MAX RENO IL COMMEDIANTE
Il telefono squilla. Il suono è stridente, quasi sgradevole. Si ripete con monotonia. Guardo l’...
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MAX RENO IL COMMEDIANTE
Il telefono squilla. Il suono è stridente, quasi sgradevole. Si ripete con monotonia. Guardo l’apparecchio e indugio. Perché? Non lo so. Forse è inerzia, l’inerzia del mattino - perché è mattino e il sole si ostina a colpire i vetri della finestra - quando il reale è ancora nebuloso e il ricordo di certi sogni, di certe sensazioni oniriche ti attanaglia la memoria e lotta contro la certezza di ciò che è e non potrebbe essere diversamente. L’occhio si posa su un insetto minuscolo - che nome scientifico avrà questo piccolo insignificante essere vivente che colpisce la mia attenzione, sia pure per qualche attimo? - che scivola, tanto è veloce il suo cammino sulla parete, lungo un percorso perfettamente verticale grigio sporco - le pareti della mia stanza sono sporche, nessuno ha provveduto a rinfrescarle negli ultimi anni ed io non ci penso neppure per un attimo tanto la stanza non è di mia proprietà, ci sto a dozzina e il proprietario è un tipo antipatico con la faccia da gangster, mi ricorda Ed Robinson in un suo vecchio film, il suo vestito è nero a doppio petto con bottoni grigi e ha scarpe a punta dal tacco consumato, fa il fruttivendolo e anche lo strozzino, si comporta da giuda con tutti e viene da un miserabile paese del sud - ; l’animaletto - dovrei chiamarlo insetto o meglio artropodo per l’esattezza scientifica, ma l’esattezza non m’interessa, l’importante è farsi capire dagli altri all’ottanta per cento, il resto è un lusso di pochi fortunati che sanno quasi tutto di una buona parte del tutto - all’improvviso cambia direzione e viene verso di me come se un’improvvisa intuizione lo costringa a venire dalle mie parti, probabilmente è il caso che gli impone la deviazione, altrimenti sono costretto a pensare che l’animaletto sia curioso di vedermi da vicino e desideroso di dare vita a un qualche contatto di tipo umano “Come sta, signor uomo?”, “Io sto bene, grazie, e lei, mio piccolo amico?”, “Si vive, signor uomo, è il nostro destino vivere pensando alla morte, destino di ogni essere vivente, mi sono spiegato?” -. Il telefono continua a squillare. “ Che rottura di balle!” - esclamo. Ora l’animaletto non m’interessa più, anzi scompare dal mio campo visivo come se intuisca il mio rifiuto di ogni contatto, sia pure amichevole, nei suoi confronti. Mi decido a rispondere. Non m’interessa tanto ascoltare la voce che tra qualche attimo mi parlerà quanto impedire alla soneria dell’apparecchio di torturarmi con quel suono prolungato e sgradevole. La voce che sto ascoltando è asettica, leggermente metallica, con un lievissimo difetto di pronuncia ,la esse appena sibilata. E’ una donna che parla, forse una che conosco o che dovrei conoscere perché lavora all’agenzia. “In serata ci sarà lavoro per te. C’è una signora che vuole un accompagnatore…”
Quando mi servono soldi faccio l’accompagnatore di donne sole, è un mestiere come un altro, però avvilisce un tantino tipi come me che vorrebbero essere indipendenti da tutti e da tutto, mentre così si diventa schiavi a ore di qualche signora che spesso è da compatire per la sua solitudine. La donna era là, sulla spiaggia, coperta da un telo biancastro pieno di macchie di grasso, pesante, ruvido, al contatto con la pelle quasi abrasivo, gettato pietosamente su quel mucchio di carne. La donna doveva avere un enorme ventre pieno di acqua marina annegando doveva avere ingurgitato litri di acqua di mare - e sotto il telo si notava quell’immenso ventre che doveva essere biancastro, forse dello stesso colore del telo. Io ero piccolo e correvo sulla spiaggia felice quando m’imbattei in quel mucchio di carne pietosamente coperto. Alcuni uomini si aggiravano attorno al cadavere preoccupandosi di nascondere ogni piccolo dettaglio del corpo, ma il telo non era sufficiente a coprire tutto per cui i piedi, le braccia e i capelli della morta erano quasi per intero visibili. Non potendomi avvicinare perché gli uomini me lo impedivano e tuttavia incuriosito, decisi di attendere l’occasione propizia per visionare da vicino il corpo dell’annegata. Trascorsero lunghe ore durante le quali la mia curiosità crebbe a dismisura. Finalmente sull’imbrunire gli uomini che erano rimasti a guardia del corpo si allontanarono, forse per andare a mangiare, ed io che ero rimasto nascosto dietro una duna di sabbia mi avvicinai lentamente al cadavere e senza alcun timore alzai il telo. Ciò che vidi mi terrorizzò molto ma nello stesso tempo mi procurò una strana sensazione di dolore come se quel corpo appartenesse ad una persona a me familiare e cara. Lo esaminai con attenzione, il terrore e il dolore ben presto scomparvero lasciando il posto ad una sorta d’indifferenza verso quel non essere. L’aria circostante era ammorbata dal fetore della carne morta e abbracciava il corpo con un alone invisibile la cui presenza era, tuttavia, da me intuita. Il viso era gonfio e sformato, le labbra grosse, livide e semiaperte - i denti erano in parte visibili, bianchi, perfettamente allineati - gli occhi vitrei leggermente appannati, dal naso colava una sorta di muco scuro che, attraverso un tortuoso cammino, si portava oltre il mento e scendendo lungo il declivio del collo si spargeva in piccole quantità sulla sabbia. I capelli avevano un’attaccatura piuttosto alta e lasciavano scoperta la fronte alta segnata da qualche ruga appena accennata. Erano scuri, ruvidi al tatto - li feci scorrere più di una volta tra le mie piccole mani - lunghissimi e coprivano un gran tratto di sabbia. Alcuni insetti si erano insinuati tra i capelli e ogni tanto comparivano allo scoperto per poi eclissarsi alla mia vista nei grovigli inestricabili di quelle masse scure. Il corpo era nudo, i seni grossi e flaccidi, mentre i capezzoli erano duri al tatto, li toccai con le mie manine incuriosito da quegli strani bitorzoli scuri - tali mi parevano nella mia inesperienza - poi, prendendone uno tra il pollice e l’indice e sollevandolo, feci oscillare
il seno per qualche attimo, quindi, mollando la presa, lo feci ricadere sul corpo. Com’era inerte e floscio quel seno! Dava proprio l’idea della morte, dell’interruzione di ogni vitalità. Ma ciò che mi colpì maggiormente fu il ventre, enorme, mostruoso, quasi a piramide, quasi un vulcano - l’idea del vulcano me lo dette l’ombelico, grande, slargato - mi sembrava innaturale nella sua mostruosa goffaggine. Con i miei piccoli pugni cominciai a tempestare quel ventre teso come un tamburo quasi che volessi verificare l’esattezza della mia ipotesi che cioè lì dentro ci dovesse essere tanta acqua da poterla farla uscire da qualche parte per mezzo di una vigorosa percussione. Un sordo rumore appena udibile si levava da quel tambureggiamento e insistetti per qualche attimo fino a quando capii che non sarei riuscito nel mio intento. Smisi di percuotere il ventre e continuai ad osservare il corpo dell’annegata. Le gambe lunghe dai polpacci muscolosi erano divaricate e mostravano la peluria del sesso. La pelle, sull’intero corpo, era pallida con chiazze livide. Formiche s’inerpicavano velocemente sulle gambe, le braccia, le mani e i piedi, si aggiravano sulle ampie superfici del corpo. Alcune tentavano perfino la scalata del vulcano, mentre altre s’inoltravano nel ricciuto groviglio di peli che incorniciavano il sesso. Ormai quel povero corpo non suscitava in me nessuna sensazione particolare né di terrore né di compassione, era solo un enorme giocattolo diverso dagli altri, un’occasione unica per giocarci un po’. L’idea che nel ventre dell’annegata ci dovesse essere tanta acqua e il desiderio di vederla uscire fuori m’indussero a saltare sul ventre e a comprimerlo più volte con i miei piedini con una foga quasi ossessiva. Quando mi accorsi che i miei sforzi erano inutili e stanco di giocare con quell’inusitato giocattolo - e forse timoroso del ritorno degli uomini - mi decisi a ricoprire il cadavere con il telo e ad allontanarmi dalla morte. La voce continua a parlare: “Più tardi passa dall’agenzia. Avrai le istruzioni del caso. Chiaro?” La voce cessa di parlare. Riappendo il ricevitore e ritorno a letto. I raggi del sole entrano nella stanza mettendo a nudo lo squallore che vi regna, socchiudo gli occhi per sfuggire al forte chiarore che si è diffuso per la stanza, poi li riapro e fisso il soffitto. L’intonaco presenta qua e là fessure, alcune sottili e simmetriche, altre grosse e frastagliate. Chiudo gli occhi stringendo un po’ le pupille, poi metto in moto la fantasia. La rappresentazione è imprevedibile, pittoresca, sontuosa. Dal nero compaiono, provenienti da insondabili lontananze, motivi floreali dai colori più diversi che s’intrecciano in figure geometriche e in mosaici sconosciuti alle possibilità umane. Poi, all’improvviso, tutto ripiomba nel nero, nel nulla.
Mi piace questo giochetto e lo ripeto fino a quando gli occhi cominciano a bruciarmi e a lacrimare. Era stato un brutto sogno, un incubo. Quell’essere spaventoso tra l’umano e il fantastico si sporgeva dalla finestra che potevo scorgere dalla mia camera e mi fissava intensamente. Pareva che volesse inviarmi un messaggio, qualcosa di molto importante per me. Quando mi svegliai, mi accorsi che sudavo abbondantemente e il terrore del buio mi travolse. Corsi alla ricerca dei miei genitori nella camera accanto e solo la loro presenza valse a tranquillizzarmi un po’. Cosa voleva dirmi quello strano essere? Perché il ricordo di quel lontano incubo si riaffaccia ancora ora alla mia mente? -. L’acqua che scivola sul mio corpo cancella ogni traccia di sogno. Ora il reale è più che mai percettibile attraverso la gradevole sensazione di freschezza che mi pervade tutto. L’acqua viene giù dalla doccia fitta, a pioggia e posso distinguere le centinaia di gocce che scivolano velocemente sulla mia pelle. Esco dalla doccia che occupa una piccola parte della mia stanza - è un lusso che pago caro, infatti l’affitto è molto alto in rapporto alle dimensioni e alla decenza dell’ambiente - e osservo il ruscelletto d’acqua che scorre dalla pedana di legno diffondendosi sul pavimento a velocità sostenuta. Mi dilungo nella ricerca del sapone che è scivolato sotto la pedana, lo recupero e lo rimetto nell’astuccio di plastica rosso. Asciugo con uno straccio il ruscelletto d’acqua, indosso un accappatoio di spugna giallastra - è ormai vecchio e in più parti le fibre di spugna sono assai malandate, logore per un naturale processo d’invecchiamento - apro la finestra e mi lascio inondare dai raggi del sole. Guardo il sole per qualche attimo - mi piace fissare l’enorme astro e cercare di resistere il più possibile al suo accecante potere, sfidarlo in un impari duello - , chiudo gli occhi - ho la netta sensazione di vedere un sole in negativo con i contorni splendenti - , li riapro riadattandoli alla luce, guardo il cielo, è azzurro con rade nuvole bianche dalle forme un po’ strane - chissà perché le forme delle nuvole appaiono sempre un po’ strane ad un osservatore umano - la profondità del cielo mi getta per qualche attimo in uno stato di profonda angoscia - è come se sentissi sopra di me il peso dell’oceano Pacifico, una sensazione opprimente - , alcuni uccelli sfrecciano davanti a me diretti chissà dove e alla ricerca di chissà che cosa. La mia stanza è all’ultimo piano di un palazzo in puro stile liberty ed è un ottimo posto di osservazione. Sopra di me c’è solo il tetto con qualche antenna televisiva. Il palazzo ha un aspetto fatiscente, esternamente l’intonaco è screpolato e in qualche tratto è venuto via, il portone, enorme, lotta disperatamente contro il tempo, l’androne è immenso e sporco, vi sono due grossi bidoni per rifiuti, la guardiola del custode è vuota - il custode è morto da qualche anno e non è stato ancora rimpiazzato le scale ampie con gradini alti ricoperti da un sottile strato di sudiciume - vengono lavate una volta al mese da una donna ad ore-, l’ascensore è rotto da tempi immemorabili e giace nella sua gabbia
ricoperta di ruggine, le pareti sono screpolate, sporche, ricoperte da scritte volgari, devo salire almeno centocinquanta scalini per arrivare alla mia stanza. Sotto la mia finestra c’è una grondaia ricoperta da muschio verde, sotto, la pietra è sbocconcellata dall’umidità, dagli organismi vegetali e dagli elementi, mi piace guardarla, riconoscere le colonie di muschio che si sono installate da anni su quel territorio e che di mese in mese si estendono sempre di più. A volte un passero, un piccione o un altro tipo d’uccello si poggia per qualche attimo sulla grondaia cercando quelle briciole di pane che coscienziosamente depongo ogni giorno su quel lembo verdastro di pietra. Però non sono riuscito finora a fare amicizia con loro, mi temono eppure sanno che il cibo che trovano proviene da me. Nonostante la mia buona volontà incuto diffidenza negli uccelli e forse negli uomini dal momento che non ho molti amici degni di questo nome. Giocavamo spesso insieme a pallone, alla guerra, andavamo per i campi alla ricerca di nidi di uccello e sulle rive del mare a prendere i granchi con le mani. Era un bambino più giovane di me di un paio d’anni, piuttosto gracile, poco espansivo. Fu l’unico mio vero amico per un certo periodo di tempo, poi le nostre famiglie ebbero destini diversi e si divisero. Ora c’incontriamo di rado e non siamo più amici come prima -. L’aria fredda del mattino scivola sulla mia pelle al di sotto dell’accappatoio, la sensazione di freddo è intensa, mi viene la pelle d’oca, starnutisco più di una volta, perciò socchiudo i vetri e vado a prepararmi il caffè. In un angolo della stanza, su un tavolino metallico con piano di marmo - è un rettangolo di marmo grigio con venature nere, gialle e rossastre, con un angolo scheggiato e una profonda lesione longitudinale - ho sistemato un fornelletto elettrico e me ne servo per prepararmi la modesta colazione mattutina - un caffè, a volte vi aggiungo un po’ di latte se mi ricordo di comperarlo. Do uno sguardo in giro alla ricerca della piccola caffettiera - sono molto disordinato e non riesco a mettere gli oggetti che uso normalmente al loro posto consueto -, di solito la metto sullo scaffale che ospita qualche libro - non mi piace leggere e perciò lo scaffale è semivuoto -, questa volta è al suo posto - sarà un caso, evidentemente -, seminascosta da un grosso dizionario d’inglese dalla copertina blu ancora nuovo - a volte faccio traduzioni dall’inglese per conto di qualche ditta, sono un autodidatta e credo di avere imparato l’inglese presto e bene anche se non riesco a parlarlo decentemente per mancanza d’esercizio, anzi, quando tento di parlare in inglese mi dicono che ho l’accento di Oxford, ma è chiaro che si tratta di una presa in giro. A proposito del dizionario mi viene in mente che devo restituirlo alla biblioteca la prossima settimana, altrimenti non me lo prestano più e in quanto a comperarlo non se ne parla neppure perché nuovo costa un mucchio di soldi ed io normalmente non ne ho, ma se ne avessi non comprerei certo un grosso dizionario d’inglese.-, il caffè macinato si trova in un
sacchetto di carta tra due bottiglie di wishy semivuote (un Haig e un Ballantine’s), hanno una storia queste due bottiglie, me le ha regalate due settimane fa una ragazza, una che fa l’amore con me spesso, ha quindici anni e frequenta la scuola media, ma è una donna già fatta, un bel pezzo di ragazza di nome Gianna, penso di essere stato io il suo primo uomo, dico penso perché la prima volta feci una faticaccia ad entrare dentro di lei, però non uscì neppure una goccia di sangue, la Gianna mi ha detto che prima del mio non aveva mai visto un membro maschile, neppure su un giornale pornografico, lei del resto ha studiato dalle monache fino all’anno scorso e la televisione non la vedeva quasi mai e non poteva leggere la roba che le ragazze della sua età leggono normalmente. Infilo un cucchiaino nel sacchetto di carta, riempio la caffettiera di caffè - a volte mi dimentico di metterci l’acqua e allora si brucia la guarnizione di gomma -, avvito con energia - a volte con rabbia quando sono di umore nero -, deposito la caffettiera sul fornelletto, infilo la spina e aspetto di vedere i cerchi concentrici incandescenti questo fornelletto consuma un sacco di energia elettrica , però non posso sostituirlo con nessun altro aggeggio. Sto lì ad aspettare che il caffè venga su, con l’accappatoio che mi si apre sul davanti - non mi piace stringere la cintura, mi dà fastidio perché ho l’impressione di non respirare come dovrei - ed i piedi nudi sul pavimento. Finalmente il sibilo familiare e le nuvolette di fumo biancastro mi avvertono che il caffè è pronto. Lo verso così com’è, cioè bollente, in una tazzina - i disegni che si possono ammirare su questo manufatto sono soggetti floreali stilizzati dai tenui colori con predominio del celeste, peccato che il manico si sia spezzato nella parte centrale per cui ora restano due poveri tronconi biancastri, uno superiore, breve e rettilineo, uno inferiore, lungo e arcuato verso l’alto -, lo zucchero appena - altrimenti l’aroma del caffè si perde nella banalità del dolciastro - e poi lo bevo tutto d’un fiato, se mi è possibile - spesso il caffè bollente mi procura una sgradevolissima sensazione di bruciore allo stomaco che mi scombina la degustazione di questa bevanda, purtroppo l’impazienza di bere il caffè, cresciuta a dismisura durante la rituale attesa davanti alla caffettiera, m’impedisce di prendere nella dovuta considerazione la sgradevole eventualità or ora ricordata. Sciacquo la tazzina nel lavandino, - non mi piace vederla sporca, sarebbe un oltraggio alla bellezza del disegno e alla purezza dei colori - e la rimetto al suo posto - mi serve da soprammobile e qualche volta, non dovrei dirlo, da portacenere. Svito la caffettiera, getto il caffè sfruttato nel lavandino, lavo il tutto e l’asciugo con uno straccio bianco. Con la mano, aiutandomi con il getto dell’acqua, mando via i residui che si sono depositati sul lavandino - fanno un certo effetto tutti quei puntini scuri sul bianco un po’ opaco della porcellana. Mi accosto allo specchio posto sul lavandino e mi guardo passandomi una mano sul mento. Devo farmi la barba, questa sera devo essere presentabile, mi dico, cercando di trovare una valida giustificazione per un’operazione che non mi garba. Con la riluttanza di sempre mi inumidisco la faccia con quel poco di acqua tiepida che arriva tra mille difficoltà fino al mio
rubinetto, premo la valvola della bomboletta spray raccogliendo tra le dita della mano destra un bel po’ di schiuma istantanea candida come la migliore neve montana, me la passo sul mento e sulle guance con studiata lentezza - forse questo è l’unico atto dell’operazione barba che non mi è sgradito -, poi lentamente passo il rasoio di sicurezza sulle superfici innevate - si fa per dire asportandone ampi tratti che faccio sciogliere sotto il getto del rubinetto. Nonostante ogni accortezza, spesso non riesco ad evitare tagli più o meno sanguinosi - ho la pelle molto delicata che si rompe facilmente sotto l’azione della lama - e allora mi attardo a guardare i rivoletti di sangue che si aprono la strada tra la coltre bianca della schiuma - un effetto estetico non trascurabile - fino a che il bruciore della piccola ferita non mi richiama alla realtà. Ora che il mio viso è ritornato liscio - mi piace passarmi delicatamente il palmo della mano sulle guance rasate e trattate con il dopobarba, la sensazione di fresco è veramente gradevole -, esamino allo specchio l’effetto generale della rasatura. Sono soddisfatto del mio viso - non è bello nel senso estetico della parola perché ho il naso un po’ grosso, virile senza dubbio, le labbra leggermente tumide e le orecchie un po’ a sventola, però nel complesso ho una certa aria che affascina le donne e che mi consente di campare alle loro spalle. Tre colpi ritmici bussati alla porta interrompono le mie considerazioni. E’ la Gianna, solo lei può bussare tre colpi alla mia porta - glielo ho detto io di fare così, non ricordo per quale motivo, forse per creare una certa atmosfera, chissà. Apro la porta, è proprio lei, la invito ad entrare con un cenno della mano. Le sorrido, la bacio sulle labbra, rapidamente, poi chiudo la porta. La Gianna è ora accanto a me, mi porge un cornetto avvolto in un tovagliolino di carta e una bottiglia di latte da un litro - quando la ragazza viene a trovarmi di mattina non dimentica mai di portarmi un cornetto e una bottiglia di latte. - Buongiorno, commediante - mi dice, sorridendo. Il sorriso è molto affascinante, le labbra carnose scoprono denti bianchi sani e ben allineati, potrebbe fare la pubblicità a qualche marca di dentifrici, è eccitante quando pronuncia la parola “cheese”, glielo ho insegnato io a pronunciare questa magica parola, le ho detto che le attrici più belle e più famose del cinema, quando sorridono, pronunciano “cheese”, ci vuole stile a dire “cheese”, le ho anche detto, poche riescono a ripetere la parola magica nella dovuta maniera e ad ottenere un risultato apprezzabile. Depongo il cornetto e la bottiglia sul piano di marmo, la invito a sedersi sul letto ancora sfatto - di sedie ne ho una sola ed è stracarica di vestiti. - Cosa fai di bello, commediante? - insiste la Gianna appoggiando lo zainetto pieno di libri a terra accanto al comodino. Mi chiama commediante perché dice che mi piace recitare e che riesco a sostenere bene ruoli diversi. Certo è una sua idea, ma forse
non è del tutto sballata. C’è qualcosa di istrionico nel mio comportamento - vado a cinema spesso e mi piace copiare certe pose divistiche - e non di rado assumo atteggiamenti lungamente studiati allo specchio per fare presa sulle signore che accompagno, probabilmente si tratta di una specie di artefatto psicologico per vincere la mia naturale timidezza. Non le rispondo subito, mi verso del latte in un bicchiere e lo assaggio gustandone la freschezza. - Posso trattenermi poco, oggi. Fra un’ora iniziano le lezioni. Si stende sul letto divaricando le gambe. E’ una donna ormai fatta, la Gianna. Ha capelli castani molto chiari, lunghi fin oltre le spalle, un corpo slanciato, seni sodi ben sviluppati, gambe lunghe e piedi un po’ grandi. Gli occhi sono azzurri, le ciglia lunghe e curate, la pelle di un bianco avorio senza alcuna traccia di acne giovanile. Oggi indossa una camicetta scollata, un maglioncino color pervinca e una gonna scozzese plissè, porta tacchi alti che slanciano ancora di più il suo giovane corpo. La Gianna mi guarda senza parlare, poi mi fa cenno di baciarla. Depongo il bicchiere, mi asciugo la bocca con il dorso della mano, mi siedo sul letto all’altezza del suo bacino e mi chino a baciarla. Lei mi stringe forte forte, i suoi baci sono perfetti, la lingua mobilissima cerca inesplorate zone erogene. Poi all’improvviso si stacca da me. - Vorresti fare l’amore, commediante? - me lo chiede con naturalezza, ormai abbiamo fatto l’amore almeno una decina di volte. - Certo che vorrei. Non lo vedi? - le faccio, indicando l’accappatoio che si è completamente aperto sul davanti. - Lo vedo - è la sua risposta, sorride con furbizia . - Purtroppo non se ne fa niente, almeno per oggi - aggiunge, sospirando - Abbiamo poco tempo a disposizione. E poi, lo sai, quando faccio l’amore sudo e divento rossa in viso. A scuola se ne accorgerebbero, forse. - Perché non fai sciopero oggi? Ci sarà pure un motivo per scioperare- le dico nel vano tentativo di farle cambiare idea (ormai la conosco bene, quando prende una decisione è irremovibile). - Non posso. Ho il compito in classe di matematica. Devo proprio farlo bene, altrimenti rischio un pessimo voto sulla prossima pagella. Quando parla così, mi fa tanta tenerezza, perché è una bambina cresciuta nel fisico, già esperta nei giochi del sesso ma ancora legata al mondo ingenuo dell’adolescenza. - Mi dispiace proprio - le dico sinceramente deluso - Ci avevo fatto un pensierino. Mi prende il viso tra le mani e lo avvicina al suo. Mi sfiora le labbra, poi, inclinandomi il viso, mi bacia il lobo dell’orecchio destro. Per un attimo la sua lingua mi inumidisce l’orecchio. Ho un brivido di piacere, è un attimo. - Domani pomeriggio - mi fa quasi per risollevarmi il morale - Ti va domani pomeriggio? Ti prometto che mi avrai per almeno tre ore. Faccio un cenno d’assenso con la testa. Infilo la mano sotto il maglioncino, le sbottono la camicetta e le accarezzo i seni - non
porta il reggiseno come tante ragazze della sua età. Le sfioro i capezzoli delicatamente e la Gianna ha un brivido che avverto nettamente. - Smettila! - mi dice, allontanando la mia mano - Se mi ecciti, mi fai star male tutta la mattinata. Proprio oggi che ho il compito di matematica. Mi afferra la mano incriminata, se la porta alle labbra e me la bacia. - Non mi hai mai chiesto se i miei genitori sospettano la nostra relazione - mi dice in tono serio. Facendo pressione sulla sponda del letto si è intanto liberata delle scarpe che cadono sul pavimento con rumore. - Non m’importa se i tuoi sappiano o meno della nostra relazione. E’ una faccenda di secondaria importanza, non credi? - Può darsi. Ma per i genitori il discorso è diverso nel senso che essi hanno una certa responsabilità nei confronti dei figli. Ci sono dei momenti in cui la Gianna prova un certo rimorso per la relazione che ha con me. Almeno così credo. - Una volta mi hai detto che tua madre ha un amante, un ragazzo della mia età. - Ce l’ha il ragazzo, è vero. Ma forse la colpa è di mio padre…. - La trascura? - Bè, lui è un tipo che pensa solo a fare soldi. Lavoro e basta. Capisci? Quando la Gianna parla dei suoi genitori, e lo fa raramente, il suo tono è severo, sembra che voglia rimproverarli per la loro condotta. In fondo la ragazza ha una morale ben salda di tipo tradizionale e perciò, a volte, si rimprovera di non comportarsi come molte ragazze della sua età che pensano più ai problemi scolastici che ai rapporti sessuali. - Mi piacerebbe conoscere tua madre - dico, tanto per sdramatizzareDeve essere una bella donna come te… Non mi fa terminare la frase che mi ficca le unghie - sono lunghe, ben curate, ricoperte di smalto rosa - nelle mani. E’ gelosa e spesso mi piace toccare il tasto della gelosia. - Provaci! - mi dice, mostrando i denti. - Ad ognuno il suo - è il mio commento. Lei mi sorride, sembra ritornata distesa e tranquilla come prima. Guarda l’orologio da polso. - Posso restare ancora una ventina di minuti, maschiaccio. Si alza dal letto, s’infila le scarpe, si accosta allo specchio ricomponendosi i capelli. - Sono bella, vero? - mi chiede guardandosi nello specchio con civetteria femminile. - Certo, sei bellissima - è un complimento che accetta sempre volentieri. La presenza della Gianna turba notevolmente il mio equilibrio mattutino. Lei se n’è accorta, le dispiace dovermi lasciare in questo stato di eccitamento non soddisfatto. Deve saperlo per esperienza che è duro non potere soddisfare i sensi eccitati. - Sdraiati sul letto, maschiaccio. Cercherò di lenire le tue pene. Mi sorride e mi strizza l’occhio.
Non mi faccio ripetere l’invito e mi stendo sul letto. La Gianna mi toglie l’accappatoio, ora sono completamente nudo, l’aria che penetra dalla finestra semi aperta, fresca, mi procura una gradevole sensazione di leggerezza. La Gianna con arte istintiva fa scivolare le dita affusolate sulla mia pelle, dolcemente, con grande delicatezza. Socchiudo gli occhi, ora avverto le labbra che si poggiano su certe zone erogene del mio corpo sfiorandole appena, ora è invece la lingua che scivola sui capezzoli soffermandosi per qualche attimo - il tempo è scelto con rara abilità, forse esiste in questi istanti una specie di comunicazione telepatica tra noi due per cui la Gianna riesce a cogliere i miei più intimi desideri - poi parte all’assalto - si fa per dire, perché la sua lingua agisce con la delicatezza di sempre - di altri obiettivi fino a quando si sofferma sul membro. Salivo la scalinata ed ero tutto emozionato. Non avevo mai visto, prima di allora, un bordello. Il palazzetto, all’esterno, aveva un aspetto pretenzioso piccolo-borghese. La prostituta, una bella donna alta vestita in abito da sera - era verde, lungo, ricco di veli -, mi precedeva ancheggiando sui tacchi alti. Poi mi fece cenno d'entrare. Si tolse l’abito da sera e si sedette nuda sul letto a due piazze. Mi disse di lavarmi il membro - aggiunse che l’igiene è necessaria nei rapporti sessuali in quanto evita molte malattie veneree - e m’indicò il lavandino. Mi sentivo uno straccio, quella donna mi turbava e m’intimidiva nello stesso tempo, non avevo avuto rapporti completi prima di allora, non sapevo come comportarmi, la prostituta non era in vena di dare consigli, sembrava che avesse fretta, voleva che pagassi per una “doppia”- forse intuiva che avrebbe dovuto lavorarmi più del previsto. Mi lavai il membro con cura, l’acqua era calda, c’era un piccolo asciugamano attaccato al muro. Quando mi avvicinai alla prostituta, capii che senza aiuto non avrei fatto niente. Tutto si era bloccato dentro di me, il membro pendeva inerte ed io deglutivo nervosamente. La donna, senza tanti complimenti, afferrò il membro con la bocca - era grande, i denti irregolari, le labbra carnose e rosse, si era data il rossetto poco prima di entrare nella stanza - e cominciò a tirarlo su e giù fino a quando non lo vide diventare turgido ed eretto. Poi con rapidi colpi di lingua - non vi era delicatezza in quei movimenti, erano meccanici, impersonali cominciò ad accarezzarlo dapprima lentamente poi con una certa foga. Quando lo liberò dalla presa, lo toccò quasi a tastarne la durezza - era curioso vedere il membro ricoperto di rossetto, sembravano macchie di sangue - poi m’invitò a penetrare in lei. Ora provo un piacere intenso, la lingua avvolge il membro in una rete di caldi abbracci, scivola decisa - ma con quanta delicatezza! sulla carne, ora le labbra stringono il membro quasi a volerne valutare la durezza, ancora la lingua, piccoli baci, il piacere s’intensifica, sono sul punto di venire…. La Gianna si stacca da me all’improvviso e va a sputare nel lavandino. - Cavolo! Perché non mi hai avvertita che stavi venendo? - sembra arrabbiata, continua a pulirsi le labbra con un fazzolettino. - Mi dispiace - le dico - Un’altra volta ti avvertirò in tempo.
Mi alzo, indosso l’accappatoio e vado a lavarmi il membro. - Vuoi un po’ di latte? - le chiedo indicando la bottiglia. - Sì, dammene mezzo bicchiere. Ho in bocca quel certo sapore…. Sorride. E’ bella, la Gianna, soprattutto ora che sono ancora sotto l’effetto dell’orgasmo. Le porgo il bicchiere di latte, la Gianna lo beve lentamente, sciacquandosi la bocca, poi ne sputa un po’ nel lavandino. - Tutto a posto? - le chiedo ad un tratto. Mi sto ricordando che devo darle alcuni “pregnancy tests” che ho comperato in farmacia. Sul momento non capisce, quando le faccio vedere la confezione che già conosce, sorride. - Tutto a posto. Almeno per ora. Speriamo che le cose vadano sempre bene. - Ti dispiacerebbe restare incinta? - la mia domanda è volutamente provocatoria. - Certo che mi dispiacerebbe. Ma non accadrà. Le pillole sono sicure. Me lo ha detto un amico medico. - E’ quello che ti fornisce le pillole? - faccio finta di essere geloso, le fa piacere che io sia geloso dei suoi amici - Non mi piace che lui sappia… - Non sa un bel niente. E poi non è il mio tipo. Cerca di rassicurarmi sulla sua fedeltà. Poi, quasi soprappensiero, aggiunge: - Un amico medico è sempre utile. - Per abortire? - Sei tremendo, a volte. - Abortiresti se fosse necessario? Tace. E’ incerta se considerare l’aborto un peccato, come le hanno insegnato le monache. Si stringe nelle spalle. - Può darsi. Mia madre ha abortito una volta, qualche anno fa. Me lo ha detto di recente mentre si parlava di aborto. - Si sente in colpa tua madre per avere abortito? - Uffa, sei uno strazio. Quando usa queste espressioni vuol dire che l’argomento è troppo complesso e le risposte troppo impegnative per lei. - Rispondi. Si fa per parlare - insisto. - Non so cosa lei abbia provato. Non me ne ha parlato. So solo che è amareggiata perché il suo confessore le nega l’assoluzione. Sai, per la Chiesa è peccato abortire. - Lo so. Ma vedrai che cambieranno idea con il tempo - mi piace fare previsioni - Siamo in troppi sulla terra. E non ci sarà più posto per tutti. La Gianna scrolla le spalle, a questo punto il discorso va oltre i suoi interessi immediati e perciò bisogna chiuderlo. Raccatta lo zainetto con i libri, mi dà un bacio sulle labbra, apre la porta e mi dice: - Domani mattina ti telefono. Mi fa un cenno di saluto con la mano, mi sorride un’ultima volta, poi chiude la porta dietro di sé.
§§§ Sono trascorsi alcuni minuti dal momento in cui la Gianna mi ha lasciato e già mi pare che sia trascorsa un’eternità. Ho bisogno della Gianna, del suo giovane corpo, mi piace vederla soddisfatta dopo l’orgasmo, è uno spettacolo incomparabile della natura…. Accidenti, qualcuno sta bussando alla porta, con insistenza. Indosso la camicia rigata che vedo appoggiata sulla sedia, m’infilo un paio di pantaloni, i primi che mi capitano a portata di mano, poi, lanciando qualche imprecazione all’indirizzo del nuovo visitatore, apro la porta con cautela. E’ lui, l’uomo dal vestito nero, quel bastardo del mio locatore. Sembra seccato, gli occhi mi fissano in maniera strana, di sbieco, solo ora mi accorgo che l’uomo è un po’ strabico. Si mordicchia le labbra, sembra pronto a lanciarmi una fiumana di accuse e di rimproveri. Tira su con il naso, mi punta contro l’indice della mano destra, mi sfiora, mi ritraggo d’istinto, quel dito grigiastro e grinzoso mi ripugna. Poi mi faccio forza e con un gesto lo invito a varcare la soglia. Lui, dal canto suo, ha già piazzato il piede destro al di là della linea di demarcazione tra il pianerottolo e l’ingresso della mia stanza. - E allora, giovanotto? Le parole gli escono fuori con difficoltà, la cadenza mi è insopportabile. - Dica pure, brav’uomo. Spero che capisca il retroterra psicologico della parola “brav’uomo” ma mi rendo conto di chiedere un po’ troppo ad un cervello così limitato. Credo che non capisca il significato della parola “humour”. Lui mi guarda quasi risentito, mi scansa con una mano, fa qualche passo all’interno della stanza lanciando sguardi indagatori e ansiosi ansiosi, perché? teme forse qualche mia reazione imprevedibile? - , si accosta al letto disfatto, sembra volere ritornare sui suoi passi, cambia idea, mi si accosta più vicino. Ora il suo alito sgradevole incombe su di me come un’oscura minaccia. - Giovanotto, quando ti decidi a pagarmi gli arretrati? Il suo sguardo è decisamente minaccioso. Il tono confidenziale che usa sempre nei miei riguardi mi è intollerabile, in fin dei conti non abbiamo nulla da spartire e tutto sommato un po’ di rispetto me lo merito, non è vero, bastardo? - Temo di non capire - gli rispondo, fingendo di non comprendere il significato delle sue parole. - Mi devi tre mesi di affitto arretrato, giovanotto - insiste rozzamente - Non fare il finto tonto. Tace per qualche attimo, poi aggiunge: - Paga e basta. Vuole a tutti i costi ricordarmi il peso del mio debito, forse ci prova gusto a mettermi in mora e in imbarazzo. - E allora? Mi viene da ridere, non riesco a trattenermi, tramuto il riso in un sogghigno.
- E allora mi devi pagare. E subito. Altrimenti… Alza il braccio verso l’alto quasi ad attirare su di me l’ira di qualche potenza infernale. Non gli rispondo subito, mi piace ponderare ogni parola che uso, soprattutto in casi come questi. Finisco di vestirmi, mi aggiusto la cravatta regimental che uso normalmente con il blazer, mi pettino con cura guardandomi allo specchio, in altre parole ignoro volutamente la sua presenza. Lui rimane sconcertato e se ne sta lì, fermo a mezzo metro dalla soglia, nell’interno, e mi osserva con un’aria da cretino. Poi, finalmente, mi volto verso di lui, gli do un colpetto sulla spalla, con affabilità, e gli dico: - Mi ascolti, brav’uomo. Oggi come oggi non possiedo la somma che lei pretende da me. Tuttavia… (m’interrompo per creargli una certa atmosfera di suspense)… tuttavia le prometto che entro i prossimi giorni avrà quanto mi chiede. Parola di… Lui si soffia il naso, ha capito che con me le maniere forti non producono alcun effetto, cerca di darsi un contegno, si mette le mani in tasca guardando pensosamente verso la finestra. Un raggio di sole lo colpisce in mezzo agli occhi costringendolo ad abbassare lo sguardo. - Parola di…- ripete con una certa delusione. Forse vorrebbe aggiungere qualcosa di offensivo nei miei riguardi ma ci rinuncia. Evidentemente teme una mia reazione più che giustificata. - E’ l’ultima volta che vengo a ricordarti il tuo debito - mi dice con una certa cattiveria nella voce - La prossima volta ti sfratto senza tanti complimenti. Hai capito? Ti sfratto. Mi gratifica del solito gesto ammonitore. Alzo le spalle come risposta. - Credo di essere stato chiaro, giovanotto. Senza salutarmi varca la soglia e sparisce alla mia vista. Con un calcio chiudo la porta, energicamente. Anche il sordo rumore che ne segue vale a ricordargli il mio stato d’animo. Mi cambio i pantaloni, ne infilo un paio di flanella pura lana, indosso il blazer blu notte che fa tanto Bond Street, mi aggiusto la cravatta, do una lustratina agli stivaletti a punta ultima moda, mi guardo allo specchio compiaciuto. Scendo le scale sporche con passo elastico, le parole dell’uomo dal vestito nero mi hanno messo di buon umore. L’arretrato? Glielo pagherò in qualche modo. Il denaro era lì, nel cassetto del bancone, in biglietti di banca consunti dall’uso. Denaro di operai, impiegati, casalinghe. Assieme a Carlo li contai almeno due volte. Era un sacco di denaro. Nella tabaccheria regnava l’oscurità più assoluta. Erano le due di notte e la guardia notturna sarebbe passato solo tra una ventina di minuti. L’idea di alleggerire il tabaccaio era venuta a Carlo. Lui conosceva bene l’ubicazione dei locali, le abitudini del tabaccaio e il percorso compiuto abitualmente dalla guardia notturna durante il suo giro d’ispezione. Attaccammo la tabaccheria nel suo punto più debole,
una vecchia finestra che immetteva nel retrobottega e che si elevava a poco meno di due metri da terra, nel cortile interno di un vecchio palazzo abitato da famiglie di operai. Non ci fu difficile forzare la vecchia finestra e penetrare nell’interno. L’incasso era nel cassetto del bancone perché il tabaccaio riteneva quel posto il più sicuro tra tutti, meglio di una cassetta di sicurezza nella banca più protetta. Non facemmo alcun rumore e la luce della lampada tascabile di Carlo proiettava strane ombre sulle pareti della tabaccheria. Forzare il cassetto e asportarne il contenuto fu un affare di pochi minuti. Quando uscimmo, tremanti ma soddisfatti, attraverso la vecchia finestra ci parve di avere conquistato il mondo. Avevamo in tasca un sacco di denaro. Nessun rimorso per quanto avevamo fatto, eravamo tranquilli al cento per cento. Naturalmente, nel corso della giornata, ci fu un certo andirivieni di gente curiosa e comparvero anche alcuni poliziotti ben intenzionati a scoprire gli autori del furto. La conclusione di quella storia fu che il tabaccaio cambiò le sue abitudini, la polizia dovette archiviare il caso attribuendo il furto ai soliti ignoti e noi, a poco a poco, con oculatezza, spendemmo il frutto della nostra impresa. -. Ho bisogno di un nuovo rasoio di sicurezza, il vecchio è da gettare via. Entro in un supermercato di grandi dimensioni, un gigante nel suo genere. Tutto è in bella mostra, le luci abbagliano il cliente, lo ipnotizzano, tutto è architettato in modo da costringerlo a comperare anche ciò che non gli occorre creandogli bisogni illusori. Probabilmente Marcuse è del mio stesso avviso. Liquidiamo la pubblicità , gli spot televisivi, i vari persuasori più o meno occulti e avremo liquidato la società dei consumi. Semplicistico? Forse. Ma non siamo in pochi a pensarla così. In un supermercato tutto è alla portata di tutti. Basta allungare una mano e il prodotto è tuo. Se poi ti occorra o no, è un problema secondario. Importante è afferrarlo, contemplarlo - con soddisfazione? - alla luce abbagliante del neon, stringerlo tra le mani. Che preda! Che bella preda! E poi alla cassa, a pagarlo. Delusione? No. Soddisfazione, forse. Valla a capire la psicologia del consumatore medio, probabilmente fa a pugni con la logica, ma che importa? Una graziosa commessa mi sorride. Forse mi sta scambiando per qualche suo conoscente. Mi avvicino al settore dei prodotti da toeletta, afferro un rasoio di sicurezza di marca e con destrezza lo faccio sparire nella tasca destra del blazer. Do uno sguardo in giro. Nessuno ha notato il mio gesto, almeno così mi pare. Non mi pongo alcun problema per il gesto appena compiuto. Non è una questione di denaro, posso pagarmi il rasoio di marca, ma mi piace sfidare l’atmosfera - come definirla? di perbenismo? - che mi circonda, del resto non sono il solo a cimentarmi in questi giochetti di destrezza, ogni giorno, in ogni supermercato, decine di persone (impiegati, professionisti, operai, casalinghe, barboni) si cimentano in questo sport. Sto per dribblare la cassa più vicina sorridendo alla cassiera che vi siede dietro, quando un leggero tocco alla spalla sinistra mi blocca
completamente. E’ duro farsi pizzicare quando la riuscita dell’impresa sembra sicura. L’uscita è a due passi, peccato. Mi volto di scatto, l’espressione del mio viso rivela noncuranza e forse noia. La faccia dell’uomo, massiccia, quasi gonfia, con due piccoli occhi neri e labbra grosse, mal rasata, fuga ogni mio dubbio residuo. Non mi dice una parola, forse dà più importanza ai gesti che alle parole. Mi fa cenno di seguirlo. Mi faccio suggestionare da quel comportamento tranquillizzante, ipnotico e lo seguo. Saliamo una rampa di scale. L’uomo mi fa cenno di entrare in una stanza arredata con mobili metallici da ufficio. Un’impiegata mi guarda con commiserazione, mi pare di essere stato già giudicato e condannato. Il giovane dietro alla scrivania più grande mi pare allegro. Sorride nel vedermi, divertito. - E’ un altro, ragioniere - gli dice il sorvegliante puntandomi l’indice all’altezza del collo. - Un rasoio di sicurezza - aggiunge quasi disgustato. Il giovane sorride ancora, ha un paio di occhiali dalla montatura metallica, mi fa cenno di sedermi. Poi, all’improvviso, mi dice: - Perché ha rubato il rasoio di sicurezza? - E’ un equivoco, ragioniere - gli rispondo, fingendomi risentito - Io rubare rasoi!? Ma via, ragioniere, come può pensare che una persona come me possa rubare un rasoio di sicurezza! E’ridicolo. Supremamente ridicolo. La parola “supremamente” provoca uno scoppio d’ilarità nel ragioniere che subito riassume l’aria severa di prima. - Lei ha rubato un rasoio di sicurezza - ripete il ragioniere - Perché vuole negare l’evidenza? Il nostro sorvegliante, qui presente, l’ha vista nell’atto di intascare il rasoio. Il sorvegliante fa un cenno d’assenso. Prendo il rasoio dalla tasca e lo colloco sul piano della scrivania, di fronte al ragioniere. - Non so che cosa mi abbia preso - gli dico con aria afflitta - Certo, ho messo il rasoio in tasca, ma mi creda, ragioniere, non avevo alcuna intenzione di rubarlo. Sa, a volte, soprappensiero, può capitare. - Così dicono tutti - il ragioniere prende la confezione e la palpeggia Tutti cercano una scusa… - Ma, ragioniere - lo interrompo, l’espressione del mio viso è quanto mai eloquente, il dolore di non essere creduto - Tra persone perbene… Il ragioniere sembra esprimere qualche riserva in proposito. - Tra persone perbene - ripeto - un simile equivoco deve essere immediatamente chiarito. Vuole forse denunciarmi? Per un rasoio di sicurezza? Gli pongo, così, su due piedi, un grosso problema di coscienza. Il ragioniere sembra imbarazzato dalla gravità del suo compito. - Dovrei denunciarla, non ci sono dubbi - cerca di salvare il suo
prestigio dinanzi al sorvegliante che ha già visto scene del genere. - Il delitto non paga - aggiunge a sproposito il sorvegliante con un mugugno. - Ma… - il ragioniere è incerto se concludere subito il suo intevento. - Nessuno può dimostrare che la mia intenzione era di rubare il rasoio - incalzo nel tentativo d’indurre il ragioniere a terminare quella specie di farsa - L’avere intascato quel dannato rasoio non significa nulla, non prova un bel nulla. Non sono un ladro, lo vuol capire? Se insiste ancora… - attendo qualche attimo per dare corpo alla minaccia - sarò costretto a ricorrere alle vie legali per tutelare la mia onorabilità. Proprio come ho previsto, il ragioniere non ama avere grane. - Per questa volta lascio correre - assume il solito atteggiamento paternalistico, forse è previsto nel suo copione - Ma mi raccomando… - Non ricadrò nell’errore, se è questo che vuole dire. - Proprio così, vedo che mi ha compreso perfettamente - il ragioniere è soddisfatto, niente grane e redenzione di un criminale - Ora vada alla cassa n° 5 e paghi il prezzo del rasoio. Mi allunga la confezione. - Pagherò, non dubiti. Faccio dietro front, ridiscendo la scalinata, mi avvicino alla cassa n°5. - Un rasoio di sicurezza, signorina. La cassiera, che ha visto la scena, mi sorride. Sembra soddisfatta dell’esito felice di quell’incresciosa vicenda, evidentemente ha fatto il tifo per me. Prende il denaro che le porgo e mi rilascia lo scontrino. E’ la prima volta che mi pizzicano in un supermercato. Sono cose che capitano, mi dico, mentre mi dirigo verso il centro della città. Devo passare dall’agenzia dove mi daranno i ragguagli per questa sera nonché il recapito della cliente che dovrò accompagnare. Cammino disinvolto tra la gente, mi piace camminare, fare il footing, come si dice, il footing tiene in forma e fa risparmiare il denaro per la benzina o per l’autobus, non ho l’auto perché non me la posso permettere ma spero di porvi rimedio quanto prima, mi piacerebbe avere una Porsche o una Jaguar ma il mio sogno è una Excalibur - è mai esistita quest’auto oppure è un semplice sogno ad occhi aperti? meravigliosa, con grandi fanali anteriori, il muso aggressivo, gli smisurati parafanghi e tanta potenza nei cilindri, un vero mostro da strada, forse riuscirò un giorno o l’altro a convincere qualche matura e ricca signora a regalarmi una bella auto sportiva. Volere è potere, dicono. Sarà poi vero? Sto fantasticando e non mi accorgo, almeno sul momento, che un folto gruppo di donne con cartelli e striscioni sta passando proprio davanti a me occupando tutta la via che sto percorrendo. Sono operaie licenziate da una grande multinazionale, le riconosco dagli slogans che urlano e dai cartelli che agitano. Facciamo la stessa strada a quanto pare. Alcune sono carine, altre appaiono trasandate e fiere di essere per nulla attraenti - evidentemente rifiutano in maniera totale l’immagine femminile che viene pubblicizzata quotidianamente. Vanno tutte
insieme, belle e brutte, a urlare i loro problemi in faccia ai passanti che le guardano con curiosità. Ma ecco che, all’improvviso, la scena cambia. Alcuni giovinastri, con caschi da motociclista e bastoni in pugno forse non mancano le spranghe di ferro - cominciano a lanciare apprezzamenti offensivi all’indirizzo delle manifestanti. Si levano dal gruppo delle operaie le prime reazioni: - Fascisti, Fascisti. La parola “Fascisti” viene ripetuta più volte, urlata, è un vero muggito come un mare in tempesta. Vedo accorrere poliziotti con caschi e scudi protettivi. Sorgono i primi tumulti. I passanti sgombrano la strada con la massima celerità possibile. Altri individui, con caschi, passamontagna e bastoni, arrivano in difesa delle operaie. Sono ultras di sinistra, lanciano urla, agitano minacciosamente i bastoni. Si accende la zuffa qua e là. Urla, sprangate, sassi e bilie metalliche tra fascisti e ultras di sinistra. Le operaie continuano ad avanzare e a scandire con rabbia i loro slogans. Le forze dell’ordine intervengono per sedare i tumulti - fumi di candelotti lacrimogeni, odore acre, lacrime agli occhi, forme umane in movimento tra la nebbia artificiale. C’è qualcuno a terra che si dibatte tra avversari più numerosi che lo prendono a calci con violenza ragionata. Un giovane ha il viso coperto di sangue e continua a mulinare una spranga e ad urlare parole incomprensibili. Altri due vengono manganellati da poliziotti e trascinati verso un automezzo dai vetri protetti da grate metalliche. Lo schieramento delle operaie, sotto l’incalzare dei tumulti tra fascisti e ultras di sinistra, si sbanda. Una decina di operaie si dirigono verso una chiesa - il portone è spalancato, c’è solo da superare qualche gradino. Senza volerlo, forse solo per sfuggire ad una carica di poliziotti che si sta svolgendo nei miei paraggi, mi slancio verso la chiesa. Siamo in molti ad entrare nell’edificio sacro, tutti in una volta, con sincronia quasi perfetta. Ho appena varcato il portone e subito dopo i pesanti battenti vengono chiusi con un fracasso che rimbomba sinistramente tra i colonnati della chiesa. Mi nascondo dietro un’enorme colonna di marmo, temendo per la mia incolumità. Al di fuori della chiesa il tumulto continua con grande intensità - colpi sordi contro il portone, sembra che vogliano abbatterlo con un ariete, almeno questa è la mia impressione - mentre all’interno si ode un andirivieni concitato di passi, gente incastrata che cerca di sfuggire alla trappola. Sono loro, una decina di operaie, che si fermano titubanti di fronte all’altare maggiore probabilmente intimorite dall’atmosfera che regna nella chiesa. Alcune si siedono sui banchi, sono conciate male, capelli spettinati,
macchie di sangue sui vestiti, cartelli disfatti. Altre, le più attive, barricano il portone con banchi e sedie accatastate. Ad un tratto da dietro l’altare maggiore compare un vecchio prete. Ha i capelli bianchi, in mano stringe un breviario. Di fronte a quelle donne scarmigliate assume l’atteggiamento di un esorcista a caccia di demoni. - Cosa fate nella chiesa di Cristo? - urla per coprire i rumori provenienti dall’esterno. La voce è potente, le alte volte della chiesa fanno da cassa di risonanza. Sembra la voce di Dio che lancia condanne senza appello. Alcune operaie si fanno avanti, gli vanno incontro. Una regge ancora un cartello sfondato, un’altra ha il vestito lacerato in più parti, si vede pure il reggiseno, ha un occhio tumefatto, la terza sembra la più autoritaria e si vede chiaramente che non le frega niente di fare casino in chiesa. E’ proprio lei a rispondere concitatamente: - Vogliamo protestare contro i padroni che ci licenziano, contro la violenza di chi vuole ignorare volutamente i nostri problemi. Prende fiato. - Alcune di noi volevano fare un pacifico sit-in in chiesa per richiamare, con il nostro gesto, l’attenzione dell’opinione pubblica sui nostri problemi di lavoro e sulle nostre rivendicazioni. Purtroppo i fascisti, come al solito, hanno rovinato tutto. Ci hanno aggredite e bastonate. La polizia è con loro, come sempre. Solo noi siamo riuscite ad entrare in chiesa. - Voi in chiesa?! - il prete è sbigottito, il gesto delle operaie gli appare inaudito, un sacrilegio vero e proprio. Chissà l’ira divina cosa riserverà agli uomini, per rappresaglia! - Sì, siamo in chiesa e ci resteremo - l’operaia pronuncia quelle parole con fermezza - La Chiesa è la casa del popolo e Dio non se ne avrà a male se occupiamo simbolicamente la sua dimora. Del resto, solo un gesto provocatorio come il nostro potrà richiamare l’attenzione delle autorità e della pubblica opinione… - Siete delle svergognate! - il prete è fuori di sé, l’intenzione delle operaie gli appare intollerabile - Voi state profanando la casa di Dio. Vi rendete conto dell’enormità del vostro gesto? Una ragazza sui vent’anni, con una sigaretta tra le labbra, scuote la testa disapprovando le parole del prete. Gli dice: - Voi preti non avete alcuna comprensione per i nostri problemi. Ve ne fregate di noi. Il prete le strappa la sigaretta dalle labbra e la getta lontano da sè.Non hai rispetto per la casa di Dio, donnaccia. La ragazza lo afferra per la tonaca e gli grida in faccia: - Non hai il diritto di offendermi. - Basta! - interviene la donna che ha parlato per prima, separando la ragazza dal prete che si siede pesantemente su un banco visibilmente scioccato - Smettiamola con queste sciocchezze. Poi, radunate attorno a sé tutte le operaie, aggiunge: - Bisogna convincere il prete a parlamentare con le forze dell’ordine. Deve aiutarci. Si avvicina al prete, gli si siede accanto e, mettendogli una mano
sulla spalla ,gli dice con voce sorprendentemente dolce: - Mi dispiace per quanto è accaduto. Non è facile restare calme e tranquille in un’atmosfera così tesa. Ci hanno bastonate a sangue. Alcune mostrano al prete le contusioni riportate negli incidenti di piazza, una ragazza ha un dente spezzato, e un’altra ha il setto nasale coperto di sangue. - Vogliamo restare in chiesa per un po’ di tempo - aggiunge la donna - per portare a termine il nostro sit-in. Ce ne resteremo tranquille e rispettose dell’ambiente. Non chiediamo nient’altro. Naturalmente vogliamo che le forze dell’ordine ci rispettino una volta uscite dalla chiesa. Non abbiamo alcuna intenzione di prendere altre manganellate o di essere portate al commissariato. Dà uno sguardo alle compagne che le si stringono attorno. - E’ vero. Vogliamo proprio questo - approva un’operaia, stringendo tra le mani un fazzoletto sporco di sangue. - Devono rispettarci, i poliziotti - le fa eco un’altra. - Bisogna insistere su questo punto - dice una graziosa operaia che indossa una tuta bianca macchiata di sangue - Quando usciamo da qui, dobbiamo avere la possibilità di ritornarcene a casa senza fare prima qualche spiacevole sosta al commissariato. Conosco bene i loro metodi. Quindici giorni fa, dopo una manifestazione come questa di oggi, mi hanno bloccata assieme ad altre e mi hanno portata al commissariato senza tanti complimenti. Là, con una scusa balorda (volevano accertare se avevo qualche corpo contundente nascosto sotto il vestito!) mi hanno costretta a spogliarmi e mi hanno lasciata nuda in una stanza umida e fredda per almeno un paio d’ore. Ogni tanto entrava qualcuno, mi guardava e rideva del mio imbarazzo. Che bastardi!. Il prete la guarda, poi volge lo sguardo sulle altre, sembra che si sforzi di capire una realtà che gli sfugge. Forse pensa di avere vissuto su un altro pianeta a qualche decina di anni luce da quella realtà. - Roba da pazzi! - sembra che dica a se stesso - O Dio, distruggi questa umanità sacrilega. O forse salvala, nella tua infinita bontà. - Cosa posso fare per voi? - chiede il prete, rassegnato. - Venga con me a parlamentare con le forze dell’ordine - a parlare è l’operaia dall’aria autoritaria che sembra a capo di quel gruppo - La sua presenza ci può essere molto utile. Naturalmente dovrà sostenere la nostra richiesta. - Ma come posso avallare l’occupazione della chiesa, sia pure limitata nel tempo? - il prete si alza, dirigendosi verso l’altare - Questa è la casa di Dio ed io sono un suo servitore. Mi sentirei un traditore se accettassi il fatto compiuto senza protestare. Cercate di capirmi. Tutt’al più posso pregare i funzionari preposti al servizio d’ordine di farvi ritornare a casa senza alcuna molestia. Di più non posso fare, credetemi. Prima che l’operaia possa rispondergli, esco dal mio nascondiglio. Non voglio essere coinvolto in quella faccenda, voglio solamente uscire dalla chiesa attraverso qualche uscita secondaria che solo il prete può conoscere. Appena appaio alla loro vista, le operaie mi guardano come se fossi
un marziano. Ben presto lo stupore si trasforma in un atteggiamento minaccioso. Qualcuna brandisce un bastone, altre mi circondano stringendo i pugni. - E’ un poliziotto in borghese - grida un’operaia. - Diamogli una lezione - il coro è quasi completo. - Un momento! - metto le mani avanti e non solo metaforicamente -Calma, donne. Prima di linciarmi, ascoltatemi. Cerco di scherzare, di sdramatizzare la situazione. Non mi andrebbe di essere percosso a sangue da una muta di donne assetate di vendetta contro i padroni oppressori. Mi sforzo di sorridere. - Non sono un poliziotto in borghese. Neppure una spia. Mi trovo qui dentro per caso. Per sfuggire ad una carica di polizia e ai fumi dei candelotti, per l’esattezza. Sono un radicale, un progressista, credo nella vostre rivendicazioni, nella vostra causa, eccetera, eccetera… Qualcuna sorride, il cerchio si apre intorno a me. Il prete mi si avvicina, forse per chiedere la mia protezione. In fin dei conti siamo due maschi in un gruppo di femmine decise a tutto. Rivolgendomi al prete, gli dico: - Mi ascolti. Se fossi in lei, darei una mano a queste coraggiose creature di Dio (chiamiamole così, se le fa piacere). Probabilmente esse si aspettano qualcosa dalla Chiesa che non è mai stata troppo tenera nei loro confronti. - Ha ragione - dice un’operaia alle mie spalle - La Chiesa ci deve aiutare. Il prete si dice pronto ad uscire dalla chiesa, a parlamentare con le forze dell’ordine. Dall’esterno giungono ancora grida, scoppi di candelotti, rumori di passi, colpi sordi contro il portone. Chiedo al prete di indicarmi qualche uscita secondaria e lui è pronto ad accontentarmi. Saluto le operaie, augurando loro ogni successo, poi m’introduco nella sagrestia e non tardo a trovare una porta angusta che mi consente di uscire dalla chiesa, in una zona un po’ distante dai tumulti. Nessuno mi vede uscire, perciò non devo temere spiacevoli incontri con le forze dell’ordine. Qualche minuto più tardi osservo da lontano l’ultimo atto del “dramma”. Il pesante portone della chiesa viene aperto con fatica, il prete appare in compagnia di due operaie, fa cenno ad un funzionario di polizia di volergli parlare. Parlottano per qualche minuto, all’esterno poliziotti con scudi e caschi protettivi sbirciano all’interno della chiesa, poi ad un tratto, ad un ordine impartito non so da chi, entrano di corsa nell’edificio. Si odono urla femminili, imprecazioni, bestemmie. All’esterno piccoli gruppi di ultras di sinistra tentano qualche sortita a favore delle operaie, ma tutto è inutile. Le operaie vengono spinte all’esterno, vola qualche pugno, qualche manganello si leva minaccioso, poi tutto finisce lì. Il prete ha tradito? Oppure le autorità non hanno voluto ascoltarlo? Con questo dilemma mi allontano di buon passo.
Qualche isolato più avanti mi fermo a prendere un autobus stracarico. Ho fretta di raggiungere l’agenzia prima che chiuda. Entro nel portone, l’ingresso è pieno di piante ornamentali - il posto è lussuoso, i nostri clienti sono per lo più benestanti che amano le apparenze, c’è pure una guida rossa per terra che s’inerpica per una scalinata di marmo, il pavimento è tirato a cera, lucidissimo come uno specchio -, chiamo l’ascensore, attendo qualche istante, poi premo il bottone del terzo piano. Sulla porta d’ingresso c’è una bella targa d’ottone con il nome dell’agenzia a lettere maiuscole, l’interno ha l’aspetto di un salotto con soffice moquette verde oliva e mobili firmati da architetti, luci diffuse, può sembrare un bordello di lusso agli occhi di qualche sprovveduto che non conosce l’esistenza di questa professione, ma non è così, naturalmente, perché l’accompagnatore o l’accompagnatrice (detta anche hostess) è una persona ben educata, compita, di bell’aspetto, il cui compito è d’intrattenere piacevolmente certe persone che si sentono sole e che possono permettersi il lusso di pagare adeguatamente una così appropriata compagnia. Non vi sono scrivanie o schedari o macchine da ufficio perché non c’è nulla da scrivere, da catalogare o da archiviare. I contatti sono confidenziali, una telefonata discreta, una risposta educata, un appuntamento in un certo posto, un incontro tra persone che sanno vivere. Il compenso viene versato all’agenzia che provvede a pagare l’accompagnatore o l’accompagnatrice secondo certe tariffe. Il signor Rossi (ma forse il cognome è fittizio) s’incarica di ricevere le richieste dei clienti, di esaminarle con cura - occorre dare ad ogni cliente una compagnia adeguata, il che non è poi tanto facile - e di soddisfarle. E’ lui che riceve il denaro versato dal cliente ed è lui che paga le nostre prestazioni. Il signor Rossi è un uomo sui cinquant’anni, dall’aspetto distinto, conosce almeno tre lingue ed è un vero professionista delle pubbliche relazioni. Mi viene incontro sorridendo - il suo non è il solito sorriso di circostanza, ha un debole per me e da raffinato omosessuale qual’ è mi fa una corte discreta. Mi dà un buffetto sulla guancia, mi gratifica di uno sguardo compiaciuto, poi mi dice: - Caro, sei veramente elegante oggi. Il blazer ti dona moltissimo. Lo ringrazio con un sorriso. Non gli do molta confidenza, però non posso mostrarmi scostante con lui, in fin dei conti il mio lavoro, e la mia sopravvivenza, dipendono esclusivamente dal signor Rossi. - Una di queste sere, quando non sei impegnato, potremo cenare insieme. Che ne dici, caro? - E’ un pensiero gentile, il suo - gli rispondo educatamente. - Vedremo - aggiungo poi dandogli qualche illusoria speranza. - Bene, caro. Mi fa piacere constatare che i nostri rapporti, già soddisfacenti, potranno ulteriormente migliorare. Le allusioni sono evidenti, mi sento rimescolare dentro ,il sentirmi desiderato da un uomo mi procura un profondo disagio. Però sorrido per nascondere il mio turbamento. - Posso offrirti da bere ?
Faccio un cenno affermativo con il capo. Mi fa accomodare su una poltrona, apre un mobile bar, prende una bottiglia di cognac, riempie due bicchieri, me ne porge uno. Esamino il bicchiere controluce, mi piace lo scintillio del cristallo, mando giù il cognac tutto d’un fiato. Nello stomaco vuoto il liquore esplode piacevolmente con una vampata di calore. - Chi è la cliente di questa sera? - gli chiedo. Ho fretta, voglio andarmene via prima che il signor Rossi mi faccia qualche altra proposta. - E’ una donna importante, caro. La signora B. - forse avrai sentito parlare di lei - è una donna d’affari eccezionale. Più abile e più astuta di un uomo. Ed è ricchissima. Miliardaria. Ho già sentito parlare della signora B. Mi sorprende che lei abbia scelto proprio me. In agenzia c’è qualcuno che, come accompagnatore, ha più esperienza di me e forse qualche numero in più. - Perché la signora B. ha scelto proprio me? - chiedo incuriosito Non so se saprò essere all’altezza della situazione. - Sono stato io a suggerirle il tuo nome - il signor Rossi mi sorride, crede di avermi fatto un favore - La signora B. è molto generosa e di conseguenza potrai trarre qualche vantaggio consistente. Finisce di bere il suo cognac, poi aggiunge: - Non crearti alcun problema. Sarai all’altezza della situazione. Te lo garantisco io. Lo ringrazio. Mi consegna un biglietto con l’indirizzo della signora B. - Alle 18 ti vuole nel suo ufficio. Sii puntuale. E in bocca al lupo. Mi ficco in tasca il biglietto, saluto il signor Rossi che mi gratifica di un altro suo sorriso, mi avvio all’ascensore, soprappensiero. §§§ - Oh, darling - la voce è gradevole, sensuale. La guardo. E’ lei, la Venere nera, come la chiamano in agenzia, una splendida mulatta della Georgia che da qualche tempo lavora da noi come hostess. Credo che si chiami Phyllis. Ci siamo parlati un paio di volte in un misto d’inglese e d’italiano. Non più di cinque minuti di conversazione per volta. - Darling, do you want to enjoy my spaghetti? Indossa pantaloni e casacca rosa confetto. E’ alta, slanciata, ha lavorato come cover-girl a New York, ha fatto la pornodiva in California, ora ricordo questi particolari. Perché sia capitata da noi, nessuno lo sa. - Surely, Phyllis - le rispondo, baciandola sulla guancia (spero che apprezzi il mio gesto, vorrebbe essere una forma di saluto). - Do you remember my name? - sembra un po’ stupita, evidentemente le fa piacere che io ricordi il suo nome - Now let’s go chez moi to eat my spaghetti. With relish. Sorride. Poi dà uno sguardo all’orologio. - It’s time to lunch. Mi prende per mano. Entriamo in ascensore, preme il bottone con la T, qualche istante dopo scendiamo la scalinata con la guida rossa. Senza scambiarci parole - Phyllis parla quasi sempre in inglese ed io non sono forte nella conversazione in questa lingua - percorriamo
qualche centinaio di metri. Phyllis, sorridendo , - ha dei magnifici denti bianchi, regolari, splendenti - m’indica una MG bianca parcheggiata sotto un cartello che indica il divieto di sosta. E’ la sua auto, credo. Apre lo sportello con la chiave, si siede al posto di guida e mi fa cenno di aprire l’altro sportello. - Open - mi dice. Non tardo a sedermi accanto a lei. - Chez moi - ripete. Forse crede che non abbia capito la nostra destinazione. - Chez toi. To eat spaghetti - faccio io. Lei ride, mi dice “Well”, avvia il motore e parte a razzo facendo stridere i pneumatici come nei films di gangsters. Phyllis sa destreggiarsi abilmente nel traffico caotico della città. E’ già l’una e la gente ha fretta di ritornare a casa. L’appartamentino della mulatta è in periferia. E’ arredato con gusto e ha un cucinino incredibilmente piccolo ma grazioso. Phyllis, indicando l’arredamento, mi dice: - Very expensive, darling. Lo credo, so cosa significa abitare in una grande città. A terra c’è una bella moquette di lana, folta e soffice. Deve essere bello camminarci a piedi nudi. - Are you able to cook the dinner? - mi dice, ad un tratto, Phyllis. Chissà perché mi fa questa domanda, forse teme di non essere all’altezza della situazione per quanto riguarda gli spaghetti. - I’m a very chef - le rispondo tanto per non tradire le sue aspettative - Spaghetti, please. Mi tolgo la giacca, mi rimbocco le maniche, prendo una pentola, la riempio d’acqua, accendo il gas. Phyllis, intanto, si è tolto il completo rosa confetto e ha indossato una vestaglia bianca, trasparente, tutta pizzi. Mi porge una scatola di pelati e un pacco di spaghetti. Preparo un sugo d’emergenza in pochi minuti. Nel frigo scopro un paio di bistecche e un po’ d’insalata russa. La mulatta prepara la tavola con cura, non mancano neppure i fiori, due roselline un po’ pallide in un vasetto di peltro. - Do you want to drink a good red wine? Phyllis mi mostra una bottiglia di barbera d’Asti. - Yeah, of course. Ora ci provo gusto a parlare in inglese. La ragazza mi sorride. Sembra felice di avermi invitato a pranzo. Scolo gli spaghetti quando sono al dente, li condisco con il sugo di pomodoro e li porto, fumanti e appetitosi, in tavola. Phyllis batte le mani come una bambina felice. - How good this spaghetti smells!. Li assaggia. - Fabulous! - esclama convinta. - You are a good chef - aggiunge - Really. Tutto è buono: spaghetti, bistecche, barbera. Da tempo non faccio un pasto così delizioso. E in un posto così confortevole. Forse il merito è di Phyllis, la sua presenza dà un tocco di classe a tutto ciò che mi circonda, è inebriante come il profumo (forse Chanel n° 5),
che si è appena dato. La ragazza sparecchia la tavola, mette i piatti sporchi nel lavabo del cucinino, si accosta ad un mobiletto, prende qualcosa, poi viene verso di me, mi porge una specie di grossa sigaretta dal colore verdastro-rossiccio. La riconosco a prima vista, è una sigaretta alla marijuana - ne ho fumata qualcuna in passato, l’”erba” è buona per distendersi, per scacciare le preoccupazioni, per mettere in moto la fantasia, per eccitare il sesso, è l’unica droga che non mi fa paura. - Fix - mi spiega. Forse pensa che io non conosca quel tipo di sigaretta. Si toglie la vestaglia e rimane nuda. Si accende una sigaretta alla marijuana e m’invita a fumare la mia. - Smoke, darling. La sua pelle è appena scura - sembra una bianca con la tintarella - il corpo è slanciato, ben fatto. Si accosta ad un apparecchio hi-fi, preme alcuni tasti. Le note di “I only Have Eyes for You” si diffondono nella stanza. Riconosco la voce di Art Garfunkel. Phyllis si stende sulla moquette completamente nuda, con lo sguardo fisso al soffitto. - Come and dream - mi sussurra - Naked like me. Non mi faccio ripetere l’invito, mi spoglio rapidamente e mi stendo accanto a lei. Accendo la mia sigaretta. Il contatto tra i nostri corpi è la premessa per sognare. Restiamo immobili per qualche minuto, l’uno accanto all’altro, sulla soffice moquette con lo sguardo verso l’alto. Non ci scambiamo parole - del resto le parole sono inutili in certe circostanze. Ci sono solo le note musicali immerse nell’odore dolciastro della droga. Ad un tratto Phyllis comincia a parlare, il tono della voce è profondo, ispirato, scandisce le parole con lentezza, recita: - I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix… Ascolto e mi sento invadere dalla tristezza, le prime parole “I saw the best minds of my generation” mi sono già note, la ragazza sta recitando “Howl” di Ginsberg. ……who fell on their knees in hopeless cathedrals praying for each other’s salvation and light and breasts, until the soul illuminated its hair for a second…… Chiudo gli occhi. Li vedo, i drogati di Ginsberg, che si aggirano nella livida alba della metropoli portandosi sulle spalle la loro scimmia - è come la croce dei cristiani, ma gli junkies non hanno speranza, l’hanno perduta per strada alla ricerca della droga, c’è chi non resiste e si getta dal ponte di Brooklyn o da un altro ponte o si lascia cadere, schifato da tutto, sotto le ruote del subway. E si aggirano svuotati di energie per strade coperte di rifiuti, cercando di sfuggire al Grande Piede che vuole calpestarli, che li scaccia dalle loro tane come formiche terrorizzate. ……who sank all night in submarine light of Bickford’s floated out and sat through the stale beer afternoon in desolate Fugazzi’s, listening
to the crack of doom on the hydrogen jukebox…… Ora Phyllis tace. Sospira profondamente come se si liberasse da qualche incubo. Un alone di fumo greve, che si libra con difficoltà nell’aria, gravita intorno ai nostri corpi. - Do you like this poem? - mi chiede. E’ sempre immobile, gli occhi fissi al soffitto, il respiro lievemente affannoso. - It’s sad. Awfully sad - le rispondo - Like death. In realtà il mondo dei drogati e le loro miserie mi deprimono terribilmente. - Death is not a bad thing. Phyllis sembra scuotersi dall’immobilità di prima, volge il viso verso di me e mi guarda con quei suoi occhioni neri dalle pupille lievemente dilatate. Comincio a desiderarla, quel bel corpo nudo vicino al mio è un invito fin troppo eccitante. La droga comincia a fare effetto. Mi sembra di galleggiare in un’atmosfera straordinariamente leggera e provo una sensazione di profondo benessere. La stanza mi appare come un’enorme bolla di sapone, iridescente, nella quale il mio corpo nudo e quello di Phyllis si librano ondeggiando dolcemente. Penso che anche la ragazza stia provando le mie stesse sensazioni. - Death can be exciting - mi dice Phyllis, mollemente, guardandomi con una certa fissità. - But not for me - le rispondo. Non capisco perché la ragazza si ostini a parlare della morte, forse la droga sta liberando dal suo subconscio un desiderio latente di autodistruzione, mi auguro solo che non combini qualche cosa di spiacevole proprio ora che mi sento in paradiso. Phyllis se ne sta tranquilla per qualche minuto respirando profondamente. Poi mi dice lentamente: - Direct your attention to something beautiful. Shut your eyes. Think……Think…… Chiudo gli occhi ma non riesco a concentrare la mia attenzione su qualcosa di bello o di eccitante. - What are you thinking of? - mi chiede, ad un tratto, curiosa. Non le rispondo. Davanti ai miei occhi c’è solo una specie di nebbia scura. Insisto. Ed ecco comparire sullo sfondo nero come la pece dei puntini luminosi grossi come capocchie di spillo. Ora c’è luce davanti a me, sembra un’alba radiosa dopo una notte nera e tempestosa. - It’s a golden dawn - le dico. La visione continua. L’alba illumina una paesaggio marino, c’è un’enorme distesa di sabbia candida con palme rigogliose, il mare è quasi calmo, piccole onde increspano la sua superficie, l’aria è tersa e profumata. Ora vedo Phyllis che sorge dalle acque del mare come la Venere del Botticelli. E’ splendida, l’incarnazione vivente della bellezza. Incomparable! - You’re rising from the sea, like Venus. La ragazza raggiunge la riva con passo molle e seducente, si distende sulla sabbia e vi rimane immobile per qualche attimo. Poi le sue membra cominciano ad agitarsi, il corpo si copre di sudore. E’
come se un improvviso malessere si sia impadronito di lei. Phyllis si contorce sulla sabbia, si comprime il ventre con le mani, smania, infine divarica le gambe. Ora inarca il corpo, spinge fuori qualcosa con grande sforzo. Sì, sta proprio partorendo un bambino. Sono io, lo sento, sono io il frutto del suo ventre. Sono il figlio di Phyllis! - You’re bearing me on the beach. I’m your baby. - Fabulous! La voce di Phyllis mi giunge lontana, sembra felice. La visione continua. Phyllis mi prende per mano e insieme ci dirigiamo verso una valle ricca di vegetazione tropicale e di ruscelli dalla acque limpide, mentre nel cielo terso volano uccelli multicolori. Mi pare l’Eden biblico. - Now we live in the Garden of Eden. Odo una voce fuori campo, dura e metallica, potente e terribile: - Questo è il Paradiso che vi ho destinato. Poi la voce mi ammonisce: - Non desiderare mai tua madre. Anche Phyllis riceve la sua ammonizione da quella voce terribile. - Non desiderare mai tuo figlio. Ora tutto è tranquillo, Phyllis ed io ci rincorriamo nel Paradiso Terrestre, giochiamo con l’innocenza dei bambini, poi stanchi ci sdraiamo l’una accanto all’altro, le nostre mani si stringono, sento scaturire dal profondo del mio essere il desiderio di possedere la mia compagna-madre. E’ un desiderio tremendo, un fuoco che mi brucia dentro, inestinguibile. Gli occhi di Phyllis mi fissano, sembrano implorarmi di…… Il mio membro è dentro di lei, ciò che provo è inesprimibile. La voce potente e terribile tuona contro di noi: - Via dal Paradiso Terrestre, esseri indegni! La visione è finita. Apro gli occhi. Phyllis mi sta accarezzando i capelli. - We were expelled from the Garden of Eden. - Why? - mi chiede sorridendo. - Because of sexual reasons - è la mia risposta. La pelle di Phyllis è calda e morbida, il corpo è percorso da un continuo fremito, i seni sodi sono sopra di me, afferro un capezzolo con i denti e lo stringo. La ragazza emette un miagolio di dolore. L’abbraccio, ci baciamo a lungo, la sua lingua esplora dentro di me, le labbra sono tumide, è bello mordicchiarle. Accarezzo il corpo di Phyllis con studiata lentezza, soffermandomi sulle zone erogene. Il suo pube è depilato, lo bacio, lei sospira mollemente. - Your cock is long. Strong. Sta apprezzando le qualità del mio membro, lo prende in mano, lo palpa delicatamente, me lo strizza all’improvviso - non posso fare a meno di gridare:- Che cavolo stai facendo! - infine me lo bacia. - Fuck me, darling - mi sussurra in un orecchio. All’improvviso si alza e si mette a saltellare tra il divano e le poltrone, ridendo.
- Catch me, darling. Vuole farsi catturare dal maschio dopo un finto inseguimento, probabilmente nel suo subconscio si annida il ricordo di ancestrali riti iniziatori della sua razza. Accetto la sfida e comincio ad inseguirla tra sedie, poltrone, tavolini e oggetti vari. Phyllis salta con sorprendente agilità ogni ostacolo e non mi è facile avvicinarla. La ragazza sembra divertirsi un mondo a correre in tondo nella stanza e ad eludere ogni mio tentativo di catturarla. Ci inseguiamo per alcuni minuti tra sedie ribaltate e poltrone spostate dalle loro posizioni abituali. Tonfi di oggetti che cadono accompagnano le nostre scorribande. Poi Phyllis inciampa in un ostacolo e cade bocconi sulla moquette. Le sono subito sopra, le sue natiche sode sotto il mio membro, la tengo più forte che posso impedendole ogni movimento. Lei smette di dimenarsi, è sottomessa, sembra che accetti di buon grado la mia vittoria su di lei. Poggia la fronte sulla moquette - la testa è nascosta sotto i lunghi capelli ondulati -, inarca le reni, divarica le gambe, ora sento le sue natiche che premono contro l’inguine. - Put your cock in my……ass - mormora - Slowly, please. La voce è rotta dal desiderio. Glielo introduco lentamente, faccio fatica, lei freme come una cagna in calore, ancora dentro un po’ alla volta, mi aiuta muovendo ritmicamente le natiche, si lascia sfuggire mugolii d’intenso piacere. - Sei una troia: Una grandissima troia - le sussurro, stringendole i seni. - More. More - m’implora sollevando la testa. Ora è quasi tutto dentro. Phyllis ha finito di dimenarsi. - Fabulous! - mugola soddisfatta. Lentamente lo tiro fuori. Quando sono pronto, afferro la ragazza e la stendo sulla moquette con le spalle al pavimento. Penetro dentro di lei facilmente, l’amplesso è perfetto. Phyllis collabora con tutte le sue forze. L’orgasmo ci coglie mentre ci baciamo, divento violento, le mordo le labbra carnose, il collo, le spalle. - More. More - m’incita Phyllis. E’ una furia scatenata della natura, un tornado del suo paese - il tornado Phyllis - la sua fame di sesso è inesauribile. L’aggressività erotica di Phyllis mi ricarica, quando mi capita una ragazza in gamba come la mulatta concedo sempre il bis. Il nuovo amplesso mi rende ancora più aggressivo e violento. Mi sento un selvaggio, un uomo delle caverne, uno di quelli che, nelle vignette umoristiche, trascinano la femmina per i capelli senza troppi complimenti. Grugnisco, mordo, graffio, pizzico, sbavo, forse ruggisco. Phyllis , sotto di me, sembra apprezzare il mio comportamento e mi copre di baci e di saliva. Quando finiamo, sono a pezzi. Mi sento svuotato di energie, frastornato, stanco. Droga e sesso mi hanno messo k.o.. Mi stendo sulla moquette e me ne sto immobile per alcuni minuti
facendo aderire al pavimento tutte le mie membra. Faccio lo “shavasana”, la posizione del cadavere, è molto rilassante. Intanto Phyllis si è alzata, si è rimessa la vestaglia, ora sta mettendo un po’ d’ordine nella stanza sollevando sedie capovolte, raddrizzando poltrone e tavolini e rimettendo al loro posto gli oggetti travolti durante i nostri giochi. - You are a true male, a terrific fucker - mi dice. Sento che è orgogliosa di me, che è soddisfatta di avere trovato un amante in gamba. - E tu sei una troia - aggiungo sorridendo. - Wat’s? - mi chiede incuriosita. - Troia. You are an exciting troia - ripeto, ridendo di gusto. Anche lei ride, forse pensa che le abbia fatto un complimento. - Do you want a coffee? - mi chiede premurosa. Faccio un gesto affermativo con il capo. Trovo sul tavolino più vicino un pacchetto di sigarette, ne prendo una, l’accendo e aspiro profondamente. Mi lavo il viso, mi rivesto lentamente, mi siedo in poltrona, accendo l’hi-fi e ascolto un po’ di musica. Poi riascolto “I only Have Eyes for You”. - This will be our song - grido a Phyllis che si trova nel cucinino a preparare il caffè. Finalmente mi ricordo dell’appuntamento. - Cavolo, sono in ritardo - esclamo contrariato. Preferirei trattenermi ancora un po’ con Phyllis ma il tempo stringe. Bevo in fretta il caffè, mi do un’occhiata allo specchio, per fortuna sono ancora presentabile, mi pettino con cura i capelli. - Amore - mi sussurra la ragazza, guardandomi con ammirazione. - I’ll give you a ring very soon - le dico prima di andarmene. - We’ll make love again - la rassicuro. Sono veramente sincero, non posso permettermi il lusso di perdere una ragazza come Phyllis, la regina del sesso. Ci baciamo a lungo. Lei non vuole mollarmi. - I must go, Phyllis - le dico con una certa enfasi. Poi mi affretto a chiudere la porta dietro di me. Quando sono in strada, comincio a camminare alla ricerca di un taxi, non voglio presentarmi alla signora B. in ritardo. Finalmente raggiungo un posteggio di auto pubbliche, salgo sulla prima che trovo, prendo dalla tasca il biglietto del signor Rossi, leggo l’indirizzo al tassista e poi me ne sto tranquillo a guardare l’intenso traffico cittadino. Il taxi mi riconduce in pieno centro e mi scarica davanti ad una specie di grattacielo tutto vetro e cemento. Pago la corsa e mi affretto verso l’edificio. §§§ L’ingresso è ampio, il pavimento è tirato a lucido, il portiere mi dice di andare al sesto piano dove ci sono gli uffici di un importante gruppo industriale il cui presidente è la signora B.. Una graziosa impiegata m’introduce negli uffici. Mi fa cenno di seguirla, attraversiamo alcuni lunghi corridoi sui quali si aprono decine di stanze dalle pareti di vetro, dove decine di
impiegati sono intenti ai loro lavori di routine - o fanno finta di esserlo -, le pareti trasparenti consentono una discreta ma intensa sorveglianza, immagino che nessuno possa alzarsi dal proprio posto di lavoro senza un più che giustificato motivo, con il passare degli anni si diventa una sorta di automa sempre a dire “signorsì”, si resta legati a quelle stanze di vetro da un rapporto di odio-amore che è un legame fortissimo di tipo esistenziale. Ho l’impressione, attraversando quei corridoi coperti da una spessa moquette che attutisce i nostri passi, che la signora B. sia molto rigida con i suoi dipendenti e che tenga testa validamente alle varie organizzazioni aziendali di natura sindacale. Al termine di un lungo corridoio c’è una porta con la scritta “Direzione”. L’impiegata mi fa cenno di entrare. Si tratta di una sala d’attesa molto ampia con poltrone in pelle marrone, un tavolino con piano di cristallo e alcuni vasi di piante ornamentali. Quell’ambiente m’incuriosisce e m’intimorisce nello stesso tempo. Mi pare di essere un giovanotto in cerca di lavoro che sta per avere un colloquio - informativo, come si dice - con il direttore del personale - qualche volta rispondo ad annunci sul giornale e mi capita di essere intervistato da qualche efficiente funzionario che mi fa un sacco di domande e mi fa riempire questionari, mi viene da ridere quando mi chiede:- Perché vuole lavorare per la nostra azienda?”, una volta ho risposto:- Perché ho bisogno di lavorare. Per me un’azienda vale l’altra” e il funzionario mi ha guardato in maniera strana, forse si attendeva un’altra risposta tipo:- Perché la vostra azienda è la migliore di tutte.”, forse questa era la risposta desiderata. Ma poi, una volta fatta l’intervista e riempito il questionario, mi sono sempre sentito dire:- “La ringraziamo per essere venuto da noi. Le faremo sapere.”, e la risposta è sempre negativa, evidentemente non ho tutti i numeri per essere un impiegato modello, ma io continuo a provarci, forse un giorno ci riuscirò. L’impiegata ritorna - se n’era andata, forse per annunciare alla signora B. il mio arrivo, sinceramente non mi sono accorto della sua assenza momentanea -, mi sorride, è un sorriso professionale, e con voce ben impostata ma priva di calore, impersonale, mi dice: - Prego, mi segua. Oltre la sala d’attesa c’è un breve corridoio sul quale si aprono alcuni uffici - questi non hanno pareti di vetro come gli altri, evidentemente sono gli uffici dei massimi dirigenti del gruppo industriale - e la sala delle riunioni. Su una porta dall’aspetto robusto leggo la scritta “Presidenza”. L’impiegata bussa con discrezione, la porta è semiaperta, una voce robusta di donna, autoritaria, c’invita ad entrare. La stanza è di grandi dimensioni, quasi circolare, le pareti sembrano imbottite di materiale insonorizzante, nei pressi dell’unica finestra c’è un’enorme scrivania dietro la quale siede la signora B., lungo le pareti noto alcuni grandi vasi di piante ornamentali, una libreria con grossi volumi rilegati in pelle, alcuni mobiletti antichi - forse pezzi di antiquariato -, dietro la scrivania, alle spalle della signora B., c’è un
enorme grafico zeppo di diagrammi e di cifre, dal soffitto pende un magnifico lampadario di cristallo. - Prego, si accomodi. Con un ampio cenno della mano la signora B. m’invita a sedermi su una delle due grandi poltrone in pelle che sono accanto alla scrivania. Le tendo la mano, mormoro il mio nome, lei mi stringe la destra con energia, dice: - Piacere di conoscerla. La signora B. è sui cinquant’anni, ha un volto ovale, lineamenti fini, capelli neri, mani ben curate. L’espressione del viso è dura, autoritaria. Mi sorride, ma credo che non debba sorridere spesso, si vede che il farlo le costa qualche sforzo. - Vuole fumare? Sigari? Sigarette? Sul piano della scrivania noto una scatola di sigari Avana e un portasigarette in pelle. Lei prende un sigaro e se lo accende con un massiccio accendino in pietra dura. - Mi piace fumare i sigari. Sicuramente non è un’abitudine molto femminile, ma se una cosa piace bisogna farla. Questa è la mia filosofia, giovanotto. - Ben detto - mi limito a rispondere. Anch’io mi sono acceso un sigaro, forse per non metterla a disagio, ma vedo che il mio scrupolo è fuori posto. Ora la signora B. si alza e va alla finestra. Ormai fuori è buio e attraverso i vetri noto alcune insegne al neon e le luci di un palazzo vicino. La donna stringe il sigaro tra l’indice e il medio con una certa grazia, il sigaro è piuttosto grosso per le sue dita. La signora B. ha una statura media, è snella, sembra che faccia molto sport e che non trascuri le cure di bellezza. - Forse si chiederà perché ho richiesto un accompagnatore per questa sera - ora è rivolta verso di me e mi fissa tra il fumo del sigaro - Vede, giovanotto, una donna come me ha molti interessi, culturali, sociali, artistici e così via. Ma il lavoro occupa il primo posto, è al vertice dei miei interessi. Quando ho iniziato la mia attività imprenditoriale avevo solo una piccola azienda a carattere artigianale creata con grandi sacrifici. Mi sono messa d’impegno, ho lavorato anche venti ore al giorno, mi sono liberata di un marito inetto e nel giro di dieci anni ho creato un gruppo industriale conosciuto in tutto il mondo. Tira una boccata, il fumo copre per un attimo il suo viso, poi torna alla scrivania. - Oggi come oggi potrei dirmi arrivata. Purtroppo - sono una Scorpione - ho uno spirito inquieto, molto ambizioso. Forse sono smoderatamente ambiziosa. Perciò continuo a lavorare con la stessa determinazione ed energia dei primi anni per raggiungere nuovi traguardi. Mi pare che la signora B. provi una specie di godimento sessuale nel raccontarmi i suoi successi, sembra volermi schiacciare sotto il peso
delle sue eccezionali qualità e delle sue non meno grandi ricchezze. - Naturalmente pago un grosso prezzo per raggiungere i miei ambiziosi traguardi sotto forma di stress psicologico. Perciò a volte sento la necessità - è un’esigenza che viene dal profondo del mio essere, mi capisce? - sì, la necessità di distrarmi, di svagarmi, di passare qualche ora con persone diverse da quelle che frequento abitualmente, con persone, cioè, semplici, naturali, senza problemi di ambizioni e di ricchezza. Non so se mi sono spiegata, giovanotto. - Bè, forse non sono la persona semplice e naturale che lei desidera mi limito ad osservare, spegnendo il sigaro in un portacenere a stelo - Certo è che non ho né grandi ambizioni, né grandi ricchezze. Vivo alla giornata. Carpe diem, come diceva il poeta latino. E’ il mio motto. La signora B. sembra soddisfatta delle mie parole. Appoggia il mento sulle mani incrociate - il piano della scrivania è in cristallo e vedo riflessa la sua immagine - e mi fissa con un certo interesse. - Credo proprio che l’agenzia mi abbia mandato un buon soggetto (sì, dice proprio “un buon soggetto” come se fossi un cane o un cavallo). Mi parli un po’ di lei, giovanotto. - Non so che dirle. Se raccontassi per filo e per segno la mia vita con tutte le fregature che mi ha finora riservato, i compromessi che mi ha imposto con la forza, gli stratagemmi che mi ha suggerito per restare a galla, le farei probabilmente cambiare l’idea che si è fatta di me. Mi limito, perciò, a raccontare le solite banalità. Sono un ragioniere con tanta voglia di lavorare e poca fortuna. Sa, finora mi sono dato da fare, ho fatto concorsi su concorsi - è una bugia, perché odio fare i concorsi - , ho risposto ad annunci sui giornali. Ma fino ad oggi non sono riuscito a cavare il classico ragno dal buco. Probabilmente la colpa è della crisi economica che stiamo vivendo. - E come vive? (la signora B. è curiosa di conoscere i metodi di lotta quotidiana impiegati da un non abbiente come me). Dovrà pure mangiare, immagino. E dormire da qualche parte. - Sa, faccio qualche lavoretto. Non le dico, naturalmente, che qualche volta sono costretto a “prelevare” scatole di fagioli al supermercato, i fagioli del resto sono la carne dei poveri. - Di che genere? - m’interrompe la signora B.. Pare che la sua curiosità stia crescendo, si vede che un soggetto come me, tanto diverso dalle persone che frequenta abitualmente, merita un’esplorazione approfondita alla ricerca di realtà insospettate. - L’accompagnatore, ad esempio - mi affretto a rispondere. Francamente non me la sento di raccontarle che tre o quattro volte al mese frequento un certo bar del centro dove mature e disinibite signore della buona borghesia si danno convegno per ingaggiare partners occasionali; che sono molto ricercato in quell’ambiente per le mie qualità amatorie; che riesco a guadagnare, ogni volta, un bel po’ di denaro. - Mi viene voglia di aiutarla - mi confida la signora B.. Poi si affretta a chiarire:
- Purtroppo non posso assicurarle niente di concreto, almeno per ora. Vede, con la crisi in atto, non possiamo assumere nessuno, anzi dovremo licenziare almeno una trentina di impiegati nelle prossime settimane. Sempre che i sindacati ce lo consentano, naturalmente. Lo squillo del telefono interrompe le sue parole. Sulla scrivania c’è una batteria di telefoni, uno è rosso, un altro è bianco, un terzo è grigio e ce n’è pure uno nero vecchio stile. - Mi scusi - mi fa educatamente prendendo il telefono grigio. Parla per qualche minuto, non riesco a capire il senso della conversazione, la signora B. risponde spesso a monosillabi, poi ripone il telefono. Si alza e viene a sedersi sulla poltrona di fronte a me. Accavalla le gambe - sono le gambe di una ragazza, accuratamente depilate, non ha né vene varicose, né polpacci muscolosi, indossa una gonna molto corta e calze di colore neutro. - Come le accennavo poco fa, l’ho fatta venire per passare una serata un po’ diversa dalle solite, in compagnia di un giovane ben educato come credo sia lei. Ceneremo a casa mia, ascolteremo della buona musica e parleremo del più e del meno come vecchi e buoni amici. Il programma della signora B. mi sembra intonato al personaggio che mi siede di fronte: una serata imbevuta di perbenismo, correttezza e protocollo mondano. Ed io che credevo di dovermela spupazzare per benino come faccio con le clienti di quel bar del centro! La signora B. ha forse intuito il mio pensiero. - Voglio essere chiara per evitare ogni possibile equivoco. Non sono interessata a giochi……erotici. Non è nelle mie intenzioni invitarla nel mio letto. Arrossisce appena. - Scusi la mia franchezza - aggiunge, lievemente imbarazzata. Ora la prego di attendermi per un po’ nella sala d’attesa. Devo dettare alla mia segretaria un paio di lettere, poi sarò da lei. Preme un pulsante, compare l’impiegata di prima che mi riaccompagna nella sala d’attesa. Non mi siedo, preferisco accendermi una sigaretta e guardare dalla finestra le luci della città. La signora B. è puntuale, mi viene incontro in pelliccia, m’invita a seguirla. Ripercorro i corridoi di prima, la gente che incontriamo ci saluta con deferenza, la signora B. incede come una regina tra i sudditi ossequienti e li degna appena di uno sguardo. Penso che la signora B. non riscuota molte simpatie tra i suoi numerosi dipendenti. Sulla strada ci attende una grossa Mercedes bianca con autista che si affretta ad aprirci gli sportelli dell’auto. L’abitazione dalla signora B. non è lontana, forse meno di un chilometro dalla sede della società. E’ un palazzo ottocentesco a tre piani che sorge in pieno centro storico. Penso che sia una zona abitata da gente molto ricca, tranquilla, appartata nonostante il traffico intenso che lambisce i suoi confini, le sue strade sono strette ed antiche, sembra che non ci passi mai nessuno, si vedono rare auto e rari passanti.
L’autista ci fa scendere proprio davanti al portone, poi si allontana con la Mercedes. Una graziosa cameriera di colore ci apre la porta. Ho l’impressione che l’abitazione della signora B. sia vastissima con qualche decina di stanze e lunghi corridoi. Durante il breve tragitto in auto la signora B. non mia rivolto parola, ora mi fa attraversare un salone di grandi dimensioni - forse vuole darmi una panoramica delle sue ricchezze - quindi mi fa accomodare in una stanza che immette in una specie di sala per riunioni (attraverso la porta semi aperta intravedo un enorme tavolo in noce con attorno una decina di sedie massicce). Tutti gli ambienti che ho potuto vedere sono arredati con gusto, il moderno e l’antico riescono ad amalgamarsi bene - circostanza abbastanza infrequente -, ci sono quadri di autore alle pareti - non mi intendo di pittura però riesco a riconoscere un De Chirico e un Fontana - , tappeti persiani coprono i pavimenti, collezioni di porcellane e giade, grandi vasi cinesi e altri oggetti interessanti. - Deve perdonarmi se la farò attendere un po’, in questa stanza - mi dice la signora B. togliendosi la pelliccia e gettandola su una poltrona - Mi sono dimenticata di dirle che sto attendendo alcuni collaboratori con i quali dovrò mettere a punto il lancio pubblicitario di un nuovo prodotto. E’ inutile che la inviti alla nostra riunione, sono sicura che si annoierebbe molto. Mi attenda qui, sia gentile. Le manderò Ombretta a tenerle compagnia. E’ un amore di ragazza, l’Ombretta, la vedrà tra poco. Dirige la mia casa e la servitù. Fa tutto lei qui dentro. E lo fa con abilità, lo riconosco. La signora B. se ne va alla sala delle riunioni e chiude la porta dietro di sé. Odo alcune voci, probabilmente i suoi collaboratori sono appena arrivati e la stanno ossequiando. Poi un parlottìo fitto fitto , indecifrabile, comincia a filtrare attraverso la porta. Sono là, a guardare - un po’ annoiato, lo confesso - l’arredamento della stanza quando una voce femminile, morbida e con un leggero accento straniero, mi scuote da quel lieve torpore. Mi volto e non posso che ammirare la bellezza di Ombretta (perché penso che si tratti proprio di Ombretta, la direttrice di casa B.). E’ alta, slanciata, viso angelico, capelli biondi e occhi verdi, indossa un vestitino nero aderente, corto, con una profonda scollatura sul davanti - intravedo i seni, chiari con alcuni nei, mentre il leggero tessuto aderente evidenzia i grossi capezzoli -, le spalle sono del tutto scoperte. Ha una preziosa collana e grandi orecchini a gocce. - Benvenuto nella casa della signora B. - mi dice con un sorriso. Mi porge la mano, gliela stringo con calore. - Prego, si accomodi. Vuole bere qualcosa? - Faccio io, Ombretta. Si fa avanti, premuroso, un uomo sui trent’anni in doppio petto, con l’aria del giovane manager, ha occhiali e baffi ben curati, è più alto di me di una decina di centimetri. La ragazza me lo presenta, non afferro il suo nome come avviene di
solito nelle presentazioni - del resto non m’interessa sapere se il giovanotto è il signor Bianchi o il dottor Neri. L’uomo apre un mobile bar, vedo un mucchio di bottiglie, alcune sono abbastanza costose. - Se avete un limone, un Bacardi Carta Blanca e un po’ di zucchero, posso prepararvi un “daiquiri” - faccio io con l’aria del competente. Non ho mai fatto un “daiquiri” , ma ne ricordo la ricetta per averla letta da qualche parte e quel nome esotico mi è rimasto impresso nella mente. Ombretta e il giovane manager sembrano entusiasti della mia idea. La ragazza parla in una specie di citofono e qualche minuto dopo una cameriera porta su un vassoio un paio di limoni e una zuccheriera d’argento .Tra le varie bottiglie riesco a trovare il Bacardi, Ombretta mi porge uno shaker e tre bicchieri da cocktail, ad occhio introduco nello shaker le dosi di Bacardi per tre persone, vi spremo dentro un limone, vi aggiungo un paio di cucchiaini di zucchero, chiudo lo shaker e comincio ad agitarlo con lo stile dei barmen (almeno così mi pare). Dopo alcuni minuti, durante i quali Ombretta e l’uomo mi guardano con curiosità scambiandosi qualche parola di approvazione per il mio operato, verso il contenuto dello shaker nei bicchieri. Alzo il mio bicchiere. - Alla vostra salute - dico. I due bevono, non mi azzardo a bere il mio “daiquiri”, voglio prima vedere l’effetto che fa sugli altri, Ombretta mi dice:- E’ o.k.!, l’altro annuisce, allora mi decido a bere. - Anche lei partecipa alla riunione della signora B.? - chiedo al giovanotto. - Sì, mi chiameranno tra poco - mi risponde (il tono della voce tradisce una certa apprensione, sembra uno studente prima dell’esame, forse sa per esperienza che la signora B. è un’esaminatrice severa ed esigente) - Mi occupo di comunicazione di massa. - Interessante - faccio io, educatamente. Vorrei alleggerire la sua tensione, forse perché mi è simpatico o forse perché non vorrei trovarmi nei suoi panni in questo momento. - Mi parli un po’ dei mass-media. Soprattutto dei loro effetti sulla gente. Non ne so molto in proposito e non le nascondo che, quando posso, cerco d’imparare sempre cose nuove. Naturalmente i mass-media m’interessano poco, preferirei fare la corte ad Ombretta ma, nell’ambiente in cui mi trovo, devo comportarmi in maniera un po’ ipocrita. - Scusatemi - la ragazza si avvia verso la porta - Ho qualcosa da fare. Ritornerò appena potrò. - Vede - esordisce il giovanotto quando Ombretta è appena andata via (sembra soddisfatto del mio interesse per il suo campo di specializzazione) - i mass-media, cioè televisione, radio, giornali, esercitano una grande influenza a causa del loro richiamo popolare. Essi sono responsabili della creazione dell’opinione pubblica, della velocità e del volume che la circolazione delle informazioni assume in una società moderna e dello stimolo al consumo offerto dalla
moderna pubblicità. Gli studi sull’efficacia dei mass-media hanno manifestato la tendenza… Gli ho dato troppa corda, mi rammarico con me stesso allorquando mi accorgo che il giovanotto sarebbe capace di parlare per ore intere dei mass-media e dei problemi che essi creano nella società contemporanea. -…Gli effetti dei mass-media sul pubblico variano a seconda del prestigio o delle valutazioni che si attribuiscono alla fonte della comunicazione ; oppure, quanto più l’emittente è considerato degno di fede, credibile o di prestigio, tanto meno i suoi intenti sono considerati manipolatorii… - Mi scusi se la interrompo - è il mio tentativo di arginare la verbosità del mio interlocutore - Trovo molto interessante ciò che dice… L’annoio forse? Sembra un po’ contrariato per la mia interruzione. Tutt’altro - mentisco spudoratamente - Starei delle ore ad ascoltarla. Ma vede, voglio fare una considerazione forse provocatoria, forse assurda ed è questa: mi pare che Hitler sia stato il primo o uno dei primi, assieme a Mussolini, a capire l’importanza dei mass-media allora conosciuti e a servirsene per gli scopi che tutti noi conosciamo. Quindi i mass-media possono diventare efficaci strumenti di autoritarismo politico, ideologico, culturale. Sono perfettamente in grado di manipolare le idee, le coscienze, l’opinione pubblica. Non sarebbe meglio se tentassimo di ridurre la loro importanza nella nostra società anziché cercare in tutti i modi - come fate voi esperti - di potenziarli e di rendere i loro effetti ancora più sofisticati? Lì dentro (gli indico la sala delle riunioni) alcuni degni signori stanno esaminando problemi di alta strategia commerciale, stanno decidendo in quale modo aggredire il povero consumatore e costringerlo ad acquistare il nuovo prodotto della signora B.. Certamente quei signori, avvalendosi anche del suo contributo, decideranno di adottare le strategie più sofisticate e più sperimentate per indurre l’uomo della strada - questo eterno fantoccio - a fare delle scelte non volontarie, probabilmente irrazionali, in ogni caso non rispondenti ai suoi veri bisogni. Oggi quasi tutte le scelte di questo simbolo della mediocrità sono imposte dall’alto attraverso i mass-media. Ora, mio caro signore, non si sente un po’ colpevole per questo stato di cose? Probabilmente l’esperto di mass-media non gradisce di essere posto in stato d’accusa da un semplice uomo della strada. Probabilmente si starà chiedendo: “Cosa capisce costui delle strategie mondiali dei nuovi napoleoni, delle inebrianti conquiste di nuovi mercati, di tattiche avvolgenti che stroncano agguerriti avversari? Solo gli ingenui ignorano o fingono di ignorare che tutto ciò è possibile proprio ricorrendo ai mass-media, le migliori armi del successo ad ogni costo.” - Mi pare che la sua ottica sia sensibilmente distorta - mi dice, acido, il giovanotto. Penso proprio che sia adirato, le sue parole opportunamente tradotte vogliono dire che non capisco un cavolo di mass-media e che quindi non posso esprimere idee sensate in materia.
- Si ricordi - aggiunge - che i mass-media sono al sevizio della democrazia. Considerarli strumenti di autoritarismo, di manipolazione dei cervelli, di persuasione occulta - si è scritto qualche volume in proposito, ricorda? - significa lavorare un po’ di fantasia. Certo, tutto è possibile sotto il cielo, soprattutto sotto il nostro, ma si ricordi che le folle che potrebbero essere manipolate dai mass-media, come ritiene lei, sono meno ricettive di quanto lei possa immaginare. Mi sorride con un’aria di sufficienza. Sto per contestargli tutto quando la porta della sala delle riunioni si apre ed un uomo fa cenno al mio interlocutore di entrare. Il giovanotto impallidisce leggermente - ora tocca a lui convincere la signora B. e i suoi collaboratori della bontà e dell’efficacia delle sue idee - si aggiusta la cravatta, mi saluta con un cenno del capo, poi entra nella sala. - In bocca al lupo - gli faccio un po’ ironico. La porta si chiude dietro di lui. Mi accendo una sigaretta e passeggio nervosamente per la stanza. Ho la sensazione che la riunione andrà per le lunghe e che mi toccherà attendere un bel po’. Per fortuna entra Ombretta. Sembra che si segua un copione: fuori l’esperto e dentro la direttrice. - Annoiato? - mi chiede, garbata. - Non le sarà stato facile ascoltare la conferenza sui mass-media aggiunge, ridendo - Lei non mi sembra un frequentatore di conferenze. - Non ci vado mai alle conferenze, Ombretta - le spiego - A proposito, posso chiamarla così? - Naturalmente. Non mi offendo per così poco - mi sorride. - Bene. Cosa si fa di bello questa sera? - le chiedo con una certa curiosità. In realtà il programma della signora B. mi è sembrato alquanto noioso, però, conoscendo il tipo - certo, si tratta solo di un’impressione, però mi ritengo un acuto psicologo che raramente s’inganna - , prevedo che alla fine della serata ci uscirà qualche sorpresa. - Appena la signora B. avrà terminato la riunione, andremo a tavola. Ho fatto preparare salmone alla Chambord, filetti di sogliola alla Horly, ostriche Plates d’Arcachon. Berremo Veuve Cliquot, la signora B. pasteggia a champagne. Poi ascolteremo un po’ di musica, abbiamo qui un complesso hi-fi forse unico in città e tanti dischi di musica classica, leggera, operistica, da camera, jazz. Quindi non avrà che l’imbarazzo della scelta. A proposito, alla signora B. piace il gioco della verità, lo conosce? Naturalmente berremo qualcosa…… - E poi? A volte mi comporto da villano, lo riconosco. - Non capisco. Ombretta mi fissa con quel suo sguardo ingenuo da brava ragazza educata in qualche raffinato collegio svizzero e arrossisce. - Mi perdoni. Sono stato uno sciocco. La frase l’ho udita al cinema in qualche commedia brillante e a volte, quando mi trovo in imbarazzo, la recito puntualmente.
La ragazza va al mobile bar e si riempie un bicchiere di cognac. Noto che la mano è percorsa da un lieve tremito. Beve il contenuto del bicchiere tutto d’un fiato. - Se vuole bere qualcosa, non faccia complimenti. Si serva pure. In casa abbiamo di tutto. Si siede su un divano damascato. Mi verso del gin e mi siedo accanto a lei. Ombretta si discosta di quel tanto necessario ad evitare uno stretto contatto fisico tra noi due. Mi sembra timida e timorosa degli uomini. Per qualche minuto restiamo in silenzio .Ombretta si alza per versarsi dell’altro cognac, lo beve lentamente, giocherella nervosamente con il bicchiere. - Cosa fa di bello? - mi chiede ad un tratto. Mi appare imbarazzata, non sa cosa dire, probabilmente la vicinanza di un uomo che non smette di guardarla le crea qualche turbamento. - Niente di speciale - le rispondo - Sa, le solite cose. La nostra conversazione si trascina tra le banalità che si scambiano abitualmente degli sconosciuti. - Conoscerà molta gente, suppongo - mi chiede. Sembra decisa a vincere la sua timidezza. - Deve essere interessante fare…… come si dice?……ah, l’accompagnatore. - A volte ci si diverte, a volte ci si annoia. Dipende dai clienti. - Capisco. Ombretta poggia il bicchiere su un tavolino e torna a sedersi accanto a me. - Sono un uomo-oggetto, Ombretta. Le clienti fanno di me quello che vogliono. Quasi tutto. - Uomo-oggetto? - mi pare divertita da quella definizione - So che esiste la donna-oggetto, anzi se ne parla tanto al giorno d’oggi. Ma, sinceramente, è la prima volta che sento parlare di uomo-oggetto. - L’uomo-oggetto esiste. Io sono uno di quelli. La signora B. ha telefonato in agenzia ed eccomi qua, pronto ad accontentarla in tutto. - Interessante. Allora la signora B. può disporre di lei come vuole? L’uomo-oggetto è uno schiavo, forse? - Bè, non è proprio così. Personalmente ho un alto concetto di me stesso e non mi considero lo schiavo di nessuno. Se devo essere sincero l’uomo-oggetto è una boutade, ecco tutto. Siamo tutti liberi e indipendenti, non esistono più schiavi. Ombretta si chiude ancora nel suo mutismo. Attraverso la porta della sala delle riunioni continua a filtrare un parlottìo fitto ed incessante. Di tanto in tanto mi pare di riconoscere la voce autoritaria della signora B.. - Ne avranno ancora per molto? - chiedo alla ragazza. Ombretta dà uno sguardo all’orologio. - La signora B. è puntuale, di solito. Mi ha detto che intende cenare per le ventuno, perciò penso che non ne avrà ancora per molto. Mi accendo un’altra sigaretta, mi sento un po’ nervoso, quell’ambiente comincia a non piacermi. La signora B. è troppo autoritaria per i miei gusti, mi pare che sia abituata a trattare tutti
come suoi schiavetti, Ombretta, d’altro canto, appare una ragazza introversa e riservata, forse succube della sua padrona. Non trascorre neppure un quarto d’ora che la porta della sala si apre e compare la signora B.. Sembra soddisfatta dell’esito della riunione. Come al solito le avranno dato ragione su tutto, così penso. - Sono desolata di averla fatta attendere tanto tempo - il tono della voce è cordiale, mi sorride - Spero che Ombretta le abbia fatto buona compagnia. - Certo. Ombretta è stata deliziosa. La ragazza arrossisce, sa che mentisco, si limita a mormorare: - Abbiamo parlato del più e del meno. - Mi fa piacere - dice la signora B.. Poi, rivolta ad Ombretta, aggiunge: - Per favore, avverti la servitù di portare in tavola tra qualche minuto. La ragazza si affretta ad eseguire l’ordine ricevuto. - Le dispiace versarmi un aperitivo? Le verso l’aperitivo e le porgo il bicchiere. - Non beve? - No, grazie. Non sono abituato a bere molto. - Mi piacciono gli uomini che bevono. Con moderazione, s’intende. Mi porge una bottiglia di aperitivo. - Via, si serva pure. Mi faccia compagnia. Non me la sento di rifiutare. Bevo ancora. Comincio a sentirmi un tantino euforico. - Prego, mi segua. Andiamo nella sala da pranzo. La seguo attraverso un lungo corridoio, mi fa entrare in una stanza arredata con gusto come le altre. Nel centro della stanza c’è una tavola già apparecchiata, Ombretta e una cameriera ci stanno aspettando. Vasellame di porcellana finissima, posate d’argento, bicchieri di cristallo, tovaglia di lino, mi sembra tutta roba molto costosa, come del resto tutto in quella casa. Ci sediamo e mangiamo in silenzio. Assaggio un po’ di salmone, mangio qualche ostrica, tocco appena il resto. La signora B. mangia con appetito e beve molto champagne, Ombretta tocca appena i cibi mentre imita la padrona nel bere. Ci scambiamo appena qualche parola, qualche banalità (“Abbiamo avuto una splendida giornata”, “Forse domani pioverà”, “Ha sentito parlare dello sciopero generale della prossima settimana?”, “Questi sindacati!”). Quando finiamo di cenare, la signora B. mi fa accomodare in un’altra stanza, una specie di studio con un’ampia libreria e molte piante ornamentali. - Una cena deliziosa - mi dice, invitandomi a prendere un sigaro da una scatola aperta - Da tempo non mangiavo così di gusto. Spero che tutto sia stato di suo gradimento. - Una cena molto raffinata - mi limito a rispondere mentre le accendo il sigaro. Ci sediamo su un ampio divano.
- Desidera ascoltare un po’ di musica? Ho uno speciale impianto hi-fi che dà un risalto eccezionale ad ogni esecuzione musicale. Cosa preferisce ascoltare? Ombretta è in piedi, pronta a soddisfare la mia richiesta musicale. - Mi piacerebbe ascoltare dei valzer viennesi. Nell’interpretazione di von Karajan, se possibile. - Abbiamo di tutto - mi assicura Ombretta - Anche i valzer viennesi nell’interpretazione di von Karajan. Qualche istante dopo le prorompenti note del valzer “Sul bel Danubio blu” si diffondono per la stanza, il sound è davvero eccezionale. - Per favore, Ombretta. Portaci una bottiglia di whisky - ordina la signora B. tirando una boccata dal suo sigaro. La ragazza ritorna qualche istante dopo con una bottiglia di Chivas Regal. - Vieni, siediti accanto a me - la esorta la signora B.. Ombretta, obbediente, le siede accanto, sul divano. Riempio tre bicchieri di Chivas e li distribuisco. - Alle nostre fortune - esclama la signora B. visibilmente allegra Oggi è stata una giornata fortunata. Beviamo il Chivas, poi Ombretta si affretta a riempire i bicchieri. - Giovanotto - mi dice ad un tratto la signora B., sorridendo - Lo sa che io ed Ombretta amiamo il gioco della verità? Vogliamo giocare un po’? Naturalmente dobbiamo essere sinceri, come se fossimo in un confessionale. Le sue labbra carnose stringono il sigaro con avidità, gli occhi sono brillanti, forse l’effetto dello champagne e del whisky non tarderà a farsi sentire per intero. Anche Ombretta s’è tirata su, sorride e prende la mano della signora B. con una confidenza per me insospettabile. - Ci sto - mi limito a rispondere. Il gioco della verità non mi entusiasma molto. - Allora a lei la prima domanda. Può chiedere di tutto, noi siamo perfettamente disinibite. Non abbiamo pregiudizi o tabù di sorta. Vero, Ombretta? - Vorrei sapere cosa pensa la signora B. di se stessa - le chiedo all’improvviso. Quella donna non m’intimorisce più, forse è merito dello champagne e del whisky, ora sono deciso a farle domande un po’ imbarazzanti. La donna si mette a ridere. Agita il sigaro acceso, mi soffia in viso una folata di fumo. - Cosa penso di me stessa? Presto detto. Sono una donna in gamba, di grande talento, una donna che ha più successo di tanti uomini. Ha visto i miei dipendenti, i miei collaboratori? Tutti mi temono e mi invidiano perché so come gestire il mio potere. So essere spietata e terribile con i miei nemici. Le amiche mi dicono spesso: ”Saresti dovuta nascere uomo.” E perché? , rispondo. Una donna non può essere più intelligente, più abile, più scaltra di un uomo o di tanti uomini messi insieme? Senza dubbio mi piacciono certi atteggiamenti virili: fumare sigari, bere, urlare imprecazioni e perché no?, tanto devo essere sincera, amare giovani fanciulle come Ombretta. La ragazza le si stringe contro, sembra volerle chiedere protezione,
le dà un bacio sulle labbra. Francamente non mi aspetto una cosa simile, sono preso un po’ contropiede, certi fragili sospetti si stanno confermando pienamente. - Si meraviglia? - mi chiede la signora B. notando il mio stupore. Ora il tono della voce diventa duro, tagliente. - Amo Ombretta e lei ama me. Forse che due donne non possono amarsi? Pregiudizi, giovanotto, stupidi pregiudizi. Tutte e due abbiamo di che odiare gli uomini. Prenda il mio caso ad esempio. In famiglia ero l’unica donna oltre mia madre, avevo tre fratelli per i quali i miei genitori stravedevano, mi sentivo trascurata e umiliata. Da bambina i miei fratelli mi disprezzavano perché non ero forte come loro e perché non potevo partecipare ai loro giochi. Perciò, appena ebbi diciotto anni, sposai il primo che mi capitò, un debole, uno spiantato che mi tradiva con ogni femmina che incontrava per strada. Ma io volevo affermare a tutti i costi la mia forte personalità, avere successo, umiliare gli uomini. Con sacrifici inenarrabili e con una volontà di ferro ho superato tutti gli ostacoli ed ora posso vendicarmi. Tira boccate nervose dal sigaro. - Gioisco nel mio intimo quando i miei dipendenti si umiliano davanti a me per conservare il posto o per ottenere una promozione. Spesso sono uomini giovani che si lasciano calpestare, la loro virilità è solo una parola senza contenuto. Che pena mi fanno questi uomini! Si calerebbero le brache davanti a me. E forse con piacere. Che masochisti! - Fortunatamente non tutti gli uomini sono come quelli che si lasciano tiranneggiare da lei - obietto (mi viene voglia di strapazzarla a dovere, di strapparle il veleno che nasconde nella lingua) - Forse Ombretta può smentirla al riguardo. La ragazza, che se n’è stata tranquilla ad accarezzare e a sbaciucchiare la signora B., scatta come una molla. L’espressione del volto tradisce una tremenda collera. Mi si avvicina e mi agita minacciosamente i pugni davanti al viso. - Voi uomini siete dei bastardi schifosi - esordisce rabbiosamente (non credevo che quella docile fanciulla potesse trasformarsi in una belva) - Sa cosa mi hanno fatto, due anni fa? Mi hanno violentata. Come bestie. S’interrompe per mandare giù un bicchiere di whisky che la signora B. le porge. - Una sera di due anni fa - comincia a raccontare - rimasi con una gomma a terra, a qualche decina di chilometri da questa città. Era buio e non ero capace di cambiare il pneumatico. Il luogo era deserto. Stavo lì, accanto all’auto, nella speranza di fermare qualche automobilista di passaggio quando cinque giovani mi vennero incontro. Spiegai loro la mia disavventura e li pregai di cambiarmi il pneumatico, in cambio avrei dato loro del denaro. Quei bruti - erano meridionali dai capelli lunghi e neri e dalla parlata per me incomprensibile, forse da tempo non andavano a donne - mi risero in faccia e cominciarono a deridermi quando, avendo intuito le loro intenzioni, scoppiai a piangere. Mi trascinarono in un prato vicino, mi tolsero il vestito, mi gettarono a terra e infine mi strapparono le
mutandine. Tre di loro mi bloccarono braccia e gambe sicchè non ero più in grado di fare il minimo movimento. Quindi cominciarono a baciarmi, a leccarmi, a sbavarmi addosso, mi stringevano i capezzoli con i denti, mi mordevano i seni, mi ficcavano le loro sporche dita nella vagina e poi, a turno, penetrarono dentro di me con rabbia, provavo un dolore pazzesco, ma loro ridevano e facevano i loro sporchi comodi. C’era uno che, al momento dell’orgasmo, mi cacciava in gola una linguaccia che non finiva mai, un altro mi sbavava sul collo e un altro puzzava di sudore e di fango. Che bastardi! Se potessi averli tra le mani, non so cosa farei, li taglierei a pezzetti…… Mi prende il mento tra le mani e mi guarda quasi con odio, poi urla: - Siete delle carogne maledette. Bastardi. Bastardi. Bastardi… La signora B. l’allontana da me, se la stringe tra le braccia. Ombretta piange disperatamente sulla sua spalla. - Calmati, tesoro - la supplica con voce tenera, materna - Ora tutto è passato. Ci sono io a proteggerti, lo sai. Dammi un bacio, tesoro mio. E davanti a me le due donne si stringono in un frenetico abbraccio, le loro labbra si cercano avidamente e si baciano con grande trasporto. Non ce la faccio più a restare in quella casa. Non me ne importa niente dell’agenzia e dei suoi soldi. Voglio andarmene. - La mia presenza è superflua, suppongo - dico loro, cercando di nascondere il mio disagio - Vogliate scusarmi. Devo proprio andare. La signora B. mi prende per una mano e diventa subito cordiale. - Via, giovanotto. Resti ancora un po’. La capisco, certi fatti sono crudeli e Ombretta ha ancora degli incubi. Ma ora non parleremo più di questo, glielo prometto. Ombretta sembra essere ritornata in sé. - Mi scusi - mi dice, imbarazzata - Certe volte non riesco a controllarmi. Sono costretto a restare ancora, controvoglia. - Beviamo ancora un po’ - mi dice, conciliante, la signora B. Mi porge un altro bicchiere di whisky. - L’alcool scaccia ogni tristezza - aggiunge - Aiuta a dimenticare. Bevo ancora e mi accorgo di essere arrivato al limite delle mie possibilità in fatto di alcool. Le due donne continuano a bere, a vuotare bicchieri l’uno dopo l’altro senza mostrare alcun segno di ubriachezza. Reggono bene l’alcool, mi dico, e probabilmente sono abituate ad alzare il gomito spesso e volentieri. - Questo è l’ultimo bicchiere - mi dice la signora B. porgendomene uno che Ombretta ha appena riempito - Le assicuro che è speciale. Le due donne ridono allegramente. Faccio per rifiutarlo, ma la signora B. mi costringe a berlo in tutta fretta. Noto che il contenuto ha un sapore particolare, leggermente amarognolo. Ora mi sento stanco, la testa mi gira un po’ e da qualche minuto ho la sensazione di non potere muovere né gambe né braccia. E’ come se fossi tutto paralizzato.
- Cosa mi sta succedendo? - mi chiedo ad alta voce. Le due donne mi guadano e ridono. - Che intruglio mi avete fatto bere? Cosa volete da me? Cerco disperatamente una spiegazione a quello strano malessere. - Sei la nostra vittima per questa sera - mi sussurra la signora B.. Non ci capisco niente, forse sto sognando, è una specie di incubo. - Ombretta ha mescolato al tuo ultimo whisky una piccola dose di una droga che procura temporaneamente un indebolimento generale del corpo, sicchè non avrai la possibilità di reagire. Ombretta ride sguaiatamente, deve essere ubriaca. - Ora ti accompagniamo in camera da letto - mi dice la signora B., ridendo - E’ vero, Ombretta, che accompagniamo questo bell’esemplare di maschio in camera da letto? Poi nota il mio smarrimento e aggiunge, sempre ridendo: - Non avere paura. Non ti faremo del male. Vogliamo solo umiliarti come maschio. Rinuncio a capire e seguo docilmente le due donne che mi sorreggono. Non senza sforzo, date le mie precarie condizioni psico-motorie, mi trasportano in una camera da letto. Noto solo un grande letto a due piazze, il resto mi sfugge. Pian piano mi stendono bocconi sul letto, con le braccia allungate in avanti e le gambe che penzolano dal letto, molli, quasi senza vita. Ombretta mi toglie le scarpe, mi abbassa i pantaloni e mi cala lo slip. Resto per qualche minuto in quella posizione, inebetito, incapace di fare il minimo movimento. All’improvviso mi compare davanti la signora B., stringe in mano un grosso membro maschile di gomma. Me lo mette sotto il naso, poi mi spiega: - Umilieremo la tua mascolinità con questo coso. Lo riconosci? - Non toccatemi - le parole mi escono di bocca ma non ne sento il suono, forse immagino di gridare, di urlare, non lo so - Non toccatemi, troie. Me lo infilano lentamente, provo un dolore lancinante, loro insistono e ridono. - Sei vergine - constata la signora B. - Meglio così, c’è più gusto. Spingi, Ombretta. Spingi. Stai sverginando un vero maschio. Quando il dolore raggiunge il culmine, perdo i sensi per qualche tempo, così almeno mi pare. Quando riapro gli occhi, sono di nuovo vestito, seduto sul divano. Ora posso muovere le mani, le gambe. Forse ho sognato. La signora B. e Ombretta sono accanto a me, sul divano, e mi guardano senza parlare. - Si è addormentato per una ventina di minuti - mi dice la signora B. - Io e Ombretta non abbiamo voluto svegliarla. - Forse non si sente bene? - aggiunge Ombretta con premura - Vuole un caffè? Non so cosa dire, ora mi sento meglio, ma prima devo avere avuto qualcosa di strano. - Grazie, sto bene. Forse ho bevuto troppo. Un buon caffè non lo rifiuto.
Qualche minuto più tardi la cameriera ci porta il caffè. Lo bevo amaro, con avidità, poi ne chiedo un altro. - E’ tardi - mi dice ad un tratto la signora B. - Domani avrò una giornata molto impegnativa. Si alza imitata da Ombretta. - La ringrazio per la sua amabile compagnia - il tono della voce è cordiale - Lei è proprio un giovanotto in gamba. Se ha qualche problema venga pure a trovarmi in ufficio. Forse potrò fare qualcosa per il suo impiego. Mi allunga una busta. - Prenda. E’ per lei. Faccio il gesto di rifiutarla, ma lei me la ficca in tasca con un gesto deciso. - Il suo è un lavoro come un altro, vero? E allora merita un corrispettivo. La ringrazio. Ora la signora B. mi è diventata quasi simpatica. Ombretta mi augura la buonanotte con il suo garbo da collegiale e segue la signora B. che esce dalla stanza. La graziosa cameriera di colore che ho già visto ricompare e mi accompagna alla porta. - Buonanotte, signore - mi dice educatamente. Poi chiude la porta alle mie spalle. §§§ Quando sono solo, in strada, apro la busta e mi lascio sfuggire una esclamazione di stupore. - Cavolo! La signora B. è proprio una gran signora. Nella busta c’è una grossa somma di denaro. Metto il denaro nel portafoglio, con cura, do uno sguardo all’orologio, è appena mezzanotte, mi sento euforico e ricco. - La notte è tutta mia - mi dico, ridendo. Sul momento non so cosa fare. Decido di andare in un bar a prendere un caffè, ne sento la necessità, ho la bocca secca e amara. Sta cominciando a venire giù la nebbia, odio la nebbia e il mondo di fantasmi che si trascina dietro, fa anche freddo e rabbrividisco. Per strada non c’è anima viva, nella grande città la notte nasconde mille insidie, i teppisti sono in agguato dovunque e la gente perbene se ne sta rintanata nelle proprie case, è come se ci fosse il coprifuoco. Sono solo, avverto fisicamente la solitudine e un’impalpabile, viscida sensazione di pericolo, odo i miei passi sul selciato, m’inseguono e mi perseguitano come se fossi l’ebreo errante. Trovo un bar ancora aperto, sta per chiudere. Prego il barista di prepararmi un caffè. Obbedisce senza fare osservazioni o commenti. Mentre attendo il caffè mi viene un’idea, ho soldi in tasca, voglio tentare la fortuna al gioco. Il barista assomiglia a Nando il romano - Nando è un amico, ci siamo conosciuti sotto la naia, ora fa il “buttafuori” in una bisca clandestina nei pressi di uno scalo ferroviario secondario della città, gli ho fatto qualche favore, l’ho nascosto una volta nella mia stanza quando era
ricercato dalla polizia per un reato, forse furto, non glielo mai chiesto, è indelicato chiedere ad un amico se ha conti aperti con la giustizia, un’altra volta gli ho prestato dei soldi, ora nutre nei miei confronti una specie di riconoscenza- e per associazione di idee mi è venuta in mente la bisca. Ci sono già stato una volta, qualche mese fa, a giocare alla roulette. Nando mi fu utile in quell’occasione, mi svelò alcuni trucchi del croupier e così fui in grado di realizzare un bel po’ di bigliettoni con un carrè, due colonne, un passe, un pair, un manque e due rouge consecutivi, quel posto non è troppo raccomandabile perché è frequentato da balordi ma ci vanno anche gli incensurati che hanno il vizio del gioco. Bevo il caffè, chiamo per telefono un taxi e aspetto fumando una sigaretta. Attendo almeno dieci minuti prima di vedere la vettura pubblica all’ingresso del bar. Durante il tragitto il tassista mi spiega che la zona dove voglio andare è pericolosa soprattutto di notte, mi dice che ci sono teppisti in circolazione, gli rispondo che lo so perfettamente ma che devo proprio andarci. La bisca è sopra un bar, bisogna conoscere qualcuno altrimenti quelli del bar dicono che non ci sono bische e anzi fanno gli offesi. A quest’ora non c’è nessuno nel bar. Dico al barista, che sta leggendo un fumetto, che voglio parlare con Nando il romano. Lui mi scruta sospettoso per qualche istante, poi si decide a fare una telefonata. - Nando arriva subito - mi dice e torna a leggere il fumetto. Di tanto in tanto mi lancia qualche occhiata indagatrice. Attendo un paio di minuti appoggiato al bancone, poi da una porticina che sembra quella di un w.c. sbuca un giovanottone alto un metro e novanta, con un torace possente e capelli rossi, ricci. - Vaffan…… - esclama quando mi vede. E’ il suo modo di salutare, sembra contento di rivedere la mia faccia. - Cosa fai di bello da queste parti? - mi chiede. Prima che io abbia il tempo di rispondergli, mi prende con forza per un braccio e mi costringe a sedermi ad un tavolino. - Ci beviamo una grappa? - mi chiede. Rispondo di sì, lui si rivolge al barista e gli ordina con la sua voce poderosa: - Portaci due grappini. Subito. Ora mi guarda e mi sorride. Attraverso la giacca sbottonata intravedo il calcio di una pistola forse una 38 Special - infilata in una fondina sotto l’ascella sinistra. E’ felice di rivedermi, lo vedo. Nando è un’anima semplice, non farebbe male ad una mosca, purtroppo non è molto intelligente e si lascia dominare facilmente nonostante la forza poderosa che si ritrova nelle braccia. - Allora, cosa fai di bello? - mi chiede ancora. - Niente di speciale - gli rispondo scrollando le spalle - Recito la mia parte, quella di sempre.
- Sei un commediante nato - mi fa, dandomi una pacca sulla spalla Sai, a volte penso a te e mi dico che sei un succhione…… - Un succhione? - lo interrompo un po’ incuriosito - Che vuole dire? - Vuole dire che succhi qua e là, come le api. Loro succhiano il loro miele, tu succhi il tuo miele. Il tuo miele è il piacere, il sesso, il denaro. Non so se riesci ad afferrare il concetto. Beviamo la grappa, Nando ne ordina altre due. - Certo che succhio - gli rispondo, divertito - Piacere, sesso, denaro e altre cose ancora. Ma succhio soprattutto esperienze dai fiori chiamiamoli così - che la vita mi offre giorno dopo giorno. Le esperienze sono il mio nutrimento quotidiano, voglio che siano sempre diverse, solo così possono diventare cibo appetitoso per il mio spirito irrequieto. Sollevo il mio bicchiere di grappa e dico: - Lunga vita a Nando il romano. Butto giù la grappa imitato da Nando. - Non avrò vita lunga - il viso di Nando s’incupisce - Se continuo a fare questo mestiere, un giorno o l’altro ci resto secco. Morto ammazzato, per intenderci. Sono nato sotto una cattiva stella. Me lo sento. Poi scaccia quella sua aria tra il cinico e il fatalista e mi chiede: - Sei venuto a giocare? - Ho un po’ di soldi e vorrei investirli - gli confesso - Spero che l’amico Nando mi dia una mano. Nando sta a pensarci su per qualche attimo, sembra passare in rassegna le possibilità di aiutarmi che gli si presentano. Mi si avvicina ancora di più e a bassa voce, per non farsi udire dal barista, mi dice: - Non posso consigliarti la roulette perché non conosco bene il nuovo croupier e nemmeno i dadi perché hanno l’anima di piombo. Poi, come se avesse un’improvvisa folgorazione, dà una manata sul tavolino che traballa sotto il colpo e mi dice sempre a bassa voce: - Ho trovato. Il poker. Dà uno sguardo intorno, forse teme di essere spiato, ma non c'è nessuno tranne il barista che legge o finge di leggere il fumetto. - Ascoltami bene - il tono della voce è più basso di prima, credo che il barista con tutta la buona volontà non potrebbe capire una sola parola - Sopra, ad un tavolo da poker sta giocando un tizio, un professionista che lavora per la bisca. E’ un amico, mi posso fidare di lui. L’ho salvato più di una volta dalle ire di giocatori intenzionati a menarlo di santa ragione. Conosce i trucchi del mestiere ed è un maestro nello “scivolo”. Sa manipolare le carte come quel mago della televisione. Lo chiamano Assopigliatutto perché preferisce lavorare con gli assi, perciò gli capitano spesso poker d’assi, full d’assi, scale all’asso di cuore. Gli altri giocatori sono Marlboro, la Maitresse e un terzo che non conosco e che non dovrebbe tardare ad abbandonare il gioco perché sta perdendo troppo. Marlboro è un grosso contrabbandiere di sigarette - forse tratta anche eroina - , la Maitresse possiede un paio di bordelli nei dintorni della città. Marlboro preferisce giocare ai dadi o alla roulette, come giocatore di poker vale poco, si tradisce facilmente, quando incarta ha il vizio di
leccarsi le labbra. La donna, la Maitresse, gioca un po’ meglio dell’altro ma anche lei si tradisce quando ha il gioco in mano, se incarta gli occhi cominciano a brillare di felicità e ci potresti vedere tutte le carte che ha in mano. Perciò sia l’uno che l’altra non costituiscono un problema. Prende un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, me ne offre una e me l’accende. - Ora andiamo su, nella bisca. Quando il quarto se ne sarà andato, ti presenterò ad Assopigliatutto e gli dirò che sei un amico. Lui capirà e ti farà vincere. Ma ricordati una cosa importante. Fatti solo un giro, poi alzati e vattene. Assopigliatutto non può stare al nostro gioco per più di un giro. Lo rassicuro, farò come vuole lui. Si alza e mi cenno di seguirlo. Dietro la porticina che sembra quella di un w.c. c’è una scala stretta e semibuia, saliamo una ventina di gradini piuttosto alti, poi ci fermiamo su un ampio pianerottolo sul quale si affacciano alcune porte. Nando ne apre una e mi fa cenno di seguirlo. Il locale è molto vasto, pieno di fumo di sigarette. C’è un parlottìo fitto, continuo. Noto una decina di tavoli verdi, tutti occupati da giocatori, e più in là, lungo la parete opposta, intravedo il tavolo della roulette. Nando mi indica un tavolo verde non molto distante dall’entrata. - Quel tipo magro con i ray-ban è Assopigliatutto, usa gli occhiali per difendersi dalla luce o forse per qualche altro motivo. Marlboro è invece l’uomo massiccio con i baffi sottili che gli sta a fianco, mentre quella donna sulla cinquantina, con i capelli biondastri, è quella troiona della Maitresse. Il quarto giocatore, che vedo di spalle, deve essere il tipo che sta perdendo. Nando mi accompagna da un tizio che se ne sta dietro un bancone a contare mucchi di fiches. Cambio un bel po’ di denaro e ritiro il corrispettivo in fiches di vari colori. Mi metto le fiches in tasca e attendo che il quarto giocatore, quello di spalle, si alzi. Aspetto più di un quarto d’ora prima che l’uomo si decida ad abbandonare il tavolo. Nando mi afferra per un braccio e mi sussurra: - Ricordati bene questo. Se Assopigliatutto passa, passa anche tu, vuol dire che Marlboro o la Maitresse hanno incartato. Quando il mio amico fa le carte la mano è tua, al cento per cento. Nando mi precede tra i tavoli verdi. Quando è in faccia ad Assopigliatutto gli dice, indicandomi con la mano: - E’ un mio amico. Può giocare? Solo un giro perché ha fretta. Poi, rivolto a Marlboro e alla Maitresse, aggiunge: - Avete nulla in contrario? Assopigliatutto mi fissa per qualche attimo, poi guarda Nando e gli fa un cenno con il capo. - Un solo giro. D’accordo.
La voce è roca, il suo sguardo non lascia trapelare nessuna emozione particolare, i ray-ban gli conferiscono un’espressione enigmatica. Marlboro si limita a lanciarmi uno sguardo distratto - sembra intento ad allineare con cura le fiches davanti a sé - mentre la Maitresse mi guarda con sospetto. E’ una donna massiccia dall’aspetto volgare, eccessivamente truccata, ha tre anelli con brillanti, una pesante collana d’oro al collo e braccialetti con ciondoli ai polsi. - Il giro inizia da me e finisce a me - precisa Assopigliatutto, cominciando a mescolare le carte. Nando mi dice : “Buona fortuna” e se ne va. Assopigliatutto è eccezionalmente abile nel manipolare le carte, se le fa scivolare tra le dita con una rapidità sorprendente, rinuncio a seguire i movimenti delle sue mani. Ora distribuisce velocemente le carte che si ammucchiano, una sull’altra, davanti a noi. Guardo le mie carte, ho tre assi, Marlboro che è il primo di mano apre, giochiamo tutti e quattro, scarto due carte, Marlboro e la Maitresse tre ciascuno, Assopigliatutto due, quest’ultimo raccoglie i nostri scarti, ne fa un mucchietto davanti a sé, distribuisce le altre carte, osservo con attenzione le mie due nuove carte - ho un po’ di apprensione, Nando mi ha assicurato che quando il suo amico fa carte la mano deve essere mia, ma chi me lo garantisce? Bisogna vedere - ho fatto full, cerco di mascherare come posso la mia contentezza, do uno sguardo agli altri, Assopigliatutto è impenetrabile, Marlboro non si lecca le labbra, la Maitresse non sembra soddisfatta, allora la mano è mia, un momento!, Marlboro spinge al centro del tavolo una manciata di fiches, è una grossa somma - ha incartato? Perché non si lecca le labbra? - la Maitresse si ritira, spingo la mia manciata di fiches, Assopigliatutto non solo ci sta ma raddoppia la posta, comincio ad avere paura - che Nando mi abbia ingannato? -, Marlboro ci pensa un po’ su, poi si ritira, io non so cosa fare, poi mi decido e vedo il gioco di Assopigliatutto, la mano è mia!, tiro un sospiro di sollievo, lui ha steso a ventaglio sul panno verde un bel full di donne, ma io gli mostro il mio full di assi e Marlboro esclama: - Che culo!, Assopigliatutto accenna un sorriso, forse vuole dirmi: - Non temere, sto al gioco.”, spinge verso di me le fiches del piatto, passa le carte a Marlboro, l’uomo le mescola con una certa goffaggine, poi le distribuisce lentamente, le mie carte non sono buone, trattengo due re, la Maitresse apre, anche questa volta giochiamo tutti, scartiamo, Assopigliatutto scarta tre carte, altrettante io, Marlboro e la Maitresse due ciascuno, Marlboro distribuisce le carte, mi capitano due nove e un asso, alla Maitresse brillano gli occhi, anche Marlboro sembra soddisfatto, la donna spinge un mucchio di fiches al centro del tavolo, ora viene il mio turno, ci penso un po’, non mi conviene giocare perché la Maitresse ha incartato, gli occhi la tradiscono in maniera palese, perciò passo, anche Assopigliatutto passa - allora ho visto giusto! -, Marlboro è titubante, poi decide di andare a vedere il gioco della Maitresse, la donna ride sguaiatamente nel ritirare con le mani grassocce le fiches della posta, ha vinto con un full di dieci, Marlboro ha in mano solo un tris di fanti, è il turno della Maitresse, anche lei è goffa nel
manipolare le carte ma le distribuisce velocemente, per me non c’è niente da fare, non ho neppure una coppia decente, non apro, apre invece Assopigliatutto che scarta una sola carta contro le due di Marlboro e le tre della Maitresse, è una mano poco emozionante, la Maitresse si ritira e Marlboro perde il confronto con Assopigliatutto che vince con una scala al re contro un tris d’assi, ora è il mio turno, Assopigliatutto spinge verso di me un accendino metallico, lo fa con noncuranza, infatti solo io me ne accorgo, capisco il gesto del giocatore, è uno dei trucchetti adoperati dai professionisti, la superficie metallica è come uno specchio, se si distribuiscono le carte al di sopra dell’accendino è possibile vederle con chiarezza, così faccio anch’io cercando di non farmi scoprire -, è vero che Marloro e la Maitresse sembrano poco furbi ma non si sa mai, mi possono dare del baro e allora può scoppiare il casino - ci riesco abbastanza bene, con disinvoltura, ora so che Assopigliatutto ha una coppia di re, Marlboro una doppia all’asso, la Maitresse una scala bilaterale come me, Assopigliatutto apre, giochiamo tutti, scartiamo, distribuisco le carte, la situazione è la seguente: Assopigliatutto ha un tris di re, Marlboro ha conservato la doppia all’asso, alla Maitresse il gioco è favorevole - ha una scala all’asso di fiori -, anche a me la scala è riuscita, mi è venuto un asso di cuori, Assopigliatutto si ritira, Marlboro gioca poche fiches, la Maitresse si mordicchia per l'emozione le grosse labbra tinte di rosso scarlatto e gli dice: - Che ne diresti di raddoppiare la posta?", non mi prende in considerazione perchè crede che la mia scala non sia riuscita, Marlboro le risponde che non ci sta, la Maitresse appare delusa, impreca, una così bella scala va onorata convenientemente," Ci sto io - le dico ad un tratto Anzi aumento la posta" e metto al centro del tavolo una piccola montagna di fiches ( una somma ragguardevole ), la Maitresse mi guarda perplessa, non si aspetta una mia sortita così improvvisa e provocatoria, guarda le sue carte con attenzione, si concentra per qualche attimo, appare molto indecisa, poi si decide a vedere il mio gioco, spinge davanti a sè le sue fiches con un gesto di stizza, poi mi sventola sotto il naso le sue carte, "La mia è all'asso di cuori " - mi limito a dire quasi con noncuranza, allineando sul panno verde la mia scala, "Merda! - ringhia la Maitresse - Hai un culo tremendo, giovanotto", "C'est la vie " - le dico per farle rabbia, l'ultima mano del giro spetta ad Assopigliatutto che mi offre un servito (un poker d'assi) sotto gli occhi esterefatti della Maitresse che stenta a credere ad una fortuna così sfacciata, mentre Marlboro si limita a gettare le sue carte sul tavolo con un'espressione di disgusto, giochiamo in tre, dopo lo scarto la donna si ritira, restiamo io e Assopigliatutto che ha scartato una sola carta, punto una somma considerevole, Assopigliatutto raddoppia, il mio poker batte il suo full di re. Finalmente! Il giro è terminato, mi alzo mettendomi in tasca manciate di fiches ( a occhio e croce ho triplicato il denaro regalatomi dalla signora B.). Marlboro non fa obiezioni, la Maitresse si limita a dirmi, acida: - Hai vinto un mucchio di soldi e te ne vai sul più bello. Non ti capisco proprio. Assopigliatutto pone termine ad ogni discussione, dicendomi:
- Il giro è terminato. Se vuole può andare. Li saluto, Marlboro e la Maitresse mi ignorano, Assopigliatutto mi fa un cenno di saluto con il capo. Vado dall'uomo del bancone, mi faccio cambiare le fiches e intasco il denaro. Nando è appoggiato al bancone e sorveglia i giocatori. Appena mi vede, mi fa cenno di aspettarlo giù al bar. Ordino un caffè corretto con grappa e aspetto Nando. Ho giocato per circa venti minuti, al tavolo mi pareva che il gioco non dovesse finire mai. - Tutto o.k.? Nando è alle mie spalle e mi dà una pacca formidabile sulla spalla. - Ti vedevo soffrire intorno a quel tavolo. Ci scommetto che non vedevi l'ora di tagliare la corda. Gli allungo un biglietto di grosso taglio. Lui fa il gesto di rifiutarlo, ma io glielo infilo nel taschino della giacca. - Il merito è tuo - mi limito a dirgli. Bevo il caffè, ne ordino un altro per Nando, gli stringo la mano e gli dico: - Sei un vero amico. - Non ti fare vedere spesso da queste parti - mi avverte mentre sto per uscire - Questo è un posto che scotta. Il suo vuole essere un consiglio da amico. E Nando il romano, nonostante tutto, mi è amico. Sono di nuovo sulla strada, nella nebbia. Sono circa le tre del mattino, mi sento stanco, è stata una giornata intensa e, dal punto di vista economico, abbastanza fruttuosa. Ora non vedo l'ora di andarmene a casa e farmi una bella dormita. Naturalmente dovrò cercarmi un taxi e credo che, alle tre del mattino, l'impresa non sia facile. Per il momento non mi resta che camminare e sperare nella buona sorte. §§§ Solo ora mi accorgo che due uomini mi stanno seguendo, sono ad una cinquantina di metri da me, dapprima penso che siano passanti, poi mi viene il sospetto che stiano sulle mie tracce. Forse sono teppisti, di quelli che se ne stanno in agguato all'uscita delle bische pronti a derubare i giocatori. Comincio ad avere un pò di paura, so difendermi abbastanza bene, conosco anche alcune mosse di karatè, ho un bel gruzzolo da difendere e, se attaccato, ce la metterei tutta, ma loro sono in superiorità numerica e mi sembrano abbastanza robusti. All'improvviso mi metto a correre per quella strada che non conosco, è lunga e si perde nella nebbia. I due teppisti mi sono sempre alle calcagna e guadagnano terreno. I nostri passi veloci risuonano distintamente sul selciato, sono ritmici,quasi sincroni. Ad un tratto scivolo su qualcosa e mi ritrovo seduto a terra nei pressi di un lampione. Faccio appena in tempo a rialzarmi che i due mi circondano minacciosi.
Avranno la mia età, indossano giacconi di pelle nera, hanno capelli lunghi e barbe. - Dacci i soldi senza fare storie - mi intima il più alto dei due. - Sarà meglio per te - gli fa eco l'altro - Noi sappiamo pestare bene. - Ma io non ho denaro addosso. Cerco di fare il furbo, metto una mano in tasca, afferro un biglietto di piccolo taglio e lo allungo al più vicino. - Ho solo questo. - Non fare lo stronzo - mi dice il più alto - Ti abbiamo visto uscire dalla bisca e sappiamo che hai vinto un bel pò di bigliettoni. Che sia stato Nando ad avvertirli? O Assopigliatutto? O il barista? Mi sono appena posto questi interrogativi che i due teppisti mi sono addosso. Il più alto mi afferra saldamente per le spalle, mentre l'altro cerca di prendermi i soldi dalle tasche del blazer. Prima che il teppista riesca a toccare le tasche gli sferro un calcione all'inguine, lui cade a terra mugolando di dolore, mentre l'altro, disorientato, allenta un pò la presa. E' proprio ciò che attendo, a colpi di gomito lo costringo a lasciare la presa, poi mi volto velocemente su me stesso e con tutta la forza che ho nelle braccia gli sferro un pugno allo stomaco, lui si china su se stesso, apre la bocca per respirare, lo colpisco al mento con una ginocchiata, lui scivola a terra come un sacco di patate, il sangue gli cola abbondante dalle labbra. Approfitto del loro disorientamento per riprendere la fuga nella nebbia. Corro come un disperato, temo che i teppisti possano inseguirmi ancora, penso con terrore che quei due sono capaci di pestarmi a sangue, di uccidermi a calci e a pugni pur di vendicarsi per lo scacco subito e di derubarmi, mi guardo indietro rabbrividendo, nessuno mi insegue - così mi pare - ma la nebbia è sempre fitta e posso ingannarmi. Corro per una decina di minuti, poi mi viene il fiatone e non ce la faccio più a continuare, ho le gambe legnose che non obbediscono più ai miei comandi, sono costretto a fermarmi per qualche minuto appoggiandomi ad un'auto in sosta. Un'auto avanza lentamente nella nebbia, appena giunge nei miei paraggi faccio segno al conducente di fermarsi, lui continua per una cinquantina di metri - forse non mi ha visto subito oppure ha paura di fermarsi - , poi ferma l'autovettura. Lo raggiungo, il conducente è un uomo anziano, ha un viso cordiale, mi sembra disposto a darmi un passaggio, glielo chiedo, non fa obiezioni, mi dice di salire tanto lui abita dalle mie parti. Dopo una decina di minuti la mia corsa finisce, l'uomo è arrivato sotto il portone della sua abitazione e parcheggia l'auto. Lo ringrazio per il passaggio, lui mi augura la buonanotte ed entra nel portone. Ho ancora poche centinaia di metri prima di arrivare al mio vecchio palazzo, ora mi sento tranquillo, quasi felice. Ho abbastanza denaro per tirare avanti un mese e forse più e per pagarmi l'affitto arretrato.
Se volessi, potrei anche fare un bel viaggio tanto per sfuggire alla routine quotidiana e a questa schifosa nebbia, potrei comprarmi un vestito nuovo all'ultima moda, pagarmi le prime rate di una moto - la Honda è la mia preferita -, offrirmi un pranzo nel ristorante più costoso della città, regalare alla Gianna quella parure intima reggiseno e slippino in pizzo nero - che desidera da tempo...... In questo momento trovo la vita terribilmente eccitante, peccato che abbia dei momenti schifosi, forse troppi. Mi ficco le mani infreddolite in tasca, stringo tra le dita i bigliettoni e continuo a camminare nella nebbia.