MARION ZIMMER BRADLEY GLI EREDI DI HAMMERFELL (The Heirs Of Hammerfell, 1989) Dedicato a Betsy, un ramo del vecchio cepp...
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MARION ZIMMER BRADLEY GLI EREDI DI HAMMERFELL (The Heirs Of Hammerfell, 1989) Dedicato a Betsy, un ramo del vecchio ceppo
CAPITOLO 1 HAMMERFELL E STORN Sugli Hellers infuriava la tempesta: i lampi squarciavano ininterrottamente il cielo, il rombo del tuono echeggiava lungo le valli. Di tanto in tanto, fra le nubi spinte dal vento, comparivano macchie sfilacciate di cielo livido, ancora illuminate dagli ultimi raggi del sole rosso ed enorme; vicino alle cime appuntite dei più alti picchi, affiorava momentaneamente una falce di luna azzurrina. Su tutti i monti si era ormai accumulata la neve, e gli occasionali lastroni di ghiaccio rendevano pericoloso il cammino, ma né il piccolo chervine che fuggiva lungo il sentiero, né il suo cavaliere parevano preoccuparsene, come se si allontanassero da cose assai più gravi. L'uomo cercava solo di tenersi in sella, senza badare al sangue che continuava a scorrergli dalle ferite e che già gli macchiava la camicia e il mantello. Di tanto in tanto gli sfuggiva un lamento, e lui non si preoccupava di
soffocarlo: non c'era nessuno che lo potesse sentire. Così giovane; ed è l'ultimo figlio del mio signore, e mi è caro come un figlio; così giovane... troppo giovane per morire... Manca poca strada; se potessi fare ritorno prima che la gente di Storn si accorgesse che sono riuscito a fuggire... Il chervine mise il piede su una pietra spaccata dal ghiaccio e per poco non cadde a terra. L'animale riuscì a ritrovare l'equilibrio, ma il vecchio scivolò di sella; cadde di schianto e rimase immobile, senza la forza di rialzarsi, e riprese a mormorare tra sé. Così giovane... come dirlo a suo padre? Oh, il mio signore, il mio Alaric! A fatica, sollevò la testa verso il castello tozzo e segnato dalla guerra che sorgeva sulla vetta, sopra di lui. Ormai, però, nelle condizioni in cui si trovava il vecchio, era irraggiungibile; come se si trovasse sulla luna. L'uomo chiuse gli occhi, con riluttanza. L'animale, accortosi della perdita del carico, ma ancora trattenuto dal peso della sella, spinse piano, con il muso, la forma del vecchio che giaceva sul sentiero gelido e bagnato. Quando sentì l'odore degli altri chervine che scendevano lungo il sentiero che il vecchio aveva cercato così faticosamente di risalire, sollevò la testa ed emise un leggero bramito per richiamare su di sé quelle attenzioni che significavano cibo, riposo e libertà dal fastidioso peso della sella. Rascard, duca di Hammerfell, sentì il rumore e alzò la mano per fermare la piccola processione. «Hark, che cos'è successo?» chiese allo scudiero che cavalcava dietro di lui. Alla luce incerta della tempesta, riusciva a malapena a distinguere l'animale senza cavaliere e la forma che giaceva sul terreno. «Per gli dèi infernali! È Markos!» esclamò poi, balzando di sella e correndo lungo il sentiero sdrucciolevole, per poi inginocchiarsi accanto al ferito. «Regis! Lexxas! Portate del vino e delle coperte!» gridò, piegandosi sul vecchio e aprendogli delicatamente il mantello. «È ancora vivo», aggiunse poi, più piano, quasi incapace di credere al miracolo. «Markos, amico mio, parlami!» mormorò al ferito. «Ah, per gli dèi, chi è stato a farti una così brutta ferita? Quei bastardi degli Storn?» L'uomo steso a terra aprì gli occhi, velati ora più dalla conftusione che dal dolore, mentre una forma scura si chinava su di lui con in mano una fiasca e gliel'accostava alla bocca. Il ferito inghiottì, tossì convulsamente e
tornò a inghiottire. Il duca vide la schiuma rossa di sangue che gli affiorò sulle labbra. «No, Markos, non sforzarti di parlare.» Prese tra le braccia il morente; grazie al legame che esisteva tra loro da quarant'anni, Markos sentì la domanda che il duca di Hammerfell non osava rivolgergli a voce: Che ne è di mio figlio? Di Alaric? Ah, per gli dèi, affidandolo a te era come se l'avessi affidato a me stesso... in tutta la vita non avevi mai tradito la mia fiducia... E il legame gli portò i pensieri dell'uomo quasi privo di conoscenza: E non vi ho tradito neppure questa volta. Non credo che sia morto; gli uomini di Storn ci hanno teso un'imboscata... una freccia a me e una a lui... che siano maledetti. Il duca Rascard lanciò un grido di dolore. «Che i demoni di Zandru se li prendano tutti!» esclamò. «Mio figlio, mio figlio!» Continuò a stringere fra le braccia il ferito, e sentì il dolore del vecchio, bruciante come quello della freccia che lo aveva trafitto. No, caro amico, pensò. Per me, sei più di un fratello, non ho niente di cui rimproverarti... so che lo hai protetto con il tuo corpo. I servitori gridavano disperati, condividendo il dolore del padrone, ma lui li fece tacere con un severo ordine. «Sollevatelo... delicatamente! La ferita non è mortale; se morirà, ne risponderete con la vostra vita!» li minacciò. «Copritelo con quella coperta... sì, così. E dategli un altro sorso di vino. Attenzione, non fateglielo andare di traverso! Markos, dov'è mio figlio? So che non lo avresti mai abbandonato.» «Storn... il suo primogenito, Fionn... l'ha portato via...» bisbigliò con voce roca, poi s'interruppe, ma il duca Rascard sentì perfettamente le parole che l'altro non aveva potuto pronunciare perché era troppo debole: Pensavo veramente di essere in punto di morte, ma poi ho ripreso conoscenza e sono tornato perché volevo portarvi la notizia, anche se si fosse trattato del mio ultimo respiro... «No, non morirai, amico mio», disse il duca, mentre il suo capo delle scuderie, Lexxas, con forza da gigante, sollevava il ferito. «Mettilo sul mio cavallo, delicatamente, se vuoi continuare a respirare l'aria di questo mondo. E adesso torniamo ad Hammerfell... con tutta la rapidità possibile, perché la luce sta svanendo, e voglio essere all'interno prima che cada la notte.»
Il duca continuò a reggere tra le braccia il corpo semisvenuto del suo più vecchio sostenitore mentre il gruppo risaliva faticosamente il sentiero che portava verso il castello, e durante il tragitto ripensò alle immagini che aveva visto nella mente di Markos mentre questi sveniva: suo figlio Alaric messo di traverso sulla sella di Fionn e con nel petto una freccia degli Storn. L'ultima vittima della faida che divampava tra Hammerfell e Storn da cinque generazioni, una faida così antica che nessuno dei viventi, oggi, ne ricordava l'origine. Markos, tuttavia, anche se orrendamente ferito, viveva ancora; non era possibile che lo stesso Alaric fosse sopravvissuto, e che magari fosse tenuto in vita per chiedere un riscatto? Se dovesse morire, giuro che non lascerò una pietra sull'altra del castello di Storn, né lascerò in vita un solo uomo del loro clan, in tutti i Cento Regni! giurò, quando giunsero all'antico ponte levatoio e rientrarono nel cortile che avevano lasciato poco tempo prima. Nel cortile, il duca chiamò con tutta la sua voce i servitori e fece portare Markos nella grande sala, dove venne delicatamente adagiato su una lettiga. Poi Rascard si guardò attorno e ordinò: «Chiamate la damigella Erminie.» Ma la Sapiente della casa, gemendo costernata, stava già arrivando di corsa nella sala e si inginocchiava sulle gelide pietre del pavimento per prendersi cura del ferito. Il duca Rascard spiegò con poche parole che cosa desiderava, ma anche la giovane guaritrice era abituata alla faida e a quegli scontri fin da quando era nata: era una cugina della moglie del duca, morta da alcuni anni, ed era ad Hammerfell, al servizio di Rascard, fin da bambina. Si curvò su Markos ed estrasse dalle pieghe della veste l'azzurra pietra matrice; con espressione distaccata, assente, si concentrò su di essa e passò la mano sul petto del ferito, senza toccarlo, a un dito di distanza. Rascard guardò in assoluto silenzio. Alla fine, la ragazza si alzò. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non perde più sangue; respira ancora», disse. «Per il momento, non posso fare altro.» «Sopravvivrà, Erminie?» chiese il duca. «Non posso ancora dirlo», rispose la giovane, «ma, a dispetto di tutto, è riuscito a sopravvivere fino a ora. Posso solo dire che è nelle mani degli dèi; se continueranno a essere misericordiosi con lui, sopravvivrà.» «Pregherò perché sia così. Eravamo bambini insieme, e ho perso così
tante persone...» disse Rascard. Poi non riuscì più a frenare l'ira e lanciò un forte grido. «Giuro davanti a tutti gli dèi che se dovesse morire, mi vendicherei in un modo che...» «Silenzio!» disse la ragazza, con severità. «Se proprio dovete gridare così, zio, andate a farlo in un posto dove la cosa non disturbi il ferito.» Il duca Rascard arrossì a tacque. Si diresse verso il grande caminetto e si lasciò cadere in un'alta poltrona, meravigliandosi per la serietà e la competenza di quella ragazzina così minuta. Erminie aveva compiuto da poco i diciassette anni; era snella e delicata, con i capelli color del rame fresco di conio che contraddistinguevano i lettori del pensiero, e con profondi occhi grigi. Tranne questi, non aveva alcun lineamento che si potesse dire regolare; ma, grazie a quegli occhi, diventava bellissima. Si diresse anche lei al focolare, sui passi del duca, e lo fissò negli occhi. «Se vogliamo che viva, dobbiamo lasciarlo tranquillo... e anche voi, signore, dovete cercare di tranquillizzarvi», disse la Sapiente. «Lo so, cara. Hai fatto bene a rimproverarmi», rispose il duca. Il duca Rascard, ventitreesimo duca di Hammerfell, aveva passato i quarant'anni e aveva raggiunto la piena forza della maturità. I suoi capelli, un tempo scuri, adesso erano grigi come il ferro, e i suoi occhi avevano l'azzurro che la fiamma prende quando si getta nel fuoco la limatura di rame. Era forte e muscoloso, e il suo volto arrossato dagli elementi e i grandi fasci di muscoli che gli si scorgevano sulle spalle rivelavano la sua discendenza dalla tribù dei nani delle forge. In generale, il duca Rascard dava l'impressione di essere un uomo che, dopo essere stato molto attivo negli anni precedenti, si era leggermente ammorbidito con il tempo e l'inattività, e il suo volto era meno severo del solito, mentre guardava la giovane donna: Erminie assomigliava molto alla sua defunta moglie, scomparsa cinque anni prima, quando Alaric aveva solo dodici anni. Alaric ed Erminie erano cresciuti quasi come fratello e sorella; e il duca per poco non scoppiò in lacrime, nel ricordare le loro due teste rosse vicine - una coperta di corti riccioli, l'altra con le lunghe trecce - curve su un libro di studio. «Mi ascoltavi, figliola?» chiese il duca. La giovane abbassò gli occhi. Per mille leghe attorno a loro, chiunque possedesse un briciolo di capacità di leggere nei pensieri, per non parlare poi di una Sapiente, addestrata intensivamente all'uso dei poteri mentali
della sua casta, non poteva avere fatto a meno di percepire il drammatico dialogo che aveva rivelato al duca la sorte del figlio e del suo più fido aiutante; ma la ragazza cambiò discorso. «Se Alaric morisse, penso che lo saprei immediatamente», disse, e vide che il duca si calmava un poco. «Spero che tu abbia ragione, cara. Puoi venire da me nella serra, non appena potrai lasciare Markos?» E aggiunse, anche se la richiesta era superflua: «Porta con te la pietra matrice.» «Verrò», promise lei, che aveva capito immediatamente che cosa volesse il duca. Poi tornò a occuparsi del ferito, senza più guardare Rascard che lasciava la sala. La serra era una stanza che non mancava mai nei castelli delle montagne, e si trovava in cima alla costruzione. Aveva le finestre con i doppi vetri, ed era riscaldata da vari focolari, in modo che anche durante la stagione invernale era piena di fiori e di foglie verdi. Il duca Rascard si era accomodato su una vecchia poltrona male in arnese, in un punto da cui poteva guardare l'intera valle sottostante. Osservò la strada tortuosa che saliva al castello e gli tornarono in mente tante battaglie combattute su di essa, ai tempi di suo padre. Era talmente assorto nelle sue riflessioni che non sentì i passi leggeri, dietro di lui, finché Erminie non gli giunse davanti e non si sedette sul cuscino ai suoi piedi. «Markos?» chiese subito il duca. «Non intendo ingannarvi, zio», rispose la Sapiente. «La ferita è molto grave. La freccia gli ha forato il polmone, e lui ha peggiorato la propria condizione quando l'ha estratta. Ma respira, e l'emorragia non è ripresa. In questo momento, riposa; con il riposo e con un po' di buona fortuna, riuscirà a sopravvivere. Ho lasciato con lui Amalie: se Markos dovesse svegliarsi, mi chiamerà; per il momento sono al vostro servizio, zio.» Erminie parlava piano, ma la sua voce ferma. La continua guerra con gli Storn l'aveva resa assai più matura dei suoi anni. «Ditemi, zio», chiese, «perché Markos era partito e perché si era fatto accompagnare da Alaric?» «Forse non te l'hanno detto, ma gli uomini di Storn», rispose il duca, «sono venuti lo scorso mese e hanno bruciato una decina di granai del villaggio. Prima che si arrivi al tempo della semina, c'è il rischio di carestia, e i nostri uomini sono partiti per Storn, per fare una razzia che li ripaghi di
quel che hanno perduto. «Non c'era bisogno che Alaric li accompagnasse, perché c'era già Markos a guidarli. Ma una delle case bruciate era quella della balia di Alaric, che perciò ha insistito per guidare di persona l'incursione. Non ho potuto rifiutarglielo: mi ha detto che era una questione di onore.» Rascard s'interruppe per tirare il fiato. «Alaric non era un bambino», riprese, con voce tremante. «Non potevo impedirgli di fare quello che desiderava. L'ho invitato a portare con sé un paio di Sapienti, ma lui non li ha voluti; ha detto che per vincere gli uomini di Storn gli bastavano i suoi armati. Al crepuscolo, quando non li ho visti ritornare, ho cominciato a preoccuparmi... e ho scoperto che soltanto Markos era riuscito a salvarsi per darmi la notizia: tutti gli altri erano caduti in un'imboscata.» Erminie si coprì con le mani la faccia. Il duca continuò: «Sai che cosa desidero da te. Che cosa è successo a tuo cugino? Puoi vederlo?» La ragazza disse a bassa voce: «Cercherò di farlo», e prese la pietra matrice che teneva appesa al collo, nascosta sotto il vestito. Il duca colse per un attimo le luci che si torcevano all'interno della pietra e si affrettò a distogliere gli occhi; anche se, per un uomo d'armi, era un buon lettore del pensiero, non aveva mai imparato a usare una pietra matrice per raggiungere i livelli superiori di potere, e come tutti i lettori del pensiero poco addestrati, le luci vaganti all'interno della pietra matrice gli davano un leggero malessere. Quando Erminie chinò la testa per fissare la pietra e il suo sguardo si fece vacuo e distante, il duca posò gli occhi sulla scriminatura dei suoi capelli e pensò a quanto erano giovani e freschi i lineamenti di quella ragazza, che ancora non avevano conosciuto dolori lunghi e duraturi. All'improvviso, il duca Rascard si sentì infinitamente vecchio e stanco, consumato dagli anni di faida con il clan degli Storn, sotto le cui armi erano caduti il padre e il nonno, i due fratelli maggiori, e adesso il suo unico figlio. Ma, se gli dèi me lo concedono, Alaric non è morto e non è per sempre perduto. Non ora, né mai... pensò. Disse, con voce roca: «Ti prego di guardare e di dirmi la parola che voglio sentire da te, figlia mia...» e qui la sua voce s'incrinò. Dopo un periodo di tempo molto lungo, Erminie disse, con una voce strana, distante: «Alaric... cugino mio...» e quasi subito il duca Rascard, entrato in rapporto mentale con lei, vide l'immagine che la ragazza aveva
raccolto: la faccia di suo figlio, simile a quella del duca, ma più giovane, con i capelli color rame e ricciuti. Il giovane era pallido, aveva i lineamenti contratti per il dolore, e tutto il davanti della sua camicia era macchiato di sangue color rosso vivo. Anche la faccia di Erminie era pallida come quella del ferito. «È vivo. Ma la sua ferita è più grave di quella di Markos», spiegò la ragazza. «Perché guarisca Markos, è sufficiente tenerlo fermo; ma Alaric... continua a perdere sangue. Respira molto debolmente... non ha ancora ripreso conoscenza.» «Puoi arrivare fino a lui? È possibile curare una ferita a questa distanza?» chiese il duca, ricordando quel che aveva fatto per Markos. Ma la ragazza scosse la testa, con gli occhi lucidi. «Ahimè, zio, non è possibile; io sarei ben lieta di provare, ma neppure il Guardiano di Tramontana è in grado di curare a una simile distanza.» «Allora, puoi raggiungerlo e dirgli che sappiamo dov'è, e che andremo a salvarlo, oppure moriremo tutti nel tentativo?» volle sapere Rascard. «Ho paura di disturbarlo, zio», rispose la ragazza. «Se si svegliasse e si muovesse di scatto, la sua ferita al polmone potrebbe aggravarsi al di là di ogni possibilità di cura.» «Eppure», rispose il duca, «se si svegliasse da solo e scoprisse di essere in mano ai nemici, anche questo potrebbe condurlo alla disperazione e alla morte.» «Avete ragione. Cercherò di raggiungere la sua mente senza disturbarlo», disse Erminie, mentre il duca si nascondeva tra le mani la faccia e cercava di leggere nella mente della ragazza l'immagine di suo figlio, pallido e dolorante. Anche se il duca non aveva esperienza nell'arte della guarigione, gli pareva già di vedere il segno della morte nei lineamenti del figlio. E al margine delle sue percezioni scorgeva la faccia tesa di Erminie, e sentiva - anche se non con le orecchie - il messaggio che la ragazza cercava di trasmettere ad Alaric: Non avere paura; siamo con te. Riposati, e cerca di guarire... Un messaggio ripetuto senza interruzione, per rassicurarlo e per fargli capire che c'era qualcuno che pensava a lui. Il profondo affetto provato da Erminie per suo figlio giunse fino alla mente di Rascard. Non sapevo che lei l'amasse così tanto, pensò il duca. Credevo che fossero solamente come fratello e sorella, come compagni d'infanzia. Adesso so che è qualcosa di più.
Si accorse che la ragazza era arrossita: Erminie gli aveva letto nei pensieri. L'ho amato fin da quando eravamo bambini, zio. Non so che cosa sono per lui, se una sorella o qualcosa di più; ma io lo amo di più che come fratello. Non... non siete in collera, vero? Se lo fosse venuto a sapere in un altro modo, il duca Rascard si sarebbe davvero incollerito; da anni meditava un grande matrimonio, forse addirittura con qualche principessa della pianura, qualche Hastur del Sud; ma adesso provava solo timore per il figlio. «Quando sarà di nuovo al sicuro con noi, figliola, se tutt'e due sarete d'accordo, sarà fatto», disse il duca, con tanta gentilezza che Erminie non riuscì quasi a riconoscere la sua voce, che di solito era molto più burbera. Per un istante, nessuno dei due parlò; poi Rascard sentì un altro contatto, all'interno del rapporto mentale, e lo riconobbe subito; era debole ed esitante, ma era inconfondibilmente il tocco mentale di suo figlio Alaric. Padre... Erminie... siete davvero voi? Dove mi trovo? Che cosa è successo? E il povero Markos...? Con la maggior delicatezza possibile, Erminie cercò di informarlo dell'accaduto: che era ferito e che si trovava nel castello degli Storn. E Markos si salverà, intervenne Rascard. Ora, riposa e cerca di guarire, figliolo, e ti salveremo, o ti riscatteremo, a costo di morire nel tentativo. Non preoccuparti. Riposa, riposa... All'improvviso, fra i toni tranquillizzanti del rapporto mentale s'infilò una fiammata di furia e un'esplosione di luce, azzurra come una pietra matrice. Fu come un colpo al cuore, una violenta percossa fisica. Tu qui, Rascard, ladro e spione? Che cosa fai, nella mia fortezza? Come se l'avesse davanti agli occhi, nella mente di Rascard si disegnarono la faccia sfregiata, gli occhi feroci del suo antico nemico: Ardrin di Storn, scarno e feroce come una pantera, fiammeggiante di rabbia. Osi chiedermelo? rispose il signore di Hammerfell. Ridammi mio figlio, miserabile! Di' il tuo riscatto e te lo pagherò fino all'ultimo, ma torcigli un solo capello e sarai tu a pagare cento volte! Le solite spacconate, ribatté Ardrin, che sento mese dopo mese, da quarant'anni, Rascard, ma ora non possiedi più nulla che io desideri, salvo la tua disgraziata persona; tieniti le tue ricchezze, e io ti impiccherò accanto a tuo figlio, sulla torre più alta del castello di Storn. La prima tentazione di Rascard fu quella di colpirlo con tutta la forza del Potere; ma Alaric era in mano al nemico. Perciò il duca ribatté, cercando di
mantenere la calma: Non vuoi permettermi di riscattare mio figlio? Dimmi quello che chiedi, e ti giuro che sarà tuo, senza mercanteggiare. Sentì la cupidigia di Ardrin di Storn, che evidentemente era in attesa di una simile occasione. Scambierò lui per te, rispose Ardrin, attraverso il legame mentale. Vieni qui e consegnati a me prima di domani sera, e Alaric - se sarà ancora vivo, o in caso diverso il suo corpo - verrà consegnato ai tuoi uomini. Rascard capì che avrebbe dovuto aspettarsi qualcosa del genere. Ma Alaric era giovane, mentre lui aveva già vissuto una lunga vita. Alaric poteva ancora sposarsi, ricostruire il clan e il regno. Perciò, dopo un solo istante di esitazione, rispose: D'accordo. Ma solo se è vivo. Se morirà nelle tue mani, ti farò crollare il castello di Storn sulla testa, bruciandolo con la pece stregata! No, padre! Non a quel prezzo! gridò Alaric. Non sopravvivrò fino a domani... e non voglio che tu muoia per me. Rascard sentì l'agitazione del figlio, sentì la ferita che si riapriva, il fiotto di sangue che lo soffocava... tutto con l'immediatezza che quell'esperienza avrebbe avuto se fosse successa a lui personalmente. Poi la presenza di Alaric scomparve dal contatto: era morto, o aveva perso i sensi: il padre non avrebbe saputo dirlo. Nella serra tutto tacque; si udirono solo il pianto di Erminie e lo scoppio di collera del signore di Storn. Ah, mi hai privato della mia vendetta, Rascard, vecchio nemico! Non sono stato io a ucciderlo. Se intendi ancora scambiare la tua vita per il suo corpo, onorerò il patto... Onorare? ribatté Rascard. Come osi parlare di onorare, Storn? Perché non sono un Hammerfell! E adesso, vattene! Non pensare di poter entrare di nuovo nel mio castello, neppure in spirito! gli gridò Ardrin. Vattene! Erminie si gettò sul tappeto e pianse come una bambina: e in effetti, almeno in parte, lo era ancora. Rascard di Hammerfell chinò la testa. Si sentiva vuoto, a pezzi. Che la faida fosse finita, dunque... ma a quel prezzo? CAPITOLO 2 IL MATRIMONIO DEL DUCA I quaranta giorni di lutto erano giunti lentamente alla fine. Il quarantunesimo, una carovana di stranieri risalì lentamente il sentiero tortuoso che
portava al castello di Hammerfell e, quando venne accolta alla porta, si vide che era costituita da un parente della defunta moglie del duca, accompagnato dalla sua scorta. Il duca Rascard (che, alla presenza di quel raffinato ed elegante cittadino, si sentiva più a disagio di quanto non avrebbe osato confessare) lo ricevette nella sala grande e fece portare vino e rinfreschi. «Mi debbo scusare per l'insufficienza della mia ospitalità», disse, accompagnando l'ospite a una poltrona davanti al caminetto sulla cui cappa spiccava l'insegna degli Hammerfell, «ma fino a ieri eravamo in lutto e non abbiamo ancora ripreso la nostra condizione abituale.» «Non sono venuto per mangiare pasticcini e bere, caro cugino», rispose Renato Leynier, un parente delle pianure, giunto dai regni Hastur del Sud. «E il vostro lutto è condiviso da tutta la famiglia, naturalmente; Alaric era anche cugino mio. Ma sono venuto per un altro motivo: vengo a riprendere la figlia del mio consanguineo, la Sapiente Erminie.» E, così dicendo, Renato Leynier osservò bene il duca. Se si era aspettato - e lui se l'era davvero aspettato - di vedere un vecchio debole e affranto, pronto a crollare alla morte del figlio e a lasciare il suo regno ai tradizionali nemici, era rimasto alquanto deluso. Stranamente, la collera e l'orgoglio parevano avere reso più forte e più giovane il duca: un uomo ben attivo, ancora pienamente in grado di comandare gli uomini di quelle terre di Hammerfell attraverso le quali Renato Leynier aveva viaggiato per le intere due giornate precedenti. Da ogni parola e da ogni gesto di Rascard si rivelava la sua forza: il duca di Hammerfell non era più un ragazzo, questo no, ma era tutt'altro che un uomo sconfitto. «Ma perché siete venuto a prendere Erminie proprio ora?» chiese Rascard, con un doloroso presentimento. «Mi pare che nella mia casa si trovi bene. E anche la sua casa. Erminie è l'ultimo collegamento che ho con il ricordo di mio figlio, e preferirei tenerla con me come una figlia.» «Non è possibile», disse Renato. «Non è più una bambina, ma una donna in età di marito, prossima ai vent'anni, e voi non siete così vecchio.» (Fino a pochi minuti prima, in realtà, era convinto che Rascard di Hammerfell non facesse più correre quel tipo di rischi a una giovane ragazza che per caso fosse rimasta sola con lui.) «È scandaloso», aggiunse Renato, «che viviate sotto lo stesso tetto.» «"Non c'è niente di più malizioso della mente di un uomo virtuoso, tranne forse quella di una donna virtuosa"», citò Rascard, con irritazione. Ar-
rossì di collera. In verità, quel tipo di considerazioni non l'aveva neppure lontanamente sfiorato. «Fin da piccola è sempre stata la compagna di giochi di mio figlio, e negli anni in cui è vissuta ad Hammerfell ci sono state tutte le sorveglianti, istitutrici, governanti e dame di compagnia che potete desiderare. Vi riferiranno che, in tanti anni, io e lei saremo stati soli in una stanza un paio di volte al massimo, tranne quando mi ha portato la notizia della tragica morte di mio figlio, e quella volta, potete credermi, tutt'e due avevamo altre cose a cui pensare.» «Non ne dubito», rispose Renato, cortesemente, «ma, anche così, Erminie è in età di marito, e finché sarà sotto il vostro tetto, sia pure innocentemente, non potrà sposarsi con un uomo della giusta condizione; o intendete umiliarla dandole per marito qualche vostro cortigiano di bassa estrazione, uno scudiero o un servitore?» «Niente affatto», ribatté il duca. «Pensavo di darla in moglie a mio figlio, se fosse sopravvissuto alla cattura.» Scese un imbarazzato - e per Rascard triste - silenzio. Ma Leynier non si arrese. «Oh, se gli dèi ce lo avessero concesso! Ma, con tutto il rispetto per vostro figlio, Erminie non può sposare un morto, purtroppo», disse, «e perciò deve ritornare dai suoi parenti.» Rascard sentì che gli occhi gli si riempivano di quelle lacrime che fino ad allora, per troppo orgoglio, non era riuscito a versare. Guardò lo stemma sul focolare e non riuscì più a nascondere l'amarezza. «Adesso sono davvero solo, perché non ho altri consanguinei. Quella gente di Storn ha finito per avere la vittoria perché non è rimasto più nessuno del sangue di Hammerfell, tranne me, in tutti i Cento Regni.» «Siete ancora giovane», disse Renato, commosso dalla tremenda solitudine che aveva sentito nelle parole di Rascard. «Potete ancora sposarvi e avere dieci eredi.» Rascard capì che era vero, ma sentì un tuffo al cuore; portare nella sua casa una sconosciuta e aspettare la nascita dei figli, aspettare che diventassero adulti, per poi vederseli portare via dalla faida... no, forse era ancora giovane, ma era troppo vecchio per quello. Eppure, che alternativa poteva esserci? Lasciare agli Storn il trionfo, sapendo che una volta ucciso anche il padre, dopo avergli ucciso il figlio, non sarebbe rimasto nessuno a vendicarli... sapere che lo stesso Hammerfell sarebbe finito nelle mani degli Storn, e che nei Cento Regni non sarebbe rimasta traccia dei Moray di Hammerfell?
«Allora, mi sposerò», disse, spinto dalla disperazione e dalla spavalderia del momento. «Che "prezzo della sposa" chiedete per Erminie?» Nell'udire l'inattesa richiesta, Renato rimase sconvolto. «Non intendevo suggerire questo, signore», disse. «Erminie non è del vostro rango: è nella vostra casa come semplice Sapiente. Non è una moglie adatta a voi.» «Se intendevo darla a mio figlio, come posso pensare che non sia adatta a me? Se la giudicassi inferiore, non avrei mai pensato a un matrimonio come quello», insistette Rascard. «Signore...» mormorò Renato. «Ha l'età per diventare madre, e non ho ragione di dubitare che sia altro che una moglie virtuosa», obiettò Rascard. «Una volta mi sono sposato pensando alle grandi alleanze che una moglie dell'alta nobiltà mi avrebbe portato; ma dove sono, quelle alleanze, adesso che mio figlio è morto? A questo punto, chiedo solo che la mia futura moglie goda di buona salute e che sia giovane, e sono abituato alla presenza di Erminie in casa mia perché è sempre stata l'amica d'infanzia di mio figlio. Come moglie, è meglio di tante altre ragazze a cui potrei pensare; e non dovrò abituarmi ad avere in casa un'estranea. Ditemi il suo prezzo: darò ai suoi genitori quel che la tradizione giudica ragionevole.» Renato Leynier lo guardò costernato. Sapeva di non poter rifiutare in poche parole quell'offerta di matrimonio senza farsi un grande nemico. Hammerfell era un piccolo regno, ma all'occorrenza poteva mettere in campo un forte esercito: non per niente i duchi di Hammerfell erano laggiù da tanti secoli. Perciò, Leynier poteva solo temporeggiare e augurarsi che il duca cambiasse idea di fronte alle difficoltà pratiche e ai ritardi. «Be'», disse, dopo qualche istante, «se così volete, signore, manderò un messaggio ai suoi tutori e chiederò che la loro pupilla abbia il permesso di sposarvi. Potrebbero sorgere difficoltà, però; potrebbe essere stata promessa a qualcuno quando era piccola, o qualcosa del genere.» «I suoi tutori? Perché non i suoi genitori?» volle sapere Rascard. «Non ne ha, signore: ecco perché, quando la vostra defunta moglie, mia cugina Ellendara, ha cercato una compagnia del suo stesso sangue per Alaric, che a quell'epoca era ancora un bambino, le è stata mandata Erminie che aveva bisogno di una casa. Come certamente ricorderete, signore, Ellendara era una Sapiente addestrata della Torre di Arilinn, e, non avendo figlie, ha voluto insegnare a Erminie quelle tecniche.»
«Non vedo dove possano essere le difficoltà da voi accennate, visto che non ci sono genitori dal cuore affranto ad aspettarla», replicò il duca. «C'è qualche mistero o qualche scandalo sulla sua nascita?» «Nessuno, assolutamente», rispose Renato. «Sua madre era mia sorella Lorna, e suo padre era il mio scudiero, un cadetto Hastur, Darran Tyall. La ragazza è nata fuori del matrimonio di catenas, vero; erano stati fidanzati all'età di dodici anni, e quando Darran venne ucciso in una scaramuccia di confine, mia sorella non stava più in sé dal dolore. Presto abbiamo saputo che era in attesa di un figlio. Erminie è nata tra le braccia di mia moglie, e noi le abbiamo sempre voluto bene; per questo Ellendara l'ha accolta con tanto affetto in questa casa.» «Allora, è vostra nipote», disse Rascard. «La madre è ancora viva?» «No. Lorna è sopravvissuta solo un anno alla morte del suo promesso sposo», disse Renato. «Allora sembra che siate voi il suo parente più prossimo e anche il suo guardiano, e tutti i discorsi di dover chiedere il permesso ad "altri" erano solo una scusa per guadagnare tempo», disse Rascard, con irritazione, alzandosi dalla sedia. «Perché non volete che sposi Erminie, mentre invece non avevate niente in contrario al fatto che sposassi vostra cugina, mia moglie?» «Non vi nasconderò niente», disse Renato Leynier, aggrottando la fronte. «Questa faida con gli Storn è diventata sempre più grave: da un semplice filo di fumo, ormai è un vero incendio; già allora mi è dispiaciuto che ci fosse, ma adesso mi dispiace ancor di più. Non voglio che un'altra mia consanguinea entri in un clan così colpito dalle faide.» Vide che Rascard serrava strettamente le mascelle, e aggiunse: «Conosco le vostre abitudini delle montagne; mi era dispiaciuto che Ellendara fosse entrata a far parte di una simile faida, e non avrei voluto che altri componenti della mia famiglia vi venissero coinvolti. «Finché Erminie era soltanto un'ospite nella vostra casa, mi sono detto che la cosa non mi riguardava; ma il matrimonio è un'altra cosa. E poi la ragazza è troppo giovane per voi. Mi dispiace che una ragazza di quell'età sposi un uomo che potrebbe essere suo padre, o anche più vecchio... Ma lasciamo che sia la ragazza stessa a decidere, e se non avrà obiezioni lei, non ne avrò neanch'io. Anche se preferirei che sposasse un uomo di qualche casa meno funestata dalle lotte.» «Fatela venire qui, allora, e chiedete a lei», disse il duca Rascard. «Non alla vostra presenza», insistette Renato. «Potrebbe trovarsi in sog-
gezione nel dire, davanti al suo amico e benefattore, che intende lasciarlo.» «Come volete voi», disse il duca, e chiamò un servitore. «Chiedete per favore alla damigella Erminie di raggiungere suo cugino Renato nella serra», gli disse, in tono glaciale, e si allontanò. A Renato Leynier, nel guardare la figura del duca che si allontanava lungo il corridoio, dietro il servitore, parve impossibile che una giovane accettasse di sposare un uomo maturo e irascibile come quello. Era convinto che la sua giovane nipote accogliesse di buon grado la notizia che era venuto a portarla via. Quanto a Rascard, quando vide Erminie uscire dalle sue stanze per recarsi nella serra, la studiò con grande tenerezza, e per la prima volta la vide come una donna desiderabile, anziché come la bambina che giocava con suo figlio. Aveva pensato al matrimonio come a una necessità a cui era spinto dalla disperazione; ora, per la prima volta, pensò che il matrimonio poteva riservargli anche qualche compenso. Dopo qualche tempo, Renato ed Erminie ritornarono nella grande sala. L'uomo aggrottava la fronte, con ira, mentre, dal rossore di Erminie e dal debole sorriso che gli rivolse da dietro le spalle dello zio, il duca capì con un improvviso calore nel petto che la ragazza doveva avere accettato la sua proposta. Chiese con grande tenerezza: «Sei disposta, dunque, ad accettarmi come marito, Erminie?» «La ragazza è folle», brontolò Renato. «Le ho promesso che le avrei trovato un marito assai più adatto a lei.» Erminie sorrise e disse: «Perché pensate che possa esserci qualcuno di più adatto a me, zio?» Sorrise dolcemente a Rascard, e il duca, per la prima volta da quando mediante la pietra matrice - aveva visto morire il figlio, sentì che poteva esserci ancora una luce, attraverso il velo di dolore della sua esistenza. Le prese la mano e disse a bassa voce: «Sarai mia moglie, cara. Cercherò di renderti felice». «Lo so», rispose la giovane donna, stringendogli a sua volta la mano. «Erminie», disse Renato, cercando di ritrovare la calma, «puoi avere un matrimonio migliore. Vuoi davvero sposare quest'uomo? È più vecchio di quel che sarebbe oggi tuo padre; è più vecchio di me. È questo, ciò che desideri? Pensaci, ragazza!» continuò. «Ti viene offerta una libertà che è data a poche donne dei tuoi anni! Nessuno ti obbliga a rimanere ad Hammerfell!»
Erminie prese il duca per la mano e disse: «Zio, Renato, questa è anche la mia famiglia, e la mia casa. Sono qui da quando ero ancora una bambina, e non ho voglia di ritornare a vivere dell'elemosina di parenti che ormai mi sono estranei.» «Sei una sciocca, Erminie», disse Renato. «Vuoi che anche i tuoi figli siano spazzati via in questa folle faida?» A queste parole, la ragazza aggrottò la fronte. «Confesso che preferirei vivere in pace, ma chi di noi non lo preferirebbe, se potesse scegliere?» chiese. E il duca, colto momentaneamente da qualcosa di superiore all'orgoglio, disse: «Se lo vorrai, Erminie, chiederò al signore di Storn di fare la pace». Lei rispose, guardandosi le mani: «Vorrei la pace, è vero. Ma è stato il signore di Storn a rifiutarvi perfino il corpo di vostro figlio; non voglio che vi umiliate davanti a lui, mio promesso sposo, né voglio che vi rechiate da lui umilmente, supplicandolo di concedervi la pace alle sue condizioni.» «Si può trovare un compromesso», propose Rascard. «Gli manderò un'ambasciata, chiedendogli cortesemente che mi restituisca il corpo di mio figlio per dargli decorosa sepoltura, e se lui accetterà, si potrà avere una pace onorevole; se dovesse rifiutare, tra noi ci sarebbe guerra eterna.» «Eterna?» chiese Erminie, stupita; poi trasse un sospiro. «Così sia; tutto dipenderà dalla sua risposta.» Renato Leynier aggrottò la fronte. «Adesso capisco che tutt'e due siete dei pazzi inguaribili», disse. «Se davvero voleste la pace, in qualche modo riuscireste a vincere l'orgoglio che minaccia di spazzare via tanto Storn quanto Hammerfell, e di trasformare i vostri due castelli in rovine abbandonate, nidi di corvi e rifugi di banditi!» Rascard rabbrividì, perché nelle parole di Renato gli era parso di cogliere un tono di profezia, e per un momento sollevò gli occhi a guardare il soffitto della grande sala, sorretto da enormi travi di legno: gli parve di vedere solo più rocce e rovine deserte dove un tempo si levava l'orgogliosa fortezza degli Hammerfell. Ma quando Renato chiese: «Non riuscite a vincere quel vostro maledetto orgoglio?» Rascard serrò i denti e anche Erminie rizzò la schiena con un tocco di arroganza. «Perché deve essere mio marito a vincere l'orgoglio?» chiese Erminie, incollerita. «Perché non deve essere Storn, visto che ha quasi distrutto il clan di mio marito? Non spetta al vincitore mostrarsi magnanimo?»
«Può darsi che tu abbia ragione», disse Renato, «ma non sarà la ragione a porre fine alla faida. Uno di voi deve rinunciare all'orgoglio.» «Può darsi», concesse Rascard. «Ma perché proprio io?» Renato Leynier si strinse nelle spalle e si avvicinò alla finestra. Con un gesto di rassegnazione, disse: «Erminie, avete preso la vostra decisione; per quel che vale, avete il mio permesso di sposarvi. E voi, cugino, sposatela; vedo che siete proprio fatti l'uno per l'altra, e buon pro vi faccia.» Con un sorriso obliquo, Rascard chiese: «La devo prendere come una benedizione?» «Prendetela come una benedizione, come una maledizione o come quel che vi pare», disse Renato, con ira, e senza proferire una sola parola in più, s'inchinò e si allontanò dalla stanza. Rascard prese Erminie per il braccio e rise. «Era talmente arrabbiato che si è dimenticato di chiedere il prezzo della sposa», disse. E aggiunse: «Temo che ti sia alienata l'affetto della tua famiglia, accettando di sposarmi, Erminie». Lei gli sorrise e rispose: «Parenti come quelli, è meglio perderli che trovarli; almeno eviteremo di dover perdere tempo a ricevere le visite di familiari antipatici». «Purché rimanga tra noi quanto basta a svolgere la parte del parente della sposa al matrimonio, può andare dove vuole... anche all'inferno, se Zandru lo accetta, e spero che la sua compagnia sia più gradita al diavolo che a noi», confermò Rascard. CAPITOLO 3 DALLA TORRE DI ARILINN Il matrimonio tra il duca Rascard ed Erminie Leynier si tenne, come di consueto, al solstizio d'estate, e fu una cerimonia per pochi intimi, almeno secondo il metro di giudizio della nobiltà degli Hellers. Infatti, i parenti della sposa non si presero la briga di presenziare, e giunse solo una decina di scudieri del Nobile Renato, a testimonianza del fatto che la famiglia della sposa non si opponeva al matrimonio con il signore di Hammerfell. Meno di così, sarebbe stato offensivo, ma era ovvio che Renato Leynier presenziava a malincuore; e dalla parte della famiglia della sposa giunsero pochi doni di nozze alla nuova duchessa di Hammerfell. A compensarla dello scarso numero di doni, il duca regalò alla giovine
moglie tutti i favolosi gioielli della corona. I pochi lontani cugini di Hammerfell che presero parte alla cerimonia erano cupi e irritati, perché avevano sperato, in mancanza di un erede o di un parente più prossimo, che il titolo e le terre del duca andassero a uno di loro; l'attuale matrimonio con una donna giovane, che ragionevolmente avrebbe potuto dargli molti figli, veniva a mettere la parola fine alle loro belle speranze. «Non prendiamocela», disse uno di loro a un compagno. «Può darsi che non significhi niente. Rascard non è più un ragazzino; può darsi che resti senza figli.» «Non contarci», rispose l'altro, cinico. «Da quando gli è morto il figlio, Rascard sembra più vecchio di quel che è, ma è ancora nel pieno delle forze, e ha solo 45 anni; e anche se non lo fosse, ricorda il proverbio: "Chi si sposa a quarant'anni può rimanere senza figli; chi si sposa a cinquanta ne ha certamente".» Alzò le spalle e aggiunse: «Mi dispiace solo per la ragazza: è giovane e bella e meriterebbe un marito migliore. Quasi quasi, ho la tentazione di venire a prestare servizio al castello, per consolare la sposina nelle lunghe notti invernali.» «Non credo che tu possa avere molte speranze», rispose il primo. «Sembra una ragazza molto tranquilla, e deve voler bene al duca.» «Come a un padre, certo», rispose il secondo, «ma come marito?» Era solo una delle tante conversazioni dello stesso tenore, ed Erminie, che era un'abile lettrice dei pensieri, e che non era abituata a stare in compagnia di tante persone e a chiudere la propria mente agli estranei, doveva ascoltare tutte quelle conversazioni senza far capire di averle udite. Faticava a stare zitta e a non ribattere con indignazione... proprio il giorno del suo matrimonio! Quando giunse il momento in cui doveva essere portata dalle sue donne nella camera nuziale - e le sue donne erano quasi tutte cameriere, perché nessuna delle sue zie e delle sue cugine si era presa la briga di compiere il lungo viaggio - era quasi sul punto di piangere. Non ebbe neppure voglia di fare la solita scena, consistente nel protestare e nel divincolarsi, quando la portarono via dalla sala del ricevimento, anche se sapeva che potevano criticarla perché una sposa onesta doveva mostrare maggiore ritrosia. Anche se si era in estate, a Erminie la stanza parve gelida e piena di correnti d'aria, quando la spogliarono per farle indossare la tradizionale camicia da notte delle spose (un'antica usanza, perché tutti potessero vedere che la sposa godeva di buona salute e non aveva difetti nascosti); continuò ad
aspettare, rabbrividendo e cercando di frenare le lacrime, perché non voleva che Rascard pensasse che lei non era contenta del matrimonio. Erminie sapeva che, per quanto potesse sembrare burbero, il duca era fondamentalmente una persona gentile; inoltre, la ragazza sapeva che il suo era un ottimo matrimonio, checché ne dicessero i suoi parenti; il titolo di duchessa di Hammerfell non era affatto disprezzabile. Erminie sapeva che prima o poi si sarebbe dovuta sposare, ed era meglio un uomo non più giovane, ma che era sempre stato gentile con lei, che andare a un estraneo, per quanto bello e giovane. Molte spose erano state lasciate sole tra le braccia di un uomo mai visto; lei era contenta che non le fosse capitato quel destino. I gioielli di Hammerfell che aveva al collo erano gelidi e massicci; se li sarebbe voluti togliere, ma le cameriere, anche se la spogliarono di tutto il resto, vollero che si tenesse le gemme pesanti. «Il duca penserà che non apprezzate i suoi doni», le dissero. «Almeno per questa notte, dovete portarle.» Perciò Erminie sopportò il peso e il gelo di quelle gemme che la pungevano e si chiese per quanto tempo la cosa dovesse andare avanti. Le diedero un bicchiere di vino, e lei lo bevve con piacere. Era stanca, dopo essere rimasta in piedi per tutta la cerimonia, ed era disgustata da tutto quel che aveva sentito. Non era riuscita a mangiare molto del pranzo nuziale. Il vino le diede subito calore; Erminie sentì che le ritornava sulle gote un po' di colore; così, quando entrò nella camera il duca Rascard, con una vestaglia foderata di pelliccia (Erminie si chiese perché la tradizione non chiedesse anche allo sposo di mostrarsi spogliato, per dimostrare ai familiari della moglie di essere privo di difetti fisici) la trovò seduta nell'alto letto a baldacchino, con le guance amabilmente arrossate, le forme rivelate dalla veste leggera, e i capelli sciolti sul seno. Rascard non l'aveva mai vista con i capelli sciolti, in precedenza, ma solo con le severe trecce che si faceva tutti i giorni; gli parve talmente giovane e innocente che sentì quasi un tuffo al cuore. Quando i servitori, dopo avere rivolto le rituali battute a doppio senso, uscirono dalla stanza, il duca fece un gesto a uno di loro perché si fermasse. «Va' nel mio spogliatoio, Ruyven, e portami il cesto che c'è laggiù», ordinò, e, quando l'uomo riapparve, con un grande cesto fra le braccia, aggiunse: «Mettilo lì. Sì, ai piedi del letto. Adesso, vai». «Buona notte, signore e signora, e tanta felicità a tutt'e due», disse l'uo-
mo, con un largo sorriso, e si affrettò a ritirarsi. Erminie guardò con curiosità il cesto, coperto da una tovaglia. «Questo è il mio vero regalo di nozze, cara», disse piano Rascard. «So che i gioielli non contano niente, per te, e perciò ti ho fatto un regalo che dovrebbe piacerti di più, mi auguro.» Erminie arrossì. «Mio signore, non credere che sia un'ingrata... solo, non sono abituata a portare gioielli, e li trovo così pesanti... non vorrei però contrariarti...» «Via, contrariarmi?» chiese Rascard, prendendola delicatamente per le spalle. «Credi che voglia essere amato per i gioielli che ti do? Sono lieto che tu attribuisca più valore a tuo marito che al suo dono di nozze. Togliamo questi gioielli, allora.» Con un sorriso, cominciò ad aprire i pesanti fermagli delle collane di smeraldi e le posò lontano, mentre la ragazza respirava di sollievo. Quando tutte le collane e i massicci braccialetti furono sul tavolo, Rascard chiese piano: «E adesso vuoi vedere il mio vero regalo?» Erminie si girò verso la cesta e, con curiosità, tolse la tovaglia con cui era coperto. Nello scorgere il grosso cucciolo peloso, si lasciò sfuggire un piccolo grido, e si chinò a prendere l'animale. «Com'è carino!» esclamò, stringendo il cucciolo tra le braccia. «Oh, grazie.» «Sono contento che ti piaccia, cara», disse Rascard, sorridendo, e lei, d'impulso, lo abbracciò e lo baciò. «Ha già un nome, mio signore?» «No, pensavo che avresti preferito darglielo tu stessa», rispose Rascard. «Ma io ho un nome, e voglio che tu lo usi per chiamarmi, cara.» «Allora... Rascard... ti ringrazio di cuore», disse lei, timidamente. «Posso chiamarlo "Gioiello", visto che mi piace più di qualsiasi gioiello che tu possa donarmi?» «Chiamarla», la corresse Rascard. «Ho preso una femmina: sono più affettuose e hanno un miglior carattere, come cani da tenere in casa. Pensavo che ti piacesse avere un cane per farti compagnia, e un maschio sarebbe sempre fuori, a correre e a esplorare la campagna.» «È molto carina, e "Gioiello" è un nome più adatto a una femmina che a un maschio», disse Erminie, abbracciando con affetto il cagnolino ancora assonnato, il cui pelo lucente aveva quasi lo stesso colore dei suoi capelli. «Allora è il mio gioiello preferito, e sarà il mio bambino finché non ne a-
vrò uno.» Cullò tra le braccia il cagnolino, facendogli mille allegre moine, mentre Rascard, che la guardava con tenerezza, pensava: Sì, sarà una buona madre per i nostri figli; è gentile e le piacciono le piccole creature. Le tolse delicatamente di mano il cagnolino e lo posò sul letto, ed Erminie si lasciò stringere con affetto tra le sue braccia. Il ricordo della festa del solstizio d'estate fece in fretta a svanire, e la neve cadde nuovamente sui passi che portavano ad Hammerfell. Gioiello crebbe, e da un cucciolo giocherellone, tutto orecchie lunghe e zampe grosse, divenne un cane agile e serio, che non lasciava mai la giovane duchessa, quando lei faceva il giro del castello. Con la certezza di saper compiere i doveri della sua nuova posizione, e con la soddisfazione datale dal matrimonio felice, Erminie era diventata ancor più bella; e se di tanto in tanto piangeva ancora la morte del compagno di giochi che avrebbe voluto sposare, lo faceva in segreto, e pienamente consapevole che il marito non lo piangeva meno di lei. Un mattino, mentre si preparava a fare colazione con Rascard, come sempre, in una stanza del piano più alto, da cui si dominava l'intera valle, il duca guardò all'esterno e chiese: «Cara, tu che hai gli occhi più acuti dei miei, che cosa vedi, lì sotto?» Erminie lo raggiunse e passò lo sguardo sulle alture coperte di ghiaccio: scorse un piccolo gruppo a cavallo, che stava risalendo l'impervio sentiero che conduceva al castello. «Arriva un gruppo di cavalieri», disse Erminie. «Almeno sette o otto, e hanno una bandiera nera e bianca... però, non vedo ancora lo stemma.» Non disse a Rascard che aveva avuto come uno sgradevole presentimento: l'impressione che stesse per succedere qualche disgrazia. E, ancor prima che riuscisse a terminare la frase, fu lo stesso duca a dire, con una nota di preoccupazione: «Non abbiamo più sentito parlare degli Storn, vero, cara, da quando ci siamo sposati?» «Perché», rispose lei, «ti aspettavi che venissero a mangiare una fetta di torta nuziale o che ci mandassero un dono di nozze?» «Non più di quanto mi aspetti un piatto d'argento o un altro regalo in occasione della nascita di nostro figlio», disse Rascard, «ma c'è stata troppa calma, in questo periodo; mi chiedo che cosa stiano macchinando.»
Abbassò gli occhi, con preoccupazione, sul vestito di Erminie, largo in vita a causa della gravidanza; ma lei, a sentir parlare del figlio, sorrise tra sé. «Con la nuova luna potrebbe nascere», disse, guardando il cielo, dove si scorgeva una falce di luna crescente. «Quanto agli Storn, la cattura di Alaric è stata la loro ultima mossa; forse hanno l'impressione che la prossima spetti a noi. O forse si sono stancati della contesa.» «Se volessero la pace, gli sarebbe bastato restituirci il corpo di Alaric», disse Rascard. «Non c'è nessuna gloria a offendere i morti, e il signore di Storn lo sa bene quanto me. Quanto poi al fatto che siano stanchi della faida, credo che prima vedremo crescere le more sul ghiaccio del Muro Attorno al Mondo.» Anche se aveva la stessa convinzione, Erminie guardò da un'altra parte; provava sempre un po' di paura, quando vedeva Rascard così irato, anche se non era mai stato men che gentile con lei. «È già ora di ordinare alla levatrice di fermarsi al castello?» le chiese Rascard. Erminie rispose: «Non devi preoccuparti di queste cose, marito mio; posso provvedere con le mie donne: Molte di loro hanno già avuto dei figli e hanno aiutato a farne venire al mondo.» «Ma è il tuo primo figlio, e sono preoccupato per te, cara», disse Rascard, che sentiva di avere già perso fin troppe persone care. «Non accetto scuse; in settimana, Markos partirà per il Lago del Silenzio, e da lì verrà a prendersi cura di te una sacerdotessa di Avarra.» «Va bene, Rascard, se la cosa serve a tranquillizzarti», replicò Erminie, «ma perché inviare proprio Markos? Non puoi mandare una persona più giovane?» Rascard rise, e disse per prenderla in giro: «Come mai, cara, tante attenzioni per Markos? Ho la sfortuna di avere un rivale nella mia stessa casa?» Erminie sapeva che l'aveva detto per scherzo, ma rispose con serietà: «Markos è troppo vecchio per difendersi da un'imboscata, dei banditi o...» S'interruppe senza terminare, ma Rascard sentì anche le parole non pronunciate: Dei nostri nemici Storn. «Be', certo non possiamo far correre rischi al tuo cavalier servente», disse Rascard, sorridendo. «Manderò qualcuno dei giovani a proteggerlo.» Tornò a guardare dalla finestra. «Adesso riesci a distinguere lo stendardo, cara?»
Erminie guardò di nuovo, e dopo qualche istante aggrottò le sopracciglia. «Adesso mi accorgo che non è bianco e nero, ma azzurro e argento: i colori degli Hastur. Nel nome di tutti gli dèi, che cosa può avere spinto un Hastur a venire ad Hammerfell?» «Non lo so, amore mio», rispose il duca. «Ma dobbiamo accoglierlo in modo adeguato al suo rango.» «Certo», annuì Erminie, e corse in cucina, dove ordinò alle sue donne di prepararsi a ricevere visite. Era leggermente preoccupata, perché in tutti gli anni da lei passati in quei monti non aveva mai avuto occasione di vedere qualcuno degli Hastur. Sapeva che da tempo gli Hastur cercavano di unire i Cento Regni in un'unica, grande confederazione sotto di loro, e naturalmente conosceva le infinite leggende che parlavano della loro origine divina, perciò rimase leggermente sorpresa quando vide che il signore Hastur era solo un uomo alto e magro, con fiammanti capelli color del rame e occhi grigi come i suoi; dal suo modo di fare sembrava una persona tranquilla e priva di pretese: secondo Erminie, lo stesso Rascard sembrava avere origine più divina della sua. «Rascard di Hammerfell è onorato di darvi il benvenuto nel suo castello», disse il duca, in tono ufficiale, non appena gli ospiti si furono tranquillamente seduti davanti a un bel fuoco nella sala del castello. «Vi presento mia moglie la duchessa Erminie. Posso conoscere il nome dell'ospite che mi onora con la sua presenza?» «Sono Valentine Hastur di Elhalyn», disse l'uomo. «La signora mia sorella...» indicò la dama accanto a lui, che indossava una veste rossa e aveva la faccia coperta da un lungo velo, «è Merelda, Guardiano di Arilinn.» Erminie arrossì e disse alla donna: «Ma allora ci conosciamo, certamente». «Sì», disse Merelda, e si sfilò il velo, rivelando un viso severo e privo di emozione. Aveva un tono di voce molto basso, ed Erminie solo allora comprese che era un androgino. «Vi ho visto nella mia gemma matrice. È per questo che siamo venuti qui: per incontrarci con voi e per proporvi di venire nella nostra Torre per ricevere l'addestramento di una Sapiente». «Oh, mi piacerebbe davvero!» disse Erminie, immediatamente. «Ho avuto solo l'addestramento che mi ha dato la mia madre adottiva, che era duchessa prima di me...» Poi, all'improvviso, fece la faccia desolata. «Però, come potete vedere, non posso lasciare mio marito e... il mio bambino che presto nascerà.»
Però, sembrava davvero rattristata, e il Nobile Valentine le sorrise gentilmente. «Naturalmente, il vostro primo dovere è nei riguardi dei vostri figli», disse Merelda. «Eppure, abbiamo un grande bisogno di Sapienti addestrati, nella Torre, e non ci sono mai abbastanza persone dotate del Potere per tutte le nostre esigenze. Chissà, una volta che i vostri figli siano nati, potreste venire da noi per un anno o due...» Irritato, il duca la interruppe: «Mia moglie non è un'orfana senza casa, a cui dobbiate offrire un posto da apprendista! Mi occupo io di lei, senza l'aiuto degli Hastur. Non ha bisogno di servire altri che me». «Oh, ne sono certo», disse Valentine, diplomaticamente. «Ma non vi chiediamo di darci qualcosa senza una contropartita; l'addestramento che riceverà sarà utile a tutta la vostra famiglia e al vostro clan.» Rascard vide che Erminie sembrava davvero delusa. Che fosse disposta a lasciarlo per avere l'"addestramento", qualunque cosa fosse? Irritato dall'idea, il duca disse bruscamente: «Mia moglie, la madre dei miei figli, non può lasciare il suo tetto; e questa è la mia ultima parola. Posso esservi d'aiuto in qualcosa d'altro, signori?» Valentine e Merelda, che non erano certamente venuti con l'intenzione di far irritare il padrone di casa, lasciarono momentaneamente da parte l'argomento. «Forse potreste soddisfare una mia curiosità», disse il Nobile Valentine. «Da dove nasce la vostra faida con gli Storn? Ho sentito dire che era già scoppiata quando mio nonno era appena nato.» «Anche quando lo era il mio», disse Rascard. «Eppure, con ho mai saputo da dove avesse origine, o da che episodio fosse iniziata», continuò l'Hastur. «Nel cavalcare tra questi monti, ho visto gruppi di uomini di Storn in marcia, probabilmente per qualche scorreria. Voi, signor duca, siete in grado di informarmi?» «Anch'io ho sentito diverse storie», disse il duca Rascard, «ma non posso garantire che una di esse sia quella vera.» Valentine Hastur rise. «Abbastanza giusto. Ditemi la versione a cui credete voi.» «Vi dirò la storia che ho sentito da mio padre», disse Rascard, accarezzando distrattamente la testa di Gioiello, che si era accucciata sulle sue gambe. «All'epoca di suo nonno, quando sul trono degli Hastur di Hali c'era Regis IV, Conn, mio bisavolo, prese accordi per sposare una donna de-
gli Alton, e a un certo punto gli fu riferito che la donna era già partita con i cavalli e il bagaglio, e con tre carri contenenti la dote e gli altri oggetti di sua proprietà. «Trascorse varie settimane», continuò Rascard, «non se ne seppe niente, e la donna non arrivò ad Hammerfell. Dopo quaranta giorni, la donna finalmente arrivò, ma con un messaggio di Storn. «Nella lettera», proseguì, «si diceva che Storn s'era preso la sposa e la dote, ma che, la ragazza non essendo risultata di sua soddisfazione, la rimandava ad Hammerfell, e il mio antenato aveva il permesso di sposarla, se voleva; Storn, però, si teneva la dote per la fatica che aveva fatto per scozzonarla. E poiché la signorina aspettava un figlio Storn, lo invitava a rimandarglielo, a comodo suo, con una scorta adatta al rango del piccino e prima di dargli un nome.» «Non mi stupisce che dall'episodio sia sorta una faida», commentò Valentine, e Rascard annuì. «A quel punto, poteva ancora passare per uno scherzo offensivo e di pessimo gusto, ma senza spargimento di sangue», disse il duca, «però, quando nacque il bambino - e si dice che fosse identico al primogenito degli Storn - il mio avo glielo rimandò indietro, con un conto per la balia che lo portava e per la mula su cui viaggiavano. Quella primavera, Storn mandò uomini armati contro Hammerfell, e da quel giorno in poi c'è sempre stata guerra. Quando avevo poco più di quindici anni, e da poco ero stato proclamato maggiorenne, in un'imboscata degli Storn sono morti mio padre, i miei due fratelli più vecchi e mio fratello minore, che aveva solo nove anni. Gli Storn mi hanno lasciato solo al mondo, signore, a parte la mia cara moglie e il figlio che porta in grembo. E io li difenderò a costo della mia vita.» «Nessuno potrebbe darvi torto», disse Valentine Hastur, corrucciato, «e non voglio certamente farlo io; eppure, mi piacerebbe veder finire questa faida, prima di morire.» «Anche a me», disse Rascard. «Nonostante tutto, sarei stato disposto a fare la pace con gli Storn, finché non hanno attaccato il mio scudiero e ucciso mio figlio. Fino ad allora, avrei potuto dimenticare l'uccisione dei miei parenti, ma adesso non più. Amavo troppo mio figlio.» «Forse i vostri figli potranno metterle la parola fine», disse il signore Hastur. «Forse», ammise Rascard. «Ma dovrà passare del tempo; mio figlio deve ancora nascere.»
«I bambini che Erminie sta per dare alla luce...» intervenne Merelda. Erminie la interruppe. «Bambini?» «Be', certo», rispose la Sapiente Hastur. «Saprete certamente che aspettate due gemelli.» «No... non lo sapevo», balbettò Erminie. «Come potete affermarlo?» «Avete mai esaminato con il Potere una donna in gravidanza?» chiese la Hastur. «No, mai. Non mi è stato insegnato. A volte ho avuto l'impressione che la mia mente toccasse quella del bambino, ma non potevo esserne sicura...» Rascard aggrottò la fronte. «Due gemelli?» chiese, preoccupato. «Spero, allora, per il bene di tutti, che uno dei due sia una femmina.» Valentine alzò un sopracciglio e chiese, guardando la sorella: «Merelda?» Ma lei scosse la testa. «Mi spiace», rispose. «Avrete due maschi. Pensavo che la cosa potesse piacervi. È triste quando a salvare dall'estinzione un'antica famiglia c'è un unico figlio.» Ma Erminie sorrideva. «Darò al mio signore non un figlio solo, ma ben due!» esclamò. «Hai sentito, mio signore?» Poi si accorse che Rascard aggrottava la fronte. «Ti dispiace, Rascard?» chiese. Il duca si sforzò di sorridere. «Sono contento, naturalmente, cara», disse, «ma i gemelli creano sempre confusione perché non si sa mai quale sia il primogenito o il più adatto al comando, e spesso finiscono per diventare nemici. I miei figli, invece, devono essere forti alleati per difendersi dai nostri nemici Storn.» Poi, vedendo che Erminie lo guardava costernata, aggiunse: «Però, non devi permettere a queste considerazioni di rovinarti il piacere che potranno darti i figli. Troveremo qualche soluzione, ne sono certo.» Il Nobile Valentine disse: «Vi sarei riconoscente se permetteste alla vostra signora di stare con noi, almeno per qualche tempo; ad Arilinn c'è una famosa scuola per levatrici, e avrebbe tutta l'assistenza necessaria; inoltre i gemelli riceverebbero tutte le attenzioni loro occorrenti». «Mi dispiace, ma non posso neppure prendere in considerazione l'idea», disse Rascard. «Per tradizione, i duchi di Hammerfell sono sempre nati sotto il loro tetto!» «Allora, penso che ci siamo detti tutto», rispose il Nobile Valentine, e si
alzò per accomiatarsi. Il duca Rascard insistette perché si fermassero al banchetto in loro onore, ma i due Hastur si rifiutarono cortesemente e lasciarono il castello, con grandi espressioni di stima dall'una parte e dall'altra. Quando i Sapienti di Arilinn si furono allontanati da Hammerfell, Rascard notò che Erminie era triste. «Certo non vorrai lasciarmi solo, moglie mia, e far nascere i nostri figli in mezzo agli estranei!» esclamò. «No, naturalmente no», rispose lei, «ma...» «Ah, lo sapevo che doveva esserci un "ma"!» disse il duca. «Che cosa potrebbe allontanarti da me, cara? Hai da lamentarti di qualcosa?» «No, di niente; sei il marito più gentile che si possa immaginare», disse Erminie. «Però, è allettante l'idea di poter ricevere l'intero addestramento di una Sapiente. So bene che nel mio Potere ci sono potenzialità che non so neppure immaginare, e che sono ben lontana dal conoscere.» «Conosci queste cose meglio di me e di chiunque altri nel ducato di Hammerfell», disse Rascard. «Non sei contenta?» «No, non è che sia scontenta», disse Erminie, «ma ci sono tante cose da conoscere - l'ho imparato dalla pietra matrice - e mi sento ignorante, se penso a quel che potrei essere. La Sapiente Merelda, per esempio, è così dotta e saggia...» «A me non occorre una moglie dotta, e mi piaci come sei», le assicurò Rascard, abbracciandola, e lei non disse altro. Era contenta del marito e dei figli in arrivo; per il momento, almeno. CAPITOLO 4 LA CADUTA DI HAMMERFELL La luna si assottigliò fino a scomparire, e poi la sua falce tornò a ingrandirsi; tre giorni dopo il plenilunio, Erminie di Hammerfell diede alla luce, come predetto dalla Sapiente, due gemelli identici come due gocce d'acqua. Erano due piccoli bambini robusti, rossi e piangenti, e ciascuno dei due aveva la testa coperta di ruvidi capelli neri. «Capelli scuri», disse Erminie, aggrottando la fronte. «Speravo che almeno uno dei nostri figli, mio signore, avesse il dono del Potere della mia famiglia.» «A quanto ho sentito dire del Potere», rispose Rascard, pensando alla quantità di nascite irregolari - come l'androgina e sterile Marelda - che si
verificavano tra gli Hastur, «per noi... e per loro... è meglio non averlo. Nella mia famiglia, il Potere non è mai stato superiore alla capacità di leggere nei pensieri.» «Uno dei due, o anche tutti e due, potrebbero avere i capelli rossi, mia signora», intervenne la levatrice, piegandosi su di lei. «Quando i bambini nascono con tanti capelli neri, in genere li perdono; e poi ricrescono biondi o rossi.» «Davvero?» chiese Erminie, poi s'interruppe, come per cercare qualche lontano ricordo. «Sì un'amica di mia madre mi ha detto una volta che alla nascita avevo i capelli neri, ma che sono caduti per poi spuntare rossi.» «Be', può darsi», commentò Rascard, e si chinò a baciare la moglie. «Grazie di questo grande dono, mia signora. Come li chiameremo?» «Devi dirlo tu, marito mio», rispose Erminie. «Vuoi dare a uno di loro il nome di tuo figlio che è morto per mano degli Storn?» «Alaric? No, mi pare di cattivo augurio dare a mio figlio il nome di un morto», disse Rascard. «Cercherò nell'archivio degli Hammerfell nomi di persone che sono vissute fino a tarda età e in buona salute.» Quella sera, come promesso, si recò nelle sue stanze, dove Erminie era a letto con un figlio per parte e con Gioiello, che ormai cominciava a diventare un cane molto grosso, accucciata sui piedi. «Perché hai legato un filo rosso attorno al polso di uno e non del fratello?» chiese il duca Rascard. «Sono stata io», spiegò la levatrice. «Quell'ometto è nato prima del fratello, almeno venti minuti; è nato a mezzogiorno esatto, mentre quel pigrone di suo fratello ha aspettato ancora qualche momento.» «Una buona idea», disse Rascard, «ma un nastro si può perdere. Chiamate Markos», ordinò. Poi, quando il vecchio scudiero entrò nella stanza e rivolse un inchino al duca e alla duchessa, Rascard gli disse: «Prendi il mio primogenito, qui... il piccolo duca, il mio erede... quello con il nastro al polso... e fallo tatuare in modo che non lo si possa confondere con il fratello.» Markos si curvò sul bambino e lo tolse dalle braccia della madre. Erminie chiese, preoccupata: «Che cosa intendete fargli?» «Non gli farò del male. Proverà dolore solo per un istante. Gli farò solamente tatuare il marchio degli Hammerfell: poi ve lo ridarò. Basteranno pochi minuti», rispose il vecchio scudiero, sollevando il bambino ben fa-
sciato e uscendo poi dalla stanza. Poco dopo, fu di ritorno, e scostò la coperta per rivelare un tatuaggio rosso sulla piccola spalla del neonato: la mazza degli Hammerfell. «Lo chiamerò Alester», disse Rascard, «dal nome del mio defunto padre; e l'altro si chiamerà Conn, dal nome del mio avo ai cui tempi ebbe inizio la faida con gli Storn; naturalmente», e guardò Erminie, «se non hai obiezioni.» Il bambino dormì male, e quando si svegliò pianse disperatamente, con la faccia rossa di collera. «Gli fa male!» protestò Erminie. Markos rise. «Non molto, e il dolore non durerà a lungo; tuttavia, è un piccolo prezzo da pagare, in cambio dell'eredità degli Hammerfell.» «Al diavolo Hammerfell e le eredità», disse Erminie, con collera, stringendosi al petto il piangente Alester. «Non piangere più, amore, mamma è qui con te, e nessuno potrà più toccarti.» Nello stesso momento, Conn, che dormiva nella culla in fondo alla stanza, si svegliò e cominciò a piangere all'unisono con il fratello. Rascard andò a prendere in braccio il figlio più giovane, che agitava con collera le braccia e le gambe, e notò con sorpresa che Conn cercava di toccarsi la spalla sinistra, sulla quale, naturalmente, non si vedeva alcun marchio; inoltre, non appena Conn cominciò a piangere, Alester si addormentò tra le braccia della madre, come se in qualche modo fosse riuscito a passare al fratello il suo dolore. Nei giorni successivi, Erminie notò varie volte lo stesso curioso fatto: che, quando Alester vagiva, Conn si svegliava e si metteva a piangere; però non successe mai l'inverso, e un giorno che Conn si punse con uno spillo delle fasce, Alester continuò a dormire tranquillamente. A Erminie tornò in mente quel che le avevano detto da bambina: che, quando nascevano gemelli nelle famiglie con il dono del Potere, uno aveva sempre poteri mentali leggermente superiori alla media, mentre l'altro li aveva sempre leggermente inferiori. Ovviamente, perciò, Conn era il più dotato dei due, e da quel giorno Erminie trascorse più tempo a tenerlo in braccio e a tranquillizzarlo, perché se era sensibile sia al proprio dolore sia a quello del fratello, le pareva che avesse maggiore bisogno di amore e di tenerezza. Così, per i primi mesi di vita, Conn divenne il beniamino della madre, mentre Alester era il beniamino del duca, un po' perché era l'erede, e un po'
perché piangeva meno e sorrideva di più al padre. I due gemelli erano belli e pieni di salute, e crebbero come due cagnolini; dopo un po' di mesi, muovevano già i primi passi nella casa e nel cortile, aggrappati al grande cane Gioiello, che era la loro guardia e il loro eterno compagno di giochi. Alester fu il primo a camminare, e precedette di qualche settimana il fratello, ma si limitava ancora a fare i versi dei bambini piccoli quando Conn articolò per la prima volta una parola, che doveva essere il nome della madre. Come previsto dalla levatrice, i capelli neri che avevano alla nascita caddero e lasciarono il posto a una massa di fini capelli rossi. Nessuno riusciva a distinguerli l'uno dall'altro, tolta la madre; perfino il duca scambiò a volte Conn per Alester, ma Erminie non commise mai un errore. Avevano ormai un anno e qualche mese, allorché, in un pomeriggio buio e coperto, il duca Rascard entrò di corsa nella stanza di cucito della moglie, dove Erminie sedeva con le sue donne e i gemelli, seduti sul pavimento, giocavano con i cavallucci di legno. La duchessa si girò verso il marito e lo guardò stupita. «Che cosa è successo?» chiese. «Non allarmarti più del dovuto, cara», rispose il duca, «ma ci sono degli uomini armati che si avvicinano al castello. Ho fatto accendere i fuochi per far accorrere all'interno del castello gli abitanti delle fattorie, e ho ordinato di prepararsi ad alzare il ponte levatoio. «Qui», proseguì, «saremmo al sicuro anche se ci tenessero sotto assedio per un'intera stagione. Ma dobbiamo essere pronti a tutto.» «Gli uomini di Storn?» chiese lei, senza tradire paura o allarme; ma Conn, che evidentemente doveva avere colto qualcosa, lasciò cadere a terra il cavalluccio di legno e cominciò a piangere. «Temo che siano gli Storn», confermò il duca, ed Erminie impallidì. «I bambini!» «Sì», rispose Rascard, chinandosi a darle frettolosamente un bacio. «Prendili con te, e allontanati come abbiamo sempre detto. Gli dèi ti proteggano, mia cara, finché non saremo di nuovo insieme.» Erminie prese in braccio i due gemelli e ritornò nella propria stanza, dove raccolse rapidamente quel che poteva occorrere a lei e ai figli; poi mandò in cucina una delle sue donne, per farsi portare un cestino con il cibo, e si recò in fretta a un'uscita secondaria. Il piano convenuto era il seguente: se qualcuno avesse fatto irruzione
nella fortezza, lei doveva allontanarsi immediatamente con i bambini e attraversare il bosco fino a raggiungere il villaggio vicino, dove non avrebbero corso rischi. Ora tornò a chiedersi se non fosse una pazzia lasciare la sicurezza del castello per ritirarsi nei boschi: nel castello si sarebbe trovata maggiormente al sicuro, e in caso d'assedio sarebbe rimasta con il marito. Ma Erminie aveva promesso a Rascard di seguire alla lettera il piano: altrimenti, il marito non sarebbe più riuscito a trovarla, alla fine della scaramuccia, e avrebbero corso il pericolo di separarsi per sempre. Per un attimo, le parve che il cuore le si fermasse. Che quel bacio dato in fretta fosse stato l'addio al padre dei suoi figli? Conn piangeva sconsolatalmente, ed Erminie capì che le leggeva nella mente la paura, e perciò cercò di farsi coraggio, non solo per sé, ma anche per i figli spaventati. Li avvolse nel loro mantello più caldo e li posò a terra accanto a lei; poi, con il cestino sotto il braccio, ne prese uno per mano. «Adesso, dobbiamo andare via di corsa, giovanotti», mormorò loro, e si avviò in fretta lungo le tortuose scale del castello, verso la porta secondaria, trascinando con sé i gemelli, che incespicavano sugli alti scalini. Aprì la porta dell'antica uscita, che oggi non veniva più usata, ma che aveva sempre i cardini bene oliati, in vista di un'eventualità come quella; si diede un'ultima occhiata alle spalle, in direzione del cortile principale, e vide volare le frecce e alzarsi le prime fiamme. Sentì l'impulso di tornare indietro di corsa e di gridare il nome del marito, ma ricordò la promessa. «In nessun caso», le aveva ordinato Rascard, «dovrai mai ritornare indietro; dovrai aspettarmi nel villaggio come ti ho detto, finché non verrò io a prenderti. Se all'alba non mi vedrai, vorrà dire che sono morto; allora dovrai lasciare Hammerfell e cercare rifugio a Thendara presso i tuoi parenti Hastur, e chiedere loro di vendicarti e di fare giustizia.» Ripensando a quelle parole, corse via, ma il suo passo era troppo rapido: era costretta a trascinare di peso i bambini. Per primo era inciampato Alester, che era finito a terra, piangente, sui ciottoli del cortile, poi era inciampato anche Conn. Perciò, Erminie li prese in braccio tutt'e due e corse via come meglio poteva. Mentre correva, si sentì sfiorare le gambe, nel buio della sera, da qualcosa di grosso e soffice. Erminie tese la mano e per poco non scoppiò a piangere. «Gioiello! Qui, Gioiello! Bravo il mio cagnone!» mormorò. «Sei venuta con me, eh, bravo cane!» Poi inciampò in qualcosa di cedevole come un sacco di stracci, e per po-
co non cadde a terra a sua volta. Nel rialzarsi, comprese che era il corpo di un uomo. Poiché era in ginocchio, non poté evitare di guardare in faccia il morto, e vide con orrore che era lo stalliere che, poche ore prima, aveva portato nelle scuderie i pony dei bambini. Gli avevano tagliato la gola, ed Erminie si lasciò sfuggire un grido; poi s'interruppe perché Conn si era messo a piangere con lei. «Piano, piano, figlio mio; adesso dobbiamo essere coraggiosi e non piangere», mormorò, accarezzandolo per calmarlo. Poi, nel buio, qualcuno la chiamò per nome, con un tono di voce talmente basso da essere pressoché inudibile in mezzo al pianto del bambino. «Mia signora...» Per poco, Erminie non si lasciò sfuggire un grido. Poi riconobbe la voce e scorse il familiare volto del vecchio Markos, illuminato dalle fiamme degli incendi. «Niente paura. Sono solo io.» Nel vedere un volto a lei noto, Erminie si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «Oh, grazie agli dèi siete voi! Temevo che...» Venne interrotta da un grande schianto, come se fosse crollata una casa o fosse scoppiato il tuono. Markos si avvicinò a lei. «Via, lasciatemi portare uno dei bambini», disse il vecchio. «Non possiamo tornare indietro: la cerchia di mura superiore è tutta in fiamme.» «Il duca...?» chiese Erminie, tremante. «Quando l'ho visto l'ultima volta, stava bene: difendeva il ponte, con una decina di uomini. Quei diavoli gli hanno dato fuoco con la pece stregata, che brucia perfino la pietra...!» «Oh, quei maledetti!» gemette Erminie. «Maledetti davvero!» mormorò l'uomo, guardandosi alle spalle per un istante e poi rivolgendosi di nuovo alla donna. «Dovrei essere anch'io sul ponte a combattere», spiegò Markos, «ma sua Grazia mi ha mandato qui perché vi accompagnassi al villaggio. Adesso, datemi uno dei bambini, e vedrete che riusciremo a fare più in fretta.» In mezzo al crepitio delle fiamme, Erminie sentì il cigolio di qualche grande macchina da assedio che veniva portata in posizione, e, quando si girò, la scorse sullo sfondo del cielo: una figura immensa come lo scheletro di qualche mostruoso animale sconosciuto, che scagliava bombe che esplodevano a mezz'aria in un diluvio di fuoco. I gemelli, tra le braccia di Erminie, cercavano di scendere a terra, e la
donna ne diede uno a Markos: nel buio non avrebbe saputo dire quale fosse, dei due. Cominciava a fare freddo e la notte era buia e la pioggia rendeva scivoloso il cammino. Con in braccio il figlio che le era rimasto, corse dietro Markos, che si era avviato verso il fondovalle. Una volta, il cane le passò davanti e la fece inciampare: allora il cestino le sfuggì dal braccio ed Erminie dovette perdere del tempo prezioso per recuperarlo; per poco non perse di vista il suo compagno. Avrebbe voluto gridargli di fermarsi ad attenderla, ma non voleva fargli perdere minuti preziosi, e perciò cercò di seguirlo come meglio poteva, e continuò a camminare dietro di lui, senza guardare dove stesse passando. Però, dopo un poco, scoprì di essersi smarrita, perché aveva dovuto perdere tempo, a causa del cane che continuava a passarle davanti e del peso del bambino. Si consolò pensando che doveva portarne soltanto uno e che l'altro era al sicuro con l'unico uomo, oltre suo marito, di cui si fidasse ciecamente. Scivolando e incespicando sulle pietre e sull'erba, in qualche modo riuscì poi a giungere in fondo alla collina, e prese a chiamare a bassa voce: «Markos!» Ma non ebbe risposta. Lo chiamò di nuovo, senza alzare troppo la voce perché aveva paura che la sentissero i nemici, i quali, secondo lei, dovevano avere ormai circondato l'intero bosco. Sopra di lei, in cima al monte, il castello di Hammerfell stava bruciando: Erminie vide le fiamme, che salivano verso il cielo come dal cratere di un vulcano. In un simile inferno, nessuno sarebbe riuscito a resistere; ma dov'era il duca? Era rimasto intrappolato nell'incendio del castello? Ora si accorse che il bambino che aveva al collo era Alester, e che piangeva. Ma dov'era Markos con Conn? Cercò di orientarsi alla terribile luce dell'incendio della sua casa, e chiamò ancora qualche volta il nome di Markos; ma tutt'intorno a lei si udivano passi e voci di sconosciuti, e perfino risate. Però, non era sicura che fossero davvero voci: forse le sentiva solo con il Potere, e non con le orecchie. «Ah, ah! Questa è la fine di Hammerfell!» «Così, non ne resta più nessuno!» Erminie continuò a guardare, impietrita dall'orrore, le fiamme che si alzavano sempre più; alla fine, con un grande schianto come quello della fine del mondo, il castello crollò su se stesso e le fiamme si spensero.
Tremante, la donna fuggì nei boschi, per non vedere più le rovine incendiate di quella che un tempo era l'orgogliosa fortezza di Hammerfell. All'alba si trovò in un bosco che non conosceva, con il cane contro le gambe e con, al collo, Alester che sbadigliava per la stanchezza. Gioiello guaiva piano, come per cercare di confortarla, e la spingeva con il muso, minacciando di farle perdere l'equilibrio. Erminie si sedette su un tronco caduto, con il cane accucciato ai suoi piedi, e cercò di distogliere lo sguardo dalle rovine fumanti dell'unica casa che avesse conosciuto. Quando sorse il sole, la donna si alzò stancamente in piedi, e, preso in braccio il figlio, che nel frattempo si era addormentato, si diresse verso il villaggio ai piedi del monte. Con orrore, una volta giunta laggiù, si accorse che gli uomini di Storn c'erano già arrivati: tutte le case erano bruciate e la gente era fuggita... tranne coloro che giacevano a terra, morti. Stanca e disperata, si aggirò fra le poche case ancora in piedi, per chiedere se qualcuno avesse visto Markos e, in braccio a lui, il piccolo Conn. Ma nessuno aveva visto il vecchio o il bambino. Con attenzione, comunque, Erminie evitò di farsi vedere da estranei: se qualche seguace degli Storn l'avesse vista, l'avrebbe uccisa senza pietà, e così suo figlio. Aspettò fino a mezzogiorno, continuando a sperare che il duca fosse riuscito a sfuggire all'ultima conflagrazione e che presto si ricongiungesse a lei, ma tutti coloro a cui chiese, nel bosco ora pieno di abitanti del villaggio rimasti senza casa, guardarono con tristezza la donna dalle vesti lacere, con il bimbo in braccio e il cane accanto, e scossero la testa, dicendo di non avere visto alcun vecchio che portava con sé un bambino piccolo. Erminie continuò le ricerche per tutto il giorno, ma al tramonto comprese che era successo quel che temeva maggiormente. Markos era scomparso - era morto o l'avevano ucciso - e poiché non era venuto a prenderla il mattino precedente, il duca doveva essere morto nell'incendio del castello. E così, terrorizzata a disperata, Erminie si costrinse a sedere, a pettinarsi e a farsi la treccia, a mangiare qualcosa del cibo che si era portata nella cesta, e a dare un po' di pane al cane e al figlio. Se non altro, non era rimasta completamente sola, perché le rimaneva il primogenito, che adesso era il duca di Hammerfell... ma dove era il suo gemello? L'unica sua difesa era adesso quel cane un po' troppo desideroso di giocare. Si avvolse nel mantello e si sedette accanto a Gioiello per riscaldarsi, riparando tra le sue braccia la forma di Alester che dormiva.
Ringraziando gli dèi, l'inverno era finito. Alle prime luci del giorno, Erminie sapeva di doversi guardare attorno con attenzione per orientarsi, e poi di doversi avviare per la lunga strada che l'avrebbe portata a Thendara e ai suoi parenti che abitavano nella Torre. Si strinse ancor più strettamente ad Alester e cominciò a singhiozzare. CAPITOLO 5 THENDARA La città di Thendara era annidata in una valle dei monti Venza e la grande Torre s'innalzava al di sopra di tutti i tetti della città. Diversamente da altre Torri più isolate, in cui abitavano tutti i lettori del pensiero che vi lavoravano - monitori, Guardiani, tecnici e meccanici delle matrici - la Torre di Thendara non serviva a isolare dal contatto con gli abitanti della città coloro che vi prestavano servizio, ma, come in tutte le città delle pianure, tendeva a dare il tono della vita elegante che vi si svolgeva. Coloro che lavoravano nella Torre avevano in genere un'abitazione in città, a volte estremamente ricca e lussuosa. Non però la vedova del duca di Hammerfell. Erminie, che aveva lasciato quel titolo per il più semplice incarico (che però, nell'alta società di Thendara, comportava un prestigio ancora superiore) di Secondo Tecnico della Torre, viveva modestamente in una piccola casa vicino al vicolo dei Fabbri, che come unico lusso aveva un giardino di piante profumate, fiori e alberi da frutta. Erminie aveva adesso 37 anni, ma era ancora snella e precisa nei movimenti come sempre, e aveva lo stesso sguardo chiaro e gli stessi capelli lucenti. Per tutti quegli anni, era sempre vissuta sola, con il figlio, e nessuno scandalo aveva mai sfiorato il suo nome o la sua reputazione. La si vedeva raramente in compagnia di persone diverse dal figlio, dalla governante o dal grosso cane dal manto color ruggine che l'accompagnava dappertutto. Questo non perché la buona società la evitasse: anzi era lei che la evitava o la trovava poco interessante. Due volte l'avevano chiesta in sposa: una volta il Guardiano della Torre, Edric Elhalyn, e più recentemente suo cugino Valentine Hastur, lo stesso che era andato a cercarla, tanto tempo prima, nel suo castello tra i monti. Valentine, dello stesso ceppo degli Hastur di Thendara e Carcosa, le aveva chiesto per la prima volta di sposarlo due anni dopo che lei era entrata alla Torre. A quell'epoca Erminie gli aveva risposto negativamente, scusandosi con il fatto di essere rimasta vedova da
poco tempo. Adesso, in una sera estiva, a diciotto anni di distanza dal suo arrivo in città, Valentine tornò a rivolgerle la richiesta. Trovò Erminie nel giardino della sua casa di città, seduta su una semplice panca di legno e intenta a ricamare. Il cane Gioiello era accucciato ai suoi piedi, ma all'arrivo di Valentine Hastur alzò la testa e cominciò a ringhiare. «Buona, fa' silenzio», la sgridò Erminie. «Ormai dovresti conoscere mio cugino; non è la prima volta che viene. A cuccia, Gioiello», aggiunse, con severità, e il cane si raggomitolò ai suoi piedi. Valentine Hastur disse: «Sono lieto che tu abbia un'amica così fedele, perché non hai nessun altro difensore. Se mi ascoltassi, mi conoscerebbe ancor meglio», aggiunse, con un sorriso allusivo. Erminie fissò negli occhi l'uomo seduto davanti a lei. Adesso aveva molti fili d'argento nei capelli, ma per tutto il resto era identico all'uomo che le aveva offerto affetto e appoggio per quasi vent'anni. Trasse un sospiro e disse: «Cugino Val, ti ringrazio come sempre, ma penso che tu sappia perché devo risponderti di no». «No, non lo so affatto», rispose Valentine. «So che non puoi più tenere il lutto per il vecchio duca, anche se è ciò che vuoi far credere a tutti.» Gioiello strofinò il muso contro le ginocchia di Erminie e guaì, per farsi notare. Erminie le accarezzò la testa, senza guardarla. «Valentine, sai che ti sono affezionata», rispose la donna, «ed è vero, non tengo più il lutto per Rascard, anche se è stato un buon marito e un padre affettuoso per i miei figli. Ma al momento non mi sento libera di risposarmi a causa della presenza di mio figlio.» «In nome di Avarra, cugina», esclamò Valentine Hastur, «che male può fare alla carriera di tuo figlio, il fatto che sua madre sposi un Hastur? E se giurassi di dedicarmi al compito di ridargli il rango e la dignità di duca di Hammerfell, che diresti?» «Fin da quando siamo arrivati a Thendara, io e mio figlio ti dobbiamo la vita», rispose Erminie, e Valentine, a quelle parole, alzò le spalle come per dire che non aveva fatto niente. «Perciò, sarebbe una ben misera ricompensa», continuò Erminie, «coinvolgerti in quelle vecchie faide mai concluse.» «È quel che avrei fatto per qualsiasi altra persona del mio sangue», rispose Valentine, «e se c'è qualcuno che ha dei debiti verso l'altro, quello sono io. Ma come puoi dire che quelle faide non siano concluse, Erminie, visto che non rimane più nessun Hammerfell, tranne tuo figlio, il quale a-
veva poco più di un anno quando suo padre e tutta la sua casa sono stati distrutti dall'incendio?» «Resta il fatto», disse Erminie, «che finché mio figlio non avrà quello che gli spetta, io non potrò unirmi a un altro clan. Quando ho sposato suo padre, ho giurato di dedicarmi al bene degli Hammerfell, e non intendo mancare a quella promessa, né coinvolgere in essa altre persone.» «Una promessa fatta a un morto non ha valore», disse Valentine, con irritazione. «Io sono vivo, e penso che tu debba pensare più a me che ai morti.» Erminie gli sorrise con affetto. «Caro cugino, sono davvero in debito verso di te», disse. Infatti, da quando era arrivata a Thendara - affamata, senza denaro e con le vesti stracciate - lui l'aveva accolta nella sua casa, ed era riuscito a farlo senza compromettere la reputazione di Erminie. A quell'epoca, Valentine era sposato con una MacAran, e lui e la moglie avevano rifocillato e rivestito lei e il bambino, le avevano trovato la casa in cui abitava tuttora e l'avevano scelta per la Torre, permettendole così di raggiungere il suo attuale posto nell'alta società di Thendara. Entrambi lo sapevano, ma fu l'Hastur ad abbassare gli occhi per primo. «Perdonami, cara Erminie, non mi devi niente: te l'ho detto prima e lo penso. Tutt'al più, chi è in debito sono io, per tutti gli anni in cui ho goduto della tua amicizia e della tua benevolenza. Ricordo che anche mia moglie ti voleva bene, e non mi sembra di offendere la sua memoria chiedendoti di sposarmi.» «Le volevo bene anch'io», rispose Erminie, «e se pensassi al matrimonio non ci sarebbe nessuno prima di te, caro amico. Non è facile dimenticare tutto quel che hai fatto per me e per mio figlio. Ma ho promesso che finché non riavrà il suo posto...» Valentine Hastur aggrottò la fronte e distolse lo sguardo, cercando di non rivelare i propri pensieri. Alester di Hammerfell, secondo lui, era solo un giovane viziato e incapace, indegno sia della propria alta posizione sia delle sollecitudini della madre; ma sarebbe stato inutile dirlo a Erminie, la quale, non avendo altro, non vedeva nel figlio alcun difetto, e si aggrappava a lui con una sicurezza che niente e nessuno sarebbero mai riusciti a scalfire. Valentine sapeva che era stato un errore parlare a Erminie del figlio, perché la donna sapeva che lui, nonostante la sua cortesia, non ne aveva un'alta opinione.
L'anno prima, Alester aveva preso una forte multa perché era stato sorpreso a correre al galoppo in una delle vie cittadine. Era il tipo di trasgressione comune ai giovani della sua età, e purtroppo molti di loro ritenevano che fosse un segno di particolare merito rinunciare alle regole imposte dalla sicurezza. Tutti quei giovani che si ritenevano di poter fare quel che volevano erano per Valentine il disonore delle loro famiglie, ma l'Hastur era abbastanza onesto da ammettere che tutti quelli della sua età la pensavano così e che forse quella condanna era solo la prova che diventava vecchio. Ai piedi di Erminie, il cane si scosse e alzò la testa, e la donna disse con sollievo: «Non può essere Alester, così presto; non ho sentito arrivare il suo cavallo. Chi può essere? Qualcuno che Gioiello conosce, senza dubbio.» «È tuo cugino Edric», disse Valentine Hastur, girandosi verso il cancello del giardino. «È meglio che me ne vada...» «No, cugino; se è Edric, si tratterà di qualche questione di lavoro, e se non vorrà parlarne davanti a te, sarà lui stesso a pregarti di lasciarci», disse Erminie, sorridendo. Eric era il Guardiano del primo cerchio di matrici della Torre di Thendara, ed era imparentato sia con Erminie che con Valentine. Entrò nel giardino e rivolse un inchino - freddo ma cortese - all'Hastur. «Cugino», disse in tono ufficiale. Erminie gli fece la riverenza. «Benvenuto, cugino. È una strana ora, per fare una visita di cortesia.» «Devo chiederti un favore», rispose Edric. Come sempre, non perse tempo in preamboli. «In realtà si tratta di una questione di famiglia. Saprai certamente che mia figlia Floria si è addestrata come monitore nella Torre di Neskaya, lontano di qui.» «Sì, lo ricordo; come sta?» chiese Erminie. «Bene, cugina, ma sembra che a Neskaya non possano assegnarle un posto permanente», spiegò Edric. «Tuttavia, Kendra Leynier aspetta un figlio, e adesso ritorna dal marito fino alla nascita del figlio, perciò si apre un posto per Floria nel terzo cerchio di Thendara. «Ma finché non saremo certi del posto», proseguì Edric, «Floria dovrà abitare qui a Thendara, e pensavo di chiedere a te, che sei la sua parente più adatta, di farle da accompagnatrice in società.» La madre di Floria era morta quando la bambina era ancora piccola; anche lei era parente di Erminie. «Quanti anni ha, adesso, Floria?» chiese la donna.
«Diciassette; sarebbe già in età da marito, ma desidera lavorare, prima, per qualche anno nelle Torri», disse Edric. È cresciuta così in fretta, pensò Erminie. Mi sembra ieri che Floria e Alester erano due bambini e giocavano in questo stesso giardino. «Ne sarei felice», rispose a Edric. «Vieni al concerto di Gavin Delleray, questa sera?» chiese Edric. «Sì», rispose Erminie. «Gavin è amico di mio figlio. Hanno studiato musica insieme, quando Alester era più giovane. Penso che Gavin abbia sempre esercitato su di lui un'influenza positiva.» «Allora, forse potresti unirti a me e a Floria nel nostro palco.» «Oh, mi spiace», rispose Erminie, «ma ho preso anch'io un palco per tutta la stagione; in parte per il concerto di Gavin.» E aggiunse, in tono nostalgico: «Oh, Edric, trovo così difficile pensare che Floria ha diciassette anni; l'ultima volta che l'ho vista ne aveva solo undici, e aveva i calzini corti e i capelli sciolti. Ricordo che Alester le faceva scherzi terribili, la rincorreva per tutto il giardino spaventandola con ragni e serpenti, finché non arrivavo io a fermarli dicendo loro che il pranzo era pronto. Ma anche allora le dava fastidio portandole via i dolci e le noci, e più di una volta la sua governante gli ha dato una buona dose di sculaccioni.» «Be', Floria è molto cresciuta; non credo che suo cugino Alester riuscirà a riconoscerla», disse Edric. «È difficile ricordare che era un tale maschiaccio, ma penso che grazie al tuo esempio possa ancora imparare molte cose su come deve comportarsi una signora.» «Me l'auguro», rispose Erminie. «Ero ancora molto giovane quando è nato Alester: avevo poco più degli anni che ha adesso Floria. Sugli Hellers si usa così, ma mi chiedo se sia giusto. Si può veramente essere una buona madre, così giovani, e i figli non soffrono per la mancanza di un genitore più adulto?» «Non so se debba essere sempre così», disse Edric. «Penso che tu sia stata una brava madre, e non ho appunti da muovere ad Alester. Anzi, quando Floria sarà più vecchia...» S'interruppe, per poi proseguire: «All'inizio, mi dispiaceva vedere che avevi già da pensare a un bambino, a un'età in cui eri poco più di una bambina tu stessa. Le ragazze di quell'età, dovrebbero essere libere di divertirsi...» «Certo», disse Erminie. «I miei parenti non approvavano che sposassi Rascard, ma non mi sono mai pentita di averlo fatto. Non posso dire altro che bene di lui, e sono lieta di avere avuto mio figlio a un'età in cui trova-
vo ancora piacevole avere un bambino per casa.» Con il solito dolore, pensò all'altro figlio, che era morto nell'incendio di Hammerfell. Ma era passato tanto tempo. Forse avrebbe fatto bene a sposare Valentine finché era ancora abbastanza giovane per avere figli. Valentine le lesse quel pensiero nella mente - Erminie non aveva pensato a schermarlo - e le sorrise. Lei abbassò gli occhi. «In qualsiasi caso», disse Edric (ed Erminie si chiese se anche lui avesse colto quel pensiero: non poteva certo disapprovarla, se avesse sposato un uomo di un clan importante e potente come quello degli Hastur), «sarei lieto di averti con noi nel nostro palco durante l'intervallo. Floria sarà contenta di rivederti, sei sempre stata la sua cugina preferita, perché eri giovane e allegra.» «Spero di essere ancora abbastanza giovane da poter figurare come una sorella maggiore, più che come una sua vecchia dama di compagnia», disse Erminie. «Ho sempre invidiato sua madre: anch'io avrei voluto una femmina.» Anche adesso si accorse che Valentine le aveva letto nei pensieri e sorrideva. Quando Edric fece per accomiatarsi, lei gli toccò il braccio: «Edric, c'è un'altra cosa... un sogno che ho fatto di nuovo, la scorsa notte. L'ho fatto tante volte, di recente...» «Il sogno che riguarda Alester?» chiese il Guardiano. «Non sono certa che si trattasse davvero di Alester», disse Erminie, confusa. «Ero nella Torre, nel cerchio, e ho visto entrare Alester... almeno, penso che fosse lui», ripeté, insicura. «Solo che lui... sai come è sempre puntiglioso nel vestire... nel mio sogno era vestito in modo assai modesto, come si usa nelle montagne: vestiti come quelli che portava suo padre. E mi ha parlato con la pietra matrice...» S'interruppe e prese in mano la pietra che portava sempre al collo. Edric osservò: «Hai già fatto altre volte questo sogno». «Continuo a farlo da un anno», disse Erminie. «Sembra una visione venuta dal futuro, eppure... sei stato tu stesso a fare la prova con Alester.» «Certo, e, come ti ho detto, ha un po' di Potere, ma non tanto da prendersi la briga di addestrarlo», disse Edric. «In qualsiasi caso, non ne ha abbastanza per lavorare in una Torre, ma il tuo sogno sembra voler dire che non ti sei rassegnata a questa sua carenza. È una cosa tanto importante, per te, Erminie, che tuo figlio abbia il Potere?» «Non so se la spiegazione del mio sogno possa essere così semplice», disse Erminie, «perché quando mi sono svegliata la mia pietra matrice era
molto calda, come se l'avessi usata...» «Non vedo che altra interpretazione si possa dare», disse Edric, pensieroso. Prima che potessero aggiungere altro, il cane si alzò e corse al cancello. Anche Erminie si alzò. «È mio figlio che ritorna», disse. «Devo andare a salutarlo.» Valentine la guardò. «Sei un po' troppo protettiva nei suoi riguardi, non ti pare?» «Hai ragione», rispose Erminie, «ma penso ancora alla notte in cui ho perso l'altro mio figlio perché mi è sfuggito di vista per alcuni minuti. So che sono passati tanti anni, ma ho ancora paura per Alester tutte le volte che non lo vedo.» «Non posso certo biasimarti, se sei una madre troppo ansiosa», disse Valentine, «ma ricorda che non è più un bambino; è giusto e doveroso che si stacchi dall'attenzione materna. E se vuole riavere la sua eredità, deve cominciare a lottare. Ma sai già, Erminie, che secondo me la cosa migliore sarebbe lasciare che la faida si estinguesse per mancanza di combustibile che la tenga accesa, e aspettare ancora una generazione, prima di cercare di far valere le rivendicazioni.» «Non riuscirai a ottenere niente, cugino, con questi bei ragionamenti», lo interruppe Edric. «Gliel'ho detto anch'io, molte volte. Ma non è disposta a seguire i suggerimenti del buon senso.» «Devo lasciare che mio figlio viva sempre in esilio, che sia un uomo senza terra?» ribatté lei, con indignazione. Valentine, nel vedere come le fiammeggiavano gli occhi, la trovò bellissima; gli spiacque soltanto che l'oggetto del suo sdegno non fosse degno di maggiore considerazione. «E mio marito dovrà rimanere inquieto nella sua tomba, e il suo spettro non vendicato dovrà continuare ad aggirarsi tra le rovine di Hammerfell?» Colpito, Valentine chiese: «Credi davvero a quello che dici, cugina? Che i morti continuino a serbare rancore ai vivi?» Ma le lesse negli occhi che lo credeva davvero, e non gli venne in mente alcun modo per farle cambiare idea. Il cane arrivò di corsa, seguito da un giovane alto ed elegante, e si mise a saltargli attorno, minacciando di fargli perdere l'equilibrio. «Madre», disse il giovane, «non sapevo che avessi degli ospiti.» Le rivolse un inchino e poi si inchinò davanti al signore Hastur e al Nobile Edric. «Buona sera, signore. Buona sera, cugino.» «Sono persone di famiglia», disse Erminie. «Rimanete a cena con noi?»
«Ne sarei lieto, ma sfortunatamente mi aspettano a casa», disse Valentine, e si congedò, dopo avere rivolto un inchino a Erminie. Edric esitò per qualche istante, poi disse: «Un'altra sera, con piacere; ma più tardi ti vedrò al concerto?» Erminie lo accompagnò al cancello, poi attese che si allontanasse. «Che cosa voleva?» chiese Alester. «Continua a ronzarti intorno per convincerti a sposarlo?» «Ti dispiacerebbe tanto, figlio mio, se mi sposassi di nuovo?» chiese lei. «Non puoi aspettarti che mi piaccia», disse Alester, «se mia madre sposa qualche abitante della bassa a cui non importa niente di Hammerfell. Quando riavremo il trono, e tu sarai di nuovo al posto che ti spetta nel nostro castello... allora, se verrà a farti la corte, io rifletterò sulla risposta da dargli.» Erminie sorrise. «Sono un tecnico della Torre, figliolo, e non ho bisogno del permesso di nessun tutore per sposarmi. Non puoi neanche trovare la scusa che non ho ancora raggiunto l'età del giudizio.» «Oh, via, madre, sei ancora giovane e bella!» disse Alester. «Sono lieta che tu mi veda così, figlio; ma ricorda che se volessi sposarmi, potrei parlarne con te, ma per informarti, non per chiederti il permesso.» Lo disse in tono gentile, senza intenzione di fargli un rimprovero, ma il giovane abbassò gli occhi e arrossì. «Tra la nostra gente delle montagne», disse, «gli uomini sono più rispettosi. Si presentano come vuole la tradizione, ai parenti maschi della donna, e chiedono loro il permesso di corteggiarla.» Be', Erminie non poteva lamentarsi: era stata lei ad allevarlo secondo le abitudini del suo clan di montagna, e a insistere perché non dimenticasse mai di essere il duca di Hammerfell. Se adesso suo figlio la pensava così, era l'effetto dei suoi insegnamenti. «Comincia a far buio», disse Erminie. «Scende la prima pioggia della sera, madre; vuoi che vada a prenderti lo scialle?» «Non sono vecchia fino a quel punto!» rispose lei, esasperata. «E poi, comunque tu la pensi su di lui, figlio mio, Valentine ha detto una cosa giusta.» «E quale sarebbe, madre?» chiese Alester. «Ha detto che ormai sei un uomo», rispose Erminie, «e che se vuoi riavere Hammerfell, in qualche modo devi riprenderla tu stesso.» Alester annuì e, dopo qualche istante, rispose: «Anch'io ho riflettuto
molto sulla cosa, madre, negli ultimi tre anni. Eppure, non so nemmeno da dove cominciare. Dopotutto, non posso salire al castello e chiedere al vecchio Storn, o chiunque oggi vi regni, di darmi le chiavi. Eppure, se questi signori Hastur attribuiscono davvero alla giustizia il valore che dicono, dovrebbero darmi un esercito che mi permetta di riconquistare il ducato, o almeno potrebbero dichiarare pubblicamente che Hammerfell è mio e che gli Storn lo occupano illegalmente. Pensi che nostro cugino Valentine mi possa far avere un'udienza dal re?» «Ne sono certa», disse Erminie. Era lieta di sapere che il figlio aveva già riflettuto sulla cosa. Finora non sembrava avere un grande piano, ma se era disposto a seguire i consigli di persone più vecchie ed esperte, poteva essere un buon inizio. «Ricordi che questa sera dobbiamo andare a un concerto, vero?» chiese Alester. «Certamente», rispose lei. Ma per qualche motivo preferì non rivelargli perché i progetti per la sera assumevano una particolare importanza per lei. Quando salì nelle sue stanze e chiamò la cameriera per farsi vestire per il concerto, Erminie provò una curioso presentimento, come se quella sera dovesse accadere qualcosa d'importante. Indossò un vestito di seta, rosso cupo, che faceva risaltare nel modo migliore i suoi capelli, e si chiuse al collo una collana di gemme verdi, poi scese a raggiungere il figlio. «Come sei elegante», le disse Alester. «Temevo che insistessi per metterti la tua solita veste della Torre; ma vedo che ti sei vestita come vuole il nostro rango, e sono orgoglioso di te.» «Lo sei davvero? Allora non rimpiango il tempo impiegato per prepararmi.» Alester indossava una tunica ricamata e calzoni di seta gialli, lunghi fino al ginocchio; al collo aveva un ciondolo d'ambra finemente intagliata. I riccioli dei capelli gli arrivavano quasi fino alle spalle, e, così pettinato, assomigliava talmente al compagno d'infanzia di Erminie, Alaric, che, anche dopo tanti anni, lei sentì un nodo alla gola. Be', dopotutto era il fratellastro di Alaric, e il legame con Alaric era stata una delle ragioni, anche se non la più importante, che l'avevano portata a sposare Rascard di Hammerfell. «Anche tu sei molto elegante, questa sera», gli disse, e pensò: Non dovrà passare molto tempo, prima che si stanchi di accompagnare la madre a quelle manifestazioni; devo godermi la sua compagnia finché posso.
Alester andò a chiamare una portantina, e poi accompagnò a cavallo la madre fino all'edificio terminato l'anno precedente per ospitare concerti e altre pubbliche manifestazioni, nella grande piazza del mercato di Thendara. La piazza era piena di portantine, sia quelle pubbliche, di colore scuro, sia quelle private, verniciate di colori vivaci e con sulla porta le insegne nobiliari dei proprietari. Alester lasciò il cavallo a uno degli inservienti, poi aiutò la madre a scendere. «Dovremmo avere la nostra portantina, madre», le disse. «Non dovresti essere costretta a ricorrere a una portantina pubblica quando vuoi uscire; dovremmo averne una con lo stemma di Hammerfell. Sarebbe molto più adatta alla dignità della nostra posizione. La gente la guarderebbe e capirebbe di essere davanti alla duchessa di Hammerfell.» «Io?» rise Erminie. Ma poi vide che Alester faceva la faccia offesa, e gli disse: «Non ho bisogno di quel genere di onori, figlio. Mi basta essere uno dei tecnici della Torre; sai che cosa significa?» terminò, con gravità. A quelle parole, le ritornò in mente il sogno; perché, dato che Alester era privo di Potere, continuava a vederlo in quei sogni? Che avesse ragione Valentine, e che lei fosse troppo protettiva? Erminie lo aveva sempre incoraggiato a vivere la propria vita, e nel corso della settimana non aveva molte occasioni di vederlo. Il giovane si rammentò del momento, l'anno precedente, in cui gli aveva riferito che non era stato accettato alla Torre: solo allora, Erminie gli aveva detto che era nato con un fratello gemello che poi era morto nella caduta di Hammerfell, e che evidentemente lui era il gemello con capacità mentali inferiori. A quel punto, Alester aveva commentato con ira di non poter rimpiangere la perdita di un fratello che gli aveva tolto una capacità che aveva tanta importanza per lei. «Non dovresti accusare tuo fratello di avertela tolta», gli aveva detto Erminie, «perché, dato che il titolo di duca di Hammerfell era passato a te come primogenito, anche lui aveva il diritto di avere qualcosa di particolare.» A quel punto, Erminie gli aveva spiegato per la prima volta il significato del piccolo tatuaggio sulla spalla sinistra. «Questo», gli aveva detto, «ti è stato fatto per distinguerti da tuo fratello. Serve ad asserire davanti a tutti che sei l'erede del castello e dei territori di
Hammerfell, che sei il vero duca della tua dinastia.» Il gruppo di nobili elegantemente vestiti si fece strada in mezzo alla folla che riempiva la piazza. Erminie li conosceva quasi tutti, e anche il giovane duca di Hammerfell era una figura ben conosciuta. I popolani che assiepavano la piazza e che speravano di poter assistere al concerto - per tradizione, i popolani avevano il diritto di entrare gratuitamente, ma solo dopo che tutti i nobili si fossero seduti - osservavano gli aristocratici e si sforzavano di riconoscerli, mormorandosene i nomi. Alester ed Erminie erano nell'atrio, e nello scorgere una giovane donna che era entrata da un altro ingresso, il giovane toccò sul braccio la madre. «Hai visto quella bella ragazza con il vestito bianco?» le sussurrò. Erminie si girò a guardare nella direzione indicatale dal figlio. «Ma io la conosco!» disse poi, a bassa voce, sorpresa. «La conosci?» rispose Alester, altrettanto sorpreso; non sapeva chi fosse, ma sentiva che doveva farsela presentare: gli pareva la più bella ragazza che avesse visto. «Be', certo; e la conosci anche tu», spiegò Erminie. «È tua cugina Floria. Quando eravate bambini, giocavate insieme quasi ogni giorno.» «Floria!» esclamò Alester, stupito. «Ricordo che la rincorrevo per tutto il giardino, con un serpente in mano e che le facevo ogni genere di scherzi... ma non l'avrei mai riconosciuta! È bellissima!» «Quest'oggi, Edric era venuto a casa nostra per lei», spiegò Erminie. «Mi ha chiesto di farle da accompagnatrice per la prossima stagione.» «È un compito che mi assumerei volentieri io stesso», disse Alester, ridendo. «Ho sempre sentito dire che quando sono tanto brutte da bambine, diventano altrettanto belle da grandi, ma mia cugina Floria!» Sembrava ancora incredulo. «È la figlia del nostro Guardiano», spiegò Erminie, «e perciò non può lavorare nel nostro cerchio; è andata a Neskaya ad addestrarsi, ma adesso è ritornata e aspetta che si liberi un posto in un altro cerchio.» «Anche se fosse una lattaia o una tessitrice, continuerei a giudicarla la più bella ragazza che ho visto», asserì Alester. «Secondo me, neppure la Cassilda della leggenda, quella che fece innamorare il dio Hastur, poteva essere più bella di lei!» «È ancora giovane, ma tra un anno o due, probabilmente, Edric comincerà a valutare i pretendenti alla sua mano.» «Allora», mormorò Alester, «io sono l'uomo più fortunato che esista al
mondo! È libera, è nostra parente, ed era mia compagna d'infanzia. Pensi che si ricorderà di me?» Suonò la campanella che avvertiva di mettersi a sedere, e madre e figlio si affrettarono a raggiungere il loro palco. Come Erminie si sedette, Alester le drappeggiò sulle spalle il mantello e le mise sotto i piedi uno sgabellino. Solo allora cominciò a esaminare i palchi alla ricerca della giovane donna che l'aveva colpito. «L'ho vista», riferì alla madre, sottovoce. «Nel palco con lo stemma degli Elhalyn.» Poi aggiunse, con stupore: «Vedo che il palco reale è occupato». Inarcò le sopracciglia, perché re Aidan non aveva mai amato la musica, e raramente si faceva vedere ai concerti. «Senza dubbio ci sarà la regina Antella», spiegò Erminie. «È stata lei a far ricostruire il teatro dopo l'incendio. Ormai è vecchia e un po' sorda, ma dicono che riesca ancora a sentire bene la voce dei cantanti!» «Già», osservò Alester. «L'anno scorso ha ordinato a Gavin una cantata per soprano e violini, e ha voluto assistere alle prove. L'ho vista perché c'ero anch'io nel coro.» «Sì, lo so», rispose Erminie, guardando il palco reale, dove la vecchia regina, con addosso un informe vestito azzurro che sembrava un sacco, mangiucchiava dolci e frutta candita, e teneva accanto a sé il bastone, perché da tempo aveva una gamba invalida. Nonostante l'età, la regina non era accompagnata da alcun uomo del suo seguito, ma solo da una dama di compagnia: neanche fosse una giovane ereditiera degli Hellers. Alester rise. «Alla sua età, crede di avere ancora bisogno della governante?» disse. «Oh, piantala!» disse Erminie. «Senza dubbio, l'ha fatta venire per farle un favore: la conosco, è una delle dame del seguito a cui piace molto la musica.» Alester aveva notato che Floria Elhalyn era accompagnata solo dal padre. Chiese a Erminie: «Quando terminerà il primo brano, me la presenterai?» «Certo», rispose Erminie. «Anche Edric ne sarà lieto.» Poi tutt'e due batterono le mani perché era entrato il direttore d'orchestra. Ora che i nobili erano ai loro posti, i popolani affluirono nella platea, e, dopo qualche istante, l'esecuzione ebbe inizio. La cantata era molto bella, ed era diretta e in parte eseguita dallo stesso autore, il Nobile Gavin Delleray, un bel giovane che alcune volte interven-
ne con la sua voce solista, in chiave di basso, tra l'uno e l'altro dei brani riservati al coro. Erminie ascoltò e, naturalmente, da buona madre, si disse che Alester, se solo si fosse un po' applicato, sarebbe riuscito a cantare bene come Gavin... Senza farsi scorgere da Alester, Erminie guardò anche varie volte, di straforo, il palco di Edric Elhalyn; questi se ne accorse, le sorrise, e le rivolse qualche cenno del capo per confermare l'invito a raggiungerli nel palco. Anche la ragazza vide che Erminie la guardava e le sorrise a sua volta. (Evidentemente, secondo Erminie, Floria doveva essersi accorta delle occhiate che Alester le aveva lanciato.) Certo, rifletté, non c'era niente di strano nel fatto che Alester fosse attirato dalle belle ragazze; lo strano era che fino a quel momento non ne avesse mai trovata nessuna di suo gradimento. Di tanto in tanto, Erminie guardò anche in direzione del palco della regina, e vide che guardava con attenzione il giovane autore-cantante, ogni volta che questi interveniva. Ricordando che la regina era un po' dura d'orecchio, si chiese quanto, in realtà, sentisse della sua musica. Tuttavia, rifletté poi, era più probabile che lo ascoltasse con una forma di Potere. Gli Hastur come lei, notoriamente, non avevano bisogno di pietre matrici per leggere il pensiero, e, chi più chi meno, tutti i nobili presenti - discendenti dalle antiche famiglie dotate di Potere - a meno che non fossero stati addestrati nelle Torri a schermare la loro mente, trasmettevano i loro pensieri a chiunque avesse con sé una pietra matrice (o avesse il Potere degli Hastur). La musica finì, e tutti applaudirono il giovane compositore, che era la rivelazione dell'anno. Gavin Delleray aveva la stessa età di Alester, ed era uno dei suoi più cari amici: i due avevano virtualmente trascorso insieme l'infanzia e l'adolescenza. Con sorpresa, Erminie notò che la prima ad applaudire era stata la regina stessa, che si era staccata dal vestito un serto di fiori di seta, adorno di una bella gemma, e l'aveva gettato sul palco. Al gesto della regina fece seguito una vera pioggia di fiori, di preziose scatolette avvolte in fazzoletti di seta, di gioielli; Gavin li raccolse, ringraziando con un inchino coloro che glieli avevano donati e si inchinò a lungo davanti alla regina. Alester rise maliziosamente. «Be', non sapevo che la regina Antella amasse a tal punto la musica... o che avesse ancora un occhio così acuto per i bei giovanotti», mormorò. «Vergogna», lo sgridò Erminie. «Sai benissimo che la madre di Gavin
era cugina di Antella e che si volevano molto bene. Gavin è come se fosse suo figlio, dato che la coppia reale non ha avuto la fortuna di averne.» Alester smise di ridere e le rivolse un cenno di assenso, ma Erminie non aveva bisogno di leggergli nei pensieri per sapere che alla prima occasione l'avrebbe detto a Gavin per prenderlo in giro. Quando gli applausi si spensero, la gente cominciò a uscire dai palchi per recarsi a salutare i conoscenti o per scendere a prendere qualche rinfresco. «Dovrei andare da Gavin a porgergli le mie congratulazioni...» disse Alester, in tono colpevole. Era chiaro che preferiva recarsi da Floria. «Sarà lieto di vederti, non ne dubito», rispose Erminie. «Ma ricorda che prima ti devo presentare al Nobile Elhalyn e a sua figlia.» Alester sorrise e seguì la madre lungo il corridoio esterno dei palchi. Molti servitori, nella livrea dei loro signori, correvano avanti e indietro, con vassoi di cibo e di vino: dietro i palchi più grandi, infatti, c'era un salottino dove, volendo, si poteva anche pranzare o dare un piccolo ricevimento. Nel corridoio giungeva la voce di coloro che facevano commenti sul cibo o sull'esecuzione, e il suono degli orchestrali che accordavano gli strumenti per la seconda parte del concerto. Erminie bussò discretamente alla porta del palco degli Elhalyn, e il Nobile Edric venne ad aprirle. Le fece un profondo inchino, come se non la vedesse da mesi, mentre in realtà l'aveva lasciata meno di tre ore prima. «Salve, cugina», le disse. «Vieni con noi. Posso offrirti un bicchiere di vino?» «Grazie», rispose lei, accettando il vino che le veniva offerto. «Floria, cara, come sei diventata bella! Ti ricordi di tuo cugino Alester.» Alester le rivolse un inchino. «È davvero un grande piacere, damigella», le disse, in tono molto compunto, e le sorrise. «Posso andare a prendervi qualche rinfresco? O a te, madre?» «Non ce n'è bisogno, ragazzo mio», disse Edric, indicando il tavolo con i rinfreschi. «Serviti, ti prego.» Dietro il suo invito, Alester prese un piattino e si servì di qualche pezzo di frutta candita e un paio di dolci. Un servitore gli versò una coppa di vino, e il giovane prese a centellinarla, senza staccare gli occhi da Floria. Anche la ragazza sembrava incuriosita da Alester. «Cugino!» gli disse, «sei davvero cambiato. Eri così cattivo con me quando eravamo bambini; mi ricordo di te come di una vera e propria os-
sessione. Ma adesso sembri davvero il duca di Hammerfell! Non sono mai riuscita a convincere le mie amiche, alla Torre di Neskaya, che la storia della tua fuga dal castello in fiamme non fosse inventata. È vero che tutti i tuoi parenti sono morti nella caduta del castello? Mi sembra una tragedia, non un bel racconto emozionante come lo giudicano loro!» «Certamente, Floria», le rispose Alester. «Almeno, così mi ha sempre detto mia madre. Mio padre è morto, e così mio fratello gemello. Non ho altri parenti da parte degli Hammerfell; adesso, tutta la mia famiglia è costituita da parenti di mia madre.» «E avevi davvero un gemello?» «A dire il vero, non mi ricordo di lui. Io e mia madre siamo fuggiti nel bosco, protetti unicamente dal nostro cane, Gioiello. A quell'epoca avevo un anno o poco più.» Floria continuava a osservarlo con stupore. «Io, invece», disse, «ho sempre condotto una vita fin troppo tranquilla. E adesso che hai raggiunto la maggiore età, Hammerfell è tuo?» «Sì, se troverò il modo di rivendicarlo», spiegò Alester. «A questo proposito, anzi, cercherò di procurarmi in qualche modo un esercito e di toglierlo ai tradizionali nemici della mia famiglia.» La ragazza lo guardò, intimidita. «Padre», disse poi, «Non puoi fare niente per...» Guardò il Nobile Elhalyn, che le lesse nelle mente il pensiero e le sorrise. «Il giorno del plenilunio», disse Edric Elhalyn ad Alester, «pensavamo di organizzare un ricevimento per i nostri giovani amici. Naturalmente, saremmo lieti che venissi anche tu. È il compleanno di Floria, ma non sarà niente di molto ufficiale», spiegò. «Non pensare che occorra l'etichetta di corte: solo un normale ricevimento.» «Certo», aggiunse Floria, ridendo, «ma devi promettermi una cosa: che non mi rincorrerai per tutto il salone con un serpente o un rospo!» «Oh, da tempo ho smesso di frequentare quegli animali», le garantì Alester, lieto dell'invito. Oltre al fatto che Floria gli pareva bellissima, con la sua posizione poteva aiutarlo a riconquistare Hammerfell. Erano parenti, certo, ma il ramo degli Elhalyn era di rango molto più alto, e molto meglio introdotto a corte, dei Leynier di cui faceva parte Erminie. Mentre Alester e Floria si parlavano, Edric disse a Erminie: «Sono lieto che i nostri ragazzi vadano d'accordo. Adesso mi viene in
mente che l'anno scorso cantava con un gruppo, vero? A Neskaya.» «Sì», disse Erminie, «ha una bella voce.» «Certo; devi essere orgogliosa di lui», disse Edric. «Ho l'impressione che Valentine non abbia una grande considerazione di lui, e che lo giudichi solo un giovane ozioso. Ma in genere Valentine è un po' troppo severo.» «Valentine non ha tutti i torti», disse Erminie, con una smorfia. «Ma tutti i parenti di Alester sono morti quando è caduto il castello, e ho dovuto allevarlo da sola: neanche per lui è stato facile fare a meno dei suoi consanguinei.» «Mah», fece Edric, «anch'io sono un po' preoccupato per i miei quattro figli: ho sempre l'impressione che pensino solo a divertirsi.» «Oh, non mi sembra il caso di preoccuparti molto: all'età giusta finiscono tutti per mettere la testa a posto», disse Erminie. «A questo proposito, cugino, avrei un favore da chiederti.» «Chiedi pure, e farò tutto quel che potrò», rispose Edric, con un sorriso un po' troppo confidenziale. Lei finse di non accorgersene e proseguì: «Potresti far avere ad Alester un'udienza con il re?» «Niente di più facile», rispose Edric. «Io stesso ho sentito re Aidan chiedere informazioni su Hammerfell, qualche tempo fa. Forse si potrebbe combinare un incontro in occasione del compleanno di Floria: penso che sia meglio evitare un'udienza ufficiale.» «Grazie», rispose Erminie. «Lo penso anch'io.» Intanto, Floria chiedeva ad Alester: «Conosci i miei fratelli?» «Conosco tuo fratello Gwynn», rispose lui. «Oh, Gwynn ha dodici anni più di me, e mi considera sempre una bambina», rispose Floria, stringendosi nelle spalle. «Preferisco mio fratello Deric, che ha solo un anno più di me. E lui ti conosce: non hai un cavallo baio, con una stella bianca sulla fronte?» «Sì», rispose Alester. «Me l'ha regalato mia madre quando ho compiuto quindici anni.» «Mio fratello dice che devi avere occhio per i cavalli, perché non ne ha mai visto uno così bello», disse Floria. «Ringrazialo», disse Alester, «ma in realtà i complimenti andrebbero a mia madre, perché è stata lei a sceglierlo.» «Lo conoscerai presto», continuò Floria, «perché i miei fratelli, anche se non amano la musica, hanno promesso che verranno nell'intervallo a salutarci. Credo che siano andati da qualche parte a giocare ai dadi o a carte? A
te piace giocare?» «Qualche volta», rispose Alester, sul vago, anche se la verità era che, potendo permettersi di giocare solo piccole somme, non si divertiva molto. La madre non gli aveva mai lesinato i soldi per i vestiti, ma non gli dava molto denaro per le altre spese. In quel momento giunsero quattro giovani: i figli di Edric, che si gettarono immediatamente sul tavolo dei rinfreschi. Il più alto dei quattro, però, dopo un attimo si girò verso Floria. «Chi è questo estraneo? E perché parli con uomini che non fanno parte della famiglia?» Arrossendo, Floria disse: «Mio fratello Gwynn, il duca Alester di Hammerfell». E al fratello, scusandosi: «È nostro cugino, lo conosco fin da quando eravamo bambini ed è nostro ospite». E il Nobile Edric aggiunse: «Proprio così, Gwynn, e questa signora è la duchessa di Hammerfell, che è una mia vecchia amica e una parente». Gwynn si inchinò a Erminie. «Scusatemi, signora. Non intendevo offendervi.» Ed Erminie rispose, sorridendo: «Nessuna offesa, cugino. Se avessi una figlia, sarei lieta che avesse fratelli altrettanto attenti alla sua reputazione». Ma Alester era in collera. «Dovete delle scuse anche a Floria, cugino, e vi pregherei di non interferire con lei», disse, «perché la cosa non vi riguarda.» Gwynn non aspettava altro. «La cosa mi riguarda», ribatté, «quando vedo che mia sorella si fa imbambolare da un esule senza terra, delle cui lamentele per la perdita del suo ducato ridono tutti, da Dalereuth a Nevarsin.» E aggiunse: «In strada, in questo stesso momento, ci sono gruppi di popolani che insultano tutti gli aristocratici che vedono, ma voi non ve ne preoccupate: siete troppo indaffarato a raccontare la solita storia di come avete perso Hammerfell. Se vi dispiace tanto di averlo perso, perché non siete negli Hellers, a combattere per riconquistarlo?» Alester stava per ribattere che era appunto quella sua intenzione, ma venne preceduto. «Smettila, Gwynn», lo interruppe Edric. «Mi stupisco della tua maleducazione. Decido io chi può essere mio ospite e chi può parlare con tua sorella. Chiedi scusa alla duchessa e ad Alester!» Diplomaticamente, prima che le cose peggiorassero, intervenne Erminie per dire:
«La seconda cantata sta per iniziare. Io e mio figlio dobbiamo ritornare nel nostro palco.» «Certo, tra poco inizierà», convenne Edric. «Allora», aggiunse, «al ballo di Floria, eh?» In quel momento, però, dal corridoio che portava ai palchi giunse rumore di tafferugli. Alcuni giovani popolani, male in arnese, invasero il palco e spinsero da parte gli inservienti. Gwynn estrasse immediatamente il pugnale ed Edric fece scudo a Erminie. Alester impugnò a sua volta il pugnale e si avvicinò agli sconosciuti. «Questo è un palco privato; vi prego di uscire», disse. Ma il giovane popolano davanti a lui rise in tono sprezzante. «E con questo?» disse. «Perché non dovremmo starci anche noi? Credi di essere migliore di me? Cacciami via, se ne sei capace!» «È quanto intendevo fare», mormorò Alester, e lo afferrò per le spalle spingendolo verso l'uscita. Il giovanotto, forse sorpreso dal fatto di avere incontrato resistenza, si lasciò spingere per qualche passo, poi cercò di afferrare a sua volta Alester. «Venite ad aiutarmi, cugino», disse questi, ma Gwynn stava già proteggendo Floria. Alester, intanto era quasi giunto alla porta, e vedeva che i giovani male in arnese avevano invaso anche gli altri palchi. Notò anche che i compagni di quello con il quale stava lottando si erano gettati sul tavolo dei rinfreschi e si riempivano le tasche. Che siano davvero così affamati? si chiese. Come se gli avesse letto nella mente, Edric disse, con voce pacata: «Se avete appetito, giovanotti, servitevi e poi andatevene. Siamo venuti per ascoltare la musica, e non per litigare.» A quelle parole, gran parte degli intrusi si limitò a riempirsi le tasche e ad andarsene; ma quello che litigava con Alester non se ne andò. «Voialtri maledetti aristocratici credete di poterci far rimanere buoni con qualche dolce, dopo averci derubati per tutta la vita e cacciati dai nostri campi?» gridò, estraendo un coltello. Si lanciò contro Alester, che non se l'aspettava. La lama gli si piantò nell'avambraccio. Con un'imprecazione, Alester restituì il colpo, alla cieca, e si avvolse il braccio nel mantello, per farsene scudo. Erminie gridò, disperata: «Guardie! Guardie!» Un attimo più tardi, comparvero due cadetti della guardia reale, in uniforme nera e verde; afferrarono il giovane facinoroso, che continuava a fissare con stupore il sangue che gli gocciolava dalla mano, dove Alester l'a-
veva ferito. «State bene, signore?» chiese una delle guardie. «Questa sera c'è in strada un mucchio di marmaglia. Hanno perfino rovesciato la portantina di sua Maestà.» «È solo un graffio», disse Alester. Si sedette per esaminarsi la ferita. «Non capisco cosa volessero.» «Non lo sanno neanche loro... tu lo sai, bestia?» chiese al prigioniero, dandogli uno scrollone. Edric porse ad Alester il fazzoletto perché si tamponasse il sangue. Il giovane duca di Hammerfell, passata l'eccitazione della lotta, guardava con stupore la macchia di sangue sul fazzoletto. «No, niente di grave», disse. «Lasciatelo andare. Ma se dovesse capitarmi di nuovo tra i piedi...» Floria si curvò su Alester. Rivolta alle guardie, disse: «Potete fare di lui quel che volete, ma toglietelo di torno». Poi alzò con delicatezza il fazzoletto ed esaminò la ferita di Alester. «Sono un monitore», disse, «fammi vedere quant'è profonda.» Tese la mano e la passò lentamente sul braccio di Alester, senza toccarlo. «Non è grave», disse, «ma è stata incisa una piccola vena.» Prese la pietra matrice e si concentrò sulla ferita. Dopo un attimo, il sangue cessò di scorrere. «Ecco», disse infine, «non credo che ci sia un danno permanente.» «Mi dispiace infinitamente che sia successo nel nostro palco», disse Edric. «Che cosa posso fare per scusarmi?» «A quanto pare, non sei il solo», disse Erminie, guardando l'anfiteatro. Ormai le guardie parevano avere avuto la meglio, e gli intrusi malvestiti venivano incolonnati verso le uscite. Un vecchio, vestito in modo modesto come tutti gli altri, protestava vivacemente: «Via!» diceva. «Non sono uno di quelli. Bisogna mettersi i calzoni di seta per venire a un concerto? È questa la giustizia degli Hastur?» Gavin Delleray, che era sul palco, balzò in platea ed esclamò: «Lasciatelo; lo conosco. È lo scudiero di mio padre!» «Come volete, signore», rispose la guardia. E, rivolto al vecchio: «Scusate, buon uomo, ma eravate vestito come quella marmaglia...» Erminie chiese al figlio: «Faccio venire la portantina? O preferisci rimanere ad ascoltare il concerto?» Floria si stava ancora prendendo cura di Alester, che si guardava bene dal muoversi. La ragazza lo fissava con aria protettiva, bene investita del
suo ruolo di infermiera. «È meglio che non faccia fatiche, per il momento», disse la ragazza. «Gwynn, dagli un bicchiere di vino, per favore, se quei cialtroni non se lo sono bevuto tutto. Sedete, cugina Erminie, potete ascoltare il concerto anche qui con noi.» Il disturbatori erano stati portati via e la rappresentazione riprendeva. Erminie si sedette vicino ad Alester. Ma, nell'ascoltare la musica, non poteva fare a meno di chiedersi che cosa fosse successo alla città da lei amata. Gli intrusi avevano guardato lei e suo figlio come se fossero stati due mostri; eppure, lei era una donna che lavorava, e neppure ricca. Poi vide che Floria continuava a tenere la mano di Alester, e, senza sapere perché, fu colta da qualche brutto presentimento. Eppure, Alester e Floria erano cresciuti insieme e potevano formare una bella coppia. Perché l'idea la metteva in agitazione? L'occhio, a quel punto, le cade sul palco reale. La regina Antella, comoda sui suoi cuscini, continuava a sgranocchiare dolci come se nulla fosse successo, come se non ci fosse stata interruzione. Per qualche motivo, l'idea le parve buffa, ed Erminie scoppiò a ridere. Continuò a ridere senza potersi fermare, e dai palchi vicini la guardarono con riprovazione. Edric le si avvicinò, con un bicchiere di vino e con la fiaschetta dei sali; ma lei non smise di ridere, e alla fine Edric dovette portarla, quasi di peso, nell'anticamera del palco, dove Erminie continuò a ridere finché non scoppiò a piangere, e continuò a piangere fino a rimanere stremata. CAPITOLO 6 IL FALCO TORNA A VOLARE Conn di Hammerfell si svegliò all'improvviso, con un grido, e si portò la mano al braccio, aspettandosi di vederla coperta di sangue. Rimase stupito dall'oscurità e dal silenzio, perché si aspettava di essere in una piccola stanza bene illuminata, con gente che parlava, ma intorno a lui c'era solo qualche uomo che russava e l'unico chiarore era quello del fuoco su cui bolliva, in una pentola, un liquido dal buon odore di spezie, mentre dall'esterno giungeva solo il sibilo del vento, e non la dolce musica che aveva sentito nel sogno. Accanto a lui, anche Markos si destò all'improvviso. «Che cosa c'è, figliolo?» chiese il vecchio scudiere
«Il sangue...» disse Conn, confuso. Poi, ormai del tutto sveglio, esclamò: «Ma qui non c'è nessuno...» «Un altro sogno?» volle sapere Markos. «Eppure, mi sembrava così reale», rispose Conn, semiaddormentato. «Il pugnale... stavamo lottando... lui mi ha colpito... e tutt'attorno a me c'era gente elegante, con vestiti che non ho mai visto qui sulle montagne. C'era un uomo che era un mio cugino e che si è scusato... e una ragazza vestita di bianco, bellissima...» Sorpreso, si guardò il braccio, e vide che non c'era traccia di sangue. «Non so come ha fatto, quella ragazza, ma ha fermato il sangue.» Tornò a stendersi sul materasso pieno di paglia. «Ah, com'era bella...» «Davvero?» chiese Markos, sorridendo. «È la ragazza che hai già visto altre volte in sogno? E c'erano altre persone?» «Sì. Suonavano musica, e c'era mia madre... mia madre?... Sai come sono confusi i sogni.» Trasse un sospiro, e Markos gli strinse la mano. «Parla piano», gli disse, indicando i quattro o cinque uomini che dormivano con loro. «Non svegliare gli altri. La notte è stata lunga, e domani ci attende una giornata dura. Non abbiamo il tempo di pensare ai sogni... sempre che sia stato solo un sogno. Riposa; gli altri, prima di mezzanotte non saranno qui.» «Ammesso che vengano», disse Conn. «Fuori c'è tempesta. Devono essere davvero devoti, per mettersi in viaggio con un tempo simile.» «No, verranno», disse Markos, sicuro. «Cerca di dormire un paio d'ore.» «Ma se non era un sogno, che cosa poteva essere?» chiese Conn. Con riluttanza, Markos gli spiegò, a bassa voce: «Sai che nella tua famiglia c'è il Potere. Tua madre era una Sapiente. Quando avremo tempo, ne parleremo più diffusamente, ma questa sera abbiamo altre cose a cui pensare, con gli uomini che stanno per arrivare». «Non capisco...» cominciò Conn, ma non terminò la frase. Aveva colto le emozioni del padre adottivo e aveva notato la sua preoccupazione, assai superiore a quella che si sarebbe aspettato da un semplice sogno. A parte lo shock provato poco prima, al suo brusco risveglio, lo stesso Conn non aveva mai preso troppo seriamente quei sogni: aveva già fatto molte volte, negli anni passati, lo stesso sogno di vivere una vita diversa, ma non sempre ne aveva accennato al padre adottivo: una vita in cui non abitava in un piccolo villaggio dei monti, celando la propria vera identità, ma in una grande città, circondato da lussi inimmaginabili. Ora però gli pareva strano che Markos attribuisse una sorta di realtà a quelle visioni.
Per quanto riandasse indietro nei suoi ricordi, Conn ricordava soltanto Markos e vaghe immagini di un incendio, mentre una voce lo consolava. Quando Markos aveva saputo che si ricordava dell'incendio, gli aveva rivelato la sua vera identità e gli aveva raccontato la storia della distruzione di Hammerfell, e di come suo padre, sua madre e suo fratello vi fossero morti. Più tardi, Markos lo aveva portato a vedere le rovine del castello di Hammerfell e gli aveva detto che, come unico superstite della sua famiglia, adesso aveva il dovere di riconquistare il suo ducato. Conn cercò di riprendere sonno, ma il viso incantevole della ragazza che, nel sogno, gli aveva curato la ferita non lo lasciò dormire. Che quella donna esistesse davvero? Markos gli aveva spiegato che lui era nato con la facoltà di leggere nel pensiero, come tutti quelli della sua casta. Era possibile che lui avesse visto la ragazza attraverso il dono del suo Potere? O si trattava di una ragazza che avrebbe incontrato in futuro? Semiaddormentato, Conn si perse in quei pensieri, finché, dall'esterno della casa in cui aveva sempre abitato con Markos, un vecchio servitore e una donna che veniva a prendersi cura di lui quando Markos si allontanava per le sue missioni, non sentì rumore di zoccoli. Allora si rizzò a sedere. «È l'ora», disse a Markos. «Sono arrivati.» «Sì», rispose il vecchio, nell'udire tre volte il richiamo del corvo. «Ho sentito il segnale.» Accese un lume e anche gli altri uomini si alzarono. Poi Markos spalancò la porta, i cui cardini emisero un cigolio straziante. Conn rabbrividì. «Il rumore di questi cardini si sentirebbe fin dall'altra parte del Muro Attorno al Mondo», disse. «Procurati del grasso e ungili, altrimenti, un giorno o l'altro, finiranno per tradirci.» «Certo, mio signore», assentì Markos. Quando erano soli, o fra estranei, lo chiamava "ragazzo mio", o "mastro Conn", ma, fin dal suo quindicesimo compleanno, quando erano tra uomini fidati lo chiamava sempre "mio signore". Sei o sette uomini, in tenuta da battaglia, entrarono nella stanza. Con loro entrò anche il vento gelido che soffiava all'esterno, e l'ultimo dei nuovi venuti dovette faticare per riuscire a chiudere la porta, tanto era forte quel vento. Nella penombra, Markos si rivolse al capo dei nuovi venuti. «Sei certo che nessuno vi abbia seguito?» gli chiese. «Se c'è in giro anche solo un coniglio, tra noi e il Muro Attorno al Mon-
do, sono pronto a mangiarmelo crudo, pelle e tutto», gli rispose l'uomo: un individuo alto e robusto, con una giubba di cuoio, e con una barbaccia rossa. «Nel bosco troverai solo la neve, e tutto tace; me ne sono assicurato.» «Gli uomini sono armati?» chiese Conn. «Fatemi vedere di che armi disponiamo.» In fretta, diede un'occhiata alle spade e alle picche: armi vecchie, molto usate, ma tenute bene, lustre e senza un filo di ruggine. «Benissimo; allora siamo pronti. Ma voi dovete essere mezzo morti per il freddo. Fate sosta qualche minuto, abbiamo preparato del vino caldo», aggiunse. Si accostò al focolare e cominciò a riempire i bicchieri, consegnandone poi uno a ciascuno degli uomini. «Bevete questo, vi farà bene.» «Un momento, mio signore», disse Markos. «Prima di partire, ho una cosa per voi.» Poi, con aria di mistero, andò a frugare in un vecchio baule, in fondo alla stanza. Si voltò e disse: «Dal giorno in cui Hammerfell è stata distrutta, l'ho tenuta nascosta per voi: la spada di vostro padre.» Conn per poco non si lasciò sfuggire di mano il bicchiere, mentre stava consegnandolo all'uomo dalla barba rossa. Con commozione, impugnò l'arma: non aveva mai posseduto niente della sua famiglia: Markos gli aveva raccontato che ogni suo bene era scomparso nell'incendio. Intorno a lui, tutti gli uomini avevano alzato i bicchieri. Quello con la barba rossa disse: «Sì, beviamo al nostro duca!» «Certo, e che gli dèi siano con lui!» Gridando frasi augurali, tutti bevvero. «Grazie a te, Farren, e grazie a tutti voi. Che il lavoro di questa notte ci sia di buon auspicio per il lungo compito che ci attende», disse Conn. E aggiunse: «C'è però un detto: gli dèi aiutano coloro che si sono già aiutati da sé prima di ricorrere al loro intervento.» Rinfoderò l'antica spada: un giorno avrebbe cercato di decifrare i nomi che vi erano incisi; ma non ora. Farren disse: «La nostra vita è a vostra disposizione, mio signore. Ma dove andiamo, questa notte? Markos ci ha detto solamente che avete bisogno di noi, e siamo venuti per rispetto alla memoria di vostro padre. Ma certamente non ci avrete fatti venire in mezzo alla tempesta per bere alla
vostra salute - anche se questo vino caldo è eccellente - e per assistere alla consegna della spada di Hammerfell». «Giusto», disse Conn. «Siete qui perché ho sentito una strana storia. Che il nostro antico nemico, Ardrin di Storn, questa notte viene a bruciare un villaggio di Hammerfell.» «Con una tempesta così? Ma perché si comporta in questo modo?» chiese un uomo. «Non è la prima volta che ha bruciato un villaggio di agricoltori e li ha costretti a cercarsi un riparo dal freddo dell'inverno», rispose Conn. «A quanto so, vuole riempire di pecore questo territorio, perché quelle bestie gli danno maggiori profitti che non gli agricoltori che si coltivano quel che occorre loro per vivere.» «È vero», disse Farren. «Ha cacciato via mio nonno dalla casa dove abitava da cinquant'anni, costringendolo a scendere nelle città della pianura e a cercarsi lavoro come stalliere. E non che l'abbia trovato facilmente. Adesso, dove c'erano i suoi campi, ci sono solo prati dove brucano le pecore.» «Storn non è il solo a cacciare via i contadini», disse Conn. «Finché lo fa con i suoi, padronissimo... se i suoi lo lasciano fare. Ma io ho giurato di difendere gli uomini di Hammerfell. Non sapevo di tuo nonno, Farren; se riuscirò a vincere gli Storn e a riavere le mie terre, riavrà la sua casa. Uomini della sua età non devono faticare sotto padrone per guadagnarsi il pane quotidiano.» «Vi ringrazio a suo nome», disse Farren, chinandosi a baciargli la mano. Ma Conn arrossì e si limitò a stringergli la destra, come tra compagni di lotta. «Adesso, mettiamoci in moto; gli uomini di Storn colpiscono di notte e cacciano via i vecchi e i bambini, ma da domani sapranno che Hammerfell non è morto e che non permetterà più questi crimini.» A uno a uno, uscirono all'esterno e montarono a cavallo. Fu Markos a mettersi in testa, e Conn si mise immediatamente dietro di lui. Era difficile scorgere la strada, ma Conn si fidava dell'istinto di Markos e sapeva che il vecchio conosceva ogni pietra di quelle montagne: per non perdersi, gli bastava seguire il cavallo del vecchio servitore. Perciò lo seguì, con gli occhi fissi su di lui e la mano sul pomo della spada del padre. Non s'era aspettato di averla; in un certo modo, l'azione di quella notte gli sembrava una forma di rito di passaggio. Era già andato molte volte con Markos ad assalire gli Storn: anzi, a mantenere lui e Markos per tutti que-
gli anni era stato il bottino sottratto ai nemici. A questo proposito, Conn non aveva mai pensato a se stesso e a Markos come a due ladri: prima che lui nascesse, gli Storn aveva depredato le terre di suo padre, e adesso Conn e Markos si limitavano a riprendersi quel che era loro. Ma quella notte gli Storn avrebbero capito chi era il nemico. La neve era alta, e Conn lasciò che il cavallo scegliesse da solo la strada. Dopo qualche tempo, Markos si fermò, smontò e prese l'animale di Conn per la briglia. «Di qui in avanti, andiamo a piedi», bisbigliò. «Può darsi che abbiano lasciato qualcuno di sentinella, e non dobbiamo farci vedere.» «Bene», disse, leggendo nella mente di Markos quello che il vecchio non osava dirgli davanti ai loro uomini: non dovevano uccidere molte persone. Gli uomini di Storn obbedivano a ordini e, se non li avessero eseguiti, avrebbero fatto la fine degli abitanti del villaggio. E né Conn né Markos erano molto portati all'omicidio. In silenzio, ciascuno degli uomini passò il messaggio a quello dietro di lui, e altrettanto in silenzio la fila giunse nei pressi del villaggio: laggiù, Markos passò parola di fermarsi. Le capanne del villaggio erano al buio: solo in un paio di esse ardeva qualche luce. Conn si chiese quale ne fosse la ragione: qualche vecchio che non riusciva a dormire? O che aspettava qualcuno in ritardo? Attese in silenzio, con la mano sulla spada. Questa notte, pensò, sono davvero un Hatnmerfell. Padre, dovunque tu sia, sappi che difendo la tua gente. All'improvviso, da una delle capanne si levò un forte grido, e, subito dopo, si alzarono lingue di fiamma: la capanna prese subito a divampare come una torcia. Si levarono grida anche dalle altre capanne. «Adesso!» ordinò Markos, e il gruppo di Conn montò a cavallo e si lanciò verso il villaggio. Conn puntò l'arco contro le figure scure che si dirigevano, torcia in mano, contro le altre capanne. Scagliò una freccia e una figura cadde. Ne incoccò una seconda. Dalle capanne cominciarono a uscire donne, bambini e vecchi, che incespicavano e gridavano. Un'altra delle capanne prese fuoco, e a quel punto il gruppo di Conn piombò sugli avversari, gridando come furie. Conn urlò con tutta la voce che aveva in gola: «Storn! Sei qui, o hai mandato i tuoi tirapiedi a fare il lavoro sporco, mentre tu te ne stavi comodamente davanti al fuoco? Che cosa mi dici, Storn?» Un lungo silenzio, interrotto solo dal crepitio delle fiamme e dal pianto
dei bambini. Poi qualcuno rispose. «Sono Rupert di Storn; chi osa venire a chiedermi quello che faccio? Questa gente è stata invitata più volte a lasciare le capanne; con il suo rifiuto mi ha provocato. Chi osa discutere il mio diritto di fare quel che voglio nelle mie terre?» «Questa non è terra degli Storn», gridò Conn. «È terra degli Hammerfell! Io sono Conn, duca di Hammerfell, e tu puoi fare il tuo sporco lavoro a Storn, se i tuoi contadini te lo permettono, ma non toccare i miei contadini, se hai cara la pelle! Bel lavoro, questo! Prendersela con le donne e i bambini! Che coraggio hanno gli uomini di Storn, quando non c'è nessuno contro di loro!» Un lungo silenzio. Poi giunse la risposta. «I due giovani lupi di Hammerfell sono morti nell'incendio che ha spazzato via la loro dinastia maledetta. Chi è l'impostore che avanza queste pretese?» Markos sussurrò all'orecchio di Conn: «Rupert è il nipote di Storn e il suo erede». «Fatti avanti, se hai coraggio», ribatté Conn, «e ti dimostrerò sulla tua carcassa se sono o non sono un Hammerfell.» «Non combatto con gli impostori e con i banditi», rispose Rupert. «Tornate da dove siete venuti e non fatevi più vedere sulle mie ter...» S'interruppe con un grido strangolato e cadde da cavallo, con la freccia di Farren piantata nella gola. Markos gridò: «Adesso vi volete decidere a combattere da uomini?» A un secco comando, gli uomini di Conn si lanciarono contro quelli di Storn; la lotta fu breve e sanguinosa. Conn abbatté un uomo con una picca e poi scambiò qualche colpo con uno armato di spada, che all'improvviso non fu più davanti a lui. A quel punto, Markos lo prese per il braccio e lo portò via. «Basta. Per questa sera ne hanno avuto abbastanza, e hanno rinunciato a incendiare il villaggio. Guarda, hanno caricato il corpo di Rupert sul suo cavallo e se ne vanno», disse il vecchio. E mentre Conn si lasciava condurre via da Markos, la gente del villaggio uscì dalle capanne e li circondò. «È davvero il giovane duca?» «Hammerfell è ritornato!» «Il nostro principe.» Gli si avvicinarono e gli baciarono le mani. «Adesso quei banditi di Storn non verranno più!» disse una donna che
impugnava una delle torce lasciate cadere dagli assalitori. «Siete proprio l'immagine di vostro padre, caro ragaz... mio signore», si corresse. Conn balbettò: «Miei sudditi... vi ringrazio della vostra accoglienza. Vi prometto che da oggi in poi, nessuno brucerà altri villaggi, se sarò in grado di impedirlo. E nessuno assalirà più donne e bambini». «Certo», mormorò Markos, quando finalmente lasciarono il villaggio. «Il falco torna a volare, e da oggi in poi sapranno che c'è di nuovo un Hammerfell. E direi che avete bagnato di sangue con onore la spada di vostro padre.» Conn non poté che assentire. Aveva ripreso il combattimento in difesa di una giusta causa. La causa per cui si era nascosto con Markos, per tanti anni; per cui, anzi, era venuto al mondo. CAPITOLO 7 L'ALLEANZA La notte del plenilunio, Edric Elhalyn festeggiò il compleanno della figlia con un ricevimento che si tenne al palazzo di Thendara degli Elhalyn. Tra gli ospiti c'erano il re Aidan e la regina Antella, ed Edric, come aveva promesso, durante un intervallo delle danze si recò da Floria e Alester, che si stavano parlando. «Spero che ti diverta, cara», disse alla figlia. «Oh certo, è una festa meravigliosa!» rispose lei. «Temo però di dovervi interrompere. Alester, come eravamo d'accordo, ho parlato a re Aidan, e sua Maestà ti aspetta. Vieni con me.» Scusandosi con Floria, Alester seguì Edric Elhalyn in una stanza vicino al salone delle danze, lussuosamente arredata e tappezzata di tendoni di seta. Laggiù, seduto in una delle eleganti poltrone, c'era un uomo dai capelli bianchi, raffinatamente vestito e dall'aspetto fragile, ma dagli occhi ben vivi e intelligenti. Con voce straordinariamente forte e profonda, l'uomo disse: «Il giovane Hammerfell?» «Maestà», disse Alester, piegando a terra il ginocchio. «Lasciate perdere le formalità», disse re Aidan Hastur, indicandogli di accomodarsi accanto a lui. «Conosco vostra madre: una signora affascinante; mio cugino Valentine me ne ha parlato molto. A quanto mi pare di capire, sarebbe ansioso di diventare vostro patrigno, giovanotto, ma anche lui sapeva ben poco di un certo argomento su cui volevo informazioni, os-
sia da dove è sorta la faida che ha quasi spazzato via due regni degli Hellers. Che cosa ne sapete? Sapete dirmi quando è iniziata?» «Signore, non saprei», rispose Alester. «Mia madre non ne parla mai, ma una volta mi ha detto che neppure mio padre sapeva con esattezza l'origine della lotta: sapeva solo che durava ormai da diverse generazioni. Io so che mio padre e mio fratello sono morti nella distruzione del castello di Hammerfell, con l'arma illegale della pece stregata, a opera degli uomini di Storn.» «Be', questo lo sanno anche i cantastorie di piazza, qui a Thendara», disse re Aidan, con un sospiro. «Comunque, alcuni di quei signorotti delle montagne sono diventati troppo arroganti, da qualche tempo in qua, e la cosa minaccia la pace conquistata sul Kadarin da noi e dai nostri alleati Asturien. Molti regni degli Hellers ritengono di dovere fedeltà agli Aldaran, e noi siamo ancora in guerra con loro, anche se da tempo non ci sono veri e propri scontri.» S'interruppe e fissò Alester negli occhi. «Ditemi, giovanotto», riprese, «se vi aiutassi a riconquistare Hammerfell, vi alleereste con gli Hastur e combattereste al nostro fianco, in caso di necessità, contro gli Aldaran?» Alester stava già per rispondere, ma il re lo interruppe: «No, non rispondete subito; rifletteteci sopra». E aggiunse: «Poi, ditemi quello che avrete deciso. Mi occorrono uomini fedeli, negli Hellers; altrimenti, i Regni di Darkover cadranno di nuovo preda della guerra, come ai tempi di Varzy. E questo sarebbe negativo per tutti. «Perciò», proseguì il re, «tornate pure alla festa, e tra qualche giorno, quando avrete riflettuto sulla mia proposta, venite da me a riferire.» Così detto, gli rivolse un sorriso e gli fece un cenno del capo; per poi distogliere lo sguardo: l'udienza era finita. Edric gli toccò la spalla, e Alester fece una riverenza ad Aidan e indietreggiò fino alla porta. Il re gli aveva suggerito di riflettere sulla proposta, ma che altre risposte poteva dargli? Il suo primo dovere era quello di riconquistare le sue terre e se per farlo era necessario allearsi con gli Hastur, non gli sembrava un prezzo molto forte. O era davvero troppo forte e lo avrebbe messo alla mercé degli Hastur? Fino a che punto ci si poteva fidare dei regni delle pianure? Quando tornò nel salone, vide che Floria ballava con uno degli invitati. Alla fine della danza, la ragazza gli si avvicinò e gli lesse nella mente la preoccupazione per la proposta del re. «Che cosa è successo?», gli chiese. «Ho parlato con il re», rispose Alester, «e mi ha offerto il suo appoggio
per la riconquista di Hammerfell.» Non parlò delle condizioni, però. «È meraviglioso!» esclamò Floria, e Alester aggiunse: «Floria, sai che quando riavrò il mio ducato, la prima cosa che farò sarà quella di parlare a tuo padre...» «Lo so», rispose lei, e aggiunse, sottovoce: «E anch'io lo desidero come te.» Poi, per un attimo, gli sfiorò le labbra, ma in modo così rapido e leggero che neppure lo stesso Alester fu certo che lo avesse fatto. Alester le prese la mano e insieme si avviarono verso coloro che danzavano. Lontano, a nord di Tbendara, Conn di Hammerfell si lasciò sfuggire un grido, disorientato. Il viso della ragazza, le labbra che sfioravano le sue... era un'emozione troppo forte. Era di nuovo la sua donna del sogno, e c'erano le luci forti, la gente elegantemente vestita. Che cosa gli stava succedendo? Alester batté gli occhi, e Floria gli chiese a bassa voce: «Che cos'è successo?» «Non lo so... mi girava la testa», rispose Alester. «Per un momento, mi è sembrato di trovarmi in un luogo diverso, in un posto che non ho mai visto.» «Tu, devi possedere un po' di Potere, ne sono certa», rispose Floria. «Forse hai letto i pensieri di qualcuno che è legato a te, o che lo sarà in futuro.» «Ma io non ho mai avuto abbastanza Potere per leggere questo genere di pensieri», rispose Alester, perplesso. «Quando me l'hanno misurato, hanno detto che non valeva la pena di addestrarlo, perché era poco. Perché pensi che abbia del Potere?» «Be', nella tua famiglia ce n'è, e i tuoi capelli rossi, in genere, sono il contrassegno del Potere.» «Non nel mio caso, però», spiegò Alester, «perché io avevo un fratello gemello, e mia madre dice che era lui, e non io, quello dotato di Potere.» La musica s'interruppe, e Alester continuò, accompagnando Floria: «Dovrei andare a riferire a mia madre l'esito dell'udienza. E, anzi, a proposito di mia madre, c'è anche un'altra cosa», aggiunse sorridendo. «Conosci qualcuno che abbia un allevamento di cani?» «Allevamento di cani?» fece lei, senza capire. «Sì. Il cane di mia madre è molto vecchio, adesso», disse Alester. «Vor-
rei procurarmi un cucciolo, in modo che quando Gioiello andrà nel posto dove vanno i cani fedeli, mia madre non resti sola... specialmente adesso che dovrò assentarmi spesso dalla città.» «Che bella idea!» esclamò Floria, compiaciuta. «Sì, conosco il posto dove mio fratello si procura i cani. Va' laggiù a nome mio.» Con esitazione, Alester le chiese: «Vieni laggiù con me, domattina?» «Sarei lieta di farlo», rispose lei, sorridendo, «ma ho un impegno. Finalmente mi hanno chiamata alla Torre, per fare da monitore nel cerchio di Renata Aillard, e domattina mi esamineranno per controllare se posso entrare in quel cerchio.» Incuriosito, Alester le chiese: «Non sapevo che le donne potessero essere Guardiani di un cerchio...» «Be', in effetti non lo sono», spiegò Floria, «con l'organizzazione attuale dei compiti all'interno del cerchio di matrici e per il tipo di lavoro che si svolge oggi nelle Torri. Ma Renata è androgina. Sua madre ha sangue Hastur, e molti della sua famiglia nascono così... il popolino dice che è colpa del sangue degli elfi! In realtà è ermafrodita, ma ha deciso di vestirsi da donna e perciò si chiama Renata invece di Renato. È brutto, nascere così, perché non si possono avere figli, ma ha la resistenza fisica di un uomo, e perciò può fare il Guardiano. Forse, prima o poi perfezioneranno altri generi di cerchio che permetteranno alle vere donne di fare il Guardiano - lo stesso Varzy il Saggio lo avrebbe voluto - ma per ora è troppo pericoloso, per una donna, assumersi quel ruolo.» «E io non voglio che tu corra dei pericoli», disse Alester, convinto. «Però», aggiunse Floria, «penso che prima di mezzogiorno avremo finito e che saprò se sono stata accettata. Poi, se per te va bene, nel primo pomeriggio potremmo andare a prendere quel cane.» «Accettata?» chiese Alester. «Pensavo che il posto fosse già tuo.» «Sì, di massima lo è, ma è importante che le personalità di tutti coloro che fanno parte di un cerchio vadano d'accordo. La prova serve per controllare se posso integrarmi in un cerchio già esistente. Conosco Renata e andiamo d'accordo: con lei non prevedo difficoltà. Ma devo ancora fare la conoscenza degli altri.» «Se qualcuno ti rifiuta, lo sfido a duello!» scherzò Alester. Ma Floria si accorse che, anche se l'aveva detto per scherzo, sarebbe stato disposto a farlo davvero. «No, non dovresti tenergli rancore, neanche se mi rifiutassero», disse, prendendogli la mano. «Non ci sarebbe niente di offensivo, in un eventuale
rifiuto: è soprattutto una questione di essere in armonia tra noi, come tra i diversi suonatori di un'orchestra...» Poi la ragazza sentì che la musica riprendeva, e gli disse: «Ma adesso devo danzare con qualcuno degli ospiti, anche se preferirei rimanere con te.» «Oh», protestò Alester, «perché dobbiamo sempre fare i comodi degli altri? Sono stufo di "è così che si deve fare" e "il giusto modo di fare è questo"!» «Oh, Alester!» lo redarguì lei, «non parlare così. Non siamo qui per fare quel che vogliamo noi, ma per fare il nostro dovere verso le nostre famiglie. Tu sei duca di Hammerfell, e chissà, potrebbe arrivare un giorno in cui la ragion di stato ti imporrà di rinunciare a me.» «Mai!» esclamò lui. «Non dirlo! Una persona qualunque può fare quel che più desidera, ma per un principe o un duca deve venire prima il bene del suo popolo...» rispose Floria. E pensò: È sempre vissuto in esilio, e nessuno lo ha preparato alle responsabilità della sua posizione. «Almeno, permettimi di accompagnarti!» la pregò Alester, e le porse il braccio per accompagnarla verso le donne della sua famiglia, tra le quali si scorgeva - notò con un certo reverenziale timore - la regina Antella, che sorrideva con aria distratta. «Finalmente, cara», disse la regina, quando Floria si avvicinò. «Ti aspettavamo. Ma non conosciamo il bel giovanotto che ti accompagna...» «È il figlio della duchessa di Hammerfell, secondo tecnico del cerchio di Edric Elhalyn», disse Floria, piano. Per un attimo, Alester si chiese come la regina - notoriamente dura d'orecchio - potesse sentirla, poi si ricordò che era una Hastur e dunque una lettrice del pensiero. «Hammerfell», disse Antella, con un blando cenno della testa. «Sono lieta di vedervi, giovanotto, vostra madre è una nostra cara amica.» Alester si inchinò. In una sola sera, prima era stato presentato al re, e poi alla regina! Un giovane chiese un ballo a Floria, e Alester, rimasto solo, fece un'altra riverenza alla regina e, quando lei gli fece un gesto di congedo, si allontanò in cerca della madre. Erminie era nella serra e guardava i fiori. «Figliolo caro», gli disse, «perché non sei a ballare?» «Per questa sera, mi pare di avere danzato abbastanza», disse, «e poi, sono rimasto senza ballerina.» «Via, via», sorrise Erminie, «Floria è la festeggiata, e ha dei doveri ver-
so gli ospiti.» Alester rispose con irritazione: «Me l'ha già detto lei stessa. Madre, non mettertici anche tu». «Floria ha fatto bene», disse Erminie. Poi, accorgendosi che il figlio aveva molte cose da dirle, gli chiese: «Cos'è successo, Alester?» «Ho avuto un'udienza dal re... ma dovremmo parlarne a quattr'occhi», rispose Alester. «Vuoi che andiamo, allora?» Erminie rivolse un cenno a un servitore e gli disse: «Per favore, fate venire una portantina». Durante il tragitto, Alester non riuscì a trattenersi. «E, madre», disse, «ho chiesto a Floria se mi avrebbe accettato, quando riavrò il mio ducato...» «E lei che cosa ti ha risposto?» chiese Erminie. «Mi ha dato un bacio, e ha detto che aspettava con ansia quel giorno.» «Ne sono lieta», rispose Erminie, chiedendosi tuttavia perché, se era così contento, il figlio aveva l'aria tanto pensosa. Che Alester avesse fatto eccessive pressioni, e che la ragazza lo avesse accettato a malincuore? «Adesso, raccontami esattamente quel che ti ha detto sua Maestà», chiese, per non pensarci. CAPITOLO 8 RITORNO A THENDARA Il villaggio di Lowerhammer, ai piedi del vecchio castello degli Hammerfell, era poco più di un gruppetto di case di pietra al centro di una distesa di campi: una zona povera, ma si era al tempo del raccolto e il più grosso granaio del villaggio era stato trasformato in pista da ballo ed era affollato di contadini; di lato, alcuni musicisti suonavano arpe e cornamuse. Lungo una parete erano state montate alcune assi su cavalletti di legno, e tutti i bicchieri del villaggio vi facevano bella mostra, accanto a fiaschi di sidro e di birra. C'erano panche per gli anziani e in centro uno spazio vuoto per i giovani che volevano ballare. Uno di coloro che ballavano era Conn; quando la musica terminò, prese per mano la donna dinanzi a cui l'aveva portato la danza, e l'accompagnò al tavolo dei rinfreschi. Nel granaio faceva caldo; in fondo, dietro un tramezzo di legno, c'erano i cavalli, e alcuni giovani si davano il turno per controllare che nessuno si
recasse da quella parte con una torcia o una candela. Infatti, accanto agli animali c'erano fieno e paglia, e finché non fossero cadute le prime piogge autunnali, ci sarebbe stato pericolo d'incendi. Conn bevve il sidro e guardò la ragazza che gli stava davanti. Invece di vedere lei, però, gli tornò alla mente il viso che gli era apparso in sogno... «Conn», gli chiese la ragazza, Lilla. «Che hai? Mi sembri lontano le mille miglia. Sei andato a ballare sulla luna?» Lui rise. «No, stavo pensando a una cosa.» E, per cancellare quell'idea: «Torniamo a ballare?» «No», rispose lei, «ho troppo caldo. Sediamoci.» Trovarono un posto in fondo al granaio, vicino al tramezzo, e Conn vide finalmente come la ragazza avesse fatto di tutto per rendersi graziosa: nei capelli si era messa dei fiori e dei nastri. Aveva i capelli neri e le guance rosse, e Conn cominciò ad accarezzarla sotto lo scialle che, come tutte le donne della campagna, portava sulle spalle al posto del mantello. Lei non protestò, e si limitò soltanto a sospirare quando Conn la baciò. Il giovane le mormorò alcune parole, e lei lo seguì in fondo al lungo granaio. Seduti sul fieno, Conn continuò ad accarezzarla, e stava sciogliendole i lacci per baciarla sul petto, quando si sentì chiamare. «Conn?» Era Markos; il giovane si voltò con irritazione verso il vecchio scudiero, che era arrivato, con la lanterna in mano. Markos la sollevò per guardare la ragazza e disse: «Ah, Lilla. Tua madre ti cercava.» Lilla si guardò attorno con ira; sua madre era dall'altra parte del granaio, in mezzo a un gruppetto di donne, intenta a spettegolare. Ma preferì non discutere con un vecchio così autorevole come Markos. Lasciò Conn e si riallacciò il corpetto. Conn disse: «Aspettami, Lilla. Dopo, balleremo ancora». «Oh, temo che sarà impossibile, mio signore; occorre la vostra presenza altrove», intervenne Markos, in tono deferente, ma con grande sicurezza di sé. Imbronciato, Conn seguì il vecchio guerriero, che lo condusse all'esterno. «Che cosa c'è?» gli chiese, quando furono usciti. «Guarda il cielo», disse Markos. «Tra poco pioverà.» «E mi hai interrotto per parlarmi della pioggia?» protestò Conn. «Per un signore, la pioggia è una cosa importante», rispose il vecchio, imperturbabile, «perché è la vita dei suoi contadini. Inoltre, ho il dovere di
ricordarti chi sei, mastro Conn. Non vorrai negare che, tra un quarto d'ora, saresti stato a rotolarti nel fieno con quella ragazza?» «E che t'importa?» protestò Conn. «Sono un giovanotto normale, e non puoi aspettarti...» «Mi aspetto che tu faccia sempre quel che è giusto», disse Markos. «Non c'è niente di male nel ballare con i tuoi sudditi, ma quanto a quel che viene dopo... tu sei un Hammerfell. Non puoi sposare quella ragazza, e neppure prenderti cura di un eventuale figlio.» «E dovrei vivere senza donne per tutta la vita?» chiese Conn. «Niente affatto, ragazzo mio. Quando Hammerfell sarà nuovamente tua, potrai chiedere in sposa qualsiasi principessa dei Cento Regni», disse Markos, «ma per ora non devi lasciarti intrappolare da qualche contadinella. Tu meriti di più di una mungitrice... e lei non merita di essere presa e gettata via a una festa. «Ho sempre sentito dire che è una brava ragazza», continuò Markos, in tono più gentile, «e merita di trovarsi un marito che la rispetti, non di fare l'amore con un giovane nobile che non può darle niente d'altro. La tua famiglia si è sempre comportata in modo onorevole con le donne. Tuo padre... e che gli dèi ne conservino la memoria... non ha mai mancato di rispetto a una donna. E tu non vorrai farti la fama di giovane perditempo, capace solo di attirare le donne in qualche angolo buio?» Conn sapeva che Markos aveva ragione, ma era ancora irritato. «Parli come un cristiano di Nevarsin!» esclamò, cupo. Markos alzò le spalle. «Non è un cattivo sistema, il loro. Almeno, a seguire i loro insegnamenti, non si fa niente di cui ci si debba pentire.» «E niente che ci diverta, neanche», aggiunse Conn. «Mi hai fatto fare una brutta figura, Markos, portandomi via come un ragazzino.» «No», disse il vecchio scudiero. «Ti ho salvato da brutte figure. Usa la testa», aggiunse piano, «tutte le madri del villaggio sanno chi sei, e sarebbero liete di intrappolarti e di averti come genero, usando come esca le figlie!» «Hai davvero una pessima idea delle donne!» esclamò Conn, scuotendo la testa. «Pensi che siano tutte così calcolatrici? Non mi avevi mai parlato in questo modo.» «Vero», disse Markos. «Ma fino all'altra notte, tutti ti conoscevano solo come mio nipote; adesso sanno che sei il duca di Hammerfell.» «Certo, e con quel ducato e un soldino di peltro, posso comprarmi un bicchiere di sidro», disse Conn, alzando le spalle.
«Abbi pazienza, figliolo. Una volta c'erano delle spade, a Hammerfell, e non tutte sono state fuse per fare aratri», rispose Markos. «Al momento giusto, si raccoglieranno attorno a te.» Intanto erano arrivati alla loro casa. Un vecchio con un braccio solo - un veterano delle passate battaglie che si era sempre occupato di loro - venne a prendere i mantelli di Markos e di Conn. «Fate cena, signori?» chiese. «No, Rufus, grazie», rispose Markos, «ci hanno offerto da bere e da mangiare alla festa. Va' pure a dormire. Questa sera non c'è in giro nessuno.» «Meglio così», disse il vecchio Rufus. «Abbiamo messo una sentinella sul passo, caso mai gli Storn volessero venire a portarci via il raccolto, ma laggiù non s'è visto muoversi niente, neppure una cavalletta.» Markos si recò al secchio e bevve un sorso d'acqua. «Più tardi», disse, «pioverà; per fortuna sono riusciti a terminare il raccolto prima delle piogge.» Si slacciò gli stivali e intanto disse a Conn: «Scusa se ti ho portato via così bruscamente, ma fino a poco tempo fa eri ancora giovane per correre quei rischi. Adesso, però...» «Oh», fece Conn, «avevi ragione. E poi sono lieto di essere arrivato a casa prima di quello.» Indicò l'esterno, dove, proprio in quel momento, si cominciavano a scorgere i primi lampi. «Già. Quelle povere ragazze si bagneranno i loro vestiti eleganti...» disse Markos, ma Conn non lo ascoltava. All'improvviso, gli pareva di essere seduto su una ricca poltrona e di fissare un uomo dai capelli bianchi che gli diceva: «Se vi dessi uomini e armi per riconquistare Hammerfell, giurereste alleanza con gli Hastur? Ci occorrono fedeli alleati al di là del Kadarin.» «Conn!» Era Markos, che lo scuoteva per il braccio. «Dov'eri?» chiese il vecchio. «Di nuovo con la ragazza dei tuoi sogni?» Conn batté gli occhi, nel ritornare bruscamente nella loro casa di Lowerhammer. «No», disse, «anche se mi sembrava di percepirne la presenza. Questa volta parlavo con il re... re Aidan di Thendara... che mi prometteva uomini e armi per riconquistare Hammerfell.» «Misericordiosa Avarra!» mormorò il vecchio. «Che razza di sogno...»
«No», disse Conn, «non poteva essere un sogno. Oh, Markos, se soltanto sapessi che sono in grado di leggere il futuro! Perché, se il mio Potere è questo, allora devo andare immediatamente a Thendara, a cercare il re Aidan!» «Non saprei dirti», rifletté Markos. «Non so esattamente che genere di Potere ci fosse nella famiglia di tua madre... ma potrebbe essere come dici.» Il vecchio scudiero lo osservò con perplessità, colpito dalla frequenza di quei "sogni". Per la prima volta, dopo tanti anni, gli venne un sospetto: Che la duchessa di Hammerfell si sia salvata, e che a Thendara si occupi ancora della nostra causa? E che si sia salvato anche il fratello di Conn? No, era impossibile. Eppure, ricordava che Conn aveva sempre avuto un forte collegamento mentale con il fratello. «Non sarebbe meglio», chiese Conn, «che io andassi a Thendara a parlare con re Aidan Hastur?» «Be', non è tanto facile», rifletté Markos, «farsi ricevere da un re, ma tua madre aveva dei parenti Hastur, e forse potrebbero presentarti...» Devo dirgli che forse sua madre e suo fratello sono vivi? si chiese Markos. Poi pensò: No, continuerebbe a rimuginarci fino a Thendara. Ha già tante altre cose a cui pensare... «Proprio così», concluse il vecchio, con un cenno d'assenso. «È meglio che tu vada a Thendara e che scopra che cosa sta succedendo laggiù. Ed è ora che tu vada dai parenti di tua madre a vedere che aiuto possono fornirci.» S'interruppe per un attimo prima di continuare: «Inoltre, caro ragazzo, è ora che tu parli con qualcuno che conosce il Potere e il suo addestramento. Ormai questi tuoi "sogni" sono diventati troppo frequenti.» Conn non poté che assentire. Il giovane partì per il sud in mezzo a una leggera pioggia che gli impediva di vedere la regione da lui attraversata. Quando giunse ai confine tra Hammerfell e Asturien e abbassò gli occhi dall'alto del passo, gli parve di avere ai suoi piedi tutti i Cento Regni. Anche se parlare di "cento regni" era inesatto: un tempo ce n'erano davvero un centinaio, ma ora gli Hastur li avevano riuniti in una confederazione. Ai piedi del passo attraversò il fiume Kadarin e in breve tempo arrivò a
Neskaya, che si vantava di essere la più antica città del mondo. Passò la notte presso una famiglia di ex sudditi di suo padre a cui l'aveva raccomandato Markos: lo accolsero come duca di Hammerfell e lo pregarono di fermarsi più a lungo, ma il giovane, l'indomani mattina, ringraziò e partì. La sera del terzo giorno giunse a Hali e osservò il suo straordinario lago nebbioso, con le strane creature che vi abitavano. Più avanti c'erano le rovine della grande Torre che era stata distrutta al tempo di Varzy e non era mai più stata ricostruita, come monumento alla follia dell'usare armi basate sul Potere. In passato, Conn non aveva ben chiare le ragioni che avevano spinto Varzy e gli Hastur a promuovere il loro patto contro le armi non cavalieresche, ma ora, passando davanti a quelle rovine, le capì. Anche laggiù si scorgevano le pietre fuse dal calore della pece stregata... come nelle rovine del castello di Hammerfell. Quella notte dormì tra le rovine della Torre, e se c'era qualche spettro, non venne a disturbargli il sonno. L'indomani mattina, in un ostello sulla via di Thendara, si lavò e si pettinò, s'infilò il vestito migliore e ripartì, ansioso di vedere la grande città, e poco più tardi cominciò a scorgere le prime case, che davano l'impressione di essere molto vecchie. Un particolare lo colpì sgradevolmente. Quando se l'era infilato, Conn era orgoglioso del suo nuovo vestito, ma ora vide che i giovani che si potevano scorgere per le strade erano vestiti diversamente. Anzi, gli unici che indossassero vestiti come i suoi erano chiaramente dei servitori. Che m'importa? Non sono venuto per prendere parte al ballo del re! Però, comunque cercasse di consolarsi, in realtà gli importava: visto che entrava in città, gli sarebbe piaciuto entrarci da gentiluomo. Seppe di essere entrato nella città vera e propria a mezzogiorno, quando scorse le mura cittadine e, dietro di esse, il castello dei signori Hastur. Dapprima si limitò a cavalcare lungo le strade, guardandosi attorno, poi scese a pranzare in una taverna. Laggiù, qualcuno lo salutò come se lo conoscesse, e Conn si disse che probabilmente l'aveva preso per un altro. Terminato il pasto, chiese indicazioni su come trovare la casa di Valentine Hastur, come gli aveva suggerito Markos, e si diresse laggiù. Cavalcando per la strada, di nuovo ebbe la strana sensazione di essere scambiato per un altro, perché altre due o tre persone gli rivolsero un gesto di saluto. Non ebbe difficoltà a trovare la casa di Valentine, ma prima di avvicinarsi alla porta ebbe qualche esitazione: forse, a quell'ora, l'Hastur era u-
scito per affari. Poi alzò le spalle. Quell'uomo era un nobile e non un contadino che dovesse andare nei campi, e probabilmente i suoi affari li trattava a casa propria. L'abitazione era il luogo più probabile in cui trovarlo, per chi lo cercasse. Salì gli scalini, e quando un servitore venne ad aprire la porta, gli chiese cortesemente se era la residenza del Nobile Valentine Hastur e se il Nobile era in casa. «Sì, ma non vedo come la cosa vi riguardi», rispose il servitore osservando con aria sprezzante i suoi vestiti. «Allora, riferite al Nobile Valentine Hastur», disse Conn, «che il duca di Hammerfell, un suo parente degli Hellers, vuole vederlo.» L'uomo lo guardò con stupore - comprensibilmente, pensò Conn - e lo fece accomodare in un'anticamera. Dopo qualche tempo, Conn sentì avvicinarsi qualcuno: il padrone di casa, pensò. Un uomo alto e magro, con qualche filo grigio nei capelli rossi, entrò nella stanza. «Alester, caro figliolo», disse, «non mi aspettavo una tua visita. E come ti sei vestito? Devi viaggiare in incognito? Avete poi fissato la data, tu e la damigella? Mio cugino mi diceva, ieri, che si aspettava che tu andassi a parlargliene.» A questo punto, Conn aggrottò le sopracciglia. Era chiaro che l'Hastur l'aveva confuso con un'altra persona. Intanto, Valentine continuava: «E il cagnolino? È poi piaciuto a tua madre? Mi auguro di sì. Bene, cosa posso fare per te?» Solo allora guardò bene Conn e s'interruppe. «Un momento!» riprese poi. «Voi non siete Alester!» Valentine Hastur pareva confuso. «Però, vi assicuro che gli assomigliate! Chi siete, ragazzo mio?» Conn non rispose alla domanda, ma disse: «Non capisco, signore. Sono lieto della vostra accoglienza, ma potreste dirmi per chi mi avete preso?» Lentamente, Valentine Hastur disse: «Vi ho preso, naturalmente, per Alester di Hammerfell... il giovane duca. Vi conosco da quando muovevate i primi passi, e vostra madre è una mia cara amica. Ma...» «Non è possibile», disse Conn. «Vi chiedo perdono, signore. Io sono Conn di Hammerfell, vi ringrazio del benvenuto, cugino, ma...» Il Nobile Valentine aggrottò la fronte, e poi sorrise, come se all'improvviso si fosse ricordato di qualcosa d'importante. «Conn... naturalmente! Il gemello!... Ma ho sempre saputo che eri morto
quando è caduto il castello di Hammerfell.» «No», precisò Conn, «è stato il mio fratello gemello a morire... con mia madre, signore. Io sono l'unico ancora in vita, della mia dinastia.» «No, no», gli disse gentilmente Valentine Hastur. «Tua madre e tuo fratello si sono salvati, e sono convinti che sia morto tu. Ti assicuro che la duchessa e il duca di Hammerfell sono vivi!» «Credevo che fossero morti!» esclamò Conn, dopo un lungo istante di sorpresa. «E voi, signore, davvero conoscete mio fratello?» chiese, a occhi sgranati. «Bene come i miei stessi figli», disse il Nobile Valentine, guardandolo attentamente. «Adesso, comunque, vedo che ci sono alcune piccole differenze. Cammini in modo diverso e hai gli occhi leggermente più staccati l'uno dall'altro. Ma gli assomigli moltissimo.» Valentine era rosso in viso per l'emozione. Continuò: «Dimmi, perché sei venuto a Thendara... Conn, se posso accoglierti come un consanguineo». Fece un passo avanti, lo prese per le spalle e l'abbracciò, dicendo: «Benvenuto nella mia casa, figliolo». Conn batté gli occhi: si era recato dall'Hastur credendo di trovare un estraneo, e invece aveva trovato un'accoglienza calorosa. «Avete parlato di mia madre...» disse. «Abita qui vicino?» «Certo», rispose Valentine Hastur. «Anzi, prima di dirmi perché sei venuto a Thendara, ti suggerirei di farle sapere della tua presenza. Con il tuo permesso, sarei lieto di venire con te e di essere il primo a darle la notizia.» «Certo», disse Conn, commosso. «Anch'io vorrei vedere mia madre, per prima cosa.» Valentine si sedette alla scrivania e scrisse alcune righe, poi chiamò un servitore e gli disse: «Porta subito questo messaggio alla duchessa di Hammerfell. Dille che sarò da lei tra meno di un'ora.» Poi si rivolse a Conn: «Diamole il tempo», disse, «di prepararsi, e permettimi di offrirti qualcosa. Hai fatto un lungo viaggio.» Conn però, che aveva mangiato poco prima alla locanda, non poté approfittare molto della cucina del Nobile Valentine. Poco dopo, quando furono usciti, Valentine disse: «Oggi è una giornata felice, per me. Sono ansioso di vedere la faccia di tua madre, quando ti rivedrà. Ti ha pianto a lungo, credendo che fossi morto. Perché non sei venuto a cercarla prima d'ora? E dove sei vissuto per tut-
to questo tempo?» «Nascosto, sotto falso nome, nelle terre di mio padre», spiegò Conn, «con il suo vecchio scudiero, Markos.» «Oh, mi ricordo di Markos», disse Valentine. «Tua madre credeva che anche lui fosse morto. Ormai deve essere molto vecchio.» «Sì, ma è ancora robusto e scattante per la sua età», disse Conn. «Per me, è stato come un padre.» «E perché sei venuto a Thendara?» chiese Valentine. «Per rivolgere una petizione al re Hastur», disse Conn, «e non solo per la mia gente. Non contenti di avere distrutto la mia famiglia, gli Storn cercano di sterminare i nostri uomini, bruciando i loro villaggi e cacciandoli via dalla terra che coltivano da generazioni, e questo per allevarvi pecore, che sono più redditizie dei contadini.» Valentine Hastur aggrottò la fronte, turbato. Disse: «Non so se re Aidan potrà intervenire, figliolo. Il signore di una terra può farne quello che vuole.» «E che ne è della gente?» chiese Conn. «Devono morire solo perché così conviene a un signore? La gente non è più importante delle pecore?» «Certo, sono d'accordo con te», disse Valentine, «e io mi sono sempre opposto a chi voleva farlo sulle terre degli Hastur. Ma Aidan, probabilmente, preferirà non intervenire, perché, per legge, non può interferire con l'operato dei suoi nobili, altrimenti rischierebbe il trono.» Conn rifletté a lungo su quelle parole, e non parlò più: era preoccupato. Quando arrivarono a casa di Erminie, osservò con stupore: «Io conosco questo luogo. Però, ho sempre pensato che fosse un sogno.» Entrarono nel cortile, e un vecchio cane si avvicinò a loro, emettendo un latrato d'avvertimento. «Mi vede da anni», commentò Valentine, «ma abbaia tutte le volte. È una specie di gioco tra noi; è un cane un po' pazzo...» Intanto, l'animale, dopo essersi fermato ad annusare Conn, si era messo ad agitare freneticamente la coda e gli era balzato addosso. Erminie, che arrivava in quel momento, disse: «Gioiello, sta' ferma! Cosa...» poi alzò gli occhi e vide Conn. Si sentì mancare le forze e dovette sedersi su una panca. Valentine corse da lei, ed Erminie, dopo qualche istante, tornò ad aprire gli occhi. «Ho visto... ho davvero visto...?» mormorò. «Sì, non è un sogno», disse Valentine. «È stato uno shock anche per me,
e non so come sia successo, ma è l'altro tuo figlio, ed è vivo. Conn, vieni qui, e mostra a tua madre che sei veramente tu.» Conn si inginocchiò accanto a lei, ed Erminie gli prese le mani. «Come è successo?» chiese, tra le lacrime. «Ho cercato te e Markos per tutta la notte, in quel bosco.» «E lui ha cercato te», disse Conn. «Sono cresciuto ascoltando la storia di quella ricerca. Ancor oggi non so come sia potuto succedere.» «La cosa importante, comunque, è che ci siamo salvati tutti», disse Erminie, baciandolo. «Gioiello, l'hai riconosciuto anche tu, vero? Una volta la lasciavo sempre di guardia a voi due: era meglio di una bambinaia.» «Mi sembra di ricordarlo», disse Conn, accarezzando il cane sulla testa. Dal fondo della stanza giunse una serie di uggiolii, e un cucciolo corse verso Conn, mordendolo con i denti aguzzi. Conn rise e prese in mano il cagnolino. «A cuccia, Copper!» ordinò Erminie, e anche Gioiello emise un sordo latrato, mentre Conn diceva: «Così, sei geloso di Gioiello, eh, cagnolino?» Qualche istante più tardi, mentre giocavano con i cani, Conn sentì una voce che gli parve familiare come un sogno: «Ho sentito abbaiare i cani, tutto a posto?» Floria prese in braccio il cagnolino Copper, e Conn, incapace di muoversi, fissò la ragazza. «Ho sognato di voi», disse, senza rendersi conto delle proprie parole. Non era abituato a usare il suo Potere, e perciò, in un solo istante, tutta la sua anima, la sua storia, fluì verso di lei. Floria disse, con voce tremante: «Siete proprio identico a vostro fratello». Conn rispose: «Comincio a crederlo; me l'hanno già detto in tanti. E mia madre per poco non è svenuta, quando mi ha visto». «Ritrovare un figlio, dopo che per metà della vita l'avevo creduto morto», disse Erminie. «Alester ha diciott'anni, e io avevo la stessa età quando siete nati.» «Quando vedrò mio fratello?» chiese Conn, con ansia. «Sta mettendo nella stalla i cavalli», disse Floria. «Siamo andati a cavallo insieme. Mio padre ha dato il permesso perché sa che presto ci sposeremo.» Conn sentì con sgomento quelle parole, ma capì che se lo sarebbe dovuto aspettare: era chiaro che aveva visto Floria e gli altri scorci di vita nella città attraverso gli occhi del fratello.
Erminie, che aveva assistito a tutto, si disse: Oh, povera me; come andrà a finire? Ma quel suo nuovo figlio sembrava un giovane d'onore - e non poteva essere diversamente, se era cresciuto con Markos - e non era certamente il tipo da insidiare la promessa sposa del fratello. «E sei venuto a Thendara senza sapere che c'eravamo anche noi, Conn?» chiese Erminie. «Avrei dovuto capire che mio fratello era vivo», rispose Conn, «perché da un anno vedo immagini di posti che non conosco. Tu conosci il Potere e l'uso della pietra matrice, madre?» chiese. «Sono un tecnico della Torre di Thendara», rispose Erminie, sorridendo. E Floria chiese: «Cugino, ho notato che avete il Potere; siete già stato addestrato in una Torre?» «No», rispose Conn. «Sono sempre vissuto sulle montagne e non ne ho avuto l'occasione; inoltre avevo altre cose a cui pensare, a come difendere la mia gente dagli Storn.» Erminie intervenne: «Perché, gli Storn sanno che sei vivo?» «Sì, e la faida si è di nuovo accesa, devo dire», rispose Conn. «Per molti anni, gli Storn hanno creduto di averci uccisi tutti.» «Mi auguravo che continuasse a crederlo», disse Erminie, «e che così la faida finisse per estinguersi, anche se ho promesso a tuo fratello di aiutarlo a riconquistare le nostre terre.» «Si sarebbe estinta, madre, se mi fossi accontentato di rimanere nascosto e di lasciare che sterminassero la nostra gente», disse Conn. «Ma il mese scorso gli ho fatto capire che se avesse continuato a bruciare le nostre terre se la sarebbe dovuta vedere con un Hammerfell.» Raccontò la storia dell'incursione contro i soldati Storn. «Non posso darti torto...» disse Erminie, e in quel momento giunse Alester. Erminie balzò in piedi, esclamando: «Oh, Alester, è successa una cosa meravigliosa!» «Ho visto il Nobile Valentine nel cortile», disse, sorridendo a Conn. «Allora, tu sei mio fratello. Abbracciami, fratellino... perché io sono il fratello maggiore, lo sapevi?» «Già», disse Conn. Gli pareva strano che Alester tirasse in ballo la primogenitura prima ancora di dargli l'abbraccio del consanguineo. «Di venti minuti.» «Venti minuti o vent'anni, non fa differenza», disse Alester, stranamente, e lo abbracciò, chiedendogli, intanto:
«Che cosa fai, in città?» «Quel che forse stai già facendo tu», rispose Conn. «Vengo a chiedere l'aiuto del re Hastur per riconquistare le nostre terre e proteggere il nostro popolo.» «Allora, ti ho preceduto», sorrise Alester, «perché ho già parlato con re Aidan, che ha promesso di aiutarmi.» «Ah, eri tu, allora!» osservò Conn. «Pensavo di essere andato io a chiederglielo.» Alester scosse la testa, senza capire che Conn si era immedesimato nella scena, mediante il Potere. Disse: «Sono lieto che ti sia già presentato a nostra madre e alla Nobile Floria, che presto sarà mia moglie e perciò tua cognata.» Di nuovo, pensò Conn. Perché continua a insistere sulla primogenitura? Il duca è lui, certo; finché pensavo che fosse morto, potevo comportarmi come se lo fossi io, ma adesso che l'ho conosciuto, dovrebbe sapere anche lui che farò di tutto per sostenerlo. A scanso di equivoci, perciò, si inchinò davanti a lui e gli disse: «Mio signore e fratello.» «Oh, non c'è bisogno di questi convenevoli tra noi», si schermì Alester. Poi scosse la testa e chiese: «Ma dove hai preso quel vestito? Dobbiamo subito trovarti qualcosa di più adatto al tuo rango. Faccio chiamare il sarto». Conn inarcò le sopracciglia. Che suo fratello non avesse alcun tatto? «È un abito nuovo, di stoffa robusta, sarebbe un peccato non metterlo», rispose. «Oh, non andrà sprecato», si affrettò a intervenire Erminie, per metterli d'accordo tutt'e due. «Possiamo darlo al cameriere, per un uomo della sua condizione va bene.» «Andrà bene per me quando ritornerò negli Hellers», disse Conn, con un guizzo d'orgoglio. «Non sono un damerino di città!» «Ma se vuoi presentarti a re Aidan... e lui dovrà sapere che adesso siamo in due», disse Alester, diplomaticamente, «non puoi presentarti vestito come se arrivassi direttamente da un campo di rape. Per il momento, puoi metterti uno dei miei vestiti; non avrai niente in contrario a mettere i vestiti di tuo fratello, spero!» Conn gli ricambiò il sorriso: «Niente affatto! Grazie... fratello!» Erminie si alzò. «Adesso, vieni dentro, Conn, e raccontami tutto... forse riusciremo finalmente a capire come abbiamo fatto, quella famosa notte, a
perderci di vista! Che cosa è successo ad Hammerfell? E Markos, come sta? Floria, naturalmente, devi fermarti a cena con noi. Venite con me, figlioli...» disse, con un sospiro di pura soddisfazione. «Come sono lieta di poter dire questa frase dopo tanti anni!» E, tendendo una mano a ciascuno dei due, li condusse all'interno, seguita da Floria e dai cani. CAPITOLO 9 LA PARTENZA PER HAMMERFELL A Thendara, quell'estate, non si parlò che della strana storia del ritorno del figlio della duchessa. La stessa Erminie si stancò di ripeterla. Anche se la duchessa non amava dare feste, verso la fine dell'estate organizzò un piccolo ballo per annunciare il fidanzamento del figlio Alester con la Nobile Floria. Per tutta la giornata, dai monti Venza scesero nuvole minacciose e poco prima del tramonto cominciò a cadere una pioggia scrosciante. Tuttavia, l'inclemenza del tempo non tolse nulla alla festa. Alester e Floria rimasero nella sala ad accogliere gli ospiti e Conn rimase accanto alla madre. La festa era già cominciata, quando arrivò Gavin Delleray, il musicista, che abbracciò Alester e insistette per avere il diritto del parente stretto, ossia di baciare la sposa. Gavin era un giovane grassoccio, di bassa statura, e per l'occasione si era vestito all'ultima moda, con grandi riccioli che Alester guardò subito con invidia. Quando Gavin consegnò a un servitore il mantello fradicio di pioggia, Alester mormorò a Conn: «Non riuscirò mai a seguire la moda bene come lui!» «E dovresti essere contento», rispose Conn. «Sembra un pagliaccio... o una bambola vestita col parrucchino!» «Detto tra noi, Conn, sono d'accordo», disse Floria. «Non mi sognerei mai di tingermi di viola i capelli e di farmeli fissare con la colla.» Gavin si voltò verso di loro, con un radioso sorriso, e Conn arrossì, perché, nonostante le sue intemperanze nel vestire, Gavin era l'amico di Alester che gli piaceva di più. Anche ora che Conn si vestiva da nobile cittadino, Alester continuava a prendere in giro il fratello perché non portava anelli, nastri e fazzoletti di seta al collo; solo Gavin, tra tutti gli amici di Alester, si era sempre rifiutato di ironizzare su Conn e il suo disinteresse per l'eleganza. Adesso, il musicista prese per mano Conn e disse: «Buona sera, cugino.
Floria, hai già detto alla Nobile Erminie che avremo tra noi la coppia reale?» «Sì, grazie», disse Floria, «ma temo che la regina si annoierà: non balla e non le piace la musica da ballo.» «Oh, non fa niente», disse Gavin. «Giocherà a carte con le altre vecchie dame e bacerà le giovani debuttanti. E se c'è qualche pasticcino - e mi pare che il cuoco della Nobile Erminie fosse famoso per la sua abilità nel confezionarli - lo apprezzerà certamente.» Poi aggiunse, con aria falsamente preoccupata: «Spero che la pioggia non mi abbia rovinato la pettinatura. Che effetto fa, ragazzi?» «Sembrano quei fasci di penne che si mettono come bersaglio per le gare di tiro con l'arco», disse Conn. «Se qualcuno si mette a scagliare frecce, scappa a nasconderti, altrimenti ti tireranno addosso.» Gavin rise, sinceramente divertito. «Perfetto!» disse. «Era proprio l'effetto che voleva raggiungere il mio parrucchiere.» Si chinò sulla mano di Erminie. «Signora.» «Sono lieto di vederti, Gavin», disse Erminie, con affetto: conosceva Gavin da quando lui e Alester erano bambini. A quell'epoca erano inseparabili. «Ci canti qualcosa?» «Oh, certo», rispose Gavin. E aggiunse, con aria da congiurato: «Ma pensò che anche Alester ci canterà qualcosa». Più tardi, accompagnandosi all'arpa, Gavin cantò una ballata tradizionale, poi chiamò sul palco Alester, che cantò una canzone d'amore che dedicò a Floria. «Era una tua composizione, Gavin?» chiese la ragazza. «No, è una canzone di Asturien», rispose il musicista. «Ma capisco perché me lo hai chiesto: gran parte delle mie canzoni sono state composte nel modo di quella terra. E Alester le canta meglio di me.» Poi, rivolto a Conn: «E tu, non canti?» «Solo qualche vecchia ballata dei monti», disse Conn. «Cantala, mi piacciono le ballate popolari», lo invitò Gavin, ma Conn sorrise e disse di no. Anche più tardi, quando lo invitarono, Conn si rifiutò di ballare. «Conosco solo qualche ballo dei monti. Riderebbero di me», disse. «Floria non te lo perdonerebbe mai, se non ballassi con lei», disse Alester; poi, come voleva la tradizione, diede inizio alle danze con Floria. Gavin, che era fermo accanto a Conn, disse: «Quando ti ho chiesto di cantare, non l'ho fatto solo per cortesia. Amo la musica delle montagne, e
ho riscritto molte ballate degli Hellers. Se non vuoi cantare in mezzo a questa gente - e non ti do torto, perché qui, tolto Alester, non c'è nessuno che capisca la musica - potresti venire a trovarmi e a cantarmele nel mio studio». «Potremmo combinare», rispose Conn. Gavin gli piaceva, ma non aveva mai cantato, anche se aveva la voce intonata come quella del fratello. In quel momento si sentì bussare alla porta, e il maggiordomo di Erminie annunciò, con soggezione: «Sua Maestà Aidan Hastur di Elhalyn e sua Maestà la regina Antella.» Le danze s'interruppero e tutti si girarono verso la porta, dove il re e la regina si toglievano il mantello. Conn riconobbe l'uomo che aveva visto con il Potere. Erminie rivolse un profondo inchino ai due ospiti. «Signora, siate la benvenuta. Sire, questo è un onore inatteso.» «Lasciate perdere le formalità», disse allegramente il re Hastur. «Sono qui semplicemente come amico di famiglia. Ho sentito così tante versioni sulla storia di vostro figlio, che ho voluto sapere che cosa è veramente successo.» Rise, e tutti sorrisero. Venne avanti Alester, con Floria al braccio, e il re gli fece segno di avvicinarsi. «Allora, giovanotto, avete pensato alla cosa di cui vi parlavo?» «Sì, maestà.» «Allora, più tardi potremo discuterne», disse il re. «Fate venire anche vostro fratello.» Alester chiamò Conn, poi disse al re: «Certo, ma, poiché il duca sono io, le decisioni che abbiamo preso restano valide in qualsiasi caso». «Ovvio», rispose Aidan, con un sorriso, «però, vostro fratello è stato di persona laggiù, e ha notizie fresche sulla situazione.» Intanto, Erminie ordinò ai musicisti di riprendere a suonare e accompagnò la regina a sedere. «Mentre gli uomini discutono, Maestà, mi fate l'onore di venire a prendere qualche rinfresco?» le chiese, e le porse il braccio. La regina guardò prima Alester e poi Conn. «Proprio come due gocce d'acqua», disse. «Sei davvero fortunata, Erminie, ad avere non uno solo, ma ben due figli così belli», aggiunse, e rivolse un sorriso a Gavin, poi si sollevò in punta di piedi per baciarlo con affetto sulla guancia. «Come sei cresciuto», gli disse, ed Erminie sorrise, perché, anche se Gavin era tutt'altro che alto, la regina era ancor più bassa di lui. Poi Antella si rivolse al marito. «Non è diventato proprio un bel giova-
notto? Ha gli occhi di Marcia, non trovi?» «Mia madre sarebbe lieta di sentirvelo dire, cugina», disse Gavin chinandosi a baciarle la mano. «E adesso, mentre Alester e Conn parlano con sua Maestà, posso avere l'onore di ballare con la Nobile Floria?» Erminie e la regina gli diedero il permesso, poi si allontanarono, mentre il re e i due gemelli andavano in un piccolo studio. Alester versò al re un calice di vino, e re Aidan lo accettò e sollevò in silenzio il bicchiere. Poi, dopo un istante, disse: «Perché non bere al ducato di Hammerfell? Posso contare su di voi come fedele alleato sulle montagne, Alester?» «Certo», rispose Alester. «Questo significa che mi fornirete uomini e armi, signore?» «Be', non è così semplice», disse Aidan. «Se inviassi un esercito senza essere stato provocato, sarei un invasore; ma se ci fosse una sommossa, potrei inviare dei soldati a ristabilire l'ordine, con la scusa che ci sono infiltrazioni da Aldaran. Vostro padre, il vecchio duca di Hammerfell, aveva un esercito. Dov'è finito?» Fu Conn a rispondere: «Molti uomini di nostro padre ritornarono nelle loro terre, dopo la sua morte; senza un capo, non potevano combattere contro gli Storn. Ma alcuni sono rimasti con noi: per esempio quelli che si uniscono a me per assalire le terre degli Storn e per fermarli quando bruciano i nostri villaggi». «E quanti sono, Conn?» chiese il re. «Trenta, quaranta», rispose Conn. «Alcuni appartenevano alla guardia personale di mio padre.» «E quanti sono coloro che adesso si sono nascosti», continuò Aidan, «ma su cui potremmo contare per una insurrezione contro Storn?» Conn rifletté sulla domanda. «Non conosco il loro numero esatto», disse poi, «ma non meno di duecento. Tra duecento e trecento, credo, ma non di più. Uniti ai miei uomini...» e sentì nella mente un'eco divertita: miei! Aveva letto nei pensieri del fratello; il suo Potere diventava sempre più forte. «Potrebbero esserci trecentocinquanta uomini, complessivamente.» S'interruppe per un attimo, poi aggiunse: «Forse, farei bene a ritornare lassù per radunarli, e in tal modo essere sicuro del numero di uomini di cui disponiamo.» «Buona idea», disse re Aidan, «perché con meno di trecento uomini non potreste attaccare gli Storn, che hanno uomini e armi.»
Alester intervenne seccamente: «Se deve andarci qualcuno, fratello, quello sono io; dopotutto è la mia terra, e sono i miei sudditi». Conn sentì distintamente la sua ira: Vorrebbe togliermi il posto che è mio di diritto? pensava Alester. E Conn a sua volta si disse: Vero, ha ragione, è il duca per diritto di nascita. Ma io sono vissuto con quegli uomini. E poi: Ho giurato di servire fedelmente mio fratello. Naturalmente, il re sentì tutti i suoi pensieri, ma intervenne diplomaticamente per dire: «Forse ha ragione vostro fratello, Alester. Gli uomini lo conoscono». «Ragione in più perché comincino a conoscere il loro duca!» esclamò. Aidan trasse un sospiro. «Dovremo riflettere meglio sull'intera situazione. Nel frattempo, Alester di Hammerfell, siete disposto a essere il mio fedele alleato nelle terre oltre il Kadarin?» Alester mise a terra un ginocchio e baciò la mano che il re gli porgeva. «Sì, lo giuro», disse con commozione. Intanto il re alzò lo sguardo e fissò negli occhi Conn, che sentì distintamente le parole del re, come se le avesse pronunciate a voce alta. Nella vita e nella morte vi sarò fedele, Maestà, gli disse Conn. Lo so, gli rispose mentalmente il re. Tra noi non c'è bisogno di giuramenti. Conn non capì da dove nascesse l'affetto che all'improvviso era sorto in lui per re Aidan: forse era un legame che sorgeva quando due persone dotate di Potere si mettevano sinceramente in contatto. Lesse però nella mente del re un leggero disappunto per il fatto che il caso lo avesse fatto nascere dopo il fratello... «Maestà», disse allora. «Così deve essere. Io sono nato per fare il mio dovere, come voi siete nato per il vostro.» Aidan disse: «È meglio che ritorniate alla festa, ragazzi. Anche in una riunione tra familiari come questa, è bene che non si sappia che ci siamo incontrati per stipulare accordi segreti. Comunque, è chiaro che non bisogna perdere tempo: uno di voi dovrà ritornare subito negli Hellers per radunare il vostro clan». Non guardò nessuno dei due in particolare, nel dirlo: chi dovesse andare, era una questione che dovevano risolvere tra loro. Nel congedarli, Aidan ripeté mentalmente, rivolto a Conn: È meglio che nessuno degli invitati sappia di questa conferenza. Conn lo lesse senza difficoltà, e, sapendo che il fratello non aveva suffi-
ciente Potere, ripeté sottovoce ad Alester le parole del re, e Alester annuì. «Certo, Conn, ha ragione.» Quando uscirono dalla stanza, vennero raggiunti da Floria. «Adesso devi assolutamente ballare con me, Conn. È una danza di campagna, e tu la sai ballare sicuramente», disse la ragazza, trascinandolo verso la pista. Conn non poté rifiutare, e gli tornò in mente la festa del raccolto, quando aveva ballato con Lilla e aveva pensato di ballare con la ragazza vista in sogno. Adesso ballava davvero con la ragazza del sogno... e a quel punto arrossì, perché si ricordò di come Markos l'avesse trascinato via dal pagliaio. Anche adesso la ragazza con cui ballava non era per lui. Alla fine della danza, Conn si scusò e uscì dalla sala, con aria triste. Floria lo seguì. «Che cosa c'è, cugino?» gli chiese. «Devo partire», rispose Conn. «Il re mi ha chiesto di ritornare ad Hammerfell, per radunare gli uomini.» Non si era accorto che Alester era dietro di lui. «No!» esclamò Alester. «Se c'è qualcuno che deve andare, quello sono io. Non capisci?» «Sì», rispose Conn, «ma c'è una cosa che tu non capisci.» Trasse un sospiro. «Non ho nessuna intenzione di usurparti il tuo posto, fratello. Dico che sono i miei uomini perché sono sempre vissuto tra loro. Conoscono me e accettano me... di te, hanno sempre ignorato l'esistenza.» «Allora, è meglio che lo sappiano quanto prima», ripeté Alester. «Non sai neppure la strada per Hammerfell», lo interruppe Conn. «Come minimo, dovrei venire con te per insegnartela.» «Con questo tempo?» chiese Floria, indicando la finestra. All'esterno, continuava a diluviare. «Be', non mi scioglierò nella prima pozzanghera. Sono sempre vissuto negli Hellers e non ho paura della pioggia», disse Conn. «Qualche ora in più o in meno, dopotutto, che importanza può avere?» osservò Floria. «Dovete scappare via in mezzo alla pioggia... e senza neppure fare il fidanzamento?» «Questo, almeno, si deve fare», disse Alester. «Vado a cercare i nostri genitori. Dovranno essere loro a decidere.» Si girò e si allontanò, lasciando soli Conn e Floria. Alester disse alcune parole a Gavin, che suonò un arpeggio per invitare tutti al silenzio. Erminie e Conn si avvicinarono ad Alester, mentre dall'altra parte sopraggiungevano Floria e suo padre. Alester disse:
«Cari amici, non voglio interrompervi, ma mi è stato comunicato che mi devo recare subito ad Hammerfell. Perciò vi chiedo di scusarmi se passerò subito alla cerimonia che ci ha portati qui. Madre?» Erminie prese per mano Floria e guardò Alester. «Non ho visto arrivare nessun messaggero», gli disse a bassa voce. «Ti spiegherà Conn», rispose Alester. «Ma non volevo partire senza prima fare il fidanzamento.» Conn si portò accanto al fratello, mentre la regina Antella si avvicinò a Floria e si tolse dal dito un anello di smeraldi. «Un dono per la prossima sposa», disse, infilandolo al dito di Floria, e la baciò sulla guancia. «Ogni felicità, cara.» «Grazie, Maestà», mormorò Floria. «È un anello bellissimo, e mi sarà ancor più caro perché me l'avete regalato voi.» Antella sorrise, e poi, all'improvviso, fece una smorfia di dolore e si piegò sulle ginocchia. Conn, immediatamente, la afferrò per sorreggerla, ma la donna era come un peso morto, e scivolò lentamente a terra. Subito Erminie si chinò su di lei, e anche re Aidan accorse. La regina aprì gli occhi e gemette. Erminie si girò per un attimo verso il re e mormorò: «Il cuore. Non è più giovane, e da un momento all'altro poteva capitare.» «Sì; lo temevo anch'io», disse il re, inginocchiandosi accanto alla moglie. «È tutto a posto», le disse. «Ci sono qui io. Ti porteremo subito a casa.» Antella aveva chiuso gli occhi e sembrava addormentata. Gavin Delleray si avvicinò al re e disse: «Chiamo la portantina». «Una lettiga», lo corresse Aidan. «Non credo che possa rimanere seduta.» «Come dice vostra Maestà.» Corse fuori, a chiamare i portantini. Dopo qualche minuto, quattro di loro arrivarono. Come da migliaia di miglia di distanza, Conn notò che la pioggia aveva ormai completamente distrutto l'elaborata acconciatura del musicista. I portantini si chinarono e fecero segno a re Aidan di spostarsi. «Con il vostro permesso, signore, ma è meglio che la solleviamo noi; siamo abituati a questo lavoro. Ecco, coprile le gambe con quella coperta. Dove dobbiamo portarla, signore?» Non avevano riconosciuto il re, e probabilmente era meglio così, pensò Conn. Aidan diede alcune istruzioni e si avviò con loro, camminando ac-
canto alla barella. Conn si avvicinò ad Aidan e chiese: «Vi faccio venire la portantina? Vi bagnerete...» Poi s'interruppe e arrossì. Non era così che si parlava al re. Aidan lo fissò con occhi vacui. «No, caro, preferisco rimanere con Antella; se si svegliasse e si trovasse circondata da estranei, potrebbe impaurirsi. Ma, adesso, ritorna in casa, non bagnarti.» Era quasi finito di piovere, ma Conn rientrò in casa. L'ingresso era pieno di ospiti che si accomiatavano: il malessere della regina aveva tolto a tutti la voglia di proseguire. Nella sala erano rimasti solo Floria, che non riusciva a staccare gli occhi dall'anello della regina; Gavin, che si asciugava i capelli inzuppati; Erminie, che andava e veniva in mezzo agli invitati che si allontanavano; Edric Elhalyn e il fratello di Floria, Gwynn, che avevano un'aria preoccupata; e Valentine Hastur che era rimasto per vedere se Erminie aveva bisogno di qualcosa. «Un cattivo augurio», disse Gavin, avvicinandosi ad Alester. «Vuoi che continuiamo lo stesso?» «Non abbiamo testimoni», disse Erminie, «e sarebbe di cattivo gusto non aspettare che la regina si ristabilisca.» «Anche secondo me, continuare sarebbe una mancanza di rispetto», disse Edric, aggrottando la fronte. «Vuol dire che festeggeremo maggiormente la sposa al matrimonio, che sarà...?» Guardò Erminie. «Al solstizio d'estate? A quello d'inverno?» «D'inverno, se siete d'accordo. Alester... Floria...?» Tutt'e due annuirono. Alester diede a Floria il bacio rituale. Gavin fece le sue congratulazioni: «Non è passato molto tempo da quando ti facevamo scappare mostrandoti rospi e serpenti, ma devo dire che sei molto cambiata da allora. Le collane ti stanno meglio del bavaglino. Signora...» si inchinò a Erminie. «Sono bagnato come un pulcino; ho il vostro permesso di congedarmi?» «Non dite sciocchezze, Gavin», lo sgridò Erminie. «In questa casa siete come un figlio. Conn o Alester vi daranno qualcosa di asciutto da mettervi addosso, poi andremo tutti a bere qualcosa di caldo.» «Sì», disse Alester. «Poi partirò per Hammerfell.» «Madre!» implorò Conn, «ditegli che è una follia! Non conosce le montagne, non sa neppure la strada per Hammerfell.» «Allora, è meglio che la impari presto», disse Alester, caparbio. E aggiunse: «Via, fratello, è il mio dovere, ed è ora che mi accinga a farlo. E
voglio che tu resti qui a tenere compagnia a nostra madre. Ti ha appena ritrovato; non deve perderti di nuovo». Conn capi di non poter dire altro, ed Erminie aggiunse: «Io non vorrei veder partire nessuno di voi, ma penso che Alester abbia ragione, Conn. È ora che faccia il suo dovere. E con Markos al suo fianco gli obbediranno.» «Allora», disse Conn, rivolto al fratello, «faresti meglio a prendere il mio cavallo. È di una razza delle montagne; il tuo elegante cavallo di città scivolerebbe su qualche sentiero o morirebbe di freddo. Il mio cavallo non è bello, ma è abituato agli Hellers. Inoltre, ti conviene toglierti quei bei vestiti da città, che si strapperebbero subito, in mezzo ai rovi dei sentieri montani. È meglio che venga anch'io.» «No, è meglio che sia solo: non posso nascondermi dietro la tua forza e il tuo onore. Accontentami, fratello.» «Se così vuoi», si arrese Conn. «Però, accetta almeno il mio cavallo.» «Grazie per l'offerta, ma è in grado di correre come richiede il mio compito?» Intanto, Gavin Delleray era rientrato nella stanza, e aveva addosso una cappa di Alester, che gli andava piuttosto larga. Si era asciugato i capelli alla meglio, davanti al fuoco del caminetto, e adesso la sua precedente acconciatura era scomparsa del tutto. Disse: «Verrei io a guidarti, amico mio... ma neppure io so la strada. Però, se posso esserti utile...» Conn sorrise all'idea di un perfetto damerino come Gavin in groppa a un chervine, su un sentiero montano. «Non vuole guide, vuole fare tutto da solo!» disse, scuotendo la testa. Alester li prese entrambi sottobraccio. «Vi ringrazio tutti e due, ma devo andare da solo. Nessuno deve pensare che abbia bisogno di protezione.» Guardò Erminie: «Madre, mi occorre un cavallo che corra come il vento. Come puoi aiutarmi?» «Farò tutto quel che posso», rispose Erminie, «ma sono d'accordo con tuo fratello: il suo cavallo è il più adatto per quelle montagne. Possiamo però aumentare la sua resistenza.» Alester salì nelle sue stanze per prepararsi, e indossò un vestito robusto e pesante, con uno spesso mantello. Quando discese, trovò che tutto era cambiato: i resti del rinfresco erano stati portati via, e sua madre si era messa addosso un vecchio vestito da tecnico delle Torri: una tunica color verde chiaro.
«Vorrei poterti dare qualche potente talismano, figlio, ma questo è possibile solo nelle favole. Posso però darti una perfetta guardia del corpo: Gioiello verrà con te.» Si recarono nella scuderia; Erminie fece accucciare Gioiello davanti a sé e, tenendo in mano la pietra matrice, fissò lungamente il cane, negli occhi. Alester ebbe la curiosa impressione che si parlassero. Dopo qualche tempo, Erminie disse: «Potrei farle assumere forma umana: sarebbe un'illusione, naturalmente, ma è facile da ottenere, almeno con la pietra matrice. Tuttavia, resterebbe sempre un cane: per esempio, non potrebbe parlare. E, poi, nella sua forma naturale, può mordere chiunque ti minacci, mentre se lo facesse con aspetto umano... be'», rise, «la gente rimarrebbe scandalizzata.» «Certo», rispose Alester, chinandosi ad accarezzare il cane. «Ma conosce la strada per Hammerfell?» «È nata laggiù!» Anche Erminie si chinò ad accarezzare il cane e gli disse: «Gli vuoi bene come gliene voglio io. Prenditi cura di lui». Il cane la guardò negli occhi a sua volta, e Alester non ebbe più dubbi: sua madre e il cane riuscivano a comunicare tra loro, forse grazie a qualche forma di Potere come quello dei MacAran. «Come faremo, metterò Gioiello davanti a me, sulla sella?» chiese il giovane. E tutti i lettori del pensiero che c'erano nella sala - e anche Alester, tramite il legame con il fratello - sentirono la risposta del cane: Dove può arrivare il suo cavallo, posso arrivarci anch'io, correndogli accanto. «Be', se puoi farlo, andiamo», disse Alester, confuso, e montò in sella al cavallo di Conn, che adesso - dopo che sua madre l'aveva trattato con la pietra matrice - sembrava diverso, più resistente. Abbassò gli occhi su Gioiello, e vide che anche il cane era leggermente diverso: gli parve di guardare una donna guerriero, una di quelle Sorelle della Spada che di tanto in tanto aveva incontrato a Thendara. Si inchinò a Erminie. «Dio ti protegga, madre.» «Quando ritornerai, figliolo?» «Quando lo vorranno i miei uomini... e il destino», e spinse il cavallo verso il cancello. Conn corse ad aprirlo, e Alester passò al galoppo, seguito dal cane che gli correva dietro. Conn mormorò: «Maledizione, perché non mi ha preso con lui? Che cosa dirà Markos?» Valentine Hastur disse: «Hai allevato un figlio ben ostinato, Erminie».
«Con Gioiello a guidarlo, e Markos ad aiutarlo, sarà in grado di farcela», rispose Erminie. Rientrarono in casa: tutti meno Conn, che rimase ancora a lungo nel cortile, con lo sguardo fisso nella direzione presa da suo fratello, verso i lontani monti di Hammerfell. CAPITOLO 10 IN VIAGGIO PER GLI HELLERS Alester si tenne alla briglia, senza rendersi ancora pienamente conto della missione che lo portava così lontano dai luoghi a lui noti. Gli pareva di essere ritornato ai giorni della sua infanzia, quando passava le ore aggrappato al collo del cavallo a dondolo e finiva per addormentarsi... poi si riscosse da quei pensieri, perché non poteva addormentarsi proprio in quel momento. Aiutato dalle energie che Erminie gli aveva dato con la pietra matrice, lo sgraziato cavallo degli Hellers galoppava così in fretta che, prima che Alester se lo aspettasse, ecco comparire davanti a lui le porte di Thendara. Dalla guardiola, qualcuno gli intimò l'alt: «Chi galoppa al buio, a quest'ora in cui le persone oneste dormono?» «Una persona onesta», disse Alester, «che però non dorme. Sono il duca di Hammerfell, e ho una missione urgente. Non posso attendere fino a domani; alzate quella sbarra.» «Duca o non duca, tornate all'alba», ribatté l'uomo. «Perché alzassi la sbarra, dovreste perlomeno essere in missione per conto del re Hastur!» aggiunse, ironicamente. «E io sono in missione per conto del re!» esclamò Alester, facendo indietreggiare il cavallo per prendere la rincorsa. «Gioiello, salta con noi!» gridò al cane. Lanciò al galoppo il cavallo, che saltò senza sforzo la sbarra, alta fino al petto di un uomo. Anche Gioiello, che evidentemente doveva essere stata rinvigorita dalla pietra matrice di Erminie, saltò la sbarra dopo di loro, e qualche istante più tardi il cavaliere e il cane erano già lontani, invano inseguiti dalle grida e dalle frecce delle sentinelle. Poco più tardi, erano già a molte miglia da Thendara; il ritmo del galoppo - e forse lo stesso tipo di ipnosi che la madre aveva usato sul cavallo e sul cane - gli toglieva la sensazione del passare del tempo. Verso l'alba riconobbe le rovine della Torre di Hali e la strada per Neskaya, e il sole era
appena a metà della sua parabola quando scorse il Kadarin, che, illuminato dai rossi raggi dell'astro, scorreva davanti a lui come un fiume di ferro fuso. Con sommo stupore si accorse che il cavallo si spingeva senza esitazione entro quelle gelide acque, come se l'avesse già fatto infinite volte, e si dirigeva verso la riva opposta. Dietro di lui, anche il cane nuotava, con solo la testa fuori. Quando fu sulla riva, Alester pensò che in una sola notte e una mattinata avevano percorso una distanza che di solito veniva coperta in due giorni di viaggio. Adesso, però, si trovava in un territorio sconosciuto; si augurò che il cane e il cavallo sapessero dove dirigersi. A poca distanza dal Kadarin, scorse un boschetto tranquillo e lo raggiunse: laggiù smontò di cavallo. Trovò in una sacca cibo per lui e per gli animali: carne, vino, e pane. Il cane mangiò il pane e poi corse a un ruscello a bere; il cavallo mangiò una delle pagnotte che in viaggio si usavano al posto della biada. Nonostante la corsa, gli animali non sembravano affaticati, ma Alester si accorse che gli tremavano le braccia e le gambe, come se fosse stato davvero in sella per due giorni e due notti. Non trovò nessuna coperta, nelle bisacce. Perciò, si avvolse nel mantello e appoggiò la schiena a un tronco, con l'intenzione di riposare. Pensava di non riuscire a dormire perché era troppo stanco, ma non appena chiuse gli occhi, si addormentò. Venne svegliato dalla luce del tramonto, che filtrò in mezzo ai tronchi e lo illuminò in faccia. Mangiò un altro pezzo di carne e un po' di pane, bevve il vino che gli rimaneva e si rivolse scherzosamente al cane: «Adesso, mia cara, sei tu che devi farmi da guida. Io ti seguirò». Il resto del viaggio si svolse come in un sogno: evidentemente, Erminie aveva imposto ai due animali di seguire la strada più sicura e di evitare i percorsi più frequentati; Alester non si preoccupò di accertarsi di dove andasse il cavallo; per strano che gli sembrasse il territorio da lui attraversato, sapeva che alla fine si sarebbe trovato ad Hammerfell. Dopo qualche tempo, cominciò a piovere, e Alester scese di sella ed entrò in un bosco che gli offriva riparo. All'improvviso, Gioiello si allontanò, come se avesse fiutato qualche strana pista, e il giovane la seguì finché non giunse davanti a una curiosa scena: c'era una piccola radura, e laggiù, dai rami di un albero, pendeva una rete di fattura complessa, un po' come quelle che si usavano per catturare le linci. Però, sembrava che, scattando per
intrappolare la preda, si fosse staccata dagli appigli. Il cane, accanto alla rete, annusava l'esca: un pezzo di daino privato della pelle. Ma chi aveva teso quella rete, in un bosco lontano molte miglia da ogni abitazione umana? Come se gli avesse letto nella mente, Gioiello cominciò ad abbaiare contro qualche creatura nascosta sull'albero. Alester alzò la testa e vide un curioso ometto, alto come un bambino di cinque o sei anni, ma con una lunga barba nera e coperto di fitto pelo. L'omino aveva un paio di calzoni di cuoio non conciato, lunghi fino al ginocchio, e una specie di giubba o tunica larga, con le maniche corte. In testa non portava cappello ed era a piedi nudi. Alla vita portava una larga cintura, con la fibbia di legno, da cui pendevano vari astucci di giunco, che senza dubbio gli facevano da tasche. L'ometto prese a parlare, nel dialetto delle montagne. «Chi sei? E chi è il tuo compagno?» chiese. Però, si rivolgeva a Gioiello, non ad Alester. «Mi hai rotto la trappola, come intendi riparare?» Alester guardò meglio la piccola creatura, che doveva appartenere a una delle antiche razze non umane di Darkover: forse gli uomini della foresta o i nani degli alberi. Durante le Età del Caos, gli aveva raccontato la madre, quegli esseri erano stati usati dagli Hastur e dai Serrais come servitori, e a questo scopo erano stati creati degli ibridi con forma umana: quella davanti ad Alester, però, doveva essere la forma naturale, che in genere si teneva lontano dalle abitazioni umane. L'ometto stava sotto gli scrosci di pioggia e pareva indifferente all'acquazzone; però, aveva paura del cane, e si teneva lontano dalle sue zanne. Alester non sapeva cosa pensare. Era cresciuto ascoltando le favole che parlavano di lotte contro gli uomini gatto dei monti Kilghard, degli elfi di Darkover e della loro magia, delle strane razze che vivevano al di là del Kadarin, ma non si sarebbe mai aspettato di vederne qualche esemplare. «Ti riconosco, tu sei della Gente Alta», disse adesso la creatura, rivolta ad Alester. «Forse sei innocuo; ma cos'è il tuo compagno?» Indicò il cane. Alester disse: «Io sono il duca di Hammerfell, e questo è il mio cane, Gioiello». «Non so che cosa voglia dire "cane"», rispose l'ometto. «Di che tribù è? Perché non parla?» «Perché non è nella sua natura», disse Alester, augurandosi di non dovergli spiegare l'intero concetto di animale domestico. Ma in qualche mo-
do l'uomo della foresta dovette leggergli nella mente, perché disse: «Ah, è come il mio grillo ammaestrato, capisco. Ma adesso teme che io sia una minaccia per il suo padrone. Ti prego, dille che non correte nessun pericolo.» «È a posto, Gioiello», disse Alester, accarezzando il cane sulla testa. Tutta quell'esperienza - come del resto tutto quello strano viaggio - sembrava un sogno. «Chi sei?» chiese alla bizzarra creatura. L'omino scese a terra e rispose: «Sono Leskin, del nido di Shiroh. E quell'altro che cos'è?» Indicò il cavallo, che nel frattempo aveva raggiunto Alester. Il giovane gli spiegò che cos'era un cavallo e come si stava in sella, e l'omino sorrise deliziato. «Quante cose strane ho visto oggi!» disse. «Un "cane" e un "cavallo". Tutti i miei fratelli mi invidieranno. Comunque, c'è sempre la faccenda della trappola. Che riparazione puoi darmi?» Alester rinunciò a capire e decise di prestarsi a quella sorta di discorso folle. «Non sono capace di ripararla», disse, «non ho gli strumenti. Decidi tu cosa posso fare.» «No, non intendevo chiederti di ripararla», rise l'ometto. «Intendevo quello che avrei chiesto a uno di un altro nido, se l'avesse fatta scattare involontariamente. Regalami il tuo migliore indovinello.» «Come? Pensi che sia disposto a starmene qui, in mezzo alla pioggia, a raccontare indovinelli?» chiese Alester, stupito. «Oh, vero», disse lo strano essere. «Avevo sentito dire che la Gente Alta ha paura del freddo e sopporta a fatica anche una spruzzatina estiva d'acqua come questa. Vieni nel nido della mia tribù.» Così detto, si diresse verso una serie di rozzi scalini intagliati nel tronco di un albero. «Ce la fai a salire?» chiese. Alester non sapeva come comportarsi. Da una parte aveva fretta di raggiungere Hammerfell, dall'altra, era contrario alla sua natura di politico e di diplomatico rifiutare quel genere d'invito. C'era poi anche un altro fatto: molte delle fiabe che aveva ascoltato in gioventù consigliavano di dare sempre retta a quegli esseri, che avevano una loro forma di Potere e che a volte, se si indispettivano, si vendicavano in maniera sgradevole. (In genere, le fiabe dicevano che amavano il vino, e consigliavano di farli ubriacare; quando erano ubriachi, erano capaci di dare dei doni magici agli uomini. Ma Alester non poteva controllare se la cosa fosse vera: aveva finito
tutto il vino a sua disposizione!) Perciò il giovane duca salì sulla rudimentale scaletta, e proseguì anche quando si accorse che il terreno distava già parecchie braccia, sotto lui. Cercò di non far vedere la sua paura al nano, che si arrampicava come se fosse nato su quei rami (e che probabilmente, pensò Alester, lo era davvero). Erano già a un'altezza più che rispettabile, quando Alester vide una sorta di strada fra i rami, costituita di passerelle di legno, che correva da un albero all'altro. In fondo c'era una sorta di capanna, costruita piegando ad arte i rami più piccoli e intrecciandoli tra loro: una sola stanza, ma spaziosa e con sul pavimento un paio di grossi cuscini di stoffa spessa. L'omino si lasciò cadere su uno dei cuscini e fece segno ad Alester di accomodarsi sull'altro. Il giovane si sedette e si accorse che era abbastanza comodo: dal fruscio e dall'odore di prato che aveva, capì che era pieno di erba secca. Il nano prese un bastone lungo e sottile e gli diede un pizzicotto sulla punta: subito vi si accese un piccolo fuoco, che illuminò debolmente l'interno della camera. Lo piantò in terra, in modo che facesse da candeliere, e disse: «Allora, gli indovinelli. La prossima volta che mi riunirò con i miei fratelli attorno al fuoco, voglio averne uno nuovo da sfoggiare!» Alester aveva rinunciato da tempo a obiettare. Si limitò a chiedere: «Indovinelli di che genere? Dovrei saperlo, prima di dirne uno». L'omino lo fissò, sgranando gli occhi - che brillavano al buio, notò Alester - e disse: «Perché gli uccelli volano al Sud?» «Be', se la risposta deve spingersi al di là dell'ovvia preferenza climatica», disse Alester, «temo che la ragione esatta la possa sapere solo uno della loro razza. Voi, che risposta date?» Il nano rise come un matto, lieto che Alester non sapesse rispondere. Poi disse: «Perché non hanno il tempo di arrivarci a piedi». «Ah», gemette Alester. «Quel tipo di indovinelli.» Ma, per quanto cercasse di ricordarne, gliene venne in mente soltanto uno, che aveva udito quando aveva quattro o cinque anni: «Perché il coniglio attraversa la pista battuta?» «Per arrivare dall'altra parte?» tirò a indovinare l'ometto. Alester scosse la testa, e il suo strano compagno fece la faccia afflitta. «Sbagliato, vero?» sospirò. «Dovevo immaginarlo che non poteva essere
così semplice! Intanto, però, ti prego di accettare la mia ospitalità. Posso offrirti qualcosa?» «Grazie, ne sarò onorato», rispose Alester. Le fiabe avvertivano di non rubare niente agli gnomi e di non chiedere nulla in regalo, ma non avevano niente contro l'accettare le cose liberamente offerte (avvertivano di non rifiutare, però). Alester si limitò ad augurarsi che non gli offrisse un pezzo crudo - del daino usato come esca. Ma il nano, dopo essere andato a frugare in fondo alla stanza, fece ritorno con un bellissimo cestino di fili d'erba, pieno di more di tutti i colori, anche di alcuni che il giovane duca non aveva mai visto. Alester le assaggiò con piacere, e ringraziò il nano, dicendo di non averne mai assaggiate di così gustose, ed era vero. Soddisfatto del complimento, il nano disse: «Ma adesso devi assolutamente dirmi la spiegazione. Dato che voi siete tanto più grossi di noi, penso che anche i vostri indovinelli siano tanto più difficili dei nostri, e perciò rinuncio a trovare la risposta. Allora, perché il coniglio attraversa la pista battuta?» «Perché è troppo lunga per fare il giro», rispose Alester, pronto alle rimostranze dell'ometto e a spremersi le meningi per trovare qualcosa d'altro. Così, non era preparato alla reazione del nano, che per poco non cadde a terra dallo stupore; il giovane aveva già constatato che il nano possedeva il senso dell'umorismo, perché si era messo a ridere poco prima, ma non si aspettava di vederlo messo fuori combattimento da quell'indovinello: a Thendara, non c'era bambino di tre anni che non lo giudicasse troppo idiota. «Perché è troppo lunga per fare il giro, ah, ah!» rideva il nano, e, dalle gran risate, per poco non si strozzava. «Troppo lunga per... che bella, che bella! Ancora una!» «Purtroppo», si scusò Alester, «devo correre via. Mi spiace ancora di averti rovinato la trappola, ma spero di avere mantenuto la mia promessa.» «La trappola non ha importanza», rispose il nano, alzando le spalle. «Io e tutto il mio nido ti siamo infinitamente riconoscenti per averci donato questo meraviglioso indovinello, e per avermi fatto vedere cose che non conoscevo come il cane e il cavallo. Ti riconduco da loro, e intanto ripeterò il tuo indovinello, per impararlo bene!» La discesa fu meno semplice dell'andata, perché Alester dovette procedere a tentoni, uno scalino dopo l'altro, tenendosi con le mani. Intanto, il
nano, sopra di lui, ripeteva ogni pochi passi: «Troppo lunga per fare il giro!» Fu con indicibile sollievo che il giovane duca poté infine posare il piede sul terreno solido, mentre Gioiello caracollava attorno a lui per dargli il benvenuto, e il cavallo - come ogni buon cavallo di montagna - era rimasto ad aspettarlo, senza gironzolare qua e là. Con cortesia, il nano ringraziò un'ultima volta Alester. «Peccato che il tuo amico cane non sappia parlare; ha l'aria di conoscere indovinelli molto gustosi. Arrivederci, amico. Sarai sempre il benvenuto nel nostro Nido, tu e i tuoi indovinelli.» Così dicendo, fece un passo indietro, e parve confondersi in mezzo agli alberi. «Adesso, ad Hammerfell, e in fretta!» disse Alester, mentre montava in sella, e Gioiello, come se l'avesse capito, abbaiò un paio di volte, e si avviò. Presto, il terreno cominciò a salire, e il cane entrò nel letto asciutto di un torrente. Non era neppure una mulattiera, ma il cavallo lo percorreva senza particolari difficoltà, e di buon passo. Giunto sul crinale, Alester vide di essere circondato da ampie valli boscose, tra cui si scorgevano piccoli villaggi. Per tutta la giornata continuò a viaggiare senza incontrare anima viva. Al tramonto, il giovane duca non aveva idea di dove si trovasse, ma si fermò a consumare le ultime provviste: il pane, che divise con il cane e con il cavallo, e la carne, che divise con il cane. Si stese contro un albero, come la sera prima, e si addormentò accanto a Gioiello. Dopo qualche ora, nella notte, si svegliò e si accorse che il cane era sparito. Da lontano senti il richiamo di qualche animale, e poi dei gridi. Dopo qualche minuto, Gioiello fece ritorno, con qualcosa in bocca, e tornò ad accucciarsi. Alester sentì scricchiolio di ossa masticate, e si chiese che cosa avesse trovato da mangiare, il suo cane. Ma aveva troppo sonno per andare a controllare. L'indomani mattina immerse la faccia in un gelido torrente montano per svegliarsi del tutto, e montò di nuovo in sella. La strada era ancora peggiore di quella del giorno precedente, e più volte passarono in mezzo ai rovi; grazie al lungo pelo, il cavallo non fece fatica ad aprirsi la strada, ma Alester, graffiato dalle spine, non poté che coprirsi con il mantello la faccia e darsi dello sciocco perché non aveva accettato l'offerta di Conn, quando il fratello gli aveva proposto di dargli i suoi vestiti.
Cominciava a chiedersi quanto distasse ancora Hammerfell, e come avrebbe fatto a trovare Markos, quando finalmente, nel tardo pomeriggio, incontrarono una strada ben pavimentata di ciottoli, che correva parallelamente al percorso da loro seguito fino a quel momento. Non era la prima volta che incontravano quel tipo di strade, ma fino a quel momento le avevano sempre evitate; adesso, invece, Gioiello vi si lanciò con soddisfazione, e il cavallo la seguì al galoppo. Dopo un paio di miglia, la strada prese a salire, e Alester, guardando innanzi a sé, scorse in cima al monte un grande mucchio di rovine. Il cane si avviò in quella direzione, ma dopo qualche passo tornò indietro, uggiolando, e Alester capì che cos'era successo: il cane ricordava il castello di Hammerfell, ma adesso quel castello non c'era più. Anche Alester scese a terra e si fermò a guardare le rovine. All'improvviso, dopo tanti anni, affiorò un ricordo d'infanzia: era già stato in quel punto, con Conn e Markos, e aveva alzato gli occhi verso il castello, che allora si levava grigio e forte. Dietro di lui, sull'erba, erano seduti suo padre e sua madre, e Gioiello, che a quell'epoca era ancora quasi un cucciolo, giocava accanto a sua madre. All'improvviso, Alester provò un senso di vuoto. Aveva fatto tanta strada... per quello? Per quelle rovine? Logicamente, sapeva che non era così, che Markos non aveva abbandonato la lotta e che non poteva essere lontano. Insieme avrebbero ripreso le terre e il castello. Anche se c'è poco da riprendere, in quel castello... Comunque, in qualsiasi caso, non poteva rimanere lì. Doveva fare qualcosa, e come primo passo doveva cercare qualche luogo abitato, esaminando attentamente i dintorni. In fondo alla valle c'era un villaggio, e probabilmente, a così poca distanza dal castello, doveva essere abitato da persone fedeli agli Hammerfell. Il cammino in discesa gli parve più ripido che quello in salita, ma alla fine giunse ai margini del villaggio, e laggiù si fermò, per cercare una locanda o una taverna. E infatti vide un edificio, un po' più grande degli altri, con appesa un'insegna con tre foglie e una corona. Condusse laggiù il cavallo, tenendolo per la briglia, e lo legò a uno degli appositi anelli. Probabilmente, l'animale di Conn era abituato a stare laggiù e non sarebbe fuggito, ma era meglio non correre rischi. All'interno c'era un banco di mescita, con il solito puzzo di vino e di birra, ma a quell'ora del giorno la gente era ancora al lavoro, e gli unici avventori erano un paio di vecchi, addormentati accanto al camino; dietro il
banco c'era una donna massiccia, con il grembiule e la cuffia in testa. «Signore», disse, guardandolo, e Alester si chiese perché si rivolgesse a lui come se lo conoscesse. Ma, naturalmente, colui che la donna conosceva era Conn. «Si può avere qualcosa da mangiare, a quest'ora? E qualcosa per il cane...» «C'è del montone arrosto; non è molto tenero, la bestia era vecchia, ma è saporito; e c'è della zuppa per il cane», disse la donna. «Vino?» «Sì, per me; non per il cane, direi.» «Vero», commentò la donna, «anche se una volta ho conosciuto un tale che aveva abituato il suo cane a bere vino: lo faceva per fregare la gente con le scommesse. Se volete gli posso dare della birra; gli allevatori di cani gliela danno sempre.» «Allora, la zuppa e la birra per il cane, e per me va bene l'arrosto, o quello che c'è.» Non poteva certo aspettarsi di trovare una cucina raffinata in un posto come quello. Andò a sedere in un angolo e assaggiò il vino: non era certo dei migliori, e perciò, quando la donna portò la birra per il cane, ne fece portare un boccale anche per sé e la trovò molto buona: era una birra di campagna, densa e forte. Bevve tutto il contenuto del boccale, mangiò la carne e diede la pelle e le ossa all'animale. Mentre mangiava, sentì giungere rumori dalla strada, e poi entrò un gruppo di donne che indossavano tuniche rosse, avevano i capelli corti e portavano i calzoni e un cerchio d'oro all'orecchio. Libere Amazzoni, Sorelle della Spada o - come si chiamavano loro - Rinunciatarie: un genere di donna che Alester non si sarebbe aspettato di trovare negli Hellers. «Ehi, Dorcas», disse una di loro. «Portaci pane e birra per sei.» Tutte le donne del gruppo erano armate, e Alester vide che all'esterno c'era una lettiga, ben protetta da tendine, come quelle che si vedevano a Thendara; ovviamente serviva a custodire la riservatezza di qualche dama di alto lignaggio, che viaggiava ben scortata. Entrarono anche i quattro portatori, che sembravano gente del luogo, e uno di loro vide Alester e alzò la mano per salutarlo, ma la donna al banco disse a bassa voce (non però cosi bassa che Alester non la sentisse): «No; l'ho pensato anch'io, quando è entrato, ma parla come uno delle pianure.» Poi la donna preparò le porzioni di pane e riempì i boccali di birra: sei per le Amazzoni e quattro per i portatori. «La Nobile Lenisia non desidera nulla?» chiese poi. «Il vino è buono,
anche se non sembra che lo sia abbastanza per certe persone...» Col gomito, indicò Alester. Alester aprì la bocca per protestare; non era abituato a sentir discutere i suoi giudizi. Poi chiuse la bocca: laggiù, lui era solo uno straniero, nessuno lo conosceva, e i suoi gusti non avevano importanza. Fuori, intanto, le tendine della lettiga si erano aperte e ne stava uscendo una bella ragazza di una quindicina d'anni, elegantemente vestita di seta color lilla. La giovane entrò nella locanda, e si guardò attorno, per cercare il capo delle Amazzoni. «Damigella», la sgridò lei, non appena la vide, «non dovreste entrare; ho ordinato di portarvi del vino.» «Preferisco una tazza di qualcosa di caldo», rispose la ragazza, con irritazione. «Sono stufa di sedere nella lettiga; lì dentro mi manca l'aria.» «Dorcas vi porterà del vino caldo non appena l'avrà fatto bollire», disse l'Amazzone. «Vero, Dorcas? Ma vostro nonno andrà in bestia, se vi farete vedere qui, nel territorio degli Hammerfell.» «Certo», confermò un'altra delle Amazzoni. «Il signore di Storn non vorrebbe farvi passare di qui, ma la strada è più agevole.» «Oh, sempre Hammerfell!» disse la ragazza, con irritazione. «Ma se è da quando sono nata che sento ripetere che tutti gli Hammerfell sono morti!» «Certo, e lo credeva anche vostro nonno, fino a pochi mesi fa», disse l'Amazzone. «Ma poi il giovane duca è saltato fuori da chissà dove e ha ucciso vostro padre. Perciò, fate la brava ragazza e ritornate nella lettiga, prima che qualcuno vi veda e glielo riferisca, se non volete finire sottoterra anche voi.» La ragazza prese per il braccio l'Amazzone. «Cara Jarmilla», le disse, «fatemi cavalcare con voi, invece di costringermi a soffocare in quella lettiga. Non ho paura di nessun Hammerfell, giovane o vecchio, vivo o morto, e dato che non vedevo mio padre da quando avevo tre anni, non potete aspettarvi che pianga molto la sua morte.» «Che modo di esprimersi!» esclamò l'Amazzone (come si diceva, la Nobile Jarmilla, la magistra Jarmilla, la spadaccina Jarmilla? si chiese Alester) scandalizzata. «Vostro nonno andrà in...» «Sono stufa di sapere cosa farà mio nonno; che vada in bestia, allora, se ci tiene tanto ad andarci!» disse la ragazza, che, come Alester aveva appreso, si chiamava Lenisia. «Se credi che abbia paura degli Hammerfell...» Poi s'interruppe, perché aveva visto Gioiello, accucciata sotto il tavolo. «Oh, che bel cane!» esclamò, avvicinandosi a Gioiello e porgendole la
mano da annusare. «Hai l'aria di essere un cagnone molto intelligente, sai?» Gioiello si lasciò grattare dietro le orecchie e sotto il collo. La damigella Lenisia alzò gli occhi per fissare Alester, e gli chiese: «Come si chiama?» «Gioiello», rispose lui, senza riflettere; poi pensò che se la ragazza era davvero la nipote del signore di Storn, forse sapeva che la duchessa di Hammerfell aveva un cane con quel nome... Ma poi si disse che era assurdo: chi poteva ricordarsi del nome di un cane, dopo diciotto anni? E, poi, Alester non intendeva rimanere in incognito per molto tempo. Se quella ragazza era una Storn, allora era un suo mortale nemico. Eppure era solo una bella ragazza bionda, con i capelli raccolti in una lunga treccia e gli occhi azzurri; inoltre, in quel momento la ragazza lo guardava senza alcuna malizia, senza alcuna intenzione di civettare, diversamente da come avrebbe fatto qualsiasi giovane di Thendara. In tutte le pianure si parlava del comportamento libertino dei montanari, della libertà con cui si scambiavano le donne e della loro poligamia, ma quella ragazza sembrava il ritratto dell'innocenza, e amava gli animali; anche Gioiello, che di solito era restia a fare amicizia con gli estranei, l'aveva subito accettata. «Damigella Lenisia...» cominciò a dire Alester, ma in quel momento giunse un acciottolio di zoccoli dall'esterno della locanda. Qualcuno smontò di sella e legò il cavallo, e Gioiello rizzò le orecchie, emise un breve latrato di riconoscimento e corse verso il vecchio che stava entrando in quel momento nella locanda. Questi si guardò attorno, posò per un istante lo sguardo sulle Amazzoni e aggrottò la fronte; poi rivolse ad Alester un cenno, per indicargli di non muoversi. L'Amazzone che comandava il gruppo, quella a cui la ragazza si era rivolta chiamandola Jarmilla, si avvicinò a Lenisia e la toccò sulla spalla. «Alzatevi subito!» le disse con ira. «Una simile condotta, parlare agli estranei...» «Oh, non credo che Gioiello mi consideri un'estranea... vero, bel cagnone?» disse Lenisia, schioccando la lingua per chiamare il cane, che era ancora occupato ad annusare il vecchio. Irritata l'Amazzone prese per il braccio la ragazza e la spinse verso l'uscita: anche se Lenisia si lamentava di non avere avuto il suo vino caldo, la ficcò nella lettiga e chiuse le tendine. Alester continuava a guardare in direzione della ragazza e della lettiga. Com'era carina, così fresca e innocente! pensava. Intanto, il nuovo venuto,
con un largo sorriso, guardava Gioiello, che gli saltava attorno per richiamare la sua attenzione. Sorrise ad Alester e gli disse: «Una bella disgrazia, che, proprio oggi, la giovane Storn decidesse di fermarsi qui a fare colazione, vero?» «La giovane Storn?» chiese Alester. «La Nobile Lenisia, la figlia di Rupert. Ardrin di Storn, l'attuale signore, era solo lo zio di Rupert, non il padre, ma la ragazza lo chiama nonno lo stesso», spiegò il vecchio. «Il cane si ricorda di me, ma voi no, vero? Anche se vi ho riconosciuto immediatamente. C'è una sola persona al mondo che abbia una faccia così familiare e così sottilmente diversa. Vi credevo morto!» «Voi dovete essere Markos», disse Alester. «Sono venuto al posto di Conn. Dobbiamo parlarci...» Vide che la donna che stava al bancone Dorcas - li fissava a bocca aperta, e aggiunse: «In privato, però. Dove possiamo andare?» «A casa mia», disse Markos. «Andiamo.» Alester diede qualche moneta alla donna e andò a slegare il cavallo; poi seguì Markos fino a una delle ultime case del villaggio. «Legatelo dietro la casa», disse il vecchio. «È il cavallo di Conn, vedo. Metà del paese è in grado di riconoscerlo, e prima di domani sapranno tutti che è arrivato uno straniero, e la cosa può essere un pericolo. È un peccato che la giovane Storn vi abbia visto, ma so che è solo una ragazzina viziata e testarda che pensa unicamente a se stessa, e quindi non è il caso di preoccuparsi troppo.» «A me non è parsa così», obiettò Alester. «Anzi, mi pareva che...» Ma non proseguì; aveva visto la ragazza per pochi istanti, e non sapeva niente di lei. In qualsiasi caso, era la nipote del loro nemico e i suoi parenti gli avevano distrutto la famiglia. Un duca di Hammerfell non doveva pensare a un nemico in termini così amichevoli. Markos lo fece entrare. L'interno della casa era pulito, anche se spoglio: c'erano solo un focolare con, accanto, alcune pentole; due sedie rustiche e un tavolo montato su cavalletti. Sul ripiano del tavolo era posato un drappo di velluto, su cui luccicavano due boccali d'argento con lo stemma degli Hammerfell. Seguendo la direzione dello sguardo di Alester, Markos disse: «Sì, li ho trovati nelle ceneri, pochi giorni dopo la distruzione del castello. Li ho tenuti in ricordo del duca e della duchessa... Ma la duchessa è ancora viva, certo... non riesco ancora a crederci... Alester, siete proprio
voi?» Il giovane si slacciò la tunica e mostrò il tatuaggio che lo stesso Markos gli aveva fatto tanti anni prima. Il vecchio scudiero si inginocchiò, in silenzio. «Mio signore duca», disse poi, con deferenza. «Raccontatemi quel che è successo. Come ha fatto, Conn, a trovarvi? E avete visto il re Aidan?» Alester annuì e cominciò a raccontare a Markos del suo incontro con il fratello e degli accordi con il re Hastur. CAPITOLO 11 L'INCENDIO Dopo la partenza di Alester, Conn continuò a rimanere chiuso in casa, in un modo che destò subito le preoccupazioni di Erminie. Aveva ritrovato il figlio perduto, ma si accorse che dopo tanti anni di distacco non c'era tra loro la familiarità che c'era con Alester, e che non riusciva ad avere le sue confidenze. Però le piaceva come si prendeva cura del cagnolino Copper: anzi, Conn sembrava molto abile in quel genere di attività. Anche suo marito Rascard, ricordò Erminie, aveva lo stesso genere di abilità con gli animali: forse era un il Potere dei MacAran, che negli Hellers era abbastanza diffuso. Forse, se Elaine fosse riuscita a convincerlo ad addestrare il suo potere, Conn avrebbe avuto un'occupazione e sarebbe stato più tranquillo. «Dovresti andare alla Torre per farti misurare il Potere», gli disse un giorno. «Quando l'abbiamo misurato a tuo fratello, ne era quasi sprovvisto, e questi significa che tu sei il gemello che ne ha di più. Già quando eri bambino, ho sempre avuto questa convinzione.» Conn non aveva mai usato una pietra matrice, ma quando Erminie gliene mostrò una, riuscì a metterla in fase al primo tentativo, in modo così naturale che la madre ne rimase deliziata: sembrava che Conn avesse maneggiato matrici fin dalla nascita. «Forse troverai il tuo vero lavoro e la tua missione nelle Torri, Conn», disse, «quando tuo fratello sarà duca. Io ho sempre avuto l'aspirazione a diventare un tecnico delle matrici, anche quando non me ne rendevo conto, e, quanto a te, non credo che ti attiri l'idea di vivere nell'ombra di tuo fratello come amministratore o scudiero. Non avresti occasione di mettere a buon frutto il tuo Potere.» Poi, nel vedere che Conn aggrottava la fronte, si pentì di avere parlato, Dopotutto, anche lui era stato allevato nella convinzione di essere il vero
duca. Ma, con grande sollievo di Erminie, Conn rispose: «Qualunque cosa accada, preferirei restare fra la mia gente. Markos mi ha sempre insegnato ad assumermene la responsabilità, e anche se non sono il duca, mi conoscono e si fidano di me. E poi, anche il posto di scudiero o di intendente è onorevole come quello di duca.» «Certo, però, in qualsiasi caso», disse Erminie, «il tuo Potere è troppo forte, e occorre addestrarlo. Sai anche tu che un lettore del pensiero, se non è addestrato, è una minaccia per se stesso ancor prima che per gli altri.» Conn, che conosceva il vecchio detto delle Torri, annuì. «Anche Markos me lo ha detto, ma Alester non ha davvero alcun Potere?» chiese. «Non molto, e addestrarlo sarebbe solo una perdita di tempo», rispose Erminie, «anche se forse una parte del suo Potere è sotto forma di capacità di comunicare con i cani e i cavalli, come nel dono dei MacAran. Del resto, tua nonna paterna era imparentata con quel clan.» Aprì un cassetto e ne trasse un rotolo di pergamena; Conn vide che era l'albero genealogico dei duchi di Hammerfell, e che risaliva indietro nel tempo per una decina di generazioni. Lo guardò con interesse, e poi disse, ridendo: «Credevo che questa specie di documentazione si tenesse solo per i cani e i cavalli! E qui c'è anche scritto quanti dei miei antenati sono caduti per mano degli Storn?» «Sì», rispose lei, tristemente, e gli mostrò il segno che indicava che l'antenato in questione era morto nell'antica faida. Conn guardò con profonda attenzione la pergamena, e infine disse, con un sospiro: «Sento parlare di questa faida da quando ero ancora bambino, ma finora non mi rendevo pienamente conto di quanti morti ci fossero da vendicare: pensavo solo a mio padre e ai miei due fratelli. Ora vedo che i morti sono decine...» S'interruppe. «Nella vita», disse Erminie, «ci sono anche altre cose, oltre alla vendetta.» «Davvero?» chiese Conn, e a Erminie parve di vedere il volto di un estraneo. Con un brivido di timore, la donna continuò il discorso di prima: «Tornando al tuo Potere, non sono io che esamino i lettori del pensiero, ma posso già dirti che hai una forte affinità naturale per lavorare con le matrici, e questo tipo di lavoro si insegna solo nelle Torri. Naturalmente, io ho amici in tutte le Torri: tuo cugino Edric Elhalyn è Guardiano qui a
Thendara, e anche Valentine Hastur è stato per diversi anni un tecnico delle matrici; tutt'e due possono insegnarti molto. Ma per un certo tempo dovresti davvero andare a vivere in un Torre, dove sono più attrezzati per difenderti dai tuoi poteri in corso di sviluppo. Ne parlerò subito con Valentine. Non c'è bisogno di aspettare il periodo in cui i nuovi lettori del pensiero vengono messi alla prova, sei troppo vecchio per fare la normale trafila che si fa verso i dodici anni, appena compare il Potere in un giovane.» Conn era un po' confuso dalla velocità con cui stavano succedendo tutte quelle cose, ma ricordò che fin da quando era negli Hellers si era ripromesso di informarsi sul Potere, e inoltre era curioso di sapere che cosa succedesse in una Torre (così come erano curiosi di saperlo tutti coloro che non vi potevano entrare). Adesso, l'idea di essere uno dei pochi che potevano farne parte lo riempì d'orgoglio. L'unica cosa che lo tratteneva, risultò poi, era il fatto di dover andare ad abitare nella Torre, mentre presto ci sarebbe stato bisogno di lui ad Hammerfell. «Ma tu che sai tutte queste cose, madre», obiettò, «perché non me le insegni?» «Perché non si usa, Conn», disse Erminie. «Un padre non insegna mai alla figlia, e una madre non insegna al figlio.» «Perché?» volle sapere lui. «Non saprei, forse è ancora un costume che risale all'epoca delle vecchie famiglie patriarcali e dei matrimoni di gruppo», rispose Erminie. «Comunque, non si fa, e non mi sento di andare contro quell'uso. Però, se preferisci avere con te una persona di famiglia, alcune cose potrebbe insegnartele Floria. Glielo chiederò alla prima occasione.» Più tardi, quello stesso giorno, Conn ed Erminie portarono a spasso il cagnolino legato al guinzaglio e Conn si chiese: «Mio fratello sarà già arrivato ad Hammerfell?» «Penso di sì», rispose Erminie, «ma puoi controllare la sua posizione, tramite il tuo Potere, se lo desideri.» Conn rifletté su quelle parole: aveva condiviso molte volte le esperienze del fratello, ma mai intenzionalmente, e aveva qualche remora a mettersi in contatto con lui. Perciò, invece di prendere la pietra matrice, tornò a rivolgere la sua attenzione al cucciolo, per insegnargli i soliti comandi: "Cuccia, cammina, fermo". A Conn era sempre piaciuto lavorare con gli animali, e aveva già addestrato altre volte un cucciolo. Adesso che Erminie glielo aveva suggerito, gli parve probabile che l'affinità che provava per il cane fosse davvero una
forma di Potere. Non aveva mai pensato alla cosa in quei termini, e l'aveva sempre giudicata un'abilità che si apprendeva con il tempo, come andare a cavallo. Che non esistesse proprio niente, allora, che fosse unicamente suo? Tutto quel che faceva nasceva dalla sua eredità, era un dono degli antichi Comyn dell'Età del Caos, che avevano selezionato gli uomini per le loro caratteristiche, come si selezionano i cavalli per la loro velocità nella corsa? In quel momento, si sentì come sminuito, e sentì di odiarli. Conn e Copper camminavano davanti, ed Erminie veniva dietro di loro, perché si trovavano in una via deserta e il giovane e il cane si erano messi a correre. Il cane aveva imparato presto a obbedire, a forza di premi - piccoli pezzi di pane e grandi complimenti - e Conn non pensava ai suoi problemi e si lasciava trascinare dal piacere della corsa, quando, girato un angolo, giunsero davanti a un enorme palazzo in costruzione. Il giovane fece fermare il cane, aspettando che Erminie lo raggiungesse. Nel cantiere c'era un gruppo di persone che indossavano tuniche lunghe fino a terra: un Guardiano vestito di rosso, due tecnici vestiti di verde, un meccanico vestito d'azzurro, e al centro il monitore vestito di bianco. Vari passanti si erano fermati a guardare: soprattutto ragazzi. C'era anche una guardia, e non si capiva se curiosasse come gli altri o se fosse lì per mantenere l'ordine. Copper riconobbe però una faccia nota, e corse a salutarla, abbaiando festosamente. A quel punto, anche Conn si accorse che il monitore vestito di bianco era Floria, e provò la felicità, mista a un senso di colpa, che provava ogni volta che incontrava la fidanzata del fratello. La ragazza accarezzò il piccolo animale, poi lo sgridò: «Cuccia, adesso. Non posso giocare con te!» «Sentite, voi», intervenne la guardia, rivolta a Conn. «Portate via il cane, stanno lavorando.» Poi vide anche Erminie, che stava arrivando, e chiese, in tono molto più rispettoso: «È il vostro cane, signora? Mi spiace, ma dovete tenerlo fermo, oppure prenderlo in braccio.» «Oh, non fa niente», disse Floria. «Conosco il cagnolino; non mi disturba.» Erminie diede un secco ordine a Copper, che si mise a sedere, immobile come un cagnolino di gesso dipinto. Il Guardiano, che era vestito da donna, ma che doveva essere un androgino, perché le donne non facevano mai il Guardiano, attese che Floria rientrasse al suo posto, poi formò di nuovo il cerchio. Conn riuscì a percepire i fili invisibili che legavano l'uno all'al-
tro quei Sapienti, i legami che li collegavano tramite le loro gemme matrice. E anche se non aveva mai visto operare un cerchio di matrici, capì immediatamente che cosa stessero facendo. Le sua mente si protese verso quella di Floria, che lo mise subito in contatto con quella degli altri, come se Conn fosse entrato in una stanza dove si suonava la musica e uno degli orchestrali gli avesse indicato con un cenno del capo il posto dove sedere. Anche Erminie era entrata a far parte del cerchio, pur non prendendo direttamente parte all'azione, e Conn ebbe la sensazione di trovarsi in un luogo dove tutti lo conoscevano e lo apprezzavano: ebbe l'impressione di non essere mai stato così valorizzato in tuta la sua vita. Il Guardiano, dopo avere unito tra loro i membri del cerchio, ora diresse la loro attenzione verso un immenso mucchio di materiale da costruzione, e raccolse su di sé tutta la forza del gruppo. A quel punto, Conn non riuscì più a capire quello che stava succedendo: tutte le sue percezioni si persero in un bagliore azzurro come la pietra matrice che gli aveva dato Erminie. Però, vide che la pila di materiale da costruzione si levava in aria. Anche se era solo un mucchio informe di tegole, ogni tegola rimase ferma al suo posto, senza scivolare sulle altre, come se fossero incollate. La pila si sollevò e poi, giunta all'altezza voluta, si spostò di lato e si posò sul terrazzo della casa in costruzione: gli operai, senza bisogno di ordini, cominciarono a mettere in posizione le tegole. Anche il cerchio dei Sapienti si sciolse come il mucchio di tegole. Floria chiese al Guardiano, a bassa voce: «Ce ne sono altri?» «No», rispose il Guardiano. «Prima, dobbiamo aspettare che sistemino il pavimento del cortile. Tra qualche giorno verremo a mettere i vetri sulla serra, ma non c'è fretta. Ieri ho parlato a Martin Delleray, e mi diceva che devono ancora mandare il giardiniere che toglierà le erbacce. Ci farà sapere.» Conn non aveva mai pensato che si potesse usare il Potere per costruire un edificio. Come nelle favole, quelle persone sembravano capaci di costruire un palazzo in una sola notte! Con un gruppo come quello, si sarebbe potuto ricostruire Hammerfell in pochi mesi, invece che in anni! Mentre così pensava, Floria si girò verso lui ed Erminie e sorrise loro. Poi fece un gesto a Copper, che subito corse verso di lei. «Sei stato davvero bravo», disse la ragazza, accarezzando il cane. «Erminie, l'hai addestrato davvero bene.»
«È stato Conn ad addestrarlo», precisò Erminie. «Ho portato qui il ragazzo perché osservasse come lavora un cerchio di matrici. Non ne ha mai visti, negli Hellers dove è vissuto finora. Secondo me, è pronto per l'addestramento nella Torre, e poi potrebbe lavorare per qualche tempo come tecnico.» Il Guardiano fissò Conn, inarcando le sopracciglia: «Vi ho esaminato mentre eravate virtualmente parte del nostro gruppo; davvero non avete mai fatto parte di un cerchio? Pensavo che aveste lavorato con il gruppo della Torre di Tramontana.» «No», rispose Conn, scuotendo la testa. «Non ho mai avuto una matrice finché non sono arrivato a Thendara.» Il Guardiano osservò: «Già, a volte i talenti spontanei sono poi i migliori, come tecnici delle matrici». Tese la mano a Conn, che gliela strinse e le rivolse un inchino. «Sarei lieta di avervi con noi. Sono Renata di Thendara.» Conn sapeva che l'appellativo "di Thendara" era riservato ai Guardiani. Tuttavia fu per lui una sorpresa, avere la conferma che il Guardiano era una donna, anche se probabilmente era uno degli androgini Hastur. Erminie disse, sorridendo: «Be', non sono riuscita a piazzare Alester in una Torre, spero di avere migliore fortuna con Conn». «Senza dubbio, Erminie», disse Renata, gentilmente. «Dopo un minimo di addestramento, penso che diventerà un prezioso acquisto per la nostra Torre. Dato che non può lavorare nel tuo cerchio, ne approfitto per offrirgli di entrare nel mio!» Conn vide che la madre arrossiva dal piacere. «Oh, grazie, Renata! Mi fai un favore grandissimo!» Floria, che si era fermata accanto a Conn, gli disse a bassa voce: «Allora, ti rivedremo nella Torre? Sarò lieta di aiutarti nel corso dell'addestramento». «Il piacere sarà tutto mio», disse Conn, arrossendo a sua volta. Conn ed Erminie si unirono ai membri del cerchio, che facevano ritorno alla Torre. Dopo qualche tempo, Floria osservò: «Sono davvero successe tante cose, negli ultimi mesi!» «Davvero», disse Conn. In poche settimane, la sua vita era cambiata più di quanto non ritenesse possibile. Ma, anche se nessuno ne aveva fatto il nome, tutt'e due pensavano ad Alester: era come se fosse presente in mezzo a loro. Fu infine la ragazza a dire:
«Mi chiedo dove possa essere Alester in questo momento.» «Da quando è scappato via con il mio cavallo?» scherzò Conn. E aggiunse: «Sei tu la lettrice del pensiero; pensavo che fossi in grado di raggiungerlo.» «No», rispose Floria. «Forse, se fossimo sposati... ma sarebbe difficile, a quella distanza. Dovrei essere almeno una Hastur, per potermi mettere in contatto con lui, ma anche in tal caso non so se sarebbe possibile, perché il suo Potere è troppo limitato.» Poi sorrise: «Però, il legame tra due gemelli è il più forte che ci sia! Perché non provi tu?» «Se vuoi, posso provare», disse Conn. «Finora non ho mai provato a cercarlo, perché mi sembrava di spiarlo. Ma se me lo chiede la sua futura moglie...» Prese in mano la pietra matrice che gli aveva dato Erminie. Non dubitava di riuscire a mettersi in contatto con Alester: se riusciva a farlo senza matrice, con la matrice avrebbe fatto ancor più in fretta. E infatti, pochi istanti più tardi, quando lo trovò, non fu un'esperienza rarefatta, tra il sogno e la realtà, come le precedenti: ebbe la netta impressione di essere Alester: attorno a lui c'erano gli alberi della foresta che aveva visto mille volte, l'odore di resina, il vento e i monti degli Hellers. E c'era anche un altro odore: quello che riempiva di terrore ogni abitante delle montagne: un incendio! A poca distanza da suo fratello, negli Hellers, una foresta di pini da resina stava bruciando! A Thendara, Conn si sentì quasi mancare. Dov'era l'incendio? Quanto era vasto? Erminie, che si era voltata a guardarlo perché voleva mostrargli la Torre che s'innalzava davanti a loro, capì subito quel che Conn e Floria intendevano fare. In circostanze normali, non si sarebbe preoccupata di intervenire, ma Conn aveva un'aria troppo spaventata. Raggiunse subito i due giovani e toccò lievemente Conn, sul braccio. «Andiamo nella Torre», gli disse. «Là dentro sarà più facile terminare quello che hai cominciato a fare... e non correrete rischi, né tu né Alester.» Conn non aveva mai pensato che quel tipo di contatto mentale potesse essere pericoloso per il fratello, ma ora comprese che rischiava di trasmettergli la sua paura; perciò disse che aveva bisogno di bere un sorso di vino, e si affrettò a seguire le donne nella Torre. Tuttavia, anche quando gli servirono il vino, Conn continuò a essere dominato dal timore. Non si accorse dei discorsi che si svolgevano attorno
a lui, non si accorse che Renata li aveva uniti tutti in un altro cerchio: non avendo ancora ricevuto l'addestramento, non era capace di staccare le proprie emozioni dal compito che stava svolgendo. Ormai Conn era troppo coinvolto emotivamente in ciò che aveva visto: era la sua terra, la sua gente, suo fratello, e c'era un incendio... Renata, che capiva meglio di chiunque altri ciò che passava per la mente di Conn in quel momento, non cercò di influenzarlo. Sarebbe intervenuta in caso di pericolo, naturalmente, ma Conn, per quella prima volta, poteva seguire il suo metodo istintivo. In seguito, dopo l'addestramento, avrebbe lavorato in modo più equilibrato, ma per farlo avrebbe dovuto rinunciare a una parte della sua veemenza giovanile. Floria gli disse: «Colleghiamoci; in due riusciremo più facilmente a trovarlo». Il legame che si formò era diverso da quello di prima. Stranamente, Conn vide per prima cosa il volto di Markos, e fu attraverso i suoi occhi che vide Alester. Il fuoco e il fumo erano ancora lontano, ma si stavano avvicinando. E Alester, comprese Conn, era in collera. «Cosa mi dite?» chiedeva. «Che dopo tanti secoli di faida, devo andare a proteggere le terre dell'uomo che ha ucciso mio padre? È meglio che lui e i suoi brucino!» Markos lo fissò e disse: «Mi vergogno di voi. Dove siete vissuto, per non sapere queste cose?» Anche Conn arrossì: negli Hellers, la tregua per incendio era la più antica consuetudine delle montagne. In caso di incendio, tutto il resto passava in secondo piano, comprese le faide e il dovere di obbedienza al re. Poi Conn ricordò: Alester non poteva saperlo, perché era sempre vissuto in città. Comunque, Markos gli diede l'unica risposta che si poteva dare: «Domani», disse il vecchio, «saranno i nostri monti a bruciare, e verranno tutti, Storn e non Storn, ad aiutarvi a spegnere il fuoco. Dovreste saperlo.» Poi aggiunse, in tono conciliante: «Ma questa sera sarete stanco per il viaggio. Riposatevi qualche ora, poi andremo anche noi.» A quel punto, il rapporto si spense, e le facce di Markos e di Alester scomparvero nel lampo azzurro di una pietra matrice. Alzandosi in piedi, Conn disse: «Mi vergogno di spiare mio fratello così. Comunque, è con Markos e stanno bene tutt'e due».
Abbracciò Erminie e proseguì: «Però, se lassù sono in pericolo, devo andare da loro. Hanno bisogno di me. Alester...» S'interruppe, per non dire che non lo giudicava adatto a governare Hammerfell. Però, Floria non ebbe difficoltà a leggerglielo nella mente, e Conn vide che distoglieva lo sguardo da lui. Per tutti gli dèi, pensò il giovane, cosa devo fare? Ho sempre amato questa donna, e adesso scopro che è promessa a mio fratello. Non osò fissare Floria, ma si accorse che il Guardiano guardava nella sua direzione. E l'androgino, che per la sua natura asessuata e per la sua alta condizione all'interno della Torre era il più lontano possibile da quel tipo di problemi, lo guardava con aria profondamente saggia e triste. CAPITOLO 12 IL SIGNORE DI STORN Dopo avere lavorato per qualche ora nelle squadre antincendio, Alester cominciava a pensare che era stato sempre fatto un grosso torto all'inferno. Al momento, infatti, l'idea di trovarsi in uno degli inferni gelati di Zandru non era priva di attrattive. Era sudato fradicio, si sentiva la faccia cotta dalle fiamme, e aveva la bocca e la gola secche e piene di fuliggine. Inoltre, anche se non si era mai considerato un vero e proprio elegantone come il suo amico Gavin, Alester era abituato a pensare che l'aspetto esterno di una persona fosse un comodo sistema per farne capire il rango sociale, mentre adesso si era ormai rassegnato a buttare via l'abito che indossava. Ammesso che qualche cucitrice riuscisse a rammendare i buchi delle faville che volavano in tutte le direzioni quando uno dei pini da resina prendeva fuoco, quel vestito gli avrebbe dato un aspetto miserabile come quello del vecchio che lavorava accanto a lui. Però, questi contadini devono essere davvero robusti, pensò. Da quant'è vecchio, potrebbe essere mio nonno, eppure contìnua a fare il suo lavoro senza fermarsi, mentre io vorrei soltanto raggomitolarmi su me stesso e morire. Naturalmente, però, io ho una maggiore sensibilità. Gioiello era accucciata dietro di lui, e Alester capiva perfettamente lo sforzo che doveva fare, il cane, per non fuggire. Però, a quanto pareva, sentiva che il suo padrone era in pericolo, e non voleva allontanarsi. Una ragazza con un vecchio vestito a quadri e un enorme berretto color lilla si avvicinò al vecchio e gli porse un otre d'acqua. Il vecchio le diede da tenere la pala e poi bevve un sorso. La ragazza riprese l'otre, riconsegnò
la pala al vecchio e passò avanti. Quando vide Alester, sgranò gli occhi. Il giovane la riconobbe e pensò che evidentemente, qualcuno dei portatori che lo avevano visto, alla taverna, doveva averle rivelato la sua identità. A bassa voce, la ragazza gli disse: «Sono davvero stupita di vedervi qui, signore di Hammerfell!» E aveva ben ragione di stupirsi, pensò Alester, visto che il primo a stupirsene era lui stesso. «Damigella...» Le rivolse un impeccabile inchino. «Che cosa siete venuta a fare in un inferno come questo? Di tutti i luoghi dei Cento Regni, mi sembra il meno adatto a una gentildonna.» «Perché, le gentildonne non rischiano di bruciarsi anche loro, se il fuoco non viene fermato? Si vede subito che siete uno sciocco delle pianure!» disse con ira. «Tutti qui prendono parte al servizio antincendi: uomini e donne, nobili e plebei!» «Be', non ho visto il signore di Storn rischiare il collo», disse Alester, con irritazione. «Questo perché non vi siete preso la briga di guardare dalla parte giusta... è a meno di dieci passi da voi!» Indicò il vecchio che aveva appena servito. Alester rimase a bocca aperta per lo stupore. Quel vecchio era il signore di Storn? Che quel vecchio curvo fosse davvero il terrore della sua infanzia? Anziché essere minaccioso, dava l'impressione di volare via al primo soffio di vento; decisamente, non aveva niente di terrorizzante! Però il gesto di Lenisia aveva richiamato l'attenzione del vecchio, che piantò in terra la pala e si diresse verso di loro con aria irritata. «Questo giovane damerino vestito da idiota ti dava fastidio?» chiese alla nipote. Lenisia si affrettò a scuotere la testa. «Niente affatto, nonno.» «Allora, dagli la sua acqua e ritorna al lavoro. Non fermarti! Sai che tutti devono bere... vuoi che gli ultimi della fila cadano a terra per la sete?» «No, no, vado subito», disse la ragazza, e riprese l'otre da Alester per poi passare avanti. Il giovane rimase per un istante a guardarla, poi l'uomo accanto a lui lo toccò sul gomito perché riprendesse il lavoro, consistente nello scavare un fosso rompifiamme sul terreno della foresta, coperto di foglie di pino. La nipote di Storn. Completamente diversa dal vecchio che l'aveva definito "vestito da idiota". Eppure, lui e quella ragazza erano separati per sempre... e, anche solo per quello, Lenisia acquistava il sapore di un frutto
proibito. Si ripeté che era fidanzato con Floria e che non avrebbe dovuto posare gli occhi su altre ragazze: soprattutto su quelle che appartenevano a una famiglia che da secoli era nemica della sua! Ma non riuscì a pensare ad altro che a lei, anche quando cercò di richiamarsi alla mente l'immagine di Floria. Per non pensare più a lei, si concentrò sul lavoro. Con la coda dell'occhio notò che il vecchio Storn faceva una porzione di lavoro uguale a quella di tutti gli altri. Quando la nipote fece ritorno - e Alester notò con piacere che portava una sorta di tisana di erbe - si fermò accanto al nonno e il giovane sentì il loro discorso. «Nonno, mi sembra una follia», diceva la ragazza. «Non puoi più fare questo lavoro, alla tua età.» «Non dire assurdità, ragazza; è tutta la vita che faccio questo lavoro, e non intendo smettere proprio adesso, e tu non permetterti di darmi ordini.» Per niente impressionata, Lenisia proseguì: «E se ti venisse un collasso e dovessero portarti via? Saresti davvero un bell'esempio!» «Faccio questo lavoro da settant'anni», brontolò il vecchio. «Allora, non pensi di averne già fatto a sufficienza? Nessuno si sognerebbe di biasimarti, se andassi a fare del lavoro più leggero, al campo.» «Nipote, non mi sono mai fatto insegnare da nessuno il mio lavoro. Tu, pensa al tuo, e io penserò al mio.» Nonostante tutto, Alester cominciò a trovare simpatico quel vecchio caparbio. Quando Lenisia arrivò a lui, il giovane bevve l'infuso, che fece meraviglie per la sua gola arrossata. Nel ringraziare la ragazza, le chiese: «Vostro nonno lavora sempre con i suoi uomini?» «L'ha sempre fatto», rispose la ragazza, «ma adesso comincia davvero a essere un po' troppo vecchio, e, anche se non vuole ammetterlo, soffre un po' di cuore.» «Sarà, ma è ammirevole come voglia stare con i suoi uomini», disse Alester, con sincerità. «Allora, avete visto anche voi che mio nonno non è affatto un orco», disse la ragazza, con un sorriso. Alester le fece segno di abbassare la voce. Forse la tregua era di rigore, durante gli incendi, ma lui non si fidava di quella gente. «Vostro nonno rischierebbe davvero un colpo apoplettico, se sapesse che c'è qui il suo peggiore nemico!» Con orgoglio, la ragazza rispose: «Credete che mio nonno disonorerebbe
la tregua, la più vecchia legge che esista?» «Lo credevo prima di vederlo», disse Alester, ma privatamente si ripromise di non offrire al signore di Storn nessuna occasione di violarla. «Bene», disse la ragazza, «ma adesso devo pensare anche agli altri, altrimenti mi sgriderà di nuovo. Avete bevuto?» Alester le riconsegnò il bicchiere, e riprese il lavoro. Non era abituato al lavoro manuale, e gli facevano male tutti i muscoli. Che fosse davvero tanto necessaria la sua presenza? Su quelle montagne, le braccia non mancavano: che ogni persona fosse davvero tanto essenziale? O per la gente degli Hellers costituiva un particolare motivo d'orgoglio l'avere quel tipo di resistenza fisica? A Thendara avrebbero fatto qualche distinzione tra i compiti affidati ai nobili e quelli affidati ai popolani, ma Alester aveva saputo dal fratello che lassù, in caso di necessità, non si facevano molte differenze. Intanto, si era levato un curioso ronzio, che pareva giungere dall'alto, e poi, da dietro gli alberi, spuntò un piccolo carro volante. Alester sapeva che su quelle montagne si usavano alianti, diretti con le pietre matrice, per trasportare le sostanze chimiche che spegnevano gli incendi, ma non aveva mai visto volare uno di quei veicoli: neanche nell'Età del Caos li avevano usati, negli Hellers, perché occorreva una grande perizia per non farsi rovesciare dalle forti correnti che s'incontravano tra le montagne. Nel vedere il velivolo, l'uomo accanto a lui disse: «Sono i Sapienti della Torre, venuti a spegnere l'incendio». «Portano le sostanze chimiche per spegnere le fiamme?» chiese Alester. «È probabile. Sono molto gentili a farlo... anche se forse sono stati loro stessi ad appiccare il fuoco con la pece stregata o qualche altra diavoleria.» «Probabilmente, è stato il fulmine», disse Alester, ma l'altro lo guardò con scetticismo. «Oh, certo», ironizzò l'uomo. «Ma come mai ci sono più incendi adesso che all'epoca di mio nonno?» Alester non ne aveva la più pallida idea, perciò si limitò a rispondere: «Non essendo vissuto all'epoca di vostro nonno, non saprei dire se ci siano più incendi adesso, e penso che lo stesso valga anche per voi», e tornò a rastrellare in terra. Quello, rifletté, non era proprio il posto adatto al duca di Hammerfell. Se avesse saputo che per essere duca bisognava lavorare da spazzino, avrebbe mandato Conn al suo posto! Alzò la testa e vide che le nuvole si stavano addensando. Che stesse per
piovere? Quella pioggia aveva del miracoloso, pensò, e forse era stata prodotta dai Sapienti della Torre, ma con le loro sostanze chimiche o con il loro Potere? Erminie gli aveva raccontato che un tempo c'era la famiglia dei Rockraven che aveva quel Potere, ma che era stata distrutta dal fulmine, e ad Alester, a quell'epoca, la storia era sembrata solo una fiaba come tante altre. Dalle linee di montanari che scavavano l'argine si levò un grido di trionfo: cadevano le prime gocce di pioggia, che, nel toccare le braci roventi dell'incendio, si trasformavano subito in vapore. Alester posò il rastrello e trasse un respiro di soddisfazione. «Attenzione!» gridò qualcuno, e il giovane, sorpreso, vide che un enorme albero, per metà in fiamme, si stava inclinando. Poi, con orrore, vide che Lenisia era a pochi passi di distanza, e che minacciava di essere colpita dai rami incendiati. Prima ancora di sapere quello che faceva, Alester corse verso la ragazza, per spingerla lontano dalla traiettoria dell'albero che cadeva... Ma non riuscì ad allontanarla abbastanza. L'albero cadde con uno schianto simile a quello della fine del mondo, trascinando cespugli e alberi più piccoli sotto di sé. Lenisia e Alester finirono sotto le fronde in fiamme e Alester cercò di proteggere con il proprio corpo la ragazza. L'ultimo suo ricordo fu di un colpo alla testa e di Gioiello che abbaiava freneticamente. CAPITOLO 13 RITORNO AD HAMMERFELL Conn aveva osservato l'incendio con distacco, senza alcun desiderio di intervenire a favore del fratello: pensava che quell'esperienza gli fosse utile per entrare nella mentalità degli Hellers e per farsi accettare dagli uomini di Hammerfell. Ma il pericolo lo fece uscire bruscamente dal suo distacco. Con terrore vide che Alester cercava di salvare Lenisia e che tutt'e due finivano sotto l'albero in fiamme. Balzò in piedi e per qualche istante si scordò di essere a Thendara, e non negli Hellers. Poi, all'improvviso, la presenza mentale svanì: Alester doveva avere perso i sensi... o essere morto! Conn si asciugò il sudore dalla faccia. Che cos'era successo a suo fratello? Anche se a volte non aveva condiviso le idee di Alester, doveva ammettere che era stato un gesto di puro eroismo, quello che gli aveva fatto ri-
schiare la vita... o gliel'aveva fatta perdere? Con timore, Conn protese di nuovo la mente verso il fratello, e trovò solo oscurità e dolore. Con sollievo, capì che se provava dolore era vivo: forse gravemente ferito, ma vivo. Devo correre immediatamente da loro, pensò. Qualunque cosa sia accaduta, Markos ha bisogno di me. Conn era abituato a prendere in fretta le decisioni. Infilò i vestiti in una sacca e si diresse verso la cucina, per farsi dare i rifornimenti per il viaggio. Solo allora si ricordò che doveva avvertire la madre. Perciò si mise in cerca di Erminie. Ma, quando passò davanti alla porta d'ingresso, sentì bussare e andò ad aprire: era Gavin Delleray, vestito di giallo, di rosso e di blu, come qualche fantastico uccello policromo. Gavin si accorse subito che c'era qualcosa che non andava. Aggrottò la fronte e disse: «Salve, caro amico. Cattive notizie? Nulla di grave, spero.» Conn, soprattutto in quel momento, non aveva voglia di sprecare tempo in convenevoli. «C'è un incendio, e Alester è ferito. Forse è grave.» Gavin impallidì come un cencio. Disse subito: «Dovresti parlarne con vostra madre. Lei riuscirà certamente a scoprire come sta.» Conn non ci aveva pensato. Con voce tremante, disse a Gavin: «Mi puoi accompagnare? Meglio essere in due a darle la notizia...» «Certo», gli assicurò Gavin. Insieme ripresero la ricerca di Erminie e la trovarono nella stanza di cucito. Nel vedere l'espressione del figlio, lei lo fissò con preoccupazione. «Conn, è successo qualcosa?» chiese. «E tu, Gavin, sono lieta di vederti, ma non ti aspettavo a quest'ora.» «Ero passato per avere notizie», rispose Gavin, «ma poi ho visto Conn in questo stato...» «Madre, devo correre subito ad Hammerfell», intervenne Conn. «Alester è stato ferito, mentre faceva il servizio antincendi...» Erminie impallidì. «Ferito... grave?» chiese. «Non so. Ho solo visto che c'era un albero che stava cadendo, e che lui è stato travolto.» «Misericordiosa Avarra», gemette Erminie. Afferrò di scatto la pietra matrice e la fissò per qualche istante, poi disse, con un respiro di sollievo: «No, non credo che sia morto. Gravemente ferito, forse, e ha perso i sensi. Ma è troppo lontano per me. Devo chiamare Edric o Renata, che si met-
teranno in contatto con i Sapienti di Tramontana: laggiù sapranno certamente che cosa è successo.» «Chiamate anche Floria, cugina», suggerì Gavin. «Anche lei sarà ansiosa di sapere che cosa è successo ad Alester.» «Certo», disse Erminie, e si piegò di nuovo sulla pietra. Dopo un attimo, alzò gli occhi e disse: «Stanno venendo.» Conn disse: «Non voglio perdere tempo; devo partire subito». Ma Erminie scosse la testa. «È inutile partire prima di sapere esattamente che cosa è successo. In qualsiasi caso, non potresti arrivare prima dei Sapienti di Tramontana. E rischi di cadere in un'imboscata degli Storn.» «Se è in pericolo», proclamò Gavin, «non lo lascerò solo. Sarò al suo fianco.» Commossa, Erminie abbracciò Gavin come se fosse suo figlio. Poco dopo, il cane, Copper, abbaiò verso la porta, e un attimo più tardi fecero il loro ingresso Floria, Renata ed Edric Elhalyn. «Siamo venuti subito, cugina», disse Edric, e Renata aggiunse: «Spiegaci che cosa è successo.» Conn lo spiegò in poche parole, ed Edric aggrottò la fronte. «Dobbiamo informare re Aidan», disse. «No», disse Renata. «Sua Maestà ha già troppe preoccupazioni, non carichiamogli addosso anche quelle di Hammerfell.» «Antella è peggiorata?» chiese Gavin, ansioso. «Avevo sentito che si stava riprendendo.» «Ieri sera ha avuto un altro piccolo collasso», spiegò Floria. «Io sono accorsa a palazzo e ho fatto quel che potevo, ma al momento non si è ancora ripresa.» «Oh, povera signora», disse Renata. «È meglio che Aidan le rimanga accanto.» «Anch'io preferirei rimanere con lei», disse Floria. «Con una costante sorveglianza, si possono evitare altri collassi.» «Allora, è meglio che ci vada io stessa», disse Renata. «Il tuo posto, Floria, è con la famiglia del tuo fidanzato», nel dirlo, però, fissò Conn, «e non credo che tuo padre avrà obiezioni. Erminie ha bisogno di lei; di sua Maestà mi occuperò io.» Sorrise. «Prima di essere Guardiano, anch'io ero monitore.» «E la vostra abilità è immensamente superiore alla mia», disse Floria, sollevata.
Conn fremeva dall'ansia. Disse: «Allora, dobbiamo sapere subito come sta Alester!» Guardò Floria, che lo fissò a sua volta e gli lesse nella mente quel che Conn non avrebbe osato confessare neppure a se stesso: Voglio bene a mio fratello e desidero con tutte le mie forze che stia bene, lo giuro, ma se non ci fosse più lui tra noi due... E Floria pensò: Mi ero innamorata di Alester solo perché, dietro di lui, avevo visto te... Ormai, si disse Conn, né lui né Floria potevano continuare a nascondere i loro sentimenti. Ma per prima cosa dovevano andare a salvare Alester. In quel momento arrivò Valentine Hastur, che disse: «Ah, Renata, dovreste recarvi subito da sua Maestà. Mi occuperò io della Nobile Erminie e dei suoi figli... dopotutto, li ho sempre considerati come miei figli adottivi!» Renata si affrettò a recarsi a palazzo. Erminie, rossa in viso, rivolse un sorriso a Valentine. Cugino, sono lieta di vederti, gli trasmise. Nei momenti del bisogno, so di poter contare su di te. Conn non ebbe difficoltà a leggere quel pensiero. Sono contento per lei, si disse. Per tanti anni, ha pensato solo ad Alester, ed è tempo che pensi anche a se stessa. Edric aveva già in mano la pietra matrice e li stava riunendo tutti in un cerchio. Un istante più tardi, Conn sentì la presenza di un secondo cerchio di matrici, e comprese immediatamente che era il cerchio della lontana Torre di Tramontana. Benvenuti. L'incendio si sta progressivamente spegnendo, e abbiamo il tempo di parlare. Nella mente di Conn si formò l'immagine di alcune colline coperte di alberi carbonizzati, di un villaggio distrutto - un villaggio degli Storn, non di Hammerfell - e degli abitanti che allestivano un accampamento di tende. Mio figlio? chiese Erminie. Sta relativamente bene, ma è in mano agli Storn... come ospite, però, protetto dalle leggi dell'ospitalità, si affrettò ad aggiungere il Guardiano di Tramontana. Non corre nessun periocolo, e le ferite sono leggere. «Markos avrà bisogno di me, e devo andare», disse Conn. «Madre, fatemi solo avere un cavallo robusto. Non posso perdere tempo.» «Prendi il cavallo che vuoi», disse Erminie. «Io ti seguirò, ma da solo potrai arrivare più in fretta.»
«Noi ti seguiremo», disse Floria, decisa. «Verrò anch'io.» «Io parto con Conn», annunciò Gavin. Conn si girò verso di loro. «Perché correre inutilmente dei rischi? Madre, tu dovresti rimanere qui al sicuro, e tu, Gavin, non conosci i sentieri montani.» «Se Alester è ferito, avrà bisogno di me», disse Erminie. «E tu sarai indaffarato a raccogliere gli uomini. Posso arrivare negli Hellers da sola. Conosco la strada per Hammerfell bene quanto te.» «Allora, Gavin», disse Conn, «tu farai da scorta a mia madre e a Floria. È il massimo favore che tu mi possa fare.» Gli strinse la mano con affetto. Erminie accompagnò Conn nella sua stanza e poi nelle scuderie, e rimase al cancello a guardarlo partire. Non appena Conn fu sulla strada, però, il cane Copper gli corse dietro, e Conn, allegramente, lo fece accucciare sulla sella, davanti a sé. Quella notte, Erminie dormì male, e l'indomani mattina si svegliò molto presto. Quando andò in cucina per preparare il cibo per il viaggio, trovò Floria, intenta a riempire le sacche da viaggio. «Non volevo svegliarvi», disse la ragazza, «ma dovremmo partire non appena possibile.» «Però», disse Erminie, «forse sarebbe meglio che una di noi restasse alla Torre.» «Niente affatto», rispose Floria, alzando le spalle. «Soprattutto in questa stagione, nella Torre c'è poco da fare. Se vogliono riunire il cerchio, c'è un altro monitore, e ci sono due apprendisti che devono esercitarsi sulle reti di matrici. Se però me lo dite perché non volete che vi accompagni...» concluse, sorridendo. «No, no», disse Erminie, «sono lieta che tu venga con me. Non mi piace viaggiare da sola. Ma...» «Alester è il mio fidanzato, e Conn è andato a raggiungerlo...» disse Floria. Poi s'interruppe, ma Erminie la capì e le rivolse un cenno d'assenso. «Già, sono andati tutti negli Hellers, perfino i miei due cani!» disse, cercando di sorridere. «Che rimaniamo a fare, qui?» «Con il vostro permesso...» disse qualcuno, ed Erminie e Floria si girarono. Chi aveva parlato era Gavin Delleray, ed Erminie, nel vederlo, scoppiò a ridere. «Sono lieta che tu ci accompagni, ragazzo mio», disse, «ma non con quei vestiti! Va' nella stanza di Conn, e prendi qualche vestito da viaggio.» «Come volete», disse Gavin, sorridendo. «Anche se devo confessare che
lo facevo per introdurre le ultime tendenze della moda in quelle montagne, dove nessuno conosce il giusto taglio di una cappa.» Ma corse in camera di Conn e tornò con indosso una tunica di cuoio, calzoni da cavallerizzo e stivali. «Spero che nessuno dei miei amici mi veda», brontolò. «Non riuscirei a sopravvivere all'onta.» «È un viaggio lungo, ed è faticoso per chi non è nato nelle montagne», avvertì Erminie. Lei e Floria si cambiarono e indossarono vestiti per cavalcare e mantelli pesanti - anche se in città faceva ancora caldo, sui monti il clima era più rigido - e partirono a cavallo verso la porta settentrionale della città. Il primo giorno incontrarono il bel tempo e quella notte si fermarono a una locanda per viaggiatori, dove si fecero preparare un buon pasto per risparmiare le provviste. Gavin tenne loro compagnia scherzando e cantando le sue canzoni. Ma l'indomani iniziò con il cielo coperto; meno di un'ora dopo la loro partenza, cominciò a piovere. Quel giorno, nessuno ebbe molta voglia di parlare. Floria pensava con tristezza ad Alester, malato e tra le mani del suo peggiore nemico, e pensava con senso di colpa a Conn. Erminie ripensava al lontano periodo del suo matrimonio, e si sentiva quasi di invidiare la passione della giovane: un sentimento che lei non aveva mai provato con tanta forza. Valentine le piaceva, stava bene con lui, ma sapeva che ormai erano tutt'e due troppo vecchi per quel tipo di innamoramenti... Gavin, invece, cercava di capire perché si fosse lanciato in quell'avventura. Alester era suo amico e suo fratello di spada, e Conn gli era riuscito immediatamente simpatico, ma, adesso che ci pensava a sangue freddo, lui non sarebbe stato in grado di fare molto, in caso di combattimento o di un ardito assalto al castello di Storn. O forse era partito perché sperava di trovare nuova ispirazione dalle ballate degli Hellers? Non lo sapeva, e dopo qualche tempo cominciò a pensare che era partito perché così voleva il destino. Non aveva mai creduto nel destino, ma nel decidere di prendere parte a quella missione, si era sentito come spingere da qualcosa di più grande di lui. Verso sera, Erminie si accorse di avere perso la strada, e cercò di mettersi in contatto con Conn per farsela insegnare, ma non riuscì a entrare in contatto mentale con lui. Fortunatamente ritrovarono una strada battuta e giunsero in un piccolo villaggio; uno degli abitanti accettò di ospitarli e di accompagnarli, l'indomani, al villaggio vicino.
Erminie accettò, ma per buona parte della notte non riuscì a chiudere occhio, per timore che quel villaggio così "ospitale" si rivelasse per un covo di ladri e banditi che attendevano i viaggiatori per derubarli e ucciderli, come si sentiva nelle storie. Alla fine si addormentò, e l'indomani, quando si svegliò, ebbe la sorpresa di vedere che non era stato toccato niente, e si vergognò dei sospetti. Suo marito e suo figlio erano sempre vissuti tra la gente delle montagne e le avevano assicurato che erano quasi sempre persone oneste e ospitali, anche se tra loro non mancavano i malvagi... per esempio il signore di Storn! Il giorno seguente, dopo una faticosa giornata in sella, la loro guida li lasciò in un punto da cui si potevano raggiungere sia Hammerfell sia Storn, con altri due giorni a cavallo e nel pomeriggio del quinto giorno di viaggio giunsero a un bivio che Erminie ricordava bene: prendendo a sinistra si andava al castello di Hammerfell, a destra a quello di Storn, che era visibile in cima a un colle, dietro uno sperone di roccia. A quel punto, Erminie non sapeva che strada prendere: se dirigersi ad Hammerfell - che era in rovina - per cercare alleati, o se recarsi dal signore di Storn per chiedergli il permesso di curare il figlio. Lo disse a Floria, che le ricordò: «Conn diceva sempre che abitava con Markos; forse è meglio cercare aiuto presso di lui.» «Sì», rispose Erminie, «ma con Alester in mano agli Storn... Potrebbe essere in pericolo...» «Non mi avete sempre detto che la tregua per gli incendi è sacra, tra questi monti?» le ricordò Floria. «Inoltre, Alester è stato ferito mentre aiutava gli Storn a salvare le loro terre. Se Storn è un uomo d'onore, non gli torcerà un capello.» «Non mi fido dell'onore del signore di Storn», disse Erminie. «Allora, meglio non capitargli tra le mani senza farsi annunciare», rispose Floria, e perciò presero la strada per Hammerfell. Avevano fatto poche centinaia di passi, quando sentirono giungere uomini a cavallo, e, non sapendo chi fossero, si nascosero tra gli alberi a fianco della strada. Ma subito si levò un latrato che Erminie riconobbe immediatamente, e poi si udì una voce conosciuta, anche se Erminie non la sentiva da quasi vent'anni. «Signora duchessa?» «Siete voi, Markos?» «Sì, e ci sono anch'io», disse Conn, ed Erminie, con un grande sospiro di
sollievo, andò ad abbracciare il figlio. Dopo avere abbracciato la madre, Conn andò ad abbracciare Gavin e, dopo un solo istante di esitazione, anche Floria. «Non dovevate venire», li sgridò. «A Thendara non avreste corso rischi, mentre adesso, con Alester in mano allo Storn, ferito...» Erminie impallidì al ricordo di Alaric, il suo vecchio compagno d'infanzia, che era morto nel castello di Storn, dopo esservi giunto in gravi condizioni. «È grave?» ansimò. «Storn ha fatto minacce?» «Nessuna, per ora», disse Markos, «ma penso che, più tardi, non perderà l'occasione. Mia signora, sono lieto di vedere che siete viva e che state bene. Per tanti anni vi ho data per morta...» «E io ho dato per morto voi, caro amico», disse Erminie, stringendogli con affetto la mano. Poi, d'impulso, lo baciò sulla guancia, come se fosse un suo parente stretto. «Vi sono grata», gli disse, «per esservi preso cura di mio figlio per tanti anni, Markos.» «La gratitudine è mia, signora; per me, è stato il figlio che non ho mai avuto», rispose Markos. «Ma è tardi, e dobbiamo trovarvi un riparo. Tra poco nevicherà. Non abbiamo ricostruito Hammerfell perché sarebbe stato come avvertire gli Storn dell'esistenza di un superstite, ma ho a disposizione della duchessa, del vostro amico e della giovane Sapiente una casa con alcune persone che si prenderanno cura di voi.» «E l'incendio?» chiese Erminie. «Ormai è spento, dopo l'arrivo di un carro volante da Tramontana. Credo che sia stato Storn a farlo venire: da tempo, il vecchio cerca di entrare nelle grazie della Torre, neanche se fosse un Comyn!» Erminie prese la pietra matrice e dilatò la propria coscienza in modo da esaminare i dintorni; Floria, abituata a fare da monitore, estrasse immediatamente la propria pietra e tenne sotto controllo la futura suocera. «Il fuoco è spento», annunciò infine Erminie. «Resta solo qualche focolare nei punti non toccati dalla pioggia, ma la guardia antincendi li cerca e li spegne progressivamente. Per questa notte, le persone che sono venute a spegnere l'incendio dormiranno ancora nelle tende, ma domani ritorneranno a casa. Però, non vedo Alester in mezzo a loro.» «Non è nell'accampamento», spiegò Conn. «Poco fa, ha finalmente ripreso conoscenza, e le ferite gli fanno male. Le bruciature sono estese, ma non gravi.» «Dove si trova, esattamente?» «È nel castello di Storn e, a quanto posso vedere, è un ospite onorato.»
Floria ed Erminie non parevano soddisfatte, ma Conn disse: «Che alternative abbiamo, tranne quella di fidarci di lui? Non possiamo salire al castello e imporre a Storn di liberarlo immediatamente. Storn lo giudicherebbe un insulto, e probabilmente Alester non è in condizioni di viaggiare.» Erminie rifletté su quelle parole, infine disse: «Va bene. Hai detto che a casa di Markos possiamo essere ospitati per la notte? Andiamo laggiù, allora; sarà sempre meglio che dormire lungo una strada degli Hellers.» CAPITOLO 14 NEL CASTELLO DI STORN Quando Alester si svegliò, il suo primo pensiero fu di essere finito in quel nuovo genere d'inferno bruciante che aveva conosciuto lavorando nel servizio antincendi. Gli sembrava di essere legato con corde roventi, ma dopo qualche istante comprese di essere avvolto in strette fasce, impregnate di unguenti dall'odore pungente. Aprì gli occhi e vide la faccia preoccupata di Lenisia. Lentamente, anche i ricordi gli riaffiorarono: l'albero in fiamme, il tentativo di salvare la ragazza... e notò che anche Lenisia aveva la faccia arrossata da una scottatura, i capelli bruciati, un braccio al collo. La ragazza si accorse che le stava fissando i capelli e disse con fastidio: «Sì, sono orrendi, ma la Sapiente ha detto che ricresceranno subito e che la fiamma fa bene ai capelli: crescono più robusti.» «Non intendevo quello», disse Alester. «Controllavo che non foste rimasta ferita in modo grave.» «No, grave no», rispose la ragazza. «Ho una bruciatura che per una settimana non mi permetterà di fare il pane o di preparare i dolci. Perciò, se andate pazzo per la torta di more, dovrete pazientare.» Rise, e Alester rise con lei. «Allora, sareste disposta a prepararmi una torta di more, un giorno o l'altro?» chiese Alester. «Certo», rispose lei. «Ve la siete meritata, visto che non avete potuto prendere parte alla festa che organizziamo quando terminiamo di spegnere un incendio. Vi ho tenuto da parte qualche dolce e un po' di carne fredda, però, se avete fame.» Alester rifletté sulla proposta; ma aveva sete, non fame.
«No, non me la sento di mangiare», disse. «Ma sarei in grado di bere un intero barile d'acqua gelata!» «Sono le bruciature», rispose la ragazza. «Però, è meglio che beviate qualcosa di caldo.» Gli accostò alle labbra una tazza, contenente lo stesso infuso che gli aveva dato quando erano sulle linee del fuoco. Il liquido gli tolse la sete e lo aiutò ad addormentarsi, tanto che Alester si chiese se non vi avesse aggiunto qualche medicinale soporifero. «Dovete riposare», gli disse la ragazza. «C'è voluto molto tempo, prima di potervi togliere da sotto l'albero che bruciava. Alla fine l'hanno sollevato i Sapienti, con le loro pietre. Nel vedervi immobile, temevano che foste morto, e anch'io ero disperata; mio nonno ha gridato perché piangevo e non volevo staccarmi da voi, neppure per fasciarmi le scottature.» Arrossì e girò la testa dall'altra parte. «Ma non dovete stancarvi a parlare», aggiunse. «Dormite; ritornerò più tardi e vi porterò da mangiare.» Alester scivolò nel sonno, pensando a Lenisia che piangeva... per le sue ferite! Si chiese se avesse detto al nonno che adesso lui ospitava sotto il suo tetto il suo peggior nemico: quello, infatti, non poteva che essere il castello di Storn. A quell'idea, si sentì tremare, Be', pensò poi, lui non poteva fare altro che affidarsi alla tregua del fuoco, e con quel pensiero si addormentò. Quando si svegliò, vide che Lenisia era ritornata, e che con lei c'era una donna con un vassoio. Lo fecero sedere sul letto e lo imboccarono - Alester si accorse che faceva fatica a inghiottire - poi lo coprirono accuratamente con la coperta. Dietro le due donne, Alester scorse la faccia del signore di Storn. «Vi sono riconoscente, giovane Hammerfell, per avere salvato mia nipote», disse il vecchio, in tono molto ufficiale. «Mi è più cara di dieci figlie, perché è l'unica discendente che ho...» S'interruppe, e poi riprese in tono molto più amichevole: «E, credetemi, non sono un ingrato. Anche se tra noi ci sono stati molti dissapori, forse, adesso che siete mio ospite, potremmo discutere i modi per sanare le nostre divergenze.» Tacque, e Alester, che a Thendara aveva imparato l'arte diplomatica, riconobbe in quella pausa l'invito a dire una frase educata. «Credetemi, sono lieto della vostra gentile ospitalità, signore», disse allora, «e mi è sempre stato insegnato che non c'è divergenza talmente grande che sia impossibile comporla, neppure quando è tra gli dèi e non tra i
semplici uomini. Ma poiché noi siamo uomini, in genere basteranno la buona volontà e la buona fede per risolvere i punti controversi.» Storn sorrise con soddisfazione, nell'ascoltare il bel discorso. Si era tolto l'abito informe che aveva indossato per lavorare nella foresta e si era infilato anelli alle dita, si era pettinato - ma l'attaccatura dei capelli era troppo regolare, pensò il giovane; doveva essere una parrucca - e aveva una bella vestaglia di broccato, azzurra. Aveva un'aria molto dignitosa. «Me l'auguro anch'io, duca di Hammerfell», rispose. «E vi assicuro che, visto che siete disposto a dimenticare il passato, non avete nulla da temere da me. Anche se in occasione del vostro ultimo incontro con i miei uomini avete ucciso mio nipote e avete minacciato di morte pure me...» aggiunse, in tono sempre più minaccioso. Alester si affrettò a fermarlo. «Con tutto il rispetto, signore», disse, «io sono arrivato solo recentemente in queste terre. L'uomo che vi ha minacciato in modo così poco elegante non sono io, ma mio fratello minore... il mio gemello. E stato allevato dal vecchio scudiero di mio padre, nell'erronea convinzione che io e mia madre fossimo morti nell'incendio che distrusse Hammerfell, e che mio fratello Conn fosse l'ultimo superstite del nostro sangue. «Mio fratello minore ha il carattere un po' impetuoso, e temo che le buone maniere non gli siano state insegnate nel modo che sarebbe stato augurabile per un duca. Se si è comportato in modo poco riguardoso, ve ne chiedo scusa. Quanto a me, non vedo perché una faida irragionevole debba continuare per un'ulteriore generazione.» Alester si augurò di essere riuscito, con quel discorso, a tranquillizzare il vecchio nemico, e infatti Storn sorrise ancor di più. «Davvero? Allora è stato vostro fratello a uccidere mio nipote? Credendo di essere il vero duca? Dove si trova, adesso?» «L'ultima volta che l'ho visto, si trovava a Thendara, con mia madre, nella casa in cui siamo vissuti dopo avere lasciato Hammerfell. Ci siamo riuniti meno di un mese fa, e io sono venuto qui per occuparmi nel miglior modo possibile degli interessi dei nostri antichi sudditi in queste terre ancestrali.» «Siete venuto solo?» «Sì, solo; con unicamente...» all'improvviso, si ricordò di Gioiello. «Il mio cane! Ricordo che l'ho sentito abbaiare quando l'albero mi è caduto addosso. Spero che non si sia fatto male.» «La povera bestia non voleva che vi toccassimo, neppure per curarvi»,
rispose Storn. «Sta bene, sì. Volevamo metterlo nel canile, ma mia nipote l'ha riconosciuto e l'ha portato nel castello.» «L'avevo visto nella taverna», spiegò Lenisia, «e avevamo fatto amicizia, ricordate?» «Mia madre non me lo perdonerebbe mai, se succedesse qualcosa al nostro cane», disse Alester. Storn andò ad aprire la porta, e Lenisia disse: «Jarmilla, per favore, portate il cane del signore di Hammerfell.» E, rivolta ad Alester: «Vedete, è in buone mani; quelle della mia governante.» Entrò l'Amazzone che Alester aveva visto nella taverna, e condusse Gioiello tenendolo per il collare, ma, nel vedere Alester, il cane si liberò e saltò sul letto, poi si mise a leccargli la faccia. «Cuccia, cuccia», ansimò Alester, allontanando il muso del cane. «Va tutto bene, sono a posto, a terra, a terra.» Guardò Storn: «Spero che non abbia morsicato nessuno dei vostri uomini, signore», disse. Gioiello si accucciò ai piedi del letto, fissò Alester e non si mosse più. «Non credo», disse Storn, «anche se penso che se Lenisia non avesse fatto amicizia con il cane, sarebbe saltato addosso a chiunque si avvicinava; l'abbiamo portato nel castello perché continuava ad abbaiare. Ma non ha voluto mangiare niente.» «Le abbiamo offerto il cibo e la birra che davamo a coloro che hanno combattuto contro il fuoco, ma il cane non li ha voluti», aggiunse la ragazza. «Forse era troppo preoccupato per voi.» «No», disse Alester. «L'abbiamo abituato a prendere il cibo solo da me o da mia madre.» «Forse è una buona idea, forse no», commentò l'Amazzone Jarmilla. «Se capitasse qualche incidente a tutt'e due, si lascerebbe morire di fame.» «Be', è sempre stata insieme a noi», disse Alester, «e, quando si addestra un cane, di solito non si pensa alla propria morte...» «Vero», disse Stbrn, «ma c'è anche un vecchio proverbio: "Si può essere certi soltanto di due cose: la morte e la neve del prossimo inverno"; non sempre si riesce a fare progetti per i nostri cani - o per i nostri discendenti prima di essere uccisi, specialmente di questi tempi.» «Già», disse Alester, ricordandosi all'improvviso di essere davanti allo stesso signore di Storn che aveva bruciato il suo castello e ucciso suo padre quando lui aveva solo un anno. Be', non poteva che affidarsi all'onore
di Storn... e di Lenisia... e al fatto che gli ospiti erano sacri, negli Hellers. Per non pensarci, si rivolse all'Amazzone. «Vi sarei grato, magistra, se la portaste nel canile e le deste qualcosa da mangiare», le disse. Poi accarezzò Gioiello sulla testa e le disse: «Tutto a posto, puoi andare con lei; è un'amica», ripeté, prendendo la mano dell'Amazzone e posandola sulla testa del cane. «Va' con lei, capito? E mangia, capito?» Il cane lo guardò come se avesse capito veramente, e si allontanò con l'Amazzone. Lenisia sorrise. «Allora, non è come il famoso Cane degli Hammerfell, addestrato a dare la caccia a chiunque avesse il sangue degli Storn?» Alester, che non aveva mai sentito parlare di un simile cane, si chiese se fosse davvero esistito. «Niente affatto», disse. «Anche se credo che sarebbe disposto a morire per difendere me e mia madre... e forse anche mio fratello.» «Be', se non lo facesse, non so che cane da guardia sarebbe», commentò la ragazza. «Ascolta, piccola», disse il vecchio. «Chiacchiererete un'altra volta. Adesso devo parlare ad Hammerfell. Giovanotto, vorrei che pensaste seriamente agli interessi dei vostri fittavoli, come pure a quelli dei miei.» «Vi ascolto con attenzione», disse Alester. Chissà perché, non riusciva a pensare a quel vecchio come al suo arcinemico. Gli pareva assurdo mettersi a radunare un esercito per combattere contro di lui; forse, con il buon senso e la diplomazia, si poteva arrivare a un accordo. Quanto alla ragazza, Lenisia non era certamente un suo nemico. Perciò, Alester poteva ascoltare senza pregiudizi. «Questa terra è ormai consumata, e la sua coltivazione non dà più reddito», disse Storn. «Ho cercato di convincere i miei fittavoli a traslocare, ma sono più ostinati dei diavoli di Zandru; però, forse, insieme potremmo convincerli. Ormai l'unica cosa che renda è la pastorizia: abolire i campi e trasformarli in pascolo. La gente deve convincersi che è la cosa più conveniente. Nell'agricoltura non c'è più alcun guadagno. Però, riflettete sulla cosa, prima di impegnarvi. Domani ne riparleremo.» Si alzò e aggiunse: «Sentite la pioggia? Piacerebbe anche a me, starmene come voi, su un morbido letto e con una bella ragazza che mi rimbocca le coperte e mi dà un bicchiere di vino caldo prima di andare a dormire. Ma invece devo andarmene via, per controllare che nessuno abbia spostato le pietre di confine
- perché i vicini lo fanno, sapete, tregua o non tregua - e per vedere se le sentinelle vigilano oppure dormono.» «Ti aspetterò io, nonno, e ti preparerò il vino caldo», disse Lenisia. «No, va' a dormire, ragazza, hai bisogno di tutte le tue ore di sonno», le disse il vecchio, baciandola sulla fronte. «Occupati del nostro ospite, e va' a dormire presto. Domani, giovane Hammerfell, avremo nuovamente occasione di parlarci. Dormite bene.» E, con un cenno di saluto a entrambi, uscì dalla stanza. CAPITOLO 15 DOPO L'INCENDIO Ardrin, signore di Storn, uscì a piedi dal castello, e per un attimo si chiese se non fosse il caso di farsi accompagnare da uno scudiero. Poi pensò che non ce n'era motivo: faceva quelle ispezioni tutti i giorni, da quando aveva compiuto dodici anni e non aveva mai avuto bisogno di accompagnatori. Per il momento, la pioggia era ancora fine e sottile: quasi piacevole dopo le fatiche dei giorni precedenti. Storn aveva un mantello pesante che lo isolava dal freddo e dall'acqua, e, camminando, controllò quasi automaticamente ogni pietra di confine: conosceva perfettamente ogni palmo delle sue terre, quello che davano e quello che potevano dare. Giunto davanti a un campo brullo, pensò con dispiacere: In quell'appezzamento, mio nonno coltivava le mele. Adesso non ci si può più coltivare nulla: è solo buono per le pecore. L'industria della lana si estende sempre di più, a Thendara. Con l'agricoltura, nessuno di noi si è arricchito, ma forse, con le pecore, adesso può essere la volta buona. Era doloroso allontanare uomini che coltivavano quella terra da generazioni, ma non poteva tenerli laggiù, a morire di fame in terre ormai improduttive. Lasciare quei campi sarebbe stato un bene per tutti. Nelle pianure ci sono terre che attendono di essere coltivate, e in città c'è bisogno di operai nelle manifatture, che devono rifiutare il lavoro perché non trovano personale. Meglio andare a lavorare in città che rimanere inchiodati a fattorìe che non danno più nulla. Senza accorgersene, però, si era allontanato più del previsto, e adesso cominciava a nevicare. Forse gli conveniva tornare indietro. Poi, stranamente, gli parve di scorgere una luce dove, come diceva la ballata, "non ce ne dovevano essere". Andò a controllare, perché poteva
essere una fiamma dell'incendio, che era tornata a divampare. Avvicinandosi, vide che era un fuoco, acceso all'interno di una casa deserta, con la porta spalancata. La legge proibiva di lasciare dei fuochi accesi, senza sorvegliante, e perciò entrò nella casa per spegnerlo. Come aveva già notato, non c'era nessuno, solo mantelli appesi ad asciugare. Prese l'apposito secchio di sabbia e lo versò sul fuoco per spegnerlo, poi uscì. Adesso faceva davvero freddo, e Storn si chiese che cosa l'avesse spinto a uscire di sera per fare una cosa che poteva essere fatta benissimo il giorno seguente: che fosse uscito unicamente per fare colpo sul giovane Hammerfell? Pensò seriamente a tornare indietro, ma poi si ricordò che a poca distanza c'era la casa di un certo Geredd: un uomo che abitava laggiù da varie decine di anni. La casa era di quelle da evacuare, e da tempo l'uomo aveva ricevuto l'ordine di lasciarla libera, ma, a quanto sapeva Storn, era ancora lì. Perciò si diresse verso la casa di Geredd e, quando vide la lampada accesa, bussò alla porta. Venne ad aprirgli un giovane con una benda su un occhio, e con un cappellaccio che gli dava un'aria feroce - Storn non l'aveva mai visto - e che gli chiese, con sospetto: «Che cosa volete? A quest'ora, le persone dabbene dormono.» «Cerco Geredd», disse Storn. «Mi pare che questa fosse la sua casa; voi chi siete?» «Nonno», disse l'uomo, rivolto verso qualcuno che stava all'interno della casa, «c'è uno che vi vuole.» Pochi istanti più tardi, arrivò Geredd, che guardò con aria preoccupata il nuovo venuto; quando vide che era Storn, gli sorrise. «Mio signore», disse. «Voi mi rendete onore. Entrate, toglietevi dal freddo.» Entro pochi minuti, Storn era seduto su una comoda panca, davanti al fuoco, e i suoi indumenti bagnati erano stesi ad asciugare. «Mi spiace di non avere vino per voi signore; accettereste però un bicchiere di sidro caldo?» «Con piacere», disse Storn. Era stupito dell'accoglienza così cortese, da parte di persone a cui, dopotutto, lui aveva dato lo sfratto; ma in quelle persone era molto forte il legame di clan: in fondo, erano quasi tutti suoi lontani parenti, e il rispetto del capo clan era un'abitudine molto antica. Quando gli portarono il sidro, lo bevve con piacere. «Quel giovane che mi è venuto ad aprire», chiese Storn, «è vostro nipo-
te?» «È il figlio di primo letto di mio genero; non è mio parente, ma lo ospito perché non ha un altro posto dove andare; i parenti di suo padre sono andati a Neskaya a lavorare come tessitori, ma lui dice che non vuole essere un uomo senza terra e senza radici, e perciò resta qui.» Poi, con aria preoccupata, aggiunse: «Non badate a come parla; conoscete anche voi i giovani... tante parole, ma niente fatti.» «Mi piacerebbe parlare con qualcuno di quei giovani malcontenti, scoprire che cosa hanno in testa», disse Storn, e il vecchio Geredd sospirò. «È sempre fuori con gli amici», disse. «Sapete anche voi come sono i giovani, sempre convinti di cambiare il mondo. Però, non dovete ritornare al castello con questo tempo; vi daremo il mio letto, e noi dormiremo qui in cucina, davanti al fuoco. Lo facciamo sempre. C'è anche mia figlia; hanno ricevuto l'ingiunzione, ma dove possono andare? Hanno quattro bambini piccoli, e da poco mia figlia Mhari ha avuto un paio di gemelli, e io li ospito da me... che altro posso fare?» Storn cercò di protestare, ma Geredd insistette e lo portò nella camera da letto. Lui e la moglie gli diedero una camicia da notte pulita e lo aiutarono a spogliarsi, appendendo la parrucca e i vestiti ad asciugare. Gli augurarono la buona notte e si ritirarono, e Storn, cullato dal rumore della pioggia che batteva contro le finestre, si addormentò. CAPITOLO 16 GLI ORDINI DEL SIGNORE DI STORN La casa di Markos non era molto grande, ma Erminie la trovò graziosa e accogliente. All'esterno, il cielo era coperto di nubi, e in cima al colle si scorgeva il castello di Hammerfell, in quello che gli amici di Alester avrebbero definito "un artistico stato di rovina". Anzi, Gavin aveva già pronunciato un paio di volte la frase, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Markos, ed Erminie gli aveva dato una gomitata per farlo smettere. Nella stanza principale c'erano due piccoli letti, un tavolo e due sedie. Erminie andò a sedere sul letto più vicino al fuoco; Markos tirò fuori una vecchia gualdrappa e due boccali d'argento, e servì alle donne il vino. «Vorrei potervelo servire nella vostra grande sala, signora», si scusò, ma Erminie scosse la testa. «"Chi dà il meglio che possiede"», citò, «"è uguale a un re nella cortesia,
anche quando il meglio che offre è solo un covone di paglia." E qui è certo meglio che su un mucchio di paglia.» Gavin si era seduto davanti al fuoco, e Floria aveva indossato un pesante mantello e la sua tunica da monitore, perché gli altri suoi vestiti erano bagnati. Conn sedeva su una delle poltrone e Markos era in piedi a servirli. In fondo alla stanza si erano radunati alcuni uomini: quelli che avevano accompagnato Markos e Conn nell'attacco contro gli Storn; altri erano fuori della porta. Quando Markos aveva presentato loro Erminie, si erano profondamente inchinati a lei e a Conn, ed Erminie si era stupita che, dopo vent'anni, il loro legame con gli Hammerfell fosse ancora così forte. A Thendara non mi ero mai resa conto della loro esistenza, pensò. Ma adesso, con l'aiuto di re Aidan... A quel punto s'interruppe, perché, in realtà, non sapeva che cosa potesse fare. Si ricordò che quella gente era fedele a Conn, e non al loro vero signore, Alester, ma vide che Conn aggrottava le sopracciglia, come se le avesse letto nei pensieri, e perciò alzò il bicchiere e disse: «Sono lieta che tu sia ritornato nei luoghi dove sei cresciuto, figliolo. Brindiamo al giorno in cui ricostruiremo il castello per te e per Alester.» Copper guaì, ed Erminie, per la prima volta, si accorse della mancanza di Gioiello e si chiese dove fosse. Conn fissò la madre. «Per tutta la vita ho sperato di rivederti qui, madre. Questa è una notte davvero felice.» Bevve il vino e continuò: «Peccato che Alester non sia qui. Questo brindisi spettava a lui, ma presto sarà di nuovo tra noi. Intanto... Markos, chiamiamo il figlio di Jeran, che suona bene il rryl?» Si guardò attorno, ma il vecchio scudiero pareva scomparso. «Non preoccuparti», intervenne Erminie. «Lo ascolteremo un'altra sera. Questa sera ho solo voglia di riposarmi. Io e Floria siamo in viaggio da cinque giorni, e l'unico intrattenimento che desideriamo è un buon letto. Se volessimo musica, poi, ci faremmo cantare una ballata da Gavin», aggiunse, sorridendo al giovane musicista. S'interruppe, perché aveva notato degli strani movimenti; poi si rivolse a Conn: «Guarda, c'è un uomo che ti vuole parlare.» Infatti, in fondo alla sala, c'erano Markos e un altro uomo, arrivato pochi istanti prima. Conn si alzò. «Vado a vedere.» Erminie vide che si avvicinava all'uomo e che lo ascoltava con attenzio-
ne, per poi girarsi a gridare a tutti i presenti: «Uomini di Hammerfell!» Tutti si girarono verso di lui; coloro che erano fuori fecero un passo avanti. «Gli sgherri di Storn sono di nuovo in marcia! Con la pioggia, pensavate che rimanessero nei loro covili, ma vi sbagliate: sono in giro, a bruciare le case di vecchi e bambini!» Si avviò verso la porta, e gli uomini lo seguirono con entusiasmo. Dopo qualche minuto, fece ritorno Markos, il quale disse alle due donne: «Signore, scusateci, ma abbiamo una missione; andate a dormire, io e Conn ritorneremo domani.» «Certo, Markos», disse Erminie, e il vecchio scudiero, con gli occhi che gli brillavano, aggiunse: «Vedete come gli vanno dietro? Sarebbero disposti a dare la vita per il loro giovane duca!» Davanti a tanto entusiasmo, Erminie non si soffermò sul particolare che Conn non era il loro giovane duca, anche se probabilmente sarebbero stati disposti a seguire Alester con lo stesso animo. «Be', speriamo che nessuno debba morire», disse. Tutti erano usciti, tranne Markos e Gavin, che adesso, anche se era ancora intirizzito, si stava avviando verso la porta, ma Markos scosse la testa. «No, signore, qualcuno deve rimanere a difendere le donne. Se gli uomini di Storn sapessero che la duchessa è qui, brucerebbero la casa con lei dentro.» «Ho già fatto una volta quell'esperienza», disse Erminie, «e non voglio ripeterla.» Dopo che gli uomini si furono allontanati, nella stanza scese il silenzio, interrotto solo dal crepitio del fuoco e dal rumore degli scrosci di pioggia provenienti dall'esterno. Erminie terminò il vino - il vino di quelle montagne non valeva molto, ma lei non era una bevitrice - e pensò con preoccupazione sia a Conn sia agli uomini che lo seguivano così ciecamente, come se fosse il loro vero capo. «Ma lo è», intervenne Floria. «Si è guadagnato la loro devozione e l'avrà sempre, indipendentemente dalla posizione che avrà Alester.» Tuttavia, anche se non poteva che dare ragione a Floria, Erminie continuava a preoccuparsi. «Anch'io voglio bene a tutt'e due», proseguì Floria, «e sono preoccupata per tutt'e due. Conn è ancor più preoccupato di voi, per il suo rapporto con Alester. Perché, secondo voi, se n'è andato via così di corsa?»
Erminie non disse nulla e Floria continuò: «Finché tra lui e Alester non sarà tutto risolto, non vuole rimanere nella stessa stanza in cui ci sono io. Vuole bene a suo fratello e non intende tradire la sua fiducia.» Finalmente, una di loro l'aveva detto, ed Erminie trasse un profondo sospiro: entrambe avevano evitato quell'argomento fin dal giorno in cui Conn era arrivato a Thendara. E dopo il mancato fidanzamento, la situazione era andata peggiorando. «E tu, tradiresti la sua fiducia?» chiese Erminie. «No, naturalmente», rispose Floria. «Siamo cresciuti insieme, e gli ho sempre voluto bene. Poi ero lieta di pensare a lui come al mio futuro marito, ma quando è arrivato Conn, tutto è cambiato.» Erminie non sapeva cosa dire. Come sempre, non avendo conosciuto quel genere di passione, trovava difficile dare un giudizio. «È come se volessi sposarli tutt'e due», disse Floria, sul punto di piangere. «Non voglio dare un dolore ad Alester, ma ho l'impressione che la mia vita sarebbe vuota senza Conn.» Intervenne Gavin, con una delle sue battute: «Qualche secolo fa, su queste stesse montagne, la cosa sarebbe stata possibile.» Floria arrossì e disse: «Erano tempi barbari. Neppure qui, sui monti, si fanno più queste cose!» Come rinunciare a Conn, che condivideva con lei il dono del Potere? Accanto a Conn, Alester sembrava solo la sua immagine sbiadita. «Comunque», proseguì la ragazza, rivolgendosi a Erminie e cercando di adottare un tono più leggero, «in qualsiasi caso, sarò vostra figlia... a voi importa quale dei due sposerò?» «Solo se vuoi essere duchessa di Hammerfell», disse Erminie. E Floria rispose: «Preferisco avere Conn che essere duchessa». Poi, sapendo che era inutile preoccuparsi per Conn, sorrise a Gavin e gli disse: «Perché non ci canti qualcosa, prima che andiamo a dormire? Qui siamo sufficientemente al sicuro, e la Nobile Erminie è stanca.» Conn, dopotutto, aveva affidato la madre a lei a Gavin; conoscendolo, Floria sapeva che lo riteneva un onore. Non pioveva più, ma il freddo era intenso. Conn galoppava insieme con i suoi uomini, per svolgere una missione che, di momento in momento, gli sembrava meno convincente: per esempio, re Aidan dava per scontato che
il signore di quelle terre fosse anche l'arbitro del destino di coloro che vi abitavano. Forse era colpa del signore di Storn, forse era colpa del sistema, e sarebbe stato preferibile dare la terra in proprietà ai contadini, ma finché il sistema era quello, nessuno poteva impedire a Storn di comportarsi come volesse. Un grido di Markos interruppe le sue riflessioni. «Siamo arrivati troppo tardi! Gli sgherri di Storn hanno già bruciato il villaggio.» «Andiamo avanti», disse Conn, «può darsi che ci sia ancora qualcuno. E se gli hanno bruciato la casa in una notte come questa, avrà bisogno del nostro aiuto.» Prima ancora di vedere gli abitanti del villaggio bruciato, però, poterono sentire le loro voci: alcuni soldati, con la livrea degli Storn, allontanavano un gruppo di uomini, donne e bambini vestiti a metà, una giovane donna in camicia da notte con due gemelli tra le braccia, altri bambini scalzi che si tenevano accanto a lei, e un vecchio che andava avanti e indietro e stringeva i pugni e imprecava: «Dopo quarant'anni, non meritavo un simile trattamento dal mio signore!» e intanto, una vecchia, che ovviamente era la moglie, cercava di calmarlo: «Via, è quasi l'alba, e metteremo tutto a posto, vedrai...» «Ma sua signoria mi aveva promesso...» Poi Conn vide un altro vecchio che, in camicia da notte e con gli stivali ai piedi, ma senza le calze, gridava e batteva i pugni. Il giovane ascoltò il discorso tra lui e uno dei suoi uomini, che cercava di farsi raccontare come fosse andata. «Sono venuti mentre dormivamo e ci hanno cacciati fuori, sotto la pioggia, e hanno dato fuoco alla casa. Ho detto loro... ho chiesto loro di smettere... gliel'ho ordinato, e gli ho detto chi sono, ma non hanno voluto sentire ragioni...» Il vecchio era rosso in faccia come una mela. Secondo Conn, rischiava che gli venisse un colpo. «Perché, voi chi siete, nonno?» chiese con rispetto uno degli uomini di Markos. «Ardrin di Storn!» gridò il vecchio, con ira. Uno dei soldati di Storn scoppiò a ridere. «Certo, e io sono il Guardiano della Torre di Arilinn, ma questa notte possiamo fare a meno del protocol-
lo; chiamatemi solo "vostra Grazia".» «Maledizione!» gridò il vecchio. «Vi ripeto che sono Ardrin di Storn! Mi sono fermato a dormire in questa casa...» «Oh, chiudi il becco, vecchio, se non vuoi farmi perdere la pazienza!» disse il soldato. «Credi che non sappia riconoscere il mio signore?» Conn guardò meglio il vecchio. Non avrebbe mai pensato che potesse dire la verità, ma un lettore dei pensieri si accorge sempre, quando una persona mente, e le parole del vecchio sembravano sincere. Vide che il vecchio era davvero il signore di Storn, ed era una bella ironia, il fatto che fosse stato cacciato fuori di casa, di notte, dai suoi stessi soldati. D'altra parte, Conn capiva benissimo l'errore del soldato: nessuno avrebbe mai detto che quel vecchio male in arnese - con indosso una camicia da notte rattoppata - era l'uomo più potente di quella regione, dal Kadarin ad Aldaran. Conn si avvicinò a lui, gli rivolse un inchino e disse piano: «Signore di Storn, vedo che alla fine avete provato il peso dei vostri stessi editti!» Si rivolse al soldato: «Guardatelo più attentamente: un vecchio si può sempre scambiare per un altro, senza i suoi bei vestiti e la parrucca.» Il soldato osservò con maggiore attenzione. «Per tutti gli inferni di Zandru!» imprecò. «Signore; non sapevo. Mi limitavo a eseguire i vostri ordini... sfrattare la famiglia di Geredd...» Storn pareva sul punto di esplodere. «I miei ordini?» gridò. «E da quando in qua i miei ordini dicevano di cacciarli via di casa, nella tormenta?» «Be'...» disse il soldato, a disagio, «ho pensato che potesse servire come esempio, per convincere anche gli altri ad andarsene...» «Tu hai pensato?» gridò Storn. Fissò i bambini che piangevano, intirizziti. «Guardando questo spettacolo, ho seri dubbi sulla tua capacità di pensare.» Conn disse: «Lasciamo perdere, per il momento. La cosa importante è trovare un riparo per questi bambini.» Storn voleva dire qualcosa, ma Conn si stava già dirigendo verso la donna con i due neonati in braccio, e allora il vecchio si rivolse con ira al soldato: «Un'altra volta, da' retta a chi ti parla! Tornate tutti al castello. Per questa notte, avete già combinato abbastanza guai!» Il soldato fece per dire qualcosa, ma vide la faccia di Storn e preferì tacere; gli rivolse il saluto, poi si voltò verso i suoi uomini e diede loro un
secco ordine; un istante dopo, ritornavano al castello. Intanto, Conn parlava con la donna: «Due gemelli», diceva. «Anche mia madre ha fatto la stessa spiacevole esperienza... e anche lei a causa del signore di Storn, se non mi sbaglio... quando io e mio fratello avevamo un anno. Avete un posto dove andare?» La donna disse, timidamente: «Il marito di mia sorella lavora a Neskaya; per qualche tempo ci può ospitare». «Bene, allora potete andare laggiù. Markos», disse al vecchio scudiero, «metti questa donna e i due bambini sul mio cavallo, e di' a un paio di uomini di prendere gli altri bambini. Portali ad Hammerfell e trovagli ospitalità in casa di qualcuno dei nostri; poi, domani, trova un carro e falli portare a Neskaya.» Tornò a rivolgersi alla donna: «E quando sarete laggiù, che cosa farete?» le chiese. «Mio marito è un tosatore di pecore, signore», rispose la donna. «Ha lavoro tutto l'anno, ma ci hanno cacciati via di casa poche settimane fa, quando i bambini dovevano ancora nascere...» Un uomo con una grande chioma di capelli neri e scarmigliati si avvicinò a Conn e gli disse: «Il lavoro non mi è mai mancato, ma con sei bocche da sfamare non si può stare in mezzo a una strada. Non so cosa ho fatto, per essere stato scacciato così, e per ben due volte. Vorrei davvero chiedere al signore di Storn perché mi ha trattato in questo modo.» Conn glielo indicò con un cenno della testa, dicendogli: «Eccolo lì, diteglielo». Il giovane abbassò gli occhi, ma poi si rivolse al signore di Storn e disse: «Perché, signore? Che cosa abbiamo fatto, per cacciarci su una strada così? Ormai è la seconda volta.» Storn rizzò la schiena, anche se era difficile avere un'aria molto dignitosa con indosso una camicia da notte che gli copriva a malapena le gambe, anche se da qualche parte aveva trovato una coperta e se l'era messa sulle spalle. «Perché?... Come vi chiamate? So solo che siete il genero di Geredd.» L'uomo si ravviò i capelli. «Ewen, signore.» «Be', Ewen, questa terra è ormai sterile, non si può più coltivarla; va solo bene per le pecore. Ma le pecore hanno bisogno di spazio. Voi siete un tosatore, e qui ci sarà sempre lavoro per voi, ma dobbiamo abolire tutte
queste piccole proprietà e unire la terra. Mi capite? Non possono più sopravvivere trenta piccoli appezzamenti, su questa parte della collina; non danno da vivere. Mi spiace per voi, ma cosa posso fare? Se l'agricoltura non vi rende, è un danno per tutti.» «Ma io ho sempre pagato l'affitto e non ho bisogno di coltivare la terra», insistette Ewen. «Perché mi avete mandato via?» Storn arrossì e disse: «Sì, a voi può sembrare ingiusto, ma il mio amministratore dice che non si devono fare eccezioni, altrimenti finirà che tutti tireranno fuori dei motivi particolari per non andare via, e alcuni di loro non pagano l'affitto da dieci o anche da vent'anni, da prima ancora che cominciasse la siccità. Non sono un tiranno, e un anno o due d'affitto l'ho condonato a tutti, quando non potevano pagare. Ma quando è basta, è basta. Le mie terre non sono più adatte all'agricoltura, e ho deciso di non tenere più fittavoli. Non danno più profitto, e se non incasso gli affitti non posso pagare gli stipendi.» Conn fu colpito dalla logica inevitabile di quelle considerazioni. Ad Hammerfell, la situazione era la stessa, ed era indipendente dal fatto che la terra fosse del signore o dei contadini. Si ripromise di parlarne con Alester, o magari con lo stesso Storn, il quale, dopotutto, amministrava quelle terre da prima che lui nascesse. Ma ci sarebbe dovuto essere qualche sistema per tener conto dei casi speciali, e se la terra non era più adatta all'agricoltura, perché la decisione l'aveva presa il solo Storn? Non sarebbe stato meglio discuterne con l'amministratore e con i fittavoli, e decidere tutti insieme che uso farne? Storn lo fissava con irritazione. «Suppongo che siate il fratello del duca di Hammerfell. Allora siete voi quello che per tutta l'estate ha dato fastidio ai miei soldati e ha interferito con i miei ordini.» Conn disse: «Questa notte, signore, siamo arrivati troppo tardi per interferire con i vostri ordini. È un crimine dare riparo dalla pioggia a una donna e a sei bambini?» Il vecchio arrossì, ma continuò: «I vostri uomini hanno favorito l'anarchia, hanno incitato i miei fittavoli a ribellarsi contro di me». «Signore», disse Conn, «non posso averlo fatto: sono stato a Thendara tutta l'estate.» «E suppongo che non abbiate neppure ucciso mio nipote?» disse il vecchio, con ostinazione. Con stupore, Conn si accorse che, nella foga della discussione, si era dimenticato della faida.
Rispose: «Sì, nel corso dello scontro abbiamo ucciso il Nobile Rupert, ma era armato, e aveva assalito me e i miei uomini nelle terre degli Hammerfell. Non provo nessun senso di colpa per ciò che abbiamo fatto. Non sono colpevole di una faida nata prima di me; l'ho ereditata da mio padre... e, grazie a voi, signore, è l'unica eredità che mi ha lasciato». Storn lo guardò con irritazione. «Forse avete ragione», disse. «Eppure, per anni ho pensato che la faida fosse finita nel solo modo in cui solitamente finiscono le faide... quando non rimane più nessuno per continuare.» «Be', signore di Storn», rispose Conn, «non dovete preoccuparvi. Io e mio fratello siamo qui per...» Poi s'interruppe, ricordando che Alester era sotto il suo tetto. Anche Storn se ne ricordò, e disse: «Non abbiate paura per vostro fratello, è mio ospite, entro la tregua dell'incendio; ha salvato la vita all'ultimo parente che mi rimane: mia nipote. Mi sembra una persona ragionevole, e sono in debito verso di lui». S'interruppe per qualche istante, poi riprese: «Forse, dopotutto, giovane Hammerfell, questa faida è durata già troppo... siamo rimasti in pochi, sia dalla mia parte, sia dalla vostra...» «Non ho mai pensato di chiedervi misericordia», disse Conn, con ira. Storn aggrottò le sopracciglia; poi disse: «Nessuno vi accuserà di essere un codardo, giovanotto; eppure, ci sono abbastanza guai oltre i nostri confini, e forse non dovremmo avere dei nemici alle porte. Gli Aldaran e gli Hastur sono pronti a fare un boccone di noi». A Conn venne in mente re Aidan, a cui, stranamente, si era subito affezionato; eppure Storn ne parlava come se fosse un nemico di tutt'e due. Disse: «Non sono io che devo decidere se porre fine alla nostra inimicizia. Solo mio fratello può deciderlo.» Storn lo guardò e disse: «Mi sembra che voi e vostro fratello siate come la destra che non sa cosa fa la sinistra, e come quello che per andare in due direzioni ha finito per spezzarsi. Credo che, per prima cosa, tra voi e vostro fratello dovreste arrivare a un accordo. Presa la vostra decisione, io sarò pronto a negoziare sia la pace sia la guerra». «Non posso consultarmi con mio fratello, signore, mentre voi lo trattenete nel vostro castello», disse Conn. «Come vi ho detto, è mio ospite, non mio prigioniero. È libero di partire in qualsiasi momento, ma sarei un pessimo padrone di casa se lo lasciassi uscire prima di essere guarito. Se volete vederlo, né io né altri vi torceran-
no un capello... e scoprirete che la mia promessa vale quanto quella degli Hastur.» Storn aveva ragione: era il momento di chiarire tutto con Alester. Era contrario alla natura di Conn fidarsi di uno Storn, ma il vecchio Storn l'aveva colpito con la sua franchezza. «Accetterò il vostro salvacondotto», disse, «e andrò a parlare con mio fratello.» Storn chiamò uno dei suoi uomini. «Portate al castello il giovane Hammerfell», disse, «e assicuratevi che non gli succeda niente di male. Potrà ripartire quando lo desidera, sulla mia parola d'onore.» Conn gli rivolse un inchino, poi si girò per cercare il cavallo, e solo allora si ricordò di averlo prestato alla madre dei due gemelli. Be', era giovane e poteva fare un po' di strada a piedi, e non pioveva più. Si avviò di buon passo in direzione del castello di Storn, e solo dopo avere perso di vista il vecchio gli venne in mente di chiedersi dove sarebbe andato a dormire, il signore di Storn, per il resto della notte. CAPITOLO 17 ALESTER E CONN Dopo l'uscita del signore di Storn, Alester e Lenisia rimasero a lungo in silenzio, forse perché il giovane pensava che non avevano molto da dirsi: lui era fidanzato a un'altra, e Lenisia era la nipote del suo peggior nemico. Si chiese se era il caso di parlarle di Floria, ma poi pensò che sarebbe stato presuntuoso da parte sua imporle quel genere di discorsi. Avrebbe voluto parlarle di se stesso, ma anche in questo caso la buona educazione vietava di farlo con una donna che non era la propria fidanzata. Alla fine, fu Lenisia a rompere il silenzio, per ricordargli che doveva dormire, se voleva che le bruciature gli guarissero. «Adesso non sento dolore», disse Alester. «Sono lieta di sentirvelo dire, ma non siete ancora in grado di camminare e di cavalcare», gli ricordò Lenisia. «Dovreste dormire.» «Ma non ho affatto sonno», protestò Alester. «Mi spiace, ma sarebbe davvero meglio che dormiste. Volete che vi faccia dare un sonnifero da Jarmilla?» «No, non preoccupatevi», disse Alester, soprattutto perché non voleva che la ragazza andasse via.
Per tutto il tempo, il cane era rimasto immobile a sedere sul pavimento, limitandosi a muovere le orecchie quando sentiva la voce di Alester. Ora cominciò a uggiolare: si alzò e si diresse verso la porta. Alester aggrottò la fronte e sgridò l'animale: «A cuccia, Gioiello! Che cos'hai? A cuccia!» ordinò, ma il cane continuò a uggiolare e a camminare avanti e indietro. «Avrà bisogno di uscire», disse Lenisia. «Volete che la porti a fare un giro? O la può portare Jarmilla», suggerì. Il cane continuò a piagnucolare accanto alla porta; come se l'avesse sentito, dopo qualche istante entrò Jarmilla. «Signorina...», disse, e poi s'interruppe. «Che cos'ha il vostro cane, signore?» Poi continuò, alzando la voce, per farsi capire tra gli uggiolii dell'animale. «Fuori», disse, «c'è un giovanotto, che dice di voler vedere il duca di Hammerfell. A giudicare dalla faccia, deve essere un vostro parente stretto.» «Dev'essere mio fratello Conn», disse Alester. «Ecco cos'aveva il cane, naturalmente. Tra l'altro, non mi aspettavo che mio fratello fosse qui; lo credevo a Thendara.» S'interruppe. «Posso chiedervi il permesso di riceverlo, damigella?» «Fallo entrare», disse Lenisia, rivolta all'Amazzone, la quale storse il naso, ma andò ad aprire a Conn, seguita dal cane. Dopo un attimo, Gioiello ritornò nella stanza, saltando attorno a Conn, che era bagnato fino all'osso, perché nell'ultima ora si era rimesso a piovere. Nel guardarlo, a Lenisia scappò un risolino. Disse: «È certo la prima volta, da quando esiste il castello di Storn, che abbiamo sotto il nostro tetto non uno, ma due duchi di Hammerfell. Be', suppongo che ciascuno di voi sappia chi è l'altro, anche se io non riesco a distinguervi. Qual è quello che ho visto nella locanda di Lowerhammer, e che mi ha costretto a rinunciare a un bicchiere di vino caldo e miele?» «Io», disse Alester, seccato dalla domanda. «Avreste dovuto riconoscermi dal cane», aggiunse. «Davvero?» fece Lenisia. «Non avete visto quante feste ha fatto a vostro fratello, come se fosse il suo vero padrone?» chiese la ragazza. Poi, nel vedere che Alester aggrottava la fronte, aggiunse: «Be', non potete sgridarmi se non vi distinguo l'uno dall'altro, visto che neppure il vostro cane riesce a farlo.»
Irritato con il cane per quella sorta di tradimento. Alester ordinò: «A cuccia! Giù!» «Non prendertela con il cane», disse Conn. «Non ha fatto niente di male. Ma di tutti i posti dove mi sarei aspettato di trovarti, fratello, questo è proprio l'ultimo: al calduccio sotto il tetto di Storn, mentre lo stesso Storn continua a cacciare fuori di casa, al vento e alla pioggia, la povera gente.» Alester aggrottò la fronte e disse: «Ti credevo a Thendara, a prenderti cura di nostra madre. L'hai lasciata sola, senza nessuno a proteggerla?» «Nostra madre ne ha a sufficienza, di persone che desidererebbero proteggerla», rispose Conn, «ma adesso è qui, al sicuro, e con lei c'è Floria. Quando abbiamo saputo che eri ferito e che eri in mano allo Storn, pensavi che rimanessimo a Thendara con le mani in mano?» «Be', sì», rispose Alester. «Dopotutto, qui non corro nessun pericolo; il signore di Storn è stato molto cortese con me: un ospite perfetto.» «Oh, lo vedo», disse Conn, lanciando un'occhiata a Lenisia. «E nell'ospitalità rientra anche la nipote?» Alester aggrottò la fronte e disse che la damigella si era gentilmente prestata a fargli da infermiera, e Conn gli lesse anche quello che non aveva voluto dire a voce: Questo mio fratello rimarrà sempre uno zoticone, con la stessa conoscenza del tatto e delle buone maniere che può avere il suo cane. Conn disse: «Comunque, devo parlare con te; possiamo pregare la damigella di lasciarci soli?» «Non abbiamo niente da dirci che non possa essere detto alla sua presenza», rispose Alester. Guardò la ragazza: «Perciò, Nobile Lenisia, vi prego di rimanere». In realtà, e solo allora lo ammise a se stesso, Alester desiderava averla vicino. E Conn, che glielo lesse nel pensiero, disse seccamente: «E Floria? Ti aspetta con nostra madre, mentre tu non riesci a staccare gli occhi da una Storn.» «Proprio tu mi vieni a dire queste cose, che non riesci a staccare gli occhi dalla mia fidanzata?» ribatté Alester, altrettanto seccamente. Pensavo che Alester fosse privo di Potere, si disse Conn. Eppure, me lo ha letto nei pensieri... oppure, la cosa è davvero tanto appariscente? continuò, con un profondo senso di colpa. Poi tagliò corto: «Fratello, non ho voglia di litigare con te. Ho parlato con il signore di Storn, e penso che anche tu lo abbia incontrato. Comunque, spetta a te
chiamare gli uomini che ci sono fedeli, perché re Aidan...» s'interruppe, per non discuterne davanti a Lenisia. La ragazza però aveva capito. «È la guerra, allora?» chiese ad Alester. «Avevo sperato, quando vi ho visto parlare così ragionevolmente con mio nonno, che si potesse trovare il modo di porre fine a quella lunga ostilità...» Conn intervenne: «Ecco perché volevo che la ragazza ci lasciasse soli. Con la sua presenza, influenza le nostre decisioni», disse con ira. Alester ribatté: «Si vede proprio, fratello mio, che sei cresciuto nelle montagne. In tutte le parti civili del mondo, le donne dicono la loro, perché dopotutto sono cose che le riguardano. Negheresti a nostra madre, che è un tecnico delle Torri, di partecipare a una discussione come questa?» «Non è per il fatto che è una donna», ribatté Conn, «ma perché è una Storn!» E Lenisia ribatté: «È proprio per questo, che mi riguarda. Io sono l'altra metà dell'antica faida. L'ho ereditata come l'avete ereditata voi; come posso sedere tranquilla ad ascoltare le decisioni di altri? Ho tutti i diritti di intervenire!» Conn disse: «Damigella, io, semplicemente, volevo...» «Volevate discuterne tra uomini, lo so», disse Lenisia, con irritazione. «Almeno, vostro fratello ammette che il mio interesse è legittimo e che non mi devo riparare, tutta tremante, dietro le decisioni di un tutore o di un marito...» «Damigella», disse Conn, cercando di alleggerire l'atmosfera, «non sapevo che foste una delle Sorelle della Spada!» «Non lo sono, ma questa faida riguarda me ancor più di mio nonno. Lui è vecchio, e qualunque cosa decida, lo riguarderà solo per un certo numero di anni, mentre io, e i miei figli, quando ne avrò, dovremo dipendere da quelle decisioni per tutta la vita.» Conn chiese: «Allora, damigella, dobbiamo trattare con voi invece che con vostro nonno?» «No», rispose Lenisia, «non prendetemi in giro. Voglio solo dire che mi sembra giusto poter far ascoltare la mia opinione.» «D'accordo», rispose Conn. «Allora, cosa pensate della faida? Intendete continuarla per altri cent'anni, visto che i nostri antenati erano nemici?» Lenisia strinse i pugni. Poi, dopo qualche istante, disse: «Preferirei non pensare ad Alester come a un nemico. E neanche mio nonno nutre ostilità verso di voi. Che cosa volete voi, Hammerfell?»
Alester le prese la mano. «Anch'io preferirei avere la vostra amicizia, Lenisia. Forse ci può essere il modo di fare la pace.» E, rivolgendosi al fratello: «Adesso, se vuoi, chiamami pure traditore degli Hammerfell!» «No», disse Conn. «Forse l'antica faida non ha più ragione di essere. Una cosa in particolare mi ha colpito, tra quelle che mi ha detto il signore di Storn: che i nemici esterni sono tanti, e i clan delle montagne non dovrebbero più litigare tra loro. Ha detto che Hastur e Aldaran sperano di impadronirsi di noi, e che sarebbe meglio unirci. Mi è difficile pensare a re Aidan come a un nemico...» «Ha promesso di darci i suoi soldati per riconquistare Hammerfell», terminò Alester. Lenisia si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. «Ah, sì?» disse poi, con ira. «E con che diritto vuole interferire quassù? Non voglio che queste montagne diventino un ennesimo feudo degli Hastur, che sembrano decisi a estendere il loro regno da Temora al Muro Attorno al Mondo!» «Non conoscete re Aidan», disse Conn. «Non mi pare che nutra ambizioni personali: vuole solo la pace e l'ordine, e odia le piccole guerre che per tanto tempo hanno imperversato nei Cento Regni.» «E quando tutti saranno sotto gli Hastur», chiese Lenisia, «che cosa succederà agli uomini come mio nonno?» «Per saperlo», rispose Alester, «bisognerebbe mettere lui e il re Hastur l'uno davanti all'altro, e chiederglielo personalmente.» «Forse, la cosa si potrebbe fare», intervenne Conn, «quando re Aidan verrà qui. Ma noi ci siamo impegnati a radunare uomini per combattere contro Storn, in modo che il re possa intervenire, con la scusa di bloccare un'intervento da Aldaran.» «Ma perché dobbiamo avere qui tra noi i soldati degli Hastur, se possiamo metterci d'accordo tra noi?» chiese Alester. «Secondo me, il pericolo principale viene da Aldaran, e non dai re delle pianure, neppure dagli Hastur.» Lenisia disse: «Io non conosco molto bene queste cose, ma mi sembra che ci sia un vecchio trattato che ci impedisce di fare accordi tra noi senza il beneplacito degli Hastur. Risale al regno di Geremy I di Asturias». «Allora», disse Alester, «il problema sembra quello di far venire qui Aidan senza l'esercito.» «Sì», disse Lenisia, «ma come convincerlo a venire qui in pace? Se vuo-
le venire a fare la guerra...» «Non credo che voglia fare la guerra», disse Conn. «La mia impressione è che la considerasse una sgradevole necessità, ma che sarebbe stato lieto di evitarla.» «C'è un'altra cosa ancora», disse Alester. «Forse potrebbe accettare di venire, ma come assicurargli che non intendiamo attirarlo in una trappola?» «Semplice», disse Lenisia. «Potrà portarsi tutte le guardie del corpo che desidera, la sua guardia d'onore o quello che vuole, ma non un esercito che rovini le campagne dove passa e che consuma il cibo dei contadini, che non ne hanno neppure per sé.» «Un momento», disse Conn. «Prima di fare troppi progetti, vi ricordo che con re Aidan si è parlato solo di un aiuto militare, e non si è mai parlato dell'eventualità che lui venisse ad Hammerfell.» «Allora, bisogna convincerlo», disse Lenisia. «Voi che siete sempre stato a Thendara, o forse vostra madre, non conoscete nessuno che goda del favore del re, o di qualcuno della famiglia reale?» Alester disse: «Il cugino del re, Valentine Hastur, vorrebbe sposare nostra madre... ma non so se lei è disposta a usare in quel modo la propria influenza.» «Il mio più caro amico è figlio adottivo della regina», disse Alester, «ma è a Thendara e non so se...» «Se parli di Gavin», intervenne Conn, «è venuto con noi e adesso è in casa di Markos. Se non ha il favore del re, ha certamente quello della regina», continuò, «ma la regina ha avuto un nuovo attacco ed è sorvegliata continuamente da un monitore della Torre e non può affaticarsi.» A quella notizia, tutti rimasero in silenzio, riflettendo sulla nuova piega che avevano preso gli avvenimenti. Nel silenzio, l'Amazzone Jarmilla venne ad aprire la porta. «Signorina», disse, «vostro nonno aveva ordinato che andaste a dormire presto, ma invece vi siete messa a parlare; quante persone arriveranno ancora, chiedendo di essere ricevute dai vostri ospiti?» «Non aspettavo nessuno», disse Lenisia, con aria innocente, «ma se non è una banda di mercenari armati, falli entrare.» Scuotendo la testa, Jarmilla andò ad aprire. Entrò Gavin Delleray, bagnato come un pulcino e con i riccioli appiccicati sulla fronte. «Alester, caro amico! Mi è successa una cosa straordinaria. Dormivo in
casa di Markos, quando mi sono svegliato all'improvviso; sognavo di trovarmi nella sala del trono di re Aidan, e che il re mi ordinava di venire immediatamente - immediatamente, badate bene, con questo tempo - per controllare le tue condizioni di salute.» Rivolse un inchino a Lenisia e a Jarmilla. «Sul mio onore, magistra, non intendo fare niente di male agli abitanti di questo castello», disse. «Sono un musicista, non un soldato.» Davvero? pensò Conn. Mi ero chiesto perché insistesse tanto per venire con noi. Dovevo immaginarlo: Aidan ha voluto tenere d'occhio il nostro viaggio. Gavin, però, non ne era al corrente: credeva che l'avesse mandato la voce del "destino". Alester e Lenisia dovevano essere giunti alla stessa conclusione, perché si scambiarono un'occhiata significativa. «Scusatemi», terminò Gavin, «ma lasciate almeno che mi asciughi davanti al fuoco, prima di coinvolgermi nei vostri intrighi.» Lenisia gli sorrise. «Vi deve avere mandato un angelo», disse. «O siete voi un angelo?» L'Amazzone Jarmilla fece una smorfia. «I cristiani di Nevarsin dicono che gli angeli si possono incontrare nei luoghi più impensati», disse. «Ma è certamente la prima volta che un dio in vena di umorismo manda un messaggero con i capelli tinti di viola.» Gavin la fissò a occhi sbarrati. «Io? Un angelo? Signore della Luce, dovevi essere davvero a corto di messaggeri! Spiegatemi che cosa sta succedendo.» Alester si rizzò a sedere, e gettò una coperta all'amico. Disse: «Siediti accanto al fuoco e asciugati i vestiti; e chissà se si può convincere la nostra dama Jarmilla a portarti qualcosa di caldo da bere? Se ti venisse una polmonite, non potresti più aiutarci.» Jarmilla gli versò un bicchiere di tisana, prendendola dal bricco che bolliva sul fuoco. «Quando sarai asciutto», disse Alester, «potrai aiutarci a impedire lo scoppio della guerra. E forse», concluse con un sorriso, «una volta che tutto sarà finito, potrai comporre una ballata su quel che è successo.» CAPITOLO 18 IL PATTO Continuarono a discutere di come Gavin dovesse parlare a re Aidan, in
modo da convincerlo a venire con solo la sua guardia personale per comporre la faida tra Hammerfell e Storn. «Eppure», fece osservare Lenisia, «potrebbe essere l'ultima cosa desiderata dal re Hastur, perché, se c'è pace negli Hellers, non può trovare scuse per annetterli al suo regno.» «Lo dici perché non conosci Aidan», rispose Conn. «Se lo conoscessi, ti fideresti di lui.» «Può darsi», disse Lenisia, «ma, se Aidan ha i poteri mentali degli Hastur, e può leggere a qualsiasi distanza i pensieri degli altri, potrebbe convincermi a diventare suo vassallo con la forza di persuasione dei suoi poteri mentali, e non con la ragione.» Fu Alester a rispondere, perché Conn - anche se ne avevano avuto una prova poco prima, con il caso di Gavin costretto ad alzarsi in piena notte per correre da loro - non aveva mai pensato a quell'aspetto del Potere. «Non posso parlare per il re, ma nostra madre era una Sapiente fin da prima che nascessimo, e poi è sempre stata nelle Torri; ebbene, se fosse stata in grado di costringere all'obbedienza una persona, per primo avrebbe costretto me a obbedirle. Comunque, so che il giuramento fondamentale dei Sapienti è di non entrare nella mente di un'altra persona, tranne che per guarirla o per aiutarla.» «Sì, lo sapevo anch'io», rispose Lenisia. «Ma chi può dire che cosa comprendano i termini "guarire" e "aiutare", per uno degli Hastur... per uno dei re stregoni!» Nel sentirla parlare così, Alester rivolse a Lenisia un tale sguardo innamorato, che Conn non poté fare a meno di dirsi: Rinuncerebbe a Floria per lei, e rinuncerebbe all'onore degli Hammerfell per una pace da codardi. Per un Hammerfell, la guerra è rimasta il solo onore; in cambio, che cosa ci ha offerto lo Storn? Non si è ancora neppure parlato di ricostruire il castello di Hammerfell. Cercò di guardare Lenisia con gli occhi di suo fratello, ma gli parve una delle tante ragazze che aveva conosciuto alle feste del raccolto. Carina, sì, e nobile, ma niente di paragonabile con Floria, che oltre a essere bella e nobile, e ad avere una classe che Lenisia non possedeva, era una Sapiente delle Torri. Rispetto a Floria, Lenisia poteva forse vantare il fascino della semplicità. O forse aveva altre virtù che Conn non conosceva ancora? Solo col tempo, si disse, avrebbe potuto saperlo. Per il resto della notte, Conn dormì su una poltrona, nella stanza di Ale-
ster. Gavin si trovò un posto accanto al fuoco, sopra un materasso; Lenisia si ritirò nella propria stanza, e l'Amazzone portò un pagliericcio nel corridoio, lo mise davanti alla porta della ragazza e dormì lì, per cautelarsi da eventuali movimenti illeciti dalla e nella camera della ragazza. Conn venne svegliato dal fratello, poche ore dopo. Era già mattino, e aveva preso a nevicare. «Prendi il tuo cavallo», gli disse. «È nella scuderia degli Storn. Riportalo a casa di Markos, perché dobbiamo avvertire nostra madre dei nuovi progetti. E io non sono ancora in grado di muovermi.» «Oltre al fatto che, a causa della presenza di Lenisia, non hai voglia di muoverti», disse Conn. «Non dovresti lamentarti, proprio tu», ribatté Alester, «perché così potrai avere Floria... credi che non mi sia accorto di come l'hai guardata fin dal primo momento che l'hai vista?» «Certo, dato che, come vedo ora, l'ami meno di quel che dovresti», ribatté Conn. «Non è vero», disse Alester. «Io l'amo. La conosco da quando avevamo sette anni. Fino a oggi, non ho mai avuto altro desiderio che sposare Floria...» «Allora, perché hai cambiato idea? Pensi che ti convenga sposare la giovane Storn per ragioni politiche?» «Comincio a pensare», disse Alester, «che tu non voglia mettere fine alla faida.» «Una fine onorevole, certo», disse Conn, «con la restituzione delle nostre terre e l'assicurazione che la nostra gente non subirà nuove molestie. A te, forse, non importa della nostra gente, ma io sono vissuto sempre con loro, e l'onore mi impone di occuparmene. Credi di poterlo fare sposando una Storn?» «Non è una», esclamò Alester. «Lei e il vecchio Storn sono gli unici rimasti. Una volta che Storn fosse morto e che Lenisia fosse sposata a un Hammerfell, la faida si spegnerebbe naturalmente.» «Pensi di uccidere il nostro ospite, allora?» chiese Conn, ironicamente, ma in quel momento si svegliò Gavin, che, con uno sbadiglio, chiese: «Che cosa avete da litigare, questa volta?» Si passò la mano tra i capelli. «Che ora è? Dev'essere l'alba!» «Conn mi accusa di voler uccidere Storn nel suo stesso castello», disse Alester. «Che cosa vuoi saperne di onore», ribatté Conn, «tu che ti sei dimentica-
to di essere fidanzato con Floria?» Ma Alester, invece di ribattere, aggrottò la fronte. «In realtà», disse, «io non sono fidanzato con Floria. Mi spiace per la malattia della regina Antella, ma, a causa del suo collasso, la cerimonia di fidanzamento non ha avuto luogo.» Conn disse, pensieroso: «E, degli ospiti di quella sera, quanti sapevano esattamente a quale di noi due era stata promessa Floria?» Gavin sembrava divertito. «Sarebbe un modo tradizionale di mettere fine alla faida: le due famiglie unite da un matrimonio, come nelle ballate! Dovreste parlarne tutt'e due con Floria, ma credo che anche lei preferirebbe che la faida finisse. Dopotutto, se sposasse Alester e la faida continuasse, rischierebbe di perdere i propri figli. C'è però un particolare di cui non si è ancora parlato: il signore di Storn; è disposto a dare il suo consenso?» Alester alzò le spalle. «Bisognerà chiederlo a lui», disse. In quel momento, la porta si aprì. Entrò il signore di Storn, che chiese: «Chiedermi che cosa?» Che abbia il Potere? si chiese Conn. «Certo, ragazzo», gli rispose il vecchio. «Gli Storn l'hanno sempre avuto. Gli Hammerfell no?» Non attese la risposta, e aggiunse, rivolto ad Alester: «Dunque, vorreste sposare mia nipote, allora? Per prima cosa, perché non mi parlate della vostra fidanzata, quella che attualmente è al villaggio, con vostra madre?» «La Nobile Floria», disse Alester. «Be', vedete, signore, siamo lontani parenti, e ci conosciamo fin da quando eravamo bambini. Perciò, quando mi è stato proposto di sposarla, ho accettato. È una ragazza incantevole. Ma poi ho conosciuto Lenisia... e mi sono innamorato.» «Davvero?» disse il signore di Storn, pensieroso. «La cosa è molto bella per i primi mesi, giovanotto, ma poi? Io non ho mai dato molta importanza a questi discorsi di amore e innamoramento. Un bel matrimonio combinato dai genitori è molto meglio: in quella maniera, nessuno si fa delle speranze troppo irrealistiche.» Aggrottò la fronte, poi riprese: «Comunque, Lenisia dovrà pur sposarsi, se non voglio che il mio sangue si estingua. Aldaran di Scathfell me l'ha chiesta per suo fratello, ma per adesso non gli ho dato nessuna risposta. Ci rifletterò, comunque.» Guardò Gavin, ancora seduto accanto al fuoco. «Non ci conosciamo, mi pare.»
Gavin si alzò subito in piedi, e Alester fece le presentazioni. «Voi siete il cugino del re Hastur, vero?» «Solo cugino d'acquisto, signore», disse Gavin, rispettosamente. «E vorreste farlo venire qui per parlare a tutti noi?» «Se siete d'accordo anche voi, signore», disse Gavin. «Non voglio che re Aidan corra pericoli.» «C'è sempre pericolo, qui sui monti», disse Storn, scuotendo la testa. «Se non ci sono faide, e se non si incappa in un'incursione di banditi, c'è il rischio di incontrare gli Aldaran, venuti a ingrandire il loro territorio. Ma vi do la mia parola che il vostro re non corre pericoli da parte mia. Sarò lieto di parlare con lui, se avrà voglia di venire.» Guardò il materasso su cui si era steso Gavin, e aggrottò la fronte. «Lenisia!» gridò. Pochi istanti più tardi, Lenisia arrivò di corsa. «Sì, nonno?» Il vecchio indicò il materasso. «È questa l'accoglienza che diamo a un ospite? Fa' preparare una stanza per il Nobile Gavin, e un'altra per la signora di Hammerfell e la sua accompagnatrice.» «Nostra madre e Floria vengono qui?» chiese Conn. «Visto che siete già tutt'e due sotto il mio tetto, perché non far venire anche loro?» chiese Storn. «Non penserete che la casa di un contadino sia il posto adatto a ospitare vostra madre e la vostra promessa moglie... o la promessa moglie di Alester... o di chiunque lo è! Ho già dato ordine di invitarle a venire qui. «Poiché abbiamo molte cose da discutere», continuò, «è meglio discuterle in un posto accogliente. Per il momento, ne ho abbastanza di stare fuori all'addiaccio. Vieni», disse a Lenisia, «prepariamoci ad accogliere i nostri ospiti.» «Fare il giro dei confini è davvero così brutto?», chiese Alester, quando Storn fu uscito, e Conn capì che non sapeva del villaggio bruciato. Spiegò brevemente ad Alester la situazione e pensò: Forse, può essere un bene che Alester sposi Lenisia. Almeno, lei conosce le abitudini degli Hellers, e può indurlo a seguirle. «Pensi davvero che nostra madre e Floria potranno essere al sicuro, qui?» chiese Conn. «Non preoccuparti per Floria», rispose Alester. «Lei non c'entra, nella faida.» «La Nobile Erminie dovrebbe essere al sicuro», intervenne Gavin. «Re
Aidan sa che siamo qui, e non permetterà che ci facciano del male. Non dobbiamo preoccuparci.» La considerazione di Gavin fece tacere i gemelli; non conoscevano un difensore più forte del re Hastur. Conn ritornò al villaggio posto sotto le rovine del castello e passò il resto della mattinata a prendersi cura del cavallo. Nel pomeriggio accompagnò al castello di Storn Erminie e Floria. Con sollievo, vide che Erminie e Lenisia fecero subito amicizia; anzi, la riunione cui presenziarono tutti, quella sera, fu un modello di armonia. Lenisia deve avere parlato con Storn, pensò Conn, divertito. Sembra che l'idea di sposare Alester la trovi d'accordo. E anche Floria doveva avere notato qualcosa, perché si sedette accanto a Conn: probabilmente, Gavin le aveva riferito i discorsi del mattino. Fu la stessa Floria, poi, a porre la domanda, chiedendo senza preamboli, quando si furono trasferiti nella serra: «A quanto mi pare di capire, Alester, non hai più intenzione di sposarmi.» Alester fece la faccia stupita, e Conn pensò, divertito: Neanche a Thendara, con tutta la loro etichetta, hanno ancora trovato qualche maniera graziosa ed elegante per piantare la fidanzata! «Ho il più grande rispetto per te, cara cugina...» cominciò Alester, ma Floria lo interruppe: «Non fa niente», disse. «Intendevo liberarti dalla tua promessa, che, dopotutto, non è mai stata resa ufficiale. E volevo dirlo davanti a tutti.» «Allora», disse Alester, sorridendo, «preferisci essere mia cognata?» Tutti guardarono Conn. «Sì», disse questi, al settimo cielo. «Se Floria accetta, è la cosa che desidero di più.» Floria sorrise. «Anch'io.» «E adesso, io dovrei dire che do il permesso a mia nipote di diventare duchessa di Hammerfell?» brontolò Storn, che, ovviamente, stentava un poco a mandar giù la cosa. «Naturalmente, preferirei sposarla con il vostro consenso, signore», disse Alester, educatamente. «E senza di esso? Intendete dire che, consenso o no, la sposereste lo stesso?» Si voltò verso Erminie e le disse: «Avete allevato proprio un bel figlio, signora! Che cosa ne dite?»
Erminie abbassò per un attimo la testa, poi fissò Storn negli occhi. «Signore», disse, «mi sembra che questa faida sia già durata fin troppo. Non ci sono stati abbastanza morti, da tutt'e due le parti? Se mio figlio vuole sposare vostra nipote, io mi rallegro perché potremo mettere la parola fine a questa ostilità, e vi giuro che Lenisia sarà come una figlia per me.» «Se ora non dicessi anch'io le stesse cose», disse Storn, in tono burbero, ma battendo gli occhi per la commozione, «farei la figura dell'orco. Voi andrete a radunare contro di me tutta la marmaglia che trovereste, e poi arriverà di rincalzo il re Hastur con il suo esercito, e ci saranno distruzioni e incendi per tutta questa terra... e poi, una volta morto io, vi prendereste lo stesso la ragazza.» «Messa in questi termini», disse Gavin in tono pacato, «non mi sembra una grande alternativa. Ma dobbiamo proprio metterla in questi termini? Invece della parte dell'orco, potreste assumervi quella dell'eroe che mette pace.» «Anche questa non è una grande alternativa», disse Storn, aggrottando la fronte. «Mio padre si rivolterà nella tomba. Be', lui non si è mai preoccupato eccessivamente di fare quel che piaceva a me, e non vedo perché dovrei fare quel che piace a lui. Personalmente, diffido dei matrimoni per amore, ma voi siete qui, signora, a parlare per vostro figlio, e io dovrò dare mia nipote a qualcuno, prima o poi, suppongo.» Guardò Lenisia e continuò: «Bene, ragazza, se vuoi sposarlo, non sarò io a oppormi. Meglio fare un solo regno di Storn e Hammerfell che farli conquistare tutt'e due da Aldaran. Tu sei d'accordo?» La guardò con aria feroce. «Non lo accetti solo per ragioni sentimentali o altre sciocchezze del genere? Be', se vuoi, puoi sposarlo», concluse. «Oh, grazie, nonno!» esclamò lei, abbracciandolo. Alester si alzò e gli tese la mano. «Grazie, signore.» Inghiottì a vuoto. «Non so dirvi quanto vi sono grato. Possiamo dare il vostro nome al nostro primo figlio?» disse, arrossendo. «Ardrin di Hammerfell? Anche mio nonno, adesso, si rivolterà nella tomba, ma... fate così, se volete.» Storn cercava di non mostrare la propria gioia. Per un attimo, prese la mano di Alester. «Ma ricordatevi di trattarla bene, giovanotto, anche dopo che svanirà questa infatuazione iniziale.» «Ve lo giuro, signore», disse Alester, e Storn sorrise, come se quella promessa fosse davvero la cosa più importante. «Be', questa è fatta», disse il vecchio. «Adesso, penso che sia meglio
comunicarlo al vostro re. Ditegli che gli offro la mia ospitalità, ma che al castello posso accogliere solo una trentina delle sue guardie.» Gavin annuì. Si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi. «Non ha bisogno della pietra matrice?» chiese Storn. «Non ce n'è bisogno, per mettersi in contatto con l'Hastur», rispose Erminie. Alester si chiese fino a che punto giungesse il Potere degli Hastur, ma nessuno degli altri parve stupirsi della cosa; tutti rimasero a sedere in silenzio, in attesa che Gavin aprisse gli occhi. Dopo circa dieci minuti, il giovane li riaprì e bevve un sorso di vino. «Sarà qui tra dieci giorni», riferì. «La regina Antella sta meglio del previsto, e non corre più pericolo. E poiché lui ha cancellato tutti gli appuntamenti per stare con lei, nessuno si accorgerà della sua assenza. Partirà domani, con venti guardie, e verrà direttamente al castello di Storn.» «Benissimo», disse il vecchio. «Lenisia, prepara tutto per la visita di Sua Maestà.» «Vi aiuterò, se lo permettete», disse Floria, sorridendo a Lenisia. Lei esitò per un istante, poi le sorrise a sua volta. «Ve ne sarò riconoscente», disse. «Non conosco il giusto protocollo per ricevere un Hastur... cognata.» «Oh, non abbiate paura», disse Floria. «Re Aidan è l'uomo più gentile che ci possa essere; dopo mezz'ora passata insieme, comincerete a pensare a lui come al vostro zio preferito, e vi darà l'impressione di averlo conosciuto fin da quando eravate bambina. Non è vero, Gavin?» CAPITOLO 19 L'ESERCITO DI SCATHFELL Conn provava una strana inquietudine all'idea della visita da parte di re Aidan e della fine della faida, come se tutto, fino a quel momento, fosse andato troppo bene, e da un momento all'altro dovesse succedere qualcosa di brutto. Lo disse a Gavin, un giorno che cavalcavano nei dintorni di Hammerfell per controllare le condizioni dei vari villaggi, e il giovane musicista gli sorrise e commentò: «Capisco quel che intendi dire. Se questa fosse una ballata, ora dovrebbe esserci qualcosa di negativo, come per esempio una grande battaglia, allo scopo di arrivare poi a un finale soddisfacente.» «Be', spero che non sia così», rispose Conn. «A proposito, come stanno
re Aidan e la regina?» Gavin, che si era messo tutti i giorni in comunicazione con il re, disse: «La regina è al sicuro, con Renata che si prende cura di lei. Ha ancora il braccio paralizzato, ma la paralisi non dovrebbe essere permanente. Quanto al re, ieri sera ha attraversato il Kadarin e questa sera dovrebbe arrivare sui primi monti.» «Devi avere un Potere molto forte», commentò Conn, «per riuscire a raggiungerlo così lontano.» «Non proprio», ammise Gavin. «In realtà, il mio Potere è alquanto limitato; a mantenere aperto il collegamento è soprattutto la forza del re. A quanto ho sentito, quello che è dotato di un Potere davvero forte sei tu, che potresti tenere sotto controllo, da casa, le condizioni dell'intera regione, senza bisogno di cavalcare nella brutta stagione.» «Mi piace cavalcare», rispose Conn, «e questo, ti assicuro, è ancora un tempo relativamente bello, per gli Hellers.» Poi rifletté sulle parole di Gavin. «Davvero pensi che potrei vedere lontano?» Gavin si strinse nelle spalle. «Hai solo da provare», disse. Conn prese la pietra matrice e si concentrò su di essa. All'improvviso, gli parve di essersi spostato, ma, quando si girò indietro, vide la propria figura, in sella. Mosse un altro passo, e si trovò a volare nell'aria: gli tornarono in mente le storie che aveva ascoltato, delle persone che ad Aldaran volavano con gli aquiloni, servendosi di una pietra matrice per catturare le correnti favorevoli, ma lui non aveva aquilone... A quanto pareva, bastava avere l'intenzione di spostarsi in una determinata direzione per volare immediatamente laggiù. Dove andare, ad Hammerfell? No, era già stato laggiù il giorno prima. Piuttosto, voleva vedere che cosa c'era al di là delle terre di Storn. In pochi minuti di volo, arrivò a un enorme castello. Scathfell, si disse, e ricordò i commenti di Storn sugli Aldaran. Campi e pascoli erano coperti di pecore: evidentemente, anche quella terra si era esaurita. Gran parte degli uomini, invece, era concentrata vicino al castello. Non è una festa e neppure un mercato, osservò. Che cosa può essere, un raduno per tosare le pecore? Ma non era la stagione giusta, e nell'avvicinarsi ancor di più, notò che nessuno portava forbici o attrezzi da lavoro, ma che molti erano armati di spade e picche. Una decina di soldati con la livrea degli Aldaran li mettevano in file, come se stessero preparando un esercito... Doveva subito parlarne con il signore di Storn; lui e Gavin dovevano
rientrare immediatamente. Non appena pensò a Gavin, si trovò nuovamente nel proprio corpo. «Che cos'è successo?» chiese il musicista. «Non capisco bene se sia solo una forma di esercitazione o se si preparino alla guerra», terminò Conn, dopo avergli spiegato quel che aveva visto a Scathfell. Gavin aggrottò la fronte e disse: «Dobbiamo dirlo a Erminie». Conn non capiva bene che cosa potesse fare Erminie, ma annuì, e girò il cavallo verso il castello di Storn. Non appena Erminie venne a conoscenza di quel che il figlio aveva visto, prese la pietra matrice e controllò di persona. Quando riaprì gli occhi, era atterrita. «È spaventoso!» disse. «Scathfell si sta armando, e marcia contro il corteo di re Aidan. Ha con sé almeno trecento uomini.» «Contro il corteo di Aidan?» esclamò Gavin. «Ma ha con sé solamente una guardia d'onore. Non più di venti uomini.» «Qualcuno deve andare ad avvertirlo», disse Conn. «Non facciamo in tempo a raccogliere un esercito», disse Conn. «Sono trecento uomini, e Aidan non potrebbe affrontarli con solo la guardia d'onore, neanche se mettessimo in campo perfino gli orsi e i conigli.» Era solo un vecchio modo di dire, ma Erminie sorrise. «È proprio quel che faremo», rispose. Per un attimo, Conn e Gavin guardarono Erminie, senza capire. Poi Gavin disse: «Scherzate, vero?» «No», disse Erminie, e Conn, per la prima volta, capì quanto fossero varie le potenzialità del Potere. Sentiva anche che la madre era contraria a usarlo, perché sapeva come la gente, da quel giorno in poi, avrebbe guardato chi mostrava di disporre di simili forze. In genere, infatti, i Sapienti delle Torri lavoravano all'interno di un gruppo, e la gente accettava come un dato di fatto che un cerchio di tecnici delle matrici fosse capace di estrarre metalli, sollevare pesi, muovere oggetti, comunicare a distanza. Ma in genere i Sapienti, quando erano soli, tendevano a non usare le loro conoscenze; e laggiù negli Hellers, dove il vecchio programma di selezione non era giunto e i Sapienti erano pochi, la gente si ritraeva da chi aveva il Potere, e la chiamava strega. Erminie guardò Conn. «Mi devi aiutare; anzi, mi dovete aiutare tutti. Sarà un lavoro complesso, e avrò bisogno di tutti coloro che hanno il Potere... voi due, Floria, il signore di Storn.»
Gavin protestò: «Ma io ho così poco Potere... e non ho avuto alcun addestramento...» «Abbiamo bisogno anche di quel poco», disse Erminie. «Ma per il momento, puoi farci da portamessaggi. Va' a cercare Storn, Floria, Lenisia e la sua governante, l'Amazzone.» Gavin corse via, ed Erminie si rivolse a Conn. «Abbiamo bisogno di Markos, chiamalo.» Conn stava per alzarsi, ma Erminie lo fermò. «No, pensa a lui, concentrati. E digli di raccogliere tutti gli uomini che trova.» Conn si concentrò per chiamare Markos, pensando: Markos, vieni qui; abbiamo bisogno di te. Rimase molto sorpreso quando Markos comparve, e ancor più sorpreso quando vide che il vecchio scudiero era convinto di essere venuto di propria iniziativa. Intanto erano giunti anche Gavin, Lenisia, Jarmilla e Alester. Erminie spiegò quello che intendeva fare: radunare un mucchio di animali selvatici e creare un'illusione che li facesse sembrare soldati. «Se esiste il detto "mettere in campo orsi e conigli"», si giustificò, «è perché qualcuno deve averlo già fatto, in passato. Naturalmente, si tratta di una semplice illusione, e la natura dell'animale non cambia, anche se è sotto una sorta di suggestione ipnotica. Obbedisce agli ordini, ma non è in grado di parlare, è ovvio. Inoltre, gli animali non possono impugnare le armi che portano su di sé, e hanno solo le loro armi naturali, che, nel caso dei conigli, non sono gran cosa. Però, questi animali possono esserci utili lo stesso, perché fanno un effetto impressionante, più convincente di quelle illusioni a base di diavoli e arpie che si usavano prima del patto di Varzy.» «Non so molto di queste cose», disse Conn. «Ma abbiamo appena chiuso una vecchia faida, non vorrei trovarmi così presto in un'altra guerra. Come dobbiamo fare?» «Io li posso chiamare», disse Erminie, «ma è meglio che mi occupi dell'incantesimo vero e proprio. Vuoi chiamarli tu, Conn?» Però, il giovane si sentiva un po' fuori del proprio campo; per fortuna, venne in suo aiuto un Sapiente più esperto. «Posso farlo io», disse Storn. Prese la pietra matrice, e, poco più tardi, Conn, guardando fuori della finestra, vide che il cortile del castello si stava rapidamente riempiendo di animali del bosco, che accorrevano a frotte: daini e conigli, principalmente, ma anche cinghiali e orsi. Erminie li esaminò con attenzione. Poi scese a sua volta nel cortile.
«Non dimenticate che, quando li cambierò, sarà un'illusione. I conigli saranno sempre conigli, pronti a fuggire davanti al pericolo.» Certo, pensò Conn, ma gli orsi? Lui e Floria erano in rapporto, e la ragazza disse: «La comparsa di un forte esercito dovrebbe essere sufficiente a fermare gli uomini di Scathfell, senza arrivare a uno scontro. Non ho voglia di dover controllare i movimenti di un orso in forma umana.» «Neanch'io», disse Conn, ma ormai Erminie si stava avvicinando agli animali. Con in mano la matrice, fissò uno dei conigli, che parve dilatarsi e cambiare colore: dopo qualche istante, al suo posto c'era un soldato. Quando la Sapiente ebbe terminato, davanti a loro c'era un intero esercito. «Combatteranno per noi?» chiese Conn. «Gli orsi e i cinghiali, sì», rispose Erminie. «Ma ora ti darò anche una guardia del corpo che ti difenderà fino alla morte.» Chiamò Gioiello, e la fissò a lungo negli occhi, tenendo in mano la matrice. Poi, quando alzò lo sguardo, anche il cane parve dilatarsi e cambiare forma. «Ma è una donna!» esclamò Jarmilla. «Sì... anche lei è una sorta di Sorella della Spada», rispose Erminie, e aggiunse, rivolta ad Alester: «Combatterà per te fino alla morte; glielo impone la sua stessa natura.» Alester osservò la donna che aveva preso il posto del cane. Indossava una robusta giubba di cuoio e aveva la spada al fianco. «E questa sarebbe... Gioiello?» chiese Alester. «Questa è la forma assunta da Gioiello per proteggerti», spiegò la madre. «Lei si vede così: una guerriera che fa la guardia su di te.» E Alester ricordò che il cane l'aveva protetto e difeso fin da quando era nato. «Ma se non dobbiamo combattere...» «Non ho detto questo», rispose Erminie. «Ho detto che speravo di non dover combattere. Se però si giungesse al combattimento, Gioiello combatterà, e come lei gli animali che sono portati alla difesa e alla lotta, per esempio gli orsi e i cinghiali.» Gioiello-Amazzone si sedette ai piedi di Alester. Il giovane si aspettava quasi che gli leccasse la mano, e si chiese l'effetto che avrebbe fatto, davanti ad altri: era ancora un cane, ma adesso aveva l'aspetto di una Sorella della Spada. Solo gli occhi erano identici: grandi, gialli e carichi di devozione.
CAPITOLO 20 LA BATTAGLIA Nascosto in mezzo ai cespugli, Alester aspettava di veder comparire l'esercito di Scathfell. La sua forza - costituita dagli uomini di Markos e dai soldati di Storn, entrambi guidati da Conn, e dall'"esercito" illusorio creato da Erminie dando un'apparenza umana agli animali selvatici - era schierata sotto di lui: era talmente numerosa che se Scathfell l'avesse vista, si sarebbe affrettato ad allontanarsi. Almeno, così si augurava Alester. Ma se Scathfell, con il suo Potere, si fosse accorto dell'inganno? L'esercito di Alester non poteva sperare di vincere. Un esercito di conigli, pensò ironicamente, poteva essere solo capace di darsela a gambe. Gioiello dormiva seduta in terra e con la testa china sul petto; questo, più di ogni altra cosa, ricordò ad Alester che, qualunque aspetto avesse assunto, era sempre il suo vecchio cane. Sua madre aveva detto che l'avrebbe difeso, ma come poteva difenderlo, contro uomini armati? Forse, non sarebbe stato meglio lasciarla nella sua forma naturale, come quando Gioiello l'aveva accompagnato ad Hammerfell? Le sue riflessioni vennero interrotte da un rumore sordo e cadenzato, che giungeva da lontano. Alester non aveva mai sentito un rumore come quello, ma era inconfondibile: era l'esercito di Scathfell in marcia. Dopo un po', sentì anche gli occasionali suoni di tromba e il rullo dei tamburi che davano il passo ai soldati. Re Aidan non aveva niente di simile: solo una guardia d'onore, armata di spade da parata; spettava ad Alester fermare l'esercito di Scathfell. Ai suoi piedi, Gioiello si mosse. Alester disse: «È ora, ragazza mia», e pensò che per tutt'e due era la prima battaglia. Quasi provò invidia per Conn, che almeno aveva già avuto il battesimo del fuoco. Poi sentì il sibilo di una freccia che passava a poca distanza dalla sua testa, e invece di pensare alla battaglia si trovò bruscamente in mezzo a essa. Erminie e il vecchio Storn avevano studiato la strategia migliore e avevano deciso di adottare un vecchio trucco delle montagne. Alcuni uomini al comando di Alester fingevano di dare ordini all'esercito di orsi e conigli, e Markos, dietro di loro, suonava la cornamusa; in una valle piena di echi, era difficile capire se a suonare erano dieci cornamuse o una sola. Scathfell diede l'ordine di ritirarsi. Non si era aspettato di dover affronta-
re un migliaio di uomini, e a giudicare da quel che vedeva - un gran numero di soldati che prendevano posizione dietro gli alberi e che si spostavano da un cespuglio all'altro - nel bosco doveva esserci almeno un reggimento. Però, presto o tardi, Scathfell si sarebbe chiesto perché le forze di Hammerfell non attaccavano, e Alester non gliene diede il tempo: non appena gli uomini di Scathfell si ritirarono, i pochi uomini veri a disposizione di Alester cominciarono a colpirli con le frecce. Con gli uomini di Conn che li attaccavano di fianco, sembravano più di quelli che erano, e forse, prendendo l'offensiva, i due gemelli avrebbero potuto convincere Scathfell a desistere. Alester si guardò attorno. Gioiello era davanti a lui, e Conn guidava gli uomini, sull'altro fianco della valle. Quanto a Gavin, lui e il signore di Storn erano corsi ad avvertire re Aidan. E io sono qui a comandare un esercito di orsi e di conigli, rifletté, deluso. Non s'aspettava molta gloria da quella battaglia: il suo compito si limitava a fare rumore e a spostare tra i cespugli le sue "forze". Se avesse fatto di più, avrebbe rischiato di rivelare a Scathfell il trucco. Poi accadde l'inevitabile. Uno dei conigli finì davanti a un soldato di Scathfell che non s'era ritirato abbastanza in fretta, e questi menò un gran colpo di spada, che attraversò tutta l'illusione e colpì l'animale. Nel morire, il coniglio riprese la sua fórma naturale, e il soldato, dopo un primo istante di stupore, si mise a gridare: «Stregoneria! È un inganno! Stregoneria!» I compagni videro la scena e, furiosi per essere stati raggirati, si misero a battere i cespugli. I conigli, naturalmente, caddero in preda al panico e corsero via a gambe levate, ma nel caso degli orsi e dei cinghiali fu tutta un'altra faccenda. Entro pochi istanti, i soldati di Scathfell si trovarono ad affrontare solo cinghiali e orsi. E anche se l'aspetto dato da Erminie agli animali era sempre lo stesso - soldati in livrea, ma disarmati perché non potevano impugnare la spada che portavano al fianco - la somiglianza era solo esteriore: i conigli fuggivano, ma i cinghiali avevano le zanne, e gli orsi gli artigli. E né gli orsi né i cinghiali amavano essere disturbati. Incappare in un orso travestito da uomo era forse peggio che incappare in un vero soldato avversario, e le urla dei soldati feriti a colpi di zanna e di artiglio fecero capire anche ai compagni che la battaglia nel boschetto non era facile come avevano creduto. Allora, gli uomini di Scathfell indietreggiarono e si congiunsero al grup-
po principale; mentre erano allo scoperto, vennero bersagliati dai soldati di Conn. Quando le forze di Scathfell si furono riunite, però, il loro capo decise di cambiare tattica e di affidarsi unicamente agli arcieri, che presero a scagliare frecce contro tutto quel che vedevano muoversi. La nuova tattica ebbe risultati imprevisti. I conigli che venivano colpiti, di solito, morivano, ma gli orsi e i cinghiali si infuriavano soltanto, e si lanciavano in una carica suicida contro i soldati di Scathfell; in genere riuscivano a metterne fuori combattimento qualcuno, prima di morire. Alester avrebbe voluto nascondersi dietro un albero, ma nessun duca di Hammerfell si era mai nascosto durante una battaglia: perciò continuò a far spostare i suoi "uomini" per dare l'impressione che le frecce non avessero molto effetto. Poi, all'improvviso, qualcuno, dalla direzione della strada, scagliò una freccia contro Alester, e prima che il giovane si rendesse conto di quel che stava succedendo, Gioiello si gettò di lato per fermarla. Se si fosse spostata un istante più tardi, la freccia avrebbe colpito Alester, ma ora colpì in pieno petto il cane-Amazzone. Alester, con le lacrime agli occhi, abbracciò il vecchio cane colpito dalla freccia destinata a lui. Non badò alla forma assunta da Gioiello, non notò se era umana o canina, ma pensò solo che il suo cane aveva combattuto per lui meglio di qualsiasi Sorella della Spada. L'uomo che aveva ucciso Gioiello si era avvicinato, intanto, e guardava con stupore, superstiziosamente, la trasformazione. In un attimo Alester sguainò la spada e lo uccise, senza nemmeno accorgersi di quel che faceva. Poi si chinò a prendere tra le braccia il corpo del suo vecchio cane. In cuor suo sapeva che era proprio il tipo di morte che Gioiello - la cagna che si era sempre creduta una Sorella della Spada - avrebbe sempre voluto fare: in forma umana, vestita da guerriero, e il giovane duca non poté evitare di chiedersi se non fosse proprio quella, la ragione che aveva spinto Erminie a trasformare anche lei, oltre ai conigli e agli orsi. La battaglia, però, era a un punto di stallo, e gli uomini di Scathfell chiesero di parlamentare. Alester si spolverò la giubba e si fece avanti, sotto bandiera bianca, e dopo qualche istante giunse un uomo grande e grosso, con i capelli rossi come il fuoco e con l'aquila a due teste degli Aldaran ricamata sulla tunica. «Sono Colin Aldaran di Scathfell», disse, «e voi dovete essere il duca di
Hammerfell.» «Sì», rispose Alester, e aggiunse: «Anche se forse non vi aspettavate di trovare me». «Mi racconterete questa storia un'altra volta», disse Aldaran. «Con tutto quel che ho sentito in questi giorni, so già che mi farebbe venire il capogiro. Per il momento, voglio solo sapere perché vi siete alleato al re Hastur nel combattere contro di me.» Alester rifletté su quelle parole. Poi disse: «Prima, però, voi dovreste spiegarmi perché marciavate con i vostri uomini contro re Aidan, che è venuto negli Hellers in incognito e per motivi personali, accompagnato solamente dalla sua guardia, allo scopo di sancire la pace tra Hammerfell e Storn...» «Bella favoletta», rise Scathfell. «Pensate davvero che me la beva? Gli Hastur vogliono portarci tutti sotto il loro dominio.» Alester tacque, di fronte a tanta convinzione. Come fargli capire che Aidan voleva soltanto la pace? Colin di Scathfell si girò a fissare Conn, che nel frattempo li aveva raggiunti, e disse, inarcando le sopracciglia: «Siete vivi tutt'e due? Una volta avevo sentito dire che i gemelli di Hammerfell erano morti entrambi. Poi mi hanno detto che uno di loro si è fatto vivo per combattere contro gli Storn. Adesso mi rendo conto che è una storia lunga; una volta o l'altra dovrete raccontarmela.» «La ascolterete, ma sotto forma di una ballata», intervenne Gavin, che era smontato di sella in quel momento. Guardò tristemente il corpo del vecchio cane. «E anche Gioiello sarà un personaggio della ballata: il cane che combatté come donna guerriero per difendere il padrone. Ma penso che, per discutere la tregua tra voi, sia meglio aspettare l'arrivo di re Aidan e del signore di Storn.» Indicò i due uomini che si stavano avvicinando, accompagnati da Erminie, Floria, Lenisia e Jarmilla, che nel frattempo erano uscite dai loro nascondigli. «Adesso, tutte le parti in lotta sono qui presenti.» Colin di Scathfell sorrise. «Non è esatto; io non sono in lotta con nessuno degli Hellers, anche se mio cugino Hammerfell si è messo contro di me. Spiegatemi perché, proprio come dice il proverbio, avete messo in campo orsi e conigli per attaccarmi. E se mi convincerete che l'avete fatto solo per difendervi, ritornerà la pace.» «Certo», rispose Alester. «Hammerfell non ha niente contro Aldaran, che io sappia... una faida alla volta è più che sufficiente. Ci siamo armati
per venire in aiuto di re Aidan, che è giunto con solo una ventina delle sue guardie, a fare da arbitro tra me e il signore di Storn. Il signore Hastur non ha niente contro di voi... anche se non so che cosa dirà, quando saprà che avete radunato l'esercito contro di lui.» «Eccoci di nuovo al punto di partenza», disse Scathfell, con una punta di esasperazione. «Io ho radunato l'esercito per fermare gli Hastur, che venivano in forze contro Aldaran.» Re Aidan fece il suo ingresso nella radura, accompagnato da una guardia d'onore di dieci uomini, dalle cornamuse e, come scudieri, da Valentine Hastur ed Edric Elhalyn. Colin di Scathfell rimase a bocca aperta. «Se dovessimo riesaminare tutti i motivi di contesa tra Hastur e Aldaran, domani sera saremmo ancora allo stesso punto», disse Aidan. «Sono qui per comporre il litigio tra Hammerfell e Storn, e per nessun altro motivo.» «Come potevo saperlo?» si lamentò Scathfell. «Sia come sia», concluse Aidan, «io sono qui unicamente per porre la parola fine alla faida tra Storn e Hammerfell; è andata avanti per troppe generazioni, e nessuno ricorda più da cosa è nata. Voi, Scathfell, sarete gradito ospite se vorrete fermarvi ad assistere come testimone, e potete dire ai vostri uomini di ritornare a casa, perché - come avrete constatato Aldaran non corre pericolo d'invasione.» Si rivolse al vecchio signore di Storn: «Ditemi, Storn, siete disposto a stringere la mano ad Hammerfell e a giurare di mantenere la pace con lui?» «Lo giuro», disse Storn, con aria grave. «Inoltre, gli offro la mano di mia nipote Lenisia, che unirà le nostre terre e le terrà unite ancora per molte generazioni come ducato degli Hammerfell di Storn.» «E io sarò lieto di accettare la sua mano», disse Alester. E aggiunse: «Naturalmente, se lei acconsente». «Oh, acconsente», disse Storn, asciutto. «Ho sentito le scempiaggini sentimentali che racconta di voi alla sua governante, quando non siete lì ad ascoltare. Acconsenti, vero, ragazza?» Lenisia disse: «Chiamami ancora una volta "ragazza" con quel tono, e, anziché lasciarti disporre di me per sanare una vecchia faida, andrò a unirmi alla Sorelle della Spada! Mi prendete con voi, spadaccina Jarmilla?» L'Amazzone rise e disse: «Che cosa fareste, se vi dicessi di sì? È meglio che sposiate Hammerfell e che mettiate al mondo una mezza dozzina di figlie; poi, sarà qualcuna di loro a unirsi a noi, se ne avrà voglia!» «Va bene», disse Lenisia, «visto che si tratta di sanare una vecchia fai-
da...» «...farai lo sforzo», disse Alester. «E io ho già detto che sono d'accordo. Per cui, la cosa è fatta.» «E, mentre si parla di matrimoni», intervenne Valentine Hastur, «adesso che gli Hammerfell hanno di nuovo il loro ducato, a chi dei due devo chiedere la mano di vostra madre?» «A nessuno», disse Erminie, ferma. «Ho già l'età del consenso e posso concedere la mia mano a chi desidero.» «Allora, mi vuoi sposare, Erminie?» chiese l'Hastur. Lei fece un cenno d'assenso, arrossendo, e Valentine Hastur la abbracciò. Dietro di loro, Edric Elhalyn, in tono offeso, disse: «Erminie, sapevi bene che aspettavo solo questo momento per chiedertela io...» «Oh, Edric», disse lei, prendendolo sottobraccio, «sai che ti ho sempre voluto bene come a un fratello. E, adesso che i nostri ragazzi si sposano, non ti è sufficiente?» «Suppongo di sì», disse lui, poco convinto. «Comunque, adesso mi sembra che tutto sia a posto.» «No, c'è una cosa che non è affatto a posto», disse Conn, che prendeva la parola per la prima volta. «Questo fatto di bruciare i villaggi e di cacciare via i contadini per allevare pecore. I miei uomini devono poter vivere dove sono sempre vissuti.» «Ti devo rammentare, fratello», disse Alester, «che non sono i tuoi uomini.» «Allora», disse Conn, fissando negli occhi il gemello, «ti chiedo giustizia per loro. Io sono cresciuto con questi uomini e ho sempre giurato di proteggerli, anche a costo di impugnare le armi.» «Non so se potrò fare quel che mi chiedi», rispose Alester. «Hai visto anche tu che questi monti non sono più adatti all'agricoltura. Se ragionassi, ti renderesti conto che a continuare su quella strada c'è solo da morire tutti di fame, contadini e signori, e se pensi di metterti contro di noi, ti ricordo che non hai né terre né uomini, fratello.» «No», intervenne Aidan. «Recentemente, sono rientrato in possesso di un feudo nei pressi del Kadarin, e devo decidere a chi assegnarlo. Laggiù il clima è più umido e la terra dà ancora frutti. Se giurate fedeltà alla corona, Conn, e se promettete di difendere il vostro re come difendete i contadini di vostro fratello, posso assegnare quel feudo a voi.» «Sono pronto a farlo, signore», disse Conn, riconoscente, «e tutti coloro
che devono lasciare Hammerfell - o Storn - potranno trasferirsi laggiù, se lo vorranno. E se lo vorrai tu...» continuò, rivolto a Floria, «prima non avevo niente da offrirti, ma adesso ho un feudo, grazie a re Aidan. Vuoi condividerlo con me?» Floria gli sorrise: «Certo», rispose. «E così», commentò Gavin, «tutto finisce come deve finire una bella ballata: con tanti matrimoni e con il dono di un feudo da parte del re magnanimo. Ma la ballata voglio scriverla io!» «Senza dubbio, caro figliolo», disse re Aidan, sorridente. «È meglio che cominci a scriverla subito.» Gavin gli restituì il sorriso. «È già quasi pronta», disse. E tutti gli abitanti degli Hellers conoscono la ballata dei due duchi di Hammerfell e del vecchio cane che morì nella battaglia finale, sacrificando la vita per salvare il padrone... ma come tutte le ballate che prendono spunto da un avvenimento reale, da quel giorno a oggi è alquanto cambiata. FINE