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TESS GERRITSEN IL CHIRURGO (The Surgeon, 2001) PROLOGO Oggi troveranno il corpo. So come accadrà. Riesco a immaginare, molto vividamente, la sequenza degli eventi che porteranno al ritrovamento. Alle nove in punto le altezzose ragazze dell'agenzia di viaggi Kendall & Lord si siederanno alle scrivanie e, con le dita ben curate, digiteranno le prenotazioni sulla tastiera dei computer: una crociera nel Mediterraneo per la signora Smith, una settimana bianca a Klosters per il signor Jones, e per i signori Brown, quest'anno qualcosa di diverso, di esotico, magari Chiang Mai o il Madagascar, ma nulla di troppo movimentato; oh, no, l'avventura deve essere soprattutto piacevole. Questo è il motto della Kendall & Lord: AVVENTURE PIACEVOLI. E un'agenzia che ha tanti clienti, il telefono squilla in continuazione. Non passerà molto tempo prima che le ragazze notino la scrivania vuota di Diana. Una di loro la chiamerà a casa, a Back Bay, ma nessuno risponderà. Forse Diana è sotto la doccia e non sente. Oppure è già uscita per venire al lavoro, ma ha avuto un contrattempo. Una decina di banali possibilità si affolleranno nella mente di chi chiama, ma, col passare del tempo e dopo numerose telefonate senza risposta, se ne affacceranno altre, più allarmanti. Mi aspetto che sia il portiere a condurre la collega di Diana al suo appartamento. Lo vedo mentre maneggia nervosamente le chiavi e chiede: «Lei è un'amica, giusto? E sicura che non si arrabbierà? Perché io le dirò che l'ho fatta entrare». Entreranno nell'appartamento e la collega chiamerà: «Diana? Ci sei?» Percorreranno il corridoio, tra i poster di paesaggi elegantemente incorniciati, il portiere alle spalle della donna, per verificare che non rubi nulla. Poi l'uomo guarderà in camera da letto. Vedrà Diana Sterling, e non si preoccuperà più di qualcosa di così irrilevante come un furto. Vorrà solo uscire dall'appartamento prima di vomitare. Vorrei essere là quando arriverà la polizia, ma non sono stupido. So be-
ne che esamineranno ogni auto nelle vicinanze, ogni faccia tra quelle dei curiosi in strada. Sanno che il mio impulso di tornare è forte; persino ora, mentre sono seduto da Starbucks, a guardare l'alba attraverso la finestra, sento il richiamo di quella stanza. Ma io sono come Ulisse: legato saldamente all'albero della mia nave, agogno il canto delle sirene. Non mi getterò contro gli scogli, non farò quell'errore. Al contrario, me ne starò qui seduto a bermi un caffè mentre, fuori, la città di Boston sì risveglia. Metto tre cucchiaini di zucchero nella tazza: il caffè mi piace dolce. E mi piace che sia tutto così. Perfetto. L'urlo di una sirena in lontananza: mi stanno chiamando. Mi sento come Ulisse che lotta contro le corde, ma queste sono molto robuste. Oggi troveranno il corpo. Oggi sapranno che siamo tornati. 1 Un anno dopo Il detective Thomas Moore detestava l'odore del lattice e, mentre s'infilava i guanti sollevando una piccola nube di talco, sentì la solita fitta che precedeva la nausea. Quello era uno degli aspetti più sgradevoli del suo lavoro e, come uno dei cani di Pavlov, allenato a salivare a comando, Moore aveva imparato ad associare l'odore gommoso all'inevitabile presenza del sangue e dei fluidi corporei. Un segnale olfattivo che gli intimava di farsi coraggio. Fuori della sala autoptica, cercò di concentrarsi. Era passato in pochi secondi dal caldo al freddo, e il sudore gli si stava già raffreddando sulla pelle. Era il 12 luglio, un venerdì pomeriggio umido e velato; in tutta Boston i condizionatori d'aria ronzavano e gocciolavano, e la gente era a dir poco irritabile. Sul Tobin Bridge, numerose auto in fuga verso nord, verso le fresche foreste del Maine, erano già imbottigliate. Moore però non era tra loro. Lo avevano richiamato dalle ferie per vedere un orrore col quale non aveva affatto voglia di confrontarsi. Aveva appena indossato un camice preso dal carrello della biancheria dell'obitorio; adesso stava per mettersi un copricapo di carta per raccogliere i capelli, e un paio di calzari, anch'essi di carta, poiché sapeva che cosa cadeva, a volte, sul pavimento dal tavolo settorio: sangue, pezzi di tessuto, eccetera. Non era assolutamente un maniaco della pulizia, ma non deside-
rava portare a casa, sotto le scarpe, tracce dell'autopsia. Si fermò qualche secondo fuori della porta e trasse un respiro profondo. Poi, rassegnato al penoso compito, entrò nella sala. Il corpo, avvolto da un lenzuolo, giaceva sul tavolo... una donna, a giudicare dalla sagoma. Moore evitò di guardare la vittima troppo a lungo e concentrò invece la sua attenzione sulle persone vive, presenti nella stanza. Il dottor Ashford Tierney, il medico legale, e un assistente stavano sistemando alcuni strumenti su un vassoio. Di fronte a Moore, dall'altra parte del tavolo, c'era Jane Rizzoli, anche lei della Omicidi di Boston. Trentatré anni, la Rizzoli era una donna piccola, dalla mascella quadrata; i suoi riccioli ribelli erano nascosti sotto il copricapo di carta e, senza i capelli neri ad ammorbidire i lineamenti, il suo volto appariva spigoloso, gli occhi scuri, indagatori e intensi. Era stata trasferita dalla Buoncostume e Narcotici sei mesi prima; essendo l'unica donna della squadra, erano già sorti problemi fra lei e un altro detective, tra accuse di molestie sessuali e contraccuse di perfidia femminile. Moore non era sicuro che la Rizzoli gli piacesse, né che lui piacesse a lei. Fino ad allora avevano mantenuto rapporti strettamente professionali, e Thomas era più che convinto che la donna preferisse continuare in quel modo. Accanto a lei c'era il suo partner, Barry Frost, un poliziotto sempre allegro il cui volto gentile e sbarbato lo faceva apparire molto più giovane dei suoi trent'anni. Frost lavorava con la Rizzoli ormai da due mesi e non si era mai lamentato: nella squadra pareva essere l'unico sufficientemente tranquillo da riuscire a sopportarne le bizze. «Ci stavamo domandando quando saresti arrivato», esclamò Jane, mentre Moore si avvicinava al tavolo. «Stavo arrivando nel Maine quando mi avete contattato sul cercapersone.» «È dalle cinque che ti aspettiamo.» «Sto per iniziare l'esame interno», intervenne il dottor Tierney. «Perciò direi che il detective Moore è stato assolutamente puntuale.» Un uomo che prendeva le difese di un altro uomo. Tierney chiuse con forza lo sportello dell'armadietto e il rumore riecheggiò nella sala. Era una delle rare occasioni in cui il medico si permetteva un gesto d'irritazione. Nativo della Georgia, da raffinato gentiluomo qual era, Tierney pensava che le signore dovessero comportarsi come tali. Non gli piaceva lavorare con la suscettibile Jane Rizzoli. L'assistente avvicinò un carrello di strumenti al tavolo, e incrociò bre-
vemente lo sguardo di Moore. Sembrava volesse dire: Ma tu guarda 'sta strega! «Mi spiace per la tua vacanza», borbottò Tierney, rivolto a Moore. «Sembrerebbe però che tu debba rinunciarci.» «Sei sicuro che si tratti ancora del nostro uomo?» In risposta, il medico legale sollevò il telo e lo scostò, rivelando il cadavere. «Si chiamava Elena Ortiz.» Sebbene Moore si fosse preparato per quel momento, il primo sguardo alla vittima fu come un pugno nello stomaco. I capelli neri della donna, incrostati di sangue e irti come gli aculei di un istrice, incorniciavano un volto marmoreo su cui spiccavano le vene bluastre. Aveva le labbra socchiuse, come congelate nel bel mezzo di una parola; il corpo era già stato ripulito dal sangue e le lesioni apparivano come lacerazioni aperte, purpuree, sul tessuto grigio della pelle. Vi erano due ferite evidenti: uno squarcio profondo alla gola, che partiva da sotto l'orecchio sinistro, incideva longitudinalmente la carotide e lasciava scoperta la cartilagine laringea - il colpo di grazia, probabilmente - e un taglio nella parte inferiore dell'addome. Quest'ultimo non era stato inferto per uccidere: era servito a uno scopo completamente diverso. Moore deglutì vigorosamente. «Ora capisco perché mi avete richiamato dalle ferie.» «Sono stata incaricata io delle indagini», asserì la Rizzoli. Thomas percepì una nota d'avvertimento in quell'affermazione: la donna stava difendendo il suo territorio. Il detective comprendeva molto bene il fatto che lo scherno e lo scetticismo, di cui erano costantemente vittime, rendevano talvolta le poliziotte molto permalose. In verità non aveva intenzione di sfidarla. Avrebbero dovuto lavorare insieme sul caso, ed era troppo presto per ingaggiare battaglia. Moore mantenne un tono rispettoso. «Potresti aggiornarmi sulle circostanze?» «La vittima è stata trovata alle nove di stamattina, nel suo appartamento di Worcester Street, nel South End», replicò la Rizzoli. «Solitamente si recava al lavoro alle sei, al Celebration Florists, a pochi isolati dal suo appartamento. Si tratta di un'attività a conduzione familiare, di proprietà dei genitori. Quando non si è fatta viva, si sono preoccupati e il fratello è andato a cercarla. L'ha trovata in camera da letto. Il dottor Tierney stima che il decesso sia avvenuto tra la mezzanotte e le quattro. Secondo i familiari, la ragazza non aveva un fidanzato, e nessuno nell'edificio ricorda di aver no-
tato visitatori maschi. Era cattolica, e una gran lavoratrice.» Moore osservò i polsi della vittima. «È stata immobilizzata.» «Sì. Nastro adesivo sui polsi e sulle caviglie. E stata trovata nuda, con indosso solo qualche gioiello.» «Che tipo di gioielli?» «Una collana. Un anello, un paio d'orecchini. Il portagioie nella stanza era intonso. Non si è trattato di rapina.» Moore osservò la striscia orizzontale illividita lungo i fianchi della vittima. «Anche il torso è stato immobilizzato.» «Aveva nastro adesivo sulla vita e sulla parte superiore delle cosce. E sulla bocca.» Moore si lasciò sfuggire un sospiro profondo. «Gesù...» Mentre fissava Elena Ortiz, ebbe un flash di un'altra giovane donna, e restò per un attimo disorientato. Un altro cadavere... una ragazza bionda, con squarci profondi alla gola e all'addome. «Diana Sterling», mormorò. «Mi sono già procurato il verbale autoptico della Sterling, nel caso ti serva rivederlo», mormorò Tierney. Ma Moore non ne aveva bisogno: quel caso, che aveva seguito di persona, non aveva mai lasciato i suoi pensieri. Un anno prima, Diana Sterling, trent'anni, impiegata dell'agenzia di viaggi Kendall & Lord, era stata ritrovata nuda e legata al letto con nastro adesivo, la gola e la parte inferiore del ventre squarciati. Il caso era rimasto irrisolto. Il dottor Tierney puntò la luce sull'addome di Elena. «Reperti?» chiese Moore. «Abbiamo trovato alcune fibre prima di lavare il corpo. E c'era un capello sul margine della ferita.» Thomas Moore sollevò lo sguardo con improvviso interesse. «Della vittima?» «Molto più corto. Di color castano chiaro.» La Ortiz aveva i capelli neri. «Abbiamo già richiesto un campione di capelli a tutti coloro che sono venuti a contatto col corpo», precisò la Rizzoli. Tierney rivolse la sua attenzione alla ferita. «Qui abbiamo un taglio trasversale. I chirurghi la chiamano 'incisione Maylard'; la parete addominale è stata aperta strato per strato. Prima la cute, poi la fascia superficiale, poi il muscolo, e infine il peritoneo pelvico.»
«Come la Sterling», asserì Moore. «Già. Come la Sterling. Ma ci sono alcune differenze.» «Quali?» «In quel caso, l'incisione era frastagliata, come se l'esecutore avesse esitato o fosse stato incerto sul modo di procedere. Questa no. Notate com'è netta la linea? Non ci sono strappi. L'ha eseguita con molta sicurezza.» Lo sguardo del medico incrociò quello di Moore. «Il nostro uomo sta imparando. Ha perfezionato la tecnica.» «Sempre che si tratti dello stesso uomo», osservò la Rizzoli. «Vi sono altre somiglianze. Vedete il margine preciso all'estremità della ferita? Indica che il taglio è stato praticato da destra a sinistra. Come sulla Sterling. È stata usata una lama liscia, non seghettata, come quella utilizzata per Diana.» «Un bisturi?» «Pare di sì. L'incisione netta indica che la lama non si è spostata. La vittima era incosciente, oppure legata tanto stretta da non potersi muovere. Non ha potuto deviarla dalla sua traiettoria lineare.» Barry Frost aveva l'aspetto di chi era sul punto di vomitare. «Oh, Cristo. Per favore ditemi che era morta quando gliel'hanno fatto.» «Temo non sia una ferita successiva al decesso.» Da sopra la mascherina di Tierney sbucavano solo gli occhi verdi, che avevano un'espressione inferocita. «C'è stata un'emorragia?» chiese Moore. «Ristagno di sangue nella cavità pelvica. Il che significa che il cuore pompava ancora. Era ancora viva quando le è stata effettuata... questa procedura.» Moore guardò i polsi della ragazza, escoriati e lividi. Lo stesso valeva per le caviglie, e una striscia di petecchie - emorragie cutanee puntiformi si estendeva in orizzontale lungo i fianchi. Elena Ortiz aveva lottato per liberarsi. «Un altro elemento dimostra che era viva al momento dell'incisione», riprese il medico legale. «Infila una mano nella ferita, Thomas. Credo tu già sappia che cosa troverai.» Riluttante, Moore inserì la mano guantata nell'incisione. La carne era fredda, gelida per le numerose ore di refrigerazione. Ebbe la stessa sensazione di quando s'inserisce la mano in un tacchino per asportarne le interiora. La introdusse fino al polso e con le dita iniziò a esplorarne i margini. Gli sembrava di commettere una violenza, frugando in parti tanto intime
dell'anatomia di una donna. Evitò di guardare il volto di Elena Ortiz: era l'unico modo con cui riusciva a considerare con distacco le sue spoglie mortali, l'unico modo per concentrarsi sui meccanismi di ciò che era stato fatto al suo corpo. «Manca l'utero.» Moore guardò Tierney. Il medico legale annuì. «E stato rimosso.» Il detective ritrasse la mano e fissò la ferita, aperta come una bocca. Anche la Rizzoli infilò la mano protetta dal guanto nella cavità, allungando al massimo le dita per esplorarla meglio. «Non è stato asportato nient'altro?» chiese. «Solo l'utero. Ha lasciato intatti la vescica e l'intestino», rispose il medico. «Cos'è questa cosa che sento? Questo nodo duro, a sinistra?» domandò. «E una sutura. L'ha usata per legare i vasi sanguigni.» La Rizzoli sollevò lo sguardo, sbalordita. «È un nodo chirurgico?» «Catgut 2-0 semplice», azzardò Moore, guardando Tierney per conferma. Il medico annuì. «La stessa sutura trovata su Diana Sterling.» «Catgut 2-0?» chiese Frost con un filo di voce. Si era allontanato dal tavolo ed era in un angolo della stanza, pronto a scattare verso il lavandino. «Che cos'è, una sorta di marca commerciale?» «No, non è una marca», ribatté Tierney. «Il catgut è un tipo di filo chirurgico ricavato dall'intestino di vacca o di pecora.» «E allora perché lo chiamano catgut, 'intestino di gatto'?» chiese la Rizzoli. «Il nome risale al Medioevo, quando, per gli strumenti musicali, si usavano corde fatte di budella. I musicisti si riferivano ai loro strumenti col termine kit, e le corde venivano chiamate kitgut. La parola si è infine trasformata in catgut. In chirurgia tale sutura è usata per cucire strati profondi di tessuto connettivale. Successivamente il corpo decompone il materiale e lo assorbe.» «E dove si trova questo tipo di filo? Ne hai rintracciato la fonte nel caso Sterling?» Jane Rizzoli guardò Moore. «È quasi impossibile identificare una fonte specifica», rispose Thomas. «Il catgut è prodotto da una decina d'industrie diverse, gran parte delle quali ha sede in Asia. E ancora usato in alcuni ospedali, ma non negli Stati Uniti.» «E perché?»
«Oggi esistono alternative migliori», spiegò il medico. «Il catgut non possiede la resistenza e la durata delle suture sintetiche. Dubito alquanto che un chirurgo americano ne faccia ancora uso.» «E perché il nostro sconosciuto se ne servirebbe?» «Per mantenere libero il campo visivo. Per controllare l'emorragia per un tempo tale da consentirgli di vedere ciò che fa. Il nostro uomo è molto pignolo.» La Rizzoli tolse la mano dalla ferita, nel palmo un piccolo grumo di sangue, simile a una perla color rosso vivo. «È molto abile? Abbiamo a che fare con un medico? O con un macellaio?» «Di certo possiede conoscenze di anatomia», ribatté Tierney. «Non ho dubbi che l'abbia fatto altre volte.» Moore indietreggiò di un passo, rendendosi improvvisamente conto di quanto dovesse aver sofferto Elena Ortiz, incapace di controllare le immagini che si affollavano nella sua mente. Il risultato si trovava proprio di fronte a lui, gli occhi spalancati e fissi. Il detective si voltò, trasalendo allo sferragliare degli strumenti sul carrello metallico. L'assistente di Tierney aveva infatti avvicinato il carrello al medico legale, in preparazione all'incisione a Y. L'uomo si protese e guardò all'interno della ferita addominale. «E che se ne fa? Voglio dire, una volta che estrae l'utero, che se ne fa?» «Non lo sappiamo», rispose Tierney. «Gli organi non sono mai stati ritrovati.» 2 Moore era sul marciapiede nel quartiere di South End, dov'era stata uccisa Elena Ortiz. In passato quella era una strada triste, fiancheggiata da misere pensioni e camere in affitto, in un quartiere squallido e degradato, diviso, mediante la ferrovia, dalla parte settentrionale, più elegante, di Boston. Ma una città in espansione è una creatura vorace, sempre in cerca di nuova terra, e i binari ferroviari non costituiscono affatto un ostacolo agli occhi famelici dei costruttori. La nuova generazione dei bostoniani aveva riscoperto il South End, e le vecchie case erano state gradualmente trasformate in condomini. Elena viveva in uno di quegli edifici. Sebbene la vista dal suo appartamento al secondo piano non fosse particolarmente gradevole - le finestre si aprivano sulla lavanderia automatica situata dall'altra parte della strada -,
l'edificio offriva una comodità preziosa, rara nella città di Boston: un parcheggio privato, ricavato nell'angusto vicolo adiacente. Moore s'incamminò lungo il marciapiede, scrutando le finestre degli appartamenti sovrastanti, domandandosi chi, in quel momento, lo stesse osservando. Nulla si muoveva dietro quegli occhi di vetro. Gli inquilini i cui appartamenti s'affacciavano sul vicolo erano già stati interrogati: nessuno era stato in grado di fornire informazioni utili. Il detective si fermò sotto la finestra del bagno di Elena Ortiz e guardò la scala antincendio. Era sollevata e fissata. La notte in cui era morta la ragazza, l'auto di un inquilino era parcheggiata proprio sotto quella scala e, sul tettuccio, erano state poi trovate alcune impronte: scarpe numero 41 e mezzo. Lo sconosciuto se ne era servito per raggiungerla. Thomas notò che la finestra del bagno era chiusa. Al contrario della notte in cui Elena aveva incontrato il suo assassino. Abbandonò il vicolo, fece il giro, raggiunse l'entrata principale ed entrò nell'edificio. La porta dell'appartamento della ragazza era contornata dai nastri allentati della polizia, simili a festoni. Il detective la aprì e la polvere per le impronte si posò come fuliggine sulla sua mano. Quando entrò nell'appartamento, un nastro penzolante gli scivolò sopra le spalle. Il salotto era come lo ricordava dal sopralluogo del giorno precedente, effettuato insieme alla Rizzoli. Era stata un'ispezione sgradevole, contraddistinta da una sottile rivalità. Jane Rizzoli era una donna insicura e si sentiva minacciata da chiunque sfidasse la sua autorità, soprattutto da un poliziotto maschio più anziano. Benché ormai appartenessero alla stessa squadra, una squadra che si era da poco allargata fino a comprendere cinque detective, Moore si sentiva come un intruso nel territorio della collega, ed era stato attento a esprimere i propri suggerimenti coi termini più diplomatici; non desiderava assolutamente scatenare un conflitto, eppure, nonostante gli sforzi, non era riuscito a evitarlo. Il giorno precedente aveva tentato di concentrarsi sulla scena del delitto, ma il risentimento di Jane continuava a infrangere il suo scudo di concentrazione. Soltanto ora, da solo, riusciva a prestare tutta la sua attenzione all'appartamento in cui era morta Elena. In salotto osservò i mobili, disposti intorno a un tavolino di vimini. Un computer da tavolo in un angolo, un tappeto beige decorato con tralci di vite e fiori rosa. Secondo quanto affermava la Rizzoli, dal momento dell'omicidio nulla era stato toccato o modificato. Fuori della finestra l'ultima luce del giorno stava scemando, ma il detective non accese le lampade. Rimase a lungo in piedi, senza nemmeno muovere
la testa, in attesa che la stanza s'immergesse nel silenzio. Quella era la prima occasione che aveva di esaminare da solo la scena del delitto, la prima volta che si trovava in quel luogo senza la distrazione delle voci, dei volti, dei vivi. Immaginò le molecole d'aria, brevemente agitate dal suo ingresso, che si acquietavano a poco a poco. Voleva che la stanza gli parlasse. Non sentì nulla. Nessuna presenza malvagia, nessuna vibrazione persistente di terrore. L'assassino non era entrato dalla porta né si era aggirato per quel regno di morte appena conquistato; ma aveva dedicato tutto il suo tempo e tutta la sua attenzione alla camera da letto. Moore oltrepassò lentamente la minuscola cucina, scrutò il corridoio, e si sentì percorrere da un brivido. Si fermò davanti alla prima porta e sbirciò nel bagno. Questa volta accese la luce. Giovedì, una notte calda. Tanto calda che in tutta la città le finestre vengono lasciate aperte per sfruttare ogni minima brezza, ogni soffio d'aria fresca. Sei accucciato sulla scala antincendio, sudato nei tuoi abiti scuri, lo sguardo fisso sul bagno. Non si sente nessun rumore; la donna sta dormendo nella sua stanza. Deve alzarsi presto per il suo lavoro di fiorista e, a quell'ora, il sonno entra nella fase più profonda. Lei non sente il rumore del tuo coltello che lacera la zanzariera. Moore osservò la tappezzeria, decorata con piccoli boccioli di rose rosse. Un motivo femminile, che un uomo non avrebbe mai scelto. Tutto, dallo shampoo alla fragola alla confezione di Tampax sotto il lavandino sino all'armadietto dei medicinali pieno zeppo di cosmetici, lasciava intendere che quello era il bagno di una donna. Una donna che si truccava gli occhi con un ombretto verde acquamarina. Ti arrampichi sulla finestra, e alcune fibre della tua camicia blu navy si attaccano al telaio. Poliestere. Le scarpe da ginnastica, numero 41 e mezzo, lasciano impronte sul pavimento di linoleum bianco. Vi sono tracce di sabbia, mescolate a cristalli di pietra di gesso. Una miscela tipica delle strade di Boston. Forse ti soffermi nell'oscurità, in ascolto. Inali la dolce estraneità di uno spazio femminile. O forse non perdi tempo e vai dritto alla meta. La camera da letto. L'aria gli sembrava più inquinata, più densa, a mano a mano che seguiva le impronte dell'intruso. Era qualcosa di più di una sensazione immaginaria di malvagità: era un odore.
Raggiunse la porta della camera. Rabbrividì di nuovo. Sapeva già che cosa avrebbe visto nella stanza e credeva di essere preparato. Eppure, quando accese la luce, l'orrore lo assalì ancora, come se fosse la prima volta che vedeva quel terribile spettacolo. Il sangue era ormai secco di due giorni. Il servizio di pulizia non era ancora arrivato; ma né i detergenti né il vapore, né le latte di vernice bianca avrebbero potuto cancellare completamente ciò che era accaduto là dentro, perché l'aria stessa era permanentemente impregnata di terrore. Entri nella stanza. Le tende sono sottili, un semplice strato di cotone, la luce dei lampioni penetra attraverso il tessuto e si proietta sul letto. Sulla donna. Che dorme. Ti soffermi un momento a studiarla, ne sono certo. A pregustare ciò che ti aspetta. Perché è un compito piacevole per te, vero? Ogni istante che passa, la tua euforia cresce. L'eccitazione ti circola nelle vene come una droga, risvegliando ogni nervo, finché anche la punta delle dita pulsa di desiderio. Elena Ortiz non aveva avuto tempo di gridare. O, se l'aveva fatto, nessuno l'aveva udita. Non la famiglia nell'appartamento accanto, né la coppia del piano di sotto. L'intruso aveva portato con sé i suoi strumenti: nastro adesivo, uno straccio imbevuto di cloroformio, un kit di attrezzi chirurgici. Era giunto lì adeguatamente preparato. L'impresa era probabilmente durata più di un'ora e mezzo, ed Elena Ortiz era rimasta cosciente almeno per una parte di quel tempo. La pelle dei polsi e delle caviglie era lesa, a indicazione del fatto che aveva lottato. Era stata un'operazione delicata e l'assassino si era preso il suo tempo per eseguirla accuratamente, per prendere solo ciò che voleva, nulla di più. Non l'aveva stuprata. Forse ne era persino incapace. Al termine della terribile escissione, la ragazza era ancora viva. La ferita pelvica aveva continuato a sanguinare, il cuore a pompare. Per quanto tempo? Il dottor Tierney aveva ipotizzato almeno mezz'ora. Trenta minuti che dovevano esserle sembrati un'eternità. Che cos'hai fatto in quel periodo? Hai sistemato i tuoi strumenti? Hai messo il tuo trofeo in un barattolo? Oppure sei semplicemente rimasto a goderti lo spettacolo? L'atto finale era stato rapido e risoluto. L'aguzzino di Elena Ortiz aveva preso ciò che voleva, ed era tempo di chiudere la faccenda. Si era spostato alla testa del letto; aveva afferrato una ciocca di capelli con la mano sinistra, tirandoli così forte all'indietro che gliene aveva strappati più di venti. I
capelli erano stati poi ritrovati sparsi sul cuscino e sul pavimento. Le macchie di sangue urlavano ciò che era accaduto dopo. Con la testa immobilizzata e il collo completamente esposto, l'assassino non aveva avuto difficoltà a praticare un unico taglio profondo, che partiva dall'angolo sinistro della mandibola e attraversava la gola fino a quello destro. Aveva reciso la carotide e la trachea. Il sangue era sprizzato sulla parete, a sinistra del letto, dov'erano rimasti ammassi di goccioline che colavano verso il basso, tipici dello spruzzo arterioso. Il sangue era fuoriuscito copioso anche dalla trachea, il cuscino e le lenzuola erano stati saturati dal gocciolamento. Quando l'assassino aveva allontanato la lama, numerose gocce erano finite anche sul davanzale. Elena Ortiz era vissuta abbastanza a lungo da vedere il proprio sangue uscire dal collo e colpire il muro a mo' di mitragliatrice; era vissuta abbastanza a lungo da aspirarlo nella trachea recisa, da sentirlo gorgogliare nei polmoni e da espellere muco color cremisi con alcuni violenti colpi di tosse. Aveva vissuto abbastanza a lungo da capire che stava morendo. E quando tutto è finito, quando la lotta straziante della ragazza è cessata, ci hai lasciato un biglietto da visita. Hai piegato accuratamente la camicia da notte della vittima e l'hai lasciata sul cassettone. Perché? È un perverso segno di rispetto per la donna che avevi appena ucciso? Oppure è il tuo modo di prenderti gioco di noi? Il tuo modo d'informarci che hai la situazione in pugno? Moore tornò in salotto e sprofondò in una poltrona. L'aria dell'appartamento era calda e viziata, ma il detective stava tremando; non sapeva però se quel gelo fosse fisico o emotivo. Gli facevano male le gambe e le spalle, perciò, forse, era solo un virus. Un'influenza estiva, la peggiore. Pensò a tutti i luoghi in cui avrebbe desiderato trovarsi in quel momento. Su un lago del Maine, con la canna da pesca che sibilava nel vento, oppure su una spiaggia, a guardare i pesci che saltavano nell'acqua. In qualunque posto, tranne che in quel luogo di morte. Il suono del cercapersone lo fece sussultare. Lo spense e si accorse di avere il battito cardiaco accelerato. Cercò di calmarsi, poi prese il cellulare e compose il numero apparso sul display. «Rizzoli», rispose la donna al primo squillo. Il tono era diretto come una pallottola. «Mi hai chiamato sul cercapersone.» «Non mi hai mai detto che avevi trovato un indizio sul VICAP», escla-
mò Jane. «Quale indizio?» «Su Diana Sterling. Sto guardando il suo fascicolo in questo momento.» Il VICAP - Violent Criminals Apprehension Program - era un database nazionale d'informazioni su omicidi e aggressioni, raccolte dai casi di tutto il Paese. I killer seguivano spesso le medesime modalità d'azione e, con tali dati, gli investigatori riuscivano a collegare i crimini commessi dallo stesso soggetto. Conformemente alla prassi, Moore e il suo partner di allora, Rusty Stivack, avevano iniziato una ricerca sul VICAP. «Non abbiamo trovato nessuna corrispondenza nel New England», rispose Moore. «Abbiamo esaminato tutti gli omicidi che comportavano mutilazione, intrusione notturna e immobilizzazione con nastro adesivo. Non c'era nulla di compatibile col profilo del caso Sterling.» «E che mi dici della serie di omicidi avvenuta in Georgia? Tre anni fa, quattro vittime. Una ad Atlanta, tre a Savannah. Erano tutti nel database.» «Ho riesaminato quei casi. Il responsabile non è il nostro uomo.» «Ascolta questo, Moore. Dora Ciccone, ventidue anni, laureanda a Emory. La vittima è stata stordita con Rohypnol, poi legata al letto con corde di nylon...» «Il nostro soggetto usa cloroformio e nastro adesivo.» «Le ha aperto l'addome, tolto l'utero e l'ha uccisa con un colpo di grazia... uno squarcio netto alla gola. Infine ha piegato la camicia da notte e l'ha lasciata su una sedia accanto al letto. Te lo ripeto, presenta troppe affinità.» «I casi della Georgia sono chiusi da due anni. L'assassino è morto», ribatté Moore. «E se il dipartimento di Savannah avesse fallito? Se quello non fosse stato il loro killer?» «Hanno una prova schiacciante: il DNA. Fibre, capelli. In più c'era una testimone. Una vittima sopravvissuta.» «Oh, sì. La sopravvissuta. La vittima numero cinque.» Nella voce della Rizzoli risuonava una strana nota di sarcasmo. «La donna ha confermato l'identità del responsabile.» «Lo ha anche opportunamente ucciso con una pistola.» «E allora, vuoi arrestare il suo fantasma?» «Hai mai parlato con quella vittima?» gli chiese Jane. «No.» «Perché no?»
«A che sarebbe servito?» «Avresti potuto scoprire qualcosa d'interessante. Come il fatto che la donna ha lasciato Savannah subito dopo l'aggressione. E indovina dove vive ora?» Al di sopra del sibilo del cellulare, Thomas udì il rumore delle sue pulsazioni. «A Boston?» chiese pacatamente. «E non immagineresti mai che cosa fa di mestiere.» 3 La dottoressa Catherine Cordell corse lungo il corridoio, mentre le suole delle sue scarpe da ginnastica stridevano sul linoleum, e si precipitò oltre le porte del pronto soccorso. Un'infermiera la chiamò: «Sono in Trauma Due, dottoressa!» «Eccomi», disse Catherine, muovendosi verso la sala come un missile telecomandato. Quando entrò nella stanza, almeno cinque persone le lanciarono un'occhiata di sollievo. La Cordell valutò la situazione, vide un'accozzaglia di strumenti scintillare su un vassoio, aste della flebo coi sacchetti di Ringer lattato, penzolanti come frutti pesanti su alberi dai rami d'acciaio, garze imbevute di sangue e confezioni vuote aperte, sparse sul pavimento. Un ritmo sinusale rapido percorreva intermittente il monitor cardiaco... il tracciato elettrico di un cuore che corre per sfuggire alla morte. «Cos'abbiamo?» chiese al personale che si era scostato per lasciarla passare. Ron Littman, il chirurgo interno più anziano, la ragguagliò rapidamente. «Pedone sconosciuto, investito da un pirata. Giunto al pronto soccorso incosciente. Pupille isocoriche e reattive, polmoni liberi, distensione addominale. Assenza di rumori intestinali. Pressione sessanta su zero. Ho fatto una paracentesi. C'è sangue nell'addome. Abbiamo una linea centrale. Il flusso del Ringer lattato è massimo, ma non riusciamo a mantenere la pressione.» «Lo 0 negativo e le unità di plasma congelato stanno arrivando?» «Dovrebbero esser qui a momenti.» L'uomo sul tavolo era stato spogliato, ogni intimo dettaglio era spietatamente esposto alla vista di Catherine. Doveva avere approssimativamente sessant'anni, era già intubato e ventilato. I muscoli flaccidi ricadevano, formando varie pieghe, sugli arti scarni, e le costole sembravano fuo-
riuscire dal torace come lame arcuate. Una malattia cronica preesistente, pensò la dottoressa, forse un cancro. Il braccio e il fianco destri erano abrasi e insanguinati per il contatto con l'asfalto; sulla parte inferiore del torace un livido formava una sorta di continente purpureo sulla pergamena bianca della pelle. Non vi erano lesioni perforanti. La Cordell si mise lo stetoscopio per verificare ciò che l'interno le aveva appena riferito. Lo appoggiò al ventre dell'uomo, ma non udì rumori interni. Non un borbottio, non un battito. Il silenzio di un intestino traumatizzato. Spostando lo stetoscopio sul torace, si mise in ascolto dei rumori respiratori: ottenne in tal modo conferma che il tubo endotracheale era posizionato correttamente e che entrambi i polmoni erano ventilati. Il cuore batteva come un pugno contro la cassa toracica. Le occorse solo qualche secondo per effettuare l'esame completo, eppure aveva l'impressione di muoversi al rallentatore, che la stanza piena di personale fosse congelata nel tempo, in attesa della sua mossa seguente. «La sistolica è scesa a cinquanta!» urlò un'infermiera. Il tempo sembrò accelerare a un ritmo spaventoso. «Camice e guanti, per favore», disse Catherine. «Aprite il vassoio per laparotomia.» «Non è meglio portarlo in sala operatoria?» chiese Littman. «Sono tutte occupate. Non possiamo attendere.» Qualcuno le lanciò una cuffia di carta. Rapidamente vi introdusse la sua chioma rossa lunga fino alle spalle, poi si mise la mascherina. Un'infermiera le stava già porgendo un camice sterile aperto. Catherine infilò le braccia nelle maniche e le mani nei guanti. Non ebbe tempo né per lavarsele, né per esitare. Era lei al comando, e quel paziente le era piombato tra capo e collo. Il torace e il pube dell'uomo vennero ricoperti da teli sterili. La donna afferrò alcune pinze emostatiche dal vassoio e rapidamente assicurò i teli, stringendo i denti di metallo. «Dov'è quel sangue?» gridò. «Sto parlando col laboratorio», le rispose un'infermiera. «Ron, tu sei il primo assistente», disse Catherine rivolta a Littman. La donna si guardò intorno; il suo sguardo si fermò su un giovane pallido, in piedi vicino alla porta. Sulla targhetta si leggeva: JEREMY BARROWS, STUDENTE DI MEDICINA. «Tu», lo chiamò, indicandolo. «Tu farai il secondo assistente!» Gli occhi del giovane si riempirono di panico. «Ma... sono solo al secondo anno. Sono qui solo per...»
«Possiamo avere un altro chirurgo?» Littman scosse il capo. «Sono tutti occupati. C'è un trauma cranico e un'emergenza in corridoio.» «Bene.» Catherine si rivolse nuovamente allo studente. «Barrows, lo farai tu. Infermiera, gli dia camice e guanti.» «Che cosa devo fare? Perché io non so davvero...» «Vuoi diventare un medico? Allora mettiti i guanti!» Il giovane divenne paonazzo in volto e si girò per infilare il camice. Era spaventato, ma per molti aspetti la dottoressa preferiva uno studente ansioso come Barrows a uno arrogante. Aveva visto fin troppi pazienti morire per l'eccessiva sicurezza di un chirurgo. Una voce gracchiò nel citofono: «Trauma Due? Qui è il laboratorio. Ho l'ematocrito del paziente. È quindici». Si sta dissanguando, pensò Catherine. «Abbiamo immediatamente bisogno dello 0 negativo!» «Sta arrivando.» Catherine allungò la mano per afferrare un bisturi. Il peso del manico, la sua sagoma d'acciaio le diedero una sensazione di conforto: quello strumento era un'estensione della sua mano, della sua carne. La donna fece un respiro rapido, e inalò l'odore dell'alcol e del talco dei guanti. Poi premette la lama nella pelle e praticò l'incisione, diritta lungo il centro dell'addome. Il bisturi tracciò una linea sanguinolenta sulla cute bianca. «Tieni pronto l'aspiratore e i tamponi per laparotomia», disse. «Abbiamo un ventre pieno di sangue.» «La pressione sanguigna è a cinquanta, appena percepibile.» «Ecco lo 0 negativo e il plasma congelato! Lo sto appendendo in questo momento.» «Qualcuno tenga d'occhio il battito. E mi faccia sapere come si comporta», urlò Catherine. «Tachicardia sinusale. Le pulsazioni sono salite a centocinquanta al minuto.» Catherine incise la cute e il grasso sottocutaneo. Non sprecò tempo coi sanguinamenti minori: l'emorragia più grave era all'interno dell'addome e doveva essere fermata. La fonte più probabile era la milza, o il fegato. Il peritoneo fuoriuscì dal taglio, pieno di sangue. «Prevedo guai», avvertì Catherine, pronta a penetrare col bisturi. Sebbene fosse preparata al fiotto, la prima incisione della membrana produsse un getto tanto violento che la donna provò un attimo di panico. Il sangue
schizzò sui teli e prese a gocciolare sul pavimento; le imbrattò il camice, le inzuppò le maniche e continuò a fluire in un fiume lucente. La dottoressa inserì alcuni divaricatori nella ferita ed espose il campo; Littman vi infilò il catetere per aspirazione e il sangue gorgogliò nel tubo. Un rigagnolo rosso vivo si riversò nel contenitore di vetro. «Altri tamponi!» Catherine gridò per sovrastare il rumore del catetere. Aveva messo mezza dozzina di tamponi assorbenti nella ferita e li aveva osservati diventare rossi e saturi in pochi secondi, come per magia. Li tolse, ne inserì di nuovi, e li premette nei quattro quadranti. «Vedo un'extrasistole ventricolare sul monitor!» esclamò un'infermiera. «Merda, ho già aspirato due litri nel serbatoio», ribatté Littman. Catherine alzò lo sguardo e vide che i sacchetti di 0 negativo e di plasma si stavano svuotando rapidamente. Era come versare sangue in un setaccio: dentro nelle vene, fuori dalla ferita. Non riuscivano a tenere il passo e lei non poteva chiudere i vasi sanguigni, non poteva operare alla cieca. Tolse i tamponi, pesanti e gocciolanti, e ne inserì di nuovi. Per pochi preziosi secondi identificò alcune sedi dell'emorragia. Il sangue fuoriusciva dal fegato, ma non vi erano ferite conclamate; sembrava più che altro scaturire dall'intera superficie dell'organo. «Sto perdendo la pressione!» gridò un'infermiera. «Pinza emostatica!» chiese la Cordell, e lo strumento apparve quasi magicamente nella sua mano. «Tenterò una manovra di Pringle. Barrows, infila altri tamponi!» Allarmato per esser stato chiamato repentinamente in azione, lo studente di medicina allungò una mano verso il vassoio e fece cadere la pila di tamponi, guardandoli inorridito mentre rotolavano a terra. Un'infermiera ne aprì una confezione nuova. «Vanno dentro il paziente, non sul pavimento», sbottò. E il suo sguardo incontrò quello di Catherine, lo stesso pensiero negli occhi. E questo diventerà un medico? «Dove li metto?» chiese Barrows. «Tampona il campo. Non vedo niente con tutto quel sangue!» Gli diede qualche secondo per pulire la ferita; poi raggiunse e staccò il piccolo omento. Spostando la pinza emostatica a sinistra, identificò il peduncolo epatico, nel quale scorrevano l'arteria principale e la vena porta. Si trattava solo di una soluzione temporanea ma, se riusciva a fermare il sangue in quel punto, avrebbe potuto controllare l'emorragia e avrebbero guadagnato tempo prezioso per stabilizzare la pressione e immettere più sangue e plasma in circolo.
Catherine strinse la pinza, chiudendo i vasi del peduncolo. L'emorragia continuò, con la medesima intensità. «Sei sicura di aver preso il peduncolo?» chiese Littman. «Ne sono sicurissima. E so che l'emorragia non viene dal retroperitoneo.» «Forse la vena epatica?» La Cordell afferrò due tamponi dal vassoio. La sua manovra seguente sarebbe stata l'ultima possibilità. Appoggiò i tamponi sulla superficie del fegato e strinse l'organo fra le mani. «Che sta facendo?» chiese Barrows. «Compressione epatica», rispose Littman. «A volte si riesce a chiudere i margini di lacerazioni nascoste e a rallentare il dissanguamento.» Ogni singolo muscolo delle spalle e delle mani di Catherine si tese mentre lei si sforzava di mantenere la pressione e di tamponare il sangue. «L'addome si sta riempiendo», mormorò Littman. «Non funziona.» Catherine guardò nella ferita e vide il costante accumulo di sangue. Da dove diavolo proviene l'emorragia? pensò. E improvvisamente vide sangue uscire anche da altri punti. Non solo dal fegato, ma anche dalla parete addominale, dal mesenterio e dai margini incisi della pelle. Guardò il braccio sinistro del paziente, che penzolava da sotto i teli sterili. La garza sopra il foro della flebo era intrisa di sangue. «Voglio sei unità di piastrine e una di plasma congelato, immediatamente», ordinò. «E iniziate un'infusione di eparina. Diecimila unità subito in flebo, poi mille unità all'ora.» «Eparina? Ma si sta dissanguando...» chiese Barrows sconcertato. «Si tratta di CID», esclamò la Cordell. «Ha bisogno di anticoagulanti.» Littman la stava fissando. «Non abbiamo ancora i risultati del laboratorio. Come fai a sapere che è una CID?» «Quando ci arriveranno i test sulla coagulazione, sarà troppo tardi. Dobbiamo agire subito.» Fece un cenno all'infermiera. «Proceda.» La donna inserì l'ago nel butterfly della flebo. L'eparina era l'ultima carta da giocare. Se la diagnosi di Catherine fosse stata corretta, se il paziente fosse stato davvero affetto da CID - cioè da coagulazione intravascolare disseminata -, allora nel suo sistema circolatorio si stavano formando numerosi trombi, simili a microscopici chicchi di grandine, che consumavano i preziosi fattori della coagulazione e le piastrine. Gravi traumi, un cancro, un'infezione preesistenti potevano innescare la formazione incontrollata di trombi; dal momento che la CID distruggeva i fattori della coagulazione e
le piastrine, entrambi necessari per la coagulazione del sangue, il paziente si sarebbe dissanguato. Per fermare la malattia, era necessario somministrare un anticoagulante, l'eparina. Si trattava di un trattamento stranamente paradossale e rischioso. Se Catherine si fosse sbagliata, l'eparina avrebbe aumentato l'emorragia. Come se le cose potessero andare peggio di così. Le doleva la schiena e aveva le braccia tremanti per lo sforzo di mantenere la pressione sul fegato. Una goccia di sudore le scivolò lungo la guancia e venne assorbita dalla mascherina. Il laboratorio chiamò di nuovo al citofono. «Trauma Due, ho i risultati del paziente. La conta piastrinica è solo mille. La protrombina è trenta, e presenta prodotti di degradazione fibrinica. Sembra che il vostro paziente sia un caso di CID estrema.» Catherine colse l'occhiata sbalordita di Barrows. Gli studenti sono sempre tanto facili da impressionare. «Tachicardia ventricolare! E in tachicardia ventricolare!» Lo sguardo della dottoressa balzò al monitor. Una linea a zigzag attraversava lo schermo. «Pressione?» «L'ho persa.» «Iniziate la rianimazione cardiopolmonare. Littman, sei a capo dell'emergenza.» Il caos montò come una tempesta, e prese a turbinarle intorno sempre più violento. Un fattorino entrò frettolosamente col plasma congelato e le piastrine. Catherine udì Littman impartire ordini per la somministrazione di farmaci cardiaci, vide un'infermiera piazzare le mani sullo sterno del paziente e cominciare a comprimergli il petto, la testa che si muoveva in su e in giù come un uccellino meccanico. Ogni compressione cardiaca serviva a irrorare il cervello, a tenerlo in vita, ma nel contempo alimentava l'emorragia. Catherine fissò la cavità addominale del paziente. Stava ancora comprimendo il fegato, per tamponare il flusso di sangue. Era la sua immaginazione, oppure il sangue, che colava copiosamente dalle sue dita, sembrava sgorgare più lento? «Carica», ordinò Littman. «Cento joule...» «No, aspetta. Ho di nuovo il ritmo.» La Cordell guardò il monitor. Tachicardia sinusale! Il cuore stava battendo nuovamente, ma stava anche pompando sangue nelle arterie. «Stiamo irrorando?» chiese. «Com'è la pressione?»
«La pressione è... novanta su quaranta. Sì!» «Il ritmo è stabile.» Catherine guardò nell'addome aperto: l'emorragia si era ridotta significativamente. Rimase in piedi col fegato in mano e ascoltò il bip costante del monitor. Musica per le sue orecchie. «Ragazzi... Credo che ce l'abbiamo fatta», sospirò. Catherine si tolse il camice e i guanti insanguinati e seguì la barella che trasportava l'uomo fuori da Trauma Due. I muscoli delle spalle le tremavano per la fatica, ma era una sensazione piacevole, la stanchezza della vittoria. Le infermiere trasportarono il paziente fino all'ascensore per trasferirlo nell'unità di terapia intensiva. Catherine stava per salire con loro allorché qualcuno la chiamò per nome. Si voltò e vide avvicinarsi un uomo e una donna. La donna era bassa, dall'aspetto aggressivo, una brunetta dagli occhi scuri con uno sguardo diretto come un laser. Indossava un severo vestito blu, che le conferiva un'aria quasi militare. Sembrava, però, una nana accanto al suo compagno. L'uomo aveva forse quarantacinque anni e, tra i suoi capelli scuri, c'era qualche filo argenteo. La maturità aveva scavato piccole rughe profonde in quello che era ancora un volto molto attraente. Catherine concentrò l'attenzione sui suoi occhi, di color grigio chiaro, indecifrabili. «Dottoressa Cordell?» chiese l'uomo. «Sì.» «Sono il detective Thomas Moore. Questa è la detective Jane Rizzoli. Siamo della Omicidi.» Moore sollevò il distintivo, ma avrebbe potuto anche essere la tessera punti di un supermercato, poiché la donna, catturata dai suoi occhi, nemmeno lo guardò. «Possiamo parlare in privato?» chiese il detective. La dottoressa lanciò un'occhiata alle infermiere che l'attendevano col paziente nell'ascensore. «Andate avanti», disse. «Il dottor Littman vi prescriverà i farmaci.» Soltanto dopo che le porte si furono chiuse, Catherine rivolse la parola a Moore. «Si tratta dell'uomo investito dall'auto pirata di stamattina? Sembra proprio che ce la farà...» «Non siamo qui per un paziente.» «Non mi ha detto che siete della Omicidi?» «Sì.» Fu il tono quieto della voce ad allarmarla. Un gentile avvertimento af-
finché si preparasse a ricevere cattive notizie. «Si tratta di... Oddio, spero non di qualcuno che conosco.» «Siamo qui per Andrew Capra. E per ciò che le è successo a Savannah.» Per un attimo la Cordell non riuscì a parlare. Le gambe le s'intorpidirono improvvisamente, poi protese un braccio verso il muro, come per prevenire una caduta. «Dottoressa Cordell?» chiese il detective, preoccupato. «Si sente bene?» «Credo... sia meglio parlare nel mio ufficio», sussurrò. Si voltò di scatto e uscì dal pronto soccorso, senza verificare se i due poliziotti la stessero seguendo; continuò semplicemente a camminare, a fuggire verso la sicurezza del suo studio, nell'edificio adiacente alla clinica. Mentre si districava nel labirinto del Pilgrim Medical Center, sentì i loro passi dietro di sé. Che cosa ti è successo a Savannah? Non aveva voglia di parlarne. Aveva sperato di non doverlo più fare con nessuno, mai più. Ma quelli erano agenti di polizia, e le loro domande non potevano essere evitate. Finalmente giunsero a una porta con la targa: PETER FALCO, MD CATHERINE CORDELL, MD CHIRURGIA GENERALE E VASCOLARE La dottoressa entrò nella reception; la segretaria sollevò lo sguardo e le rivolse automaticamente un mezzo sorriso, che però le morì sulle labbra quando vide il volto pallido di Catherine e notò i due estranei che la seguivano. «Dottoressa Cordell? Qualcosa non va?» «Saremo nel mio studio, Helen. Per favore, non passarmi nessuna chiamata.» «Il suo primo paziente arriva alle dieci. Il signor Tsang, splenectomia di follow-up...» «Cancella la visita.» «Ma arriva da Newbury. Probabilmente è già per strada.» «Va bene, allora fallo attendere. Ma, per favore, nessuna telefonata.» Ignorando lo sguardo sgomento di Helen, Catherine andò dritta nel suo studio, subito seguita da Moore e dalla Rizzoli. Allungò la mano per afferrare il suo camice da laboratorio, ma scoprì che non era appeso come al solito al gancio della porta. Era una piccolezza, ma, aggiunta all'agitazione
che già provava, le sembrò insopportabile. Si guardò intorno in cerca del camice, come se la sua vita dipendesse da quello. Lo scorse appoggiato allo schedario e, mentre lo indossava e si ritirava dietro la scrivania, sentì un irrazionale senso di sollievo. Barricata dietro la lucente superficie di palissandro, si sentiva più sicura e padrona della situazione. La stanza era bene ordinata, come del resto ogni cosa nella sua vita. Catherine non tollerava la trascuratezza, e i suoi fascicoli erano divisi in due pile precise sopra la scrivania; sugli scaffali, i libri erano allineati in ordine alfabetico, per autore. Il computer ronzava sommessamente, sullo schermo uno screensaver di forme geometriche. La donna si allacciò il camice per nascondere le macchie di sangue della pettorina. Quello strato aggiuntivo di uniforme sembrava costituire un altro scudo protettivo, un'altra barriera contro le stravaganze e i pericoli della vita. Seduta dietro la scrivania, la dottoressa osservò Moore e la Rizzoli che si guardavano intorno, senza dubbio per ricavare indizi utili sull'occupante dello studio. Gli agenti di polizia studiavano automaticamente l'ambiente circostante per valutare la personalità del soggetto? Catherine si sentì esposta e vulnerabile. «Mi rendo conto che possa essere un argomento doloroso da affrontare», disse Moore mentre si sedeva. «Non avete idea di quanto lo sia. Sono passati due anni. Perché è saltato fuori ora?» «In relazione a due omicidi irrisolti, qui a Boston.» La Cordell si accigliò. «Ma io sono stata aggredita a Savannah.» «Sì, lo sappiamo. Esiste un database dei crimini nazionali chiamato VICAP. Quando abbiamo effettuato una ricerca dei delitti affini ai nostri, è saltato fuori il nome di Andrew Capra.» Catherine rimase in silenzio per un momento, mentre assimilava quell'informazione e si faceva coraggio, per porre la domanda seguente. «Di che affinità stiamo parlando?» chiese con tono tranquillo. «Il modo in cui le donne vengono immobilizzate e controllate. Il tipo di strumento da taglio usato. La...» Moore fece una pausa, cercando di formulare la frase con la maggiore delicatezza possibile. «La scelta della mutilazione», terminò pacatamente. La donna afferrò la scrivania con entrambe le mani, lottando per controllare un improvviso accesso di nausea. Poi abbassò lo sguardo sui fascicoli impilati davanti a sé e intravide un segno d'inchiostro blu sulla manica del camice. Indipendentemente da quanto si cerchi di mantenere l'ordine nella
propria vita, indipendentemente da quanto si sia attenti a evitare gli errori, le imperfezioni, c'è sempre qualche sbavatura, qualche difetto in agguato, dove non si vede, pronto a sorprenderti. «Mi dica di loro», disse la Cordell. «Delle due donne.» «Non siamo autorizzati a rivelarle i dettagli.» «Cosa potete dirmi?» «Non molto di più di ciò che è riportato sul Globe di domenica.» Le occorse qualche secondo per elaborare ciò che aveva appena sentito. Poi s'irrigidì sulla sedia, l'espressione incredula. «Gli omicidi di Boston... sono recenti?» «L'ultimo risale a venerdì.» «Perciò non hanno niente a che fare con Andrew Capra! Non c'entrano nulla con me.» «Esistono enormi affinità.» «Allora sono pure coincidenze. Devono esserlo. Io pensavo steste parlando di vecchi crimini. Qualcosa che Capra aveva fatto anni orsono, non la scorsa settimana. Non vedo in che modo potrei esservi utile.» Bruscamente, si scostò dalla scrivania. «Dottoressa Cordell, questo assassino conosce dettagli mai rivelati al pubblico. Sa cose sulle aggressioni di Capra che nessun altro, al di fuori degli investigatori di Savannah, conosce.» «Forse allora dovreste rivolgervi a quelle persone. A quelli che sanno.» «Lei è una di loro, dottoressa.» «Nel caso se lo sia dimenticato, io ero una vittima.» «Ha mai raccontato i dettagli del suo caso a qualcuno?» «Solo alla polizia di Savannah.» «Non ne ha parlato coi suoi amici?» «No.» «Con la sua famiglia?» «No.» «Dev'esserci qualcuno di cui si fida.» «Non ne parlo. Non ne parlo mai.» Il detective la fissò, perplesso: «Mai?» La donna distolse lo sguardo. «Mai», sussurrò. Seguì un lungo silenzio. Poi Moore le chiese con delicatezza: «Ha mai sentito nominare una certa Elena Ortiz?» «No.» «Diana Sterling?»
«No. Sono le donne...» «Sì. Sono le vittime.» Catherine deglutì. «Non conosco i loro nomi.» «Non sapeva nulla di questi omicidi?» «Per principio evito di leggere le notizie tragiche. Sono una cosa che non riesco a gestire.» Si lasciò sfuggire un sospiro stanco. «Capite, vedo tante cose terribili in pronto soccorso. Quando vado a casa, al termine della giornata, desidero soltanto pace. Voglio sentirmi sicura. Non leggo quello che accade nel mondo... la violenza. Non è necessario.» Moore si mise una mano in tasca ed estrasse due foto, che allungò sul tavolo, verso la dottoressa. «Riconosce una di queste donne?» Catherine fissò i loro volti. La donna a sinistra aveva gli occhi scuri, il sorriso sulle labbra e il vento nei capelli. L'altra era una bionda eterea, lo sguardo sognante e distaccato. «La bruna è Elena Ortiz», spiegò Moore. «L'altra è Diana Sterling. E stata uccisa un anno fa. Le sembrano volti familiari?» La Cordell scosse il capo. «Diana Sterling viveva a Back Bay, a meno di un chilometro da casa sua. L'appartamento di Elena Ortiz è a due isolati dall'ospedale, in direzione sud. Potrebbe averle già viste. È assolutamente sicura di non riconoscerne nemmeno una?» «Mai viste prima d'ora.» Catherine restituì le fotografie a Moore e, all'improvviso, vide che le tremava la mano. Il detective l'aveva di certo notato mentre le prendeva, sfiorandole le dita. La dottoressa pensò che fosse in grado di recepire molte cose; del resto era un poliziotto. Lei era tanto concentrata sulla sua agitazione che era riuscita a cogliere ben poco di quell'uomo. Era calmo e gentile, e Catherine non si era sentita minacciata. Soltanto ora si rendeva conto che Moore la stava studiando da vicino, in attesa di cogliere la vera Catherine Cordell. Non l'esperto chirurgo di traumatologia, non la donna elegante dai capelli rossi, bensì quello che si nascondeva sotto la superficie. Il detective Rizzoli prese la parola e, a differenza di Moore, non fece il minimo sforzo per addolcire le sue domande. Voleva solo risposte e non perse tempo in convenevoli. «Quando si è trasferita qui, dottoressa?» «Ho lasciato Savannah un mese dopo esser stata aggredita», rispose Catherine, imitando il tono risoluto della Rizzoli. «Perché ha scelto Boston?» «Perché no?»
«È molto distante dal Sud.» «Mia madre è cresciuta nel Massachusetts. Ci portava tutte le estati nel New England. Era come... tornare a casa.» «Perciò è qui da più di due anni.» «Sì.» «A far cosa?» Catherine si accigliò, stupita dalla domanda. «Lavoro qui al Pilgrim, col dottor Falco. Traumatologia.» «Allora il Globe si è sbagliato.» «Come?» «Ho letto l'articolo su di lei qualche settimana fa. Quello sulle donne chirurgo. A proposito, magnifica foto. Diceva che lavora qui al Pilgrim solo da un anno.» La dottoressa rimase un istante in silenzio, poi, con calma, precisò: «L'articolo è esatto. Dopo Savannah mi sono presa un po' di tempo per...» Si schiarì la gola. «Non mi sono associata al dottor Falco fino allo scorso luglio.» «E che mi dice del suo primo anno a Boston?» «Non ho lavorato.» «Cos'ha fatto?» «Nulla.» La risposta, schietta e definitiva, fu tutto ciò che era disposta ad ammettere. Non aveva intenzione di rivelare l'umiliante verità su quel primo anno. I giorni e poi le settimane in cui aveva avuto paura di uscire dal suo appartamento. Le notti in cui il più flebile rumore la faceva tremare di paura. Il lento e doloroso ritorno nel mondo, quando prendere un ascensore o camminare di sera fino all'auto erano atti di puro coraggio. Si era vergognata della sua vulnerabilità e se ne vergognava ancora; il suo orgoglio non le avrebbe mai permesso di rivelare la verità. Guardò l'orologio. «Ho alcune visite ora. Non ho davvero più nulla da aggiungere.» «Mi lasci verificare i fatti.» Jane Rizzoli aprì un piccolo blocco a spirale. «Poco più di due anni fa, nella notte del 15 giugno, lei è stata aggredita in casa sua dal dottor Andrew Capra. Un uomo che conosceva, un interno con cui lavorava in ospedale.» Sollevò lo sguardo verso Catherine. «Conosce già le risposte.» «L'ha drogata e spogliata. Poi l'ha legata al letto...» «Non vedo il motivo per cui...» «E l'ha stuprata.» Le parole, sebbene fossero state pronunciate pacatamente, ebbero un impatto brutale quanto un ceffone.
La Cordell rimase in silenzio. «E non aveva intenzione di fermarsi lì», continuò Jane. Signore Iddio, falla smettere. «Voleva mutilarla nel modo peggiore possibile. Come aveva fatto con le altre quattro vittime, in Georgia. Le aveva massacrate, distruggendo con meticolosità ciò che le rendeva donne.» «Basta così», esclamò Moore. Ma la Rizzoli era implacabile. «Sarebbe potuto accadere anche a lei, dottoressa.» Catherine scosse il capo. «Perché fa così?» «Dottoressa Cordell, non desidero altro che prendere quest'uomo, e credo che lei voglia aiutarci, che desideri impedire che ciò accada ad altre donne.» «Questi omicidi non hanno niente a che fare con me! Andrew Capra è morto da due anni!» «Sì, ho il rapporto dell'autopsia.» «Be', posso garantirvi che è morto», ribatté Catherine. «Perché sono stata io ad ammazzarlo, quel figlio di puttana!» 4 Moore e la Rizzoli sedevano in macchina, sudati; dal bocchettone dell'aria condizionata usciva solo aria calda. Erano fermi nel traffico da dieci minuti, e l'auto non accennava a raffreddarsi. «I contribuenti ricevono in base a ciò che pagano», affermò Jane. «E quest'auto è un rottame.» Moore spense l'aria condizionata e abbassò il finestrino. L'odore dell'asfalto caldo e dei gas di scarico entrò immediatamente nell'abitacolo. Il detective era già madido di sudore. Non riusciva a capire come facesse la collega a tenere addosso la giacca; lui se l'era tolta non appena erano usciti dal Pilgrim Medical Center ed erano stati avvolti da un pesante manto d'umidità. Sapeva che doveva sentire caldo, perché vide il sudore scintillarle sul labbro superiore, un labbro che, probabilmente, non aveva mai fatto la conoscenza di un rossetto. La Rizzoli non era brutta, tuttavia, mentre altre donne si valorizzavano con un po' di trucco o con un paio d'orecchini, lei sembrava determinata a sminuire il suo fascino. Indossava abiti scuri e tristi, che non donavano alla sua corporatura minuta, e i capelli erano un cespuglio incolto di riccioli neri. Lei era se stessa; l'accettavi così,
oppure potevi andare all'inferno. Thomas Moore capiva la ragione per cui aveva adottato un atteggiamento tanto aggressivo: per lei era forse l'unico modo per sopravvivere come poliziotta. La Rizzoli era, prima d'ogni altra cosa, una sopravvissuta. Proprio come Catherine Cordell. Ma la dottoressa aveva elaborato una strategia diversa: la ritirata. Il distacco. Durante il colloquio, Thomas aveva avuto l'impressione di osservarla attraverso un vetro gelato, tanto le era sembrata distante. Ed era proprio quell'autocontrollo esasperato che aveva irritato la sua collega. «C'è qualcosa che non va in lei, che manca nella sfera emotiva», disse Jane in quel momento. «E un chirurgo. E allenata a mantenere la freddezza.» «C'è la freddezza, e poi c'è il ghiaccio. Due anni fa è stata legata, stuprata e quasi sbudellata. E ora è come se l'argomento la lasciasse indifferente. Mi dà da pensare.» Moore frenò a un semaforo rosso e rimase a fissare l'ingorgo all'incrocio. Gocce di sudore gli scendevano lungo la schiena. Il suo corpo e la sua mente non funzionavano bene col caldo, si sentiva fiacco e stupido. Purtroppo mancava molto alla fine dell'estate, alla purezza della prima nevicata... «Ehi», esclamò Jane. «Mi stai ascoltando?» «È molto controllata», le concesse. Ma non è di ghiaccio, pensò, ricordando come le tremava la mano quando gli aveva restituito le foto delle due donne. Tornato in ufficio, dietro la sua scrivania, Thomas sorseggiò una CocaCola tiepida e rilesse l'articolo apparso qualche settimana addietro sul Boston Globe: «Donne col bisturi». Parlava di tre chirurghi donna di Boston, dei loro trionfi e delle loro difficoltà, dei problemi specifici che incontravano nella loro professione. Delle tre immagini, quella della Cordell era la più singolare, e non soltanto per il fatto che fosse attraente: c'era qualcosa nel suo sguardo, tanto fiero e diretto, che sembrava sfidare la macchina fotografica; come l'articolo, rafforzava l'impressione che quella donna avesse un totale controllo sulla propria vita. Moore terminò di leggere e rimase seduto, riflettendo su quanto potessero ingannare le prime impressioni. Su quanto facilmente il dolore potesse essere mascherato da un sorriso o da un mento lievemente sollevato. Poi aprì un altro fascicolo; fece un respiro profondo e rilesse il rapporto della polizia di Savannah sul dottor Andrew Capra.
Capra aveva commesso il suo primo omicidio mentre era laureando alla facoltà di medicina dell'Emory University, ad Atlanta. La vittima era Dora Ciccone, una studentessa ventiduenne, il cui corpo era stato trovato legato al letto nel suo appartamento, esterno al campus. L'autopsia aveva rivelato tracce di Rohypnol nel sangue. La porta d'ingresso non presentava segni di scasso. La vittima aveva invitato l'assassino a entrare in casa. Una volta drogata, Dora era stata legata al letto con corde di nylon, e le sue grida erano state soffocate dal nastro adesivo. Il killer l'aveva dapprima stuprata, poi massacrata. La ragazza era rimasta viva durante l'operazione. Terminata l'escissione e preso il suo souvenir, l'uomo le aveva dato il colpo di grazia: uno squarcio alla gola, da sinistra a destra. Sebbene la polizia fosse in possesso del DNA dell'assassino, ricavato dallo sperma, non aveva nessuna pista. Le indagini erano state complicate dal fatto che Dora aveva la reputazione di essere una ragazza facile, cui piaceva frequentare i bar locali e portarsi spesso a casa uomini appena conosciuti. Nella notte in cui morì, l'uomo che era stato visto con lei era uno studente di medicina, Andrew Capra, ma il suo nome era giunto all'attenzione della polizia solo dopo che tre donne erano state uccise nella città di Savannah, a oltre trecento chilometri di distanza. Poi, finalmente, in un'afosa notte di giugno, i delitti terminarono. La trentunenne Catherine Cordell, capo chirurgo interno al Riverland Hospital di Savannah, si era spaventata quando qualcuno aveva bussato alla sua porta. L'aveva aperta e si era trovata davanti Andrew Capra, uno dei suoi interni. Quel giorno, in ospedale, lo aveva rimproverato per un errore che aveva commesso, e l'uomo voleva sapere come farsi perdonare. Se lei lo avesse fatto entrare, avrebbero potuto riconsiderare l'accaduto. Dopo qualche birra, avevano esaminato la condotta di Capra. Tutti gli errori che aveva commesso, i pazienti che la sua negligenza avrebbe potuto danneggiare. Catherine non gli aveva indorato la pillola: Andrew era un incapace e non gli sarebbe stato consentito di terminare il programma di chirurgia. A un certo punto della serata, la dottoressa era andata in bagno, poi era tornata per riprendere la conversazione e terminare la birra. Quando aveva ripreso conoscenza, si era ritrovata nuda e legata al letto con corde di nylon. Il rapporto della polizia descriveva, con dettagli raccapriccianti, l'incubo che era seguito.
Alcune fotografie scattate in ospedale rivelavano una donna dallo sguardo ossessionato, con una guancia orribilmente gonfia e livida. Ciò che stava guardando in quelle foto era stato riassunto col termine generico di vittima. Non si trattava certo di una parola che si confaceva alla donna misteriosamente calma che aveva incontrato quel giorno. Ora, rileggendo la dichiarazione della Cordell, riusciva a sentire mentalmente la voce della donna: le parole non appartenevano più a una vittima anonima, ma a una persona conosciuta. Non so come mi sia liberata la mano. Il polso è tutto escoriato, perciò devo averla sfilata dalla corda. Mi spiace, ma ho le idee un po' confuse. Tutto ciò che ricordo è di aver cercato di raggiungere il bisturi. Sapevo che dovevo prenderlo dal vassoio, che dovevo tagliare le corde prima che Andrew tornasse. .. Ricordo di essermi rotolata verso il bordo del letto, di essere caduta sul pavimento e di aver battuto la testa. Poi di aver cercato la pistola. È quella di mio padre. Dopo il terzo assassinio di Savannah, aveva insistito perché la tenessi. Mi sembra poi di aver frugato sotto il letto. Di aver afferrato l'arma. Ho udito i passi dirigersi verso la mia stanza. Poi... non ne sono sicura... dev'essere stato allora che gli ho sparato. Si, credo sia accaduto proprio in quel momento. Mi hanno detto che ho premuto due volte il grilletto. Penso sia la verità. Moore si fermò a riflettere sulla dichiarazione. La balistica aveva confermato che entrambi i proiettili erano stati sparati dall'arma registrata a nome del padre di Catherine, ritrovata accanto al letto. Gli esami effettuati in ospedale avevano confermato la presenza di Rohypnol nel sangue, una droga che provoca amnesia, perciò i suoi vuoti di memoria erano più che giustificati. Quando la Cordell era stata portata al pronto soccorso, i medici l'avevano giudicata in stato confusionale, a causa del farmaco o di una commozione cerebrale. Solo un forte colpo in testa avrebbe potuto lasciarle la taccia tanto livida e gonfia. Non ricordava però come o quando l'avesse ricevuto. Thomas si mise a esaminare le foto della scena del delitto. Andrew Capra giaceva inerte sul pavimento della stanza, supino. Gli avevano sparato due volte, una all'addome, l'altra nell'occhio, entrambi i colpi da una distanza ravvicinata. Studiò a lungo le foto, osservando la posizione del corpo di Capra, e le
macchie di sangue. Poi prese il verbale dell'autopsia. Lo lesse due volte. Riguardò la foto della scena del delitto. C'è qualcosa di sbagliato, pensò. La dichiarazione della Cordell non aveva senso. Improvvisamente sulla sua scrivania si materializzò un rapporto. Moore sollevò lo sguardo, sorpreso, e vide la Rizzoli. «Guarda un po' qui», mormorò la donna. «Che cos'è?» «Il rapporto sul capello trovato sul margine della ferita di Elena Ortiz.» Il detective lo lesse rapidamente e giunse alla riga finale. «Non ho idea di che significhi», esclamò. Nel 1997 le varie unità del Boston Police Department erano state trasferite sotto un unico tetto, in un complesso nuovo di zecca, situato al numero uno di Schroeder Plaza, nel disordinato quartiere di Roxbury. I poliziotti chiamavano il loro nuovo quartier generale «il palazzo di marmo», data la gran quantità di granito usata nella costruzione dell'ingresso. «Dateci qualche anno per insudiciare questo luogo, e poi ci sentiremo come a casa», era la battuta più gettonata, Schroeder Plaza non aveva nulla a che vedere con le scialbe stazioni di polizia dei polizieschi televisivi: era un edificio lucido e moderno, illuminato da ampie finestre e da grossi lucernari. La Omicidi, coi suoi pavimenti ricoperti di tappeti e i suoi computer, avrebbe potuto essere scambiata per un ufficio aziendale. Ciò che gli agenti gradivano maggiormente, però, era l'integrazione delle varie unità. Per i detective della Omicidi una visita al laboratorio della Scientifica era solo una camminata lungo il corridoio, verso l'ala meridionale dell'edificio. Nella Capelli e Fibre, Moore e la Rizzoli osservavano Erin Volchko, ricercatrice medico legale, mentre frugava tra la sua collezione di sacchetti di reperti. «Tutto ciò che avevo era quel singolo capello», dichiarò la donna. «Ma è incredibile quanto possa rivelare. Bene, ecco qua.» Individuò la busta recante il numero corrispondente al caso Ortiz, e tolse un vetrino dal microscopio. «Vi mostro come appare ingrandito. I dati numerici sono nel rapporto.» «Sono questi?» chiese la Rizzoli, guardando la lunga serie di codici scritti sul foglio. «Esatto. Ogni codice descrive una peculiarità del capello, dal colore al-
l'arricciatura, sino alle caratteristiche microscopiche. Questo capello in particolare è un A01... un biondo scuro. L'arricciatura è B01. Piegato, con un diametro del ricciolo inferiore a ottanta. Quasi, ma non completamente, diritto. La lunghezza è di quattro centimetri. Sfortunatamente il campione è nella fase telogen, perciò non vi è presenza di tessuto epiteliale.» «Intende dire che non c'è DNA.» «Esatto. Telogen è la fase terminale di crescita della radice. Questo capello è caduto naturalmente, quale parte di un processo di ricambio. In altre parole, non è stato strappato. Se vi fossero cellule epiteliali sulla radice, ne potremmo utilizzare i nuclei per l'analisi genetica. Ma su questo non ve ne sono.» La Rizzoli e Moore si scambiarono un'occhiata delusa. «Ma», aggiunse Erin, «abbiamo qualcosa di eccezionale. Non tanto quanto il DNA, ma potrebbe essere una prova da tribunale, una volta inchiodato un indiziato. Peccato che non abbiamo capelli del caso Sterling da confrontare.» La donna mise a fuoco l'oculare del microscopio, poi si scostò. «Date un'occhiata.» Il microscopio aveva un oculare aggiuntivo per l'attività didattica, perciò entrambi i detective poterono esaminare il vetrino contemporaneamente. Ciò che vide Moore, guardando attraverso la lente, fu un capello disseminato di piccoli noduli. «Cosa sono quelle protuberanze? Non è normale», chiese la Rizzoli. «Non solo è anormale, è anche raro», ribatté il medico. «E una condizione chiamata Trichorrhexis invaginata, altrimenti nota come 'capello a canna di bambù'. La ragione di tale nome appare evidente. Quei piccoli noduli lo fanno sembrare proprio una canna di bambù, vero?» «Che cosa sono?» «Sono difetti focali della fibra pilifera. Punti deboli che consentono al fusto di piegarsi su se stesso, formando una sorta di enartrosi. Quei noduli sono i punti deboli, dove il fusto è rientrato in se stesso, formando una protuberanza.» «Come si sviluppa questa condizione?» «A volte può derivare da trattamenti troppo aggressivi sul capello. Tinture, permanenti, quel genere di cose. Ma, dal momento che molto probabilmente abbiamo a che fare con un maschio, e che il capello non presenta segni di questo tipo, sono incline a pensare che sia dovuta a un difetto genetico.» «Per esempio?»
«La sindrome di Netherton. E una condizione autosomica recessiva che altera lo sviluppo della cheratina, la proteina fibrosa e dura che si trova nei capelli e nelle unghie. E che compone anche lo strato più esterno della nostra cute.» «Se esiste un difetto genetico, e la cheratina non si sviluppa normalmente, allora il capello s'indebolisce?» Erin annuì. «E non solo il capello può esserne interessato. I soggetti affetti da sindrome di Netherton possono presentare anche disturbi cutanei. Eritemi e desquamazione.» «Quindi stiamo cercando un soggetto con un brutto caso di forfora?» chiese la Rizzoli. «Potrebbe essere una cosa persino più ovvia. Alcuni di questi pazienti presentano una forma grave conosciuta come ittiosi. La pelle è secca e somiglia a quella di un alligatore.» Jane scoppiò a ridere. «Quindi dobbiamo cercare l'uomo rettile! Questo dovrebbe restringere il nostro campo di ricerca.» «Non necessariamente. Siamo in estate.» «E che c'entra?» «Il caldo e l'umidità migliorano la secchezza cutanea. In questa stagione potrebbe apparire perfettamente normale.» La Rizzoli e Moore si scambiarono un'occhiata, colpiti dal medesimo pensiero: Entrambe le vittime erano state uccise in estate, «Finché dura il caldo, probabilmente si confonde bene con tutti gli altri», continuò Erin. «Siamo solo a luglio», esclamò Jane. «La sua stagione di caccia è appena cominciata», borbottò Moore. Il paziente sconosciuto ora aveva un nome. Le infermiere del pronto soccorso avevano trovato una targhetta d'identità attaccata al portachiavi. Si chiamava Herman Gwadowski, e aveva sessantanove anni. Catherine si trovava nell'unità di terapia intensiva, nello stanzino del suo paziente, e stava controllando metodicamente i monitor e l'attrezzatura disposta intorno al letto. Sull'oscilloscopio il ritmo cardiaco appariva normale; le onde arteriose raggiungevano picchi di 110/70, e i valori della linea di pressione venosa centrale salivano e scendevano come un mare increspato dal vento. A giudicare dai dati, l'intervento aveva avuto successo. Ma il signor Gwadowski non si era svegliato, pensò Catherine mentre puntava la luce della penna nella pupilla sinistra e poi nella destra dell'uo-
mo. Erano trascorse quasi otto ore dall'operazione, e il paziente era ancora in coma profondo. La dottoressa si raddrizzò e osservò il torace del paziente salire e scendere al ritmo del ventilatore. Gli aveva impedito di morire dissanguato. Ma che cosa aveva realmente salvato? Un corpo con un cuore pulsante e un cervello inerte. Udì qualcuno picchiare sul vetro. Attraverso la finestra della cabina vide il suo collega, il dottor Peter Falco, che le faceva segno di uscire, un'espressione preoccupata sul volto solitamente allegro. Alcuni chirurghi sono conosciuti per i loro accessi di collera in sala operatoria. Altri infilano con arroganza il camice e i guanti, come fossero abiti regali. Altri ancora sono tecnici, freddi ed efficienti, e considerano i pazienti solo un insieme di parti meccaniche da riparare. E poi c'era Peter. Il divertente, esuberante Peter, che cantava stonato assordanti canzoni di Elvis in sala operatoria, che organizzava gare di aeroplanini di carta e si metteva carponi a giocare col Lego insieme coi piccoli pazienti di Pediatria. Catherine era abituata a vedere il sorriso sul volto di Peter. Quando, attraverso la finestrella, notò la sua preoccupazione, uscì subito dalla minuscola stanza del paziente. «Va tutto bene?» le chiese Falco. «Ho quasi finito le visite.» Peter guardò i tubi e i macchinari che circondavano il letto del signor Gwadowski. «Ho sentito che hai fatto un miracolo. Un emofiliaco da dodici unità.» «Non so se lo si possa definire proprio 'un miracolo'. Funziona tutto, tranne la materia grigia.» Lo sguardo della donna si posò sul paziente. I due medici rimasero un attimo in silenzio, a guardare il torace che andava su e giù. «Helen mi ha detto che oggi ti hanno fatto visita due poliziotti», disse Peter. «Che sta succedendo?» «Nulla d'importante.» «Hai dimenticato di pagare il parcheggio?» Catherine si sforzò di ridere. «Già, e conto su di te per la cauzione.» Uscirono dall'unità di terapia intensiva e s'incamminarono per il corridoio, fianco a fianco, Peter con la sua andatura dinoccolata. «Stai bene, Catherine?» le chiese Falco in ascensore. «Perché? Come ti sembro?» «In tutta sincerità?» Studiò il viso della collega coi suoi occhi azzurri,
tanto diretti da apparire invadenti. «Sembri una che ha bisogno di un bicchiere di vino e di una bella cenetta. Che ne dici di unirti a me?» «Un invito allettante.» «Ma?» «Ma credo che stasera resterò a casa.» Peter si portò una mano al petto, come fosse stato ferito a morte. «Steso, ancora una volta! Dimmi, esiste un sistema che funzioni con te?» La Cordell sorrise. «A te scoprirlo.» «Che ne dici di questo? Un uccellino mi ha detto che sabato è il tuo compleanno. Perché non andiamo a fare un giro col mio aereo?» «Non posso. Sono di turno.» «Puoi cambiarti con Ames. Gli parlo io.» «Oh, Peter. Sai che non mi piace volare.» «Non dirmi che hai paura?» «È solo che non riesco a rinunciare ad avere il controllo della situazione.» Falco annuì, serio. «Classica personalità da chirurgo.» «È un modo gentile per dirmi che sono repressa?» «Quindi rinunci all'appuntamento volante? Non posso farti cambiare idea?» «Credo di no.» Peter sospirò. «Bene, questo è tutto. Ho terminato il mio repertorio.» «Lo so. Stai iniziando a riciclare le proposte.» «Lo dice anche Helen.» La donna gli lanciò uno sguardo sorpreso. «Helen ti sta consigliando le tattiche per indurmi a uscire con te?» «Dice che non sopporterebbe lo spettacolo patetico di un uomo che batte la testa contro un muro incrollabile.» Entrambi risero mentre uscivano dall'ascensore e si avviavano verso lo studio. Era la risata tranquilla di due colleghi, consapevoli che si trattava soltanto di un gioco. Mantenendolo entro quei limiti, nessun sentimento veniva ferito, nessuna emozione coinvolta. Un flirt velato e sicuro, che permetteva di evitare complicazioni. Lui le aveva chiesto scherzosamente di uscire, lei altrettanto scherzosamente lo aveva scaricato, e l'intero studio li assecondava. Erano le cinque e mezzo, e il personale era già uscito. Peter si ritirò nella sua stanza e Catherine entrò nella sua per appendere il camice e prendere la borsa. Mentre agganciava il camice dietro la porta, fu colta da un pensie-
ro improvviso. Attraversò il corridoio e fece capolino nello studio del collega. Il chirurgo stava esaminando alcune cartelle, gli occhiali da lettura abbassati sul naso. A differenza di quella della Cordell, la stanza di Peter era un vero e proprio caos, col cestino pieno di aeroplanini di carta e le sedie occupate da pile di libri e di riviste di chirurgia. Una parete era quasi completamente soffocata da un filodendro impazzito. Sepolti sotto una giungla di foglie, s'intravedevano gli attestati: un diploma prelaurea d'ingegneria aeronautica e la laurea in medicina conseguita all'Harvard Medical School. «Peter? Ti faccio una domanda stupida...» Lui la guardò da sopra gli occhiali. «Allora sei venuta dall'uomo giusto.» «Sei stato nel mio ufficio?» «Devo chiamare il mio avvocato prima di rispondere?» «Dai. Sul serio.» Il medico si raddrizzò sulla sedia e la fissò. «No. Perché?» «Non importa. Non è un problema.» Catherine si voltò per uscire e udì il cigolio della sedia di Falco, che la seguì nel suo ufficio. «Che cosa non è un problema?» «Sono affetta da un disturbo ossessivo-compulsivo, tutto qua. M'innervosisco se le cose non sono dove dovrebbero.» «Per esempio?» «Il mio camice. Lo appendo sempre dietro la porta, e in qualche modo finisce sullo schedario, o su una sedia. So che non è Helen o un'altra segretaria. Ho già chiesto.» «Forse la donna delle pulizie l'ha spostato.» «E poi sto impazzendo perché non riesco a trovare lo stetoscopio.» «Non è ancora saltato fuori?» «Ho dovuto chiederlo in prestito alla caposala.» Accigliato, Falco si guardò intorno. «Be', eccolo lì, sullo scaffale.» L'uomo si avvicinò alla libreria, dove lo strumento era arrotolato accanto a un fermalibri. Silenziosamente, Catherine glielo sfilò dalle mani, e lo fissò come se fosse un oggetto alieno. Un serpente nero, avvolto sulla sua mano. «Ehi, che ti prende?» La donna fece un respiro profondo. «Credo di essere un po' stanca.» Poi infilò lo stetoscopio nella tasca sinistra del camice... il posto in cui lo lasciava sempre. «Sei sicura che sia tutto? Davvero non c'è altro?»
«Ho bisogno di andare a casa.» Catherine uscì dall'ufficio e Peter la seguì in corridoio. «È qualcosa che ha a che vedere con quegli agenti di polizia? Ascolta, se sei in qualche guaio... se ti posso aiutare...» «Non ho bisogno di aiuto, grazie.» La risposta le uscì più fredda di quanto non intendesse, e subito se ne pentì. Peter non se la meritava. «Sai, non mi spiacerebbe se di tanto in tanto mi chiedessi qualche favore», ribatte il medico pacatamente. «Fa parte del lavoro che svolgiamo insieme, dell'essere colleghi. Non pensi?» La Cordell non rispose. Lui si voltò per tornare nello studio. «Ci vediamo domani mattina.» «Peter?» «Sì?» «Per i due poliziotti. E la ragione per cui sono venuti a parlarmi...» «Non sei tenuta a dirmelo.» «E invece sì. Continuerai a pensarci se non te lo dico. Mi hanno fatto alcune domande su un caso di omicidio. Una donna è stata uccisa giovedì notte. Pensavano che potessi conoscerla.» «Ed è così?» «No. Si sono sbagliati, tutto qui.» Catherine sospirò. «Un semplice errore.» La Cordell girò la sicura, la sentì scattare con un rumore sordo, poi agganciò la catena. Un'altra linea di difesa contro gli orrori sconosciuti, in agguato al di là delle pareti. Barricata al sicuro nel suo appartamento, si tolse le scarpe, appoggiò la borsa e le chiavi dell'auto sul tavolino di ciliegio e camminò sul folto tappeto bianco della sala. L'appartamento era piacevolmente fresco, grazie a quel miracolo che si chiamava aria condizionata centralizzata. Fuori c'erano trenta gradi, ma a casa sua la temperatura non saliva mai sopra i ventidue in estate e non scendeva sotto i venti d'inverno. Esistevano poche cose nel mondo di un individuo che potevano essere prestabilite, predeterminate, e Catherine si sforzava di mantenere ordine all'interno dei confini circoscritti della sua esistenza. Aveva scelto di abitare in quel condominio di dodici appartamenti sulla Commonwealth Avenue perché era nuovo di zecca e aveva un garage sicuro. Non era pittoresco come le storiche residenze di mattoni rossi di Back Bay ma, a differenza di quelle, non presentava incognite quanto alle tubature o all'elettricità. Le incognite erano una cosa che non tollerava. Il suo appartamento
era immacolato e, a eccezione di qualche sprazzo di colore, aveva scelto di arredarlo in bianco. Divano bianco, tappeti bianchi, piastrelle bianche. Il colore della purezza, integro e virginale. Catherine andò in camera, si svestì, appese la gonna e mise da parte la camicia, che avrebbe portato al lavasecco. Indossò un paio di pantaloni larghi e una camicia di seta senza maniche. Quando si recò, a piedi nudi, in cucina, era ormai più calma e aveva riacquistato il controllo. Quella mattina non si era sentita affatto tranquilla. La visita dei due detective l'aveva scossa, e per tutto il pomeriggio aveva continuato a commettere errori di distrazione: aveva preso un'etichetta sbagliata del laboratorio, aveva scritto una data errata su una cartella... Si trattava di sviste insignificanti, paragonabili tuttavia alle deboli increspature sulla superficie di acque che, in profondità, sono molto agitate. Negli ultimi due anni era riuscita a reprimere tutti i pensieri relativi a ciò che le era accaduto a Savannah. Ogni tanto, senza preavviso, le tornava alla mente un'immagine, improvvisa come lo squarcio di un pugnale, anche se di solito riusciva ad allontanarla, e a rivolgere la propria attenzione ad altro. Quel giorno, invece, non era capace di controllare i ricordi. Quel giorno non poteva fare finta che Savannah non fosse mai esistita. Le piastrelle della cucina erano fresche sotto le sue piante nude. Catherine si preparò uno screwdriver, con poca vodka, e lo sorseggiò mentre grattugiava il parmigiano e affettava pomodori, cipolle ed erbe varie. Non mangiava dall'ora di colazione, e l'alcol entrò subito in circolo. Lo stordimento era piacevole, anestetizzante. Il battito regolare del coltello sul tagliere di legno, la fragranza del basilico fresco e dell'aglio le diedero grande conforto. Cucinare era terapeutico. Fuori della finestra, la città di Boston era un calderone surriscaldato di auto incolonnate e di persone irascibili, ma là dentro, sigillata dietro i vetri, la dottoressa Cordell fece rosolare con calma i pomodori nell'olio d'oliva, si versò un bicchiere di Chianti, e mise sul fuoco una pentola d'acqua per i capelli d'angelo freschi. L'aria condizionata usciva sibilando dalla ventola. Si sedette col piatto di pasta, l'insalata e il vino, accompagnata dalle note di un CD di Debussy. Nonostante la fame e la preparazione accurata della cena, tutto le sembrò insapore. Si sforzò di mangiare, ma si sentiva la gola bloccata, come avesse ingoiato qualcosa di denso e di vischioso. Nemmeno il secondo bicchiere di vino riuscì a scioglierle quel nodo alla gola. Appoggiò la forchetta e fissò la cena lasciata a metà. La musica crebbe e la sopraffece in ondate struggenti.
Allora Catherine si prese il viso tra le mani. Dapprima non emise nessun suono: il suo dolore era rimasto imbottigliato tanto a lungo che persino il tappo pareva essersi incastrato. Poi un lamento acuto, quasi simile a un sibilo, le fuoriuscì dalla gola. Trasse un sospiro, poi scoppiò in un pianto liberatorio: due anni di sofferenza si riversarono fuori nel medesimo istante. La violenza delle sue emozioni la spaventava, perché non riusciva a trattenerle, non riusciva a comprendere quanto profondo fosse quel dolore o se avesse una fine. Pianse finché la gola non le bruciò, finché i polmoni non furono scossi da spasmi, il rumore dei suoi singhiozzi intrappolato nell'appartamento a tenuta stagna. Infine, esaurite le lacrime, Catherine si sdraiò sul divano e piombò subito nel sonno profondo dello sfinimento. Si risvegliò bruscamente e si ritrovò immersa nel buio. Il polso accelerato, la camicia madida di sudore. Aveva udito un rumore? Un vetro infranto, un passo? Era quello ciò che l'aveva destata da un sonno tanto profondo? Non osò muovere nemmeno un muscolo, per paura di non sentire il rumore rivelatore di un intruso. Alcune luci illuminarono la finestra, i fari di un'auto di passaggio. Il soggiorno si rischiarò per un istante, poi ricadde nell'oscurità. Ascoltò il sibilo dell'aria condizionata, il gorgoglio del frigorifero in cucina. Nulla di strano. Nulla che le ispirasse quel senso devastante di terrore. Si mise seduta, poi si fece coraggio e accese la lampada. Gli orrori immaginari scomparvero immediatamente nel bagliore caldo della luce. Allora si alzò dal divano e controllò stanza per stanza, accendendo le luci e guardando negli armadi. A livello razionale sapeva che non potevano esserci intrusi, che la sua casa, col sofisticato sistema d'allarme, le sicure e le finestre sigillate, era protetta come non mai. Eppure non si tranquillizzò sinché il rituale non fu completato e ogni angolo buio controllato. Solo quando fu certa che nessuno avesse attentato alla sua sicurezza, il suo respirò rallentò. Erano le dieci e mezzo di mercoledì. Ho bisogno di parlare con qualcuno. Stasera non posso affrontare questa cosa da sola. Si sedette alla scrivania, accese il computer, e guardò lo schermo. Quell'ammasso di elettronica, di fili e di plastica, era la sua ancora di salvezza, la sua terapia, l'unico luogo sicuro in cui riversare il dolore. Digitò il suo nome, CCORD, aprì il browser e, con qualche clic del mouse e poche parole digitate sulla tastiera, trovò la chat denominata womanhelp.
Cinque o sei nomi familiari erano già in linea. Donne senza volto, senza nome, tutte attratte da quell'anonimo e sicuro paradiso del cyberspazio. Rimase seduta per qualche istante a guardare i messaggi scorrere lungo lo schermo del computer. Nella sua testa udiva le voci ferite di donne che non aveva mai incontrato, se non in quella stanza virtuale. LAURIE45: e poi che hai fatto? VOTIVE: gli ho detto che non ero pronta. Che avevo ancora dei flashback. Gli ho detto che, se gli interessavo davvero, avrebbe dovuto aspettare. HBREAKER: brava. WINKY98: non farti metter fretta. LAURIE45: come ha reagito? VOTIVE: ha detto che avrei dovuto semplicemente NON PENSARCI PIÙ. Come se fossi una piagnucolona o una cosa del genere. WINKY98: gli uomini dovrebbero essere violentati!!! HBREAKER: mi ci sono voluti due anni prima di sentirmi pronta. LAURIE45: a me più di uno. WTNKY98: pensano tutti soltanto al loro uccello. Tutto è incentrato su quello. Vogliono solo soddisfare il loro COSO. LAURIE45: ehi. Sei incazzata stasera, Wink. WINKY98: forse sì. A volte penso che Lorena Bobbit abbia avuto l'idea giusta. HBREAKER: Wink sta sfoderando la mannaia! VOTIVE: non credo che sia disposto ad aspettare. Credo che stia per mollarmi. WINKY98: vale la pena di aspettarti. NE VALE LA PENA! Trascorsero alcuni secondi in cui la casella dei messaggi rimase vuota. Poi: LAURIE45: ciao, CCORD. È bello riaverti tra noi. Catherine digitò sulla tastiera. CCORD: vedo che state parlando ancora di uomini. LAURIL;45: già. Com'è che non ci stanchiamo mai di quest'argomento? VOTIVE: perché sono loro che ci hanno fatto del male.
Vi fu un'altra lunga pausa. Catherine fece un respiro profondo e digitò ancora. CCORD: ho avuto una giornataccia. LAURIE45: raccontaci, CC. Cos'è accaduto? Catherine riusciva quasi a sentire le voci femminili, gentili, che le sussurravano nell'etere. CCORD: stasera ho avuto un attacco di panico. Sono qui, chiusa in casa, dove nessuno mi può toccare, eppure mi succede ancora. WINKY98: non lasciarlo vincere. Non permettere che ti faccia prigioniera. CCORD: è troppo tardi. Sono già prigioniera. Perché stasera mi sono resa conto di una cosa terribile. WINKY98: che cosa? CCORD: il male non muore mai. Non muore mai. Assume solo una nuova faccia, un nuovo nome. Solo perché ci ha toccato una volta, non significa che ne siamo immuni. Il fulmine può colpire due volte. Nessuno scrisse più nulla. Nessuno rispose. Non importa quanto siamo caute, il male sa dove viviamo, pensò Catherine. Sa come trovarci. Una goccia di sudore le scivolò lungo la schiena. E ora lo sento. Si avvicina. Nina Peyton non esce, non vede nessuno. Non va al lavoro da settimane. Oggi ho chiamato il suo ufficio di Brookline, dove lavora nel reparto commerciale, e il suo collega mi ha detto che non sa quando tornerà. E come una bestia ferita, nascosta nella sua tana, terrorizzata persino di fare un passo nella notte. Lei sa che cosa le riserva la notte, perché è stata toccata dalla sua malvagità, e persino ora la sente insinuarsi come vapore attraverso i muri della sua casa. Le tende sono chiuse, ma il tessuto è sottile, e io la vedo muoversi all'interno. La sua sagoma è appallottolata, le braccia intorno al petto, come se il suo corpo fosse ripiegato su se stesso. Si muove a scatti, con movimenti meccanici, mentre cammina avanti e indietro.
Sta controllando i lucchetti alle porte, i fermi delle finestre. Cerca di chiudere fuori l'oscurità. L'aria in quella casa dev'essere soffocante. La notte è umida come il vapore, e non vedo condizionatori. E rimasta dentro tutta la sera, le finestre bloccate nonostante la calura. Me la immagino lucida di sudore, sofferente per la lunga giornata calda e per la notte che verrà, desiderosa di fare entrare aria fresca, ma timorosa di quant'altro possa entrare con essa. Cammina ancora accanto alla finestra. Si ferma. Indugia, incorniciata dal rettangolo di luce. Improvvisamente le tende si aprono, e lei sgancia il fermo. Solleva la finestra e respira, bramosa, boccate d'aria fresca. Ha ceduto alla calura. Non c'è nulla di più eccitante, per un predatore, dell'odore di una preda ferita. Riesco quasi a sentirlo, il lezzo di una bestia sanguinante, di carne profanata. Proprio come lei respira l'aria notturna, io respiro il suo odore. La sua paura. Il mio cuore batte più forte. Infilo una mano nella borsa, per accarezzare gli strumenti. Persino l'acciaio è caldo al mio tocco. Lei chiude la finestra con un colpo violento. Poche boccate profonde d'aria fresca è tutto ciò che osa permettersi, e ora si ritira nell'infelicità della sua casa, che puzza di chiuso. Dopo qualche istante, accetto la delusione e me ne vado, lasciandola sudare per tutta la notte in quel forno di stanza. Domani, dicono, farà ancora più caldo. 5 «Il nostro uomo è un classico sadico sessuale», affermò il dottor Lawrence Zucker. «Usa, cioè, un coltello per raggiungere uno sfogo sessuale secondario o indiretto. Il sadismo sessuale implica l'atto di ferire o di tagliare, qualsiasi penetrazione ripetuta della cute con un oggetto affilato. Il coltello è un simbolo fallico... un sostituto dell'organo sessuale maschile. Invece di avere un normale rapporto sessuale, il nostro uomo ottiene piacere infliggendo alla vittima dolore, terrorizzandola. E il potere che lo eccita. Il potere assoluto sulla vita e sulla morte.» Il detective Jane Rizzoli non era facilmente impressionabile, ma il dottor Zucker le dava i brividi. Sembrava un John Malkovich pallido e goffo, dalla voce quasi femminile, simile a un sussurro. Mentre parlava, muoveva le dita con viscida eleganza; non era un poliziotto, ma uno psicologo crimina-
le della Northeastern University, nonché consulente del Boston Police Department. La Rizzoli aveva lavorato con lui già una volta, in un caso d'omicidio, e anche allora l'aveva turbata. Non era solo il suo aspetto, ma anche il modo con cui s'insinuava tanto profondamente nella mente dei criminali e l'ovvio piacere che traeva dal muoversi in quella dimensione satanica. Si godeva il viaggio. Nella sua voce, Jane riusciva a cogliere un mormorio subliminale d'eccitazione. La donna si guardò intorno nella sala conferenze, osservò gli altri quattro detective e si domandò se qualcun altro fosse rimasto impressionato da quell'individuo strambo, ma tutto ciò che vide furono espressioni stanche e occhiaie da cinque del pomeriggio di varia tonalità. Erano tutti esausti: lei stessa aveva dormito quattro ore scarse la notte precedente. Quella mattina si era svegliata prima dell'alba, e la sua mente aveva subito iniziato a funzionare a pieno ritmo mentre elaborava un caleidoscopio d'immagini e di voci. Il suo subconscio aveva assorbito tanto profondamente il caso Elena Ortiz che, nel sogno, lei e la vittima avevano intrapreso una conversazione, per quanto insensata. Non aveva avuto né rivelazioni soprannaturali né indizi dall'oltretomba, ma semplici immagini generate dall'eccitazione delle cellule cerebrali. Eppure, aveva considerato il sogno abbastanza significativo, poiché le aveva latto capire quanto tenesse a quel caso. Essere a capo di un'indagine di tale livello era come camminare su una fune senza rete di protezione. Inchiodi il criminale, e tutti applaudono. Fallisci, e tutto il mondo ti considera un incapace. Il suo era diventato un caso di primo piano. Due giorni prima si era guadagnato la prima pagina del giornale locale: «Il chirurgo incide ancora». Grazie al Boston Herald il loro uomo aveva ora un soprannome, che era stato adottato anche dai poliziotti: «il Chirurgo». Diamine, era stata pronta a imbarcarsi in un'impresa rischiosa, ad accettare la sfida per arrivare alla gloria grazie ai suoi meriti o cadere nel fango. Una settimana prima, quand'era entrata nell'appartamento di Elena Ortiz quale responsabile delle indagini, aveva intuito in un istante che quel caso avrebbe dato una svolta alla sua carriera, ed era ansiosa di mettersi alla prova. Come cambiavano rapidamente le cose... In un unico giorno, quell'incarico si era trasformato in un'indagine molto più ampia, coordinata dal tenente dell'unità, Marquette: il caso Elena Ortiz era infatti confluito in quello di Diana Sterling, e la squadra era stata ampliata di altri cinque detective: Rizzoli e il suo partner, Barry Frost, Moore
e il suo tarchiato collega, Jerry Sleeper, e Darren Crowe. Jane era l'unica donna della squadra; a dire il vero, era l'unica donna dell'intera Omicidi, e alcuni non perdevano l'occasione di ricordarglielo. Oh, andava molto d'accordo con Barry Frost, benché il suo temperamento allegro le risultasse talora molto irritante. Jerry Sleeper era troppo flemmatico per arrabbiarsi o per litigare con chicchessia. E per quanto riguardava Moore... Be', nonostante le riserve iniziali, iniziava a piacerle, e lo rispettava per la sua pacata metodicità. Fatto ancor più importante era però che sembrava rispettarla. Ogniqualvolta apriva bocca, sapeva che Moore l'ascoltava. No, era il quinto detective della squadra, Darren Crowe, quello con cui aveva problemi. Problemi seri. In quel momento sedeva davanti a lei dall'altra parte del tavolo, il solito sorrisino compiaciuto sulla faccia abbronzata. Jane era cresciuta tra i ragazzi come lui, figli di papà con tanti muscoli, tante fidanzate. E tanto amor proprio. Lei e Crowe si disprezzavano. Una pila di fogli venne fatta passare sul tavolo. La Rizzoli ne prese uno e vide che si trattava del profilo criminale appena completato dal dottor Zucker. «So che qualcuno di voi penserà che il mio lavoro è un gioco di prestigio, perciò lasciate che vi spieghi il mio ragionamento. Del nostro soggetto sappiamo quanto segue: entra nella casa della vittima attraverso una finestra aperta, tra mezzanotte e le due, e la sorprende nel suo letto. La stordisce immediatamente con cloroformio. Poi le toglie i vestiti. La lega con nastro adesivo ai polsi e alle caviglie. Poi la immobilizza ulteriormente a livello della parte superiore delle cosce e della vita. Infine le tappa la bocca. Facendo ciò, acquista un controllo assoluto. Quando la vittima, poco dopo, si risveglia, scopre di non potersi muovere, di non poter gridare. E come se fosse paralizzata, invece è sveglia e cosciente di ciò che sta per accadere. E ciò che accade è certamente il peggiore degli incubi.» La voce di Zucker era diventata monotona. Tanto più grotteschi erano i dettagli, tanto più basso si faceva il tono, e tutti erano protesi verso di lui, pendevano dalle sue labbra. «Il nostro uomo inizia a incidere. Secondo il rapporto dell'autopsia, se la prende comoda. È meticoloso: apre la parte inferiore dell'addome strato per strato. Prima la cute, poi il livello sottocutaneo, la fascia e infine il muscolo. Usa la sutura per controllare l'emorragia. Identifica e rimuove solo l'organo desiderato. Nulla di più. E ciò che vuole è l'utero.» Zucker guardò le facce intorno al tavolo, osservando le reazioni dei de-
tective. Il suo sguardo si fermò sulla Rizzoli, l'unico agente nella stanza a possedere l'organo in questione. Lei ricambiò lo sguardo, risentita per il fatto che il suo sesso avesse attirato l'attenzione del professore. «Questo che cosa ci dice di lui, detective Rizzoli?» chiese lo psicologo. «Ci dice che odia le donne», rispose Jane. «E asporta l'unica cosa che le rende tali.» Zucker annuì, e il suo sorriso la fece rabbrividire. «È ciò che Jack lo Squartatore fece a Annie Chapman. Prendendo l'utero, 'defemminilizza' la vittima, le sottrae il potere. Il nostro uomo ignora i gioielli, i soldi: vuole solo una cosa e, ottenutala, può procedere all'atto finale. Ma prima fa una pausa. L'autopsia di entrambe le vittime indica che a un certo punto si ferma. Forse passa un'ora, mentre le donne continuano a sanguinare lentamente. Nella ferita si forma una pozza di sangue. Che cosa fa in quel lasso di tempo?» «Si diverte», mormorò Moore. «Vuoi dire che si fa una sega?» chiese Darren Crowe, grossolano come al solito. «Non sono state trovate tracce di eiaculato sulle scene del delitto», sottolineò la Rizzoli. Crowe le lanciò un'occhiata strafottente. «L'assenza di e-ia-cu-la-to», ribatté, enfatizzando sarcasticamente ogni sillaba, «non esclude la possibilità che si sia masturbato.» «Non credo l'abbia fatto», disse Zucker. «Questo soggetto non rinuncerebbe a perdere tanto controllo in un ambiente poco familiare. Credo che aspetti di trovarsi in un luogo sicuro per raggiungere il piacere sessuale. Ogni cosa sulla scena del delitto è un inno al perfetto controllo. Quando procede all'atto finale, lo fa con sicurezza e autorità. Taglia la gola alla vittima con un singolo squarcio profondo. Ed esegue un ultimo rituale.» Zucker infilò una mano nella valigetta, estrasse due foto - una della stanza di Diana Sterling, l'altra della camera della Ortiz - e le appoggiò sul tavolo. «Piega meticolosamente la camicia da notte e la depone accanto al corpo. Sappiamo che tale atto viene eseguito dopo l'uccisione, perché sono stati trovati schizzi di sangue tra le pieghe interne.» «Perché lo fa?» chiese Frost. «Qual è il simbolismo di un atto simile?» «Ancora una volta il controllo», osservò la Rizzoli. Zucker annuì. «In parte è sicuramente così. Con quel rituale dimostra che ha il controllo della scena del delitto. Ma, nel contempo, il rituale controlla lui. È un impulso cui non è in grado di resistere.»
«Che accadrebbe se qualcosa gli impedisse di farlo?» chiese Frost. «Per esempio, se fosse costretto a interrompersi e non potesse completare l'opera?» «Ciò sarebbe causa di frustrazione e di rabbia. Potrebbe sentirsi costretto a mettersi immediatamente a caccia di un'altra vittima. Ma finora è sempre riuscito a terminarlo. E ogni uccisione è stata abbastanza soddisfacente da placarlo per un lungo periodo di tempo.» Zucker si guardò intorno. «È il tipo peggiore di criminale. È trascorso un anno intero dalla prima aggressione... il che è molto raro. Significa che possono passare mesi tra la caccia di una vittima e l'altra. Possiamo farci in quattro a cercarlo, mentre lui se ne resta pazientemente seduto, in attesa del prossimo assassinio. È molto cauto. E organizzato. Lascerà dietro di sé pochi indizi, se mai lo farà.» Lo psicologo lanciò un'occhiata a Moore, in cerca di conferme. «Non abbiamo impronte digitali, e nemmeno un po' di DNA», disse Thomas. «Tutto ciò che ha lasciato è un capello, ritrovato sulla ferita della Ortiz. E qualche fibra scura di poliestere sul telaio della finestra.» «Scommetto che non abbiamo nemmeno un testimone.» «Abbiamo condotto milletrecento interrogatori sul caso Sterling. Centottanta, finora, per la Ortiz. Nessuno ha visto l'intruso. Nessuno ha notato nulla di strano.» «Ma abbiamo avuto tre confessioni», disse Crowe. «Si sono presentati spontaneamente. Abbiamo annotato le loro dichiarazioni e li abbiamo spediti via.» Scoppiò a ridere. «Malati di protagonismo.» «Il nostro soggetto non è malato», asserì Zucker. «Scommetterei che ha un aspetto del tutto normale. Credo sia maschio, bianco, sui venti o trent'anni. Colto, un'intelligenza sopra la media. Quasi certamente ha fatto le superiori, forse anche il college, ma potrebbe aver conseguito anche diplomi più prestigiosi. Le due scene del delitto distano quasi due chilometri, e gli omicidi sono stati commessi in orari in cui i mezzi pubblici sono quasi inesistenti. Perciò guida una macchina, che sarà pulita e ben tenuta. Probabilmente non ha nessun precedente psichiatrico, ma potrebbe averne per furto o atti di voyeurismo, commessi in gioventù. Se ha un impiego, si tratta certamente di un lavoro che richiede intelligenza e precisione. Sappiamo che è un pianificatore: lo dimostra il fatto che porta con sé il suo kit: bisturi, filo per sutura, nastro, cloroformio. Più un contenitore di qualche genere per il souvenir. Potrebbe trattarsi anche di un semplice sacchetto sigillabile. Lavora in un campo che richiede attenzione per i dettagli. Dal momento che ha chiare conoscenze di anatomia, e un'esperienza chirurgica, potrem-
mo trovarci di fronte a un professionista del settore medico.» Rizzoli incrociò lo sguardo di Moore. Entrambi avevano avuto lo stesso pensiero: c'erano più medici pro capite nella città di Boston che in ogni altra città del mondo. «Data la sua intelligenza», continuò Zucker, «sa che sorvegliamo la scena dei delitti, perciò resiste alla tentazione di tornare. Ma quel desiderio è sempre in agguato, perciò vaie la pena di sorvegliare la residenza della Ortiz, almeno per il futuro prossimo. È anche abbastanza scaltro da evitare di scegliere la vittima nelle sue immediate vicinanze. E ciò che chiamiamo un 'pendolare' piuttosto che un 'predone': caccia fuori del suo territorio. Finché non avremo altri punti su cui lavorare, non posso elaborare nessun profilo geografico. Non posso stabilire su quali aree della città dovreste concentrarvi.» «Di quanti punti geografici ha bisogno?» chiese la Rizzoli. «Di almeno cinque.» «Significa che abbiamo bisogno di cinque omicidi?» «Tanti ne richiede il programma Criminal Geographic Targeting per risultare attendibile. Con quattro punti geografici il programma può, talora, fornire una previsione sulla residenza dell'assassino, ma non con precisione. Dovremmo conoscere meglio i suoi movimenti. Quale sia il suo raggio d'azione, dove siano i suoi punti d'appoggio... Ogni killer opera all'interno di una zona che gli è congeniale: è come un animale carnivoro, ha il suo territorio, le sue riserve, dove trovare le prede.» Zucker guardò le facce indifferenti dei detective. «Non sappiamo ancora abbastanza sul soggetto per fare previsioni, perciò dobbiamo concentrare l'attenzione sulle vittime. Chi erano e perché ha scelto proprio loro.» Lo psicologo frugò nuovamente nella valigetta e ne estrasse due cartellette, una con l'etichetta STERLING, l'altra con l'etichetta ORTIZ. Da queste prese una decina di foto e le sparpagliò sul tavolo: immagini delle due donne vive, alcune risalenti addirittura all'infanzia. «Queste foto non le avete viste. Ho chiesto ai familiari di fornirmele, tanto per conoscere un po' la storia della loro vita. Guardate i loro volti: cercate di capire chi fossero. Perché il killer ha scelto loro? Dove le ha viste? Che cos'ha attirato la sua attenzione? Una risata? Un sorriso? Il modo con cui camminavano per strada?» Prese a leggere da un foglio dattiloscritto. «Diana Sterling, trent'anni. Capelli biondi, occhi azzurri. Altezza: un metro e settantatré centimetri. Peso: cinquantasei chili. Occupazione: impiegata in un'agenzia di viaggio. Luogo di lavoro: Newbury Street. Residenza: Marlborough Street
a Back Bay. Diplomata allo Smith College. Entrambi i genitori sono avvocati e vivono in una villa da due milioni di dollari nel Connecticut. Fidanzati: nessuno al momento della morte.» Appoggiò il foglio e ne prese un altro. «Elena Ortiz, ventidue anni. Ispanica. Capelli neri, occhi castani. Altezza: un metro e cinquantotto centimetri. Peso: quarantacinque chili. Occupazione: impiegata nel negozio di fiori di famiglia nel South End. Residenza: un appartamento nel South End. Istruzione: diploma di scuola superiore. Ha vissuto tutta la vita a Boston. Fidanzati: nessuno al momento della morte.» Il medico sollevò lo sguardo. «Due donne che vivevano nella stessa città, ma si muovevano in mondi diversi. Facevano la spesa in supermercati diversi, mangiavano in ristoranti diversi, e non avevano amici in comune. Come le ha trovate il nostro uomo? Dove le cerca? Non sono soltanto differenti, ma anche vittime anomale delle violenze sessuali. Gran parte degli stupratori aggredisce i membri vulnerabili della società: le prostitute o le autostoppiste. Come qualsiasi predatore, essi aggrediscono l'animale che è al margine del branco. Perché allora scegliere queste due donne? Io non lo so.» La Rizzoli osservò le foto sul tavolo, e un'immagine di Diana Sterling catturò la sua attenzione. Mostrava una giovane dall'espressione raggiante, in toga e cappello, nel giorno del diploma allo Smith College. La classica ragazza di successo. Come ci si sente a essere così? si domandò Jane. Non ne aveva idea. Era cresciuta quale sorella disprezzata di due fratelli incredibilmente belli, il piccolo maschiaccio disperato che voleva solo far parte della banda. Sicuramente, Diana Sterling, con quegli zigomi aristocratici e il collo da cigno, non sapeva che cosa significasse essere trascurata, esclusa. Non sapeva come ci si sentisse a essere ignorati. Lo sguardo della Rizzoli si soffermò sul pendente d'oro al collo di Diana. Prese in mano la foto e la guardò più attentamente. Il polso accelerato, la donna si guardò intorno per vedere se gli altri poliziotti si erano accorti di ciò che aveva appena notato, ma erano tutti concentrati sul dottor Zucker. L'uomo aveva aperto una cartina di Boston. Sovrapposte al reticolo di strade urbane vi erano due aree tratteggiate: una comprendeva Back Bay, l'altra circoscriveva il South End. «Questi sono i raggi di attività noti delle due vittime. I quartieri in cui vivevano e lavoravano. Tutti tendiamo a condurre la vita quotidiana in zone familiari. Esiste un detto tra i compilatori di profili geografici: 'Dove
andiamo dipende da ciò che conosciamo, e ciò che conosciamo dipende da dove andiamo'. Ciò vale sia per le vittime sia per l'assassino. Da questa cartina potete vedere gli universi distinti in cui vivevano le due donne: non ci sono né sovrapposizioni, né punti comuni in cui la loro vita possa essersi intersecata. Questo è ciò che più mi lascia perplesso. E la chiave dell'indagine. Qual è il legame tra la Sterling e la Ortiz?» Jane tornò a guardare la foto. Il pendente d'oro al collo di Diana. Potrei sbagliarmi. Non posso dire nulla finché non ne sarò certa... Potrebbe rivelarsi un buco nell'acqua e Darren Crowe mi prenderebbe in giro, come sempre. «Lei è al corrente che c'è un altro sviluppo nel caso?» chiese Moore. «La dottoressa Catherine Cordell.» Zucker annuì. «La vittima sopravvissuta di Savannah.» «Alcuni dettagli sugli omicidi di Andrew Capra non furono mai rivelati al pubblico: l'uso di sutura catgut, la piegatura della camicia da notte delle vittime. Eppure il nostro uomo li sta ripetendo.» «I killer talora comunicano. Formano una specie di confraternita deviata.» «Capra è morto da due anni. Non può comunicare con nessuno.» «Mentre era vivo, tuttavia, potrebbe aver condiviso quei macabri dettagli col nostro soggetto. Questo è ciò che spero, poiché l'alternativa è ancora più inquietante.» «Che il nostro uomo abbia avuto accesso ai rapporti della polizia di Savannah», disse Moore. «Vale a dire che è uno del ramo». mormorò lo psicologo. La stanza piombò nel silenzio. La Rizzoli non poté fare a meno di guardare i colleghi... a uno a uno. Pensò al tipo di uomo che è attirato dal lavoro del poliziotto: una persona che ama il potere e l'autorità, la pistola e il distintivo. La possibilità di controllare gli altri. Proprio ciò cui anela il nostro omicida. Al termine della riunione, Jane attese che gli altri detective lasciassero la sala, poi si avvicinò a Zucker. «Posso tenere questa foto?» gli chiese. «Posso sapere perché?» «Ho un sospetto.» Lo psicologo le fece uno dei suoi sorrisi alla John Malkovich. «Lo può condividere con me?»
«Non condivido i miei sospetti.» «Porta sfortuna?» «Difendo il mio territorio.» «Questa è una squadra investigativa.» «Strana cosa il lavoro di squadra. Ogni volta che condivido le mie intuizioni, qualcun altro si prende il merito.» Con la foto in mano uscì dalla stanza e immediatamente si pentì di aver fatto quell'ultima battuta. Ma era tutto il giorno che i colleghi la infastidivano coi loro commenti e coi piccoli affronti che, sommati, denotavano tutto il loro disprezzo nei suoi confronti. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato l'interrogatorio degli inquilini dell'appartamento accanto a quello della Ortiz, che aveva effettuato insieme a Darren Crowe. Questi l'aveva ripetutamente interrotta per porre le sue domande. Quando la Rizzoli lo aveva trascinato fuori della stanza e lo aveva rimproverato per il suo comportamento, lui aveva risposto col classico insulto maschile: «Scommetto che sei in quei giorni del mese». No, aveva intenzione di tenere i sospetti per sé. Se si fossero rivelati errati, nessuno si sarebbe preso gioco di lei. In caso contrario, avrebbe potuto reclamarne tutto il merito. Tornò alla sua scrivania e si sedette per studiare meglio la foto del diploma di Diana Sterling. Mentre allungava la mano per prendere la lente d'ingrandimento, il suo sguardo cadde improvvisamente sulla bottiglia d'acqua minerale che teneva sempre sul tavolo, e sentì la rabbia salirle su per la gola quando vide ciò che conteneva. Non reagire, pensò. Non far vedere che te la prendi. Ignorandone il contenuto disgustoso, Jane puntò la lente sul collo di Diana. La stanza sembrava insolitamente silenziosa. Riusciva persino a sentire lo sguardo di Darren Crowe fisso su di lei, in attesa che esplodesse. Non accadrà, stronzo. Questa volta manterrò la calma. Si concentrò sul girocollo della Sterling. Aveva quasi trascurato quel dettaglio, poiché il viso aveva inizialmente catturato la sua attenzione: quei lineamenti magnifici, l'arco delicato delle sopracciglia... Esaminò i due pendenti appesi alla catenina. Uno aveva la forma di un lucchetto, l'altro era una chiave minuscola. La chiave del mio cuore, pensò la Rizzoli. Frugò tra i fascicoli sulla scrivania e trovò le foto della scena del delitto di Elena Ortiz. Con la lente, ingrandì il torace della vittima. Attraverso lo strato di sangue rappreso sul collo, riusciva a intravedere appena la linea della catenina d'oro; i due pendenti erano nascosti.
La donna prese il telefono e compose il numero dell'ufficio del patologo. «Il dottor Tierney starà fuori tutto il pomeriggio», le comunicò la segretaria. «Posso aiutarla?» «Riguarda l'autopsia che ha fatto venerdì scorso. Elena Ortiz.» «Sì?» «La vittima indossava una catenina d'oro quand'è stata portata all'obitorio. L'avete ancora?» «Mi faccia controllare.» La Rizzoli attese, picchiettando la matita sulla scrivania. La bottiglia d'acqua era proprio là di fronte, ma lei continuò ostinatamente a ignorarla. La rabbia era stata spazzata via dall'eccitazione, dall'euforia della caccia. «Detective Rizzoli?» «Sono ancora qui.» «Gli effetti personali sono stati reclamati dalla famiglia. Un paio di orecchini d'oro, una catenina, e un anello.» «Chi ha firmato al ritiro?» «Anna Garcia, la sorella della vittima.» «Grazie.» Jane riagganciò e guardò l'orologio. Anna Garcia viveva a Danvers, e ciò significava un viaggio nel traffico dell'ora di punta... «Sai dov'è Frost?» le chiese Moore. La donna trasalì, sollevò lo sguardo e vide il detective accanto alla scrivania. «No, non lo so.» «Non è qui in giro?» «Non lo tengo mica al guinzaglio.» Moore non replicò. «Che roba è?» chiese poi. «Sono le foto della scena del delitto Ortiz.» «No, quell'affare nella bottiglia.» Jane lo guardò e corrugò la fronte. «Che dovrebbe essere? Un fottuto assorbente. Qualcuno qui dentro ha un senso dell'umorismo davvero squisito.» La Rizzoli lanciò un'occhiata di fuoco a Darren Crowe, che soppresse una risatina e si voltò dall'altra parte. «Me ne occuperò io», disse Moore e prese la bottiglia. «Ehi. Ehi!» sbottò la donna. «Dannazione, Moore. Lascia perdere!» Il detective andò dritto nell'ufficio di Marquette. Attraverso il vetro Jane vide Moore appoggiare la bottiglia sulla scrivania del tenente. Questi si voltò e guardò in direzione della Rizzoli. Ci risiamo. Ora staranno dicendo che la puttana non sa stare allo scherzo. Jane afferrò la sua borsa, radunò le foto, e usci dall'ufficio. Era
già davanti agli ascensori quando Moore la chiamò: «Rizzoli?» «Non combattere le mie fottute battaglie, d'accordo?» sbottò la donna. «Non stavi combattendo. Te ne stavi seduta là con quella... cosa sulla scrivania.» «Con un assorbente. Non sei capace neppure di pronunciarla, quella parola?» «Perché sei tanto infuriata con me? Sto cercando di difenderti.» «Ascolta, san Tommaso, è così che funziona per le donne nel mondo reale. Inoltro una lamentela, e sarò quella che ci rimette. Sulla mia scheda apparirebbe la nota: Non sa giocare coi maschi. Se mi lagno ancora, la mia reputazione sarà segnata. Rizzoli la frignona. Rizzoli la femminuccia.» «Li lascerai vincere se non ti lamenterai.» «Ho tentato di agire a modo tuo. Non funziona. Perciò non farmi nessun altro favore, va bene?» La donna si mise la tracolla della borsa sulla spalla ed entrò in ascensore. Nell'istante in cui le porte si chiusero, la Rizzoli si pentì di quelle parole. Moore non si meritava un simile trattamento: era sempre stato cortese, si era sempre comportato da gentiluomo e lei, nella sua rabbia, gli aveva spiattellato in faccia il soprannome che gli aveva dato l'unità, «san Tommaso». Il poliziotto che non oltrepassava mai il limite, che non bestemmiava mai, che non perdeva mai la calma. E poi vi erano le tristi circostanze della sua vita privata. Due anni prima la moglie, Mary, era entrata in coma per un'emorragia cerebrale. Per sei mesi era rimasta in stato d'incoscienza, ma, fino al giorno della sua morte, Moore si era rifiutato di abbandonare la speranza che guarisse. Persino ora, a un anno e mezzo dalla sua scomparsa, il detective non sembrava accettarla: portava ancora la fede e aveva ancora la foto della moglie sulla scrivania. La Rizzoli aveva visto disintegrarsi troppi matrimoni di poliziotti, e aveva osservato la serie di foto in costante mutamento sulle scrivanie dei colleghi. Sul tavolo di Thomas permaneva invece l'immagine di Mary, il volto sorridente. San Tommaso? La Rizzoli scosse cinicamente la testa. Se mai vi sono santi nel mondo, non sono di certo poliziotti. Uno voleva che vivesse, l'altra voleva che morisse, ed entrambi affermavano di amarlo di più dell'altro. Il figlio e la figlia di Herman Gwadowski erano al capezzale del padre, uno per lato, e nessuno dei due era disposto a cedere.
«Non sei stato tu quello che ha dovuto prendersi cura di papà. Io cucinavo per lui. Io gli pulivo la casa. Io lo portavo tutti i mesi dal medico. Tu invece quando mai sei venuto a trovarlo? Avevi sempre cose più interessanti da fare», sbottò Marilyn. «Io vivo a Los Angeles, per l'amor del cielo. Ho un'attività», ribatté Ivan. «Avresti potuto venire una volta all'anno. Ti costava tanto?» «Be', ora sono qui.» «Oh, bene. Il Signor Pezzo Grosso si precipita a sistemare tutto. Non potevi degnarti di fargli visita prima. Ma ora vuoi che sia fatto tutto il possibile.» «Non riesco a credere che tu voglia lasciarlo morire.» «Non voglio che soffra ancora.» «O forse desideri soltanto che smetta di prosciugare il suo conto in banca.» Ogni muscolo del volto di Marilyn si contrasse. «Sei un bastardo.» Catherine ne aveva avuto abbastanza ed era intervenuta: «Non è questo il luogo per discuterne. Per favore, potete uscire dalla stanza?» Per un momento, fratello e sorella si guardarono in un silenzio ostile, come se, per ognuno, il semplice atto di lasciare per primo la stanza costituisse un'ammissione di resa. Poi Ivan uscì a grandi passi, minaccioso ed elegante nel suo bel vestito. La sorella, Marilyn, personificazione dell'esausta casalinga di periferia, strinse la mano del padre e seguì il fratello. Nel corridoio, Catherine spiegò loro, senza mezzi termini, come stavano le cose. «Vostro padre è in coma dal giorno dell'incidente. I suoi reni stanno collassando. Erano già danneggiati a causa del diabete e il trauma ha peggiorato le cose.» «Quanto di tutto ciò è dovuto all'operazione? All'anestetico che gli ha somministrato?» chiese Ivan. La Cordell soppresse un accesso d'ira e rispose con freddezza: «Era incosciente quand'è stato portato qui. L'anestesia non è stata un fattore rilevante, ma il danno tissutale affatica i reni, che ora stanno cedendo. Inoltre, gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata, già diffuso alle ossa. Anche se si risveglia, questi problemi rimarranno». «Lei vuole che ci arrendiamo, non è vero?» chiese Ivan. «Desidero solo che rivalutiate la sua situazione. Se il cuore si fermasse, potremmo non rianimarlo e permettere che se ne vada in pace.»
«Vuole dire lasciarlo semplicemente morire?» «Sì.» Ivan sbuffò. «Lasci che le dica qualcosa su mio padre. Non è uno che si dà per vinto. E nemmeno io.» «Per l'amor del cielo, Ivan, qui non si tratta di vincere o di perdere!» esclamò Marilyn. «Si tratta di decidere quando rassegnarsi.» «E tu sei molto rapida a farlo, eh?» ribatté Ivan, voltandosi verso di lei. «Al primo segno di difficoltà, la piccola Marilyn si arrende e se la svigna. Be', lui non me l'ha mai permesso.» Gli occhi di Marilyn si riempirono di lacrime. «Non è per papà, non è vero? E per te, che devi sempre vincere.» «No, si tratta di dargli la possibilità di lottare.» Ivan guardò Catherine. «Voglio che sia fatto di tutto per mio padre. Spero che ciò sia chiaro.» La sorella si asciugò le lacrime mentre guardava il fratello allontanarsi. «Come fa a dire di volergli bene, quando non è mai venuto a trovarlo?» singhiozzò, rivolta alla Cordell. «Non voglio che rianimiate mio padre. Può scriverlo nella cartella?» Quello era il dilemma etico più temuto da ogni medico. Sebbene Catherine fosse dalla parte di Marilyn, le ultime parole del fratello contenevano una chiara minaccia. «Non posso cambiare le disposizioni finché lei e suo fratello non avrete trovato un accordo.» «Non acconsentirà mai. L'ha sentito.» «Allora dovrà parlare ancora un po' con lui. Convincerlo.» «Lei ha paura di esser denunciata, vero? E per questo che non cambia le disposizioni.» «Suo fratello è infuriato.» Marilyn annuì tristemente. «È così che vince. È così che vince sempre.» So ricucire un corpo, ma non una famiglia a brandelli, pensò Catherine. Il dolore e l'ostilità di quell'incontro risuonavano ancora nella sua mente quando, mezz'ora più tardi, uscì dall'ospedale. Era venerdì pomeriggio e aveva il weekend libero, eppure, mentre usciva dal garage del centro medico, non provò nessun senso di liberazione. Quel giorno faceva ancor più caldo, quasi trentadue gradi, e lei non vedeva l'ora di rifugiarsi nella frescura del suo appartamento, con un tè freddo e il televisore sintonizzato su Discovery Channel. Era in attesa del verde al primo semaforo quando il suo sguardo si posò sul nome della strada intersecante. Worcester.
Era la via in cui era vissuta Elena Ortiz. L'indirizzo della vittima era stato menzionato nell'articolo del Boston Globe, che alla fine Catherine era stata obbligata a leggere. Il semaforo divenne verde. D'impulso, svoltò in Worcester Street. Non aveva mai avuto ragione di percorrere quella strada, ma qualcosa adesso la spingeva a farlo. Il bisogno morboso di vedere dove aveva colpito il killer, dove il suo incubo era diventato realtà per un'altra donna. Aveva le mani sudate e sentì il polso accelerare mentre guardava i numeri civici degli edifici. Giunta all'indirizzo di Elena Ortiz accostò al marciapiede. L'edificio non aveva nulla di particolare, nulla che le comunicasse terrore e morte. Catherine vedeva solo un caseggiato di mattoni a tre piani. Scese dalla macchina e fissò le finestre dei piani superiori. Qual era la casa di Elena? Quella con le tende a righe? O quella con la giungla di piante pensili? Si avvicinò all'entrata e guardò i nomi degli inquilini. C'erano sei appartamenti; la targhetta del 2A era senza nome. Elena era già stata cancellata, eliminata dal mondo dei vivi. Nulla doveva ricordar loro la morte. Secondo il Globe, il killer era entrato dalla scala antincendio. Risalendo il marciapiede per un tratto, la dottoressa notò la struttura d'acciaio che si estendeva lungo il fianco dell'edificio. Fece alcuni passi nel vicolo malinconico, poi, all'improvviso, s'arrestò. Avvertendo qualcosa, si girò, ma vide solo un camion che passava e una donna che faceva jogging. Una coppia salì su una macchina. Nulla di minaccioso, eppure non poté ignorare le grida silenziose di panico. Tornò all'auto, chiuse la sicura delle portiere e rimase seduta con le mani strette sul volante, ripetendo: «Va tutto bene. Va tutto bene». Mentre l'aria fredda fuoriusciva dalla ventola, sentì il polso rallentare gradualmente. Infine, con un sospiro, si appoggiò allo schienale. Voltò la faccia, ancora una volta verso l'edificio di Elena Ortiz. Mentre si girava, le cadde l'occhio su una macchina parcheggiata nella via, sulla targa fissata al paraurti posteriore. POSEY5. Catherine frugò all'istante nella borsa, in cerca del biglietto da visita del detective Moore. Con mani tremanti, compose il numero sul telefono dell'auto. L'agente rispose con un risoluto: «Detective Moore». «Sono Catherine Cordell», disse la donna. «È venuto da me alcuni giorni fa.»
«Sì, dottoressa Cordell...» «Elena Ortiz guidava un'Honda verde?» «Mi scusi?» «Ho bisogno di sapere il suo numero di targa.» «Terno di non capire...» «Me lo dica e basta!» Il suo tono brusco lo lasciò sbigottito. Per un attimo nessuno dei due parlò. «Mi lasci controllare», borbottò infine il detective. In sottofondo, Catherine udiva voci maschili e squilli di telefono. Moore tornò in linea. «È una targa personalizzata», disse. «Credo si riferisca all'attività della famiglia.» «POSEY5», sussurrò la donna. Un attimo di silenzio. «Si», mormorò, con voce stranamente pacata e attenta. «Quando abbiamo parlato, l'altro giorno, mi ha chiesto se conoscessi la Ortiz.» «E lei mi ha detto di no.» Catherine emise un respiro tremolante. «Mi sbagliavo.» 6 Stava camminando avanti e indietro nel pronto soccorso, il viso pallido e teso, la chioma color rame tutta scarmigliata. Osservò Moore entrare in sala d'attesa. «Avevo ragione?» gli chiese. Lui annuì. «POSEY5 era il suo nickname su Internet. Abbiamo controllato il suo computer. Ora mi dica come faceva a saperlo.» La dottoressa osservò l'andirivieni del pronto soccorso e disse: «Andiamo in quella saletta». La stanza in cui lo condusse era piccola e buia, senza finestre. Un letto, una sedia, una scrivania. Per un medico esausto il cui unico scopo è dormire, era perfetta. Ma quando la porta si chiuse, Moore si rese conto di quanto fosse angusta, e si domandò se, come lui, non si sentisse a disagio per quella forzata intimità. Entrambi cercarono con lo sguardo un posto dove sedersi. Alla fine la donna si sistemò sul letto e il detective scelse la sedia. «Non ho mai incontrato fisicamente Elena», disse Catherine. «Non sapevo nemmeno che quello fosse il suo nome. Frequentavamo la stessa chatroom. Lei sa che cos'è una chatroom?»
«È un modo per conversare in tempo reale al computer.» «Sì. Un gruppo di persone in linea nello stesso momento possono incontrarsi su Internet. La nostra è una chatroom privata, solo per donne. Bisogna conoscere una password per entrarvi. E tutto ciò che si vede sullo schermo sono nickname. Niente nomi veri, niente facce, in modo che tutte possiamo rimanere anonime. Ci fa sentire abbastanza sicure da condividere i nostri segreti.» La Cordell tacque per un istante. «Non ne ha mai frequentata una?» «Penso non mi si addicano le chiacchierate con estranei senza volto.» «A volte», mormorò Catherine, «un estraneo senza volto è l'unica persona con cui si riesce a parlare.» Thomas colse tutto il dolore di quell'affermazione e non riuscì a rispondere nulla. Dopo un attimo, la donna trasse un respiro profondo e si fissò le mani, che teneva incrociate in grembo. «Ci incontriamo una volta a settimana, il giovedì sera alle nove. Per entrare mi collego alla rete, clicco l'icona chatroom, poi digito PTSD e womanhelp. E sono dentro. Comunico con le altre donne scrivendo messaggi e spedendoli tramite Internet. Le nostre parole appaiono sullo schermo, dove tutte possiamo vederle.» «PTSD? Immagino che stia per...» «Disturbo post-traumatico da stress. Un bel termine clinico per indicare ciò di cui le donne della chat soffrono.» «Di che trauma stiamo parlando?» La Cordell sollevò la testa e lo guardò dritto negli occhi. «Dello stupro.» La parola sembrò rimanere sospesa tra loro per un istante, l'aria pregna della sua vibrazione. Due sillabe brutali con l'impatto di un colpo fisico. «E lei vi partecipa a causa di Andrew Capra», sussurrò Moore. «Per quello che le ha fatto.» Catherine distolse lentamente lo sguardo. «Sì», ammise. Ancora una volta si stava guardando le mani. Moore la osservò, e la sua rabbia per ciò che le era accaduto, per ciò che Capra le aveva sottratto dall'anima aumentò. Si chiese come fosse stata prima dell'aggressione. Più calda, più amichevole? Oppure era sempre stata tanto riluttante al contatto umano, come un germoglio incastonato nel ghiaccio? La dottoressa si raddrizzò e riprese a parlare. «Dunque, è lì che ho incontrato Elena Ortiz. Non conoscevo il suo vero nome, come le ho già detto. Usava il nickname.» «Quante donne ci sono in quella chatroom?»
«Il numero varia di settimana in settimana. Alcune si sono ritirate. A volte appaiono nuovi nomi. Ogni sera possiamo essere da tre a dieci.» «Come ha saputo della sua esistenza?» «Da un opuscolo per le vittime degli stupri. Viene distribuito nei consultori e negli ospedali della città.» «Perciò le donne della chatroom sono tutte dell'area di Boston?» «Sì.» «E POSEY5 era una visitatrice regolare?» «È comparsa di tanto in tanto negli ultimi due mesi. Non parlava molto, ma vedevo il suo nome sullo schermo e sapevo che c'era.» «Ha mai raccontato del suo stupro?» «No. Ascoltava soltanto. Noi la salutavamo. E lei ricambiava. Ma non ha mai parlato di se stessa. È come se avesse paura di farlo. O forse si vergognava di dire qualcosa.» «Perciò lei non sa se è stata effettivamente violentata.» «E invece lo so.» «Come?» «Perché Elena Ortiz è stata visitata in questo pronto soccorso.» Moore la fissò. «Ha trovato la sua cartella?» La donna annuì. «Mi è venuto in mente che potesse aver avuto bisogno di cure mediche dopo l'aggressione. Questo è l'ospedale più vicino a casa sua. Ho controllato il computer della clinica, che contiene il nome di tutti i pazienti visitati in pronto soccorso. E ho trovato anche il suo. Le mostro il verbale.» Catherine si alzò e Thomas la seguì fuori della stanza, fino al pronto soccorso. Era venerdì sera e le vittime giungevano numerose. L'esaltato del weekend, barcollante per la sbronza, con un sacchetto del ghiaccio appoggiato alla faccia gonfia. Il teenager impaziente che aveva perso la sua gara col semaforo giallo. L'esercito del venerdì sera entrava ammaccato e sanguinante dalla porta del pronto soccorso. Quello del Pilgrim Medical Center era uno dei più affollati di Boston, e a Moore pareva di camminare nel cuore del caos mentre si districava tra infermiere e barelle, e scavalcava una pozza di sangue fresco. Catherine lo condusse nell'archivio, uno spazio minuscolo con scaffali a muro, contenenti raccoglitori ad anelli. «Qui conserviamo temporaneamente i moduli d'accettazione», gli spiegò la donna. Prese il raccoglitore con l'etichetta 7-14 MAGGIO. «Ogni volta che una persona viene visitata in pronto soccorso si compila un modulo
nuovo. Solitamente è lungo una pagina, e contiene il parere del medico e i trattamenti effettuati.» «Non esiste una cartella per ogni paziente?» «Se si tratta di una singola visita, non se ne preparano. L'unico documento è il modulo d'accettazione. Questi vengono poi inviati all'archivio generale dell'ospedale, dove vengono scannerizzati e immagazzinati su disco.» Catherine aprì il raccoglitore. «Ecco qui.» Moore era dietro di lei, e guardò oltre le spalle della donna. Il profumo dei suoi capelli lo distrasse per un istante e dovette sforzarsi per ritrovare l'attenzione. La visita era datata 9 maggio, ore 13.00. In alto si leggevano il nome, l'indirizzo e le informazioni sulla paziente; il resto del modulo era scritto a mano. Stenografia medica, pensò Thomas, e cercò di decifrare le parole. Riuscì a leggere solo il primo paragrafo, scritto dall'infermiera: Ventiduenne, ispanica, aggredita sessualmente due ore fa. Nessuna allergia, non assume farmaci. Pressione 105/70, polso 100, temperatura 37,5. Il resto della pagina era indecifrabile. «Dovrà tradurmela», disse il detective. Lei si girò e i loro volti si ritrovarono improvvisamente tanto vicini che Moore trattenne il fiato. «Non riesce a leggere?» domandò la donna. «Leggo le tracce di pneumatico e le macchie di sangue. Ma questo no.» «È la scrittura stenografata di Ken Kimball. Riconosco la sua firma.» «Pensavo non fosse nemmeno inglese.» «Per un medico è perfettamente leggibile. Bisogna solo conoscere il codice.» «Ve lo insegnano alla facoltà di medicina?» «Insieme alla stretta di mano segreta e all'anello per decodificare le istruzioni.» Era strano scambiarsi battute su un argomento tanto serio, e persino più strano udire parole scherzose dalle labbra della Cordell. Moore intravide per la prima volta la donna che stava dentro il guscio, la stessa che era stata prima del danno inflittole da Andrew Capra. «Il primo paragrafo è l'esame fisico», gli spiegò Catherine. «Il medico usa la stenografia. TOONG significa testa, orecchie, occhi, naso, gola. Aveva un livido sulla guancia sinistra. I polmoni erano liberi, il cuore non presentava né murmure né galoppo.» «Ossia?» «Era normale.»
«Un medico non potrebbe semplicemente scrivere: 'Il cuore è normale'?» «Perché i poliziotti dicono 'veicolo' al posto di 'auto'?» Moore annuì. «Ho capito.» «L'addome era piatto, molle, e senza organomegalia. In altre parole...» «Normale.» «Sta andando bene. Poi il medico descrive... l'esame pelvico. Dove le cose non sono normali.» Rimase un istante in silenzio. Fece un respiro profondo, come per trovare il coraggio necessario a proseguire. «C'era sangue nell'ingresso. Graffi e lividi su entrambe le cosce. Una lacerazione vaginale a ore quattro, a indicare che l'atto non era consensuale. A questo punto il dottor Kimball scrive di aver interrotto l'esame.» Moore si focalizzò sul paragrafo finale. Quello riusciva a leggerlo, poiché non era scritto in caratteri stenografici. La paziente è diventata nervosa. Ha rifiutato la raccolta di materiale organico coi kit e ha respinto la possibilità di collaborare per ogni ulteriore intervento. Dopo il test dell'HIV e delle malattie veneree, si è vestita e se n'è andata prima che potessero essere chiamate le autorità. «Perciò lo stupro non è mai stato denunciato», affermò il detective. «Non c'è nessun tampone vaginale. Niente DNA.» Catherine rimase in silenzio. Il capo chino, le mani strette sul raccoglitore. «Dottoressa Cordell?» mormorò Thomas, e le toccò una spalla. La donna trasalì, come se l'avesse ustionata, e lui ritrasse immediatamente la mano. Catherine sollevò lo sguardo e il detective vide la rabbia nei suoi occhi. Emanava una ferocia che la rendeva, in quel momento, uguale a lui. «Stuprata in maggio, macellata in luglio», esclamò la donna. «È un mondo magnifico per le donne, non crede?» «Abbiamo parlato con tutti i membri della famiglia. Nessuno ci ha riferito di uno stupro.» «Allora non gliel'ha detto.» Quante donne tacciono? si domandò Moore. Quante hanno segreti tanto dolorosi da non riuscire a condividerli con le persone che amano? Guardando Catherine, pensò che anche lei aveva cercato conforto negli estranei. La Cordell tolse il foglio dal raccoglitore affinché Moore potesse fotocopiarlo. Quando lui lo afferrò, lo sguardo gli cadde sul nome del medico, e un altro pensiero lo sfiorò. «Che cosa sa dirmi del dottor Kimball, quello che ha esaminato Elena Ortiz?» «E un ottimo medico.»
«Solitamente fa il turno di notte?» «Sì.» «Sa se era di servizio la notte di giovedì scorso?» Le occorse un momento per cogliere il significato di quella domanda, e quando vi riuscì, Moore vide che l'implicazione la turbava. «Non penserà davvero che...» «E una domanda di routine. Verifichiamo tutti i contatti della vittima.» Ma la domanda non era di routine, e lei lo sapeva. «Andrew Capra era un medico», mormorò Catherine con tono calmo. «Non penserà che un collega...» «Stiamo contemplando anche questa possibilità.» «A Savannah, quando tutte quelle donne furono assassinate, io supponevo di non conoscere il killer. Credevo che, se mai l'avessi incontrato, l'avrei saputo, lo avrei intuito. Andrew Capra mi ha insegnato quanto mi sbagliavo.» «La banalità del male.» «È esattamente quello che ho imparato. Che il male può essere tanto ordinario. Che un uomo, che vedevo e salutavo tutti i giorni, potesse sorridermi... e pensare ai diversi modi in cui poteva uccidermi.» Era il tramonto quando Moore tornò all'auto, ma l'asfalto emanava ancora il calore della giornata. Sarebbe stata un'altra notte afosa. In tutta la città le donne avrebbero dormito con la finestra aperta per lasciar entrare la brezza notturna. Si fermò e si voltò verso l'ospedale. Vedeva la scritta rossa luminosa del pronto soccorso che lampeggiava come un faro. Un simbolo di speranza e di guarigione. È quello il tuo terreno di caccia? Il luogo in cui le donne si recano per essere curate? Un'ambulanza giunse sul piazzale, le luci splendenti nella sera. Moore pensò a tutte le persone che entravano in un pronto soccorso nell'arco di una giornata. Barellieri, medici, inservienti, uomini delle pulizie. E poliziotti. Era una possibilità che non voleva considerare, ma che non poteva assolutamente escludere. La tutela della legge esercita un fascino strano su chi va a caccia di altri esseri umani. La pistola, il distintivo sono simboli esaltanti di dominio. E quale forma di controllo è più grande del potere di torturare o di uccidere? Per un cacciatore simile, il mondo è una pianura vasta, brulicante di prede. Tutto ciò che deve fare è scegliere.
C'erano bambini ovunque. La Rizzoli era in piedi in una cucina che odorava di latte inacidito e di borotalco, in attesa che Anna Garcia finisse di pulire il succo di mela sul pavimento. Un bambino era attaccato alla gamba di Anna, un secondo stava estraendo coperchi da una credenza per poi picchiarli l'uno contro l'altro, come fossero piatti. Un terzo, più piccolo, era nel seggiolone, e sorrideva attraverso una maschera di crema di spinaci. E sul pavimento, un quarto, con una brutta crosta lattea, gattonava a caccia di oggetti pericolosi da mettersi in bocca. A Jane non piacevano i bambini, e il fatto di esserne circondata la rendeva nervosa; si sentiva come Indiana Jones nella fossa dei serpenti. «Non sono tutti miei», si affrettò a spiegarle Anna mentre zoppicava verso il lavandino, il bambino sempre attaccato a lei come una palla al piede. Strizzò la spugna sporca e si sciacquò le mani. «Solo questo è mio», disse, indicando il piccolo avvinghiato alla gamba. «Quello con le pentole e quello sul seggiolone sono di mia sorella Lupe. E quello che se ne va in giro è di mia cugina. Finché sono a casa col mio, ho pensato che potevo badare anche a qualche altro marmocchio.» Già, cosa vuoi che sia un altro colpo in testa? pensò la detective. Ma la cosa divertente era che la donna non sembrava affatto scontenta. Pareva non accorgersi nemmeno della palla umana o del frastuono delle pentole che cadevano sul pavimento. In una situazione che a Jane avrebbe causato un esaurimento nervoso, Anna aveva lo sguardo sereno di una donna che si trova esattamente dove desidera essere. La Rizzoli si domandò se Elena Ortiz sarebbe diventata come la sorella, se non fosse morta. Una madre nella sua cucina, che pulisce allegramente succo e bava di quattro marmocchi. Anna somigliava molto alle foto della sorella più giovane, era solo un po' più grassottella. E quando si voltò verso la detective, la luce della cucina direttamente sulla fronte, Jane ebbe la raggelante sensazione di guardare lo stesso volto che l'aveva fissata, assente, dal tavolo settorio. «Con tutti questi ometti intorno, impiego anni a fare le cose più semplici», disse Anna. Sollevò il bambino attaccato alla gamba e, con un'abile mossa, lo appoggiò su un fianco. «Ora, torniamo a noi. È venuta per la collana. Vado a prendere il portagioie.» La donna uscì dalla cucina e la Rizzoli visse un momento di panico, sola con tre bambini. Una manina appiccicosa le si posò alla caviglia e, abbassando lo sguardo, la donna vide il figlio della cugina di Anna masticarle i risvolti dei pantaloni. Se lo scrollò di dosso e si portò a distanza di sicurezza da quella bocca sdentata e ap-
piccicosa. «Eccolo», esclamò Anna tornando con la scatola, che appoggiò subito sulla tavola di cucina. «Non volevamo lasciarla nell'appartamento, non con tutti quegli estranei che andavano e venivano per pulire. Perciò i miei fratelli hanno pensato che dovessi tenerla io finché la famiglia non avesse deciso cosa farne.» La donna sollevò il coperchio, e una melodia iniziò a suonare. Somewhere My Love. Anna sembrò momentaneamente scossa dalla musica. Rimase seduta immobile e le si riempirono gli occhi di lacrime. «Signora Garcia?» Anna deglutì. «Mi spiace. Mio marito deve averlo caricato. Non mi aspettavo di sentire...» La melodia rallentò, emise le ultime brevi note e si fermò. In silenzio, Anna osservò il portagioie, la testa china per il dolore. Con riluttanza, aprì uno degli scomparti di velluto e ne estrasse una catenina. Rizzoli sentì i battiti del cuore accelerare mentre gliela prendeva dalle mani. Era come ricordava di averla vista intorno al collo di Elena all'obitorio, un lucchetto e una chiave minuscoli appesi a una catenina d'oro. Voltò il lucchetto e vide l'incisione DICIOTTO CARATI, sul retro. «Dove l'ha presa sua sorella?» «Non lo so.» «Sa da quanto tempo l'aveva?» «Dev'essere nuova. Non l'ho mai vista prima del giorno...» «Quale giorno?» Anna deglutì con forza, poi rispose a voce bassa: «... del giorno in cui l'ho ritirata dall'obitorio, insieme agli altri oggetti». «Indossava anche orecchini e un anello. Quelli li aveva già visti prima?» «Sì. Li aveva da molto tempo.» «Ma non la catenina.» «Perché continua a chiedermelo? Che cosa c'entra con...» Anna s'interruppe, lo sguardo velato d'orrore. «Oddio. Pensa che gliel'abbia messa lui?» Il bambino nel seggiolone percepì che qualcosa non andava ed emise un lamento. Anna appoggiò il figlio sul pavimento e si affrettò a prendere in braccio il piccolo, ormai in lacrime. Lo abbracciò stretto e voltò le spalle alla catenina, come per proteggerlo dalla vista di quel talismano malvagio. «Per favore, la tenga», sussurrò. «Non la voglio in casa mia.» La Rizzoli la infilò in un sacchetto per reperti. «Le farò una ricevuta.»
«No, la prenda e basta! Non m'interessa.» Rizzoli scrisse ugualmente la ricevuta e la mise sul tavolo della cucina, accanto al piatto di crema di spinaci. «Devo farle ancora una domanda», mormorò. Anna continuò a passeggiare in cucina, cullando il bambino agitato. «Per favore, controlli il portagioie di sua sorella. Mi dica se manca qualcosa.» «Me l'ha chiesto la settimana scorsa. Non manca nulla.» «Non è facile identificare l'assenza di qualcosa. Al contrario, si tende a focalizzare l'attenzione su ciò che non c'entra. Vorrei che controllasse ancora. Per favore.» Anna deglutì per l'ennesima volta. Riluttante, si sedette con in braccio il bambino e fissò la scatola. Tolse gli oggetti a uno a uno e li appoggiò sul tavolo. Era un piccolo e triste assortimento di bigiotteria. Brillanti artificiali, perle di cristallo e perle finte. Elena amava le cose vistose. Anna prese l'ultimo oggetto, un anello dell'amicizia color turchese, e l'appoggiò sul tavolo. D'un tratto si accigliò. «Il braccialetto», mormorò. «Quale braccialetto?» «Dovrebbe esserci anche un braccialetto, con dei ciondoli. Cavalli. Lo portava sempre alle superiori. Elena andava pazza per i cavalli...» Alzò lo sguardo, un'espressione sbalordita sul volto. «Non valeva niente! Era di latta. Perché l'avrebbe preso?» La Rizzoli guardò il sacchetto con la catenina... una catenina che, adesso ne era certa, era appartenuta a Diana Sterling. So esattamente dove troveremo il braccialetto di Elena: al polso della prossima vittima, pensò la poliziotta. Jane, in piedi sul portico di Moore, agitò trionfante il sacchetto con la collana. «Apparteneva a Diana Sterling. Ho appena parlato coi genitori. Non si erano accorti che mancava finché non li ho chiamati.» Moore prese il sacchetto, ma non lo aprì. Si limitò a esaminare la catenina aggrovigliata attraverso la plastica. «È il legame fisico tra i due casi», disse la Rizzoli. «Il nostro uomo prende un souvenir da una vittima e lo lascia su quella successiva.» «Non riesco a credere che abbiamo trascurato quel dettaglio.» «Ehi, non l'abbiamo trascurato.»
«Intendi dire che tu non l'hai trascurato.» Moore le lanciò un'occhiata che la fece sentire tre metri più alta. Non era il tipo che ti batteva una mano sulla spalla o ti elogiava ad alta voce; effettivamente non ricordava di averlo mai sentito alzare il tono, né per rabbia né per felicità. Ma quando la guardò in quel modo, un sopracciglio sollevato in segno di approvazione e un sorriso abbozzato sulle labbra, Jane sentì che non poteva desiderare un elogio migliore. Arrossendo di piacere, la donna infilò la mano nel sacchetto del cibo da asporto che aveva appena comprato. «Ti va di cenare? Mi sono fermata in quel ristorante cinese in fondo alla strada.» «Non avresti dovuto.» «Oh, sì. Immagino di doverti le mie scuse.» «Per cosa?» «Per oggi pomeriggio. Quella stupida questione dell'assorbente. Mi stavi solo difendendo, stavi cercando di fare il buono. Ma io l'ho presa nel modo sbagliato.» Vi fu un momento d'imbarazzato silenzio. Erano l'uno di fronte all'altra, incerti su cosa dire; due persone che non si conoscevano bene e che stavano tentando di superare l'inizio burrascoso del loro rapporto. Poi Moore sorrise, e il suo volto solitamente serio si trasformò in quello di un uomo molto più giovane. «Sto morendo di fame. Vieni, dai.» Con una risata, la Rizzoli entrò in casa. Era la prima volta che vi metteva piede, e si fermò a guardarsi intorno. Il tocco femminile era percepibile ovunque: le tende di chintz, gli acquerelli floreali alle pareti. Non era certo ciò che si aspettava. Diavolo, era ancora più femminile del suo appartamento. «Andiamo in cucina. I documenti, li tengo là», spiegò Moore. Il detective la condusse attraverso il salotto, e Jane vide il pianoforte. «Sai suonare?» gli domandò. «No, è di Mary. Io non ho orecchio.» È di Mary. Presente indicativo. Soltanto allora si accorse che la ragione per la quale la casa aveva quell'aspetto era la presenza ancora viva della moglie, una dimora che aspettava, inalterata, che la sua padrona tornasse. Una foto di Mary era incorniciata sul pianoforte, una donna abbronzata dagli occhi sorridenti e dai capelli arruffati dal vento. Mary, le cui tende di chintz erano ancora appese nella casa in cui non sarebbe mai più tornata. In cucina, la Rizzoli appoggiò il sacchetto del ristorante sul tavolo, accanto a una pigna di fascicoli. Moore frugò tra le cartellette e trovò quella
che cercava. «Il modulo d'accettazione del pronto soccorso di Elena Ortiz», disse, porgendoglielo. «L'ha scovato la Cordell?» Thomas fece un sorriso ironico. «Sembra proprio che io sia circondato da donne più competenti di me.» Jane aprì la cartelletta e vide una fotocopia di un foglio recante la calligrafia da gallina di un medico. «Hai una traduzione di questa roba?» «Più o meno c'è scritto quello che ti ho detto al telefono. Stupro non denunciato. Nessun campione di sperma, niente DNA. Persino la famiglia di Elena non sapeva nulla.» La Rizzoli chiuse la cartelletta e osservò il disordine di carte sul tavolo. «Gesù, Moore. Sembra la mia scrivania. Non c'è posto per mangiare.» «Sta invadendo anche la tua vita, vero?» chiese, spostando i documenti per fare un po' di spazio. «Quale vita? Questo caso è tutta la mia vita. Dormire. Mangiare. Lavorare. E se sono fortunata, alla sera, guardo per un'oretta il mio vecchio amico Dave Letterman.» «Niente fidanzati?» «Fidanzati?» Jane sbuffò mentre toglieva i cartoni di cibo e appoggiava tovaglioli e bacchette sul tavolo. «Oh, già. Come se facessero la fila.» Soltanto dopo aver pronunciato la frase si rese conto di quanto sapesse di autocommiserazione... non era certo quello che intendeva. Perciò aggiunse rapidamente: «Non mi lamento. Se devo lavorare il week-end, posso farlo senza che nessuno frigni. Non vado d'accordo coi piagnoni». «Non mi sorprende, dato che sei l'esatto opposto. Come mi hai chiaramente dimostrato oggi.» «Sì. Sì. Credevo di essermi scusata.» Moore prese due birre dal frigorifero, poi si sedette dall'altra parte del tavolo. Lei non l'aveva mai visto così, le maniche della camicia arrotolate, l'aria rilassata. Gli piaceva. Non l'inaccessibile «san Tommaso», ma una persona con cui chiacchierare, con cui ridere apertamente. Una persona che, col suo fascino, se soltanto avesse voluto, avrebbe potuto far impazzire qualsiasi donna. «Sai, non devi sempre essere più dura degli altri», disse. «E invece sì.» «Perché?» «Perché gli altri non pensano che io lo sia.»
«Chi non lo pensa?» «I tipi come Crowe. O come il tenente Marquette.» Thomas alzò le spalle. «Ci saranno sempre tipi del genere.» «Com'è che io capito sempre a lavorare con persone così?» Jane aprì una birra e ne bevve un lungo sorso. «È per questo che sei stato il primo cui ho detto della catenina. Tu non ti accaparrerai il merito.» «Sarà un giorno triste quando si comincerà a reclamare il merito per una cosa o per l'altra.» La donna prese le bacchette e le affondò nel pollo kung pao. Era molto più che piccante, proprio come piaceva a lei. La Rizzoli non era una femminuccia, nemmeno quando si trattava di peperoncino. «Nel primo caso davvero importante cui ho lavorato, nella Buoncostume e Narcotici, ero l'unica donna in una squadra con cinque uomini. Quando lo abbiamo risolto, c'è stata quella conferenza stampa. Le telecamere, e tutto il resto. E indovina un po'? Hanno menzionato tutti i nomi tranne il mio. Ogni dannato nome...» Jane bevve un altro sorso di birra. «Faccio in modo che ciò non accada di nuovo. Voi uomini potete concentrare tutte le energie sul caso e sulle prove. Ma io spreco un sacco di forze soltanto per farmi sentire.» «Io ti sento bene, Rizzoli.» «È un piacevole cambiamento.» «Che mi dici di Frost? Hai problemi con lui?» «Frost è simpatico. Sua moglie lo ha educato bene.» Entrambi scoppiarono a ridere. Chiunque avesse ascoltato le remissive conversazioni telefoniche con la moglie - «Sì, cara...» «No, cara...» - non avrebbe avuto dubbi su chi portava i pantaloni in casa Frost. «È per questo che non arriverà molto in alto», aggiunse. «Non è arso dall'ambizione. È un uomo di famiglia.» «Non c'è niente di male nell'essere un uomo di famiglia. Io vorrei esser stato un marito migliore.» La Rizzoli sollevò lo sguardo dal cartone di manzo alla mongola e vide che non stava guardando lei, ma stava fissando la catenina. Aveva udito una nota di dolore nella sua voce, e non sapeva che cosa rispondergli. Perciò decise che era meglio tacere. Si sentì sollevata quando Moore riportò la conversazione sulle indagini. Nel loro mondo, l'omicidio era sempre un argomento sicuro. «Qui c'è qualcosa che non va», borbottò il detective. «Questa collana non ha nessun senso per me.»
«Sta prendendo dei souvenir. È una pratica abbastanza comune.» «Ma a cosa serve prendere un souvenir se poi lo dai via?» «Alcuni killer sottraggono gioielli alle vittime e li regalano alle loro mogli o fidanzate. Provano un brivido segreto nel vederli al collo della propria donna, e a essere gli unici a sapere da dove provengono.» «Ma il nostro uomo sta facendo qualcosa di diverso. Lui lascia il souvenir sulla scena del delitto successivo. Non lo rivede più. Non cerca il brivido che gli ricordi il suo assassinio. Non c'è nessun beneficio emotivo, a quanto pare.» «Un simbolo di possesso? Come un cane che marca il territorio. Soltanto che lui usa un gioiello per marcare la prossima vittima.» «No. Non si tratta di questo.» Moore prese il sacchetto con la collana e lo soppesò nel palmo, cercando d'indovinarne la funzione. «La cosa importante è che abbiamo compreso quello che fa», disse la Rizzoli. «Sappiamo esattamente che cosa aspettarci sulla prossima scena del delitto.» Lui la guardò. «Hai appena risposto alla domanda.» «In che senso?» «Non sta marcando la vittima, ma la scena del crimine.» D'un tratto Jane comprese. «Gesù...» «Non si tratta di un souvenir. E non è per stabilire il suo possesso.» Thomas appoggiò la catenina, una filigrana d'oro ingarbugliata che aveva sfiorato la carne di due donne morte. La Rizzoli sentì un brivido correrle lungo la schiena. «È un biglietto da visita», mormorò a bassa voce. Moore annuì. «Il Chirurgo sta comunicando con noi.» Un luogo di venti forti e di maree pericolose. Sono le parole che usa Edith Hamilton, nel suo libro Mythology, per descrivere il porto greco di Aulide. Li sorgono le rovine dell'antico tempio di Artemide, la dea della caccia. Proprio ad Aulide si riunirono le mille navi nere greche per sferrare l'attacco alla città di Troia. Ma il vento del nord soffiava, e le navi non poterono salpare. Trascorsero i giorni, però il vento era incessante e l'esercito greco, sotto il comando di re Agamennone, divenne furioso e irrequieto. Un veggente rivelò la ragione del vento nefasto: la dea Artemide era arrabbiata perché Agamennone aveva ucciso una delle sue amate creature, una lepre selvatica. Non avrebbe permesso ai greci di partire a meno che il re non le avesse offerto un terribile sacrifi-
cio: la figlia, Ifigenia. Allora Agamennone mandò a prendere Ifigenia, affermando che aveva organizzato un grande matrimonio con Achille, ha ragazza non sapeva che in realtà stava andando alla morte. Quei feroci venti settentrionali non soffiavano il giorno in cui tu e io camminammo sulla spiaggia vicino ad Aulide. Tutto era calmo, l'acqua era vetro verde, e la sabbia era incandescente come cenere bianca sotto i nostri piedi. Oh, come invidiavamo i ragazzi greci che correvano a piedi nudi sulla spiaggia infuocata! Benché il sole bruciasse la nostra pallida pelle da turisti, quel fastidio ci piaceva, poiché desideravamo essere come quei ragazzi, le piante dei piedi come cuoio duro. I calli si formano soltanto col dolore e l'usura. Alla sera, quando il clima si fece più fresco, andammo al tempio di Artemide. Camminammo tra le ombre lunghe, e raggiungemmo l'altare su cui venne sacrificata Ifigenia. Nonostante le sue preghiere, le sue suppliche di «Padre, risparmiami!» i guerrieri portarono la ragazza sull'altare. Venne stesa sulla pietra, il collo bianco esposto alla lama. Euripide scrive che i soldati di Atreo, e tutto l'esercito, fissarono il terreno, non volendo guardare lo spargimento di quel sangue verginale. Erano riluttanti ad assistere a quell'orrore. Ah, ma io avrei guardato1. E anche tu l'avresti fatto. Con avidità. Immaginai le truppe silenziose assembrate nell'oscurità. Immaginai il rullo dei tamburi, non le vibrazioni vivaci di una celebrazione nuziale, bensì una marcia solenne verso la morte. Vidi la processione, che si snodava fin nella tomba, ha ragazza, bianca come un cigno, fiancheggiata da soldati e da sacerdoti. Il suono dei tamburi cessa. Ifigenia viene portata, urlante, all'altare. Nella mia visione è lo stesso Agamennone che impugna il coltello: perché mai si chiamerebbe sacrificio se non sei tu che infliggi la morte? Lo vedo avvicinarsi all'altare, dove giace la figlia, la tenera carne esposta a tutti gli occhi dei presenti. Supplica per la sua vita, invano. Il sacerdote le afferra i capelli e li tira all'indietro, esponendole la gola. Sotto la pelle bianca pulsa l'arteria, che segna il punto in cui colpirà il pugnale. Agamennone è in piedi accanto a Ifigenia, lo sguardo fisso sul volto che ama. Nelle vene della ragazza scorre il suo sangue. Negli occhi di lei vede i suoi. Tagliare la sua gola significa lacerare la propria carne. Il re solleva il coltello. I soldati tacciono, statue tra il boschetto sacro. Il
polso nel collo della ragazza batte irregolare. Artemide chiede un sacrificio, e Agamennone deve ubbidire. Appoggia la lama sul collo della figlia e l'affonda nella carne. Fuoriesce una fontana rossa, che gli schizza in faccia come pioggia bollente. Ifigenia è ancora viva, i suoi occhi si rovesciano per il terrore mentre il sangue l'abbandona. Il corpo umano ne contiene cinque litri, e occorre tempo perché un tale volume fuoriesca da una singola arteria recisa. Finché il cuore continua a battere, il sangue esce. Per almeno qualche secondo, forse persino per un minuto o più, il cervello non cessa di funzionare e le membra si agitano. Mentre il cuore le concede gli ultimi battiti, Ifigenia vede il cielo oscurarsi, e sente il calore del sangue che le sgorga sul volto. Gli antichi affermano che il vento del nord cessò immediatamente: Artemide era appagata, finalmente la flotta greca salpò, gli eserciti combatterono, e Troia cadde. In quel contesto, l'uccisione di una giovane vergine non significa nulla. Ma quando penso alla guerra di Troia, ciò che mi viene in mente non è né il cavallo di legno né il clangore di spade né le mille navi nere con le vele spiegate. No, io penso al corpo di una ragazza, esanime, il padre accanto a lei, in mano il coltello insanguinato. Il nobile Agamennone, con le lacrime agli occhi. 7 «Si muove», esclamò l'infermiera. Catherine, la bocca asciutta per l'orrore, fissava l'uomo steso sul tavolo. Una sbarra di ferro lunga trenta centimetri gli fuoriusciva, perpendicolare, dal torace. Uno studente di medicina era già svenuto a quella vista, e le tre infermiere avevano la bocca semiaperta. La sbarra era penetrata in profondità e si muoveva su e giù al ritmo della respirazione. «Pressione?» chiese Catherine. Il suono della sua voce sembrò destare tutti dal torpore. Il bracciale della pressione si gonfiò e si sgonfiò rapidamente. «Settanta su quaranta. Polso centocinquanta!» «Aprite completamente le flebo!» «Presto, il vassoio della toracotomia...» «Qualcuno chiami subito il dottor Falco. Avrò bisogno d'aiuto.» Cathe-
rine s'infilò un camice sterile e un paio di guanti, le mani già umide di sudore. Il fatto che la sbarra si muovesse indicava che la punta era penetrata in un punto vicino al cuore... o, addirittura, nel cuore. La cosa peggiore che potesse fare era estrarla, poiché avrebbe aperto un buco, attraverso il quale il paziente si sarebbe dissanguato in pochi minuti. Il personale dell'ambulanza aveva preso la decisione giusta: aveva avviato una flebo e portato la vittima intubata al pronto soccorso con la sbarra di ferro ancora infilzata. Il resto sarebbe stato compito del medico. Stava per prendere il bisturi quando la porta si aprì all'improvviso. Catherine sollevò lo sguardo e trasse un sospiro di sollievo vedendo entrare Peter Falco. Il medico si fermò, lo sguardo sul torace del paziente, sulla sbarra piantata come un paletto nel cuore di un vampiro. «Be', è una cosa che non si vede tutti i giorni», commentò. «La pressione sta precipitando!» gridò un'infermiera. «Non c'è tempo per un bypass. Io entro», affermò Catherine. «Sono subito da te.» Peter si voltò e, con tono quasi casuale, chiese: «Posso avere un camice, per favore?» Catherine eseguì rapida un'incisione anterolaterale, che le permetteva un'esposizione migliore degli organi vitali nella cavità toracica. Si sentiva più rilassata ora che Peter era con lei. Il modo con cui entrava in una stanza e comprendeva la situazione al primo sguardo, il fatto che non alzava mai la voce in sala operatoria, che non mostrava mai un accenno di panico. Aveva cinque anni d'esperienza più di lei in campo traumatologico, ed era in casi estremi come quello che dimostrava tutta la sua bravura. Si posizionò dall'altra parte del tavolo, gli occhi azzurri concentrati sull'incisione. «Bene bene. Inizia il divertimento?» «Una vagonata di risate.» Si mise subito al lavoro, e le sue mani si mossero di concerto con quelle di Catherine per divaricare il torace con forza quasi brutale. Lui e la Cordell avevano operato insieme tante di quelle volte che entrambi sapevano automaticamente ciò di cui l'altro aveva bisogno, e potevano prevederne le mosse. «Mi ragguagliate?» chiese Peter. Fuoriuscì uno schizzo di sangue e, con calma, il medico applicò una pinza emostatica alla sede dell'emorragia. «Muratore. Ha inciampato, è caduto dall'impalcatura e si è infilzato.» «Una cosa del genere ti rovina la giornata. Divaricatore di Burford, per favore.» «Burford.»
«Come stiamo a sangue?» «Aspettiamo lo 0 negativo», rispose un'infermiera. «Il dottor Murata è in servizio?» «La sua squadra per il bypass sta arrivando.» «Quindi dobbiamo guadagnare un po' di tempo... Battito cardiaco?» «Tachicardia sinusale, centocinquanta. Qualche extrasistole ventricolare...» «La sistolica si è abbassata a cinquanta!» Catherine lanciò un'occhiata a Peter: «Non possiamo attendere il bypass». «Allora vediamo che possiamo fare.» Vi fu un improvviso silenzio mentre il medico esaminava la cavità toracica. «Oddio! Il ferro è infilzato nell'atrio», esclamò Catherine. La punta della sbarra aveva perforato la parete cardiaca e a ogni battito fuoriusciva sangue intorno alla zona della lesione. Una pozza profonda si era già raccolta nella cavità toracica. «Se la togliamo, avremo un geyser», disse Peter. «Sta già sanguinando tutt'intorno.» «La sistolica è quasi impercettibile!» «Va bene», mormorò il dottor Falco. La voce tranquilla, nessun segno di paura o di panico. «Puoi scovarmi un catetere di Foley con un palloncino da trenta cc?» chiese a un'infermiera. «Uh, dottor Falco? Ha detto un Foley?» «Sì. Un catetere urinario.» «E abbiamo bisogno di una siringa con dieci cc di salina», aggiunse Catherine. «State pronti a iniettare.» Lei e Peter non ebbero bisogno di spiegarsi, entrambi capirono quale fosse il piano. A Falco fu portato il catetere richiesto, un tubo destinato a essere inserito nella vescica per il drenaggio dell'urina. Avevano intenzione di utilizzarlo per uno scopo diverso da quello originario. Peter guardò Catherine. «Sei pronta?» «Procediamo.» Il cuore della Cordell iniziò a battere forte mentre guardava Peter afferrare il pezzo di ferro. Lo osservò mentre lo estraeva delicatamente dalla parete cardiaca. Quando uscì, il sangue schizzò dalla sede della lesione. Immediatamente Catherine infilò la punta del catetere nel foro. «Gonfiate il palloncino!» ordinò Peter.
L'infermiera premette lo stantuffo della siringa e iniettò i dieci cc di salina nel pallone all'estremità del Foley. Peter tirò indietro il catetere, pigiando il palloncino contro l'interno della parete atriale. Il flusso di sangue si ridusse a un lieve gocciolio. «Segni vitali?» chiese Catherine. «La sistolica è ancora a cinquanta. Lo 0 negativo è arrivato. Lo stiamo appendendo in questo istante.» Il polso ancora accelerato, Catherine guardò Peter e questi le fece l'occhiolino attraverso gli occhiali protettivi. «Non è stato divertente?» chiese. Allungò una mano per prendere la pinza con l'ago cardiaco. «Vuoi avere tu l'onore?» «Ci puoi scommettere.» Falco le passò il porta-aghi. Catherine avrebbe unito i margini della lesione, ed estratto il catetere prima di chiudere interamente il foro. A ogni punto profondo che praticava sentiva su di sé l'approvazione di Peter, e la certezza di aver avuto successo la fece arrossire. Il paziente sarebbe sopravvissuto. «Bel modo d'iniziare la giornata, vero?» mormorò Peter. «Aprire toraci.» «È un compleanno che non dimenticherò mai.» «La mia offerta per stasera è ancora valida. Che ne dici?» «Sono reperibile.» «Farò in modo che Ames copra il tuo turno. Forza. Andiamo a cena e poi a ballare.» «Credevo che l'offerta fosse un giro sull'aereo.» «Quello che vuoi. Diavolo, ci prepareremo dei sandwich con burro d'arachidi. Lo porto io.» «Ho sempre saputo che non badavi a spese!» «Catherine, parlo seriamente.» Udendo il cambio di tono, la dottoressa alzò gli occhi e i loro sguardi s'incrociarono. Improvvisamente notò che la stanza era piombata nel silenzio e tutti stavano ascoltando, in attesa di sapere se l'irraggiungibile dottoressa Cordell avrebbe infine ceduto al fascino del dottor Falco. Catherine praticò un altro punto mentre pensava quanto stimasse Peter come collega, e quanto rispetto avessero l'uno nei confronti dell'altra. Non voleva che tutto ciò cambiasse. Non voleva mettere a rischio la loro preziosa relazione con un infausto passo verso un legame più intimo. Ma quanto le mancavano i tempi in cui usciva a divertirsi! Quando una serata fuori era qualcosa cui anelare, non da temere.
La stanza era ancora silenziosa. In attesa. Finalmente Catherine lo guardò. «Passami a prendere alle otto.» Catherine si versò un bicchiere di merlot e lo sorseggiò accanto alla finestra, mentre guardava il viavai serale. Udiva le risate e vedeva la gente passeggiare sulla Commonwealth Avenue. L'elegante Newbury Street era soltanto a un isolato di distanza, e i venerdì sera d'estate il quartiere di Back Bay attraeva i turisti come una calamita. Catherine aveva scelto di vivere a Back Bay soltanto per una ragione: la confortava sapere che c'erano altre persone intorno, anche se estranee. Il suono della musica e delle risate significava che non era sola, che non era isolata. E invece lo era, dietro le finestre sigillate, a bere, solitaria, un bicchiere di vino, mentre cercava di convincersi che era pronta a ricongiungersi col mondo esterno. Un mondo che Andrew Capra mi ha rubato. Premette la mano sulla finestra, le dita piegate contro il vetro, come per frantumare le pareti di quella sua arida prigione. Sprezzante, scolò il contenuto del bicchiere. Non rimarrò una vittima, pensò. Non voglio lasciarlo vincere. Andò in camera da letto ed esaminò i vestiti nel guardaroba. Ne prese uno di seta verde e se lo infilò. Da quanto tempo non indossava quell'abito? Non riusciva a ricordarlo. Dall'altra stanza giunse un allegro annuncio dal computer: «C'è posta per te!» La Cordell ignorò il messaggio e andò in bagno a truccarsi. Una pittura di guerra, rifletté mentre si metteva il mascara e il rossetto. Una maschera di coraggio, per aiutarsi ad affrontare il mondo. A ogni pennellata acquisiva più sicurezza. Quando ebbe terminato, nello specchio vide una donna che quasi non riconosceva, una donna che non vedeva da due anni. «Bentornata», mormorò con un sorriso sulle labbra. Spense la luce del bagno e andò in salotto, per riacquistare dimestichezza col tormento dei tacchi alti. Peter era in ritardo; erano quasi le otto e un quarto. Ricordò il «C'è posta per te!» che aveva udito dal bagno e andò al computer per cliccare sull'icona della posta elettronica. C'era un messaggio da un mittente di nome SavvyDoc, con l'oggetto: «Verbale di laboratorio». Catherine aprì l'e-mail. Dottoressa Cordell, allego alcune fotografie che la interesseranno.
Il messaggio non era firmato. Spostò la freccina del mouse sull'icona degli allegati, poi esitò, il dito appoggiato sul tasto. Non conosceva il mittente, SavvyDoc, e normalmente non avrebbe scaricato un file di uno sconosciuto, ma quel messaggio era chiaramente legato al suo lavoro, ed era indirizzato a lei. Cliccò sull'icona. Una foto a colori si materializzò sullo schermo. Con un gemito, Catherine balzò dalla sedia, come se si fosse scottata, e questa cadde rumorosamente sul pavimento. La donna indietreggiò, la mano premuta sulla bocca. Poi corse a telefonare. Thomas Moore era sulla soglia, lo sguardo fisso sul suo viso. «La foto è ancora sullo schermo?» «Non l'ho toccata.» Catherine si fece da parte e lui entrò, l'aria professionale, da poliziotto. La sua attenzione si focalizzò subito sull'uomo in piedi accanto al computer. «Il dottor Peter Falco. Il mio collega del pronto soccorso.» «Dottor Falco», disse Moore, stringendogli la mano. «Catherine e io avevamo deciso di uscire a cena stasera, ma sono stato trattenuto in ospedale. Sono arrivato poco prima di lei, e...» S'interruppe e guardò Catherine. «Immagino che i nostri progetti salteranno, vero?» La donna rispose con un debole cenno del capo. Moore si sedette al computer. Lo screensaver si era attivato e un coloratissimo pesce tropicale nuotava avanti e indietro sul monitor. Toccò il mouse. La foto apparve sullo schermo. Catherine si girò immediatamente e andò alla finestra, dove rimase con le braccia strette intorno a sé, nel tentativo di scacciare dalla mente l'immagine che aveva appena visto. Udì Moore digitare sulla tastiera dietro di lei, poi lo sentì fare una telefonata: «Vi ho appena inviato il file. L'avete ricevuto?» Il buio sotto la finestra era divenuto stranamente silenzioso. È già così tardi? si domandò. Guardando la strada deserta, non riusciva a credere che appena un'ora prima lei fosse in procinto di uscire e di riunirsi col mondo. Ora desiderava soltanto chiudere le porte e nascondersi. «Chi diavolo ti manderebbe cose del genere? È da malati», disse Peter.
«Preferirei non parlarne», rispose la Cordell. «Ne hai ricevute altre?» «No.» «Allora perché è coinvolta la polizia?» «Per favore basta, Peter. Non ho voglia di discuterne!» Vi fu una pausa. «Vuoi dire che non vuoi parlarne con me», concluse lui. «Non ora. Non stasera.» «Ma lo farai con la polizia?» «Dottor Falco, ora sarebbe meglio che ci lasciasse», intervenne Moore. «Catherine? Che cosa vuoi che faccia?» Dal tono di voce, la donna capì che era rimasto ferito, ma non si voltò a guardarlo. «È meglio che tu vada. Per favore.» Peter non rispose. Soltanto quando la porta si chiuse, Catherine capì che era uscito. Trascorsero lunghi istanti di silenzio. «Non gli ha mai detto di Savannah?» le chiese Moore. «No. Non ne ho mai avuto il coraggio.» Lo stupro è un argomento troppo intimo, troppo disonorevole per essere discusso. Persino con qualcuno che ti ha a cuore. «Chi è la donna della foto?» «Speravo me lo dicesse lei.» Catherine scosse il capo. «Non so nemmeno chi me l'abbia mandata.» La sedia scricchiolò quando Moore si alzò. La donna sentì la sua mano sulla spalla, il calore penetrare la seta verde. Non si era cambiata ed era ancora in ghingheri per la cena. L'idea di uscire ora le appariva penosa. Che cosa credeva? Di poter tornare alla vita come tutti gli altri? Di poter essere nuovamente integra? «Catherine...» mormorò Thomas. «Deve parlarmi di questa foto.» Le sue dita si strinsero sulla spalla della donna, e lei s'accorse improvvisamente che l'aveva chiamata per nome. Moore era abbastanza vicino perché lei sentisse il suo respiro sui capelli, ma non si sentì minacciata: il tocco di qualsiasi altro uomo le sarebbe parso un'invasione, ma la presenza di Moore era confortante. La Cordell annuì. «Ci proverò.» Il detective avvicinò un'altra sedia ed entrambi sedettero davanti al computer. Catherine si sforzò di concentrarsi sulla foto. La donna aveva i capelli ricci, stesi come tanti cavaturaccioli sul cusci-
no. Le labbra erano sigillate sotto un pezzo di nastro adesivo argenteo, ma gli occhi erano spalancati e consapevoli, le retine rosso sangue per il riflesso del flash. La fotografia la mostrava dalla vita in su. Era legata al letto, ed era nuda. «La riconosce?» le chiese Moore. «No.» «C'è qualcosa che le è familiare? La stanza, i mobili?» «No. Ma...» «Cosa?» «Ha scattato foto anche a me», sussurrò. «Andrew Capra mi ha fatto delle foto. Legata al letto...» Deglutì, l'aria umiliata, come se il suo corpo fosse esposto intimamente allo sguardo di Moore. Si ritrovò a intrecciare le braccia sul petto, come volesse proteggersi il seno da ulteriori violazioni. «Questo file è stato inviato alle diciannove e cinquantacinque. E il mittente, SavvyDoc... le dice qualcosa?» «No.» La Cordell si concentrò ancora sulla donna, che la fissava con le pupille rosse. «È sveglia. Sa che cosa le sta per fare. Devi essere cosciente, altrimenti non si diverte...» Sebbene stesse parlando di Andrew Capra, aveva usato il presente, come se il suo carnefice fosse ancora vivo. «Come fa a conoscere il suo indirizzo di posta elettronica?» «Non so nemmeno chi sia.» «L'ha mandata a lei, Catherine. Sa che cosa le è accaduto a Savannah. Non c'è nessuno che potrebbe avergliela spedita?» Soltanto una persona, pensò la donna. Ma è morta. Andrew Capra è morto. Il cellulare di Moore squillò. Catherine trasalì. «Gesù», esclamò, il cuore martellante, e si appoggiò stancamente allo schienale della sedia. Thomas rispose subito. «Sì, sono con lei...» Moore ascoltò per un momento e improvvisamente guardò la Cordell. Quell'occhiata la allarmò. «Cos'è successo?» «È la Rizzoli. Dice che ha rintracciato la fonte dell'e-mail.» «Chi l'ha mandata?» «È stata lei.» Era come se le avesse dato uno schiaffo in faccia. Catherine scosse la testa, troppo scioccata per rispondere. «Il nome SavvyDoc è stato creato stasera, usando il suo account di AOL», mormorò. «Ma io ne tengo due separati. Uno è per uso personale...»
«E l'altro?» «Per lo staff dello studio, da usare durante...» La donna s'interruppe. «Lo studio. Ha usato il computer nel mio studio.» Moore si portò il cellulare all'orecchio. «Hai sentito, Rizzoli?» Un istante di silenzio, poi: «Bene, ci incontriamo là». La Rizzoli li stava aspettando fuori dello studio. Un piccolo gruppo di persone si era già radunato nel corridoio... un addetto alla sicurezza, due agenti di polizia, e numerosi uomini in borghese. Tutti detective, pensò Catherine. «Abbiamo perquisito da cima a fondo. E andato via da un pezzo», disse Jane. «Allora è stato davvero qui?» chiese Moore. «Entrambi i computer sono accesi. Il nome SavvyDoc è ancora sul modulo di sign on di AOL.» «Come ha fatto a entrare?» «La porta sembra non esser stata forzata. C'è un'impresa che ha in appalto la pulizia degli studi, perciò esistono diverse tessere magnetiche d'accesso. Poi ci sono gli impiegati che lavorano qui.» «Abbiamo un contabile, una receptionist, e due assistenti», intervenne Catherine. «E poi ci siete lei e il dottor Falco.» «Sì.» «Bene, sei chiavi ulteriori che possono esser state perse o prestate», fu la brusca reazione della Rizzoli. A Catherine non era simpatica, e si domandò se quel sentimento fosse reciproco. Jane indicò lo studio. «Faccia un giro per le stanze, dottoressa Cordell, e guardi se manca qualcosa. Non tocchi nulla, intesi? Né la porta, né il computer. Dobbiamo ancora rilevare eventuali impronte digitali.» Catherine guardò Moore, che le mise un braccio rassicurante intorno alle spalle. Insieme entrarono nel locale. Si guardò intorno nella sala d'attesa, poi andò nella reception, dove lavoravano gli impiegati. Il computer della contabilità era acceso. Il drive A era vuoto; l'intruso non vi aveva lasciato nessun floppy disk. Con una penna, Moore spostò il mouse per disattivare lo Screensaver, e subito apparve il modulo di sign on di AOL. Nella casella del «nome selezionato» si leggeva ancora «SavvyDoc». «C'è qualcosa nella stanza che le sembra diverso?» le chiese la Rizzoli.
Catherine scosse la testa. «Bene. Andiamo nel suo studio.» Insieme ai due detective, la Cordell percorse il corridoio e oltrepassò le sue sale visita, il polso sempre più accelerato. Entrò nella sua stanza e, immediatamente, sollevò lo sguardo al soffitto. Con un ansito fece un passo indietro e per poco non si scontrò con Moore. Lui la prese tra le braccia e la tenne in equilibrio. «È dove l'abbiamo trovato», disse la Rizzoli, puntando il dito verso lo stetoscopio che pendeva dalla lampadina. «Appeso lassù. Scommetto che non è lì che l'aveva lasciato.» Catherine scosse il capo. «È stato qui altre volte», mormorò in tono sconvolto. Lo sguardo della detective si posò severo su di lei. «Quando?» «In questi ultimi giorni. Non riuscivo a trovare le cose. Oppure le trovavo spostate.» «Quali cose?» «Lo stetoscopio. Il camice.» «Si guardi in giro», la invitò Moore, spingendola gentilmente in avanti. «C'è qualcos'altro fuori posto?» La Cordell esaminò con attenzione gli scaffali, la scrivania, lo schedario. Quello era il suo spazio privato, e ne aveva organizzato ogni centimetro: sapeva dunque dove avrebbero o non avrebbero dovuto trovarsi i vari oggetti. «Il computer è acceso. Io lo spengo sempre a fine giornata.» La Rizzoli spostò il mouse e apparve la home page di AOL col nickname di Catherine, CCORD, nella casella riservata al nome. «Ecco come ha avuto il suo indirizzo e-mail. Non ha dovuto far altro che accendere il suo computer.» La Cordell fissò la tastiera. Hai digitato su questi tasti. Ti sei seduto sulla mia sedia. La voce di Moore la fece trasalire. «Manca qualcosa?» le chiese. «Probabilmente qualcosa di piccolo, di molto personale.» «Come lo sa?» «È nel suo stile.» Dunque era accaduto alle altre donne, pensò Catherine. Alle altre vittime. «Oddio.» Immediatamente allungò la mano per aprire un cassetto della
scrivania. «Ehi! Le avevo detto di non toccare niente!» esclamò la Rizzoli. Ma la Cordell stava già infilando la mano nel cassetto e frugava freneticamente tra penne e matite. «Sono sparite.» «Che cosa?» «Tengo delle chiavi di riserva nella mia scrivania.» «Quali chiavi?» «Una dell'auto. Una del mio armadietto...» S'interruppe, e la gola le si seccò all'istante. «Se ha aperto il mio armadietto durante il giorno, allora ha avuto accesso alla mia borsa.» La donna sollevò lo sguardo verso Moore. «E alle mie chiavi di casa.» I tecnici erano già al lavoro con la polvere per le impronte quando Moore tornò nello studio della Cordell. «Le hai rimboccato le coperte, vero?» chiese la Rizzoli. «Dormirà in uno degli stanzini del pronto soccorso. Non voglio che torni a casa finché l'appartamento non sarà sicuro.» «Hai intenzione di cambiarle personalmente le serrature?» Thomas si accigliò, notando la sua espressione, non contento di ciò che vedeva. «Hai qualche problema?» «È una donna molto attraente.» So dove andrà a parare, pensò Moore, e trasse un sospiro stanco. «Un po' ferita. Un po' vulnerabile... Gesù, ti fa venir voglia di correre a proteggerla, giusto?» «Non è il nostro lavoro?» «Si tratta solo di questo?» «Non ho intenzione di discuterne», ribatté lui e uscì dagli studi. La Rizzoli lo seguì in corridoio, come un bulldog alle sue calcagna. «Lei è al centro del caso, Moore. Non sappiamo se sia stata sincera con noi. Per favore, non dirmi che ti sei fatto coinvolgere.» «E intatti non lo sono.» «Non sono cieca.» «E che cosa vedi, esattamente?» «Vedo il modo in cui la guardi. E come lei guarda te. Vedo un poliziotto che sta perdendo la sua obiettività.» Jane fece una pausa. «Un poliziotto che rimarrà ferito.» Se avesse alzato la voce, se avesse pronunciato quelle parole con ostilità, le avrebbe risposto per le rime. Ma si era espressa con tranquillità, e Tho-
mas non ebbe il coraggio di reagire duramente. «Non direi questo al primo che passa. Ma credo che tu sia uno dei buoni. Se fossi Crowe, o qualche altro stronzo, lascerei certamente che gli si spezzasse il cuore, non me ne fregherebbe un cazzo. Ma non vorrei che accadesse a te.» Si scrutarono per un momento. E Moore provò vergogna per non essere riuscito a vedere oltre la schiettezza della collega. Indipendentemente da quanto ammirasse il suo acume e il suo desiderio di affermarsi, Moore si sarebbe sempre focalizzato sul suo viso ordinario e sui suoi tailleur pantalone informi. Sotto certi aspetti non era migliore di Darren Crowe, non era migliore di quelli che le infilavano assorbenti nella bottiglia dell'acqua. Non si meritava l'ammirazione di Jane. Udirono qualcuno schiarirsi la voce e, quando si voltarono, videro un tecnico della Scientifica in piedi sulla soglia. «Nessuna impronta», dichiarò. «Ho messo la polvere sui computer. Sulla tastiera, sul mouse, sui drive. Sono stati tutti puliti.» Il cellulare di Jane squillò proprio in quell'istante. Mentre lo apriva, mormorò: «Che cosa ci aspettavamo? Non abbiamo a che fare con un cretino». «E le porte?» chiese Moore. «Ci sono alcune impronte parziali», rispose il tecnico. «Ma con l'andirivieni che c'è qua dentro... pazienti, personale... non saremo in grado di fare identificazioni.» «Ehi, Moore, andiamo», esclamò la Rizzoli, mentre richiudeva il telefono. «Dove?» «Alla centrale. Brody dice che ci mostrerà il miracolo dei pixel.» «Ho usato Photoshop. Il file occupa tre megabyte, il che significa che contiene numerosi dettagli. Il soggetto non usa materiale di scarto. Ha inviato un'immagine di qualità, si vedono persino le ciglia della vittima», esordì Sean Brody. Brody era il mago dell'informatica del Boston Police Department, un giovane pallido, di ventitré anni. Stava chino sullo schermo, la mano incollata al mouse. Moore, la Rizzoli, Frost e Crowe erano alle sue spalle, concentrati sul monitor. Sean aveva una risata irritante, da sciacallo, ed emetteva gridolini d'esultanza mentre manipolava l'immagine sullo schermo. «Questa è la foto intera. Vittima legata al letto. Sveglia, occhi aperti,
brutti occhi rossi da flash. Sembra avere un pezzo di nastro adesivo sulla bocca. Ora, guardate nell'angolo a sinistra, c'è il bordo di un comodino. Si vede una sveglia sopra due libri. Ora restringo il campo... vedete l'ora?» «Le due e venti», rispose la Rizzoli. «Già. La domanda è: di notte o di pomeriggio? Saliamo verso la parte superiore della foto, dove si vede un angolo di finestra. La tenda è chiusa, ma vedete quella piccola fenditura, dove i bordi del tessuto sono un po' scostati? Non entra luce. Se l'ora della sveglia è corretta, questa foto è stata scattata alle due e venti del mattino.» «Già, ma di quale giorno?» chiese Jane. «Potrebbe essere ieri sera o l'anno scorso. Diavolo, non sappiamo nemmeno se sia opera del Chirurgo.» Brody le lanciò un'occhiata seccata. «Non ho ancora finito.» «D'accordo, che altro hai scoperto?» «Scendiamo in basso. Guardate il polso destro della donna. C'è il nastro adesivo che lo copre, ma vedete quella macchietta scura? Cosa credete che sia?» Evidenziò la zona, cliccò col mouse e il dettaglio s'ingrandì. «Non mi ricorda nulla per ora», sussurrò Crowe. «Bene, stringiamo ancora un po'.» Premette ancora il tasto del mouse. La macchia scura assunse una forma riconoscibile. «Gesù. Sembra un cavallino. Quello è il braccialetto di Elena Ortiz!» esclamò la Rizzoli. Brody la guardò con un ghigno. «Sono o non sono bravo?» «È lui. È il Chirurgo.» «Torna al comodino», gli ordinò Moore. Brody tornò alla figura intera e spostò la freccia sull'angolo in basso a sinistra. «Che cosa t'interessa?» «Abbiamo l'orologio che ci dice l'ora. E poi quei due libri. Guarda il dorso. Vedi come riflette la luce la copertina di quello di sopra?» «Già.» «Significa che c'è un rivestimento protettivo di plastica.» «D'accordo...» assentì Brody, senza comprendere dove volesse andare a parare il detective. «Zooma sul dorso di quello di sopra. Vedi se riesci a leggere il titolo», disse Moore. Brody puntò la freccia e cliccò. «Sembrano due parole», intervenne la Rizzoli. «Riesco a leggere The.» Sean restrinse ulteriormente il campo dell'immagine.
«La seconda parola inizia per S. E poi guardate qua.» Moore indicò lo schermo. «Vedete questo quadrato bianco, alla base del dorso?» «So dove vuoi arrivare!» esclamò la Rizzoli, improvvisamente eccitata. «Il titolo. Forza, abbiamo bisogno di quel dannato titolo!» Brody riposizionò il mouse e cliccò un'ultima volta. «C'è un particolare che mi sfugge?» chiese Crowe. «Il titolo è The Sparrow», annunciò con soddisfazione Moore. «E quel quadratino... scommetto che è un numero di codice.» «È un libro di una biblioteca», asserì la collega. «Operatore», disse una voce all'altro capo del filo. «Sono il detective Thomas Moore, Boston Police Department. Ho bisogno urgente del numero della Boston Public Library.» «Gesuiti nello spazio. È di questo che parla il libro», disse Frost, seduto sul sedile posteriore. Stavano sfrecciando lungo Centre Street, Moore al volante, le luci lampeggianti. Due pattuglie aprivano la strada. «Mia moglie fa parte di un gruppo di lettura, sapete», continuò. «Ricordo di averla sentita parlare del libro The Sparrow.» «Allora si tratta di fantascienza?» chiese la Rizzoli. «No, è roba di religione molto complessa. Qual è la natura di Dio? Quel genere di cose.» «Se è così, non mi serve leggerlo. So tutte le risposte. Sono cattolica.» Moore guardò l'incrocio davanti a sé. «Siamo vicini.» L'indirizzo che cercavano era in Jamaica Plain, un quartiere occidentale di Boston tra Franklin Park e l'adiacente città di Brookline. Il nome della donna era Nina Peyton. Una settimana prima aveva preso la copia del libro in prestito dalla filiale della biblioteca del luogo. Di tutti i lettori della grande area di Boston che avevano richiesto copie del libro, Nina era l'unica che, alle due del mattino, non rispondeva al telefono. «Eccoci», disse Moore, mentre la pattuglia davanti a loro svoltava a destra in Eliot Street. Il detective la seguì e un isolato più avanti parcheggiò dietro di essa. La luce sul tettuccio proiettava nella notte flash irreali di colore blu; Moore, la Rizzoli e Frost entrarono dal cancello principale e si avvicinarono alla casa. All'interno s'intravedeva un bagliore fioco. Thomas lanciò un'occhiata a Frost, che annuì e si diresse sul retro dell'edificio.
La Rizzoli bussò alla porta e urlò: «Polizia!» Attesero qualche secondo. La donna bussò di nuovo, più violentemente. «Signorina Peyton, è la polizia! Apra la porta!» Altra pausa. All'improvviso, la voce di Frost gracchiò nella ricetrasmittente della polizia: «La zanzariera della finestra sul retro è rotta!» Moore e la Rizzoli si scambiarono un'occhiata e, senza bisogno di parlare, presero la decisione. Col manico della torcia Thomas spaccò il pannello di vetro, vi infilò una mano e aprì la porta. Jane fu la prima a entrare, in posizione semiaccovacciata, muovendo la pistola lungo una traiettoria arcuata davanti a sé. Moore le fu subito dietro, l'adrenalina alle stelle mentre registrava una successione rapida d'immagini. Pavimento di legno. Un cassetto aperto. La cucina davanti a sé, il salotto sulla destra. Una lampada accesa sul tavolino accanto al divano. «La stanza», mormorò la Rizzoli. «Andiamo.» Percorsero il corridoio, Jane in testa. La donna ruotò il capo a destra e a sinistra mentre superavano il bagno e una stanza, entrambi vuoti. La porta alla fine del corridoio era lievemente aperta, ma la stanza era immersa nel buio. Le mani scivolose sulla pistola, il cuore martellante nel petto, Moore si avvicinò lentamente alla porta e la spinse col piede. L'odore di sangue, caldo e nauseabondo, lo investì all'istante. Trovò l'interruttore e accese la luce. Prima ancora che l'immagine colpisse la retina, Thomas intuiva che cosa avrebbe visto. Eppure, non era preparato all'orrore che gli si presentò davanti. L'addome della donna era stato aperto. Parte dell'intestino fuoriusciva dall'incisione e penzolava come una stella filante dal bordo del letto. Il sangue sgorgava dalla gola squarciata e si raccoglieva in una pozza via via più larga sul pavimento. Gli ci volle un'eternità per elaborare ciò che aveva davanti agli occhi. Solo quando ebbe registrato tutti i dettagli, riuscì a comprenderne il significato. Il sangue ancora fresco, ancora gocciolante. L'assenza di spruzzo arterioso sul muro. La pozza sempre più ampia di sangue scuro, quasi nero... S'avvicinò al corpo della ragazza, le scarpe immerse nel sangue. «Ehi!» gridò la Rizzoli. «Stai contaminando la scena del delitto!»
Moore premette le dita sulla parte intatta del collo della vittima. Il cadavere aprì gli occhi. Buon Dio. È ancora viva. 8 Catherine s'irrigidì nel letto, il cuore le batteva forte, ogni nervo elettrizzato per la paura. Fissò l'oscurità, lottando per domare il panico. Qualcuno stava bussando alla porta dello stanzino. «Dottoressa Cordell?» Catherine riconobbe la voce di una delle infermiere del pronto soccorso. «Dottoressa Cordell!» «Sì?» rispose la donna. «Trauma in arrivo! Perdita di sangue massiva, ferite addominali e al collo. Stasera è di turno il dottor Ames, ma è in ritardo. Il dottor Kimball potrebbe richiedere il suo aiuto!» «Digli che arrivo.» Catherine accese la luce e guardò l'orologio. Erano le tre meno un quarto del mattino. Aveva dormito solo tre ore. Il vestito di seta verde era ancora appoggiato alla sedia. Sembrava un oggetto alieno: apparteneva alla vita di un'altra donna, non alla sua. La divisa che si era messa per dormire era fradicia di sudore, ma non aveva tempo di cambiarsi. Si legò i capelli a coda e andò al lavandino per bagnarsi la faccia con acqua fredda. La donna che la fissava dallo specchio era un'estranea spaventata. Concentrati. E ora di liberarsi della paura. E tempo di andare al lavoro. Infilò i piedi nudi nelle scarpe da ginnastica che aveva preso dall'armadietto e, con un respiro profondo, uscì dallo stanzino. «Arrivo previsto tra due minuti!» gridò l'addetto al centralino del pronto soccorso. «L'ambulanza dice che la pressione sistolica è settanta!» «Dottoressa Cordell, stanno preparando Trauma Uno.» «Com'è composta l'équipe?» «Il dottor Kimball e due interni. Grazie al cielo lei è già qui. L'auto del dottor Ames è guasta e non riuscirà ad arrivare in tempo...» Catherine andò direttamente a Trauma Uno. Con un'unica occhiata vide che la squadra si era preparata al peggio. Tre aste erano state preparate con Ringer lattato, i tubi delle flebo erano avvolti, pronti per essere connessi. Un fattorino era pronto a portare le provette di sangue al laboratorio. I due interni erano accanto al tavolo, uno per lato, in mano i cateteri endovenosi, e Ken Kimball, il medico di turno al pronto soccorso, aveva già aperto il sigillo del kit per laparotomia.
La Cordell indossò una cuffia, e infilò le braccia in un camice sterile. Un'infermiera glielo legò dietro la schiena e le tenne aperto il primo guanto. Ogni pezzo di divisa aggiunto era uno strato di autorità in più, e la dottoressa si sentì più forte, più sicura. In quella stanza lei era la salvatrice, non la vittima. «Qual è l'anamnesi del paziente?» chiese a Kimball. «Aggressione. Trauma al collo e all'addome.» «Arma da fuoco?» «No. Ferite da taglio.» Catherine si fermò mentre infilava il secondo guanto. Le si era improvvisamente chiuso lo stomaco. Collo e addome, ferite da coltello. «L'ambulanza è arrivata!» gridò un'infermiera dalla porta. «Tempo di sangue e budella», mormorò Kimball mentre usciva per andare incontro al paziente. La Cordell, già in tenuta sterile, rimase dove si trovava. D'un tratto la stanza si fece silenziosa. Nessuno dei due interni accanto al tavolo, né l'infermiera addetta alla sala operatoria pronunciarono una parola. Erano tutti concentrati su ciò che stava accadendo. «Rapidi, rapidi!» udirono Kimball gridare. La porta si aprì e la barella fu spinta dentro. Catherine intravide lenzuola inzuppate di sangue, una chioma femminile arruffata e un viso coperto dal cerotto che teneva fisso il tubo endotracheale. Trasferirono la paziente sul tavolo. Kimball tolse le lenzuola ed espose il torace della vittima. Nel caos della stanza, nessuno udì il gemito di Catherine. E nessuno notò il suo esitante passo indietro. La Cordell fissò il collo della vittima, dove la garza di compressione era satura, color rosso scuro; poi guardò l'addome, dove un'altra benda applicata frettolosamente si stava già distaccando, e rivoli di sangue colavano lungo il fianco nudo. Tutti si misero in azione, attaccando elettrodi cardiaci e flebo, pompando aria nei polmoni della vittima, ma Catherine rimase pietrificata dall'orrore. Kimball tolse la garza addominale e parte dell'intestino fuoriuscì sul tavolo. «La sistolica è appena percepibile a sessanta! Tachicardia sinusale...» «Non riesco a infilare la flebo! La vena è collassata!» «Cerca una succlavia!» «Puoi darmi un altro catetere?» «Merda, l'intero campo è contaminato...»
«Dottoressa Cordell? Dottoressa Cordell?» Ancora in trance, Catherine si voltò verso l'infermiera che l'aveva appena chiamata e vide la donna accigliarsi sopra la mascherina chirurgica. «Vuole dei tamponi da laparotomia?» La Cordell deglutì e fece un respiro profondo. «Sì. Tamponi. E aspiratore...» Si riconcentrò sulla giovane donna. Ebbe un flashback di un altro pronto soccorso, della notte a Savannah in cui lei era stata la donna stesa sul tavolo. Non ti lascerò morire. Non lascerò che l'abbia vinta. Afferrò una manciata di spugne e una pinza emostatica dal vassoio degli strumenti. Adesso era del tutto concentrata, la professionista aveva riacquistato il controllo. Dapprima rivolse la sua attenzione alla ferita cervicale e tolse la garza di compressione. Il sangue scuro prese a colare sul pavimento. «La carotide!» esclamò uno degli interni. Catherine premette una spugna sulla ferita e fece un respiro profondo. «No. No, se fosse la carotide sarebbe già morta. Bisturi.» Lo strumento apparve nella sua mano. La Cordell fece una pausa per prepararsi al delicato intervento, poi appoggiò la punta del bisturi sul collo della ragazza. Mantenendo premuta la ferita, Catherine incise rapidamente la cute in direzione della mandibola. «Non ha tagliato abbastanza in profondità da raggiungere la carotide, ma ha preso la giugulare. E quest'estremità si è ritratta nel tessuto molle.» Gettò il bisturi e afferrò la pinza. «Interno? Ho bisogno di qualcuno che tamponi. Delicatamente!» «Ha intenzione di rianastomizzare?» «No, eseguiremo semplicemente una legatura. Svilupperà da sola un drenaggio collaterale. Ho bisogno di esporre un tratto sufficiente di vena per suturarla. Pinza vascolare.» In un attimo lo strumento fu nelle sue mani. Catherine applicò la pinza e la chiuse sul vaso esposto. Poi sbuffò e guardò Kimball. «L'emorragia è sotto controllo. La legherò più tardi.» Detto ciò, rivolse la sua attenzione all'addome. Kimball e l'altro assistente avevano nel frattempo pulito il campo usando aspiratore e tamponi: ora la ferita era completamente esposta. Con delicatezza, Catherine passò accanto agli intestini e guardò nell'incisione aperta. Ciò che vide la riempì di rabbia. Incrociò lo sguardo sbalordito di Kimball, dall'altra parte del tavolo. «Chi farebbe una cosa simile? Con chi diavolo abbiamo a che fare?»
mormorò il medico. «Con un mostro», rispose la Cordell. «La vittima è ancora in sala operatoria. È viva.» La Rizzoli chiuse il cellulare e guardò Moore e Zucker. «Ora abbiamo una testimone. Il nostro uomo sta diventando imprudente.» «Non imprudente», ribatté Moore. «Precipitoso. Non ha avuto tempo di finire il lavoro.» Thomas era accanto alla porta della stanza e stava studiando il sangue sul pavimento. Era ancora fresco, ancora scintillante. Non ha avuto il tempo di seccarsi. Il Chirurgo era qui fino a poco fa. «La foto è stata inviata alla Cordell alle otto meno cinque di sera», disse la Rizzoli. «La sveglia della foto segna le due e venti.» Indicò l'orologio sul comodino. «L'ora è giusta, il che significa che deve aver scattato la foto la scorsa notte. Ha tenuto la vittima in vita, in questa casa, per più di ventiquattr'ore.» Prolungando il suo piacere. «Sta diventando impertinente», asserì il dottor Zucker, e la sua voce rivelò un'inquietante vena d'ammirazione. Un riconoscimento dell'abilità dell'avversario. «Non solo tiene in vita la vittima per un giorno intero, ma la lascia sola, per un certo tempo, per inviare quell'e-mail. Il soggetto ci sta sfidando in un gioco d'intelligenza.» «O sta sfidando Catherine Cordell», suggerì Moore. La borsa della vittima era appoggiata sopra il cassettone. Coi guanti, Thomas ne esaminò il contenuto. «Portafoglio con trentaquattro dollari. Due carte di credito. Carta dell'American Automobile Association. Badge della Lawrence Scientific Supplies, reparto vendite. Patente, Nina Peyton, ventinove anni, un metro e sessantacinque centimetri, cinquantanove chili. È una donatrice d'organi.» «Penso che lo abbia appena fatto», mormorò la Rizzoli. Moore aprì una tasca laterale. «C'è un'agendina qui dentro.» La collega si voltò con interesse nella sua direzione. «Sì?» Il detective l'aprì al mese corrente. Era vuoto. Allora sfogliò all'indietro fino a trovare una voce, scritta quasi otto settimane prima: Affitto. Andò ancora più indietro e vide altri appunti: Compleanno di Sid. Giorno di pulizie. Concerto ore 8.00. Riunione. Tutti i piccoli dettagli terreni che componevano la sua vita. Perché tutto si era fermato all'improvviso, otto settimane prima? Moore pensò alla donna che aveva scritto quelle parole con l'inchiostro blu. Una donna che probabilmente guardava avanti, oltre le pa-
gine bianche, al mese di dicembre e s'immaginava il Natale e la neve, con tutte le ragioni per credere che sarebbe stata viva per vederlo. Chiuse l'agenda e fu sopraffatto dalla tristezza, tanto che per un momento non riuscì a parlare. «Non ha dimenticato nulla tra queste lenzuola», disse Frost, accucciato accanto al letto. «Nessun filo da sutura, nessuno strumento, niente.» «Per essere un tipo che si suppone abbia urgenza di andarsene», intervenne Jane, «ha fatto un buon lavoro di pulizia. E guardate. Ha avuto tempo di piegare accuratamente la camicia da notte.» La Rizzoli indicò un indumento di cotone, che giaceva su una sedia. «Questo non concorda con la sua presunta fretta.» «Ma ha lasciato la vittima viva. L'errore più madornale che potesse fare», aggiunse Thomas. «Non ha senso, Moore. Piega la camicia da notte, raccoglie tutto. E poi è tanto sbadato da lasciare una testimone? È troppo intelligente per commettere un errore simile.» «Anche i più brillanti falliscono», borbottò Zucker. «Ted Bundy era diventato imprudente verso la fine.» Moore guardò Frost. «Sei stato tu a chiamare la vittima?» «Sì. Quando stavamo controllando la lista di numeri telefonici che ci ha dato la biblioteca. Ho telefonato intorno alle due, due e un quarto. C'era la segreteria, ma non ho lasciato messaggi.» Thomas si guardò intorno ma non vide apparecchi di segreteria. Andò in salotto e individuò l'apparecchio sul tavolino. Aveva uno spazio in cui appariva il numero di chi chiamava, e il tasto della memoria era sporco di sangue. Allora usò la punta di una matita per premere il bottone, apparvero sul display digitale le indicazioni dell'ultima chiamata: Boston PD 2.14 a.m. «È questo che lo ha spaventato?» chiese Zucker, che l'aveva seguito in salotto. «Era qui quando Frost ha chiamato. C'è del sangue sul pulsante d'identificazione chiamate.» «Dunque il telefono ha squillato e il nostro uomo non aveva ancora finito il lavoro. Non aveva raggiunto la soddisfazione. Ma una telefonata nel cuore della notte lo ha sicuramente scosso. E venuto in salotto, ha visto il numero di chi chiamava, e ha capito che era la polizia, che tentava di contattare la vittima.» Zucker tacque per un istante. «Lei che farebbe?» «Me ne andrei subito.»
Zucker annuì, e un lieve sorriso comparve sulle sue labbra. Questo per te è un gioco, pensò Moore. Il detective andò alla finestra e guardò la strada, trasformatasi in un brillante caleidoscopio di luci blu lampeggianti. Una decina di auto erano parcheggiate davanti alla casa; c'era anche la stampa. Vide i furgoni della rete televisiva locale che preparavano le loro parabole. «Non è riuscito a divertirsi», disse Zucker. «Ha completato l'asportazione.» «No, quello è solo il souvenir. Un piccolo ricordo della visita. Non era qui soltanto per impossessarsi di una parte del suo corpo. È venuto per provare il massimo dell'eccitazione: per sentire la vita della donna spegnersi lentamente. Ma questa volta non è riuscito nel suo intento. È stato interrotto, distratto dalla paura che la polizia lo catturasse. Non è rimasto a lungo a vedere la ragazza morire. Ci sarà presto una prossima vittima. Il soggetto è frustrato, e la tensione sta diventando insopportabile per lui. Il che significa che è già a caccia di una nuova preda.» «Oppure l'ha già scelta», suggerì Moore. E pensò: Ed è Catherine Cordell. Le prime luci dell'alba. Moore non dormiva da ventiquattr'ore e aveva lavorato a pieno ritmo per tutta la notte, sostenendosi soltanto coi caffè. Quando, tuttavia, guardò il cielo schiarirsi, ciò che sentì non fu stanchezza, ma una rinnovata agitazione. Esisteva una connessione tra Catherine e il Chirurgo, un legame che non riusciva a cogliere, un filo invisibile che univa la donna a quel mostro. «Moore.» Si voltò e, subito, colse un luccichio d'eccitazione negli occhi della Rizzoli. «Ha appena chiamato l'unità Crimini Sessuali. La nostra vittima è una donna molto sfortunata.» «Che intendi dire?» «Due mesi fa Nina Peyton ha subito una violenza sessuale.» La notizia sconvolse il detective, che subito pensò alle pagine bianche nell'agenda. Otto settimane prima le annotazioni si erano interrotte: la vita di Nina era giunta a un punto morto. «C'è un verbale?» chiese Zucker. «Non soltanto», rispose la Rizzoli. «È stato raccolto materiale organico.» «Due vittime di stupro?» esclamò il medico. «Potrebbe essere tanto
semplice?» «Pensa che il violentatore torni a ucciderle?» «Non credo che si tratti di un caso. Il dieci per cento degli stupratori seriali comunica in seguito con le vittime. È un modo per prolungare il tormento, l'ossessione.» «La violenza carnale come preliminare per l'assassinio?» La Rizzoli sbuffò disgustata. «Simpatico.» Un nuovo pensiero passò improvvisamente nella testa di Moore. «Hai detto che è stato raccolto materiale organico? Quindi è stato effettuato un tampone vaginale?» «Già. Siamo in attesa dei risultati del DNA.» «Chi lo ha effettuato? È andata al pronto soccorso?» Era quasi certo che avrebbe risposto: Pilgrim Hospital. Ma la collega scosse il capo. «No. È andata alla Forest Hills Women's Clinic. È qui in fondo alla strada.» Sulla parete della sala d'attesa della clinica era appeso un poster a colori dell'apparato genitale femminile. Sopra, vi era la scritta: DONNA. UNA BELLEZZA STUPEFACENTE. Benché Moore concordasse sul fatto che il corpo femminile fosse un miracolo, quando fissò quel disegno così esplicito si sentì come un guardone. Notò che numerose donne della sala lo stavano osservando, come le gazzelle scrutano un predatore in mezzo al loro branco. Era in compagnia della Rizzoli, ma ciò non sembrava cambiare il fatto che lui fosse un maschio alieno. Fu sollevato quando la segretaria si rivolse a loro: «Ora può ricevervi, detective. L'ultima stanza sulla destra». La Rizzoli fece strada attraverso la sala d'attesa, superando manifesti con titoli come: I 10 SEGNI DEL PARTNER VIOLENTO e COME SAPERE SE SI TRATTA DI STUPRO. A ogni passo gli sembrava che un'altra macchia della colpevolezza maschile gli si appiccicasse addosso, come fango che imbratta i vestiti. La Rizzoli non provava nulla di tutto ciò, lei si muoveva in un territorio familiare, quello femminile. Jane bussò alla porta la cui targa diceva: SARAH DALY, INFERMIERA ABILITATA ALL'ESERCIZIO DI FUNZIONI MEDICHE. «Avanti.» La donna che si alzò per salutarli era giovane. Sotto il camice bianco indossava blue-jeans e una maglietta nera; il taglio di capelli maschile enfatizzava gli occhi scuri e infantili e gli zigomi eleganti. Ma ciò che Moore
non poté evitare di fissare fu il piccolo anello d'oro alla narice sinistra. Per gran parte del colloquio, gli parve di parlare con quell'anello. «Ho rivisto la sua cartella dopo che avete chiamato. So che era stato stilato un verbale dalla polizia», disse Sarah. «L'abbiamo letto», rispose Jane. «E la ragione della vostra visita?» «Nina Peyton è stata aggredita la notte scorsa, a casa sua. Ora versa in condizioni critiche.» La prima reazione della donna fu di shock. Poi seguì la rabbia. Moore si accorse dal modo con cui Sarah sollevò il mento e dal luccichio dei suoi occhi. «E stato lui?» «Lui?» «L'uomo che l'ha stuprata?» «È una possibilità che stiamo considerando. Purtroppo, la vittima è in stato comatoso e non può parlare», rispose la Rizzoli. «Non chiamatela la vittima. Quella ragazza ha un nome.» Anche Jane sollevò il mento, e Moore capì che quella risposta l'aveva innervosita. Non era il modo migliore per iniziare un colloquio. «Signorina Daly, è stato un crimine incredibilmente brutale, e abbiamo bisogno...» Moore fu interrotto. «Nulla è incredibile», ribatté Sarah. «Non quando parliamo di ciò che gli uomini fanno alle donne», e prese una cartelletta da sopra la scrivania e gliela porse. «La sua cartella medica. La mattina dopo lo stupro, la ragazza è venuta in questa clinica. L'ho vista io quel giorno.» «L'ha anche visitata?» «Ho fatto tutto io. Il colloquio, l'esame pelvico. Ho effettuato i tamponi vaginali e al microscopio ho confermato la presenza di sperma. Le ho esaminato i peli pubici, e le ho tagliato le unghie per la raccolta di materiale organico. Poi le ho somministrato la pillola del giorno dopo.» «Non è andata al pronto soccorso per altri esami?» «Le vittime di violenza che vengono da noi ricevono tutte le cure in quest'edificio, da una sola persona. L'ultima cosa di cui hanno bisogno è di un sacco di gente intorno. Perciò io eseguo il prelievo di sangue, lo mando al laboratorio e faccio le dovute telefonate alla polizia, sempre che la vittima acconsenta.» Moore aprì il raccoglitore e vide il modulo informativo su Nina Peyton. Vi erano la data di nascita, l'indirizzo, il numero di telefono, e il datore di lavoro. La pagina successiva era scritta con una calligrafia stretta e piccola.
La data della prima registrazione era 17 maggio. Disturbo principale: aggressione sessuale. Anamnesi patologica: femmina di razza bianca, ventinove anni, crede di essere stata aggredita sessualmente. La scorsa notte, mentre beveva un drink al Gramercy Pub, si è sentita disorientata e ricorda di essere andata in bagno. Non ricorda nessuno degli eventi successivi... «Si svegliò a casa, nel suo letto», spiegò Sarah. «Non ricordava né come ci fosse arrivata, né di essersi spogliata. Certamente non di essersi strappata la camicia. Ma era là, senza vestiti. Le cosce erano sporche di quello che pensò subito essere sperma. Aveva un occhio gonfio e lividi su entrambi i polsi. Capì immediatamente che cos'era accaduto ed ebbe la stessa reazione delle altre vittime di uno stupro. Pensò: È colpa mia. Non avrei dovuto essere tanto disattenta. Ma noi donne siamo così.» Sarah guardò negli occhi Moore. «Ci biasimiamo per tutto, anche se è l'uomo a scoparci con la forza.» Di fronte a una rabbia simile, non c'era nulla che lui potesse replicare. Abbassò lo sguardo sulla cartella e lesse il referto dell'esame fisico. La paziente è una donna introversa, che parla con voce monotona. Non è accompagnata da nessuno, ed è giunta alla clinica a piedi, da casa sua... «Continuava a parlare delle chiavi dell'auto», proseguì Sarah. «Era stata picchiata, aveva un occhio gonfio e chiuso, e tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi era il fatto di aver perso le chiavi dell'auto e di doverle ritrovare, altrimenti non sarebbe potuta andare al lavoro. Mi ci è voluto un po' per indurla a smettere di ripetere quelle frasi, per convincerla a parlare con me. Era una ragazza cui non era mai accaduto nulla di terribile. Era colta, indipendente. Un'addetta commerciale della Lawrence Scientific Supplies. Aveva a che fare col pubblico tutti i giorni. Ma quand'è venuta qui, era come paralizzata. Ossessionata da quelle stupide chiavi. Alla fine abbiamo aperto la borsa e abbiamo cercato in tutte le tasche, e le abbiamo trovate. Soltanto allora si è concentrata su di me e mi ha raccontato ciò che era successo.» «E che cosa le ha detto?» «Era andata al Gramercy Pub intorno alle nove per incontrare un'amica. Questa non si era fatta vedere, perciò era rimasta sola per un po'. Ha bevuto un martini, ha parlato con alcuni ragazzi. Sentite, io ci sono stata, e ogni sera è molto affollato. Una donna si sentirebbe al sicuro là dentro.» Poi, con tono amaro, aggiunse: «Come se esistesse un luogo sicuro». «Ricordava l'uomo che l'ha portata a casa? E questo che davvero abbia-
mo bisogno di sapere», chiese la Rizzoli. Sarah la guardò. «Si tratta soltanto del criminale, vero? Quei due agenti dell'unità Crimini Sessuali volevano sapere soltanto di lui. Tutta l'attenzione va allo stupratore.» A Moore parve che la stanza si surriscaldasse. «I detective sostengono che non sia stata in grado di fornire una descrizione», si affrettò a dire. «Ero nella stanza con lei quando l'hanno interrogata. Mi ha chiesto di restare, perciò ho ascoltato l'intera storia due volte. Continuavano a chiederle che aspetto avesse, ma lei, semplicemente, non poteva dirglielo. Non ricordava davvero nulla del suo aggressore.» Thomas passò alla pagina successiva del fascicolo. «L'ha visitata una seconda volta, in luglio. Una settimana fa.» «È tornata per un esame del sangue di follow-up. Occorrono sei settimane dopo l'esposizione per verificare la positività del test HIV. Quella è l'atrocità più spaventosa. Prima ti stuprano, poi scopri che l'aggressore ti ha trasmesso una malattia letale. Sono settimane d'agonia per quelle donne, che attendono di sapere se si ammaleranno di AIDS. Si domandano se il nemico sia dentro di loro, se si stia moltiplicando nel loro sangue. Quando tornano per il follow-up, devo far loro un discorsetto d'esortazione, e devo giurare che le chiamerò nel preciso istante in cui mi arrivano i risultati.» «Non analizzate i campioni qui?» «No. Viene mandato tutto agli Interpath Labs.» Moore girò l'ultima pagina e vide il foglio degli esiti. Test HIV: negativo. Malattie veneree (sifilide): negativo. Erano scritti su carta sottile, carta carbone stampata. Le notizie più importanti della nostra vita giungono spesso su semplici fogli, pensò il detective. Telegrammi. Pagelle. Esami clinici. Chiuse la cartella e l'appoggiò sul tavolo. «Quando ha visto Nina per la seconda volta, il giorno in cui venne per il follow-up, come le è sembrata?» «Mi sta chiedendo se era ancora traumatizzata?» «Non ho dubbi che lo fosse.» Di fronte alla calma risposta del detective, la rabbia crescente di Sarah Daly parve svanire all'istante. La donna si riappoggiò alla sedia come se, svanita la collera, avesse perduto ogni energia vitale. Considerò per un istante la domanda. «Quando vidi Nina la seconda volta, somigliava a uno zombie.» «In che senso?» «Sedeva sulla sedia su cui si trova ora la detective Rizzoli, e mi sembra-
va di poterle vedere attraverso. Come se fosse trasparente. Da quand'era stata stuprata non si era più presentata al lavoro. Credo fosse difficile per lei incontrare la gente, soprattutto gli uomini. Era paralizzata da tutte quelle strane fobie; aveva timore di bere l'acqua del rubinetto, o qualsiasi cosa non fosse sigillata. Doveva essere per forza una bottiglia chiusa o una lattina, qualcosa che non potesse essere stata avvelenata o drogata. Aveva paura che gli uomini potessero guardarla e vedere che era stata violata. Era convinta che l'aggressore avesse lasciato sperma sulle lenzuola o sui vestiti, e trascorreva ore e ore, tutti i giorni, a lavare e rilavare. Chiunque fosse prima Nina Peyton, quella donna era ormai morta. Quando l'ho rivista, era un fantasma.» La voce di Sarah era andata via via affievolendosi; sedeva immobile, lo sguardo fisso su Jane, al posto della quale vedeva, però, un'altra donna. Una successione di donne, facce diverse, figure diverse, una sfilata di persone devastate per sempre. «Non le disse di avere l'impressione di essere pedinata? O se l'aggressore fosse ricomparso nella sua vita?» «Uno stupratore non scompare mai dalla tua vita. Finché vivi, sei di sua proprietà.» Sarah rimase un istante in silenzio. Poi aggiunse amaramente: «Forse è soltanto tornato a riprendersi ciò che era suo». 9 I vichinghi non sacrificavano vergini, ma prostitute. Nell'anno del Signore 922, il diplomatico arabo Ibn Fadlan assistette a un tale sacrificio tra la gente che lui chiamava Rus. Li descrisse come uomini alti, biondi e dal fisico perfetto che giungevano dalla Svezia, lungo i fiumi russi, fino ai mercati meridionali della Kazaria, dove scambiavano ambra e pellicce con la seta e l'argento di Bisanzio. Proprio su quella rotta commerciale, in un luogo chiamato Bulgar, sull'ansa del Volga, un vichingo defunto di grande importanza venne preparato per il viaggio finale verso il Walhalla. Ibn Fadlan assistette al funerale. La barca del defunto venne tirata a riva e appoggiata su pali di legno di betulla. Sul ponte fu costruito una sorta di padiglione, in cui fu posto un sofà ricoperto di broccato greco. Il cadavere, sepolto da dieci giorni, venne riesumato. Con grande sorpresa di Ibn Fadlan, la carne annerita non emanava o-
dore. La salma venne adornata con ricche vesti: pantaloni e calze, stivali e tunica, e un caffetano di broccato con bottoni d'oro. Deposero il cadavere su un materasso e lo misero seduto con l'aiuto di cuscini. Intorno a lui disposero pane, carne e cipolle, bevande inebrianti, e piante aromatiche. Uccisero un cane e due cavalli, un gallo e un pollo, e misero il tutto all'interno del padiglione, affinché il defunto potesse servirsene nel Walhalla. Infine, entrò una schiava. Ver i dieci giorni in cui l'uomo era rimasto sepolto nel terreno, la ragazza era stata obbligata a prostituirsi. Stordita dalle bevande alcoliche, era stata portata di tenda in tenda per soddisfare ogni uomo dell'accampamento. La schiava giaceva a gambe aperte sotto una successione di uomini grugnenti e sudati, il suo corpo consumato, un recipiente comune, in cui veniva deposto il seme di tutti gli uomini della tribù. Così fu violentata, la sua carne corrotta, e il suo corpo preparato per il sacrificio. Il decimo giorno fu condotta alla nave, accompagnata da una donna più anziana, chiamata l'Angelo della Morte. La ragazza si tolse i bracciali e gli anelli, bevve alcol per stordirsi e poi si lasciò condurre al padiglione, dove sedeva il defunto. Là, sul materasso ricoperto di broccato, venne nuovamente violentata. Sei volte, da sei uomini, il suo corpo passava da uno all'altro come carne in un banchetto. E quando ebbero terminato, quando furono soddisfatti, la ragazza fu fatta sdraiare accanto al padrone morto. Due uomini la tenevano per i piedi, due per le mani, e l'Angelo della Morte le mise una corda intorno alla gola, per poi sollevare un coltello a lama larga e affondarlo nel petto della schiava. La lama si abbassò una volta e poi un'altra, spargendo sangue nello stesso modo con cui un uomo grugnente sparge il suo seme, quasi che il coltello reinscenasse gli stupri avvenuti in precedenza, il metallo affilato che penetra la carne morbida. Un accoppiamento brutale che produsse, con l'atto finale, l'estasi della morte. «Ha richiesto trasfusioni massive di sangue e plasma congelato», disse Catherine. «La pressione si è stabilizzata, ma è ancora incosciente e ventilata artificialmente. Deve soltanto avere pazienza, detective. E sperare che si svegli.» Catherine e il detective Darren Crowe erano fuori della stanza dell'unità
di terapia intensiva di Nina Peyton, a osservare le tre linee che scorrevano sul monitor cardiaco. Crowe aveva atteso la paziente fuori della sala operatoria, l'aveva scortata durante il trasferimento in sala di rianimazione e ora la sorvegliava in quella di terapia intensiva. Non era lì soltanto per proteggerla: il detective era infatti ansioso di avere una dichiarazione dalla donna, e nelle ultime ore non aveva fatto altro che chiedere informazioni sullo stato della paziente e camminare su e giù per il corridoio. Ora, per l'ennesima volta, ripeté la domanda che aveva fatto per tutta la mattina: «Crede che sopravvivrà?» «Le posso soltanto dire che i segni vitali sono stabili.» «Quando le potrò parlare?» La Cordell sospirò. «Lei non sembra capire quanto critiche siano le sue condizioni. Prima di arrivare qui ha perso più di un terzo del volume di sangue. Il cervello potrebbe esser stato privato del suo apporto essenziale. Quando, e se, dovesse riacquistare conoscenza, esiste la possibilità che non ricordi nulla.» Crowe guardò attraverso il divisorio di vetro. «Allora per noi sarà inutile.» Catherine lo fissò con crescente fastidio. Nemmeno una volta quell'uomo aveva espresso preoccupazione per Nina Peyton, se non in qualità di testimone, di soggetto da usare. Nemmeno una volta, per tutta la mattina, si era riferito a lei chiamandola per nome, ma sempre la vittima o la testimone. Dentro la stanza non vedeva una donna, ma soltanto il mezzo per raggiungere un fine. «Quando verrà trasferita dall'unità di terapia intensiva?» chiese Darren. «È troppo presto per fare questa domanda.» «Potrebbe essere portata in una stanza privata? Se teniamo la porta chiusa e limitiamo il personale, nessuno saprà che non può parlare.» Catherine sapeva esattamente dove voleva arrivare il detective. «Non userò la mia paziente come esca. E necessario che rimanga sotto osservazione ventiquattr'ore su ventiquattro. Vede quelle linee sul monitor? Sono l'elettrocardiogramma, la pressione venosa centrale e quella arteriosa. Devo controllare ogni eventuale cambiamento del suo stato. Quest'unità è l'unico luogo in cui posso farlo.» «Quante donne potremmo salvare se lo fermassimo ora? Ha pensato a questo? Lei, dottoressa Cordell, sa meglio degli altri che cosa hanno passato queste ragazze.» Catherine s'irrigidì per la rabbia. L'aveva colpita nel punto più vulnerabi-
le. Ciò che le aveva fatto Capra era tanto personale, tanto intimo, che non riusciva a parlarne nemmeno con suo padre. Il detective Crowe aveva riaperto quella ferita. «La ragazza potrebbe essere l'unico modo per prenderlo», continuò Crowe. «Questo è quanto di meglio propone? Usare una donna in coma come esca? Mettere in pericolo la vita di altri pazienti dell'ospedale invitando il killer a farsi vivo?» «Che cosa le fa pensare che non sia già qui?» le chiese il detective prima di allontanarsi. Già qui. Catherine non poté fare a meno di guardarsi intorno. Vide le infermiere occupate coi pazienti, un gruppo di chirurghi interni intorno alla fila di monitor e una flebotomista che spingeva un carrello di tubi e siringhe. Quante persone andavano e venivano tutti i giorni in quell'ospedale? Quanti di loro conosceva davvero? Nessuno. Questo era quanto le aveva insegnato Andrew Capra: non avrebbe mai potuto sapere veramente che cosa si nascondesse nel cuore di un individuo. L'addetta all'accettazione della corsia chiamò: «Dottoressa Cordell, al telefono». Catherine andò verso la sala infermiere e afferrò il ricevitore. Era Moore. «Ho sentito che l'intervento è riuscito.» «Sì, è ancora viva. E no, non è ancora in grado di parlare», rispose lei senza mezzi termini. Silenzio. «Immagino di aver scelto un momento sbagliato per chiamare.» La donna si lasciò cadere su una sedia. «Mi spiace. Ho appena parlato col detective Crowe e non sono di buon umore.» «Sembra avere quest'effetto sulle donne.» Entrambi risero, una risata stanca che dissolse ogni ostilità. «Come va, Catherine?» «Abbiamo passato qualche brutto momento, ma penso di averla stabilizzata.» «No, intendevo come sta lei. Va tutto bene?» Era qualcosa di più di una domanda gentile: nella voce di Moore lei udì una preoccupazione sincera, arrossì e rimase senza parole. Era bello sapere che a qualcuno importava di lei. «Non andrà a casa, vero? Non finché le serrature non saranno cambiate.» «Mi fa tanta rabbia. Si è preso l'unico luogo in cui mi sentivo sicura.»
«Lo renderemo nuovamente inaccessibile. Farò in modo di trovare un fabbro.» «Di sabato? Fa miracoli.» «No. Ho soltanto molte conoscenze.» La Cordell si appoggiò allo schienale della sedia, per allentare la tensione nelle spalle. Tutt'intorno, l'unità di terapia intensiva brulicava d'attività, ma la sua attenzione era rivolta completamente all'uomo la cui voce la confortava e la rassicurava. «E lei come sta?» gli chiese. «Temo che la mia giornata sia appena iniziata.» Moore s'interruppe per un istante, per rispondere a qualcuno, a una domanda sui reperti da impacchettare. Si udirono altre voci in sottofondo. La Cordell se lo immaginò nella stanza di Nina Peyton, circondato dalle testimonianze dell'orrore. La sua voce era, tuttavia, calma e imperturbabile. «Mi chiamerà non appena Nina si sveglia?» domandò Moore. «Il detective Crowe gira intorno alla stanza come un avvoltoio. Penso che lo saprà prima di me.» «Crede che si riprenderà?» «Onestamente?» ribatté la dottoressa. «Non lo so. Continuo a dirlo al suo collega, ma non sembra accettarlo.» «Dottoressa Cordell?» Era l'infermiera di Nina Peyton, che la chiamava dalla stanza. Il tono di voce allarmò immediatamente Catherine. «Che cosa c'è?» «Deve venire a vedere.» «Qualcosa non va?» chiese Moore al telefono. «Aspetti. Mi faccia controllare.» «La stavo lavando con un panno umido», continuò l'infermiera. «L'avevano portata giù dalla sala operatoria ancora insanguinata. Quando l'ho voltata su un fianco, l'ho trovato. Era dietro la coscia sinistra.» «Mi faccia vedere.» L'infermiera afferrò Nina e la girò di lato. «Lì», mormorò piano. La Cordell impietrì per la paura. Fissò l'allegro messaggio, scritto a pennarello nero sulla pelle della ragazza: Buon compleanno. Ti piace il mio regalo? Moore la trovò nel bar dell'ospedale. Era seduta in un angolo, le spalle al muro, la tipica posizione di qualcuno che si sente minacciato e vuole vedere il pericolo arrivare. Indossava ancora il camice da chirurgo e aveva i ca-
pelli legati dietro la nuca, che mettevano in risalto i lineamenti decisi del volto struccato, gli occhi splendenti. Doveva essere esausta quasi quanto lui, ma la paura aveva aumentato lo stato d'allerta: Catherine era come un gatto selvatico che osservava ogni sua mossa mentre s'avvicinava al tavolo. Davanti a lei una tazza di caffè mezza vuota. Quanti ne avrà bevuti? si domandò Moore, e vide che tremava. Non era la mano ferma di un chirurgo, ma quella di una donna spaventata. Il detective si sedette di fronte a lei. «Ci sarà un'auto di pattuglia parcheggiata fuori di casa sua questa notte. Ha avuto le chiavi nuove?» Catherine annuì. «Me le ha lasciate il fabbro, e mi ha detto che ha messo la Rolls-Royce delle serrature.» «Sarà al sicuro, Catherine.» Lei guardò la tazza. «Quel messaggio era per me.» «Questo non lo sappiamo.» «Ieri era il mio compleanno. Lo sapeva. E sapeva che sarei stata reperibile.» «Se è lui che l'ha scritto.» «Non mi prenda in giro. Lo sa che è stato lui.» Dopo una pausa, Moore annuì. Rimasero un momento in silenzio. Era già pomeriggio inoltrato, e gran parte dei tavoli erano vuoti. Dietro il bancone, gli inservienti stavano pulendo i vassoi, da cui si levavano spirali di vapore. Un cassiere solitario aprì un pacchetto di monete nuove, e lo rovesciò rumorosamente nel cassetto del registratore di cassa. «E il mio studio?» chiese Catherine. «Non ha lasciato impronte.» «Quindi non avete prove.» «Non abbiamo nulla», ammise Thomas. «Entra ed esce dalla mia vita come aria. Nessuno lo vede. Nessuno sa che aspetto ha. Potrei mettere le sbarre alle finestre, e avrei ancora paura di addormentarmi.» «Non deve per forza tornare a casa. Potrei sistemarla in un hotel.» «Non importa dove mi nasconda. Lui mi scoprirà. Per qualche ragione ha scelto me. Mi ha fatto capire che è arrivato il mio turno.» «Non credo. Sarebbe una mossa incredibilmente stupida avvisare la sua prossima vittima. E il Chirurgo non è stupido.» «Perché ha contattato me? Perché scrivermi messaggi su...» La donna deglutì.
«Potrebbe essere una sfida per noi. Un modo di provocare la polizia.» «Allora il bastardo avrebbe dovuto scrivere a voi!» La sua voce risonò tanto forte che un'infermiera intenta a versarsi una tazza di caffè si voltò a guardarla. Arrossendo, Catherine si alzò in piedi. Si vergognò per quello scatto di rabbia, e rimase in silenzio mentre, insieme, uscirono dall'ospedale. Moore avrebbe voluto prenderla per mano, ma pensò che lei si sarebbe irrigidita, ritenendolo un gesto di accondiscendenza. Quella donna meritava il suo rispetto più di qualsiasi altra. Sedutisi in auto, Catherine mormorò: «Ho perso la testa là dentro. Mi dispiace». «In tali circostanze sarebbe accaduto a chiunque.» «A lei no.» Il sorriso di Moore fu ironico. «Io, naturalmente, non perdo mai la calma.» «Sì. L'ho notato.» Che significa? si domandò lui, mentre tornavano a Back Bay. Che lo credeva immune dalle tempeste che sconvolgono un cuore umano normale? Da quando una logica penetrante significava assenza di sentimenti? Sapeva che i colleghi della Omicidi lo chiamavano «san Tommaso». L'uomo cui rivolgersi quando le situazioni diventavano esplosive ed era necessario ritrovare un po' di calma. Non conoscevano, però, l'altro Thomas Moore, l'uomo che si soffermava davanti all'armadio della moglie, di notte, a inalare il profumo sempre meno intenso dei suoi vestiti. Vedevano soltanto la maschera che lui permetteva loro di vedere. «È facile per lei essere pacato. Non è l'oggetto della sua fissazione», mormorò la donna con un po' di risentimento. «Proviamo a esaminare la situazione...» «Ad analizzare la mia morte? Riuscirò senza dubbio a essere razionale.» «Il Chirurgo ha stabilito un modello col quale si trova a proprio agio. Aggredisce di notte, non di giorno. In fondo è un codardo, incapace di affrontare una donna ad armi pari. Vuole che la sua preda sia vulnerabile. A letto e addormentata. Incapace di reagire.» «Perciò non dovrei mai addormentarmi? Facile.» «Ciò che voglio dire è che evita di agire durante le ore di luce, quando la vittima è in grado di difendersi. Soltanto quando fa buio le cose cambiano.» Moore si fermò davanti a casa sua. Sebbene l'edificio non avesse il fa-
scino delle più antiche residenze di mattoni di Commonwealth Avenue, aveva il vantaggio di un garage sotterrano ben illuminato e chiuso da un cancello. Anche l'accesso all'entrata principale richiedeva, oltre alla chiave, un codice di sicurezza, che Catherine digitò sul tastierino. Entrarono in un atrio tutto specchi e pavimenti di marmo lucido. Elegante, ma asettico. Freddo. Un ascensore fastidiosamente silenzioso li portò al secondo piano. Giunti alla porta dell'appartamento la donna esitò, la chiave nuova in mano. «Posso entrare per primo a dare un'occhiata, se ciò la facesse sentir meglio», suggerì il detective. La Cordell sembrò considerare la proposta come un affronto personale. In tutta risposta, infilò la chiave nella toppa, aprì la porta ed entrò. Era come se dovesse provare a se stessa che il Chirurgo non l'aveva avuta vinta, che lei aveva ancora il controllo della sua vita. «Perché non esaminiamo le stanze a una a una?», propose Thomas. «Solo per assicurarci che non siano state messe in disordine.» Catherine annuì. Entrarono insieme in salotto, poi in cucina, e infine nella camera da letto. La dottoressa sapeva che il Chirurgo aveva preso souvenir da altre donne, perciò controllò con attenzione il portagioie e i cassetti del guardaroba, in cerca di eventuali segni di violazione. Moore era sulla soglia e la osservava frugare tra le camicie, i maglioni e la lingerie. E d'un tratto fu travolto dal ricordo sconvolgente dei vestiti di un'altra donna, nemmeno lontanamente tanto eleganti, piegati in una valigia. Ricordava un maglione grigio, una camicia rosa sbiadita, una vestaglia di cotone a fiordalisi blu. Nulla di nuovo, nulla di costoso. Perché non aveva mai comprato a Mary qualcosa di stravagante? Per che cosa pensava di risparmiare? Non per ciò cui erano poi serviti i soldi. Fatture mediche, case di cura, fisioterapie. Moore si voltò, andò in salotto e si sedette sul divano. Il sole del tardo pomeriggio entrava dalla finestra e il suo bagliore lo accecò. Si sfregò gli occhi e si prese la testa tra le mani, sentendosi in colpa per non aver pensato a Mary per tutto il giorno. E se ne vergognò ancor di più quando, sollevata la testa per guardare Catherine, tutti i suoi pensieri su Mary svanirono all'istante. È la donna più bella che abbia mai conosciuto, pensò. La donna più coraggiosa che abbia mai incontrato. «Non manca nulla. Per ciò che posso vedere.» «È sicura di voler rimanere qui? Sarei più contento se acconsentisse a
stare in un hotel.» La Cordell si avvicinò alla finestra e guardò fuori, il profilo illuminato dalla luce dorata del tramonto. «Ho trascorso gli ultimi due anni ad avere paura. A chiudere fuori il mondo coi lucchetti. A guardare dietro le porte e a controllare gli armadi. Ne ho abbastanza.» Lo fissò negli occhi. «Rivoglio la mia vita. Questa volta non lo lascerò vincere.» Aveva detto questa volta, come se si trattasse di una battaglia di una guerra molto più lunga. Come se il Chirurgo e Andrew Capra si fossero fusi in una singola entità, cui aveva ceduto brevemente due anni addietro, ma che non aveva davvero sconfitto. Capra. Il Chirurgo. Due teste dello stesso mostro. «Ha detto che ci sarà una pattuglia qua fuori stanotte. Me lo garantisce?» «Certo.» La Cordell fece un respiro profondo, e il sorriso che gli rivolse fu un atto di puro coraggio. «Allora non ho nulla da temere, giusto?» Quella sera, il senso di colpa lo spinse a deviare verso Newton invece di recarsi diritto a casa. Era rimasto scosso dalla sua reazione alla Cordell, e turbato da quanto Catherine avesse monopolizzato i suoi pensieri. Nell'anno e mezzo trascorso dalla morte di Mary aveva vissuto una vita monacale, senza provare interesse per nessuna donna, le passioni smorzate dal dolore. Ora non sapeva come affrontare quella nuova scintilla di desiderio. Sapeva soltanto che, data la situazione, era poco appropriata; e che rappresentava un segno d'infedeltà verso colei che aveva amato. Perciò, guidò fino a Newton per sistemare le cose. Per placare la coscienza. È come lottare contro i mulini a vento, pensò, guardandosi intorno nel giardino, su cui si proiettavano le prime ombre della sera; lo spazio angusto era sempre più invaso dai fiori, o almeno così gli sembrava. Sulle pareti della casa si erano arrampicati ipomee e cespugli di rose, e il giardino sembrava estendersi anche verso il cielo. Moore si sentì quasi imbarazzato col suo misero mazzo di margherite. Ma quelli erano i fiori preferiti di Mary, e ormai per lui era quasi un'abitudine sceglierli alla bancarella dei fiori. Sua moglie amava la loro allegra semplicità, i petali bianchi intorno ai piccoli soli color limone. Amava il loro profumo... non dolce e nauseante come quello di altre specie, ma intenso. Deciso. Adorava il modo in cui crescevano selvatiche nei terreni incolti e sul ciglio delle strade, a ricordo che la vera bellezza è spontanea e irrefrenabile.
Proprio come Mary. Il detective suonò il campanello. Un attimo dopo la porta si spalancò, e il viso che gli sorrise era tanto somigliante a quello di Mary che Thomas sentì una familiare fitta di dolore. Rose Connelly aveva gli occhi azzurri e le guance tonde della figlia e, sebbene i capelli fossero quasi completamente grigi e l'età le avesse lasciato segni sul volto, la somiglianza non lasciava dubbi. «Mi fa molto piacere vederti, Thomas», disse. «Era da tanto che non venivi a trovarmi.» «Mi dispiace, Rose. E difficile trovare il tempo, ultimamente. Non so neanche che giorno è oggi.» «Sto seguendo il caso in televisione. Che terribile faccenda ti è toccata.» Moore entrò in casa e le porse le margherite. «Non che tu abbia bisogno di altri fiori», osservò con ironia. «Non se ne hanno mai troppi. E sai quanto mi piacciono le margherite. Ti va un po' di tè freddo?» «Volentieri, grazie.» Si sedettero in salotto, a sorseggiare il tè. Aveva un sapore dolce, di sole, come si beveva nella Carolina del sud, dov'era nata Rose. Completamente diverso dalla miscela scura del New England con cui era cresciuto Moore. Anche la stanza era dolce, incredibilmente fuori moda per gli standard di Boston. Troppo chintz, troppi ninnoli. Quanto gli ricordava Mary! Era ovunque. Foto appese alle pareti, trofei di nuoto sugli scaffali della libreria, il pianoforte di quand'era piccola. Il fantasma di quella bambina era ancora lì, nella casa in cui era cresciuta. E c'era Rose, la custode del focolare, che somigliava tanto alla figlia che a Moore pareva, talora, di vedere Mary osservarlo da quegli occhi blu. «Hai l'aria stanca», disse la donna. «Davvero?» «Non sei più andato in ferie, vero?» «Mi hanno richiamato. Ero già in auto, al casello della Maine. Avevo preparato le mie canne da pesca, e comprato una cassetta nuova. Mi manca il lago. È l'unica cosa che desidero in tutto l'anno.» Anche Mary adorava andarci. Thomas guardò brevemente i trofei di nuoto sullo scaffale: era una piccola e vigorosa sirena che avrebbe vissuto tutta la vita in acqua, se soltanto avesse avuto le branchie. Ricordò le bracciate poderose e nette con cui una volta aveva attraversato il lago. E ricordò quelle stesse braccia ridotte a due ramoscelli avvizziti nella stanza
d'ospedale. «Dopo che avrai risolto il caso, potrai sempre andarci», disse Rose. «Non so se ne verremo a capo.» «Non è da te scoraggiarti in questo modo.» «Si tratta di un crimine diverso, Rose. Commesso da una persona che proprio non riesco a capire.» «Ci riesci sempre.» «Sempre?» Moore scosse il capo e sorrise. «Mi sopravvaluti.» «È quello che diceva Mary. Le piaceva vantarsi di te, lo sai. Lo prende sempre il suo uomo.» Ma a quale prezzo? si domandò, il sorriso ormai scomparso. Ricordò le notti passate sulle scene del delitto, le cene mancate, i weekend in cui la sua mente era occupata soltanto da pensieri di lavoro. E Mary aveva sempre aspettato, paziente, che le dedicasse la sua attenzione. Se potessi rivivere soltanto un giorno, trascorrerci ogni minuto con te. Abbracciati nel letto, a sussurrarci segreti sotto lenzuola calde. Ma Dio non ti concede seconde possibilità di questo genere. «Era tanto fiera di te», mormorò Rose. «Io ero orgoglioso di lei.» «Avete trascorso vent'anni insieme. È assai di più di quanto molte persone possano desiderare.» «Sono avido, Rose. Volevo di più.» «E sei arrabbiato perché non l'hai avuto.» «Sì, credo di sì. Sono furioso che l'aneurisma sia toccato a lei. Che fosse lei quella che non potevano salvare. E sono furente perché...» Thomas s'interruppe. Fece un respiro profondo. «Mi spiace. Ma è difficile. Tutto è tanto difficile in questi giorni.» «Lo è per entrambi», mormorò la donna. Si guardarono in silenzio. Sì, naturalmente, era ancora più doloroso per Rose, una vedova che aveva perduto la sua unica figlia. Si domandò se l'avrebbe perdonato nel caso si fosse risposato. O l'avrebbe invece considerato una sorta di tradimento? Un relegare la memoria della figlia a una tomba ancor più profonda? All'improvviso, si accorse di non riuscire più a sostenere il suo sguardo, e voltò la testa, in preda a un profondo senso di colpa. La stesso che aveva provato quel pomeriggio quando aveva guardato Catherine Cordell e aveva sentito risvegliarsi un inconfondibile desiderio. Thomas appoggiò il bicchiere vuoto e si alzò. «Devo andare.»
«Torni già al lavoro?» «Non smettiamo finché non lo prendiamo.» Rose lo accompagnò alla porta e rimase a guardarlo mentre attraversava il minuscolo giardino fino al cancelletto d'entrata. Si voltò e disse: «Chiudi le porte a chiave, Rose». «Oh, me lo ripeti sempre.» «E dico sempre sul serio.» Le fece un cenno e se ne andò, pensando: Stanotte più che mai. Dove andiamo dipende da ciò che sappiamo, e ciò che sappiamo dipende da dove andiamo. La frase continuava a girarle in testa come un'odiosa filastrocca infantile, mentre Jane Rizzoli fissava la cartina di Boston appesa a una lavagna di sughero, sulla parete del suo appartamento. L'aveva attaccata il giorno dopo la scoperta del cadavere di Elena Ortiz. Nel corso delle indagini vi aveva conficcato alcune puntine colorate. Tre colori diversi rappresentavano tre donne differenti. Il bianco, Elena Ortiz. Il blu, Diana Sterling. E il verde, Nina Peyton. Ogni puntina contrassegnava un luogo all'interno della loro sfera di attività: residenza, luogo di lavoro, case di amici o di parenti stretti, strutture mediche cui si erano rivolte. In breve, l'habitat della preda. Da qualche parte nel corso delle attività quotidiane, il mondo di ognuna di loro si era incrociato con quello del Chirurgo. Dove andiamo dipende da ciò che sappiamo, e ciò che sappiamo dipende da dove andiamo. E dove andava il Chirurgo? si domandò Jane. Qual era il suo mondo? Si sedette per cenare: sandwich al tonno e patatine fritte, il tutto annaffiato da una birra. Mentre masticava, studiò la mappa. Ogni mattina, quando beveva il caffè, ogni sera, quando cenava... ammesso che tornasse per cena... si ritrovava a fissare inesorabilmente quelle puntine colorate. Altre donne avrebbero appeso quadri di fiori, poster di paesaggi o di film, ma lei no, solo una cartina con gli spostamenti delle vittime. La sua vita si era ridotta a tre attività: mangiare, dormire e lavorare. Viveva in quell'appartamento ormai da tre anni, ma le pareti erano ancora pressoché spoglie. Nessuna pianta (chi aveva tempo di bagnarle?), nessuno stupido soprammobile, nemmeno le tende. Alle finestre, soltanto veneziane. Come la sua vita, anche la sua abitazione era semplificata in funzione del lavoro. Jane amava il suo mestiere e viveva per questo. Sapeva di voler diventare detective fin da quando aveva dodici anni, il giorno in cui
un'agente aveva fatto visita alla sua scuola nel giorno dedicato alle professioni. La classe aveva dapprima ascoltato un'infermiera e un avvocato, poi un panettiere e un ingegnere. Dopo un po', i bambini erano diventati chiassosi; elastici di gomma erano comparsi tra i banchi, ed era stata anche lanciata una pallina di carta masticata. Poi fu il turno della donna poliziotto, l'arma nella fondina appesa al fianco, e la classe si era zittita all'istante. La Rizzoli non lo dimenticò mai. Non scordò nemmeno come i maschi avevano guardato con adorazione una donna. Ora quella donna poliziotto era lei e, sebbene avesse il rispetto dei dodicenni, spesso non otteneva il rispetto dagli adulti. Sii la migliore era la sua strategia. Superali in ogni cosa, eclissali. Ed eccola al lavoro persino mentre cenava. Omicidi e sandwich al tonno. Bevve un lungo sorso di birra, poi si appoggiò allo schienale a fissare la cartina. C'era qualcosa di sinistro nell'osservare la geografia dei defunti. Dove avevano vissuto la loro vita, i luoghi che erano stati per loro importanti. Alla riunione del giorno prima, lo psicologo criminale, il dottor Zucker, aveva fornito numerosi termini per il profiling. Punti d'appiglio. Centri d'attività. Retroscena. Be', non aveva certo bisogno delle belle parole di Zucker o di un programma computerizzato per sapere che cosa stesse guardando e come interpretarlo. Esaminando la cartina, ciò che s'immaginava era una savana pullulante di prede. Le puntine colorate definivano gli universi personali di tre gazzelle sfortunate. Quello di Diana Sterling nella parte settentrionale, a Back Bay e Beacon Hill. Quello di Elena Ortiz nel South End. Mentre l'universo di Nina Peyton era situato a sud-ovest, nel sobborgo di Jamaica Plain. Tre habitat distinti, senza sovrapposizioni. E qual è il tuo? Jane tentò di vedere la città con gli occhi dell'assassino. Vide canyon di grattacieli, parchi verdi come pascoli estesi. Sentieri lungo i quali si muovevano greggi di prede stolte, inconsapevoli della presenza vigile di un cacciatore. Un predatore che uccideva nel tempo e nello spazio. Squillò il telefono e la Rizzoli trasalì, rovesciando la bottiglia di birra. Merda. Afferrò un rotolo di carta da cucina e asciugò la tavola mentre rispondeva alla chiamata. «Rizzoli.» «Ciao, Janie.» «Oh. Ciao, mamma.» «Non mi hai più richiamato.»
«Come?» «Ti ho telefonato qualche giorno fa. Mi hai detto che richiamavi ma non l'hai fatto.» «Mi è uscito di mente. Sono oberata di lavoro.» «Frankie arriva settimana prossima. Non è magnifico?» «Sì. È magnifico», sospirò Jane. «Vedi tuo fratello una volta all'anno, non potresti essere un po' più contenta?» «Mamma, sono stanca. Il caso del Chirurgo non ci dà tregua.» «La polizia l'ha catturato?» «Io sono la polizia.» «Sai che cosa intendo.» Già, lo sapeva. Sua madre probabilmente s'immaginava la piccola Janie che rispondeva al telefono e portava caffè a tutti quegli importanti detective uomini. «Vieni a cena, d'accordo?» continuò la madre, sorvolando sul lavoro della figlia. «Venerdì prossimo.» «Non posso prometterlo, dipende da come evolverà il caso.» «Oh, potresti ben farlo per tuo fratello.» «Se la cosa si complica, dovrò venire un altro giorno.» «Non possiamo fare un altro giorno. Mike è già d'accordo di venire venerdì.» Be', certo. Pensiamo sempre e solo a mio fratello Michael. «Janie?» «Sì, mamma. Venerdì.» La Rizzoli riattaccò, lo stomaco agitato dalla rabbia repressa, un sentimento che le era fin troppo familiare. Dio mio, come aveva fatto a sopravvivere alla sua infanzia? Prese la birra e si scolò le poche gocce che non aveva rovesciato. Poi sollevò di nuovo lo sguardo sulla cartina. In quel momento riuscire a catturare il Chirurgo era la cosa più importante. Tutti gli anni trascorsi in qualità di sorella ignorata, di ragazza comune, fecero sì che la collera si concentrasse su di lui. Chi sei? Dove abiti? Per un attimo rimase immobile, pensierosa, a fissare la carta. Poi prese la scatola di puntine da disegno e scelse un nuovo colore. Rosso. Infilzò una puntina su Commonwealth Avenue, un'altra sul Pilgrim Hospital, nel South End. Il rosso indicava l'habitat di Catherine Cordell, che intersecava
sia l'universo di Diana Sterling sia quello di Elena Ortiz. La Cordell era l'elemento comune, e si muoveva tra i mondi di entrambe le vittime. E la vita della terza vittima, Nina Peyton, adesso è nelle sue mani. 10 Il Gramercy Pub era un locale affollato persino di lunedì pomeriggio. Erano le sette e il popolo degli impiegati single era fuori, in centro, pronto a divertirsi. Quello era il loro parco giochi. La Rizzoli sedeva a un tavolo accanto all'entrata e sentiva ventate di aria calda riversarsi nel locale ogni volta che la porta si apriva per far entrare un altro clone uscito da GQ o un'altra Barbie da ufficio che ondeggiava su tacchi da otto centimetri. Jane, che indossava il suo solito tailleur ampio giacca e pantaloni e le scarpe basse, si sentiva una studentessa delle superiori. Vide entrare due donne, melliflue come gatte, che lasciarono dietro di sé una scia di profumo; la Rizzoli non si metteva mai profumo. Aveva uno stick di rossetto, che teneva da qualche parte in fondo all'armadietto del bagno, un mascara ormai secco e una boccetta di fondotinta. Aveva comprato quei cosmetici cinque anni prima in un supermercato, pensando che forse, coi giusti strumenti, persino lei poteva somigliare a una ragazza copertina come Elizabeth Hurley. La truccatrice l'aveva incremettata, incipriata, e le aveva messo matita e ombretto; una volta terminato, le aveva porto trionfante uno specchio e, sorridendo, le aveva chiesto: «Che cosa ne dice del suo nuovo look?» Ciò che aveva pensato la Rizzoli guardando la sua immagine riflessa era che odiava Elizabeth Hurley perché dava alle donne false speranze. La brutale verità era che ne esistono alcune che non saranno mai belle, e Jane era una di quelle. Perciò rimase seduta, inosservata, a bere il suo ginger ale mentre osservava il pub riempirsi gradualmente di clienti. Era una folla chiassosa; c'era un gran chiacchiericcio e un tintinnare di cubetti di ghiaccio, le risate sembravano un po' troppo rumorose, un po' troppo forzate. La Rizzoli si alzò in piedi, si diresse verso il bancone e mostrò al barista il suo distintivo: «Ho un paio di domande da farle». L'uomo lo guardò appena, poi batté qualcosa sul registratore di cassa. «D'accordo, spari.» «Si ricorda di aver visto questa donna, qui?» La Rizzoli aveva appoggiato una foto della Peyton sul banco.
«Sì, e non è il primo agente che chiede di lei. È venuta un'altra detective, circa un mese fa.» «Dell'unità Crimini Sessuali?» «Credo. Voleva sapere se avessi notato qualcuno rimorchiare la ragazza della foto.» «E l'ha visto?» L'uomo scrollò le spalle. «Qui dentro sono tutti a caccia. Non ci faccio caso.» «Ma si ricorda della ragazza? Si chiama Nina Peyton.» «L'ho vista qualche volta, in genere con un'amica. Non conoscevo il suo nome ed è da qualche tempo che non si vede.» «Sa perché?» «No.» Il barista prese uno straccio e cominciò a pulire il bancone, senza prestarle più molta attenzione. «Glielo dico io il motivo», esclamò Jane, alzando la voce per la rabbia. «Perché quel bastardo ha deciso di divertirsi un po'. Perciò è venuto qui a scegliersi una vittima. Si è guardato intorno, ha visto Nina Peyton, e ha pensato: ecco una buona fica. Certamente non ha visto un essere umano, quando l'ha guardata, ma soltanto qualcosa che poteva usare e gettare via.» «Ascolti, non c'è bisogno che mi racconti queste cose.» «E invece sì. E lei deve starmi ad ascoltare perché è accaduto proprio sotto il suo naso e lei ha scelto di non vedere. Qualche stronzo versa un po' di droga nel drink di una donna; quasi subito lei inizia a star male e si trascina in bagno. Il bastardo la prende per un braccio e la porta fuori. E lei non ha visto niente di tutto questo?» «No», rispose. «Non ho visto niente.» Il locale si era acquietato. Jane vide che la gente la guardava. Senza una parola si allontanò dal bancone e si risedette al tavolo. Dopo un attimo, il brusio della conversazione riprese, indisturbato. La donna osservò il barista passare due whisky a un uomo, e vide quest'ultimo porgerne uno a una donna. Osservò i clienti portarsi il bicchiere alle labbra e leccarsi il sale lasciato dai Margarita, vide teste reclinate all'indietro mentre vodka, tequila e birra scivolavano giù per le gole. E alcuni uomini fissare alcune donne. Jane sorseggiò il suo ginger ale e si sentì intossicata, ma non dall'alcol, dalla rabbia. Lei, la femmina solitaria seduta nell'angolo, riusciva a vedere con estrema chiarezza che cosa fosse realmente quel luogo. Una fonte alla quale preda e predatore si abbeveravano insieme.
D'un tratto il cercapersone squillò. Era Barry Frost. «Cos'è questo casino?» «Sono seduta in un bar.» Jane si voltò, fulminando con lo sguardo le persone di un tavolo vicino che erano appena esplose in una risata fragorosa. «Che cos'hai detto?» «... un medico in Marlborough Street. Ho una copia della sua cartella.» «La cartella medica di chi?» «Della Sterling.» Immediatamente la Rizzoli si protese, tutta l'attenzione concentrata sulla voce debole di Frost. «Ripeti. Chi è il dottore e perché la Sterling è andata da lui?» «Il dottore è una lei. Bonnie Gillespie. Una ginecologa che ha lo studio in Marlborough Street.» Un altro scoppio di risa sovrastò le parole del collega. Jane si portò una mano all'orecchio in modo da udire la frase successiva. «Perché Diana Sterling è andata da lei?» gridò. Ma conosceva già la risposta; la vedeva diritta davanti a lei mentre guardava il bancone, dove due uomini stavano convergendo su una donna come leoni su una zebra. «Aggressione sessuale. Anche Diana Sterling era stata violentata.» «Tutt'e tre sono state vittime di violenza carnale», disse Moore. «Ma né Elena Ortiz né Diana Sterling hanno denunciato l'accaduto. Abbiamo scoperto lo stupro della Sterling soltanto perché abbiamo controllato consultori e ginecologi per verificare se fosse mai stata curata per tale ragione. Diana non ha mai raccontato ai genitori dell'aggressione. Quando li ho chiamati stamattina, sono rimasti sconvolti.» Era soltanto metà mattina, ma i volti che Moore vide intorno a sé in sala riunioni apparivano stanchi. Tutti erano in arretrato di sonno, e si profilava un'altra giornata impegnativa. «Perciò l'unica persona che sapeva dello stupro della Sterling era questa ginecologa di Marlborough Street?» osservò il tenente Marquette. «La dottoressa Bonnie Gillespie. È stata la prima e unica visita di Diana. C'è andata perché aveva paura di poter contrarre l'AIDS.» «Che cosa sa la dottoressa dello stupro?» Frost, che aveva interrogato la Gillespie, rispose alla domanda e aprì il raccoglitore contenente il referto medico della Sterling. «Ecco cosa ha scritto la dottoressa: 'Donna bianca, trentenne, richiede test HIV. Rapporto
sessuale non protetto cinque giorni fa, stato di salute del partner, sconosciuto. Quando le ho domandato se il partner rientrasse in un gruppo a rischio, la paziente è scoppiata in lacrime, e ha rivelato che il rapporto non era stato consensuale, e che non conosceva il nome dell'assalitore. Non vuole denunciare l'aggressione. Si rifiuta di andare da un terapeuta'. Queste sono tutte le informazioni che la Gillespie ha ottenuto dalla Sterling. Le ha fatto un esame pelvico, il test per la sifilide, la gonorrea e l'HIV, e le ha detto di tornare dopo due mesi per un esame del sangue di follow-up. La paziente non si è mai presentata. Perché è morta.» «E la dottoressa non ha chiamato la polizia? Nemmeno dopo l'omicidio?» «Non sapeva che la paziente fosse morta. Non ha mai sentito la notizia al telegiornale.» «È stato raccolto materiale organico? Sperma?» «No. La paziente, uh...» Frost arrossì per l'imbarazzo. Alcuni argomenti risultavano difficili da discutere anche per un uomo sposato. «Si è fatta qualche lavaggio, subito dopo l'aggressione.» «Puoi biasimarla? Cazzo, a me sarebbe venuta voglia di lavarmi col Lysol», affermò la Rizzoli. «Tre vittime di stupro», asserì Marquette. «Non si tratta di una coincidenza.» «Se trovate il violentatore, credo che troverete anche il vostro uomo. A che punto siamo col DNA prelevato dalla Peyton?» intervenne Zucker. «L'abbiamo sollecitato», rispose Jane. «Il laboratorio aveva il campione di sperma da quasi due mesi e non aveva ancora fatto nulla. Gli ho messo un po' di pepe al culo. Incrociate le dita, sperando che il soggetto sia già nel CODIS.» Il CODIS, il Combined DNA Index System, era il database nazionale dell'FBI che raccoglieva i profili genetici. Il sistema era ancora agli inizi, e i profili di mezzo milione di criminali in carcere non erano ancora stati inseriti. Le possibilità di fare centro non erano, dunque, molte. Marquette guardò il dottor Zucker. «Il nostro uomo prima aggredisce la vittima sessualmente. Dopo qualche settimana torna per ucciderla. Ha senso tutto ciò?» «Non deve averne per noi», disse Zucker. «Soltanto per lui. Non è insolito per uno stupratore aggredire la vittima una seconda volta. Lei diventa una sorta di proprietà, poiché si è instaurata una relazione, per quanto patologica.»
La Rizzoli sbuffò. «E la chiama relazione?» «Tra stupratore e vittima. Sembra incredibile ma è così. È basata sul potere. Dapprima glielo porta via e la rende qualcosa d'inferiore a un essere umano. Una sorta di oggetto. Lui lo sa e, cosa più importante, ne è consapevole anche la vittima. Il fatto che lei sia vulnerabile, umiliata, può eccitarlo tanto da indurlo a tornare. Prima la marchia con lo stupro. E poi torna a reclamarne il possesso.» Donne devastate... pensò Moore. Questo è il legame comune tra le vittime. Improvvisamente gli venne in mente che anche Catherine rientrava in quella categoria. «Non ha mai stuprato la Cordell», precisò Moore. «Ma lei è vittima di una violenza carnale.» «Il suo aggressore è morto due anni fa. Come ha fatto il Chirurgo a identificarla come vittima? Com'è apparsa sul suo radar? Lei non parla mai della violenza subita, a nessuno.» «Ne ha parlato su Internet, non è vero? Quella chat-room privata...» Zucker s'interruppe. «Gesù. È possibile che cerchi le sue vittime tramite la rete?» «Abbiamo valutato l'ipotesi», intervenne Moore. «Nina Peyton non possiede un computer. E Catherine non ha mai rivelato il suo nome in quella chat. Perciò torniamo alla domanda iniziale: perché il Chirurgo si è fissato sulla Cordell?» «Sembra ossessionato da lei», disse lo psicologo. «Esce dai suoi schemi per perseguitarla. Corre rischi solo per inviarle la foto di Nina Peyton. E questo innesca per lui una catena disastrosa di eventi. La foto conduce la polizia diritta a casa della ragazza. Lui fugge e non riesce a completare l'uccisione, non riesce a soddisfarsi. E ancor peggio, lascia una testimone. L'errore più grande che potesse commettere.» «Non è stato un errore. Voleva che rimanesse in vita», disse Jane. Il suo commento suscitò espressioni scettiche intorno al tavolo. «In quale altro modo spieghereste un passo falso del genere? La foto spedita alla Cordell aveva lo scopo di condurci dalla Peyton. L'ha inviata e ha atteso il nostro arrivo. Ha aspettato la nostra telefonata a casa della vittima. Sapeva che eravamo sulle sue tracce e le ha tagliato la gola malamente perché voleva che la trovassimo viva.» «Oh, sì», sbottò Crowe. «Faceva tutto parte del piano.» «E la ragione per cui l'avrebbe fatto?» chiese Zucker alla Rizzoli. «La ragione era scritta sulla sua coscia. Nina Peyton era un'offerta per la
Cordell. Un regalo per spaventarla a morte.» Vi fu un istante di silenzio. «Se è così, ha funzionato. La Cordell è terrorizzata», intervenne Moore. Il dottor Zucker si appoggiò allo schienale della sedia e valutò la teoria di Jane. «Ha corso un grande rischio soltanto per spaventare una donna. È segno di megalomania. Potrebbe significare che sta andando incontro a uno scompenso. Com'è accaduto alla fine a Jeffrey Dahmer e a Ted Bundy. Persero il controllo delle proprie fantasie, divennero via via più distratti e iniziarono a commettere errori.» Zucker si alzò e si avvicinò al tabellone appeso al muro. Vi erano scritti tre nomi. Sotto quello di Nina Peyton, ne scrisse un quarto: Catherine Cordell. «Non è una delle sue vittime... non ancora. Ma in qualche modo l'ha identificata come oggetto d'interesse. Come l'ha scelta? Avete parlato coi suoi colleghi? Nessuno di loro ha destato i vostri sospetti?» «Abbiamo eliminato Kenneth Kimball, il medico del pronto soccorso», rispose la Rizzoli. «Era di turno la notte in cui Nina è stata aggredita. Abbiamo interrogato anche gran parte dell'equipe chirurgica di sesso maschile, nonché gli interni.» «Che mi dite del collega della Cordell, il dottor Falco?» «Il dottor Falco non è stato escluso.» Ora Jane aveva ottenuto l'attenzione di Zucker, il quale si concentrò su di lei con una strana luce negli occhi. Lo sguardo da scienziato pazzo, come lo chiamavano gli agenti della Omicidi. «Mi dica di più», mormorò rivolto alla donna. «Il dottor Falco è irreprensibile sulla carta. Diplomato in ingegneria al MIT. MD ad Harvard. Chirurgo interno al Peter Bent Brigham. Cresciuto da una ragazza madre, ha frequentato il college e la facoltà di medicina. Pilota un aereo personale. E infine, è un bell'uomo. Non è Mel Gibson, ma non passa inosservato.» Darren Crowe scoppiò a ridere^ «Ehi, la Rizzoli giudica gli indiziati dall'aspetto esteriore. È così che fanno le donne poliziotto?» Jane gli lanciò un'occhiata ostile. «Ciò che intendo dire», continuò, «è che quell'uomo potrebbe avere una decina di donne al suo fianco. Ma ho udito dalle infermiere che l'unica cui è interessato è Catherine Cordell. Non è un segreto che continui a invitarla a uscire. E lei continua a rifiutare. Forse inizia ad arrabbiarsi.» «Il dottor Falco merita d'esser tenuto d'occhio. Ma non restringiamo
troppo in fretta la lista. Torniamo alla Cordell. Esistono altre ragioni per cui il Chirurgo possa averla scelta come vittima?» Fu Moore a ribaltare la domanda. «E se lei non fosse semplicemente un'altra della lista? Se fosse sempre stata l'oggetto delle sue attenzioni? Ognuna delle aggressioni è stata una replica di quello che è stato fatto a quelle donne in Georgia. Di ciò che è stato quasi perpetrato ai danni della Cordell. Non riusciamo a spiegarci perché imiti Andrew Capra. Non riusciamo a capire perché si sia focalizzato sull'unica sopravvissuta della strage di Capra. Le altre donne, la Sterling, la Ortiz, la Peyton... e se fossero semplicemente surrogati della vittima principale?» «La teoria del bersaglio di rappresaglia», mormorò Zucker. «Non puoi uccidere la donna che odi perché è troppo potente. T'intimidisce. Perciò uccidi una sostituta, una donna che rappresenta quel bersaglio.» «Sta dicendo che il suo vero bersaglio è sempre stata la Cordell? Ma che ha paura di lei?» chiese Frost. «E la stessa ragione per cui Edmund Kemper non uccise la madre, se non alla fine del suo raptus omicida», disse lo psicologo. «Lei era stata da sempre il bersaglio reale, la donna che disprezzava, ma lui sfogò la sua rabbia su altre vittime. A ogni aggressione distruggeva simbolicamente la madre. Non poteva ucciderla, non subito, perché la donna esercitava troppa autorità su di lui. In un certo senso ne aveva paura. Ma omicidio dopo omicidio acquisì sempre più sicurezza. Potere. E alla fine, ottenne il suo scopo. Le spaccò il cranio, la decapitò e la stuprò. E, come insulto finale, le strappò la laringe e la gettò nella spazzatura. Il vero bersaglio della sua rabbia era finalmente morto. E terminarono anche gli omicidi. Dopodiché Edmund Kemper si costituì.» Barry Frost, solitamente il primo agente a vomitare sulla scena di un delitto, sembrò nauseato di fronte alla brutalità di quel finale. «Dunque, le prime tre aggressioni», chiese, «potrebbero essere soltanto una sorta di riscaldamento per quello principale?» Zucker annuì. «L'uccisione di Catherine Cordell.» Moore si sentì quasi morire quando vide il sorriso sul volto di Catherine che gli veniva incontro nella sala d'attesa della clinica, poiché sapeva che le domande che doveva porle avrebbero sicuramente rovinato quel benvenuto. Guardandola ora, Thomas non vedeva una vittima, ma una bellissima donna che gli prese subito la mano tra le sue e sembrò riluttante a lasciarla andare.
«Spero che sia un momento opportuno per parlare», mormorò il detective. «Ho sempre un po' di tempo per lei. Le va una tazza di caffè?» «No, grazie. Sono a posto così.» «Allora andiamo nel mio studio.» La dottoressa si sedette alla scrivania e attese ansiosa qualsiasi notizia avesse da comunicarle. In quegli ultimi pochi giorni aveva imparato a fidarsi di lui, e il suo sguardo era indifeso, vulnerabile. Moore si era guadagnato la sua fiducia come amico, e ora stava per infrangerla. «È chiaro a tutti», esordì, «che il Chirurgo mira a lei.» Catherine annuì. «Quello che ci chiediamo è perché. Perché imita i crimini di Andrew Capra? Perché è diventata il centro della sua attenzione? Conosce per caso la risposta?» La donna lo guardò sbalordita. «Non ne ho idea.» «Noi pensiamo di sì.» «Come potrei conoscere il suo modo di pensare?» «Catherine, potrebbe uccidere qualche altra donna a Boston. Potrebbe scegliere una ragazza impreparata, che non sa di essere perseguitata. E questa sarebbe per lui la cosa più logica da fare. Lei è la preda più difficile che abbia mai scelto, perché è già in allerta, teme un'aggressione. Inoltre il Chirurgo rende la caccia ancor più ostica, avvisandola e provocandola. Perché?» Ogni traccia di benvenuto era scomparsa dai suoi occhi. All'improvviso Catherine raddrizzò le spalle e chiuse i pugni sulla scrivania. «Glielo ripeto, non lo so.» «Lei è l'unico legame fisico tra Andrew Capra e il Chirurgo. La vittima comune. Come se Capra fosse ancora vivo, e continuasse da dov'era stato interrotto. Ossia da lei. Dalla donna che gli è sfuggita.» Catherine fissò la scrivania, i fascicoli ben impilati fuori e dentro i contenitori. Tutti gli appunti medici che aveva scritto con calligrafia stretta e precisa. Sedeva perfettamente immobile, ma le nocche delle mani si protesero, bianche come l'avorio. «Che cosa non mi ha detto di Andrew Capra?» le chiese tranquillamente. «Non le ho tenuto nascosto niente.» «La notte in cui l'ha aggredita, perché era venuto a casa sua?» «Che importanza ha?» «Era l'unica vittima che Capra conosceva di persona. Le altre erano e-
stranee, donne rimorchiate nei bar. Lei era diversa. Quell'uomo aveva scelto lei.» «Era... forse era arrabbiato con me.» «Venne per discutere una questione di lavoro. Un errore che aveva commesso. Questo è ciò che disse al detective Singer.» Catherine annuì. «Era qualcosa di più di un errore, era una serie di sbagli. Sbagli medici. E non aveva eseguito nessun follow-up di alcuni esami ematici anomali. Si dimostrava costantemente negligente. L'avevo ripreso quello stesso giorno in ospedale.» «Che cosa gli disse?» «Gli consigliai di cercarsi un'altra specialità, perché non l'avrei raccomandato per un secondo anno da interno.» «La minacciò? Espresse rabbia?» «No. E quella fu la cosa strana. Accettò semplicemente la cosa. E... mi sorrise.» «Le sorrise?» La Cordell annuì. «Come se in realtà non gliene importasse.» Quell'immagine diede un brivido a Moore. Allora lei non poteva sapere che il sorriso di Capra mascherasse una rabbia infinita. «Più tardi, quella sera, a casa sua, quando l'ha aggredita...» «Ho già raccontato ciò che accadde. È nel verbale. È tutto là dentro.» Moore tacque per un istante. Poi, con riluttanza, insistette. «Ci sono cose che non ha detto a Singer. Particolari che ha omesso.» Catherine sollevò lo sguardo, le guance rosse di rabbia. «Non ho tralasciato niente!» Moore si detestava per il fatto di doverla costringere a rispondere ad altre domande, ma non aveva scelta. «Ho riesaminato il rapporto dell'autopsia di Capra. Non è coerente con la dichiarazione che ha rilasciato alla polizia di Savannah.» «Riferii al detective Singer esattamente quello che era accaduto.» «Dichiarò che giaceva riversa sul letto, che allungò una mano sotto di esso per raggiungere la pistola. Da quella posizione prese la mira e sparò a Capra.» «Ed è la verità. Lo giuro.» «Secondo l'autopsia, la pallottola, sparata dal basso, penetrò nell'addome e attraversò la colonna vertebrale, paralizzandolo. Questo è coerente con la sua dichiarazione.» «E allora perché sostiene che menta?»
Ancora una volta Moore tacque, troppo dispiaciuto di dover infierire in quel modo. «C'è il problema del secondo proiettile», mormorò. «È stato sparato quasi a bruciapelo, diritto nell'occhio sinistro. Ma lei, Catherine, giaceva sul pavimento.» «Deve essersi piegato in avanti, ed è stato allora che ho sparato...» «Deve essersi?» «Non lo so. Non ricordo.» «Non ricorda di aver sparato la seconda volta?» «No. Sì...» «Come sono andate veramente le cose, Catherine?» Glielo chiese con voce tranquilla, ma non riuscì ad attenuare la durezza di quelle parole. La Cordell scattò in piedi. «Non permetto che mi s'interroghi in questo modo. Io sono la vittima.» «E io sto cercando di tenerla in vita. Ho bisogno di sapere la verità.» «Le ho detto la verità! Ora credo sia meglio che se ne vada.» Catherine raggiunse la porta, l'aprì di scatto e trasalì. Peter Falco stava in piedi sulla soglia, la mano pronta a bussare. «Stai bene, Catherine?» chiese. «Tutto bene», sbottò lei. Peter lanciò a Moore un'occhiata raggelante. «Che cosa sono queste, molestie della polizia?» «Sto facendo un paio di domande alla dottoressa Cordell, tutto qua.» «Non è quello che sembrava dal corridoio.» Peter guardò la donna. «Vuoi che lo accompagni fuori?» «Posso cavarmela da sola.» «Non sei obbligata a rispondere.» «Lo so, grazie.» «Va bene. Ma se hai bisogno di me, sono qui fuori.» Falco lanciò un'ultima occhiata d'avvertimento al detective, poi si voltò e tornò nel suo studio. All'estremità opposta del corridoio, Helen e il contabile la stavano fissando. Turbata, la dottoressa richiuse la porta. Per un momento rimase con le spalle rivolte a Moore. Poi si raddrizzò, e si voltò. Che avesse risposto ora o più tardi, le domande sarebbero comunque rimaste. «Non le ho nascosto nulla. Se non posso dirle tutto ciò che è accaduto quella notte è perché non lo ricordo.» «Perciò la dichiarazione rilasciata alla polizia di Savannah non è del tutto vera.» «Ero ancora in ospedale quando mi hanno interrogato. Il detective
Singer discusse con me di ciò che era accaduto, aiutandomi a ricomporre i pezzi. Gli dissi ciò che a quel tempo pensavo fosse esatto.» «E ora non ne è sicura.» Catherine scosse il capo. «È difficile capire quali siano i ricordi reali. Molti sono stati cancellati per via del farmaco che mi somministrò. Il Rohypnol. Ancora oggi, ogni tanto, ho un flashback. Qualcosa che può o no essere vero.» «Ancora oggi?» «Ne ho avuto uno la scorsa notte. Il primo, dopo mesi. Pensavo di aver superato quella fase; pensavo che fossero svaniti.» La Cordell raggiunse la finestra e guardò fuori. La vista era oscurata dall'ombra del cemento. Il suo studio dava sull'ospedale, e dalla finestra si potevano vedere le finestre delle stanze dei pazienti. Uno sguardo nel mondo privato dei malati e dei morenti. «Due anni sembrano un'eternità», sospirò Catherine. «Un tempo sufficientemente lungo per dimenticare. Ma due anni, in realtà, non sono nulla. Nulla. Dopo quella notte, non riuscii più a entrare in casa mia, non potei più metter piede nel luogo dov'era accaduto. Mio padre dovette impacchettare le mie cose e trasferirmi in un'altra abitazione. Eccomi là, la responsabile dei medici interni, abituata alla vista del sangue e delle budella... eppure il solo pensiero di percorrere quel corridoio, di aprire la porta della mia vecchia stanza... mi faceva sudare freddo. Mio padre cercò di comprendere, ma è un vecchio militare, non accetta la debolezza. La considerò una ferita di guerra: una volta guarita, puoi continuare la tua vita. Mi disse di crescere e di dimenticare.» La Cordell scosse la testa e si mise a ridere. «Dimenticare. Sembra facile. Non aveva idea di quanto fosse difficile per me uscire di casa ogni mattina. Raggiungere l'auto. Essere tanto esposta. Dopo un po' di tempo smisi di parlargli, perché sapevo che la mia fragilità lo disgustava. Non lo chiamai per mesi... «Mi ci sono voluti due anni per riuscire a controllare la paura, per riuscire a vivere in modo ragionevolmente normale, senza la sensazione che qualcosa salti fuori da ogni angolo. Avevo ritrovato la mia vita.» Si passò una mano sugli occhi e si asciugò, rabbiosa, le lacrime. La voce si ridusse a un sussurro. «E ora l'ho di nuovo perduta...» Catherine stava tremando nel tentativo di non piangere e, mentre lottava per riacquistare il controllo, si cinse il corpo affondandosi le dita nelle braccia. Moore si alzò dalla sedia e le si avvicinò, fermandosi dietro di lei. Si chiese che cosa sarebbe accaduto se l'avesse toccata. Si sarebbe ritratta?
Il semplice contatto della mano di un uomo le ripugnava? La osservò raggomitolarsi, impotente, e pensò che stesse per andare in pezzi sotto i suoi occhi. Delicatamente, le toccò una spalla. Lei non batté ciglio, non si allontanò. Thomas la voltò verso di sé e, abbracciandola, la strinse al petto. La profondità del suo dolore lo sconvolse. Sentiva tutto il corpo di Catherine vibrare di sofferenza, come un ponte sospeso scosso dalla tempesta. La donna non emetteva suoni, eppure Moore ne percepiva il respiro tremante, i singhiozzi sommessi. Allora le sfiorò i capelli con le labbra. Non poté farne a meno: il bisogno che lei aveva di conforto lo aveva toccato nel profondo. Le prese il viso tra le mani e le baciò la fronte, e le sopracciglia. Poi Catherine s'irrigidì fra le sue braccia, e Thomas pensò: Mi sono spinto troppo oltre. Rapidamente la lasciò. «Mi spiace», disse. «Non doveva succedere.» «No. Non doveva succedere.» «Puoi far finta che non sia successo?» «E tu?» replicò dolcemente Catherine. «Sì.» Moore si raddrizzò. Poi lo ripeté, con più fermezza, come per convincersi. «Sì.» La Cordell gli guardò la mano, e Moore capì che cosa stesse guardando. La sua fede nuziale. «Spero per il bene di tua moglie che tu riesca a farlo», disse. Il suo commento mirava a infondergli un senso di colpa, e in effetti sortì l'effetto desiderato. Il detective si guardò l'anello, una semplice fascia d'oro: la portava da tanto tempo che sembrava quasi innestata nella sua pelle. «Si chiamava Mary», mormorò. Sapeva ciò che aveva pensato Catherine: quest'uomo tradisce la moglie. Ora si sentiva in dovere di darle una spiegazione, di redimersi di fronte ai suoi occhi. «È accaduto due anni fa. Emorragia cerebrale. Non la uccise, non subito. Per sei mesi continuai a sperare che si risvegliasse...» Moore scosse la testa. «Stato vegetativo cronico, così lo definirono i medici. Dio mio, quanto odiavo quella parola, vegetativo. Come se fosse una pianta o una sorta di albero. Il fantasma della donna che era stata. Quando morì, era irriconoscibile. Non era rimasto più niente della mia Mary.» Il tocco di lei lo colse di sorpresa, e stavolta fu lui a trasalire al contatto. Si fissarono nella luce grigia che filtrava dalla finestra, in silenzio, e Thomas pensò: Nessun bacio, nessun abbraccio potrebbe avvicinare due persone più di quanto non lo siamo noi adesso. Il sentimento più intimo che si
possa condividere non è né l'amore né il desiderio, ma il dolore. Il gracchiare del citofono interno ruppe l'incantesimo. Catherine batté le palpebre, come se si fosse appena ricordata dove si trovasse. Si voltò verso la scrivania e premette il pulsante. «Sì?» «Dottoressa Cordell, ha appena chiamato Terapia Intensiva. La vogliono immediatamente di sopra.» Moore comprese, dall'occhiata di Catherine, che entrambi pensavano la stessa cosa: doveva essere accaduto qualcosa a Nina Peyton. «Si tratta del letto 12?» chiese la Cordell. «Sì. La paziente si è appena svegliata.» 11 Nina Peyton aveva gli occhi sgranati, frenetici. I polsi e le caviglie erano legati alle sponde del letto e i tendini delle braccia sporgevano come corde spesse mentre cercava di liberarsi. «Ha ripreso conoscenza circa cinque minuti fa», disse Stephanie, l'infermiera dell'Intensiva. «Prima ho notato che la frequenza cardiaca era aumentata, poi ho visto che aveva gli occhi aperti. Ho provato a calmarla, ma continua a strattonare i lacci.» Catherine guardò il monitor cardiaco e notò che il battito era accelerato, ma non c'erano aritmie. Anche la respirazione era rapida, talora interrotta da emissioni esplosive di catarro nel tubo endotracheale. «È quel tubo», esclamò Catherine. «Le sta creando panico.» «Devo darle un po' di Valium?» «Abbiamo bisogno che sia cosciente. Se viene sedata non otterremo risposte», mormorò Moore dalla soglia. «Non può parlarvi in ogni caso. Non col tubo endotracheale in gola.» Catherine guardò Stephanie. «Com'era l'ultima emogasanalisi? Possiamo estubare?» L'infermiera scartabellò i fogli del blocco. «Borderline. P02 65. PC02 32. Questo col tubo al quaranta per cento d'ossigeno.» Catherine si accigliò, nessuna delle due opzioni le piaceva in modo particolare. Desiderava che Nina fosse sveglia e in grado di parlare tanto quanto la polizia, ma si ritrovava a combattere con troppe preoccupazioni nello stesso tempo. La sensazione di un tubo in gola può gettare chiunque nel panico, e Nina era tanto agitata che la cute dei polsi era già irritata; e-
stubarla, tuttavia, comportava non pochi rischi. Dopo l'intervento i polmoni si erano riempiti di fluidi e, anche se stava respirando ossigeno al quaranta per cento... un volume doppio rispetto a quello della stanza... la saturazione del sangue era appena adeguata. Estubandola, avrebbero perduto un margine di sicurezza; se non l'avessero fatto, la paziente avrebbe continuato a dimenarsi in preda al panico. Infine, se l'avessero sedata, le domande di Moore sarebbero rimaste senza risposta. La Cordell guardò Stephanie. «Estubiamo.» «Ne è sicura?» «In caso di peggioramento la reintuberò.» Più facile a dirsi che a farsi, fu ciò che lesse negli occhi dell'infermiera. Dopo diversi giorni col tubo in posizione, i tessuti laringei talora si gonfiano, rendendo difficile un secondo intervento. L'unica opzione sarebbe stata una tracheotomia d'urgenza. Catherine si portò dietro la testa della paziente e le prese delicatamente il viso tra le mani. «Nina, sono la dottoressa Cordell. Ora ti toglierò il tubo. È questo che vuoi?» La paziente annuì, una risposta secca e disperata. «Devi rimanere immobile, d'accordo? In modo da non danneggiare le corde vocali.» Catherine alzò lo sguardo. «Maschera pronta?» Stephanie sollevò la maschera di plastica dell'ossigeno. La Cordell strinse la spalla di Nina in un gesto rassicurante. Poi tolse il cerotto che teneva il tubo in posizione e rilasciò l'aria dal manicotto simile a un pallone. «Fai un respiro profondo ed espira», mormorò Catherine. Osservò il torace espandersi, e quando Nina espirò, la dottoressa estrasse il tubo endotracheale. Uscì con uno schizzo di catarro e Nina fu colta da un accesso di tosse sibilante. La Cordell le accarezzò i capelli, mormorando gentili parole di conforto mentre Stephanie le assicurava la mascherina dell'ossigeno. «Va tutto bene», le sussurrò Catherine. Ma il battito cardiaco sul monitor non accennò a rallentare, lo sguardo terrorizzato della ragazza rimase fisso su Catherine, come fosse la sua ancora di salvezza e non osasse distogliere lo sguardo da lei. Guardando negli occhi della paziente, la dottoressa ebbe un flash inquietante, familiare. Questa ero io due anni fa, quando mi sono risvegliata all'ospedale di Savannah. Da un incubo all'altro... La Cordell guardò i lacci intorno ai polsi e alle caviglie di Nina e ricordò quanto fosse terribile essere legata. Come ti legava Andrew Capra. «Toglile i lacci», ordinò all'infermiera.
«Ma potrebbe strapparsi la flebo e gli elettrodi.» «Toglili e basta.» Stephanie arrossì per il rimprovero. Senza proferire parola, la slegò. Lei non capiva; nessuno poteva comprendere, tranne Catherine che, persino due anni dopo Savannah, non tollerava nemmeno le maniche coi polsini stretti. Quando l'ultimo laccio venne tolto, vide le labbra di Nina formulare un messaggio silenzioso. Grazie. Gradualmente il bip bip dell'elettrocardiogramma rallentò. Le due donne si guardarono, in sottofondo il ritmo del battito cardiaco. Se Catherine aveva riconosciuto una parte di sé negli occhi di Nina, anche la ragazza sembrò riconoscersi in quelli della Cordell. La comunione silenziosa delle vittime. Ci sono altre come noi e sempre ve ne saranno. «Ora potete entrare, detective», disse l'infermiera. Moore e Frost varcarono la soglia dello stanzino e trovarono Catherine seduta accanto al letto, che teneva Nina per mano. «Mi ha chiesto di restare», spiegò la dottoressa. «Posso chiamare un'agente donna», ribatté Moore. «No, vuole me. Io rimango.» La dottoressa guardò Moore negli occhi, lo sguardo inflessibile, e il detective si rese conto che quella non era la stessa donna che aveva tenuto tra le braccia soltanto poche ore prima; era un'altra Catherine, feroce e protettiva, e su quel punto non avrebbe ceduto. Thomas annuì e si sedette dalla parte opposta. Frost preparò il registratore e si mise in disparte, ai piedi del letto. Moore aveva scelto Barry per il colloquio, data la sua affabilità e la sua cortesia. L'ultima cosa di cui Nina Peyton aveva bisogno era di dover affrontare un poliziotto iperaggressivo. La maschera dell'ossigeno era stata sostituita dal tubo nasale, e l'aria sibilava nelle narici. Nina spostava lo sguardo da un uomo all'altro, gli occhi attenti a possibili minacce, a gesti improvvisi. Moore fece attenzione a tenere la voce bassa mentre presentava se stesso e Barry Frost. La aiutò nei preliminari, chiedendole di confermare nome, età e indirizzo. Erano informazioni che già possedevano, ma in tal modo potevano valutarne lo stato mentale e dimostrare che era vigile e in grado di rilasciare una dichiarazione. Nina rispose alle domande con voce roca e monotona, stranamente priva di emozioni. Il distacco della ragazza lo snervava, poiché gli pareva di
ascoltare una morta. «Non l'ho sentito entrare in casa. Non mi sono svegliata finché non era a fianco del letto. Non avrei dovuto lasciare le finestre aperte. Non avrei dovuto prendere le pillole...» «Quali pillole?» le chiese Moore delicatamente. «Avevo difficoltà a dormire, a causa dello...» La sua voce si affievolì. «Dello stupro?» Nina voltò la testa, evitando lo sguardo del detective. «Avevo gli incubi. Alla clinica mi prescrissero dei farmaci. Per aiutarmi a dormire.» E un incubo, un incubo reale, è entrato dritto in camera tua. «Lo hai visto in faccia?» le domandò. «Era scuro. Lo sentivo respirare, ma non potevo muovermi. Non potevo gridare.» «Eri già legata?» «Non ricordo quando l'ha fatto. Non so com'è accaduto.» Cloroformio per farle perdere conoscenza, pensò Moore. L'ha legata prima che si svegliasse completamente. «Dopo, cos'è accaduto, Nina?» La sua respirazione accelerò. Sul monitor, il tracciato cardiaco si fece più rapido. «Era seduto su una sedia accanto al letto. Vedevo la sua ombra.» «E cosa faceva?» «Mi... mi parlava.» «Che cosa diceva?» «Diceva...» La ragazza deglutì. «Diceva che ero sporca. Contaminata. Diceva che avrei dovuto essere disgustata per la mia sporcizia. E che... che aveva intenzione di asportare la parte infettata per rendermi nuovamente pura.» Fece una pausa e poi, con un sussurro: «In quel momento ho capito che sarei morta». Catherine era impallidita, ma la vittima sembrava stranamente composta, come se stesse parlando dell'incubo di un'altra donna, non del suo. Non stava più guardando Moore ma un punto dietro di lui, forse una donna lontana, legata a un letto. E, seduto nell'oscurità, un uomo che descriveva tranquillamente gli orrori che aveva in serbo per lei. Per il Chirurgo sono preliminari eccitanti, pensò Thomas. Lui si nutre dell'odore della paura; giace accanto al letto di una donna e le riempie la testa d'immagini di morte, finché sulla sua pelle nuda non appare il sudore, lo stesso che emana l'essenza acida del terrore. Un profumo esotico, che per lui è meraviglioso. Lo respira e si eccita. «Poi che cos'è accaduto?»
Nessuna risposta. «Nina?» «Mi ha messo la lampada in faccia. Diritta negli occhi in modo che non potessi vederlo in viso. C'era soltanto quella luce forte. Poi mi ha scattato una foto.» «E dopo?» La ragazza lo guardò. «Poi se n'è andato.» «Ti ha lasciato sola in casa?» «Non sola. Lo sentivo che camminava. E la televisione... per tutta la notte ho sentito la TV.» Il modello è cambiato, pensò Moore, e scambiò un'occhiata sbalordita con Frost. Il Chirurgo era più sicuro di sé. Più ardito. Invece di completare l'uccisione in poche ore, l'aveva procrastinata. Per tutta la notte, e per il giorno successivo, aveva lasciato la sua preda legata al letto, a meditare sul tormento che le sarebbe toccato. Incurante dei rischi, aveva prolungato il terrore di Nina e con esso il suo piacere. Il battito cardiaco era di nuovo accelerato. Benché la voce suonasse piatta, smorta, dietro la facciata calma rimaneva la paura. «Poi che cos'è successo, Nina?» le chiese ancora Moore. «A un certo punto del pomeriggio devo essermi addormentata. Quando mi sono risvegliata era ancora buio. Avevo sete. Era tutto ciò cui riuscivo a pensare, all'acqua...» «Ti ha lasciata sola a un certo punto? Da sola in casa?» «Non lo so. Sentivo solo la televisione. Quando l'ha spenta, ho capito. Ho capito che stava tornando nella stanza.» «E poi che cos'ha fatto, ha acceso la luce?» «Sì.» «Hai visto il suo volto?» «Soltanto gli occhi. Indossava una mascherina di quelle che portano i medici.» «L'hai riconosciuto? Lo avevi mai visto prima in vita tua?» Vi fu un lungo silenzio. Moore sentì il cuore in tumulto mentre attendeva la risposta sperata. Poi, debolmente, la ragazza mormorò: «No». Il detective si riappoggiò alla sedia. La tensione nella stanza svanì all'improvviso. Per Nina il Chirurgo era un estraneo, un uomo senza nome, e le ragioni per cui aveva scelto lei rimanevano un mistero. «Descrivicelo, Nina», la esortò Thomas, mascherando la delusione.
La ragazza fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, come per rievocare il ricordo. «Aveva... aveva i capelli corti. Ben tagliati...» «Di che colore?» «Castano. Castano chiaro.» Il colore corrispondeva al capello trovato sulla ferita di Elena Ortiz. «Perciò era di razza bianca?» domandò Moore. «Sì.» «Occhi?» «Di un colore chiaro. Azzurri o grigi. Avevo paura a guardarli.» «E la forma della faccia? Rotonda, ovale?» «Allungata.» Tacque per un istante. «Comune.» «Altezza e peso?» «E difficile da...» «Approssimativamente.» Nina sospirò. «Nella media.» Altezza media, faccia comune. Un mostro uguale a tanti altri uomini. Moore si rivolse a Frost. «Mostrale le foto.» Frost gli passò il primo album di foto segnaletiche. Ve n'erano sei per pagina. Thomas lo prese e lo appoggiò su un tavolino a rotelle, che portò davanti alla ragazza. Per la mezz'ora successiva osservarono sempre più scoraggiati Nina, che sfogliava le pagine. Nessuno parlava, soltanto il sibilo dell'ossigeno e il rumore delle pagine. Le foto raffiguravano stupratori noti e, mentre la ragazza girava pagina dopo pagina, a Moore parve che quelle facce non avessero fine, che quella sfilza d'immagini rappresentasse la parte oscura di ogni uomo, l'impulso malvagio celato da una maschera umana. Il detective udì bussare alla finestrella della stanza. Sollevando lo sguardo vide Jane Rizzoli che gli faceva cenno. Allora si alzò per parlarle. «Ancora nessuna identificazione?» chiese la donna. «Non la otterremo. Indossava una mascherina da chirurgo.» La Rizzoli aggrottò le sopracciglia. «Perché una mascherina?» «Potrebbe far parte del suo rituale. Forse lo eccita. Gli piace giocare al dottore. Le ha detto che aveva intenzione di asportarle l'organo che era stato violato. Sapeva che era stata vittima di uno stupro e voleva toglierle l'utero.» Jane guardò nella stanza. «Forse c'è un'altra ragione.» «Ossia?»
«Non voleva che vedesse il suo volto. Non voleva che lo identificasse.» «Ma ciò significherebbe...» «E quello che continuo a dire.» La Rizzoli si voltò e guardò Moore. «Il Chirurgo voleva che Nina Peyton sopravvivesse.» Quanto poco riusciamo realmente a vedere nel cuore umano... pensò Catherine mentre studiava la radiografia toracica di Nina Peyton. In piedi nella semioscurità, stava osservando la lastra appesa alla lavagna luminosa, studiando le ombre proiettate dalle ossa e dagli organi. La cassa toracica, il trampolino del diaframma e, appoggiato su di esso, il cuore. Non la sede dell'anima, semplicemente un muscolo che pompa sangue, con un fine mistico non più profondo di quello dei polmoni o dei reni. Eppure, persino Catherine, per quanto fosse una scienziata, non riusciva a pensare al cuore di Nina senza essere commossa dal suo simbolismo. Era il cuore di una sopravvissuta. Udì alcune voci nella stanza accanto; era Peter che stava richiedendo le radiografie di un paziente all'impiegato dell'archivio. Un momento più tardi, il medico entrò nella sala e si fermò quando la vide, in piedi accanto alla lavagna luminosa. «Sei ancora qui?» le chiese. «Anche tu, vedo.» «Ma io sono di turno stanotte. Perché non vai a casa?» La Cordell si voltò verso la radiografia di Nina. «Voglio prima assicurarmi che questa paziente sia stabile.» Falco le si avvicinò, tanto alto e tanto imponente, che Catherine dovette sottrarsi all'impulso d'indietreggiare. Il medico esaminò la lastra. «A parte qualche atelettasia, non c'è molto di cui preoccuparsi.» Poi rivolse l'attenzione al nome con cui indicavano le pazienti anonime, Jane Doe, indicato nell'angolo della radiografia. «È la donna del letto 12? Quella cui gira intorno la polizia?» «Sì.» «Ho visto che l'hai estubata.» «Poche ore fa», rispose la Cordell riluttante. Non aveva voglia di parlare di Nina Peyton, di rivelare il suo coinvolgimento personale nella vicenda. Ma Peter continuò a farle domande. «I gas ematici sono normali?» «Adeguati.» «Per il resto è stabile?»
«Sì.» «Perché allora non vai a casa? La controllerò io.» «Preferirei occuparmi di persona dei miei pazienti.» Peter le mise una mano sulla spalla. «Da quando non ti fidi più del tuo socio?» Al suo tocco, la collega s'irrigidì. Lui se ne accorse e ritrasse la mano. Dopo un attimo di silenzio, il dottor Falco si spostò e iniziò ad appendere le sue lastre alla lavagna con movimenti bruschi. Era una serie di tomografie addominali computerizzate che occuparono un'intera fila di mollette. Quando ebbe finito, rimase immobile, gli occhi nascosti dalle immagini riflesse nei suoi occhiali. «Io non sono il nemico, Catherine», mormorò senza guardarla, concentrato sulla lavagna. «Vorrei riuscire a fartelo capire. Continuo a pensare di aver fatto o detto qualcosa che ha cambiato le cose tra noi, ma non so che cosa.» Finalmente la guardò. «Avevamo fiducia l'uno nell'altra. Come colleghi, almeno. Diavolo, l'altro giorno ci siamo praticamente tenuti per mano nel torace di quell'uomo! E ora non mi permetti nemmeno di controllare una tua paziente. Non mi conosci ancora abbastanza da fidarti di me?» «Non c'è chirurgo al mondo di cui mi fidi di più.» «E allora, che cosa sta succedendo? Vengo a lavorare il mattino, e scopro che abbiamo avuto un ladro. E tu non ne vuoi parlare. Ti chiedo della paziente del letto 12, e tu non vuoi dirmi nulla nemmeno di lei.» «La polizia mi ha chiesto di non farlo.» «La polizia sembra controllare la tua vita in questi ultimi giorni. Perché?» «Non sono autorizzata a discuterne.» «Non sono soltanto il tuo partner, Catherine. Pensavo di essere anche tuo amico.» Peter fece un passo verso di lei. Era un uomo fisicamente imponente, e quel semplice gesto le scatenò un attacco di claustrofobia. «Vedo che sei spaventata. Ti chiudi a chiave nel tuo studio. Hai la faccia di una che non dorme da giorni. Non posso farmi da parte e stare a guardare.» La dottoressa tolse la radiografia di Nina Peyton dalla lavagna e la infilò in una busta. «Il mio problema non ha nulla a che fare con te.» «Sì, invece, perché ti sta sconvolgendo.» L'atteggiamento difensivo di Catherine si trasformò in rabbia. «Chiariamo una cosa, Peter. Sì, lavoriamo insieme, e sì, ti rispetto come chirurgo. Mi piace operare con te. Ma non condividiamo la vita. E certamente non i nostri segreti.»
«Perché no?» le chiese a voce bassa. «Che cosa hai paura di dirmi?» Catherine lo fissò, snervata dalla gentilezza della sua voce. In quel momento più che mai avrebbe voluto sfogarsi, raccontargli tutto ciò che le era accaduto a Savannah, ogni più turpe dettaglio. Ma conosceva le conseguenze di una tale confessione. Sapeva che essere stuprata equivaleva a essere per sempre sporca, per sempre considerata vittima. Non poteva sopportare la pietà. Non da Peter, l'uomo il cui rispetto per lei significava tutto. «Catherine?» mormorò Peter, tendendo la mano. Fra le lacrime, la donna guardò la mano protesa. E, come una donna che affoga, che sceglie il mare scuro invece del salvataggio, non la prese. Si voltò e uscì dalla stanza. 12 Jane Doe è stata trasferita. Ho una provetta del suo sangue in mano, e sono deluso dal fatto che sia freddo al tatto. E rimasto troppo a lungo sul vassoio della flebotomista, e il calore corporeo che prima conteneva si è irradiato nel vetro e dissipato nell'aria. Il sangue freddo è una cosa morta, senza né potere né anima, e non mi commuove. Mi concentro sull'etichetta, un rettangolo bianco attaccato alla provetta di vetro, con su scritto il nome della paziente, il numero della camera e il numero dell'ospedale. Benché indichi «Jane Doe», io so a chi appartiene realmente questo sangue. Non è più nell'unità di Terapia Intensiva. È stata trasferita nella stanza 338... in chirurgia. Rimetto la provetta nell'apposito contenitore, dove giace con un'altra decina di tubetti dai tappi di gomma blu, porpora, rossi e verdi, ogni colore a significare una procedura diversa. I tappi porpora sono per la conta ematica, quelli blu per i test di coagulazione, quelli rossi per gli esami chimici e gli elettroliti. In alcune provette dal tappo rosso il sangue si è già coagulato, formando colonne di gelatina scura. Cerco nella pila dei moduli del laboratorio e trovo quello di Jane Doe. Stamattina la dottoressa Cordell ha ordinato due test: una conta ematica completa e gli elettroliti sierici. Rovisto ancora tra i moduli della scorsa sera, e trovo la copia carbone di un'altra scheda, col nome della Cordell come medico richiedente. «Gas ematico arterioso post-estubazione, urgente. 2 litri di ossigeno per tubo nasale.» Nina Peyton è stata estubata. Ora respira autonomamente, senza assi-
stenza meccanica, senza il tubo in gola. Io siedo immobile nella mia postazione di lavoro, pensando non a Nina Peyton, ma a Catherine Cordell. Crede di aver vinto questo round, di essere la salvatrice di Nina. È tempo di mostrarle quale sia il suo posto. È ora d'insegnarle l'umiltà. Sollevo la cornetta e chiamo la mensa dell'ospedale. Mi risponde una donna, la parlata veloce, il suono metallico di vassoi in sottofondo. E quasi l'ora di cena, e non ha tempo da perdere in chiacchiere. «Qui è il 5 Ovest», affermo, mentendo. «Credo siano state scambiate le diete di due pazienti. Può dirmi quale sia prescritta per la 538?» C'è una pausa mentre la donna digita sulla tastiera per ottenere l'informazione. «Soltanto liquidi», risponde. «È così?» «Sì. Grazie.» Riattacco. Nel giornale di stamattina si legge che Nina Peyton è in stato comatoso e in condizioni critiche. Non è vero. È sveglia. Catherine Cordell le ha salvato la vita, come sapevo avrebbe fatto. Una flebotomista passa davanti alla mia postazione e appoggia il suo vassoio pieno di provette sul bancone. Ci sorridiamo, come facciamo tutti i giorni, due collaboratori in buoni rapporti che, a torto, pensano bene l'una dell'altro. È giovane, i seni sodi e alti premono come meloni contro l'uniforme bianca, e ha denti bianchi, perfetti; prende una nuova lista di richieste di laboratorio, saluta ed esce. Mi domando se il suo sangue sia salato. Le macchine ronzano e gorgogliano una ninna nanna continua. Vado al computer e richiamo la lista dei pazienti del 5 Ovest. Il reparto ha venti stanze, disposte a forma di H, nella barra centrale sta la caposala. Faccio scorrere l'elenco, verificando età e diagnosi, trentatré in tutto. Mi fermo al dodicesimo nome, stanza 521. «Signor Herman Gwadowski, 69 anni. Medico curante: dottoressa Catherine Cordell. Diagnosi: postumi di laparotomia d'urgenza per trauma addominale multiplo.» La stanza 521 è situata nel corridoio parallelo a quello di Nina Peyton. Da lì, la stanza di Nina non è visibile. Clicco sul nome Gwadowski e accedo alla sua cartella di laboratorio. È in ospedale da due settimane e il foglio mostra tutti gli esami. M'immagino le sue braccia, le vene, un'autostrada di punture d'ago e di lividi. Dai livelli di glucosio nel sangue noto che è diabetico. La conta elevata di glo-
buli bianchi indica un'infezione di qualche tipo. Vedo anche che sono in corso le colture di un tampone effettuato su una ferita del piede. Il diabete ha compromesso la circolazione degli arti e la carne delle gambe inizia a necrotizzarsi. Noto inoltre una coltura ricavata dal tampone effettuato nella sede della linea venosa centrale. Mi cade l'occhio sugli elettroliti. I livelli di potassio stanno salendo gradualmente. 4,5 due settimane fa. 4,8 la scorsa settima. 5,1 ieri. Il paziente è vecchio e i reni diabetici stanno lottando per espellere le tossine quotidiane che si accumulano in circolo. Tossine quali il potassio. Non ci vorrà molto a fargli superare il limite. Non conosco il signor Herman Gwadowski... per lo meno, non di persona. Vado al contenitore di provette che è stato posato sul bancone e guardo le etichette. Provengono dal 5 Est e Ovest, e sono ventiquattro, ognuna nel suo alloggiamento. Trovo quella col tappo rosso della stanza 521. È il sangue del signor Gwadowski. La prendo e la esamino, ruotandola lentamente sotto la luce. Il sangue non è coagulato e appare scuro e salmastro, come se l'ago fosse stato inserito in un pozzo d'acqua stagnante. Schiudo la provetta e ne annuso il contenuto. Puzza di urea senescente, ha l'odore dolce di selvaggina frollata, tipico dell'infezione. Sento un corpo che ha già iniziato a decomponi, anche se il cervello continua a negare che il guscio sta morendo. In questo modo farò la conoscenza del signor Gwadowski. Non sarà un'amicizia lunga. Angela Robbins era un'infermiera coscienziosa, e s'innervosì per il fatto che la dose di antibiotici delle dieci per Herman Gwadowski non fosse ancora arrivata. Si recò dall'impiegato del reparto 5 Ovest e disse: «Sto ancora aspettando i farmaci per Gwadowski. Puoi chiamare ancora la farmacia?» «Hai controllato il carrello? È arrivato alle nove.» «Non c'era niente per Gwadowski. Ha bisogno della sua dose di Zosyn immediatamente.» «Oh. Mi sono appena ricordato.» L'impiegato si alzò e si diresse verso una scatola sul bancone. «Un aiuto del 4 Ovest l'ha portata qualche minuto fa.» «4 Ovest?» «Il sacchetto è stato mandato al piano sbagliato», disse l'impiegato mentre controllava l'etichetta. «Gwadowski, 521 A.»
«Già», disse Angela prendendo il sacchetto. Mentre tornava nella stanza, rilesse l'etichetta e verificò il nome del paziente, il medico richiedente, e la dose di Zosyn aggiunta alla sacca di salina. Sembrava tutto a posto. Diciotto anni prima, quando Angela aveva iniziato a lavorare, un'infermiera diplomata poteva entrare nella stanza medicinali del reparto, prendere un sacchetto di fluidi e aggiungervi la dose del farmaco necessario. Gli errori commessi da alcune infermiere frettolose e alcune memorabili cause avevano, tuttavia, portato a una modifica della procedura. Ora persino una semplice sacca di salina con aggiunta di potassio doveva arrivare dalla farmacia dell'ospedale: un passaggio amministrativo in più e, quindi, un ingranaggio ulteriore nella già complicata macchina sanitaria. Angela ne era infastidita, perché tutto ciò aveva causato un'ora di ritardo nella consegna di quella sacca. Attaccò la flebo del signor Gwadowski e l'appese all'asta. Il paziente rimase immobile. Era in coma da due settimane, ed emanava già odore di morte. Angela faceva l'infermiera da abbastanza tempo per riconoscere quell'odore di sudore acre che preludeva al trapasso finale. «Questo non gliela fa», mormorava alle altre infermiere ogni volta che lo sentiva nell'aria. Anche in quel momento lo pensò, mentre regolava il flusso della flebo e controllava i segni vitali del paziente. Quest'uomo non arriva a domani. Ciononostante, eseguì le sue mansioni con la stessa cura che riservava agli altri pazienti. Era l'ora del bagno. Portò un catino di acqua calda accanto al letto, vi immerse un panno, e iniziò a lavare il volto del signor Gwadowski. L'uomo aveva la bocca aperta e la lingua secca, screpolata. Se soltanto avessero potuto lasciarlo morire. Se soltanto avessero potuto liberarlo da quell'inferno. Ma il figlio non accettava neppure la più lieve modifica della procedura, perciò l'anziano continuava a vivere, se così si poteva dire, e il suo cuore continuava a battere in quel corpo in progressivo decadimento. Angela gli tolse il camiciotto dell'ospedale e controllò il punto d'inserzione della linea venosa centrale. La ferita era lievemente arrossata, il che la preoccupò. Le vene delle braccia erano ormai inutilizzabili, e quello era il loro unico accesso al sistema circolatorio; pertanto era particolarmente attenta a tenere la ferita pulita e a cambiare le medicazioni. Dopo il bagno gli avrebbe cambiato il bendaggio. Gli lavò il torace, passando il panno umido sulle costole sporgenti. Si capiva che non era mai stato un uomo muscoloso, e ciò che rimaneva del suo tronco era un sottile strato di pergamena sulle ossa.
Angela udì alcuni passi, e non fu affatto contenta di vedere il figlio di Gwadowski entrare nella stanza. Una sola occhiata bastò a metterla sulla difensiva, poiché era la sorta di uomo sempre pronto a far notare gli errori e i difetti altrui. Spesso si comportava così anche con la sorella. Una volta Angela li aveva sentiti litigare e si era trattenuta dall'intromettersi in difesa della donna. Dopotutto, non era compito suo dire a quell'uomo che cosa pensasse della sua prepotenza. Ma non era nemmeno tenuta a dimostrarsi troppo amichevole con lui. Perciò si limitò a fargli un cenno col capo e continuò il bagno. «Come sta?» chiese Ivan Gwadowski. «Non c'è stato nessun cambiamento.» La sua voce suonò fredda e distaccata; la donna desiderava che se ne andasse, che la smettesse con quella cerimonia di finto interesse e che le lasciasse continuare il suo lavoro. Era abbastanza sveglia da comprendere che l'affetto era soltanto un aspetto marginale della ragione per cui si trovava lì. Si era assunto la responsabilità di tutto perché era abituato a farlo, e non avrebbe ceduto il controllo a nessun altro. Nemmeno alla Morte. «La dottoressa è venuta a vederlo?» «La dottoressa Cordell viene tutte le mattine.» «Che cosa dice del fatto che è ancora in coma?» Angela mise il panno nel catino e si raddrizzò per guardarlo in faccia. «Non so che cosa ci sia da dire, signor Gwadowski.» «Per quanto tempo rimarrà così?» «Finché lei lo permetterà.» «Che cosa intende?» «Non pensa che sarebbe più umano lasciarlo morire?» Ivan Gwadowski la fissò. «Sì, renderebbe a tutti la vita più facile, vero? E libererebbe un letto.» «Non l'ho detto per questo motivo.» «So come vengono pagati gli ospedali di questi tempi. I pazienti restano ricoverati troppo a lungo, e i costi diventano eccessivi.» «Le sto soltanto dicendo ciò che sarebbe meglio per suo padre.» «Sarebbe meglio che l'ospedale facesse il suo lavoro.» Prima che potesse sfuggirle qualcosa di cui si sarebbe pentita, Angela si voltò, afferrò il panno dalla bacinella e lo strizzò con mani tremanti. Non litigare con lui. Fa' solo il tuo lavoro. È il tipo d'uomo che ti fa uscire dai gangheri. Appoggiò il panno umido sull'addome del paziente. Soltanto allora si re-
se conto che l'uomo non respirava. Angela gli controllò immediatamente il polso carotideo. «Che cosa succede?» chiese il figlio. «Sta bene?» L'infermiera non rispose. Lo spinse via e corse in corridoio. «Codice Blu!» urlò. «Codice Blu, stanza 521!» Catherine uscì di corsa dalla stanza di Nina Peyton e svoltò l'angolo nel corridoio parallelo. La stanza 521 era già affollata di personale, e nel corridoio un gruppo di studenti di medicina dagli occhi spalancati allungava il collo per assistere alla procedura. La Cordell si fece strada nella stanza e urlò: «Cos'è successo?» «Ha appena smesso di respirare! Non c'è polso», rispose Angela. Catherine si avvicinò al letto e vide che un'altra infermiera aveva già applicato la maschera al volto del paziente e stava somministrando ossigeno nei polmoni. Un interno aveva le mani sul torace e, a ogni pressione sullo sterno, pompava sangue dal cuore alle arterie e, quindi, alle vene, affinché irrorasse gli organi e il cervello. «Elettrodi pronti!» gridò qualcuno. La dottoressa sollevò rapidamente lo sguardo al monitor. Il tracciato indicava una fibrillazione ventricolare. Le cavità cardiache non si contraevano più, i singoli muscoli fremevano e il cuore era ridotto a una sacca flaccida. «Piastre cariche?» chiese Catherine. «Cento joule.» «Procedete!» L'infermiera appoggiò le piastre del defibrillatore sul petto dell'uomo e gridò: «Libera!» Le piastre inviarono una scossa elettrica al cuore. Il torace dell'uomo si sollevò dal materasso come un gatto su una griglia calda. «È ancora in fibrillazione ventricolare!» «Un milligrammo di epinefrina in vena, poi un'altra scarica a cento», ordinò la Cordell. Il bolo di epinefrina scivolò lungo la linea della pressione venosa centrale. «Riproviamo!» Un'altra scarica di defibrillatore, un altro spasmo del torso di Gwadowski. Sul monitor, il tracciato cardiaco s'impennò improvvisamente, poi col-
lassò in una linea tremolante. Gli ultimi spasmi di un cuore che si spegne. Catherine guardò il suo paziente e pensò: Come faccio a rianimare questo ammasso d'ossa rinsecchite? «Vuole... continuare?» chiese l'interno, mentre, ansante, continuava a pompare. Una goccia di sudore gli scivolò, luccicante, lungo la guancia. Non ci volevo nemmeno provare, pensò, e stava per rispondere di no quando Angela le sussurrò all'orecchio: «C'è il figlio. Sta guardando». Lo sguardo di Catherine si posò su Ivan Gwadowski, in piedi sulla soglia. Ora non aveva scelta. Se non avessero compiuto tutti i tentativi immaginabili, quell'uomo gliel'avrebbe fatta pagare cara, ne era certa. Sul monitor il tracciato sembrava il profilo di un mare in burrasca. «Riproviamo», esclamò la dottoressa. «Questa volta a duecento joule. Serve immediatamente del sangue per gli elettroliti!» La dottoressa udì qualcuno aprire il cassetto del carrello delle urgenze e, un attimo dopo, apparvero alcune provette e una siringa. «Non riesco a trovare una vena!» «Usa la linea centrale.» «State indietro!» Tutti retrocedettero mentre le piastre si scaricavano. Catherine guardò il monitor, sperando che il sobbalzo della paralisi indotta dalla scarica ripristinasse la funzione cardiaca. Ma il tracciato si limitò a incresparsi lievemente. Un altro bolo di epinefrina scivolò nella linea centrale. L'interno, rosso e sudato, riprese a fare pressione sullo sterno. Un paio di mani nuove afferrò l'ambu e ricominciò a pompare aria nei polmoni, ma era come tentare di soffiare la vita in un guscio secco. Catherine sentì il mutamento delle voci intorno a sé, il tono d'urgenza era scomparso, le parole venivano pronunciate con tono uniforme, automatico. La manovra era diventata un semplice esercizio, la sconfitta, inevitabile. La dottoressa guardò le persone ammassate intorno al letto, e vide che la decisione era ovvia per tutti. Erano soltanto in attesa di una sua parola. «Ora del decesso, undici e tredici», mormorò infine la Cordell. In silenzio, tutti indietreggiarono e contemplarono l'oggetto della loro sconfitta, Herman Gwadowski, che giaceva sommerso da un groviglio di fili e di tubi di flebo. Un'infermiera spense il monitor cardiaco e l'oscilloscopio. «Perché non gli mettete un pacemaker?» Catherine si voltò mentre firmava il modulo, e notò che il figlio del pa-
ziente era entrato nella stanza. «Non è rimasto nulla da salvare», rispose. «Mi dispiace. Non possiamo far battere di nuovo il cuore.» «Non usano il pacemaker in questi casi?» «Abbiamo fatto tutto il possibile...» «Gli avete soltanto dato delle scosse.» Soltanto? La dottoressa guardò la stanza intorno a sé, le prove dei loro sforzi, le siringhe usate, le fiale di medicinali e gli imballaggi accartocciati. Le «macerie» che restavano dopo ogni battaglia. Il personale della stanza la stava osservando, per vedere come avrebbe gestito la situazione. Catherine appoggiò il blocco su cui stava scrivendo. Parole furiose le stavano già affiorando sulle labbra, ma non ebbe la possibilità di pronunciarle perché scattò verso la porta. Da qualche parte, nel reparto, una donna stava gridando. In un istante, Catherine fu oltre la soglia, le infermiere subito dietro di lei. Voltò di corsa l'angolo e vide un'inserviente in piedi nel corridoio, singhiozzante, il dito puntato verso la stanza di Nina. La sedia fuori della porta era vuota. Ci dovrebbe essere un poliziotto di guardia. Dov'è? Catherine aprì la porta e restò paralizzata. La prima cosa che vide fu sangue, rivoli di sangue lucente che colavano dalle pareti. Poi guardò la sua paziente, a faccia in giù sul pavimento. Nina era caduta a metà strada tra il letto e la porta, come se fosse riuscita a fare qualche passo prima di accasciarsi. La flebo era staccata, e un filo di soluzione salina gocciolava per terra dal tubo aperto, formando una pozza chiara accanto a un lago più ampio di sangue. È stato qui. Il Chirurgo è stato qui. Sebbene ogni cellula del suo corpo le gridasse di allontanarsi, di fuggire, Catherine si sforzò di avvicinarsi e s'inginocchiò accanto a Nina; il sangue ancora caldo le inzuppò i pantaloni della divisa. Poi voltò il corpo. Uno sguardo al volto bianco, agli occhi fissi, e la dottoressa capì che Nina era già morta. Soltanto pochi istanti fa udivo il tuo cuore battere. Emergendo lentamente dal torpore, Catherine sollevò lo sguardo e vide un cerchio di volti spaventati. «Il poliziotto», mormorò. «Dov'è il poliziotto?» «Non lo sappiamo...» La dottoressa si rimise in piedi a fatica, e tutti si scostarono per lasciarla passare. Incurante della scia di sangue che lasciava, Catherine uscì dalla stanza, voltando nervosamente lo sguardo a destra e a sinistra, nel corri-
doio. «Oh, Dio mio», mormorò un'infermiera. In fondo al corridoio, una linea scura stava avanzando sul pavimento. Sangue. Usciva da sotto la porta del magazzino. 13 Jane Rizzoli osservava la stanza d'ospedale di Nina Peyton da dietro il nastro della polizia. Gli schizzi di sangue si erano seccati, quasi a formare una decorazione celebrativa di stelle filanti. Poi proseguì lungo il corridoio fino alla stanza adibita a magazzino, dov'era stato trovato il corpo dell'agente. Anche quella porta era sbarrata dal nastro. All'interno vi era un folto gruppo di aste per flebo, scaffali contenenti padelle e catini, scatole di guanti, il tutto imbrattato di sangue. Uno dei loro era morto in quella stanza, e per ogni poliziotto di Boston la caccia al Chirurgo era ormai diventata una questione molto personale. La Rizzoli si rivolse all'agente in piedi accanto alla porta. «Dov'è il detective Moore?» «Giù in Amministrazione. Stanno guardando i nastri di sorveglianza dell'ospedale.» Jane guardò il corridoio ma non vide telecamere di sicurezza. Non avrebbero avuto nessuna ripresa di quel corridoio. Si recò al piano inferiore e sgattaiolò nella sala conferenze, dove Moore e due infermiere stavano esaminando le cassette. Nessuno si voltò verso di lei, gli sguardi rimasero fissi sullo schermo del televisore. La telecamera era puntata sugli ascensori del reparto 5 Ovest. Le porte si aprirono. Thomas azionò il fermo immagine. «Ecco», disse. «Questo è il primo gruppo che è uscito dall'ascensore dopo la segnalazione dell'emergenza. Conto undici passeggeri, e hanno tutti premura.» «E normale durante un Codice Blu», ribatté la caposala. «Viene trasmesso dagli altoparlanti di tutto l'ospedale e chiunque sia disponibile è tenuto a rispondere.» «Guardi bene quelle facce. Riconosce qualcuno? C'è qualcuno che non dovrebbe esserci?» «Non riesco a vedere tutti; escono in un unico gruppo.» «E lei, Sharon?» chiese Moore alla seconda infermiera. Sharon si protese verso lo schermo. «Queste tre sono infermiere. E i due
giovani, a lato, sono studenti di medicina. Riconosco quest'uomo...» La donna lo indicò sul monitor. «Un inserviente. Gli altri hanno volti familiari, ma non ricordo i nomi.» «Bene. Guardiamo il resto. Poi passeremo alla telecamera delle scale.» La Rizzoli si avvicinò fino a posizionarsi dietro la caposala. Le immagini si riavvolsero e le porte dell'ascensore si chiusero. Moore premette PLAY e queste si riaprirono. Dall'ascensore uscirono undici persone, che si mossero come un millepiedi nella fretta di raggiungere il luogo dell'emergenza. Jane scorse la concitazione sui loro volti, e anche senza il sonoro, l'aria di crisi risultava più che ovvia. Il gruppo svanì sulla sinistra dello schermo e le porte dell'ascensore si chiusero. Passò qualche secondo e si riaprirono, riversando fuori altro personale. La Rizzoli contò tredici passeggeri. Fino ad allora, in tre minuti, erano salite sul piano venti persone... e soltanto in ascensore. Quante altre erano giunte per le scale? La donna osservò sempre più stupita. Il tempismo era stato perfetto. Chiamare un Codice Blu era come convocare un'adunata generale. Tra decine di membri del personale convergenti nel 5 Ovest, chiunque avesse indossato un camice bianco sarebbe passato inosservato. Il killer si sarebbe messo senza dubbio nel retro dell'ascensore, dietro tutti gli altri. Erano di fronte a qualcuno che sapeva esattamente come funzionasse un ospedale. Jane osservò il secondo gruppo uscire dal campo della telecamera. Due facce erano rimaste nascoste per tutto il tempo. Moore cambiò il nastro e la prospettiva mutò. Ora stavano osservando la porta delle scale. Per un attimo non accadde nulla; poi la porta si aprì e un uomo col camice bianco uscì di gran carriera. «Lo conosco. È Mark Noble, uno degli interni», disse Sharon. La Rizzoli estrasse il blocco a spirale e annotò il nome. La porta si aprì di nuovo e ne uscirono due donne, entrambe con la divisa bianca. «Quella è Veronica Tam», spiegò la caposala, indicando la più bassa. «Lavora nel 5 Ovest. Era in pausa quando il codice è scattato.» «E l'altra donna?» «Non lo so. Non riesco a vederla bene in faccia.» Jane annotò: 10.48, telecamera delle scale: Veronica Tam, infermiera, 3 Ovest. Donna sconosciuta, capelli neri, camice da laboratorio. Dalle scale erano salite in totale sette persone. Le infermiere ne avevano
riconosciute cinque. Fino ad allora la Rizzoli aveva contato trentuno persone al piano. Aggiunte al personale del reparto, formavano un gruppo di almeno quaranta membri aventi accesso al 5 Ovest. «Ora vediamo che accade quando il personale scende durante e dopo il codice», continuò il detective. «Stavolta nessuno va di fretta. Magari riuscite a riconoscere qualcun altro.» Premette il tasto di scorrimento veloce. In fondo allo schermo l'ora indicava che erano trascorsi otto minuti. Il codice era ancora in corso, ma il personale superfluo stava cominciando ad abbandonare il reparto. La telecamera aveva ripreso soltanto le schiene mentre s'incamminavano verso la porta delle scale. Dapprima due studenti di medicina, seguiti un istante più tardi da un terzo uomo non identificato, che si allontanava da solo. Poi vi fu una lunga pausa, e Moore mandò avanti il nastro. Ed ecco un gruppo di quattro uomini che prendevano insieme le scale. L'orologio segnava le 11.14. A quell'ora l'emergenza era ufficialmente terminata, ed Herman Gwadowski era stato dichiarato morto. Moore cambiò nuovamente il nastro. Ancora una volta si ritrovarono a osservare l'ascensore. Riesaminarono una seconda volta le cassette e la Rizzoli scrisse tre pagine di appunti, annotando il numero di arrivi durante il codice. Tredici uomini e diciassette donne avevano risposto all'emergenza. Ora verificò quanti avevano lasciato il reparto dopo la fine dell'emergenza. I conti non tornavano. Alla fine Moore premette stop, e lo schermo si oscurò. Avevano studiato i video per più di un'ora, e le due infermiere avevano l'aria esausta. La voce di Jane ruppe il silenzio ed entrambe sembrarono spaventarsi. «Avete personale maschile che lavora nel 5 Ovest durante il vostro turno?» chiese. La caposala si focalizzò sulla Rizzoli. Sembrava sorpresa del fatto che un altro poliziotto si fosse in qualche modo infilato nella sala senza che lei se n'accorgesse. «C'è un infermiere che arriva alle tre. Ma non ci sono uomini durante il turno diurno.» «E nessun uomo lavorava in quel reparto al momento del codice?» «Forse i chirurghi interni, ma nessun infermiere.» «Quali interni? Si ricorda?» «Vanno sempre su e giù, per le visite. Non vi faccio caso, abbiamo già tanto da fare.» L'infermiera guardò Moore. «Ora dobbiamo davvero tornare in reparto.» Il detective annuì. «Potete andare. Grazie.»
La Rizzoli attese che le due infermiere lasciassero la stanza. Poi si rivolse al collega: «Il Chirurgo era già sul piano. Prima che venisse chiamato il codice. Non è vero?» Moore si alzò e andò al videoregistratore. Il linguaggio del suo corpo, il modo in cui tolse la cassetta dall'apparecchio e in cui infilò il secondo nastro rivelavano una gran rabbia. «Tredici uomini sono saliti al 5 Ovest. E quattordici sono scesi. Ce n'è uno in più. Doveva essere già sul piano.» Il detective premette PLAY. Il nastro delle scale riprese a scorrere. «Dannazione, Moore. Crowe era incaricato di provvedere alla protezione. E ora abbiamo perduto la nostra unica testimone.» Thomas non rispose e continuò a fissare lo schermo, osservando le figure ormai familiari apparire e scomparire attraverso la porta delle scale. «Il nostro uomo passa attraverso i muri», mormorò Jane. «Si nasconde nel nulla. C'erano nove infermiere su quel piano e nessuna si è accorta della sua presenza. È stato con loro per tutto il dannato tempo.» «È una possibilità.» «E com'è arrivato al poliziotto? Perché l'agente si è lasciato convincere ad abbandonare la porta della paziente? A entrare in un magazzino?» «Doveva essere qualcuno che gli era familiare. O qualcuno che non rappresentava una minaccia.» E nel trambusto di un Codice Blu, quando tutti corrono a salvare una vita, sarebbe naturale per un impiegato ospedaliero rivolgersi all'unica persona rimasta nel corridoio... il poliziotto. Sarebbe ovvio chiedere al poliziotto di aiutarlo a fare qualcosa nel magazzino. Moore premette il tasto PAUSA. «Ecco», mormorò. «Credo sia il nostro uomo.» La Rizzoli fissò lo schermo. Era l'uomo solo che aveva imboccato le scale nei primi minuti dell'emergenza. Si vedeva di schiena; indossava un camice bianco e una cuffia da sala operatoria, sotto la quale era visibile una striscia di capelli castani corti. Era di corporatura snella, le spalle piuttosto strette, la postura inclinata in avanti come un punto di domanda munito di gambe. «Questo è l'unico istante in cui si vede», asserì Moore. «Non l'ho visto nella ripresa dell'ascensore. E neppure entrare dalla porta delle scale. Ma se ne va da questa parte. Vedi come spinge la porta col fianco, senza toccare nulla con le mani? Scommetto che non ha lasciato impronte da nessuna parte. È troppo prudente. Vedi come cammina, sembra che sappia della te-
lecamera. Sa che lo stiamo cercando.» «Nessun sospetto sulla sua identità?» «Nessuna delle infermiere sa dargli un nome.» «Cazzo, era sul loro piano.» «Insieme a un sacco d'altra gente. Tutti erano concentrati a salvare Herman Gwadowski. Tutti, eccetto lui.» La Rizzoli si avvicinò allo schermo, lo sguardo fisso su quella figura solitaria nel bianco del corridoio. Non riusciva a vederlo in faccia, eppure sentì un brivido, come se fissasse il diavolo negli occhi. Sei tu il Chirurgo? «Nessuno ricorda di averlo visto, o si ricorda di essere salito con lui in ascensore. Eppure è lì; un fantasma che appare e scompare a suo piacimento», disse Moore. «Se n'è andato otto minuti dopo l'annuncio del codice», commentò la Rizzoli dopo aver letto l'ora sullo schermo. «Due studenti di medicina sono scesi poco prima di lui.» «Sì, ho già parlato con loro. Avevano una lezione alle undici. Per quello se ne sono andati tanto presto. Ma non hanno notato il nostro uomo che li ha seguiti per le scale.» «Perciò non abbiamo testimoni.» «Soltanto questa telecamera.» Jane era ancora concentrata sull'ora. Otto minuti dall'annuncio del codice. Otto minuti erano lunghi. Tentò d'immaginarsi la scena. Raggiungere il poliziotto: dieci secondi. Convincerlo a seguirlo per pochi passi lungo il corridoio, fino al magazzino: trenta secondi. Tagliargli la gola: dieci secondi. Uscire, chiudere la porta, entrare nella stanza di Nina Peyton: quindici secondi. Uccidere la seconda vittima, uscire: trenta secondi. In tutto gli erano occorsi due minuti, al massimo. Ne rimanevano ancora sei. Come li aveva impiegati? Per pulirsi? C'era un sacco di sangue, forse si era sporcato. Avrebbe avuto un bel po' di tempo per sistemarsi. L'aiuto infermiera non aveva scoperto il corpo se non dieci minuti dopo che l'uomo del video era uscito dalla porta delle scale. A quell'ora avrebbe potuto già essere distante un chilometro, con la sua auto. Un tempismo perfetto. Quest'uomo si muove con la precisione di un orologio svizzero. Improvvisamente Jane si raddrizzò sulla sedia, un'idea le era balenata in testa come un lampo. «Lo sapeva. Gesù, Moore, lui sapeva che ci sarebbe stato un Codice Blu.» La Rizzoli lo guardò e vide, dalla sua reazione cal-
ma, che era già arrivato a tale conclusione. «Il signor Gwadowski ha avuto visite?» «Il figlio. Ma l'infermiera è stata con lui per tutto il tempo. Ed era là quando il paziente ha smesso di respirare.» «Che cos'è accaduto poco prima del codice?» «Ha cambiato la sacca della flebo. Abbiamo inviato il contenuto al laboratorio per le analisi.» La detective si voltò nuovamente verso lo schermo, dove l'uomo col camice bianco era fermo con un piede sollevato da terra. «Non ha senso. Perché avrebbe corso un rischio simile?» «Ha fatto pulizia, per liberarsi di un cane sciolto... la testimone.» «Ma che cos'ha effettivamente visto Nina Peyton? Un volto mascherato. Sapeva che non poteva riconoscerlo, che non costituiva un pericolo. Eppure si è preso la briga di ucciderla. Si è esposto alla cattura. Che cosa ci guadagna?» «Soddisfazione. Ha finalmente portato a termine l'uccisione.» «Ma avrebbe potuto finirla a casa sua. Moore, ha lasciato che Nina Peyton sopravvivesse, il che significa che aveva pianificato questa conclusione.» «In ospedale?» «Sì.» «A che scopo?» «Non lo so. Ma trovo interessante che tra tutti i pazienti del reparto abbia scelto Herman Gwadowski come diversivo. Un paziente di Catherine Cordell.» Il cercapersone di Moore squillò. Mentre riceveva la chiamata, Jane rivolse l'attenzione al monitor. Premette PLAY e guardò l'uomo dal camice bianco avvicinarsi alla porta, spingere la maniglia antipanico con un fianco ed entrare nella tromba delle scale. Neppure per una volta aveva girato la testa verso la telecamera. Riavvolse il nastro, riesaminò la sequenza. Ma, mentre il fianco dell'uomo ruotava lievemente, lo vide: un rigonfiamento sotto il camice, a destra, all'altezza della vita. Che cosa nascondeva là sotto? Un cambio di vestiti? Un kit d'assassino? «Non toccarlo! Lascialo dove si trova. Arrivo», udì Moore esclamare al telefono. Mentre il collega chiudeva la conversazione, la Rizzoli chiese: «Chi era?» «Era Catherine. Il nostro uomo le ha appena inviato un altro messag-
gio.» «È arrivata con la posta interna. Non appena ho visto la busta, ho capito che era lui.» La Rizzoli la osservò mentre Moore s'infilava un paio di guanti... una precauzione inutile, pensò Jane, dal momento che il Chirurgo non aveva mai lasciato né impronte né prove. Era una grossa busta marrone, chiusa con bottone e spago. Sulla riga superiore da compilare era stampato con inchiostro blu: «A Catherine Cordell. Auguri di compleanno da A.C.» Andrew Capra, pensò Jane. «Non l'hai aperta?» le chiese Moore. «No. L'ho soltanto appoggiata sulla scrivania. E ti ho chiamato.» «Brava ragazza.» La Rizzoli giudicò quella risposta compiacente, ma Catherine non l'aveva evidentemente presa in quel modo, poiché gli aveva rivolto un sorriso teso. Era accaduto qualcosa tra Moore e la Cordell. Uno sguardo, una corrente calda, che Jane aveva registrato con una fitta di dolorosa gelosia. Sono andati più oltre di quanto non pensassi. «Sembra vuota», mormorò Thomas. Coi guanti la aprì. La collega gli allungò un foglio di carta bianca sul bancone per raccoglierne il contenuto. Moore sollevò la linguetta e capovolse la busta. Capelli setosi color castano ramato scivolarono fuori, sul pezzo di carta. Un brivido percorse la schiena di Jane. «Sembrano capelli umani.» «Oddio. Oddio...» La Rizzoli si voltò e vide Catherine indietreggiare terrorizzata. Guardò i suoi capelli, poi di nuovo quelli usciti dalla busta. Sono suoi. I capelli sono della Cordell. «Catherine...» Moore parlò dolcemente, con tono rassicurante. «Potrebbero non essere affatto tuoi.» La donna lo guardò in preda al panico. «E se lo fossero? Come ha...» «Tieni una spazzola nell'armadietto della sala operatoria? Nel tuo ufficio?» «Moore...» disse la Rizzoli. «Guardali. Non sono stati tolti da una spazzola. Le radici sono state tagliate.» Jane si rivolse a Catherine. «Chi le ha tagliato i capelli ultimamente?» La Cordell si avvicinò lentamente al bancone ed esaminò i capelli come se guardasse una vipera velenosa. «So quando l'ha fatto», mormorò. «Mi ricordo.»
«Quando?» «È successo quella notte...» La dottoressa guardò la Rizzoli con un'espressione sbalordita. «A Savannah.» Jane riagganciò la cornetta del telefono e guardò Thomas. «Il detective Singer lo conferma. Le avevano tagliato una ciocca di capelli.» «Perché non era stato scritto sul rapporto?» «La Cordell non se ne accorse fino al secondo giorno di degenza in ospedale, quando si guardò allo specchio. Dal momento che Capra era morto e che non era stato trovato nessun capello sulla scena del delitto, Singer suppose che le fossero stati tagliati dal personale ospedaliero. Magari durante il trattamento d'emergenza. Il volto della Cordell era piuttosto malconcio, ricordi? Il pronto soccorso potrebbe averle rasato alcune ciocche per pulire il cuoio capelluto.» «Singer ha mai avuto la conferma che li avesse tagliati il personale?» La Rizzoli gettò la penna e sospirò. «No. Non ha mai verificato.» «Ha lasciato la cosa in sospeso? Non l'ha mai menzionato nel rapporto perché non aveva senso.» «Be', invece ha senso! Perché i capelli non sono stati trovati sulla scena del delitto, insieme al corpo di Capra?» «Catherine non ricorda buona parte di quella notte. Il Rohypnol ha cancellato una fetta significativa dei suoi ricordi. Capra potrebbe essere uscito e tornato più tardi.» «D'accordo. Ma ecco la domanda da cento milioni di dollari. Capra è morto. Come ha fatto questo souvenir a finire nelle mani del Chirurgo?» Moore non aveva risposta a tale domanda. Due assassini, uno vivo, uno morto. Che cosa univa quei due mostri? Il legame tra loro era qualcosa di più di un'energia puramente psichica: aveva assunto una dimensione fisica. Qualcosa che si poteva vedere e toccare. Il detective osservò i sacchetti dei reperti. Uno recava l'etichetta Capelli di soggetto ignoto, il secondo conteneva un campione di capelli di Catherine per un confronto. Lui stesso glieli aveva tagliati e li aveva infilati nel sacchetto. Quei capelli costituivano effettivamente un souvenir tentatore. Erano una parte del corpo molto personale. Una donna ci conviveva, ci dormiva insieme: la loro fragranza, il loro colore, la loro consistenza costituivano la sua vera essenza. Non c'era dunque da meravigliarsi che Catherine fosse inorridita quando aveva saputo che uno sconosciuto possedeva una parte tanto intima di lei. Che li aveva accarezzati, odorati, inebriandosi
del suo profumo come un amante. Ormai il Chirurgo conosce bene il suo profumo. Era quasi mezzanotte, ma la luce era ancora accesa. Dietro le tende chiuse vide passare la sua silhouette, e capì che era sveglia. Moore raggiunse la pattuglia parcheggiata sotto l'edificio e si chinò per parlare con gli agenti. «Niente da riferire?» «Non è uscita da quand'è arrivata a casa. Continua a camminare su e giù; sembra che passerà una notte agitata.» «Salgo a parlarle», disse Moore, e si voltò per attraversare la strada. «Rimarrà tutta la notte?» Il detective si fermò e si voltò, rigido, per guardare in faccia il poliziotto. «Prego?» «Si fermerà tutta la notte? Perché in tal caso dovremo riferirlo alla squadra del prossimo turno. Soltanto per informarli che con lei c'è uno dei nostri.» Moore represse la rabbia. La domanda dell'agente era del tutto legittima, e allora perché si era adontato tanto in fretta? Perché so che cosa può far credere il fatto che vada a casa sua a mezzanotte. So che cosa passa loro per la testa. E la stessa cosa che passa nella mia. Nell'istante in cui entrò nel suo appartamento vide uno sguardo interrogativo nei suoi occhi, cui rispose con un cupo cenno del capo. «Mi spiace, il laboratorio l'ha confermato. Sono proprio i tuoi capelli.» Catherine accolse la risposta con un silenzio di rassegnazione. In cucina si udì un bollitore fischiare. La donna si voltò e uscì dalla stanza. Thomas chiuse la porta e posò lo sguardo sulla serratura nuova. Persino l'acciaio temperato appariva inutile contro un nemico che pareva in grado di oltrepassare i muri. La seguì in cucina e la osservò spegnere il gas sotto il bollitore sibilante, trafficare con una scatola di bustine di tè e trasalire quando questa si aprì improvvisamente e le bustine si sparsero sul bancone. Un piccolo incidente che, tuttavia, fu la goccia che fece traboccare il vaso. D'un tratto Catherine si accasciò sul bancone, i pugni serrati, le nocche bianche contro le piastrelle del medesimo colore. Stava lottando per non piangere, per non crollare davanti a lui, e stava per perdere la battaglia. Il detective la vide fare un respiro profondo, vide le spalle stringersi, e l'intero corpo tendersi per reprimere il singhiozzo.
Non poteva più rimanere a guardare. Le si avvicinò, la tirò a sé e strinse il suo corpo tremante. Per tutto il giorno aveva sognato, desiderato di abbracciarla, ma non avrebbe voluto accadesse così, con Catherine spinta nelle sue braccia dalla paura. Avrebbe voluto essere qualcosa di più di un'ancora di salvezza, di un uomo affidabile su cui contare. Ma quello era esattamente ciò di cui lei aveva bisogno in quel momento. Perciò la strinse a sé, per proteggerla dagli orrori della notte. «Perché sta accadendo di nuovo?» sussurrò la donna. «Non lo so, Catherine.» «È Capra...» «No. Lui è morto.» Moore le prese il volto umido tra le mani, e la costrinse a guardarlo. «Andrew Capra è morto.» La donna s'irrigidì tra le sue braccia. «Allora perché il Chirurgo ha scelto me?» «Se c'è qualcuno che può conoscere la risposta, quella sei tu.» «Io non lo so.» «Forse non a livello conscio. Ma tu stessa mi hai detto di non ricordare tutto ciò che è accaduto a Savannah. Non rammenti di aver sparato il secondo colpo, e neppure chi ti ha tagliato i capelli, né quando. Che cos'altro non ricordi?» La Cordell scosse la testa. Poi batté le palpebre, spaventata al suono del cercapersone di Moore. Perché non possono lasciarmi in pace? Il detective andò al telefono appeso al muro della cucina per rispondere alla chiamata. La voce della Rizzoli lo salutò con tono accusatorio. «Sei da lei.» «Bella intuizione.» «No, è semplicemente apparso il suo numero sul display. È mezzanotte. Hai pensato a quello che fai?» «Perché mi hai chiamato?» le chiese, irritato. «Sta ascoltando?» Moore guardò Catherine uscire dalla cucina. Senza di lei la stanza sembrò improvvisamente vuota, priva di ogni interesse. «No», rispose. «Stavo pensando ai capelli tagliati. Sai, esiste anche un'altra spiegazione per questa faccenda.» «E sarebbe?» «Se li è spediti da sola.» «Non credo alle mie orecchie, Rizzoli.» «E io non posso credere che questo pensiero non ti abbia mai sfiorato la
mente.» «Per quale motivo l'avrebbe fatto?» «Per lo stesso motivo che spinge tanti a confessare omicidi che non hanno commesso. Guarda tutta l'attenzione che sta ricevendo! La tua attenzione. È mezzanotte, e tu sei lì, preoccupato per lei. Non sto dicendo che il Chirurgo non la stia perseguitando. Ma quei capelli mi fanno riflettere. È ora di pensare che cos'altro possa esserci sotto. Come ha fatto il Chirurgo ad avere quei capelli? Glieli ha dati Capra due anni fa? Come ha potuto farlo se era stecchito sul pavimento della stanza di Catherine? Hai visto le incongruenze tra la sua dichiarazione e il rapporto dell'autopsia di Capra. Sappiamo entrambi che non ha detto tutta la verità.» «La dichiarazione le è stata in gran parte suggerita dal detective Singer.» «Credi che l'abbia imbeccata?» «Pensa a tutta la pressione che sentiva addosso. Quattro omicidi. Tutti che vogliono un arresto. E lui fornisce una soluzione rapida e concisa: il killer è morto, ucciso dalla sua ultima vittima. Catherine ha chiuso il caso per lui, anche se fu costretto a metterle qualche parola in bocca.» Moore tacque per un istante. «Dobbiamo sapere ciò che è realmente accaduto quella notte a Savannah.» «Lei è l'unica che si trovava in quella stanza, ma sostiene di non ricordare tutto.» Moore sollevò lo sguardo quando la Cordell rientrò in cucina. «Non ancora.» 14 «Lei è certo che la dottoressa Cordell voglia sottoporvisi?» chiese Alex Polochek. «È qui e la sta aspettando», rispose Moore. «Non l'ha obbligata, vero? Perché l'ipnosi non funziona se il soggetto oppone resistenza. Deve essere totalmente disposta a collaborare, altrimenti sarà una perdita di tempo.» Una perdita di tempo era proprio come aveva definito quella seduta la Rizzoli, e la sua opinione era condivisa dagli altri detective dell'unità, che consideravano l'ipnosi uno spettacolo da Las Vegas o da maghi da salotto. Un tempo Moore la pensava come loro. Il caso Meghan Florence gli aveva però fatto cambiare opinione. Il 31 ottobre 1998 una bambina di dieci anni, di nome Meghan, stava
tornando da scuola quando un'auto si era fermata accanto a lei. Da quel giorno nessuno l'aveva più vista viva. L'unico testimone del rapimento era un ragazzino dodicenne che si trovava nei paraggi. Benché la macchina fosse ben visibile e il bambino ne ricordasse forma e colore, non aveva idea di quale fosse la targa. Settimane più tardi non c'erano ancora stati sviluppi nel caso, perciò i genitori di Meghan avevano insistito che il bambino venisse interrogato da un ipnoterapeuta. Esaurita ogni pista, la polizia aveva acconsentito, seppur con riluttanza. Moore aveva assistito alla seduta. Aveva osservato Alex Polochek indurre gradualmente il bambino in uno stato ipnotico, e aveva ascoltato meravigliato mentre il dodicenne pronunciava il numero di targa dell'auto incriminata. Il corpo di Meghan Florence era stato trovato due giorni più tardi, sepolto nel giardino del rapitore. Thomas sperava che la magia operata da Polochek sulla memoria di quel bambino si potesse ripetere quel giorno su Catherine Cordell. I due uomini erano seduti fuori della stanza dove si sarebbe svolta la seduta, e guardavano Catherine e la Rizzoli attraverso lo specchio finto. La dottoressa sembrava a disagio; si dimenava sulla sedia e guardava lo specchio finto, come fosse consapevole del fatto che la stessero osservando. Una tazza di tè era posata sul tavolino accanto a lei. «Il ricordo da recuperare è doloroso», disse Moore. «Anche se vuole collaborare, per lei non sarà piacevole. Al momento dell'aggressione era ancora sotto l'influenza del Rohypnol.» «Un ricordo di due anni fa, mentre era sotto l'effetto di un farmaco? E mi ha detto, inoltre, che non è puro.» «Un detective a Savannah potrebbe averle dato qualche suggerimento durante l'interrogatorio.» «Lei sa che non posso fare miracoli. E niente di ciò che otterremo dalla seduta potrà essere ammissibile come prova. Questo invaliderà ogni futura testimonianza della Cordell in tribunale.» «Lo so.» «E vuole ugualmente procedere?» «Sì.» Moore aprì la porta e i due uomini entrarono nella stanza. «Catherine, questo è l'uomo di cui ti ho parlato, Alex Polochek. È l'ipnoterapeuta incaricato dal Boston Police Department.»
Mentre gli stringeva la mano, la Cordell scoppiò in una risata nervosa. «Mi dispiace», si scusò. «Credo non sapessi che cosa aspettarmi.» «Pensava che avessi un mantello nero e una bacchetta magica?» esclamò Polochek. «E ridicolo, ma è proprio così.» «E invece le appare davanti un uomo cicciottello e pelato.» Catherine rise nuovamente, un po' più rilassata. «Non è mai stata ipnotizzata?» le chiese. «No. A essere sincera, non credo che ci riuscirà.» «Perché lo pensa?» «Perché non ci credo veramente.» «Ma ha acconsentito a provare.» «Il detective Moore pensava che dovessi farlo.» Polochek si sedette di fronte a lei. «Dottoressa Cordell, non è necessario che creda all'ipnosi perché sia utile. Ma deve desiderare che funzioni. Deve avere fiducia in me, ed essere disposta a rilassarsi e a lasciarsi andare. Io la guiderò in uno stato alterato, che somiglia un po' a quello che viviamo poco prima di addormentarci. In ogni caso, non si addormenterà. Le prometto che sarà consapevole di ciò che accadrà intorno a lei. Ma sarà tanto rilassata da essere in grado di raggiungere parti della memoria cui normalmente non ha accesso. E come girare la chiave di uno schedario presente nel suo cervello, essere finalmente in grado di aprirne i cassetti e di estrarne i documenti.» «Questa è la parte cui non credo. Ossia che l'ipnosi possa farmi ricordare.» «Non farle ricordare. Ma permetterle di farlo.» «Va bene, mi permetta di ricordare. Mi sembra improbabile che ciò mi aiuti a ripescare un ricordo cui non posso accedere da sola.» Polochek annuì. «Sì, ha ragione a essere scettica. Sembra improbabile, non è vero? Ma esiste un modo in cui si possono bloccare i ricordi. Si tratta della legge dell'effetto inverso. Quanto più cerca di ricordare qualcosa, tanto più sarà improbabile che le venga in mente. Sono sicuro che lo ha provato anche lei. Come tutti, del resto. Per esempio, vede un'attrice famosa in televisione e sa di conoscerne il nome, ma al momento non riesce a ricordarlo. Allora inizia a scervellarsi alla ricerca di quel nome e diventa pazza. Dopo un'ora si domanda se non ha per caso sviluppato una forma precoce di Alzheimer. Mi dica se non accade anche a lei.» «Sempre.» Ora Catherine stava sorridendo. Era evidente che Polochek le
fosse simpatico e che si sentisse a suo agio con lui. Un buon inizio. «Alla fine ricorda il nome dell'attrice, giusto?» le chiese. «Sì.» «E quando accade?» «Quando smetto di pensarci. Quando mi rilasso e penso a qualcos'altro. Oppure quando sto per addormentarmi.» «Esattamente. Quando si rilassa, la sua mente smette di aggrapparsi disperatamente al cassetto dello schedario. E allora il cassetto si apre, come per magia, e il fascicolo salta fuori. Questo rende il concetto dell'ipnosi un po' più plausibile?» Catherine annuì. «Bene, è proprio ciò che faremo. Io l'aiuterò a rilassarsi. Le permetterò di raggiungere quel cassetto.» «Non sono sicura di potermi rilassare abbastanza.» «E la stanza? La sedia?» «La sedia va bene. E...» La Cordell guardò a disagio la telecamera. «Il pubblico.» «I detective Moore e Rizzoli lasceranno la stanza. E, quanto alla telecamera, è soltanto un oggetto. Un congegno meccanico. Lo consideri tale.» «Credo di...» «C'è altro che la preoccupa?» Un istante di silenzio. «Ho paura», mormorò. «Di me?» «No. Dei ricordi. Di riviverli.» «Non glieli farei mai rivivere. Il detective Moore mi ha detto che è stata un'esperienza traumatica, e non abbiamo intenzione di fargliela ripetere. Useremo un approccio diverso, in modo che la paura non blocchi i suoi ricordi.» «E come farà a sapere che si tratta di ricordi reali? E non di qualcosa che mi sono inventata?» Polochek tacque per un istante. «Il fatto che i suoi ricordi possano non esser puri mi preoccupa, del resto è passato molto tempo. Ma dovremo lavorare con ciò che abbiamo. Devo dirle che io non so quasi nulla del caso. Cerco sempre di non informarmi troppo, per non correre il rischio d'influenzare il paziente. Mi è stato soltanto detto che il fatto è accaduto due anni fa, che riguarda un'aggressione nei suoi confronti, e che le era stato somministrato del Rohypnol. Per il resto, brancolo nel buio. Perciò, qualsiasi ricordo emerga, è suo. Io sono qui soltanto per aiutarla ad aprire quel
cassetto.» «Credo di essere pronta», mormorò lei con un sospiro. Polochek guardò in direzione dei detective. Moore annuì, poi uscì dalla stanza insieme alla Rizzoli. Dall'altro lato dello specchio finto osservarono Polochek prendere blocco e penna e appoggiarli sul tavolo accanto a lui. Questi pose a Catherine qualche altra domanda: che cosa facesse in genere per rilassarsi, se esistesse un luogo speciale, un ricordo speciale, che trovava particolarmente rasserenante. «In estate, quand'ero ragazzina», rispose Catherine, «andavo dai miei nonni nel New Hampshire. Avevano un cottage sul lago.» «Me lo può descrivere, in dettaglio?» «Era tranquillo. Piccolo. Con una grande veranda che dava sull'acqua. C'erano cespugli di lamponi selvatici accanto alla casa. Io li raccoglievo sempre. E sul sentiero che portava al molo, la nonna piantava emerocallidi.» «Dunque, ricorda i frutti di bosco. I fiori.» «Sì. E l'acqua. Io adoro l'acqua. Prendevo sempre il sole sul molo.» «Buono a sapersi.» Alex scarabocchiò qualcosa sul blocco, poi ripose la penna. «Bene. Ora iniziamo con tre respiri profondi. Espiri lentamente. Così. Chiuda gli occhi e si concentri sulla mia voce.» Moore osservò le palpebre di Catherine chiudersi lentamente. «Inizia a registrare», disse, rivolto a Jane. La collega premette il tasto di registrazione e il nastro iniziò a scorrere. Nella stanza accanto, Polochek guidò Catherine in uno stato di rilassamento completo, invitandola dapprima a concentrarsi sulle dita dei piedi e a eliminare la tensione. Ora i piedi erano molli e la sensazione di leggerezza si diffondeva ai polpacci. «Credi davvero in questa cazzata?» chiese la Rizzoli a Moore. «L'ho vista funzionare.» «Be', forse è vero. Perché mi sta facendo addormentare.» Thomas guardò Jane, in piedi con le braccia incrociate, il labbro inferiore sporgente, segno del suo ostinato scetticismo. «Sta' a vedere», ribatté il detective. «Quand'è che inizia a levitare?» Polochek aveva rilassato progressivamente tutti i muscoli del corpo di Catherine, le cosce, la schiena, le spalle. Ora le braccia le penzolavano lungo i fianchi e il viso era sereno, senz'ombra di preoccupazione; la respi-
razione si era fatta più lenta e profonda. «Adesso visualizzeremo un luogo che ami», mormorò Polochek. «Il cottage dei nonni, sul lago. Voglio che tu ti veda in piedi sulla grande veranda, lo sguardo rivolto verso l'acqua. È una giornata calda, e l'aria è calma e tranquilla. L'unico suono è il cinguettio degli uccelli, nient'altro. C'è un'atmosfera tranquilla, pacifica. Lo scintillio del sole sull'acqua...» Sul volto di Catherine apparve una tale serenità che Moore stentava a credere di avere di fronte la stessa donna. Vide il calore e tutte le rosee speranze di una ragazzina. Sto guardando la bambina che era un tempo, pensò. Prima della perdita dell'innocenza, prima delle delusioni dell'età adulta. Prima che Andrew Capra le lasciasse il suo segno. «L'acqua è invitante, stupenda», continuò Polochek. «Tu scendi gli scalini della veranda e ti avvii lungo il sentiero, verso il lago.» Catherine era immobile, il volto completamente rilassato, le mani molli in grembo. «Il terreno è soffice sotto i tuoi piedi. Il sole splende e ti riscalda la schiena. E gli uccelli cinguettano tra gli alberi. Sei perfettamente a tuo agio. A ogni passo diventi sempre più tranquilla. Una calma via via più profonda s'impadronisce di te. Lungo il sentiero ci sono dei fiori, emerocallidi. Emanano un profumo dolce, e mentre li sfiori passando, respiri la loro fragranza. È un buon odore, molto speciale, fatato, che ti addormenta. Mentre cammini senti le gambe sempre più pesanti. Il profumo dei fiori è come una droga, ti rilassa sempre di più. E il calore del sole scioglie ogni traccia di tensione nei tuoi muscoli. «Ora ti stai avvicinando all'acqua. E vedi una piccola barca. Sali sul molo; l'acqua è calma, liscia come uno specchio. Come vetro. La barca galleggia sull'acqua, è ferma e stabile più che mai. È un'imbarcazione magica, ti porta dovunque tu voglia andare, fa tutto da sola. Perciò solleva il piede destro per salire in barca.» Moore guardò i piedi di Catherine e vide che il destro si era effettivamente alzato ed era sospeso a pochi centimetri dal pavimento. «Benissimo. Ora entra. La barca è stabile. È un luogo sicuro. Tu sei assolutamente fiduciosa e a tuo agio. Adesso con il piede sinistro.» Anche il sinistro si sollevò dal pavimento e si riappoggiò lentamente. «Gesù, non ci credo», mormorò la Rizzoli. «Lo stai vedendo coi tuoi occhi.» «Sì, ma come fai a sapere che è davvero ipnotizzata? Che non finge?» «Non lo sai.»
Polochek si avvicinò a Catherine e, senza toccarla, la guidò con la voce nello stato di trance. «Ora sleghi la barca dal molo. È libera e si muove sull'acqua. Hai tu il controllo. Tutto ciò che devi fare è pensare a un luogo, e la barca ti ci porterà come per magia.» Polochek guardò lo specchio e annuì. «Ora la riporta indietro», spiegò Moore. «Va bene, Catherine.» Alex annotò sul blocco l'ora in cui era stata completata l'induzione. «Ora guiderai la barca in un altro posto. In un altro tempo. Tu ne hai sempre il controllo. Vedi un po' di nebbia salire dall'acqua, una nebbia calda e gentile che ti accarezza la faccia. La barca vi scivola attraverso. Allunghi una mano per toccare l'acqua, è come seta. Tanto calda, tanto ferma. Ora la nebbia si solleva e vedi un edificio sulla spiaggia. Un edificio con una porta sola.» Moore si ritrovò più vicino allo specchio. Le mani tremanti, il polso accelerato. «La barca ti porta a riva e tu scendi. Cammini sul sentiero fino alla casa e apri la porta. Entri in una stanza con un bel tappeto spesso. E una sedia. Ti siedi e scopri che è la sedia più comoda sulla quale ti sia mai seduta. Sei completamente a tuo agio. E hai il controllo della situazione.» Catherine trasse un sospiro profondo, come se si fosse appena accomodata su un paio di cuscini morbidi. «Ora, guarda la parete di fronte a te e vedrai lo schermo di un cinema. E uno schermo magico, perché ti fa vedere scene di ogni momento della tua vita. Può andare indietro quanto vuoi tu. Ne hai il controllo. Puoi farlo andare avanti o indietro, per fermarti a un particolare istante. Tutto dipende da te. Proviamo. Torniamo a un periodo felice, in cui eri dai tuoi nonni, nel cottage sul lago. Stai raccogliendo lamponi. Lo vedi sullo schermo?» La risposta di Catherine tardò molto ad arrivare. Quando finalmente parlò, le uscì un sussurro, che Moore fece fatica a udire. «Sì. Mi vedo.» «Che cosa stai facendo? Sullo schermo?» chiese Polochek. «Ho in mano un sacchetto di carta. Raccolgo i lamponi e li metto nel sacchetto.» «E li mangi mentre li raccogli?» Un sorriso apparve sulle labbra della Cordell, morbido e sognante. «Oh, sì. Sono dolci. E caldi per il sole.» Moore si accigliò. Questo non se l'aspettava. Catherine stava sperimentando il gusto e il tatto, il che significava che stava rivivendo quel momen-
to. Non lo stava soltanto guardando sullo schermo; lei stessa era nella scena. Vide Polochek voltarsi verso lo specchio con sguardo preoccupato. Aveva scelto l'espediente dello schermo per alienarla dal trauma della sua esperienza, ma in quel momento non era affatto distaccata. Alex esitò, considerando la mossa successiva. «Catherine... Voglio che ti concentri sul cuscino sul quale sei seduta. Sei sulla sedia, nella stanza, e guardi lo schermo. Nota quanto è soffice il cuscino, come la sedia avvolge la tua schiena. La senti?» Una pausa. «Sì.» «Va bene. Ora rimani sulla sedia. Non ti devi alzare. Useremo lo schermo magico per guardare una scena diversa della tua vita. Sei ancora seduta sulla sedia, senti il cuscino soffice a contatto con la schiena. Ciò che ora vedrai è soltanto un film. D'accordo?» «D'accordo.» «Ora.» Polochek fece un respiro profondo. «Torneremo al quindici luglio, a Savannah. La notte in cui Andrew Capra ha bussato alla tua porta. Dimmi che cosa sta accadendo sullo schermo.» Mpore era concentrato e non osava quasi respirare. «È in piedi sulla mia veranda. Dice che ha bisogno di parlarmi.» «Di che cosa?» «Degli errori che ha commesso. In ospedale.» Ciò che riferì in seguito non differiva dalla dichiarazione rilasciata a Savannah al detective Singer. Con riluttanza, aveva invitato Capra a entrare. Era una serata calda, e lui aveva detto di aver sete, perciò Catherine gli aveva offerto una birra. Ne aveva aperta una anche per lei. Capra era agitato, preoccupato per il suo futuro. Sì, aveva commesso errori. Ma non ne aveva fatti ogni medico? Il suo talento sarebbe andato sprecato se l'avessero escluso dal programma. Conosceva uno studente di medicina, a Emory, un giovanotto brillante che aveva commesso un solo sbaglio, che però gli aveva stroncato la carriera. Non era giusto che Catherine detenesse il potere di favorire o di spezzare una carriera. Tutti si meritavano una seconda chance. La Cordell aveva tentato di farlo ragionare, ma aveva sentito la sua rabbia crescere e aveva visto le sue mani tremare. Infine si era alzata per andare in bagno, per dargli il tempo di tranquillizzarsi. «E quando sei tornata?» le chiese Polochek. «Che cosa accade nel film? Che cosa vedi?» «Andrew è più calmo. Quando finisco la birra, mi sorride.»
«Sorride?» «Strano. Un sorriso molto strano. Come quelli che mi faceva in ospedale...» Moore udì il suo respiro accelerare. Anche in qualità di spettatrice distaccata che guardava la scena in un film immaginario, Catherine non era immune all'orrore. «Poi che accade?» «Mi addormento.» «Lo vedi nel film?» «Sì.» «E dopo?» «Non vedo più niente. Lo schermo è nero.» Il Rohypnol. Non ha ricordi di quella parte. «Va bene», mormorò Alex Polochek. «Mandiamo avanti il nastro, oltre la parte vuota. Guarda la prossima immagine che vedi sullo schermo.» La respirazione di Catherine si fece più affannosa. «Che cosa vedi?» «Sono... sono sdraiata nel mio letto. Nella mia stanza. Non posso muovere né le braccia né le gambe.» «Perché no?» «Sono legata al letto. Non ho più i vestiti e lui è sopra di me. E dentro di me. Si muove dentro di me...» «Andrew Capra?» «Sì. Sì...» La respirazione era irregolare, la gola attanagliata dalla paura. Moore serrò i pugni e anche il suo polso accelerò. Lottò contro l'istinto di bussare sullo specchio e di porre immediatamente fine alla seduta. Non poteva sopportare oltre, non dovevano obbligarla a rivivere lo stupro. Ma Polochek era già consapevole del pericolo, e rapidamente la allontanò da quel ricordo doloroso. «Sei ancora seduta sulla sedia», continuò Alex. «Al sicuro nella stanza dello schermo. È soltanto un film, Catherine. Sta accadendo a qualcun altro. Tu sei al sicuro. Sei fiduciosa.» Il respiro della Cordell rallentò di nuovo e si stabilizzò. Altrettanto fece quello di Moore. «Va bene. Ora guardiamo il film. Presta attenzione a ciò che fai tu. Non Andrew. Dimmi che cosa accade dopo.» «Lo schermo è ancora nero. Non vedo niente.» Non si è ancora ripresa dal Rohypnol.
«Manda avanti il nastro, nuovamente oltre la parte vuota. Fino alla prossima immagine. Che cosa vedi?» «Luce. Vedo luce...» Polochek fece una pausa. «Voglio che ti guardi intorno, Catherine. Voglio che torni un attimo indietro, osserva la stanza. Che cosa vedi sullo schermo?» «Vedo alcune cose sul comodino.» «Che tipo di cose?» «Strumenti. Un bisturi. Vedo un bisturi.» «Dov'è Andrew?» «Non lo so.» «Non è nella tua stanza?» «Se n'è andato. Sento il rumore dell'acqua.» «Poi che accade?» Catherine respirava rapidamente, la voce agitata. «Tiro le corde. Tento di liberarmi. Non riesco a muovere i piedi. Ma la mano destra... la corda è molle intorno al polso. Continuo a tirare e a tirare. Il polso sanguina.» «Andrew è ancora fuori della stanza?» «Sì, lo sento ridere, sento la sua voce, ma è in un'altra parte della casa.» «Che cosa succede alla corda?» «Si sta allentando. Il sangue rende il polso viscido, e la mano scivola fuori...» «Poi che cosa fai?» «Raggiungo il bisturi. Taglio la corda dell'altro polso. Faccio tutto a rallentatore; ho la nausea, le mie mani non si muovono come dovrebbero. Sono lente e nella stanza si alternano il buio e la luce. Sento la sua voce, sta parlando. Mi sollevo e taglio la corda della caviglia sinistra. Ora sento i passi. Tento di scendere dal letto, ma il piede destro è ancora legato. Rotolo da una parte e cado sul pavimento. Di faccia.» «Continua.» «Vedo Andrew sulla porta. Sembra sorpreso. Io allungo una mano sotto il letto e cerco la pistola.» «C'è una pistola sotto il tuo letto?» «Sì. Quella di mio padre. Ma ho la mano impacciata, riesco appena a reggerla. E le cose iniziano a ridiventare nere.» «Dov'è Capra?» «Sta camminando verso di me...» «E cosa succede, Catherine?»
«Ho la pistola in mano. Sento un rumore. Un rumore forte.» «L'arma ha sparato?» «Sì.» «Hai sparato tu?» «Sì.» «Ora Andrew che fa?» «Cade. Le mani sullo stomaco. Vedo sangue tra le sue dita.» «E poi cosa succede?» Una lunga pausa. «Catherine? Che cosa vedi sullo schermo?» «Niente. È ridiventato nero.» «E quando appare l'immagine successiva?» «Persone. Tante persone nella stanza.» «Che tipo di persone?» «Poliziotti...» Moore per poco non grugnì, deluso. Quello era il buco cruciale nella sua memoria. Il Rohypnol, combinato con gli effetti del colpo in testa, l'avevano ridotta nuovamente all'incoscienza. Catherine non ricordava di aver sparato il secondo colpo. Ancora non sapevano come il secondo proiettile fosse finito nella testa di Andrew Capra. Polochek stava guardando verso lo specchio finto. Erano soddisfatti? Con sorpresa di Moore, la Rizzoli aprì improvvisamente la porta e fece cenno ad Alex di raggiungerli nella stanza. Il terapista lasciò la dottoressa sola e chiuse la porta. «La faccia tornare indietro, prima dello sparo, quand'è ancora sul letto. Voglio che si concentri su quello che sente nell'altra stanza. L'acqua che scorre. La risata di Capra. Voglio sapere tutto quello che sente.» «Qualche motivo particolare?» «Lo faccia e basta.» Polochek annuì e tornò nella stanza con la Cordell. Catherine non si era mossa: sedeva ancora immobile, nel suo limbo. «Catherine», mormorò gentilmente Alex, «voglio che tu riavvolga il nastro. Alla scena precedente lo sparo. Prima di liberarti e di rotolare sul pavimento. Ferma il film nel momento in cui sei sul letto e Andrew non è nella camera con te. Hai detto di udire scorrere l'acqua.» «Sì.» «Dimmi tutto ciò che senti.» «Acqua. La sento nelle tubature. Lo spruzzo. E la sento gorgogliare nel-
lo scarico.» «Sta facendo correre l'acqua in un lavandino?» «Sì.» «E hai detto di aver sentito ridere.» «Andrew sta ridendo.» «Sta anche parlando?» Una pausa. «Sì.» «Che cosa dice?» «Non lo so. È troppo lontano.» «Sei sicura che sia lui? Non potrebbe essere la televisione?» «No, è lui. È Andrew.» «Bene. Premi il tasto del rallentatore. Fai avanzare l'immagine secondo per secondo. Dimmi cosa senti.» «L'acqua che scorre. Andrew dice: 'Facile'. La parola è questa.» «Nient'altro?» «Dice: 'Guardane uno, fanne uno, insegnane uno'.» «'Guardane uno, fanne uno, insegnane uno'? E questo che dice?» «Sì.» «E le parole che senti dopo?» «È il mio turno, Capra.» Polochek tacque per un istante. «Puoi ripetere?» «È il mio turno, Capra.» «Sono parole di Andrew?» «No. Non di Andrew.» Moore s'irrigidì, e rimase a fissare Catherine immobile sulla sedia. Alex guardò all'improvviso lo specchio, sbalordito. Poi si rivolse nuovamente a lei. «Chi ha pronunciato quelle parole? Chi dice: 'È il mio turno, Capra'?» «Non lo so. Non conosco quella voce.» Moore e la Rizzoli si guardarono. In casa c'era una seconda persona. 15 Adesso è con lei. Jane Rizzoli usava maldestramente il coltello sul tagliere, e più d'una fetta di cipolla schizzava dal bancone sul pavimento. Nella stanza accanto, il padre e i due fratelli stavano guardando la TV a volume alto. La TV era
sempre assordante in quella casa, il che significava che tutti dovevano gridare. Se non gridavi a casa di Frank Rizzoli, non venivi udito, perciò una semplice conversazione di famiglia suonava come un acceso litigio. Jane mise la cipolla affettata in un recipiente e, lacrimando, iniziò a tagliare l'aglio, la mente ancora focalizzata sull'irritante visione di Moore e della Cordell, insieme. Dopo la seduta col dottor Polochek, era stato Thomas a riaccompagnare Catherine a casa. La Rizzoli li aveva guardati mentre si avviavano verso l'ascensore, aveva visto il braccio di lui cingere le spalle di lei, un gesto che le era sembrato molto più che protettivo. Aveva notato il modo in cui la guardava, l'espressione del suo volto, la luce nei suoi occhi. Moore non era più un poliziotto che proteggeva una cittadina, era un uomo che si stava innamorando. Jane separò gli spicchi d'aglio, li schiacciò a uno a uno con la parte piatta della lama, e li pelò. Il coltello sbatté contro l'asse di legno; la madre, in piedi davanti ai fornelli, la guardò ma non disse nulla. Adesso è con lei. A casa sua. Magari nel suo letto. Scaricò parte della frustrazione repressa affettando gli spicchi, bangbang-bang. Non capiva perché il pensiero di Moore e della Cordell la infastidisse tanto. Forse era perché esistevano pochi santi al mondo, poche persone che rispettavano rigorosamente le regole, e pensava che Thomas fosse uno di loro. Lui le aveva fatto sperare che l'umanità non fosse tutta corrotta, e ora la deludeva. Forse la turbava tanto perché temeva per le indagini: un uomo motivato da interessi profondamente personali né pensa né agisce in maniera logica. O forse è perché sei gelosa di lei. Gelosa di una donna che può far girare la testa a un uomo con un solo sguardo. Gli uomini diventavano dei veri idioti con le donne vulnerabili. Nella stanza accanto, il padre e i fratelli esultarono rumorosamente per la trasmissione televisiva. Jane non vedeva l'ora di tornare alla quiete del suo appartamento e cominciò a escogitare scuse per congedarsi presto. Sarebbe dovuta rimanere almeno per cena. Come continuava a ricordarle la madre, Frank Jr. non tornava a casa molto spesso, e come poteva Janie mostrarsi tanto riluttante a trascorrere un po' di tempo coi suoi fratelli? Pertanto, avrebbe dovuto sorbirsi per un'intera serata le storie di Frankie sul campo d'addestramento. Quanto imbranate fossero le reclute di quell'anno, come si stesse rammollendo la gioventù americana e come lui dovesse fare il duro per far superare il percorso a ostacoli a quelle donniccio-
le. Il padre e la madre pendevano dalle labbra del figlio. Ciò che la faceva innervosire era che la sua famiglia le chiedesse tanto poco del suo lavoro. Fino a quel momento della sua carriera di Marine, Frankie il macho aveva soltanto giocato alla guerra, mentre lei vedeva ogni giorno battaglie, contro persone vere, contro assassini reali. Frankie entrò spavaldo in cucina e prese una birra dal frigorifero. «Quand'è che si cena?» chiese, aprendo la bottiglia, con l'aria di chi parla con una cameriera. «Tra un'ora», rispose la madre. «Gesù, mamma. Sono già le sette e mezzo. Sto morendo di fame.» «Non bestemmiare, Frankie.» «Sai», s'intromise Jane, «mangeremmo molto prima se voi uomini ci deste una mano.» «Posso aspettare», rispose Frankie, e si voltò per tornare in sala, ma si fermò sulla porta. «Oh, quasi dimenticavo. Ti hanno lasciato un messaggio.» «Che cosa?» «Il tuo cellulare ha squillato. Un tipo di nome Frosty.» «Intendi Barry Frost?» «Sì, era quello il nome. Vuole che lo richiami.» «Quand'è stato?» «Eri fuori a spostare le auto.» «Dannazione, Frankie! Ha chiamato un'ora fa!» «Janie», la rimproverò la madre. La Rizzoli si slacciò il grembiule e lo gettò sul bancone. «Si tratta del mio lavoro, mamma! Perché diavolo nessuno lo rispetta?» Afferrò il telefono della cucina e digitò il numero del cellulare di Frost. Il collega rispose al primo squillo. «Sono io. Mi hanno appena riferito il tuo messaggio.» «Ti perderai l'irruzione.» «L'irruzione?» «Abbiamo trovato una corrispondenza per il DNA di Nina Peyton.» «Intendi lo sperma? Il DNA è nel CODIS?» «Corrisponde a quello di uno stupratore di nome Karl Pacheco. Arrestato nel 1997 con l'accusa di aggressione sessuale, ma assolto. Sostenne che era stato un atto consensuale. La giuria gli credette.» «È lo stupratore di Nina Peyton?» «E abbiamo il DNA che lo prova.»
Jane sollevò un pugno trionfante nell'aria. «Qual è l'indirizzo?» «4578 Columbus Avenue. La squadra è quasi tutta qui.» «Arrivo.» La Rizzoli stava già uscendo di corsa dalla porta quando la madre la chiamò. «Janie! E la cena?» «Devo andare, mamma.» «Ma è l'ultima sera di Frankie!» «Dobbiamo fare un arresto.» «Non possono sbrigarsela senza di te?» Jane si fermò, la mano sulla maniglia, e sentì la rabbia sibilare pericolosamente come una bomba pronta a esplodere. D'un tratto percepì con sorprendente chiarezza che, al di là di ciò che otteneva e delle potenzialità della sua carriera, quella scena avrebbe sempre simboleggiato la sua realtà: Janie, la sorella insignificante. La ragazzina. Senza dire una parola, uscì sbattendo la porta. Columbus Avenue si trovava all'estremità settentrionale di Roxbury, proprio al centro del terreno di caccia del Chirurgo. A sud, vi era Jamaica Plain, il territorio di Nina Peyton. A sud-est, l'abitazione di Elena Ortiz. A nord-est, il Back Bay, e gli appartamenti della Sterling e di Catherine Cordell. Osservando la strada a tre corsie, la Rizzoli vide file di edifici dai mattoni rossi, un quartiere popolato dagli studenti e dai docenti della vicina Northeastern University. Numerose studentesse. Numerose prede. Il semaforo diventò giallo. Carica di adrenalina, Jane premette il pedale dell'acceleratore e attraversò l'incrocio. Voleva avere il merito di quell'arresto. Per settimane aveva vissuto, respirato, e persino sognato il Chirurgo. Quell'uomo aveva invaso ogni momento della sua vita, le ore di veglia e quelle di sonno. Nessuno aveva lavorato più di lei per catturarlo, e ora correva per reclamare il premio. A un isolato dall'indirizzo di Karl Pacheco frenò e si fermò dietro una pattuglia. Altri quattro veicoli erano parcheggiati disordinatamente lungo la strada. Troppo tardi, pensò, mentre correva verso l'edificio. Sono già dentro. Una volta entrata, udì passi sordi e urla di uomini echeggiare nella tromba delle scale. Jane seguì i rumori fino al secondo piano ed entrò nell'appartamento di Karl Pacheco. Davanti a lei c'era il caos: schegge di legno della porta disseminate sulla soglia, sedie capovolte, una lampada rotta, come se un paio di tori infuriati
fossero entrati nel locale, devastandolo. L'aria stessa era appestata, pregna di testosterone, della furia dei poliziotti a caccia dell'uomo che giorni prima aveva ucciso un loro collega. Sul pavimento giaceva un uomo a faccia in giù. Di colore... non il Chirurgo. Crowe gli teneva un piede brutalmente pigiato sulla nuca. «Ti ho fatto una domanda, pezzo di merda. Dov'è Pacheco?» L'uomo piagnucolò e commise l'errore di sollevare la testa. Crowe abbassò con forza il tallone e gli schiacciò il mento per terra. Il malcapitato emise un verso soffocato e iniziò a dimenarsi. «Fallo alzare!» gli gridò la Rizzoli. «Non rimarrà fermo!» «Togligli i piedi di dosso e forse inizierà a parlare!» Jane spostò Crowe di lato. Il prigioniero si rotolò sulla schiena, boccheggiante come un pesce spiaggiato. «Dov'è Pacheco?» «Non... non lo so...» «Sei nel suo appartamento!» «Andato. Se n'è andato...» «Quando?» L'uomo cominciò a tossire, un attacco profondo e violento che sembrava dovesse spaccargli i polmoni da un momento all'altro. Gli altri poliziotti, nel frattempo, si erano avvicinati e guardavano con malcelato odio l'indiziato sul pavimento. L'amico di un killer di poliziotti. Disgustata, la Rizzoli percorse il corridoio fino alla stanza. La porta dell'armadio era aperta e i vestiti sulle grucce erano stati gettati per terra. La perquisizione dell'appartamento era stata minuziosa e brutale, tutte le porte erano spalancate, tutti i possibili nascondigli messi a nudo. Jane s'infilò un paio di guanti e iniziò a frugare nel cassettone, rovistando nelle tasche in cerca di un'agenda, di una rubrica telefonica, di qualsiasi cosa le potesse rivelare dove fosse fuggito Pacheco. Moore entrò nella stanza e lei sollevò lo sguardo. «Sei tu il responsabile di questo casino?» gli chiese la Rizzoli. Thomas scosse la testa. «Marquette ha dato l'ordine. Ci avevano detto che Pacheco era nell'edificio.» «E allora dov'è?» La donna chiuse energicamente il cassetto e raggiunse la finestra della stanza. La scala antincendio era proprio là fuori. Si sporse. Un'auto della polizia era parcheggiata nella via sottostante, la radio gracchiava, e la Rizzoli vide un agente illuminare l'interno di un cassonetto con
una torcia. Stava per ritirare la testa quando sentì qualcosa colpirle la nuca, e udì un debole acciottolio di sassolini che rimbalzavano sulla scala di ferro. Sorpresa, alzò lo sguardo. Il cielo notturno era illuminato dalle luci cittadine, e le stelle erano quasi invisibili. Rimase a fissare per un attimo, esaminando il profilo del tetto contro il cielo nero, anemico, ma nulla si mosse. Uscì sulla scala antincendio e iniziò a salire i gradini fino al terzo piano, dove si fermò a controllare la finestra sovrastante l'appartamento di Pacheco; era chiusa dall'interno, ed era buia. Sollevò ancora lo sguardo verso il tetto. Benché non vedesse né udisse nulla, fu attraversata da un brivido. «Rizzoli?» la chiamò Moore dalla finestra. Lei non rispose ma indicò il tetto, un segnale silenzioso a indicare le sue intenzioni. Jane si asciugò i palmi umidi sui pantaloni e cominciò a salire tranquilla la scala che portava al tetto. Giunta all'ultimo piolo si fermò, fece un respiro profondo e, lentamente, molto lentamente, sollevò la testa per guardare oltre il bordo. Sotto il cielo senza luna il tetto era una foresta di ombre. Scorse la sagoma di un tavolo e di alcune sedie, un groviglio di rami arcuati. Un giardino. Si arrampicò oltre il margine, scivolò leggera sulla copertura catramata, ed estrasse la pistola. Poi fece due passi e inciampò in un oggetto che cadde, emettendo una sorta di acciottolio. Jane percepì l'odore pungente dei gerani e si rese conto di essere circondata da piante in vasi di terracotta. Un percorso a ostacoli, a quanto pareva. Qualcosa si mosse alla sua sinistra. La Rizzoli si sforzò d'individuare una forma umana in quell'accozzaglia di ombre, e d'un tratto lo vide, acquattato come un omuncolo nero. La poliziotta sollevò l'arma e gli intimò: «Fermo!» Jane non vide che cosa avesse in mano, non vide ciò che stava per lanciarle. Una frazione di secondo prima che la paletta da giardino la colpisse in faccia, Jane sentì il soffio dell'aria, simile a un vento malvagio che spira dall'oscurità. La colpì in piena guancia sinistra con una tale forza da farle vedere le stelle. La donna cadde in ginocchio, e un'ondata di dolore le si propagò di sinapsi in sinapsi, tanto violenta da toglierle il fiato. «Rizzoli?» Era Moore. Non l'aveva nemmeno sentito salire sul tetto. «Sto bene. Sto bene...» Batté le palpebre in direzione della sagoma ac-
cucciata, ma questa era scomparsa. «E qui», sussurrò. «Voglio prendere quel figlio di puttana.» Moore si mosse nell'oscurità. Jane si prese la testa tra le mani, in attesa che lo stordimento cessasse, maledicendo la sua avventatezza. Sforzandosi di restare lucida, si alzò in piedi. La rabbia era un carburante potente, che le raddrizzò le gambe e rafforzò la presa sulla pistola. Moore si trovava a pochi passi alla sua destra, ma ne intravedeva soltanto la sagoma che si muoveva oltre il tavolo e le sedie. Jane si diresse a sinistra, aggirando il tetto nella direzione opposta. Ogni pulsazione nella guancia, ogni fitta di dolore, le ricordava che aveva fallito. Non questa volta. Con lo sguardo esaminò le ombre delicate degli alberelli e dei cespugli nei vasi. Un rumore improvviso la fece voltare di scatto verso destra. Udì alcuni passi di corsa, vide un'ombra scattare lungo il tetto, dritta verso di lei. «Fermo! Polizia!» urlò Moore. L'uomo non si arrestò. La Rizzoli si accucciò e gli puntò l'arma contro. A ogni pulsazione della guancia corrispondeva un'esplosione di dolore: tutte le umiliazioni sopportate, il disprezzo quotidiano, gli insulti, il tormento infinito inflittole dai Darren Crowe del mondo, sembrarono concentrarsi in un unico impeto di rabbia. Bastardo, questa volta sei mio. Sebbene l'uomo si fosse fermato all'improvviso davanti a lei, e avesse alzato le mani, la sua decisione era ormai irreversibile. Premette il grilletto. L'uomo trasalì e barcollò all'indietro. Jane sparò una seconda volta, una terza, e ogni rinculo della pistola era un'ondata di soddisfazione sul suo palmo. «Rizzoli! Cessa il fuoco!» L'urlo di Moore sovrastò infine il ruggito nelle sue orecchie. Jane rimase immobile, l'arma ancora puntata, le braccia tese e dolenti. Lo stupratore era a terra, e non si muoveva. La donna si raddrizzò, e a poco a poco s'avvicinò alla sagoma scomposta; a ogni passo aumentava la sensazione d'orrore per ciò che aveva appena fatto. Moore era già inginocchiato a fianco dell'uomo e stava tastandogli il polso. Sollevò lo sguardo verso la collega e, sebbene non riuscisse a leggerne l'espressione su quel tetto buio, lei capì che era d'accusa. «È morto, Rizzoli.»
«Aveva qualcosa... in mano...» «Non aveva nulla.» «L'ho visto. Sono certa di averlo visto!» «Aveva le braccia alzate.» «Dannazione, Moore. È stato un bel colpo! Devi appoggiarmi in questa faccenda!» D'un tratto si udirono altre voci. Alcuni agenti li raggiunsero sul tetto. Moore e la Rizzoli non si scambiarono altre parole. Crowe puntò la torcia sull'uomo e Jane vide una scena spaventosa: occhi aperti, una camicia nera di sangue. «Ehi, è Pacheco!» esclamò Crowe. «Chi è stato?» «Io», rispose la Rizzoli con voce inespressiva. Qualcuno le diede una pacca sulla schiena. «Bel lavoro, ragazza!» «Taci», sibilò Jane. «Taci!» La donna si allontanò, scese dalla scala antincendio e, come intontita, si ritirò nella sua auto. Rimase seduta dietro il volante, il dolore le dava la nausea. Esaminò e riesaminò mentalmente la scena sul tetto, ciò che aveva fatto lei e ciò che aveva fatto Pacheco. L'aveva visto correre di nuovo, soltanto un'ombra, che avanzava veloce verso di lei; l'aveva visto fermarsi. Sì, fermarsi. Aveva visto che la guardava. Un'arma. Gesù, per favore, fa' che trovino un'arma. Ma lei non aveva visto armi. L'immagine che le si era presentata nella frazione di secondo precedente lo sparo era marchiata a fuoco nella sua mente. Un uomo immobile, le mani alzate in segno di sottomissione. Qualcuno bussò al finestrino. Barry Frost. Jane abbassò il vetro. «Marquette ti sta cercando», mormorò. «D'accordo.» «Qualcosa non va? Rizzoli, ti senti bene?» «Mi sembra che mi sia passato un camion sulla faccia.» Frost si protese all'interno del finestrino e fissò la guancia gonfia. «Uau. Quello stronzo se l'è proprio meritata.» Era ciò che voleva credere anche Jane: che Pacheco meritasse di morire. Sì, non c'era dubbio, e lei si stava tormentando senza ragione. La prova non era forse evidente sul suo volto? L'aveva aggredita, era un mostro e, sparandogli, lei aveva esercitato una forma di giustizia rapida ed economica. Elena Ortiz, Nina Peyton e Diana Sterling avrebbero senz'altro applaudito. Nessuno piange per la feccia di questo mondo. La Rizzoli scese dall'auto, confortata dalla comprensione di Frost. Si diresse verso l'edificio e vide Marquette in piedi, accanto ai gradini dell'in-
gresso. Stava parlando con Moore. Entrambi si voltarono a guardarla e Jane notò che lo sguardo di Thomas era rivolto altrove, che il collega evitava d'incrociare il suo. Sembrava star male. «Ho bisogno della tua pistola, Rizzoli», disse Marquette. «Ho sparato per autodifesa. Quel criminale mi ha aggredito.» «Capisco. Ma conosci la procedura.» Jane guardò Moore. Mi piacevi. Mi fidavo di te. Si slacciò la fondina e la gettò a Marquette. «Chi è il fottuto nemico qui?» chiese la donna. «A volte me lo domando.» Si voltò e si diresse all'auto. Moore guardò nell'armadio di Karl Pacheco e pensò: È tutto sbagliato. Sul pavimento vi erano cinque o sei paia di scarpe numero 45, enormi, sugli scaffali si scorgevano maglioni impolverati, una scatola contenente vecchie batterie e un po' di spiccioli, e una pila di numeri della rivista Penthouse. Udì un cassetto aprirsi e si voltò verso Frost, che stava frugando coi guanti tra le calze di Pacheco. «Trovato nulla?» «Niente bisturi, niente cloroformio. Nemmeno un rotolo di nastro adesivo.» «Ding ding ding!» annunciò Crowe dal bagno, e ne uscì con un sacchetto di plastica pieno di fiale contenenti liquido marrone. «Dal Messico soleggiato, terra d'abbondanza farmaceutica.» «Rohypnol?» chiese Frost. Moore guardò l'etichetta, scritta in spagnolo. «GBH. Gamma idrossibutirato. Stesso effetto.» Crowe scosse il sacchetto. «Qui dentro ci sono almeno cento appuntamenti con stupro. Pacheco deve aver avuto un uccello molto impegnato», poi scoppiò in una risata. Quel suono irritò Thomas. Il detective pensò a quell'orrore, alla devastazione fisica e spirituale. Aveva spezzato numerose anime. D'un tratto ricordò ciò che gli aveva detto Catherine: che la vita di ogni vittima di stupro si divideva nel prima e nel dopo. Un'aggressione sessuale trasforma il mondo di una donna in un paesaggio tetro, alieno, nel quale ogni sorriso, ogni momento allegro si trasforma in disperazione. Settimane prima non avrebbe nemmeno fatto caso alla risata di Crowe. Quella sera l'aveva udita fin troppo bene, e ne aveva percepito lo squallore. Moore andò in salotto, dove il detective Sleeper stava interrogando
l'uomo di colore. «Ti sto dicendo che ero soltanto di passaggio». «E te ne vai in giro con seicento bigliettoni in tasca?» «Mi piacciono i contanti, amico.» «Che cosa eri venuto a comprare?» «Niente.» «Come conoscevi Pacheco?» «Lo conoscevo e basta.» «Oh, un amico davvero intimo. Che cosa vendeva?» GHB... pensò Moore. La droga degli stupri. Era per quello che era lì. Un altro uccello molto impegnato. Thomas uscì nella notte e si sentì immediatamente disorientato dalle luci lampeggianti delle pattuglie. L'auto della Rizzoli non c'era più; fissò lo spazio vuoto e, d'un tratto, il peso di ciò che aveva fatto, di ciò che si era sentito obbligato a fare, divenne tanto gravoso che gli impedì di muoversi. Mai nella sua carriera aveva dovuto affrontare una scelta tanto terribile e, anche se in cuor suo sapeva di aver preso la decisione giusta, la cosa lo tormentava. Tentò di conciliare il suo rispetto per Jane con ciò che l'aveva vista fare su quel tetto. Era troppo tardi per ritrattare quello che aveva riferito a Marquette. Era tutto buio e confuso là sopra; forse lei aveva davvero pensato che Pacheco avesse un'arma in mano. Forse aveva visto un gesto o un movimento sospetto, che Moore non aveva notato. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare nulla che giustificasse il suo atto. Ciò che aveva visto non poteva essere interpretato altrimenti che come un'esecuzione a sangue freddo. Quando rivide Jane, la donna era china sulla scrivania, un sacchetto di ghiaccio premuto sulla guancia. Era già passata mezzanotte e Thomas non era in vena di conversazione, ma la Rizzoli sollevò la testa mentre le passava davanti e lo fulminò con lo sguardo. «Che cos'hai detto a Marquette?» chiese. «Quello che voleva sapere. Perché Pacheco era morto. Non gli ho mentito.» «Che figlio di puttana!» «Non pensi che intendessi dirgli la verità?» «Avevi una scelta.» «Anche tu, su quel tetto. Hai fatto quella sbagliata.» «E tu non fai mai la scelta sbagliata, non è vero? Tu non fai mai errori.» «Se ne faccio, ammetto le mie colpe.»
«Oh, già. Il fottuto 'san Tommaso'.» Moore si avvicinò alla scrivania e la guardò dritto negli occhi. «Sei uno dei migliori agenti con cui abbia mai lavorato. Ma stanotte hai ucciso un uomo a sangue freddo, e io ho visto.» «Potevi anche non farlo.» «Ma l'ho fatto.» «Che cos'abbiamo visto in realtà là sopra, Moore? Un sacco di ombre, un sacco di movimento. La distinzione tra una scelta giusta e una sbagliata è sottile tanto così.» Sollevò due dita e avvicinò i polpastrelli. «E ne teniamo conto. Ci concediamo il beneficio del dubbio.» «Ho provato a farlo.» «Non ti sei sforzato abbastanza.» «Non mentirei per un altro poliziotto. Anche se è un'amica.» «Ricorda chi sono i cattivi. Non siamo noi.» «Se iniziassimo a dire menzogne, come faremmo a distinguerci da loro? Come andrebbe a finire?» Jane si tolse la borsa del ghiaccio dalla faccia e indicò la sua guancia. Aveva un occhio tumefatto e il lato sinistro del volto gonfio come un pallone screziato. La vista della ferita lo turbò. «Guarda che cosa mi ha fatto Pacheco. Non è stato uno schiaffetto amichevole, non ti pare? Hai parlato di noi e di loro. E lui da quale parte stava? Ho reso un favore al mondo togliendolo di mezzo. A nessuno mancherà il Chirurgo.» «Karl Pacheco non era il Chirurgo. Hai fatto fuori l'uomo sbagliato.» Jane lo fissò. «Il DNA corrisponde! È stato lui a...» «A stuprare Nina Peyton, sì. Ma nulla lo lega al Chirurgo.» Moore gettò sulla sua scrivania il rapporto dell'unità Capelli e Fibre. «Che cos'è?» «L'esame microscopico del capello di Pacheco. Colore e arricciatura sono diversi, densità cuticolare differente da quello trovato sul margine della ferita di Elena Ortiz. Nessuna traccia del capello a canna di bambù.» La Rizzoli rimase immobile, lo sguardo fisso sul rapporto. «Non capisco.» «Pacheco ha violentato la Peyton. Questo è tutto quello che possiamo dire con certezza di lui.» «Anche la Sterling e la Ortiz sono state stuprate...» «Non possiamo provare che sia stato Pacheco. E ora che è morto non lo sapremo mai.» Jane sollevò lo sguardo e la metà volto contusa apparve deformata di
rabbia. «Doveva essere lui. Prendi tre donne a caso in questa città, e quali sono le probabilità che tutte siano state violentate? Il Chirurgo c'è riuscito. Ne ha azzeccate tre su tre. Se non è lui che le stupra, come fa a sapere quali scegliere, quali ammazzare? Se non è Pacheco, allora è un amico, un socio. Qualche avvoltoio che si nutre delle carogne che si lascia alle spalle.» La Rizzoli spinse il rapporto verso Moore. «Forse non ho sparato al Chirurgo. Ma l'uomo che ho ucciso era feccia. Tutti sembrano dimenticarlo. Pacheco era feccia. Non ricevo una medaglia?» La donna si alzò in piedi e spinse con violenza la sedia contro la scrivania. «Servizio amministrativo. Marquette mi ha trasformato in una fottuta passacarte. Tante grazie.» Moore la guardò allontanarsi in silenzio e non riuscì a pensare e a dire nulla, nulla che potesse colmare l'abisso che si era creato tra loro. Si diresse alla sua postazione e si accasciò sulla sedia. Sono un dinosauro che si muove goffamente in un mondo in cui verità e sincerità vengono disprezzate, rifletté. Ora non poteva pensare alla Rizzoli. La pista di Pacheco si era disintegrata, e dovevano ricominciare da capo, una nuova caccia a un killer senza nome. Tre donne stuprate. Tutto pareva ricondursi a loro. Come faceva il Chirurgo a trovarle? Soltanto Nina Peyton aveva denunciato il crimine. Elena e Diana non l'avevano fatto. Il loro era rimasto un trauma privato, conosciuto dallo stupratore, dalla vittima, e dai medici che le avevano visitate. Ma le tre donne avevano cercato assistenza in luoghi diversi: la Sterling nello studio di una ginecologa di Back Bay. La Ortiz al pronto soccorso del Pilgrim Hospital. E Nina Peyton alla Forest Hills Women's Clinic. Non c'era stata sovrapposizione di personale, nessun medico, infermiera o receptionist erano entrati in contatto con più di una di quelle donne. In qualche modo il Chirurgo sapeva che le donne erano state ferite, e si sentiva attratto dal loro dolore. I maniaci sessuali scelgono le vittime tra i membri più vulnerabili della società. Cercano donne che possono controllare, che possono svilire, da cui non si sentono minacciati. E chi è più fragile di una persona che è stata violentata? Mentre usciva dall'ufficio, si fermò a guardare la parete con le foto della Sterling, della Ortiz e della Peyton. Tre donne, tre stupri. E un quarto. Catherine era stata violentata a Savannah. Batté le palpebre quando l'immagine del suo volto gli invase d'un tratto la mente, un'immagine che non poteva fare a meno di aggiungere alla galleria fotografica delle vittime sulla parete. In qualche modo tutto risale a ciò che accadde quella notte a Savannah.
Tutto si rifà a Andrew Capra. 16 Un tempo, nel cuore di Città del Messico, il sangue umano scorreva a fiumi. Sotto le fondamenta della metropoli moderna giacciono le rovine del Tempio Mayor, il grande sito azteco che dominò l'antica Tenochtitlán. In quel luogo, decine di migliaia di sfortunate vittime furono sacrificate agli dei. Il giorno che calpestai la terra di quel tempio, trovai bizzarro il fatto che vicino vi fosse una cattedrale, in cui i cattolici accendono candele e sussurrano preghiere a un Dio misericordioso del cielo. S'inginocchiano nelle vicinanze dello stesso luogo in cui le pietre erano un tempo scivolose di sangue. Vi ho fatto visita di domenica, non sapendo che in quel giorno l'ingresso è gratuito, e il Museo del Tempio Mayor brulicava di bambini, le voci squillanti nelle sale. Non mi piacciono né i bambini, né il disordine che creano; se mai vi tornerò, mi ricorderò di evitare i musei la domenica. Ma era il mio ultimo giorno in città, perciò mi rassegnai a quel chiasso irritante. Desideravo vedere gli scavi, e volevo visitare la sala del rituale e del sacrificio. Gli aztechi credevano che la morte fosse necessaria per la vita. Alfine di mantenere l'energia sacra del mondo, di evitare catastrofi e assicurarsi che il sole continuasse a sorgere, gli dei dovevano essere nutriti con cuori umani. Ero proprio nella sala del rituale e vidi, nella teca di vetro, il coltello sacrificale che aveva inciso la carne umana. Aveva un nome: Tecpatl Ixcuahua. Il coltello dalla fronte larga. La lama era fatta di pietra focaia e l'impugnatura aveva la forma di un uomo inginocchiato. Come facevano, mi domandai, a estrarre un cuore umano muniti soltanto di un coltello di pietra focaia? Quella domanda mi assillava mentre, più tardi, quello stesso pomeriggio, passeggiavo in Alameda Central, ignorando i ragazzini cenciosi che mi seguivano in cerca di elemosine. Dopo qualche tempo si resero conto che i loro occhi castani e i loro sorrisi sfavillanti non avevano il potere di sedurmi, perciò mi lasciarono tranquillo. Finalmente mi era concessa un po' di pace... se una tal cosa è possibile nella cacofonia di Città del Messico. Trovai un bar, e mi sedetti a un tavolino all'aperto a sorseggiare un caffè forte, l'unico cliente che aveva scelto di stare fuori, al caldo. Adoro il caldo; allevia la mia cute screpolata, ho cerco come un rettile brama una
roccia calda. Perciò, in quella giornata soffocante, rimasi a bere caffè e a pensare al torace umano, e all'approccio migliore per raggiungere il tesoro pulsante al suo interno. Il rituale sacrificale azteco pare fosse rapido e comportasse un minimo supplizio, il che presenta un dilemma. So che è difficile fratturare lo sterno, che protegge il cuore come uno scudo, e separarne le due metà. I cardiochirurghi praticano un'incisione verticale lungo la parte centrale del torace e dividono in due lo sterno con una sega. Inoltre hanno assistenti che li aiutano a divaricarne le metà ossee e usano una varietà di strumenti sofisticati per aumentare il campo, tutti di scintillante acciaio inossidabile. Ma un sacerdote azteco, da solo, e con un coltello di pietra, avrebbe avuto problemi a utilizzare un simile approccio. Avrebbe dovuto martellare lo sterno con uno scalpello per aprirlo al centro, il che avrebbe comportato molta agitazione da parte della vittima. Molte urla. No, il cuore doveva essere estratto con una tecnica diversa. Un'incisione orizzontale tra due costole, lungo il fianco? Anche questo, tuttavia, presenta problemi. Lo scheletro umano è una struttura robusta, e per divaricare sufficientemente due costole in modo da infilarvi una mano servono forza e utensili specifici. Avrebbe avuto più senso un approccio da sotto? Un'incisione rapida avrebbe aperto l'addome, e tutto ciò che il sacerdote avrebbe dovuto fare era tagliare il diaframma e raggiungere il cuore con la mano. Ah, ma questa è un'alternativa poco pratica ai fini della pulizia, gli intestini si sarebbero riversati sull'altare. In nessuna scultura azteca le vittime sacrificali sono raffigurate con le budella di fuori. I libri sono cose meravigliose; possono dirti qualsiasi cosa, persino come estrarre un cuore usando un coltello di pietra focaia, col minimo sforzo. Trovai la risposta in un volume intitolato Human Sacrifice and Warfare, scritto da un accademico (caspita, le università sono luoghi interessanti in questi tempi!), un certo Sherwood Clarke, che un giorno mi piacerebbe proprio incontrare. Penso che potremmo imparare molto l'uno dall'altro. Gli aztechi, afferma il dottor Clarke, per asportare il muscolo cardiaco praticavano una toracotomia trasversale. L'incisione attraversa la parte frontale del torace: inizia tra la seconda e la terza costola, su un lato dello sterno, e attraversa quest'ultimo fino alla parte opposta. L'osso viene rotto trasversalmente, forse con un colpo forte di scalpello. Il risultato è un foro. I polmoni, esposti all'aria esterna, collassano all'istante. La vittima perde rapidamente conoscenza. E mentre il cuore continua battere, il sa-
cerdote infila il coltello nel torace e recide vene e arterie; poi estrae l'organo ancora pulsante dalla sua sede e lo solleva verso il cielo. Nel Codex Florentio, Historia general de las cosas de Nueva Espana, di Bernardino de Sahagan, il sacrificio era descritto come segue: Un sacerdote in adorazione prese il bastone a forma d'aquila, lo posò sul petto del prigioniero, dov'era stato il cuore, lo bagnò, o meglio, lo immerse nel sangue. Poi innalzò anche il sangue per consacrarlo al sole. Fu detto: «Così dà da bere al sole». E il dominatore poi raccolse il sangue del prigioniero in una scodella verde con un bordo piumato. I sacerdoti sacrificali lo versarono per lui. In esso s'immerse il bastone cavo, anch'esso piumato, e poi il dominatore partì per nutrire i demoni. Nutrimento per i demoni. Com'è potente il significato del sangue. Penso tutto ciò mentre ne guardo un filo che viene risucchiato in una pipetta fine come un ago. Tutt'intorno a me vi sono contenitori di provette, nell'aria il ronzio delle macchine. Gli antichi consideravano il sangue una sostanza sacra, linfa della vita, cibo per mostri, e io condivido il fascino che esercitava su di loro, sebbene comprenda che sia soltanto un fluido biologico, una sospensione di cellule nel plasma. Il materiale con cui lavoro tutti i giorni. Un corpo umano medio, di settanta chili di peso, contiene solamente cinque litri di sangue. Di tale quantità il quarantacinque per cento sono cellule e il resto è plasma, una zuppa chimica composta per il novantacinque per cento da acqua, e per la parte residua da proteine, da elettroliti e da sostanze nutritive. Alcuni sostengono che ridurlo alla sua composizione biologica significhi privarlo della sua natura divina, ma non sono affatto d'accordo. Proprio osservando i vari elementi che lo compongono, se ne individuano le proprietà miracolose. La macchina emette una serie di bip, a indicare che l'analisi è completa, e un report fuoriesce dalla stampante. Prendo il foglio ed esamino i risultati. Con una semplice occhiata apprendo molte cose sulla signora Susan Carmichael, che non ho mai incontrato. Il suo ematocrito è basso... solo
28, quando dovrebbe essere 40. È anemica, non possiede una quantità adeguata di globuli rossi, le cellule che trasportano ossigeno. A rendere il sangue rosso è l'emoglobina, una proteina ricca di queste cellule a forma di disco, la stessa che pigmenta di rosa il letto ungueale e che fa arrossire le guance di una ragazzina. Il letto ungueale della signora Carmichael è giallastro e, se qualcuno le sollevasse le palpebre, noterebbe che la congiuntiva ha un colore rosa chiaro. Dato che è anemica, il suo cuore deve lavorare più rapidamente per pompare il sangue diluito nelle arterie, perciò la donna si ferma dopo ogni rampa di scale a riprendere fiato e a far rallentare il polso. Me la immagino china in avanti, la mano sulla gola, il petto che si gonfia come un mantice; chiunque le passi accanto può notare che non si sente bene. Io lo vedo semplicemente da questo pezzo di carta. Ma c'è dell'altro. Sul palato ha macchie rosse... petecchie, là dove il sangue è fuoriuscito dai capillari e si è infiltrato nella mucosa. Forse è ignara di tali minuscole emorragie. Forse le ha notate in altre parti del corpo, sotto le unghie, o sulle tibie. Forse trova lividi che non riesce a spiegarsi, impressionanti isole blu sulle braccia o sulle cosce, e si sforza di ricordare quando se li sia procurati. Ha sbattuto contro la portiera dell'auto? Il bambino che si è aggrappato con forza alla sua gamba? Lei cerca ragioni esterne, mentre la vera causa risiede nella sua circolazione. La conta piastrinica è pari a ventimila; dovrebbe essere dieci volte maggiore. Senza piastrine, le minuscole cellule che favoriscono la coagulazione, il minimo impatto può lasciare un livido. Ma non finisce qui ciò che si può leggere da un sottile foglio di carta. Guardo la formula leucocitaria e vedo la spiegazione del suo stato. La macchina ha individuato la presenza di mieloblasti, precursori dei globuli bianchi che non dovrebbero essere presenti in circolo. Susan Carmichael ha una forma acuta di leucemia mieloblastica. Immagino come sarà la sua vita nei mesi a venire. La vedo prona su un lettino, gli occhi chiusi dal dolore, mentre l'ago per il prelievo di midollo osseo le penetra nell'anca. Vedo i suoi capelli cadere a ciocche, finché non si arrenderà all'inevitabile e userà un rasoio elettrico. Immagino alcune sue mattine, china sul water, e lunghi giorni trascorsi a fissare il soffitto, il suo universo ridotto alle quattro mura della sua stanza. Il sangue dona la vita, è il fluido magico che ci sostiene. Ma il sangue di
Susan Carmichael si è rivoltato contro di lei: le scorre nelle vene come veleno. Io conosco tutti questi intimi dettagli senza averla mai nemmeno conosciuta. Trasmetto subito i risultati via fax al suo medico curante, infilo il rapporto di laboratorio nel contenitore per i documenti in uscita per la prossima consegna, e prendo il campione successivo. Un altro paziente, un'altra provetta di sangue. Il legame tra sangue e vita è noto fin dall'alba dell'uomo. Gli antichi non sapevano che il sangue fosse prodotto dal midollo osseo, o che la sua componente principale fosse l'acqua, ma ne apprezzavano il potere nei rituali e nei sacrifici. Gli aztechi utilizzavano perforatori ossei e aghi d'agave per bucare la cute ed estrarne il sangue. Si foravano le labbra o la lingua, oppure la carne del petto, e il sangue che usciva rappresentava la loro personale offerta agli dei. Oggi tale automutilazione sarebbe considerata perversa e grottesca, il marchio della pazzia. Mi domando che cosa penserebbero gli aztechi di noi. Siedo qui, nel mio ambiente sterile, vestito di bianco, le mani inguantate, protette dagli schizzi accidentali. Quanto ci siamo allontanati dalla nostra natura essenziale; la sola vista del sangue è in grado di far svenire più d'un uomo, e la gente s'affretta a nasconderne l'orrore, gettando acqua sui marciapiedi laddove questo sia stato versato o coprendo gli occhi ai bambini quando esplode la violenza in televisione. Gli uomini non sanno più chi e che cosa sono realmente. Per alcuni di noi, tuttavia, è diverso. Noi camminiamo in mezzo agli altri, normali sotto ogni aspetto; forse siamo più normali di chiunque altro perché non abbiamo permesso che ci avvolgessero e ci mummificassero nelle bende sterili della civilizzazione. Vediamo il sangue e non ci voltiamo. Ne riconosciamo la luminosa bellezza, ne percepiamo la forza primitiva. Chiunque passi accanto a un incidente e non possa fare a meno di cercare il sangue con lo sguardo, capisce ciò che intendo. Sotto la ripugnanza e l'istinto di voltarsi dall'altra parte, pulsa una forza più potente. L'attrazione. Tutti vogliamo guardare. Ma non tutti siamo disposti ad ammetterlo. È desolante camminare in mezzo agli anestetizzati. Di pomeriggio giro per la città e inalo aria tanto densa da poterla quasi vedere. Riscalda i miei polmoni come sciroppo intiepidito. Scruto le facce dei passanti e mi
domando chi di loro sia il mio più caro fratello di sangue, come un tempo lo eri tu. C'è qualcun altro che non ha perduto la forza antica che scorre dentro di noi? Mi chiedo se ci riconosceremmo nel caso c'incontrassimo, ma temo di no, perché ci siamo nascosti tanto profondamente sotto quel manto che passa per normalità. Perciò, cammino solo. E penso a te, l'unico che mi abbia compreso. 17 In qualità di medico, Catherine aveva visto la morte tante volte che il suo aspetto le era ormai familiare. Aveva fissato il volto di un paziente e aveva visto la vita svanirgli dagli occhi, lasciandoli vuoti e vitrei. Aveva visto la pelle diventare grigia, l'anima ritirarsi, scorrere via come sangue. La pratica della medicina riguardava tanto la vita quanto la morte, e lei aveva da tempo fatto conoscenza con quest'ultima di fronte ai resti freddi di un paziente. Non aveva paura dei cadaveri. Quando, tuttavia, Moore svoltò in Albany Street e la donna vide il lindo edificio di mattoni in cui era situato l'ufficio del medico legale, cominciarono a sudarle le mani. Il detective parcheggiò nell'apposito spazio dietro l'edificio, accanto a un furgone bianco con la scritta COMMONWEALTH OF MASSACHUSETTS, UFFICIO DEL MEDICO LEGALE sulla fiancata. Catherine non voleva scendere dall'auto, e soltanto quando lui venne ad aprirle la portiera si decise a uscire. «Sei pronta?» le chiese. «Non sprizzo gioia da tutti i pori. Ma togliamoci il pensiero.» Benché avesse assistito a decine di autopsie, non era del tutto preparata all'odore di sangue e intestini aperti che la sopraffecero quando entrò nel laboratorio. Per la prima volta nella sua carriera di medico, pensò che si sarebbe sentita male alla vista di un corpo. Un signore anziano, con occhiali di plastica protettivi, si voltò a guardarli. Catherine riconobbe il dottor Ashford Tierney, che aveva incontrato sei mesi prima a una conferenza di patologia medico-legale. Gli errori di un chirurgo traumatologo finivano spesso sul tavolo settorio del dottor Tierney, e la Cordell gli aveva parlato soltanto un mese prima, in merito alle circostanze preoccupanti della morte di un bambino, causata da rottura della milza. Il sorriso gentile del dottor Tierney contrastava in maniera eclatante coi
guanti di gomma striati di sangue che indossava in quel momento. «Dottoressa Cordell, che piacere rivederla.» Colpito dall'ironia della sua stessa affermazione, il medico tacque per un istante, poi aggiunse: «Anche se la situazione avrebbe potuto essere migliore». «Ha già iniziato l'autopsia», osservò Moore, costernato. «Il tenente Marquette vuole risposte immediate. La stampa gli sta alle calcagna ogni volta che si verifica una sparatoria con la polizia.» «Ma io ho chiamato in anticipo per organizzare quest'incontro.» «La dottoressa Cordell ha già visto un'autopsia. Non è una cosa nuova per lei. Mi lasci finire soltanto quest'escissione, poi potrà dare un'occhiata al volto.» Tierney si riconcentrò sull'addome del cadavere. Col bisturi terminò di sezionare l'intestino tenue, lo estrasse e lo mise nella bacinella d'alluminio. Poi si allontanò dal tavolo e fece a Moore un cenno del capo. «Procedete.» Moore toccò il braccio di Catherine. Riluttante, la donna si avvicinò. Dapprima fissò l'incisione: un addome aperto era per lei terreno familiare, gli organi, punti di riferimento anonimi, ammassi di tessuto che sarebbero potuti appartenere a qualsiasi estraneo. Erano privi di rilevanza emotiva, non possedevano nessuna caratteristica identificativa personale. Catherine riusciva a studiarli con l'occhio freddo del professionista, e così fece, notando che lo stomaco, il pancreas e il fegato erano ancora in sede, in attesa di essere rimossi in un singolo blocco. L'incisione a Y, che si estendeva dal collo al pube, rivelava sia il torace sia la cavità addominale. Il cuore e i polmoni erano già stati rimossi; nel petto erano visibili due fori di proiettile, uno poco sopra il capezzolo sinistro, l'altro qualche costola più sotto. Entrambe le pallottole erano penetrate nel torace, perforando il cuore o i polmoni. Nella parte superiore sinistra dell'addome era visibile un terzo foro d'entrata, proprio in direzione della milza, già asportata. Un'altra lesione devastante. Chiunque avesse sparato a Karl Pacheco, lo aveva fatto con l'intenzione di ucciderlo. «Catherine?» mormorò Thomas, e lei si rese conto di essere rimasta troppo a lungo in silenzio. Fece un respiro profondo e inalò l'odore di sangue e di carne congelata. Ormai aveva acquisito familiarità con la patologia interna di Pacheco; era ora di guardarlo in faccia. Vide i capelli neri. Una faccia allungata, il naso affilato come una lama. Muscoli mascellari flaccidi, la bocca aperta. Denti dritti. Infine si concentrò sugli occhi. Moore non le aveva detto quasi nulla di quell'uomo, soltan-
to il nome e il fatto che era stato ucciso dalla polizia perché aveva opposto resistenza all'arresto. Sei tu il Chirurgo? Gli occhi, le cornee annebbiate dalla morte, non evocarono in lei nessun ricordo. Studiò quel volto, tentando di cogliere qualche traccia residua di malvagità, ma non percepì nulla. Quel guscio mortale era vuoto, e non erano rimasti segni del suo abitante. «Non l'ho mai visto», disse Catherine, e si allontanò dalla sala. Quando Moore uscì dall'edificio, lei era già all'auto. Si sentiva i polmoni contaminati dal puzzo della sala autoptica e stava respirando grandi boccate d'aria calda, come per espellere quel veleno. Sebbene stesse ormai sudando, il freddo dell'aria condizionata dell'edificio le si era insinuato fin nel midollo. «Chi era Karl Pacheco?» chiese a Moore. Lui guardò in direzione del Pilgrim Hospital, ascoltando il lamento sempre più forte di un'ambulanza. «Uno stupratore. Un uomo che andava a caccia di donne.» «Era il Chirurgo?» Moore sospirò. «Sembra di no.» «Ma credevate potesse esserlo.» «Il DNA lo legava a Nina Peyton. Due mesi fa l'aveva violentata. Ma non abbiamo prove che lo colleghino a Elena Ortiz o a Diana Sterling. Nulla che lo associ alla loro vita.» «O alla mia.» «Sei sicura di non averlo mai visto?» «Sono soltanto certa di non ricordarmelo.» Il sole aveva ridotto l'auto a un forno, perciò aprirono le portiere e attesero che l'abitacolo si raffreddasse un po'. Guardando Moore da sopra il tetto, Catherine si accorse di quanto fosse stanco; aveva già la camicia macchiata di sudore. Un bel modo per trascorrere il sabato pomeriggio: portare una testimone all'obitorio. Per molti aspetti, poliziotti e medici conducevano una vita simile. Svolgevano per ore e ore un lavoro per cui non esisteva la sirena delle cinque, vedevano l'umanità nei suoi momenti più bui, più dolorosi, vivevano in un incubo e imparavano a convivere con le loro paure. Quali immagini porta con sé Thomas? si domandò mentre la riaccompagnava a casa. Quanti volti di vittime, quante scene del delitto erano immagazzinati come fotografie archiviate nella sua mente? Lei era soltanto un elemento di quel caso, e si chiese quante altre donne, vive o morte, aves-
sero gareggiato per ottenere la sua attenzione. Moore si fermò davanti al palazzo e spense il motore. Catherine guardò la finestra dell'appartamento. Era riluttante a uscire dall'auto. Ad abbandonare la sua compagnia. Negli ultimi giorni avevano trascorso molto tempo insieme, e lei aveva imparato a fare affidamento sulla sua forza e sulla sua gentilezza. Se si fossero incontrati in circostanze più felici, il fascino di Thomas sarebbe bastato a destare il suo interesse. Ora però ciò che contava di più era ciò che aveva nel cuore. Era un uomo di cui si poteva fidare. Catherine meditò che cosa dire, e le possibili implicazioni che le sue parole avrebbero comportato. E decise che non le importava nulla delle conseguenze. «Vuoi salire a bere qualcosa?» gli chiese dolcemente. Thomas non rispose subito, e lei si sentì arrossire mentre il suo silenzio diventava insopportabile. Moore stava lottando per prendere una decisione: anche lui aveva capito che cosa stava accadendo tra loro, ed era incerto sul da farsi. Quando, finalmente, la guardò e rispose: «Sì, mi piacerebbe», entrambi sapevano di avere in mente molto di più di un drink. Mentre si dirigevano verso la porta d'ingresso, lui le mise un braccio intorno alle spalle. Fu poco più di un gesto protettivo, la mano appoggiata casualmente sulla spalla, ma il calore del suo tocco, e il modo con cui lei reagì a esso, la sconvolsero al punto da non riuscire a digitare l'esatto codice di sicurezza sul tastierino. L'aspettativa la rendeva lenta e goffa nei movimenti. Giunti di sopra, Catherine aprì la porta con le mani che le tremavano, ed entrarono nella frescura deliziosa dell'appartamento. Moore indugiò appena il tempo necessario a chiudere la porta e inserire la sicura. Poi la prese tra le braccia. Era tanto che non si lasciava stringere da qualcuno. In quegli ultimi anni il pensiero delle mani di un uomo sul suo corpo le aveva sempre suscitato una sensazione di panico. Ma tra le braccia di Moore provò tutto fuorché paura. Rispose ai suoi baci con un impeto che sorprese entrambi; per troppo tempo era rimasta priva d'amore, e aveva perso ogni senso di bramosia. Soltanto ora, mentre ogni parte del suo corpo si risvegliava, si ricordò che cosa fosse il desiderio, e le sue labbra cercarono quelle di lui con l'impazienza di una donna famelica. Fu lei a trascinarlo verso il corridoio, verso la camera da letto, senza mai smettere di baciarlo. Fu lei a sbottonargli la camicia e a slacciargli la cintura dei pantaloni. Thomas sapeva in qualche modo di non poter prendere l'iniziativa, poiché ciò l'avrebbe spaventata,
sapeva che per quella prima volta doveva lasciare che lei conducesse il gioco. Ma non poté nascondere la sua eccitazione, e lei se ne accorse quando gli abbassò la cerniera e i pantaloni scivolarono a terra. Thomas avvicinò le mani ai bottoni della sua camicetta ma si fermò a guardarla, in attesa di una conferma. Lo sguardo di Catherine e il rumore del suo respiro accelerato non gli lasciarono dubbi sul fatto che fosse proprio ciò che desiderava. La camicia si aprì lentamente e le scivolò lungo le spalle; il reggiseno cadde leggero sul pavimento. Moore agì con la massima delicatezza: non la spogliò delle sue difese, ma fu artefice di una gradita liberazione. Catherine chiuse gli occhi e sospirò di piacere quando Thomas si chinò per baciarle il seno. Non fu un atto d'aggressione, ma di riverenza. E, per la prima volta in due anni, Catherine permise a un uomo di amarla. Mentre giaceva sul letto con Moore, nessun pensiero di Andrew Capra s'intromise fra loro. Nessun attacco di panico, nessun ricordo orribile tornò a perseguitarla quando si tolsero gli ultimi vestiti e il peso di lui la schiacciò sul materasso. Ciò che un altro uomo le aveva fatto era un atto tanto brutale da risultare del tutto avulso da quel momento, dal corpo che lei ora abitava. La violenza non è sesso, e il sesso non è amore. Amore fu ciò che sentì quando Moore la penetrò, tenendole il viso tra le mani, guardandola negli occhi. Aveva dimenticato quale piacere potesse dare un uomo, e si perse in quel momento, provando gioia come fosse la prima volta. Quando si svegliò tra le sue braccia, era ormai buio. Lo sentì stirarsi e chiedere: «Che ore sono?» «Le otto e un quarto.» «Uau.» Thomas emise una risata di sorpresa e si rotolò sulla schiena. «Non posso credere che abbiamo dormito tutto il pomeriggio. Credo di aver recuperato il sonno perduto.» «Neanche tu hai dormito molto in questi giorni.» «Chi ha bisogno di dormire?» «Parli come un medico.» «Abbiamo qualcosa in comune», sussurrò, accarezzandole il corpo. «Siamo rimasti senza troppo a lungo...» Rimasero immobili per un istante. Poi Thomas le chiese dolcemente: «Com'è stato?» «Mi stai chiedendo quanto tu sia bravo come amante?» «No. Intendo dire, com'è stato per te. Quando ti ho toccata.» Catherine sorrise. «È stato bello.»
«Non ho fatto niente di sbagliato? Non ti ho spaventata?» «Tu m'infondi sicurezza. Ed è di questo che ho bisogno, più di ogni altra cosa. Di sentirmi sicura. Credo che tu sia l'unico uomo ad averlo capito. L'unico di cui io sia stata mai in grado di fidarmi.» «Di alcuni uomini ci si può fidare.» «Sì, ma di quali? Non lo so mai.» «Non lo sai finché non arriva il momento critico. Lui è quello che ti resta accanto.» «Allora credo di non averlo mai trovato. Ho sentito dire da altre donne che non appena riveli a un uomo ciò che è successo, non appena usi la parola stupro, si tira indietro. Come se fossimo merce avariata. Gli uomini non ne vogliono sentir parlare; preferiscono il segreto alla confessione. Ma il silenzio dilaga, s'impadronisce di te, fino al punto in cui non sei più in grado di parlare di nulla. Tutta la vita diventa un argomento tabù.» «Nessuno può vivere in quel modo.» «È l'unica maniera in cui gli altri riescono a rimanerci intorno. Se stiamo in silenzio. Ma anche se non ne parlo, quella cosa c'è.» Lui la baciò, e quel semplice gesto fu più intimo di qualsiasi atto d'amore, perché era avvenuto subito dopo una confessione. «Resti da me stanotte?» gli sussurrò Catherine. Sentì il suo respiro caldo sui capelli. «Se mi permetterai d'invitarti a cena.» «Oh. Mi sono completamente dimenticata della cena!» «Ecco la differenza tra gli uomini e le donne. Un uomo non si scorda mai di mangiare.» Sorridendo, lei si mise a sedere. «Allora tu prepari un drink. Io penserò al cibo.» Moore preparò due martini e li sorseggiarono mentre Catherine mescolava un'insalata e metteva due bistecche sulla griglia. Cibo maschile. Carne rossa per il nuovo uomo della sua vita. L'azione di cucinare non le era mai sembrata tanto piacevole come quella sera, con Thomas sorridente che le passava sale e pepe, e la testa che le ronzava per il gin. Né riusciva a ricordare l'ultima volta che il cibo aveva avuto un sapore tanto divino. Era come se fosse uscita da una bottiglia sigillata e stesse vivendo per la prima volta tutte le vibrazioni dei gusti e degli odori. Cenarono in cucina, gustandosi una bottiglia di vino. La stanza, con le piastrelle bianche e i mobili bianchi, sembrò improvvisamente piena di colore. Il vino rosso scuro, la lattuga verde e fragrante, i tovaglioli a quadretti
blu. E Moore seduto davanti a lei. Un tempo lo aveva considerato scialbo, come tutti gli altri uomini senza volto che le passavano accanto per strada, sagome disegnate su una tela piatta. Soltanto ora lo vedeva davvero, il caldo vigore della sua pelle, la ragnatela di rughe d'espressione intorno agli occhi. Tutte le affascinanti imperfezioni di un volto vissuto. Abbiamo tutta la notte, pensò, e la prospettiva la fece sorridere. Si alzò e gli tese la mano. Il dottor Zucker fermò la videocassetta della seduta di Polochek e si rivolse a Moore e a Marquette. «Potrebbe essere un falso ricordo. La Cordell ha evocato una seconda voce che non esiste. Vedete, questo è il problema dell'ipnosi. La memoria è una cosa fluida, può essere alterata e riscritta per soddisfare le aspettative. La dottoressa si è sottoposta alla seduta credendo che Capra avesse un partner. Ed ecco che compare il ricordo! Una seconda voce. Un secondo uomo in casa. Non è affidabile.» «Non c'è soltanto il suo ricordo a supporto della tesi di un secondo uomo», intervenne Thomas. «Il nostro soggetto ha inviato una ciocca di capelli che possono averle tagliato soltanto a Savannah.» «La Cordell afferma tutto questo», puntualizzò Marquette. «Non le crede nemmeno lei?» «Il tenente solleva un'obiezione valida», continuò Zucker. «Abbiamo a che fare con una donna emotivamente fragile. Persino a due anni dall'accaduto potrebbe non essere del tutto stabile.» «È un chirurgo.» «Sì, ed è molto efficiente sul luogo di lavoro. Ma è ferita. Questo lo sa. L'aggressione ha lasciato il segno.» Moore rimase silenzioso, pensando al primo giorno in cui aveva incontrato Catherine, ai suoi movimenti precisi, controllati. Una persona diversa dalla ragazza spensierata che prendeva il sole sul molo dei nonni. E la notte precedente, quella Catherine giovane e allegra era riemersa tra le sue braccia. Era sempre stata lì, intrappolata in quel guscio fragile, in attesa di essere liberata. «Allora, come ci comportiamo con questa seduta d'ipnosi?» chiese Marquette. «Non sto dicendo che lei non lo creda davvero, che non ricordi vividamente. Ma è come dire a una bimba che c'era un elefante in giardino; dopo un po' la bambina vi crede tanto fermamente che sarà in grado di descrivere la proboscide dell'animale, i pezzi di paglia sul dorso, la zanna rotta. Il
ricordo diventa realtà. Persino quando non è mai accaduto.» «Non possiamo screditare completamente quel ricordo», affermò Moore. «Potete anche non credere che la Cordell sia affidabile, ma lei è al centro dell'attenzione del nostro uomo. Ciò che aveva iniziato Capra... gli appostamenti, le uccisioni... non è ancora terminato. L'ha seguita fin quassù.» «Un imitatore?» ribatté Marquette. «O un partner», aggiunse Thomas. «Esistono dei precedenti.» Zucker annuì. «L'associazione tra assassini non è affatto rara. Pensiamo ai serial killer come lupi solitari, ma un quarto delle uccisioni sono commesse da complici. Henry Lee Lucas ne aveva uno. Kenneth Bianchi anche. Ciò rende loro tutto più facile. Rapimento, controllo. Cacciano in cooperazione per garantirsi il successo.» «I lupi cacciano in branco», osservò Moore. «Forse anche Capra aveva un complice.» Marquette prese il telecomando del videoregistratore, premette REWIND e poi PLAY. Sullo schermo apparve Catherine con gli occhi chiusi, le braccia penzoloni. Chi ha pronunciato quelle parole? Chi dice «E il mio turno, Capra»? Non lo so. Non conosco quella voce. Il tenente premette PAUSE e il volto di Catherine rimase immobile sullo schermo. Poi guardò Moore. «Sono passati due anni da quand'è stata aggredita a Savannah. Se quello era il partner di Capra, perché ha atteso tanto per darle la caccia? Perché soltanto ora?» Moore annuì. «Mi domandavo la stessa cosa. Ora credo di sapere la risposta.» Aprì il raccoglitore che si era portato e ne estrasse un articolo del Boston Globe. «Questo è apparso diciassette giorni prima dell'assassinio di Elena Ortiz. Riguarda le donne chirurgo di Boston. Un terzo dell'articolo è dedicato alla Cordell. Al suo successo. Alle sue imprese. Inoltre c'è una sua foto a colori», e porse la pagina a Zucker. «Interessante. Che cosa vede quando guarda questa foto, detective Moore?» «Una bella donna.» «E poi? Che cosa le evocano la sua postura e la sua espressione?» «Sicurezza. Distacco.» «È quello che vedo anch'io. Una donna all'apice del successo. Intoccabile. Le braccia conserte, il mento sollevato. Fuori della portata di gran parte dei mortali.» «Che intende dire?» chiese Marquette.
«Pensi che cosa eccita il nostro uomo. Donne devastate, contaminate dallo stupro. Donne che sono state simbolicamente distrutte. Ed ecco Catherine Cordell, colei che ha ucciso il suo partner, Andrew Capra. Lei non sembra devastata, non ha l'aria di una vittima. No, in questa foto sembra una conquistatrice. Che cosa pensa abbia provato nel vederla?» Zucker guardò Moore. «Rabbia.» «Non semplice rabbia, detective. Pura e incontrollabile collera. Dopo che lei lascia Savannah, l'uomo la segue a Boston, ma non può raggiungerla perché si è protetta. Perciò inganna il tempo uccidendo altri bersagli. Probabilmente se la immagina come una donna traumatizzata, come una creatura subumana, una vittima che attende di essere mietuta. Poi, un giorno, apre il giornale e si trova faccia a faccia non con una vittima, ma con una puttana di successo.» Zucker restituì l'articolo a Moore. «Il nostro uomo sta tentando di farla cadere dal piedistallo. E sta usando la strategia del terrore.» «Quale sarebbe il suo scopo ultimo?» chiese il tenente. «Ridurla a un livello per lui gestibile. Il Chirurgo aggredisce soltanto donne che si comportano da vittime. Donne distrutte e umiliate, dalle quali non si sente minacciato. E se effettivamente Andrew Capra era il suo partner, allora il nostro soggetto ha anche un altro movente: la vendetta, per ciò che lei ha distrutto.» «Dove volete arrivare con questa teoria del partner nascosto?» ribatté Marquette. «Se Capra aveva un complice, questo ci porta di nuovo a Savannah. Qui non abbiamo concluso niente; finora abbiamo effettuato quasi mille interrogatori, e non abbiamo indiziati. Credo sia ora di dare un'occhiata a tutti coloro che hanno avuto a che fare con Andrew Capra. Di vedere se uno di quei nomi sia spuntato qui a Boston. Frost è già al telefono col detective Singer, il nostro contatto a Savannah. Potrebbe andare giù e riesaminare le prove.» «Perché Frost?» «Perché no?» Marquette guardò Zucker. «Si tratta di un'impresa senza speranza?» «Non è detta l'ultima parola.» Il tenente annuì. «D'accordo. Vada per Savannah.» Moore fece per uscire, ma si fermò quando Marquette disse: «Puoi rimanere un minuto? Devo parlarti». Attesero finché lo psicologo non se ne
fu andato, poi il tenente chiuse la porta: «Non voglio che vada Frost». «Posso sapere perché?» «Voglio che vada tu a Savannah.» «Frost è già pronto a partire.» «Non si tratta di lui. Si tratta di te. Hai bisogno di staccarti un po' da questo caso.» Thomas rimase in silenzio, sapendo dove sarebbe finito il discorso. «Stai trascorrendo molto tempo con Catherine Cordell», continuò Marquette. «È la chiave dell'inchiesta.» «Troppe sere in sua compagnia. Eri con lei la mezzanotte di martedì.» La Rizzoli. La Rizzoli lo sapeva. «E sabato, sei stato tutta la notte con lei. Che cosa sta succedendo esattamente?» Moore non rispose. Che cosa poteva dire? Sì, sono andato oltre, ma non ho potuto farne a meno? Marquette si accasciò sulla sedia con un'aria molto delusa. «Non posso credere che stia parlando di questo con te. Proprio tu, fra tutti.» Il tenente sospirò. «È ora che ti tiri indietro. Faremo in modo che qualcun altro si occupi di lei.» «Ma Catherine si fida di me.» «C'è soltanto questo tra voi due, fiducia? Quello che ho sentito è un po' diverso. Non c'è bisogno che ti dica quanto sia inopportuno. Ascolta, entrambi l'abbiamo visto succedere ad altri poliziotti. Non funziona mai. E non funzionerà nemmeno stavolta. In questo momento lei ha bisogno di te, e tu sei a portata di mano. Vivrete due settimane, un mese di passione e poi un giorno vi svegliate ed è tutto finito. Uno dei due rimane scottato. E a tutti spiace che sia accaduto.» Marquette tacque, in attesa di una risposta. Moore non ne aveva. «A parte le questioni personali, questa storia complica le indagini. Ed è molto imbarazzante per l'intera unità.» Fece un gesto brusco verso la porta. «Va' a Savannah. E stai lontano dalla Cordell.» «Le devo una spiegazione...» «Non chiamarla nemmeno. Faremo in modo che riceva il messaggio. Assegnerò Crowe al tuo posto.» «Non Crowe», disse Moore bruscamente. «Chi, allora?» «Frost. Le assegni Frost.»
«D'accordo. Ora prendi il tuo aereo. Devi startene un po' lontano dalla città, per far calmare le acque. Probabilmente sarai incazzato con me. Ma sai che ti sto soltanto chiedendo di fare la cosa giusta.» Thomas lo sapeva, ed era penoso che qualcuno gli facesse notare il suo comportamento come in uno specchio. Ciò che vi vedeva riflesso era «san Tommaso» il Peccatore, caduto a causa dei suoi desideri. E la verità lo faceva imbestialire, poiché non vi si poteva ribellare. Non poteva negarla. Riuscì a rimanere in silenzio finché non uscì dall'ufficio di Marquette, ma quando vide la Rizzoli seduta alla scrivania, non poté più contenere la furia. «Congratulazioni. Hai avuto la tua rivincita. È bello ferire la gente, vero?» «L'ho fatto?» «L'hai detto a Marquette.» «Sì, be', e se fosse? Non sarei certo il primo poliziotto a tradire un collega.» Era una risposta pungente e sortì l'effetto desiderato. Moore si voltò in silenzio e s'allontanò. Uscendo dall'edificio, si fermò sotto la passerella, desolato al pensiero di non vedere Catherine quella sera. Marquette, tuttavia, aveva ragione; è così che doveva e avrebbe dovuto essere fin dall'inizio, un distacco prudente, al di là dell'attrazione reciproca. Ma lei era vulnerabile, e lui, da perfetto idiota, era stato attirato dalla sua condizione. Dopo anni di rettitudine e di controllo, si trovava ora in un territorio sconosciuto, in un luogo inquietante, governato non dalla logica ma dalla passione, in un nuovo mondo nel quale non si sentiva a suo agio. E non sapeva come uscirne. Catherine era seduta in auto e stava raccogliendo il coraggio necessario per entrare al numero uno di Schroeder Plaza. Per tutto il pomeriggio aveva pronunciato le solite spiritosaggini mentre visitava i pazienti, aveva consultato i colleghi e affrontato le piccole seccature che emergevano nel corso di una giornata lavorativa. Ma i suoi sorrisi erano stati vuoti e, sotto la maschera della cordialità, si nascondeva un'ondata di disperazione. Moore non aveva risposto alle sue chiamate, e lei non capiva perché. Avevano trascorso soltanto una notte insieme, e qualcosa tra loro era già andato storto. Finalmente scese dall'auto ed entrò nel quartier generale del Boston Police Department.
Sebbene vi fosse già stata in occasione della seduta con Polochek, l'edificio le sembrava sempre una fortezza inaccessibile, estranea. Tale impressione era rinforzata dall'agente in uniforme che la guardava da dietro il banco della reception. «Posso aiutarla?» le chiese in un modo che non era né amichevole né sgarbato. «Sto cercando il detective Thomas Moore della Omicidi.» «Un istante. Il suo nome, per favore?» «Catherine Cordell.» In attesa di una risposta, la Cordell si fermò nell'ingresso, sentendosi schiacciata da tutto quel granito lucente, dagli uomini, sia in uniforme sia in borghese, che le passavano accanto, lanciandole occhiate curiose. Quello era l'universo di Moore, e lei era un'estranea, un'intrusa in un luogo di uomini duri e di armi lucenti. Improvvisamente si rese conto che stava facendo uno sbaglio, che non sarebbe dovuta andare in quel luogo, perciò si diresse verso l'uscita. Proprio quando raggiunse la porta, una voce la chiamò: «Dottoressa Cordell?» La donna si voltò e riconobbe il giovane biondo dal viso gentile che era appena sbucato dall'ascensore. Era il detective Frost. «Perché non saliamo di sopra?» le propose. «Sono venuta per vedere Moore.» «Sì, lo so. Sono sceso a prenderla.» Frost si avviò verso l'ascensore. «Andiamo?» Giunti al secondo piano, lui la guidò lungo il corridoio nella sezione Omicidi. Catherine non era mai stata in quella zona e rimase sorpresa dal fatto che assomigliasse a un ufficio, coi terminali per i computer e le scrivanie riunite in gruppi. Barry la fece accomodare su una sedia. Il detective aveva uno sguardo gentile: aveva notato che si sentiva spaesata in quel luogo alieno, perciò tentò di metterla a proprio agio. «Una tazza di caffè?» le chiese. «No, grazie.» «Vuole qualcos'altro? Una bibita? Un bicchiere d'acqua?» «Sono a posto, grazie.» Frost si sedette. «Dunque. Di che cosa vuol parlare, dottoressa Cordell?» «Speravo di vedere il detective Moore. Ho trascorso l'intera mattinata in chirurgia e pensavo che avesse cercato di contattarmi...» «In realtà...» Barry s'interruppe, lo sguardo chiaramente imbarazzato.
«Ho lasciato un messaggio al personale del suo ufficio verso mezzogiorno. D'ora in poi dovrà chiamare me per qualunque cosa. Non più il detective Moore.» «Sì, ho ricevuto il messaggio. Volevo soltanto sapere...» Catherine cercò di soffocare le lacrime. «Volevo sapere perché le cose sono cambiate.» «È per... velocizzare le indagini.» «Che cosa significa?» «Abbiamo bisogno che Moore si concentri su altri aspetti del caso.» «Chi l'ha deciso?» Frost sembrava sempre più a disagio. «Non lo so davvero, dottoressa Cordell.» «È stato Thomas?» Un'altra pausa. «No.» «Quindi non è che non mi vuole vedere.» «Sono sicuro che non si tratti di questo.» Catherine non sapeva se le stesse raccontando la verità o se stesse soltanto tentando di tranquillizzarla. Notò che due detective la stavano fissando da un'altra postazione e, all'improvviso, avvampò di rabbia. Sapevano tutti la verità, tranne lei? Era pietà quella che vedeva nei loro occhi? Per tutta la mattina aveva assaporato i ricordi della notte precedente, aveva atteso che Moore la chiamasse, aveva desiderato di ascoltare la sua voce e sapere che stava pensando a lei. Ma Thomas non aveva telefonato. E a mezzogiorno aveva ricevuto il messaggio telefonico di Barry Frost, che la informava che in futuro avrebbe dovuto rivolgersi soltanto a lui per qualsiasi problema. Cercò di tenere la testa alta e le lacrime sotto controllo, poi chiese: «C'è qualche ragione particolare per cui non posso parlargli?» «Temo non sia in città al momento. E partito oggi pomeriggio.» «Capisco.» Catherine comprese, senza bisogno che nessuno glielo dicesse, che quello era tutto ciò che le avrebbe rivelato, perciò non chiese né dove fosse andato, né come raggiungerlo. Si era già messa abbastanza in ridicolo recandosi là, e ora l'orgoglio stava prendendo il sopravvento. Negli ultimi due anni era stata quella la sua forza principale. Le aveva permesso di vivere, giorno dopo giorno, rifiutando di calarsi nei panni della vittima. Chiunque la guardasse, vedeva soltanto fredda competenza e distacco professionale, perché erano le sole cose che lei permetteva agli altri di recepire.
Soltanto Thomas mi ha visto come sono in realtà, ferita e vulnerabile. Ed ecco il risultato. Per questo non potrò mai più permettermi di mostrarmi debole. Quando si alzò per andarsene, lo fece con un movimento fiero e lo sguardo sicuro. Mentre usciva dall'ufficio, passò accanto alla scrivania di Moore, che riconobbe grazie alla targa; vi si soffermò quel tanto da osservare la foto che vi era appoggiata, l'immagine di una donna sorridente col sole tra i capelli. Poi uscì, lasciandosi alle spalle quel mondo, e ritornò al suo dolore. 18 Moore pensava che il caldo di Boston fosse insopportabile, ma si ritrovò impreparato ad affrontare quello di Savannah. Uscire dall'aeroporto quel tardo pomeriggio era come immergersi in un bagno caldo, e Thomas ebbe l'impressione di muoversi in un liquido, le membra fiacche mentre raggiungeva il parcheggio dell'autonoleggio, dove l'aria densa s'increspava sopra il macadam. Quando, finalmente, entrò nella stanza d'albergo, aveva la camicia fradicia di sudore. Si tolse i vestiti e si stese sul letto per riposare qualche minuto, ma finì per dormire tutto il pomeriggio. Quando si svegliò era già buio, e stava tremando di freddo a causa dell'aria condizionata. Si sedette sul bordo del letto, la testa martellante. Prese una camicia pulita dalla valigia, si vestì, e uscì dall'hotel. Persino di sera l'aria era simile a vapore, eppure Thomas guidò col finestrino abbassato, inalando gli odori umidi del Sud. Non era mai stato a Savannah, ma aveva sentito parlare del suo fascino, delle sue vecchie case, delle panchine in ferro battuto e di Mezzanotte nel giardino del bene e del male. Quella sera però non era alla ricerca di attrazioni turistiche: si stava recando a un indirizzo specifico nella parte nord orientale della città. Era un quartiere grazioso di case piccole ma ordinate, con verande, giardini recintati e alberi dai rami sporgenti. Trovò finalmente Ronda Street e si fermò davanti all'abitazione. All'interno le luci erano accese e si vedeva il bagliore azzurro di un televisore. Il detective si domandò chi vi abitasse ora, se gli attuali occupanti conoscessero la storia della casa. Quando spegnevano le luci di notte e andavano a dormire, pensavano mai a ciò che era accaduto in quella stanza? Sdraiati nel buio non udivano gli echi di terrore sulle pareti?
Una silhouette si mosse dietro una finestra... una donna, snella, i capelli lunghi. Avrebbe potuto essere Catherine. Ora vedeva la scena, con gli occhi della mente. Il giovane in veranda che bussava. La porta che si apriva e proiettava una luce dorata nell'oscurità. Catherine in piedi sulla soglia, incorniciata da quella luce, mentre invitava il collega a entrare, non sospettando le brutalità che aveva in serbo per lei. E la seconda voce, il secondo uomo... da dov'era entrato? Moore rimase seduto a lungo a studiare la casa, osservando le finestre, gli arbusti. Poi uscì dall'auto e camminò lungo il marciapiede, per esaminare il fianco dell'abitazione. I cespugli erano fitti e il giardino sul retro invisibile. Dall'altro lato della strada si accese la luce di una veranda. Thomas si voltò e vide una donna robusta alla finestra, che lo fissava, un telefono all'orecchio. Al che tornò all'auto e si allontanò. C'era un altro indirizzo che desiderava controllare; era vicino allo State College, parecchi chilometri più a sud. Si domandò quante volte Catherine avesse percorso quella strada, se la piccola pizzeria sulla sinistra o quel lavasecco sulla destra fossero luoghi da lei frequentati. Dovunque guardasse gli sembrava di vedere il suo volto, e ciò lo disturbò. Significava che aveva permesso ai suoi sentimenti di mescolarsi alle indagini, e non era certo un vantaggio. Giunse nella via che cercava. Dopo qualche isolato si fermò nel punto in cui avrebbe dovuto esserci l'abitazione. Ma vi trovò soltanto un lotto vuoto, pieno di erbacce. Si era aspettato di trovare un edificio di proprietà della signora Stella Poole, una vedova di cinquantotto anni. Tre anni prima, la signora Poole aveva affittato l'appartamento superiore a un medico interno di nome Andrew Capra, un giovanotto tranquillo che pagava regolarmente l'affitto. Moore uscì dalla macchina e si fermò sul marciapiede sul quale aveva camminato Capra. Si guardò intorno e osservò la strada. Distava soltanto qualche isolato dallo State College, e suppose che molte case della stessa via fossero affittate a studenti... inquilini di passaggio che quasi sicuramente ignoravano la storia dell'infame vicino. Una brezza smosse l'aria densa, e a Thomas non piacque l'odore che sollevò. Era il lezzo umido della decomposizione. Sollevò lo sguardo verso un albero, che cresceva in quello che doveva essere il giardino di Capra, e vide un intrico penzolante di bromeliacee. Rabbrividì e pensò che fosse una strana pianta, ricordando un Halloween grottesco vissuto nell'infanzia,
quando un vicino decise d'impiccare uno spaventapasseri a un albero per impaurire i bambini che andavano a chiedere il consueto dolcetto o scherzetto. Il padre di Moore era diventato livido di rabbia quando l'aveva visto. Immediatamente si era recato nella casa accanto e, ignorando le proteste del vicino, aveva tagliato la corda dello spaventapasseri. Moore ora sentiva il medesimo impulso di arrampicarsi e tagliare quel muschio penzolante. Tuttavia rientrò in auto e tornò all'hotel. Il detective Mark Singer appoggiò uno scatolone sul tavolo e si tolse la polvere dalle mani. «Questa è l'ultima. Ci è occorso tutto il weekend per rintracciarli, ma sono tutti qui.» Moore guardò le dodici scatole di reperti allineate sul tavolo e commentò: «Avrei dovuto portarmi un sacco a pelo e trasferirmi qui». Singer rise. «Hai ragione, se hai intenzione di esaminare ogni documento contenuto in quegli scatoloni. Niente deve uscire dall'edificio, intesi? La fotocopiatrice è in fondo al corridoio; inserisci il tuo nome e il distretto. Il bagno è di là. In caso tu prenda qualche ciambella, i ragazzi apprezzerebbero se mettessi qualche dollaro nel vaso.» Benché avesse pronunciato il tutto col sorriso sulle labbra, Thomas captò il messaggio insito in quella pronuncia strascicata tipica del Sud: abbiamo le nostre regole di base, e anche voi pezzi grossi di Boston siete pregati di rispettarle. A Catherine non era piaciuto quel poliziotto, e Moore ora ne capiva il motivo. Singer era più giovane di quanto non si aspettasse, non ancora quarantenne, un carrierista muscoloso che non amava le critiche. Poteva esserci soltanto un cane dominante in una muta, e per il momento Thomas avrebbe lasciato che fosse Singer. «Queste quattro scatole contengono i fascicoli degli accertamenti. Magari vuoi iniziare da questi. I fascicoli dei controlli incrociati sono là dentro, quelli delle missioni in questa qui.» Il detective si spostò lungo il tavolo indicando le scatole mentre parlava. «E quest'ultima contiene i documenti di Atlanta su Dora Ciccone. Sono soltanto fotocopie.» «Il dipartimento di Atlanta ha gli originali?» Singer annuì. «La prima vittima, l'unica uccisa in quella città.» «Dal momento che si tratta di fotocopie, posso portare fuori questa scatola? E rivedere i documenti nel mio albergo?» «Purché la riporti.» Singer sospirò, guardando le altre scatole. «Sai, non sono sicuro di capire che pensi di trovare. Non ho mai avuto un caso sem-
plice come questo. Tutte le vittime presentavano tracce di DNA di Capra. Le fibre ritrovate corrispondevano, i tempi, anche. Capra vive ad Atlanta, Dora Ciccone viene uccisa ad Atlanta. Capra si trasferisce a Savannah, le nostre ragazze cominciano a morire. Era sempre nel luogo giusto al momento giusto.» «Non dubito nemmeno per un istante che Capra fosse il vostro uomo.» «E allora perché vuoi rivangare il tutto? Parte del materiale risale a tre, quattro anni fa.» Dal tono di voce Moore capì che Singer si era messo sulle difensive, e sapeva che l'approccio giusto era la diplomazia. Un semplice accenno agli errori che aveva commesso durante il caso Capra o al fatto che non avesse colto il dettaglio fondamentale dell'esistenza di un secondo omicida, e ogni speranza di cooperazione col dipartimento di Savannah sarebbe svanita. Thomas scelse una risposta che non implicava colpe. «Abbiamo un imitatore. Il nostro soggetto di Boston sembra essere un ammiratore di Capra. Riproduce i suoi crimini nei minimi dettagli.» «Come fa a conoscere i dettagli?» «Potrebbe aver avuto contatti con Capra quand'era ancora vivo.» Singer sembrò rilassarsi. Si permise persino una risata. «Un fan club di stupratori psicotici? Fantastico.» «Dal momento che il nostro uomo è tanto ferrato sul metodo di Capra, vorrei esserlo anch'io.» Singer indicò il tavolo con un gesto. «Buon lavoro.» Dopo che il detective di Savannah ebbe lasciato la stanza, Moore esaminò le etichette sulle scatole. Aprì quella con la scritta: IC n. 1. I fascicoli degli accertamenti dell'indagine di Savannah. All'interno vi erano tre raccoglitori a fisarmonica, ognuno gonfio all'inverosimile. Il primo conteneva i rapporti delle tre aggressioni, le dichiarazioni dei testimoni, e le perquisizioni effettuate. Nel secondo raccoglitore vi erano i fascicoli degli indiziati, le verifiche degli schedari criminali, e i rapporti di laboratorio. In quella scatola vi era abbastanza da leggere per tutto il giorno. E ne rimanevano ancora undici. Moore cominciò a esaminare le conclusioni di Singer. Ancora una volta fu colpito dall'incontrovertibilità delle prove contro Andrew Capra. Vi erano registrate in totale cinque aggressioni, quattro delle quali fatali. La prima vittima era Dora Ciccone, uccisa ad Atlanta. Un anno più tardi erano iniziati gli omicidi a Savannah. Tre donne in un anno: Lisa Fox, Ruth Voorhees, e Jennifer Torregrossa.
Le uccisioni terminarono quando Capra fu ammazzato nella stanza di Catherine Cordell. In tutti i casi era stato trovato sperma sul fondo della vagina della vittima e il DNA corrispondeva a quello di Capra. La prima ragazza, Dora, fu uccisa ad Atlanta nello stesso anno in cui Capra terminava l'ultimo anno di medicina all'Emory University di Atlanta. Gli assassinii si spostarono quindi a Savannah. Ogni filo s'intrecciava in una trama compatta, apparentemente inattaccabile. Ma Thomas si rese conto che stava leggendo soltanto le conclusioni di un caso, che presentavano gli elementi in una luce tale da sostenere la tesi di Singer. Forse i dettagli contraddittori erano stati tralasciati. Ed erano proprio quelli, le incongruenze piccole ma significative, che Thomas sperava di scoprire. Qui dentro, da qualche parte, il Chirurgo ha lasciato le sue impronte, pensò. Aprì il primo raccoglitore e iniziò a leggere. Quando, tre ore dopo, si alzò dalla sedia e si stirò la schiena, era già mezzogiorno. Aveva appena iniziato a scalare quella montagna di carta. Del Chirurgo non aveva sentito il minimo odore. Girò intorno al tavolo, leggendo le etichette delle scatole che non erano ancora state aperte, e scorse la scritta: N. 12 FOX/TORREGROSSA/VOORHEES/CORDELL. RITAGLI DI GIORNALE/VIDEO/MISCELLANEA. Aprì il contenitore e trovò mezza dozzina di videocassette disposte su un mucchio di raccoglitori. Prese il video con l'etichetta: ABITAZIONE DI CAPRA. Era datata 16 giugno. Il giorno successivo l'aggressione a Catherine. Trovò Singer seduto alla scrivania, intento a mangiare un sandwich con un bel ripieno di roast beef. La scrivania stessa rivelava molto del carattere del detective: era organizzata all'ennesima potenza, le pile di documenti perfettamente allineate. Un poliziotto molto pignolo, con cui era probabilmente impossibile lavorare. «C'è un videoregistratore che possa utilizzare?» chiese Moore. «Lo teniamo chiuso a chiave.» Moore attese: la sua richiesta successiva era tanto ovvia che non si disturbò a formularla. Con un sospiro enfatico, Singer aprì il cassetto della scrivania e si alzò in piedi. «Immagino che tu lo voglia subito, vero?» Dalla stanza adibita a magazzino, Singer trascinò fuori il carrello col videoregistratore e con la TV, e lo spinse nella stanza in cui Moore stava lavorando. Inserì le varie spine, premette i pulsanti dell'accensione e grugnì
soddisfatto quando tutto risultò funzionante. «Grazie», disse Moore. «Credo ne avrò bisogno per un paio di giorni.» «Hai già avuto qualche grande rivelazione?» chiese con una nota di sarcasmo. «Ho appena iniziato.» «Vedo che hai in mano il video di Capra. Ragazzi, c'erano cose davvero bizzarre in quella casa.» «Vi sono passato accanto l'altra sera. E rimasto soltanto un lotto vuoto.» «L'edificio è bruciato circa un anno fa. Dopo Capra, la padrona di casa non è più riuscita ad affittare l'appartamento di sopra. Perciò iniziò a organizzare visite a pagamento e, che tu ci creda o no, ha riscosso molto successo. Sai, i fuori di testa come i fan di Anne Rice andarono a venerare la tana del mostro. Diamine, anche la padrona era un po' strana.» «Devo parlarle.» «Non puoi, a meno che tu non sappia comunicare coi morti.» «L'incendio?» «È morta bruciata. Una sigaretta. Il fumo nuoce alla salute. Certamente, lei ne è la prova», e scoppiò in una risata. Thomas attese finché Singer non fu uscito dalla stanza. Poi inserì la cassetta nel vano del videoregistratore. Le prime immagini, girate di giorno, riguardavano la facciata esterna della casa in cui era vissuto Andrew Capra. Moore riconobbe l'albero nel giardino dal quale pendeva la bromeliacea. La casa era un'insignificante scatola a due piani, bisognosa di una mano di vernice. La voce fuoricampo del cameraman indicava la data, l'ora e il luogo. L'uomo s'identificò come il detective Spiro Pataki di Savannah. A giudicare dalla luce, Thomas pensò che il video dovesse esser stato girato il mattino presto. La videocamera riprendeva la strada e un uomo che faceva jogging, la faccia curiosa rivolta all'obiettivo. Il traffico era intenso (l'ora dei pendolari?) e alcuni vicini, sul marciapiede, fissavano il cameraman. Ora la videocamera inquadrava nuovamente la casa e si avvicinava alla porta d'entrata, l'immagine ballonzolante. Una volta all'interno, il detective Pataki riprese brevemente il piano terra, dove viveva la signora Poole, la padrona di casa. Moore intravide tappeti sbiaditi, mobili scuri, un portacenere pieno zeppo di mozziconi di sigaretta. Il vizio fatale di un'arsa viva. La videocamera salì le scale strette e, superata una porta con un grosso catenaccio, entrò nell'appartamento di Andrew. Thomas provò una sensazione di claustrofobia soltanto a guardarlo. Il
secondo piano era stato diviso in piccole stanze, e chiunque avesse effettuato quella «ristrutturazione» doveva avere una percentuale speciale sulle perlinature in legno scuro. Tutti i muri ne erano rivestiti. La videocamera inquadrò un corridoio tanto stretto da sembrare un tunnel. «La stanza da letto è sulla destra», disse Pataki, spostando l'obiettivo sulla soglia per inquadrare un letto a una piazza accuratamente rifatto, un comodino e un cassettone. Il massimo che poteva contenere quella piccola tana buia. «Ora mi sposto verso il salotto, sul retro della casa», continuò il detective mentre tornava nel tunnel. Sbucò in una stanza più grande, occupata da altre persone dall'aria truce. Moore individuò Singer accanto alla porta di un ripostiglio. Ecco dov'era l'azione. La videocamera si soffermò sul detective. «Questa porta era chiusa col lucchetto», spiegò Singer, indicandolo. «L'abbiamo dovuta scardinare. E all'interno abbiamo trovato questo.» L'aprì e tirò la catenella della lampadina. L'immagine sullo schermo si sfocò per un breve istante, poi tornò incredibilmente nitida. Era una foto in bianco e nero del volto di una donna, gli occhi spalancati e senza vita, la gola squarciata tanto in profondità da intaccare anche la cartilagine tracheale. «Credo si tratti di Dora Ciccone», disse Singer rivolto alla videocamera. «Bene, ora riprendi questa.» L'obiettivo si spostò verso destra. Un'altra foto, un'altra donna. «Sembrano essere immagini post-mortem di quattro diverse vittime. Credo che siamo di fronte ai volti senza vita di Dora Ciccone, Lisa Fox, Ruth Voorhees e Jennifer Torregrossa.» Era la galleria privata di Andrew Capra. Un rifugio in cui riassaporare il piacere dei suoi assassinii. La cosa che turbò Moore ancor più delle immagini fu lo spazio vuoto rimanente sulle pareti, e la piccola confezione di puntine appoggiata su uno scaffale. C'era spazio abbondante per altre fotografie. La videocamera si spostò dal ripostiglio, un po' troppo rapida, e riprese la stanza. Pataki si girò lentamente e inquadrò un divano, un televisore, una scrivania e un telefono. Gli scaffali erano pieni zeppi di testi medici. L'obiettivo riprese poi l'area cucina e si soffermò sul frigorifero. Thomas si protese, la gola improvvisamente secca. Sapeva già che cosa contenesse il frigorifero, tuttavia, mentre osservava Singer avvicinarsi, si sentì il polso accelerare e lo stomaco in subbuglio. Il detective si fermò e guardò nell'obiettivo.
«Ecco che cosa abbiamo trovato», mormorò, aprendo lo sportello. 19 Fece il giro dell'isolato, e stavolta non percepì nemmeno il caldo, tanto era rimasto agghiacciato dalle immagini della videocassetta. Il solo fatto di uscire dalla sala conferenze, ormai intimamente associata con l'orrore, lo sollevò un po'. La stessa Savannah, con la sua aria sciropposa e la sua tenue luce verde, lo metteva a disagio. La città di Boston aveva bordi taglienti e voci stridule, ogni edificio, ogni volto accigliato, erano bene a fuoco. A Boston sapevi di esser vivo, se non altro perché eri tanto irritato. In quel luogo, invece, tutto sembrava sfocato. Era come se vedesse Savannah attraverso una coltre di foschia, una città di sorrisi affettati e di voci sonnolente, e si domandò quale tenebra si celasse dietro di essa. Quando tornò alla centrale di polizia, trovò Singer che digitava su un computer portatile. «Attendi un istante», disse il detective, e premette il tasto di correzione automatica. Guai se ci fossero stati errori ortografici nei suoi rapporti. Dopo un istante, soddisfatto, sollevò lo sguardo verso Moore. «Sì?» «Avete mai trovato la rubrica telefonica di Capra?» «Quale rubrica?» «Gran parte della gente tiene un'agenda personale accanto al telefono. Non ne ho viste nel video dell'appartamento, e non ne ho trovate nell'elenco degli effetti personali.» «Stai parlando di due anni fa. Se non era nell'elenco, allora non ne aveva.» «O è stata rimossa dall'appartamento prima che arrivaste.» «Che stai cercando? Pensavo che fossi venuto per studiare la tecnica di Capra, non per risolvere nuovamente il caso.» «Mi interessano gli amici di Capra. Tutti quelli che lo conoscevano bene.» «Diavolo, nessuno lo conosceva bene. Intervistammo i medici e le infermiere coi quali lavorava, la padrona di casa, i vicini. Andai ad Atlanta a parlare con la zia. L'unica parente ancora in vita.» «Sì, ho letto il colloquio.» «Allora sai che li aveva ingannati tutti. Continuavo a sentire lo stesso commento: 'un medico compassionevole! Un giovane tanto gentile!'» «Non avevano idea di chi fosse veramente Capra.»
Singer tornò al computer. «Diamine, nessuno sa mai chi siano i mostri.» Era tempo di vedere l'ultima videocassetta. Moore l'aveva lasciata in coda perché non era pronto ad affrontare le immagini che avrebbe visto. Aveva visionato le altre con distacco, prendendo appunti mentre studiava la camera da letto di Lisa Fox, di Jennifer Torregrossa e di Ruth Voorhees. Aveva esaminato con cura le macchie di sangue, i nodi delle corde di nylon strette intorno ai polsi delle vittime, lo sguardo della morte nei loro occhi. Riuscì a guardare i nastri senza troppe emozioni poiché non conosceva quelle donne e non udiva l'eco delle loro voci nella mente. La sua attenzione non si era concentrata sulle vittime, ma sulla malevola presenza che aveva dimorato nelle loro stanze. Tolse la cassetta della scena del delitto Voorhees e l'appoggiò sul tavolo, poi, riluttante, prese l'ultimo video rimasto. Sull'etichetta vi erano la data, il numero del caso, e le parole: «Abitazione di Catherine Cordell». Rifletté sulla possibilità di rimandare, di aspettare la mattina successiva, quando sarebbe stato più riposato. Erano già le nove, ed era stato chiuso in quella stanza per tutto il giorno. Rimase con la videocassetta in mano, decidendo il da farsi. Un attimo dopo si rese conto che Singer era in piedi sulla soglia e lo stava guardando. «Sei ancora qui.» «Ho un sacco di materiale da esaminare.» «Hai guardato tutti i nastri?» «Tutti eccetto questo.» Singer guardò l'etichetta. «Cordell.» «Già.» «Vai avanti, inseriscilo. Forse posso fornirti qualche particolare.» Moore infilò la cassetta nel videoregistratore e premette PLAY. La prima sequenza mostrava la facciata della casa di Catherine, ripresa di notte. La veranda era illuminata e le luci interne, accese. Il cameraman precisò data e ora... due del mattino... e ancora una volta il suo nome. Si trattava sempre di Spiro Pataki, a quanto pareva l'operatore più gettonato. Moore udì molto rumore di sottofondo... voci, il lamento lontano di una sirena. Pataki fece le inquadrature di routine del vicinato, e Thomas vide un gruppo di vicini dall'aria cupa che fissavano la casa, i volti illuminati dalle luci di numerose pattuglie della polizia parcheggiate sulla strada. Il che lo sorprese, data l'ora tarda. Doveva esserci stato un gran trambusto per sve-
gliare tanta gente. Pataki tornò a inquadrare la casa e si avvicinò alla porta d'ingresso. «Spari», disse Singer. «Ci hanno telefonato per gli spari. La donna dall'altra parte della strada ha udito il primo colpo, una lunga pausa, e poi il secondo. Ha fatto il 919. Il primo agente è giunto sulla scena del delitto dopo sette minuti. L'ambulanza è stata chiamata due minuti più tardi.» «Ho letto la dichiarazione della vicina», disse Moore. «Sostiene di non aver visto nessuno uscire dalla porta della casa.» «Proprio così. Ha udito soltanto i due spari. Si è alzata dal letto dopo il primo e si è affacciata alla finestra. Poi, forse cinque minuti più tardi, ha sentito il secondo.» Cinque minuti... pensò Moore. Che cos'era accaduto in quell'intervallo di tempo? La videocamera entrò in casa. Un guardaroba. La porta si aprì per rivelare qualche soprabito sugli appendini, un ombrello e un aspirapolvere; l'obiettivo si spostò e fece una panoramica del soggiorno. Sul tavolino accanto al divano vide due bicchieri, uno contenente ciò che sembrava essere birra. «La Cordell lo ha invitato a entrare», commentò Singer. «Hanno bevuto qualcosa insieme. Lei è andata in bagno, è tornata e ha finito la birra. Un'ora più tardi il Rohypnol ha fatto effetto.» Il divano era color pesca e il tessuto decorato con un delicato motivo floreale. Thomas non credeva Catherine un tipo da fiori, ma si sbagliava. Ve n'erano sulle tende, sui cuscini e sulla poltrona. Colore. A Savannah viveva in mezzo ai colori. Se la immaginò seduta su quel divano con Andrew Capra, mentre ascoltava con aria comprensiva le preoccupazioni del collega, mentre dallo stomaco il Rohypnol le entrava lentamente in circolo, le sue molecole trovavano la via del cervello, mentre la voce di Capra cominciava a confondersi. Poi il video mostrò la cucina e il resto della casa, come l'avevano trovata alle due della domenica mattina. Nel lavandino della cucina vi era un bicchiere. All'improvviso Moore si protese. «Quel bicchiere... avete effettuato l'analisi genetica della saliva?» «Perché avremmo dovuto?» «Non sapete chi ha bevuto da lì?» «C'erano soltanto due persone in casa quando il primo agente entrò. Capra e la Cordell.»
«Due bicchieri sul tavolino da caffè. Ma chi ha bevuto dal terzo?» «Diamine, poteva essere rimasto in quel lavandino tutto il giorno. Non era rilevante per la situazione che trovammo.» Il cameraman terminò la panoramica della cucina e proseguì nel corridoio. Moore afferrò il telecomando e premette REWIND. Il nastro si riavvolse fino all'inizio della sequenza della cucina. «Che c'è?» chiese Singer. Thomas non rispose. Si avvicinò allo schermo e riguardò le immagini. Il frigorifero, tappezzato di magneti colorati a forma di frutti; i contenitori della farina e dello zucchero sul bancone della cucina; il lavandino, col bicchiere solitario. Poi l'obiettivo oltrepassò la porta della cucina, verso il corridoio. Moore riavvolse ancora il nastro. «Che cosa stai guardando?» gli domandò il detective di Savannah. La cassetta mostrava di nuovo il bicchiere. Poi la telecamera ruotò per proseguire nel corridoio. Thomas premette il tasto PAUSE. «Questa. La porta della cucina. Dove conduce?» «Nel giardino sul retro. Dà sul prato.» «E che c'è, dopo quel giardino?» «Un altro giardino. Un'altra fila di case.» «Hai mai parlato col proprietario della casa adiacente? Ha udito gli spari?» «Che differenza fa?» Moore si alzò è andò verso il monitor. «La porta della cucina», esclamò, battendo un dito sullo schermo. «C'è un catenaccio. Non è fissato.» Singer rimase un momento in silenzio. «Ma la porta è chiusa. Vedi la posizione del pulsante della maniglia?» «Già. È il tipo di pulsante che si preme quando si esce, per chiudersi la porta alle spalle.» «E quindi?» «Perché avrebbe dovuto premere il bottone, ma non agganciare la catena? Chi si chiude dentro per la notte fa tutto in una volta sola. Schiaccia il bottone e infila la catenella nell'occhiello. La Cordell ha tralasciato quel secondo passo.» «Forse se n'è semplicemente dimenticata.» «C'erano state tre donne assassinate a Savannah. Era tanto preoccupata da tenere una pistola sotto il letto. Non credo se ne fosse dimenticata.»
Thomas guardò il detective. «Forse qualcuno è uscito dalla porta della cucina.» «C'erano soltanto due persone in quella casa. La Cordell e Capra.» Moore soppesò le parole successive, valutando se fosse il caso d'essere sincero. Ormai Singer aveva capito dove fosse diretta la conversazione. «Stai dicendo che Capra aveva un complice.» «Sì.» «Trai una conclusione piuttosto drastica da una semplice catenella, non credi?» Moore fece un respiro profondo. «C'è di più. La notte che Catherine Cordell fu aggredita, udì un'altra voce in casa. Un uomo che parlava con Capra.» «Non me l'ha mai detto.» «E saltato fuori durante una seduta d'ipnosi.» Singer scoppiò a ridere. «Avete usato un medium per corroborare la tesi? Perché in quel caso ne resterei assolutamente convinto.» «Spiega perché il Chirurgo conosca tanto bene la tecnica di Capra. I due uomini erano compiici. E il Chirurgo sta continuando la sua opera, fino al punto di perseguitare l'unica vittima sopravvissuta.» «Il mondo è pieno di donne. Perché fissarsi su di lei?» «Affare in sospeso.» «Sì, be', io ho una teoria migliore. La Cordell si è dimenticata di agganciare la catena. Il vostro uomo di Boston sta copiando ciò che ha letto nei giornali. E il vostro ipnoterapeuta ha evocato un ricordo falso.» Scuotendo la testa, il poliziotto si avviò verso la porta. Prima di uscire si concesse una battuta sarcastica: «Fatemi sapere quando prenderete il vero killer». Thomas rimase turbato soltanto per un breve istante. Sapeva che Singer stava difendendo il suo operato, e non poteva biasimarne lo scetticismo. Iniziava a dubitare del suo istinto. Era andato fino a Savannah per dimostrare o confutare la teoria del partner, e fino a quel momento non aveva nulla a sostegno della tesi. Focalizzò l'attenzione sullo schermo e premette PLAY. La videocamera uscì dalla cucina e avanzò in corridoio. Si soffermò a inquadrare l'interno del bagno... asciugamani rosa, la tenda della doccia con pesciolini colorati. Le mani di Moore stavano sudando; temeva ciò che avrebbe visto dopo, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dallo schermo. L'obiettivo proseguì nel corridoio, oltre un acquerello incorniciato ap-
peso al muro, raffigurante delle peonie rosa. Sul pavimento di legno alcune impronte insanguinate erano state calpestate dai primi agenti giunti sulla scena del delitto e dagli infermieri. Ciò che ne rimaneva era una sorta di disegno astratto rosso. Più avanti si vedeva una porta, l'immagine tremante per la mano malferma dell'operatore. La videocamera entrò nella camera da letto. Moore sentì una fitta allo stomaco, non perché ciò che stava guardando fosse più scioccante di altre scene del delitto. No, quell'orrore era viscerale perché conosceva e provava qualcosa di molto profondo per la donna che aveva sofferto là dentro. Aveva studiato le foto della stanza, ma queste non trasmettevano l'orrore dell'accaduto con la stessa intensità del video. Benché Catherine non fosse sullo schermo... l'avevano già portata in ospedale... sentiva l'eco del suo tormento. Vide le corde di nylon, con cui Capra le aveva legato polsi e caviglie, ancora attaccate alle gambe del letto; vide gli strumenti chirurgici... un bisturi e alcuni divaricatori... lasciati sul comodino. Guardò tutto ciò e l'impatto fu tanto potente che si sentì schiacciato contro lo schienale della sedia, come spinto da un pugno. Quando l'obiettivo della videocamera si spostò, finalmente, sul corpo di Andrew Capra steso sul pavimento, il detective rimase quasi impassibile, fin troppo stordito da ciò che aveva visto pochi secondi prima. La ferita addominale di Capra aveva sanguinato profusamente, e un'ampia pozza rossa si era formata sotto il torace. Il secondo proiettile, penetrato nell'occhio, gli aveva dato il colpo di grazia. Thomas ricordò l'intervallo di cinque minuti tra i due spari. L'immagine che vide confermava la tempistica: a giudicare dall'estensione della pozza, Capra era rimasto a terra, ancora vivo e sanguinante, per almeno cinque minuti. Il nastro terminò. Il detective guardò lo schermo vuoto, poi si destò dalla paralisi e spense il videoregistratore. Si sentiva troppo esausto per alzarsi dalla sedia. Quando finalmente si decise a farlo, fu solamente per fuggire da quel luogo. Prese con sé la scatola contenente i documenti fotocopiati dell'indagine di Atlanta. Dal momento che non si trattava di originali, ma di copie, avrebbe potuto benissimo consultarli altrove. Tornato in hotel, si fece una doccia e mangiò hamburger con patatine, ordinati col servizio in camera. Poi si concesse un'ora di televisione, tanto per distrarsi un po'. Ma per tutto il tempo non fece altro che passare da un canale all'altro, desiderando, in realtà, chiamare Catherine. Guardando quell'ultimo video, aveva realmente capito che razza di mostro la stava
perseguitando, e non riusciva a tranquillizzarsi. Per due volte aveva preso la cornetta del telefono e l'aveva riagganciata. La risollevò nuovamente, e questa volta le dita si mossero autonomamente, digitando un numero che conosceva ormai troppo bene. Quattro squilli, poi la segreteria telefonica di Catherine. Moore riappese senza nemmeno lasciare un messaggio. Fissò il telefono, vergognandosi per il fatto che la sua determinazione fosse crollata tanto presto. Si era ripromesso di tener duro, aveva ubbidito alla richiesta di Marquette di mantenere le distanze da lei per la durata dell'indagine. Quando tutto sarà finito, rimedierò in qualche modo. Guardò la pigna di documenti appoggiata sulla scrivania. Era mezzanotte e non aveva nemmeno iniziato; con un sospiro, aprì il primo fascicolo. Il caso di Dora Ciccone, la prima vittima di Andrew Capra, non aveva l'aria di essere una lettura piacevole. Conosceva già i dettagli generali, poiché erano riassunti nelle conclusioni di Singer. Ma Thomas non aveva letto i rapporti originali di Atlanta, e ora stava andando a ritroso nel tempo, esaminando il primo lavoro di Capra. Tutto era cominciato in quella città. Lesse il rapporto iniziale, poi tutta la serie d'interrogatori, le dichiarazioni dei vicini della Ciccone, di un barista del locale dov'era stata vista l'ultima volta viva, e dell'amica che aveva scoperto il cadavere. Vi era inoltre un fascicolo con una lista d'indiziati con relative foto; Capra non era tra loro. Dora Ciccone era una studentessa di medicina ventiduenne dell'università di Emory. La notte della sua morte era stata vista bere un margarita a La Cantina, verso mezzanotte. Quattro ore più tardi il corpo era stato scoperto a casa sua, nudo e legato al letto con corde di nylon. Le era stato asportato l'utero e aveva la gola squarciata. Trovò i documenti sui quali era riportata la tempistica dell'indagine. Era soltanto uno schema scritto con una calligrafia appena leggibile, come se il detective di Atlanta l'avesse compilato esclusivamente per soddisfare una checklist interna. In quelle pagine riusciva quasi a fiutare il fallimento, lo leggeva nell'inclinazione della scrittura. Lui stesso aveva sperimentato quella sensazione crescere nel petto quando si supera il limite delle ventiquattr'ore, quando trascorrono una settimana, un mese, e ancora non si hanno piste concrete. E quello era ciò che aveva il collega di Atlanta... nulla. Il killer della Ciccone era rimasto ignoto. Moore aprì il verbale dell'autopsia. Il massacro di Dora Ciccone non era stato né rapido né accurato quanto
gli assassinii successivi. Le irregolarità dell'incisione indicavano che al giovane mancava la sicurezza necessaria per eseguire un taglio netto lungo l'addome. Aveva esitato, la lama era retrocessa e aveva macerato la pelle. Penetrato lo strato cutaneo, la procedura era degenerata in un taglio da dilettante e la lama aveva intaccato sia la vescica sia l'intestino mentre lui cercava di estrarre il suo trofeo. Sulla sua prima vittima non aveva usato suture per legare le arterie. L'emorragia era stata abbondante, e Capra aveva dovuto lavorare alla cieca, i riferimenti anatomici sommersi in un lago cremisi. Soltanto il colpo di grazia era stato eseguito con una certa abilità. Un taglio netto da sinistra a destra, come se, saziata la fame e calmata la frenesia, avesse ripreso il controllo e terminato il lavoro con fredda efficienza. Moore chiuse il verbale e si mise a fissare i resti della cena, sul vassoio accanto a lui. Improvvisamente nauseato, prese il vassoio e lo portò fuori, in corridoio. Poi tornò alla scrivania e aprì un altro raccoglitore, che conteneva i rapporti del laboratorio. Il primo foglio era un esame microscopico: Spermatozoi identificati sul tampone vaginale della vittima. Sapeva che l'analisi genetica dello sperma aveva più tardi confermato che si trattava di quello di Capra. Prima di essere uccisa, Dora era stata stuprata. Moore voltò pagina e trovò un fascio di rapporti della Capelli e Fibre. La zona pubica della vittima era stata pettinata e i peli raccolti esaminati. Tra i campioni vi era un pelo color marrone-rossiccio che corrispondeva a quelli di Capra. Guardò i resoconti successivi, riguardanti vari capelli trovati sulla scena del delitto. Gran parte dei campioni appartenevano alla vittima stessa. C'era anche un pelo corto e biondo ritrovato sulla coperta, più tardi identificato come non umano in base al modello strutturale complesso del midollo. Un'aggiunta scritta a mano spiegava: «La madre della Ciccone possiede un golden retriever. Peli simili sono stati trovati sul sedile posteriore dell'auto della vittima». Voltò l'ultima pagina della Capelli e Fibre e si fermò. C'era l'analisi di un altro capello, mai identificato. Era stato trovato sul cuscino. In ogni casa si può trovare una gran quantità di capelli: gli uomini ne perdono a decine ogni giorno e, a seconda di quanto si è maniaci della pulizia e di quanto spesso si passa l'aspirapolvere, coperte, tappeti e divani conservano la testimonianza microscopica di ogni visitatore che trascorra un po' di tempo in un'abitazione. Quel singolo capello, individuato sul cuscino, poteva es-
sere di un amante, di un ospite, di un parente. Ma non era di Andrew Capra. Capello singolo, castano chiaro, AO (curvatura), lunghezza: 5 centimetri. Fase telogen. Si nota Trichorrhexis invaginata. Origine sconosciuta. Trichorrhexis invaginata. Capello a canna di bambù. Il Chirurgo era stato nell'appartamento della Ciccone. Moore si appoggiò alla sedia, sbalordito. Quella mattina aveva letto i rapporti di laboratorio dei casi Fox, Voorhees, Torregrossa e Cordell. In nessuna delle scene del delitto erano stati riscontrati capelli con Trichorrhexis invaginata. Ma il partner di Capra era sempre stato con lui. Era rimasto invisibile, non aveva lasciato dietro di sé sperma, o DNA. L'unica prova della sua presenza era quel singolo capello, e il ricordo della sua voce nascosto nella mente di Catherine. La loro collaborazione iniziò con il primo assassinio. Ad Atlanta. 20 Peter Falco era immerso nel sangue fino ai gomiti. Quando Catherine entrò in sala, lui sollevò lo sguardo dal tavolo operatorio. Qualsiasi tensione fosse nata tra loro, qualsiasi disagio lei sentisse in presenza del collega furono immediatamente accantonati. Entrambi avevano assunto il ruolo di due professionisti che cooperavano nel cuore di una battaglia. «Ne arriva un altro!» disse Peter. «Con quello fanno quattro. Lo stanno tirando fuori dall'auto.» Un po' di sangue schizzò dall'incisione. Il medico prese una pinza emostatica dal carrello e la infilò nell'addome aperto. «Ti assisto», esclamò Catherine, e ruppe il sigillo di un camice sterile. «No, posso farcela. Kimball ha bisogno di te in Trauma Due.» Come a enfatizzare la sua affermazione, la sirena di un'ambulanza sovrastò il baccano della stanza. «Quello è tuo», annunciò Falco. «Divertiti.» Catherine corse incontro all'ambulanza. Il dottor Kimball e due infermiere stavano già attendendo fuori, mentre il veicolo entrava in retromarcia. Ancora prima che si aprisse lo sportello, udirono il paziente gridare. Era un giovane, le braccia e le spalle coperte da tatuaggi, che si agitava e imprecava mentre gli infermieri calavano la barella. La Cordell lanciò un'occhiata al lenzuolo inzuppato di sangue che copriva le estremità inferio-
ri e capì perché stesse urlando. «Gli abbiamo somministrato una tonnellata di morfina sul luogo dell'incidente», disse l'infermiere mentre trasportavano il paziente in Trauma Due. «Non sembra aver avuto effetto!» «Quanta?» chiese Catherine. «Quaranta, quarantacinque milligrammi IV. Abbiamo smesso quando la pressione ha iniziato a scendere.» «Spostatelo al mio tre!» ordinò un'infermiera. «Uno, due, tre!» «Cristo! Fa male!» «Lo so, lo so.» «Tu non sai proprio un cazzo!» «Tra un minuto ti sentirai meglio. Come ti chiami, ragazzo?» «Rick... Oh, Gesù, la mia gamba...» «Rick come?» «Roland!» «Hai qualche allergia, Rick?» «Che cosa cazzo vi succede, gente?» «Segni vitali?» s'intromise Catherine mentre infilava i guanti. «La pressione è centodue su sessanta. Polso centotrenta.» «Dieci milligrammi di morfina in vena», disse Kimball. «Merda! Datemene cento!» Mentre il resto dello staff si muoveva convulsamente per prelevare sangue e appendere le sacche di flebo, Catherine tolse il lenzuolo zuppo di sangue e trattenne il fiato quando vide il laccio emostatico d'emergenza legato intorno a un arto quasi irriconoscibile. «Dategliene trenta», disse. La gamba destra era tenuta attaccata solo da pochi brandelli di pelle, una massa rossa e polposa, il piede quasi rivolto all'indietro. La dottoressa toccò le dita, fredde come il marmo; naturalmente non ci sarebbe stato polso. «Hanno detto che dall'arteria stava schizzando fuori sangue. Il primo poliziotto arrivato sul luogo dell'incidente gli ha messo il laccio emostatico», disse l'infermiere. «Quel poliziotto gli ha salvato la vita.» «Morfina iniettata!» Catherine indirizzò la luce sulla ferita. «Sembra che il nervo e l'arteria poplitei siano entrambi recisi. Non c'è più irrorazione nella gamba.» La Cordell guardò Kimball, ed entrambi capirono ciò che andava fatto. «Portatelo in sala operatoria. È abbastanza stabile da essere trasferito.
Intanto libereremo questa stanza.» «Appena in tempo», disse Kimball quando udirono la sirena di un'ambulanza in avvicinamento. Il medico si voltò per andarsene. «Ehi. Ehi!» Il paziente afferrò il braccio di Kimball. «Tu non sei un medico? Fa un male cane! Ordina a queste puttane di fare qualcosa!» Il chirurgo lanciò a Catherine un'occhiata amara, poi disse in tono d'avvertimento: «Sii gentile con loro, amico. Queste puttane conducono lo show». L'amputazione non era una decisione che Catherine prendeva alla leggera. Se un arto poteva esser salvato, lei faceva tutto ciò che era in suo potere per riattaccarlo. Ma quando, mezz'ora più tardi, si ritrovò in sala operatoria col bisturi in mano, ed esaminò ciò che rimaneva della gamba destra del paziente, la scelta le sembrò ovvia. Il polpaccio era maciullato, e tibia e fibula ridotte in schegge. A giudicare dalla gamba sinistra integra, quella destra doveva essere muscolosa. Il piede nudo... stranamente intatto nonostante l'angolazione sconvolgente che aveva assunto... mostrava i segni di un'abbronzatura presa coi sandali, e sotto le unghie delle dita vi era un po' di sabbia. Quel paziente non le stava simpatico e non ne aveva apprezzato le bestemmie o gli insulti urlati a lei e alle altre donne dello staff, ma mentre gli affondava il bisturi nella carne per ricavare un lembo cutaneo posteriore, mentre segava le estremità appuntite della tibia e della fibula fratturate, provò un senso di tristezza. L'infermiera della sala operatoria rimosse dal tavolo la gamba amputata e l'avvolse in un telo. Un piede, che una volta aveva assaporato il calore della spiaggia, sarebbe stato presto ridotto in cenere, cremato con tutti gli altri organi e arti sacrificati che finivano nel dipartimento di Patologia dell'ospedale. Quell'intervento lasciò Catherine depressa ed esausta. Quando, finalmente, si sfilò i guanti e il camice e uscì dalla sala operatoria, non era dell'umore giusto per parlare con Jane Rizzoli, che la stava attendendo fuori. Andò al lavandino per togliersi dalle mani l'odore di talco e di lattice. «È mezzanotte, detective. Non dorme mai?» «Presumo di dormire quanto lei. Ho alcune domande da farle.» «Pensavo che non si occupasse più del caso.» «Non ne sarò mai fuori. Non importa quello che dicono gli altri.» Catherine si asciugò le mani e guardò la collega di Moore. «Non le piaccio, non è vero?» «Che lei mi piaccia o no non è importante.»
«Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?» «Ascolti, ha finito per stanotte?» «E per via di Moore, vero? E per questo che è risentita con me.» La Rizzoli strinse la mandibola quadrata. «La vita personale del detective Moore è affar suo.» «Ma lei non approva.» «Non ha mai chiesto la mia opinione.» «Il suo pensiero è abbastanza evidente.» Jane la guardò con malcelato disprezzo. «Ammiravo Moore. Pensavo fosse uno in gamba. Un poliziotto che non sarebbe mai andato oltre. Ma non si è rivelato migliore di altri. Ciò che non riesco a credere è che la causa della sua rovina sia una donna.» Catherine si tolse la cuffia e la gettò nel cestino della spazzatura. «Lui sa che è stato un errore», ribatté, poi uscì dalla zona delle sale operatorie e s'avviò nel corridoio. La Rizzoli la seguì. «Da quando?» «Da quando ha lasciato la città senza dir parola. Per lui sono stata un errore temporaneo di valutazione.» «E questo ciò che lui è stato per lei? Un errore di valutazione?» Catherine si fermò, cercando di soffocare le lacrime. Non lo so. Non so che cosa pensare. «Lei sembra essere il centro di tutto, dottoressa Cordell. Occupa tutta la scena, ha l'attenzione di tutti. Di Moore. Del Chirurgo.» La Cordell si voltò rabbiosa verso Jane. «Crede che l'abbia voluto io tutto questo? Non ho mai chiesto di essere una vittima!» «Ma continua ad accaderle, non è vero? C'è una sorta di strano legame tra lei e il Chirurgo. Dapprima non lo vedevo. Pensavo che avesse ucciso le altre donne per soddisfare le sue fantasie perverse, ma ora credo che in tutto questo c'entri lei. Quell'uomo è come un gatto, che uccide gli uccellini e li porta in casa alla sua padrona, per dimostrarle la sua abilità di cacciatore. Quelle vittime erano offerte intese a impressionarla; quanto più lei si spaventa, tanto più si sente soddisfatto. Per questo ha aspettato a uccidere Nina Peyton finché non fosse stata in ospedale, sotto le sue cure. Voleva dimostrare la sua abilità. Lei è la sua ossessione. E io voglio sapere perché.» «Lui è l'unico che può rispondere a questa domanda.» «Non ne ha idea?» «E come potrei? Non so nemmeno chi sia.»
«Era in casa sua con Andrew Capra. Se quello che ha detto sotto ipnosi è vero.» «Andrew fu la sola persona che vidi quella notte. Andrew è l'unico che...» Catherine s'interruppe. «Forse non sono io la sua vera ossessione, detective. Ci ha mai pensato? Potrebbe essere Andrew.» La Rizzoli si accigliò, colpita da quell'affermazione. D'un tratto Catherine si rese conto di aver compreso la verità. Il centro dell'universo del Chirurgo non era lei, ma Andrew Capra. L'uomo che emulava, che forse persino adorava. Il partner che la Cordell gli aveva sottratto. Catherine sollevò lo sguardo quando il suo nome venne chiamato all'altoparlante. «Dottoressa Cordell subito in pronto soccorso, dottoressa Cordell.» Dio, mi lasceranno mai in pace? Premette il pulsante di discesa dell'ascensore. «Non ho tempo di rispondere alle sue domande. Devo badare ai pazienti.» «Quando ne avrà?» La porta si aprì e Catherine entrò nell'ascensore, il soldato stanco richiamato in prima linea. «La mia notte è appena iniziata.» Io le conosco dal loro sangue. Esamino i contenitori di provette nel modo con cui si guardano i cioccolatini in una scatola, domandandomi quale sarà il migliore. Il nostro sangue è unico quanto lo siamo noi, e il mio occhio nudo discerne le varie tonalità di rosso, dal cardinale brillante al ciliegia scuro. So bene a che cosa sia dovuta l'ampia gamma di sfumature, so che il rosso è dato dall'emoglobina nei suoi diversi stati d'ossigenazione. Si tratta di chimica, niente di più, ma ha il potere di sconvolgere, di spaventare. Tutti siamo toccati dalla vista del sangue. Anche se lo vedo ogni giorno, non smette mai di eccitarmi. Osservo i contenitori con sguardo bramoso. Le provette provengono dalla vasta area di Boston, dagli studi medici, dalle cliniche e dall'ospedale adiacente. Siamo il più grande laboratorio diagnostico della città. In qualsiasi parte di Boston porgiate l'incavo del braccio all'ago di un'infermiera, vi sono notevoli possibilità che il vostro sangue finisca qui. Da me. Afferro il primo contenitore di campioni. Su ogni provetta vi è un'etichetta col nome del paziente, quello del medico e la data. Accanto al contenitore, vi è il pacchetto di moduli di richiesta. M'interessano in modo
particolare e mi metto a sfogliarli, leggendo i vari nomi. A metà pila mi fermo. Sto guardando il modulo di Karen Sobel, venticinque anni, che vive al 7536 di Clark Road a Brookline. È di razza bianca e nubile. So tutto questo perché è scritto sul modulo, insieme al numero di previdenza sociale, al nome del datore di lavoro e dell'assicuratore. Il medico ha richiesto due analisi: un test per l'HIV e un altro per la sifilide. Sulla riga riservata alla diagnosi, il medico ha scritto: «Violenza sessuale». Nel contenitore trovo la provetta contenente il sangue di Karen Sobel. E di un rosso profondo e scuro, il sangue di una bestia ferita. La tengo tra le mani, e mentre si scalda al mio tocco, vedo e sento quella donna di nome Karen. Sconvolta ed esitante. In attesa di essere reclamata. Poi odo una voce che mi sbalordisce e sollevo lo sguardo. Catherine Cordell è appena entrata nel mio laboratorio. Mi è tanto vicina che riesco quasi a toccarla. Sono stupito di vederla quaggiù, specialmente a quest'ora remota, tra l'oscurità e l'alba. Raramente un medico si avventura nel mondo dei sotterranei, e vederla ora mi causa un brivido inaspettato, sconcertante, quanto la visione di Persefone che discende nell'Ade. Mi domando che cosa l'abbia condotta qui. Poi la vedo consegnare numerose provette di fluido color paglia al tecnico del banco accanto, sento le parole «versamento pleurico», e capisco perché si sia degnata di farci visita. Come molti medici, non si fida dei corrieri dell'ospedale quando si tratta di fluidi corporei preziosi, e ha portato personalmente le provette lungo il tunnel che connette il Pilgrim Hospital con l'edificio degli Interpath Labs. La osservo mentre si allontana. Mi passa proprio accanto. Ha le spalle curve e ondeggia coi fianchi, le gambe vacillanti, come se camminasse immersa nel fango. La fatica e le luci fluorescenti rendono la sua pelle quasi simile a una distesa lattea sopra l'ossatura perfetta del volto. Svanisce oltre la porta, e non saprà mai che la stavo guardando. Abbasso lo sguardo sulla provetta di Karen Sobel, ancora tra le mie mani, e d'un tratto il sangue mi sembra cupo, senza vita. Una preda che non vale nemmeno la pena di cacciare. Non se paragonata a ciò che mi è appena passato accanto. Sento ancora il profumo di Catherine. Mi chino sul computer e, sotto «nome del medico», digito: «Catherine
Cordell». Sullo schermo appaiono i test di laboratorio che ha ordinato nelle ultime ventiquattrore. Vedo che è in ospedale dalle ventidue. Ora sono le 5.30 del mattino, è venerdì. Ha di fronte ancora un'intera giornata. La mia giornata lavorativa sta invece per finire. Quando esco dall'edificio sono le sette, e il sole del mattino mi colpisce gli occhi. La giornata è già calda. Mi dirigo al garage del centro medico, salgo in ascensore fino al quinto livello, e passo accanto a una fila di auto per fermarmi al numero 541, dov'è parcheggiata la sua auto. È una Mercedes giallo limone, un modello di quest'anno. La tiene pulita e brillante. Estraggo il portachiavi dalla tasca, quello che conservo ormai da due settimane, e infilo una delle chiavi nella serratura del baule. Il cofano si apre. Guardo all'interno e individuo la leva di sicurezza, un congegno ottimo per evitare che i bambini vi restino accidentalmente chiusi dentro. Un'altra auto sale rombando la rampa del garage. Chiudo rapidamente il baule e mi allontano. La guerra di Troia imperversò per dieci brutali anni. Il sangue verginale di Ifigenia, versato sull'altare di Aulide, aveva permesso alle mille navi greche di spingersi verso Troia, ma non sarebbe stata una vittoria rapida, poiché sull'Olimpo gli dei erano divisi. Dalla parte di Troia si erano schierati Afrodite e Ares, Apollo e Artemide. Dalla parte dei greci stavano Era, Atena e Poseidone. La vittoria aleggiò da una parte all'altra, incostante come i venti. Eroi uccisero e vennero uccisi, e il poeta Virgilio afferma che la terra era venata di sangue. Alla fine non fu la forza ma l'astuzia a mettere la città in ginocchio. All'alba dell'ultimo giorno di Troia, i suoi soldati si svegliarono e trovarono un grande cavallo di legno, abbandonato fuori dei cancelli. Quando penso al cavallo di Troia, rimango sconcertato dalla stupidità dei soldati. Quando trascinarono l'enorme animale dentro la città, come facevano a non sapere che il nemico era nascosto al suo interno? Perché lo portarono dentro le mura? Perché trascorsero la notte festeggiando, annebbiandosi la mente con celebrazioni di vittoria? Mi piace pensare che io mi sarei comportato in modo diverso. Forse furono le mura inespugnabili a indurii al compiacimento. Una volta chiusi i cancelli e rafforzate le barricate, come può il nemico attaccare? Nessuno si sofferma a considerare la possibilità che il nemico sia all'in-
terno dei cancelli. Che sia proprio qui, accanto a te. Sto pensando al cavallo di legno mentre mescolo la panna e lo zucchero nel mio caffè. Prendo il telefono. «Chirurgia, sono Helen», risponde la receptionist. «Potrei vedere la dottoressa Cordell oggi pomeriggio?» chiedo. «È un 'emergenza?» «Non proprio. Ho una protuberanza molle sulla schiena. Non fa male, ma vorrei che ci desse un'occhiata.» «Posso darle un appuntamento tra due settimane.» «Non posso vederla oggi pomeriggio? Dopo l'ultimo appuntamento?» «Mi dispiace, signor... il suo nome, per favore?» «Signor Troy.» «Signor Troy. Ma la dottoressa lavora fino alle cinque, dopodiché andrà direttamente a casa. Due settimane è tutto ciò che posso fare.» «Allora non importa. Proverò con un altro medico.» Ripongo la cornetta. Ora so che dopo le cinque lascerà il suo ufficio. Sarà stanca, di certo andrà diritta a casa. Ora sono le 9.00 del mattino. Questa sarà una giornata d'attesa, da assaporare appieno. Per dieci sanguinosi anni i greci hanno assediato Troia. Per dieci anni sono stati perseveranti nel lanciarsi contro le mura nemiche, tra gli alti e bassi della sorte, a seconda dell'umore degli dei. Io ho atteso due anni per reclamare il mio premio. Credo sia un tempo sufficientemente lungo. 21 La segretaria dell'ufficio studenti della facoltà di medicina di Emory era una sosia di Doris Day, una bionda solare trasformatasi in una graziosa matrona del Sud. Winnie Bliss teneva una caffettiera a bollire accanto alle caselle della posta degli studenti, e un contenitore di cristallo con dolciumi di zucchero e burro fuso sul bancone. Moore suppose che a uno studente di medicina sotto stress quella stanza apparisse come un rifugio confortevole. Winnie lavorava in quell'ufficio da vent'anni e, dal momento che non aveva figli, aveva riversato i suoi istinti materni sugli studenti che venivano a ritirare la posta. Offriva loro dolci, dava loro dritte sugli appartamenti in affitto, li consigliava in materia d'amore e li consolava quando non passa-
vano gli esami. E ogni anno, il giorno della laurea, la donna piangeva perché 110 dei suoi bambini la lasciavano. Raccontò tutto ciò a Moore con un morbido accento georgiano, offrendogli con insistenza biscotti e versandogli tazze di caffè, e lui le credette. Winnie Bliss aveva l'aria di essere una donna sincera. «Non riuscivo a capacitarmene quando la polizia di Savannah mi chiamò due anni fa. Dissi loro che doveva trattarsi di un errore. Vedevo Andrew ogni giorno per la posta, ed era il ragazzo più gentile che si potesse sperare d'incontrare. Garbato, non udii mai una parolaccia dalle sue labbra. Io guardo tutti negli occhi, detective Moore, tanto per far loro sapere che li vedo dentro. E nei suoi vedevo una brava persona.» Una prova di quanto facilmente veniamo ingannati dal male, pensò Moore. «Nei quattro anni di studi ricorda che Capra avesse stretto qualche amicizia intima?» «Intende una fidanzata?» «Sono più interessato alle amicizie maschili. Ho parlato con la sua ex padrona di casa, qui ad Atlanta. Lei afferma che c'era un giovane che gli faceva visita di tanto in tanto. Pensa fosse un compagno di studi.» Winnie si alzò in piedi e si diresse verso lo schedario, dove prese un tabulato del computer. «Questo è un elenco degli alunni dell'anno di Capra. Centodieci matricole in tutto. La metà erano maschi.» «Non aveva grandi amici tra i compagni di corso?» La donna esaminò le tre pagine di nomi e scosse la testa. «Mi spiace. Non ricordo nessuno in particolare cui fosse molto legato.» «Sta dicendo che non aveva amici?» «Sto dicendo che non so di nessun amico.» «Posso vedere l'elenco?» Winnie glielo porse. Moore lo lesse, ma nessuno dei nomi, eccetto quello di Capra, gli risultò familiare. «Sa dove vivono questi studenti attualmente?» «Sì. Tengo gli indirizzi aggiornati per il bollettino degli ex alunni.» «C'è qualcuno che vive nell'area di Boston?» «Mi lasci controllare.» Si voltò con la sedia verso il computer e iniziò a digitare sulla tastiera con le sue unghie smaltate di rosa. L'innocenza di Winnie Bliss la faceva sembrare una donna d'altri tempi, di un'era più cortese, e Thomas restò colpito nel vederla maneggiare il computer con tanta abilità. «Uno abita a Newton, nel Massachusetts. È vicino a Boston?»
«Sì.» Moore si protese, il polso all'improvviso accelerato. «Come si chiama?» «È una lei. Latisha Green. Ragazza molto graziosa. Mi portava sempre grossi sacchetti di noci americane. Naturalmente non era carino da parte sua, dal momento che sapeva che tenevo alla linea, ma credo le piacesse nutrire le persone. Era il suo modo di fare.» «Era sposata? Aveva un ragazzo?» «Oh, ha un marito splendido! L'uomo più alto che abbia mai visto! Quasi due metri, con una magnifica pelle nera.» «Nera», ripete Thomas. «Sì. Nera come carbone.» Moore sospirò e guardò di nuovo la lista. «E nessun altro della classe di Capra vive vicino a Boston, che lei sappia?» «Non secondo la mia lista.» Winnie si voltò verso di lui. «Oh. Mi sembra deluso.» Gli parlò con tono afflitto, come se si sentisse personalmente responsabile del fallimento. «Oggi non me ne va bene una», ammise Moore. «Prenda un dolce.» «Grazie, preferisco di no.» «Anche lei a dieta?» «Non amo molto i dolci.» «Allora è chiaro che non è del Sud, detective.» Thomas non poté fare a meno di sorridere. Winnie Bliss, coi suoi occhi grandi e la voce suadente, lo aveva stregato, come certamente stregava tutti gli studenti, maschi e femmine, che entravano nel suo ufficio. Il suo sguardo si spostò alla parete dietro di lei, ricoperta da una serie di foto di gruppo. «Sono le classi della scuola?» La donna si voltò verso il muro. «Mio marito scatta una foto a ogni laurea. Non è facile riunire tutti quegli studenti. È come radunare i gatti, dice sempre lui. Ma io voglio la foto, e li convinco a farla. Non sono carini?» «Qual è la classe di Andrew Capra?» «Le mostro l'annuario. Riporta anche i nomi.» La donna si alzò e si avvicinò a una libreria dalle ante di vetro. Con riverenza rimosse un sottile volume dallo scaffale e passò una mano sulla copertina, come per togliere la polvere. «Questo è dell'anno in cui Andrew si laureò. Ci sono le foto di tutti i suoi compagni, e anche il nome dell'ospedale in cui sono stati accettati come interni.» Winnie fece una pausa, poi gli porse il libro. «È la mia unica copia, perciò le sarei grata se potesse guardarla qui, senza portarla
via.» «Mi sistemerò laggiù nell'angolo, in modo da non darle fastidio. Così mi potrà tenere d'occhio. Che ne dice?» «Oh, non sto dicendo che non mi fido di lei!» «Be', non dovrebbe farlo», mormorò Thomas con una strizzatina d'occhio, e Winnie arrossì come una ragazzina. Moore portò il libro nell'angolo, nella piccola zona adibita a bar, dove vi erano una caffettiera e un piatto di biscotti. Si sedette in una vecchia poltrona e aprì l'annuario della facoltà di medicina di Emory Medica. Giunse l'ora di pranzo e una parata di giovanissimi studenti in camice bianco entrò a controllare la posta. Da quando in qua i ragazzini erano diventati dottori? Non avrebbe mai concepito l'idea di mettere il suo corpo di mezza età in mano a quei giovincelli. Notò i loro sguardi curiosi e udì Winnie Bliss sussurrare: «È un detective della Omicidi di Boston». Sì, quell'uomo decrepito seduto nell'angolo. Moore s'incurvò ancor di più nella poltrona e si concentrò sulle fotografie. Accanto a ognuna vi era il nome dell'alunno, la città d'origine, e l'ospedale in cui era stato accettato. Quando giunse a quella di Capra si fermò. Andrew guardava dritto la macchina fotografica, un giovane sorridente, dallo sguardo serio, senza nulla da nascondere. Questo fu ciò che Thomas trovò più inquietante... i predatori si aggiravano anonimi tra le prede. Accanto alla foto di Capra c'era il nome del suo programma d'internato. Chirurgia, Riverland Medical Center, Savannah, Georgia. Moore si domandò chi altro della sua classe fosse stato accettato a Savannah, chi altro avesse vissuto in quella città mentre Capra macellava le donne. Sfogliò le pagine osservando i luoghi di accettazione, e scoprì che altri tre studenti erano stati assegnati a programmi nell'area di Savannah. Due di loro erano donne; il terzo era un asiatico. Un altro vicolo cieco. Si appoggiò allo schienale, scoraggiato. Il libro gli si aprì in grembo, e Moore scorse la foto del preside della facoltà che gli sorrideva da una pagina. Sotto di essa era stampato il suo messaggio: «Per risanare il mondo». Oggi 108 giovani fanno il giuramento solenne che completa un lungo e difficoltoso viaggio. Tale giuramento, che rende medici e guaritori, non venga preso alla leggera, perché è destinato a durare una vita... Moore si raddrizzò e rilesse la dichiarazione del rettore. Oggi 108 giovani...
Si alzò e andò alla scrivania di Winnie. «Signora Bliss?» «Sì, detective?» «Lei ha detto che nella classe di Andrew c'erano 110 studenti, lui compreso.» «Ne ammettiamo 110 ogni anno.» «Nel suo commento il rettore accenna a 108 laureati. Che cos'è accaduto agli altri due?» Winnie scosse tristemente il capo. «Non mi sono ancora fatta una ragione di ciò che è successo a quella povera ragazza.» «Quale ragazza?» «Laura Hutchinson. Stava lavorando in una clinica, giù ad Haiti. Seguiva un corso facoltativo. Le strade là, be', ho sentito che sono orribili. Il camion finì in un fosso e capottò.» «Perciò è stato un incidente.» «Lei era nel rimorchio. Non sono riusciti a tirarla fuori se non dopo dieci ore.» «E che mi dice dell'altro studente? Ce n'è un altro che non si è laureato con la classe.» Lo sguardo di Winnie si abbassò sulla scrivania, e Moore capì che non era certo ansiosa di affrontare quel particolare argomento. «Signora Bliss?» «Ogni tanto accade. Qualcuno molla tutto. Noi tentiamo di aiutarli a restare, ma sa, alcuni hanno problemi col materiale.» «Dunque, questo studente... come si chiamava?» «Warren Hoyt.» «Si è ritirato?» «Sì, per così dire.» «Si è trattato di un problema accademico?» «Be'...» La donna si guardò intorno, come per chiedere aiuto, ma senza trovarlo. «Forse dovrebbe parlare con uno dei suoi professori, il dottor Kahn. Lui sarà in grado di rispondere alle sue domande.» «Lei non conosce la risposta?» «È una sorta di... questione privata. Dovrebbe essere il dottor Kahn a dirglielo.» Moore guardò l'orologio. Pensava di riuscire a prendere il volo di ritorno quella stessa sera, ma a quanto pareva non sarebbe stato così. «Dove posso trovarlo?» «Nel laboratorio d'anatomia.»
Fin dal corridoio si sentiva l'odore di formalina. Moore si fermò fuori della porta con la scritta ANATOMIA, facendosi coraggio per ciò che avrebbe visto dentro. Sebbene fosse preparato, quando varcò la soglia rimase sbalordito. Ventotto tavoli disposti in quattro file si estendevano per tutta la lunghezza della stanza. Sui tavoli vi erano cadaveri in stadi avanzati di dissezione. A differenza di quelli che Thomas era abituato a vedere nel laboratorio del medico legale, quei corpi parevano artificiali, la pelle dura come vinile, i vasi esposti imbalsamati, blu o rossi. Quel giorno gli studenti si stavano concentrando sulla testa e stavano studiando i muscoli facciali. A ogni corpo erano assegnati quattro studenti, e la stanza risuonava di voci che leggevano dai libri di testo, che ponevano domande e offrivano consigli. Se non fosse stato per le sagome spettrali sui tavoli, quei giovani avrebbero potuto essere operai che lavoravano su parti meccaniche. Una ragazza sollevò lo sguardo incuriosito verso Moore, l'estraneo elegantemente vestito che era entrato nel loro laboratorio. «Cerca qualcuno?» gli chiese, il bisturi pronto a incidere la guancia di un cadavere. «Il dottor Kahn.» «E in fondo alla stanza. Vede quell'omone con la barba bianca?» «Grazie.» Il detective continuò lungo la fila di tavoli, lo sguardo inesorabilmente attratto da ogni cadavere. La donna con gli arti raggrinziti sul tavolo d'acciaio. L'uomo di colore, la cute aperta a rivelare i muscoli possenti della coscia. All'estremità del laboratorio, un gruppo di studenti ascoltava con attenzione un tizio somigliante a Babbo Natale, che indicava le fibre delicate del nervo facciale. «Dottor Kahn?» chiese Moore. Il medico sollevò lo sguardo e tutta la somiglianza con Babbo Natale svanì. Aveva gli occhi scuri, intensi, privi di qualsiasi traccia di senso dell'umorismo. «Sì?» «Sono il detective Moore. Mi ha mandato la signora Bliss dell'ufficio studenti.» Kahn si raddrizzò, e d'un tratto Thomas si ritrovò di fronte una montagna d'uomo. Nella sua mano, il bisturi sembrava incredibilmente fragile; appoggiò lo strumento, si tolse i guanti e si voltò per lavarsi le mani in un lavandino. Moore vide che i capelli bianchi di Kahn erano legati in una coda di cavallo. «Di che si tratta?» chiese il professore mentre allungava una mano per afferrare un asciugamano di carta.
«Ho alcune domande su un suo studente di sette anni fa. Warren Hoyt.» Kahn gli dava le spalle, ma Moore vide il braccio possente, gocciolante d'acqua, irrigidirsi sopra il lavandino. Poi l'uomo strappò la carta assorbente dal dispenser e si asciugò in silenzio le mani. «Se lo ricorda?» gli chiese Moore. «Sì.» «Se lo ricorda bene?» «È stato uno studente memorabile.» «Le dispiacerebbe dirmi di più?» «Certo.» Kahn gettò il pezzo di carta spiegazzato nel cestino della spazzatura. «Si tratta di un'indagine criminale, dottor Kahn.» Numerosi studenti li stavano ormai ascoltando. La parola criminale aveva colpito la loro attenzione. «Andiamo nel mio studio.» Moore lo seguì in una stanza adiacente, separata dal laboratorio da una finestra di vetro. Si potevano osservare tutti i ventotto tavoli. Un villaggio di cadaveri. Kahn chiuse la porta e si voltò verso di lui. «Perché mi chiede di Warren? Che cos'ha fatto?» «Niente che sappiamo. Vorrei soltanto appurare che relazione avesse con Andrew Capra.» «Andrew Capra? Il nostro laureato più illustre. Ora c'è qualcosa per cui una facoltà di medicina ama essere rinomata. Insegnare agli psicopatici a tagliare e sezionare.» «Pensa che Capra fosse uno squilibrato?» «Temo non esista una diagnosi psichiatrica per uomini come lui.» «Che impressione aveva di Andrew, allora?» «Non vedevo in lui nulla di strano, mi pareva del tutto normale.» Una descrizione che a Moore sembrava sempre più inquietante. «Che mi dice invece di Warren Hoyt?» «Perché mi chiede di lui?» «Devo sapere se lui e Capra fossero amici.» Kahn vi rifletté. «Non lo so. Non sono in grado di dirle che cosa accade fuori del laboratorio. Io vedo soltanto ciò che succede in quella stanza. Gli studenti faticano per immagazzinare una mole enorme d'informazioni nelle loro menti sovraccariche. Non tutti sono in grado di gestire lo stress.» «Fu ciò che accadde a Warren? E per tale ragione che si è ritirato?»
Kahn si voltò verso il divisorio in vetro e guardò il laboratorio di anatomia. «Si è mai domandato da dove vengono quei cadaveri?» «Scusi?» «Come li ottengono le facoltà di medicina? Come finiscono su quei tavoli in attesa di essere sezionati?» «Presumo che quella gente doni il proprio corpo alla scuola.» «Esattamente. Ognuno di quei cadaveri era un essere umano che ha preso una decisione molto generosa: donare il suo corpo. Invece di trascorrere l'eternità in una bara di palissandro, hanno scelto di fare qualcosa di utile dei loro resti. Insegnare alla nuova generazione di guaritori. Non può esser fatto in assenza di cadaveri veri. Gli studenti devono osservare tridimensionalmente tutte le variazioni del corpo umano. Devono esplorare col bisturi i rami dell'arteria carotide, i muscoli facciali. Sì, è possibile imparare su un computer, ma non è la stessa cosa che incidere effettivamente la cute o separare un nervo delicato. Perciò è necessario un essere umano. Sono necessari individui tanto generosi e benevolenti da affidarci la parte più personale di loro stessi... il corpo. Io credo che ognuno di quei cadaveri fosse una persona straordinaria. Li tratto come tali, e mi aspetto che i miei studenti li onorino nello stesso modo; in quella stanza nessuno scherza, e ogni corpo, ogni parte vengono trattati con rispetto. Quando le dissezioni sono completate, i resti vengono cremati ed eliminati con dignità.» Kahn si voltò verso il detective. «Queste sono le regole del mio laboratorio.» «E cosa c'entra tutto ciò con Warren Hoyt?» «C'entra, eccome.» «La ragione per cui si è ritirato?» «Sì.» Il professore tornò a guardare la finestra. Moore attese, lo sguardo posato sulle ampie spalle del medico, e gli lasciò il tempo di cercare le parole giuste. «La dissezione è un processo lungo. Alcuni studenti non riescono a completare i compiti assegnati loro durante le ore di lezione, e necessitano di tempo extra per rivedere l'anatomia. Perciò lascio loro libero accesso al laboratorio, a tutte le ore. Ognuno ha una chiave dell'edificio, possono entrare anche nel mezzo della notte, se ne hanno bisogno. Alcuni lo fanno.» «Warren lo faceva?» Una pausa. «Sì.» Un sospetto terribile stava cominciando a pungolare Moore. Kahn si avvicinò allo schedario, aprì il cassetto, e cominciò a frugare tra i documenti ammassati. «Era domenica. Avevo trascorso il weekend fuori
città e dovetti venire qui, di notte, per preparare un campione per la lezione del lunedì. Sa, i ragazzi... Molti di loro sono impacciati e talora riducono in poltiglia i campioni. Perciò tento sempre di disporre di una buona dissezione, per mostrare loro l'anatomia che potrebbero aver danneggiato sui loro cadaveri. Stavamo lavorando sull'apparato riproduttivo, e avevano già iniziato a sezionare gli organi. Ricordo che arrivai tardi al campus, dopo mezzanotte; vidi le luci del laboratorio accese, e pensai che si trattasse di qualche studente diligente, che tentava di tenere il passo coi compagni. Così entrai nell'edificio, raggiunsi il laboratorio e aprii la porta.» «E Warren Hoyt era là», azzardò Moore. «Già.» Kahn estrasse il raccoglitore che stava cercando. «Quando vidi ciò che stava facendo... Be', persi il controllo. Lo presi per la camicia e lo spinsi contro il lavandino. Non fui delicato, lo ammetto, ma ero tanto infuriato che non potei farne a meno. Mi arrabbio ancora al solo pensiero.» Espirò profondamente, ma nemmeno in quel momento, quasi sette anni più tardi, riuscì a calmarsi. «Dopo... dopo che ebbi finito di gridargli addosso, lo trascinai qui, nel mio studio. Lo feci sedere e lo obbligai a firmare una dichiarazione secondo la quale si sarebbe ritirato dalla scuola alle otto della mattina successiva. Non gli avrei chiesto di fornire motivazioni, ma avrebbe dovuto abbandonare, altrimenti avrei rilasciato un rapporto scritto su ciò che avevo visto in questo laboratorio. Naturalmente, acconsentì: non aveva scelta. E non sembrava nemmeno molto turbato dalla situazione. Non se l'era presa, il che mi parve molto strano. Riuscì a rimanere tranquillo e razionale. Ma quello era effettivamente Warren. Molto razionale, mai nulla lo sconvolgeva. Era quasi...» Kahn fece una pausa, «...meccanico.» «Che cosa vide? Cosa stava facendo nel laboratorio?» Il professore passò il raccoglitore a Moore. «È tutto scritto lì dentro. Ho tenuto tutti i fascicoli di questi anni, nel caso Warren intentasse qualche azione legale. Sa, gli studenti possono denunciarla per tutto di questi tempi. Se mai avesse tentato di essere riammesso in questa scuola, desideravo essere preparato.» Moore prese il fascicolo. Era denominato semplicemente HOYT, WARREN. All'interno, tre pagine dattiloscritte. «A Warren era stato assegnato un cadavere femminile. Lui e i suoi partner di laboratorio avevano iniziato la dissezione pelvica, concentrandosi sulla vescica e sull'utero. Gli organi non erano ancora stati rimossi, soltanto esposti. Quella domenica notte, Warren venne a completare il lavoro. Ma ciò che avrebbe dovuto essere una dissezione scrupolosa si era tra-
sformata in una mutilazione, come se la sua mano avesse perso il controllo del bisturi. Non aveva soltanto esposto gli organi, li aveva estratti. Dapprima aveva reciso la vescica e l'aveva posta tra le gambe del cadavere, poi aveva staccato l'utero. Il tutto senza guanti, come se volesse sentire gli organi a contatto con la sua pelle. Ed è così che lo trovai. Con una mano teneva l'organo gocciolante, e con l'altra...» La voce di Kahn si affievolì, disgustata. Ciò che il professore non riusciva a dire era scritto sulla pagina che Thomas stava leggendo. Il detective terminò per lui la frase. «Si stava masturbando.» Kahn tornò alla scrivania e sprofondò sulla sedia. «Per tale ragione non potei lasciare che si laureasse. Dio mio, che razza di medico sarebbe diventato? Se faceva quelle cose a un cadavere, come si sarebbe comportato con un paziente vivo?» Lo so io che cosa fa. Ho visto il suo lavoro coi miei occhi. Moore passò alla terza pagina del fascicolo di Hoyt, e lesse il paragrafo conclusivo scritto dal dottor Kahn. Il signor Hoyt acconsente a ritirarsi volontariamente dalla facoltà alle 8.00 in punto di domani mattina. In cambio, io manterrò la riservatezza su quanto è accaduto. A causa del danneggiamento del cadavere, i suoi colleghi di laboratorio, tavolo 19, saranno assegnati ad altre squadre per lo stage di dissezione. Colleghi di laboratorio. Moore guardò Kahn. «Quanti partner di laboratorio aveva Warren?» «Vi sono quattro studenti per tavolo.» «Chi erano gli altri tre?» Kahn si accigliò. «Non ricordo. È stato sette anni fa.» «Non documenta i gruppi?» «No. Ma forse ne rammento uno. Una ragazza.» Voltò la sedia girevole verso il computer e richiamò i file d'iscrizione degli studenti. L'elenco della classe di Warren Hoyt comparve sullo schermo. A Kahn occorse un momento per leggere tutti i nomi, poi esclamò: «Ecco qui. Emily Johnstone. Me la ricordo bene». «Perché?» «Be', primo perché era una bella ragazza. Somigliava a Meg Ryan. Secondo perché dopo che Warren si fu ritirato, volle sapere la ragione. Io non volevo dirgliela, perciò mi domandò se avesse qualcosa a che fare con le donne. Sembra che Warren le stesse sempre alle costole, e lei ne era infastidita. Ovviamente fu sollevata quando lui lasciò la scuola.»
«Pensa che la ragazza si ricorderebbe dei colleghi di laboratorio?» «Potrebbe darsi.» Kahn prese il telefono e chiamò l'ufficio studenti. «Ehi, Winnie? Hai il numero attuale di Emily Johnstone?» Prese una penna, annotò il numero e riappese. «Ha uno studio privato a Houston», spiegò, mentre componeva il numero. «Sono le undici da lei, perciò dovrebbe essere... Buongiorno, Emily?... Sono una voce del tuo passato. Il dottor Kahn di Emory... Proprio così, laboratorio di anatomia. Preistoria, vero?» Moore si protese, il polso accelerato. Quando Kahn finalmente riappese e lo guardò, Moore vide la risposta nei suoi occhi. «Ricorda gli altri due colleghi. Una era una ragazza di nome Barb Lippman. E l'altro...» «Capra?» Kahn annuì. «Il quarto del gruppo era Andrew Capra.» 22 Catherine si affacciò sulla soglia dello studio di Peter. Falco sedeva alla scrivania, inconsapevole d'essere osservato, intento a scarabocchiare su una cartella. Non si era mai soffermata a studiarlo prima d'allora, e ciò che vide la fece sorridere debolmente. Lavorava con feroce concentrazione, il medico impegnato per eccellenza, tranne per un tocco bizzarro: l'aeroplanino di carta sul pavimento. Peter e le sue assurde macchine volanti. Bussò sullo stipite della porta. Lui alzò lo sguardo sopra gli occhiali, sorpreso di vederla. «Hai un minuto?» le chiese. «Naturalmente. Entra.» Catherine si sedette sulla sedia dall'altra parte del tavolo. Peter rimase in silenzio, attendendo che iniziasse a parlare. La dottoressa aveva l'impressione che, anche se avesse impiegato una vita a farlo, lui sarebbe rimasto lì, ad aspettare. «Le cose sono state... tese fra noi», cominciò. Falco annuì. «So che t'infastidisce almeno quanto me. E credimi, mi urta parecchio. Perché mi sei sempre piaciuto, Peter. Può non sembrare così, ma è vero.» Fece un respiro profondo, sforzandosi di trovare le parole giuste. «I problemi tra noi non hanno nulla a che fare con te. È tutta colpa mia. Mi stanno succedendo tante cose in questo periodo. Mi è difficile spiegartelo.»
«Non devi.» «È che questo finisce per allontanarci. Non soltanto come colleghi, ma anche come amici. E buffo come non mi sia mai accorta della nostra amicizia. Non mi sono resa conto di quanto significasse per me finché non l'ho sentita sgretolarsi. In ogni caso, mi dispiace. Ero venuta a dirti questo.» Si avviò verso la porta. «Catherine... so tutto di Savannah.» La donna si voltò e lo fissò. Lo sguardo fermo. «Me l'ha detto il detective Crowe», continuò Falco. «Quando?» «Qualche giorno fa, quando gli ho parlato del furto nello studio. Credeva lo sapessi già.» «Non mi hai detto niente.» «Non stava a me sollevare l'argomento. Volevo che ti sentissi pronta per confidarmelo. Sapevo che avevi bisogno di tempo, ed ero disposto ad aspettare per tutto il tempo che ti sarebbe occorso per fidarti di me.» La Cordell espirò bruscamente. «Bene, allora. Ora conosci il peggio di me.» «No, Catherine.» Peter si alzò. «Io conosco il meglio di te! So quanto sei forte, quanto sei coraggiosa. In tutto questo tempo non avevo idea di ciò che stessi affrontando. Avresti potuto dirmelo. Avresti potuto fidarti di me.» «Pensavo che sarebbe cambiato tutto tra noi.» «Come avrebbe potuto?» «Non voglio che ti senta dispiaciuto per me. Non mi piace essere commiserata.» «Commiserata per che cosa? Per la tua capacità di combattere? Per essere uscita viva da circostanze disperate? Perché diavolo dovrei compatirti?» Catherine ricacciò le lacrime con un battito di palpebre. «Altri uomini lo farebbero.» «Allora non ti conoscono veramente. Non nel modo in cui ti conosco io.» Il dottor Falco aggirò la scrivania, in modo che niente s'interponesse tra di loro. «Ti ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati?» «Quando sono venuta per il colloquio.» «Che cosa ricordi?» Lei scrollò sconcertata il capo. «Parlammo della professione. Di ciò che avrei fatto qui.» «Perciò lo ricordi come un incontro di lavoro.»
«Ciò che in effetti è stato.» «Buffo. Io la penso molto diversamente. Non rammento quasi le domande che ti feci, o che cosa mi chiedesti. Ciò che ricordo è di aver alzato gli occhi dalla scrivania e di averti vista entrare nel mio studio. Rimasi sbalordito. Non riuscivo a pensare a niente da dire che non suonasse banale o stupido o semplicemente comune. Non volevo sembrare ordinario, non per te. Ecco una donna che ha tutto sotto controllo, pensai. È brillante, è bella. E si trova in piedi di fronte a me.» «Oddio, come ti sbagliavi. Non avevo nulla sotto controllo.» Di nuovo si ritrovò a dover reprimere le lacrime. «Nemmeno ora. Riesco a malapena a tenere insieme i pezzi...» Senza proferire parola, lui la prese tra le braccia. Accadde in modo tanto naturale, tanto semplice, senza l'imbarazzo di un primo abbraccio. Lui la stava solo stringendo a sé, senza ulteriori richieste. Un amico che ne conforta un altro. «Dimmi che posso fare per aiutarti. Qualsiasi cosa.» Catherine sospirò. «Sono tanto stanca, Peter. Potresti accompagnarmi alla macchina?» «Tutto qua?» «È ciò di cui ho bisogno in questo momento. Qualcuno di cui fidarmi, che mi accompagni.» Peter fece un passo indietro e le sorrise. «Allora io sono decisamente il tuo uomo.» Il quinto piano del garage dell'ospedale era deserto, e il cemento faceva risuonare i loro passi, come se fossero inseguiti dagli spettri. Se fosse stata da sola avrebbe percorso tutto il tragitto guardandosi alle spalle. Ma c'era Peter accanto a lei, e non aveva paura. Raggiunsero la Mercedes e lui attese che Catherine si mettesse al volante. Poi le chiuse la portiera e indicò la sicura. La dottoressa annuì, la premette e udì il clic confortante. «Ti chiamo più tardi», disse Falco. Mentre si allontanava con l'auto, lo guardò nello specchietto retrovisore e vide la sua mano alzata in segno di saluto. Poi imboccò la rampa e lo perse di vista. Mentre guidava verso Back Bay si ritrovò a sorridere. «Di alcuni uomini ci si può fidare.» «Sì, ma di quali? Non lo so mai.» «Non lo sai finché non arriva il momento critico. Lui è quello che ti re-
sta accanto.» Come amico o come amante, Peter era uno di quelli. Giunta in Commonwealth Avenue rallentò, imboccò la rampa del suo palazzo e premette il pulsante del telecomando. Il cancello di sicurezza si aprì rumorosamente, e la Mercedes lo oltrepassò. Catherine guardò nello specchietto e attese che si richiudesse alle sue spalle e in seguito raggiunse il suo parcheggio. La prudenza era diventata la sua seconda natura, e non dimenticava mai di seguire quei rituali. Controllò l'ascensore prima di entrarvi e sbirciò nel corridoio prima di uscire. Appena entrata nell'appartamento, chiuse tutte le serrature e l'abitazione si trasformò in una fortezza inespugnabile. Soltanto dopo aver fatto ciò poteva permettersi di rilassarsi. Si mise davanti alla finestra a sorseggiare tè freddo e a godersi la frescura dell'appartamento mentre guardava la gente camminare per strada, il sudore luccicante sulla fronte. Aveva dormito soltanto tre ore nelle ultime trentasei. Mi sono guadagnata questo momento di relax, si disse, mentre premeva il bicchiere ghiacciato sulla guancia. Mi merito di andare a letto presto e di trascorrere un weekend di ozio totale. Non avrebbe pensato a Moore. Non voleva sentirne la mancanza. Non ancora. Terminò il tè e aveva appena appoggiato il bicchiere sul bancone quando il cercapersone squillò. Una chiamata dall'ospedale era l'ultima cosa che desiderasse. Quando telefonò all'operatore del Pilgrim Hospital, non riuscì a nascondere l'irritazione. «Sono la dottoressa Cordell. Mi avete appena chiamato sul cercapersone, ma non sono reperibile questa notte. Anzi, lo spegnerò subito.» «Mi dispiace disturbarla, dottoressa Cordell, ma c'è stata una chiamata da parte del figlio di un certo Herman Gwadowski. Insiste per vederla oggi pomeriggio.» «Impossibile. Sono già a casa.» «Sì, gli ho detto che aveva il weekend di riposo, ma questo è l'ultimo giorno in cui sarà in città. Vuole vederla prima di andare dall'avvocato.» Un avvocato? Catherine si appoggiò al bancone della cucina. Dio mio, non aveva la forza di affrontare anche quello. Non ora. Non quand'era tanto stanca da riuscire appena a pensare. «Dottoressa Cordell?» «Il signor Gwadowski le ha detto quando vuole vedermi?» «Dice che l'aspetterà nel bar dell'ospedale fino alle sei.» «Grazie.» Catherine riagganciò la cornetta e fissò, assente, le piastrelle
lucenti della cucina. Le puliva sempre con tanta cura ma, per quanto si sforzasse, per quanto scrupolosamente organizzasse ogni aspetto della sua vita, non riusciva a prevedere tutti gli Ivan Gwadowski di questo mondo. Prese la borsa, le chiavi dell'auto e ancora una volta abbandonò la protezione del suo appartamento. In ascensore guardò l'orologio e si agitò quando vide che erano già le 17.45. Non sarebbe arrivata in tempo e il signor Gwadowski avrebbe pensato che non avesse voluto farsi viva. Nell'istante in cui entrò in auto, prese il telefono e chiamò l'operatore del Pilgrim. «Sono ancora la dottoressa Cordell. Devo rintracciare il signor Gwadowski e avvisarlo che ritarderò. Sa da quale numero interno stava chiamando?» «Mi lasci controllare il registro... Ecco qui. Non era un numero dell'ospedale.» «Un cellulare, allora?» Vi fu un momento di pausa. «Be', questo è strano.» «Che cosa?» «Ha chiamato dal numero che sta usando lei ora.» Catherine s'impietrì, la paura le percorse la schiena come un vento freddo. La mia auto. La telefonata è stata fatta dalla mia auto. «Dottoressa Cordell?» Fu allora che lo vide scattare come un cobra nello specchietto retrovisore. Catherine prese fiato per gridare, e i fumi del cloroformio le bruciarono in gola. Il ricevitore le cadde di mano. Jerry Sleeper lo attendeva accanto al marciapiede, fuori della zona di ritiro bagagli dell'aeroporto. Moore gettò il trolley sul sedile posteriore e chiuse rumorosamente la portiera. «L'avete trovata?» fu la prima domanda che fece al collega. «Non ancora», rispose Sleeper mentre si allontanava dal marciapiede. La sua Mercedes è scomparsa e non ci sono segni d'effrazione nell'appartamento. Qualsiasi cosa sia accaduta, è stata rapida, ed è avvenuta dentro o vicino all'auto. Peter Falco è stato l'ultimo a vederla, intorno alle diciassette e quindici, nel parcheggio dell'ospedale. Mezz'ora più tardi l'operatore del Pilgrim l'ha rintracciata sul cercapersone e ha parlato con lei al telefono. La Cordell lo ha poi richiamato dall'auto, ma la conversazione è
stata interrotta bruscamente. L'operatore afferma che è stato il figlio di Herman Gwadowski a chiedere di lei nella prima chiamata sul cercapersone.» «Conferme?» «A mezzogiorno Ivan Gwadowski si trovava su un aereo diretto in California. Non è stato lui a fare la telefonata.» Non c'era bisogno di pronunciare ad alta voce il nome dell'autore della chiamata. Entrambi lo sapevano. Moore fissò agitato la fila di luci di coda, una collana fitta di perle rosse nel buio della sera. La tiene prigioniera dalle sei del pomeriggio. Che cosa le avrà fatto in queste quattro ore? «Voglio vedere dove vive Warren Hoyt», spiegò Moore. «Siamo diretti là. Sappiamo che ha finito il turno agli Interpath Labs intorno alle sette di stamattina. Alle dieci ha chiamato il suo supervisore per dirgli che aveva un'emergenza in famiglia e si sarebbe assentato dal lavoro per almeno una settimana. Nessuno lo ha più visto da allora. Né nel suo appartamento né al laboratorio.» «E l'emergenza in famiglia?» «Non ha famiglia. La sua unica zia è morta in febbraio.» La serie di luci divenne una striscia rossa confusa. Moore batté le palpebre e voltò la faccia, in modo che Sleeper non potesse vedere le sue lacrime. Warren Hoyt viveva nel North End, un pittoresco labirinto di stradine e di edifici in mattoni rossi che lo rendevano il quartiere più antico di Boston. Era considerato sicuro, grazie agli occhi vigili della popolazione di emigrati italiani, che gestivano gran parte delle attività. Là, in una stradina in cui turisti e abitanti passeggiavano ignari, viveva un mostro. L'appartamento di Hoyt era al terzo piano di un edificio di mattoni senza ascensore. Alcune ore prima, una squadra di agenti aveva setacciato il luogo in cerca di prove; quando Thomas vi entrò e vide i pochi mobili e gli scaffali quasi vuoti, sentì di essere in una stanza già priva della sua anima e capì che non avrebbero trovato nulla, chiunque fosse Warren Hoyt. Il dottor Zucker sbucò dalla stanza da letto e, rivolto a Moore, disse: «C'è qualcosa che non va in questo luogo». «Hoyt è il nostro uomo oppure no?» «Lo ignoro.» «Che cos'abbiamo?» Thomas guardò Crowe, che li aveva accolti all'entrata.
«Il numero di scarpe, quarantuno e mezzo, corrisponde alle impronte trovate nell'appartamento della Ortiz. Abbiamo numerosi capelli sul cuscino... corti, color castano chiaro. Anche questi sembrano corrispondere. Inoltre abbiamo trovato un capello nero lungo sul pavimento del bagno. Lungo fino alle spalle.» Moore si accigliò. «Una donna è stata qui?» «Magari un'amica.» «O un'altra vittima. Qualcuna di cui non sappiamo ancora», concluse Zucker. «Ho parlato con la padrona di casa, che vive di sotto», spiegò Crowe. «Dice che ha visto Hoyt stamattina tornare dal lavoro. Non ha idea di dove sia adesso. Scommetto che sapete già cosa può avermi detto su di lui. Inquilino educato. Uomo tranquillo, non ha mai dato problemi.» Thomas fissò lo psicologo. «Che cosa intende, quando dice che qui c'è qualcosa che non va?» «Non abbiamo trovato il kit dell'assassinio. Nessuno strumento. La sua auto è parcheggiata proprio qua sotto, e nemmeno lì abbiamo scoperto nulla.» Zucker indicò con un gesto la stanza quasi vuota. «In quest'appartamento sembra non aver vissuto nessuno. Ci sono soltanto pochi mobili e un frigorifero. Nel bagno ci sono un sapone, uno spazzolino, e un rasoio. Sembra una stanza d'albergo. Un luogo per dormire e nient'altro. Non è il posto in cui alimenta le sue fantasie.» «Questa è la sua abitazione», disse Crowe. «La sua posta arriva qui. Tutti i suoi abiti sono qui.» «Ma in questo luogo manca la cosa più importante», continuò Zucker. «I suoi trofei. Non ce ne sono da nessuna parte.» Una sensazione di terrore si era insinuata nelle ossa di Moore. Zucker aveva ragione. Il Chirurgo aveva estratto un trofeo anatomico da ognuna delle vittime; li avrebbe tenuti in vista per ricordare le sue uccisioni, affinché lo tranquillizzassero tra una caccia e l'altra. «Non stiamo considerando l'intero quadro», affermò lo psicologo. Poi si rivolse a Thomas. «Devo vedere dove lavorava Warren Hoyt. Devo ispezionare il laboratorio.» Barry Frost sedette al computer e digitò il nome della paziente: NINA PEYTON. Apparve una schermata piena di dati. «Questo terminale è il suo terreno di caccia. È qui dentro che trova le sue vittime», disse Frost.
Moore fissò il monitor, sbalordito per ciò che vide. Da qualche altra parte del laboratorio ronzavano macchine, suonavano telefoni e i tecnici trattavano le file di provette piene di sangue. Là dentro, in quel mondo asettico di acciaio inossidabile e di camici bianchi, un mondo dedicato alla scienza guaritrice, il Chirurgo aveva tranquillamente cercato le sue prede. Seduto a quel terminale, poteva richiamare i nomi di tutte le donne il cui sangue o i cui fluidi corporei erano stati analizzati negli Interpath Labs. «Questo è il principale laboratorio diagnostico della città», continuò Frost. «Fai un prelievo in qualsiasi studio medico o ambulatorio di Boston e al novantanove per cento il tuo sangue verrà analizzato qui.» Proprio qui, da Warren Hoyt. «Aveva il suo indirizzo di casa», disse Moore, esaminando le informazioni su Nina Peyton. «Il nome del suo datore di lavoro. Età e stato civile...» «E la diagnosi», asserì Zucker, indicando due parole sullo schermo: VIOLENZA SESSUALE. «Questo è esattamente ciò che cerca il Chirurgo. Ciò che lo fa eccitare. Una donna emotivamente vulnerabile. Una donna marchiata dallo stupro.» Moore aveva udito una nota d'eccitazione nella voce dello psicologo. Quel gioco, quella lotta intellettuale affascinavano Zucker. Finalmente capiva le mosse del suo avversario, e l'intelligenza che le architettava. «Se ne stava qui, a maneggiare il loro sangue, scoprendo i segreti più vergognosi.» Si raddrizzò e si guardò intorno, come se vedesse il laboratorio per la prima volta. «Vi siete mai soffermati a pensare a tutte le cose che un laboratorio medico conosce di voi? A tutte le informazioni personali che gli fornite quando stendete il braccio e lasciate che vi infilino l'ago in vena? Il sangue rivela i segreti più intimi. State morendo di leucemia o di AIDS? Avete fumato una sigaretta o bevuto un bicchiere di vino nelle ultime ore? Prendete il Prozac perché siete depressi, o il Viagra perché non vi viene duro? Il nostro uomo deteneva l'essenza di quelle donne. Poteva studiare il loro sangue, toccarlo, odorarlo. E loro non sarebbero mai venute a saperlo. Non avrebbero mai scoperto che una parte del proprio corpo veniva accarezzata da un estraneo.» «Le vittime non lo conoscevano», borbottò Moore. «Non l'avevano mai incontrato.» «Ma il Chirurgo conosceva loro. E in modo molto intimo.» Gli occhi di Zucker parevano febbricitanti. «Il Chirurgo non caccia come gli altri serial killer in cui mi sono imbattuto. È unico. Rimane nascosto, poiché sceglie
la sua preda alla cieca.» Lo psicologo fissò estasiato un contenitore di provette sul bancone. «Questo laboratorio è il suo terreno di caccia. È così che le trova. Tramite il loro sangue, il loro dolore.» Quando Thomas uscì dal centro medico, l'aria notturna era più fresca, più frizzante di quanto non lo fosse stata settimane prima. Nella città di Boston, meno persone avrebbero lasciato le finestre aperte, meno donne sarebbero state vulnerabili alle aggressioni. Ma quella notte il Chirurgo non avrebbe cacciato. Quella notte si sarebbe goduto la sua ultima preda. Moore si fermò d'un tratto accanto all'auto e rimase immobile, paralizzato dalla disperazione. In quel momento Warren Hoyt avrebbe potuto allungare la mano per afferrare il bisturi. In quel momento... Udì dei passi avvicinarsi e raccolse le forze per alzare la testa, per guardare l'uomo in piedi a pochi passi da lui, nell'ombra. «L'ha presa, non è vero?» chiese Peter Falco. Moore annuì. «Dio mio. Oh, Dio mio.» Falco sollevò lo sguardo angosciato al cielo notturno. «L'ho accompagnata all'auto. Era proprio qui con me, e l'ho lasciata andare a casa. L'ho lasciata...» «Stiamo facendo di tutto per trovarla.» Era una frase fatta e, nell'istante in cui la pronunciò, Moore percepì la falsità di quelle parole. È ciò che si dice quando la situazione è disperata, quando sai che persino gli sforzi più grandi potrebbero rivelarsi vani. «Che cosa state facendo?» «Sappiamo chi è.» «Ma non sapete dove l'abbia portata.» «Ci vorrà tempo per rintracciarlo.» «Mi dica che cosa posso fare. Qualsiasi cosa.» Moore si sforzò di mantenere una voce calma, di nascondere la sua paura, il suo terrore. «So che è difficile starsene da parte e lasciar fare agli altri. Ma questo è il nostro lavoro.» «Oh, già, voi siete i professionisti! E allora che diavolo è andato storto?» Moore non aveva risposte. Agitato, Falco si avvicinò a Thomas e si portò sotto la lampada del parcheggio. La luce si proiettava sul suo volto, disfatto per la preoccupazione. «Non so che cosa sia accaduto tra voi due. Ma so che si fida di lei. Spero che ciò significhi qualcosa per lei, detective. Spero che Catherine sia qual-
cosa di più di un altro caso. Di un semplice nome sulla lista.» «Lo è», rispose Moore. I due uomini si guardarono, riconoscendo in silenzio ciò che entrambi sapevano. Ciò che entrambi sentivano. «Tengo a Catherine più di quanto lei immagini», affermò Thomas. «Anch'io», mormorò Falco. 23 «La terrà in vita per un po'», disse Zucker. «Come ha tenuto viva Nina Peyton per un giorno intero. Ora ha il controllo totale della situazione. Può prendersi tutto il tempo che vuole.» Un brivido passò lungo la schiena della Rizzoli quando rifletté sul significato di quelle parole. Pensò a quante terminazioni nervose possedeva il corpo umano e si domandò quanto dolore bisognasse patire prima che la morte s'impietosisse. Guardò in fondo alla sala conferenze e vide Moore prendersi la testa fra le mani; sembrava stesse male, aveva l'aria esausta. Era passata la mezzanotte, e le facce che vide tutt'intorno apparivano giallastre e scoraggiate. Jane era al di fuori del cerchio, le spalle curve appoggiate alla parete; la donna invisibile, cui nessuno faceva caso, cui era permesso ascoltare ma non partecipare. Relegata al lavoro amministrativo, privata dell'arma d'ordinanza, era diventata poco più di un'osservatrice in un caso che conosceva meglio di chiunque altro seduto a quel tavolo. Lo sguardo di Moore si sollevò nella sua direzione, ma sembrò andare oltre, attraverso di lei, come se non volesse vederla. Il dottor Zucker riassunse quanto appreso su Warren Hoyt. Il Chirurgo. «Sta lavorando al suo fine da molto tempo. Ora che lo ha raggiunto, ha intenzione di prolungare il piacere il più possibile.» «Allora la Cordell è sempre stata il suo obiettivo?» intervenne Frost. «Le altre vittime... erano soltanto un allenamento?» «No, anche quelle gli procuravano piacere. Lo aiutavano a tirare avanti, a sfogare la tensione sessuale mentre lavorava al suo scopo supremo. A ogni caccia l'eccitazione del predatore è più intensa quando insegue la preda più difficile. E la Cordell era probabilmente l'unica donna che non era riuscito a raggiungere con facilità. Era sempre all'erta, sempre attenta alla sicurezza. Si era barricata dietro catenacci e sistemi d'allarme, evitava le relazioni strette, usciva raramente di sera, se non per recarsi al lavoro. Era la preda più impegnativa che potesse inseguire, e quella che desiderava di
più. Il Chirurgo ha poi reso la caccia ancora più complicata facendole sapere di essere la preda. Ha usato il terrore come parte del gioco; desiderava che Catherine sentisse il suo fiato sul collo. Le altre donne erano soltanto un diversivo. La Cordell era l'obiettivo principale.» «È», disse Moore, la voce piena di rabbia. «Non è ancora morta.» La stanza piombò nel silenzio, e tutti evitarono lo sguardo di Thomas. Zucker annuì, senza perdere l'aplomb. «Grazie per avermi corretto.» «Ha letto i file riguardanti il suo background?» chiese Marquette. «Sì», rispose Zucker. «Warren era figlio unico. Adorato, almeno a quanto pare. Nato a Houston. Il padre era uno scienziato spaziale... non vi sto prendendo in giro. Sua madre discendeva da una famiglia di petrolieri. Entrambi i genitori sono morti. Warren ereditò quindi geni brillanti e il denaro di famiglia. Non esistono precedenti di comportamenti criminali nell'infanzia. Nessun arresto, nessuna multa, niente di allarmante. A eccezione dell'incidente alla facoltà di medicina, nel laboratorio d'anatomia, non ho individuato segni premonitori. Niente mi dice che era destinato a diventare un predatore. Secondo tutti quelli che lo hanno conosciuto era un ragazzo perfettamente normale. Gentile e affidabile.» «Il ragazzo della porta accanto», asserì Moore a bassa voce. «Uno qualsiasi.» Lo psicologo annuì. «Non si è mai messo in risalto, non ha mai preoccupato nessuno. Il killer più pericoloso di tutti, perché non presenta patologie o diagnosi psichiatriche. E come Ted Bundy. Intelligente, organizzato e, all'apparenza, molto efficiente. Ma presenta una stranezza: prova piacere a torturare le donne. È un individuo con cui potreste lavorare ogni giorno, senza mai sospettare che mentre vi guarda e vi sorride sta pensando a qualche modo nuovo e creativo di esporre le vostre budella.» Rabbrividendo per la voce sibilante di Zucker, la Rizzoli si guardò intorno. Quello che dice è vero. Vedo Barry Frost tutti i giorni; mi sembra un tipo a posto, felicemente sposato. Non è mai di cattivo umore. Ma non ho idea di che cosa stia realmente pensando. Frost incrociò il suo sguardo e arrossì. Zucker continuò. «Dopo l'accaduto alla facoltà di medicina, Hoyt fu costretto a ritirarsi. S'iscrisse a un corso per tecnico di laboratorio e seguì Andrew Capra a Savannah. Sembra che la loro complicità sia durata parecchi anni. Biglietti aerei e carte di credito indicano che viaggiavano spesso insieme. Grecia, Italia, Messico, dove entrambi fecero volontariato in un ambulatorio di campagna. Era un'alleanza di cacciatori. Fratelli di
sangue che condividevano le stesse fantasie violente.» «La sutura catgut», mormorò Jane. Zucker la guardò, perplesso. «Cosa?» «Nei paesi del terzo mondo usano ancora il catgut in chirurgia. È così che ha ottenuto quel materiale.» Marquette annuì. «Potrebbe aver ragione.» Ho perfettamente ragione, pensò la Rizzoli, irritata. «Quando la Cordell uccise Capra», spiegò Zucker, «distrasse la squadra di assassini perfetti. Sottrasse a Hoyt la persona cui si sentiva più legato; ed è per questo che divenne il suo scopo ultimo. La sua vittima principale.» «Se Hoyt era in casa quando Capra morì, perché non l'ha uccisa allora?» chiese Marquette. «Non ne ho idea. Molte cose accadute a Savannah, le sa soltanto Warren Hoyt. Ciò che sappiamo noi è che si trasferì a Boston due anni fa, subito dopo Catherine Cordell. Dopo un anno, Diana Sterling fu trovata morta.» Alla fine Moore si decise a parlare, la voce afflitta. «Come facciamo a scovarlo?» «Si potrebbe tenere l'appartamento sotto sorveglianza, ma non penso vi tornerà presto. Non è la sua tana. Non è il luogo in cui si abbandona alle sue fantasie.» Lo psicologo si appoggiò allo schienale della sedia, lo sguardo assente, mentre cercava di esprimere ciò che sapeva su Warren Hoyt con parole e immagini. «La sua tana è un posto ben distinto dalla sua vita quotidiana. Un luogo in cui si ritira nell'anonimato, possibilmente distante dal suo appartamento. Potrebbe non averlo affittato col suo vero nome.» «Se affitti una casa devi pagarla», commentò Frost. «Dobbiamo seguire il denaro.» Zucker annuì. «Saprete che si tratta del suo covo quando lo troverete, poiché vi saranno esposti tutti i suoi trofei. I souvenir che ricava dagli assassinii. E inoltre possibile che sia adibito a prigione per le vittime. Una sorta di camera di tortura. Un luogo in cui la privacy è assicurata, dove sa di non poter essere interrotto. Un edificio isolato. Oppure un appartamento dotato d'isolamento acustico.» In modo che nessuno possa udire la Cordell gridare, pensò la Rizzoli. «In quel luogo può trasformarsi nella creatura che è in realtà. Può rilassarsi e abbandonare ogni inibizione. Non ha mai lasciato sperma sulle scene del delitto, il che mi dice che è in grado di posticipare la gratificazione
sessuale finché non si trova in un posto sicuro. Il covo è quel posto. Probabilmente vi si reca di tanto in tanto, per riassaporare il brivido dell'uccisione. Per farsi coraggio tra una vittima e l'altra.» Zucker si guardò intorno. «È là che ha portato Catherine Cordell.» I greci lo chiamano dere, termine che si riferisce alla parte anteriore del collo, o alla gola, ed è la parte più bella, più vulnerabile dell'anatomia femminile. Nella gola pulsa la vita e il respiro, e sotto la pelle lattea di Ifigenia, le vene blu devono aver palpitato sotto la punta del pugnale di suo padre. Mentre Ifigenia giaceva sdraiata sull'altare, Agamennone si fermò ad ammirare le linee delicate del collo della figlia? Oppure ne studiò la conformazione per scegliere il punto più adatto in cui affondare la lama? Benché addolorato per quel sacrificio, nell'istante in cui il coltello penetrò, non sentì per caso un lieve fremito nella regione lombare, un brivido di piacere sessuale mentre affondava la lama nella sua carne? Nemmeno gli antichi greci, con le loro orribili storie di prole divorata e di figli che si accoppiano con le madri, menzionano simili dettagli di depravazione. Non ne hanno bisogno; è una di quelle verità segrete che tutti comprendono senza l'ausilio delle parole. Di quei guerrieri dall'espressione impassibile e dai cuori insensibili alle urla di una fanciulla, di quelli che guardarono Ifigenia mentre veniva spogliata, mentre il suo collo di cigno veniva esposto al pugnale, quanti di quei soldati sentirono l'inaspettato calore del piacere invadere loro l'inguine? Quanti si sentirono indurire l'uccello? Quanti avrebbero guardato ancora la gola di una donna senza sentire il desiderio di tagliarla? La sua gola è pallida come presumo fosse quella di Ifigenia. Si è protetta dal sole, come dovrebbe fare ogni rossa, e solo poche lentiggini sciupano la sua pelle semitrasparente di alabastro. In questi due anni si è mantenuta immacolata per me. Lo apprezzo molto. Ho atteso pazientemente che riacquistasse conoscenza. So che ora è sveglia e consapevole della mia presenza, perché il polso è accelerato. Le tocco la gola, il solco appena al di sopra dello sterno, e lei fa un respiro brusco. Non rilascia l'aria mentre le accarezzo il lato del collo, tracciando il percorso dell'arteria carotide. Le vene pulsano e la pelle si solleva ritmicamente. Sento il velo lucente del suo sudore sotto il mio dito. Le è calato come nebbia sulla pelle, e il viso risplende del suo lucore. Quando rag-
giungo l'angolo della mandibola, lei rilascia finalmente il fiato; l'aria fuoriesce con una sorta di piagnucolio, soffocato dal nastro isolante appiccicato sulla bocca. Non è da Catherine frignare. Le altre erano stupide gazzelle, ma Catherine è una tigre, l'unica che si sia mai ribellata e abbia ferito. Apre gli occhi e mi guarda. Vedo che capisce. Ho finalmente vinto. Lei, la più degna di tutte, è stata conquistata. Dispongo i miei strumenti, che emettono un piacevole tintinnio metallico mentre li appoggio sul vassoio accanto al letto. Sento che mi sta guardando, e so che i suoi occhi sono attratti dal riflesso crudele dell'acciaio inossidabile. Lei sa a cosa serve ognuno di essi, dal momento che ha certamente usato gli stessi strumenti più volte. Il divaricatore per separare i margini di un'incisione. La pinza emostatica per chiudere i tessuti e i vasi sanguigni. E il bisturi... Be', entrambi sappiamo per cosa si usa il bisturi. Appoggio il vassoio accanto alla sua testa, in modo che possa vedere, e contemplare, ciò che accadrà dopo. Non devo dire una parola; lo scintillio degli strumenti parla da solo. Le tocco il ventre nudo e i muscoli addominali si contraggono. E un ventre vergine, senza cicatrici che ne deturpino la superficie piatta. La lama le taglierà la pelle come fosse burro. Afferro il bisturi e le premo la punta sull'addome. Lei trasale e spalanca gli occhi. Una volta vidi una foto di una zebra nel momento in cui un leone affondava i denti nella sua gola: erano rovesciati all'indietro per il terrore della morte. È un'immagine che non scorderò mai. Quello è lo sguardo che vedo ora negli occhi di Catherine. Oddio, oddio, oddio. L'aria le entrava e usciva rumorosamente dai polmoni, mentre Catherine sentiva la punta del bisturi pungerle la pelle. Madida di sudore, chiuse gli occhi, temendo il dolore che avrebbe sentito di lì a poco. La sua gola emise un singhiozzo, un grido affinché il cielo le concedesse pietà, una morte rapida, ma non quella tortura. Non l'incisione della carne. Poi il bisturi si sollevò. Lei aprì gli occhi e lo guardò in faccia. Tanto normale, tanto insignificante. Un uomo che poteva aver visto una decina di volte senza averne mai ricordato il volto. Eppure lui la conosceva. Era rimasto ai margini del suo mondo, l'aveva messa al centro luminoso del suo universo, mentre le girava intorno, invisibile nell'oscurità.
E io non ho mai saputo che fosse lì. L'uomo ripose il bisturi sul vassoio. E sorridendo le sussurrò: «Non ancora». Soltanto quando uscì dalla stanza, Catherine fu certa del fatto che il suo tormento era stato posposto, e poté sospirare di sollievo. Dunque era quello il suo gioco. Prolungare il terrore, prolungare il piacere. L'avrebbe tenuta in vita, le avrebbe dato il tempo di contemplare ciò che sarebbe accaduto. Ogni minuto in più che mi lascia in vita è un minuto in più per tentare la fuga. L'effetto del cloroformio era svanito e lei era completamente sveglia, la sua mente alimentata dalla potente energia del panico. Era stesa a braccia e gambe aperte su un letto d'acciaio. Era stata spogliata dei suoi abiti; polsi e caviglie erano legati al letto con nastro isolante. Sebbene avesse tentato di divincolarsi sino a far tremare i muscoli dalla stanchezza, non riuscì a liberarsi. Due anni prima, a Savannah, Capra aveva usato corde di nylon per legarle i polsi, e lei era riuscita a sfilare una mano; il Chirurgo non avrebbe ripetuto quell'errore. Fradicia di sudore, troppo stanca per continuare a lottare, si concentrò su ciò che la circondava. Dal soffitto sopra il letto pendeva un'unica lampadina. L'odore di terra e di pietra umida le rivelò che si trovava in una cantina e, voltando la testa, intravide, poco oltre il cerchio di luce, le fondamenta di pietra. Udì dei passi scricchiolare sopra la testa, e un rumore di sedie. Un pavimento di legno. Una casa vecchia. Al piano di sopra si accese un televisore. Non ricordava come fosse giunta in quella stanza o quanto fosse durato il viaggio. Poteva essere a chilometri e chilometri da Boston, in un luogo in cui nessuno si sarebbe sognato di guardare. Il luccichio del vassoio catturò la sua attenzione. Osservò la fila di strumenti, disposti accuratamente per l'operazione che sarebbe seguita. Innumerevoli volte aveva impugnato quei ferri, e li aveva considerati strumenti di guarigione. Con bisturi e pinze emostatiche aveva asportato cancri, estratto proiettili, fermato emorragie arteriose e drenato cavità toraciche sommerse di sangue. Ora fissava gli arnesi che aveva utilizzato per salvare vite umane e vedeva gli strumenti della sua morte. Il Chirurgo li aveva disposti accanto al letto, in modo che lei li potesse studiare, che potesse contemplare la lama affilata del bisturi, i denti d'acciaio della pinza emostatica.
Non farti prendere dal panico. Pensa. Pensa. Catherine chiuse gli occhi. La paura era come una creatura vivente che le avvolgeva i tentacoli intorno alla gola. Li hai battuti una volta. Puoi farlo ancora. Sentì una goccia di sudore scivolarle lungo il seno, sul materasso ormai bagnato. Esisteva una via di fuga. Doveva esserci un modo per difendersi. L'alternativa era troppo orribile da considerare. Aprì gli occhi, fissò la lampadina sopra di sé e concentrò la sua mente acuta sulla mossa successiva. Ricordò ciò che le aveva detto Moore, ossia che il Chirurgo si nutriva di terrore. Aggrediva le donne vulnerabili, le vittime. Le donne di fronte alle quali si sentiva superiore. Non mi ucciderà finché non mi avrà piegata. Fece un respiro profondo, avendo finalmente capito come agire. Combatti la paura. Sfoga la rabbia. Mostragli che, qualsiasi cosa ti faccia, non potrai essere sconfitta. Nemmeno nella morte. 24 La Rizzoli si svegliò di scatto, e sentì una fitta lancinante al collo. Signore, fa' che non sia un altro stiramento... pensò mentre sollevava lentamente la testa e batteva le palpebre, infastidita dai raggi di sole che entravano dalla finestra dell'ufficio. Le altre postazioni di lavoro del suo gruppo erano deserte; era l'unica seduta a una scrivania. Verso le sei aveva appoggiato la testa per la stanchezza, pensando di fare solo un breve sonnellino. Ora erano le nove e mezzo e la pila di tabulati che aveva utilizzato come cuscino era umida di bava. Guardò la postazione di Frost e vide la sua giacca appesa allo schienale. Sulla scrivania di Crowe c'era un sacchetto di ciambelle. Dunque il resto della squadra era arrivato mentre lei stava dormendo e l'aveva di certo vista con la bocca aperta e il filo di saliva. Doveva esser stata uno spettacolo molto divertente. Si alzò e si stiracchiò, tentando di lenire il dolore al collo, ma capì che era inutile. Sarebbe stata costretta a tenere la testa piegata di lato per tutto il giorno. «Ehi, Rizzoli. Reduce dal primo sonno?» Jane si voltò e vide un detective di un'altra squadra che le sorrideva al di là del divisorio.
«Non si vede?» mugugnò. «Dove sono finiti tutti?» «La tua squadra è in riunione dalle otto.» «Che cosa?» «Credo che abbiano appena fatto una pausa.» «Nessuno si è disturbato a dirmelo.» La Rizzoli si avviò verso la sala, le ultime nebbie del sonno dissipate dalla rabbia. Oh, sapeva bene che cosa stava accadendo. Era così che ti emarginavano, senza attacchi diretti, ma a forza di umiliazioni. Ti escludevano dalle riunioni, dal giro, ti lasciavano senza indizi in mano. Entrò nella sala riunioni. L'unico presente era Barry Frost, che stava radunando i suoi documenti sul tavolo. Il poliziotto sollevò lo sguardo e, quando la vide, arrossì lievemente. «Grazie per avermi avvisata della riunione», disse Jane. «Sembravi esausta. Pensavo di ragguagliarti più tardi.» «Quando, la prossima settimana?» Frost abbassò la testa per evitare il suo sguardo. Avevano lavorato come partner abbastanza a lungo perché la Rizzoli sapesse cogliere il senso di colpa sul suo volto. «Quindi mi avete tagliato fuori. E stata una decisione di Marquette?» Frost annuì, triste. «Io mi sono opposto. Gli ho detto che avevamo bisogno di te. Ma ha detto che con la sparatoria e tutto...» «Che cos'ha detto?» Riluttante, Frost terminò la frase. «Che non eri più un elemento prezioso per l'unità.» Non era più un elemento prezioso. Traduzione: la sua carriera era finita. Barry uscì dalla stanza. Colta da vertigini improvvise a causa della carenza di sonno e di cibo, Jane si lasciò cadere su una sedia e rimase immobile, a fissare il tavolo vuoto. Per un istante si rivide all'età di nove anni, la sorella disprezzata, smaniosa di essere accettata dai maschi come uno di loro. Ma i maschi l'avevano rifiutata, come sempre. Sapeva che la morte di Pacheco non era la vera ragione della sua emarginazione. Sbagli del genere non compromettevano la carriera di altri poliziotti. Ma se eri una donna, se eri migliore di chiunque altro e avevi il coraggio di farlo presente, un singolo errore come quello di Pacheco era sufficiente a rovinarti. Quando tornò alla scrivania, trovò l'ufficio deserto. La giacca di Frost era scomparsa, e anche il sacchetto di ciambelle di Crowe. Anche lei avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto raccogliere le sue cose subito, dal momento che per lei non c'era più futuro in quel distretto.
Aprì il cassetto per prendere la borsa e si bloccò. Una foto dell'autopsia di Elena Ortiz la fissava da un caos di documenti. Anch'io sono una sua vittima, pensò. Per quanto profondo fosse il risentimento verso i colleghi, non si era scordata che il vero responsabile della sua rovina fosse il Chirurgo. Era lui ad averla umiliata. Jane richiuse bruscamente il cassetto. Non sono pronta ad arrendermi. Non ancora. Sbirciò sulla scrivania di Frost e vide la pigna di documenti che aveva raccolto dal tavolo della sala riunioni. Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno la osservasse, ma l'unico detective presente era seduto a un'altra postazione, all'estremità opposta della sala. Afferrò i documenti di Frost, li portò alla sua scrivania, e si mise a leggere. Si trattava della rendicontazione finanziaria di Warren Hoyt. Il caso si era ridotto a una caccia ai documenti. Se avessero seguito i soldi, avrebbero trovato Hoyt. Vide estratti conto di carte di credito, assegni bancari, depositi e prelievi di grosse cifre. I genitori di Hoyt gli avevano lasciato una fortuna e lui si poteva permettere di andare tutti gli inverni nei Caraibi e in Messico. La Rizzoli non trovò traccia di altre residenze, nessun assegno per affitti, nessun pagamento mensile. Naturalmente. Non era stupido. Se aveva un covo segreto, lo pagava in contanti. Contanti. Non si può sempre prevedere quando si rimarrà a corto di soldi. I prelievi dal bancomat erano spesso transazioni non programmate, spontanee. Esaminò gli estratti conto della banca, alla ricerca dei prelievi bancomat, e li trascrisse su un foglio di carta. Gran parte risultava effettuata in località vicine alla casa di Warren o al centro medico, aree all'interno del suo ambito normale di attività. Jane era, invece, alla ricerca dell'insolito, delle transazioni che non rientravano nello schema. Ne trovò due. Una fatta in una banca a Nashua, nel New Hampshire, il 26 giugno. L'altra a uno sportello bancomat di Hobbs' FoodMart a Lithia, nel Massachusetts, il 13 maggio. La Rizzoli si appoggiò allo schienale, domandandosi se Moore avesse già verificato quelle due transazioni. Con tanti altri dettagli da seguire e tutti i colloqui coi colleghi di laboratorio di Hoyt, un paio di prelievi avrebbero potuto non essere in cima alla sua lista di priorità. Udì alcuni passi e sollevò lo sguardo, nel timore che qualcuno la sco-
prisse mentre leggeva i documenti di Frost, ma era soltanto un impiegato del laboratorio. Questi le sorrise, appoggiò una cartellina sulla scrivania di Moore e uscì. Dopo un attimo, Jane si alzò e andò alla scrivania di Thomas per sbirciarvi dentro. La prima pagina era un rapporto della Capelli e Fibre: l'analisi di capelli color castano chiaro trovati sul cuscino di Hoyt. Trichorrhexis invaginata, compatibile col capello recuperato sui margini della ferita della Ortiz. Bingo. Era la conferma che Hoyt era proprio il loro uomo. Girò pagina. Anche il secondo era un rapporto della Capelli e Fibre. Su un capello trovato sul pavimento del bagno di Warren. Ma non aveva senso. Non c'entrava nulla. Chiuse la cartellina e si avviò verso il laboratorio. Erin Volchko era seduta di fronte al prisma della Gamma-Tech, a visionare una serie di microfotografie. Quando la Rizzoli entrò nel laboratorio, Erin sollevò una foto e disse: «Rapida! Di cosa si tratta?» Jane corrugò la fronte al vedere l'immagine in bianco e nero di una fascia squamosa. «È orribile.» «Già, ma che cos'è?» «Probabilmente qualcosa come una zampa di scarafaggio.» «E un pelo di cervo. Forte, vero? Non assomiglia affatto a un pelo umano.» «Parlando di peli umani...» La Rizzoli le porse il rapporto che aveva appena letto. «Puoi dirmi qualcosa di più su questo?» «I reperti dell'appartamento di Warren Hoyt?» «Sì.» «I capelli corti e chiari trovati sul suo cuscino presentano Trichorrhexis invaginata. Sembra essere proprio il vostro uomo.» «No, l'altro capello. Quello nero trovato sul pavimento del bagno.» «Lascia che ti mostri la foto.» Erin prese un pacchetto di microfoto, le aprì come fossero carte da gioco e ne estrasse una dal mazzo. «Questo è il capello trovato in bagno. Vedi gli indici numerici?» Jane guardò il foglio con la scrittura nitida di Erin. A00-B00-C05-D33. «Sì. Qualsiasi cosa siano.» «I primi due codici, A00 e B00, indicano che il capello è liscio e nero. Al microscopio composto si possono osservare ulteriori dettagli.» Erin porse la foto alla Rizzoli. «Guarda il fusto. Si vede dalla parte spessa. Nota
la forma della sezione trasversale, è quasi rotonda.» «E significa?» «È una delle caratteristiche che ci aiutano a distinguere le razze. Il fusto di un soggetto africano, per esempio, è quasi piatto, come un nastro. Ora guarda la pigmentazione, e noterai che è molto densa. Vedi la cuticola spessa? Tutto ciò porta alla stessa conclusione. Questo capello è caratteristico di un lignaggio asiatico orientale.» «Che cosa intendi per asiatico orientale?» «Cinese o giapponese. Il subcontinente indiano. Probabilmente nativo americano.» «Non si può avere conferma? C'è abbastanza radice per un test del DNA?» «Sfortunatamente no. Sembra esser stato tagliato, non perso naturalmente. Sul capello non c'è tessuto follicolare. Ma sono certa che non sia di una persona di discendenza europea o africana.» Una donna asiatica, pensò Jane mentre tornava alla Omicidi. Che cosa c'entra col caso? Nel corridoio dalle pareti di vetro che conduceva all'ala nord, si fermò e batté le palpebre nella luce del sole mentre osservava dall'alto il quartiere di Roxbury. Esisteva una vittima di cui non avevano ancora trovato il corpo? Hoyt le aveva tagliato i capelli come souvenir, come aveva fatto con Catherine Cordell? Jane si voltò e fu sorpresa di vedere Moore che le passava accanto, diretto nell'ala sud. Avrebbe potuto non accorgersi di lei, se non l'avesse chiamato. Il detective si fermò e, riluttante, si voltò nella sua direzione. «Quel capello lungo e nero sul pavimento di Hoyt», disse la Rizzoli. «Il laboratorio sostiene che è asiatico orientale. Potrebbe essere di una vittima non ancora individuata.» «Abbiamo valutato tale possibilità.» «Quando?» «Stamattina, alla riunione.» «Dannazione, Moore! Non tagliatemi fuori!» Il freddo silenzio di Thomas servì ad amplificare la violenza del suo scoppio d'ira. «Anch'io lo voglio», continuò Jane. Lentamente, inesorabilmente, gli si avvicinò, a pochi centimetri dalla faccia. «Voglio prendere quell'uomo quanto lo vuoi tu. Fatemi rientrare.» «La decisione non è mia, è di Marquette.» Moore si voltò per andarsene.
«Moore?» Restio, il detective si fermò. «Non posso sopportare l'ostilità che c'è fra noi.» «Non è il momento di parlarne.» «Ascolta, mi spiace. Ero incazzata con te per Pacheco. So che è una scusa pessima per ciò che ho fatto. Per aver detto a Marquette di te e della Cordell.» Moore si voltò verso di lei. «Perché l'hai fatto?» «Te l'ho appena detto. Ero infuriata.» «No, non si tratta soltanto di Pacheco. È per Catherine, vero? L'hai disprezzata fin dal primo giorno che l'hai vista. Non potevi sopportare il fatto che...» «Che ti stavi innamorando di lei?» Vi fu un lungo momento di silenzio. Quando la Rizzoli parlò, non riuscì a nascondere una nota di sarcasmo nella voce. «Sai, Moore, malgrado tutti i tuoi nobili discorsi sul rispetto della mente femminile, sull'ammirazione delle capacità femminili, perdi la testa per le stesse cose che fanno impazzire gli altri uomini. Tette e culo.» Thomas divenne bianco di rabbia. «Allora la odi per il suo aspetto. E sei incazzata con me per aver ceduto alla sua bellezza. Ma sai una cosa, Rizzoli? Quale uomo s'innamorerà mai di te se tu stessa ti disprezzi?» Jane lo guardò, amareggiata, allontanarsi nel corridoio. Soltanto poche settimane prima aveva pensato che Moore sarebbe stato l'ultima persona sulla terra capace di dire qualcosa di tanto crudele. Le sue parole suonarono più pungenti sulle sue labbra che su quelle di qualsiasi altro uomo. Jane si rifiutava di considerare che potesse aver detto la verità. Di sotto, mentre attraversava l'ingresso, si fermò davanti al memoriale dei poliziotti caduti del Boston Police Department. I nomi dei defunti erano incisi sul muro in ordine cronologico, a partire da Ezekiel Hodson nel 1854. Sul pavimento di granito vi era un vaso di fiori, in segno di omaggio. Fatti uccidere in servizio e sarai un eroe. Com'era semplice, eterno. Jane non sapeva nulla degli uomini immortalati lì per sempre; alcuni avrebbero anche potuto essere corrotti, ma la morte ne aveva reso intoccabili il nome e la reputazione. Là, davanti a quel muro, Jane provò quasi una sensazione d'invidia. Uscì dall'edificio e si avviò verso la macchina. Frugando nel vano portaoggetti trovò una cartina del New England. La spiegò sul sedile e individuò le sue due alternative: Nashua, New Hampshire, e Lithia, nel Massa-
chusetts occidentale. Warren Hoyt aveva usato un bancomat in entrambe le località. Era soltanto questione d'indovinare quella giusta, proprio come lanciare una moneta in aria. Avviò l'auto. Erano le dieci e mezzo e raggiunse la città di Lithia soltanto a mezzogiorno. Acqua. Era tutto ciò cui riusciva a pensare Catherine, al gusto fresco e pulito di quel liquido nella sua bocca. Pensò a tutte le fontane da cui aveva bevuto, alle oasi di acciaio inossidabile nei corridoi dell'ospedale, da cui sgorgava acqua che le bagnava le labbra e il mento. Pensò al ghiaccio frantumato e al modo in cui i pazienti operati allungavano il collo e aprivano la bocca impastata come uccellini affamati, per riceverne pochi preziosi frammenti. E pensò a Nina Peyton, legata come lei in una stanza, certa della fine imminente, e tuttavia capace di pensare soltanto alla sua sete terribile. È così che ci tortura. Che ci avvilisce. Vuole che lo imploriamo per un goccio d'acqua, che lo supplichiamo di lasciarci vivere. Desidera il controllo completo. Vuole che riconosciamo il suo potere. Per tutta la notte era rimasta a fissare la lampadina solitaria. Più volte si era assopita, per poi risvegliarsi spaventata, lo stomaco sconvolto dal panico. Ma il terrore non può essere sostenuto a lungo, e dopo numerose ore trascorse nel vano tentativo di liberarsi, il suo corpo sembrò cadere in uno stato di animazione sospesa. Catherine giaceva in quella sorta d'incertezza angosciosa tra la negazione e la realtà, la mente incredibilmente concentrata sul suo desiderio d'acqua. Poi udì alcuni passi. Una porta si aprì. E lei si svegliò completamente. D'un tratto il cuore iniziò a batterle come un animale che cercava di uscirle dal petto. Respirò profondamente l'aria umida e fredda della cantina, quell'aria che sapeva di terra e di pietra bagnata. I suoi respiri divennero singhiozzi accelerati a mano a mano che i passi scendevano le scale e poi lo vide, chino sopra di lei. La luce della lampadina proiettava ombre sul suo volto, trasformandolo in un teschio sorridente con due buchi per occhi. «Vuoi da bere, non è vero?» chiese. Una voce tanto serena. Una voce tanto normale. La Cordell non poteva parlare per via del nastro sulla bocca, ma lui poté vedere la risposta nei suoi occhi febbricitanti. «Guarda cos'ho, Catherine.» Warren sollevò un bicchiere e lei udì il tin-
tinnio delizioso di cubetti di ghiaccio, e vide perle d'acqua luminose stillare dalla superficie fredda del recipiente. «Ne vuoi un sorso?» La donna annuì, lo sguardo fisso sul bicchiere, non su di lui. La sete la stava facendo impazzire, ma la sua mente era già al lavoro, oltre quel primo glorioso sorso d'acqua. Stava pensando alla mossa successiva, stava valutando le possibilità. Il Chirurgo agitò l'acqua, e il ghiaccio tintinnò come un campanello contro il bicchiere. «Soltanto se ti comporti bene.» Lo farò, gli promisero i suoi occhi. Sentì un gran dolore quando le strappò il nastro adesivo dalla bocca. Catherine rimase completamente passiva, e gli permise d'infilarle una cannuccia in bocca. Bevve un avido sorso, ma era soltanto una goccia paragonata all'arsura che sentiva in gola. Bevve un altro sorso e immediatamente cominciò a tossire. L'acqua preziosa le scivolò fuori dalla bocca. «Non posso... non posso bere sdraiata», ansimò. «Per favore, lascia che mi metta a sedere. Per favore.» Warren appoggiò il bicchiere e la studiò, i suoi occhi come pozzi neri senza fondo. Vide una donna sull'orlo dello svenimento; una donna che doveva essere rianimata se voleva assaporare tutto il piacere del suo terrore. L'uomo iniziò a tagliare il nastro che le teneva legato il polso destro al letto. A Catherine batteva forte il cuore e pensò che, sicuramente, il Chirurgo l'avrebbe visto pulsare contro lo sterno. La mano destra era ormai libera e giaceva debole sul materasso. Non si mosse, non contrasse nessun muscolo. Il silenzio sembrò durare un'eternità. Forza. Taglia, liberami anche la sinistra. Taglia! Si rese conto troppo tardi che stava trattenendo il fiato e che lui se n'era accorto. Nella disperazione udì il rumore di un nuovo pezzo di nastro staccarsi dal rotolo. Ora o mai più. Afferrò alla cieca il vassoio degli strumenti, e il bicchiere d'acqua finì per terra, i cubetti di ghiaccio si sparsero rumorosamente sul pavimento. Le sue dita si chiusero intorno all'acciaio. Il bisturi! Non appena Warren le si lanciò addosso, Catherine agitò il bisturi e sentì il contatto con la carne. Il Chirurgo schizzò via, urlante, tenendosi la mano.
Lei si voltò, e tagliò il nastro del polso sinistro. Un'altra mano libera! Si mise seduta, ma la sua vista si oscurò all'improvviso. Un giorno senz'acqua l'aveva indebolita, e cercò di rimettere a fuoco le immagini, di dirigere la lama al nastro che le imprigionava la caviglia destra. Tagliò alla cieca e sentì un dolore bruciante sulla pelle. Un calcio forte e la caviglia fu libera. Subito si accinse a tagliare l'ultimo vincolo. Il pesante divaricatore la colpì alla tempia, con tale violenza che vide le stelle. Il secondo colpo la prese sulla guancia, e la Cordell udì l'osso fratturarsi. Non ricordò di aver lasciato cadere il bisturi. Quando riprese conoscenza, la faccia le pulsava e non vedeva bene dall'occhio destro. Tentò di muovere gli arti e scoprì che polsi e caviglie erano ancora una volta legati al telaio del letto. Ma non le aveva ancora tappato la bocca; non l'aveva ancora zittita. Era in piedi accanto a lei. Alcune macchie di sangue gli imbrattavano la camicia. Il suo sangue, pensò con uno spietato senso di soddisfazione. La sua preda si era ribellata e lo aveva ferito. Non sono facile da sopraffare. Lui si nutre di paura; io non gliene dimostrerò. Il Chirurgo afferrò un bisturi dal vassoio e le si avvicinò. Benché il cuore le martellasse nel petto, Catherine rimase perfettamente immobile, lo sguardo fisso su di lui con aria di provocazione, di sfida. Sapeva che la morte sarebbe stata inevitabile, e con l'accettazione venne la liberazione. Il coraggio del condannato. Per due anni era rimasta rannicchiata come un animale ferito nella tana. Per due anni aveva lasciato che il fantasma di Andrew Capra controllasse la sua vita. Ora non più. Forza, squartami. Ma non vìncerai. Non mi vedrai morire da sconfitta. L'uomo le appoggiò la lama sull'addome. Involontariamente i muscoli si contrassero. Ma lui stava aspettando di vedere il terrore sul suo volto. Catherine gli mostrò soltanto disprezzo. «Non sei capace di farlo senza Andrew, non è vero?» sibilò. «Non ti si rizza nemmeno. Era Andrew che doveva fottere. Tutto quello che sapevi fare era guardarlo.» Warren premette la lama, pungendole la pelle. Anche nel dolore, quando sgorgò la prima goccia di sangue, Catherine tenne gli occhi fissi nei suoi, senza mostrargli paura, negandogli ogni soddisfazione. «Non sei nemmeno capace di farti una donna, non è vero? No, doveva pensarci il tuo amico Andrew. E anche lui era un perdente.» Il bisturi esitò. Si sollevò. Lo vide tremolare nella luce fioca.
Andrew. La chiave è Andrew, l'uomo che venera. Il suo dio. «Un perdente. Andrew era un perdente», ripeté la Cordell. «Sai perché è venuto da me quella sera, vero? Per implorarmi.» «No.» La sua voce era poco più di un sussurro. «Mi chiese di non licenziarlo. Mi pregò di non farlo.» Catherine si mise a ridere emettendo un suono aspro e irritante in quel cupo luogo di morte. «Era pietoso. Quello era Andrew, il tuo eroe. Mi supplicava di aiutarlo.» La mano di Warren si strinse intorno all'impugnatura del bisturi. La lama si abbassò ancora sul suo ventre, e sangue fresco le colò lungo un fianco. Selvaggiamente, Catherine soppresse l'istinto di trasalire, di gridare. Al contrario continuò a parlare, la voce forte e sicura come se fosse lei a tenere il bisturi. «Mi disse di te. Questo non lo sapevi, vero? Mi confidò che non riuscivi nemmeno a parlare con una donna, che eri un gran codardo. Lui era costretto a trovarle al posto tuo.» «Bugiarda.» «Per lui non eri niente. Soltanto un parassita. Un verme.» «Bugiarda.» La lama affondò nella sua pelle e, sebbene Catherine si sforzasse di resistere, un singhiozzo le sfuggì dalla gola. Non vincerai, bastardo. Perché non ho più paura di te. Non ho paura di niente. La donna lo fissò, negli occhi l'espressione di sfida del dannato, mentre il Chirurgo praticava l'incisione successiva. 25 Jane Rizzoli stava osservando uno scaffale di dolci e si domandò quante delle scatole fossero infestate da pseudococchi. Hobbs' FoodMart era il genere di drogheria buia e piena di muffa, la classica attività a gestione familiare, se per famiglia s'intende una coppia di vecchi bislacchi che venderebbero latte avariato ai bambini che vanno a scuola. Il proprietario era un certo Dean Hobbs, un vecchio del Nord dagli occhi sospettosi, che si fermava a studiare le banconote del cliente prima di accettarle. A malincuore le porse il resto di due centesimi, poi chiuse rumorosamente il registratore di cassa. «Non tiene una registrazione di chi usa quell'aggeggio?» chiese la Rizzoli indicando il bancomat. «La banca l'ha messo lì per convenienza dei miei clienti. Io non ho nien-
te a che fare con quel coso.» «I contanti sono stati ritirati in maggio. Duecento dollari. Ho una foto dell'uomo che...» «Come ho detto alla polizia statale, era maggio. Ora siamo in agosto. Pensa che mi ricorderei un cliente di tre mesi fa?» «La polizia è stata qui?» «Stamattina, e mi ha fatto le stesse domande. Voi agenti non comunicate?» Perciò la transazione col bancomat era già stata verificata, non dal Boston Police Department, ma dalla polizia di Stato. Merda, aveva sprecato tempo prezioso. Lo sguardo del signor Hobbs si posò all'improvviso su un adolescente che stava osservando un assortimento di dolciumi. «Ehi, devi pagare la barretta di cioccolato?» «Uh... sì.» «Allora toglitela dalla tasca, capito?» Il ragazzo appoggiò la barretta sul tavolo e schizzò fuori del negozio. Dean Hobbs grugnì. «Quello lì è sempre stato un problema.» «Conosce quel ragazzo?» chiese Jane. «Conosco i suoi vecchi.» «E che cosa mi dice del resto della clientela? La maggior parte la conosce?» «Ha fatto un giro in città?» «Un giretto veloce.» «Sì, bene, un giretto veloce basta e avanza per visitare Lithia. Milleduecento anime. Non c'è un granché da vedere.» Jane estrasse la foto di Warren Hoyt. Era il meglio che erano riusciti a recuperare, una foto della patente di guida, vecchia di due anni. L'uomo guardava fisso l'obiettivo, il viso magro, i capelli corti e un sorriso stranamente comune. Dean Hobbs l'aveva già vista, ma lei gliela mostrò ugualmente, per scrupolo. «Si chiama Warren Hoyt.» «Sì. L'ho già vista. Me l'ha mostrata la polizia di Stato.» «Lo riconosce?» «Non l'ho riconosciuto stamattina. Non lo riconosco adesso.» «Ne è sicuro?» «Lei che ne dice?» Sì, ne era sicuro. Sembrava un uomo che non cambiava mai idea su niente.
La porta si aprì e il campanello tintinnò. Nel negozio entrarono due ragazzine, bionde, le gambe lunghe e abbronzate sotto un paio di pantaloncini corti. Dean Hobbs si distrasse un attimo quando gli passarono accanto ridacchiando, mentre si dirigevano verso il fondo scuro della drogheria. «Come sono cresciute», mormorò meravigliato. «Signor Hobbs.» «Huh?» «Se vede l'uomo della foto, voglio che mi chiami immediatamente.» La Rizzoli gli porse il biglietto da visita. «Sono raggiungibile ventiquattr'ore su ventiquattro. Cercapersone o cellulare.» «Sì, sì.» Le fanciulle tornarono al bancone con in mano un pacchetto di patatine e una confezione da sei di Diet Pepsi. Stavano lì, in tutto il loro splendore di adolescenti senza reggiseno, i capezzoli appuntiti sotto le T-shirt senza maniche. Dean Hobbs si stava rifacendo gli occhi, e Jane si domandò se non si fosse già dimenticato che fosse lì. La storia della mia vita. Entra una bella ragazza e io divento invisibile. La Rizzoli uscì dal negozio e si diresse all'auto. Erano bastati pochi minuti e il sole aveva reso l'abitacolo una fornace, perciò aprì la portiera e attese che si rinfrescasse un po'. La strada principale di Lithia era deserta. Vide un distributore di benzina, un ferramenta e un bar, ma nessun abitante. Il calore aveva indotto tutti a rimanere in casa, e si udiva un gran ronzio di condizionatori lungo tutta la strada. Nemmeno nell'America delle piccole città ci si sedeva più all'aperto col ventaglio; il miracolo dell'aria condizionata aveva reso inutili le verande. Udì tintinnare la porta della drogheria e vide le due adolescenti uscire pigramente sotto il sole, le uniche creature in una città deserta. Mentre percorrevano la strada, la Rizzoli vide scostarsi le tende di una finestra. Tutti notavano tutto in una piccola città. E senza dubbio notavano le donne giovani e belle. Si sarebbero accorti della mancanza di una di loro? Richiuse l'auto e rientrò nel negozio. Il signor Hobbs era nella corsia degli ortaggi, e stava astutamente seppellendo i cespi di lattuga fresca in fondo al frigorifero, e spostando quelli più avvizziti nella parte anteriore. «Signor Hobbs?» L'uomo si voltò. «Ancora qui?» «Ho un'altra domanda.»
«Non significa che abbia la risposta.» «In città vive qualche ragazza asiatica?» Quella era una domanda che non aveva previsto, e per un attimo la guardò perplesso. «Cosa?» «Una donna cinese o giapponese. O forse indiano-americana.» «Abbiamo un paio di famiglie nere», disse, come se potessero andar bene ugualmente. «C'è una donna che potrebbe essere scomparsa. Capelli neri, lunghi, molto dritti, oltre le spalle.» «E dice che è orientale?» «O forse indiana.» L'uomo scoppiò a ridere. «Diavolo, penso che non sia nessuno delle due.» L'attenzione di Jane crebbe improvvisamente. Hobbs era tornato ad armeggiare con la verdura e iniziò a sistemare le zucchine vecchie sopra quelle fresche. «Chi è, signor Hobbs?» «Non è orientale, questo è certo. E nemmeno indiana.» «La conosce?» «L'ho vista qui un paio di volte. Ha affittato la vecchia fattoria Sturdee per l'estate. Ragazza alta. Piuttosto bruttina.» Già, Hobbs era sicuramente il tipo da notare quel particolare. «Quando l'ha vista l'ultima volta?» Il negoziante si voltò e gridò: «Ehi, Margaret!» La porta sul retro si aprì e la signora Hobbs entrò nel negozio. «Che c'è?» «Non hai fatto una consegna alla fattoria la scorsa settimana?» «Sì.» «Quella ragazza ti sembra a posto?» «Mi ha pagato.» «L'ha più vista da allora, signora Hobbs?» le chiese Jane. «Non ho più avuto occasione.» «Dov'è questa fattoria Sturdee?» «Giù a West Fork. L'ultima località lungo la strada.» La Rizzoli guardò in basso verso il cercapersone che suonava. «Posso usare il suo telefono?» chiese a Hobbs. «Il mio cellulare si è appena scaricato.» «Non è un'interurbana, vero?»
«Boston.» L'uomo grugnì e tornò alla sua cesta di zucchine. «Il telefono pubblico è qui fuori.» Insultandolo sottovoce, Jane uscì nella calura estiva, trovò il telefono e infilò alcune monete nella fessura. «Detective Frost.» «Che vuoi?» «Rizzoli? Che cavolo ci fai nel Massachusetts occidentale?» Con grande delusione, la donna si rese conto che conosceva la sua localizzazione, grazie al numero apparso sul telefono. «Ho fatto un giretto.» «Stai ancora lavorando al caso, non è vero?» «Sto soltanto facendo qualche domanda. Niente di più.» «Merda, se...» Frost abbassò bruscamente la voce. «Se Marquette lo scopre...» «Tu non glielo dirai, vero?» «Assolutamente no. Ma ora torna qui. Ti sta cercando ed è incazzato.» «Devo ancora verificare un posto quaggiù.» «Ascoltami, Rizzoli. Lascia perdere, o ti giocherai ogni possibilità di rimanere nell'unità.» «Ma non capisci? Me la sono già giocata! Sono già fottuta!» Mentre cercava di soffocare le lacrime, si girò e guardò truce la strada vuota, dove la polvere si sollevava come cenere incandescente. «Lui è tutto ciò che ho in questo momento. Il Chirurgo. L'unica cosa che mi rimane da fare è inchiodarlo.» «La polizia di Stato ha già fatto domande laggiù. Non hanno scoperto niente.» «Lo so.» «E allora che fai lì?» «Faccio le domande che non hanno fatto loro.» E riagganciò. Un secondo dopo salì in auto e andò alla ricerca della donna dai capelli neri. 26 La fattoria Sturdee era l'unica casa alla fine di una lunga strada di terra battuta. Era una vecchia casa del Massachusetts dalle pareti bianche scrostate, con la veranda infossata a causa della catasta di legna da ardere. La Rizzoli rimase in auto per un momento, troppo stanca per uscire. E
troppo demoralizzata da ciò che era diventata la sua non più promettente carriera: sedere da sola in macchina lungo una strada sterrata, a valutare l'opportunità di salire quei gradini e di bussare alla porta. Parlare con una donna perplessa, la cui unica colpa era avere i capelli neri. Pensò a Ed Geiger, un poliziotto di Boston che un giorno aveva parcheggiato la sua auto su una strada sterrata, e aveva deciso, all'età di quarantanove anni, che quella, per lui, sarebbe stata la fine della strada. Jane era giunta sul posto prima degli altri. Mentre i suoi colleghi erano rimasti intorno all'auto dal parabrezza imbrattato di sangue, a scuotere il capo e a mormorare: «Povero Ed», Jane aveva provato poca simpatia per un poliziotto abbastanza patetico da farsi saltare le cervella. È tanto facile, pensò, d'un tratto consapevole della pistola alla sua cintura. Non l'arma di ordinanza, che aveva restituito a Marquette, ma la sua, quella che teneva in casa. Una pistola può essere la tua migliore amica o la tua peggiore nemica. Talora entrambe, contemporaneamente. Ma lei non era Ed Geiger; non era una perdente che si sarebbe puntata l'arma in bocca. Spense il motore e, riluttante, scese dall'auto per fare il suo lavoro. La Rizzoli aveva vissuto tutta la sua esistenza in città, e il silenzio di quel luogo le suonava strano. Salì le scale della veranda, e ogni scricchiolio del legno sembrò amplificarsi. Intorno alla sua testa volavano alcune mosche. Bussò alla porta e attese. Girò la maniglia, ma questa non si aprì. Bussò ancora, poi chiamò: «C'è nessuno?» Nel frattempo erano arrivate anche le zanzare. La donna si schiaffeggiò la faccia e vide una striscia di sangue scuro sul palmo della mano. Al diavolo la vita di campagna... per lo meno in città i succhiasangue camminavano su due gambe e si vedevano arrivare. Bussò ancora qualche volta alla porta, schiacciò altre zanzare, poi si arrese. In casa sembrava non esserci nessuno. Si portò sul retro, in cerca di segni d'effrazione, ma tutte le finestre erano chiuse e non mancava nessun vetro. Erano inoltre troppo alte da raggiungere senza una scala, dal momento che la casa era costruita su fondamenta rialzate di pietra. La Rizzoli distolse lo sguardo dall'abitazione e scrutò il cortile sul retro. Vi era un vecchio granaio e uno stagno ricoperto di schiuma verde. Un'anatra solitaria nuotava pigramente nell'acqua... probabilmente una reietta del suo stormo. Il giardino non era curato, si vedeva soltanto erba alta fino alle ginocchia e altre zanzare. Nugoli di zanzare.
Alcuni solchi di pneumatici conducevano al granaio. L'erba era stata schiacciata dal passaggio recente di un'auto. L'ultimo luogo in cui guardare. Camminò lungo il tracciato di erba calpestata, raggiunse il granaio ed esitò. Non aveva mandati di perquisizione, ma chi l'avrebbe saputo? Avrebbe soltanto dato una sbirciatina per assicurarsi che non vi fossero macchine all'interno. Afferrò le maniglie e aprì le pesanti porte. La luce del sole penetrò inesorabile, formando un cuneo nell'oscurità del fabbricato, e i granelli di polvere turbinarono nell'improvviso spostamento d'aria. Jane rimase immobile, a fissare l'auto parcheggiata. Era una Mercedes gialla. Una goccia di sudore gelido le colò lungo il viso. C'era silenzio; a eccezione di una mosca che ronzava nell'ombra. Un dannato silenzio. Non ricordava di aver slacciato la fondina ed estratto la pistola, ma improvvisamente eccola nella sua mano, mentre avanzava verso la macchina. Guardò nel finestrino del conducente, un'occhiata veloce per verificare che non fosse occupato. Poi, una seconda occhiata più accurata per controllare l'intero abitacolo. Il suo sguardo ricadde su un ammasso scuro sul sedile anteriore del passeggero. Una parrucca. Da dove vengono i capelli della maggior parte delle parrucche nere? Dall'Oriente. La donna dai capelli lunghi. Ricordò il video di sorveglianza dell'ospedale, che avevano esaminato il giorno in cui Nina Peyton era stata uccisa. In nessuno dei nastri avevano visto Warren Hoyt raggiungere il reparto 5 Ovest. Per la semplice ragione che era salito in corsia travestito da donna e se n'era andato con le sue vere sembianze maschili. Un urlo. La Rizzoli si voltò bruscamente verso la casa, il cuore martellante. La Cordell? Uscì dal granaio come un fulmine, attraversò correndo il prato con l'erba alta e raggiunse la porta sul retro. Chiusa. Col fiato grosso, Jane fece un passo indietro e osservò il telaio della porta. Sfasciare le porte a calci non era tanto questione di forza muscolare, quanto di adrenalina. Quale recluta e unica donna della squadra, alla Rizzoli una volta era stato ordinato di sfondare la porta dell'appartamento di
un indiziato. Era un test, e gli altri poliziotti si aspettavano, e forse addirittura speravano, che non ne sarebbe stata capace. Mentre tutti attendevano che si umiliasse davanti a loro, la Rizzoli aveva concentrato tutto il suo risentimento e la sua rabbia su quella porta. Con soli due calci l'aveva sfondata e si era fiondata nell'appartamento come una furia. Quella stessa adrenalina scorreva ora nelle sue vene mentre puntava la pistola al telaio e sparava tre colpi. Il legno si scheggiò. Allora colpì la porta con il tallone, e questa volta si aprì. Entrò e si accucciò, mentre spostava l'arma in semicerchio e voltava simultaneamente la testa. Una cucina. Le veneziane erano chiuse, ma vi era abbastanza luce per vedere che era deserta. Piatti sporchi nel lavandino. Si udiva soltanto il borbottio del frigorifero. Lui è qui? Nell'altra stanza che mi aspetta? Cristo, avrebbe dovuto indossare un giubbotto antiproiettili. Ma non aveva previsto una tale evenienza. Gocce di sudore le scivolavano in mezzo ai seni, e vennero subito assorbite dal reggiseno sportivo. Scorse un telefono sul muro. Vi si avvicinò lentamente e alzò il ricevitore. Nessun segnale. Nessuna possibilità di chiedere rinforzi. Lasciò penzolare la cornetta e si diresse verso la porta. Sbirciò nella stanza accanto, un salotto con un divano logoro e poche sedie. Dov'era Hoyt? Dove? Entrò in salotto. Fatti pochi passi trasalì di paura al vibrare del suo cercapersone. Merda. Lo spense e continuò a perlustrare la stanza. Tornata sulla soglia si bloccò, lo sguardo fisso. La porta principale era spalancata. È uscito. Jane mise piede in veranda. Mentre le zanzare le ronzavano intorno alla testa, scrutò il terreno antistante, guardò oltre la strada sterrata dov'era parcheggiata la sua auto, l'erba alta e l'inizio del bosco, col suo margine frastagliato di giovani alberelli. Troppi luoghi per potersi nascondere. Mentre lei abbatteva la porta sul retro come uno stupido toro, il Chirurgo era uscito da quella principale ed era fuggito nei boschi. La Cordell è in casa. Trovala. Tornò dentro e si affrettò a salire le scale. Nelle stanze superiori faceva caldo, non si respirava, e Jane sudò abbondantemente mentre controllava rapida le tre stanze, il bagno e gli armadi. Nessuna traccia della Cordell. Dio, là sopra si soffocava.
Ridiscese le scale, e il silenzio della casa le fece venire la pelle d'oca. A un tratto pensò che Catherine fosse morta. Che ciò che aveva udito dal granaio dovesse essere un grido di morte, l'ultimo suono emesso da una gola morente. Tornò in cucina e notò che dalla finestra sopra il lavandino si vedeva perfettamente il granaio. Mi ha visto avanzare nell'erba. Mi ha visto aprire le porte. Sapeva che avrei trovato la Mercedes. E che il divertimento era terminato. Perciò le ha dato il colpo di grazia ed è fuggito. Il frigorifero rumoreggiò un paio di volte e poi tacque. Jane udì il battito del suo cuore, simile a quello di un tamburo militare. Voltandosi, scorse la porta della cantina. L'unico luogo che non aveva controllato. La aprì e vide soltanto il buio. Oh, diavolo, non sopportava di dover passare dalla luce al buio, scendere quegli scalini verso quella che sapeva sarebbe stata una scena d'orrore. Voleva andarsene, ma sapeva che la Cordell era là sotto. La Rizzoli infilò una mano in tasca e trovò la sua mini Maglite. Guidata dal sottile fascio di luce, iniziò la discesa, un gradino alla volta. L'aria era più fresca, più umida. Si sentiva odore di sangue. Qualcosa le sfiorò la faccia e la detective balzò indietro, spaventata. Quando s'accorse che era soltanto la catenella di una lampadina che penzolava dall'alto, sospirò di sollievo. Allungò un braccio e la tirò verso il basso. Non accadde nulla. Avrebbe dovuto accontentarsi della minitorcia. Puntò il fascio di luce sui gradini, illuminando la via mentre scendeva, l'arma vicino al corpo. Dopo il caldo soffocante del piano di sopra, l'aria di laggiù sembrava quasi glaciale, al punto da gelarle il sudore sulla pelle. Giunse in fondo alla scala, e posò i piedi sulla terra battuta. Nella frescura della cantina, l'odore di sangue era ancora più pungente. L'aria era densa e umida, e c'era silenzio, troppo silenzio; la quiete della morte. Il rumore più forte era il respiro che entrava e usciva dai suoi polmoni. Tracciò un arco con la torcia, e quasi le sfuggì un grido quando fu colpita dal riflesso. Quando vide dove si rifletteva la luce, rimase immobile con la pistola puntata, il cuore martellante. Vasi di vetro. Grossi vasi da farmacia, allineati su uno scaffale. Non aveva bisogno di guardare ciò che vi galleggiava dentro per sapere che cosa
contenessero. I suoi souvenir. I vasi erano sei, ognuno etichettato con un nome. Più vittime di quante ne fossero state scoperte. L'ultimo era vuoto, ma il nome era già scritto sull'etichetta, il contenitore pronto ad accogliere il suo trofeo, quello più ambito. Catherine Cordell. Jane si voltò, fece zigzagare il sottile fascio di luce per la cantina, oltre i piloni massicci e le pietre delle fondamenta, e lo fermò bruscamente nell'angolo più lontano. Qualcosa di scuro imbrattava il muro. Sangue. Spostò la luce, e illuminò il corpo della Cordell, i polsi e le caviglie legati con nastro adesivo al telaio del letto, il sangue luccicante, fresco e umido, sul fianco. Su una coscia bianca vi era una singola impronta color cremisi, là dove il Chirurgo aveva premuto il guanto sulla carne, come per lasciare il marchio. Il vassoio di strumenti chirurgici era ancora accanto al letto, un assortimento di arnesi di tortura. Oddio. Ero quasi riuscita a salvarti... Scossa dalla rabbia, Jane spostò la luce sul torace insanguinato di Catherine e si fermò sul collo. Non vi erano ferite, nessun colpo di grazia. Il fascio di luce sobbalzò all'improvviso. No, non si era mossa la torcia, ma il petto della Cordell! Respira ancora. La Rizzoli strappò il nastro dalla bocca della donna e sentì il respiro caldo contro la sua mano. La Cordell batté le palpebre. Si! Jane si sentì pervadere da un'ondata di trionfo, ma nel contempo percepì che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato. Non c'era tempo da perdere. Doveva portare Catherine fuori di là. Tenendo la minitorcia tra i denti, le liberò, rapida, entrambe le braccia, e controllò il polso. Era debole. Ciononostante non riusciva a liberarsi dalla sensazione che qualcosa non andasse. Iniziò a tagliare il nastro intorno alla caviglia destra, poi passò alla sinistra, ma nella sua testa risuonava incessante un campanello d'allarme. E improvvisamente capì. Quell'urlo. Aveva udito l'urlo di Catherine fino al granaio. Ma aveva trovato la bocca della dottoressa chiusa col nastro. Gliel'ha tolto luì. Voleva che gridasse. Voleva che io sentissi. Una trap-
pola. Subito cercò la pistola che aveva appoggiato sul letto. Ma non la raggiunse mai. Un pezzo di legno la colpì alla tempia, e l'impatto fu tanto forte da farla cadere a faccia in giù, sul pavimento di terra battuta. Jane cercò di mettersi carponi. Il pezzo di legno si abbassò nuovamente, sibilando, e la colpì al fianco. Udì un rumore di costole rotte e rimase senza fiato. Rotolò sulla schiena, il dolore tanto intenso da non riuscire a inspirare aria nei polmoni. Si accese una luce, un lampadina solitaria, penzolante dal soffitto. L'uomo era sopra di lei, la faccia un ovale nero sotto il cono di luce. Il Chirurgo che guardava la sua nuova preda. La Rizzoli rotolò sul fianco sano e tentò di sollevarsi da terra. Warren la privò dell'appoggio sferrandole un calcio al braccio e Jane ricadde, battendo le costole rotte sul terreno. Emise un grido di dolore e non riuscì più a muoversi. Nemmeno quando lui si avvicinò, nemmeno quando vide il pezzo di legno sollevato sopra la sua testa. Lo stivale del Chirurgo le piombò sul polso, schiacciandolo a terra. La donna urlò. Poi Hoyt allungò una mano verso il vassoio degli strumenti e brandì un bisturi. No. Oddio, no. Si accucciò, lo stivale sempre premuto sul polso, e sollevò lo strumento. Poi lo abbassò, tracciando un arco spietato nell'aria verso la sua mano aperta. Jane emise un grido di dolore, mentre l'acciaio le penetrava la carne e si conficcava nel pavimento, inchiodandole la mano a terra. L'uomo prese un altro bisturi dal vassoio. Le afferrò la mano destra e tirò, allungandole il braccio, poi le fermò il polso col piede. Di nuovo sollevò lo strumento e lo abbassò violentemente, nella carne e nel terreno. Questa volta l'urlo fu più debole. Un grido di rassegnazione. Hoyt si alzò e la guardò per un istante, nel modo in cui un collezionista ammira la nuova farfalla che ha appena inchiodato nella bacheca. Raggiunse il vassoio degli strumenti e prese un terzo bisturi. Con entrambe le braccia allungate e le mani bloccate, la Rizzoli poté soltanto guardare e attendere l'atto finale. L'uomo si portò dietro di lei e si accovacciò; la prese per i capelli, alla sommità del capo, e la tirò all'indietro, costringendola ad allungare il collo. Jane lo fissava, ma il suo volto, come
prima, non era che un ovale scuro. Un buco nero, che divorava tutta la luce. La donna sentì le carotidi palpitarle nel collo a ogni battito. Il sangue era la vita stessa, che fluiva nelle arterie e nelle vene. Si domandò quanto sarebbe rimasta cosciente dopo che la lama avesse fatto il suo lavoro; si chiese se la morte sarebbe stata una dissolvenza graduale verso l'oscurità. Scorse chiaramente la sua ineluttabilità. Per tutta la vita aveva lottato, per tutta la vita aveva reagito alle sconfitte, ma questa volta era davvero finita. Aveva la gola scoperta, il collo all'indietro. Vide lo scintillio della lama e chiuse gli occhi quando le sfiorò la pelle. Signore, fa' che sia rapida. Lo udì fare un respiro preparatorio, sentì la sua presa stringersi improvvisamente sui capelli. Il colpo di pistola la scioccò. Spalancò gli occhi. Il Chirurgo era ancora accucciato sopra di lei, ma non le teneva più i capelli. Il bisturi gli era caduto di mano. Qualcosa di caldo le gocciolò sulla faccia. Sangue. Non il suo, ma quello dell'uomo. Hoyt cadde all'indietro e svanì dal suo campo visivo. Già rassegnata alla morte, la Rizzoli rimase sconcertata all'idea che sarebbe sopravvissuta. Si sforzò di assimilare una miriade di dettagli, tutti in una volta. Vide la lampadina oscillare da una corda come una luna brillante. Sul muro si mossero alcune ombre e voltando la testa intravide il braccio di Catherine Cordell ricadere fiaccamente sul materasso. La pistola le scivolò di mano e toccò terra con un tonfo sordo. In lontananza si udì il suono di una sirena. 27 Jane Rizzoli era seduta sul letto d'ospedale, a guardare con aria truce la televisione. Le bende le avvolgevano completamente le mani, tanto da sembrare guantoni da box. Al di sopra della tempia le era stata rasata un'ampia zona di capelli per suturare una lacerazione. Jane si mise a litigare col telecomando, e in un primo momento non notò che Moore la stava osservando dalla soglia. Il detective bussò. Quando la collega si girò e lo fissò, lui scorse un fugace sprazzo di vulnerabilità. Poi le abituali difese si ripristinarono, e lei tornò a essere la vecchia Rizzoli, che lo guardava, diffidente, entrare nella stanza e avvicinare una sedia al letto. «Puoi spegnere questo schifo?» blaterò frustrata, indicando il teleco-
mando con la mano bendata. «Io non riesco a premere i pulsanti. Che cosa credono che usi, il naso?» Moore prese il telecomando e premette il tasto di spegnimento. «Grazie», mormorò sbuffando. E fece una smorfia di dolore per le tre costole rotte. Una volta spento il televisore, trascorse un lungo momento di silenzio. Dalla porta aperta udirono chiamare il nome di un medico attraverso l'altoparlante e lo sferragliare di un carrello metallico spinto lungo il corridoio. «Ti curano bene, qua dentro?» chiese lui. «È a posto, per essere un ospedale di campagna. Probabilmente è meglio che in città.» Sia Catherine sia Hoyt erano stati trasferiti in aereo al Pilgrim Medical Center di Boston a causa della gravità delle lesioni, mentre Jane era stata trasportata in ambulanza in quel piccolo ospedale regionale. Nonostante la distanza notevole dalla città, quasi tutti i detective della Omicidi di Boston avevano già fatto un pellegrinaggio laggiù, per andare a trovarla. E tutti le avevano portato dei fiori. Il bouquet di rose di Moore si perdeva fra tutti i vasi disposti sul tavolo, sul comodino e persino sul pavimento. «Uau. Hai trovato un sacco di ammiratori.» «Già. Non ci posso credere! Persino Crowe mi ha mandato dei fiori. Quei gigli laggiù. Credo che stia tentando di dirmi qualcosa. Non ti sembra di essere in una camera ardente? Vedi queste belle orchidee? Me le ha portate Frost. Diavolo, avrei dovuto mandarglielo io un mazzo di fiori per avermi salvato il culo.» Era stato proprio Frost a chiamare la polizia di Stato chiedendo rinforzi. Quando la Rizzoli non aveva risposto al cercapersone, il detective aveva contattato Dean Hobbs del FoodMart per sapere se la collega fosse ancora lì, e il negoziante gli aveva detto che era andata alla fattoria Sturdee per parlare con una donna dai capelli neri. Jane continuò l'inventario degli omaggi ricevuti. «Quel vaso enorme di fiori tropicali arriva dalla famiglia di Elena Ortiz. I garofani sono di Marquette, il tirchione. E la moglie di Sleeper mi ha portato quella pianta d'ibisco.» Moore scosse la testa, sbalordito. «Ti ricordi tutto?» «Be', sì, nessuno mi manda mai fiori. Perciò questo momento rimarrà indelebile nella mia memoria.» Thomas colse nuovamente uno sprazzo di vulnerabilità sotto la sua maschera coraggiosa. E vide un'altra cosa che non aveva mai notato prima,
una luminosità nei suoi occhi scuri. Era ammaccata, bendata, e aveva una parte della testa rasata. Ma, sorvolando sui difetti del suo viso, la mascella e la fronte quadrate, ci si accorgeva che Jane Rizzoli aveva due occhi meravigliosi. «Ho appena parlato con Frost. È giù al Pilgrim», borbottò Moore. «Dice che Warren Hoyt si riprenderà.» Jane non parlò. «Gli hanno tolto il respiratore stamattina. Ha ancora un tubo nel torace a causa di un polmone collassato, ma respira autonomamente.» «È sveglio?» «Sì.» «Parla?» «Non con noi. Col suo avvocato.» «Dio, se avessi avuto l'occasione di finire quel figlio di puttana...» «Non l'avresti fatto.» «Credi davvero?» «Credo che tu sia un poliziotto troppo in gamba per commettere due volte lo stesso errore.» La donna lo guardò fisso negli occhi. «Non lo saprai mai.» E nemmeno tu. Non lo sapremo mai finché non ci ritroveremo di nuovo faccia a faccia con quel pericolo. «Pensavo soltanto che dovessi saperlo», ribatté, e si alzò per andarsene. «Ehi, Moore.» «Sì?» «Non mi hai detto niente della Cordell.» Thomas aveva evitato di proposito l'argomento. Catherine era la fonte principale di conflitto tra lui e la Rizzoli, la ferita ancora aperta che aveva incrinato la loro amicizia. «Ho sentito che se l'è cavata», continuò Jane. «L'intervento è riuscito bene.» «Hoyt ha... ha per caso...» «No. Non ha completato l'asportazione. Sei arrivata prima che riuscisse a farlo.» La donna si appoggiò al cuscino, l'aria sollevata. «Ora vado da lei, al Pilgrim», affermò Thomas. «E poi che succede?» «Poi tornerai al lavoro, così potrai iniziare a rispondere al tuo dannato telefono.»
«No, intendo che cosa accadrà fra te e la Cordell?» Moore esitò e il suo sguardo si spostò sulla finestra, dove il sole inondava il vaso di gigli, illuminandone i petali. «Non lo so.» «Marquette ti sta creando ancora problemi?» «Mi aveva avvertito di non farmi coinvolgere. E ha ragione. Non avrei dovuto. Ma non ho potuto farne a meno. Mi domando se...» «Se dopotutto tu non sia 'san Tommaso'?» L'uomo sorrise tristemente e annuì. «Non c'è niente di più noioso della perfezione, Moore.» Lui sospirò. «Bisogna fare delle scelte. E a volte sono difficili.» «E se sono importanti sono sempre sofferte.» Moore vi rifletté un istante. «Forse non si tratta affatto di una scelta mia, ma sua.» «Quando vedi la Cordell, dille una cosa da parte mia, lo farai?» aggiunse Jane mentre il detective usciva dalla porta. «Che cosa?» «La prossima volta, mira più in alto.» Non so che cosa accadrà adesso. Moore guidò in direzione est, verso Boston, col finestrino aperto. L'aria che entrava nell'abitacolo era più fresca di quanto non lo fosse stata nelle settimane precedenti. Un fronte canadese era giunto sulla zona durante la notte, e in quella mattinata frizzante la città odorava di pulito, l'aria era quasi pura. Pensò a Mary, alla sua dolce Mary, e a tutte le cose che l'avrebbero per sempre legato a lei. Vent'anni di matrimonio coi suoi innumerevoli ricordi. I sussurri a notte fonda, le battute intime, la storia. Sì, la storia. Un matrimonio è composto da tante piccole cose, dalle minestre bruciate e dalle nuotate di mezzanotte, e sono proprio queste realtà a fondere due esistenze in una. Erano stati giovani insieme, e insieme avevano raggiunto la mezza età. Il suo passato apparteneva soltanto a Mary e a nessun'altra. Ma il suo futuro era libero. Non so che cosa accadrà adesso. Ma so che cosa mi renderebbe felice. E penso che potrei fare felice anche lei. In questa fase della nostra vita, potremmo forse desiderare una benedizione migliore? Ogni chilometro in più fu per lui uno strato d'incertezza in meno. Quando finalmente scese dall'auto, al Pilgrim Hospital, poté camminare col passo sicuro di un uomo che sa di aver preso la decisione giusta.
Raggiunse il quinto piano in ascensore, si registrò alla postazione infermiere e proseguì lungo il corridoio fino alla stanza 523. Bussò delicatamente ed entrò. Peter Falco era seduto accanto al letto di Catherine. La stanza, come quella della Rizzoli, profumava di fiori. La luce del mattino entrava dalla finestra e inondava il letto e la sua ospite di un bagliore dorato. Era addormentata. Una flebo pendeva da sopra il letto, e la soluzione salina scintillava come una fila di diamanti liquidi mentre, a goccia a goccia, entrava nel tubicino. Moore si portò dalla parte opposta a Falco, e i due rimasero a lungo in silenzio. Peter si protese per baciare Catherine in fronte. Poi si raddrizzò e il suo sguardo incontrò quello di Moore. «Abbi cura di lei.» «Lo farò.» «Sarà bene che tu mantenga la promessa», aggiunse Falco, e uscì dalla stanza. Moore prese il suo posto sulla sedia accanto a Catherine, le strinse la mano e la portò alle labbra con riverenza. «Lo farò», ripete sottovoce. Thomas Moore era un uomo che manteneva le promesse, e lo avrebbe fatto anche quella volta. EPILOGO Nella mia cella fa freddo. Fuori soffiano i venti rigidi di febbraio e mi hanno detto che ha iniziato di nuovo a nevicare. Sono seduto sulla mia branda con una coperta sulle spalle, a rievocare il calore delizioso che ci avvolgeva come un manto il giorno in cui camminammo per le strade di Livadia. A nord di quella città greca vi sono due sorgenti che, nei tempi antichi, erano conosciute come Lete e Mnemosine. Oblio e Memoria. Noi bevemmo da entrambi le fonti, tu e io, e poi ci addormentammo all'ombra screziata di un uliveto. Ora ci sto pensando perché odio questo freddo. Mi rende la pelle secca e screpolata, e la crema che spalmo non è sufficiente a contrastare gli effetti dell'inverno. In questo momento mi conforta soltanto il ricordo gradevole del caldo, di me e di te che camminiamo per Livadia, delle pietre arroventate che ci scaldavano i sandali. Qui dentro i giorni trascorrono lenti. Sono solo nella mia cella, protetto dagli altri detenuti dalla mia nomea. Soltanto gli psichiatri parlano con
me, ma stanno perdendo ogni interesse, perché non offro loro nessun elettrizzante spunto patologico. Da bambino non torturavo gli animali, non appiccavo fuochi e nemmeno bagnavo il letto. Andavo in chiesa. Ero gentile coi miei genitori. Mettevo la crema solare. Sono sano quanto loro, e lo sanno. Soltanto le mie fantasie mi distinguono, le stesse che mi hanno condotto in questa fredda cella, in questa fredda città, dove il vento è bianco di neve. Mentre mi stringo nella coperta, mi riesce difficile credere che ci siano luoghi al mondo in cui corpi ambrati giacciono stesi, lucidi di sudore, sulla sabbia calda, in cui ombrelloni da spiaggia si agitano nella brezza. Ma quello è proprio il tipo di luogo in cui è andata lei. Allungo una mano sotto il materasso e prendo l'articolo strappato dal giornale già letto di oggi, che la guardia, molto gentilmente, mi vende a prezzo scontato. E un annuncio di matrimonio. Il 15 febbraio, alle tre del pomeriggio, la dottoressa Catherine Cordell e Thomas Moore sono convolati a nozze. La sposa è stata accompagnata dal padre, il colonnello Robert Cordell. Indossava un abito stile impero, color avorio, ornato di perline. Lo sposo era vestito di nero. Alla cerimonia è seguito un ricevimento al Copley Plaza Hotel a Back Bay. Dopo una lunga luna di miele nei Caraibi, la coppia tornerà a vivere a Boston. Piego la pagina e la infilo sotto il materasso, dove sarà al sicuro. Una lunga luna di miele nei Caraibi. Ora si trova in quel luogo. La vedo, stesa sulla spiaggia, con gli occhi chiusi, i granelli di sabbia luminosi sulla pelle. I capelli come seta rossa sparpagliata sull'asciugamano. Il calore le induce sonnolenza, le braccia sono molli, rilassate. E poi, l'attimo dopo, si sveglia di scatto. Spalanca gli occhi, il polso accelerato. La paura la fa sudare freddo. Sta pensando a me. Proprio come io penso a lei. Siamo uniti intimamente per l'eternità, come due amanti. Catherine percepisce le spirali delle mie fantasie che si avviluppano intorno a lei. Non sarà mai in grado di spezzarle. Nella mia cella la luce si spegne. Inizia la lunga notte, coi suoi echi di uomini addormentati nelle gabbie. Russano, tossiscono, respirano affan-
nosamente. Mormorano mentre sognano. Ma quando la notte si fa più silenziosa non penso a Catherine Cordell, penso a te. Tu, che sei la fonte del mio dolore più profondo. Per questo berrei ancora alla fonte di Lete, la fonte della dimenticanza, soltanto per liberarmi del ricordo della nostra ultima notte a Savannah. L'ultima notte che ti vidi vivo. In questo momento, le immagini fluttuano davanti ai miei occhi, s'impongono alle mie retine, mentre fisso il buio della cella. Sto guardando le tue spalle, sto ammirando la tua pelle lucente, molto scura rispetto alla sua, il modo con cui si contraggono i muscoli della tua schiena mentre ti spingi ancora e ancora dentro di lei. Ti guardo mentre la possiedi, come hai fatto con le altre prima di lei. E quando hai finito, e hai sparso il tuo seme dentro di lei, mi guardi e sorridi. Poi esclami: «Ecco fatto. E pronta per te». Ma l'effetto del farmaco non è ancora svanito, e quando premo la lama sulla sua pelle, nemmeno se ne accorge. Niente dolore, niente piacere. «Abbiamo tutta la notte», mi dici. «Aspetta.» Ho la gola secca, perciò vado in cucina, dove mi verso un bicchiere d'acqua, ha notte è appena cominciata, e le mie mani fremono d'eccitazione. Il pensiero di ciò che avverrà dopo mi ha inebriato, e mentre sorseggio l'acqua rammento a me stesso di prolungare il piacere. Abbiamo tutta la notte, e vogliamo farla durare. Guardane uno, fanne uno, insegnane uno, mi dici. Stasera, me l'hai promesso, il bisturi è mio. Ma ho sete, e perciò indugio in cucina, mentre tu controlli se si è svegliata. Sono ancora accanto al lavandino quando sento lo sparo. Qui il tempo si ferma. Ricordo il silenzio che seguì. Il ticchettio dell'orologio della cucina. Il battito del cuore nelle orecchie. Mi metto in ascolto, ansioso di risentire i tuoi passi, di sentirti dire che è tempo di andarsene, rapidamente. Non oso muovermi. Alla fine mi costringo a percorrere il corridoio fino alla stanza. Mi fermo sulla soglia. Mi occorre soltanto un secondo per comprendere l'orrore. Lei giace riversa, e sta cercando di risalire sul materasso. Dalla sua mano è caduta una pistola. Io raggiungo il letto, prendo un divaricatore dal comodino e la colpisco alla tempia. Rimane immobile. Mi volto verso di te.
Tu apri gli occhi, sei in posizione supina e mi stai fissando. Sotto di te si allarga una pozza di sangue. Le tue labbra si muovono, ma non riesco a sentire ciò che dici. Non muovi le gambe, e capisco che il proiettile ti ha danneggiato la colonna vertebrale. Di nuovo tenti di parlare, e questa volta comprendo le parole: Fallo. Finisci. Non stai parlando di lei, ma di te. Scuoto la testa, inorridito da ciò che mi stai chiedendo. Non posso. Per favore, non aspettarti che lo faccia! Sono intrappolato fra la tua richiesta disperata e il desiderio di fuggire. Vallo, m'implorano i tuoi occhi. Prima che arrivino. Guardo le tue gambe, scomposte e inutili. Penso agli orrori che ti attendono, se sopravvivi. Io posso risparmiarti tutto ciò. Per favore. Guardo la donna. Non si muove, non percepisce la mia presenza. Vorrei tirarle i capelli indietro, esporle il collo e affondarle la lama nella gola per ciò che ti ha fatto. Ma devono trovarla viva. Soltanto se vivrà potrò andarmene indisturbato. Mi sudano le mani dentro i guanti di lattice, e quando afferro l'arma la sento incerta, estranea, nella mia presa. Sono al margine della pozza di sangue, ti sto guardando. Penso a quella magnifica sera quando visitammo il tempio di Artemide. C'era foschia, e sul calar della sera ti vidi di sfuggita camminare tra gli alberi. Improvvisamente ti fermasti, e mi sorridesti nella luce crepuscolare. E i nostri sguardi sembrarono incontrarsi nella grande distanza che divide il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Ora sto guardando quello spartiacque, e sento il tuo sguardo su di me. Credo che per te lo farò, Andrew. Lo faccio per te. Vedo la gratitudine nei tuoi occhi. Non scompare nemmeno quando sollevo la pistola con mani tremanti. Nemmeno mentre premo il grilletto. Il tuo sangue mi schizza sul volto, caldo come le lacrime. Mi volto verso la donna che giace ancora incosciente oltre il bordo del letto. Appoggio la pistola accanto alla sua mano; le afferro i capelli, e col bisturi le taglio un riccio vicino alla nuca, dove nessuno noterà la sua assenza. Con quella ciocca mi ricorderò di lei. Col suo profumo ricorderò la sua paura, tanto inebriante quanto l'odore del sangue, e ciò mi aiuterà a tirare avanti finché non la incontrerò di nuovo. Esco dalla porta sul retro e mi avvio nell'oscurità della notte.
Non possiedo più quella preziosa ciocca di capelli. Ma ora non ne ho bisogno, perché conosco il suo odore come se fosse il mio. Conosco il gusto del suo sangue. Conosco la patina di sudore lucido e setoso sulla sua pelle. Porto tutto ciò nei miei sogni, dove il piacere urla come una donna e cammina con impronte insanguinate. Non tutti i souvenir si possono tenere in mano, o accarezzare delicatamente. Alcuni, possiamo soltanto immagazzinarli nella parte più recondita, rettiliana, del nostro cervello, dalla quale tutti abbiamo avuto origine. Quella parte di noi che tanti sconfessano di possedere. Io non l'ho mai rinnegata. Riconosco la mia natura essenziale, l'accetto totalmente. Sono come Dio mi ha creato, come Dio ha creato tutti noi. Il leone è sacro quanto l'agnello. E altrettanto lo è il cacciatore. RINGRAZIAMENTI Un grazie particolare a Bruce Blake e al detective Wayne R. Rock del Boston Police Department, nonché al dottor Chris Michalakes per la consulenza tecnica. A Jane Berkey, Don Cleary e ad Andrea Cirillo per i preziosi suggerimenti sulla prima stesura dell'opera. Alla mia editor, Linda Marrow, per avermi indicato, con affetto, la strada. Al mio angelo custode, Meg Ruley. (Ogni scrittore dovrebbe avere una Meg Ruley! ) E a mio marito, Jacob. Sempre, a Jacob. FINE