Oscar Wilde
Il Fantasma Di Canterville The Canterville Ghost © 1887
Prefazione Questo non è il luogo di indagare lo st...
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Oscar Wilde
Il Fantasma Di Canterville The Canterville Ghost © 1887
Prefazione Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l'atavismo e la forma epìlettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio. La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l'autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero dell'interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette dinanzi alla Corte e il loro autore venne denunziato come un degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. «Il tempo guerreggia contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose.» «Amo vederti errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele.» Ma la verità è che Wilde, lungi dall'essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d'Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale e universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. L'incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura. Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore. Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L'autodifesa di Oscar Wilde nello «Scots Observer» deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Oscar Wilde
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Dorian Gray nessuno lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l'ha commesso. Qui tocchiamo il centro motore dell'arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l'arguzia, l'impulso generoso, l'intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l'evo d'oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell'umile, è questa verità inerente nell'anima del cattolicesimo: che l'uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato. JAMES JOYCE
IL GIGANTE EGOISTA Ogni pomeriggio, al ritorno da scuola, i bambini solevano andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un giardino grande e bellissimo, tappezzato di soffice erba verde. Qua e là sull'erba occhieggiavano fiori simili a stelle, e vi erano dodici peschi che a primavera si coprivano di delicati boccioli di rosa e di perla, e in autunno producevano frutti opulenti. Gli uccelli sedevano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini interrompevano spesso i loro giochi per starli ad ascoltare. «Come siamo felici, qui!» dicevano gli uni agli altri. Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita da un suo amico, l'orco di Cornovaglia, e ci era rimasto sette anni. In capo a sette anni, avendo detto tutto quello che aveva da dire, poiché la sua conversazione era limitata, decise di rientrare nel proprio castello. Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino. «Che cosa fate qua?» gridò con una voce terribilmente burbera, e i bambini scapparono via di corsa. «Il mio giardino è il mio giardino,» disse il Gigante «chiunque deve capirlo, e non permetterò a nessuno di giocarci all'infuori di me.» Perciò vi costruì tutt'attorno un muro altissimo, e fece affiggere un cartello: Oscar Wilde
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I TRASGRESSORI SARANNO PUNITI Era un Gigante molto egoista. I poveri bambini non avevano più un posto dove giocare. Tentarono di giocare sulla strada, ma la strada era piena di polvere e irta di pietre taglienti, e a loro non piaceva. Avevano presa l'abitudine di gironzolare attorno alle alte mura, quando le loro lezioni erano terminate, parlando del bel giardino che vi era nascosto dentro. «Come eravamo felici, lì!» dicevano gli uni agli altri. Poi venne la Primavera, e tutta la contrada era profumata di giovani fiori e cinguettante di uccellini. Nel giardino del Gigante Egoista, però, era tuttora inverno. Gli uccelli non si curavano di andarvi a cantare poiché mancavano i bambini, e gli alberi si dimenticarono di germogliare. Una volta un bel fiorellino mise la testa fuor del prato, ma quando vide il cartello gli dispiacque talmente per i bambini, che si rificcò subito a dormire. Le sole persone contentissime della situazione erano la Neve e il Gelo. «La Primavera ha dimenticato questo giardino,» gridavano «perciò noi ci abiteremo tutto l'anno.» La Neve coprì l'erba del suo ampio mantello candido, e il Gelo dipinse d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono a restare con loro il Vento del Nord, e questi venne. Era tutto impellicciato, e non fece che soffiare tutto il giorno in giardino, abbattendo i comignoli. «Che posto delizioso,» disse «dobbiamo invitare la Grandine a venirci a trovare.» Così venne anche la Grandine. Ogni giorno, per tre ore consecutive, tambureggiò sul tetto del castello finché ruppe quasi tutti i tegoli, e poi si mise a correre in giro per il giardino con una rapidità incredibile. Era vestita di grigio, e il suo respiro era come ghiaccio. «Non riesco a capire perché la Primavera tarda tanto a venire» diceva il Gigante Egoista, mentre sedeva alla finestra a guardare il suo giardino freddo e bianco. «Spero che il tempo cambi presto.» Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l'Estate. L'Autunno portò in ogni giardino frutti dorati, ma al giardino del Gigante non ne portò neppur uno. «È troppo egoista» disse. Così laggiù regnava sempre l'Inverno, e il Vento del Nord e la Grandine, e il Gelo, e la Neve danzavano senza posa tra gli alberi. Un mattino il Gigante stava poltrendo in letto quando intese una musica dolcissima. Suonava così melodiosa alle sue orecchie che pensò fossero i musicanti del Re che passavano di lì. In realtà non era che un piccolo fanello che cantava fuor della sua finestra, ma da tanto non udiva più un Oscar Wilde
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uccello cantare nel suo giardino che gli parve la più meravigliosa musica del mondo. Poi a un tratto la Grandine smise di ballargli sulla testa, e il Vento del Nord cessò di mugghiare, e un profumo delizioso gli giunse dalla finestra spalancata. «Credo che la Primavera sia arrivata, finalmente!» I disse il Gigante e balzò giù dal letto e guardò fuori. Che cosa vide? Vide uno spettacolo meraviglioso. Da una piccola, breccia nel muro i bambini erano strisciati in giardino, e ora sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero c'era un bambino. E gli alberi erano così contenti j di rivedere i bambini che subito si erano ricoperti di boccioli e ora agitavano dolcemente le loro braccia sulle teste dei bambini. Gli uccelli volavano tutt'attorno e cinguettavano felici, e i fiori facevano capolino sul prato e ridevano. Era una scena deliziosa, solo in un angolo del giardino era ancora inverno. Era l'angolo estremo, e in esso stava un ragazzino. Era tanto piccolo che non arrivava a toccare i rami dell'albero, e vi girava tutt'attorno, piangendo disperatamente. Il povero albero era ancora coperto di gelo e di neve, e il Vento del Nord gli soffiava e sbuffava sopra. «Sali, ragazzino» diceva l'albero, e abbassava il suoi rami verso terra quanto più poteva, ma il bimbo era troppo piccino. Allora, mentre guardava, il Gigante si sentì sciogliere il cuore. "Come sono stato egoista!" si disse. "Adesso capisco perché la Primavera non veniva mai da me. Metterò quel povero bambino in cima all'albero, e poi abbatterò il muro e d'ora innanzi il mio giardino sarà per sempre il campo di giochi dei bambini." Era proprio molto dispiaciuto di quello che aveva fatto. Perciò scese abbasso piano piano, aprì il portone senza far rumore e uscì in giardino, ma quando i bambini lo videro ne ebbero così paura che scapparono via tutti, e il giardino ripiombò un'altra volta in preda all'inverno. Soltanto il ragazzino non fuggì, poiché aveva gli occhi talmente gonfi di lagrime che non vide venire il Gigante. E il Gigante gli si avvicinò di soppiatto, lo prese dolcemente nella sua grossa mano e lo posò sull'albero. E subito l'albero si coprì di bocci, e gli uccelli vennero e presero a cantare tra i rami, e il ragazzino tese le braccia e cinse il collo del Gigante e lo baciò. E gli altri bambini, quando capirono che il Gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa, e con loro venne la Primavera. «È il vostro giardino, adesso, bambini!» disse il Gigante, e prese una grande Oscar Wilde
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scure e abbatté il muro. E quando la gente si recò al mercato, a mezzogiorno, vide il Gigante che giocava coi bambini nel più bel giardino che mai fosse esistito. Giocarono tutta la giornata, e la sera si recarono dal Gigante a salutarlo. «Ma dov'è il vostro piccolo compagno,» chiese loro il Gigante «il ragazzino che io ho messo sull'albero?» Il Gigante lo amava più di tutti poiché gli aveva dato un bacio. «Non sappiamo,» risposero i bambini «è andato via.» «Dovete dirgli di venire senza fallo domani» disse il Gigante. Ma i bambini gli spiegarono che non sapevano dove abitasse, poiché non lo avevano mai veduto prima, e il Gigante ne provò una profonda tristezza. Ogni pomeriggio, quando la scuola era terminata, i bambini venivano a giocare col Gigante, ma il ragazzino che il Gigante amava nessuno lo vide più. Il Gigante era molto affettuoso con tutti gli altri bambini, tuttavia si struggeva di rimpianto per quel suo primo piccolo amico, e spesso parlava di lui. «Come mi piacerebbe vederlo!» ripeteva spesso. Passarono molti anni: il Gigante era diventato vecchio e debole. Non aveva più la forza di giocare, perciò rimaneva seduto in un'immensa poltrona e osservava i bambini intenti ai loro giochi, e ammirava il suo giardino. «Ho molti fiori bellissimi, adesso,» soleva dire «ma i bambini sono i fiori più belli.» Un mattino d'inverno, mentre si vestiva, diede un'occhiata fuor della finestra. Ormai non odiava pù l'Inverno, poiché sapeva ch'esso era soltanto la Primavera addormentata, e che in quel periodo i fiori si riposavano. A un tratto si fregò gli occhi per la meraviglia e tornò a guardare e a riguardare più volte. Era veramente uno spettacolo straordinario. Nell'angolo più remoto del giardino c'era un albero tutto ricoperto di squisiti boccioli bianchi. Aveva rami d'oro da cui pendevano frutti d'argento, e sotto di esso stava il ragazzino ch'egli aveva amato. Fuor di sé dalla gioia il Gigante si precipitò abbasso e corse fuori in giardino. Attraversò il prato a passi rapidi e si avvicinò al bambino, ma quando gli fu da presso il suo viso si invermigliò di collera ed egli disse: «Chi ha osato ferirti?» poiché le palme delle mani del bambino recavano l'impronta di due chiodi, e il segno di due chiodi era impresso sui suoi minuscoli piedi. «Chi ha osato ferirti?» ripetè il Gigante «dimmelo, che io prenderò la mia grossa spada e lo ucciderò!» Oscar Wilde
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«No, non devi,» rispose il bambino «poiché queste sono le ferite dell'Amore.» «Chi sei tu?» domandò il Gigante, e un misterioso timore lo invase, ed egli si inginocchiò davanti al piccolo bambino. E il bambino sorrise al Gigante e gli disse: «Una volta tu mi hai lasciato giocare nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio giardino, che è il Paradiso.» E quando i bambini vennero come il solito quel pomeriggio trovarono il Gigante disteso sotto l'albero, morto, tutto coperto di candidi petali.
L'AMICO DEVOTO Un mattino il vecchio Topo di fogna cacciò la testa fuor dalla sua tana. Aveva due occhi vispi e tondi come perline e rigidi baffi grigi, e la sua coda assomigliava a un lungo pezzo di gomma nera. Gli Anatroccoli stavano nuotando nello stagno, simili in tutto e per tutto a una frotta di canarini gialli, e la loro mamma, che era di un bianco candido e aveva due vere gambe rosse, cercava di insegnargli a stare ritti con la testa nell'acqua. «Non potrete mai entrare nella buona società se non imparerete a stare ritti sulla testa» seguitava a ripetere ai suoi bambini, e di tanto in tanto mostrava loro come dovevano fare, ma gli Anatroccoli non le davano retta; erano così giovani che non avevano la minima idea del vantaggio che si può avere a frequentare la buona società. «Che bambini disobbedienti!» gridò il vecchio Topo di fogna. «Meriterebbero proprio di morire annegati!» «Neanche per sogno!» ribatté la Mamma Anatra, «tutti devono imparare, e bisogna che i genitori si armino di una grande pazienza.» «Ah io non so nulla di quel che provano i genitori,» disse il Topo di fogna «personalmente non sono un tipo adatto a metter su famiglia: infatti non mi sono mai sposato, e me ne guardo bene dal farlo. L'amore a modo suo è una bellissima cosa, ma l'amicizia è molto superiore. Francamente trovo che non esisti niente al mondo che sia più nobile o più prezioso d un'amicizia devota.» «Per favore, vuoi dirmi qual è il tuo punto di vista circa i doveri di un amico devoto?» gli domandò un Fanello verde, che era rimasto appollaiato su un salice lì vicino, e aveva inteso la conversazione. «Già, anche a me piacerebbe saperlo» disse l'Anatra, e nuotò sino Oscar Wilde
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all'estremità opposta dello stagno e si mise sulla testa onde dare ai suoi bambini un buon esempio. «Che domanda stupida!» esclamò il Topo di fogna. «Pretenderei che il mio amico devoto fosse devoto a me, si capisce!» «E tu che cosa gli daresti in cambio?» domanda l'Uccellino, dondolandosi su un ramo argenteo, e battendo le sue minuscole ali. «Non ti capisco» rispose il Topo di fogna. «Se permetti, ti racconterò una storia in proposito» disse il Fanello. «È una storia che riguarda me?» chiese il Topo di fogna. «In questo caso l'ascolterò volentieri, perché i racconti immaginari mi piacciono moltissimo.» «Be', si può adattarla al caso tuo» replicò il Fanello, e volò giù e posandosi sulla sponda dello stagno raccontò la storia dell'Amico Devoto. «C'era una volta,» incominciò il Fanello «un bravo omino che si chiamava Hans.» «Era una persona distinta?» chiese il Topo di fogna. «No,» rispose il Fanello «credo anzi che non fosse affatto distinto, tranne che per il suo buon cuore e per la sua buffa faccia tonda e sempre di buon umore. Abitava in una casettina piccina piccina tutto per conto suo, e ogni giorno lavorava nel suo giardino. In tutta la contrada non esisteva un giardino bello come il suo. Vi crescevano garofanetti selvatici e violacciocche, borse di pastore e belle di Francia, rose di Damasco e rose gialle, crochi color gridellino e oro, viole bianche e porporine, aquilegie e mantelli di dama; la maggiorana e il basilico selvatico, la primula e il fiordaliso, l'asfodelo e i chiodi di garofano vi sbocciavano o fiorivano nel loro giusto ordine a seconda dell'avvicendarsi dei mesi, ogni fiore prendendo il posto di un altro fiore, cosicché vi erano sempre cose belle da vedere, e grati profumi da odorare. Il piccolo Hans aveva moltissimi amici, ma di tutti il suo amico più affezionato era il grosso Hugh il Mugnaio. Il ricco Mugnaio infatti era talmente affezionato al piccolo Hans che non osava passare mai dal giardino di questo senza sporgersi oltre il muro di cinta e cogliere o un gran mazzo di fiori, o una manciata di erbe aromatiche, oppure senza riempirsi le tasche di susine e di ciliege se era la stagione della frutta. "I veri amici devono avere tutto in comune" soleva dire il Mugnaio, e il piccolo Hans faceva cenno di sì col capo e sorrideva, e si sentiva molto orgoglioso di avere un amico di idee tanto nobili. Oscar Wilde
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Talvolta, a dire il vero, i vicini trovavano strano che il ricco Mugnaio non desse mai nulla in cambio al piccolo Hans, benché nel suo mulino avesse riposti più di cento sacchi di farina, e possedesse sei mucche da latte, e un grande gregge di pecore lanose, ma Hans non si tormentava mai il cervello con problemi di questo genere, e nulla gli dava maggior piacere che ascoltare tutte le cose meravigliose che il Mugnaio soleva narrare intorno al disinteresse e all'altruismo della vera amicizia. Così il piccolo Hans lavorava di lena nel suo giardino. Durante la primavera, l'estate e l'autunno era felice e contento, ma quando veniva l'inverno e non aveva né fiori né frutta da portare al mercato, allora soffriva parecchio per il freddo e la fame, e spesso era costretto ad andare a letto avendo mangiato per tutta cena soltanto qualche pera secca o un pugno di noci dure. D'inverno poi era tutto solo poiché il Mugnaio non si recava mai a fargli visita. "È proprio inutile che io vada a trovare il piccolo Hans fin quando dura la neve," soleva dire il Mugnaio alla moglie "perché quando la gente è nei guai è molto meglio lasciarla in pace senza seccarla con le visite. Questo almeno è il mio punto di vista dell'amicizia e sono sicuro di essere nel giusto. Perciò aspetterò che arrivi la primavera: allora andrò a trovarlo, e lui sarà in grado di darmi un grosso cesto di primule, e questo gli farà tanto piacere." "Come ti preoccupi per gli altri!" gli rispondeva la moglie, seduta in un'ampia e comoda poltrona presso il gran fuoco di legna di pino. "Davvero non fai che pensare al tuo prossimo! È una vera festa sentirti parlare! Sono convinta che nemmeno il pastore saprebbe dire cose più belle di te, e sì che abita in una casa di tre piani, e porta al dito mignolo un anello d'oro!" "Ma non potremmo invitare il piccolo Hans qui a casa nostra?" disse un giorno il figlio minore del Mugnaio. "Se il povero Hans è nei guai io potrei dargli metà della mia zuppa d'avena, e potrei mostrargli i miei conigli bianchi." "Che ragazzo sciocco, sei!" gridò il Mugnaio. "Non so proprio a che cosa serva mandarti a scuola! Mi sembra davvero che non t'insegnino un bel nulla! Perbacco, se il piccolo Hans venisse qui e vedesse il nostro camino caldo, e la nostra buona cena, e la nostra grossa botte di vino rosso potrebbe diventare invidioso: ora l'invidia è un difetto orribile che guasterebbe il carattere di chiunque, mentre io non permetterò mai che il Oscar Wilde
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carattere di Hans si guasti. Sono il su migliore amico, e avrò continuamente cura di lui starò bene attento a che non cada in tentazioni di nessun genere. Del resto, se Hans venisse qui potrebbe chiedermi di dargli della farina a credito, cosa che no: potrei assolutamente fare, perché la farina è una cosa e l'amicizia è un'altra e non bisogna confonderle. Per bacco: sono due parole che si pronunciano in modi completamente diverso, e significano due cose diversissime! Lo capirebbe chiunque!" "Come parli bene!" disse la moglie del Mugnaio versandosi un gran bicchiere di vino caldo. "Mi sento: tutta piena di sonno: è proprio come essere in chiesa!" "Un sacco di gente agisce bene," replicò il Mugnaio "ma pochissima parla bene, il che dimostra come parlare sia delle due la cosa assai più difficile, e la più bella, per giunta!" E lanciò dall'altra parte della tavola un'occhiataccia severa al suo bambino, il quale provò tanta vergogna di quel che aveva osato dire, che chinò il mento sul petto e si fece rosso rosso in viso e si mise a piangere entro la sua tazza del tè. Comunque era tanto piccolo che dovete scusarlo.» «La storia finisce qui?» domandò a questo punto il Topo di fogna. «Ma no,» ribatté il Fanello «questo non è che il principio.» «Allora tu sei molto indietro coi tempi» osservò il Topo di fogna. «Ogni cantastorie che si rispetta, oggigiorno, incomincia dalla fine, poi ritorna al principio e conclude con la metà. Questo è il nuovo metodo. Ho imparato ogni cosa in proposito l'altro giorno da un critico che passeggiava attorno allo stagno in compagnia di un giovanotto. Trattò dell'argomento a lungo, e sono sicuro che doveva aver ragione poiché era calvo e portava un paio di occhiali scuri, e ogni volta che il giovanotto faceva un'osservazione il critico rispondeva invariabilmente: "Peuh!". Ma continua il tuo racconto, ti prego, perché il Mugnaio mi piace immensamente. Ho anch'io una gran quantità di sentimenti bellissimi, perciò tra me e lui esiste una profonda affinità.» «Dunque,» riprese il Fanello, saltellando ora su una zampetta, ora sull'altra «non appena l'inverno ebbe fine e le primule incominciarono a schiudere le loro pallide stelle gialle, il Mugnaio disse alla moglie che sarebbe andato a far visita al piccolo Hans. "Hai proprio un gran buon cuore!" esclamò la moglie. "Tu pensi sempre agli altri. E non dimenticare di portare con te il grosso cesto per i fiori! " Perciò il Mugnaio legò insieme le pale del suo mulino a vento con una Oscar Wilde
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solida catena di ferro e scese giù per la collina con il paniere sotto braccio. "Buon giorno, piccolo Hans" disse il Mugnaio. "Buon giorno" rispose Hans appoggiandosi sulla sua vanga, con un sorriso che gli fendeva la faccia da un orecchio all'altro. "Come te la sei passata quest'inverno?" gli chiese il Mugnaio. "Oh, ecco," esclamò il piccolo Hans "sei molto buono a domandarmelo, molto buono davvero! Purtroppo temo di aver passato dei momenti un po' difficili, ma adesso è venuta la primavera e io sono tanto contento perché i miei fiori promettono benissimo.” "Abbiamo parlato spesso di te, quest'inverno, Hans," disse il Mugnaio "e ci siamo chiesti tante volte come stavi." "Questo è stato veramente molto carino da pari vostra," rispose Hans "avevo una mezza paura che vi foste dimenticati di me." "Hans, mi meraviglio di te!" esclamò il Mugnaio, "L'amicizia non dimentica mai. Questo è il suo indescrivibile pregio, ma temo tu non comprenda la poesia della vita. A proposito, come sono belle le tue primule!" "Sì, sono proprio belline davvero," replicò Hans "ed è una vera fortuna per me averne tante. Ho intenzione di portarle al mercato e di venderle alla figlia del Borgomastro, così col danaro che ne ricaverò potrò ricomprarmi la mia carriola. "Ricomprarti la tua carriola? Non vorrai mica farmi credere che l'hai venduta? Che stupidaggine hai commessa!" "Ecco, il fatto è," gli spiegò Hans "che sono stato costretto a venderla! Capisci, l'inverno è stato per me un periodo molto duro, e non avevo nemmeno soldi a sufficienza per comprarmi il pane. Così dapprincipio ho venduto i bottoni d'argento del mio vestito della festa, poi ho venduta la mia catena d'argento, poi ho venduto la mia grossa pipa, e infine ho venduto la mia carriola. Ma adesso a poco a poco riscatterò tutte le mie cose." "Hans," disse il Mugnaio "ti darò io la mia carriola. Non è in gran buono stato; per dire la verità ha tutto un fianco che non esiste più, e c'è qualcosa che non va coi mozzi delle ruote, ma nonostante ciò te la darò lo stesso. Lo so che è un gesto molto generoso da parte mia, e molta gente mi giudicherà pazzo a separarmene, ma io non sono come gli altri; io ritengo che la generosità sia l'essenza dell'amicizia, e d'altronde per me mi sono già comperato una carriola nuova. Sì, sì, mettiti pure il cuore in pace: ti Oscar Wilde
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darò la mia carriola." "Oh, grazie, come sei generoso!" esclamò il piccolo Hans, e la sua buffa faccia rotonda luccicò tutta di gioia. "L'aggiusterò facilmente, poiché ho giusto un'asse di legno in casa!" "Asse di legno!" esclamò il Mugnaio. "Ma è proprio quel che mi occorre per il tetto del mio granaio. Ci si è fatto dentro un gran buco, e il grano mi si bagnerà tutto se non l'aggiusto al più presto. È una vera fortuna che tu ne abbia parlato! È proprio vero che una buona azione ne genera sempre un'altra! Io ti ho dato la mia carriola e adesso tu mi darai la tua asse.! Naturalmente la carriola vale molto più dell'asse, mal la vera amicizia non bada mai a queste cose. Ti prego, vammela a prendere subito, così potrò mettermi a riparare il mio granaio oggi stesso." "Certamente!" gridò il piccolo Hans, e corse nellai rimessa e ne tirò fuori l'asse. "Non è un'asse molto grande," disse il Mugnaio dopo averla ben bene osservata "e ho paura che dopo che avrò aggiustato il tetto del mio granaio non ne resterà più per rabberciare la carriola, ma naturalmente questo non è colpa mia. E adesso, dal momento che ti ho dato la mia carriola, non dubito che vorrai darmi un po' di fiori in cambio. Eccoti il paniere e fa ben attenzione di riempirlo tutto." "Proprio tutto?" domandò il piccolo Hans con un certo rincrescimento, perché si trattava effettivamente di un paniere di una grandezza eccezionale, ed egli sapeva che quando lo avesse riempito fino all'orlo, come voleva il Mugnaio, non gli sarebbero rimasti più altri fiori da portare al mercato, mentre aveva tanta fretta di riscattare i suoi bottoni d'argento. "Be', francamente," rispose il Mugnaio "dal momento che ti ho dato la mia carriola, non credo sia eccessivo da parte mia chiederti quattro fiori. Forse sbaglierò ma io ritenevo che l'amicizia, la vera amicizia, fosse del tutto esente da qualsiasi forma di egoismo." "Amico caro, mio migliore amico," esclamò il piccolo Hans "tutti i fiori del mio giardino sono tuoi. Preferisco avere la tua stima piuttosto che i miei bottoni d'argento, in qualsiasi momento." E corse a cogliere tutte le sue primule e ne riempì il paniere del Mugnaio. "Arrivederci piccolo Hans" gli disse il Mugnaio, e si avviò su per la collina con l'asse sulla spalla e il grosso cesto in mano. "Arrivederci" rispose il piccolo Hans, e incominciò a vangare allegramente: era così contento della carriola! Oscar Wilde
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Il giorno seguente era intento a inchiodare lungo la parete del portico dei rami di caprifoglio, quando intese la voce del Mugnaio che lo chiamava dalla strada. Perciò si affrettò a scendere dalla scala a pioli su cui era appollaiato e corse in giardino e si sporse dal muro di cinta. Fuori, sulla strada, c'era il Mugnaio con un grosso sacco di farina sul dorso. "Caro piccolo Hans," gli disse il Mugnaio "non ti dispiacerebbe portarmi questo sacco di farina al mercato?" "Oh, mi spiace proprio tanto," disse Hans "ma oggi sono talmente occupato! Ho da appendere tutti i miei rampicanti, e da rullare tutto il mio prato." "Francamente," ribatté il Mugnaio "trovo che se si pensa che io sto per darti la mia carriola è veramente scortese da parte tua dirmi di no." "Oh, non parlare così," esclamò il piccolo Hans "lo sai bene che non vorrei essere scortese con te per tutto l'oro del mondo!" E corse in casa a prendere il suo berretto, e si allontanò faticosamente con il pesante sacco sulle spalle. Era una giornata torrida, e la strada era terribilmente impolverata, e prima di essere giunto alla sesta pietra miliare il povero Hans si sentì talmente stanco che dovette sedersi per prender fiato. Comunque riprese poi ad andare coraggiosamente finché infine arrivò al mercato. Dopo avere atteso per un certo tempo riuscì a vendere il sacco di farina a un ottimo prezzo, e subito ritornò a casa, poiché aveva paura che se si fosse fermato lungo la strada troppo a lungo avrebbe potuto correre il rischio di imbattersi in qualche banda di malfattori. "È stata una giornata francamente molto dura disse tra sé il piccolo Hans mentre si preparava ad andare a dormire "ma sono contento di non aver detto di no al Mugnaio, poiché è il mio migliore amico e per giunta mi darà la sua carriola." Il mattino seguente per tempo il Mugnaio venne a ritirare il danaro del suo sacco di farina, ma il piccolo Hans si era talmente stancato che era rimasto a letto. "Ma lo sai che sei un bel pigrone!" esclamò il Mugnaio. "Francamente trovo che dal momento che io ti darò la mia carriola tu potresti lavorare di più. La pigrizia è un peccato gravissimo, e io non permetterò mai e poi mai che un mio amico sia ozioso o pigro. Non devi spiacerti se ti parlo con tanta franchezza; naturalmente non mi sognerei di parlarti come ti parlo se Oscar Wilde
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non ti fossi amico, ma a che serve l'amicizia se uno non può dire quel che pensa? Chiunque è capace di dire cose carine e di cercare di far piacere e di adulare, ma un amico sincero dice sempre cose sgradevoli e non si preoccupa di arrecar dolore. Anzi, se è un amico veramente sincero fa questo volentieri, poiché sa che così facendo agisce bene." "Scusami tanto," disse il piccolo Hans fregandosi gli occhi e togliendosi la berretta da notte "ma ero talmente stanco, che avevo pensato di starmene in letto ancora un pochino ad ascoltare gli uccelli cantare. Lo sai che lavoro sempre con maggior gusto ogni qualvolta ascolto il canto degli uccelli?" "Be', mi fa piacere di sentir questo," disse il Mugnaio, dandogli una pacca sulla schiena, "perché ho proprio bisogno che tu venga su al mulino non appena sarai vestito ad aggiustare il tetto del mio granaio." Il povero piccolo Hans era tutto ansioso di andare ad accudire al suo giardino, poiché da due giorni i suoi fiori non erano più stati innaffiati, ma non osò dir di no al Mugnaio; era un così buon amico per lui! "Credi che sarebbe scortese da parte mia se ti dicessi che ho da fare?" domandò con voce timida e sommessa. "Be', francamente," replicò il Mugnaio "non penso sia chiederti troppo, dal momento che ti darò la mia carriola ma naturalmente se rifiuti me ne andrò e lo aggiusterò da me." "Oh, no, no" esclamò il piccolo Hans; e saltò giù dal letto e si vestì e andò nel granaio del Mugnaio. Vi lavorò tutto il giorno, sino all'ora del tramonto, e al tramonto il Mugnaio venne a vedere a che punto era. "Hai finito di aggiustare il buco del tetto, piccolo Hans?" domandò il Mugnaio con voce gioviale. "Sì, ho finito" rispose il piccolo Hans, scendendo dalla scala a pioli. "Ah!" fece il Mugnaio. "Non esiste lavoro più gradevole di quello compiuto per conto d'altri!" "Certo è un grande privilegio ascoltarti parlare," rispose il piccolo Hans sedendosi e asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte "proprio un gran privilegio! Ho paura però che io non riuscirò mai ad avere belle idee come te! " "Oh, col tempo imparerai anche tu," disse il Mugnaio "ma devi darti da fare. Per il momento tu possiedi soltanto la pratica dell'amicizia, ma a lungo andare ne apprenderai pure la teoria." Oscar Wilde
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"Credi davvero che ci riuscirò?" chiese il piccolo Hans. "Non ne dubito," gli rispose il Mugnaio "ma ora che mi hai riparato il tetto, faresti meglio ad andare a casa a riposarti perché voglio che domattina tu mi conduca le mie pecore su in montagna.” Il povero piccolo Hans, nell'udire ciò, non ebbe il coraggio di ribattere nulla, e l'indomani mattina per tempo il Mugnaio condusse le sue pecore davanti alla casetta di Hans, e Hans partì con le bestie su per la montagna. Gli ci volle tutta la giornata, tra andare e tornare; e al ritorno era talmente stanco che si addormentò sulla seggiola bell'e vestito com'era e non si svegliò finché non fu pieno giorno. "Come me la godrò quest'oggi nel mio giardino!" si disse, e corse subito a lavorare. Ma gira e volta non trovava mai il tempo di poter occuparsi dei suoi fiori, poiché il suo amico il Mugnaio lo veniva sempre a cercare per fargli fare lunghe commissioni, o perché lo aiutasse al mulino. A volte il piccolo Hans si sentiva addirittura disperato, poiché temeva che i suoi fiori avrebbero finito col pensare che egli li avesse dimenticati, ma si consolava al pensiero che il Mugnaio era il suo migliore amico. "D'altronde," soleva dirsi "mi darà la sua carriola, il che è un gesto di pura generosità." Così il piccolo Hans lavorava di lena per il Mugnaio, e il Mugnaio gli teneva lunghi e bellissimi discorsi intorno all'amicizia, discorsi di cui Hans prendeva appunti nel suo taccuino e che soleva rileggere la notte, poiché era di temperamento studioso e amante del sapere. Ora accadde che una sera il piccolo Hans se ne stava seduto presso il suo focolare quando intese qualcuno che bussava violentemente alla porta. Era una notte infernale, e il vento soffiava e ruggiva attorno alla, casa con tanta furia che a tutta prima pensò fosse la tempesta, ma poi risuonò un secondo picchio, e infine un terzo più forte degli altri due. "Dev'essere qualche povero viandante" si disse il piccolo Hans, e corse ad aprire. Invece era il Mugnaio, che in una mano teneva una lanterna e nell'altra un grosso bastone. "Caro piccolo Hans" gli disse il Mugnaio "mi trovo in un grosso guaio. Il mio bambino è caduto dalla scala a pioli e si è fatto male e devo andare dal Dottore, ma il Dottore abita così lontano, ed è una notte col sì brutta che mi è venuto in mente proprio adesso che sarebbe molto meglio che ci andassi tu in vece mia. Lo sai che ho intenzione di darti la mia carriola, Oscar Wilde
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perciò è giusto, trovo, che tu faccia qualcosa per me, in cambio!" "Certo," esclamò il piccolo Hans "sono anzi onorato che tu sia venuto a cercarmi: mi metterò in strada subito. Però devi imprestarmi la tua lanterna, poichè una notte tanto buia che ho paura di cadere nel fosso." "Mi spiace molto," gli rispose il Mugnaio "ma questa è la mia lanterna nuova, e sarebbe per me una gran perdita se le capitasse qualcosa." "Be', non importa, farò senza," gridò il piccolo Hans e staccò dall'attaccapanni il suo pesante mantello di pelliccia e il suo caldo berretto rosso, e si annodò una sciarpa al collo e si mise in cammino. La tempesta fuori era semplicemente paurosa! La notte era talmente nera che il piccolo Hans riusciva a vederci appena, e il vento soffiava con tanta violenza che a stento poteva reggersi in piedi. Il piccolo Hans era molto coraggioso, tuttavia, e dopo aver camminato per quasi tre ore giunse alla casa del Dottore e bussò all'uscio. "Chi è?" gridò il Dottore, affacciandosi alla finestra della sua camera da letto. "Sono il piccolo Hans, Dottore!" "Ah! Che cosa vuoi, piccolo Hans?" "Il figlio del Mugnaio è caduto dalla scala a pioli e si è fatto male, e il Mugnaio vuole che lei vada subito da lui." "Va bene!" rispose il Dottore e diede ordine che gli sellassero il cavallo, e si fece portare i suoi stivaloni e la sua lanterna, e scese abbasso e si avviò in direzione della casa del Mugnaio, col piccolo Hans che gli veniva dietro balzelloni. Ma la tempesta prese a infuriare sempre più minacciosa, e il piccolo Hans non riusciva a vedere dove andava né a stare a passo col cavallo. Alla fine smarrì la strada e si perdette nella landa, che era un luogo assai pericoloso, perché era tutto disseminato di buche profonde, e in una di queste il povero piccolo Hans cadde e annegò. Il giorno dopo il suo cadavere fu ritrovata da alcuni caprai che galleggiava in una gran pozza d'acqua, e costoro lo riportarono alla casetta. Tutti andarono al funerale del piccolo Hans, gli volevano tutti bene, e il Mugnaio funse da capo piagnone. "Poiché ero il suo migliore amico," disse il Mugnaio "è più che giusto che il posto migliore lo abbia io." Perciò marciò in testa alla processione vestito di un lungo mantello nero e ogni tanto si asciugava gli occhi col suo fazzolettone da tasca. Oscar Wilde
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"Certo, la morte del Piccolo Hans è una gran perdita per tutti noi" osservò il Fabbro Ferraio, quando le esequie furono terminate e si trovarono tutti quanti riuniti comodamente nella locanda intorno a boccali colmi di vino drogato e un bel piatto di ciambelle! dolci. "Per me almeno è sicuramente una gran perdita,” replicò il Mugnaio "perbacco, praticamente gli avevo ormai regalata la mia carriola, e adesso non so proprio che farmene. In casa m'ingombra, ed è talmente in cattivo stato che anche se la vendessi non ne ricaverei nulla. Farò bene attenzione, d'ora innanzi, a non dar via più niente. Ci si rimette sempre a essere generosi."» «Ebbene?» chiese il Topo di fogna dopo una lunga pausa. «Ma, è finita» rispose il Fanello. «Ma che cosa è successo del Mugnaio?» disse il Topo di fogna. «Oh, proprio non lo so,» replicò il Fanello «e ti assicuro che non me ne importa.» «Come si vede che sei totalmente privo di senso di comprensione!» osservò il Topo di fogna. «Io invece temo che tu non abbia interamente compreso la morale della storia» ribatté il Fanello. «La che cosa?» urlò il Topo di fogna. «La morale.» «Perché questa storia avrebbe una morale?» «Certamente» disse il Fanello. «Be', francamente,» gli rispose il Topo di fogna arrabbiatissimo «trovo che avresti dovuto avvertirmene, prima di incominciare. Poiché in tale caso puoi star sicuro che non sarei restato finora ad ascoltarti, ma ti avrei detto "peuh," come il critico. Comunque te lo dico adesso» infatti gridò "peuh" con quanto fiato aveva in gola, diede un colpo di coda e s'infilò di nuovo nella sua tana. «Che ne pensi del Topo di fogna?» domandò l'Anatra che era sopraggiunta di lì a pochi minuti pagaiando con le zampe a spatola. «Ha un sacco di buone qualità, ma per parte mia, dati i miei sentimenti di madre, non riesco a guardare uno scapolo inveterato senza che gli occhi mi si velino di lagrime.» «Ho una gran paura di averlo seccato» mormorò il Fanello. «Il fatto è che gli ho raccontata una storia con la morale.» «Ah, è sempre una cosa molto pericolosa, raccontare una storia con la Oscar Wilde
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morale!» disse l'Anatra. E io sono completamente d'accordo con lei.
LA SFINGE SENZA SEGRETI ACQUAFORTE Sedevo un pomeriggio a un tavolino fuori al Cafè de la Paix, e mi divertivo a osservare lo sfarzo e lo squallore della vita parigina, fantasticando, tra una sorsata di vermut e l'altra, sul curioso avvicendarsi di orgoglio e di povertà che si andava snodando senza fine davanti ai miei occhi, quando mi intesi chiamare per nome. Mi volsi di scatto e mi trovai faccia a faccia con lord Murchison. Non ci eravamo più rivisti da quando avevamo frequentato insieme l'Università, dieci anni prima; perciò fui felice del caso che me lo faceva incontrare di nuovo, e ci stringemmo calorosamente la mano. A Oxford eravamo stati molto amici, e in quell'epoca mi era piaciuto immensamente: talmente bello, talmente brillante, e così gentiluomo! Dicevamo continuamente che sarebbe stato il migliore degli uomini, se non avesse avuto il torto di dire sempre la verità; ma credo che in realtà lo ammiravamo soprattutto proprio per la sua franchezza. Lo trovai parecchio mutato: sembrava preoccupato, ansioso, come in dubbio su tutto e su tutti. Intuii che non poteva trattarsi di un voluto atteggiamento scettico, come è di moda oggigiorno, poiché Murchison era un conservatore fanatico, e credeva nel Pentateuco con la stessa fede incrollabile con cui credeva nella Camera dei lord. Ne trassi quindi la conclusione che doveva esserci di mezzo una donna, e gli chiesi se non si fosse sposato, per caso. «Non conosco ancora abbastanza le donne per sposarmi» mi rispose. «Ma, caro Gerald,» ribattei «le donne hanno bisogno di essere amate, non di essere capite.» «Io non sono capace di amare se non posso avere fiducia» disse. «Scommetto che nella tua vita c'è un mistero, Gerald! Su, raccontami tutto!» «Andiamo a fare un giro in carrozza» disse. «Qui c'è troppa folla. No, non quella vettura gialla, un altro colore qualsiasi... ecco quella laggiù verde cupo va benissimo.» Pochi minuti dopo stavamo trottando lungo il boulevard in direzione della Madeleine. «Dove vuoi che andiamo?» chiesi. «Oh, dove vuoi tu... Facciamoci portare al Ristorante del Bois de Oscar Wilde
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Boulogne: ceneremo lì e tu mi racconterai tutte le tue cose.» «No, devi raccontare tu per primo. Devi svelarmi il tuo segreto.» Per tutta risposta Gerald si tolse di tasca un minuscolo astuccio di marocchino con un fermaglio d'argento e me lo porse. Lo aprii. Conteneva un ritratto di donna. Una donna alta e sottile, stranamente romantica, con due grandi occhi sognanti e i capelli sparsi per le spalle. Aveva l'aspetto di una clairvoyante (veggente), ed era avvolta in una sontuosa pelliccia. «Che cosa pensi di questo viso?» mi chiese Gerald. «Ti sembra sincero?» La studiai attentamente. Mi parve il volto di una creatura che possedesse un segreto, ma se questo segreto fosse buono o malvagio francamente non avrei saputo dire. La sua bellezza pareva plasmata da molti misteri: era, in una parola, una bellezza psicologica, non plastica, e il sorriso appena percettibile che increspava quelle labbra era troppo delicato per essere genuinamente dolce. «Ebbene,» gridò impaziente il mio amico «che ne pensi dunque?» «Mi sembra una Gioconda impellicciata di zibellino» dissi. «Dimmi qualcosa di lei.» «Non ora, dopo cena» mi rispose Gerald e sviò la nostra conversazione su altri argomenti. Dopo che il cameriere ci ebbe portato il caffè e le sigarette gli rammentai la sua promessa. Si alzò allora da tavola, passeggiò un paio di volte su e giù per la sala, infine si lasciò cadere in una poltrona e incominciò a narrarmi la seguente storia: «Una sera, erano circa le cinque, me ne andavo per Bond Street. C'era un ingombro spaventoso di vetture, e il traffico era pressoché interrotto. Accanto al marciapiede era fermo un calessino giallo che non so più per quale motivo attrasse la mia attenzione. Proprio mentre vi passavo accanto si affacciò al finestriino il volto che ti ho mostrato questo pomeriggio. Ne fui immediatamente affascinato, e non feci che pensarvi tutta la notte e così tutto il giorno seguente, mentre andavo su e giù per quel dannato Row, scrutando ogni equipaggio, sperando di veder comparire ad ogni momento il calessino giallo; ma non mi fu possibile di rintracciare ma belle inconnue(la mia bella sconosciuta), e finii col convincermi che era stata soltanto una visione. Circa una settimana più tardi venni invitato dalla signora de Rastail: il pranzo era stato fissato per le otto, ma alle otto e mezzo stavamo ancora tutti in salotto, aspettando, quando infine il Oscar Wilde
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domestico aperse la porta e annunciò lady Alroy. Era la donna che andavo cercando disperatamente. Entrò con estrema lentezza; pareva un raggio di luna vestito di merletto grigio. Toccò a me, con mia somma gioia, l'onore di condurla a cena; e dopo che ci fummo seduti dissi, sforzandomi di assumere un tono indifferente: "Credo di averla intravveduta qualche tempo fa in Bond Street, lady Alroy". Ella divenne pallidissima e mi rispose con un filo di voce: "La supplico di non parlare così forte: qualcuno potrebbe udire". Mi sentii terribilmente infelice: l'inizio era stato davvero disastroso. Mi buttai subito a capofitto nell'argomento delle commedie francesi, ma ella parlava pochissimo, sempre con quella sua voce smorzata, soavemente musicale, quasi temesse che qualcuno la stesse spiando. Mi innamorai di lei disperatamente, stupidamente, e l'atmosfera indefinibile di mistero che la circondava eccitò in me una invincibile curiosità. Mentre era sul punto di andarsene, il che fu poco dopo terminato il pranzo, le chiesi se mi permetteva di recarmi a ossequiarla a casa sua. Esitò per un attimo, volse intorno uno sguardo inquieto per accertarsi che nessuno ci ascoltava, e disse, infine: "Sì, domani alle cinque meno un quarto". Supplicai la signora de Rastail di dirmi tutto quello che sapeva della sua misteriosa ospite, ma potei apprendere solo che era vedova e che possedeva una bellissima casa in Park Lane; e poiché un tremendo scocciatore afferrò subito lo spunto per attaccare un'interminabile dissertazione scientifica sulle vedove, esempio inconfutabile, secondo lui, della sopravvivenza delle più idonee alla condizione matrimoniale, salutai e me ne tornai a casa. Il giorno dopo mi recai all'appuntamento di Park Lane, all'ora spaccata, ma il maggiordomo mi disse che la signora era uscita proprio in quell'istante. Me ne andai al club disperato, e molto perplesso, pure, e dopo lunga riflessione mi decisi a scriverle una lettera, chiedendole se mi avrebbe permesso di tentare una sorte migliore in un prossimo futuro. Per vari giorni non ottenni risposta, ma alla fine ricevetti un biglietto in cui mi diceva che sarebbe stata in casa la domenica successiva alle quattro, e aggiungeva questo straordinario poscritto: "La supplico di non scrivermi più: le spiegherò tutto a voce, quando ci vedremo". La domenica finalmente mi ricevette, e fu semplicemente adorabile; ma nel momento in cui stavo per accomiatarmi mi pregò se mai avessi avuto occasione di scriverle di nuovo di indirizzare le mie lettere alla Signora Knox presso la Libreria Whittaker in Green Street. "Vi sono delle ragioni" soggiunse "che Oscar Wilde
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mi vietano di ricevere lettere in casa mia." Mi incontrai molte volte con lei in quel periodo di tempo, ma l'atmosfera di mistero che la circondava non l'abbandonò mai. A volte pensavo fosse in balia di un uomo; ma ella era talmente inaccessibile che alla fine dovetti scartare questa ipotesi. E mi era davvero difficile giungere a una conclusione qualsiasi, poiché ella era simile a uno di quegli strani cristalli che si ammirano nei musei, limpidissimi a tratti, a tratti improvvisamente appannati. Finalmente mi decisi a chiederle di diventare mia moglie: ero stufo e stanco della continua riservatezza che ella imponeva a tutte le mie visite e alle poche lettere che ero riuscito a inviarle. Le scrissi all'indirizzo di Green Street pregandola di ricevermi il lunedì seguente alle sei. Mi rispose affermativamente, e questo mi innalzò al settimo cielo della beatitudine. Ero pazzo di lei, nonostante il suo mistero, o, almeno, così la pensavo allora. Oggi invece capisco che era proprio quel mistero che mi affascinava. Eppure no: amavo la donna per se stessa, ma il suo mistero mi tormentava, mi faceva impazzire. Perché mai la sorte mi mise sulle tracce del suo segreto?» «Ah, riuscisti a scoprirlo, dunque?» esclamai. «Temo di sì» fu la risposta. «Giudica tu stesso. Venne il lunedì, e mi recai a colazione da mio zio. Verso le quattro mi trovai a passare nella Marylebone Road. Come tu sai, mio zio abita a Regent's Park. Volevo andare a Piccadilly e presi una scorciatoia attraverso un groviglio di straducole secondarie. A un tratto vidi dinnanzi a me lady Alroy, fittamente velata, che camminava rapidissimamente. Quando fu giunta all'ultima casa della viuzza salì gli scalini, trasse dalla borsetta una chiave, aprì la porta ed entrò. "Ecco svelato il mistero" esclamai tra me, e corsi a guardare la casa; aveva tutta l'aria di uno stabile di appartamenti ad affitto. Sulla soglia raccattai un fazzoletto che ella aveva lasciato cadere per caso e me lo misi in tasca. Poi cominciai a riflettere su quel che dovevo fare, ma giunsi alla conclusione che non avevo alcun diritto di spiarla, perciò tornai indietro, presi una carrozza e mi feci portare al club. Alle sei, eccomi a casa sua. La trovai distesa su un divano, e vestita di un abito da pomeriggio in tessuto d'argento chiuso da strani fermagli di zirconi ch'ella portava sempre: era bellissima. "Come sono contenta di vederla" mi disse. "Non mi sono mossa da casa tutto il pomeriggio." La fissai trasecolato e senza proferire parola trassi di tasca il suo fazzoletto e glielo mostrai. "Lady Alroy questo fazzoletto le è caduto di Oscar Wilde
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borsetta oggi pomeriggio in Cumnor Street" dissi infine con molta calma. Ella mi guardò terrorizzata, ma non fece alcun tentativo per togliermi il fazzoletto di mano. "Mi dica, che cosa faceva in Cumnor Street?" incalzai. "Che diritto ha lei di farmi queste domande?" mi rispose. "Il diritto di un uomo che l'ama" replicai. "Ero venuto qui oggi per chiederle di essere mia moglie." Per tutta risposta, si nascose il volto tra le mani e scoppiò in un torrente di lagrime. "Deve confessarmi la verità proseguii. Allora si alzò e fissandomi dritto in faccia mi disse: "Lord Murcraison, io non ho nulla da confessare". "Lei si è recata a un appuntamento galante" gridai "è questo il suo mistero." La giovane divenne mortalmente pallida e replicò: "Non mi sono recata a nessun appuntamento". "Non può dunque confessarmi la verità?" esclamai. "L'ho detta." Era pazzo, frenetico: non so quello che dissi: certo dovetti dirle delle cose terribili. Finalmente fuggii da casa sua correndo come un forsennato. Il giorno seguente ella mi scrisse una lettera, gliela rimandai senza aprirla e partii l'indomani per la Norvegia insieme ad Alan Corville. In capo a un mese tornai, e la prima cosa chi lessi sul «Morning Post» fu l'annuncio di morte of lady Alroy. Aveva preso un colpo d'aria all'Opera ed era morta in cinque giorni di congestione polmonare. Mi chiusi in casa e non volli vedere nessuno: l'avevo amata tanto, oh, quanto l'avevo amata! Dio mio! Ero stato pazzo di quella donna!» «Sei più tornato a quella strada, a quella casa?» domandai. «Sì... Un giorno mi recai nella Cumnor Street; non potevo più resistere: ero torturato dal dubbio. Bussai alla porta, e una donna dall'apparenza più che rispettabile mi venne ad aprire. Le chiesi se aveva stanze da affittare. "Ecco, signore," mi rispose "a dire la verità i due salottini sarebbero affittati, ma siccome sono tre mesi che non vedo più la signora, e la pigione non è più stata pagata, penso che potrei benissimo affittarli a lei, se le servono." "È questa la signora?" chiesi mostrandole la fotografia di lady Alroy. "Proprio lei" rispose la donna. "E quando crede che tornerà, signore?" "È morta." "Oh, no signore, non mi dica questo, non è possibile. Era la mia migliore inquilina, mi pagava tre ghinee la settimana unicamente per starsene ogni tanto seduta nei due salottini." "Si incontrava con qualcuno, qui da lei?" chiesi. La donna mi assicurò che no, che veniva sempre lì tutta sola, senza mai vedervi nessuno. "Ma che diamine faceva, qua?" gridai. "Niente, gliel'ho detto, signore: se ne stava seduta in una poltrona, quieta quieta, ogni tanto leggeva qualche libro, e di quando in Oscar Wilde
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quando prendeva il tè." Così mi disse la donna, e io non seppi che cosa replicare: le diedi una sovrana e me ne andai Ora, secondo te, che significato ha tutta questa storia? Non penserai certo che l'affittacamere mi abbia detto la verità!» «Sì, invece.» «Ma allora perché lady Alroy si recava a quei convegni misteriosi?» «Mio caro Gerald, lady Alroy era semplicemente una donna che aveva la mania del mistero. Aveva preso in affitto quelle stanze per il piacere di recarsi a un appuntamento immaginario, velata, e fantasticando di essere un'eroina da romanzo. Aveva la passione del segreti, ma non era ella stessa che una piccola sfinge senza segreti.» «Credi proprio che sia così?» «Ne sono sicuro.» Il mio amico trasse di tasca l'astuccio di marocchino, lo aperse, guardò il ritratto. «E chi può garantirlo?» mormorò alla fine.
IL FANTASMA DI CANTERVILLE ROMANZA SACRA E PROFANA I Quando il signor Hiram B. Otis, ministro degli Stati Uniti, acquistò Canterville Chase, tutti gli dissero che commetteva una grande sciocchezza, poiché non vi era dubbio di sorta che l'intera località non fosse letteralmente infestata dagli spiriti. Lo stesso lord Canterville, persona scrupolosissima in materia di onore, si era sentito in dovere di fargli presente la realtà dei fatti, allorché si venne a discutere le condizioni di vendita. «Neppure noi abbiamo avuto più il coraggio di abitarvi,» spiegò lord Canterville «da quando la mia prozia, la vecchia duchessa di Bolton, si spaventò in modo tale che le prese un attacco di nervi dal quale non si riebbe mai completamente, per colpa di due mani scheletriche che le si posarono sulle spalle mentre si stava vestendo per scendere a pranzo; e mi sento tenuto a precisarle, mister Otis, che il fantasma è stato veduto da diversi membri della mia famiglia tuttora viventi, come pure dal Rettore della parrocchia, il reverendo Augustus Dampier, che è membro del King's College di Cambridge. Dopo il disgraziato incidente toccato alla duchessa, nessuna delle domestiche giovani volle più restare al nostro servizio, e Oscar Wilde
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persino lady Canterville stentava a prender sonno, la notte, a causa dei misteriosi rumori che provenivano dal corridoio e dalla biblioteca.» «Mio egregio lord,» fu la risposta del ministro «sono disposto a comprare in un solo blocco suppellettili e fantasma. Io sono nato in un paese moderno dove col danaro si può acquistare tutto, e con i nostri intraprendenti giovanotti che dipingono il vostro vecchio mondo di rosso, e vi soffiano via le vostre migliori attrici e le vostre primedonne, sono certo che se in Europa esistesse davvero uno spettro, ce lo saremmo portato a casa nostra già da un pezzo e lo avremmo collocato in bella mostra in qualche museo o su qualche baraccone da fiera.» «Io ho il convincimento che il fantasma esista realmente,» replicò lord Canterville sorridendo «per quanto può darsi che abbia resistito alle offerte dei vostri dinamici impresari. È noto da tre secoli, anzi dal 1584, per essere esatti, e non manca mai di fare la sua comparsa prima della morte di un membro della nostra famiglia.» «Be', in quanto a questo non è da meno del medico di casa, lord Canterville. Ma io le dico che roba simile, come spettri e fantasmi, non esiste, e non credo che le leggi della natura subiscano speciali alterazioni peri riguardo all'aristocrazia britannica.» «Certo in America siete tutti estremamente pratici» rispose lord Canterville che non aveva pienamente afferrato il senso dell'ultima frase detta dal signor Otis, «e se non le importa di avere uno spettro in casa, per me fa lo stesso. Però la prego di tener presente che io l'ho avvertita.» Poche settimane dopo questo colloquio la compravendita del castello fu perfezionata, e al termine della stagione il ministro e la sua famiglia andarono a stabilirsi a Canterville Chase. La signora Otis, quando era la signorina Lucrezia R. Tappan, della 53esima Strada Ovest, era stata una famosa bellezza nuovayorkese, ed era ora un'avvenente donna di mezza età, con due occhi magnifici e un profilo superbo. Molte signore americane, non appena abbandonano il loro paese natale, adottano un'apparenza di semi-infermità cronica, forse ritenendo che ciò sia una forma di raffinatezza europea; ma la signora Otis non era mai caduta in questo errore. Godeva di una salute di ferro e possedeva una vera miniera di meravigliosi istinti animali. A dire il vero, sotto molti punti di vista poteva essere scambiata per una inglese autentica, costituiva un fulgido esempio del fatto che noi in realtà abbiamo tutto in comune con gli americani, fuorché naturalmente il linguaggio. Il suo figlio maggiore, Oscar Wilde
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battezzato Washington dai genitori in un momento di patriottismo di cui egli non cessò mai di rammaricarsi, era un ragazzo biondo, mica male fisicamente, che si era fatto strada nella diplomazia americana ballando i valzer tedeschi per tre stagioni consecutive al Casinò di Newport, e anche a Londra era ben noto come ottimo ballerino. Le sole sue debolezze erano le gardenie e i titoli nobiliari. Per il resto, era un ragazzo di grande buonsenso. Miss Virginia E. Otis era una ragazzina di quindici anni, graziosa e fragile come una cerbiatta, con una bella espressione di sicurezza e di indipendenza nei grandi occhi azzurri. Era un'amazzone meravigliosa, e aveva corso due volte in gara con lord Bolton attorno al parco, superandolo di una lunghezza e mezza, proprio di fronte alla statua di Achille, a suscitando un entusiasmo indescrivibile nel giovine duca di Cheshire, che le si era dichiarato seduta stante ed era stato rimandato a Eton quella sera stessa dai suoi tutori, in un torrente di lagrime. Dopo Virginia venivano i gemelli, soprannominati di solito «Stelle e Strisce» per la rapidità vertiginosa dei loro movimenti. Erano due ragazzi simpaticissimi e, con la sola eccezione del degno ministro, i soli veri repubblicani della famiglia. Poiché Canterville Chase dista sette miglia da Ascot, che è la stazione ferroviaria più vicina, il signor Otis aveva telegrafato perché venissero a prenderli con una giardiniera, e tutta la famiglia si accomodò di ottimo umore sui sedili, per la breve scarrozzata. Era una sera di giugno deliziosa e l'aria era fragrante del profumo acuto dei pini. Di quando in quando si udiva il dolce tubante richiamo del colombo selvatico o si intravvedeva, affondato tra le felci fruscianti, il petto dorato di un fagiano. Gli scoiattoli occhieggiavano incuriositi al loro passaggio dall'alto dei faggi, e i conigli scutrettolavano via per il sottobosco e su per i poggi erbosi, le candide code all'aria. Ma non appena gli Otis ebbero imboccato il viale di Canterville Chase il cielo si coprì improvvisamente di nuvole fosche, una strana immobilità parve imprigionare l'aria, un gran volo di corvi passò silenzioso sul loro capo e prima che raggiungessero la dimora grosse gocce di pioggia incominciarono a cadere. A riceverli sulla soglia del castello trovarono una vecchia donna vestita lindamente di seta nera, con una cuffia e un grembiule bianco. Era la signora Umney, la governante che il signor Otis aveva acconsentito a tenere al proprio servizio per espressa richiesta di lady Canterville. La signora Umney fece a ciascuno un profondo inchino mentre scendevano di Oscar Wilde
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vettura e gli disse con un garbo compito e antiquato: «Vi auguro il benvenuto a Canterville Chase». Seguendo i suoi passi, i membri della famiglia Otis passarono dal bel vestibolo in stile Tudor nella biblioteca che era una sala lunga e bassa rivestita di quercia nera, all'estremità della quale si trovava una grande finestra istoriata. Il tè era già apparecchiato su un tavolino e quelli, dopo essersi tolti gli spolverini da viaggio, presero a guardarsi intorno, mentre la signora Umney si occupava di loro. A un tratto la signora Otis notò una macchia di colore rosso opaco che imbrattava il pavimento proprio vicino al caminetto e, senza rendersi minimamente conto di quel che in realtà significasse, l'additò alla signora Umney soggiungendo: «Credo che laggiù sia stato versato qualcosa». «Infatti, signora,» rispose la vecchia governante sottovoce «è stato versato del sangue, in quel punto.» «Che orrore!» gridò la signora Otis. «Non mi piace affatto che ci siano macchie di sangue in un salotto: bisogna farla togliere immediatamente.» La vecchia sorrise e disse con lo stesso tono di voce basso e misterioso: «È il sangue di Lady Eleonore de Canterville, che fu assassinata in quel punto preciso dal proprio marito, sir Simon de Canterville, nel 1575. Sir Simon le sopravvisse di nove anni e poi scomparve subitamente in circostanze assai misteriose. Il suo corpo non è mai stato rinvenuto, ma il suo spirito peccatore vaga tuttora per il castello. La macchia di sangue è stata sempre molto ammirata da turisti e visitatori, e non è possibile toglierla». «Quante storie» gridò Washington Otis. «Il Super-Smacchiatore e Detersivo Incomparabile Pinkerton la farà sparire in due secondi» e prima che la governante, terrorizzata, avesse il tempo di aprir bocca, il giovanotto era già per terra e stava fregando energicamente il pavimento con un bastoncino che pareva una specie di cosmetico nero. Effettivamente, pochi istanti dopo, ogni traccia di sangue era scomparsa. «Ero sicuro che il Pinkerton avrebbe dato un risultato immediato» esclamò il giovane trionfante, lanciando occhiate di soddisfazione ai congiunti che lo guardavano ammirati; ma aveva appena proferite queste parole che un tremendo guizzo di folgore luccicò nella sala buia e un pauroso scoppio di tuono li fece balzare in piedi; la signora Umney svenne. «Che clima spaventoso» osservò calmo il ministro, accendendosi un lungo sigaro. «Credo dipenda dall'eccesso di popolazione che affligge il Oscar Wilde
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vecchio continente e non permette una distribuzione uniforme per tutti i fenomeni atmosferici. Io sono sempre stato del parere che soltanto l'emigrazione può rimettere in sesto l'Inghilterra.» «Mio caro Hiram,» esclamò la signora Otis «che cosa ce ne facciamo di una donna che sviene alla minima sciocchezza?» «Trattieniglielo sullo stipendio come faresti per qualche rottura,» le rispose il ministro «vedrai che non svenirà più, d'ora in poi.» E infatti di lì a pochi istanti la signora Umney si riebbe di colpo. Ma la povera donna era indubbiamente fuori di sé, e con rotte parole supplicò il signor Otis di stare in guardia, che qualche guaio grosso si preparava a colpire il castello. «Ho veduto cose terribili con questi miei poveri occhi, signore; cose che farebbero rizzare i capelli in testa a ogni buon cristiano. E quante notti insonni ho passato per i fenomeni spaventosi che si verificano in questa casa!» Ma sia il signor Otis che sua moglie rassicurarono la brava donna che essi non avevano nessunissima paura degli spettri, cosicché dopo avere invocato le benedizioni della Provvidenza sui suoi nuovi padroni ed essersi messa d'accordo con loro per un aumento di salario, la vecchia governante si ritirò a passi barcollanti nella propria camera.
II Il temporale imperversò furioso tutta la notte, ma non accadde nulla di notevole. La mattina seguente, tuttavia, quando scesero per la prima colazione, trovarono che la spaventosa macchia di sangue era ricomparsa sul pavimento. «Non credo possa essere colpa del Super-Detersivo,» osservò Washington «perché l'ho provato con tutto e mi ha sempre dato risultati perfetti. Dev'essere stato il fantasma.» Di conseguenza fregò via la macchia una seconda volta, ma ecco che la seconda mattina essa era comparsa di nuovo. E ci fu anche la terza mattina, benché la biblioteca fosse stata chiusa a chiave la notte dal signor Otis in persona, il quale aveva poi portato via la chiave con sé. Tutta la famiglia cominciava ormai a interessarsi seriamente alla faccenda: al signor Otis venne il sospetto di essere stato forse un po' troppo dogmatico nel negare l'esistenza di fantasmi, la signora Otis espresse l'intenzione di farsi socia dell'Associazione Psichica, e Washington stilò una lunga lettera per i signori Myers & Podmore sulla permanenza delle macchie sanguigne allorché queste siano connesse con qualche delitto. Quella notte ogni Oscar Wilde
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dubbio intorno all'effettiva esistenza dei fantasmi fu dissipato per sempre. Il giorno era stato caldo e soleggiato e quando, verso sera, l'aria rinfrescò, la famiglia Otis uscì in massa per una scarrozzata. Non rincasarono che alle nove, e consumarono un pasto leggero. Durante la conversazione non fu fatto il benché minimo accenno a spettri e fantasmi, di modo che mancavano anche quelle condizioni primarie di attesa ricettiva che spesso precedono il verificarsi di fenomeni psichici. Come mi narrò in seguito il signor Otis, il discorso cadde su quegli argomenti che formano di solito il nocciolo della conversazione tra gli americani colti delle classi superiori, come ad esempio l'enorme superiorità, quale attrice, della signorina Fanny Davenport al confronto di Sarah Bernhardt; la difficoltà di trovare granturco acerbo, focacce di sorgo e pannocchie bollite nel latte anche nelle migliori case inglesi; l'importanza di Boston sullo sviluppo dell'anima universale; i vantaggi del bagaglio assicurato nei viaggi per ferrovia, e la dolcezza dell'accento di New York in paragone alla pronuncia strascicata dei londinesi. Non si parlò neppur lontanamente di cose soprannaturali e tanto meno fu fatta alcuna allusione a sir Simon de Canterville. Alle undici la famiglia si ritirò e alle undici e mezzo tutte le luci erano già spente. Poco tempo dopo il signor Otis venne però risvegliato da un curioso rumore che proveniva dal corridoio, proprio davanti all'uscio di camera sua. Risuonava come uno stridor di metallo che pareva farsi sempre più vicino a ogni istante. Il ministro si alzò senza indugi, accese un fiammifero e guardò l'orologio. Era l'una esatta. Si sentiva calmissimo, e si tastò il polso per accertarsi di non essere febbricitante. Lo strano rumore continuava, accompagnato ora da un distinto strascicare di passi. Il ministro s'infilò le pantofole, tolse dal cassetto del tavolino da notte una minuscola fiala di forma oblunga, e aprì la porta. Diritti dinnanzi a sé vide ergersi, nell'esangue luce lunare, un uomo dall'aspetto spaventoso. Aveva gli occhi rossi come due carboni ardenti: lunghi capelli grigi gli ricadevano per le spalle in ciocche incolte, e le vesti, di foggia antica, erano tutte lacere e imbrattate; dai polsi e dalle caviglie, infine, gli pendevano pesanti manette e rugginosi ceppi. «Egregio signore,» incominciò il signor Otis «sono costretto a pregarla di oliare un po' come si deve quelle sue catene, e le ho portato a questo scopo una bottiglietta di Lubrificante Solare Tammany. Me lo hanno garantito efficacissimo sin dalla prima applicazione, e potrà leggere parecchie testimonianze ad hoc, riportate sul foglietto di propaganda, da Oscar Wilde
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parte di alcuni tra i nostri più eminenti teologi. Glielo lascio qui per suo uso accanto alle candele della camera da letto, e sarò felicissimo di fornirglierne dell'altro, qualora ne avesse bisogno.» Con queste parole il ministro degli Stati Uniti posò la bottiglietta su un tavolo di marmo, chiuse la porta e si ritirò a riposare. Per un attimo il fantasma di Canterville rimase letteralmente paralizzato dallo sdegno; quindi, dopo aver gettato con violenza la fiala sul lucido pavimento, svolazzò per il corridoio gemendo cupamente ed emanando una verde luce spettrale. Ma proprio nel momento in cui giungeva al sommo della grande scalinata di quercia, ecco che un uscio si spalancò lasciando intravvedere sulla soglia due figurette biancovestite, e un grosso guanciale passò sibilando a un pelo dalla sua testa. Non c'era evidentemente tempo da perdere; perciò adottando in tutta fretta la quarta dimensione come unica via di scampo, lo spettro svanì attraverso il rivestimento di legno della parete, restituendo alla casa quiete e silenzio. Come ebbe raggiunta una piccola stanza segreta, nell'ala sinistra del castello, si appoggiò a un raggio di luna onde riprender fiato e incominciò a riflettere sulla propria situazione. Mai, mai, nella sua brillante e ininterrotta carriera tricentenaria, egli era stato così grossolanamente insultato. Ripensò alla vecchia duchessa da lui spaventata al punto di farla cadere in un E attacco isterico, mentre si ammirava davanti allo specchio nei suoi pizzi e nei suoi diamanti: pensò alle quattro cameriere che egli aveva fatto uscire di senno, semplicemente sghignazzando alle loro spalle da dietro alle tendine del guardaroba; ripensò al Rettore della parrocchia al quale aveva spento la candela una notte che usciva tardi dalla biblioteca, e che da quella volta aveva dovuto essere affidato alle cure di sir William Gull, divenuto com'era un misero essere, sempre I in preda a turbe nervose gravissime. E che dire della vecchia signora de Trémouillac la quale essendosi svegliata presto un mattino e avendo veduto uno scheletro seduto in poltrona accanto al caminetto, intento a leggere il suo diario, era stata costretta a letto per ben sei settimane da un attacco di febbre cerebrale, e non appena ristabilita si era riconciliata con la Chiesa e aveva rotto ogni rapporto con quel noto scettico che era il signor de Voltaire. Ripensò alla notte da tregenda in cui il malvagio lord Canterville fu trovato rantolante nel proprio spogliatoio, con il fante di quadri mezzo infilato nella gola, e confessò sul punto di morire di aver sottratto a Charles James Fox 50.000 sterline al Casinò di Crockford, precisamente grazie a quella Oscar Wilde
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carta, e giurò che era stato il fantasma a fargliela ingoiare. Tutte le sue grandi imprese gli tornarono alla mente, dal maggiordomo che si era ucciso nella dispensa con un colpo di pistola per aver veduto una mano verde battere contro i vetri della finestra, alla bellissima lady Stutfield, costretta a portare sempre annodato al collo un nastro di velluto nero per nascondervi l'impronta che cinque dita di fuoco le avevano lasciato sulla pelle candida, e che alla fine si era annegata nello stagno delle carpe, in fondo al Viale del Re. Con l'egotismo entusiastico dell'artista nato, riandò col pensiero alle sue trasformazioni più famose e sorrise amaramente tra sé, rammentando la sua ultima apparizione sotto le spoglie di «Ruben il Rosso», ovvero «L'Infante Strangolato», il suo début(esordio) nella personificazione di «Gibeone l'allampanato», e il furore che aveva suscitato in una languida sera di giugno limitandosi a giocare a birilli con le proprie ossa sul terreno del campo di tennis. Ebbene, dopo tutte queste gesta, dovevano venire quattro miserabili americani moderni a offrirgli del Lubrificante Solare e a buttargli dei cuscini in testa! Era una situazione assolutamente insopportabile. D'altronde nessun fantasma mai, nel corso della storia, era stato trattato a quel modo. Decise pertanto di vendicarsi adeguatamente, e rimase immerso sino allo spuntare del giorno in un atteggiamento di profonda meditazione.
III Allorché i componenti la famiglia Otis si riunirono il mattino successivo intorno al tavolo della prima colazione, la questione del fantasma venne discussa particolareggiatamente. Com'era naturale, il ministro degli Stati Uniti era piuttosto seccato che il suo dono fosse stato accolto con tanto malgarbo. «Io non ho l'intenzione,» disse «di recargli alcuna offesa personale, e se si considera il lunghissimo periodo di tempo da cui egli è ospite di questa casa trovo che non sia affatto educato accoglierlo con scariche di cuscini.» Osservazione molto giusta e saggia, alla quale, mi dispiace di doverlo ammettere, i gemelli scoppiarono in omeriche risate. «D'altro canto,» proseguì il ministro «se lui si ostina a non adoperare il mio Lubrificante Solare ci vedremo costretti a togliergli le catene, perché sarebbe impossibile dormire, altrimenti, con quel chiasso tremendo proprio a due passi dalle stanze da letto.» Ma il resto della settimana trascorse senza che essi venissero più Oscar Wilde
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disturbati: l'unico fenomeno che seguitava ad attrarre la loro attenzione era il continuo rinnovarsi della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Questo era certamente un fatto inesplicabile, dato che la porta della biblioteca veniva chiusa a chiave ogni sera dal signor Otis in persona e le finestre ermeticamente sbarrate dall'interno. Lo stesso colore, per così dire, camaleontico, della macchia, era di per sé sconcertante e dava adito a un mucchio di commenti. Alcune mattine era di un rosso cupo (quasi indiano), altre volte diventava vermiglia, poi trascolorava in fosca porpora, e un giorno che si erano riuniti in biblioteca per la preghiera in comune, secondo il semplice rito della Libera Chiesa Episcopale Americana Riformata, la trovarono trasformata in un bel verde smeraldo. Questi mutamenti caleidoscopici, com'era logico, divertivano moltissimo tutti quanti, e ogni sera davano luogo a scommesse. L'unica persona che non prendesse parte a quegli spassi era la piccola Virginia, che, chissà per quale inesplicabile motivo, appariva sempre molto preoccupata alla vista della macchia di sangue, e il mattino che la trovò color verde smeraldo quasi quasi si mise a piangere. Il fantasma fece la seconda comparsa nella notte della domenica. Erano da poco andati a letto che intesero un fracasso pauroso nel vestibolo. Si precipitarono tutti abbasso e constatarono che una enorme, antichissima armatura, si era staccata dal suo supporto ed era caduta sul pavimento di pietra, mentre il fantasma di Canterville, seduto su una poltrona dall'alto schienale, si stava soffregando le ginocchia con un'espressione di acuta sofferenza dipinta sul volto. I gemelli, che erano venuti armati dei loro scacciacani, si affrettarono a sparargli addosso due scariche di pallottoline, con quella precisione di mira che si può ottenere soltanto dopo lunghe e attente esercitazioni sul proprio maestro di calligrafia, mentre il ministro degli Stati Uniti gli puntò addosso il revolver e, seguendo le regole dell'etichetta californese, gli ingiunse di alzare le mani. Il fantasma balzò in piedi con un urlo inumano di rabbia e guizzò tra loro, dileguò come una nebbia, spegnendo al suo passaggio la candela che Washington Otis teneva in mano e lasciandoli così immersi in un'oscurità completa. Ma arrivato che fu in cima alle scale si riprese e decise di prorompere nel suo celebre scroscio di risa demoniache. Queste gli erano state in più di un'occasione estremamente utili. Si dice che avessero fatto diventar grigia, in una sola notte, la parrucca di lord Raker, e comunque era un fatto che per causa loro ben tre governanti francesi di lady Canterville si erano licenziate prima Oscar Wilde
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della fine del mese di prova. Pertanto egli rise il suo terribile riso, finché l'antica volta ne risonò ripetutamente in ogni recesso; ma la sua eco paurosa si era appena spenta che un uscio si aperse e la signora Otis vi si affacciò avvolta in una veste da camera azzurro chiaro dicendo: «Ho proprio paura che lei non stia affatto bene. Perciò le ho portato una bottiglia di Tintura del Dottor Dobell. Se si tratta di indigestione lo troverà un rimedio veramente ottimo». Il fantasma le lanciò un'occhiata satanica di indignazione e incominciò subito a fare i preparativi necessari per potersi trasformare in un enorme cane nero, una bravura per la quale era giustamente rinomato e alla quale il medico di famiglia aveva sempre attribuito l'idiozia congenita dello zio di lord Canterville, l'onorevole Thomas Horton. Ma un rumore di passi che si avvicinavano lo fece recedere dal suo bieco proposito, e si accontentò pertanto di diventare appena appena fosforescente, dileguandosi con un profondo e funereo gemito proprio nel momento in cui i gemelli stavano per piombargli addosso. Ma come fu nella sua stanza le forze lo abbandonarono ed egli cadde in preda a una violenta agitazione. La volgarità dei gemelli e il rozzo materialismo della signora Otis erano, si capisce, molto spiacevoli, ma ciò che lo rendeva addirittura disperato era l'aver dovuto constatare di non essere stato capace d'indossare la cotta di maglia. Aveva sperato che persino degli americani moderni si sarebbero emozionati a vedere uno spettro in armatura, se non per altro motivo, almeno per rispetto del loro poeta nazionale Longfellow, sulle cui poesie così piene di grazia e di fascino egli stesso si era intenerito nelle lunghe ore d'ozio, mentre i Canterville erano in città. Era la sua armatura, per giunta: l'aveva indossata al torneo di Kenilworth, e ne era stato molto complimentato niente di meno che dalla Regina Vergine in persona. Tuttavia, non appena aveva tentato di mettersela, poc'anzi, il peso dell'enorme corazza e dell'elmo d'acciaio lo avevano completamente sopraffatto, ed egli era caduto pesantemente sul pavimento di pietra sbucciandosi le ginocchia e ammaccandosi seriamente le nocche della mano destra. Dopo questa disavventura si ammalò gravemente per diversi giorni e non abbandonò la propria stanza se non per tenere in efficienza la macchia di sangue. Alla fine però, a forza di curarsi, si ristabilì in salute e decise di compiere un terzo tentativo per spaventare il ministro degli Stati Uniti e la sua famiglia. Scelse il 17 di agosto, che cadeva di venerdì, per fare la sua Oscar Wilde
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comparsa, e passò quasi l'intera giornata a rivedere il proprio guardaroba: la sua scelta cadde finalmente su un grande cappello con la tesa all'ingiù ornato di una piuma rossa, di un sudario sfrangiato ai polsi e al collo, e di una daga arrugginita. Verso sera scoppiò un violento temporale accompagnato da pioggia, e il vento era così furibondo che tutte le porte e le finestre del vecchio castello ne tremavano con gemiti e scricchiolii paurosi. Era un tempo infernale, proprio come piaceva a lui. Il suo piano d'azione era il seguente: sarebbe entrato piano piano nella camera di Washington Otis, gli avrebbe borbottato parole sconnesse dai piedi del letto, poi si sarebbe pugnalato per tre volte alla gola al suono di una musica in sordina. Nutriva contro Washington un rancore particolare, sapendo perfettamente che era lui a togliere ogni giorno la famosa macchia di sangue dei Canterville, grazie a quel suo maledetto Detersivo Incomparabile Pinkerton. Dopo avere ridotto in uno stato di terrore indicibile quel giovane incosciente e scapestrato, sarebbe passato nella stanza occupata dal ministro degli Stati Uniti e da sua moglie, dove avrebbe posato sulla fronte della signora Otis una mano umidiccia, mentre avrebbe sibilato nelle orecchie del suo tremebondo marito gli orrendi segreti della cappella mortuaria. In quanto alla piccola Virginia non aveva ancora deciso sul da farsi. In fondo ella non lo aveva mai né offeso né insultato, ed era graziosa e gentile. Pochi gemiti cavernosi dal guardaroba, pensò, sarebbero stati più che sufficienti, oppure, se non fosse riuscito a svegliarla, le avrebbe grattato la trapunta del letto con dita tremanti di paralisi. Ai gemelli, invece, era ben deciso a impartire una lezione coi fiocchi. Per prima cosa, naturalmente, si sarebbe seduto sui loro stomachi, in modo da provocare la sensazione soffocante dell'incubo. Poi, dato che avevano i letti vicini, si sarebbe messo in mezzo assumendo l'aspetto di un cadavere verde e freddo come il ghiaccio, finché quelli si fossero sentiti immobilizzati dal terrore, e infine avrebbe gettato il sudario e si sarebbe messo a strisciare per la stanza con ossa calcinate e un'unica pupilla roteante, nella personificazione di «Daniele il Muto», ovvero «Lo Scheletro del Suicida», ròle (parte) nel quale più di una volta era stato di effetto strepitoso e che egli considerava in tutto e per tutto eguale alla sua celebre creazione di «Martino il Maniaco», ovvero il «Mistero Mascherato». Alle dieci e mezzo intese la famiglia che andava a coricarsi. Fu disturbato per un certo tempo da urla e sghignazzate selvagge — i gemelli, Oscar Wilde
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naturalmente, i quali si stavano senza dubbio divertendo prima di mettersi a dormire — ma alle undici e un quarto tutta la casa era immersa nel silenzio, e come scoccò la mezzanotte egli uscì dal suo rifugio. Il gufo picchiava il suo becco adunco contro le invetriate, il corvo gracchiava appollaiato in cima al tasso antico, il vento er-rava gemendo attorno al castello come un'anima in pena, ma la famiglia Otis dormiva, inconsapevole della propria sorte, e alto sopra i rumori della pioggia e della tempesta il fantasma potè distinguere il sonoro russare del ministro degli Stati Uniti. Emerse cautamente dal pannello di legno che rivestiva la parete, con un sorriso malvagio sulla bocca avvizzita e crudele, e la luna si nascose la faccia dietro a una nuvola mentre egli passava davanti al finestrone a sporto dove le sue insegne e quelle della sua moglie assassinata splendevano in campo azzurro e oro. Avanti, avanti; egli procedette, scivolando silenzioso come un'ombra malefica, e la tenebra stessa parve inorridire al suo passaggio. A un certo momento gli sembrò di udire un appello lontano, e si fermò, ma non era che l'abbaiar di un cane della Cascina Rossa, ed egli riprese ad avanzare, borbottando strane maledizioni del sedicesimo secolo e brandendo di quando in quando la daga rugginosa nell'aria notturna. Giunse infine all'angolo del corridoio che conduceva nella camera dello sfortunato Washington. Sostò allora per un istante: il vento gli faceva svolazzare intorno al capo le lunghe ciocche grigie e scompigliava in pieghe fantastiche, grottesche, l'orrore senza nome del suo sudario. Quindi la pendola suonò il quarto ed egli comprese che l'ora era venuta. Ridacchiò tra sé, lugubremente, e svoltò l'angolo; ma subito cadde all'indietro con un gemito lamentoso di spavento e si nascose la faccia sbiancata tra le mani lunghe e ossute. Proprio davanti a lui si ergeva uno spettro mostruoso, immobile come un'immagine scolpita e allucinante come il sogno di un pazzo. Aveva il cranio calvo e lucido, la faccia rotonda, grassa e bianca, e un riso osceno pareva gli avesse distorto i lineamenti in un ghigno perpetuo. Dagli occhi uscivano bagliori di luce scarlatta, la bocca era un vasto gorgo di fuoco, e un lenzuolo ributtante, simile al suo, ammantava delle sue nevi silenti le forme titaniche. Sul petto recava una scritta vergata in caratteri antichi, un cartiglio d'infamia, pareva, chi sa quale testimonianza di peccati orrendi, quale spaventoso calendario di delitti, e alto nella mano destra impugnava un falciuolo d'acciaio scintillante. Non avendo mai veduto uno spettro in vita sua, era troppo logico che il Oscar Wilde
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povero fantasma ne fosse terribilmente spaventato, e dopo un'altra fuggevole occhiata alla paurosa apparizione egli fuggì precipitosamente nella propria stanza, inciampando nel sudario mentre correva lungo il corridoio, e alla fine lasciò cadere la spada negli stivaloni da caccia del ministro, dove fu trovata dal maggiordomo l'indomani mattina. Una volta al sicuro nel segreto del proprio appartamento, si lasciò cadere sul letto, un modesto pagliericcio, e nascose la faccia sotto le coperte. Ma dopo qualche tempo l'antico spirito dei Canterville ebbe infine il sopravvento in lui, ed egli decise che sarebbe andato a parlamentare con l'altro fantasma non appena fosse spuntata l'alba. Perciò, proprio mentre l'aurora stava tingendo d'argento le cime dei colli, ritornò nel punto in cui i suoi occhi si erano posati per la prima volta sulla truce apparizione, poiché aveva riflettuto che, dopo tutto, due fantasmi valgono meglio di uno solo e che forse, con l'aiuto del suo nuovo amico, avrebbe potuto agire con maggiore efficacia contro i gemelli. Ma come fu giunto all'angolo del corridoio uno spettacolo terribile si offerse alla sua vista. Qualcosa doveva certamente essere accaduto allo spettro, poiché la luce era totalmente scomparsa dalle sue occhiaie vuote, il falciuolo luccicante gli era caduto di mano, ed esso se ne stava poggiato contro il muro in un atteggiamento molto scomodo e innaturale. Il fantasma diede un balzo e lo afferrò tra le braccia; ma, con suo grande orrore, la testa si staccò dal busto e scivolò a terra, il corpo assunse una posizione recline, ed egli si trovò a stringere una tenda da letto in cotonina bianca, con una scopa, un coltellaccio da cucina, e una zucca vuota ai piedi. Incapace di comprendere questa strana trasformazione s'impadronì con ansia febbrile della scritta misteriosa ed ecco che nel grigio chiarore del mattino potè leggere queste parole inquietanti: SPETTRO DEGLI OTIS Unico Fantasma Autentico e Originale Guardarsi dalle Imitazioni Tutti gli Altri sono Contraffatti Una gran luce si fece in lui. Dunque era stato giocato, battuto, messo alla berlina! Il vecchio sguardo dei Canterville gli balenò negli occhi: fece scricchiolare l'una contro l'altra le gengive sdentate e levando alte sopra il capo le mani vizze giurò, secondo la pittoresca fraseologia della scuola antica, che allorquando Cantachiaro avesse fatto echeggiare due volte il suo allegro squillo, imprese di sangue sarebbero state ordite e l'Omicidio si sarebbe aggirato per la contrada con passi felpati. Oscar Wilde
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Aveva appena terminato di proferire questo terribile giuramento, che dal tetto ricoperto di tegole rosse di un cascinale lontano un gallo cantò. Il fantasma rise un lungo, sommesso, amaro riso, e attese. Attese per lunghe ore, ma il volatile, chi sa per quale motivo, non cantò la seconda volta. Infine, alle sette e mezzo, il sopraggiungere delle cameriere lo costrinse ad abbandonare la sua veglia minacciosa, ed egli ritornò incespicando di stanchezza nella propria camera, rimuginando sulle sue vane speranze e sui suoi propositi così miseramente frustrati. Prese poi a consultare vari libri di cavalleria antica, della quale era appassionatissimo, e scoprì che in ogni occasione in cui quel giuramento era stato pronunciato, Cantachiaro aveva cantato sempre una seconda volta. «Che il malanno colga quel dannato volatile!» borbottò. «È tramontato il giorno in cui con la mia fiera lancia gli avrei trapassata la gola e lo avrei fatto cantare per me nell'angoscia della morte!» Quindi si ritirò entro un comodo sarcofago di piombo dove rimase a riposare fino a sera tarda.
IV Il giorno seguente il fantasma si sentì molto debole e stanco. La tremenda eccitazione di quelle ultime quattro settimane incominciava a produrre i suoi effetti. Aveva i nervi terribilmente scossi e trasaliva al minimo rumore. Si barricò in camera sua per cinque giorni consecutivi e alla fine decise di rinunciare al puntiglio della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Dopo tutto, se la famiglia Otis non ne voleva sapere, era segno che non se la meritava. Si trattava chiaramente di individui appartenenti a un piano di esistenza basso e materialistico, del tutto incapaci di apprezzare il valore simbolico dei fenomeni sensibili. La questione delle apparizioni spettrali e lo sviluppo dei corpi astrali era, si capisce, una faccenda completamente diversa che sfuggiva al suo controllo. Era suo preciso dovere apparire nel corridoio una volta La settimana e borbottare parole sconnesse presso il grande finestrone a sporto il primo e il terzo mercoledì di ogni mese, e non vedeva come avrebbe potuto onorevolmente sottrarsi a questi obblighi. Era verissimo che la sua era stata una vita malvagia, ma in tutte le cose attinenti al soprannaturale era di una coscienziosità estrema. Pertanto nei tre sabati successivi seguitò ad attraversare come il solito il corridoio tra la mezzanotte e le tre del mattino, prendendo tutte le precauzioni per non Oscar Wilde
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essere né veduto né udito. Si tolse gli stivali, cercò di camminare il più lievemente possibile sulle vecchie tavole del pavimento rose dai tarli, si avvolse in un ampio mantello di velluto nero e fece uso del Lubrificante Solare per oliare le sue catene. Devo ammettere che il povero fantasma si rassegnò ad adottare quest'ultimo mezzo di protezione soltanto dopo lunghe esitazioni. Ma una notte, mentre la famiglia dormiva, entrò di soppiatto nella camera del signor Otis e ne asportò la bottiglia. A tutta prima si sentì un poco umiliato, ma aveva in definitiva sufficiente buonsenso per riconoscere che si trattava di un ritrovato tutt'altro che disprezzabile e che in un certo qual modo serviva al suo scopo. Ma nonostante tutti questi riguardi, non era certo lasciato in pace. Incappava sempre in corde tese da una parte all'altra del corridoio, nelle quali inciampava al buio, e una volta che si era vestito nel costume di «Isacco il Nero», ovvero «Il Cacciatore della Foresta di Hogley», cadde malamente per essere scivolato su un piano inclinato tutto cosparso di burro che i gemelli avevano avuto cura di costruire dall'ingresso della sala delle Tappezzerie fino alla sommità della scalinata di quercia. Quest'ultimo insulto lo mise in un furore tale che egli risolse di compiere un ultimo sforzo per tentare di affermare la propria dignità e la propria posizione sociale, e decise di far visita a quei due sfacciati studentelli di Eton, la notte seguente, nel suo celebre personaggio di «Rupert il Temerario», ovvero «Il Conte Decapitato». Erano più di settant'anni che non faceva la sua apparizione in quel travestimento, da quando, precisamente, aveva talmente spaventato la graziosa lady Barbara Modish che questa aveva bruscamente rotto il proprio fidanzamento con il nonno dell'attuale lord Canterville, ed era scappata a Gretna Green con il bellissimo Jack Castleton, dichiarando che per nulla al mondo si sarebbe rassegnata a sposarsi in una famiglia che permetteva a un fantasma tanto mostruoso di passeggiare su e giù per la terrazza all'ora del crepuscolo. Il povero Jack era stato in seguito ucciso in duello da lord Canterville a Wandsworth Common, e lady Barbara era morta di crepacuore a Tunbridge Wells prima della fine di quell'anno, cosicché, tutto sommato, il suo era stato un successo enorme. Si trattava però di un «trucco» estremamente difficile, se è lecito adoperare un'espressione del gergo teatrale a proposito di uno dei più grandi misteri del soprannaturale, o per usare un termine più scientifico, dell'universo extranaturale, e gli ci vollero tre ore buone per i preparativi. Ma alla fine Oscar Wilde
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ogni cosa fu pronta ed egli si sentì molto soddisfatto del suo aspetto. I grossi stivali di cuoio intonati al vestito erano un tantino troppo grandi per lui, e delle due pistole da sella che gli sarebbero servite ne potè trovare una sola; ma nel complesso era contento, perciò all'una e un quarto scivolò silenziosamente fuori del rivestimento di legno della parete e si avviò strisciando lungo il corridoio. Arrivato alla stanza occupata dai gemelli — che, sia detto tra parentesi, si chiamava la camera da letto azzurra a causa del colore dei suoi cortinaggi — trovò l'uscio socchiuso. Desiderando di fare un ingresso teatrale, la spalancò del tutto con un gran colpo, ma nello stesso momento un'enorme brocca d'acqua gli cadde addosso, bagnandolo fino alle midolla, e soltanto per qualche centimetro la sua spalla sinistra non fu colpita in pieno. Contemporaneamente s'intesero dal gran letto a due piazze risatine insolenti e squittii di allegrezza a stento soffocati tra le coperte. La scossa portata al suo sistema nervoso fu talmente forte che il poveretto volò alla propria camera più svelto che potè, e il giorno dopo dovette starsene a letto con un raffreddore tremendo. La sola cosa che lo consolava un poco in quella triste faccenda, era il fatto che per fortuna non si era portato la testa con sé, che in caso contrario le conseguenze sarebbero state molto più gravi. Da quella notte rinunciò a ogni ulteriore tentativo di incutere spavento a quella volgare famiglia americana, e si accontentò, di regola, di strisciare nei corridoi calzato di pianelle dalla suola di feltro, con una grossa sciarpa di lana rossa intorno al collo per timore delle correnti d'aria e un minuscolo archibugio, in caso di attacco da parte dei gemelli. Ma l'ultimo colpo ch'egli doveva essere costretto a subire gli capitò il 19 di settembre. Era sceso nel grande vestibolo centrale, sicuro che lì almeno nessuno lo avrebbe molestato, e si stava divertendo a fare commenti satirici «in pectore» sulle grandi fotografie del ministro degli Stati Uniti e di sua moglie che avevano adesso preso il posto dei ritratti della famiglia Canterville. Era avvolto semplicemente ma lindamente in un lungo sudario, maculato qua e là con terra di cimitero, si era legata la mascella con una striscia di lino giallo, e recava in spalla una piccola lanterna e una vanga da becchino. Si era abbigliato infatti per la parte di «Jack l'Affossatore», ovvero «Il ladro di Cadaveri di Chertsey Barn», una delle sue interpretazioni più notevoli, interpretazione che i Canterville avevano tutte le ragioni di rammentare perfettamente poiché da essa aveva avuto origine in realtà la lite con il loro vicino lord Rufford. Erano circa le due e Oscar Wilde
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un quarto del mattino e, per quanto aveva potuto controllare, nella casa tutto era quiete e silenzio. Ma mentre si stava avviando passo passo in biblioteca, per vedere se vi era restata qualche traccia della macchia di sangue, ecco che improvvisamente gli sbucarono addosso da un angolo buio due figure che agitavano selvaggiamente le braccia sopra il capo e gli fecero «Buuu!» nell'orecchio. Colto da un panico anche troppo naturale, date le circostanze, corse a precipizio su per le scale, ma ecco anche lì Washington Otis ad aspettarlo con in mano la grossa pompa che serviva ad annaffiare il giardino: sentendosi braccato da ogni parte dai propri nemici, e quasi sul punto di soccombere, fece appena in tempo a eclissarsi nella grande stufa di ferro, che fortunatamente per lui non era accesa, e fu costretto a mettersi in salvo per la strada dei comignoli e dei tetti, giungendo nella propria camera in uno stato pietoso di sporcizia, di disordine e di disperazione. Dopo di ciò non fu più veduto in nessuna spedizione notturna. I gemelli gli fecero la posta per parecchio tempo, cospargendo ogni notte i corridoi di gusci di noce, con grande fastidio dei servitori e dei familiari, ma senza alcun risultato. Era stato talmente ferito nei suoi sentimenti più intimi, che disdegnava oramai di apparire, era evidente. Di conseguenza il signor Otis riprese a redigere la sua storia del Partito Democratico, un'opera grandiosa alla quale lavorava da anni; la signora Otis organizzò una festa campestre meravigliosa che stupì tutta la regione; i ragazzi si dedicarono al lacrosse, all’euchre, al poker, e ad altri giochi nazionali americani, e Virginia cavalcò per i prati sul suo puledro, accompagnata dal giovane duca di Cheshire il quale era venuto a Canterville Chase a trascorrervi l'ultima settimana di vacanza. Era opinione generale che il fantasma fosse scomparso, e il signor Otis scrisse una lettera a questo proposito a lord Canterville, il quale rispose esprimendo il proprio compiacimento per la notizia e inviò le sue sentite congratulazioni alla gentile consorte del ministro. Ma gli Otis in realtà s'ingannavano, poiché il fantasma era sempre nella casa, e sebbene fosse oramai pressoché un povero invalido, era ben lungi dal voler lasciare andare le cose com'erano, tanto più da quando aveva inteso che tra gli ospiti si trovava il giovane duca di Cheshire, il cui prozio, lord Francis Stilton, aveva scommesso una volta cento ghinee con il colonnello Carbury che avrebbe giocato a dadi con il fantasma di Canterville, ed era stato trovato l'indomani disteso sul pavimento della sala Oscar Wilde
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da gioco, totalmente paralizzato: e benché fosse vissuto poi sino a tarda età non fu più in grado di dire altro che: «Doppio sei». L'episodio in quell'epoca era stato universalmente risaputo, per quanto, per rispetto ai sentimenti delle due nobili famiglie, si era fatto di tutto per mettere in tacere la cosa, e si possono anzi trovare tutti i particolari relativi a questo tragico evento nel terzo volume di lord Tattle intitolato Ricordi del Principe Reggente e dei suoi amici. Il fantasma era dunque logicamente molto ansioso di far vedere ch'egli non aveva ancora perduta tutta la sua influenza sugli Stilton con i quali per giunta era lontanamente imparentato, avendo una sua prima cugina sposato in seconde nozze il sire di Bulkeley, dal quale, come tutti sanno, discendono in linea genealogica i duchi di Cheshire. Predispose quindi ogni cosa per comparire al piccolo innamorato di Virginia nella sua famosa parte del «Monaco Vampiro», ovvero «Il Benedettino Dissanguato», visione talmente orrenda che quando la vecchia lady Startup la scorse, il che accadde in una fatale vigilia di capodanno dell'anno 1764, diede in acute strida di spavento che culminarono in un violento attacco di apoplessia, e la disgraziata nobildonna decedette in capo a tre giorni, dopo aver diseredato i Canterville che erano i suoi parenti più prossimi, e lasciando invece tutto il proprio danaro al suo speziale londinese. All'ultimo momento, tuttavia, l'incubo dei gemelli gli impedì di abbandonare la sua cameretta segreta nell'ala sinistra del castello, e il giovane duca dormì in pace i suoi rosei sonni sotto il baldacchino piumato della camera regale, e potè sognare di Virginia indisturbato.
V Pochi giorni dopo questi avvenimenti, Virginia e il suo ricciuto cavaliere uscirono a cavallo sui prati di Brockley, dove la fanciulla si strappò così malamente la veste di amazzone nel saltare una siepe che, di ritorno a casa, preferì passare dalla scala di servizio per non essere veduta in quella guisa. Mentre attraversava di corsa il vestibolo attiguo al salone delle tappezzerie, la cui porta era per caso aperta, ebbe l'impressione di vedervi dentro qualcuno, e pensando si trattasse della cameriera di sua madre, che qualche volta si metteva lì a lavorare, affacciò la testa per chiederle di rattopparle il vestito. Ma con sua immensa sorpresa si trattava invece del fantasma di Canterville in persona. Era seduto accanto alla finestra, assorto Oscar Wilde
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nella contemplazione dell'oro consunto degli alberi e della danza impazzita delle foglie rosse giù per il lungo viale. Teneva la testa appoggiata a una mano e tutto il suo atteggiamento esprimeva uno stato di depressione indicibile. Aveva un aspetto tanto misero e tanto mal ridotto che la piccola Virginia, il cui primo impulso era stato di fuggire, si sentì invadere da una profonda compassione e decise di cercar di confortarlo. Il passo della fanciulla era così leggero, e così greve era la malinconia dello spettro, che questi non si accorse della sua presenza finché ella non gli ebbe rivolta la parola. «Mi spiace tanto per lei,» incominciò Virginia «ma i miei fratelli ritornano domani a Eton, e perciò, se lei si comporterà come si deve, nessuno la disturberà.» «Comportarmi come si deve!» replicò il fantasma, volgendosi stupito a guardare la graziosa fanciulla che aveva avuto il coraggio di parlargli. «È semplicemente ridicolo chiedermi una cosa simile! Io devo far risuonare le mie catene, e mugolare attraverso i buchi delle serrature, e passeggiare di notte per la casa, se è questo ciò a cui tu alludi. È la mia unica ragione di esistere.» «Non è affatto una buona ragione, e lei sa benissimo di essere stato molto ma molto cattivo. Ce lo disse la signora Umney, proprio il giorno del nostro arrivo, che lei ha assassinato sua moglie.» «Be', lo ammetto,» rispose il fantasma con petulanza «ma si tratta di una pura e semplice questione di famiglia che non riguarda nessun altro.» «È un grave peccato ammazzare chicchessia» osservò Virginia, la quale aveva a volte una dolce gravità puritana, ereditata forse da un suo lontano antenato della Nuova Inghilterra. «Oh, io non posso soffrire la severità a buon mercato dell'etica astratta. Mia moglie era una donna bruttissima, non mi inamidava mai i miei ruches (gorgiere) come piaceva a me, e non capiva un'acca in fatto di cucina. Perbacco, avevo preso un daino magnifico nella foresta di Hogley, un due anni superbo, e vuoi sapere come me lo fece servire in tavola? Be', oramai la cosa non ha più importanza, è passato tanto tempo da allora, e non trovo che sia stato molto carino da parte dei suoi fratelli farmi morire di fame, anche se gli avevo accoppata la sorella.» «L'hanno fatta morire di fame, signor fantasma? Sir Simon, voglio dire. Vuole mangiare qualcosa? Ho nella mia borsetta un panino imbottito. Posso offrirglielo?» «No, grazie, ormai non mangio più nulla: comunque è un gesto molto Oscar Wilde
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gentile, il tuo, e tu sei immensamente più carina di tutto il resto della tua orribile, villana, volgare, disonesta famiglia!» «La smetta!» gridò Virginia, picchiando un piede per terra. «È lei, invece, maleducato, orribile e volgare! E in quanto a disonestà, lei sa benissimo chi ha rubato tutti i colori della mia scatola di pittura per tener lustra e forbita quella ridicola macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Dapprincipio mi ha preso tutti i rossi, compreso il vermiglio, in modo che non ho più potuto fare nessun tramonto, poi mi ha soffiato il verde smeraldo e il giallo cromo, e alla fine non mi era rimasto più che l'indaco e il bianco di China, e non mi restava altro da fare che dipingere paesaggi al chiaro di luna che sono molto deprimenti da guardare e per giunta difficilissimi da ritrarre. Io non l'ho mai sbugiardata davanti agli altri, però, e ho sempre taciuto, benché fossi estremamente seccata, e trovassi la cosa semplicemente assurda, perché infatti chi ha mai visto una macchia di sangue color verde smeraldo?» «A dire la verità,» replicò il fantasma alquanto confuso «che altro potevo fare? È una cosa complicatissima, oggigiorno, trovare del sangue vero, e dal momento che era stato tuo fratello Washington a incominciare con il suo maledetto Detersivo Incomparabile, non vedo il motivo per cui non avrei dovuto adoperare i tuoi colori. In quanto al colore, poi, è una pura questione di gusto. Noi Canterville, per esempio, abbiamo sangue blu, il sangue più blu di tutta l'Inghilterra, ma io lo so che a voi americani queste differenze di tinta non interessano.» «Lei non sa nulla di ciò che interessa a noi, e la cosa migliore che dovrebbe fare sarebbe quella di emigrare e migliorare il suo cervello. Mio padre non sarà che troppo felice di procurarle un passaggio gratuito, e per quanto vi sia una forte tassa sugli spiriti e gli alcoolici in genere, l'ufficio della dogana non le farà difficoltà, dato che i funzionari sono tutti democratici. Una volta a New York, stia certo che avrà un successo formidabile. Conosco un sacco di gente che darebbe centomila dollari per avere un nonno, figurarsi poi se potesse trovare un fantasma di famiglia.» «Non credo che l'America mi piacerebbe.» «Forse perché noi non possediamo né rovine né curiosità artistiche» osservò Virginia con intonazione sarcastica. «Né rovine né curiosità» replicò il fantasma. «Ma se avete la vostra marina e le vostre maniere!» «Buona sera. Vado a chiedere a papà di concedere ai gemelli una Oscar Wilde
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settimana di vacanza supplementare.» «Oh, ti prego, non te n'andare, Virginia!» gridò lo spettro. «Sono tanto solo e infelice e proprio non so quello che debbo fare. Vorrei tanto andare a dormire e non posso.» «Ma questo è semplicemente buffo. Non ha che da mettersi in letto e spegnere la candela. Qualche volta è molto difficile star svegli, soprattutto in chiesa, ma non è affatto difficile addormentarsi. Come, persino i bambini sanno come si fa, e sì che non hanno l'intelligenza ancora molto sviluppata!» «Io non dormo da trecento anni» disse tristemente il fantasma, e i begli occhi celesti di Virginia si spalancarono dallo stupore. «Da trecento anni non posso dormire, e sono tanto stanco.» Virginia si fece molto seria e le sue dolci labbra tremarono come petali di rosa. Ella gli si accostò, gli si inginocchiò al fianco e lo fissò nel vecchio volto avvizzito. «Povero, povero fantasma,» mormorò con tenerezza «non c'è proprio un luogo dove lei possa trovar sonno?» «Lontano di qua, oltre la pineta,» rispose il fantasma con voce sommessa e sognante «c'è un piccolo giardino. Laggiù l'erba cresce lunga e folta, il fiore della cicuta vi allarga le sue grandi stelle bianche, l'usignolo vi canta tutta la notte. Tutta la notte, esso canta, e la fredda luna di cristallo si china a guardare, e l'albero del tasso distende le sue braccia gigantesche sui dormienti.» Gli occhi di Virginia si appannarono di lagrime ed ella si nascose il volto tra le mani. «Lei sta parlando del giardino della morte» mormorò. «Sì, la morte. Oh, la morte deve essere tanto bella. Poter giacere nella morbida terra bruna, con gli steli dell'erba che si agitano lievi sopra il tuo capo, e ascoltare il silenzio. Non avere né ieri, né domani. Dimenticare il tempo, perdonare la vita, essere in pace. Tu potresti aiutarmi. Potresti aprire per me i battenti della Casa della Morte, poiché l'amore vi sta sempre vicino, e l'amore è più forte della morte.» Virginia tremò; un brivido glaciale le serpeggiò per la schiena, e per alcuni attimi regnò tra loro un silenzio sepolcrale. La fanciulla ebbe la sensazione di vivere come in un sogno terrificante. Poi il fantasma riprese a parlare, e la sua voce assomigliava al respiro del vento. Oscar Wilde
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«Hai mai letta l'antica profezia che sta sulla finestra della biblioteca?» «Oh, sì!» esclamò Virginia, alzando vivacemente il capo. «Tante volte! La conosco benissimo. È dipinta in strane lettere nere, ed è difficile da leggersi. Non sono che sei versi: Quando una fanciulla bionda strapperà La preghiera dalle labbra del peccato: Quando il mandorlo inaridito rifiorirà E un'innocente creatura verserà lagrime, Ritornerà tranquilla la dimora E la pace scenderà su Canterville. ... Però non so che cosa significhino.» «Significano,» disse tristemente il fantasma «che tu devi piangere per i miei peccati, perché io non ho lagrime, e pregare con me per la mia anima, perché io non ho fede, e poi, se tu sarai stata sempre buona, dolce e gentile, l'angelo della morte avrà pietà di me. Tu vedrai nell'oscurità ombre paurose, e voci malvagie ti sussurreranno all'orecchio, ma esse non ti faranno male, poiché contro la purezza di una creatura innocente le forze dell'inferno non possono prevalere.» Virginia non rispose, e il fantasma si torse le mani in preda alla disperazione guardando l'aureo capo reclino della fanciulla. Improvvisamente questa si alzò, pallidissima, con una strana luce negli occhi. «Io non ho paura,» disse con fermezza «chiederò all'angelo di avere pietà di te.» Il fantasma si levò con un debole grido di gioia, le prese la mano e inchinandosi gliela baciò con grazia antiquata. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio e le labbra bruciavano come fiamma ardente, ma Virginia non tremò mentre egli la guidava attraverso la sala immersa nel crepuscolo. Sul verde sbiadito della tappezzeria erano ricamati minuscoli cacciatori: essi suonarono i loro corni ornati di nappe e con le piccole mani le fecero cenno di tornare indietro. «Torna indietro, piccola Virginia!» gridarono «torna indietro!» Ma il fantasma le strinse ancor più saldamente la mano ed ella chiuse gli occhi alle loro lusinghe. Animali immondi con code di lucertole e occhi sgusciati la fissarono di soppiatto dalla cornice del caminetto scolpito e mormorarono: «Attenta, piccola Virginia! Attenta! Potrebbe darsi che non ti vediamo mai più!». Ma il fantasma accelerò la sua fuga silente, e Virginia non gli diede retta. Quando furono arrivati in Oscar Wilde
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fondo alla sala egli si fermò e borbottò alcune parole incomprensibili. Allora Virginia aprì gli occhi e vide il muro dissolversi lentamente, come una nebbia, e una grande caverna nera aprirsi dinnanzi a lei. Un vento impetuoso e gelido li investì, ed ella sentì qualcosa che la tirava per il lembo del vestito. «Presto, presto,» gridò il fantasma «altrimenti sarà troppo tardi.» Un istante dopo, il rivestimento di legno si era già richiuso sopra di loro, e la sala delle tappezzerie era vuota.
VI Circa dieci minuti più tardi suonò la campana per il tè, e poiché Virginia non si faceva vedere, la signora Otis mandò di sopra uno dei valletti a cercarla. Ma questi tornò di lì a poco dicendo che non aveva trovato la signorina Virginia da nessuna parte. Poiché essa aveva l'abitudine di scendere ogni sera in giardino a raccogliere fiori per la tavola, la signora Otis non si preoccupò affatto, a tutta prima, ma quando scoccarono le sei e Virginia non comparve ancora, cominciò ad agitarsi seriamente, e mandò i ragazzi al cercarla, mentre lei e il signor Otis frugavano ogni angolo della casa. Alle sei e mezzo i ragazzi tornarono senza aver trovato la minima traccia della sorella. Erano tutti, ora, in uno stato di grande agitazione e non sapevano più che fare e dove andare, quando il signor Otis si rammentò a un tratto di aver dato il permesso, pochi giorni prima, a una tribù di zingari di accamparsi nel parco. Partì quindi subito per Blackfell Hollow, dove si sapeva che si trovavano gli zingari, una spedizione composta di lui stesso, del suo figlio maggiore, e di due garzoni di fattoria. Il piccolo duca di Cheshire, che l'angoscia aveva reso letteralmente pazzo, supplicò disperatamente che gli fosse concesso di accompagnarli, ma il signor Otis non glielo permise, poiché temeva che ci sarebbe stato un po' di parapiglia. Giunto però sul posto, non gli rimase che constatare che gli zingari se n'erano andati, e anzi a giudicare dalle apparenze la loro partenza doveva essere recente e determinata da cause improvvise, perché il fuoco da campo era ancora acceso e sul prato erano sparse vettovaglie. Mandò allora Washington e i due uomini a frugare la regione, mentre egli correva a casa a spedire telegrammi a tutti gli ispettori di polizia della Contea, supplicandoli di ricercare una fanciulla che doveva essere stata certamente rapita da una banda di zingari o di vagabondi. Fece quindi sellare il cavallo e, dopo aver insistito perché sua moglie e i figlioli si Oscar Wilde
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mettessero a tavola, si avviò lungo la Ascot Road accompagnato da un garzone di scuderia. Ma non aveva percorso un paio di miglia quando intese un risuonare di zoccoli alle sue spalle: si volse e vide che il giovane duca di Cheshire lo aveva raggiunto in groppa al suo puledro, tutto infocato in viso e senza berretto. «Oh, la supplico signor Otis,» lo implorò il ragazzo «ma io non posso mangiare finché Virginia non è stata ritrovata. La prego, non sia in collera con me. Se lei ci avesse permesso di fidanzarci l'anno scorso questa disgrazia non sarebbe successa. Non mi rimanderà indietro, vero? Non posso tornare indietro, non voglio!» Il ministro non potè trattenersi dal sorridere alla vista di quel monello così pieno di ardire e di grazia giovanile; lo commuoveva anche profondamente la sua devozione per Virginia: si chinò dunque sulla sella, gli batté amichevolmente sulle spalle e gli disse: «Va bene, Cecil, se non vuoi proprio tornare indietro immagino che dovrò lasciarti venire con me, però appena saremo ad Ascot bisognerà che ti trovi un cappello!». «Io voglio trovare Virginia, altro che cappello!» ribatté il giovane duca ridendo, e insieme proseguirono a galoppare verso la stazione ferroviaria. Lì giunti il signor Otis si informò presso il capostazione se fosse stata veduta sulla banchina una ragazza corrispondente alla descrizione che fece di Virginia, ma nessuno seppe dirgli nulla di preciso. Il capostazione si affrettò tuttavia a telefonare a tutti i posti di servizio della linea e gli assicurò che si sarebbe fatto l'impossibile per trovarla. Dopo aver acquistato un cappello per il giovane duca presso un mercante di articoli vari che stava già per chiudere i battenti, il signor Otis proseguì la sua corsa a cavallo verso Bexley, un villaggio distante circa quattro miglia, che gli era stato descritto come una delle località preferite di solito dagli zingari, essendo situato presso una grossa borgata. Andarono a svegliare la guardia campestre, ma non poterono ottenerne alcuna informazione utile e dopo avere perlustrato l'intera borgata puntarono i musi dei loro cavalli sulla via di casa e furono di ritorno alla Chase verso le undici di sera, stanchi morti e col cuore affranto. Washington e i gemelli li stavano aspettando alla cancellata muniti di lanterne, poiché il viale era completamente buio. Di Virginia neppure la minima traccia. Gli zingari erano stati raggiunti sui prati di Brockley, ma la fanciulla non era con loro, ed essi poterono spiegare la loro partenza improvvisa giustificandosi di essersi sbagliati sulla data della fiera di Chorton: se ne erano andati in fretta e furia per timore di arrivarvi in ritardo. Anzi, si erano mostrati Oscar Wilde
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molto addolorati nell'apprendere la scomparsa di Virginia, poiché erano molto riconoscenti al signor Otis che aveva permesso loro di accamparsi nel parco, e quattro di essi erano rimasti indietro per aiutare nelle ricerche. Lo stagno delle carpe era stato sondato, l'intera località era stata perlustrata da cima a fondo, ma senza alcun risultato. Era evidente che, per qualche notte almeno, Virginia era perduta per loro e fu in uno stato di profonda depressione che il signor Otis e i ragazzi si avviarono verso il Castello, seguiti dal garzone di scuderia che teneva per la briglia i due cavalli e il puledro. Nel vestibolo trovarono un gruppo di domestici spaventati, e sul divano del salotto la signora Otis, quasi fuori di sé per la paura e l'inquietudine, che si faceva bagnare continuamente la fronte dalla vecchia governante di casa con compresse d'acqua di colonia. Il signor Otis volle che sua moglie si sforzasse a mangiare qualcosa a tutti i costi e ordinò la cena per l'intera famiglia. Fu un pasto malinconico, nessuno parlò; persino i gemelli erano ammutoliti e desolati perché erano affezionatissimi alla loro sorellina. Quando ebbero finito di pranzare, malgrado le suppliche e le preghiere del duchino, il signor Otis volle che andassero tutti quanti a coricarsi, perché, disse, quella notte non restava nulla di meglio da fare; il mattino seguente avrebbe telefonato subito a Scotland Yard perché gli mandassero al più presto degli agenti investigativi. Proprio nel momento in cui uscivano dalla sala da pranzo, la mezzanotte incominciò a rintoccare dall'orologio della torre e quando scoccò l'ultimo colpo s'intese un boato e un grido subitaneo, acutissimo: uno spaventevole scoppio di tuono scosse la casa, un accordo di musica celeste echeggiò nell'aria, un pannello in cima alla scalinata si spalancò con grande fragore e sul pianerottolo apparve Virginia, pallida e bianca, con un piccolo scrigno tra le mani. In un attimo tutti le furono intorno. La signora Otis la strinse appassionatamente a sé, il duca quasi la soffocò di baci, mentre i gemelli eseguivano intorno al gruppo una selvaggia danza guerriera. «Ma in nome di Dio, bambina, dove sei stata?» gridò il signor Otis furibondo, poiché pensava che sua figlia si fosse divertita a giocare loro un brutto scherzo. «Cecil e io abbiamo corso per tutta la Contea in cerca di te, e tua madre è quasi morta di paura. Non devi fare più tiri del genere!» «Tranne che al fantasma! Tranne che al fantasma!» urlarono i gemelli, saltabeccandole attorno come due capretti. «Tesoro mio! Grazie al cielo sei di nuovo qui con noi! Non devi più staccarti da me!» mormorò la signora Otis baciando la figliola che tremava Oscar Wilde
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tutta e lisciando l'oro arruffato dei suoi capelli. «Papà,» spiegò Virginia con voce tranquilla «sono stata col fantasma. Adesso è morto e bisogna che tutti voi veniate a vederlo. È stato molto cattivo, ma si è sinceramente pentito di tutto il male che ha commesso, e mi ha dato questa bellissima scatola piena di gioielli, prima di morire.» Tutti la fissarono sbalorditi, ma Virginia era molto calma e seria e, volgendosi, li guidò attraverso l'apertura formatasi nel rivestimento di legno giù per un angusto corridoio segreto: Washington illuminava il cammino con una candela accesa che aveva tolto dalla tavola. Giunsero infine a una grande porta di quercia tempestata di borchie rugginose. Non appena Virginia l'ebbe toccata questa girò su pesanti cardini e tutti si trovarono in una stanzetta bassa, dal soffitto a volta, munita di un'unica finestrella a grata. Un enorme anello di ferro era infisso nel muro e incatenato a esso stava un lunghissimo scheletro, disteso in tutta la sua lunghezza sul pavimento di pietra: pareva stesse cercando di afferrare con le dita rattrappite una brocca e un tagliere di foggia antica, che erano stati messi fuori della sua portata. La brocca doveva essere stata piena d'acqua, un tempo, poiché era coperta internamente di una muffa verdastra. Sul tagliere non era rimasto che un mucchietto di polvere. Virginia si inginocchiò accanto allo scheletro, e congiungendo le sue piccole mani prese a pregare in silenzio, mentre gli altri stavano a contemplare stupefatti la terribile tragedia il cui segreto era finalmente chiaro a tutti. «Ehi!» esclamò a un tratto uno dei gemelli, che si era messo a guardare fuori della finestra per cercar di capire in quale ala del castello si trovasse precisamente quella stanza. «Guardate un po'! Il vecchio mandorlo secco è tutto un boccio! Vedo benissimo i fiori alla luce lunare.» «Dio gli ha perdonato!» disse gravemente Virginia, levandosi in piedi, e una luce soprannaturale parve per un attimo illuminarle il volto. «Che angelo sei!» gridò il giovane duca, e le mise un braccio intorno al collo e la baciò.
VII Quattro giorni dopo il verificarsi di questi strani avvenimenti un funerale mosse da Canterville Chase verso le undici di notte. Il carro funebre era tirato da otto cavalli neri, ciascuno dei quali recava in capo un gran ciuffo svolazzante di piume di struzzo, e il cofa-no di piombo era ricoperto di un Oscar Wilde
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ricco drappo color porpora sul quale erano ricamate in oro le insegne dei Canterville. Al lato del carro e degli equipaggi camminavano i domestici con torce accese: tutta la processione aveva un aspetto estremamente suggestivo. Lord Canterville apriva il corteo: era venuto apposta sin dal Galles per presenziare alle esequie e sedeva nel primo cocchio, insieme con la piccola Virginia. Seguivano poi il ministro degli Stati Uniti e sua moglie, quindi Washington e i tre ragazzi, e finalmente nell'ultima vettura la signora Umney. Era opinione generale che, dal momento che la povera donna era stata spaventata dallo spettro per oltre cinquant’anni, aveva il diritto di accompagnarlo di persona alla sua ultima e definitiva dimora. Una grande fossa era stata scavata in un angolo del cimitero, proprio sotto il vecchio albero di tasso, e il rito funebre fu celebrato con grande solennità dal reverendo Augustus Dampier. Quando la cerimonia ebbe termine, i domestici, secondo un'antica tradizione della famiglia dei Canterville, spensero le torce e, mentre la bara veniva calata nella tomba, Virginia si fece innanzi e vi pose sopra una grande croce fatta di rami di mandorlo intrecciati, bianchi e rosa. In quel momento la luna uscì da dietro una nuvola, inondando della sua argentea silenziosa luce il piccolo cimitero, e da un boschetto lontano un usignolo prese a cantare. La fanciulla si rammentò della descrizione che il fantasma le aveva fatto del giardino della morte; i suoi occhi si riempirono di lagrime, e fu molto se proferì una sola parola nel cammino di ritorno verso casa. Il mattino seguente, prima che lord Canterville rientrasse in città, il signor Otis volle avere un colloquio con l'antico proprietario del castello a proposito dei gioielli che il fantasma aveva regalato a Virginia. Si trattava di gioielli meravigliosi, soprattutto una certa collana di rubini con un'antica montatura veneziana, un esemplare veramente splendido di oreficeria del secolo XVI, il cui valore era così enorme che il signor Otis provava grande scrupolo a permettere che sua figlia lo accettasse. «Mio caro lord,» disse a lord Canterville «so che nel suo paese la manomorta si applica non soltanto alla terra, ma a qualunque bagatella, perciò mi rendo perfettamente conto che questi gioielli sono, o perlomeno dovrebbero essere, eredità della sua famiglia. Io mi sento pertanto tenuto a chiederle di portarli a Londra con sé, e di considerarli semplicemente come una parte di beni di sua proprietà che le è stata resti tuita in circostanze insolite. In quanto alla mia figliola, non è che una bambina e per il momento non sente, per fortuna, alcuna inclinazione per simili oggetti Oscar Wilde
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inutili di lusso. Inoltre mia moglie che in fatto di arte non è un'autorità da poco, avendo avuto il privilegio, da ragazza, di passare a Boston numerose stagioni invernali, mi ha fatto presente che si tratta di gemme di grande pregio monetario che potrebbero rendere immensamente se vendute a un intenditore. Tenuto conto di tutto ciò, mio caro lord Canterville, sono certo che lei comprenderà benissimo come io non possa permettere che esse rimangano in possesso di un membro della mia famiglia: d'altronde, orpelli e cianciafruscole simili, per quanto adatti o necessari alla dignità dell'aristocrazia britannica, sarebbero assolutamente fuor di luogo tra gente che è stata educata ai severi e secondo me immortali princìpi della semplicità repubblicana. La pregherei unicamente di lasciarmi la scatola, perché Virginia è desiderosa di conservarla come ricordo del suo infelice e traviato antenato. D'altro canto è una scatola molto vecchia e in pessimo stato, e spero non avrà alcuna difficoltà ad accondiscendere alla sua richiesta. Per quel che mi concerne, confesso che sono molto stupito che una mia figliola dimostri simpatia per una qualsivoglia forma di medievalismo, e posso spiegarmi la cosa solo con il fatto che Virginia è nata in uno dei vostri sobborghi londinesi poco dopo un viaggio di mia moglie ad Atene.» Lord Canterville stette ad ascoltare molto gravemente il discorso del degno ministro, tirandosi di tanto in tanto i baffi grigi per nascondere un sorrisetto involontario, e quando il signor Otis ebbe finito gli strinse cordialmente la mano e disse: «Mio caro ministro, la sua graziosa figliola ha reso al mio sfortunato avo, sir Simon de Canterville, un servigio inestimabile, e la mia famiglia e io ci sentiamo infinitamente in debito con lei per il coraggio e il sangue freddo che ha saputo dimostrare. È indubbio che i gioielli le appartengono sacrosantemente e, perbacco, io credo che se fossi tanto crudele da portarglieli via, quel sacripante d'un mio trisavolo salterebbe fuori dalla sua tomba in capo a quindici giorni, e mi farebbe vedere i sorci verdi per tutto il resto della mia esistenza. In quanto al fatto che siano beni mobili spettanti per tradizione all'erede legale, non è ritenuto bene mobile per tradizione tutto quanto non è citato in un testamento o documento legale, e l'esistenza di queste gemme è sempre stata ignorata. Le garantisco di non avere maggior diritto a reclamarli come miei di quanto non ne possa avere il suo maggiordomo, e quando la signorina Virginia sarà cresciuta sono certo che sarà contenta di avere delle belle cose da mettersi indosso. Del resto, signor Otis, lei sta Oscar Wilde
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dimenticando di aver acquistato castello e fantasma in blocco, perciò qualunque cosa fosse appartenuta al fantasma diventava sua automaticamente: infatti, qualunque fosse l'attività esplicata da sir Simon in corridoio durante la notte, agli effetti della legge egli era ben morto, e perciò lei aveva acquistato la sua proprietà per diritto di compera». Il signor Otis si rammaricò moltissimo del rifiuto di lord Canterville, e lo pregò di recedere dalla sua decisione, ma l'onesto nobiluomo fu irremovibile. Infine il ministro si persuase ad accettare il dono che il fantasma aveva fatto a sua figlia, e quando nella primavera del 1890, la giovane duchessa di Cheshire fu presentata per la prima volta a Corte in occasione del suo matrimonio, i suoi gioielli furono l'oggetto dell'ammirazione generale. Virginia aveva ricevuto infatti la corona nobiliare, che è la meta più ambita di tutte le buone piccole bambine americane, sposandosi con il suo piccolo innamorato non appena questi aveva raggiunto la maggiore età. Erano entrambi così carini, e si volevano tanto bene, che tutti rimasero entusiasti di quel matrimonio, all'infuori della vecchia marchesa di Dumbleton, che aveva cercato di accalappiare il duca per una almeno delle sue sette figlie zitelle, e aveva dato a questo scopo non meno di tre costosissimi pranzi, e strano a dirsi, all'infuori dello stesso signor Otis. Personalmente, il ministro degli Stati Uniti nutriva per il giovane duca una simpatia vivissima, ma in teoria era contrario ai titoli, e per usare le sue parole «aveva il timore che in mezzo alla debilitante influenza di un'aristocrazia assetata di piacere i sani princìpi della semplicità repubblicana venissero a poco a poco dimenticati». Le sue obiezioni tuttavia, furono smantellate a una a una, e io credo che mentre si avviava su per la navata della chiesa di San Giorgio, in Hanover Square, con sua figlia al braccio, non c'era uomo più orgoglioso di lui in tutta l'Inghilterra. I giovani duchi, terminato il loro viaggio di nozze, vennero a Canterville Chase, e lo stesso giorno del loro arrivo, nel pomeriggio, si recarono al piccolo cimitero solitario presso la pineta. Dapprincipio vi erano state non poche difficoltà a proposito dell'iscrizione per la pietra tombale di sir Simon, ma alla fine si era deciso di incidervi sopra semplicemente le iniziali del vecchio gentiluomo, unitamente ai versi dipinti sulla finestra della biblioteca. La duchessa aveva portato con sé alcune rose bellissime che sparse sulla fossa, e dopo essere rimasti per qualche istante immersi in un raccoglimento silenzioso i due giovani si avviarono passo passo verso il Oscar Wilde
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coro in rovina dell'antica abbazia. Quivi la duchessa sedette su una colonna caduta mentre suo marito le si accoccolò ai piedi a fumare una sigaretta e a guardarla nei dolcissimi occhi. Improvvisamente il giovane buttò la sigaretta, le prese una mano e le disse: «Virginia, una moglie non dovrebbe avere nessun segreto per il proprio marito!». «Ma, mio caro Cecil. Io non ho segreti per te!» «Sì, che ne hai» le rispose il giovane sorridendo. «Tu non mi hai mai detto quello che è accaduto quando ti sei chiusa lassù col fantasma.» «Non l'ho mai detto a nessuno, Cecil» rispose Virginia gravemente. «Lo so, ma a me potresti dirlo.» «Oh, ti prego, non chiedermi nulla, Cecil, non posso dirtelo. Povero sir Simon. Io gli debbo moltissimo. Sì, non ridere, Cecil, è proprio come ti dico. Egli mi ha fatto comprendere che cosa è la vita, e che cosa significa la morte, e perché l'amore sia più forte dell'una e dell'altra.» Il duca si alzò e baciò appassionatamente sua moglie. «Tieniti pure il tuo segreto fino a quando io potrò avere il tuo cuore» mormorò. «Il mio cuore tu l'hai sempre avuto, Cecil.» «Però ai nostri bambini lo racconterai un giorno, nevvero?» Virginia arrossì.
IL MILIONARIO MODELLO ATTESTATO DI BENEMERENZA Se uno non è ricco non gli serve proprio a niente essere un tipo simpatico. Lo spirito romantico è privilegio del ricco, non professione per disoccupati. I poveri dovrebbero essere soltanto pratici e prosaici. È molto meglio avere rendite sicure e continue che essere affascinanti: sono queste le grandi verità della vita moderna che Hughie Erskine non riuscì mai a cacciarsi in testa. Povero Hughie! Intellettualmente, bisogna ammetterlo, non era gran che: in vita sua non aveva mai pronunciato una frase brillante e nemmeno maligna. Era però straordinariamente bello, con bruni capelli ricciuti, un profilo purissimo, e splendidi occhi grigi. Riusciva simpatico agli uomini non meno che alle donne, e in fondo possedeva tutte le doti, eccetto quella di far quattrini. Il padre gli aveva trasmesso per testamento la spada di cavaliere e una Storia della Guerra Peninsulare, in quindici volumi: Hughie appese la prima sopra lo specchio della toeletta, mise la Oscar Wilde
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seconda in uno scaffale tra la «Ruff's Guide» e il «Bailey's Magazine», e campò con le duecento sterline annue lasciategli da una vecchia zia. Aveva provato a far di tutto, del resto. Si era messo in Borsa per sei mesi, ma che cosa può fare, una farfalla, tra tori e orsi? Si era dato al commercio del tè per un periodo di tempo un poco più lungo, ma pekoe e souchong avevano finito per stancarlo. Aveva poi cercato di vendere dello sherry secco, ma anche qui gli era andata male: lo sherry era un tantino troppo secco. Da ultimo si era messo a non far nulla ed era diventato un disutile, un bel giovane insulso dal profilo perfetto, ma senza arte né parte. A peggiorare la situazione, si era innamorato. La ragazza dei suoi sogni si chiamava Laura Merton ed era figlia di un colonnello a riposo che aveva perduto pazienza e digestione in India, e da allora non aveva più ritrovato né l'una né l'altra. Laura adorava Hughie, e lui era pronto a baciarle le stringhe delle scarpe: formavano insieme la più bella coppia di Londra; ma tra tutti e due non possedevano un penny. E il colonnello aveva molta simpatia per il giovane, però non voleva sentir parlare di fidanzamento. «Torni da me, giovanotto, quando avrà diecimila sterline di suo, e ne riparleremo» soleva dirgli, e Hughie appariva allora molto giù di corda, e doveva andare da Laura per farsi consolare. Un mattino, mentre si recava a Holland Park, dove i Merton abitavano, diede una capatina nello studio di un suo grande amico, Alan Trevor. Questi faceva il pittore. Si tratta di una tentazione, per la verità, a cui pochi sfuggono, al giorno d'oggi; ma Trevor era anche un artista, e i veri artisti sono rari. Fisicamente era un tipo strano, rozzo, con una faccia piena di lentiggini e una incolta barba rossiccia: quando, però, prendeva in mano il pennello era un vero maestro, e i suoi quadri erano apprezzati assai. In principio Hughie lo aveva attirato moltissimo, bisogna riconoscerlo, unicamente per il suo fascino personale. «L'unica gente che un pittore dovrebbe frequentare,» soleva dire, infatti «è la gente bète (stupida) ma bella, le persone che ti danno un piacere artistico a guardarle, e un riposo intellettuale a chiacchierarci assieme. Gli uomini raffinati e le belle donne governano il mondo, o meglio dovrebbero governarlo.» In seguito, però, quando l'aveva conosciuto meglio, Hughie gli era piaciuto anche per il suo spirito allegro e ottimista e per la sua natura generosa e spontanea, tanto che il pittore gli aveva consentito l’entrée (ingresso) permanente nel proprio studio. Quando il giovanotto entrò vide che l'artista dava gli ultimi tocchi al Oscar Wilde
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ritratto davvero meraviglioso, in grandezza naturale, di un mendicante. Il modello era presente, in piedi su una pedana, nel mezzo dello studio. Era un vecchio incartapecorito, con la faccia rugosa come una pergamena e un aspetto veramente pietoso. Dalle spalle gli penzolava un mantello scuro, di stoffa ruvida, tutto pezze e brandelli; le grosse scarpe erano rattoppate e chiodate, e con una mano si appoggiava a un rozzo bastone di legno, mentre con l'altra tendeva un cappello lacero e gualcito in cerca di elemosina. «Che modello magnifico!» mormorò Hughie all'orecchio dell'amico mentre questi gli stringeva la mano. «Altro che magnifico!» urlò Trevor a voce altissima. «Lo credo bene! Modelli come questi mica se ne trovano tutti i giorni. Una vera trouvaille (scoperta), caro mio: un Velazquez in carne e ossa! Chissà che disegno ne avrebbe tirato fuori Rembrandt da un tipo simile!» «Poveraccio» osservò Hughie. «Come sembra mal ridotto! Ma immagino che per voialtri pittori la sua faccia sia una fortuna.» «Si capisce» replicò Trevor. «Non pretenderai forse che un mendicante abbia l'aria contenta, per caso?» «Quanto prende un modello per ogni posa?» chiese Hughie mettendosi intanto comodamente a sedere su un divano. «Uno scellino l'ora.» «E tu, quanto prendi per il tuo quadro, Alan?» «Oh, per questo ne prenderò duemila.» «Sterline?» «No, ghinee. Pittori, poeti e dottori vengono sempre pagati in ghinee.» «Be', io trovo che i modelli dovrebbero ricevere una percentuale» disse Hughie ridendo. «In fondo lavorano sodo tale e quale come te.» «Che sciocchezza! Pensa soltanto alla preoccupazione continua di badare che la pittura non asciughi, e alla fatica di starsene tutto il santo giorno in piedi davanti al cavalletto. È facile per te chiacchierare, caro Hughie, ma ti garantisco che ci sono momenti in cui l'arte assurge quasi alla dignità di un lavoro manuale. Adesso, però, chiudi il becco, che ho da fare: fumati una sigaretta e statti quieto.» Un domestico entrò di lì a qualche momento ad avvertire l'artista che il corniciaio aveva bisogno di parlargli. «Non scappare, Hughie» disse Trevor all'amico, prima di uscire. «Torno subito.» Oscar Wilde
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Il vecchio mendicante approfittò della momentanea assenza di Trevor per riposarsi un attimo su un banco di legno che gli stava dietro. Aveva un'aria così disgraziata e miserabile che Hughie non potè fare a meno di provare per lui una profonda compassione: istintivamente, cacciò una mano in tasca in cerca di spiccioli, ma non potè trovare che una sovrana e qualche moneta di rame. «Poveraccio,» si disse «lui ne ha bisogno più di me: pazienza, vorrà dire che per quindici giorni andrò a piedi...» Attraversò lo studio, si avvicinò al mendicante e gli fece scivolare in mano la sovrana. Il vecchio trasalì e un debole sorriso gli aleggiò sulle labbra rugose. «Grazie, signore,» mormorò «grazie tante.» Trevor fu di ritorno subito dopo e Hughie si congedò, vergognandosi in cuor suo del suo gesto pietoso. Trascorse la giornata con Laura, ricevette una sgridata affettuosa per la sua prodigalità e dovette rincasare a piedi. Quella sera entrò a dare un'occhiata al Club della Tavolozza che erano quasi le undici e vi trovò Trevor seduto in un angolo, per conto suo, davanti a un calice di vino del Reno. «E così, Alan, hai già terminato il tuo quadro?» gli chiese accendendosi una sigaretta. «Finito e incorniciato, mio caro» rispose Trevor. «A proposito, lo sai che hai fatto una conquista? Quel mio vecchio modello è entusiasta di te. Ho dovuto raccontargli tutto sul conto tuo, chi sei, dove abiti, quanti soldi hai in banca, quali sono i tuoi progetti per l'avvenire...» «Ahimè, Alan,» esclamò Hughie «scommetto che lo troverò ad attendermi davanti alla porta di casa, adesso che rientro. Ma certamente tu hai voglia di scherzare. Poveraccio, vorrei poter fare qualcosa per lui. È terribile che ci debbano essere tanti disgraziati al mondo. A casa ho un mucchio di vestiti smessi... credi che potrei dargliene qualcuno? Dio mio, aveva indosso certi stracci che gli cadevano addirittura a pezzi.» «Ma se gli stavano benissimo, secondo me» rispose Trevor. «Io non l'avrei dipinto in frac per tutto l'oro del mondo. Quelli che tu chiami stracci io li chiamo spirito romantico: quella che a te sembra povertà per me non è che un elemento pittorico. Comunque gli comunicherò la tua offerta.» «Alan,» disse Hughie serio «voialtri pittori siete tutti una manica di gente senza cuore.» «Il cuore di un artista è il cervello,» fu la risposta di Trevor «e d'altronde il nostro mestiere consiste nel rappresentare il mondo come lo vediamo, Oscar Wilde
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non già nel riformarlo come vorremmo che fosse. A chacun son métier (A ciascuno il proprio mestiere). Ma adesso dimmi di Laura: il mio vecchio modello si è interessato moltissimo a lei.» «Non vorrai mica farmi credere che hai osato parlargli anche di Laura?» chiese Hughie. «Ma certo che gliene ho parlato. Sa tutto, ormai, sul conto dell'inflessibile colonnello, della bella Laura e delle diecimila sterline.» «Tu hai raccontato a quel vecchio mendicante anche i miei affari privati, dunque?» gridò Hughie furibondo e tutto rosso in viso. «Mio caro figliolo,» replicò Trevor sorridendo «quel vecchio mendicante, come tu lo chiami, è uno dei più ricchi uomini d'Europa. Potrebbe, domani mattina, comperare tutta Londra senza nemmeno intaccare il proprio capitale. Ha un palazzo in ogni metropoli, mangia su piatti d'oro, e può quando gli pare e piace impedire alla Russia di entrare in guerra.» «Ma che razza di storia è questa?» esclamò Hughie stupito. «Non è una storia, è la pura verità. Il vecchio che hai visto oggi nel mio studio è il barone Hausberg. È un mio grandissimo amico, mi compera un sacco di quadri eccetera, e mi ha ordinato un mese fa un suo ritratto in veste di mendicante. Que voulez-vous? La fantaisie d'un millionaire! (Che vuoi? Capriccio di milionario ) E devo riconoscere che stava meravigliosamente bene in quei suoi stracci che, per essere esatti, sono miei, poiché si tratta di un vecchio vestito comperato da me in Spagna.» «Il barone Hausberg!» gridò Hughie. «Bontà divina! E io che gli ho dato una sovrana!» E così dicendo il povero ragazzo si lasciò cadere su una poltrona, vivente immagine della costernazione. «Gli hai dato una sovrana?» esclamò Trevor, dando in una risata omerica. «Ora non la rivedrai mai più, caro mio. Son affaire c'est l'argent des autres!( I suoi affari consistono proprio nel denaro altrui)» «Avresti potuto almeno avvertirmi, Alan,» disse Hughie seccatissimo «e non permettere che io ci facessi una simile figura da cretino.» «Anzitutto,» disse Trevor «non mi era mai passato neppure per l'anticamera del cervello che tu andassi in giro distribuendo elemosine con tanta prodigalità. Avrei capito che tu cercassi di baciare una bella modella, ma che facessi la carità a un modello brutto... no, perbacco! D'altronde, oggi non ero in casa per nessuno, e quando ti ho visto comparire ho pensato che forse Hausberg si sarebbe seccato se avessi fatto il suo nome. Oscar Wilde
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Come tu stesso hai potuto constatare, egli non era, come dire?, vestito.» «Chissà che imbecille mi avrà giudicato!» mormorò Hughie. «Affatto. Dopo che te ne sei andato è diventato di ottimo umore: non faceva che ridacchiare tra sé e fregarsi quelle sue mani rugose. Io non riuscivo a capire perché s'interessasse tanto dei fatti tuoi, ma adesso tutto è chiaro. Investirà a tuo nome la sovrana che gli hai dato, ti pagherà gli interessi ogni sei mesi e avrà un aneddoto straordinario da raccontare dopo cena.» «Sono un vero disgraziato» mugolò Hughie. «La miglior cosa che mi resta da fare è andarmene a dormire. E ti prego, Alan, non raccontare la mia scempiaggine a nessuno, altrimenti non avrò più il coraggio di far vedere in giro la mia faccia nel Row.» «Che idee! Anzi, è un episodio che mette in luce la tua bell'anima di filantropo, Hughie! E non scappar via subito. Fumati un'altra sigaretta, e parlami di Laura fin quando ne hai voglia.» Ma il giovane rifiutò di fermarsi, e se ne tornò a casa profondamente infelice, lasciando Alan Trevor a smascellarsi dalle risa. Il mattino successivo, mentre stava facendo colazione, il domestico gli recò un biglietto su cui era scritto: «Monsieur Gustave Nadin, de la part del barone Hausberg». "Dev'essere venuto per esigere delle scuse" si disse Hughie, e ordinò al domestico di far entrare il visitatore. Si trattava di un vecchio signore dagli occhiali d'oro e dai capelli grigi, che si rivolse a Hughie con un leggero accento francese, dicendo: «Ho l'onore di parlare col signor Erskine?». Hughie s'inchinò. «Vengo da parte del barone Hausberg» proseguì il visitatore. «Il barone...» «La supplico, signore, di voler porgere al barone le mie scuse più sincere» balbettò il povero Hughie. «Il barone,» insistette il vecchio signore con un sorriso «mi ha incaricato di recapitarle questa lettera» e gli tese una busta sigillata. Sull'esterno era scritto: «Regalo di nozze per Hugh Erskine e Laura Merton, da parte di un vecchio mendicante», e dentro v'era un assegno di diecimila sterline. Alan Trevor fece da testimone al loro matrimonio e il barone tenne un discorsetto di circostanza alla fine della colazione di nozze. Alan osservò: «I modelli milionari sono abbastanza rari; ma, per Giove, Oscar Wilde
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i milionari modello lo sono ancor di più!».
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