ROSS KING I DELITTI DELLA BIBLIOTECA SCOMPARSA (Ex-Libris, 1998) A Lynn Quanto a me, pover'uomo, m'era fin troppo vasto ...
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ROSS KING I DELITTI DELLA BIBLIOTECA SCOMPARSA (Ex-Libris, 1998) A Lynn Quanto a me, pover'uomo, m'era fin troppo vasto Ducato la mia biblioteca... Shakespeare, La tempesta I LA BIBLIOTECA CAPITOLO 1 Chi avesse desiderato comperare un libro a Londra nell'anno 1660 aveva la possibilità di scegliere tra quattro zone. Le opere ecclesiastiche si potevano acquistare presso i librai di St Paul's Churchyard, mentre i negozi e i chioschi di Little Britain erano specializzati in volumi greci e latini, e quelli sul lato occidentale di Fleet Street offrivano testi giuridici per gli avvocati e i magistrati della città. Il quarto luogo dove cercare un libro - di gran lunga il migliore - era il London Bridge. A quei tempi gli edifici timpanati sull'antico ponte ospitavano un caotico assortimento di botteghe. Vi si potevano trovare due guantai, uno spadaio, due cappellai, un mercante di tè, un rilegatore, diversi calzolai e un fabbricante di parasoli, un'invenzione venuta di moda di recente. C'era anche, all'estremità nord del ponte, la bottega di un plummasier che vendeva piume variopinte da applicare ai copricapo di castoro, come quello che portava il nuovo re. Soprattutto, però, il ponte era sede di ottime librerie - complessivamente sei, nel 1660. Poiché la loro mercanzia non era destinata a soddisfare le esigenze di uomini di chiesa o di legge, né di altre categorie in particolare, l'assortimento di questi negozi era più variegato di quelli degli altri tre distretti, così che sulle loro scansie era possibile trovare praticamente tutto ciò che fosse mai stato vergato su pergamena o stampato e legato entro una coperta. E il negozio sul London Bridge che offriva la merce più varia tra tutti era quello che si trovava a metà ponte, in Nonsuch House,
dove, sopra una porta verde e due lustre vetrine, pendeva un'insegna la cui iscrizione stinta dal tempo diceva: NONSUCH BOOKS Acquista e vende ogni sorta di volume Isaac Inchbold, Proprietario Isaac Inchbold, Proprietario, sono io. Nell'estate del 1660 erano ormai circa diciotto anni che possedevo la Nonsuch Books. La libreria, con i suoi scaffali copiosamente forniti al piano terreno e l'angusto alloggio soprastante a distanza di una rampa di scala a chiocciola, si trovava sul London Bridge - e in un angolo di Nonsuch House, il suo più pregevole edificio da assai più lungo tempo: quasi quarant'anni. Qui avevo cominciato come apprendista nel 1635, all'età di quattordici anni, quando mio padre era stato portato via dalla peste e mia madre, che poco dopo si era ritrovata gravata dai debiti del marito, era ricorsa a un bicchiere di veleno. La morte di Mr Smallpace, il mio padrone - anche lui colpito dalla peste - era coincisa con la fine del mio apprendistato e l'ingresso come freeman nella Corporazione dei Librai e Stampatori. E così, in quel giorno per me solenne, divenni proprietario della Nonsuch Books, dove ho vissuto da allora in disordinata convivenza con migliaia e migliaia di compagni vestiti di marocchino e di tela. La mia è stata una vita tranquilla e contemplativa in mezzo ai miei scaffali di noce. Era costituita da una serie di azioni abitudinarie eseguite con modestia. Ero un uomo di sapere e di cultura - o almeno così mi piaceva pensare - ma di scarsissima esperienza di cose mondane. Sapevo tutto sui libri, ma poco, devo riconoscerlo, del mondo che turbinava caotico fuori della mia porta verde. Mi avventuravo il meno possibile, circostanze permettendolo, in questa sfera a me estranea fatta di mulinar di ruote e sbuffar di fumo e strascicar di piedi. Sino al 1660 mi ero allontanato sì e no di due dozzine di leghe dalle porte di Londra, e mi muovevo raramente anche all'interno della città, se non era proprio indispensabile. Spesso una semplice commissione mi lasciava smarrito e impotente in quel dedalo di strade sudice e affollate che si apriva a venti passi al di là della porta settentrionale del ponte, e quando riprendevo claudicante la via verso gli scaffali dei miei libri mi sembrava di tornare da un esilio. Tutto ciò - aggiungendo la miopia, l'asma e un piede equino - fa di me, devo dire, un attore assai improbabile degli eventi che seguiranno.
Che cos'altro dovete sapere di me? Ero oltremodo agiato e soddisfatto. Entravo nel mio quarantesimo anno avendo pressoché tutto ciò che un uomo delle mie inclinazioni potesse desiderare. A parte la fiorente attività, avevo ancora tutti i denti, quasi tutti i capelli, pochissimi peli grigi nella barba, e una magnifica e ben coltivata pancia sulla quale potevo tenere bilanciato un libro mentre me ne stavo seduto per ore e ore ogni sera nella mia prediletta poltrona imbottita di crine. Tutte le sere un'anziana donna, Margaret, mi preparava la cena, e due volte alla settimana un'altra povera vecchia, Jane, mi lavava la biancheria. Non avevo moglie. Da giovane mi ero sposato, ma mia moglie, Arabella, era morta qualche anno addietro, cinque giorni dopo essersi graffiata un dito a un chiavistello. Il nostro mondo era un luogo di pericoli. Non avevo nemmeno figli. Il mio dovere di generatore l'avevo fatto - quattro in tutto - ma anche loro erano morti per questo o quel malanno e ora giacevano sepolti accanto alla loro madre nel camposanto della chiesa di St Magnus-the-Martyr, dove ancora compivo settimanalmente le mie visite con un mazzolino comprato sul banco di un fioraio. Non speravo né contavo di riammogliarmi. Il mio stato mi andava alla perfezione. Che altro? Vivevo da solo, a parte il mio apprendista, Tom Monk, che a conclusione della giornata lavorativa si ritirava all'ultimo piano di Nonsuch House, dove mangiava e dormiva in una cameretta non molto più spaziosa di un ripostiglio. Ma Monk non si lamentava mai. E ovviamente nemmeno io. Ero più fortunato delle altre quattrocentomila anime stipate entro le mura di Londra o fuori, nelle Liberties. La mia attività mi assicurava un reddito di 150 sterline l'anno - una bella somma a quei tempi, specie per un uomo che non avesse una famiglia né il gusto dei piaceri dei sensi che Londra offriva in tanta abbondanza. E senza dubbio il mio idillio placido e libresco sarebbe proseguito immutato, senza dubbio la mia comoda vita sarebbe andata avanti intatta e beatamente indisturbata finché non avessi occupato il mio posto nel piccolo rettangolo di terra al fianco di Arabella, non fosse stato per un peculiare invito che mi arrivò in bottega un giorno d'estate del 1660. Quella calda mattina di luglio la porta di una casa labirintica e singolare si schiudeva davanti a me cigolando invitante. A me, che mi consideravo così saggio e scettico, sarebbe toccato allora di avanzare nell'ignoranza lungo le sue arterie oscure, incespicando tra corridoi ciechi e camere segrete delle quali, tanti anni dopo, mi trovo ancora a cercare vanamente un senso. È più facile trovare un labirinto, scrive Comenio, che una via maestra.
Ma ogni labirinto è un cerchio che comincia là dove finisce, ci insegna Boezio, e ha termine dove comincia. Ed ecco dunque che mi tocca tornare sui miei passi, riandare alle false svolte e, dipanando dietro di me questo filo di parole, arrivare ancora una volta al luogo in cui, per me, la storia di Sir Ambrose Plessington ha inizio. L'episodio a cui mi riferisco avvenne un martedì mattina nella prima settimana di luglio. Ricordo bene la data perché fu poco dopo che re Carlo II era tornato dal suo esilio in Francia per occupare il torno rimasto vacante da quando, undici anni prima, suo padre era stato decapitato da Cromwell e i suoi accoliti. La giornata era cominciata come tutte le altre. Avevo tolto le imposte di legno, abbassato il tendone verde in una lieve brezza e mandato Tom Monk al General Letter Office in Clock Lane. Era compito di Monk tutte le mattine portar fuori la cenere del focolare, spazzare i pavimenti, vuotare i vasi da notte, pulire l'acquaio e andare a prendere il carbone. Ma prima che mettesse mano a queste incombenze, lo mandai a Dowgate a ritirare le mie lettere. Ero molto esigente circa la mia posta, soprattutto il martedì, il giorno in cui arrivava il postale da Parigi. Quando tornò, dopo essere rimasto a gingillarsi, come sempre, in Thames Street sulla via del ritorno, una copia dell'edizione 1652 della traduzione di Shelton del Don Chisciotte era poggiata sulla mia pancia. Alzai gli occhi dalla pagina e, sistemati gli occhiali sul naso, sforzai lo sguardo verso la sagoma che si stagliava sulla porta. Nessun occhialaio era mai stato capace di lavorare un paio di lenti abbastanza spesse da rimediare per bene alla mia vista. Segnai la pagina con un dito e sbadigliai. "Niente per noi?" "Una lettera, signore." "Dunque? Consegnacela." "Mi ha fatto pagare due pence." "Prego?" "L'impiegato." Allungò la mano. "Dice che era tassata, signore. Non una lettera pagata, dice. E allora ho dovuto pagare due pence." "Benissimo." Misi via il Don Chisciotte, rimborsai Monk senza nascondere la mia irritazione, poi presi la lettera. "E adesso vai. Va' a prendere il carbone." Aspettavo notizie da monsieur Grimaud, il mio agente a Parigi, che avevo incaricato di fare un'offerta a mio nome per una copia dell'edizione Vignon dell'Odissea. Ma vidi immediatamente che la lettera, un unico foglio
legato con uno spago e chiuso con un sigillo, portava il bollo verde dell'Inland Office, per la posta interna, e non quello rosso del Foreign Office, per la posta dall'estero. La cosa era singolare, in quanto la posta nazionale arrivava al General Letter Office di lunedì, mercoledì e venerdì. Sul momento, però, non feci molto caso a questa stranezza. L'Ufficio postale era in uno stato di marasma come tutto il resto. Già molti dei vecchi direttori di posta - le più attive tra le spie di Cromwell, si vociferava - erano stati sollevati dall'incarico, e il Direttore Generale, John Thurloe, era rinchiuso nella Torre. Rigirai la lettera tra le mani. Nell'angolo in alto a destra l'ufficiale postale aveva annotato un annullo che diceva "1° luglio," indicando che la lettera era arrivata all'Ufficio delle Poste due giorni prima. Il mio nome e l'indirizzo erano vergati in una grafia segretariale sghemba e febbrile. La scrittura in qualche punto era abborracciata, in altri quasi indistinta, come se l'inchiostro fosse stato vecchio e polveroso o la penna d'oca fosse stata slabbrata in punta o ridotta a un mozzicone. L'impronta oblunga di un anello con il sigillo sul retro recava uno stemma con la dicitura "Marchamont." Tagliai con il temperino il cordino consumato, spezzai il sigillo con il pollice e aprii il foglio. Posseggo ancora quella strana lettera - la mia convocazione, il primo dei tanti testi che mi avrebbero condotto verso la figura sempre sfuggente di Sir Ambrose Plessington - e qui la riproduco, parola per parola: 28 giugno Pontifex Hall Crampton Magna Dorsetshire Gentile signore, Mi auguro che voglia perdonare la sfrontatezza di una signora che scrive a uno sconosciuto per presentare quella che Le apparirà, non ne dubito, una richiesta singolare; ma le circostanze mi impongono di agire così. Questi malinconici affari sono di natura pressante, ma sono certa che Lei potrà svolgere una parte non piccola nella loro risoluzione. Non oso enumerare ulteriori dettagli fino al momento in cui non avrò la Sua attenzione in una situazione più privata, e dovrò quindi, con rincrescimento, dipendere interamente dalla Sua fiducia.
Quanto Le chiedo è la Sua presenza a Pontifex Hall al più presto possibile. A tal fine una carrozza condotta da Mr Phineas Greenleaf sarà ad attenderLa sotto l'insegna dei Tre Piccioni in High Holborn, alle 8 del mattino del 5 luglio. Nulla ha da temere da questo viaggio, e il Suo tempo Le sarà, Le assicuro, riconosciuto a dovere. Qui devo fermarmi, Stimato Signore, dichiarandomi con gratitudine La serva Sua umilissima Alethea Greatorex Postscriptum: Siano i Suoi atti guidati da questo ammonimento: non confidi ad alcuno l'esistenza della presente missiva; né riveli la Sua destinazione e il Suo scopo. Tutto qui, nient'altro. Quella strana comunicazione non forniva ulteriori informazioni, né ulteriori incoraggiamenti. Dopo averla riletta da cima a fondo la mia prima reazione fu quella di appallottolare il foglio e buttarlo via. Non avevo dubbio che i "malinconici" e "pressanti" affari di Alethea Greatorex riguardassero la liquidazione di una proprietà in rovina lasciatale da un indigente consorte passato a miglior vita. L'aspetto miserando della lettera non pagata suggeriva le precarie condizioni finanziarie della mittente. Di sicuro Pontifex Hall comprendeva tra le sue esauste attrattive una biblioteca con il cui modesto contenuto ella sperava di placare i creditori. Richieste di questa sorta non erano inusuali, certo. La poco lieta incombenza di attribuire un valore agli scarni resti di un patrimonio in bancarotta - soprattutto quelli di vecchie famiglie realiste le cui fortune erano precipitate durante l'epoca di Cromwell - era piovuta tre o quattro volte nell'ambito dei miei compiti. Di solito acquistavo per me gli esemplari più interessanti, e il resto di quella carta rosa dai tarli lo mandavo all'asta o a Mr Hopcroft, lo straccivendolo. Ma mai, nel corso di simili incarichi, avevo ricevuto un ingaggio in termini così segreti o ero stato invitato a recarmi in luoghi lontani quanto il Dorsetshire. E però non gettai la lettera. Una delle frasi più criptiche - "non oso enumerare ulteriori dettagli" - aveva messo in moto la mia immaginazione, non meno dell'invito al massimo riserbo contenuto nel poscritto. Mi assestai gli occhiali sul naso e scrutai ancora la lettera con i miei occhi di miope. Mi chiesi perché mai dovessi pensare di aver qualcosa da "temere" dal
viaggio e come potesse realizzarsi la promessa vaga di una soddisfacente ricompensa per il tempo dedicato alla faccenda. Il profitto a cui alludevano le parole sembrava più elevato e al contempo più vago di qualsiasi volgare transazione finanziaria. O forse era soltanto la mia immaginazione, sempre pronta a tessere e poi districare un mistero? Monk aveva portato via l'immondizia e ora rientrava con alcuni pezzi di carbone che scampanavano nel secchio. Lo depose sul pavimento, sospirò, prese la ramazza e cominciò a spazzare indolente alla luce di un raggio di sole. Misi da parte la lettera, ma dopo un attimo la ripresi per studiare più attentamente la grafia segretariale, uno stile antiquato già a quei tempi. Rilessi la lettera, lentamente, e questa volta il suo testo mi parve meno ovvio, meno palesemente l'appello di una vedova in angustie finanziarie. La distesi sul banco e osservai meglio il sigillo crestato, rimpiangendo la fretta con cui lo avevo spezzato, perché l'iscrizione non era più decifrabile. E fu a questo punto che notai qualcosa di singolare nella lettera, un'altro dei suoi strani, e per il momento inesplicabili, tratti. Mentre portavo il foglio alla luce mi resi conto che l'autrice aveva piegato due volte la carta e l'aveva sigillata non con la cera ma con una ceralacca color ruggine. In sé la cosa non era insolita, s'intende: molti, me compreso, sigillano le loro lettere con una bacchetta di ceralacca. Ma nel raccogliere i frammenti cercando di ricostruire l'immagine impressa dalla matrice, notai che la ceralacca era mescolata con una sostanza di colore e composizione lievemente diverse: qualcosa di più scuro e meno compatto. Spostai la lettera nel raggio di sole che cadeva sul bancone. La scopa di Monk grattava lentamente le assi del pavimento, e mi accorsi che mi guardava incuriosito. Forzai il sigillo con la punta del temperino usando tutta la delicatezza di un erborista che apra il baccello di una pianta rara. La sostanza si sbriciolò spargendosi sul ripiano del bancone. Era chiaramente distinguibile la cera d'api che per qualche motivo era stata mescolata alla ceralacca. Separai accuratamente alcuni dei grani, chiedendomi come mai la mano mi tremasse. "Qualcosa non va, Mr Inchbold?" "No, Monk. Assolutamente niente. Adesso riprendi il tuo lavoro." Mi raddrizzai e guardai dalla vetrina, al di sopra della sua testa. La stretta via era nel pieno del suo traffico mattutino di teste ondeggianti e ruote indaffarate. La polvere alzata dai carri, trapassata dalle lame del sole del mattino, si mutava in oro. Abbassai gli occhi sulle briciole sul banco. Che cosa poteva significare, se qualcosa significava, quella mistura? Che nel
sigillo di Lady Marchamont era rimasto un residuo di cera? Che aveva chiuso un'altra lettera con la cera qualche momento prima di sigillare la mia con la ceralacca? Non aveva molto senso. Ma nemmeno aveva molto senso l'alternativa: che qualcuno avesse preso con la cera l'impronta del suo sigillo originale, l'avesse spezzato, poi richiuso la lettera con ceralacca impressa con un sigillo contraffatto. Il mio cuore si mise a battere più forte. Sì, la spiegazione più plausibile era che il sigillo fosse stato manomesso. Ma da chi? Qualcuno nel General Letter Office? Questo poteva spiegare il ritardo nella consegna - perché fosse stata possibile ritirarla il martedì e non il lunedì. Correva voce che all'ultimo piano dell'edificio della Posta ci fosse qualcuno che apriva le lettere e le copiava. Ma a che scopo? Per quanto ne sapessi, la mia corrispondenza non era mai stata aperta - nemmeno i pacchi spediti dai miei agenti commerciali a Parigi e a Oxford, quelle due roccheforti di espatriati e malcontenti realisti. Più plausibile, naturalmente, era che il vero oggetto dell'attenzione fosse la mia corrispondente. Eppure, la stranezza della situazione mi colpiva. Perché, se aveva qualcosa da temere, Lady Marchamont affidava la propria corrispondenza a un tramite notoriamente così privo di scrupoli come il Post Office? Perché non farmi recapitare l'invito da quel Mr Phineas Greenleaf o da qualche altro messaggero? Mentre richiudevo la lettera lungo le sue piegature e la infilavo in tasca, non sentivo alcuna inquietudine, come forse avrei dovuto. L'unica cosa che avvertivo era un tiepido interesse. Ero incuriosito, ecco. Avevo la sensazione che quella strana missiva e il suo sigillo fossero solo degli elementi di un enigma di difficile soluzione ma nient'affatto incomprensibile, risolvibile con l'applicazione del raziocinio - e avevo la massima fede nel potere del raziocinio, specialmente il mio. La lettera era solo un testo come tanti in attesa di essere decifrato. E così, seguendo un impulso improvviso, diedi disposizione a un incredulo Moni di badare al negozio mentre io, come Don Chisciotte, mi disponevo a lasciare gli scaffali dei miei libri e ad avventurarmi fuori - in quel mondo al quale, fino ad allora, ero riuscito a sottrarmi. Per il resto della giornata servii i miei clienti abituali, aiutandoli, come sempre, a rintracciare una certa edizione di quell'opera o un commentario su quell'altra. Ma quel giorno il rituale era stato alterato, perché per tutto il tempo continuai a sentire la lettera che frusciava discretamente nella mia tasca con sommessi, anonimi bisbigli cospiratori. Secondo le istruzioni ricevute, non la mostrai
a nessuno, né dissi ad alcuno, nemmeno a Monk, dove mi stessi recando o a chi mi proponessi di far visita. CAPITOLO 2 Il giorno dopo quello in cui avevo ricevuto l'invito, un'ora prima dell'alba tre uomini a cavallo entrarono in Londra da oriente. Giunsero in vista delle guglie e dei comignoli mentre le stelle sbiadivano e le nuvole si chiazzavano qua e là di luce: un terzetto di cavalieri vestiti di nero che galoppavano lungo il fiume verso Ratcliff. Il loro doveva essere stato un lungo viaggio, anche se di esso, tranne quelle poche leghe finali, poco so. Erano sbarcati sulla costa del Kent, a Romney Marsh, due giorni prima, dopo aver traversato la Manica a bordo di un barcone da pesca. Anche con il bel tempo e il mare calmo la traversata avrebbe richiesto otto ore buone, ma il momento dell'approdo doveva essere stato programmato con cura. Il padrone della barca, Calfhill, aveva ricevuto scrupolose istruzioni e conosceva ogni rada, ogni insenatura e ogni agente di dogana per cinquanta miglia dell'una e dell'altra costa. Avevano toccato terra con il buio, con l'alta marea, con la prora che andava su e giù nei flutti e le vele ammainate, mentre Calfhill era in piedi sulla prua impugnando un lungo palo. A quell'ora le baracche del dazio lungo la linea del litorale dovevano essere deserte, ma solo per un'altra ora, o forse meno, e così erano stati costretti ad agire in fretta. Calfhill aveva calato l'ancora e, quando questa aveva fatto presa, aveva scavalcato la falchetta ed era sceso fino a mezza gamba nell'acqua, che certo doveva essere gelida anche in quella stagione. Erano sbarcati senza una torcia o una lanterna e tirato a secco l'imbarcazione sui ciottoli fino alla linea dell'acqua alta, dove tre stalloni neri aspettavano sotto la copertura dei salici. I cavalli, che nitrivano e scalpitavano nel buio, erano già sellati e imbrigliati. La spiaggia era deserta. Nei minuti che seguirono, Calfhill era rimasto a controllare, ansioso e sospettoso, mentre gli uomini tornavano nell'acqua a lavarsi via la pece dal volto e dalle mani. In alto, uno stormo di pivieri veleggiava verso l'entroterra. Dall'interno giungeva al mare il profumo del timo e l'odore delle pecore al pascolo. Mancavano pochi minuti all'arrivo della luce dell'alba, ma i passeggeri di Calfhill lavoravano meticolosamente come facendo la toeletta del mattino. Uno di loro si fermò perfino a pulire qualche bottone d'oro della sua giacca - una sorta di livrea nera - con un fazzoletto bagnato; poi, chinatosi, la punta degli stivali. I suoi movimenti erano scrupolosi.
"Per l'amor del cielo," brontolò sottovoce Calfhill. Forse i suoi passeggeri non sapevano quale rischio correvano, mentre lui, naturalmente, li conosceva bene. Lui faceva T'uccello notturno," il contrabbandiere, il cui carico abituale erano i sacchi di lana che portava in Francia e le casse di vino e di brandy che trasportava nel viaggio di ritorno. Né era contrario a traghettare passeggeri - un traffico ancor più remunerativo. Gli ugonotti e i cattolici, come i barilotti di brandy, venivano in Inghilterra, mentre i realisti facevano il viaggio contrario, verso la Francia. E ora erano i puritani a fuggire dall'Inghilterra, ovviamente; la loro meta era l'Olanda. Nelle ultime sei settimane ne aveva trasportati almeno una dozzina da Dover o dalla Romney Marsh fino alla Zelanda o sui pinchi ormeggiati presso il North Foreland; alcuni ne aveva imbarcati dai pinchi portandoli in Inghilterra: spie contro re Carlo. Era un lavoro rischioso, ma secondo i suoi calcoli se quella atmosfera di diffidenza e inganno durava (e sapeva che sarebbe durata, essendo la natura umana quella che è), nel giro di quattro anni gli sarebbe stato possibile ritirarsi in una piantagione di canna da zucchero in Giamaica. Ma quest'ultimo era stato un lavoro singolare, anche per un uccello notturno dell'esperienza di Calfhill. Due giorni prima a Calais, in una taverna della basse ville dove di solito riceveva informazioni sulle sue consegne di brandy, un uomo di nome Fontenay lo aveva avvicinato, gli aveva consegnato la metà di una somma pattuita - dieci pistole d'oro - e gli aveva dato minuziose istruzioni. Sarebbe stata un'altra proficua notte di lavoro. Da allora Fontenay era sparito, ma poi, al tramonto del giorno prima, i tre sconosciuti si erano presentati a lui, come stabilito, nell'insenatura appartata da cui, in vesti di pescatore, di solito prendeva il largo con i suoi barili e per quanto gli riuscisse di determinarne l'identità - l'occasionale agente realista o prete cattolico. I suoi nuovi passeggeri erano saliti a bordo ansimando pesantemente. Era riuscito a vedere bene uno dei tre alla luce della luna: una figura corpulenta, con un faccione rosso come quello di una locandiera, le palpebre pesanti, la bocca carnosa, un ventre ben nutrito che non avrebbe fatto torto a un oste londinese. Non proprio un uomo di mare. Si sarebbe sentito male durante la traversata, come accadeva a tanti di loro, vomitando l'anima fuori bordo? Stranamente, non fu così. Ma per tutto il viaggio i tre non dissero una parola, né a Calfhill né tra loro, anche se Calfhill - una specie di poliglotta, come esigeva la sua attività - tentò di attaccare discorso in inglese, francese, olandese, italiano e spagnolo. Ora, sempre in silenzio, i tre arrancavano verso gli stalloni che sbuffavano, facendo scricchiolare sotto i piedi le foglie secche dei salici. Calfhill si
chiese per l'ennesima volta quale paese - o quale partito di quale paese rappresentassero. Tutti e tre sembravano dei gentiluomini, cosa insolita, perché secondo l'esperienza di Calfhill quella della spia non era esattamente un'attività da gentiluomo. La maggior parte degli uomini che aveva trasportato lui erano un branco di canaglie sboccate - bravacci, manigoldi, tagliaborse, sfregiatori, furfanti di ogni genere e tipo, tutti reclutati nei più malfamati bordelli e nelle peggiori bettole di Londra e Parigi e poi pagati una miseria per tradire i loro amici e la loro terra, cosa che molti di loro non avevano alcuna esitazione a fare. Ma questi? Avevano un'aria troppo molle per ricreazioni di quel genere. Le palme di quello grasso, mentre gli consegnava le monete rimanenti, erano lisce e paffute come quelle di una dama. Prima di spalmarle di pece, misura alla quale si era mostrato in un primo momento assai restio, le sue guance lisce mandavano odore di sapone da barba e di profumo. E le loro livree nere, i mantelli, i panciotti, le brache e i farsetti, erano tutti di buon taglio, addirittura ricamati, un po' vistosamente, con qualche nappina e nastro dorati. E dunque, quale vitale missione poteva averli distolti dalle loro cantine ben fornite e dalle loro tavole imbandite mandandoli a rischiare l'osso del collo in Inghilterra? I tre erano finalmente pronti a partire. Il grassone riuscì goffamente a montare in sella al quarto tentativo - era abituato a servirsi di una predella, immaginò Calfhill - e poi, senza un cenno di saluto, spinse il percheron su per il ripido fianco della duna. Era un cavallerizzo scadentissimo, questo Calfhill lo vide subito. Ciondolava da una parte all'altra, con quelle gambe carnose che ballonzolavano a ogni passo. Un uomo abituato più alle carrozze e alle portantine, pensò Calfhill. Il povero cavallo con uno sforzo disperato arrivò in cima all'altura e superò il ciglio erboso, quindi al piccolo trotto si avviò verso l'entroterra. Completato il suo compito, Calfhill si voltò e cominciò a spingere il barcone verso l'acqua. Aveva fretta perché in quello stesso auberge di Calais era stato avvicinato da un secondo uomo, oltre Fontenay, e ora sei balle della migliore lana di Cotswold lo aspettavano in un'insenatura due miglia più giù lungo la costa. Nel canneto avrebbe trovato tre uomini che gli avrebbero pagato cinque pistole per portare la lana sulla costa francese, dove ne avrebbe ricevute altre cinque. Ma ora, mentre la chiglia grattava la spiaggia, sentì un rumore alle sue spalle. Voltandosi, vide che uno dei tre cavalieri era ancora sulla spiaggia, il cavallo rivolto verso il mare. "Sì?" Calfhill si raddrizzò e fece qualche passo sui ciottoli. "Dimenticato qualcosa, eh?"
Il cavaliere vestito di nero non apri bocca. Tirò le redini e voltò la cavalcatura verso le dune. Poi, come ripensandoci, si rigirò sulla sella e con un lampo di broccato d'oro estrasse dalle pieghe del mantello una pistola a pietra focaia. Calfhill rimase a bocca aperta come davanti a un gioco di prestigio, poi fece un passo indietro. "Che diavolo...?" L'uomo fece fuoco senza cerimonie. Ci fu una detonazione sorprendentemente tenue e una nuvoletta di fumo. La palla di piombo raggiunse Calfhill in pieno petto. Barcollò all'indietro come un ballerino inesperto, poi chinò il capo e fissò stupito la ferita, dalla quale il sangue sgorgava come vino dal foro di un barile. Alzò le mani per fermare il sangue ma il davanti del farsetto era già diventato tutto nero, e la sua faccia bianca come un'oca. Apri la bocca e la richiuse come per formulare un'ultima indignata protesta. Non ne uscì nulla: con una fluida manovra, quasi un passo di danza, eseguì una mezza giravolta e stramazzò tra le canne che spuntavano dall'acqua. L'uomo ripose la pistola e, cinque minuti dopo, raggiunse i compagni che lo aspettavano oltre il ciglio dell'altura. Per un miglio i tre seguirono uno dei tratturi per le pecore lungo la costa. Poi piegarono verso l'interno imboccando uno stretto sentiero postale. Ormai i granchi stavano accorrendo sui ciottoli verso il corpo di Calfhill, su cui i salici più alti pendevano come in una veglia funebre. Passarono giorni prima che il cadavere fosse scoperto, e a quel punto i tre cavalieri avevano già varcato le porte di Londra. CAPITOLO 3 L'unico modo per raggiungere Crampton Magna a quei tempi era seguire fino a Shaftesbury la strada che va da Londra a Plymouth e poi svoltare a sud lungo una rete mal definita e poco usata di piste di terra battuta che puntano verso la costa lontana. Sulla via per Dorchester, uno dei più rustici di questi sentieri rasentava un villaggio di dieci o dodici casupole di legno dai tetti coperti di fuliggine e di muschio, tutte rintanate in un'ansa riparata delle basse colline. Crampton Magna - perché era proprio di questa che, finalmente, si trattava - conteneva anche un decrepito mulino ad acqua con le saracinesche fuori uso, una locanda, una chiesa con la sua guglia ottagonale, e uno striminzito fiumiciattolo del colore della torba che si poteva guadare in un sol punto ed era attraversato da un singolo ponte a qualche
centinaio di metri più a valle. Il sole stava calando dietro i monti quando la vettura sulla quale viaggiavo giunse in vista del villaggio e poi superò laboriosamente il ponte. Cinque giorni erano passati da quando avevo ricevuto l'invito. Sporsi il capo dal finestrino aperto e posai lo sguardo sulle case e la chiesa. Si sentiva nell'aria un vago odore di fumo di legna, ma nella luce che andava sbiadendo e tra le ombre che si allungavano il villaggio appariva innaturalmente deserto. Per tutto il giorno, lungo la strada da Shaftesbury non avevamo incontrato nessuno, tranne qualche occasionale gregge di pecore dal muso nero, e ora avevo la sensazione di essere arrivato sull'orlo di un desolato precipizio. "Manca molto a Pontifex Hall?" Il mio conducente, Phineas Greenleaf, emise lo stesso sordo verso bovino con cui aveva risposto alla gran parte delle mie domande. Mi chiesi per la decima volta se fosse sordo. Era un uomo anziano, letargico nei gesti e lugubre nei modi. Sovente durante il viaggio mi ero sorpreso a guardare non il paesaggio che sfilava accanto alla carrozza ma la cisti che aveva sul collo e il braccio sinistro avvizzito che spuntava dalla manica accorciata della sua giubba. Tre giorni prima lo avevo trovato ad attendermi, come promesso, ai Tre Piccioni in High Holborn. La carrozza era la vettura di gran lunga più vistosa presente nel cortile della taverna, una comoda quattro posti con il posto di guida coperto e l'esterno laccato e così lucido che potevo vedervi riflessa la mia immagine oscillante. Uno stemma elaboratamente decorato era dipinto sulla portiera. Ero stato costretto a rivedere la mia prima impressione sulla indigenza della mia ospite. "Devo vedere Lady Marchamont?" avevo chiesto a Greenleaf mentre varcavamo la stretta porta carraia del cortile-rimessa della locanda. Per tutta risposta ricevetti il suo grugnito evasivo ma, senza lasciarmi per il momento scoraggiare, azzardai un'altra domanda: "Lady Marchamont desidera comperare qualche mio libro?" Questa volta la mia richiesta di informazioni ebbe miglior sorte. "Comperare i suoi libri? No, signore," disse dopo una pausa, fissando intensamente la strada davanti a sé. Il modo in cui teneva la testa incassata tra le spalle e protesa in avanti gli dava l'aspetto di un avvoltoio. "Devo credere che Lady Marchamont di libri ne ha già abbastanza." "Allora desidera vendere i suoi libri?" " Vendere i suoi libri?" Seguì un'altra pausa di interdetta ruminazione. L'espressione perplessa approfondì i caratteri cuneiformi delle sue rughe
sulla fronte e le guance. Si tolse il cappello, un basso copricapo di castoro, e si asciugò la fronte, scoprendo un cranio nudo e chiazzato come un uovo di quaglia. Infine, rimettendosi il cappello con quella mano rattrappita da bambino, si concesse un grave risolino. "Non potrei proprio immaginarlo, signore. Lady Marchamont è affezionatissima ai suoi libri." Fu questa, più o meno, tutta la nostra conversazione nell'arco dei tre giorni seguenti. Ulteriori domande o furono ignorate o ricevettero per tutta risposta il consueto mugugno. Le sole sue altre articolazioni si rivelarono i grugniti sepolcrali che mi impedirono di dormire la prima notte che trascorremmo a Bagshot e la seconda a Shaftesbury. La lentezza del nostro procedere era stata esasperante. Io ero una creatura da città - il fumo, la velocità, la folla sgomitante, il rotolare del ferro delle ruote - e quindi la nostra placida avanzata in mezzo alla campagna, attraverso le sue casupole abbandonate e i suoi minuscoli borghi senza nome, era per me quasi insostenibile. Ma il saturnino Greenleaf non aveva premura. Un miglio dopo l'altro se ne stava seduto a cassetta con le redini lasche tra le mani e la frusta ciondolante tra le ginocchia come una canna da pesca sopra un torrente ricco di trote. E adesso, dopo Crampton Magna, le condizioni del sentiero peggioravano sensibilmente. L'ultimo tratto del nostro viaggio, benché di sole una o due miglia, durò un'ora intera. Erano anni, si sarebbe detto, che di lì non passava nessuno. In qualche punto la strada, sopraffatta dalla vegetazione, spariva quasi del tutto; altrove, il solco della carreggiata di sinistra era molto più alto del destro, o viceversa, ma entrambi erano disseminati di sassi di notevoli dimensioni. I rami degli alberi non potati graffiavano il tetto della carrozza, le siepi incolte di faggio e biancospino le portiere. Correvamo continuamente il rischio di ribaltarci. Ma finalmente, valicato un altro stretto ponte di pietra, Greenleaf abbandonò le redini e depose la frusta. "Pontifex Hall," bofonchiò quasi a se stesso. Sporsi la testa dal finestrino e rimasi accecato per un secondo dalle vivide pennellate dei raggi del sole tracciate sulla fascia più bassa del cielo. In un primo momento non vidi altro che un arco monumentale e, sulla sua sommità, una chiave di volta sulla quale, strizzando gli occhi, riuscii a distinguere alcune lettere di un'iscrizione: L T E A S R I T M N T. Alzai la mano destra per schermare gli occhi dalla luce del sole. Greenleaf rivolse uno schiocco di lingua ai cavalli, che chinarono il capo e avanzarono stancamente, agitando la coda, macinando con gli zoccoli la ghiaia che da qualche metro aveva preso il posto del terreno battuto della strada.
La scritta incisa nella pietra - in ombra, seminascosta dall'edera e chiazzata del marrone e nero del muschio - era ancora indecifrabile, tranne che per qualche lettera: L T T E A S R I P T M N E T. Uno dei cavalli sbruffò e scartò lateralmente di un passo, come rifiutando il cancello, poi rinculò. Greenleaf diede uno strattone alle redini e lanciò una violenta imprecazione. Uria casa enorme si stagliò improvvisamente alla vista appena entrammo nell'ombra dell'arco. Abbassai la mano e sporsi ancora di più la testa. Negli ultimi giorni avevo cercato di formarmi un'immagine di Pontifex Hall, ma nessuna delle mie fantasie si avvicinava minimamente all'edificio incorniciato come un quadro tra i massicci montanti dell'arco. Era posto su un vasto terreno erboso tagliato dalla striscia ocra di un viale fiancheggiato da due filari di tigli. Il prato verde saliva e scendeva fino a raggiungere un'enorme facciata di laterizi levigati suddivisa da quattro pilastri giganti e una disposizione simmetrica di otto finestre. In cima, il sole basso metteva in rilievo un segnavento d'ottone e sei comignoli cilindrici. La carrozza si trascinò per qualche passo ancora, facendo tintinnare i finimenti. Con la stessa repentinità con cui era apparsa, ora la visione si trasformò. Il sole, quasi del tutto scomparso dietro il tetto a padiglione, d'un tratto presentava la scena in una luce diversa. Il prato antistante, ora me ne accorgevo, era pieno di erbacce e non curato, qua e là cosparso di buche, come il viale, e con mucchi di vecchia terra scavata. Molti dei tigli erano ammalati e senza foglie, altri erano ridotti a corti monconi. Lo stato della casa, la cui lunga ombra si protendeva verso di noi, non era migliore. La facciata era piena di crepe, i piantoni delle finestre scheggiati, i gocciolatoi asportati. Le lastre rotte di alcune finestre erano state rimpiazzate alla meglio con stuoie di paglia e strisce di stoffa; una di esse era stata invasa dall'edera. Una meridiana spaccata, una fontana asciutta, un laghetto stagnante, un parterre invaso dalle erbacce - tutto contribuiva a un ritratto di rovina. La banderuola, mentre ci avvicinavamo, mandò un lampo minaccioso. La mia aspettazione, riattizzata solo un momento prima, si dileguò in un attimo. Uno dei cavalli nitrì e fece di nuovo uno scarto. Greenleaf diede uno strattone alle briglie e lanciò un altro comando gutturale. Altri due passi incerti sulla ghiaia della strada, poi fummo inghiottiti dall'arco. All'ultimo secondo, prima che si chiudesse sulle nostre teste, alzai lo sguardo verso i conci a cuneo dell'arco e, sopra di essi, alla pietra di colmo: LITTERA SCRIPTA MANET.
Dieci minuti dopo mi trovavo nel mezzo di un'enorme sala la cui sola luce pioveva da un'unica finestra rotta che dava sullo spiazzo incolto del parterre, il quale a sua volta si affacciava sulla fontana e sulla meridiana spaccata. "Se vuole essere così gentile da aspettare qui, signore," disse Greenleaf. I suoi passi risuonarono per l'edificio cavernoso, lungo una scricchiolante rampa di scale, poi su un pavimento al di sopra della mia testa. Mi sembrò di udire delle voci e poi un altro passo, più leggero. Passò qualche momento. Lentamente i miei occhi si abituarono alla penombra. Mi parve che non ci fosse dove sedersi. Mi chiesi se fosse un segno di disprezzo nei miei confronti o se quella strana forma di ospitalità essere abbandonato da solo in una stanza buia - fosse semplicemente il modo di fare degli aristocratici. Avevo già concluso, in base alle sue penose condizioni, che Pontifex Hall era una di quelle sventurate proprietà travolte dall'esercito di Cromwell durante la Guerra civile. Non avevo alcuna simpatia per Cromwell e i puritani - masnada di iconoclasti e distruttori di libri. Ma non provavo una particolare simpatia neppure per la tronfia nobiltà, per cui mi ero intimamente dilettato a leggere le descrizioni, sui fogli delle nostre gazzette, degli apprendisti londinesi infuriati che tempestavano di palle di cannone e colpi di mitraglia queste solenni antiche dimore, per poi spedirne i languidi occupanti nei campi prima di mettere in libertà il vino dalle loro cantine e la foglia d'oro dalle portiere delle loro carrozze. Pontifex Hall, un tempo sontuosa, doveva aver subito, immaginai, la stessa sorte degradante di tante altre case nobiliari. Un'asse cigolò sotto il mio stivale mentre mi voltavo. Poi la punta del mio piede malformato urtò contro qualcosa. Abbassai lo sguardo e vidi a terra uno spesso in-folio squadernato sotto di me, con le pagine mosse dalla brezza leggera che entrava dalla finestra rotta. Accanto a esso, nel medesimo stato di disordine, giacevano un quadrante, un piccolo telescopio in una custodia consunta e diversi altri strumenti dalla funzione non altrettanto riconoscibile. Sparpagliate in mezzo a loro, malamente spiegazzate, con gli angoli accartocciati, c'erano una mezza dozzina di vecchie carte geografiche. Sotto la scarsa luce le loro linee costiere e le sagome congetturali dei continenti erano irriconoscibili. Ma poi... qualcosa di familiare. Un profumo antico, mi accorsi, permeava la stanza: un aroma che conoscevo meglio, e amavo di più, di ogni altro profumo. Nuovamente ruotai su me stesso e, alzando lo sguardo, vidi file e
file di scaffali colmi di libri che tappezzavano, si sarebbe detto, ogni centimetro delle pareti, percorse a mezza altezza da un ballatoio balaustrato, al di sopra del quale altri libri ancora tendevano in alto verso un invisibile soffitto. Una biblioteca. Dunque, pensai, col viso rivolto verso l'alto: almeno su una cosa Greenleaf aveva avuto ragione - Lady Marchamont possedeva una grande quantità di libri. Quel po' di luce presente toccava centinaia di volumi di ogni formato, dimensione e spessore. Alcuni di quelli che riuscivo a vedere erano massicci, come lastre di pietra di cava, ed erano fissati agli scaffali con lunghe catene che pendevano come collane dalle loro rilegature, mentre altri minuti volumetti in sedicesimo non più grandi di una tabacchiera, con la copertina di cartone legata con nastri sbiaditi o chiusa con minuscoli fermagli, potevano stare comodamente nel palmo di una mano. Ma questo non era tutto. Quanto non contenevano gli scaffali - duecento volumi o più - era stato accatastato sul pavimento o stava colonizzando i corridoi e le stanze adiacenti; una piena che cominciava in militareschi ranghi ordinati per poi sparpagliarsi, dopo pochi passi, in una incontrollata confusione. Mi guardai intorno sbigottito prima di accostarmi a una delle colonne avanzanti e inginocchiarmi accanto a essa. Qui l'odore - di umido e di decomposizione, un po' come quello del pacciame - non era più tanto gradevole. Le mie narici ne erano offese, non meno dei miei istinti professionali. Il lieve palpito, il tepore suscitato nel mio petto dalle lettere dorate in quattro o cinque diversi idiomi che ammiccavano verso di me da decine di rilegature pregevolmente lavorate - la vista di tanto sapere con tanta bellezza presentato - ben presto si trasformarono in fiamma. Sembrava che, come tutto in Pontifex Hall, questi libri fossero segnati dal destino. Più che una biblioteca quello era un mattatoio. Dentro di me la sensazione di offesa cresceva. Ma cresceva anche la curiosità. Raccolsi a caso uno dei libri dalla fila in disfacimento e aprii la copertina malconcia. Il frontespizio era pressoché illeggibile. Passai a un'altra pagina. Le cose non miglioravano. La carta di stracci si era talmente raggrinzita per l'umidità che, vista di scorcio, la pagina sembrava il disotto della cappella di un fungo. Il volume svergognava il suo proprietario. Sfogliai le pagine irrigidite, molte delle quali erano traforate dai vermi; interi paragrafi erano ormai indecifrabili, ridotti a lanugine e polvere. Disgustato, riposi il volume e ne presi un altro e poi un altro, entrambi buoni solo per lo stracciaiolo. Quello successivo sembrava uscito
da un incendio, mentre un quinto era stato semicancellato e ingiallito dai raggi di un sole di tanto tempo fa. Con un sospiro li rimisi al loro posto, augurandomi che Lady Marchamont non contasse di ripristinare le sorti di Pontifex Hall con la vendita di robaccia di quella sorta. Ma non tutti i libri erano in così penose condizioni. Aggirandomi tra gli scaffali potevo vedere che molti dei volumi - o almeno le loro legature erano di notevole valore. C'erano marocchini di ogni colore, alcuni impressi in oro o ricamati, altri decorati con pietre e metalli preziosi. Alcune pelli, è vero, erano raggrinzite, e avevano perduto un po' della loro lucentezza, ma non c'erano difetti tali che un po' di essenza di cedro e di lanolina non potesse riparare. E le gemme - che al mio occhio inesperto apparivano come rubini, seleniti e lapislazzuli - dovevano da sole valere una piccola fortuna. Gli scaffali lungo la parete sud, quella vicina alla finestra, erano dedicati agli autori greci e latini, con due interi ripiani gravati da varie collezioni ed edizioni di Platone. Il proprietario della biblioteca doveva aver posseduto l'occhio dell'erudito ma anche una borsa ben fornita, visto che aveva potuto procurarsi le migliori edizioni e traduzioni. Non solo c'era la seconda edizione della traduzione in latino di Marsilio Ficino - la grande Platonis opera omnia stampata a Venezia e comprendente le correzioni di Ficino alla prima edizione commissionata da Cosimo de' Medici - ma anche la più autorevole traduzione pubblicata a Ginevra da Henri Etienne. Aristotele, poi, era rappresentato non solo dall'edizione di Basilea in due volumi del 1593, ma anche dall'edizione 1550 con gli emendamenti di Victorius e Flacius, e infine dalla Aristotelis opera edita dal grande Isaac Casaubon e pubblicata a Ginevra. Tutti questi erano in discrete condizioni, con qualche sporadico difetto o qualche graffio, e avrebbero spuntato un buon prezzo. Pari giustizia veniva fatta agli altri autori classici. Alzandomi in punta di piedi o accoccolandomi, estraevo un volume dopo l'altro dallo scaffale e li esaminavo uno per uno prima di rimetterli accuratamente al loro posto. Era presente l'edizione Plamerius della Naturatis historia pliniana, legata in vitello rosso, l'edizione aldina di Livio, accanto agli Annalium et Historiarum libri di Tacito, editi da Vindelinus e racchiusi in una delicata camicia. C'era anche l'edizione di Basilea del De natura deorum di Cicerone rilegata in marocchino verde oliva con un grazioso disegno in rilievo... L'edizione di Dionysus Lambinus del De rerum natura... e, il più stupefacente di tutti, una copia delle Confessiones di Agostino nel vitello bruno inciso in cui riconobbi l'opera della legatoria di Caxton. C'erano inoltre dozzine di
volumi più esili, commentari ed esposizioni: Porfirio su Orazio, Ficino su Plotino, Donato su Virgilio, Proclo sulla Repubblica di Platone... Ora mi muovevo e scrutavo in giro totalmente dimentico della mia inadempiente ospite. Non solo era rappresentata la saggezza degli antichi, ma anche i progressi nel sapere compiuti nel nostro secolo. C'erano libri di navigazione, agricoltura, architettura, medicina, orticultura, teologia, pedagogia, filosofia naturale, astronomia, astrologia, matematica, geometria e steganografia, o "scrittura segreta." C'erano anche numerosi volumi contenenti poesie, opere teatrali e nouvelles. Inglesi, francesi, italiani, tedeschi, boemi, persiani, la nazionalità sembrava non contare. Gli autori e i titoli scorrevano davanti ai miei occhi: un catalogo della fama. Mi fermai e feci scorrere le dita lungo uno palchetto di edizioni in-quarto di opere di Shakespeare; diciannove in tutto, rilegate in tela. Mancava invece, notai, l'edizione in-folio che, come ogni libraio sapeva, era stata data alle stampe da William Jaggard nel 1623. La cosa mi colpì come una stonatura in quella foga di assimilazione totale, di completezza, altrove così evidente. Né appariva null'altro stampato dopo il 1620. Nella grande collezione erboristica, per esempio, c'erano De historia plantarum di Teofrasto, la Medicinae herbariae di Agricola e la Generali Historie of Plants di Gerard, ma nessuna delle opere più recenti come la Pharmacopoeia Londinensis di Culpeper, il Garden of Health di Langham e neppure l'edizione di Thomas Johnson del 1633, aumentata e molto superiore, del Gerard. Cosa significava, questo? Che il collezionista era morto prima del 1620, senza poter realizzare il suo sogno ambizioso? Che da quarant'anni e più la magnifica raccolta era rimasta indisturbata, non integrata, non consultata? Mi trovavo ora davanti alla parete nord, e qui la collezione si faceva ancora più notevole. Allungai la mano a toccare qualcuna delle legature allentate. La luce che entrava dalla finestra si stava rapidamente dileguando. Un consistente settore sulla sinistra appariva dedicato all'arte della metallurgia. Inizialmente distinsi opere del genere che mi sarei aspettato di trovare, come la Pirotechnia di Biringuccio e il Beschreibung allerfürnemisten Mineralischen Ertzt, rilegate in pelle di scrofa e contenenti bellissime xilografie. Libri un po' superati ma ancora affatto rispettabili. Ma cosa dovevo pensare di tanti altri testi inframmezzati tra quelli - Metallurgia di Jakob Böhme, Mineralia opera di Isacco d'Olanda, una traduzione della Vera filosofia naturale dei metalli di Denis Zachaire - libri che erano quasi manuali di magia nera, prodotti di menti inferiori e superstiziose? Altre menti altrettanto inferiori e superstiziose si trovavano più avanti
sullo scaffale. La saggezza e il buon gusto che governavano la selezione si andavano ora deteriorando in un indiscriminato e onnivoro consumo di autori di mala reputazione, uomini che riponevano una fede troppo pronta - e alquanto empia - nell'operare occulto della natura. Le fettucce per agevolarne l'estrazione spuntavano sbiadite dai dorsi dorati come impudiche lingue rosa. Sforzando gli occhi nella luce scarsa, estrassi una traduzione francese delle opere di Artephius. Accanto c'era il commentario di Alain de Lisle alle profezie di Merlino. Ben presto la faccenda peggiorava ulteriormente. Il Mirror of Alchymy di Ruggero Bacone, il Compound of Alchymy di George Ripley, il De occulta philosophia di Cornelius Agrippa, l'Occulta occultum occulta di Paul Skalich... Tutti questi volumi erano opera di ciurmatori, ciarlatani, prestidigitatori che non avevano nulla a che fare, per come la vedevo io, con la ricerca della vera conoscenza. Sugli scaffali sottostanti c'erano decine di libri su varie forme di divinazione. Piromanzia. Chiromanzia. Astromanzia. Sciomanzia. Sciomanzia? Appoggiai il bastone alla libreria e presi il libro. Ah, "divinazione per mezzo delle ombre." Lo richiusi con uno scatto secco. Baggianate simili apparivano totalmente fuori luogo in una biblioteca peraltro dedicata a più nobili rami del sapere. Rimisi il libro al suo posto e, senza guardare, ne presi un altro tirandolo per la fettuccia. Peccato che i vermi non avessero banchettato con quelle pagine, pensai aprendolo. Ma prima di poter leggerne il frontespizio, una voce alle mie spalle mi bloccò all'improvviso. "L'edizione Lefèvre della traduzione di Ficino del Pimander. Un'edizione eccellente, Mr Inchbold. Ne possiederà anche lei una copia, immagino." Sobbalzando di sorpresa, alzai gli occhi e scorsi due sagome nere sulla porta della biblioteca. Tutto d'un tratto ebbi la spiacevole impressione che mi stessero osservando da qualche tempo. Una delle forme, quella di una signora, si era fatta avanti di qualche passo e ora, voltandosi, diede fuoco allo stoppino di una lampada a olio di pesce posata su uno degli scaffali. La sua ombra guizzò verso di me. "Mi permetta di scusarmi." Mi affrettai a rimettere a posto il libro. "Non avrei immaginato..." "L'edizione Lefèvre," continuò lei girandosi e soffiando sull'accenditoio, "segna la prima occasione in cui il Corpus hermeticum si è trovato riunito tra due copertine da quando a Costantinopoli da Michele Psello lo raccolse. Contiene perfino l'Asclepius, che Ficino, non possedendone una copia manoscritta, non era stato in grado di includere nell'edizione preparata per
Cosimo de' Medici." Fece una pausa brevissima. "Gradisce del vino, Mr Inchbold?" "No... voglio dire, sì," risposi, con un goffo inchino. "Voglio dire... il vino sarebbe..." "Qualcosa da mangiare? Phineas mi ha detto che stasera non ha cenato. Bridget?" Si voltò verso l'altra figura, una cameriera, che si era fermata sulla soglia. "Sì, Lady Marchamont?" "Porta le coppe, per favore." "Sì, milady." "Il vino ungherese, direi. E di' a Mary di preparare la cena per Mr Inchbold." "Sì, milady." "Presto, Bridget. Mr Inchbold ha fatto un lungo viaggio." "Sì, milady," mormorò la ragazza prima di scappar via. "Bridget è nuova di Pontifex Hall," spiegò Lady Marchamont in tono curiosamente confidenziale, attraversando lentamente la biblioteca con la lanterna che cigolava sul manico trasformando le sue orbite in due buchi neri. Non sembrava propensa a fare le presentazioni, come se mi conoscesse da secoli e considerasse cosa assolutamente normale l'avermi scoperto acquattato al buio come un ladro, mentre frugavo avidamente tra quegli scaffali carichi di libri. Rientrava anche quella tra le usanze degli aristocratici? "Faceva parte," aggiunse, "della servitù della famiglia del mio defunto marito." Brancolai alla ricerca di una risposta, senza trovarla, e rimasi invece in stupefatto silenzio a fissarla mentre si avvicinava nel fioco barlume della lucerna, con l'esile filo di fumo che si alzava verso il soffitto dietro di lei. Oh, con quanta precisione rammento quel momento! Perché fu così, fu qui, che ebbe inizio tutto... e qui non molto tempo dopo sarebbe tutto finito. Dalla lastra rotta della finestra entravano le voci di una ronda di usignoli dal giardino incolto e il raspare di un ramo morto contro uno dei montanti. La biblioteca in sé era silenziosa eccettuati i suoi passi lenti - calzava un paio di stivaletti di pelle - e poi il tonfo di uno dei libri accatastati sul pavimento che si abbatteva, urtato al passaggio della sua gonna. "Mi dica, Mr Inchbold, ha fatto buon viaggio?" Si era fermata, infine, un'espressione sul volto, visibile a metà, apparentemente svagata e contrariata. "No, no. Non dobbiamo iniziare la nostra conoscenza con una bugia. È stato orribile, vero? Sì, lo so che lo è stato, e me ne scuso. Phineas è ab-
bastanza affidabile come cocchiere," disse con un sospiro, "ma, sì, come compagno è pessimo. Pover'uomo, non ha letto un solo libro in tutta la vita." "Il viaggio è stato piacevole," mormorai fievolmente. Sì: il nostro rapporto fu una serie di bugie, nonostante quello che aveva detto. Bugie dall'inizio alla fine. "Mi rincresce di non poterle offrire da sedere," continuò lei, accennando alla biblioteca con un ampio gesto del braccio. "I soldati di Oliver Cromwell hanno messo al fuoco tutto il mio mobilio per cucinarsi il rancio e scaldarsi i piedi." Ebbi un moto di sorpresa. "Un reggimento è stato acquartierato qui?" "Quattordici o quindici anni fa. La proprietà fu confiscata per atti di tradimento contro il Parlamento. I soldati hanno bruciato perfino il mio letto migliore. Quasi quattro metri di altezza, Mr Inchbold. Quattro colonnine in faggio da cui pendevano metri e metri di taffettà." Fece una pausa per rivolgermi un sorrisetto amaro. "Devo pensare che li abbiano tenuti caldi per un po', no?" Ora era davanti a me, o quasi, e potevo vederla più chiaramente alla luce della lampada. Complessivamente avrei avuto con lei solo tre brevi incontri, e la mia prima impressione - mi stupisce ora che lo ricordo - non fu particolarmente favorevole. Doveva avere grosso modo la mia età, e pur essendo abbastanza piacente, oserei dire nobile nell'aspetto, con una fronte perfetta, un naso aquilino pronunciato e un paio di occhi neri che facevano pensare a una decisa forza di volontà, questi pregi erano stati erosi da trascuratezza o indigenza. I suoi capelli neri erano folti e, a differenza dei miei, non avevano ancora cominciato a ingrigire, ma erano portati sciolti e si allargavano dal capo in una scompigliata e disdicevole aureola. La sua veste era di un velluto abbastanza pregevole ma la stoffa era da tempo lisa, ed era di taglio antiquato e, cosa più sgradevole, era macchiato come una vecchia vela. Indossava una sorta di mantello con il cappuccio, che probabilmente era di seta, ma non uno di quei leggiadri cappucci a occhio di pavone che si vedono sulla testa delle dame alla moda che passeggiano per St James's Park, perché era nero come il giaietto, non diversamente dall'abito, e in cattivo stato. Dal suo lugubre colore, e dal paio di guanti neri che le salivano fino a mezzo braccio, la si sarebbe detta in gramaglie. Tutto l'insieme le dava un'aria di affranto splendore, conclusi, come Pontifex Hall stessa. "I puritani le hanno bruciato tutti i mobili?"
"Non tutti," rispose lei. "No. Presumo che alcuni di essi, i pezzi di maggior pregio, li abbiano venduti." "Mi spiace." Improvvisamente l'immagine della soldataglia cenciosa di Cromwell non mi appariva più così buffa. Un accenno di sorriso comparve sulle sue labbra. "La prego, Mr Inchbold, non è il caso di rammaricarsi per loro. Un letto si può rimpiazzare, a differenza di altro." "Suo marito," mormorai comprensivo. "Anche un marito si può rimpiazzare," disse lei. "Perfino un uomo come Lord Marchamont. Lei lo ha conosciuto?" Feci segno di no con la testa. "Era irlandese," spiegò lei semplicemente. "È morto in Francia due anni fa." "Era del partito realista?" "Naturalmente." Si era voltata e ora misurava a passi lenti la stanza, esaminando i libri e gli scaffali come un amministratore studia una mandria pregiata o un raccolto di grano particolarmente soddisfacente. Mi stavo già domandando se non appartenessero a lei. Era improbabile. I libri, secondo la mia esperienza, non erano una faccenda da donne. Ma allora, come sapeva di Ficino e Lefèvre d'Etapes e Michele Psello? Sentii partire, sottile e diffidente, un brivido di cauto interesse. "Questi sono tutto ciò che mi è rimasto," disse, quasi a se stessa. Aveva cominciato a far scorrere le dita guantate lungo i dorsi, proprio come avevo fatto io pochi minuti prima. "Tutto ciò che posseggo. Questi e la casa. Anche se probabilmente Pontifex Hall non sarà mia ancora a lungo." "Apparteneva a Lord Marchamont?" "No, la sua tenuta era in Irlanda, e c'è anche una casa nell'Hertfordshire. Posti orrendi. Pontifex Hall era di mio padre, ma dopo il matrimonio Lord Marchamont fu nominato suo erede presunto. Non abbiamo avuto figli, e fu lasciata a me nel suo testamento. Lì..." Indicava la finestra, dalla quale la luce era andata via quasi del tutto. Il parterre sottostante si perdeva nell'ombra e nel riflesso di noi due. "Lì erano quattro poltrone di pelle, accanto a un tavolo e a un magnifico scrittoio antico di noce, dove mio padre scriveva le sue lettere. E sul pavimento un tappeto turco annodato a mano, con scimmie e pavoni e ogni sorta di motivo orientale intessuto tra i suoi disegni." Lentamente riportò lo sguardo su di me. "Ora mi chiedo che fine potranno avere mai fatto. Venduti come spoglie di guerra, è inutile che me lo chieda."
Mi schiarii la gola ed espressi un pensiero che mi era sopraggiunto un momento prima. "Un vero miracolo che i suoi libri si siano salvati." "Oh, ma non si sono salvati," fu l'immediata risposta. "Non tutti. Molti, quando tornai, erano spariti. Altri, come può vedere, erano orribilmente danneggiati. Però è vero, proprio un miracolo. I soldati avrebbero potuto bruciarli dal primo all'ultimo, e non solo per il freddo degli inverni. Alcuni sarebbero stati considerati papisti, o diabolici, o entrambe le cose." Accennò con la testa al palchetto dietro di me. "La traduzione di Fucino del Pimander, per esempio. Fortunatamente erano stati nascosti." "Cosa intende dire?" "Da mio padre. Una storia lunga, Mr Inchbold. Ogni cosa a suo tempo. Vede, ognuno di questi libri ha la sua storia. Molti di essi sono sopravvissuti a un naufragio." "Un naufragio?" "Altri," continuò lei, "sono profughi. Vede quelle catene?" Stava indicando un gruppo di volumi con le legature ancorate alle scansie. I festoni delle catene mandavano un vago luccichio nella penombra. Annuii. "Quei libri sono già stati recuperati una volta, allora dai college di Oxford," spiegò, sfilandone uno, un in-folio, dallo scaffale. Passò una mano guantata sulla copertina di pergamena - un gesto affettuoso. La catena sferragliò sommessamente per protesta. "È accaduto il secolo scorso." "Furono recuperati dalle mani di Edoardo VI?" "Da quelle dei suoi agenti. Furono trafugati dalle biblioteche dei college e si salvarono dai roghi." Aperto l'enorme volume, aveva preso a sfogliarne distrattamente le pagine. "È straordinaria la determinazione con cui re e imperatori hanno sempre cercato di distruggere i libri. Ma la civiltà è tutta fondata su queste profanazioni, non è vero? Giustiniano il Grande bruciò tutti i rotoli greci a Costantinopoli dopo aver codificato il diritto romano e scacciato gli ostrogoti dall'Italia. E Shih Huang Ti, il primo imperatore della Cina, l'uomo che unificò i cinque regni e costruì la Grande Muraglia, decretò che ogni libro scritto prima della sua nascita venisse distrutto." Richiuse il volume di scatto e lo rimise al suo posto con un gesto deciso. "Questi libri," disse, "mio padre li acquistò molto più tardi." "Ah," dissi io, sperando che finalmente stessimo arrivando al nocciolo della questione. "Dunque tutti questi sono libri suoi? E lei intende venderli." "Lo erano," replicò lei. "Erano libri suoi. Sì, fu lui a mettere insieme la collezione." Fece una breve pausa e mi guardò gravemente. "No, Mr In-
chbold, non intendo venderli. Assolutamente no. Ah," disse, voltandosi, "ecco Bridget. Vogliamo passare in sala da pranzo? Credo che lì sarò in grado di offrirle da sedere." Poco dopo ero seduto davanti a un'anatra che Mrs Walter, la cuoca, aveva arrostito su un letto di scalogni verdi e servito su un largo piatto. Anziché su un tavolo da pranzo - evidentemente un'altra vittima di guerra - il piatto era in precario equilibrio sulle mie ginocchia. Mangiavo con imbarazzo, senza appetito, sentendomi addosso gli occhi della mia ospite, che mi sedeva di fronte. Per un secondo i suoi occhi franchi si erano fermati sul mio piede torto e rattrappito che sembra, come ho sempre pensato, la misera estremità di uno gnomo malvagio di qualche libro di fiabe tedesco. Mi sentii avvampare dal risentimento, ma a quel punto Lady Marchamont aveva già distolto lo sguardo. "Devo scusarmi per il vino," disse lei, ordinando a Bridget con un cenno del capo di riempirmi il bicchiere, per la terza volta. "Un tempo mio padre aveva delle vigne. Nella valle." Fece un gesto vago in direzione di una delle finestre rotte. "Sui pendii sopra il fiume, al riparo dal vento. Producevano un vino eccellente, o almeno così mi dicevano. Ero troppo piccola per apprezzarlo, a quel tempo, e da allora i vigneti sono andati distrutti." "Dai soldati, immagino." Scosse la testa. "No, da una diversa genia di vandali, una razza più indigena. I paesani." "I paesani?" Pensai al villaggio sinistramente deserto che la carrozza aveva attraversato. "Di Crampton Magna?" "Lì e altrove. Sì." Mi strinsi nelle spalle. "Ma perché fare una cosa simile?" Lei alzò la sua coppa e immerse lo sguardo nel liquido scuro. Mi aveva già spiegato, con quel suo fare sconcertante e alquanto gratuito che mi stava diventando familiare, come erano state realizzate quelle coppe. Suo padre aveva ricevuto una sorta di brevetto per il processo, nel quale si mescolava in un crogiolo oro e mercurio, poi si faceva evaporare il mercurio e si dorava il bicchiere con una sottile patina dell'oro estratto. Aveva realizzato molti brevetti, mi aveva spiegato. Un vero Dedalo. Ora sembrava stesse studiando il monogramma sul fondo della coppa - una A e una P intrecciate - che io stesso avevo già notato. "Mi dica, Mr Inchbold," riprese dopo una pausa, "ha per caso visto gli scavi sul prato e lungo il viale arrivando a Pontifex Hall?"
Annuii, ricordando le buche disposte alla rinfusa e i neri monticelli di terra accanto a esse. "Ho pensato che vi fossero in corso dei lavori." Fece un cenno di diniego con la sua grande aureola scura. "Cannonate?" "Niente di così drastico. Non ci sono stati assedi, qui. L'area circostante fu giudicata di scarso interesse dagli eserciti di ambo le parti. Per nostra fortuna, Mr Inchbold, altrimenti non credo proprio che noi due avremmo questa conversazione." Resistetti all'impulso di domandarle perché noi due stessimo avendo quella conversazione. Ancora non avevo la più pallida idea del motivo per cui ero stato convocato lì, né perché mi stesse raccontando la storia della sua singolare e, francamente, inospitale dimora. Era un ennesimo esempio dello strano modo di fare degli aristocratici? Se da me non si aspettava una stima o la vendita dei suoi libri, quale mai poteva essere il mio compito? Poteva mai avere intenzione - o bisogno - di acquistarne altri? Sarebbe stato come portare vasi a Samo. Improvvisamente mi sentii più sfinito che mai. Ma a quanto pareva era ancora lontano il momento in cui sarei venuto a conoscenza della natura del mio incarico, perché ora si lanciò in un resoconto della storia recente di Pontifex Hall. Mentre io con qualche difficoltà sezionavo l'anatra, lei mi riferiva che, partito il reggimento dopo aver fatto a pezzi le piante del frutteto e il mobilio per avere legna da ardere e strappato via le inferriate per usarne il ferro per moschetti e cannoni, la casa era rimasta vuota per diversi mesi. La proprietà era stata messa nelle mani di un fiduciario che, autorizzato da un Atto del Parlamento nel 1651, l'aveva venduta al locale Membro del Parlamento, un uomo di nome Standfast Osborne. "A quel tempo Lord Marchamont e io eravamo in Francia, in esilio. Sono tornata in Inghilterra un paio di mesi fa, quando la casa mi è stata restituita in base all'Atto di Indennità e Cancellazione. Ormai è quasi un anno che Osborne è andato via. Fuggito in Olanda. Molto prudente da parte sua, visto che era uno dei regicidi. Quando sono rimpatriata dalla Francia non mi aspettavo di essere la benvenuta a Pontifex Hall, perché la gente di qui era per i parlamentari. E infatti non lo sono stata. La brava gente di Crampton Magna già mi vede, credo, come una strega." Quel mezzo sorriso ricomparve, mentre le sue spalle si alzavano in un gesto di indifferenza. "Sì, a lei, londinese, uomo istruito, potrà apparire strano, ma è così. Da queste parti una donna che sappia leggere è considerata una strega. E una donna che vive per conto suo, in una casa in rovina, circondata da libri e strumen-
ti scientifici, senza marito o padre o figli che la guidino e la controllino... be' questo è ancor peggio, no?" Fece una pausa, studiandomi attentamente con i suoi occhi intensi, vicini, che nella luce migliore della sala da pranzo, potevo vedere di un chiaro grigio azzurro. Masticavo lentamente e con difficoltà, come un bovino che rumina. Avevo ritirato il piede sotto la sedia, fuori vista. Si voltò e fece cenno a Bridget di riempirmi la coppa. "Adesso puoi andare," le disse quando ebbe eseguito l'ordine. Solo quando i passi della cameriera si furono spenti in lontananza, inghiottiti dall'immensa casa echeggiante, proseguì. "Ho grosse difficoltà a trovare serve in zona," mi informò in tono confidenziale. "È per questo che mi tocca prenderle dal personale di Lord Marchamont." "Ma perché ha difficoltà? A causa di Lord Marchamont? O per la sua... politica?" Scosse la testa. "No, per mio padre. Forse avrà sentito parlare di lui - ai suoi tempi era piuttosto famoso. Il suo nome era Sir Ambrose Plessington," aggiunse dopo una breve pausa. Quel nome, per quanto strana sembri ora la cosa, non mi diceva niente, assolutamente niente. Ma nel ricordo, quel momento lo rivivo accompagnato da un vibrante silenzio, una sorta di terribile equilibrio in cui una lunga ombra si faceva avanti, oscurando la stanza, gettandomi addosso la sua pesante obliqua coltre. In realtà mi limitai a scuotere la testa, chiedendomi come fosse possibile che non conoscessi una persona che era stata capace di accumulare una collezione così imponente. "No, non l'ho mai sentito," risposi. "Chi era?" Per qualche momento non disse nulla. Era seduta perfettamente immobile, con le mani unite in grembo. La lampada a olio ne proiettava l'ombra sulla superficie disuguale della parete alle sue spalle. Mi venne in mente il libro sulla "sciomanzia" che avevo visto in biblioteca e mi chiesi quali segni avrebbe saputo leggere il suo autore nell'ombra tremolante di Lady Marchamont. "Beva il suo vino, Mr Inchbold," disse infine. Si era protesa in avanti nella luce livida della lanterna, e i suoi occhi studiavano di nuovo il mio viso, come cercando la prova che poteva fidarsi di me. Forse, in quel momento, ero per lei insondabile quasi quanto lo era lei per me. "Ho una cosa che desidero mostrarle. Una cosa che potrebbe trovare interessante." Da che punto di vista? Ormai la mia curiosità era stata eclissata dall'impazienza. Ma cosa avrei potuto fare? Tracannai il vino e in fretta mi strofi-
nai le mani sulle brache. Poi, tenendo a freno una mezza dozzina di domande che mi bruciavano dentro, la seguii fuori dalla sala da pranzo. CAPITOLO 4 Fu così dunque che il mio primo incontro con Sir Ambrose Plessington ebbe luogo in un sotterraneo o una cripta nel sottosuolo di Pontifex Hall. Lasciata la sala da pranzo riscendemmo per l'ampio scalone, poi svoltammo più volte a sinistra lungo un susseguirsi interconnesso di corridoi, anticamere e stanze deserte prima di scendere un'altra rampa di scale, molto più stretta. Lady Marchamont teneva alta la lampada come un comandante della ronda mentre io le arrancavo dietro. La luce inadeguata cadeva su un muro tutto graffiato sopra al quale le nostre ombre disegnavano fantastici gesti minacciosi. I piedi grattavano i gradini che scendevano verso quella che appariva come una sorta di cripta. Sentii le ragnatele sfiorarmi la fronte e le labbra. Le scacciai via con la mano e subito mi coprii naso e bocca con il fazzoletto. A ogni passo il fetore di marcio sembrava raddoppiare. Lady Marchamont, invece, mostrava di non accorgersi del puzzo come del freddo e del buio. "La dispensa, la cantina," stava dicendo, "erano tutte quaggiù, insieme agli alloggi dei valletti. Ne avevamo tre, di valletti, ricordo. Phineas è l'ultimo. Era al servizio di mio padre già più di quarant'anni fa. È stata una manna dal cielo che abbia potuto ritrovarlo. O meglio, che mi abbia trovato lui dopo il mio ritorno. Mi è, lei capisce, assai devoto. Mentre scendevamo mi ero aspettato di trovare un dedalo di corridoi e stanze a somiglianza di quello che avevamo attraversato in cima alle scale. Ma raggiunto finalmente il fondo, ci trovammo in un basso corridoio che si estendeva rettilineo fin dove arrivava il debole alone luminoso della lampada. Procedemmo lentamente, facendoci strada tra pezzi di mobilio, doghe di botti sfasciate e altri ostacoli meno identificabili. Il pavimento non appariva in piano; stavamo continuando a scendere, avanzando lungo il fondo lievemente inclinato. Laggiù le pareti trasudavano umidità, e cominciò ad arrivarci un vago rumore di acqua che scorre, accompagnato da un odore acre. Il pavimento sembrava coperto di sabbia. Ancora non se ne vedeva la fine. Forse eravamo davvero in un labirinto, pensai: una sorta di mundus cerberis come quelli che i romani costruivano sotto le loro città cripte buie e tortuose gallerie - per conversare con gli abitanti degli inferi. A un tratto Lady Marchamont batté su una delle pareti con le nocche
guantate. Il suono riverberò come da un timpano. "Rame," spiegò. "Gli uomini di Cromwell riponevano qui le loro polveri, per questo le pareti e la porta sono state rivestite di rame. Non precisamente il luogo più asciutto della casa, direi." "Polvere da sparo?" Improvvisamente riconobbi la natura dell'odore acre e della sabbia sotto i miei piedi. Cominciai a temere per la lampada, che Lady Marchamont faceva oscillare qua e là senza precauzioni. La sua luce ora rischiarava diverse porte chiuse e piccole nicchie sui due lati del corridoio. Rabbrividii nell'umido buio, chiedendomi se dietro quelle porte fossero ammucchiati promiscuamente i teschi e le tibie di cento Plessington in pericolanti ossari. Procedevamo a passo svelto lungo il cunicolo, il cui termine - se mai ce n'era uno - si perdeva nell'oscurità. Finalmente giungemmo a destinazione. Lady Marchamont si fermò davanti a una delle porte e, dopo aver trafficato con un mazzo di chiavi, la aprì. Una coppia di cardini arrugginiti cigolò sinistramente. "Prego," disse, volgendosi verso di me con un sorriso, "entri pure, Mr Inchbold. Qui dentro troverà i resti mortali di Sir Ambrose Plessington." "Resti... " Feci per indietreggiare, ma era troppo tardi per opporre resistenza. Lady Marchamont si era impadronita del mio polso e mi stava trascinando oltre la soglia. "Lì..." Indicava un angolo della piccola camera, dove un malconcio feretro di quercia era posato su un basso tavolo a cavalletti. Puntai i piedi, cercando di liberare il braccio, ma poi con grande sollievo vidi che i "resti" del padre erano testuali, non corporei: la cassa, il cui coperchio era sollevato, era piena non di ossa bensì di pile di documenti, di spessi incartamenti che minacciavano di debordare. "Qui c'è tutto." Il suo era un tono reverenziale mentre avanzava con passo cauto. "Tutto su mio padre. Su Pontifex Hall. Più precisamente, quasi tutto..." Aveva appeso la lampada a una mensola infissa nel muro e ora si inginocchiava davanti alla bara su un tappeto di giunchi che erano stati sparsi sulla terra battuta del pavimento davanti ai cavalletti. La cassa, me ne accorgevo adesso, era incrostata di melma. Cominciò a prendere i documenti uno per uno, sfogliandoli e riponendoli. Il mantello le pendeva sulle spalle come un paio di ali ripiegate. Una specie di archivio, immaginai, trattenendomi sulla soglia finché lei mi fece cenno di avvicinarmi.
"Le carte della proprietà," spiegò. "Gli inventari, i contratti, gli atti di trasferimento." Sembrava che stesse immergendo le mani in un cofano colmo di sideriti e ametiste, non di quei mucchi di documenti ingialliti. "Fu per queste, sa, che Standfast Osborne acquistò la tenuta." La sua voce riecheggiava secca dalle pareti nude. "Per i suoi documenti. Non aveva il minimo interesse per la casa, come può vedere chiaramente. Ma la cassa era nascosta al sicuro. Fu Lord Marchamont a provvedere alla cosa." La stanza era angusta e soffocante, le sue mura incrostate di qualcosa, depositi di salnitro, mi parve. La fiamma, che ora baluginava debolmente, rischiarava generazioni di ragnatele, ognuna di esse ispessita dalla polvere. Per tutta la vita ho sofferto di asma - il risultato di due polmoni sottoposti alla concia del fumo di carbone di Londra. Ora, sulla soglia di quella strana cripta, avvertivo il ben noto gorgoglio sotto lo sterno. "Le carte sono state conservate qui, in questa stanza," riuscii a chiedere, appoggiandomi al bastone, "per tutti questi anni?" "No di certo." Il suo dorso alato era ancora rivolto verso di me. "Sarebbe bastata un'ora a trovarle. No, erano sepolte nel cimitero di Crampton Magna. In questa bara. Ingegnoso, vero? Sotto una lapide che portava il nome di uno dei valletti. Ecco..." Si volse, porgendomi un foglio con la mano guantata. "Questo è l'ordine che ha segnato la nostra sorte." Il foglio era di pesante carta di lino, con i bordi incurvati e un po' bruciacchiati. Lo presi e, inclinandolo verso la luce della lampada e avvicinandomelo a un palmo dal naso, vidi impresso un sigillo parlamentare e, sotto, l'iscrizione, leggermente sbiadita, in una spessa grafia cancelleresca: Sia con questo Atto disposto che ogni Terreno, Campo, Bene e Proprietà immobiliare, con ogni qualsivoglia Annesso, del suddetto Henry Greatorex, Barone Marchamont, siano essi detenuti a titolo di Possesso, Reversione o Proprietà subordinata, al 20 di Maggio dell'anno di nostro Signore 1651, e tutti i diritti di accesso ai suddetti Terreni, Campi, Beni e Proprietà... "L'ordine di confisca della proprietà," spiegò. Mi porse un altro foglio, o meglio un piccolo scartafaccio. Questa raccolta, legata con un nastro stinto e logoro, aveva un aspetto meno ufficiale ed era vergata in una grafia formale secretariale che apparteneva, ma questo non lo sapevo, a Sir Ambrose Plessington in persona, il quale quindi mi si presentò per la prima volta tra le righe di un lungo testo, la lista dei suoi averi: "Inventario di tutti i Beni
mobili e immobili di Ambrose Plessington, Cav. di Pontifex Hall, nella Parrocchia di St. Peter's, stimati e valutati in presenza di quattro Ufficiali giudiziari... " Lasciai il bastone e sciolsi il nastro. Il resto del documento, sei pagine in tutto, scritte su entrambe le facce, costituiva una lunghissima lista delle proprietà di Sir Ambrose: mobili, quadri, tendaggi, argenti e vasellame, insieme con oggetti meno comuni come telescopi, quadranti, calibri, bussole e diverse vetrinette il cui contenuto - animali conservati, conchiglie e coralli, monete, punte di frecce, frammenti di urne, objets d'art di ogni genere, e perfino due automi - era stato enumerato pezzo per pezzo. Uno dei più preziosi era un "Kunstschrank' tempestato in superficie di diamanti e smeraldi, anche se ciò che poteva aver contenuto quest'arca sfavillante stimata la bellezza di 10.000 sterline - l'inventario ometteva di riportarlo. La somma totale dell'intero contenuto della casa era segnata sull'ultima pagina: 155.000 sterline; una cifra incredibile che, ancora colossale nel 1660, alla data dell'inventario, il giugno 1622, doveva andare francamente al di là di ogni immaginazione. Neppure i tesori del defunto re Carlo, fine estimatore d'arte, avevano fruttato un prezzo così alto quando Cromwell li aveva strappati ai palazzi reali vendendoli ai rapaci principi di tutta Europa. Lady Marchamont aveva colto il mio sguardo sbalordito. "Di tutti questi oggetti," disse con voce sommessa, "come vede non resta quasi nulla. Ci sono stati tolti o distrutti dalle truppe. Solo questa cassa e queste carte testimoniano ciò che era un tempo Pontifex Hall. Tutto ciò che mio padre aveva costruito." "Ma la biblioteca..." Ero tornato all'inizio dell'inventario e lo stavo scorrendo lentamente per la seconda volta. "Non vedo menzione dei libri di suo padre." "No." Prese il documento dalle mie mani, lo richiuse con il nastro e lo depose nella bara. "Questo inventario non contiene il catalogo della biblioteca. Ne fu compilato uno a parte." Si voltò di nuovo e, dopo aver frugato ancora, disseppellì un quaderno più grosso. "Estremamente dettagliato, come vedrà. Contiene il prezzo pagato per ciascun libro, con il nome del libraio o l'agente da cui fu acquistato. Un documento interessante, ma non c'è tempo per studiarlo adesso. Per il momento..." Lo mise da parte e scavò con cura nella cassa, scalzando pesanti sedimenti di carta. "Per il momento, Mr Inchbold, dovrà leggere dell'altro. Nel corso della sua vita mio padre ricevette lettere patenti in numerosi paesi, da diversi re e imperatori. Ma queste potrebbero essere di particolare importanza."
Importanza per che cosa? Che cosa aveva a che vedere la mia presenza a Pontifex Hall con quella fetida cripta sotterranea e le sue vecchie cartacce? Con i re e gli imperatori? Lady Marchamont si era già girata verso di me porgendomi tre o quattro documenti. Il primo era una pergamena che portava al piede, in cera rossa screpolata, l'impressione di un enorme sigillo la cui circonferenza diceva, in caratteri a malapena distinguibili, Romanorum Imperator Rudolphus II Caesar Maximus Imp : Rex SALUTI PUBLICAE Portai il foglio più vicino alla luce. Sopra al sigillo, in spessi caratteri gotici, c'erano diversi paragrafi in tedesco che, a quanto mi diceva la mia limitata conoscenza di quella lingua, costituivano l'incarico di cercare libri e manoscritti nelle regioni di Boemia, Moravia, Slesia e Glatz. Era datato 1610. Per qualche momento strofinai delicatamente il margine increspato del documento tra indice e pollice, godendo della vellutata tessitura della membrana, morbida e liscia come la guancia di una signora. Passai oltre con cura, ascoltando soddisfatto il lieve crepitio della pagina, e con il pollice mi sistemai meglio gli occhiali sul naso. Il documento seguente, datato un anno dopo e recante il medesimo sigillo, era di contenuto analogo ma estendeva la commissione al di là del territorio ceco includendo Austria, Stiria, Mainz e l'Alto e il Basso Palatinato, oltre che - cosa più di tutte rimarchevole - le terre del sultano ottomano. Le ultime tre pagine concedevano rispettivamente una patente di nobiltà imperiale, una pensione annua di 500 talleri e un dottorato in filosofia del Carolinum. Quest'ultimo documento era in latino e vi era impresso uno stemma. Alzai lo sguardo e vidi la fronte aggrottata di Lady Marchamont, come assorta nello studio della mia reazione. La luce della lampada oscillò e temetti che stesse per spegnersi. "È a Praga." "Praga?" Il mio sguardo interrogativo era tornato sulle pergamene, che le mie mani sfogliavano nervosamente. "Il Carolinum," sillabò lei, come ripetendo una semplice lezione a uno scolaro ottuso. "È a Praga, in Boemia. Mio padre vi ha passato diversi anni." "Nel Carolinum?" "No. In Boemia. Quando Rodolfo trasferì la corte imperiale da Vienna a
Praga." Stavo ancora studiando le pergamene. "Sir Ambrose era al servizio del Sacro romano imperatore?" Annuì, visibilmente compiaciuta per la sfumatura di ammirazione che aveva colto nella mia voce. "Inizialmente sì. Come agente incaricato di procacciare libri per la Biblioteca Imperiale. Successivamente fu al servizio dell'Elettore Palatino, con il compito di rifornire la Bibliotheca Palatina di Heidelberg." Si chinò e riprese ancora una volta a frugare tra le carte del feretro. Per i successivi dieci minuti dovetti continuare ad ansimare esaminando una dozzina di altri documenti, tutti brevetti per vari monopoli e invenzioni nuovi metodi per saggiare l'oro o attrezzare vascelli - e atti di donazioni per proprietà sparse per l'Inghilterra, l'Irlanda e la Virginia. Altre pagine spiegazzate della fervida vita di Sir Ambrose. Le osservavo piuttosto distrattamente via via che Lady Marchamont me le poneva tra le mani con lo zelo di un quacchero che distribuisce opuscoli per la strada. Ma a un tratto mi ritrovai a sforzare la vista su un documento di diverso genere, un'altra lettera patente con il Gran Sigillo d'Inghilterra impresso al piede, ma i cui caratteri erano più solenni delle altre: Il presente Atto, stilato il trentesimo giorno di Agosto, nell'Anno Domini 1616, Quattordicesimo Anno di Regno del nostro Sovrano Lord Giacomo, per Grazia di Dio, Re d'Inghilterra, Scozia e Irlanda, Difensore della Fede, tra il nostro Signore Sovrano da una Parte, e Ambrose Plessington, Cavaliere dell'Ordine della Giarrettiera, dall'altra Parte, per costruire, attrezzare, rifornire e in ogni altro modo preparare, e quindi comandare e mettere in mare, la Nave nota con il nome di Philip Sidney, dal Porto di Londra alla Città di Manoa, nell'Impero di Guiana... Sbattei le palpebre, mi strofinai gli occhi con le nocche, quindi andai avanti nella lettura. Il documento era una commissione di 3.000 sterline per Sir Ambrose, perché compisse una traversata alla ricerca non di libri e manoscritti - come all'epoca dell'imperatore Rodolfo - bensì le sorgenti dell'Orinoco e una miniera d'oro nei pressi di una città chiamata Manoa nell'impero della Guiana. Della spedizione qualcosa sapevo, se si trattava della medesima impresa, perché mi era ben noto come Sir Walter Raleigh era salito sul patibolo un anno dopo che la sua disastrosa spedizione aveva fat-
to vela, nel 1617, per la Guiana. Dunque la Philip Sidney aveva, risalito l'Orinoco con la sventurata flotta di Raleigh? E in questo caso, cosa ne era stato della nave e del suo capitano? Non riuscivo più a leggere. Le righe del documento danzavano davanti ai miei occhi affaticati, e ora la stretta al petto era ancora più dolorosa. Mi tolsi gli occhiali e mi strofinai gli occhi con i polpastrelli. Tossii, cercando di espellere dai polmoni l'aria viziata e la polvere. Sentii di nuovo il lieve rumore dell'acqua corrente, che ora mi parve provenisse da dietro il muro del piccolo archivio. Rimisi gli occhiali ma le lettere sulla pagina continuavano a ondeggiare e a sfumare sotto il mio sguardo dolorante. "Mi dispiace ma..." "Sì, certo." Lady Marchamont mi tolse dalle mani i documenti e li rimise nella cassa. Ma prima che riabbassasse il coperchio scorsi per un attimo quello che mi apparve come un documento più recente, un altro atto ufficiale di una qualche sorta. Il margine superiore della pergamena era frastagliato, mentre il fondo era stato ripiegato e fissato con un sigillo sospeso a un pendente. Mi aveva concesso di proposito, mi sarei chiesto più tardi, quella fugacissima visione, quell'esilissimo indizio? La firma accanto al sigillo era illeggibile, ma riuscii a cogliere alcune parole vergate in cima: "Sciant presentes et futuri quod ego..." Ma poi il coperchio era ricaduto pesantemente e un attimo dopo sobbalzavo al tocco lieve della mano guantata sul mio braccio. Quando voltai la testa, mi stava rivolgendo il più curioso e inquietante dei sorrisi. "Vogliamo tornare di sopra, Mr Inchbold? L'aria in questi sotterranei non abbonda. Sufficiente a lasciar respirare due persone per non più di mezz'ora per volta." Annuii riconoscente e recuperai a tastoni il mio bastone. L'aria improvvisamente sembrava ancora più densa, e solo adesso mi resi conto che anche lei affannava. Tolta la lampada dal gancio si avviò verso la porta. "Mio padre arieggiava gli scantinati con una pompa atmosferica," continuò, "ma naturalmente anche la pompa hanno rubato, insieme a tutto il resto." I cardini cigolarono di nuovo mentre riaccostava la porta e si sentì il tintinnare delle chiavi e delle catenelle d'argento quando la chiuse. Seguii il mantello nero lungo il corridoio. Sciant presentes et futuri... Mi trascinavo nel buio appoggiandomi al bastone, con la fronte aggrotta-
ta in perplessa concentrazione. Tutti gli uomini presenti e futuri sappiano... che cosa? Mentre ci inerpicavamo su per le scale mi ritrovai a pensare non tanto alle decine di documenti che mi erano stati squadernati sotto il naso quanto piuttosto alla misteriosa pergamena nuova seminascosta tra le altre carte nella bara, l'atto con quel margine ripiegato in attesa di combaciare come la tessera di un mosaico con la sua controparte, la cartapecora gemella da cui era stata accuratamente separato. Sospettai già. allora che potesse far parte di un mosaico più vasto i cui altri pezzi erano ancora ignoti e non scoperti? O è soltanto adesso, col senno di poi, che lo ricordo con tanta chiarezza? Il mio petto sibilava come una caffettiera durante la salita, accompagnata dal rumore dello struscio e dal tonfo del mio piede torto. Stringevo i denti pieno di vergogna, contento che fosse così buio. Ma Lady Marchamont, due gradini più avanti, il viso semivoltato verso di me, non mostrava di accorgersi di quei miei suoni. Mentre continuavamo la nostra ascesa mi parlava di alcuni dei servizi svolti dal padre per Rodolfo II, il grande "imperatore mago" il cui palazzo a Praga era affollato di astrologi, alchimisti, bizzarre invenzioni e, soprattutto, decine di migliaia di libri. Gran parte di ciò che l'imperatore possedeva, affermava lei, lo doveva a Sir Ambrose. Ogni volta che un nobile moriva, entro i confini dell'impero dalla Toscana a sud a Clèves a ovest e alla Lusazia o Slesia a est - suo padre veniva spedito attraverso il variegato e consunto arazzo di principati e feudi ad assicurare all'imperatore gli oggetti più importanti e significativi dell'eredità: dipinti, marmi, orologi, pietre preziose, nuove invenzioni di ogni sorta e, inutile dire, la biblioteca, soprattutto se la collezione conteneva volumi di alchimia e altre arti occulte, che costituivano l'interesse principale di Rodolfo. Erano missioni, aggiunse, in cui suo padre raramente deludeva. "In un solo anno trattò l'acquisizione delle biblioteche di Benedikt di Richnov e del nobile austriaco Anton Schwarz von Steiner." Fece una sosta per riprendere fiato e si voltò verso di me. "Avrà sentito parlare di queste collezioni?" Scossi la testa. Eravamo arrivati in cima alle scale. Mi sembrava che il pavimento piastrellato ondeggiasse sotto i miei piedi come il ponte di una nave che affonda. Mi tenne la porta aperta e io la varcai incespicando, seguendo la mia ombra. Benedikt di Richnov? Anton Schwarz? Erano molte, a quanto pareva, le cose che non conoscevo. "Quelle biblioteche contenevano ognuna oltre diecimila volumi," disse la voce dal buio alle mie spalle. "Tra gli altri tesori comprendevano l'opera
di Rupescissa sull'alchimia e l'edizione Finé di Ruggero Bacone. Finanche manoscritti sull'astrologia di Albamazar e Sacrobosco. La maggior parte di quei testi fu mandata alla Biblioteca imperiale di Vienna perché Hugo Blotius, l'Hofbibliothekar, li catalogasse, ma alcuni vennero portati a Praga per essere esaminati da Sua Eccellenza. Compito non facile. Furono trasportati per le montagne e attraverso la Selva Boema in carri speciali tirati dai muli e forniti di ruote a molla, un'invenzione nuova per quei tempi. Le casse di legno in cui erano stati imballati erano state calafatate con catrame e stoppa, come lo scafo di una nave da guerra. Le casse poi furono avvolte in due strati di tela conciata. Doveva essere una scena davvero mirabile. Dalla testa alla coda il convoglio misurava quasi un miglio, con tutti i libri ancora in ordine alfabetico." La voce rimbombava contro le pareti nude. Sembrava un discorso preparato, come se avesse ripetuto il racconto già molte volte. Mi tornarono alla mente le numerose scansie di opere sull'occulto nella biblioteca del padre e mi chiesi se quei libri avessero qualche relazione con Benedikt di Richnov o con Anton Schwarz, o magari con lo stesso "imperatore mago." Ora camminavamo affiancati, veloci, ripercorrendo il tortuoso tragitto così mi parve - in direzione della biblioteca. Era impossibile dire con certezza se prima avessimo seguito la stessa strada. La servitù, Phineas compreso, sembrava sparita. Pensai che due persone, anzi anche mezza dozzina, avrebbero potuto facilmente trovarsi a Pontifex Hall per giorni e giorni senza mai neppure incrociarsi. Improvvisamente la narrazione cessò. "Mio caro Mr Inchbold..." Mi stavo affrettando per mantenermi al passo con lei, sbuffando e soffiando come un'orca. Ora andai quasi a sbatterle contro perché si era arrestata di botto in mezzo al corridoio. "Mio caro Mr Inchbold, ho troppo preteso dalla sua benevolenza. Sicuramente si starà domandando perché le ho raccontato tutto questo. Perché le ho mostrato la biblioteca, l'inventario, le patenti..." Mi raddrizzai e mi accorsi che non riuscivo a guardarla negli occhi. "Ebbene, Lady Marchamont, devo confessarle..." "La prego," mi interruppe alzando una mano. "Alethea. Voglio sperare che tra noi non ci sia bisogno di formalità." Un ordine, più che una richiesta. Consentii: era di rango superiore al mio, dopotutto, che si usasse o meno il suo titolo. Un nome - una parola - non cambia niente. "Alethea." Pronunciai lo strano nome con cautela, come chi assaggi una
pietanza esotica mai provata. Lei riprese a camminare, ma più lentamente, strusciando sulle mattonelle le spesse suole dei suoi stivaletti. Svoltammo a sinistra in un altro corridoio, più lungo. "Il fatto è che desideravo che lei vedesse qualcosa della Pontifex Hall di un tempo. Può ancora immaginarla? Gli affreschi, gli arazzi..." La sua mano libera si muoveva con gesti da illusionista verso le pareti nude, verso il tratto di corridoio deserto davanti a noi. Strizzai stupidamente gli occhi nella semioscurità, senza riuscire a raffigurarmi niente. "Ma più ancora," aggiunse abbassando la voce, "volevo che lei sapesse che genere d'uomo era mio padre." Eravamo arrivati alla biblioteca, che ora era completamente buia. Sussultai nuovamente al tocco della sua mano. Voltandomi, vidi due minuscole fiammelle, riflessi della lampada, danzare nelle pupille dei suoi occhi ravvicinati. Distolsi inquieto lo sguardo. A questo punto Sir Ambrose era per me ancor meno immaginabile dei suoi beni saccheggiati. "Non ho marito, non ho figli, non ho parenti in vita." La sua voce era ridotta a un sussurro. "Ben poco resta ormai per me. Ma una cosa mi è rimasta, un'ambizione. Vede, Mr Inchbold, desidero riportare Pontifex Hall alla sua precedente condizione. Renderla esattamente la stessa di prima, in ogni minimo particolare." Mi lasciò andare il braccio e indicò di nuovo con un gesto le tenebre vuote. "Fino all'ultimo dettaglio," ribadì, con un'enfasi peculiare. "Il mobilio, i quadri, i giardini, l'aranciera..." "E la biblioteca," conclusi io, pensando ai libri che si disfacevano in carta straccia e polvere sul pavimento. "Sì. Anche la biblioteca." Aveva ripreso possesso del mio braccio. La lampada oscillava in brevi arcate. Le nostre ombre ondeggiavano di qua e di là come danzatori. Lì, in quella casa deserta con le sue pareti nude e gli intonaci cadenti, la sua ambizione appariva irrealizzabile, impossibile. "Tutto esattamente come l'aveva lasciato mio padre. E lo farò. Anche se non mi aspetto che sarà una cosa facile." "No," risposi, sperando di aver usato un tono comprensivo. Stavo pensando a quelle truppe acquartierate, alla facciata devastata della casa, alla grande edera che si insinuava nella finestra del primo piano... all'intera spaventosa immagine di rovina che avevo visto inquadrata dall'arco. Non sarebbe stata una cosa facile, no. "Sarò franca." Aveva sollevato la lampada come per illuminare i nostri visi. Ora bruciava con maggiore vivezza, ma la fiamma non fece che ren-
dere più fitte le ombre, "La difficoltà di restaurare il palazzo non dipenderà solo dalle devastazioni, e non semplicemente dal fatto che, sì, se deve saperlo, mi trovo, possiamo dire, in imbarazzo per i fondi. Dipenderà anche dal fatto che vi sono determinate altre poste in gioco." La voce era spigliata ma gli occhi, fattisi di ossidiana nel buio con le loro pupille dilatate, mantenevano il loro sguardo intenso, penetrante. "Determinati altri interessi. Vede, Mr Inchbold, io, come mio padre, ho accumulato una bella quota di inimicizie." La stretta sul mio braccio era quasi dolorosa. "Ha visto dall'inventario che Sir Ambrose era un uomo di immensa ricchezza." Annuii remissivo. Per un attimo mi parve di vedere i quattro ufficiali giudiziari passare lungo quel corridoio e attraverso il resto della casa, per camere ricche quanto la caverna fatata del tesoro; tastare vasi, orologi, arazzi, secretaire, gioielli di valore inimmaginabile; i loro occhi spalancarsi; un favoloso pezzo dopo l'altro aggiungersi all'incredibile inventario. Tutto sparito ormai. "La ricchezza richiama nemici," riprese, aggiungendo poi con lo stesso tono disinvolto: "Sir Ambrose fu assassinato. Come Lord Marchamont." "Assassinato?" La parola ottenne la sua opportuna risonanza dalle pareti spoglie del corridoio. "Ma da chi? Gli uomini di Cromwell?" Scosse la testa. "Questo non so dirlo con certezza. Ma ho i miei dubbi. Il fatto è che non lo so. Avevo sperato che i documenti mi fornissero qualche indizio. Lord Marchamont pensava di aver scoperto qualcosa, ma..." Tornò a scuotere la testa e abbassò gli occhi. Sollevandoli un attimo dopo dovette cogliere sul mio viso un'espressione che interpretò come di allarme, perché si affrettò ad aggiungere: "Oh, non c'è da temere. Nulla di cui aver paura, Mr Inchbold. Su questo posso rassicurarla. La prego di capire. Sarà assolutamente al sicuro. Glielo prometto." Questa assicurazione aprì una piccola crepa di dubbio. Perché non sarei dovuto essere al sicuro? Ma non ebbi il tempo di soffermarmi sulla questione, perché in quel momento mi lasciò il braccio e prese una campanella. Il suo suono era aspro e lamentoso, come di un allarme. "Nessun timore," insisté, tornando a volgersi verso di me mentre l'eco moriva. "Il suo sarà un compito facile. Un compito che non le comporterà il minimo rischio." Ah, pensai. Alla buon'ora. "Il mio compito?" "Sì." Phineas era apparso in fondo al corridoio. Lady Marchamont si volse verso di lui. "Ma ho già parlato fin troppo. Mi perdoni. Tutto questo dovrà attendere fino a domani. Ora deve riposare, Mr Inchbold. Ha com-
piuto un viaggio così lungo. Phineas?" Il lugubre volto del servitore si stagliò nell'alone giallastro della lucerna. "Per favore, accompagna Mr Inchbold alla sua camera." Sì, pensai, mentre seguivo Phineas su per lo scalone: il mio era stato un viaggio molto lungo. Si era spinto, forse, più in là di quanto pensassi. Fui sistemato per la notte in una camera da letto in cima alle scale, lungo un ampio corridoio fiancheggiato a intervalli regolari da porte chiuse. L'alloggio era ampio ma, come mi aspettavo, inadeguatamente arredato. C'era pagliericcio, uno sgabello a tre piedi, un camino vuoto da cui pendevano festoni di lerce ragnatele, e un tavolino su cui erano posati una penna, un libro, qualche altro oggetto. Ero troppo stanco per guardare di cosa si trattasse. Per un momento mi sentii troppo stanco perfino per muovermi. Rimasi ritto nel mezzo della stanza con lo sguardo perso nella sua nudità. Riflettei che le casupole dei contadini tra le quali ero passato nel tragitto per Crampton Magna erano probabilmente meglio fornite. Pensai per un attimo all'interminabile catalogo di tappeti, arazzi, orologi a pendolo, poltrone. In un'altra vita quella stanza - la "Camera dei velluti," l'aveva chiamata Alethea - doveva essere arredata in maniera spettacolare; forse era proprio quella di Sir Ambrose. Ancora adesso tradiva le tracce della sua vita precedente, come la cappa scheggiata e scrostata del camino, o la zona triangolare ancora ricoperta di carta da parato arabescata in alto sulla parete. Residui di quella gloria che un tempo era stata Pontifex Hall. Per i soldati puritani mezzo morti di fame, nei loro panni neri fatti in casa, doveva essere stato uno spettacolo osceno. E per qualcun altro, evidentemente, un motivo per uccidere. Mi svestii lentamente. Phineas, o altri, aveva portato il mio baule nella stanza deponendolo accanto al pagliericcio. Vi pescai la camicia da notte e la infilai. Poi, inumiditimi pollice e indice, spensi la candela che Phineas aveva posto sul tavolo, è un istante dopo la camera fu invasa attraverso i suoi muri screpolati dalle fonde volute della notte. Chiusi gli occhi, e il sonno pose il sigillo del suo denso inchiostro sulle mie palpebre. CAPITOLO 5 Il Castello di Praga, visto da lontano, era un diadema irregolare posato sul ciglio scosceso di un roccione che incombeva sui tetti graticciati della
Città Vecchia, sull'altra sponda del fiume. All'alba le sue finestre scintillavano al sole nascente, al tramonto la sua ombra si spingeva attraverso il fiume come la mano di un gigante, per poi penetrare nei vicoli della Città Vecchia ricoprendo guglie e piazze. Visto dall'interno, era ancor più imponente, una moltitudine di arcate, corti, cappelle e palazzi, persino alcuni conventi e taverne. Il tutto era racchiuso da mura fortificate la cui forma, dall'alto, faceva pensare a un feretro. La cattedrale di San Vito occupava il centro del castello, e a sud della cattedrale sorgeva Palazzo Kràlovsky, che nell'anno 1620 era la dimora di Federico ed Elisabetta, i nuovi sovrani di Boemia. A duecento metri in linea d'aria, ma passando attraverso un susseguirsi di cortili, poi accanto a una cisterna, una fontana e un giardino, si arrivava a quello che nel 1620 doveva essere il più recente e notevole degli edifici del castello, una serie di gallerie note come le Sale Spagnole. Queste sale si trovavano nell'angolo di nord-ovest, a breve distanza dal punto in cui, sopra il fossato, si ergeva la Torre della Matematica. Erano state costruite una quindicina di anni prima per ospitare le migliaia di libri e la messe di altri tesori dell'imperatore Rodolfo II, che una statua in bronzo raffigurava con gorgiera e barba naso adunco e aria melanconica davanti alla facciata meridionale. Nel 1620 Rodolfo era morto da quasi dieci anni, ma i suoi tesori erano rimasti. I libri e i manoscritti, tra i più preziosi d'Europa, erano conservati nella biblioteca delle Sale Spagnole; a quel tempo il bibliotecario del castello era un certo Vilém Jiràsek. Vilém era sui trentacinque anni, uomo timido e modesto, scalcagnato e trasandato, con un mantello rappezzato e un paio di occhiali dietro le cui lenti sfarfallavano le palpebre dei suoi occhi chiari e acquosi. Nonostante le sollecitazioni di Jirí, il suo unico servitore, rimaneva indifferente al proprio aspetto trascurato. Altrettanto indifferente era a ciò che avveniva nel mondo che si apriva al di là delle mura delle Sale Spagnole. Molte cose erano accadute a Praga nel corso dei dieci anni in cui aveva lavorato nella biblioteca, compresa la ribellione del 1619 con cui i nobili protestanti della città avevano deposto l'imperatore cattolico Ferdinando dal trono di Boemia. Eppure nessun evento, per quanto burrascoso, aveva mai turbato le sue dotte fatiche. Tutte le mattine usciva dalla sua casetta in Vicolo d'Oro e, esattamente diciassette minuti dopo, arrivava davanti alla sua scrivania ingombra nel momento in cui i cento e cento orologi meccanici delle Sale Spagnole rintoccavano le otto. Tutte le sere, stanco e con gli occhi arrossati, riprendeva pesantemente la via per il Vicolo d'Oro nel momento in cui gli orologi battevano le sei. In dieci armi nessuno lo aveva mai visto devia-
re dalla sua orbita saltando un giorno di lavoro o anche solo arrivando con un minuto di ritardo. Era il lavoro stesso di Vilém, naturalmente, a imporre una tale meticolosità. Nel corso degli ultimi dieci anni, con l'aiuto di due assistenti, Otakar e Istvàn, aveva catalogato e collocato ogni volume nelle Sale Spagnole. Il compito era immenso e destinato al fallimento, perché Rodolfo era stato un collezionista insaziabile. Sulle sole scienze occulte il numero dei suoi libri era nell'ordine delle migliaia. Un'intera sala era gremita di volumi sulla "santa alchimia," un'altra di libri sulla magia, tra i quali era presente anche il Picafrix, che Rodolfo aveva usato per lanciare sortilegi sui nemici. Come se non bastassero queste tonnellate di libri, in biblioteca continuavano ad arrivarne a centinaia ogni settimana, insieme con decine di carte geografiche e altre stampe, che andavano una per una catalogate e alloggiate in una delle sale sovraffollate e interconnesse in cui talvolta lo stesso Vilém si smarriva. A peggiorare le cose, ora stavano arrivando a Praga dalia Biblioteca imperiale di Vienna casse di volumi e altri documenti importanti, perché fossero al sicuro dai turchi e dai transilvani. Fu così che l'edizione delle Magische Werke di Cornelius Agrippa che si trovava sullo scrittoio di Vilém il suo primo giorno di lavoro nel 1610 era ancora lì dieci anni dopo, non catalogata né collocata, sepolta sempre più a fondo sotto i cumuli crescenti di libri. O, almeno, questa era la situazione in biblioteca fino alla primavera del 1620, quando parve che fosse arrivato un momento di respiro. Il fiume di libri in arrivo era rallentato riducendosi a un rigagnolo dopo la rivolta contro l'imperatore e l'incoronazione di Federico ed Elisabetta. Alcune casse di libri di Federico erano arrivate l'autunno precedente da Heidelberg, dalla grande Bibliotheca Palatina: il contenuto in massima parte non solo non era stato ancora catalogato e collocato, me nemmeno estratto dalle casse. Ma le altre fonti - i monasteri, le proprietà di nobili rovinati o deceduti sembravano essersi totalmente inaridite. Circolò addirittura la voce allarmante che alcuni dei manoscritti più preziosi sarebbero stati messi in vendita da Federico per finanziare il suo esercito boemo, raffazzonato e male equipaggiato, preparandolo a quella che secondo un'altra voce era una imminente guerra contro l'imperatore. Molti altri libri sarebbero stati spediti al sicuro dalle Sale Spagnole a Heidelberg o, nell'eventualità di una sua caduta, a Londra. Al sicuro? I tre bibliotecari erano rimasti sconcertati da queste storie. Al sicuro da che cosa? Da chi? Non potevano far altro che scambiarsi un'alza-
ta di spalle e tornare al lavoro, incapaci di credere che la loro tranquilla routine potesse essere disturbata da eventi remoti e incomprensibili quali guerre e detronizzazioni. Se il mondo esterno era, da quel poco che Vilém ne capiva, disordinato e confuso, almeno lì, in quelle sale, regnava un ordine bellissimo, una grande armonia. Ma nell'anno 1620 questo delicato equilibrio sarebbe stato sconvolto per sempre, e per Vilém Jiràsek, rintanato tra le pile dei suoi adorati libri, il primo segnale dell'approssimarsi del disastro fu la ricomparsa a Praga dell'inglese Sir Ambrose Plessington. Sir Ambrose doveva essere tornato al Castello di Praga, dopo una lunga assenza, durante l'inverno o la primavera del 1620. A quel tempo lui, come Vilém, era intorno ai trentacinque anni di età, ma a differenza di Vilém non aveva minimamente l'aspetto dello studioso. Ben piantato come un macellaio o un fabbro, era alto nonostante un paio di gambe ricurve che facevano pensare che passasse molto più tempo in sella che a tavolino. Aveva le sopracciglia nere come la barba, che portava sagomata a punta nella foggia che, come la gorgiera a ruota, era venuta in voga da poco tempo. Vilém doveva conoscerlo di fama perché a Sir Ambrose si dovevano molti dei libri e dei manufatti presenti nelle Sale Spagnole. Dieci anni prima era il più rinomato degli agenti di Rodolfo, pronto a battere ogni ducato, Ergbut, feudo e Reichsfreistadt del Sacro Romano Impero pur di riportare a Praga sempre più libri, quadri e curiosità per l'ossessivo, forsennato imperatore. Si era spinto fino a Costantinopoli, da dove era tornato non soltanto con sacchi di bulbi di tulipano (tra i preferiti di Rodolfo) ma anche con decine di manoscritti antichi, che erano tra i trofei più preziosi delle Sale Spagnole. Che cosa lo avesse richiamato in Boemia nel 1620, però, era indubbiamente un mistero per i pochi - tra cui Vilém - che a Praga fossero al corrente della sua presenza. Naturalmente Sir Ambrose non era l'unico inglese arrivato a Praga in quel particolare periodo; la città ne brulicava. Elisabetta, la nuova regina, era figlia di re Giacomo d'Inghilterra, e Palazzo Kràlovsky era diventato la sede del suo folto entourage; per le schiere di suoi calzettieri, cappellai e medici, le dozzine di inservienti che si affannavano intorno a lei giorno dopo giorno. Di queste legioni facevano parte sei dame di corte, e tra queste dame di corte c'era una giovane donna chiamata Emilia Molyneux, la figlia di un nobile angloirlandese deceduto da qualche anno. A quel tempo Emilia aveva ventiquattro anni, la stessa età della sua regale padrona. Anche nell'aspetto assomigliava alla regina - che era compunta, chiara di carnagione, magrolina - tranne che per la folta capigliatura nera e lo sguardo
miope. Come avvenne il primo incontro tra Emilia e Vilém è argomento di speculazioni. Potrebbe essere stato a una delle numerose feste mascherate che tanto piacevano alla giovane regina, a ora tarda, quando il formalismo contegnoso della corte si andava allentando al calore della musica e delle bevande. O forse l'incontro era stato un evento di maggiore sobrietà. La regina era una lettrice appassionata - uno dei suoi tratti più amabili - e quindi avrebbe potuto mandare Emilia alle Sale Spagnole a prenderle un libro. O forse Emilia si era recata alle Sale Spagnole per suo conto: tra le altre sue doti, le avevano insegnato a leggere. In ogni caso, gli incontri successivi sarebbero stati mantenuti segreti. Vilém era cattolico, e la regina, devota calvinista, detestava i cattolici quasi quanto detestava i luterani. Era così devota, anzi, che si era rifiutata di attraversare il ponte sulla Moldava perché all'altra estremità sorgeva una statua della Beata Vergine, e su suo ordine tutte le statue e le croci erano state asportate dalle cappelle della Città Vecchia. Perfino le curiosità delle Sale Spagnole erano state ispezionate dal suo cappellano perché nessuno di quei frammenti rinsecchiti si rivelassero ossa di qualche santo o altre consimili reliquie papiste. E così per Emilia essere scoperta in compagnia di un cattolico - un cattolico educato dai gesuiti al Clementinum - avrebbe significato l'espulsione da Praga e l'immediato rientro in Inghilterra. I due quindi si incontravano in casa di Vilém al Vicolo d'Oro. Le sere in cui i suoi servizi non sarebbero stati richiesti che più tardi, Emilia sgusciava via da Palazzo Kràlovsky alle otto in punto, per le scale posteriori, e si faceva strada per i cortili senza una torcia o una lanterna, solo tastando i muri. Il Vicolo d'Oro, una fila di costruzioni basse, si trovava dall'altro lato del castello, e la casa di Vilém, una delle più piccole, era tra le ultime, rintanata sotto le arcate del muro settentrionale del castello. Ma c'era sempre una luce alla finestra, un filo di fumo dal camino, e Vilém che l'aspettava per abbracciarla. Ed era sempre lì pronto per aprirle la porta ogni volta che lei faceva le sue escursioni nelle tenebre, fino a quella fredda sera di novembre in cui lei trovò la finestra buia e il comignolo senza fumo. Quella sera rifece di corsa la strada fino al castello ma ritornò la sera seguente, e poi quella dopo. La quarta sera, non ricevendo ancora risposta, si diresse alle Sale Spagnole, e qui trovò non Vilém, e nemmeno Otakar o Istvàn, ma qualcun altro, un uomo enorme con gli speroni agli stivali, la cui lunga ombra, proiettata da una lampada a olio, tremolava sulle tavole del pavimento alle
sue spalle. In seguito avrebbe ricordato quella sera non tanto perché era stata la prima volta che aveva incontrato Sir Ambrose Plessington, ma perché era stata la notte in cui era iniziata la guerra. Era una domenica. C'erano fiocchi di neve nell'aria e ghiaccio sulla superficie del fiume. Un altro inverno arrivava. I servi si erano rintanati nelle chiese dai campanili perduti nella nebbia e dopo avevano giocato ai birilli nei cortili imbiancati dal gelo o si erano fermati a chiacchierare nei corridoi e sulle scale posteriori. Le stale e i mucchi di letame fumavano. Una mandria di vacche magre aveva attraversato scampanando le strade ripide della Città Piccola. Fascine di legna e sacchi di foraggio venivano trasportati con i carri fino al castello insieme ai barili di aringhe e di Pilsener scaricati dalle chiatte che venivano lungo il fiume. Il ghiaccio si spaccava contro le chiglie dei barconi con rumore di tuono o, per i più nervosi, di cannonate. Emilia aspettava con apprensione un altro inverno a Praga, perché la vita al castello era dura quando cambiava il tempo. Le porte di Palazzo Kràlovsky si torcevano per il freddo e sbattevano per le correnti, e la neve vi passava sotto, accumulandosi in mucchietti alti tre dita contro i mobili. L'acqua nei pozzi gelava e i soldati con le picche dovevano spaccare il ghiaccio. Di notte il vento ululava nei cortili, rispondendo, cosi sembrava, ai lupi affamati sulle alture circostanti. A volte i lupi penetravano fin nella Città Piccola e assalivano i mendicanti che andavano raccattando avanzi tra i mucchi di rifiuti: a volte se ne trovava qualcuno morto in mezzo alla neve, seminudo e irrigidito dal gelo, ancora stretto al suo bastone, come una statua rovesciata dal piedistallo. Ma se i poveri morivano di fame al freddo, i ricchi si ingozzavano, perché l'inverno era la stagione in cui la regina di Boemia teneva i suoi banchetti a decine. In queste cerimonie le dame di corte dovevano rimanere in piedi per ore e ore, senza mangiare né bere, senza parlare, senza tossire o starnutire, mentre la regina e i suoi convitati - principi, duchi, margravi, ambasciatori - si rimpinzavano di piatti fumanti di carne di pavone o di cervo o di cinghiale, il tutto innaffiato da barilotti di Pilsener o da bottiglie di vino. Gli argomenti di conversazione erano sempre gli stessi. Gli ospiti appoggiavano la rivendicazione di Federico al trono di Boemia? Quanto denaro avrebbero inviato per sostenerlo? Quanti armati? Quando sarebbero arrivate le truppe? Solo molto dopo, quando la tavolata reale si era finalmente saziata, le dame potevano litigarsi con le sguattere e i valletti i loro
untuosi avanzi. Fu in uno di questi ricevimenti che, dopo che le chiese si erano vuotate, Emilia e le altre dame furono convocate. Un ennesimo banchetto era stato preparato nella Sala Vladislav, questa volta in onore di due ambasciatori venuti dall'Inghilterra. Emilia a quell'ora si era già coricata ed era stata strappata alla sua lettura dall'energico squillare della campanella sospesa a un gancio accanto al letto. Leggere era uno dei suoi pochi piaceri in quegli anni, un piacere a cui si abbandonava a letto, infagottata tra le coperte e appoggiata ai cuscini, con una candela accesa sul comodino e il libro tenuto a un palmo dal naso. Aveva divorato centinaia di volumi da quando nel 1613 aveva lasciato Londra per Heidelberg - soprattutto storie arturiane come Sir Galvano e il Cavaliere Verde, e La morte d'Artù di Malory, o storie d'amore e d'avventura come l'Olivante de Laura di Torquemada e La fortuna d'amore di Lofraso. Ma aveva letto anche la biografia di Sir Philip Sidney scritta da Whetstone, e molti dei sonetti di Sidney li aveva riletti così tante volte che ormai li sapeva a memoria, come quelli di Shakespeare, le cui opere teatrali aveva letto in sgualcite edizioni in-quarto. Era una lettrice tanto appassionata che molte volte negli ultimi sette anni era stata scelta per leggere alla regina in persona - una delle poche mansioni a Palazzo Kràlovsky che le fosse gradita. Mentre Elisabetta veniva messa a letto dopo un banchetto o una festa, o anche quando si trovava confinata per una delle sue gravidanze, Emilia prendeva posto in una poltrona al regio capezzale e leggeva uno o due capitoli di qualche volume scelto finché la sua regale padrona non si addormentava. La regina chiedeva di ascoltare testi soporiferi come Le cronache d'Inghilterra di Holinshed o opere edificanti sulla fede. Ma i suoi compiti quel giorno non sarebbero stati affatto piacevoli come far passare un paio d'ore con un grosso volume in grembo. Entrando nella Sala Vladislav trovò una tavola imbandita di carni e lungo le pareti allineate le botti di vino. La regina non lesinava nulla a se stessa e ai suoi ospiti, benché i prezzi al mercato fossero saliti e nonostante le voci di una carestia in arrivo. Anche gli ambasciatori dovevano averle sentite, quelle voci, perché si ingozzavano di interi polli e di zampe di porco come se quello fosse l'ultimo pasto della loro vita. La scimmietta della regina, ignara di ogni decoro, balzava da una sedia all'altra, cianciando con striduli suoni ed elemosinando bocconi da tutti. Emilia rimase immobile e muta per tutto il tempo, ascoltando a malapena gli ambasciatori che riferivano le notizie sugli animosi piani di re Giacomo di mandare truppe a difendere la Boemia e salva-
re la figlia dalle grinfie dei papisti. Solo dopo due ore, sentendosi mancare, trovò il coraggio di dare un morso a un pezzo di pane che una delle cameriere le aveva infilato di soppiatto in tasca. Il pane era verdastro per la muffa. Era quel tipo di pane a cui, si immaginava Emilia, si riduceva la gente di una città assediata - il tipo di pane che, se quello che si diceva era vero solo a metà, tutti nel Castello di Praga si sarebbero trovati ben presto a mangiare. In bocca le briciole erano pesanti e collose. Le sembrava di masticare vischio per uccelli. Ma non ci sarebbe stato nessun assedio, stavano assicurando gli ambasciatori alla regina, nemmeno la guerra. Praga era un luogo sicuro. L'Armata imperiale era ancora a otto miglia di distanza e le truppe di Federico, tutti i venticinquemila uomini, erano dispiegate per arrestarne l'avanzata. Le truppe inglesi erano in marcia, come quelle olandesi, e Buckingham, in qualità di primo Lord dell'Ammiragliato, stava preparando una flotta per attaccare gli spagnoli. Inoltre, era in arrivo l'inverno, osservò uno di loro protendendosi appoggiato ai gomiti e pulendosi i denti con una forchetta. Nessun generale sarebbe così incivile da combattere una guerra in inverno, soprattutto in Boemia. Nemmeno i papisti, assicurò ai commensali, sarebbero stati così barbari. Ma, si sa, gli ambasciatori avevano torto a proposito degli eserciti cattolici, così come avrebbero avuto torto riguardo alla flotta di re Giacomo e di Buckingham. I piatti sporchi non erano stati ancora portati via dalla tavola e i resti contesi tra i servitori che già le prime palle di cannone sfioravano la sommità del Palazzo d'Estate, a sole cinque miglia di distanza, perdendosi nei boschi. L'artiglieria imperiale era arrivata in vista della Montagna Bianca. La prima scarica scosse l'aria brinata, rumoreggiando come un temporale in arrivo, spaventando i cavalli nelle scuderie e facendo rintanare di corsa la gente nelle case. In quel momento Emilia era tornata nella sua camera all'ultimo piano del palazzo e cominciava ad allacciarsi il cappuccio sul capo, preparandosi all'ultima disperata sortita al Vicolo d'Oro. I suoi pensieri non toccavano i soldati imperiali, le imponenti armate che si diceva marciassero sulla Boemia per umiliarla e rendere a Ferdinando il trono usurpato da Federico ed Elisabetta. Stava pensando invece a Vilém, e per questo c'erano volute diverse altre esplosioni prima che si rendesse conto che quegli scoppi non erano tuoni né lo schianto del ghiaccio sulla Moldava. Quel che avvenne dopo poté osservarlo attraverso le lenti di un telescopio, uno strumento delle Sale Spagnole che solo quindici giorni prima Vi-
lém le aveva dato insegnandole a usarlo. La battaglia era iniziata al Palazzo d'Estate, dove i soldati boemi erano trincerati dietro un terrapieno. La nebbia avanzava dal basso invadendo il parco tanto che solo uno degli edifici esterni del palazzo era visibile, illuminato da petali di fiamma. Le mani le tremavano mentre teneva lo strumento davanti alla finestra. Il fumo saliva attraverso il tetto crollato dell'edificio, un fiore esotico che si tingeva di malva e arancio a ogni nuovo tiro di cannone. Poi una delle esplosioni rischiarò i soldati boemi che fuggivano zigzagando giù per la china alberata, lasciandosi dietro carri e affusti di cannoni. Più in alto, le prime truppe nemiche - uno squadrone di picchieri e moschettieri - raggiungevano il terrapieno. Lasciò il palazzo per le scale posteriori meno di un'ora dopo. Sui pianerottoli si fece largo tra i capannelli delle sguattere che si disperavano per l'imminente arrivo degli imperiali, e uscì nella corte. Ormai calava la sera e i primi soldati boemi in fuga stavano raggiungendo i cancelli. Dal cortile del palazzo udì le loro grida irate che scongiuravano le sentinelle, quindi il cigolio delle porte che si aprivano. Alcuni tra i soldati avevano abbandonato le armi - mazze ferrate e falci - altri se le trascinavano dietro come braccianti sfiniti di ritorno da una giornata nei campi. Malnutriti, con le loro giubbe sudice e le corazze ammaccate sembravano più calderai che soldati. Si insinuò in mezzo a loro che si precipitavano nel cortile incespicando tra i ciottoli. Poi raccolse la gonna e corse verso il Vicolo d'Oro, lungo la strada illuminata a tratti dalle esplosioni. Dalla prima all'ultima, a quell'ora le case del Vicolo d'Oro erano buie. I loro abitanti dovevano essere fuggiti insieme con decine di altri del castello. Pochi giorni prima, quando l'armata imperiale aveva raggiunto Rakovnik, i consiglieri inglesi e palatini avevano sgomberato con le loro famiglie e i loro averi. Forse Vilém era fuggito con loro? L'aveva abbandonata? Bussò nuovamente alla porta, questa volta con più forza, ma ancora non ricevette risposta. Aveva abbandonato anche i suoi libri? Il cielo era ancora in fiamme qualche minuto dopo quando, non trovando traccia nemmeno di Jirí, riprese la strada per Palazzo Kràlovsky. Ormai le porte del Ponte delle Polveri venivano chiuse in mezzo a un gran gridare. Era stata chiamata la carrozza della regina, che ora aspettava nel cortile del palazzo pronta a mettersi in moto. Il tambureggiamento dell'artiglieria si avvicinava, e poté sentire il latrato dei fucili quando i moschettieri facevano fuoco, ritirandosi poi nei ranghi per ricaricare e prepararsi a un'altra scarica sanguinosa. I cavalli in squadra trascinavano le lunghe colubrine e i
tozzi mortai lungo il ciglio della montagna, sistemando i pezzi in posizione per il prossimo bombardamento. Ritirò la testa tra le spalle e corse verso le Sale Spagnole, sentendo lo scricchiolio della brina sotto i piedi. La biblioteca si trovava nella linea del fuoco, le finestre del fianco occidentale affacciate sulla sagoma scura della Montagna Bianca, che nella luce incerta del crepuscolo appariva come un'enorme bestia accucciata. Le migliaia di libri erano conservate nei recessi più fondi delle Sale Spagnole, per cui dovette prima farsi strada attraverso il labirinto di gallerie dedicate agli altri tesori di Rodolfo, decine di armadi a vetro ingemmati che con le loro bizzarre curiosità - corna di unicorni, denti e mandibole di draghi sembravano i reliquiari di un prete folle. Solo che negli ultimi giorni gran parte delle sale erano state vuotate delle loro vetrine, o le vetrine del contenuto. Dietro le lastre di vetro si poteva vedere, atteggiato come in vita, solo qualche animale impagliato, qualche rettile. Mancavano invece le decine di orologi meccanici, i preziosissimi strumenti scientifici - gli astrolabi, i pendoli, i telescopi - di cui Vilém le aveva mostrato il funzionamento solo qualche settimana prima. Scomparsi erano i dipinti, le urne, le armature... Quella desolazione non fu una sorpresa per lei, che già due notti prima si era insinuata nelle Sale Spagnole e aveva trovato le sale lasciate spoglie. Nemmeno allora aveva trovato traccia di Vilém; sembrava fosse svanito insieme a tutto il resto. Solo Otakar era rimasto. Lo aveva trovato seduto su una cassa di libri mezzo piena, con una bottiglia di vino rovesciata sul pavimento ai suoi piedi. Singhiozzava, ed era così ubriaco che a stento riusciva a mantenere dritta la testa e aperti gli occhi. Stavano portando via, spiegò tra i singhiozzi, gran parte dei tesori. "Per sicurezza," le aveva detto, alzandosi malfermo sulle gambe e riempiendo di nuovo il bicchiere da una seconda bottiglia, anche quella prelevata dalla cantina reale. "Tutto quanto. Il re aveva paura che i suoi tesori cadessero nelle mani dei soldati o, peggio, in quelle dell'imperatore Ferdinando." "Cosa intendi dire? Dove li hanno mandati?" Si trovavano accanto allo scrittoio di Vilém, che per la prima volta era sgombro dell'alta pila di libri non catalogati. Anche gli scaffali, notò con sbigottimento, erano stati svuotati quasi interamente. La voce di Otakar riecheggiava contro le pareti nude. Lui non aveva la minima idea di dove fossero finite le casse ma era pieno dei cupi pronostici che il vino lo spingeva ad annunciare. Pareva che prendesse l'invasione della Boemia come
un affronto personale, il cui solo scopo era la profanazione della biblioteca. Lo sapeva, lei, chiedeva, che nel 1600, quando era arciduca di Stiria, Ferdinando aveva fatto dare alle fiamme tutti i libri protestanti presenti nel suo dominio, compresi più di diecimila volumi nella sola città di Graz? E ora che era imperatore si sarebbe dedicato anima e corpo a incenerire anche tutti i libri di Praga. Perché ogni sovrano celebrava le sue conquiste dando fuoco alla più vicina biblioteca. Forse che Giulio Cesare non aveva bruciato i rotoli della grande biblioteca di Alessandria durante la sua campagna in Africa contro i repubblicani? O il generale Stilicone, capo dei vandali, non aveva ordinato di gettare nel fuoco le profezie della Sibilla a Roma? Le sue sillabe smozzicate riverberavano nella sala. Emilia aveva fatto per andarsene ma una mano malaccorta le aveva abbrancato il braccio, trattenendola. Per un re o per un imperatore, aveva continuato lui, non c'era niente di più pericoloso di un libro. Sì, una grande biblioteca - una biblioteca magnifica come quella - era un pericoloso arsenale, temuto da re e imperatori più del più grande esercito o deposito di armi. Non un solo volume delle Sale Spagnole sarebbe sopravvissuto, giurò, singhiozzando nella sua coppa. No, no, non un solo foglio sarebbe scampato all'olocausto. Ma quest'altra sera, mentre fuori divampavano le cannonate, non c'era più traccia nemmeno di Otakar. Procedette in mezzo agli scaffali nudi finché raggiunse lo studiolo dove lavorava Vilém. Benché la porta fosse chiusa, dallo spazio sotto di essa veniva un filo di luce; ma nella stanza vuota c'erano soltanto una lampada a petrolio e le due bottiglie di vino vuote di Otakar. La scrivania di Vilém era al suo solito posto davanti al camino, e la lampada, con lo stoppino corto, le stava accanto, quasi priva di alimento. Stava per ritirarsi quando avvertì nell'aria un aroma lievemente pungente e poi vide un insieme di oggetti in disordine sullo scrittoio: boccette di inchiostro e penne d'oca, insieme con un libro - pagine di pergamena legate in pelle. Ricordava bene che due notti prima non c'era nulla di tutto ciò. Era un lavoro di Otakar? O Vilém era tornato? Forse il libro apparteneva a lui. Forse era uno dei testi di filosofia - Platone o Aristotele - con cui lui cercava di distoglierla dalla sua dieta di poesie e storie di fantasia. Si avvicinò alla scrivania in punta di piedi per esaminare gli oggetti sparpagliati. C'era anche, vide, una pietra pomice e un pezzo di gesso, come se il tavolo fosse quello di uno scrivano. Sapeva tutto di quelle cose, degli scribi e delle loro pergamene, che venivano strofinate con la pietra pomice e poi cosparse di gesso perché assorbisse il grasso animale e impedisse all'inchiostro di disperdersi. Due settimane prima Vilém le aveva
mostrato, oltre ai telescopi e gli astrolabi, svariati manoscritti antichi, quelli che erano stati copiati, le aveva spiegato, dagli amanuensi costantinopolitani. Quei manoscritti erano i documenti più preziosi tra tutti quelli contenuti nelle Sale Spagnole, e i monaci, le aveva detto, gli artisti più squisiti che il mondo avesse mai conosciuto. Aveva portato uno dei documenti vicino alla luce della lampada per farle vedere come nemmeno il trascorrere di mille anni avesse sbiadito la scrittura - i rossi fatti con cinabro macinato, i gialli con la terra estratta dai fianchi di vulcani. E alcune delle pergamene più belle e preziose - i cosiddetti "libri d'oro" realizzati appositamente per le collezioni degli imperatori bizantini - erano state intinte nella porpora e poi iscritte con un inchiostro fatto di oro in polvere. Quando Emilia aveva richiuso il libro - una legatura spessa quanto le assi di una imbarcazione aveva i polpastrelli e il palmo delle mani luccicanti come se li avesse immersi nello scrigno di un tesoro. Ma ora le splendide pergamene di Costantinopoli erano sparite insieme con il resto dei libri. Solo quella sulla scrivania rimaneva. Scostò il mazzetto delle penne e la studiò più attentamente. La legatura era squisita. Il piatto anteriore era stato sottoposto a un'elaborata lavorazione, la pelle incisa in motivi simmetrici di volute, cartigli e foglie intrecciate - intricati disegni simili a quelli che decoravano alcuni dei libri di Costantinopoli. Ma quando aprì la copertina, vide che le pagine, tutt'altro che intinte nella porpora o scritte in oro, erano in pessime condizioni, indurite e raggrinzite come fossero state immerse nell'acqua. L'inchiostro nero era assai stinto e sbavato, anche se si capiva che le parole erano scritte in latino, lingua che lei ignorava. Lentamente, sfogliò le pagine, udendo i mortai che rombavano e riecheggiavano fuori delle mura. Una delle palle di cannone dovette raggiungere le merlature, perché il pavimento sembrò scuotersi sotto i piedi e i vetri tremarono nei telai delle finestre. Un vago chiarore, l'incendio del Palazzo d'Estate, lambiva il muro opposto. "Fit deorum ab hominibus dolenda secessio," vide scritto in cima a una delle pagine, "soli nocentes angeli remanent..." Un altro colpo di mortaio colpì gli spalti, questa volta molto più vicino, e un tratto di mura crollò fragorosamente nel fossato. Alzò gli occhi dalla pergamena, sobbalzando all'esplosione, e vide l'alta figura e la sua grande ombra nera. Le occorse qualche secondo per assorbire la sua immagine - la barba, la spada, le gambe curve che gli davano l'aspetto di un orso eretto sulle zampe posteriori. Più tardi avrebbe concluso che era fatto come A-
madigi di Gaula o Don Belianís, o anche il Cavaliere di Febo - uno degli eroi delle sue storie di cavalleria. Da quanto tempo fosse lì, a osservarla dall'altro capo della stanza, non poteva saperlo. "Chiedo scusa," balbettò, lasciando cadere il libro sul tavolo. "Stavo solo..." Poi un altro mortaio colpì il muro e la finestra andò in frantumi in un'esplosione di fiamme. CAPITOLO 6 Fui svegliato dal rumore delle martellate. Per un momento, fissando il soffitto e le costole delle assicelle di quercia e delle travi che si intravedevano sotto l'intonaco crepato, non riuscii a ricordare dove mi trovassi. Mi issai sui gomiti e una striscia di sole mi attraversò il petto come una bandoliera. Fui sorpreso di trovarmi dal lato destro del letto - quella che, in un'altra vita, era stata la metà di Arabella. Nel primo anno di vedovanza avevo dormito dalla sua parte, ma poi lentamente - mese dopo mese, palmo a palmo - ero tornato dal mio lato, e lì ero rimasto. Ora avevo l'affannosa sensazione di aver sognato mia moglie, per la prima volta da quasi un anno. Mi alzai dal letto e, inforcati gli occhiali, mi portai alla finestra, ansioso di cogliere la mia prima vista di Pontifex Hall alla luce del giorno. L'impiantito di legno era fresco sotto i miei piedi. Spingendo i battenti della finestra e guardando giù, vidi che mi trovavo in una delle stanze esposte a mezzogiorno. La finestra affacciava sul parterre e, al di là di quello, si vedeva un obelisco corrispondente a un altro, diroccato, che avevo notato la sera prima sul lato nord della casa. Dietro l'obelisco c'era un'altra fontana e un altro laghetto ornamentale, ora stagnante e striminzito, entrambi gemelli di quelli del lato nord. O forse ero affacciato a settentrione? L'intero parco sembrava composto simmetricamente, come se Pontifex Hall, sia pure in rovina, fosse specchio di se stessa. No, il sole era a sinistra, sopra un muro - visibile appena tra i rami e le foglie - che segnava il perimetro del parco. Quindi sì, tutto sommato quello era proprio il sud. Portando lo sguardo dalla finestra aperta verso i malinconici La biblioteca resti del parterre, mi resi conto che dovevo trovarmi giusto sopra la biblioteca. Rimasi alla finestra per qualche minuto; l'aria aveva un fresco profumo di verde, una bella differenza da Nonsuch House, dove il fetore del fiume
con la bassa marea a volte è intollerabile. I martelli cessarono il loro tamburellare e furono rimpiazzati, un attimo dopo, da colpi secchi alla porta. Phineas entrò con un bacile di acqua fumante. "La colazione è servita di sotto, signore." Cominciò a fare spazio sulla tavola con la destra mentre l'acqua ondeggiando nel catino gli lambiva l'estremità rattrappita. "Nel salottino da colazione." "Grazie." "Quando è pronto, signore." "Grazie, Phineas." Si era voltato per uscire, ma lo fermai. "Quei rumori, che cos'erano?" "Gli stuccatori, signore. Stanno restaurando il soffitto della Sala Grande." C'era qualcosa di untuoso e di vagamente sgradevole nel suo fare. Scoprì una fila di denti aguzzi e larghi come un rastrello per tetti di paglia. "Spero che non l'abbiano disturbata, signore." "No, no. Assolutamente. Grazie, Phineas." Completai in fretta le mie abluzioni, stropicciandomi vigorosamente la barba e poi cominciai a vestirmi, ripensando agli "interessi" e ai "nemici" di cui aveva parlato Alethea. La sera prima quelle rivelazioni non mi avevano allarmato, come lei aveva pensato - solo lasciato perplesso. Ora, alla luce del giorno, con un venticello fresco che muoveva l'aria nella camera assolata, l'idea mi pareva ridicola. Forse la gente del posto aveva ragione. Povera Alethea, pensai mentre mi infilavo le brache. Forse era davvero affetta da temperamento lunatico. Possibilissimo che la scomparsa del padre e del marito - omicidi o meno che fossero - le avevano messo fuori sesto la mente. L'idea di riportare il palazzo alle sue condizioni originali era indubbiamente un proposito assai eccentrico. Finalmente ero pronto a scendere al piano di sotto. Chiusami alle spalle la porta della Camera dei Velluti, mi avviai lungo il corridoio. C'erano due porte da una parte e dall'altra, entrambe chiuse; poi una terza, anch'essa chiusa, giusto di fronte a me. La varcai trovandomi in un'anticamera, poi in un altro tratto di corridoio. Due porte chiuse stavano sui due lati del corridoio, il quale era intersecato da un secondo, anch'esso fiancheggiato da porte chiuse. Rimasi per un attimo confuso. Da che parte svoltare? Mi parve di udire lo scricchiolio di una ringhiera e i passi di Phineas che salivano come dal fondo di un pozzo. Mi chiesi se chiamarlo, ma qualcosa nel suo modo di fare - la sua insolenza dissimulata, il suo sorriso carnivoro - me ne dissuase. Phineas non mi era amico. Così proseguii in linea retta, lungo il corri-
doio, seguito dal tonfo cupo del mio piede equino. Dovevo tornare indietro e provare un'altra delle porte? Continuai ad avanzare. A breve distanza dopo l'incrocio il corridoio terminava contro una porta chiusa a chiave. Feci dietrofront e feci a ritroso il mio cammino. Ormai il rumore dei passi di Phineas era svanito e tutto era silenzio, tranne i miei passi esitanti e lo sporadico scricchiolio dì un asse nudo del pavimento. Avvilito, mi resi conto che le porte e i corridoi dovevano essere una replica del labirinto del piano terra. La simmetria rispettava non solo l'asse orizzontale ma anche quello verticale. Rimasi fermo per un momento all'intersezione prima di scegliere il nuovo corridoio. Svoltai a sinistra e, dopo una decina di passi, ancora a sinistra. Ricordavo di aver letto da qualche parte che si ha ragione di un labirinto svoltando sempre a mano manca. Questa politica sembrò dare i suoi frutti, perché dopo qualche altro passo il corridoio si allargava sensibilmente e mi trovai in una lunga galleria. Sulle pareti potevo scorgere una successione di rettangoli scuri, come altrettante ombre - l'immagine residua dei ritratti che, ritenni, erano stati sfasciati o trafugati dai puritani. Ma dello scalone non c'era traccia. Continuai lungo la galleria, picchiettando con il bastone come un mendicante cieco. Presto il passaggio si restrinse e porte e nicchie sparirono. Questo corridoio, ora, sembrava incomprensibile e insidioso quanto l'altro. Dovevo fare marcia indietro, mi chiesi, e tornare alla Camera dei Velluti? Ma a questo punto sarei stato in grado di ritrovarla? Avevo perduto completamente l'orientamento. Ed ecco che il corridoio piegava nuovamente a sinistra e infine, venti passi più in là, terminava bruscamente davanti a due porte, una per parte. Entrambe stavano invitantemente socchiuse, con le maniglie d'ottone che ammiccavano cospiratrici nella penombra. Mi fermai solo un secondo prima di spingere il battente di quella di destra e di introdurmi. Fui colpito immediatamente dall'odore pungente. L'aria acre mi punse le narici come il lezzo di una farmacia, la bottega più maleodorante di Londra. Quando i miei occhi si furono assuefatti al buio mi accorsi con sorpresa che effettivamente la stanza era uguale a una farmacia: ogni palmo del suo tavolo da lavoro e delle sue scansie era occupato da alambicchi, pipette di vetro, imbuti, bruciatoi, svariati tipi di pestelli e mortai, e decine di bottiglie e vasi pieni di sostanze chimiche e polveri di ogni colore. Ero finito in una sorta di laboratorio. Solo che quelle non erano le pozioni di un farmacista, a quanto pareva, ma quelle di un alchimista. Mi tornarono alla
mente alcuni dei libri che avevo visto sugli scaffali della biblioteca - le farneticazioni di ciarlatani come Ruggero Bacone o George Ripley - e conclusi che Alethea doveva baloccarsi con l'alchimia, quest'arte eccentrica che dicono inventata da Ermete Trismegisto, il sacerdote e mago egiziano le cui opere, tradotte dal Ficino, erano anch'esse presenti nella libreria. Con un leggero senso di colpa mi avvicinai furtivo al tavolo. Lady Marchamont era di quelli che cercavano il cosiddetto elixir vitae, la pozione miracolosa che doveva garantire la vita per l'eternità? O forse sperava di scoprire l'inafferrabile pietra filosofale capace di trasformare un pezzo di carbone o di gesso in una pepita d'oro? Me la figurai d'un tratto china su vasi e alambicchi ribollenti, mentre mormorava formule magiche in latino maccheronico e le ali di pipistrello della sua cappa nera le pendevano svolazzando dalle spalle. C'era poco da stupirsi che la brava gente di Crampton Magna la vedesse come una fattucchiera. Dovette passare ancora qualche secondo prima che notassi il telescopio sul davanzale della finestra. Bello strumento, lungo più di mezzo metro, con l'involucro di cartapecora e le ghiere di ottone; sormontava un treppiedi di legno con un'inclinazione di 45 gradi, come un lungo dito puntato verso i cieli. Mi chinai e cercai di guardare attraverso l'oculare convesso, chiedendomi se Alethea fosse anche astrologa oltre che alchimista. Pensai ancora una volta ai volumi di stupidaggini superstiziose e alla mezza dozzina di atlanti stellari che avevo scorto sugli scaffali. O il telescopio e le sostanze chimiche erano appartenute al padre ed era lui il negromante e lo scrutastelle? Forse Alethea stava riportando il suo laboratorio, come tutto il resto, alle sue condizioni originali, ennesima cappella laterale nel grande santuario elevato a Sir Ambrose Plessington. E però la stanza non era soltanto un santuario. Il telescopio era nuovo si sentiva ancora l'odore della pergamena - e qualcuno aveva di recente mescolato gli ingredienti chimici, perché in uno dei mortai c'era un residuo di polvere e del liquido versato sul tavolo. Diverse fiale, come quella con l'etichetta "Cianuro di potassio", erano semivuote. Cianuro? Rimisi la fiala, con i suoi cristalli, sullo scaffale, con la sensazione di avere inciampato su un segreto proibito. Che Alethea stesse misturando una qualche sorta di veleno mortale per spacciare i suoi misteriosi avversari? L'idea era meno bizzarra di quanto appaia. Dopotutto, a quei tempi i fogli delle nostre gazzette erano pieni di notizie allarmanti di avvenenti parigine che tenevano la boccetta del veleno sul tavolino da toeletta accanto al profumo e alla cipria. E a Roma i preti riferivano al papa di gio-
vani dame che in confessionale confidavano di ricchi consorti avvelenati con l'arsenico o la cantaride comperati da una decrepita chiaroveggente chiamata Hieronima Spara. Dunque Lord Marchamont aveva lasciato la vita in questo modo orrendo - avvelenato? Dalla mano della sua stessa moglie? O Alethea era coinvolta in un altro genere di attività, in qualcosa di meno pernicioso? Perché, per quel minimo di conoscenza che avevo dell'alchimia, sapevo che il cianuro, un tossico che si trova nelle foglie dell'alloro e nei noccioli delle ciliegie e delle pesche, veniva usato nell'estrazione dell'oro e dell'argento. Sentii il formicolio della pelle d'oca sugli avambracci. Improvvisamente la stanza mi parve gelida. Da qualche parte, dalla finestra aperta, venne il nitrito di un cavallo e, sotto di esso, un suono ticchettante, acuto e argentino, come un cozzare di falcioni. Mi voltai lentamente, dicendo a me stesso che il mio incarico, quale che fosse, non aveva nulla a che vedere con quella piccola stanza inquietante. La biblioteca, non il laboratorio, era il mio campo. Ma poi notai dell'altro tra lo sparso disordine. I due volumi erano seminascosti tra le decine di vasi e strumenti. Allungai la mano su quello posto sopra, aspettandomi di trovare un altro trattato alchemico. Ma il volume si rivelò un atlante della terra, il Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius. Quella edizione era stata impressa a Praga nel 1600, pochi anni dopo la morte di Ortelius, se la memoria non m'ingannava. I fogli ridotti a mal partito dall'umidità erano stati però rilegati in tela da una mano esperta. Sulla faccia interna del piatto appariva un elaborato ex libris recante il motto Littera Scripta Manet. Per un momento sfogliai le pagine raggrinzite, scorrendo decine di carte geografiche magistralmente incise. Conoscevo bene l'atlante, ma quella specifica edizione non l'avevo mai vista. Non che la cosa fosse strana, però, dato che l'opera aveva avuto decine di nuove edizioni dopo la prima pubblicazione del 1570. Mi chiesi come fosse migrato lì dalla biblioteca. Forse che il grande Ortelius, già Regio Cosmografo di Filippo II di Spagna, era stato ridotto a un fermaporte o a un poggiapiedi? Rimisi l'atlante sul tavolo e presi il secondo volume, che era più nuovo e in migliori condizioni. Era, scoprii, un'opera di non minor valore: la traduzione di Thomas Salusbury del Dialogo sopra i duo sistemi del mondo di Galileo. Intitolato The Systeme of the World: in Four Dialogues, era venuto alla luce a Londra solo uno o due mesi prima. Ne avevo ordinato due dozzine di copie allo stampatore, e le avevo vendute tutte nel giro di poche ore. Ora mi giungevano ordini a decine da tutto il paese - ma anche dall'O-
landa, la Francia e la Germania. L'Europa tutta, si sarebbe detto, chiedeva a gran voce di poter leggere questo capolavoro filosofico, il libro di gran lunga più importante e controverso dei suoi tempi, un libro che a detta dei gesuiti del Collegio Romano poteva arrecare a Roma più danno di Lutero e Calvino messi insieme. Io stesso avevo appena finito di leggerlo. Contiene una serie di dialoghi che vedono a confronto un sostenitore del sistema tolemaico, che prende il nome di Simplicio, contro un più smaliziato sostenitore di Copernico. La sorte che toccò a Galileo dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1623, è ben nota. Nonostante l'appoggio diplomatico a Tolomeo e un'accoglienza entusiastica in tutta Europa, il libro provocò le ire delle autorità ecclesiastiche. Urbano VIII, che di Galileo era amico, ordinò l'incriminazione: il vecchio astronomo fu convocato a Roma per subire il processo davanti all'Inquisizione, con l'accusa di propagare il copernicanesimo, la teoria che contro le Sacre Scritture affermava che è il sole e non la terra il centro dell'universo. Nel 1633 fu giudicato colpevole e condannato, condotto nelle segrete dell'Inquisizione dove gli furono mostrati gli strumenti di tortura a disposizione del papa, quindi condotto in chiesa e costretto a ritrattare i propri punti di vista. Rimase agli arresti in casa per il resto della sua vita, mentre il Dialogo veniva inserito nell'Index librorum prohibitorum, la lista dei libri proibiti dalla Santa Sede. Zic-zic-zic... Quel curioso sferruzzare fuori dalla finestra si era fatto più forte. Rabbrividii e rimisi il libro al suo posto, chiedendomi quale interesse potesse avere Alethea per quel capolavoro del massimo astronomo europeo. Nel laboratorio il volume appariva stranamente fuori posto, perché Galileo era sempre stato nemico dei raggiri e delle superstizioni tramati da alchimisti, occultisti e altri seguaci dell'antico stregone Ermete Trismegisto. Quale connessione dunque poteva esistere tra il libro e le sostanze chimiche che lo circondavano? O anche tra Ortelius e Galileo, tra il cartografo e l'astronomo? Avevo deciso che non esisteva alcuna connessione, che la loro presenza nel laboratorio era puramente fortuita, quando improvvisamente vidi un'altra cosa. La brezza entrata dalla finestra, scompigliando le pagine del Theatrum, scoprì uno strano inserto, un foglio di carta inserito verso la metà del volume. Sul foglio sembrava stampata un'accozzaglia di lettere priva di senso, che si presentava come una lingua barbara:
DBT LSKTG KC NXVO X EOS BW UHKRF D GTF BGTMA DV QTT VHG RRTW HFZBX E PI ZMLEMKH XIAEC TPT IOZE VP ILZFH WLL KWF XABNFO R HBAIGT HVL EQELD BL XAOMKTYMH Sulle prime pensai che l'incomprensibile iscrizione fosse un clamoroso errore dello stampatore o del legatore. Ma un errore di quella portata appariva francamente inverosimile. Voltai il foglio. Il verso era bianco, ma una delle carte di Ortelius - quella dell'Oceano Pacifico con la sua spolverata di isole - continuava sul recto successivo. Possibile che il foglio inserito fosse una deliberata ma celata interruzione del testo? Sicuramente non faceva parte della raccolta originale, ma era stato cucito all'interno, quale che ne fosse il motivo, quando il libro era stato nuovamente rilegato. E i margini rifilati delle pagine mi dicevano che effettivamente il libro aveva avuto una nuova legatura. Era stata dunque una svista del legatore? Forse una pagina appartenente a un altro lavoro - una pagina la cui filigrana, notai, era diversa dalle altre - era finita tra i fascicoli e poi nel telaio del legatore? A Tom Monk, che quanto a legare i libri era un vero disastro, spesso capitavano incidenti del genere. Alla realizzazione dell'inserto era stato dedicato un certo impegno, perché non sembrava un pezzo di carta ordinario. Sfogliai rapidamente il resto delle pagine e, non trovando altre anomalie, tornai al foglio misterioso. Se il suo inserimento non era accidentale, c'era ovviamente una sola possibile spiegazione. Negli ultimi dieci anni erano circolate con insistenza voci di ricche famiglie realiste che avevano sepolto i loro preziosi nei parchi delle loro tenute prima di fuggire in esilio, nella speranza di recuperarli quando fossero tornati in momenti più felici. Tali voci erano state probabilmente all'origine degli scavi che avevo visto lungo il viale, quelli che Alethea aveva attribuito allo zelo mal riposto della gente del villaggio. Io avevo sempre dato poco credito a queste storie, ma ora mi trovavo a chiedermi se quelle lettere esprimessero non una lingua forestiera ma una sorta di messaggio cifrato, che era stato scritto sul foglio e poi celato nella copia del Theatrum di Ortelius allo scoppio della guerra civile. Forse il foglio conteneva un'indicazione sul luogo in cui si trovava il tesoro in quadri e oggetti di Sir Ambrose, quelli che, a detta di Alethea, erano tutti scomparsi. Forse quel messaggio era, come le splendide incisioni del libro, una sorta di mappa. Mi sentivo come se mi avessero condotto da un labirinto - il corridoio -
in un altro, ancora più sconcertante. Sembrava non esserci via d'uscita... a meno che, naturalmente, non avessi preso il libro con me o, meglio ancora, non avessi tagliato via la pagina misteriosa con il temperino che ora vedevo sul tavolo. Ma era giustificabile, quali che fossero le circostanze, che proprio io, un bibliofilo, mutilassi un libro? Il gesto vergognoso fu compiuto in due o tre secondi. Tenni premuta la legatura del libro con il palmo della mano e feci scorrere la punta dello strumento lungo il margine interno del foglio, vicino alla cucitura, come sventrando un pesce con un coltello da cucina. La pagina venne via con un fruscio sommesso. La ripiegai due volte e mentre la infilavo nella tasca sul petto rimasi sorpreso notando con quanta forza mi battesse il cuore. Poi feci un respiro profondo e uscii sul corridoio. Zie. Zie. Zic-zic-zic... Il rumore era secco e penetrante, come un battere di denti o il grido di qualche strano uccello. Mi voltai, il sole del mattino caldo sulla schiena. No, non un uccello. La parte superiore della testa di un uomo, la sua fronte abbronzata, era spuntata da un varco nella siepe. Scrutai di traverso il muro ricurvo di fogliame e colsi, più in basso della testa, il lampo istantaneo del metallo. Zic, zic, zic... Il ritmo prendeva velocità, ogni secca sillaba replicata un secondo dopo dal muro di mattoni della casa. Il varco nella siepe si allargava sotto i miei occhi. Foglie e ramoscelli volavano tutt'in giro. La siepe, come l'erba del parterre, era cresciuta incontrollata o, dove non era inselvatichita, si mostrava sradicata o abbattuta - un groviglio inestricabile indistinguibile di carpino, biancospino, ligustro e agrifoglio. La testa si abbassò e il becco masticatore scomparve dalla vista. "Le sorgenti affiorano lì," disse Alethea, "alla sua sinistra. Appena oltre l'aranciera." Distolsi l'attenzione dalla siepe. Ci trovavamo sul lato ovest di Pontifex Hall, qualche metro fuori della sua grande ombra quadrangolare, che si allungava verso di noi attraverso il prato. Alethea stava indicando una piccola fossa, colma di detriti, sopra la quale stavano eretti alcuni alberelli rachitici come antiche forme di idoli. Tutt'intorno, mucchi di vecchi laterizi in pezzi. Al di là, sul terreno rialzato, alcune rocce disposte secondo un motivo geometrico spezzato. "Si vedono ancora i resti del pozzo."
Accennò con la testa in direzione degli anelli concentrici. Ancora una volta la sua mano mi stringeva l'avambraccio, stavolta in un gesto di intimità. Alla luce del sole, la sua veste macchiata si rivelava non nera ma di un verde scuro cangiante. Il mantello con il cappuccio, ancora drappeggiato sulle sue spalle nonostante il caldo, era ricamato a fiorellini sbiaditi. "Le sorgenti escono da quel gruppo di rocce," continuò, "e si riversano nel pozzo e nel laghetto, progettati entrambi da mio padre. Di lì l'acqua scompare in uno scarico e si dirige verso le ali del palazzo attraverso una rete di canali. L'acqua era controllata e usata in fontane e cascatelle. Perfino una grande ruota ad acqua. Era laggiù," disse, voltandosi a indicare vagamente a sud dell'edificio. "Tutto costruito da Sir Ambrose." "Ovviamente. Possedeva diversi brevetti di pompe idriche e mulini a vento." Rimase in silenzio. Di tanto in tanto, quella mattina, appariva distratta, immersa in qualche fantasticheria, privata e malinconica, che si manifestava per silenzi e sguardi obliqui, insondabili. Rasentammo la serra degli aranci devastata e ci fermammo sul bordo del laghetto orlato di pietroni. Era pieno di erbacce di palude e, anche a quell'ora, sulla superficie dell'acqua si addensavano le nuvole dei moscerini. Vedendo che il suo silenzio prometteva di protrarsi, mi voltai a guardare il corpo macilento di Pontifex Hall, cercando vanamente di immaginare le fontane e i giochi d'acqua al posto del prato infestato di erbacce e della siepe inselvatichita che ora ci stava davanti. Una gazza, una sola, avanzava sul prato nella nostra direzione. Brutto segno, avrebbe detto mia madre: una per il dolore due per la gioia. Istintivamente cercai un secondo uccello ma, schermandomi gli occhi vidi solo gli attrezzi lasciati dagli uomini assoldati per restaurare la casa, un guazzabuglio di scalpelli, martelli, pialle da smusso, seghe. Diversi teli impermeabili, con gli angoli tenuti fermi dai mattoni, coprivano spesse lastre di marmo. Per i camini, aveva spiegato Alethea. Un ponteggio di legno montato a metà abbracciava goffamente il muro malandato dell'ala nord. Sotto la struttura se ne stava sdraiato uno degli stuccatori, fumando la pipa e lanciandoci di tanto in tanto un'occhiata. Era passata ormai un'ora da quando ero fuggito da quella stanza con la pagina strappata infilata nella tasca, accanto alla lettera di invito. Al secondo tentativo ero riuscito a trovare la strada; la porta che prima mi aveva impedito il passaggio non era chiusa a chiave, avevo verificato, ma solo
dura da aprire, e in pochi minuti ero arrivato al piano sottostante. Era come se quel foglio incomprensibile fosse stato una sorta di chiave, di passaporto - un filo d'oro - senza il quale sarei stato condannato a vagare all'infinito per quel piano. Phineas aspettava il mio arrivo nella saletta della colazione. Lady Marchamont, spiegò, aveva già mangiato ed era fuori, nel parco. Se volevo essere così gentile da accomodarmi, Miss Bridget sarebbe stata ben lieta di servirmi. Lady Marchamont, intanto, attendeva con ansia che la raggiungessi per una passeggiata. La carta frusciava piano nella mia tasca mentre rientravamo in casa, camminando affiancati e passando accanto alle decine di tronchi stentati e senza rami che spuntavano dal sottobosco di quello che un tempo era un frutteto. Ormai ero arrivato alla conclusione che dovesse trattarsi di un testo in codice, una sorta di messaggio cifrato. Ma cifrato da chi? Il rumore delle cesoie si faceva più forte mentre ci avvicinavamo alla siepe sfigurata, e la testa senza corpo del giardiniere ondeggiava e fluttuava lungo quell'irregolare parapetto verde. Un disegno complesso si andava definendo via via che i ramoscelli saltavano via. Non sembrava più una sola siepe, ma decine di siepi, tutte interconnesse. Pareva che le linee degli arbusti imitassero angoli di bastioni, mezzelune, scarpate, controscarpate, come il modellino di una fortezza - una serie di anelli concentrici come quelli del pozzo. Qual era lo scopo? Un labirinto? Mi schermavo gli occhi studiando la fila di carpini non potati; le chiazze scure dei tassi; il nuovo sentiero di ghiaia che penetrava imperfetto tra le pareti. Sì, un labirinto vegetale: un "giardino infernale" come quelli che da quanto avevo letto esistevano nei castelli di Heidelberg e di Praga. Attraverso l'arco dell'ingresso potevo vedere le intricate evoluzioni dei suoi sentieri cominciare a prendere forma. Il disegno originale della pianta, immaginai, era andato distrutto o perduto, e così ora le linee frammentate del giardino disegnavano un impossibile dedalo informe. Il giardiniere aveva chinato la testa e le cesoie lavoravano di furia. Fu una premonizione a toccarmi mentre passavamo, o è soltanto l'occhio falsificatore della memoria la memoria di quegli eventi che presto sarebbero seguiti - ad attribuire oggi una terribile risonanza alla vista di quel labirinto inselvatichito e del giardiniere con le sue lame omicide? "Le condutture sono ostruite." Risvegliatasi dalla sua fantasia, Alethea stava continuando il suo racconto. "Erano fatte con tronchi cavi di olmi, che messi sottoterra hanno una vita di soli venticinque anni, forse trenta. Dopo, tendono a cedere o a intasarsi o a perdere. Allora l'acqua si disperde
dappertutto." Si fermò di botto e portò lo sguardo verso l'ala impalcata di Pontifex Hall. "Le fondamenta della casa stanno marcendo, capisce. L'acqua si impantana sotto, sempre di più ogni giorno che passa. Mi dicono che di qui a qualche mese l'intero edificio potrebbe crollare." "Crollare?" Mi ero voltato dal labirinto di siepi e mi schermavo gli occhi scrutando il tragico spettacolo di Pontifex Hall. Improvvisamente pensai ai rumori uditi la sera prima nella cripta, lo scorrere continuo di acque invisibili. "Non sarebbe possibile stagnare le acque alla fonte? Oppure deviarne il corso?" "Le sorgenti sono troppo numerose per una diga. Nascono in cinque o sei punti almeno. L'intero edificio è insidiato da un vero e proprio fiume sotterraneo. Per cui sì, dirottarne le acque è possibile. Ho incaricato un ingegnere di Londra di studiare i progetti per una nuova serie di condutture." Sospirò stancamente, poi mi tirò per il braccio come aveva fatto alla porta della stanza dei documenti. "Venga." Mentre attraversavamo il parco Alethea mi raccontò qualcosa di più della storia della casa. Ne sostituiva, mi disse, una costruita ai tempi della regina Elisabetta, che a sua volta aveva preso il posto della Pontifex Abbey, antica fondazione confiscata da Enrico VIII al suo piccolo gruppo di frati carmelitani dopo l'Atto di Dissoluzione del 1536. Quella della casa sembrava una storia di crescita e distruzione, di un edificio che sorgeva dalle ceneri - a volte ceneri letterali - del precedente; un ciclo di oblio e rinnovamento. Indicò la zona dove si estendevano il vigneto e l'orto dell'abbazia disciolta; dove sorgeva la sua biblioteca confiscata; dove le cupole, i campanili e le torri un tempo si innalzavano dominando i poderi i terreni incolti circostanti. Tutto ormai era sparito da tempo, lasciando lì qualche sparso scavo o cumulo di laterizi in pezzi - altrettante cicatrici e vecchie ossa. Mi tornò alla mente d'un tratto quello che aveva detto a proposito del fatto che la civiltà si fonderebbe su atti di profanazione. Ma come era possibile in questo caso, mi chiesi, distinguere tra gli atti di civilizzazione e quelli di barbarie? "La dimora elisabettiana andò distrutta una cinquantina di anni fa da un incendio in cui persero la vita quelli che vi abitavano, l'antica famiglia dei Courtenay. Una famiglia impoverita, direi. Un anno dopo l'incendio, mio padre acquistò la proprietà dall'erede, ancora più spiantato, della famiglia, un formaggiaio di Dorchester. Nel corso dei cinque anni seguenti, più o meno, fece costruire la casa attuale. La progettò personalmente, sa? Fino all'ultimo particolare della costruzione, all'interno e all'esterno."
Dunque era Sir Ambrose stesso l'architetto, quello con l'idea fissa dei labirinti e delle simmetrie. Sì, un vero Dedalo - Alethea lo aveva chiamato così - perché Dedalo era stato l'artefice, tra l'altro, del Labirinto a Creta. Ma non arrivavo a spiegarmi l'ossessione per quelle peculiari ripetizioni ed echi. Un semplice capriccio, o c'era una motivazione più precisa? Avevo la sensazione, nonostante gli aneddoti di Alethea e i "resti" che avevo visto nel sotterraneo, di non saper quasi nulla di Sir Ambrose. I fogli bruciacchiati e le pelli animali raggrinzite ammassati nella bara dissepolta mi parlavano di una vicenda strana e forse tragica, e lo stesso faceva la sua raccolta di libri. Ma a quel punto non ero in grado nemmeno di cominciare a ipotizzare quale oscuro filo potesse tenere assieme il tutto. L'uomo sembrava mostrare una faccia, poi un'altra, così che era impossibile formarsi un'immagine di questa strana chimera. Era un collezionista? Un inventore? Un architetto? Un capitano di mare? Un alchimista? Decisi che, una volta tornato a Londra, avrei svolto qualche indagine. Mi resi conto anche che della stessa Alethea sapevo poco di più. Ogni suo racconto - sulla libreria, la casa, il padre - sembrava nascondere non meno di quanto rivelasse. Mi chiesi fino a che punto dovessi fidarmi di lei. Mentre ci avvicinavamo alla casa dibattei tra me se potevo senza rischio confidare in lei, se era cosa saggia metterla a parte della mia esperienza nel labirinto di corridoi al piano di sopra, spingermi a chiederle spiegazioni sulla copia dell'Ortelius. O forse il silenzio era ancora la linea più prudente? Prima che potessi aver preso una decisione, mi pilotò verso la porta, come si fa con un cieco. "La biblioteca ci aspetta, Mr Inchbold. È arrivato il momento che lei sappia qual è il suo compito." CAPITOLO 7 Il mio compito, risultò, sarebbe stato, almeno alla prima impressione, relativamente chiaro, anche se non proprio semplice. Aveva a che fare con i libri di Sir Amorose. Cos'altro? Dopo avermi riportato nella biblioteca - che alla luce della fascia di sole che entrava dalla finestra appariva ancor più spettacolarmente voluminosa - Alethea mi presentò una lista di libri, una dozzina in tutto. Al suo rimpatrio, si era scoperto che quei volumi in particolare mancavano dalla biblioteca. E poiché suo desiderio era completare la collezione e ripristinare la biblioteca nelle con-
dizioni in cui Sir Ambrose l'aveva lasciata alla sua dipartita, era fondamentale che fossero ritrovati tutti. "Lei vuole dunque che io le trovi delle copie di rimpiazzo..." Stavo sforzandomi di leggere i titoli capovolti che componevano l'elenco. Provavo una sensazione di sollievo - mista, forse, a delusione - ora che finalmente tutto si stava chiarendo. Tanto rumore per dodici libri. Piegando leggermente la testa riuscii a distinguere uno dei titoli: l'Historia del Mondo Nuovo di Girolamo Benzoli. "Ho capito. Benissimo. Dovrei essere in grado di procurare le copie..." Fui interrotto da Alethea, che mi sembrò stranamente irritata dalla conclusione che avevo tratto. "No, Mr Inchbold. Non ha capito. Ho detto che è indispensabile che questi libri tornino in biblioteca." Batté rapidamente il dito sul foglio, che risuonò come un tuono da teatro. "Esattamente queste copie, gli originali. Ognuno è identificabile dall'ex libris, che porta lo stemma di mio padre. Ecco..." Estratto un libro a caso dallo scaffale, ne aprì la copertina, sul cui interno campeggiava uno scudo in bianco e nero. Quindi mi porse il volume, un'edizione della traduzione in latino dell'Iliade di Leonzio Pilato, di cui mi misi a studiare attentamente lo stemma per timore di suscitare ulteriormente il suo malumore. Lo scudo, vidi, era suddiviso da uno scaglione e ornato alla base da un singolo stemma, un libro aperto con due sigilli e due borchie. Molto appropriato, pensai. Notai inoltre che l'insegna tradiva anche la peculiare disposizione di Sir Ambrose alla simmetria, visto che il lato sinistro dello stemma corrispondeva perfettamente a quello destro. O meglio, corrispondevano perfettamente tranne per i colori, che si presentavano invertiti tra loro sui due lati: la metà sinistra era bianca mentre la destra era nera, e viceversa, così che la parte sinistra dello scaglione era nera e quella destra bianca, mentre la metà sinistra dello stemma era bianca e la destra nera, e così via. L'effetto era singolare, di riflesso e di contrasto, di simmetria e variazione o differenza. L'unica eccezione al criterio era il cartiglio sottostante, su cui campeggiava il motto ormai familiare di Sir Ambrose: Littera Scripta Manet. Un motto che sembrava al tempo stesso una promessa e una minaccia. Alzai gli occhi e vidi che Alethea mi studiava con un empressement stranamente nervoso. L'aria malinconicamente sognante di pochi momenti prima era sparita; ora era vigile e ansiosa. Le restituii il libro, che lei rimise con cura al suo posto prima di riportare su di me la sua attenzione.
"Lei vuole che le trovi dodici libri che erano appartenuti a suo padre," azzardai. "Dodici libri con i suoi ex libris." Stavo guardando con un'espressione dubbiosa la lista capovolta. Avevo ormai riconosciuto diversi altri titoli. Uno era le Elegías de varones illustres de las Indias di Juan de Castellanos, un altro la Primera parte de la crònica del Perù - entrambi, come l'edizione di Benzoli, cronache delle esplorazioni spagnole del Nuovo Mondo. "Ma potrebbe essere difficile," aggiunsi, adottando il mio tono più professionale, "se non impossibile. Mille cose potrebbero essere accadute a quei libri. Potrebbero trovarsi in qualsiasi luogo. O in nessun luogo. E se sono stati bruciati dalle truppe nella guarnigione?" Una riga verticale apparve tra le arcate scure delle sue sopracciglia. Scosse la testa e mi rivolse lo sguardo stanco, disperante, di chi è costretto a spiegare questioni recondite a un bambino difficile. Mi sentii avvampare - di rabbia ma anche di qualcosa di più sottile, perché mi accorsi che il suo mutare di espressione andava al di là della evidente frustrazione che le provocavo io. Quella mattina il suo viso era incipriato, le labbra leggermente dipinte, il gran pagliaio dei capelli domato, almeno in parte, da una cuffia di pizzo nero. Era sempre giunonica per statura e portamento - potrei dire addirittura amazzonica - eppure appariva... ebbene... piuttosto seducente. Credetti perfino di sentire l'aroma di qualcosa come un olio dolce che mi ricordò, con spaventevole incongruenza, il profumo alle zagare di Arabella. Eppure le grazie di Alethea erano talmente agli antipodi di quelle di Arabella - la mia quieta, modesta Arabella - che facevo fatica a riconoscerle e apprezzarle, con o senza la cipria e il cremisi del belletto. Distolsi in fretta lo sguardo, cogliendo così un quarto titolo segnato sul foglio: Certame Errors in Navigation. "La prego, Mr Inchbold. Deve ascoltarmi molto attentamente." Il suo tono era più energico e insistente di quanto la circostanza sembrasse richiedere, senza la minima traccia della pazienza e del riserbo che avevo fin lì associato alla femminilità. "Desidero incaricarla di trovare un solo libro. Un libro soltanto. Gli altri undici volumi, sono lieta di poterlo dire, sono stati localizzati. Ma quest'ultimo, il dodicesimo libro, no - e non per scarsità di ricerche." Tanto rumore, allora, per un singolo libro. Dentro di me sospirai. "Ed è per questo solo, il dodicesimo, che ha deciso di ricorrere ai miei servigi." Cercavo di non far trapelare la delusione rassegnata nella mia voce. Non avevo alcun desiderio di vederla di nuovo inalberarsi. "Esattamente. Perché, vede, molte cose dipendono dal fatto che lei lo
trovi." "Mi sembra che si sia presa un bel disturbo a far venire qualcuno da Londra fin qui per un solo libro." "Un libro di grande valore." "Anche per uno di grande valore." La linea verticale sulla sua fronte si approfondì. "Mr Inchbold, sto cercando di sottolineare l'importanza del suo incarico." "Ci è riuscita." Ma c'era altro, molto altro, che non stava "sottolineando"; ne ero certo. Tutto ciò che mi diceva sembrava scelto meticolosamente da una vicenda più ampia, non rivelata, qualche intrigo a cui alludeva soltanto. I nemici del padre, per esempio, quegli "altri interessi." Anche loro, forse, volevano impadronirsi del misterioso dodicesimo libro? Ma mi chiesi anche a quanto di quel che mi aveva rivelato - sul padre, sul marito - dovessi prestar fede. Le avevo voltato le spalle e per qualche ben calcolato secondo rimasi a guardare senza veder nulla dalla finestra, al di là dei frammenti di vetro che penzolavano precari dai decrepiti riquadri di piombo. Mi schiarii la gola discretamente e domandai: "E se rifiutassi?" "In quel caso perderemmo entrambi," rispose lei senza scomporsi. "In quel caso la mia situazione diventerebbe delle più difficili." "Esistono altri librai." "Può darsi. Ma nessuno, credo, possiede le sue risorse." Era vero, o almeno mi piaceva pensare che lo fosse. Ma gli appelli alla mia vanità non servirono. Né l'appello, che seguì, alla mia avidità. "La pagherò bene." La sua voce, da un solo passo alle mie spalle, mandava una nota che non le avevo ancora sentito. "Cento sterline. Saranno sufficienti? Più le spese, naturalmente. Prevedo che dovrà viaggiare." "Viaggiare?" L'idea mi sgomentò. Non avevo la minima voglia di andare da nessuna parte, tranne che a Nonsuch House. Cento sterline erano una bella somma, questo è vero. Ma cosa me ne facevo di altri quattrini? Stavo benissimo con quanto avevo, con le mie belle 150 sterline l'anno; con la mia pipa, la mia poltrona, i miei libri. "Cento sterline, badi, solo per accettare l'incarico," continuò lei. Sentivo i suoi occhi che mi perforavano le spalle. "Poi, se dovesse trovare il libro... della qual cosa sono sicura... altre cento. Duecento sterline, Mr Inchbold" aveva adottato un tono la cui levità contrastava con la consistenza dell'offerta - "duecento sterline semplicemente per rintracciare un libro. L'unica
mia condizione è, ovviamente, la sua discrezione assoluta." Duecento sterline per un libro? Mi tolsi gli occhiali e mi misi a pulirne le lenti strofinandole vigorosamente sul bavero della giacca. La mia curiosità cominciava a divincolarsi dalle strette redini in cui l'avevo imbrigliata. Duecento sterline per un solo libro? Inaudito. Ridicolo. Con quella somma si sarebbe potuto comprare metà del mio inventario. Che razza di volume poteva mai valere una cifra del genere? Nemmeno l'edizione Caxton delle Confessiones di sant'Agostino - l'edizione su cui mi era caduto lo sguardo la sera prima - avrebbe potuto spuntare un prezzo così esorbitante. Rimisi gli occhiali e per un momento non dissi nulla. Alethea era rimasta in silenzio, in attesa della mia risposta. Insomma... cosa avevo poi da perdere? Era possibile che dopo tutto non mi sarebbe nemmeno toccato mettermi in viaggio. Avevo tutti i miei agenti: ottimi intermediari a Oxford, Parigi, Amsterdam, Francoforte. E potevo mandare Monk a setacciare le bancarelle di Paternoster Row e Westminster Hall, o in qualsiasi altro luogo ritenessi opportuno spedirlo. E per quanto ne sapevo il libro poteva anche trovarsi in quello stesso momento in uno dei miei palchetti in noce. No? Accadono cose anche più strane. Dopotutto, sapevo per certo dell'esistenza tra i miei scaffali di una copia della Discoverie of the large, rich, and beautifull Empire of Guiana - il quinto titolo che avevo decifrato un minuto prima sulla pagina capovolta. Mi voltai verso di lei. Quasi mio, malgrado tesi la mano. "Allora? Qual è, se posso chiederlo, il nome di questo prezioso libro?" Quel pomeriggio ero di nuovo sprofondato nel divanetto della carrozza per il viaggio di ritorno a Londra. Per la prima volta da ore - da giorni- mi sentivo rilassato. Phineas schioccava la frusta, i cavalli tiravano, gli alberi smilzi sfilavano davanti ai finestrini. Ma poi, mentre ci avvicinavamo all'arco di ingresso fummo lì lì per scontrarci con un cavaliere solitario che veniva a spron battuto verso la casa. "Sir Richard!" "Vecchia canaglia! Levamiti dalla strada!" "Si, Sir Richard!" Phineas diede un violento strattone laterale alle redini. La carrozza scartò verso il ciglio erboso, dove la ruota anteriore destra sobbalzò su un sasso e si incuneò in un fosso. Fui scaraventato in avanti sul pavimento dell'abitacolo, storcendomi l'anca. Il cavaliere spronò la sua cavalcatura, un grande roano fulvo, e sfrecciò accanto al mio finestrino con un verso da
corvo. Quando riuscii a raddrizzarmi eravamo usciti dal fosso e stavamo passando sotto l'arco. Con una smorfia di dolore mi rigirai sul sedile e sollevai la tendina di pelle del finestrino ovale posteriore. Guardai il cavaliere che smontava e si inchinava a Alethea, che con una riverenza gli porgeva la mano. Si era già cambiata d'abito, e ora indossava una tenuta da cavallo in attesa del suo arrivo. Il suo visitatore era un uomo grosso con una gorgiera di foggia antiquata e un cappello alto con un nastro viola che svolazzava al vento. Rimasero incorniciati per un secondo tra le ali di Pontifex Hall, due personaggi di un dipinto a olio. Quindi svoltammo un angolo e il quadro fu occultato da un tratto di muro diroccato e di siepe non curata. "Sir Richard Overstreet," gridò Phineas, per una volta offrendo spontaneamente un'informazione. "Un vicino. Promesso sposo di Lady Marchamont." "Davvero?" "Prima che sia finito l'anno, non mi stupirei. Un villano, signore, se devo dirlo," concluse con insolita passione. "Ah sì?" Ma Phineas aveva finito il suo numero. Non ci sarebbero state ulteriori delucidazioni. Proseguimmo il nostro viaggio, per altri tre giorni, in un cupo silenzio. Ma l'incidente esercitò su di me uno strano effetto. La rabbia e l'impazienza erano sparite lasciando il posto a qualcos'altro. Infatti a un certo punto, il giorno prima, si era aperta una piccola crepa. Determinate immagini di Alethea continuavano a filtrare nel flusso irregolare della memoria. Quando chiudevo gli occhi questi canali mi riportavano immagini di lei china sui volumi, mentre soffiava via la polvere dalle rilegature o faceva scorrere i polpastrelli sulla loro superficie come chi esplori la curva del volto dell'amato. Una volta aveva addirittura portato uno dei libri alle labbra e, chiudendo gli occhi, ne aveva aspirato l'aroma come si fa con una rosa. E così mentre la strada si svolgeva di fronte a noi e si riavvolgeva alle nostre spalle, avvertii i primi palpiti di un indistinto e inatteso malessere, il timido accenno di sussulto di un organo vestigiale e bloccato nella crescita, del quale, come per l'appendice, non avevo più l'uso; qualcosa che, come il coccige o il dente del giudizio, mi trascinavo dietro da una vita ormai estinta, quiescente e dimenticato. Improvvisamente ricordai come mi aveva guardato nella cripta, mi tornarono alla mente le dozzine di libri di strego-
neria ammassati negli scaffali della biblioteca, e per un momento mi assali il sospetto che nel corso della mia permanenza mi avesse stregato come una fattucchiera, una maga - mi chiesi se all'origine di quei fremiti inconsueti fosse qualche sortilegio pagano. Ma prima che mi potessi soffermare ulteriormente su questa folle idea, le saracinesche del flusso erano state chiuse dal dolore all'anca. Eppure, la brevità dell'evento non lo rendeva meno allarmante. Dovevo essere pronto a coglierne altri eventuali sintomi. Mentre il mio sedile oscillava avanti e indietro, vedevo le vallette laterali aprirsi e sprofondare, le colline e gli alberi venirci incontro e fuggire via. In alto stava sospesa qualche nuvola, grigia come il fumo di uno sparo. Mi sentivo di nuovo rilassato. Presto avrei rivisto le cupole dorate e le banderuole di ottone di Nonsuch House che si alzavano nel cielo fumoso di Londra. Presto sarei rientrato tra le solide mura dei miei libri, protetto dai traffici inquietanti del mondo esterno. Gli eventi del giorno passato non mi sarebbero sembrati altro che uno strano sogno da cui era grato di essermi riscosso, senza saper bene dove mi fossi spinto nel mio viaggio o cosa potesse essere accaduto. Ma comunque avevo in mio possesso un ricordo di viaggio, un confuso testamento del suo singolare scopo. Mentre raggiungevamo Crampton Magna tolsi dalla tasca un foglio di carta e fissai lo sguardo sulle parole sbavate tracciate nella grafia antiquata di Alethea: Labyrinthus mundi. Sistemandomi meglio sul sedile, scrutai perplesso il foglio come lo avevo scrutato appena Alethea lo aveva posto nelle mie mani. Il titolo mi suonava vagamente familiare, anche se non avrei saputo dire dove potevo averlo sentito. Era il titolo di un'opera molto diversa dagli altri volumi trafugati, quei trattati di navigazione e quelle cronache di remote esplorazioni nelle Americhe spagnole. Era un codice che risaliva, mi aveva assicurato, all'inizio del quindicesimo secolo, quando il suo testo era stato copiato da un originale su papiro - ora andato perduto - e tradotto in latino da un amanuense di Costantinopoli: un frammento di forse dieci o dodici fogli di cartapecora nell'ornata legatura orientale nota come rebesque o arabesco. Non mi aveva detto niente di più, se non che si trattava di un testo ermetico, un testo oscuro che non era mai stato pubblicato. Ma come un simile codice potesse valere duecento sterline, e come fosse diventato il misterioso indicatore delle fortune di Lady Marchamont, su questi enigmi non desideravo, a questo punto, soffermarmi. Quanto sapevo, a quell'epoca, del cosiddetto Corpus hermeticum? Non più, immagino, di chiunque altro. Ero al corrente, è naturale, di come i
manoscritti fossero venuti alla luce per la prima volta a Firenze un paio di secoli addietro, quando Cosimo de' Medici aveva incaricato i suoi agenti di raccogliere per la sua magnifica biblioteca tutti i codici su cui fossero riusciti a mettere le mani in ogni chiesa e monastero che avesse aperto loro le porte. E sapevo che questi ricercatori - per lo più monaci di San Marco a Firenze - avevano recuperato decine di capolavori perduti nelle biblioteche e negli scriptoria di monasteri sparsi un po' dovunque - da Monte Cassino a Langres, da Convey a San Gallo - opere di autori insigni come Cicerone, Seneca, Livio e Quintiliano, e ancora dozzine di altri testi, tutti subito editi, tradotti e consegnati per studio e conservazione tra gli altri tesori della Biblioteca medicea. Il pensiero di questi esploratori-studiosi, questi intrepidi frati a dorso di mulo, mi aveva sempre affascinato. I loro erano i più umili e al tempo stesso i più nobili dei viaggi di scoperta, escursioni pericolose compiute decenni prima delle traversate di Colombo e Caboto, prima che la mania di navigare il mondo prendesse piede, rischiose spedizioni il cui obiettivo era non l'oro o le spezie o le vie commerciali bensì manoscritti antichi, qualche pelle essiccata di animali i cui mondi segreti venivano riportati in vita solo dopo settimane di peregrinazioni lungo sentieri di montagna infestati dai rovi e dai banditi. E sapevo, infine, che la più grande di tutte queste scoperte era avvenuta intorno all'anno 1460, meno di dieci anni dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, quando uno degli impavidi monaci di Cosimo aveva riportato a Firenze i primi quattordici libri del Corpus hermeticum. Quel tesoro scoperto in Macedonia era - o almeno così Cosimo pensava - non meno prezioso delle spezie dell'India o dell'oro del Perù, e valeva quanto tutti gli altri manoscritti presenti nella Biblioteca medicea messi insieme. Le pergamene raggiunsero Firenze poco dopo i dialoghi di Platone, non ancora tradotti, portati dalla Macedonia da Giovanni Aurispa. Ma Cosimo ordinò a Marsilio Ficino, il massimo studioso fiorentino, e quindi il massimo studioso del mondo intero, di tradurre prima le opere di Ermete, perché convinto, come tutti, compreso il grande Ficino, che Platone avesse ricevuto tutto il suo sapere da nessun altro che l'antico sacerdote egizio Ermete Trismegisto. Non erano stati infatti antichi dotti come Giamblico di Apamea a descrivere come Platone avesse bevuto l'onorata scienza di Ermete Trismegisto durante un suo viaggio in Egitto? Perché dunque Cosimo doveva leggere le copie eseguite da questo ultimo arrivato di Platone se possedeva gli originali, le opere di Ermete Trismegisto in persona? Mentre Ficino si dedicava assiduamente a tradurre dal greco in latino i
quattordici libri, cominciarono a circolare a Firenze e poi in tutta Europa decine di voci sull'esistenza di altri manoscritti ermetici, in Macedonia e altrove, che non aspettavano altro che di essere scoperti. Una ventina di altre pergamene furono alla fine rintracciate, con forti mance ai preti e saccheggi di templi, ma erano tutte versioni o frammenti degli stessi quattordici libri, più altri tre libri, così che il totale dei testi ermetici esistenti salì a diciassette. Un secolo dopo la morte di Cosimo, il testo greco delle pergamene macedoni fu pubblicato a Parigi, e successivamente entrambe le versioni del Corpus hermeticum - quella latina e quella greca - furono sottoposte a numerose edizioni ed emendamenti: tutte, a quanto pareva, Sir Ambrose aveva diligentemente collezionato: tutte quelle edizioni e traduzioni che erano state stampate in Europa nel corso degli ultimi duecento anni. Alethea mi aveva fatto avvicinare agli scaffali per mostrarmi che il padre possedeva le edizioni preparate da Lefèvre d'Étaples, Turnebus, Frullas, Patrizzi, Rosselli, perfino l'edizione Trincavelli di Johannes Stobaeus, un pagano macedone che aveva raccolto parte delle opere ermetiche oltre un millennio prima. Ma nessuna di quelle collezioni, mi disse, conteneva il diciottesimo manoscritto, Il labirinto del mondo, il primo testo ermetico scoperto da quasi duecento anni. Ero rimasto a osservarla scettico mentre lei, accanto alla libreria, indicava i libri enumerandoli uno per uno, e pensavo che era un vero peccato che, almeno per quei volumi, Sir Ambrose avesse buttato via tanto denaro. Avevano tutti splendide legature, questo è vero, e avrei potuto venderli quasi tutti nel giro di qualche giorno a uno qualsiasi tra una dozzina di collezionisti. Ma cinquant'anni fa il grande Isaac Casaubon aveva dimostrato che l'intero Corpus hermeticum - questa presunta sorgente della più antica magia e saggezza del mondo - non era altro che una frode, l'invenzione di un pugno di studiosi greci vissuti ad Alessandria nel primo secolo dopo Cristo. Di quale possibile valore o interesse era dunque un libro in più, un altro di quei falsi? La carrozza guadò un ruscello, sollevando con le ruote due sbaffi d'acqua. L'anticipo in sovrane d'oro - una dozzina - tintinnava nelle mie tasche. Chiusi gli occhi e non li riaprii, per quanto ricordi, finché non raggiungemmo i fumi di Londra che, lo giuro, non avevano mai avuto un profumo così piacevole. CAPITOLO 8
La battaglia per Praga durò meno di un'ora. I soldati di Federico e le loro deboli difese nulla poterono contro le orde imperiali con le loro palle da cannone da dieci chili e i loro moschetti a pietra focaia. L'artiglieria devastò le trincee davanti al Palazzo d'Estate, quindi i moschettieri entrarono in azione, bilanciando le loro armi sui posatoi a forchetta e facendo fuoco sulla fanteria boema che si disperdeva in fuga giù per la collina. Quelli che sfuggirono alle palle dei moschetti furono abbattuti dalle sciabole della cavalleria che pochi minuti dopo invase il parco. Quelli che sfuggirono alla cavalleria si precipitarono attraverso le porte nel castello o, quando non ci riuscirono, saltarono nella Moldava. Cercarono di attraversare il fiume a nuoto all'altezza dell'ansa, sperando di raggiungere il Quartiere ebraico o la Città Vecchia, di mettere l'acqua tra sé e il nemico scatenato. Anche altri cercavano di fuggire oltre la Moldava. Un convoglio di carrozze sovraccariche, che avanzavano a tre a tre sul ponte tirate da muli e cavalli da tiro, si estendeva attraverso tutto il fiume e riempiva la Via Carlo, che si insinuava tortuosa tra le file di case e verso la piazza della Città Vecchia. La regina stessa era nel mezzo di quel torbido flusso, con i bagagli preparati in tutta fretta e poi ammucchiati sul tetto come quelli di una zingara o di un calderaio. Pochi minuti prima era stata avvolta in un manto di pelliccia e caricata sulla carrozza reale. Ora le tendine di broccato oscillavano mestamente mentre la vettura avanzava traballando sul ponte, con le ruote che sfregavano contro quelle dei carri e dei carretti a mano tirati o spinti dai suoi sudditi in fuga. Le statue dei santi passavano ondeggiando lentamente. Erano state decapitate per suo ordine pochi mesi prima e ora davano di sé uno spettacolo sinistro. Poi apparve alla vista la statua della Vergine, altro fantasma tremolante. Ma il cocchiere urlava e mostrava la frusta ai suoi cavalli. La regina sarebbe arrivata comunque nella Città Vecchia, con o senza la Madonna. Anche Emilia stava attraversando il fiume verso la Città Vecchia. Era fuggita dalle Sale Spagnole con Sir Ambrose, poi attraverso il castello, che a quel punto era deserto tranne che per qualche servitore che stava trascinando bauli carichi di pellicce e barili di vino attraverso i cortili, arraffando quanto potevano prima che le truppe imperiali forzassero le porte e avesse inizio il saccheggio in grande. Ben poco però avrebbero trovato nella biblioteca. Due delle sale erano in fiamme; il fuoco aveva riempito i corridoi di nuvole di fumo nero e ora gettava una vivida luce saettante sul giardino dei bastioni e la cupola a cipolla della cattedrale. La palla di cannone
era stata arroventata su un braciere: le fiamme avevano cominciato a guizzare attraverso la crepa del muro pochi secondi dopo l'impatto. Sir Ambrose aveva cercato di soffocarle con il mantello, ombra enorme danzante sulla parete dietro di lui, ma era stato respinto dal fuoco che divampava annerendo il soffitto a stucchi, poi l'aria stessa. Ruotando su se stesso, aveva teso una mano guantata di nero. "Presto! Da questa parte!" Nel cortile esterno agguantò le briglie di un cavallo senza cavaliere, balzò in arcione e issò Emilia dietro di sé. Era una vecchia bestia da lavoro, abituata più a tirare carri che a essere montata, ma Sir Ambrose la spinse con foga, spronandola giù per la ripida discesa verso la Città Piccola. Emilia si tenne aggrappata all'arco posteriore della sella mentre si precipitavano sdrucciolando lungo i gradoni, con i ferri che mandavano scintille. Davanti a loro c'era la piazza della Città Piccola, dove il fiume dei carri si apriva in due all'altezza della colonna della peste per poi fondersi di nuovo, più fitto di prima. Poteva già vedere il pinnacolo della torre del ponte stagliarsi sullo sfondo irregolare di guglie e banderuole ammassate nella Città Vecchia. Dove stavano andando? Sir Ambrose aveva detto ben poco da quando avevano lasciato la biblioteca, limitandosi a rivolgerle secchi comandi: seguirlo, tenersi forte, chinare la testa a ogni arco sotto il quale passava il cavallo. Non si era nemmeno preso il disturbo di presentarsi - aveva modi da turco, avrebbe scoperto, anche nelle migliori circostanze. Ma lei poteva già immaginare di chi si trattasse. Sapeva che il grosso inglese era l'agente che aveva portato i Libri d'Oro a Praga insieme con decine di altri manoscritti da Costantinopoli - quelle antiche opere che a dire di Vilém non avevano visto la luce del giorno da quando nel 1453 il sultano Mehmet si era impadronito della città. Ma Vilém non le aveva detto del ritorno dell'inglese in Boemia. Evidentemente la sua visita era sub rosa, "sotto la rosa," come dicevano gli ambasciatori. Sapeva della sua presenza solo perché a Palazzo Kràlovsky correva voce che fosse venuto a Praga non per comprare libri per le Sale Spagnole, come un tempo, ma per venderli, per scambiarli con soldati e palle da moschetto. Il cavallo raggiunse la caotica processione sul ponte, superando di gran carriera i carri e le bestie da soma ed entrando al piccolo galoppo nella Via Carlo. Qui, sull'altra sponda del fiume, il loro percorso si fece d'un tratto più tortuoso e contorto, la loro andatura ancora più rapida. Sir Ambrose si staccò dal branco dei fuggiaschi, spingendo il cavallo al galoppo e guidan-
dolo attraverso una successione di vicoli sempre più stretti e bui che conducevano verso il cuore della Città Vecchia. Emilia, mediocre cavallerizza, caracollava sbilanciata e dovette afferrarsi al mantello dell'uomo per non finire sbalzata al suolo. Sentiva l'elsa della spada di Sir Ambrose premerle contro il fianco. Era una di quelle lame ricurve, larghe alla punta - dalle sue letture aveva imparato che si chiamava scimitarra - un'arma che l'uomo doveva aver portato con sé da Costantinopoli. Poteva vedere anche una pistola infilata in un fodero agganciato alla cintura e un'altra nello stivale. Chiuse gli occhi e strinse la presa. L'artiglieria sulla montagna taceva, ora che il suo compito era completato. Si sentiva solo lo scalpiccio dei ferri sul selciato e, in lontananza, lo sporadico latrare di un moschetto. Quando trovò il coraggio di riaprire gli occhi vide il castello comparire e scomparire dentro un'unica voluta di fumo. Più vicino, sulla facciata di uno degli edifici lungo la strada, appena appena leggibile, colse qualcos'altro, un geroglifico isolato, tracciato con il gesso sull'intonaco annerito:
L'immagine le sembrò familiare. L'aveva vista di recente ma non le veniva in mente dove. Su un altro muro? O in un libro? Voltò la testa mentre le passavano accanto, poi subito la ritirò tra le spalle quando attraversarono un altro arco. Continuarono a cavalcare per un quarto d'ora, avanti e indietro per le strade, procedendo verso nord lungo vie secondarie parallele ad altre che un minuto prima il cavallo aveva percorso verso sud. I canali di scolo erano ghiacciati, il fango indurito dal gelo. Si chiese se si fossero perduti. Sembrava che si muovessero in cerchio, rifacendo sempre lo stesso percorso. Non era mai venuta al di qua del ponte, mai era entrata nella Città Vecchia né nel Quartiere ebraico, sulle cui strade deserte ora galoppavano, passando accanto alle scuole di preghiera e alle sinagoghe. A un certo punto, sul margine del Quartiere, giunse dalle loro spalle un forte fragore di spari. Il cavallo si impennò, poi si slanciò in avanti nella prossima strada. Anche Emilia sobbalzò spaventata. Possibile che i soldati
dell'imperatore avessero abbattuto le porte e raggiunto la Città Vecchia così presto? Ci fu un altro sparo e una pallottola passò fischiando oltre le loro teste, finendo contro la cassetta delle elemosine sul muro di una sinagoga e facendone tintinnare le monete. Ormai poteva sentire nel vento l'odore acre della polvere da sparo. Mentre il cavallo procedeva nella sua corsa, voltò la testa e vide tre uomini a cavallo sulla strada dietro di loro. Sulle prime li credette cosacchi, i guerrieri più feroci e brutali di tutta l'Europa, argomento di infinite tremebonde dicerie tra le dispense e le cucine del palazzo. Ma i tre non erano vestiti come cosacchi - le lunghe giubbe e gli alti copricapo di astrakan. Indossavano invece una livrea, soprabiti mantelli e brache neri come quelli di un predicatore puritano, ma rifiniti ai polsi di un broccato d'oro che mandò bagliori quando passarono davanti a una taverna illuminata dalle candele. Non aveva mai visto un simile abbigliamento, né a Praga né a Heidelberg. Né mai aveva visto facce così orrende. Scure di carnagione e barbute, erano facce da gargolle, contorte nella volontà di uccidere. L'oro del broccato luccicò quando uno di loro alzò la pistola. Ma Sir Ambrose aveva già estratto la sua dallo stivale e si girò su se stesso per rispondere al fuoco. Ci fu un breve sibilo prima che l'acciarino mandasse fumo e scintille, poi la vampa a un palmo dal suo viso. Un'altra zaffata pungente. Accecata, lanciò un grido di spavento. Sir Ambrose ripose la pistola spronando il cavallo in un altro vicolo. Chiuse gli occhi di nuovo, stringendosi disperatamente a Sir Ambrose. Ma non ci furono altri spari. Pochi minuti e molte svolte dopo, gli inseguitori, nonostante le cavalcature più veloci, erano stati in qualche modo seminati. Quando riaprì gli occhi il cavallo, coperto di sudore, stava entrando in un ampio spiazzo con una chiesa a due guglie e una torre con l'orologio. Avevano raggiunto la piazza della Città Vecchia. Decine di cavalli e di muli si muovevano sull'acciottolato. Uomini in uniforme gridavano ordini in inglese, tedesco e boemo, mentre altri si affaccendavano in giro come scaricatori al porto. Sir Ambrose spinse il cavallo in mezzo a loro, tagliando diagonalmente sui ciottoli prima di raggiungere una fila di case fronteggiate da portici con le esili finestre a bovindo illuminate. Frenò il cavallo sfinito davanti a una delle case più grandi e dopo essere smontato con un balzo aiutò Emilia a scendere reggendola per il gomito. Mentre lei toccava l'acciottolato, il volto di lui, contorto in una smorfia e soffuso di sfumature di carminio e arancio, non appariva più quello di Amadigi di Gaula o del Cavaliere di Febo, ma molto più simile a quello dei loro neri inseguitori. Era stata salvata, si
chiese, o catturata? La casa, dalla graziosa facciata dipinta, era un febbrile andirivieni di fiaccole e figure indaffarate. Sir Ambrose la condusse all'arcata d'ingresso attraverso un arcipelago di escrementi di bestie e pile di bagagli che sembravano fossero stati ammucchiati contro le colonne da una violenta marea. Gli asini ragliavano e le fiamme delle torce guizzavano nell'aria. Dove la stava portando? Le sembrava di essere l'uccello tra le zanne del cane da riporto. Tentò brevemente di divincolarsi - il suo primo segno di resistenza. Poi, mentre passavano accanto a una fiaccola, si accorse che l'uomo stringeva qualcosa nell'altra mano. Si era tolto il guanto e le sue dita apparivano macchiate di inchiostro. Le ci volle ancora un istante per riconoscere nell'oggetto un libro, quello della biblioteca: il volume legato in pelle che stava sullo scrittoio di Vilém. Tentò nuovamente di liberare il polso, ma la porta si aprì e lei fu trascinata dentro. II L'INTERPRETE DEI SOGNI CAPITOLO 1 La Nonsuch Books non era nel caos che mi aspettavo quando rientrai in casa, esausto, dopo il viaggio massacrante da Crampton Magna. Quando Phineas mi depose sul London Bridge colsi l'immagine di Monk attraverso una delle lucide vetrine. Era curvo sul bancone e dietro il suo capo chino i libri erano schierati in ordine militaresco lungo gli scaffali, con il sole del pomeriggio che ne lambiva le legature. Ogni cosa era al suo posto - compreso, alla buon'ora, me. Il mio esilio era terminato. Smontato dalla carrozza, pestai i piedi sui ciottoli minuti della strada, come per togliermi dagli stivali la polvere e lo sfacelo di Pontifex Hall. Mi fermai ad asciugarmi la fronte e a inalare a pieni polmoni la brezza acre che veniva dal fiume. Mancava poco alle sei del pomeriggio. La gente tornava dai mercati con la cena, attraversando il ponte verso Southwark. Gli stinchi di bue avvolti nella carta marrone e i pesci dalle pinne argentate con i loro larghi ghigni sardonici spuntavano dalle sporte delle comari e delle fantesche che mi passavano accanto lungo il marciapiede. Mi feci avanti e spinsi la porta verde con un sospiro di gratitudine e il giuramento che avrei presto tradito - di non mettere mai più piede fuori Londra.
"Signore! Buongiorno!" Monk balzò in piedi dal suo sgabello come un gatto scottato, quindi mi aiutò a trascinare il baule oltre la soglia. "Come è andato il viaggio, Mr Inchbold? Le è piaciuta la campagna?" Guardava il baule con uno sguardo strano, probabilmente perché lo immaginava pieno zeppo di libri, che giustamente riteneva l'unica attrattiva che avrebbe potuto giustificare la mia partenza. "Era bello il tempo, signore, era asciutto?" Risposi pazientemente a queste domande e a una mezza dozzina di altre, altrettanto concitate. Quando ebbi finito, le campane di St Magnus-theMartyr battevano le sei, per cui alzai il tendone, fissai le imposte e chiusi la porta. Eseguivo queste operazioni con una certa riluttanza, perché non vedevo l'ora di immergermi nelle acque della mia dolce routine; vedere il flusso dei miei clienti abituali che si riversava dalla porta; percepire che la vista familiare dei loro volti e il suono delle loro voci diluivano i ricordi inquieti dell'ultima settimana. Monk vide che guardavo la corrispondenza posta in una pila ordinata sul bancone. La lettera di Monsieur Grimaud da Parigi, mi comunicò, era finalmente arrivata. "Andiamo, Monk." Stavo leggendo la lettera mentre salivo per la scala a chiocciola. L'edizione Vignon di Omero alla fine ci era sfuggita, ma nemmeno questa delusione bastò ad afflosciare il mio umore, perché ormai avevo colto un rassicurante profumo di cucinato e sentivo il familiare acciottolio di stoviglie nella cucina. "Andiamo a vedere che cosa ci ha preparato Margaret per cena." Ma ovviamente sapevo bene che, essendo mercoledì, un coniglio proveniente dal mercato di Cheapside stava, come sempre, arrostendosi sullo spiedo, accanto a un tegame in cui cuocevano le patate dolci acquistate a Covent Garden. E, come sempre anche questo, Margaret doveva aver stappato una bottiglia di vino di Navarra, dalla quale mi sarei versato cinque dita di liquido violaceo seduto nella mia poltrona imbottita, fumandomi le mie due pipate di tabacco. Il mio compito più immediato, mi pareva allora, era risolvere l'enigma del messaggio cifrato. La copia del manoscritto poteva aspettare, almeno per uno o due giorni. Non so dire perché pensassi che questo era il giusto ordine di priorità. Forse avevo la sensazione che i due testi misteriosi quello che possedevo e quello che cercavo - fossero in qualche modo connessi tra loro e che il primo, una volta decifrato, potesse portare a una soluzione per l'altro. Poiché Sir Ambrose era lui stesso un enigma - almeno per me - decodificando il foglio immaginavo di apprendere su di lui qual-
cosa di più delle scarne informazioni fornite da Alethea. Avrei scoperto che le cose stavano ben diversamente, ormai lo so, perché il codice non era, come credevo allora, il mio filo d'Arianna, bensì mi avrebbe portato ancora più lontano dal centro del labirinto. Ma in quel momento nulla potevo sapere di tutto ciò, e fu così che quando ebbi finito la cena ero deciso a fare un tentativo di decodificazione, con l'assistenza dei libri sulla steganografia, la "scrittura celata", che si trovavano sui miei scaffali. Avevo stabilito inoltre di scrivere una lettera a mio cugino Erasmus Inchbold, matematico presso il Wadham College di Oxford. Salii gli scalini fino al mio studio e accesi una candela di sego. A quell'ora Monk si era ritirato nella sua stanzetta e Margaret aveva raggiunto la sua stamberga a Southwark. Fuori, il ponte si era fatto silenzioso, tranne che per l'acqua che sciabordava tra i piloni. All'interno, l'ultima luce del giorno illuminava il vano della finestra, dalla quale la vista del fiume era da tempo oscurata da mucchi di libri. Lo studio era un buco, la prima delle stanze del piano di sopra ad aver subito l'invasione dal basso. Ogni superficie orizzontale era ingombra di libri, una pila dei quali dovetti spostare dallo scrittoio perché rimanesse spazio sufficiente per il candeliere. Ma prima di mettermi a studiare il messaggio cifrato guardai per un momento l'altro foglietto di Pontifex Hall, quello che mi aveva dato Alethea: Il labirinto del mondo. Un testo ermetico? Il mio incarico mi disorientava più che mai. La nostra era un'epoca di razionalità e di scoperte scientifiche, non della cosiddetta scienza segreta del Corpus hermeticum. Oggigiorno leggevamo Galileo e Cartesio, non stregoni quali Ermete Trismegisto o Cornelius Agrippa. Eseguivamo trasfusioni di sangue e scrivevamo trattati sulla composizione degli anelli di Saturno. Ammiravamo e cercavamo di imitare le belle forme delle antiche statue marmoree che Lord Arundel aveva portato dalla Grecia. Combattevamo le nostre guerre non per motivi religiosi ma nell'interesse degli scambi e del commercio. Avevamo fondato un'università nella Nuova Inghilterra e, a Londra, una Società Reale per l'Avanzamento delle Conoscenze della Natura. Non mandavamo più le streghe al rogo né celebravamo esorcismi. Non pensavamo più che da un malanno come il gozzo si potesse guarire con il tocco della mano di un impiccato, o che la sifilide si curasse con le preghiere a san Giobbe. Eravamo, soprattutto, un popolo civilizzato. E dunque quale interesse poteva uno di noi nutrire per il sapere oscuro, la scienza fraudolenta del Corpus hermeticum? Dopo un minuto misi via il biglietto e presi il messaggio cifrato. Questo
era sempre più misterioso. Lo tenni alla luce della candela per studiarne la filigrana. Quelle impresse nelle pagine del Theatrum orbis terrarum dell'Ortelius avevano il disegno del berretto del giullare, il simbolo usato dai cartai boemi nel 1600. Il messaggio invece era stampato su un foglio che il fabbricante aveva marcato con il motivo della cornucopia, con due iniziali ai lati: una J a sinistra, una T a destra. Il mio cuore ebbe un sussulto. Riconoscevo il motivo, naturalmente, così come conoscevo il monogramma. Erano quelli di John Thimbleby, un cartaio la cui fabbrica sorgeva a est lungo il fiume, a Shadwell. Questo voleva dire che il foglio era stato inserito nel Theatrum in data molto più tarda del 1600. Ma questo era il mio unico indizio sulla provenienza del foglio, e probabilmente un indizio inutile, dato che Thimbleby era uno dei maggiori fornitori di carta del paese ed era in attività da oltre un quarto di secolo. Sarebbe però valso la pena fargli visita, per sapere quali stampatori riforniva, se realisti o puritani, e se avesse mai effettuato consegne nel Dorsetshire. Girai il foglio, lo annusai, quindi lo toccai con la punta della lingua per scoprire se fosse stato marcato in qualche altro modo. Sapevo che anche il più dilettante dei crittografi aveva a disposizione una mezza dozzina di metodi ingegnosi per nascondere messaggi con quello che si chiama "inchiostro simpatico". Cipolle, vino, acquaforte, succo distillato di insetti sembrava che si potesse usare praticamente tutto. Mi sorprese che Alethea con la sua singolare propensione per la segretezza non fosse ricorsa a questa tattica. Ma tanto meglio così, mi dissi. Non avevo nessuna voglia di trasformare il mio studio nel laboratorio di un alchimista o di un farmacista, di trafficare con pentole d'acqua e polvere raccolta dal fondo del secchio del carbone. Questo infatti è quel che occorre per decifrare uno di quei messaggi segreti. Una lettera scritta con un inchiostro speciale fatto, per esempio, con allume diluito - una sostanza più abitualmente usata per fermare le emorragie, fabbricare la colla o conciare le pelli - non si poteva leggere finché la carta non fosse immersa nell'acqua, cosa che provocava la formazione di cristalli sulla pagina. Altre scritte con inchiostri realizzati con latte di capra o grasso d'oca rimanevano invisibili finché non venivano cosparse di polvere di carbone, che magicamente traeva le lettere dall'oblio. Un altro metodo ingegnoso consisteva nell'usare un inchiostro distillato da un salice putrefatto - un inchiostro visibile solo in una stanza in cui fosse stato fatto il buio totale, come quell'altra ricetta che richiedeva, mi sembrava di ricordare, il liquido spremuto dalle lucciole. Avevo anche letto da
qualche parte di un intruglio realizzato mescolando cloruro di ammonio e vino andato a male. Le lettere scritte con questa mistura puzzolente sarebbero dovute rimanere invisibili per sempre a meno che il destinatario non avesse avuto la furbizia di tenere il foglio sopra la fiammella di una candela. Ma non riuscii a trovare alcun indizio che il mio pezzo di carta avesse subito uno di questi trattamenti, così lo misi da parte e presi il primo dei miei libri sulla decodificazione. Be', dopotutto forse la nostra età, pur con il suo spirito scientifico, non si era ancora liberata fino in fondo delle vecchie fumisterie. Vendevo un numero allarmante di libri sulla crittografia, e molti di quei titoli li avevo visti anche nella libreria di Pontifex Hall. Anzi, non c'era un intero scaffale dedicato all'arte della steganografia? Ora, mentre sedevo davanti a una pila di quei libri da cui scegliere, vidi che molti di essi erano stati ristampati a Londra nel corso degli ultimi vent'anni. Sì, la nostra era evidentemente un'epoca che apprezzava la preservazione - e la rivelazione - dei segreti. E chi poteva darci torto, devo dire, dopo tanti anni di guerra e di intrighi? Avevo scoperto tra i miei scaffali la Steganographia di Johann von Heidenberg, alias Johannes Trithemius, un monaco benedettino che avrebbe richiamato lo spirito della defunta consorte dell'imperatore Massimiliano I. C'era anche la Magia naturalis dell'occultista Giambattista Della Porta, che aveva fondato a Napoli l'Accademia dei Segreti, e Decifris, scritto da Leon Battista Alberti, la cui più grande invenzione era un "disco da cifratura", due ruote di rame una dentro l'altra che ruotavano avanti e indietro. Possedevo anche l'opera di un autore inglese, John Wilkins, che aveva sposato la sorella di Oliver Cromwell. E avevo una copia del più famoso di tutti i manuali di crittografia, il Traicté des chiffres, ou secretes manières d'escrire di Blaise de Vigenère, un volume di seicento pagine pubblicato a Parigi nel 1586. Un esemplare di quest'opera, ricordavo, si trovava anche tra i libri di Pontifex Hall. Per due ore buone rimasi chino sul foglio, scuotendo la testa frustrato nel tentativo di cavare un senso, dai volumi prima ancora che dal messaggio cifrato al quale applicare i loro oscuri precetti. L'idea di cifratura è abbastanza semplice. Consiste in una serie di mascheramenti: un certo numero di caratteri dietro i quali nascondono il proprio volto altri caratteri, quelli veri. I volti di questi caratteri nascosti sono stati cambiati in base a una convenzione arbitraria e preordinata detta codice, la "lingua" nella quale è scritto il testo cifrato. Come ogni lingua, il codice è costituito da una rete
di connessioni governate da regole e convenzioni specifiche. Per decifrare occorre dunque conoscere o scoprire queste regole e convenzioni così che si possa rivelare la vera identità degli impostori che occupano l'altrui posto. Il problema, ovviamente, è trovare il metodo con cui questi mascherati possano essere smascherati. Di norma il destinatario risolve il mistero grazie a una chiave, una sorta di grammatica che spiega com'è fatta la lingua in cui il messaggio è scritto. La chiave, per esempio, potrebbe richiedere che i caratteri veri vengano sostituiti da quelli che li seguono di due posizioni nell'alfabeto, in questo modo: ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ CDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZAB In questo caso - uno spostamento di due lettere verso destra - il crittografo non fa altro che sostituire le lettere della riga superiore con quella della riga sottostante, mentre il decifratore si sposta di due lettere all'indietro anziché in avanti. Questo sistema piuttosto rudimentale è noto come "alfabeto cesareo", in quanto sarebbe stato usato per la prima volta da Giulio Cesare nelle comunicazioni con le sue truppe in Spagna e in Siria. Un metodo del genere, mi spiegarono i libri che avevo sulla scrivania, può essere forzato con un minimo di lavoro di congettura. Per esempio, stando alle fatture dei fonditori di caratteri, la lettera più frequente dell'alfabeto inglese è la E, la seconda la A, poi la O, quindi la N e così via. Il vocabolo più comune è l'articolo determinativo, "the". Ora, in base a queste briciole di informazioni, il decifratore dovrebbe determinare innanzitutto se una particolare lettera compare più frequentemente di altre. Presumibilmente non sarà la E, perché, come le altre, la E sarà stata occultata sotto la sua maschera. Dovesse trovarne una - la lettera X, poniamo - questa diventerà la sua candidata alla lettera E. E dovesse questa lettera presentarsi frequentemente in congiunzione con altre due, avrà motivo di sospettare che il terzetto rappresenti l'articolo determinativo - e avrà quindi risolto il problema dell'identità di altre due lettere. O almeno così spera. Ma deve procedere con cautela. Potrebbe trovarsi davanti a trabocchetti mentre avanza a tentoni. La parola potrebbe essere scritta alla rovescia o in altro modo trasposta. O forse sono state inserite lettere neutre - senza valore - per metterlo fuori strada. La chiave, per esempio, potrebbe prevedere che la lettera Y è neutra e quindi non è accoppiata con nulla nel testo da cifrare. Oppure un criterio potrebbe essere che
ogni cinque lettere la cifra crittografica va ignorata, o che si conta solo la seconda lettera in ogni riga. O forse dalla cifra sono stati omessi del tutto l'articolo determinativo o la stessa lettera E. Cominciava a girarmi la testa al pensiero di tutte queste alternative, così passai dai libri sulla scrittura nascosta al messaggio stesso. Ormai nel vano della finestra il sole era un velo arancione e la sentinella passava su e giù per la strada suonando la sua campanella. La lettera più frequente nel testo, scoprii, era la T: ne avevo contate undici. Eseguii le sostituzioni ipotizzando che la T rappresentasse la E, il che significava, evidentemente, che l'alfabeto della cifra corrispondeva a uno spostamento di sei lettere a destra dell'alfabeto del testo in chiaro. Ma dopo aver fatto queste semplici sostituzioni, il messaggio non era affatto più chiaro di prima. A quanto pareva il mio crittografo aveva un ingegno più sottile di Giulio Cesare. Decisi quindi che doveva aver usato quello che i crittografi chiamano le système Vigenère, un metodo più complesso in cui viene usata una parola chiave per occultare e poi esporre le lettere nel testo in chiaro. Secondo Vigenère, la parola chiave era la guida per percorrere il labirinto delle lettere: il filo d'oro che il decifratore srotola nel suo girovagare avanti e indietro nel testo. Scopo della chiave è far capire quali alfabeti cifrati - fino a sei o sette - sono stati usati per sostituire le lettere del testo in chiaro. Di solito si tratta di una singola parola, ma occasionalmente anche due o tre, e a volte perfino un'intera frase. Vigenère stesso raccomanda l'uso di una frase, perché più lunga è la chiave, più difficile sarà risolvere la cifra. Ancora una volta mi sentii sgomento davanti al compito che avevo di fronte. Avevo aperto il Traicté di Vigenère e stavo incespicando tra passi di francese arcaico, cercando di dare un senso alle lunghe colonne e tavole di lettere che ne riempivano una dopo l'altra le pagine. Senza la parola chiave, a quanto pareva, il testo sarebbe stato praticamente impossibile da interpretare, considerando che si poteva ricorrere anche a una dozzina di codici in una singola cifratura. A lungo andare, però, scoprii che le système Vigenère in realtà non era poi tanto misterioso, almeno non nei criteri, e che il suo metodo per cifrare un testo era ingegnoso, oltre che efficace in maniera disperante. Studiando il Traicté finii per vedere il grande Vigenère come un mago, uno stregone, i cui mezzi erano parole e lettere anziché sostanze chimiche e fiamme - parole e lettere le cui forme egli trasformava con il potere di un incantesimo o il gesto di una bacchetta magica. Il suo metodo consiste, come quello di Cesare, in sostituzioni polialfabe-
tiche, ma di un genere più complesso, mediante le quali le lettere del testo in chiaro possono essere sostituite con quelle di uno qualsiasi di venticinque alfabeti cifrati. La lettera A del testo di partenza può essere rimpiazzata nella cifra dalla C, come avviene nell'alfabeto cesareo. Ma questo non vuol dire che la B del testo in chiaro corrisponda nel cifrato alla D: al suo posto potrà trovarsi una qualunque delle altre venticinque lettere. Né vuol dire che quando nel testo cifrato ricompare la C essa rappresenti di nuovo la lettera A del testo in chiaro, perché anche la A potrebbe aver mutato il suo valore. Nella tavola di sostituzione di Vigenère, infatti, ogni lettera del testo in chiaro lungo l'asse orizzontale può essere cambiata in una qualsiasi sotto di essa nell'asse verticale o di sinistra, che diventa il suo sostituto cifrato: ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ BCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZA CDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZAB DEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABC EFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCD FGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCDE GHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCDEF HIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCDEFG IJKLMNOPQRSTUVWXYZABCDEFGH JKLMNOPQRSTUVWXYZABCDEFGHI KLMNOPQRSTUVWXYZABCDEFGHIJ LMNOPQRSTUVWXYZABCDEFGHIJK MNOPQRSTUVWXYZABCDEFGHIJKL NOPQRSTUVWXYZABCDEFGHIJKLM OPQRSTUVWXYZABCDEFGHIJKLMN PQRSTUVWXYZABCDEFGHIJKLMNO QRSTUVWXYZABCDEFGHIJKLMNOP RSTUVWXYZABCDEFGHIJKLMNOPQ STUVWXYZABCDEFGHIJKLMNOPQR TUVWXYZABCDEFGHIJKLMNOPQRS UVWXYZABCDEFGHIJKLMNOPQRST VWXYZABCDEFGHIJKLMNOPQRSTU WXYZABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUV XYZABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVW YZABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWX
ZABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXY ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ Così nel testo originale la lettera B sulla prima linea orizzontale poteva essere rimpiazzata da uno qualsiasi dei venticinque caratteri disposti sotto di essa verticalmente nei venticinque possibili alfabeti di cifratura. Il decifratore sa quali di questi alfabeti scegliere solo se possiede la parola chiave, quelle poche lettere la cui struttura è logica ma i cui effetti non sono lontani dalla magia, come una formula magica recitata su un metallo che si tramuta miracolosamente in un lingotto d'oro. L'incantesimo funziona quando si sovrappongono le lettere della parola chiave a quelle del cifrario in una serie dì ripetizioni, così che ogni lettera della parola risulti accoppiata, in ognuna delle ripetizioni, a una del testo in codice. E qui arriva la trasmutazione. I valori delle lettere nel messaggio cifrato cambiano a seconda dell'alfabeto che la parola chiave indica al decifratore di utilizzare. Quello che segue è un agevole, ininterrotto interscambio di lettere, una metamorfosi testuale in cui lo scritto nascosto si cristallizza come allume immerso nell'acqua, ricostruendo la propria struttura in un disegno ordinato. Decifrare diventa una cosa semplice e sicura come voltare le carte da gioco per leggerne il valore, o strappare la maschera di raso per riconoscere il volto del malfattore. C'era qualcosa che mi affascinava profondamente nell'idea di una chiave che può essere usata per aprire i segreti più complessi, questa parola o chiave che, quasi come un fiat divino, trasforma in ordinato il casuale e caotico. Vigenère dunque, a ben vedere, non era affatto un mago. No - il suo sistema apparteneva alla nostra novella epoca, quella di Keplero, Galileo e Francesco Bacone, un'epoca in cui gli involucri esterni venivano gettati via e il nocciolo della verità esposto alla vista di tutti. Il sistema confermava la mia fede nella capacità della ragione umana di penetrare nelle profondità di ogni mistero. C'era dunque da stupirsi che fossi convinto che il mio pezzo di carta, combinato con qualche sillaba segreta, potesse penetrare anche nel mistero di Sir Ambrose Plessington? Solo che la parola chiave non la conoscevo ancora. Con un senso di inadeguatezza, misi da parte i libri mentre la guardia notturna annunciava le dieci. La miglior politica era ancora mio cugino Erasmus. Negli anni gli avevo fornito molti libri sull'argomento della crittografia e avevo anche sentito dire che aveva decifrato degli scritti per Cromwell. Decisi dunque che tra tutti lui era quello che più avrebbe saputo cosa fare di quel guazza-
buglio di lettere. Ma non lo avrei messo a parte del mio sospetto che si trattasse di un crittogramma ideato per celare l'ubicazione della fortuna di Sir Ambrose. "Mio caro Erasmus", cominciai, sorpreso dal leggero tremito della mia mano. Quando ebbi finito la lettera, fuori il buio era totale e le campane di St Magnus battevano le undici. Dovevo affrettarmi, pensai, se volevo fare in tempo per il postale della notte. Presi il soprabito, colpito da un singolare sentimento di urgenza. Ma poi, altrettanto improvvisamente, mi sentii colpito da un altro pensiero, non meno urgente. Non c'è nulla di cui aver paura, Mr Inchbold. Sarà assolutamente al sicuro. Glielo prometto... Mentre infilavo la giacca con lo sguardo fisso sul messaggio cifrato sullo scrittoio, la sottile crepa del dubbio che si era aperta quella prima sera a Pontifex Hall si allargò e, d'impulso, mi inginocchiai accanto alla scrivania e sollevai due assi allentate del pavimento e infilai in mezzo alle travicelle sottostanti il foglio. Ripensandoci, aggiunsi il foglietto con il titolo del libro mancante e la lettera di Alethea, insieme con le dodici sovrane di anticipo - tutto quello che poteva collegarmi con Pontifex Hall. Poi rimisi con cura le tavole al loro posto, le coprii con due pile di libri e facendomi strada tra i mucchi degli altri libri mi avviai verso la scala. "Signore?" Ero arrivato a metà dei gradini. Il viso di Monk era apparso in cima, seminascosto dalla berretta da notte. Avevo fatto un salto per lo spavento. "Faccio un salto in strada," gli dissi. Nonostante la penombra potei vedere le sue sopracciglia inarcarsi per lo stupore. Raramente mi avventuravo fuori casa con il buio, e in quei casi mai oltre il Jolly Waterman. Se Londra di giorno faceva paura, di notte era, in base alla mia limitata esperienza, molto ma molto peggio. La mia risolutezza fu sul punto di abbandonarmi. "Brevissimo," aggiunsi. "Devo spedire una lettera." "Lasci fare a me, signore." Cominciò a scendere per la voluta della scala a chiocciola. Spedire la corrispondenza era una delle sue svariate mansioni. "No, no." Alzai una mano verso di lui. "Tutto quel tempo seduto in carrozza," spiegai, flettendo le gambe e dandomi una pacca sul didietro a suo beneficio. "Una passeggiata è quello che ci vuole. Adesso tornatene a letto, Monk, ti prego." La berretta scomparve. Un minuto dopo varcavo la soglia e mi trovavo sul marciapiede. Le strade al di là del cancello erano buie e deserte. Le in-
termittenti lanterne a occhio di bue - una serie di aloni giallastri lungo gli edifici - mi illuminavano a malapena il cammino. Da lontano arrivava lo scampanio della guardia. Ritirai la testa tra le spalle e procedetti seguendo la mia ombra, muovendomi incerto come camminassi sulle uova. La stazione di posta più vicina a Nonsuch House era quella di Tower Street, nei pressi di Botolph Lane. La trovai senza difficoltà e, dopo aver lasciato cadere la lettera nella buca (una cassetta di ferro assicurata al muro con una catena), me ne tornai di fretta lungo Fish Street Hill mentre risuonava il coprifuoco. Al suo rintocco funereo due sentinelle avevano preso vita e si preparavano a chiudere i cancelli del ponte. La saracinesca aveva cominciato la sua discesa. Mi intrufolai appena in tempo, confortato ancora una volta dalla vista della sagoma bianconera di Nonsuch House che si stagliava contro il cielo venendomi incontro. Mezz'ora dopo la lettera sarebbe stata tolta dalla cassetta e consegnata all'Inland Office, che occupava il piano superiore del General Letter Office in Clock Lane. Qui, al lume di un mozzicone di candela, tra una marea di etichette e timbri, il filo sarebbe stato tagliato con un temperino, il dischetto di carta di sigillo accuratamente asportato e la lettera copiata parola per parola da un impiegato. Questi poi avrebbe portato la copia al piano di sotto, in uno stanzone dove un uomo sedeva a uno scrittoio, dando le spalle alla porta, e forse tamburellando con la mano destra sul ripiano della scrivania. "Sir Valentine," avrebbe mormorato l'impiegato, che si chiamava Ottermole. "Un'altra lettera, signore. Da Nonsuch House". Lo scrivano avrebbe riposto la copia sulla scrivania e, risalite le scale, avrebbe ripiegato la lettera lungo i segni delle piegature risigillandola con precisione con una goccia di cera. Anche questa sarebbe stata consegnata al piano di sotto, aggiungendosi a una mezza dozzina di cartelle rifinite in ottone. Sir Valentine sarebbe già sparito. Fuori, nel piccolo cortile, avrebbe attaccato i cavalli al furgone postale in attesa, che sarebbe arrivato a Oxford di lì a quindici ore circa, dopo essersi fermato a cinque stazioni di posta. Ottermole risalì nell'Inland Office. Una nuova pila di lettere, piegate e sigillate, era stata lasciata sullo scrittoio durante la sua breve assenza. Sospirò: come sempre, sarebbe stata una lunga notte. CAPITOLO 2
Sull'altra sponda del fiume il Castello di Praga, cinto da una nebbia novembrina, appariva calmo e silenzioso. Durante la notte era caduta una fitta nevicata. Le fontane nelle corti erano mute, i loro zampilli solido ghiaccio, e la neve fresca sulle arcate e le porte era alta un palmo. Sotto i bastioni i contorni dei giardini e dei viali con i loro alberi potati si distinguevano appena, traversati dai solchi irregolari delle ombre. L'incendio delle Sale Spagnole si era spento da ore, perché nella biblioteca era rimasto ben poco da bruciare, ma un fantasma di fumo nero aleggiava immobile nell'aria. L'intero castello sembrava scivolato in uno stato di smorzata sospensione, come se trattenesse il fiato in attesa. E poi arrivò il lento rullare delle scariche di artiglieria, ancora lontano ma in costante avvicinamento. Non poteva mancare ancora molto, ormai, un giorno al massimo, prima che i soldati traversassero il fiume e sfondassero le porte della Città Vecchia. Allora i cosacchi - protagonisti di tanti aneddoti terrificanti - avrebbero fatto la loro comparsa. Al balcone della casa della Piazza della Città Vecchia, Emilia emise un tenue sospiro ascoltando il clamore che giungeva dal basso. L'esodo stava per iniziare. Piccole schiere di uomini si affannavano ad assicurare le gerle ai basti dei muli, a legare i teloni sui carri e i carretti che con le loro ruote avevano disegnato sulla neve un groviglio di sentieri. Avevano lavorato per tutta la notte. C'erano più di cinquanta vetture in tutto, la maggior parte già cariche e attaccate ai cavalli da tiro o ai buoi gialli che dondolavano di qua e di là la testa, assonnati. La processione fece tutto il giro della piazza e poi si perse nelle strade nebbiose. Paggi in livrea saltabeccavano avanti e indietro in mezzo alla neve; qualche uomo di staffetta trottava accanto ai carri dei bagagli, sacramentando in inglese e tedesco. Dall'altro lato della piazza, sotto la torre dell'orologio del palazzo del municipio, stavano ferrando un cavallo. Il suono sfocato del martello raggiungeva il balcone con un ritardo di una frazione di secondo ogni volta che il fabbro menava un altro colpo, dando all'intera scena un che di sfalsato e impreciso, come un dipinto che prendesse vita in maniera imperfetta. Stringendo le mani sulla ringhiera ghiacciata, Emilia si sporse nell'aria fredda, spingendo lo sguardo a ponente al di sopra dei comignoli e degli spioventi dei tetti imbiancati, verso la Montagna Bianca, che si stagliava, a cinque miglia di distanza, avvolta nella sua cappa di foschia grigia. Il Palazzo d'Estate era stato preso durante la notte. Soldati e cortigiani erano stati trucidati, senza distinzioni. Spostò gli occhi verso il fianco della colli-
na che scendeva verso la Moldava, una lama rossiccia che lampeggiava qua e là nei varchi tra le case di paglia e stucco. Colse con lo sguardo il macabro balletto dei corpi portati a valle dalla corrente, le braccia spalancate e le code della giubba aperte come ali di angeli. I fanti moravi. La sera prima avevano tentato, invano, di attraversare a nuoto il fiume per mettersi in salvo nella Città Vecchia. In salvo? Distolse lo sguardo e si staccò dalla ringhiera chiudendosi stretto il mantello sulle spalle. Per tutta la notte si erano susseguite le voci, una più spaventosa dell'altra. I soldati transilvani non ce l'avevano fatta ad arrivare, e nemmeno le truppe inglesi, mentre i cavalieri magiari o erano tutti morti o erano passati all'imperatore. I primi cosacchi stavano calando dalla collina verso il ponte, le cui porte non si sarebbero potute difendere a lungo. I cattolici avevano trionfato. Praga sarebbe stata saccheggiata, i suoi cittadini presi prigionieri e torturati - se non erano stati passati a fil di spada prima, cioè, dal primo all'ultimo, che Dio li abbia in gloria. Re Federico, però, non sarebbe stato catturato. Si era già rifugiato nella sua fortezza di Glatz, o almeno così sosteneva un'altra voce. Ma la regina era ancora lì, dentro la casa, facendo i suoi preparativi. Per tutta la notte Emilia aveva sentito le strida acute della sua scimmietta e lo sbattere della porta della camera tra l'andirivieni dei suoi ambasciatori e consiglieri. Era l'ora in cui Emilia e le altre dame di corte venivano convocate da un paggio o da una campanella per partecipare al rituale lungo un'ora in cui il reale personaggio era da addobbare di strati di seta e damasco, e poi allacciare bottoni, annodare nastri, applicare gioielli, arricciare capelli con i ferri caldi, completare la magica metamorfosi della esile, fragile Elisabetta in Regina di Boemia. Ma quella mattina nessun paggio aveva bussato, nessuna campanella squillato. Forse si erano dimenticati di lei? E nemmeno aveva trovato traccia di Vilém, né dentro la casa né fuori sulla piazza, e da nessuno dei comignoli del Vicolo d'Oro saliva fumo. E così era rimasta sul balcone, con niente da mangiare e niente da leggere, e aspettava. Dalla piazza salì un grido e lei guardò giù: Sir Ambrose Plessington avanzava in mezzo alla neve. Almeno lui era molto presente. La sera prima l'aveva accompagnata al piano di sopra fino alla sua camera per poi sparire, senza una parola, con il libro dalla legatura in pelle ancora infilato sotto il braccio. Quella mattina però non c'era traccia delle pergamene, mentre lui controllava il carico delle casse di libri su uno dei carri, aprendone il coperchio con la sua scimitarra e poi richiudendolo picchiandovi sopra. Le casse dovevano essere un centinaio in tutto. Si chiese per l'ennesima volta
che cosa ci facesse nella biblioteca la sera prima. C'era lui, forse, dietro la scomparsa di Vilém? I due si conoscevano sicuramente, ragionò. Era perfino possibile che Vilém facesse parte di qualche oscura trama che aveva condotto l'inglese a Praga. Da Vilém aveva saputo che la biblioteca, oltre a migliaia di volumi, conteneva un archivio segreto, una camera chiusa sotterranea dove erano riposti i libri più preziosi e anche pericolosi, quelli elencati nell'Index librorum prohibitorum, il repertorio dei libri di cui la Chiesa vietava la lettura. Solo pochissimi avevano accesso a quel misterioso deposito. Ogni anno centinaia di studiosi giungevano a Praga per studiare nella biblioteca - studiosi la cui apparizione, come le rondini o i cucù, annunciava l'arrivo della primavera. Ma a nessuno era mai permesso di posare lo sguardo sui libri dell'archivio segreto. Tra questi, le aveva spiegato lui una volta, erano custoditi le opere di riformatori religiosi come Huss e Lutero, insieme con pamphlet di loro seguaci e di decine di altri eretici. C'erano anche scritti di astronomi di fama. Tanto De revolutionibus orbium coelestium di Copernico quanto la disquisizione di Galileo sulle maree erano collocati nell'archivio, così come vari trattati sulla cometa del 1577 e sulla nuova stella che era apparsa nella costellazione del Cigno opere che si diceva contraddicessero la sacra parola di Aristotele. Vilém biasimava quella segretezza, soprattutto per quanto riguardava i testi scientifici. Quante serate nel Vicolo d'Oro lei aveva passato ascoltando le sue proteste contro l'Index librorum prohibitorum? Libri come quelli di Galileo e di Copernico erano fatti per suscitare il dibattito tra gli studiosi e gli astronomi, affermava, per mettere in discussione antichi pregiudizi e illuminare gli ignoranti, per operare verso una grande affermazione del sapere. Quel che potevano contenere diventava pericoloso solo quando veniva nascosto al mondo - nascosto per mano di quei pochi che, come i cardinali del Santo Uffizio, intendevano imperare come tiranni sui molti. Ora, mentre guardava Sir Ambrose che ispezionava e poi inchiodava un'altra cassa, si chiese se i libri dell'archivio segreto fossero stati rimossi dalla biblioteca con tutti gli altri. Forse il volume che aveva visto la sera prima era uno di quelli, un libro temuto e proibito da Roma? Sapeva infatti, da quel poco che capiva di quell'insidioso ginepraio che era la politica boema, che l'inglese, come Federico ed Elisabetta, era un paladino della religione protestante e un nemico sia dell'imperatore Ferdinando sia del cognato di questi, il re di Spagna. Pettegolezzi di corte volevano che tre anni prima Sir Ambrose avesse fatto parte della spedizione di un altro audace inglese e sostenitore dei protestanti, la cui flotta era salpata per la Guiana
con l'obiettivo di strappare una miniera d'oro agli spagnoli. Il viaggio di Sir Walter Raleigh, si sa, era stato un disastro. La leggendaria miniera non era stata trovata; e nemmeno l'agognato passaggio per i Mari del Sud attraverso l'Orinoco. Né gli spagnoli erano stati sbaragliati in battaglia e scacciati dalle sponde della Guiana. A coronare il tutto, Sir Walter ci aveva rimesso la testa. Ma Sir Amorose era sopravvissuto - se, naturalmente, era vero che avesse partecipato alla spedizione. Ora Emilia si chiedeva se la sua inaspettata riapparizione a Praga rappresentasse una missione della stessa natura, un altro colpo portato ai detestati cattolici. Se così, gli uomini che la notte prima li avevano inseguiti per le strade della Città Vecchia erano gli emissari di un cardinale, di un vescovo? "Signora..." L'orologio astronomico dall'altra parte della piazza stava battendo le otto. Si voltò e vide la cameriera nell'arco della porta-finestra, che torceva un fazzoletto di pizzo tra le mani. Si vedeva che aveva pianto. Dal corridoio veniva la voce della regina e dal basso il muggito di un bue, poi un'imprecazione irosa di Sir Ambrose. "Venga," bisbigliò la ragazza. "È pronta una carrozza." Passò un'altra ora prima che il convoglio iniziasse la sua marcia attraverso le vie della Città Vecchia, preceduto da un drappello di cavalieri. Un fiume tortuoso di carretti, carri con i bagagli, carrozze, muli carichi di ceste e panieri: sembrava che l'intero contenuto del Castello di Praga fosse decantato nella variegata carovana. Uno alla volta, in fila per due, i veicoli cominciarono ad avanzare nelle strette stradine, muovendosi verso est, con le ruote che affondavano nella neve e i buoi che recalcitravano come condotti al macello. Una sottile lastra di ghiaccio si sbriciolava sotto gli zoccoli mentre venivano spinti a frustate lungo la via, lasciando impronte irrigidite dal gelo. Si avanzava in modo lento e disordinato. Di tanto in tanto la carovana rimaneva ferma per lunghi minuti, mentre le staffette cercavano di sgombrare il cammino dalla neve con gli stivali e il calcio dei moschetti. Poi la neve cominciò a sciogliersi e il fondo delle strade diventò un pantano e il passaggio fu ancora più faticoso. Dopo mezz'ora la testa della processione era arrivata sì e no a metà della via Celetnà. Emilia si trovava dentro una delle carrozze più piccole in fondo al convoglio, stretta tra altre due dame di corte. Tremava, infagottata in una coperta da scuderia, apriva e chiudeva le dita, vi alitava sopra, si stropicciava le mani, le batteva e poi le infilava sotto la copertura di vello di pecora in
una serie di frenetici quanto futili rituali. Continuava anche a rigirarsi sul sedile per sbirciare dal finestrino posteriore verso la piazza e poi su verso il castello, non per vedere se arrivassero i cosacchi, come le altre, o i tre cavalieri ammantati di nero. Ma era troppo tardi, capì, mentre passavano accanto alla baraonda di deserte baracche di legno erette lungo le mura della chiesa hussita. Stavano lasciando Praga. Ormai Vilém non l'avrebbe più trovata, ammesso che fosse ancora vivo. Si strinse la pelle di pecora alle ginocchia e alzò gli occhi verso il sole pallido che si issava sopra il tetto a punta della Torre delle Polveri, nella cui ombra la testa del corteo era entrata. La loro vettura si impantanò nel fango e dovette essere liberata. I cavalieri bestemmiavano per il ritardo. Poi le porte della torre si spalancarono, aperte dai soldati, scoprendo la scena dei campi coperti di neve, attraverso i quali la strada era ancora più fangosa, l'acqua nei solchi più profonda. Ma la carovana proseguì serpeggiando, avanzando e scivolando più rapidamente sopra le ondulazioni del cammino, come se muli e buoi sapessero di trovarsi al di là delle mura e quindi esposti al fuoco dei nemici. Dalla direzione del castello arrivavano ancora rumori di spari, scariche di fucileria che si facevano più sfumate e più irregolari a mano a mano che la processione si allontanava e gli ultimi ribelli boemi venivano catturati o uccisi. Per il resto della giornata il corteo seguì la strada fangosa, toccando una serie di borghi fortificati che a Emilia sembravano versioni in miniatura di Praga, con le loro torrette di guardia, le loro colonne della peste, piccole piazze con municipi sormontati da banderuole ed enormi orologi. I soldati spuntavano dalle garitte sulle quali spiccavano gli stemmi scolpiti nella pietra. La processione sfilava per le strade sotto gli occhi di gruppi muti di cittadini, poi attraversava un'altra porta all'estremità opposta. Dopo qualche ora le cittadine cominciavano a distanziarsi. Comparvero le foreste, poi si infittirono, e la neve sui lati della strada si fece più alta. I segni dell'intrusione dell'uomo sparirono, tranne che per qualche pietra miliare semisepolta e qualche castello lontano rintanato in una valle o svettante contro il cielo dalla cima di un'altura. Dove stava fuggendo la carovana? Per tutto il giorno le voci sulla loro meta corsero su e giù per il serpentone di vetture. C'era chi diceva che fossero diretti a Bautzen, ma poco dopo giunse un messaggero a cavallo con la brutta notizia che l'elettore di Sassonia - un ubriacone cacciatore di cinghiali, un luterano che odiava i calvinisti ancor più che i cattolici - aveva invaso la Lusazia e posto l'assedio alla città. Poi si disse che la destinazio-
ne era Brünn... finché un'altra voce annunciò che le Terre Morave erano uscite dalla confederazione boema. Qualcun altro affermava che erano state recapitate missive al cugino della regina, il duca di BrunswickWolfenbüttel, un tempo suo pretendente, in cui gli si chiedeva rifugio nei suoi domini. Ma il duca, poco galantemente, menava il can per l'aia nella sua risposta, spiegando che doveva prima consultare la madre, purtroppo assente da Wolfenbüttel. Le speculazioni deviarono allora sulle città della Lega anseatica, anche se presto ci si rammentò che Federico aveva ottenuto in prestito dai mercanti di Lubecca e Brema forti somme di denaro che, ahimè, aveva trascurato di restituire. Poi si parlò di un ritorno a Heidelberg - una scelta disperata, perché il Palati-nato, come tutti sapevano, era occupato dalle truppe spagnole. Altrettanto improbabile era la Transilvania, giacché anche se il suo principe, Bethlen Gàbor, era un buon calvinista, il paese era pericolosamente prossimo alle terre del Gran Turco, i cui giannizzeri proprio in quel momento sembrava stessero affilando le loro scimitarre. E così infine il Brandeburgo arrivò in cima a questa smilza lista di possibilità, perché l'elettore del Brandeburgo, Giorgio Guglielmo di Hohenzollern, era non solo un buon calvinista ma anche il cognato della regina e quindi non poteva respingerla. Ma il Brandeburgo distava quasi duecento miglia, dall'altra parte delle montagne. Al calare delle tenebre la carovana fece il suo ingresso in una piccola città a una dozzina di miglia dalle porte di Praga. Era divisa da un fiume che scorreva sotto le mura fortificate e poi alle spalle di una fila rettilinea di depositi mercantili, con le sponde coperte di neve e la superficie lastricata di ghiaccio e coperta di spruzzi bianchi. L'Elba, disse qualcuno. La processione si spinse fino a una piazza deserta, dove si affollarono le vetture e gli animali sfiniti e zoppicanti. Nella scarsa luce Emilia scorse la carrozza della regina, un veicolo enorme, con tende e imbottiture, sospeso a una serie di cinghie di cuoio. Per trascinarla erano necessari sei robusti cavalli. La regina vi era seduta, avvolta in un manto orlato di pelliccia e circondata da sacchi di vestiario e, sembrava, decine di libri. Anche lei, come Emilia, non si metteva mai in viaggio, anche per il più breve dei tragitti, senza portarsi dietro una quantità enorme di letture. In compenso era stata sul punto di montare in carrozza da Praga senza uno dei principi, il più giovane, Rupert. Era stato rintracciato all'ultimo momento dal ciambellano del re, si diceva, e infilato in una vettura. Ora i tre principi viaggiavano dietro la madre, il principe Rupert tra le braccia della nutrice. Quando la sua carrozza svoltò nella piazza, Emilia vide anche Sir Ambrose. Montava un grande
percheron, in groppa al quale pattugliava in tutta la sua lunghezza la processione, come un feudatario, lanciando ordini in inglese e in boemo, tra gli schizzi di fango e neve sollevati dagli zoccoli della sua cavalcatura. Dopo molta confusione la demoiselle d'honneur assegnò alle dame di corte una locanda dall'aria derelitta, l'Unicorno d'Oro, posta in una via laterale di fronte a una chiesa calvinista. Era, furono tutte d'accordo, un malinconico declino rispetto ai tempi in cui viaggiare con la regina significava banchetti e archi di trionfo in ogni città, udienze con aristocratici, cittadini schierati con il cappello in mano e le ginocchia piegate. Emilia fu sistemata in una cameretta con il pavimento costellato di escrementi di topo. Se ne stette a lungo tremante sul lettuccio stretto, esausta ma incapace di prendere sonno. Qualcuno nella stanza accanto stava piangendo, un suono basso e soffocato, spasmodico e faticoso. Dalla strada veniva di tanto in tanto il rintocco della campana della chiesa e lo scricchiolio di passi nella neve. Dopo un'ora si alzò, si avvolse nella coperta e si sedette davanti alla finestra dai vetri lerci. Il vento aveva spazzato via le nuvole ed era sorta una luna grassa che rischiarava il cielo. Non avevano ancora finito di sciogliere il convoglio. Poteva vedere Sir Ambrose in mezzo alla piazza, che appoggiato al frustino dava ordini ai soldati che distribuivano il foraggio ai cavalli e ai buoi. Strizzando gli occhi osservò la sua forma massiccia. Quell'uomo era un enigma. Da quando avevano lasciato Praga non le aveva rivolto la parola. Non aveva fornito spiegazioni né sulla sua presenza nella biblioteca né per la loro fuga movimentata per le strade della Città Vecchia. Non c'era alcun segno che tra loro ci fosse stato qualcosa, o anche solo che si ricordasse di lei. Si chiese se dovesse sentirsene offesa o sollevata. Qual era il suo piano? Senza niente da leggere in viaggio e con poco da vedere attraverso i finestrini se non distese di roccia e di neve, aveva avuto ore e ore per riflettere sul volume della biblioteca e sui tre uomini a cavallo, e anche sullo stesso impenetrabile Sir Ambrose. Varie trame avevano cominciato a presentarsi alla sua mente. Per tutta la primavera e l'estate, sapeva, decine di stranieri erano arrivati al Castello di Praga. Non erano i soliti studenti e scienziati, quegli umili pellegrini che viaggiavano sui furgoni postali o a dorso di mulo. No, questi erano visitatori di un genere diverso, spesso in livrea o recanti lettere sigillate di presentazione da parte di duchi o vescovi da ogni angolo dell'impero, ma anche dalla Francia, la Spagna e l'Italia. "Avvoltoi," li aveva chiamati Vilém. Correva voce, le aveva spiegato, che per finanziare i suoi eserciti, re Federico si stesse prepa-
rando a vendere i tesori delle Sale Spagnole - centinaia di quadri, orologi, vetrine, perfino i telescopi e gli astrolabi fabbricati da Galileo in persona. Un catalogo di cinquecento pagine era stato stilato in segreto dalla nobiltà boema e poi distribuito tra i potentati europei. I loro agenti erano arrivati a Praga poco dopo, precedendo di un passo gli eserciti predatori. Ovviamente moltissimi volumi della biblioteca erano stati inclusi nel mastodontico catalogo. Federico intendeva venderli come un ambulante che smercia cavolfiori in strada, aveva commentato amaramente Vilém. E naturalmente c'erano per i libri tanti acquirenti quanti ce n'erano per tutto il resto, soprattutto per i più preziosi, come i Libri d'Oro di Costantinopoli. Si diceva che a Roma, il cardinale Baronius - l'uomo che aveva sovrinteso al titanico progetto di catalogare la Biblioteca Vaticana - aveva portato il papa a interessarsi alla collezione. Doveva essere stata un'impresa non da poco, aveva sogghignato Vilém, visto che Paolo V era un uomo volgare, un detestabile filisteo - quello stesso che aveva censurato Galileo nel 1616 e messo all'indice l'opera di Copernico. Ma a quanto pareva ora Sua Santità era interessata ad acquistare non solo i tesori di Praga ma anche il patrimonio personale di Federico, i libri della Bibliotheca Palatina - la più bella raccolta di volumi di cultura protestante esistente al mondo. E sembrava che i libri della biblioteca avessero richiamato qualcun altro a Praga, un altro agente altrettanto misterioso. Rabbrividì nella stanza gelida, osservando Sir Ambrose mentre controllava i soldati, che ora stavano portando al riparo, per la notte, una serie di casse e di bauli. Il bagaglio della regina era già stato scaricato e i cavalli ricoverati in stalla. Il resto del convoglio in sosta si allungava attraverso la piazza svoltando in una strada laterale buia, dove i buoi tossivano e muggivano, o scuotevano le grandi teste nei sacchi del mangime. I soldati si facevano strada tra i veicoli, lavorando in silenzio e con rapidità, finché uno di essi, cercando di caricarsi addosso una cassa da un carro, inciampò nella neve. La cassa finì a terra con un rumore di vetri in frantumi. "Idiota!" Sir Ambrose assestò un secco colpo di frustino al posteriore del soldato prono, poi estrasse la scimitarra e schiodò con violenza il coperchio dalla cassa danneggiata. Emilia, sempre alla finestra, si protese a guardare. La cassa appariva piena di paglia e riempita non di libri, come tante altre, bensì di decine di fiasche e bottiglie, diverse delle quali si erano rotte e versavano il loro contenuto sulla neve. Quale che fosse il loro contenuto, il cattivo odore doveva essere potente, perché i soldati si affrettarono a indie-
treggiare, boccheggiando e turandosi il naso. Ma Sir Ambrose si inginocchiò nella neve ed esaminò accuratamente le bottiglie prima di richiudere il coperchio con qualche martellata. La scena lasciò Emilia perplessa. In un primo momento aveva pensato che le bottiglie venissero dalla cantina reale: non era stato Otakar ad affermare che Federico stava spedendo via da Praga la sua collezione di vini insieme a tutto il resto? Ma le bottiglie erano troppo piccole; sembravano più delle fiaschette o delle fiale. Concluse che piuttosto dovevano venire da uno dei numerosi laboratori del castello. Il Castello di Praga era pieno di luoghi misteriosi come quelli; nessuno dimorava a Praga per un intero anno senza che gli arrivassero strane storie in proposito. Le decine di alchimisti e occultisti dell'imperatore Rodolfo avevano praticato le loro arti segrete, si diceva, in speciali stanze appartate nella Torre della Matematica. La biblioteca straripava non solo delle loro opere pubblicate, le aveva detto una volta Vilém - copie della Basilica chymica di Croll, del Novum lumen chymicum del Sendivogius, della Magna alchemia di Thurneysser ma anche dei loro manoscritti, centinaia di documenti scritti in bizzarri codici composti di segni astrologici e altre zampe di gallina. Si chiese se Sir Ambrose stesse trasportando quei dubbi capolavori attraverso la campagna innevata insieme con le polveri e le pozioni dei loro laboratori segreti. Qualcosa di strano era nell'aria, di questo era sicura. Forse Sir Ambrose era, oltre a tutto il resto, un alchimista, uno dei tanti stregoni al servizio delle superstizioni di Rodolfo? Scostò ancora un poco la tendina tarmata, schiacciò la fronte contro la lastra ghiacciata e cercò un'ultima volta Sir Ambrose. Ma era già sparito nel buio con la cassa di legno stretta tra le braccia. CAPITOLO 3 Le otto. Il mattino avanzava strisciando su Londra con le sue venature rosate e grigio perla. La città era sveglia già da ore: ribollendo, vociando, ruttando, rintoccando, cantando, sospirando. Ma nonostante la stagione un'aria scura indugiava nel cielo. Fili contorti di fumo salivano verso l'alto filtrando e cardando la luce, come altrettanti geni usciti da lampade sparse da Smithfield a Ratcliff, e giù verso l'estuario fin dove arrivava l'occhio. E tornavano a depositarsi sulla città in una fine polvere nera, sporcando, coprendo e corrodendo, uno spolverio ininterrotto da cui non c'era scampo. I prosciutti appesi in Leadenhall Market erano già orlati di nero, come ogni
colletto, tesa di cappello, tendone e davanzale della città. E la situazione sarebbe ancora peggiorata, perché già a quell'ora si preannunciava l'afa, e con l'afa sarebbe arrivato il fetore. Lungo il Tamigi i miasmi della melma si mischiavano con le esalazioni, più dolci, della melassa, lo zucchero e il rum nel decrepito guazzabuglio di magazzini e fabbriche che sorgeva lungo i moli, e con le zaffate pungenti delle alghe e delle lumache lasciate a marcire fuori dall'acqua dalla marea calante. Il vento veniva da levante, cosa insolita per quel periodo dell'anno, sospingendo la nube putrida su per il fiume, tra il reticolato infinito delle strade ammattonate, i cortili e i vicoli senza sole, le porte e le finestre socchiuse, fin dentro a ogni piega e ogni recesso della città. Il puzzo mi aveva già preso alla gola e mi bruciava i polmoni mentre passavo sotto la porta di settentrione del London Bridge e imboccavo Fish Street Hill. Da Nonsuch House avrei impiegato una ventina di minuti per raggiungere Little Britain, la mia prima tappa di quella mattina. Di lì sarei andato a sud in St Paul's Churchyard e Paternoster Row. Dopo di che, se non avessi ancora trovato quel che cercavo, avrei preso una vettura pubblica fino a Westminster. Non che mi aspettassi davvero di trovare qualcosa tra le bancarelle di libri usati davanti a Westminster Hall, e francamente nemmeno nelle librerie di St Paul's Churchyard e di Little Britain. Avanzavo zoppicando con l'aiuto del mio bastone, e tentavo vanamente di proteggere le narici dai miasmi tenendo il naso affondato nel colletto rialzato. Prometteva di essere una giornata assai lunga. A colazione, un'ora prima, avevo deciso che era il momento di mettermi alla ricerca della pergamena di Sir Ambrose. Ora, non ero ancora a metà di Fish Street Hill e già mi pentivo della decisione. Non solo le strade erano affollate e puzzolenti, ma il giorno prima una ricerca tra i miei scaffali e cataloghi di edizioni e copie del Corpus hermeticum non aveva prodotto un solo riferimento al Labirinto del mondo. Sì, una lunga giornata. Chinai la testa e affrettai il passo superando un capannello di gente ferma a guardare un cavallo da tiro caduto in mezzo alla via, che scalciava nell'aria all'impazzata. Stupisce che cercassi il più possibile di evitare le strade di Londra? Tirai avanti sul marciapiede, attraverso un percorso a ostacoli di chioschi traballanti e scaricatori del mercato che sudavano sotto il peso di carcasse scuoiate di capre. Il cammino era anche bloccato da vecchi che spingevano carretti di ostriche, o che portavano cassette cariche di pettini e calamai di corno. Mi feci da parte per lasciare il passo a due di loro ma, spinto da die-
tro, misi il piede in un mucchio fresco di sterco nel canaletto di scolo. Strusciando la scarpa sullo spigolo del marciapiede, rischiai per un pelo di lasciare la pelle sotto gli zoccoli di un cavallo. Tra un coro di risa sguaiate, imprecai ad alta voce e mi misi in salvo con un balzo. Nemmeno queste umiliazioni a me ben note, però, riuscirono a smorzare del tutto il mio buonumore. Avrei potuto addirittura mettermi a fischiettare. Perché la notte prima - o meglio, alle quattro del mattino - ero riuscito a scoprire la chiave e a decifrare il foglio misterioso che avevo preso dal Theatrum orbis terrarum dell'Ortelius. Non avendo ricevuto risposta da mio cugino dopo quattro giorni, mi venne in mente che potesse essere via, in una delle sue lunghe vacanze, che passava invariabilmente nella campagna del Somersetshire, a Pudney Court, un venerabile rudere che fungeva da sede ancestrale al molto decaduto clan degli Inchbold. Così, dopo aver chiuso bottega la sera prima, avevo deciso di affrontare da solo il compito della decrittazione. Ancora una volta mi sedetti nel mio studio al lume di candela con la copia del Vigenère aperta su un lato dello scrittoio, la pagina sull'altro e un mazzo di fogli di carta in mezzo. Quando la sentinella annunciò l'una avevo assimilato abbastanza del Traiaté da essermi impadronito del metodo della tavola di sostituzione, ma abbastanza anche da capire che senza la parola chiave la tavola era inutilizzabile. Alle due avevo provato un gran numero di parole e frasi probabili - e, sempre di più, improbabili - cominciando con il nome di Sir Ambrose e poi con quello di Alethea che, mi accorsi con un sobbalzo, doveva derivare da αληθεια, o aletheia. il vocabolo greco che sta per "verità", un concetto che per i filosofi ateniesi corrispondeva a un processo di svelamento, l'atto di portare qualcosa allo scoperto dal luogo in cui se ne sta acquattato nei suoi recessi celati. Ma neppure questo nome così promettente rivelò verità nascoste, per quanto riguardava la cifra, anzi aggiunse nonsenso a nonsenso, e sospesi solo per un attimo il mio lavoro riflettendo sulla curiosa ironia delle sue connotazioni se applicato a Lady Marchamont, l'ultima persona portata a svelare alcunché. Per ore e ore rimasi chino sul tavolino, mugolando e imprecando, scarabocchiando senza fine, accendendo lo stoppino di ogni nuova candela con il mozzicone della precedente. La cosa era impossibile, continuavo a ripetermi, assolutamente impossibile. La decifrazione poteva richiedere mesi, e anche dopo mesi quel pezzo di carta poteva non avere nulla di intelligibile da dire. Alla fine mi ero abbandonato sullo schienale della poltrona, sfinito,
guardando l'ultima candela accesa che si consumava, soffiando e sfrigolando come un gatto. Dalla finestra arrivava un vento tiepido che muoveva le imposte e agitava la fiammella. Improvvisamente mi sentii più stanco che mai. Chiusi gli occhi e per un istante, semiassopito, vidi sorgere davanti a me la sagoma di Pontifex Hall incorniciata dal suo arco monumentale, l'iscrizione sulla chiave di volta oscurata dall'ombra e chiazzata di muschio e licheni, le parole a stento visibili. ITT. LITTE. LITTER... Retrospettivamente - nei giorni che sarebbero seguiti - la chiave mi sarebbe apparsa quasi fin troppo facile e ovvia. Dopo tutto, sembrava che una sì e una no le pietre di Pontifex Hall fossero scolpite con la peculiare insegna di Sir Ambrose, che era anche stampigliata sulle migliaia e migliaia di suoi libri. Ma al momento provavo solo la delusione di non averla scoperta ore o anche giorni prima. Da quel punto in avanti decifrare il messaggio divenne una semplice operazione di riempire caselle, trovare le intersezioni tra il testo cifrato e la frase chiave e poi guardare il testo in chiaro - il messaggio nascosto di partenza - che affiorava. Presi le lettere del motto, cioè, e le sovrapposi a quelle del testo cifrato, così: LITTERASCRIPTAMANE DBTLSKTGKCNXVOXOES E così via, una lettera dell'epigrafe per ciascuna di quelle del testo cifrato. Usando la tavola di Vigenère, quindi, sostituii le lettere degli alfabeti in chiaro suggeriti dalla legenda a quelli del testo cifrato, convertendo il valore di ognuna di esse finché, ben presto, cominciò a emergere un senso - un senso così allettante che, all'apparire delle prime parole, non riuscivo quasi a governare la penna per continuare il mio lavoro: LITTERASCRIPTAMANE D BT L S K T G K C N X V O X O E S STASOTTOILFICOLORO "Sta sotto il fico l'oro..." Rimasi a fissare le parole, incredulo, chiedendomi se davvero ci fosse un fico a Pontifex Hall e se dunque non aveva avuto ragione il mio primo istinto: che all'inizio della guerra civile Sir Amorose aveva nascosto i suoi tesori nella proprietà, lasciando solo quel pezzo di carta, accuratamente cifrato e nascosto, come traccia per la loro ubicazione. Bene, se a Pontifex Hall una pianta di fico c'era, Alethea ne
avrebbe sicuramente saputo qualcosa. Ma a mano a mano che procedevo con le sostituzioni, sempre più esili si facevano gli indizi riferibili a un tesoro sepolto. Lavoravo febbrilmente, sentendomi un Keplero o un Ticho Brahe chini sui loro calcoli, alla ricerca, in mezzo a una serie infinita di combinazioni matematiche, delle leggi universali dell'armonia cosmica. In capo a tre quarti d'ora avevano preso forma queste quattro righe: STA SOTTO IL FICO L'ORO, IL CORNO D'ORO TRAMA DI FORME OCCULTE E DI MISTERO TRAMA CHE PONE IL MARMO SUL SUO PLINTO E DIPANA DEL MONDO IL LABIRINTO L'emozione alla scoperta di questo testo singolarissimo era attenuata solo dal fatto che - a parte il batticuore per l'allusione al Labirinto del mondo - il suo contenuto era solo di poco più sensato del caos di lettere da cui era stato estratto. Il fico, il corno d'oro, il labirinto costituivano evidentemente un'altra sorta ancora di codice: un codice contestuale per il quale, ahimè, il grande Vigenère non poteva offrire metodi né risposte, e che si riferiva alla topografia di Pontifex Hall, se mai lo faceva, solo nella più ellittica delle forme. Prima di coricarmi passai un'altra ora cercando di estrarre un significato da quei versi. Inizialmente pensai che potessero essere tratti da un poema o da un dramma e andai a scartabellare nell'in-folio di Jaggard di Shakespeare e poi tra le Metamorfosi di Ovidio con la sua storia del labirinto cretese. Nella vicenda di Teseo e del labirinto, però, non riuscivo a ricordare la presenza di un corno d'oro. Un filo d'oro sì, ma un corno? Comunque, l'accenno al labirinto mi faceva sospettare che il messaggio avesse qualche relazione con Sir Ambrose. Il corno d'oro - il filo che a quanto prometteva il bizzarro testo avrebbe "dipanato" il labirinto sembrava però toccare una corda familiare. Aveva l'aria, come la pianta di fico, di un'allusione a qualche episodio della storia o della mitologia classica. Fu solo la mattina dopo, quando mi svegliai dopo tre ore di sonno agitato, che ricordai dove avevo visto un riferimento a un corno d'oro. In una ricerca superficiale nelle varie edizioni dei testi ermetici, mi ero imbattuto in accenni a Costantinopoli - il magnifico centro di cultura dove il monaco Michele Psello aveva compilato, da frammenti siriaci, gran parte di quello che è oggi noto con il nome di Corpus hermeticum - così numerosi da risvegliare la mia curiosità riguardo alla città. Avevo cominciato a frugare
tra gli scaffali dedicati ala geografia e ai viaggi, dove alla fine avevo trovato quel che cercavo, la sterminata Geografia di Strabone lo stoico. Avevo sfogliato fino a metà il mastodontico volume, mentre Monk preparava una colazione a base di aringa affumicata, quando finalmente trovai il passo che cercavo. Nel settimo libro, quello dove si descrivono le terre che si trovano a cavallo tra Europa e Asia, Strabone allude al "Corno dei bizantini", un'insenatura che ha la forma del corno di un ariete, della cui topografia e ubicazione tratta in riferimento a un altro porto chiamato "Sotto l'albero di fico". Lessi e rilessi il passo per cinque minuti buoni. Quei riferimenti sicuramente erano qualcosa di più di una semplice coincidenza. Nel qual caso, il corno del testo decifrato si riferiva al porto di Costantinopoli, la città che oggi è chiamata Istanbul: un porto che ha anche il nome di Corno d'Oro. E il riferimento era confermato da un'altra allusione, del tutto imprevista, quella al porto chiamato "Sotto l'albero di fico". Ma nemmeno queste scoperte, come era avvenuto per la decrittazione, portavano a una risposta immediata, né suggerivano nuove idee. Il riferimento all'antica Bisanzio non delucidava i quattro versi, e tanto meno dipanava il labirinto; né spiegava perché il Corno d'Oro - fatto d'acqua - fosse definito "trama": e che genere di trama, quella di un tessuto o di un complotto? Potevo solo azzardare delle congetture sul motivo per cui quel testo astnisamente codificato e nascosto tra le pagine di un'edizione di Ortelius sembrasse condurre a una citazione che descriveva il punto di incontro di due continenti, un porto lontano millecinquecento miglia da Pontifex Hall. In quel momento non avevo idea se Sir Ambrose si fosse spinto fino a Costantinopoli nella sua caccia ai libri, anche se mi sembrava di ricordare che una delle patenti concesse dall'imperatore Rodolfo - una delle dozzine di pergamene contenute nel feretro a Pontifex Hall - riguardasse un viaggio nelle terre del sultano ottomano. E così, mentre mangiavo le mie aringhe, mi chiesi se il messaggio avesse a che fare con la biblioteca di Sir Ambrose, o anche con lo stesso manoscritto ermetico mancante. In base a così scarsi elementi era impossibile averne la certezza. Ma conclusi che il manoscritto poteva benissimo chiarire il testo, e così prima di finire la colazione avevo preso la decisione di avventurarmi fuori alla sua ricerca. Ma il mio buonumore svanì in fretta: la ricerca tra botteghe e bancarelle si rivelò vana e penosa quanto avevo temuto. A Smithfield il puzzo era di-
ventato così insopportabile che quando gli orfanelli del Christ's Hospital cominciarono la prima lezione del mattino le imposte delle loro finestre nonostante il caldo erano chiuse. Sotto il muro orientale dell'ospizio i librai di Little Britain avevano drappeggiato le vetrine con tende impregnate di cloruro di calcio. Quando arrivai erano fuori, con il naso nel fazzoletto, a sistemare i banchetti con i libri, che avrebbero dovuto spolverare per togliere la fuliggine almeno tre volte prima della fine della giornata. Ma dopo tre ore a frugare tra le pile dei libri ero riuscito solo a stancarmi i piedi e scottarmi il naso e il collo con il sole - che diventava veramente bruciante ogni volta che il fumo del carbone si diradava abbastanza da permettergli di passare - e ad attirare gli sguardi vacui dei librai che giuravano di non aver mai sentito parlare di un libro, o manoscritto che fosse, intitolato Il labirinto del mondo. Una pinta di Lambeth chiara a pranzo mi rimise in sesto, e presi una vettura per Westminster Hall, dove, inutile dirlo, non ebbi miglior fortuna che in little Britain o in Paternoster Row. Ma la giornata non era stata una perdita di tempo totale, perché ero riuscito ad apprendere qualcosa sull'edizione di Praga del Theatrum orbis terrarum di Ortelius, sia pure nulla che sembrasse avere a che fare con quanto avevo finora scoperto su Sir Ambrose Plessington o sulla sua pergamena scomparsa. Tutti i librai e i bancarellai avevano copie del Theatrum, e uno possedeva perfino la rara edizione del 1590 stampata ad Anversa dal grande Plantinus. Ma nessuno aveva mai sentito parlare di un'edizione praghese, e tantomeno l'aveva mai venduta. La notizia dell'esistenza di quell'edizione li lasciava perplessi come lo ero rimasto io. Conclusi quindi che dovevo aver letto male il colophon; se no, che l'edizione 1600 era un falso. Stavo per tornarmene a casa quando scorsi, sotto la galleria del New Exchange nello Strand, un negozio di carte geografiche, Molitor & Barnacle. Conoscevo bene quella bottega. Da apprendista l'avevo sempre trovato il negozio più affascinante di Londra, perché a quei tempi sognavo ancora di viaggiare per il mondo, non di fuggirne come faccio adesso. Spedito per commissioni da Mr Smallpace, a volte vi entravo e restavo a curiosare per ore tra le mappe e i globi metallici, dimenticandomi completamente del motivo per cui ero uscito finché a ora di chiusura Mr Molitor, indulgente e ottima persona, mi faceva sloggiare dal suo negozio. E ora era proprio quasi ora di chiusura mentre, varcata la soglia, notavo subito che gran parte dei globi e degli astrolabi erano spariti, così come le carte del mondo, riproduzioni splendidamente incise dei disegni di Tolo-
meo e del Mercatore che Mr Molitor affiggeva alle pareti come mappe nella cabina di una nave. Dalla mia ultima visita dovevano essere passati otto o nove anni. Mr Molitor, ahimè, era scomparso anche lui - morto di consunzione, a quanto mi disse Mr Barnacle. Mi rammaricò vedere che il negozio era caduto in bassa fortuna e che Mr Barnacle, ormai un anziano signore, non mi aveva riconosciuto. Vedendolo chino dietro il suo bancone, che respirava a fatica, ebbi una visione di me stesso di lì a venti o trent'anni. Ma Mr Barnacle conosceva bene come sempre il suo mestiere. Mi informò che era al corrente dell'esistenza dell'edizione di Praga del Theatrum, ma che personalmente non ne aveva mai visto un esemplare. Erano, spiegò, straordinariamente rari e perfino più preziosi delle edizioni curate da Plantinus, perché ne erano state tirate solo pochissime copie. Ma la scarsità non era l'unico motivo del loro grande valore. Quella era la prima edizione postuma, perché Ortelius era morto uno o due anni prima della sua uscita. Era un fiammingo, sospettato di protestantesimo, ma per un quarto di secolo era stato Cosmografo del re di Spagna. Morto Filippo nel 1598, fu a Praga su invito dell'imperatore Rodolfo II, ma morì prima di poter assumere l'incarico di Geografo imperiale. Mr Barnacle accennò a una leggenda che circolava tra i cartografi, secondo la quale - ma non esistevano conferme - sarebbe stato avvelenato. L'edizione di Praga apparve un anno o due dopo. La leggenda lasciava inoltre intendere che l'edizione contenesse una sorta di variante, anche se Mr Barnacle non era in grado di dire esattamente di cosa si trattasse. Ma era stato a causa di questo nuovo particolare, si diceva, che il grande cartografo era stato assassinato. "Una variante? Che cosa intende dire?" "Intendo dire che l'edizione 1600 era diversa da tutte le altre edizioni, comprese quelle stampate da Plantinus. Mr Molitor aveva una sua teoria in proposito," aggiunse in tono confidenziale, estraendo dai suoi scaffali una copia dell'atlante. Quando lo aprì potei vedere una carta dell'Oceano Pacifico e, in un cartiglio, le parole NOVUS ORBIS. "Riguardava il particolare metodo di proiezione usato da Ortelius per l'edizione di Praga." Si voltò di nuovo, improvvisamente animato, e tiro giù un altro volume. "La scala di latitudine e longitudine. Tutte le altre edizioni usano la proiezione di Mercatore. Lei sa cos'è la proiezione di Mercatore?" "Più o meno." Lo guardavo mentre apriva il famoso atlante di Mercatore - un atlante le cui carte studiavo con particolare piacere durante le mie fantasticherie da apprendista. Non sono portato per la matematica; anzi. Le
parole, non le cifre sono il mio métier. Ma riuscivo ad apprezzare un poco la grande impresa di Gerardus Mercator di rappresentare una sfera, la terra, su un piano; di appiattire il mondo mettendolo in un libro, lasciando più o meno intatte le sue proporzioni. "La sua proiezione fu creata a uso dei naviganti," stava spiegando Mr Barnacle tamburellando su uno dei fogli con un'unghia rotta e ingiallita; poi si sistemò gli occhiali - un paio di lenti spesse quasi quanto le mie spingendoli sul naso. "Fu ideata nel 1569, durante la grande epoca di esplorazioni e scoperte. Le sue misure di latitudine e longitudine formano una griglia di linee parallele e angoli retti che permettono ai marinai di tracciare la rotta con la bussola lungo linee rette anziché curve. Utilissima, ovviamente, soprattutto per le traversate oceaniche." Con un'unghia stava tracciando una diagonale attraverso la carta, lungo una linea lossodromica che si estendeva come il filo di una ragnatela intersecando un reticolo di quadrati. Poi improvvisamente mise da parte entrambi gli atlanti e tirò a sé uno dei globi, un modello enorme di cartapesta, quasi un metro e venti di diametro, che fece ruotare sul suo piedistallo laccato. Gli oceani azzurri e le masse continentali maculate sfilavano indistinti sotto l'anello di rame dell'orizzonte che cingeva l'equatore. "Ma una carta non è un globo," continuò, sbirciandomi al di sopra della grande sfera rotante. "Ogni mappa comporta una distorsione. Mercatore fa correre paralleli tra loro i meridiani, ma lo sanno tutti che i meridiani non sono paralleli come le linee di latitudine." "Certo," mormorai, con la testa che mi girava alla vista del globo che continuava a piroettare velocissimo, con l'asse che cigolava mentre mari e continenti sfrecciavano via. "I meridiano convergono verso i poli. La distanza tra loro diminuisce quanto più le linee si estendono a nord e a sud dell'equatore." "E invece i meridiani di Mercatore non convergono mai." Adesso stava guardando di nuovo la carta. "Restano paralleli tra loro, e questo altera le distanze in direzione est-ovest. E allora Mercatore modifica anche le distanze tra i paralleli, accrescendole via via che si allontanano dall'equatore verso i poli. Parliamo quindi di 'stiramento delle latitudini". Il risultato di queste alterazioni è una distorsione in direzione dei poli. Le aree terrestri più a nord e più a sud hanno dimensioni esagerate perché paralleli e meridiani sono allungati in modo da poter conservare il parallelismo delle linee e gli angoli retti delle intersezioni. La proiezione di Mercatore è dunque ottima per chi naviga lungo l'equatore o alle latitudini più basse, ma non ha
grande utilità per chi voglia esplorare le latitudini maggiori." "Non ha grande utilità," annuii, "per chi cerchi il passaggio a nordovest per il Catai." Ricordavo come, da ragazzo, ricostruivo le traversate di Frobisher, Davis e Hudson - grandi eroi inglesi - attraverso i mari artici ingombri di ghiaccio e i labirinti di isole riprodotti sulla cima dei globi di Mr Molitor. "O la rotta per il nordest attraverso Arcangelo e Nuova Zemlia. Già. O il passaggio a sudovest per i Mari del Sud attraverso lo Stretto di Magellano o intorno a Capo Horn". Sfogliando l'atlante, indicava con il dito i passaggi. Quando sollevò la testa e mi guardò, mi arrivò il cattivo odore dei suoi denti cariati e il tanfo di chiuso dei suoi indumenti sdruciti. E per un attimo mi sembrò di vedere, riflessa in una delle sue lenti, una forma nella vetrina alle mie spalle: una figura che si sporgeva come a sbirciare attraverso il vetro. Ma Mr Barnacle tornò ad abbassare la testa e l'immagine si perse. "Vede, tutte queste rotte, se esistono, si troveranno alle latitudini alte, in vicinanza dei poli, luoghi dove la proiezione di Mercatore è pressoché inutilizzabile. Per questo i navigatori non le hanno mai scoperte. E questo è anche il motivo per cui spagnoli e olandesi hanno allo studio nuovi metodi di proiezione cartografica, metodi più efficaci. Nel 1616 gli olandesi hanno scoperto un nuovo passaggio per il Pacifico tra lo Stretto di Magellano e Capo Horn, il cosiddetto Stretto di Le Maire" - inumiditosi il dito con la lingua voltò il foglio - "che si trova lungo il cinquantacinquesimo parallelo. Le loro flotte hanno usato la nuova via d'acqua per entrare nel Pacifico e attaccare gli spagnoli a Guayaquil e Acapulco. Si trattava di rotte di evidente importanza strategica," disse, "ma era necessario un indizio per trovarle, qualcosa che guidasse i navigatori attraverso quei labirinti di isolotti e insenature." Questa, dunque, era la leggenda che Mr Molitor aveva accolto: matematici e cartografi a Siviglia, al servizio di Filippo II, avevano, intorno all'anno 1600, perfezionato un nuovo metodo di proiezione cartografica, un metodo che conservava la griglia di Mercatore ma ne eliminava le distorsioni, così che la navigazione alle alte latitudini diventava più facile. Ora sarebbe stato quindi possibile scoprire nuove rotte per il Catai e l'India, e anche il famoso continente perduto, la Terra australis incognita, che si diceva giacesse in qualche luogo dei Mari del Sud, alle alte latitudini a sud dell'equatore. "E Ortelius?" Stavo studiando l'atlante capovolto, sperando di ricondurlo
al punto. "Lui conosceva questa nuova proiezione?" Mr Barnacle annuì vigorosamente. "Di sicuro doveva averne avuto notizia. Non dimentichiamo che era il Cosmografo reale. Potrebbe anzi aver collaborato a idearla. Ma quando nel 1598 Filippo morì, Ortelius lasciò la Spagna per la Boemia. Forse contava di rivelare i segreti del nuovo metodo, dietro compenso, all'imperatore Rodolfo, o anche a qualcun altro. A quei tempi Praga era piena di fanatici protestanti, nemici della Spagna e degli Asburgo. E per questo forse fu assassinato da sicari al soldo degli spagnoli." Si strinse nelle spalle e chiuse l'atlante. "La voce è convincente ma impossibile da verificare, visto che da allora le tavole sono sparite. Qualcuno dice che furono rubate, ma nemmeno questo si può accertare." Accennò un sorriso indifeso e tornò ad alzare le spalle. "Nemmeno i libri sopravvivono. Le poche copie stampate si pensa siano andate perdute o distrutte quando Praga fu messa a sacco durante la guerra dei Trent'anni." No, mi dicevo qualche minuto dopo, mentre uscivo dal negozio per ritrovarmi nell'afa, ripensando al volume guastato dall'acqua nel piccolo inquietante laboratorio: non tutte le copie erano sparite. Ma mentre me ne tornavo verso Charing Cross mi chiesi se tutto sommato non avessi perso il mio tempo. Dopotutto, quale connessione poteva esistere tra il Theatrum di Ortelius e il testo ermetico che ero stato incaricato di recuperare? Tra la nuova carta del mondo e un manoscritto di quell'antico sapere? Ma poi ricordai quello che aveva detto Mr Barnacle a proposito dell'epoca delle scoperte e mi chiesi se non mi fossi imbattuto in una connessione, per quanto remota, con la spedizione di Sir Ambrose in Guiana, se quella traversata c'era stata davvero. Scacciai il pensiero dalla testa. Decisi che la mia immaginazione, come i miei piedi, mi aveva portato troppo lontano. Era ora di tornare a casa. Dovevano essere le sei passate quando fermai una vettura a nolo davanti a Postman's Horn (nel cui giardinetto mi ero rinfrancato con un'altra pinta di birra chiara all'ombra di un gelso) e cominciai il viaggio di ritorno in direzione del London Bridge, attraverso i nodi e i flussi del traffico pomeridiano. Mi addormentai dopo qualche minuto ma, in Fleet Street, mi risvegliò un clamore di grida. Il traffico doveva essersi fatto più fitto, perché per diversi minuti il veicolo non si mosse quasi. Mi appisolai di nuovo ma fui svegliato ancora, questa volta dal suono bitonale di un corno. Mi raddrizzai a sedere e scostai la tendina, aspettandomi di vedere il Fleet Bridge e, dall'altra parte, il Ludgate. Solo che non eravamo più in Fleet Street.
Mi sporsi dal finestrino e guardai su e giù lungo la strada. Dovevamo aver sbagliato a svoltare. Non riconoscevo nessuna delle taverne e delle birrerie che si affacciavano sulla strada, e nemmeno la strada stessa, uno stretto budello deserto e oscurato da nuvole di fumo nero. "Cocchiere!" Bussai al tetto della carrozza. Quell'idiota aveva perso l'orientamento? "Signore?" "Dove diavolo ci stai portando, giovanotto?" Si era rigirato sul sedile, una specie di orso con un collo massiccio e il naso spellato dal sole. Ridacchiava imbarazzato scoprendo una dentiera di legno. "Un incidente in Fleet Street. Un cavallo è stramazzato morto, signore. Allora ho pensato che se le fa piacere..." Lo interruppi. "Dove siamo?" "Whitefriars, signore," rispose, ticchettando con i denti. "Alsatia. Pensavo di arrivare al Fleet Bridge da Water Lane, signore, e poi..." "Alsatia?" Lo stretto passaggio assumeva improvvisamente un aspetto più sinistro. Conoscevo la pessima reputazione di Alsatia. Era un malfamato retroterra lungo i liquami fetidi del Fleet River: una dozzina di strade e di Dio solo sa quanti cortili e vicoli, il tutto al di fuori della giurisdizione dei magistrati e delle autorità cittadine in grazia di uno statuto speciale concesso nel nostro stesso secolo da re Giacomo. Il risultato di questi privilegi era che il quartiere dava rifugio a criminali e canaglie di ogni sorta. Ufficiali giudiziari e sbirri vi entravano a loro rischio e pericolo, come chiunque fosse tanto incosciente da avventurarsi a sud di Fleet Street. Il corno che mi aveva riscosso dal sonno, immaginai, doveva essere un segnale per annunciare l'arrivo di un estraneo. Anche se al momento il quartiere sembrava abbastanza inoffensivo nella patina d'oro antico del riverbero del sole, non volevo correre rischi. "Portaci immediatamente fuori di qui," ordinai al cocchiere. "Sissignore." La carrozza avanzò, superò una curva a gomito, svoltò a un angolo, poi imboccò una viuzza stretta tra due file di costruzioni decrepite con i vetri delle finestre coperti da uno strato di grasso e fuliggine. La strada era cosparsa di buche, alcune delle quali erano state riempite alla meno peggio di fascine. Sembrava che in giro non ci fosse nessuno. Il Tamigi, che scorreva alla nostra destra, spuntava di tanto in tanto al di là di qualche lotto in-
colto e pieno di immondizie, orlato di banchine dall'aspetto precario. Neri spettri di polvere di carbone ci attraversavano il cammino. La vettura mantenne un corso parallelo al fiume, sballottata a destra e a sinistra, mentre a cassetta il cocchiere dai denti di legno procedeva avventatamente per quel percorso a ostacoli di tegole squamate, tocchi di pietra da macina e cerchioni di ferro e doghe spezzate di barili di birra ormai vuotati da tempo. A un tratto sentii il fetore del fango del Fleet; poi, un minuto dopo, la sua sponda ci tagliò la strada, e svoltammo su un viottolo che, a mio parere, non aveva affatto l'aria di riportarci in Fleet Street. "Sant'Iddio, giovanotto!" "Un altro minuto, signore..." Ma dopo un altro minuto stavamo ancora ondeggiando sballottati sul viottolo, sottovento al fiume costipato, sguazzando con le ruote nel fango. La superficie del Fleet era coperta di una schiuma grigia e di nugoli di insetti sospesi nell'aria. Mi turai il naso con il fazzoletto e trattenni il fiato. Tutt'a un tratto, però, scorsi dal finestrino qualcosa che mi parve familiare, una sorta di graffito - opera di un bambino? - scarabocchiato con il gesso su un muro cieco:
Allungai il collo mentre passavamo lentamente davanti al disegno. Che cosa rappresentava quello strano geroglifico? Era la caricatura di un uomo? Un uomo con le corna? Magari il diavolo? Ero sicuro di aver già visto quella figura. Ma dove? In un libro? "Maledizione!" Vi voltai di scatto e guardai verso il sedile del vetturino. "Cosa c'è?" "Chiedo scusa, signore." La vettura non si muoveva più. "A quanto pare siamo finiti in un vicolo cieco." "Un vicolo cieco...?" Il graffito era dimenticato. Spalancai lo sportello, scesi e immediatamente mi trovai impantanato fino alle caviglie in una sorta di melma. Anche i cavalli stavano con gli zoccoli immersi nella fanghiglia, come le ruote, con tutto il cerchione sepolto. Davanti a noi potevo vedere la torre campanaria
del carcere di Bridewell e la guglia di St Bride, ma non molto di più oltre a un gruppo di baracche tra le ombre che avanzavano. Era più tardi di quanto pensassi, perché il sole stava calando dietro le seghetta-ture irregolari di Whitehall Palace, e qua e là si cominciava a vedere tremolare la luce di qualche lampada. Alsatia si risvegliava. "Mi permetta, signore." Il cocchiere gettò da parte la frusta e saltò giù di serpa, rivolgendomi un sorriso insinuante. Mi aveva quasi fatto risalire quando, alzando gli occhi dalla mota, vidi che era apparsa una luce nella finestra del casamento più vicino a noi: una taverna, a giudicare dall'aspetto. Scrutai l'insegna. Distinsi la testa di una qualche bestia e uno sbaffo di vernice dorata. "Andiamo, signore." La mano del vetturino spingeva sulle mie spalle. "Signore? Va tutto bene?" "Sì..." Lo udivo a stento. Gli misi uno scellino in mano, senza guardarlo. "Ecco... il tuo denaro. Prendilo." Mi stavo già dirigendo verso la taverna. "Adesso vattene." Sentii la sua voce incredula dietro di me. "Signore?" "Vattene!" Il fango mi risucchiava gli stivali e dovevo strapparli con forza a ogni passo. Ma qualche secondo dopo ero su solido terreno, un marciapiede ammattonato, e la taverna sorgeva davanti a me. La porta si aprì, proiettando un triangolo di luce sui mattoni. Avanzavo, lo sguardo fisso sull'insegna. E, ora più chiaramente, vedevo la figura scrostata sulla tavola: la testa di un cervo con le corna dipinte in oro. Sopra la testa, poche parole: IL CORNO D'ORO. CAPITOLO 4 A colpirmi per primo fu l'odore: fumo di pipa e di carbone mescolati a segatura e legno tarlato stuccato con la pece; l'odore di una camera che non vede né scopa né cera, né luce né aria. Poi, mentre entravo e le mie pupille si abituavano alla penombra, colsi un aroma che si fece più pervasivo di tutti gli altri: caffè. Insomma, il Corno d'Oro non era una taverna ma una bottega del caffè. La porta si richiuse dietro di me e feci qualche altro passo in mezzo al fumo del focolare, guardandomi in giro in cerca di una sedia. Una caffetteria era l'ultima cosa che mi sarei aspettato di trovare nel cuore di Alsatia, anche se in realtà non avrei dovuto essere troppo sorpreso perché già allo-
ra, e parlo del 1660, sembrava che ogni strada avesse il suo caffè. Ero entrato in uno di questi locali soltanto una volta, la Testa del Greco, un posto pieno di aria e di luce frequentato da aspiranti attori e poeti, la cui atmosfera conviviale non avrebbe mai potuto prepararmi al fumo e al buio del Corno d'Oro. Trovai da sedere, uno sgabello a tre zampe, e mi accomodai ben lontano dal focolare, che mostrava di avere problemi di tiraggio. "Comandi, signore?" Basso e con la pancia prominente, un cameriere mi era comparso davanti asciugandosi le mani sul grembiule lercio. Dietro di lui, due uomini dall'aspetto poco raccomandabile erano immersi in una grave discussione, mentre dietro questi un uomo solo, entrato un momento prima, sedeva dandoci le spalle e si raschiava i calli delle mani con un coltello. Mentre giravo lo sguardo sul rozzo mobilio, il minuscolo focolare, i fogli volanti gualciti e ingialliti affissi alle pareti, mi chiesi quale contorto filo potesse mai connettere il Corno d'Oro con Pontifex Hall. D'un tratto cominciavo a dubitare che i disegni che andavo intravedendo - il messaggio cifrato, la parola chiave, le righe dello strano testo, Strabone, e ora la caffetteria del Corno d'Oro - avessero qualche senso al di fuori della mia immaginazione. C'era un significato dietro questa serie di indizi, o solo casualità e coincidenze? Per scoprirlo c'era soltanto un modo. Infilai la mano in tasca e ne trassi un penny. "Una tazza di caffè, per favore." Ma nessun indizio o misterioso potere mi si rivelò; almeno, non subito. Quando ebbi finito la bevanda - un intruglio amaro e denso - nella sala erano entrati altri avventori. Una dozzina di uomini, da soli o a coppie, tutti malamente abbigliati, con stivali scalcagnati e soprabiti rappezzati. Le conversazioni erano sporadiche e sommesse, punteggiate da risate gutturali. Il cameriere andava avanti e indietro dal banco ai tavoli, con le tazze che tintinnavano sul vassoio. Sembravano tutti in attesa che succedesse qualcosa, ma non succedeva niente. Mi ero sbagliato sull'importanza del nome; doveva essere stata una coincidenza, niente di più. Probabilmente dovevano essere una mezza dozzina le taverne e le caffetterie chiamate Corno d'Oro, nessuna delle quali aveva una connessione con Pontifex Hall, e questa meno di tutte. Fu solo dopo qualche altro minuto che notai la vetrinetta. Stava nell'angolo della stanza, un piccolo armadietto di rarità, di quelli che i proprietari usano per attirare la clientela. Dal mio posto potevo vedere che si trattava di una collezione ancora più grama del consueto, uno specchietto per le al-
lodole che difficilmente avrebbe convinto anche il più credulone dei clienti. Ma io, se non credulone, ero curioso: mi alzai dallo sgabello e attraversai la sala. L'angolo era più buio del resto del locale, e nessun altro prestava la minima attenzione a quella raffazzonata esposizione. Cartellini sgrammaticati scritti con una grafia tremolante individuavano una mezza dozzina di oggetti assai poco attraenti che sembravano acquattarsi smarriti dietro il vetro. Allungai il collo, sforzando lo sguardo attraverso le lenti. Un pezzo di stoffa tutto tarmato era presentato come un frammento del sudario di Edoardo il Confessore; accanto a questo un comune ramo d'albero, mezzo marcio, era attestato come proveniente dalla pianta contro cui era rimbalzata la freccia che aveva ucciso re Guglielmo il Rosso. Secondo il cartellino, un altro frammento ancor più ordinario, questa volta di pietra, era stato staccato dalla tomba di Sebert, re dei sassoni. Scoppiai quasi a ridere davanti a questi farseschi reperti storici, ma poi un altro dei cartellini richiamò il mio sguardo. Ingiallito e accartocciato agli angoli, identificava qualche centimetro quadrato di tela sfilacciata come appartenuta alla vela di gabbia di maestra della Britomart, una delle navi della spedizione di Sir Walter Raleigh del 1617. Aggrottai la fronte e mi chinai di nuovo. Dubitavo che quello straccio fosse più autentico degli altri oggetti, ma mi ricordò la patente nella bara a Pontifex Hall, quella per la costruzione della Philip Sydney. E poi vidi l'ultimo reperto nella bacheca, in assoluto il più macabro di tutti. Era spinto sul fondo della vetrina e appariva come la testa mozzata di un uomo. Sobbalzai, poi mi protesi nuovamente, sgranando gli occhi davanti a quell'oggetto raccapricciante, proveniente probabilmente da qualche barbaro culto pagano. La scena era orripilante. I capelli neri ricadevano ingarbugliati su una fronte cerea, sotto la quale occhieggiavano due globi oculari, rivolti uno al soffitto e l'altro al pavimento. La palpebra sinistra era semichiusa in una sorta di ammicco, mentre le labbra - grottescamente spesse e pitturate di rosso come quelle di una prostituta - erano contorte in un ghigno cinico e scaltro. Mi ero appena accorto che non si trattava di una testa autentica, ma di cera e velluto, quando mi toccò di nuovo sobbalzare, questa volta per la targhetta infilata sotto il mento prominente e vergata nella stessa grafia infantile delle altre: Testa di Automa proveniente dal Regno di Boemia
Appartenuta a Sua Maestà Imperiale Rodolfo II Quando tornai al mio tavolo le finestre si erano oscurate e il fumo del focolare serpeggiava tra le travi del soffitto. La mano che portava la tazza alle labbra mi tremava. Mi chiesi se la macabra testa fosse più autentica degli altri oggetti. Era in qualche modo arrivata lì da Pontifex Hall? Tramite i soldati di Cromwell, magari, o qualche altra banda di saccheggiatori? Rimasi seduto ancora per una mezz'ora, sentendomi più esausto e ansioso che mai, gettando ogni tanto un'occhiata alla testa di cera che sembrava rispondermi con un ammicco, astuto e complice, da dietro il suo riparo di vetro. La tazza di caffè, anziché rilassarmi come avevo sperato, sembrava avermi teso ancora di più i nervi. Quando mi passò davanti il cameriere, però, riuscii a indicare la vetrinetta e a chiedere come fosse stato procurato l'oggetto. Ma lui dichiarò di non sapere né come né quando fosse arrivato al Corno d'Oro. Anzi, dalla sua espressione sorpresa e perplessa pareva che non si fosse mai accorto nemmeno della presenza della teca, e tanto meno del suo abitatore più orripilante. Decisi di tornarmene a casa, pentito di aver congedato così affrettatamente il mio vetturino. Il tragitto di ritorno verso Fleet Street prometteva di essere pericoloso. Mi sarebbe toccato arrivarci a piedi, lo sapevo, perché era assai improbabile che una vettura a nolo passasse da quelle parti, soprattutto a buio fatto. La mia mente si affollò di ogni sorta di brutti incontri, che cercai di allontanare mentre mi dirigevo alla porta. Fu allora che feci la mia ultima scoperta della serata. Raggiunto l'uscio, notai un volantino affisso alla parete accanto all'ingresso. Non c'era niente di insolito in sé perché le pareti del caffè erano tappezzate con ogni sorta di simili annunci. Seduto al mio posto ero riuscito a leggerne diversi di quei fogli, biglietti di commercianti, ballate oscene stampate su carta piena di macchie, accanto ai graffiti, anch'essi osceni, incisi sulle panche e i tavoli o tracciati sulle travi. Quindi passai accanto al volantino senza quasi prestarvi attenzione, ma nel farmi da parte per lasciare entrare nuovi avventori, l'iscrizione, una fosca calcografia, attirò il mio sguardo: AVVISO D'ASTA che si terrà presso il CORNO D'ORO, Whitefriars, il 19 Luglio alle ore Nove del Mattino, ora in cui molti diversi e non comuni Libri
saranno esposti alla Vista e venduti in 300 Lotti dal Dottor Samuel Pickvance Rimasi a fissare il manifestino mentre vari clienti entravano e poi diversi altri mi passavano accanto uscendo nella notte. Un'asta di libri? Era come imbattersi in un'edizione di Omero o Virgilio nelle foreste della Guiana. Credevo di conoscere tutti, nel commercio librario londinese, compresi tutti i banditori d'asta, ma non avevo mai sentito parlare di qualcuno che si chiamasse Pickvance, posto che quello fosse il suo vero nome. Mi chiesi quali "diversi e non comuni" libri avesse intenzione di vendere, e che genere di collezionisti potessero presentarsi a fare le loro offerte. Ma soprattutto mi chiesi perché avesse scelto per venderli proprio il Corno d'Oro. Non sarebbe stato difficile scoprirlo, però, perché al 19, la data dell'asta, mancavano solo due giorni. Alsatia mi sembrò un posto quasi pacifico quando misi piede sul marciapiede ammattonato, nell'aria della sera fresca e piacevole a paragone con il clima infernale del Corno d'Oro. L'illusione non durò a lungo. Un momento dopo mi arrivarono i miasmi del Fleet e fui spintonato in malo modo da quattro o cinque uomini, tutti con falcioni o pugnali pendenti dal fianco, che si dirigevano chiassosamente verso la caffetteria. Altre figure si muovevano nell'ombra. Alsatia aveva preso brutalmente vita. Rabbrividii all'idea del viaggio che mi attendeva. Ma un altro viaggio fin là lo avrei fatto di lì a due giorni. Lo sapevo per certo già mentre mi voltavo per un ultimo sguardo alle corna dorate e all'iscrizione, le une e l'altra non più di un'ombra nella scarsa luce, ma ora entrambe uno scintillante geroglifico. Perché doveva esserci una connessione, adesso ne ero persuaso, tra la pergamena che stavo cercando e gli "strani e non comuni" libri del dottor Pickvance. Il viaggio di ritorno a Nonsuch House si rivelò, nei fatti, privo di incidenti. Seguii i solchi delle ruote fin giù al fiume e trovai un barcaiolo che sonnecchiava ai remi lungo una delle banchine per il carbone. Accettò per due scellini di accompagnarmi giù per la corrente, con la marea che stava di nuovo calando. Quando ebbe sistemato i remi negli scalmi e allontanato la barca dalla riva con una spinta e un grugnito, mi adagiai nella barchetta e guardai la spruzzata di luci a terra. Gli edifici e le guglie scivolavano via lentamente; un battello ci superò. I nostri remi si tuffavano e si sollevava-
no, si tuffavano e si sollevavano, tirando fuori dall'acqua la melma del fondo, che subito risgocciolava giù. Il tetto appuntito del Corno d'Oro si rimpicciolì, si confuse, sparì. Pochi minuti dopo potevo vedere la luna che sorgeva al di sopra dei comignoli sul London Bridge. Chiusi gli occhi e sentii la barchetta scivolare tra i piloni di pietra e tuffarsi, senza peso, in un metro e mezzo di buio tumultuoso, e un'improvvisa folata di spruzzi e aria. Emergendo dall'altra parte del ponte, con le gambe che mi tremavano, sbarcai e scorsi una luce accesa nel mio angolo di Nonsuch House. Monk era andato a letto, ma Margaret era in cucina a mettere le ostriche in conserva. Mi sgridò per essere mancato alla cena, un lesso di maiale che mangiai freddo, seduto da solo nel mio studio, stanco morto. Mezz'ora dopo mi ero infilato anch'io a letto. Rimasi sveglio a lungo, ascoltando l'acqua che gorgogliava tra i piloni e cercando di controllare il respiro. Per un momento mi parve di stare ancora precipitando nel salto tra le gambe giganti del ponte; come se tutto sotto di me, come la barca, avesse lasciato il posto al vuoto e all'orgasmo della sospensione. Mentre cedevo al sonno pensavo non solo al volantino affisso alla parete del Corno d'Oro ma anche alla lettera, chiusa con un sigillo ormai familiare, che mi era stata lasciata sullo scrittoio, in attesa del mio ritorno. CAPITOLO 5 Se fino all'Elba il viaggio era stato arduo, nei giorni seguenti, quando carrozze e carri si furono lasciata la Boemia alle spalle, le cose peggiorarono di molto. Dal cielo cupo cominciò a cadere la neve, all'inizio solo qualche fiocco pigro e circospetto, poi più pesantemente. I venti raccoltisi a oriente soffiavano sulla mezzaluna dei Carpazi, lungo l'altopiano moravo e sugli Alti Tatra, ululando tra i macigni e i cumuli di neve in mezzo ai quali la carovana faceva la sua faticosa avanzata. I rari centri abitati che attraversarono si ridussero presto a villaggi, abbarbicati come nidi di rondine, con le loro poche casupole, ai fianchi scoscesi dei monti. Poi ai villaggi fecero seguito solo sparsi casolari, e poi sparirono del tutto. Anche la strada minacciava di sparire. In alcuni punti l'avevano resa quasi impraticabile le frane, in altri la neve. Viaggiare in quella stagione, mormoravano tra loro i servitori, era una cosa incivile. Dopo tutto, perfino le guerre - perfino Ferdinando, i cui valloni e irlandesi si erano fermati a Praga per cominciare il saccheggio - aspettavano la primavera. Eppure ogni mattina, per brutto che fosse il tempo ed erto il cammino, quanti che fossero i viaggiatori
colpiti dalla febbre o i cavalli azzoppati dalle galle o da uno zoccolo spaccato, il mesto viaggio continuava. Presto dal paesaggio scomparve ogni segno di vita, eccetto i lupi che cominciarono a farsi vedere tra gli alberi quando la strada prese a inerpicarsi in tornanti attraverso la foresta. Dapprima arrivarono isolati, poi in branchi di dieci o dodici, seminascosti tra gli spuntoni di granito, seguendo la carovana a distanza. Poi, sempre più audaci, arrivarono così vicini che Emilia poteva distinguere i loro occhi gialli e il profilo aguzzo dei loro musi. Magri e denutriti come mendicanti, si dispersero allo sparo soffocato di un archibugio. La detonazione fece sobbalzare anche i passeggeri, perché lungo la carovana aveva cominciato a diffondersi la notizia che i mercenari dell'imperatore cavalcavano a spron battuto all'inseguimento del convoglio, benché fosse impossibile immaginare come qualcuno, persino i cosacchi, potesse galoppare sopra strade insidiose come quelle. La prima tappa del viaggio finalmente giunse a conclusione al calare della notte del nono giorno. La carovana salì arrancando fino a un monastero e, dopo essere ridiscesa, si fermò non a una delle solite locande ma davanti a un castello le cui feritoie illuminate brillavano incerte nel buio imminente. Emilia, imbacuccata nella carrozza, con le dita dei piedi gelate, ebbe l'impressione di udire il brontolio di un fiume. Sporgendosi, sbirciò di tra le tendine del finestrino e vide un gruppo di uomini dai lunghi mantelli e gli ampi cappelli che attraversavano di corsa una corte, lungo il cui perimetro erano allineate decine di carrozze di ogni dimensione. La saracinesca si abbassò scricchiolando, poi i due pesanti battenti delle porte si chiusero rumorosamente dietro di loro. Breslavia, disse qualcuno. Avevano raggiunto la Slesia. La corte in esilio si fermò per una sola settimana nell'antico castello di Piast. Quella non doveva essere la sua meta finale, ma solo l'ennesima tappa intermedia della sua fuga. Emilia venne alloggiata con altre tre dame di corte in una camera che, benché priva di finestre, era misteriosamente preda delle correnti e degli spruzzi di neve. La regina dormiva in una camera non lontana. Era caduta gravemente ammalata quasi il giorno stesso in cui la carovana era arrivata a Breslavia, e così Emilia non l'aveva più vista. Solo i medici si occupavano di lei, entrando e uscendo dagli appartamenti reali con visi lunghi e arcigni. Dopo uno o due giorni cominciò a circolare per il castello la voce che fosse morta. Poi, il giorno dopo, era il bambino non ancora nato a esserle morto: perché un'altra voce - più attendibile, questa - la diceva incinta. Infine, tutti e due, madre e figlio, vennero dati
per spirati insieme. La verità scarseggiava quanto la legna da ardere e il foraggio. Nevicò ancora. L'Oder gelò. Poi, il quarto giorno di permanenza di Emilia al castello, Sir Ambrose Plessington venne a farle visita. Era nella sua camera, sola, e leggeva un libro. Quando sentì bussare alla porta non si alzò dal suo lettuccio perché anche lei, come la regina, ora era indisposta. Erano due giorni che non si sentiva bene. I suoi dolori mensili le erano arrivati qualche giorno prima, ma senza flusso. La testa le doleva, come anche i denti, e dormiva male. Anche la lettura era diventata una sofferenza. In mancanza dei suoi libri si era ridotta a leggere quelli della collezione della regina. Dal giorno prima stava leggendo la Scoperta del grande, ricco e bellissimo impero di Guiana di Sir Walter Raleigh, con le sue deliziose descrizioni di climi caldi e sepolcri colmi di tesori. Si era appena assopita - il primo sonno da più di un giorno - quando i colpi sulla porta l'avevano riscossa. Fu sorpresa di vedere Sir Ambrose, certo. Non le rivolgeva la parola da due settimane buone; anzi, sembrava che non si accorgesse neppure di lei. Lei invece ne aveva seguito ogni mossa. Dai finestrini della carrozza o dalle finestre delle locande, lo aveva osservato mentre dirigeva il carico e lo scarico delle casse o mentre caracollava al fianco della vettura della regina con la scimitarra che gli batteva sul fianco. Altre volte spariva al galoppo avanzando in avanscoperta, a cercare passaggi tra le montagne o per avvistare le truppe polacche, delle quali si diceva avesse annientato una banda, lasciandola ai lupi. Tre delle sue cavalcature si erano azzoppate in queste imprese, e s'erano dovute abbattere, ma lui, Sir Ambrose, non appariva minimamente toccato dalla stanchezza. "Non la disturbo, spero." Era entrato lestamente nella stanza e, con i suoi stivali rigonfi e il copricapo di castoro, sembrava quasi riempirla tutta. Passò sotto il basso arco della porta chinando la testa, come entrando in una tenda sul campo di battaglia. E quando tornò a ergersi in tutta la sua statura il suo aspetto non era meno marziale, con la scimitarra che gli pendeva da un fianco e la pistola dall'altro. Ma portava anche una lanterna e, sotto il braccio, un libro. Dopo un inchino, si fermò, arrestando per una volta il suo moto apparentemente irrefrenabile. Teneva il capo inclinato da un lato, come un pittore che studiasse criticamente il suo soggetto. "Dormiva?" "No, no," assicurò lei precipitosa, ritrovando la voce. Si era raddrizzata sul letto e stringeva la Scoperta di Raleigh come uno scudo. "No, signore,
stavo solo leggendo." Fece un altro passo avanti, facendo scricchiolare la paglia sotto le suole degli stivali e guardandola come se la stesse attentamente valutando. La piuma del cappello sfiorava le travi del soffitto. "Sta poco bene, Miss Molyneux?" "No, no," balbettò di nuovo lei. Non desiderava dire a nessuno del suo malessere, e meno che mai a Sir Ambrose. "Sto benissimo, signore, grazie. Ho l'abitudine di leggere a letto," spiegò, sollevando il libro, e subito sentendosi avvampare. "Ah," annuì lui facendo oscillare l'imponente cappello, "ecco. Mi dicono che lei è una devota lettrice. Una vera donna Chisciotte," Sorrise tra sé brevemente, poi si grattò la barba con un dito. "E in effetti è proprio questa sua bella consuetudine, Miss Molyneux, a portarmi da lei". Si chinò con uno scricchiolio del cuoio degli stivali e posò il volume sul tavolo accanto alla porta. "La regina desidera farle avere un altro libro per il suo piacere. Con i suoi migliori auguri." Si inchinò e si voltò per andar via. "La prego..." Si era messa a sedere sul bordo del letto. "Che notizie ci sono? La regina sta male, signore?" "No, no, la regina sta benissimo. Non deve credere a tutto quello che sente." Si fermò sulla soglia e ammiccò. "Né a tutto quello che legge." "Prego?" "Sir Walther Raleigh." I suoi lineamenti screpolati dal vento si aprirono in un altro sorriso mentre accennava al libro che lei teneva in grembo. "La Guiana non è quel paradiso che descrive Sir Walther. Le auguro una buona giornata, Miss Molyneux." E scomparve nel corridoio prima che lei potesse chiedergli notizie su Vilém o su qualsiasi altra cosa. Ma improvvisamente sentì che poteva sperare. Lui doveva aver saputo da Vilém del suo amore per la lettura. O piuttosto dalla regina? No, più probabile da Vilém, decise. Come avrebbe potuto conoscere, altrimenti, la sua inclinazione per le storie cavalleresche? Lei alla regina non aveva mai confidato questa passione, ben sapendo che odiava tutto ciò che era spagnolo. Dopo qualche minuto le altre dame erano tornate nella stanza. Quella sera ci sarebbe stato un servizio religioso per ringraziare il Signore della guarigione della regina, seguito da un banchetto. Per i venti minuti seguenti le dame chiacchierarono allegramente, mentre si abbigliavano come un tempo nei loro manti fluenti, viola e scarlatti, nastri e merletti, come se fuori ci fosse Praga o Heidelberg; come se gli ultimi giorni non fossero stati altro
che un incubo notturno da cui erano state pietosamente risvegliate. Solo quando uscirono dalla stanza Emilia aprì finalmente il libro lasciatole da Sir Ambrose. Era un'altra storia di cavalleria - Palmerin d'Inghilterra di Francisco de Morais. E solo quando lo aprì scoprì il biglietto tra le pagine, un biglietto scritto da una mano che lei ben conosceva. Si incontrò con Vilém quella notte nelle cantine, secondo l'appuntamento del biglietto. A quell'ora il resto della corte era nel pieno di un estatico e assordante ricevimento. Il banchetto era iniziato. I musicisti assoldati da una taverna del posto soffiavano nei cromorni, picchiavano sui tamburelli e cantavano appassionatamente in polacco mentre i danzatori mulinavano nel mezzo della sala diroccata con temeraria frenesia - un tumulto di guardinfanti e gomiti piroettanti. Le porte del castello dovevano essere state aperte ai bravi cittadini di Breslavia, senza distinzione tra borghesi e mendicanti, perché Emilia, mentre si faceva strada tra la folla, non riconobbe una sola faccia. Né aveva idea da dove potesse essere piovuto tutto quel ben di dio. Carni di manzo e di cervo, fagiani e polli, un porco arrostito, quaglie a dozzine, perfino un pavone ancora adorno delle sue penne, insieme con scodelle colme di ostriche, formaggi, uova sode, dolciumi, noci, prugne, cachi, arance di Siviglia, sorbetti che si andavano sciogliendo sotto il calore di una dozzina di torce e ancor più candele - tutto ciò veniva servito a una banda di esuli che solo qualche giorno prima moriva di freddo tra i monti, mangiando pane infestato dagli insetti e pezzi gelati di oca sotto sale. Ma tra quelle facce Vilém non c'era. Dopo un'ora era riuscita a sgusciare via e a scendere le scale fino al sotterraneo, dove, in una vecchia cantina per il vino, chino su una cassa di libri, lo trovò. Vederlo fu uno choc. Era arrivato a Breslavia da più di quindici giorni, prima delle nevi, ma sembrava che il viaggio lo avesse profondamente segnato. Appariva più magro e malconcio che mai. Le brache e il farsetto gli cascavano laceri dalle spalle e dai fianchi come gli indumenti di uno spaventapasseri. Forse anche lui era stato ammalato? La sua costituzione era debole, lei lo sapeva - quante sere nel Vicolo d'Oro aveva passato a curarlo di questo o quel malanno. Una improvvisa tosse cavernosa lo piegò in due. "Vilém...?" Il ricongiungimento non fu come se l'era aspettato. Era talmente assorto a controllare i danni subiti dalle casse, aprirle una alla volta, esaminarne i volumi avvolti nella tela cerata, mugolare di ansia e disappunto prima di riporli, che non si accorse neppure del suo arrivo. Attraversò veloce verso
di lui la cantina, facendosi strada in mezzo alle rastrelliere vuote delle bottiglie e alle decine di casse. I coperchi erano stati quasi tutti sollevati e i minuti caratteri dorati scintillavano alla luce della torcia al suo passaggio. Più tardi si sarebbe ricordata che i libri erano stati inscatolati in ordine alfabetico. Abulafia, Agricola, Agrippa, Artephilus, Augurello. Poi Bacone, Biringuccio, Böhmen, Barbonius, Bruno. Quei nomi non significavano molto per lei, così come i titoli. De occulta philosophia. De arte cabalistica. Ricerche di miscredenti, questo suggerivano. Lo specchio dell'alchimia. Occulta occultum occulta. Cosa avrebbe pensato di opere simili la regina, nemica giurata del papismo e di ogni superstizione? FICINUM, lesse sulla costa di uno dei tomi più spessi, PIMANDER MERCURII TRISMEGISTI. "Vilém!" Non mostrò, quando finalmente la vide, più sorpresa o piacere di quelli espressi quando scoprì certi volumi nel fondo delle casse nelle quali continuò a frugare per altri venti minuti. Anzi, nei giorni seguenti sarebbe apparso più interessato alle condizioni dei libri che a quelle di lei. Come Otakar, era ossessionato dall'idea che la collezione cadesse in quelle che definiva le mani sbagliate - che fosse saccheggiata, bruciata o dispersa negli archivi di Ferdinando o dei cardinali del Sant'Uffizio. Più tardi le avrebbe detto che si era occupato lui del trasporto della "prima consegna", una cinquantina di casse di libri. La seconda consegna era stata spedita da Praga da Sir Ambrose stesso, motivo per cui Vilém non aveva giudicato strano che l'inglese si trovasse da solo nella biblioteca. Solo quando lei gli riferì l'episodio - si erano seduti su due barili di vino - mostrò un certo interesse per quanto le era capitato. O meglio, si mostrò interessato al volume legato in pelle che lei aveva visto sul suo scrittoio. Due volte la incalzò perché raccontasse gli eventi di quella sera ma poi, perplesso, dichiarò di non sapere nulla né del libro né degli uomini a cavallo. Ma era particolarmente interessato alla legatura istoriata. Balzò su dal barile, si accovacciò accanto a una cassa e cominciò a rimestarvi dentro per un minuto, borbottando tra sé. "Dici che era legato," le si rivolse da sopra la spalla, "come uno di questi?" Ruotò su se stesso, stringendo al petto un grosso volume. "È così?" Alla luce della torcia distinse gli intricati arabeschi incisi sulla coperta di cuoio del libro - una serie di volute e ghirigori che all'improvviso le richiamarono alla mente il percorso tortuoso del giardino-labirinto del Castello di Praga visto dalle finestre dei piani superiori di Palazzo Kràlovsky.
A giudicare dai margini colorati il volume doveva essere uno dei Libri d'Oro che le aveva mostrato un mese prima. "Esattamente come quello, sì. Lo stesso disegno, direi." "Strano... molto strano." Si torceva un ciuffo della barba incolta tra le dita studiando il cuoio inciso. "E dici che le pagine non erano tinte?" Lei fece di no con la testa. "Mm," mormorò lui nel colletto macchiato, aggrottando la fronte. "Davvero molto strano." "Pensi che venisse da Costantinopoli?" "Oh, è possibile." Da come annuiva sembrava che l'idea lo stesse infervorando. "Sì, è possibile. Non si giudica un libro dalla legatura, ovviamente. Ma quella che hai descritto è una decorazione maomettana nota come rabesque o arabesco, che era usata dai legatori di Istanbul. In biblioteca c'erano una dozzina di libri del genere, ma questo di cui parli, hmmm. Aveva aperto il libro e stava sfogliando lentamente i suoi fogli purpurei, pagine che, le aveva detto, lo ricordava bene, erano fatte con la pelle di vitelli appena nati, anche cinquanta per un volume. Gli animali venivano tramortiti e accuratamente dissanguati, poi privati della loro pelle delicata. Un'arte perduta, l'aveva definita. "Ma di cosa poteva trattarsi?" Stava studiando il suo viso, chiedendosi se le stesse dicendo tutto ciò che sapeva. "Qualcosa di valore, pensi?" Lui si strinse tra le esili spalle e depose con cura il volume. "Oh, poteva essere di tutto - proprio qualsiasi cosa. E sì, penso che fosse di valore. Forse di grande valore. Soprattutto se veniva da Costantinopoli. Le sue biblioteche, i suoi monasteri, capisci, erano i più grandi depositi di antico sapere esistenti al mondo." Ora si era messo a pontificare, pizzicandosi la barba con lo sguardo perso in lontananza. I tonfi dei piedi dei danzatori nel salone si facevano sentire attraverso il soffitto a volta, ma lui sembrava non accorgersene. "Negli ultimi secoli sono stati scoperti a Costantinopoli più autori latini e greci che in qualsiasi altro luogo. Scoperte impagabili, bada! Le undici commedie di Aristofane... i sette drammi di Eschilo... i poemi di Nicandro e di Museo... Le opere e i giorni di Esiodo... gli scritti di Marco Aurelio... insomma, perfino gli Elementi di Euclide, santo cielo! Non una di queste opere sarebbe sopravvissuta senza gli amanuensi di Costantinopoli. Dalla prima all'ultima sarebbero sprofondate nell'oblio senza lasciar traccia. E quanto più povero sarebbe il mondo per la loro perdita!" Lei annuì con serietà, benché divertita sotto sotto dalla sua infervorata recitazione, che gli aveva già sentito declamare. Lui provava un legame
forte, Emilia lo sapeva, con quegli uomini umili che si erano accollati il compito di raccogliere e conservare i documenti che arrivavano dalle biblioteche incendiate o assediate di Alessandria, Atene, Roma. Un compito di cui lui indubbiamente si vedeva il nuovo attore. "Ma i turchi..." "Sì, sì," la interruppe, "i turchi. Proprio così. Un grande disastro! Quanti altri preziosissimi manoscritti andarono perduti nel 1453, all'invasione del sultano? O meglio," precisò, "quanti preziosissimi manoscritti non sono stati ancora riscoperti?" Lei annuì di nuovo, avvertendo le prime avvisaglie di un crampo allo stomaco. Improvvisamente il sotterraneo le parve opprimente e senz'aria; respirava a fatica. Calafatate con la stoppa, le casse puzzavano di pece - un odore acre che, come tante cose ultimamente, le dava anche un senso di nausea. Le ricordava la stiva di una nave, quella della traversata che aveva fatto sette anni fa da Margate all'Olanda sul Prince Royal. Allora aveva sofferto di mal di mare. Ora la testa le doleva e le girava, proprio come allora. Sembrava che ruotasse in una direzione, lo stomaco nell'altra, come se davvero si trovasse a bordo di una nave maleodorante sul mare in tempesta. Ma respirò a fondo e cercò di concentrarsi su quanto lui le stava dicendo. Naturalmente conosceva bene quella storia - doveva avergliela già raccontata cinque o sei volte. Quando nel 1453 il sultano Mehmet prese Costantinopoli, i suoi uomini avevano fatto man bassa di centinaia di preziosi manoscritti in chiese e monasteri, e nella stessa reggia imperiale. Solo un minimo numero di quelle opere erano state recuperate, da intrepidi agenti come Jacopo da Scarperia, Giselin de Busbecq e lo stesso Sir Ambrose. Vilém era affascinato e sgomento al tempo stesso dalla storia dei loro ritrovamenti - antichi manoscritti messi in salvo solo pochi giorni prima che i mercanti che li possedevano cancellassero la scrittura e vendessero le pergamene da riutilizzare. Quali altri tesori della cultura antica potevano trovarsi sull'orlo della distruzione e della scoperta, come la pergamena dell'opera di Catullo che era stata trovata - così aveva affermato Vilém - che faceva da tappo a una botte di vino in una taverna di Verona? "... i libri di Cheremone. Al suo trattato sui geroglifici egizi fanno cenno sia Michele Psello sia Giovanni Tzetze, ma da allora - dal sacco di Costantinopoli - nessuno lo ha più visto. E molti altri libri e papiri si potrebbero ancora ritrovare. Sappiamo che Eschilo scrisse più di novanta drammi, ma ce ne sono arrivati solo sette, mentre delle Historiae e degli Annales di Ta-
cito possediamo solo una metà, solo quindici dei trenta libri originali - e di questi la metà sono frammenti! Ο Callimaco - Callimaco scrisse ottocento volumi, ma noi ne conosciamo sì e no qualche brano. È possibile addirittura che a Istanbul si trovino ancora altre opere dello stesso Aristotele in attesa di essere scoperte. La sua fama presso gli antichi posava su taluni dialoghi - i cosiddetti scritti esoterici e ipomnematici - ma nessuno di questi testi è stato visto ο letto da secoli." Fece una breve pausa e il suo sguardo tornò a posarsi su di lei. "Erano libri come questi, capisci, quelli che Sir Ambrose sperava di trovare a Istanbul." Lei annuì lentamente. I viaggi di Sir Ambrose a Istanbul erano argomento da leggende, almeno per Vilém. Molte delle opere che l'inglese aveva riportato dalle terre del sultano - come il trattato aristotelico sulle ricerche astronomiche, l'αστρολογικη δ ιστοριαδ, un'opera menzionata da Diogene Laerzio ma mai vista prima in Europa - erano, affermava, tra i massimi tesori della biblioteca. "Operava da agente di Rodolfo," stava dicendo Vilém, "già nel 1606. Fu l'anno in cui finalmente ebbe termine la lunga guerra contro i turchi e i viaggi nelle terre ottomane divennero più sicuri. Ma Sir Ambrose era stato a Istanbul anche prima di quell'anno, molto probabilmente come dragomanno in una delle ambasciate inglesi. Si dice godesse di buoni rapporti con il Gran Visir in persona, e ottenne il suo primo accesso all'imperatore tramite Mehmet Aga, l'ambasciatore del sultano a Praga. Donò a Rodolfo un manoscritto dei Carmina de mystica philosophia di Eliodoro, inestimabile testo del sapere occulto - è qui, da qualche parte - appartenuto un tempo a Costantino VII. Rodolfo quindi lo inviò in altre missioni. Negoziò l'acquisto di alcune pergamene del sultano. Altre le trovò nascoste nei bazar e le moschee della città. E fu in luoghi di quel genere," disse, alzando la voce per farsi udire con il chiasso proveniente dal piano superiore, "che scopri i palinsesti." "I...?" "I palinsesti," ripeté lui: "pergamene antiche i cui testi originali erano stati cancellati e rimpiazzati da nuovi. Le pergamene venivano spesso riutilizzate. C'era sempre una grande richiesta. Ma a volte i testi originali non scomparivano del tutto, o cominciavano a riaffiorare attraverso i nuovi scritti. Sir Ambrose riusciva a recuperarli con metodi alchemici, facendo rivivere il carbone dell'inchiostro originario. Uno di essi era l'opera di Aristotele sull'astronomia, l'altro un commentario a Omero di Aristofane di Bisanzio." Indicò le casse disposte intorno a loro. "Anche questi sono qui,
da qualche parte. Ma quanto al volume che hai visto tu..." Scosse le spalle magre. "Per quanto ne so io, Sir Ambrose non mette piede in terra ottomana da una decina d'anni, per cui non ho idea da dove possa venire quel testo. Né di cosa possa trattarsi." Detto ciò tacque e, alzandosi dal barile, riprese il suo lavoro, esaminando ogni volume per accertarsi che non fosse imballato né troppo stretto né troppo lasco. Il chiasso della festa nel salone si era fatto più forte, insinuandosi tra le pietre del soffitto in una serie di rombi e tonfi. Emilia sentiva sempre più pesante il senso di stanchezza e di vertigine. Non le importava più niente di Sir Ambrose o della pergamena della biblioteca - anzi di nessuno dei libri che Vilém stava accudendo come una madre la sua creatura. Non le importava più nulla nemmeno della regina. Voleva solo che il viaggio finisse, che la corte cessasse quella spossante peregrinazione. Brandeburgo - solo quello le interessava, adesso. La sua mente si aggrappava a quel pensiero. Aveva perfino cominciato a immaginare loro due che vivevano per conto loro. Lei poteva lavorare come cucitrice, lui come libraio o magari come tutore per il figlio di un ricco brandeburghese. Insieme, potevano vivere in una casetta sotto le mura del castello della città. "Pensi che la corte andrà a Brandeburgo?" gli domandò infine. "La regina può andare dove le pare," brontolò lui. "A Cüstrin o a Spandau o a Berlino, dovunque siano disposti ad accoglierla." Era tornato a chinarsi sulla cassa. "Ma Brandeburgo non sarà a lungo un rifugio. Né nessun altro luogo dell'impero, a dirla tutta." "No?" Svaniti cucitrice e tutore; la casetta precipitata giù per un dirupato e sanguinoso orizzonte. "Perché dici così?" "Perché i brandeburghesi sono calvinisti, ecco perché." Si strinse nelle spalle. "Cadranno sotto gli attacchi dei vicini di casa, i luterani di Sassonia, che hanno già occupato la Lusazia. Per non parlare del fatto che Giorgio Guglielmo ha già ricevuto un mandato imperiale da Ferdinando." Cominciò a scartare uno dei volumi. "Non hai sentito le ultime voci? L'imperatore consiglia a Brandeburgo di non consentire la presenza del re o della regina di Boemia sui suoi domini. No, no, no," scosse la testa, "la regina nel Brandeburgo non starebbe al sicuro per più di qualche settimana. E i libri nemmeno starebbero al sicuro. Né lì né in nessun altro luogo dell'impero, anzi," aggiunse. "E quindi io non la seguirò a Brandeburgo." "Non a Brandeburgo?" Sentì lo stomaco stringersi dalla paura. "E dove allora...". Pochi minuti prima le aveva spiegato, quando lei aveva cercato di rac-
contagli dell'orribile battaglia, dei cadaveri nel fiume, che non gli importava nulla della sorte della Boemia, e meno ancora del re e della regina, una coppia di stolti buoni a nulla, pronti a scialacquare i loro tesori in cambio di soldati e cannoni. Era stato riferito che Federico stava offrendo il Palatinato ai mercanti della lega anseatica - libri della Bibliotheca Palatina compresi - in cambio di un riparo a Lubecca. E allora quale turpe patto poteva stringere disponendo degli inestimabili volumi delle Sale Spagnole come salvacondotto? Quindi Vilém avrebbe messo al sicuro i libri dal re Federico - e anche dalle razzie della soldataglia asburgica. Tacchi di stivali stavano ora riecheggiando dalle scale, ma Emilia ignorò il rumore. Si issò faticosamente in piedi. Il soffitto a volta sembrò ruotare sopra la sua testa. "Che cosa stai dicendo? Dove andrai, allora, se non a Brandeburgo?" "Ah, sì..." Pareva non averla udita. Teneva alto il libro spacchettato come un prete che solleva il neonato sul fonte battesimale. La sua fronte sudata esalava vapore. "Il grande Copernico, vedo, ha superato il viaggio in condizioni eccellenti." "Herr Jiràsek..." Il rumore di passi era cessato. Un paggio, sudicio, malfermo per il bere, stava eseguendo una specie di inchino. Vilém era piegato su un'altra delle sue casse, ancora in un gesto devoto. Emilia barcollò all'indietro e cercò sostegno sul barile. Si era morso un labbro, così forte che sentiva il sapore del sangue. Sì: quei libri erano l'unica cosa che gli interessasse. Nient'altro. "Fraulein..." Un altro goffo inchino. Il ragazzo si resse a una delle botti. "Mein Herr? La vostra presenza è gentilmente" - intercettò un rutto con la mano guantata - "gentilmente sollecitata al piano di sopra nel salone delle feste. Un intrattenimento," incespicò sulle consonanti, "per la nostra regina Elisabetta." Dall'alto arrivò una sorta di schianto - era stata improvvisata una partita di birilli con cappelli e tegami, con le arance di Siviglia che cominciavano a rotolare sul pavimento urtando le gambe dei cortigiani che danzavano le loro frenetiche quadriglie e gavotte. Un barile di vino fu fatto rotolare attraverso la sala - il rombo di un tuono - tra una salva di acclamazioni. Il ragazzo si girò ondeggiando sullo scalino, fu lì lì per capitombolare all'indietro, poi cominciò a salire. Emilia si sedette sul barilotto e si resse con forza ai suoi manici di ferro. "È stato fatto un patto," disse Vilém infine. Parlava sottovoce, sebbene il ragazzo fosse sparito. "Un accordo favorevole," bisbigliò. Aggiunse
dell'altro, ma le parole andarono perdute mentre un altro tuono si srotolava lungo il soffitto e un'altra ovazione entusiastica arrivò dalla tromba delle scale. "Un patto?" Si protese in avanti, sforzandosi di sentire le sue parole. "In Inghilterra," ripeté. Chino sulla cassa, parlava come a se stesso. "Andremo in Inghilterra, ecco dove." CAPITOLO 6 Alsatia di primo mattino era calma e tranquilla, con un'aria di trepidante attesa. Quando la vettura che avevo preso a nolo si fermò in cima a Whitefriars Street, le file delle costruzioni apparivano come immateriali nella luce polverosa, come case di tela in attesa di essere smontate dagli inservienti di scena e riportate giù in magazzino. Sembrava quasi possibile vedere, attraverso o al di là di esse, il primo insediamento sorto sul posto, secoli prima - i chiostri ombrosi, la torre della chiesa con le sue dodici campane, i monaci in cilicio e cappuccio bianco che si muovevano indaffarati verso o dalla biblioteca o che mormoravano insieme mattutini e laudi nella cappella. Nel secolo precedente, si sa, il priorato era stato demolito, un po' come Pontifex Abbey. Niente più biblioteca, niente cappella, non più i sai bianchi dei monaci, solo le loro mute vestigia - la colonna spezzata, il tratto di muro, qualche mattone ostinato sommerso dall'erba gallina e dalla gramigna. Il resto era diventato un accumulo di taverne e birrerie, più altre istituzioni di più anonima ma indubbiamente sinistra attività. "Mica qui dentro, signore?" "Sì, sì - procedi diritto." Avevo dovuto guidare io il vetturino, che asseriva di non aver mai messo piede in Alsatia, primato che si mostrò ansioso di conservare finché gli offrii l'incentivo di due scellini supplementari. Cercando di ricostruire il percorso fortuito che mi aveva condotto lì due sere prima, mi sporsi con la testa fuori del finestrino e il viso al sole. Gli edifici stavano sghembi come ubriachi a destra e a sinistra, le porte smollate sui cardini, le finestre sbarrate. Questa volta non avevo sentito il segnale di corno mentre entravano nel quartiere; è possibile che due giorni prima, mezzo addormentato, me lo fossi solo immaginato. O forse c'erano segnali più sottili, un linguaggio muto che pulsava di casa in casa. Ricordai una diceria che avevo sentito una volta a proposito di Alsatia, che tutte le sue taverne fossero traforate da nascondigli, falsi pavimenti e passaggi celati, uno stuolo di luoghi se-
greti dove fuggiaschi e contrabbandieri nascondevano se stessi o il loro bottino. Un'altra Alsatia sotterranea esisteva occultata sotto la superficie fuligginosa di legno, pietra e paglia da tetti, dietro cento zoccolature e accessi sbarrati dalle tavole. Mi rigirai sul sedile e, per l'ennesima volta quella mattina, scrutai la strada alle nostre spalle. Niente. Un minuto dopo il mio sguardo colse la logora insegna. Non avevo la più pallida idea di cosa potessi aspettarmi, se qualcosa dovevo aspettarmi, dalla vendita all'asta. Fino a quel momento, fino a quell'estate del 1660, avevo partecipato solo a quattro o cinque aste, non per negligenza o disinteresse, ma perché, come le botteghe del caffè, erano un fenomeno recente. In realtà, le due cose erano per certi versi collegate. In generale a quel tempo le aste si tenevano nella sala di una caffetteria presa in affitto, alla Testa del Greco, per esempio, dove il banditore, di solito un ex libraio, sovrintendeva alla vendita anche di mille volumi, il cui proprietario o aveva fatto bancarotta o era defunto. Per lo più erano chiassose e affollate. Il banditore annunciava la vendita su gazzette e volantini, ed era disponibile in anticipo il catalogo dei titoli. Erano sempre gli stessi - librai o altri collezionisti - quelli che si contendevano questa o quella edizione di Omero o di Aristotele. Così, per la mia scarna esperienza, funzionavano le aste. Ma quella del Corno d'Oro prometteva di essere diversa. Intanto, non era stata pubblicizzata sulla stampa. Nelle gazzette non ne avevo trovato traccia, pur avendo cercato attentamente tra numeri delle ultime due settimane. Né avevo visto altri manifestini come quello affisso al Corno d'Oro, sebbene avessi guardato i muri ciechi, gli angoli di strada, i pali e i vari altri punti abituali di affissione della città, compreso l'interno di un paio di taverne e caffè. E, infine, nessuno dei pochi clienti a cui avevo osato chiederlo - i miei clienti meglio conosciuti e più discreti - aveva ammesso di aver sentito mai parlare né del dottor Pickvance né del caffè del Corno d'Oro, e tanto meno dell'asta annunciata. Mi avevano guardato con un'aria più dubbiosa quando avevo spiegato che il Corno d'Oro si trovava in Alsatia, lungo il Fleet. Avrei suscitato la medesima reazione se avessi detto che mi sarei recato presso i patagoni o gli Ottawa. Ero ansioso di qualsiasi cosa potessi apprendere - sulla pergamena, sui versi, sullo stesso Corno d'Oro - perché nei giorni precedenti non avevo fatto molti progressi. Avevo passato ore a scartabellare tra i miei scaffali per notizie sul Corpus hermeticum. Non sapevo da dove partire ma cominciai guardando le edizioni di Lefèvre e Turnebus, il che mi rimandò a ritro-
so nel tempo a una manciata di autori greci e latini, il che a sua volta mi spedì in avanti nel tempo lungo percorsi inaspettati che tracciavano strani e ipnotici disegni. Cominciai a scoprire che i testi ermetici costituivano una sorta di corrente sotterranea che attraversava vista e non vista quasi due millenni di storia. Di tanto in tanto affiorava da qualche parte in superficie - ad Alessandria o a Costantinopoli - per poi risprofondare in canali invisibili sotto deserti e catene montuose e città devastate dalla guerra... per poi di punto in bianco sboccare altrove, centinaia di anni dopo e migliaia di miglia più in là. Molti commentatori antichi asserivano che i libri avessero la loro origine in Egitto, a Ermopoli Magna, che era considerata la città più antica del mondo. I libri, si diceva, erano le rivelazioni di un sacerdote noto agli egizi con il nome di Thot e ai greci con quello di Hermes Trismegistos, ossia "Ermete il tre volte grandissimo", che Boccaccio chiama " interpres secretorum". Thot era il dio egizio della scrittura e della sapienza, che, a quanto afferma Socrate nel Fedro, donò al mondo l'aritmetica, la geometria e le lettere, e che a tempo perso inventava giochi e svaghi come la dama e i dadi. Il sapere di Thot si diceva fosse stato inciso per la prima volta su tavolette di pietra per poi essere copiato su rotoli di papiro e, nel terzo secolo a.C., durante il regno di Tolomeo II, portato nella nuova biblioteca di Alessandria, che secondo il desiderio dei Tolomei avrebbe dovuto contenere una copia di ogni libro mai scritto. Fu qui, ad Alessandria, tra le migliaia di rotoli e di studiosi nella grande Biblioteca, che le rivelazioni di Thot furono tradotte dai geroglifici nella lingua greca da un prete chiamato Manetone, l'insigne storico dell'Egitto. Ed è a questo punto, in Alessandria, che il torrente assume dimensioni nilotiche. Dalla grande Biblioteca i testi si diffusero ai quattro angoli del mondo antico, e per i successivi settecento anni nessun trattato che si rispettasse - fosse il suo argomento l'astrologia, la storia, l'anatomia, la medicina - sarebbe stato completo senza qualche scelta allusione al sacerdote egizio le cui rivelazioni, per unanime consenso, rappresentavano la fonte prima di ogni sapere. Ma poi, dopo una tale espansione, il fiume improvvisamente si contrae. Il flusso rallenta, si assottiglia, si divide e - dopo il regno dell'imperatore Giustiniano che chiuse l'Accademia ad Atene e arse i rotoli greci di Costantinopoli - sparisce. Di testi ermetici non si sente più parlare che diversi secoli dopo. A questo punto, all'inizio del nono, spuntano copie nella nuova città di Baghdad, tra i sabiani, una setta di non musulmani immigrati dal nord della Mesopotamia. Questi proclamarono le ri-
velazioni di Ermete le loro Sacre Scritture, e il loro massimo autore e maestro, Thabit ibn Qurra, definisce i testi sabiani un "sapere nascosto". Ma parte di questo sapere non dovette essere nascosto poi così bene, se presto giunse tra le mani dei maomettani. Riferimenti a Ermete Trismegisto si trovano poco dopo l'epoca di Thabit nel Kitab al-uluf, dell'astrologo musulmano Abu Ma'shar, e un testo ermetico, La tavola di smeraldo, parte di un'opera più ampia nota come Il libro del segreto della creazione, è studiato dall'alchimista ar-Razi. Ma poco dopo il tempo di questi autori arabi il torrente era andato scemando ed era sparito da Baghdad, ancora una volta per motivi politici e religiosi. Dopo l'undicesimo secolo in tutto l'impero fu imposta una rigida ortodossia maomettana e non si seppe più nulla dei sabiani di Baghdad. Le opere ermetiche però ricomparvero quasi immediatamente a Costantinopoli - la città cui alludeva il messaggio cifrato - dove nell'anno 1050 lo studioso e monaco Michele Psello riceve un manoscritto danneggiato scritto in siriaco, la lingua dei sabiani. Ed è uno di questi manoscritti, copiato da un amanuense sulla pergamena, poi rimosso da Costantinopoli dopo la presa dei turchi, che finisce a Firenze, nella biblioteca di Cosimo de' Medici, circa quattrocento anni dopo. Ma come si inseriva Il labirinto del mondo in questa storia lunga e complicata? Non avevo trovato menzione del libro né tra le edizioni né nei commentari su di esse - e nemmeno negli Straniata di Clemente Alessandrino, che cita i titoli di diverse dozzine di opere sacre scritte da Ermete Trismegisto. Sembrava che Il labirinto del mondo fosse ancora più misterioso e ammantato di segretezza di tutti gli altri libri. Scoraggiato, scelsi un'altra strada, facendomi portare da una barca a Shadwell per far visita alla cartiera di John Thimbleby. Ero in affari con Thimbleby da anni, e risultò che era lui, come avevo sospettato, il "JT" della filigrana della pagina inserita. Ma non fu in grado di dirmi esattamente quando il foglio misterioso fosse stato fabbricato né dove potesse essere stato acquistato. L'esemplare, ammise Thimbleby, era un prodotto scadente. Avevo visto com'era leggera la carta? Come stava già ingiallendo e incurvandosi? Come diventava quasi trasparente in controluce? Segni che poteva venire da una scorta prodotta negli anni Quaranta, probabilmente tra il 1641 e il 1647. In quegli anni Thimbleby forniva soprattutto ma non esclusivamente stamperie realiste, compreso il King's Printer, che seguiva le sempre più scarne e malridotte armate realiste in giro per il paese, stampando il loro
materiale di propaganda appena poteva essere scritto. La carta a quei tempi era di qualità scadente, spiegò Thimbleby, perché la domanda era di molto superiore all'offerta. Mi condusse poi nel suo laboratorio, dove due uomini immergevano dei telai in una enorme vasca piena di una specie di porridge. La carta di solito si faceva in quel modo: quel porridge, che un terzo uomo si affaccendava a mescolare, era fatto di stracci, vecchi libri e opuscoli e vari altri scampoli raccolti dagli straccivendoli. Il tutto veniva ridotto a strisce, lacerato, bollito in una vasca, marinato nel latte acido, lasciato fermentare per qualche giorno, poi filtrato, come stavano facendo in quel momento, attraverso un telaio a retino metallico. Ma con la carenza degli stracci di lino, era intervenuta l'improvvisazione. Alghe, paglia, vecchie reti da pesca, bucce di banana, pezzi di fune, perfino sterco di vacca e sudari in decomposizione tolti agli scheletri esumati per la cremazione - Thimbleby in quegli anni era stato costretto a ricorrere praticamente a ogni cosa. Il risultato era stata una carta di qualità mediocre, che lui aveva ugualmente mandato all'esercito realista. Controllando i registri fu in grado di dirmi che consistenti consegne erano state effettuate a Shrewsbury nel 1642, a Worcester e Bristol nel 1645 e a Exeter nel 1646. Ma aveva fabbricato centinaia di risme ogni anno, da ognuna delle quali, mi disse, poteva essere stato preso il foglio misterioso. E così quella sera me ne ero tornato a Nonsuch House con solo il più vago indizio su quando Sir Ambrose poteva aver cifrato il testo. Le informazioni di Thimbleby erano state comunque incoraggianti. Se i versi erano stati crittografati negli anni Quaranta, allo scoppio della guerra civile, o anche nel suo corso, la mia teoria era giustificata. Il messaggio cifrato doveva riferirsi a un tesoro, di cui poteva forse far parte la pergamena, che era stato nascosto - a Pontifex Hall o altrove - con l'intenzione di recuperarlo quando i Parlamentari fossero stati sconfitti e non ci fosse stato più alcun pericolo nel tornare a Pontifex Hall. Ma il tesoro non era stato ritrovato. Perché? Perché Sir Ambrose era stato assassinato, come affermava Alethea? Ma assassinato quando? Mi resi conto di ignorare quando fosse morto Sir Ambrose. Doveva essere stato prima del 1651, anno della fine della guerra civile, quando Pontifex Hall era stata espropriata, ma non ricordavo che Alethea lo avesse detto. Prima di rimettere il foglio sotto le tavole del pavimento l'avevo studiato a lungo, tenendolo alla luce della candela, guardando prima la filigrana, poi le righe compatte, la lieve traccia del retino che ne segnava la superfi-
cie. Ripensai alla disquisizione di Thimbleby e mi chiesi con che cosa esattamente fosse stata fatta quella pagina in particolare. Una rete da pesca? Le pagine di un libro o di un pamphlet da cui era stato cancellato l'inchiostro? Il lenzuolo funebre che avvolgeva qualche antico scheletro? Strano, pensai, come ogni pagina, per quanto immacolata, indipendentemente da quale fosse il suo scritto, la sua filigrana, aveva sempre ospitato un altro testo, un'altra identità, sotto la sua superficie, palinsestata e invisibile, come un inchiostro segreto che si può vedere solo se cosparso di polvere magica o esposto alla fiamma. Ma quale polvere o fiamma, mi chiesi, poteva riportare il messaggio di Sir Ambrose alla superficie, alla vita? Avevo infilato il foglio nel sottopavimento, accanto a un altro pezzo di carta, anche quello, sembrava, di qualità inferiore, scritto con una penna d'oca consumata. Era la lettera di Alethea datata cinque giorni addietro, che Monk aveva ritirato all'ufficio postale. Quale messaggio segreto, mi domandai, era occultato sotto quest'altro inchiostro sbavato, dietro la parole cortesemente criptiche che salivano dalla pagina nella grafia antiquata di Lady Marchamont? L'avevo riletta da cima a fondo ancora una volta, sentendo un rimescolio nel ventre e qualcosa di insistente e di poco familiare che premeva e fremeva dietro lo sterno. Mio buon signore, La prego di perdonarmi l'intrusione di un'altra lettera. Mi chiedevo se potesse incontrarsi con me una settimana da oggi, il 21 di luglio, alle sei della sera. Potrà trovarmi a Londra, presso la Pulteney House, sul lato nord dei Lincoln's Inn Fields. Basti dire, per il momento, che sono sorte questioni di una certa importanza. Attendo con ansia il piacere della sua compagnia. Saranno necessarie, ahimè, le usuali misure di riserbo. La sua serva umilissima, Alethea Le usuali misure di riserbo, pensai mestamente mentre, a letto, un'ora dopo, ripensavo alla ceralacca in cui il suo sigillo - o una sua imitazione era stato impresso. Ancora una volta Alethea, a quanto pareva, non poteva vantare alcun riserbo da parte del Post Office: una inspiegabile trascuratezza, pensai, in una persona sempre così attenta alla segretezza. Inizialmente non avevo preso troppo sul serio il suo avvertimento. Mi ero addirit-
tura convinto, dopo averla letta un paio di volte, che forse avevo torto e che la lettera in fin dei conti non era stata affatto aperta. Ma mentre andavo a Shadwell, e poi ne tornavo, l'indomani, ebbi la sensazione - sensazione vaghissima - di essere seguito. O forse solo osservato. Niente di specifico, solo una serie di strani incidenti di cui non mi sarei neppure accorto se non fosse stato per la lettera, che, come tante altre cose ultimamente, mi aveva lasciato con i nervi scossi. La barchetta che si era staccata dal pontile pochi momenti dopo la mia. L'immagine della figura dietro di me riflessa nel vetro della porta mentre Thimbleby e io entravamo nell'Old Ship per pranzare. Il paio di occhi sottili che mi osservavano attraverso uno spazio tra gli scaffali mentre mi aggiravo tra le scansie di una libreria quel pomeriggio sul lato di Southwark del London Bridge. La stessa Nonsuch House sembrava in qualche modo diversa dal solito. Gente che non riconoscevo entrava e, dopo qualche sguardo distratto agli scaffali, usciva senza acquistare nulla: altri che semplicemente guardavano nella vetrina prima di tornare a immergersi nella folla. E quando uscii ad alzare il tendone, un uomo sul marciapiede di fronte si riscosse come colto sul fatto, poi si dileguò. No, no, non era niente. Assolutamente niente. O almeno così mi ero detto, severamente, mentre mi dirigevo il mattino dopo verso Alsatia. Ma allora perché continuavo a torcere ogni minuto il collo per guardare dietro di noi, temendo quello che potevo vedere inquadrato per un secondo nel piccolo ovale del lunotto posteriore della carrozza? Ma nulla apparve nel finestrino, e i miei misteriosi pedinatori mi erano usciti di mente - anzi, di mente mi era uscito pressoché tutto il resto, compresa Alethea e le sue "questioni di una certa importanza" - mentre superato il caffettiere varcavo la soglia del Corno d'Oro. Alle nove in punto il dottor Samuel Pickvance avanzò fino a un tavolo, bussò sulla sua superficie con un martelletto e si schiarì la gola chiedendo silenzio. Toccava forse il quarantesimo anno d'età, uomo alto, emaciato, con il cranio calvo, un naso cospicuo e labbra sottili e ascetiche, che sembravano piegate in una smorfia sprezzante. Incombeva su di noi da una pedana rialzata, che occupava come un magistrato sul suo scranno, o meglio, forse, come un prete all'altare, impugnando il suo martello come il campanello o l'aspersorio. Batté una seconda volta, un colpo ancora più secco, e nella sala si fece infine silenzio. Il rito stava per avere inizio. Avevo occupato uno degli ultimi posti liberi, nell'ultima fila, quella più vicina alla porta. Il Corno d'Oro era ancora buio, rischiarato solo da una
singola candela di sego e da un fascio fumoso di sole che cadeva obliquamente nella stanza come una trave abbattuta. Pickvance però adesso tirò fuori una lanterna, che accese cerimoniosamente con un accenditoio fornitogli dall'assistente, un giovanotto dai capelli rossicci. Ora la fila delle teste davanti a me prese una forma più nitida, compresa quella dell'automa nell'angolo. Mi rivolgeva il suo astuto sorrisetto d'intesa. Entrando nella sala pochi minuti prima mi ero ritrovato in mezzo a uno di quegli assembramenti così amati dai borseggiatori. Buona parte dei presenti si era assicurata la quarantina di sedie disposte in file davanti alla piattaforma, sulla quale stava il tavolo e, un minuto dopo, Pickvance e il suo chierichetto. Mi aspettavo di trovare qualche viso noto - uno dei miei clienti, magari, o qualche altro libraio. Ma non riconobbi nemmeno un'anima, neanche quando fu accesa la lanterna. E quello che vidi mi lasciò di stucco. La platea di Pickvance - perché proprio questo sembravamo, il pubblico di uno spettacolo teatrale - non appariva affatto diversa dalla clientela del locale che avevo visto due sere prima; anzi, avrei potuto affermare che era esattamente lo stesso gruppo. Molti erano in brache di cuoio e camiciotti spiegazzati, con malconci cappelli di feltro calati sugli occhi; altri esibivano i neri indumenti fatti in casa e l'espressione cupa dei quaccheri o degli anabattisti. Cosa strana, erano presenti tra loro anche alcuni Cavalieri, dall'aria danarosa e malevola, con la barba a pizzo ben curata, che, a gambe accavallate, si scambiavano sogghigni e ammicchi scurrili. Quale misterioso interesse poteva aver radunato una compagnia così malamente assortita? Ma quando ebbe inizio l'asta e fu presentato il primo lotto, capii perché non avevo riconosciuto nessuno - perché non avevo mai visto nessuno dei presenti nella mia bottega e perché tra loro non c'erano librai, o almeno nessuno dei rispettabili librai che conoscevo io. Più che un sacerdote o un magistrato, conclusi, il dottor Pickvance era un imbonitore montato sul suo banchetto in Bartholomew Fair a raggirare un pubblico di allocchi. Se non era un truffatore era un ignorantone, perché anche dal fondo della sala potevo vedere come impreziosiva e gonfiava ognuno dei volumi che il suo assistente, presentato come Mr Skipper, metteva in mostra. Era una cosa insultante. Libri legati in comune tela rigida, o anche in semplice canapa, venivano dichiarati "della più fine doublure" o "in eccellente levantino a grana schiacciata", mentre tutto il resto dell'esposizione era "inciso a mano", "repoussé", "sontuoso", "squisito", una "Aldina" di qua, un "Plantinus" di là, espressamente lavorato dalla "legatoria del defunto re Carlo" o
dallo "incomparabile Nicholas Ferrar di Little Gidding". Fui tentato di levarmi in piedi e denunciare la grottesca turlupinatura, ma tutti gli altri sembravano stregati dall'incantesimo di Pickvance. Spesso partiva da uno o due pence, ma presto le offerte salivano a uno scellino, poi a una sterlina, e nel giro di un paio di minuti il martello risuonava e il nostro perverso banditore annunciava trionfante: "Aggiudicato! Per trenta scellini! Al signore nella seconda fila!" Ero così sbigottito da questa frode che erano già stati venduti due o tre lotti prima che mi rendessi conto di che tipo di volumi fossero offerti. I primi erano stati raccolte di opuscoli politici o religiosi, unite con pamphlet di sette perseguitate come i Ranter, i quaccheri e, più numerosi di tutti, i Confratelli di Bunhill - opere, in altre parole, che si facevano beffe della Legge sulla Blasfemia approvata dal parlamento dieci anni prima. Per questa ragione nessun commerciante rispettabile avrebbe voluto nemmeno toccarli, almeno non un commerciante che desiderasse restare a lungo in affari, perché il Segretario di stato spediva regolarmente i suoi agenti nelle botteghe a scovare e bruciare ogni libro e opuscolo blasfemo o sedizioso su cui mettesse le mani. Era questo dunque il motivo, immaginai, per cui il dottor Pickvance teneva al Corno d'Oro la sua asta - per sottrarsi allo sguardo degli agenti. Perché era chiaro che nessun articolo della sua mercanzia aveva ricevuto il visto del Segretario di stato. Ma questa mancata autorizzazione non scoraggiava minimamente le offerte. Osservai stupefatto gli uomini vestiti di nero contendere i pamphlet a una coppia di Cavalieri sogghignanti e profumati, che sembravano considerare anche le più lubriche delle esortazioni della Confraternita di Bunhill come una sorta di scherzo. Ma evidentemente gli ispettori del Segretario non si azzardavano a mettere piede in Alsatia, non più degli ufficiali giudiziari e degli sbirri, per cui eravamo al riparo se questa è la parola - dalle mani della legge. Presto le offerte si fecero più sconvolgenti, le puntate ancora più accanite. Dopo mezz'ora i lotti cominciarono a includere sbrigative xilografie e incisioni raffiguranti nei più vividi dettagli inverecondi traffici tra padroni e sguattere, o tra dame e i loro cocchieri e giardinieri. Altri erano costituiti da esili volumetti in versi decisamente dilettanteschi che descrivevano una serie di analoghi sodalizi, insieme con volumi in prosa di presunte autorità della medicina illustranti fantasiose ma sicuramente impraticabili posizioni sessuali che garantivano, agli acrobati che le avessero sperimentate, delizie di una portata a mala pena immaginabile.
A ogni lotto che veniva presentato, il dottor Pickvance e Mr Skipper sventolavano le stampe in giro per sottoporle all'osservazione generale, come burattinai esaltati. Oppure Pickvance leggeva ad alta voce qualche passo da un libro con la sua voce acuta, e nel farlo gli occhi gli si offuscavano e la fronte gli si imperlava di sudore, mentre Mr. Skipper se ne stava disciplinatamente in disparte, con il viso che gli diventava scarlatto. Avevo visto e sentito abbastanza. In quelle pagine volgari non poteva esserci nulla che avesse a vedere con la mia ricerca. I successivi dieci o dodici lotti riguardavano lo stesso genere di letteratura occultistica che avevo visto a Pontifex Hall, ma lo stato di questi libri - legati in pelli di minor pregio, per lo più in vitello - era molto peggiore e l'ex libris di Sir Ambrose Plessington non si sarebbe mai trovato, pensai, tra le loro pagine. Mi preparai ad andar via. Ma avevo appena scostato la sedia e mi ero alzato a metà, che sentii Pickvance annunciare un nuovo lotto, della stessa natura, sembrava, delle due dozzine precedenti. "Signori! Davanti a voi vedete il Lotto 66," proclamò con la sua cadenza aggressiva, "proveniente dalla famosa collezione di Anton Schwarz von Steiner!" Sobbalzai a quel nome: sapevo di averlo già sentito. Vidi il volume sbocciare nella mano di Pickvance, le cui dita apparivano stranamente artigliate, come se le falangi fossero malformate. Poi ricordai. Stavo risalendo dalla cripta in Pontifex Hall, con Alethea che, due scalini davanti a me, riferiva le imprese di Sir Ambrose, ricordando come una volta avesse negoziato a nome del Sacro Romano Imperatore per acquistare l'intera biblioteca di un aristocratico austriaco, un rinomato collezionista di letteratura occulta chiamato - ne ero sicuro - von Steiner. Le offerte per il Lotto 66 erano partite da dieci scellini. Due uomini in particolare erano in gara tra loro: uno in prima fila, l'altro due o tre sedie alla mia sinistra. Pickvance sollecitava offerte sempre più alte. Venti scellini... trenta... trentacinque... Avevo la bocca secca e sentii un brivido salirmi lungo la spina dorsale come una perlina di mercurio. Strinsi gli occhi per mettere a fuoco il volume, che Mr Skipper reggeva alto sfilando su e giù per la pedana. Quante probabilità c'erano, visto com'erano andate finora le cose, che davvero avesse fatto parte della collezione Schwarz, o addirittura della biblioteca dell'imperatore? Ma un nesso, per quanto tenue, era infine spuntato, qualcosa che metteva in relazione Sir Ambrose con il Corno d'Oro, o almeno con il dottor Samuel Pickvance.
Mi sporsi in avanti sulla sedia e mi leccai le labbra. La sala sembrava piombata in un silenzio assurdo. L'uomo nella mia fila aveva smesso di rilanciare. Pickvance alzò il martelletto. "Trentacinque scellini e uno... e due. Quando l'ultimo dei trecento lotti fu venduto le campane di St Bride avevano da poco battuto le quattro. Uscii con passo malfermo, sbattendo le palpebre nella luce brillante del sole, tra gli urti e gli spintoni della frotta di partecipanti all'asta che lasciavano la sala, gente alla quale, dopo tante ore insieme, mi sentivo legato da una poco gradita comunanza. Per staccarmene mi avviai verso il Fleet e rimasi qualche momento sulla riva, guardando l'acqua che si inarcava gorgogliando mentre la marea la spingeva lentamente a monte. Una chiazza d'olio apparve tremolando sulla superficie, spettro perfetto di colori. Poi, quando dietro di me le voci finalmente si spensero, portai la mano nella tasca interna della mia marsina. Il Lotto 66 si era rivelato, per i livelli di quella vendita all'asta, un volume decisamente notevole. Era un'edizione delle Magische Werke di Cornelius Agrippa von Nettesheim pubblicata a Colonia nel 1601 per la cura di un certo Manfred Schoessinger. Dell'opera sapevo poco, oltre al fatto che si trattava della traduzione in tedesco del De occulta philosophia, un libro di formule magiche in cui, tra l'altro, si trova la prima menzione della parola "abracadabra". Mi era costato quasi cinque sterline, una cifra, inutile dirlo, esorbitante. Non sarei mai riuscito a venderlo non dico per cinque, ma nemmeno per due sterline. Ma quello che mi interessava non era il titolo o l'autore, bensì l'ex libris incollato sulla faccia interna della copertina. Raffigurava uno stemma, un motto - "Spe Expecto" - e, sotto, in pesanti caratteri gotici, un nome: Anton Schwarz von Steiner. Certo, l'ex libris poteva non essere autentico. Un libraio impara a diffidare di questi piccoli indizi di identità. Se, come dice l'adagio, non si può giudicare un libro dalla sua legatura, non lo si può giudicare nemmeno dal suo ex libris. Questo, per esempio, poteva essere stato scollato da un altro libro - uno effettivamente appartenuto a von Steiner - e poi appiccicato all'interno di un esemplare privo di alcun pregio delle Magische Werke di Agrippa. Si sapeva di librai senza scrupoli che ricorrevano a trucchi del genere per aumentare il valore di un libro - cosa di cui non avrei creduto incapace Pickvance. Oppure il foglietto poteva non essere affatto il contrassegno di von Steiner, ma una sua falsificazione. E in tal caso non avrei scoperto la frode se e finché non avessi esaminato un esemplare autentico
degli ex libris di von Steiner, cosa che non pareva probabile nell'immediato futuro. D'altra parte, mi dissi, era ben noto che il contenuto della biblioteca imperiale di Praga era stato trafugato e disperso durante la Guerra dei Trent'anni. Quel che non avevano portato via i soldati che avevano saccheggiato il Castello di Praga all'inizio della guerra era stato incamerato dalla regina Cristina di Svezia quando tre decenni dopo il conflitto era cessato. Per cui era possibilissimo che l'ex libris fosse autentico e che il volume fosse finito in Inghilterra. Poteva essere stato portato da Sir Ambrose, che doveva esserne venuto a conoscenza grazie ai contatti con il Sacro Romano Imperatore. Forse l'inglese era stato poco scrupoloso nei suoi affari con Rodolfo e aveva tenuto alcuni dei volumi per la propria collezione privata, che con il tempo sarebbe arrivata quasi a rivaleggiare con quella dell'imperatore stesso. Ma se le cose stavano così, perché il volume non era a Pontifex Hall? Perché non mostrava l'ex libris di Sir Ambrose? E se era stato rubato o perduto come tanti altri, perché Alethea non me ne aveva fatto cenno? Mentre richiudevo la copertina di pelle, ricordai di aver letto da qualche parte che Agrippa, il cosiddetto "Principe dei maghi", amico di Erasmo e di Melantone, segretario dell'imperatore Massimiliano e fisico e astrologo alla corte di Francesco I, era noto come la massima autorità europea di scritti ermetici. Ma anche così il legame tra le sue Magische Werke e la pergamena ermetica rubata da Pontifex Hall prometteva di essere lungo e tortuoso. Autenticamente schwarziano o meno, il volume poteva non aver alcun nesso con Sir Ambrose e con la sua pergamena scomparsa. Avevo semplicemente buttato via cinque sterline e un'intera giornata di lavoro? Forse no. Ripescai dalla tasca la carta che mi aveva dato Pickvance quando mi ero portato sul davanti della sala per recuperare la mia conquista. Da vicino, il banditore era più basso e si era rivelato molto più anziano. Rughe profonde gli segnavano il viso scavato, e il bianco degli occhi o meglio il giallo - mostrava una filigrana di venuzze rosse. Le sue lunghe dita erano, come avevo notato, stranamente contorte, come per l'artrite o come spezzate in uno strumento di tortura. Mi chiesi se fosse capitato tra le mani di uno dei Segretari di stato di Cromwell, o se se le fosse semplicemente fratturate sotto una finestra a saracinesca. Mentre prendevo la copia dell'Agrippa da quelle grinfie grottesche, trovai l'audacia di domandare chi avesse messo in vendita il volume. "Potrei essere interessato ad altri volumi della stessa provenienza," gli
dissi sottovoce. "Quelli della collezione von Steiner." Pickvance si era mostrato sorpreso dalla domanda. Mi venne in mente, e non per la prima volta, che il volume potesse essere rubato: un altro motivo per scegliere il Corno d'Oro per mettere in vendita la sua merce. Forse il suo assortimento - quei lotti che non erano falsificazioni - era interamente frutto di furti dalle biblioteche delle proprietà dei realisti che, come Pontifex Hall, erano state saccheggiate e confiscate. La sua risposta non alleviò per nulla i miei sospetti. Si strinse nelle spalle dichiarando che non era "autorizzato a divulgare" le proprie fonti. Il suo volto emaciato si era teso in un sorrisetto morboso. "Segreti del mestiere, dopo tutto." Lo presi per il bavero mentre si voltava a occuparsi di qualcun altro. Sospettavo che qualche sovrana d'oro potesse facilmente mettere a tacere quel po' di scrupoli o di discrezione che poteva mai possedere, e così, nello stesso tono sommesso gli dissi che un mio cliente era disposto a pagare profumatamente - ben più di cinque sterline - per il volume opportuno. A questo si fermò, poi si girò lentamente verso di me. Per un secondo mi chiesi se stessi facendo la cosa più giusta... e se Pickvance fosse qualcosa di più di un ladro o un ciarlatano. In ogni caso, sembrò mettere immediatamente da parte ogni riserbo e cogliere prontamente l'occasione. "Oh, potrei dire... Oh, è possibile, sì, che mi trovi per le mani qualcosa del genere." Il suo tono ora era più rispettoso. Probabilmente stava facendo piani per altro "materiale schwarziano" mentre parlava, altri testi falsificati. "Certo, dovrei controllare i miei cataloghi. Ma sì, sì, sì, dovrei proprio avere..." Ora fu il mio turno di cogliere l'occasione. "Lei tiene dei cataloghi? Registra le vendite?" Sembrò offeso dalla domanda. "Ma certo. È ovvio." "Sì, naturalmente." Insistei, sempre con cortesia e fermezza: "Lei mi lascerebbe, mi chiedevo, consultare..." Ma fui interrotto da un richiamo a voce alta dietro di noi. I Cavalieri e i confratelli di Bunhill avevano cominciato a premere per entrare in possesso delle loro poco nobili acquisizioni e Mr Skipper, ansioso di servirli, stava cercando di richiamare l'attenzione di Pickvance. Il banditore mormorò qualcosa sottovoce, poi tornò a volgersi verso di me, pescando nel panciotto con le sue orribili dita martoriate. "Domani," mi bisbigliò prima che un fiume di corpi lo portasse via. Ora, guardando il biglietto da visita, mi venne in mente che la sera dopo,
a Pulteney House, almeno avrei avuto qualcosa da riferire ad Alethea qualcosa di importante se il mio appuntamento con Pickvance si fosse rivelato fruttuoso. Non avevo idea se e che cosa avrei potuto trovare in uno dei suoi cataloghi. Liste di acquirenti e venditori, forse, o il nome di chi aveva messo in vendita l'Agrippa. Eventualmente perfino un riferimento, una sorta di pista, che potesse condurre alla pergamena, o almeno alla biblioteca di Sir Ambrose e a chi l'aveva saccheggiata. Perché era possibile che l'autore del saccheggio avesse venduto i libri - libri rubati, dopo tutto tramite un trafficante di pochi scrupoli come Pickvance. Feci marcia indietro e tornai verso il Corno d'Oro, nel quale stavano entrando alcuni avventori. Era ancora presto, mi dissi: nemmeno le cinque. Sentendomi in colpa, oltre che sorpreso, mi accorsi che non avevo voglia di rientrare a Nonsuch House: almeno non ancora. Forse sarei tornato al ponte a piedi, una passeggiata senza fretta. Era una bella giornata, perfino lì in Alsatia. Il puzzo del Fleet non era così insopportabile, decisi, una volta che ci si fosse abituati. Si era alzato il vento, disperdendo i miasmi aleggianti nell'aria e i nugoli di insetti. E aveva anche spinto un po' di nuvole, che si trascinavano lentamente nel cielo, dirette a levante. Probabilmente mi sarei fermato a una taverna lungo la via, pensai; o in una caffetteria. Rimisi nella tasca i Magische Werke e poi diedi un altro sguardo, come per averne un'indicazione, al cartoncino che avevo in mano. Una comune carta commerciale, con uno stemma - senza dubbio inventato - e quattro righe di testo, accuratamente incise: Dr Samuel Pickvance Libraio & Banditore All'Insegna della Testa del Saraceno Arrowsmith Court, Whitefriars Un'altra spedizione in Alsatia; ma per la prima volta la prospettiva non mi sgomentava. Né, mi accorsi, la prospettiva di una visita in Lincoln's Inn Fields. D'un tratto mi si presentò davanti agli occhi il viso di Alethea, con una nitidezza inquietante, e mi resi conto anche di essere quasi ansioso che arrivasse quel momento. E così mentre mi dirigevo verso casa lungo Fleet Street, dove poi effettivamente mi fermai in una taverna, mi chiesi cosa mi stesse accadendo. Stavo diventando audace e imprevedibile, irriconoscibile a me stesso: come se una delle reazioni alchemiche di Agrippa von Nettesheim, qualche profonda e allarmante trasmutazione, si fosse verificata nel
profondo della mia persona. CAPITOLO 7 Pulteney House si trovava sul lato di settentrione di Lincon's Inn Fields, lungo una fila di sei o sette case, tutte copie perfette una dell'altra, che dava sul campo: facciata di mattoni, pilastri bianchi, alti finestroni su cui si rifletteva una serie di soli. Mi avvicinai lungo una delle decine di stradine pubbliche in mezzo al rigoglio delle erbacce. Era il tardo pomeriggio e sudavo copiosamente dopo la lunga camminata. Avevo le gambe molli e la camicia appiccicata alla schiena. Mi schermai gli occhi dal sole ormai basso e mi guardai in giro. Lincoln's Inn Fields era un tempo il quartiere più lussuoso di Londra, un luogo dove i nostri lord e lady - membri della corte di Carlo I, destinata a finir male - vivevano nel loro sfarzo insolente e sfrontato. Ma durante la Repubblica se l'erano filata in Olanda o in Francia, e così per gli ultimi dieci anni gran parte delle case erano rimaste disabitate. Ora non c'era fumo né luci accese, e a mano a mano che mi avvicinavo notavo la vernice scostata, una finestra rotta qua e là, gli strati di fuliggine sui davanzali e le decorazioni di stucco. Le cancellate di ferro battuto intorno ai giardini abbandonati a se stessi - erano state sradicate. Trasformate, immaginavo, in moschetti e cannoni per Cromwell. Pulteney House era appena appena più curata, con un giovane gelso che montava di guardia alla porta e i vetri tersi di una finestra che rimandavano la luce del sole come nastri rossi svolazzanti. Dietro le lastre si intravedeva appena il pesante panneggio di una tenda ricamata in oro. Non mi sembrava che Alethea mi avesse detto che Sir Ambrose o Lord Marchamont possedevano una casa a Londra, per cui al momento in cui maneggiavo il ponderoso batacchio a zampa di leone ero arrivato alla poco lieta conclusione che Pulteney House dovesse appartenere a Richard Overstreet, l'uomo al quale, secondo Phineas Greenleaf, Lady Marchamont era fidanzata. Le "questioni di una certa importanza" avevano di sicuro a che fare con i progetti per le nozze. Rimasi sorpreso, quindi, quando ad aprire la porta non venne altri che Phineas Greenleaf in persona. Non mostrò in alcun modo di avermi riconosciuto, cosa che mi parve strana visto che avevamo passato sei giorni di viaggio insieme e condiviso l'umiliante intimità di svariate camere da letto. Si limitò ad aprire l'uscio quel tanto perché potessi passare e mi fece strada
lungo un corridoio fino a quello che doveva essere un salotto, per quel poco che potevo giudicare nel buio creato dalle tende color verde tasso. "Se vuole attendere qui, signore." Udii i suoi passi che salivano una invisibile scala e poi scricchiolavano sul pavimento sopra di me. Era come se gli eventi si ripetessero in una sorta di disegno inquietante e più modesto. La prima sera nella biblioteca di Pontifex Hall mi aveva lasciato solo allo stesso modo, salendo al piano di sopra ad avvertire la sua padrona. Rimasi quindi non ingiustificatamente sorpreso quando mi resi conto che in effetti la stanza in cui ero stato fatto accomodare non era affatto un salotto. Ancora una volta Phineas mi aveva abbandonato nel mezzo di una biblioteca. O meglio nel mezzo di quella che in una sua più felice precedente esistenza era stata una biblioteca. Le file di scaffali erano state denudate, ripulite dei loro libri, anzi diversi panchetti mancavano del tutto. Bruciati come legna da ardere, mi chiesi, da un reggimento delle soldatesche di Cromwell? Ma alcune tra le altre suppellettili della casa erano scampate all'olocausto o al saccheggio, perché c'era un arazzo tutto tarmato appeso a una delle pareti e un caminetto di marmo e ardesia con davanti gli attizzatoi e gli alari. Quattro poltrone erano disposte intorno a un tavolinetto di palissandro. Però la biblioteca non era totalmente spoglia di libri. Nella scarsa luce scorsi una pila di grossi tomi posati sul tavolino - libri che, immaginai, Alethea aveva portato con sé per ingannare le ore del viaggio in carrozza. Schiusi appena il primo della pila, convinto di trovare l'ex libris di Sir Ambrose incollato all'interno della copertina. Ma vidi subito che il libro era molto più recente di tutti quelli di Pontifex Hall, così come i suoi tre compagni. Potevo sentire l'odore della pelle conciata della loro legatura. Libri nuovi? La scoperta mi sorprese. A cosa mai potevano servire ancora altri libri alla signora di Pontifex Hall? Mi ero seduto in una delle poltrone e sfogliavo le pagine del primo volume con un misto di curiosità e colpevole piacere. Quali testi scelti, mi chiedevo, poteva aver portato con sé? Testi eruditi come le traduzioni ficiniane di Platone, o Ermete Trismegisto? O volumi di stregoneria, o fors'anche di negromanzia? Ma ciascuno di essi copriva territori più mondani, non saprei proprio se preferibili alla compagnia del torvo e scostante Phineas Greenleaf. Sollevai le sopracciglia davanti ai frontespizi, aprendo e poi riponendo ognuno dei volumi. Riguardavano tutti questioni relative al diritto di successione e di proprietà. I titoli mi erano noti, ma non mi ero mai preso il disturbo di aprirne neppure uno, né tanto meno di leggerne una sola pagina. Ma qui,
con un segnalibro a tre quarti del volume, c'era il Trattato sui testamenti e le ultime volontà di Hobhouse; sotto di esso il notoriamente uggioso Saggio delle proprietà e loro trasferimenti di Blackacre. I margini delle pagine erano stati tagliati fino alla fine, come quelli del terzo volume, il mastodontico Diritto d'Equità e la pratica dell'Alta corte di Giustizia di Phillimore. Solo l'ultimo libro sembrava intonarsi con la Lady Marchamont che pensavo di conoscere: un volume intitolato La risoluzione della legge sui diritti delle donne. Anche le sue pagine erano state sfogliate dalla prima all'ultima, e le chiose annotate sul margine erano vergate nella grafia febbrile che ben conoscevo. Un passo leggero scricchiolava attraverso il soffitto sopra la mia testa. Deposi l'ultimo volume e tornai a sedermi in poltrona, dolorante per la stanchezza. Non mi ero ancora ripreso né dalla fatica fisica - avevo passato quasi tutta la mattina e buona parte del pomeriggio in Alsatia - né dallo choc della mia scoperta. Col palmo delle mani mi strofinai le guance e la fronte, poi inghiottii un paio di volte l'aria, densa e dolciastra, della stanza, come bevendo da una pesante fiasca. Tolsi dalla tasca la copia delle Magische Werke di Agrippa e la posai sul tavolo accanto agli altri libri. Sì, quel giorno ero arrivato lontano. Avevo saputo molto. Chiudendo gli occhi, udii il cigolare sommesso dei gradini sotto il passo di Alethea che scendeva la scala. Mi appoggiai allo schienale aspettando il suo arrivo. Quanto di ciò che avevo appreso, mi chiesi, dovevo riferirle? Mi ero mosso di casa per Alsatia di buon mattino, compiendo il tragitto in barca. Arrowsmith Court, quando finalmente riuscii a trovarla, si rivelò esattamente il genere di luogo in cui mi sarei aspettato che Pickvance conducesse i suoi traffici poco limpidi: un piccolo e fangoso spiazzo acciottolato stretto da tre parti da un certo numero di caseggiati neri di fuliggine alti quattro o cinque piani. Un gruppetto di gatti pelle e ossa si affaccendava su un mucchio di lische di pesce, mentre altri due si lisciavano su una soglia e su un davanzale. La pioggia della sera prima si era raccolta in pozzanghere limacciose e già puzzava di putrido. Mentre avanzavo curando dove mettessi i piedi da una delle finestre superiori vuotarono un vaso da notte. Feci appena in tempo a scansarmi con un balzo. Sì, pensai malinconicamente: ero arrivato proprio al posto giusto. La Testa del Saraceno era giusto dirimpetto allo stretto arco d'ingresso alla corte. Una faccia scura e baffuta, con un'aria feroce e implacabile, mi scrutava dall'alto dell'insegna sopra la porta. La taverna sembrava chiusa.
Da un lato c'era un tabaccaio, dall'altro una bottega di più incerta identificazione; anche queste erano chiuse, le vetrine a fondo di bottiglia offuscate da polvere e sudiciume. Accanto alla porta del tabaccaio stava un'altra porta, più piccola, la cui targa di ottone ossidato diceva: "Dr Samuel Pickvance - Libraio e Banditore". Dopo aver tirato il logoro cordone di un campanello fui introdotto con fare assai furtivo e poi preceduto per cinque rampe di scale da Mr Skipper, che spiegò che il dottor Pickvance era occupato, ma che lui, Mr Skipper, sarebbe stato onorato di assistermi. Gli "uffici", da quanto mi fu permesso di vedere, consistevano in una singola stanza fornita di due scrivanie, un paio di seggiole e quelli che apparivano gli attrezzi del mestiere di legatore: un fascio di pergamene e una pietra da battitura in un angolo, insieme con un assortimento di succhielli, presse per cucire e ferri da lucidatura sparsi per la stanza. C'era anche una pressa da stampa, un enorme bestione meccanico presso il quale Mr Skipper riparò dopo avermi fatto accomodare a una delle scrivanie. Sul tavolo stava una pila di un paio di dozzine di cataloghi, legati in un cuoio marrone unto. "Buon lavoro," mormorò con un sorriso depresso, poi mi voltò la schiena, probabilmente per dedicarsi a confezionare altri "capolavori" per la prossima asta di Pickvance. Presi il primo dei volumi e lo aprii. Mentre, nel corso delle successive otto ore, leggevo i cataloghi nutrito solo da un pessimo pasticcio di coniglio che Mr Skipper aveva mandato a prendere in una bottega vicina, diversi fatti sul misterioso dottor Pickvance cominciarono lentamente a prendere forma. Potei determinare che teneva le sue vendite all'asta grosso modo un paio di volte all'anno, a partire dal 1651, anno in cui era finita la guerra civile e il parlamento aveva approvato la Legge sulla Blasfemia. Tutte le aste dovevano essere state clandestine quanto quella del Corno d'Oro, perché si erano svolte tutte in Alsatia, circa la metà proprio al Corno d'Oro e le altre distribuite tra una manciata di taverne e birrerie dei dintorni, comprese due o tre alla Testa del Saraceno. Le opere proposte, a quanto pareva, erano tutte della stessa risma di quelle vendute al Corno d'Oro, e alcune aste avevano compreso anche cinquecento lotti. I cataloghi elencavano per ogni opera l'autore, il titolo, la data di stampa, lo stile di legatura, il numero delle pagine e delle illustrazioni, lo stato generale e, infine, la provenienza. Quest'ultimo dettaglio mi incoraggiò. Notai che Pickvance o qualche suo amanuense aveva registrato non solo il nome di chi metteva il lotto in vendita ma anche quello di chi lo aveva acquistato.
Sospettavo però che molti di quei nomi, di quelle provenienze, fossero falsi quanto gli stessi libri, perché il 1651 era stato l'anno in cui Cromwell aveva confiscato molte proprietà di realisti, e supposi che libri provenienti dalle loro biblioteche - oppure volumi che recavano i loro ex libris falsificati - fossero passati per l'ufficio di Pickvance. Notai che uno dei cataloghi, per un'asta del 1654, annunciava "libri appartenuti a Sir George VILLIERS, duca di BUCKINGHAM, provenienti dalla sua pregevole collezione presso la York House nello Strand". Sapevo che parte di questa "pregevole collezione" - effettivamente, una delle più ammirevoli d'Europa - era stata saccheggiata dopo la guerra civile quando York House era stata confiscata; l'altra metà era stata messa all'asta qualche anno dopo quando il figlio di Buckingham, il secondo duca, un realista, era rimasto a corto di fondi nel suo esilio in Olanda. Ma se Pickvance vendesse in buona fede o meno volumi rubati alla collezione di Buckingham era impossibile, in base alle indicazioni dei cataloghi, stabilirlo. Mi si stringeva il cuore guardando le dozzine di titoli della collezione della York House. La nostra era un'epoca di grande distinzione e buon gusto, di esteti e collezionisti come Buckingham e il defunto re Carlo, ma era anche un'epoca di grandi profanazioni. Quanti tesori come quelli di Buckingham aveva perduto l'Inghilterra per colpa delle nostre guerre? Per colpa dei puritani e del loro fanatismo superstizioso? Perché quando Cromwell e le sue legioni non distruggevano opere d'arte - dandosi a decapitare statue o gettare nel Tamigi quadri di Rubens - le vendevano per due a un soldo agli agenti del re di Spagna e del Cardinale Mazarino, e forse anche a mercanti senza scrupoli come il dottor Pickvance. Notai che diversi lotti dei cataloghi di Pickvance venivano dalle sale d'asta di Anversa, che negli ultimi decenni era stata la camera di compensazione da cui il bottino delle tante guerre europee veniva venduto a prezzi da fame agli avidi principi del continente. Mentre mettevo mano a un altro volume mi sentii schiacciare dal compito che stavo affrontando. Come avrei mai potuto trovare Il labirinto del mondo in una simile montagna di altri volumi trafugati? Trovai la copia di Agrippa, con accanto il mio nome, segnata nel catalogo più recente, uno dei primi che esaminai. Il Magische Werke era. registrato come proveniente dalla collezione viennese di Anton Schwarz von Steiner. Ma a questo punto il suo ultimo proprietario, colui che l'aveva messo in vendita all'asta di Pickvance, era per me molto più interessante. Era un uomo di cui non avevo mai sentito parlare: Henry Monboddo. Non
c'era traccia del tragitto del volume da von Steiner a Monboddo, e quindi non avevo modo di sapere come Monboddo si fosse trovato in possesso del libro - se fosse o meno arrivato in Inghilterra tramite Sir Ambrose Plessington e fosse stato quindi rubato da Pontifex Hall. L'unica indicazione sull'identità di Monboddo era un indirizzo, una casa in Huntingdonshire, aggiunto a penna nel catalogo. Ma era impossibile capire se Monboddo fosse ancora vivo o - come per la maggior parte dei proprietari dei libri in vendita - deceduto. Copiai il nome e l'indirizzo su un foglietto, poi sfogliai il resto del catalogo, cercando invano qualche altro titolo che lui o i suoi eredi potessero aver messo in vendita. Ma l'edizione di Agrippa e perfino il misterioso Henry Monboddo divennero presto secondari rispetto al mio scopo. Tornai al primo dei volumi, quello del 1651, e cominciai a procedere in avanti, asta per asta, anno per anno, con gli occhi bene aperti perché non mi sfuggisse un nome familiare, un titolo, che potesse condurmi a Pontifex Hall. Le ore passavano lentamente. Erano quasi le quattro quando presi il penultimo catalogo, quello preparato per un'asta tenuta circa quattro mesi prima. Catalogus Variorum et insignium Librorum Selectissimae Bibliothecae, ossia Catalogo contenente una varietà di antichi e moderni Libri inglesi e francesi di Religione, Storia e Filosofia L'asta si era tenuta al Corno d'Oro il 21 marzo, e la merce risultava della stessa natura di tutte le altre vendite. Feci scorrere il dito lungo la pagina successiva, la voltai, feci scorrere il dito lungo un'altra pagina. Cominciavo quasi a vedere doppio. Ero così stanco, il mio cervello così affaticato, che quando giunsi alla voce - quasi in fondo in fondo al catalogo - non registrai né choc né sorpresa, e dovetti rileggerla più volte prima di poterne assimilare le implicazioni: Labyrinthus mundi, o Il labirinto del mondo. Frammento. Opera di filosofia occulta attribuita a Ermete Trismegisto. Traduzione latina dall'originale greco. 14 pagine manoscritte su pergamena di prima qualità. Legatura arabescata. Condizioni eccellenti. Data e provenienza sconosciute.
Per distrazione, o forse per una deliberata omissione, la voce non riportava il nome del venditore. Ma il nome del nuovo proprietario - il nome dell'uomo che l'aveva acquistato quattro mesi prima - era segnato con chiarezza a penna. Fu la ricomparsa del nome di Henry Monboddo non meno di tutto il resto a riscuotere il mio cervello dal torpore. Studiando attentamente l'annotazione, vidi che Monboddo aveva pagato il frammento quindici scellini - una miseria, pensai ricordando l'insistenza di Alethea sul valore del volume e sulla sua disponibilità a pagare qualsiasi somma per riaverlo. Ma era l'oggetto della mia ricerca, su questo non avevo dubbi. Non sì faceva cenno a ex libris, anche se l'omissione era tutt'altro che sorprendente. Presumibilmente era stato rimosso, da Pickvance o dal proprietario precedente, che dopotutto non avevano nessun desiderio di proclamare il furto da Pontifex Hall. E però il prezzo, quei quindici scellini, continuava a lasciarmi perplesso. Né Pickvance né l'anonimo proprietario ne conoscevano il vero valore? Non riuscivo a immaginare che Pickvance vendesse alcunché per un solo penny meno del suo valore. Conclusi quindi che Alethea si sbagliava di grosso a proposito del frammento. Forse, al prezzo di quindici scellini, non valeva più delle altre cose che Pickvance metteva in vendita. Non ebbi il coraggio di domandare a Mr Skipper che cosa sapesse di Henry Monboddo - se c'era una cosa su cui Alethea aveva insistito era la discrezione - e così dopo aver copiato l'intera voce chiusi il volume e lo rimisi sul mucchio. Avevo il passo leggero mentre, pochi minuti dopo, lasciavo l'edificio e mi avviavo ad attraversare Alsatia. Il nodo gordiano, decisi, era quasi tagliato. Avrei trovato Henry Monboddo, gli avrei fatto un'offerta generosa - usando il denaro di Alethea - e avrei incassato il mio compenso. Dopodiché con quella questione avrei chiuso una volta per tutte e avrei potuto riprendere la mia vita pacifica e sedentaria. Era stata una buona giornata, mi dissi. Probabilmente mi misi perfino a fischiettare. Mi trovavo in questo stesso stato d'animo, sfinito ma ottimista, quando sentii avvicinarsi i passi nel corridoio. Mi issai a fatica in piedi. Lady Marchamont era arrivata. Dieci minuti dopo ero seduto davanti a un'enorme tavola da pranzo, ascoltando Alethea che si scusava per le deplorevoli condizioni di Pulteney House. La sua apparizione sulla soglia della biblioteca era stata ciò che Orazio chiama mentis gratissimus error, una "piacevolissima allucinazio-
ne". Era vestita esattamente come a Pontifex Hall - gli stivaletti di pelle, il manto scuro con il cappuccio - nonostante il caldo. Avevo già deciso dentro di me che doveva aver acquistato Pulteney House solo recentemente: e questo spiegava i massicci tomi sul tavolino del piano di sotto. Dopo tutto, in quanto vedova, adesso era una "feme sole" secondo la nostra legge, non più una "feme covert". A giusto titolo poteva quindi comprare e vendere proprietà, e anche, volendolo, promuovere una causa legale presso la Corte di Giustizia. Ma nei fatti il mio primo sospetto si era rivelato esatto, perché mentre salivamo le scale verso la sala da pranzo mi aveva spiegato che Pulteney House apparteneva al suo "vicino" (lo aveva chiamato così) Sir Richard Overstreet, che "gentilmente" gliel'aveva messa a disposizione. Pontifex Hall non era più sicura, così per il momento era venuta a Londra; per quanto tempo non sapeva dirlo. Ma aveva pensato che, nonostante i rischi, noi due dovessimo incontrarci per uno "scambio di informazioni". Pontifex Hall non più sicura? La sua affermazione mi lasciò interdetto. Perché mai? Per i torrenti d'acqua delle fonti che ne avrebbero eroso le fondamenta? O c'era qualche ragione più sinistra? "Ovviamente da quasi dieci anni a Pulteney House non abita nessuno," stava spiegando adesso, "quindi è lungi dall'essere confortevole. Le tubature sono ostruite o rotte, quindi non abbiamo acqua. Condizioni ancora più inospitali, temo, di Pontifex Hall." Fece un breve sorriso, poi i suoi occhi corsero per la decima volta alla copia delle Magische Werke di Agrippa, che stringevo ancora in mano. "Prego, Mr Inchbold." Accennò ai piatti di portata - carne di cervo di una delle riserve di caccia di Sir Richard - che Bridget aveva posato sul tavolo pochi minuti prima. "Vogliamo cominciare? Immagino che abbiamo molte cose di cui parlare." E così, mentre la fiamma della candela faceva tra noi la sua danza delicata, le raccontai tutto quello che ero venuto a sapere nell'ultimo paio di giorni; o meglio quasi tutto. Ero ancora incerto su quanto dovessi rivelarle. Decisi di non dir nulla del messaggio cifrato né del sospetto che qualcuno mi seguisse. Ma le parlai del Corno d'Oro, della bizzarra vendita all'asta, del dottor Pickvance, e infine dell'enorme pila di cataloghi che avevo finito di esaminare appena due ore prima. Ma a lei, scoprii, il nome di Henry Monboddo non fece lo stesso effetto che aveva fatto a me. Eravamo arrivati al pudding. Feci una pausa e poi le chiesi se conoscesse quel nome. "In effetti sì," rispose semplicemente, poi rimase per un po' in silenzio contemplando il proprio riflesso nella guancia d'argento della zuppiera. Io potevo vedere i riflessi della candela, due fiamme perfette, nelle sue pupil-
le dilatate. Infine depose il cucchiaio e prese il tovagliolo detergendosi accuratamente le labbra; "Anzi, Henry Monboddo è il motivo per cui l'ho invitata questa sera a Pulteney House." "Ah, sì?" "Sì." Vedendo che si stava alzando da tavola, lo feci anch'io - un po' troppo bruscamente. Sentii che la testa mi girava per il vino. "Venga con me, Mr Inchbold. C'è una cosa che devo mostrarle. Sa, anch'io ho fatto una scoperta su Henry Monboddo." Mi condusse lungo il corridoio, poi attraverso un piccolo vestibolo circolare e in una camera da letto. A quanto sembrava Sir Richard aveva almeno tentato di rendere questa parte di Pulteney House accogliente per la sua ospite, perché le pareti erano tappezzate di fresco e la stanza era stata fornita di un letto a baldacchino, una poltrona e uno specchio la cui superficie irregolare rimandò la mia immagine grottescamente accorciata e ingobbita quando misi piede nella camera. C'era anche un baule sul pavimento accanto al letto, con diversi indumenti che ne strabordavano disordinatamente. Rimasi sotto l'arco della porta, impalato, come un pellerossa di legno da tabaccaio. "Prego, Mr Inchbold." Indicò la poltrona prima di chinarsi sul baule. La finestra era stata aperta e colsi il lieve sussurro delle tende di velluto. "Non vuole accomodarsi?" Mi accostai alla poltrona e la osservai, ansioso e vigile, mentre scavava nel cassone, prima tra uno strato di oggetti di vestiario - intravidi una serie di sottovesti e di bluse fremere sotto il suo tocco - per poi immergersi in un sedimento più profondo. Finalmente trovò quello che cercava, un fascio di carte che estrasse e mi porse. "Un altro inventario," spiegò, sedendosi sul bordo del letto. "Come quello di Pontifex Hall?" Ricordavo bene il documento: quelle sei portentose pagine, ciascuna firmata dai sei ufficiali giudiziari. "No, non proprio lo stesso. Questo fu compilato quasi trent'anni dopo. Comprende solo libri, come può vedere. Il contenuto della biblioteca di Pontifex Hall nell'anno 1651." "Immediatamente prima che la proprietà fosse confiscata." "Sì. Lord Marchamont aveva fatto stimare il contenuto della biblioteca prima che partissimo per l'esilio. Progettava di vendere l'intera collezione. Avevamo... qualche problema di fondi. Ma non si riuscì a trovare nessun acquirente. Impossibile a quei tempi. Nessuno, cioè, a cui Lord Marchamont fosse disposto a cedere la collezione. Aveva perfino organizzato il
suo trasferimento oltremanica da Porthsmouth a bordo del Belphoebe, una delle poche navi da guerra che non fossero passate a Cromwell nel 1642. Ma il piano fallì, come immagina. Il Belphoebe calò a picco al largo dell'Isola di Wight meno di due settimane prima della data prevista per la partenza dei libri da Pontifex Hall. Una tempesta improvvisa. Ma il naufragio, a conti fatti, fu una fortuna per la collezione. Non ho bisogno di dirle cosa sarebbe accaduto in caso contrario". No, non ne aveva bisogno. Molte tra le biblioteche che erano state trasferite in Francia perché restassero al sicuro durante la guerra civile erano state incamerate dalla corona francese, per droit d'aubaine, alla morte dei proprietari. Un destino cui indubbiamente i libri di Sir Ambrose non sarebbero sfuggiti alla scomparsa di Lord Marchamont. "Ho scoperto l'inventario nella stanza dell'archivio," stava continuando, "nel fondo della bara, un giorno dopo che lei era andato via da Pontifex Hall. Altrimenti gliel'avrei dato sicuramente in quella occasione." Si sporgeva in avanti dal bordo del letto. "Dettagliatissimo, come vedrà." "Cita la pergamena?" "Certo. Ma questo particolare non è l'informazione più interessante. Prego, l'ultima pagina, se non le spiace. Lì vedrà che la collezione fu inventariata e stimata dalla persona a cui Lord Marchamont si era rivolto per la vendita." Il documento era lungo almeno cinquanta pagine, un fiume interminabile di autori, titoli, edizioni, prezzi. Mi girava la testa. Quel giorno avevo già letto troppi cataloghi. Ma l'ultima pagina, vidi, era in bianco, a parte poche parole tracciate in basso: "Questa intera collezione è valutata la somma di 47.000 lire sterline, addì 15 febbraio dell'anno 1651, da Henry Monboddo di Wembish Park, Huntingdonshire." Sentii una stretta allo stomaco e, alzando gli occhi, trovai Alethea che mi studiava attentamente. "Henry Monboddo," mormorò assorta. "Un uomo ben noto nell'ambiente degli esiliati in Olanda e in Francia." "Quindi lo conosceva?" "Sì, certo." Mi prese l'inventario e lo ripose con cura nel baule. "O meglio, l'ho visto una o due volte. Lavorava ad Anversa a quei tempi," continuò, facendo cigolare leggermente il letto mentre riprendeva il suo posto. "Era un trafficante di quadri, un commerciante d'arte. Ha piazzato il contenuto di molte biblioteche e quadrerie, comprese quelle della York House. Conosce la collezione?"
Annuii. Ricordavo il catalogo di Pickvance per il 1654, con la descrizione degli articoli provenienti dalla "pregevole collezione" del secondo duca di Buckingham. "Sono stati tempi difficili per noi tutti. Anche Buckingham era in difficoltà finanziarie. York House era stata confiscata e molti dei suoi tesori, quelli raccolti dal padre, erano stati trafugati dagli uomini di Cromwell. E così nel 1648, per rimpinguare le casse del duca, Monboddo vendette circa duecento dei suoi dipinti. Gli procurò un buon prezzo, perché da poco era stata firmata la pace di Westfalia e quindi il flusso della merce rubata rischiava di ridursi. Anzi, dopo "Westfalia si sarebbe esaurito del tutto, non fosse stato per gli sconquassi qui da noi." "Quindi Monboddo liquidava le collezioni di libri e di quadri per gli esiliati insolventi? Per chiunque si fosse visti confiscati i beni?" Annuì. "Trovava gli acquirenti per le raccolte d'arte. Duchi e principi che desideravano rifornire biblioteche e saloni. Aveva entrature in tutte le corti della cristianità. Mio padre trattò con lui in diverse occasioni quando faceva acquisti per l'imperatore Rodolfo." "Intende dire che Sir Ambrose conosceva Monboddo?" "Sì. Da molti anni. Conduceva i negoziati con agenti come mio padre e in cambio intascava una forte commissione." Il suo sguardo cadde sull'Agrippa che avevo in mano. "Credo che negoziò con mio padre anche per l'acquisto della collezione von Steiner a Vienna. Ma sul lavoro di Monboddo circolavano molte voci," aggiunse. "Si diceva che avesse altri clienti, oltre ai realisti che non erano in grado di pagare le tasse imposte sulle loro proprietà." Fece una pausa per estrarre dalle pieghe della sottana un oggetto che, data la scarsa luce, impiegai qualche momento a riconoscere per una pipa, che procedette a riempire, con mano esperta, di tabacco. Mi aspettavo che me la porgesse, ma ebbi la sorpresa di vedere che, con mano altrettanto esperta, se la sistemava tra i molari. Un alone aranciato le rischiarò il viso quando accese un fiammifero e diede vita al contenuto del fornello. "Mi perdoni," disse, assaporando il fumo e agitando l'accenditoio per smorzarlo. "Tabacco della Virginia. La foglia conciata della Nicotiana trigonophylla, una specie particolarmente saporita. Sir Walter Raleigh sostiene che abbia effetti dannosi, ma io ho sempre trovato eccellente per la digestione una fumata postprandiale, soprattutto in una pipa di gesso. Mio padre un tempo possedeva un calumet," continuò, mentre una nuvola di fumo si spandeva nello spazio tra noi. "Aveva il fornello di argilla e il can-
nello era fatto con una canna colta sulla costa della baia di Chesapeake. Gliel'aveva regalata un capo nanticoke in Virginia." "In Virginia?" Sir Ambrose Plessington, questo Proteo, questo decagono con tutte le sue misteriose sfaccettature, assumeva ancora un'altra sembianza. Ma ero lì per altre faccende. "Mi stava dicendo che Monboddo..." "Sì, sì, stavamo parlando di Monboddo, non di mio padre. Né di Raleigh." Si era spinta all'indietro e ora era reclinata sul letto, sui suoi cinque o sei cuscini sparsi in giro, la grande criniera arruffata contro la testiera. "Sì, circolavano storie, direi quasi leggende, su Henry Monboddo." "Che genere di leggende?" "Be'... da dove cominciamo?" Tenne il fornello della pipa annidato nel palmo della mano e per qualche secondo studiò il baldacchino sopra la sua testa come a trarne ispirazione. "Intanto," riprese, "si diceva che avesse negoziato l'acquisto della Collezione di Mantova nel 1627. A quei tempi era l'agente artistico di re Carlo. Fin qui la cosa era di dominio pubblico. Era anche l'agente del duca di Buckingham. Il primo Buckingham, dico Sir George Villiers, il primo Lord dell'Ammiragliato. Monboddo rastrellò le corti e gli studi di tutta Europa per conto dei due, riportando in Inghilterra ogni sorta di oggetti. Libri, quadri, statue... qualunque cosa potesse incontrare il gusto di questi due grandi conoscitori d'arte." La pipa di gesso oscillò e mandò un riverbero mentre lei tirava un'altra lunga boccata di fumo. "Ha sentito parlare della Collezione di Mantova?" Annuii. "Certo." Chi non ne aveva sentito parlare? Decine di dipinti di Tiziano, Raffaello, Correggio, Caravaggio, Giulio Romano, tutti acquistati da re Carlo per la somma di quindicimila sterline - un vero affare, anche a quel prezzo. Le tele erano rimaste appese nelle gallerie di "Whitehall Palace finché Cromwell e la sua banda di filistei li vendettero per pagare i debiti. Fu l'atto più vergognoso, a mio avviso, del regno di Cromwell - un immiserimento della nostra intera nazione. "Negli anni Venti l'industria della seta a Mantova aveva subito un crollo," continuò, "e i Gonzaga avevano un disperato bisogno di fondi. Anche re Carlo aveva bisogno di fondi, ma questo diventava un particolare trascurabile quando c'erano in ballo dei quadri, specie se splendidi e preziosi come quelli della Collezione di Mantova. Fu imposta una tassa speciale e Monboddo raccolse il resto della somma insieme a Sir Philip Burlamaqui, il finanziere del re. Contemporaneamente, come è noto, Burlamaqui stava raccogliendo fondi per attrezzare una flotta di un centinaio di navi per la spedizione di Buckingham all'Ile de Ré, dove i protestanti di La Rochelle
erano assediati dagli eserciti del cardinale Richelieu. Una sfortunata coincidenza di eventi," mormorò. "Il re si trovò a dover scegliere tra le sue navi e i suoi quadri." Scelse i quadri. Conoscevo bene quella storia. Mise i quadri davanti alle vite dei suoi marinai e degli ugonotti, immiserendo la flotta per pagare i mantovani. Cinquemila marinai inglesi, a bordo di vascelli che marcivano, morirono di fame o massacrati dalle truppe francesi, e chi sa quanti ugonotti perirono a La Rochelle. La spedizione fu un disastro, peggio ancora del raid di Buckingham a Cadice di due anni prima. E così i dipinti della Collezione di Mantova - tutte quelle immagini della Madonna e della Sacra Famiglia - erano imbevuti di sangue protestante, pagati con la vita di inglesi e dei rochellesi. "Questa stupenda collezione divenne la vergogna dell'Europa protestante," continuò, "e così i tesori ammassati da Buckingham a York House. Perché Buckingham non solo aveva guidato la spedizione fallita, aveva anche combinato il matrimonio di re Carlo con la sorella di Luigi XIII e poi dato a nolo alla marina francese le navi con cui Richelieu procedette a bombardare La Rochelle e successivamente la flotta inglese affamata. C'è da stupirsi dunque se Cromwell volle vendere entrambe le collezioni, quella di York House e quella di Whitehall Palace?" Fece una pausa aspirando assorta dalla pipa. "Ed è qui, Mr Inchbold, che cominciano a circolare le altre voci." Aggrottavo la fronte nell'oscurità, sforzandomi di seguire quel filo tortuoso, di ordinare nella mente l'insieme dei personaggi: Buckingham, Monboddo, re Carlo, Richelieu. "Intende dire che Monboddo fu coinvolto nella vendita sia della Collezione di Mantova sia dei dipinti di York House?" "Ritengo di sì." "Era in combutta con Cromwell, dunque?" "No, era in combutta con qualcun altro. Si diceva che agisse segretamente come agente del cardinale Mazarino, il primo ministro di Francia, il protetto di Richelieu. Era noto a tutti che Mazarino contava di mettere le mani sui tesori che Cromwell stava vendendo. Monboddo coprì a perfezione le proprie tracce, naturalmente, e lo stesso fece Mazarino, ma mio marito finì per dare credito alle voci. Per questo esonerò Monboddo come suo agente e si rifiutò di consegnargli un solo volume, benché in quegli anni fossimo poveri in canna." "Ma perché Lord Marchamont era così contrario alla vendita? In Inghilterra la collezione sarebbe andata dispersa, è vero. Sarebbe stata una gran
pena. Ma non eravamo più in guerra con la Francia. In quel periodo i francesi dovevano essere nostri alleati nella guerra di Cromwell contro la Spagna." "Sì, ma c'erano in ballo altri principi. Altre considerazioni." Esitò, come incerta se continuare o meno. Ma infine, mentre un'altra voluta di fumo si attorceva tra noi, mi spiegò che una transazione di quel genere avrebbe violato la lettera del testamento del padre, che stabiliva che la collezione non doveva essere né smembrata né venduta, in tutto o in parte, a chi fosse di fede cattolica. Roma, con il suo Index librorum prohibitorum, era la nemica di ogni vero sapere. Per Sir Ambrose Roma non cercava la diffusione del pensiero, ma piuttosto la sua soppressione. Le opere di Copernico e di Galileo erano state proscritte, e così la Cabala e gli altri scritti magici degli ebrei studiati da pensatori come Marsilio Ficino. Nel 1558 fu decretata la pena di morte contro chiunque stampasse o vendesse libri condannati. Centinaia di librai fuggirono da Roma quando nel 1564 fu pubblicato l'Index, seguiti da migliaia di ebrei espulsi da Pio V, che li sospettava di appoggiare il protestantesimo. Gli ermetici presto si trovarono nella stessa situazione degli ebrei. Il curatore e traduttore dell'edizione poliglotta del Corpus hermeticum fu condannato dall'Inquisizione quale eretico, mentre il più grande tra tutti gli ermetici, Giordano Bruno, fa messo al rogo. Il suo delitto: aver abbracciato le dottrine di Copernico. "Oh, lo so che tutto questo deve apparirle bizzarro, Mr Inchbold, le farneticazioni di fanatici. Ma su questi punti mio padre era irremovibile. Credeva nella Riforma e nella diffusione della conoscenza, in una comunità mondiale di studiosi, un'Utopia della cultura come quella descritta da Francesco Bacone nella Nuova Atlantide. E quindi, a suo avviso, sarebbe stato un disastro se un solo libro fosse caduto nelle mani di qualcuno come il cardinale Mazarino, pupillo dei gesuiti." Fece un'altra pausa, poi abbassò la voce, come temendo che qualcuno la udisse. "Vede, mio padre già una volta aveva salvato i libri dai roghi dei gesuiti." "Che cosa intende dire?" Mi ero spinto in avanti sulla poltrona. "Salvato in che senso?" Ricordai che quella sera a Pontifex Hall aveva definito i libri dei "rifugiati", affermando che alcuni di essi erano scampati a un naufragio. Mi chiesi se stesse per dire qualcosa sugli "interessi" e i "nemici" di cui aveva parlato. "Dal cardinale Baronius." Il cannello della pipa chiocciò sommessamente tra i suoi denti. "Il responsabile della Biblioteca vaticana. Conosce la sua opera? Scrisse parecchio sul Corpus hermeticum. Può leggerne nella sua
storia della Chiesa romana, gli Annales ecclesiastici, pubblicati in dodici volumi. Ai suoi tempi il cardinale Baronius fu una delle massime autorità sugli scritti di Ermete Trismegisto. Prese la penna per confutare l'opera del teologo ugonotto Duplessis-Mornay. Nel 1581 Duplessis-Mornay aveva pubblicato un trattato ermetico intitolato De la vérité de la réligion chrétienne, dedicato al paladino del protestantesimo d'Europa, Enrico di Navarra, di cui in seguito divenne consigliere. L'opera fu tradotta in inglese da Sir Philip Sydney." "Altro paladino del protestantesimo," mormorai, ricordando che da Sidney - grande cortigiano elisabettiano morto in battaglia contro gli spagnoli - era venuto il nome della nave costruita per Sir Ambrose, secondo la patente, nel 1616. Chiusi gli occhi cercando di riflettere. Il nome di Baronius mi era familiare, ma non a causa di Duplessis-Mornay o del Corpus hermeticum. No: un cardinale di questo nome era stato l'uomo responsabile del trasferimento - del furto - della Bibliotheca Palatina nel 1623, dopo che gli eserciti cattolici ebbero invaso il Palatinato. Fu uno degli scandali più clamorosi della Guerra dei trent'anni. Centonovantasei casse di libri della più grande biblioteca di Germania, il centro della cultura protestante europea, varcarono le Alpi sui carri tirati dai muli: ogni mulo portava al collo una targa d'argento con la stessa iscrizione: fero bibliothecam Principis Palatini. I libri e i manoscritti erano spariti, dal primo all'ultimo, nella Biblioteca vaticana. O no? Aprii gli occhi. Il vino e il fumo che aleggiava tra noi nella stanza mi offuscavano il cervello, ma ora ricordavo anche l'affermazione di Alethea che Sir Ambrose aveva lavorato a Heidelberg come agente dell'Elettore Palatino. Un'idea cominciava lentamente ad affiorare. "I libri di Pontifex Hall vengono dalla Bibliotheca Palatina. È questo che mi sta dicendo? Il cardinale Baronius in realtà non li rubò tutti. Sir Ambrose li salvò da. "No, no, no..." Fece compiere alla pipa un arco nell'aria. "Non dalla Palatina." Attesi che proseguisse, ma il tabacco della Virginia sembrava averle indotto uno stato di voluttuoso abbandono. Si sporse dal bordo del letto e batté il fornello della pipa sulla pietra del focolare. Mi schiarii la gola e imboccai un'altra via. "E fu il cardinale Mazarino," chiesi con tutta la delicatezza possibile, "o i suoi agenti, a... a..."
"... ad assassinare Lord Marchamont?" La sua voce mi arrivò un po' impastata dal nido di cuscini. "Sì. Forse. O almeno un tempo ne ero convinta. Mio marito fu ucciso a Parigi. Gliel'avevo detto? Stavamo attraversando in carrozza il Pont Neuf quando fummo aggrediti nello stesso punto in cui Enrico di Navarra era stato assassinato da Ravaillac. Fu pugnalato alla gola con uno stiletto," continuò con calma, "anche questo come re Enrico. I sicari erano tre, tutti a cavallo, tutti vestiti di nero. Non dimenticherò mai la scena. Livree nere con ricami d'oro. Era buio, ma era previsto che li vedessi, capisce. Mi lasciarono vedere le loro uniformi, i loro volti. Doveva essere un avvertimento." "Un avvertimento da parte di chi? Del cardinale Mazarino?" "Al momento pensai così. Ma gli eventi mi hanno portato a cambiare opinione. Ora sono convinta che i sicari furono assoldati da Henry Monboddo." Mi inumidii le labbra e presi fiato. "Perché Monboddo avrebbe dovuto...?" "Il labirinto del mondo," venne la sua voce dal buio fumoso. "Ecco perché, Mr Inchbold. Nessun altro motivo. Voleva la pergamena. Non il resto della collezione, solo quella pergamena. Ne era ossessionato. Aveva trovato un acquirente che voleva disperatamente averla. Qualcuno pronto a far assassinare mio marito. E ora si direbbe che le peggiori paure di mio marito si siano realizzate," aggiunse dopo una breve pausa, con la voce che ancora una volta le si indeboliva. "Se quanto lei dice è vero, alla fine Monboddo è riuscito a metterci sopra le mani." La fiammella accanto alla finestra sobbalzò e si inclinò. Fuori, i campi erano bui e silenziosi. Sentii un formicolio lungo i favoriti, e la pelle d'oca sulle braccia. Dal fondo delle scale venne il passo lento e strascicato di Phineas e lo scricchiolio artritico delle tavole del pavimento. Quando guardai verso il letto vidi che Alethea si era drizzata a sedere sotto il baldacchino, e ora stringeva tra le braccia le ginocchia sollevate. Sentii i suoi occhi su di me. "Sono state date disposizioni," disse infine. "Disposizioni, signora?" "Sì, Mr Inchbold." Il letto mandò un gemito mentre lei si alzava in piedi. La sua ombra cadde di traverso su di me. "Una visita a Wembish Park si direbbe opportuna, non le sembra? Il manoscritto deve essere recuperato. E dobbiamo affrettarci a riprenderne possesso prima che Monboddo possa venderlo al suo cliente. Ma deve usare cautela," mi bisbigliò facendomi
strada verso la scala, "sì, molta cautela. Mi creda, Mr Inchbold: Henry Monboddo è un uomo pericoloso." Un'ora dopo ero tornato in Nonsuch House, tornato nel mio studio, e ciondolavo assonnato la testa sulla mia pipa e la traduzione di Shelton del Don Chisciotte. Avevo raggiunto il ponte senza incidenti, senza essere seguito. O così mi era parso, ma i miei sensi erano intorpiditi e la notte nera come la pece. Mi appisolai un paio di volte e il vetturino dovette svegliarmi quando giungemmo a destinazione. Ora non riuscivo a tenere la pipa accesa né a concentrarmi sulle pagine del Chisciotte, che guardavo senza riuscire a cavarne uno straccio di senso. Una visita a Wembish Park si direbbe opportuna... Sì: la pista vaga e tortuosa che stavo seguendo ora si faceva più forte e sembrava condurmi, con urgenza e senza ambiguità, a Wembish Park e Henry Monboddo. Ma l'ottimismo che potevo aver provato quel giorno, in Alsatia, ora si era completamente dileguato. Pensai a Lord Marchamont assassinato a Pont Neuf e poi alle figure solitarie che mi avevano pedinato. Henry Monboddo è un uomo pericoloso:.. Mi issai in piedi e mi avvicinai alla finestra. Il cielo si distendeva nero e privo di stelle; sotto di esso, la città appariva senza luce, tranne le lanterne che dondolavano sul cassero di qualche mercantile lungo il fiume, a Limehouse Reach. Sciolgono le vele, pensai, per prendere il mare con la prima marea, che già sentivo muoversi con il suo familiare gorgoglio tra i piloni del ponte. Sbadigliai, appannando il vetro della finestra con il fiato. Sentii un tintinnio sul pavimento accanto a me e guardando a terra vidi qualcosa che brillava. Una chiave. Me la rigirai tra le mani, riflettendo, osservando i riflessi del lucido ottone al lume della candela. Me l'aveva consegnata Alethea mentre mi accomiatavo nell'atrio buio di Pulteney House. Apriva un piccolo forziere che avrei trovato celato in un'intercapedine sotto una tomba nel camposanto della chiesa di St Olave, in Hart Street, non lontano dall'estremità nord del London Bridge. Avremmo usato quel forziere per ogni futura comunicazione, mi spiegò, perché la sua corrispondenza veniva aperta (se n'era accorta, mi venne di pensare, un po' tardi). Né potevamo incontrarci nuovamente a Pulteney House, da cui in ogni caso, disse, probabilmente sarebbe andata via presto. Dunque eventuali future lettere me le avrebbe lasciate nel cimitero, nascoste presso la tomba di un uomo chiamato Silas Cobb.
Rimisi in tasca la chiave e ripresi il mio libro. Ancora una volta, mi venne in mente, stavo per lasciare Londra per una destinazione ignota, una destinazione probabilmente irta di pericoli. Mi sentivo come un vecchio cavaliere in una storia cavalleresca: un hidalgo caduto in miseria che con la sua lancia spezzata e lo scudo ammaccato si avventurava, per il capriccio della sua amata, in un mondo di intrighi e incantamenti, a realizzare un'impresa impossibile. Ma poi mi dissi che Alethea non era la mia amata, che a Wembish Park non c'era ad attendermi alcun incantamento, e infine che la mia impresa ormai - sulla base delle scoperte fatte quel giorno - appariva tutt'altro che impossibile. CAPITOLO 8 Le prime lastre di ghiaccio dell'inverno si andavano formando nei canali di Amburgo, al tempo in cui il Bellerophon, una nave mercantile da trecento tonnellate, mollava gli ormeggi per affrontare l'ultima tappa delle duemila miglia della sua traversata da Arcangelo. Il giornale di bordo del vascello riportava che si era nel mese di dicembre dell'anno 1620. Passato era san Martino, giorno d'inizio dei mari più insidiosi e imprevedibili, ma il viaggio lungo l'Elba fino a Cuxhaven cominciò abbastanza bene. Il Bellerophon avanzava veloce portato dalla marea, passando lungo i banchi affollati del mercato ittico di St Pauli, alla sua destra, e poi, di fronte, lungo la successione di depositi e magazzini. Più avanti, in acque più profonde, stavano all'ancora gli agili fluyt della fiotta anseatica, ciascuno assistito da chiatte e scialuppe. Il Bellerophon si stagliava con la sua bella figura passando davanti a quelle navi, con gli stralli tesi e sibilanti nella brezza, le vele bianco panna che schioccavano e si gonfiavano con la stessa rapidità con cui potevano essere spiegate. Pur avendo la stiva colma di pellami della Moscovia, la sua andatura era fluida e vivace. Lo scafo era alto sull'acqua, e l'ombra delle vele correva rapida sopra gli uomini che lavoravano sopra le banchine scaricando barili di merluzzo islandese o sacchi di lana inglese. Si poteva scorgere qualcuno dell'equipaggio affacciato alla ringhiera di mezzeria che sventolava il berretto, mentre in alto sopra le loro teste, minuscoli contro il cielo di dicembre grigio acciaio e nevischioso, i gabbieri si arrampicavano su e giù per le griselle e lungo i pennoni, tesando i corridori delle sartie e alzando le vele di gabbia che raccogliendo il vento nella pancia spingevano la nave ancora più rapidamente lungo la ma-
rea salmastra verso il mare. Ritto sul casseretto, con i fiocchi di neve che si posavano e si scioglievano sulle sue guance mentre la guglia della Michaeliskirche retrocedeva rimpicciolendo a poppa, il capitano Humphrey Quilter osservava i suoi uomini indaffarati nei loro compiti. Il viaggio da Arcangelo era stato difficoltoso. La Dvina era gelata quasi due settimane prima del solito, e il Bellerophon e il suo equipaggio erano sfuggiti alla sua morsa per non più di un paio di giorni. Già una volta Quilter era rimasto intrappolato dai suoi ghiacci, due anni prima, quando l'accesso alla baia si era trasformato in un blocco compatto di ghiaccio nella prima settimana di ottobre. Nessuno di quelli che ricordavano l'orribile esperienza aveva alcun desiderio di ripeterla. Sei mesi di gelo nelle fauci ghiacciate delle Dvina, in attesa del disgelo primaverile, che quell'anno era arrivato con tre settimane di ritardo. Ma era sempre un viaggio pericoloso. Questa volta la nave era sfuggita al ghiaccio che avanzava solo per ritrovarsi percossa da violente burrasche nel mezzo del mar Bianco. Raggiunto arrancando il porto di Hammerfest per riparare l'albero di mezzana incrinato, aveva avuto la buona sorte di sfuggire ancora una volta al ghiaccio, questa volta con una sola marea di vantaggio. Ma ora, quattro settimane dopo, il capitano Quilter aveva la possibilità di rilassarsi. Quest'ultima tappa del viaggio, da Amburgo a Londra, sarebbe stata la più facile, anche se dicembre con il suo tempo imprevedibile era arrivato - e anche se quella, stando alle voci che circolavano, era una stagione poco fausta per i viaggi di mare. Presto infatti sarebbe stato difficile prendere il mare con qualsiasi navi, ghiaccio o non ghiaccio, tempo buono o cattivo. L'intero continente europeo era un barile di polvere in attesa di un fiammifero che non si sarebbe fatto aspettare a lungo. E l'esplosione, Quilter ne era certo, non avrebbe risparmiato nessuno. Si tenne saldo sul ponte scricchiolante, a gambe ben larghe, saggiando il vento che si faceva più fresco e più salato. La brughiera e gli acquitrini con le loro dighe e gli argini di vimini scivolavano lungo la murata sinistra. Conosceva bene l'estuario, ogni suo banco di sabbia, ogni secca, e non aveva quasi bisogno di guardare i rotoli delle carte nautiche che teneva in cabina. La nave avrebbe raggiunto Cuxhaven nel primo pomeriggio e poi, con il vento sostenuto e il bel tempo del Mare del Nord, la costa d'Inghilterra due giorni dopo. Sempre troppo tardi, lo sapeva, per i quarantasei uomini del suo equipaggio, che non vedevano l'ora di tornare a casa dopo cinque mesi di mare, anche se almeno loro avrebbero avuto un po' di soldi
in tasca, benché il promesso carico di birra di Wismar fosse andato perduto da qualche parte tra Lubecca e Amburgo. Sì, era stato un buon raccolto, tutta la loro fatica non era stata vana. Ci sarebbero stati paga e premi per tutti, per non dire del bel guadagno per gli azionisti del Royal Exchange. Sotto coperta, infatti, il Bellerophon trasportava quasi cinquecento balle di pelli di prima qualità comprate dai lapponi e dai samoiedi al forte inglese di Arcangelo. Stava portando in Inghilterra, calcolò Quilter, pellicce di castoro a sufficienza per centinaia di cappelli, senza parlare dei topi muschiati e delle volpi per decine di manti pregiati, zibellini ed ermellini per le toghe di cento giudici, più qualche dozzina di pelli di orso e di cervo, le prime complete di artigli e teste mummificate, le seconde con le corna intatte, tutte destinate a finire appese a una parete o a coprire il pavimento di varie ville signorili. L'inverno passato era stato freddo anche per i canoni moscoviti (così gli avevano assicurato i samoiedi) e quindi le pellicce erano più folte - ancora più preziose - del solito. E poi c'era l'altro carico, quello più segreto, quello sul quale il capitano Quilter non aveva pagato nemmeno un tallero in dazi doganali. Cambiò posizione e lanciò uno sguardo in direzione del boccaporto. È vero, il carico misterioso aveva fatto di lui un comune contrabbandiere, ma che scelta aveva in proposito? I duecento barili di birra dei mercanti di Lubecca non erano arrivati, e di conseguenza il Bellerophon avrebbe dovuto ricorrere a qualche dozzina di laste di scadente sale di Lüneburg da usare come zavorra. Ma il sale di Lüneburg sarebbe stato difficile da vendere a Londra, anche ammesso che se ne trovasse con così breve preavviso - cosa che peraltro non si era verificata. Né c'era ferro in lingotti o zavorra di altro genere, per cui Quilter aveva acconsentito - con minor riluttanza di quanto sarebbe stato giusto - a prendere a bordo quelle casse misteriose che non erano state registrate nel libro dell'autorità portuale e, una volta su suolo inglese, non sarebbero state nemmeno denunciate alla dogana. O almeno questo era il piano. Duemila Reichsthaler avrebbe guadagnato per il disturbo, ossia quasi quattrocento sterline: metà della somma era già stata pagata ed era al sicuro nel suo forziere. Oh, sì, si disse mentre la fortezza di Glückstadt appariva in vista a dritta, davvero un buon raccolto. Eppure, qualcosa in tutta quella faccenda continuava a turbare Quilter. Come faceva l'uomo del Grappolo d'Oro a conoscere il suo nome? Come sapeva della sfumata consegna della birra di Wismar? E chi erano i passeggeri che, per qualche tallero in più, era stato convinto a prendere a bordo e a nascondere nella stiva? Forse erano spie, come quelle di cui i porti
di tutta Europa ormai brulicavano. Ma spie per conto di chi? E lo sconosciuto della taverna, John Crookes - era anche lui una spia? Era stata una faccenda strana e inquietante. Quilter ascoltò la voce familiare dei teli che mugolavano sopra la sua testa mentre le vele si tendevano in bianche onde rigonfie, prendendo il vento del fiume che si rafforzava. La proposta gli era stata fatta due sere prima, in una taverna dell'Altstadt, dalla parte del porto, dove stava bevendo una tazza di ale e mangiando merluzzo fritto in compagnia del suo nostromo, Pinchbeck, e una mezza dozzina di altri uomini del Bellerophon che, ai tavoli del locale, cenavano con il naso nelle ciotole. La sera stava per confondersi con tutte le altre passate ad Amburgo - bere, giocare a carte, magari una prostituta di Königstrasse prima di tornare con passo malfermo verso la passerella d'imbarco. Ma poi le campane della torre di Petrikirche avevano cominciato a rintoccare all'impazzata e un uomo era entrato veloce dalla porta e si era seduto a un tavolo libero accanto a quello di Quilter. Incrociato lo sguardo del capitano si era presentato come John Crookes, inglese, della Crabtree & Crookes, una ditta di importazione dalle città dell'Hansa all'Inghilterra. Davanti a un bicchiere di gin olandese, aveva spiegato che la sua ditta si serviva della flotta anseatica, le cui navi altrimenti sarebbero salpate per l'Inghilterra a stiva vuota. Solo che ora, bisbigliò, c'era una situazione poco simpatica, provocata dal fatto che gli amburghesi erano in lite con i danesi, il cui re aveva da poco fatto costruire una immensa fortezza lungo il fiume, qualche miglio a valle da Glückstadt. E poiché il re d'Inghilterra aveva sposato la sorella del re di Danimarca - questo nemico bellicoso intenzionato a dominare sull'Elba e sul Baltico - non una sola nave in tutta la flotta dell'Hansa era disposta a trasportare carichi di mercanti inglesi. A questo punto Crookes aveva cavato una borsa dalla tasca e, senza togliere gli occhi dalla faccia di Quilter, l'aveva fatta scorrere sulla tavola. "Per metterla senza giri di parole, capitano Quilter," disse a bassa voce, "ho bisogno di una nave. O di parte di una nave. Ora..." Toccò la borsa di pelle con un dito. "Mi chiedevo se lei, mio conterraneo, potesse trovare il modo di venirmi incontro." La borsa conteneva mille Reichsthaler. Il carico era stato imbarcato l'indomani, a notte fonda, senza torce né lumi; perfino le quattro lanterne montate sul parapetto di mezzeria erano state spente. Novantanove casse in tutto. I portuali furono pagati perché eseguissero in tutta fretta il carico e anche perché tenessero la bocca chiusa, perché l'ultima cosa che Quilter voleva era che una delle bande di fiume che infestavano i moli di Londra e
Gravesend venissero a sapere di un carico prezioso stivato nel Bellerophon. La nave sarebbe stata segnata per il saccheggio prima ancora di far vela da Amburgo. Lui aveva seguito le operazioni dall'alto della passerella, morsicandosi le labbra, poi le nocche delle dita. Le casse erano state caricate attraverso il portello d'imbarco dai portuali e dagli uomini dell'equipaggio che, brontolando, cercavano di capire cosa potessero contenere ma non potevano prevedere le pene che presto avrebbero sofferto per lo strano carico. Le casse erano così numerose, e così pesanti, che a un certo punto Quilter temette che potessero sovraccaricare e sbilanciare la nave. Ma il timore si era rivelato infondato: il Bellerophon filava rapido lungo l'Elba, perfettamente zavorrato. Quando le nuvole si aprirono e il sole apparve sopra il pennone di trinchetto, le prime guglie di Cuxhaven cominciavano a delinearsi alla vista, una vista attesa e familiare. Il capitano Quilter si concesse un sorriso di soddisfazione. In alto sopra la sua testa i gabbieri spiegavano la velatura. L'ombra di una nuvola corse sopra il ponte, inseguita dal sole. Il tempo avrebbe tenuto. Entro due giorni il Bellerophon avrebbe raggiunto il Tamigi, o meglio il Nore, l'ancoraggio dove le casse misteriose sarebbero state sbarcate su una lancia, dopodiché lui, con altri mille Reichsthaler, avrebbe potuto dimenticarsene. Un minuto dopo era nella sua cabina, in mezzo a tutte le carte e le bussole. Poco dopo, mentre il Bellerophon si affacciava nella baia di Heligoland, si sentì in lontananza il rintocco delle campane di una chiesa: brutto presagio. Ma al momento il capitano Quilter non vi badò; né prestò attenzione a un altro mercantile, la Star of Lübeck, che intravide dall'oblò a breve distanza sulla sinistra. Chinò invece la testa sul portolano su cui era segnata la posizione delle secche e delle navi affondate che segnavano l'accesso al Nore e, al di là di quello, al porto di Londra. Il viaggio dal castello di Breslavia ad Amburgo durò più di tre settimane. La neve era caduta sulla Boemia e il Palati-nato e anche in Slesia. Per giorni e giorni gli eserciti affamati erano rimasti bloccati dalla neve, costretti a una situazione di stallo davanti alle fattorie o in mezzo agli abitanti perplessi dei villaggi. Da Heidelberg a ponente fino alla Moravia a levante, i soldati dell'imperatore si stringevano nei loro accantonamenti o stavano nella neve fino a mezza coscia raccogliendo quel po' di foraggio che si riusciva a trovare per i cavalli mezzo morti di fame. Nei cortili e nei giardini del Castello di Praga la neve aveva raggiunto l'altezza di un metro. I sac-
cheggi non erano cessati che cinque giorni dopo che finalmente i cancelli erano stati sfondati; le profezie di Otakar si erano realizzate nel modo più brutale. I palazzi e le Sale Spagnole erano stati spogliati uno per uno, e così le chiese e perfino i sepolcri e i cimiteri, dove i morti, si diceva, avevano i denti d'oro. Le abitazioni del Vicolo d'Oro e i laboratori della Torre della Matematica erano stati anch'essi saccheggiati, perché secondo altre voci la banda di alchimisti rosacrociani di Federico aveva scoperto come mutare in oro il carbone. Fosse stato trovato o meno l'oro, o anche solo il carbone, i tesori del castello e poi della Città Vecchia erano così abbondanti che non pochi dei soldati saccheggiatori si trovarono costretti ad assoldare uomini di fatica per trasportare i sacchi con il bottino. In Slesia la corte in fuga si era fermata a Breslavia per sei giorni dopo la lunga via crucis da Praga. Al mattino del settimo la carovana, o parte di essa, si mosse verso nord e poi a ovest lungo le anse dell'Oder, simile, nelle prime luci dell'alba, a una scarna mandria di bestie migranti. Gli intoppi erano continui. Dopo un giorno le casse furono caricate su sette chiatte, ma prima l'Oder e poi l'Elba gelarono e si dovette spaccare il ghiaccio con i pali delle barche. Nonostante questo, lo scafo di uno dei barconi si spezzò e dovette essere tirato in secco e abbandonato, causando un ennesimo ritardo prima che il viaggio riprendesse, più lento che mai. I confini venivano raggiunti e superati. Friedlandia. Sassonia. Brandeburgo. Mecklenburgo. Le stazioni del dazio, ognuna con le sue guardie e i suoi cannoni, apparivano e scomparivano. A ognuna di esse veniva pagata una bella somma sottobanco, e nessuna delle chiatte veniva ispezionata, nessuna delle casse aperta. Alla fine il percorso da Breslavia era stato di poco più di trecento miglia in linea d'aria, ma con le curve dell'Elba e con il ghiaccio e il freddo era apparso molto più lungo, un tormentoso itinerario tra gole di arenaria e cittadine con le case rintanate dietro le mura fortificate tra le pendici boscose erte sul fiume. Infine i barconi avevano raggiunto la brughiera coperta di neve e spazzata dal vento, in cui sul paesaggio scolpito nella neve si stagliavano, come tante rovine, qualche stazzo per le pecore, qualche arbusto di ginepro. Solo quando l'Elba si fece più largo e libero dal ghiaccio, percorso da carboniere e barche da pesca, il sole fece la sua comparsa e il tempo migliorò. L'indomani il fiume si ampliò ancora, la corrente acquistò forza, il traffico divenne caotico. Al di sopra delle acquose Geestland comparvero le prime torri e guglie. Emilia, stropicciandosi le dita gonfie di geloni, non riusciva minima-
mente a immaginare dove potessero trovarsi, o quanti giorni fossero passati da quando erano a Breslavia. Non disse nulla mentre il barcone si infilava tra altre due, e poi entrava in una rada affollata. E niente disse mentre una mezza dozzina di uomini, guidati da uno alto, il gestore della banchina, scesero verso di loro lungo la passerella d'imbarco. Anche se era ormai buio, le lanterne non erano state accese, e le figure che salivano a bordo non erano niente più che ombre. Vilém la prese per mano e insieme sbarcarono, montando sullo scivoloso terrapieno fino al punto in cui, in cima, la scena sottostante appariva incerta e buia alla luce di una taverna. Dietro di loro l'uomo della banchina stava lanciando ordini in tedesco. Le casse venivano trasportate in uno dei magazzini che affollavano la sponda del fiume. La mano che la teneva le strinse più forte il polso. Rimasero tre giorni ad Amburgo, nel Gänge-Viertel della Altstadt. Emilia passò ogni notte in una diversa Gasthans, in camere tutte per sé, piccole celle in cui si svegliava tutte le mattine aspettandosi di udire squillare il campanello della regina dalla porta accanto. Ma non c'era alcun campanello di richiamo alla porta accanto, da quella notte in cui era stata svegliata, aveva avuto due minuti per fare il bagaglio, ed era stata scortata all'Oder al braccio di Sir Ambrose. Aveva pensato, per il panico della partenza, oltre che per l'espressione di Vilém - perché lui era lì, a legare una delle casse sulla cima di un carro - che i mercenari cosacchi li avessero infine raggiunti. Ma non stavano fuggendo dai cosacchi, avrebbe scoperto in seguito; piuttosto, dalla regina e la sua corte. Infatti, solo quando la notte era passata ed era sorto il sole, indistinto riflesso di ghiacciolo sull'incerto orizzonte, si era resa conto che la carrozza della regina, con le sue pile di libri e le sue cappelliere, non era in vista. Ora erano soltanto loro tre, con una mezza dozzina di manovali, slesiani che non capivano una parola di inglese né di tedesco. Quali accordi erano stati presi? Mentre guardava le casse che salivano dalla banchina si chiese se erano semplicemente state rubate, se Sir Ambrose non fosse altro che un ladro o un pirata. Nei pochi momenti che avevano passato insieme, Vilém le aveva detto di non saper molto del piano dell'inglese, se non che a Londra avrebbero trovato ad accoglierli un uomo chiamato Henry Monboddo. Monboddo era un mercante d'arte, le aveva detto, un trafficante di quadri e di libri che forniva ai ricchi d'Inghilterra dipinti e manoscritti preziosi, e quant'altro di affascinante bric-à-brac riuscisse a strappare ai principi e ai potenti di Francia, d'Italia e dell'Impero.
Sir Ambrose aveva già fatto affari con lui in passato, perché Monboddo aveva procurato anche qualche sporadico pezzo finito nelle collezioni dell'imperatore Rodolfo. Ora a quanto pareva Monboddo aveva trovato un nuovo cliente. Vilém non aveva idea di chi fosse. Ma la seconda notte nell'Altstadt, le confidò quanto lei già sospettava. Erano inseguiti. Erano seduti entrambi nella sua camera, bisbigliando su una scacchiera, con un'unica candela accesa nel candeliere a otto bracci. Lui le aveva recitato una nota litania, affermando di non sapere né chi fossero gli inseguitori né se avessero qualcosa a che fare con gli uomini dalla livrea nera e oro. Né sapeva se gli uomini dalla livrea nera e oro fossero al servizio del cardinale Baronius, o dell'imperatore, o di qualcuno di completamente diverso. Ma riconosceva che tra le centinaia di libri che lui e Sir Ambrose avevano portato via da Praga nelle novantanove casse di legno c'erano anche quelli dell'archivio segreto della biblioteca - libri messi al bando in quanto eretici dal Sant'Uffizio. La pergamena era uno di essi? Vilém sosteneva di non saperlo. Ma i cardinali dell'Inquisizione non l'avrebbero presa bene, disse, l'uscita dei libri dal Castello di Praga - né il loro trasporto in un regno eretico come l'Inghilterra. Perché rinchiusi in quelle casse c'erano trattati controversi come l'opera di Copernico che Emilia aveva visto nella cantina a Breslavia. Quel particolare volume, De revolutionibus orbium coelestium, era stato sospeso dalla Congregazione per l'Indice, le spiegò, in seguito allo scontro di Galileo con l'Inquisizione nel 1616. Anche gli scritti di Galileo - quelli pubblicati e quelli inediti - si trovavano negli archivi. E Galileo, agli occhi di Roma, era un autore assai pericoloso. Ma altri documenti ancora si trovavano nelle novantanove casse. Il nucleo segreto delle Sale Spagnole era andato ampliandosi grandemente negli ultimi anni, e non solo grazie allo zelo della Congregazione per l'Indice. C'erano anche fasci di pergamene negli archivi, diceva Vilém, che catalogavano le multiformi attività del più grande impero della terra. Qualche anno prima, infatti, quando era arciduca di Stiria, Ferdinando aveva firmato un trattato con il cugino e cognato re di Spagna. L'atto ravvicinava le due case d'Asburgo - quella d'Austria e quella di Spagna - che avrebbero operato per schiacciare dai due lati i protestanti. A quei tempi le mescolanze di sangue erano frequenti. Documenti conservati negli archivi di Siviglia trovavano la via per la Biblioteca imperiale di Vienna, e viceversa. Filippo mandò a Vienna perfino una copia del Padrón Real, la carta dei suoi domini nel Nuovo Mondo. Ma Vienna non era più sicura, minacciata com'era tanto dai turchi quanto dai transilvani. E fu così che negli ultimi anni
molti dei documenti della Biblioteca imperiale erano stati mandati per sicurezza al Castello di Praga, nell'archivio segreto delle Sale Spagnole. Ma poi, si sa, tutto era cambiato. Ferdinando era stato deposto dal trono di Boemia e sostituito da un protestante. Emilia chiuse gli occhi e le parve che la stanza cominciasse a girare. Il re di Spagna? Il vento, fuori, mandava il suo lugubre lamento tra i comignoli, come l'ululato di un branco di lupi. I cardinali dell'Inquisizione? La candela oscillò spinta dalla corrente d'aria, sgocciolando ghiaccioli di cera. Quale vaso di Pandora era stato aperto nel Castello di Praga? Avvertì, e non per la prima volta, il pericolo - peggiore del freddo pungente o dei flutti ghiacciati dell'Elba - in cui li aveva precipitati Sir Ambrose. Ed era un pericolo anche lo stesso inglese, qualcuno da temere non meno dei loro misteriosi inseguitori? Si presentò nella sua stanza proprio qualche minuto dopo, bussando alla porta ed entrando con passo animato. Sembrava di buon umore. Consegnò a ciascuno di loro un passaporto e un certificato di salute - entrambi falsi e sotto falso nome - poi si rivolse a Vilém. "Mi rincresce di doverle dire che, se le mie informazioni sono esatte, potrebbe aver bisogno di queste." Gli porse un sacchetto di pelle. "Nel caso fossimo raggiunti, lei capisce. Mi dicono che posseggono diversi e poco piacevoli metodi di persuasione." "Persuasione?" Vilém prese il sacchetto e ne allentò i lacci. Emilia, che osservava in disparte, vide Vilém versarsi nel palmo della mano tre o quattro piccoli semi. "Strychnos nux vomica," spiegò Sir Ambrose. 'Viene da una pianta dell'India. Riportata, mi sembra, da una missione di gesuiti. Indolore, a quanto pare, e rapidissimo. L'ho visto all'opera su un merlo." Fece una pausa. "Penso che uno basti; due per sicurezza." Vilém aggrottò la fronte. "Ma come faccio a..." "A fare cosa?" "A indurli a inghiottirli?" Sir Ambrose apparve per un secondo perplesso, poi scoppiò in una sonora risata. "Mio caro amico!" esclamò, facendo gran mostra di asciugarsi le guance con un fazzoletto e di reprimere nuove esplosioni di ilarità. "No, no, mio caro amico. Sono per lei. È lei quello che dovrà inghiottirli, se avesse la sventura di finire nelle loro mani. Oh, santo cielo..." La notte seguente Emilia fu fatta salire a bordo del Bellerophon, accompagnata su per la passerella nel buio pesto, poi condotta attraverso un boc-
caporto fino all'aria pesante del ponte di stiva, il livello più basso abitabile della nave. La sua minuscola cabina - l'ennesima stretta cella nella quale veniva introdotta - puzzava di polvere da sparo e di pece e dell'acqua malsana della sentina. Mentre il Bellerophon discendeva l'Elba lei guardava da un oblò, sola nella sua cabina, finché il mare si fece del colore del deserto increspandosi lungo la costa. Poi, a qualche lega dalla terraferma, mentre le scogliere di arenaria di Heligoland apparivano alla vista, fu colpita da una nausea violenta, e per quelli che le parvero giorni e giorni, rimase rannicchiata nella sua amaca, sentendo il Bellerophon impennarsi e ricadere, scricchiolando sull'immenso mare. Il medico di bordo la visitò nella sua cabina e le somministrò decotti di zenzero e camomilla tedesca. Ma già allora, naturalmente, sapeva che il suo malessere non era di quelli che si curano con qualche erba; era qualcosa di più grave, e al tempo stesso più meraviglioso, di un semplice mal di mare. CAPITOLO 9 La chiesa di St Olave si trova in Hart Street, nei pressi di Crutched Friars, all'ombra del Navy Office e di Tower Hill. Quando arrivai, la sua porta aperta mostrava una navata illuminata dalle candele e un gruppo di devoti che usciva. Passai oltre la piccola folla, svoltai un angolo e mi incamminai lungo un sentiero sinuoso verso il cimitero, il cui cancello era sormontato da due teschi di pietra. Le orbite vuote mi guardarono severamente mentre passavo lungo il margine del vecchio terreno delle sepolture, sperando di apparire solenne e rispettoso, come si addice al frequentatore di un camposanto, e non quel miscredente dedito a un'attività sinistra e furtiva che, per quel che ne sapevo, in realtà ero. Era il tardo pomeriggio dopo la mia visita a Pulteney House: la seconda sera consecutiva che lasciavo Tom Monk solo in Nonsuch House. Aveva cominciato a sospettare, credo, che mi trovassi coinvolto in qualche avventura galante, sospetto ridicolo, ma incoraggiato dal mazzolino di fiori che avevo tra le mani. Sì, questo rituale - i fiori, il cimitero - era ormai familiare. Tutte le domeniche degli ultimi cinque anni ero entrato nel camposanto di St Magnus-the-Martyr con un fascio di fiori, facendomi strada tra le vittime della peste e della tubercolosi e di una dozzina di altre sventure fino a una lastra di granito contornata da quattro piccole losanghe ornamentali. Ma con una piccola stretta di dolore e di rimorso mi resi conto che da diverso tempo non facevo visita alla tomba di Arabella: dalla prima lettera di
Alethea e il viaggio a Pontifex Hall. Strinsi più forte gli steli tra le dita e avanzai incerto. Avevo passato buona parte della giornata a Whitehall Palace, negli uffici dello Scacchiere, esaminando innumerevoli registri e documenti fiscali. Speravo di apprendere qualcosa di più su Henry Monboddo prima di essere costretto ad affrontarlo. Chi si istruisce si premunisce, diceva mia madre. Avevo pensato di tornare in Alsatia e interrogare Samuel Pickvance, ma non mi andava l'idea di destare i sospetti del banditore. Lui e Monboddo, in fin dei conti, potevano anche essere in combutta. E così avevo optato per il palazzo, dove mi aveva condotto un barcaiolo, risalendo il fiume tra il fitto traffico mattutino. Whitehall Palace a quei tempi era un labirinto caotico di una trentina di edifici dal tetto di paglia e la struttura di legno, i cui corridoi e anditi erano gremiti di gente e pieni di fumo di carbone e di escrementi di ratti quanto tutto il resto di Londra. Non era decisamente un luogo adatto per un re, mi dissi, e nemmeno per le sue amanti. Mi feci strada attraverso una serie di cortili senza sole e di stretti passaggi fino a raggiungere l'anonimo blocco di costruzioni fatiscenti destinate al computo e alla conservazione del tesoro reale. Dalle dichiarazioni delle imposte, che specificavano l'occupazione, contavo di apprendere qualcosa sugli affari di Monboddo, e dai registri quali proprietà eventualmente possedesse, a parte Wembish Park. Probabilmente se non una vera e propria diffidenza nei confronti di Alethea, dovevo avere almeno un solido scetticismo riguardo alle sue affermazioni. Ma si trattava di un salutare scetticismo, assicuravo a me stesso. La fiducia, dopotutto, è la madre dell'inganno. Desideravo quindi impadronirmi di qualche dato di fatto oggettivo e indipendente a proposito di Henry Monboddo. La ricerca si rivelò lunga e difficoltosa. Dovetti risalire fino al 1651 per trovare il primo riferimento a Monboddo: probabilmente, supposi, perché come Alethea aveva passato gli ultimi nove anni in esilio. Quello che lessi collimava con tutto ciò che aveva detto Alethea. Henry Monboddo era registrato come mercante di libri e quadri di qualità, per cinque anni, durante il regno di Carlo I, Conservatore della Biblioteca reale a St James's Palace. Non c'era alcuna indicazione, però, sull'identità del suo cliente, o su chi così disperatamente voleva mettere le mani sul Labirinto del mondo. Il registro delle imposte per il 1651 indicava come suo indirizzo Wembish Park, più una casa in Covent Garden - una casa che, alla visita che le feci due ore dopo, si rivelò abbandonata. I registri menzionavano anche un uf-
ficio in Cheapside che era diventato, come avrei scoperto, il laboratorio di un argentiere che affermò di non aver mai sentito parlare di qualcuno chiamato Henry Monboddo. Prima di lasciare Whitehall Palace avevo anche, a capriccio, esaminato i registri per trovare informazioni su Sir Richard Overstreet. Non salì nella mia stima quando scoprii che era registrato come legale. Ma non tutti i legali erano automaticamente delle canaglie, mi dissi, e Sir Richard mostrava di aver goduto di una carriera brillante e redditizia prima di essere costretto all'esilio, nel 1651. Aveva esercitato privatamente l'attività notarile e poi nel 1644 era stato nominato Procuratore generale. Successivamente aveva ricoperto incarichi presso il Navy Office e il Foreing Office, servendo per quest'ultimo come inviato straordinario a Madrid. Aveva fatto anche parte di un'ambasciata realista a Roma. Chino su quei grinzosi documenti, mi ero chiesto per un attimo se Sir Richard, come tanti esponenti della nostra nobiltà di campagna, fosse un criptocattolico, magari addirittura una spia del papa o degli spagnoli. Era un'idea priva di basi, ma sapevo che nel 1645 un'ambasciata segreta si era recata a Roma con lo scopo di assicurarsi l'aiuto militare contro Cromwell in cambio della conversione al cattolicesimo di re Carlo e dei suoi consiglieri. Comunque non avevo nessun elemento che mi indicasse che il viaggio di Sir Richard a Roma riguardava proprio quella missione. Né quei pochi fatti, come quelli su Henry Monboddo, mi dicevano nulla sul suo carattere, i suoi scopi, perfino la sua religione. A quel punto avevo ringraziato il commesso per la sua assistenza e avevo ripercorso il decrepito dedalo di corridoi fino all'uscita. Ora, mentre percorrevo i viottoli del cimitero, vidi tra le lapidi due persone in gramaglie, un uomo e una donna, da una parte e dall'altra del campo. La donna era velata, l'uomo portava un cappello a tesa larga. Rasentando un folto di tassi raggiunsi la prima fila di monumenti, sentendomi esposto agli sguardi e anche leggermente assurdo mentre mi guardavo in giro. Un centinaio di lapidi spuntavano di sbieco e in file disordinate dai loro cumuli di terra, con dei vuoti qua e là come un campo di grano venuto male, rigando con le loro ombre del tardo pomeriggio l'erba falciata di fresco. Trovai la tomba di Silas Cobb nel mezzo del cimitero, semisepolta dai rami di un tasso che la celava, almeno parzialmente, al resto del camposanto: una lastra di granito sormontata da una testa di morto dalle orbite profonde. Quando la localizzai, la donna vestita di nero era già andata via, ma
l'altro visitatore, mi sembrò, mi stava osservando, con il viso mezzo girato per seguire i miei movimenti incerti. Decisi che quando fosse andato via sarei andato a dare un'occhiata al monumento davanti al quale era fermo. Poi presi fiato e presi la chiave dalla tasca. Nel farlo rilessi l'iscrizione: HlC JACET SILAS COBB 1585-1620 SOLI DEO LAUS ET GLORIA IN SAECULA Un mazzolino di giacinti e camomille stava appoggiato alla lapide. Mi sorprese. Qualcuno veniva ancora a piangere Mr Cobb dopo quarant'anni? Forse la sua anziana vedova? Stavo riflettendo accoratamente sul fatto che non ci sarebbe stato nessuno a mettere fiori sulla mia tomba quarant'anni dopo la mia morte - anzi forse nemmeno quaranta giorni dopo - quando qualcosa nella stessa lapide mi lasciò ancora più perplesso. Le altre lastre di granito lungo la fila risalivano anch'esse agli anni Venti, ma mentre le lapidi erano chiazzate di muschio e le iscrizioni in parte erose, quella di Silas Cobb appariva nuova e fuori posto. Certamente il granito non dimostrava quarant'anni. Mi inginocchiai accanto alla tomba e, con i morbidi aghi del tasso che mi sfioravano i capelli, posai anche i miei fiori sulla lapide. L'intercapedine era celata da una delle losanghe di terracotta in parte coperta di ortiche, che scostai con la punta del bastone da passeggio prima di infilarvi le dita. Il terriccio sottostante era scuro e tiepido e odorava di tuberi in disfacimento. Ne era stata spostata qualche manciata e vi era stato inserita una cassetta. Mi sentivo come uno scolaretto che disseppellisce il tesoro che ha nascosto l'autunno precedente. Quando inserii la chiave nella toppa la serratura scattò con un rumore sorprendentemente forte. Trattenni il fiato e guardai al di sopra della spalla, attraverso i rami del tasso mossi dal vento. L'uomo era sparito. Non trovai alcun messaggio di Alethea nel piccolo forziere, così vi lasciai un foglietto in cui confermavo l'intenzione di recarmi a Wembish Park appena possibile, come convenuto. Quindi richiusi la cassetta, la rimisi al suo posto, riposi la losanga e ripercorsi la strada tra le file di granito consumato. Mi sorprendeva che Alethea, con la sua evidente ossessione per la segretezza, non avesse concordato l'uso di un codice o di un inchiostro invisibile.
Le finestre della chiesa erano ormai buie e Hart Street per il momento appariva priva di ogni movimento. Mi muovevo nella direzione opposta, diagonalmente attraverso il cimitero, a sudest verso Seething Lane, che si presentava anch'essa deserta. Se già detesto avventurarmi fuori alla luce del giorno, tra la folla e il puzzo, di notte Londra è ancora peggio. Avvertivo una sgradevole sensazione in mezzo alle scapole, come se un grande uccello vi si fosse appollaiato e vi stesse affilando lentamente il becco, aprendo due ali fuligginose. C'era qualcosa di sinistro nel modo in cui le case di Seething Lane, al di là dell'inferriata, sembravano stringersi l'una all'altra nell'oscurità. Accanto a esse si alzava la grande sagoma scura del Navy Office. Mi fermai accanto a una tomba scrutando l'enorme costruzione al di sopra dello schermo di tassi. Ricordando la patente per la spedizione all'Orinoco di Sir Ambrose, e il pezzo di tela nella teca del Corno d'Oro, presunto frammento della vela di gabbia della Britomart, mi chiesi se dovessi tornarvi il giorno dopo per svolgere qualche indagine. Forse esisteva ancora il giornale di bordo della Philip Sidney, o magari c'era qualcuno al Navy Office in grado di darmi delucidazioni sul suo coinvolgimento nel viaggio in Guiana di Sir Walter Raleigh. Mi domandai oziosamente se potesse esistere una connessione, per quanto tenue, tra la spedizione di Raleigh e Il labirinto del mondo. Dopo tutto, Alethea mi aveva detto che Monboddo aveva lavorato come agente per il duca di Buckingham, e sapevo che Buckingham, Primo lord dell'Ammiragliato, aveva appoggiato l'impresa di Raleigh in Guiana. Ricordavo anche che gli altri libri mancanti da Pontifex Hall - uno dei quali era La scoperta della Guiana di Raleigh - riguardavano tutti per un verso o per l'altro l'esplorazione dell'America spagnola. O mi stavo arrampicando sugli specchi? Naturalmente sapevo già dell'infausta spedizione di Raleigh. Da apprendista nel negozio di Mr Smallpace bevevo avidamente ogni racconto sui viaggi di Raleigh e di Drake come fossero storie di avventura. Avevo ancora in casa svariati libri sulla spedizione di Raleigh all'Orinoco, comprese relazioni di prima mano scritte da chi aveva viaggiato a bordo della Destiny o di altri vascelli della flotta. Li avevo sfogliati rapidamente nei giorni successivi al mio rientro da Pontifex Hall, ma nessuno faceva cenno né alla Philip Sidney né a Sir Ambrose Plessington. Ma quale epopea è la storia del viaggio di Raleigh! Un audace navigatore passa in carcere tredici anni per aver cospirato contro uno scaltro vecchio re, che poi lo libera a condizione che riempia le esangui casse reali
scoprendo una mitica miniera d'oro dall'altra parte dell'oceano, migliaia di miglia lontano nel mezzo di una terra malnota e pullulante di soldati nemici. La vicenda sarebbe potuta scaturire dalla lingua di un Omero, dalla penna di uno Shakespeare - l'eroe magagnato, il re traditore, i subdoli consiglieri, l'impossibile compito, la tragica morte, tutto miscelato in un mondo invernale di inganno e rapacità. Mi piaceva pensare di poter scorgere in Raleigh l'immagine di Giasone inviato dall'usurpatore Pelia alla ricerca del Vello d'oro, o di Bellerofonte quando si reca in Licia per sconfiggere la Chimera dopo aver suscitato le ire dell'infido Proteo - Bellerofonte che, come Raleigh con il suo fatale mandato, porta scritto l'ordine della sua condanna a morte. Chi dice che viviamo in un'epoca in cui non ci sono più eroi? Gli eventi principali della triste storia di Raleigh sono noti. Fece vela da Londra con la sua flotta nell'aprile del 1617, lasciandosi dietro fazioni in lotta e potenti nemici. Il suo progetto era appoggiato dal nuovo favorito di re Giacomo, Sir George Villiers - il futuro duca di Buckingham - oltre che dalla fazione antispagnola a corte, il cosiddetto partito della guerra capeggiato dal conte di Pembroke e dall'arcivescovo di Canterbury. Pembroke e l'arcivescovo avevano spinto il giovane Villiers perché rovesciasse il favorito precedente, Somerset, e contrastasse la fazione filo-spagnola che lo sosteneva. Ma nemmeno le blandizie di Villiers ebbero il potere di indurre il re ad abbandonare la sua politica favorevole alla Spagna. E così mentre le istruzioni di Raleigh prevedevano che localizzasse la miniera d'oro, il suo mandato gli imponeva anche di non attaccare navi o insediamenti spagnoli. Se avesse violato queste condizioni, l'ambasciatore spagnolo a Londra, il conte Gondomar - il più potente dei suoi nemici - ne avrebbe chiesto la testa, secondo la lettera del mandato. Le cose, si sa, presero da subito una brutta piega. A due giorni dalla partenza, con la costa di Finisterre ancora in vista, uno dei quattordici vascelli colò a picco in una burrasca, portando con sé un equipaggio di sessanta uomini. Quando la flotta raggiunse la foce dell'Orinoco, dopo otto durissimi mesi di tempeste e scorbuto, Raleigh. era troppo debilitato per proseguire e rimase con la Destiny a Trinidad. Era la stagione asciutta, un periodo in cui il livello dell'Orinoco scende e la navigazione diventa ancora più rischiosa del solito. Ma Raleigh non ce la fece ad aspettare, e furono scelte cinque navi per risalire il fiume. Si pensava che la minisera si trovasse centinaia di miglia nell'entroterra, presso l'inafferrabile Eldorado, "il dorato", una città che si diceva sorgesse nel mezzo di un lago. La leggenda di que-
sta città e dei suoi inestimabili tesori era stata riportata da tutti i cronisti spagnoli, e per settant'anni i conquistadores, questi cavalieri erranti della giungla, avevano navigato l'Orinoco e i suoi affluenti alla sua ricerca. Ma né l'Eldorado né le sue miniere d'oro erano mai state viste, tranne, a quando si diceva, da un uomo chiamato Juan Martin de Albujar, fuggito dalla spedizione del 1566 di Maraver de Silva, una spedizione sulla quale, cosa insolita, non esistono cronache. Né la miniera sarebbe stata scoperta dagli uomini di Raleigh. La flotta invece si imbatté nella più umile cittadina di San Tomàs, una guarnigione spagnola di un centinaio di capanne di bambù, una chiesa dai muri di fango e un paio di cannoni arrugginiti, il tutto abbarbicato alla sponda dell'Orinoco. E allora, fu il disastro. Furono scambiati colpi di arma da fuoco, ci furono dei morti, la ricerca fu abbandonata, la flotta imboccò la Boca de la Sierpe e rapidamente si disperse. Raleigh e i suoi uomini fecero vela verso casa ormai in disgrazia. Raleigh si finse ammalato, poi folle, poi tentò di fuggire in Francia. Ma fu catturato e gettato nuovamente nelle sue antiche stanze nella Torre. Un'inchiesta sull'affare disastroso fu intrapresa da Francesco Bacone. Nell'ottobre del 1618, su richiesta di Gondomar, Raleigh fu decapitato. La motivazione ufficiale fu: tradimento verso re Giacomo. Ma non capivo bene come entrasse Sir Ambrose Plessington in questa tragica favola. La Philip Sidney era una delle navi della infelice flotta di Raleigh? In tal caso, qual era il nesso tra Il labirinto del mondo, Henry Monboddo e una spedizione di tanto tempo fa verso la giungla della Guiana? Rimasi a fissare ancora qualche momento il Navy Office, d'un tratto dubitando che potesse contenere una risposta. Quindi feci dietro front e mi avviai verso il punto dove era stato l'uomo vestito di nero. Era una tomba con un piccolo pilastro in granito sotto la larga chioma di un cipresso i cui rami si affacciavano su Seething Lane. Mi aspettavo un tumulo fresco di terra, coperto di mazzi di fiori, e invece la pietra era spaccata, la tomba trascurata e l'iscrizione praticamente illeggibile. Una radice del cipresso affiorava dal suolo, grottescamente simile a un ginocchio che spuntasse dalla terra. Mi sporsi precariamente strizzando gli occhi. La lapide commemorava un bambino chiamato Smethwick - il nome di battesimo era indecifrabile - morto nella seconda metà del secolo scorso. Mi parve inverosimile che qualcuno venisse a visitare i resti di quel bimbo, così conclusi che dovevo essermi sbagliato sulla posizione della tomba - e, indubbiamente, anche sulle attenzioni dell'uomo nei miei confronti. Oltre tutto, non era forse so-
spetto il mio comportamento, entrare in quel modo nel cimitero al tramonto e aggirarmi tra le tombe come un vampiro? A quei tempi nei cimiteri accadevano ogni sorta di cose orribili. Probabilmente mi aveva preso per un "resuscitatore", uno di quei ladri di tombe che rubano i cadaveri appena sepolti per rivenderli agli apprendisti barbieri-chirurghi e agli studenti di medicina di Londra. Almeno, così volli rassicurarmi mentre riprendevo il cammino verso lo sguardo cieco dei teschi sul cancello, resistendo all'impulso di mettermi a correre e sentendo gli artigli affondare ancora più a fondo nella carne tremante della mia schiena. Tornai a casa a piedi. Più tardi mi sarei chiesto cosa sarebbe accaduto se avessi preso una vettura e fossi arrivato a Nonsuch House cinque minuti prima. Ma di vetture non ne trovai, e così mi avviai zoppicando verso casa, raggiungendo il ponte in una ventina di minuti. Mentre mi avvicinavo a Nonsuch House tutto appariva uguale al solito ma, davanti alla bottega chiusa di un farmacista, vidi Monk, in mezzo alla strada, che mi si precipitava incontro con il viso stravolto e pallidissimo. Dietro di lui, la porta verde di Nonsuch Books pendeva sbilenca e semiaperta dai cardini. "Mr Inchbold!" Diversi curiosi si erano assembrati davanti al negozio come il pubblico in attesa di uno spettacolo di strada, incerto se andare o stare, mormorando ipotesi e considerazioni come si fa quando il cavallo di un carretto tira un calcio al bambino di un estraneo o stramazza morto per la via. Monk mi aveva raggiunto barcollando e ora mi si era aggrappato alla manica farfugliando parole incomprensibili. Lo spinsi da parte e diedi un brusco strattone alla maniglia. La porta si inclinò ulteriormente, con un lamento sofferto dei cardini. Dei cardini superiori, cioè, perché quelli in basso erano piegati e penzolavano di sbieco dall'intelaiatura spaccata. L'uscio minacciò di restarmi in mano. Ma avevo allargato un poco il varco - quel tanto che mi permise di entrare, con la gola gonfia di paura e rabbia. Incespicai in qualcosa, e quando gli occhi si abituarono alla penombra vidi che i miei libri - dal primo all'ultimo, avrei detto - tirati giù dagli scaffali e gettati a terra ricoprivano tutt'intero il pavimento. Centinaia di volumi giacevano ammucchiati in cumuli disordinati come in attesa di trasformarsi in un falò: legature strappate, malamente ripiegate o spalancate come ali, pagine esposte spiegazzate e palpitanti alla brezza leggera che entrava dalla porta sgangherata. C'era odore di polvere, di cuoio, di chiuso - di co-
se vecchie e consunte il cui tanfo familiare e non sgradevole fosse stato per così dire irrobustito come mediante decozione, una nube pervasiva ma invisibile che aleggiava come fumo di cannone sopra delicate rovine. Mi raddrizzai e mi diressi con passo incerto verso il bancone, incapace di cogliere la portata piena della distruzione, e tanto più lo scopo di essa. Mi lasciai cadere ginocchioni in mezzo al negozio, accorgendomi solo vagamente della presenza di Monk dietro di me. Il mio prezioso rifugio, il mio ritiro sicuro dagli affanni del mondo - tutto questo era scomparso, distrutto. Il petto mi si gonfiò di pianto come fossi un bambino. Ricordo un paio di mani sulle mie spalle ma non di chi fossero o cosa successe poi. Anzi, delle ore immediatamente successive ricordo pochissimo: solo una specie di frastornata avanzata subacquea attraverso il negozio, con Monk e io che verificavamo smarriti il danno, raccogliendo i libri e scegliendo tra essi, commiserando la distruzione di un volume o, più raramente, sobriamente festeggiando l'inattesa incolumità di un altro. Anche i miei scaffali di noce, scoprii, erano stati distrutti - strappati dalle pareti e scaraventati a terra, dove giacevano sovrapposti in cataste disordinate, spaccati come gli alberi e i pennoni di una nave dopo una tempesta. Più tardi pensai che doveva essere occorso un esercito per mettere in atto una simile profanazione, e invece, mi disse Monk, erano stati solo in tre, e probabilmente non avevano impiegato più di cinque minuti. Se l'erano data a gambe quando, richiamato dai rumori, era sceso lungo la scala a chiocciola a guardare cosa stesse accadendo. Sembrava che cercassero qualcosa, disse, perché strappavano i libri uno per uno dalle mensole, sfogliandoli freneticamente, e poi gettandoli via prima di passare al successivo. Ma ogni tanto uno di loro allungava il braccio e spazzava via un intero scaffale, oppure scardinava l'intero ripiano dai suoi sostegni, senza nemmeno un'occhiata a uno solo dei libri. "Mi hanno fatto prendere una paura bella e buona," concluse, con gli occhi lucidi e nervosi al ricordo, "e non mi vergogno a dirlo." "Chi erano, secondo te, Monk? Gli ispettori?" "Gli ispettori, signore?" Era ormai quasi mezzanotte. Eravamo seduti al bancone, nella nostra posizione abituale, padrone e apprendista, come se quelle pose familiari potessero riportare almeno in parte l'equilibrio sconciato del negozio. Decine di libri semismembrati ingombravano ancora il pavimento, ma eravamo riusciti a risistemare alcuni palchetti e riporre quei pochi volumi che non richiedevano un restauro.
"Gli scagnozzi del Segretario di stato," precisai. "Non avrai dimenticato?" Ora apparve ancora più allarmato. Sapeva qualcosa di questi sgherri, da quando due anni prima John Thurloe, il Segretario di stato del tempo, aveva cominciato a mandarli nei loro giri a Little Britain e London Bridge. Erano venuti a farci visita qualche giorno dopo che una donna incinta aveva fatto la sua comparsa in Nonsuch Books alla fine di un faticoso viaggio - così aveva detto - da Oxford. Sotto gli occhi spaventati e increduli di Monk, aveva dato alla luce sul bancone tre gemelli - tre copie di Killing no Murder di Sexby, un opuscolo che chiedeva la morte di Cromwell. Gli ispettori avevano bussato alla porta due sere dopo. Il povero Monk era saltato giù dal letto quando gli era stata piazzata una lanterna davanti alla faccia e una voce gli aveva ordinato gridando di identificarsi. Un episodio che non aveva dimenticato. "No... non gli ispettori," rispose. "Forestieri." "Forestieri?" "Sì. Francesi. Forse turchi. La pelle scura avevano, signore. Tali e quali ai pirati, tutti vestiti di nero. Uno. aveva un orecchino d'oro. Un altro un coltello." "Hanno detto niente?" "Nemmeno una parola." "Hanno preso qualcosa? Qualche libro?" "No, signore." Scosse la testa. "Non che io abbia visto." "Infatti. Si direbbe che non manchi niente, vero?" Scosse di nuovo la testa. Fino a quel momento sembravano presenti, anche se il giorno dopo avrei ricontrollato il catalogo. "Da che parte sono andati via?" "Southwark. Gli sono corso dietro, ma erano più veloci di me." Abbassò gli occhi sul banco. Si tormentava le mani strette in grembo. "Capisco. Grazie, Monk," gli dissi. "Sei stato bravo." Mi addossai allo schienale, chiudendo gli occhi e cercando di pensare. Per un momento mi lasciai andare a credere che la devastazione non avesse nulla a che fare con quello che era accaduto negli ultimi giorni. O forse tutto sommato erano proprio degli ispettori. Forse il nuovo Segretario di stato impiegava dei francesi per fare il lavoro sporco. Ma che cosa stavano cercando? Forse il nuovo re sarebbe stato una persecuzione per i librai non meno di Cromwell. Decisi che l'indomani avrei fatto qualche domanda in giro per Little Britain e Paternoster Row. Magari anche altri avevano ricevuto visite.
Riaprendo gli occhi vidi che Monk mi osservava. Cercai di rivolgergli un sorriso rassicurante. "Sì, sei stato bravo," ripetei. "Molto bravo. Ma ho paura che il nostro lavoro stanotte non sia ancora finito." "Ah no?" Accennai con il capo alla porta, ancora semiabbattuta in bilico sui gangheri. Di là si vedeva il marciapiede. Ogni tanto un passante sbirciava incuriosito nell'interno prima di ritirare in tutta fretta la testa e allontanarsi veloce. "Domani troverò un falegname e un fabbro," dissi. "Ma per questa notte..." Dall'interno del bancone trassi una pistola. Monk spalancò gli occhi. Era un'arma dall'aria micidiale, pesante e poco maneggevole, un aggeggio enorme che avevo comprato molti anni prima da un veterano della guerra civile, cieco e senza una gamba, che aveva cominciato a chiedere la carità davanti al mio negozio. Non avevo idea se la pietra focaia e il meccanismo di sparo funzionassero, né quanta polvere dovessi versare nella coppetta. Il vecchio veterano mi aveva dato una lezione, ma non avevo mai previsto di usarla e l'avevo acquistata esclusivamente per alleviare la sua miseria. "Questa notte faremo la guardia al negozio a turno," gli dissi. "Nel caso che qualcuno provasse la tentazione di servirsi della nostra merce." Deposi sul ripiano tra noi il temibile strumento. "O nel caso che i nostri amici tornassero." Alla poco allettante prospettiva gli occhi di Monk si sgranarono ancora di più, per cui azzardai un altro sorriso rassicurante, che venne fuori come una smorfia di dolore. "Vai a letto," gli dissi gentilmente. "Ti sveglierò tra due ore." Ma finì che rimasi sveglio io tutta la notte. Cominciai l'opera di ricostruzione di qualcuno dei libri, anche se ogni dieci minuti lasciavo il telaio e mi avvicinavo alla porta per controllare se dalla strada venisse qualche segno di vita, con le orecchie tese a cogliere il suono di passi furtivi che si allontanavano di corsa. Ma non c'era nessuno, tranne la guardia notturna, un vecchio artritico che non ispirava eccessiva confidenza. Era mezzo cieco, notai. Uno dei suoi occhi era coperto da una patina, come un pesce morto, mentre l'altro ruotò verso di me come quello della testa mozzata consigliandomi di riparare la porta per non offrire una tentazione troppo irresistibile a qualche povera anima. Poi si allontanò con la lanterna che dondolava. Solo quanto a oriente sorse il sole abbandonai il telaio per cucire e sve-
gliai Monk. E solo mentre mi inerpicavo per la scala verso il mio letto mi permisi di rivolgere un pensiero ai tre sicari vestiti di nero che avevano assassinato Lord Marchamont a Parigi. Erano gli stessi miei tre uomini? La cosa sembrava possibile - ma poco sensata. Se gli assassini erano scagnozzi di Henry Monboddo, come sospettava Alethea, e se Monboddo ora possedeva la pergamena, come avevo scoperto, che cosa potevano mai cercare tra i miei scaffali? Probabilmente erano al soldo di qualcun altro, forse addirittura dello stesso cardinale Mazarino. Mi misi a letto e cercai di addormentarmi. Erano tante, mi dissi, le cose che dovevo ancora scoprire. Rimasi sdraiato sul fianco per diverse ore, sfinito ma insonne, a fissare il muro, ascoltando il ticchettio degli "orologi della morte", gli insetti che vi erano annidati. Improvvisamente quel suono familiare si era fatto minaccioso e gravido di sinistri presagi, come se le bestie stessero erodendo le travi e i sostegni della modesta vita che mi ero costruita. Come se Nonsuch House stesse per crollare e precipitarmi a capofitto nei flutti che correvano venti metri più sotto. CAPITOLO 10 Dall'acqua dolce dell'Elba a Cuxhaven il Bellerophon tracciò la sua rotta puntando a occidente lungo le isole Frisone, oltre catene di dighe e campi di salagione coperti di neve, oltre lingue di sabbia e moli che si protendevano come costole nelle acque grigie del mare. Navigò a quota di scandaglio, dieci braccia d'acqua, per quasi un'intera giornata finché, facendo rotta per sud-sudovest, lasciò la costa olandese all'alba del secondo giorno e, dando altra vela, tenendosi al vento, volse la prora verso l'Inghilterra. Con il cannocchiale, il capitano Quilter avvistò la costa due ore dopo. Sarebbe andato tutto secondo il piano. Abbassò il cannocchiale e lo rimise nella tasca del telo impermeabile che indossava. Ancora otto ore, se tutto andava bene, e avrebbero raggiunto il Nore e, ormeggiato all'ancora, l'Albatross. Ma da quel punto della traversata, niente sarebbe più andato bene. Più tardi, facendo il consuntivo del disastro, il capitano Quilter avrebbe dato la colpa non solo alla propria avidità - i duemila Reichsthaler - ma, ancor più, all'ignoranza del suo equipaggio. Non l'ignoranza del proprio lavoro, perché lui reclutava solo gli uomini più esperti e capaci, ma l'ignoranza primordiale che alimenta le peggiori superstizioni in chi è esposto alla ferocia degli elementi. Sì, i marinai erano una genia superstiziosa, inutile negarlo. Quilter li aveva visti, al Grappolo d'Oro, dedicarsi ai loro strani rituali,
comperare macabri amuleti - membrane fetali di neonato - dalle vecchie streghe che infestavano le taverne del porto. Gli uomini credevano con una fede bizzarramente malriposta che queste membrane essiccate (Quilter sospettava che in realtà fossero vesciche di maiale) li avrebbero messi al sicuro dalla morte per annegamento. E un giorno, quando il Bellerophon era in bonaccia nella baia della Dvina, aveva sorpreso un gruppo che mormorava una giaculatoria e poi gettava fuori bordo un manico di scopa, come se un atto così misero, e non (come sapeva ogni persona istruita) il movimento delle stelle nel firmamento, o la rotazione della terra, o la congiunzione dei pianeti, o un'eclisse, o il sorgere di Orione o di Arturo, o una mezza dozzina di altri rituali celesti che erano al di fuori del debole arco delle possibilità umane, potesse indurre un mutamento in una forza potente e imprevedibile come il vento! E poi, ovviamente, c'erano state le campane. I loro rintocchi spettrali si udirono sul ponte di coperta mentre il Bellerophon passava davanti a Cuxhaven - segno sicuro, si diceva, che la nave e l'equipaggio avrebbero avuto a soffrire, poiché non esisteva presagio altrettanto terrificante per un marinaio che udire il suono delle campane di chiesa in mare. Nel giro di un giorno il chirurgo di bordo era salito su dal pagliolo degli ammalati per riferire che tre uomini dell'equipaggio erano stati colpiti dalla febbre. Due giri di clessidra dopo arrivò la notizia che un altro pugno di uomini si era ammalato, ma a quel punto il capitano Quilter aveva pericoli più gravi di cui preoccuparsi. Che cosa, si chiese in seguito, aveva fatto alzare il vento in quel momento, tendere la sagola della manica a vento in cima alla falchetta mentre il sole passava alto alla fine del turno di guardia del mattino? Nessuno però prestò attenzione alla cosa, perché il cielo era terso e limpido, il vento era costante, e buona parte degli uomini dell'equipaggio - quelli che non erano ancora ammalati - erano sottocoperta, distesi sul cordame, a giocare a carte. Ma lentamente sull'orizzonte di levante, apparve un fronte temporalesco, implacabile e livido, e cominciò ad avanzare nel cielo come l'ombra di un gigante che si avvicina. Le tavole del ponte scricchiolavano sonoramente e l'acqua entrava dagli oblò. Poi la prima schiuma si infranse contro la prora e sul ponte del castello, seguita dalle raffiche pungenti della pioggia. Pochi secondi dopo le scale e i ponti risuonavano degli stivali degli uomini che correvano a prendere posizione. Gli aspiranti ufficiali in tirocinio erano già a quattro zampe sulla mezzeria, ad aprire gli ombrinali, mentre quelli che facevano capolino dai boccaporti venivano spediti su per le gri-
selle svolazzanti. Mentre questi si affannavano a terzarolare in tutta fretta le vele - Pinchbeck urlava gli ordini dal basso - i primi fulmini fendettero il cielo. La fortuna che aveva salvato l'equipaggio dalla Scilla della Dvina e dal Cariddi del mar Bianco li aveva, a quanto pareva, abbandonati. Pinchbeck si aggrappava a due mani all'albero maestro, sgolandosi, finché una pesante ondata si abbatté a mezza nave e lo sospinse barcollando obliquamente come un ubriaco. Si raddrizzò, per essere gettato a terra un secondo dopo mentre la poppa si inabissava paurosamente e l'acqua gelida invadeva il ponte del casseretto. Alcuni uomini furono sparpagliati verso poppa dalla mezzeria, abbattuti come birilli. Poi fu la prora a sprofondare, il bompresso tagliò l'acqua e i corpi rotolarono sul ponte. I rituali consueti cedettero al panico mentre grida disperate li seguivano lungo i ponti. "Barra a dritta!" "Dai volta, lì!" "Timone tutto a sinistra!" Tre uomini si erano legati alla barra del timone, che si impennava tentando di sbalzarli come un cavallo imbizzarrito, con la sagola che bruciava nelle loro mani e aveva spezzato il polso a uno di loro. "Tutta sottovento!" "Tieni così!" E poi, mentre uno dei coffieri precipitava a braccia spalancate, il suo urlo si perse nel vento: "Uomo in mare!" Ma non c'era altro da fare che serrare le vele e pregare. Dal lato sottovento del casseretto il capitano Quilter osservava pieno di ira impotente mentre il cielo correva rapido sopra la testa dei gabbieri indaffarati, sopra le cime degli alberi che, ora che la pioggia si infittiva, erano diventate quasi invisibili. Guardava la tempesta come un affronto personale, un insulto come l'attacco di una miserabile barcaccia di pirati spagnoli. Non c'era stato alcun preavviso, nessun alone intorno alla luna all'alba, quel mattino, nemmeno gli stormi di procellarie che sorvolassero in cerchi la nave mezz'ora prima - nessuno di quei segni che, nella lunga esperienza di Quilter, presagivano sempre un violento cambiamento del tempo. Gli elementi non giocavano secondo le regole. Ora, con il ponte allagato, scivolò su una tavola, cadde pesantemente sulla schiena, quindi fu colpito alla caviglia da un secchio sballottato dal vento. Si issò in piedi e, bestemmiando di nuovo, scaraventò fuori bordo il secchio. Una carta nautica fradicia d'acqua gli si avvolse alla testa prima che potesse strapparla via. Svolazzò sopra il parapetto come un gabbiano impazzito, e attraverso la pioggia Quilter improvvisamente scorse la costa che si intravedeva sottovento - un rischio più che un rifugio. Sopravvivere ai ghiacci di Arcangelo e di Hammerfest, pensò cupamente, solo per finire
in pezzi contro la costa della propria terra! E a quanto pareva il Bellerophon e il suo equipaggio non erano gli unici destinati a finire in pezzi. A proravia, a distanza di due tiri d'arco, sul quadrante di dritta, un'altra nave veniva sballottata violentemente dai flutti, con due luci di soccorso sull'albero di velaccio. Un minuto dopo sparò con un pezzo di artiglieria, una breve scintilla e una nuvoletta di fumo, a malapena udibile al di sopra della pioggia e del vento. Il bompresso e l'albero di trinchetto andarono giù subito dopo, colpito quest'ultimo, vide Quilter, da un fulmine che scagliò in mare due uomini. Si era rimesso abbastanza dritto sulle gambe da poter puntare il cannocchiale, e ora poteva vedere che si trattava dello Star of Lübeck, un altro mercantile in servizio tra Amburgo e Londra. La zavorra doveva essersi spostata, oppure si era prodotta una falla nello scafo e stava imbarcando acqua - a tonnellate - perché era malamente inclinato sulla sinistra, con gli alberi chini verso i flutti agitati. Sperò soltanto che si tenesse a distanza senza andare alla deriva avvicinandosi ulteriormente al Bellerophon mandando a picco entrambe le navi... Per le due ore seguenti, però, lo Star of Lübeck si allontanò anziché incombere più vicino. Solo quando il peggio della tempesta fu passato quando, perversamente, il sole gettò le sue colonne di luce da un varco tra le nuvole - il vascello riapparve. Ora il Bellerophon correva spinto in poppa con l'alberatura nuda, scarrocciando pesantemente a dritta. Il danno era molto più grave, Quilter lo sapeva, che nel mar Bianco. Le vele erano a brandelli e la barra del timone era incrinata. Il velaccino dell'albero di mezzana giaceva di sbieco sul casseretto, dove aveva trafitto due uomini e spaccato la testa a un terzo. Impossibile dire quanti uomini fossero finiti in mare. Peggio di tutto, la chiglia era andata a strisciare sul margine di una secca sabbiosa e poi aveva urtato uno scoglio con uno schianto assordante. Probabilmente si era sfondata la sentina e in quello stesso momento si stava riempiendo di acqua, concedendo loro solo pochi minuti per tappare la falla con una vela o un sacco da cubia. Andava fatto qualcosa, lo sapeva, o anche tutti gli altri erano perduti, trasformati in legna da ardere ed esche per i pesci lungo la costa, che si faceva sempre più vicina. Si fece strada fino al boccaporto più vicino, sotto il quale, sul ponte di maestra e poi su quello di mezzana, le tavole erano rese scivolose dalle riserve di viveri riversatesi dai barili e dalle dispense. Il pavimento era inclinato a quarantacinque gradi; era come tenersi in equilibrio sullo spiovente di un tetto. Presto l'aria si riempì di un puzzo insopportabile, e capì, troppo tardi, che le sentine avevano rigurgitato il loro contenuto. Poi, sul ponte di
batteria, il fetore si faceva ancora più forte. "Le sentine, capitano." Lo aveva raggiunto Pinchbeck, che si tappava il naso con un fazzoletto lercio. I due avanzavano con cautela sulle tavole ingombre. L'acqua era entrata dai portelli dei cannoni, e il pavimento, uno sfacelo caotico di cunei e munizioni bagnate, era allagato di un buon dito di acqua. Quilter poteva sentire le grida degli ammalati nell'infermeria. "Rimescolati come una minestra, direi," aggiunse il nostromo con voce roca. "Questo non ha importanza," scattò Quilter. "Mandi una squadra di uomini alle pompe. E porti qualche telo dal deposito delle vele. Se c'è una falla dev'essere tappata immediatamente o andiamo a picco." Il nostromo gli lanciò un'occhiata allarmata. Quilter gli fece con la mano cenno di andare. "Esegua - presto! E trovi quanti più uomini possibile," gridò a Pinchbeck che si allontanava, "e li mandi nella stiva. Il carico va spostato!" Quilter scese da solo per la scaletta successiva. L'interponte e il quadrato ufficiali erano deserti, la selva di amache dondolava inerte dalle travi. Quando raggiunse il ponte di stiva ebbe la sorpresa di vedere anche quello deserto. Si aspettava di trovarvi i tre misteriosi passeggeri - indubbiamente spaventati a morte - ma non li vide da nessuna parte. Finora se n'erano stati per conto loro; sui ponti superiori non li aveva visti nemmeno una volta. Chiusi in cabina come ostriche, si era detto con un certo divertimento qualche ora prima. Ma ora vide che le loro cabine erano vuote. Solo quando raggiunse la scaletta per la stiva udì qualche segno di vita. Il fetore delle sentine ora era più forte; mentre scendeva sentì la bile che gli saliva in gola. Voci dal basso. Sembrava vi fosse in atto una sorta di disputa. Afferrò una delle lampade a petrolio che pendevano da una trave del ponte e riprese a scendere la scala reggendosi con una sola mano. Il vano di carico era quello che aveva sofferto più di tutti. La luce tremolante mostrò a Quilter una promiscua confusione di pellicce tra i bauli e le casse sparse, diverse delle quali erano finite capovolte contro le paratie. Altre casse si erano sfondate e slittavano avanti e indietro con i movimenti della nave. Fece qualche passo barcollante, sforzandosi di cogliere le voci in fondo alla stiva, non volendo nemmeno pensare ai danni subiti dalle sue pellicce. La via era ostruita da un paio di casse, dalle quali si erano sparsi in giro una mezza dozzina di libri. Libri? Sgomberò il cammino con un calcio, poi sollevò la lanterna e riprese ad avanzare, sentendo l'acqua entrargli nelle scarpe. Perché la ditta
Crabtree & Crookes avrebbe dovuto mandare libri in Inghilterra? E perché in tanta segretezza? Aveva già altre volte trasportato merce di contrabbando, ma mai un libro era passato dai suoi boccaporti di carico. Scrutò i volumi sparsi alla luce incerta della lampada. Alcuni, vide, erano già stati guastati dall'acqua. Le loro pagine, intrise e gonfie, sembravano le falde di una gorgiera di pizzo. Alzò gli occhi. Una dozzina di sagome forse erano visibili in fondo alla stiva, ombre tremolanti e saettanti sulle tavole inondate. "Ehi, laggiù! Cosa succede?" Nessuno si voltò. Riprese ad avanzare a fatica tra gli ostacoli. Altri libri. Cercando punti d'appoggio sicuri sul pavimento sentì che lo stomaco gli si stringeva. Era una sorta di assembramento di ammutinati? In questo caso, Quilter aveva già stroncato sul nascere più di un ammutinamento a bordo del Bellerophon. "Tornate al lavoro," ringhiò alle figure immobili. "Abbiamo una falla nella sentina. Non mi sentite? Bisogna spostare il carico. Montare le pompe. Presto! Prima che coliamo a picco!" Ancora nessuno si mosse. Poi vide luccicare una spada alla luce della lampada e udì una voce. "Indietro, ho detto!" Quilter impiegò qualche momento a capire che l'ordine non era rivolto a lui. Il muro di sagome arretrò di qualche passo tra inintelligibili mormorii di protesta. Quilter era così vicino da poter vedere le loro facce nel cerchio di luce: i tre stranieri erano stati stretti contro la parete da una buona decina di uomini dell'equipaggio. Uno degli sconosciuti, il più grosso dei due uomini, aveva alzato la spada. Che strana faccenda era quella? Fece un altro passo avanti, afferrandosi al margine di una paratia, ma poi arretrò con un sussulto. Che cosa, in nome di...? Il passo gli si bloccò a mezz'aria. Sotto la sua suola, emergendo dalla sua cassa sfondata, c'era qualcosa che appariva come un'enorme mandibola, grande quanto una balestra, con una dozzina di denti che luccicavano minacciosi alla luce della lampada. Quilter abbassò la lanterna, sbattendo le palpebre confuso e allarmato. Da dove diavolo era venuta quella cosai Scavalcatala che l'ebbe, dovette sobbalzare di nuovo, perché accanto alla mandibola giaceva qualcosa di ancora più stupefacente, la carcassa di una capra a due teste, completa di quattro corna. L'essere emergeva dai frammenti di un grande vaso in pezzi, il cui liquido, sparso sul pavimento, mandava un puzzo ancora peggiore delle sentine. Che cosa, nel santo nome
dell'Onnipotente...? Presto altri strani esseri apparvero, mostri orrendi che la sua memoria incredula avrebbe ricostruito solo molto più tardi, e che sarebbero rimasti impigliati nei suoi incubi per anni e anni a venire. Si riversavano dalle casse, mentre lui avanzava, con passo strisciante, con spire e tentacoli di traverso, le bocche sdentate e orribilmente ghignanti. Altri ancora erano rappresentati non in carne e ossa ma in sculture - creature grottesche e minacciose con due teste e dozzine di arti ondeggianti - o in un enorme libro le cui pagine si sfogliavano a ogni oscillazione della nave. Mentre passava accanto al volume spalancato, Quilter intravide l'immagine di un demone con corna grandi quanto quelle di un toro che violava una fanciulla con il suo spropositato membro nero. Poi, a un rollio della nave, una strega con le mammelle vizze che mordeva il collo di una figura nuda, un uomo, prostrato sotto di lei. Fissò la pagina, sgomento, sentendo i peli del collo che si rizzavano sotto l'impermeabile fradicio. Un altro rollio. Riapparve il demone. Ma in assoluto la peggiore di tutte queste visioni - l'immagine che il capitano Quilter avrebbe portato con se nei suoi sogni più tormentosi e fin nella tomba - fu quella di una sorta di cadavere che giaceva supino in una delle casse più vicine alla parete, un uomo che aveva una maschera al posto del viso e le cui membra rigide si dimenavano come se il mostro cercasse di sorgere dalla sua bara. Perfino i suoi occhi di bambola ruotavano frenetici e la testa si muoveva a scatti piegandosi come quella di un uccello. Parecchi degli uomini dell'equipaggio guardavano la scena con espressioni di meraviglia stupefatta; uno di essi si faceva ripetutamente il segno della croce mormorando una preghiera sottovoce. Quilter rimase inchiodato al suolo come colpito da un incantesimo. Perfino le labbra ghignanti si muovevano come se l'essere stesse tentando di parlare, di pronunciare qualche spettrale minaccia! "Ah, capitano! Finalmente si è deciso a unirsi a noi." La voce riscosse Quilter riportandolo alla realtà. Staccò gli occhi dalle gesticolazioni folli della creatura e posatili sull'uomo con la spada vide che questi eseguiva un inchino e poi, raddrizzatori, tracciava qualche lettera nell'aria con la punta della sua arma. Il cerchio di marinai fece nervosamente un passo indietro. "La pregherei di richiamare i suoi uomini, capitano. Altrimenti sarò costretto a tagliare loro la gola." "Demonio," ringhiò uno dei sottufficiali, Rowley, un veterano delle risse
da angiporto. Si era armato, vide Quilter, di un punteruolo preso dal deposito delle vele. Cosa stava succedendo? Anche parecchi altri impugnavano armi improvvisate - ferri da innesco, serpentine, perfino un paio di manici di scopa - che ora sollevavano minacciosi come un esercito straccione di contadini armati di forconi che hanno messo con le spalle al muro il vampiro locale. Rowley fece un passo avanti. "Non hai già ammazzato abbastanza gente?" "Le garantisco che non ho fatto nulla del genere." "Stregone!" lanciò qualcuno del fondo del gruppo. Il mozzo addetto alle polveri. "Assassino!" "Una commedia molto divertente," replicò lo sconosciuto con un sorriso cortese, tranciando l'aria fetida con la sua lama. "Ma non credete che è meglio darla più tardi? In un altro luogo? Avete sentito il capitano. La nostra nave sta..." Rowley lo interruppe, avventandosi con un urlo gutturale, tendendo il punteruolo. Ma la nave scelse proprio quel secondo per scartare all'impazzata sulla destra e altra acqua si riversò nelle sentine. Gli uomini scivolarono finendo contro le casse e lo sfortunato sottufficiale, squilibrato dal balzo, cadde su un ginocchio, fendendo vanamente l'aria con il punteruolo. Quando cercò di alzarsi si accorse della punta della spada sulla gola. "Bastardo," ansimò a denti stretti, appoggiandosi all'indietro sui talloni. La punta lo seguì, spingendo più a fondo, bucando la pelle. Una perla di sangue scuro apparve, subito rifugiandosi nel colletto. "Demonio. Assassino!" "Rowley!" Quilter ora si stava facendo strada tra l'assembramento. "Per l'amor di Dio, stiamo imbarcando acqua." Cercava di spingerli via dalla parete, lontano dal terzetto circondato. Cosa li aveva presi, tutti quanti? Non sentivano il rombo dell'acqua nelle sentine? La falla era a uno o due metri sotto di loro, il rumore del mare che le invadeva era assordante come un tuono. Da un momento all'altro l'acqua avrebbe raggiunto la stiva e il Bellerophon sarebbe colato a picco come un sasso. "Mi avete sentito? Il carico va spostato! Subito! Prima che affondiamo!" Ancora nessuno si mosse. Poi la nave fu scossa da un brivido prolungato mentre la chiglia grattava contro un banco di sabbia e si inclinava violentemente a destra. Gli uomini scivolarono lungo il ponte ingombro e finirono l'uno nelle braccia dell'altro, come innamorati. Anche Quilter perse l'equilibrio, e prima di potersi raddrizzare sentì qualcuno che cadeva urtandogli la gamba. Si voltò per aiutarlo ma vide un paio di occhi ciechi che lo
fissavano da una maschera ghignante. La creatura, sbalzata dalla sua bara, era rotolata a terra. Le assestò un calcio nel ventre, provocando altri sussulti spasmodici. Quando tornò a voltarsi vide che anche qualcun altro Rowley - si contorceva sul ponte. Era accaduto tutto fulmineamente. Un attimo prima il sottufficiale ci aveva provato, slanciandosi in avanti con un grido, mirando con il punteruolo alla pancia dello sconosciuto. Ma il suo avversario era troppo rapido per lui. Mentre i suoi due compagni si tiravano indietro l'uomo fece mezzo passo di lato e poi con controllate torsioni del polso tracciò un'altra serie di iniziali, questa volta in rosso, sul pomo d'Adamo del sottufficiale. Rowley tossì come se si stesse strozzando con una lisca di pesce, spruzzando sangue sul davanti della giacca dell'uccisore. Poi lasciò cadere il punteruolo e crollò sul pavimento bagnato, dove restò spasimando, tamponandosi debolmente la gola e roteando gli occhi velati - vero e proprio gemello dell'orribile mostro che si dimenava e fremeva a pochi passi. Rialzandosi da terra, Quilter osservò la scena dell'uomo che, ritto sopra Rowley, ripuliva la lama della sua arma accigliandosi alla vista del sangue sulla giacca, come chiedendosi da dove venisse. I suoi compagni si tenevano sempre al riparo della sua ombra, mentre Rowley giaceva inerte con una pozza vermiglia che si andava allargando intorno alla sua testa. "Allora? Altre discussioni?" La piccola folla aveva fatto un passo indietro. L'uomo stava rinfoderando con cura la spada. Il rumore dal basso si stava facendo più forte, come il ringhio di una bestia feroce che emergesse dalle sentine, le zanne scoperte e gli occhi accesi. "No? Allora propongo che diamo assistenza al capitano." Quilter ormai era in piedi, ancora malfermo sulle gambe, e spostava lo sguardo incredulo dal cadavere supino nell'acqua e alla figura che lo sovrastava. Per la prima volta dimenticò il mare che invadeva la nave, il fatto che in meno di un quarto d'ora tutti loro sarebbero morti schiacciati o annegati. "Assistenza...?" Ansimava per la fatica e la collera. "Lei chi diavolo..." Ma aveva appena aperto la bocca che il ponte si inclinò violentemente per la terza volta. Rowley rotolò seguendo il movimento, agitando nel vuoto un braccio prima di ricadere sul dorso come ispirato anche lui dalla maligna stregoneria dell'uomo che ancora gli stava sopra. I marinai sbigottiti fecero un altro incerto passo indietro. Poi l'acqua cominciò ad affiorare gorgogliando nella stiva.
Della esatta natura dell'alterco avvenuto sul ponte inferiore Quilter venne a conoscenza solo più tardi, anche se le sue congetture si erano già avvicinate alla realtà. A quanto pareva, dunque, gli uomini, vedendo i libri e gli altri campioni - diaboliche reliquie, per come le vedeva Quilter - avevano dato a Sir Ambrose Plessington (così si era poi presentato l'uomo) la colpa non solo della tempesta ma anche degli improvvisi attacchi di febbre. Come altrimenti si potevano spiegare queste tragiche fluttuazioni della sorte se non come il giudizio dell'Onnipotente sui diabolici libri e mostri che erano tra loro? E in quale altro modo potevano tali fluttuazioni essere deviate, e la nave salvata, se non gettando in mare le casse incriminate? Sir Ambrose aveva eccepito a questa particolare linea argomentativa. Affermava che gli uomini stavano saccheggiando le casse, anche se il capitano Quilter non si capacitava di come qualcuno - anche qualcuno che teneva nel baule del bagaglio l'omento di un neonato - potesse desiderare di impadronirsi di quei macabri tesori. Ma alla fine prese le parti del suo passeggero, ordinando che le novantanove casse rimanessero nella stiva. Avrebbero ancora funzionato come zavorra per la nave se fossero state spostate - ma subito, subito - sul lato sinistro. E così per la successiva mezz'ora, mentre l'acqua insidiosa si riversava lenta e costante sul ponte della stiva raccogliendosi alta un palmo negli angoli, una squadra di uomini si diede da fare a spostare le casse su un piano più elevato. Una volta rimesso al suo posto il loro sinistro contenuto compito orrendo, davanti al quale anche il più prode dei marinai si trovò a rabbrividire - furono richiuse e trasportate verso il fianco sinistro, issate su tavolacci, legate strette tra loro e ricoperte con travi spezzate e altro materiale pesante recuperato dal ponte. Un'altra squadra ebbe il compito di aprire dei fori nel ponte così che una terza squadra, armata di secchi di tela, poteva dare inizio alle operazioni di sgottamento. Ma tutti questi frenetici sforzi erano stati vani, capì ben presto Quilter, dopo che lui e l'altra metà dell'equipaggio erano risaliti fino al castello, perché il Bellerophon sbandava più che mai. Era solo questione di tempo, qualche minuto al massimo, e poi sarebbe colato a picco, carico e tutto. La pioggia era finalmente cessata, ma il vento di nordest soffiava con la forza di sempre. Le onde si avventavano contro la nave con le loro gobbe arcuate e le bianche falci di spuma. Pinchbeck e un pugno di uomini erano radunati sul ponte del castello, tentando di tamponare una falla nel lato destro della prua. Due degli uomini stavano tuffando nell'acqua vicino al bu-
co un cesto ricoperto di tela, aiutandosi con un lungo palo, nella speranza di portare il cesto abbastanza vicino alla falla perché le filacce di canapa contenutevi si liberassero e venissero risucchiate nel foro otturandolo. Pinchbeck aveva già provato, senza successo, a passare una vela sotto la prora della nave. Ora il telo si allontanava alla deriva dal lato sinistro, gigantesco calamaro che agitava i tentacoli tornando nella sua tana subacquea. Tre uomini erano stati mandati alla stiva delle vele a prenderne un'altra, ma Quilter vedeva l'inutilità di tutto ciò. Poteva scorgere, a breve distanza sul lato sottovento, un enorme banco di scogli, il Margate Hook, semiaffiorante per la marea in calo. Non c'era più speranza, capì. Il veliero si sarebbe schiantato sugli scogli prima che gli uomini facessero ritorno. "Non c'è abbastanza acqua, capitano," gridò il nostromo al di sopra dell'ululato del vento mentre il paniere veniva gettato per la decima volta in mare. "Bassa marea! A stento quattro braccia! Siamo in secca! Non possiamo passarle sotto la vela! Troppo vento!" Tacque indicando gli uomini, che con le mani rosse e irrigidite dal freddo, stavano manovrando con il paniere. "Nemmeno la cesta!" "Continuate a provare!" Quilter trattenne il fiato mentre il paniere scompariva sott'acqua con un tonfo. Il Bellerophon si era inclinato ancora dì più; ormai l'albero di trinchetto, malamente piegato in cima, toccava quasi l'acqua. Era impossibile rimanere in piedi su quella parete montana scivolosa che era diventato il ponte del castello senza aggrapparsi a qualcosa. Già le prime onde cominciavano a scavalcare il parapetto di destra. La costa ondeggiava come in un gesto di richiamo sulla sinistra, pericolosamente vicina. Quilter poteva udire i versi dei gabbiani e gli parve di sentire l'odore dei pascoli. Era così dunque che la morte se li sarebbe portati via? A meno di un tiro di moschetto dalla terraferma? Con davanti agli occhi gli alberi e le greggi di pecore che brucavano pacificamente l'erba? Qualche secondo dopo la cesta riemerse inconcludente in superficie tra un coro di imprecazioni. "Non c'è speranza, capitano!" Pinchbeck si era raddrizzato e si detergeva la fronte con un fazzoletto sporco di sangue. "Dico che dobbiamo abbandonare la nave." Ma Quilter si era voltato dall'altra parte e stava osservando con distacco frastornato le nuvole che si accumulavano a oriente iniziando il loro viaggio verso l'entroterra. Aveva le dita e le guance gelate, i piedi semisommersi nell'acqua. Il Margate Hook era sempre più vicino, la luce brillava esangue nel vecchio faro di legno. Entro un minuto al massimo le onde li
avrebbero sospinti sulla scogliera. "Dico di abbandonare la nave!" ripeté Pinchbeck, rivolgendosi agli uomini sul castello visto che Quilter non rispondeva. "Preparate le scialuppe!" "Non c'è tempo," mormorò tra sé Quilter mentre un paio di uomini si precipitavano verso i canotti sospesi alle loro imbracature. Ma prima che avessero fatto cinque o sei passi, furono fermati da un grido dalla mezzeria. "Capitano!" Uno dei marinai, un gabbiere, era aggrappato all'albero di trinchetto con una mano e puntava a proravia con l'altra. "Guardi! Una nave, lì!" Quilter fissò lo sguardo nel vento. Il vascello era apparso sul quadrante di dritta, privo di bompresso e di trinchetto, il resto dell'alberatura spoglia o drappeggiata da brandelli di tela. Andava alla deriva senza controllo, lo scafo basso nell'acqua e uno dei pennoni che roteava come le pale di un mulino a vento. Strizzando gli occhi Quilter riuscì a distinguere qualche uomo sul casseretto, un altro gruppo che si affannava a calare una delle scialuppe nel mare che ne lambiva il parapetto. Anche a quella distanza poteva leggere il nome scritto sulla prora. Lo Star of Lübeck. Un secondo dopo vide che i tre uomini sul casse-retto erano vestiti di nero. Nella nebbia degli spruzzi sembravano nient'altro che ombre. Ma poi la visione scomparve, perché in quel momento lo scafo del Betterophon cozzò contro il margine sommerso del Margate Hook e cominciò a squarciarsi. Strisciò lungo la scogliera per metà della lunghezza della chiglia, tra lo strepito del fasciame mentre gli alberi si abbattevano, finché si arrestò con la prora e il bompresso chini sopra i massi che spuntavano dal mare. Poi si inclinò agonizzante sulla destra; il bompresso si spezzò con uno schianto e lo scafo cedette mentre le assi si piegavano e si spaccavano e le caviglie di legno schizzavano via come turaccioli. L'acqua si avventò sui ponti devastati qualche secondo dopo, e il capitano Quilter e il suo equipaggio furono scaraventati nelle grigie fauci del mare. CAPITOLO 11 Il Navy Office proiettava un'immensa ombra su St Olave quando tornai in Seething Lane. Alla luce del giorno l'edificio appariva ancora più grande, massiccia struttura che con i suoi piani aggettanti e le sue travi incatramate sembrava un'enorme fregata che si fosse arenata nel bel mezzo di
Londra. La mia impressione fu rafforzata quando oltrepassai la portineria e varcai le pesanti porte di quercia che erano state aperte un momento prima. Decine di impiegati e di fattorini si muovevano a passo svelto attraverso il pavimento di legno come marinai che si preparassero a una bufera, e dalla porta aperta di un grande ufficio intravidi due o tre capitani che confabulavano sopra una mappa i cui angoli erano fissati al tavolo con fermacarte a forma di ancora. La vista delle loro belle facce abbronzate dal sole tropicale mi ricordò che mentre io me ne stavo rintanato nella mia bottega altri uomini veleggiavano per i quattro angoli della terra, esplorando nuovi continenti e navigando per fiumi misteriosi. Mi sentii irrimediabilmente fuori posto. Due giorni erano passati da quando il negozio era stato devastato. Alla metà del pomeriggio precedente la Nonsuch Books era tornata alla normalità, o quasi. Non c'è disastro tanto grande, secondo la mia esperienza, che non possa essere riparato con una stecca d'osso, un succhiello e un telaio per cucire. Per ore e ore nel negozio erano riecheggiati i suoni di un frenetico e ininterrotto lavorio. Un falegname aveva riparato la porta verde e l'aveva reinstallata sui suoi cardini, mentre un fabbro sostituiva la serratura con una ancora più forte. Il falegname inoltre aveva misurato e montato cinque nuovi scaffali di noce, che io subito avevo riempito di libri. Monk e io avevamo raccolto quelli rimasti a terra e ci eravamo dedicati a restaurare i più danneggiati. Secondo i miei calcoli saremmo stati pronti a rientrare in attività in uno o due giorni al massimo. Questa mattina avevo lasciato il negozio nelle mani di Monk ed ero tornato in Seething Lane - non per intrufolarmi nel cimitero di St Olave ma per svolgere le mie indagini presso il Navy Office, che mi sembrava il posto più adatto per investigare sul viaggio di Sir Ambrose per l'impero di Guiana. Ero arrivato alla conclusione che avrei potuto sapere di più sui miei misteriosi nemici - forse anche su Henry Monboddo - se avessi saputo di più su Sir Ambrose. Speravo che il giornale di bordo del Philip Sidney esistesse ancora, o magari la sua collezione di carte nautiche e altri ricordi. Pensavo anche che avrei potuto mettere le mani su una copia del rapporto del Lord cancelliere sulla disastrosa spedizione di Raleigh del 1617-1618. Ma dopo due ore al Navy Office non ne sapevo molto di più. Fui lasciato ad aspettare seduto su una panca mentre le campane di St Olave battevano le nove, poi le dieci. I capitani entravano e uscivano con i rotoli delle carte sotto il braccio coperto da maniche di broccato. Gli impiegati passavano facendo scricchiolare le tavole del pavimento o restavano chini sugli
scrittoi con la penna d'oca che svolazzava febbrilmente. Erano le undici quando mi fu fatto cenno di farmi avanti, ma solo per finire sballottato da un minuscolo sportello all'altro. Nessuno degli impiegati aveva mai sentito parlare di un capitano di nome Sir Ambrose Plessington; né avevano idea di dove si potessero trovare il giornale di bordo o il rapporto del Cancelliere. Uno di questi manichini mi suggerì di rivolgermi alla vecchia sede in Mincing Lane, mentre un altro optava per la Torre, dove affermava trovarsi parte della documentazione della Cancelleria. Un terzo spiegò che il Navy Office era in pieno marasma perché i vecchi commissari di Cromwell erano stati allontanati ed era assai improbabile che i nuovi, nominati dal re, fossero in grado di individuare documenti vecchi di quarant'anni, se ancora non avevano imparato a trovare la propria scrivania senza perdersi nei meandri del palazzo. Mezzogiorno era già passato quando lasciai il Navy Office, convinto che era tempo di cercare altrove Sir Ambrose. Mi feci strada tra la folla fino al Tower Wharf, dove dozzine di bettoline e di pinacce erano ormeggiate lungo i moli come una paziente mandria di bestiame. Per dieci minuti andai su e giù per la banchina, urtando contro gli scaricatori con i loro barili rimbombanti e imprecando tra me e me, prima di trovare finalmente un canotto libero e di salire a bordo. Con la marea contraria impiegò quasi mezz'ora per raggiungere Wapping. Il villaggio sorgeva un miglio a valle del Tower Wharf ed era costituito da poco più che un paio di file di casupole affacciate sulle sponde del Lower Pool. Dalla mia stanza al piano superiore a volte riuscivo a vederne lo spiazzo del deposito di legname e la guglia della chiesa, ma non vi avevo mai messo piede. Quella mattina, però, speravo di trovarvi un vecchio chiamato Henry Biddulph, che abitava a Wapping da quasi settant'anni. Era stato Addetto agli Atti per la Marina fino al 1642, anno in cui quasi tutte le navi della flotta erano passate a Cromwell, e Biddulph, fedele a re Carlo, aveva perso il lavoro. Da allora aveva dedicato il suo tempo alla compilazione di una storia della marina dai giorni di Enrico VIII - un'opera mastodontica che dopo diciotto anni e tre volumi non era ancora arrivata alla Armada spagnola del 1588. Né era riuscito a venderne molte copie, benché tenessi sempre in negozio tutti e tre i volumi, dato che nel corso degli armi Biddulph era diventato uno dei miei migliori clienti. Visitava Nonsuch House più volte al mese, e io mi occupavo di rintracciargli dozzine di libri. Sulle navi sospetto che sapesse quanto io sapevo sui libri, e ora speravo che potesse fornirmi qualche informazione.
"Capitan" Biddulph (così era conosciuto dal vicinato) mostrava di essere un personaggio di rilievo a Wapping, benché la casa a cui fui indirizzato dall'unico taverniere del villaggio fosse una cosina modesta, un minuscolo cottage di legno con il tetto mezzo sfondato e il giardino incolto. Due finestre sul davanti affacciavano sul fiume, due sul retro sul deposito di legname da cui veniva un frastuono micidiale di martelli e seghe. Ma il rumore non dava disturbo a Biddulph, che era al lavoro sul volume numero quattro quando bussai alla sua porta con il pomo del bastone. Mi riconobbe immediatamente e subito mi invitò a entrare. Biddulph mi era sempre piaciuto. Era un vecchietto arzillo con due allegri occhi azzurri e una cerchia di capelli bianchi da monaco che gli stavano ritti sulle orecchie come le piume di un gufo. E girando lo sguardo sul disordine del suo studio dovetti convenire con piacere che era proprio un mio affine. Sembrava che tutti i suoi soldi fossero finiti in libri, o in scaffali per contenerli. In effetti, buona parte dei volumi con le loro legature in marocchino apparivano in condizioni migliori di quelle del loro proprietario, che indossava un paio di brache sformate e un farsetto di pelle gualcito. Avendolo visto solo in Nonsuch House, nel mio ambiente, mi faceva uno strano effetto incontrarlo su un terreno diverso, qui nel suo nido con le incisioni ingiallite di navi appese alla parete. Mentre guardavo un micione rosso che dopo essersi arrampicato dalla finestra gli si accoccolava in grembo, riflettei con un pizzico di rammarico su quanto poco sapessi anche dei miei clienti più fedeli. Dopo che ci ebbe servito un pranzo di anguille alla griglia, ci ritirammo nel suo studio, dove mi invitò ad assaggiare una nuova bevanda chiamata "rumbullion", o "rum" per brevità. Era un liquido diabolico che sembrava ustionare il gargarozzo e annebbiare il cervello. "Forte il doppio del brandy," ridacchiò allegramente, notando la mia smorfia. "I marinai delle Indie occidentali lo chiamano 'Ammazzademonio'. Lo distillano dalla melassa. Un capitano che conosco ne contrabbanda ogni tanto un barilotto dalla Giamaica per me. Me lo lascia qui a Wapping prima che la sua nave arrivi alla banchina della dogana." Fece un altro risolino, ma poi il suo sguardo si fece serio e interrogativo. "Ma lei non è venuto fino a "Wapping per bere rum, Mr Inchbold." "No, infatti," mormorai, cercando di riprendere quel fiato che la bevanda aveva espulso dal mio petto. "No, Mr Biddulph, sono venuto a chiederle notizie di una nave." "Una nave?" Sembrò sorpreso. "Bene, bene. E quale sarebbe?"
Sulle prime né il Philip Sidney né il suo capitano gli dissero molto. Ma quando gli spiegai perché ritenessi che la nave era salpata con l'ultimo viaggio di Raleigh, alzò lo sguardo verso le travi del soffitto canterellando sottovoce "Plessington, Plessington," come se il nome fosse una specie di formula magica. Un momento dopo batté le mani, spaventando il gatto. "Sì sì sì - ora ricordo. Certo, certo. Il capitano Plessington! Come ho potuto dimenticarmene?" Si era piazzato un pezzo di tabacco tra guancia e denti e ora fece una pausa per vuotare un torrente di succo in una sputacchiera ai suoi piedi. "È che in questo periodo vivo in un altro secolo," disse indicando il piccolo scrittoio, su cui scorsi, nella pila dei volumi, una copia del Veritiero rapporto sulla Distruzione della Invincibile Armada di Fazeby. Dunque gli eventi decisivi del 1588 erano finalmente stati raggiunti. "Passo così tanto tempo nel regno della regina Bess che a volte il mio cervello vecchio e stanco si confonde. Ma il capitano Plessington - sì, sì, ricordo la sua nave." Annuiva vigorosamente. "Certo che la ricordo, Mr Inchbold. Perfettamente." Ma improvvisamente cessò di annuire, e i suoi vivi occhi azzurri si strinsero di nuovo. "Che cosa voleva sapere della nave?" "Tutto quello che può dirmi," risposi stringendomi nelle spalle. "Mi sembra che Plessington ottenne l'autorizzazione di costruirla nel 1616. Sono incuriosito dal suo viaggio - cioè, se effettivamente ebbe luogo." "Oh, ebbe luogo, Mr Inchbold," Biddulph aveva ripreso ad annuire, accarezzando il gatto che giaceva abbandonato di traverso sulle sue ginocchia. "E lei è fortunato, perché posso dirle qualcosa sull'autorizzazione. Questo e molto d'altro, se lo desidera. Vede, a quel tempo lavoravo al Navy Office, come assistente dell'Addetto agli Atti, e così vidi tutti i vari contratti e libri contabili per il Philip Sidney." Alzò uno dei suoi bianchi sopraccigli. "E raccontavano una storia strana, Mr Inchbold." Per un momento il frastuono delle attività nella legneria parve scemare, e sentii le onde che lambivano i sostegni della casa. Giocherellando con la mia tazza, cercai di mantenere un tono disinvolto. "E quale stranezza potrà essere?" "Be', strana fu l'intera spedizione, Mr Inchbold. Indubbiamente lei lo saprà. Ma abbia pazienza, la prego..." Aveva ripreso a fissare le travi e a masticare lentamente il tabacco. "I vecchi devono procedere un passo alla volta. È facilissimo per un cervello vecchio confondere una cosa con un'altra." "Si figuri, Mr Biddulph." Ora sentivo il battito del cuore nella gola, lento e pesante. Mi adagiai sulla poltrona e assaggiai un altro sorso bruciante di rumbullion.
Ma il vecchio cervello di Biddulph era più acuto che mai, e i dettagli non si fecero attendere. "L'autorizzazione fu concessa, se ben ricordo, nell'estate del 1616," spiegò dopo breve ruminazione, sempre studiando le travi screpolate. "Appena Raleigh fu liberato dalla Torre. I lavori di costruzione della nave iniziarono subito dopo. Fu costruita nei cantieri di Woolwich, dove erano stati realizzati tutti i nostri migliori vascelli da guerra. L'Harry Grace à Dieu fu costruita lì per Enrico VIII, e il Royal Sovereign per il defunto re Carlo. Dio l'abbia in gloria," aggiunse dopo una breve pausa. "E il Philip Sidney?", incalzai vedendo che un altro lungo silenzio di riflessione minacciava di aprirsi tra noi. "Ah, sì. Il Philip Sidney. Fu costruito personalmente dal direttore del cantiere navale, Phineas Pett. Impresa non da poco, anche per un uomo capace come Pett. Seicento tonnellate di stazza con più di cento cannoni sui ponti. Era ancora più grande del Destiny, altro prodotto di Woolwich. Passarono otto mesi buoni dal giorno in cui i cavalli portarono sul posto il legname per la chiglia alla sera in cui fu fatta scivolare lungo lo scalo di alaggio ingrassato. Quella sera io mi trovavo nel cantiere. Il principe Carlo in persona eseguì la cerimonia del varo con una coppa di vino. Poco più che un bambino, all'epoca. 'Dio benedica te e tutti coloro che con te navigheranno...' Bello scherzo, eh?" mormorò cupamente, "considerando tutto quello che accadde. Ricordo di aver pensato che era già un fenomeno che fosse anche solo in grado di navigare." "Per via delle dimensioni?" "Non solo. Vede, nessuno di noi al Navy Office si aspettava che sarebbe mai stata completata. La spedizione di Raleigh ci parve tutta una follia fin dall'inizio. Sir Walter era uno spaccone, lo sapevano tutti. Prima c'era stata quella faccenda di fondare colonie nelle paludi della Virginia. Poi passò dodici anni di fila nella Torre a covare i suoi progetti dissennati di scoprire chi sa quale miniera nel bel mezzo della giungla della Guiana. Follia pura, dico io. Dopo tutto, lo spato bianco riportato dal Lion's Whelp e saggiato a Goldsmiths' Hall dal Controllore della Zecca..." "Chiedo scusa," lo interruppi. "Il Lion's Whelp...?" Il nome mi suonava familiare. Accennò con il capo a una delle incisioni fissate alla parete sopra la sua scrivania. "La nave di Raleigh nel suo primo viaggio alla Guiana." "Ah... sì." Ricordai la Scoperta del grande, ricco e bellissimo impero di Guiana, un esile volumetto che avevo in libreria, e che avevo visto sulla li-
sta di Alethea dei libri mancanti da Pontifex Hall. Un libro che era andato perduto insieme con Il labirinto del mondo. "Sì, certo." "Come dicevo, lo spato bianco riportato dalla Guiana nel 1595 mostrava non più di venti once d'oro per tonnellata di minerale. Una quantità irrisoria, che non avrebbe giustificato lo scavo di una miniera nemmeno in Inghilterra, figuriamoci a migliaia di miglia nel folto di una giungla. Poi c'era anche il fatto che le acque dell'Orinoco non erano mai state mappate in maniera affidabile, nemmeno dagli spagnoli, sebbene i migliori ingegneri della Scuola di Navigazione e Cartografia di Siviglia battessero da decenni le foreste della Guiana. Quanto alle miniere d'oro, gli spagnoli potevano basarsi solo sulla parola di qualche selvaggio torturato, e lo sanno tutti che una vittima dice sempre quello che il suo carnefice vuole sentirsi dire." Fece una pausa per servirsi nuovamente della sputacchiera. "Peggio di tutto, però, era l'ambasciatore spagnolo." "Gondomar," mormorai. "Esattamente. Era noto a tatti quanto re Giacomo subisse la sua influenza. Gondomar si imponeva più ancora di Buckingham - a quei tempi, si sa, semplicemente Sir George Villiers. E si diceva che Gondomar fosse massimamente contrariato dall'autorizzazione concessa a Raleigh. Vede, lui considerava Raleigh nient'altro che un bucaniere, come Drake. E presto cominciò a circolare la voce che anche Villiers non era più così entusiasta della spedizione. Fu così che per otto mesi ci aspettammo di vedere i carpentieri di Pett abbandonare gli attrezzi, o di svegliarci una mattina scoprendo che il Sidney era bruciato sui suoi blocchi." Un folata di vento entrò dalla finestra portando un pesante odore di salmastro. Vidi un gabbiano passare davanti al telaio del vetro sollevato, poi l'albero ondeggiante di una pinaccia che risaliva lentamente la corrente. Biddulph taceva e i martelli della legneria sembravano più rumorosi che mai. "Ma non accadde niente di tutto ciò," lo sollecitai. "La nave salpò." "Infatti." Biddulph spostò la cicca di tabacco nell'altra guancia e alzò le spalle. "L'avidità prevalse sulla paura e sul buonsenso, come al solito. Il denaro per attrezzare la nave e pagarne l'equipaggio era già stato raccolto tra gli investitori del Royal Exchange, per cui la paura e il buonsenso avrebbero mandato in rovina mezza Londra. Ergo, nel giugno dell'anno 1617 il Sidney lasciò Londra per unirsi al resto della flotta a Plymouth. Assistetti anche a questo. La vidi alzare le ancore e avviarsi giù per il Tamigi da Woolwich. Mi sembra di vedere ancora il nome dipinto in lettere d'oro
sul quadro di poppa," disse assorto. Poi aggiunse: "Nome singolare per una nave, vero? Il nome di un poeta." "Sì," risposi. "Davvero singolare." Mi era già venuto in mente che potesse esistere un nesso tra la nave e uno dei libri di filosofia ermetica che avevo spolverato pochi giorni prima, lo Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno, un'opera esoterica che esalta la religione dell'antico Egitto. Bruno aveva dedicato il suo trattato a Sir Philip Sidney, che era non solo un poeta e un cortigiano, ma anche un soldato, caduto combattendo gli spagnoli nei Paesi Bassi. "Come dicevo, assistetti alla sua partenza per il viaggio inaugurale," aveva ripreso Biddulph. "Ma sapevo che era l'ultima volta che la vedevo. Sapevo già allora che il Sidney non avrebbe mai fatto ritorno a Londra." "A causa di Gondomar?" Questa parte della storia credevo di conoscerla. Si diceva che mentre Raleigh lasciava Plymouth una flotta di navi da guerra spagnole stesse prendendo il largo da La Coruna. "Correva voce che gli spagnoli intendessero intercettare la flotta." "No, c'era qualcosa di più." Si mosse sulla sua poltroncina, da cui spuntava l'imbottitura di crine. "A quel tempo mi trovavo nella posizione di poter esaminare i libri contabili della nave. Lessi tutto ciò che aveva a che fare non solo con l'approntamento e l'approvvigionamento del Sidney, ma anche con le altre navi. Allora ero responsabile della preparazione di tutti i contratti e le lettere, per e dalla Marina, destinati alla firma e alla spedizione. Quei documenti riguardavano principalmente l'acquisto di viveri e legname, cordame e vele, e così via. Una flotta di navi è come una mandria di grandi bestie fameliche, capisce. Devono essere abbeverate e nutrite, poi strigliate e curate come cavalli di razza e infine abbigliate come belle signore dalla modista e dal sarto. Mi occupavo anche di tutti i progetti e i modelli realizzati dai maestri d'ascia," concluse, "e dei contratti per i loro servizi." "E che cosa venne a sapere dai contratti per il Philip Sidney?" Il suo viso rimase inespressivo. "Venni a sapere che il capitano non aveva nessuna intenzione di risalire le acque dell'Orinoco. Vede, Mr Inchbold, la nave del capitano Plessington era diversa dalle altre della flotta." Mi sentii rimescolare. Il rumbullion e il fracasso dei martelli mi stavano provocando un terribile mal di testa. "Diversa in che senso?" "Il Sidney era una prima classe," spiegò. "Ossia poteva portare cento cannoni e più. Il Destiny ne aveva solo trentasei. Quindi con una batteria di tale peso il Sidney aveva bisogno di un forte pescaggio, ovviamente, come
la maggior parte delle nostre prime classi. È per questo che le nostre navi da guerra sono superiori a quelle degli olandesi," aggiunse abbassando la voce, come temendo che sotto il suo tetto malconcio fosse acquattata una spia olandese. "È per questo che Cromwell riuscì a infliggere una sconfitta così sonora agli olandesi nel '54. Le loro navi hanno bisogno di una chiglia poco profonda per poter navigare nelle loro acque costiere, e avendo la chiglia poco profonda non possono portare tanti cannoni come noi. Ergo, noi abbiamo una potenza di fuoco molto superiore. Con un paio di pezzi da 32 libbre una nostra prima classe può disperdere le loro flotte come fossero fuscelli. Gli spagnoli e le loro fregate, invece... be', quella è tutta un'altra storia," aggiunse a malincuore. "Ma il Philip Sidney," lo incalzai di nuovo, "la sua chiglia era profonda?" "Oh, altro che. Era una nave magnifica per sbaragliare gli olandesi, ma ben poco adatta per esplorare fiumi in Guiana. Con un tale pescaggio non avrebbe mai potuto affrontare le acque dell'Orinoco. Vede, Mr Inchbold, questa era un'altra cosa strana del viaggio. Mi chiesi perché la flotta di Raleigh dovesse arrivare in Guiana in dicembre o gennaio, epoca in cui la navigazione del fiume presenta le maggiori difficoltà. Per spingersi verso l'interno sull'Orinoco occorre una barca che pesca solo cinque o sei piedi d'acqua, una profondità che in alcuni punti si trova solo con il flusso di marea, anche nelle vicinanze dell'estuario. Perfino nella stagione umida. E quindi nel mese di gennaio..." "Già," annuii, "la stagione secca." Cercai di dare un senso a queste informazioni. "Ma se i cannoni erano semplicemente per protezione? E se fin dall'inizio non era previsto che il Philip Sidney risalisse il fiume? Se doveva ancorarsi al largo della costa? Sir Ambrose avrebbe potuto benissimo navigare sul fiume a bordo di un canotto o di un legno più piccolo." "Vero." Si strinse nelle spalle e fece una pausa per liberarsi di un altro schizzo di succo di tabacco con la velocità di una balena groenlandese che soffia acqua. "E in effetti la nave aveva un canotto a vela assicurato alla poppa. Ma c'erano altre cose che non aveva. Vede, oltre ai barili di acqua e di maiale in salamoia, le altre navi erano cariche di ogni sorta di attrezzatura di scavo e di materiale di analisi. Picconi, pale, carriole e carrelli da trincee, mercurio. Le fatture e i contratti formavano delle pile alte così nel mio ufficio. E c'erano contratti per i soldati e gli altri uomini degli equipaggi, molti dei quali, va detto, erano manigoldi che puzzavano di galera o di bordello perché i migliori marinai di Londra e di Plymouth vedevano la
missione come una pazzia." "E invece il Philip Sidney?" Ebbene, quella era la cosa più strana. A bordo non c'era, spiegò Biddulph, nessuno strumento di analisi, nessun attrezzo di scavo o di estrazione - niente del genere. Comunque niente che fosse stato registrato presso il Navy Office. Nessun contratto che fosse stato sigillato e timbrato dall'assistente dell'Addetto agli Atti. Solo soldati e cannoni, il tutto preparato con quella che al giovane Biddulph parve la massima segretezza. Anche altro materiale, fasci di carte con tavole e progetti - anche se non sapeva dire a quale scopo precisamente fossero destinati. Affermò di non avere competenza in cose del genere. Ma ogni sorta di complicati disegni e tavole di calcoli matematici erano stati coinvolti nella costruzione e l'attrezzatura del Philip Sidney. Un segno di quei tempi, disse. Da qualche parte nel Navy Office si trovava un libro intitolato Invenzioni Segrete, Utili e Necessarie di Questi Tempi per la Difesa di quest'Isola, e per Resistere a Forestieri, Nemici della Verità e della Religione di Dio. Il suo autore, spiegò, era uno scozzese chiamato John Napier. "Difficilmente troverà quel volume sui suoi scaffali, o anche altrove, Mr Inchbold. E un documento riservato. Ne furono stampate pochissime copie." "John Napier? Temo di non seguirla. Non era un matematico?" Lo era, confermò Biddulph. Uomo dalle molteplici sfaccettature, Napier era stato il primo matematico a usare il punto decimale, e nel 1614 aveva fatto la sua più grande invenzione: i logaritmi. A quei tempi, spiegò Biddulph, si stavano aprendo interi nuovi mondi, non solo l'America e i Mari del Sud, ma anche nella matematica e nell'astronomia. Uomini come Galileo e Keplero esploravano i cieli proprio come Magellano e Drake avevano esplorato gli oceani. Con il suo telescopio, nel 1610 Galileo aveva avvistato per la prima volta i satelliti di Giove. Nel 1612 Keplero aveva contato 1001 stelle, oltre 200 più di Tycho Brahe. Pochi anni prima Keplero, fervente protestante, aveva interrotto le sue osservazioni delle stelle per calcolare per Sir Walter Raleigh il metodo più efficace per stivare le palle di cannone su un ponte di batteria. Questa nuova scienza, spiegò Biddulph, andava di pari passo con le esplorazioni e le guerre combattute per l'oro e per la religione. Matematici e astronomi erano al servizio di re e imperatori. In Scozia, temendo un'altra Armada spagnola, un'invasione cattolica dell'isola, Napier aveva composto complessi piani per la sue "invenzioni segrete", una delle quali era uno specchio gigante che faceva uso del calore
del sole per bruciare le navi nemiche sulla Manica. I suoi logaritmi furono presto utilizzati come aiuto alla navigazione da Edward Wright, studioso di Cambridge e autore di Taluni Errori nella Navigazione individuati e corretti. "La guerra era diventata un'arte sofisticata," spiegò Biddulph, "combattuta tramite numeri misteriosi e complesse geometrie. E lo stesso valeva per la navigazione. Francesco Bacone studiò progetti per navi mercantili migliori e più grandi - vascelli da 1100 tonnellate, con chiglie lunghe trentacinque metri e vele maestre larghe ventitré. Sperimentò anche nuovi metodi per disporre e ordinare le vele per traversate più veloci sull'oceano. Qualcuno affermava addirittura che Bacone avesse progettato personalmente il Sidney, e per quanto ne so potrebbe anche essere vero. Come molti a quei tempi, strisciava davanti a Villiers. Se Villiers voleva una nave, Bacone certamente gliel'avrebbe progettata. E gli vendette la sua casa nello Strand, York House, quando Villiers se ne invaghì. È lì che Villiers si proponeva di conservare tutti i libri e i quadri che aveva cominciato a collezionare." "Ho capito bene?" riuscii a interromperlo. "Mi sta dicendo che il Philip Sidney era armato di... come dire... di uno degli specchi giganti di Napier?" Cominciavo a chiedermi se tutto sommato la mente di Biddulph non stesse davvero prendendo qualche abbaglio. Ma poi ricordai che gli Errori di Navigazione di Edward Wright erano anch'essi sulla lista dei libri che mancavano all'appello a Pontifex Hall, uno dei volumi portati via dalla biblioteca insieme al Labirinto del mondo. "No, certo," rispose pacatamente. "Sto solo spiegando che il Philip Sidney appariva equipaggiata per scopi diversi dalla ricerca dell'oro lungo l'Orinoco." "Il che vuol dire..." "Il che in sé non vuol dir molto, probabilmente. Come lei dice, sono tanti i pericoli in cui ci si può imbattere in alto mare. Sarebbe stata un'avventatezza non dotarsi di quanti più cannoni possibile. Ma se vuole capire il vero scopo del viaggio del Sidney, deve sapere come stavano le cose a quei tempi. Voglio dire, come stavano le cose al Navy Office ma anche nel paese più in generale." "Il vero scopo?" Biddulph fece una pausa. Aveva chiuso gli occhi e per un momento pensai che si fosse assopito. Sentivo che in quella stanzetta cominciavo a sudare e a respirare con difficoltà. Stavo per ripetere la domanda, ma i suoi
occhi si aprirono all'improvviso e Biddulph, con un gemito affaticato, si issò in piedi. Il gatto sonnacchioso che gli stava acciambellato tra le braccia sbatté le palpebre nel livido raggio di sole che ora penetrava dalla finestra. "Sì. Il suo vero scopo. Ma vogliamo fare due passi, Mr Inchbold?" Grattando il gatto tra le orecchie, mi guardava dall'alto, strizzando gli occhi nella colonna di luce. "Gliene parlerò mentre camminiamo. Una passeggiata, vede, a volte ha il potere di rinfrescare un cervello vecchio e stanco." La marea aveva cambiato direzione quando uscimmo dalla casa e la maggior parte del traffico in Lower Pool ora era diretto a valle. I remi sibilavano e schiaffeggiavano l'acqua, le vele sussurravano nella brezza. Camminammo lungo il molo in direzione di Shadwell, con il sole caldo sulle nostre spalle. Dovetti darmi da fare con il bastone da passeggio per stare al passo con Biddulph, vispo come un'anatra. Rallentava l'andatura solo per raccogliere qualche primula dalla riva, indicarmi qualche particolarità del paesaggio o rivolgere una galanteria alle signore di Wapping che rincasavano dallo Smithfield Market con la cena che spuntava dalla borsa della spesa. Camminammo fino a Limehouse Stairs, quasi un intero miglio. Solo sulla via del ritorno, socchiudendo gli occhi alla viva luce del sole, Biddulph riprese la sua storia. La storia, da come la raccontò Biddulph, sembrava uno di quei Drammi di Vendetta così popolari nei teatri del tempo, una vicenda uscita dalla penna di John Webster o Thomas Kyd. C'erano intrighi di corte, cambi di alleanze, congiure e controcongiure, faide di sangue, ricatti - sessuali e finanziari - perfino un avvelenamento... il tutto messo in scena con sinistro godimento da una compagnia di vescovi infidi, cortigiani ruffiani, agenti e informatori spagnoli, funzionari corrotti, sicari, e una contessa divorziata con una reputazione infangata. Sì, pensai mentre passavamo accanto alle reti dei pescatori stese al sole ad asciugare: sarebbe stata un'eccellente opera teatrale. Da un lato c'era il partito della guerra, guidato dall'arcivescovo di Canterbury, un inveterato calvinista che anelava a una guerra con l'odiato spagnolo. Dall'altro il partito spagnolo, guidato dagli aristocratici Howard, una famiglia di ricchi criptocattolici che manovravano il re tramite la loro creatura, un giovane scozzese, un certo Robert Carr, che era stato creato conte di Somerset. Somerset, spia degli spagnoli, passava a Gondomar tutta la corrispondenza tra il re Giacomo e i suoi ambasciatori. Ma nel 1615 era caduto in disgrazia quando la sua fresca sposa, una Howard, era stata accusata di aver avvelenato Sir Thomas Overbury, che si era opposto alle nozze del favorito
con una donna la cui fama era pessima già a quei tempi. In un sol colpo sia Gondomar sia gli Howard si trovarono privi di ogni influenza a corte. E fu a questo punto che un nuovo personaggio fece il suo ingresso sulla scena, Sir George Villiers, un altro imberbe giovanetto che in breve rimpiazzò Somerset, incarcerato, nelle lascive attenzioni del vecchio re. Villiers era stato sostenuto e promosso dall'arcivescovo Abbott, nemico giurato degli Howard. Tra le sue tante trame, l'arcivescovo mirava a usare Villiers per soppiantare il conte di Nottingham - un altro Howard - come primo Lord dell'Ammiragliato. Già eroe dell'88, Nottingham era ormai un ottuagenario rimbambito, un burattino nelle mani tanto dei suoi familiari senza scrupoli quanto dei suoi corrotti sottoposti al Navy Office, per non dire del fatto che riceveva ancora una generosa pensione dal re di Spagna. "Con Villiers al Navy Office sarebbe iniziato un nuovo regime," spiegò Biddulph. "Le nostre navi non sarebbero più state gli strumenti degli Howard e del partito spagnolo. Il Navy Office non sarebbe più stato un covo di ladri e informatori, marcio di corruzione da cima a fondo. Avrebbe avuto nuovamente un suo scopo. Nuove navi, e migliori, sarebbero state costruite, e la Marina avrebbe potuto ricominciare a operare come operava ai tempi di re Enrico." Ma la situazione era urgente perché a questo punto cominciarono a entrare in scena altri personaggi, corrieri e messaggeri da tutta Europa. Tutti arrivavano a Lambeth Palace con messaggi cifrati e documenti trafugati che recavano pessime notizie per il partito della guerra. Non solo in Germania si era formata una Lega cattolica per contrastare l'Unione protestante, ma l'Unione stessa si stava spaccando. Sempre più sembrava probabile alla fazione Abbott-Pembroke che la tregua tra olandesi e spagnoli stesse per saltare a suon di cannonate, che nuove guerre nei Paesi Bassi stessero per combattersi sugli stessi vecchi e devastati campi di battaglia su cui Sidney aveva dato la vita trent'anni prima - guerre per le quali l'Inghilterra non era pronta né, sotto Giacomo e il partito spagnolo, era disposta a combattere. Peggio di tutto, però, era un nuovo rapporto proveniente da Praga, trasmesso da un corriere nella livrea rossa e dorata della De Quester, in cui si riferiva che un Asburgo, Ferdinando di Stiria, sarebbe stato eletto Sacro Romano Imperatore con la benedizione del cugino e cognato, il re di Spagna. Non solo Ferdinando avrebbe usato truppe spagnole per restaurare il primato cattolico in ogni luogo dell'impero gli paresse opportuno, ma avrebbe anche revocato la Lettera di sovranità concessa da Rodolfo II ai protestanti di Boemia.
"E così per uomini come Abbott e Pembroke, e anche per Villiers, lo scopo era chiaro. Il protestantesimo vacillava come mai prima d'allora, Mr Inchbold, non solo in continente ma anche in Inghilterra. Re Giacomo aveva perso l'appoggio dei puritani, che non credevano più che il suo regno avrebbe realizzato una genuina riforma della Chiesa. C'era un pericolo autentico di scisma, il pericolo che la Chiesa d'Inghilterra si spaccasse o crollasse dall'interno - e che Roma approfittasse del momento di caos per recuperare il terreno perduto. Riguardando indietro, penso che la pubblicazione nel 1611 della Versione autorizzata della Sacra Bibbia avesse come scopo l'imposizione di una conformità alle congregazioni inglesi, ma ottenne come si sa il risultato opposto, perché di punto in bianco ogni tagliatore di pelliccia e ogni lanaiolo d'Inghilterra si convinse di poter predicare la parola del Signore. Il protestantesimo cominciò a spezzettarsi, parrocchia per parrocchia, in un'infinità di sette e movimenti separatisti. E così quello di cui si aveva bisogno nel 1617 era un colpo da maestro, un trionfo, un audace affondo al cuore dell'impero spagnolo. Qualcosa che unisse i protestanti nella lotta contro le potenze gemelle di Roma e Madrid." Mi trascinavo al suo fianco, sforzandomi di seguire quelle correnti e controcorrenti nel loro avanzare e recedere, correnti che trascinavano il Philip Sidney giù per il Tamigi al suo destino segreto dall'altra parte del mondo, tra fitte giungle e fiumi sconosciuti, a migliaia di miglia dalle fazioni e le sette in lotta in Inghilterra. Inciampai in qualcosa, il fusto di un'ancora arrugginita e, raddrizzandomi, vidi in lontananza il London Bridge che varcava il fiume dietro i comignoli di Shadwell. "La flotta del tesoro," mormorai dopo un secondo, quasi a me stesso. "Esattamente," rispose Biddulph. Si era fermato e scrutava il fiume in direzione di Rotherhite. "Le navi di Raleigh andavano alla ricerca di argento, non di oro. È per questo che dovevano arrivare in Tierra Firme nella stagione asciutta. Non perché potessero risalire l'insidioso Orinoco per individuare una miniera d'oro che probabilmente non era mai esistita, ma per attaccare la flotta annuale dell'argento, che doveva portarsi da Guayaquil a Siviglia. L'intera flotta valeva probabilmente almeno dieci o dodici milioni di pesos. Una bella somma - una somma che avrebbe permesso di pagare un esercito di mercenari per il Palatinato o l'Olanda, o in qualsiasi altro luogo dovesse rendersi necessario." Avevamo ripreso a camminare, più lentamente, con le falde dei cappelli abbassate contro il sole. Cercavo di assimilare tutto quello che ora cominciava a dirmi: che la flotta di Raleigh era finanziata da principi tedeschi di-
sperati, sull'orlo della guerra, dal principe Maurizio di Nassau, da mercanti inglesi che speravano di espandere i loro traffici all'America spagnola, e da calvinisti assortiti sia in Inghilterra sia in Olanda con il sogno di una guerra di religione con gli spagnoli, di espellere i cattolici dall'Inghilterra, i Paesi Bassi e l'impero così come re Filippo aveva espulso centinaia di migliaia di mori dalla Spagna solo due o tre anni prima. "La cattura della flotta - o anche il suo affondamento - avrebbe anche avuto ripercussioni in ogni terra dell'impero, in ogni angolo del mondo cattolico. Nessun legno spagnolo era più stato toccato dalla presa del Madre de Dios nel 1592. Perfino Drake," si era girato e indicava con il bastone in lontananza, al di là del fiume, dove il Golden Hint era in secca a Deptford, "perfino Drake fallì nel tentativo di cattura nel '96." Questo era dunque l'audace piano. Guidata dalla Philip Sidney, la flotta doveva violare l'autorizzazione di Drake nel modo più spettacolare, attaccando il convoglio annuale in partenza da Nombre de Dios. Il partito della guerra era convinto che Giacomo si sarebbe rifiutato di ricorrere alla clausola di condanna a morte presente nel documento di concessione di Raleigh, non solo perché Villiers e la sua fazione avrebbero avuto il controllo del Navy Office oltre che della corte, e nemmeno perché a quel punto l'influenza di Gondomar sarebbe stata agli sgoccioli. La clausola non sarebbe stata invocata per il semplice motivo che - secondo un'altra clausola del documento - il vecchio avido re, il massimo scialacquatore d'Europa, avrebbe dovuto ricevere per suo godimento personale un quinto di tutto ciò che Raleigh avesse portato nelle stive delle sue navi: un quinto dei tesori del convoglio più ricco della terra. Ma le cose erano andate storte prima ancora che la flotta lasciasse Plymouth. Biddulph attribuiva il disastro non agli elementi, non alla sfortuna o a scarsa programmazione, ma alle spie e gli informatori spagnoli che infestavano "Whitehall Palace e il Navy Office. Si sapeva, da documenti trafugati da Madrid, che uno degli informatori di Gondomar occupava un posto di rilievo nel Navy Office, qualcuno il cui nome in codice era "El Cid", o "Il Signore", cosa che induceva Biddulph a credere che si trattasse dello stesso vecchio Nottingham. E così forse la flotta dell'argento era stata preavvertita con largo anticipo del pericolo. Forse era rimasta in Perù, nel porto di Guayaquil. Oppure poteva aver fatto vela per il sud, doppiando Capo Horn, i cui stretti ventosi erano ancora controllati dagli spagnoli nonostante le recenti incursioni degli olandesi. In ogni caso, alla fine la flotta di Raleigh puntò verso l'Orinoco anziché ai promessi tesori di
Nombre de Dios. A questo punto della traversata Biddulph vedeva agenti e cospiratori spagnoli dappertutto. Il cosiddetto attacco non provocato a San Tomàs, da parte degli uomini di Raleigh, era stato in realtà, affermava, un astuto stratagemma mirante a screditare la spedizione agli occhi di re Giacomo, un complotto ben organizzato dagli agents provocateurs di Gondomar, alcuni dei quali si trovavano a bordo delle navi di Raleigh, altri stazionati nella stessa San Tomàs. Ben lungi dal temere un attacco a un insediamento spagnolo in Guiana, Gondomar e il partito spagnolo lo auspicavano, anzi lo provocarono. Raleigh aveva poco da guadagnare in Guiana, e tutto da perdere, non ultima la testa. Cosa ancora più importante, Villiers, Abbott e l'intero partito della guerra sarebbero caduti in disgrazia in seguito all'episodio, mentre gli Howard, i bien intencionados di Gondomar, si sarebbero ancora una volta trovati al comando del Navy Office e del re d'Inghilterra. "Ma cosa ne fu del Philip Sidney quando la flotta si disperse?" domandai, chiedendomi nuovamente a quanto della versione di Biddulph - questa vicenda di complotti e controcomplotti - dovessi credere. "Il capitano Plessington non faceva parte del gruppo che assalì San Tomàs. Almeno per quanto ho potuto scoprire." "E dubito che scoprirà mai quel che fece il capitano Plessington," replicò Biddulph. "Nemmeno l'inchiesta di Bacone fu in grado di appurare tutti i particolari. Né, suppongo, intendeva farlo," aggiunse con un mesto risolino. "La versione ufficiale, si sa, vuole che dopo l'incursione su San Tomàs la flotta si disperse. È noto che Raleigh tentò di convincere i suoi capitani ad attaccare la flotta del tesoro messicana, quella proveniente dalla Nuova Spagna che doveva salpare da Veracruz. Ma alla fine quasi tutte le navi seguirono il Destiny a Terranova, dove presero a bordo un carico di pesce e se ne tornarono in Inghilterra. Riesce a immaginare la faccia degli investitori?" Biddulph stava scuotendo le sue piume bianche da uccello. "Baccalà di Terranova al posto dell'argento peruviano! Immagini l'indignazione dei duchi e dei principi di Germania e d'Olanda quando seppero che la loro religione avrebbe avuto come baluardo niente di più che qualche barile di pesce sotto sale!" E così la tragedia e la farsa si mescolavano mentre i principi d'Europa scivolavano verso il precipizio. Con il passare dei mesi il numero dei corrieri che arrivavano a Lambeth Palace e al Navy Office cresceva. Vienna era stata assediata dai transilvani; la Transilvania era stata invasa dai polacchi; la Polonia era stata attaccata dai turchi - un circolo mortale di colpi
e contraccolpi, male contro male. L'Europa era diventata una belva zannuta che inseguiva la sua stessa coda. Negoziati venivano ripudiati, trattati denunciati. A Praga, due delegati cattolici a una convenzione degli stati boemi vennero precipitati da una finestra del castello ma sopravvissero perché erano finiti in un letamaio. Il fatto che non fossero morti fu interpretato dai dévots di tutta Europa come un segno di Dio. Altri eserciti cominciarono ad affilare le spade. Tre comete apparvero nel cielo e gli astrologi le assunsero come prova inconfutabile che il mondo si avvicinava alla sua fine. "Il che non era del tutto sbagliato, no?" considerò mestamente Biddulph. "Perché poi seguirono trent'anni delle guerre più terribili che il mondo avesse mai conosciuto." Per un momento camminammo lungo il fiume in silenzio. Stavo ancora cercando di capire il tutto, di scoprire un filo coerente in questi atti bizzarri, in questi strani eventi semiclandestini con i loro misteriosi protagonisti i quali, da quanto potevo vedere, avevano poco a che vedere con ciò che Alethea mi aveva detto a proposito di Henry Monboddo e del Labirinto del mondo. Biddulph aveva cominciato a raccontare come, di lì a poco, un'altra notizia fu portata al Navy Office da un corriere trafelato. Era il tardo autunno del 1618, poco dopo che era comparsa la cometa e che Raleigh era salito sul patibolo costruito appositamente per lui nel cortile di Westminster Palace. Il rapporto affermava che un galeone spagnolo, il Sacra Familia, appartenente alla flotta messicana, era colato a picco con tutto l'equipaggio presso il porto spagnolo di Santiago de Cuba. Che fosse affondata era un fatto certo, ma le circostanze della faccenda erano più misteriose. Nel Navy Office si mormorava che il Sacra Familia fosse stato abbordato e poi affondato da soldati del Philip Sidney. Perché il Sidney non aveva fatto ritorno a Londra. Sembrava che, come alcune altre navi della flotta, stesse battendo le acque delle Indie Spagnole, come lo sconfitto Drake aveva fatto nel '96. Ma i dettagli erano praticamente impossibili da rintracciare, anche nel Navy Office. Realtà e leggenda erano fusi inestricabilmente insieme. Presto arrivò un altro rapporto secondo il quale il Philip Sidney era affondato nelle Indie Spagnole, subito seguito da un altro dispaccio ancora che affermava che il Philip Sidney aveva catturato il Sacra Familia, poi da un terzo che dichiarava che il Sacra Familia era colato a picco soltanto per una violenta tempesta. Ma una voce in particolare godette di lunga vita lunga abbastanza da trasferirsi dall'ambito delle voci al più augusto regno
dei miti. Prosperò per anni nelle taverne di Tower Hill e di Rotherhithe, o dovunque si ritrovassero insieme i marinai. Come altre voci in proposito, diceva che il Philip Sidney aveva dato la caccia al galeone e poi, dopo aver tirato una bordata, l'aveva visto andare a fondo con tutti gli uomini a bordo. Eppure quello era un galeone che non aveva uguali. "Conosco questa voce," disse Biddulph, "perché devo averla sentita una dozzina di volte. Riguarda determinati passeggeri a bordo del Sacra Familia. Clandestini, si potrebbe dire. Scampati al naufragio tenendosi aggrappati ai relitti dello scafo o raggiungendo a nuoto la terraferma". "Chi erano?" A questo punto ascoltavo con la massima attenzione. "Marinai spagnoli?" Scosse la testa. "No, non marinai spagnoli. E non marinai in assoluto." Ridacchiò tra sé prima di sputare succo di tabacco nell'erba. Avevamo quasi raggiunto Wapping, e davanti a noi diversi barcaioli prendevano il sole sul New Grane Stairs. "Ratti. Ecco chi gli uomini del Sidney videro mettersi in salvo a nuoto mentre il Sacra Familia andava a picco. Centinaia di ratti. Le acque ne brulicavano, qualcuno raggiunse perfino il Sidney. Lo so, lo so, quale nave non è infestata dai ratti? Ma quelli non erano ratti qualsiasi, capisce. Nessuno dei marinai ne aveva mai visti di simili. Erano grossi il doppio dei ratti che erano a bordo del Philip Sidney. Grandi bestie massicce, di un colore grigio rossastro, con zampe e code corte." Fece una breve pausa, torcendo le labbra in un sorriso eccitato. "Per farla breve, Mr Inchbold, queste creature non erano null'altro che ratti del bambù." Non avevo mai sentito parlare di bestie del genere. "Pensavo che un ratto fosse un ratto." "Tutt'altro. Jonston nella sua Storia naturale dei quadrupedi ne elenca una buona mezza dozzina di tipi, tra cui il ratto delle risaie e il ratto dei canneti. Ma questa particolare specie, il ratto del bambù, ha la caratteristica unica di sopravvivere alimentandosi di germogli di bambù." "Bambù? Non avevo idea che ci fossero bambù in Messico." "Nemmeno io," rispose lui. "Non se ne sono mai visti. Né lì né in tutte le Indie Spagnole." "E allora da dove venivano quei ratti se non dal Messico o dalle Indie Spagnole?" Allargò le braccia. "Non è evidente? Dovettero essere saliti a bordo del Sacra Familia in qualche luogo dove invece il bambù si trova. E dove si trova il bambù se non nelle isole del Pacifico? Nelle Isole delle Spezie, per
esempio. Jonston ci dice che il ratto dei bambù è particolarmente numeroso nelle Molucche." "Allora il Sacra Familia era stato alle Molucche?" "O su un'altra isola del Pacifico. Già. Quello che vi stesse facendo è un mistero, perché le spedizioni spagnole nel Pacifico erano rare a quei tempi. Mendaña fece il suo ultimo viaggio alla ricerca delle isole Salomone nel 1595, poi seguirono Quirós e Torres nel 1606. Dopodiché, praticamente più nulla. L'intero Pacifico stava rapidamente diventando dominio incontrastato dei più fieri nemici dalla Spagna, gli olandesi, che avevano trovato un nuovo passaggio per i Mari del Sud attraverso lo Stretto di Le Maire. Molte delle rotte marittime erano ora controllate dalle navi della Compagnia delle Indie Orientali Olandesi." "Quindi il Sacra Familia doveva aver trovato un'altra rotta," dissi concitato, ricordando i termini del contratto di Sir Ambrose nella missione di scoprire un nuovo passaggio per i Mari del Sud. "Una rotta per il Pacifico attraverso le sorgenti dell'Orinoco." Biddulph mi lanciò uno sguardo sorpreso. "Non ci avevo mai pensato," rispose, scuotendo la testa. "E nemmeno ne accennavano le voci in circolazione. Però devo riconoscere che è un'idea interessante. Ma qualsiasi cosa potesse aver scoperto, in qualunque modo potesse esserci arrivato, il Sacra Familia aveva navigato nel Pacifico, questo è sicuro. Solo che adesso si faceva passare per una nave della flotta del tesoro messicano. I suoi viaggi dovevano essere un gran segreto, perché quando il Sidney lo attaccò, l'equipaggio del galeone gettò in mare tutte le carte e i portolani, il giornale di bordo, il diario del comandante - tutto ciò che avrebbe potuto tradire la sua missione. Si disfecero di tutto, direi, tranne che dell'odore." Era, questa, l'ultima e più singolare parte del racconto. Perché il Sacra Familia possedeva, anche da lontano, un odore spiccato. Non era il solito lezzo di una nave in mare - la puzza delle provviste guaste, dell'acqua di sentina, del legno e della polvere da sparo inumiditi, degli orinali rovesciati dal mare in tempesta. Al contrario, era un profumo bellissimo che sembrava aleggiare sull'acqua fino a raggiungere il Philip Sidney, un aroma delizioso che ricordava l'incenso o l'acqua di colonia. Parve rimanere a galla sull'acqua per ore e ore dopo che il relitto in fiamme era infine colato a picco. Quel profumo ammaliante non era, insistevano le voci, quello del carico - il carico che poteva aver preso a bordo nelle Molucche - ma della nave stessa, come se l'aroma emanasse in qualche modo misterioso dal suo fasciame, dalla sua alberatura.
"Non ho mai saputo come interpretare queste storie, dei ratti e del profumo soave. Tranne che, se i racconti erano veritieri, il Sacra Familia chiaramente non era ciò che sembrava." Sì, pensai, affascinato: il suo viaggio era misterioso quanto quello del Philip Sidney, al quale il suo destino era in qualche modo legato. "Mi spiace molto, Mr Inchbold," disse con un sorriso cortese mentre apriva la porta della sua casa. "Temo di non poterle dire più di questo. Voci e dicerie, questo è tutto quanto ho mai appreso sull'episodio." Rientrammo nella piccola casa, dove mi offri un'altra tazza di rumbullion. Per un'altra ora ascoltai altre teorie che la disponibilità di tempo di Biddulph gli aveva permesso di elaborare, come la "materia oscura" (così si espresse) dell'assassinio di Buckingham nel 1628, un gesto messo in atto non da un fanatico puritano mezzo matto, come vuole la versione ufficiale, ma da un emissario del cardinale Richelieu astutamente camuffato da fanatico puritano mezzo matto. Ma ora ascoltavo Biddulph molto distrattamente. Pensavo piuttosto che a quanto pareva Sir Ambrose aveva fatto nuovamente vela oltre l'orizzonte sottraendosi - almeno per me - al confronto diretto. Riandavo anche con la mente alla misteriosa edizione del 1600 del Theatrum orbis terrarum di Ortelius, e alle patenti nella stanza dei documenti di Alethea, e ripensavo al fatto che Sir Ambrose si era trovato a Praga nel 1620, a due anni e seimila miglia di distanza dalle sue misteriose avventure nelle Indie Spagnole. Mi chiesi quindi se esistesse qualche connessione più profonda tra queste due fallite imprese, una qualche storia invisibile che potesse coinvolgere il testo ermetico perduto che Henry Monboddo e il suo misterioso cliente così disperatamente desideravano. O mi stavo semplicemente lasciando contagiare dalla strana linea di ragionamento di Biddulph, in cui due eventi, per quanto lontani nel tempo e nello spazio, non erano mai privi di relazione? E poi mi venne alla mente quello che un paio d'ore prima avrei voluto domandargli. Quando lo ricordai ero già fuori della porta e stavo prendendo commiato. Il sole era calato dietro la silhouette lontana di Nonsuch House, e le acque del fiume erano grigie come l'ala di un gabbiano. Sentivo il rumbullion che proseguiva nella sua azione costante dentro di me. Il mio piede era malfermo sul gradino della soglia e il ronzio che avevo nelle orecchie sembrò farsi più acuto quando uscimmo all'aperto. Le nostre due ombre si allungavano fino in fondo al minuscolo giardinetto. "Mi chiedevo," dissi dopo che ci eravamo stretti la mano, "se ha mai visto di persona il capitano Plessington. È mai venuto in visita al Navy
Office?" "No." Biddulph scosse la testa. "Non ho mai conosciuto Plessington. Era troppo importante per avere a che fare con uno come me, capisce. A quei tempi ero solo un umile assistente dell'Addetto agli Atti. No, l'ho visto una volta soltanto, la sera in cui il Sidney mollò gli ormeggi e si avviò giù per il Tamigi. Plessington era ritto sul casseretto. Lo intravidi alla luce del fanale di poppa." "Ma tutti i preparativi per il varo...?" "Oh, Plessington aveva un delegato per dettagli di questo genere. Ogni cosa venne organizzata tramite lui o attraverso il commissario di bordo del Sidney." "Un delegato?" "Sì." Aveva fissato lo sguardo sulla falda del tetto, aggrottando la fronte assorto. Il vento sospirava dietro di noi increspando l'acqua. "Insomma... come diavolo si chiamava? Il fatto è che passo così tanto tempo nel regno della regina Bess che a volte nel mio vecchio cervello i nomi si confondono. No... aspetti!" Improvvisamente la sua faccetta si illuminò. "No, no, invece me lo ricordo. Era un nome strano, tra l'altro. Monboddo," esclamò trionfante. "Sì, ecco. Henry Monboddo." CAPITOLO 12 Non c'è visione così sublime, ci dice Lucrezio il filosofo, di un naufragio in mare. E il relitto del Bellerophon fu effettivamente una scena spettacolare per quelli che erano usciti dalle loro casupole raccogliendosi sul litorale ventoso delle Chislet Marshes. Sì schiantò sul Margate Hook poco dopo le cinque del pomeriggio. Si era già prodotta una falla a mezza nave, e con la fiancata destra spinta dalle onde contro la scogliera - la più grande e pericolosa lungo l'intera costa del Kent - bastò una manciata di secondi perché imbarcasse tonnellate di acqua dallo scafo per poi inclinarsi goffamente sul fianco. Gli alberi si erano abbattuti come campanili crollati e i pennoni e le sartie erano stati spazzati via. Le onde schiumavano intorno allo scafo prima di rovesciarsi sul ponte del castello. Tutti quelli che si trovavano sui ponti superiori furono gettati tra i marosi, e chi era ancora sotto coperta non ebbe sorte migliore. Gli uomini che azionavano freneticamente le pompe a mano annegarono nei torrenti di acqua che si riversarono nella stiva o morirono schiacciati dalle botti e i barili che rotolavano come tori infuriati lungo il ponte inclinato. Altri si spezzarono il collo o si spaccaro-
no la testa contro i pilastrini, anch'essi ridotti in pezzi, e altri ancora ebbero la malasorte di trovarsi intrappolati sotto le travi che cedevano per poi annegare nell'acqua che irrompeva dai boccaporti. E fu così che quando il Bellerophon andò in mille pezzi sul Margate Hook, non rimase un'anima viva al suo interno. Il relitto fu ripulito in breve. Quasi un centinaio di persone si erano raccolte lungo l'arenile fangoso, e furono accese tre enormi cataste di legna gettata sulla spiaggia. I falò conferivano alla scena un'atmosfera quasi festosa. Il Margate Hook e i disastri che provocava con l'occasionale nave di passaggio costituivano una delle poche consolazioni al vivere su questa derelitta landa del Kent. La gente sperava che si ripetesse il famoso episodio di tre anni prima, quando lo Scythia si era aperto come un'ostrica proprio in quello stesso punto, facendo umili pescatori e tellinari sbronzi come gran signori grazie a duecento barili di malvasia di Spagna. Così appena il mare si fu un po' calmato una flottiglia di lance e smacchi prese il mare. Alle prime luci più di una ventina di casse erano state tirate in secco, insieme a tredici uomini dell'equipaggio, scamiciati e inzuppati fino all'osso. Tra questi c'era il capitano Quilter. Per più di dieci ore era rimasto avvinghiato a una delle novantanove casse contrabbandate, sballottato dai cavalloni, trascinato avanti e indietro dalla marea avanzante e poi calante. Ma mentre la marea cominciava a crescere una seconda volta, i falò improvvisamente gli apparvero a breve distanza e la cassa si arenò con un tonfo su una secca. Era sfinito e gelato per quel calvario, ma non appena i suoi piedi toccarono i ciottoli del fondo, tre uomini si fecero avanti rapidamente - i miei salvatori, pensò - e lo ricacciarono nei flutti. La cassa fu trascinata all'asciutto e ammucchiata con le altre. "Voialtri non avete il diritto di appropriarvi di niente." Si era tirato su e avanzava sguazzando tra il fango e la sabbia verso un gruppo di figure raccolte intorno a uno dei falò. Altre casse e altri bauli venivano trascinati su dall'acqua, mentre un piccolo convoglio di carretti tirati dai muli carico di altro materiale recuperato cominciava a muoversi verso l'interno dell'acquitrino. "Queste casse sono relitti, legittima proprietà del Bellerophon, e io, in qualità di capitano..." Lampeggiò una spranga e di nuovo il capitano Quilter crollò ginocchioni. Portò la mano alla cintola per impugnare la pistola con cui si era armato per difendersi dalla banda di Rowley, ma ovviamente l'arma era sparita. Ora quel poco che era rimasto della nave e del suo carico - quel poco di guadagno che poteva assicurare ai suoi investitori al Royal Exchange -
svaniva per mano di quei pirati di terraferma. Al tepore di un altro falò scoprì un gruppetto di suoi marinai, con le labbra cianotiche e tremanti. Tre di loro, tra cui Pinchbeck, erano morti da quando erano stati trascinati a terra nell'ultima ora. I loro cadaveri erano stati allineati accanto agli altri otto marinai le cui carcasse gonfie d'acqua erano state gettate in secca dal mare. Le loro tasche erano state vuotate da quelli che erano troppo piccoli o infermi per appropriarsi delle più abbondanti ricchezze delle casse. Il cuore di Quilter ebbe un tuffo. I saccheggiatori che si contendevano a spintoni i cadaveri sembravano altrettanti avvoltoi starnazzanti, ma lui era troppo intontito e privo di forze per scacciarli. Alcuni dei saccheggiatori sulla spiaggia si mostrarono però più ospitali. Agli scampati furono distribuite coperte e pezzi di pane e di formaggio, e perfino una bottiglia di brandy, a cui i marinai stavano attingendo con stanche sorsate. Un quarto d'ora dopo un altro dell'equipaggio era spirato, ma Quilter cominciava a sentirsi rinfrancato dalla doppia benedizione dell'alcol e delle fiamme, quando improvvisamente giunse - nessuno capì con certezza da dove - il rumore di un colpo di moschetto. Per un momento Quilter pensò che la fucilata fosse diretta a lui, ma poi vide che i saccheggiatori indaffarati con le casse e con i cadaveri sobbalzavano dalla sorpresa e correvano al riparo. Poi un secondo sparo echeggiò sulla spiaggia. A questo punto anche lui stava strisciando sul ventre tra il fango e i rottami per ripararsi dietro un barile. Le prime luci dell'alba erano apparse sul relitto del Bellerophon, che ormai giaceva in pezzi sparsi lungo l'orizzonte. La pioggia si era ridotta a una nebbia sottile e il Margate Hook stava svanendo sotto la marea montante. Tempo ideale per navigare, pensò Quilter con una stretta al cuore. Guardò un pezzo di chiglia che veniva ad arenarsi sospinto dai frangenti. Poi un altro sparo ruppe il silenzio e lui chinò la testa dietro il barile. Il falò crepitava e scoppiettava davanti a lui, mandando ombre e fumo sulla sabbia. Quando, un momento dopo, alzò la testa si aspettava di vedere Sir Ambrose che usciva dal mare brandendo la spada o la pistola, ma quel che vide invece, che ondeggiava all'orizzonte, fantasma di se stesso, fu lo Star of Lübeck. Il mercantile dell'Hansa si vedeva appena in mezzo al pulviscolo d'acqua sollevato dal vento. Sbandava ancora violentemente sotto l'alberatura nuda, ma, nonostante tutto, era intatto e galleggiante. Sui ponti superiori si vedevano i marinai che issavano quel po' di velatura rimasta sopra gli alberi scheggiati. Ma i colpi di moschetto, Quilter capì, venivano da un punto molto più vicino alla costa.
Un quarto sparo risuonò lungo la striscia della spiaggia. I saccheggiatori, imprecando tra i denti, si rintanarono nel folto dei salici. Quilter li vide che mettevano mano alle cinture per impugnare coltellacci e antiquate pistole in cui era impossibile accendere la polvere per colpa della pioggerella. Spostò lo sguardo verso sinistra, dove una lancia con la vela sventolante era emersa un istante prima dal fumo e dai pezzi del relitto. Dopo un secondo individuò una figura a prora, un uomo chino su un ginocchio come se stesse presentando i suoi omaggi a un superiore. Solo che l'uomo non stava presentando omaggi a nessuno, capì immediatamente Quilter, ma stava prendendo di mira con il suo moschetto le poche sagome rimaste tra le piramidi di casse. A una quinta detonazione una delle figure lanciò un grido come un falco, inarcò la schiena, e stramazzò nella sabbia. La lancia avanzava, tagliando le onde con la prua. Sì, allora era proprio Sir Ambrose Plessington, concluse Quilter. Puoi esser certo che un manigoldo come lui sopravvive quando persone per bene come Pinchbeck periscono. Altre due figure - i compagni di Sir Ambrose, suppose - erano curve a poppa, seminascoste dalla vela gonfia di vento. Dunque anche loro erano scampati al naufragio. E ora venivano a riprendere possesso di quanto era rimasto del loro prezioso carico, le reliquie tutt'altro che sacre che secondo qualcuno erano responsabili di tutta quella spaventosa disavventura. Rotolò fuori dal suo riparo e si issò faticosamente in piedi. La barca ora era sopra le secche, la vela ammainata, e una delle altre figure azionava un paio di remi. Quilter entrò zoppicando nella schiuma delle onde, sbracciandosi come un uomo che in una via di Londra chiama freneticamente una vettura a nolo. "Sir Ambrose!" Fece un altro passo nell'acqua. La barca aveva toccato terra e la figura a prua stava scavalcando la falchetta. "Sir..." Ancor prima che la palla del moschetto gli passasse fischiando rasente alla spalla e lo mandasse a rifugiarsi di nuovo dietro il barile, si era reso conto che l'uomo a prua non era Sir Ambrose, e che la lancia non era quella del Bellerophon. Anche Emilia, da un punto della spiaggia un quarto di miglio più in là, stava osservando lo sbarco dei tre uomini. Aveva raggiunto la costa quasi un'ora prima. In effetti, il capitano aveva ragione. Lei e Vilém erano davvero scampati al naufragio del Bellerophon insieme con Sir Ambrose. Avevano liberato una delle scialuppe dai canapi della sua imbracatura appe-
na dieci minuti prima che lo scafo cedesse. La traversata dalla nave alla costa, una distanza di non più di un miglio, era stata peggio perfino di quella da Breslavia ad Amburgo quanto a pericoli e disagio. Le falchette della scialuppa erano spaccate e i remi erano andati perduti. Dopo un'ora avevano imbarcato tanta di quell'acqua da una falla nello scafo che Vilém e Sir Ambrose si erano ridotti a sgottare acqua con i cappelli, Emilia con la tela della sua sottana. Ma in qualche modo l'imbarcazione era rimasta a galla. Per le dieci ore seguenti i tre erano stati sospinti avanti e indietro dalla corrente, vedendo i falò ingrandirsi quando si avvicinavano alla costa per subito rimpicciolire quando ne venivano trascinati via. Poi il vento si era calmato e avevano potuto alzare la vela, un pezzo di tela lacera. Quindici minuti dopo avevano potuto tirare la barca in secco sulla sabbia. Ora Vilém e Sir Ambrose stavano trascinando le casse a terra, facendole scivolare sui ciottoli, tra i gusci delle chiocciole che scricchiolavano sotto i piedi. Cinque casse di libri erano state portate a bordo. Sir Ambrose aveva spiegato che le altre casse si sarebbero dovute recuperare dal fondo. Fortunatamente esisteva a Erifh una squadra di recuperatoli, uomini che usavano speciali campane da immersione e perfino un "sottomarino", un'ingegnosa invenzione del mago olandese Cornelius Frebbel, che Sir Ambrose aveva conosciuto a Praga. Si servivano dei loro servizi mercanti e investitori del Royal Exchange per recuperare il carico della trentina di navi che ogni anno naufragavano sulle Goodwin Sands o altre zone di secche alla foce del Tamigi. Il sottomarino, un magnifico pezzo di ingegneria, un natante fatto di legno di balsa e di pelle di foca della Groenlandia, con tanto di pinne e vesciche gonfiabili, sarebbe servito alla bisogna. "Deve raggiungere Londra," stava dicendo Sir Ambrose mentre lottava con un'altra cassa. "Immediatamente. Monboddo la starà aspettando. E così Buckingham. Manderò notizie al più presto possibile al Navy Office." Vilém agguantò l'altro lato della cassa e lo sollevò dal fango, poi insieme la trasportarono oltre la linea dell'acqua e la deposero sulla sabbia. Il coperchio era venuto via, scoprendo il contenuto e riversandone anche una parte. Mentre i due uomini si dirigevano barcollando verso la scialuppa a prendere un'altra cassa, Emilia rimise al loro posto i libri, l'ultimo dei quali, aperto capovolto e malridotto dall'acqua, era un grosso volume che riconobbe come appartenente alle Sale Spagnole, un libro da cui Vilém le aveva letto qualcosa solo pochi mesi prima, l'Anthologia Graeca, una raccolta di epigrammi compilata a Costantinopoli da uno studioso chiamato Cephalas. La pergamena originale era stata scoperta tra i manoscritti della
Bibliotheca Palatina di Heidelberg, ma questa traduzione era stata stampata a Londra. Rigirò il volume, ma prima di chiuderne la coperta inzuppata che odorava di cuoio per calzature, l'occhio le cadde su un versetto nel mezzo della pagina aperta, nella luce incerta dei falò: Dov'è la tua ammirata bellezza, dorica Corinto, dov'è la tua corona di torri? Dove i tuoi tesori d'un tempo, i templi degli immortali, dove i palazzi e le mogli dei sisifidi, e le decine di migliaia dei tuoi abitanti che furono? Non una traccia, o infelice, è infatti rimasta di te, ogni cosa la guerra ha spazzato via e divorato... Vilém le aveva letto il brano una fosca sera di settembre, quando a Praga era arrivata la notizia che l'esercito del generale Spinola aveva invaso il Palatinato e presto avrebbe posto l'assedio a Heidelberg e - in un ciclo di violenza che ruotando avanti e indietro nel tempo e nello spazio abbracciava emisferi e secoli dalle rovine di Corinto e di Costantinopoli - a ciò che rimaneva della Bibliotheca Palatina, ivi compreso il manoscritto della Anthologia. Dall'altra parte della spiaggia la raggiunse un grido spezzato. I saccheggiatori si stavano disperdendo in una corsa precipitosa, sollevando con i calcagni sabbia e fango. Senza sapere perché, si infilò il volume in tasca, poi cercò di rimettere a posto il coperchio di legno. "... nello Strand," stava dicendo Sir Ambrose. Lui e Vilém erano arrivati con un'altra cassa. "York House. Lungo il fiume. Ho già fatto affari con lui altre volte." "Sì?" "È uno dei migliori. Quadri, sculture, libri. Assolutamente rispettabile, certo. E ha anche tenuto un bel po' di gingilli fuori della portata delle grinfie del conte di Arundel, posso assicurarglielo." Vilém aveva il fiato grosso. "Conosce il piano?" "Sicuro che lo conosce. Lo conosce fin dall'inizio. Non tema." La cassa drappeggiata di alghe cadde con un tonfo sulla sabbia. "È una persona perfettamente capace." "E anche fidata?" "Fidata?" Sir Ambrose fece un risolino, poi lo guardò sollevando un sopracciglio. "Oh, Monboddo è sicuro come l'oro, da questo punto di vista
non abbiamo di che preoccuparci. Sarete al sicuro, tutti e due. Sempre che ce la facciate a raggiungere Londra," aggiunse, accennando ai saccheggiatori che scivolando e incespicando correvano nella loro direzione. A breve distanza seguivano i tre uomini che erano sbarcati dalla lancia. "A quanto pare ho perduto la mia pistola, che disdetta," disse senza scomporsi. Era tornato a incamminarsi senza fretta verso la scialuppa. "E anche la spada. Si direbbe, amici miei, che ci troviamo in un altro frangente imbarazzante." Non c'era carrozza, a quei tempi, che si muovesse per le strade d'Inghilterra con la velocità di quelle appartenenti al servizio postale estero De Quester. Ognuno dei veicoli della scuderia della De Quester era stato progettato appositamente per coprire le settanta miglia da Londra a Margate, o da Margate a Londra, in meno di cinque ore, anche con qualche passeggero a bordo e con un carico pesante di dieci sacchi postali assicurati al tetto di cuoio o caricati all'interno della vettura. Le travi tra gli assali e le barre erano fabbricate con il più leggero dei legni di pino, mentre i mozzi erano lubrificati con la grafite e le ruote montate su molle e fornite di cerchioni di ferro. Il tutto era messo in moto da tiri di cavalli berberi allevati a questo scopo in una scuderia del Cambridgeshire. E così mentre albeggiava sulle Chislet Marshes, uno di questi veicoli veloci doveva fare una insolita impressione mentre avanzava arrancando e ondeggiando tra la melma a un'andatura anche più lenta di quella dei carretti tirati dai muli che si muovevano nella direzione opposta. Era, quello, un tratto di strada che godeva di pessima fama anche da quelle parti, per le sue buche e la tendenza ad allagarsi alle prime gocce di pioggia. Il conducente del postale, un uomo chiamato Foxcroft, scrutava tra la pioggerella e la foschia intabarrato nel suo telo impermeabile mentre guidava il suo tiro lungo l'insidiosa carreggiata. Era partito da Margate quasi sei ore prima e i suoi sacchi di posta da Amburgo e Amsterdam si sarebbero già dovuti trovare a Londra da tempo. Avrebbe potuto farcela a rispettare l'orario, con o senza temporale, se avesse preso lo stradone principale per Canterbury e Faversham anziché decidere per quella infelice deviazione lungo la costa ventosa. Ma ovviamente non aveva più il coraggio di usare la via maestra, come non se la sentiva più di indossare la livrea rossa e dorata della De Quester. Era in atto una disputa davanti ai Lord del Consiglio per stabilire se il monopolio della De Quester confliggesse con la patente di Lord Stanhope, Mastro delle Poste e dei Messaggeri, che re-
centemente aveva cominciato a usare suoi agenti - una masnada di malfattori, a dare ascolto a Foxcroft - per portare le sue lettere ad Amburgo e ad Amsterdam. Neanche un mese prima Foxcroft aveva subito l'imboscata di una banda di uomini mascherati davanti alle mura di Canterbury; poi un altro conducente era stato aggredito due settimane dopo, in Gad's Hill. Entrambe le volte gli assalitori erano abbigliati da briganti da strada, ma lo sapevano tutti che dietro c'erano i bravacci di Lord Stanhope. E così nelle ultime settimane Foxcroft era stato condannato a quella tortuosa deviazione - un tragitto così desolato e squallido che nemmeno il bandito più malridotto avrebbe mai pensato di appostarsi lì, specie in una mattina di dicembre fredda e scoraggiante come quella. E fu così che Foxcroft poté a stento credere ai suoi occhi quando uscendo da una curva vide il convoglio di muli che gli veniva incontro e, dietro, una scena confusa - fuoco, fumo, gente in fuga - lungo la spiaggia. Un'altra delle imboscate di Lord Stanhope? Imprecò dalla paura e tirò le redini, ma era troppo tardi, i cavalli con un nitrito stavano rinculando spaventati dal rumore di quelli che sembravano colpi di moschetto. Foxcroft fu sul punto di perdere l'equilibrio e si raddrizzò appena in tempo stringendo le redini con una mano e aggrappandosi con l'altra alla sponda del sedile. Un attimo prima che il cappello gli scivolasse davanti agli occhi, scorse in lontananza qualcosa che gli parve il relitto di una nave. I cavalli avevano ripreso ad avanzare prendendo velocità tra il fango, in senso contrario alla processione di muli lungo lo stretto viottolo in direzione della spiaggia e dei suoi falò rossastri. Gli assi cigolarono e scricchiolarono quando il veicolo affrontò un'altra curva, inclinandosi su due ruote e inondando di una pioggia di schizzi fangosi i salici che sfilavano indistinti dai due lati della strada. Foxcroft ebbe l'impressione di aver visto un gruppo di persone rintanate tra le piante. Ma poi una ruota urtò un sasso e lui cominciò a sobbalzare violentemente. Dalla strada fangosa la carrozza impiegò meno di un minuto per raggiungere il limite della spiaggia ancora più fangosa. A questo punto le ruote avevano urtato altri due sassi e Foxcroft, balzato dal suo posto, si trovò aggrappato a due mani al sedile con le gambe ciondolanti e gli stivali a due dita dai raggi delle ruote che giravano. Due sacchi di posta erano andati perduti, assieme al suo cappello. Poi, quando le ruote cerchiate toccarono la sabbia, la carrozza rallentò con uno scossone violento e lui udì un altro sparo, questa volta molto più vicino. I cavalli si impennarono di nuovo. Riuscì a piazzare un piede sulla traversa e con una spinta disperata si issò
in serpa. E fu allora che li vide per la prima volta, un gruppo di ombre, un drappello di cinque o sei persone che correvano verso di lui. Sì -, era proprio un'imboscata. Si girò su se stesso e cercò a tentoni la frusta, ma era sparita con il suo cappello e i sacchi della posta. I cavalli si impennarono ancora mentre lui si afferrava alle redini, e improvvisamente la carrozza si arrestò, con le ruote bloccate che affondavano nella sabbia. "Arri! Arri!" Cercò il moschetto dietro il sedile, ma anche di quello non c'era traccia, come della borsa delle pallottole. Si rigirò sulla cassetta per affrontare faccia a faccia gli aggressori, ancora più numerosi che a Canterbury. I cavalli si impennarono sulle zampe posteriori, poi ripresero a tirare, ma con le ruote ostacolate dalla sabbia la vettura non si mosse che di qualche centimetro. Ma a un nuovo strattone cominciò a scivolare lentamente in avanti, ora che le ruote avevano trovato i ciottoli su cui far presa. Ma era troppo tardi, Foxcroft se ne accorse. I bravi di sua signoria - una decina buona - gli erano quasi addosso. "Santa madre di Dio," mormorò, preparandosi a saltare. Il capitano Quilter stava osservando la carrozza arenata dal suo riparo dietro un barile di aringhe gettato fuori bordo dallo Star of Lübeck. Il recipiente era stato raggiunto da una palla di moschetto e dalle doghe spaccate la salamoia colava sulla sabbia. Aveva sentito un grido dai salici e, voltando la testa, aveva scorto la carrozza che arrivava di gran carriera verso l'acqua seminando dietro di sé nel fango un paio di sacchi. Afferrandosi a un cerchione del barile si tirò su di qualche centimetro. Sotto le sue ginocchia la sabbia era soffice e profonda come il cuscino di un inginocchiatoio. Un altro grido, questa volta dall'estremità opposta dell'arenile. Voltandosi vide un gruppo di figure che correva verso la carrozza. La vettura adesso si era fermata, arenata nel fango e la sabbia al limite della spiaggia. I cavalli si impennavano e scalciavano mentre l'uomo a cassetta si affannava a districare le redini che si erano impigliate nelle molle delle ruote. Quilter ora era in piedi, e assisteva a quella scena singolare attraverso il velo della pioggia fitta e sottile. Tre delle figura avevano raggiunto la carrozza nel momento in cui, liberate le redini, questa si rimetteva in marcia con un violento scossone. Gli altri tre, uno armato di moschetto, erano a pochi passi e si avvicinavano rapidamente.
"Arri!" "A bordo!" Era Sir Ambrose, che sollevava uno dei suoi compagni di viaggio, la signora, sul sedile del cocchiere. "Sì! Via!" Uno degli inseguitori si era inginocchiato. Il moschetto mandò un lampo e una specie di colpo di tosse, seguito da una nuvoletta di fumo. Ma la carrozza era in moto, ondeggiando a destra e a sinistra come un barcone in mezzo al mare mosso. Anche una seconda persona, un uomo, magro e a capo scoperto, era saltata in carrozza. Era aggrappato al legno del portabagagli mentre Sir Ambrose correva a fianco della vettura, tendendo in alto qualcosa, una specie di cofano. L'uomo in livrea stava ricaricando il moschetto mentre quello nel portabagagli si spencolava tendendo le braccia. Ma in quell'attimo l'attenzione di Quilter fu richiamata da qualcos'altro. Uno dei fanali del Bellerophon doveva aver appiccato il fuoco a un barile di polvere o a una botte di spirito, perché improvvisamente un'esplosione assordante scosse il cielo. Gettandosi in ginocchio e guardando al largo, Quilter vide una fontana di fuoco arancione, uno spettacolare gioco pirotecnico che oscurò i falò e perfino il sole appena sorto che si affacciava di tra le nuvole. Gli zampilli di fiamma stavano ancora ricadendo nel mare quando pensò di girarsi a guardare la carrozza. Ma né della carrozza né dei suoi passeggeri c'era più traccia. Guardando lungo la striscia della spiaggia vide solo i loro inseguitori, i tre uomini le cui cappe nere e oro erano tinte del colore del rame dalla cascata dei mille frammenti in fiamme della sua nave. CAPITOLO 13 Quando mi svegliai la mattina dopo non stavo molto bene. Sentivo uno strano gusto dolciastro sul palato, e avevo la lingua arsa. Quando mi alzai dal letto, ondeggiando, reggendomi a una colonna del baldacchino, con le membra stranamente infiacchite, mi accorsi di essere madido di sudore e di avere inumidito le lenzuola come se avessi la febbre o come se il mio sonno fosse stato un duro lavoro. Preso dal panico, per qualche secondo ebbi il terrore di aver preso la malaria o qualcosa di peggio (dalla morte di Arabella ero diventato una specie di ipocondriaco), ma poi con un sospiro di sollievo mi ricordai del rumbullion di Biddulph. Mi tornò alla mente la serata del giorno prima - Wapping, l'Orinoco, Villiers, Monboddo - in un accumulo continuo di particolari. Con un gemito sommesso mi lasciai sprofondare in poltrona e rimasi per qualche minuto in ascolto dei gabbiani che
berciavano spietatamente sotto la finestra, pescando e sguazzando nel fango. Mi sembrò di ricordare un sogno, qualcosa di violento e di pauroso. Un altro effetto allarmante del rumbullion della sera precedente, pensai. Quando ebbi consumato una colazione di rafano e pane nero, poi bevuto il mio sorso mattutino e passato un quarto d'ora seduto sulla seggetta, cominciai a sentirmi un po' meglio. Scesi in bottega e per un altro quarto d'ora eseguii i vecchi rituali del tendone e delle imposte, l'apertura della porta e il riordino del bancone, muovendomi in giro per tutto il tempo in una sorta di piacevole stato confusionale, come sorpreso di trovare il negozio ancora in piedi e me stesso al sicuro tra le sue mura. Quella mattina il profumo resinoso dei legni di noce e di pino - l'aroma dolce della foresta - si intrecciava con il sentore familiare della carta e della tela. Il negozio era ancor meglio che nuovo, decisi, esaminando le scaffalature e i cardini della porta verde. Mi sentivo come il capitano la cui nave danneggiata è stata con mano esperta riparata su una sponda forestiera che è tempo di lasciare facendo vela verso casa. Sì, mi sentivo molto meglio. Quando Monk fu partito per l'ufficio postale uscii fuori della porta oziando per qualche tempo sul marciapiede, sentendo il sole appena nato sulla pelle e guardando su e giù per la strada come per fare il punto d'orientamento. E tutto d'un tratto il sogno mi ritornò, vividissimo e orribile. Di norma non presto troppa attenzione ai sogni. I pochi che ricordo sono ordinari, vaghi, illogici e insoddisfacenti. Ma quello della notte passata era diverso. Rincasato da Wapping mi coricai con il mio Don Chisciotte, dove ero giunto al sesto capitolo, quello in cui il prete e il barbiere ispezionano e poi bruciano il contenuto della biblioteca del povero folle Chisciotte, la fonte delle sue fantastiche allucinazioni. L'episodio mi si ripresentò nel sogno, solo che non erano più i libri di Chischiotte a bruciare, ma i miei. Avevo assistito inorridito mentre venivano strappati via dagli scaffali e gettati a bracciate su un rogo da una banda di malfattori ghignanti che si rifiutavano di prendere solida forma o di svanire ma apparivano e sparivano alla luce delle fiamme. Dopo un po' queste figure si dileguavano nella notte e io mi ritrovavo a Pontifex Hall, solo, prima nella biblioteca, dove le fiamme divoravano le librerie, poi qualche secondo dopo fuori, nel labirinto di siepi, mentre la cenere e le pagine in fiamme salivano verso il cielo portate da grandi tentacoli di fumo nero, per ricadere verso terra come lapilli di un vulcano in eruzione. A questo punto Pontifex Hall si trasformava in una nave in fiamme e il sogno sì concludeva con lo schianto assor-
dante delle travi che cedevano. Mi svegliai e vidi che il Don Chisciotte mi era caduto dalla pancia sul pavimento. Ora mi chiedevo come dovessi interpretare questa sconcertante catena di immagini. Dice Platone che i sogni sono profezie di cose che verranno, visioni del futuro che l'anima riceve attraverso il fegato, mentre Ippocrate afferma che sono manifestazioni di malattia o anche di follia. Insomma nessuna delle due interpretazioni era per me particolarmente incoraggiante. Decisi di seguire piuttosto il parere di Eraclito, che ci dice che tutti i sogni sono insensatezze e quindi il miglior avviso è ignorarli. Ero ancora lì sulla soglia, sotto il tendone, a bocca aperta come un demente, quando Monk tornò da Dowgate con la corrispondenza. Erano arrivate due lettere: una da un libraio di Anversa, l'altra da un pastore di Saffron Walden a riposo. Seguii Monk oltre la porta verde. Un altro giorno mi aspettava. Un'ora dopo presi una vettura per Seething Lane. Non avevo intenzione di tornare a far visita né a Silas Cobb né al Navy Office, ma contavo piuttosto di parlare con il sagrestano di St Olave. Quando arrivai era in corso la preghiera del mattino e così mi infilai in un banco verso il fondo della chiesa, dove sfogliai un Prayer Book - uno di quei volumetti che Cromwell e i suoi generali avevano fatto di tutto per bruciare - sentendomi imbarazzato e con la coscienza sporca. Non ero mai stato un frequentatore di chiese, a differenza di Arabella, che a volte assisteva a due servizi religiosi nello stesso giorno. Non avevo niente contro quella pratica, né contro i puritani con le loro rissose conventicole né contro la chiesa di stato e i suoi incensi, i suoi altari transennati e i suoi rituali quasi papeschi. Ma dentro di me, immagino, sono un po' come i quaccheri che credono nella loro cosiddetta luce interiore che non ha bisogno di preti né di sacramenti per accendersi. Mentre me ne stavo lì seduto nel fascio di luce che entrava attraverso il finestrone istoriato, però, non ero assorto in questioni spirituali. Pensavo a Henry Monboddo e a Sir Ambrose Plessington, all'imponderabile connessione che poteva esistere tra Il labirinto del mondo e le loro avventure nell'America spagnola, tra il Corpus hermeticum e un gruppo di fanatici protestanti. Queste infruttuose elucubrazioni furono interrotte quando il servizio si concluse; allora risalii il corridoio centrale, contro il deflusso dei fedeli che uscivano, chiedendomi se il mio aspetto come al solito disordinato, combinato con gli effetti dell'alcol bevuto la sera prima, mi facesse ap-
parire agli occhi del vicario come un peccatore pentito venuto a chiedere perdono per una vita di dissipatezze. In ogni caso, lui mi indirizzò senza alcuna apparente remora alla sagrestia, dove spiegai all'uomo che era lì che desideravo consultare i documenti della chiesa per raccogliere informazioni su uno dei parrocchiani - un mio avo, gli dissi - che era sepolto nel cimitero. Si mostrò compiaciuto e pronto a soddisfare la mia richiesta e, dopo aver trafficato a lungo in uno degli armadi, mi mise a disposizione un pingue volume, il registro dell'anno 1620, rilegato in vacchetta. Mi invitò ad accomodarmi al suo piccolo scrittoio e sparì nella chiesa, che ora era deserta tranne che per una donna anziana che si muoveva lentamente sulle lastre di pietra del pavimento con uno spazzolone. Il registro era suddiviso in quelle tre tappe fondamentali dell'esistenza che sono il battesimo, il matrimonio e la dipartita. Sfogliai il libro rapidamente fino alla sezione dei decessi. Era una lettura deprimente, nell'ambiente cupo della sagrestia. Sapevo che quando gli impiegati parrocchiali non compilavano e pubblicavano ancora i Bollettini di mortalità, come fanno oggi, spesso sui registri venivano annotate le cause di morte. Ma non mi aspettavo quelle brevi biografie di sofferenza che accompagnavano ciascuno dei nomi accanto alla data, una colonna dopo l'altra, una pagina dopo l'altra: apoplessie, idropisie, pleuriti, febbri esantematiche, flussi sanguigni, omicidi, denutrizioni, pesti, avvelenamenti, suicidi - e via dicendo, in un catalogo interminabile di tragedie da tempo dimenticate. Una povera anima era stata addirittura "sbranata da un Orso fuggito da un Recinto di Orsi in Southwark", un'altra "divorata da un Coccodrillo in St James Park". Erano registrati alcuni decessi di natura più imprecisa, uomini o donne che erano stati "rinvenuti morti in strada" o erano rimasti "uccisi per una caduta", mentre accanto ad altri nomi era stato annotata una "causa di morte ignota". La morte di Silas Cobb rientrava in questa varietà più misteriosa. Dopo una mezz'oretta trovai il suo nome verso il fondo del volume, nelle pagine dedicate al mese di dicembre, che a quanto pareva era stato particolarmente ferale per i parrocchiani di St Olave. Ma l'informazione si rivelò deludente. Una disuguale grafia corsiva aveva semplicemente registrato che Silas Cobb era stato "trovato morto nel fiume sotto York House". Nient'altro. Niente occupazione né indirizzo né parenti prossimi. Nessun indizio di sorta sulla sua identità. Una perdita di tempo, conclusi. Chiusi il registro e ringraziai il sagrestano, ma solo quando raggiunsi il portone della chiesa mi ricordai all'im-
provviso di una cosa che aveva detto il giorno prima Biddulph, che York House era appartenuta a Francesco Bacone, presunto architetto del Philip Sidney; questi in seguito l'aveva venduta al duca di Buckingham, il quale a sua volte vi aveva tenuto libri e quadri finché suo figlio era stato costretto a venderli, usando come agente (stando ad Alethea) non altri che Herny Monboddo. Per qualche secondo i miei favoriti formicolarono per l'eccitazione... ma poi decisi che avevo semplicemente concepito una stravagante e instabile fantasia. L'eventuale connessione tra Cobb e Bacone o Buckingham, o tra Cobb e Monboddo, nel migliore dei casi doveva essere indiretta. Anche il nesso tra Cobb e la York House con le sue centinaia di dipinti probabilmente non era altro che una singolare coincidenza, perché il suo cadavere poteva essere stato trasportato lì dalla corrente, anche per uno o due miglia, prima che venisse tratto dalle acque storto York House. Poteva essere caduto nel Tamigi - o esservi stato gettato, vivo o morto - praticamente in qualsiasi punto tra Chelsea Reach e il London Bridge. Le gazzette di quei tempi erano piene di notizie di questi piccoli viaggi; di uomini spariti che, saltati dal ponte, venivano recuperati, giorni dopo, tre o quattro miglia più a valle. Prima di lasciare la chiesa pensai di chiedere al sagrestano spiegazioni sulla tomba di Cobb, che appariva tanto più recente di quelle vicine, molto più recente, sottolineai, che se fosse risalita al 1620. Ma l'uomo si limitò a stringersi nelle spalle spiegando che l'uso di porre una nuova pietra su una tomba vecchia era abbastanza comune. Non solo, ma chi aveva fatto fortuna spesso si procurava un pedigree più dignitoso migliorando la condizione delle sepolture dei propri antenati - al punto, aggiunse, di esumare le ossa da un angolo oscuro del camposanto per riseppellirle in un luogo più prestigioso, come le navate o la cripta della chiesa, dove la nuova ultima dimora era contrassegnata da una targa marmorea o perfino da un busto o una statua. Così avveniva, affermò, che un umile barcaiolo o pescivendolo si ritrovasse, a cinquant'anni dalla morte, nella insigne compagnia di duchi e ammiragli, con l'effigie superbamente riprodotta nel marmo o nel bronzo. Mi informò che la chiesa non conservava una documentazione ufficiale di tali migliorie. "Potrebbe consultare il lapicida o il marmista che ha eseguito la lapide," suggerì. "Di solito incidono il proprio nome o il marchio sul retro della pietra." Ma non mi andava affatto l'idea di tornare alla tomba di Cobb alla luce
del sole - quasi quanto di ritrovarmi nel rumore e la polvere di una marineria con il caldo del giorno e i postumi del rumbullion di Biddulph. E così me ne tornai a Nonsuch House, chiedendomi che uso fare di ciò che avevo appreso; ammesso che avessi appreso qualcosa. Per il resto della giornata eseguii i miei consueti rituali tra scaffali e clienti. Ah, il soave balsamo della routine, l'oraziano laborum dulce lenimen, il "dolce refrigerio delle mie fatiche". Dopo, consumai la cena preparata da Margaret, bevvi due bicchieri di vino e fumai una carica di tabacco nella mia pipa, quindi, alle dieci, la mia ora abituale, mi ritirai a letto con il Parzival di Wolfram - quella sera avevo deciso di sospendere il Don Chisciotte - appoggiato alla pancia. Dovetti addormentarmi poco dopo che la guardia notturna aveva annunciato le undici. Non sono mai stato un buon dormitore. Da bambino ero un notorio sonnambulo. I miei strani stati di abbandono, le mie deambulazioni notturne non mancavano di allarmare i miei genitori, i nostri vicini, e infine Mr Smallpace, che una volta mi ricondusse a Nonsuch House, scalzo e confuso, dopo che mi ero avventurato fino al cancello sud del ponte. Crescendo, questa irrequietudine notturna si tradusse in crisi di insonnia che continuano ancora oggi ad affliggermi. Resto sveglio per ore e ore, controllando incessantemente l'orologio, rigirando e sprimacciando il guanciale, voltandomi e rivoltandomi sul materasso come in un corpo a corpo con un invisibile antagonista, prima che finalmente il sonno mi raggiunga per subito dileguarsi se solo vengo disturbato dal minimo rumore o dalla scheggia affilata di un sogno che non ricordo. Nel corso degli anni ho consultato svariati farmacisti che mi hanno prescritto rimedi di ogni sorta per il mio disturbo. Ho bevuto a pinte sciroppi maleodoranti tratti dall'adianto e dai semi del papavero (fiore che Ovidio ci dice cresca accanto alla spelonca dove dimora il Sonno), o un'ora prima di coricarmi, secondo istruzioni, mi sono strofinato le tempie con intrugli di succo di lattuga, olio di rose e Dio sa cos'altro. Ma nessuno di questi dispendiosi elisili ha mai avuto l'effetto di affrettare l'arrivo della sonnolenza di un solo minuto. A peggiorare le cose, di notte Nonsuch House diventava un luogo estraneo e perfino pauroso, soprattutto dopo la scomparsa di Arabella - una vasta camera a eco dove le assi del pavimento scricchiolavano e gemevano, le persiane sbatacchiavano, i topi squittivano e galoppavano, le condutture tremolavano e guaivano dietro le pareti mentre l'acqua al loro interno gelava o sgelava. Mi considero un uomo razionale, ma nei mesi che seguirono
la morte di Arabella mi svegliavo di soprassalto più volte durante la notte, paralizzato dall'orrore, e poi mi rimpiattavo sotto le coperte come un bambino atterrito, tendendo l'orecchio al plotone di spettri e di demoni che bisbigliavano il mio nome procedendo nelle loro furtive attività nei miei armadi e corridoi. Quella notte mi destai con un sobbalzo per uno di questi rumori. Scattando a sedere nel buio pesto cercai a tentoni sul comodino la pistola. Avevo pensato di dormire mettendola sotto al cuscino, come si dice che faccia chi ha paura dei ladri, ma l'immagine dell'arma che faceva fuoco mentre mi rigiravo nel sonno mi sconsigliò, e comunque era troppo grossa e poco maneggevole per trovare posto sotto il sottile guanciale di piume d'oca. Allora la posi sul tavolino accanto al letto, carica con una palla e della polvere da sparo, ma con la canna puntata nella direzione opposta al letto. Il resto delle munizioni era nel cassetto, in una bandoliera che il veterano con una sola gamba mi aveva venduto in blocco con la pistola: trenta palle di piombo dall'aspetto curiosamente inoffensivo, come escrementi pietrificati di un piccolo roditore. Trovai l'arma solo dopo qualche secondo di frenetici tastamenti, poi strinsi le dita attorno al calcio e trattenni il fiato, aspettando di udire per la seconda volta il rumore dell'intruso. Era stato, mi sembrava, una sorta di lieve tintinnio, come di un paio di speroni. Ma ora tutto taceva. Quel suono me l'ero sognato, mi dissi. Oppure era stata la guardia con la sua campanella. Dlin-dlin, dlin-dlin, dlin-dlin... Mi ero appena riassopito quando lo udii di nuovo, stavolta più nitido, un suono non familiare che non apparteneva all'abituale repertorio della casa; un tintinnio flebile ma insistente, come di una piccola campanella per il pranzo o un mazzo di chiavi. O forse come il risuonare di finimenti, ma il coprifuoco era in corso da ore, i cancelli del ponte erano sicuramente chiusi ed era assai improbabile che lungo la carreggiata passasse qualche veicolo. Mi drizzai di nuovo a sedere, con la pistola stretta nella sinistra, accesi la candela per guardare l'ora, e anche l'orologio dovetti cercarlo a tentoni. Le due passate. Improvvisamente il rumore cessò, come se chi lo produceva se ne fosse d'un tratto accorto e lo avesse subito tacitato. Portai le gambe giù dal letto, immaginando l'intruso appiattito contro una parete, fiato sospeso e orecchie tese. Dlin-dlin-dlin-dlin, dlin-DLIN!
Il suono si era fatto più forte e insistente. Strisciai lungo il corridoio e poi, facendo un respiro profondo, scesi i primi scalini. Avevo difficoltà non vedendo dove mettevo i piedi ma riuscii a evitare il terzo gradino dall'alto, che cigolava, e il quinto, che a mo' di trabocchetto per gli intrusi ignari della casa, era stato costruito parecchio più alto degli altri. Non desideravo svegliare Monk, che sarebbe morto di paura vedendomi girare furtivo per la casa buia armato di pistola. Né volevo mettere sull'avviso l'intruso che - a questo punto ne ero sicuro - o era già nel negozio o stava cercando di aprire la porta esterna; perché, ora me ne ero reso pienamente conto, il suono era provocato da un mazzo di grimaldelli. Dlin-DLIN... Avevo i capelli ritti sulla nuca per la paura. Con un respiro tremolante, rafforzai la presa sulla pistola e allungai il piede nudo verso il gradino successivo. Il tintinnio era cessato, ma ora sentii uno scatto e poi il lento cigolio dei miei cardini nuovi, mentre la porta nuova si apriva di uno spiraglio. Mi immobilizzai, con il piede torto sospeso a mezz'aria. Le assi del pavimento gemettero flebilmente mentre l'intruso penetrava nel negozio. Mi passai la lingua sulle labbra e cercai alla cieca l'altro scalino. Quello che accadde poi fu, suppongo, inevitabile. I gradini della scala a chiocciola sono ripidi, stretti e consumati, di altezza irregolare; io, come si sa, sono zoppo e, senza occhiali, mezzo cieco: e gli occhiali li avevo lasciati nella camera da letto. E così quando raggiunsi un altro scalino, il mio piede equino scivolò sullo spigolo e con un grido piombai a capofitto sul pianerottolo. Peggio, la pistola mi sfuggì di mano mentre facevo il mio volo nel buio. Rimbalzò con rumore di ferraglia lungo i gradini davanti a me. Trattenni il fiato. Seguì un silenzio di tomba. Rimasi disteso sul pianerottolo per qualche secondo prima di riavermi con cautela e rialzarmi a poco a poco. C'era un tale silenzio che per un attimo pensai che forse mi ero sbagliato, che era stato tutto un sogno, o la voce del vento, o i rumori dell'edificio che scricchiolava e si assestava con la marea. Ma poi sentii un inequivocabile rumore di passi e, qualche secondo più tardi, un bisbiglio di voci. Sentii tutto il mio corpo tendersi, preparandosi al balzo. Potevo ancora raggiungere la pistola. Ma gli intrusi erano almeno due, mentre anche se fossi riuscito a prendere l'arma avevo un solo colpo. Perciò rimasi acquattato sul ballatoio, così terrorizzato che non riuscivo nemmeno a fiatare. Alcuni orribili secondi passarono prima che sentissi il brusco raschiare di un acciarino. Poi una luce si levò piroettando le ombre sul muro. Mi mi-
si immediatamente in moto, rinculando sullo stretto pianerottolo, tastando dietro di me alla ricerca del gradino soprastante. Ma era troppo tardi. Già un paio di stivali scricchiolavano sull'impiantito, a pochi passi sotto di me. Sentii il sibilo sommesso della torcia accesa, poi il pesante grattare della pistola che veniva recuperata. Ancora qualche secondo e mi sarebbero stati addosso. Rotolai su me stesso e mi aggrappai alla cieca agli scalini. Ma appena trovata la presa, sentii una mano gelida che mi agguantava per la collottola. A quei tempi Nonsuch House aveva ottant'anni di età. Era stata costruita in Olanda nel 1577 e poi trasportata a pezzi a Londra, dove i suoi timpani scolpiti e le sue cupole semisferiche erano stati rimontati insieme senza far uso di chiodi, pezzo per pezzo, come le tessere di un gigantesco mosaico. Si trovava a mezza strada lungo la carreggiata, sul lato di settentrione di un piccolo ponte levatoio le cui ruote dentate di legno si mettevano in moto cigolando sei volte al giorno. E così sei volte al giorno il traffico sulla strada era costretto a una sosta di venti minuti mentre quello sottostante sfilava sull'acqua: lance e scialuppe dirette a monte con i loro carichi di malto e pesce secco, barchette e pinacce dirette a valle con barili di birra e zucchero per i mercantili ormeggiati a Tower Dock, talvolta perfino il panfilo del re in persona diretto alle corse a Greenwich, con gli alberi oscillanti e le vele fruscianti. In questi momenti sul ponte cadeva il silenzio mentre i tiri dei cavalli e i pedoni si fermavano tutti davanti a quella processione da sogno di venti o trenta imbarcazioni. Da apprendista, anch'io usavo fermarmi a guardare mentre la carreggiata si alzava verso il cielo e le barche scivolavano davanti alle finestre, con le vele piene di vento, gonfie come il panciotto di un gigante. Ma poi Mr Smallpace mi riscuoteva con un grido dall'altra parte del negozio e io tornavo ubbidiente a rivolgere l'attenzione sulle pile di libri. Il rituale era imponente ed emozionante, ma aveva anche un effetto sconvolgente sulla struttura di Nonsuch House, soprattutto sul mio angolo, che dava direttamente sul ponte levatoio e, sei volte al giorno, tremolava e gemeva sotto lo sforzo degli ingranaggi. Mentre le ruote giravano e le tavole si alzavano sentivo le assi fremere sotto i miei piedi e udivo il tintinnio dei vetri delle finestre che si scuotevano nei telai. Si diceva di libri venuti giù dagli scaffali, tazze e bicchieri dalle scansie in cucina, pentole di rame e pezzi di carne dai loro ganci nella dispensa. Non solo, ma dopo la
morte di Mr Smallpace scoprii che una delle travi portanti dello studio si era spostata di tanto dal soffitto che una delle pareti ora mostrava una minacciosa incurvatura. Bisognava fare qualcosa. Feci venire un apprendista fabbro per arrestare lo scarroccio del montante ribaldo, ma nel corso dei lavori il graticcio coperto di argilla della parete si sfondò in un punto, mostrando una piccola cavità. Il foro fu subito allargato, rivelando una intercapedine larga un metro e alta due, nella quale riuscii a infilarmi abbastanza agevolmente. Bussando qua e là con una spranga di ferro scoprimmo che un tempo alla cameretta si accedeva da una botola nascosta nel soffitto, le cui tavole ora formavano il pavimento di un ripostiglio delle scarpe al piano di sopra. Chi avesse costruito quel piccolo compartimento segreto potevo solo cercare di indovinarlo. Dentro non c'era altro che un piatto di legno, un cucchiaio, i resti laceri di quello che sembrava un farsetto di pelle, e un malconcio candeliere d'argento. Mi ero aspettato di trovarvi, semmai, qualche antico addobbo d'altare o i resti di vesti talari, perché sapevo che i nascondigli per i preti erano abbastanza comuni nelle case costruite durante il regno della regina Elisabetta - piccoli recessi sotto una scala o sotto le pietre del focolare dove si nascondevano i sacerdoti di Roma e altre vittime delle nostre persecuzioni religiose. Quella notte ero rimasto seduto dentro la cameretta con le ginocchia tirate sotto il mento e una candela accesa nella vecchia bugia, cercando di figurarmi chi potesse essersi rifugiato lì dentro: un frate francescano nel suo cilicio, o fors'anche un gesuita? Per un momento mi parve di vederlo chiaramente, l'ometto inginocchiato su una stuoia, che mormorava un miserere, respirando con cautela in quello spazio angusto e buio mentre, a un braccio di distanza, i perquisitori del magistrato si scambiavano segnali e picchiavano su impiantiti e zoccolature con l'elsa della spada. Non ero un papista, ma sperai che fosse riuscito a sfuggire, chiunque fosse, e a mettere in salvo la sua vita di segretezza - un'esistenza appartata, ascetica e quasi ermeticamente sigillata, simile a quella che probabilmente ho sempre sognato per me. Fu per questo, dunque, che quando chiamai un carpentiere per far chiudere la camera, all'ultimo momento cambiai idea, seguendo un impulso improvviso, e gli ordinai di lasciare la piccola cavità così com'era, ma di nasconderla dietro una nuova parete. Questo muro fu quindi imbiancato e pannellato, e la pannellatura coperta di scaffali. La camera era tornata invisibile. In nessun momento avevo previsto di dover mai usare la mia camera se-
greta - Dio ne scampi! Desideravo conservarla come memoriale, ecco tutto. Negli anni seguenti le avevo dedicato ben rari pensieri, anche se quando gli ispettori cominciarono a onorarmi con le loro visitine la usai per nascondervi qualche opuscolo e pamphlet che altrimenti sarebbe stato confiscato e bruciato. Nessuno ne conosceva l'esistenza tranne Monk, per il quale era diventata un luogo di infinita meraviglia. Sovente lo sentivo muoversi al suo interno, impegnato, immaginai, in qualche suo piccolo gioco segreto. Ma poi un giorno sollevai la botola del ripostiglio degli stivali e vidi che l'aveva arredata con carabattole varie - uno sgabello a tre piedi, candele, una coperta, qualcosa da leggere e perfino un vecchio pitale pescato chissà dove. Sospettai che progettasse di prendervi dimora. Dopotutto era delle stesse dimensioni della sua cameretta, e probabilmente non meno confortevole di quella. Ma una sera, mentre sedevo nella mia poltrona, sentii una serie di energici colpi provenienti da dietro la parete e, corso di sopra, lo sorpresi nell'atto di inchiodare per le suole tre paia dì vecchi stivali sopra le tavole di legno del chiusino. Interrogato, spiegò che stava escogitando un sistema per fare in modo che quando apriva la botola e si infilava nella camera ecco, così - le scarpe rimanevano al loro posto anche dopo che il portello era stato richiuso. L'ingresso così era invisibile. Furbo, no? Si era tirato fuori dal buco e affannava. Riconobbi che lo era senz'altro. Non ebbi bisogno di domandargli che cosa lo avesse ispirato. Solo tre notti prima gli ispettori avevano fatto irruzione nella sua camera piazzandogli la lanterna davanti alla faccia. "Ben fatto," ripetei. Avevo deciso di perdonargli la distruzione degli stivali, che peraltro non usavo quasi mai. "Sì, davvero ingegnoso." Ma sbirciando nella stanzetta mi tornò alla mente il prete accoccolato nel buio a pregare per la salvezza della sua vita clandestina e della sua tacita missione. "Speriamo però di non doverla mai usare." Chiudemmo la porta e uscimmo dallo sgabuzzino. Poi per mesi - a volte anche di più - non pensai più alla celletta nascosta dietro la parete dello studio. "Mr Inchbold." Un sussurro. La mano sul collo mi stringeva più forte. "Da questa parte, signore. Su. Mi segua..." Salimmo rapidamente, con le ombre che zigzagavano sui gradini davanti a noi. Oltre lo studio e la camera da letto, intorno a un altro ballatoio, poi su per un'altra rampa circolare. Dal basso veniva il bagliore delle torce e
un concitato trepestio. Ormai ogni segretezza era stata abbandonata. Sentii una voce gridare dietro di noi, poi un tonfo e una bestemmia dei nostri inseguitori, inciampati nel quinto gradino. Si rialzarono, imprecarono di nuovo, ripresero l'inseguimento. Una voce gridò il mio nome. A quel punto avevamo raggiunto la cima delle scale. Monk fece strada, avanzando a tentoni per il corridoio mentre io gli incespicavo dietro a qualche passo di distanza, istupidito dal terrore, guardandomi alle spalle in attesa della prima testa che spuntasse dalla cima della scala a chiocciola. Non avevo idea di cosa stesse facendo, se non scappando, quando gli finii addosso. Si era fermato davanti al ripostiglio delle scarpe e ora mi teneva aperta la porta, come se dovessimo montare in carrozza. "Dopo di lei, signore." Mi misi a quattro zampe e mi calai nel buio, aggrappandomi con le dita all'orlo della botola finché i miei piedi toccarono uno sgabello. Un secondo dopo Monk si lasciò cadere con leggerezza accanto a me, come un gatto, quindi richiuse il portelo mascherato. Ci trovammo nell'oscurità più totale, senza nemmeno un filo di luce dall'alto. Non riuscivo a vedere nulla di Monk, benché ne avvertissi la, presenza a un palmo da me dal respiro ansante. Mi voltai, anch'io ansimando, ma urtai contro qualcosa. Il panico gonfiò la sua sottile membrana dentro le mie viscere. L'aria era così nera che sembrava quasi materiale, densa. Mi voltai di nuovo, e finii contro un'altra parete. Il nascondiglio era un po' più spazioso di una bara. Stavo per arrampicarmi per tirarmene fuori ma sentii la mano di Monk sul braccio e udii dei passi - sembravano gli stivali di tutto un esercito - risuonare sopra le nostre teste. Gli intrusi avevano raggiunto la cima della scala. Una voce gridò di nuovo il mio nome. Allungai una mano cercando uno sgabello, qualcosa su cui sedermi. Non riuscivo a respirare. Altri passi. Porte che sbattevano. Stavo per perdere i sensi... Ma non li persi. Monk spinse una seggiola verso di me, mi sedetti, poi per le ore che seguirono rimanemmo ad ascoltare il fracasso sopra di noi, a faccia in su verso l'invisibile botola, paralizzati nel silenzio mentre gli intrusi - tre uomini, forse quattro - aprivano le porte e picchiavano palmo a palmo su tutta la superficie della casa con le spade e i bastoni. I nostri ospiti erano meticolosissimi. La scala, i montanti di pietra del camino, la cappa e la pietra del focolare, i soffitti e i pavimenti, armadi, zoccolature, letti, tende, ogni mattone smosso, ogni trave tarlata - niente in casa rimase non esaminato. Tre volte li sentimmo proprio sopra di noi, passare nel cor-
ridoio davanti allo sgabuzzino, poi aprirne la porta e picchiarne le pareti. Ma per tre volte la porta fu richiusa con violenza e i passi e i colpi si allontanarono. Un momento dopo sentii un sommesso bussare a pochi centimetri dalle mie orecchie, mentre la punta di un bastone sondava accuratamente la parete dello studio. Ma l'intercapedine era spessa, riempita di materiale isolante, e il suono di vuoto, se mai c'era stato, doveva essere quasi impercettibile. Dopo un poco cessarono di picchiare. Emisi un sospiro di sollievo e sentii la mano di Monk stringermi la spalla. "Tutto bene, signore?" "Sì," balbettai, un po' troppo forte. "Tutto bene." Tremavo come una foglia e sperai che non se ne accorgesse, ma tutto sommato non aveva più importanza. Nel corso di tutto quel supplizio sembrava che i ruoli di padrone e apprendista si fossero invertiti. Dal primo momento della nostra fuga precipitosa su per la scala, lui era stato paziente e coraggioso, mentre per me, il suo padrone, non c'era altro che terrore, confusione e, più tardi, lamentele. Trovavo insopportabile ogni situazione di costrizione. Dopo pochi minuti sullo sgabello mi faceva male la schiena; poi le gambe mi si anchilosarono e, poco dopo, mi accorsi di avere disperatamente bisogno di vuotare la vescica. Poi non riuscivo a respirare quell'aria pesante. Il petto cominciava a gorgogliare, il diaframma si contraeva e sobbalzava mentre cercavo di trattenere la mia tosse da basset-hound: ne sarebbe bastato un solo colpo a tradirci. Mi morsi le labbra e cercai di trarre forza e conforto dal pensiero del prete che ci aveva preceduto dentro la cella, forse in circostanze molto simili a quelle, un ometto che baciava il suo Agnus Dei, che sgranava il rosario, che recitava sottovoce giaculatorie ai santi. Ma era tutto quello che potevo fare per evitare di mettermi a frignare. Monk, invece, nel buio pesto della minuscola cella era nel suo elemento. Era come se si fosse preparato da tempo a questo momento, o come se le sue precedenti esperienze con gli intrusi fossero state una sorta di prova del fuoco, rendendolo paziente e saggio, non più il mio obbediente subalterno ma un efficiente, deciso comandante, capace di fare piani e valutazioni. Fu lui a decidere che non potevamo permetterci di accendere una candela, a trovare la coperta per sostenermi la schiena, a bisbigliare rassicurazioni sulla riserva di aria e le probabilità di farcela... e fu lui, quando la porta d'ingresso fu chiusa rumorosamente e su tutto cadde il silenzio, fu lui a capire che era rimasto ancora un uomo in casa, immobile e muto, in attesa che lasciassimo il nostro nascondiglio, cosa che io ero più che ansioso
di fare. Pochi minuti dopo, infatti, sentimmo un colpo di tosse soffocato venire dallo studio. E così aspettammo ancora un paio d'ore finché anche lui fu andato via. Allora Monk fece un gradino con le mani intrecciate e mi issò verso la botola. Mi inerpicai nel ripostiglio delle scarpe, annaspando in cerca d'aria e poi emergendo nei corridoi e le stanze rischiarate dalla luce dell'aurora come un sopravvissuto che spunta dalle macerie di un crollo, di un disastro. Solo che non c'era traccia di disastri né in casa né nella bottega sottostante. Certamente niente di simile a quanto era avvenuto pochi giorni prima. Passammo nelle varie stanze in punta di piedi, nella semioscurità, tenendoci alla larga dalle finestre - un'altra delle sagge raccomandazioni di Monk - e cercando eventuali segni di quanto era accaduto. Ma era come se in casa non fosse entrato nessuno; come se le ultime ore non fossero state altro che un incubo sognato insieme. Scoprii perfino la pistola sull'ultimo gradino, apparentemente mai toccata. L'unica traccia dei nostri visitatori era un vago sentore di fumo di torcia aggiunto all'odore consueto della casa. "Chi pensa che fossero, signore?" Lassù, percorrendo i corridoi familiari, Monk era tornato a essere il mio deferente apprendista. "Gli stessi dell'altra volta?" "No, non credo." Ora eravamo nel negozio, e ci muovevamo con un occhio alla porta verde. "Non gli interessavano i libri, vedi? A differenza di quelli dell'altra sera." Annuì, e per un momento ci guardammo in giro in silenzio. No, nessuno dei libri era stato toccato. Conservavano l'ordine perfetto dei ranghi in cui li avevamo disposti sulle scaffalature appena poche ore prima. Né erano venuti per il denaro. Il lucchetto della cassetta di ferro sotto il mio letto era intatto, così come la borsa di monete sotto il bancone della bottega e, ancora più importante, il nascondiglio delle sovrane e delle carte sotto le tavole del pavimento. Nemmeno un centesimo era stato portato via dalla casa. Sentii sul volto lo sguardo perplesso e interrogativo di Monk. "Pensa che fossero venuti per lei, allora?" Mi strinsi nelle spalle, incapace di sostenere il suo sguardo penetrante. Mi voltai per esaminare la serratura della porta, che era intatta come tutto il resto. Quegli uomini, chiunque fossero, conoscevano bene il loro mestiere. Ma in quel momento qualcosa accanto alla porta, un grumo di sporco, richiamò il mio sguardo, e mi inginocchiai a esaminarlo. Un mucchietto di
polvere grigia, una sostanza granulosa al tatto e vagamente iridescente alla luce del mattino. "Che cos'è, signore?" Monk era chino accanto alla mia spalla. "Calcare," risposi dopo un breve esame. "Calcare?" Si grattava la testa e potevo sentirne il respiro. "Da una cava?" "No, non da una cava. Dal mare. Vedi questo?" Soffiai sulla polvere scoprendo un piccolo frammento, come una scheggetta d'osso. "Conchiglie triturate." Toccò la polvere con un dito. "Cribbio, signore. Come è arrivata fin qui della polvere di conchiglie? Pensa che sia stata portata da..." "Sicuramente." Mi raddrizzai esaminando ancora i fini frammenti che avevo in mano. "I gusci macinati si usano per lavori stradali," spiegai. "Viali di accesso per le carrozze davanti alle ville, quel genere di cose. Deve essere entrato portato dai loro stivali." Monk annuì gravemente, come aspettando che aggiungessi qualcosa, cosa che non feci. Dopo qualche istante mi scossi la polvere dalle palme delle mani e mi misi davanti alla finestra chiusa. Guardai attraverso le stecche delle imposte mentre il sole del mattino rigava il pavimento alle mie spalle e proiettava lunghe ombre sulla carreggiata. Le strisce di luce mi facevano male agli occhi e mi provocavano acute fitte di dolore che si irradiavano fino alla nuca. Ma mi sporsi in avanti e - come avevo fatto una mezza dozzina di volte negli ultimi due giorni - sbirciai a destra e a sinistra per tutta la lunghezza della strada. Si stava animando del traffico mattutino, della sua consueta cacofonia fatta di grida e zoccoli di cavalli, e del rumore delle serrande dei negozi che si andavano aprendo lungo il ponte. Davanti a essi si materializzavano gli apprendisti che con la scopa spazzavano il marciapiede appena toccato dal sole. Mentre osservavo la scena sentii una stretta dolorosa sotto lo sterno. Quello era il momento della giornata che preferivo, quando aprivo le imposte, abbassavo il tendone, lucidavo il bancone e le librerie, pulivo il camino, accendevo il fuoco, poi mettevo un bricco d'acqua a bollire per il primo caffè del mattino e mi ritiravo dietro il banco in attesa che i primi clienti aprissero la porta verde e facessero il loro ingresso. Ma quella mattina fui assalito dal sospetto che quel rituale non sarebbe mai più stato lo stesso. Chi altro, infatti, mi chiesi, poteva apparire sul ponte quella mattina ed entrare nel negozio? Chi altro c'era là fuori, quale malvagia eminenza con i suoi poteri segreti si nascondeva tra i portici e gli androni, osservan-
do la porta verde e aspettando la buona occasione? Perché quello che non avevo detto a Monk era il fatto che i viali di accesso e i sentieri di "Whitehall Palace erano coperti di quella brecciolina - l'avevo sentita scricchiolare sotto i piedi mentre mi dirigevo agli uffici dello Scacchiere. I miei cupi pensieri vennero interrotti da un sibilo acuto; poi i vetri delle finestre cominciarono a tremare e le travi del negozio presero a scuotersi sotto i miei piedi. Dalle stecche delle persiane vidi il ponte levatoio che si alzava lentamente, come un enorme orologio animato, gettando il braccio della sua ombra sulla facciata del negozio. Il ben noto sommesso brusio si diffuse sul ponte. Carri e carrozze si arrestarono davanti alla mia porta mentre una dozzina di vele prendevano il vento e passavano, ondeggiando, attraverso il varco. Ancora qualche minuto e anche l'ultima era sfilata davanti alla finestra. Poi le funi si tesero nelle pulegge, i meccanismi di legno si agganciarono, il pavimento tremò, e il ponte tornò al suo posto tra qualche altro gemito geriatrico. Il traffico davanti alla Nonsuch Books riprese vita e ricominciò a rotolare sull'acciottolato, come faceva tutti i giorni a quell'ora, con il suo concerto di cigolii e imprecazioni. Sì, tutti i rituali consueti erano ricominciati. Ma capii, improvvisamente, che quella mattina io non ne avrei fatto parte, che non avrei aperto il negozio, che per la prima volta nella mia vita professionale avrei voltato le spalle ai miei doveri. Perché la mia navicella non stava facendo vela verso casa, come avevo creduto, ma sbandava incontrollata fuori rotta, in acque sconosciute, senza mappe né bussola. Mentre qualche momento dopo salivo per la scala a chiocciola, reggendomi al muro, sapevo che Nonsuch House, il mio rifugio degli ultimi vent'anni, non era più sicuro. III IL LABIRINTO DEL MONDO CAPITOLO 1 Cominciò così la mia vita tormentata e raminga, il mio tumultuoso esilio da Nonsuch House. Non avevo idea, dapprincipio, di dove potessi fuggire. Mentre salivo in camera mia considerai di lasciare del tutto Londra, ma presto ci ripensai. Avevo messo piede fuori della città sì e no una mezza dozzina di volte: due volte per la fiera del libro a Ely, tre per quella di Oxford, e una volta mi ero spinto fino a Stourbridge, anche in quell'occasio-
ne per una fiera del libro. E poi c'era stato il viaggio più lungo e molto più faticoso a Pontifex Hall, là dove a quanto pareva erano cominciati tutti i miei problemi. Pensai piuttosto di trovare rifugio a Wapping, ma presto decisi che non era il caso di andare ad aggiungere altra sabbia al mulino del povero Biddulph, che già di suo macinava abbastanza paure e cospirazioni. E così mentre riempivo una piccola sacca da libri con un cambio d'abiti pensai a qualcuno dei miei altri clienti. Ce n'erano diversi - studiosi pacifici e cortesi - che, immaginavo, mi avrebbero ospitato volentieri per una o due notti, o anche di più se lo avessi voluto. Ma quale giustificazione avrei potuto offrire? Chiusi la borsa e me la misi a tracolla. No: a Londra era rimasto un solo posto dove potessi andare; un solo posto per un fuggiasco come me. Quando tornai di sotto Monk aveva aperto il negozio, e diversi clienti visi gioviali, familiari - stavano curiosando tra gli scaffali. Li salutai con un cenno del capo e poi mormorai a Monk che dovevo lasciare Nonsuch House per qualche giorno e che la bottega era nuovamente nelle sue mani. Diede un'occhiata alla mia borsa ma non mostrò troppa sorpresa. Pensai che dopo gli eventi delle ultime notti aveva finito per aspettarsi questi capricci improvvisi dal suo padrone. Sentii una fitta di rimorso all'idea di abbandonarlo - come se io, proprio io, potessi salvarlo o proteggerlo. Poi gettai un'ultima occhiata al negozio e uscii all'aperto, dove ben presto mi mescolai alla fitta folla che si accalcava sui marciapiedi del ponte. Cinque minuti dopo ero passato sotto il Southwark Gate, e qui il traffico era un po' più rado. Dopo essermi guardato alle spalle, scesi aiutandomi con il bastone fino all'imbarcadero lungo il fiume, dove noleggiai una barchetta. Il barcaiolo mi rivolse un sorriso e mi chiese dove volessi andare. "Su per il fiume," risposi. Mi guardò con sospetto mentre con il remo allontanava la barca dal pontile, indubbiamente perché avevo tirato il telo sopra i cerchi di legno e ora, nonostante la bella giornata, me ne stavo rintanato sotto la tenda, che puzzava di muffa. Sbirciai da sotto quel riparo per accertarmi che nessuno mi avesse seguito giù per le scalette di imbarco. Sul fiume a valle non c'era nessuno, tranne un paio di smacchi da pesca all'ancora sulle secche, impegnati ad ammainare le vele in attesa della prossima levata del ponte. Dietro le loro alberatare si stagliava sui piloni Nonsuch House, che scolori lentamente nella foschia come svanendo nel nulla. "Quali comandi, signore? Dove vuole che la porti?" "Alsatia," risposi. Poi tornai a infilarmi sotto il tendalino e non ne emersi
che quando la nostra prua grattò contro la scaletta del molo carboniero sotto il Corno d'Oro. Presi alloggio alla Taverna della Mezza Luna, che sorgeva in Abbey Court, più o meno nel centro (per quanto potessi giudicare) di quel dedalo di cortili e viuzze che era Alsatia. La mia stanza era all'ultimo piano ed era raggiungibile solo per mezzo di una scala stretta e tortuosa lungo la quale mi accompagnò la proprietaria, Mrs Fawkes, una donnetta dai capelli neri il cui fare riservato e compito sembrava più confacente a un monastero che a una taverna nel bel mezzo di Alsatia. Sul registro degli ospiti mi ero firmato come "Silas Cobb," poi avevo pagato anticipatamente uno scellino per due notti, somma che mi dava diritto, mi spiegò con la sua voce sommessa, a colazione e pranzo oltre che al letto. E di qualsiasi altra cosa avessi bisogno - birra, tabacco, i servizi di una cameriera - non esitassi a farglielo sapere immediatamente. I suoi occhi color prugna si erano abbassati pudicamente quando aveva fatto allusione alle giovani dame che ci avevano seguito con lo sguardo dallo spiraglio della tenda di alcune porte mentre la seguivo su per la scala. Le garantii che non prevedevo di avere bisogni di tal sorta. "Anzi... " pescai dalla tasca un altro scellino e glielo lasciai cadere nella mano. "È indispensabile che non sia disturbato nel corso della mia permanenza. Da nessuno, giorno o notte. Ci siamo intesi?" La reazione di Mrs Fawkes mi fece sospettare che richieste del genere non fossero insolite tra i suoi ospiti. "Certamente, Mr Cobb," sussurrò, sorridendomi prima di abbassare gli occhi sul mazzo di chiavi che portava in vita e poi sul gatto nero che ci aveva seguito sulle scale. "Nemmeno un'anima la disturberà, finché alloggerà sotto il mio tetto. Le do la mia parola." Andata via con il suo gatto, sistemai il bagaglio sul letto e mi guardai intorno. La stanza era piccola e spartana come la cella di un monaco, senz'altro arredo che una seggiola di legno, un tavolo e un letto a baldacchino con un materasso affaticato. Dalla sua piccola finestra potevo vedere la torre campanaria del carcere di Bridewell e, molto più in là, l'estremità settentrionale del London Bridge, una visuale che mi rallegrò assai e parve rendere il mio esilio - ché tale già lo consideravo - alquanto più tollerabile. Mi misi a sedere sul letto, emisi un sospiro spezzato, e mi congratulai con me stesso per la scelta. Quando un'ora prima ero arrivato in Alsatia ero depresso e totalmente
frastornato. Ero stanco morto dopo quella notte di tregenda e non avevo alcun piano se non trovare rifugio, come tanti altri, in quel quartiere. In un primo momento avevo pensato di prendere una stanza al Corno d'Oro, poi alla Testa del Saraceno, ma poi avevo scartato ambo le scelte. In entrambe avrei potuto imbattermi nel dottor Pickvance, e non sapevo ancora quale fosse la natura dei suoi rapporti con Henry Monboddo. Inoltre, la Taverna della Mezza Luna appariva leggermente più rispettabile - se così si può dire - delle altre due locande. Aveva appena aperto quando ero arrivato, e Mrs Fawkes stava salutando alcuni signori elegantemente vestiti, assistita dal gatto che la seguiva dappertutto come l'aiutante di una strega. La taverna sembrava vuota, a parte le giovani dame che ci avevano occhieggiato da dietro le tende. Sì, mi dissi sdraiandomi sul letto: qui sarei stato al sicuro. In ogni caso, tolsi la pistola dalla borsa e la deposi accanto al letto. Caddi immediatamente addormentato e non mi svegliai che su sul far della sera, quando sul London Bridge si cominciavano ad accendere le prime luci. Il mio orologio da taschino mi informò che avevo dormito quasi dieci ore. Scesi dal letto e, ancora intontito dal sonno, presi dalla borsa due piccole fiale: due dei tre acquisti che avevo fatto prima di prendere la stanza. Nella prima fiala c'era un decotto di foglie di rovo che avevo comperato da un farmacista di nome Foskett, che mi aveva informato che la preparazione, creata nel suo laboratorio, era un toccasana per le irritazioni della bocca o di quelle che, ammiccando, definì le "parti segrete". Ricambiai l'ammicco, feci una teatrale smorfia di dolore, e lasciai che pensasse quello che gli pareva. Dopo aver messo a bollire un bricco d'acqua vi versai il decotto di foglie di rovo, mescolai, poi aggiunsi il contenuto della seconda fiala, tre grammi di liscivia acquistati nella stessa bottega. Ora ero completamente sveglio, mentre richiudevo i flaconi con le mani che mi tremavano. Quando la mistura si fu raffreddata la versai nel bacile e la usai per bagnarmi i capelli e la barba, senza dimenticare le sopracciglia. Lo sapesse o meno, la preparazione di Foskett non si limitava a curare i disturbi venerei. Il mio specchietto confermò che capelli e barba erano passati dal bruno ingrigito al nero corvino. Per buona misura mi rifilai la barba modellandola in un pizzetto a punta, secondo la foggia dei Cavalieri. Quindi mi occupai del terzo acquisto della mattina, gli abiti che avevo
comperato in una merceria di Whitefriars Street. Ripiegai e misi via i miei sobri indumenti da libraio - il farsetto consunto, le brache con il cavallo ormai quasi trasparente, le calze smagliate - e indossai l'abito nuovo, pezzo per pezzo. Prima una sopravveste dai bottoni dorati; poi un paio di brache ornate di nastri e con le calze di seta intonate; infine un tricorno di velluto nero con un nastro viola pendente. Sarei stato abbastanza appariscente, sì, ma nessuno mi avrebbe riconosciuto - io stesso mi riconoscevo a stento come Isaac Inchbold. No, pensai mentre esaminavo l'immagine nel vetro oscurato della finestra: nessuno avrebbe capito che ero io mentre mi occupavo delle mie faccende quella sera. Soddisfatto dell'effetto, mandai a chiamare per la cena. Poco dopo mi fu servita in camera da una delle cosiddette cameriere, una ragazza dai fianchi larghi e le guance rosee e vellutate e con l'accento della campagnola. Depose il vassoio sul tavolo, accettò in cambio una moneta e i miei ringraziamenti, quindi fece un'uscita discreta senza nemmeno uno sguardo nella mia direzione. La cena, merluzzo fritto e pastinache, era molto saporita, e mangiai di grande appetito. Consumai anche con piacere un boccale di birra forte. Pochi minuti dopo scendevo le scale con la pistola infilata nella cintola delle mie brache nuove. A quell'ora la Mezza Luna era affollata di avventori le cui risate roche, inframmezzate dal gracchiare di un violino, si facevano strada su per le scale. Lo scricchiolio dei gradini richiamò l'attenzione di un paio delle residenti nelle camere con le tende, i cui visi senza corpo, anche questi pienotti e rosati, emergevano dalle pieghe delle cortine, o le cui tende scostate mostravano le camere illuminate dalle candele con specchi e vasi di fiori sgargianti. Mi giunsero ondate di profumo e di fumo di tabacco, seguite da qualche risolino soffocato. Chinai la testa, ma non prima di aver colto un'altra immagine di me in uno degli specchi: un bravaccio dai capelli neri con i bottoni scintillanti e il cappello sulle ventitré. Solo il mio fidato bastone da passeggio - che non avevo avuto il cuore di abbandonare - proclamava la mia precedente identità. Più tardi mi sarei interrogato sulla catena di strani eventi che mi aveva portato fin lì, ma per il momento non mi soffermai a riflettere su come fosse potuto accadere che io, cittadino ligio alle leggi, umile libraio, mi trovassi a scendere le scale di un bordello nel mezzo di Alsatia, al calar della notte, camuffato. Il cielo si era fatto buio quando uscii in Abbey Court. Mi guardai rapidamente intorno, fissando l'orientamento su un'insegna sbiadita sull'angolo, e poi mi incamminai verso nord in direzione di Fleet Street. Lungo la
via passai davanti ad Arrowsmith Court e attraverso il suo stretto ingresso intravidi il volto sinistro del turco che mi guardava ghignando. Le finestre della Testa del Saraceno mandavano una luce arancione, ma quelle delle stanze del dottor Pickvance erano sbarrate e buie. Continuai a camminare verso nord, con la pistola che sfregava contro la coscia pungolandomi il fianco. Al di là del canale, in Blackfriars, dalle corde del bucato tese tra i caseggiati di recente costruzione pendevano le pallide code di rondine di camicie e sottovesti, come i resti dell'impavesata per una processione passata chi sa quando. In Whitefriars Street mi passò sfrecciando davanti ai piedi una volpe, muso basso e coda ritta. Mi parve una sorta di presagio, come pure il rozzo graffito tracciato con il gesso che vidi, qualche secondo dopo, su una palizzata semicrollata: lo stesso simbolo - l'uomo con le corna - che avevo già visto due volte, sempre in Alsatia. Solo che non era un uomo con le corna, o il diavolo, come capii all'improvviso, ma un uomo con un copricapo alato. Perché il disegno non era solo il segno alchemico del mercurio, come sapevo, ma anche il simbolo astrologico del pianeta Mercurio. Stavo quasi per riprendere il cammino senza prestarvi soverchia attenzione. Dopo tutto la nostra città era piena di ciarlatani che elaboravano oroscopi e pronunciavano profezie. Al punto che le gazzette erano piene di racconti su re Carlo che consultava il nostro astrologo più celebre, il grande Elias Ashmole, perché determinasse con un oroscopo la data più fausta per l'apertura del Parlamento. Ma poi ricordai che Mercurio, messaggero degli dei, patrono dei mercanti e dei commercianti quale ero io, era il nome dato dai romani a Ermete Trismegisto. Ed Ermete Trismegisto era l'autore del Corpus hermeticum, di cui faceva parte, superfluo ricordarlo, Il labirinto del mondo. Mi fermai davanti alla palizzata, fissando come stregato quello scarabocchio. Era una specie di grottesca burla? Una coincidenza? Un indizio? Come tutto ciò che avevo scoperto finora, sembrava impossibile da interpretare. Feci dietrofront e mi avviai a passo svelto verso nord, con le palle di piombo che sferragliavano nella tasca delle brache. La brezza si era rinforzata, e la cenere di carbone si alzava dall'acciottolato in rapidi mulinelli, pungendomi le guance. Affrettai l'andatura. Un minuto dopo Fleet Street si apriva davanti a me, e alzai un braccio per fermare una vettura libera. Ancora una volta la mia destinazione era St Olave; quando, mezz'ora dopo, ne varcavo il cancello, il cimitero era deserto, tranne per un solo vi-
sitatore, all'altra estremità, verso Seething Lane, e un becchino che scavava una fossa nuova alla luce di una lampada. Il visitatore era voltato di schiena e parve non accorgersi di me; né mi notò il becchino, di cui intravedevo appena la cima della testa al di sopra del coperchio della cassa. La sua vanga raspava l'umida argilla di Londra e mandava un suono metallico ogni volta che urtava una pietra. Non avevo messaggi da lasciare per Alethea. Poco prima, mentre cenavo alla Mezza Luna, mi ero chiesto se metterla a parte della duplice irruzione nel mio negozio e avvertirla che avevo lasciato Nonsuch House temendo per la mia incolumità. Ma alla fine avevo optato per il no. Alethea, come Biddulph, già nutriva abbastanza fantasie perché fosse il caso che ne aggiungessi ancora di nuove. Decisi anche di non dirle della mia sistemazione alla Mezza Luna. Sebbene avessi ricevuto istruzioni di controllare la cassetta tutte le sere, non avevo ancora ricevuto nemmeno una lettera da Alethea con questo sistema; fui quindi sorpreso e anche un po' gratificato trovandovi un foglio di carta. Aprii il lucchetto cercando di fare il minor rumore possibile per non allertare il visitatore, che sembrava stesse studiando Seething Lane, come aspettando qualcuno che dovesse arrivare da quella parte della cancellata. Piegai il foglio verso la luce oscillante della lanterna del becchino e cominciai a leggere quelle che si rivelarono le informazioni che stavo aspettando da giorni. I preparativi per la mia partenza, mi scriveva, erano ormai completi. L'indomani mattina alle sette e mezzo avrei trovato ad aspettarmi una carrozza ai Tre Piccioni in High Holborn. In fondo al foglio appariva la sua firma ornata di uno svolazzo. Richiusi la cassetta, ma invece di distruggere il biglietto lo ripiegai lungo le piegature e lo infilai in tasca. Ma avevo già deciso che avrei raccolto l'invito e avrei fatto di tutto per trovarmi sulla carrozza l'indomani mattina. L'idea di mostrarmi in giro durante il giorno non mi entusiasmava, ma forse l'Huntingdonshire sarebbe stato per me più sicuro di Londra. Cinque minuti dopo ero di nuovo in strada; avanzavo nell'oscurità, fermandomi brevemente a ogni biforcazione o intersezione per scrutare lungo le strette traverse fiancheggiate dalle case alla ricerca di una vettura pubblica. Non ne apparvero. Non apparve nessuno. E così rifeci la strada al buio, per strade così deserte che sembravano abbandonate dopo lo scoppio di un'epidemia o di una guerra. Solo dopo altri venti minuti raggiunsi un accesso all'ampia distesa dello Strand. Di lì erano pochi passi fino ad Alsatia, che io, reietto qual ero di-
ventato, avevo già cominciato a vedere come casa mia. CAPITOLO 2 L'avanzata della carrozza tra le Chislet Marshes fu lenta. Foxcroft spinse i cavalli in mezzo al fango della strada costiera finché raggiunsero una delle stazioni di posta della De Quester. Da qui, dopo il cambio delle bestie sfiancate, il faticoso viaggio riprese. Bianche nuvole di nebbia aleggiarono per tutto il giorno sui fossi e sopra i campi di luppolo allagati, ma Foxcroft non osava accendere un fanale per paura degli scagnozzi di Lord Stanhope. Né l'accese quando arrivò il crepuscolo. La carrozza proseguì il viaggio alla cieca lungo l'erba alta dei tratturi e dei sentieri che serpeggiavano tra i frutteti decrepiti. A questo punto i suoi imprevisti passeggeri si erano ridotti a due. Il solo dello strano terzetto che avesse pronunciato una parola, l'uomo più grosso, era sbarcato a Herne Bay. I compagni di viaggio rimasti con Foxcroft erano ora infagottati sotto una coperta, rincantucciati tra i sacchi della posta. Cinque o sei volte aveva cercato invano di imbastire una conversazione. Comunque li nutriva, formaggio e pane nero delle locande, e boccali di sidro. Offrì loro perfino una sorsata dalla sua borraccia, ma loro declinarono l'offerta con brevi cenni del capo. La donna ogni tanto voltava il capo per guardare la strada alle loro spalle, ma l'uomo, un ometto magro, rimaneva assolutamente immobile. Teneva stretto al petto una specie di scrigno ingioiellato delle dimensioni di una grossa forma di pane. "Cos'è quello, eh? Un forziere del tesoro?" Dal retro, silenzio. Foxcroft scosse le redini e i cavalli accelerarono l'andatura, scuotendo la testa e alitando bianchi pennacchi nell'aria. Di lì a qualche minuto avrebbero raggiunto la via maestra per Londra, dove il pericolo dei briganti di Stanhope aumentava. Ma in caso di imboscata, pensava, gli aggressori potevano accontentarsi di una preda come il cofanetto. Era solo questo il motivo per cui Foxcroft sopportava la loro presenza a bordo. Quei due potevano risparmiargli un altro bernoccolo sulla zucca. "È suo, si?" Si era rigirato sul sedile. "Dico, proprio bello." Ancora nessuna risposta. Nel buio riusciva a malapena a scorgere le due teste, vicinissime tra loro. L'ometto teneva lo sguardo fisso sui piedi. Forse non parlava inglese? Foxcroft sapeva bene come chiunque altro che di questi tempi Londra era piena di forestieri, per lo più spagnoli, tutti quanti spie o preti, spesso l'uno e l'altro. Quell'invasione era un segno dei tempi.
Il re spagnolo e il suo ambasciatore tenevano in pugno il vecchio Giacomo. Prima quella specie di nuovo Drake, Sir Walter Raleigh, era stato mandato sulla forca per aver avuto il coraggio di combattere gli spagnoli sul loro territorio. Poi re Giacomo aveva cominciato a liberare i preti dalle galere arrivando perfino a parlare di far sposare il figlio, pensa un po', a una principessa spagnola! E ora, peggio di tutto, quel vecchio babbeo era così taccagno da non mandare l'esercito nemmeno per andare in aiuto alla sua stessa figlia anche se orde di spagnoli stavano invadendo le terre del marito in Germania. Però, si disse per rassicurarsi, i suoi due passeggeri non sembravano per niente spagnoli. La donna, da quel poco che era riuscito a intravedere di lei, appariva di una bellezza non comune, nonostante le sue misere condizioni. Era anche giovane, poco più che una ragazzina. Cosa diavolo ci faceva in compagnia di un pappamolle come quello? A meno che non avesse qualcosa a che fare con lo scrigno che quel tizio teneva stretto al petto striminzito. Dopo un'altra ora gli odori della campagna lasciarono il posto a quelli della città, il silenzio a rumori intermittenti. Il tiro a sei percorse lo stradone per Londra nell'oscurità, poi piegò verso il fiume in direzione di Gravesend. Foxcroft intendeva attraversare il fiume da Gravesend a Tilbury con il traghetto, poi entrare a Londra lungo la sponda di settentrione, dove le canaglie di Stanhope difficilmente avrebbero pensato di trovarlo. Se tutto andava per il verso giusto avrebbe raggiunto l'Ald Gate per l'ora in cui la porta veniva aperta, e da quel punto era solo un breve tragitto per le strade fino agli uffici di Cornhill della De Quester. Cosa dovesse fare dell'altro suo carico, però, dei suoi due misteriosi passeggeri, non aveva la più pallida idea. Non era il caso che si preoccupasse. Quando il postale raggiunse finalmente Gravesend, fu costretto ad aspettare quasi due ore il prossimo traghetto per Tilbury. Organizzò un nuovo cambio di cavalli e poi girò per le strade del paese finché trovò una birreria aperta, nella cui sala vuotò tre boccali e spazzolò un pasticcio di piccione, prima di tornare alla stazione di posta in tempo per vedere il traghetto che sbarcava i suoi poco numerosi passeggeri. A questo punto i suoi passeggeri gli erano completamente usciti di mente, e solo dopo che ebbe pagato i suoi due scellini ed ebbe raggiunto il centro delle acque nere, improvvisamente si ricordò di loro. Quando si girò a cassetta ebbe la sorpresa di scoprire che erano svaniti nel nulla, insieme con il loro carico scintillante.
E infatti in quel momento Vilém ed Emilia erano su una barca per conto loro, diretti su per il fiume verso Londra, a una ventina di miglia verso ovest. La piccola chiatta si era staccata dal molo di Gravesend quasi un'ora prima e, dopo essersi districata tra il traffico dei pinchi e dei mercantili all'ancora davanti alla stazione daziaria, aveva raggiunto il centro della corrente impetuosa. Da quel punto, li aveva avvertiti il padrone della barca, sarebbero occorse almeno tre ore per raggiungere il pontile di Billingsgate, anche con la marea a favore. E da Billingsgate potevano impiegare anche un'altra ora per raggiungere la destinazione finale. Emilia rabbrividì e si rannicchiò meglio sotto il telo di canapa mentre l'acqua schiaffeggiava gorgogliando lo scafo. Ancora quattro ore di freddo e di paura. Ma almeno sapeva, finalmente, dove stavano andando. Erano diretti, le aveva detto Vilém, alla York House, un palazzo nello Strand, nei pressi di Charing Cross, dove avrebbero trovato ad accoglierli Henry Monboddo. Vilém aveva ricevuto istruzioni di consegnare la cassetta contenente la pergamena nelle mani di Monboddo e di nessun altro. Era un amico del principe Carlo, e al momento stava sistemando le gallerie della York House secondo i gusti stravaganti ma precisi del suo nuovo proprietario, George Villiers, il conte di Buckingham. Emilia guardò le luci di Gravesern sbiadire e poi sparire quando il fiume piegò a nord. Quel nome era noto. A Praga correva voce che avesse lavorato ad attrezzare una flotta di navigli da guerra da mandare nel Mediterraneo per attaccare la Spagna. Ma che le navi fossero state armate o meno, che fossero partite o meno, l'attacco non c'era mai stato. "Allora a chi sono destinati i libri? Al conte di Buckingham?" Vilém scosse la testa, poi alzò gli occhi dallo scrigno che teneva incastrato in mezzo ai piedi e lanciò un'occhiata verso il padrone della chiatta, che mugolava ritmicamente facendo forza sul suo palo. Vestito di un farsetto di pelle e con due folti favoriti, l'uomo li aveva accolti con sospetto nello stanzone dell'imbarcadero poco prima, scrutando la coppia - e poi sempre più insistentemente il forziere - alla flebile luce delle candele. Sir Ambrose aveva avvertito Vilém che i barcaioli del Tamigi erano al soldo del Segretario di stato o del conte Gondomar, l'ambasciatore spagnolo, e così per assicurarsi la discrezione aveva pagato un extra di due scellini. La cosa - più la richiesta di navigare a fanali spenti - non aveva fatto altro che rendere ancora più sospettosa la vecchia canaglia. "No, non a Buckingham," bisbigliò avvicinandosi a lei. "Lui, come
Monboddo, è solo un intermediario, l'agente di qualcun altro, qualcuno ancora più potente." "Davvero?" Anche lei sì era protesa per farsi più vicina. Qualcuno più potente del Primo lord dell'Ammiragliato? Il tendone di canapa teso sopra le loro teste odorava di muffa e di salsedine. Fuori, il vento freddo sbatacchiava i lati del telo. "E per chi sono, allora?" Per il collezionista più ricco e più esigente di tutta l'Inghilterra, ecco per chi. Perché Monboddo e Sir Ambrose avevano rifornito non solo le biblioteche di Federico e di Rodolfo, spiegò Vilém, ma anche quella di un loro conterraneo, il massimo intenditore d'Inghilterra, il principe di Galles in persona. Il giovane principe Carlo non era un iconoclasta come sua sorella Elisabetta, con i suoi pastori puritani sempre pronti a fiutare la minima traccia di papismo o turpitudine. No, Carlo amava le immagini e altre reliquie non meno di quanto la sorella le disprezzasse. Se era risaputo che aveva sperato di acquisire la grande collezione mantovana dai Gonzaga caduti in miseria, meno noto era, secondo Vilém, il fatto che era altrettanto determinato a mettere le mani sui tesori sia della Bibliotheca Palatina sia delle Sale Spagnole. Quelle migliaia di libri, manoscritti e curiosità assortite erano infatti non solo preziose in sé, pregiati arricchimenti della Royal Library di St James's Palace, ma erano anche l'unico mezzo rimasto per tenere a bada gli scatenati spagnoli e così preservare la tolleranza e la libertà religiosa in mezza Europa. "Ah, sì?" Emilia si vide passare davanti agli occhi i serpenti essiccati, le teste mummificate con i loro ghigni grotteschi. "E in che modo?" Vilém si stava strofinando lentamente le palme delle mani. Lei ne poteva percepire l'eccitazione. L'assenza di Sir Ambrose sembrava gli facesse bene: erano settimane che non parlava così tanto. "Non ho bisogno di dirti," mormorò, "che entrambe le collezioni rischiano di cadere nelle mani degli spagnoli o del cardinale Baronius, se non le distruggono prima i soldati, dovrei dire, o i saccheggiatori nelle paludi. Ma il principe si propone si acquistare il tutto dal cognato - in blocco l'intero contenuto delle due biblioteche, con i tesori delle Sale Spagnole. A quale prezzo non ne ho idea, ma sono tre mesi che il suo finanziere, Burlamaqui, sta raccogliendo fondi. Federico userà quindi il denaro per equipaggiare l'esercito e respingere gli invasori da Boemia e Palatinato." Questo piano la sorprese: ricordava la reazione allarmata di Vilém alle voci di inventari segreti, di accordi stretti con vescovi e principi - "avvoltoi", li aveva chiamati - che avevano sguinzagliato i loro agenti ed emissari
a Praga precedendo gli eserciti perché potessero spolpare la carcassa della Boemia finché ne rimaneva ancora qualcosa. "Dunque le voci che circolavano a Praga erano fondate? Era vero che Federico stesse cercando di vendere le collezioni?" "Sì, sì - ma la strategia è più complessa," rispose lui subito, "più complicata di uno scambio di libri contro palle da moschetto. La collezione rimarrà intatta e le casse di libri e manoscritti diventeranno il mezzo con cui i cattolici verranno scalzati dalla Boemia e dal Palatinato. Almeno, il piano è questo, il piano che Sir Ambrose ha elaborato con Buckingham e il principe di Galles. Ma la faccenda va portata a termine nella massima segretezza," aggiunse solennemente. Emilia si strinse sulle spalle la coperta portata via dalla carrozza della De Quester. "A causa degli spagnoli." Lui annuì. "Né re Filippo né Gondomar debbono venire a sapere del piano, questo è ovvio. Burlamaqui sta raccogliendo i fondi in segreto perché molte delle somme arrivano tramite le sue connessioni con banchieri in Italia e in Spagna. Né il piano di far sposare il principe con l'Infanta deve fallire. È un doppio gioco ripugnante, è vero, ma il gioco vale la candela, penso, perché la mano dell'Infanta vale la bellezza di seicentomila sterline. Con una simile somma se ne possono comprare di libri e quadri, no? E mantenere una gran quantità di soldati - i migliori mercenari d'Europa - in pieno assetto per anni e anni. Ingegnoso, vero, usare il denaro del re di Spagna per riprendersi Boemia e Palatinato? Assicurarsi la Bibliotheca Palatina oltre che i tesori delle Sale Spagnole?" Emilia seguì il suo sguardo vedendo che scrutava dall'apertura della tenda. Erano soli sull'acqua, oppure si intravedeva un'altra chiatta in lontananza? Fin lì il fiume era stato deserto, a eccezione di qualche battello isolato o di qualche convoglio di smacchi carichi degli sgombri appena pescati. Ogni volta che una di quelle barche si faceva più vicina Emilia e Vilém si rintanavano sotto il tendalino e voltavano il viso dall'altra parte. Ma negli ultimi dieci minuti non s'era visto nessuno. "Ma nel piano c'è dell'altro," riprese lui dopo qualche momento. "La situazione è complessa. Vi sono altri interessi da considerare." L'arrivo in Inghilterra dei libri e di altri tesori doveva essere tenuto nascosto anche allo stesso re Giacomo. La vendita non poteva essere perfezionata attraverso quelli che Vilém chiamò "i canali normali" - una rete continentale di intermediari e finanzieri - perché così sarebbe stata scoperta dai numerosi agenti del conte di Arundel, uno dei più ricchi collezionisti
inglesi di statue e altri oggetti d'arte, libri inclusi. Arundel era uno Howard, un cattolico, un membro della potente famiglia il cui odio per Buckingham era ben noto, come noti erano i suoi stretti legami con l'ambasciatore spagnolo. Né era un segreto che negli ultimi anni re Giacomo era stato poco più che una creatura di Gondomar, una marionetta nelle mani degli spagnoli. C'era forse bisogno di ricordarle che riceveva una pensione annua di cinquemila felipes dal re di Spagna? Che si era schierato con Filippo sulla ribellione in Boemia? Che non prestava il minimo soccorso alla figlia e al marito di lei, sangue del suo sangue? Che li aveva consegnati ai cattolici allo stesso modo che aveva tradito Raleigh due anni prima? E così il re e la maggior parte dei suoi cortigiani e ministri, Arundel compreso, non erano stati messi al corrente della macchinazione. Arundel l'avrebbe riferita immediatamente a Gondomar, Gondomar l'avrebbe riferita a re Giacomo, e re Giacomo - "vecchio matto rimbambito" - avrebbe visto la cosa né più né meno come un atto di rapina. "Sì, sì," concluse, "e senza dubbio vedrebbe un uomo come Sir Ambrose come niente di più che un comune pirata. Senza dubbio Sir Ambrose andrebbe incontro alla stessa sorte di Sir Walter Raleigh. La chiatta svoltò l'ansa entrando nelle acque del Long Reach. A Greenhithe alcuni smacchi da pesca avevano lasciato la banchina e si dirigevano a valle verso l'estuario. Emilia li seguì con lo sguardo mentre navigavano contro la marea con le loro vele iridescenti come fantasmi. Vilém taceva. Lei cambiò posizione sulla dura panca, chiedendosi quanto di ciò che le aveva raccontato fosse realtà e quanto un'elaborata costruzione di fantasia. La barca procedeva aiutata dalla marea e dalla spinta del palo, seguì un'altra curva ed entrò nell'Erith Reach con le sue rade lungo una riva, le fonderie di campane e le officine delle ancore dall'altra. Alla luce del giorno mancava ancora un'ora, ma un'ora mancava anche a Londra, pur se il vento era girato verso ponente. Sentì nell'aria le prime tracce di muschio e di fumo della città, il tanfo del vello puzzolente di una bestia decrepita. Le guglie e le forme romboidali dei magazzini, buie e silenziose, comparivano e si dileguavano dietro di loro, come i mercantili contro i cui scafi mastodontici riecheggiava il tonfo ritmato del palo. Voltò la testa e scrutò oltre la sagoma scura del padrone della chiatta. C'era qualcuno dietro di loro sul fiume, qualcuno che li seguiva a remi? Guardò Vilém, ma sembrava che lui non avesse notato nulla. Era piegato quasi in due, gli occhi fissi sulla cassetta.
La cassetta conteneva un testo ermetico, quattordici pagine di un antico manoscritto rilegato in cuoio decorato con arabeschi - un testo più prezioso, le disse, di tutte le altre casse di libri messe insieme. Era una copia eseguita duecento anni prima da un documento ancora più antico portato a Costantinopoli da un rifugiato, uno scriba nativo di Carre sfuggito alle persecuzioni del califfo di Baghdad. Quando Costantinopoli fu invasa da uno dei discendenti del califfo, il sultano ottomano Maometto II, il documento fu posto in salvo da un altro scriba, che lo trafugò dal monastero di Magnana prima che la biblioteca e lo scriptorium fossero saccheggiati dai turchi. E ora, quasi due secoli dopo, la pergamena veniva ancora una volta messa in salvo, sfuggendo a un'altra conflagrazione, un'altra guerra di religione, questa volta nel regno di Boemia. Del Corpus hermeticum Emilia non sapeva nulla. Il nome, però, le ricordava qualcuno dei libri in cui si era imbattuta nel castello di Breslavia la notte della festa, quelli i cui titoli facevano pensare a sacrileghe ricerche. Ma Vilém giurava che non ci fosse niente di sacrilego nei testi ermetici. Anzi, alcune parti erano ritenute addirittura predizioni dell'avvento di Cristo. In totale, le spiegò, erano costituiti da due dozzine di libri, più chissà quanti altri che erano scomparsi nel corso dei secoli in seguito ad altre invasioni, altre guerre. Alcuni dei libri trattavano di argomenti filosofici, altri di teologia, altri ancora - quelli che attiravano la maggior parte dei lettori e dei commentatori - delle arti dell'alchimia e dell'astrologia. Niente di tutto ciò aveva il minimo senso per Emilia. Come poteva un manoscritto di quattordici pagine - pochi pezzi di cartapecora scarabocchiati con una miscela di nerofumo e gomma vegetale - essere tanto prezioso da indurre qualcuno a uccidere? Vilém stava ancora parlando nel momento in cui il battello svoltò lungo il margine delle Hornchurch Marshes, rigirandosi e poi raddrizzandosi nelle correnti che si facevano più veloci e pericolose a ogni ansa. Le parole gli sgorgavano con tale velocità che lei riusciva a stento a seguirle. Il Corpus hermeticum descriveva un intero universo, diceva, un luogo magico in cui tutte le parti, dalle lune di Giove al più minuscolo granello di polvere, formavano i fili di una rete che si irraggiava all'infinito, in cui ogni atomo era connesso a ogni altro. Le parti inoltre si attraevano o in altro modo si influenzavano a vicenda così che esisteva una sottile ma intima connessione tra, poniamo, il flusso del sangue nel corpo e il volo delle stelle nel firmamento. Queste stupefacenti influenze potevano essere individuate grazie ai segni segreti iscritti sulla superficie o nell'interno di ogni cosa vivente e,
una volta individuate, potevano essere manipolate e sfruttate in modo tale che si potevano sanare ferite, guarire malattie, prevedere o scongiurare eventi - interpretare o anche modificare i destini di interi regni. L'uomo in grado di leggere questo pullulare di geroglifici, queste scritture segrete, era quindi un mago in possesso di poteri strabilianti, capace di volgere ai propri fini le influenze dei cieli. E un libro che si proponesse di descrivere queste tracce segrete, di catalogarle e spiegarle... ebbene, il valore di un simile volume non poteva essere che incommensurabile. "Dunque la pergamena sarebbe una sorta di libro magico?" riuscì finalmente a interromperlo. "Ed è per questo che il principe Carlo vuole averlo?" "Così sembrerebbe, sì. Indubbiamente lo desidera per arricchire la biblioteca di St James's Palace. Ma forse c'è anche un altro motivo." Vilém alzò gli occhi dal forziere. "Difatti ora il manoscritto possiede non solo poteri magici, ma anche politici." A questo punto quale posto spettasse al Corpus hermeticum nel pantheon della letteratura era diventata una questione più complessa. Roma s'era fatta sospettosa verso i testi ermetici. Era anche possibile che alcuni dei libri, interpretati in una luce benevola dagli esperti della Chiesa, predicessero la venuta di Cristo. Ma altre dottrine ermetiche rappresentavano una minaccia per l'ortodossia. Particolarmente preoccupanti erano quei passi sulla struttura dell'universo e sulla natura divina del sole. Dopotutto lo stesso Copernico riportava una citazione dall'Asclepius all'inizio del De revolutionibus orbium coelestium, il volume eretico che spodestava la terra a favore del sole. Ma ancora più negativi erano i pericoli di natura politica che ora venivano da chi consultava le pagine dei testi ermetici, testi che ormai comparivano in decine di nuove edizioni e traduzioni. Filosofi come Bruno e Duplessis-Mornay avevano sognato di mettere fine alle guerre di religione tra cattolici e protestanti promovendo la filosofia dell'ermetismo come sostituto del cristianesimo. Ma per le autorità di Roma gli ermetici erano, come gli ebrei, sostenitori della causa protestante ansiosi di erodere i poteri del papa. Il sospetto non era del tutto infondato. Nel 1600, quando Bruno subì il martirio, i libri erano diventati una calamita per eretici e riformatori di ogni sorta. Sette e società segrete cominciarono a spuntare a decine in tutta Europa, come funghi nel sottobosco: occultisti e rivoluzionari, navarristi e rosicruciani, cabalisti e maghi, liberali, mistici, fanatici e falsi messia di ogni specie, auspicanti tutti una riforma spirituale e tutti vaticinanti la caduta di Roma, tutti citanti gli antichi scritti di Ermete
Trismegisto come la loro autorità per un rinnovamento universale. "La Controriforma sta perdendo terreno," spiegò Vilém, "nonostante le armate di Massimiliano e i roghi dell'Inquisizione. S'è aperto un vaso di Pandora che Roma sta cercando di ritappare con ogni mezzo. Stregoneria e magia oggi sono sullo stesso piano dell'eresia dogmatica. La letteratura cabalistica è stata messa all'indice e nel 1592 Francesco Patrizzi, uno dei traduttori del Corpus hermeticum è stato condannato dall'Inquisizione. I gesuiti del Collegio Romano hanno varato un loro Indice, una lista in cui le opere di Paracelso e Cornelius Agrippa sono state inserite a fianco di quelle di Galileo. Johann Valentin Andrea, fondatore dei Rosacroce, è stato dichiarato eretico dai cardinali dell'Inquisizione. Traiano Boccalini, mentore di Andrea e sostenitore di Enrico di Navarra, è stato assassinato a Venezia, mentre lo stesso Navarra, stella polare di tutte queste speranze, ha subito la stessa sorte a Parigi. Ma il movimento ha tante teste quanto l'Idra, ed è inarrestabile. Morto il Navarra è sorta una nuova speranza, un nuovo asse intorno al quale tutto il resto poté raccogliersi e ruotare." "L'Elettore Palatino," mormorò Emilia. "Re Federico." "Sì." Si strinse di nuovo nelle spalle. "Un'altra speranza andata tristemente delusa." Alcune luci lungo la riva sfilarono lentamente ondeggiando. La chiatta si era immessa in Gallion's Reach, evitando i pontili che si spingevano nelle acque nere come l'inchiostro. La scia della barca svegliò al suo passaggio la fila di canotti ormeggiati, i cui scafi sussultarono sulle piccole onde. Oltre i pontili e le rive fangose sorgevano borghi senza nome e casupole diroccate. Stavano navigando da oltre due ore, ma il fiume si era ristretto solo di poco. A volte la riva sembrava scomparire. "Quindi la pergamena è un pericolo per l'ortodossia." Stava cominciando a rendersi conto della posta in gioco, o almeno così le sembrava. "Roma vorrebbe sopprimerla, soffocare le sue eresie prima che possano prendere piede." "Molto probabilmente. In questo momento Roma ha il terrore di ogni minaccia che possa insidiare i suoi dogmi, di una frattura che indebolirebbe la sua lotta contro il protestantesimo. Galileo con le sue lune rappresentava una di queste minacce, ma quattro anni fa fu messo a tacere dal Santo Uffizio, ammonito dal cardinale Bellarmino di non scrivere più nemmeno una parola in difesa dell'eretico Copernico. L'apparizione di un altro documento in appoggio al copernicanesimo o a ogni altra eresia sarebbe un duro colpo, soprattutto in questo momento."
"E soprattutto se venisse da un'autorità della statura di Ermete Trismegisto." "Sì. E così il manoscritto finirà sotto chiave negli archivi segreti della Biblioteca Vaticana se i cardinali e i vescovi riusciranno a mettervi sopra le mani. Forse verrà addirittura distrutto." Ancora una volta abbassò lo sguardo sulla cassetta che aveva tra i piedi. "Solo che c'è dell'altro," aggiunse lentamente. "Qualcosa che non riesco a capire. Negli ultimi anni l'autorità di Ermete Trismegisto è stata contestata, anzi distrutta. Non dai teologi di Roma, ma da un protestante, un ugonotto." Recentemente, spiegò, c'era stata una disputa tra uno studioso protestante, Isaac Casaubon, e un cattolico, il cardinale Baronius, il direttore della Biblioteca Vaticana - l'uomo che, affermò Vilém, ora intendeva trasferire a Roma e la Bibliotheca Palatina e i manoscritti delle Sale Spagnole. Anni prima il cardinale aveva pubblicato un corposo studio sulla storia della Chiesa, gli Annales ecclesiastici, in cui Ermete Trismegisto veniva presentato come uno dei profeti pagani accanto a Idaspe e agli oracoli sibillini. Questo trattato era assai apprezzato dai maestri di Vilém, i gesuiti del Clementinum, ma da allora era stato seccamente respinto da Casaubon, uno svizzero, un ugonotto giunto in Inghilterra su invito di re Giacomo. E l'opus magnum di Casaubon, De rebus sacris et ecclesiasticis exercitationes XVI, pubblicato sei anni prima, nel 1614, si diceva dimostrasse al di là di ogni dubbio che l'intero Corpus hermeticum era un falso composto non da qualche sacerdote dell'antico Egitto a Ermopoli Magna, ma da una banda di greci residenti in Alessandria nel primo secolo dopo Cristo. Costoro avevano messo insieme un minestrone di Platone, gli Evangeli, la cabala ebraica, condito con qualche brandello di filosofia egizia, riuscendo ad abbindolare studiosi, preti e re per più di mille anni. Vilém scuoteva mestamente la testa oscillando al movimento della chiatta sull'acqua. Non aveva senso. Perché Sir Ambrose era così ansioso di portar via da Praga Il labirinto del mondo? Da buon protestante, certamente conosceva l'opera di Casaubon. E d'altra parte, se era un falso, quale interesse poteva avere il cardinale a volerlo sopprimere? Infatti, ora Vilém poteva dirglielo, quelli che li stavano inseguendo fin da Praga erano proprio questo: agenti del cardinale Baronius. "Si può aprire?" Ora anche Emilia aveva abbassato gli occhi sullo scrigno. "C'è la chiave della serratura?" Lui scosse di nuovo la testa. "Solo quella in possesso di Sir Ambrose. Non so se ne esistano altre."
L'imbarcazione aveva raggiunto le acque profonde e le correnti impetuose di Woolwich. Le ossature delle navi da guerra in costruzione si affacciavano dai cantieri che sfilavano lungo la fiancata sinistra. Emilia si era spostata dal lato opposto della barca, da dove poteva tenere d'occhio il fiume dietro di loro. Figure fornite di torce e lanterne si muovevano avanti e indietro per le entrate dei cantieri e tra i ponteggi di legno i cui profili si allontanavano sullo sfondo del cielo. Mentre viravano di poppa le parve di avvistare un'altra chiatta nei brevi coni di luce, o meglio il balenare di un tettuccio di tela sotto il quale si vedevano altre figure. Erano separati da loro da un centinaio di metri di acqua. Tirò fuori la testa dal telo. "Quanto ancora per Billingsgate?" Il padrone della chiatta tuffò il palo nell'acqua, vi si appoggiò con tutto il peso, poi lo risollevò. "Otto miglia, più o meno," brontolò prima di rituffarlo. La barca sbandò sulla destra e lui perse quasi l'equilibrio. "Ancora due ore," aggiunse dopo un momento. "Cioè, sempre che la marea non giri." Emilia tornò sotto il tendalino e guardò le acque davanti a sé. La prossima ansa li aspettava con le sue correnti insidiose. Le Greenwich Marshes apparivano desolate, ma ormeggiati lungo l'altra riva c'erano cinque o sei mercantili, con i fanali sulle ringhiere che illuminavano le alberature ondeggianti. Al di là dei vascelli stavano i magazzini della Compagnia delle Indie Orientali. Mentre la chiatta si avvicinava ai moli, muovendosi ora verso sud, Emilia voltò la testa per vedere la barca che li seguiva alla luce del fanale di una delle navi. Aveva preso diverse lunghezze da Woolwich a lì. Due barcaioli erano a prua, mentre i loro passeggeri - un terzetto di ombre - erano rintanati sotto il telo. Quando si girò verso Vilém vide che le stava tendendo qualcosa sul palmo della mano. "Prendine una." "Che cosa?" "Sono loro," bisbigliò lui. "Gli uomini del cardinale." Allungò un po' la mano. "Otto miglia. Non ce la faremo..." Uno dei magazzini della Compagnia incombeva a dritta, e il vento che si andava rafforzando portava fino a loro il profumo della melassa. Nella sua luce fugace Emilia vide che cosa le stava porgendo: la borsa di pelle che gli aveva dato Sir Ambrose. Strychnos nux vomitica. Istintivamente si ritrasse contro il telone. "E quanto alla cassetta..." La luce passò e ricaddero nell'oscurità. Un gabbiano passò lanciando un grido mentre lui si chinava, sempre stringen-
do la borsa, e sollevò lo scrigno sistemandoselo in grembo con un gemito sommesso. "Dovrà finire in acqua, temo. Queste sono le istruzioni." "Le istruzioni di chi?" Nessuna risposta. Aveva gli occhi fissi sul cofano. Lei alzò lo sguardo. Altri moli si succedevano lungo le rive sullo sfondo di costruzioni addossate l'una all'altra. La barca sbandò lateralmente e un'ondata copri la prora, spruzzandole d'acqua le guance e bagnandole la sottana. Avevano preso velocità ma perso il controllo nelle correnti infide. Imprecando, il barcaiolo lottò per mantenere il battello su una rotta diritta, usando il palo come timone. La schiuma della loro stessa scia li sorpassò mentre rallentavano, e la chiatta ondeggiò più forte. Dopo un momento la corrente scemò e il barcaiolo cominciò stancamente a spingere sul palo. Ma i loro inseguitori avevano guadagnato ancora qualche lunghezza. L'ora successiva passò con Emilia che, appollaiata sul bordo del sedile, continuava a girarsi e rigirarsi, guardando prima verso poppa e poi le acque davanti a loro. Un'altra ansa a gomito serpeggiò davanti a loro a Greenwich, accompagnata da altre correnti violente che sballottarono il battello da una parte e dall'altra provocando nuove imprecazioni nel barcaiolo. Il cielo si tingeva di qualche tocco rosa e arancio e la corrente rallentò. Ben presto il traffico sul fiume cominciò a intensificarsi, con dozzine di bettoline che puntavano a gara verso i Legai Quays sotto la Torre, e con le barche da anguille e i battelli da ostriche diretti a Billingsgate. Flottiglie di scialuppe e pinacce zigzagavano tra loro, procedendo sulla corrente con le vele gonfie. Gli inseguitori accorciarono le distanze ma poi rimasero indietro dopo Shadwell, rallentati nel Lower Pool dal traffico che ingorgava il fiume come uno stormo di uccelli irati. Qualche minuto dopo, sforzando lo sguardo, Emilia vide gli archi del London Bridge che cerchiavano il fiume. Quando si voltò scorse di nuovo la barca degli inseguitori. Il padrone della chiatta spingeva con forza, madido di sudore, ma vanamente. Quando finalmente arrivarono all'altezza delle banchine affollate di fronte all'edificio della dogana, la barca era a sole due lunghezze. Gli uomini del cardinale erano usciti da sotto il tendone, e alla luce del sole nascente lei poté vederne i volti abbronzati, le livree nere con i loro ricami d'oro. Tutti e tre portavano una gorgiera di pizzo, e uno di loro - quello accoccolato sopra la prua - stringeva un pugnale. Quando si volse verso Vilém, lui era inginocchiato sul fondo della chiatta con il cofanetto tra le mani. "Troppo tardi..." Strisciando da sotto il telo uscì sul pozzetto di prua, e
qui si sforzò di issare lo scrigno sulla falchetta. "Non arriveremo a York House," grugnì. "Non raggiungeremo nemmeno Billingsgate!" "No!" Emilia scavalcò la panca, scorticandosi uno stinco, poi lo afferrò con un goffo abbraccio e mise una mano sul cofano, prima che lui la spingesse via. Alzò ancora una volta il suo carico e ancora una volta si sporse dal parapetto con il tesoro tra le mani protese. Emilia si rialzò dalle tavole del fondo, ma in quel momento la chiatta fu speronata a poppa dalla barca degli inseguitori. Sentì il barcaiolo che bestemmiava mentre la chiatta sbandava di fianco e poi un attimo dopo si scontrava con uno skiff in arrivo. La collisione fu violenta. L'ultima cosa che vide mentre veniva scaraventata sul ponte del battello fu un paio di stivali che sparivano al di là del parapetto. "Vilém!" Quando riuscì a rimettersi in piedi la chiatta ondeggiava paurosamente da una parte e dall'altra. Erano stati abbordati. Udì, più che vedere, due degli uomini del cardinale che lottavano con il barcaiolo. Il povero diavolo si difese gagliardamente con il palo prima che il pugnale gli lacerasse il corsetto di pelle, penetrandogli poi nell'addome. Cadde in ginocchio con un'ultima imprecazione e si abbatté sulla poppa mentre la chiatta veniva urtata di nuovo, questa volta sul quarto di dritta, da uno smacco da pesca mandato fuori rotta dallo skiff lanciato a tutta velocità. Gli uomini del cardinale finirono uno addosso all'altro venendo poi sbalzati lunghi distesi a poppa. Il coltello cadde sferragliando sulle tavole. "Emilia!" Lo smacco arrancava controcorrente lungo la fiancata con la vela sbatacchiata dal vento, mentre l'albero oscillava violentemente e il barcaiolo cercava con tutte le forze di mantenersi in equilibrio nel quadrato di poppa. Emilia ebbe una fugace visione di Vilém bocconi sul ponte ondeggiante, aggrovigliato nelle reti e semisepolto da una valanga di pesci argentati. "Emilia! Salta!" Lo smacco ora aveva acquistato velocità e rasentava la chiatta senza controllo mentre il vento faceva presa nelle sue vele mezzo ingarbugliate. Emilia montò in tutta fretta su uno dei banchi oscillanti e si stava preparando a saltare quando una mano l'afferrò per la veste tirandola indietro con uno strattone violento. Ma in quel momento la chiatta fu urtata da un'altra imbarcazione ancora, un battello che portava una dozzina di passeggeri. Allora la mano scomparve e lei si trovò a tuffarsi verso lo smacco
attraverso un metro e mezzo di spruzzi e di vuoto. CAPITOLO 3 La campagna alluvionata. La pioggia era caduta ininterrottamente per tutta la notte e diluviava ancora quando il colore del cielo sulla foresta di Epping cambiò dal nero carbone al grigio cenere: così pesantemente che le peschiere e i pozzi di selce tracimavano. Dalla sera alla mattina il bosco era diventato una palude. Il peggio del temporale era passato, ma da sudovest soffiava ancora un forte vento, e continuava a piovere. Querce e betulle spuntavano dall'acqua; di altri alberi i tronchi spezzati, abbattuti dalle raffiche o dai fulmini, occupavano di traverso i tratti più ventosi della strada da Londra. Nel mezzo della foresta, vicino alle abitazioni dei guardiacaccia e dei disinfestatori, quattro cavalli avanzavano sguazzando sulla Epping Road, trascinandosi dietro tra il fango e l'acqua una carrozza con il tettuccio di cuoio. Erano da poco passate le sette del mattino. I cavalli erano diretti a nord attraverso l'Essex, barcollanti e sotto sforzo, con le criniere fradice che sventolavano come stendardi e sollevando grandi schizzi di fango con le ruote della vettura. Ma nel punto più basso della strada, dove l'acqua uscita dai pozzi era più profonda, la carrozza si arrestò con uno scossone violento. Il conducente, che quella mattina aveva già tre volte sgomberato la strada dai tronchi, lanciò un'imprecazione ai cavalli e assestò una frustata sulle loro groppe. Le bestie ripresero a tirare per qualche momento, ma la vettura non si mosse. "Cosa accade?" Avevo sollevato il lembo di cuoio per guardare dal finestrino. Le gocce che mi spruzzavano il viso sembravano gli schizzi delle onde in alto mare. "Presi nel fango," si lamentò il cocchiere scendendo da cassetta con un salto nell'acqua che copriva la strada, con un verso gorgogliante degli stivali. Fu lì lì per perdere l'equilibrio, ed era già bagnato fino all'osso. "Non c'è da preoccuparsi, signore," brontolò stringendosi nel bavero e calcandosi il cappello sulla fronte. "La tiro fuori in un batter d'occhio." Mi riadagiai sul sedile e tolsi dalla tasca una galletta e una fetta di formaggio. Eravamo in strada da oltre un'ora, da prima che albeggiasse. Avevo trovato la carrozza ad attendermi come promesso nel cortile dei Tre Piccioni, con i cavalli già attaccati. Mi aspettavo di vedere ancora Phineas ma non era stata una delusione per me scoprire che sarebbe stato un altro a
condurmi a Wembish Park, un uomo di nome Nat Crump. Si stava rivelando un compagno di viaggio più loquace di Phineas, ma altrettanto scorbutico. Me ne stetti seduto al chiuso del veicolo - che non era lo stesso che mi aveva portato a Pontifex Hall - masticando la mia colazione e ascoltandolo mentre sacramentava, lanciava grida di incitamento alle bestie e pronunciava cupi commenti sull'inclemenza del tempo. "Dovevamo prendere un'altra strada," stava dicendo, mentre incuneava un grosso ramo d'albero sotto una delle ruote posteriori cercando di liberarla. Incitava i cavalli, che tiravano spasmodicamente tendendo le tirelle. La carrozza fece un piccolo sobbalzo e le ruote cerchiate di ferro emisero un gemito ostinato, ma ci spostammo solo di pochi centimetri prima di riadagiarci nel fango. Mi allarmai vedendo che l'acqua era arrivata all'altezza dell'asse posteriore. Crump e i cavalli vi erano immersi fino al ginocchio. "Dovevamo prendere per Puckeridge," spiegò, cambiando posizione per far leva meglio. "Da quella parte il terreno è più elevato." "Puckeridge?" Oscillavo secondo il movimento del veicolo. Sopra di noi i rami degli olmi si dimenavano all'impazzata. "E allora, perché diavolo non l'ha fatto?" "Ordini," rispose lui, nel grugnito rabbioso dello sforzo. "Ho avuto l'ordine di non farlo, no?" Si fermò per un momento e guardò verso di me. Sembrava convinto che tutta la faccenda fosse colpa mia. "Mi hanno detto di passare per la foresta." "Ah sì? E perché?" Aveva afferrato la ruota per un raggio e il cerchione e stava spingendo il ramo con lo stivale fradicio d'acqua. I due cavalli in prima posizione si impennarono a un comando facendo forza sulle zampe posteriori, ma poi ricaddero con i quattro zoccoli nella melma. Questa volta le ruote non si erano mosse di un dito. Imprecò di nuovo, avanzò faticosamente nell'acqua. "Perché?" Aveva cominciato a smuovere il fango da sotto le ruote con la punta del bastone. "Per lo stesso motivo per cui non abbiamo usato la carrozza di Lord Marchamont, ecco perché. Perché così è più sicuro." Fece una risata amara, poi sospese i suoi sforzi per il tempo di abbracciare con un gesto possessivo del braccio robusto il bosco circostante. Il cappello gli era caduto nell'acqua e vidi la massa bionda dei suoi capelli appiccicata alla testa dalla pioggia. Prima, alla scarsa luce dello spiazzo della rimessa, mi era parso quasi di riconoscerlo, ma avevo concluso che, con tutto quello che stava accadendo ultimamente, non potevo più fidarmi del mio istinto. Avevo pensato anche che era apparso sorpreso dal mio a-
spetto - i capelli scuriti e la barbetta a pizzo - ma immaginai che dipendesse dal fatto che non corrispondevo alla descrizione che di me gli era stata fornita. In ogni caso, mi aveva preso a bordo senza commenti. "Attraverso la foresta," stava spiegando con il fiato grosso. Aveva trovato un altro ramo da usare come fulcro ed era tornato sguazzando sul retro della carrozza, dove stava lavorando di nuovo sulla ruota. La carrozza ondeggiava avanti e indietro come una barca tra i flutti. "Se passavamo da qui non ci seguivano." Sollevai la copertura di pelle del lunotto posteriore e guardai il sentiero che si allontanava serpeggiando alle nostre spalle sotto la volta degli alberi. Il mattino era ancora semibuio. Attraverso l'aria grigia vidi una coppia di cervi che ci osservava dal folto, un maschio e una femmina, pronti entrambi alla fuga. Ma di esseri umani in vista non ce n'erano, nemmeno i bracconieri per cui la foresta di Epping andava famosa. Il tempo orribile manteneva deserte le strade. Avevamo incontrato solo qualche sporadico carro diretto a Londra da quando avevamo raggiunto la Epping Road. "Arri! Avanti!" Uno dei rami si spezzò con uno schianto sonoro, e improvvisamente il veicolo fece un balzo in avanti, scaraventandomi quasi sul pavimento. Il lembo della copertura si era spalancato e dal finestrino potevo vedere le ondate che le nostre ruote mandavano sul ciglio fangoso della strada. Crump si dibatté per trovare un appiglio sul fianco della carrozza e si issò a bordo. E poi fummo di nuovo in marcia, puntando a nord verso il fitto schermo degli alberi e della pioggia. Mi sistemai sul divanetto preparandomi a. quello che prometteva di essere un lungo viaggio. Non contavamo di arrivare a Wembish Park che nel pomeriggio del giorno dopo. Il mio viaggio era iniziato sotto un presagio ormai familiare. Mentre la carrozza si avvicinava a Chancery Lane avevo visto un'altra figura scarabocchiata con il gesso su un muro - uno dei geroglifici che, come ora ricordavo dai miei studi ermetici, Marsilio Ficino aveva chiamato "crux Hermetica." Sotto di essa, nello stesso grezzo materiale, sbiadita dalla pioggia, c'era una singola frase, come una didascalia: Noi gli Invisibili Fratelli della Rosacroce. Mi ero adagiato sul sedile, perplesso, chiedendomi se avessi letto bene la scritta. Era una sorta di falso? Perché sembrava troppo strana, troppo criptica, per essere genuina. Naturalmente avevo sentito parlare della società segreta nota come Confraternita della Rosacroce. Mi ero imbattuto nella loro storia singolare qualche giorno prima mentre sfogliavo alcuni dei miei
testi sulla filosofia ermetica. Mi meravigliava che i racconti di Biddulph, con i suoi occulti cospiratori protestanti, non avessero compreso anche questa confraternita. Da quel poco che ne sapevo, i rosacroce erano una banda segreta di alchimisti e mistici protestanti che all'inizio del secolo si erano opposti alla controriforma cattolica. Sostenevano Enrico di Navarca come paladino della loro fede e poi, quando nel 1610 Enrico era stato assassinato, il suo posto era stato preso da Federico V del Palatinato. Le loro scritte e i loro manifesti spuntavano come funghi sui muri di Heidelberg e di Praga nel 1616 o nel 1617, all'epoca, cioè, in cui Ferdinando di Stiria verme nominato sovrano designato di Boemia. I rosacroce dovevano aver visto Ferdinando, pupillo dei gesuiti, con terrore e odio, ma i loro manifesti e cartelli erano stranamente ottimisti, profetizzando una riforma nella politica e nella religione di tutto l'impero. Tali riforme sarebbero state realizzate mediante arti magiche, come quelle insegnate da Marsilio Ficino, il primo che avesse tradotto in latino il Corpus hermeticum. Per mezzo della "magia scientifica" presente nei testi ermetici e nei Libri de Vita di Ficino, i confratelli della Rosacroce miravano a trasformare le macerie svilite e annerite della vita moderna - il mondo delle lotte, delle guerre e delle persecuzioni attuate in nome della religione - in una sorta di Età dell'Oro o Utopia, allo stesso modo in cui speravano di trarre oro, nei loro laboratori, da pezzi di carbone e di argilla. La loro ansia di riforma, mi pareva, era abbastanza comprensibile. Cosa vedevano i rosacroce riandando con lo sguardo agli ultimi cent'anni di storia dell'Europa se non un mattatoio impregnato di sangue protestante? C'era stato il massacro degli ugonotti a Parigi la notte di san Bartolomeo e i roghi di Smithfield e Oxford durante il regno della regina Maria. C'erano stati gli orrori dell'Inquisizione spagnola e del Santo Uffizio, e le guerre della Spagna contro i Paesi Bassi, dove aveva perso la vita Sir Philip Sidney. C'erano stati i pastori luterani espulsi dalla Stiria e il rogo di diecimila libri protestanti nella città di Graz, dalla quale Lutero fu bandito. C'era stato Copernico, costretto al silenzio, e Galileo, convocato a Roma nel 1616 per essere sottoposto a esame davanti a Roberto Bellarmino, uno dei cardinali dell'Inquisizione che avevano mandato al rogo in Campo dei Fiori il filosofo ermetico Giordano Bruno. C'era stato Tommaso Campanella torturato e incarcerato a Napoli. Cera stato Guglielmo il Taciturno assassinato da agenti spagnoli ed Enrico IV pugnalato da Ravaillac sul Pont Neuf. Alla fine, però, gli stessi rosacroce erano diventati parte di questa tragica litania. Non avevano scoperto né la pietra filosofale né l'agognata Età del-
l'Oro, perché nel 1620 re Federico e i protestanti boemi erano stati schiacciati dalle armate della Lega cattolica. Indubbiamente molti confratelli della Rosacroce erano superstiziosi ciarlatani e idealisti fuori della realtà, ma avevo provato pena per questi uomini che con i loro libri e le loro sostanze chimiche e le loro impotenti formule magiche avevano sognato di sventare quelli che vedevano come i mali della controriforma, della Spagna e degli Asburgo, per poi finire inghiottiti a loro volta dagli orrori della Guerra dei Trent'anni. Ma quella mattina mentre la carrozza passava sobbalzando per Chancery Lane, qualcos'altro a proposito della confraternita dei Rosacroce mi aveva colpito. Mi ero reso conto che i loro manifesti erano apparsi a Praga più o meno nello stesso periodo in cui la flotta di Raleigh - finanziata da un'altra banda di ferventi protestanti - stava facendo vela per la Guiana. Anzi, il più famoso dei testi rosacruciani, Le nozze chimiche di Cristiano Rosencreutz, di cui avevo scoperto di possedere un esemplare, era stato pubblicato a Strasburgo nel 1616, l'anno stesso in cui Raleigh usciva dalla sua cella nella Torre. E dunque tornai a domandarmi se Sir Ambrose con il suo testo ermetico costituisse una sorta di punto di contatto tra queste due imprese destinate a una tragica fine, la prima con Raleigh in Guiana, la seconda con Federico in Boemia. Non avevo una risposta; ma qualche giorno prima, mentre sfogliavo la mia copia delle Nozze chimiche avevo rilevato dell'altro nel testo, qualcosa di ancora più drammaticamente significativo della sua data di stampa, perché incisi tanto sui margini quanto sul frontespizio c'erano dei piccoli simboli di Mercurio, assolutamente identici a quelle figure scarabocchiate sui muri di Londra. E poi la carrozza era arrivata a Bishopsgate, dove la porta era stata aperta per lasciar passare un branco di oche portate al mercato per essere macellate. Avevo tirato la tenda del finestrino e chiuso gli occhi, e mentre la carrozza avanzava cigolando mi ero ritrovato a pensare alle dozzine di testi alchemici di Pontifex Hall, e al suo ben fornito laboratorio, e mi ero chiesto se il padre di Alethea, devoto protestante, fosse appartenuto anch'egli ai Rosacroce. Ma a quel punto i miei pensieri erano stati interrotti dallo schiamazzo festoso delle oche - il clamore sfrenato di esseri ignari del fato che li attendeva di lì a pochi minuti. "Fame, signore?" "Mmmm...?" La voce mi aveva riscosso dal sonno, e per qualche secondo mi sentii così disorientato da non potermi né muovere né parlare.
"Vuole che ci fermiamo a mangiare, signore?" Mi drizzai e guardai dal finestrino, sbattendo confuso le palpebre, avvertendo lo smarrimento che sempre mi assaliva quando abbandonavo la città per la campagna. Un paesaggio piatto sfilava lentamente, i campi e i canali fiancheggiati dagli alberi semisommersi. La pioggia continuava a cadere fitta, tamburellando sul tetto di pelle. "Quanto manca a Cambridge?" "Un'ora," rispose Crump. "No." Mi riadagiai sul divanetto. "Andiamo avanti." In realtà impiegammo altre due ore per raggiungere Cambridge, ma a quel punto aveva smesso di piovere e il cielo finalmente cominciava a ripulirsi. Un'ora prima un tramonto spettacolare aveva tinto di rosa un gregge di pecore che vagava sul terreno uniforme. Quando mi ero sporto dal finestrino avevo sentito il vento umido che mi scompigliava i capelli e avevo notato un tiro a quattro infangato che avanzava a una certa distanza dietro di noi. Ma al momento non gli avevo prestato troppa attenzione. La strada, ora che ci avvicinavamo a Cambridge, era battuta da ogni sorta di veicoli, uomini a cavallo, diligenze dirette a Londra o a Colchester. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Il programma era di pernottare a Cambridge e ripartire alle prime luci per Wembish Park. A questo scopo, Crump propose una stazione di posta chiamata il Blasone del Rilegatore, che doveva trovarsi accanto al Magdalene College, prospiciente il fiume. Acconsentii prontamente. Fin qui Crump si era dimostrato una guida assolutamente affidabile. Ma fu a questo punto che il nostro viaggio subì un pesantissimo rovescio. Sarà stato il buio che s'infittiva, o la stanchezza di Crump, o le strade affollate con le loro file di alti edifici. O sarà stata la riluttanza dei cavalli, che rifiutavano ogni porta o ogni traversa male illuminata e tormentavano i filetti delle redini. Quale che ne fosse il motivo, comunque, la sicurezza con cui Crump aveva trovato la strada attraverso la foresta di Epping e le cinquanta e più miglia sotto il temporale, ora sembrava lo avesse abbandonato. I tre quarti d'ora seguenti furono un continuo andirivieni tra strade larghe sì e no un braccio, passando per un college dopo l'altro, una stazione di posta dopo l'altra, girando in cerchio, aguzzando la vista e tendendo il collo, superando cavalcavia e ponti per poi trovarci di fronte a un fosso o in fondo a un vicolo cieco, senza mai trovare né il Magdalene College né il Blasone" del Rilegatore. E così alla fine Crump mi chiese di salire a cassetta con lui: io avrei cercato la locanda, disse, mentre lui si concentrava
sulla guida. In serpa c'era a stento spazio per due, ma procedemmo a lungo in questo modo, con i piedi vicini sulla pedana, a contatto di spalle. S'era fatto silenzioso e teneva i suoi occhi esperti sulla strada davanti a noi, mentre io mi giravo a destra e a sinistra controllando le insegne e, allo stesso tempo, studiandolo più attentamente. Era un pezzo d'uomo, una specie di bue, biondo e con gli occhi chiari e con un naso da bevitore butterato come la buccia di un'arancia di Siviglia. Lo avevo già visto da qualche parte - ormai ne ero certo - ma non riuscivo a ricordare dove. Poteva essere uno degli operai al lavoro a Pontifex Hall, pensai, o uno degli avventori del Corno d'Oro. Per un attimo un ricordo sembrò baluginare e affiorare sul filo dell'orizzonte, ma poi lo scossone per un'asperità del fondo stradale mi costrinse ad afferrarmi al sedile per non farmi sbalzare. Nel farlo, sentii un'improvvisa pressione contro il fianco e, abbassando lo sguardo, vidi il calcio di una pistola spuntare dalla cintola di Crump. Alzai gli occhi sul suo viso e qualcosa di nuovo - un'espressione di preoccupazione, forse addirittura di paura sui suoi lineamenti mi allarmò. "Vogliamo fermarci qui?" proposi, indicando una locanda che si avvicinava la cui rimessa mal curata si riusciva a individuare a naso anche da quella distanza. Eravamo passati sotto la sua insegna già due volte. "Sembra adatta. Che importanza ha? Sono tutti uguali, questi alberghi." "Tenga la bocca chiusa e gli occhi aperti," brontolò lui, stringendo i denti con forza e dando un'energica scossa alle redini. "Potrebbe lasciarsi sfuggire qualcosa." Il San Giorgio & Drago sfilò via, e così il Bastone del Pastore, la Spalla di Montone, la Fascina di Giunchi, l'Ilare Leone, l'Otre di Pelle, la Scrofa & Porcelli, più un'altra mezza dozzina di locande e taverne, nessuna delle quali Crump volle prendere in considerazione. Decisi di saltar giù dalla carrozza e di proseguire per conto mio fermandomi - con o senza Crump in uno qualsiasi degli altri alberghi. Ma nel momento in cui mi alzavo dal sedile e mi bilanciavo sulla pedana, preparandomi a saltare, improvvisamente scorsi il Blasone del Rilegatore, una costruzione di colore chiaro con luci tremolanti alle finestre e il tetto a spioventi che si stagliava contro il cielo come una ziggurat. Stava giusto dall'altra parte del fiume, all'altra estremità di un ponticello verso il quale Crump stava spingendo i cavalli. "Lì," esclamai. Ora sentivo il familiare rombo gorgogliante dell'acqua, il fiume Cam che si incanalava tra i piloni del ponte. "Lo vede? Il Blasone
del Rilegatore." Ma Crump non rispose. A denti stretti, lanciò ancora un'occhiata dietro una delle sue spalle massicce, scosse le redini, e i cavalli si misero al trotto veloce. Forse con il rumore dell'acqua non mi aveva sentito. Indicai la costruzione e poi feci per battergli sulla spalla - ci stavamo avvicinando al ponte e a quella andatura avremmo superato la locanda - ma le mie dita toccarono qualcosa di duro e freddo. Abbassando lo sguardo, vidi che nella destra stringeva la pistola. "Arri! Via! Arri!" I cavalli imboccarono il ponte a tale velocità che venni quasi sbalzato dal sedile. Quando mi raddrizzai udii la bestemmia di Crump e, girando il capo, vidi che non eravamo più soli. La carrozza infangata si stava avvicinando dalla direzione opposta, bloccandoci la strada, e davanti a essa un uomo a cavallo di un roano nero caricava verso di noi. Disorientato, mi voltai verso Crump. Lui fece una smorfia, imprecò di nuovo, poi alzò la pistola e la puntò contro la figura che avanzava al galoppo ritta sulle staffe. Il roano scartò lateralmente contro la balaustrata di pietra quando l'arma sparò con una vivida pioggia di scintille che mi bruciacchiò la guancia sinistra. I nostri cavalli balzarono in avanti, spaventati dalla detonazione, e la carrozza oscillò paurosamente dietro di loro. Mi tenni aggrappato al sedile mentre Crump trafficava con le redini cercando contemporaneamente di ricaricare la pistola. Ancora pochi secondi e ci saremmo trovati all'altezza dell'altra carrozza. "Per Dio, mi aiuti!" Crump stava spingendo la pistola e la carica verso di me. Il mozzo di una delle nostre ruote strisciò contro il parapetto, e le nostre teste urtarono tra loro al violento scossone laterale della carrozza. "Quelli ci ammazzano!" Ma non presi la pistola, che finì sferragliando sul ponte dietro di noi. Indietreggiai, invece, allontanandomi da lui mentre la vettura si rimetteva diritta, poi mi girai su me stesso e mi issai con un goffo balzo sul tetto ondeggiante della carrozza, dove rimasi accoccolato per un secondo, aggrappandomi al bordo. Poi, senza dare ascolto alle grida di Crump e senza guardare in basso, saltai al di là del parapetto verso il frastuono turbinante del Cam ingrossato dalla pioggia. Ma mentre toccavo con un tonfo l'acqua e venivo risucchiato sotto la superficie, e poi sotto l'arcata centrale, e poi giù con la corrente oltre il Blasone del Rilegatore, ciò che mi risuonava nelle orecchie non era il rombo del fiume in piena bensì l'eco dei denti di legno di Crump che ticchettavano come sonagli.
Perché mi ero finalmente ricordato dove l'avevo già visto. Ma poi per lungo tempo, mentre la corrente mi trascinava a valle, non ricordai nulla di nulla, perché improvvisamente l'intero mondo era diventato nero e muto. Dal Magdalene Bridge il Cam corre a nordest in direzione dell'Isle of Ely, qualche miglio più a valle della quale, sul margine delle torbaie, attraversate dagli antichi canali di drenaggio romani, le sue acque si immettono nel Great Ouse per proseguire poi verso il Wash, trenta miglia a nord, dove scorrono verso un desolato orizzonte. Con la pesante pioggia di quel giorno gli acquitrini erano ancora più inondati del solito, e quella sera la corrente del fiume era turbolenta e rapida. Per quante miglia possa avermi trascinato a valle non avevo la minima idea. So solo che mi svegliai fradicio d'acqua e gelato sul fondo di una yole che avanzava controcorrente spinta da un raccoglitore di torba diretto al mercato, un vecchio di nome Noah Bright. Le stelle passavano nel cielo e le rive fangose scorrevano oscillando. Sputai tossendo una boccata d'acqua e ripresi fiato boccheggiando. Potevano essere passate delle ore come dei giorni. Del viaggio che mi riportò a Cambridge ho solo un vaghissimo ricordo: il vecchio torbiere chino sul suo palo; il moto della barca nell'acqua mentre uno scuro paesaggio fluviale scorreva oltre la fianchetta; l'odore dolciastro della torba seccata al sole su cui appoggiavo la guancia. Bright sosteneva un animato soliloquio mentre ci spingeva avanti a forza di palo, ma di cosa parlasse non saprei dirlo, perché ascoltavo a stento e non rispondevo. Continuavo a pensare a Nat Crump, a quello che avevo visto quando le nostre teste si erano urtate sul ponte: i denti di legno messi a nudo come quelli di un cane ringhioso in una smorfia di paura e rabbia. Un incidente in Fleet Street. Un cavallo è stramazzato morto, signore... La scoperta era stata un colpo. Ancora oggi non so cosa pensarne. Ma Crump era stato il vetturino che mi aveva portato in Alsatia, questo mi fu d'un tratto chiaro. Crump era l'uomo che mi aveva accompagnato in quella apparentemente fortuita deviazione fino al Corno d'Oro. Di questo ero sicuro, in quel momento, più di quanto fossi sicuro di qualsiasi altra cosa. Un incidente in Fleet Street... Perché non potevo più sapere nulla per certo, ora me ne rendevo conto, se non che qualche giorno prima un uomo chiamato Nat Crump mi aveva seguito a Westminster, al Corno del Postiglione, dove mi aveva preso a bordo dalla strada, all'apparenza casualmente, e poi portato in vista del Corno d'Oro, anche questo all'apparenza casualmente. Ma quel tragitto do-
veva essere stato accuratamente progettato e compiuto perché l'elaborato piano apparisse un caso, una coincidenza, un raro colpo di fortuna. E questo voleva dire che tutto ciò che era accaduto da quella prima spedizione in Alsatia, e anche tutto ciò che ne era seguito - la vendita all'asta, la copia di Agrippa, il catalogo - era stato tutta una messinscena. Come pure, ovviamente, il viaggio a Wembish Park. Mi stavano portando fuori strada, attirando in acque sempre più profonde e più insidiose. Seppure la casa esisteva davvero, non avevo dubbi che, come tutto il resto, non sarebbe stata altro che uno schermo. Ma uno schermo per che cosa? Per chi? A quanto pare siamo finiti in un vicolo cieco... E il loquace torbiere, Noah Bright, che manovrava ritto sopra di me? Cosa dovevo pensare di lui? Sembrava che mi studiasse attentamente mentre parlava, puntandomi addosso un paio d'occhi vivi e vigili come quelli di un vecchio cane da caccia. Ero riuscito a spiegargli che ero un libraio di Londra, di nome Silas Cobb, che ero venuto a spulciare i negozi e i banchi del Market Hall di Cambridge ma ero finito nel fiume dopo aver goduto dell'ospitalità di una delle numerose taverne della città. Non avevo idea se avesse prestato fede alle mie spiegazioni improvvisate - né se potessi io fidarmi di lui. Improvvisamente sospettavo di tutti. Mi chiesi se il vecchio raccoglitore di torba non fosse un ennesimo Crump o Pickvance, un attore mandato in scena a recitare una parte, una marionetta i cui fili erano nelle mani di qualcun altro nascosto dietro un fondale dipinto. Mi aveva trovato nel fiume solo per caso, per pura volontà della sorte? O anche il mio tuffo sottostava a una sorta di preciso controllo, stabilito da un programma di cui autore e scopo restavano un mistero? Mi chiesi dove potessero trovarsi i limiti di questo controllo. Mi chiesi se Biddulph con le sue storie sul Navy Office e il Philip Sidney fosse stato predisposto per me come tutto il resto. Se i graffiti tracciati sui muri di Londra e le curiosità nelle loro polverose bacheche fossero destinati esclusivamente ai miei occhi... "Che diavolo..." La barca aveva sbandato nella corrente, slittando freneticamente sulla sinistra. L'acqua entrata da sopra la fianchetta inondava il carico di torba che mi era accanto. Alzando la testa vidi che Bright aveva cessato di manovrare il palo ed era rannicchiato a poppa, scrutando con ansia il fiume in piena. Voltai il capo e intravidi nell'acqua in lontananza il riflesso delle luci di Cambridge. Dovevamo trovarci un buon miglio e più a nord del Magdalene Bridge. La lanterna oscillava sulla panca e minacciava di rotolare in acqua. Tornai a rivolgere l'attenzione su Bright, mentre la pelle d'oca si
spandeva come un'onda sulla nuca e le spalle. "Cosa c'è?" "Laggiù," bisbigliò, indicando l'argine. "C'è qualcosa sulla riva." Mi voltai di nuovo e vidi una forma oscura seminascosta tra le canne immerse nell'acqua: qualcosa che sembrava una specie di essere anfibio che aveva trascinato il corpo a metà fuori del fiume. La luce della lanterna lampeggiò in quella direzione mentre Bright immergeva il palo nel fondo fangoso e spingeva, indirizzando con cautela il muso della barca verso la corrente insidiosa. Perse quasi l'equilibrio ma riuscì a mantenere la rotta, pilotando con il palo mentre ondeggiavamo sull'acqua che ci si faceva incontro tumultuosa. Pochi secondi dopo la chiglia raspò il fango. Riuscii a vedere un braccio proteso tra le canne. Bright con uno sforzo issò il palo dall'acqua. Era un uomo, disteso a faccia in giù sulla riva, con le gambe immerse nel fiume gonfio. Bright fece passare il palo, come un boma, sopra la barca verso la sponda, ma prima ancora che agganciasse la spalla dell'uomo e lo rotolasse sul dorso era chiaro che era morto. Alla luce sinistra della lanterna, vidi che gli avevano tagliato la gola da un orecchio all'altro, quasi mozzandogli la testa, che oscillava orribilmente a destra e a sinistra. Sentii lo stomaco rivoltarsi e distolsi lo sguardo, ma Bright stava sbarcando, sguazzando nell'acqua fino al ginocchio e tenendo alta la lanterna. Appena ebbe raggiunto il cadavere la corrente li investì entrambi, ma prima che la lanterna si spegnesse e il corpo rotolasse nel canneto colsi un'immagine della sua faccia - il naso bulboso e, sotto, i denti di legno serrati come in una furia inarticolata. CAPITOLO 4 In uno dei miei primi ricordi da bambino c'è mio padre che scrive. Siccome era uno scrivano, scrivere era la sua professione, un mestiere governato da ogni sorta di precisi e complessi rituali. Lo rivedo ancora curvo come in preghiera sul suo scrittoio mal ridotto, con i capelli che gli ricadono sul viso, la penna di tacchino che rotea su e giù nella sua mano snella. Nell'aspetto era, come me, poco appariscente, piccolo, vestito di scuro e con lo sguardo imbronciato e inquieto di un pulcinella di mare. Ma a guardarlo lavorare era impossibile sottrarsi al senso di ammirazione per il genio della sua mano di scriba. Mi mettevo accanto allo scrittoio, tenendo alzata la candela quando lui mescolava l'inchiostro o faceva la punta alle
penne con un temperino, con la meticolosità e l'impegno di chi esegue il più delicato intervento chirurgico. Poi immergeva la punta acuminata nel corno da inchiostro e, come per magia, cominciava a tracciare i suoi segni sulla pergamena passata a gesso e a pomice distesa sul tavolo davanti a lui. Cosa scriveva, mio padre? Non ne avevo idea. Quelli erano i giorni dell'innocenza, quando il sillabario non mi aveva ancora insegnato a decifrare le testoline reclinate e le membra svolazzanti delle sue curiose figure d'inchiostro, che quindi a quel tempo erano irresistibili e attraenti come i geroglifici dei faraoni. In effetti la natura dei brani che scriveva mio padre doveva essere di una noia mortale. Lettere patenti, bandi di corte, registri parrocchiali: quel genere di cose. Lo scrivano conduceva una vita di lavoro grama e faticosa come poche. Solo quando fui più grande capii che la schiena di mio padre era costantemente ingobbita per il tanto star chino sullo scrittoio, e i suoi occhi affaticati perché era troppo povero, quasi sempre, per permettersi una candela. Le sue fatiche nel minuscolo abbaino che fungeva da studio trovavano sollievo una volta alla settimana, quando andava a far visita alle botteghe dei fabbricanti di inchiostri e dei venditori di cartapecora, o quando andava a consegnare i frutti del suo lavoro alle Inns of Chancery, da cui dipendeva la sua paga così precaria. Quando crebbi, a volte lo accompagnavo in queste spedizioni per le vie di Londra. Con le pergamene arrotolate sotto il braccio o in una malconcia bisaccia che portava a tracolla, si presentava al Clement's Inn, o in un altro di quegli alloggi per gli studenti di giurisprudenza, e io aspettavo seduto in silenziose anticamere, guardando dalla porta socchiusa mio padre, gobbo e con il farsetto sporco, che timido e con mano tremante srotolava le sue opere sul banco di un impiegato del tribunale dall'aria scostante. Come ricordo bene, ancora adesso, quelle uscite. Per mano, ci aggiravamo in palazzi strani e ostili, mondi di potere e di privilegio lontanissimi dalla nostra casupola e dallo scrittoio macchiato d'inchiostro di mio padre. Due volte fummo perfino accompagnati da paggi vestiti di seta nell'Ufficio del Sigillo di Whitehall Palace. Il più delle volte, però, in queste odissee settimanali, raggiungevamo Chancery Lane, perché era lì, sul lato orientale della strada, non lontano dalla casa da gioco di Bell Yard - un altro dei locali prediletti dal mio povero padre, ahimè - era lì che sorgeva la Rolls Chapel. Mio padre, uomo di tendenze atee, spesso diceva scherzando che la Rolls Chapel era l'unica chiesa che avesse mai frequentato. E dall'esterno l'edificio aveva in effetti l'identico aspetto di una chiesa. Aveva una torre
campanaria di pietra di forma esagonale, e i finestroni colorati che guardavano sugli avvocati e i magistrati che andavano indaffarati su e giù per Chancery Lane. All'interno della sua porta borchiata c'era una cantoria e una lunga navata in cui erano disposte file e file di panche. Ma le panche non erano occupate da devoti parrocchiani e dai loro libri di preghiere, bensì da pesanti volumi rilegati in marocchino e da pile di fogli e di pergamene alte un metro. E quelli che vi entravano - gruppetti che si radunavano nell'angolo di nordovest - rivolgevano le loro preghiere non a Dio ma al Lord Cancelliere, o meglio al Direttore degli Archivi, il suo aiutante, il quale riceveva le loro richieste dal suo alto banco nel presbiterio dove era insediato come un sacerdote. Infatti, se è vero che la Rolls Chapel una volta era una chiesa - costruita, mi diceva mio padre, per gli ebrei convertiti in Inghilterra - da tempo si era convertita a sua volta, e ora nel campanile e nella cripta che si apriva sotto le grigie lastre del pavimento ospitava i voluminosi registri della Corte della Cancelleria. Incrociai il fantasma di me bambino - il piccolo Isaac Inchbold insaccato in una finanziera color ruggine e in un paio di brache tarmate - mentre prendevo posto su un banco accanto alla porta la mattina dopo il mio ritorno da Cambridge. Attraverso le vetrate il sole proiettava sulle navate lastricate quei brillanti fiori di luce di cui avevo un ricordo così netto da quelle lontane mattine in cui me ne stavo seduto dando calcetti all'inginocchiatoio in attesa che mio padre riscendesse dalla torre o risalisse dalla cripta. Ora come allora, la Rolls Chapel era silenziosa e aveva l'odore di muffa delle vecchie pergamene e delle antiche pietre. Ma era tutt'altro che deserta. Dal punto dove ero seduto potevo vedere decine di impiegati e scrivani che si aggiravano con passo cauto tra gli inginocchiatoi e gli scanni del coro, mentre io dividevo il mio banco con una congrega di una dozzina di gentiluomini, molti dei quali avevano l'aspetto di Cavalieri. E dietro la transenna tarlata del presbiterio, davanti a un piccolo pubblico di avvocati con la parrucca di crine, il Direttore degli Archivi, un uomo grasso in abito rosso, teneva corte. Tolsi l'orologio dal taschino, poi riportai lo sguardo ansioso alla porticina della torre campanaria, dietro la quale un impiegato era sparito pochi minuti prima. Sopra la porta un cartello diceva: "Rotuli Litteratum Clausarum." Sospirai e rimisi al suo posto l'orologio. Avevo una fretta disperata, perché ero gravemente in pericolo - io, e anche Alethea. Erano passati ormai due giorni dalla mia partenza da Cambridge. Ero ritornato in Alsatia la sera prima dopo aver passato l'intera giornata in viag-
gio. Mi ero affrettato a rientrare a Londra perché mi aveva assalito un pensiero spaventoso, un pensiero che mi faceva formicolare la nuca e i favoriti. Mi ero reso conto che tutte quelle strane concatenazioni - tutto ciò che uno o più sconosciuti avevano inscenato per me - conducevano direttamente al messaggio cifrato contenuto nella copia dell'Ortelius, un messaggio che evidentemente era previsto che scoprissi e risolvessi. Dal che si deduceva che chi stava tendendo la trappola aveva accesso a Pontifex Hall e al suo laboratorio. E questo voleva dire che con ogni probabilità la scelta si riduceva a due persone, Phineas Greenleaf o Sir Richard Overstreet, o forse entrambi, in combutta tra loro. In ogni caso, il malfattore non solo aveva accesso ad Alethea, ma godeva anche della sua fiducia. E uno di loro, presumibilmente Sir Richard, aveva assassinato Nat Crump. Eppure gli eventi degli ultimi giorni continuavano a sconcertarmi. Non riuscivo a immaginare perché avessero dovuto uccidere Crump, né come gli altri vari fili - le irruzioni in Nonsuch House, Henry Monboddo e il suo cliente misterioso, la spedizione all'Orinoco - fossero connessi alla pergamena, l'alfa e l'omega del mistero, il santo Graal che sembrava allontanarsi sempre di più dalla mia mano. Ma poi improvvisamente avevo capito come fare a tagliare finalmente il nodo gordiano - come arrivare al fondo del mistero di Henry Monboddo e di Wembish Park... e poi, tramite loro, all'identità della persona che occupava il centro dell'intera faccenda. Perché il malfattore non aveva coperto del tutto le sue tracce. La risposta, lo sapevo, non si trovava in Wembish Park, ma qui a Londra, in Chancery Lane - in poche righe di testo scritte su un rotolo di pergamena. Ero arrivato in Rolls Chapel quella mattina, ancora nel mio travestimento, dopo una puntata infruttuosa a Pulteney House, che mi era apparsa buia e deserta. Avevo spiegato la mia intenzione a un impiegato seduto a uno scrittoio accanto al fonte battesimale, il quale mi informò con un sogghigno che quanto chiedevo era irrealizzabile, perché tutti gli impiegati addetti ai Rotoli Riservati erano, dovevo capire, molto occupati in quel momento. Nessuno poteva venire incontro al mio desiderio, spiegò, almeno per un altro paio di giorni. "L'Atto di Indennità e Cancellazione," spiegò stringendosi nelle esili spalle. "Prego?" "Le transazioni terriere," disse con un tono tagliente di superiorità. "Gli impiegati sono impegnati nelle ricerche sui titoli terrieri perché le proprietà
confiscate dal Parlamento possano essere restituite ai legittimi proprietari." "Ma è per questo che sono qui!" "Ah, davvero?" Scrutò al di sopra del margine del suo scrittoio, guardandomi dalla testa ai piedi con un'aria decisamente scettica, poco propenso a credere, immagino, che una persona dall'aspetto così umile e in così cattivo arnese potesse avere una qualsivoglia connessione con una proprietà aristocratica, confiscata o meno che fosse. "Ebbene, le toccherà aspettare il suo turno come tutti gli altri." Accennò con il capo alla fila di Cavalieri. Poi, lentamente, il suo sguardo tornò su di me. "A meno che, cioè, naturalmente..." L'uomo aveva tossito delicatamente nella manina che spuntava dal polsino di pizzo lanciando uno sguardo furtivo in direzione della cantoria. Con un sospiro di sollievo interiore, presi dalla tasca uno scellino. Sapevo, certo, che l'avidità era una dote essenziale per la carriera di un uomo di legge, ma non immaginavo che il vizio fosse filtrato giù giù fino agli impiegati. Visto che la moneta riscuoteva solo uno sguardo dubbioso fui costretto ad aggiungerne un'altra. Entrambe sparirono nel nulla. L'uomo riabbassò lo sguardo sulle carte che aveva sulla scrivania. "Si accomodi laggiù, prego." Poi, per un'ora intera, niente. Nel presbiterio furono ascoltate e liquidate due petizioni. Commessi e avvocati andavano su e giù, scartabellando tra i volumi sui banchi o nella sagrestia alla mia destra. Il variopinto giardino di luce avanzò lentamente sui lastroni del pavimento fino a raggiungere la punta dei miei stivali che, come tanto tempo prima, scalpitavano impazienti contro l'inginocchiatoio imbottito davanti a me. Finalmente sentii chiamare il mio nome e, alzato lo sguardo, vidi un commesso, un giovane magro, ritto sulla soglia della porticina del campanile. "Adesso se vuole può vedere gli incartamenti," mi informò l'impiegato al bancone, "Mr Spicer le farà strada." La salita fu disagevole. Per tutto corrimano c'era un cordone liso, e la tromba delle scale era così stretta che a ogni scalino strisciavo con la spalla contro il montante di arenaria. Salendo in cerchio all'inseguimento dell'agile Mr Spicer, dopo una dozzina di gradini mi si presentò alla mente l'immagine delle tonnellate di pietra che premevano sopra di me e sentii gli stessi brividi di panico che mi avevano assalito pochi giorni prima nel nascondiglio di casa. Avevo sempre odiato i luoghi chiusi e stretti, probabilmente perché mi ricordavano quell'eterno confino che prima o poi mi sarebbe toccato. A peggiorare le cose, il giovane Mr Spicer non vedeva la
necessità di una candela, il che mi costringeva a inerpicarmi immerso in un buio muffito solo sporadicamente alleviato da qualche finestrella a feritoia. Con il fiato grosso, raggiunsi finalmente la cima, dove trovai Spicer ad attendermi in una saletta esagonale. Capii subito come mai non avesse acceso una candela per salire, perché il locale era pieno zeppo di fasci di pergamene, alcune delle quali erano cucite l'una all'altra e strette in grossi rotoli del diametro anche di un metro. Sparse in giro, e così numerose da occupare gran parte dello spazio del pavimento, c'erano dozzine di casse di legno dalle quali spuntavano ancora altre pergamene, alcune ingiallite, altre recenti. I miei occhi corsero sui rotoli e le casse, sulle etichette delle pergamene con i loro vividi sigilli di cera che pendevano come nappine. Era il mondo di mio padre, lo scrivano. Ma la scena mi coinvolgeva per un motivo completamente diverso, perché sapevo che tra quei documenti c'era l'identità del mio persecutore. Quanti documenti avevo esaminato fino a quel momento alla ricerca di una risposta? Registri dei tributi, patenti, registri parrocchiali, cataloghi d'asta, edizioni del Corpus hermeticum e relazioni sulla spedizione di Raleigh - e tutto questo mi aveva portato sempre più fuori strada. Ma ora, finalmente, stavo per scoprire la verità. Doveva essere scritta E, lo sapevo, da qualche parte, su quelle pergamene. "Ogni testamento, atto e contratto firmato nel paese è registrato qui," stava spiegando Spicer con un certo orgoglio, avendo colto il mio sguardo smarrito. "Questi documenti sono le eccedenze della cripta e della sagrestia. Nella cripta ci sono già oltre 75.000 pergamene come queste e qualcosa come mille rotoli." Si diresse allo scrittoio e si chinò ad aprire un profondo cassetto, dal quale, con un gemito di fatica esagerato, trasse un enorme volume in-folio legato in pelle. Doveva essere alto ben più di un palmo. "Ho molto da fare," sospirò, mettendosi a sedere, "mi auguro che se ne renda conto. Quindi, se non le spiace..." "Sì, sì. Certamente. Verrò subito al punto." Mi feci avanti, appoggiandomi al bastone. "Sono alla ricerca di un atto di proprietà." "Come tatti," mormorò lui a mezza voce. Poi, con un cigolio di cuoio, aprì la copertina del registro e impugnò una lente d'ingrandimento. "Benissimo. Un atto di proprietà." Si leccò il pollice e sfogliò le pesanti pagine. "Qual è l'anno di ruolo? Anche la stagione sarebbe utile, se la conosce. Estate? Autunno?" "Be', veramente... ecco, temo che il problema sia questo." Azzardai un
sorriso accattivante. "Non so con certezza quando è avvenuta la transazione." "Ah, ecco. Allora, qual è il nome dell'acquirente, se posso chiederlo?" "Questo è un altro problema, temo." Forzai ulteriormente il mio sorriso. "Quello che spero di scoprire è esattamente questo, vede - il nome di chi detiene la proprietà." "E non ha la data di acquisto? Nemmeno approssimativa? No? Be', allora," disse con un'espressione scoraggiata, rinunciataria, mentre io scuotevo la testa, "lei ha messo il carro davanti ai buoi, se posso dirlo. Deve conoscere o l'uno o l'altro, il nome o la data. Sono certo che se ne renderà conto." L'enorme copertina, tenuta aperta, cigolò di nuovo e si richiuse con un tonfo sommesso. "Come le dicevo, Mr Inchbold, sono molto occupato." Si chinò nuovamente, riponendo il registro nel cassetto. "Immagino che saprà trovare la via delle scale." "No, aspetti." Non intendevo lasciarmi congedare così facilmente. "Un nome ce l'ho," dissi. "Due nomi, se non le spiace." Ma nel suo libro Spicer non riuscì a trovare menzione di alcuna proprietà nell'Huntingdonshire appartenente né a Sir Richard Overstreet - il primo nome che gli feci cercare tra le ordinate colonne che correvano lungo quelle pagine di carta di stracci - né a Henry Monboddo. Però nel suo repertorio scoprì alla fine la registrazione di una proprietà a nome di un Monboddo: non Henry, ma Isabella. A questo punto era passata quasi un'ora. Ero tutto spinto in avanti sforzandomi di leggere, capovolto, quello che qualcuno, uno dei predecessori di Mr Spicer, aveva scritto in una nitida grafia cancelleresca. La casa era un'assegnazione in usufrutto, spiegò in un tono soporifero, intestata a Isabella dal marito che si chiamava - sì, sì - Henry Monboddo. Si chinò fino a toccare la lente d'ingrandimento con il naso. Una tenuta in proprietà assoluta e perenne chiamata Wembish Park. "Eccola," balbettai. "Sì, è quella..." "L'assegnazione fu concessa," continuò lui ignorandomi, "con un testamento redatto da Henry Monboddo nell'anno 1630. Da allora è stata condonata dal Parlamento, successivamente confiscata, quindi rimessa alla sua proprietaria in base all'Atto di Indennità e Cancellazione." "Restituita a Isabella Monboddo?" "Esattamente. Viene qui definita come l'erede di Henry Monboddo." "L'erede? Ma Monboddo quando è morto?" "Questo non è un registro parrocchiale, Mr Inchbold. Il repertorio dei ruoli non ci fornisce notizie di questa natura."
"È naturale," mormorai conciliante. Cercavo di dare un senso all'informazione. Monboddo morto? Alethea non lo sapeva? Mi sporsi ancora di più. "E così... Isabella Monboddo è la proprietaria della tenuta?" "Era la proprietaria. A quanto sembra Wembish Park è passata di mano dall'ultima assegnazione fondiaria." Ormai era curvo sulla pagina come un gioielliere che esamina sotto la lente pietre preziose di rara qualità. Da dov'ero seduto potevo vedere le colonne che ondeggiavano e si affusolavano dietro il vetro convesso. Poi voltò il foglio con un brusco crepitio e, mettendo da parte la lente, alzò lo sguardo per la prima volta da venti minuti. "Sì," disse, "è stata venduta. Piuttosto recentemente, si direbbe. L'atto è stato inserito in ruolo solo poche settimane fa. Ma ovviamente potrebbe essere stato registrato nella contea, presso il giudice di pace, anche un mese prima di questo. Siamo un po' indietro con il lavoro..." "Sì, certo, con tutti i contratti fondiari..." Quasi non osavo respirare. "A chi è stata venduta?" "Ah. Be'." Si concesse un sorriso. "Questo il registro non ce lo dice." "Ma l'atto?" Trattenni a stento l'impulso di strappargli il libro di mano e leggere direttamente l'annotazione. "Ha detto che è stato registrato?" "Certo che è stato registrato. È la legge, sa?" "Bene, in questo caso, dove si trova?" Spicer parve ignorare la domanda. Riprese la lente e di nuovo chinò la schiena, applicandosi alla pagina come un diligente scolaretto. Dopo qualche secondo prese una delle sue penne d'oca e con elaborata meticolosità l'appunti e poi, su un foglietto pescato da un cassetto della scrivania, copiò una serie di numeri che io, sempre proteso in avanti, riuscii a decifrare a stento: CXXXIIIO. DCCLXXVIII. LVIII. "Ecco a lei," disse, facendo scivolare verso di me con la punta dell'indice, sul ripiano dello scrittoio, quel messaggio enigmatico. Presi il foglio e lo tenni per i margini, ben attento a non toccare l'inchiostro ancora fresco. Aggrottai la fronte e alzai gli occhi su Spicer. Mi stava osservando con un sorrisetto compiaciuto. "Che cosa significa? Che cos'è questo?" "La cripta, Mr Inchbold." Il registro emise un tonfo di commiato richiudendosi pesantemente. Il sorriso di Spicer era sparito. Rimise la penna nel calamaio e poi depose la lente d'ingrandimento in un cassetto. "È lì che troverà ciò che cerca. Nella cripta."
Quando, ridiscesa la stretta scala, sbucai nella navata, il sole si era trasferito sulle finestre del lato di ponente. Ora la cappella era meno affollata; nel presbiterio potevo vedere solo un paio di impiegati assorti in un sommesso conciliabolo. Percorsi zoppicando la navata appoggiandomi al bastone, indebolito dalla fame perché era dal giorno prima che non mangiavo. Ma non c'era tempo per pensare al cibo. Sì, avevo troppo da fare per poter dar retta allo stomaco. La porta della cripta si trovava sulla parete anteriore della chiesa, presso il presbiterio sotto il quale, immaginai, si estendeva. Portava la stessa scritta di quella che conduceva alla torre, "Rotuli Litterarum Clausarum," e si aprì cigolando su una serie di gradini altrettanto stretti e ripidi. Non c'era luce, da quanto potevo vedere, solo un barlume soffuso in fondo. Chinai la testa sotto l'architrave di legno scrostato e, dopo aver fatto un profondo respiro come un sommozzatore, cominciai la mia lenta immersione. A ricevermi nella cripta avrei trovato un commesso di nome Appleyard che avrebbe decifrato il foglio e individuato l'atto. Ma avevo già intuito che i numeri si riferivano alla collocazione del rotolo in questione. Già scendendo potevo vedere che tutti gli scaffali e le scatole nella catacomba avevano un numero per contrassegno, così come le custodie e le decine di rotoli legati con i nastri e infilati nelle scansie. Eppure, da solo mi sarebbe stato impossibile localizzare il rotolo. A mano a mano che i miei occhi si abituavano alla scarsa luce potei vedere che la cripta era un vasto labirinto che si estendeva ben al di là del presbiterio coprendo l'area sotto la navata e poi, per quanto potevo giudicare, Chancery Lane e forse anche buona parte di Londra. Angusti corridoi larghi sì e no mezzo metro sui quali incombevano sporgendo dagli scaffali i rotoli di pergamena - alcuni grossi come piatti, altri sottili come cannelli di pipa - si perdevano nell'oscurità da una parte e dall'altra, poi si diramavano in altri affluenti altrettanto stipati. Fu solo grazie alla mia modesta statura e alla pancia di dimensioni ormai ridotte, che riuscii a farmi strada tra i più ampi di questi passaggi verso il fievole barlume di una lampada e, nel cerchio di quella luce, verso il piccolo scrittoio occupato da Mr Appleyard. La lampada era tenuta bassa e Mr Appleyard dormiva come un sasso. Mi ci vollero un paio di minuti buoni per svegliarlo. Era un vecchietto dall'aria fragile con un'aureola candida sopra le orecchie e il resto del cranio calvo che aveva preso il colore delle pergamene ingiallite da cui era circondato. Dovetti scuoterlo due volte delicatamente per la spalla. Al secondo tentativo emise un verso, tossì, e si raddrizzò di scatto spalancando
gli occhi chiari. "Sì?" annaspò muovendo convulsamente le mani sul tavolino. "Cosa c'è? Chi c'è?" Deposi il foglietto sulla scrivania e gli spiegai che mi mandava Mr Spicer dalla torre. "Sto cercando un atto," dissi. "Mi chiamo Inchbold." "Inchbold..." Le mani gli si bloccarono a mezz'aria. Rimase per qualche istante in silenzio, aggrottando la fronte e tamburellandosi la punta del naso con un dito, come perso in un sogno a occhi aperti. "Degli Inchbold di Pudney Court? Nel Somersetshire?" La domanda mi sorprese. "Una parentela piuttosto lontana." "Certo. Ma la sua parentela con Henry Inchbold, penso, non è tanto lontana. Dico bene? Ha la stessa voce, oltre che lo stesso nome." Ora ero davvero stupefatto. "Lei si ricorda di mio padre?" "Perfettamente. Un'eccellente repertorio di grafie. Gli ascendenti della sua cortense mostravano una esecuzione di grande incisività." Si strinse nelle spalle e mi rivolse un sorriso sdentato. "Vede, a quei tempi godevo ancora dei piaceri della vista." Soltanto allora mi resi conto che Appleyard, con le sue mani brancolanti e lo sguardo sbarrato, era cieco come Omero. Sentii un tuffo al cuore. Cos'era, uno scherzo di Spicer? Come poteva un cieco - sia pure dotato di una memoria evidentemente prodigiosa come quella di Appleyard - guidarmi in mezzo ai meandri della cripta? "Ma immagino, Mr Inchbold, che lei non è venuto qui a parlare di suo padre." "No." "E nemmeno di Pudney Court. O è forse quello l'atto che sta cercando? Lo ricordo bene, sa? Un bell'esemplare di grafia fiorita documentale, prima della cosiddetta riforma della calligrafia nel tredicesimo secolo. Riforma," ripeté in tono sprezzante. "Una castrazione, così la chiamo io." "No," replicai, "nemmeno di Pudney Court. Di una proprietà nell'Huntingdonshire." "Ha." La sua scarna testa oscillava. "Una villa chiamata Wembish Park. So che è stata venduta di recente." Ripresi il foglietto dal tavolino. "Mr Spicer mi ha dato la collocazione. Vuole che gliela legga?." La carta fu decifrata più o meno come mi aspettavo. La pergamena doveva trovarsi nello scaffale numero CXXXIII, che si trovava nell'ala ovest della cripta. Da cui la "O" del codice, mi spiegò Appleyard. Il rotolo nu-
mero DCCLXXVIII era uno di quelli su cui erano stati registrati gli atti dell'anno in corso. L'atto vero e proprio sarebbe stato la cinquattottesima pergamena, il che significava che doveva essere stato registrato circa a metà, "almeno, a quanto io ricordi, badi bene." Si faceva strada a tentoni precedendomi lungo il corridoio mentre parlava, toccando gli scaffali via via che vi passava davanti, muovendosi così rapidamente che avevo qualche difficoltà a stargli dietro. Io tenevo il bastone in una mano e nell'altra la lanterna, che mi aveva ammonito a non lasciar cadere se non volevo vedere finire in fumo quattrocento anni di storia legale. "Eccoci arrivati," annunciò infine, dopo essere penetrato come una talpa lungo una serie di corridoi che si diramavano restringendosi sempre di più. "Scaffale uno-tre-tre, giusto?" Alzai la lanterna. La fioca luce rischiarò la legenda scritta su un foglio ingiallito e accartocciato fissato all'estremità dello scaffale: CXXXIIIO. "Giusto," risposi. "Bene, allora, il resto sta a lei, Mr Inchbold. Lei è pratico di latino, immagino?" "Certo." "E di grafie legali? Cancelleresca? Segretariale?" "Quasi tutte." "Naturale. Suo padre..." Si stava accapigliando con il rotolo, e lo aiutai a tirarlo giù dalla sua scansia. Era un involto assai poco maneggevole, sorprendentemente pesante, ed era stato legato con un nastro rosso. "Dovrà leggerlo qui. Mi rincresce che non ci sia un posto migliore. Ma questo corridoio e il seguente dovrebbero essere abbastanza lunghi." "Abbastanza lunghi?" "Dovrà srotolarlo, ovviamente. Attenzione alla lanterna, però. È tutto quello che le chiedo." Con queste parole si dileguò lungo il corridoio, mugolando tra sé e lasciandomi accoccolato sul pavimento, con le ossa a pezzi, con quella singolare preda stretta tra le braccia. Mentre scioglievo il nastro - lentamente, come chi apra un dono prezioso - sentivo il frastuono del traffico provenire attutito dall'alto. Dunque la cripta si estendeva davvero fin sotto Chancery Lane. Era così che il vecchio archivista trovava la strada in mezzo ai corridoi? Con il suono? O era dotato, come il cieco Tiresia, di poteri soprannaturali? Sciolto il nastro, me lo misi in tasca per non perderlo. Poi, dopo aver fissato l'estremità del rotolo contro la parete appesantendolo con il bastone,
cominciai accuratamente a svolgere il mastodontico involto. Dopo un minuto raggiunsi l'entrata del corridoio, muovendomi ginocchioni, sentendomi Teseo che si trascina attraverso il labirinto con il filo d'oro di Arianna che si svolge dietro di lui. Poi entrai nel corridoio attiguo, che dopo qualche passo faceva una svolta di 120 gradi. Poi un'altra svolta uguale nell'altra direzione. Scaffali stracarichi da una parte e dall'altra. Il rotolo rimpiccioliva, la coda si allungava. Cosa avrei scoperto giunto in fondo? Un Minotauro? O l'uscita dal labirinto nella luce del sole? Il pavimento declinava lievemente a mano a mano che avanzavo. 66... 65... 64... 63... Finalmente ci arrivai, a metà strada del rotolo e a metà strada del corridoio. Trattenni il fiato mentre si svolgeva, anche se il cinquantottesimo atto sul Rotolo della Cancelleria DCCLXXVIII era del tutto indistinguibile, a prima vista, dagli altri: un pezzo di pergamena, lungo forse una cinquantina di centimetri, con un sigillo sospeso a un nastrino al piede, che era stato tagliato e poi cucito alla testa del documento successivo. Ebbene? Cosa mi aspettavo di vedere? Appoggiai la lanterna al pavimento e mi ci sedetti accanto a gambe incrociate con la pergamena distesa in grembo. Mentre srotolavo i documenti avevo pensato che mi sarebbero bastati pochi secondi, una volta raggiunto l'atto, per conoscere il nome del colpevole. Ma mentre lo studiavo sul recto e sul verso, dovette passare un minuto buono prima che il senso del documento mi apparisse in tutta la sua portata. La prima cosa che notai furono le due firme sul retro, entrambe illeggibili. Quelle dei testimoni, immaginai: impiegati di tribunale, molto probabilmente. Rigirai il foglio, trattenendo il fiato. Anche qui nessuna rivelazione, ma immediatamente notai la linea frastagliata sulla cima della pagina. Mentre facevo scorrere il dito sulla grezza ondulazione - la pergamena era stata evidentemente redatta originariamente in duplice copia e poi tagliata in due - un ricordo mi si affacciò fulmineamente alla mente, per poi subito svanire. Avevo già visto un documento simile, molto simile a quello. Ma in quel breve attimo non riuscii a ricordare dove e quando. Sciant presentes et futuri quod ego Isabella Monboddo... La prima riga, vergata in inchiostro nero, spiccava sulla pagina. La stesura era stata eseguita da uno scrivano il cui talento, decisi, era assai inferiore a quello di mio padre, pur essendo eseguita nelle eleganti curve e nei secchi tratti taglienti della grafia cancelleresca. Ero così ipnotizzato dalla grafia che mi ci volle qualche secondo per rendermi conto di cosa esattamente stessi leggendo. Sciant presentes et futuri quod ego Isabella Monboddo quondam uxor
Henry Monboddo in mea viduitate dedi concessi et hac presenti carta mea confirmavi Alethea Greatorex... E allora, mentre le parole si svolgevano dalla pagina, capii. Ma non riuscivo a credere a quello che vedevo. Strizzando gli occhi nella scarsa luce del ristretto corridoio tenni il documento così vicino alla lanterna che il suo bordo ne toccava il vetro. Lo sguardo mi corse sopra la fitta selva di cifre, tornando in cima alla pagina per rileggerla da capo: Sappiano gli uomini presenti e futuri che io, Isabella Monboddo, già moglie di Henry Monboddo, ho nella mia vedovanza dato, concesso e con questo atto confermato, a Alethea Greatorex, Lady Marchamont di Pontifex Hall, Dorsetshire, erede di Henry Greatorex, Barone Marchamont, tutte le terre e le proprietà, i terreni prativi e i pascoli, con le loro recinzioni, gli argini e i fossati, e con tutti i loro profitti e annessi, che possiedo in Wembish Park, Huntingdonshire... Ma non potei leggere oltre. Il documento mi cadde dalle mani e mi accasciai contro uno scaffale, istupidito dal colpo, ancora non trovando il coraggio di comprendere quello che avevo letto. Dovetti urtare con il piede il rotolo, perché l'ultima cosa che poi ricordai fu che lo vidi rotolare per qualche metro lungo il lieve declivio del corridoio prima di iniziare il suo lungo svolgimento, prendendo velocità a mano a mano che i documenti uno dopo l'altro si aprivano e serpeggiavano nell'oscurità del corridoio adiacente. CAPITOLO 5 York House stava a meno di un miglio a monte di Billingsgate, dove i magazzini e le officine che si affacciavano sulla riva del fiume lasciavano il posto alle dimore nobiliari che si innalzavano come falesie dal Tamigi. Scorsero via una dopo l'altra, ognuna con il suo arco d'ingresso che incorniciava un giardino sul fiume e, sotto, una bettolina ormeggiata. York House si trovava all'estremità occidentale della fila di case, nei pressi del New Exchange, nel punto in cui il fiume piegava a sud verso il tetro ammasso di costruzioni di "Whitehall Palace. L'acqua mossa dalla corrente copriva e scopriva i gradoni di pietra che portavano a un imbarcadero sormontato da un arco, ai lati del quale due muri di pietra incrostati di patelle
tratteneva le onde più alte. Alle bitte di legno incatramate lungo gli scalini stava ormeggiato un barcone a remi il cui lucido scafo verniciato, nel sole del mattino, restituiva un distorto paesaggio fluviale. Al di là dell'arcata si apriva il giardino: salici piangenti, pioppi capitozzati, un malinconico melograno, che gettavano tutti le loro ombre scheletriche su un giardino ingarbugliato pieno delle larve incartapecorite della fioritura dell'estate precedente. Intorno alla siepe di bosso saltellavano i passeri, beccando i semi e lasciando i loro geroglifici nella brina ghiacciata che il sole basso non aveva ancora disciolto. Mentre affrontava la scala, Emilia notò con una certa sorpresa che la villa - una delle più maestose sul fiume, dimora un tempo del Lord Cancelliere - appariva in rovina. Le orbite vuote di molte finestre e una balaustrata sdentata si affacciavano su cumuli di pietre squadrate ammassati davanti all'ala occidentale. Panieri di mattoni e di tegole erano appoggiati al muro dell'ala est, la cui facciata sgretolata era coperta fino a mezza altezza da un ponteggio di legno. Dalle piattaforme pendevano come capestri le funi dei paranchi, oscillando nella brezza. Dall'interno della casa veniva un suono di martelli. Erano le otto. Il corno di uno dei postali di Lord Stanhope in partenza squillò in Charing Cross mentre Emilia seguiva Vilém attraverso il giardino verso l'entrata dei fornitori. Il ginocchio sinistro e le costole le dolevano per lo sfregamento contro il parapetto del barcone da pesca, un'ora prima. All'ultimo istante Vilém l'aveva afferrata per un braccio e issata a bordo mentre la barca filava sulla corrente. Quando era approdata a Billingsgate i due erano sbarcati e, zoppicanti e fradici d'acqua, avevano attraversato il mercato del pesce fino all'altra estremità del London Bridge. Qui avevano trovato una barca. Gli uomini del cardinale sembravano spariti in mezzo alla selva di alberi e vele. Il traghettamento fino a York House era stato lento a causa della marea, che aveva già cambiato senso quando i barcaioli si erano staccati dall'approdo presso la taverna del Vecchio Cigno. Vilém aveva scelto i due esemplari più robusti e una barca dall'aspetto agile, ma il viaggio controcorrente era durato quasi un'ora. A peggiorare le cose, i barcaioli avevano avuto difficoltà a trovare la casa. Essex Stairs... lo Strand Bridge... Somerset Stairs - sembravano tutte uguali mentre la barca vi passava davanti. Una mano di Emilia era aggrappata al fustagno bagnato della giubba di Vilém. Lui sembrava non accorgersi di nulla, seduto a prua con la testa eretta come ad annusare la brezza. Ma a un certo punto, a metà della fila, aveva in-
dicato una delle ville. "Dunque Arundel House è questa." Voltatasi a guardare il palazzo che filava via sulla loro sinistra aveva visto un giardino spoglio per la stagione e affollato non di persone, come le era parso in un primo momento, ma di statue. Un gruppo di figure panneggiate stava eretto sotto gli alberi, figure come paralizzate, in gesti immobili delle braccia, lo sguardo cieco degli occhi di marmo puntato al di là del fiume verso Lambeth Marsh. Altre figure lottavano tra loro, mentre altre ancora giacevano supine nell'erba come cadaveri su un campo di battaglia, fissando le nubi, con le braccia e i busti fratturati nel mezzo di eroiche posture. Ebbe modo di vedere ancora altre rovine sotto le ali della casa, un accumulo promiscuo di macerie che da lontano apparivano come i resti frammentari di urne e frontoni i cui rottami avevano preso il colore bianco delle ossa sotto i raggi di antichi soli. Sopra di loro, sulla pietra di colmo dell'arco, l'iscrizione: "ARVNDELIVS." Il nome non le era nuovo. Volse il capo allungando il collo mentre il giardino si allontanava nella loro scia, cercando di ricordare che cosa le aveva detto Vilém poche ore prima a proposito di Arundel e degli Howard, della loro rivalità con Buckingham. "Da Costantinopoli," stava ora dicendo Vilém, quasi in un sussurro. "La più bella collezione di tutta l'Inghilterra, se non del mondo intero. Arundel ha un agente presso la Sublime Porta che le spedisce a Londra. Raggira gli imam. Li convince che le statue sono una forma di idolatria e così si possono rimuovere dai palazzi e dagli archi di trionfo. La maggior parte delle altre sculture vengono da Roma, dove Arundel ha buone relazioni con le autorità papali." "E buone relazioni con il cardinale Baronius?" Vilém annuì cupamente. "Arundel e i suoi agenti lavorano per Baronius, allargando la loro rete viscosa, cercando di arraffare quanto possibile dei tesori delle Sale Spagnole e della Bibliotheca Palatina. Da Roma arrivano notizie che è stato stretto un patto. In cambio della consegna da parte di Arundel del manoscritto ermetico, il papa darà il beneplacito all'esportazione di un certo numero di statue su cui il conte ha messo gli occhi. Tra queste c'è un obelisco egizio che ora sorge sul sito del Teatro di Massenzio. E anche alcuni ornamenti di Palazzo Pighini. Arundel ha intenzione di installarli nel suo giardino, credo. Farebbero proprio un bel vedere. Monumenti di Roma nel cuore di Londra." Ora, scostando i rami ricadenti dei salici, chinandosi sotto i pioppi, Emi-
lia affrettava l'andatura per non farsi distanziare da Vilém, che la precedeva di tre passi con lo scrigno stretto al petto attraverso l'intrico del giardino di York House. Accanto a una cesta di mattoni, nascosta sotto l'ombra dell'impalcatura, c'era una porticina. Quando Vilém bussò, esitante, dall'interno rispose una frenesia di latrati e di ringhi. I due arretrarono e Vilém strinse più forte a sé la cassetta. Si sentivano le unghie che graffiavano rabbiosamente l'interno dell'uscio. "Buoni, buoni! No, no! Achille! No!" Ma la voce smorzata dall'interno non fu molto efficace nello zittire le bestie. Pochi secondi dopo si udì il cigolare di uno spioncino ed Emilia colse un occhio che li squadrava imperioso. "Chi bussa?" Vilém, ritenendo evidentemente inutile annunciarsi, si limitò ad alzare la cassetta perché l'occhio potesse vederla. Si sentirono altri latrati e il rumore di un paletto che scivolava nella sua scanalatura di legno. Pochi secondi dopo la porta si socchiuse cigolando e contro lo spiraglio si affollarono quattro musi ringhianti e sbavanti. Una muta di cani da cervo. Emilia si fece indietro, sentendo che il piede le scivolava sulla brina. "Achille! Anton! No!" I cani si riversarono fuori, scavalcandosi a vicenda come una compagnia di acrobati. Emilia arretrò di un altro passo ma incespicò nella cesta, poi in uno dei tumultuosi segugi. La coda la colpì dietro il ginocchio e le gambe le cedettero, mandandola lunga distesa con un grido tra l'erba. Pochi secondi dopo sentì sulla gola e sulle mani il fiato caldo della muta, poi i nasi e le lingue dei cani. "Sale," spiegò con calma una voce dall'alto. "Adorano il sapore del sale. Ovviamente, mia cara, lei sta sudando." Due mani batterono sonoramente. Lei alzò gli occhi in mezzo a un caos di orecchie e code e vide un uomo in livrea che massaggiava la gorgia di uno dei segugi sfrenati. "Qua, ragazzi. Qua, bambini miei! Auguste! Achille! Anton! Buoni!" "Siamo qui per una faccenda importante," stava dicendo Vilém dal punto vicino alla porta dove si era rintanato, tenendo alta la cassetta mentre altri due cani, snelli e maculati, ritti sulle zampe posteriori gli tempestavano la pancia e il petto come bambini che gli tastassero le tasche in cerca di dolciumi. "Dobbiamo parlare con Mr Monboddo!" "Accomodatevi, prego," disse il valletto, con un sogghigno. "Attenzione al tappeto, però. Il conte è molto pignolo per quanto riguarda i suoi tappeti. Orientali, come vedete. Molto pregevole, questo qui. Nodi fatti a mano.
Fin qui dalla Turchia." Stava facendo rientrare i cani. "Omaggio del Gran Visir!" Lungo le pareti del corridoio erano schierati busti e statue marmoree simili ai pezzi presenti nel giardino di Arundel House, con nasi e labbra vetusti, erosi, come smangiati dalla sifilide. Alcuni, ancora imballati nelle casse riempite di paglia, sembravano poeti e imperatori che riposavano nei loro sarcofagi. Marmi portati via ad Arundel, immaginò Emilia. Più avanti, ritratti pesantemente incorniciati si inclinavano verso di loro appesi con i ganci alla parete; altri ancora, avvolti nella carta legata con lo spago erano ritti a terra appoggiati al muro. Emilia non prestò quasi attenzione a quegli oggetti. Al chiuso, il frastuono della muta di cani, ora infoltita, era assordante. Le code sbatacchiavano eccitate contro le pareti frustando la tela dei quadri. Le lingue rosate sgocciolavano scie luccicanti sul tappeto del Visir, che sembrava prolungarsi all'infinito davanti a loro. "Bravi, bravi," andava gridando il servo in livrea verde cangiante al di sopra del fracasso. "Bravi ragazzi! Ragazzi coraggiosi!" Furono condotti attraverso una serie di stanze, una più malandata dell'altra. L'interno della casa, come l'esterno, era in un tale stato che non si capiva se fosse in fase di demolizione o di ricostruzione. Seguirono il valletto su per una rampa di scale, lungo un altro corridoio e infine in una sala spaziosa piena di altri busti e frammenti di urne, altre casse di legno, altri ritratti appoggiati a un'alta pannellatura di quercia non finita. "Vogliate aspettare qui, per favore." Il domestico scomparve con i cani che gli piroettavano intorno in orbite frenetiche, con le unghie che picchiettavano sul pavimento come dadi su un tavoliere. La finestra era aperta e nella stanza si gelava. Emilia sentì un tuffo al cuore. Si voltò per prendere la mano di Vilém, ma lui aveva già attraversato la sala e si stava accoccolando davanti a una scaffalatura ancora in costruzione. Alcuni ripiani erano occupati da libri, ma ce n'erano altri ancora deposti in tre casse di legno, anche queste riempite di paglia, sistemate nell'angolo dirimpetto alla finestra. Vilém stava prendendo un volume dallo scaffale quando un asse del pavimento scricchiolò. Emilia si voltò e lo sguardo le cadde su una gorgiera bianca, un mantello nero e il lampeggiare di un orecchino d'oro. "Dall'Ungheria," rimbombò la voce. "La Bibliotheca Corvina." Il tono era profondo e carico, come quello di un oratore, di un politico, ma chi
parlava, da quanto di lui Emilia poteva distinguere nella penombra, era tutt'altro che imponente, anzi decisamente di bassa statura. "O forse dovrei dire da Costantinopoli, dove fu preso dal Visir Ibrahim quando nel 1541 i turchi invasero Ofen e saccheggiarono la Corvina." Vilém si lasciò quasi cadere di mano il libro per la sorpresa. Ora si stava goffamente rialzando in piedi. Dal fondo delle scale venne l'eco del guaito di un cane, poi una porta sbatté. "All'interno si trova l'ex libris di Corvino," stava continuando il basso profondo. "L'acquisto fu negoziato dal vostro amico Sir Ambrose. Se non sbaglio lo scoprì tra gli incunaboli nel Serraglio." La testa in ombra ruotò facendo scorrere lo sguardo sulla stanza: su Emilia per un attimo soltanto, più a lungo sullo scrigno ingemmato sul pavimento nel mezzo della sala. "Stamani Sir Ambrose non è con voi?" Vilém scosse la testa, sempre stringendo il libro. "No. C'è stato un problema. Ha..." "Nemmeno il conte è qui, mi duole dirlo. Questioni urgenti al Navy Office. Un vero peccato, Herr Jiràsek. Sono sicuro che Steenie avrebbe gradito molto mostrarle lui stesso là biblioteca. Ma forse posso essere d'aiuto io?" La tavola sconnessa del pavimento gracidò di nuovo mentre lui faceva un passo avanti ed eseguiva un compito inchino. "Henry Monboddo è il mio nome." Solo quando Monboddo si raddrizzò e avanzò verso la luce che entrava dalla finestra - un attore che prende posto nel centro del palcoscenico, pensò Emilia - solo allora la gorgiera, il mantello e l'orecchino presero finalmente la forma di una persona completa. Era poco più alto di Vilém, ma emanava ugualmente un'aria inequivocabile di comando, ribadita non solo dalla voce - una pesante macina che stritola rotoli di velluto - ma anche da un naso aquilino, una barba ben curata e una chioma nera, folta e lucida d'olio quanto il prezioso pelame di un animale acquatico. C'era anche, notò Emilia, una luce maliziosa nei suoi occhi neri, come se avesse colto in un angolo della stanza, magari al di là della spalla di Vilém, un oggetto, una scena, qualcosa di buffo ma stuzzicante che solo lui fosse in grado di apprezzare. "Chiedo scusa a nome del conte," continuò, "per lo stato in cui trovate la casa. Ma è necessario apportare delle migliorie se si vuole rendere giustizia alla sua collezione di marmi e dipinti e, s'intende, ai suoi libri." "È... è una collezione notevolissima," farfugliò Vilém. "Sì, be'... posso dire, mein Herr, che lei ha portato i suoi porci al mercato
giusto?" Rise sommessamente alle proprie parole, un rombo vibrato che parve affiorare dal fondo dei suoi stivali neri. Ma un momento dopo apparve serissimo. "Una collezione non notevole, temo, quanto quella di Arundel. Ma naturalmente tutto sarà disposto in maniera più consona una volta che librerie e vetrine" - con un ampio gesto abbracciò gli scaffali ancora traballanti - "saranno completate. Vede, l'intera casa sarà dedicata alla collezione, fino all'ultima camera e all'ultimo ripostiglio. Steenie ha rilevato la casa da Sir Francesco Bacone. Attualmente sta negoziando l'acquisto di un'altra proprietà, "Wallingford House, anch'essa molto comoda per raggiungere Whitehall Palace. Il visconte Wallingford la vende a un prezzo assai conveniente." La risata affiorò di nuovo, spessa e ricca come melassa. "È stato stretto un accordo, capite. Wallingford vende per sole tremila sterline in cambio della vita della cognata, Lady Frances Howard." A questo punto gli occhi maliziosi parvero scorgere nelle ombrose periferie della stanza una scena più assurdamente irresistibile che mai. I suoi lineamenti marcati si baloccarono con un sorriso beffardo che gli diede l'aria, pensò d'un tratto Emilia, di uno scolaretto che sta almanaccando una burla clamorosa. Si affrettò a distogliere lo sguardo, sgomenta, e vide dalla finestra la barca laccata di Buckingham che si staccava dall'imbarcadero per immettersi nel mezzo della corrente, puntando la prora a valle. Due figure, in livrea verde, erano sedute a bordo. "Forse avete sentito parlare di Lady Frances. No? La cugina del conte di Arundel," spiegò, intrecciando le dita sopra la pancia - velluto e catena d'orologio - come soffocando un'altra risata. "Attualmente si trova nella Torre, sola e abbandonata, in attesa che il carnefice venga a bussare alla porta. La notizia di questo brutto scandaletto non è arrivata fino a Praga? L'avvelenamento del povero vecchio Sir Thomas Overbury? La caduta in disgrazia di Somerset? No, no, no," sventolava in aria la mano che spuntava dal polsino di pizzo, con un'aria adesso più seria, "evidentemente non è arrivata. E perché avrebbe dovuto? Voi boemi avete per la testa cose più importanti dei nostri bisticci da due soldi qui a Londra. Ma venite..." Fece un gesto svolazzante. "Posso avere l'onore di mostrarvi qualcosa della collezione di Steenie?" Nel corso della mezz'ora che seguì Monboddo li precedette in giro per la casa, una stanza dopo l'altra, spiegando e illustrando con la voce che rimbombava sulle pareti scrostate e i pannelli scheggiati. I tesori erano uno spettacolo imponente, assai più di York House. Monboddo li spacchettava uno per uno, portandoli alla luce con il viso abbronzato raggiante di soddi-
sfazione. Sembrava conoscere, e intimamente, la provenienza di ciascuno di essi, che giungessero da una biblioteca napoletana in occasione della campagna in Italia di Carlo VIII nel 1495, o da una chiesa di Roma dopo il sacco di Frundsberg del 1527, quando i Landsknecht avevano invaso il Sancta Sanctorum e depredato la stessa tomba di san Pietro - o in seguito a una delle tante altre battaglie, rapine e atrocità assortite. Raccontava tutte quelle storie di sangue, furti, tradimenti e distruzioni con profondo godimento. A Emilia, che si attardava a guardare le tele tagliate via dalle cornici e i marmi strappati dai loro basamenti, pareva che bellezza e orrore fossero stati fusi nei preziosi objets di Buckingham, come se dietro ogni bagliore d'oro, sotto ogni gemma, si celasse una storia di violenza e patimento. La nauseava la vista delle mani di Monboddo che accarezzavano ogni pezzo; di quelle tozze dita ognuna con il suo ciuffo di peli neri. Più che le mani di un collezionista o di un intenditore d'arte - mani avvezze a toccare vasi o violini - le sembravano le grinfie brutali di un satiro o di uno strangolatore. L'orrida perorazione le rotolava addosso. Cartagine. Costantinopoli. Venezia. Firenze. Città di bellezza e di morte. Heidelberg. Praga. Si era voltata verso la finestra e attraverso le stecche della persiana aveva intravisto il fiume solcato da un paio di vele. La barca con i suoi due occupanti era scomparsa lungo la corrente. "... E ora ha compiuto il suo viaggio dalla Boemia a Londra." La voce tonante di Monboddo stava concludendo la sua ultima terribile litania. "Esattamente come avete fatto voi due." Le sue labbra carnose circondate dal nero pece della barba si piegarono in un sorriso indulgente mentre riponeva una coppa in una cassa piena di paglia. "Era un dono di re Federico a Steenie, in segno di riconoscenza per l'appoggio dato alla causa protestante in Boemia. È arrivato appena qualche mese fa, precedendo di un passo l'ennesima battaglia. Ma non è il caso di raccontare a voi quel piccolo incidente, dico bene?" I suoi occhi neri e lucidi si erano posati su Vilém, che scosse lentamente la testa. Improvvisamente i lineamenti di Monboddo assunsero un'espressione solenne e ufficiale. "A proposito..." Abbassò lo sguardo sulla cassetta che Vilém continuava a stringere tra le braccia. "Credo che abbiamo un piccolo affare da concludere, Herr Jiràsek. Una questione che riguarda altri tesori erranti, giusto? Ma discuteremo dei dettagli a colazione, è d'accordo? Avete un aspetto affaticato, miei cari!"
Furono portate le seggiole, poi venne imbandita una tavola - interiora di maiale arrostite, un piatto contadino del quale Monboddo si scusò, spiegando con una strizzata d'occhio che Steenie era ghiotto di una così umile vivanda perché la madre nasceva come domestica. Né Vilém né Emilia riuscirono a mandarne giù più di qualche bottone, ma l'appetito di Monboddo, per niente scoraggiato dall'ignobile pietanza, ne tenne occupata la bocca abbastanza a lungo perché Vilém riuscisse a raccontare la propria storia. Con pazienza e senza esitazioni, riferì del naufragio del Bellerophon, dello Star of Lübeck e degli inseguitori in livrea, dei saccheggiatori sulla spiaggia, dei progetti di Sir Ambrose di pagare dei recuperatori forniti di campane da immersione per riportare le casse in superficie, e di organizzare un'altra nave per trasportare quanto recuperato. Quando Vilém finì la sua relazione - non tanto raggiungendo una conclusione quanto piombando di botto in un disorientato e ansioso silenzio la casa parve ammutolire totalmente. Dalla finestra entrava il rintocco lontano della campana di una chiesa e un alito di vento freddo e senza odore. Mentre le tende damascate ondeggiavano pigramente Emilia udì un rumore di remi nell'acqua e, pochi secondi dopo, scorse una lunga chiatta che si infilava sotto l'arco di accesso alla piccola darsena, con diverse persone a bordo - disposte come il fregio di un bassorilievo. Con circospezione riportò lo sguardo su Monboddo. Il quale, adagiato contro lo schienale di seta della sedia con le gambe accavallate, ciondolava nell'aria uno dei suoi stivali neri. Sembrava quasi che stesse patteggiando con un altro risolino, sforzandosi anzi di non scoppiare a ridere, come se Vilém gli stesse raccontando una vicenda aggrovigliata ma spassosa, un aneddoto scollacciato di cui lui conosceva già la comica conclusione. Fece un rutto contenuto e si deterse la barba con il dorso della mano. I suoi occhi neri si alzarono dallo stivale ondeggiante e si fermarono su Vilém. Una barchetta a remi passò frusciando sull'acqua e lo stivale cessò il suo moto irrequieto. "Bene, bene," disse lui in tono filosofico, emettendo un sospiro dal profondo del petto, "un colpo alla causa, questo è certo. Una tragedia, anzi. Sfuggire all'esercito di Ferdinando per poi venire gettati sulle coste d'Inghilterra! Oh, Dio, Steenie ne sarà sconvolto, posso garantirvelo. E anche il principe di Galles. Sconvolto. E, da quel che mi ha detto Steenie del suo piccolo complotto, so che Burlamaqui ha già procurato il grosso della somma. Solo il Signore sa dove avrà trovato il denaro, o che cosa sarà mai andato a raccontare ai suoi banchieri italiani. Ma non tutto è perduto, no?
Assolutamente. Campane da immersione, ha detto? Un sottomarino?" Sembrava trovare l'idea straordinariamente divertente. "Be', tutto si può dire di Sir Ambrose ma non che sia privo di risorse. E la pergamena... be'... quella almeno è sopravvissuta, no?" Il suo sguardo era caduto sulla cassetta che sembrava accucciata tra i piedi di Vilém. Vilém era seduto, eretto e teso, sul bordo della sedia. "Sì," disse lentamente, "la pergamena. Ci abbiamo pensato noi." "Sì, sì. La pergamena," ripeté Monboddo. "Il labirinto del mondo. Almeno di questo c'è da rallegrarsi." La sua voce si spense trasognata. Stava studiando i nuovi stucchi del soffitto, un insieme di volute e lobi che incorporava il blasone di Buckingham. Dalla finestra dietro di lui Emilia poté scorgere un paio di figure in livrea verde che spingevano la snella barca lungo il fondo dei gradoni dell'imbarcadero. Anche gli altri uomini a bordo erano in livrea. Lo scafo urtò una delle bitte con un rumore sordo. Poi le tende si mossero e la vista sparì all'improvviso. "Lei avrà la chiave, immagino." La voce da basso aveva un tono distaccato. Vilém sussultò. Alzò la testa, come se annusasse l'aria in cérca di una traccia incerta, come un cervo in una radura della foresta che sente spezzarsi un ramoscello. "La chiave, signore?" "Sì. La chiave del forziere. Per caso Sir Ambrose gliel'ha affidata? Peccato," disse con lo stesso tono casuale quando Vilém, a occhi sbarrati, scosse la testa con nervoso vigore. "Un gran peccato. Ci avrebbe risparmiato un bel po' di fatica." Poi, con un gesto pigro e uno scricchiolio della sedia rivestita di seta, si allungò all'indietro e agguantò con la zampa pelosa un attrezzo - una spranga di ferro - appoggiata al davanzale della finestra. "Dunque, miei cari, cosa ne pensate?" Agitò il ferro. "Ci arrischiamo ad aprirla?" "No," balbettò Vilém. "Dobbiamo aspettare..." Ma Monboddo si era già chinato e aveva stretto la cassetta tra le mani. Vilém si alzò tremante dalla sedia. Dall'esterno e dal basso giunse uno scalpiccio di passi sul terreno gelato del giardino. Per forzare lo scrigno occorsero svariati minuti. Era un oggetto robusto, fabbricato con il legno di un albero di mogano abbattuto sulle rive dell'O-
rinoco. Era anche assai pregiato - uno dei più pregiati tra i tanti scrigni di Rodolfo presenti nelle Sale Spagnole. Tra le pietre preziose incastonate sulla sua superficie c'erano diamanti dell'Arabia, lapislazzuli dell'Afghanistan e smeraldi dell'Egitto, e l'oro a 24 carati estratto dalle montagne del Messico e spedito al di là dell'oceano a bordo della flotta spagnola del tesoro. Ma Monboddo, il grande amatore d'arte, mostrò scarso rispetto e per la sua bellezza e per il suo valore. Aveva assestato tre colpi violenti sul coperchio e sui cardini prima che Vilém potesse intervenire. "Si fermi, dico." Aveva afferrato il tozzo braccio di Monboddo mentre questi lo alzava per calare un altro colpo. "Basta, prima che..." Ma fu mandato a gambe levate sul pavimento dall'altro, più robusto, che voltandosi gli diede un violento spintone. "Bisogna scannare il maiale," ringhiò Monboddo tra i denti mentre tirava un altro colpo, "se si vuole fare il sanguinaccio." Era accoccolato accanto al forziere, ansimando rocamente e con il viso rosso dallo, sforzo come uno seduto sulla seggetta. Nelle rughe profonde della fronte si erano formate gocce di sudore. Inserì l'estremità della spranga sotto la borchia della serratura, poi nell'anello, poi sotto il gambo del lucchetto, cercando di forzarne almeno uno. "Maledizione!" La sbarra scivolò via e il lucchetto tintinnò. Il coperchio mandò uno stridulo gemito di protesta e poi un sonoro rimbombo quando Monboddo fece un passo indietro e lo colpì con un'altra mazzata furiosa. Una delle pietre andò in pezzi e i suoi frammenti, brillanti e azzurri come libellule, schizzarono sul pavimento e in un angolo. Vilém, rialzandosi, mormorò una protesta. Emilia indietreggiò di un passo. Sentì dal basso bussare alla porta e poi l'improvviso furibondo latrare dei cani. "Achille! Anton! No, no, no, no, no!" Ora Monboddo era inginocchiato sul forziere, imprecando sottovoce mentre inseriva il becco piatto della spranga sotto la borchia e poi spingeva con forza l'altra estremità verso il basso, a due mani, usando tutto il peso del corpo per far leva. La testa gli tremava per lo sforzo. Quindi i cardini dorati della borchia emisero un altro squittio mentre il metallo si accartocciava e uno dei perni si liberava. "Ah! Ci siamo quasi, miei cari!" I cani stavano salendo per le scale, tra tonfi e guaiti. Emilia ebbe l'impressione di sentire dietro di loro, dietro il loro frastuono eccitato, il suono di stivali con gli speroni che affrontavano i primi gradini. Guardò Vilém,
ma lui stava fissando lo scrigno. Un secondo piolo era saltato. Monboddo stava liberando rumorosamente la spranga dalla borchia contorta, a testa bassa come un toro, con il fiato grosso, preparandosi a un altro assalto. Dall'interno della cassetta venne un rumore come se il suo contenuto si stesse spostando. "Auguste! Ahimè! No! No!" Il primo dei segugi balzò nella stanza, seguito da tre compagni, uno dei quali rovesciò un'armatura arrugginita sospesa a un sostegno di legno. Un brocchiere e un elmo con la celata caddero sferragliando sul pavimento, poi rotolarono verso Monboddo. Lui non batté ciglio. Altri quattro cani irruppero nella sala, avventandosi sui residui di cibo sulla tavola. Un piatto finì a terra andando in mille pezzi. Gli stivali con gli speroni raggiunsero il corridoio. "Perdio...!" Con un sonante scricchiolio il fermaglio del lucchetto si liberò dalla cerniera. Monboddo lanciò un grido di trionfo. Era ancora accosciato sui talloni, chino sulla cassetta, con il sudore che gli sgocciolava dalla punta del naso; Vilém si inginocchiò accanto a lui, pallidissimo. Emilia strizzava gli occhi nella scarsa luce. Si sentiva bloccata, presa in trappola nell'occhio di quel ciclone di tacchi rimbombanti, cani sfrenati, piatti e armature sferraglianti. Il forziere scricchiolò di nuovo mentre Monboddo lo stringeva tra le sue mani pelose, rapaci. Poi, lentamente, sollevò il coperchio. "Achille!" Dentro c'era un altro scrigno, perfettamente identico al primo in ogni dettaglio, dal lucido mogano alle borchie dorate alle gemme preziose. Monboddo lo prese tra le mani, portandolo alla luce ed esaminandone i fianchi decorati, con la fronte aggrottata. Vilém era ancora accanto a lui, il capo piegato, anche lui con un'espressione di sconcerto. Monboddo alzò il coperchio della seconda cassetta scoprendone una terza, più piccola, poi una quarta, ancora più piccola - una serie di gusci lignei che gettò via a uno a uno. "Cosa? Cos'è questo?" Aveva raggiunto un quinto scrigno, poco più grande di una tabacchiera. Voltò la testa taurina verso Vilém, che s'era fatto ancora più pallido. "Che significa questo? Cos'è, uno scherzo? Che cosa ha combinato?" Scagliò contro il muro la cassettina, che andò in pezzi scoprendone una sesta. "Mi ha preso in giro? La pergamena! Dov'è? maledizione a lei!" Gli speroni avevano cessato di tintinnare e ora i cani tacevano. A fatica
Monboddo si issò in piedi, facendo scricchiolare sotto le suole le schegge del piatto. Emilia, con lo sguardo fisso sul mucchio di cassette, sentì che Vilém si rintanava contro di lei. "Signori!" Monboddo si era rivolto verso la porta.-"Brutte notizie, gentili signori. Si direbbe che Sir Ambrose e i suoi amici abbiano escogitato una piccola beffa ai nostri danni." Fece un gesto con la spranga verso gli scrigni di mogano. Emilia, sollevando il capo, vide tre uomini sulla soglia; i ricami d'oro sulle loro livree scure brillavano colpiti dalla luce che filtrava dalla finestra. Poi una tavola del pavimento gemette penosamente e il primo dei tre mise piede nella stanza. CAPITOLO 6 C'è mai stata un'altra estate in cui la pioggia è caduta così pesantemente? Ogni volta che ripenso a quei giorni mi sembra che l'acqua non cessasse mai di cadere a torrenti da un cielo plumbeo. Il sole sparì per settimane dietro una coltre cupa di nuvole; poteva essere ottobre o novembre anziché luglio. A Londra i canali di scolo si riempirono e strariparono, alimentando il Tamigi in piena. I davanzali delle finestre e le corde del bucato non portavano più la loro esposizione di panni, perché non c'era mai sole sufficiente per asciugare. In campagna i fiumi debordarono dagli argini, tracimando sulle coltivazioni rachitiche, spazzando via strade e ponti. Si fecero digiuni e si osservarono giornate di mortificazione, perché a un certo punto si arrivò alla conclusione che quelle piogge incessanti dovevano essere la manifestazione dell'ira del Signore, in collera con il popolo d'Inghilterra perché non aveva punito i regicidi. Prima della fine dell'anno i traditori sarebbero stati arrestati, in Olanda, e impiccati a Charing Cross: Stadfast Osborne tra loro. Una folla immensa si riversò a Whitehall e nello Strand per assistere allo spettacolo, e da migliaia di voci si levò un'ovazione quando i cadaveri furono tirati giù e si fecero avanti i macellai per mettersi all'opera. Uno per uno i ventri dei regicidi furono squarciati con mano esperta e le viscere sgocciolanti gettate nel fuoco dei falò che crepitavano e schioccavano sotto la deprimente pioggia di ottobre. Una scena del genere non si vedeva dai tempi in cui la regina Maria suppliziava i protestanti a Smithfield, o la regina Elisabetta i gesuiti a Tyburn. Perfino la morte fu ritenuta una punizione troppo lieve per Cromwell, per cui la salma fu tolta dalla tomba nell'abbazia di Westminster e trasportata su un carro a Tyburn, dove
il corpo venne appeso e poi decapitato. Il cadavere in decomposizione fu sepolto sotto il patibolo mentre la testa venne infissa su un palo in Westminster Hall, da dove continuò a guardare in cagnesco quelli che passavano davanti ai banchi dei libri e agli stampatori sottostanti. I bambini la bersagliavano di sassi; altri ridevano dei corvi che si contendevano quanto restava nelle orbite. Vendetta, vendetta - tutti in quei giorni erano dediti alla vendetta. E io, anch'io ero dedito alla vendetta? Fu questa la spinta che mi indusse a imbarcarmi, febbricitante e ammalato, in quell'ultimo fatidico viaggio? Era un risarcimento quello che speravo di trovare quando mi mossi da Alsatia, nel pieno del diluvio, nel retro di una diligenza postale che si faceva strada tra il traffico dello Strand e in Charing Cross, dirigendosi lenta verso ponente? Il ricordo che ho di quella mattina fradicia d'acqua della mia partenza, in contrasto con quelle precedenti, è nitidissimo. Eravamo ancora a luglio, ma già si stavano innalzando le forche per il nostro piccolo autodafé. O forse era l'inizio di agosto. Avevo perso ogni cognizione del tempo. Quanti giorni di delirio erano passati da quanto ero tornato ad Alsatia dalla Rolls Chapel? Quattro o cinque? Più di una settimana? Di quel tempo di mezzo ricordavo pochissimo, e assolutamente niente del viaggio di ritorno alla Taverna della Mezza Luna dall'oscuro labirinto sotto Chancery Lane. Come tornai, in vettura o a piedi? Che ora doveva essere quando finalmente mi ritrovai, smarrito e pieno di spavento, nella mia cameretta? I giorni successivi - o la settimana successiva - erano trascorsi in maniera orribile. Piombavo in un sonno affollato di incubi, dai quali mi svegliavo continuamente, madido di sudore e dolorante, incapace di muovermi, aggrovigliato nelle lenzuola umide come una bestia terrorizzata presa nella rete. Un momento mi sembrava che in camera ci fosse un caldo insopportabile; il momento dopo gelavo. Avevo fame e sete ma ero troppo debole, quando ci provavo, per alzarmi dal letto. Ricordo vagamente dei passi nel corridoio. A un certo punto, dopo il tramonto, avvertii un tintinnio di chiavi, un cigolio di cardini e, sulla soglia, il viso allarmato di una cameriera. Mrs Fawkes dovette arrivare poco dopo. Mi sembra di ricordare qualcun altro, un uomo, muoversi su e giù per il pavimento scricchiolante. Mi esaminava la lingua, chiunque fosse, mi premeva l'orecchio sul petto e il dorso della mano sulla fronte. Doveva essere, credo, febbre malarica; risultato, senza dubbio, della mia piccola escursione nel Cam, insieme con la fatica, i viaggi, il digiuno. Ho sempre avuto una costituzione debole. Il mio
corpo, non meno della mia mente, ha bisogno di regolarità e abitudini. A coronare il tutto, l'asma si era aggravata. Dal petto mi usciva una specie di raglio che sembrava allarmare tutti i presenti. In uno dei miei rari momenti di lucidità mi vennero in mente le reazioni, le esclamazioni e gli interrogativi dei miei clienti alla notizia che Isaac Inchbold, il rispettabile libraio, era morto in un bordello. Ma Mrs Fawkes non aveva alcuna intenzione di lasciarmi morire; forse aveva troppo a cuore il conto. E fu così che nei giorni seguenti dovetti sopportare ogni sorta di attenzione da parte di una processione continua delle sue cameriere. Ogni poche ore venivo imboccato di brodi e semolini, le mie membra doloranti venivano massaggiate con guanti di camoscio. Fui salassato da un barbiere-chirurgo, nel cui bacile il mio sangue appariva brillante e fremente come mercurio. A suo tempo mi fecero scendere con ogni cautela le scale e fui portato in un bagno turco - un tipo di locale di recente importazione - dove feci il bagno in una cisterna che di norma (a giudicare dalle rosee ninfe che danzavano sulle piastrelle della parete) doveva essere dedicata a funzioni meno salubri. Ma il bagno parve avere un qualche effetto, come tutto il resto, e un po' alla volta mi sentii meglio. Una mattina in cui le nuvole gonfie di pioggia affollavano l'orizzonte, mi alzai dal mio letto d'infermo, rivestii le mie membra dimagrite con gli indumenti da Cavaliere che qualcuno aveva avuto l'accortezza di lavare e ripiegare, impugnai il bastone e scesi le scale con le gambe molli per pagare l'ospitalità di Mrs Fawkes. Scendendo, dalle finestre di ogni pianerottolo potevo vedere in mezzo ai tetti le torrette e le guglie di Nonsuch House, una scena nitida e familiare ma anche irreale, come se l'edificio fosse un'apparizione o un modellino di se stesso, o qualcosa di intravisto in sogno. Il ponte levatoio si stava alzando in una languida pantomima. All'ultima svolta delle scale la scena sparì dalla vista e improvvisamente, traballando sul bastone, mi sentii soffocare dall'angustia, irreparabilmente tagliato fuori dal mio passato. "Ma, Mr Cobb..." Mrs Fawkes si mostrò sorpresa alla vista delle sovrane d'oro che le misi in mano. "Ma... dove andrà, signore?" "Il mio nome è Inchbold," le dissi. Ne avevo abbastanza di bugie. "Isaac Inchbold." Mi ero girato avviandomi verso la porta. Già pioveva a dirotto. Guardai il torrente che si era formato in mezzo alla strada. "Andrò nel Dorsetshire," le dissi, rendendomi conto per la prima volta dell'oscura matassa che il mio cervello febbricitante era andato lentamente svolgendo mentre giacevo sudato e tremante nel mio letto. "Ho una questione urgente
da sbrigare nel Dorsetshire." Sei arterie postali partivano da Londra a quei tempi: sei strade che si diramavano dalla città come i fili di una grande ragnatela, il cui centro era occupato dal Mastro di posta Generale e dal suo superiore, Sir Valentine Musgrave, il nuovo Segretario di Stato. Tra i raggi del nuovo monopolio regio, intessuta nelle sue intersezioni, c'era una griglia più esile, quasi invisibile di appaltatori e "trasportatori comuni": corrieri gestiti autonomamente che servivano le cittadine di mercato e aree remote del regno in cui i vagoni del Mastro di posta Generale non erano ancora penetrati. Erano imprese orribilmente primitive e disorganizzate, ma lo spionaggio e il contrabbando - e la spedizione e ricezione di libri proibiti - sarebbero stati praticamente impossibili senza di loro. Nel 1657 Cromwell aveva tentato vanamente di sopprimerle, e ora ritenevo che sarebbero diventate il modus operandi dei numerosi nemici del re, i canali segreti di nuove forme di dissenso. La prima di cinque o sei carrozze la presi dalle parti di Salisbury: una vettura lenta, piccola, poco più che un carro coperto, che seguì un percorso bizzarramente irregolare attraverso la campagna, tra dieci miglia di deviazioni, borghi alluvionati e soste forzate, finché arrivò il momento di aspettare tre ore che arrivasse la coincidenza, una vettura ancora più piccola stipata di damigiane di mostarda di Tewkesbury e miele dell'Hampshire. Ma l'ultima carrozza che presi - quella che finalmente mi sbarcò a Crampton Magna - era notevolmente più grande e più veloce delle altre. Aveva anche un simbolo familiare in oro sbiadito dal sole, una croce ermetica, dipinto sulla portiera, a stento visibile tra gli schizzi di fango del colore della ruggine matura. "Mercurio," mi spiegò il conducente, un vecchio con la gobba di nome Jessop, quando si accorse che fissavo lo sportello. Stava agganciando i cavalli ai finimenti e i finimenti alle stanghe. "Il postino degli dei. La carrozza faceva parte della vecchia scuderia De Quester," aggiunse con un certo orgoglio, battendo una mano mutilata di un dito sullo sportello infangato. "Più di quarant'anni, ma sempre solida e veloce. Il simbolo di Mercurio faceva parte dello stemma di De Quester." "De Quester?" Dove avevo sentito quel nome? Da Biddulph? "Matthew De Quester," rispose. "Ho comprato la carrozza dalla compagnia quando perse la licenza. Un bel po' di anni fa. Non mi stupirei se mi dicesse che allora lei non era ancora nato." A fatica montò in serpa e mi fece segno di seguirlo. Mi arrampicai a
bordo, pieno di apprensione e di sgomento. Nel corso delle ore seguenti, mentre i cavalli sfiniti avanzavano sguazzando nel fango fino ai garretti, mi chiesi se sarei mai arrivato al fondo di queste stranissime faccende, se la misteriosa verità che albergasse in Alethea era destinata a sfuggirmi per sempre. Tutte le mie indagini sembravano essersi tradotte in altrettanti buchi nell'acqua. Mi sentivo come l'alchimista che, dopo ore di fatica, dopo interminabili alambiccamenti, decozioni e distillazioni, si ritrova non con il lampeggiante grumo d'oro di cui sogna, ma con il caput mortuum, inutile crosta, residuo di sostanze chimiche combuste. Negli ultimi giorni avevo cominciato a dubitare delle capacità della mia mente. Io che mi consideravo così razionale e saggio improvvisamente scoprivo di non sapere nulla, di dubitare di tutto. Ogni confortante certezza sembrava disintegrata. "Alla fine ci siamo, signore." La voce di Jessop mi strappò alle mie cupe elucubrazioni. Alzando la testa vidi un campanile che incombeva su un assieme di desolate casupole. Voci e lanterne si avvicinavano. "Crampton Magna." Con un balzo contorto fu a terra schizzando fango. "Capolinea." Dovevano passare altre dodici ore prima che raggiungessi la mia destinazione. Alla locanda del villaggio, all'Insegna dell'Aratore, non riuscii a convincere nessuno dei cinque taciturni clienti a intraprendere il viaggio per Pontifex Hall. Mi ero appena rassegnato a una lunga camminata sotto la pioggia quando mi si avvicinò un nuovo arrivato, un giovanotto lentigginoso che mi promise di condurmici il mattino dopo, se potevo aspettare. Suo padre, spiegò, era il giardiniere di Pontifex Hall. Il locandiere parve preso in contropiede dalla richiesta di una stanza, ma all'ora di chiusura fui accompagnato su per una scricchiolante rampa di scale fino a una cameretta dalle pareti impavesate di ragnatele e con la biancheria del letto ingiallita dal tempo. Sembrava che nessuno avesse aperto quella porta, e tanto meno ci avesse dormito, da un bel po' d'anni. Ma mi lasciai ugualmente cadere con un senso di gratitudine sul materasso bitorzoluto, per poi precipitare in una serie di sogni irrequieti e interconnessi dai quali mi destai qualche ora dopo con un bruciore di stomaco e per niente riposato. Dalla singola finestra che mostrava una distesa di tetti di paglia sudicia e un angolo della chiesa, vidi che pioveva ancora, più forte che mai. Dubitavo che con quel tempo il mio giovane cocchiere si sarebbe presentato. Ma quando fui sceso di sotto ed ebbi consumato una robusta
colazione, e dopo che mi fui alleggerito in una latrina maleodorante, vidi un calessino che guadato il tenente in piena si avvicinava alla locanda a vivace andatura. La tappa finale del mio lungo viaggio poteva finalmente cominciare. Che cosa avrei detto ad Alethea quando l'avessi rivista? Negli ultimi giorni avevo formulato nella mia testa un'infinità di discorsi accusatori, ma ora che Pontifex Hall si avvicinava sempre di più mi rendevo conto di non avere la minima idea di cosa dire o fare. Anzi, non avevo idea di cosa speravo di ottenere, se non forse provocare una scena madre che portasse l'intera faccenda a conclusione. Capii anche, con un sussulto di panico, che afferrando quel rovo in maniera così diretta, potevo mettermi in pericolo. Pensai al cadavere di Nat Crump nel fiume e agli uomini che avevano messo a soqquadro il mio negozio e poi mi avevano inseguito a Cambridge. Ancora una volta sentii la morsa del dubbio. Erano davvero gli stessi che avevano assassinato Lord Marchamont? O erano piuttosto, come tutto il resto, invenzioni di Alethea? Forse era lei, e non il cardinale Mazarino, il loro misterioso mandante, quello che li aveva messi sulle mie tracce. Dopotutto non era stata lei a gettare un'ombra di infamia sull'intera situazione? Ed era stata lei a tradirmi. Dopo qualche tempo i cavalli rallentarono e io alzando lo sguardo vidi l'arcata aprire i suoi larghi piloni e dietro di essa la casa che ci veniva lentamente incontro. Dall'alto dell'arco incombeva l'iscrizione ormai ben nota. L'edera era stata sfoltita e le parole scolpite di nuovo sulla pietra. Potevo vedere che erano già state apportate diverse migliorie. Le piante morte dei tigli erano state abbattute e sostituite con esemplari giovani, l'edera curata, la strada ricoperta di ghiaia nuova. Anche il labirinto di siepi appariva più definito: una grande distesa di spallette verdeggianti, alte due metri, che si proiettavano in prospettiva in ieratica simmetria. Ebbi la sensazione di una muta graduale, di un cambio di foglie, di un rinnovamento di vecchie cose. Pontifex Hall sembrava cambiata almeno quanto lo ero io. Sul lato nord della casa un piccolo giardino era stato piantato a eufrasie e nontiscordardimé, e decine di altre erbe e fiori. Tutte le piante erano in pieno rigoglio, foglie e petali tremolanti nella brezza. Non ricordavo di aver visto niente del genere nella mia visita precedente. "Il giardino delle erbe, signore," spiegò il ragazzo, cogliendo il mio sguardo. "Non fioriva, dicono al villaggio, da oltre cent'anni, da quando andarono via i monaci. I semi erano piantati troppo in profondità; almeno, questa è la spiegazione che dà mio padre. Non cresceva niente finché in
primavera lui non ha smosso il terreno." Per un secondo mi guardò timidamente da sotto la falda del cappello. "È una specie di miracolo, eh, signore? Come se i monaci fossero ritornati." No, pensai, stranamente commosso dalla scena; era come se non fossero mai veramente andati via, come se negli anni di esilio qualcosa di loro fosse rimasto, sopravvissuto, perduto ma recuperabile, come le parole di un libro che aspetta il lettore che, soffiando via la polvere e aprendo la copertina, faccia rivivere l'autore. "Vuole che l'aspetti qui, signore?" Il biroccio aveva raggiunto la casa, dalle cui grondaie sbreccate si riversavano torrenti di acqua. Sentivo le tubature in alto che inghiottivano la pioggia. La casa, nonostante le migliorie, appariva più malinconica e ostile che mai. Come avrebbe risposto la falda sotterranea, mi chiesi, a tanta pioggia? Sperai che l'ingegnere di Londra fosse poi arrivato per il suo indispensabile intervento. "Un momento, per favore." Scesi dal calesse e mi guardai in giro con più attenzione. Niente mostrava che fosse abitata, né che ci stessero lavorando. Le finestre con i loro vetri rotti - quelli, almeno, che non erano stati sostituiti - erano buie. Forse la casa era deserta? Forse ero arrivato troppo tardi? Ma poi lo sentii: un'ombra di profumo nell'aria umida del mattino, un profumo dolce e pungente, lieve ed effimero come un'allucinazione. Alzai nuovamente lo sguardo e vidi in una delle finestre aperte - quella del piccolo laboratorio - la sagoma di un telescopio. Avvertii allo stomaco un languido frullo di paura. "No," dissi al ragazzo, sentendo che il sangue cominciava a pulsarmi nella gola. "Non avrò bisogno di te." Avanzai sotto il frontone. L'aroma del fumo di pipa - le foglie conciate di Nicotiana trigonophylla - era già svanito. Alzai il bastone per bussare alla porta. CAPITOLO 7 La voce aveva un tono di accusa: "Inchbold!" La porta, che si era socchiusa scoprendo la maschera dura di Phineas Greenleaf, cominciava a richiudersi mentre gli occhi torpidi guizzavano verso il carrozzino che ripartiva. Mi affrettai a fare un passo avanti e afferrai la maniglia di rame. "Un momento..."
"Cosa c'è?" domandò nello stesso tono severo. "Che cosa la porta qui?" Non era l'accoglienza che mi aspettavo, neppure da Phineas. Infilai il piede ritorto nel varco che si chiudeva. "Una questione urgente," risposi. "Per favore mi lasci entrare. Sono venuto a portare i miei omaggi alla sua padrona." "In questo caso, Mr Inchbold, è arrivato tardi," sibilò a denti stretti. "Mi duole informarla che Lady Marchamont non è in casa." "Ah no? Forse allora, se posso chiederlo, sua signoria è a Wembish Park?" Diedi uno scossone impaziente al pomo della porta. "Forse la troverò lì?" "Wembish Park?" La sua espressione sembrava sinceramente confusa. Era così bravo a recitare, o Alethea non lo metteva a parte dei suoi segreti? "Mi lasci entrare," ripetei, insinuando il bastone tra il battente e il montante di marmo. "O devo buttare giù la porta?" Era una minaccia risibile per uno della mia corporatura, ma mi trovai costretto a tentare di metterla in atto quando la porta, improvvisamente, mi venne sbattuta in faccia. Diedi una spallata all'uscio di quercia massiccia, urlando improperi, prima di passare ai calci, con risultati non migliori. Probabilmente mi sarei rotto un piede o la spalla se non mi fosse venuto in mente di provare con la maniglia. Allo scatto della serratura sentii un'imprecazione dall'interno, poi la porta si spalancò e mi trovai di nuovo a faccia a faccia con Phineas. Questa volta era ancor meno cordiale. Mi si avventò contro digrignando i denti, minacciandomi di scaraventarmi fuori da quell'insolente botolo ringhioso che altro non ero. Avanzai oltre la soglia e lo colpii allo stinco con il bastone, poi dopo svariate altre scortesie fisiche ci trovammo avvinghiati sulle mattonelle del pavimento. Cominciò così la mia visita finale a Pontifex Hall. Che scena, doveva essere, vergognosa e comica, due figure grottesche che lottavano flebilmente sotto l'alta volta dell'atrio, facendo volare gomiti e insulti. Non sono un rissoso, per niente. Aborrisco la violenza e ho sempre fatto di tutto per evitarla. Ma metti alla prova un codardo, come si suol dire, e si batterà come un demonio. E così nel misurarmi con il mio geriatrico avversario mi accorsi che morsi e calci - l'intero brutale repertorio da angiporto - mi venivano con la massima naturalezza. Il mio piede storto fece centro nel mezzo della sua pancia e i miei denti trovarono subito il suo pollice quando cercò di strozzarmi. L'ignominiosa funzione si concluse quando lo immobilizzai, bloccandogli la testa e scaricandogli una pioggia di cazzotti sul naso. Solo
quando vidi il sangue lo lasciai andare, gemente come un vitello mentre terrorizzato si tastava il viso con la mano. Sì, sì, era una scena vergognosa, ma non provavo il benché minimo rimorso. Almeno, finché non sentii una voce che chiamava il mio nome dall'alto. Mi rotolai sulla schiena con un lamento - Phineas aveva messo a segno anche lui qualche colpo bene assestato - e alzai lo sguardo su Alethea che si affacciava dalla ringhiera in cima alla scalinata. "Mr Inchbold! Phineas! Smettetela immediatamente!" La sua voce riecheggiava per le scale. "Per favore, signori!" Mi rimisi faticosamente in piedi, ansante e scarmigliato, schizzando gocce di pioggia come un cane maleducato che risale dallo stagno. Un refolo di vento dalla porta semiaperta fece oscillare il candeliere di cristallo, che annunciò tardivamente il mio arrivo con una serie di scampanellii dissonanti. Le mie brache emisero un umido squittio quando penosamente spostai il peso da un piede all'altro, e avevo le lenti così appannate che riuscivo a malapena a vedere qualcosa. Mi rendevo conto di aver perduto un certo vantaggio. Lisciandomi la barba, sentii montare la collera per la situazione in cui ero stato cacciato. Dovevo avere l'aspetto di un malvivente, e al tempo stesso di un imbecille. Ma Alethea non parve per nulla stupita né dal mio aspetto né dalla mia condotta, e nemmeno dal fatto stesso della mia improvvisa comparsa. Né sembrava adirata mentre scendeva per lo scalone, solo perplessa o svagata, come aspettasse qualcosa d'altro, il vero culmine che ancora doveva avvenire. Per un attimo mi chiesi se in qualche modo stesse aspettando il mio arrivo. Che perfino questa mossa improvvisata, la mia spedizione nel Dorsetshire, facesse parte del suo piano misterioso? "Per cortesia," disse, riportando gli occhi su di me, "non potremmo essere civili?" La guardai a bocca aperta, con una risata che mi saliva alla gola, amara come il fiele. Non credevo alle mie orecchie. Civili? Improvvisamente la mia rabbia, con tutti i discorsi che mi ero preparato, riaffiorarono in un lampo dentro di me. Feci un passo avanti e, agitando il bastone come una picca, pretesi di sapere che cosa intendesse per "civile." Tutte le sue menzogne e le sue trappole, quelle erano civili? O far pedinare ogni mio passo? O devastare il negozio? O ammazzare Nat Crump? Tutto questo, domandai con foga furibonda, tutto questo aveva il coraggio di definirlo civile? Continuai, credo, su questo tono per qualche tempo, vuotando il sacco come un amante tradito, accusando Alethea di tutte le nefandezze che mi
venivano in mente, alzando la voce fino a urlare e sottolineando ogni recriminazione con un colpo di bastone sul pavimento. Come mi feci sentire! Ero impressionato dall'esecuzione di quel pezzo di bravura; non mi sarei mai creduto capace di raggiungere un tono così furibondo e imperioso. Con la coda dell'occhio vidi Phineas che strisciava sul pavimento lasciando una scia di asterischi di sangue. A metà delle scale, Alethea si era bloccata tra un gradino e l'altro, aggrappata al corrimano, i grandi occhi allarmati. Lentamente la mia tirata si sgonfiò. Ira furor brevis est, come dice Orazio. Ansimavo per la stanchezza, sforzandomi di trattenere singhiozzi e lacrime. Avevo intravisto la mia immagine riflessa in uno specchio ovale appoggiato alla parete: un Cavaliere malfermo sulle gambe, macilento e rattoppato, con le guance incavate e gli occhi febbricitanti. Avevo completamente dimenticato la trasformazione, l'opera della malaria in accoppiata con gli intrugli di Foskett. Sembravo lo spettro frenetico di qualcuno tornato dall'aldilà per esercitare empia vendetta - una somiglianza forse non troppo lontana dalla realtà. Alethea lasciò passare qualche momento, come raccogliendo le idee. Poi, con mia grande sorpresa, non negò nessuna delle accuse - nessuna tranne l'omicidio di Nat Crump. Sembrò perfino turbata dalla notizia della morte del cocchiere. Vero, disse, l'aveva ingaggiato lei perché mi prendesse al Corno del Postiglione e mi facesse passare davanti al Corno d'Oro. Ma del suo assassinio a Cambridge non sapeva nulla. "Deve credermi." I suoi lineamenti costruirono un agitato sorriso rassicurante. "Nessuno doveva rimanere ucciso. Anzi." "Non le credo," mormorai mestamente, ora che la mia furia si era risolta in depressione. "Non credo più a una sola delle sue parole. Né su Nat Crump né su tutto il resto." Rimase qualche secondo in silenzio, giocherellando con un ciuffo di capelli e riflettendo. "Dev'essere stato assassinato," disse infine, più a se stessa che a chiunque altro, "dagli stessi che uccisero Lord Marchamont. Dagli uomini che l'hanno seguita a Cambridge." "Gli agenti di Henry Monboddo," sbottai. "No." Scuoteva la testa. "Non erano neanche agenti del cardinale Mazarino. Anche quelle, purtroppo, erano bugie. Lei ha ragione: molte delle cose che le ho detto erano bugie. Ma non tutto. Gli uomini che hanno ucciso Lord Marchamont sono assolutamente reali. Ma sono agenti di qualcun altro." "Ah sì?" Tentai di usare un tono sarcastico. "E chi sarebbe costui?"
Ormai era arrivata in fondo alle scale, e sentii di nuovo il profumo del tabacco della Virginia. E anche di qualcos'altro. In un primo momento scambiai l'odore acre che veniva dai suoi abiti per quello della farina d'ossa, e pensai che stesse curando il giardino. Ma un attimo dopo lo riconobbi: sostanze chimiche. Non il giardino, dunque, ma il laboratorio. "Mr Inchbold," disse infine, come recitando un discorso preparato, "lei ha appreso molto. Sono profondamente colpita. Ha svolto il suo compito alla perfezione, e ne ero sicura. Quasi fin troppo bene. Ma c'è ancora molto da sapere." Mentre lei tendeva la mano, guardai allarmato i suoi polpastrelli, che apparivano curiosamente macchiati. "La prego, vuole venire di sopra?" Non mossi un muscolo. "Di sopra?" "Sì. Al laboratorio. Vede, Mr Inchbold, è lì che la troverà. Nel laboratorio." "La troverò? Che cosa?" "Chiudi la porta, Phineas." Si era girata e aveva ripreso a salire, sollevando il lembo della sottana. "Non far entrare nessuno. Mr Inchbold e io abbiamo cose importanti da discutere." "Che cosa troverò?" Stavo di nuovo gridando, sentivo la rabbia che mi montava dentro. In qualche modo ero stato spiazzato. Ancora una volta avevo perso il mio vantaggio. "Di che cosa sta parlando?" "Dell'oggetto della sua ricerca, Mr Inchbold. La pergamena." Stava ancora salendo, ascendendo la grande voluta di marmo. La sua voce rimbombò nella vasta tromba delle scale. 'Venga," ripeté, girandosi a farmi cenno. "Dopo tante peripezie, non ha voglia di vedere Il labirinto del mondo?" Borace, zolfo, vetriolo verde, potassa... I miei occhi correvano sui cartellini incollati sulle fiale e le bottiglie sparse tra le storte e gli alambicchi con le loro serpentine di vetro. Sostanze chimiche giallastre, verdi, bianche, color ruggine, color turchino. L'odore era ancora più forte e più pungente di quanto ricordassi. Le narici mi bruciavano, gli occhi cominciavano a lacrimare. Olio dì vetriolo, acquaforte, grafite, cloruro di ammonio... Nel prendere il fazzoletto, mi bloccai a metà del gesto. Cloruro di ammonio? Guardai di nuovo la fiala, i cristalli incolori, ricordando le ricette per l'inchiostro simpatico, per inchiostri che, come quelli fatti con il cloruro di ammonio, era possibile leggere solo riscaldando la pagina sulla fiamma. Sentii un sommesso fremito di eccitazione risvegliarsi brevemen-
te; e in più la testa mi girava, come se mi stesse tornando la febbre. "Sale ammoniaco," spiegò Alethea, cogliendo la direzione del mio sguardo. Era accanto a me, ancora con il fiato grosso per la salita. "Fondamentale per le trasformazioni alchemiche. Gli arabi lo ricavavano da una miscela di orina, sale marino e fuliggine. La prima menzione di esso si trova nel Libro del segreto della creazione, un'opera che i maomettani di Baghdad attribuivano a Ermete Trismegisto." Annuii meccanicamente, ricordando le ricerche che avevo fatto una o due settimane prima. Ma a questo punto avevo scorto dell'altro nella stanza, la boccetta contrassegnata "cianuro di potassio," vuota per tre quarti sul tavolo davanti all'armadietto aperto. Subito accanto stava il telescopio, ancora sul suo treppiede, puntato verso il cielo. Le copie di Galileo e Ortelius erano state rimpiazzate da un altro volume, un libro più sottile semisepolto tra il materiale del laboratorio, una ventina di pagine legate in una copertina di pelle decorata. "Il laboratorio apparteneva a mio padre," spiegò Alethea avvicinandosi al tavolo. "Lo fece costruire nello scantinato, dove eseguiva molti dei suoi esperimenti. Ho trasferito io in questa stanza quel poco di attrezzatura che ne rimaneva." Fece una breve pausa allungando una mano sul tavolo e prendendo il cianuro. "Per i miei scopi avevo bisogno di una migliore aerazione." La osservai nervosamente mentre stappava il veleno. Ero ancora tremante per la sfuriata nell'ingresso. Ero anche imbarazzato. Era stata una cosa assolutamente non da me. Mi chiesi per un attimo se dovessi scusarmi per poi scivolare verso un'altra ondata di rabbia e autocommiserazione. Deposta la bottiglia sul tavolo, lei aveva cominciato ad armeggiare tra gli altri oggetti. Poiché la sua immagine continuava a sfocarsi e a tornare a fuoco, mi tolsi gli occhiali dal naso e mi strofinai gli occhi con il fazzoletto, che rimase macchiato di sangue. Quando rimisi gli occhiali lei si stava voltando verso di me con il volume legato in pelle - una legatura arabescata - tra le mani. "Ecco, Mr Inchbold." Mi porse il libro. "Alla fine lo ha trovato. Il labirinto del mondo." Non feci il minimo gesto per prendere il volume. Ormai diffidavo della sua abilità di coprirmi gli occhi; di farmi sentire come uno scolaretto maldestro. Non le avrei permesso di prendersi ancora gioco di me, mi dissi. E poi, a questo punto ero più interessato alla bottiglietta di veleno, che mi sembrava di aver visto più piena, poco prima. Ancora una volta mi venne-
ro alla mente le storie delle brave dame di Parigi e Roma e dei loro consorti avvelenati. Ma poi, sentendo i suoi occhi che fissavano intensamente i miei, le domandai, riluttante, dove lo avesse trovato. "Non l'ho trovato da nessuna parte," rispose, "perché non era mai andato perduto. Non nel senso che intende lei. È sempre stato a Pontifex Hall. È rimasto qui in casa, accuratamente nascosto, per quarant'anni." "Per tutto il tempo è stato in suo possesso? Intende dire che mi ha assunto per trovare un libro che..." "Sì e no," mi interruppe, aprendo la copertina. "La pergamena era in mio possesso, questo è vero. Ma le cose non sono così semplici. Prego..." Mi fece cenno di avvicinarmi. Al mélange di odori si era aggiunto un amaro aroma di mandorle. Nella luce incerta potei vedere l'ex libris applicato all'interno della copertina del volume: Littera Scripta Manet. "Venga qui, la prego. È arrivato giusto in tempo per assistere all'ultimo lavaggio." "L'ultimo lavaggio?" Nemmeno adesso mi mossi, mi limitai a osservarla mentre prendeva di nuovo il flacone e versava una misura di cristalli in un liquido che sembrava acqua. "Sì." Stava stappando un'altra bottiglia. "È in palinsesto. Sa cosa vuol dire, immagino. La pergamena è stata riscritta, per cui il testo va recuperato con mezzi chimici. È un processo delicatissimo. E anche assai pericoloso. Ma credo di aver finalmente scoperto i reagenti adatti. Ho prodotto il cianuro di potassio aggiungendo cloruro di ammonio a una miscela di grafite e potassa. Un processo descritto nel trattato di un alchimista cinese." Mi feci avanti, preso dalla curiosità quasi mio malgrado. Avevo già sentito storie di palinsesti, quegli antichi documenti scoperti nelle biblioteche dei monasteri e in luoghi simili: vecchi testi cancellati dalle pergamene sulle quali ne venivano scritti di nuovi. Era noto che gli scribi greci e latini riciclavano le pergamene ogni volta che ne rimanevano sprovvisti: cancellavano il testo precedente immergendo i fogli nel latte e poi strofinandoli con la pietra pomice prima di riutilizzare la superficie, ormai bianca, scrivendo di nuovo, così che l'un testo restava dormiente e nascosto tra le righe dell'altro. Ma niente mai scompare per sempre. Nel corso dei secoli, a causa delle condizioni atmosferiche o di varie reazioni chimiche, il testo cancellato a volte ritorna, appena appena leggibile, per trasmettere il proprio messaggio dimenticato di tra gli interstizi di un nuovo scritto. È accaduto così che numerosi libri antichi siano stati nascosti e poi ritrovati, secoli dopo: le amenità spensierate di Petronio inframmettendosi nel severo stoicismo di Epitteto, i priapeia insinuando i loro versi licenziosi tra le e-
pistole paoline. Littera scripta manet, pensai: la parola scritta, anche sotto la cancellatura, permane. Proteso in avanti, studiavo la pagina raggrinzita. Alethea aveva aperto ancora di più la finestra e ora stava forzando il tappo di un altro flacone, con l'etichetta "vetriolo verde". Era dunque così, mi chiesi, che Sir Ambrose si era imbattuto nel Labirinto del mondo? Tra le righe di un altro testo? Ero affascinato. Quale libraio non ha mai sognato di scoprire un palinsesto, un testo che per un millennio il mondo ha creduto perduto? "Inizialmente avevo provato con la galla di Aleppo." Stava mescolando con cura la soluzione. Tossii piano nel fazzoletto. L'odore amaro si era fatto ancora più forte. "Il tannino doveva aver morso a fondo la pergamena anche una volta disciolta la gomma arabica. Pensavo che una tintura di galle pestate potesse riportarlo in superficie ma..." "Tannino?" Stavo cercando di ricordare tutto quello che sapevo riguardo all'inchiostro, che non era molto. "Ma l'inchiostro sarà fatto con il carbone, no? Una mistura di nerofumo o polvere di carbone. Era così che i greci e i romani fabbricavano il loro inchiostro. Quindi una galla di quercia non le sarà di grande aiuto se intende..." "Questo è vero," mormorò con aria assente. "Ma questo testo non è stato scritto dai greci o dai romani." China sul volume, stava cospargendo di una tintura la superficie della pergamena, sulla quale vedevo i caratteri dello scritto, che poteva essere latino, o forse italiano, tracciati in nero. I suoi capelli vennero mossi dal vento e la porta si chiuse sbattendo. "È stato scritto molto più tardi." "A Costantinopoli?" "No, nemmeno a Costantinopoli. Vorrebbe aprire la porta, le spiace? Il cianuro diventa tossico quando emana vapori. Poi ho provato con un sale ammoniaco deliquescente," continuò, aggiungendo un'altra goccia. "Ho preparato una soluzione riscaldando cloruro di ammonio e sciogliendone i vapori in olio di vetriolo. Pensavo che se il tannino non si riusciva a recuperare, forse il ferro sì. Il ferro dell'inchiostro doveva essersi eroso col tempo, ma speravo che sarebbe stato possibile restaurarne il colore. Ma anche questo metodo è fallito. La cancellatura, si direbbe, è stata fatta fin troppo bene. Lei capisce che il processo ha richiesto una enorme quantità di tempo. Complessivamente mi sono occorse varie settimane. Un gran numero di lavaggi successivi." "Ed è per questo che sono stato assunto," mormorai. Cominciavo a sentirmi male; riuscivo a stento a reggermi in piedi. "Come specchietto per le
allodole. Come una pedina." "Una diversione." Un'altra goccia venne aggiunta. Mi avvicinai barcollando alla finestra, urtando la sua sedia. Alethea, china sul volume, non parve accorgersene. "Mi ha procurato diverse settimane di tempo prezioso," disse. "Vede, non tutte le cose che le ho detto quando eravamo a Pulteney House erano menzogne. C'è davvero un acquirente per la pergamena, qualcuno disposto a pagare una somma considerevole. Ma c'è anche chi come il nostro nuovo Segretario di stato - vorrebbe impadronirsene senza sborsare un quattrino. Penso che fossero uomini suoi quelli che le hanno fatto visita l'altra notte." Feci cadere il telescopio dal treppiede liberando il vano della finestra. Una pedina. Una diversione. Ecco che cosa ero stato - niente di più. La testa mi girava come nella cripta della Rolls Chapel. Cominciò a ricapitolare nello stesso tono svagato l'intera grottesca messinscena - il messaggio cifrato, i graffiti, gli oggetti nella caffetteria, il volume di Agrippa, il catalogo dell'asta. Ogni cosa disposta perché io la trovassi. Tutto organizzato per portarmi sempre più lontano da Pontifex Hall e dal Labirinto del mondo. E per portare anche altri fuori strada. Perché altrimenti mi avrebbe spedito le sue missive tramite il General Letter Office, se non perché voleva che fossero aperte dagli agenti di Sir Valentine Musgrave? "Ma anche altri sono coinvolti," stava dicendo in tono distratto. "Esponenti di poteri ancora più insidiosi di quelli del Segretario di stato. Anche questi andavano dirottati. Il sapere occulto può essere una cosa pericolosa. Alla fine perfino mio padre avrebbe voluto distruggere la pergamena. Era una maledizione, diceva. Troppi erano già morti per lei." Ormai non ascoltavo quasi più. Sopraffatto dalla nausea mi sporsi dalla finestra e inspirai aria fresca a pieni polmoni. La pioggia sibilava sulla facciata, e da sopra la mia testa sentivo il rombo dell'acqua nelle tubature di scarico. Sotto di me potevo vedere la pioggia scorrere sugli spioventi scoscesi del timpano. Poi le lenti mi si appannarono, e quando le asciugai con il fazzoletto mi parve di intravedere una carrozza al di là dell'arco di pietra, in lontananza - qualcosa appena visibile tra il fitto fogliame e la nebbia che si infittiva. Ma in quel momento sussultai per un'esclamazione alle mie spalle. Mi voltai e vidi Alethea che teneva alto il libro. Tra due file di lettere nere un'altra riga, sfumata e indistinta, era apparsa in un colore celeste vivo. "Finalmente," disse. "I reagenti cominciano a fare effetto." "Che cos'è?" I caratteri azzurri, una serie di cifre e lettere, mi ballavano
davanti agli occhi. Ancora una volta la rabbia cominciò a dissiparsi e mi sentii avvinto dalla curiosità. "Il testo ermetico?" "No," rispose. "Un altro. Uno copiato da Sir Ambrose." "Il palinsesto è opera di Sir Ambrose?" Sentii la fronte imperlarsi di sudore. Mi lasciai cadere sulla sedia, tremando, sbigottito dalla svolta degli eventi. Lei annuì e portò di nuovo lo sgocciolatoio sulla pagina. "Fu lui a copiare il testo e poi a cancellarlo. Vede, aveva già scoperto due palinsesti a Costantinopoli. Uno era un testo di Aristotele, l'altro un commentario omerico di Aristofane di Bisanzio. Entrambi erano nascosti su pergamene dei Vangeli, ma la scrittura precedente aveva cominciato a riapparire. 'Scrittura fantasma', si chiama, come se il vecchio testo tornasse a perseguitare i suoi successori. Non gli ci volle molto a capire che sarebbe stato il travestimento ideale." "Travestimento?" "Sì. Nascondere un testo dentro un altro." Altri caratteri azzurri erano apparsi sulla pagina, sbavando sulla superficie come inchiostro su una carta assorbente, anche se da dove mi trovavo non riuscivo a leggere nulla. "Era il modo perfetto per trafugare un testo. Soprattutto se la nuova iscrizione era considerata priva di valore." "Che cosa intende dire? Trafugare un testo da dove?" Dal materiale contenuto nella Biblioteca imperiale di Praga, mi spiegò a poco a poco mentre continuava il suo lavoro, china sul tavolo come eseguendo una delicata operazione chirurgica. La cosa risaliva al 1620, all'inizio dei conflitti tra protestanti e cattolici. Federico era stato eletto re di Boemia un anno prima, un protestante su un trono cattolico, e così i suoi seguaci in tutta Europa avevano d'un tratto ottenuto l'accesso ai contenuti della magnifica biblioteca messa insieme dall'imperatore Rodolfo. I nunzi e gli ambasciatori tornati di corsa a Roma e dai principi alleati della Lega cattolica erano allarmati dalla piega presa dagli eventi, perché una biblioteca è sempre, come un arsenale, un luogo di potere. Dopotutto Alessandro Magno non progettava forse di istituire a Ninive una biblioteca che, affermava, sarebbe stata per lui strumento di dominio non meno delle armate macedoni? Oppure, quando un altro dei discepoli di Aristotele, Demetrio Filareo, divenne consigliere di Tolomeo I, monarca d'Egitto, che cosa consigliò al re di fare se non raccogliere tutti i libri che potesse sulla funzione regia e l'esercizio del potere? E così l'idea che la grande collezione di Rodolfo finisse nelle mani di rosacroce, cabalisti, hussiti, giordanisti - eretici
che da anni andavano minando il potere non solo degli Asburgo ma anche del papa - fece scattare campanelli d'allarme in tutta l'Europa. Così, mentre nell'estate e nell'autunno del 1620 gli eserciti della Lega cattolica marciavano su Praga, uno dei loro principali obiettivi, affermò Alethea, era la riappropriazione - e la soppressione - della biblioteca. "Decine di libri eretici erano conservati nella collezione," continuò, "titoli che erano stati mandati al rogo a Roma e messi all'Indice. Ora le cateratte stavano per aprirsi. Federico era appena arrivato da Heidelberg che studiosi di tutta Europa cominciarono a convergere in pellegrinaggio su Praga. I cardinali del Sant'Uffizio capirono che presto avrebbero perduto il controllo su quali libri e manoscritti era consentito leggere e su chi era autorizzato a leggerli. La conoscenza si sarebbe disseminata da Praga in una grande esplosione, dando forza a settari e rivoluzionari all'interno e all'esterno di Roma, creando ancora nuove eresie, ancora altri libri per i roghi e l'Indice. La biblioteca di Praga era diventata il vaso di Pandora da cui, agli occhi di Roma, stava per liberarsi ogni sorta di male." Ero seduto accanto alla finestra, lasciando che il vento mi rinfrescasse la fronte. La pioggia cadeva più forte che mai. Dal soffitto del corridoio cominciava a filtrare l'acqua e fiale e provette tintinnavano urtandosi sul tavolo. Libri eretici? Mi grattai la barba, cercando di capire. "Mali di che genere?" chiesi quando tacque chinandosi sulla pergamena. "Un nuovo testo ermetico che il Sant'Uffizio intendeva sopprimere?" Scosse la testa. "La Chiesa non aveva più nulla da temere dagli scritti di Ermete Trismegisto. Proprio lei questo non può ignorarlo. Nel 1614 l'antichità dei testi era stata contestata da Isaac Casaubon, che dimostrò al di là di ogni dubbio che si trattava di falsi di epoca più tarda. Alla fine, si sa, Casaubon, nonostante il suo ingegno, finì per darsi la sua magnifica zappa sui piedi. Con il suo libro mirava a confutare i papisti, il cardinale Baronius in particolare. E invece non fece altro che distruggere uno dei loro massimi avversari." "Perché il Corpus hermeticum era usato da eretici come Bruno e Campanella per giustificare i propri attacchi a Roma." "Loro e una schiera di altri pensatori. Già. E d'un sol colpo il professor Casaubon liquidò mille anni di magia, superstizione e, agli occhi di Roma, eresia. Una volta datati i testi, un testo in più non aveva valore, praticamente più alcun interesse per nessuno, salvo che per un pugno di astrologhi e alchimisti mezzo matti. E quindi rappresentava il travestimento perfetto."
"Travestimento?" Cambiai posizione sulla sedia, a disagio, sempre sforzandomi di capire. "Che cosa intende dire?" "Non c'è ancora arrivato, Mr Inchbold?" Mise da parte il sottile volume, e prima che il vento ne sfogliasse le pagine vidi che la metà superiore del primo foglio era ormai tutta coperta della scrittura azzurra, fantasma di un testo anteriore richiamato in vita dai suoi tossici intrugli. Tamponò delicatamente l'inchiostro con un foglio di carta assorbente e poi chiuse la copertina. Il vento aveva cominciato a sibilare nei colli delle bottiglie, levando un coro soprannaturale. Una tegola smossa rintoccò contro la grondaia e cadde al suolo. La finestra si chiuse sbattendo. Alethea spinse indietro la seggiola e si alzò dal banco da lavoro. "Il labirinto del mondo era solo la riscrittura," disse infine. "Solo il testo di superficie. Era un falso come gli altri, un'invenzione usata da Sir Ambrose per occultare un altro testo, un testo molto più prezioso. Uno a cui i cardinali del Sant'Uffizio erano interessati personalmente." Tappò accuratamente il flacone del cianuro. "E anche molti altri." "Quale testo? Un'altra eresia?" "Sì. Una eresia nuova. Perché se un mondo moriva, nello stesso 1614 ne nasceva un altro. Nel medesimo anno in cui Casaubon pubblicava il suo attacco al Corpus hermeticum, Galileo dava alle stampe tre lettere in difesa del suo Istoria e dimostrazioni, che era stato pubblicato a Roma l'anno prima." "Il suo lavoro sulle macchie solari," annuii, perplesso. "L'opera in cui per la prima volta difende il modello copernicano dell'universo. Ma non vedo quale..." "Nel 1614," proseguì lei ignorandomi, "Tolomeo l'egiziano era ormai sconfitto insieme con Ermete Trismegisto, il suo conterraneo. Insieme, i due erano responsabili di oltre mille anni di errori e illusioni. Ma i cardinali e i consultori di Roma erano meno disposti ad accettare la caduta dell'astronomo che dello sciamano, e così le lettere che Galileo pubblicò nel 1614 rappresentano un appello rivolto a loro perché leggano la Bibbia per trarne lezioni morali, non astronomiche, perché continuino la loro pratica di dare delle Sacre Scritture una interpretazione allegorica là dove contrastano con le scoperte scientifiche. Tutto invano, ovviamente, visto che l'anno dopo una delle lettere fu portata davanti all'Inquisizione." "Dunque si tratta di uno dei testi pubblicati da Galileo?" Ricordavo la traduzione di Salusbury del Dialogo, il volume responsabile della persecuzione papale subita dall'astronomo, quello il cui contenuto Galileo era stato
costretto a ritrattare. "Quello soppresso da Roma quando nel 1616 il Sant'Uffizio mise al bando il copernicanesimo?" Scosse la testa. Era accanto alla finestra con la mano posata lievemente sul telescopio, che aveva raccolto e riposto con cura sul treppiede. Attraverso i vetri appannati vidi che la carrozza che arrancava nel fango si era un po' avvicinata. Più accosto alla casa potevo distinguere oltre la cortina della pioggia i contorni mal distinti del labirinto di siepi; anche da quell'altezza appariva irrimediabilmente confuso, un interminabile ginepraio di false scorciatoie e vie senza uscita. "No," rispose, prendendo un piccolo secchio dal tavolo da lavoro e dirigendosi verso il corridoio. "Questo specifico documento non fu mai pubblicato." "No? E che cos'è, allora?" L'acqua non gocciolava più dal soffitto: cadeva in un filo contino. La seguii con lo sguardo mentre si chinava e vi poneva sotto il recipiente, nel centro della pozzanghera, e poi si raddrizzava. "La pergamena per il momento reggerà," disse. "Continuiamo altrove la nostra conversazione." Lanciai un'ultima occhiata dalla finestra - la vettura era scomparsa dietro un filare di alberi - e la seguii fino in cima alle scale. Chi c'era a bordo? Sir Richard Overstreet? Improvvisamente mi sentii ancor più a disagio. Mi afferrai al corrimano e cominciai la discesa. Stavo per dire qualcosa, ma dopo due soli gradini lei si fermò e si girò su se stessa così repentinamente che le finii quasi addosso. "Mi chiedevo..." disse, guardandomi con una sorta di avido divertimento. "Quanto sa della leggenda dell'Eldorado?" CAPITOLO 8 L'odore della biblioteca contrastava nettamente con quello del laboratorio. Tutto, in quella sorta di antro ciclopico, era esattamente come lo ricordavo, e in più, ora, nell'aria piacevolmente muschiata si avvertivano gli aromi a me ben noti dell'essenza di legno di cedro e della lanolina, insieme con il profumo resinoso del legno nuovo, perché alcuni scaffali erano stati riparati e la ringhiera della balconata sostituita. L'odore mi ricordava il mio negozio, perché sempre i profumi ci riportano al passato più acutamente e rapidamente di ogni altro stimolo fisico. Improvvisamente sentii la stessa fitta di nostalgia che avevo provato l'ultima mattina passata alla Taverna
della Mezza Luna. Sembravano anni, non giorni, dall'ultima volta che avevo visto casa mia. Alethea mi stava facendo segno di accomodarmi su una delle sedie imbottite ricoperte di pelle accanto alla finestra. Anche queste erano nuove, come il tavolo di noce che le separava e il tappeto, annodato a mano e con tanto di scimmie e pavoni, su cui posavano. Attraversai la stanza e docilmente mi misi a sedere. Di Phineas non c'era traccia. Anche la sua scia di sangue era scomparsa. Per un attimo ebbi la sensazione che quel mortificante alterco potesse essere stato solo il prodotto della mia fantasia febbricitante. Accavallavo e scavallavo le gambe, aspettando che Alethea parlasse. A quei tempi sapevo qualcosa, non moltissimo, del mito dell'Eldorado, di quella chimera che per quasi un secolo aveva attirato innumerevoli avventurieri nell'insidioso labirinto dell'Orinoco. Ne parlano cronisti della conquista spagnola come Fernando de Oviedo, Cieza de Leòn e Juan de Castellanos, le cui opere avevo brevemente consultato al mio ritorno da Pontifex Hall, e che fornivano tutti versioni contrastanti di quella storia. Voci sull'Eldorado erano arrivate all'orecchio dei conquistadores subito dopo la conquista del Perù a opera di Francisco Pizarro, nel 1530: una città d'oro governata da un valoroso comandante monocolo, el indio dorado, che usava pitturarsi tutte le mattine il corpo con la polvere d'oro raccolta nell'Orinoco, o forse nel Rio delle Amazzoni... o forse in uno dei cento e cento affluenti che serpeggiavano in mezzo alla giungla. Gli spagnoli furono ammaliati da queste voci e nel 1531 un capitano, Diego de Ordas, ricevette dall'imperatore Carlo V la capitulación di risalire l'Orinoco alla ricerca di questo novello Montezuma e della sua città d'oro. Il fatto che non ne trovasse traccia non scoraggiò altri aspiranti scopritori, e nel corso dei decenni che seguirono i conquistadores si avventurarono uno dopo l'altro nella giungla come i cavalieri erranti dei romanzi cavallereschi così popolari a quell'epoca. Uno di essi, un uomo chiamato Iménez de Quesada, torturava tutti gli indios in cui si imbatteva bruciando loro le piante dei piedi e versando grasso di maiale fuso sui loro ventri. Così sollecitate, le sue vittime gli raccontavano storie di una città d'oro - chiamata anche "Omagua" o "Manoa" - nascosta nel mezzo della giungla della Guiana, o forse anche, come Tenochtitlàn, nel mezzo di un lago. Ma Quesada non trovò nulla; e nulla trovò anche il marito di sua nipote, Antonio de Berrío, un veterano delle esplorazioni dell'Orinoco e dei suoi affluenti, che era stato catturato da Sir Walter Raleigh nel 1595, in occa-
sione del sacco di Trinidad. Quello stesso anno l'inglese, infiammato dalle leggende, risalì l'Orinoco con cento uomini e provviste per un mese. Solo quando le scorte si esaurirono tornò in Inghilterra, portando con sé il figlio di un capo indio e lasciandosi dietro, a esplorare il fiume, due dei suoi uomini più fidati. Uno di loro fu catturato dai soldati spagnoli, ma non prima che avesse avuto modo di spedire in Inghilterra una grossolana mappa su cui era segnato il presunto sito di una miniera d'oro alla confluenza dell'Orinoco con il Caronì Ma bisognò attendere vent'anni prima che Raleigh tornasse in Guiana con la sua disastrosa ultima spedizione, in compagnia questa volta di Sir Ambrose Plessington. La cameriera, Bridget, era entrata nella stanza con una teiera fumante il cui aroma fragrante si diffuse nell'aria. Mi mordicchiavo il labbro inferiore mentre, appollaiato sulla seggiola, studiavo le file degli atlanti sopra di me. Potevo vedere la Universalis Cosmographia di Martin Waldseemüller e diverse edizioni della Geografia di Tolomeo, compresa quella di Gerardus Mercator. Alethea, colto il mio sguardo, depose la tazza e spinse indietro la sedia. "Alcuni di questi atlanti e di queste carte sono estremamente rari," disse, alzandosi in piedi. "Alcuni rappresentano i pezzi più rari e più pregiati dell'intera collezione. Questo, per esempio." In punta di piedi, raggiunse uno dei volumi, che poi depose con energia sul tavolo tra noi, facendo tintinnare le tazze. Con sorpresa notai che si trattava della copia danneggiata dall'acqua di Ortelius, il Theatrum orbis terrarum, proprio il volume che avevo esaminato nel laboratorio: quello da cui avevo tolto il messaggio cifrato. "Lo conosce?" "Mi capita di venderne delle copie, sì," risposi mentre lei apriva la copertina di tela. Piegai il capo cercando di leggere il colophon. "È l'edizione di Praga?" "Sì, pubblicata nel 1600." Prese a sfogliarne le pagine raggrinzite. "È estremamente raro. Fu stampato solo in pochissimi esemplari. Ortelius si era recato in Boemia su invito dell'imperatore Rodolfo. Purtroppo morì nel 1598, poco dopo l'arrivo a Praga. Alcuni medici affermarono che la causa della morte era stata un'ulcera al fegato, che come ci insegna Ippocrate è quasi sempre fatale nelle persone anziane." Lentamente voltò una delle pagine. "Altri ritennero che il grande Ortelius fosse stato avvelenato." "Davvero?" Sbirciai l'atlante, ripensando alle illazioni di cui mi aveva parlato Mr Barnacle. Il volume ora era aperto su una pagina che mostrava la scritta "MARE PACIFICUM" - proprio dove avevo trovato il messag-
gio. "Perché?" Cercavo di ricordare quello che mi aveva detto Mr Barnacle a proposito della navigazione tra le isole alle alte latitudini. "A causa del nuovo metodo di proiezione?" Scosse il capo. "Un metodo del genere non è stato ancora perfezionato. Come abbia avuto origine la voce non saprei dirlo, a meno che non sia stata l'invenzione di chi aveva assassinato Ortelius." "Dunque Ortelius fu assassinato." Annuì. "Dopo la sua morte le tavole su cui erano state eseguite le incisioni delle carte sparirono dalla bottega dello stampatore. O per meglio dire sparì una tavola, quella da cui fu tratta questa carta." Toccò con il dito il foglio rattrappito. "Vede, la carta del Nuovo Mondo nell'edizione di Praga del Theatrum orbis Terrarum è diversa da quella di tutte le altre edizioni." Stavo ancora scrutando la pagina, chiedendomi se dovessi prestare fede al suo racconto più che a quello di Mr Barnacle. C'era un elaborato cartiglio - "AMERICA SIVE NOVI ORBIS, NOVA DESCRIPTIO" - e una rappresentazione dell'Oceano Pacifico, illustrazioni complete di isole e galeoni con le vele gonfie di vento. Tutto sulla pagina appariva esattamente uguale a quella che avevo visto in quei sognanti pomeriggi da Molitor & Barnacle, comprese le scale di latitudine e longitudine. "La cartografia è un'arte speculativa," disse Alethea ruotando l'atlante di centottanta gradi sul tavolo per mettermelo di fronte. Tamburellò di nuovo con l'indice, questa volta al di sopra del cartiglio. "Guardi qui. Che cosa vede?" Sotto il suo dito scorsi una costellazione di una mezza dozzina di isole e la dicitura "Insulae Salomonis." Mi strinsi nelle spalle e sollevai lo sguardo. "Le Isole Salomone," risposi cautamente. "Esatto. Ma nessuno sa se le Isole Salomone si trovano effettivamente nel punto in cui le pone Ortelius. Anzi, nessuno sa nemmeno se esistono davvero o se sono solo il frutto della fantasia di Alvaro de Mendaña, che nel 1568 affermò di averle avvistate. Le battezzò Islas de Salomòn perché convinto che fossero le isole da cui re Salomone aveva estratto l'oro per il tempio di Gerusalemme. Ma re Salomone doveva essere un miglior navigatore di Mendaña, perché lo spagnolo non ritrovò mai più le isole. Fece una seconda spedizione alla loro ricerca nel 1595, ma senza fortuna. Il suo pilota, Quirós, ne compì una terza nel 1606, e da allora molti le hanno cercate. Ma si direbbe che siano sprofondate tutte nell'oceano, dalla prima all'ultima, come Atlantide. Restano introvabili come la Terra australis incognita, che Mendaña e Quirós avevano anche tentato di scoprire." Il suo di-
to era sceso lungo la pagina fermandosi alla sinistra del cartiglio, dove potei leggere la dicitura "TERRA AUSTRALIS." Il resto dello spazio, un vasto continente la cui costa correva lungo il duecentesimo meridiano della carta, era vuoto e privo di particolari geografici. "Un'altra terra mitica che Ortelius ha raffigurato." "Il continente descritto nella Geografia di Tolomeo," dissi, chiedendomi che cosa avessero a che fare quelle terre leggendarie con Galileo o con le biblioteche di Praga. "E anche in documenti arabi e cinesi. Le voci di una sua esistenza circolano da secoli. Gli spagnoli organizzarono diverse spedizioni per scoprirlo, sempre invano, anche se nel 1606 Quirós scoprì una terra, in realtà solo isole, cui diede il nome di Australia del Espírito Santo. Successivamente fu cercato dagli olandesi, con i medesimi risultati, finché alcune delle loro navi dirette a Giava finirono fuori rotta e toccarono terra lungo la costa di un'isola immensa protetta da scogliere di corallo. Venti anni dopo alcune loro navi esplorarono una costa che si estende dal decimo parallelo di latitudine al di sotto dell'equatore fino al trentaquattresimo. Sembrerebbe dunque che la Terra australis incognita sia qualcosa di più di un mito. E se esiste la Terra australis incognita, chi può dire che non esistano anche le Islas de Solomón?" Si protese in avanti e con l'indice tracciò una rotta attraverso il Pacifico sul lato destro del foglio. "Guardi qui. Vedrà che l'edizione di Praga contiene una variante di grande interesse." Guardai attentamente la pagina. La luce che proveniva dalla finestra rigata dalla pioggia era così fioca che dovetti sforzare la vista per individuarne l'immagine. Ma lì, a trenta o quaranta gradi di longitudine a ovest del Perù, una dozzina di paralleli a sud dell'equatore, nel mezzo del vasto Mare Pacificum di Ortelius, appariva una piccola isola rettangolare contrassegnata dalla denominazione "Manoa." Questo dettaglio non compariva in nessuna delle edizioni possedute da Mr Smallpace, di questo ero certo. "Ma io pensavo che Manoa fosse in Guiana o in Venezuela." "Come tutti. Per Ortelius invece era un'isola del Pacifico, la grande cavità lasciata sulla terra quando la luna se ne staccò. Si troverebbe a ovest del Perù e a est delle fantomatiche Islas de Solomón, sul duecentottantesimo meridiano a est delle Isole Canarie, che è il punto che Ortelius, seguendo Tolomeo, usa come suo meridiano primo. Qui, almeno, è dove Manoa è posta nell'edizione di Praga del 1600." Si alzò e infilò nuovamente con ogni cura il volume nella libreria. "Vede, in nessun'altra edizione di Ortelius
compare Manoa," spiegò tornando alla sedia, "né nel Pacifico né altrove. Ecco che cosa rende unica l'edizione praghense. Ed ecco perché, ovviamente, Sir Ambrose la trovava così interessante." "Ma esistono altre carte di Manoa," protestai, ricordando la mappa di Raleigh, incisa ad Amsterdam da Hondius, che usavo esplorare con le dita rintanato tra gli scaffali del negozio di Mr Molitor. "Sì, ma era roba rozza. Manoa era collocata dappertutto sul continente. Ma dopo Mercatore i navigatori ebbero la possibilità di utilizzare la latitudine e la longitudine nel tracciare le loro rotte. Potevano mantenere una direzione rettilinea su lunghe distanze senza dover aggiustare continuamente le rilevazioni della bussola. Non avevano bisogno d'altro che di una riga, un compasso e una bussola. Un gioco da ragazzi." "Sì," annuii. "A parte il piccolo particolare che nessuno sa come si trova la longitudine in alto mare." "Già, questo è il punto," rispose lei, tornando alla libreria. "Trovare la latitudine è facile, anche al di sotto dell'equatore, dove la Stella Polare non si vede. Basta trovare l'altezza del sole a mezzogiorno per mezzo di una meridiana o uno strumento simile. Ma stabilire la longitudine è un compito complesso quanto la quadratura del cerchio." Era il secolare problema, lo sapevo, che sgomentava tutti i navigatori. La longitudine non è che un altro nome per indicare la differenza oraria tra un luogo e l'altro. In linea di principio il suo calcolo, da quello che mi sembra di aver capito, era un esercizio relativamente semplice. Su Londra come sulle Isole Salomone, come su ogni altro punto della terra, il sole raggiunge sempre la sua massima altitudine alle dodici, il mezzogiorno locale. Così se un navigatore nelle Isole Salomone potesse sapere, nel momento del suo mezzogiorno locale, l'ora esatta di Londra, potrebbe calcolare la longitudine della sua posizione in base alla differenza tra i due orari, giacché ogni ora corrisponde a quindici gradi di longitudine. Tutto bene, dunque, ma come ha qualcuno la possibilità di conoscere l'ora di Londra mentre si trova gettato dall'altra parte del mondo, sulle coste delle Isole Salomone? "Nemmeno gli antichi con tutta la loro sapienza furono in grado di risolvere il problema," stava dicendo Alethea. "Tolomeo nella sua Geografia discute il metodo di Ipparco di Nicea, che prevede l'osservazione delle eclissi lunari come mezzo per misurare le differenze nell'ora locale a oriente o a occidente di un dato punto. Poi Johan Wener di Norimberga" - indicò un volume sullo scaffale - "propone nella sua edizione di Tolomeo il metodo cosiddetto della distanza lunare, secondo il quale la luna e lo zodiaco
formano un orologio celeste che determina l'ora locale in ogni punto intorno al globo. Ma né l'uno né l'altro di questi metodi è efficace in mare aperto o in terre lontane, dove non è possibile trasportare un apparecchio affidabile per la misura del tempo." "E questo è il motivo per cui Mendaña e Quirós non riuscirono a rintracciare le Isole Salomone quando tornarono nel Pacifico." "Esattamente. Perché nel 1568 Mendaña le registrò al 212° meridiano a est delle Canarie, per poi scoprire, tornandovi nel 1595, che localizzare il 212° meridiano era non meno difficile che individuare le isole stesse." "Insomma la carta di Ortelius è inservibile," dissi. "Non è più precisa di tutte le altre." Riprese il suo posto e versò altre due tazze di tè, una bevanda rara a quei tempi, che fino ad allora mi era capitato di assaggiare solo due o tre volte. Sembrava eccitarmi il sistema nervoso. La mano, mentre la allungavo a prendere la tazza, mi tremava. "Indubbiamente la scala della longitudine non è più che una congettura," rispose lei infine. "Ma l'isola? Anche quella è un'invenzione? E, in questo caso, perché la carta sarebbe stata soppressa?" "Ma poi, chi l'ha soppressa? Gli spagnoli?" "Sir Ambrose ne era convinto. E avrebbero avuto una buona ragione per farlo. Praga era l'ultimo luogo al mondo dove il re di Spagna e i suoi ministri avrebbero voluto che un documento simile comparisse. I suoi collegi brulicavano di protestanti, ermetici ed ebrei, più ogni sorta di mistici e fanatici. Proprio quelli che, venti anni dopo, tanto terrorizzarono i cardinali del Sant'Uffizio. E così il grande Ortelius fu avvelenato e la mappa scomparve." Chiuse il libro e mi osservò attentamente. Sentivo qualcuno che attraversava l'atrio e la pioggia che sgorgava dalle grondaie. Una larga pozza d'acqua si stava raccogliendo intorno alla meridiana, e altra traboccava dal margine sbreccato della fontana. In lontananza, al di là dello stento frutteto, potevo vedere il pozzo e il laghetto, anch'essi debordanti, con la superficie rigonfia d'acqua butterata dalla pioggia e gorgogliante. "La storia potrebbe finire qui," riprese infine, "non fosse per un piccolo particolare. Riguarda una nave, Mr Inchbold. Un galeone spagnolo. Scoperto quasi per caso nelle acque dei Caraibi." Ora i tuoni erano più vicini e la pioggia frustava la finestra. "È probabile che nelle sue indagini l'abbia incontrato. Il suo nome era Sacra Familia."
Le strie dei fulmini erano seguite da tuoni forti come colpi di mortaio. Nel mezzo di uno dei boati più potenti Bridget comparve sulla soglia della biblioteca con una lampada a olio di pesce. La depose sul tavolo e portò via il vassoio del tè, strusciando le ciabatte sul pavimento. Anche Alethea aveva attraversato la stanza. Rimase per alcuni minuti indaffarata davanti agli scaffali, salendo su una scala a pioli e prendendo libri come chi coglie i frutti in un meleto. Ma poi tornò da me con una bracciata di volumi, che rovesciò a valanga sul piano del tavolo. Ne agguantai uno al volo prima che finisse a terra e vidi con sorpresa che si trattava di De la vérité de la religion chrétienne di Duplessis-Mornay, il testo di filosofia ermetica tradotto in inglese da Sir Philip Sidney. "... ripubblicato in nuove edizioni e traduzioni," stava dicendo lei. Gridava per vincere il fracasso della pioggia mentre i libri capitombolavano uno sull'altro e sul tavolo. "L'Apologia di Guglielmo d'Orange, la Distruyción de las Indias di Barolomé de Las Casas, le Relaciones dell'informatore inglese Antonio Pérez. Mentre frugava nel mucchio, lo sguardo mi cadde sul trattato di Las Casas, il sacerdote spagnolo che aveva catalogato le atrocità commesse ai danni degli indios dai conquistadores. "Perfino gli stampatori e i librai si erano uniti alla lotta contro la Spagna. Questi libri, e dozzine d'altri, venivano introdotti clandestinamente in ogni angolo dell'impero spagnolo per sollevare bande di ribelli e altri malcontenti in Catalogna, Aragona, Calabria. Furono tradotti perfino in arabo e portati in Africa perché venissero letti dai mori espulsi dalla Spagna da Filippo III. Ora migliaia di mori, come i ribelli di Calabria e Catalogna, erano pronti a prendere le armi e battersi ancora una volta con i castigliani. Solo che questa volta tutta l'Europa protestante si sarebbe battuta al loro fianco." Fu così che mi trovai ad ascoltare una seconda volta la storia della spedizione di Kaleigh, il racconto dei complotti di vescovi- e principi che in ogni parte di Europa tramavano piani segreti per un coup de main contro il loro comune nemico, il re di Spagna. Ma in questo racconto re Filippo aveva perso qualcosa della sua onnipotènza. Le spie inglesi e olandesi nel porto di La Coruna e nei vicoli bianchi di calce di Cadice riportavano che la sua marina non si era ancora ripresa dalla distruzione della cosiddetta Invincible Armada, la cui perdita, nel 1588, era stata solo il primo refolo di vento che preannunciava la fine del suo vasto impero. I galeoni non potevano essere rimpiazzati né riparati perché le riserve di legname della peni-
sola iberica erano in via di esaurimento e perché comunque non c'era denaro per costruirli - le spie della Camera di Commercio avevano riferito che le importazioni di lingotti di argento dall'America erano calate da novemila tonnellate l'anno a poco più di tremila. Di conseguenza Filippo era pesantemente indebitato con gli hombres de negocio, come decine di mercanti e armatori a Siviglia che altro non potevano che restare a guardare impotenti mentre il prezzo dell'argento crollava e il traffico dei galeoni sfumava. Una guerra in Europa - che la Spagna non aveva alcuna possibilità di vincere avrebbe messo fine definitivamente ai convogli spagnoli che due volte l'anno riversavano in Andalusia i tesori del Nuovo Mondo dopo una traversata oceanica di cinquemila miglia. Mancava solo la scintilla che desse fuoco alle polveri - una scintilla che doveva essere provocata da Sir Ambrose e dai soldati imbarcati sul Philip Sidney. Ma la missione così ben progettata finì in un disastro. Ascoltai nuovamente il racconto di come l'audace impresa naufragò a causa di informatori nel Navy Office e a bordo dello stesso Destiny. Almeno, l'impresa fallì finché il Philip Sidney, facendo vela verso casa nello stretto tra le Isole Sottovento, si imbatté nei resti della flotta messicana, che era stata dispersa lungo la costa di Cuba da una delle violente tempeste che i navigatori spagnoli chiamano huracàn. Quello che seguì fu un caso, un raro colpo di fortuna nel mezzo di un disastro. In realtà, Sir Ambrose avrebbe potuto non incontrare affatto il convoglio, spiegò Alethea, non fosse stato per un singolare odore avvertito dai marinai mentre il vascello si trovava a una decina di leghe a ovest del porto spagnolo di Santiago de Cuba. "Un odore?" Ricordavo la descrizione di Biddulph dell'aromatico galeone. "Che genere di odore?" "Profumo," rispose lei. "Sull'intero mare si sentiva odore di profumo, o forse incenso. Riesce a immaginare una cosa tanto strana? Inizialmente gli uomini del Philip Sidney pensarono che non fosse altro che un'allucinazione, così comuni in mare. Molte hanno a che fare con i colori, come quando le onde appaiono così verdi che la nave sembra avanzare su una prateria. Ma nessuno a bordo del Philip Sidney aveva mai avuto notizia di un'allucinazione di quel genere, neppure Sir Ambrose. Poi, mentre il profumo si faceva più intenso, un gabbiere avvistò qualcosa all'orizzonte." "Un galeone," mormorai. "Una flotta di galeoni," precisò lei. Era il convoglio dalla Nuova Spagna, a tre settimane di navigazione da Veracruz: quattordici galeoni che facevano rotta a nord-nordest in mezzo a
mari burrascosi verso il Tropico del Cancro e poi per latitudini più alte, tra i 40 e i 60 gradi, per sfuggire agli alisei nordorientali. Quattordici navi isolate nelle acque mosse che si incanalavano con i loro gorghi tra Hispaniola e Cabo Maisí, molte così cariche che i boccaporti delle batterie inferiori erano quasi completamente sotto il livello dell'acqua. Si sarebbero già dovute ricongiungere con la armada de la guardia de la carrera, che le avrebbe scortate fino alle Canarie, ma la squadriglia non era arrivata, probabilmente a causa degli stessi venti che nei due giorni precedenti avevano tempestato il convoglio lungo la costa di Cuba. Ora tredici delle navi erano addossate l'una all'altra in formazione, come un branco di balene, mentre doppiavano il capo ventoso, ma la quattordicesima, che sbandava paurosamente, era già rimasta indietro di diverse lunghezze. "Il Sacra Familia" suggerii, vedendo che si era fermata. Annuì lentamente. "Sulle prime il galeone parve niente di più che un'apparizione. Via via che il Sidney si accostava lo strano profumo si faceva più intenso e i marinai potevano vedere che la nave appariva di un colore dorato, come se alberi e pennoni rilucessero al sole o illuminati da un fuoco di Sant'Elmo. Solo la minaccia di un giro di chiglia poté convincere i più superstiziosi tra i marinai a restare ai loro posti. Ma Sir Ambrose riconobbe l'odore quasi immediatamente. Non era un profumo, capì, ma sandalo, un albero il cui olio è usato per fabbricare saponi e incensi. Un albero il cui legno dorato, si dice, fu usato da re Salomone per costruire il Tempio di Gerusalemme." Il Sacra Familia trasportava un carico di legno di sandalo? Ero perplesso e deluso al tempo stesso dalla rivelazione, dalla riduzione di quel magico vascello, argomento di tanti miti, a una nave da carico, a una semplice carretta transatlantica. "Non un carico, benché in un primo momento anche Sir Ambrose lo avesse pensato. Ma poi vide che, nonostante l'andatura lenta, il galeone procedeva alto sull'acqua. Capì che il Sacra Familia non portava né legno di sandalo né argento o oro delle miniere della Nuova Spagna; nessun carico di alcun genere, anche se viaggiava con la flotta messicana. Vede, il profumo veniva dal galeone stesso," spiegò. "Dal fasciame e dall'alberatura. Era stato costruito da prua a poppa interamente con legno di sandalo, proprio come il Tempio di Salomone. E allora, immediatamente, Sir Ambrose dimenticò le altre tredici navi e diede l'ordine di inseguire invece quel galeone." Tredici navi stracariche dell'argento delle miniere messicane, o forse di
lingotti d'oro, o di balle di seta cinese proveniente da Manila. Cercai di immaginare la scena. Il convoglio più ricco della terra che si muoveva senza scorta sulle cinquemila miglia di oceano insidioso verso il Golfo di Cadice. E Sir Ambrose le ignorò - ignorò la sua sacra missione - per dare la caccia a un'altra nave, una nave con la stiva vuota. Un galeone fatto di legno di sandalo. "Un legno di quel genere poteva andar bene per il Tempio di Salomone," aveva ripreso Alethea, "ma non è molto adatto per una nave. È così pesante che sta a malapena a galla. Questo spiega perché era così arretrato rispetto agli altri galeoni. E spiega anche perché il Philip Sidney lo raggiunse così facilmente. Era come uno stallone arabo che gareggia con un mulo." "Ma perché di sandalo? Perché non di quercia o di teak?" "Questo fu esattamente ciò che Sir Ambrose si domandò. E poi capì. Capì che il Sacra Familia non era partito da Veracruz con il resto della flotta. Capì immediatamente che veniva da molto più lontano." "Dal Pacifico," mormorai, pensando ai ratti del bambù di Biddulph, alla sua convinzione che la nave fosse passata per lo Stretto di Magellano, lo stretto passaggio tra secche e isole in fondo al globo. "Sapeva che originariamente il galeone doveva essere stato costruito con il legno di quercia," stava continuando, "perché i cantieri di La Coruna non avrebbero mai usato il sandalo per una nave, per quanto esaurite fossero le riserve di legname. Ma a un certo punto un costruttore navale doveva essersi trovato senza alternative. Sir Ambrose capì che il Sacra Familia aveva fatto naufragio e poi ricostruito dai suoi carpentieri in una terra dove non crescevano querce, una terra dove l'unico legname a disposizione era quello del sandalo. Doveva trattarsi di una delle isole del Pacifico, l'unico luogo dove si trovano foreste di sandalo." Ma neppure Sir Ambrose si rese conto della portata del fatto finché, un'ora prima del tramonto, il galeone fu raggiunto. Accadde a una lega dalla desolata costa orientale del Cabo Maisí. Il Sacra Familia non aveva scampo, anche senza carico, perché il Philip Sidney era la più formidabile nave da guerra che avesse mai solcato i mari, e il suo equipaggio era ben preparato alla battaglia. A un comando di Sir Ambrose i soldati cominciarono a ingrassare le punte delle loro picche e i tiratori si arrampicarono ai posti di combattimento armati di moschetti e serpentine. Sotto coperta gli artiglieri riempirono di polvere le cartucce di legno e approntarono i pezzi prima di arrostire sui bracieri, come enormi caldarroste, le palle di cannone. Ma la
battaglia finì quasi prima ancora di cominciare, perché il Sacra Familia non era in condizioni né di combattere né di fuggire. Le sue polveri erano ancora bagnate per la tempesta e lo scafo era così incrostato e carico di quell'alga che i portoghesi chiamano sargaço che il timone si muoveva solo con enorme fatica. La nave inglese era arrivata a tiro di cannone nemmeno un'ora dopo averlo avvistato, e sparò con un pezzo da 32 libbre contro il rostro del galeone. Non avendo risposta, due bordate di mitraglia gli lacerarono le vele, per non dire della sorte che toccò agli uomini che si affannavano a fissare nuove vele nel vano tentativo di prendere il vento e fuggire. Il resto della battaglia durò meno di un'ora. I tiratori aprirono il fuoco dall'alto, mentre dai ponti venivano lanciate picche infuocate e frecce incendiarie. Una delle frecce si infilò in un boccaporto appiccando il fuoco nella tuga di prora, e si videro i marinai gettarsi di lì in mare. Poi altri uomini saltarono mentre l'incendio si diffondeva rapidamente lungo lo scafo. A questo punto la corrente stava spingendo il galeone verso il capo, verso una scogliera corallina sulla quale giaceva, come un impiccato tirato giù dalla forca, il guscio smantellato di un antico galeone il cui nome, Emperador, era ancora leggibile sullo specchio di poppa semimarcito. Il Sacra Familia lo raggiunse ben presto e si sfasciò in poche braccia d'acqua nel momento in cui le lance del Philip Sidney prendevano il mare con una squadra di arrembaggio di cinquanta soldati armati di scale di corda e rampini da arrampicata. Quei pochi spagnoli che non annegarono furono divorati dagli squali, ma non prima di aver gettato in mare o tra le fiamme il giornale di bordo del galeone, la sua dotazione di portolani, la rosa lignea di navigazione, un derroterro - qualsiasi cosa che potesse tradire il segreto della sua traversata. Alla fine solo i ratti sopravvissero al naufragio, enormi ratti del bambù e abbandonarono la nave dirigendosi a nuoto verso le piantagioni di banani lungo la costa. "A questo punto s'era fatta sera, e un vivido tramonto preannunciava la fine delle tempeste. Sir Ambrose comandò lo scandaglio e ordinò ai suoi uomini di gettare l'ancora a un miglio dal capo, dove il Sidney sostenne la conclusione della burrasca. Il galeone bruciò per tutta la notte sulla scogliera, e al mattino fu mandata una squadra a controllare il relitto e raccogliere quanto ne era rimasto. Dovettero lavorare in tutta fretta. Le fiamme erano sicuramente state viste da terra e la notizia del naufragio avrebbe presto raggiunto Santiago, se l'odore non aveva già avvertito gli spagnoli, perché all'alba il vento era girato verso sudest e ora il fumo stava portando
nell'entroterra l'aroma del sandalo." "E fu trovato nulla?" "Per diverse ore, praticamente niente. Niente che potesse compensare gli uomini per quel rischioso lavoro nelle acque infestate dai pescecani. Non c'era traccia del diario di bordo e delle carte nautiche, documenti che il Navy Office avrebbe pagato generosamente. Per mezzodì del galeone era rimasto poco più che la chiglia, e quel che il fuoco aveva risparmiato il vento e le onde disperdevano. Sir Ambrose stava per ordinare ai suoi uomini di rientrare a bordo - era stata avvistata una fregata spagnola lungo la costa - ma un gruppo di loro tirò qualcosa fuori dalle acque basse. Era bruciacchiato e gonfio d'acqua, ma ancora intatto." "Sì?" Trattenevo il fiato. "Che cos'era?" "Un baule marinaro," rispose lei. "Ma non un baule qualsiasi, perché era fatto dello stesso legno della nave. Su una faccia era inciso lo stemma di un uomo chiamato Pinzón." "Il capitano," azzardai ansiosamente. Scosse la testa. - "Francisco Pinzón era il navigatore, e un navigatore famoso, diplomatosi alla Scuola di navigazione e cartografia di Siviglia. Era stato il pilota della spedizione di Quíros alla ricerca delle Isole Salomone nel 1606. Doveva aver gettato il cofano in mare con tutto il resto, ma quello aveva resistito e alle fiamme e ai flutti, perché il legno di sandalo è resistente quanto bello. Apertolo, si scoprì che era pieno di libri, perché a quanto pareva l'esimio señor Pinzón era un avido lettore. La gran parte erano storie di imprese cavalleresche, ma c'era anche un altro libro nella cassa insieme a quei racconti di cavalleria, un libro che raccontava una sua storia di ricerche pericolose e impossibili." "La copia di Ortelius." "Sì. L'edizione praghense nel Theatrum orbis terrarum, un libro così raro che a quei tempi nemmeno Sir Ambrose ne aveva mai visto un esemplare. Lo aveva appena aperto che improvvisamente uno degli uomini addetti al recupero si precipitò nella cabina. Nell'acqua si era trovato dell'altro." Un altro indizio: dozzine di frammenti di carta di un giornale di bordo che qualcuno aveva stracciato prima di gettarli in mare. I pezzi furono pazientemente raccolti dall'acqua, poi Sir Ambrose li fece asciugare e ricostruì accuratamente i fogli sullo scrittoio della sua cabina. Il compito gli prese buona parte del pomeriggio e fu reso più difficile dal fatto che molti frammenti mancavano o erano illeggibili. Inizialmente poté cominciare a orientarsi solo da poche parole: TOLEDO, LONGITUDO, JUPITER. A
questo punto la fregata spagnola era sì e no a una lega di distanza, e una flotta più numerosa era stata avvistata al largo di Hispaniola. Ma il Philip Sidney non si sarebbe fatto prendere. Salpò le ancore e poco dopo il calar della notte aveva raggiunto le isole delle Bahamas. Fu dunque qui, tra i palmizi sui banchi di sabbia, nelle acque buie infestate dagli squali e dai pirati, che Sir Ambrose finì di ricostruire quanto restava dei frammenti e, con essi, il segreto del Sacra Familia. "Un'altra mappa?" domandai. "No," rispose lei. "Qualcosa di molto più intricato di una mappa. Vorrebbe vederlo?" Si era alzata. "Quel che ne rimane è ancora abbastanza leggibile." Mi rimisi in piedi anch'io, ma il movimento mi fece di nuovo girare la testa. Con passo malfermo la seguii nell'atrio, inondato dalla luce soprannaturale del temporale. Il rumore della pioggia sulle finestre ora sembrava più forte e in alto il candeliere scampanellava chiassosamente. L'acqua aveva cominciato a piovere dalla scalinata di marmo e lungo le balaustre raccogliendosi in una pozza sul pavimento, ma Alethea non se ne accorse o non vi badò, perché mi condusse oltre la cascatella, tirandomi gentilmente per il braccio e dicendo qualcosa a proposito di un almanacco. La sua voce era quasi soverchiata dal rumore della pioggia. Il pavimento sembrava tremare sotto i nostri piedi mentre percorrevamo il corridoio, oltre la Sala Grande e il salottino della colazione. Improvvisamente si aprì davanti a noi come un abisso la scala per la cripta. "... transiti, eclissi, occultazioni," riecheggiava la sua voce contro le pareti fasciate di rame mentre scendevamo in un'aria di catacomba. Quando raggiunsi il fondo delle scale avvertii la presenza dell'acqua sotto i piedi. Sembrava che sgorgasse dal muro, perché quando lo sfiorai con la spalla lo sentii umida al tatto. Avanzavamo accompagnati da onde oleose. Ora Alethea si muoveva più rapida, sguazzando nell'acqua con i suoi stivaletti di pelle, ancora indifferente, si sarebbe detto, alla situazione. "Tutte le tavole sono state calcolate con la massima precisione." La sua voce sembrava lontana mentre avanzava precedendomi nell'oscurità, tenendo alta la lanterna cigolante. Da tutt'intorno veniva il suono dell'acqua invisibile che bisbigliava e sibilava serpeggiando agile tra le striature della pietra. "L'almanacco fu compilato, capisce, da Galileo in persona." Fu così che mi ritrovai nella stanza dei documenti, il luogo in cui mi ero imbattuto per la prima volta, attraverso i suoi tanti frammenti, nel miste-
rioso Sir Ambrose Plessington. Mi fermai sulla soglia. Il pavimento, come quello del corridoio, era allagato. Il fondo di giunchi gorgogliò sotto i piedi di Alethea che si diresse verso la cassa, ancora al sicuro, per il momento, sui suoi cavalletti. Mentre appendeva la lampada al gancio della parete vidi con stupore che l'acqua aveva un colore quasi cremisi. Una goccia di qualcosa che sembrava sangue piovve dal soffitto sulla mia mano. "Rosso veneziano," spiegò lei. "L'ho usato nella ricerca delle infiltrazioni sotterranee. Versavo il colorante nel laghetto per controllare la strada che prendeva. Sì, avrei potuto usare una tinta meno macabra, ma sta di fatto che ha svolto bene il suo lavoro e sono riuscita a individuare numerosi canali nascosti. Un ingegnere sta disponendo tubature e costruendo scarichi così che le sorgenti possano essere domate e l'acqua deviata e usata nelle fontane." Mi asciugai la mano sul farsetto e rimasi fermo e in silenzio mentre lei apriva il coperchio della bara e cominciava a frugare tra le carte. Potevo sentire il sordo ruggito dell'acqua che scavava le sue vie misteriose dietro la pietra. Domare simili acque? Non potevo non ammirare il suo ottimismo, l'intatta energia dei suoi sogni. Perfino nel mezzo di un simile disfacimento riusciva a restare aggrappata alle sue grandiose visioni della casa. Ma dovevo ammirarla, pensai, anche per altri versi. Perché ero arrivato a Pontifex Hall carico di collera e di odio e ora mi accorgevo, quasi con rammarico, che era impossibile provare avversione per lei. Forse mi illudevo quanto lei; forse anch'io mi abbandonavo al sogno e al desiderio, benché mi trovassi ' in mezzo all'acqua che saliva. "Eccolo." La voce mi riscosse dalle mie riflessioni. Si era voltata e mi stava allungando un foglio di carta, o di altro materiale, su cui erano stati incollati numerosi frammenti. Un ennesimo testo, un altro brano che raccontava la storia della vita di suo padre. Mentre lo inclinava alla luce della lampada distinsi tre o quattro colonne di numeri, ognuna interrotta da qualche lacuna qua e là. "Il mosaico del Sacra Familia," stava dicendo, "ricostruito da Sir Ambrose. Riesce a leggerlo? Le tabelle predicono le eclissi di ognuno dei satelliti di Giove." Sbattei le palpebre scrutando il foglio, più perplesso che mai. "I satelliti di Giove? Ma non capisco cosa abbiano a che vedere con..." Ma poi improvvisamente capii. Lo scritto si mise a fuoco e parve staccarsi dalla pagina. Il foglio era schizzato di rosso veneziano, ma avevo ap-
pena decifrato le parole JUPITER e LONGITUDO che una pietra saltò dalla parete come il tappo di una botte, seguita da un getto rossastro. Indietreggiai di un passo, sentendo l'acqua gelida che mi entrava nelle scarpe. Un'altra pietra cedette e ancora altra acqua colò nella cripta, raccogliendosi come vino versato intorno ai nostri piedi. Il cataclisma era iniziato. Per un momento paralizzante mi raffigurai l'intera parete che crollava e noi due che morivamo schiacciati sotto tonnellate di acqua e di detriti. Poi avanzai sguazzando e presi la mano di Alethea. "Via," dissi. "Via presto o annegheremo!" Ma lei si divincolò e raccolse a casaccio una bracciata di carte dalla bara, che ora oscillava in precario equilibrio sui suoi sostegni. "I documenti," disse. "Mi aiuti." Ma io non avevo intenzione di affogare in nome di Sir Ambrose Plessington. Mi feci avanti e, afferratala per un braccio, la trascinai verso la porta. Le carte che stringeva al petto si sparsero nell'acqua, e l'inchiostro si stinse e scorse sulle pergamene, disperdendosi nella corrente che montava. Potei vedere tra quelle carte inzuppate il foglio recuperato dal galeone - il segreto del Sacra Familia ancora una volta affidato alle acque. Impossibile recuperarlo una seconda volta. Agguantai la lanterna e, sempre stringendo il braccio di Alethea, forzai la porta aprendola un po' di più. L'acqua doveva aver fatto irruzione anche in altri punti del sotterraneo, perché nel corridoio era alta più di mezzo metro e scorreva in un torrente dalla direzione delle scale. Tenendo alta la lanterna cercai di distinguere le scale ancora lontane. Sentivo già i piedi intorpiditi. Udivo l'acqua che mulinava negli angoli e schiaffeggiava i muri rivestiti di rame. Mi voltai verso Alethea. "C'è un'altra via d'uscita?" "No." Stava ancora lottando per recuperare quanto restava delle carte di suo padre, che ora ci guizzavano davanti come trote in un ruscello, trascinandosi dietro code di sigilli e nastri. "Solo quella da cui siamo venuti!" Trascinandola via avanzai immerso fino alle ginocchia nella corrente. L'acqua ora era nera, non più rossa. Dopo qualche passo sentii la bara che cadeva dai cavalletti e si rovesciava. Cercai di affrettarmi. Quando sollevai la lanterna vidi che le altre porte della galleria si erano spalancate sotto l'urto tremendo delle acque. I loro affluenti alzavano e affrettavano il flusso. Presto i pezzi dei barili di legno e di vecchie funi si riversarono sul nostro cammino, seguiti dalle urne di qualche antico ossario. Poi fu la volta delle ossa stesse, teschi e femori galleggianti, caotici resti di cento monaci
che ci venivano incontro ondeggiando sull'acqua. Mi feci strada in mezzo a quei macabri relitti con Alethea sempre al seguito. Non avevamo più di un minuto, calcolai, per metterci in salvo, prima che la cripta fosse tutta sommersa. Quando l'acqua mi fu arrivata a metà coscia sentii un altro rumore, un frenetico cigolio che scambiai per lo scricchiolio del manico della lanterna finché vidi dozzine di ratti - bestie grasse e dal pelo arruffato - che nuotavano controcorrente usando come appiglio le urne e i teschi galleggianti. Il piede mi scivolò, poi persi la presa della lanterna, che piombò in acqua spegnendosi con uno sfrigolio. Nel buio non potevo vedere più niente, tranne, in lontananza, il vago barlume proveniente dall'alto. Cominciai a dibattermi per dirigermi da quella parte, ma ero così sfinito quando raggiungemmo le scale che riuscivo appena a tenermi in piedi. L'acqua ora mi arrivava al petto; dovetti fare tre tentativi prima di mettere il piede sul primo gradino sommerso. Allora mi aggrappai al corrimano e mi issai su finché, esausto e gelato, seguito da Alethea, raggiunsi la porta. Il corridoio era invaso dall'acqua, che andava ad aggiungersi al torrente che scorreva nella cripta sottostante. Ci dirigemmo barcollando verso l'atrio, passando accanto al salottino della colazione e alla Sala Grande. In questa l'acqua grondava dai cornicioni e dalle loro staffe, come dalle stalattiti di stucco imbiancate a calce. Un pezzo di intonaco era caduto dal centro del soffitto lasciando scoperte le assicelle sottostanti. Crepe a forma di fulmine avevano cominciato ad apparire sulle pareti, gettando altri calcinacci nell'acqua. Poi, al di sopra del frastuono dell'acqua, sentimmo una voce disperata - quella di Phineas - che chiamava Lady Marchamont. "I libri!" stava dicendo Alethea con l'acqua che rimbombava alle nostre spalle. "Dobbiamo salvare i libri!" Ma non avremmo raggiunto la biblioteca, almeno per il momento. Perché piombando nell'atrio trovammo Phineas voltato di spalle che si sforzava di bloccare la porta d'ingresso, come aveva fatto con me. Il battente tremava sui cardini sotto i colpi di un assalto furibondo dall'esterno. Phineas non ebbe miglior sorte questa seconda volta, perché dopo un ennesimo colpo la porta si spalancò con uno strepito di legno strappato e una folata di vento. Udii i pendagli di cristallo del candeliere tintinnare sopra di noi e sentii la mano gelida di Alethea nella mia. I nostri visitatori erano infine arrivati. Fu la loro carrozza, incorniciata nell'arco della porta, la cosa che notai per prima: una vettura dall'apparenza veloce con il tetto a cupoletta e quat-
tro cavalli che scalpitavano schiumando. Poi sentii lo scricchiolare della ghiaia e una figura robusta passò oltre l'uscio abbattuto, subito seguita da tre uomini in livrea nera e oro. "Sir Richard?" Alethea era rimasta immobile e a bocca aperta, paralizzata dallo stupore, accanto a me. Stava riandando con la memoria all'assassinio sul Pont Neuf? Subito mi lasciò la mano. "Cosa sta facendo qui? Che cosa...?" Il primo a reagire fu Phineas, che si avventò su uno degli uomini. Ma la competizione era disuguale, perché il suo avversario estrasse dalla cintola un corto pugnale con cui destramente parò due deboli colpi prima di immergere la lama con un gesto rapido ed esperto. Il valletto crollò al suolo senza un lamento mentre il suo assassino, un uomo grasso con le palpebre cascanti, deterse la lama dello stiletto sulle brache e avanzò verso di noi. "Sir Richard?" Alethea fece un passo malfermo verso di lui. Il suo viso s'era fatto bianco come un cencio. Ma Sir Richard non rivolse lo sguardo alla sua fidanzata stupefatta bensì a me. "Mr Inchbold," disse in tono disinvolto togliendosi il cappello con un ampio gesto. "Bene, bene, a quanto vedo non sono male informato. Lei è davvero pieno di risorse. L'ho vista con i miei occhi annegare nel fiume, anche se le mie fonti mi assicuravano del contrario. Posso sperare che altrettante risorse l'abbiano assistita nella sua ricerca?" Slacciò un bottone di ottone della giubba scoprendo la pistola infilata nella cintura. L'acqua mulinava tra i suoi piedi. "Dunque, dov'è?" Fece qualche passo nella nostra direzione. I tre vestiti di nero lo imitarono. "Il labirinto del mondo," disse nello stesso tono discorsivo. "Dov'è?" Ma mentre avanzava di un altro passo, portando la mano all'arma, il pavimento dell'atrio si inclinò come il ponte di una nave che affonda e tutti e quattro persero l'equilibrio. Si erano appena raddrizzati che il candeliere si staccò dalla catena con uno schianto infernale e piombò a terra, sbriciolandosi in mezzo a noi in mille pezzi. Sir Richard barcollò all'indietro, cercò di nuovo di impugnare la pistola. Sentii il vetro che mi schizzava contro le scarpe e un paio di mani sulla schiena che mi spingevano. "Via!" Era Alethea. "Fuggiamo!" CAPITOLO 9 Le quattro lune di Giove, anche Callisto, la più grande, hanno tutte una luminosità troppo debole perché le si possa vedere a occhio nudo. Per pri-
mo le avvistò Galileo, in una notte d'inverno del gennaio 1610, usando un telescopio a 32 ingrandimenti: quattro lune che orbitano intorno a Giove in periodi che vanno da un giorno e mezzo a sedici giorni e mezzo. Quattro nuovi mondi che nessuno, antico o moderno, aveva mai visto prima. Pubblicò la sua scoperta nel Sidereus Nuncius, il "messaggero delle stelle," e nel volgere di un anno gli avvistamenti furono confermati da astronomi gesuiti a Roma, oltre che da Keplero a Praga. Furono confermati anche da un astronomo tedesco, Simon Marius, che diede ai satelliti i loro nomi: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Fin dall'inizio la scoperta suscitò non meno polemiche che stupore. Non solo i quattro nuovi satelliti erano incompatibili con le Scritture, ma mettevano anche in discussione l'affermazione di Aristotele in De Caelo che le stelle sono fisse nei cieli. Come se non bastasse, contrastavano con la descrizione dell'universo data in un altro testo intoccabile, l'Almagesto di Tolomeo. Gli avversari di Copernico attaccarono il suo sistema: se la terra non si trova, come sostiene Tolomeo, al centro dell'universo, perché dovrebbe essa ed essa sola possedere una luna che le orbiti intorno? Ma le rivoluzioni delle lune di Giove ora portarono Galileo a riconoscere che le stelle potevano ruotare intorno a un pianeta così come il pianeta stesso ruota intorno al sole. Giove e i suoi quattro satelliti divennero, per Galileo, un modello della terra e della sua luna. Fu così che nel 1613 scrisse nell'appendice alle sue lettere sulle macchie solari - un'opera contro l'astronomo gesuita Christopher Scheiner - che le lune dimostravano al di là di ogni dubbio la verità del copernicanesimo. Ma per Galileo le lune avevano anche un'importanza pratica, un'importanza che mantenne segreta più ancora del proprio copernicanesimo. Galileo era un uomo estremamente pratico, si sa. Con le palle di cannone lasciate cadere dalla cima della Torre Pendente di Pisa confutò la teoria aristotelica del moto, e presso l'Auditorium Maximum di Padova insegnava ai suoi studenti i modi migliori per fortificare le città e costruire i cannoni. Ora capì che le lune di Giove - e, più specificamente, le eclissi che si verificano quando i satelliti passano nell'ombra del pianeta - potevano essere usate per risolvere l'antico problema di trovare la longitudine in mare aperto: un problema per la cui soluzione il re di Spagna aveva offerto un premio di seimila ducati e gli Stati Generali d'Olanda, per non essere da meno, di trentamila fiorini. La tregua tra le due nazioni, sottoscritta nel 1609, stava per scadere - sempre che non fosse stata prima rotta dalle cannonate. Una nuova guerra avrebbe visto spagnoli e olandesi scontrarsi tra le isole
del Pacifico oltre che sui tradizionali campi di battaglia europei. Anzi, arrivavano già notizie di alcune incursioni olandesi contro i presidios di Tierra Firme. Fu così che Galileo, fervente cattolico, calcolò una tavola delle eclissi e si rivolse a Filippo III tramite gli uffici dell'ambasciatore toscano a Madrid. Queste tavole prevedevano i momenti e le durate delle eclissi di ciascuna delle lune: eclissi che, come quelle della luna, sono visibili simultaneamente da tutti i punti della terra. A differenza delle eclissi lunari, però, queste si verificano con grande frequenza, quasi quotidianamente nel caso di Io. Giove e i suoi satelliti divennero quindi, per chiunque fosse in grado di prevederne le eclissi, un orologio celeste che segnalava la differenza oraria tra due punti qualsiasi della terra. "Alla metà del 1615 sia le spie del partito della guerra sia quelle degli Stati Generali già rivelavano nei loro rapporti da Madrid che le navi spagnole nel Pacifico avevano cominciato a sperimentare l'uso delle tavole di Galileo. Tavole che, ovviamente, erano segretissime." Alethea mi precedeva di due passi, facendo strada lungo un corridoio buio il cui tappeto era sommerso sotto due dita d'acqua. "Galileo non pubblicò mai una parola in proposito." "E il Sacra Familia era una di quelle navi?" Annuì. "Sir Ambrose, che aveva letto tutti i rapporti pervenuti a Lambeth Palace, riconobbe il nome della nave appena lo lesse sul suo quadro di poppa." Inseguiti da Sir Richard, eravamo fuggiti dall'atrio, sguazzando e scivolando, nella biblioteca, dove sul pavimento si era raccolta tanta di quell'acqua che i libri degli scaffali più bassi erano già semisommersi, mentre dozzine di quelli sui panchetti in alto erano finiti a terra. Già le copertine di cartone si stavano accartocciando e le pagine di carta degradando negli stracci di scarto di lino e canapa con cui erano fabbricate. Stavo chinandomi a recuperarne uno - futile gesto - quando Alethea mi ordinò di continuare a correre. Ci arrampicammo sulla scala a pioli fino alla galleria della biblioteca, poi la tirammo su perché i nostri inseguitori non potessero servirsene. Ora sentivo i loro stivali sulla scalinata mentre noi ci facevamo strada tra gli ostacoli - stucchi caduti e travi crollate - che ingombravano il dedalo di corridoi bui del primo piano. "Dunque il Sacra Familia aveva trovato il metodo per calcolare la longitudine in mare?" "No," rispose, affrettando il passo. "In mare il metodo di Galileo non funziona. Sulla terraferma o in un osservatorio, sì, è il metodo migliore fi-
nora ideato. Ma in mare è impossibile. È già abbastanza difficile usare un sestante, figurarsi un telescopio, su una nave in moto, soprattutto con le ondate che si trovano nel Pacifico. Giove si può inquadrare per qualche secondo, ma il minimo movimento del ponte rende impossibile puntare l'obiettivo sui satelliti, anche con le lenti speciali inventate da Galileo." Quanto mancava al momento in cui ci avrebbero catturati? Dall'altra parte delle pareti intonacate giungeva il rumore dei tuoni, o forse dei passi dei nostri inseguitori. O era l'acqua che compiva la sua opera di demolizione facendosi strada nel cuore dell'edificio? Il pavimento sembrava tremare sotto i nostri piedi. Zoppicando dal dolore, la seguivo a testa bassa. Ero fradicio e sfinito ma ancora curioso. Volevo sapere in nome di quale segreto stavo, con ogni probabilità, per morire. "Che cosa aveva scoperto il Sacra Familia?" "Un'isola di bambù, sandalo e oro," spiegò lei mentre svoltavamo un angolo. Mi aveva preso per mano. "Il Sacra Familia si arenò su un'isola spinta dagli alisei sudorientali che soffiano a nord del Tropico del Capricorno. O meglio, l'isola era coperta non d'oro ma di spato bianco, i cristalli bianchi che gli alchimisti maomettani chiamano markasita, una sostanza che non si trova mai in un luogo dove non sia presente anche l'oro. Era la stessa isola, Pinzón lo sapeva, raffigurata sull'edizione di Praga del Theatrum orbis terrarum. Vede, Pinzón era già passato per l'isola un'altra volta, nel 1595, nell'ultima spedizione di Mendaña alla ricerca delle Islas de Solomón." "Mendaña si lasciò sfuggire le Salomone e scoprì invece Manoa?" "O forse era proprio una delle leggendarie Islas de Solomón. Chi può dirlo? Mendaña e Pinzón potrebbero aver ritenuto la nuova isola, con tutto quel legno di sandalo e quello spato bianco, il luogo delle miniere di re Salomone. Ma naturalmente, come con le Islas de Solomón originali, nessuno fu più in grado di ritrovarla, anche se era segnata nell'edizione praghense del Theatrum." Prendemmo un altro angolo e passammo davanti a porte aperte da cui si vedevano scrittoi, cassette da scrittura, scrivanie. Anche i loro pavimenti erano sommersi dall'acqua; i pannelli di legno a mezza parete erano deformati e lungo i muri l'acqua scorreva a torrenti. Poi il corridoio piegava a sinistra. Dove stavamo fuggendo? "Ma ora era possibile determinare la longitudine dell'isola," mi stava dicendo Alethea. "Le tavole di Galileo riportavano l'ora esatta in cui ciascuna eclisse sarebbe stata vista a Toledo, che è il punto in cui gli spagnoli
fissano il loro meridiano fondamentale. Pinzón quindi registrò i momenti esatti delle stesse eclissi sull'isola. Quindi, una volta ricostruita con il legno di sandalo, la nave salpò per la Spagna, da dove una nuova spedizione sarebbe stata mandata a localizzare l'isola, usando le coordinate adatte. Ma ovviamente il Sacra Familia non arrivò mai a Cadice." Sentii la sua stretta serrarsi, poi, mentre svoltavamo a un altro angolo, aggiunse: "E anche se avesse raggiunto la Spagna, la sua informazione non sarebbe valsa più della carta su cui era scritta. Quello che era uno dei documenti più preziosi della cristianità, nel giro di un anno era diventato una pericolosa eresia i cui seguaci finivano al rogo." Perché se le lune di Giove erano controverse, le loro eclissi lo erano ancora di più. Galileo non le scoprì che nel 1612, due anni dopo il suo primo avvistamento dei satelliti. Aveva cominciato a calcolarne i movimenti nel 1611, ma usando le tavole tolemaiche anziché le copernicane - prendendo cioè la terra e non il sole come centro del moto di Giove. Solo quando ridefinì i calcoli in base alle tabelle copernicane scoprì che le lune venivano eclissate da Giove, la cui ombra oscurava la luce del sole riflessa dai satelliti. Prevedere queste eclissi era quindi un compito relativamente semplice, ma tali previsioni non potevano farsi ricorrendo alle tavole tolemaiche, che davano risultati errati sia nella previsione del momento in cui un'eclisse ha inizio sia sulla posizione del satellite rispetto alle stelle quando entra e poi esce dall'eclisse. Prevedere le eclissi - la chiave del segreto della longitudine - comportava quindi l'accettazione del copernicanesimo, un'eresia per cui Giordano Bruno era stato bruciato a Roma solo una dozzina d'anni prima. Quella che seguì fu una storia che conoscevo abbastanza bene: il trionfo dell'ignoranza sulla ragione, dell'ortodossia e del pregiudizio sulla ricerca. Nel 1614 Galileo scrisse a Cristina di Lorena una lettera in cui si ingegnava di rendere il copernicanesimo compatibile con le Sacre Scritture. Lo sforzo però fu vano, perché la lettera finì davanti all'Inquisizione, i cui oscuri meccanismi furono messi in moto dal papa Paolo V. I cardinali del Palazzo del Sant'Uffizio chiamarono Galileo a Roma e, dopo averlo esaminato, dichiararono il copernicanesimo dottrina eretica. Questo avveniva nell'inverno del 1616, poco dopo che il Sacra Familia era salpato per la sua lunga navigazione nei Mari del Sud. Quello di Galileo quindi non era soltanto un metodo poco pratico, al momento in cui il convoglio disastrato rientrò a Cadice: era anche eretico. "In altri tempi una simile eresia probabilmente non sarebbe stata altret-
tanto catastrofica. Venga, Mr Inchbold." Ora stavamo avanzando quasi alla cieca. Sentii altri ratti, un intero branco, che mi galoppava squittendo tra i piedi. "Ma nel 1616 incombeva la guerra tra i cattolici e i protestanti. Roma non poteva permettersi nuove minacce alla sua ortodossia, soprattutto se propagate da un personaggio del rilievo di Galileo. Isaac Casaubon poteva anche aver demolito il mito di Ermete Trismegisto, ma ora i filosofi ermetici di tutta Europa stavano aderendo a questa nuova e, agli occhi della curia romana, altrettanto pericolosa dottrina. L'astronomia aveva preso il posto degli insegnamenti del Corpus hermeticum come il massimo pericolo per l'autorità della Chiesa. Galileo subiva la censura e i suoi scritti inseriti dai gesuiti nel loro Index accanto agli scritti di occultisti come Agrippa e Paracelso. Il suo progetto fu abbandonato dagli spagnoli e la ricerca della longitudine in mare - e della misteriosa isola del Pacifico - fu interrotta." E così questa sarebbe potuta essere la conclusione della storia, disse, se a Londra non fosse arrivata la notizia che non tutto era andato perduto quando il Sacra Familia aveva fatto naufragio sulla scogliera. Esistevano altre copie della sua carta nautica. Sulle prime erano solo voci, spurie e inaffidabili quanto quelle riguardanti l'isola stessa, ma col tempo vennero confermate dalle spie presenti a Madrid e a Siviglia. Questi rapporti sostenevano che il Sacra Familia, dopo essere salpato da Veracruz, fece scalo con il resto della flotta messicana all'Avana, dove, temendo il maltempo, il comandante depositò copie delle sue carte, crittografate, presso la missione dei gesuiti di San Cristóbal - documenti successivamente spediti a Siviglia per essere custoditi degli archivi della Camera di Commercio. "Ma quello non era l'unico luogo dove erano conservati i documenti. Nel marzo 1617, mentre la flotta di Raleigh si preparava a far vela per la Guiana, l'arciduca Ferdinando di Stiria firmò un trattato con il re di Spagna in base al quale Filippo riconosceva Ferdinando come successore dell'imperatore Mattia in cambio del territorio tedesco dell'Alsazia e di due enclaves imperiali in Italia. Il trattato univa le due famiglie più potenti d'Europa, le due casate degli Asburgo, una di Spagna e l'altra d'Austria. I due grandi imperi ora avrebbero operato insieme, mettendo in comune gli eserciti e le conoscenze e, in tal modo, schiacciando una volta e per sempre i protestanti d'Europa. Tra i più potenti dei loro arsenali c'erano, ovviamente, le biblioteche." Una tegola rotolò rimbombando sul tetto sopra le nostre teste. Parte del soffitto aveva ceduto, lasciando scoperto le travi del sottotetto soprastante.
L'acqua cadeva a fiotti, tagliando a cascata il nostro cammino. Sentii un grido alle nostre spalle, poi Alethea mi afferrò la mano e mi trascinò sotto la cataratta. "Ma l'arsenale di Vienna era in pericolo," ansimai mentre emergevamo dall'altro lato. "Sì. Nel 1617 le armate protestanti del conte Thurn erano alle porte di Vienna." "E quindi la carta fu portata in Boemia?" "Insieme con decine di altri tesori della Biblioteca imperiale viennese. Fu posta negli archivi delle Sale Spagnole, che già contenevano i dati astronomici di Tycho Brahe e libri proibiti di Galileo, Copernico e altri eretici." Fu così che a Londra fu ideata la nuova trama: spedire Sir Ambrose al Castello di Praga nell'entourage dell'Elettore Palatino. Gli venne affidato l'incarico di recuperare quanti più volumi possibile dalla biblioteca delle Sale Spagnole, ma in particolare di trovare la mappa marittima e di riportarla in Inghilterra. Il coup de main decisivo contro il re di Spagna alla fin fine, sia pure in ritardo, sarebbe stato sferrato. "Ma il piano abortì," dissi io. "Il palinsesto non fu mai consegnato a Lambeth Palace." "No," rispose Alethea. "All'ultimo momento Sir Ambrose tradì il partito della guerra." "Lo tradì?" Ci eravamo fermati davanti a una porta chiusa, che Alethea stava cercando di forzare a spallate. "Ma perché? Mi sta dicendo che Sir Ambrose era un agente spagnolo?" "No, Sir Ambrose no. Ma sia al Navy Office sia a Lambeth Palace c'erano degli infiltrati. La notizia del palinsesto aveva già raggiunto Roma e Madrid." Stava spingendo con la spalla contro la porta, che si rifiutava di muoversi. Sentii il rintocco di una pendola da un punto dietro di noi, poi il suono di voci lontane. "Ven aquí!" "Vayamospor otro lado!" Gemendo, la porta cedette di qualche centimetro. Era la stessa porta, mi accorsi, che aveva bloccato la mia strada quella mattina di tanto tempo fa. Mi feci avanti per aiutarla a spingere. Un altro gemito e qualche altro centimetro, poi sentii una folata di vento e udii degli altri tintinnii frenetici: non speroni come avevo pensato inizialmente, ma le fiale e le provette sui
loro scaffali nel laboratorio. "Già il fatto che il palinsesto sia sopravvissuto è un miracolo," disse Alethea mentre un secondo dopo riuscivamo a entrare, indirizzandoci subito verso un altro corridoio buio. "Alla fine Sir Ambrose avrebbe voluto distruggerlo. Benché avesse rischiato la vita per metterlo in salvo, il suo ultimo desiderio fu che venisse bruciato." Un pezzo di intonaco cadde dal soffitto con un tonfo violento davanti a noi e le travi sopra le nostre teste scricchiolarono sotto una pressione immane. Avanzammo più cautamente lungo il corridoio. Altri detriti precipitarono, a meno di tre metri da noi. "I puritani volevano impadronirsi della carta," dissi io. "Standfast Osborne..." "Sì," mi interruppe. "E anche gli spagnoli. E ora a quanto pare anche il Segretario di stato ha appreso della sua esistenza. Sir Ambrose affermava che c'era una maledizione, e aveva ragione, perché dieci anni fa fu avvelenato dagli agenti spagnoli. Temevano che la vendesse a Cromwell, perché in quegli anni eravamo a corto di fondi e i puritani stavano preparando la loro guerra santa contro il re di Spagna. A quel punto, ovviamente, sapevo che Sir Ambrose non era il mio vero padre," aggiunse in tono smorzato. "Ecco chi sono questi uomini, è chiaro: agenti spagnoli. Gli stessi che hanno assassinato Lord Marchamont." Per un attimo pensai di non aver capito bene. "Sir Ambrose non era suo padre? Ma..." "Sì," rispose. "È il mio ultimo inganno. Il mio vero padre fu anche lui assassinato da agenti spagnoli - da Henry Monboddo, per la precisione. Avvenne molti anni prima. Vede, Henry Monboddo non era solo un mercante d'arte ma anche un agente spagnolo. Seppe del palinsesto dalle spie presenti a Praga. Ma Sir Ambrose era già al corrente del suo tradimento, per via del fallimento della spedizione all'Orinoco, e quindi usò mio padre come diversione. Mia madre, che aveva fatto tutto il viaggio da Praga con mio padre, morì poco dopo dandomi alla luce..." "Sua madre?" "... e io fui allevata da Sir Ambrose come se fossi sua figlia. Credo che lo ritenesse un obbligo, forse anche una forma di penitenza, per aver tradito mio padre insieme con gli avidi duchi e vescovi del partito della guerra. Mio padre era un boemo, un uomo gentile dedito ai libri e alla cultura. Ma Sir Ambrose sentiva che non poteva fidarsi di lui perché era cattolico." Le voci riecheggiavano nel labirinto di corridoi dietro di noi. Alethea ora
aveva affrettato i suoi passi. Scavalcammo un arazzo finito a terra e passammo davanti a una camera la cui finestra si illuminò di un lampo. Vidi, da quella finestra, i filari dei tigli che si allungavano in lontananza. "Caray!" "Por Dios! Las aguas han subido!" Il corridoio svoltava a sinistra e ci trovammo a sguazzare in un salone vasto e completamente vuoto. Mi parve di udire un colpo di pistola alle mie spalle, seguito dallo schianto di legno scheggiato. Giusto in mezzo alla sala il mio piede storto scivolò sulle mattonelle e finii a capofitto nell'acqua. In pochi secondi ero di nuovo in piedi, precipitandomi, ne ero certo, verso un'orribile morte. "Fui allevata a Pontifex Hall," continuò Alethea come se non si rendesse conto del pericolo, "e fu da Sir Ambrose che appresi tutto quello che so. Eravamo come Miranda e Prospero sulla loro isola, in attesa della tempesta che avrebbe gettato gli usurpatori sulla sua sponda. Col tempo mi parlò anche del palinsesto e della sua storia. Voleva che fosse distrutto, come ho detto, e io sarei stata pronta a eseguire la sua volontà. Ma prima mio marito, poi Sir Richard, me ne dissuasero. Il documento andava venduto, capisce. Me l'avrebbero pagato diecimila sterline. Sir Richard avrebbe fatto da intermediario. Chi fosse l'acquirente lo ignoravo, né mi riguardava. Volevo liberarmi del palinsesto, ecco tutto. Di Sir Richard mi fidavo. Dovevamo sposarci. Il denaro sarebbe stato usato per il restauro della casa, Avremmo vissuto qui insieme." Fece una breve pausa. Sentivo le grida venire da dietro di noi. "Ma ora gli usurpatori sono arrivati," intonò mestamente. "E ora so che cosa devo..." Le sue ultime parole non potei udirle: la parete al nostro fianco si deformò e altro intonaco precipitò dal soffitto, colpendomi di striscio la spalla. Barcollai di lato e piombai a terra una seconda volta. Quando mi rialzai, fradicio d'acqua e ansimante, annaspai per afferrare la mano di Alethea; ma lei era già sparita lungo il corridoio. Da quella parte, in fondo, le decine di vasi di vetro del laboratorio trillavano il loro segnale di allarme. E adesso so cosa devo fare... La paura, si dice, mette le ali. Ma è anche, come afferma Senofonte, più forte dell'amore. Devo confessare che i miei pensieri non erano più rivolti ai libri, e nemmeno ad Alethea, ma solo a me stesso, mentre pochi secondi dopo arrancavo con tutta la velocità possibile lungo il corridoio. Il suono dei miei frenetici passi claudicanti rimbombava sugli stucchi imbevuti
d'acqua finché, slittando all'impazzata, raggiunsi non il laboratorio ma la cima dello scalone, che, capii, era la mia vera destinazione. Esitai a quella vista, stupito di aver trovato così facilmente la strada nel labirinto dei corridoi. Ma i gradini di marmo erano insidiosamente scivolosi, e mentre cominciavo la discesa fui assalito da una nuova vertigine. Dal primo scalino potevo vedere quasi completamente l'atrio, l'intero terribile scenario di morte e rovina che si apriva davanti a me. Lo specchio ovale nell'atrio era stato rovesciato; la sua superficie spaccata ora rifletteva il buco nel soffitto da cui si era sradicato il candeliere. Questo giaceva lì, nel mezzo del pavimento, uccello di bronzo abbattuto. Al di là della sua carcassa potevo vedere Phineas disteso bocconi accanto alla porta, a braccia spalancate. Dal laboratorio non veniva più alcun suono - né vetri tintinnanti né grida di aiuto. Per un momento mi chiesi se dovessi tornare da Alethea, ma poi, aggrappato al corrimano, continuai la mia discesa. Non ero disposto, mi dissi, a morire per i peccati di Sir Ambrose Plessington. Attraverso la porta aperta vidi che la pioggia era finalmente cessata. Il vento si era rinforzato e il sole tentava di apparire. Così sono le beffe del destino. Mentre attraversavo l'atrio sentii scricchiolare sotto le suole i cristalli sbriciolati. Mi sentivo tremolante e instabile, finché mi resi conto che era il pavimento a tremare sotto i miei piedi. Il sangue si era diffuso dal corpo prostrato di Phineas come i cirri di una vivida pianta acquatica. Ero appena passato oltre la pozza scarlatta quando sentii un grido e vidi una figura sotto l'arco della porta della biblioteca, una figura vestita di nero. Colsi un'ultima immagine degli scaffali abbattuti e dell'accumulo informe di masse fradice sul pavimento prima di varcare la soglia di corsa, trovandomi all'aperto nell'aria grigiastra. I cavalli, spaventati dal trambusto, scossero la testa allarmati e scartarono rinculando mentre io mi avventavo verso di loro. Il parco, semiallagato, ondeggiava davanti ai miei occhi, riflettendo un cielo livido. Pensai di saltare in carrozza e fuggire così, ma non c'era tempo. Sentivo il mio inseguitore che gridava qualcosa in spagnolo, mentre un'altra figura era apparsa dal fianco della casa, dalla parte del giardino delle erbe. Allora mi misi a correre, fuggendo nella direzione opposta, verso il labirinto vegetale. Forse mi figuravo di attirare gli assassini lontano da Alethea - ossia di svolgere per un'ultima volta la funzione per la quale ero stato assunto. Non era stata infatti la mia fuga precipitosa da Londra a portarli a Pontifex Hall? Era un'idea pazzesca, una fantasia folle: con il mio piede zoppo, con i miei polmoni ansanti, non avevo la minima speranza di competere con i miei due
inseguitori, il secondo dei quali, vidi, era Sir Richard Overstreet. Ma mentre mi avvicinavo al labirinto arrischiai un'altra occhiata al di sopra della spalla e vidi una profonda buca aperta nel terreno dietro di me, una lunga trincea che correva attraverso il parco, dal laghetto fino alla carrozza. Vista in retrospettiva, quella fenditura mi appare come un cataclisma di proporzioni pressoché bibliche, forse addirittura un miracolo, se un miracolo può essere così precipitoso e tragico. Le ruote posteriori della vettura furono le prime a essere inghiottite. Il terreno tremando sotto di loro cedette e la carrozza si inclinò all'indietro scivolando nella crepa che, larga ormai oltre due metri, era stata invasa dall'acqua della corrente sotterranea che affiorava in superficie. I cavalli sgropparono per un secondo e poi sparirono. Il primo dei miei inseguitori, l'uomo in nero, si bloccò sul margine ruotando le braccia. Mi fissò, sgomento e sbalordito, mentre la terra rossa crollava e il baratro si allargava ancora di più. Poi anche lui scomparve nelle fauci spalancate. Ruotai su me stesso e ripresi a correre. L'aria era gravida del profumo di ligustro e di erisimo, i cui tralci inselvatichiti mi graffiarono le guance e le spalle quando mi tuffai nel labirinto piegando sulla sinistra in un folto ancora più fitto e umido di rami e foglie spinose di agrifoglio. Le pozzanghere schizzavano acqua sotto i miei piedi. Da un piccolo varco nella siepe intravidi Sir Richard che, impugnando la pistola correva verso l'ingresso del labirinto. Un'altra biforcazione. Girai a destra, poi a sinistra, facendomi strada lungo i sinuosi corridoi verdi. A un certo punto inciampai in una radice e, rialzandomi, vidi un paio di cesoie abbandonate sotto un arbusto. Le raccolsi - le lame erano arrugginite ma ancora affilate - e ripresi a correre. Doveva essere passato un minuto, due al massimo, quando sentii l'urlo. A questo punto avevo raggiunto il centro del labirinto, un piccolo spiazzo sterposo di terra sul quale era stata posta una panca di legno, marcita dagli elementi. Sentii Sir Richard che avanzava e capii che doveva aver seguito le mie impronte nel fango. Un'altra pista che mi aveva tradito. Presto mi avrebbe raggiunto - se il labirinto di siepi non fosse stato prima inghiottito, perché il suolo tremava e sobbalzava come il cortile di un marmista. Quando l'urlo lacerò l'aria stavo stringendo il manico delle cesoie e indietreggiavo verso gli arbusti potati, preparandomi a un corpo a corpo. Alzando gli occhi, al di là del parapetto di bosso e carpini, scorsi una figura ritta davanti a una finestra del primo piano. Alethea dunque aveva raggiunto il laboratorio. Mi issai sulla panca
sconnessa e vidi che spalancava la finestra e faceva dei gesti forsennati. Potei scorgerla solo per un secondo, perché appena ebbe aperto i vetri con un lampo di sole - perché ora, incredibilmente, era comparso il sole - l'ala sud del palazzo cominciò a crollare nella voragine. Le travi si contorsero e si spezzarono, poi venne la frana di bugnato e pietre che mise allo scoperto la biblioteca al di là di una nebbia di polvere di intonaco prima che anche le sue travi cedessero, precipitando i libri nella immensa crepa. Il primo piano rimase sospeso sulla cavità per qualche secondo prima di iniziare il suo ponderoso smottamento. Una sezione del tetto si piegò in avanti, rovesciando una pioggia di tegole; quindi le mensole di sostegno cedettero e il resto del tetto piombò nella fiumana che si gonfiava tra le fondamenta. Io ero ancora appollaiato sulla panca, paralizzato dall'orrore dello spettacolo spaventoso che si svolgeva davanti ai miei occhi. Udii un altro urlo, mentre la facciata orientale si crepava e franava come una parete montana, sollevando una nuvola di polvere che si gonfiò rotolando come fumo di cannone. L'imponente struttura con i suoi compartimenti esposti alla vista ognuno con il suo mobilio, le sue pareti tappezzate - ora sembrava niente di più che una casa di bambole, o il modellino di un architetto. Potevo distinguere perfino il laboratorio con il telescopio e le scansie di flaconi fracassati. Ma di Alethea non c'era traccia, né lì né altrove. Ero saltato giù dalla panca e stavo rifacendo la strada attraverso il labirinto quando il pavimento dell'atrio si disintegrò e la casa di bambole si piegò su se stessa, ammassando i piani uno sull'altro, con un rombo che mi riverberò fin nel diaframma. Mi parve di udire ancora un grido, ma dovetti sbagliarmi: forse era solo il rumore del ferro contorto e delle travi, gli ultimi frammenti di Pontifex Hall che precipitavano nelle acque voraci. EPILOGO Ora di chiusura. Il buio si è raccolto nelle finestre ed è sceso sull'ampia distesa del Tamigi. Le travate dell'antico ponte levatoio cigolano sollevandosi per consentire l'ultimo passaggio alle vele colorate dei barconi e degli smacchi che vanno con la corrente verso il grigio mare aperto. L'ultimo traffico del pomeriggio passa facendo scricchiolare la neve che copre la carreggiata. Tra un minuto si udrà il fruscio del tendone che si arrotola, seguito dallo scatto delle imposte. Tom Monk e i suoi tre figli sono in piena attività, di sotto, tra chiavi e monete da contare, mentre io me ne sto seduto qui nel mio studio, mio ultimo rifugio, stringendo la penna d'oca tra le dita
artritiche e svolgendo lentamente questo filo di parole dietro di me. Dabbasso la porta verde si apre, e la fiammella della mia candela oscilla nel vento. Mi sistemo gli occhiali - la mia vista si è ulteriormente ridotta - e mi protendo speranzoso. Finalmente - finalmente - il mio compito è quasi completato. Da dire è rimasto così poco, e anche così tanto. Quello che accadde a Pontifex Hall in quell'ultimo giorno, probabilmente non arriverò mai a capirlo fino in fondo, anche se sono l'unico che sia sopravvissuto a narrarne la storia. La mia sopravvivenza è frutto della fortuna o del caso, o forse della benevolenza di san Giovanni di Dio, il patrono degli stampatori e dei librai. Alla fine sfuggii a Sir Richard Overstreet, o meglio fu lui a sfuggire a me, avventandosi attraverso il labirinto verso il precipizio mentre la casa cominciava a crollare. Se sperasse di salvare Alethea o di mettere in salvo la pergamena non ebbi modo di saperlo, perché anche lui fu tra le vittime del torrente. Emersi dal labirinto e lo vidi trascinato via sul dorso del gran serpente che attraversava noncurante il parco. A questo punto la casa e il suo contenuto tutto erano franati, inghiottiti, tranne una parte della cripta. Davanti a me si apriva una scena di nuda e terribile desolazione. Perfino l'obelisco era scomparso. Né trovai traccia di Alethea, anche se passai più di due ore a cercarla, rovesciando macerie e trovando perfino il coraggio di avventurarmi nella cripta allagata, con l'acqua fino alla vita. Una dozzina di volte il suo frenetico grido di aiuto riecheggiò nella mia testa. Ma non trovai altro che qualche libro, che in qualche modo recuperai come se pensassi che quelle pagine inzuppate potessero compensare la sua perdita o placare il mio rimorso. Feci a piedi tutta la strada fino a Crampton Magna, viaggiando lungo il torrente d'acqua che serpeggiava tra i campi allagati con le loro isolette di alberi e i covoni di grano semisommersi. Complessivamente dovetti impiegare diverse ore. Tra i relitti di Pontifex Hall che mi scorrevano accanto vidi qualche altro libro della biblioteca demolita, quasi tutti in condizioni tali che riuscivo a stento a leggerne la copertina. Anche questi furono recuperati prima che potessero scivolare via. Calava la sera quando giunsi barcollando all'Insegna dell'Aratore con il mio fardello fradicio d'acqua avvolto nel mantello, e subito misi i libri, sette in tutto, ad asciugare accanto al fuoco della mia stanza. Per ore rimasi sdraiato senza chiudere occhio, sentendomi come lo scampato a un naufragio che è stato gettato su una spiaggia, dove resterà disteso e immobile in mezzo a ciò che il mare trasporta a riva, effettuando un cauto inventario delle proprie membra e ta-
sche prima di alzarsi in piedi e compiere le prime incursioni nello strano nuovo mondo in cui è finito. Ed era davvero uno strano mondo quello in cui mi avventurai. Quando finalmente raggiunsi Londra, quattro giorni dopo, Nonsuch House mi apparve diversa ed estranea, quasi irriconoscibile. Tutto era al suo posto, anche Monk, ma il negozio sembrava aver subito una sottile trasformazione, avresti detto al livello dei suoi atomi. Perfino gli antichi rituali erano inefficaci contro quell'incantesimo. Trovai consolazione, per quanto piccola, tra i miei libri. In quelle prime settimane dopo il mio ritorno mi dedicai a studiare i volumi recuperati da Pontifex Hall, come pensando che nelle loro pagine stinte e irrigidite potessi trovare una traccia che mi aiutasse a capire la tragedia. Gli inchiostri erano sbiaditi e gli ori sulle copertine erosi; perfino gli ex libris si erano staccati. Sono ancora lì, su uno scaffale sopra il mio scrittoio, e tra tutti i volumi di Nonsuch House questi sette sono gli unici che non siano in vendita. Uno solo dei volumi ha una particolare rilevanza. È una copia dell'Antologia Graeca - il florilegio compilato a Costantinopoli da Cephalas e poi scoperto, secoli dopo tra i manoscritti della Bibliotheca Palatina di Heidelberg! Non c'è ex libris, ma all'interno del piatto anteriore qualcuno ha scritto "Emilia Molyneux," e inseriti nel mezzo ci sono un passaporto e un certificato medico, entrambi a nome di Silas Cobb, entrambi bollati a Praga con la data 1620. In un primo momento i nomi non erano visibili. Solo con il tempo riapparvero, quando chissà quale misteriosa reazione chimica "scrittura fantasma," l'aveva chiamata Alethea - richiamò alla superficie delle membrane i tannini e i sali di ferro dell'inchiostro. E fu da quei pezzi di carta, da quelle poche parole scribacchiate in palinsesto, che iniziai una paziente ricostruzione degli eventi. Alcune parti del mosaico presero forma più agevolmente di altre. Della questione, in fondo, c'era menzione in quasi tutte le gazzette, che riportavano la morte di Sir Richard Overstreet, eminente diplomatico e proprietario terriero recentemente rientrato dal suo esilio francese. Il suo corpo fu ritrovato tre giorni dopo, a quasi cinque miglia da Pontifex Hall. Ma non c'era alcun cenno ad Alethea né ai tre spagnoli. I loro corpi, immagino, non furono mai trovati; né lo fu il palinsesto e, a quanto ne so, le migliaia di volumi di Sir Ambrose. E naturalmente lo stesso Sir Ambrose resta per me lo stesso grande mistero di sempre. Mi sono spesso chiesto, da allora, perché abbia tradito i suoi alleati nascondendo il palinsesto in Pontifex Hall. Ma lui era un idea-
lista; credeva nella Riforma e nella diffusione della conoscenza, in una comunità di sapienti come quella descritta dai rosacroce nei loro manifesti o da Francesco Bacone nella Nuova Atlantide, che spiega come le scienze naturali riporteranno il mondo alla sua età dell'oro, a quello stato ideale anteriore alla Caduta dell'uomo nell'Eden. Al suo rientro in Inghilterra Sir Ambrose dovette provare un'amara delusione. Quello che scoprì nel partito della guerra fu che i suoi esponenti non erano gli studiosi illuminati dell'Accademia di Platone o del Liceo di Aristotele, bensì dei ladri e assassini non meno ignoranti e malvagi di quelli che si trovavano a Roma o a Madrid. Con l'Europa sull'orlo del precipizio, allo studio della Natura e alla ricerca della Verità si era sostituita una volgare contesa in cui protestanti e cattolici cercavano ciascuno di piegare l'altro al proprio volere. La cultura non era più uno strumento per migliorare il mondo: era diventata piuttosto l'ancella del pregiudizio e dell'ortodossia, e pregiudizio e ortodossia ancelle del massacro. Sir Ambrose non volle avervi niente a che fare. L'isola e le sue ricchezze, se davvero esistevano, meglio lasciarle ignote, dovette decidere, fino al giorno in cui il mondo fosse stato degno di tali tesori. Ma a occupare i miei pensieri in quei giorni non furono Sir Ambrose e i suoi libri - e nemmeno Il labirinto del mondo. Fu Alethea che mi ritrovai a piangere. A volte mi lasciavo andare a credere che in qualche modo fosse sopravvissuta al disastro. In seguito, per anni, mi è capitato di cogliere dalla vetrina della Nonsuch Books l'immagine di una donna con un'andatura familiare, su una carrozza già vista, o con un certo profilo o atteggiamento, e di soffrire per la durata di un secondo di uno choc squisito - e poi, inevitabilmente, delusione e rimpianto. Alethea, come Arabella, si ritirava ancora una volta nell'ombra della memoria, facendosi lontana e quasi immaginaria quanto quelle isole del Pacifico che ancora oggi, anno di nostro Signore 1700, nessuno ha saputo ritrovare. Col tempo anche quei fuggevoli frammenti sono svaniti dalla mia finestra e oramai la vedo, quando la vedo, solo in sogno. FINE