutto ciò che posso dirti è che quelli che cercano l'iboga nera sono pericolosi. Sono dei posseduti. Dei satanisti. E Larfaoui non ha trovato la pianta. Di questo sono sicura...» Foxy si sbagliava. Sulla scena del delitto, Luc aveva trovato un quantitativo di iboga nera. Immaginai un altro scenario: il Visitatore del Limbo e l'assassino erano una persona sola. Larfaoui aveva onorato l'ordinazione ma, per un'ignota ragione, il Visitatore l'aveva ucciso e non aveva cercato l'iboga. «Larfaoui», dissi, «non ha parlato del suo cliente alle tue ragazze? Non ha detto qualcosa che mi permetterebbe di identificarlo?» Foxy fece colare un liquido viscoso nella bacinella, sangue vermiglio, poi prese un pestello di bronzo. «Larfaoui ha parlato alle ragazze, è vero», disse con voce sepolcrale. «Se la faceva addosso dalla paura. Diceva che il tipo era... diverso.» «Diverso in che senso?» La sua testa ciondolò sul lungo collo nero. Questa conversazione la irritava, oppure la inquietava. «Secondo Larfaoui, mirava a un obiettivo.» «Quale obiettivo?» «Honey, non insistere. Non è bene rispolverare queste cose.»
«La prima volta mi hai detto che l'assassino di Larfaoui era un prete. Pensi che potrebbe essere questo cliente?» «Vattene. Devo preparare delle protezioni per le mie ragazze...» Ero grondante di sudore. I fumi dell'incenso mi pizzicavano gli occhi. Tutto sembrava rosso, come se i miei occhi iniettati tingessero la mia vista. Attraverso questo schermo, il Visitatore del Limbo si materializzava. Lo immaginavo, senza volto, mentre comprava l'iboga nera per miscelare i suoi cocktail chimici, le iniezioni che praticava sui futuri Senza Luce. Mi misi in piedi. Foxy continuava il suo lavoro con il pestello, lentamente, gli occhi bassi sulla bacinella: tac-tac-tac... «Ci tiene d'occhio», mormorò. «Ci sta addosso.» «Chi?» «Quello che ha ammazzato la mia ragazza. Quello che ha ucciso Larfaoui.» Mi bruciava la gola, come se avessi fumato uno spinello di incenso. «Sono io a stargli addosso», replicai. La maga ridacchiò. «Non sottovalutarmi», dissi alzando il tono. «Nessuno ha ancora vinto la partita!» Lei assunse un'espressione di ironica commiserazione. «Non sai chi hai davanti. Honey, non hai capito un bel niente di questa storia!» 105 Le quattro del mattino. Squilla il telefono. La voce di Foucault. «L'ho localizzata. Rue des Trois-Fontanots, a Nanterre.» L'indirizzo di un'importante sede distaccata del ministero degli Interni, che ospita diversi uffici centrali. «Ci stai andando?» «Vengo da lì. Missione compiuta.» «Hai quello che ti ho chiesto?» «L'intero dossier scannerizzato. La parte che riguarda Manon.» «Dove sei?» «Sono appena rientrato a casa. Mi piacerebbe dormire qualche ora, se non ti spiace.»
Foucault abitava nel XV arrondissement, dietro il quartiere di Beaugrenelle. «Sono a République», dissi girando la chiave di accensione. «Sotto casa tua fra dieci minuti?» «Ti aspetto.» Correvo sui quais della Rive Cauche. La pioggia era cessata. Un'atmosfera di alba ancora lontana pervadeva una Parigi accesa di mille luci. Nessuno per strada, né nel mondo cosciente. Amavo questa sensazione. Quella del ladro di appartamenti, solo e libero. Dello scassinatore che vive al contrario degli altri uomini, sull'asse dello spazio e del tempo. Superai Beaugrenelle e svoltai a sinistra, in avenue Emile-Zola, fino a incrociare rue du Théâtre. Scorsi la Daewoo di Foucault, a fari spenti. Non appena mi vide, smontò e mi raggiunse nella mia auto. Quando si fu seduto mi lanciò una chiave USB. «Qui c'è tutto. Ho scannerizzato i verbali degli interrogatori e li ho compressi.» Guardai il rettangolo argentato nel cavo del mio palmo. «Come hai fatto ad accedere all'ufficio di Magnan?» «Ho mostrato il tesserino. Scegliere sempre la soluzione più semplice: sei stato tu a insegnarmelo. Il piantone era mezzo addormentato. Gli ho detto che avevamo operato un fermo e che ci serviva un dossier. Gli ho persino mostrato il mazzo di chiavi di casa mia dicendogli che il giudice mi aveva passato quelle del suo ufficio.» Avrei dovuto congratularmi con lui, ma non era previsto negli accordi. «Ho dato un'occhiata agli interrogatori», proseguì Foucault. «Non risulta niente contro di lei.» «Grazie.» Foucault aprì la portiera. Lo bloccai. «Voglio vedervi domattina, tu, Meyer e Malaspey. Alle nove.» «Al Quai?» «All'Apsara.» «Consiglio di guerra?» domandò sorridendo. Gli risposi con una strizzata d'occhio. «Dillo agli altri.» Annuì e richiuse la portiera. Attraversai la Senna e imboccai la strada in senso inverso. Dieci minuti dopo ero in rue de Turenne. Stravolto, ma impaziente di leggere gli elementi di Magnan. Mi piazzai sulle strisce, all'angolo della mia via. Composi il codice del portone e in quel momento scorsi l'auto dei ragazzi della BAC. Un sesto
senso mi avvertì che stavano sonnecchiando, l'immobilità, i vetri appannati. Una specie di inerzia indefinibile. Picchiai sul finestrino. L'uomo all'interno sobbalzò, sbattendo contro il tettuccio. «È così che sorveglia l'edificio?» «Spiacente, io...» Non aspettai le sue spiegazioni. Salii le scale a quattro a quattro, di colpo in preda all'angoscia. Girai la chiave nella serratura, attraversai la sala e andai in camera, trattenendo il respiro. Manon era là, addormentata. Mi addossai allo stipite e mi rilassai. Contemplai la sua sagoma che si disegnava sotto il piumino. Di nuovo quella sensazione strana, confusa, che provavo da quando ero stato in Polonia. Fra l'eccitazione e il torpore. Un che di febbrile, che mi elettrizzava e anestetizzava allo stesso tempo. Tornai nell'atrio, mi tolsi l'impermeabile e deposi l'arma. La pioggia picchiava frenetica sul tetto, sui vetri, sui muri, era tutto un crepitio, un ritmo cadenzato. Mi sedetti alla scrivania e infilai la chiave USB nel Mac. Apparve l'icona del dossier. Copiai il programma che mi aveva dato Foucault e aprii le pagine del magistrato. Foucault non si era sbagliato. Corine Magnan non aveva in mano niente. Né contro Manon, né contro chiunque altro. Lessi. L'interrogatorio di Manon, a Losanna, due giorni dopo la scoperta del corpo di sua madre, il 29 giugno 2002. Altre testimonianze raccolte dal giudice nella città svizzera. Il rettore dell'università di Losanna. I vicini di Manon, i negozianti del quartiere in cui abitava... Certo, c'era un buco nell'impiego del tempo di Manon, ma l'assenza di un alibi non è mai stata determinante per incolpare qualcuno. Neanche la sua formazione universitaria era un elemento decisivo. Spensi il computer, rasserenato. Anche se la rossa si fosse divertita a interrogare Manon a Parigi, non avrebbe ottenuto niente di più di quello che era emerso a Losanna. E la testimonianza di Luc non avrebbe cambiato le carte. Le cinque e mezzo. Mi ero appena alzato ed ero diretto in bagno quando dalla camera da letto mi giunse un fruscio. Mi avvicinai e sorrisi. Manon parlava nel sonno. Un lieve bisbiglio, un mormorio di principessa addormentata... Tesi l'orecchio e, di colpo, una morsa d'acciaio mi stritolò il cuore. Manon non parlava in francese.
Parlava in latino. Dovetti appoggiarmi allo stipite e a stento m'impedii di urlare. Il mormorio mi trapanava il cervello. «Lex est quod facimus... lex est quod facimus... lex est quod facimus... lex est quod facimus...» Manon ripeteva la litania del Giuramento del Limbo. Come Agostina. Come Luc. Come tutti i Senza Luce! Il mio edificio crollava ancora una volta. Le mie teorie, le mie ipotesi, i miei tentativi di scagionare Manon, e di inventare, costi quel che costi, un altro assassino. La schiena contro il muro, mi lasciai cadere a terra e scoppiai a piangere come un ragazzino. La disperazione mi sommergeva. Luc aveva ragione. Manon aveva subito un'esperienza di pre-morte negativa. Conservava nel profondo quel ricordo malefico, come un focolaio d'infezione. Da lì a concludere che aveva ucciso sua madre... Reagii. No. Era troppo facile. Potevo ancora difendere la mia teoria. Se Manon era stata condizionata dal Visitatore del Limbo, frammenti di quell'esperienza potevano ancora sfuggirle nel sonno: ciò non dimostrava che fosse colpevole. Era lui, il demiurgo, l'assassino nell'ombra, che aveva sacrificato Sylvie Simonis e indottrinato Manon a sua insaputa! Mi rialzai e mi asciugai gli occhi. Identificare il Visitatore. Il solo modo per salvare Manon. Da sé stessa e dagli altri. 106 Ore 8.30, venerdì 15 novembre. Tutta la notte non avevo chiuso occhio. Manon si era alzata alle sette. Le avevo preparato la colazione - croissant e brioche al cioccolato comperati dal panettiere - poi avevo passato mezz'ora a rassicurarla sulla svolta presa dagli eventi. Manon non era convinta. Senza contare che diventava claustrofobica nel mio appartamento. L'avevo baciata, senza fare allusione alle sue parole della notte, e le avevo promesso di ripassare all'ora di pranzo. Adesso mi trovavo in rue Dante, sulla Rive Gauche, proprio di fronte al-
la cattedrale di Notre-Dame. Parcheggiai in doppia fila, davanti all'Apsara. Era una sala da tè, a mezza strada fra l'indiano e l'indonesiano, dove davo appuntamento ai miei agenti quando si rendeva necessaria una riunione segreta: nessuno si sarebbe sognato di venirci a cercare in un posto dove ti servivano solo tè allo zenzero e lassi al mango. Il locale era chiuso. Era un favore del proprietario riceverci così presto. L'arredo evocava l'interno di una foglia di palma: tendaggi smeraldo, tovaglie rosso Veronese, tovaglioli di carta verde acqua. Tutti i mobili erano di bambù. Il nascondiglio perfetto. Unico problema: lì era vietato fumare. Ero il primo. Spensi il cellulare e ordinai un tè nero. Sorseggiando il Keemun, rimuginai sul mio piano di emergenza. Era giunto il momento di mettere al corrente i miei uomini, in ogni dettaglio. Avevo già perso un sacco di tempo, una settimana, giorno dopo giorno, da quando ero rientrato dalla Polonia. Adesso bisognava che spiegassi loro tutta la faccenda e assegnassi delle mansioni precise per i due giorni successivi. Non era possibile non individuare un solo indizio, almeno uno, sul Visitatore del Limbo! Arrivarono Foucault, Meyer e Malaspey. La loro sola presenza dava un'aria di fragilità alla scena: con le loro spalle larghe e i giubbotti di pelle sembravano una minaccia per le sculture di porcellana e gli altri delicati soprammobili del locale. Non appena si furono seduti cominciai a tracciare un quadro della situazione. Capitolo uno: l'omicidio di Massine Larfaoui. Capitolo due: il caso Sylvie Simonis, nel Jura. Capitolo tre: gli altri omicidi secondo lo stesso rituale. Poi parlai delle esperienze di pre-morte, dei Senza Luce... Consegnai loro, chiavi in mano, l'aspetto metafisico della storia: l'esperienza negativa, l'intervento del diavolo, il Giuramento del Limbo. I miei ragazzi mi guardavano con tanto d'occhi. Esposi infine la mia ipotesi razionale secondo cui dietro quell'incubo c'era un uomo, e uno solo. Un demente che si prendeva per Satana, creava i propri Senza Luce e li vendicava a colpi di acidi e insetti. Lasciai che assimilassero le informazioni prima di proseguire. «Per riassumere, cerco un unico assassino. E sono sicuro che questo individuo vive nel Jura. È lui che ha fatto fuori Sylvie Simonis, Salvatore, il marito di Agostina Gedda, e il padre di Raïmo Rihiimäki. È lui che condiziona i miracolati, inculcando in loro ricordi satanici. Più passa il tempo e
più mi convinco che si tratti di un medico fornito di solide conoscenze in altri campi: chimica, botanica, entomologia, anestesia. A mio parere, è vissuto in Africa centrale, ha modo di conoscere i casi spettacolari di persone emerse dal coma e di trovarsi al loro capezzale. E può infiltrarsi in incognito in un ospedale.» Dopo una pausa, lasciai cadere la bomba. «Penso che sia stato lui a manipolare la memoria di Luc al suo risveglio dal coma.» Silenzio. Nessuno aveva toccato la sua tazza di terracotta. Era la storia più folle in cui nessuno di noi si fosse mai imbattuto. Alla fine Foucault prese la parola, dimenandosi sulla sedia: «Cosa si può fare?». «Riprendiamo l'indagine da zero, concentrandoci sui fatti concreti.» «Ho già setacciato la tua valle, Mat. Le tue storie di...» «Bisogna ricominciare. Quell'uomo si trova là, ne sono certo. Tu», dissi rivolto a Meyer, «svolgi altre ricerche sugli insetti, il lichene, gli africani del Jura. Foucault ti spiegherà. Ho la convinzione che incrociando questi dati salterà fuori un fatto nuovo, un nome. Per forza.» «Tu», dissi a Malaspey, «segui la pista Larfaoui. Concentrati sulla droga africana, l'iboga nera, molto difficile da trovare. Una sostanza che il cabilo vendeva a pochi iniziati. Ho un dossier su questo, te l'ho portato. Cerca di capire se esistono altri canali per procurarsi la roba. Il mio assassino la cerca, ne sono sicuro, per i suoi esperimenti. Contatterà altri spacciatori.» Malaspey prendeva appunti, la pipa fra i denti. Potevo contare su di lui: aveva passato parecchi anni alla Narcotici. «E io?» intervenne Foucault. «Secondo la mia teoria, l'assassino localizza i casi di rianimazione in giro per l'Europa. Possiede quindi un mezzo per individuarli. È la nostra pista più seria. In un modo o nell'altro, scova i sopravvissuti. Bisogna scoprire come fa.» «Concretamente, chi contatto?» «Le associazioni che censiscono i casi di morte apparente o semplicemente le esperienze di decorporazione. L'IANDS ad esempio: l'International Association for Near Death Studies.» «È americana?» «Ha una sede negli Stati Uniti, ma ce ne sono anche in Francia e in diversi paesi europei. Devi passarle tutte al setaccio. Forse qualcuno si ricorderà di un individuo interessato alle esperienze negative. O di un personaggio sospetto. Data la tua familiarità con le lingue straniere, non avrai
problemi.» Foucault fece il muso. «Estendi la tua ricerca a tutti i casi di sopravvissuti spettacolari, anche se non hanno avuto delle visioni. Dopotutto, se ho ragione, il mio assassino s'incarica di fargli il lavaggio del cervello. Devono esistere delle associazioni che si occupano dei sopravvissuti del coma.» Mi accesi una Camel, alla faccia dell'atmosfera asettica della sala da tè. «Da parte mia», dissi, «recupero le cartelle mediche di Raïmo Rihiimäki, Agostina Gedda e Manon Simonis. Forse c'è un nome ricorrente in queste tre cartelle. Quello di un medico, di un esperto, di uno specialista.» «Mat, d'accordo ricominciare da capo», arrischiò Meyer, «ma abbiamo dell'altra carne sul fuoco.» «Lasciate perdere tutto il resto.» «E Dumayet?» chiese Foucault. «Me ne occupo io. Questa indagine è la nostra priorità assoluta e voglio che ci lavoriate tutti e tre.» Silenzio. Scoppiai a ridere e feci segno al cameriere. «Passiamo alle cose serie. Ci deve essere qualche bottiglia nascosta in questo posto!» 107 Una bomba mi aspettava fuori. Un messaggio di Marion, lasciato alle nove e dieci. «Dove sei? Mi arrestano, Mat! Non so dove mi portano. Vieni a prendermi!» La comunicazione finiva con un breve respiro affannato, quello di un animale impaurito. Magnan aveva dunque agito più in fretta del previsto. E optato per il peggio: il fermo. Ventiquattr'ore di prigionia, con la possibilità di raddoppiarle, perquisizione corporea e confisca di ogni oggetto personale. Chi l'avrebbe interrogata? Pensai ai ragazzi della Giudiziaria, i più duri di tutti. Richiamai Manon. Segreteria. Composi il numero del magistrato. Altra segreteria. Merda. Feci altre due telefonate e ottenni la conferma che l'interrogatorio si svolgeva in rue des Trois-Fontanots, a Nanterre. Inserii la sirena, piazzai il lampeggiatore sul tetto e presi la direzione della Défense. A tutto gas. I fasci di luce rotante saturavano l'abitacolo di un azzurro polare. Senza togliere il piede dall'acceleratore, mi dissi che
malgrado tutto non dovevo dimenticare la mia indagine e scacciai le immagini di Manon smarrita e in lacrime, per tornare a concentrarmi sull'altra priorità: i dossier dei miracolati. Chiamai Valtonen, lo psichiatra di Raïmo Rihiimäki. Gli spiegai l'urgenza urlando: inviarmi prima possibile la cartella medica di Raïmo, che includeva i nomi di tutti i medici e specialisti che l'avevano avuto in cura. Valtonen l'aveva già trascritta nel computer. Poteva inviarmela subito per email, ma non aveva ritrovato la versione inglese. Tutto era redatto in estone. Non era un problema: cercavo un nome, non un commento scientifico. Sempre a sirena spiegata, contattai l'Ufficio delle constatazioni mediche a Lourdes, per ottenere i nomi degli esperti che avevano ratificato la guarigione miracolosa di Agostina Gedda. Mi spiegarono che quei documenti erano attualmente sotto sigilli essendo in corso un'indagine per l'assassinio di Pierre Bucholz, il medico che aveva seguito Agostina. Riagganciai senza dare spiegazioni né lasciare il nome. Accidenti! Pensai a van Dieterling: lui aveva una copia del fascicolo, ma voleva dire chiedergli un altro favore e non volevo più negoziare con il porporato. Restava la diocesi di Catania. Chiamai monsignor Corsi. Tolsi la sirena e parlai a due preti prima di avere in linea l'arcivescovo. Si ricordava di me e non vedeva difficoltà nello spedirmi una fotocopia del rapporto della perizia della Santa Sede. Ci sarebbe voluta una settimana! Gli spiegai quanto fosse urgente e ottenni di farmi faxare il fascicolo da uno dei diaconi entro la mattinata. Mi profusi in ringraziamenti. Dato che c'ero, composi il numero dell'ospedale universitario di Losanna. Dovevo procurarmi i documenti sul salvataggio e le cure cui era stata sottoposta Manon. Il dottor Moritz Beltreïn, l'unico a sapere dove si trovava il fascicolo, era all'università e sarebbe rientrato solo la sera. Volevo lasciare un messaggio? Chiesi di parlare alla stagista che avevo incrociato la prima volta. Ricordavo il suo nome: Julie Deleuze. Lavorava solo il fine settimana e prendeva servizio il venerdì sera, dunque dopo poche ore. Riagganciai, ripromettendomi di richiamare nel tardo pomeriggio. Porte Maillot. Feci i conti. Quel giorno avrei ottenuto i fascicoli di Raïmo e di Agostina. Dal canto suo, Eric Thuillier mi avrebbe fatto consegnare la lista di tutti quelli che si erano avvicinati a Luc Soubeyras dopo il suo risveglio. Mi mancava solo il fascicolo di Manon per confrontare tutti quei dati e vedere
se ne usciva fuori un nome. Evitai il tunnel in direzione di Saint-Germain-en-Laye e imboccai il boulevard circolare, che mi portò dritto all'uscita «Nanterre-Parc», la via più rapida per raggiungere il quartiere generale degli sbirri a Nanterre. Delle guardie in uniforme mi vietarono l'accesso agli uffici. Non avevo un appuntamento né una convocazione. Ero meno fortunato di Foucault, che il giorno prima era entrato liscio come l'olio. Domandai di informare Corine Magnan della mia presenza. Lei, il giudice dai capelli rossi, apparve cinque minuti dopo. Aveva la faccia non più color ruggine ma in fiamme. Non si diede nemmeno la pena di salutarmi. «Cosa ci fa qui?» mi apostrofò oltrepassando il metal detector. Il suo tono ribolliva di collera. La suoneria del sistema fece eco alle sue parole, rinforzando l'aggressività della voce. «Voglio parlare a Manon.» Ebbe un breve riso forzato. Feci un passo verso di lei. «Pretende di impedirmelo?» «Io non pretendo niente», disse. «Lei non può vederla: lo sa bene.» «Sono comandante alla Criminale!» «Si calmi.» Avevo urlato in uno spazio gremito di poliziotti. Tutti gli sguardi si appuntarono su di me. Mi passai la mano sulla faccia, madida di sudore. Mi tremavano le dita. Magnan mi prese per il braccio. «Venga», propose abbassando la voce. «Andiamo in un ufficio.» Lo sbarramento di sicurezza, poi, sulla destra, un corridoio sul quale si aprivano diverse porte. Sala riunioni. Tavolo bianco, file di sedie, pareti beige. Un terreno neutro. «Conosce la legge bene quanto me», disse chiudendo la porta. «Non si copra di ridicolo.» «Non ha niente contro di lei!» «Voglio solo interrogarla. Non ero sicura che avrebbe accettato di venire spontaneamente.» «Cosa potrebbe mai raccontare, accidenti?» «La sua esperienza. Voglio scavare nei suoi ricordi.» Camminai lungo le file di sedie, agitatissimo. «Non ricorda niente. L'ha detto e ridetto. Cazzo, siete duri di comprendonio!» «Si calmi. Devo essere sicura che non abbia vissuto un'esperienza simile
a quella di Luc, capisce? Ci sono delle novità.» «Novità?» «Ho visto Luc Soubeyras ieri sera. Il suo stato peggiora.» Impallidii. «Cos'è successo?» «Una specie di crisi. Ha voluto parlarmi, d'urgenza.» «Com'era?» «Vada a trovarlo. Non posso descrivere quello che ho visto.» «E questa la chiama una novità?» sbottai, colpendo il tavolo con le due mani. «Un uomo in pieno delirio?» «Questo delirio è in sé un fatto. Luc pretende che Manon Simonis abbia subito lo stesso trauma. Dice che lei è, diciamo così, sotto l'influenza di questa antica esperienza. Uno shock che potrebbe avere liberato in lei degli istinti omicidi.» «E lei crede a queste idiozie?» «Ho un cadavere sulle spalle, Mathieu. Voglio interrogare Manon.» «Pensa che sia pazza?» «Devo assicurarmi che sia totalmente... padrona di sé stessa.» Intuii un'altra verità. «C'è uno psichiatra là sopra?» chiesi, alzando gli occhi al soffitto. «Ho convocato un esperto, sì. Manon lo vedrà dopo che l'avrò interrogata.» Crollai su una sedia. «Non lo sopporterà. Cazzo, lei non si rende conto...» Corine Magnan si avvicinò. La sua mano sfiorava il tavolo delle riunioni, accanto alla fila di sedie. «Useremo i dovuti riguardi. Non posso escludere che in questo buco nero della sua mente si trovi una chiave della vicenda.» Non commentai. Pensai alle parole in latino pronunciate da Manon poche ore prima. Lex est quod facimus... Io stesso non ero sicuro di niente. Corine Magnan si sedette di fronte a me. «Le farò una confidenza, Mathieu. Procedo alla cieca in questo caso. Vado avanti per tentativi e non devo trascurare nessuna ipotesi.» «Manon posseduta: non è un'ipotesi, è un'assurdità.» «Tutto il caso Simonis è fuori dalla norma. Il metodo dell'omicidio. La personalità di Sylvie, una fanatica di Dio, sospettata di infanticidio. Sua figlia, vittima di un assassinio, che attraversa la morte e non si ricorda di niente. Il fatto che il delitto su cui stiamo lavorando sia la copia di altri delitti, altrettanto sofisticati. E adesso Luc Soubeyras che sprofonda volonta-
riamente nel coma fino a perdere la ragione!» «È così mal ridotto?» «Vada a trovarlo.» Osservai il suo viso da vicino, quelle lentiggini che mi ricordavano Luc. Quella pelle lattea, secca, minerale, che custodiva una specie di dolcezza neutra, e anche un mistero. Magnan non era poi così antipatica, solo totalmente dedita al suo dossier. «L'interrogatorio: quanto tempo durerà?» chiesi in un tono diverso. «Qualche ora. Non di più. Poi vedrà lo psichiatra. A fine pomeriggio sarà libera.» «Non userà l'ipnosi o roba del genere?» «Il dossier è sufficientemente bizzarro. Non aggiungiamo altre stranezze.» Mi alzai e mi diressi verso la porta, le spalle basse. Il magistrato mi guidò fino all'atrio, si voltò verso di me e mi strinse il braccio in un gesto amichevole. «Appena abbiamo finito, la chiamo.» Quando spinsi le porte vetrate che davano sull'esterno, una lama di luce mi trafisse il cuore. Abbandonavo colei che amavo. E non sapevo nemmeno chi in realtà lei fosse. Ma ero risoluto, e dovevo fare in fretta. Trovare a ogni costo il Visitatore del Limbo. Ma prima dovevo fare una piccola visita. Mezzogiorno e un quarto. Mi diedi un'ora, non un secondo di più, per questa deviazione. 108 «Abbiamo avuto un problema.» «Che problema?» «Luc si trova adesso in ricovero coatto. È diventato pericoloso.» «Per chi?» «Per sé stesso. Per gli altri. Lo teniamo in isolamento.» Pascal Zucca non era più rosso ma bianco. E molto lontano dall'atteggiamento rilassato del nostro incontro il giorno prima. Dietro la sua faccia impenetrabile covava una tensione. «Cos'è successo?» domandai. «Luc ha avuto una crisi. Molto violenta.»
«Ha colpito qualcuno?» «Non qualcuno. Ha distrutto del materiale sanitario. Ha strappato dal muro un lavandino.» «Un lavandino?» «Siamo abituati a questo genere di prodezze.» Estrasse una sigaretta dalla tasca, una Marlboro Light. Feci scattare lo Zippo. Dopo un tiro mormorò: «Non mi aspettavo una progressione così... rapida». «Non può esserci simulazione?» «Se c'è, è un'ottima imitazione.» «Posso vederlo?» «Certo.» «Perché "certo"?» «Perché è lui che vuole vederla. È per questo che ha fatto tutto quel macello. Prima ha parlato al magistrato e poi ha preteso di vedere lei. Non ho voluto cedere al suo nuovo ricatto. Risultato, ha spaccato tutto.» Percorremmo il corridoio senza una parola. Zucca camminava in un modo meccanico che non aveva niente a che spartire con la scioltezza del jogger della vigilia. Mi fece entrare in un ambulatorio - una scrivania, un lettino, armadietti di medicinali - e mi indicò la veneziana di una finestra interna che si apriva su un'altra stanza. «Eccolo.» Sbirciai attraverso le lamelle. Luc era seduto per terra, il corpo nudo avvolto in una coperta bianca e spessa che faceva pensare a un kimono di judo. Nella cella non c'era niente. Niente mobili. Niente finestra. Niente maniglia alla porta. Le pareti, il soffitto, il pavimento erano bianchi e non offrivano nessuna presa. «Per il momento è calmo», commentò Zucca. «È sotto Haldol, un antipsicotico che dovrebbe permettergli di separare la realtà dal suo delirio. Gli abbiamo iniettato anche un sedativo. Le cifre non le direbbero niente, ma siamo arrivati a dosi impressionanti. Non capisco. Un tale cambiamento, in così poco tempo...» Osservai il mio migliore amico attraverso il vetro. Era prostrato sotto la sua coperta, immobile. La pelle glabra, il cranio rasato, il volto assente, in quello spazio assolutamente vuoto. Si sarebbe detta una performance di arte contemporanea. Un'opera nichilista. «Sarà in grado di capirmi?» «Immagino di sì. Non ha aperto bocca da questa mattina. Le apro.»
Uscimmo dall'ambulatorio. «È veramente pericoloso?» chiesi mentre infilava la chiave nella serratura. «Adesso non più. In ogni caso, la sua presenza lo calmerà.» «Perché non mi ha contattato prima?» «Le abbiamo lasciato un messaggio in ufficio stanotte. Non avevo il suo cellulare. E Luc non riusciva a ricordare il numero.» Afferrò la maniglia e si girò verso di me. «Ricorda la nostra conversazione di ieri? Su ciò che Luc ha visto quand'era incosciente?» «Come potrei dimenticarlo? Lei mi ha parlato dell'inferno.» «Quelle immagini continuano a tormentarlo. Il vecchio. I muri di volti. I gemiti del corridoio. Luc era terrorizzato. La forza di cui ha dato prova stanotte si spiega con quel terrore. È qualcosa di incontrollabile.» «Allora si è trattato di una crisi di panico?» «Non solo. Luc è aggressivo, crudele, osceno. Non entrerò nei dettagli.» «Vuole dire che assomiglia a un... posseduto?» «In un'altra epoca, sarebbe stato candidato al rogo.» «Pensa che il suo stato peggiorerà?» «Si parla già di trasferirlo all'Henri-Colin, la nostra unità per malati difficili. Ma per me è troppo presto. Tutto può ancora risolversi.» Entrai nella stanza. La porta si richiuse dietro di me. Ogni dettaglio mi colpì come uno schiaffo. Il biancore della luce, incassata nel soffitto. Il secchio rosso in un angolo, per i bisogni naturali. Il materassino sul quale era seduto Luc, simile a quelli che si usano nelle palestre. «Stai bene?» chiesi con naturalezza. «D'incanto.» Ridacchiò, poi si avvolse nella coperta come se avesse freddo, quando in realtà faceva un caldo soffocante. Mi allentai la cravatta. «Volevi vedermi?» Ebbe uno spasimo. Una gamba emerse fra due pieghe della coperta. La grattò con violenza. «Perché volevi vedermi?» insistei. «Posso aiutarti?» Alzò gli occhi. Sotto le sopracciglia rosse, le pupille mandavano un bagliore giallastro, febbrile. «Devi farmi un piacere.» «Dimmi.» «Ti ricordi della parabola dell'arresto di Cristo?» Si mise a declamare, gli occhi rivolti al soffitto: «Poi Gesù disse a coloro
che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: "[...] Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre"». «Non capisco.» «È l'ora delle tenebre, Mat. Il male ha trionfato. Non si torna indietro.» «Di cosa parli?» «Di me.» Rabbrividì. Il freddo sembrava averlo vinto, contaminato fino alle ossa. Un materiale costitutivo del suo essere. «Mi sono sacrificato, Mat. Sono morto a me stesso, come quando ho preso le armi a Vukovar, ma questa volta non ci sarà riscatto, non ci sarà resurrezione. Satana è il grande vincitore. Mi sta invadendo. Perdo ogni controllo.» Tentai di sorridere, ma non ci riuscii. Luc era un martire assoluto. Non aveva sacrificato solo la sua vita, ma anche la sua anima. Non avrebbe conosciuto la salvezza celeste, perché il suo martirio consisteva appunto nell'avere rinunciato a quella salvezza. Una risata gli deformò la bocca. «In fondo, mi sento liberato. Non avverto più l'eterna costrizione del bene. Ho abbandonato il timone e mi sento andare alla deriva...» «Non devi lasciarti andare.» «Non hai capito niente, Mat. Io sono un Senza Luce. Tutto ciò che posso fare è testimoniare.» Si portò l'indice alla tempia. «Descrivere ciò che accade qui, nella mia testa.» Fece una pausa, curvo, attento, come se osservasse al microscopio l'interno della sua mente. «C'è ancora una parte di me che vive con terrore la mia caduta. Ma l'altra parte, che acquista sempre più terreno, gioisce di questa liberazione. È come una sacca di inchiostro che mi si riversa nel cervello. Faccio ormai parte dei dannati, Mat. Fra non molto, sarò perduto per la causa...» Sentii l'irritazione montarmi dentro. Il mio atteggiamento era diametralmente opposto a questo discorso, a questa posizione. Volevo dirigere l'indagine verso il razionale, il concreto, e Luc si rotolava nelle diavolerie. «Mi hai parlato di un piacere che dovrei farti», dissi con impazienza. «Di cosa si tratta?» «Proteggi la mia famiglia.» «Da chi?» «Da me. Fra un giorno o due seminerò violenza e terrore. E comincerò
dai miei cari.» Gli posai una mano sulla spalla. «Luc, qui si prendono cura di te. Non c'è niente da temere. Tu...» «Piantala! Non sai niente. Non sarà questa cella d'isolamento a impedirmi di agire. Presto vi fiderete tutti di me. All'apparenza, avrò ritrovato la mia sanità mentale. Ma è allora che sarò veramente pericoloso...» Sospirai. «Concretamente, cosa vuoi che faccia?» «Metti degli agenti davanti a casa mia. Proteggi Laure. Proteggi le piccole.» «È assurdo.» Mi lanciò uno sguardo acuto, come se volesse penetrarmi nella testa. «Non sono io la sola minaccia, Mat.» «Chi altri?» «Manon. Vorrà vendicarsi.» Fu il delirio che fece traboccare il vaso. «Devi farti curare.» «Ascoltami!» Per un breve istante fu sfigurato dall'odio. Per un breve istante, credetti al regno di Satana. «Credi che mi perdonerà di avere testimoniato contro di lei? Non la conosci. Non sai niente della sua mente. Non sai niente di colui che la abita. Non appena potrà, entrerà in azione. Distruggerà ciò che ho di più caro. La sua aria innocente è una maschera. È totalmente abitata dal diavolo. E lui non può perdonarmi. Sto tradendo il loro segreto, ti rendi conto? Vorrà mettere fine a questo. E vendicarsi sui miei!» «Stai delirando.» «Fa' ciò che ti chiedo. In nome della nostra amicizia.» Arretrai di un passo. Sapevo che Zucca ci osservava attraverso la veneziana. Sarebbe tornato ad aprirmi la porta. Avevo previsto di interrogare Luc sui suoi ricordi dopo il risveglio. Volevo sapere se si ricordava di un medico in particolare, che sarebbe tornato più volte al suo capezzale. Un possibile Visitatore del Limbo. Ma rinunciai a ogni domanda. Haldol o no, Luc non faceva più alcun distinguo fra la realtà e il suo delirio. La porta si aprì alle mie spalle. Luc si alzò in piedi sul materasso. «Invia degli agenti. Ti prego. Questo puoi farlo, no?» «Sicuramente. Conta su di me.»
109 Ritorno in ufficio. I dossier erano arrivati, via fax e via email. Il rapporto della commissione internazionale di esperti a proposito di Agostina Gedda. La cartella medica e psichiatrica di Raïmo Rihiimäki. La lista di tutti quelli che avevano avvicinato Luc all'Hôtel-Dieu. Senza togliermi il cappotto, stampai gli ultimi due documenti, ricevuti per email, e cominciai a leggere il fax con la lista degli esperti che avevano convalidato il miracolo di Agostina. Il famoso Comitato medico internazionale. - Prof. Andreas Schmidt Universität zu Köln Albertus-Magnus-Platz 50923 KÖLN - DEUTSCHLAND - D.ssa Maria Spinelli Policlinico Universitario Viale A. Doria 6 95125 CATANIA - ITALIA - Dr. Giovanni Ponteviaggio Ospedale dei bambini G. di Cristina piazza Porta Montalto 8 90134 PALERMO - ITALIA - Prof. Chris Hartley King's College London Strand, London WC2R 2LS ENGLAND, UNITED KINGDOM - Dr. Martin Gens Centre Hospitalier Psychiatrique de Liègeù Site du Petit Bourgogne Rue Professeur-Mahaim 84
4000 LIEGE - BELGIQUE - Prof. Moritz Beltreïn Centre Hospitalier Universitaire Vaudois Rue du Bugnon 46 1011 LAUSANNE - SUISSE - Monsignor Filippo de Luca Caritas Diocesana di Livorno Via del Seminario, 59 57122 LIVORNO - ITALIA - Pierre Bucholz Bureau des Constatations Médicales Les Sanctuaires 1, avenue Monseigneur-Théas 65108 LOURDES GEDEX - FRANCE Un nome mi colpì: Moritz Beltreïn. Che cavolo ci faceva in quella lista? Come specialista internazionale del coma, non era poi così sorprendente che la curia romana l'avesse convocato per studiare il caso di Agostina, ma ricordavo di avergli sottoposto il nome della miracolata di Catania: aveva preteso di non conoscerla. Perché aveva mentito? Presi i fogli riguardanti Raïmo Rihiimäki che avevo appena stampato. Sottolineai con un evidenziatore i nomi propri che apparivano nel testo estone: erano tutti nomi di origine baltica che non mi dicevano nulla. Alla fine del rapporto, caddi su un paragrafo redatto in inglese. Una relazione firmata da un esperto straniero, venuto per constatare la remissione di Raïmo. Per poco non urlai. La firma indicava: Moritz Beltreïn! Le righe mi si confusero davanti agli occhi. Poteva essere lui il Visitatore del Limbo? O almeno avere un legame con la serie dei delitti? Quel professore terra terra, che mi aveva riso in faccia quando gli avevo parlato di miracolo e di diavolo? Presi dalla stampante la lista di Eric Thuillier: i medici, gli specialisti e le infermiere che avevano avvicinato Luc Soubeyras dopo il suo risveglio. Una trentina di nomi in totale.
Scorsi l'elenco. Sulla seconda pagina, in alto, quattro sillabe mi strapparono un gemito: Moritz Beltreïn. Presente nel reparto di rianimazione dell'Hôtel-Dieu il 5, 7 e 8 novembre! Presente dal primo giorno del risveglio di Luc Soubeyras. I miei pensieri pulsavano al ritmo del mio cuore. Moritz Beltreïn, Visitatore del Limbo. Il tizio indecifrabile. Il sosia di Elton John. Il creatore dei Senza Luce, possibile? Il manipolatore che s'infiltrava nell'inconscio dei sopravvissuti e uccideva secondo un rituale demoniaco? Presi la cornetta e chiamai Thuillier. Entrai subito in argomento: «Volevo parlarle di un medico svizzero. Moritz Beltreïn». «Dica.» «Lo conosce?» «Certo. Un luminare.» «Vedo sulla sua lista che è venuto all'Hôtel-Dieu quando Luc si è svegliato.» «Un caso. Era di passaggio a Parigi. Ha intervistato Luc per un libro che sta scrivendo sul coma. O un articolo, non ricordo bene.» «Cosa pensa di lui?» «Un genio. Ha rivoluzionato le tecniche di rianimazione. Non c'è niente che accada in questo ambito di cui lui non sia al corrente.» Alternanza di sferzate brucianti e gelide sulla faccia. Beltreïn corrispondeva perfettamente al profilo del Visitatore. Era informato dei casi di rianimazione più spettacolari di tutto il mondo. Disponeva di una solida rete internazionale. Il suo sguardo era permanentemente rivolto verso quei territori estremi della mente. Il coma. La morte. Il risveglio. Un uomo che, dietro la sua facciata di medico cartesiano, doveva essere affascinato dal limbo dell'incoscienza... «Sa se ha visto Luc più volte?» «Perché queste domande?» «Cerchi di ricordare.» «È venuto varie volte, sì. È amico del direttore del nostro servizio. Le ripeto che sta preparando un libro.» Uno specialista della rianimazione. Un esperto in anestesia. Un medico che poteva giocare con i confini della mente umana. Di colpo lo visualizzai: in piedi nella stanza, mentre iniettava a Luc un composto a base di iboga, per poi riapparire trasformato in un vecchio, luminescente, che danza nel buio...
Il diavolo albino del corridoio. «La prima volta», dissi con il respiro corto, «lei mi ha parlato di tracce di iniezioni sulle braccia di Luc.» «E allora?» «Ne ha notate di più recenti in questi ultimi giorni?» Thuillier capì infine dove volevo arrivare. «Pensa che Beltreïn sia il suo dottor Mabuse?» «C'erano delle tracce fresche o no?» «Impossibile dirlo. Un rianimato è un vero colabrodo. Le flebo, i trattamenti, i...» «Grazie, dottore.» «Aspetti. Conosco Beltreïn da molto tempo e...» «La richiamerò.» Riagganciai senza desistere dai miei sospetti. In un modo o nell'altro, Beltreïn era legato ai Senza Luce. Consultai l'orologio: le due e quaranta. E ancora nessuna notizia di Manon. Nella mia mente si delineava un piano. Prendere il primo TGV per Losanna in modo da interrogare Beltreïn al suo ritorno dall'università. Meglio ancora: perquisire il suo appartamento prima che arrivasse. Forse una maniera stupida di bruciare otto ore della giornata. Forse, invece, il capitolo finale della mia indagine. Chiamai Foucault e gli chiesi di andare a prendere Manon quando fosse uscita e di restare vicino a lei. Ero certo che Foucault avrebbe saputo conquistarne la fiducia. Non aveva ancora riattaccato che già componevo il numero della Gare de Lyon. 110 TGV, prima classe. La lunga fusoliera attraversava fluida foreste, pianure, colline. La fronte incollata al vetro, penso a una sega mostruosa che taglia il paesaggio, lo apre come un ventre pieno. Intorno a me uomini in cravatta, occhi puntati sul computer, faccia piegata sul cellulare. Chi potrebbe credere che sto correndo verso un selvaggio assassino? Moritz Beltreïn, il Visitatore del Limbo. Per la centesima volta, peso i pro e i contro. Pro. La sua presenza accanto ai quattro sospetti della vicenda. Il fatto che abbia mentito a proposito di Agostina e di Raïmo durante il nostro
primo incontro. La sua conoscenza del coma, della rianimazione, della farmacologia. E il luogo in cui vive, non lontano dalle valli del Jura, una regione che mi è sempre apparsa come la culla dell'assassino... Contro. Specialista mondiale della rianimazione, Beltreïn può essersi imbattuto nei sopravvissuti per ragioni professionali. La sua struttura fisica: come avrebbe potuto, il piccolo uomo dai grandi occhiali, trasformarsi in un angelo filiforme, in un vecchio luminescente, in un bambino dalle carni dilaniate? Torno di nuovo a dubitare. Dopotutto, persino il mio postulato di partenza, il mio Visitatore del Limbo, non poggia su niente. Forse tutto ciò non è altro che un miraggio... un delirio personale... Tuffo la mano nella cartella ed estraggo la documentazione su Beltreïn che ho stampato prima di partire. Una biografia completa, messa insieme con informazioni reperite sul sito Internet dell'ospedale universitario di Losanna e frammenti di articoli spulciati sui quotidiani svizzeri. Nato nel cantone di Lucerna, ha studiato a Zurigo. Facoltà di medicina, chirurgia cardiovascolare, fino al 1969. Poi Harvard (PBBH), dal 1970 al 1972. In seguito la Francia, dove entra a far parte dell'équipe di chirurgia dell'ospedale di Bordeaux (1973-1978). Infine, ritorno in Svizzera, all'ospedale universitario di Losanna, dove diventa capo del servizio di Chirurgia cardiovascolare nel 1981. Sorvolo sulle sfilze di riconoscimenti, di conferenze e seminari in ogni parte del mondo. Negli articoli, cerco un'ombra, un'incrinatura fra le righe. Niente. Neanche la minima credenza esoterica. Neanche una parvenza di problema negli istituti in cui ha lavorato. Neanche il più pallido dei sospetti, la minima pecca, in nessun ambito. Celibe, senza figli, è interamente votato al suo lavoro. Un ricercatore geniale, l'orgoglio di una nazione, che salva delle vite come altri timbrano il cartellino in fabbrica. Contemplo le fotografie degli articoli. Viso rotondo, frangia sugli occhi, lenti spesse. Una testa da barboncino con il pelo lungo, con qualcosa di astratto, di dissimulato. Il Visitatore del Limbo? Impossibile decidere. Né in un senso né nell'altro. Losanna. Alla prima agenzia di noleggio scelgo una Classe E, tanto per confondermi fra le berline svizzere. Prima di mettere in moto consulto la segreteria. Nessun messaggio. Nessuna notizia da Manon, né dai miei uomini.
Parto reprimendo la rabbia. Se Corine Magnan la tiene dentro stanotte, andrò a prenderla di persona. Imbocco la strada del CHUV, percorrendo pendii e viali sovrastati dai cavi tranviari. Appare il padiglione degli Champs-Pierres, con le sue facciate bianche, i giardini zen, i globi lunari e i piccoli pini. Salgo al reparto cardiovascolare e sorprendo la mia studentessa, fedele al suo posto. Con la sua scatola di Tic Tac. «Salve!» esclama. «Mi aveva promesso di non tornare.» «Il che dimostra...» dico stupidamente. «Devo assolutamente vedere il dottor Beltreïn.» «L'ha mancato per un pelo. È passato ed è andato via in un lampo.» «Ha il suo indirizzo personale?» Lei si alza, sfoggiando un delizioso sorriso. «Ho di meglio. Non è rientrato all'appartamento di Losanna. Si è recato nel suo chalet. A Riederalp.» Estraggo dalla tasca la carta stradale fornitami dall'agenzia e la stendo sul banco. «Dov'è?» La ragazza nota che mi tremano le mani, ma si astiene da ogni commento. Posa l'indice sulla carta. «Qui, dopo Bulle.» Prendo una penna e faccio un cerchio attorno al nome del paese. «Una volta arrivato lì, come trovo lo chalet?» «Facile», dice prendendomi la penna e tracciando il percorso. «Prosegue in direzione di Spiez. A Wessenburg, sale sulla sinistra. Villa Parcossola: è indicata, sul versante del monte Gantrish. Parcossola è il nome dell'architetto che ha progettato la casa. È conosciuta nella regione.» Mi sembra bene informata. Per un istante mi chiedo se non se la faccia con Beltreïn i fine settimana... La freschezza del suo alito che profuma di Tic Tac mi stuzzica i sensi. «Tornerà ancora?» La bilancia continua a oscillare dentro la mia testa. Beltreïn nelle vesti di predatore: pro o contro? «Stavolta è davvero poco probabile.» «L'aveva già detto la volta scorsa.» «È vero. Inshallah!» Riparto a passo di corsa. Sudore ghiacciato, fiato corto. Costeggio nuovamente il lago e ritrovo il paesaggio del mio primo viaggio. Le luci lontane, sui versanti delle colline, scintillano dolci, come braci sparpagliate.
A Vevey devio verso Bulle, prendendo l'autostrada E27, che poi lascio per salire verso le cime, in direzione di Spiez. Penso alla mia traversata del passo del Sempione: sembra siano passati secoli da quella corsa dentro le gallerie. Wessenburg. Julie Deleuze aveva ragione: la direzione di Villa Parcossola è indicata. Lascio la carreggiata lucente per imboccare una strada innevata. Il paesaggio cambia come l'espressione su un viso. Abeti, sempre più fitti, sempre più neri. Cumuli di neve opachi, azzurrognoli, che fanno eco alle nuvole color dell'acciaio al di sopra dei boschi. Vedo un cartello all'imbocco di una stradina di ghiaia chiara. Una vena bianca nel corpo scuro della foresta. M'infilo sotto le conifere. Passo accanto a una centrale elettrica. Una massa grigia che emerge dietro i cespugli e che rafforza misteriosamente la solitudine dei luoghi. All'uscita da una curva, gli alberi si aprono e rivelano la villa. Una serie di terrazzi di cemento costruiti sopra una cascata, le cui acque scorrono tra i pilastri. Spengo i fari e aspetto di avere una visione più netta dell'edificio illuminato dalla luna. La casa ricorda una famosa costruzione di Frank Lloyd Wright, la «Casa sulla cascata», appunto, concepita sullo stesso principio. Sospesa sull'acqua. Mi fermo a una cinquantina di metri dall'area di parcheggio, deserta. Prendo la torcia elettrica, un paio di guanti di lattice e salto fuori. Cammino verso la residenza, tenendomi nell'ombra. Il baccano del torrente copre il rumore dei miei passi sulla ghiaia. Adesso ho una visione completa della villa. I terrazzi, cinti da balaustre di cemento, si protendono sopra il torrente sfidando le leggi della fisica. È tutto spento. A sinistra, due torri quadrate di mattoni fiancheggiano uno stretto vestibolo vetrato. L'acqua argentata e gli abeti neri si riflettono sul vetro, dando l'illusione di essere penetrati nell'edificio. Avanzo ancora e noto un dettaglio. Le vetrate sono chiuse da tapparelle. C'è Beltreïn là dietro? M'infilo sotto i terrazzi e seguo un ballatoio a strapiombo sul torrente. Passo sotto il corpo dell'edificio. Alla fine della passerella, una scala conduce al pianterreno, verso un prato argentato. Proseguo e mi volto. Ecco la facciata principale della residenza. Con il suo portone, il campanello, la videocamera. Il ghiaino brilla sotto la luna. Si direbbe una scenografia. Torno rapido accanto all'edificio, fiancheggio il muro verso sinistra fino all'angolo, alla ricerca di una porta di servizio, o anche di una finestra da
sfondare. Scorgo un'altra scala, che passa anche questa sotto le fondazioni. La infilo istintivamente e a metà strada m'imbatto in una porta di ferro. L'accesso al seminterrato o a un garage. Formicolio nel sangue. Sfodero la Clock e faccio saltare la sicura. Ho l'impermeabile incollato alla pelle, inzuppato e gelido. Tasto la trave d'acciaio che sbarra la porta. Impossibile forzare una parete del genere. Provo a girare la maniglia, non si sa mai. La porta ruota sui cardini. È aperto. Semplicemente aperto! Metto una pallottola in canna e scivolo nell'ombra. 111 Un corridoio. Buio pesto. Vado avanti nell'oscurità, abbandonando ogni pensiero, lasciandomi alle spalle la porta socchiusa sul rumore del torrente. Capisco all'istante di non trovarmi in un semplice locale-ripostiglio, in un garage o un hangar. Sono nell'anticamera di un santuario. Un luogo di cemento e silenzio, dove si celano i peggiori segreti. Gli occhi si abituano all'oscurità. A ogni passo, è come se il cuore scendesse un po' più in basso sotto le costole. Il caldo umido che mi viene incontro non ha niente a che vedere con la stagione né con il freddo che c'è fuori. C'è anche l'odore, che riconosco seduta stante. Carne cruda. Carne marcia. Infine, ci sono. Nell'antro del Visitatore del Limbo. Avanzo ancora. Nessun rumore, salvo un ronzio proveniente da una caldaia o da un sistema di ventilazione. Il caldo aumenta. La porta, di fronte a me. L'incubo mi aspetta dall'altra parte. Questa evidenza - grido silenzioso nella testa - mi anestetizza di colpo. La mano sulla maniglia, sono calmissimo, come staccato dalla realtà. La porta si apre senza alcuna resistenza. È tutto troppo facile. Lontano, molto lontano nella mia mente, suona un campanello d'allarme: questa fluidità puzza di tranello, la morsa sta per chiudersi su di me. Beltreïn è là, e mi aspetta. SOLTANTO TU E IO. La stanza è immersa nell'ombra. Prendo di tasca la torcia e l'accendo. M'immaginavo un vivaio di insetti, una serra piena di lichene. Invece è un semplice laboratorio di fotografia digitale. Corpi macchina, obiettivi, scanner, stampanti. Mi avvicino a un tavolo su cavalletti sul quale sono accatastate alla rin-
fusa delle stampe fotografiche. Poso la torcia, metto via l'arma, infilo i guanti di lattice. Riprendo la Streamlight e la oriento verso le fotografie. Ritrovo cose familiari: il volto deformato di Sylvie Simonis, il suo corpo roso dai vermi e dalle mosche... Tranne che in queste immagini la donna è ancora viva... Dominando il tremore, passo alle altre foto. Il corpo di un uomo in decomposizione, il volto ridotto a una bocca urlante. Salvatore Gedda. Un vecchio agonizzante, verdastro, le cui carni si strappano sotto la pressione dei gas. Probabilmente il padre di Raïmo. Altri volti, altri corpi. Altrettante conferme. Da anni Beltreïn colpisce ai quattro angoli dell'Europa, condizionando persone emerse dal coma, torturando, decomponendo, assassinando vittime decretate colpevoli, vendicando i Senza Luce in nome del diavolo. Vorrei che questo momento fosse storico. Che il mondo intero sappia. Venerdì 15 novembre 2002, ore 20, il comandante Mathieu Durey identifica, sul versante del monte Gantrish, uno dei serial killer più astuti del secolo nascente. Ma no. Nessuno sa che sono qui. Nessuno sospetta nemmeno l'esistenza di questo singolare assassino. Alzo gli occhi. Davanti a me, un'altra porta, dipinta di nero. Il seguito dell'inferno. Giro intorno al tavolo. L'odore di carne morta, sempre più forte. Una pellicola di sudore m'incolla i vestiti alla pelle. I polmoni, strizzati, non più grossi di pugni. E sempre questo pensiero di allerta nel cervello: Beltreïn non è lontano. È una porta tagliafuoco, con le giunzioni sigillate. Inspiro una boccata d'aria e apro la porta. Liscio come l'olio. Non c'è dubbio: sto cadendo dritto in una trappola. Ma è troppo tardi per fare marcia indietro. Sono ipnotizzato, aspirato dall'imminenza della verità, del disvelamento finale. Qui l'odore di carne marcia è intensissimo. Respiro solo con la bocca. Mi trovo in un'immensa stanza rettangolare, debolmente rischiarata, lungo le cui pareti laterali sono allineate delle gabbie velate di garza, esattamente come da Plinkh. Il soffitto e la fascia superiore delle pareti sono ricoperti di carta kraft, sotto la quale c'è uno strato di lana di vetro. Il caldo è soffocante, saturo degli effluvi di carne in decomposizione. Grossi umidificatori troneggiano sul pavimento ai quattro angoli del locale. Le fotografie affisse alla parete di fondo provengono dalla collezione
della stanza precedente. Mi avvicino. Volti rosicchiati, carni brulicanti, piaghe purulente. Ma anche immagini ritagliate da manuali di medicina legale, da libri di anatomia. Incisioni, tavole di insetti predatori... esattamente come da Plinkh. In versione barbara e criminale. Al centro della stanza, su un piano di lavoro, una serie di boccali e di acquari, tutti ricoperti di tessuto o di sacchi dell'immondizia. Non oso immaginare cosa ci sia lì sotto: il cibo delle legioni di Beltreïn. Mi concentro sul mio ruolo di poliziotto. Sono il comandante Durey. Sono in missione e devo procedere a una regolare perquisizione. Non può accadermi niente. Sollevo gli stracci e contemplo l'interno dei recipienti di vetro. Un pene, degli occhi, immersi nella formaldeide. Un cuore, un fegato, appena visibili dentro un liquido fibroso. Questi resti umani non sono quelli delle vittime, lo so. Il medico è anche un depredatore di cadaveri. Un violatore di sepolture. Grazie alle sue funzioni ufficiali, ha accesso alle liste dei decessi, non solo nel suo ospedale, ma ovunque a Losanna e nella sua regione. Disseppellisce lui stesso i corpi per dar da mangiare ai suoi eserciti? Penso alle famiglie svizzere che si raccolgono davanti alle tombe vuote. «Potrei dar loro delle carogne animali, ma non è lo spirito del luogo.» Mi giro. Moritz Beltreïn è sulla soglia. Indossa un camice sporco, aperto sulla felpa, le mani affondate nelle tasche dei jeans. Sempre l'aria di un dottorando con ai piedi le immancabili Stan Smith. La sua testa è più comica che mai, con la frangia da barboncino e i grossi occhiali. Puntando la Glock, ordino: «Tolga lentamente le mani dalle tasche». Obbedisce, con nonchalance. «Perché?» grido di colpo, lanciandomi uno sguardo tutt'intorno. «Perché tutto questo? Questi morti? Queste torture? Questi insetti?» «Hai condotto un'indagine straordinaria, Mathieu. La sola che concerne il soggetto primordiale.» «Il diavolo?» «La morte. In fondo, i poliziotti, i giudici, gli avvocati non parlano mai del fatto principale, del tema essenziale: i morti. Cosa pensano i morti dei delitti di cui sono stati vittime? Cosa farebbero se potessero vendicarsi?» Gli occhiali appannati riflettono le gabbie verdi: impossibile vedere i suoi occhi. È passato a darmi del tu: dopotutto, siamo nemici intimi. «Per la prima volta», riprende, «grazie al Maestro i morti hanno la parola. Una seconda opportunità. Li aiuto a tornare e a vendicarsi della crudeltà
dei vivi.» Ho voglia di urlare. Beltreïn parla ancora come se i Senza Luce eseguissero loro stessi i delitti. Non ho intenzione di lasciarmi infinocchiare. Riprendo fiato e, con maggior calma, articolo: «È stato lei a uccidere Sylvie Simonis, Salvatore Gedda, Arturas Rihiimäki. E molti altri!». «Non hai capito niente, Mathieu. Io non ho ucciso nessuno.» Apre le mani, assumendo un'aria modesta. «Io non sono che un fornitore. Non faccio che procurare le... materie prime.» Non credo alle mie orecchie. Ho finalmente trovato l'assassino, il folle, il Visitatore del Limbo, e questo tarato vuole darmi ancora a intendere che i colpevoli sono i Senza Luce. «So tutto», dico a denti stretti. «Le sue intrusioni nella mente dei rianimati. Il suo metodo per ricreare una NDE. L'uso della suggestione, dell'iboga, e di non so quale altra sostanza ancora. Lei ha condizionato queste persone. Ha fatto credere loro che avevano visto il diavolo. Ha alterato i loro ricordi. Li ha persuasi della loro colpevolezza. Ma è lei, e nessun altro, quello che tortura e uccide. Lei fabbrica dei Senza Luce. Lei organizza la loro vendetta. Lei diffonde il male e la morte!» «Sono deluso, Mathieu. Sei arrivato fino a me e tuttavia una grande parte della verità ti sfugge ancora. Perché rifiuti, persino oggi, l'evidenza. La potenza di Satana. Lui solo li ha salvati e in seguito loro si sono vendicati. Un giorno verrà scritto un libro sui Senza Luce.» Sono io a essere deluso. Non caverò nessun discorso razionale da questo assassino. Beltreïn è prigioniero della sua follia. Buono per il manicomio. Penso ai corpi contratti dalla sofferenza, al cadavere castrato di Sarrazin, alla follia senza ritorno di Luc, e alzo il cane dell'arma. «È finita, Beltreïn. Io sono la fine della storia.» «Niente è finito, Mathieu. La catena continuerà. Con o senza di me.» Una vibrazione mi attraversa la carne. Il cellulare. Resto paralizzato. Il medico sorride. «Rispondi. Sono sicuro che questa chiamata t'interesserà.» La sua voce fiduciosa mi fa paura. Questa telefonata sembra rientrare in un piano prestabilito. Penso a Manon. Tastando la tasca, trovo il cellulare. È Foucault. «Dove sei?» «In Svizzera.» «In Svizzera! Ma cosa combini?» La voce del mio assistente non mi convince. Dev'essere successo qual-
cosa. «Che c'è?» Il poliziotto non risponde. Sento il suo respiro nel ricevitore. Come se trattenesse dei singhiozzi. Tengo gli occhi, e la pistola, puntati su Beltreïn. «Cosa succede, accidenti?» «Laure è morta, cazzo. Laure e le due bambine.» La stanza ondeggia. Il sangue mi si prosciuga nelle vene. Beltreïn continua a sorridermi sotto la frangia e gli occhiali. Mi appoggio al tavolo e sfioro un boccale. Scosto fulmineo le dita. «Cos'hai detto?» «Sgozzate. Tutte e tre. Sono qui da loro. Ci sono tutti.» «Quando è successo?» «Secondo i primi accertamenti, un'ora fa.» Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ho la vista annebbiata. Non capisco più niente. Ma un'evidenza palpita già in fondo alla mente: l'autore del massacro non può essere Beltreïn. Trovo la forza di domandare: «Siete sicuri?». «Assolutamente. I corpi sono ancora caldi.» Nessun sospetto per questa nuova carneficina. Nessuna spiegazione per questo ultimo orrore. Poi, come un veleno, la voce di Luc: «Manon. Vorrà vendicarsi». D'un tratto, ricordo. Luc mi ha implorato di proteggere la sua famiglia e io non ho mosso un dito. Non ho nemmeno più pensato alla sua richiesta. «Dov'è Manon?» chiedo con la voce che mi trema. «Sparita. È stata liberata cinque ore fa.» «Cazzo, ti avevo detto di...» «Non hai capito: quando mi hai chiamato era già uscita.» «E non sai dove sia?» «Nessuno lo sa. La polizia la sta cercando.» «Perché?» «Mat, proprio non vuoi capire. Mentre era in stato di fermo, Manon è impazzita. Ha fatto scene isteriche. Ha giurato che si sarebbe vendicata di Luc. Che avrebbe distrutto la sua famiglia. Hanno già trovato le sue impronte dappertutto nell'appartamento.» «COSA?» «Santiddio, svegliati! È stata lei a ucciderle! Tutte e tre. È un mostro! Uno schifoso mostro in libertà!» Lunga caduta libera dentro di me. E sempre Beltreïn e il suo sorriso. La
sua sagoma tozza attraverso le lacrime. Sono risucchiato da una spirale che sembra trascinarmi via. Il Male è una mancanza di luce. Adesso questa mancanza m'inghiotte, come un gigantesco buco nero... Perdo conoscenza. Una frazione di secondo. Quando mi riprendo Beltreïn è sparito. Intasco automaticamente il cellulare e punto l'arma. «Convinto, adesso?» risuona la voce alle mie spalle. Mi giro. Beltreïn è davanti alla parete tappezzata delle foto dell'orrore. Ha in mano un'automatica enorme: una Colt .44. Non è così grave. Ormai più niente è grave. Moriremo insieme. «Manon le ha uccise, vero?» chiede con voce soave. «Si è vendicata. Aspettavo questa notizia.» «È impossibile. Era trattenuta dalla polizia...» «No. E tu lo sai. È ora che tu guardi in faccia la verità.» Non trovo niente da replicare. La mia facoltà di pensare, bloccata. Distrutta. «Lei è la Sua creatura», continua lui. «Più niente la fermerà. È libera. Intensamente libera. La legge è quello che facciamo.» Emetto una sorta di rantolo, a mezza strada fra il riso e il singhiozzo. «Cosa le ha fatto? Cosa le ha iniettato?» I suoi occhi sorridenti diventano due fessure dietro le lenti, occhi scaltri, malevoli. «Non le ho fatto proprio niente. Non le ho nemmeno salvato la vita.» «E la sua apparecchiatura?» «Sei inchiodato alla tua logica, Mathieu. Non hai mai visto più lontano della tua ragione. Manon è stata salvata dal diavolo. Se ti avessero detto che era stata salvata da Dio, avresti chiuso gli occhi e recitato un Padre nostro.» Vorrei urlare «No!» ma dalla gola non esce niente. So che la nostra fine è imminente - arma contro arma, ci uccideremo l'un l'altro - ma ora non ho più il distacco di prima. Non devo morire. L'indagine non è finita. Devo strappare Manon a questo incubo. Dimostrare la sua innocenza. Devo svegliarmi e neutralizzare quell'essere malvagio. «Tu cerchi un assassino terreno», prosegue Beltreïn. «Hai sempre rifiutato di riconoscere cos'era in gioco nella tua indagine. Il tuo solo nemico è il nostro Maestro. Lui si nasconde dentro di noi. Poco importa chi ha ucciso o chi è ucciso. Ciò che conta è la Sua potenza in azione, che rivela gli ingranaggi segreti dell'universo. I Senza Luce sono dei fari, Mathieu. Io non faccio altro che aiutarli. Li aspetto all'uscita della gola. Loro non m'in-
teressano. Ciò che m'interessa è la luce nera che scintilla in fondo alla loro anima. Satana dietro ai loro atti!» Non ascolto più il suo delirio. Se Beltreïn era in Svizzera, chi ha ucciso Laure e le sue bambine? La storia non è finita. L'indagine non è chiusa... «E non dimenticare mai questa verità, Mathieu: Manon Simonis è la peggiore di tutti.» «Non voglio sentire questo!» dico facendomi avanti. «Sei tu l'unico assassino di questa storia! Sei stato tu a ucciderli. Tutti!» Come risposta, alza il braccio e preme il grilletto. Gli sono addosso. La mia spalla svia il tiro. Un boccale va in pezzi dietro di me. Degli organi mi cadono ai piedi mentre faccio fuoco a mia volta. Beltreïn mi ha già afferrato il polso lanciando un urlo acuto. La mia pallottola si perde fra le gabbie. Gli premo il calcio della pistola sotto la gola, bloccando il suo braccio armato con la spalla destra. Il dolore della mia ferita si risveglia. Cozziamo contro il tavolo da lavoro. Qualche boccale rotola a terra. Sguazziamo nella formalina e nella carne morta. Beltreïn si scosta dal bancone. Mi avvinghio a lui, togliendogli spazio per tirare. Rotoliamo insieme fino a sbattere contro le gabbie e poi di nuovo contro l'angolo di maiolica. Beltreïn scivola a terra. E io con lui. Fa fuoco a due riprese, in obliquo, mirando alla mia gola. Mancato. Una pioggia di vetro, di carni, di liquido freddo si abbatte su di noi. Mando un grido al contatto con i frammenti umani che m'impiastricciano la nuca, ma non lascio la presa. Beltreïn non smette di mugugnare. Altre detonazioni. Non so nemmeno più chi sia a tirare. Siamo un viluppo di braccia e di gambe che sguazza nella pozza immonda. Capitombolo sulla schiena. Beltreïn si getta su di me, assatanato, i grossi occhiali di traverso. Lo scaglio all'indietro. Una gabbia crolla in mezzo a noi. Attraverso la garza e le mosche, Beltreïn aggiusta il tiro. Raccolgo le gambe e le stendo con tutte le mie forze contro i rottami della gabbia. Il folle preme il grilletto, il telaio di legno gli devia la mano, la pallottola si perde ancora una volta. Beltreïn sposta i frammenti tra gli insetti ronzanti. Rotolo sotto il bancone. Centinaia di vermi mi strisciano sulle mani, s'infilano nelle maniche. Il respiro rauco di Beltreïn, vicinissimo. Grugnendo, ridendo, si china per scovarmi. Da sotto il tavolo, vedo solo le sue gambe. Ho perso la pistola. Vedo un coccio di bottiglia. Lo afferro e glielo conficco nel polpaccio fino all'osso. Il mostro emette un urlo acuto. Striscio dall'altra parte del bancone.
Le grida di Beltreïn riempiono la stanza. Ho perso ogni senso dell'orientamento. Non vedo niente, a parte la garza, gli organi, i vermi. Il mio avversario, sempre urlando, gira attorno al bancone trascinando la gamba insanguinata. Ritorno sotto il tavolo e tento un'uscita dall'altra parte. Mi tiro in piedi, appoggiandomi contro le piastrelle. Beltreïn è a qualche metro. Non mi cerca più. Si dibatte fra gli insetti, agitando l'arma come uno scacciamosche. Attraverso la nuvola ronzante, aggiro il tavolo, afferro la sua grossa testa e la sbatto più volte contro l'angolo del banco. Gli cadono gli occhiali. Le mosche gli assediano gli occhi ma si accaniscono anche su di me. Non vedo più niente. Ho solo la sua testa tra le mani e i gemiti del bastardo che mi risuonano sotto la pelle, vibrando fino all'estremità delle mie terminazioni nervose. Il folle continua a dibattersi. Cadiamo ancora. È su di me, la faccia insanguinata coperta di insetti. Non so per quale prodigio, tiene ancora stretta l'arma. Trovo a tastoni una bacchetta di legno fra i resti delle gabbie sfasciate. Chiudo gli occhi, assalito dalle mosche, alzo il braccio e gli palpo la faccia. Cerco il punto sensibile della tempia, là dove l'osso conserva una tenerezza da neonato. Pianto la bacchetta in quel punto esatto e l'affondo fino a quando il legno mi si spezza fra le dita. Arretro e alzo le palpebre. Già le mosche mi abbandonano. Si concentrano sul cervello rosa-grigiastro di Beltreïn che sprizza dal cranio trafitto formando una sorta di tumore vivente. 112 Scesi precipitosamente il pendio, incespicando e rialzandomi parecchie volte. Senza voltarmi. Non volevo più vedere il bunker, la tomba del demone. Rimisi nella fondina la Clock che avevo recuperato e raggiunsi la mia auto. Sentivo gli assalti ghiacciati del vento che m'incollava addosso gli abiti zuppi di formalina e di sangue. Quelle sferzate erano così fredde che bruciavano la carne. Amavo quel contatto. Spazzava via le mosche, i vermi, le particelle di organi. Le impronte del folle sulla mia pelle. Dietro il volante, mormorai delle preghiere, dondolandomi avanti e indietro come fossero delle stira, tentando l'impossibile: perdonare Beltreïn. Salmodiavo, gli occhi chiusi, il corpo teso, ma non ci mettevo più il cuore. Non c'era più la minima compassione cristiana dentro di me. Né per lui, né per me stesso.
Partii. L'idea delle impronte di pneumatici mi fece pensare a quelle che potevo avere lasciato all'interno della villa. Mi guardai le mani. Avevo ancora addosso i guanti di lattice. Me li strappai e me li infilai in tasca, con sollievo. Schizzai con l'acceleratore a tavoletta, divorando i tornanti che mi riportavano a valle. I fari. Avevo dimenticato di accendere i fari. Quando si proiettarono i fasci di luce ebbi l'impressione che al mio passaggio gli abeti si facessero da parte spaventati. Malgrado il mio stato delirante, un pensiero non mi abbandonava. L'ultimo prima dell'epilogo. Un assassino era ancora a piede libero. Quello che aveva ucciso Laure e le sue bambine. Niente era finito. Ma c'era anche un'altra urgenza: Manon. Rintracciarla prima della polizia. Trovare una spiegazione - le sue impronte sulla scena del crimine - e liberare la ragazza da ogni sospetto. Imboccai una strada secondaria che correva attraverso i boschi. Scesi dall'auto e tuffai il viso fra le foglie e le spine, sfregandolo fino a farlo sanguinare. Mi tolsi il trench, lo scossi con energia. Mi strappai di dosso la camicia, la rivoltai, scacciai gli ultimi vermi intrufolatisi fra le pieghe umide. Infine, la pelle arrossata dal freddo, scosso da spasmi, caddi in ginocchio e aspettai che il vento mi lavasse dalla morte e dai miei peccati. Pregai perché la tempesta purificasse la mia anima... Intontimento. Abolizione del tempo. A torso nudo, stavo gelando, senza che la minima sensazione mi venisse in soccorso. Poi, lentamente, un'immagine mi si disegnò nella mente. Camille e Amandine, al risveglio, camicie di cotone felpato, visi insonnoliti, pupazzetto in braccio, mentre si versano i corn flakes nella tazza. Scoppiai in singhiozzi, la faccia contro la terra. Quanto tempo trascorse così? Impossibile dirlo. Mi rialzai con fatica e, sbattendo i denti, mi trascinai all'interno dell'auto. Accesi il motore e regolai il riscaldamento al massimo. Dopo un'eternità, quando il calore incominciava a farmi tornare in me, chiamai Foucault. «Sono io. Avete ritrovato Manon?» «No.» «Non sei passato da me?» «Là non c'è. Ci sono poliziotti dappertutto. Cazzo. Ogni uniforme a Parigi la cerca.» L'idea mi fece male. Manon sperduta nella città, che si nascondeva nelle
ombre dei portici, s'insinuava tra la folla del venerdì sera. Perché non mi chiamava? L'aria calda saturava l'abitacolo, ma ero ancora percorso da brividi. «E Luc?» «Bisognerà mettere le sbarre alla sua cella quando lo saprà.» «Chi glielo dirà?» «Non so. I medici. O Levain-Pahut.» Ero sollevato dall'idea di non doverlo fare io. Pensai ancora una volta alle due bambine. Due grazie erano scomparse dalla terra. Riconoscevo adesso la mia disperazione. Il suo volto particolare. Quello del Ruanda. La disperazione dell'assenza di Dio. «E tu», riprese Foucault, «hai novità?» «C'è un altro morto.» «In Svizzera?» «Ti do l'indirizzo. Avverti la polizia di Losanna.» «Chi è?» «Moritz Beltreïn. Un medico.» «Cos'è successo?» «Prendi nota?» Gli fornii le indicazioni per raggiungere Villa Parcossola. «Chiama da una cabina», precisai. «Chiamata anonima.» L'immagine del medico divorato dalle mosche mi ritornò alla mente. «E di' loro di sbrigarsi se vogliono trovare qualcosa del cadavere.» «Perché?» «Lo vedranno da sé.» «Quando rientri?» «Stanotte, in macchina. Foucault, devi trovare Manon prima degli altri.» «Se la pesco, la consegno», disse in un tono che tradiva sfinimento e rassegnazione. «No. La tieni con te fino al mio ritorno! La porteremo insieme dal giudice.» Foucault mormorò un saluto. Ripresi la strada verso Losanna. Ritrovavo lentamente la calma. Una calma vicina al nulla. Uno stato post-traumatico. Mi concentrai sulle luci dell'autostrada. Questo unico sforzo bastava a riempirmi la coscienza. Nei dintorni di Vevey squillò il cellulare. «Sono io.»
Un colpo al cuore. La voce di Manon. «Dove sei?» «Dalla mamma.» «Dove?» «Dalla mamma, a Sartuis.» Cercai una logica nelle sue parole. Non ne trovai nessuna e mi aggrappai a un dettaglio pratico. «Hai preso il treno?» «Gare de l'Est.» «A che ora?» «Non so. Quando sono uscita dall'ufficio del giudice.» «Sei andata direttamente alla stazione?» «Sì.» «Non sei andata a casa di Luc?» «No. Perché?» Pensai alle sue impronte nell'appartamento di rue Changarnier. «Non ci sei mai stata?» «Ma no!» Un'evidenza trapelava dalle sue risposte: era completamente all'oscuro degli omicidi. Calcolo rapido. Erano le dieci. Ci volevano almeno cinque ore per raggiungere Besançon e un'altra ora per arrivare a Sartuis. Manon era stata rilasciata verso le tre, prima che chiamassi Foucault per dirgli di andarla a prendere. Voleva dire che aveva preso subito il treno e che era appena arrivata a Sartuis. Questo le forniva un alibi incontestabile per il massacro della famiglia Soubeyras. Un'ondata di calore mi pervase il corpo. «Ti ha vista qualcuno?» domandai. «No.» «Come hai viaggiato da Besançon a Sartuis?» «In taxi.» L'autista avrebbe potuto testimoniare di averla fatta salire a Besançon. Proprio all'ora in cui a Parigi veniva compiuta la carneficina! Mettersi subito alla ricerca del tassista, quella notte stessa. Poi spiegare la presenza delle impronte di Manon sulla scena del crimine. Una macchinazione. Ma, prima di tutto, salvarla. «Perché sei andata a Sartuis?» «Avevo paura. Mi hanno torchiata per ore, Mat.»
«Perché non mi hai chiamato?» «Ho creduto che tu fossi d'accordo con loro. Non volevo tornare a casa tua. E neanche nel mio appartamento a Losanna.» Manon parlava a tutta velocità, come una bambina che sussurra sotto le lenzuola, nel cuore della notte. La mia voce aveva ritrovato vigore quando dissi: «Non ti muovere. Arrivo». 113 Due ore dopo attraversavo la frontiera a Vallorbe. In fondo a tutta quella sofferenza palpitava una luce: avrei ritrovato Manon e l'avrei messa al riparo. Mentre scendevo verso la valle scorsi un furgone della gendarmeria che correva verso il quartiere residenziale di Sartuis, lampeggiatore acceso, ma senza sirena. Presi il cellulare. «Foucault?» «È introvabile, Mat.» «Non hai nessuna pista?» «No.» «E gli altri?» «Niente. Si pensa che sia ripartita per il Jura.» «Perché?» «È un'idea di Luc.» «Luc?» «Corine Magnan gli ha comunicato la notizia. Ha incassato senza una parola. È sempre più schizzato. Ha detto semplicemente che è stata Manon a ucciderle e che bisognava cercare a Sartuis. Ha detto che sarebbe tornata all'origine. Nella casa della madre.» Luc era un autentico veggente. Chiusi la comunicazione e accelerai ancora. Il lampeggiatore azzurro dei gendarmi disegnava delle chiazze sui versanti delle montagne. Arrivare prima di loro. Salvare Manon. Premetti a fondo il pedale dell'acceleratore. All'entrata della città, svoltai a sinistra. Mi ricordavo di una strada, lungo la ferrovia, senza incrocio né semaforo. Innestai la quarta e superai i centotrenta chilometri all'ora. I fari sembravano strappare gli alberi dai margini della carreggiata. Quattro minuti dopo attraversavo il quartiere «bene» di Sartuis. Le luci del furgone, nella pianura. Ma dietro di me. Li avevo anticipati. Adesso
non disponevo che di due minuti per ritrovare Manon. Trovai la casa piramidale. Il frontone d'intonaco bianco, la grande vetrata. Niente luci. Parcheggiai dietro l'edificio e chiamai Manon sul cellulare. «Sono arrivato. Dove sei?» «Nel garage.» Corsi fino al box adiacente alla casa. I lampi azzurri del veicolo dei gendarmi, sempre più intensi, sembravano rischiarare l'intera vallata. Bussai alla porta girevole. Lentamente, troppo lentamente, la parete si aprì. Ogni secondo mi strappava un frammento di carne. Manon apparve nell'oscurità. Volto pallido, offuscato dal vapore del respiro. «Non so perché sono venuta qui», mormorò. «Questo posto mi mette i brividi. Io...» «Vieni.» Manon uscì sulla soglia. Aveva i gesti brevi e timorosi che hanno in genere i superstiti di una catastrofe. I lampi del furgone la impietrirono. «Cos'è? La polizia?» «Dai, spicciati.» «Sanno che sono qui?» «Ci sono novità.» «Cosa?» I gendarmi erano ormai a poche centinaia di metri. «Laure, la moglie di Luc», sussurrai. «È stata uccisa. Con le sue due bambine.» Manon emise un gemito. Gli occhi le si accesero mentre guardava verso il furgone. «Pensano che sia stata io?» Senza rispondere, la presi per mano e feci un passo verso l'auto. Lei resistette. Mi girai per urlare: «Vieni, accidenti!». Troppo tardi. Il furgone spuntò alla svolta del viale. Attirai Manon, aprii la portiera e la spinsi dentro, lato guidatore. Le premetti le chiavi nella mano. Non volevo che passasse un'altra notte circondata da uniformi. Si sarebbe nascosta fino all'indomani, il tempo di ritrovare l'autista del taxi e di scagionarla. «Parti senza di me. Vai.» «E tu?» «Resto qui. Guadagno tempo.» «No, io...» Le premetti le dita sulle chiavi.
«Corri in Svizzera. Chiamami non appena hai attraversato la frontiera.» Mise in moto, controvoglia. «Corri! E chiamami!» gridai. Mi guardò attraverso il vetro, come se volesse imprimersi nella memoria i minimi particolari del mio viso. I lampi stroboscopici del furgone gettavano già delle ombre inquiete sui suoi tratti. Un secondo dopo aveva innestato la retromarcia e faceva rombare il motore. Mi girai e avanzai sulla strada. Il furgone si fermò. Alcuni gendarmi balzarono sulla carreggiata e corsero verso di me, arma in pugno. «Cosa fa qui?» urlò uno di loro. Abbozzai un gesto per tirare fuori i documenti. «Che nessuno si muova!» Avevo già afferrato il tesserino. Lo brandii nel fascio di luce dei loro fari. «Sono della polizia.» Gli uomini rallentarono il passo mentre un ufficiale, imbacuccato in un giaccone nero, prendeva il comando. «Il tuo nome?» «Mathieu Durey, Squadra criminale di Parigi.» Il capo prese il mio tesserino. «Che ci fai qui?» «Lavoro su un'indagine. Io...» «A ottocento chilometri da casa tua?» «Le spiegherò.» «Sì, sarà meglio.» S'infilò il mio documento in tasca, poi lanciò uno sguardo verso la porta del garage aperta. «Perché questa ha tutta l'aria di una violazione di domicilio», aggiunse. Poi, rivolgendosi ai suoi uomini: «Perquisite la casa, voialtri!». Poi verso di me: «Dov'è la tua auto?». «Ho avuto un guasto lungo la strada. Sono venuto a piedi.» L'ufficiale mi osservava in silenzio. Il trench inzuppato di formalina, il viso sporco di sangue, il colletto aperto. Respirava con lentezza. Non vedevo i suoi tratti a causa dei fari che lo illuminavano in controluce. Il suo collo di pelliccia sintetica scintillava nella notte. «Non mi convinci, amico», finì col mormorare. «Bisognerà che ci racconti tutto, e nei dettagli.» «Nessun problema.» Un gendarme accorse dietro di lui.
«La donna non c'è, capitano.» L'ufficiale arretrò di un passo, come per soppesarmi meglio. Chiese all'altro, senza distogliere gli occhi da me: «Il garage?». «Niente da segnalare, capitano.» Batté le mani, con energia. «Bene. Si torna alla gendarmeria. E il signore viene con noi. Ha un sacco di cose da raccontarci. Cose che riguardano Manon Simonis.» Girò sui tacchi e si diresse verso una station wagon blu scuro che non avevo notato. Aprì la portiera dal lato del passeggero e si sporse all'interno. Parlò in una radio: «Qui Brugen. Rientriamo... No, Manon Simonis non c'è». Mi lanciò un'occhiata. «Ma qualcosa mi dice che non è molto lontana...» Brugen. Mi ricordavo di quel nome. Il capitano di gendarmeria che aveva ripreso i dossier di Sarrazin e che dirigeva l'indagine sul suo assassinio. Non sapevo se la notizia fosse buona o cattiva. Due gendarmi mi guidarono verso il furgone. Non avevo diritto all'auto. Aprirono la doppia porta posteriore. L'odore di tabacco stantio e di metallo unto mi assalì. Udivo la voce dell'ufficiale che parlava alla radio. «Voglio dei posti di blocco su tutti gli assi stradali. Besançon, Pontarlier, la frontiera... Fermate tutti i veicoli. E non dimenticate: può essere armata!» Quante possibilità aveva Manon di sfuggire a questo dispositivo? Pregai che fosse già vicina alla frontiera. Allora mi avrebbe chiamato, poi avrebbe dormito per qualche ora, al riparo nell'auto, e io sarei stato al suo fianco al risveglio, con tutte le soluzioni. 114 «Che ci facevi alla casa di Sylvie Simonis?» Mi davano del tu, primo segno di umiliazione. «Conduco un'indagine.» «Che indagine?» «L'assassinio di Sylvie Simonis è legato ad altri casi sui quali lavoro a Parigi.» «Mi prendi per un imbecille? Credi che non conosca il dossier?» «Allora sa di cosa parlo.» Io continuavo a dargli del lei. Conoscevo le regole: disprezzo per lui, deferenza per me. L'ufficio di Brugen era stretto e freddo. Pareti di compen-
sato, mobili di ferro, puzza di vecchi mozziconi. Era quasi comico ritrovarsi dall'altro lato del tavolo. «Posso fumare?» chiesi, senza farmi illusioni. «No.» Lui però si prese una sigaretta. Una Gitane senza filtro. L'accese senza fretta, inalò una boccata e mi risputò il fumo in faccia. «In ogni caso», riprese, «questa storia non ti riguarda. Ma so chi sei. Il giudice Magnan mi ha telefonato poco fa. Mi ha parlato di te e dei tuoi rapporti con Manon Simonis...» Il capitano Brugen sbavava agli angoli della bocca. La sua sigaretta vi restava incollata come una conchiglia a una roccia. Non si era tolto il giaccone con il collo di pelliccia. «Finora, Sarrazin ha coperto i tuoi maneggi. Mi chiedo perché.» «Aveva fiducia in me.» «E questo gli ha portato sfortuna, apparentemente.» Pensai a Manon. Il cellulare non suonava. Avrebbe già dovuto raggiungere Le Locle, nel cantone di Neuchâtel. Mi sporsi sulla scrivania e cambiai tono, usando il mio sempiterno argomento. «Questo caso è complesso. La presenza di un poliziotto supplementare non può far male. Conosco il dossier meglio di...» Il gendarme scoppiò a ridere. «Da quando sei nella nostra regione non hai smesso di fare casini. I morti si accumulano e non hai conseguito il minimo risultato.» Pensai a Moritz Beltreïn. Adesso i poliziotti elvetici dovevano trovarsi a Villa Parcossola. Ma non c'era ragione che ne informassero i gendarmi francesi. «Non sei più protetto, vecchio mio», proseguì Brugen. «Non vogliamo essere scocciati da uno sbirro di Parigi.» «È a Parigi che viene portata avanti l'indagine.» «Dov'è Manon Simonis?» «Non ne so niente.» «Cosa facevi nella casa di sua madre?» «Glielo ripeto: proseguo la mia indagine.» «Cosa cercavi?» Non risposi. «Sei entrato nella casa di una vittima senza un mandato», proseguì lui. «Sei molto lontano dalla tua giurisdizione e non hai alcuna autorità, a nessunissimo livello. Senza contare il tuo aspetto che lascia francamente a de-
siderare. Si potrebbe procedere all'analisi dei tuoi vestiti. Sono certo che ci sarebbero delle interessanti sorprese. Sei messo male, amico.» Fece oscillare la sedia fino ad appoggiarsi contro la parete, le braccia incrociate. «Tuttavia, posso metterci una pietra sopra se mi dici cosa cercavi in casa di Sylvie Simonis.» Cambiai tattica. Dopotutto, poco importava cosa mi capitava qui. A condizione che Manon si trovasse al sicuro, ossia in Svizzera. «Non posso dire niente», feci con tono dispiaciuto. «Chiami il mio commissario capo, Nathalie Dumayet, alla Squadra criminale. Noi...» «Quello che farò sarà sicuramente sbatterti in cella.» «Non lo faccia.» Staccò una particella di tabacco dal labbro, poi aspirò un'altra boccata. «Perché no?» Non riuscendo più a resistere, tirai fuori il cellulare e verificai lo schermo. Nessun messaggio. «Aspetti una chiamata?» Il tono strafottente mi diede sui nervi. Brugen si dondolò di nuovo e poggiò i gomiti sulla scrivania. Potevo sentirne l'alito: nessuna traccia di alcol. Con quel freddo polare era quasi un'impresa. «Dov'è la tua auto?» «Gliel'ho detto. Ho avuto un guasto.» «Dove?» «Sulla strada.» «Da dove venivi?» «Da Besançon.» «I miei uomini hanno fatto delle ricerche: non hanno trovato nessuna auto.» «Non so.» «E quelle macchie sul cappotto?» «Sono caduto.» «In una pozzanghera di formalina?» ribatté ridacchiando. «Puzzi di obitorio, vecchio mio. Tu...» Fu interrotto dagli squilli del telefono fisso. Brugen parve ricordarsi della sua sigaretta. La schiacciò con calma in un posacenere di alluminio prima di alzare la cornetta. «Sì?» D'un tratto il sorriso scomparve. Il colorito rossastro passò al rosa pallido. Trascorse qualche secondo. Il gendarme era sempre più impietrito.
«Dove esattamente?» mormorò fra i denti. Il sangue abbandonava il suo viso. Un'ombra gli velava gli occhi. «Vi raggiungo laggiù», concluse in un sussurro. Riagganciò, gli occhi fissi sul ripiano della scrivania, poi guardò verso di me. «Una brutta notizia.» Una sorda apprensione mi strinse il cuore. «Manon Simonis è morta», mormorò abbassando le palpebre. Il gendarme aprì le braccia per esprimere la sua sorpresa e la sua impotenza, poi mi tese il pacchetto di sigarette. Captavo i suoi movimenti al rallentatore. Infine, le sue parole mi raggiunsero. Uno schianto nella scatola cranica. Un coagulo di nulla dentro di me. In una frazione di secondo ero diventato un fossile. Uno scheletro calcificato. «Ha voluto forzare un posto di blocco, sulla D437, nei dintorni di Morteau. I miei uomini hanno sparato. La sua auto si è schiantata contro un larice. La testa ha battuto contro il cruscotto. Io... Be'...» Aprì ancora le mani. «È finito tutto Adesso...» Non sentii il seguito. Ero svenuto. 115 San Tommaso d'Aquino scrive: «Dio è ben conosciuto quando è conosciuto come sconosciuto». La preghiera è tanto più fervente quanto più Dio è lontano, oscuro, inaccessibile. Il credente non prega per capire il Signore. Prega per fondersi nel Suo mistero, nella Sua grandezza. Poco importa che si sia superata la soglia di sofferenza, che si sia schiacciati dalla sensazione di essere stati abbandonati. Al contrario, meno si comprendono le vie del Signore e meglio Lo si prega. Proprio questa incomprensione è una passerella verso il Suo mistero. Una maniera di risolversi nel Suo enigma. Di abbandonarvi la propria ribellione, il proprio orgoglio, la propria volontà. Anche in Ruanda, quando fuori imperversavano lo stridore dei machete e il sibilo dei fischi, pregavo con intensità. Senza speranza. Come oggi... Dall'alba del sabato, avevo ritrovato la memoria delle parole. La memoria della fede. In realtà, quel credo era un atteggiamento di superficie. Un tentativo di abbrutirmi, per tornare, appunto, a un'incomprensione, a un'umiltà che avevo smarrito.
In realtà non ero più un cristiano, e neanche un essere umano. Non ero che un urlo. Una ferita aperta, che non sarebbe mai riuscita a cicatrizzarsi. Un'esistenza atrofizzata, che s'infettava, marciva ogni giorno di più. Sotto la mia preghiera, sotto le parole, c'era la cancrena. Manon. Avevo un bel dirmi che per lei cominciava la vita vera - l'eternità - e che l'avrei ritrovata quando sarebbe suonata la mia ora... Non potevo accettare che ci fosse stata negata la nostra opportunità sulla terra. Quando immaginavo gli anni felici che avremmo potuto vivere, provavo la sensazione fisica che quella grazia mi fosse stata strappata. Come un organo, un muscolo, un brandello di carne, prelevato senza anestesia. La ferita aveva le sue varianti. Talvolta pensavo alle bambine, Camille e Amandine. O a Laure, che non avevo mai rispettato e che ora veniva a torturarmi nelle mie notti insonni. All'alba del sabato, i gendarmi mi avevano rilasciato. Avevo dovuto mentire ancora, raccontare che Manon mi aveva rubato l'auto presa a noleggio. Provavo un rimorso supplementare a tradirla, ma dovevo fornire ai gendarmi una spiegazione credibile. Da parte loro, non aspettavano altro che di lasciarmi andare. «Vanitas vanitatum et omnia vanitas...» I gendarmi non conoscono né l'Ecclesiaste né Bossuet, ma potevano rendersi conto della totale vanità del loro interrogatorio, della loro indagine, della loro autorità. Alle otto del mattino ero libero. Il giorno stesso mi ero recato all'obitorio dell'ospedale Jean-Minjoz per identificare il corpo. Non conservavo alcun ricordo di quell'ultimo incontro. Avevo soltanto assimilato due aspetti pratici, nei meandri della coscienza. Sarei stato io a occuparmi delle esequie di Manon. Il che significava che non avrei presenziato a quelle della famiglia di Luc. Prima di lasciare l'obitorio, avevo chiesto a Guillaume Valleret, il medico legale dell'ospedale, di prescrivermi una buona dose di ansiolitici e di antidepressivi. Non si fece pregare. Eravamo fatti per capirci. Un medico dei morti che curava uno zombie. Avevo poi cercato rifugio a Notre-Dame-de-Bienfaisance, l'eremo di Marilyne Rosarias. Luogo ideale per piangere i miei defunti fra altri cristiani in lutto, immergermi nella meditazione e nella preghiera. Durante il mio ritiro non avevo letto i giornali. Non mi ero preoccupato né dell'indagine sulla morte di Beltreïn, né di ciò che avevano raccontato per concludere - tentare di concludere - la vicenda Simonis. Avevo però
seguito, tramite Foucault, l'evoluzione del caso Soubeyras. L'autore del massacro era introvabile. Niente di sorprendente. Tutto ciò lo captavo attraverso la nebbia chimica della mia mente e le litanie delle mie preghiere. Ero diventato una conchiglia vuota. Un altro avevo preso il comando dentro di me. Una sorta di pilota automatico, fervente, religioso, raccolto, e io lo lasciavo fare, impotente. Una di quelle mattine di preghiera fui però colpito da un pensiero. Dovevo scegliere un ordine monastico. Lasciare quel mondo di peccato e di empietà che mi aveva fagocitato. Vivere nella penitenza, nell'umiltà, nella sottomissione, al ritmo delle funzioni religiose. Tornare alla solitudine e alla conoscenza più intima della mia anima per ristabilire un legame con Dio. Sant'Agostino, ancora e sempre: «Non andartene fuori; rientra in te stesso». A partire da quel momento fu solo quell'idea a tenermi in piedi. Il funerale di Manon ebbe luogo a Sartuis, martedì 19 novembre, in un cimitero deserto. C'era solo uno sparuto gruppetto di giornalisti. Chopard, il vecchio reporter, faceva da comparsa. Padre Mariotte aveva accettato di benedire la bara e di pronunciare un'orazione funebre: lo doveva a Manon. Marilyne Rosarias mi aveva accompagnato. Quando la tomba fu sigillata mormorò: «Niente è finito». Girai la testa, senza reagire. Il mio cervello funzionava a basso regime. «Il diavolo è sempre vivo», continuò. «Non capisco.» «Certo che capisci. Questa morte, questo spreco, è opera sua. Non lasciarlo trionfare.» La sua voce mi arrivava ovattata. Ero interamente concentrato su Manon. Un destino segnato da una stella nera. E dei ricordi, per me sinistri quanto una manciata di ossicini nella mano. «Lotta per lei», proseguì Marilyne indicando la tomba. «Non lasciare che il demone ne infanghi la memoria. Dimostra che lei era altrove e che è lui solo l'assassino delle bambine. Trovalo. Annientalo.» Non aspettò una risposta e si allontanò. Le linee nette della sua mantella fendevano l'aria grigia. Aveva pronunciato ad alta voce le parole che una vocina continuava a ripetere dentro di me, nonostante i miei voti monastici. La messe di terrore non era completa. Prima di abdicare dovevo agire. Non potevo lasciare l'ultima parola al diavolo.
Dovevo trovarlo e affrontarlo. 116 Venerdì 22 novembre. Ritorno a Parigi. La città sfoggiava già i suoi addobbi natalizi. Ghirlande, palline, stelle: un affronto alle mie tenebre interiori. Quelle luci, quegli scintillii, che faticavano a sconfiggere il grigiore del giorno, erano come una misera galassia in un cielo di cenere. Ero al volante di una Saab, altra auto presa a nolo. In viaggio per Villejuif, feci prima una sosta a Porte Dorée. Volevo raccogliermi sulle tombe di Laure e delle bambine, nel cimitero sud di SaintMandé. Trovai senza difficoltà la sepoltura di granito sormontata da una stele più chiara. Tre ritratti erano disposti a triangolo, con sotto queste parole: Non piangere sui morti. Non sono più che gabbie da cui gli uccelli sono volati via. Riconobbi la citazione. Musluh al-Dîn Saadi, poeta persiano del XIII secolo. Perché un autore profano? Perché nessun simbolo cattolico? Chi aveva scelto quella frase? Luc era nelle condizioni di decidere qualcosa? M'inginocchiai e pregai. Ero stralunato, non capivo nemmeno più cosa significassero quei ritratti sulla pietra, ma mormorai le parole: Da te Signore, Da te proviene la nostra speranza Quando i nostri giorni sono oscurati E la nostra esistenza è lacerata... Ripresi la strada di Villejuif. Luc Soubeyras. Da quando era avvenuto il massacro non gli avevo più parlato direttamente. Gli avevo solo lasciato due messaggi all'ospedale, rimasti senza risposta. Più che il suo dolore, temevo la sua collera, la sua follia. Alle undici del mattino ritrovai il muro cieco dell'istituto Paul-Guiraud, i campi sportivi, i padiglioni che sembravano hangar di un aeroporto. Mi fermai al padiglione 21, con il timore che Luc fosse già stato trasferito all'Henri-Colin, l'unità per malati difficili. E invece no. Era di nuovo si-
stemato in una normale camera del padiglione, dove il ricovero era liberamente scelto dal paziente. Alla fine aveva trascorso solo poche ore nella sezione di ricovero coatto. «Mi spiace non essere stato al funerale.» «Non c'eri?» Luc sembrava sinceramente stupito. In tuta da ginnastica azzurra, se ne stava disteso sul letto in atteggiamento rilassato. Pareva immerso nei suoi pensieri mentre cincischiava con dei pezzetti di corda, probabilmente scippati nel laboratorio di ergoterapia. «Ho dovuto occuparmi del funerale di Manon.» «Certo.» Teneva gli occhi fissi sulle cordicelle che stava annodando. Parlava con dolcezza, ma c'era anche un'altra sfumatura nel suo tono: distanza, ironia. Mi ero preparato un discorso, una tirata cristiana sul senso nascosto degli eventi, ma era meglio astenersi. Non avevo protetto la sua famiglia. Non avevo prestato la minima attenzione alla sua richiesta. «Luc, mi spiace tanto», arrischiai. «Avrei dovuto reagire più in fretta. Avrei dovuto mettere degli uomini di guardia, io...» «Non parliamone più.» Si alzò e si sedette sul bordo del letto, con un sospiro. Incapace di contenermi più a lungo, introdussi l'argomento che mi ossessionava. «Non è stata lei, Luc. Non era a Parigi quando Laure e le piccole sono state uccise.» Volse il capo e mi guardò, senza vedermi. Le sue pupille dorate non erano morte però. Fremevano, sotto i brevi battiti di ciglia. Di fronte al suo silenzio aggiunsi, quasi aggressivo: «Non è stata lei e non è colpa mia!». Luc si distese nuovamente e chiuse gli occhi. «Lasciami. Devo riposare.» Mi lanciai un'occhiata intorno: la stanza bianca, il letto, il tavolino. Niente quaderno nero. Niente libri. Niènte televisione. «Non... non hai bisogno di niente?» chiesi. «Devo riposare. Prima di compiere la mia missione.» «Che missione?» Luc rialzò le palpebre e conservò lo sguardo fisso. Le sue ciglia parevano spolverizzate di zucchero di canna. La bocca si aprì in un sorriso. «Ucciderti.»
117 Tornato nel mio ufficio al Quai, chiusi a chiave la porta e riunii tutto il materiale del dossier d'indagine. Tutto quello che avevo raccolto dal 21 ottobre: dagli appunti sull'assassinio di Larfaoui fino alle stampate con le informazioni riguardanti Moritz Beltreïn, passando per gli articoli di Chopard, il referto d'autopsia di Valleret, gli appunti presi in Vaticano, gli articoli e le foto di Catania, il bilancio di Callacciura, le cartelle mediche dei Senza Luce, i rapporti di Foucault, di Svendsen... C'era una chiave nascosta tra quei documenti. Il veleno nero della storia non era stato completamente estratto. L'una. Giurai a me stesso che non sarei uscito di là prima di aver trovato un segno, un elemento, che mi aiutasse a spiegare come la famiglia di Luc aveva potuto essere massacrata mentre l'assassino, Moritz Beltreïn, si trovava a mille chilometri dal luogo del delitto. Prima di prendere il treno, a Besançon, ero passato da Corine Magnan. Era rientrata nel suo feudo due giorni dopo la morte di Manon. Aveva subito attraversato la frontiera per sentire le squadre federali che avevano passato al setaccio la villa di Moritz Beltreïn. L'assassinio di Sylvie Simonis era un caso risolto. Il colpevole era stato identificato. Tutte le prove erano state ritrovate in casa sua: le fotografie, gli insetti, il lichene, un quantitativo di iboga... Il magistrato aveva esposto questi elementi nel corso di una conferenza stampa, a Besançon, martedì 19 novembre. Io non c'ero andato, ma lei mi aveva riassunto le sue conclusioni. Moritz Beltreïn, specialista della rianimazione, aveva vendicato i suoi «pupilli» ammazzando chi li aveva fatti sprofondare nel coma. Al tempo stesso, aveva condizionato quei sopravvissuti ricorrendo a un arsenale di sostanze chimiche e li aveva persuasi che erano stati loro a uccidere le sue vittime. Il folle aveva eliminato anche Stéphane Sarrazin, che minacciava di smascherarlo. Corine Magnan non aveva alluso ai Senza Luce. Non usava mai quel nome. Escludeva dall'indagine ogni dimensione metafisica, i miracoli del diavolo, l'evoluzione malefica dei «soldati» di Beltreïn, la loro possessione... La buddhista si era attenuta a una versione cartesiana dei fatti. Durante il nostro incontro non aveva parlato nemmeno degli Asserviti. Per una semplicissima ragione: ignorava l'esistenza di quella setta. Di con-
seguenza, le scomparse di Cazeviel e di Moraz non rientravano nel suo fascicolo istruttorio. Due vittime relegate nel dimenticatoio, ai margini di un caso non completamente risolto. Restava infatti una domanda: chi aveva ucciso Moritz Beltreïn? Magnan non aveva una risposta. Perlomeno ufficiale. Lo stato del cadavere, mezzo divorato dagli insetti, non aveva permesso di risalire alle circostanze esatte della morte. Tuttavia, mi sembrava che il giudice avesse un'idea sull'identità del colpevole... Ma avevo implicitamente capito che non sarei mai stato infastidito. In realtà, una sola persona poteva stabilire un legame fra quel cadavere e me: Julie Deleuze, l'assistente di Beltreïn. E, a quanto pareva, la signorina Tic Tac non aveva parlato. E restava un altro enigma. Chi aveva assassinato Laure Soubeyras e le sue due bambine? Magnan non si preoccupava di quel mistero, almeno sul piano professionale, perché la vicenda non la riguardava essendo l'istruttoria nelle mani di un magistrato parigino. Io l'avevo contattato quando mi trovavo ancora in ritiro a Bienfaisance. Gli avevo passato i dati del tassista che avevo identificato, il tassista che verso le otto di sera aveva portato Manon a Sartuis, il 15 novembre. Dunque era ufficiale: Manon Simonis era innocente. Ci eravamo lasciati, Magnan e io, su un lungo silenzio, sapendo entrambi che ci era sfuggito un elemento chiave. Probabilmente proprio il fulcro di tutta la storia. Nell'ombra di Moritz Beltreïn c'era sempre un assassino in libertà. Forse era un'illusione, ma avevo sentito che lei mi passava tacitamente il testimone. Spettava a me trovarlo. Spettava a me giudicarlo, in un modo o nell'altro. Adesso ero davanti al mio dossier, un dossier che poteva anche sembrare coerente, solo che quella coerenza era un'illusione. Fra quelle pagine, quelle righe, quelle fotografie si celava un segreto... un dato nascosto. Ricostruii la cronologia, classificando ogni documento. Annotai tutto, tracciai dei diagrammi, collegai ogni fatto, ogni data, ogni luogo. Poi cominciai a elencare i dettagli che non collimavano. Alle quattro avevo raggruppato una serie di anomalie. I granelli di sabbia che inceppavano il meccanismo. Primo granello di sabbia: l'omicidio di Massine Larfaoui. Secondo la mia teoria era stato Moritz Beltreïn, il cliente misterioso, a far fuori il cabilo dopo un litigio di cui ignoravo il motivo. Forse Larfaoui ricattava Beltreïn, immaginando che il medico usasse l'iboga nera sui suoi
pazienti. Forse aveva persino scoperto le sue attività omicide... Era un movente credibile, ma restavano sempre tante questioni aperte. Perché Gina, la prostituta, aveva preso l'assassino per un prete? Aveva parlato di un tipo alto e magro... Niente a che vedere, fisicamente, con Beltreïn. Anche il metodo dell'omicidio poneva un problema. Lo svizzero usava delle tecniche singolari nei suoi omicidi, ma non sarebbe stato capace di manomettere un'arma automatica da combattimento, perché non aveva nessuna formazione militare. E d'altronde nella sua villa non erano stati trovati materiali di questo genere. Secondo granello di sabbia: le apparizioni psichiche. Sempre secondo la mia teoria, Beltreïn drogava le sue vittime e poi si mostrava loro travestito da «demone». Ma, anche truccato, anche se la vittima era in stato di trance, come aveva potuto il medico tarchiato farsi passare per un vecchio luminescente, un angelo molto alto o un bambino sfigurato? Terzo granello di sabbia: la mobilità dell'assassino. Avevo annotato la data e il luogo di ogni omicidio, non solo di quelli delle vittime «decomposte» ma anche di quelli di Larfaoui e di Sarrazin. Da Arturas Rihiimäki, nel 1999, fino all'eliminazione del capitano di gendarmeria, erano troppi gli omicidi per essere opera di un uomo solo. Senza contare che c'erano state altre vittime: lo attestavano le fotografie nella villa di Beltreïn. Tutti quei viaggi, quei preparativi, erano compatibili con il lavoro del professore? Avrebbe dovuto avere il dono dell'ubiquità. Quarto granello di sabbia: la concentrazione dei fatti. Per quanto ne sapevo, i delitti del Visitatore del Limbo erano iniziati nel 1999. Quindi Beltreïn doveva aver iniziato la sua attività criminale all'età di quarantasette anni. Perché così tardi? In genere un serial killer rivela la propria natura omicida fra i venticinque e i trenta, mai all'alba dei cinquanta. Possibile che già dagli anni Ottanta Beltreïn avesse avuto un'attività criminale che ignoravamo? O forse non agiva da solo? Quinto granello di sabbia: Beltreïn non aveva confessato. Anche quando ormai stava per ammazzarmi, il medico aveva continuato a sostenere di non essere altro che un «fornitore», un «intercessore». Aveva lasciato intendere che si limitava ad aiutare i Senza Luce nella loro vendetta. Mentiva. Né Agostina né Raïmo sarebbero stati capaci di sacrificare le loro vittime con quel metodo. Quanto a Manon, sapevo che non aveva ucciso sua madre. Se a uccidere non erano né Beltreïn né i miracolati, chi allora?
L'idea di un complice prendeva corpo. Anzi, non di un complice: del vero assassino. Effettivamente Beltreïn poteva essere solo una comparsa. Aiutava, sosteneva, riforniva colui che si camuffava da angelo o da vecchio. Colui che torturava le sue vittime per giorni interi. Un uomo che alla fine degli anni Novanta doveva essere sulla trentina... Le sei. Era scesa la notte. Avevo acceso solo la lampada sulla scrivania, che diffondeva una luce radente sui miei appunti, i rapporti, le fotografie. Ero completamente immerso nelle mie riflessioni. Sentivo dentro di me che mi stavo avvicinando a una scoperta capitale, conquistata con la sola forza della mia concentrazione. Pensai a un ultimo granello di sabbia e presi il telefono. «Svendsen? Sono Mathieu.» «Dov'eri finito? Sei di nuovo scomparso.» «Sono rientrato stamattina.» «Nessuno ha capito la tua assenza ai funerali di...» «Ho i miei motivi. Non ti chiamo per questo.» «Dimmi.» «Sei stato tu a praticare le autopsie di Laure e delle bambine?» «No. Mi sono rifiutato. Quelle piccole hanno giocato sulle mie ginocchia, ti rendi conto?» Non riconoscevo più il mio Svendsen. Quello non era il suo stile. Ma a prescindere dal suo stato d'animo, doveva assolutamente aiutarmi in quello che avevo in mente. «Il caso non è chiuso», dissi con voce ferma. «Non potresti...» «La risposta è no.» «Ascolta. C'è qualcosa che non funziona in tutto questo.» «No.» «Ti capisco, ma il tipo che ha ucciso le bambine è in libertà. Io questo non posso accettarlo. E nemmeno tu.» Breve silenzio. «Cosa cerchi esattamente?» domandò. «Da quanto ne so, sono state sgozzate. Se il loro assassinio fa parte della stessa storia, come afferma Luc, deve esserci dell'altro. Un simbolo satanico. O qualcosa che ha a che fare con la decomposizione dei corpi.» «Pensi anche tu che esista un legame con gli altri omicidi?» «Penso si tratti dello stesso assassino.»
«E Beltreïn?» «Forse Beltreïn non era l'assassino che usava gli insetti. Oppure non agiva da solo. Allevava le bestiole, preparava i prodotti, per un altro colpevole. Quello che ha sgozzato la famiglia di Luc e che deve aver lasciato la sua firma.» Nuovo silenzio. Svendsen rifletteva. «Se ho ragione», aggiunsi, «se l'assassino di Laure e delle bambine è lo stesso che ha adottato il rituale degli insetti, allora deve avere lasciato qualcosa di segreto nei loro corpi. Un elemento che gioca sulla cronologia. Una decomposizione accelerata. Qualcosa che firma il suo stile.» «No. Quando le hanno trovate i corpi erano ancora caldi. Erano in un lago di sangue. Non ho sentito niente su un elemento che...» «Verifica. Il medico legale potrebbe avere trascurato un dettaglio.» «I corpi sono sotterrati da giorni. Se pensi a un'esumazione, tu...» «Tutto ciò che ti chiedo è di dare un'occhiata ai referti. Studiali dal punto di vista della decomposizione. I numeri, le analisi, il minimo elemento sullo stato dei cadaveri al momento della loro scoperta. Verifica se non ci sia un segno che potrebbe appartenere all'universo contorto degli altri omicidi.» Altro momento di pausa. «Ti richiamo», concesse infine lo svedese. Andai a prendermi un caffè al distributore automatico e tornai al mio dossier. Un altro elemento da passare al setaccio: il profilo di Moritz Beltreïn, la sua vita, le sue passioni, i suoi incontri. L'avevo già fatto, scavando in profondità, ma adesso cercavo qualcos'altro. Un personaggio ricorrente nella sua cerchia. Un uomo dell'ombra. Ripresi ancora una volta la sua biografia e l'esaminai minuziosamente. Quell'uomo aveva passato la vita a rianimare i morti. Aveva inventato una macchina eccezionale per strapparli al nulla. Si era sempre mosso su quei territori estremi, tendendo la mano a quelli che potevano essere ripescati. Aveva salvato dozzine di vite, prodigato le sue cure per trent'anni, dispensato il suo sapere negli Stati Uniti, in Francia, in Svizzera. Un'esistenza senza macchia. Tuttavia cercai, fino a sentirmi bruciare gli occhi, un nome ricorrente, una zona d'ombra, un evento singolare. Qualcosa, qualsiasi cosa che potesse spiegare la sua psicosi o suggerire un partner criminale. Ogni parola sembrava penetrarmi nel profondo dei minuscoli vasi del cervello. Ma non trovai niente.
Eppure lo sentivo, qualcosa si celava tra quelle righe. Un dettaglio, un'incrinatura, che avevo sotto gli occhi ma che non riuscivo a identificare. Le otto. Altro caffè. I corridoi della Criminale adesso erano deserti. Tornato nel mio ufficio, ripresi per la terza volta a esaminare i dati. Studiai in ogni particolare le circostanze del primo salvataggio operato da Beltreïn, nel 1983. Lessi l'articolo incomprensibile, scritto in inglese, che il medico aveva pubblicato due anni dopo sulla rivista scientifica «Nature». Mi sorbii la lista delle conferenze da lui tenute nei vari paesi del mondo. Passò un'altra ora. Non trovavo niente. Mi accesi l'ennesima Camel, mi massaggiai le palpebre e ricominciai da capo. Le date. I nomi. I luoghi. E, d'un tratto, seppi. In ogni biografia si citava il primo utilizzo della macchina bypass: una giovane donna, annegata nel lago Lemano, nel 1983. Ma adesso mi ricordavo di una cosa. Durante il nostro incontro all'ospedale Beltreïn mi aveva detto, per dimostrare la sua lunga esperienza, di avere tentato per la prima volta quell'operazione nel 1978, «su un ragazzino morto per asfissia». 1978. Perché gli articoli non menzionavano mai quell'intervento? Perché le agiografie facevano sempre risalire al 1983 il primo esperimento del medico? Perché lo stesso Beltreïn, nelle sue interviste, nel suo curriculum scientifico, non aveva accennato a quell'esperienza? E perché, se aveva qualcosa da nascondere, ne aveva parlato a me? Mi collegai a Internet e accedetti all'archivio della «Tribune de Genève». Le parole chiave per l'anno 1978: «Beltreïn», «salvataggio», «asfissia». Zero risultati. Tentai la stessa ricerca con «L'Illustré suisse», «Le Temps», «Le Matin». Niente. Nessuna traccia di un'operazione spettacolare. Merda. Un altro ricordo mi venne in aiuto. Il 1978 era l'ultimo anno che Beltreïn aveva trascorso in Francia, a Bordeaux. Effettuai la stessa ricerca nell'archivio di «Sud-Ouest». L'articolo mi scoppiò in faccia: SALVATAGGIO MIRACOLOSO DA PARTE DI UN MEDICO SVIZZERO. Vi si raccontava nei dettagli come Moritz Beltreïn avesse usato per la prima volta la macchina di trasfusione
sanguigna per rianimare un ragazzino morto per anossia. Fuoco nelle vene. Il bambino era stato recuperato in fondo alla grotta di Genderer, nei Pirenei. Era stato trasferito in elicottero al Centro ospedaliero universitario (CHU) di Bordeaux, dove Beltreïn aveva proposto il suo metodo. Adesso le righe mi ballavano davanti agli occhi. Non capivo più niente. Perché un nome faceva schizzare via tutte le altre parole in onde di terrore. Il nome del bambino rianimato. L'ultimo che mi sarei aspettato. Luc Soubeyras. «No, impossibile», mormorai scuotendo il capo. Continuai a leggere. Nell'aprile del 1978 Moritz Beltreïn aveva strappato Luc, allora undicenne, agli artigli della morte. La coincidenza era troppo folle. Le strade di Luc e Beltreïn si erano incrociate, ventiquattro anni prima che tutto cominciasse! Mi costrinsi a rileggere l'articolo a freddo, tenendo a distanza le molteplici implicazioni di quella scoperta. Alla base, un fatto che ignoravo: Luc era con il padre speleologo quando questi era sceso nella grotta di Genderer, nel 1978. Probabilmente Nicolas Soubeyras aveva voluto iniziare il figlio alle emozioni di questa disciplina e, ancora una volta, metterlo alla prova. Ma la discesa negli abissi era finita tragicamente. Una frana aveva ostruito il passaggio attraverso il quale erano scesi padre e figlio. Le pietre avevano ucciso sul colpo Nicolas Soubevras. Luc era sopravvissuto, ma era stato lentamente asfissiato dai gas di decomposizione del cadavere del padre. Quando i due corpi erano stati ritrovati, il bambino aveva appena cessato di vivere. Beltreïn, all'ospedale di Bordeaux, aveva allora tentato per la prima volta di utilizzare, al contrario, la macchina di raffreddamento. Era riuscito a riportare in vita il bambino, il cui cuore aveva sospeso i suoi battiti per almeno due ore. Il più bel salvataggio di Beltreïn: il primo, quello che la sua biografia non citava. E adesso le deduzioni. Durante l'incidente Luc aveva vissuto una NDE negativa. A undici anni aveva visto il diavolo. La sua «rivelazione» mistica non era quella che mi aveva sempre raccontato. La luce non aveva disegnato il volto di Dio sulla falesia. Era avvenuta nel fondo di una galleria, mentre era avvolto dalle tenebre e suo padre marciva accanto a lui.
Luc era un Senza Luce. Il solo autentico posseduto di tutta la vicenda. Luc Soubeyras non aveva incontrato Satana poche settimane prima, quando si era gettato nel fiume. Era tutto finto, calcolato, truccato. Il suo annegamento, la sua visione, il suo risveglio malefico: tutte menzogne. Durante la seduta d'ipnosi Luc non aveva fatto altro che raccontare i suoi ricordi infantili, la rivelazione di Genderer! Dopo quell'esperienza era Luc che comandava. Il bambino maledetto era diventato il mentore di Beltreïn. Era stato lui ad architettare tutto. «Non sono che un fornitore, un intercessore»: Beltreïn aveva detto la verità. Fin dall'inizio era al servizio di un bambino diabolico, quel bambino che avevo incontrato tre anni più tardi a Saint-Michel-de-Sèze e che non aveva mai nascosto la sua passione per il diavolo, sostenendo che bisognava conoscere il nemico per poterlo combattere. Ma Luc non aveva che un nemico: Dio stesso. Era Luc, e solo Luc, a uccidere le sue vittime secondo il rituale organico. Lui, e lui solo, a creare dei Senza Luce, ai quali appariva sotto diversi travestimenti dopo aver loro iniettato dell'iboga nera. Segnato per sempre dal doppio trauma della grotta e del coma, non aveva più smesso di formare uomini e donne a sua immagine: dei Senza Luce. Aveva ucciso riproducendo i tormenti sofferti in fondo alla grotta. Luc si prendeva per il Principe delle tenebre, o per uno dei suoi emissari, ed era un demone ossessionato dalla putrefazione, dalla decomposizione della carne. Ma perché avere inscenato quell'annegamento? Quella seconda NDE negativa? Perché aveva messo me sulle sue tracce? Per rivelare apertamente le sue manovre? Per provocarmi? Calpestare Dio sotto i miei occhi? SOLTANTO TU E IO... Intravedevo il motivo che aveva spinto Luc. Il suo gusto per la teatralità, per la rappresentazione. Se era un emissario di Satana, bisognava allora che i mortali scoprissero il suo regno, la portata della sua forza distruttiva. Gli serviva un testimone per la sua opera. Perché non un cattolico, l'amico che aveva sempre tentato di corrompere? Un cuore innocente, ingenuo, che diventasse suo malgrado il suo scriba, il suo apostolo? Presi su la cornetta del telefono per chiamare l'ospedale di Villejuif. Nello stesso momento squillò il cellulare. Me lo portai all'orecchio. «Sono Svendsen. Avevi ragione. C'è un'anomalia.» Un'ulcera folgorante, nel profondo delle viscere. «Parla.»
«Le conclusioni del primo medico sono sbagliate. Il momento della morte non è quello che si credeva.» «Cosa te lo fa pensare?» «Gli organi interni sono dilatati. I vasi sono scoppiati. E certe lesioni dei tessuti potrebbero essere collegate alla comparsa di cristalli di ghiaccio.» «Il che vuol dire?» «È completamente assurdo.» «Sputa, cazzo!» «I corpi sono stati congelati.» Un boato nella testa. «Congelati e poi riscaldati. Laure e le piccole sono state uccise prima di quanto si pensi.» «Quando?» «Difficile dirlo. Il ghiaccio ha confuso le carte, ma direi che sono state sottoposte a un processo di raffreddamento per almeno ventiquattro ore.» «Dunque sono state uccise alla stessa ora, il giovedì?» «Sì, più o meno.» Feci i conti. Giovedì 14 novembre, nel tardo pomeriggio, Manon era da me. Le avevo telefonato più volte e due poliziotti la sorvegliavano in permanenza. In nessun caso avrebbe potuto recarsi in rue Changarnier, e ancora meno avrebbe potuto congelare i corpi e, l'indomani, riportarli nell'appartamento. «Sei sicuro?» chiesi con un filo di voce. «Bisognerebbe esumare le spoglie. Procedere ad altre analisi. Sulla base dei miei calcoli si può tentare di parlarne al giudice e...» Non ascoltavo più. I miei pensieri gravitavano attorno a un altro abisso. Un altro sospetto per gli assassini. Luc! Giovedì 14 novembre non si trovava ancora in cella d'isolamento. Significava che aveva potuto andare a Parigi, massacrare la sua stessa famiglia e congelare i corpi, con un metodo che restava da scoprire. Poi era rientrato all'ospedale, aveva simulato la sua crisi ed era stato rinchiuso... solo per qualche ora, lo sapevo. Il pomeriggio del venerdì era già libero. Era allora tornato in rue Changarnier, aveva sistemato i corpi ed era rientrato di nuovo all'ovile. Il caldo dell'appartamento aveva completato il processo. I cadaveri erano «morti» una seconda volta, mentre Luc cenava con i suoi compagni fuori di testa a Villejuif.
Ringraziai, o credetti di ringraziare, Svendsen, poi riagganciai. Luc si era confezionato un alibi perfetto. E non solo. Grazie a questo metodo, era rimasto coerente con la sua scia di violenza. Ancora una volta aveva giocato con la cronologia della morte! Qual era la successiva tappa del suo piano? Uccidermi, come mi aveva annunciato? 118 Chiamai l'ospedale Paul-Guiraud e chiesi di parlare a Zucca. Dovevo verificare l'impiego del tempo di Luc, dal giovedì al venerdì. Lo psichiatra confermò le mie ipotesi. Il suo paziente era uscito dalla cella d'isolamento alle quattro di venerdì pomeriggio. Gli avevano somministrato dei sedativi, per poi trasferirlo in una stanza standard per farlo riposare fino all'indomani. Ovviamente Luc non aveva inghiottito le compresse ed era tornato a casa sua per completare la messinscena. Fra l'andata e il ritorno nel XII arrondissement non gli ci erano volute neanche tre ore. Restava la domanda centrale: come aveva fatto a congelare le sue vittime? Ma a questo avrei pensato dopo. Mi resi conto che Zucca mi stava ancora parlando. «Cosa dice?» «Chiedevo il perché di queste domande.» «Dove si trova adesso Luc? Sempre nella sua camera?» «No. È uscito oggi a mezzogiorno.» «L'ha lasciato andar via?» «Non siamo mica in un carcere! Ha firmato il foglio di uscita. E basta.» «Le ha detto dove andava?» «No. Ho avuto giusto il tempo di stringergli la mano. Secondo me, è andato a raccogliersi sulle tombe della sua famiglia.» Non riuscivo ad accettare la situazione. Un dossier in trompe-l'œil. Errori accumulati. Il colpevole in libertà. «Come ha potuto lasciarlo andare?» sbottai alzando la voce. «Mi aveva detto che le sue condizioni stavano peggiorando!» «Da quando ci siamo parlati Luc si è calmato. Ha ripreso a ragionare normalmente. Sembra che l'Haldol abbia avuto un effetto molto positivo, io...»
I miei pensieri coprivano le sue parole. Luc non era mai stato pazzo. Perlomeno non in quel modo. E non aveva mai preso nessuna pillola. Mi venne un'idea. «Per ogni paziente vi informate sul suo passato psichiatrico, vero?» «Sì, cerchiamo di farlo.» «E per Luc, avete effettuato una ricerca?» «È curioso che me lo chieda. Ho appena ricevuto il rapporto di un ospedale, risalente al 1978. Il Centro ospedaliero dei Pirenei, nelle vicinanze di Pau.» «Cosa dice il rapporto?» «Luc Soubeyras ha avuto un incidente nell'aprile del 1978. Coma. Stato di shock. L'esperienza gli aveva lasciato degli strascichi.» «Di che genere?» «Disturbi mentali. Il rapporto non è esplicito.» Zucca si fece pensoso. «Strano, no? Luc ha già vissuto questa storia in passato...» «Strano» era una parola inadeguata. Luc aveva scritto e organizzato tutto per un bis apocalittico. «In un certo senso», aggiunse Zucca, «questo cambia la mia diagnosi. Assistiamo oggi a una sorta di... recidiva. Luc potrebbe essere più pericoloso di quanto credevo.» Per poco non scoppiai a ridere. «Sì, potrebbe proprio.» Lampeggiatore sul tetto, fari a piena luce, sirena spiegata. Un'altalena di sensazioni. Paura. Eccitazione. Nausea. Filavo verso rue Changarnier, con la speranza di sorprendere Luc nel suo appartamento mentre preparava il suo ultimo atto. Ci misi solo sette minuti per raggiungere cours de Vincennes. Spensi le luci d'allarme, m'infilai in boulevard Soult fino a raggiungere, a sinistra, la via di Luc. Gli edifici di mattoni si richiusero su di me come una morsa di sangue rappreso. Digitai meccanicamente il codice del primo portone. Cortile di cemento, fontane circolari, aiuole erbose. Altro codice, per l'edificio, poi ascensore a grata. Estrassi la calibro 45 e misi una pallottola in canna. Via via che sfilavano i piani sentivo scorrere dentro di me un inchiostro nero, un catrame che mi ostruiva vene e arterie. Corridoio, penombra. Non accendo la luce. La porta reca ancora i sigilli apposti dalla polizia scientifica. Sembra che da allora qui non sia più entrato nessuno. Un orecchio contro la porta. Nessun rumore.
Strappo il nastro giallo. Non ci sono chiavistelli. Solo la serratura centrale, che non è nemmeno chiusa. Tiro fuori il mazzo di passe-partout. La terza lama è quella buona. Clic. Glock in pugno, penetro nell'appartamento. Sto in guardia. I mobili a buon mercato, il parquet scadente, i soprammobili di cattivo gusto. Qui tutto è falso. Luc Soubeyras ha finto di vivere qui, come ha finto di essere poliziotto, di essere cristiano, di essere mio amico. Il soggiorno: niente da segnalare. Mi dirigo verso lo studio. Inconsciamente, evito la camera di Laure, dove sono stati trovati i tre corpi. I cassetti sono vuoti. Vuoti anche gli armadi che contenevano le cartelle contrassegnate dalla lettera «D». Le facciate dei palazzi circostanti si riflettono sui vetri. Provo un puro delirio olfattivo. Sento aleggiare l'odore del sangue. Ritorno nel corridoio. Trattengo il respiro ed entro nella stanza del delitto. Parquet nero, mobili bianchi. Letto spoglio, senza lenzuola né coperte, come in sospeso, nella penombra. E sulla parete a destra le scie di sangue lasciate dai tre corpi, dapprima seduti contro la parete e poi scivolati a terra... Vengo preso da tremiti. Immagino Laure e le bambine, strette le une alle altre, in preda al terrore. «Luc, perché? PERCHÉ?» urlo. Quasi come una risposta, un bagliore si accende alla mia sinistra allorché i miei occhi si abituano alla semioscurità. Mi giro e i tremiti si trasformano in sussulti ghiacciati. Sulla parete opposta, dietro al letto, una frase, in lichene fluorescente: LÀ DOVE TUTTO È INCOMINCIATO. In un colpo solo colgo due verità. La prima è che Luc non ha smesso di starmi alle calcagna, durante tutta la mia indagine. Questa scrittura contorta, frenetica, è quella del confessionale, quella dell'albero di Bienfaisance, quella della stanza da bagno di Sarrazin. Luc è l'assassino, il solo, l'unico. Per quale prodigio ha potuto scrivermi mentre era in coma? Agiva per il tramite di Beltreïn? L'altra verità è più lapidaria, più folgorante. Luc mi dà appuntamento. LÀ DOVE TUTTO È INCOMINCIATO... Saint-Michel-de-Sèze. Il collegio dove ci siamo conosciuti.
Dove abbiamo unito la nostra passione per Dio. In realtà, là dove è iniziato il nostro duello. Dio contro Satana. 119 Boulevard périphérique. Acceleratore schiacciato a fondo. Posso raggiungere Pau in sei o sette ore. Arrivare al pensionato verso le tre del mattino. Filo come un razzo. La strada è deserta, abisso nero interrotto solo dalla segnaletica sull'asfalto, inghiottita, divorata dalla mia velocità. Fumo una sigaretta dopo l'altra, scacciando ogni pensiero. Corro verso lo scontro. Delle visioni, come in sordina nella mente. Le tracce di sangue sulla parete della camera che disegnano le silhouette delle vittime. Il corpo di Manon, dilaniato fra le lamiere della mia auto. Sarrazin, nella sua vasca piena di viscere. Questi fantasmi fluttuano con me nell'auto, i miei soli compagni. Le undici. La fatica mi piomba addosso. Accendo la radio, per fissare l'attenzione. France Info. Neanche una parola sul triplo omicidio di rue Changarnier. Strana sensazione, vertigine. Sono l'unico al mondo a possedere la chiave dell'enigma. Mezzanotte. Apro il finestrino perché l'aria mi sferzi il viso. Non serve a nulla. Le palpebre si abbassano, gli arti sono come anchilosati. Il sonno, pesante, mi assedia. Mi fermo in un'area di parcheggio. Spengo il motore e subito sprofondo nel sonno. Al risveglio l'orologio del cruscotto segna le 2.45. Ho dormito quasi tre ore. Mi rimetto in moto e trovo una stazione di servizio. Il pieno. Un caffè. Ho percorso seicento chilometri in quattro ore. Sono nelle vicinanze di Bordeaux. Dopo il ponte di Arcins, mi resteranno duecento chilometri prima di Pau. All'alba sarò a Saint-Michel-de-Sèze. Luc sarà davvero là ad aspettarmi? Un lampo, e rivedo noi due a quattordici anni, ai piedi delle statue degli apostoli. I migliori amici del mondo, uniti dalla fede e dalla passione... Getto il bicchiere di plastica nel cestino
dei rifiuti - il caffè sa di vomito - e riparto. Divoro gli ultimi duecento chilometri a una velocità più contenuta, occhi sgranati. Verso le sei, l'uscita di Pau spicca sulla destra. D'un tratto riconosco la strada. Quindici chilometri ancora ed ecco profilarsi la collina familiare. Niente è cambiato. La sagoma chiara del monastero, sulla sommità. Il suo campanile a forma di matita. Gli edifici moderni, disseminati sul versante. Se l'appuntamento è qui, so già esattamente dove. Dopo il tornante, fiancheggio il campus e mi fermo sul parcheggio dell'abbazia. M'incammino verso il cancello del muro di cinta. Parecchie centinaia di metri più sotto, ai piedi della collina, il collegio dorme ancora. Atmosfera lunare. Non sento il freddo. Sono io stesso talmente ghiacciato che il vento gelido non può niente contro di me. Scavalco l'inferriata e risalgo il sentiero di ciottoli fino al chiostro. Non prendo nessuna precauzione. Altro muro. Non c'è problema: conosco la strada. Cammino sulla destra fino a trovare la prima feritoia, posta a un metro e mezzo dal terreno. Mi ci infilo di profilo e capitombolo dall'altra parte, sul prato spruzzato di brina. Stavolta resto al riparo, nell'ombra del muro, e per cinque minuti buoni osservo il monastero. Neanche un fruscio. Mi avvio. Sento scricchiolare l'erba gelata sotto i miei passi. Nuvolette di vapore che mi escono dalle labbra. I battiti del cuore, concentrazione di vita isolata su questa collina, fra cielo e terra. È lì anche lui? Siamo in due a trattenere il respiro? Mi fermo all'angolo del chiostro. Sfodero l'arma. Nessun rumore, nessun movimento. Attraverso la galleria e accedo al patio interno. Un quadrato d'erba azzurra, avvolto nel silenzio. Su due lati, le arcate del chiostro, immerse nell'oscurità. E, dritto davanti a me, le statue. San Matteo con la sua ascia, san Giacomo Maggiore con il bastone di pellegrino, san Giovanni con il calice... Questi santi erano i nostri modelli. Volevamo diventare dei pellegrini, degli apostoli, dei soldati. Solo quest'ultimo voto non è stato tradito. A modo nostro, siamo diventati dei combattenti. Non alleati, come avevo creduto, ma avversari. Il freddo incomincia a intorpidirmi. Mi do ancora cinque minuti per vedere se il nemico è lì. Ne passano due, e le mie sensazioni si attutiscono. Non tremo più. Il freddo mi compenetra, come un'anestesia.
Devo muovermi, altrimenti rischio di congelare, come al passo del Sempione. Entro sotto la volta. Non sto veramente in guardia, so che Luc vorrà parlarmi prima di uccidermi. Le sue parole, la sua spiegazione sono l'epilogo obbligato. La conclusione logica della sua macchinazione. La vera vittoria del male sul bene, quando Satana assesta il colpo finale alla sua preda attraverso il Verbo. Quattro minuti. Mi sono sbagliato. Luc non c'è. Lascio cadere il braccio, poso l'indice lungo il ponticello dell'arma. L'impasse. Luc è scomparso e non ho più la minima pista. Non ho saputo capire il suo messaggio. Allora mi rendo conto dell'errore. LÀ DOVE TUTTO È INCOMINCIATO. La storia non ha preso il via qui, in questo monastero, ma molto prima. La frase di Luc fa in realtà riferimento al suo incidente. Non mi ha dato appuntamento nella culla della nostra amicizia-rivalità, ma nel luogo in cui ha vissuto la sua esperienza fondatrice. Nella grotta di Genderer. Là dove ha ricevuto la rivelazione del diavolo. 120 Secondo l'articolo sul salvataggio di Luc, la grotta si situa trenta chilometri a sud di Lourdes, nel parco nazionale dei Pirenei occidentali. La strada sale. Andare più in alto per meglio tuffarsi negli abissi. Cinque chilometri dopo arrivo in vista del lago di Gaube. Una provinciale, sulla destra, corre sotto file di alberi spogli. Scalo la marcia per affrontare la salita. Dopo un tornante, e qualche scorcio di case isolate, non resta più niente se non una freccia: Genderer. La carreggiata finisce su un parcheggio. Chiudo a chiave l'auto e mi dirigo verso l'edificio d'ingresso. Una serie di archi d'acciaio futuristi, inseriti nell'alta falesia. Il freddo ha cambiato natura. È più secco, duro, implacabile. Le raffiche di vento fanno schioccare i lembi del cappotto. Mi vedo come un angelo redentore, in marcia verso l'ultima battaglia. Sotto le volte, delle vetrine: biglietteria, negozio di souvenir, barristorante. Il tutto chiuso da un'unica cancellata. Tuttavia, vicino allo sportello di vendita, scorgo una luce sotto una porta. E tendendo l'orecchio percepisco il suono di una radio mattutina. Scuoto l'inferriata fino a fare un
baccano d'inferno. Appare un uomo. Irsuto, mal rasato, stupito. «Ma cosa fa?» Attraverso le maglie di ferro gli ficco il tesserino sotto il naso. Si avvicina, l'alito sa di caffè. «Cosa vuole?» «Scendere.» «A quest'ora?» «Apra.» Brontolando, il tipo aziona un meccanismo con il piede. La cancellata si alza. Passo sotto e mi rialzo davanti a lui. La sua barba luccica come paglia di ferro. «Prenda una torcia e mi porti sotto.» «Ha una carta, un mandato, qualcosa?» Lo spingo davanti a me. «Si dia una mossa. E non dimentichi la torcia.» Il tizio gira i tacchi e riparte con passo incerto. Lo seguo per essere sicuro che non chiami i gendarmi o chissà chi. Scompare nel suo alloggio e ritorna con un faro a mano provvisto di tracolla. Si è messo una cerata color kaki e me ne tende una. «Dovrebbe essere della sua taglia. Là sotto fa piuttosto umido.» Infilo il poncho: mi sta come un sudario. «Ho acceso la luce giù in basso. C'è l'elettricità.» Mi supera e imbocca il corridoio che penetra nella grotta. In fondo, le traverse nere di un'altra inferriata. Un montacarichi, come quelli dei minatori di una volta. La mia guida traffica con il mazzo di chiavi e apre la cortina di ferro scorrevole. «Di qua per la visita.» Entro nella cabina. L'uomo mi segue e richiude l'inferriata. Con un'altra chiave aziona il meccanismo sul quadro di controllo. Già si sprigiona un sentore di umidità che tradisce la presenza dell'abisso sotto i nostri piedi. La piattaforma ondeggia, poi inizia a scendere con movimento fluido. Sfila per alcuni metri lungo pareti di metallo, poi appare la roccia. Ho la sensazione di immergermi non solo nelle viscere della terra, ma anche in stratificazioni dimenticate del tempo: le ere glaciali del mondo. Il guardiano snocciola il suo discorsetto di veterano. «Scendiamo a venti chilometri all'ora. A questo ritmo, in tre minuti raggiungeremo una profondità di mille metri e...»
Non ascolto. Il mio corpo mi dà tutte le informazioni. I polmoni si svuotano, i timpani schioccano. La pressione. La crosta rocciosa continua a sfilare, nera, stillante, a una velocità vertiginosa. «Soprattutto, non tenda la mano. Ci sono stati degli incidenti. La forza di aspirazione...» «Non ha sentito niente stanotte?» «Tipo?» «Un intruso. Un visitatore.» Spalanca gli occhi. La piattaforma ha raggiunto il punto più rapido della discesa. Provo una sorta di ebbrezza. Siamo in assenza di gravità. Infine la macchina rallenta, in uno stridore di cavi. L'uomo apre. «Meno mille metri. Fine corsa...» Sulla soglia vacillo. Un peso misterioso blocca il battito della mia circolazione sanguigna. Davanti a me un incrocio da cui si dipartono diverse gallerie. Luci al neon fissate sulla roccia. Una delle aperture reca il cartello SENSO DELLA VISITA. Mi rendo conto di non conoscere il luogo esatto dell'appuntamento. LÀ DOVE TUTTO È INCOMINCIATO. «Nicolas Soubeyras, le dice qualcosa?» chiedo. «Chi?» «Nicolas Soubeyras. Uno speleologo. Morto in questa grotta, nel 1978.» «Lavoravo già qui», dice l'uomo con una smorfia. «Evitiamo di parlarne. Non è una buona pubblicità.» «Sa dove è successo?» Picchia sul suolo con il tallone. «Proprio qui sotto. Nella sala da ballo. Ad altri cinquecento metri di profondità.» «È accessibile?» «No. È riservato ai professionisti.» «C'è un accesso?» Scuote la testa. «A partire da qui c'è un percorso indicato da frecce che scende a meno duecento metri. A mezza strada c'è una scala per il personale, che va giù per altri cento metri. Ma dopo quella bisogna essere dei veri speleologi. Si passa per sifoni, camini. Un vero casino.» «Ho la possibilità di arrivarci?» «Ha qualche nozione di speleologia?» «Nessuna.» «Allora se lo scordi. Neanche per i professionisti è facile. Al primo sifone, un tipo come lei è spacciato.» Due possibilità. O mi sono sbagliato e rinuncerò al primo ostacolo. Op-
pure Luc mi aspetta giù in fondo, e allora avrà in qualche modo attrezzato il passaggio. Prendo coscienza di due sensazioni simultanee: l'umidità intensa e il rumore della ventilazione artificiale. «Mi indichi la strada.» «Cosa?» «Per scendere verso la sala da ballo.» Il guardiano sospira. «In fondo alla galleria prenda la scala e segua i cartelli. È illuminato. Poi guardi bene. C'è una porta di ferro a sinistra. Il passaggio che le ho detto. Se è ancora in forma, passi dall'altro lato. Accenda le lampade con il commutatore. Faccia attenzione: quasi subito c'è un pozzo.» «Posso scenderci?» «Non è facile. Nella roccia sono fissati dei pioli, una sorta di via ferrata. In fondo troverà una grande sala, poi un primo sifone, dove gocciola acqua da tutte le parti. Dopo c'è un altro pozzo, molto stretto, che si apre su una seconda sala. Non ne sono nemmeno sicuro: non ci sono mai andato. Se per miracolo sarà ancora vivo, dovrà comunque rinunciare. A causa del lichene.» «Che lichene?» «Una varietà che emette un gas tossico. Un affare luminescente. È il muschio che avvelenava gli egittologi e...» «Sono al corrente. Poi?» «Non c'è poi. Non arriverà fin là.» «Ammettiamo che ci arrivi.» «In tal caso non sarà più molto lontano. Quando c'è stato quell'incidente, la frana aveva spinto Soubeyras e suo figlio in una sala chiusa. È là che sono morti. In seguito si è scavato un passaggio per accedere alla sala da ballo: è magnifico, ho visto delle foto.» Sotto il poncho, il mio corpo è scosso da scariche. Terrore o impazienza? Non lo so. Il lichene è l'indizio. L'ultimo elemento che chiude il cerchio. Luc mi aspetta in quella sala, subito dopo l'anticamera della sua prima morte. «Mi ha parlato di una porta di ferro, è chiusa a chiave?» «E me lo chiede?» «La chiave.» L'uomo esita. Controvoglia tira fuori il mazzo e ne preleva una chiave. La prendo, così come prendo il faro a mano. Poi spingo il guardiano nella cabina del montacarichi.
«Non posso lasciarglielo fare! Non è coperto dall'assicurazione», tenta di protestare lui. «Non sono mai coperto», ribatto tirando la grata per chiudere. «Se non sono di ritorno fra due ore chiami questo numero.» Scarabocchio i recapiti di Foucault su uno scontrino dell'autostrada e glielo passo tra le maglie della griglia. «Gli dica che Durey ha dei problemi. Durey: capito?» L'altro continua a scuotere il capo. «Se per caso arriva al sifone, tenga conto del lichene. Se passa nel giro di dieci minuti, bene, altrimenti è spacciato.» «Me ne ricorderò.» «È sicuro di volerlo fare?» «Mi aspetti là sopra.» Esita ancora, e infine si decide ad azionare il quadro di bordo. «Le rimando l'ascensore. Buona fortuna!» La cabina scompare sferragliando. Il vuoto si abbatte su di me, soli compagni il rumore della ventilazione e il tic tic delle gocce. Lampada a tracolla, giro sui tacchi e mi metto in marcia. A cinquanta metri, una scala a picco. Diverse centinaia di gradini, praticamente in verticale. Mi afferro al corrimano. Colate d'acqua brillano sulle pareti e il soffitto scintilla di gocciolii: l'umidità è ovunque, penetrante, e impregna l'aria come una spugna. In basso, un altro cartello: SENSO DELIA VISITA. Il ritmo regolare dei neon in alto sulle pareti fa pensare a una galleria di metropolitana. Dopo un centinaio di metri vedo la porta, sulla sinistra. Apro con la chiave e cerco il commutatore. Una serie di lampadine collegate da un unico cavo diffonde una flebile luce. Sempre più lugubre: il budello è nero, leggermente in pendenza. Scaccio le mie apprensioni e vado avanti, senza veramente vedere dove metto i piedi. Con le spalle sfioro le lampadine che oscillano al mio passaggio. D'un tratto la discesa s'interrompe ad angolo retto. Il pozzo. Accendo la torcia e scorgo i pioli di ferro sulla parete opposta. Verifico con il tallone le prime sbarre, spengo la torcia, la spingo sulla schiena e intraprendo la nuova discesa. Dopo un centinaio di pioli tocco terra. Non vedo niente, ma l'aria fresca m'informa che mi trovo in un grande spazio. "La prima sala." Riprendo la lampada e l'accendo. Sono su una passerella. Ai miei piedi una caverna immensa, circolare, che ricorda un anfiteatro romano.
Le pieghe nella roccia descrivono miriadi di ornamenti. Picchi che s'innalzano, punte che si abbassano, formando frange, pilastri, merletti. Assurdo, ma in quel momento recito fra me e me una vecchia lezione di Sèze: «Stalattiti: concrezioni calcaree che si formano sulla volta di una grotta mediante evaporazione di gocce d'acqua»; «stalagmiti: concrezioni che s'innalzano dal suolo...». Mi sposto sulla sinistra, schiena contro la parete, tenendo la lampada davanti a me, senza abbassarla per non illuminare il vuoto. Un'altra galleria. Vado avanti, curvo, a tratti quasi accucciato. Sotto le suole, pietrisco che rotola. Spigoli su cui mi torco le caviglie, pozze d'acqua in cui sprofondano i piedi. Il mio campo di visibilità si limita al fascio di luce della torcia. Un rumore di acqua che scorre mi conferma di essere sulla buona strada: la guida ha parlato di un sifone... Ed ecco davanti a me il torrente. Ho un attimo di esitazione, poi risistemo la lampada sulla spalla e poggio i piedi sui lati del budello, proprio sopra l'acqua. Altra discesa. C'è acqua dappertutto. L'acqua è il sangue della grotta. Le gallerie sono le sue vene, le sue arterie. E io sono al cuore di questa circolazione. Infine una superficie piatta. Una camera di rocce nere. Massi disseminati sul suolo, stalattiti che lambiscono i muri, e nessuna uscita. Ancora qualche passo. All'improvviso un orifizio. Il secondo pozzo di cui mi ha parlato il guardiano. Ma stavolta non ci sono pioli, né alcun tipo di presa. Impossibile scendere senza l'attrezzatura. In quel momento mi colpisce uno scintillio. Un moschettone. Dirigo da quel lato il fascio di luce della torcia e scopro un'imbracatura collegata a una corda. La conferma. Luc mi ha preparato la strada. È là vicino, mi aspetta per lo scontro finale. M'infilo l'imbracatura, impigliandomi negli indumenti bagnati. Non ho nessuna esperienza di alpinismo, ma trovo in fondo a me qualche briciola di senso pratico. Una volta attaccato, mi lascio andare, schiena rivolta verso il vuoto. Dapprima non succede niente. Resto sospeso, ruotando su me stesso, entrambe le mani strette sulla corda. Poi quest'ultima prende a scorrere, trasportandomi lentamente nell'oscurità. Non rifletto più. Plano, a occhi chiusi. Mi sto immergendo, fisicamente, nell'inferno di Luc. I miei piedi ritrovano la terraferma. Mi libero dall'imbracatura e punto la torcia. La seconda sala. Stesso arco di cerchio, stesse stalattiti. Ma l'alone della mia lampada si fa verde. Spengo. Il chiarore verdastro rimane. Un odore di fosforo mi pizzica le narici. Il lichene. Dovunque intorno a me.
Settimane di analisi, di ricerche, di congetture per individuare l'origine di questo muschio. E adesso è qui. Mi trovo alla fonte del mistero, come gli egittologi quando erano penetrati nella tomba di Tutankhamon, e vi avevano lasciato la pelle. Ancora qualche metro. Non ho riacceso la torcia. Adesso distinguo un alone rossastro. Penso alle visioni dei Senza Luce. La brina ardente. Il faro palpitante... Mi apparirà il diavolo? Il bagliore proviene da una delle gallerie. Sempre senza accendere, mi ci inoltro, a quattro zampe. Le mani mi inviano un nuovo segnale: la pietra è calda. Una lignite o altro minerale che conserva il ricordo del magma immemorabile. Ho l'impressione di avvicinarmi al cuore incandescente della terra. Un'altra nicchia. Una cavità circolare, di qualche metro quadrato, molto bassa. Qui è stato allestito un altare, costellato di torce. Ma non è la messinscena ad affascinarmi. Sono i disegni che si affollano sulle pareti. Pittogrammi che sembrano usciti dalla preistoria. Indovino che quelli sono i disegni di cui mi ha parlato Luc, le figure che Nicolas Soubeyras avrebbe tracciato prima di morire. Adesso so che sono opera dello stesso Luc. Non sono mai state disegnate su un quaderno, ma sulle pareti della galleria. I disegni di un Luc undicenne, morto di paura, murato vivo, sul punto di soffocare accanto al cadavere del padre. Mi avvicino. I motivi richiamano quelli di Lascaux o di Cosquer. Il bambino ha usato dei pennarelli con la punta schiacciata. Dei rossi, degli ocra, qualche nero. I colori dei primi artisti della storia umana. La stessa scena, ripetuta più volte. Una sagoma, ridotta a pochi tratti, una sorta di Y. Un bambino. Vicino a lui un'altra figura, distesa. Il padre. Sopra di loro una volta, irta di stalattiti. Il solo elemento che cambia da una scena all'altra è la forma delle stalattiti, che via via si allungano, si distorcono, si trasformano in artigli. Sulle ultime varianti, le serre di pietra formano un viso, i tratti di un vecchio, rinforzati con tocchi di bianco e di rosso. Prima di sprofondare nel coma Luc ha dunque visto il Principe delle Tenebre, venuto a prenderlo... Una voce alle mie spalle: «È qui che io e mio padre siamo morti». 121
Mi giro. Luc è là, vestito di una tuta azzurra da speleologo, uguale a quella che indossava suo padre sul ritratto trionfante nel suo studio. Seduto per terra, circondato dalle torce a vento. Non è armato. La nostra lotta si situa al di là delle armi, del sangue, della violenza. La nostra lotta è escatologica. Siamo entrambi già morti. Morti e sepolti. «Cosa ne pensi del mio affresco?» chiede. «La passione secondo san Luca!» La voce è ambigua. Sarcastica, disperata. Ritrovo l'adolescente contraddittorio di Saint-Michel-de-Sèze. Fragile e dominatore, inquieto e disincantato. «Spero tu abbia capito dove siamo. Un giorno si parlerà di questa grotta come oggi si parla del giardino milanese per sant'Agostino o di NotreDame per Claudel. Il teatro di una conversione. In realtà, l'anticamera del mistero. Questa nicchia non è stata che un preambolo alle vere tenebre.» Si porta l'indice alla tempia. «Quelle del coma, là dove "lui" è venuto a cercarmi.» Per qualche secondo Luc contempla i disegni alle mie spalle, l'aria pensierosa. «Devi innanzitutto immaginare il mio terrore quando sono sceso quaggiù», continua poi. «Soffrivo di claustrofobia. Pur sapendolo, mio padre mi ha portato in questa voragine. Perché diventassi un uomo! T'immagini la mia angoscia, il mio sgomento? Mi sentivo male. Ma la vera prova è iniziata dopo la caduta della frana. Quando ho capito di essere chiuso qui dentro assieme al cadavere di mio padre.» Non c'è più alcun rumore. Né sgocciolii né scorrere d'acqua. Un nuovo ecosistema, dove regnano un calore dolciastro e una strana secchezza. «Vieni», dice alzandosi. «Possiamo accedere alla grande sala.» Lo seguo, chino sotto la volta. Entriamo in una grotta immensa. La sala da ballo, rischiarata da alcune lampade poste lungo una passerella naturale. Dalle tenebre s'innalzano delle colonne gigantesche a sostegno della volta, da cui scendono gruppi di stalattiti, come tanti lampadari di cristallo. Le pareti sono corrugate, nere come carbone. Ho la sensazione di ammirare una cattedrale maledetta, perfettamente appropriata al culto di Luc. Avanziamo sulla passerella. Giù in basso, su delle sporgenze rocciose, alcuni oggetti tradiscono una presenza umana. Una tenda, uno zaino, un fornello. Tutto è predisposto per il soggiorno di uno speleologo. Luc deve
tornare qui di tanto in tanto, alla fonte. «Mettiti lì. Da qui la vista è spettacolare.» Mi siedo sul parapetto, evitando di guardare il vuoto sotto i piedi. «Senti il calore? La lignite, Mat. Il respiro della terra. Credimi, qui il corpo di mio padre non ci ha messo molto a marcire. Quelle carni gonfie, scoppiate... Non le ho mai dimenticate. Quando la mia lampada si è spenta, sono rimasto con gli odori, i gas, la morte. Sono sprofondato nel nulla con sollievo. È a quel punto, nel fondo dell'incoscienza, che ha avuto luogo l'iniziazione.» «Cos'hai visto?» «Cominci a farti un'idea, vero?» «È quello che hai raccontato sotto ipnosi?» «Sì, mi sono ispirato ai miei veri ricordi.» «Quel vecchio, quei capelli luminescenti, perché?» «Siamo arrivati al punto finale, Mat, e ancora non hai capito niente.» «Rispondi alla mia domanda. Chi è quel vecchio?» «Non c'è una risposta. Bisogna inchinarsi davanti al mistero. Pensa alla tua fede. Potresti descriverla in termini razionali? Potresti spiegarla? Eppure non hai mai dubitato dell'esistenza di Dio.» «E il Giuramento del Limbo?» Luc sorrise. «Intraducibile. Né in parole né in pensieri. Probabilmente ti immagini un patto, un accordo, tutte quelle stronzate alla Faust. Ma il Giuramento del Limbo è un'esperienza indicibile. Una potenza che ti pervade fino al punto di diventare il tuo unico slancio vitale. Quando Satana mi ha salvato, non ha salvato quello che io ero. Ha fatto nascere un essere nuovo.» «Quindi sei solo uno dei tanti Senza Luce?» dico, facendo dell'ironia. «Sono molto di più, e tu lo sai. Un messaggero. Un emissario. Mi intrufolo nelle coscienze e diffondo il Suo Verbo. Creo i miei posseduti. Organizzo la mia legione!» Le domande mi si affollano alle labbra. Devo sapere tutta la storia. Ma è Luc a chiedermi, con tono divertito: «Ti ricordi di Kurzef?». «Il nostro professore di storia?» «Diceva: "Le prime battaglie si fanno per la patria o per la libertà. Le ultime per la leggenda". È la nostra ultima battaglia, Mat. Quella della nostra leggenda nera. Quando saprai la verità capirai che ti ho creato. Sono la tua sola ragione di esistere.» «Raccontami tutto. E lascia che sia io solo a giudicare.»
Luc abbandona la testa all'indietro. Con tono distaccato, quasi assente, ripercorre la sua odissea. Aprile 1978. Quando il bambino si sveglia dal coma, Moritz Beltreïn è accanto a lui, sconvolto. Luc, undicenne, tornato in vita dopo una morte clinica, è la sua vittoria. Il suo vaccino contro la rabbia, la sua penicillina, la sua triterapia. La prodezza che scriverà il suo nome nei manuali di storia della medicina. Per due anni Beltreïn tiene Luc con sé, nella sua casa di Losanna, e contemporaneamente versa un sussidio alla madre alcolizzata. Lo iscrive a scuola, lo nutre e lo cresce. Ma soprattutto lo interroga. Vuole sapere ciò che il bambino ha visto sull'altra riva. Da anni Beltreïn nasconde il suo gioco. Celibe, senza vita personale, unica passione il suo mestiere, passa per lo scienziato perfetto, votato alle sue ricerche. In realtà è un maniaco, un perverso, ossessionato dal male e dalla sua trascendenza. Pensa che l'esperienza del coma sia una camera oscura dove prendono forma le immagini venute da un altro mondo, positivo e negativo. Beltreïn è assillato dal versante nero dell'aldilà. Vuole scoprire le forze del male della coscienza umana. Vuole essere un pioniere sulle terre di Satana. Ma Luc non ricorda niente. In compenso, i suoi atti parlano per lui. Torture sugli animali. Sessualità morbosa. Gusto della solitudine. Luc è un potenziale assassino. Un ascesso pronto a scoppiare. Beltreïn segue questa trasformazione con avidità e la alimenta. Un giorno, infine, Luc ricorda. Il tunnel. La luce rossa. La brina bruciante. Il vecchio albino. Beltreïn prende appunti, Registra le parole del ragazzino. Lo studia sotto tutte le angolazioni. Luc è la sua cavia. Ma anche il suo narratore, il suo navigatore, il suo Omero. E, presto, il suo padrone. A dodici anni Luc ammazza il cane di Beltreïn, per gioco, come provocazione. Il medico non ha più dubbi: il bambino è un messaggero del diavolo. Gli giura fedeltà. È pronto a seguire i suoi ordini, che non sono altro che le volontà di «laggiù». 1981. Beltreïn decide di adottare ufficialmente Luc quando sua madre viene internata per alcolismo cronico. Ma riflette: capisce che il bambino avrà
bisogno di una copertura discreta, anonima. Bisognerà proteggerlo contro le leggi, la giustizia, lo squallido sistema degli umani. Luc è un mostro. Un inviato del diavolo. Beltreïn sarà la sua ombra, il suo apostolo, il suo protettore. Iscrive il ragazzo a Saint-Michel-de-Sèze. Luc scopre l'educazione cattolica. S'infiltra nelle file del nemico e la cosa gli piace. È a quel punto che incontra un giovane credente ingenuo e idealista: io. «Sei diventato il mio soggetto di osservazione», sottolinea Luc. «Il mio soggetto di esperienze.» Il male progredisce in lui. Non gli basta più uccidere gli animali, deve passare al sacrificio umano. Non appena può, scappa da Saint-Michel e vaga nei paesi vicini alla ricerca di vittime. Un giorno incontra Cécilia Bloch, nove anni. L'attira in un bosco e la brucia viva cospargendola di aerosol infiammabile. Cecilia Bloch. La piccola che mi ha tanto ossessionato. Il crimine che assilla le mie notti da vent'anni. L'autore dell'assassinio è dunque Luc Soubevras. Menzogna assoluta del mio destino. Mi sento trascinato da un torrente di fango e perdo il filo del suo discorso. Devo fare uno sforzo sovrumano per concentrarmi di nuovo sulla sua voce. Quella notte, dopo l'autodafé, Luc scompare. Il rettore del collegio avvisa Beltreïn che, in preda all'angoscia, giunge sul posto e setaccia i boschi dei dintorni: conosce il gusto di Luc per i luoghi selvaggi, le tenebre, la solitudine. Non lo trova. Scende infine nella grotta di Genderer: il bambino è lì, prostrato, nella sala dei disegni. Affamato, smarrito, Luc confessa il suo crimine, ma è troppo tardi per fare pulizia. Viene scoperto il corpo. Luc non è sospettato. Ma chi potrebbe sospettare un bambino di una simile mostruosità? Passano gli anni. Luc continua a uccidere. Ogni volta Beltreïn si occupa del corpo, cancella le tracce. Luc è contemporaneamente il suo padrone e la sua creatura. Per il bambino, ogni delitto è un rito di passaggio. Un altro anello del serpente, prima della muta completa. 1986. Luc si stabilisce a Parigi. Ha diciannove anni. Uccide ancora, sporadi-
camente. Senza coerenza né filo rosso. Non ha ancora compreso la logica interna del suo destino. Per il suo compleanno, Beltreïn gli fa una terribile rivelazione. Luc non è l'unico ad agire così. Il medico svizzero gli parla dei Senza Luce, sui quali ha effettuato delle ricerche. Luc capisce di avere una «famiglia». Intuisce anche di essere investito di una missione più profonda. Non solo fare il male, ma generarlo, moltiplicarlo... Creare altri Senza Luce. Diventare un polo di luce negativa. 1988. Beltreïn, caposervizio al CHUV di Losanna, salva un altro bambino: Manon Simonis. L'indomani la madre, sconvolta, gli rivela che Manon era posseduta. Beltreïn la tranquillizza, ma inizia a pensare che anche questa bambina può essere una Senza Luce. Convince Sylvie a non rivelare il fatto che sua figlia è sopravvissuta e sistema Manon in un pensionato svizzero sotto falso nome. Poi tenta di riprodurre la storia di Luc. Ma la piccola non mostra nessun segno di possessione, nessuna traccia di pulsioni negative. Beltreïn respinge l'idea di essersi sbagliato. Manon ritorna dal mondo dei morti. È marchiata dal diavolo. Deve essere paziente: la pulsione malefica si rivelerà più tardi. Allora il fidanzamento del Male potrà essere suggellato: Luc e Manon. Nel frattempo Luc continua il suo apprendistato. 1991. Prima il Sudan, poi, soprattutto, Vukovar. Nella città assediata la violenza è ovunque. Donne incinte bruciate vive, feti strappati dal ventre con il coltello, bambini cui sono stati cavati gli occhi. Una litania di orrori nella quale Luc esulta. Partecipa a quelle orge di sangue. È in preda a un'ebbrezza, a una gioia senza limiti. Satana è il Padrone del mondo! Luc torna in Africa. Alcuni mesi in Liberia, dopo l'assassinio di Samuel K. Doe. Lì acquista un gusto nuovo, il travestimento, e si mescola agli assassini agghindati di maschere per uccidere, violentare, saccheggiare... «Mi chiamo Legione perché siamo una moltitudine.» 1992. Nuova metamorfosi. Luc diventa poliziotto. Semina il terrore, la corru-
zione, la violenza, in assoluta impunità. A volte conduce l'indagine sui suoi stessi delitti. In altri casi pizzica dei concorrenti: degli assassini. Se sono mediocri, li arresta. Se possiedono qualche vizio particolare, un'originalità, li lascia andare. È un periodo fausto. Luc tiene le fila. Sabota il sistema giudiziario dall'interno. È in posizione privilegiata per falsificare, rubare, uccidere e minare la società umana. È insieme la mente del Maligno e il suo strumento. Luc si sposa, poi fa dei figli. Una nuova maschera. Infallibile. Chi sospetterebbe un onesto padre di famiglia, poliziotto integro, cattolico praticante? Ma Luc non ha dimenticato il suo progetto: creare lui stesso dei Senza Luce. A metà degli anni Novanta Beltreïn sente parlare dell'iboga nera. Conosce già le sostanze chimiche in grado di riprodurre degli stati affini alla morte, ma non ha mai studiato le proprietà della pianta africana. S'informa a Parigi, s'introduce nell'ambiente africano, incontra Massine Larfaoui che gli procura la pianta psicotropa. Luc s'inietta il veleno senza alcuna esitazione, ma ne resta deluso. L'iboga nera è un'impostura. Niente a che spartire con quello che lui ha conosciuto in fondo alla grotta. Però la radice può permettergli di «preparare» i suoi Senza Luce, con qualche piccolo aggiustamento. Maggio 1999. Beltreïn viene chiamato al capezzale di un miracolato in Estonia: Raïmo Rihiimäki. Il caso è perfetto. Un giovane musicista dedito al rock satanico, completamente flippato. Il padre ubriacone ha tentato di ucciderlo a bordo della sua barca da pesca. Luc raggiunge Beltreïn a Tallinn. Raïmo è ancora all'ospedale. Fin dalla prima notte Beltreïn gli inietta il prodotto proveniente dall'Africa, abbinato ad altre sostanze psicotrope. L'estone comincia il suo viaggio. Lascia il suo corpo, vede il corridoio e le tenebre rosseggianti, ma si mantiene in uno stato di semicoscienza. A questo punto Luc appare nella sua stanza, ginocchioni, travestito da ragazzino. Si è confezionato la maschera di un volto sfigurato, grondante sangue. Raïmo è inorridito, ma anche soggiogato. Luc gli parla. Raïmo beve le sue parole. Il Giuramento del Limbo secondo Luc Soubeyras... All'uscita dall'ospedale, il musicista è convinto che il diavolo l'abbia investito di una missione: seminare il male e la distruzione. Parallelamente,
Luc e Beltreïn si occupano del padre di Raïmo. Luc ha messo a punto un protocollo. Affascinato dalla decomposizione dei corpi e assecondato dal suo padrino, inietta degli acidi nella vittima, introduce degli insetti nel suo organismo e gode nel contemplare il processo di degenerazione alla luce del lichene di cui tappezza l'addome. Degrada le carni del vecchio fino a squarciarle. Le lacera a colpi di zanne di animali. Mozza la lingua alla vittima. Luc è allo stesso tempo Satana, Belzebù, Lucifero. Ha infine trovato il suo metodo. Il modus operandi che lo fa godere fino alla vertigine. Aprile 2000. Beltreïn suggerisce a Luc altri casi, fra i quali quello di Agostina. Le apparizioni si moltiplicano, gli assassini si affinano. Luc semina la sua scia di terrore e di putrefazione sulla terra. È Pazuzu, colui che infesta la terra... È giunto il momento di unirsi alla sua «fidanzata». 2002. Per celebrare l'evento, Luc e Beltreïn decidono innanzitutto di vendicare Manon. Luc consuma il sacrificio in un granaio del Jura, protraendo il martirio di Sylvie per una settimana. Poi appare a Manon nelle vesti di un uomo scorticato vivo. Niente funziona come previsto. Malgrado le iniezioni, malgrado le messinscene di Luc, la ragazza non conserva alcun ricordo delle sue «visite». Decisamente Manon non è dotata per il diavolo. Non sarà mai una Senza Luce. In questa sua resistenza Luc vede un segno. È tempo di concludere il primo ciclo della sua opera. Tempo di eliminare Manon. Tempo anche di sbarazzarsi della sua prima pelle, quella del poliziotto borghese, sposato e padre di due bambine. Luc decide di ammazzare la sua famiglia e di incolpare Manon di questi crimini. Decide anche di rivelare al suo «apostolo» la grandezza del suo regno... «Sei sempre stato il mio san Michele», mormora Luc. «Io, angelo del male, dovevo trovarmi un arcangelo del bene.» «Non ti sono servito a niente.» «Ti sbagli. Il male, in tutta la sua grandiosità, non esiste veramente fino a quando non trionfa sul bene. Volevo che tu ti confrontassi con la realtà del diavolo, con la sua intelligenza. Sei stato perfetto. Hai seguito passo a
passo il mio piano e misurato la portata della mia forza. Sono stato la tua apocalisse e tu sei stato la mia vittoria su Dio.» Le rivelazioni di Luc non fanno che confermare le mie certezze. Luc Soubeyras e Moritz Beltreïn, due dementi lanciati sulla strada maestra della violenza, prigionieri dei propri fantasmi. Ma ci sono ancora dei dettagli che mi assillano. Comunque vada a finire, voglio avere un quadro completo. «Il tuo tentativo di suicidio», dico, «era un rischio, no?» «Solo che non mi sono suicidato. A Vernay, c'era Beltreïn con me. Mi ha iniettato del Penthotal per farmi sprofondare in un coma artificiale. Poi era presente anche all'Hôtel-Dieu per dosare ogni mia iniezione. Ed è stato lui a svegliarmi quando è giunto il momento.» Come ho fatto a non pensarci? Era talmente evidente! Uno specialista come Beltreïn poteva simulare tutto, organizzare tutto. Un falso suicidio e un coma reversibile. «Come sapevi che per te era giunto il momento di svegliarti?» «Sei stato tu a darmi il segnale. Il giorno in cui hai suonato alla porta di Beltreïn. Significava che avevi capito che Manon era viva. Avevi ricostruito quasi tutto il percorso e potevo rinascere per recitare l'ultimo atto, simulare la mia possessione e orientare i sospetti su Manon per l'assassinio di sua madre. Lei era dei nostri. Era colpevole! Sapevo che Manon avrebbe finito per essere fermata dalla polizia. Che avrebbe urlato il suo odio nei miei confronti. Non mi restava altro che eliminare la mia famiglia e affibbiare a lei il triplice omicidio.» «Come hai fatto a raffreddare i corpi?» «Sei un poliziotto in gamba, Mat. Sapevo che saresti arrivato a scoprire anche questo. Nella cantina di casa mia c'è un grande congelatore. È bastato spostare i corpi, tutto qua. Perché la scena fosse perfetta, ho anche pensato a raccogliere il sangue e a congelarlo. Ma ciò di cui vado orgoglioso è la storia delle impronte. Beltreïn aveva preparato uno stampo dei solchi digitali di Manon e io non ho fatto altro che applicarlo un po' dappertutto. Avevo già usato questa tecnica sul cantiere abbandonato, per Agostina.» «Tu non appartieni al mondo degli uomini.» «È esattamente la lezione che devi trarre dalla tua indagine, Mat! Solo adesso cominci a renderti conto di quali forze siano in gioco! Io non appartengo alla vostra logica da quattro soldi!» Poi aggiunge in tono più calmo: «La tecnica di refrigerazione funzionava a due velocità. Mi forniva un alibi ma costituiva anche una firma. Sata-
na rispetta sempre le proprie regole. Come quando Beltreïn ha ucciso Sarrazin. Bisognava manipolare il suo corpo, alterarne la cronologia naturale». In quel momento noto che Luc impugna una pistola. Si torna a forze molto più banali. Non ho nessuna chance di riuscire a estrarre la pistola prima che lui prema il grilletto. Quando saprò tutto, quando avrò contemplato tutta la grandezza della sua «opera», Luc mi ammazzerà. Un'ultima domanda, non tanto per guadagnare tempo quanto per chiarire le cose sino in fondo. «Larfaoui?» «Un danno collaterale. Beltreïn comprava da lui sempre più iboga e tutte queste ordinazioni hanno incuriosito il cabilo, che ha seguito Beltreïn fino a Losanna e ha scoperto che faceva il medico. Ha creduto che utilizzasse l'iboga nera per degli esperimenti illegali sui suoi pazienti. Ha voluto ricattarlo. Non potevamo lasciare in circolazione un simile ficcanaso. Ho dovuto eliminarlo, senza tutta la messinscena.» «La notte dell'esecuzione larfaoui non era solo. Con lui c'era una prostituta. Ti ha visto. Ha sempre parlato di un prete.» «Mi piaceva quest'idea: mettermi il colletto bianco per far scorrere il sangue.» Luc alza il cane della pistola. Faccio un ultimo tentativo. «Se sono il tuo testimone, perché uccidermi? Non potrò mai diffondere il tuo Verbo.» «Quando l'immagine nello specchio è perfetta è arrivato il momento di infrangere lo specchio.» «Ma nessuno conoscerà mai la tua storia!» «La nostra scacchiera è di un'altra dimensione, Mat. Tu sei il rappresentante di Dio. Io sono quello del diavolo. Sono i nostri unici spettatori.» «Cosa farai... dopo?» «Continuerò. Viaggiare negli spiriti, moltiplicare i posseduti... Altre identità mi aspettano, altri metodi. Il solo viaggio importante è quello del Limbo.» Luc si alza e aggiusta il tiro. Solo allora noto che impugna la mia calibro 45. Quando me l'ha sottratta? Mi preme la canna contro la tempia: Mathieu Durey si è suicidato con la sua arma di servizio. Cosa c'è di più normale dopo il fiasco dell'indagine, la morte di Manon e il massacro della famiglia Soubeyras? «Adiós, san Michele.»
La detonazione mi attraversa da parte a parte. Un dolore violento, poi il nulla. Ma non succede niente. Non cola sangue. Non c'è odore di cordite. Dalla Glock, a qualche centimetro dal mio viso, non esce fumo. Giro la testa, i timpani che mi ronzano. L'arcangelo nero vacilla e lascia cadere la mia automatica sul bordo della passerella. Prima che io abbia il tempo di abbozzare un gesto, Luc tende il braccio verso di me, sul viso un'espressione di stupore incredulo, poi oscilla all'indietro e precipita nell'abisso. Una silhouette nera si profila a qualche metro di distanza da Luc. Anche in controluce riconosco il mio salvatore. Zamorski, il nunzio giustiziere di Cracovia. Colletto romano e abito scuro, pronto per un'estrema unzione. La mia prima intuizione è sempre stata quella buona. La 9 mm fumante fra le sue dita gli sta come un guanto. 122 Il terreno sotto i piedi, il cielo, le montagne. Una striscia di luce a oriente, al di sopra delle creste, come un'aureola rosa scuro. Sul parcheggio due Mercedes nere, sorvegliate da un nugolo di preti in attesa del loro maestro, del loro generale. Mi voltai. Zamorski camminava dietro di me. Il suo viso squadrato risaltava nella penombra. Naso stretto, capelli argentati, tratti impassibili. Mai si sarebbe sospettato che avesse appena ucciso un uomo, mille metri sotto terra. Aveva giusto qualche traccia di salnitro sulle spalle. «Come mi avete ritrovato?» riuscii a domandare. «Non vi abbiamo mai perso di vista, né te, né Manon. Dovevamo proteggervi.» «Non sempre efficace.» «Di chi è la colpa? Non hai tenuto conto dei miei avvertimenti. Tutto questo avrebbe potuto essere evitato.» «Non ne sono sicuro», replicai. «E voi nemmeno.» Il polacco distolse gli occhi. Dietro di lui si spalancava l'imboccatura nera della grotta sotto gli archi di acciaio. Pensai a Luc. Naufrago del silenzio e delle tenebre. Non avevamo nemmeno contemplato la possibilità di recuperarne il corpo, né pronunciato una preghiera in sua memoria. Eravamo risaliti senza una parola, con la fretta di farla finita, di uscire di là. «A che punto siete con gli Asserviti?»
«Un gruppo è stato distrutto, grazie a te, nel Jura. E un'altra fazione a Cracovia. Anche questa in parte grazie a te. Ma esistono altri focolai. In Francia. In Germania. In Italia. Seguiamo l'iboga nera. È il nostro filo conduttore. Come si diceva ai tempi di Solidarnosc: "Prima continuare, poi cominciare".» Alzai gli occhi. La striscia di luce si orlava di un alone violetto. Abbassai le palpebre, assaporando il vento gelido sulla faccia. Mi sentivo invadere da una sensazione diffusa di vita, e allo stesso tempo avvertivo sulla pelle una vibrazione leggera, elettrica. «Sono deluso», mormorò Zamorski. «Tutta la vicenda si riassumeva dunque nella follia di un solo uomo. Un impostore che si era calato nei panni del diavolo. Neanche l'ombra di una presenza soprannaturale, di una forza superiore in questa storia. Non ci siamo avvicinati, neanche da lontano, al vero avversario.» Aprii gli occhi. Nella luce nascente, il polacco dimostrava tutti i suoi anni. «Dimentica la cosa principale. L'ispiratore di Luc.» «Beltreïn?» «Beltreïn era solo una pedina. Parlo di Satana. Di colui che Luc ha visto in fondo alla gola. Il vecchio luminescente.» «Allora ci credi?» «L'unico vero Senza Luce di tutta la storia è Luc. Non ha inventato niente. Agiva su ordine di un'entità superiore. Noi non abbiamo incontrato il diavolo ma la sua ombra, attraverso Luc.» Zamorski mi diede una pacca sulla spalla. «Bravo. Non avrei saputo dire meglio. Sei maturo per il nostro gruppo! Ho sentito dire che desideravi entrare in un ordine religioso. Perché non il nostro?» Indicai i suoi soldati in abito nero, tra le ombre lunghe dell'aurora. «Cercare Dio significa cercare la pace, Andrzej. Non la guerra.» «L'impulso a combattere ce l'hai dentro», disse stringendomi la spalla. «E noi siamo gli ultimi cavalieri della fede.» Avanzai sul piazzale, senza rispondere. Al di sopra delle montagne la curva di luce si stava via via espandendo. Lenta lacerazione color ocra di un manto azzurro scuro. Il disco solare non avrebbe tardato a perforare la volta celeste. «Rifletti bene», insistette Zamorski. «Tu sei fatto per la lotta, non per la contemplazione, e neanche per la solitudine.» «Ha ragione», mormorai.
«Ti unirai a noi?» «No.» Sentivo contro l'anca il calcio della calibro 45 che avevo recuperato. Sensazione dura, confortante, come un assenso. «Che pensi di fare?» Sorrisi. «Continuare. Semplicemente continuare.» Per essere forti, bisogna sempre ascoltare i consigli dei propri nemici. Avrei seguito l'unico suggerimento valido di Luc, quello del tempo dei Lilas: «Dobbiamo morire ancora una volta, Mat. Uccidere il cristiano che è in noi per diventare poliziotti». Sì, avrei continuato a percorrere le strade, a combattere il male, a sporcarmi le mani. Sino alla fine. Mathieu Durey, comandante della Criminale, senza illusioni né compassione. Tornato dalla sua terza morte. FINE