Ugo Maria Tassinari
FASCISTERIA I protagonisti, i movimenti e i misteri dell'eversione nera in Italia (1965-2000)
Un'a...
1504 downloads
2618 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Ugo Maria Tassinari
FASCISTERIA I protagonisti, i movimenti e i misteri dell'eversione nera in Italia (1965-2000)
Un'autentica enciclopedia storica della destra radicale in Italia, l'unica veramente completa, frutto di un lavoro di documentazione e ricerca durato decenni. Un libro indispensabile per capire la galassia della destra eversiva e rivoluzionaria, la sua storia, l'esperienza breve e frenetica della lotta armata, gli intrecci con la criminalità organizzata, attraverso le più significative biografie dei protagonisti. Partendo dagli anni Sessanta Ugo Maria Tassinari arriva fino ai giorni nostri, individuando le tendenze che continuamente si rigenerano ed esaminando le aree di contiguità con fenomeni diversi, dall'integralismo cattolico alle frange più intransigenti del leghismo, dal fenomeno del tifo ultrà ai gruppi xenofobi. Ugo Maria Tassinari (Napoli 1956) appartiene alla generazione che ha tentato l'assalto al cielo e non se ne è pentito. Sposato, con una figlia. E' giornalista professionista dal 1986. Alterna a questa più sane attività (promozione culturale, volontariato e comunicazione sociale, ricerca storica). Attualmente è direttore di «Nuova Basilicata» .
INDICE PRIMO VOLUME . Figli del Sole dell'Ovest . La madre di tutti i misteri . All'ombra della loggia . Compasso e moschetto . Il «comandante Lillo» . Banditi, trafficanti, faccendieri . La piazza nera, la Piazza Rossa . Un grande buco verde . C'è una banda nel cuore di Roma . «Guerrieri senza sonno» . Costretti a ripetere . A sinistra, a sinistra . Rossi e neri uniti nella lotta . La maledizione del cinque . Chiara, Valerio e lo scuro . Dal golpe alla lotta armata . SECONDO VOLUME . Le uova del drago . Le vie della tradizione . Sapienza di Dio, sapienza dell'Uomo . Sulla via di Damasco . Alle crociate . Un piacentino pentito . Guerrieri serenissimi . Lega e dintorni . Scene di caccia in Bassa Baviera . I soldatini di Priebke . I mostri neri e la Uno bianca . La loggia di Freda . I fascisti del 2000 . Webgrafia . Cronologia .
A José e Ira sine ira, cum studio Questo libro è il prodotto di un lungo lavorìo e ha contato su numerose e complesse complicità. Alle decine di giornalisti citati vanno aggiunti i tanti parafrasati in archivio, le cui tracce si sono disperse nel lungo processo di costruzione del testo, e i mai abbastanza onorati colleghi dell'ANSA, il cui anonimo lavoro è impagabile. Il grosso del lavoro redazionale oscuro (trascrizione delle interviste, scannerizzazione e trattamento dei testi degli articoli) lo ha fatto mia moglie José (per non parlare dello «psychiatric help»). Alcuni avvocati (Cerquetti e Naso in particolare) hanno generosamente messo a disposizione migliaia di pagine di atti giudiziari. Alcuni dei protagonisti e dei loro familiari mi hanno onorato della loro fiducia e della loro amicizia. Spero che questo lavoro gli renda merito. Last but not least, le due editor, Nicoletta e Silvia, che sono riuscite a non perdersi tra 600 pagine e 2000 nomi . FIGLI DEL SOLE DELL'OVEST . Per molti anni siamo stati sommersi dai tormentoni dietrologici, che arbitrariamente ricomponevano in un'unità metafisica - le membra sparse nei quattro continenti, il cervello a Villa Wanda - quel dolente impasto di sangue merda e lacrime che va sotto il nome di «strategia della tensione» e di «eversione neofascista». Alla fine si è giunti alla conclusione che la P2 era prevalentemente un comitato d'affari (1), mentre responsabili di stragi e progetti golpisti sarebbero stati in prima persona gli "amerikani" e i loro mercenari «neri», e non quell'«agenzia di stretta osservanza atlantica» di cui pure ha parlato l'esperto Cossiga. Ci sembrano forti i rischi delle tentazioni semplificatrici, e noi resisteremo alla tendenza a fare - "nomen est omen" - di tutta l'erba un fascio, mettendo assieme gruppetti neofascisti, sette esoteriche, massonerie più o meno deviate, cultori della magia nera, terroristi grigi, uomini degli apparati criminali e delle agenzie semilegali di Stato sotto il cappello magico della CIA. E' per noi più feconda un'altra chiave di lettura: quella che sottolinea come le vicende dell'ultimo quindicennio dalla disfatta dello spontaneismo armato all'emergenza di un terrorismo di matrice magico-religiosa, dagli intrecci tra organizzazioni criminali e "reseaux" degli apparati di Stato all'ombra di logge coperte e di improbabili ordini cavallereschi, ma anche la confluenza nell'ala più
radicale del separatismo nordista di uomini e miti della destra neopagana e cattolico-tradizionalista - sembrino inverare le feconde intuizioni di Galli (2) e di Jesi (3) sul ruolo del nazismo magico e della pedagogia dell'atto inutile, tipica delle sette iniziatiche nelle vicende del terrorismo italiano negli anni Settanta . Hanno infatti consistenza le tracce dei perversi intrecci tra «network» della destra radicale, apparati di Stato e agenzie internazionali del crimine, tra pratiche rituali e "dirty works". Un buon punto di partenza è rappresentato da Ordine nuovo (O.N.), il centro studi, fondato negli anni Cinquanta da Pino Rauti come «ordine di credenti e di combattenti», che ha finito per costituire una centrale di selezione e reclutamento per le strutture parallele della NATO, e che le ultime inchieste sulla stagione della stragi individuano come responsabile diretto dei più feroci attentati della «strategia della tensione» . Ha perseguito questa ipotesi con grande determinazione il giudice milanese Guido Salvini, interrogando 564 testimoni, sequestrando 47 faldoni di documenti del SISMI, scrivendo migliaia di pagine che ricostruiscono la «strategia della tensione», innervando con il suo lavoro decine di inchieste abbandonate o in stato vegetativo. Per ragioni procedurali - e al termine di una dura battaglia - si è visto espropriare delle indagini sulla strage di piazza Fontana (4) ma, continuando a lavorare sui reati associativi connessi, ha contribuito a disegnare in modo più articolato e credibile il contesto e i "reseaux" della prima stagione dello stragismo. Ordine nuovo, spesso semplicisticamente indicato come il gruppo neonazista per antonomasia, è la filiazione di un cenacolo iniziatico di stretta osservanza evoliana, i Figli del sole. Negli anni Sessanta si distingue nel fiancheggiamento della frazione più rigorosamente atlantista dello Stato maggiore della Difesa, sul fronte opposto del «golpista» De Lorenzo. Il viscerale disprezzo per la democrazia, definita «sifilide dello spirito», e la mai rinnegata venerazione per le eroiche S.S. non hanno impedito a Rauti di essere a busta paga di apparati della Repubblica nata dalla Resistenza e, secondo recenti acquisizioni istruttorie da lui sdegnosamente smentite, anche direttamente della CIA . Rauti rivendica il sostegno offerto ai golpisti francesi: «Stringevamo contatti con l'O.A.S. (5) e aiutavamo Soustelle nascosto in Alto Adige. Incontravamo Alain de Benoist clandestino perché condannato per un attentato dinamitardo» (6). L'Alto Adige della lotta all'irredentismo
tirolese è il laboratorio avanzato per formare quadri e tecniche di controguerriglia dell'apparato di sicurezza della NATO. Sulle compromissioni neofasciste nella «strategia della tensione» il fondatore di Ordine nuovo finisce per ammettere: «E' vero: negli anni Sessanta c'è stata tra noi la tentazione della scorciatoia, e questo può avere in seguito aperto spazi di manovra» (7). Opinione confermata da un altro leader di O.N., Paolo Signorelli, otto anni di carcere preventivo e tre condanne all'ergastolo (omicidio Leandri, Amato, Occorsio) annullate in successivi gradi di giudizio: «C'è stato un tempo in cui l'azione dei servizi si è sviluppata con insistenza nell'ambito della destra, perché questa offriva un buon grado di utilizzazione per certe operazioni di potere, in quanto nel suo composito mondo era possibile far leva su certe ricorrenti e stantie 'esigenze d'ordine' e sollecitare, nel contempo, le ambizioni di quanti, illusoriamente, ritenevano di poter 'conquistare il potere'» (8). Che poi i due siano considerati protagonisti di questa compromissione è altro discorso. Rauti nega sdegnato di essere stato al soldo della NATO: «Non era ammissibile che mentre contestavamo l'americanismo qualcuno facesse i servizi sporchi della peggiore NATO [...]. Io non credo che un elemento, se era veramente un nostro iscritto, si desse a queste forme forsennate di attività, ma non posso escludere che in una struttura che è durata quattordici anni e nella quale sono passate, credo, diecimila persone, e tutto un mondo di irrequietezze giovanili, qualcuno si sia infiltrato. C'erano i mitomani, gli esagitati, quelli che si dicevano e si drappeggiavano da nazisti. Poteva esserci il provocatore mandato apposta» (9). Le più recenti inchieste su stragi e terrorismo nero compromettono pesantemente la sua immagine, ma alcuni riscontri indicati dai «pentiti» per dimostrare le sue dirette responsabilità sono fasulli. Rauti cita due esempi: gli si attribuisce la partecipazione a un summit di Nuovo Ordine Europeo (aprile 1972) per definire la nuova fase della strategia del terrore mentre era detenuto per la strage di Milano; Edgardo Bonazzi racconta che un suo complice nell'omicidio di Mariano Lupo (10) avrebbe incontrato il leader di O.N. nella redazione romana del quotidiano «Il Tempo» per essere aiutato a riparare in Grecia quando Rauti, già eletto deputato, si era licenziato dal giornale. Non è l'unico caso in cui le rivelazioni di Bonazzi - reclutato come collaboratore di giustizia dopo un arresto per traffico di stupefacenti, per la sua lunga militanza tra i detenuti dello spontaneismo armato - sono fortemente contrarie all'evidenza. Racconta
infatti a Salvini che Giannettini gli aveva confidato in carcere che Andreotti era inserito in un progetto golpista supportato dagli USA. Lui stesso - spiega - non gli aveva creduto, ma si era poi ricreduto quando aveva appreso che Giannettini era stato assunto dal finanziere-editore Ciarrapico, di notoria fede politica fascista, e di altrettanto nota appartenenza andreottiana. Il senatore a vita ha facile gioco a smentire: era stato proprio lui a scaricare la «spia nera» in una celebre intervista al settimanale «Il Mondo» concessa all'ex-segretario di Togliatti, Massimo Caprara, intervista che effettivamente segnò il distacco di Andreotti dagli ambienti della destra romana più anticomunista . Sulla doppiezza di Rauti e di O.N. lasciamo la parola a testimoni attendibili. Il primo è Giulio Caradonna, uno dei più noti capisquadra della «piazza romana», otto volte deputato del M.S.I.: «Ordine nuovo aveva l'ascia bipenne, il ricordo dei nibelunghi, la propaganda del mito della superiorità della razza ariana, Odino, i castelli delle S.S. [...] Rauti ai suoi giovani insegna riti magici, e quella storia dei galli. Ne parlammo addirittura una volta in direzione: a Pisa, mi pare, c'erano delle sezioni che alla mattina sacrificavano un gallo a chi sa chi, un rito druidico. E senza neanche mangiarselo» (11). Uno scetticismo sospetto in un neofascista talmente appassionato di esoterismo da affiliarsi alla massoneria nella loggia P2. Una doppiezza che ha avuto ampi margini di manovra, grazie anche al pressappochismo degli addetti ai lavori. A Rauti, infatti, alla luce di alcuni brillanti e ineffettuali slogan come lo «sfondamento a sinistra», è stata attribuita arbitrariamente una qualifica di «esecutore testamentario» e titolare del «copyright» del fascismo di sinistra, che anche leader giovanili missini a lui personalmente non ostili, come Salierno (12) e Tarchi (13), gli disconoscono. La sua vicenda, attraverso cinquant'anni, si è dipanata lungo tutt'altra traiettoria. Giovanissimo reduce, durante la prima detenzione a Regina Coeli, è folgorato dal Verbo evoliano. E' quindi tra gli animatori dei FAR, i Fasci armati rivoluzionari, processati per una catena di attentati, e al tempo stesso leader di una corrente giovanile «che si muove nell'orbita di Julius Evola: una sorta di estrema destra iperspiritualista, gerarchica e antimoderna, ossessionata dalla demonia dell'economia» (14). Nell'articolato spettro di posizioni del primo neofascismo Evola si poneva agli antipodi dei «socializzatori», i fanatici della Carta di Verona (15) .
La scissione del 1956 che dà vita al Centro studi Ordine nuovo è conseguenza della vittoria congressuale del moderato Michelini contro il cartello della «sinistra». Ma tutti i «sinistrorsi» che escono dal M.S.I. danno vita ad altre esperienze, dal Socialismo nazionale di Massimo Invrea alla Nazione sociale di Massi professore di Geografia dell'Università Cattolica, figura prestigiosa del corporativismo italiano. Per gli ordinovisti il «vangelo della gioventù nazionalrivoluzionaria» (16) è "Gli uomini e le rovine", scritto da Evola per un'operazione di piccolo cabotaggio politico: legittimare il rientro, alla metà degli anni Cinquanta, del principe Borghese in un M.S.I. ormai saldamente istituzionalizzato. Tutta le generazione successiva di indole sovversiva orienterà l'azione politica ed esistenziale sulle coordinate di "Cavalcare la tigre" (17), che un pupillo di Freda ha definito "livre de chevet" dello spontaneismo armato (18), anche se, in realtà, i «guerrieri senza sonno» per lo più leggevano libri di armi. Particolarmente caustico è Vincenzo Vinciguerra, il responsabile ordinovista di Udine che diventerà il più feroce accusatore di Rauti e delle sue compromissioni con gli apparati militari e polizieschi dello Stato democratico: «La 'Bibbia' dei nazisti alla Rauti, "Gli uomini e le rovine" di Evola, nella quale si sostiene che bisogna difendere lo Stato 'anche uno Stato vuoto come questo' non fu altro», scrive l'organizzatore della strage di Peteano, «che un'operazione strumentale che serviva a dare giustificazione al reingresso di molti ufficiali che avevano aderito alla R.S.I. e che nel 1952, rientrarono nelle Forze armate giurando fedeltà sul loro 'onore' allo Stato repubblicano, democratico ed antifascista» (19) . La vocazione reazionaria di Rauti si conferma nel '68: saranno molto più tentati dal Movimento i quadri di Avanguardia nazionale (A.N.), assai più sprovveduti dottrinariamente e semplicisticamente educati al culto della disciplina e dello scontro fisico con i comunisti, dei più raffinati militanti dell'ascia bipenne. Nella primissima fase, i giovani che avevano già letto l'ultimo Evola, erano pronti a «cavalcare la tigre». Uno dei primi feriti negli scontri di Valle Giulia è il responsabile degli universitari ordinovisti, Mario Cascella. La direzione richiamò i militanti che avevano abbracciato la rivolta studentesca, ed elaborò un documento che definiva la contestazione «una reviviscenza dell'utopismo anarchico» (20). Cascella sarà con il gruppo del Ghibellino tra i fondatori di Lotta di popolo (O.L.P.), altri radicalizzeranno la rottura, passando nei ranghi dell'estrema sinistra o
individualmente o attraverso la breve esperienza, ancora ambigua, del Movimento studentesco europeo. In occasione del ventennale, Rauti non esita a parlare del '68 come occasione perduta e se la prende con la spedizione punitiva nell'Università di Roma occupata: «Penso con rammarico che avevamo con noi la maggioranza degli studenti negli anni Sessanta, ma non abbiamo fatto noi il '68. Anzi, Almirante e Caradonna sono andati all'Università di Roma con le mazze in mano e hanno pensato bene di farsi anche fotografare! Ma hanno fatto bene gli studenti a prenderli a mazzate» (21) . Rauti non esiterà ad accusare i militanti dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari) - quegli stessi che sarebbero giunti a progettarne l'esecuzione per punire la sua attività di «delatore» (22) - di «intelligenza con il nemico»: «Questi assassini dei NAR sono soltanto agenti al servizio del regime. Gente manovrata [...] gente sconosciuta ma che frequentava molto sia la polizia sia i servizi segreti [...]. Fra di loro c'è gente che veniva da me proponendo articoli per la mia rivista e si presentava come nazista, tutti atteggiati. Sembravano costruiti. Alla larga mi dicevo. E sapevamo che quella gente frequentava servizi segreti e qualche corridoio di questura» (23). Anche in seguito Rauti ammetterà la «collaborazione sottobanco» dell'estrema destra con i servizi segreti e i suoi rapporti con le Forze armate: «L'ipotesi del golpe ha circolato nell'estrema destra, a un certo punto. Come scorciatoia per il potere. Di fronte a un pericolo comunista [...]. Negli anni Sessanta io stesso sono stato coinvolto in rapporti con i militari. Scrivendo, insieme con Edgardo Beltrametti, l'opuscolo "Le mani rosse sulle Forze Armate", commissionato dal generale Giuseppe Aloja. Io lo vedevo come un tentativo di ideologizzare l'esercito» (24). Ma secondo Oscar Lee Winter, ex-colonnello della CIA, Rauti sarebbe stato un agente di grado 2 dell'agenzia americana, con uno stipendio mensile di 4000 dollari . A prendere le distanze dai dubbi e dalle compromissioni del fondatore di Ordine nuovo è stato anche il fascista non pentito Giorgio Pisanò, recentemente scomparso, che pur ha condiviso con Rauti l'avventura della rifondazione missina: «Posso escludere che il M.S.I. abbia condotto o coperto operazioni sporche per conto dei servizi. [...] Rauti ha avuto anni convulsi, ai margini e fuori dal partito. Può darsi che si sia fatto convinzioni errate» (25). Per l'ex-direttore del «Candido», la centrale del terrore era l'ufficio Affari riservati del Viminale, che
«reclutava sciagurati di ogni risma e colore, per alimentare la teoria degli opposti estremismi. Materiali da manicomio» (26). Delle caratteristiche «umane» del personale reclutato offre un significato spaccato il questionario che l'aspirante militante doveva compilare: «Perché sei in O.N.? Desideri che O.N. imponga la dittatura al Paese? Sei capace di sostenere in un'assemblea politica una tesi assolutamente impopolare? Hai rispetto dell'opinione pubblica? Sei antisemita? Sai dimostrare che gli uomini non sono uguali? Ti ritieni vincolato dalla moralità comune?». «L'invito scritto», racconta Vinciguerra, «a mandare uno o due elementi di O.N. ad un campo 'paramilitare', con tanto di lista dettagliatissima di oggetti da portare, primo la tuta mimetica, non era una nuova prova di imprudenza, come pensai allora, bensì di arroganza, perché i dirigenti di 'Ordine nuovo' sapevano quello che facevano e lo facevano d'accordo con le autorità militari, i carabinieri e la pubblica sicurezza. Il 'comandante' del campo era Paolo Signorelli, tuta mimetica, energia e faccia feroce. Ancora Dio e i carabinieri erano con lui: il tempo in cui Dio lo avrebbe mollato lasciandolo solo con i carabinieri era ancora lontano» (27). La stessa devozione ai carabinieri ma anche scambi di piaceri e forniture militari al suo gruppo - Vinciguerra l'attribuisce a Giancarlo Rognoni, exbancario, leader della milanese Fenice, un piede in Ordine nuovo, uno nel M.S.I., tutti e due nella struttura di sicurezza atlantica, con un compito di snodo operativo tra le diverse bande. In Spagna, dove si era rifugiato dopo il fallito attentato al treno Savona-Torino dell'aprile '73 (uno dei tanti inneschi del golpe mai realizzato), Rognoni entra presto in rotta di collisione con Vinciguerra, che non perderà occasione in seguito di inchiodarlo con le sue rivelazioni. «Quando vede una divisa», racconterà di lui, «non resiste dal mettersi sull'attenti», ma alle origini della rottura, probabilmente, sono non tanto le precedenti attività stragiste del leader della Fenice, quanto il suo brusco voltafaccia dalla divorante passione per l'astro politico di Delle Chiaie al ruolo di sistematico accusatore dei suoi rapporti con i servizi di sicurezza spagnoli e italiani. Ordine nuovo ha finito per trasformarsi in una struttura di civili organica ai disegni di stabilizzazione politica dell'Alleanza atlantica: «Buona parte di coloro che formavano i quadri e i nuclei militanti dell'organizzazione erano in diretto contatto con funzionari di polizia ed ufficiali dei servizi segreti, e, alcuni di essi,
erano addirittura stabilmente inseriti nelle 'strutture parallele' tipo Gladio» (28) . Proprio alla vigilia della strage di piazza Fontana una «fonte Borghese» segnala agli Affari riservati - ma il rapporto è ritrovato solo 28 anni dopo, nei faldoni occultati nel maxiarchivio del Viminale e riportati alla luce da Aldo Giannulli, professore universitario e consulente della Commissione stragi - che un nucleo ristrettissimo di militanti di Ordine nuovo si preparava a compiere azioni clamorose. Alla luce di queste rivelazioni desta meraviglia la circostanza che sia stato proprio il Movimento politico Ordine nuovo - nato dalla scissione che si consuma a ridosso della strage - ad applicare per la prima volta in Italia il processo-guerriglia (29) passato alla storia come «invenzione» brigatista. In realtà il primo a teorizzare il rifiuto nei processi politici dei ruoli canonici giudice-imputato era stato Jacques Varges, l'avvocato del Fronte nazionale di liberazione algerino (ma poi anche, in nome di un garantismo radicale, del «boia di Lione», l'ufficiale delle S.S. Klaus Barbie). Così, anche nel primo processo per ricostruzione del partito fascista, gli ordinovisti rifiutarono gli interrogatori, rimettendosi tutti alla memoria difensiva del leader Clemente Graziani. Un manifesto politico che contiene un preciso avvertimento: «Siamo in attesa, signori del Tribunale, per sapere dal vostro verdetto se abbiamo ragione o torto, se Ordine nuovo può continuare ad agire sul piano della legalità oppure se deve ricorrere ai mezzi di lotta previsti nei periodi di repressione e persecuzione democratiche» (30). Gli ordinovisti erano lacerati da un dilemma dottrinario: tra la fedeltà all'Idea (l'evoliana idolatria dello Stato come entità metafisica) e la lotta al regime. La scelta di contestare la legittimità del tribunale della Repubblica troverà l'estrema conseguenza nella condanna a morte eseguita contro il p.m. Occorsio, che si era fatto carico per tre volte dell'onere dell'accusa contro Ordine nuovo . Dopo l'omicidio, l'atteggiamento processuale dei 119 imputati della ricostituzione del gruppo extraparlamentare cambia radicalmente: solo Graziani, con una dichiarazione inviata alla Corte, si proclama latitante perché «latitante in Italia è la giustizia» e afferma la volontà di non difendersi davanti ad «addomesticati tribunali di un sistema prevaricatore, corrotto e incapace». Cento imputati non partecipano alle udienze. I pochi che rendono interrogatorio negano tutto: l'appartenenza a O.N., l'adesione ad Anno zero, la sigla che dietro il velo dell'omonima
rivista avrebbe celato la rigenerazione del M.P.O.N., a volte oltre l'evidenza. Atteggiamento che paga: nel gennaio 1978 centoquattordici imputati (su centotrentatré: al processo era stata aggiunta la banda Concutelli) sono assolti, per gli altri diciannove si rinvia in attesa delle conclusioni dei processi sui singoli episodi di violenza. Le conclusioni alle quali è giunto Vinciguerra al termine di un tormentato percorso sono pesantissime: mentre lui aveva dichiarato una guerra poco più che personale allo Stato antifascista, i suoi camerati trafficavano con gli uomini e gli apparati nemici. Vinciguerra attribuisce la «strategia della tensione» a «una struttura parallela ai servizi di sicurezza e che dipendeva dall'Alleanza atlantica; i vertici politici e militari ne erano perfettamente a conoscenza [...]. Il personale veniva selezionato e reclutato negli ambienti dove l'anticomunismo era più viscerale, cioè negli ambienti di estrema destra [...]. Tale struttura organizzativa obbedisce a una logica secondo cui le direttive partono da apparati inseriti nelle istituzioni e per l'esattezza in una struttura parallela e segreta del ministero degli Interni più che dei Carabinieri» (31) . E se gli si può riconoscere, alla luce della sua posizione giuridica (ergastolo definitivo) e penitenziaria (una lunga documentata catena di vessazioni), il beneficio della buona fede, gli va allora addebitata una dose di ingenuità incompatibile con le velleità di un combattente rivoluzionario, che non esita a collaborare con la magistratura pur di smascherare le attività controrivoluzionarie degli ex-camerati in un bizzarro proseguimento della lotta politica per via giudiziaria (a suon di ergastoli). Un ritratto in chiaroscuro di Vinciguerra ce lo offre Gianni Barbacetto: «Ha mani minute, viso tondo, un eloquio che dimostra intelligenza e buona cultura, nutrita soprattutto dei maestri europei del pensiero di destra, Guénon, Céline, Evola. Ci tiene a dare di sé l'immagine di 'soldato politico' spietato ma integro, incapace di compromessi, tutto d'un pezzo. Non vuole essere confuso con la destra reazionaria» (32). La sua intenzione dichiarata è di «chiarire il proprio ruolo di combattente rivoluzionario antisistema in mezzo a gruppi di destra che, sostiene, erano al contrario servi del partito atlantico, bracci armati e milizie civili a disposizione dell'esercito e dei servizi segreti» (33). Della purezza di queste intenzioni non è convinto il giudice Casson e così Vinciguerra si sceglie come interlocutore il milanese Salvini - che pure lo considera un «testimone reticente» (34) riservando a quello che chiama il «giudice felice» centinaia di pagine al
vetriolo. Da parte sua Casson s'impegna sistematicamente a demolire la sua immagine. Gli interrogativi che il giudice veneziano si pone sono pertinenti: «Perché si è consegnato ai giudici nel 1979, quando aveva sulle spalle una condanna a dodici anni per il tentato dirottamento di Ronchi dei Legionari? Se si è consegnato per fare chiarezza sul ruolo della destra, usata dagli apparati dello Stato o, peggio, doppiogiochista e venduta ai servizi segreti italiani e americani, perché ha aspettato cinque anni prima di raccontare, nel 1984, la verità su Peteano? Perché si è consegnato proprio alla vigilia della grande offensiva terroristica 1979-'80, che culminerà con la strage di Bologna? Perché era ferito quando si è lasciato arrestare?» (35). Il tutto è condito dal sospetto che voglia coprire le responsabilità del gemello Gaetano, con cui ha mostrato un legame viscerale nonostante l'assoluta sporadicità dei contatti . E' verosimile che Vinciguerra si sia consegnato perché effettivamente disgustato delle tante «schifezze» che aveva visto in giro, tra «agenti doppi, 'nazisti' a mezzo servizio stipendiati dai carabinieri e giovani fascisti italiani trasformati, per conto dell'Aginter Press-CIA, in cacciatori ammazza-baschi in Spagna o in volontari del terrore in Africa o in torturatori di oppositori in Argentina e in Cile» (36), mettendosi al tempo stesso al sicuro da chi evidentemente non si fidava più di lui. L'ultimo attacco frontale all'autorappresentazione di un Vinciguerra incontaminato dopo anni d'attività tra «zozzoni» di vario genere Casson l'ha data indagando per concorso nella strage di Peteano l'agente della CIA, Edward Mc Gettigam, consigliere politico dell'ambasciata di Roma e responsabile di Stay behind in Italia. Il generale Serravalle, già capo di Gladio, ha rivelato al giudice Mastelloni che l'agente americano gli aveva riferito di essere stato presente sul ponte di Segrado di Peteano la sera della strage. Dopo questa confessione nel corso di un ricevimento nella casa romana del numero due della CIA, l'agente era stato richiamato negli Stati Uniti e sospeso dal servizio per «improvvisi segni di squilibrio mentale». Già in precedenza lo scontro era stato durissimo sulla natura del materiale usato per la strage, con Vinciguerra ostinato nel sostenere che era stato tutto recuperato attraverso circuiti militanti e Casson sicuro di poter dimostrare che i terroristi neri avevano attinto al deposito clandestino di Gladio scoperto pochi mesi prima in una grotta del Carso, il cosiddetto Nasco di Aurisina, sottolineando come tra i componenti della struttura
di sicurezza atlantica nella zona ci fossero numerosi reduci di Salò. Del resto, smentendo le rassicurazioni di Andreotti sulla natura antifascista di Gladio, Casson ha potuto individuare tra i 622 nomi di gladiatori gettati in pasto alla stampa almeno quattro iscritti al P.N.F., otto reduci di Salò, un marò della Decima MAS e nove iscritti al M.S.I.. E del resto è il segretario del M.S.I., Giorgio Almirante, a favorire - sarà per ciò amnistiato - la latitanza di Carlo Cicuttini, complice di Vinciguerra a Peteano e segretario missino di un paesino della valle di Natisone (37) . La «consulenza» di Vinciguerra è molto ambita, è infatti l'unico quadro che ha militato in entrambi i gruppi storici della destra extraparlamentare, e può così confermare che le reciproche accuse di collaborazionismo con i servizi sono veritiere: entrambi i gruppi hanno lavorato per gli apparati dello Stato. Infatti anche per Avanguardia nazionale, che nelle prime confessioni aveva difeso dalle accuse di golpismo e di stragismo, Vinciguerra arriva alla conclusione che l'organizzazione era colpevole di «intelligenza con il nemico» e ne ricostruisce le collusioni e le malefatte con servizi segreti e criminalità organizzata, dalla strage di Gioia Tauro alle bombe sui binari per impedire la grande manifestazione sindacale del 22 ottobre 1972 a Reggio Calabria (38). Di Ordine nero neanche a parlarne: l'avevano messo su i servizi di sicurezza. Quando in Spagna ne chiedono conto all'ordinovista Cauchi, confidente del capoposto del SID di Firenze, Vinciguerra è il più refrattario a farsi commuovere dalle lacrime del leader dei bombaroli toscani ed è deciso a ucciderlo. Dal loro canto i milanesi di Ordine nero - in prevalenza ex di A.N., a mezzo servizio con il MAR (Movimento di azione rivoluzionaria) di Fumagalli smentiranno rapporti con la banda toscana che rivendica gli attentati ai treni con la stessa sigla, facendo notare che non avevano usato il volantino con intestazione originale in caratteri gotici che considerano il proprio «marchio di garanzia» per scongiurare provocazioni. E' possibile che le diverse bande armate «nere» non avessero collegamenti diretti e che la loro funzionalità al complessivo disegno del «partito del golpe» fosse garantito dai diversi referenti politici e militari, dai Gelli, dai Sogno, dai Fumagalli, tutti rigorosamente antifascisti . La svolta di Vinciguerra è lenta e tormentata. In un primo momento sospende la collaborazione, per «un principio di equità, che mi vieta di accusare solo persone di un certo ambiente che sono state al servizio di apparati dello Stato, a favore di certe persone che presumibilmente
hanno fatto le stesse cose e alle quali sono stato legato da un rapporto umano importante. Ritengo che anche queste ultime persone abbiano avuto rapporti con apparati statali senza però, a mio avviso, farsi indurre ad accettare una strategia stragista» (39). Consumato il distacco sentimentale, demolisce definitivamente l'immagine di A.N. come pura organizzazione rivoluzionaria che Delle Chiaie, noto anche come il «Caccola» per la sua statura irrisoria, e ciò nonostante sicuramente il leader più influente della destra radicale, Tilgher e i loro fedelissimi da trent'anni si affannano a diffondere e a difendere. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice Salvini è che sia veramente esistita «una catena di comando che dagli esecutori materiali (gli uomini di Avanguardia nazionale a Roma e di Ordine nuovo a Milano) risaliva ai capi di quelle organizzazioni (Delle Chiaie per Avanguardia, Rauti e Maggi per Ordine nuovo), fino a un livello internazionale, quello di Guerin Serac, in ottimi rapporti, per esempio, con un personaggio come William Buckley, il capo della CIA per l'area del Mediterraneo ucciso nel 1985 in Libano» (40). Di rapporti tra gli ordinovisti patavini e gli avanguardisti romani aveva già parlato Giovanni Ventura, in un interrogatorio nel '72: l'interfaccia nella capitale di Freda sarebbe stato Guido Paglia, presidente della rifondata A.N., informatore principale del SID sul golpe Borghese e sul suo gruppo (Delle Chiaie, secondo una vulgata sempre da lui contestata, avrebbe fatto riferimento alla componente opposta dei servizi, gli Affari riservati di D'Amato). Una relazione consegnata dalla «fonte Parodi», attribuita a Guido Paglia, indica i componenti del vertice (Delle Chiaie, Tilgher, Giorgi, Campo, Perri, Crescenzi e Fabruzzi) oltre che alcuni elementi della struttura illegale (Palotto, Di Luia, Ghiacci e Fiore). Il documento non fu sviluppato in sede investigativa, né trasmesso all'autorità giudiziaria. Paglia ha negato la paternità del documento che fu consegnato nell'aprile del 1981 dall'ex-capitano del SID Labruna ai magistrati che indagavano sulla P2, nella fase in cui la scoperta dell'archivio di Castiglion Fibocchi aveva rivitalizzato anche gli accertamenti sull'omicidio Pecorelli, concentrando l'attenzione sull'attività di Viezzer e Labruna . Molte delle confessioni di Vinciguerra sono "de relato": la sua militanza in A.N. comincia in Spagna, nella primavera del 1974. I magistrati di mezza Italia (Milano, Reggio Calabria, Bologna) lo tengono comunque in gran conto. Così è fondamentale il suo "j'accuse"
contro i vertici ordinovisti per la richiesta di rinvio a giudizio della procura di Bologna per i depistaggi sulle stragi (41): «A dimostrazione dell'elevatezza dell'attacco terrorista, della complicità di apparati dello Stato (dal ministero dell'Interno ai vertici delle Forze armate e dei servizi segreti, a esponenti politici di primo piano) si richiamano le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra secondo il quale sotto la facciata di O.N., si nascondeva una struttura occulta all'interno della quale operavano personaggi come Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Paolo Signorelli e, in posizione di vertice, lo stesso Pino Rauti» (42). A Maggi, responsabile ordinovista per il Triveneto, rientrato nel M.S.I. con Rauti, di cui era grande amico, arrestato nel giugno '97 come organizzatore delle due stragi di Milano (piazza Fontana e Questura), Vinciguerra attribuisce anche responsabilità penali: il medico veneziano, che aveva cominciato la sua carriera nel '66, rubando esplosivo in una cava nel Vicentino, gli avrebbe consegnato il plastico al T4 utilizzato per la strage di Peteano. La condanna a dieci anni sarà cancellata in appello. La struttura descritta da Vinciguerra - in un primo momento confusa con Gladio e solo successivamente definita come Nuclei di difesa dello Stato (43) o più semplicemente come Legione solo in parte si identifica con Ordine nuovo ma può essere definita con maggiore esattezza come una federazione di singoli gruppi e bande del partito (armato) del golpe, che collega e organizza terroristi neri e bianchi, ufficiali delle forze dell'ordine, delle Forze armate e della NATO: «E' proprio sul terreno di questo 'anticomunismo atlantico' che il mondo neofascista, alla ricerca di un posto all'ombra dei potenti, ha finito per legarsi definitivamente al carro americano, nella sola posizione possibile: quella di uno degli strumenti di azione del potere statunitense. Non si è trattato di un'alleanza ma di una posizione di assoluta sudditanza politica ed operativa, di cui almeno gli esponenti di vertice del neofascismo non potevano non essere consapevoli» (44) . Già nel 1977, nel corso dell'inchiesta sulle bombe di Trento (45), uno dei legionari, Enzo Ferro, ricostruisce le attività di addestramento al sabotaggio e alla controguerriglia della banda armata di Stato. Descrive una struttura di militari e civili concentrata a Verona intorno al colonnello Amos Spiazzi, detenuto da tre anni per l'inchiesta sulla Rosa dei venti. Conferma le responsabilità degli apparati di Stato per gli attentati di Trento per i quali da mesi si stavano scannando carabinieri e Guardia di finanza, accusandosi a vicenda di esserne i mandanti. Senza
conseguenze (46). Racconta le esercitazioni con gli esplosivi, gli attentati dimostrativi, i progetti di stragi per fermare l'avanzata comunista: «La finalità della struttura», ha ribadito diciott'anni dopo a Salvini, «era quella certamente di fare un colpo di Stato all'interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi preferibilmente senza vittime [...] Alle riunioni presenziavano diversi civili, anche di Verona, vari amici di Spiazzi che avevano un'ideologia più fanatica, erano quelli di Ordine nuovo, ricordo Elio Massagrande, Roberto Besutti, Claudio Bizzarri, Giampaolo Stimamiglio; si usava sempre il nome in codice [...]. Una volta venne uno con una valigetta di cuoio mostrando delle saponette di tritolo già pronte con gli spinotti e gli inneschi» (47). Secondo Salvini - che ne ha tratteggiato le caratteristiche in una sentenza-ordinanza del marzo 1954 (48) - i Nuclei per la difesa dello Stato sono stati attivi dal 1966 al luglio 1974 (cioè dal convegno del Parco dei Principi alla «svolta antifascista» di Andreotti), strutturati in trentasei legioni, che avrebbero fatto capo allo Stato maggiore dell'esercito con il supporto logistico dei carabinieri. Quella di Verona, la quinta, era composta da sessanta-settanta uomini, il che fa ipotizzare un organico nazionale di millecinquecento uomini. Secondo alcuni pentiti, ma anche per Francesco Gironda, il gladiatore promotore di un'associazione di reduci decisi a difendere la legittimità costituzionale di Stay behind, Andreotti avrebbe bruciato Gladio per coprire i Nuclei e le loro pesanti compromissioni con il terrorismo neofascista. Una tesi sostenuta con rabbia dal generale Paolo Inzerilli, capo di Stay behind dal 1974 al 1986, e poi comandante del SISMI fino al '91: dietro le stragi c'è stata un'organizzazione segreta legata ad apparati istituzionali. Per coprirla Andreotti, complice inconsapevole il giudice Casson, avrebbe ingiustamente sacrificato Gladio, come diversivo da offrire al P.C.I.-P.D.S. per la sua corsa al Quirinale. L'elenco diffuso dei 622 gladiatori riguarderebbe soltanto le calamite, cioè i quadri che avevano il ruolo di raccogliere e di riorganizzare i militari sbandati per l'invasione nemica. Il generale ce l'ha con l'expremier: prepensionandolo gli ha negato l'ultima promozione, a generale di divisione. E sottolinea una coincidenza che suffraga la tesi del complotto: lo svelamento di Gladio era stato compiuto a tappe. In uno dei passaggi, Andreotti aveva sostenuto che la struttura era stata soppressa nel 1972 salvo correggersi e ammettere che Stay behind era ancora attiva nel 1990. Un lapsus significativo perché nel 1972 erano
stati smantellati i depositi clandestini e l'anno dopo - per le compromissioni con le trame stragiste e golpiste - l'intera organizzazione, attiva dal 1966, composta da quadri addestrati a svolgere compiti di controterrore. Cioè le bombe. Già il nome della sua articolazione territoriale - la legione - richiama la struttura dell'Arma, riferimento confermato da numerosi collaboratori di giustizia che parlano di consegne di armi da parte dei carabinieri. Un aderente veneto del MAR racconta di una riunione nell'estate '69 nel caffè Pedrocchi di Padova - quindi non proprio clandestina - con venticinque militanti di area ordinovista, due ufficiali della NATO e uno dei carabinieri, presentatosi come «Penna nera» e in seguito identificato come il comandante del locale nucleo operativo, il colonnello Dogliotti identificazione contestata in sede giudiziaria dallo stesso ufficiale. Nell'occasione sarebbe stata definita una consegna di armi da effettuare in una caserma dei carabinieri della Valtellina, santuario del MAR . Nella sentenza-ordinanza del processo per la strage della stazione di Bologna i giudici, dopo aver indicato i componenti della struttura occulta implicata nelle stragi (il colonnello Santoro (49), Antonio Labruna (50), Cristiano De Eccher (51), Massimiliano Fachini, Marcello Soffiati (52), Amos Spiazzi, Roberto Raho (53), Paolo Signorelli e Fabio De Felice), ricordano che «Vinciguerra ha fornito un elenco di nomi ben più ampio indicando negli appartenenti al Centro studi Ordine nuovo la struttura portante della strategia di infiltrazione, provocazione e strumentalizzazione di gruppi politici volta a perseguire fini coincidenti con quelli di alcuni apparati dello Stato ai quali erano legati» (54) e riportano gli altri componenti del gruppo. Alcuni non hanno mai militato in Ordine nuovo: i giornalisti Enzo Erra e Fausto Pierfranceschi (così nel testo: presumibilmente Gianfranceschi), già coimputati di Rauti nel processo del 1951 contro i FAR (i Fasci armati rivoluzionati furono autori di clamorosi gesti di «propaganda armata»), il senatore missino Cesare Pozzo, portavoce di Almirante, il fondatore di Lotta di popolo Enzo Maria Dantini, i leader di Giovane Europa Claudio Orsi e Claudio Mutti, i milanesi della Fenice, Giancarlo Rognoni e Marco Cagnoni, il bolognese Luigi Falica, a cui Graziani affida la gestione di Ordine nuovo prima di espatriare. Gli altri sono i quadri ordinovisti del Triveneto: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Francesco Neami, Cesare Turco (55), Claudio Bressans (56), Mario Portolan (57), Giancarlo Vianello (58), Aldo Trinco (59), l'intero
gruppo Freda-Fachini. Un rapporto del ROS per l'inchiesta Salvini dà credito alle accuse di Vinciguerra: Franco Freda avrebbe scritto rapporti informativi per il SID con il nome di copertura di «agente T» mentre ad ammettere la collaborazione di Fachini, morto nell'inverno 2000 in un incidente stradale, con il servizio segreto, sarebbe stato lo stesso generale Maletti (60) . NOTE . (1). Il 21 novembre 1996 la Cassazione ha reso definitiva l'assoluzione per Licio Gelli e i vertici della P2: la loggia segreta non cospirò contro lo Stato. Per procacciamento di notizie riservate (un dossier su un traffico di petrolio con la Libia teso a finanziare una scissione di destra della D.C. nel 1975) Gelli è condannato a 8 anni di carcere, l'ex-numero due del SID Maletti, da anni rifugiato in Sudafrica, a 14 anni . (2). Confronta Giorgio Galli, "La crisi italiana e la Destra internazionale", Milano, Mondadori, 1974 . (3). Confronta Furio Jesi, "Cultura di destra", Milano, Garzanti, 1979 . (4). Il 12 dicembre 1969, nel quadro di una campagna coordinata di attentati che vede colpire l'Altare della patria e banche romane e milanesi, un ordigno collocato nella Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana a Milano provoca morti e feriti . (5). L'O.A.S., ovvero l'Organization de l'armée secrète, è l'organizzazione dell'esercito clandestino formato dagli ufficiali francesi che si oppongono al processo di decolonizzazione in Algeria. Per tale fine. giungono a preparare un attentato al presidente De Gaulle, che poi grazierà i colpevoli. L'O.A.S. costituirà il mito e al tempo stesso il riferimento organizzativo di numerose componenti della destra reazionaria e golpista . (6). Chiara Valentini, "La volta che mi stavano fucilando", «L'Espresso», 10 febbraio 1995 . (7). Adalberto Baldoni - Sandro Provvisionato, "La notte più lunga della repubblica. Sinistra e destra, ideologie, estremismi, lotta armata", Roma, Serarcangeli, 1989, p. 32 . (8). Ivi, p. 54 . (9). M. Ca., "Rauti: regia CIA? Poteva esserci una centrale unica", «Corriere della Sera», 13 novembre 1995 . (10). Militante di Lotta continua ucciso a coltellate a Parma il 20 luglio 1972 da una squadra neofascista .
(11). Daniele Protti, "Non fidatevi di loro. Parola di fascista", «L'Europeo», 20-25 maggio 1994 . (12). Confronta Giulio Salierno, "Autobiografia di un picchiatore fascista", Torino, Einaudi, 1976 . (13). Confronta Marco Tarchi, "Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo", Milano, Rizzoli, 1995 . (14). Ivi, p. 50 . (15). La Carta di Verona è il programma del Partito nazionale fascista (P.N.F.) relativo alla Repubblica sociale e si richiama ai temi «socialisteggianti» dell'immediato dopoguerra . (16). Confronta Clemente Graziani, "Processo a Ordine nuovo, processo alle idee", Roma, Edizioni di O.N., 1973 . (17). Evola, falliti i tentativi tattici di collegarsi alle «forze sane della nazione», approda a una visione più tragica e negativa di isolamento e di distacco dell'uomo dalla società borghese, la cui crisi è ritenuta definitiva. L'impegno politico si concretizza in una milizia eroica, passaggio obbligato per costruire uno Stato popolare (nella teorizzazione che ne fa Freda) o nell'esaltazione del gesto individuale come affermazione dei valori di superiorità e disuguaglianza . (18). Francesco Ingravalle, "Pour une analyse du Mouvement Révolutionnaire en Italie", «Totalité», n. 10, novembre-dicembre 1979 . (19). Vincenzo Vinciguerra, "Ergastolo per la libertà", Firenze, Arnaud, 1988, p. 199 . (20). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p. 35 . (21). Ibidem . (22). Vedi il capitolo «C'è una banda nel cuore di Roma» . (23). Confronta l'intervista di Paolo Guzzanti a Pino Rauti («la Repubblica», 5 agosto 1980) . (24). Michele Brambilla, "Interrogatorio alle destre", Milano, Rizzoli, 1994, p.p. 31-32 . (25). Ibidem . (26). Ibidem . (27). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 7 . (28). Confronta Vincenzo Vinciguerra, "La strategia del depistaggio", Sasso Marconi (Bo), Il Fenicottero, 1993 . (29). Secondo Franco Ferraresi le iniziative assunte da alcuni settori della magistratura e dei Servizi nei confronti di appartenenti al movimento fu vissuta dai suoi militanti come un vero e proprio
tradimento da parte dello Stato e in questo quadro va letta la svolta strategica verso forme di lotta armata . (30). Sandro Forte, "I processi alle idee", Roma, Edizioni Europa, 1995(2), p. 64 . (31). Sentenza della Corte d'assise di Venezia, presidente Renato Gavardini, 25 luglio 1987, p. 399 . (32). Gianni Barbacetto, "Il Grande Vecchio", Milano, Baldini e Castoldi, 1993, p.p. 196-97 . (33). Ivi, p. 101 . (34). Spiega Salvini nel corso di un'udienza della Commissione stragi che purtroppo Vinciguerra ha limitato la sua ricostruzione a fini di verità sulla «strategia della tensione» ad alcune e nemmeno tutte le notizie di cui disponeva sulla strage di piazza Fontana e ha fornito pochissimi dati sulle altre stragi poiché le condizioni per far emergere le verità sulle stragi non sono ancora maturate . (35). Barbacetto, "Il Grande...", cit., p. 202 . (36). Ivi, p.203 . (37). Per aver pagato le spese dell'operazione alle corde vocali di Cicuttini, per impedirne l'identificazione come autore della telefonata trappola ai carabinieri, il segretario del M.S.I. fu processato per favoreggiamento . (38). Vedi il capitolo «La loggia di Freda» . (39). Interrogatorio di Vincenzo Vinciguerra al giudice istruttore di Bologna Grassi, 18 novembre 1987 . (40). Barbacetto, "Il Grande Vecchio", cit., p. 110 . (41). La Commissione stragi così riassume le principali conclusioni della sentenza-ordinanza del giudice Grassi: «- le imputazioni di concorso in strage per attentare alla sicurezza dello Stato, omicidio plurimo, lesioni, detenzione di esplosivi, disastro ferroviario, in relazione all'attentato al treno Italicus, nei confronti di Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto; - l'imputazione di concorso in associazione sovversiva, in riferimento alla costituzione e organizzazione del 'Fronte nazionale rivoluzionario' [F.N.R.] in Toscana, fino al 3 agosto 1974, nei confronti degli stessi Delle Chiaie e Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto; - le imputazioni di associazione sovversiva e banda armata operanti in Milano Ascoli e altre zone dell'Italia centrale sino all'agosto del 1974, nei confronti di Piergiorgio Marini e Giuseppe
Ortensi, dichiarandone l'improcedibilità per l'esistenza di precedente giudicato sui medesimi fatti; - l'imputazione di favoreggiamento aggravato, a vantaggio di Luciano Franci e Pietro Malentacchi e nell'ambito delle indagini sulla strage dell'Italicus e commesso quindi nell'agosto-settembre 1974, nei confronti del comandante del gruppo dei carabinieri di Arezzo, colonnello Domenico Tuminello, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione; - l'imputazione di calunnia continuata, aggravata dalla finalità di eversione, in relazione alle false accuse in danno di Valerio Viccei e Angelo Izzo, per aver reso dichiarazioni calunniatorie, per aver predisposto un'evasione dal carcere di Paliano unitamente a Raffaella Furiozzi e a Sergio Calore e per aver detenuto stupefacenti unitamente alla sola Furiozzi, nei confronti di Bongiovanni Ivano, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione; - l'imputazione di calunnia aggravata dalla finalità di eversione, in relazione alle false accuse di omicidi tra i quali quelli di Silvano Fedi e Manrico Bucceschi, nonché di più stragi, in danno di Licio Gelli, nei confronti di Federigo Mannucci Benincasa e Umberto Nobili, ordinandone il rinvio a giudizio innanzi alla Corte di assise di Bologna; - le imputazioni di favoreggiamento e abuso continuati e aggravati dalle finalità di eversione, minacce a pubblico ufficiale, tentata sottrazione di documenti sottoposti a sequestro, in relazione alle attività illecite dispiegate nella qualità di direttore del centro SISMI di Firenze per ostacolarne le indagini sulle attività eversive di Augusto Cauchi, nonché per ostacolare gli sviluppi istruttori sulla propria posizione, nei confronti di Federigo Mannucci Benincasa, ordinandone il rinvio a giudizio innanzi alla Corte di assise di Bologna. Pertanto la sentenza-ordinanza, sempre con riferimento agli ambiti temporali considerati, trasmette agli atti: - alla procura di Bologna per l'ulteriore corso delle indagini contro gli ignoti autori della strage dell'Italicus; - alla procura di Roma in ordine alle ipotesi di cospirazione politica e attentato contro la Costituzione dello Stato delineabili nell'intero arco temporale compreso tra il 1969 e il 1982 a carico di Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giancarlo D'Ovidio, Federigo Mannucci Benincasa, Umberto Nobili, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte, Licio Gelli» . (42). Gian Pietro Testa, "Gladio, i servizi, i fascisti. Leggete questo documento choc", «Avvenimenti», 3 agosto 1994 .
(43). La sigla fu usata per la prima volta nel '66 da Freda e Ventura per diffondere tra gli ufficiali delle Forze armate materiale di propaganda golpista: un'iniziativa ispirata secondo il centro di controspionaggio di Padova da Rauti e Giulio Maceratini, allora numero due di O.N., oggi capogruppo di Alleanza nazionale al Senato . (44). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit. in Manuel Negri, "L'agente «T» Franco Freda", «Avanguardia», a. 16, n. 1, gennaio 1988 . (45). Trento è uno degli avamposti per l'uso da parte di apparati dello Stato di attentati terroristici, opera di agenti provocatori per reprimere la sinistra e il movimento operaio e studentesco. Il 10 aprile 1969 Marco Pisetta, che sarà il primo infiltrato nelle Brigate rosse, colloca una bomba alla Regione, la notte dopo fa il bis all'INPS di Trento. Scorda nella borsa una foto della sorella ma l'ordigno non scoppia. Lui scompare dalla circolazione e si scatena la repressione a sinistra. Nell'inverno 1971 riparte in grande stile una campagna terroristica. Quello al Palazzo di giustizia del 18 gennaio 1971 è attribuito a due collaboratori del SID, Sergio Zani e Sergio Widmann, ed è teso a provocare una strage tra i «compagni» mobilitati per un processo attribuendone loro la responsabilità. Ma il processo slitta e il progetto salta. Gli attentati proseguono: l'8 febbraio un ordigno micidiale esplode al palazzo della Regione. Gli ultimi attentati provocatori hanno luogo il 12 febbraio, contro due monumenti ai Caduti, considerati un tipico obiettivo di «sinistra». Nonostante il preavviso di un giorno uno degli ordigni non è rimosso a tempo ed esplode. La copertura del segreto di Stato, data da Andreotti e Rumor nel novembre 1972, non serve: una faida fra opposti segmenti dei servizi di sicurezza porterà alla luce coperture e depistaggi dell'inchiesta e quindi all'arresto nel 1977 del vicequestore Molino capo dell'ufficio politico a Padova e poi a Trento, e i colonnelli dei carabinieri Pignatelli e Santoro, tre protagonisti della «strategia della tensione» (dalla strage di Peteano all'omicidio dell'agente Marino alla copertura offerta alla Rosa dei venti). La vicenda giudiziaria è abbastanza complessa. Un rapporto dei carabinieri accusa i corpi speciali della Guardia di finanza di aver organizzato l'attentato al tribunale utilizzando come manovali due contrabbandieri sudtirolesi confidenti, Hofer e Gatscher. Riunioni di vertice a Roma affossano la denuncia che è ripresa da «Lotta continua» .
L'assoluzione del direttore del quotidiano nel processo per diffamazione rilancia l'inchiesta. Nel novembre sono arrestati Zani e Hofer mentre Gatscher scappa. A dicembre è la volta del colonnello delle Fiamme gialle Siragusa e del maresciallo Saja. Ma a gennaio '77 i due sono scarcerati e scattano le manette per Molino, Pignatelli e Santoro, accusati di falso e favoreggiamento per il depistaggio. I tre ottengono la libertà provvisoria a febbraio. Il rinvio a giudizio conferma la svolta processuale ma il dibattimento assolve gli imputati maggiori con formula piena e gli autori materiali (Zani e Widmann che avrebbero fornito l'ordigno ai contrabbandieri) con insufficienza di prove, e riapre la pista della Guardia di finanza . (46). Michele Gambino, "«Sapevano tutto». Quindici anni fa un testimone", «Avvenimenti», 26 aprile 1995 . (47). Giorgio Cecchetti, "I pentiti parlano e affiora la Gladio dei «legionari»", «la Repubblica», 4 aprile 1995 . (48). In un troncone dell'inchiesta principale Salvini, oltre a registrare numerose prescrizioni, ha rinviato a giudizio Rognoni, Azzi, Signorelli e Calore per un traffico di bombe a mano, Digilio ed Ettore Malcagni per favoreggiamento e inviato gli atti a Roma per procedere per cospirazione politica contro Licio Gelli . (49). In servizio negli anni Sessanta in Alto Adige, Michele Santoro è nel 1970-'71 a Trento (e sarà perciò arrestato nell'inchiesta sulla mancata strage al Tribunale). Dopo essere stato sospettato di aver indirizzato le indagini sulla strage di Peteano verso un'inesistente pista rossa, è trasferito a Milano dove si distingue per aver attirato in trappola il responsabile dell'omicidio dell'agente Marino . (50). Il capitano Antonio Labruna, napoletano, ufficiale del SID, quando Maletti diviene capo del reparto D entra nel nucleo operativo diretto da Sandro Romagnoli. E' specializzato in «operazioni sporche»: gestisce i rapporti con gli estremisti neri che lo considerano un «amico». Nel 1972 tramite Guido Paglia incontra in Spagna Delle Chiaie chiedendogli aiuto per le evasioni di Freda e Ventura e per l'ospitalità a latitanti neri. Nel novembre 1972 va a Padova da Fachini, che considera superiore gerarchico di Vinciguerra, e lo avverte: «Ora basta fesserie». Si riferiva alla strage di Peteano (tre carabinieri morti) e al dirottamento di Ronchi (il responsabile ucciso). Nell'inverno 1973 organizza l'espatrio di Pozzan e Giannettini, non ancora ricercati per la strage di piazza Fontana. Registra le confidenze dei latitanti e le usa, su
mandato di Andreotti, per smantellare l'ala radicale del partito del golpe. La fonte principale è Remo Orlandini, braccio destro di Borghese nel putsch del 1970, riparato in Svizzera: all'inizio del processo per il golpe l'avvocato del latitante accuserà il capitano del SID di avergli fornito un passaporto. Sulla protezione accordata a un suo confidente del Fronte nazionale, Nicoli, si scontra col p.m. Violante, l'attuale presidente della Camera. Ne organizza l'espatrio in Svizzera ma quando il magistrato si precipita infuriato a Roma e chiede conto della fuga, Labruna informa il p.m. Vitalone che Nicoli è un infiltrato, ricercato per un'attività in favore dello Stato. Nel 1976 si fa un mese di carcere per la fuga di Pozzan e Giannettini: è scarcerato per le «ineccepibili qualità morali» ma al processo sarà condannato a due anni. E' coinvolto nel regolamento di conti che si scatena tra le opposte fazioni dei servizi. Rompe con Maletti e arriva allo scontro totale a colpi di dossier e di denunce. E' accusato dal colonnello Viezzer (un affiliato della P2 già segretario di Maletti al SID) e da Delle Chiaie di aver allestito con il capitano D'Ovidio l'arsenale di Camerino per creare una falsa pista rossa. Un ruolo fondamentale nell'operazione lo avrebbe avuto Paglia, che aveva «sparato» il ritrovamento sui giornali del gruppo Monti (l'inchiesta sarà archiviata nel gennaio 1989). E' incriminato nell'aprile 1981 per la scomparsa del dossier sullo scandalo dei petroli, il cosiddetto Mi.fo.biali), sul finanziamento libico al fondatore del N.P.P. (Nuovo partito popolare), Foligni, tramite il capo del SID, Miceli. Tenta di scaricare la colpa su Maletti ma sarebbe stato lui a cedere il dossier a Pecorelli che lo usa per attaccare l'ex-numero due del SID. In commissione P2 Spiazzi lo accusa di aver orchestrato l'operazione Rosa dei venti per liquidarlo politicamente, perché ambienti romani avevano deciso di scaricarlo dalla struttura di sicurezza, non ritenendolo più affidabile. Rincuorati dalla sua emarginazione e impotenza, molti trovano il coraggio di attaccare Labruna. Il numero due del MAR, Gaetano Orlando, lo accusa di aver ucciso il generale Ciglieri, morto in un improbabile incidente stradale il 27 aprile 1969. Di Biaggio, vittima del primo depistaggio sulla strage di Peteano, riferisce al giudice Casson che Labruna era stato con il generale Mingarelli protagonista delle pressioni per indurlo a confessare il falso. E' indagato per aver organizzato con Miceli e Maletti una serie di attentati antimissini nel 1971-'72 e per cospirazione politica per la P2. L'esplosione del caso Gladio gli offre l'occasione di
tornare alla ribalta da protagonista: «Tonino» rivendica un anno di lavoro a manomettere le bobine SIFAR prima di restituirle alla commissione di inchiesta. A gestire l'operazione sarebbe stato il sottosegretario alla Difesa, Cossiga. Gli omissis riguardano tre parti: Gladio, la struttura dei carabinieri in caso di guerra e fatti personali e privati. Tolti nel 1991 gli omissis sul Piano Solo, non ricompaiono i materiali sui primi due argomenti. Labruna sostiene di averli tagliati lui dalle bobine, ottomila metri in tutto, dal settembre 1969 al 30 aprile 1970, lavorando su indicazione di Alessi, presidente della commissione parlamentare, e di Henke, il capo del SID, che, prima di indicare i testi dei tagli, ne avrebbero conferito con Cossiga. Segnala ai periti i punti dove più evidenti sono le manomissioni: qualche clic scappato, salti logici, rumori di fondo da ripassare con speciali apparecchiature per mostrare linee di discontinuità. Le sue rivelazioni sono usate per attaccare il presidente della Repubblica Cossiga. Rincuorato dal successo, decide di collaborare con i magistrati che indagano sulle stragi (piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus) mettendo a disposizione il suo formidabile archivio e rinfrescando vecchie piste con la sua viva memoria. Le sue disavventure giudiziarie non sono però concluse. Nell'inchiesta bis per i depistaggi sulla strage di Bologna i suoi atti sono rinviati, nell'agosto 1994, a Roma, sede competente per l'attentato alla Costituzione. Per i tagli effettuati sulle sue registrazioni sul golpe Borghese e dintorni, è invece incriminato il suo diretto superiore, il generale Romagnoli. E' morto nel 1999 . (51). Cristiano De Eccher è il responsabile triveneto di Avanguardia nazionale. Iscritto all'Università di Padova, frequenta la libreria di Freda e ne diventa amico. Lo invita a tenere conferenze a Trento, lo ospita nel castello di famiglia di Collavino e partecipa al primo comitato pro-Freda. In seguito si sparge la voce, sdegnosamente smentita dallo stesso Freda, che era lui il depositario dei timer per cui l'avvocato patavino è accusato della strage di piazza Fontana. La voce compare nel memoriale Pomar, un ingegnere nucleare, riparato in Spagna dopo il mandato di cattura per il golpe Borghese, ed è rilanciata senza successo dai pentiti Izzo e Calore nel processo di Bari per la strage di Milano. Le nuove inchieste su piazza Fontana e gli attentati ai treni in Calabria di A.N. ripropongono l'ipotesi che De Eccher li avrebbe maliziosamente fatti scomparire proprio per incastrare Freda su mandato di Delle Chiaie. Nel memoriale Pomar (del 1977) De Eccher è
indicato come componente di una rete di potere occulta composta da Delle Chiaie, Merlino, Signorelli, Freda e Ventura, la cellula veneta, e gli ufficiali dei carabinieri Santoro, Pignatelli e Molino. E' arrestato per il fallito attentato a Gardolo del giugno 1973 contro l'auto di uno studente di Lotta continua e scarcerato dopo un mese. Quando, durante una perquisizione, gli agenti di polizia trovano quaranta pile utilizzabili per confezionare ordigni a tempo, la madre li rassicura beffarda: servono a fare giocare i figli del colonnello Santoro, amico di famiglia. Arrestato come organizzatore di A.N. nel novembre 1975 De Eccher è condannato a due anni . (52). Il veronese Marcello Soffiati, morto nel 1988, è al tempo stesso militante di Ordine nuovo, collaboratore della CIA e massone. Denunciato nel 1966 con il mantovano Roberto Besutti, il veronese Elio Massagrande e il veneziano Marco Morin (un gladiatore poi apprezzatissimo perito balistico) per raccolta e detenzione abusiva di armi da guerra, riporta una condanna irrisoria (90 giorni) perché passa la loro versione difensiva: erano collezionisti (anche di candelotti di dinamite). Nel 1972 accompagna in Spagna un camerata di Trieste, Gabriele Forziati, coinvolto nell'inchiesta per la mancata strage alla Scuola slovena. Detenuto per la Rosa dei venti, nel novembre 1975 Soffiati scrive al colonnello Spiazzi, suo referente come informatore (fonte Eolo), minacciando che se i giudici non si fossero decisi a scarcerarlo avrebbe sfilato il Rosario, accusando il figlio di un giudice veronese di aver partecipato a una sparatoria e altri reati politici, ma conferma il suo impegno d'onore agli organismi segreti rappresentati da Spiazzi e per i quali Soffiati aveva lavorato «in funzione antisovversiva», frequentando tra l'altro «ambienti contrari» per raccogliere informazioni. Nel corso di una perquisizione gli è sequestrata una mappa della caserma americana di Camp Darby . (53). Roberto Raho, nato a Treviso nel 1952, è considerato l'alter ego di Fachini sul piano politico e militare. E' accusato di aver organizzato l'evasione di Freda dal soggiorno obbligato di Catanzaro. Responsabile della struttura paramilitare veneta di C.L.A. («Costruiamo l'azione»), partecipa anche all'attività pubblica: Aleandri lo accusa di avergli fornito una borsa con dieci chili di esplosivo speciale e poi di aver procurato l'esplosivo per l'attentato alla villa dell'onorevole Anselmi. Ospita per nove mesi, dal marzo al dicembre 1978 a Treviso, Gilberto Cavallini e lo accompagna spesso a Roma. Sarebbe stato al corrente del
progetto di attentato contro il giudice Stiz, che aveva per primo portato alla luce le attività terroristiche della cellula nera veneta e avrebbe anche partecipato ai pedinamenti. E' arrestato subito dopo la sparatoria di Padova nella quale viene ferito e catturato Valerio Fioravanti. Imputato al processo O.N. bis e a quello per la strage di Bologna per costituzione di banda armata e associazione sovversiva, è latitante. A Bologna, dove il p.m. aveva chiesto una condanna a dieci anni, se la cava con un'insufficienza di prove. Nell'estate 1997 è arrestato per favoreggiamento di Delfo Zorzi nell'inchiesta per la strage di piazza Fontana. (54). "La strage", Roma, Editori riuniti, 1986, p. 205 . (55). Amico intimo di Vinciguerra (lavoravano nella stessa agenzia investigativa), viene descritto dall'autore della strage di Peteano - in "Ergastolo per la libertà" - come un esemplare tipico del doppiogiochismo neofascista: «Fu Cesare Turco a prestarmi 100mila lire per recarmi in Spagna e fu l'ultima volta che ebbi modo di parlarci, dopo non ci saremmo più incontrati. Anche con lui ci conoscevamo da almeno dieci anni, nel corso dei quali avevamo condiviso la quotidiana attività politica in Friuli. Dopo era andato all'Università di Roma e aveva cominciato a frequentare i P.S., gli Zorzi, i Fachini, aveva imparato a ingannare, a fingere e a diffamare. Era andato in Spagna e aveva conosciuto Stefano Delle Chiaie, al quale aveva chiesto di iscriversi ad A.N., ma era tornato dicendone peste e corna. Ci salutammo alla stazione Termini e mi disse che da quel giorno avrebbe accettato solo i consigli di Fachini e di Zorzi, uno lavorava per il SID, l'altro per il ministero degli Interni» (p. 33). Anche Cicuttini si era appoggiato a lui nel tragitto di fuga verso la Spagna (e sarà perciò condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Peteano). A suo modo fedele all'amico, nei primi mesi del '73 aveva informato Vinciguerra che la Finanza aveva inviato una nota al SID e agli Affari riservati in cui gli era attribuita la responsabilità di Peteano e di Ronchi. In altra occasione, nei primi mesi del '74, gli indica Zorzi come persona legata a un altissimo funzionario del Viminale. La sera prima del blitz di via Sartorio si incontra con Fachini . (56). Ordinovista triestino, aiuta Gabriele Forziati, ricercato dal giudice Stiz, a scappare in Spagna. E' a sua volta indagato e prosciolto per la bomba alla Scuola slovena. Nel settembre 1982 è arrestato con Maggi per l'inchiesta su Ordine nuovo veneto e un traffico di armi .
(57). Manlio Portolan è il responsabile di O.N. a Trieste ma risulterà poi anche candidato a Gladio. Nel marzo 1970 è invitato alla prima riunione di bilancio dei rautiani sul rientro nel M.S.I. Avrebbe partecipato all'organizzazione di attentati ai treni contro la visita di Tito in Italia nel marzo 1971: Vinciguerra riferisce che, alcuni giorni dopo la campagna, nella sede mestrina di O.N., gli avrebbe illustrato le modalità di preparazione e di posizionamento degli ordigni per procurare il taglio delle traversine e la rottura dei binari. Da una sua confidenza a Gabriele Forziati, un altro ordinovista coinvolto nelle trame nere, nasce la voce sulla responsabilità di Zorzi e Siciliano per la bomba alla Scuola slovena di Trieste, dove lavorava l'ex-moglie di Forziati, un attentato minore che ora è ritenuto preparatorio della strage di Milano . (58). Ordinovista mestrino, è tra i quadri rautiani convocato al primo attivo nazionale dopo la confluenza nel M.S.I. Con i giudici ammette di aver mantenuto contatti con gli ambienti ordinovisti veneziani ma anche con alte gerarchie militari . (59). Aldo Trinco era ancora minorenne all'epoca di piazza Fontana. Componente del gruppo di A.R., è impiegato nella libreria Ezzelino. E' arrestato il 13 aprile 1971 per associazione sovversiva con Freda e Ventura e colpito a maggio da un nuovo mandato di cattura, ma a luglio escono tutti e tre in libertà provvisoria. Nell'aprile '73 è arrestato per il lancio di molotov alla sinagoga di Padova. L'assalto segue di pochi giorni l'assemblea nella sede del Fronte monarchico giovanile di Padova con esponenti di A.N., O.N., O.L.P. per lanciare iniziative in difesa di Freda. Vinciguerra lo accusa di aver funzionato da agente di collegamento con Fachini per la fuga in Spagna di Carlo Ciccutini e di avergli perciò confidato le proprie responsabilità per Peteano pochi mesi dopo il fatto (e lui ne avrebbe informato il SID). Trinco a sua volta gli avrebbe rivelato il ruolo del gruppo padovano per la strage di Milano. In un interrogatorio dell'85 Trinco ammette i rapporti con Vinciguerra ma smentisce le confidenze compromettenti: lo aveva anzi richiamato alla priorità di un'azione metapolitica, riferendosi espressamente al pensiero di Evola e di Guénon . (60). Gianadelio Maletti, già numero due del SID, protagonista di innumerevoli misteri d'Italia, è passato alla storia come capo del famigerato ufficio D - difesa interna del SID - in pratica il numero due del servizio segreto, protagonista di un durissimo scontro di potere con
il suo diretto superiore, il generale Vito Miceli. Figlio di un eroe della guerra d'Africa, Maletti è addetto militare in Grecia all'epoca del golpe. Entra al SID dopo la strage di piazza Fontana ma si impegnerà ad assicurare assistenza a molti degli indagati, da Pozzan a Giannettini. Lo stretto rapporto con il capitano Labruna (vedi nota n. 47) gli sarà fatale: dall'arresto nel '76 per il favoreggiamento per la strage di Milano alla condanna, nel marzo 1996, a 14 anni di carcere per il dossier «Mi.fo.biali», e a un'altra condanna nella primavera del 2000 a 14 anni per i depistaggi sulle stragi. E' rifugiato da vent'anni in Sudafrica dove ha assunto la cittadinanza . LA MADRE DI TUTTI I MISTERI . Molti dei nomi della lista degli «Arlecchini, servi di due padroni» ritornano nell'ultima inchiesta sulle stragi. Piazza Fontana, la Questura di Milano e piazza della Loggia a Brescia sono collegate. Il livello operativo immediato era costituito dagli ordinovisti veneti e milanesi, che erano organicamente inquadrati in una struttura di sicurezza atlantica. I nomi sono gli stessi di trent'anni fa ma la novità più sconvolgente è che alcuni dei protagonisti affermano di aver riferito passo passo le loro imprese a un agente segreto americano. La centrale strategica della strage è stata individuata nell'agenzia Aginter Press di Lisbona, una struttura di copertura dell'Internazionale nera gestita dall'ex-O.A.S. Yves Guerin Serac, in odore di CIA. Il suo coinvolgimento nella strage di Milano del 12 dicembre 1969 era già stato segnalato, accostato a Stefano Delle Chiaie, ma in un contesto volutamente deformato e confusionario, in un appunto del SID scritto appena cinque giorni dopo . Ufficiale dell'esercito francese in Indocina (dove guadagna la «Bronze Star») e in Algeria, dopo l'avventura dell'O.A.S. era riparato in Portogallo dove l'agenzia di stampa era il paravento di un'organizzazione cattolico-integralista, Ordre et tradition e di una rete clandestina internazionale anticomunista, l'OACI, specializzata in pratiche di guerra non ortodossa. A questo network sono infatti attribuiti il tentativo di scindere le Azzorre dal Portogallo per trasformarle in una semicolonia americana, l'organizzazione dell'Esercito di liberazione del Portogallo, attivo con centinaia di attentati nei primi anni della svolta democratica, il sostegno ai movimenti di guerriglia antimarxisti dell'Angola. I corrispondenti
italiani dell'agenzia di stampa erano vari giornalisti più o meno fascisti, collegati al sottobosco dei servizi, da Guido Giannettini a Giorgio Torchia (giornalista del «Tempo» e titolare dell'agenzia di stampa Oltremare, da Pino Rauti a Giano Accame (repubblichino in gioventù, numero due della gollista Nuova repubblica degli anni Sessanta) (1) una delle articolazioni legalitarie del partito del golpe), il referente della centrale operativa era Stefano Delle Chiaie. E' un istruttore francese, tale Jean, a insegnare a più riprese (a Roma nel '66, a Reggio Calabria nel '70, di nuovo a Roma nel '73) agli avanguardisti la confezione di ordigni esplosivi. Era stato invece il braccio destro di Guerin Serac, l'ex-Waffen S.S. Robert Leroy, a organizzare l'infiltrazione a Torino nei gruppi filocinesi, un'operazione pianificata dal gruppo di Berna, emanazione europea della CIA, nel quadro del più generale programma di controllo della sinistra non solo estrema «M.H.-Chaos». Allo stesso contesto va ricondotto l'insistito corteggiamento da parte di Freda e Ventura del comandante partigiano stalinista Alberto Sartori e dei leader di un'altra frazione del movimento marxista-leninista, Elio Franzin e Mario Quaranta . Caduto il regime salazarista, Guerin Serac ripara in Spagna, ospite di Delle Chiaie, al quale non risparmia un umiliante rimprovero per un ritardo a un appuntamento. Dopo aver guidato la resistenza neofascista alla transizione democratica, fallito il tentativo, ripara in America Latina, dove se ne sono a lungo perse le tracce. Qualche anno fa è ricomparso in Spagna, a gestire una scuola di lingue, usando il nome di nascita, Yves Guillou. L'uomo di collegamento tra la centrale francoportoghese e il terminale italiano era un agente americano, John Jay «Castor» Salby, autore di attentati contro rappresentanze diplomatiche algerine, ma anche proprietario del mitra con cui fu ucciso il p.m. Vittorio Occorsio. Arrestato nel 1976 in Algeria con un altro quadro dell'OACI, Noel Cherid, e un collaborazionista cabilo, sarà salvato dalla condanna a morte cui sono destinati i suoi complici dall'intervento della diplomazia americana . Il 14 giugno 1997, dopo due anni di indagini, scattano le manette per Carlo Maria Maggi, organizzatore e mandante delle due stragi, per l'exmercenario Sergio Boffelli e per il triestino Francesco Neami (entrambi accusati di aver ospitato e istruito Gianfranco Bertoli prima dell'attentato di via Fatebenefratelli) .
Delfo Zorzi, ritenuto l'autore della strage della Banca dell'agricoltura, è colpito da un mandato di cattura internazionale che non potrà mai essere eseguito, non esistendo trattato di estradizione con il Giappone, di cui è cittadino da più di vent'anni (e solo altri quattro stranieri vantano questo privilegio). Su Maggi, oltre alle accuse dei «pentiti» (2) e le informative riaffiorate dai vecchi archivi del Viminale, pesano il contenuto delle conversazioni variamente intercettate, dopo che già era stato iscritto al registro degli indagati, e il fatto che Zorzi gli abbia consegnato, tramite il fratello Rudy, 50 milioni per pagarsi la difesa. Il medico respinge sdegnosamente tutte le accuse e si rifiuta di collaborare con i magistrati. Neami, rientrato nel M.S.I. con Rauti, è stato protagonista di numerose inchieste sulla violenza neofascista e il terrorismo nero a Trieste negli anni Settanta, ma se l'era sempre cavata con assoluzioni (come per la bomba alla Scuola slovena, che un presunto depistaggio di Maletti avrebbe tentato di attribuire alla sinistra) o modeste condanne (3) . A inquadrare il 12 dicembre in un più generale disegno di restaurazione autoritaria è stato Vinciguerra, che già nella sua autobiografia (4) racconta della manifestazione nazionale «d'ordine» congiuntamente convocata da M.S.I. e Ordine nuovo per il 13 e disdetta quando già treni e pullman avevano scaricato a Roma migliaia di entusiasti attivisti, tra cui lo stesso Vinciguerra. La strage di piazza Fontana doveva innescare quello che poi sarebbe stato un anno dopo il fallito golpe Borghese. Ne determinò il rinvio - nella ricostruzione di Salvini - il passo indietro del presidente del Consiglio Mariano Rumor, che era «non l'organizzatore o il mandante ma il terminale politico» della strategia stragista (5). Inorridito dall'entità del massacro, si sarebbe rifiutato di proclamare lo stato d'emergenza, come aveva concordato con i suoi referenti americani. Era entrato perciò nel mirino dei terroristi neri e questo sarebbe il movente della seconda strage milanese, commissionata a un avventuriero già al soldo dei servizi segreti italiani . A ricostruire i retroscena della strage della Questura di Milano del 17 maggio 1973, primo anniversario dell'omicidio Calabresi come fallito attentato ai danni di Rumor, all'epoca ministro degli Interni, è un pentito "sui generis", Carlo Digilio, informatore dei servizi segreti americani. Per loro conto si era infiltrato nella cellula ordinovista padovana quale consulente tecnico per armi ed esplosivi - solo uno
degli innumerevoli compiti svolti per loro conto e così descritti in un rapporto del ROS: «localizzazione di latitanti all'estero, individuazione di fabbriche clandestine di armi, fuoriuscita di informazioni da Ordine nuovo, rinvenimento di materiale radioattivo trafugato all'estero, individuazione di basi appartenenti a organizzazioni terroristiche estere e ricerca di esplosivo trafugato in Italia» (6). Oggi si trova a rispondere con chi ha accusato - Zorzi, Maggi, Rognoni - della strage di piazza Fontana. Arrestato nel giugno del 1982 per un traffico di armi che tre mesi dopo avrebbe mandato in galera anche il dottor Maggi, Digilio era stato scarcerato rapidamente grazie alla memoria liberatoria sottoscritta da Marco Morin, il perito balistico già condannato per la detenzione di decine di armi con gli ordinovisti veronesi alla metà degli anni Sessanta e beneficiato in quell'occasione dall'intervento del SID (7). Riparato a Santo Domingo, uno dei santuari dell'eversione nera, continua a lavorare per gli americani arruolando esuli cubani per missioni anticastriste, Digilio, improvvisamente scaricato dai suoi protettori, era stato estradato a tempo di record per scontare una condanna a dieci anni. Giunto in Italia, incomincia subito a collaborare ricostruendo lungo l'arco di tre anni tutte le vicende che l'hanno visto protagonista o comunque spettatore interessato. Dopo più di sessanta interrogatori, però, è colpito da un ictus che lo inchioda sulla sedia a rotelle e le successive difficoltà a sostenere gli incidenti probatori rischiano di inficiare la credibilità di tutta l'inchiesta. E' lo stesso giudice delle indagini preliminari, Forleo, inquietato da bizzarre contraddizioni (la improvvisa ma risoluta negazione delle responsabilità di Maggi e Zorzi) a chiedere una perizia psichiatrica. Il suo esito provvisorio, nell'aprile '98, è scoraggiante per l'accusa: Digilio mostra «disordine nella ricostruzione autobiografica, contraddizioni che lasciano perplessi sull'effettiva attendibilità del soggetto [... con] una sfumatura di dubbio su tutta l'attendibilità del suo dire» (8). I periti chiedono comunque ulteriori indagini. Sono infatti anche loro sconcertati: Digilio supera brillantemente i test standard ma retrodata di ben trent'anni l'ictus e ne attribuisce quattro in più alla figlia decenne: errori effetto della massiccia dose di barbiturici con cui si cura? Le sue accuse, comunque, rischiano di fare un'altra vittima. Secondo Digilio, Bertoli era stato convinto a compiere l'attentato dal suo amico Boffelli, ex-mercenario in Congo e poi indottrinato per un mese da Neami, nell'appartamento veronese di Marcello Soffiati, un altro quadro ordinovista a busta paga
della CIA. Maggi avrebbe seguito il lavoro di preparazione con visite e controlli. A sua volta Soffiati, morto nell'88, è sospettato di aver portato a Brescia l'ordigno per la strage eseguita da neofascisti milanesi: glielo avrebbe consegnato il giorno prima lo stesso Maggi. Terrorizzato dall'eccidio, Soffiati avrebbe interrotto a quel punto i rapporti, anche se il suo nome rispunta qualche anno dopo per un'inquietante frequentazione con un altro uomo a doppio servizio, Marco Affatigato. In un rapporto dei ROS riaffiora anche la figura di Ermanno Buzzi, condannato in primo grado all'ergastolo e ucciso in carcere da Tuti e Concutelli, alla vigilia dell'appello: agente coperto della CIA, secondo i carabinieri avrebbe appoggiato il commando della strage . Per il giudice Lombardi, che ha trovato riscontri negli archivi dei servizi segreti, Bertoli, collaboratore retribuito del SIFAR dal '54 al '60, nome in codice «il Negro», sarebbe rientrato in servizio col SID nel 1966, passando però al controspionaggio e alle relazioni internazionali. Dal kibbutz israeliano sarebbe infatti uscito due volte, per missioni coperte in Francia e in Veneto, prima del definitivo rientro per la strage. In Israele Bertoli ha rapporti con i fratelli Jemmi, collegati a Ordre nouveau. E dall'inchiesta di Salvini affiorano anche tracce di un viaggio di Zorzi in Israele nel '71, con contatti con i servizi di sicurezza, un riscontro alle dichiarazioni dei pentiti che parlano di una corrente filoisraeliana in O.N., in nome della comune lotta anticomunista. Le modalità dell'attentato contro Rumor sarebbero state indicate a Bertoli solo due giorni prima e tre persone lo avrebbero accompagnato in via Fatebenefratelli, riuscendo poi a dileguarsi. Due di queste, con l'avvicinarsi della scadenza delle indagini sarebbero fuggite all'estero, altri due indagati sarebbero nel frattempo morti. Bertoli, che da pochi mesi è stato ammesso al lavoro esterno in una comunità di recupero per tossicodipendenti a Livorno, per reagire a quello che ritiene l'ennesimo stupro della sua identità - che gli è riconosciuta dalla rivista anarchica «A» ma anche da uno scrittore di fama come Pino Cacucci - dopo un paio di interviste sdegnate tenta il suicidio iniettandosi un grammo e mezzo di eroina e finisce in coma per due giorni. Lo salva il tempestivo arrivo di una volante allertata da un amico a cui aveva annunciato il gesto disperato. Aveva anche lasciato un ultimo messaggio: «Non sopporto più di non essere considerato un vero anarchico, non ne posso più, non c'entro niente con i neri. Abbasso i fascisti, abbasso i nazisti». Già ai giornalisti aveva ricordato con rabbia la precedente ondata di
fango che l'aveva travolto: al grande risalto dato nel '91 dalla comparsa del suo nome nell'elenco dei potenziali gladiatori aveva fatto seguito una microscopica precisazione quando si era scoperto che si trattava di omonimia. Di Boffelli racconta che l'aveva conosciuto come addetto ai vaporetti nei primi anni Cinquanta, nella sezione del P.C.I. di San Giacomo dell'Orio, in cui militava all'epoca . A ricostruire le responsabilità delle stragi e le reti di connivenza sono stati numerosi collaboratori di giustizia - rastrellati con un estenuante lavoro a tappeto - ma il ruolo fondamentale è giocato da tre ordinovisti: oltre al duro e puro Vinciguerra e all'infiltrato Carlo Digilio, l'ondivago Martino Siciliano, che dopo alcuni anni di collaborazione, nel maggio '98, si rifiuta di confermare i 130 verbali, si allontana dal tribunale beffando i carabinieri di scorta e ricompare in Colombia, dove già vivevano moglie e figlia. Il suo avvocato fa sapere che non intende tornare né tantomeno riprendere la collaborazione. Si è arreso per stanchezza: pochi soldi dallo Stato (35mila lire al giorno), polemiche tra magistrati, il tracollo di Digilio che gli scarica addosso tutto il peso dell'inchiesta. Saranno gli stessi motivi a spingerlo a sottrarsi al confronto in dibattimento nell'autunno 2000. Eppure conquistarlo alla causa dell'accusa era stato un colpaccio faticoso. Siciliano, amico di infanzia di Zorzi ed esperto di esplosivi, da anni viveva a Toulouse al riparo dell'estradizione, avendo sposato una francese. Ciò nonostante l'«artificiere» di Ordine nuovo, dopo un lungo tira e molla aveva accettato di collaborare con la magistratura milanese, resistendo anche alle offerte vantaggiose che gli erano state fatte da Zorzi, accontentandosi di 70 milioni versati dal SISMI. A determinare la sua decisione di collaborare aveva giocato un sapiente mix di segnali giudiziari pilotati e di larvate pressioni che hanno funzionato sul suo temperamento instabile e su una personalità fiaccata dalla malattia. Per suscitare la sua reazione gli notificano un avviso di garanzia per un attentato contro la Cattolica di Milano. Per Siciliano scatta il campanello d'allarme: è un episodio minore ma evidentemente collegato all'escalation che portò a piazza Fontana. Nell'occasione un nucleo della Fenice aveva messo una bomba contro la Scuola slovena di Trieste, un attentato che all'epoca aveva generato una faida giudiziaria tra gli ordinovisti veneti sospettati del fatto. Lo scambio di operativi tra le due regioni era una misura di sicurezza adottata per scongiurare riconoscimenti .
Siciliano ha ricostruito la sua militanza in O.N. dal 1965 al 1973 - era stato espulso per aver denunciato i comportamenti «spregiudicati» del gruppo della Fenice in una lettera a Rauti e a Signorelli. Racconta a Salvini - che avrebbe trovato «innumerevoli riscontri» nelle indagini di polizia - anche del progetto di O.N. di rapire Feltrinelli durante una vacanza in Carinzia nel 1971, e della decisione del gruppo di preparare un attentato contro il ministro dell'Interno Rumor. Il progetto era già stato reso pubblico qualche anno prima da Vinciguerra senza che nessun p.m. si fosse sentito in dovere di registrare la notizia di reato, fosse anche sotto la specie giuridica della calunnia e dell'autocalunnia: «La proposta di Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi di liquidare Rumor con la garanzia che non avrei avuto 'problemi con la scorta' [...] dimostrò l'esistenza di insospettati legami con funzionari di polizia che dovevano trovarsi a ben alto livello per poter disporre dell'omicidio di un personaggio politico come Rumor, assicurando la neutralizzazione o la complicità della scorta» (9). Il tentativo ai danni di Feltrinelli fu concepito quando l'editore era già passato in clandestinità: base dell'operazione il castello della famiglia di Marco Foscari, un camerata che più volte aveva ospitato Siciliano e che oggi vive alle Baleari facendo l'antiquario dopo aver partecipato - secondo Siciliano - ad altri episodi ed essere fuggito dall'Italia per un'accusa di bancarotta fraudolenta. Sibilla Melega - scoprirono gli ordinovisti - ospitava in uno chalet attiguo al castello il guerrigliero rosso. Ai sopralluoghi partecipò anche il guardacacccia dei Foscari, un ex-Waffen S.S. Quando però il commando si presentò armato di fucili da caccia e a bordo di un fuoristrada per sequestrare Feltrinelli lo chalet era vuoto. Di un altro progetto ai danni dell'editore rosso aveva invece parlato un bombarolo della Fenice, Nico Azzi, confidandosi con un secondino in carcere (e la cosa per misteriosi canali era finita nell'archivio di controinformazione di Avanguardia operaia e poi sul tavolo di Salvini che indagava sulla morte di un giovane missino sprangato dal servizio d'ordine del gruppo extraparlamentare di sinistra): l'idea era di collocare in una villa di Feltrinelli i timer comprati a Bologna da Freda e poi usati il 12 dicembre. I depistaggi, del resto, rientravano dall'inizio nel piano degli attentati: a salire sul taxi di Rolandi, principale teste di accusa del ballerino anarchico arrestato a caldo come autore della strage, sarebbe stato un camerata siciliano, suo sosia (il terzo individuato nell'arco di un trentennio) .
Le confessioni dello «zio Otto» hanno scatenato un terremoto: dal 1967 al 1978, la durata della sua collaborazione, la NATO era a conoscenza dei movimenti della cellula nera veneta. Ogni quindici giorni infatti, Digilio incontrava a Venezia David Carrett, ufficiale di marina, di stanza alla FTASE di Verona. Ai primi di dicembre '69 avrebbe riferito all'ufficiale USA che Maggi aveva preannunciato grossi attentati per preparare i militanti alle imminenti perquisizioni nell'ambiente: Carrett già sapeva dei preparativi golpisti della destra. Digilio informava puntualmente anche un ex-repubblichino veronese, già collaboratore della rete ODESSA in Argentina e poi capostruttura veneto della CIA, ufficialmente addetto alla riparazione dei frigoriferi della base FTASE. Il settantenne Sergio Minetto, aderente all'associazione combattentistica degli Elmetti di acciaio, è arrestato nella primavera del 1995 per falsa testimonianza (nega tutto, finanche di conoscere Digilio, ma sarà smentito da una foto scattata a un matrimonio). Il suo ostinato silenzio gli costerà il massimo di custodia cautelare (e tanto di proroga "ad hoc") nonostante per gli ultrasessantacinquenni sia generalmente esclusa la detenzione: due mesi. In seguito Salvini ha incriminato entrambi per spionaggio politico, insieme a tale Giovanni Bandoli, dipendente della base FATSE di Vicenza. Bandoli e il professor Lino Franco, secondo i ROS, sarebbero capirete della CIA in Veneto, responsabili di una rete operativa in cui si innesta una rete informativa dove spiccano le figure di Digilio e Minetto. Quest'ultimo sarebbe stato informato dettagliatamente delle singole operazioni terroristiche e avrebbe, tra l'altro, assistito con Maggi alla consegna a Bertoli della bomba ananas - proveniente dalla base USA di Verona e non da Israele, come sostenuto dall'autore della strage della Questura - la cui preparazione sarebbe stata finanziata da Minetto e assistita da agenti del Mossad. In questo caso, però, Carrett, informato da «Erodoto», boccia il progetto. Pochi mesi dopo si perdono le tracce dell'ufficiale americano. Il solito Digilio evidenzia il ruolo di un altro istruttore con compiti di spionaggio per Israele. Costui, insieme a Maggi e Zorzi, avrebbe offerto a Vinciguerra di addestrarsi in un campo nel Bergamasco, offerta respinta. Maggi, a sua volta, avrebbe raccontato a Digilio degli ordinovisti veneziani e trevigiani addestrati nei kibbutz e utilizzati in missioni contro gli arabi. L'imminente strage di Brescia sarebbe stata invece annunciata con una settimana di anticipo, alla tavola della trattoria dei Soffiati a Colognola ai Colli, da Maggi a una
cospicua rappresentanza della rete C.L.A. nel Triveneto, ovvero il capofila Minetto, i fratelli Soffiati e Digilio. Secondo un vecchio appunto del SID - e all'epoca «disperso» - trasmesso dal SISMI nell'aprile '96 alla procura di Brescia: «le fonti attivate ritengono che Brescia sia stata voluta dal ministero degli Interni così come lo stesso organismo aveva pianificato il rapimento di Mauro Leone. Sono due le interpretazioni dell'appunto SID che vengono avanzate a Brescia. La prima: la strage viene organizzata dall'Ufficio del prefetto D'Amato per 'scaricare i fascisti e ripulire la D.C.'. La seconda: 'la strage viene organizzata come ultimo tentativo di bloccare l'intesa D.C.-P.C.I.'» (10) . «Zio Otto» è una figura esemplare: eredita i rapporti con la CIA - e persino il nome d'arte: «Erodoto» - dal padre, ex-partigiano bianco e poi ufficiale della Guardia di finanza, compie varie missioni prima di essere infiltrato da Minetto in Ordine nuovo veneto. Il suo compito è di sostituire Soffiati come terminale degli "amerikani" nel gruppo Ventura. Gli fanno vedere un deposito dove sono custoditi tritolo, mine anticarro, armi lunghe, detonatori, e capisce che per compiere i gravi attentati che sono in progetto ci sono problemi di «innesco». Secondo i carabinieri del ROS «da alcuni discorsi di Zorzi Digilio comprese che parecchi dei problemi di accensione erano stati risolti e che il gruppo ordinovista aveva responsabilità nell'ondata di attentati perpetrati in danno di convogli ferroviari nell'estate del 1969» (11). Forte è il sospetto che Digilio abbia teso a ridimensionare le sue responsabilità: molto probabilmente è solo grazie ai suoi consigli che le bombe artigianali confezionate per gli attentati ai treni dell'estate '69, e poi messe a punto con una serie di prove sul campo, diventano i micidiali ordigni del 12 dicembre. Ma questo non gli è servito a scongiurare il rinvio a giudizio come complice degli stragisti. Un rapporto del ROS che precede la collaborazione di Digilio ipotizza che l'esperto veneziano, «già indicato dal Siciliano come il confezionatore dell'ordigno di piazza Fontana, possa essere stato il confezionatore di quello utilizzato a Brescia» (12). A lui si rivolge, alla vigilia della strage, Zorzi: deve trasportare l'esplosivo a Milano con la vecchia, scassata 1100 di Maggi, dalle sospensioni inesistenti e teme l'incidente. «Zio Otto» controlla e lo rassicura: non c'è trasudazione, può viaggiare tranquillo. Il materiale, riferirà ai giudici, è lo stesso, quello a scaglie rosacee che ha visto nel deposito di Ventura, a Paese. Nel '73 Zorzi -
che in precedenza aveva tentato di coinvolgerlo nel progetto di evasione di Ventura sponsorizzato dal SID - avrebbe rivelato a Digilio, dopo una serie di confidenze e parziali ammissioni sul suo coinvolgimento, il suo ruolo di protagonista a piazza Fontana: «Guarda che io ho partecipato direttamente all'operazione di collocazione della bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura. Ricordo», precisa il «pentito», «che Zorzi non parlò né di morti né di feriti, ma usò il termine di operazione come se si fosse trattato di un'azione di guerra. Aggiunse: 'Me ne sono occupato personalmente e non è stata cosa facile, mi ha aiutato il figlio di un direttore di banca'». Le prime informazioni sulla strage l'agente americano le aveva già raccolte dopo pochi giorni, in una cena al ristorante con Maggi e Soffiati: la strage era il culmine di una strategia maturata nel corso degli anni, elaborata da una mente organizzativa superiore; Maggi aveva inviato i triestini a Roma e Zorzi e i mestrini a Milano il 12 dicembre, l'incriminazione degli anarchici era stata prevista dai servizi segreti, Rumor si era tirato indietro cedendo alle pressioni delle forze democratiche del centrosinistra. Il 7 gennaio è il capitano Carrett a informare la spia: non c'è stata la svolta a destra ma Ordine nuovo non sarà toccato dalle indagini . Dai racconti di Digilio è emersa l'esistenza di Siegfried, l'ennesimo gruppo di coordinamento tra le cellule nere venete e le strutture che avrebbero dovuto quantomeno indagarle. Il gruppo sarebbe stato composto in prevalenza da ex-carabinieri e da reduci di Salò. Dell'organizzazione, del tutto simile ai Nuclei di difesa dello Stato, struttura parallela di Gladio, avrebbe fatto parte, secondo il pentito veneziano, anche Zorzi, che ha sdegnosamente respinto le accuse, facendosi forte dell'assoluzione ottenuta nel processo di appello per la strage di Peteano (dieci anni di condanna in primo grado). Anche Siciliano ha riferito che «Zorzi mi parlò dell'esistenza di una struttura parallela che, in caso di presa del potere del P.C.I., era capace di rifornire armi, munizioni, documenti e soldi oltre ad appartamenti predisposti da utilizzarsi come «basi partigiane» cioè per la resistenza all'invasore. Conobbi tale struttura proprio con il nome di piano di sopravvivenza e, contestualmente, mi venne fatto anche il nome dei Nuclei difesa dello Stato» (13). «Aveva un carattere molto forte, spesso duro», racconta Siciliano, che con Zorzi aveva condiviso amicizia e militanza fin dall'adolescenza, «era molto manesco e privo di quelle
reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui infatti a far scoprire ad altri camerati il buddismo» (14). Era noto come il «Samurai» da quando aveva aperto a Mestre una piccola palestra di arti marziali con un nome giapponese, Ronin Kaj, il 'samurai errante', appunto. A fornirgli supporto logistico per la strage di piazza Fontana sarebbero stati i milanesi del gruppo la Fenice. Ad agire in contemporanea a Roma sarebbero stati invece i «bombaroli» di A.N. Siciliano racconta della cena di San Silvestro '69 con Zorzi e un altro camerata, un festeggiamento standard che cominciava con un «puttana tour», proseguiva con abbondanti libagioni e finiva con canti nazisti: «Prese il discorso molto alla larga. Disse che non dovevamo pensare che per un nazionalrivoluzionario la morte di qualche persona potesse costituire una remora sulla strada della rivoluzione [...]. Ci fece chiaramente intendere che gli anarchici non c'entravano nulla e che erano presi come capro espiatorio per il fatto che, per i loro precedenti come bombaroli, un'accusa nei loro confronti era credibile. In realtà gli attentati di Milano e Roma erano stati pensati e commissionati ad alto livello e materialmente eseguiti da Ordine nuovo del Triveneto» (15). Siciliano è profondamente turbato: in preda a una crisi di pianto confida a un exsenatore missino il terribile segreto - le bombe di Milano sono ordinoviste: l'ordigno ritrovato inesploso alla COMIT è identico a quelli da lui deposti a Trieste e Gorizia - ma il camerata lo rassicura: se anche fosse vero avrebbe dovuto tenerselo per sé. Dopo poche settimane Zorzi avrebbe rivendicato orgogliosamente con Digilio - pur ammettendo l'errore commesso - la partecipazione all'azione di Milano. Rivendicazione resa più esplicita tre anni dopo . Salvini, nella sua ordinanza sulla «strategia della tensione», arriva a conclusioni pesanti: «I nuovi elementi acquisiti consentono di affermare che la strage e gli altri quattro attentati contemporanei tra Milano e Roma, fu ideata all'interno delle cellule di Ordine nuovo nel Triveneto, quindi non solo Padova ma anche Venezia e probabilmente Trieste [...]. Il gruppo milanese la Fenice poteva disporre dei timer facenti parte del lotto dei cinquanta in parte consumati per gli attentati, ricevendoli probabilmente da Cristiano De Eccher, per effettuare la progettata attività di depistaggio delle indagini che aveva come
obiettivo l'editore di estrema sinistra Giangiacomo Feltrinelli [...]. Tale disponibilità pone quantomeno Giancarlo Rognoni, vicinissimo alle cellule venete, nell'orbita dell'intera strategia della tensione dal 1969 al 1974» (16). Il tutto è supportato da una congettura logica: i timer usati per la strage avevano una durata massima di un'ora e quindi gli stragisti dovevano avere nei pressi degli obiettivi una base sicura dove attivare in condizioni di sicurezza gli ordigni, chiuderli a chiave nelle cassette metalliche e collocarli nelle valigette (17). Rognoni è sospettato non solo di aver offerto appoggio logistico ai camerati in trasferta ma anche di aver materialmente collocato l'ordigno inesploso nella COMIT di piazza Scala. Comunque Salvini conclude sette anni di duro lavoro rinviando a giudizio Delle Chiaie e Guerin Serac per banda armata, e Minetto e Digilio per spionaggio. Sono diversi i ruoli e le responsabilità delle agenzie statali deviate. Gli Affari riservati reclutano terroristi di destra e organizzano depistaggi ai danni degli anarchici con la squadra 54, un team di superinvestigatori distaccato a Milano con l'obbligo di riferire solo a D'Amato e al suo vice Russomanno - mentre l'intervento del SID è «a cose fatte»: fa scappare gli imputati (Pozzan e Giannettini) e chiude le fonti sui «neri» (il patavino Casalini) . Lo stesso Zorzi aveva, del resto, importanti frequentazioni a Roma. Lo conferma Vinciguerra che non gli ha risparmiato sarcasmi sulla sua velleità di «lavorare» alla costruzione di una «superiore razza eurasiatica» avendo sposato una giapponese, figlia di un funzionario di prefettura che nelle ricostruzioni giornalistiche è subito trasformato in un membro della Yakuza non appena è filtrata l'indiscrezione sulla sua responsabilità nella strage. «Non è da escludere», ipotizza Vinciguerra, «che il sogno (o l'incubo) di creare una razza euro-giapponese sia il frutto di una estremizzazione di progetti ben più concreti che vedono impegnati nella loro realizzazione personaggi di ben altro livello che non i Zorzi e i Freda, ma è sintomatico che anche in questo caso i 'nazifascisti' italiani siano riusciti a farsi propagandisti e fautori di un progetto della 'Trilateral''» (18). Zorzi, un posto offerto da Almirante in direzione nazionale del Fronte della gioventù (F.D.G.) alla confluenza dei rautiani nel M.S.I., si era trasferito alla fine degli anni Sessanta a Napoli per seguire i corsi di giapponese dell'Istituto universitario orientale. Nei mesi che precedono la strage di Milano coinvolge anche la fidanzata napoletana, Anna Maria Cozzo, pure lei cultrice di arti marziali e militante del FUAN, nelle attività preparatorie. Dalla ricerca
mistica il «Samurai» aveva esteso il suo campo di interessi alla realtà complessiva della civiltà nipponica fino a farsene una ragione di vita. La laurea con una tesi sul fascismo giapponese è del 1974, relatore il professore Pio Filippani Ronconi, uno dei protagonisti del convegno sulla guerra rivoluzionaria dell'Istituto Pollio, collaboratore del SID come esperto di crittografia e amico personale di Umberto Federico D'Amato. Nel suo intervento al congresso di fondazione del «partito del golpe», il professore aveva teorizzato un'organizzazione anticomunista di sicurezza a tre livelli, il cui settore più coperto, composto da nuclei scelti di pochissime unità, anonimi e ignoti l'uno all'altro, addestrati a compiti di controterrore, è l'enunciazione dei Nuclei di difesa dello Stato che si sarebbero costituiti di lì a poco. Dopo la laurea Zorzi si trasferisce in Giappone, come lettore di italiano, e qui fa fortuna con una intensa attività di import-export. E' proprio lui, infatti, il misterioso finanziatore che presta trenta miliardi nella primavera 1993 a Maurizio Gucci (19), il rampollo della dinastia di stilisti assassinato su mandato della moglie da una banda di scalzacani. Della paradossale traiettoria umana di Zorzi dà in qualche misura conto il suo casellario giudiziario: dopo l'assoluzione in appello per la strage di Peteano, il «Samurai» ha accumulato solo due condanne, per la detenzione di tre pistole ed esplosivo (acquistate da un ex-mercenario in Congo) alla fine degli anni Sessanta, per aver evaso 14 miliardi al fisco, nel febbraio '95 (quattro anni di carcere) (20) . Digilio lancia pesantissime accuse a Zorzi: «Ventura mi disse che Zorzi faceva da guardaspalle, nel corso di riunioni ed attività varie, a Freda. Mi disse che Zorzi era in contatto con i servizi segreti» (21). Poi, quando Ventura, arrestato dal giudice Stiz nel 1971, sarebbe stato sul punto di crollare, «Zorzi mi fece la proposta di collaborare al progetto di evasione di Ventura [...] mi disse che era stata portata avanti una battaglia per la vittoria dei loro ideali, anche con l'apporto di strutture e lui, Ventura, aveva fatto molto [...]. Zorzi confidò che Ventura era coperto dal SID e che aiutarlo era un fatto doveroso. Mi specificò che esisteva un progetto per farlo evadere dal carcere. Mi mostrò quindi il calco in cera di una chiave [...] della cella di Ventura. Mi spiegò poi che un suo diretto intervento per liberare Ventura era pericoloso in quanto egli stesso era compromesso nei medesimi fatti. Ribadì che Ventura andava aiutato a sfuggire agli inquirenti e che esistevano fondi provenienti da Roma, dal SID, per coloro che avrebbero collaborato»
(22). Digilio riferisce anche della passione di Zorzi per gli esplosivi. Già nel '74 un neofascista padovano informatore del SID, Gianni Casalini, aveva segnalato che il gruppo Freda si riforniva di armi e di esplosivi in un deposito a Venezia. Sui rapporti di Zorzi con i servizi segreti si dilunga Vinciguerra: «Diedi un passaggio a una persona che doveva recarsi a Lugano su disposizione di Delfo Zorzi per organizzare, insieme a un personaggio di nazionalità italiana, residente a Lugano, un'azione di provocazione ai danni di elementi di estrema sinistra [...] porre esplosivo e volantini di natura sovversiva di sinistra nelle auto di certi elementi appunto di sinistra che in quel momento si trovavano in Svizzera e dovevano rientrare in Italia. Lo scopo era quello di farli bloccare alla frontiera e di farli trovare in possesso di quei materiali. Ora tal macchinosa operazione mi fece pensare a una ben precisa intesa con organi di polizia» (23). In altra occasione Vinciguerra aveva avuto invece dirette informazioni sul tema scottante: «Cesare Turco ormai arruolato a mia insaputa nelle forze di polizia dello stato democratico e antifascista, mi rivelò che Delfo Zorzi era amico di un altissimo funzionario del ministero degli Interni. Seduto davanti a me, con aria compiaciuta Delfo Zorzi valutò la reazione, che fu di gelo: 'Mi fa piacere per lui'» (24). Già nell'89, quando il «Samurai» era soltanto uno dei tanti quadri della cellula nera veneta, ne aveva «denunciato» le inquietanti frequentazioni: «Zorzi si recava in Sardegna con il Secondo battaglione Celere di Padova per allenarsi a sparare ma divenne comprensibile il fatto che lo potesse fare quando seppi che era stato 'arruolato' come spione dal questore di Venezia, Elvio Catenacci, destinato ad ascendere alla carica di vicecapo della polizia italiana. Era praticamente orbo di un occhio ["circostanza evidente nell'unica foto disponibile negli archivi della polizia e quindi dei quotidiani che l'hanno ripubblicata decine di volte"] ma questo non gli impediva di fare il servizio di leva nei 'lagunari', corpo scelto dell'Esercito italiano, dove svolgeva mansioni ufficiali di scrivano ed ufficiose di 'spione'» (25). I rapporti tra Zorzi e D'Amato, descritti da Siciliano, Digilio e Giancarlo Vianello, hanno un preciso riscontro: nell'archivio segreto del Viminale è ritrovato un elenco di 250 nomi di collaboratori del poliziotto-gourmet: il «Samurai» è tra questi presunti componenti di una polizia parallela di stretta osservanza atlantica. Lo stesso Rauti minimizza il ruolo di Zorzi in Ordine nuovo ma finisce per ammettere compromissioni - a sua insaputa - con gli apparati di sicurezza NATO:
«Non mi pare di ricordarlo. Sono stato anche a Mestre un paio di volte ma non lo ricordo [...]. A me sembra che il Veneto per Ordine nuovo fosse come altrove, poi ho dovuto prendere atto che c'erano altre cose. Perché nel Veneto c'erano strutture della NATO? Se delle cose sono avvenute lì e lì si è scavato, in Veneto possono esserci state collusioni delle quali non ero a conoscenza. Le avrei denunciate» (26) . Il presunto protettore di Zorzi, il prefetto Catenacci, è stato coinvolto nell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana per la scomparsa di alcuni elementi di prova ma si è più generalmente distinto per una gestione inetta (o connivente con il terrorismo nero: non è dato sapere). Valga per tutti l'esempio della strage di Gioia Tauro, che Catenacci avallò subito come incidente causato dalla negligenza del personale ferroviario. A denunciare il ruolo nella «strategia della tensione» degli Affari riservati - diretti all'epoca da Catenacci - è un alto dirigente del SID, il generale Nicola Falde, anche se il responsabile delle deviazioni è individuato in D'Amato, referente storico della struttura di sicurezza atlantica. La testimonianza di Falde, morto ottantenne nel '96, è raccolta dal ROS nel giugno '95: «Appresi la notizia tra il 1970 e il 1971 in occasione di discorsi con il generale Aloja [... riguardo] il coinvolgimento dell'ufficio Affari riservati nella fase di organizzazione della strage e il ruolo di copertura prestato dal SID» (27). Decrittiamo il messaggio per i non addetti ai lavori (Falde è un quadro storico della P2 che per un breve periodo partecipa alle attività dell'agenzia O.P. come garante di Pecorelli): la frazione «europeista» del complesso spionistico-militare (la cui massima espressione era appunto il generale Aloja) attribuisce ai fedelissimi NATO la responsabilità dell'avvio della «strategia della tensione». Questo sordo scontro tra fazioni scandirà tutta la fase delle «stragi di Stato», dalla faida Miceli-Maletti all'arresto del colonnello Spiazzi. Lo stesso Falde, che aveva sostituito il colonnello Rocca alla testa della delicatissima Quarta sezione del SID nel luglio '67, era stato rimosso nel marzo '69, dopo uno scontro con il capo del servizio, l'ammiraglio Henke, di rigorosa appartenenza atlantica . Dopo il trasferimento in Giappone Zorzi ha mantenuto un certo impegno politico, scrivendo articoli - sotto lo pseudonimo di Alfredo Rossetti - per il quotidiano della D.C., coltivando rapporti stretti con il viceambasciatore della C.E.E. e professore all'Orientale di Napoli Romano Vulpitta (28), avendo contatti, per conto del vicesegretario
D.C. Antoniozzi, con il partito liberaldemocratico. Questo rapporto, portato alla luce dall'implacabile Gianni Flamini, ha trovato successivo riscontro nella corrispondenza acquisita dal giudice Salvini nell'archivio di Avanguardia operaia. Nelle lettere, trafugate dal suo armadietto all'Università da extraparlamentari di sinistra giapponesi, si parla di un centinaio di ordinovisti veneti entrati, con posizioni di potere, nella D.C. A scrivere a Zorzi sono «camerati» come Stefano Tringali e Roberto Lagna, ma anche il redattore del «Popolo» Angelo Padovan: emerge il suo ruolo centrale in un network internazionale «nero» che si finanzia grazie alle sue attività commerciali. Parte della corrispondenza - ricorda Mario Scialoja (29) - era stata pubblicata dall'«Espresso» nel giugno 1977. Ne seguì una "querelle" giudiziaria tra il responsabile veneziano di Lotta continua, Stefano Boato, che aveva rilanciato le accuse di infiltrazioni fasciste nello scudo crociato e la D.C. di Mestre che si riteneva (a torto) diffamata. All'inizio del 1976 Tringali scrive da Mestre: «I nostri si sono bene ambientati nella D.C., tanto da immischiarsi nei giri dell'autostrada Venezia-Monaco»; e Lagna precisa: «Per Mestre l'infiltrazione nella D.C. ha funzionato bene: adesso hanno un giornale, una sede e un gruppo di circa un centinaio di aderenti» (30). Anche se oggi Zorzi si affanna a sostenere che lui con la politica ha chiuso da quando si è trasferito a Napoli per l'Università, le lettere lo smentiscono. Dalla Spagna il camerata «Franco» lo aggiorna in tempo reale - sul processo di fusione tra O.N. e A.N. e fa anche riferimento ai progressi tecnologici registrati nel fabbricare «certi strumenti» e nella falsificazione dei documenti. Un anno e mezzo dopo a Madrid sarà sequestrato agli esuli italiani un laboratorio clandestino di armi e documenti. Una parte della corrispondenza - che riguarda anche le attività commerciali - è indirizzata a Zorzi presso la residenza di Romano Vulpitta. Dopo essere scomparso per qualche giorno appena erano state divulgate le voci sulla sua responsabilità per la strage, Zorzi ha accettato di rendere «dichiarazioni spontanee» al p.m. Grazia Pradella e al giudice che indaga sulla morte di Gucci. Forte del passaporto giapponese, che lo mette al sicuro dai rischi di estradizione, il «Samurai» ha imposto il «campo neutro»: l'ambasciata italiana di Parigi. Per negare tutto: il 12 dicembre 1969 era a Napoli, Siciliano e Digilio mentono, lui non ha mai avuto rapporti con i servizi segreti né svolto attività illegali. Il suo stesso aspetto fisico - piccoletto, stempiato
e con una evidente tendenza alla pinguedine - sembra smentire la fama giovanile di grande «picchiatore» . L'ultima inchiesta sulla «strategia della tensione» è segnata da una sequela di liti tra uffici giudiziari. Ad aprire le ostilità è il giudice Casson che protesta con il Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza per le confessioni a pagamento - a Siciliano non era stato ancora riconosciuto il programma di protezione - sostenendo che così si finanzia il depistaggio delle indagini. La replica di Salvini - che da Casson è diviso da una fiera rivalità anche sull'attendibilità del «padre di tutti i collaboratori», Vinciguerra - è di una violenza devastante. Dopo aver lamentato la fuga di notizie il giudice milanese, che nella sua inchiesta su tredici anni di attività di Ordine nuovo, soprattutto in Veneto, ha finito per fare le pulci e spesso contraddire le conclusioni del collega veneziano, lo accusa di incompetenza e ignoranza, denunciando i danni incalcolabili prodotti alle indagini: «Solo ad istruttoria conclusa l'opinione pubblica e i familiari delle vittime potranno comprendere quali danni l'abbaglio colossale del pubblico ministero di Venezia e la violazione del segreto istruttorio da parte di un giornalista hanno causato alle indagini in corso, alla sicurezza dei testimoni e alla nuova fiducia che molti di essi, distaccandosi dall'eversione di destra, hanno per la prima volta riposto nella volontà di tutti gli organi dello Stato di fare chiarezza sulla strategia della tensione» (31). Per concludere che «sulla mancanza di professionalità e di riservatezza di un'autorità giudiziaria ricade la responsabilità di essere caduta in un tranello del genere, muovendosi al di fuori di ogni competenza e senza minimamente conoscere le centinaia di atti istruttori e accertamenti svolti» (32). Secondo Salvini, Casson - che sarebbe giunto a insultarlo nel febbraio '93 durante una riunione nell'ufficio di Vigna, allora procuratore di Firenze (33) - non gli perdonerebbe di aver smontato il suo teorema sul ruolo di Gladio come centrale strategica del terrorismo nero. Nella lettera al Comitato dei servizi, invece, Salvini, dopo avere rivendicato la correttezza sua, del SISMI e del ROS, ha sottolineato che l'intervento dei servizi è stato necessario per localizzare Siciliano, fuoriuscito nel 1974, e per impedire che le pressioni degli ex-camerati avessero esito: l'exordinovista era stato infatti invitato dal fratello di Zorzi a una riunione a San Pietroburgo per concretizzare le promesse di aiuti fatte affinché respingesse le profferte di collaborazione. L'audizione presso la
Commissione stragi, nel febbraio 1997, rappresenta una straordinaria cassa di risonanza per le tesi investigative di Salvini. Il giudice milanese chiama pesantemente in causa la CIA, attribuendole un «contributo tecnico» per le tre stragi sulle quali ha a vario titolo indagato (piazza Fontana, via Fatebenefratelli, piazza della Loggia) e rivendica i meriti della propria inchiesta nata sulla contestazione del reato di «banda armata finalizzata a compiere attentati e stragi» contro i militanti di Ordine nuovo. Racconta ai parlamentari di aver concluso la prima tranche nel marzo '95, con una sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio. Rivendica al suo lavoro il merito di aver innescato e alimentato le inchieste della Pradella su piazza Fontana, di Lombardi sulla Questura di Milano, quella bresciana su piazza della Loggia e quella romana sui Nuclei difesa dello Stato. A far scattare le indagini di Casson sul ruolo del SISMI nelle indagini su piazza Fontana è un esposto di Carlo Maria Maggi, che denuncia di essere stato contattato da un ufficiale dei carabinieri, braccio destro di Salvini, che gli ha offerto di collaborare alle indagini in cambio di denaro. E Casson ha prontamente iscritto il capitano Giraudo - che gli aveva raccontato senza remore le attività di «reclutamento» dei collaboratori - nel registro degli indagati. Stessa sorte - per abuso di ufficio - per il giudice Salvini, con l'unica differenza che a indagare è la procura di Brescia, competente per i reati della magistratura milanese. L'obiettivo di Maggi - secondo le confidenze fatte a un amico in una conversazione telefonica registrata - era di provocare un'altra ispezione ministeriale sugli uffici giudiziari milanesi. Non sperava certo che proprio uno dei più accaniti «persecutori» di Ordine nuovo sarebbe partito lancia in resta contro il collega milanese, «colpevole» di aver direttamente contattato il generale Sergio Siracusa, capo del SISMI, per perorare la causa di Siciliano, violando la norma che vieta ai magistrati rapporti diretti con i servizi segreti. E' aperta un'indagine sul generale, divenuto nel frattempo comandante generale dei Carabinieri ma poi sarà lo stesso Casson a chiedere il suo proscioglimento . Da una perquisizione ordinata da Casson nella sede del SISMI sono emersi anche verbali di interrogatorio di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro che sostengono - prima che la Cassazione pronunciasse la sentenza definitiva di condanna - di avere un alibi per il giorno della strage di Bologna (sarebbe stato proprio Digilio a incontrare Cavallini il 2 agosto a Padova). Ma Salvini non ha competenza su Bologna.
Ringalluzzito dal successo, Maggi si concede, in un'intervista al T.G. 3, il lusso di «garantire» per Zorzi e di liquidare Siciliano e Digilio come «persone interessate». Per sua sfortuna, il p.m. Pradella, a cui è affidata l'inchiesta su piazza Fontana, rompe con Salvini, scarica anche Giraudo, di cui non si fida più, ma mantiene la stessa rotta investigativa . A complicare la "querelle" tra magistrati ci si mette anche il procuratore aggiunto D'Ambrosio, che vent'anni prima aveva «riabilitato» la memoria del commissario Calabresi, dichiarando accidentale la morte di Pinelli. Il numero due del "pool" Mani Pulite, oggi procuratore capo a Milano, dopo aver smentito l'esistenza di provvedimenti contro Zorzi, ha messo in guardia i giornalisti dal creare un altro «mostro» come successe con Valpreda, e ha annunciato l'apertura di un'inchiesta sulla fuga di notizie sull'imminenza di un mandato di cattura per lo stesso Zorzi, già comparso nell'inchiesta di D'Ambrosio sulla cellula nera veneta, in quanto indicato da un camerata come l'uomo che aveva messo la bomba alla Scuola slovena di Trieste il 6 novembre '69. Secondo Siciliano a preparare quell'ordigno e quello destinato a far saltare il cippo di confine di Gorizia sarebbe stato Carlo Digilio, mentre a collocarli sarebbero stati lui stesso e Zorzi, accompagnato nel viaggio dalla fidanzata napoletana. Dal canto suo Salvini ha replicato sdegnosamente che lui, fin dal marzo 1994, aveva mandato carte sulla strage alla Procura senza avere risposta, richiamando la sentenzaordinanza del marzo 1995 in cui parlava di «scarsa disponibilità e attenzione della procura della Repubblica di Milano per questa indagine». Le critiche al p.m. Pomarici hanno provocato la discesa in campo del procuratore Borrelli, che ha smentito le dichiarazioni di Salvini in punto di fatto (la lettera di marzo '94 riguardava un reato di armi già prescritto) e di diritto (il totale difetto di giurisdizione) . Dietro il fumo di una parodia di hobbesiana guerra di tutti contro tutti c'è però la sostanza di una sostanziale divergenza di vedute. Secondo Salvini la procura avrebbe dovuto chiedere - sulla base delle dichiarazioni di Digilio e Siciliano - l'arresto di Zorzi, quando questi per ben due volte era rientrato in Italia, regolarmente pedinato dai carabinieri. La Procura ha replicato che in base al vecchio rito l'inchiesta sulla strage spettava ai giudici di Catanzaro e quindi Zorzi era «intoccabile», mentre il procedimento con il nuovo rito del p.m. milanese Grazia Pradella è stato aperto solo nell'aprile '95, quando il
sospettato era rientrato in Giappone. Zorzi è stato comunque iscritto nel registro degli indagati ai primi di luglio '95 insieme a una quindicina di ordinovisti milanesi e veneti. La presunta «appropriazione indebita» dell'inchiesta sulla strage, con gli intralci prodotti nel lavoro della Pradella, costa a Salvini un procedimento disciplinare del C.S.M. e il rischio di un trasferimento per incompatibilità ambientale. Gli contestano di aver continuato ad affidare atti investigativi al capitano Giraudo, scaricato dalla Pradella perché avrebbe passato informazioni sull'inchiesta al SISMI. A un certo punto l'inchiesta su un fallito attentato contro Loris D'Ambrosio - nell'aprile '95, mentre infuria la campagna di delegittimazione del "pool" di Mani Pulite - si intreccia con la vicenda delle compromissioni della CIA nello stragismo italiano. Protagonista un anziano imprenditore, ammalato di leucemia, Carlo Rocchi, da cinquant'anni informatore della CIA. La sua carriera di spia cominciò in campo di concentramento (era stato catturato a El Alamein) ed è proseguita «per motivi ideali» all'insegna dell'anticomunismo più sfrenato. Si interessa alle indagini su piazza Fontana e ne tiene informata l'ambasciata americana (le sue telefonate sono intercettate dal controspionaggio). A metterlo nei guai un suo informatore, un neofascista da lui introdotto negli ambienti del SISDE di Milano, Biagio Pitarresi. Arrestato per traffico di droga decide di pentirsi e lancia pesanti accuse contro Rocchi: «Mi utilizzava per pedinare il capitano dei carabinieri che indagava su piazza Fontana. Penso che volesse preparare un'imboscata. Poi nell'autunno 1994 mi ha chiesto se conoscevo qualcuno per un agguato a D'Ambrosio: ha detto che quello ci perseguitava da anni» (34). Rocchi smentisce sdegnato: «Personalmente lo detesto, mi è antipaticissimo. Ma io mi sono occupato solo di informazioni. Non ho mai pensato a nulla del genere. Sfruttavo le mie conoscenze nell'estrema destra. In passato ho anche fatto avere al SISDE una lista di persone fidate e so che loro le hanno utilizzate» (35). Salvini lo ha comunque indagato per spionaggio, senza ulteriori esiti . Per altro, le confessioni di Pitarresi permettono a Salvini di ricostruire definitivamente la vicenda dello stupro di massa contro Franca Rame. La sera del 9 marzo del 1973, nella via Nirone, a Milano, l'attrice era stata affiancata da un furgone. C'erano cinque uomini che l'avevano obbligata a salire. La violentarono a turno. Gridavano: «Muoviti puttana, devi farmi godere». Le spegnevano sigarette sui seni, le
tagliavano la pelle con delle lamette. Una sequenza allucinante, che la Rame avrebbe inserito in un suo spettacolo, «Tutta casa, letto e chiesa». Fu subito chiaro che la violenza contro la compagna di Dario Fo veniva dagli ambienti neofascisti. E infatti, come in quasi tutti i crimini compiuti in quegli anni dai neofascisti, i responsabili non furono scoperti. Conoscere nomi e nomignoli di quei sanbabilini, ora che il delitto è caduto in prescrizione, cambia poco: lo stesso Pitarresi, Angelo Angeli (noto per la passione per i dolci - lo chiamavano «il Golosone» - per le armi e gli esplosivi), «un certo Patrizio», «un certo Muller». Neofascisti coinvolti in traffici d'armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli anni Settanta s'incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ma la sentenza di rinvio a giudizio sull'eversione nera, depositata da Salvini, aggiunge un particolare agghiacciante: la violenza a Franca Rame, punita per la sua attività di Soccorso rosso in favore dei detenuti politici, se non ordinata, fu «ispirata», «suggerita» da ufficiali dei carabinieri della divisione «Pastrengo», che mantenevano stretti e assidui legami con i neofascisti. Lo sostiene proprio Pitarresi, che conferma quel che nell'87 aveva affermato Angelo Izzo (uno degli assassini del Circeo), uno stupro di Stato. Commenta Salvini nella sentenza di rinvio a giudizio: «Il probabile coinvolgimento come suggeritori di alcuni ufficiali della divisione Pastrengo non deve stupire [...] il comando della Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, negli Anni 70, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura di traffici d'armi, la soppressione di fonti informative che avrebbero potuto portare a scoprire le responsabilità nelle stragi dei neofascisti Freda e Ventura» . Le responsabilità dei carabinieri sono confermate da più fonti autorevoli. Durante l'inchiesta sulla strage di Bologna era stato trovato un appunto di Maletti su un violento alterco tra due generali: Giovanni Battista Palumbo (un iscritto alla loggia P2 e in seguito comandante proprio della «Pastrengo») e Vito Miceli (all'epoca capo del SID). Il primo durante la lite aveva rinfacciato al secondo «l'azione contro Franca Rame». Un testimone diretto è invece Nicolò Bozzo, all'epoca giovanissimo capitano in servizio proprio a Milano, all'ufficio
operazioni del comando della divisione 'Pastrengo', in seguito braccio destro di Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo, oggi generale in pensione al termine di un'onoratissima carriera: «La notizia dello stupro della Rame in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio. Anzi, di più...». Il suo ricordo, anche venticinque anni dopo, è vivido: «Io lavoravo all'ufficio operazioni, al piano inferiore. Ma quando il mio superiore era in licenza salivo di sopra, dove c'erano lo stato maggiore e il comando di divisione. Quello era uno di quei giorni. Arrivò la notizia del sequestro e dello stupro di Franca Rame. Per me fu un colpo, lo vissi come una sconfitta della giustizia. Ma tra i miei superiori ci fu chi reagì in modo esattamente opposto. Era tutto contento. 'Era ora', diceva. Era il più alto in grado: il comandante della 'Pastrengo', il generale Giovanni Battista Palumbo. Allora io vissi quella reazione di Palumbo solo come una manifestazione di cattivo gusto. Credevo che il generale fosse piacevolmente sorpreso della notizia, nulla di più. D'altronde Palumbo era un personaggio particolare, era stato nella Repubblica sociale, poi era passato con i partigiani appena prima della Liberazione. Non faceva mistero delle sue idee di destra. E alla Pastrengo, sotto il suo comando, circolavano personaggi dell'estrema destra, erano di casa quelli della maggioranza silenziosa come l'avvocato Degli Occhi. Poi il nome di Palumbo saltò fuori negli elenchi della P2 con quello di altri due ufficiali importanti dell'Arma a Milano. E io il 24 aprile 1981 mi presentai dai giudici Colombo e Turone per raccontare cosa avevo capito dei disegni di quella gente. Una testimonianza che ho pagato con procedimenti disciplinari, trasferimenti, ritardi nella carriera. Ma del fatto di Franca Rame ai giudici non parlai, perché mai avrei pensato che fosse qualcosa di più di una manifestazione di gioia, del tutto in linea con il modo di pensare del mio comandante» (36) . Il gran lavorio di Salvini non è andato del tutto disperso tra liti con colleghi e prescrizioni. L'ha altrimenti sviluppato Grazia Pradella, una donna minuta e coriacea, che non si è lasciata condizionare dai contrasti nel palazzo di giustizia. Partendo da una telefonata intercettata tra l'exproconsole trevigiano di Fachini, Roberto Raho, già dodici anni di latitanza nell'inchiesta sulla strage di Bologna, e un esponente della Fenice, Pietro Battiston, ottiene da entrambi consistenti ammissioni, che il primo si affannerà a ritrattare. Un blitz a Venezia per interrogare Battiston sarà l'occasione formale per la rottura con Salvini: il giudice
infatti contesterà alla p.m. di non averlo informato - l'indagine sulla Fenice era ancora tra le sue competenze - e così salterà quel minimo di collaborazione e la Pradella continuerà ad andare per la sua strada. Raho, in particolare, le spiega come Digilio - collaborando con Salvini era stato abilissimo nel tagliare i collegamenti con le persone sospettate per la strage di piazza Fontana. Nel luglio '96 il GIP milanese Piero Arbasino ordina gli arresti per Raho, 44 anni; Stefano Tringali, 43 anni, titolare di una ditta d'import-export di abbigliamento, incensurato; Piercarlo Montagner, 49 anni, proprietario di un negozio di apparecchi fotografici a Mestre, considerato l'orecchio italiano di Zorzi, incensurato; Piero Andreatta, 47 anni, lievi precedenti penali, da tempo trasferito in Benin, dove commercia biancheria. Orbitano tutti nell'ambiente degli ex-ordinovisti veneti e hanno mantenuto contatti con Zorzi e Maggi: l'accusa è di favoreggiamento aggravato a fini di terrorismo ed eversione nei confronti dei due indiziati della strage. Andreatta risulta avere precedenti per lesioni personali e detenzione illegale d'armi e munizioni, tutti reati connessi alla sua trascorsa militanza ordinovista. Nel corso di una conversazione con un vecchio amico di avventure politiche - intercettata - Raho avrebbe dimostrato di essere a conoscenza di molti particolari sulla strage di piazza Fontana. Raho era stato colpito da mandato di cattura per associazione sovversiva e banda armata (NAR) già nel 1981, dopo l'arresto in Veneto di Fioravanti, per aver ospitato Gigi Cavallini: aveva vissuto da latitante per undici anni in Venezuela, costruendosi una famiglia, fino al momento del proscioglimento in giudizio. Dal 1992 si era stabilito in un piccolo centro del Bellunese, San Nicolò di Comelico - dove è stato catturato - nella casa che il padre (ora defunto) aveva acquistato negli anni Sessanta. In paese, Raho riveste la carica di consigliere comunale per la lista Imparzialità per San Nicolò, considerata di destra: aveva ottenuto solo 9 voti, ma erano stati sufficienti in un paese di 430 abitanti . Secondo le testimonianze raccolte nel centro montano Raho non lavorava: la gente si ricorda soltanto che, di tanto in tanto, si esercitava al tiro con l'arco. Scarsi i suoi contatti con la popolazione - in paese dicono di non averlo mai visto in giro - e rare anche le sue presenze in Consiglio comunale. Il sindaco Giancarlo Ianese sostiene di averne ignorato l'esistenza fino a due anni prima. Raho si recava di tanto in tanto in Venezuela per andare a trovare la moglie. A carico di
Montagner anche le accuse di Siciliano: entrambi con Zorzi, nel 1966, sarebbero andati a rubare 40 chili di esplosivo e micce in una cava di marmo, materiali poi usati negli attentati della cellula nera veneta. Quindici giorni dopo gli arresti - i quattro saranno poi scarcerati dal tribunale del riesame - scatta l'intimidazione. Mentre il p.m. Pradella è sul balcone, a giocare con il figlioletto di tre anni, un uomo che sosta da lunghe ore sotto il palazzo si decide a puntare contro di loro un oggetto che la donna identifica in un'arma a canna lunga. Lei urla e trascina il bambino con sé a terra, l'uomo scappa . A gennaio '98 nell'inchiesta condotta dalla Pradella rispunta il nome di Dario Zagolin, già protagonista della Rosa dei venti, legato a Gelli e rifugiato in Francia nel '74 quando è colpito da ordine di cattura dei magistrati patavini: la sua auto è multata l'11 dicembre '69 a pochi metri dalla Banca dell'agricoltura. E il p.m. milanese lo sottopone a indagini. Un altro dei sospettati, Ivano Toniolo, un fedelissimo di Freda, già ricercato nella prima inchiesta, non è mai rientrato in Italia anche se il mandato di cattura era decaduto: espatriato nel 1973, accusato dai pentiti di aver trasportato esplosivo a Milano prima della strage, è stato segnalato in Spagna, Sudafrica e Angola prima che se ne perdessero le tracce. Intanto, mentre magistrati ostinati continuano a calpestare le solite piste per trovare i colpevoli della madre di tutte le stragi (solito giro di esecutori, ma l'idea forza che ad armare i terroristi neri veneti e milanesi siano stati i terminali della CIA), l'omonima commissione parlamentare di inchiesta, presieduta dal senatore pidiessino Giovanni Pellegrino, manda in soffitta venticinque anni di luogo comune sulla strage di Stato: «Non esistono allo stato attuale elementi che consentano di affermare che esponenti politici dell'area di governo siano rimasti coinvolti nelle varie trame eversive che hanno caratterizzato l'ultimo quindicennio del nostro paese» (37). La strage di piazza Fontana «comunque non è di Stato ma semmai provocata da infiltrazioni internazionali e straniere» e eventuali responsabilità vanno attribuite ai servizi segreti che assunsero compiti «che non competevano loro, a difesa con ogni mezzo dello status quo internazionale» (38) . Alla stessa matrice sono ricondotte le stragi di Brescia e dell'Italicus mentre per la commissione resta aperto il discorso su Bologna «che va collocata in una situazione del tutto diversa». Le conclusioni alle quali è pervenuta la commissione sposano le tesi di fondo di Cossiga sulla
sovradeterminazione geopolitica del terrorismo italiano: «Oggi», ha detto infatti Pellegrino nell'illustrare la relazione, «si può in fondo convenire con Cossiga quando dice che la P2 fu un circolo di oltranzismo atlantico. Oltretutto alcuni punti del programma di rinascita democratica di Gelli sono oggi condivisi da settori anche molto diversi del parlamento» . NOTE . (1). Accame figura anche nel dossier Mitrokhin come informatore del K.G.B., dato che suffraga l'opinione corrente che si tratti di una grossolana bufala . (2). Vinciguerra - che sottolinea sempre di non essere un «collaboratore di giustizia» - attribuisce a Maggi il ruolo di «reggente dell'intero Triveneto, rispondendo direttamente per il proprio operato alla direzione di Rauti e Signorelli a Roma», cit. in Fabrizio Calvi Frederic Laurent, "Piazza Fontana", Milano, Mondadori, 1997, p. 17 . (3). L'incarico di vicesegretario cittadino del Fronte della gioventù non impedisce a Neami di svolgere l'attività di distributore della casa editrice di Freda. Nel '72, ricercato per un arsenale di armi ed esplosivi ritrovato nella cantina del palazzo dove abitava con la madre, aveva potuto tranquillamente continuare a girare in città. Nei primi anni Ottanta era fallito un suo tentativo di riciclarsi, con altri ex-ordinovisti, nel P.S.I., nonostante la malleveria di un gruppo della destra socialista proveniente dal P.S.D.I . (4). Confronta Vinciguerra, "Ergastolo...", cit . (5). Paolo Biondani, "Stragi decise in Usa, Rumor sapeva", «Corriere della Sera», 11 febbraio 1998 . (6). Guido Ruotolo, "Le stragi, la CIA e il pentito", «il manifesto», 30 maggio 1997 . (7). Gladiatore e neofascista, nel 1982 Morin è sospettato di aver manipolato materiale esplodente, in favore di Concutelli, nel corso di una perizia di ufficio. Morin era stimatissimo negli ambienti della procura e quindi gli erano state affidate ancora numerosissime perizie. Una di queste - che contraddiceva quanto da lui sostenuto in un saggio accademico e cioè che il caricatore di un mitra è parte di un'arma da guerra - consente a Maggi, suo medico personale, di ottenere subito la libertà provvisoria. Morin sarà anche processato per inquinamento probatorio nella perizia per la strage di Peteano .
(9). Paolo Foschini, "Inchiesta Piazza Fontana. La perizia degli psichiatri: il pentito è inattendibile", «Corriere della Sera», 29 aprile 1998 . (9). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 7 . (10). Guido Ruotolo, "Un'ombra CIA a Brescia", «il manifesto», 5 febbraio 1997 . (11). Daria Lucca, "Piazza Fontana, la CIA sapeva", «il manifesto», 21 giugno 1996 . (12). Ruotolo, "Un'ombra...", cit . (13). Marcella Andreoli, "Se parlasse l'oracolo di Delfo", «Panorama», 23 novembre 1995 . (14). Gianni Barbacetto, «E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi», «Il Diario», 11-17 dicembre 1996 . (15). Ibidem . (16). Guido Salvini, sentenza-ordinanza marzo 1995, Milano . (17). I tre elementi riconducono alle responsabilità di Freda, negate dall'esito processuale: le cassette metalliche gli erano state suggerite da un ignaro elettricista, i timer erano stati comprati da lui da una ditta bolognese, le valigie erano state vendute da un negozio di Padova . (18). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 9 . (19). Il giovane Gucci si era esposto con due banche svizzere e rischiava di perdere le azioni delle sue società date in garanzia, avendo tra l'altro violato i patti sottoscritti con i soci arabi. Zorzi venne in suo soccorso permettendogli di ricavare ben duecentosettanta miliardi dalla vendita dei titoli perché aveva solidi rapporti d'affari con Gucci: da anni svolgeva attività di «esportazione parallela» nei "duty free shops" degli aeroporti mediorientali. Lui, da questo prestito, in tre mesi guadagna sette miliardi, con interessi che sfiorano il cento percento annui . (20). Questa condanna deriva proprio dall'attività d'esportazione di prodotti Gucci svolta tra il 1984 e il 1987 insieme al fratello Rudy e altri soci. I profitti erano parcheggiati in alcune società di comodo, in Svizzera, Inghilterra, Panama, Giappone. Nel processo era imputato anche un generale della Finanza, all'epoca colonnello al nucleo di polizia tributaria di Firenze, amnistiato per omessa denuncia e assolto dalla frode fiscale . (21). Andreoli, "Se parlasse...", cit . (22). Ibidem . (23). Ibidem .
24. Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 7 . (25). Ivi, p. 9 . (26). M. Ca., "Rauti: regia CIA?", cit . (27). Giovanni Maria Bellu «Piazza Fontana, lo Stato sapeva», «la Repubblica», 30 aprile 1997 . (28). Il professor Vulpitta, docente universitario, pubblicherà sul numero speciale di «Risguardo», per il ventennale del gruppo di A.R., un estratto di un saggio apparso sul quarto volume edito a cura del seminario di studi internazionali dell'Università di Kyoto, intitolato "Yojüro Yasuda e Mircea Eliade". L'articolo, "Le spighe di riso del giardino", è introdotto da una brevissima presentazione di Freda: «Pur provenendo da uno specialista, lo scritto in questione non mostra nulla di accademico, non sa di esercitazione destinata a menti esercitate (in pratiche intellettualistiche). La naturalezza di questa rappresentazione è per cuori inclini a scorgere; la sua bellezza per occhi addestrati a vedere» (p. 331) . (29). Mario Scialoja, "Il nostro agente a Tokyo", «L'Espresso», 3 dicembre 1995 . (30). Ibidem . (31). "Sismi, interrogato l'ex ministro Previti", «la Repubblica», 29 ottobre 1995 . (32). Alberto Carlucci, "Non desiderare la spia d'altri", «L'Espresso», 12 novembre 1995 . (33). Pier Luigi Vigna, attuale procuratore antimafia, è stato uno dei protagonisti della lotta all'eversione nera: è dalla sua indagine sulla latitanza di Tuti che si giunge a scoprire e a smantellare la rete clandestina di Ordine nuovo responsabile dell'omicidio Occorsio. Sarà sempre Vigna a ottenere la condanna del gruppo mafioso di Pippo Calò per la strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 (ma non dei presunti complici napoletani) . (34). Gianluca De Feo, "Agguato sventato al vice-Borrelli. Ex agente CIA: non c'entro", «Corriere della Sera», 29 febbraio 1996 . (35). Ibidem . (36). Luca Fazzo, "E il generale gioì per lo stupro", «la Repubblica», 11 febbraio 1998 . (37). Daniele Mastrogiacomo, "Quella di Piazza Fontana non fu strage di Stato", «la Repubblica», 13 dicembre 1995 . (38). Ibidem .
(39). Carlo Bonini, "Una pietra sopra 15 anni di stragi", «il manifesto», 13 dicembre 1995 . ALL'OMBRA DELLA LOGGIA Il serio rischio di ennesimo flop giudiziario dei processi per strage è determinato da una circostanza non banale: le fonti accusatorie non sono in grado di reggere il confronto del giusto processo (Siciliano in fuga, Digilio inebetito dal male e dai farmaci, gli altri malavitosi pentiti raccontano "de relato" o su circostanze marginali). E il vero ispiratore dell'ennesima ricostruzione giudiziaria è Vincenzo Vinciguerra, che sa molto di più di quello che ha detto o alluso, non ha nessuna intenzione di trasformare la sua battaglia politica con i traditori in autentica collaborazione giudiziaria. Tanto è vero che da tempo pur continuando a rivendicare la sua identità di «soldato politico» sta collaborando con la «rossa» Fondazione Cipriani (dedicata al parlamentare demoproletario che ha speso la sua combattiva esistenza alla ricostruzione dei gialli e dei misteri dell'Italia a sovranità limitata) . Per loro fortuna non tutti i camerati con cui Vinciguerra ritiene di dover regolare i conti sono compromessi dalle sue rivelazioni. In qualche caso se la cavano con una gogna simbolica perché l'autore della strage di Peteano rivela nei suoi fluviali memoriali anche una notevole vena grottesca. E così racconta una vicenda esemplare dell'intreccio tra nazismo magico e traffico d'armi: «Con simile 'camerata' la convivenza ["in carcere"] fu breve, come logico che fosse: si vantava di aver fatto dei favori, nei tempi andati, ai servizi di sicurezza [...]. Una sera, levando ispirato gli occhi al cielo, dopo il consueto invito a dimenticare e un perentorio 'qui lo dico e qui lo nego' mi mise a parte di aver fondato anni prima, insieme ad altri sconosciuti, un gruppo che doveva impartire alla plebe direttive in ordine a problemi di 'megapolitica' e di 'megastoria': si chiamava 'il raggio verde'. Nascondendo sotto una violenta tosse l'irrefrenabile risata che mi scuoteva, ricordai come ai primi degli anni Settanta, mi avevano detto che a Roma 'sette stronzi' avevano fondato un gruppo che si autodefiniva 'del raggio verde' (1). Ora uno dei sette stava davanti a me» (2). Il detenuto così impietosamente descritto dall'ergastolano è Boris de Rachewiltz degli Arodji, «incarcerato per una volgare truffa compiuta, seconda l'accusa, in compagnia di alcuni 'balordi' veneto-friulani» (3). Principe, duca di Baviera, Toscana e Lorena, gran maestro dell'Ordine di Canossa e
dell'Ordine della Corona di ferro (4), docente universitario (5). Il nobile ha ospitato per anni nel suo castello di Merano il suocero Ezra Pound, sommo talento poetico del secolo ventesimo, condannato per collaborazionismo per le trasmissioni radiofoniche filonaziste durante la Seconda guerra mondiale e salvato dall'onta della galera dal ricovero in manicomio (un americano non patriota non può che essere pazzo). Egittologo di fama mondiale, de Rachewiltz ha la residenza in Senegal. E' perciò arruolato - con compiti di ambasciatore plenipotenziario - in una banda di trafficanti internazionale di armi guidata da Antonio Moccia, un camorrista trapiantato a Milano e già condannato per il sostegno logistico offerto alla banda Fioravanti-Cavallini. Nell'inchiesta per il traffico d'armi è coinvolto (e prosciolto) anche Andrea Calvi, responsabile della rivista «Movimento», referente milanese di Cavallini, arrestato in sua compagnia nel settembre 1983. Della banda faceva parte anche un ex-carabiniere, Adriano Paschetto, tornato alla ribalta dieci anni dopo a proposito di traffici di armi e per i rapporti della 'ndrangheta con i servizi segreti (6). L'organizzazione «profana» di Moccia, che per spillare quattrini è giunta a pubblicare annunci sul «Corriere della Sera» per il reclutamento di mercenari (ma era solo una truffa) annovera nelle sue fila Vincenzo Buffo, militante di Avanguardia nazionale di Portici, un centro alle porte di Napoli, protagonista della rivolta di Reggio Calabria, addestratore di lotta, arrestato nel 1974 per un attentato dinamitardo contro la sede del «Mattino» (7) . A Portici, la città più densamente abitata d'Europa, sono assai intensi i rapporti tra estremisti neri e criminalità organizzata: uno dei più noti squadristi, Cesare Bruno, avvocato penalista, è passato dai banchi del Consiglio comunale, dove era stato eletto nelle liste del M.S.I., alle sbarre di Poggioreale più volte, per le sue attività in favore della Nuova famiglia, il cartello dei clan che si opponevano alla Nuova camorra organizzata. Condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio di uno 'ndranghetista, è scarcerato clamorosamente con altri mafiosi milanesi per decorrenza dei termini. Un altro dei picchiatori più noti negli anni Settanta, Italo Sommella, è morto annegato mentre lavorava come scafista nel contrabbando di sigarette. Anni dopo, nella fase dello spontaneismo armato, l'unico attentato di qualche rilievo a Napoli sarà un sabotaggio all'hangar della Guardia di finanza all'aeroporto di Capodichino, mentre saranno numerosi i «mazzieri» fascisti, da
Tommaso Spezzacatene (arrestato per un attentato dinamitardo contro la facoltà di Architettura occupata dai senzatetto) a Lello Pezone (una mano sfracellata nella confezione di un ordigno esplosivo), ad essere uccisi in regolamenti di conti dei clan della camorra o finiti a ingrossare le loro fila. Un bandito da sempre, ma anche grande elettore del M.S.I., è Peppe Misso: condannato a vent'anni per la rapina miliardaria al Banco dei pegni al centro di Napoli ma anche accusato (e condannato all'ergastolo in primo grado) per la strage del rapido 904 (8). Una sentenza che farà discutere: perché mentre i camorristi della Sanità sono assolti dall'accusa di strage, è condannato definitivamente per aver fornito loro l'esplosivo usato sul rapido 904 l'ex-deputato missino napoletano Massimo Abbatangelo, con numerosi precedenti politici: da consigliere comunale fu arrestato in aula per essere «volato» dai banchi e aver aggredito uno spettatore durante un accesso dibattito dopo una mancata strage a un comizio antifascista nell'anniversario di piazza Fontana. Abbatangelo è arrestato nel febbraio '96: per le precedenti condanne non può beneficiare del condono e deve scontare circa tre anni di carcere (9) . Di traffici pericolosi con la camorra e l'eversione nera è protagonista un altro docente universitario, il criminologo Aldo Semerari (10), perito di parte di Raffaele Cutolo, attirato in un tranello e fatto decapitare da Umberto Ammaturo, compagno della portavoce della Nuova famiglia, quella Pupetta Maresca che aveva dichiarato guerra alla Nuova camorra organizzata in un clamoroso «happening» al Circolo della stampa di Napoli. Semerari si era affiliato alla massoneria di Palazzo Giustiniani, anche se non figurava nel piè di lista: iniziato nella loggia Pitagora negli anni Sessanta, il suo fascicolo era stato avocato alla corte centrale del Grande oriente e se ne erano perse le tracce. Il gran maestro Gamberini lo mette in contatto con Gelli: da allora è un "habitué" ai riti di affiliazione alla P2 (11). Il professore è con l'ex-deputato missino Fabio De Felice, l'eminenza grigia di «Costruiamo l'azione» (C.L.A.), la rivista dell'area che nei suoi leader politici - Signorelli a Roma, Fachini in Veneto - rappresenta la diretta continuità politica e militare di Ordine nuovo. De Felice è un'altra figura chiave dell'intreccio tra estremismo nero, partito del golpe e P2. Ex-presidente della Giovine Italia e poi deputato missino, insegnante di storia e filosofia in pensione (tra i suoi allievi nel liceo di Poggio Mirteto c'è Paolo Aleandri, poi suo pupillo). A ventisei anni, nel 1953, è gravemente ferito nei tumulti di
Trieste e perde una gamba (a sei giovani missini andrà peggio: perdono la vita) e da allora ha bisogno della carrozzella. Aderisce nel 1965 al movimento gollista Nuova repubblica, promosso dal leader repubblicano Randolfo Pacciardi, eroe della guerra di Spagna e della Resistenza. Alla fine degli anni Sessanta De Felice è con il fratello Alfredo tra i «cervelli» del partito del golpe (12). Da una posizione un po' defilata Fabio mantiene rapporti strettissimi con l'area ordinovista. Alfredo è redattore unico di «Ordine nuovo-Azione». Nell'estate '75 i fratelli si sottraggono alla cattura nell'ultimo blitz per il golpe. La latitanza di Fabio è di breve durata. Alfredo invece si stabilisce in Sudafrica (dove collabora a «Noi Europa», la rivista dei fuoriusciti fascisti italiani che invia soldi ai detenuti politici anticomunisti: Batani, Concutelli, Freda, Pozzan, Tuti, Ferro, Spiazzi, tutti di area ordinovista), e inizialmente è proprio per mantenere i collegamenti con il latitante, che Aleandri comincia a frequentare la "suite" di Gelli all'Excelsior . Al professor De Felice Aleandri attribuisce la teoria dell'«arcipelago», caratteristica della nuova fase del terrorismo nero, cioè la promozione di una linea politica che avrebbe prodotto intorno a parole d'ordine precise un insieme di azioni armate da parte di gruppi non direttamente collegati con l'organizzazione (13) . Fabio De Felice è tra gli arrestati nel blitz del 28 agosto 1980 poi di nuovo nell'inchiesta contro l'area ordinovista e infine è accusato di aver fatto parte della direzione strategica del terrorismo nero - una realtà unitaria al di là del fittizio gioco della proliferazione delle sigle - il cui progetto politico sarebbe stato alle origini della strage della stazione. Dopo lunghi anni di carcere preventivo e di detenzione domiciliare, al processo di Bologna il professore è assolto con formula piena, nonostante la condanna a dodici anni di carcere chiesta dal pubblico ministero. Nelle ricostruzioni dei pentiti De Felice e Semerari costituiscono una coppia fissa. Nella villa del criminologo alla fine del 1977 si svolge il summit di fondazione del gruppo, che ha ai vertici il professore De Felice, il responsabile di Ordine nuovo clandestino, Paolo Signorelli, espulso soltanto l'anno prima dal comitato centrale del M.S.I., l'alter ego di Franco Freda, Massimiliano Fachini, dirigente del FUAN e consigliere comunale missino fino al 1973, e i responsabili delle rete militare, Sergio Calore e Paolo Aleandri. L'aggregazione neo-
ordinovista intorno a «Costruiamo l'azione» per un breve periodo s'intreccia con la vicenda di Terza posizione (T.P.) (14) . Spregiudicato, pieno di sé, Semerari non esita a giocare a tutto campo: alla banda della Magliana, con la quale è entrato in contatto tramite un cliente (15), offre una lista di «sequestrabili» e perizie compiacenti in cambio di attentati da compiere su ordinazione. I «bravi ragazzi» respingeranno le sue offerte, anzi saranno loro a reclutare parecchi giovani camerati, tra i quali alcuni di C.L.A. Il criminologo resta il punto di riferimento per un giro «alto» di malavita all'ultima spiaggia giudiziaria: anche il boss dei marsigliesi, Jacques Berenguer, quando è arrestato a New York nel 1980, si ricorda del professore romano per ottenere l'infermità mentale. Dichiaratamente pagano, adoratore del Sole, gran consumatore di fegato crudo in occasione dei riti del Solstizio, il professore Semerari è arrestato anche lui dopo la strage di Bologna, come componente del vertice unitario dell'eversione nera. In carcere riceve altri provvedimenti restrittivi, per un omicidio commesso da Calore e una fuga di notizie connessa all'uccisione del giudice Amato, il grande «nemico» dell'ultradestra armata. E' scarcerato dopo otto mesi, giusto in tempo per assistere allo sfacelo della P2 (16) . La sua morte s'intreccia con uno dei più intricati e sporchi «affari» della storia repubblicana, il sequestro di Ciro Cirillo e la trattativa intercorsa su piani diversi tra Brigate rosse, Democrazia cristiana, camorra e servizi segreti. Il «falso» rapporto di polizia, confezionato dall'entourage cutoliano e fatto pubblicare dall'«Unità» per depistare le indagini, è in un primo momento attribuito a Semerari, e considerato la ragione della sua esecuzione. Si scoprirà poi che, banalmente, a costargli la vita è stata la presunzione di poter fare impunemente il doppio gioco tra clan rivali della camorra. Il professore è torturato e decapitato (con un seghetto) nel bagno di casa di uno dei killer più crudeli, Ciro Garofalo (17). Il 25 marzo 1982 il criminologo arriva nel solito albergo sul lungomare napoletano. Deve incontrare Ammaturo. Gli basta poco per capire che tira brutta aria: la sera telefona a Roma al suo vecchio amico Renato Era, ex-presidente dell'Itavia, amministratore delegato di una clinica, dal dopoguerra collaboratore dei servizi. Chiede di mandargli un agente per riferire notizie importanti, ma il SISMI stacca la spina. Alle 11 di mattina del 26 due individui lo prelevano per accompagnarlo all'ultimo appuntamento. Il cadavere decapitato è ritrovato a Ottaviano, il paese natale di Cutolo. Il giorno dopo la sua
segretaria, Fiorella Maria Carraro, si uccide lanciandosi dal balcone. Solo per il dolore della perdita del professore, al quale era stata legata sentimentalmente? (18) Gli intrecci tra criminalità organizzata, massoneria e servizi segreti deviati sono tornati prepotentemente alla ribalta in margine alla vicenda del Tempio solare, la setta dei suicidi di massa (19). Del gran priorato italiano dell'Ordine, balì Pasquale Gugliotta, fanno parte molti amici di Gelli, dal calabrese (trapiantato a Genova) Pietro Maria Muscolo, gran maestro dal 1975, al torinese Luigi Savona, due esponenti di spicco di massonerie «selvagge», coinvolti nelle inchieste sui rapporti tra Cosa nostra e le logge coperte che fanno capo al commercialista di Riina, Pino Mandalari, gran maestro di rito scozzese antico e accettato, più volte arrestato per le sue attività professionali in favore dei corleonesi, nonché candidato nel 1972 alla Camera nelle liste del M.S.I. Questo "reseau" della cosiddetta massomafia, una categoria che peraltro non ci convince, è uscito allo scoperto, nell'inverno '92-'93, in un processo a Trapani contro la loggia coperta Iside seconda, frequentata da mafiosi (il killer Mariano Agate, il boss pentito Rosario Spatola, il capocosca di Partanna, Calogero Atria, il «bombarolo» Mariano Asaro, un artificiere della strage di Capaci), affaristi, politici e magistrati. Un incontro tra il gran maestro della loggia coperta, l'ex-prete Gianni Grimaudo e l'avvocato Muscolo è documentato nell'inchiesta di Palmi di Agostino Cordova, che, all'inizio degli anni Novanta, cercando di ricostruire il «network» nazionale delle fratellanze spurie ha scoperto che a rubare titoli per miliardi alla Banca di Santo Spirito sono stati massoni. «La loggia più inquinata», scriverà Alfredo Galasso, deputato della Rete e avvocato antimafia, «è quella di Genova [...] capeggiata da Pietro Maria Muscolo, che è di Roccella Jonica e ne fa parte anche Antonio Fameli, condannato all'ergastolo per l'omicidio di un boss di San Ferdinando con sentenza cassata dalla prima sezione penale della Cassazione» (20). La sede della loggia di via Caffaro 4 ospita anche la redazione di una semisconosciuta «Rivista di diritto penale», diretta da Muscolo, del cui consiglio di direzione fa parte anche l'ex-guardasigilli Alfredo Biondi. I contatti tra Mandalari e Savona affiorano invece nell'inchiesta condotta da Giovanni Falcone sul Centro sociologico italiano di Palermo (21), sodalizio di copertura per le logge segrete: in un edificio della centralissima via Roma ne erano ospitate ben sei. In una, la Diaz, si ritrovano il boss Salvatore Greco, il «senatore», i cugini Salvo, l'avvocato Salvatore Bellassai,
capo della P2 in Sicilia, e alcuni protagonisti del finto sequestro Sindona, Giuseppe Attinelli e Michele Barresi . L'inchiesta scaturisce dai pedinamenti di un imprenditore tessile amico di Gelli, sospettato di traffico d'armi e di droga. Nel corso di una telefonata con un avvocato, sodale del principe Gianfranco Alliata di Monreale, Mandalari parla di una cena organizzata alla fine del 1989 dal mafioso Mariano Agate e alla quale egli stesso avrebbe partecipato con Savona. E col principe Alliata di Monreale (22) giungiamo al cuore del sistema massonico mondiale. L'unica condizione che nel 1960 il potente distretto americano, forte dell'aiuto dato per la restituzione di Palazzo Giustiniani sequestrato dal fascismo, pone per riconoscere il Grande oriente è la fusione con la piccola loggia di rito scozzese del principe (23). Il gran commendatore, Augusto De Megni, banchiere perugino, un nipotino sequestrato da banditi sardi, ha finanziato il M.S.I. di Almirante. La circostanza, divulgata velenosamente dall'excapogruppo missino alla Camera, Ernesto Di Marzio, transfuga con Democrazia nazionale (24), conferma l'intreccio perverso tra destra politica, massoneria di stretta osservanza atlantica e il ciclico riaffiorare di un progetto separatista per la Sicilia. Quest'ultimo è una passione comune al «principe nero» e al «re della finanza bianca» (accomunati dall'adesione alla P2): Sindona motiverà il soggiorno clandestino in Sicilia - organizzato da logge coperte e contigue a Cosa nostra, simulando un sequestro - con la preparazione di un golpe separatista. Sulle compromissioni eversive di Sindona c'è una lunga e risentita deposizione del suo ex-braccio destro, Carlo Bordoni (25). A battere il chiodo sulla «missione siciliana» di Sindona nel 1979 e sulla presenza di personaggi legati alla mafia (ma anche dei vertici investigativi della polizia palermitana) nella P2 sarà, negli ultimi mesi di vita, il leader siciliano del P.C.I., Pio La Torre, ucciso da Cosa nostra il 30 aprile 1982 . Nei primi anni Settanta Alliata di Monreale è responsabile di «Opinione pubblica», organo dell'omonimo movimento che fiancheggia la Rosa dei venti. Inquisito e poi colpito da mandato di cattura per cospirazione politica dai giudici padovani, nell'inverno 1974 si rifugia a Malta fino all'estate 1975, quando, con il trasferimento a Roma dell'inchiesta, l'impianto accusatorio originario è sostanzialmente ridimensionato. Alliata di Monreale torna alla ribalta con le indagini sulla «massomafia». Il suo nome figura nel piè di lista delle logge coperte di
Trapani. L'età non gli risparmia l'umiliazione del carcere (26): nonostante abbia 73 anni, è arrestato l'11 maggio 1994 per associazione segreta e per presunto voto di scambio nelle elezioni comunali romane e ottiene gli arresti domiciliari soltanto dopo una settimana. I giudici non trovano il tempo di interrogarlo nei cinque giorni prescritti dal codice di procedura penale (e solo per questo avrebbero dovuto scarcerarlo immediatamente). La rabbia, l'umiliazione sono troppo forti: il principe muore di infarto il 20 giugno . Nel quadro del generale rilancio delle inchieste sulle «trame nere» che il massiccio lavorio su nuovi e vecchi collaboratori ha prodotto, grande risalto è stato dato al ruolo giocato da Licio Gelli nel golpe Borghese. All'ipotesi già datata che fosse stato il «maestro venerabile» a «ordinare la ritirata» al comandante Borghese si è sovrapposta la voce che Gelli fosse personalmente incaricato della cattura del capo dello Stato, Giuseppe Saragat. Secondo una rivista di sinistra americana, «Covert action», Gelli avrebbe ricevuto copia di un documento della CIA, il supplemento B del "Manuale da campo 30-31", elaborato all'inizio del '70, che prevedeva azioni di stabilizzazione nei Paesi alleati che avessero dimostrato scarsa reattività al pericolo comunista. Secondo la rivista, quindi, la CIA sapeva dei preparativi di Borghese e ha, quanto meno, lasciato fare. Al termine della sua maxinchiesta Salvini trasmette per competenza gli atti sul golpe Borghese alla procura di Roma, che indaga il maestro per attentato alla libertà personale del capo dello Stato e per cospirazione politica mediante associazione. Tanto per sapere, perché l'estradizione elvetica mette Gelli al riparo dai reati politici. Il Venerabile ricorda maliziosamente ai giornalisti: «Ma se era stato proprio Saragat, quell'anno, a farmi commendatore...». Il più accanito difensore di Gelli è, paradossalmente, Delle Chiaie, che ai depistaggi orchestrati da spioni legati alla P2 deve lunghi anni di latitanza all'estero: non aveva mai sentito nominare Gelli dal principe Borghese, che pur frequentava quotidianamente . I riscontri di segno opposto non mancano: nelle «confidenze» al capitano Labruna e al suo diretto superiore il colonnello Sandro Romagnoli un reduce di Salò che partecipava al progetto golpista, il pistoiese Maurizio Degli Innocenti, attribuisce al suo vecchio compagno d'armi Gelli l'incarico di arrestare Saragat quando il maestro venerabile era ignoto al grande pubblico. Queste rivelazioni non figurano nelle bobine consegnate dal generale Maletti nel 1974: era
stato tagliato anche ogni riferimento al ruolo nei piani golpisti dell'ammiraglio piduista Giovanni Torrisi, divenuto in seguito capo di Stato maggiore della Difesa. Ci vorrà la decisione di Labruna, nel 1991, di regolare i conti con gli ex-amici per via giudiziaria, consegnando tutte le registrazioni, per scoprire che «le complicità militari nel piano erano ben più vaste e profonde di quanto si è voluto fare credere finora. Che gruppi di civili erano pronti in tutta Italia a sparare per fare pulizia dei rossi. Che i comandi NATO sapevano» (27). Tra i beneficiari della censura preventiva - un'operazione denunciata nel suo stile criptico e beffardo da Pecorelli: il malloppone è diventato il malloppino... - i leader di A.N. Delle Chiaie e Maurizio Giorgi, protagonisti del golpe nella relazione dei servizi, scomparsi nel rapporto trasmesso alla magistratura. Nella ricostruzione delle vicende del terrorismo nero, si deve quindi tenere conto del ruolo giocato da «una sequela di poteri forti ma invisibili: massoni coperti raccolti in logge segrete, spezzoni di forze armate pronte a tutto, servizi segreti inquinati dal tradimento, giochi politici doppi e tripli, uomini della democrazia intruppati nelle consorterie più losche, avidi pupari disposti a ogni nefandezza, vecchi arnesi del passato, intrecci perversi, equazioni mortali, immonde alleanze» (28) . Il ruolo centrale ricoperto dalla «massoneria deviata» (termine contestato da molti esperti per i vincoli di solidarietà sistematicamente emersi tra il Grande oriente e il gruppo Gelli) si era manifestato in tempo reale nell'inchiesta sulla strage dell'Italicus, ma la magistratura non seppe o non poté sviscerare la storia dei finanziamenti e delle protezioni che la P2 aveva assicurato alla cellula nera toscana. La strage doveva fungere da innesco per il golpe bianco promosso dal conte (e piduista) Edgardo Sogno, «Medaglia d'oro della Resistenza», referente della NATO per la lotta anticomunista. Al governo d'emergenza scaturito dal "blitzkrieg", promosso dal leader dei partigiani bianchi e organizzato da Luigi Cavallo, «scienziato della provocazione», avevano assicurato disponibilità a partecipare Randolfo Pacciardi, fondatore di Nuova repubblica, il ministro repubblicano (ma ex-comunista) Eugenio Reale (autore della legge sulle armi che ha garantito sostanziale impunità agli eccessi delle forze dell'ordine) e un manipolo di rampanti D.C. (Ciccardini e Zamberletti). Solo ventitré anni dopo Sogno - che aveva sostenuto un durissimo scontro con il suo giudice, Luciano Violante, risultando alla fine prosciolto - ammette: avevamo pronta
anche la lista dei ministri e consistenti sostegni tra i vertici militari (il comandante militare del Sud, Ricci, e quelli della Scuola di guerra, Zavattaro Ardizzi, e della Guardia di finanza, Borsi, l'ex-segretario generale della NATO, il liberale Manlio Brosio) . Anche l'inchiesta giudiziaria sull'Italicus, del resto, è finita in una bolla di sapone. Nel dicembre 1975 il pregiudicato Aurelio Fianchini (sedicente trotzkista) evade dal carcere di Arezzo insieme al braccio destro di Tuti, Luciano Franci. Il giorno dopo si presenta nella redazione di un settimanale e racconta che il suo complice gli ha confidato di aver partecipato all'organizzazione della strage. Le accuse (nonostante puntuali riscontri) saranno giudicate insufficienti per condannare Tuti e camerati. La giornalista Sandra Bonsanti, autrice dell'intervista a Fianchini, racconterà al giudice di Bologna Vella che l'evaso aveva «con estrema decisione e fermezza» (29) indicato nel giudice Marsili, il genero di Gelli, un protettore della banda. Questa singolare benevolenza è confermata dal vicequestore Guglielmo Carlucci: «La sera dell'eccidio compiuto da Tuti chiesi al dottor Marsili l'emissione di tutta una serie di ordini di cattura nei confronti di numerosi elementi legati ai soggetti arrestati e a Tuti. Il dottor Marsili si limitò ad emettere gli ordini di cattura nei confronti di Marino Morelli e di qualche altro, sostenendo che le difficoltà ambientali gli suggerivano di essere cauto nell'adottare provvedimenti nei confronti di cittadini di quell'ambiente» (30). Tuti smentisce con sdegno: «Per degli attentati di cui sul momento neppure si erano accorti e per i quali la parte civile, le ferrovie, aveva chiesto un indennizzo di mezzo milione, Marsili nella requisitoria aveva chiesto la condanna a più di venti anni per ciascuno di noi sette» (31) . Nel novembre 1981, quando già è scoppiato lo scandalo P2, un manipolo di militari toscani - tutti iscritti alla loggia - rilancia la pista aretina per l'Italicus. L'ex-comandante dei carabinieri di Firenze, il generale in pensione Luigi Bittoni, già implicato nel «Piano Solo» di De Lorenzo, riferisce ai giudici bolognesi una confidenza dell'ammiraglio Gino Birindelli, già comandante della flotta NATO e all'epoca deputato del M.S.I. e presidente della Destra nazionale. Per verificare la segnalazione Bittoni affida indagini riservate al comandante di Arezzo, Domenico Tuminello, e al suo vice, Corrado Terranova. La cosa non ha seguito anche se il giudice Minna individua una clamorosa contraddizione tra i due generali: Birindelli rende più
generica la rivelazione e la colloca nella primavera '74 - i «ragazzi» che fanno i servizi d'ordine per il M.S.I. in campagna elettorale mettono anche le bombe - Bittoni la fa slittare alla tarda estate e la collega direttamente alla strage. Gran maestro a Palazzo Giustiniani è, all'epoca, il generale Battelli che non ha mai smentito di aver fatto parte delle brigate repubblichine. Il gran maestro della massoneria «nera» di piazza del Gesù generale dell'aeronautica in pensione, è invece coinvolto nell'inchiesta su Ordine nero a Bologna (32): a denunciare Giovanni Ghinazzi è Emilio Santillo, il direttore dell'Antiterrorismo che trasmette al giudice Tamburino una relazione sui collegamenti tra Gelli, la P2, il generale e alcuni bombaroli. I sospetti di collusione con il terrorismo nero non scalfiscono l'immagine di Ghinazzi che continuerà ad avere contatti con Giulio Andreotti. Del resto, anche dopo lo scandalo P2, all'obbedienza di piazza del Gesù continuano a fare capo decine di logge coperte . Di singolare preveggenza sulle trame golpiste in atto nell'estate del '74 aveva dato prova il Gran maestro del Grande oriente d'Italia, il socialista Lino Salvini. «Io non mi muovo da Firenze», aveva confidato a un «fratello», «perché ci sarà un golpe» (33). Sinistramente profetica era stata la telefonata di Claudia Ajello, fresca dipendente del SID, figlia di un ufficiale e di una collaboratrice greca dei servizi segreti. Le impiegate di un banco lotto ubicato nei pressi dell'ufficio della donna, «infiltrata» nel P.C.I. e negli ambienti dei fuoriusciti greci, subito dopo la strage si erano presentate in questura raccontando di una strana telefonata ascoltata il 31 luglio in cui si parlava di bombe, un treno per Bologna e passaporti per espatriare. La Ajello, collaboratrice del colonnello Marzollo (34), si schermì in modo grottesco: ma che bombe, si era rivolta alla madre chiamandola «sexy-bomba». Condannata in primo grado, la donna è stata assolta in appello . Una pista interessante abortita: in questo caso, per la prima volta, gli ambienti dei servizi segreti e dell'estrema destra parlamentare sarebbero stati a conoscenza dei segreti di una strage già prima che l'attentato fosse consumato. Del resto l'unico settore in cui il potere di Gelli era schiacciante era quello dei servizi segreti. Nelle liste della P2 sono iscritti i protagonisti del Piano Solo, tutti gli ufficiali di rango coinvolti nel golpe Borghese, i vertici del SID e numerose figure di spicco dei carabinieri. E' così che Gelli diventa il garante del rapporto tra militari golpisti, destra eversiva e uomini politici. Il suo obiettivo è di
stabilizzare il sistema, usando anche la minaccia del golpe. A questo disegno strategico va ricondotto l'uso che Gelli fa del terrorismo nero, a volte stimolando l'iniziativa dei gruppi armati (finanziando la cellula nera toscana), a volte indirizzando le indagini contro i gruppi irriducibili al suo progetto. Nell'unico episodio in cui Gelli è colto con le «mani nel sacco» (i soldi a Cauchi) resta impunito per un cavillo giuridico. La legge punisce chi sovvenziona una banda armata, ma per i giudici fiorentini la cellula nera aretina è un'associazione sovversiva . NOTE . (1). Per la Società teosofica, il movimento magico-esoterico di tendenza orientaleggiante che grande influenza ha avuto nella sfera della nuova religiosità contemporanea, i «sette raggi» rappresentano le linee di attività che emanano dal centro del mondo per guidare tutti gli aspetti della vita sulla Terra (vedi Massimo Introvigne, "Le nuove religioni", Milano, Sugarco, 1989, p. 275) . (2). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p.p. 87-88 . (3). Ibidem . (4). L'Ordine della Corona di ferro è costituito da discepoli di Evola che chiedono al Maestro di stendere la "Regola", pubblicata sulla rivista di studi tradizionali «Arktos» (gennaio-aprile 1973), prevedendo tra l'altro la presenza di «terziarie» disponibili, mediante opportune misure per prevenire la fecondazione, a un «uso comunitario e non possessivo» da parte dei membri del sodalizio, «ispirato a una spiritualità sacrale e gerarchica» (confronta Introvigne, "Il cappello...", cit., p. 346) . (5). L'incidente giudiziario non pregiudica il prestigio del principe de Rachewiltz nell'ambiente dei cultori della Tradizione. Così è a lui che si rivolge Corallo Reginelli, ultimo sopravvissuto dell'evoliano Gruppo di Ur, per farsi scrivere la prefazione al volume "Il lanciafiamme con amore. Il sacrale e le illusioni" (pubblicato con lo pseudonimo di C. R. Alone, cioè Corallo Reginelli solo), dove «il lanciafiamme è ciò che dissolvendo tutto il profano lascia finalmente scorrere l'energia del sacro». Il volume è pubblicato nel 1988 dalle Edizioni Nuove Impronte di Roma. Nel 1995 con questo nome si formerà un'aggregazione militante all'interno di Alleanza nazionale, presente nella periferia sudorientale di Roma, la cui prima uscita pubblica è la diffusione di un manifesto murale con il ritratto di Mishima e la promessa di un ritorno all'impegno politico in toni apollinei-esistenziali .
(6). Fonte delle rivelazioni un pentito, Fabio Nistri, trentasei anni, figura di spicco della cosca calabrese (la cosiddetta 'ndrina) dei Di Giovine, trapiantata a Milano. Secondo Fabio Nistri un affiliato della 'ndrangheta, Massimo De Nuzzo, avrebbe avuto contatti con i servizi segreti, con l'eversione di destra e sarebbe stato protagonista di traffici di missili con i Lupi grigi, la banda neofascista turca di Alì Agcà l'autore dell'attentato al papa - e di fucili mitragliatori con un Paese africano. De Nuzzo - a detta di Nistri - avrebbe sostenuto di essere figlio di un dirigente dei servizi segreti, mentre il marito della madre gli aveva dato il cognome, rivendicando una vecchia militanza nell'estrema destra milanese. L'ex-terrorista nero avrebbe raccontato a Nistri di assalti alle sezioni del P.C.I., ma anche di rapporti con mercenari protagonisti di varie vicende belliche e con «un ex-carabiniere di Pordenone, tale Paschetto [...] coinvolto in una vicenda di intermediazione nel commercio di quindicimila fucili mitragliatori destinati a un Paese centroafricano» . (7). "Atti della Commissione d'inchiesta sui fenomeni di terrorismo e di eversione fascista in Campania", Regione Campania, maggio 1975, p. 78 . (8). Il giorno della sentenza d'appello - assolti i napoletani, condanne confermate per Calò e i siciliani - mentre rientrano la moglie del boss del quartiere Sanità e i suoi due coimputati, Alfredo Galeota - ministro delle finanze del clan - e Giulio Pirozzi, il comandante militare, i killer li aspettano alla barriera autostradale di Napoli: i primi due muoiono, l'ultimo sopravvive . (9). Affidato ai servizi sociali, Abbatangelo rinuncia all'elezione all'europarlamento (poteva subentrare, da primo dei non eletti, al defunto Belleré) per non mettere in imbarazzo Alleanza nazionale . (10). Docente di Psichiatria forense e Antropologia criminale, Semerari è il più autorevole consulente del tribunale di Roma e può così garantire l'impunità a numerosi banditi e militanti neofascisti con perizie di comodo. In un caso l'imprudenza del beneficiato, il rapinatore «nero» Massimino Rampelli, che ne scrive a un detenuto, porta all'annullamento della perizia. Ben inserito negli ambienti dei servizi segreti, il professore ha rapporti di amicizia con il collega Ferracuti, figura chiave del comitato di crisi del sequestro Moro . (11). Secondo Pierluigi Scarano, pupillo di Signorelli, alla fine degli anni Settanta tutti i rapporti tra estrema destra e Palazzo - ovvero
servizi segreti e P2 - passano per Semerari. A casa dello psichiatra si sarebbero svolte riunioni riservate con l'ex-procuratore di Roma De Matteo, agenti segreti e massoni . (12). I fratelli De Felice hanno stretti rapporti con l'ingegnere della Selenia, Fendwich, uomo di collegamento con la CIA e con il capitano di polizia Capanna. I due sono assidui collaboratori di «Difesa nazionale» e di «Politica e Strategia», la rivista coordinata da Duilio Fanali, il capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, prosciolto per il golpe Borghese e arrestato in seguito per lo scandalo Lockheed. Tra i collaboratori di «Politica e Strategia», organo ufficioso del «partito del golpe», c'è anche il generale Corrado Sangiorgio, già comandante generale dei Carabinieri. Dopo il fallimento del putsch Borghese, i De Felice partecipano al travaglio autocritico dello stato maggiore golpista, che si lacera in focosissime riunioni, tra accuse di tradimento e d'inettitudine, organizzando nella casa romana di Montesacro di Alfredo il summit del Fronte nazionale in cui si riconosce la leadership di Filippo De Jorio, l'avvocato del vice di Borghese, Orlandini. De Jorio è un consigliere regionale D.C. del Lazio, fa parte della corrente andreottiana, e nel 1975 è «gambizzato» dai NAP (oggi è responsabile di un settore di lavoro della direzione di Alleanza nazionale: il figlio Fabrizio - dopo aver frequentato i giri «lottarmatisti» ed essere stato coinvolto nell'inchiesta sul FUAN-NAR per la partecipazione ai campi scuola della Falange in Libano - ha diretto la rivista satirica di destra «La Peste») . (13). La rottura con i «militaristi», Calore e Aleandri, avviene nel marzo 1979 perché - a detta dei due pentiti - il professore si era imbarcato in una discutibile operazione in difesa del palazzinaro Genghini - sull'orlo del fallimento - e poi, nel corso dello scontro successivo, aveva teorizzato esplicitamente l'importanza dell'infiltrazione negli ambienti di potere rispetto alla politica militante, pretendendo da parte dei due «ragazzini» una netta autocritica e il riconoscimento del suo primato politico e quindi il diritto a gestire in prima persona i fondi delle rapine . (14). I giovani leader romani di Lotta studentesca, Fiore e Adinolfi, in cerca di legittimazione politica, più volte incontrano Freda che - senza impegnarsi direttamente sul piano organizzativo - guarda con simpatia all'unificazione delle forze rivoluzionarie. La trasformazione di Lotta studentesca in Terza posizione sembra per un breve periodo esprimere
una generale riaggregazione della destra radicale ma ben presto le rivalità di bottega prevalgono: resteranno in T.P. il nucleo siciliano (guidato da Mangiameli e Incardona) e veneziano (con alla testa due pupilli di Freda e collaboratori delle edizioni di A.R., Francesco Ingravalle e Roberto Salvarani) di «Costruiamo l'azione» confluiti nella fase unitaria . (15). Nicolino Selis, boss di Ostia nominato da Cutolo capozona romano della Nuova camorra organizzata, è tra i fondatori della banda ma sarà ucciso a tradimento nel quadro di un regolamento di conti interno . (16). Un boss della Magliana «pentito», Maurizio Abbatino, tredici anni dopo, accredita l'ipotesi che il più clamoroso depistaggio sulla strage di Bologna, l'operazione «Terrore sui treni», sia stato in realtà un preciso messaggio trasversale per Semerari, sul punto di crollare dopo cinque mesi di carcere . (17). A ricostruire la vicenda, dieci anni dopo, è Umberto Ammaturo, divenuto anch'egli - come altri boss della Nuova famiglia collaboratore di giustizia. La latitanza di Garofalo dura tre anni: è catturato nel novembre 1994 insieme alla convivente. Si nascondeva nella sua città, Samo, un popoloso centro dell'agro nocerino divenuto dolorosamente famoso per l'alluvione che nel maggio 1998 ha spazzato via una frazione provocando 136 morti . (18). La donna, prima di legarsi a Semerari, si era messa in luce in una missione per i servizi segreti. Aveva contattato Renato Manes, suo collega di Università e figlio del più fiero oppositore delle manovre golpiste e delle sistematiche deviazioni di De Lorenzo. Il generale Giorgio Manes, autore di una relazione sulle malefatte dell'excomandante generale dei Carabinieri, demolita dagli omissis di Aldo Moro, era morto in circostanze misteriose, mentre sorseggiava un caffè, in attesa di essere interrogato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul SIFAR. La ricerca dei suoi diari - che erano custoditi a casa - aveva a lungo impegnato i nostri 007 . (19). In Italia sono consistenti gli intrecci tra ambienti neotemplari e il complesso politico-finanziario che ha avuto tra i suoi più noti esponenti Giulio Andreotti e Licio Gelli. Nel monastero di Moggio fondato nel 1118 da un templare, il conte Cacellino de Juno, e retto da agostiniani, i cosiddetti «frati neri», era solito alloggiare, quando veniva in Friuli, Giulio Andreotti, che risulta iscritto al Priorato di Sion, ordine
medievale presente in Inghilterra, Francia e Stati Uniti. I lavori di ristrutturazione dell'abbazia, dopo il terremoto del 1976, sono affidati a un costruttore romano di stretta osservanza andreottiana. Così non desta meraviglia scoprire che tra i presenti all'inaugurazione della chiesa dopo il restauro, il 10 ottobre del 1981, c'erano il faccendiere Flavio Carboni e un protagonista dei crac dell'Ambrosiano, Eligio Paoli. Tra i volti affrescati sul soffitto fa bella mostra di sé un inconfondibile ritratto di Roberto Calvi, che proprio sotto il «Ponte dei frati neri» andrà a finire. E il comune di Moggio vanta l'invidiabile record del maggior numero di affiliati a Gladio: novanta aderenti su duemila abitanti. Una pergamena del 1546 ritrovata a Moggio nel 1959 - nel convento avrebbero a lungo trovato ricovero i templari sopravvissuti al rogo - parla di «venerabili maestri» e «fratelli muratori» . (20). Alfredo Galasso, "La mafia politica", Milano, Baldini e Castoldi, 1993, cit. in Mario Guarino, "L'Italia della vergogna", Viareggio, Laser, 1995, p. 54 . (21). Antonio Roccuzzo, "La regola delle tre Emme", «Avvenimenti», 18 gennaio 1985, p.p. 11-12 . (22). Il principe Alliata, nato in Brasile nel 1921, è una figura di spicco della massoneria di frangia e dell'aristocrazia nera. Giovane ufficiale monarchico, il principe si dimette dall'esercito dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e firma il ricorso in Cassazione contro la vittoria della Repubblica. Deputato per due legislature, è accusato da Pisciotta di essere con Bernardo Mattarella il mandante della strage di Portella delle Ginestre. Nel 1960 è uno dei quattro monarchici che vota la fiducia al governo Tambroni. Gran giocatore d'azzardo, Alliata è ai vertici della destra massonica: è infatti «papa» di una loggia coperta, la Serenissima grande loggia nazionale degli antichi, liberi e accettati muratori nonché gran sovrano del Rito scozzese antico e accettato di piazza del Gesù . (23). E' a questa operazione, e al ruolo giocato dall'ex-agente dell'O.S.S. Frank Gigliotti, che Francesco Siniscalchi, leader dell'ala antigolpista della massoneria, fa risalire deviazioni e inquinamenti. Gigliotti, rappresentante della CIA in Italia, è un emissario delle grandi logge d'oltreoceano. Con il riconoscimento da parte della Grande loggia di Londra, il fulcro della massoneria mondiale, e la momentanea fusione tra le due obbedienze di piazza del Gesù e di Palazzo Giustiniani emerge il ruolo di Gigliotti, personaggio chiave di quella
massoneria, più interessata agli intrighi politici e finanziari che al culto esoterico del Grande architetto. Le stesse fortune di Gelli sembrano indissolubilmente legate ai rapporti con i servizi segreti americani, che risalgono agli ultimi mesi della guerra . (24). Dopo il fallimento della scissione, De Marzio «vuota il sacco» su inquietanti frequentazioni e progetti del segretario missino: «Nel 1976 il M.S.I. voleva candidare Sindona. Me ne parlò Almirante. Io gli dissi di no. Almirante ne parlò anche con i deputati Gianni Roberti e Angelo Nicosia, deputato di Palermo. Evidentemente Almirante voleva presentare Sindona in Sicilia. Anche loro si opposero al progetto. Almirante disse di aver ricevuto pressioni [...]. Aggiunse che ci sarebbero stati aiuti consistenti [...]. Non sarebbe stata la prima volta che Almirante riceveva denaro da massoni. Li aveva ricevuti da un finanziere di Perugia, che è ora uno dei dignitari di Palazzo Giustiniani, un certo Augusto De Megni» (cit. in Gianni Flamini, "Il partito del golpe", Ferrara, Bovolenta, 1986, volume 4, 1, p. 228) . (25). Il finanziere siciliano, arrestato per la bancarotta della Franklin Bank, per assicurarsi la benevolenza dei giudici americani aveva «soffiato» il rifugio venezuelano del suo collaboratore, anche lui ricercato per il crac, prodotto dai suoi errori sul mercato dei cambi. Bordoni - in cella a Caracas - restituisce il piacere con gli interessi: «Sindona ha finanziato ininterrottamente il massimo esponente dello scacchiere italiano [...]. Lo scopo di questi e di altri finanziamenti di entità maggiore era quello di mettere a disposizione di quest'alto dirigente i mezzi finanziari necessari per realizzare un colpo di Stato [...]. Per quello che è stato poi denunciato dall'attuale presidente del Consiglio Giulio Andreotti e nel quale erano coinvolti anche esponenti del SID, Sindona e Pier Sandro Magnoni mi hanno più volte detto che all'inizio anche Andreotti era nel giro ma che poi, una volta eliminate le prove che potevano esserci a suo carico, decise di denunciare il tentativo» (cit. in Flamini, "Il Partito..." cit., volume 4, 1, p.p. 296-97 che riporta il testo di un'intervista al «Mondo» del 16 marzo 1977) . (26). Alliata di Monreale è accusato di aver tentato con una loggia coperta e alcuni complici di condizionare le elezioni al Comune di Roma del novembre 1993, offrendo appoggi in voti e denaro alla lista Solidarietà democratica dell'ex-parlamentare del P.S.D.I. e responsabile del COCER dei carabinieri, il colonnello Pappalardo - in seguito protagonista.di una clamorosa polemica, nell'inverno 1999, in qualità di
responsabile del COCER, dei Carabinieri: in occasione del varo della riforma delle forze dell'ordine viene alla luce un suo documento in cui riaffiorano con forza temi tradizionali della polemica antipartitocratica dai toni spiccatamente antidemocratici . (27). Barbacetto, "Il Grande vecchio", cit., p. 103 . (28). Sandro Provvisionato, "I misteri d'Italia", Bari, Laterza, 1994, p. VIII. (29). Flamini, "Il partito...", cit., vol. 4, 1, p. 185 . (30). Ivi, p.23 . (31). Lettera all'autore, aprile 1990 . (32). La posizione di Ghinazzi è stralciata per approfondire l'esame del ruolo svolto dalla massoneria nei programmi eversivi del 1974, senza esito. Già in istruttoria era stato prosciolto un altro massone, il bresciano Adelino Ruggeri, arrestato nell'inchiesta sul MAR di Fumagalli . (33). Provvisionato, "I misteri...", cit., p. 146 . (34). Marzollo è l'anello di comando superiore al tenente colonnello Spiazzi nella catena dell'organizzazione di sopravvivenza anticomunista portata alla luce nell'inchiesta della Rosa dei venti . COMPASSO E MOSCHETTO . Il filone pubblicistico che ha messo a fuoco la connection mafia massoneria - neofascismo - apparati di sicurezza atlantica è particolarmente rigoglioso e talvolta soccombe alle tentazioni dietrologiche, attribuendo dignità di verità storica a notizie di fonte giudiziaria crollate al riscontro dei fatti. E' il caso delle rivelazioni di Nara Lazzerini, segretaria romana di Gelli, sulle telefonate di Delle Chiaie al maestro venerabile sulla linea diretta nella "suite" dell'Excelsior dal 1977. In dibattimento i difensori del leader di A.N. dimostrano che Gelli ha avuto una "suite" fissa e un telefono diretto nell'hotel soltanto due anni dopo. Ma per taluni, innamorati delle proprie congetture, quelle telefonate ci sono state anche senza telefono. Il grande intreccio affiora, quando ancora il sapere dietrologico non si è costituito in canone accademico e in concezione del mondo e della vita, nell'inchiesta sulla Rosa dei venti, quando a casa di Marcello Soffiati, l'ordinovista al soldo della CIA, è sequestrato un manoscritto del 1971 di un camerata siciliano: «Segreto - prendere appunti e rompete tutto. Carissimi [...] gli americani danno la pila ai preti [...] la tessera
americana firmata da Sam Fish ora l'hanno presa a Bruno Soffiati perché Marcello ha troppo a che fare con le organizzazioni fasciste [...]. Pure a me l'hanno presa perché io continuavo a dire e con ragione che la tessera ce l'hanno data per tenerci fermi e perché loro vanno d'accordo solo con i preti [...]. Voi non avete pratica di polizie politiche e massoniche come me [...]. Il 9.3.71 sono andato all'ambasciata USA, ho parlato col sig. Mancini, ufficio personale - ho detto che ho scritto [...] perché si capisse che noi siamo veri amici degli USA e si muovessero» (1). A un ordinovista udinese, Maurizio Midena, arrestato nel gennaio 1984 nell'inchiesta contro la banda Vinciguerra ma assolto al processo, è trovato nel corso della perquisizione l'armamentario rituale per le cerimonie in loggia (insegne, grembiule, cappuccio). La Grande loggia del 20 marzo 1976 conferma al vertice del Grande oriente Lino Salvini, che dopo aver subìto durissimi attacchi dai fedelissimi di Gelli, conclude una tregua con il maestro venerabile della P2. L'ala democratica della massoneria non ci sta. Alle denunce di brogli elettorali seguono le accuse di gollismo, rilanciate con una dichiarazione anonima all'agenzia di stampa ANSA: «Vogliamo sapere senza mezzi termini chi siede con noi nella massoneria. Non possiamo certo convivere con golpisti, rapinatori e trafficanti d'armi» (2). Il riferimento più evidente è all'avvocato Gianantonio Minghelli, arrestato dieci giorni dopo insieme al suo cliente Albert Bergamelli, boss dei «marsigliesi» (pure se è nato a Parigi da genitori italiani) che si proclama nazista (3). Anche altre logge sono infiltrate dai fascisti: è il caso della «Fiaccola» di Torino, dove si iscrivono Loris Civitelli e lo psicologo palestinese Michel Humouda Faud, simpatizzante del M.S.I. L'ipotesi che il clan dei sequestri sia coinvolto in attività eversive convince il p.m. Vittorio Occorsio, che ne parla apertamente all'inizio di aprile. Negli stessi giorni Pierluigi Concutelli, latitante in Spagna per il sequestro Mariano, prende la via del ritorno. Alla vigilia della morte, il p.m. confiderà al cronista giudiziario di «Repubblica», Franco Scottoni, di aver fatto una scoperta sconvolgente. Qualcuno nota, maliziosamente, la presenza di Gelli, lo stesso giorno, nell'anticamera del magistrato, circostanza riferita dal vicequestore Cioppa, piduista. A difendere Minghelli è un altro legale di Soccorso nero, Giorgio Arcangeli, che legherà il suo destino alla vicenda di Concutelli. Quando, nella primavera del '74 scatta l'inchiesta giudiziaria contro A.N., Arcangeli è al fianco del segretario nazionale Tilgher e del
marchese Zerbi, il leader calabrese, in una conferenza stampa che ha il tono della chiamata in correità. In molti, dal leader socialdemocratico Tanassi al senatore missino Tedeschi, avrebbero utilizzato e cercato contatti con Avanguardia e il Fronte nazionale. Nello stesso periodo Ortolani avrebbe fatto sponsorizzare la candidatura alla presidenza di un ente da un ex-dirigente di A.N., Ugo Benedetti, che nel fascicolo risulta fare «parte di un particolare "entourage" politico dell'onorevole Colombo» (4). Il ruolo centrale dei sequestri di persona nel finanziamento delle bande armate attive tra Francia, Italia e Spagna era già emerso a Parigi, alla fine del 1975. Il neofascista pistoiese Daniele Moschini (5) tenta il sequestro di un industriale discografico ebreo, Louis Hazan. L'impresa fallisce e l'arresto di gran parte della banda porta alla luce un indicativo spaccato del "reseau" fascio-criminale: mercenari come Serge Leleu (in Libano) e Jacques Boisset (in Congo), ex-O.A.S. come Jacques Prevost (condannato a morte e graziato per l'attentato contro De Gaulle), veterani del S.A.C. (la polizia parallela gollista) come Paul Tombini. Ad accentuare il peso degli italiani nella banda due napoletani naturalizzati francesi, i fratelli Ugo e Noris Brunini, quest'ultimo proveniente dal Sudafrica . La passione per l'esoterismo accomuna una corrente neofascista e la massoneria di frangia: il terreno di confluenza non sarà però la ricerca sapienzale, ma l'area grigia dove convivono faccendieri, uomini dei servizi segreti e militanti organici agli apparati di sicurezza atlantica. Esemplare è la vicenda di Europa civiltà, i cui dirigenti nascono cattolico-tradizionalisti, crescono alla scuola del SID e concludono la parabola politica ed esistenziale dando vita a una casa editrice esoterica finanziata dal Grande oriente. Alle origini del gruppo c'è il Movimento integralista europeo, fondato nel 1965 da un gruppo di giovani provenienti da esperienze politiche e culturali differenti (dal M.S.I. a Ordine nuovo): il simbolo è una folgore che taglia un triangolo rovesciato. Tra i leader ci sono Giorgio Ceci, Bruno Stefàno, Loris Facchinetti, Fabio De Martino, Paolo Mieli e Gianfranco Sale. Il gruppo recluta centinaia di aderenti nel Lazio. Ben presto sono aperte cinque sedi a Roma, una in centro, quattro nei punti cardinali della Capitale. Il richiamo dottrinario al tradizionalismo evoliano si manifesta nella struttura organizzativa: un presidente, Bruno Stefàno, e sette Reggenti (come i Re di Roma) che guidano effettivamente l'organizzazione. Il movimento ripudia lo squadrismo e l'attivismo di
piazza anche se Facchinetti si distingue negli scontri all'Università di Roma del 28 aprile 1966, nei quali muore lo studente socialista Paolo Rossi. L'intenzione dichiarata è di formare i militanti sul piano esistenziale per costituire un Ordine separato dalla politica ufficiale. La futura e decisiva battaglia dell'ultima fase del Kali-Yuga (6) richiede uomini formati spiritualmente e ben addestrati. I corsi dottrinari sono accompagnati dall'esercizio sportivo: l'alpinismo, il motociclismo, la pesca subacquea, tutto ovviamente nei canoni dell'ortodossia evoliana (7). Tra le arti marziali la scelta cade sull'aikido, individuata come via pratica di realizzazione interiore alla luce di alcune pagine evoliane sulla spiritualità orientale. L'iniziatore è Stefano Serpieri che ha frequentato il Maestro da ragazzino e a vent'anni è stato tra i fondatori di Ordine nuovo. Serpieri educa decine di militanti integralisti alla mistica di una disciplina dove l'avversario non esiste, perché è la sua stessa forza che gli si rivolta contro . L'esperienza del movimento accentua la mentalità militarista e la retorica guerriera creando tensioni tra i dirigenti: alcuni quadri, in nome dell'ortodossia evoliana, antepongono l'ascesi mistica alla via del guerriero. La ricerca di «una via tradizionale che fosse incarnabile nel tempo e nello spazio presenti» (8) produce la conversione al cattolicesimo e la nascita di una comunità semimonastica a Vicovaro, dedita allo studio, alla preghiera, al lavoro dei campi che circondano il cascinale. Alla via contemplativa dei convertiti si oppone la scelta degli «inamovibili», guidati da Facchinetti. La comunità neocattolica si dissolve nel 1968: alcuni passano a sinistra, altri si disperdono. Alla fine del 1969 gli intransigenti si fondono con un consistente gruppo di fuoriusciti torinesi di Ordine nuovo che aveva dato vita al foglio «radicale» «Terra bruciata». Nasce Europa civiltà, dichiaratamente neopagana, che allargando la presenza in tutta Italia raggiunge i duemila aderenti. La dirigenza è ricca di personalità e composita: Facchinetti, Serpieri, Aristide Penna, Arturo Di Stefano, Mauro Tappella, Nino Romano, Valtenio Tacchi e Massimo Forte, Alberto Ribacchi, ex-segretario giovanile del M.S.I. e imputato nel processo FAR. Sotto la croce ricrociata (9) di Europa civiltà convivono il fine etruscologo Mario Polia e il «lupo di Monteverde» Claudio Buffa, exlegionario, attivo nel Fronte nazionale, protagonista nel maggio '68 dell'assalto all'ambasciata di Francia .
Il nuovo gruppo si caratterizza da subito come una delle organizzazioni di civili di sostegno all'attività controrivoluzionaria delle Forze armate, di cui i «cervelloni» del partito del golpe avevano dibattuto nel celebre convegno dell'Istituto Pollio. I dossier sulla violenza fascista parlano di addestramento paramilitare, tute mimetiche da parà, karate, passo del leopardo, esercitazioni, difesa notturna, marce, e denunciano il ruolo di istruttore di Buffa, che alterna le attività «escursionistiche» di Europa civiltà alla frequentazione dei cortei dell'ultrasinistra con tanto di distintivo di Mao al bavero del giaccone. Continua l'esercizio delle arti marziali: corsi di judo e di karate hanno luogo al modico costo di settemila lire nella palestra dei parà di via Eleniana, una delle basi del golpe Borghese. I corsi di paracadutismo si svolgono a Guidonia. Il gruppo ricerca contatti sistematici con le Forze armate e sostiene l'aumento del budget della Difesa. A partire da un rapporto con un gruppo di discendenti di ufficiali della Guardia bianca riparati in Occidente, Nino Romano costruisce una rete di volontari per l'Est, che alterna azioni «aperte» e iniziative «coperte» (aiuti alle famiglie dei prigionieri politici, esportazione dei testi degli scrittori di opposizione, diffusione della stampa clandestina). Nel corso di un dirottamento aereo è arrestato e condannato a una lunga pena l'integralista torinese Gabriele Cocco. Valtenio Tacchi, che sarà inquisito per il golpe Borghese, e Teresa Marinuzzi s'incatenano ai grandi magazzini GUM di Mosca e sono arrestati mentre un altro militante che distribuisce volantini di protesta ad Atene è solo espulso. Le due azioni sono state concordate con i servizi segreti greci (10): un'operazione propagandistica per contrapporre l'illiberalità della dittatura sovietica allo spirito di tolleranza dei Colonnelli. I saldi legami con la Grecia erano emersi nel viaggio ad Atene della Pasqua del '68 e nei frequenti contatti con l'ESESI, l'associazione degli studenti «lealisti» in Italia. Il network anticomunista svolge attività anche in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Croazia. La disponibilità di un collaudato circuito clandestino oltrecortina è appetibile per i nostri apparati di sicurezza. E' su questo terreno scivoloso che matura quello che con fine "understatement" è definito il «lento scivolamento verso una forma di pragmatismo e di machiavellismo politico, nella speranza di riuscire a dominare gli eventi» (11). Il leader dei torinesi Tosca colloca nel 1971 dopo un'ondata di arresti «pretestuosi» e mentre è detenuto in URSS Cocco - l'inizio dei «contatti con uomini e organismi discutibili,
pensando di acquisire informazioni o di crearsi un cordone protettivo da successive e probabili repressioni» per poi ammettere che fu «un grosso errore, sia perché la base giovanile poteva porsi domande su ciò, sia perché, come è stato storicamente confermato, quegli ambienti sono di assoluta pericolosità e inabitabilità» (12). Ma le «relazioni pericolose» sono precedenti. I militanti - guidati da Stefàno, amico di Saccucci partecipano in massa al "putsch" Borghese ma al termine dell'istruttoria sono tutti prosciolti. Da tempo Serpieri collabora con il SID, che lo usa per avere informazioni su Merlino e Avanguardia nazionale (13). Il maresciallo Tanzilli inserirà sue confidenze nella nota del 17 dicembre 1969 che per la prima volta - senza conseguenze investigative: la polizia batte già la pista anarchica - attribuisce all'Aginter Press di Lisbona e ad A.N. la responsabilità della strage di piazza Fontana (14). In realtà Serpieri faceva l'informatore anche per l'Ufficio politico (15), e perciò era stato fatto incontrare con Merlino in questura la sera del 12 dicembre . Il capo riconosciuto è Loris Facchinetti (16), che è fermato per reticenza nell'inchiesta sulla strage di Milano. Il suo tentativo di entrare in massoneria è bloccato dal leader dell'ala antigelliana, l'ingegnere Francesco Siniscalchi (l'impegno antifascista gli costerà l'espulsione dall'Istituzione, per il ricorso alla giustizia «profana» contro i «fratelli»). Il Grande oriente compra una quota di minoranza della casa editrice Atanor i cui soci di maggioranza sono Facchinetti, Valtenio Tacchi, protagonista della «missione a Mosca», e Mauro Tappella, segretario generale del gruppo. Gli altri due soci nel dicembre 1978 sono ammessi nella loggia Lira e spada grazie ai buoni uffici del maestro venerabile, l'avvocato Minghelli. Il contatto con la massoneria «nera» era costituito da Elvio Sciubba, già gran commentatore del rito scozzese antico e accettato, fautore della fusione tra Palazzo Giustiniani e la piccola loggia reazionaria del principe Alliata di Monreale. Collaborano infatti insieme al periodico «Incontro delle genti», nel quale aveva un ruolo chiave l'ex-generale Giuseppe Pieché, quadro della Polizia politica fascista, riciclato da Scelba per riorganizzare il casellario politico centrale del Viminale (17). Nel maggio 1981 Tacchi e Tappella sono fermati e Facchinetti è arrestato per i rapporti con la banda di Egidio Giuliani, l'ultrà nero che riforniva di armi e documenti falsi i fuoriusciti delle B.R. L'Atanor è perquisita e chiusa (18). Per i legami con i servizi segreti e con la massoneria, nel carcere di Volterra
Vinciguerra imporrà a Facchinetti di andare alle «celle» d'isolamento, trattamento riservato agli «infami». Il leader integralista ha un lungo conto in sospeso con A.N. (è stato tra i protagonisti della campagna sulle compromissioni di Delle Chiaie col Viminale) e abbozza. Qualche anno dopo, al termine di un lungo travaglio, riscopre il cristianesimo. Un percorso già consumato dai torinesi, la cui ricerca di una via di realizzazione spirituale si era conclusa con una conversione di massa che aveva anticipato, alla fine degli anni Settanta, la fine dell'organizzazione (19) . Dai ranghi del Movimento integralista proveniva Sandro Saccucci, uno dei comandanti del partito armato del golpe, massone, fascista, collaboratore del SID. Ex-tenente della Folgore e segretario nazionale dell'associazione paracadutisti, Saccucci partecipa alla fondazione del Movimento politico Ordine nuovo ed è nominato responsabile delle organizzazioni parallele. Predispone gli elenchi dei militanti e delle strutture per il golpe. Nell'estate 1970 organizza campi di «parasoccorso» finanziati dal ministero della Difesa e dallo Stato maggiore dell'Esercito. La notte del 7 dicembre presidia la palestra di via Eleniana con un folto gruppo di ex-parà pronto a entrare in azione. Si allontana affermando che va ad arrestare uomini politici ma, quando torna con il contrordine del comandante Borghese di smobilitare, rischia il linciaggio dalla truppa inferocita. E' arrestato nel marzo 1971 nella prima inchiesta sul golpe. Nella sua agenda alla voce «S» si trova anche il suo nome, indirizzo e numero telefonico con la qualifica di capo ufficio I-SID ma i magistrati scoprono che era semplicemente all'ufficio Informazione dei parà. In carcere riceve una comunicazione giudiziaria per Ordine nuovo. E' scarcerato nel febbraio 1972 e subito candidato dal M.S.I. alla Camera per rastrellare i voti della destra radicale. Accusa il generale Maletti di essere il responsabile dell'esecuzione sommaria del capo di Ordine nero, Giancarlo Esposti. Per l'immunità parlamentare evita l'arresto nella seconda inchiesta per il golpe ed è stralciato dal primo processo per Ordine nuovo (sarà condannato a 4 anni anche se era rientrato nel M.S.I.). Il 28 maggio 1976, al termine di un comizio contestato, si allontana dalla piazza di Sezze Romano aprendo il fuoco contro la folla insieme al suo seguito (di cui faceva parte il maresciallo del SID Troccia). Un militante della F.G.C.I. è ucciso, uno di Lotta continua ferito. Le guarentigie parlamentari gli evitano ancora l'arresto. Si presenta in questura la sera
dopo per consegnare la sua pistola, di calibro diverso da quello che ha ucciso Luigi De Rosa. La Camera concede subito l'autorizzazione a procedere ma non l'arresto, e il M.S.I. lo dichiara decaduto dal partito. I tentativi di fuga falliscono miseramente: la mattina del 30 maggio è respinto alla frontiera svizzera. Ci riprova con l'Inghilterra ma è arrestato a Londra il primo giugno, dove resta in galera fino all'8 luglio, quando per la rielezione decade il mandato di cattura. Può così raggiungere legalmente, dopo tappe in Francia e Spagna, l'Argentina . Intanto sono finiti in carcere, tra gli altri, Pietro Allatta, accusato dell'omicidio, Troccia e Angelo Pistolesi, che sarà «accoltellato» in cella perché sospettato di aver «cantato». In primo grado Allatta è condannato a 16 anni e Saccucci a 12 per concorso morale, pena ridotta a quattro anni in Appello e cassata dalla Cassazione. Anche le accuse per il golpe si sgonfiano: il p.m. chiede 22 anni ma la condanna è a 4 anni (due in Appello). Se ci si dovesse affidare alle sentenze giudiziarie per inquadrare la sfuggente figura di Saccucci si rischia di non risolvere l'equazione. Nello stesso periodo il leader dei parà avrebbe partecipato al golpe Borghese come ufficiale di reclutamento e diretto le organizzazioni parallele (cioè i gruppi collaterali di «civili») di Ordine nuovo, l'unico gruppo che non ha partecipato al "putsch" perché - come ha riferito alla commissione P2 Amos Spiazzi - Graziani si era accorto che la storia «puzzava». E Graziani era uno che aveva buoni rapporti con gli ufficiali «interventisti». Arrestato in Argentina con l'accusa di falsi documenti, Saccucci resta a lungo in prigione in attesa di estradizione. Nel novembre 1984 è assolto dall'accusa di cospirazione e cade il mandato di cattura. Può rientrare in Italia - lo fa di tanto in tanto: nel gennaio '95 partecipa alla rifondazione del M.S.I. - ma continua a vivere a Cordoba, dove fa il tassista ed è arrestato per sbaglio nel gennaio 1996, perché la polizia ha scambiato un ordine a comparire (per testimoniare sui rapporti con i servizi segreti cileni) per un mandato di cattura (20). Il giudice argentino, che tra l'altro ha svolto inchieste sulla «sporca guerra» del regime golpista contro i militanti rivoluzionari, suscitando forti critiche dai familiari dei "desaparecidos", avrebbe chiesto conto all'ex-deputato italiano di una lettera indirizzata nel '76 da Madrid, dopo la fuga dall'Italia, a un argentino. Era un terminale dell'Internazionale nera? Che cosa gli ha scritto da essere ancora interessante vent'anni dopo? Tante domande, nessuna risposta .
NOTE . (1). L'ignoto gladiatore indica come garanti il direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, deputato missino, stretto amico del superpoliziotto Umberto Federico D'Amato e affiliato alla P2, il generale De Lorenzo, massone e golpista, il professore Giuseppe Tebano, membro del consiglio dei 33 di Palazzo Giustiniani e - alludendo contortamente alla mafia - Genco Russo . (2). Flamini, "Il partito...", cit., vol. 4, l, p. 222 . (3). Minghelli, segretario della loggia coperta, è figlio del generale di polizia Osvaldo, tra i primi iscritti al piè di lista della rinnovata P2 (che ha come ispettore Giordano Gamberini, ex-gran maestro). L'inchiesta riguarda alcuni sequestri di persona nella capitale che ruotano intorno alla loggia (il figlio di Ortolani e di un altro «fratello»; il gioielliere Bulgari, che ha lo "show room" a via Condotti, nel palazzo della sede di copertura della P2, rapito il 13 marzo 1975 e liberato un mese dopo). Dopo il suo rilascio Bulgari dichiara: «Mi ha sequestrato un'organizzazione che può contare su fonti di informazioni capillari e su protezioni ad altissimo livello». Bergamelli conferma, alludendo a una «grande famiglia» che lo protegge. Dopo l'arresto numerosi articoli lo indicano come frequentatore di una loggia a Ventimiglia. L'avvocato Minghelli - che sarà assolto dall'accusa di riciclaggio - ricostruirà la sua carriera massonica con il p.m. Vigna, che indaga sull'omicidio Occorsio: «Nel 1971 fui ammesso alla loggia 'Lira e spada' e arrivai al grado di maestro. Alla fine del 1974 chiesi e ottenni di appartenere contemporaneamente a due logge: la 'Lira e spada' e la P2 insieme a mio padre. Il collegamento tra P2 e caso Occorsio è solo fantastico» (cit. in Flamini, "Il Partito...", cit., vol. 4, 1, p. 281) . (4). Benedetti, «Ughetto dagli occhi cerulei», è un personaggio assai ben introdotto: dopo aver collaborato con i ministri D.C. Rumor e Colombo è raccomandato da padre Antonio Lisandrini da Sassoferrato, oratore di grande fama in Vaticano, a Flavio Carboni. Il faccendiere, che deve molte delle sue fortune alla buone frequentazioni in Curia, se lo prende come assistente. Benedetti porta in dote un rapporto privilegiato con il sindaco D.C. di Siracusa, Luigi Foti. Nasce così l'operazione Siracusa: realizzazione di un porto turistico e ricostruzione del centro storico di Ortigia. Carboni non ha liquidi e ricorre allo strozzino di fiducia, Domenico Balducci. I fondi di avvio (quattrocentocinquanta milioni) sono offerti dal «signor Mario», alias
Pippo Calò. La decisione di Balducci di trattenere un terzo della somma per rifarsi di un vecchio debito non pagato da Carboni gli costerà la vita. Tre anni dopo, nel settembre 1981, dopo che ha finito di restituire la somma, Balducci è ammazzato fuori al cancello della sua villa al Gianicolo. Ugo Benedetti sarà in seguito inquisito per lo scandalo Italsanità, un'altra vicenda che coinvolge ambienti andreottiani e curiali . (5). Moschini «già mercenario in Angola per conto del PIDE (la polizia segreta di Salazar) e dell'Aginter Press, specialista in azioni clandestine, è uno dei dirigenti del "Groupe d'intervention nationaliste" e tra i responsabili in Francia dei commandos anti-ETA formati dai Guerriglieri di Cristo Re» (confronta Frederic Laurent, "L'orchestre noir" Parigi, Stock, 1978, cit. in Flamini, "Il Partito...", cit., vol. 4, 1, p. 189) . (6). Nella tradizionale concezione ciclica della storia caratteristica dell'induismo, e fatta propria della destra radicale attraverso la lezione di Evola e di Guénon, il Kali-Yuga rappresenta l'età oscura, la fase di massima decadenza in cui predominano le forze del male . (7). «L'ascendere le vette o l'essere rapito nelle vette nei miti più vari dell'umanità tradizionale figura secondo il valore di un misterioso processo di superamento, di integrazione spirituale, di partecipazione alla 'super-vita olimpica e all'immortalità'» (confronta Julius Evola, "Meditazioni delle Vette", 1974, p. 27, cit. in Pino Tosca, "Il cammino della Tradizione. Il tradizionalismo italiano 1920-1990", Rimini, Il Cerchio-Iniziative editoriali, 1995, p. 57). I motociclisti si ritengono partecipi di un'esperienza cavalleresca - sia pure motorizzata - e si costituiscono in compagnia, con tanto di responsabili e di inni. I subacquei sviluppano la loro esperienza comunitaria in un'attività che «permette di scendere nel fondo caotico delle 'acque' e di riemergere vittoriosi» . (8). Tosca, "Il cammino...", cit., p. 58 . (9). «Vengono organizzati i famosi 'campi' in montagna», racconta Tosca (ivi, p. 65), «ma senza il titanismo di prima. Il campo non è solo una palestra per lo spirito e per il fisico, ma il rimodellamento di una microsocietà tradizionale. Ai campi partecipano, per esempio, molte ragazze (cosa assolutamente inusuale per il virilismo neofascista dell'epoca) con compiti logistici ed anche escursionistici. La disciplina è fondata più su una libera accettazione del proprio dovere che su
'ordini' dall'alto, nonostante la presenza di una gerarchia di campo. La liturgia (alzabandiera, recita dei brani di lettura, falò serale con canti) sottolinea il valore comunitario dell'esperienza ed il legame spirituale con il mondo medioevale» . (10). "La Strage di Stato", Roma, Samonà e Savelli, 1970, p. 82 . (11). Tosca, "Il cammino...", cit., p. 67 . (12). Ivi, p.p. 67-68 . (13). Dopo aver partecipato al viaggio in Grecia della Pasqua '68, il mistico cultore delle arti marziali mantiene stretti rapporti con Mario Merlino che frequenta i campeggi di Europa civiltà e la domenica mattina a messa commenta le letture con un gruppo di integralisti nel convento di via Montanelli. La sera della strage Serpieri è fermato e messo nella stanza con Merlino e lo «studente Andrea» (un altro infiltrato nella 22 Marzo, il poliziotto Ippolito). Il giorno dopo, rilasciato, porta a Delle Chiaie il messaggio di Merlino che non vuole che «Caccola» confermi il suo alibi (aver trascorso il pomeriggio del 12 con Claudio e Riccardo Minetti, figli della compagna di Delle Chiaie). Il leader di A.N. sosterrà davanti alla Commissione d'inchiesta sulle stragi che aveva deciso di assecondare Merlino perché c'erano state garanzie da parte del responsabile dell'ufficio politico, il commissario Improta, che sarebbe stato scarcerato (confronta "La Strage di Stato", cit., p. 30) . (14). Il metodo è classico della «disinformazione dei servizi»: i mandanti sono indicati in Yves Guerin Serac e nel suo braccio destro Robert Leroy, ma le acque sono volutamente intorbidite attribuendo ai due un'improbabile appartenenza anarchica. Nell'inchiesta D'Ambrosio Serpieri finirà brevemente in cella nel gennaio 1975 per aver negato di essere informatore dei servizi. «Serpieri, messo davanti al testo dell'appunto, nega assolutamente d'aver prodotto tutte quelle informazioni. Anche il maresciallo Tanzilli, davanti al giudice, è ben lontano dal riconoscere - nel lungo rapporto che gli viene mostrato - lo scarno appunto steso e consegnato ai suoi superiori dopo aver contattato Serpieri (cit. in Giorgio Boatti, "Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta", Milano, Feltrinelli, 1993, p. 234) . (15). Questa attività Serpieri la svolge già nel '68 - quando attribuisce agli infiltrati di A.N. nell'estrema sinistra gli attentati alle pompe di benzina - e la continua a tempo pieno in seguito: partecipa alle riunioni
preparatorie del golpe, è perciò indagato ma ben presto prosciolto. Proseguirà anche la guerra personale contro Delle Chiaie. In occasione del processo contro A.N. dichiarerà di fare parte del direttivo e che il fitto della sede era pagato direttamente dal Viminale: circostanza sdegnosamente smentita dai coimputati. I figli Flavio e Claudia saranno arrestati per l'inchiesta sul FUAN e sui NAR. La ragazza è tirata in ballo dal fratello, aspirante terrorista in una batteria di «pischelli» che fanno capo a Cristiano Fioravanti. Flavio ritratta e tenta di giustificarsi: «ho accusato mia sorella e altri innocenti per tornaconto personale e vanagloria». Dissociato, ottiene la libertà provvisoria ma è di nuovo arrestato, per spaccio di stupefacenti, nell'inchiesta sull'omicidio di Elisabetta Di Leonardo, una bellissima fotomodella sarda, tossicomane e anoressica, legata sentimentalmente al figlio di un altissimo funzionario pubblico iscritto alla P2. Arrivata a Roma con grandi speranze, Elisabetta non riesce ad andare oltre il "book" fotografico e qualche bel servizio. Si comincia a lasciare andare e la crescente solitudine e disperazione trovano sfogo nel suo diario dove registra lucidamente il suo annientamento, piena di sdegno e di risentimento per i «fascisti fetenti» che la circondano. All'uscita del carcere Flavio Serpieri riprende i piccoli traffici di droga. Nel 1993 è arrestato ad Ancona con trecento pasticche di ecstasy e condannato a cinque anni di carcere. Claudia troverà invece la sua personale via di realizzazione nell'agonismo subacqueo stabilendo nell'estate 2000 il primato mondiale di immersione in assetto variabile, a 146 metri sotto il livello del mare . (16). «La mente organizzativa e culturale», scriverà Tosca ("Il cammino...", cit., p. 64), «è Facchinetti che, dopo l'esperienza fallita del Movimento integralista, ha capito qual è il principale errore da evitare: quello di un impegno autoesaltante e carico di suggestioni. Bisogna, quindi, aprirsi il più possibile alla cosiddetta società civile senza schemi precostituiti e senza farsi condizionare da un evolismo virilistico [...]. Del vecchio integralismo romano, Europa civiltà recupera solo l'aspetto formativo e parte della liturgia». Anche gli esiti personali danno il senso della complessità dell'esperienza: Pino Magliacane finirà a fare il sindacalista nella C.G.I.L., Carmine Asmunis, riscoperta la fede, entrerà in Comunione e liberazione . (17). Numerose personalità di rilievo collaborano alla rivista: l'exordinovista Ruggiero Ferrara e l'ex-marò Italo Gentile, affiliati alla
loggia del generale Ghinazzi, l'ex-ordinovista Sergio Pace, espulso dalla comunione di piazza del Gesù. Nel corso della battaglia antigolpista in seno al Grande oriente Sciubba è espulso per un breve periodo, nell'autunno '76, ma ben presto reintegrato, e agli inizi degli anni Novanta è tra i grandi timonieri della penetrazione della massoneria nell'ex-impero sovietico . (18). I rapporti degli integralisti con la banda Giuliani proseguono nonostante le disavventure giudiziarie. Alla fine degli anni Ottanta, il commesso di Leonardo, una libreria di «area» che ha sede al quartiere Appio ed è specializzata in materiale massonico ed esoterico, è uno dei militanti della banda, Luca Onesti, che sarà arrestato nel febbraio 1989 per un progetto di evasione dal carcere di Rebibbia . (19). Una bizzarra traccia della improvvisa svolta collettiva del gruppo torinese resta nel nome del giornale «La quercia», nato come rivista integralista e diretto dall'ex-ordinovista Augusto Pastore e diventato l'organo del tradizionalismo controriformista pur mantenendo nella testata un simbolo del paganesimo druidico . (20). L'invito riguarda un'inchiesta sull'attività dei servizi segreti cileni in Europa e in altri Paesi sudamericani, per la quale il giudice argentino Maria Romilda Servini de Cubria ha compiuto una missione in Italia, ricevendo consistente materiale dal p.m. Giovanni Salvi, in particolare sul processo Leighton, il tentato omicidio a Roma nel '75 del vicesegretario della D.C. cilena per cui hanno subìto pesanti condanne tre funzionari della DINA (la polizia segreta cilena). Secondo Salvi sarebbero stati gli 007 cileni a far scappare Saccucci dall'Italia dopo l'omicidio di Sezze Romano . IL «COMANDANTE LILLO» . La figura centrale della connection tra criminalità organizzata, massoneria e terrorismo nero è considerata Pierluigi Concutelli, che si sforza ancora oggi di difendere, dal fondo della galera in cui è stato sepolto per quasi un quarto di secolo (tre condanne all'ergastolo), la sua immagine di militante rivoluzionario duro e puro, non compromesso con i servizi segreti e con i loro giochi sporchi. Questo nonostante in tutte le ricostruzioni ritornino le solite accuse (killer per i servizi spagnoli, rapporti con mafia e criminalità organizzata e infine l'affiliazione a una loggia coperta) (1). Il suo passaggio alla lotta armata è avvolto nel mistero, come la bruciante carriera in Ordine nuovo
clandestino, che lo porta in meno di un anno al rango di comandante militare. Pierluigi «Lillo» Concutelli cresce a Palermo, dove la famiglia si è trasferita per lavoro. Qui emerge come caposquadra all'Università. Il 24 ottobre 1969 è arrestato. Lo sorprendono con altri camerati, tra cui l'avvocato Guido Lo Porto (che tre anni dopo sarà eletto alla Camera con il M.S.I.), mentre si addestrano all'uso di mitra, pistole e bombe a mano sulla collina di Bellolampo. Se la cava con una condanna a quattordici mesi. Milita nel Fronte nazionale del comandante Borghese con Ciccio Mangiameli (insieme, nella primavera 1971, compiono un attentato contro la sede della Giovane Italia) poi rientra nel M.S.I. Accumula denunce per porto d'armi, associazione a delinquere, danneggiamento e lesioni (2). Nel biennio successivo è presidente del FUAN e componente del comitato provinciale del M.S.I. Nel novembre 1973 Concutelli partecipa alla scuola quadri dei dirigenti nazionali del Fronte della gioventù a Ostia Lido. Fino a questo punto è il normale "cursus honorum" di uno squadrista di talento. La passione per le armi, molte mazzate, qualche botto dimostrativo, la politica nel partito . La svolta coincide - probabilmente - con il trasferimento della famiglia a Catania. Lui, ormai adulto - ha quasi trent'anni - ha la sua vita (amicizie, attività, amori) a Palermo e comincia a fare il pendolare. A Catania entra in contatto con gli ordinovisti passati in clandestinità dopo che il Viminale ha sciolto il gruppo nell'autunno 1973 (3). Il 1974 è un anno estremamente pesante per l'estrema destra e il fallimento dei progetti stragisti e golpisti scatena una durissima repressione contro l'intera area politica (4). In questo quadro si sviluppa un processo di riavvicinamento tra i gruppi «storici» extraparlamentari, Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, spesso divisi da una fiera rivalità intossicata dal sospetto della delazione. Il luogo privilegiato della riaggregazione è la Spagna, dove i tantissimi rifugiati italiani, compresi gli ordinovisti, fanno capo a Delle Chiaie che, grazie al ruolo di «delfino» del comandante Borghese, ha un ferreo controllo sulla comunità degli esuli. «Caccola» alterna il bastone e la carota, ma chi vuole continuare a militare, per amore o per forza, deve diventare avanguardista: tra gli ordinovisti arruolati ci sono gli autori della strage di Peteano, Vinciguerra e Cicuttini, e il leader della cellula nera aretina, Cauchi. Un anno a Madrid, ospite di Delle Chiaie, se lo fa anche Massimiliano Fachini, in attesa che si calmino le acque nell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana .
Un altro padovano, Marco Pozzan, in Spagna ci arriva dopo essere stato parcheggiato in un appartamento di copertura del SID e rifornito di documenti dal capitano Labruna. Dapprima beneficerà della rete avanguardista, poi, quando è estradato, dirà peste e corna di Delle Chiaie. Molte voci ricorrenti contro il leader di A.N. (entrava e usciva impunemente dall'Italia, aveva contatti con SID e Affari riservati, faceva arrestare i «camerati» che decideva di scaricare) trovano la prima espressione pubblica al processo di Catanzaro, dove Pozzan è imputato di associazione sovversiva con Freda e Ventura. Il personaggio è poco attendibile: già era stato smentito riguardo alla presenza di Rauti nella riunione padovana del 18 aprile 1969, in cui si discute della campagna di attentati culminata nella strage di Milano. Può essere utile esaminarne il caso alla luce della psicoanalisi: Pozzan rimuove la propria connivenza con il SID e proietta sull'altro il senso di colpa, che trasforma l'incapacità di manifestare riconoscenza per il bene ricevuto in risentimento colpevolizzante. Intorno alla figura di Delle Chiaie si sono del resto catalizzate enormi energie negative: se è indubbio, e da lui stesso è stato riconosciuto, che nel corso della sua quarantennale militanza nazionalrivoluzionaria ha avuto «cattive frequentazioni» (5), è altrettanto vero che in molti casi le accuse girate nell'estrema destra sono "boatos" che non diventano realtà solo perché ripetuti centinaia di volte. E' a Madrid, alla fine del 1974, che si aggrega il fronte contro la repressione, dando vita a un'unica organizzazione, in cui Concutelli avrà una parte di rilievo. Il processo in corso a Catanzaro per la strage di Milano è l'occasione per stringere i rapporti con i tanti camerati che vengono a testimoniare solidarietà a Franco «Giorgio» Freda. A Catanzaro si stringe il sodalizio con il «federale» di Brindisi, Luigi Martinesi, segretario dell'avvocato di Freda, Clemente Manco, deputato missino. Dopo le mazzate subite nel 1974 c'è in giro voglia di rialzare la testa e di farla pagare ai compagni e allo Stato. L'inizio del processo per il Rogo di Primavalle (i figli del segretario del M.S.I. di Primavalle carbonizzati in un attentato incendiario compiuto da tre militanti di Potere operaio [POTOP]) alla fine di febbraio scatena la mobilitazione generale. Dopo un paio di giorni di scaramucce vinte dai missini intorno al tribunale, gli autonomi allargano gli scontri a macchia d'olio e assaltano a colpi d'arma da fuoco la sezione di Prati del M.S.I., ammazzando il militante greco del FUAN Mikis Mantakas. Ad accusare Alvaro Lojacono (quadro illegale
di POTOP: parteciperà poi al sequestro Moro) e Fabrizio Panzieri (responsabile del servizio d'ordine di Avanguardia comunista) sono alcuni dirigenti del M.S.I., che si sono distinti nell'organizzazione degli scontri, Paolo Signorelli e Luigi D'Addio. I due stanno dando vita a una frazione movimentista nel M.S.I., Lotta popolare, per coagulare il nuovo fermento attivistico . In quei mesi - secondo il suo braccio destro Sergio Calore - Concutelli avrebbe animato il Fronte unitario di lotta al sistema (FULAS), banda armata di area ordinovista, responsabile di attentati a Roma (6), in Calabria e in Sicilia (dove il FULAS diventa Fronte unitario di lotta arabo-sicula) (7). Concutelli è ancora attivo nel M.S.I.: in primavera si candida al Comune di Palermo, ma è bocciato con meno di mille preferenze. Il giorno del voto, il 15 giugno, è in cella per una rissa elettorale. Ottenuta la libertà provvisoria chiede un permesso e a luglio si trasferisce in Puglia, dove organizza il sequestro di un giovane banchiere, Luigi Mariano, per finanziare il nuovo movimento. I rapitori sono presto identificati (8). «Lillo» si rifugia nella base romana di via Sartorio (un locale che A.N. ha messo a disposizione della Milizia rivoluzionaria). Sviluppando una scaletta di Delle Chiaie, stende un documento sul soldato politico, sequestrato dopo il blitz di dicembre nel «covo». Con l'aiuto di un ex-marò amico di Graziani, Peppino Pugliese, noto come «l'Impresario», si rifugia in una villa in Corsica, a Erbalunga, punto d'appoggio ideale per il pendolarismo con l'Italia. In questo periodo Concutelli avrebbe partecipato con Delle Chiaie e Flavio Campo - secondo il poco credibile «pentito» Tisei - a due operazioni contro rifugiati baschi in Francia, attentati che hanno causato tre vittime. Da parte sua ha sempre respinto sdegnosamente l'accusa di aver fatto il sicario per la controguerriglia spagnola, ma le ricostruzioni giornalistiche sul terrorismo di Stato antibasco lo indicano puntualmente tra i neofascisti italiani usati nella prima fase della «guerra sporca» contro l'ETA. Nel 1975-'76 una fitta rete di rapporti tra ultradestra italiana, malavita francese, ex-militanti dell'O.A.S. e corpi speciali spagnoli si coagula nelle attività illegali contro la guerriglia basca . «Lillo» partecipa, come responsabile militare, al vertice in una villa dei Castelli romani e al summit di dicembre a Nizza, dove lo scontro tra Graziani e Delle Chiaie fa abortire il processo unitario (9). Il primo (10) contesta al secondo le frequentazioni con gli Affari riservati. Dimentica
che ordinovisti hanno accettato finanziamenti da Gelli, ignora che il vicario in Italia, Signorelli, ha rapporti organici con i carabinieri per i quali fa schedare gli autonomi tiburtini. Cura la raccolta dati Calore che, in occasione delle elezioni politiche del giugno '76, si ritira in campagna con i militanti del Circolo «Drieu La Rochelle». Se ci sarà il sorpasso - li ha allertati Signorelli - toccherà menare le mani, insieme ai carabinieri, per impedire ai «rossi» di prendere il potere. Subito dopo il vertice dei Castelli Concutelli avrebbe ridotto in fin di vita il vicepresidente della D.C. cilena Leighton, esule a Roma, e la moglie. Per l'attentato la giunta militare avrebbe pagato 100 milioni a Delle Chiaie. Nessun testimone riconosce Concutelli e il processo finisce con un'assoluzione (11) . Sul processo di unificazione sembra gettare nuova luce la divulgazione di alcune lettere a Zorzi. Nel novembre 1975 gli scrive a Tokyo, da Madrid, un tale Franco, che lo saluta con un eloquente «Sieg Heil»: «Per quanto concerne il nostro mondo sappi che non si parla più di collaborazione e coordinamento, ma di unità e fusione non solo col gruppo di Graziani, ma anche con Avanguardia nazionale [...]. E' in atto la costituzione di una nuova struttura politica giocata tra Delle Chiaie e seguaci, con Graziani e discepoli, e la completa esclusione a livello decisionale degli altri, cioè di noi, a meno che non ci facciamo un po' furbi e attivi» (12). Chi sono gli altri? La componente ordinovista confluita nel M.S.I. nel 1969 conservando la propria struttura organizzativa? O più precisamente quella parte che faceva capo a Maggi in Veneto e a Signorelli a Roma e che aveva mantenuto attiva tra il '69 e il '75 una rete clandestina per l'assistenza ai latitanti (a cui Vinciguerra si era rivolto per far espatriare Cicuttini, ricercato per il dirottamento di Ronchi)? O al processo di fusione ha partecipato un terzo gruppo organizzato di cui faceva parte anche Zorzi? Noi proviamo a seguire quest'ipotesi, avanzando qualche congettura . Dieci anni dopo, in uno dei tanti interrogatori con i giudici bolognesi, Calore si avventura nella ricostruzione, palesemente fasulla, della fondazione di Lotta di popolo: «Tale sigla, infatti, siamo sempre di fronte a delle sigle, ma in questo caso veniva una volta tanto alla luce più chiaramente che in altre occasioni l'unità sottostante, era più esattamente O.L.P. (Organizzazione lotta di popolo). I fondatori furono Signorelli, De Felice, Dantini, Delle Chiaie e Clemente Graziani. L'epoca della fondazione: l'inizio del 1970, periodo in cui Rauti era
rientrato nel M.S.I. mentre Graziani e Massagrande avevano fondato il Movimento politico Ordine nuovo e dal Movimento studentesco dell'Università di Roma si formavano contemporaneamente le sigle O.L.P. e A.N. (Avanguardia nazionale) già confluita nel Centro studi Ordine nuovo e rifondata da Adriano Tilgher» (13). Le cose, come è noto, andarono diversamente. A dar vita all'esperienza dell'O.L.P. è la componente dell'estrema destra romana - più piccoli gruppi sparsi in tutta Italia - che si era aggregata nel '68 dopo (e contro) il raid missino all'Università. Vi confluirono ex-avanguardisti come Serafino Di Luia, pacciardiani come Enzo Dantini, ex-ordinovisti come i fratelli Cascella. E' discutibile se quello che fu definito nazimaoismo fosse un progetto deliberatamente provocatorio o soltanto velleitario e ambiguo, ma sulla sua originalità non esistono contestazioni. Del resto altri dirigenti dell'O.L.P., come Ugo Gaudenzi e Franco Papitto, erano tra i più accaniti sostenitori della dipendenza di Delle Chiaie dal Viminale (14). Perché Calore, generalmente assai attento alla verosimiglianza delle sue ricostruzioni storiche, si è così palesemente esposto alla smentita (anche se i giudici bolognesi si sono ben guardati dal farlo, e hanno usato anche questa toppa come mattone del castello accusatorio, per dimostrare l'unicità e unitarietà del fenomeno eversivo nero)? Un lapsus? Uno slittamento della memoria? Una restituzione deformata? E' possibile che un gruppo di militanti dell'O.L.P., disciolta nel '73, abbia partecipato come componente organizzata all'unificazione tra O.N. e A.N. e che perciò Calore abbia retrodatato un'organicità di rapporti inesistente nel '70. Segnaliamo alcune coincidenze significative. La prima: Zorzi, indicato come guardaspalle di Freda, vive per alcuni anni a Napoli, dove hanno luogo, quasi contemporaneamente, due scissioni locali, in Lotta di popolo e in Ordine nuovo, che si definiscono entrambe «strasseriane», cioè ispirate al leader della sinistra nazionalsocialista, liquidata con le squadre d'assalto (le S.A.) da Himmler e dalle S.S. nella «Notte dei Lunghi Coltelli» per le «pericolose)) vocazioni socialisteggianti. La seconda: il Comitato pro Freda, che nasce nel 1973, ha tra gli animatori il segretario triveneto del M.P.O.N., Arrigo Merlo, già gestore della libreria Ezzelino di Padova, e il leader lucano dell'O.L.P., Leucio Miele. La terza: in un opuscolo del comitato di solidarietà per «Giorgio» Freda del '77 (dopo il fallimento della fusione) figura un durissimo attacco a Delle Chiaie definito «provocatore abituale dei servizi speciali italiani, poi avventuriero e
ladro di professione. A seguito del grottesco "putsch" Borghese [...] Delle Chiaie può tranquillamente scappare in Spagna, dove prepara e partecipa a diversi omicidi politici [...]. Secondo le ultime notizie sarebbe al servizio di Pinochet (15). Tre coincidenze costituiscono poco di più di un indizio. E' meglio allora restare ai fatti per quel che è dato sapere . Alla fine del settembre '75 si consuma la rottura con il M.S.I. La causa scatenante è l'uccisione di un ragazzino, il sedicenne Mario Zicchieri, davanti al portone della sezione Prenestino, roccaforte della frazione peronista. Signorelli e D'Addio battono i pugni e rivendicano il diritto alla rappresaglia. Qualcuno passa dalle parole ai fatti e il giorno dopo un commando uccide a San Lorenzo, il quartiere più rosso di Roma, un passante, Antonio Corrado, che ha il difetto di somigliare a un leader di Lotta continua, che ha a due passi la sede nazionale. Chi vuole capire nel M.S.I. capisce e avvia le procedure per espellere i facinorosi. Signorelli la butterà in politica con i giudici. Dopo la rottura di Nizza, Concutelli continua a giocare su due tavoli. Per un paio di mesi mantiene i rapporti con Delle Chiaie, poi nel mese di febbraio si allontana dalla Spagna portandosi per ricordo una mitraglietta Ingram, arma in dotazione alla polizia madrilena e di proprietà di un fedelissimo di Guerin Serac (16). Il ritorno in Italia è faticoso (17): «Lillo» deve ricostruire un'organizzazione dopo la rottura con A.N., che aveva mantenuto in piedi una rete clandestina in Italia. La gran parte dei quadri arrestati nel blitz di novembre è stata scarcerata alla spicciolata (18). L'intero gruppo dirigente di Ordine nuovo è latitante all'estero, con uno stile di militanza «sbracato». In Lotta popolare, il gruppo di Signorelli che doveva costituire l'organizzazione di facciata del movimento, gli ordinovisti sono in minoranza anche se Graziani vi ha fatto confluire i quadri coperti. Signorelli, che si proclama suo proconsole in Italia, ha mantenuto buoni rapporti con Delle Chiaie. In un paio di mesi Concutelli fonda i Gruppi di azione ordinovista in cui affluiscono i suoi camerati di Catania, la cellula di Perugia, il fortissimo nucleo tiburtino che sotto la guida di Calore si è affrancato dalla tutela di Signorelli, che al liceo di Tivoli ha insegnato per anni. Al SID basta un mese per sapere che cosa bolle in pentola e, a futura memoria, stilla alla fine di maggio un rapporto su «presunte intenzioni di militanti del disciolto Ordine nuovo» .
Il gruppo dei Castelli - che è gonfio di velleità rivoluzionarie - ha ereditato da Ordine nuovo i rapporti con le Forze armate, che in provincia sono rappresentate dai carabinieri. Anni dopo Calore lo ammetterà, testimoniando, al processo di Bari, contro Freda che aveva fatto sfregiare - da Egidio Giuliani - nel carcere di Novara per punirlo dei rapporti con i servizi segreti, nello stesso periodo in cui stava finendo di scrivere un libro per le edizioni di A.R (20). Un personaggio capace di grande doppiezza, ai limiti della schizofrenia, Calore. Segnato da una presenza materna soffocante, riuscirà a sfuggirle, sul piano pratico, sviluppando una diabolica capacità di menzogna (e di autoinganno) che gli ritornerà utile sul terreno della politica - e poi della collaborazione giudiziaria - eppure si trascina dentro la scimmia della sua presenza che si manifesta in un'irresistibile pulsione a uccidere (simbolicamente) padri e fratelli maggiori. E in un'evidente paura delle donne che crea la diceria tra i camerati di una verginità che ha il segno dell'omosessualità male occultata. In una discussione/processo imbastita da Marcello Iannilli, nel reparto G7 di Rebibbia, Calore si giustificò: se stava dietro a Valerio Fioravanti nelle sue «ricostruzioni infami e strumentali» era per ragioni di cuore. Il triangolo politico-sentimentale Fioravanti-Calore-Izzo era argomento primario di conversazione all'epoca (la fine dell'83) nel circuito dei carceri speciali per il diffuso, malcelato timore di un suo mutamento in aperta collaborazione (come poi puntualmente accadde per due dei tre protagonisti). La giustificazione fu accettata: chi lo conosceva confermò che già da fuori... Qualcuno ricordò che anni prima, quando era detenuto al G9, si faceva massaggiare con i piedi da un efebico militante di C.L.A. Non era il solo: la fraternizzazione tra «rossi» e «neri» nell'area omogenea di Rebibbia passò anche attraverso una storia d'amore tra un leader dei NAR, bellissimo, dichiaratamente bisessuale, e un tozzissimo (baffi, nasone e pelata) dirigente di Prima linea (P.L.). Per Calore c'è infine la sfolgorante scoperta della donna, nel carcere di Palliano, la brigatista Emilia Libera, che all'uscita del carcere ha sposato . Dopo un infantile passaggio anarchico, Calore è iniziato alla milizia nel Circolo «Drieu La Rochelle». Iscritto alla facoltà di Sociologia e poi, per scelta politica, operaio della Pirelli, è l'allievo prediletto di Signorelli. Quando il professore, trasferito a Roma, allenta la presenza a Tivoli ne è il successore naturale. Il sodalizio funziona alla perfezione.
Il nucleo tiburtino, passato indenne per le maglie dello scioglimento d'ufficio di Ordine nuovo, è la dote personale che Signorelli si gioca nell'unificazione con A.N. Non immagina che, alla prima stretta, quando Concutelli pretende la leadership dopo l'omicidio Occorsio, Calore sarà pronto a tradirlo e si schiera subito con il più forte. E' soltanto il primo di una serie di giri di valzer. Dopo l'arresto di «Lillo», infatti, l'operaio volerà a Londra da Graziani per chiedere la luogotenenza. Al rientro in Italia si sforza di garantire la latitanza di Bianchi, il «Giuda da pascolo» che ha «venduto» Concutelli. Gli trovano una foto del leader di O.N. per un documento falso ma non lo denunciano neanche. Anche nella vicenda di «Costruiamo l'azione», divorato dalla voglia di primeggiare, Calore brucia i ponti con la vecchia guardia, per poi bruciarsi lui al debutto militare. Stringe da subito un patto di ferro con il pupillo di De Felice, Paolo Aleandri. Istruiti dalle inquietanti frequentazioni, dalla P2 ai carabinieri, i due «marcano» a rivoluzionari duri e puri, «figli del '77», fautori del fronte unico con l'Autonomia operaia. Emarginano ben presto Signorelli, danno vita a un'autonoma banda armata, il Movimento rivoluzionario popolare (M.R.P.), che si specializza in attacchi contro obiettivi simbolici del potere (il Campidoglio, la Farnesina, Regina Coeli, il C.S.M.) eseguiti con modalità stragiste, ma rivendicati con parole d'ordine e linguaggio da «sinistra armata». Avendo operato uno come informatore dei carabinieri, l'altro come agente di collegamento con Gelli, avranno la faccia tosta - da «pentiti» - di sostenere che hanno rotto con i vecchi leader quando si sono convinti che erano subalterni a logiche di potere. Regolati i conti con gli uomini, Calore passerà a farli con l'intero ambiente, ridefinendo la propria identità politica in senso antifascista. Signorelli, il «cattivo maestro», ne conserva un giudizio positivo (21). Freda, che pur si avvale della sua collaborazione per le edizioni di A.R. quando già era manifesta la sua «deriva», ne prende le distanze (22) . Dopo l'omicidio del procuratore di Genova Coco e della sua scorta da parte delle Brigate rosse - l'8 giugno del '76 - Concutelli decide di bruciare i tempi. Il «centro» estero stenta a riconoscergli la leadership italiana, lui avverte profonde divergenze strategiche . Per i vecchi quadri ordinovisti, cresciuti alla scuola reazionaria degli "Uomini e le rovine" di Evola e dei manuali NATO di controguerriglia, l'uso della violenza va limitato alle vendette o alle ritorsioni nei
confronti di chi ha personalmente perseguitato l'organizzazione. Per Concutelli invece, che da Clausewitz ha imparato che «la guerra prosegue la politica con altri mezzi», l'azione militare è uno strumento della trasformazione politica, da inquadrare in un progetto unitario, prima di propaganda e poi di lotta armata contro lo Stato. Alla fine di giugno «Lillo» si trasferisce a via Clemente Decimo in una casa affittata da un tarantino, Gianfranco Ferro, un altro senza partito, proveniente dagli «Arditi d'Italia». Durante una cena in trattoria con Signorelli, Claudia Papa, dirigente di Lotta popolare e Giorgio Cozi, un fedelissimo di Graziani, Concutelli insiste: è necessario mettersi all'altezza delle B.R. con un atto clamoroso come l'omicidio di un giudice. Calore e gli operativi di Tivoli si schierano con lui, che è deciso a farlo. Lo appoggia anche Mario Rossi, l'ex-segretario giovanile di piazza Bologna, il quadro più brillante di Lotta popolare (23) . In due settimane uccide il p.m. Occorsio (24), organizza una rapina in una villa a Tivoli per procurarsi armi (e ci scappa il morto) e poi un «colpo» alla Banca del ministero del Lavoro (25) (con il buon bottino di 460 milioni). Ora ci sono soldi e armi per fare da soli. Intanto, nella notte tra il 16 e il 17 luglio, una banda di fascio-criminali aveva svuotato di un carico miliardario di lingotti d'oro un "caveau" di Nizza. Un colpo rivendicato con la croce celtica e una scritta sul muro: «Sans armes, sans haine et sans violence». Anche se avevano agito senza armi, senza odio e senza violenza, i rapinatori saranno condannati all'ergastolo. Tra questi il corso Albert Spaggiari, ex-militante dell'O.A.S., in contatto con la CIA, propagandista alle elezioni presidenziali del 1974 di Giscard d'Estaing, in stretti rapporti col giro di Concutelli e degli avanguardisti latitanti in Spagna. Uno degli attendenti di «Lillo», Saverio Sparapani, gira a Roma con la Renault 5 intestata alla ex di Spaggiari, Annie Otal, che ha in quei mesi una storia con Concutelli. La donna è fermata nel blitz madrileno del gennaio 1977 che smantella la rete clandestina dei rifugiati (due anni dopo sarà tra le ultime persone a incontrare Vinciguerra prima che si costituisca) (26). E' scoperto un laboratorio per la manutenzione di armi e la contraffazione di documenti. Gli arrestati sono in gran parte ordinovisti: Marco Pozzan, Elio Massagrande e la moglie, Francesco Zaffoni, Salvatore Francia, Giancarlo Rognoni, Pietro Benvenuto, Mario Tedeschi. Ci sono poi Flavio Campo di A.N., il leader di Europa civiltà Bruno Luciano Stefano e l'ingegnere Eliodoro Pomar, dirigente del
Fronte nazionale, fermato con la sua compagna. E' recuperato parte del bottino di Nizza . L'estradizione dei soli Pozzan e Rognoni porta nuova acqua al mulino di chi (e all'epoca sono sempre più) sospetta Delle Chiaie di collusione con i servizi di sicurezza e accusa i suoi di aver beneficiato di uno statuto di immunità. Su questo episodio - come su altri che hanno concorso a determinare la sua fama ambigua (rivoluzionario perseguitato per la sua irriducibilità alle trame del potere mondialista o «zozzone» colluso con sbirri, criminali, narcotrafficanti) - è possibile dare due letture (27). Gli innocentisti sottolineano come Delle Chiaie fosse stimato nell'estrema destra spagnola, per rigore militante e stile di vita ascetico. Gli avanguardisti non facevano la bella vita, investivano i redditi illegali nelle attività organizzative e vivevano semiclandestinamente già sotto Franco: sarebbero perciò sfuggiti alle retate che, invece, decimano gli ordinovisti che in Spagna vivevano sbracatamente da rifugiati politici. I colpevolisti obiettano che la Guardia civil sapeva benissimo dove stavano gli avanguardisti - visto che ci lavoravano assieme nell'antiguerriglia contro i baschi - e perciò allo sfacelo del regime, quando non poté più garantire le coperture, li avvertì. Il processo sul ruolo di importanti dirigenti socialisti nel terrorismo antibasco agli inizi degli anni Ottanta ha riproposto all'attenzione generale il problema della «sporca guerra» (28) . Le ricostruzioni giornalistiche ruotano intorno al ruolo centrale di Delle Chiaie e dei rifugiati. Alla luce dei processi conclusi e delle cause civili avviate dalle vedove di «controguerriglieri» morti in azione è possibile ricostruire i bacini del reclutamento dei primi gruppi antibaschi (29), che ha tra i protagonisti il solito Guerin Serac (30). Nel 1976 sono gli italiani a distinguersi negli scontri di Montejurra in Navarra: alcune centinaia di neofascisti armati assaltano la componente democratica dei Carlisti, i legittimisti spagnoli (il leader dell'altra fazione è Sisto di Borbone, intimo di «Caccola»). Due i morti, decine i feriti tra gli aggrediti. Tra gli aggressori si riconoscono Delle Chiaie, Cherid, Calzona, Cauchi, Ricci, Boccardo. In seguito il terrorismo antibasco sarà direttamente opera dei poliziotti, ma anche il regime democratico si sentirà vincolato a garantire coperture e impunità (31) . La rete logistica di Concutelli crolla nell'estate '76. Per sbaglio. Il p.m. di Firenze Vigna, un autentico mastino, sta indagando sui fiancheggiatori di Tuti. Da un memoriale difensivo pieno di fiele per i
«bischeri» che l'hanno scaricato emerge che Mauro Tomei aveva inutilmente interessato un camerata romano, Peppino «l'Impresario», per procurare soldi e documenti falsi. Ci vuole poco a scoprire che uno dei più stretti amici di Graziani è l'impresario teatrale Giuseppe Pugliese che è arrestato per un favoreggiamento non commesso. Scattano le perquisizioni a tappeto: a Pasquale Damis è trovata una «moto rossa» che corrisponde a quella segnalala per l'omicidio Occorsio e il cerchio si stringe intorno a Gianfranco Ferro, arrestato per una Colt 45. Scoprono il contratto d'affitto della casa di «Lillo» e quando ci arrivano trovano tracce di un precipitoso trasloco. I coinquilini di via Clemente Decimo riconoscono in Ferro e Concutelli i frequentatori del locale. Ferro crolla, facendo una serie di nomi (Sparapani, i catanesi Rovella e Di Bella, Sgavicchia, Damis, Cozi) (32). Ammette i rapporti con Concutelli: glielo aveva presentato Pugliese nel novembre '75 ed era stato incaricato di reclutare militanti per la struttura clandestina, ma per gli scarsi risultati era stato il «comandante», ricco di carisma e di talento organizzativo, ad assumere direttamente il compito. Concutelli ripara all'estero e rientra solo quando è disponibile un nuovo alloggio sicuro, a Ostia, affittato dalla perugina Barbara Piccioli, entrata nel giro al seguito del fidanzato Graziano Gubbini ma anche lei travolta dal fascino di «Lillo». Mario Rossi e Sparapani procurano poi la base di via dei Foraggi, dove si installano anche Calore e un «pischello» di Tivoli, Aldo Tisei. Concutelli è arrestato il 13 febbraio 1977, alla vigilia di un attentato contro il p.m. Vigna per la soffiata di Paolo Bianchi, un rapinatore di Tivoli amico di Calore, aggregato alla banda da tre mesi, all'uscita del carcere (33) . Il giorno del sequestro Moro «Lillo» è condannato all'ergastolo per l'omicidio Occorsio, pena confermata in Appello, a tempo di record. Nel periodo successivo sono scoperti numerosi tentativi di evasione (34). Il 13 aprile 1981 «Lillo» e Tuti uccidono nel cortile del carcere di Novara Ermanno Buzzi, condannato in primo grado all'ergastolo per la strage di Brescia, perché confidente dei carabinieri, «provocatore» e corruttore di minorenni. L'inchiesta esclude un esplicito rapporto con l'articolo di «Quex» - il foglio dei detenuti di destra - che aveva indicato Buzzi tra gli «infami da schiacciare». Concutelli è l'unico leader tra i prigionieri nazionalrivoluzionari che non aderisce al progetto dello spontaneismo armato. Saranno entrambi condannati all'ergastolo.
Trasferito a Nuoro, tenta di impedire l'omicidio di Francis Turatello, suo compagno di cella ma è messo in condizione di non nuocere. Il 10 agosto 1982, nel carcere di Novara, strangola con una rudimentale garrota Carmine Palladino, fedelissimo di Delle Chiaie, arrestato nell'inchiesta sulla strage di Bologna e sospettato di aver causato la morte di Vale «soffiando» il nascondiglio. Dopo il secondo omicidio in carcere Concutelli è sottoposto al regime di massimo rigore, in totale isolamento nei cosiddetti «braccetti della morte», un trattamento talmente duro da provocare la protesta anche dei brigatisti. Accusato da qualche pentito di essere affiliato alla camorra, riceve un mandato di cattura nella maxioperazione che porta in galera anche Enzo Tortora ma respinge sprezzantemente l'accusa. Per alcuni anni l'unico contatto con l'esterno sono i processi dove partecipa come imputato o come testimone, ma sempre da protagonista: contesta l'inettitudine dei periti balistici; estende ai suoi giudici, agenti della «persecuzione democratica», la condanna di morte eseguita su Occorsio; rivendica gli omicidi commessi in carcere. Qualche volta, con stile alla Garrone, cerca di scagionare i coimputati, sfiorando i limiti dell'improntitudine. In difesa di Graziani afferma che «è il capo riconosciuto di Ordine nuovo ed è dovuto espatriare per sottrarsi alla cattura. Egli non può essere riconosciuto responsabile di atti di violenza perché ciò non rientra nei suoi compiti, sia perché, essendo uomo deciso e nel contempo di carattere mite, aborre dalla violenza» (35). Alla fine degli anni Ottanta accetta la dialettica processuale, rendendo pubblico il suo tormentato distacco dalla lotta armata. Senza approdare alla sponda formale della dissociazione, rompe con il neofascismo e aderisce al Partito radicale. Interrogato al processo bis per la strage di Brescia, nega sdegnosamente che l'imputato principale, Cesare Ferri, sia stato il mandante dell'omicidio di Buzzi, con l'obiettivo di chiudergli la bocca. La motivazione è disarmante: Ferri era un «pischello» e non era all'altezza di dargli ordini. Buzzi era stato ucciso perché «volevamo dare il buon esempio e avevamo la statura politica e morale per farlo» (36) . Il nuovo rapporto con la giustizia e le istituzioni si manifesta nel maxiprocesso Ordine nuovo bis, l'assemblaggio delle decine di procedimenti aperti sulla base delle confessioni di Tisei, il suo vivandiere: 150 imputati chiamati a rispondere delle attività illegali di Ordine nuovo clandestino ma anche delle innumerevoli imprese che
Tisei, diventato tossicodipendente, ha compiuto fino all'arresto nel 1981, associandosi variamente con batterie di rapinatori e gang del racket. «Lillo» confessa di aver ucciso Occorsio nell'udienza del 5 dicembre 1988. Nei due processi per l'attentato, imitando le B.R., aveva rivendicato la responsabilità come comandante militare, e quindi titolare della decisione di eseguire la condanna a morte emessa da Ordine nuovo. Nel ricostruire il delitto ammette di aver sottratto l'arma al gruppo di Delle Chiaie, e non esclude che l'Ingram sia stato fornito dalla polizia segreta spagnola . Precisa poi che i vertici di O.N. e di A.N. erano contrari all'omicidio per motivi di opportunità politica - e quindi aveva assunto da solo la responsabilità di decidere. Nell'udienza successiva polemizza con i giornalisti per smentire puntualmente le rivelazioni «fasulle» di Aleandri e si scontra con Calore secondo cui era stato deciso l'abbandono della base di via Foraggi - insicura dopo l'arresto di Bianchi - per trasferire tutto a Ostia (37). Concutelli ha fondati sospetti che sia stato proprio Calore a «venderlo» o a «mollarlo» allontanandosi all'ultimo minuto da via dei Foraggi senza avvertirlo - e non vuole concedergli alibi morali e politici. Calore sulla vicenda si gioca tutta la credibilità. Appena ne ha l'occasione ci prova a rilanciare e costruisce la storiella di un Concutelli scoppiato che si era lasciato catturare per stanchezza psicologica, rivelando però qualche problema di memoria, imprevedibile per chi aveva saputo fare proficuo mercato della capacità di «ricostruire» in grandi affreschi più di dieci anni di eversione nera . La sua decisione di collaborare era stata una manna per i giudici, abituati alle scarne liste della spesa dei pentiti neri, banditi seriali: rapina, formazione del gruppo di fuoco, armi usate, bottino, via un altro, agguato, autori, complici, lui mi ha detto, quell'altro mi ha raccontato... Poco più che modesti contabili del crimine, gente che politica ne aveva fatta pochissima e aveva cominciato subito a menare le mani, o a sparare - questione di generazioni - ragazzi che avevano più confidenza con il salto del bancone che con le pagine di un libro. Calore, invece, era stato uno del migliori quadri politici prima in Ordine nuovo clandestino e poi nella frazione dello spontaneismo armato che spingeva per l'oltrepassamento dell'esperienza fascista: anche avversari e nemici gli riconoscevano preparazione culturale e qualità intellettuali. La prima volta che aveva provato a sporcarsi le mani con la critica delle
armi, lo avevano beccato subito dopo aver fatto ammazzare un disgraziato per sbaglio. E quindi è bizzarro un suo grossolano infortunio, proprio sul suo terreno, collaborando come fonte diretta a un gruppo di ricerca sul vissuto dei terroristi. Un tale S. C. (dirigente ordinovista di Tivoli e attendente di Concutelli) (38), racconta che «Lillo» era crollato psicologicamente e attendeva solo l'arresto. La prova: «Concutelli era a via dei Foraggi, una stradina alle spalle del Campidoglio. A piazza Venezia (quindi a poca distanza) si svolgevano le manifestazioni dell'Autonomia. Passavamo di là mentre erano in corso gli scontri e dicevamo soltanto: 'guarda che gente c'è qui; si rischia che un giorno o l'altro viene fatta un'azione poliziesca e ci arrestano'» (39). E aggiunge che, quando si viene a sapere del rilascio di Bianchi, erano nello studio di Arcangeli e lui aveva proposto di abbandonare il rifugio, ma Concutelli aveva deciso di andarci a dormire lo stesso perché era stanco. Solo che la polizia irrompe a via dei Foraggi il 13 febbraio, e l'unica manifestazione violenta era stata, il 2 febbraio, la sparatoria sotto le finestre di «Repubblica» (ad alcuni chilometri da via dei Foraggi) tra due «autonomi» e una squadra speciale che aveva attaccato la coda di un corteo antifascista. Un banale errore di datazione non verificato per sciatteria dal ricercatore (che non si prende neanche la briga di sfogliare una collezione di giornali e quindi sposta la manifestazione preinsurrezionale del 12 marzo la cui «straordinaria bellezza» è un "topos" nelle ricostruzioni del '77 al 23 marzo)? Niente affatto. Perché intorno all'arresto di Concutelli, all'identità del traditore si gioca un'estenuante partita, che Calore combatte colpo su colpo per evitare di essere inchiodato al ruolo d'infame, per non vedere macchiata dal marchio di Giuda l'occasione che lo proietta, dopo anni di laboriosissimo "cursus honorum" alla ribalta, non più grande spalla ma finalmente protagonista. Rivelando una formidabile improntitudine, nel corso della stessa intervista, afferma che l'assalto all'Armeria di Ponte Sisto, durante gli scontri del «23 marzo», di cui aveva sostenuto di non sapere di che cosa si trattasse, era stata «opera dei nostri» (40) . Dopo la fallita evasione da Rebibbia del febbraio '89 Concutelli - che la lunga detenzione rende sempre più simile all'icona dell'abate Faria: barba lunghissima e sguardo lontano - si schermisce con i giornalisti. I lunghi anni di carcere, se hanno ridotto la combattività, non gli hanno mozzato la lingua tagliente. Ultimo detenuto in regime di segregazione
totale, scrive a «Frigidaire», la rivista di Vincenzo Sparagna, da sempre in prima linea in difesa dei diritti dei detenuti, definendosi un «lupo marsicano», specie in via d'estinzione che attacca l'uomo solo per difendersi e invoca la protezione del W.W.F. Al processo d'Appello per la strage di Bologna smentisce di aver ricevuto armi o esplosivi da Fachini che aveva conosciuto al tempo in cui entrambi erano dirigenti del FUAN, e trova il modo di chiudere la partita anche con il «grande nemico», precisando che «con Delle Chiaie e la sua organizzazione a quei tempi c'era odio e molto malanimo ma sono cose ormai superate dal tempo e dalle cose, anche perché spesso ci si fondava su convinzioni che si sono poi rivelate sbagliate». Negli ultimi anni Concutelli dedica la sua attenzione ad altre faccende. Una piccola casa editrice romana pubblica "Captiva", le poesie scritte in carcere dal 1984 al 1995 («M'ero ben temprata l'anima / Aspra era fatta, dura e pura, come una lastra, fredda, ghiaccio / Scivolavano sopra di essa / i sentimenti, le cure, tutto...») che rendono conto della sua lenta mutazione, che si esprime nell'adesione al Partito radicale - e a una delicata vicenda sentimentale con una sua militante - ma anche alla partecipazione alle attività di socializzazione, dalla squadra di calcio allenata da Curcio al corso di pittura tenuto da Pablo Echaurren, exdisegnatore di «Lotta continua». Fino alla decisione di scrivere una ironica guida Michelin delle carceri italiane - per i tipi di Stampa alternativa - dove cappelli e stelle sono sostituiti da chiavi, gavette e grate. Una mutazione senza rinnegamenti: a Giampiero Mughini che gli chiede se di tanto odio, di tanto orrore fosse valsa la pena, si è limitato a rispondere - con occhi leali, testimonia il giornalista - che «è successo» (41) . Dopo alcuni permessi premio e 23 anni di carcere, oggi Concutelli lavora all'esterno del carcere, in una cooperativa sociale romana, che si occupa di manutenzione delle aree verdi e assistenza alle persone socialmente disagiate . NOTE . (1). Pierluigi Concutelli è nato a Roma il 3 giugno l944 da genitori abruzzesi. E' la vigilia della Liberazione della Capitale, ma la data (ricavata dall'ordinanza del processo Ordine nuovo bis) va sottolineata per più concrete ragioni. In un libro (Mario Guarino, "L'Italia della vergogna", Viareggio, Laser, 1995) infatti, si sostiene che «nel tomo
della commissione parlamentare sulle 'logge coperte' c'è anche il nome di Pier Luigi Concutelli, indicato quale killer del magistrato Vittorio Occorsio, considerato fino ad oggi soltanto terrorista nero» (p. 16). L'autore snocciola i dati: nella potente loggia Camea (che ha gestito il falso sequestro Sindona) risulta iscritto dal 2 novembre 1975 Luigi Concutelli, nato a Ferentino il 26 agosto 1945, via Casilina, ragioniere, direttore d'albergo. Si fosse preso la briga di sfogliare il foglio penale del terrorista (o semplicemente qualche classico dell'eversione nera), Guarino sarebbe stato attraversato dal dubbio: all'epoca Concutelli (nato in un'altra città, un anno prima) era latitante. Che poi per altre strade si possa affermare che Concutelli abbia interagito con ambienti massonici e mafiosi (o criminali) è un altro discorso . (2). Il 10 ottobre 1971 è accusato di un'aggressione all'Università, il 31 ottobre è arrestato per associazione a delinquere, lesioni e interruzione di pubblico servizio, il 9 febbraio 1972 è denunciato per un'aggressione a un liceo, nell'estate «comanda» il campo paramilitare di Menfi del Fronte della gioventù. Nell'autunno ancora tre denunce per pestaggi, il 22 dicembre conclude un anno vissuto intensamente con un'altra denuncia per associazione a delinquere . (3). A Milano e a Roma il M.P.O.N. si riorganizza intorno alla redazione della Fenice, gruppo formalmente interno al M.S.I., e il Circolo «Drieu La Rochelle» di Tivoli, il cui referente è Signorelli . (4). La fuga all'estero di alcuni leader storici di O.N. per le inchieste contro Ordine nero e la Rosa dei venti accelerò il programma di riorganizzazione avviato dopo lo scioglimento del gruppo e discusso in numerose riunioni svoltesi in tutta Italia. Una di esse (28 febbraio - 2 marzo 1974), cui fu presente la maggior parte dei leader di O.N. e dei gruppi collegati, si tenne all'hotel Giada, di Cattolica, il cui titolare collaborava con SID, polizia e carabinieri, Mario Caterino Falsari, circostanza nota a molti partecipanti: evidentemente si ritenevano al sicuro, essendo ancora attive determinate coperture . (5). Le «cattive amicizie» sono giustificate da Vinciguerra, un duro e puro che accusa di «intelligenza con il nemico» il 95 percento dei camerati ma a Delle Chiaie resta legato, anche dopo la rottura con A.N., da un rapporto di amore-odio: «I rapporti intrattenuti, in terra spagnola, dagli italiani ivi rifugiati con appartenenti a corpi militari e di sicurezza acquisivano nell'ottica della globale contrapposizione al comunismo,
una logica e una giustificazione che non potevano incontrare in Italia» (Vinciguerra, "Ergastolo..." cit., p. 9) . (6). Lo spettro ampio degli obiettivi, mirati e non più circoscritti alla tradizione di lotta anticomunista, e la scelta di operare per campagne coordinate segnano una discontinuità con la stagione dello stragismo e al tempo stesso l'ambizione di competere con il partito armato in evidente crescita. Nel gennaio 1975 sono compiuti attentati dinamitardi allo studio dell'avvocato Edoardo Di Giovanni (difensore di autonomi e brigatisti ma anche coordinatore con Marco Ligini della controinchiesta su piazza Fontana e del libro "La Strage di Stato"), all'abitazione del giornalista Willy de Luca e presso la redazione del «Borghese», indirizzato non al periodico, ma al suo direttore Mario Tedeschi. Al tradizionale addestramento all'uso di esplosivo, e al procacciamento di armi, s'accompagna un'intensa campagna di autofinanziamento attraverso rapine e spaccio di denaro falso nonché una spregiudicata iniziativa di schedatura di militanti dell'ultrasinistra, attività nella quale s'inseriscono ambigui rapporti e singolari «scambi di favori» con ufficiali dei carabinieri . (7). Nell'inverno-primavera 1975 si susseguono numerosi attentati in Sicilia e Calabria, ove il FULAS è animato da Concutelli, Mangiameli e altri ordinovisti: alla concessionaria FIAT di Catania, al Catasto di Reggio, alla redazione dell'«Ora» di Palermo, alcuni eseguiti in simultanea per dar prova d'efficienza . (8). Il rapimento dura un mese e mezzo, dal 23 luglio al 9 settembre. L'ostaggio è liberato nelle campagne di Taranto dopo il pagamento di un riscatto di 280 milioni. Nel mese di settembre scattano i mandati di cattura di Palermo contro un manipolo di 'ndranghetisti, Concutelli, i cugini Martinesi (il già noto Luigi e il democristiano Antonio, grande elettore dell'onorevole Pisacci Codanelli) e un gruppetto di fascisti toscani: Mario Luceri, già coinvolto nel sequestro Segafredo, Mario Pellegrini, proprietario del bar di Lido di Camaiore, ritrovo dei camerati versiliesi, Elio Fini, fiancheggiatore del F.N.R. di Tuti. Gli ultimi tre sfuggono alla cattura. Luigi Martinesi accusa il suo principale: il sequestro doveva finanziare la Milizia rivoluzionaria, Manco sapeva e ne sarebbe divenuto il leader. L'onorevole se la cava con l'immunità parlamentare ma capisce l'antifona e l'anno dopo è tra gli scissionisti di Democrazia nazionale. Martinesi era pedinato da tempo, il suo frenetico attivismo non era passato inosservato. Rapporti di polizia segnalano gli
incontri a Catanzaro con gli avvocati di Freda e di Delle Chiaie e con i leader locali di A.N. E poi un viaggio a Padova (da Fachini) e a Venezia (dall'avvocato di Freda), e l'incontro romano con Adriano Tilgher. Anche in Puglia Martinesi ha frequenti contatti con la compagna di Freda, Rita Cardona, e stringe rapporti con i dirigenti di A.N. Evidentemente a Martinesi è toccato il ruolo di commissario politico, a Concutelli quello di comandante militare . (9). Nonostante la rottura dichiarata, in un documento sequestrato a Londra nel 1977, Graziani conferma «la contiguità tra i due movimenti e la impregiudicata possibilità di azioni in comune nel momento in cui fossero 'entrate in giuoco decisioni ed azioni importanti' suscettibili di 'riverberarsi non soltanto sul Movimento che le prende e le attua, ma su tutto il nostro mondo politico'». Resta la critica all'elasticità tattica di A.N., portata a «impegnarsi più attivamente e spregiudicatamente, sia a livello nazionale che a livello europeo ed extra-europeo all'acquisizione di piattaforme di ovvia utilità contingenti, ma in qualche modo pericolose e pregiudizievoli» . (10). Clemente Graziani, giovanissimo volontario a Salò, è un eroe del primo neofascismo per aver tentato di affondare nella rada di Taranto una nave che doveva essere consegnata all'URSS come riparazione dei danni di guerra. E' uno dei pochi condannati agli inizi degli anni Cinquanta per le bombe dei Fasci di azione rivoluzionaria. Fondatore del Centro studi Ordine nuovo, dopo il rientro di Rauti e di gran parte dei quadri nel M.S.I. è il leader carismatico del Movimento politico Ordine nuovo. Ripara all'estero dopo lo scioglimento d'ufficio del gruppo. E' morto nel 1997 in Paraguay . (11). Secondo il «pentito» Tisei, A.N. avrebbe fornito armi e appoggi logistici per l'agguato. Ad accusare Delle Chiaie è Michael Townley, sicario americano al soldo dei servizi segreti cileni. Arrestato per l'omicidio negli USA di Orlando Letelier, ministro degli Esteri con Allende, ha scelto di collaborare con la giustizia americana assicurandosi l'impunità (in Italia sarà condannato inutilmente a 18 anni di carcere). Quando l'assoluzione di Concutelli e Delle Chiaie è definitiva, nel settembre 1992, Vinciguerra ammette che nell'attentato «ci azzeccavano» entrambi. Nel 1993 Townley ha riconosciuto nelle foto di Delle Chiaie quell'Alfredo Di Stefano che era il suo contatto italiano, quando giunse a Roma nell'estate 1975 per preparare l'attentato. «Mi sono visto poi con Alfredo in Spagna», ha raccontato
l'ex-agente cileno al p.m. Salvi: «Io stavo in un hotel di Madrid e Alfredo mi disse che in quell'hotel si era incontrato con il colonnello Contreras ["comandante dei servizi segreti cileni"] e con il generale Pinochet, quando era andato in Spagna per i funerali di Franco» (confronta Bruno Ruggiero, "Roma: 18 anni al killer cileno", «IL Giorno», 27 marzo 1993) . (12). Scialoja, "Il nostro...", cit., p. 85 . (13). "La strage. L'atto di accusa dei giudici di Bologna", a cura di Giovanni De Lutiis, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 192 . (14). Dopo trent'anni e una fortunata carriera giornalistica (corrispondente dell'ANSA da Beirut e poi direttore dell'organo del P.S.D.I. «L'Umanità») Ugo Gaudenzi dirige «Rinascita», il semiclandestino quotidiano dapprima del Fronte nazionale di Adriano Tilgher, storico braccio destro del «Caccola», e poi indipendente nell'area della destra radicale . (15). Comité de solidarité pour Giorgio Freda, "Giorgio Freda: nazimaoiste ou révolutionnaire inclassable", Ginevra, s.e., 1978, p. 45 . (16). La rottura, causata secondo Vinciguerra da uno scontro «finanziario» su un'operazione in Africa, avrà strascichi astiosi. Una foto di Concutelli è trovata a Madrid nel laboratorio per falsificare documenti gestito da A.N. L'avvocato Arcangeli lo accuserà di essere il killer di Occorsio. L'anno dopo Delle Chiaie, di passaggio in Italia, farà cadere di proposito documenti compromettenti nei confronti suoi e di Pozzan . (17). Concutelli arriva a Nizza via Corsica. Nei giorni di Pasqua rientra in Italia, grazie a due camerati genovesi che gli fanno attraversare in auto il «buco di Ventimiglia». E' ospite una settimana da Mauro Meli, il referente genovese della Fenice, e giunge a Roma il 22 aprile dove è accolto da Marcello Sgavicchia, un camerata cinquantenne, amico di Peppino «l'Impresario», in un appartamento a via Lanza . (18). Il clima benevolo è confermato dalla sentenza mitissima per ricostruzione del partito fascista. Il processo, aperto con una sessantina di ordini di cattura spiccati (47 eseguiti) in tutta Italia si conclude agli inizi di giugno, con 31 condanne (pena massima a sette dirigenti: due anni, per i militanti da cinque a sedici mesi di carcere) e 43 assoluzioni . (19). Flamini, "Il partito...", cit., volume 4, 1, p. 276 .
(20). Sergio Calore, "La società tecnologica", Vibo Valentia, Edizioni di A.R., 1982. Il libro sarà ritirato dal catalogo dopo il suo «pentimento» . (21). Per Signorelli «Calore, pur se autodidatta, è una mente acuta ed è persona che ha letto molto. Era un operaio ma aveva interessi culturali e un po' per volta cominciò ad assimilare teorie recenti come quella dei bisogni, e mi manifestò la sua convinzione che per una efficace lotta al sistema l'unica via fosse quella dell'Autonomia» (cit. in Flamini, "Il partito...", cit.; volume 4, 2, p. 498) . (22). «Non esisteva alcun'affinità tra me e il Calore sotto il profilo dottrinario, ideologico, politico e di temperamento. La visione del mondo di Calore era opposta alla mia, perché Calore era antimetafisico, ateo, razionalista, evoluzionista, progressista, antiautoritario, anarcoide, antinazifascista. Al polo opposto mi situavo e mi situo io. Si esprimeva in termini altamente irriverenti nei confronti dei leader delle rivoluzioni nazional-popolari che io venero: Codreanu, Hitler e Mussolini» (confronta "Parla Freda", ciclostilato con il testo delle deposizioni alla Corte d'Assise di Appello di Bari, Battipaglia, L'Aratro, 1986) . (23). Quando Angelo Mancia, segretario del M.S.I. di Talenti e guardaspalle d'Almirante, pretende la restituzione delle chiavi della sezione, che col segretario Romolo Sabatini ha aderito alla scissione, Rossi è l'unico che gli tiene testa. Nel 1980 Mancia sarà ucciso da un commando, uno dei tanti missini caduti negli anni di piombo. Ma dieci anni dopo, analizzando le imprese della banda che ha rivendicato l'omicidio, i Compagni organizzati in volante rossa (una delle tante sigle della guerriglia di sinistra), affiora il dubbio che Mancia, un picchiatore «duro» ma politicamente moderato, sia caduto vittima di una faida interna (confronta Baldoni-Provvisionato, "La notte...", cit., p.p. 314-25) . (24). L'omicidio Occorsio è rivendicato con un fascio di volantini abbandonati sul luogo del delitto: «La giustizia borghese si ferma all'ergastolo, la giustizia rivoluzionaria va oltre. Un tribunale speciale del M.P.O.N. ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica, perseguitando i militanti d'Ordine nuovo, le idee di cui questi sono portatori. L'atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna attenuante, l'accanimento da lui usato nel colpire gli ordinovisti lo ha degradato al livello di un
boia. Anche i boia muoiono! La sentenza emessa dal tribunale del M.P.O.N. è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l'ordine nuovo!» (confronta Sandro Forte, "I processi...", cit., p. 118) . (25). La sera della rapina «Lillo» cena con Signorelli che pretende ancora di affermare il primato politico sulla rete militare. Concutelli gli consegna sprezzantemente due mazzette per le necessità propagandistiche di Lotta popolare e consuma la rottura. I soldi sono distribuiti a pioggia: 5 milioni ai tiburtini, 40 ai perugini, 20 ai catanesi, 10 a Catola e Lamberti, due pisani legati a Tuti. Il gruzzolo più consistente, 160 milioni, è affidato al genovese Meli, per finanziare attività legali e costruire una riserva di sicurezza. Altri 100 sono consegnati a Sgavicchia, per le necessità di «cassa» . (26). Vinciguerra, '"Ergastolo..."', cit., p. 59 . (27). Le modalità dell'inizio della latitanza di Delle Chiaie sembrano autorizzare entrambe le ipotesi: «Caccola» ha raccontato che la mattina del 20 luglio 1970 era in attesa di essere interrogato dal giudice Cudillo per confermare l'alibi di Merlino per il 12 dicembre. Mentre aspettava in anticamera di essere ricevuto vide arrivare il maresciallo capo del servizio traduzioni al carcere, capì le intenzioni del giudice e si sottrasse all'arresto. Veri «amici» o autentici fessi magistrato e carabinieri? A un dubbio analogo ha dato risposte diverse Vinciguerra. Il 30 marzo 1974, quando il procuratore della Repubblica di Gorizia conclude l'interrogatorio trasformandolo da testimone a imputato e ordinando di avvertire la polizia di controllarlo fino al prossimo appuntamento, in Vinciguerra scatta un riflesso condizionato e se ne scappa in Spagna. Quindici anni dopo, nella sua autobiografia, ammetterà di essere caduto in trappola: in realtà la magistratura non aveva nessuna intenzione di imboccare la pista nera su Peteano e quindi lo avevano incoraggiato, a scanso di rischi, a togliersi dai piedi. Cosa che lui aveva puntualmente fatto . (28). Il terrorismo di Stato era stato scatenato dopo l'«operazione Ogro» dell'ETA che, ammazzando il delfino Carrero Blanco, aveva liquidato l'unica personalità in grado di garantire continuità al regime dopo la morte di Franco. Un sergente della Guardia civil, Luis Cervero Carrillo, attivo nei gruppi paramilitari racconta: «ATE (Antiterrorismo ETA) era un gruppo misto formato da "Guardias civiles" e da estremisti di destra. Non esisteva come organizzazione. Era una delle molte sigle usate,
inventate dai gruppi che ricevevano ordini dallo stato maggiore della Guardia civil. Con la Guardia civil c'erano membri dell'O.A.S. e di Ordine nuovo italiano che lavoravano per i servizi della Presidenza del governo allora diretti da Andres Casinello. Personaggi come Concutelli, Calzona, Cherid, Boccardo» (cit. in Gianni Sartori, "De dia uniformados, de noche incontrolados", «Frontiere», a. 6, n. 2, estate 1995, p. 35) . (29). Hanno fornito militanti ai vari ATE (Antiterrorismo ETA), B.V.E. (Battaglione basco spagnolo) A.A.A. (Alleanza apostolica anticomunista): «l'estrema destra spagnola, in particolare il "Partido español nacional socialista" e i "Guerrilleros de Cristo Rey" di Mariano Sanchez Covisa; ex-membri dell'O.A.S. francesi tra cui Jean Pierre Cherid, già collaboratore durante il franchismo del "Servicio de informacion" della Guardia civil e attivista di spicco dei gruppi paramilitari ATE, B.V.E., GAL; suo fratello Noel Cherid; Marcel Cardona. Di origine francese era anche lo scomparso Andres Previns, i cui familiari ricevono una pensione del governo spagnolo. Anche la vedova di Cherid (morto nel 1984 a Biarritz mentre preparava un ordigno esplosivo) ha inoltrato domanda per una pensione al ministero degli Interni spagnolo; un gruppo portoghese in cui si riuniscono exmembri della PIDE, alcuni golpisti dell'E.L.P. (Esercito di liberazione del Portogallo), soldati e mercenari reduci dalla colonizzazione; alcuni sudamericani provenienti dagli squadroni della morte argentini (la 'Tripla A') tra cui J. M. Boccardo e J. Aleman; gli italiani, noti neofascisti di A.N. e O.N., rifugiati in Spagna: Delle Chiaie, Ricci, Concutelli, Cauchi, Calzona, Cicuttini, Pomar, Pozzan eccetera; esponenti della malavita di Bordeaux e della mafia marsigliese: M. Szonek, J. Zurita, A. Le Rhun, M. Khiar, i fratelli Perret. Questi manovali del terrore di Stato, coadiuvati da numerosi elementi della polizia e della Guardia civil, sono i responsabili delle prime operazioni nei Paesi Baschi francesi nel 1975-'76» (confronta Sartori, "De dia...", cit.) . (30). Il suo braccio destro, Jean-Pierre Cherid, è considerato il maggior responsabile della «guerra sporca». Il fratello Noel, arrestato in Algeria per un attentato contro la sede del quotidiano «El Moudjiadin», ammette durante il processo di aver partecipato ad azioni contro rifugiati baschi. Quando, nel giugno 1975, a morire è un altro exO.A.S., Marcel Cardona, ucciso mentre collocava una bomba sotto
l'auto di un rifugiato basco a Biarritz, i familiari dichiarano alla polizia francese che l'uomo lavorava per i servizi segreti spagnoli . (31). Il quotidiano «El Pais» nel maggio 1986 rilancia le accuse contro i rifugiati italiani per le attività del Battaglione basco spagnolo, della A.A.A. e dei Gruppi antiterroristi di liberazione (GAL) dal '75 al '78. I nomi segnalati sono i soliti: Delle Chiaie, Cicuttini, Cauchi, Concutelli, Calzona, Graziani, Meli, Papa, Massagrande. Non mancano le imprecisioni. Si sostiene infatti che Cauchi, Cicuttini e Calzona, per i quali era stata rifiutata nell'82 e nell'84 l'estradizione, sarebbero ancora in Spagna quando, almeno per Cauchi, è accertato che dal '77 vive in Argentina. Così è impossibile la presunta telefonata tra Cicuttini e Concutelli, nella quale il primo avrebbe annunciato l'invio in Italia di due Ingram usati per il massacro di Atocha (cinque avvocati delle "Comisiones obreras" ammazzati durante una riunione a Madrid parecchi mesi dopo l'arresto di Concutelli). Calzona, condannato a 16 anni di carcere per l'omicidio di un militante del P.C.I. di Monza, Alfio Oddo, è collegato alle attività dei GAL che compaiono sulla scena nell'83. L'avanguardista Mario Vannoli, detto «Carlos o' Capezon», è accusato di essere il capo del commando, composto anche da un argentino e un francese, che assassinò, con l'appoggio di Calzona, nel '78 nei Paesi Baschi francesi Argala, protagonista dell'«operazione Ogro». «El Pais» sottolinea che una richiesta della magistratura italiana di chiarimenti sull'Ingram usata per l'omicidio Occorsio non ha avuto risposta dal servizio di sicurezza dello Stato . (32). La polizia arriva nella pensione della moglie di Meli e trova i soldi ma non lui. La donna lo copre ma gli agenti giocano duro per convincerla a tradirlo: le mostrano le foto dell'amante del marito, un travestito, e la donna, furiosa, ne diventa la peggiore nemica . (33). Nella base cadono numerose armi (tra cui l'Ingram, i proiettili usati contro Occorsio e l'ultima cassetta delle granate S.R.C.M. lanciate a Milano per uccidere l'agente Marino) e la carta intestata M.P.O.N., con cui era stato rivendicato l'omicidio Occorsio. Sono anche recuperati 10 milioni e 900mila lire provenienti dal riscatto di Emanuela Trapani, rapita dalla banda Vallanzasca, a cui Concutelli si era collegato dopo il crollo della rete logistica. Bianchi era in compagnia di Rossano Cochis, l'alter ego di Vallanzasca. Tutta la banda Concutelli è accusata di ricostituzione del partito fascista nel secondo processo contro Ordine nuovo .
(34). Il primo tentativo è da Rebibbia con Semerari (nel '77 lo psichiatra gli avrebbe dovuto fornire una pistola ma Concutelli era già stato trasferito per i preparativi d'evasione con Tuti scoperti a Porto Azzurro), uno da Palermo con supposti appoggi della mafia, il più impegnativo, da Taranto, organizzato dalla banda Fioravanti con l'apporto di Mangiameli. Questo tentativo dura dall'aprile 1980 (fallito assalto al Distretto militare di Padova per procurarsi le armi lunghe necessarie) all'inizio del 1981 (quando a Gandoli, una località balneare del Tarantino, è abbandonato il covo, affittato sotto falso nome, da Mauro Addis, componente della banda Vallanzasca). Il progetto fallisce perché il ministero destina Concutelli per il processo Mariano al più sicuro carcere di Brindisi . (35). Forte, "I processi...", cit., p. 136. Quest'immagine generosamente offerta da Concutelli non è confermata dalla produzione teorica del fondatore di Ordine nuovo. In uno scritto programmatico del 1963 di Clemente Graziani, infatti, si legge: «Il terrorismo implica ovviamente la possibilità di uccidere o far uccidere vecchi, donne e bambini. Azioni del genere sono state finora considerate alla stregua di crimini universalmente esecrati ed esecrabili e, soprattutto, inutili, esiziali ai fini dell'esito vittorioso di un conflitto. I canoni della guerra rivoluzionaria sovvertono però questi principi morali ed umanitari. Queste forme di intimidazione terroristica sono oggi non solo ritenute valide ma a volte assolutamente necessarie» . (36). Anche il sedicente latore del mandato di morte, il detenuto Sergio Latini, politicizzato in carcere, per Concutelli era un personaggio non qualificato, per i rapporti con l'«infame» Affatigato, che era stato condannato a morte da Tuti. Coglie l'occasione per criticare Ordine nero, una «deviazione negativa per noi», e ricostruisce i contrasti tra i sostenitori della fusione tra Avanguardia nazionale e Ordine nuovo e i fautori della lotta armata come lui. Ammette che allora era convinto della colpevolezza di Buzzi ma cinque anni dopo è giunto alla conclusione che il delitto non ha sortito un buon risultato . (37). Dichiara Concutelli in un'improvvisata conferenza stampa dalla gabbia: ho sempre lasciato che mi si accusasse di quel delitto. Ma all'epoca io disconoscevo la corte che mi processava. Erano altri tempi. Dicevo «non tratto con la borghesia» e presi l'ergastolo senza mai essere entrato in aula. Tacevo volutamente. Con gli anni è venuto a mancare questo sottofondo, la lotta armata si è indebolita. E adesso
cercano di darmi la veste muscolare o del tortuoso machiavellico, mi vogliono fare apparire o come una bestia sanguinaria o come uno che preferisce addossarsi tutte le colpe per coprire i veri mandanti. Sergio Calore, il pentito, quella specie di testimone di professione pagato da dodici anni adesso sta cercando di ridurre Ordine nuovo ad una semplice banda armata. Io non nego di essere il mandante dell'omicidio Cipriani ["ucciso in una rapina per procurarsi armi a Tivoli"] ma nego di esserlo stato insieme a Signorelli. Io non ho mai progettato attentati o stragi mentre Aleandri attribuendomi l'attentato al C.S.M. dimentica che ero in galera da due anni. Quanto ai rapporti con la criminalità organizzata io posso allearmi con uno come Vallanzasca ma non con la mafia. Io ho sempre lottato contro il potere. La mafia è sottopotere, è sudicia (sintesi dell'autore dai dispacci ANSA relativi all'udienza processuale del 6 dicembre 1988) . (38). L'anonimato è di rigore in questo tipo di ricerche accademiche ma non esistono dubbi sull'identità . (39). Maurizio Fiasco, "La simbiosi ambigua. Il neofascismo, i movimenti, la strategia delle stragi", in "Ideologie, movimenti, terrorismi", a cura di Raimondo Catanzaro, Bologna, il Mulino, 1990, p. 184 . (40). Ivi, p. 174 . (41). Giampiero Mughini, "Quella coscienza è proprio nera?", «Panorama», 9 maggio 1996 . BANDITI, TRAFFICANTI, FACCENDIERI . Ha militato per un paio di anni in Ordine nuovo, che l'ha distaccato come «osservatore» tra i bombaroli toscani, poi, per quasi vent'anni, abbandonata la militanza, ha vissuto nell'area grigia tra affari, traffici e servizi segreti. Il suo nome risulta, con Digilio e i fratelli Soffiati, tra quelli degli ordinovisti inseriti a pieno titolo nella rete spionistica della CIA, eppure ogni volta che torna alla ribalta per qualche inchiesta giudiziaria l'etichetta resta quella dell'ex-terrorista nero (1) . Parliamo di Marco Affatigato, lucchese, collaboratore della polizia. Dopo una breve cotta pannelliana si iscrive ad Alleanza nazionale, dove ritrova, tra gli altri protagonisti delle trame grigio-nere, il colonnello Spiazzi, fresco presidente di un circolo nazional-alleato. Un percorso lungo e faticoso, comunque, per il neofascista a mezzo servizio. A ventidue anni partecipa al furto di esplosivi in una cava di Arezzo che
costituisce l'arsenale del Fronte nazionale rivoluzionario (F.N.R.), la banda armata di Tuti, e subito dopo il duplice omicidio di Empoli ospita per qualche giorno il capo. Affatigato rivela una precoce vocazione per l'intrigo e il doppio gioco. Alla fine del 1975 incontra Clemente Graziani, latitante in Corsica, e gli consegna una dettagliata relazione sugli attentati compiuti in Toscana. Nel settembre successivo è arrestato a Lucca per ricostituzione del partito fascista (l'attività del F.N.R.) mentre il fiduciario toscano di O.N., Mauro Tomei, è catturato in Corsica e ben presto estradato. Le ammissioni sui finanziamenti massonici a Ordine nuovo non gli risparmiano una condanna a quattro anni. Ottenuta la libertà provvisoria, anima un bollettino di collegamento tra i «detenuti politici anticomunisti», «Azione Solidarietà», suscitando le ire di Tuti che ha il dente avvelenato perché Affatigato aveva venduto le sue nuove foto e un finto memoriale ai giornali: «Fin dalla pubblicazione dei primi numeri di 'Azione Solidarietà'», scrive il leader del F.N.R., «io ho provveduto a mettere in guardia contro le trame di quel gruppo e Affatigato, venuto a conoscenza del fatto, ha spedito a me e ad altri camerati una serie di lettere - peraltro senza avere il coraggio di firmarle - nelle quali passava dalle promesse di contributi finanziari, se avessimo assecondato le sue manovre, alle minacce e alle più basse insinuazioni nei nostri confronti» (2). Affatigato capisce l'antifona - l'articolo di Tuti inaugura una rubrica dedicata ai traditori da eliminare - e si mette al sicuro in Francia . Il suo nome torna alla ribalta dopo il disastro di Ustica quando sulla base di notizie fornite dal suo amico Marcello Soffiati, un altro ordinovista-spione, si cerca di costruire una pista secondo la quale Affatigato sarebbe morto nel disastro che aveva provocato trasportando esplosivo. Si scoprirà poi che era già stato inserito in una nota del SISDE del gennaio 1980, la quale apre una serie di segnalazioni (3) di Amos Spiazzi che si svilupperanno fino alla velina del 28 luglio 1980, il primo consistente «depistaggio» della strage di Bologna (che avviene sei giorni dopo). Immediatamente dopo la strage Affatigato è arrestato a Nizza ed estradato in un mese per scontare la condanna per il F.N.R. Nel corso di un'intervista televisiva tenterà di accreditare uno «scambio di spie»: lui sarebbe stato rimandato in Italia in cambio della consegna di Paul Durand (4), ufficiale dei "Renseignements généraux", gli Affari riservati francesi, fermato a Bologna il giorno dopo la strage. Di un
coinvolgimento dei servizi segreti francesi nella strage e nei successivi tentativi di depistaggio si tornerà a parlare a proposito del ruolo del capo dello SDECE (il servizio segreto civile francese), il generale De Maranche, nell'operazione «Terrore sui treni». I sostenitori - sempre più numerosi - di uno stretto legame tra il disastro di Ustica e la strage hanno delineato tra gli scenari possibili quello di una «rappresaglia» francese per la soffiata italiana che avrebbe fatto fallire l'attacco all'aereo di Gheddafi nel corso del quale sarebbe stato abbattuto il D.C. 9 dell'Itavia (5) . Il tentativo di coinvolgere Affatigato nella strage di Bologna dura lo spazio di un mattino. Il numero due del SISMI, il generale Musumeci, che per i depistaggi sulla strage si beccherà due condanne, tenta di tirarlo in mezzo con un identikit fasullo e un paio di segnalazioni in veline costruite assemblando particolari veri in un quadro fantasioso. Le protezioni del terrorista nero reggono. Lui si lamenterà: 'mi avevano commissionato un documento politico che rappresentava una situazione golpista che dava per scontata l'organizzazione di un movimento delle Forze armate di stampo veterordinovista, con proclami da fare subito dopo il golpe e strutture organizzate miste. Poi mi hanno usato per montare un polverone prima e dopo la strage'. Collabora con la magistratura: al p.m. di Bologna Libero Mancuso racconta che a Nizza era stato contattato dai servizi francesi, i quali, in cambio del permesso di soggiorno, gli avevano chiesto di diventare un confidente. Meno caloroso il rapporto con la CIA, che gli avrebbe proibito di mandare soldi a Ventura, l'imputato della strage di Milano scappato dal soggiorno obbligato e riparato in Argentina . Nel febbraio 1985 Affatigato è arrestato per una nuova inchiesta sugli attentati alle linee ferroviarie in Toscana. Ottiene ben presto gli arresti domiciliari, ma quando a dicembre il giudice Minna lo convoca per un altro interrogatorio telefona all'ANSA e annuncia: «signori, me ne vado». Ripara ancora una volta in Francia dove vive di piccole attività illegali. In un anno è arrestato due volte, per traffico di assegni falsi e per truffa e ricettazione di auto. Le richieste italiane di estradizione sono respinte in quanto di natura «politica», anche se uno degli ordini di carcerazione era per assegni a vuoto: immediatamente prima di scappare dall'Italia aveva «bidonato» un concessionario comprando due auto con assegni scoperti. Tre anni dopo, il salto di qualità improvviso, nel gennaio 1989: quando la procura di Massa Carrara spicca
settantadue ordini di cattura contro una banda internazionale che traffica armi, droga e titoli di credito falsificati, uno è per Affatigato. Lo coinvolge un francese arrestato a San Francisco mentre tenta di negoziare falsi titoli di credito. L'incidente non ha tolto allo «spione» lucchese la passione per i traffici. Nel 1994 ricompare sulla scena in Toscana: è tra i protagonisti, in nome e per conto di una cordata non meglio identificata, del tentativo di costituire un network televisivo di estrema destra. Di suo ha un ufficio tecnico-commerciale a Valence, in Francia, al servizio delle ambasciate dei Paesi africani e dell'Est, che vanta una nutrita rete di corrispondenti sparsi in tutto il mondo, un'attività che ha frequenti intrecci con i servizi segreti. Ma a spezzare i sogni di gloria di Affatigato è ancora una volta l'accoppiata dei giudici Lama e Manzione, che già avevano condotto l'inchiesta sulla triangolazione armidroga-titoli falsi. Su loro ordine la Guardia di finanza sequestra gli impianti di T.V. Studio Lucca (6) e Tiesse, per il cui acquisto il fratello di Affatigato, Rosolino, aveva già accreditato 800 milioni in una banca di Bruxelles. Poche settimane dopo Affatigato è arrestato per traffico di armi e rifiuta il confronto con i coimputati croati, dai quali si dichiara minacciato. Al processo, nel mese di giugno 1995, al quale compare in manette, il capo della DIGOS di Lucca e un sovrintendente confermano che già nel settembre '94 l'ex-«terrorista nero» aveva segnalato l'arrivo dell'esplosivo e che a dicembre era stata una sua precisa indicazione a far scoprire il deposito clandestino, dimostrando quello che da vent'anni affermano i tanti neofascisti oggetto dei suoi «sporchi giochi»: altro che terrorista nero, il lucchese è organico ai servizi segreti . L'inchiesta di Lucca ha comunque portato alla luce una intricata connection. Tra i trentasette arrestati per la triangolazione armi-drogatitoli di credito falsi spiccano un commercialista piacentino, console onorario della Guinea Bissau, due neofascisti toscani, titolari di una finanziaria, e Michele Cillari, capo della «famiglia» palermitana di Porta Nuova, con sette «soldati» di Trapani del clan Minore. Le indagini partono dal ritrovamento di armi e droga sul "Boustany I", un cargo proveniente da Beirut bloccato nel settembre 1987 a Bari. I diciotto marinai vengono scarcerati dopo pochi mesi. L'ufficiale di carico della nave avrebbe fornito alla terrorista libanese Aline Rizkhallah, bloccata a Linate il 20 ottobre 1988, le foto degli ostaggi della Jihad da consegnare a un trafficante evaso dalla Svizzera, che
dell'affare «Boustany» è l'indiscusso protagonista: Aldo Anghessa, quarantun anni, di origini siciliane, di nazionalità italo-svizzera, residente a Como. Condannato nel 1983 a quattro anni a Bellinzona per truffa nonostante il rapporto coi servizi segreti elvetici, Anghessa scappa durante un permesso. Collaboratore degli 007 italiani, è specializzato in «affari sporchi». Il blitz sul "Boustany I" nasce dal ritrovamento in un albergo di Bari della sua valigetta con documenti ultrariservati sulla Valsella (nel corso dell'inchiesta finiranno in galera il conte Borletti e il vertice aziendale della grande impresa, per essere poi tutti prosciolti). A bordo della nave è trovato un carico di armi e di droga. Il faccendiere si costituisce a La Spezia dichiarando ai giudici di essere un provocatore e di essere stato pilotato dai servizi per mantenere i contatti tra terroristi mediorientali e produttori di armi europei. Racconta infatti di una triangolazione tra il clan Minore di Trapani, gruppi mediorientali e Ordine nuovo (7). La banda - nella quale figurano altri neofascisti - ha compiuto negoziazioni per milioni di dollari, è intervenuta nella vendita di Mirage alla Guinea Bissau, spacciato dollari e promesse di pagamento false del governo indonesiano e certificati di credito di un'inesistente Canadian Credit Bank. Nella connection ha un ruolo rilevante il nuovo cassiere della mafia, Cillari, erede di Calò. Tra gli imputati spiccano i nomi, più noti per altre vicende, dei neofascisti Luca Poggiali e Vincenzo Fenili: si sarebbero recati in Germania con "promissory notes" false per acquistare un aereo, grazie alla copertura dei servizi segreti, ma Poggiali aveva il divieto di espatrio per una condanna per omicidio . E' la notte del 30 giugno del 1977, alla periferia di Firenze: un vigilante, Remo Pieroni, ventitré anni, è insospettito dai movimenti circospetti di un paio di giovani. Intima l'alt ma questi scappano, uno spara colpendolo a morte e così i due riescono a far perdere le tracce. Le indagini sono facili: per recarsi sul luogo della sparatoria hanno usato l'auto della madre di uno dei due, il dirigente del Fronte della gioventù Gaetano Sinatti. Il secondo uomo, autore dell'omicidio, è Luca Poggiali, anche lui vent'anni. Fermato dopo poche ore, confessa di aver sparato. Alla guida della vettura sarebbe stato il fratello di Gaetano, Umberto, ventun'anni, che sarà assolto al processo. L'inchiesta coinvolge la più acuta «testa pensante» della giovane destra, Marco Tarchi, segretario fiorentino del Fronte, vincitore quell'anno del plebiscito indetto tra i giovani missini per designare il successore di
Anderson, che dopo il congresso era uscito dal M.S.I. con la Destra popolare per raggiungere i transfughi di Democrazia nazionale. Ma in quegli anni cupi nel M.S.I. vigevano ancora meccanismi sanamente gerarchici: il segretario del partito, Almirante, preso atto della consultazione democratica della base, designa al vertice del Fronte un giovane meno brillante ma più affidabile, Gianfranco Fini. E' al coinvolgimento in questo episodio che probabilmente si riferisce Maurizio Murelli, altro leader storico della destra radicale, allorché - in un esplicito regolamento di conti - «avverte»: «nessuno (per esempio e tra le altre cose) della 'nuova destra' (a cominciare da Tarchi e dai tarchisti) è stato chiamato a rendere conto alle mammole della cultura omologata del senso di certe loro militanze e contiguità a tutt'oggi rimaste sconosciute» (8). Il GRECE, il «laboratorio» che ha prodotto la Nuova destra francese a cui si ispira Tarchi - ricorda Murelli - è stato fondato nel 1969 a Nizza da militanti della destra extraparlamentare, esponenti dell'O.A.S. che dopo lo scioglimento dell'«armata segreta» avevano aderito a "Ordre nouveau" e a "Europe action" (9). In ugual misura, un lungo tratto di strada di Tarchi è in comune con alcuni leader della destra radicale: la vacanza parigina da cui nasce «La voce della fogna» (10), il primo settimanale "underground" della destra, vede al suo fianco Carlo Terracciano (11). Agli inizi degli anni Ottanta la contiguità con gli ambienti del tradizionalismo rivoluzionario è ancora forte: Terracciano propone a Tarchi l'adesione all'Ordine dei ranghi, la conventicola mistico-politica promossa da Freda. Certo è che con l'inasprimento dello scontro e la deriva terroristica di ampi settori della destra radicale «un gruppo umano guidato proprio da Tarchi e che in seguito si autodefinirà Nuova destra intraprende un percorso possibile sfuggendo ai rigori della repressione perché, venuto meno il momento dell'estrema tensione sociale, il basso profilo (quando non perfino un vero e proprio imboscamento) ne ha consentito la sopravvivenza» (12), facendo rotta su più tranquilli porti. Poggiali, ex-avanguardista, è condannato a ventun anni di carcere, dove mantiene una condotta esemplare. Studia, fa il sacrestano, ha ottimi rapporti con il comandante delle guardie. Accede quindi a tutti i benefici della legge "Gozzini" e dopo una decina di anni è già fuori, perfettamente reinserito e socialmente riabilitato, essendo addirittura ammesso a collaborare con la rivista dello Stato maggiore della Difesa. La passione per la polemologia è condivisa dal suo coimputato Gaetano Sinatti, che in
carcere stringe rapporti con Vinciguerra e resta legato all'ambiente militante, curando volumi per le Edizioni Barbarossa di Murelli (con la firma Zero Target) e per l'Arnaud (sulla guerra del Golfo) . Fenili, pilota civile, tornerà alla ribalta nel novembre 1993, quando sarà arrestato per il progetto di assalto al centro di produzione RAI di Saxa Rubra, elaborato nei primi mesi dell'anno - quando più acuta era la crisi politica e istituzionale della Prima Repubblica - da una sgangherata banda di neofascisti, mercenari e trafficanti del sottobosco dei servizi segreti. L'inchiesta parte dalla registrazione di un colloquio tra un exmercenario in Congo, Renzo Pampalon (13), e due reclutatori, tra i quali un neofascista, poco più che trentenne, di origini meridionali, accompagnati da una bionda. Uno dei due si sarebbe presentato come parente di un importante politico, con appoggi in Vaticano. Pampalon, un Rambo padovano di quarantatré anni pieno di debiti, chiede un compenso spropositato (11 miliardi) per addestrare un centinaio di guerriglieri. La sua ingordigia fa fallire il progetto, che prevedeva per l'assalto a Saxa Rubra l'uso di due elicotteri sovietici importati come velivoli civili dalla Polonia e poi riarmati di nascosto. «Da mesi», denuncia un giornalista (14), «schegge dei servizi o sedicenti agenti dei servizi contattano o fanno contattare personaggi con simpatie fasciste, militari o ex-militari, faccendieri, inventando storie di presunti o ipotizzati golpe allo scopo di montare la tensione e distrarre la magistratura e l'opinione pubblica dai problemi reali. Storie come questa e quella di Donatella De Rosa facilitano il vero golpe». L'8 ottobre la procura di Trento smentisce l'inchiesta sul presunto tentativo di golpe che si accavalla con le vicende di «Lady Golpe», l'ormai famosa Donatella De Rosa, le cui fantasiose rivelazioni sui progetti golpisti animati dal suo amante «bianco», il generale Monticone, responsabile della Forza d'intervento rapido, portano alla sostituzione del vertice delle Forze armate . Nel novembre '93 sono arrestati Giovanni Marra, calabrese, Roberto Noé, ex-legionario di Cuneo, appartenente al Gruppo d'azione, Vincenzo Fenili, che gli investigatori definiscono «ex-avanguardista vicino ai neonazisti tedeschi», facendo cripticamente riferimento alla «missione tedesca» con Poggiali, e la sua compagna Marzia Petaccia, funzionaria del SISDE. Marra, ex-pilota dell'ATI, è considerato il promotore dell'iniziativa ed è accusato di traffico d'armi e cospirazione per compiere i reati di insurrezione, strage, sequestri di persona,
attentati. Nella sua agenda figurano alcuni appuntamenti con l'expresidente Cossiga, che non ha mai incontrato. Pampalon, interrogato in estate dal ROS e da un p.m. di Trento, si è intanto reso irreperibile. Nella primavera 1994 sono arrestati per cospirazione politica Marcello Perfili, il neofascista Ambrogio Tagliente, già coinvolto in Germania nell'attentato al deputato socialdemocratico Lafontaine, e un generale in pensione, Romolo Mangani, chiamato a rispondere dei contatti avuti con Tagliente per un ingente trasporto d'armi. E con Mangani, già responsabile del centro aereo di Martina Franca e perciò indagato per il disastro di Ustica, torniamo al centro di uno dei grandi misteri d'Italia. L'inchiesta si conclude nel marzo 1995, con otto richieste di rinvio a giudizio: Marra, Pampalon, Fenili, Noé, Tagliente, Mangani, Perfili e Leonida Tasca avrebbero cospirato per preparare un colpo di Stato che prevedeva l'occupazione "manu militari" di sedi istituzionali e del centro di produzione della RAI. Nel mese di novembre il giudice dell'udienza preliminare ha condannato a dieci mesi per cospirazione Roberto Noé, che ha chiesto il patteggiamento, e ha rinviato a giudizio quattro imputati: Pampalon, Tagliente e Henry Levy per «cospirazione mediante accordo», Fenili per favoreggiamento mentre ha prosciolto Mangani, Tasca e Marzia Petaccia. Per Marra, presunto leader del complotto, è stato deciso il giudizio immediato. Anche se è caduta l'accusa di traffico d'armi, il giudice ha ritenuto che le intenzioni dei congiurati fossero serissime, al di là dell'effettiva disponibilità dei mezzi idonei a eseguire il progetto. I «golpisti» prevedevano di occupare in sequenza RAI, Montecitorio, Palazzo Chigi e Palazzo Madama, usando elicotteri Taurus, missili balistici e bombe al neutrone. Incredibile la versione difensiva di Marra: era tutto un "bluff" per farsi bello agli occhi della sua fidanzata . NOTE . (1). E' successo anche quando la ribalta non era un'aula di giustizia ma il salone dell'hotel Ergife a Roma dove, ai primi di gennaio del '96, si è svolto il congresso dei club Pannella. Ben felice di poter fare un pezzo senza ricorrere alle solite pannellate, il cronista del «Corriere della Sera» è stato generoso. Ha omesso di ricordare che se il nostro era da sei mesi appena l'addetto stampa del club di Lucca è solo perché fino al mese prima era stato detenuto per traffico di armi, circostanza non
irrilevante per il militante di un'organizzazione che della non violenza fa una fede . (2). M. T., "Ecrasez l'infame", «Quex», n. 1, ottobre 1978 . (3). Nella prima velina - che contiene notizie sugli amici di Spiazzi ordinovisti rifugiati in Paraguay - si accosta provocatoriamente il nome di Delle Chiaie, che all'epoca viveva tra Parigi e la Bolivia, a quello di Affatigato. Un accostamento interessante visto che Affatigato e Soffiati, militanti a doppio servizio, racconteranno ai giudici che l'anno prima avevano progettato di ammazzare Delle Chiaie. La motivazione addotta è incredibile per due doppiogiochisti dichiarati: i rapporti tra «Caccola» e il Viminale. Nella velina del 26 febbraio - oltre a riferire dei movimenti del generale Nardella, un coimputato latitante - Spiazzi racconta la visita compiuta a Nizza dal suo confidente Soffiati, che va a trovare Affatigato con la sorella di Ventura, dopo aver contattato il leader lombardo di A.N. Marco Ballan per incontrare Delle Chiaie. Anche questa velina contiene una profetica anticipazione: si parla di un cittadino americano che da Montecarlo finanzierebbe neofascisti italiani. Un altro faccendiere, Elio Ciolini, individuerà nella superloggia segreta di Montecarlo, incrocio di P2 e Trilateral, la direzione strategica del terrorismo italiano nonché la mandante della strage di Bologna . (4). A un viaggio in Italia nel mese di luglio dello spione Durand, poliziotto e militante del FANE (Federazione d'azione nazionale ed europea, gruppetto neonazista capeggiato da Marc Fredriksen) è dedicato ampio spazio nella sentenza-ordinanza sulla strage di Bologna. Durand avrebbe girato mezza Italia e incontrato numerosi esponenti della destra extraparlamentare, lasciando abbondanti tracce dei contatti e degli spostamenti, ma il suo nome sarà usato per alcuni grossolani tentativi del SISMI di fabbricare una pista internazionale (confronta "La strage....", cit., p.p. 256-59) . (5). Philip Willan, "I burattinai. Stragi e complotti in Italia", Napoli, Pironti, 1987, p. 190 . (6). Proprietario della T.V. è Piero Angelini, per vent'anni "ras" della D.C. lucchese, plurinquisito (tra l'altro per fatture false e operazioni inesistenti con T.V. Studio Lucca, fallita nel marzo 1994). Tra gli altri soci figurano la famiglia Del Debbio (il cui rampollo Paolo è nel gruppo dirigente nazionale di Forza Italia), un Pulvirenti, catanese in Toscana, e l'ex-collettore di tangenti Silvano Larini, amico e collaboratore di Craxi .
(7). Un troncone dell'inchiesta si sviluppa a Salerno, dove il traffico fa capo a Francesco Antonio Fabbrocino, nipote del boss della camorra Mario, e nel quale risultano coinvolti professionisti e imprenditori, quasi tutti affiliati ai clan. Le «entrature» negli ambienti dell'estremismo palestinese e libanese non sono una spacconata di Anghessa come dimostra la consegna delle foto degli ostaggi in Libano. Un portavoce americano nell'occasione dichiara: un anno fa il faccendiere si presentò in un nostro consolato e si offrì di venderci notizie sui rapiti . (8). Con un metodo che richiama taluni depistaggi dei servizi segreti (l'errore apparentemente casuale come messaggio trasversale per chi deve capire) Murelli infila il nome di Umberto Sinatti - che dopo l'omicidio andò a chiedere aiuto a Tarchi, e che in seguito nulla ha fatto per godere di pubblica fama - nell'elenco dei più prestigiosi collaboratori delle riviste sulle quali il Tarchi rautiano aveva scritto: Pino Rauti, Rutilio Sermonti, Paolo Signorelli, Giulio Maceratini, Pietro Vassallo. Vale a dire il maggiore intellettuale cattolicotradizionalista, l'ex-segretario del M.S.I., un suo stretto collaboratore, l'attuale capogruppo al Senato di Alleanza nazionale, colui che, al di là delle sentenze giudiziarie, passerà alla storia come l'ideologo dei NAR. Dal punto di vista del metodo uno stile «mafioso», dal punto di vista della sostanza nulla da eccepire: perché Murelli ha ragione da vendere quando rinfaccia a Tarchi non il superamento né il rinnegamento ma l'opera di sistematica mistificazione e rimozione che il fondatore della Nuova destra fa sulle origini del movimento e sui suoi rapporti con la destra radicale: di aspra conflittualità, a suo dire, di aperta simbiosi per Murelli (confronta Maurizio Murelli, "Dal neonazismo al neointellettualismo", «Orion», n.s., a. 4, n. 9, settembre 1995) . (9). Il progetto di Jacques Buyas è di dar vita a una «mafia dura» (espressione grezza poi ingentilita da Alain de Benoist nella formula del «gramscismo di destra») per condizionare culturalmente la società a partire dagli ambienti universitari. Le posizioni anticristiane e neoceltiche della "Nouvelle droite" - che Tarchi ripudia - sarebbero un contributo di un intellettuale di origine liberale come Louis Rougier, mentre a lanciare Alain De Benoist come firma di punta nel barnum mediatico è stato l'editore liberale Raymond Bourgine «marcatamente filoamericano e filosionista» .
(10). Murelli sottolinea come l'"establishment" francese avesse interesse a costituire un fenomeno culturale di destra per controbilanciare il peso della cultura "gauchiste" e sessantottina e che lo sviluppo prodigioso della N.D. si è arrestato in Francia quando i militanti della destra radicale si sono resi conto che non si trattava di una scelta tattica ma di una scelta di vita e di carriera da parte del gruppo dirigente «parigino». Il legame con ambienti della destra liberale e massonica non hanno impedito a De Benoist di prodursi in alcune «performance» editoriali di rilievo: una monumentale opera apologetica dell'arte nazista (tre volumi firmati da Mortimer G. Davidson), uno speciale sugli ebrei denunciato per antisemitismo sul «revisionista» "Le choc du mois" (sempre sotto pseudonimo) . (11). Numerosi detenuti politici di destra (dallo stesso Murelli a Fabrizio Zani) collaborano alla rivista sotto pseudonimo. Il principale vignettista è Enrico Tomaselli, che rincontreremo come protagonista degli ultimi fuochi dei NAR. Il testo base delle scuole quadri di Terza posizione, "La conquista di Berlino" di Goebbels, è edito da A.R. con una prefazione del futuro leader della Nuova destra . (12). Carlo Terracciano è un intellettuale «sulfureo», di vasta cultura e roboante retorica, che la durezza dei tempi porta ad essere coinvolto in inchieste giudiziarie e a restare a lungo sotto osservazione per le sue presunte collusioni con l'area della lotta armata. Giovanissimo dirigente rautiano del F.D.G. di Firenze agli inizi degli anni Settanta, risulta tra i componenti del comitato di redazione di «Elementi». In occasione del processo a Ordine nero a Bologna entra in contatto con i militanti di quella che poi sarà la redazione di «Quex» (Naldi, Zani e Cogolli). Nel giugno '80 incontra lo «spione» Durand. Fedelissimo di Freda è investito della responsabilità esterna dell'Ordine dei ranghi per cui svolge un'intensa attività di proselitismo e della redazione di ADEL, la società di distribuzione libraria che dovrebbe assicurare la continuità e l'autonomia delle attività editoriali di A.R. L'O.D.R. è una «confraternita» la cui Regola è stata scritta in cella da Freda, un ordine più guerriero che monastico se si arriva a ipotizzare la «pena di morte» per i traditori. Terracciano è arrestato per costituzione di associazione sovversiva, sia per l'Ordine dei ranghi, sia per «Quex». Sconta circa un anno di carcere ed è sospeso dalla Biblioteca «Laurentiana» di Firenze dove lavorava. Rompe con Freda per gelosie verso il professor Sanfratello e il nucleo di Battipaglia e collabora con le riviste dell'area
nazional-comunista («Orion» e «Aurora»). Murelli gli molla la rogna di giustificare pubblicamente il riciclaggio dell'«infame» Ansaldi. Per le edizioni Barbarossa pubblica "La via imperialista del nazionalismo italiano", con E. Muller "Nazionalbolscevismo", e con G. Roletto ed E. Massi "Geopolitica fascista". Fa parte della delegazione di «Orion». ricevuta a Qom dagli ayatollah iraniani nell'aprile '94. E' tra i relatori al convegno del Fronte europeo di liberazione con Dughin, divulgatore del pensiero evoliano in Russia, tenuto a Milano nel giugno '94 . (13). All'uscita del carcere, dove ha terminato gli studi, Sinatti consegue il dottorato di ricerca in Storia antica alla «Normale» di Pisa ma per vivere gestisce l'azienda familiare della moglie, nelle Marche, che converte all'agricoltura biologica. Anche dopo la rottura con Vinciguerra - successiva alla decisione dell'ergastolano di trasformare il rapporto con i giudici in una piena collaborazione - continua a occuparsi dei meccanismi del dominio americano in Italia, curando uno striminzito bollettino del Centro ricerche e analisi . (14). L'inchiesta sull'assalto a Saxa Rubra non è per Pampalon l'unica rogna, né la principale. E' indagato a Siracusa per traffico d'armi mentre in estate un sostituto procuratore della pretura di Trento, Giuseppe Di Benedetto, lo interroga su una maxitruffa ai danni di banche del Nord Italia con il riciclaggio di assegni circolari rapinati al Banco di Napoli. Già nel '92 Pampalon era stato contattato da Aldo Anghessa, presentatosi come il dottor Campari, per un traffico d'armi e materiale nucleare dai Paesi dell'Est. L'incendio doloso che nel maggio '93 ha distrutto la sua scuola di sopravvivenza in Val di Ledro «Born to live» è da attribuire, per gli inquirenti, a un problema di insolvenza . (15). Il giornalista editore trentino Eugenio Pellegrin, consigliere della F.N.S.I. dall'86 al '91, candidato alle regionali del '93 per la Rete, presenta un esposto nell'estate '93. In seguito consegna la registrazione ambientale e conferma che in alternativa all'assalto a Saxa Rubra era in progetto una bomba N a Montecitorio mentre gruppi armati avrebbero controllato i ministeri . LA PIAZZA NERA, LA PIAZZA ROSSA . La sua traiettoria umana e politica era cominciata nella piazza più nera d'Italia, per approdare alla Piazza Rossa più famosa del mondo. Una vicenda resa ancora più interessante, se si tiene conto del fatto che Maurizio Murelli, 11 anni di galera per concorso dell'omicidio
dell'agente Marino, ucciso da una S.R.C.M. esplosa a un metro dal cuore nel corso di durissimi scontri per un corteo missino vietato nell'aprile 1973, è riuscito a evitare la trappola in cui sono caduti tanti suoi camerati. Molte figure di spicco dello squadrismo neofascista sono passati dalle violenze di piazza alla criminalità professionale, a volte attraverso la mediazione delle attività semillegali dei servizi segreti, a volte arruolandosi direttamente in bande e organizzazioni della malavita . Il caso più massiccio di reclutamento di massa si verifica a Milano nei primi anni Settanta (1). L'omicidio Marino non è soltanto un incidente di percorso: gli scontri duri, quel giorno, erano solo una tappa dell'escalation terroristica - dopo che il militante della Fenice Nico Azzi si era fatto scoppiare tra le mani l'innesco di un ordigno che sarebbe dovuto esplodere in un gabinetto del treno per portare al tentativo golpista «Operazione patria» con la partecipazione dei 1500 legionari dei Nuclei di difesa dello Stato. La «grande repressione» seguita all'uccisione del poliziotto determinò la fine dell'esperienza di San Babila, anche per il disincanto prodotto dal «tradimento» del M.S.I., che, travolto dalle polemiche sulle sue responsabilità, organizzò la delazione contro i colpevoli. Qualche sambabilino si arruolò nelle bande armate «nere», molti di più ingrossarono le fila della malavita. Paradossalmente tra questi c'è anche l'«infame» Gianluigi Radice, il segretario del Fronte della gioventù che la sera degli scontri aveva telefonato in questura per denunciare Vittorio Loi, e aveva poi incassato i cinque milioni di taglia offerti dal M.S.I. Radice era un picchiatore e bombarolo di tutto rispetto: nell'aprile 1971 era stato arrestato per gli scontri alla prima manifestazione della Maggioranza silenziosa, a novembre era sfuggito alla cattura nell'inchiesta contro il M.S.I. e poi nel successivo mese di febbraio in un blitz contro le SAM, le Squadre armate Mussolini (2). Rivelando una inquietante coazione a ripetere, negli anni Ottanta, Radice, divenuto elemento di spicco della mala milanese, è arrestato e si «pente», mandando in galera decine di complici . Il carcere è uno straordinario meccanismo di riproduzione allargata della criminalità e quindi molti militanti, che non erano già bravi ragazzi, finiti dietro le sbarre per lunghi periodi per reati politici, hanno compiuto il salto di qualità, «criminalizzandosi». Eppure la vicenda degli omicidi del poliziotto dimostra l'assenza di automatismi sociali
nella scelta criminale. Vittorio Loi, figlio del pugile Duilio, militante della Giovane Italia, faceva parte della buona borghesia: bel ragazzo, alto, corteggiato, aspetto curato, abbigliamento ricercato, sportivo (pugilato e calcio nelle giovanili dell'Inter), non esitava a mettere continuamente in mostra la durezza che gli era stata imposta come modello di vita dal fascistissimo padre, che aveva preteso che il figlio nascesse a Trieste . Vittorio era già stato arrestato per un pestaggio e «indagato» per un progetto di attentato contro il leader del Movimento studentesco, Mario Capanna. Murelli, appena diciannove anni, era invece di famiglia modesta - un padre portinaio - schivo e taciturno, per avere qualche lira in tasca si adattava a qualsiasi lavoro. Incastrati dalle confessioni di decine di camerati (ben 13 testimoni smentirono in dibattimento le dichiarazioni di innocenza di Loi) furono condannati rispettivamente a 23 e a 20 anni di reclusione. Sarà proprio il borghese Loi a farsi malandrino. Detenuto in regime di semilibertà, nel dicembre 1986, partecipa a una rapina in una gioielleria di Varazze, nella quale resta ferita la titolare: sarà condannato a quattro anni e mezzo. Il capo della banda è Enrico Caruso, un sambabilino arrestato a diciannove anni per un «delitto inutile», quello dello studente lavoratore Alberto Brasili, che passeggiava con la ragazza nei pressi della piazza, omicidio immortalato nel film di Lizzani "San Babila ore 20: un delitto inutile". Caruso, condannato a sedici anni e quattro mesi collabora al bollettino di «Solidarietà militante». Scrive a «Quex», la rivista dei detenuti nazionalpopolari, tra il risentito e l'accorato: «Avete rovinato tanti giovani». Quando esce dal carcere, per decorrenza termini, ci mette del suo, in quest'opera. Ottiene la semilibertà nel 1983 e per qualche anno fa il «doppio lavoro», fino a quando la sua banda (3), che aggrega numerosi neofascisti diventati «banditi» dopo lunghe detenzioni, è smascherata da un componente, Paggi, condannato all'ergastolo per l'uccisione di un gioielliere a Darfo, in Val Camonica. Il pentito ricostruisce 18 rapine. Così Caruso è costretto a riparare all'estero ed è condannato a 24 anni di carcere. Nell'agosto 1995 il capobanda e il pentito tornano alla ribalta, a distanza di pochi giorni. Paggi è arrestato a Milano, mentre fa un giro in motorino con il figlio: era ricercato da qualche giorno, dopo una rapina a un'agenzia di viaggi di Rimini, assaltata alla vigilia di Ferragosto. Il suo complice, Riccardo Pastore, un ex-brigatista rosso napoletano, è bloccato dai carabinieri, lui riesce a
dileguarsi con 20 milioni del bottino. I due erano in licenza premio dal carcere di Alessandria, riservato ai collaboratori di giustizia. Enrico Caruso, dopo una battaglia legale durata tre anni, è invece estradato da San Domingo (4) . Una colonia ben assortita, quella dei neofascisti italiani a San Domingo: secondo gli investigatori milanesi nell'isola dei Caraibi sarebbe riparata anche l'ultima primula nera dei NAR, il pluriergastolano Pasquale Belsito, l'unico mai arrestato. Una colonia che ha 25 anni di storia alle spalle e che è alimentata anche da non latitanti, come Massimiliano Taddeini, ex-capozona di T.P., disavventure giudiziarie a ripetizione (un arresto nel '92 per una rapina con omicidio, uno nel '93 per aver ospitato un latitante) e alla fine la decisione di svoltare, trasferendosi ai Caraibi. Il primo punto di riferimento, per gli esuli neri, è stato Carlo Alberto Guida, il ricchissimo chirurgo estetico, proprietario di una clinica nell'isola . Presidente alla metà degli anni Settanta del Centro Fiamma, il gruppo sportivo del M.S.I., ma amico di Delle Chiaie, Guida è tra gli animatori di Lotta popolare. A lui si rivolge un giovane missino di Balduina che ha perso i genitori e vuole investire l'eredità in una "fazenda": il medico gli affida soldi da consegnare a un camerata rifugiato nei Caraibi. Lo accompagna nel viaggio Pino De Luca, mazziere calabrese con la fama del «sòla»: deve cambiare aria perché Fioravanti e soci gli vogliono far pagare un bidone di cui si era vantato in giro. Infatti, al rientro in Italia, Alibrandi e Vale lo ammazzano, nel bagno di casa, il giorno del compleanno. Nell'isola si rifugia anche Guida, ricercato per banda armata. Il processo si concluderà con un'assoluzione e Guida tornerà per un breve periodo alla testa del Centro Fiamma, immediatamente prima che scoppi lo scandalo dei fondi sottratti dal presidente Giorgi . Niente fughe dorate invece per Murelli: liberato dopo un interrogatorio sommario, prima della soffiata che lo incastrerà definitivamente, si allontana da Milano in treno, arriva a Firenze ma, scaricato e senza appoggi, preferisce consegnarsi a una lunghissima detenzione. A differenza di tanti estremisti che hanno a lungo sofferto della crisi di abbandono dal M.S.I. (5), Murelli non ha rimpianti: «Giudicai il comportamento del M.S.I. vile e squallido, ma mi reputo responsabile di tutto quello che ho fatto. Sono scelte che io rivendico, e non rinnego nulla» (6). Nella dura esperienza dei carceri «speciali» tempra la scelta militante, tra i detenuti che teorizzano lo spontaneismo armato e danno
vita a «Quex». All'uscita del carcere gli ultimi fuochi di guerriglia si sono spenti e Murelli individua la sua missione di «uomo di milizia» nell'editoria: con il Centro culturale «Barbarossa» di Saluzzo (un gruppo di ex di Europa civiltà) dà vita alle omonime edizioni e poi alla rivista «Orion», che nel corso degli anni si consolida come polo di aggregazione dello spezzone della destra radicale che si richiama alla sinistra nazionalsocialista di Strasser. Il gruppo - dopo un breve flirt con i leghisti - trae nuova linfa dalla nascita dell'opposizione nazionalcomunista in Russia dopo il disfacimento dell'impero sovietico. Murelli, citando un sovietologo marxista come Strada, sottolinea con soddisfazione il dinamismo della nuova destra russa nel superare la contrapposizione antifascismo-anticomunismo che ha segnato il fronte della guerra civile europea (7): «Noi pensiamo», spiega Murelli, «che all'interno dell'evoluzione del pensiero comunista, che non è solo quello marxista, ma che ha tradizioni diverse e antichissime, e all'interno di quella che è stata la sintesi fascista di valori tradizionali e nazionali, ci siano i presupposti per ricostruire un'ipotesi politica, economica e sociale» (8) . La rivista tira duemila copie ed è lo snodo di un piccolo circuito editoriale, con un centro studi (che si definisce terminale del circuito Sinergie europee, il network internazionale dell'area nazionalbolscevica), un bollettino monografico, «Origini», un foglio di agitazione politica, «Aurora», dal taglio fortemente «socialista», la casa editrice Barbarossa e una libreria "fantasy" al centro di Milano, La bottega del fantastico, che dà anche da campare all'alter ego di Murelli, Marco Battarra. Al movimento - che ha qualche centinaio di simpatizzanti in tutt'Italia e che, per il primo periodo, usa la sigla di Fronte europeo di liberazione per le attività più apertamente politiche aderiscono alcuni dei più prestigiosi discepoli di Freda (in rotta da anni col «maestro»), da Claudio Mutti a Claudio Terracciano, e anche uno dei fondatori di Prima linea, che ha confessato l'omicidio del consigliere provinciale missino di Milano, Enrico Pedenovi: Chicco Galmozzi - dissociato dalla lotta armata ma non dal comunismo, ha pubblicato un volume sul dannunzianesimo (9). Un "melting pot" che consente a Murelli di affermare con orgoglio: «Tutti gli irriducibili, sia che provengano da destra che da sinistra, che siano pagani o fondamentalisti islamici, che siano cattolici vandeani o anarchici bestemmiatori di ogni dio, transitano per Orion» (10) e di denunciare
una crescente pressione poliziesca su chi - dai centri sociali dissidenti dal Leoncavallo a cittadini iraniani - trattiene rapporti con la rivista. Una repressione preannunziata, data per scontata da chi, 15 anni dopo, torna a rovesciare l'aforisma di von Clausewitz. «Quelli che vanno a fondare Sinergie europee» dichiarano apertamente che «la politica va intesa per quel che realmente è: la continuazione della guerra con altri mezzi» (11) e annunciano la ridiscesa in campo (12) in un processo di aggregazione su scala europea che richiama con forza l'esperienza degli anni Sessanta di Jean Thiriart, l'ex-Waffen S.S. teorico del «nazionalbolscevismo», che voleva costruire un partito europeo (armato) per la liberazione e l'unificazione del continente, da Brest a Vladivostock . Ed è proprio il professor Claudio Mutti - che di Giovane Europa fu dirigente - l'intellettuale di punta e il garante internazionale dello schieramento nazionalcomunista. Convertito all'Islam (13), animatore delle Edizioni all'Insegna del Veltro (80 volumi in catalogo più altri 500 di case editrici minori in distribuzione): cervello grosso e straordinaria cultura in un corpo da "troll". Specializzato in filologia ugro-finnica, Mutti si è visto stroncare una promettente carriera universitaria per le ripetute disavventure giudiziarie e ora insegna latino e greco al liceo. Profondo conoscitore del rumeno, dell'ungherese e dell'arabo, autore di decine di volumi, è il traduttore di Khomeini e di Gheddafi ma anche il «responsabile» del boom politico ed editoriale di Codreanu e della Guardia di ferro romena nell'Italia degli anni Settanta. A quattordici anni Mutti milita nella Giovane Italia e a diciassette è già espulso per estremismo. Nel '64 entra nell'organizzazione transnazionale di Thiriart. L'anno dopo Mutti è responsabile della sezione di Parma. Allo scioglimento dell'organizzazione, nel '68, è tra i fondatori dell'O.L.P., l'Organizzazione lotta di popolo, poi si mette in proprio: dà vita all'associazione Italia-Libia col ferrarese Claudio Orsi, nipote di Italo Balbo; anima i comitati pro Freda; garantisce la continuità delle Edizioni di A.R. Il primo arresto è nel maggio 1974: l'intestazione di un volantino di Ordine nero (che rivendica un attentato in una palazzina a Bologna) è in caratteri gotici come il logo dei suoi «Quaderni del Veltro». Cinque mesi di carcere poi il proscioglimento con lo strascico di un'accusa di favoreggiamento (amnistiato) per un bigliettino di Freda destinato a Giannettini e scoperto nel tacco di una sua scarpa. Il secondo arresto è nel maggio 1979, nell'inchiesta romana
su «Costruiamo l'azione». Dopo tre mesi di carcere è ancora prosciolto in istruttoria. Il terzo arresto è il 28 agosto 1980, con l'accusa di essere membro della «direzione strategica» dell'eversione nera (un teorema simmetrico e altrettanto infondato di quello che porta in galera i leader autonomi il 7 aprile 1979). Questa volta i mesi di carcere sono otto, con un solo interrogatorio e dieci giorni di sciopero della fame (14). L'esito dell'inchiesta è il solito: prosciolto per mancanza di indizi . Quando il presidente Cossiga chiede scusa all'onorevole Tatarella per aver definito una «strage fascista» l'attentato alla stazione di Bologna, gli scrive indignato: «Il suo 'pentimento', infatti, non mi ripaga né del periodo trascorso in prigione né degli altri danni collaterali - fastidi tutto sommato minimi, d'altronde, se paragonati a quanto dovettero subire alcuni miei coimputati: anni di carcere, latitanza, esilio, eliminazione fisica. Quello però che mi indigna è che Lei abbia rivolto le Sue scuse all'on. Tatarella, esponente di un partito che non ebbe per nulla soffrire, nelle persone dei propri militanti, delle conseguenze di quanto da Lei dichiarato in Senato» (15). La persecuzione giudiziaria non ha piegato la sua determinazione. Mutti continua a militare nei ranghi dell'area «rossobruna» che da trent'anni, sotto diverse formule e ipotesi organizzative, tenta la ricomposizione degli opposti estremismi in una nuova sintesi, «un polo analogo... a quello che in Russia aggrega comunisti e nazionalisti contro il governo filoamericano. In Italia dovrebbe trattarsi di un polo antagonista a quell'ideologia liberaldemocratica e occidentalista che egemonizza sia la destra sia la sinistra» (16). Il suo contributo originale a «Orion» è l'affermazione della centralità della geopolitica: i frequenti viaggi all'estero sono funzionali alla «visione imperiale» ereditata da Thiriart. L'obiettivo politico è sempre la liberazione dell'Europa. Nella fitta trama di rapporti internazionali (i «partigiani europei» dell'area franco-belga, i nazionalisti celti dalla Scozia alla Galizia) Mutti - mettendo a frutto la conoscenza delle lingue - si riserva i contatti con l'ex-impero sovietico e i Paesi islamici: l'opposizione russa unita nel Fronte di salvezza nazionale; il Movimento della Romania, erede della Guardia di ferro; gli ayatollah iraniani. Il professore è infaticabile: all'opera editoriale e all'insegnamento accompagna un'intensa attività pubblicistica. Non desti meraviglia il numero di «pezzi» pubblicati dall'«Umanità», quotidiano socialdemocratico: il direttore è Ugo Gaudenzi, già fondatore e dirigente dell'O.L.P .
Pochi sono i militanti della destra radicale che vent'anni dopo proseguono il loro impegno politico. Molti sono invece i «neri» che passano agli onori (e agli oneri) della cronaca nera. Murelli attribuisce alla contiguità fisica tra mazzieri e malavitosi a San Babila - ma anche alla «ricaduta a pioggia di una cattiva lettura dell'Evola di "Cavalcare la tigre"» (17) - l'irresistibile pulsione che ha spinto nei ranghi della «mala» tanti picchiatori e bombaroli, che in questo passaggio hanno conservato dell'antica militanza solo le vecchie reti di solidarietà e di reclutamento e lo spirito di cameratismo. Un campione, significativo pur nella sua arbitrarietà, dei possibili esiti della militanza missina nella Milano dei primi anni Settanta è dato dall'elenco degli imputati del processo per ricostituzione del partito fascista. Vi convivono terroristi che finiranno nella malavita (per lo più «infami», cioè «pentiti») come Ferorelli, Radice o Angelo Angeli, o carcerati di lungo corso come Giancarlo Rognoni, notabili inossidabili come Servello, brillanti dirigenti giovanili come Ignazio e Romano La Russa, figli d'arte che continueranno a fare politica a Montecitorio, mentre i loro leader faranno una cattiva riuscita. Franco Petronio, distrutto dall'alcool, Luciano Buonocore, bruciato dall'avventura della Maggioranza silenziosa, che lo costringerà a una lunga latitanza per il MAR di Fumagalli, per poi riapparire alla fine degli anni Novanta, a ritentare la carriera politica in Alleanza nazionale, come al solito da capopolo, alla testa del movimento «spontaneo» delle ronde di quartiere contro la microcriminalità e l'invasione degli «allogeni». Qualcuno rientrerà nei ranghi, qualcun altro continuerà a fare politica per passione, come il barone Staiti di Cuddia, che dopo essere stato eletto deputato avrà il coraggio di rimettersi in lizza, uscendo da un M.S.I. sclerotico e fossilizzato, per giocarsi le avventure della Lega nazional-popolare di Delle Chiaie e poi della Fiamma di Rauti, da cui è espulso per frazionismo con Tilgher per dare vita alla terza edizione del Fronte nazionale . Il percorso di Angelo Angeli, il «Bombardiere nero» delle SAM, è esemplare: dalla piazza nera ai «lavori sporchi» per i servizi segreti al traffico di stupefacenti. Accusato da Izzo e Pitarresi dello stupro di Franca Rame si dichiara innocente. Il «Bombardiere nero» scompare per alcuni anni. Nel 1976, quando è rinviato a giudizio per il M.S.I. milanese è ormai fuori dal giro: si dichiara rappresentante di commercio, ma la merce che gli dà da vivere è l'eroina. Lo arrestano il
20 giugno 1981, a ventotto anni, a un posto di blocco a Tortona: nella sua auto gli agenti trovano due pistole. Angeli è colpito da numerosi ordini di cattura per associazione a delinquere e spaccio di stupefacenti. Lo accompagna una guardia giurata. L'auto, una Mercedes targata Brescia, è grossolanamente «pezzottata». Qualche anno dopo Angeli torna alla ribalta per un banale fatto di cronaca: l'esplosione di una bombola di gas nel suo scantinato. Purtroppo, però, il crollo provocato dallo scoppio uccide una vicina di casa e così il vecchio «Bombardiere nero» torna in galera, per omicidio colposo e disastro. Qualcuno invece finisce ammazzato. E' il caso di Rodolfo Crovace, detto «Mammarosa», un "ras" di San Babila, imputato come organizzatore del «giovedì nero», arrestato nel 1977 per favoreggiamento: ospitava un evaso. Controlla lo spaccio dell'eroina a Lambrate, poi stringe rapporti con la mala romagnola: la sua banda conquista una quota consistente del mercato dell'eroina sulla Costa (e il SISDE cerca di tirarlo in mezzo a uno dei depistaggi sulla strage di Bologna) ed è a Rimini che «Mammarosa» finisce ammazzato in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine, nella seconda metà degli anni Ottanta. E' così anche per Riccardo Manfredi, detenuto a San Vittore, dell'area dello spontaneismo armato. All'uscita del carcere - secondo i pentiti - si sforza di praticare le idee professate: è accusato di aver ferito un passante in un conflitto a fuoco con i carabinieri alla stazione di Bologna, nel 1978, nel corso di attività riconducibili al cosiddetto Fronte carceri. Nuovamente arrestato, per reati comuni, non si arrende: durante una «traduzione» ferroviaria tenta la fuga, ma cade e muore . Come un bandito muore anche Salvatore Vivirito, avanguardista milanese che nel '73 si arruola nelle truppe golpiste. E' al fianco di Esposti nella fuga verso sud nel maggio del 1974 ma, la mattina dell'«esecuzione sommaria» del comandante di Ordine nero, Vivirito non c'è nell'accampamento di Pian del Rascino. Era rientrato a Milano per firmare il registro di sorveglianza. Sarebbe dovuto tornare subito giù, per partecipare all'attentato in programma a Roma il 2 giugno, in occasione della parata militare della festa della Repubblica, un'altra tappa, dopo la strage di Brescia, dell'escalation del terrore, dei preparativi del golpe. Arrestato, Vivirito riceve in carcere ordini di cattura per il MAR di Fumagalli e poi, nel novembre 1975, per la militanza in Avanguardia nazionale. Nel maggio 1977 è già libero: il 19 partecipa a una rapina in gioielleria a Milano, una città in stato
d'assedio (cinque giorni prima gli autonomi hanno ammazzato un poliziotto in scontri di piazza davanti al carcere di San Vittore). C'è un conflitto a fuoco con il titolare, il gioielliere muore, lui resta ferito all'addome. Il complice, un camerata, lo «parcheggia» nella casa di una dottoressa che gli può dare solo cure sommarie. Quando si decidono a portarlo in ospedale, il giorno dopo, è tardi. Un suo camerata di Ordine nero assicura che la rapina era andata a farla per finanziare la rete clandestina di A.N., nella quale era rientrato in carcere . Va meglio a Sergio Frittoli, esponente di punta della Giovine Italia e poi del Fronte della gioventù, arrestato nel '76 per rapine a mano armata in gioiellerie di Sanremo. Un altro militante risucchiato nella malavita dal carcere è Luigi Fraschini, uno degli attivisti del F.D.G. che partecipa alla rissa nella quale è ucciso a coltellate un militante del Partito comunista marxista-leninista, Gaetano Amoroso: è arrestato per concorso in omicidio (tra i suoi coimputati c'è anche «Gigi» Cavallini, il «vecchio» dello spontaneismo armato: aveva ventiquattro anni...). Una condanna a tredici anni ridotta in Appello a sette e all'inizio degli anni Ottanta Fraschini è libero. Si lega sentimentalmente alla sorella di un «comune» sardo, Nino Addis, che ha conosciuto in carcere e che si è trapiantato a Ostia, santuario del terrorismo nero (finirà nella banda della Magliana). Partecipano assieme a una rapina dei NAR, che sono allo sbando, decimati da arresti e da morti: l'unica attività ormai è il «salto del bancone». Qualche giorno dopo è arrestato uno degli ultimi «guerrieri senza sonno», Walter Sordi. Le sue confessioni sono un fiume in piena e travolgono una comunità militante che la durezza dello scontro ha trasformato in un «mucchio selvaggio». Anche Fraschini è arrestato, nell'autunno 1982: Sordi accusa lui e un altro condannato per l'omicidio Amoroso, Claudio Forcati, di due rapine. Fraschini si fa altri tre anni di carcere ed esce, con un nugolo di imputati, alla vigilia di Natale dell'85, per decorrenza dei termini. La Corte non è severa: lo condanna solo per partecipazione a banda armata e per la rapina romana, alla quale aveva partecipato anche il «superpentito», a poco più di cinque anni. Finirà di scontarli qualche anno dopo, quando lo cattura la squadra narcotici, per traffico internazionale di stupefacenti, attività che continua a svolgere, tra un arresto e l'altro . Per molti altri «ex» è facile la «ricaduta». Tra questi, un plurirecidivo, è uno dei «pischelli» del gruppo torinese a cavallo tra NAR e Terza posizione, Andrea Cosso. Avamposto ordinovista grazie al gran talento
organizzativo e attivistico di Salvatore Francia, dopo la maxinchiesta del '74 che vede processati una trentina di militanti per i campi paramilitari in Val Susa, Torino è una realtà periferica per la destra armata. Eppure finirà per pagare un tributo di sangue (tre militanti uccisi in conflitti a fuoco) assolutamente spropositato per l'entità del fenomeno. La prima vittima è Lucio Gasparella. Ventun'anni, figlio di un dirigente dell'Aeritalia, è ucciso il primo marzo 1981 mentre si addestra a sparare in un bosco vicino Rivoli. I carabinieri insospettiti dal fatto che una Ritmo si è inoltrata nel bosco nei pressi di un cimitero di auto rubate arrivano e intimano l'alt ai giovani che si apprestano a far fuoco su dei bersagli. Nella sparatoria successiva Gasparella, armato con una calibro 9, muore subito, Andrea De Stefanis - già arrestato nel 1979 per un raid a Casale Monferrato - riesce a scappare ma è arrestato dopo un rastrellamento durato ore. L'estremismo nero torinese era in fermento da qualche mese. Ricercato dopo la strage di Bologna e in fuga verso la Francia, uno dei leader di T.P., Gabriele Adinolfi, entra in contatto con un discusso militante, Mauro Ansaldi, già condannato per un attentato incendiario, ed emarginato dai «duri e puri» per la collaborazione processuale. Adinolfi non conosce tanti particolari: per lui Ansaldi - che è ben felice di riciclarsi - sarà il camerata che gli ha permesso di raggiungere la Francia attraverso il «varco di Ventimiglia». Così quando Fabrizio Zani e Jeanne Cogolli, in fuga da Bologna, devono scegliersi un posto un po' defilato come base - esclusi Roma e il Veneto, ingolfati di latitanti, e Milano, dove lui è conosciutissimo Torino, vicino alla frontiera con la Francia, diventa una scelta naturale e Ansaldi è il primo referente. Intorno a lui si aggregano una decina di rampolli della buona borghesia, con compiti di appoggio e di fiancheggiamento. Gli unici che forzando la mano a Zani compiono la scelta delle armi sono i leaderini del gruppo, Ansaldi e il suo alter ego, Paolo Stroppiana. Si «pentiranno» entrambi, in un batter di ciglia. I carabinieri sfiorano il colpo grosso. Sono i giorni dell'ondata di arresti per le confessioni di Sordi, un blitz annunciato da indiscrezioni di stampa (e infatti nessun clandestino sarà catturato): molti punti di appoggio sono saltati e parecchi latitanti ripiegano su Torino, dove il blitz scatta con un paio di giorni di ritardo. Preoccupati che nessun fiancheggiatore si è presentato all'appuntamento fissato, un latitante telefona a casa di Cosso e la madre candidamente li avverte: «No, Andrea non c'è, lo hanno arrestato i carabinieri». Pasquale Belsito,
ignaro di tutto, si reca al punto di ritrovo, lo zoo, ma chi lo aspetta non lo riconosce ma si fa riconoscere come poliziotto, e lui si allontana con calma. Non lo prenderanno più . Cosso con gli altri «pischelli» torinesi si fa qualche mese di carcere, poi viene liberato perché l'accusa di banda armata è derubricata in favoreggiamento. Esce indurito dall'esperienza penitenziaria. Dà vita a una piccola banda armata che ha appena il tempo di fare un paio di rapine per procurarsi armi. Al ritorno da Roma, la mattina del 24 marzo 1985, il gruppo incappa in un posto di blocco al casello autostradale di Alessandria. Li fermano per sbaglio: quel giorno è indetta una manifestazione nazionale degli autonomi contro la centrale nucleare di Trino Vercellese e sono previsti scontri. Il dispositivo di sicurezza delle forze dell'ordine è di filtrare gli accessi, con controlli sulle auto con giovani a bordo e targhe di altre città. Cosso è alla guida dell'auto: quando si accorge che i dati della sua patente stanno per essere passati al terminale cerca di giocare d'anticipo e impugna la pistola che si inceppa. La raffica di mitra che falcia l'auto fa una strage: due morti (Diego Macciò ed Enrico Ferrero) e due feriti (Cosso e Raffaella Furiozzi, fidanzata di Macciò, che si «pentirà» subito). Nella sparatoria è colpito anche l'agente che stava effettuando il controllo dei documenti. Cosso ferito a un braccio, impossibilitato a sparare, disperato urla ai poliziotti di farla finita: «Ora spara anche a me, qui in testa». Nell'auto trovano pistole, fucili a canne mozze e bombe a mano. Un giornalista gli attribuisce il soprannome di «Demente», i camerati scuotono la testa: per loro Cosso resta «Pinocchio», per i lineamenti tagliati con l'accetta e il modo di camminare a scatti. Al processo per banda armata (18) Cosso motiva le sue scelte con il rifiuto dell'inserimento nella società. Pur rendendosi conto che il programma di capovolgimento alle istituzioni era utopistico, il gruppo sperava con le sue azioni di coinvolgere i ragazzi di destra con la forza dell'esempio. Dei vent'anni di condanna accumulati in primo grado tra la sparatoria di Alessandria e l'associazione sovversiva finisce per scontarne solo otto (tra condoni, cumulo e sconti per buona condotta) ed è scarcerato nel giugno 1993. In carcere completa gli studi, laureandosi in Giurisprudenza, ma non cambia idea sull'inserimento nella società . Gli ultimi anni di carcere Cosso ha come compagno di cella uno dei quadri intermedi di T.P. e poi della banda Fioravanti, Dario Mariani, noto come «Cicalone», cioè 'cecato' per gli occhiali a fondo di bottiglia.
Vista corta ma lingua lunga, ai limiti dell'autolesionismo. Capozona di T.P. al quartiere Trieste, Mariani mette la casa delle zie, che è dietro l'angolo del liceo classico «Giulio Cesare», a disposizione del commando che attacca la polizia nel cortile del liceo. Quando è già in galera, la circostanza è riferita imprecisamente da qualche pentito, che parla di casa sua, che è nello stesso palazzo, ma che era inutilizzabile per la presenza della madre e della sorellina. Lui invece di puntare sulle incongruenze dell'accusa gli risolve il problema: «Guardate che era casa di mia zia...». E ai camerati che gli fanno un cazziatone al passeggio ribatte rassegnato: «Tanto lo avrebbero scoperto lo stesso...». Se la caverà con un'insufficienza di prove. Non così per l'omicidio Mangiameli. E' lui a dare l'appuntamento trappola a Ciccio. Gli si avvicina a Porta Pia in compagnia di Cristiano Fioravanti e gli dice che Valerio gli vuole parlare. Ciccio entra in auto: solo quando arrivano nella pineta si rende conto di essere caduto in trappola. Durante l'esecuzione «Cicalone» resta di guardia alle macchine e poi con Francesca Mambro aiuta a occultare il cadavere. La sera cenano insieme, un rito dal sapore antico per i giovani guerrieri metropolitani. E' arrestato qualche mese dopo a Milano: entra con una fotomodella nella base di via Washington, che era stata scoperta dopo l'omicidio del brigadiere nella carrozzeria di Lambrate. Non aveva rispettato le regole di sicurezza, telefonando per controllare che fosse tutto a posto. Cumula condanne per più di trenta anni (tra T.P., i NAR di Milano, le rapine con Vale e l'omicidio Mangiameli) ma, già formalmente scarcerato per decorrenza dei termini per l'omicidio Mangiameli, ottiene nel 1987 gli arresti domiciliari per una rapina, grazie a una provvidenziale anoressia . Alla fine di novembre scompare da Roma. Riappare il 4 maggio successivo, al valico del Monginevro, in tuta da jogging, mentre cerca di rientrare dalla Francia evitando il controllo dei doganieri. Si era rifugiato a Briançon. Lo bloccano dopo un tentativo atletico di fuga. E' accusato di due rapine con conflitto a fuoco per le perizie balistiche sulle pistole trovategli addosso: l'assalto a un furgone blindato sul raccordo anulare a gennaio e la banca del C.T.O. della Garbatella a marzo. Se la cava ancora una volta con un'assoluzione: l'evasione e il porto d'arma sarebbero comunque sufficienti per fargli decadere benefici e condoni. I giudici torinesi sono buoni e decidono di dargli un'altra possibilità: nel settembre 1994 Mariani ha il permesso di uscire
dal carcere per lavorare in un'impresa di pulizie di Grugliasco. Durerà tre mesi. La sera del 23 dicembre 1994 Andrea Cosso è fermato in pieno centro a Torino. Cappotto blu, sciarpa rossa, porta una sacca in mano. Gli intimano l'alt, accenna un sorriso poi tenta di estrarre una Walther P.P.K. che ha nella fondina, con il colpo in canna. Lo bloccano subito. Stavolta la sua reazione è molto più contenuta, un commento secco: «Che sfiga!». Nella borsa due Kalashnikov e un fucile sovietico a canne mozze. Lo pedinavano da quando era uscito dal carcere. I poliziotti si recano poi a casa di Mariani e lo bloccano. Nelle indagini successive sono catturati tre pregiudicati per rapine che gestivano un arsenale comune con i due irriducibili. Il presidente del tribunale di sorveglianza si giustifica: «A Mariani avevamo concesso una semilibertà particolarmente rigida: usciva dal carcere solo per andare a lavorare, e prima di dargliela, avevamo chiesto a polizia e carabinieri di tenerlo sempre sotto stretto controllo» (19). Evidentemente lo avevano fatto . Qualcuno, dopo una lunga militanza e qualche periodo di carcerazione, ha deciso «a freddo» il salto di qualità. E' il caso di Graziano Gubbini, nato a Gualdo Tadino nel 1949 ma residente a Ponte San Giovanni, la zona industriale di Perugia. Nel 1969 partecipa alla scuola quadri del M.S.I. al Terminillo, ma è l'indiscusso leader di un'attivissima cellula di Ordine nuovo. Sottufficiale di leva a Messina, nel giugno 1974 è arrestato per Ordine nero. In carcere riceve un ordine di cattura dal p.m. Occorsio per la ricostruzione di Ordine nuovo (20). Nelle more del processo si avvarrà di un clima nuovamente lassista dopo i furori della «grande repressione». Scarcerato, passa in clandestinità: a settembre partecipa al vertice dei Castelli romani per la fusione con Avanguardia nazionale ed è arrestato a via Sartorio, dove è appena arrivato, con gli avanguardisti Di Luia, Crescenzi, Vinciguerra e Tilgher, il 2 dicembre 1975: Vinciguerra sottolineerà velenosamente che era l'unico ordinovista, ma aveva appena litigato con Signorelli per questioni di soldi. Pochi mesi dopo è di nuovo libero e la cellula perugina si caratterizza per il suo impegno al fianco di Concutelli nella breve e violentissima stagione dei Gruppi di azione ordinovista (GAO). Lo affiancano i fratelli Castori, suoi coimputati per Ordine nero, Giuseppe Pieristé, Barbara Piccioli, che affitta il primo covo al rientro in Italia di Concutelli, a Ostia. Partecipano alla spartizione del bottino della rapina al ministero del Lavoro, ricevendo 40 milioni. Mentre i fratelli Castori e
la Piccioli sono arrestati dell'estate '76 nel primo blitz contro la rete logistica di Concutelli, Gubbini se la cava. L'ultima azione dei GAO, subito dopo l'arresto di Concutelli, è un tentativo di rapina a Ponte San Giovanni. Dopo le confessioni di Tisei, il vivandiere di Concutelli diventato «tossico» e malavitoso, Gubbini è arrestato. Si fa due anni e mezzo di carcere per banda armata e rapina ma alla fine dell'istruttoria del maxiprocesso «Ordine nuovo bis» torna libero. E' rinviato a giudizio solo per ricettazione (i quaranta milioni della rapina) e detenzione di armi. Vigna lo coinvolge nella terza inchiesta per l'omicidio Occorsio, senza esito. All'uscita del carcere Gubbini decide di mettersi in proprio. Grazie all'esperienza accumulata non ha difficoltà a diventare il «boss» della mala perugina, una realtà modesta. Di suo ci mette gli agganci con i «giri buoni», quelli che con l'estrema destra hanno sempre trafficato. Alla fine degli anni Ottanta è tirato dentro un'inchiesta per traffico di droga dalle rivelazioni di un camorrista «pentito», Gamberale, l'ex-vigile urbano che ha accusato l'onorevole Abbatangelo di aver fornito l'esplosivo per la strage di Natale. Gubbini l'avrebbe organizzato con il Gotha della criminalità nera: Pippo Calò, il suo vice Cercola, il boss napoletano (e neofascista) Peppe Misso e due mafiosi, Antonino De Simone e Vincenzo Briguglio. Così quando il capitano Giraudo lo contatta in carcere per chiederne la collaborazione, Gubbini è ben felice di offrire la sua consulenza . NOTE . (1). «Piazza San Babila», racconta Maurizio Murelli, «non era frequentata soltanto dai giovani di destra ma anche da malavitosi, ragazzi in cerca d'eroina, travestiti, semplici figli di papà e poi papponi, provocatori, poliziotti che fingevano di essere di destra ma in realtà erano delle spie [...]. Alla mattina e nel primo pomeriggio stazionavano soprattutto i più giovani, gli studenti. Di sera invece la piazza era frequentata da militanti politici più consumati che provenivano dai posti di lavoro. Ma arrivavano anche coloro che avevano abbattuto le soglie della legalità e si procuravano il denaro con ogni espediente. E poi c'erano i balordi, ossia i malavitosi che tentavano di rendersi utili ai fascisti [...]. Ecco spiegato il fatto che dal 1973 in poi, molti giovani abbandonarono la politica ed andarono ad ingrossare le fila della
malavita milanese» (confronta Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p.p. 78-79) . (2). Per una «notte dei fuochi», con attentati dinamitardi contro la Redazione dell'«Unità», un Sacrario partigiano e la base del Monumento di piazzale Loreto, erano stati rinviati a giudizio sei detenuti, tra cui Giancarlo Esposti (il capo di Ordine nero ucciso subito dopo la strage di Brescia), Angelo Angeli (reo confesso e accusatore) e Francesco Zaffoni; e due latitanti, Radice e Nestore Crocesi, un dirigente missino che sarà imputato come organizzatore degli scontri in cui muore l'agente Marino . (3). La banda utilizzava come base la carrozzeria di un pregiudicato legato all'Anonima sequestri, Cosimo Simone. Nel novembre 1980 «Gigi» Cavallini e Stefano Soderini dei NAR vi avevano ucciso un maresciallo dei carabinieri che aveva incautamente chiesto loro i documenti, nel corso di un sopralluogo contro l'Anonima sequestri . (4). A nulla è servito l'impegno della moglie, una benestante domenicana che gli ha dato due figli ed è giunta a pubblicare sulla prima pagina del maggiore quotidiano una lettera aperta al presidente della Repubblica nella quale sottolineava i meriti di Caruso, per l'attività di commerciante e di animatore di un club, nel rilancio dell'economia domenicana. Caruso deve scontare 27 anni di carcere . (5). Il processo stralcio contro i dirigenti del M.S.I. accusati di aver organizzato il «giovedì nero» si concluderà con un'assoluzione generalizzata, tra il tripudio degli imputati. Il «Secolo d'Italia» esalta l'imparzialità e l'equilibrio del presidente del tribunale, un pacato «signore» napoletano, il giudice Francesco Saverio Borrelli . (6). Michele Brambilla, "Interrogatorio alle destre", Milano, Rizzoli, 1994, p. 105 . (7). «La nuova destra russa, nella sua diramazione «tradizionalista» che si rifà a Evola e Guénon, di recente ha scoperto Marx: essa sta mutando il suo anticomunismo in una sorta di filocomunismo critico che col comunismo condivide un radicale antiliberalismo e antioccidentalismo e un progetto di rinascita nazionale russa, ma non sulla base di un angusto nazionalismo grande-russo o slavo, bensì su quella nuova unità imperiale di tutta l'area eurasiatica ex-sovietica ed ex-zarista» (confronta Maurizio Murelli, "Arzigogoli rococò di mezza estate", «Orion», n.s. a. 4, n. 10. La citazione di Strada è dal «Corriere della Sera» del 16 settembre 1995) .
(8). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 97 . (9). Confronta Enrico Galmozzi, "Il soggetto senza limite", Saluzzo, Barbarossa, 1995 . (10). Maurizio Murelli, "Irriducibili repressione è", «Orion», n.s., a. 4, n. 6, giugno 1995 . (11). "Si ricomincia", «Orion», n.s., a. 4, n. 9, settembre 1995 . (12). Ibidem: «Siamo qui, pronti a dannarci l'anima per rimettere in piedi una struttura politica operativa capace di disciplinare e articolare con senso l'agitazione pre-politica. Chiudere un circuito attorno a circoli, circoletti, gruppi e gruppetti. Nel pieno rispetto delle singole identità, certo, ma senza troppo transigere davanti a capricci e ridicole giustificazioni esistenziali. Si vuol dare uno sbocco continentale, una struttura culturale rivoluzionaria, una strategia e una tattica. Far ricircolare il gusto per la politica e per l'azione, far rifiorire l'orgoglio di dichiarare guerra al Nemico» . (13). Vedi qui il capitolo «Chiara, Valerio e lo scuro» . (14). Un opuscolo di suoi sostenitori lo definisce «prigioniero dello SIM» (lo «Stato imperialista delle multinazionali»: categoria politica lanciata dalle B.R. durante il sequestro Moro). Dà nome alla rivista - i «Quaderni di Rue Gay Lussac» - l'unica strada del Quartiere Latino dove ultrà neri fecero le barricate nel maggio '68 . (15). Claudio Mutti, "Lettera a Francesco Cossiga", Parma, 21 marzo 1991 . (16). Per Mutti, infatti, «non hanno alcun valore i termini della topografia democratico-parlamentare. Se ci riferiamo, ad esempio, agli schieramenti elettorali della provincia italiana, possiamo constatare che destra e sinistra sono volgari proiezioni pseudopolitiche di interessi economici: espressione di oligarchie finanziarie e usurocratiche la sedicente 'sinistra', espressione di egoismi borghesi la sedicente 'destra'. Sulle questioni principali, come l'indipendenza nazionale, nessuno ha niente da dire» (confronta Brambilla, "Interrogatorio...", cit., pp. 91-92) . (17). Maurizio Murelli, "Dal neonazismo al neointellettualismo", «Orion», n.s., a. 4, n. 9, settembre 1995 . (18). Per dare consistenza all'accusa di aver costituito un'organizzazione sovversiva, la polizia coinvolge nelle indagini i dirigenti di un circolo politico radicale, «Vento del Nord» (l'inno è assai truculento: «Bagnando il mitra in una pozza di sangue, si fece il
simbolo della rivoluzione. Siam la razza scelta, noi siamo pronti per vincere o morire. Non conosciamo paura o timore, ma moriremo con rabbia e cuore») che Cosso a stento conosceva e con cui non aveva rapporti perché li considerava «idioti» . (19). Brunella Giovara, "Andrea Cosso, il duro. Dario Mariani, il gregario", «La Stampa», 5 gennaio 1995 . (20). La vicenda processuale per la rifondazione di O.N. è contorta. Rinviato a giudizio come promotore è detenuto all'inizio del dibattimento, nell'autunno 1974. Il tribunale nel decidere il rinvio fino alla conclusione dei vari processi pendenti concede la libertà provvisoria ai detenuti «per la lunghezza della carcerazione preventiva». Resta in carcere per Ordine nero ma dopo qualche mese anche il giudice di Bologna concede la libertà provvisoria. Quando la Corte d'Appello accoglie il ricorso di Occorsio e riparte il processo per O.N., nel giugno '75, Gubbini si sottrae alla cattura. La sua conclusione - dopo anni di rinvii e di decisioni contraddittorie - sarà giuridicamente clamorosa: centoquattordici assoluzioni e diciannove giudizi sospesi (in prevalenza per i componenti della banda Concutelli). Gubbini sarà tra questi . UN GRANDE BUCO VERDE . Giovanni Ferorelli è un camerata pugliese che vive in una pensioncina di Milano. Lo chiamano «Trepunti» per una ferita malsuturata al volto, procurata in una rissa con i compagni. Durante una perquisizione gli trovano il documento di un «compagno» pestato alla Statale e lo denunciano per furto. Reato irrisorio, ma paragonabile al battito di ali della farfalla brasiliana che nel paradosso ecologista suscita l'uragano nel golfo del Tonchino: un giudice ne ordina l'arresto e apre un'inchiesta contro il M.S.I. per ricostituzione del partito fascista. E' l'autunno del 1971. Ferorelli si defila e entra nel giro «grosso» della mala. Riappare a Roma, nel febbraio '77: è con Paolo Bianchi, un rapinatore di Tivoli della banda Concutelli, e con Rossano Cochis, il braccio destro di Vallanzasca, che ha rapporti d'affari con i GAO. A un posto di blocco i due fascio-criminali si lasciano arrestare e permettono al «bandito» di scappare. In meno di una settimana le soffiate di Bianchi porteranno in galera i due capibanda. «Trepunti» partecipa al dibattito sullo spontaneismo armato a San Vittore e all'uscita del carcere mantiene i contatti con i militanti impegnati nel Soccorso nero
ma anche con i servizi segreti. Agli inizi degli anni Ottanta torna in Puglia ed è tra i fondatori della Sacra corona unita. Dopo l'arresto è uno dei principali «testimoni della Corona» al maxiprocesso contro l'ultima mafia e così se la cava con una condanna a 14 anni nonostante gravissime imputazioni. Per mantenere i benefici di «collaboratore della giustizia» deve continuare a «produrre» informazioni (1): racconta di traffici di armi tra mala e «neri», di supporti logistici offerti a terroristi palestinesi, del ruolo dei neofascisti. L'inchiesta non ha esito e così il povero «Trepunti» si trova costretto a raschiare il fondo del barile . E' l'inizio del 1994 quando Ferorelli ricostruisce le attività del Fronte carceri per organizzare l'evasione di Concutelli dall'Asinara: una rapina al calzaturificio dove lavorava Mario Guido Naldi, titolare della casella postale di «Quex» - la rivista dei detenuti di destra - un conflitto a fuoco con i carabinieri di un latitante (Riccardo Manfredi). Un progetto di fuga - megalomane per le modeste capacità della banda - opera di Ferorelli. Gran parte dei reati è prescritta, l'inquinamento delle prove, quindici anni dopo, è impossibile, i presunti complici sono socialmente reinseriti e non hanno intenzione di darsi alla fuga. La procura di Bologna non è dello stesso avviso e scattano le manette. Naldi è accusato di essere stato il basista della rapina compiuta, nell'aprile '79, da due giovani con l'accento romano. Naldi è stato tra i primi fermati dopo la strage di Bologna, per i rapporti con Luca De Orazi, un giovanissimo neofascista bolognese, che ancora minorenne si è trasferito a Roma e, interrogato sulla strage, si è incastrato da solo sulle rapine compiute nel giro dell'«autonomia nera». Anche Naldi, ventenne, di modestissime origini sociali, intimidito, fa ammissioni compromettenti sui rapporti con Terza posizione e sul «corteggiamento» dei suoi capi, Fiore e Adinolfi, per indurlo ad avviare l'attività combattente anche a Bologna (2). L'accusa userà un articolo (da lui siglato ma attribuito a Zani) nell'ultimo numero di «Quex» per dimostrare la matrice fascista della strage (3). Naldi, nel frattempo, è stato arrestato il 13 aprile 1981, subito dopo l'omicidio di Ermanno Buzzi, condannato in primo grado all'ergastolo per la strage di Brescia e strangolato nel carcere di Novara da Tuti e Concutelli come «pederasta e confidente dei carabinieri». Imputato di associazione sovversiva, Naldi sarà condannato a due anni (e assolto in appello) per istigazione a delinquere: Buzzi figurava nella lista nera degli «Infami da eliminare», rubrica "cult" di «Quex». I sospetti degli inquirenti cadono sulla rapina
di due anni prima, ma senza riscontri l'inchiesta ristagna, fino alle affabulazioni di Ferorelli che non sa neanche indicare gli autori del colpo . L'operazione contro i reduci del Fronte carceri porta alla luce un interessante reperto di archeologia neofascista. Passiamolo in rassegna, cominciando da Luca Donati (4), ordinovista di Arezzo, che per un semplice favoreggiamento si è fatto 4 anni di carcere preventivo. Andrea Ringozzi è un missino di Parma. Il 25 agosto 1972 fa parte della squadraccia che uccide a coltellate un operaio ventenne che milita in Lotta continua, Mariano Lupo (5). L'omicida, Edgardo Bonazzi, diviene in carcere il caporedattore di «Quex». Freda gli scrive: «Ho dovuto superare la nausea di predicare ai sordi. Questo significa che non ho intenzione di non predicare più, ma di cominciare a comandare trasformando il consenso sulla mia persona (cioè un sentimento) nell'obbedienza a decisioni che sarebbe improprio definire mie [...]. Non lascerò nulla di intentato, traducendo il sentimento del consenso in vincolo di disciplina per bonificare l'ambiente» (6). Appena liberato, Ringozzi bazzica per un po' nell'ambiente bolognese del Fronte carceri, poi si mette in affari, trafficando eroina. Quando il giudice Grassi e il p.m. Mancuso vanno a interrogarlo in carcere, su quelli che considera peccati veniali di gioventù, casca dalle nuvole: «Ufficiali dei Carabinieri ci garantivano l'impunità» (7) . Quando la DIGOS bussa alla porta di casa per arrestarla, Alessandra Codivilla, un medico bolognese quarantenne, perito legale del tribunale, non immagina certo che le si chieda conto dell'attività in favore dei detenuti di destra (8). Chi vuole il suo arresto, essendo la dottoressa ben nota nell'ambiente giudiziario, punta al suo tracollo, a una offerta di «collaborazione». Lei sa poco o nulla, ma per una comprensibile reazione di orgoglio si chiude a riccio e nega anche l'evidenza. Il giudice istruttore Grassi, schiacciato tra la solidarietà corporativa dei periti legali, che minacciano l'astensione a tempo indeterminato, e la stizza per arresti da lui «firmati» ma eseguiti senza che ne sapesse niente, dispone l'immediata scarcerazione degli imputati «visto il parere del p.m.» (che era negativo). Il bersaglio vero dell'operazione è Jeanne Cogolli, moglie dell'ergastolano Zani. Da mesi il capitano Giraudo è impegnato nel suo estenuante giro delle carceri, per contrattare la collaborazione di tutti i detenuti con trascorsi di destra: spacciatori,
mafiosi, sacristi, gangster urbani. Bonazzi è una delle sue «conquiste». Un lavorio denunciato da Signorelli e poi da Delle Chiaie e Tilgher (9) . In questa logica di caccia grossa erano finiti nel mirino anche la coppia Zani-Cogolli, ma la traiettoria politica e umana della donna era irriducibile al disegno poliziesco. Nata a Roma nell'immediato dopoguerra, la famiglia di Cogolli è una delle più note della «fascisteria» bolognese. Il padre è tra gli animatori del «Retaggio», un circolo tradizionalista vicino a O.N., il cui principale esponente, Luigi Falica, processato come ordinovista, è indicato da Vinciguerra come esponente della struttura stragista parastatale. Lei milita nella zona grigia dell'estrema destra, un piede nel partito, il cuore e la testa oltre. E' assolta nel processo contro il M.S.I. bolognese per ricostituzione del partito fascista. Qualche pentito le attribuisce una militanza nell'O.L.P., qualche altro rapporti con Fachini. In realtà si limita a distribuire «Costruiamo l'azione» - e sarà perciò denunciata per associazione sovversiva - ma il suo impegno prevalente è per i detenuti politici di destra. Bologna - bersaglio prediletto del terrorismo nero - è un santuario della repressione antifascista e Jeanne non si perde un'udienza del processo contro Ordine nero. Dal rapporto militante nasce l'amore per un detenuto, Fabrizio Zani, a sedici anni responsabile milanese degli studenti missini (e pupillo del leader della Giovine Italia, Ignazio La Russa), poi militante di A.N. E' espulso con molti altri nel febbraio '73, quando un gruppo di avanguardisti (tra cui D'Intino, Kim Borromeo, Agnellini e i fratelli Fadini) festeggia una scarcerazione facendo saltare la federazione bresciana del P.S.I. Per scongiurare la messa al bando, Tilgher chiude le sedi del Nord, ormai incontrollabili. La promessa di organizzare un serio addestramento militare non serve a tenere le briglie ai più scalmanati, che confluiscono in massa nel MAR, mentre i più «intransigenti» dottrinariamente, tra i quali Zani, danno vita a Ordine nero . Zani, addetto stampa della banda, finisce in carcere nell'autunno del '74 per una soffiata e vive un rapido processo di maturazione e di radicalizzazione politica: è tra i primi detenuti a denunciare il grottesco esito della militanza di tanti «camerati» convinti di lavorare per la rivoluzione nazional-popolare e che invece hanno, più o meno consapevolmente, svolto il ruolo di «guardia bianca» del gran capitale e della Repubblica democratica, arruolandosi nelle bande controllate dagli apparati di Stato o dalle opposte fazioni dei servizi segreti. E'
convinto di essere stato «infamato» da A.N. che non poteva tollerare il tentativo di rompere la rete di controllo costruita dai «gruppi storici subalterni al sistema» per ingabbiare le spinte rivoluzionarie. Delle Chiaie, vent'anni dopo, la racconta altrimenti: il massiccio reclutamento per il MAR svolta dall'avvocato Dagli Occhi lo aveva indotto a chiudere la sede e a espellere tutti i militanti passati al soldo dei «partigiani bianchi». La cosa ebbe anche strascichi bellicosi: con minacce a Dagli Occhi e il sequestro in Spagna del braccio destro di Fumagalli, Orlando, che il solito Vinciguerra avrebbe voluto giustiziare . Maledetto toscano, gran temperamento, Zani anima il dibattito sullo spontaneismo armato: cólto, buon lettore, rigoroso tradizionalista, trasfonde le teorie dell'ultimo Evola - il sovversivo di "Cavalcare la tigre" - nel culto anarchico dell'azione diretta, che ispira il suo nuovo progetto politico. A dargli la possibilità di metterlo in pratica c'è una clamorosa cantonata del tribunale di Bologna. Le «notti dei fuochi» che Ordine nero ha organizzato nella primavera 1974 per creare un clima da guerra civile, funzionale ai progetti golpisti di Fumagalli & C., sono ridotte a un'«insistita protesta in forma violenta» (10). All'uscita dal carcere Zani dà vita insieme a Jeanne Cogolli a «Quex». Sarà Tuti, dalle colonne della rivista, a sottolineare l'opportunità che l'improvvisa clemenza dello Stato offre al movimento: «Dopo gli arresti in massa di camerati avvenuti nel 1977, e le feroci condanne che hanno caratterizzato tanti processi, l'anno in corso si è aperto con una serie di sentenze assolutorie o che hanno notevolmente ridimensionato le imputazioni avanzate dalla pubblica accusa. Basti ricordare le sentenze ai due processoni di Roma contro Ordine nuovo, la sentenza al processo di Bologna contro Ordine nero e, in parte, le sentenza ai processi di Brescia contro il MAR e di Roma per il 'golpe Borghese', nei quali, pur essendovi state dure condanne, vi sono state molte assoluzioni [...]. Anche la polizia, presumibilmente per gli stessi 'ordini superiori', si è adeguata, abbandonando la tecnica dei 'rastrellamenti' nei confronti dei camerati [...]. Spetterà a noi fare in modo che questa tregua offertaci dal regime giochi a nostro favore e ci permetta di rafforzarci e riorganizzarci o meglio organizzarci, per riprendere la lotta e portarla avanti, questa volta fino in fondo» (11) . Gli obiettivi di Zani e Cogolli sono semplici ma ambiziosi: diffondere, anche con l'esempio, lo spontaneismo armato, distruggere tutte le
organizzazioni che quando non sono direttamente funzionali all'interesse del nemico costituiscono comunque un lacciuolo allo sviluppo delle potenzialità del movimento rivoluzionario (12). Non hanno timori reverenziali: il giudizio acido di Freda - «Zani è prezioso ma va staffilato» - non li intimidisce. All'autore della "Disintegrazione del sistema" riconoscono i meriti editoriali di A.R., ma contestano le compromissioni con i servizi segreti. Con A.N., il gruppo che ha coltivato le tensioni militariste di tanti camerati per poi abbandonarli a se stessi quando il gioco si era fatto duro e i duri avevano cominciato a giocare, i conti sono aperti. «Quex» e il documento "Posizione teorica per un'azione legionaria" sono i biglietti da visita per accreditarsi presso chi le armi le usa senza curarsi molto dell'elaborazione dei detenuti della vecchia guardia sullo spontaneismo armato. I «guerrieri senza sonno» rispettano Tuti e Concutelli, considerati gli antesignani della lotta armata, e hanno viscerale ribrezzo per tutto ciò che sa di politica. Per la generazione che ha rotto ogni cordone ombelicale ad Acca Larentia - dove camerati inermi sono stati massacrati da compagni e carabinieri - conta chi spara di più. Zani non si tira indietro, anche se non ha un particolare talento militare: il suo carattere stizzoso è un difetto grave per chi è cresciuto col mito dell'impersonalità, nel culto della mistica del guerriero ario, che nell'arte marziale non punta all'obiettivo pratico ma alla realizzazione interiore. E' arrestato a Roma, a bordo di un pulmino carico di armi, sotto la casa del sindaco Argan. Una provvidenziale anoressia - ma il solito Vinciguerra insinua malevolmente che il deperimento sia stato volontario - gli procura la libertà giusto in tempo per evitare un altro arresto per Terza posizione . Dopo l'esecuzione di Buzzi in carcere la coppia passa preventivamente in clandestinità, anticipando il mandato di cattura, e dopo qualche mese a Roma si stabilisce a Torino, dove tenta di dare vita a un'aggregazione autonoma, a metà tra politica e combattimento, reclutando militanti nell'area a cavallo tra NAR e T.P. Jeanne non partecipa alle azioni armate ma è considerata per impegno politico, rigore morale, stile di vita ascetico e dedizione alla causa una militante a pieno titolo dai camerati, che però si «incazzano» quando lei si presenta nel corso di una rapina a un gioielliere per chiedere notizie di Fabrizio e l'uomo di «copertura» la manda garbatamente a quel paese. In occasione di ogni spartizione lei ha un chiodo fisso e batte cassa per i detenuti. L'unica attività «politica» è l'esercizio della vendetta, poi rapine a decine, per
garantire la costosissima sopravvivenza di una dozzina di superlatitanti. Così in un paio di anni Zani - che pur non uccide nessuno - si guadagna sul campo due ergastoli: il primo è per la sparatoria di piazza Irnerio, un conflitto a fuoco sull'Aurelia dopo una rapina in banca, nella quale perde la vita un giovanissimo passante ed è gravemente ferita Francesca Mambro (13). Il secondo episodio, nel giugno 1982, è l'esecuzione di Mauro Mennucci, il camerata di Pisa che aveva «soffiato» alla polizia l'indirizzo di Tuti in Costa Azzurra, citando poi in giudizio il Viminale per i 30 milioni di taglia non corrisposti. Zani si è sempre proclamato innocente, ma per condannarlo è bastata la parola del superpentito Sordi, che riferisce confidenze di presunti componenti del commando: Zani avrebbe guidato l'auto (era l'unico a conoscere Pisa) mentre a sparare sarebbe stato Pasquale Belsito. L'ultima azione per Zani è una rapina in banca, quando già è crollata la rete d'appoggio per le confessioni di Sordi. Intima il rituale «fermi tutti» ma il cassiere non lo prende sul serio e lui, furibondo, lancia una granata ferendo tre presenti. E' arrestato qualche mese dopo, quando con Jeanne rientra in Italia dalla Francia, per un ultimo tentativo di rilanciare il movimento . In carcere avviano un lungo percorso di fuga dalla destra radicale: la prima tappa è la rottura con il tradizionalismo evoliano, il secondo passaggio è la scoperta dell'ecologia, la prima sintesi nuova è il nazionalismo etnico, l'esito finale è l'adesione al bioregionalismo, una scuola «radicale» americana che ha anticipato molti temi del «fondamentalismo verde», esperienza che si sostanzia nella bella fanzine «Frontiere». Jeanne in carcere a Voghera fraternizza con militanti dell'altra sponda, senza opportunismi né abiure. L'unica cosa che i due mantengono ferma - della vecchia militanza - è l'adesione alla massima nietzschiana «Chi rinnega una volta non è più buono per niente». La rottura con il neofascismo non diventa mai adesione alle «magnifiche sorti e progressive» della democrazia. Così, con macabro umorismo, Zani scrive al «Vernacoliere», rivista satirica di Livorno specializzata nel dileggio dei pisani, chiedendo un abbonamento gratuito perché, in fondo, «era un ergastolano livornese condannato per aver ucciso un pisano». La rivista gli concede l'abbonamento e pubblica la lettera in prima pagina, commentando: «se l'è vero, l'è un gran buho di hulo». Zani non è indotto in tentazione neanche da quella che considera una beffarda persecuzione delle procure della Repubblica più impegnate nelle inchieste contro le stragi nere (Brescia, Bologna,
Firenze). Si trova, lui che della «guerra» alla «guardia bianca» e agli «agenti doppi» aveva fatto un'ossessiva ragione di vita, imputato per gli attentati ai treni in Toscana nel 1974-'75 insieme al confidente del SID Cauchi e a Gelli, per le confessioni di un pentito, Andrea Brogi, che al termine dell'iter processuale sarà l'unico condannato per strage (14). Zani deve subire l'insulto del giudice di Brescia che, appena depositata la sentenza-ordinanza per l'ultimo gruppo di inquisiti, tra i quali c'è anche Zani, dichiara in un'intervista a «Famiglia cristiana» e poi in televisione, alla vigilia dell'anniversario della strage, che lui ha dovuto proscioglierli per le risultanze processuali, ma che comunque storicamente e politicamente i colpevoli sono i milanesi a cavallo tra Ordine nero, MAR e A.N. Le indagini della strage si erano indirizzate subito su un leader del gruppo, Cesare Ferri, che era stato fermato mentre era in compagnia di due avanguardisti - il giorno dopo l'uccisione di Esposti a Pian del Rascino. Nelle tasche del leader di Ordine nero erano infatti state trovate due foto di Ferri. Il fermo di polizia si era concluso senza conseguenze (15) . A rilanciare la pista Ferri per la strage di Brescia ci pensa qualche anno dopo una vecchia conoscenza del terrorismo milanese, Alessandro «Billo» Danieletti, in gioventù uno dei tanti soldatini «neri» del partito del golpe, nella maturità tossicomane e trafficante di stupefacenti, infine «pentito» (16). Arrestato nell'autunno del 1985, «Billo» ricostruisce con i giudici, a modo suo, le vicende dell'eversione nera alle quali aveva partecipato: Ferri, accusato di essere l'autore materiale della strage di Brescia, nonostante l'alibi già verificato nella prima istruttoria si deve fare quasi quattro anni di carcere prima dell'assoluzione. La Corte di Strasburgo condannerà perciò la giustizia italiana. Danieletti coinvolge anche Zani: gli avrebbe confidato che doveva essere lui ad accompagnare Ferri a Brescia quella mattina. Un falso evidente: il giorno della strage - c'è già una sentenza - Ferri era rimasto a Milano alla Statale, ma il fascicolo contro Zani, Marilisa Macchi (la moglie separata di Ferri) e qualche altro resta inutilmente aperto per qualche anno. L'ostinazione di un manipolo di magistrati ha qualche motivo: sono convinti che Zani sappia chi ha messo la bomba a piazza della Loggia. Ad accusarlo è Vinciguerra, che non ha mai esitato a regolare i conti con i «nemici politici» con un uso sapiente delle rivelazioni: «Racconta ad esempio», scrive nell'autobiografia, «che gli autori della strage di piazza della Loggia, a Brescia, hanno rilasciato
una dichiarazione scritta e firmata a Mario Tuti sulla loro responsabilità nell'episodio» (17) . Quando scatta l'operazione giudiziaria per le rivelazioni di Ferorelli, Zani è detenuto a Spoleto: nonostante l'irrilevanza delle accuse rispetto alla sua posizione giudiziaria (Zani si è già visto riconoscere la continuazione tra Ordine nero, NAR e omicidio Mennucci e quindi pagherebbe la rapina con uno o due mesi di carcere da sommare a due ergastoli e più di trent'anni di reclusione) i magistrati ordinano l'isolamento. Anche l'arresto della moglie rivela un incomprensibile accanimento, che fa pensare a un «lavorio ai fianchi» per indurlo a collaborare: i reati contestati alla donna sono già prescritti e poi Cogolli non era scappata neanche quando era diventata definitiva la condanna per i NAR (banda armata e concorso in rapina). Aveva risparmiato il carcere solo per un sopravvenuto condono e la concessione del cumulo della pena per T.P. Giraudo ci prova comunque: la invita a convincere Zani a raccontare quello che sa sulle stragi. La risposta di Jeanne è sdegnata: «Se solo sapessi che mio marito ne sa qualcosa, lo lascerei il giorno stesso» . Anche dopo la scarcerazione la procura non si arrende, e sospende i colloqui tra i due coimputati. Le cose non vanno comunque mica male per Zani: lavora nella tipografia del carcere per conto di una casa editrice d'area ecologista, che gli dovrebbe anche garantire l'accesso al «lavoro esterno» e a fine giugno si laurea brillantemente in Scienze politiche e per la prima volta dopo undici anni, grazie all'ostinazione del consiglio di facoltà che si rifiuta di discutere la tesi in carcere, «esce», sotto nutrita scorta. Ha completato il percorso di osservazione e, con il sostegno del direttore e degli operatori sociali, può accedere ai benefici della legge "Gozzini". Il giudice di sorveglianza gli concede la prima licenza premio per la laurea, ma qualche giorno prima del permesso arriva la mazzata: un improvviso trasferimento al supercarcere di Carinola, nel Casertano, provvedimento che interrompe l'iter del reinserimento, sottoponendo il detenuto al giudizio dell'ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. La richiesta - filtrano indiscrezioni dal ministero - è opera della procura di Bologna. Zani non ci sta e comincia lo sciopero della fame a oltranza: 'o mi riportate a Spoleto' - chiede - 'o la faccio finita'. Solo la massiccia mobilitazione di numerosi parlamentari, dal verde Ronchi al vicepresidente del Senato Maceratini, interrompe il gioco al massacro. Comunque pubblicata la
tesi (18), Zani è ammesso al lavoro esterno. In un ufficetto messo a disposizione a Spoleto da un'organizzazione cattolica fa il grafico editoriale per la maggiore casa editrice della New Age, impegnatissimo nella diffusione del pensiero bioregionalista. Quando ottiene la semilibertà si trasferisce a Cesena, sede della casa editrice, dove dà vita a un periodico d'area verde, con la sua nuova compagna. Il rapporto con la Cogolli, che aveva superato tante prove durissime, evidentemente non ha retto al logorio della vita quotidiana . NOTE . (1). Dieci anni dopo filtrano clamorose indiscrezioni: un «pentito nero» detenuto in un carcere pugliese - è il lancio di un'agenzia di stampa - sta ricostruendo con i giudici le vicende di un'organizzazione terroristica nella quale militavano neofascisti, uomini dei servizi e frange dell'estremismo palestinese. Gli inquirenti turano la falla ma qualche settimana dopo escono nuovi particolari: è Ferorelli la gola profonda. Probabilmente ricicla singoli episodi dei quali è stato partecipe - la Puglia è l'avamposto dei traffici illegali con il Vicino Oriente - o semplicemente a conoscenza, grazie al ruolo di informatore dei servizi ma il contesto è improbabile . (2). Naldi rimangerà le ammissioni in dibattimento: in questa sede sostiene che, sentendosi provocato, aveva fatto il provocatore. La sua era una tattica estrema per fare emergere la malafede e la predeterminazione persecutoria della magistratura . (3). «I camerati non hanno sicuramente niente a che fare [...]. E' stata come una valanga che si è abbattuta su di noi e che ha travolto il lavoro di almeno tre anni [...]. 'Quex', a voce alta, affinché tutti possano sentire chiede che vengano isolati coloro che dello stragismo hanno fatto veicolo e prassi finalizzati allo smantellamento del movimento [...]. Nell'attesa di avere tra le mani colui o coloro che hanno ideato e compiuto questo gesto bastardo, è intanto necessario che tutti si impegnino nell'opera di individuazione degli agenti provocatori che sono fra di noi, identificabili forse con gli sciacalli che hanno sempre cercato di controllare l'attività dei camerati» (confronta M.G.N., "Parole chiare", «Quex», n. 5, marzo 1981) . (4). Donati è arrestato a diciannove anni per aver favorito la fuga all'estero di Cauchi ma sarà assolto con formula piena, nei processi contro il Fronte nazionale rivoluzionario e contro Ordine nero .
(5). Scappa con un complice, consigliere comunale missino di Torre Annunziata: i due sono arrestati qualche giorno dopo nel popoloso centro campano. Il M.S.I. li espelle, retrodatando il provvedimento di qualche giorno. E' condannato a 6 anni e 10 mesi di carcere . (6). Marco Nozza, "«Quex»: spontaneismo o progetto nazionalrivoluzionario", in "Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta", «Notiziario dell'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia», n. 23, giugno 1983, p. 274 . (7). "Ci avevano garantito l'impunità totale", «la Repubblica', ed. di Bologna, 9 febbraio 1994 . (8). Alessandra Codivilla aveva militato da ragazzina nella Giovane Italia, dove era stata reclutata da Jeanne Cogolli, la compagna di Zani, e così l'aveva sostenuta nell'impegno del Soccorso nero. Quando Zani era uscito dal carcere, per amicizia, aveva ospitato la coppia senza nessun coinvolgimento nel successivo passaggio alle armi. Se l'era cavata con una denuncia per associazione sovversiva - e un successivo proscioglimento - per «Quex» e considerava chiusa da tempo la vicenda . (9). «Da circa un anno e mezzo», rilanciano l'accusa Delle Chiaie e Tilgher, «si hanno sempre più notizie, nel variegato mondo della cosiddetta 'destra', dell'attività di un capitano dei carabinieri dei ROS, tal Massimo Giraudo. Costui che non fa mistero della sua identità, né del suo grado e funzione, afferma di essere impegnato nella lotta all'eversione e in particolare, alla soluzione del più criminale dei misteri italiani: lo stragismo. Sembra che goda di poteri eccezionali e straordinari quali, ad esempio, quello di avere libero accesso in tutte le carceri d'Italia. Ed è proprio dai detenuti politici (di destra) che, come lui stesso afferma, è iniziata la sua indagine per scoprire i responsabili delle stragi. La teoria seguita sarebbe più o meno questa: tra i detenuti a lunga pena c'è forse qualcuno che sa e che avrebbe bisogno e interesse a liberarsi del 'fardello'. Così ha avvicinato molti, forse tutti, i detenuti condannati a forti pene e anche altri che già avevano scontato lunghe detenzioni; alcuni di questi ultimi, a suo dire, sono stati avvicinati su 'consiglio' di quelli ancora detenuti. Una particolare attenzione sembra sia stata dedicata a quanti, in difficoltà a ritrovare una collocazione civile dopo il tunnel degli anni di piombo, sono caduti nella tentazione di reati comuni subendo, per questo, pesanti condanne» (confronta
Stefano Delle Chiaie - Adriano Tilgher, "Il meccanismo diabolico. Stragi, servizi segreti, magistrati", Roma, Publicondor, 1994, p. 276) . (10). Tra gli assolti l'intero nucleo di appoggio di Esposti (Vivirito, Danieletti e D'Intino), il responsabile milanese di A.N. Mario Di Giovanni, oggi dirigente di Forza nuova, il leader sambabilino Cesare Ferri. Solo cinque i condannati, e a pene mitissime (e inferiori alla carcerazione preventiva): i capi dei tre nuclei Zani (Lombardia), Cauchi (Toscana), Benardelli (Abruzzo-Marche), Petrone, arrestato in flagrante e il «pentito» "ante litteram" Brogi (confronta Flamini, "Il Partito...", cit., vol. 4, 2, p. 520) . (11). Con questa lunga citazione (da «Quex», n. 1, ottobre 1978) si conclude, maliziosamente, la straordinaria fatica del giornalista Gianni Flamini che, in quattro volumi e sei tomi, ha ricostruito le vicende del «partito del golpe». Nelle numerose ricerche sul «vissuto» dei terroristi della successiva generazione, nessuno però ha indicato la sensazione di impunità come molla decisiva nella scelta delle armi . (12). «Il fascismo muore e si spegne», scrive Zani in "Posizione teorica per un'azione legionaria", ciclostilato anonimo, senza data, «là dove lo spirito legionario lascia il posto alla pratica del potere [...]. Spezzare con un'azione spontanea e costante ogni gerarchia sclerotizzatasi [...]. Attestarsi con gruppi di minima entità, non ricercare l'allargamento dei gruppi spontanei, almeno non oltre quel limite che permette un'azione incisiva e soprattutto agile, immediata [...]. Tenere presente sempre che le gerarchie nascono sul campo e non a tavolino [...]. Il sistema è da distruggere [...] l'azione esemplare è il solo fatto trascinante, il solo modo praticabile per un'avanguardia che voglia porsi come punto di riferimento per un movimento che sia o debba essere riportato a posizioni rivoluzionarie» . (13). Il responsabile della morte dello studente Alessandro Caravillani è il leader del FUAN di Trieste, Livio Lai, anche lui clandestino. Sarà tra i leader della «dissociazione» a Rebibbia e così pagherà l'omicidio - e altre rapine - con una condanna complessiva a 22 anni: per Zani e Nistri, che non partecipano al conflitto a fuoco omicida ma si rifiutano di abiurare, è invece l'ergastolo . (14). Un pentito "sui generis" Brogi. Improvvisamente, nell'aprile 1976, si presenta davanti al giudice: le sue confessioni «spontanee» incastrano alcuni camerati e pur rendendo obbligatorio l'arresto gli assicurano un giudizio benevolo sulla pericolosità sociale, foriero di successivi
benefici penitenziari e giudiziari. Sui suoi contatti con un capitano dei parà di Pisa, che puzzano di collaborazione con l'apparato di sicurezza NATO, nessuno indaga . (15). Un mese dopo un parroco bresciano si ricorda di avere riconosciuto, nella foto pubblicata sul giornale dopo il fermo, il giovane che aveva «visitato» la sua chiesa la mattina della strage, ma Ferri è già partito per le «vacanze». Tornerà a settembre, si presenterà spontaneamente al magistrato e il parroco lo riconosce lo stesso anche se, nel frattempo, Ferri si è tagliato barba, baffi e capelli. Se la cava presentando un alibi estremamente circostanziato: quella mattina era alla Statale e l'hanno visto parecchie persone . (16). A vent'anni, nel marzo 1974, Danieletti aveva partecipato, con un minorenne evaso dal «Beccaria», Marco Pastori, all'omicidio di un guardone a Parco Lambro, dove i due avevano un appuntamento con un ricettatore. Latitante, sfugge alla cattura nel blitz contro il MAR e si aggrega alla banda Esposti. Dopo la strage di Brescia accompagna Esposti a Roma in armeria. Il giorno dopo è arrestato dalla squadra speciale che uccide con un colpo alla nuca - anche se la versione ufficiale parla di conflitto a fuoco - il capo di Ordine nero. «Billo» ricostruisce con i giudici i progetti golpisti di Esposti e confessa: «Siamo fascisti di Avanguardia nazionale. Un industriale milanese ci ha promesso quattrocento milioni se facciamo un attentato a Roma il 2 giugno». All'uscita dal carcere (se la cava con una condanna a sei anni per l'attività del MAR di Fumagalli ed è assolto per Ordine nero) «Billo» diventa il capo di una banda della quale fa anche parte Marilisa Macchi, moglie separata di Cesare Ferri. La donna si legherà poi a Giuseppe Fisanotti, un altro narcotrafficante «pentito» che sostiene di avere ricevuto una «confessione» dalla donna: ci sarebbe stata proprio lei la mattina della strage con Ferri a Brescia. Nella primavera 2000 è nuovamente arrestato per le violenze esercitate su alcune prostitute a Milano per imporre loro la protezione . (17). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 57 . (18). Fabrizio Zani, "L'etnicità in Italia", S. Martino di Sarsina (Fo), Macro Edizioni, 1994 . C'E' UNA BANDA NEL CUORE DI ROMA . Mentre a Milano una generazione di militanti nazionalrivoluzionari si compromette con le grandi manovre delle diverse frazioni del «partito
del golpe», lasciandoci le penne, per poi ripiegare in massa nei ranghi della malavita, a Roma si consuma l'insano triangolo tra fascisti «duri e puri», criminalità organizzata e agenzie semilegali di Stato (1). Teatro del connubio è un quartiere periferico al di là del Tevere, la Magliana, case popolari e grandi vialoni, salito agli onori della cronaca negli anni Settanta per le dure lotte dei senzatetto e divenuto il santuario della malavita a cavallo degli anni Ottanta (2). E' un capo della banda Danilo Abbruciati, ucciso da una guardia giurata a Milano dopo aver gambizzato Rosone, il vicedirettore del Banco Ambrosiano punito perché si opponeva alle manovre finanziarie di Roberto Calvi. Abbruciati aveva bazzicato con i pariolini, i fascio-criminali della Roma bene, e poi sviluppato rapporti organici con i «fascisti mercenari», che avevano abbandonato - per dirla con Valerio Fioravanti - la militanza politica nel FUAN per soddisfare nelle rapine il gusto per l'azione e nel consumismo sfrenato i bisogni di una vitalità prorompente. Il boss scambiava con loro le «basi» delle rapine, ne riceveva gli incassi e li riciclava nell'usura. Partecipa così a una speculazione edilizia in Sardegna. La compagine è assortita: il banchiere Calvi, il re degli strozzini Balducci, il faccendiere Carboni (condannato in primo grado e assolto in Appello dall'accusa di essere il mandante dell'attentato a Rosone), il suo segretario particolare, fratello di un deputato del P.C.I. e un commissario di polizia. Secondo i pentiti di Cosa nostra e della banda della Magliana, smentiti dal processo, Abbruciati avrebbe partecipato con compiti di copertura all'omicidio di Mino Pecorelli, eseguito dal fascista Massimo Carminati e dal mafioso Michelangelo La Barbera . La sua compagna del tempo, Fabiola Moretti, oggi uscita dal programma di protezione per i pentiti e principale accusatrice del senatore Vitalone come mandante dell'omicidio del direttore di «O.P.», ha ricevuto una strana visita notturna proprio quando era cominciato il tam tam sulla decisione sua e del marito di collaborare. «All'una di notte», ha raccontato Antonio Mancini al gip di Perugia, «qualcuno aveva bussato alla porta di casa, spacciandosi per colui che doveva controllare se la donna, agli arresti domiciliari, era effettivamente in casa. Fabiola aprì, ma anziché il solito carabiniere si ritrovò davanti una faccia vista più di dieci anni prima. 'Mi riconosci?' chiese l'uomo entrando in casa. Dopo qualche titubanza la donna disse di sì, era uno che si faceva chiamare Angelo. Lui andò subito al sodo: 'Che sta a fa'
Nino, si sta pentendo?'. Lei negò e quello promise che entro dieci giorni lo avrebbero fatto uscire dal carcere. Fabiola, che dall'inizio sentiva puzza di bruciato, sbottò: 'Perché lo volete far uscire? Per fargli ammazzare qualcuno o per ammazzare lui?'. L'uomo se ne andò senza rispondere». Fabiola Moretti confermò tutto il racconto del marito (3) . Un guardaspalle di Stefano Delle Chiaie, Piero Citti, affittuario del covo di via Sartorio, con i giudici ha messo in risalto gli intrecci tra avanguardisti, P2, clan della Magliana e sottobosco politico-affaristico collegato ai servizi segreti. Secondo Citti, socio di ODAL, l'impresa considerata dagli inquirenti struttura di copertura di A.N. - era gestita da Carmelo Palladino, arrestato nel 1968 per una serie di attentati provocatori, che dovevano essere attributi al P.C.I. In realtà era stato Citti, che aveva rotto con Palladino (4), a passare ai servigi di Carboni, lavorando per la Sofint, società cardine nel sistema affaristico dei «colletti bianchi» collegati alla banda della Magliana (5). Palladino, arrestato il 15 aprile 1982 con Tilgher e altri avanguardisti per la strage di Bologna, dopo pochi mesi è garrotato a Novara da Concutelli. Per fargli pagare - tambureggia radio Carcere - la soffiata sul rifugio di Giorgio Vale. Per vendicarsi insinua Vinciguerra - di una distrazione di fondi subita da parte di Delle Chiaie (6). La scelta della Sofint si rivelerà infelice per Citti: non intimorito dalle minacce ricevute da ambienti piduisti per aver citato in giudizio la società («Roberto Palladino aveva avuto modo di dichiarare che la P2, per i contrasti avuti tra me e il Carboni e il Pellicani, aveva decretato la mia sentenza a morte») (7), Citti è arrestato per estorsione. Si difende sostenendo di aver chiesto soldi a Pellicani per l'attività svolta per la società. Denuncerà poi presunte intimidazioni dei magistrati di Firenze che lo coinvolgono nell'inchiesta su Occorsio, ma lo prosciolgono subito (8) . Molti boss della Magliana hanno intensi rapporti con i terroristi neri. Biagio Alesse (9), custode di un ufficio della Sanità all'Eur, gestiva in uno scantinato del ministero un arsenale in comune tra il clan e i NAR (parecchi mitra, una ventina di pistole, una delle quali rapinata dalla banda Fioravanti in un'armeria, munizioni, tre giubbotti antiproiettile). Franco Giuseppucci, detto «er Negro» per le simpatie politiche, fu assassinato nel settembre '80 sotto casa, nella guerra per il controllo delle scommesse ippiche clandestine. Qualche mese prima era stato arrestato per il riciclaggio dei "traveller's cheques" rapinati nel settembre '79 alla Chase Manhattan Bank da un commando misto
NAR-Avanguardia nazionale. A casa sua facevano bella mostra busti di Mussolini e gagliardetti e verso i «guerrieri senza sonno» non perdeva occasione di mostrare stima, simpatia e affetto (anche per la disponibilità per qualsiasi «impiccio»). Marcello Colafigli, tra i fondatori della banda, evaso dall'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, è arrestato a Roma nel '90 in compagnia di Fausto Busato, un ex-militante di «Costruiamo l'azione» (C.L.A.) condannato per l'omicidio di un poliziotto, eseguito il giorno dopo la morte di Vale in un goffo tentativo di «disarmo». «Marcellone» se ne frega della politica, ma ai rapporti di «fratellanza» malandrina ci tiene. Così quando, dopo l'arresto di Valerio Fioravanti a Padova, il fratello Cristiano ripiega su Roma, sconvolto e senza appoggi, è Colafigli, interessato da Carminati, a procurare una casa sulla Laurentina, dove sono alloggiati anche Sordi e Belsito . I rapporti non erano solo di solidarietà personale. Per qualche mese, agli albori della banda c'è un più ambizioso tentativo di assemblare distinte realtà politiche e criminali. Nel luglio '78, nella villa di De Felice a Poggio Catino, in Sabina, si riuniscono la frazione piduista di C.L.A. (il padrone di casa, Semerari, Aleandri) e il nucleo storico del clan (Giuseppucci, Abbatino, Colafigli e Piconi). Il «mediatore» è Alessandro «Zanzarone» D'Ortenzi, che ha già goduto delle benevole perizie di Semerari. Il confronto - e gli scambi di piaceri - vanno avanti fino all'«incidente» - lo smarrimento di armi e il successivo sequestro di Aleandri - che segna la rottura. Bisogna resistere alla tentazione di ridurre la complessità della vicenda del terrorismo nero a un sistema semplificato dove tutto si tiene. «Marcellone» e Busato sono diventati amici in carcere. L'ex-brigatista nero è un lavorante nel braccio di Rebibbia dove «alloggiano» alcuni boss della Magliana. La possibilità di muoversi con una certa libertà in carcere è «appetibile» e così viene ben presto «circuito» e reclutato da «Marcellone». Busato è arrestato per la prima volta a diciannove anni, nel 1979, per banda armata (il nucleo di Ostia di C.L.A.). Scarcerato nel 1981, si dedica al piccolo spaccio (e al consumo) di cocaina e alle rapine. Pochi mesi dopo è scarcerato anche Andrea Litta Modigliani, suo miglior amico, arrestato per armi (due pistole e una granata rubata da Fioravanti durante il servizio militare) per mesi «attendente» personale a Rebibbia di Calore. Quando il leader di C.L.A. si «pente» scatta il tam tam più feroce: Calore era innamorato dei lineamenti efebici di Andrea, e avrebbe
ammesso la circostanza nel corso di un «processo popolare» al reparto G7. Comunque la libertà per Andrea e Fausto dura poco. Serve una pistola per una rapina e pensano di andarsela a prendere da un anziano poliziotto del commissariato San Pietro, tale Rapesta. Scelgono male la data, il giorno dopo la morte di Vale, e il complice, Massimo Biagini, un tossico che è «fatto» di eroina e spara alla prima reazione ammazzando il poliziotto (10) . Busato non è il solo militante di C.L.A. a entrare nella banda della Magliana. E' il caso di Antonio D'Inzillo, arrestato per l'omicidio Leandri, il giovane tecnico scambiato con l'avvocato Arcangeli, e ucciso al suo posto da Bruno Mariani e Valerio Fioravanti. E' la sera del 17 dicembre 1980. Antonio Leandri, 24 anni, deve ritirare un regalo in un negozio di viale Regina Margherita. Parcheggia davanti all'isolato numero 25 di piazza Dalmazia, dove c'è lo studio dell'avvocato Arcangeli (11), condannato a morte da Calore per aver denunciato Concutelli come autore dell'omicidio Occorsio. Leandri scende dall'auto, due giovani attraversano di corsa la strada e gli si fanno incontro: lui è sovrappensiero e neanche se ne accorge. Fioravanti e Mariani sono perplessi: il giovane, che è stempiato come Arcangeli, va in direzione opposta al portone. Forse li ha visti, pensano i due, ha capito e cerca di allontanarsi. Fioravanti, per un ultimo controllo, lo chiama: «Avvocato!», Leandri, d'istinto, si gira. Mariani spara per primo. Tre colpi su sei a segno, con una Colt 357, ma Leandri neanche cade. Valerio interviene: un solo colpo della sua Browning 9 uccide il giovane. Scappano con una Fiat 131 rubata, guidata dal sedicenne D'Inzillo. Raggiungono Calore che li aspetta sull'auto pulita, la sua Simca, a via dei Colli: lui non può partecipare perché Arcangeli lo conosce bene. La mattina è stato in tribunale per una causa di diffamazione contro un giornalista e ha controllato il vestito (un loden verde) per descriverlo agli altri, che non l'avevano mai visto. Incrociandolo nei corridoi del Palazzo di Giustizia, lo saluta beffardamente: «A presto» . Quando sa degli arresti di Calore e dei suoi camerati, l'avvocato capisce subito: gli è andata veramente bene che i killer abbiano mancato l'incontro promesso dall'ex-braccio destro di Concutelli. Fioravanti se ne va con la 131: gli era stata data da un pischello di T.P. - Soderini, che ne attribuirà il furto a un altro tippino di Vigna Clara - e vuole evitare che l'auto sia collegata al delitto. L'imprudenza lo salva.
L'autista della Simca è nervoso e guida a velocità sostenuta, in una zona presidiatissima: a poche centinaia di metri, tre giorni prima, è caduto il covo di via Alessandria, dove è stato decapitato il vertice operativo di T.P., e subito si spargerà la voce infondata che ad Arcangeli bisognasse far pagare quest'ultima soffiata. Un'auto civetta intercetta la Simca, intima l'alt, poi apre il fuoco. L'auto sbanda e finisce la corsa contro un'utilitaria. I quattro, a bordo tre pistole, un mitra, due bombe a mano e due giubbotti antiproiettile, non tentano di resistere. L'unico che ci prova è l'autista sedicenne, ma Mariani lo blocca: «Non compromettiamo la nostra situazione...». D'Inzillo, studente del liceo «Vico», figlio di un noto ginecologo, appena portato in questura scoppia a piangere e racconta come era andata. Una settimana prima lui e Mariani (diciannovenne, militanza studentesca in A.N., braccio destro di Marcello Iannilli, responsabile militare di C.L.A. dopo la diserzione di Aleandri) avevano aspettato Arcangeli per più di un'ora a piazza Dalmazia, per un pestaggio. Poi la decisione di passare alle armi. A lui, che si offre di guidare l'auto, assicurano che si tratta di una gambizzazione. Calore decide di rinforzare il commando, tecnicamente scarso, coinvolgendo il migliore «operativo» disponibile sulla piazza romana, con cui ha fraternizzato in estate in carcere. E Valerio Fioravanti è uno che non manca mai il bersaglio. I giornalisti si scatenano sul baby-killer, scuole elementari dalle suore, medie dai preti, un padre che tenta di dissuaderlo dalla passione neofascista (12) . D'Inzillo se la cava con una condanna a 15 anni per la tenera età ed è scarcerato nel marzo '85 per decorrenza dei termini di custodia. Nel soggiorno obbligato di Pantelleria passa il tempo dedicandosi alla pesca subacquea. Al rientro a Roma è subito nel giro. Quattro anni dopo è di nuovo arrestato, in compagnia del coetaneo Gianluca Ponzio, un altro "enfant prodige" (13). E' il pomeriggio del 2 marzo 1989. Dopo aver ritirato con Ponzio una borsa dal deposito bagagli della stazione Tiburtina, D'Inzillo telefona a Giorgio De Angelis (14) e gli fissa un appuntamento urgente. La polizia blocca il terzetto: nella borsa un M12 (cimelio della banda Fioravanti) e una pistola calibro 7.65. Gli arresti sono collegati a un progetto di fuga da Rebibbia, comune a «neri» e malavitosi, che ha già visto finire in galera due fratelli sardi e Luca Onesti, un militante della banda Giuliani. D'Inzillo, che aveva in mano la borsa, si attribuisce la responsabilità delle armi e rassicura Giorgio: lo scagionerà al processo, ma la sua goffa deposizione finisce per
incastrare l'amico. Il padre di De Angelis, scenografo alla RAI, persona sobria e di poche parole, commenta secco: «Ma che povero ragazzo, è uno stronzo». D'Inzillo è condannato a 4 anni e mezzo per detenzione di armi. A Ponzio e De Angelis va un po' meglio: tre anni per concorso. Il soggiorno in carcere è l'occasione per l'arruolamento del baby-killer nella banda della Magliana. Scarcerato un'altra volta per decorrenza termini, è accusato di aver causato la morte della fidanzata, nipote del medico di Togliatti, il chirurgo Spallone: durante una lite - «alterato» dall'uso sistematico della cocaina - l'avrebbe scaraventata dall'auto. Fugge in Belgio sottraendosi agli obblighi previsti dal giudice. Nell'aprile del 1991 sul cadavere di un trafficante turco di eroina è trovata un'agendina con i numeri di telefono suoi, di «Marcellone» Colafigli e di Vittorio Carnovale, un altro "narco" della Magliana. Espulso in Italia, se la cava ancora con un breve periodo di carcere. E' attualmente latitante: per alcuni pentiti - e in particolare Mancini sarebbe stato membro dell'ultimo gruppo di fuoco dei «perdenti» della Magliana, partecipando all'omicidio di «Renatino» De Pedis, ammazzato a Campo de' Fiori per vendicare l'«operaietto» Edoardo Toscano . Se più generazioni di neofascisti, fagocitati dalla macchina penitenziaria, hanno finito per entrare nei clan della malavita, diverso è il discorso per i «guerrieri senza sonno» che, a cavallo degli anni Ottanta, trovano il naturale prolungamento della lotta armata nell'esercizio sistematico dell'illegalità. La trasformazione di un mezzo in un fine finisce per rappresentare un paradossale allargamento della coscienza. Una dozzinale lettura del discorso evoliano sull'«equazione personale» convince alcuni giovanissimi - e assai incolti - camerati che "farsi banditi" sia la «via di realizzazione», il modo a sé consono di "cavalcare la tigre". Per qualcuno sarà una strada senza ritorno, per altri l'ultima frazione di una forsennata corsa a tappe con al capolinea la «bella morte». Il 21 luglio 1980 una pattuglia di polizia identifica in un bar di Roma Alessandro Alibrandi, Stefano Tiraboschi (il miglior amico di Cristiano Fioravanti: qualche giorno prima i due con Carminati e Bracci avevano rapinato 165 milioni in una banca di piazza Annibaliano; un anno dopo Valerio li definirà «la parte migliore della nostra generazione»), Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati e «Renatino» De Pedis, il boss di Testaccio che dopo la morte degli altri due capoclan erediterà i rapporti col giro degli strozzini, dei finanzieri
d'assalto e dei servizi segreti. I cinque, una sola voce, si giustificano: ci troviamo insieme per caso (15). La rapina alla Chase Manhattan Bank dimostra l'alto livello militare raggiunto dai giovanissimi «guerrieri senza sonno»: decine di persone sono tenute prigioniere per un'ora con grande autorevolezza e senza incidenti. All'Eur entrano in azione esponenti dei NAR come Valerio Fioravanti, avanguardisti come Mimmo Magnetta e personaggi come Peppe Dimitri, il leader più popolare della piazza romana alla fine degli anni Settanta, che aveva ancora un piede in T.P., finanziava la latitanza di Delle Chiaie e partecipava alle azioni più eclatanti dei NAR, come la rapina all'Omnia Sport, organizzata per commemorare Franco Anselmi, ammazzato da un armiere che ha subìto una rapina e che gli spara alla schiena mentre fugge . E' Peppe Dimitri la figura più complessa e interessante del nuovo terrorismo nero. La sua prima esperienza associativa è nei boyscout; a quattordici anni, per una stagione, milita nel collettivo della sinistra extraparlamentare al liceo «Vivona» dell'Eur; nel '71 entra con Dario Pedretti, un altro futuro leader della piazza nera e poi della lotta armata, in Avanguardia nazionale (16). Da cattolico, supera ben presto le perplessità sull'uso della violenza, convincendosi che l'uso di spranghe e martelli in raid e pestaggi è purificato dal suo idealismo, qualità che anche gli avversari politici gli riconoscono. Valerio Fioravanti, che ce l'ha con tutti i leader e non esita ad ammazzare per uno «scazzo» da poco un altro dirigente di T.P., Mangiameli, gli renderà merito per l'assoluto disinteresse e dedizione alla causa nonostante il risentimento per un mitra trafugato da Dimitri e ceduto a Pedretti che ne farà pessimo uso (si lascerà arrestare senza sparare). Allo scioglimento di A.N., Dimitri fa la scelta movimentista: a vent'anni è già uno dei più noti capisquadra romani. Dal giorno che - per mettersi alla prova - si lancia all'assalto di un plotone di compagni brandendo un'accetta, gli attacchi solitari divengono uno degli sport preferiti dagli squadristi romani. Al suo seguito decine di tozzissimi picchiatori scopriranno il valore ascetico e purificatore dell'esercizio alpinistico, sulla falsariga dell'intuizione evoliana della metafisica delle vette (17), bande di fascisti saranno iniziate alla fascinazione delle rune e della continua ricerca di simboli magici, esoterici e militanti. Dimitri è tra i soci fondatori di Lotta studentesca, il gruppo dal quale figlierà Terza posizione, il più originale tentativo movimentista dell'area
nazionalrivoluzionaria. Il gruppo nasce come federazione di tribù, aggregando tre gruppi umani: il suo, che controllava l'Eur, il pariolino, guidato dal giovanissimo Roberto Fiore, un adolescente brillantissimo cresciuto nel cosiddetto «covo» di corso Francia, e quello di TriesteSalario che faceva capo a Gabriele Adinolfi. Pur essendo i tre assai poco inclini al «cazzeggio» e alla mondanità il «congresso di fondazione» ha luogo nel corso di una festa. L'organizzazione in un paio di anni raggiunge i trecento militanti a Roma, consistenti presenze a Palermo, Venezia, Padova, nelle Marche, in Basilicata e piccoli nuclei di diffusori e simpatizzanti a Bologna, Milano, Torino, Napoli e Genova. Lui è insoddisfatto: dopo un periodo di carcere per rissa nel 1978, il servizio militare è l'occasione per una lenta autoemarginazione. Si ritaglia uno spazio nella Legione, ordine ascetico-militare interno a Terza posizione, per i giudici un superclan terroristico, per Dimitri una comunità elettiva (18). Infaticabile attivista - «a un certo punto mi convinsi di essere immortale. Gli altri, i miei camerati mi vedevano come un guerriero senza sonno e io mi sentivo tale. Della mia vita fisica non mi importava un bel niente. Il mio spirito sarebbe vissuto in eterno con le mie idee» (19) - Dimitri gira come una trottola: continua a frequentare cenacoli rautiani grazie al legame con la figlia di un vecchio ordinovista (20), l'avvocato Paolo Andriani, presidente della Fondazione Evola (sarà arrestato nell'inchiesta sull'omicidio Amato per favoreggiamento di Signorelli), e al tempo stesso è tra i «duri e puri» che compiono la scelta delle armi dopo la strage di Acca Larentia, la sezione missina dell'Appio Tuscolano, avamposto del neofascismo popolare a Roma Sud, dove due militanti giovanissimi sono ammazzati da un commando di autonomi, e un altro camerata che, due ore dopo, protestava contro il massacro, è ucciso da un carabiniere (21) . Nell'autunno 1979 Dimitri preme sull'acceleratore: in pochi mesi organizza una mezza dozzina di rapine. La prima la compie sotto casa, all'Eur, a volto scoperto. I soldi servono a finanziare le strutture militari, pagare la latitanza agli esuli come Delle Chiaie ma anche a liberare i camerati dalla schiavitù del lavoro. Racconterà che il primo rapporto con il denaro - lui, figlio di un agrario pugliese - lo ha sviluppato dopo il carcere. L'arresto a metà dicembre, mentre recupera un carico di armi in un palazzo del quartiere Trieste, rappresenta un brusco ritorno alla realtà: il linciaggio sfiorato comincia a scalfire le sue certezze (22). Con lui è catturato Roberto Nistri, responsabile del
(modesto) apparato clandestino di T.P., che, decapitato, si aggrega alla banda Fioravanti. L'episodio ha dato la stura a una serie di voci e di dicerie paranoiche, tutte tese ad accreditare l'ipotesi di un complotto (dei servizi segreti, della P2, della «guardia bianca») per liquidare l'impetuosa crescita dell'unica organizzazione rivoluzionaria. La proclamata ostilità di T.P. verso A.N., considerata asservita alle logiche golpiste e stragiste, con gli arresti di via Alessandria trova una clamorosa smentita. Nello stesso palazzo ha sede l'Assierre, società in accomandita che ha tra i soci Tilgher e altri quadri storici di A.N. I locali della ditta ospitano la redazione di «Confidentiel», rivista trimestrale di politica, strategia e conflitti, diretta da Mario Tilgher, padre di Adriano, e spedita a numerose personalità tra cui Gelli. La rivista, edita dall'Istituto di ricerche e di studi politici e sociali, ha redazioni in Spagna (il responsabile è Ernest «Bicio» Milá, proconsole spagnolo di Delle Chiaie) e in Francia ed è distribuita anche in America Latina. Proprietaria dei locali, come dello scantinato-arsenale, è un'immobiliare di una signora, il cui patrimonio è amministrato da un avvocato, un altro ex di A.N. Un'altra società della famiglia della donna possiede i locali di via della Panetteria affittati per la redazione di T.P . Dimitri dal carcere cerca in ogni modo di far fare macchina indietro (23) ai suoi. Quando viene a sapere che è in preparazione un agguato contro Rauti, ritenuto dai guerriglieri neri un delatore, mette in campo tutto il suo prestigio per scongiurare l'attentato, ricavandone in premio un'imputazione di omicidio. Cristiano Fioravanti accuserà infatti Dimitri e Pedretti di essere i mandanti dell'omicidio del giornalista Concina, che avrebbe sostituito come «obiettivo» il vecchio leader (a morire fu poi un tipografo de «Il Messaggero», Di Leo, uscito dal giornale di corsa dopo una telefonata trappola e scambiato dal commando per il cronista). A gettare ombre sulla sua figura adamantina, concorrono - con la presunta «resa»: in realtà aveva cercato di prendere la pistola dal borsello ma era stato bloccato - due documenti che gli sono trovati addosso al momento dell'arresto: il numero di telefono riservato del numero due del SISMI, il generale Musumeci, e un dossier sulla presenza in Europa del K.G.B. consegnatogli da Delle Chiaie per la pubblicazione su «Confidentiel». Eppure anche chi con Dimitri ha rotto per i rapporti ambigui con il "milieu" degli avanguardisti ne difende la figura, per quello che ha rappresentato per una generazione del neofascismo rivoluzionario a
Roma. «Peppe», spiega Gabriele Adinolfi, leader della componente «frediana» di T.P., «era una figura di una solarità esemplare a livello di piazza e di comportamenti, una persona che si assumeva l'impegno per migliorarsi e per mettersi costantemente alla prova ed è stato per anni il punto di riferimento attivistico e fisico di quasi tutta la piazza romana. Peppe è stato giocato dalla sua eccessiva solarità: tra i valori fondamentali dell'essere fascista ci sono l'onore e la fedeltà e per praticare la fedeltà ha finito per rinunciare all'onore. Perché la fedeltà verso Delle Chiaie era mal riposta e lui non ha avuto sufficiente capacità critica per rendersene conto e questo è emerso in galera quando, venendo meno le energie interne, ha optato per la dissociazione» (24). In realtà della sua fedeltà a Delle Chiaie erano regolarmente informati sia Fiore sia Adinolfi che, in delirio di onnipotenza, pensavano di usarne i contatti internazionali «sporchi» senza problemi, ritenendosi talmente «puliti» da poter giocare con la merda senza sporcarsi . All'uscita di galera, dopo nove anni nel corso dei quali la madre si era tolta la vita, dopo il mandato di cattura per l'omicidio Di Leo, Dimitri è ancora un mito per extraparlamentari e militanti di base del Fronte della gioventù: non si risparmia in assemblee e dibattiti nel difendere la memoria degli anni Settanta e dei camerati morti con le armi in pugno, affinché i giovani non rimuovano quel periodo. Ai giovanissimi che gli chiedono «cosa possiamo fare?» la risposta è sempre di «non dimenticare» . Nei primi anni di libertà ha ancora disavventure giudiziarie, ma nel segno della buona sorte (25). Frequenta ancora gli ambienti militanti ma con più matura leggerezza: tenta di riprendersi - con quindici anni di ritardo - le piccole frivole gioie che si era negato in una gioventù vissuta nel culto, predicato e praticato, dell'ascesi guerriera. Continua intanto, a differenza di altri che hanno scelto la strada della rimozione, l'elaborazione del lutto, interrogandosi sul senso di una vicenda che ha segnato nel profondo protagonisti e vittime . In un'intervista televisiva con il brigatista rosso, Maurizio Jannelli, è l'unico degli ex-terroristi a presentarsi in giacca e cravatta, pallido, il volto segnato da qualche tic, impegnato a porre domande piuttosto che a rispondere: «Chi mi darà riconoscimento per non aver tradito nessuno, per aver retto in tutti questi anni?». Molti non possono rispondere: alcuni sono morti, altri - scegliendo la strada della
criminalità - hanno imparato a non porre, e non porsi, domande. Lui come tanti altri, è tornato all'abbraccio della grande destra, iscrivendosi ad Alleanza nazionale . ERRATA CORRIGE . In riferimento al citato episodio del ritrovamento addosso a Giuseppe Dimitri del numero telefonico di Musumeci, si rettifica e si precisa che il numero indicato, in realtà, apparteneva a un responsabile politico di Latina (tale Marco Marcucci). Tale numero era stato trascritto senza il prefisso e a Roma corrispondeva a una delle migliaia di utenze del Ministero della Difesa. Ciò fu sufficiente per dare modo alla DIGOS di Bologna di inventarsi questo falso per dare credito alle speculazioni sulle presunte connivenze tra terrorismo nero e servizi segreti. Il fatto è stato chiarito in sede giuridica dall'interessato . NOTE . (1). Parlare di servizi deviati è ridicolo: l'unica caratteristica comune a tutte le organizzazioni che si sono succedute, dal SIFAR al SID al SISMI & SISDE più o meno epurati, è stata la costante attività di depistaggio, inquinamento, intreccio con la finanza grigia e le bande della grande criminalità politico-affaristica . (2). Nella banda della Magliana confluiscono batterie di rapinatori e singole personalità di spicco di molti quartieri, da Ostia a Testaccio, che facevano rispettivamente capo a Nicolino Selis e a Danilo Abbruciati. Saranno considerati, a torto, boss della banda gli strozzini e i «colletti bianchi» che costruiranno le loro fortune alla corte di don Pippo Calò. L'unicità e l'irripetibilità della vicenda della «banda» a cui hanno dato vita (e la vita) molti «giovani leoni» ha trovato la principale ragione di essere nell'alta domanda di «lavori sporchi» da parte di grande finanza e apparati di Stato . (3). «Confermo in particolare», ha detto al gip la Moretti, «di aver subìto pressioni e intimidazioni, e di aver ricevuto a questi fini la visita di 'Angelo' che già conoscevo come uomo in stretti rapporti con Danilo Abbruciati. Con quest'ultimo 'Angelo' condivideva molte attività illegali; Danilo mi aveva detto che si trattava di una conoscenza importante, appartenente a un Servizio segreto o comunque dell'ambiente dei Servizi. Sapevo che 'Angelo' e altri dello stesso ambiente risolvevano a Danilo numerose grane» (Giovanni Bianconi,
"Ragazzi di malavita. Fatti e misfatti della banda della Magliana", Milano, Baldini & Castoldi, 1995, p. 243) . (4). La moglie di Palladino avrà facile gioco a dimostrare che la società del marito, la ODAL I, nata dopo lo «scazzo» con Citti, aveva decine di clienti ma non la Sofint. I rapporti dei carabinieri che ne hanno per mesi controllato intensamente la sede dimostrano che i locali erano quotidianamente frequentati da numerosi avanguardisti, da Tilgher (socio di favore della ODAL I) a Maurizio Giorgi a Silvio Paulon, e confermano che nessuna barzelletta può uguagliare una realtà in cui ci sono marescialli capaci di scrivere, a proposito di un argentino: «Lo Zarattini ha risposto in perfetto italiano: 'Sì Sì'») . (5). Gianni Flamini, "La banda delta Magliana. Storia di una holding politico-criminale", Milano, Kaos, 1994, p. 74 . (6). Confronta Sartori, "De dia uniformados...", cit . (7). Verbale d'udienza del 18.02.1988 cit. in Delle Chiaie - Tilgher, "Il meccanismo...", cit., all. 13 B . (8). «Loro [Vigna e Minna]», dichiarò Citti al processo per la strage di Bologna, «sapevano perfettamente, e questo fu testuale, che io non avevo nessunissima responsabilità a tal proposito. Però nonostante questo mi fu detto: 'O lei ammette di essere stato latitante in Spagna, o noi la mettiamo dentro per omicidio'. Io all'epoca per motivi miei personali, anche per non coinvolgere persone che non ritenevo facenti parte di nessuna organizzazione politica, negai il mio espatrio in Spagna e per questo fui arrestato per concorso in omicidio del giudice Occorsio» . (9). Il suo unico precedente penale è una denuncia per gli scontri di piazza per la visita di Nixon a Roma, in occasione dei quali, nel febbraio '69, lo studente anarchico Domenico Congedo era morto cadendo da un balcone a Magistero occupato, per sottrarsi a un assalto neofascista . (10). Arrestato, Biagini «canta» subito, accusando il basista, un exmissino, Giulio Liberti, già arrestato per rapina nel '78. A giugno i due ex di C.L.A. sono arrestati: ammettono e tentano inutilmente di spiegare che a loro non importava di vendicare Vale ma gli serviva la pistola. Non sono creduti: la condanna a 27 anni è ridotta a 17 anni in appello solo perché l'inesistente finalità di terrorismo gli permette di usare la legge sulla dissociazione .
(11). Arcangeli ha il doppio degli anni della vittima ed è molto noto nell'estrema destra. Non solo per i trascorsi militanti: qualche anno prima aveva sparato una raffica di mitra contro l'ambasciata sovietica. Nonostante qualche infortunio - nel processo per il covo di via Sartorio, Tilgher sconfesserà il suo tentativo di accollare a un solo imputato la responsabilità degli ingenti materiali caduti - ha mantenuto stretti rapporti con A.N. Il bollettino di «Solidarietà militante», un Soccorso nero che ha l'avvocato tra gli animatori, sforna nella primavera '76 una lista di «provocatori» che hanno la caratteristica comune di essere «nemici» di Avanguardia nazionale: Giuseppe Piccolo (un ex-militante barese che ha ricostruito al processo contro A.N. i compiti di provocatore svolti per l'organizzazione), Gianni Maifredi (l'infiltrato del MAR che ha fatto arrestare due avanguardisti con un carico di esplosivo), Paolo Pecoriello (l'ex-militante che ha accusato Delle Chiaie di traffico di armi e ha poi collaborato con i giudici nel processo torinese Ordine nuovo-Ordine nero), Paolo Frascinelli (uno squilibrato che ha integrato le accuse di Pecoriello nel processo torinese) e Marco Pozzan (il braccio destro di Freda ospitato e poi scaricato da Delle Chiaie in Spagna: estradato in Italia, accuserà «Caccola» di averlo «venduto»). Arcangeli è il referente giudiziario del sottobosco romano della destra massonica e compromessa con i servizi segreti. E' infatti l'avvocato di Saccucci, ma anche del collega Minghelli, il segretario della P2 arrestato per i sequestri del clan dei Marsigliesi ma subito scagionato. Viene prosciolto in istruttoria dall'accusa di favoreggiamento nell'omicidio Occorsio . (12). «Un ragazzo entusiasta, ancora fragile», lo descrive il padre al giornalista Giampaolo Pansa, «affascinato dalle parole dei più grandi, di solito tranquillo, ma capace di scatti nervosi da far paura [...] un ragazzo affettuoso che la sera andava a letto alle nove e usciva soltanto il sabato, qualche ora in una discoteca di piazza Flaminio con gli amici di sempre, quasi tutti assieme, sin dall'infanzia [...]. Lunedì 17 dicembre era rimasto in casa quasi tutto il pomeriggio. A guardarsi i cartoni animati alla tivù dei bambini» (confronta Giampaolo Pansa, "L'utopia armata", Milano, Oscar Mondadori, 1992, pp. 260-61; 1. ed. "Storie italiane di violenza e terrorismo", Bari, Laterza, 1980) . (13). Ponzio è un fedelissimo di Peppe Dimitri, militante di T.P. dell'Eur. La prima denuncia per rissa è a quindici anni, poi un fermo all'aeroporto di Fiumicino mentre accompagna il latitante Taddeini
(ultimo militante libero del nucleo operativo di T.P. dopo l'arresto di Ciavardini e De Angelis). Il primo arresto è due mesi dopo, nel dicembre 1980. Poco più che diciassettenne anni tenta la rapina nello studio di un avvocato, apre il fuoco sul carabiniere che in strada gli intima l'alt, ferito e catturato si dichiara prigioniero politico. Esce dal carcere nell'estate dell'82 e si mette subito nei guai, dando una mano a un vecchio amico dell'Eur, Walter Sordi. Il superpentito non è generoso con chi l'ha aiutato: non solo lo fa arrestare ma gli attribuisce anche un paio di rapine del nucleo operativo di T.P. I processi vanno bene per Gianluca: sei mesi per favoreggiamento per i NAR, insufficienza di prove per le rapine, ma intanto si è «cuccato» altri tre anni e tre mesi di custodia cautelare. La lunga detenzione, in anni decisivi per la formazione, e il senso dell'ingiustizia subita, piuttosto che dissuaderlo, rafforzano i vincoli di solidarietà con i camerati e gli altri detenuti . (14). De Angelis, nessun precedente, solo un'accusa per banda armata senza esito e una passione divorante per il rugby (gioca come ala nel Tevere Roma) si difende disperatamente: non sapeva niente delle armi. Ancora una volta gli vogliono fare pagare il suo cognome (anche la sorella Germana è stata indagata, dei due fratelli, Marcello è stato condannato per promozione di associazione sovversiva, Nanni è morto suicida in carcere il giorno dopo un arresto con pestaggio feroce, ma la famiglia sostiene che è stato ucciso di botte) . (15). Flamini, "La banda...", cit., pp. 38-39. Nel riferire l'episodio l'espertissimo giornalista commette un grossolano errore materiale: fissa la rapina al 13 luglio 1981, data in cui Bracci era in galera da quattro mesi e Stefano Tiraboschi era riparato a Londra dove sarebbe stato arrestato qualche settimana dopo (l'11 settembre) con il "gotha" dei rifugiati italiani (Roberto Fiore, Massimino Morsello, Marcello De Angelis, Marinella Rita, Amedeo De Francisci e Elio Giallombardo). All'incontro nei giorni successivi, del resto, non avrebbe potuto partecipare Giuseppucci, ammazzato nel settembre 1980 . (16). «Ero cattolico», spiegherà dieci anni dopo, «e fu proprio questa spinta, il credere in ideali superiori di giustizia che da sinistra mi portò a destra. Vedevo i ragazzi della parte avversa ridotti a una sparuta minoranza, beffeggiati, emarginati, demonizzati. Questa continua avversione verso di loro mi affascinò. Fu un'attrazione fatale. Anche la sinistra più ribellista per me faceva parte del corpo sociale. I fascisti no,
e così finii in A.N.» (confronta Sandro Provvisionato, "Profondo nero", «L'Europeo», 17 febbraio 1989) . (17). L'alpinismo è una passione comune a molti discepoli di Evola. Nel ventennale della morte Maurizio Murelli ha organizzato, con un gruppo di redattori e di lettori di «Orion», la scalata del Lyskamm Orientale, nel gruppo del Monte Rosa, dove in un crepaccio nelle adiacenze della «Roccia della Scoperta» sono depositate le ceneri del Maestro . (18). «La Legione», ha detto Dimitri all'autore (conversazione del 22 giugno 1989), «è nata da una mia insoddisfazione profonda perché T.P. stava finendo per ricalcare i modelli attivistici tradizionali. Era un corpo di élite ma anche se si svolgevano attività di addestramento paramilitare non era una struttura militarista. Era una comunità elettiva che riuniva tutti quelli che già vivevano assieme ventiquattr'ore al giorno per fare politica, per il piacere di stare assieme, di crescere assieme e partiva da una sensazione comune che ci legava sul piano umano. Era un fatto sottile, ma molto bello. E non c'è stato verso di farlo capire ai giudici. Questo è stato un discorso che abbiamo razionalizzato poi in carcere» . (19). Provvisionato, "Profondo...", cit . (20). Il fratello, Riccardo, agli inizi degli anni Novanta, quando Fini riconquista la segreteria del M.S.I., sostituirà Gianni Alemanno, genero di Rauti, alla testa del Fronte della gioventù . (21). Per Dimitri «la lotta armata è cominciata proprio dopo Acca Larentia. Quel giorno è come se fosse crollato per noi qualsiasi tipo di speranza. A quel punto la cultura subalterna, la riserva indiana che noi eravamo si sente espulsa dal mondo. Lì scattano soprattutto dinamiche psicologiche individuali e collettive, tre ragazzi di destra uccisi. Ma due li hanno eliminati i nostri antagonisti di sempre. Il terzo è stato ucciso dallo Stato. A quel punto ci sentiamo davvero soli contro tutti» (confronta Provvisionato, "Profondo...", cit.) . (22). Ibidem: per Dimitri «la lotta armata è stato un grido di disperazione, il mio modo di esprimere la mia ribellione a un sistema profondamente ingiusto. E le ragioni di questa ribellione ci sono ancora. Solo che col completamento del passaggio a una società postindustriale bisogna ricercare nuovi modi. Quando ero in carcere io ho segnato un distacco dall'ambiente dei più fanatici quando ho visto che non tenevano in nessun conto la vita umana. E invece la rivoluzione deve partire dall'uomo e fare i conti con l'uomo. Glielo ho mandato a
dire e loro mi hanno cancellato come mito, dicendo: vabbè, il carcere lo sta rincoglionendo» . (23). Scrive - proprio Dimitri che ha compiuto la scelta delle armi - a Vincenzo Piso che l'ha sostituito al vertice della Legione, di non coinvolgere T.P. in attività illegali. Non gli danno retta. Ponzio si fa arrestare dopo una rapina, un altro fedelissimo, Walter Sordi, esce da T.P. e si aggrega alla banda dei fascisti mercenari . (24). Conversazione con l'autore, febbraio 1989 . (25). C'è prima un fermo avvolto nel mistero: sulle pagine del «Tempo» compare un trafiletto che annuncia che nel corso delle indagini per un tentativo di evasione da Rebibbia è stata sgominata una banda di rapinatori capeggiata da un ex-leader dei NAR, P. D., 32 anni di età, nove di carcere, quattro condanne per banda armata (il FUAN, T.P., il «covo di via Alessandria», A.N.). L'identikit per gli addetti ai lavori è inconfondibile ma sulla notizia cala il silenzio. I rapinatori restano in carcere, Dimitri è scarcerato in meno di una settimana. Qualche mese dopo incappa in un posto di blocco istituito per una rapina: girava su un motorino rubato con un pregiudicato. Sono arrestati con l'accusa di detenzione di cocaina per un pacchetto ritrovato a pochi metri di distanza: secondo la polizia se ne sarebbero disfatti alla vista della pattuglia. Il p.m. al processo per direttissima chiede cinque anni e mezzo. Dimitri è assolto . «GUERRIERI SENZA SONNO» . Sono proprio i rapinatori del giro di Dimitri a stringere rapporti organici con la banda della Magliana fino - talvolta - ad esserne fagocitati. E' il caso di Massimo Carminati, un ultrà nero del Portuense, compagno di classe di Valerio Fioravanti e Franco Anselmi. Una breve militanza nel M.S.I. Marconi, poi il bivacco al «Fungo», il ritrovo all'Eur dei guerriglieri neri, ma anche dei boss calabresi di passaggio a Roma. Il distacco dalla militanza è rapido e Carminati diventa il prototipo del «mercenario»: rapine ma anche recupero crediti per un ricettatore della Magliana, Santino Duci (1). Secondo alcuni pentiti si era specializzato come artificiere della banda: mettendo a frutto le esperienze «politiche», aveva imparato a confezionare ordigni artigianali utilizzati per attentati intimidatori di natura estorsiva o per colpire le bische clandestine rivali. Scarcerato per decorrenza termini nell'inchiesta FUAN è coinvolto nelle indagini sulla «strage di Natale»:
si interessa del materiale sequestrato nel cascinale di Poggio San Lorenzo (stupefacenti, armi munizioni ed esplosivo) che è a disposizione del capomafia Pippo Calò (2), condannato all'ergastolo come organizzatore dell'attentato contro il rapido 904 del 23 dicembre 1984, che provoca 15 morti e 200 feriti. Un controllo casuale porta alla luce un tentativo di riaggregazione della banda della Magliana condotto da Carminati (3) . A metterlo seriamente nei guai ci penseranno, qualche anno dopo, i «pentiti»: lo accusano di essere uno dei pochi ad aver avuto accesso all'arsenale della banda negli scantinati del ministero della Sanità e di aver fornito al SuperSISMI di Pazienza e Musumeci il MAB col calcio segato - tipico dell'arsenale dei terroristi neri - usato per costruire una falsa pista internazionale sulla strage di Bologna (4). L'operazione «Terrore sui treni» (5) - per la quale sono stati condannati i vertici del SISMI e Pazienza - è stata liquidata dai giudici come semplice tentativo di arricchimento ma presenta almeno due aspetti oscuri. Al ritrovamento della valigia, il 13 gennaio 1981, gli 007 proclamano che l'esplosivo contenuto è lo stesso usato a Bologna, circostanza verificata dai periti dieci mesi dopo. Il colonnello Belmonte contatta l'exsottufficiale del SISMI di Taranto che avrebbe dovuto «coprire la fonte» della soffiata prima della strage di Bologna (ma dopo il disastro di Ustica). L'ipotesi avanzata dai sostenitori dell'innocenza dei neofascisti condannati (l'attentato alla stazione è opera dei servizi segreti, per accreditare la pista di una banda terroristica con base a Bologna che attenta alla sicurezza dei trasporti e «coprire» così i responsabili dell'abbattimento del D.C. 9) è avvalorata da questi due particolari. Anche la motivazione addotta - lanciare un segnale forte a Semerari, sull'orlo del crollo psicologico, per dissuaderlo dal collaborare con gli inquirenti - viene meno secondo il boss Abbatino, che fissa ai primi di novembre, e in sua presenza, il prelievo del mitra da parte di Carminati . Dietro il MAB dal calcio segato c'è una storia complicata, che il protagonista, il leader «pentito» di C.L.A., Paolo Aleandri, si era ben guardato dal raccontare ai giudici. Mentre Semerari, dopo il disastro dei GAO di Concutelli, teorizzava l'inutilità di un'autonoma organizzazione militare e l'uso della malavita per le necessarie attività illegali, il duo Aleandri e Calore aveva dato vita a una rete clandestina (depositi d'armi, rapine, attentati). Quando un armiere della Magliana si trovò in
difficoltà pensò di affidare l'arsenale ad Aleandri. Questi lo avrebbe diviso tra due militanti, Italo Iannilli e Mario Rossi. Qualche mese dopo, quando gli venne chiesto di restituire le armi, scoprì che qualcuno le aveva prelevate senza restituirle. Così Aleandri finì sequestrato per più di una settimana in un covo di Acilia e solo per l'impegno di Bruno Mariani e di Carminati a risarcire il danno, procurando altre armi, ebbe salva la vita. Lo spavento preso lo indusse a disertare: appena libero Aleandri fece le valige e se ne tornò al paesello della Sabina dove era cresciuto (Poggio Mirteto) alla scuola di Fabio De Felice . Era ancora talmente terrorizzato che, quando un paio di anni dopo fu arrestato e decise di collaborare con i giudici, raccontò di tutto, ma non il rapimento. E non solo per millantare una volontaria desistenza dalla lotta armata, anzi: ingenerosamente riferì che il sequestro, per dissensi politici, era opera dei suoi camerati, che invece si erano impegnati in una non facile trattativa con la banda della Magliana per ottenerne la liberazione. Di quella partita di armi consegnata come riscatto facevano parte due MAB dal calcio segato: uno dei due finì, secondo la ricostruzione dei magistrati, nel «Treno del terrore» (6). Solo il pentimento del boss che aveva rapito Aleandri all'uscita del tribunale ha permesso di chiarire l'episodio. Evidentemente, anche per chi aveva deciso di consegnarsi anima e corpo alla Stato era più facile rompere i vincoli di solidarietà che sfidare la straordinaria potenza della banda della Magliana. Né - in presenza di una ricostruzione fasulla da parte della vittima - era stato possibile identificare in Aleandri la vittima del sequestro descritto già nell'83 dal primo «pentito» della Magliana, Fulvio Lucioli. Proprio con l'accusa di aver fornito il mitra al SuperSISMI, Carminati è arrestato nell'aprile del 1993, nel "blitz" scatenato dalle rivelazioni di Abbatino, uno dei pochi soci fondatori ancora vivo, l'ultimo arrestato, in Venezuela, dove era riparato per sottrarsi alle ricerche incrociate. Le confessioni di «Crispino», il rapitore di Aleandri, scateneranno un'altra ondata di «pentimenti» e nuovi guai giudiziari per Carminati, «accusato» da Fabiola Moretti («proprio Abbruciati mi disse», racconta Fabiola, «di aver dato l'incarico a Massimo Carminati») (7), e dal marito, Antonio Mancini, l'«Accattone», che collabora con i giudici pur conservando un'alta considerazione della propria personalità criminale (8). Per la coppia Carminati, con il mafioso Michelangelo La Barbera, ha ucciso Mino Pecorelli (9), il giornalista con ottime entrature negli ambienti dei
servizi segreti e della massoneria che era entrato in conflitto con Gelli e Andreotti. E' proprio la Moretti, all'epoca del delitto compagna di Abbruciati e spacciatrice di eroina, a offrirne un ritratto non compiaciuto eppure ammirato. A lei, di famiglia proletaria, il neofascista che si era voluto fare bandito non piaceva: «Lo sentivo diverso da noi. Noi commettevamo certe azioni perché avevamo bisogno di vivere, e non conoscevamo altro modo che quello per vivere. Massimo Carminati e i fascisti come lui commettevano le stesse azioni per gusto, per fanatismo ideologico, e ne ricavavano anche soldi, ma il movente primo era l'ideologia. Per questo non mi piaceva, e lo dissi a brutto muso a Danilo, il quale invece la pensava diversamente, mi diceva che Massimo era un bravo ragazzo, lo stimava moltissimo [...]. Massimo era un tipo taciturno, serio, educato rispetto alla media delle persone che frequentavamo [...]. Era stato coinvolto in un conflitto a fuoco, diceva sempre che dopo quell'episodio in cui sarebbe potuto morire, ogni giorno in più di vita era tanto di guadagnato, mostrando così una sorta di disinteresse per la morte» (10). Su una circostanza la Moretti è imprecisa: al valico di frontiera con la Svizzera non ci fu conflitto a fuoco, ma i poliziotti - informati da Cristiano Fioravanti appostati spararono a freddo, senza dare l'alt e furono sottoposti a procedimento giudiziario (ovviamente senza conseguenze) . Pecorelli - un giornalista dallo stile allusivo - era ben informato su molti misteri d'Italia, dal caso Moro allo scandalo dei petroli, e a tanti aveva dato fastidio. Aveva frequenti contatti con i servizi segreti e aveva regolarmente preso la tessera della P2 ma non aveva esitato a dimettersi, nel 1978, quando le richieste di sostegno finanziario alla rivista «O.P.» («Osservatorio Politico») erano state deluse, ripagando Gelli in contanti, con un ritratto feroce quanto veridico: «Ex-nazista, agente dei servizi segreti argentini, amico personale di Lopez Rega e fondatore degli squadroni della morte A.A.A. in America latina, legato alla CIA, a Connally e ai falchi americani» (11). Qualcuno ha richiamato l'attenzione sull'inquietante riferimento che Pecorelli fa - in una «telecronaca» del ritrovamento del cadavere di Moro a via Caetani pubblicata su «O.P.» del 23 maggio 1978 - alla circostanza che la Renault 4 era stata abbandonata dai brigatisti a ridosso del teatro di Balbo, un importante rudere dell'antica Roma. All'epoca nulla si sapeva di Gladio, del ruolo di Moro come garante della fedeltà atlantica con l'uso spregiudicato degli omissis nelle operazioni sporche del SIFAR e
del SID, delle ammissioni del leader D.C. - sottovalutate dalle B.R. sulla struttura di sicurezza NATO usata in chiave anti-P.C.I. (12) . E' del resto bizzarro il percorso del «mandato» dell'omicidio, per come lo ricostruiscono i magistrati di Perugia. L'omicidio Pecorelli, per Tommaso Buscetta, è «Cosa nostra»: a Rio de Janeiro nel 1982 don Tano Badalamenti avrebbe spiegato a don Masino «che l'omicidio Pecorelli era stato fatto eseguire da lui e da Bontate su richiesta dei cugini Salvo [...] che ne avevano chiesto l'uccisione perché disturbava politicamente [...] a chiedere quell'esecuzione ai Salvo fu Giulio Andreotti» (13). A sua volta Salvatore Cancemi, sostituto di Calò e poi collaboratore di giustizia, riferisce «con assoluta certezza quello che Pippo Calò mi disse: che esso fu voluto e organizzato da uomini d'onore di Cosa nostra. Calò ne parlava come di una cosa nella quale era entrato pure lui. E mi spiegò che dell'esecuzione materiale si era occupata la decina romana di Stefano Bontate [...]. Il supporto logistico agli uomini che dovevano eseguire l'omicidio è stato dato da persona che, conoscendo la città, poteva studiare il posto più idoneo per eseguire il delitto, indicare vie di fuga, assicurare ospitalità agli esecutori venuti da fuori. Non è un mistero per nessuno quanto Danilo Abbruciati fosse persona molto vicina a Calò» (14). La circostanza non desta meraviglia: all'epoca la Commissione di Cosa nostra era ancora controllata dai «palermitani» e gli «affari» erano gestiti unitariamente con i «corleonesi». Così alla fine degli anni Settanta non esisteva ancora come realtà unitaria la banda della Magliana (15). Al di là delle semplificazioni giornalistiche, che per anni hanno ricondotto tutte le attività criminali a Roma alla banda della Magliana, i «bravi ragazzi» sono stati solo una componente, sia pure significativa, di un articolato complesso politico-affaristico-criminale (16). Il punto d'intersezione di queste diverse realtà era stato rappresentato da Danilo Abbruciati, capo di una batteria di rapinatori, uomo di fiducia di Calò che dei «colletti bianchi» era la stella polare. La difesa di Vitalone - l'omicidio Pecorelli è affare da servizi segreti - trova conferma nella richiesta della procura di Perugia (17) di annettere al processo la posizione di Mario Fabbri, numero tre del SISDE, del suo vice Giancarlo Paoletti e del suo collaboratore Vittorio Faranda accusati di false dichiarazioni per aver negato con ostinazione le visite in carcere (in epoca successiva al delitto) ad Abbruciati. All'inizio del processo ai tre 007, nel marzo '96, la Moretti si sta curando da una malattia nervosa e non si presenta a
testimoniare. Pochi giorni dopo è coinvolta in una retata contro una banda attiva sul litorale pontino, collegata alla 'ndrangheta e al clan dei casalesi. Lei è accusata di un traffico di droga precedente la collaborazione. I giornali parlano di arresto ma l'avvocato smentisce. La sentenza del processo di Perugia smonta la credibilità della Moretti: sono tutti assolti gli imputati, da Andreotti a Carminati, l'accusatrice è indagata per calunnia . Anche la responsabilità di Carminati in merito al famigerato MAB segato utilizzato per il depistaggio, nonostante l'accanimento dei giudici in proposito, sembrerebbe smentita dai fatti. In aula il pentito Calore escluderà, infatti, che quella ritrovata sul treno sia la stessa arma proveniente dai depositi «neri» e finita in quelli della banda di Abbruciati e Giuseppucci . Per una breve stagione, a far batteria fissa con Carminati, nel giro della Magliana, è un altro «allievo» di Dimitri, Alessandro «Alì Babà» Alibrandi, figlio dell'unico magistrato romano missino (18). Secondo Walter Sordi Alibrandi, Carminati e Claudio Bracci avrebbero ammazzato, nella sua tabaccheria, uno spacciatore di cocaina dell'Alberone (un quartiere dell'allora periferia romana), che non aveva versato la quota di solidarietà ai detenuti della banda. Il processo si concluderà con un'assoluzione. Valerio Fioravanti - che dopo l'arresto offre ai giudici una mappa ragionata dell'arcipelago nero - si ispira ad «Alì» per descrivere il tipo umano del «mercenario», i camerati «paghi dell'azione che ritenevano rivoluzionaria in sé», a prescindere dall'utilizzazione dei proventi che venivano destinati al miglioramento del proprio tenore di vita (acquisto di case, auto, brillanti, vita dispendiosa ed elegante) (19). Il giudizio morale di Fioravanti, che si è riservato il ruolo di «duro e puro», incurante dei sospetti dei camerati su alcune sue «zozzerie», è sprezzante: «Pur facendo vita per conto suo e non rientrando nei gruppi, Alibrandi è il tipico ragazzo che cerca la vita brillante (discoteche, B.M.W.) ma vuota, al solo fine di diventare un simbolo e raggiungere un certo livello. Mio fratello Cristiano ed Alessandro erano molto amici perché frequentavano la stessa sezione, poi un paio di anni fa [nel 1979] è subentrata una certa freddezza in quanto Alessandro ha cominciato a fare racconto dei suoi successi in campo sentimentale o simili. Tecnicamente è un coraggioso, ha idee corrette. Si è fatto una preparazione tecnica, ha studiato trattati di terrorismo internazionale e studi di carattere militare, ama la guerra e il
rischio e quindi è un combattente perfetto, indipendentemente dal campo in cui militava» (20). Completamente diverso il ritratto che ne offre «Camilla» (21), militante del FUAN e dei NAR, che ricostruì la sua vicenda di donna di destra nella lotta armata in una lunga conversazione con la scrittrice Barbara Alberti. «Finché ho conosciuto un ragazzo», racconta «Camilla», «che poi è morto in uno scontro a fuoco, e ci siamo messi insieme. Per lui esisteva solo la lotta e cominciai a vedere le pistole, a giustificare anche alcune azioni. Mi accendeva l'idea di una scelta non equivoca, quest'idea di rivolta dalle radici, mi entusiasmava il cambiamento effettivo che si poteva ottenere subito con l'azione. Avevo sedici anni e finalmente avevo trovato la mia famiglia: lui e i suoi amici, la sua 'banda', erano come fratelli. Con loro rischiavo la vita tutti i giorni. Il mio ragazzo, che aveva due anni più di me, tutti lo vedevano come il fascista cattivo assassino ma io penso che era una persona che non ha mai tradito nessuno, ha dato la vita per quello in cui credeva. Lui non voleva che prendessi parte attiva. Dovevo sostenere il nucleo con la partecipazione ai piani. Ero solo la confidente, dovevo 'guardarli' e basta. Rapporto col mondo, niente. Abbiamo vissuto in un microcosmo. Non abbiamo mai fatto l'amore. Non mi sentivo pronta. Una volta, uno accanto all'altra, stava per succedere ma io ho detto di no e lui si è fermato. Era un timido incredibile. Finché mi ha lasciata perché ha cominciato a sentire il legame con me come un freno a ciò che voleva fare. Citò Necaev: 'Il rivoluzionario deve essere solo'. E ognuno per la sua strada. Non ha avuto il coraggio di farmi combattere con lui» (22) . L'amicizia Cristiano Fioravanti e Alibrandi l'avevano cementata sul campo: durante uno scontro con i compagni di via Pomponazzi davanti alla sezione Balduina del M.S.I. avevano sparato con un'unica pistola ammazzando, nel settembre del '77, Walter Rossi. Avevano diciassette anni (23). Per Alibrandi non era neanche il debutto del fuoco: a marzo aveva fatto fuoco su un gruppo di compagni a Borgo Pio. Anni dopo nell'area dello spontaneismo nero, attraverso successive affabulazioni, si costruirà la leggenda di una presenza neofascista nel movimento del '77, al fianco degli autonomi, contro il comune nemico «picista». A quest'opera di fantasia concorrono i discorsi di Valerio Fioravanti sulla fine dell'inimicizia assoluta con i compagni (24) (dopo essersi distinto per anni nella pratica del «tiro al rosso»), le teorizzazioni di Sergio Calore sulle «adesioni al metodo dell'autonomia operaia» (ma anche le
millanterie sugli scontri preinsurrezionali del 12 marzo) (25), il racconto di Livio Lai, leader del «movimentista» FUAN di Trieste, sulla partecipazione alla cacciata di Lama dall'Università occupata di Roma. Convincendo anche uno come Freda, persona assai scevra da entusiasmi movimentisti, che questa fandonia rilancia in alcune interviste. Un tentativo impudente di appropriazione indebita è compiuto dal presidente del FUAN romano, Biagio Cacciolla, in una circolare interna (26). La verità è che il '77 a Roma è cominciato il primo febbraio, quando una ronda neofascista apre il fuoco sui compagni alla «Sapienza» e riduce in fin di vita Guido Bellachioma (27). La «straordinaria bellezza» del 12 marzo è anticipata una settimana prima da un corteo armato che mette a ferro e fuoco il centro per protestare contro la condanna di Fabrizio Panzieri per concorso morale nell'omicidio di Mikis Mantakas, una delle tante puntate della faida aperta dal Rogo di Primavalle. Anche l'omicidio di Walter Rossi non è un episodio isolato. Era stato preceduto da altre sparatorie: il 27 settembre colpi d'arma da fuoco contro un gruppo di giovani di sinistra avevano ferito gravemente Paola Carmignani, il 29 quattro fascisti a bordo di una Mini avevano sparato a piazza Igea colpendo tre volte Elena Piccinelli. Nonostante il consueto pogrom che segue i funerali, gli ultrà neri non calano la testa e il 4 ottobre feriscono a pistolettate un'operaia comunista, Patrizia D'Agostini, che va al lavoro all'Autovox. Alibrandi e i Fioravanti sono in buona e abbondante compagnia. Un'escalation simile preparerà il massacro di Acca Larentia (28) . Nel 1978 Alibrandi partecipa a numerose rapine, ad attentati a sedi di giornali ed è ferito di striscio nell'assalto all'armeria Centofanti in cui perde la vita Franco Anselmi, il debutto del sangue per i NAR. Il giorno stesso si fa vedere in piazza, al ritrovo dei camerati sull'Aurelia, insieme a Cristiano. Tutti sanno che facevano batteria fissa con Anselmi e uno dei dirigenti del Fronte li «interroga» per capire se c'erano anche loro. Alessandro fa il vago ma ha la morte nel cuore. Pochi giorni prima aveva preso parte all'omicidio di Scialabba a Cinecittà, restando di copertura nell'auto che serviva per la fuga, perché Valerio voleva pareggiare i conti con lui e il fratello e si era riservato la parte del giustiziere. Il primo arresto per Alibrandi è nell'autunno: con un'arma rapinata a Centofanti minaccia poliziotti in via Portuense mentre è in compagnia di un camerata. Nelle numerose disavventure giudiziarie potrà contare a lungo sul buon nome del padre e sulla
disponibilità di Semerari a spendere la sua autorevolezza. «Non è considerato un 'figlio di papà'», spiegherà anni dopo un militante dei NAR, «anzi gode di una buon'immagine nell'ambiente per la gran disponibilità a spendersi, qualità apprezzata anche dai più intelligenti, a prescindere che la generosità si estrinsecasse in cazzate. Non cercava di trascinare gli altri, era uno che partiva e se gli altri non gli venivano dietro non gliene fregava. Non per indifferenza: faceva quello che gli pareva giusto fare e non si poneva il problema di quello che facevano gli altri. Nella sua morte si riassumerà veramente tutta la sua vita» (29). Nel 1979 prende parte alle azioni più importanti dei NAR, dall'assalto a Radio Città Futura alla rapina all'armeria Omnia Sport, per commemorare Anselmi. E' nel gruppo di fuoco che Dimitri costituisce in autunno: rapine in serie per finanziare la futura rivoluzione, gli attuali latitanti ma anche la personale voglia dei militanti - tutti di famiglie ultraborghesi - di liberarsi dalla schiavitù del lavoro e dagli orpelli della legalità. Dopo l'arresto di Dimitri si sbanda: nell'ambiente circola con insistenza la voce del suo rifiuto di un'offerta di reclutamento con gradi di luogotenente da Delle Chiaie e si aggancia alla banda della Magliana. I «pentiti» gli attribuiscono due omicidi: il tabaccaio dell'Alberone, e un vigilante, nel corso di un assalto in banca, insieme a Elio Di Scala, giovanissimo guerrigliero nero destinato a morire armi in pugno, in una rapina fallita . Il giorno in cui Valerio Fioravanti ammazza l'agente Arnesano è a poche centinaia di metri dal luogo del delitto, con Cristiano, per un processo al tribunale dei minorenni. Un testimone crede di riconoscerlo. Lo arrestano, lo portano in questura dove subisce un pestaggio, ma in tre lo scagionano. E' scarcerato con tante scuse, ma non dimenticherà l'agente che l'ha malmenato. La strage di Bologna è l'occasione del definitivo salto di qualità: ripara in Libano con molti giovanissimi, da Sordi a Belsito, e nei campi della Falange completa la formazione umana e professionale. Dà buona prova di sé in combattimento ma si procura di rassicurare i familiari: numerose telefonate sono intercettate anche se i controlli subiscono frequenti, immotivate interruzioni. Al rientro in Italia, nel giugno 1981, trova i camerati allo sbando: Valerio è stato arrestato, Cristiano si è pentito e ha ricostruito per i giudici tre anni di terrore, inguaiando una cinquantina di «guerrieri senza sonno», T.P. è stata smantellata da un blitz (i quadri intermedi in galera, i capi in fuga all'estero). E così Alibrandi finisce per diventare il catalizzatore
delle residue energie rivoluzionarie. Ma anche lui ha i giorni contati: la sua stagione di leader dura cinque terribili mesi. Il 31 luglio, con Giorgio Vale e Francesca Mambro uccide Pino «il Calabro», un picchiatore con il vizio della «stangata». Erano andati assieme a comprare armi - racconterà Cristiano - ma Pino aveva «tirato una sòla» ad «Alì», simulando il furto dei soldi, incautamente lasciati nel cruscotto, e si era poi vantato dell'impresa offrendo una cena. La vendetta è l'ultima possibilità di azione rimasta al manipolo di disperati che ancora si fregia del nome di Nuclei armati rivoluzionari. A metà settembre guida le operazioni in una colossale rapina ai danni di un grossista di gioielli dal quale si riforniva Duci. Quindici giorni dopo con Cavallini, utilizzando palette da poliziotti, blocca in strada e uccide Marco Pizzari, l'amico «accusato» della soffiata che ha portato alla cattura di due militanti di T.P., Luigi Ciavardini e Nanni De Angelis, pestato a sangue dai poliziotti in questura e impiccatosi in cella il giorno dopo. Alibrandi è insoddisfatto e accelera ancora: il 19 ottobre è a Milano, con Sordi e Cavallini. L'obiettivo della trasferta è regolare i conti con Giorgio Muggiani, considerato responsabile dell'arresto di Cavallini (30). Alibrandi è alla guida, si accorge di essere seguito da una civetta, avverte i complici di prepararsi al conflitto a fuoco, arresta l'auto in un incrocio, esce sparando e colpisce due agenti. Si dà all'inseguimento del terzo, ferito. Sordi si avvicina alla vettura per prendere le armi e finisce con un colpo alla testa un agente che rantola, il suo primo omicidio. Missione fallita, ma senza danni . Il rientro a Roma è immediato: è in programma l'operazione Straullu, il capitano di polizia che si è distinto nella lotta ai NAR. Voci d'ambiente lo accusano di torture fisiche e prepotenze sugli arrestati e di abusi sessuali sulle donne: probabilmente finirà per pagare il rapporto con Laura Lauricella, l'ex-donna di Egidio Giuliani, un altro capobanda detenuto e irriducibile. Lei invece si è «pentita» e si aggrappa al capitano, che ne gestisce il rapporto di collaborazione con la giustizia. Li vedono qualche volta insieme, il tam tam dell'ambiente li fa subito diventare amanti. La sentenza esclude che la richiesta dell'esecuzione sia partita dal carcere. I NAR hanno ormai bruciato tutti i ponti e l'unica autorità che riconoscono è quella di chi spara di più e meglio. Anche contro Straullu Alibrandi guida le operazioni: apre il fuoco con un Garand a pallottole traccianti e sfracella la testa del capitano. Quando la Mambro si avvicina per prendere le armi, delicatamente la trattiene: un
cervello spappolato è orribile anche per una donna che ha partecipato a una mezza dozzina tra esecuzioni e conflitti a fuochi. Cavallini deve rinunciare al proposito di trapassare il cadavere con una lancia «nativa americana», simbolo della vendetta. La violenza dell'impatto dei proiettili ha spinto il corpo morto sotto il sedile. La scelta di armi così potenti non è prodotta da un surplus di odio: semplicemente erano convinti che il poliziotto girasse con un'auto blindata. Si sbagliavano. Il capitano Straullu è il primo «obiettivo» politico dei NAR dopo l'esecuzione (nel giugno 1980) del giudice Amato: dal settembre 1980 sotto il fuoco dei guerriglieri neri erano caduti o camerati (Mangiameli, Perucci, De Luca, Pizzari) o malavitosi (il basista Todaro e la sua compagna, una ballerina greca) in regolamenti di conti interni e vendette, oppure carabinieri e poliziotti (due a Padova nell'operazione che porta all'arresto di Valerio, due a Milano, uno in una carrozzeria di Lambrate) in conflitti a fuoco casuali. La rivendicazione dell'agguato nel quale perde la vita anche l'autista - è una buona occasione per un proclama (31) che faccia il punto della situazione e che finirà per rappresentare il messaggio nella bottiglia di una pattuglia di sopravvissuti che si avvia sorridente al sacrificio finale. Il volantino ricostruisce anche gli omicidi di due militanti e di un fiancheggiatore di T.P., Mangiameli (32), Perucci (33) e Pizzari (34). Manca ogni riferimento a De Luca. Un'imposizione di Alibrandi, diranno i giudici, perché troppi sanno che «Pino» gli ha «tirato una sòla», e sarebbe stato come firmare il delitto. Chi lo conosce bene sostiene invece che «Alì» non era tipo da mischiare politica e storie personali. Anche le parole diventano strumento di regolamento di conti: Mangiameli è definito un «demenziale profittatore, compare di quel Roberto Fiore e di quel Gabriele Adinolfi, esponenti di spicco della vigliaccheria nazionale». Nel volantino è accusato di delazione Ciavardini, che pur restando in T.P. aveva militato per qualche mese nella banda Fioravanti ed era poi stato allontanato e isolato per violazione delle norme di sicurezza, mentre era già ricercato a diciassette anni per omicidio (l'assalto al «Giulio Cesare») . La decisione di accomunare un leader del Movimento come Mangiameli a due «delatori» come Perucci e Pizzari e a due poliziotti lacera l'area di appoggio della guerriglia nera: gran parte della logistica a Roma è gestita da Nistri, già responsabile del Nucleo operativo di T.P., arrestato con Dimitri e scarcerato per anoressia nell'aprile 1981.
Nistri fornisce case e documenti per tutti, senza settarismi, ma condanna apertamente l'esecuzione di Mangiameli e la campagna d'odio contro Fiore e Adinolfi. Lo scontro politico sul volantino produce una situazione di stallo dalla quale Alibrandi pensa di uscire con un'altra vendetta personale: l'esecuzione dell'appuntato «cattivo» dell'antiterrorismo, Angelino, che lo aveva «pestato» dopo l'arresto per Arnesano. Mette su un gruppo di fuoco di reduci dal Libano: Sordi e Belsito, già latitanti per omicidio, e Ciro Lai, un triestino del FUAN che ha deciso di passare in clandestinità. L'attentato programmato fallisce perché si recano tardi a prendere Lai che ha dormito all'Holiday Inn della Magliana sotto falso nome. Decidono sul momento, tanto per non sprecare la giornata, il disarmo di una pattuglia della Stradale: sono le 12.30 del 5 dicembre. Il quartetto bivacca in una panchina di Labaro, lungo la via Flaminia. Alibrandi sta mangiando mandarini quando una volante appena passata a lenta andatura inverte improvvisamente la marcia. Fa un rapido cenno d'intesa a Belsito, che tenta di dissuaderlo un invito a uccidere, non a disarmare la pattuglia, racconterà Sordi - ed entra in azione senza guardarsi le spalle. La sparatoria è violentissima e si conclude con il ferimento di due poliziotti (l'agente Capobianco morirà due giorni dopo in ospedale) e di Alibrandi, raggiunto alla testa da un colpo sparato alle spalle, che morrà dopo poche ore. La sua forzatura ha spiazzato i tre complici che comunque partecipano al conflitto a fuoco e se ne scappano usando la Volante, abbandonata dai poliziotti, scesi dalla vettura per non restare in trappola. Anche Sordi è ferito: andrà a svernare in Sicilia. Non si dimenticherà del medico che l'ha curato e del camerata che l'ha ospitato - uno sarà arrestato, l'altro si darà alla latitanza (per vedersi assolti anni dopo al processo), ma questa è un'altra storia . NOTE . (1). Siciliano, titolare di una gioielleria ai Colli Portuensi intestata alla moglie, con il cognome della quale si presenta negli incontri di affari, Duci è arrestato nel maggio del 1981 in una retata per i sequestri Piattelli, Ciocchetti e Rotschild e scarcerato dopo tre mesi. Sarà sospettato di aver fornito a Carminati i diamanti che gli trovano addosso arrestandolo alla frontiera con la Svizzera. Nel processo NAR 2 - che giudica l'attività romana dopo l'arresto dei Fioravanti - è accusato di due rapine: all'orefice Marletta e al rappresentante di
gioielli Caneschi. Assolto in primo grado, sarà condannato in appello soltanto per la prima a 5 anni di carcere. Ammette rapporti di affari con Carminati e i fratelli Claudio e Stefano Bracci: avrebbe dato loro 30 milioni per un credito recuperato e il padre dei Bracci gliene avrebbe affidati altrettanti per operazioni usuraie. Dopo la chiusura del negozio nel febbraio 1982 non avrebbe più corrisposto gli interessi e perciò avrebbe subìto pressioni da Stefano Bracci, e dopo il suo arresto da Maurizio Lattarulo e infine minacce da ignoti. Avrebbe anche approfittato del pentimento di Sordi per «bruciare il paglione» ai "Walter's Boys", i ragazzini della banda del maggiore «pentito» nero, tutti arrestati, e incamerarne i soldi. Lattarulo, marginalmente coinvolto nel processo FUAN, salirà agli onori della cronaca nella primavera 1993: qualche investigatore resterà impressionato per la sua somiglianza con l'identikit del «biondino» responsabile dell'attentato di via Fauro e poi della strage dell'Accademia dei Georgofili. Gli sviluppi delle inchieste lo scagionano completamente. Anche lui è sospettato di legami con la banda della Magliana ma a suo carico non emerge niente di concreto . (2). Pippo Calò, «cassiere» dei corleonesi, abitava a Roma in un appartamento della moglie di Ernesto Diotallevi. Secondo il pentito dei «casalesi», Carmine Schiavone, Diotallevi e Calò avrebbero affidato al boss della camorra Nuvoletta l'omicidio del fratello del giudice Imposimato, Franco, sindacalista comunista della FATME di Maddaloni, ucciso l'11 ottobre dell'83. Un bersaglio di ripiego: per settimane i killer della Magliana avevano seguito il magistrato che indagava sui legami tra la banda e Cosa nostra, salvato dall'abitudine di girare blindato e armato, cambiando continuamente tragitto. La scelta del sindacalista non sarebbe dispiaciuta a Nuvoletta che dal militante comunista aveva ricevuto fastidi per le battaglie ambientaliste contro lo scempio delle cave dei Monti Tifatini, massacrati dai clan per ricavarne materiali edili per la Ricostruzione. Per questo omicidio il boss della Magliana è stato arrestato nel febbraio '96, e il processo è in corso di giudizio. Uno dei killer, Pellegrino D'Onofrio, è stato a sua volta ucciso, nell'85, dai complici, Antonio Abbate e Antonio Ligato, per le confidenze sul delitto ai boss dei casalesi . (3). Dopo i blitz seguiti alle confessioni di Lucioli (espulso dalla banda perché «cornuto contento»: usava come spacciatore l'amante della moglie) e di Sicilia (un camorrista napoletano che cercherà di avallare
la falsa rivendicazione di Cutolo dell'omicidio del suo braccio destro Casillo) i capi storici sono tutti morti o in galera, anche se il processo nato dalle confessioni di Lucioli ha visto la sentenza drasticamente ridimensionare l'impianto accusatorio. Nel dicembre 1987 gli agenti in servizio sotto casa di un magistrato sulla Cassia vedono entrare nel palazzo una «faccia conosciuta»: è Carminati che frequenta la società di un amico che ha sede nello stesso edificio. Il socio di quest'ultimo è figlio di un personaggio legato ai «testaccini» e al sottobosco affaristico dei «colletti bianchi». La polizia sospetta che gli uffici servano a coprire un traffico di droga e, proseguendo le indagini, individua altri soggetti interessanti: un socio fondatore della banda della Magliana e un malavitoso emergente che vanta rapporti con le «barbe finte». Ci sono tutti gli ingredienti della vecchia banda (molta mala, una spruzzata di estremismo nero, il sottofondo di affarismo finanziario, quel tocco di servizi segreti che rende inconfondibile il cocktail) ma mancano i protagonisti, l'impasto di vecchia malavita e nuova criminalità finanziaria capace di trasformare alcune batterie di banditi nella più straordinaria holding criminale fuori dalle regioni «tradizionali». Ed è anche calata significativamente - nella fase di massima degenerazione partitocratica - la domanda di «lavori sporchi» . (4). Di un altro depistaggio sulla strage, ai danni di militanti di T.P. (Gabriele Adinolfi, Enzo Piso, Dario Mariani) è responsabile agli inizi degli anni Novanta un altro pentito della Magliana . (5). Non è ipotizzabile che il mitra sia stato scelto per indirizzare le indagini contro i NAR. Il MAB modificato alla «veneta» diventa caratteristico dei NAR in epoca successiva: l'innovazione è attribuita a Fachini da Aleandri, che è arrestato e comincia a collaborare nell'autunno '81, cioè dieci mesi dopo il depistaggio, mentre il primo MAB modificato è ritrovato nell'82. Questa accusa, pur essendo stata ripetutamente citata nella pubblicistica sul tema, non ha mai superato il vaglio di una sentenza giudiziaria . (6). Il leader di C.L.A. aveva fatto il «vago» con gli inquirenti: «Conobbi per il tramite di Semerari che me lo presentò un personaggio di spicco della malavita romana, Giuseppucci Franco, detto il 'Negro'. Questi mi chiese di custodirgli delle armi in un luogo a mia scelta. Avvenne che componenti del gruppo Costruiamo l'azione, ignorando la provenienza di queste armi, le prelevarono a mia insaputa. Quando il Giuseppucci me le chiese, io dovetti sostituirle con altre armi tra le
quali non posso escludere ci fosse il 'MAB' che verrà poi ritrovato al ministero della Sanità» (confronta Flamini, "La banda...", cit., p. 109) . (7). Roberto Martinelli, "Fabiola, il boss, il senatore", «L'Espresso», 4 agosto 1995 . (8). «Per i miei trascorsi, per le lunghe carcerazioni subite, per la dignità sempre dimostrata e per il rispetto del codice di omertà al quale mi sono sempre attenuto, nell'ambiente carcerario sono sempre stato considerato una specie di mito [...] io so' un delinquente serio, un appartenente alla banda della Magliana, so' la storia della malavita» (confronta Bianconi, "Ragazzi di malavita...", cit., pp. 239-40) . (9). «L'eliminazione di Pecorelli era stata fatta», spiega Fabiola Moretti, «nell'interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico ed era stata ordinata da Claudio Vitalone, il magistrato. Vitalone non aveva direttamente commissionato l'omicidio ad Abbruciati, ma lo aveva fatto attraverso altre persone. Il delitto era servito a noi della Magliana per favorire la crescita del gruppo, agevolando entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere». La replica di Vitalone - protagonista di un rabbioso confronto con la donna - è sprezzante: «Ma che c'entra la morte di Pecorelli con la mafia? Pecorelli era uomo legato ai servizi segreti. E' lì che dovrebbero scavare. Io sono una vittima di una provocazione politica». Confronta Liana Milella, "Assassinio di favore", «Panorama», 5 maggio 1995 . (10). Bianconi, Ragazzi..., cit., p. 184 . (11). "Due volte partigiano", «O.P.», 2 gennaio 1979. Che poi nel corso dello stesso articolo Pecorelli tentasse di smontare le accuse, arrivando a disegnare un ritratto di Gelli sincero democratico, partigiano combattente e amico di Ceausescu non è cosa di cui far conto. Il giornalista era maestro nel gioco - in cui erano specializzati i professionisti del depistaggio - di rivelare verità sconcertanti per poi buttare tutto sul ridicolo come se fossero false. Un mese prima di essere ammazzato aveva rilanciato la sfida, pubblicando l'elenco dei 56 fascisti pistoiesi «venduti» da Gelli al C.N.L. per acquisire benemerenze antifasciste, prime vittime del suo doppiogiochismo. La sera in cui è ucciso Pecorelli aveva in agenda un appuntamento «a cena con Licio». Non è dato sapere chi sia, ma può essere il capo della P2 . (12). Pecorelli sapeva e fece sapere nel solito stile. Del resto era circondato di collaboratori ad ampio spettro ideologico che gli
garantivano una copertura informativa a 360 gradi: da Sergio Te, avanguardista, il primo - sul «Secolo d'Italia» - a parlare di omicidio dopo la scomparsa, subito dopo la strage di piazza Fontana, di Armando Calzolari, il tesoriere del Fronte nazionale di Borghese, a Paolo Patrizi che le sue prime esperienze redazionali le aveva consumate nella «Classe», il settimanale romano del '68 del gruppo che avrebbe dato vita a Potere operaio. Sarà naturalmente Te, all'epoca direttore responsabile di «Costruiamo l'azione», il successore di Pecorelli . (13). Milella, "Assassinio...", cit . (14). Ibidem . (15). Agli inizi del 1979 il processo di aggregazione dei migliori elementi della malavita romana in un'organizzazione capace di garantire il controllo del territorio e di scongiurare, dopo la bancarotta dei «marsigliesi», nuove «invasioni» è appena avviato: per gli esperti di fusione si può parlare solo nell'autunno 1980, nella campagna per vendicare Giuseppucci, assassinato dalla famiglia Proietti per allungare le mani sulle scommesse ippiche clandestine. Lascia perplessi l'ipotesi che Vitalone - per commissionare un omicidio a Roma - debba cercare i killer a Palermo, avendo linee di collegamento dirette con Abbruciati: suo fratello Wilfredo difende molti affiliati della banda e sarà accusato del riciclaggio di Bot rubati per 700 milioni, consegnati da Diotallevi a Carboni e da questi girati a Calvi . (16). A Roma hanno continuato a esistere batterie indipendenti di rapinatori e di sequestratori, come hanno mantenuto il controllo di numerose «piazze» bande autonome di spacciatori. Il giro degli strozzini e dei «finanzieri sporchi» (Balducci, Sbarra, lo stesso Diotallevi) sarà percepito dai «bravi ragazzi» come una realtà contigua ma non organica alla banda. La resa dei conti finale agli inizi degli anni Novanta avrà per oggetto la gestione dei proventi del riciclaggio di denaro sporco e vedrà schierati su opposti fronti i «duri e puri» della Magliana (Edoardo Toscano, i fratelli Carnovale) ridotti in miseria da anni di stravizi e dalla sospensione delle attività per le lunghe carcerazioni e i testaccini, gli eredi di Abbruciati che si erano arricchiti reinvestendo i soldi nel giro degli strozzini . (17). Di diverso parere il giudice dell'udienza preliminare che nell'ottobre 1995 ha disposto il rinvio a giudizio dei tre funzionari con rito immediato in un procedimento separato dal principale che vede alla sbarra mandanti (Andreotti e Vitalone), organizzatori (Calò e
Badalamenti) ed esecutori (La Barbera e Carminati). Al rinvio a giudizio Vitalone, consigliere della Corte d'Appello di Firenze, ha chiesto al C.S.M. di essere sollevato dalle funzioni fino alla definizione della posizione giudiziaria . (18). Il giudice Alibrandi è divenuto noto per aver ritirato il passaporto al governatore della Banca d'Italia, Baffi, e mandato in galera il suo braccio destro, Sarcinelli. Secondo accreditati commentatori si sarebbe trattato di una vendetta postuma della fazione andreottiana del «Palazzaccio» per l'opposizione manifestata dal responsabile dell'ufficio di sorveglianza di Bankitalia al salvataggio delle banche di Sindona. Durante la campagna elettorale del 1976, dopo il coinvolgimento dell'onorevole Saccucci nel raid omicida di Sezze Romano, Almirante mandò il giudice in T.V. quale "testimonial" dell'immagine del M.S.I. come partito d'ordine . (19). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p. 259 . (20). Ibidem . (21). Anche se alcuni dati giudiziari non corrispondono, nell'estrema destra romana è pacifica l'identificazione di «Camilla» con Claudia Serpieri, ragazza di Alibrandi per sei mesi nel 1978. Arrestata per il FUAN e la rapina all'Omnia Sport nel febbraio 1981, ha ottenuto la semilibertà nel 1985 indicando come lavoro un'attività di segretaria per la scrittrice. E in una conversazione con l'autore, Claudia Serpieri, dieci anni dopo, non ha dubbi: «Dopo tanti anni e tante storie, l'unica persona che per me è rimasta una certezza è proprio Alessandro» . (22). «Camilla», "La vita arrischiata per amicizia", a cura di Barbara Alberti, «Reporter», 29 luglio 1985 . (23). Questa confessione non ha prodotto esito giudiziario . (24). «Un mutamento che avviene», dichiara Fioravanti, «è l'atteggiamento nei confronti delle formazioni dell'ultrasinistra, ivi comprese quelle armate: il capellone, l'ultrà di sinistra smette di essere l'avversario esclusivo o principale, l'obiettivo di ogni azione [...]. Le organizzazioni armate di estrema sinistra vengono prese a modello per la serietà e l'impegno dimostrato nelle loro azioni» (confronta Flamini, "Il partito...", cit., vol. 4, 2, p. 499) . (25). Ivi, p. 498: «Da parte mia», dichiara Calore al giudice istruttore di Bologna Vincenzo Luzza, «esiste un'adesione al metodo dell'Autonomia operaia consistente nel fatto che ritengo essere necessario, al fine di un concreto cambiamento della situazione politica
esistente, un processo di presa di coscienza delle masse proletarie e sottoproletarie tendente a sostanziarsi in un allargamento dell'area di libertà e di partecipazione alla vita politica e sociale [...]. Nella mia concezione politica ritengo che la forma Stato attuale non garantisca sufficienti livelli di partecipazione» . (26). «Quello che è avvenuto, «scrive il presidente romano del FUAN, «è figlio illegittimo della nostra idea, ma pur sempre figlio: a partire dai motivi, che nulla hanno di deterministico e materialistico, fino ai modi di espressione, che niente hanno di bolscevico. Gli studenti, i giovani, anche se forzatamente etichettati nell'area dell'Autonomia, con il loro Movimento hanno investito il sistema, con alla testa il P.C.I., strappandogli dal volto la maschera della democrazia. E' proprio questo che gli indiani metropolitani e le nostre componenti presenti all'interno del movimento hanno messo in risalto» (cit. in Forte, "I processi...", cit., p. 147) . (27). Il 2 febbraio '77 un corteo armato «chiude» la sede del Fronte della gioventù a via Sommacampagna e due militanti dei Comitati comunisti sono feriti e arrestati dopo una sparatoria con una pattuglia in borghese che attacca la coda del corteo a piazza Indipendenza ed è scambiata per un commando neofascista. Segue l'occupazione dell'Università, il comizio di Lama contestato dall'intero movimento (ed è difficile pensare che i picchetti ai cancelli abbiano fatto entrare manipoli di quei neofascisti che quindici giorni prima avevano sparato sugli studenti) . (28). Il 23 dicembre un compagno, Massimo Pila, è ferito a pistolettate. Il giorno dopo per rappresaglia è colpita a un braccio da un proiettile la moglie di un giornalista del «Secolo d'Italia». A Natale un commando di Giustizia nazionale rivoluzionaria ferisce gravemente al fianco Roberto Giunta La Spada, redattore di Città Futura, mentre esce dalla radio. Il 28 i Nuovi partigiani uccidono Angelo Pistolesi, il missino arrestato per il raid di Sezze (e ferito in carcere per aver «cantato») . (29). Conversazione con l'autore con garanzia di anonimato . (30). Muggiani è una figura prestigiosa del neofascismo meneghino. Nel dopoguerra ha partecipato al trafugamento della salma di Mussolini, ma l'età ha raffreddato gli ardori. Dirigente missino, all'inizio degli anni Settanta ha dato vita ai Comitati tricolori, uno dei tanti contenitori per la «piazza» antioperaia e anticomunista: i tre guerriglieri lo ritengono responsabile della soffiata contro i giovani
missini che avevano ucciso a coltellate Gaetano Amoroso, nell'anniversario della morte di Sergio Ramelli, massacrato a sprangate dal servizio d'ordine della facoltà di Medicina di Avanguardia operaia e finito dopo quarantasette giorni di agonia . (31). «Mercoledì 21 ottobre alle 8.50 abbiamo giustiziato i mercenari torturatori della DIGOS Straullu e Di Roma. Ancora una volta la Giustizia Rivoluzionaria ha seguito il suo corso e ciò resti di monito per gli infami, gli aguzzini, i pennivendoli. Chi ancora avesse dei dubbi circa la determinazione e la capacità dei combattenti rivoluzionari ripercorra le tappe di questo ultimo anno e si accorgerà che il tempo delle chiacchiere è finito e la parola è alle armi [...]. Non abbiamo né poteri da inseguire né masse da educare; per noi quello che conta è rispettare la nostra etica per la quale i Nemici si uccidono e i traditori si annientano. La volontà di lotta ci sostiene di giorno in giorno, il desiderio di vendetta ci nutre. Non ci fermeremo! Non temiamo né di morire né di finire i nostri giorni in carcere; l'unico timore è quello di non riuscire a far pulizia di tutto e di tutti, ma statene certi, finché avremo fiato, non ci fermeremo [...]. Mercoledì, per ultimo, è toccato a Straullu. I suoi misfatti erano ben superiori al già grave fatto di appartenere alla cricca degli aguzzini di Stato [...] ben sappiamo in che condizioni taluni camerati sono usciti dal suo ufficio, dopo ore di sevizie. Ben sappiamo le pratiche laide che adottava nei confronti delle donne dei camerati in galera. Ben sappiamo come osava vantarsi di tutto ciò. Finché la mano della giustizia l'ha raggiunto ed annientato, come non tarderà a raggiungere ed annientare chiunque lo meriti» . (32). Francesco Mangiameli detto «Ciccio», trent'anni, professore, responsabile siciliano e dirigente nazionale di Terza posizione, è ucciso dai fratelli Fioravanti e da Vale il 9 settembre 1980 dopo essere stato attratto in un appuntamento trappola. Mentre Valerio comincia a insultarlo e a chiedergli conto degli impegni disattesi, Cristiano estrae la pistola e lo ferisce. L'arma passa nelle mani del fratello e infine di Vale, in un macabro rituale di complicità. Il cadavere, abbandonato in un laghetto di Tor de' Cenci, riaffiora un paio di giorni dopo. I suoi camerati parlano di ottantacinquesima vittima della strage di Bologna. Gli inquirenti hanno a lungo incasellato l'episodio in un complesso teorema accusatorio per affermare la responsabilità di Fioravanti e della Mambro nella strage (il colonnello Spiazzi, uomo della struttura di sicurezza NATO a lungo detenuto e poi assolto per la Rosa dei venti, in
un'intervista all'«Espresso» delineava un identikit del capo dei NAR e protagonista di un tentativo di unificazione dell'area dell'estremismo armato nel quale si sarebbe riconosciuto il professore siciliano anche se gli elementi di corrispondenza effettiva erano irrisori). Sembra accertato alla luce della definitiva smentita del primo anello della catena (la comune partecipazione all'omicidio a Palermo del segretario regionale D.C. Piersanti Mattarella) che il delitto sia maturato in un clima di risentimenti per il comportamento del professore nei preparativi dell'evasione di Concutelli, in un quadro di crescente tensione tra la banda Fioravanti, nella quale stavano confluendo alcuni giovanissimi quadri militari di T.P. e il gruppo dirigente . (33). Luca Perucci è un militante di T.P., ucciso a diciott'anni, il 6 gennaio 1981. Da ragazzino aveva militato per poco in Lotta continua e perciò si tenterà di accreditarlo come la «gola profonda» di Valerio Verbano, il militante dell'Autonomia assassinato in casa perché un dossier sui camerati - sequestrato in occasione del suo arresto per un attentato - era stato usato dal giudice Amato nelle indagini sul terrorismo nero. Nel marzo 1979 era stato arrestato per porto di martello durante un volantinaggio: si preparavano ad assaltare il P.D.U.P. del Trionfale. Come capocuib del C.R.Q.T., il Comitato rivoluzionario del quartiere Trieste, guida la rivolta dei militanti di T.P. contro il capozona Fabrizio Mottironi, considerato «troppo morbido»: e infatti ne prende il posto il «militarista» Dario Mariani. Nel marzo 1980 Perucci è fermato a piazza Medaglie d'oro nel corso di una rissa e subisce un attentato incendiario a casa. Il giorno dopo l'agguato al «Giulio Cesare» è tra i duri che disturbano il corteo di protesta del liceo dove fa intervento esterno, essendo iscritto allo sperimentale «Manin». Era amico di Francesco Cecchin, il militante del Fronte della gioventù morto cadendo da un terrazzo per sottrarsi a un pestaggio sotto casa: in suo onore è proclamato un «lutto cittadino» e nella notte un commando composto da militanti di varie organizzazioni dell'estrema destra incendia alcuni cinema. A luglio Perucci va in campeggio a Riccione con Sordi e Luca De Orazi, un ragazzino bolognese che si era trasferito a Roma per irrobustire il nucleo operativo di T.P. Fermato dopo la strage di Bologna, le sue ammissioni con gli investigatori portano all'arresto di De Orazi, che confessa alcune rapine. Accusa il suo capozona Mariani, che è tra i «nuovi entrati» nella banda Fioravanti, di averlo invitato a fornirsi di un alibi in occasione della rapina al garage
Italia, sotto casa sua, a via Lucrino. Dopo le lunghe confidenze, scompare per tre mesi dalla circolazione. Esce di casa alle 17.45 del giorno dell'Epifania, in compagnia della madre e di due zii, uno dei quali si avvia a mettere in moto la macchina. Pasquale Belsito lo chiama e con estrema freddezza intavola una conversazione, lo prende sotto braccio e si allontanano assieme. Appena girato l'angolo estrae la pistola e lo fulmina con un colpo a bruciapelo di 38 Special che gli spappola la fronte. I familiari lo trovano riverso, tra un'auto in sosta e il marciapiede: muore meno di tre ore dopo in ospedale. Belsito fugge con l'autobus, trova rifugio da un amico, vende la pistola a un amico di nobili natali e con i soldi ricavati si compra un biglietto aereo e scappa all'estero. Il segretario della sezione Trieste del M.S.I. si precipita in ospedale e dichiara: 'Perucci è un nostro iscritto al Fronte'. Convinto che le acque si fossero calmate, con T.P. allo sbando per il blitz della magistratura, aveva deciso di riprendere la militanza. I NAR telefonano: «Abbiamo chiuso per sempre la bocca al delatore Luca Peruccci». La rivendicazione scritta arriverà solo nove mesi dopo, nel volantino Straullu: «Il 6 gennaio abbiamo giustiziato l'infame delatore Luca Perucci che aveva permesso l'attacco della magistratura bolognese contro le formazioni rivoluzionarie» . (34). Marco Pizzari, ventitré anni, geometra, figlio di un gioielliere, è vicino di casa e amico intimo di Luigi Ciavardini. Dopo le nozze, imminenti, con Cecilia Loreti, cugina della compagna dell'epoca di Roberto Fiore, sarebbe andato a lavorare nella ditta del suocero, costruttore. E' assassinato la sera del 30 settembre 1981, a piazza Medaglie d'oro, dopo un breve inseguimento, da un commando che lo aveva intercettato sotto la casa della fidanzata. Era stato appena congedato dall'esercito come allievo ufficiale di complemento. E' bloccato nella sua Panda dall'equipaggio di una Ritmo che gli mostra una paletta. Pizzari scende dall'auto e si reca verso quella che ritiene una pattuglia in borghese. Cavallini e Alibrandi gli tirano tre colpi, due alla testa e uno al torace. Del commando fanno parte anche Vale, Soderini e la Mambro. Interrogato dopo l'arresto della ragazza di Ciavardini, Elena Venditti, aveva ammesso di aver mantenuto i contatti tra il suo amico, latitante per l'omicidio del maresciallo Evangelisti, e Taddeini, capozona di T.P. del Flaminio, incontrando anche Vale e Fiore. Ha anche accompagnato con Cecilia la Venditti in Veneto per incontrare Ciavardini, nei giorni a cavallo della strage di Bologna. E'
perciò indagato per favoreggiamento. Nel volantino di rivendicazione è scritto: «Il 30 settembre abbiamo giustiziato l'infame delatore Marco Pizzari, responsabile della cattura e dell'assassinio del militante rivoluzionario Nazareno De Angelis, che, pur non appartenendo alla nostra organizzazione, godeva della stima e del rispetto di quanti di noi l'hanno conosciuto. La sua morte gridava vendetta e vendetta è stata anche se solo in parte: altri ancora dovranno pagare, non ultimi coloro i quali non hanno perso tempo a vendicarlo con le parole dai soliti lidi sicuri aggiungendo alla vigliaccheria la mistificazione nel momento in cui hanno osato prendere le difese di un infame quale è Ciavardini Luigi». Cecilia Loreti dopo l'omicidio conferma che nell'«ambiente» si erano convinti che avessero fornito informazioni sulla latitanza di Ciavardini. Una telefonata ambigua le era stata fatta da Fiore che aveva chiesto dove lei fosse e lo stesso aveva fatto con Pizzari. Tre giorni dopo il delitto Ciavardini telegrafa dal carcere: «Non sono un pentito. Confermo che Pizzari ha causato l'arresto mio e di Nanni De Angelis». L'omicidio è così motivato in dibattimento da Francesca Mambro: «Secondo il modo di pensare dei NAR nei confronti dei nemici bisogna aver rispetto, anche se vengono condannati a morte per quello che fanno. Nei confronti dei traditori, invece, tale rispetto non può esservi e, pertanto, vanno annientati [...] penso che Pizzari sia stato ucciso per motivi personali e poi qualcuno ne abbia rivendicato la morte collocandosi nell'area dei NAR. Voglio dire che è stato ucciso perché ha fatto arrestare due persone e ne ha cagionato la morte di una, ma il Pizzari non aveva partecipato alla lotta, e, quindi, non poteva considerarsi un traditore» . COSTRETTI A RIPETERE . La morte di Alibrandi trascina un'ulteriore scia di sangue. La mattina seguente, poco dopo le 10.30, Pasquale Belsito e Ciro Lai passeggiano nei giardinetti di via Marmorata, a quattro passi dalla casa di Pasquale Nuzzolo, uno dei «pischelli» di Sordi, che accudisce il «capo» ferito a Labaro. Costui, sfrenato megalomane, s'è costruito una banda su misura che, anticipando di dieci anni la felice intuizione di Pannella, ha chiamato "Walter's Boys". I due non vogliono abbandonare l'amico ma non sanno cosa fare. Ciro Lai non è romano, Belsito ha meno di vent'anni e non ha mai curato gli aspetti logistici di una latitanza .
Ancora minorenne Belsito si è distinto nella batteria dei rapinatori messa su da Vale tra i militanti di T.P., dopo la strage di Bologna è fuggito con altri in Libano dove, fermato all'aeroporto di Beirut, riesce a scappare da una finestra. Al rientro uccide da solo l'«infame» Perucci e poi ripara in Svizzera con Stefano Soderini. Nel momento del bisogno s'è sempre arrangiato con gli amici, ma sa benissimo che non tutti sono disponibili ad aiutare un superlatitante ferito in una sparatoria con la polizia. I ragazzini possono servire per tamponare l'emergenza ma vivono tutti in famiglia e bisogna inventarsi qualcosa per garantire una convalescenza tranquilla a Walter. Discutono animatamente sul da farsi, sono agitati, un po' stralunati e una gazzella dei carabinieri che passa li scambia per una coppia di tossici e punta su di loro. La sequenza successiva - da film poliziesco trash (1) - spiega da sola come mai Belsito sia ancora oggi l'unica primula nera. Ad ogni buon conto il bilancio è tragico, un carabiniere morto, un poliziotto e un passante feriti. Belsito riesce a scappare nonostante una ferita da arma da fuoco alla gamba. Si fa vedere sanguinante al bar di Vigna Clara, ritrovo della banda, chiedendo di Nistri, che gestisce l'assistenza ai latitanti. La ferita è curata con mezzi di fortuna, e Belsito viene ospitato da un amico personale, figlio di un sottosegretario D.C. «Brucia» il rifugio perché nonostante tutte le raccomandazioni: girano operai per lavori di ristrutturazione - si fa vedere trafficare con pistola e mitraglietta. Scompare per qualche giorno poi torna all'improvviso: «Sono stato a trovare dei parenti in Calabria» spiega ai camerati esterrefatti. Gli trovano un'altra sistemazione provvisoria: per l'assoluta strafottenza nei confronti delle norme di sicurezza ha un «consumo» altissimo di punti di appoggio. Più volte hanno sfiorato la sua cattura: una volta, a Torino, se lo sono fatti passare tra le mani, senza riconoscerlo. Qualche altra volta, per giustificare le ingenti spese sostenute per riafferrarne le tracce, hanno finito per arrestare il «poveraccio» che pensavano li avrebbe condotti sulle piste dell'inafferrabile. E' stato così per «Ciccio» Procopio (2), riparato a New York al seguito del fratello, componente del team velistico di Gardini all'American Cup, per evitare di scontare un cospicuo fine pena. Belsito ha trovato anche il tempo di fare due figli con una ragazzina del quartiere Trieste, Serena Di Pisa, militante di T.P. Quando si sono lasciati (o forse perché era insostenibile una latitanza precaria con famiglia al seguito) lei, ricercata per reati minori,
si è consegnata alla polizia a Londra, è rientrata in Italia per farsi un po' di galera e ricostruirsi la vita . Un angelo sterminatore, quindi? Niente affatto, anzi: tra i camerati è noto come «Pastore». «Un ragazzino molto introverso», racconta un coimputato nel processo NAR 2, «che si è trovata l'esistenza stravolta e distrutta da una serie di eventi molto più grandi di lui. E' il classico esempio di chi prende sul serio un discorso e lo porta alle estreme conseguenze. Non è il cattivo, il mazziere, ma uno che non si tira indietro. Gli altri predicano certe cose, lui è l'unico ad avere le palle, a 18 anni, di farle subito. E' solo questione di coerenza: lui è il militante rivoluzionario impegnato nella grande guerra santa, Perucci è un infame, che ha colpito il movimento e va giustiziato. E' un assioma che rientra perfettamente nella logica dichiarata dell'organizzazione di cui fa parte. Che poi il movimento non gli avrebbe mai detto di farlo è un altro discorso» (3). Un anno o poco più di esperienza, tra il Libano e l'Italia, hanno trasformato un «ragazzino molto introverso» in una terribile macchina da guerra. Esperienza comune a molti militanti della «guerriglia nera». Perché paradossalmente i «compagni», ideologicamente internazionalisti, la lotta armata l'hanno fatta solo in Italia e, con rare eccezioni, l'esilio è stato solo un rifugio dopo l'addio alle armi, mentre molti «camerati», anche della leva dello spontaneismo armato, hanno combattuto in quattro continenti. Le esperienze mercenarie dei tanti sbandati che alla fine degli anni Sessanta hanno combattuto in Africa in difesa dei regimi coloniali si iscrivevano in una tradizione di «guardia bianca» e in una logica «interventista» che ha continuato a manifestarsi in Spagna negli anni Settanta e in America Latina negli anni Ottanta, al servizio dei regimi anticomunisti, disposti a coprire compiti di bassa macelleria, in nome di una rivoluzione nazional-popolare assolutamente eventuale. A partire dai sabotaggi degli ustascia nelle isole della Dalmazia, dove si sarebbe fatto le ossa Tuti, per più di un decennio «guerriglieri neri» hanno preso le armi contro il potere. La scelta del Libano, considerata «sciagurata» dall'ala filopalestinese e antisionista della destra radicale, è iscrivibile in questa logica: dalla parte della Falange, minoranza assediata (come i neofascisti nelle città italiane degli anni Settanta), baluardo della Cristianità alle porte della Palestina, ultimi eredi del mito medievale dei Templari. Certo, nello stesso arco di tempo c'è chi, pur provenendo dalla stessa area, le ossa se le va a fare in Afganistan, a combattere la
guerra santa dei "mojaeddin" contro l'Armata rossa imperialista. Non sono mancati quelli che, forti delle esperienze extraeuropee, hanno continuato a combattere in Europa, anche dopo la disfatta dello spontaneismo armato . E' il caso appunto di «Ciccio» Procopio e di Rosario «Sasà» Lasdica, un altro «ragazzino terribile». Il primo arresto è a 18 anni, nell'ottobre '78: con una banda di camerati del Vomero, quartiere «nero», scatena una rissa in birreria, in una piazza di Napoli ritrovo di "freaks" e «compagni». Picchiano duro, poi scappano ma un gruppetto reagisce e li insegue. Nello scontro successivo un suo amico sfonda il cranio a un attivista del W.W.F., Claudio Miccoli, che muore dopo una settimana d'agonia. «Sasà» se la cava con un paio di anni di carcere (e una condanna per concorso in omicidio preterintenzionale a sei anni). Uno dei coimputati, Antonio Torre, è oggi segretario regionale di Forza nuova. All'uscita diventa capozona a Napoli di T.P.-Settembre. Non depone le armi quando il movimento va allo sbando. E' ridotto in fin di vita nel corso di un regolamento di conti dai contorni oscuri: in un appartamento del Vomero cade in una trappola tesa da complici di non si sa quale «affare». Lui è disarmato, di statura minima ma di complessione robusta: gli altri sparano, lo colpiscono alla testa e uccidono il «camerata» che lo accompagnava ma riesce a reagire e nella successiva colluttazione anche due aggressori restano feriti. Tornato in libertà fa perdere le tracce: voci insistenti dicono che anche «Sasà» è finito sui monti del Peshawar a combattere l'Armata rossa. Certo è che ricompare in una strada di Parigi, ferito dopo un assalto a una gioielleria in cui il titolare ha perso la vita. Si arrende. Qualche anno di galera poi è ancora fuori: passa per Roma, dove vive la donna che gli ha dato due gemelli, una «camerata» arrestata per il nucleo di Ostia e poi militante di Settembre. Pochi mesi, poi è di nuovo in viaggio, irriducibile a qualsiasi legame. Fa la spola tra Roma e Londra, a lavorare per Meeting Point, la miliardaria agenzia di servizi messa su dai rifugiati Massimino Morsello e Roberto Fiore, che fa campare decine di camerati in mezza Europa . Anche Fiore, che per non aver mai preso le armi si è visto definire «vigliacco congenito», la sua bella esperienza di internazionalismo rivoluzionario l'ha fatta. Dapprima recandosi in Israele, per conto dei servizi iracheni, impegnato in una missione informativa della cui natura non s'è ben resa conto neanche la sua accompagnatrice, una militante di
T.P. Poi, due anni dopo, trasferendosi per un mese in Spagna, dall'accogliente Inghilterra, per partecipare, con il suo alter ego Adinolfi, a uno dei tentativi di "putsch" che si sono susseguiti nei primi anni della transizione postfranchista, quello del colonnello Tejero. Con la promessa che sarebbe stato affidato loro - i due all'epoca avevano rispettivamente ventidue e ventisette anni - la responsabilità della pubblica istruzione nel governo nazionalrivoluzionario . Se Alibrandi ha coronato nella «bella morte» un vitalismo forsennato che lo ha spinto a bruciare in meno di tre anni tante esperienze, dalla milizia politica alla criminalità organizzata, dalla guerra in Libano alla lotta armata clandestina, molti suoi camerati sembrano invece dannati, da una sorta di coazione a ripetere, a entrare e a uscire dal carcere, nella routine di un'attività criminale che sembra davvero una mala vita, fino alla morte. Così è stato per Elio Di Scala, detto «Kapplerino» per la giovanissima età e la fanatica devozione alle S.S., morto nel corso di una rapina in banca al Portuense, in un conflitto a fuoco col metronotte. Capelli biondi e occhi azzurri, figlio di un professore liceale di destra, «Kapplerino» si fa notare nella zona di Roma sud-ovest per la propensione alla violenza. E' arrestato a quindici anni per la partecipazione agli scontri dopo il massacro di Acca Larentia e poi nell'aprile 1981 nel blitz contro il FUAN, dove era uno dei discepoli di Morsello. Condannato a 8 anni per banda armata e rapine, è accusato di due episodi in cui sono uccise guardie giurate: nel maggio '80, alla COMIT del quartiere Fleming, alla quale avrebbe partecipato anche Alibrandi e per la quale è condannato, l'altra nel novembre '92, all'interno dell'ospedale «Bambin Gesù», rapina per la quale era stato arrestato e poi scarcerato Massimiliano Taddeini, componente del nucleo operativo di T.P. Nell'ottobre 1993, dopo essere riparato in Inghilterra, si costituisce, si dichiara innocente, i giudici gli credono e ottiene la libertà. A vent'anni, mentre era detenuto per il blitz contro il FUAN, i medici gli avevano diagnosticato un tumore benigno al cervello, e i radicali si battono per la sua libertà. Il 14 maggio 1987 a Roma, completamente «fatto» di cocaina e whisky, si mette a sparare contro passanti, auto in sosta e i carabinieri che alla fine riescono a immobilizzarlo senza far fuoco, per la presenza di numerosi bambini che si trovano nel giardinetto di via Marmorata, nei pressi del palazzo della posta dove «Kapplerino» ha scaricato più volte la sua 357 Magnum. E' lo stesso scenario dell'omicidio del maresciallo Radici. Il
raptus è scatenato da un banale litigio con la madre. Nella sparatoria rimane leggermente ferito un passante. Dopo la cattura è ricoverato in ospedale in stato confusionale. A casa trovano settanta grammi di coca, un giubbotto antiproiettile, munizioni e alcuni binocoli. E' arrestato per tentato omicidio, detenzione di armi e cocaina. Quando arriva in carcere i «camerati» che lo incontrano - e che pure ne hanno viste di tutti i colori - sono sconvolti dalle evidenti tracce di un pestaggio e di sigarette spente sulla pelle. I carabinieri incuranti del suo stato di sofferenza mentale avevano pensato bene di «dargli una lezione». Lo riconoscono incapace di intendere e di volere e finisce al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Il buon esito dell'inchiesta sulla rapina al «Bambin Gesù» lo incoraggia a coltivare la passione giovanile. Fino al pomeriggio del 23 giugno '94, un pomeriggio da dimenticare per le forze dell'ordine a Roma. Tre rapine con conflitto a fuoco in un paio d'ore (4). Vicino al cadavere di «Kapplerino», un complice ferito: Fabio Gaudenzi, ventun'anni. Era stato fermato poco tempo prima a una manifestazione di Movimento politico, l'organizzazione degli skinhead. Erano tutti e due imbottiti di cocaina. Sul muro della banca, per giorni, tanti fiori e scritte: «Muore un camerata, ne nascono altri cento. Onore a Kapplerino». Maurizio Boccacci, il leader degli skin, intervistato a caldo da un giornalista che brutalmente gli dà la notizia della morte, dichiara: «Era un caro amico, che aveva avuto il coraggio di fare le sue scelte. Lo conoscevo dal tempo del FUAN anche se non lo vedevo da molto. Lui e Gaudenzi comunque restano due camerati». E alla richiesta di notizie su Gaudenzi replica secco: «Non voglio parlarne. Comunque non ci finanziamo con rapine» (5). Anche Boccacci le sue scelte le ha sempre fatte, scelte anche violente, ma sempre politiche. Anche lui ha vissuto di banca, ma come dipendente (per poi finire dopo innumerevoli denunce e arresti a fare l'istruttore di pugilato). Una settimana prima era stato visto, cinturone slacciato in pugno, guidare l'assalto alla sezione P.D.S. di Tor de' Cenci prima di un comizio contro l'apertura di un campo nomadi, tenuto dal deputato di A.N. Domenico Gramazio e dal consigliere comunale Augello, collega di Boccacci nella CISNAL bancari . Un anno dopo Roma è tappezzata di semplicissimi manifesti: una grande foto, due parole a caratteri cubitali, «Elio vive» e la data della morte. Il ricordo resta vivo, mentre è scemata la preoccupazione di DIGOS e carabinieri per un ritorno di fiamma del terrorismo nero: tre
settimane prima, un altro commando composto in prevalenza da leader dei NAR era stato smantellato dopo un colpo a Tor Lupara. E' il 31 maggio del 1994. I nomi sono di tutti riguardo: Giorgio Panizzari, un detenuto comune fondatore dei NAP, 44 anni, in semilibertà dopo aver scontato 24 anni di una condanna all'ergastolo per banda armata, rapina, omicidio e detenzione di armi (6); Dario Pedretti, leader del FUAN di via Siena, 37 anni, quindici dei quali passati in prigione per una condanna a 26 anni per banda armata, rapina, concorso in omicidio e detenzione di armi, anche lui semilibero; Luigi Aronica, capobanda dei fascisti proletari di Prati, 36 anni, condannato a 17 anni (12 scontati) per banda armata, tentato omicidio, rapina e detenzione di armi; Carlo Gentile (7), ex-militante del Fronte della gioventù, condannato a 10 anni, di cui 7 finiti di scontare nello stesso mese di maggio, per rapine (ne avrebbe compiute un centinaio) e detenzione di armi; Sandro Dari, 33 anni, condannato a 10 anni, di cui 5 scontati per rapina, semilibero. In quattro entrano a volto scoperto nell'agenzia della Banca di Roma, dopo che Aronica e un altro con una pistola giocattolo hanno disarmato la guardia giurata, si fanno consegnare 70 milioni poi fuggono con un'auto e un motorino. Le immediate indagini indirizzano i militari in un appartamento poco distante, dove risiede la convivente di Dari sospettato di aver fatto da basista. Facendo irruzione nella casa i carabinieri vedono fuggire sui tetti quattro persone e, dopo un rapido inseguimento, riescono a bloccarle, recuperando la refurtiva e sequestrando le pistole usate per la rapina. In trappola cade anche il procuratore legale Costantino Matteo, trentun'anni, vicino di casa e amico di Gentile che telefona su un cellulare per chiedere come è andata e non si accorge che a rassicurarlo è un carabiniere. «E' tutto a posto», ribatte, «allora vengo». Lo aspettano, lo arrestano. Nella cantina di casa i carabinieri trovano una mitraglietta, un fucile a pompa, sei pistole, munizioni, parrucche, carte d'identità false e targhe d'auto. Una delle pistole è simile a quella rapinata al vigilante ucciso al «Bambin Gesù». Pedretti era stato arrestato il 5 dicembre 1979 dopo una rapina in una gioielleria e condannato a decine di anni di carcere, essendo considerato un «irriducibile». Compagno di scuola di Dimitri e Lucci Chiarissi al liceo «Vivona» dell'Eur, responsabile dei Volontari nazionali, aveva aggregato attorno alla sua personalità carismatica decine di militanti trasformando il FUAN di via Siena in una zona franca, nella quale le attività guerrigliere convivevano, con assoluta
noncuranza per le più elementari norme di sicurezza, con una intensissima vita di tipo comunitario, tra spinelli e chitarre. Anche i «pischelli» partecipavano alle discussioni sui progetti di scontri e di attentati. Molti «fuggiaschi» dormivano o «scopavano» in sede o nell'adiacente libreria Atlantide. Quando il M.S.I., incapace di controllare la situazione, decide di chiudere la sede, Pedretti non si preoccupa: saranno lui e gli altri camerati che «saltano il bancone» a pagare l'affitto. Compagno di Francesca Mambro prima che la terrorista si unisse a Valerio Fioravanti, Pedretti è condannato per numerose rapine e per gli assalti a Radio Città Futura e alla sezione Esquilino del P.C.I. in cui fu fatto uso di bombe a mano, nonché per aver partecipato, con compiti di copertura, all'omicidio Scialabba, a Cinecittà, nell'anniversario della morte di Mantakas. Fioravanti lo indica come il capo dei «fascisti bucolici», quelli che «ritenevano fosse una scelta 'rivoluzionaria' utilizzare degli atti illeciti commessi per acquistare case e terreni dove andare a vivere insieme, avere figli nello stesso periodo in modo da educarli nello spirito della rivoluzione, farli sposare tra loro, ponendo così le basi per una rivoluzione futura» (8) . Quella di Fioravanti non è una semplificazione banalizzante ma una forzatura. La tendenza «bucolica» attraversa l'intera area contigua alla lotta armata: dalle Comunità organiche di popolo di Signorelli e Pierluigi Scarano (9) a Terza posizione, che in quel periodo pubblica un articolo di Gabriele Adinolfi, "Contrometropoli", un abbozzo di sistemazione teorica di un esperimento comunitario di alcuni militanti di Tarquinia che tentano il recupero di terre incolte. Anche all'interno del FUAN il discorso della «fuga dalla città» è portato avanti con più radicalismo da Paolo Lucci Chiarissi, figlio dell'avvocato Luciano, coimputato di Rauti nel processo ai FAR, animatore dell'«Orologio», un circolo e una rivista dal taglio fortemente "tercerista", una leggenda nell'area dei NAR: nell'immediato dopoguerra aveva guidato un commando armato dei FAR a occupare la sede della RAI di via Asiago per leggere un proclama e poi dileguarsi impunemente. Paolo, capo di Pedretti e Dimitri nella cellula di A.N. al «Vivona» e poi studente di agraria, si trasferisce a Formello (10). Le azioni armate che organizza i raid di Gasparone e i briganti della Tolfa contro l'Acotral, le linee di trasporto con Roma - partono dai bisogni popolari e si caratterizzano per la bassa intensità militare. Dalle forme di lotta «metropolitana» si chiama fuori pur avendo partecipato all'esperienza comunitaria del
FUAN. Alla rapina dell'Omnia Sport - è accusato di aver fatto parte del nucleo di copertura - c'erano troppe donne per i suoi gusti, agli scontri di Centocelle non ci va perché i ragazzini gasati con le pistole sono incontrollabili. Eppure in un'intervista dell'85 dopo l'esperienza della latitanza a Londra, del ritorno, della galera e dell'area omogenea dei dissociati a Rebibbia, Lucci Chiarissi - oggi è uno dei tanti ex-rientrato in Alleanza nazionale - rivendica la scelta generalizzata delle armi: «Con il Campo Hobbit la destra era uscita dal ghetto. Si intravedevano delle possibilità per fare un'attività politica diversa, inseriti nella società. Meglio: era un fermento da trasformare in attività politica. Intorno ad un punto fermo che è il cameratismo, si creavano spazi nel M.S.I. e fuori dal M.S.I. con l'organizzazione di cortei, attività nelle scuole eccetera. Da Acca Larentia in poi le armi non sono più episodiche, diventano un fatto quotidiano. Tutti hanno sparato allora, tutti in quegli anni sanno cos'era una pistola. I vecchi fascisti, le madri, tutti solidarizzano con noi, perché erano stati uccisi dei camerati. Era crollato il Campo Hobbit, il nuovo obiettivo era sparare alla polizia» (11) . Il giudizio di Fioravanti sulla determinazione e sulle capacità militari dei «bucolici» è sprezzante. Non vogliono fare niente e l'unico che si spende con generosità, Pedretti, è «scarso»: a Radio Città Futura si era fatto cadere l'arma, all'Esquilino aveva sparato decine di colpi senza ammazzare nessuno, alla gioielleria di via Rattazzi si era lasciato catturare nonostante fosse bardato di arma lunga e giubbotto antiproiettile. Il progetto comunitario del FUAN, seccamente liquidato da Fioravanti, è una sintesi originale tra ipotesi politica e scelta di vita: «Consideravamo la prima forma di azione», spiega «Camilla», «sentirci umanamente vicini. Una comunità basata sulla comunione. Volevamo vivere tutti insieme in una casa che fosse anche un centro di operazioni. Possibilmente in campagna, in mezzo alla natura. Ci volevano i soldi. Lavorare per i soldi lo vedevamo male, come una perdita di tempo. Il nostro lavoro era cambiare il mondo. Non credevamo affatto che il lavoro in sé nobiliti l'uomo, ma anzi che saremmo facilmente caduti nella spirale comune a tutti, di integrarsi. Il modo più veloce per avere i soldi era rubarli, e intanto fare delle azioni che facessero capire alla gente il nostro discorso, colpendo gli obiettivi giusti» (12) . All'assalto all'Esquilino aveva preso parte anche Luigi Aronica, detto «Pantera», da sempre legato a Pedretti (anche da vincoli familiari:
appena «uscito» dal carcere in semilibertà, Pedretti ha avuto un figlio da Francesca Manno, sorella di Roberta, da sempre la donna di Aronica e componente del commando femminile del FUAN). «Pantera» è il leader di una schiera di militanti di Prati che agiscono in stretto collegamento con il FUAN al punto che il segretario degli universitari missini, Biagio Cacciolla - che pure sottoponeva a una seduta di indottrinamento di base i nuovi adepti, con particolare attenzione per le militanti - era contrario a riaprire la sezione dove spiccano figure come «Marione» Corsi, Flavio Serpieri, «Pietrone» Betori, Pasquale «Pecora» Sidoni, Marco Di Vittorio e i malavitosi Conti e Ragno. Sono dediti a forme di violenza gratuita come l'accoltellamento di barboni e sospettati di gravi attentati come la sparatoria contro il P.C.I. dell'Alberone in cui resterà ucciso l'operaio Zini (per cui saranno processati e assolti Corsi e Di Vittorio) e il ferimento a piazza Irnerio dello studente Nibbi. E' loro opera la rapina all'armeria di via Rasella che nel marzo 1980 vuole commemorare la morte di Anselmi. Alcuni torneranno alla ribalta negli anni successivi: Claudio Conti è condannato a 21 anni di carcere per omicidio, Ragno, l'armiere del gruppo, è più volte arrestato per rapina, «Marione» Corsi - più banalmente - per essere uno dei capi della curva giallorossa. Per pura passione, senza velleità politiche, a differenza di Boccacci, che da tifoso dell'Inter organizza raid di ultrà. Ma anche perché un'inchiesta del Leoncavallo lo indica come possibile omicida, con Carminati, di Fausto e «Iaio», i due giovani autonomi militanti del centro sociale impegnati in un'inchiesta sul traffico di eroina e uccisi a Milano, due giorni dopo il sequestro Moro, il 18 marzo 1978 . Aronica «debutta» al fianco di Alibrandi, nella sparatoria a Borgo Pio contro i compagni, poi con ventisei missini della Balduina è arrestato per ricostituzione del P.N.F. dopo l'omicidio di Walter Rossi. Per la chiusura della sezione di piazza Risorgimento (all'angolo del palazzo è stato ucciso Mantakas) trasloca con la banda a via Siena. Dopo l'arresto di Pedretti rifiuta il primato militare di Fioravanti e mantiene in vita un nucleo autonomo. Qualche rapina, poi l'organizzazione, in occasione della morte di Cecchin, nel maggio '80, dell'incendio di due cinema, per i quali sarà condannato a 5 anni. Progetta un agguato contro l'agente che ha ucciso Alberto Giaquinto negli scontri di Centocelle e ha a disposizione l'arsenale recuperato a Castelnuovo di Porto in un box, composto da materiale trafugato a uno dei partecipanti alla rapina
dell'Omnia Sport, Testani. E' segnalato nei campi scuola della Falange in Libano subito dopo la strage di Bologna. E' arrestato il 6 ottobre 1980 perché trovato in possesso di un arsenale, proveniente dal saccheggio della capitaneria di porto di Ravenna e dalla rapina all'armeria Perini, in una stazione di servizio presso l'uscita dell'autostrada, in Veneto. La polizia intercetta una «colonna» di tre auto, una delle quali riesce a fuggire. Gli arrestati sono sei: due triestini e quattro «fascisti proletari» di Prati, lui, Di Vittorio, Conti e Ragno. Cristiano Fioravanti accusa lui, Di Vittorio e Donatella De Francisci, dell'omicidio Di Leo, il tipografo del «Messaggero» ucciso il 2 settembre '80 al posto del cronista Concina. Presunti mandanti i detenuti Dimitri e Pedretti. Saranno tutti assolti per insufficienza di prove. In semilibertà lavora come tecnico informatico alla cooperativa Abacus . Cosa può aver spinto questo gruppo di «ex» a riprendere le armi? Una spiegazione prova a darla Stefano Di Cagno, ex-camerata di Bari poi simpatizzante dell'estrema sinistra che con gli arrestati aveva condiviso le celle del padiglione della semilibertà a Rebibbia. «Conosco tutti e cinque gli arrestati», racconta a un'agenzia di stampa, «l'unico considerato un 'non politico', Dari, lavorava durante la semilibertà con Pedretti e Panizzari. Una rapina per motivi politici? So per certo, per averne parlato diverse volte con tutti loro, che da molti anni non solo non si interessavano più di politica, ma addirittura rifuggivano da qualunque discorso che avesse un minimo di attinenza con questioni politiche. Si tratta di persone che in carcere si sono comportate in maniera estremamente dignitosa e che probabilmente hanno pagato anche più di quello che meritavano, perché, non volendosi apertamente dissociare dalla lotta armata sono state classificate automaticamente come irriducibili. A questo bisogna aggiungere che trovare lavoro per chi è in semilibertà è veramente un'impresa disperata. Io sono stato fortunato perché sono stato aiutato dalla mia famiglia. Non tutti lo sono altrettanto. Escluderei, comunque, che quello che è successo oggi possa far pensare ad una rinascita del terrorismo» (13). Aveva ragione. Dello stesso parere è il tribunale che li condanna a 4 anni e mezzo di carcere . In qualche caso si è registrato il percorso inverso. Sulla falsariga dei tanti «proletari prigionieri» che nei primi anni Settanta si sono politicizzati nel fuoco delle rivolte e delle lotte nelle carceri di tutta Italia per dare vita ai Nuclei armati proletari, qualche detenuto comune
ha fraternizzato con i terroristi neri incarcerati e ha finito per fiancheggiarne le imprese. In questi rari casi, piuttosto che una scelta ideologica ha prevalso un meccanismo di simpatia umana, di adesione «tribale». E' stato così per Sergio Latini, rapinatore bergamasco, che ha poi cercato di mettere a frutto anni di convivenza nelle carceri speciali offrendosi come collaboratore di giustizia. Con esito disastroso: l'Ordine dei ranghi, alla stesura della regola del quale avrebbe collaborato come scrivano personale di Freda, non è arrivato neanche al dibattimento; Cesare Ferri, da lui accusato della strage di Brescia, si è visto riconoscere dalla Corte europea i danni dell'ingiusta carcerazione. E' così per Mauro Addis, un bandito sardo che, a partire dall'amicizia con Concutelli, ha finito per legare i suoi destini giudiziari a quelli della banda Fioravanti. E' arrestato per la prima volta mentre, a bordo di una Land Rover trasformata in arsenale, tentava con lo stato maggiore della banda Vallanzasca di allontanarsi da Roma dopo la cattura del boss. Per gli scambi di favori con Concutelli, è condannato per favoreggiamento nel processo Occorsio e accusato di partecipazione a banda armata nel maxiprocesso Ordine nuovo bis. All'uscita dal carcere collabora al progetto d'evasione di Concutelli, affittando il «covo» di Taranto e mettendo a disposizione di Cristiano Fioravanti un camper. Nell'autunno 1980 ha frequenti contatti a Milano con Valerio e Cavallini: il 30 ottobre insieme al primo uccide Cosimo Todaro e la ballerina Maria Paxou (saranno perciò condannati a 30 anni). Il 26 novembre è nella carrozzeria di Lambrate quando Cavallini ammazza un carabiniere per sfuggire a un controllo ed è arrestato per favoreggiamento e per falsi documenti. Nel carcere di Opera si trasforma in detenuto modello. Si iscrive alla facoltà di Architettura, viene ammesso al lavoro esterno presso uno studio di progettazione edilizia. Nel luglio 1995 è nuovamente arrestato. In un garage, a sua disposizione, c'è una Croma che è un «clone» dell'auto blindata di un magistrato della Direzione milanese antimafia. L'aspetto sconcertante dell'arresto è che gli investigatori trovano nella sua casa milanese le chiavi di una Dyane all'interno della quale un mese prima, seguendo le tracce di un latitante specializzato in rapine, erano stati ritrovati un Kalashnikov, un fucile a canne mozze e uno a pompa, una carabina, tre pistole e un revolver, micce, 5mila pallottole, quattro silenziatori e mostrine, cinturoni, targhe e una paletta finta dei carabinieri. Come mai Addis non ha fatto nulla per disfarsi delle inutili chiavi? (14) .
NOTE . (1). Il brigadiere Rapicetti resta accanto alla vettura, il maresciallo Roberto Radici si dirige verso i due che si sono seduti, dopo un segno di intesa, su due panchine. Al gesto di Radici che li invita ad avvicinarsi fingono di accondiscendere. Lai, più distante, si avvia verso l'auto, Belsito ripone in tasca l'oggetto che aveva in mano ed estrae improvvisamente un revolver con il quale esplode due colpi mortali: il primo mentre Radici è chinato in avanti per controllare che i due non avessero buttato niente, il secondo da tre o quattro metri. L'uomo è colpito alla base del collo e sotto l'ascella sinistra. I due scappano in direzioni diverse. L'omicida punta sulle Poste dell'Ostiense, Lai apre il fuoco con una 9 Parabellum sul brigadiere che insegue Belsito e riesce a dileguarsi montando su un autobus. Belsito spara su un impiegato che cerca di trattenerlo e mentre attraversa via Marmorata è intercettato da un'auto civetta della squadra antiscippo. I due poliziotti in borghese, avendo notato l'inseguimento, si portano oltre le Poste per bloccarlo. Belsito spara gli ultimi due colpi, uno colpisce al petto l'agente Colangeli che si salva solo perché il parabrezza e poi il portafoglio riducono l'impatto del proiettile. Neanche una ferita alla gamba lo ferma: estrae una 9 Parabellum e continua a sparare. Scappa barcollante, all'altezza della caserma dei pompieri rapina una 126 facendo scendere la coppia dei proprietari ma le pallottole degli agenti bucano uno pneumatico, entra nella caserma e vi esce dalla porta carraia, qui rapina una 127 facendo scendere tre persone. Segue una telefonata di rivendicazione dei NAR alle 12.40: «Abbiamo voluto vendicare Alessandro Alibrandi» . (2). Stefano Procopio, pur non avendo mai militato in T.P., è accusato di aver fatto parte del primo nucleo operativo, comandato da Nistri. Dopo la strage di Bologna ripara in Libano e al ritorno entra nel «circo delle rapine» degli ultimi NAR, trasferendosi a Torino al seguito di Zani. E' accusato (e condannato in primo grado all'ergastolo) per l'omicidio Mennucci. E' arrestato nel settembre 1982 a Parigi, ferito dopo una sparatoria nel corso di un assalto a un'armeria. Voleva procurare armi lunghe necessarie per l'evasione di Nistri. Estradato in Italia dopo una lunga e dura carcerazione che l'ha visto più volte «salire sui tetti» al fianco di arabi e maghrebini, e scarcerato per decorrenza dei termini, era convinto che nessuno gli avrebbe dato fastidio a New York,
dove si stava dedicando alla pittura. L'amicizia mai rinnegata con Belsito gli è costata cara. Nel maggio '93 è fermato e subito espulso . (3). Conversazione con l'autore con garanzia d'anonimato . (4). La più cruenta è alla Banca Commerciale di via Newton. Ore 15.38, quattro uomini scesi dai motorini entrano in banca armati di calibro 38. Passano indenni per la doppia porta, due circondano la guardiola blindata del vigilante intimandogli di uscire. Gli altri prendono in ostaggio un impiegato e si fanno consegnare i soldi. La guardia, Alfonso Tatarella, 49 anni, blocca elettronicamente l'uscita. I rapinatori - i volti coperti da maschere - sparano sulla guardiola che resiste. La guardia cerca di rompere l'assedio, esce sparando e colpisce uno dei banditi al petto, punta al bancone ma non ci arriva, spara altri colpi, ferisce un altro rapinatore alla gola ma è colpito alla testa e al petto. Gli altri due complici se ne vanno facendosi scudo dell'impiegato che colpiscono alla testa con i calci delle pistole prima di scappare, in tre su un motorino, mostrando una pistola. Il bottino è di pochi milioni . (5). Dispaccio ANSA, 23 giugno 1994 . (6). Panizzari, una gioventù trascorsa tra riformatorio e collegio, fu arrestato nel 1971 perché accusato di aver ucciso un gioielliere durante una rapina: si dichiarò inutilmente innocente. In carcere si politicizzò fino a diventare un leader dei NAP, il gruppo armato di estrema sinistra che teorizzava la potenzialità rivoluzionaria dei criminali e degli emarginati. Diventa famoso nel 1975 quando con due complici prende in ostaggio, durante un tentativo di evasione, tre guardie nel carcere di Viterbo. Con la clamorosa protesta si viene a sapere che il giudice Di Gennaro è prigioniero dei NAP, l'azione più clamorosa del gruppo che nel '77 confluisce nelle B.R. Panizzari torna alla ribalta durante il rapimento Moro: le B.R. lo indicano tra i 13 militanti da scarcerare in cambio della vita dello statista. La disfatta della lotta armata non toglie a Panizzari la voglia di ribellarsi alla mostruosa violenza dell'istituzione carceraria: nel novembre 1984 contro la deprivazione sensoriale Panizzari si cuce le labbra e i genitali. Per qualche anno è compagno di cella di Pedretti, nella sezione «semilibertà» di Rebibbia. Nel processo di secondo grado per la rapina è assolto. Nel dicembre 1998 è stato graziato dal presidente Scalfaro . (7). Era stato arrestato nell'85 a 21 anni insieme al coetaneo Renzo Riccieri, un altro iscritto al F.D.G.: li sorprendono in un'auto piena di
armi. Si erano fatti notare ai processi dei NAR. A casa sua trovano cocaina . (8). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p. 259 . (9). Quando scatta il primo blitz per la strage di Bologna, il 28 agosto 1980, Signorelli e Scarano sono arrestati a Cura di Vetralla, nel Viterbese, in un cascinale di proprietà della moglie del professore, dove sono impegnati alla costruzione di una comunità agricola. Al progetto aderiscono una ventina di camerati reduci dall'esperienza di «Costruiamo l'azione» che alla precipitazione militarista di Calore, Aleandri e Bruno Mariani oppongono un discorso sui tempi lunghi, di un percorso comunitario che parte dall'uomo e rinvia a migliore occasione la questione del potere. La fuga dalla metropoli e dalla politica viene interpretata dai «lottarmatisti» come una scelta di diserzione . (10). «Nell'estate del '78 cominciai a frequentare la sezione del M.S.I. e soprattutto il comitato popolare, una formazione ibrida che raccoglieva tutti i ragazzi di destra. Usciamo con un giornale "Contrometropoli" [...]. C'erano circa 400 iscritti al Fronte della gioventù, compresi quelli della sezione di Formello. Il discorso di base era di rivendicare un'identità della provincia nei confronti della metropoli. E proprio la qualità della vita che c'era nella provincia [veniva] proposta come modello. Come soggetti sociali, coloro che vi abitavano» (cit. in Fiasco, "La simbiosi...", cit., pp. 176-77) . (11). Ibidem . (12). «Camilla», "La vita...", cit . (13). Dispaccio dell'A.D.N.-Kronos, 31 maggio 1994 . (14). A rispondere alla domanda non contribuisce certo il velo calato dell'informazione sulla vicenda, di cui ignoriamo l'esito giudiziario . A SINISTRA, A SINISTRA . I quattro colpi, attutiti dal silenziatore, gettano nel panico il pubblico della birreria di piazza Buenos Aires. Il sicario, con il volto coperto da un casco da motociclista, si allontana indisturbato. L'unico a conservare il controllo è la vittima, nonostante la gamba rotta. Gli tocca così di dare le prime indicazioni di soccorso, rassicurare gli amici, trascinarsi all'auto che deve trasportarlo in ospedale. I due colpi a bersaglio chiudono definitivamente - dal punto di vista dei suoi nemici - una "querelle" che si trascinava da anni e che aveva portato Enrico
Tomaselli alla poco invidiabile posizione di essersi guadagnato l'odio implacabile degli ex-camerati senza riuscire a persuadere quelli che riteneva i nuovi compagni di viaggio della genuinità del suo progetto politico. La decisione di tagliare i ponti con l'estrema destra viene da lontano, anche se la rottura, sul piano organizzativo, era apertamente maturata da un paio d'anni, dopo un lungo periodo di carcere speciale . Siciliano, cresciuto in una famiglia di artisti e anche egli ricco di talento grafico (1), Tomaselli è noto a metà degli anni Settanta come il più caustico vignettista della «Voce della fogna», la rivista di Tarchi, che tanta parte ha avuto nella formazione di una nuova sensibilità nelle ultime generazioni della gioventù missina. La sua striscia, fortemente ispirata dall'ultrasinistrorso Chiappori, ha come tema le infiltrazioni e le provocazioni di forze dell'ordine e di servizi di sicurezza contro l'area militante. L'attività di cartoonista - per un anno, mentre frequentava a Roma il corso di grafica pubblicitaria all'Istituto di design, ha anche lavorato come illustratore alla sezione stampa e propaganda del M.S.I. non lo allontana dalla militanza dura, alla testa del Fronte della gioventù . Massimo Anderson, che pure è un moderato, ne apprezza le qualità attivistiche e politiche e lo coopta in direzione nazionale. Finito il corso di grafica Tomaselli torna in Sicilia. Una città strana, Palermo, nei primi anni Settanta: con i neofascisti in maggioranza nelle scuole, senza gruppi extraparlamentari di destra e con un M.S.I. capace di mantenere nelle sue fila le teste più calde (e del resto anche un moderato come il prossimo onorevole e vicesegretario del M.S.I. Guido Lo Porto si diverte ad andare in collina a sparare col mitra) (2), un apparato d'ordine pubblico dall'attitudine fortemente repressiva, per cui un reato altrove pagato con quindici giorni di galera costa lunghi soggiorni all'Ucciardone. La rivalità tra il Fronte di Tomaselli e di Guido Virzì, un'altra testa calda (3), e il FUAN di Mangiameli e Concutelli è fortissima: e si gioca al rialzo, nella durezza degli scontri di piazza, nella ferocia dei pestaggi ai compagni, nella determinazione negli attentati dimostrativi. La rottura con il M.S.I. si consuma nell'estate del 1975: Concutelli, diventato il comandante di O.N., passa in clandestinità; Tomaselli - dopo un periodo in galera per rissa - si dimette dalle cariche del Fronte. La rottura è sulla linea politica ma molti militanti che lo seguono ben presto rientrano nel M.S.I., lui invece si concede una pausa di riflessione. L'anno dopo, quando decide
di tornare all'impegno, Concutelli è latitante a Roma, alla testa di una banda autonoma anche dalla «rete» politica clandestina di Ordine nuovo, mentre a Palermo detta legge, nell'ambiente più radicale, Lotta popolare, il gruppo fondato da Signorelli fondendo populismo missino e radicalismo ordinovista, in un'esperienza che si ferma ambiguamente sulla soglia del passaggio alle armi . «L'origine della formazione di questo movimento», racconterà anni dopo Signorelli al giudice fiorentino Minna, «quella più remota, va ravvisata in un disagio che cominciò a serpeggiare nel M.S.I. per la politica conservatrice seguita dal partito [...]. Lotta popolare, prima ancora di divenire una corrente interna al M.S.I. e di acquisire poi una sua autonomia rispetto al partito, ebbe a manifestarsi in alcune zone periferiche di Roma e in particolare al Prenestino [...]. Il movimento destò, per la novità del discorso politico che instaurava, una notevole curiosità che determinò a sua volta la frequentazione della sede di via Castelfidardo da parte di numerose persone e ciò anche perché una delle iniziative di Lotta popolare fu la creazione di Radio Contro» (4). Quando è chiaro, con l'arresto di Concutelli, che Signorelli millanta i rapporti con chi la lotta armata la fa, i siciliani, che avevano fiancheggiato i Gruppi di azione ordinovista, si mettono in proprio. Nasce così il Fronte di liberazione nazionale, che, sviluppando i discorsi avviati in area ordinovista sull'unità di lotta arabo-sicula, richiama nel nome e nel foglio di lotta («Libertà») l'esperienza del F.L.N. algerino. All'uscita dal carcere, la cosa procurerà la reazione indignata dei proconsoli catanesi di Concutelli, Chicco Rovella e Leone Di Bella, arrestati per favoreggiamento nell'inchiesta sui GAO. I due si sentono scavalcati e richiamano inutilmente all'ordine i quadri etnei. Il gruppo, qualche decina di militanti tra Palermo e Catania, mantiene un doppio livello organizzativo, tra iniziativa pubblica e attività illegali. Una situazione di emergenza nell'autunno del '77 costringe Tomaselli a portarsi un arsenale a casa. La perquisizione, casuale, a tarda sera, dopo due attacchi con pistole lanciarazzi contro sezioni del P.C.I., gli costa giusto un anno di galera, perché il giudice istruttore, un vero duro, Rocco Chinnici, aspetta spietatamente l'ultimo giorno utile per rinviarlo a giudizio. Per sua fortuna, Chinnici non si accorge che l'arresto è avvenuto prima della mezzanotte e quindi scatta la decorrenza termini. Un anno di galera comunque durissimo, perché per l'intero periodo è tenuto nel braccio dei detenuti in isolamento giudiziario, costretto a fare
sempre il passeggio da solo e a non parlare con nessuno. La tragedia dell'Etna, due militanti saltati durante un'esercitazione dinamitarda la notte di Capodanno del 1978, è una mazzata decisiva per l'F.L.N. (5). All'uscita del carcere Tomaselli trova che i suoi hanno ripreso i rapporti con Signorelli, dando vita a un'esperienza ibrida, di condominio tra i due maggiori gruppi attivi a livello nazionale: Costruiamo l'azione, ennesimo riciclaggio delle strutture ordinoviste, e Terza posizione, aggregazione giovanile romana che ha dimostrato gran dinamismo e capacità espansiva. Alla testa del nuovo gruppo Ciccio Mangiameli, che si è finalmente deciso a uscire dal M.S.I., e Tommaso Incardona, un altro leader storico della «piazza nera» palermitana, che sarà poi accusato di frequentazioni con i servizi segreti. Mentre Tomaselli è ancora in galera, nell'estate 1978 il processo di unificazione raggiunge il punto più alto. Un campo scuola in Sicilia organizzato da C.L.A. vede la partecipazione di T.P. Lo strano risultato è che qualche tempo dopo C.L.A. perde i pezzi. Passano in blocco a T.P. i siciliani e i veneti più vicini a Freda, capeggiati da Roberto Salvarani e Francesco Ingravalle, collaboratori delle edizioni di A.R., il primo come organizzatore e traduttore, il secondo come studioso di Nietzsche . All'uscita dal carcere Tomaselli non ci sta, e compie il primo strappo con l'ambiente neofascista: aderisce al Fronte indipendentista siciliano, un gruppo nazionalista che rilancia le vecchie tematiche del separatismo, individuando la sponda non più negli Stati Uniti, ma nel Sud del Mediterraneo, nel radicalismo libico e panarabo. Calore non lo sa e gli attribuisce la presenza al vertice del settembre 1978 svolto a casa di Signorelli per formalizzare il passaggio dei «siciliani» nei ranghi di T.P. (6). Tomaselli ha un alibi di ferro: era ancora in galera. Consensuale o meno che sia stata la confluenza, pochi mesi dopo i gruppi sono ai ferri corti. Mangiameli, il vecchio socio di Concutelli, diventa dirigente nazionale di T.P.: ha stretto i rapporti con Fioravanti per organizzare l'evasione di «Lillo» e corteggia insistentemente Tomaselli. Convinto che l'ex-segretario del F.D.G. sia su posizioni apertamente guerrigliere, Ciccio millanta la leadership di T.P. nell'escalation militare della piazza romana. L'opinione è condivisa dagli inquirenti della strage di Bologna che gli attribuiscono un documento trovato al dirigente di Latina di T.P., Carlo Battaglia, in cui, parafrasando un lungo brano di "Occidente" di Camon, si esalta l'uso del terrorismo. Quando Fioravanti sfida l'organizzazione e va ad
ammazzare un poliziotto nel cortile del «Giulio Cesare», il santuario nero del quartiere Trieste, usando militanti del nucleo operativo di T.P., è Roberto Fiore a strizzare l'occhio: Enrico, siamo stati noi. Non sa che quella stessa banda progetterà di «giustiziarlo», dopo aver ucciso a freddo, simulando un processo sommario, Ciccio Mangiameli. Ma Fiore era fatto così: talmente pieno di sé da pensare di poter cavalcare qualsiasi tigre senza rompersi le ossa. Molti, giovanissimi come lui, per seguirlo se le romperanno . Tomaselli, per il momento, non abbocca: è già alla ricerca di qualcosa che oltrepassi l'esperienza del neofascismo, fosse anche il più radicale. E' l'animatore di «Tabula rasa», una rivista di «movimento» che sulla falsariga di «Quex» dà voce ai detenuti e rilancia il dibattito sullo spontaneismo armato. Alcuni temi agitati da T.P., come la lotta dei popoli contro l'imperialismo, l'oltrepassamento degli steccati destra/sinistra, sono più vicini alla sua sensibilità. Così dopo la morte di Ciccio e la diaspora del gruppo dirigente di T.P. tra esilio e galera, il flirt ha buon fine. Si giustificherà poi Tomaselli: «Ho dato per scontate molte cose, su altre hanno fatto finta di essere d'accordo». Malignamente liquideranno la faccenda gli esuli: «Con Ciccio non c'era spazio per uno come lui, abituato ad essere il primo della classe». Certo è che nell'estate del 1981 ottiene l'investitura a dirigere la struttura interna superstite di T.P. Anche Gioventù nuova, il gruppo sopravvissuto al blitz del settembre 1980, è allo sbando per l'arresto dei due giovanissimi leader, che dopo il carcere si dedicheranno alla ricerca mistico-esoterica in Helios. A settembre Tomaselli rientra dall'Inghilterra, dove è stato fermato con Fiore e Marcello De Angelis, e rilasciato perché a suo carico non esistono provvedimenti restrittivi. Dà vita a Settembre riaggregando un centinaio di quadri inferiori e di militanti di base di T.P., ma anche aprendo nuove sedi a Catania, Latina, Napoli e Brescia. Tomaselli ha le idee chiare: addio all'iconografia e alla mitologia neofascista, via dalle scuole quadri l'evoliana "Dottrina aria di lotta e vittoria" e la "Conquista di Berlino" di Goebbels (8). Lavoro sociale nei quartieri, adesione ai comitati autonomi contro la tortura e gli euromissili, un paio di anni di isolamento a destra e dopo un duro lavoro di rifondazione i ragazzi saranno pronti per ricollocarsi apertamente nell'estrema sinistra. Tomaselli seleziona il gruppo dirigente privilegiando gli elementi che hanno attitudine sinistrorse, ma è costretto a un complicato gioco di
equilibri: calato dall'alto in un ambiente ostile, deve fare i conti anche con lo spontaneismo armato. Trattiene i suoi sul crinale del passaggio alle armi, ma non può fare a meno di compromettersi personalmente. Un po' per fabbisogno personale, un po' per urgenza di legittimazione in un contesto in cui ha diritto di parola chi spara di più (e meglio), entra in batteria con i clandestini dei NAR. Stringe un rapporto forte con Nistri, il capo del nucleo operativo di T.P., scarcerato per anoressia nella primavera 1981, il "factotum" della struttura di sostegno ai latitanti. Freddo, preciso, di poche parole, Tomaselli si fa apprezzare come rapinatore: alto, magro, con i baffetti sottili, per le sue caratteristiche fisionomiche e di stile è usato per gli impatti difficili, una volta è travestito da ufficiale della Finanza. Con ottimi risultati. Un pregiudicato alla casa del quale bussa per ritirare del «materiale» si rifiuta di aprirgli: è convinto che sia uno sbirro. Le cose vanno meno bene sul versante politico: emergono i primi dissensi con il centro estero di T.P. Da molti mesi Zani e Nistri insistono: se vogliono salvare il proprio onore politico e il diritto stesso di esistere dell'organizzazione, gli esuli devono rientrare. Dopo l'arresto di Valerio Fioravanti non hanno più l'alibi della sua volontà omicida, ma è solo dopo la cattura della Mambro che Adinolfi e Spedicato si decidono. Per il ruolo che ricoprivano, per il temperamento più maturo, non si erano compromessi, come Fiore, in giochi pericolosi ai margini della lotta armata, eppure all'arrivo in Italia sono costretti ad appoggiarsi alla struttura che garantisce la latitanza dei clandestini operativi. Il loro arrivo coincide con l'arresto di Tomaselli per una rissa a Brescia, ai margini di una manifestazione del locale comitato tercerista a sostegno dello sciopero della fame dei prigionieri dell'Ira (che si concluderà con la morte per inedia di dieci miliziani) . Nei tre mesi della sua detenzione Adinolfi si mette di lena a sostituire i capizona designati da Tomaselli, e al tempo stesso spinge per la costruzione di un'autonoma organizzazione militare, parallela alla struttura politica dell'organizzazione. Un plateale rovesciamento di linea: qualche mese prima, alla vigilia della prima rapina organizzata in proprio da militanti di T.P., Adinolfi in un incontro con Tomaselli a Besançon aveva minacciato fuoco e fiamme per «impedire la criminalizzazione del movimento». Ora non esita a coinvolgere i militanti di Settembre nelle attività di sostegno ai clandestini, non necessariamente armati. Come quella volta che pretende e ottiene di
andare a casa della ragazza di Nistri per vedere in T.V. la partita di Coppa della Roma. Lo scontro diretto ha luogo nell'estate dell'82: Tomaselli, uscito di galera, propone che i capi si facciano da parte, e una conferenza autogestita dei quadri decida linea politica e struttura organizzativa del movimento. La questione è ancora aperta quando il 17 settembre, in compagnia del superlatitante Walter Sordi, è arrestato in circostanze grottesche. I due sono ospiti a Laviano nel villino di famiglia di un «pischello» dei "Walter's Boys". L'accordo è che se il padre decide di andare al mare, lui telefona e loro liberano la casa. La latitanza dei «guerrieri senza sonno» è fatta anche dell'aiuto di ragazzini generosi, che però devono rendere conto a papà e a mamma quando si mettono a disposizione per tenere armi o per ospitare saltuariamente i superlatitanti. Quella mattina tutto congiura per il disastro: il pischello esce prima che il padre decida di spostarsi a Lavinio, Sordi e Tomaselli, impegnatissimi nei preparativi per l'evasione di Nistri, non hanno nulla da fare e si trattengono in casa, la sera prima hanno parcheggiato la macchina in giardino e non all'esterno della villetta, così quando arriva il padrone di casa si convince che ci sono i ladri e chiama i carabinieri. In un primo momento i due riescono quasi a convincere l'uomo che erano amici e ospiti di suo figlio, poi uno dei carabinieri curiosa nel borsello di Sordi e il gioco finisce. Il pentimento di Sordi porta a decine di arresti nel giro di un mese: molti sono quadri di Settembre, coinvolti negli ultimi fuochi dei NAR. In galera l'area dello spontaneismo armato - dai vecchi redattori di «Quex» ai militanti dell'ultima leva dei NAR- si aggrega intorno a «Liberazione», un bollettino animato dai fratelli Cola, Massimo e Guido, i responsabili romani di Settembre, fedelissimi di Tomaselli (che sarà gambizzato nella birreria di Guido, anche lui arrestato dopo le confessioni di Sordi). Un'altra voce che rilancia il discorso della rottura col neofascismo. L'unico che tiene duro e rifiuta la messa in discussione dell'identità politica è Tuti. Tomaselli è tra i più radicali in questa direzione . All'uscita del carcere, con militanti provenienti da esperienze politiche molto diverse dà vita al Centro di iniziativa politica, e successivamente si ritrova nel gruppo di Indipendenza, che pubblica l'omonima rivista, anima comitati e iniziative di solidarietà con il Sinn Fein, il Fronte di liberazione corso, i baschi, i pellerossa di America, cerca faticosamente di costruire rapporti a sinistra, dichiarando apertamente la provenienza dall'estrema destra di alcuni suoi militanti. Caratterizzano Indipendenza
l'inequivoca collocazione a sinistra, un antifascismo non dogmatico, l'individuazione della questione della nazionalità come terreno qualificante di un coerente impegno antimperialista. La «conversione» di Tomaselli convince taluni (i trotzkisti di Socialismo rivoluzionario che gli affidano la cura grafica delle proprie riviste, gli ecologisti di Kronos 91, che lo eleggono nel direttivo nazionale) ma resiste l'acuta diffidenza degli autonomi, che temono paranoicamente un tentativo di infiltrazione. L'agguato degli ex-camerati, nell'autunno del 1987, non lo piega, anche se finirà con l'arrivare alla conclusione che la sua militanza a sinistra è senza prospettive. Alla fine degli anni Ottanta, quando sceglie di tornare in galera, per scontare il residuo di pena per le attività dei NAR, ha già abbandonato ogni impegno politico . «Sicuramente, nella storia politica dell'estrema destra c'è stato un percorso che da destra sembrava portare a sinistra: un percorso su cui, in passato, si sono avventurati in tanti - dalla Giovane Europa al Movimento studentesco di Giurisprudenza, da Lotta di popolo alla Caravella, da Università europea a Terza posizione. Ma altrettanto sicuramente e prescindendo ovviamente dai casi in cui fu mera provocazione, lungo questo percorso nessuno era mai giunto a superare la soglia fatale, limitandosi tutti alla ricerca di un'alleanza tattica, in funzione 'anti-sistema' con l'estrema sinistra o, diversamente, giocando la carta del 'superamento' - tutto verbale - degli schemi tradizionali destra/sinistra. Questa soglia è stata invece superata, certo non con la velocità del lampo che converte San Paolo sulla via di Damasco, nel momento in cui passate esperienze politiche ed umane vengono a maturazione, concretizzandosi nel Centro di Iniziativa Politica/Indipendenza. Che non solo opera una frattura totale, insanabile, con il mondo politico dell'estrema destra ma che si colloca nei fatti e nella teoria politica - sul versante opposto» (9). Così i compagni di Tomaselli polemizzano, subito dopo il suo ferimento, con gli autonomi che si ostinano - in parte per ignoranza, in parte per interesse di bottega - a disconoscere l'autenticità di una tanto radicale mutazione politica. Una traiettoria originale, effettivamente tentata da pochi e comunque mai riuscita nelle forme dell'organizzazione collettiva. Un'esperienza - quella del «farsi» compagno - che è vissuta anche da Roberto Nistri . La sua storia è quella classica di tanti altri giovani neofascisti. Padre «repubblichino di sinistra», cinque anni nel Fronte della gioventù,
attivismo di prima linea, posizioni politiche oscillanti fra l'anticomunismo viscerale e il socialismo corporativo. «Dai nostri padri», racconta, «'ereditammo' molti miti che provenivano dalla Repubblica sociale e che personalmente ho sempre considerato una specie di 'corazza morale' con la quale mi difendevo dalle accuse di connivenza del fascismo e del neofascismo col padronato, col grande capitale. Erano i miti della socializzazione delle fabbriche e del corporativismo, cavalli di battaglia di quella R.S.I. a cui noi tutti guardavamo con grande rispetto ed ammirazione, idealizzazione di un'esperienza politica ed esistenziale tanto più importante perché vissuta con la certezza dell'impossibilità di uscirne vincitori e, forse, vivi. Certo quelle idee - mi riferisco alla 'socializzazione' - hanno finito con l'entrare nelle strategie aziendali delle grandi società che vogliono aumentare produttività e dividendi, sono state prese in prestito dagli Stati capitalisti, che hanno trasformato le corporazioni in lobby e potentati economici, ma allora per noi significavano molto, significavano essere dalla parte del popolo e questo era la cosa più importante perché ci faceva sentire veramente rivoluzionari. Ma negli anni Settanta anche quelli che sarebbero potuti diventare spunti per un discorso che toccasse la nostra visione del sociale, passarono sotto lo schiacciasassi dell'anticomunismo viscerale della 'diga di destra', dell'ordine e dello Stato forte e scomparvero, all'interno del M.S.I., anche a livello di semplici proposte politiche. Ricominciai a sentir parlare di socialismo quando lasciai il Fronte della gioventù» (10). La svolta per Nistri, come per tanti altri, è nel 1977 con Lotta studentesca, che sta per generare T.P. Una scelta motivata più tardi con la ripugnanza per l'ambiente missino, «in cui o si faceva del teppismo o della politica come nella D.C.» (11), senza drastiche evoluzioni ideologiche. Nel gruppo ritrova il fascismo popolare e di «sinistra» che lo aveva sempre affascinato e la possibilità di esprimere finalmente la voglia di lavorare fra gli studenti e la gente in modo serio. Da fascista rivoluzionario . Esemplare è la vicenda di Palmarola, una borgata a nord di Roma dove gli attivisti di T.P. sono alla testa della lotta degli abusivi contro la giunta di sinistra per il diritto alla casa. Un commando del nucleo operativo lancia bottiglie molotov contro la casa di un vigile urbano che si era distinto nella «repressione», denunciando ripetutamente il leader degli abusivi. Un capozona di T.P., Corrado Bisini, apre un negozio di
frutta nella borgata, per garantire una presenza costante ma anche per finanziare il gruppo . Quando un corteo di abusivi è attaccato dai compagni del «Fermi» che avevano riconosciuto alcuni tippini, i proletari reagiscono al lancio di pietre degli studenti al grido di «fascisti». E «Paese sera» registra puntualmente la situazione paradossale parlando di un corteo proletario (egemonizzato dai fascisti neri) attaccato da fascisti rossi. Caratterizza T.P. l'appoggio dichiarato ai movimenti di liberazione nazionale «di sinistra», come baschi e sandinisti, oltre ai più gettonati, a destra, palestinesi e irlandesi. La rottura con la logica interventista dominante in A.N. e O.N. si manifesta nella critica chiarissima ai regimi militari, a partire dall'adozione del peronismo di sinistra dei Montoneros come idealtipo politico, una scelta non solo verbale. Un Commando di lotta e vittoria - che richiama l'evoliana «dottrina aria» sulla guerra - rivendica un attentato contro l'ambasciata del Nicaragua somozista (ma da un mese nei locali s'era trasferita la rappresentanza diplomatica cubana e i «pischelli» che avevano organizzato l'azione non se ne erano accorti...). Vinciguerra - citando come fonte Dimitri - racconta che un nucleo armato di T.P. aveva svolto il servizio di scorta per il leader montonero, Mario Firmenich, in visita segreta a Roma, liquidando il fatto come una buffonata. Lo smentisce Mario Bonasso, dirigente del movimento. In un bellissimo libro (12), racconta che in quei giorni (nel 1979) girava a Roma un commando incaricato da Videla di ammazzare Firmenich e che la scorta era stata fornita dal... P.C.I. Al termine della visita il Comandante ringrazia i componenti della scorta (che era effettivamente di T.P.), dando loro l'arrivederci nell'Argentina libera . Per l'appoggio ai sandinisti e gli attacchi a Videla i tippini sono liquidati dai rautiani come mezzi traditori e criptocomunisti. «Le cose 'politiche' di Evola», scriverà anni dopo Nistri, «non mi convincevano, le trovavo piene di retorica. Apprezzavo solo "Rivolta contro il mondo moderno", per i suoi contenuti storico-mitici, da appassionato (ora non più) di mitologia nordica e indoeuropea, come tanti a T.P. Non lo ritenevo un testo fondamentale, quale era spacciato dai 'maghetti'. Ho sempre preferito La Rochelle. La sua idea di un'Europa socialista, unita, anticapitalista e antiborghese mi affascinava e il personaggio ben si adattava ai nostri ideali esistenziali eroici e tendenzialmente autodistruttivi» (13). «T.P.», replica polemicamente a chi ne parlerà poi come esperienza di oltrepassamento degli steccati, «è nata, vissuta e si è
sciolta come movimento neofascista. Il tippino medio vestiva da compagno e aborriva le discoteche, ma girava con la runa al collo e amava i poster 'nordici' di Frazetta. Ascoltava musica rock ma anche i canti lanzichenecchi e gli inni nazionalistici. Era vicino ai popoli del Terzo mondo in lotta per la libertà, ma considerava l'impegno politico come qualcosa di estremamente elitario, riservato a una 'casta spirituale' che era, alla fin fine, una specie di razza eletta. Viveva spesso a contatto con la gente, aspirava magari a risolverne i problemi concreti, ma continuava a sentirsi un nipotino delle S.S.» (14). L'elemento mitologico permetteva di evitare qualsiasi caduta di stampo razzista. Il concetto di élite spirituale includeva i militanti rivoluzionari di tutte le razze e le religioni: il vice di Nistri, Giorgio Vale, era, per dirla con l'orribile linguaggio degli skinhead, un «meticcio». «La militanza in T.P.», riconosce Nistri, «ha rappresentato per me un'esperienza fondamentale dal punto di vista politico ed esistenziale, ma questo non mi impedisce di vederne i grandi, spaventosi limiti. T.P. è stato un movimento rivoluzionario (neofascista) ma alcuni militanti e dirigenti non avrebbero sfigurato fra i seguaci di Romualdi (15) quanto a collocazione ideologica» (16). Si riferisce, ovviamente, a Dimitri (17), arrestato con lui mentre trasferivano un arsenale dal «covo di via Alessandria». Allo choc per l'arresto si aggiunge qualche amara considerazione sulla purezza rivoluzionaria di uno dei suoi capi, di cui emergono i contatti con Delle Chiaie e il numero due del SISMI, Musumeci. Nistri è formalmente il vice di Dimitri nel nucleo operativo, ma in realtà fa quel che gli pare per riferire "a posteriori" al «capo». Una struttura modesta: una decina di militanti, qualche pistola per garantire la sicurezza negli attacchinaggi in un periodo in cui le sparatorie sono all'ordine del giorno e qualche furto di motorini e in appartamenti per pagare le spese. I militanti sono organizzati in squadre paramilitari per gli scontri di piazza, ma l'indicazione sull'uso della forza è che la violenza è strumentale alla conquista dell'agibilità politica e alla crescita complessiva dei quadri, mentre il livello militare - giunto alle pistolettate quotidiane - va abbassato . «Noi ci siamo ritrovati a scendere in piazza», racconta Marcello De Angelis, fratello di Nanni, il «capo» dei picchiatori di T.P., «in una situazione in cui lo scontro per la sopravvivenza era all'ordine del giorno. Negli anni immediatamente precedenti, dal '75 al '78, le sparatorie erano frequentissime per svariati motivi: un corteo poteva
essere attaccato da due o tre scalmanati o una sezione assaltata da una masnada. La gente si sparava spesso e volentieri solo perché si aspettava che gli altri sparassero. Noi ci siamo posti subito il problema di come stare in piazza. Lotta studentesca nasce come gruppo militante: il primo obiettivo è la riconquista del territorio e dell'agibilità politica. A Roma eravamo rinchiusi in tre quartieri, Eur, Parioli e Vigna Clara e anche lì avevamo difficoltà, mentre nelle zone di frontiera, come Balduina-Trionfale o Appio-Tuscolano, lo scontro era quotidiano. Non volevamo fare massacri ma non potevamo neanche mandare i nostri al massacro in un contesto nel quale a ogni presidio ci aspettavamo che i compagni ci sparassero addosso. La nostra logica era che non si alzava il livello di scontro e non si rispondeva mai in eccesso. In fin dei conti, da quando abbiamo ripreso il controllo della piazza, le armi da fuoco sono scomparse dallo scontro di massa. Eravamo un gruppo militante, quindi eravamo preparati allo scontro, che era una necessità vitale: a quei tempi non si poteva fare un volantinaggio per più di 15 minuti senza una rissa. I nostri erano preparati atleticamente: ci abituavamo a manovrare in maniera organizzata, ognuno sapeva da chi prendere ordini, per scongiurare il panico, controllare il livello dello scontro ed evitare vittime inutili o violenze impolitiche. Era un punto etico fondamentale che le donne non si dovessero toccare mai. Ci sono stati due espulsi perché avevano picchiato donne, altri sono stati puniti per il linguaggio usato durante uno scontro. Noi cercavamo di garantire una tenuta etica e non potevamo tollerare chi faceva gesti osceni e gridava parolacce. Non si trattava di difendere un'immagine perbene, perché noi stavamo lì a prendere a martellate la gente. La questione non era di stile o di autocontrollo ma di uso politico della violenza. Bisognava tenere in mente e offrire un'immagine all'esterno: noi non eravamo teppisti o una banda da strada. Noi, i nostri avversari e qualunque spettatore dovevamo avere la coscienza che la nostra violenza era differente, con un senso e uno stile, e effettivamente i nostri hanno sempre mantenuto il controllo e rispettato le regole, anche quando noi ritenevamo che l'avversario stesse lì lì per spararci» (18). De Angelis sottovaluta un elemento determinante per la riconquista della piazza romana da parte dell'estrema destra: dalla fine del 1977 decine di quadri di quartiere dell'Autonomia si arruolano nel partito armato, abbandonano la pratica dell'antifascismo militante, considerato «politicamente arretrato», e determinano così un riequilibrio delle forze. Il massacro di Acca
Larentia è opera di una banda di quartiere marginale, e sarà duramente condannato da Oreste Scalzone, tra i leader più prestigiosi del movimento . Le tattiche per mantenere basso il livello di scontro non erano ortodosse: «Eravamo inquadrati militarmente», racconta De Angelis, «quando facevamo un presidio o una ronda 80 persone marciavano in fila per quattro e si finiva regolarmente per massacrare di botte i 'coatti' che venivano con i vespini e ci pigliavano per culo o sfottevano le ragazzette. Nanni, mio fratello, non era inquadrato, stava sempre per conto suo per risolvere le questioni diplomatiche con gli 'indigeni'. Aveva una squadra che noi chiamavamo dei "brutti", e quando bisognava fare un presidio senza scontri, o c'era una scuola vicino a un commissariato andavano a volantinare loro che avevano un aspetto così pericoloso che non scoppiava mai il casino, perché i compagni vedendoli li lasciavano perdere. Nanni se li era selezionati, tutti quanti oltre il metro e 85. Facevano canottaggio, lotta libera o rugby; si vestivano imbottiti, pieni di cicatrici, con gli occhiali. E li comandava lui, capitano della squadra campione di Italia di football americano, capelli lunghi e barba, una striscia di cuoio in testa, occhiali da sole, giubbotto di pelle. E con gli stivali superava il metro e 90. Con loro non scoppiava mai una rissa» (19). Per le attività pubbliche bastava qualche pistola, per difendersi da eventuali attacchi armati dei compagni. L'imponente arsenale sequestrato a via Alessandria (tra cui 15 Winchester automatici, 20 chili di esplosivo, micce) non era di T.P. ma in prevalenza il frutto della rapina all'Omnia Sport - un bottino di 60 pistole e 10 fucili - assaltata in primavera da un commando composto dalla crema del terrorismo nero romano: Valerio Fioravanti, Alibrandi, la Mambro, Dimitri e la partecipazione come comparse di una ventina di militanti del FUAN di via Siena. Quel pomeriggio Nistri è andato a fare un piacere a Peppe, che l'arsenale se lo gestiva in proprio, dopo lo «scazzo» con Fioravanti e il distacco da T.P. Il loro arresto sconvolge i ragazzini di T.P. Sono caduti due tra i due dirigenti più noti, due che ripetevano continuamente che in piazza non si va a sparare ma a far politica e poi... Peppe, che da tempo si va allontanando dall'organizzazione, è il responsabile della Legione, la struttura che raccoglie i quadri più impegnati nella ricerca esoterica, nell'ascesi mistico-guerriera, predicata da Evola nella "Dottrina aria di lotta e
vittoria" e messa in pratica - sulla falsariga degli ordini monasticoreligiosi del Medioevo - dalle S.S . Il nome richiama immediatamente la Legione dell'Arcangelo Michele, il nome originario della rumena Guardia di ferro, l'organizzazione del fascismo mistico-rurale guidata da Codreanu, da cui la cellula di base di T.P. prende il nome di "cuib" ('nido' in romeno). E' sconcertante che in un gruppo spiccatamente paramilitare la struttura di lavoro illegale sia così inconsistente mentre il capo decide di consumare altrove le esperienze combattenti, per altri fini, dedicando l'impegno in T.P. alla costruzione di una «comunità elettiva». Una spiegazione logica - che i giudici hanno rifiutato accontentandosi di ridurre la Legione a una scuola di addestramento alla guerriglia mentre l'attività paramilitare aveva funzioni iniziatiche e pedagogiche - va cercata nella complessità di un percorso politico in cui la consapevolezza di non potere raggiungere obiettivi pratici è sublimata nel mito della «via eroica» come più alta forma di realizzazione . Se l'opera di Evola esalta sistematicamente le S.S. per il rigore spartano, la rigida disciplina, il senso della fedeltà e dell'onore, l'intrepidezza fisica, l'etica di una spersonalizzazione portata ai limiti del disumano, la sua metafisica della guerra trova organica sistemazione in un libretto scritto all'inizio della guerra e ripubblicato nel 1970 e nel 1977 dalle edizioni di A.R. Nella "Dottrina aria di lotta e vittoria" (20) «confluiscono influenze orientali (il tema dell'azione senza interesse, l'«agire senza agire» del "Bhagavadgita"), la concezione islamica della «guerra santa», la mistica guerriera e la «via eroica» della mitologia ariana» (21). L'esaltazione dell'azione esemplare separata da ogni riferimento di scopo e di esito è rilanciata dai detenuti di «Quex»: «Non è verso il potere che noi tendiamo, né necessariamente verso la creazione di un ordine nuovo [...]. E' la lotta che ci interessa, è l'azione in sé, il battersi quotidiano per l'affermazione della propria natura» (22). Per Evola «il contrasto tra azione e contemplazione, tipico della civiltà occidentale, era sconosciuto agli antichi Arii, per i quali anche l'azione poteva essere strumento di realizzazione spirituale [...]. Nell'antica tradizione guerra e via del divino si fondono in una medesima entità» (23). Questo vale per il mondo nordico-germanico, dove il Walhalla è il paradiso degli eroi caduti sul campo, ma anche nell'Islam, dove la guerra santa è distinta in «piccola», quella materiale condotta contro il nemico e l'infedele, e
«grande», la lotta dell'elemento sovrumano dell'uomo contro tutto ciò che è passione. Così nel "Bhagavadgita", l'epopea del dio Krishna, «l'azione vale di per sé e per la purezza che ha in sé chi la compie, prescindendo se sia utile o inutile ai fini della strategia globale» (24). L'esperienza di T.P. è pervasa da un riferimento costante e da un'interpretazione radicale della metafisica evoliana della guerra . Tomaselli critica con forza l'ossessivo richiamo al mito del «legionario» e le sue conseguenze su una generazione di militanti giovanissimi. «Fiore e Adinolfi predicano certe cose, Belsito è l'unico ad avere le palle, a 18 anni a farle subito, con coerenza: lui era il militante rivoluzionario impegnato nella grande guerra santa, c'è Perucci (25) che è un 'infame', il delatore che ha colpito il movimento e va giustiziato. Un assioma che rientra perfettamente e coerentemente nella logica dichiarata dell'organizzazione di cui faceva parte. Che poi il gruppo non gli avrebbe mai chiesto una cosa del genere è un altro discorso. Una comunità in cui si fa una mitizzazione costante, nella propaganda e nella formazione quadri, della figura del guerriero; che esalta l'attività militare come manifestazione sublime di affermazione dell'essere superiore . Un'organizzazione che riconduce con un'operazione assolutamente spaventosa a questo personaggio il guerrigliero sandinista o il feddayn, operando un misconoscimento della figura del guerriero in termini tradizionali, perché parlano del soldato romano non avendo esattamente idea di che cosa veramente fosse. I leader di T.P. si riferiscono solo alla funzione mitica che è altra cosa rispetto alla realtà. Un ragazzo che viene formato in anni determinanti su questi valori perché non dovrebbe andare a sparare a Perucci? Tutti si sentivano dei guerrieri, perché una figura mitica non è determinata sul piano delle caratteristiche umane, per cui alla fin fine ognuno soggettivamente vi si può riconoscere o pensare di essere sulla strada dell'approssimazione. E' una logica velleitaria perché il ragazzino di 15 anni che va alla carica col martelletto da due chili, gridando Odino, non è un guerriero, però è indotto a credere di esserlo» (26) . Questo meccanismo di riproduzione allargata di rappresentazioni mitologiche ha un formidabile effetto di moltiplicazione delle energie e di crescita organizzativa. In tre anni il gruppo romano decuplica i militanti (da 50 a 500). Grande merito del boom è di Nistri, il quadro più amato dalla base, anche per la sua straordinaria vitalità e generosità,
meglio noto come «Cicognone» per gli arti e il collo lunghi, un soprannome che gli è stato affibiato da Nanni De Angelis e che gli sarà perciò particolarmente caro . Nella gerarchia ferrea dell'organizzazione Nistri è il numero quattro, immediatamente al di sotto della trimurti dei soci fondatori, Dimitri, Fiore e Adinolfi, e nettamente al di sopra, per la convergente stima dei leader e l'unanime riconoscimento dei militanti, degli altri dirigenti. Pur essendo un quadro politico e militare di primo ordine, la fama di Nistri è alimentata da un significativo proliferare di leggende metropolitane e sussurri su perversioni impensabili per un «fascio» doc. Di questa nutrita serie di "boatos" offre un florilegio dieci anni dopo un componente del nucleo centrale di T.P., assicurando che sono tutte storie incredibili ma vere: «Cicognone si portava a spasso un boa e poi un pitone. Dopo il tramonto i serpenti non dovevano prendere freddo perché sarebbero morti. Non c'era niente da fare per i disgraziati che stavano dietro di lui sul vespone: te li dovevi infilare sotto la camicia e loro ti si avvoltolavano intorno al corpo per tenersi caldi. In un periodo ha avuto un piccolo caimano, ma almeno quello non lo portava in giro. Mentre decine di militanti la domenica si andavano a sfracellare in montagna tentando di imitare le mitiche gesta di Dimitri, fanatico della mistica della montagna, Roberto andava a pescare con stivaloni e lenza alle 5 del mattino. Era un superattivista, dormiva tre ore a notte, l'unico stupefacente che gli ho mai visto prendere è il caffè, dieci al giorno. Era un appassionato già nel 1976 - quando i camerati si facevano le pippe con Battisti e quella palla della musica celtica - dei Velvet Underground. I primi tempi di T.P. faceva i cenacoli coi ragazzini reclutati da tutte le zone e se li portava a casa a sentire Lou Reed, David Bowie. Di nascosto, perché Fiore l'avrebbe redarguito per quella musica demoniaca. Era totalmente contrario a qualsiasi tipo di droga, neanche le anfetamine. Quando seppe che certi avevano trovato un pacco di cocaina in una macchina e se l'erano sparata, approfittando del fatto che era gratis, fece un casino allucinante, urlando in strada, e la gente non capiva perché: non l'aveva mai visto così» (27). Nistri si schermisce: «Con la scusa del superattivismo mi accollavano tutto quello che c'era da fare in giro. E' inesatta anche la storia della droga: non mi sono mai fatto una canna, ma per motivi 'salutisti'. Non sopporto l'alterazione delle percezioni (che è il bello delle varie droghe), non per principio.
Anzi, quelli che menavano gli accannati, che in fase di 'riflusso' sono diventati tutti mezzi tossici, non li sopportavo proprio» (28) . Nistri non è soltanto un «cazzaro» di genio, anzi: «E' una persona unica nel suo genere: iperattivo, creativo, intelligente, al tempo stesso ricco di intuito e di senso pratico. Era un personaggio che potevi mandare in un quartiere dove non esistevamo, metteva su un gruppo, si creava un alter ego, lui veniva spostato e prendeva piede il suo vice, come fu nel caso di Insabato. Roberto se non avesse preso la strada della sovversione avrebbe avuto un successo sociale incommensurabile. In T.P. non ha mai tentato di influire a livello politico e ideologico. Poteva apparire di rango inferiore, ma non lo era, semplicemente non se ne occupava: era una persona pratica che faceva le cose da fare. Non è che non fosse capace di occuparsi della produzione ideologica, tutt'altro. Tanto è vero che è uno dei pochi - e lo dico non condividendo la sua scelta di 'diventare compagno' - che malgrado il carcere ha mantenuto obiettività e intelligenza politica. Le elucubrazioni che sono uscite dalle carceri, in particolare dagli speciali, fanno arricciare i capelli. Uno dei pochi che si è distinto per la capacità di mantenere una centralità è proprio lui» (29) . All'uscita dal carcere, nell'aprile 1981, dopo una provvidenziale anoressia, Nistri trova una situazione di sfacelo: i leader di T.P. sono scappati all'estero per sottrarsi agli ordini di cattura della procura e alle pistolettate della banda Fioravanti, che ha già ammazzato a tradimento Mangiameli; una ventina di quadri sono in galera per banda armata o per rapina; Nanni De Angelis è stato trovato impiccato in cella il giorno dopo l'arresto; i pischelli del nucleo operativo, da Vale a Soderini a Belsito, sono latitanti con accuse da ergastolo. «Una volta uscito dal carcere», racconta, «ho trovato i miei amici di T.P. "on the road" con un pacchetto di mandati di cattura per reati gravissimi sulla testa. Valerio Fioravanti era stato appena arrestato e questo ha permesso alcuni chiarimenti che con lui fuori sarebbero stati impossibili, anzi sarebbero degenerati in uno scontro aperto e violento. Lo spontaneismo del dopoFioravanti, pur nella sua politicità episodica, ha avuto la caratteristica e il pregio, grazie alla presenza di una moltitudine di ragazzini entusiasti, di essere più prodotto genuino di un ambiente umano che risultato quasi forzato di una feroce selezione operata dalla repressione. Un prodotto pienamente rappresentativo di tutte le spinte, le pulsioni che avevano attraversato il nostro ambiente, sempre in bilico fra l'ideologia e la
scelta esistenziale. Il circolo si è chiuso con quell'82 tragico che ha messo la parola fine alla nostra esperienza umana e politica» (30). Nistri si impegna a garantire ai latitanti le condizioni di sopravvivenza: e quindi documenti falsi per girare tranquilli, appartamenti per dormire, amici e camerati disposti a fare da agenti di collegamento. Lui si spende generosamente. Mette in campo tutte le risorse, dai «bori», i malavitosi non «organizzati» che ha conosciuto in carcere, alle ragazzine di Vigna Clara o del Flaminio che sbavano per lui. Non si preoccupa di essere supersorvegliato, ma affina i meccanismi per evitare regali alle forze dell'ordine . Per qualche tempo si limita a ricucire la rete di appoggio, poi si dedica al «salto del bancone», un po' per l'urgenza di agire ma anche per l'incessante bisogno di soldi. Tutto costa maledettamente caro per mantenere in latitanza una mezza dozzina di disgraziati che hanno sulle spalle reati per una ventina di ergastoli. Il ritorno di Alibrandi dal Libano funziona da acceleratore per i clandestini: in pochi mesi uccidono De Luca (un mazziere calabrese che aveva tirato una «sòla» ad Alibrandi), Pizzari (l'amico che avrebbe «venduto» Nanni e Ciavardini), il capitano Straullu e il suo autista. In una trasferta a Milano è fallito il bersaglio, Muggiani, il dirigente missino che ha denunciato Cavallini ma in un conflitto a fuoco improvvisato sono uccisi due agenti della DIGOS. Nistri non partecipa alle azioni armate, ma è attivo sul fronte delle rapine: per le qualità di freddezza e di precisione nel tiro - ma anche per ridurre i rischi di identificazione, lui che è supercontrollato - svolge spesso compiti di copertura. Mette così a frutto lo straordinario talento organizzativo: quando è lui a definire formazione, sopralluoghi, disposizione degli uomini e vie di fughe, neanche il più pignolo o diffidente si fa un giro di controllo. Secondo i giudici - convinti dalle accuse di Sordi, che in più di una circostanza non nasconde malanimo nei suoi confronti - partecipa alla rapina di piazza Irnerio nella quale in due successivi conflitti a fuoco è ferita Francesca Mambro e una pallottola vagante uccide uno studente: con una sentenza che è esemplare dei guasti giuridici delle leggi premiali, Nistri e Zani, che non prendono parte al conflitto a fuoco mortale, sono condannati all'ergastolo mentre l'omicida, Livio Lai, se la cava con 14 anni grazie alla «dissociazione». Il cerchio si stringe intorno agli ultimi latitanti: il 5 maggio, dopo l'irruzione della polizia nel suo rifugio, muore Vale, tradito da una soffiata dopo avere rifiutato il reclutamento
tra gli avanguardisti (suicida per la polizia, «giustiziato» con un colpo alla tempia nel sonno secondo parenti e camerati). Il rientro di Adinolfi e Spedicato in Italia - che pure aveva chiesto con insistenza per sconfessare le accuse di «vigliaccheria» lanciate dalla Mambro nel volantino di rivendicazione della campagna contro «profittatori e infami» - è un altro peso per Nistri. Spedicato si rifiuta di fare le rapine, ed è piuttosto deciso a sopravvivere a pane e cipolle, come aveva già fatto durante l'anno e mezzo di latitanza a Parigi. Adinolfi, per senso del dovere e per mettersi alla prova dopo tante chiacchiere sul «mito del guerriero» ci prova anche, ma dopo un paio di goffi tentativi, che si risolvono in fallimenti, c'è un pronunciamento dei rapinatori: la «stecca» gliela diamo lo stesso, ma è meglio non metterlo in formazione perché è negato . La morte di Vale è una mazzata per Nistri: era stato il suo braccio destro, all'uscita del carcere se l'era ritrovato latitante con accuse da ergastolo e soprattutto, cosa ben più grave dal suo punto di vista, tra gli omicidi di Mangiameli. Era la prima cosa di cui avevano parlato, fuori: e Giorgio gli aveva confermato che Valerio gli aveva passato la pistola con cui già lui e Cristiano avevano sparato a Ciccio, coinvolgendolo in un macabro patto di sangue: «Vediamo se riesci finalmente a uccidere qualcuno». Gli spiegò anche che nei giorni precedenti si era affannato ad avvertire i camerati: dite a Ciccio di non farsi trovare da Valerio perché lo vuole ammazzare. E così Nistri non si era sentito di condannarlo. Non aveva saputo dire di no a Valerio che porgendogliela - impugnava una pistola carica e dalla canna calda ma anche Mangiameli aveva sottovalutato la paranoia assassina di Fioravanti. E ora pure Giorgio è morto ammazzato. Perché Nistri di questo è sicuro: non era un fanatico della bella morte, è caduto in una trappola infernale e qualche agente gli ha sparato nel sonno inscenando poi il suicidio. Eppure non si può mollare. Anzi, quella fine rappresenta la definitiva accelerazione verso la catastrofe personale. Il giorno dopo tre camerati diventati «bori» tentano il disarmo di un anziano poliziotto e lo ammazzano. La pistola rapinata finisce nelle mani di Nistri, che è al centro di tutti i traffici tra NAR e malavita. E poi ci sono gli altri latitanti da ergastolo da aiutare: quegli sfigati di Belsito e di Soderini, che i pochi amici che avevano se li sono bruciati da tempo, quel paraculo di Sordi che i suoi "Boys" ce li ha ma se li tiene stretti e li amministra con parsimonia senza che nessuno ne sappia niente. E allora
via col «circo delle rapine». Sono giorni frenetici. Il 17 maggio fallisce l'assalto a un'agenzia del Credito Italiano, il 19 riesce la rapina a un rappresentante di gioielli, che due volte al mese viene a Roma con un ricco campionario. Il giorno dopo c'è un'altra banca da assaltare ma scoppia una lite. Sordi e Soderini se ne vanno incazzati. Si trovano a passare davanti a un'agenzia che avevano già rapinato, in sei o sette, due mesi prima. Fermano l'auto in strada, disarmano il vigilante, lo trascinano dentro, prendono i soldi e scappano. La banda suona un rock sempre più duro. Il 24 ancora una rapina, facile: una compagnia di assicurazioni per i tagliandi in bianco. Se la «fanno» in due, lui e Belsito, uno con cui si trova bene a lavorare. Il 28 trasferta a Milano, per un «salto del bancone». Da Roma parte con Pasquale e Alessandro Montani, il camerata arrestato con lui e Dimitri a via Alessandria. A Milano li aspettano due amici di Cavallini, coimputati nell'omicidio Amoroso, Luigi Fraschini e Claudio Forcati. Completa la formazione il responsabile nazionale di T.P.-Settembre, De Cillia. Alla fine del mese a Roma è ucciso un falsario, Bruno Deidda. Sordi racconterà che si era tirato indietro nel procurare il documento per l'espatrio di Cavallini e perciò Nistri e Belsito - ancora una volta loro due - lo avevano ammazzato. Sarebbe il primo omicidio per Nistri: i giudici non credono a Sordi che pure racconta che l'auto usata l'aveva fornita lui, scegliendola apposta perché serviva per un omicidio (sarà perciò condannato a 45 giorni di carcere: i giudici si guarderanno bene dal contestargli il concorso in omicidio, che pure si era attribuito). Il processo si concluderà con la condanna all'ergastolo (per un più grave, clamoroso episodio). E ancora una trasferta, con un'accelerazione vertiginosa: il 7 giugno a Torino c'è una banca da rapinare ma i pischelli di Zani che hanno preparato il «lavoro» non sono riusciti a procurare i vesponi previsti per la fuga. Sordi e Soderini non si lasciano scoraggiare e se lo prendono dal primo che passa. Non sanno di trovarsi a 200 metri da una caserma dei carabinieri. La vittima tenta di dissuaderli piangendo. Riesce solo a fargli perdere il tempo necessario a far arrivare una «gazzella». Sordi e Soderini se ne vanno sparando. Un passante è ferito di striscio, la banca è salva. Nistri rientra a Roma con uno dei suoi amici di Vigna Clara, Mario Zurlo. Fa parte di un gruppo di militanti di T.P. scampati alla grande repressione (si era costituito dopo il blitz del 23 settembre ed era stato quasi subito prosciolto). All'uscita dal carcere Roberto li coinvolge, sul piano del cameratismo,
nell'assistenza ai latitanti. Sono figli di papà, doppie e triple case, possibilità di spostamenti, buoni giri di amici. Loro ci stanno, con generosità, e poi, quando si accorgono che comunque sono compromessi e rischiano molti anni per banda armata, chiedono di entrare, e lo ottengono, nel giro delle rapine. Un lavoro «facile» e a volte assai ben remunerato. A spingerli nella decisione concorre la voce - veritiera - che a uno dei ragazzi, solo per aver fatto l'autista per duecento metri, è pagata l'intera «stecca» su un grande colpo: 180 milioni, 900mila lire al metro, più dell'ingaggio da meeting di un campione olimpionico dei 100 metri . La mattina dopo sui quotidiani romani la sparatoria di Torino non ha spazio, perché la sera della rapina due poliziotti sono ammazzati al Flaminio. Un'esecuzione da professionisti, colpi sparati a distanza ravvicinata dopo averli neutralizzati. Sordi la racconterà così qualche mese dopo: Nistri e i vignaclarini vanno a puttane quella sera, a quattro passi dalla casa del capobanda, che abita al lungotevere Flaminio. Mentre Zurlo è sdraiato con i pantaloni abbassati dietro un cespuglio, arriva il controllo. Petrone e Giannelli assistono, Nistri tira fuori l'arma, neutralizza i poliziotti e li «giustizia». Le modalità dell'esecuzione - un colpo alla tempia - richiamano la morte di Vale. Nistri e gli altri si dichiareranno, con ostinazione, innocenti. Dopo una mezza dozzina di processi - nei quali si giudica anche l'omicidio Deidda per chissà quale formale connessione - e una lacerante alternanza tra assoluzioni e condanne, Nistri si troverà alla fine con due ergastoli definitivi e sarà prosciolto dal delitto Deidda insieme a Belsito (che ha altrimenti rimediato quattro o cinque condanne a vita). Gli avvocati commenteranno dopo l'ultima sentenza che gli elementi a carico dei due erano molto maggiori per l'omicidio del pregiudicato di quanto non fossero per il delitto del Flaminio: evidentemente alla Corte premeva molto di più non lasciare impunita l'uccisione dei poliziotti. I «vignaclarini» se la cavano meglio: Nistri è il solo responsabile dell'omicidio, Giannelli, Petrone e Zurlo sono condannati solo per la rapina delle armi, 6 anni ai primi due, cinque all'ultimo ma la sua partecipazione dovrebbe essere stata nulla se le circostanze riferite da Sordi sono esatte. E in questo caso è del tutto incomprensibile, nell'occasione e in seguito, il comportamento di Nistri. Una persona che in più di una circostanza si è dimostrata freddissima sul piano operativo e che, pur spendendosi con assoluta generosità, si è trattenuta sul
crinale tra illegalità e terrorismo, non partecipando agli agguati dei latitanti dei NAR, si sarebbe lasciata improvvisamente avvitare in una caduta libera, ammazzando gratuitamente due poliziotti e poi continuando indifferentemente l'attività di rapinatore e fiancheggiatore dei latitanti. La mattina del 9, infatti, 36 ore dopo il duplice omicidio del Flaminio, è alla Cassa di Risparmio di Roma, agenzia 16, per l'ennesima rapina. Con la batteria che ha fallito il colpo a Torino: Soderini, Sordi, Zurlo e, in aggiunta, Petrone. La vita continua come se non fosse successo nulla e allora siamo in presenza di qualcosa di mostruoso: un errore giudiziario o un'incoscienza che sconfina con l'agostiniana innocenza dell'anima. E alla fine il destino di Nistri è quello della moglie del proverbio cinese: picchiata per qualcosa di male che il marito non sa, ma che lei ha sicuramente fatto . Quindici anni dopo, pur rifiutandosi di parlare dei «fatti specifici», Nistri si è sforzato di razionalizzare la vicenda: «Non credo di essermi mai tenuto fuori dalle azioni 'terroristiche' per scelta, ma solo per caso. In genere le cose più gravi sono avvenute nel corso di quelli che chiamavamo i 'pattugliamenti dei NAR', giro di controllo dei latitanti ai possibili obiettivi, a cui in pratica non ho mai partecipato per questioni 'pratiche' (avevo molto da fare...). Ripensando al passato è probabile che i latitanti in qualche modo mi abbiano voluto 'proteggere', e per amicizia e perché ero io che mandavo avanti tutto il 'circo'. Oltre tutto per come erano organizzati i 'salti di bancone' i rischi non erano certo minori, anzi [...]. Ho sempre sostenuto che molti hanno preso o no l'ergastolo a causa di un'influenza che il giorno 'sfigato' li ha tenuti a casa» (35). Così Nistri è arrestato per un attentato al quale non ha partecipato, anzi dal quale, per una bega da cortile, è rimasto escluso. Alla metà di giugno Zani, che vive a Torino ma in quel periodo si è trasferito a Roma, chiede in prestito l'auto, una Golf «taroccata». Roberto gliela dà, con due sole raccomandazioni: non usarla in azioni, perché mezza DIGOS di Roma - che continua a tenerlo sotto controllo senza riuscire a incastrarlo né a limitarne l'operatività - lo ha visto alla guida dell'auto; togliere lo stereo quando la parcheggia, perché Roma è piena di «tossici» che non perdonano gli automobilisti distratti. Il giorno 17 la Golf di Nistri è portata in officina: per riparare un vetro rotto da un ladruncolo per rubare lo stereo. In quei giorni - per la costante necessità di procurarsi «armi lunghe» - è in preparazione il disarmo di una pattuglia di poliziotti, in servizio sotto la rappresentanza
dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (ma i militanti dei NAR ignorano la circostanza): a organizzare l'attacco è Sordi che ha litigato - per banali motivi - con Belsito e poi con Soderini, e quindi «brucia i tempi» e la esegue escludendo Nistri, chiedendo una mano a Cavallini, e coinvolgendo due "Boys", un «premio» per il loro impegno di apprendisti guerriglieri... L'azione si risolve in un disastro . Sordi e Cavallini arrivano sul luogo in vespone, i due poliziotti, sorpresi e sotto tiro, scappano in opposte direzioni, Sordi e Cavallini li inseguono sparando, il primo ferisce Pillon, il secondo uccide Galluzzo. I miliziani palestinesi in servizio di vigilanza, non capendo cosa stia succedendo, cominciano a sparare dal balcone della rappresentanza diplomatica. I due "Boys", Vito, diciotto anni e Spadavecchia, venti, qualche rapina ma nessun conflitto a fuoco, sopraggiungono in auto quando gli agenti sono già stati colpiti. Scendono e reagiscono inconsultamente: Vito, impaurito, per farsi coraggio, spara una raffica con l'M12, Spadavecchia, più lucido, si toglie i pantaloni e se ne scappa, fingendo di essere un atleta che fa footing. Vito abbandona l'auto, che è la Golf di Nistri prestata da Zani a Cavallini, con pistole e materiale vario compromettente (tagliando dell'assicurazione rapinato alla Simex, bollo contraffatto uguale a quelli usati da Vale e nella rapina in cui è ferita e arrestata la Mambro). Il cambio della targa non serve, qualche giorno dopo sono arrestati Nistri e Zurlo, notato più volte dai poliziotti che pedinavano Nistri alla guida dell'auto. Con un sovrappiù di cattiveria Sordi cercherà di coinvolgere Nistri nell'organizzazione dell'attentato. La successiva assoluzione al processo non cambia nulla: la marea di mandati di cattura per le confessioni di Sordi lo trova già in galera, da dove non ha più messo fuori il piede, fino al Natale del '95 quando ha finalmente potuto godere, a Sulmona, di tre giorni di permesso, per accedere ben presto al lavoro esterno in un service informatico nel centro della cittadina. Oggi (con in tasca una laurea in Biologia presa in carcere) lavora come operatore informatico e grafico web ed è in regime di semilibertà a Roma . E' liquidatorio ridurre gli esiti di una vicenda complessa, ricca di lacrime e sangue, ma anche di vitalità e di entusiasmo, come quella di T.P. all'incongruenza dei leader che hanno seminato vento, alla spirale suicida di quanti hanno trasformato le parole in atti (relativamente pochi, dal punto di vista statistico) avendone la vita distrutta, al tentativo sostanzialmente fallito di una sparuta minoranza impegnata
nell'oltrepassamento dell'esperienza neofascista. Della ricchezza dei tipi umani presenti nel gruppo rende conto in qualche modo la vicenda dei militanti dell'Aurelio, a partire dai due leader, Corrado Bisini e Claudio Lombardi, arrestati pochi giorni dopo il blitz del 23 settembre 1980 (erano anche loro ricercati) mentre in tipografia andavano a ritirare volantini «contro la repressione». «Claudio e Corrado sono persone», racconta Marcello De Angelis, «di cui ho sempre ammirato la profonda bontà, generosità, dedizione: il tipo che non vedi mai alzare la voce né litigare con nessuno, neanche quando è provocato. In una situazione di scontro di piazza hanno sempre reagito in modo giusto, se qualcuno li prendeva per andare a fare botte, loro ci andavano, ma mai all'interno della comunità, anche se avevano subìto un'ingiustizia paurosa. Fanno pensare al militante cattolico, per la bontà di fondo che non fa parte della tipologia fascista. In un ambiente come l'Eur prevaleva un atteggiamento da cervi, i maschi nel branco che stanno sempre a misurarsi, a mettere a posto i subalterni, si sentiva la tensione nell'aria, sensazione che si percepisce ancora in certi ex-fascisti. E' un comportamento sociale: se un amico ti insulta tu reagisci, se ti ha fatto un torto devi farci a botte perché in pubblico non è accettabile che ti mettano i piedi in testa, altrimenti la tua posizione nel branco è automaticamente messa in discussione. Loro non partecipavano affatto a questa logica, non avevano - come di molti di noi - amici solo all'interno dell'ambiente. Facevano politica a tempo pieno, ma tutte le amicizie le avevano al di fuori, e dal momento che vivevano in quartieri popolari molte delle persone che frequentavano erano compagni e compagne. Non avevano assolutamente niente in comune con la tipologia fascista anche se aderivano a livello puramente ideale al nostro discorso e ci credevano profondamente» (32). De Angelis insiste molto sul carattere comunitario e «formativo» della militanza in T.P.: «Quando ci stava un gruppone, o andava in un bar un missino riconosceva subito noi di T.P., per i discorsi, i comportamenti, i vestiti, persino dal taglio dei capelli. A parte quelli effettivamente nati politicamente con T.P., rinascemmo noi che avevamo iniziato l'esperienza politica in un magma caotico, in cui non si trovava assolutamente niente, e ci eravamo perciò costruiti da soli attraverso due o tre anni di sbandamento. La gente si avvicinava, però non riusciva a tenere il passo con l'attività o a costruire legami umani perché il grosso eravamo noi 'nuovi' che spingevamo da sotto, con i nostri
diciott'anni. Eravamo totalmente omologati: ci frequentavamo ogni giorno dalla mattina alla sera, ci scambiavamo vestiti e dischi, andavamo ai concerti e al cinema insieme mentre i più grandi che stavano all'Università, non avevano fatto politica per anni, venivano dal Fronte studentesco ed erano tornati perché le tematiche erano le stesse, non si trovavano bene, e se ne andavano. Agli inizi è stata vicina la fusione con il gruppo di Signorelli ma le due anime non sono riuscite a convivere. O meglio erano due corpi, la divisione non era ideologica ma umana, una questione generazionale determinata dall'esperienza. Chi era stato qualche anno in più nel M.S.I., aveva una mentalità diversa, nei rapporti con le donne, nel gusto per la musica. Noi l'abbiamo veramente creata lì per lì un'umanità nuova che purtroppo non è durata. Abbiamo avuto lo stesso problema del fascismo, il tempo. Le basi c'erano, se avessimo avuto la possibilità di mantenere il gruppo per dieci anni avremmo formato degli uomini nuovi, con le palle, mentre invece sono usciti fuori dei ragazzini molto generosi. Per la maggior parte hanno fatto due anni di politica e quattro anni di carcere, così sono crollati. E quelli che non sono voluti crollare sono usciti di testa» (33) . La ricostruzione «storica» di De Angelis - per un evidente meccanismo di distorsione del ricordo in situazioni di forte coinvolgimento emotivo - va presa con le pinze: molti dei ragazzini che formarono il gruppo dirigente di T.P. avevano maturato diverse esperienze militanti, sia pure in tenera età. Il vice di Dimitri nella Legione, Enzo Piso, uno dei più impegnati a trattenere i militanti dal varcare il crinale della lotta armata, aveva bazzicato, da ragazzino, Ordine nuovo. Giancarlo Laganà, per un breve periodo responsabile romano, affittuario dei locali della redazione, una denuncia con Sordi e Procopio per associazione a delinquere, aveva militato a lungo nel Fronte. Anche lui una tempra di combattente, ma di tutt'altro genere. «Era un bastian contrario», spiega De Angelis, «sempre contro per partito preso. Lui riusciva a far litigare tutti. In una riunione di dieci persone dopo dieci minuti si creavano la destra e la sinistra per colpa sua. Era un perseguitato, perché a Monteverde i fascisti erano cinque: i Laganà, i Fioravanti e Alibrandi. Aveva giustamente maturato la sindrome del ghetto: andavano a prendere lui sotto casa una volta la settimana perché gli altri sparavano. Quando non ci riuscivano lo aspettavano a scuola. Aveva comunque una fortuna disgustosa» (34). Una fortuna che non gli impedisce di
essere ferito seriamente, nel corso di una rissa, nel luglio 1980, a un concerto di musica celtica a Villa Torlonia. Soderini gli attribuirà la partecipazione a uno degli attentati incendiari del Commando di lotta e vittoria contro le case dei compagni in primavera, rappresaglie decise dopo analoghi attacchi ai danni di militanti di T.P. Un'accusa calunniosa: perché con i «compagni» Laganà voleva dialogare e fare la guerra ai missini a tutti i costi. Perucci proverà a tirarlo in mezzo come ispiratore di due attentati: quelli compiuti a Monteverde e Portuense (quartiere limitrofo) sarebbero state rappresaglie per il suo ferimento ma i «botti» precedono la rissa di due mesi. «Era fissato», racconta De Angelis, «che dovevamo fare il partito rivoluzionario, un soggetto inaudito, specializzato nel rendersi antipatico a tutti ma con spunti geniali. Nel 1977, lui che era riconoscibilissimo, andò all'Università occupata e parlò in assemblea facendo litigare autonomi e P.C.I.. Non era una provocazione: disse quello che pensava veramente. A noi non l'aveva detto perché gli avremmo messo una camicia di forza. Per noi andare all'Università così significava farsi crocifiggere. Lui invece andò in assemblea e disse: 'Compagni, noi siamo d'accordo che la gestione degli operai deve essere diretta, non bisogna passare per il sindacato, ma bisogna negare la delega. A scuola come in fabbrica. E così siamo contro il parlamento e i partiti, perché i meccanismi sono gli stessi'. Chiaramente gli autonomi erano d'accordo, mentre quelli del P.C.I. si misero a protestare e lui riuscì a seminare zizzania pure lì». Laganà aveva un problema «familiare»: lui era di «sinistra», mentre il fratello rautiano era di «destra», delle edizioni Europa. «Noi ci dicevamo», ricorda De Angelis, «contro tutti i partiti, però avevamo rapporti personali con i missini mentre lui era per lo scontro fisico: dovevamo andare a sprangarli. Della sua linea politica erano infatuati parecchi ragazzini arrivati da poco, una forte minoranza. Alcuni militanti erano stati picchiati di brutto dai missini mentre vendevano il giornale in una piazza 'loro' e noi andammo a fare un''imbruttita', ci presentammo un'ottantina 'armati' di tutto punto. Strada facendo scoppiarono discussioni pesanti. Noi avevamo chiuso l'esperienza politica con la destra, però avevamo problemi umani. Da ragazzini eravamo stati svezzati da attivisti che stavano ancora nella sezione che stavamo per attaccare perciò volevamo a tutti i costi evitare lo scontro. Non avrei avuto problema a farlo coi missini di Benevento ma con quelli dei Parioli avevo giocato a pallone da piccolo. Invece Laganà e i suoi
sostenevano che quella era l'occasione attesa per tanto tempo di tagliare definitivamente col sangue il legame con il M.S.I. Poi prevalse la logica di evitare lo scontro, decisione più che saggia» (35) . La stessa «passione» per i compagni era condivisa dal suo miglior amico, Fabrizio Mottironi, detto il «Roscio» (per il colore dei capelli). Il padre aveva fatto il parà a Salò, a sedici anni, presentandosi direttamente dai tedeschi, storia comune a molti altri dirigenti: il padre fece imparare a memoria a Fiore la Carta di Verona. E anche nel giro lottarmatista si scherzava sui «NAR figli dei FAR». Dal padre, giornalista dell'agenzia AGA, Mottironi aveva ereditato le posizioni politiche da sinistra socializzatrice. Con una complicazione: l'influenza sessantottina della sorella, ex di POTOP. Anche lui aveva cominciato a militare da bambino, a dodici anni, frequentando il giro di Lotta di popolo perché un dirigente, Enzo Cirillo, oggi redattore di «Repubblica», lavorava con il padre. Era poi passato per il Fronte della gioventù: «Io lo avevo conosciuto», racconta De Angelis, «quando frequentava via Migiurtina, una sezione aperta al Trieste-Salario giusto per essere attaccata dalla mattina alla sera. Fabrizio aveva i capelli lunghi, rossi e apparteneva alla generazione di quelli che sembravano di sinistra, per gusti e abbigliamento. Quando giravamo insieme al Trieste-Salario eravamo portati ad esempio: con molti compagni avevamo un dialogo, con qualcuno un'autentica amicizia. Al tempo stesso lui era il capo dell'odiatissimo e fortissimo C.R.Q.T. [Comitato Rivoluzionario Quartiere Trieste] di T.P. Fabrizio era poco più di un bambino ma a sedici anni aveva già una personalità estremamente carismatica, che poi ha perso. Era un attivista esasperato, 24 ore su 24 pensava solo a quello. Aveva la collezione di 'Potop', e i giornali di 'Linea proletaria' e dei marxisti leninisti. Mi portava a casa e faceva i diagrammi delle situazioni dei compagni con tutte le distinzioni tra linea nera e linea rossa. Aveva tutti i classici, Che, Mao, i manuali della Feltrinelli: era il suo hobby» (36) . Coltivando la loro passione, Mottironi e De Angelis trascorrono assieme le vacanze in una «comune» e hanno così modo di fare i conti con il «mito dei compagni»: «Qui c'erano dei compagni che erano decisamente diversi da quelli che conoscevo io. Non avevano mai incontrato un fascista in vita loro. Io ero accettato dai compagni a scuola, che mi consideravano un compagno che sbagliava. Questi invece non immaginavano neanche che ci fosse un universo al di fuori
dell'essere compagni. I 'locali' erano simpaticissimi, sempre 'fatti', o di 'canne' o di vino e poi c'erano le ragazzette che venivano da Modena, da Bologna, ricche, gran 'fiche', molto libere di costume. Io come al solito non 'battetti'. Mottironi venne 'rapito' la sera stessa che arrivammo da una ragazza, appena lo vide bambino con i capelloni rossi. Noi restammo delusi perché tutta la banda nostra, che aveva capelli lunghi, barbe, atteggiamenti tendenzialmente bolscevichi, aveva un'immagine mitologica dei compagni, anche perché ci andavamo d'accordo [il tempo fa velo sulla memoria: De Angelis dimentica che un gruppo di compagni del quartiere Trieste organizzò un devastante attentato dinamitardo contro casa Mottironi, strage mancata che innescò una faida sanguinosa: il nucleo operativo di T.P. rispose gambizzando Ugolini, ritenuto militante dei Nuclei per il contropotere territoriale]; ci sembrava che si godessero di più la vita, fossero più liberi nei costumi sessuali, avessero un'esperienza sociale più ricca dalla nostra. L'idea di farci una 'canna' ogni tanto non ci spaventava, volevamo divertirci». «Noi sentivamo perennemente Radio Onda Rossa, telefonavamo per chiedere Stalingrado, quella di 'La croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città'. Noi eravamo dei fanatici degli Stormy Six, di Manfredi. 'Ma chi ha detto che non c'è' era stupenda [e accenna il motivo]: 'sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia, nella rabbia, sta nel rompere la gabbia'. Da piangere per quanto era bella. Di Lolli li avevamo tutti, poi ce n'era un altro, con la voce debole, era un militante, lo comprammo a metà io e Fabrizio perché non avevamo una lira mai. Dovemmo andare in un negozio di dischi enorme e avevano una copia sola e nessuno lo conosceva. Fabrizio lo aveva ascoltato dalle sorelle. Poi Gianco, che faceva una canzone stupenda che mi faceva piangere, 'Un amore che non hai e forse non hai avuto mai', bellissima e lui era un compagno proletario del cazzo ed era innamorato di una femminista ricca che non se lo cacava proprio, e poi ce n'era un'altra che piaceva molto a Fabrizio e secondo me era una stronzata che diceva [e canta]: 'mangia insieme a noi ma non c'è un granché, siedi dove vuoi, un minestrone c'è, il formaggio è là, bere non ce n'è', una cosa del genere e Fabrizio diceva sempre 'Vedi, questo è quello che a noi manca, invece i compagni hanno questa dimensione comunitaria'. Invece andammo nella comune e fummo molto depressi perché questi passavano il tempo a dire 'ma certo, voi romani come siete strani, state sempre a ridere, avete sempre voglia di scherzare'.
Erano dei tristi, stavano sempre lì col problema, lei che pensa che io sono possessivo. Gli uomini si 'facevano' le canne e piangevano perché 'Lei sta con me solo per scopare'. Noi eravamo abituati alle donne che dicevano 'tu sei uno stronzo, stai con me solo per scopare' e invece i compagni dicevano lo stesso delle donne e allora il suo amico andava a parlare con la ragazza: 'Ma dài, lui dice che stai con lui solo per scopare' e lei seccata 'ma no, non sto solo per scopare ma a me stanno sul cazzo le smancerie'. Noi stavamo sempre a cazzeggiare perché era il nostro stile di vita e invece ci siamo resi conto che questi avevano sempre tanti problemi. Quando ce l'avevano detto i compagni amici nostri di Roma non lo avevamo capito. Le donne avevano i problemi, gli uomini avevano i problemi, uno aveva il problema di non averne. Allucinante. Erano pazzi come cavalli i compagni. Così ritornammo molto rinfrancati dalla vacanza» (37) . Dieci anni dopo Marcello De Angelis si è trovato di nuovo a vivere con i «compagni», nel carcere penale di Rebibbia. Dopo la rottura personale con gli ex-leader di T.P. - che non gli avevano mai perdonato la leggerezza per cui aveva provocato la caduta della rete logistica per i latitanti a Londra - ha deciso di rientrare in Italia e scontare la condanna per associazione sovversiva subita per T.P. E' stato l'unico quadro intermedio condannato solo per il reato politico senza nessun fatto materiale (attentati o rapine): gli altri, da Mottironi a Laganà, da Piso a Buffa, tutti assolti, dopo quattro anni e mezzo di carcere. E De Angelis ha finito per fraternizzare soprattutto con i «compagni». Lo ha raccontato nell'intervista televisiva con l'ex-B.R. Maurizio Jannelli. «Una volta, al passeggio, mi fermarono due camerati: 'Marcè, ma come fai a stare sempre con i compagni? Non parlano mai di fica'». E invece lui ha continuato a far batteria con Maurice Bignami, il comandante di Prima linea (che ha scoperto in carcere che aveva ragione Berlinguer: quello di P.L. era «fascismo rosso») e con Antonio Contena, il leader di Barbagia rossa. Poi una bella esperienza di teatro (una compagnia di «comuni» tranne Ciro Lai) e infine la libertà, col lavoro come grafico all'«Italia settimanale» (per la quale scrive anche di politica estera). E il ritorno all'impegno politico: si avvicina all'area avanguardista, è tra gli animatori della «Spina nel fianco», a cui collabora Bignami, mette su una banda rock, i 270 bis (l'articolo del codice penale che punisce l'associazione sovversiva con finalità di terrorismo) che al vecchio repertorio accompagna nuovi hit - come "Spara sulle posse" -
applauditissimi alle feste del Fronte, nei cui paraggi finisce per approdare. Anima un comitato per la liberazione dei detenuti politici che scatena la furia degli «autonomi» romani e raccoglie migliaia di firme per l'amnistia. E' uno degli organizzatori della campagna elettorale di Roberta Angelilli, la segretaria romana del F.D.G., la rautiana che arriverà trionfalmente a Strasburgo sbaragliando la concorrenza di candidati miliardari e del favoritissimo Francesco Caroleo Grimaldi, l'uomo di Fini, arrestato per il caso Amato come difensore di Signorelli. Partecipa alle iniziative della corrente sociale di Alemanno, i giovani rautiani che restano in Alleanza nazionale per impedirne la deriva conservatrice e reazionaria. Quando, il 2 dicembre 1995, la destra porta in piazza centomila persone per chiedere le elezioni subito, è alla testa di un nutrito spezzone di corteo militante, migliaia di giovani camerati che sono lì, dietro gli striscioni di Oltre linea. Qualche decina i militanti, di nuovo due capi e mezzo: lui ed Enzo Piso a coordinare il movimento che ha rotto i giochi quasi chiusi per la liquidazione del Fronte della gioventù, Mottironi che si affaccia alle iniziative, si lascia corteggiare ma ancora resiste a scendere in campo per un clamoroso revival di tutti insieme appassionatamente. De Angelis nell'inverno '96 ha alternato i concerti della sua band agli incontri in mezza Italia, per presentare «Area», la rivista patinata della corrente di Alemanno e Storace di cui è designato come direttore politico. Anche Dimitri e Lucci Chiarissi hanno preso la tessera di Alleanza nazionale, ma mantengono un profilo più basso. Piso e De Angelis no, quindici anni dopo la storia ha dato loro un'altra possibilità e possono, faccia al sole, pensare ancora che «il domani gli appartiene» . NOTE . (1). Vedi il sito web personale www.tad.go.it . (2). Guido Lo Porto, avvocato, 32 anni, è arrestato il 24 ottobre 1968 mentre in compagnia di Concutelli e di altri due camerati si addestra nel poligono clandestino di Bellolampo all'uso delle armi da fuoco. Sarà condannato a un anno e due mesi. Nel corso del 1994 mentre ricopriva la carica di sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi - sono state divulgate le confessioni di un pentito di mafia che attribuisce le sue fortune elettorali ai rapporti organici con una famiglia di Cosa nostra .
(3). Guido Virzì, dirigente della Giovine Italia e poi del Fronte della gioventù, è arrestato con Mangiameli e altri cinque camerati nel 1969 per una serie di attentati commessi a Palermo in quella stessa primavera (uno contro una sede missina). Resta in galera per 9 mesi, poi colleziona numerose denunce per rissa e lesioni. Nell'estate 1972 partecipa al campo paramilitare di Menfi, sotto il comando di Concutelli. E' eletto nel 1975 consigliere comunale a Palermo mentre è detenuto per aver disturbato un comizio del P.C.I. Nonostante la forte propensione a menare le mani, è considerato l'«intellettuale» di Palermo. Fa parte della direzione nazionale del FUAN ed è nella rosa dei candidati, nel 1978, alla segreteria nazionale del F.D.G. Anche se Rauti gli preferisce come delfino Tarchi resta un suo fedelissimo . (4). Flamini, "Il partito...", cit., volume 4, 1, p. 179 . (5). Nell'incidente perdono la vita due catanesi, Prospero Gallura, un elettricista di ventidue anni, capo della struttura clandestina, e lo studente diciannovenne Pierluigi Sciotto. Si costituisce subito dopo Sebastiano Flores, figlio del proprietario della villetta che è servita da base per i «bombaroli». Sono arrestati anche il padre di quest'ultimo e altri tre militanti del F.L.N.: due di loro si costituiscono . (6). "La strage...", cit., p. 191 . (7). Ivi, p.174 . (8). Il volume è pubblicato dalle edizioni di A.R. nel 1978 con un'introduzione di Marco Tarchi, che è ancora dentro l'orizzonte dottrinario e strategico della destra radicale. Nello stesso anno cura, per i tipi di Volpe, altro editore militante, l'opera collettiva "Degrelle e la mistica dell'Europa" . (9). Comunicato del Centro di iniziativa politica/Indipendenza, dicembre 1987 . (10). Lettera all'autore, marzo 1990 . (11). Lettera all'autore, gennaio 1990 . (12). Bonasso Mario, "Ricordo della morte", Milano, Interno Giallo, s.d (13). Lettera all'autore, aprile 1990 . (14). Lettera all'autore, marzo 1990 . (15). Il riferimento è alla scissione nella destra radicale tra i seguaci del conservatore Romualdi e gli adepti del rivoluzionario Freda, schema di lettura - elaborato sulla falsariga della contrapposizione tra l'Evola filogolpista di "Gli uomini e le rovine" e l'Evola anarchico di "Cavalcare la tigre" - proposto da un collaboratore di A.R. e dirigente
veneziano di T.P., Francesco Ingravalle, nel saggio "Pour une analyse...", cit . (16). Lettera all'autore, gennaio 1990 . (17). Vedi il capitolo «C'è una banda nel cuore di Roma» . (18). Conversazione con l'autore, Londra, febbraio 1989 . (19). Ibidem . (20). Alcuni attentati attribuiti al nucleo operativo di T.P., tra cui la gambizzazione di Roberto Ugolini, militante della sinistra extraparlamentare, sono rivendicati nel 1979 da un Commando di lotta e vittoria . (21). Franco Ferraresi, "Da Evola a Freda", in "La destra radicale", a cura di Franco Ferraresi, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 25 . (22). «Quex», n. 3 . (23). Franco Ferraresi, "La destra eversiva", in "La destra radicale", cit., p.p. 93-94 . (24). «Quex», n. 4 . (25). Vedi il capitolo «Sulla via di Damasco» . (26). Conversazione con l'autore, Napoli, agosto 1989 . (27). Conversazione con Marcello De Angelis, Londra, febbraio 1989 . (28). Lettera all'autore, dicembre 1995 . (29). Conversazione con Marcello De Angelis, Londra, febbraio 1989 . (30). Lettera all'autore, marzo 1990 . (31). Lettera all'autore, dicembre 1995 . (32). Conversazione con Marcello De Angelis, Londra, febbraio 1989 . (33). Ibidem. (34). Ibidem . (35). Ibidem . (36). Ibidem . (37). Ibidem . ROSSI E NERI UNITI NELLA LOTTA . Nell'esperienza del Centro di iniziativa politica di Tomaselli si è inverata la tensione a oltrepassare i limiti del fascismo di sinistra, rompendo ogni contatto con quell'ambiente, che ha attraversato molti militanti della cosiddetta «autonomia nera» e poi dello spontaneismo armato. Grande attenzione è stata rivolta alle affabulazioni di Calore e Aleandri, dalle colonne di «Costruiamo l'azione», sul Fronte unico, altrettanta al ruolo giocato da Egidio Giuliani come quadro operativo che ha messo la sua sapienza logistica a disposizione indifferentemente
dei combattenti di destra e di sinistra, dando l'opportuno risalto alla lucidità anticipatrice dell'assalto al cervellone del CED della motorizzazione. Il «capro» lavorava come programmista alla Honeywell ed era consapevole delle potenzialità dell'informatica per il controllo sociale totalizzante, ma oltre a rifornire gli scissionisti delle B.R. frequentava e trafficava con i camerati di Europa civiltà, ammanigliati con massoneria & servizi . Nessuna attenzione nelle ricostruzioni storiche è stata data all'unica realtà in cui l'alleanza tra estremisti di destra e di sinistra, tanto auspicata da un'ampia corrente neofascista, ma in realtà mai sviluppata, ha raggiunto il livello dell'azione armata unitaria: Bari. Protagonisti dell'esperienza un nucleo di nazionalsocialisti di fede strasseriana («nazionalbolscevichi») e una banda di autonomi, che riunirono le proprie forze - esigue ed elitarie - mantenendo inalterati i propri «dogmi». L'esperienza fu stroncata sul nascere: erano in progetto l'omicidio di un dirigente DIGOS, assalti ad armerie e altre azioni spettacolari, ma un incidente nel corso di un'azione di propaganda armata (l'uccisione - non voluta - di un D.J. di simpatie missine in una radio di proprietà della D.C.) portò all'immediato arresto di alcuni militanti e alla fuga del leader, Stefano Di Cagno, già condannato per «attività fascista», e della moglie, Cecilia Marvulli (ex-trotzkista). Tutto comincia alla fine del 1975: un gruppo di ragazzini si appropriano di una sede (4 metri su 4 sulla strada) del Fronte della gioventù. Hanno dai quindici ai diciassette anni, di famiglie medio e alto-borghesi, per lo più «borghesia rossa» o padri ex-partigiani. Qualche volta separate, come i Di Cagno, padre industriale comunista, madre stilista svedese: «Dai 13 anni», racconta, «sono stato uno scappato di casa: prima pingponghista tra le case dei miei, litigavo con uno e andavo dall'altra, con intervalli dalla nonna se le liti coincidevano, poi ho bivaccato in sezione, nelle macchine e le trombe delle scale e i box dei genitori degli amici. Di giorno vivevo con i sottoproletari che riempivano la sezione finché mi hanno accolto i suoceri e ci stavo bene» (1). I ragazzini hanno tutti consumato un'esperienza insoddisfacente nella sezione centrale (anche come ubicazione geografica) del F.D.G., dominata da una banda di exavanguardisti, di estrazione borghese ma invischiati in pratiche malavitose: passavano il tempo in federazione a taglieggiare i figli di papà che frequentavano il Fronte. La nuova sezione, dedicata ad Andrea Passaquindici, un caduto della Folgore, è in periferia. I
ragazzini hanno costruito, senza leader, senza maestri, una modesta base ideologica rivoluzionaria: partecipando alla diatriba nominalistica che lacerava tante sezioni periferiche, non si dichiarano fascisti in rottura con la vecchia guardia ma nazionalsocialisti e per giunta di sinistra (Strasser e i nazionalbolscevichi). Le letture «cult» sono il «socialista» Drieu La Rochelle, i romanzi di Larteguy e di Sven Hassel (del genere mirabolanti avventure di eroici soldati criptonazisti: ma non si può dire perché non si può parlare bene dei demoni). La percezione della realtà è piuttosto distorta di chi si ostina a negare che il fascismo è reazionario, pur avendo avuto già modo di verificare quanto i fascisti lo siano. La quadratura del cerchio: restaurare il giusto stato delle cose, tornare alla purezza delle origini (il Diciannove per il fascismo, la socializzazione della R.S.I. per il neofascismo) e costruire un'esperienza di fascismo sociale e popolare . La rifondazione politica comincia dal nome della sezione, ribattezzata A.P.15 (da Andrea PassaQuindici...) e dall'uso esclusivo della croce celtica come simbolo. Nessun componente del gruppo prende la tessera del Fronte ma sono regolarmente iscritti i nuovi adepti (anche questo succedeva ai margini del M.S.I.). Attorno al nucleo di estrazione borghese, si raccolgono una cinquantina di militanti per lo più proletari e sottoproletari e un centinaio di simpatizzanti, una cifra per gli standard locali. Il padre dei Minelli è un appuntato dei carabinieri. Marzolla, elemento di punta della S.S. (la Squadra di sorveglianza: una trentina di "lumpen" che garantiscono l'«ordine nero» nel quartiere) è figlio di un ambulante che vende fiori all'angolo del carcere. Lo chiamano «Lampadina», per i capelli ricci e biondi che gli fanno un «capocchione»: lui, disoccupato, fa il trimestrale all'ufficio pacchi del carcere, poi lavora come meccanico. Alfredo Gargaro, un altro lumpen della S.S., finisce al carcere minorile per furto: qui mostra la sua coscienza politica, capeggiando una protesta con un «compagno». Sarà regolarmente pestato e trasferito . La massiccia adesione popolana - come in tutti i circuiti di profezia che si autoavvera - accentua nei ragazzini il rifiuto di accettare il giudizio di condanna dei «compagni». Nasce anzi il mito risarcitorio di una borghesia, di una cultura dominante che disinformano per mettere contro «camerati» e «compagni». A livello istintivo si sviluppa una contraddizione lacerante tra la frustrazione per l'antifascismo della larga maggioranza dei giovani, alimentata dalla simpatia per la frenetica
attività militante dei «rossi» (che stimolava il culto vitalistico dell'"agisco, quindi sono") e il continuo scontro fisico, per avere la possibilità di «fare politica». Questi sentimenti contrastanti non contaminano l'impianto ideologico dell'A.P.15. Il libro politico più gettonato (ed è già una rarità che in una sezione del Fronte si leggesse tanto) è "La conquista di Berlino", il diario in cui Goebbels narra la sua storia di agitprop nella Berlino rossa di Weimar, che nello stesso periodo è un testo base delle scuole quadri di Lotta studentesca. Nell'immaginario dei ragazzini - che si stanno facendo le ossa negli scontri quotidiani con i compagni - la battaglia per lo spazio vitale è una riedizione della via Paal. In un anno la missione della S.S. è compiuta, con l'epurazione di tutti i compagni nella zona al di là della ferrovia che divide Bari, lasciando ai «rossi» la parte verso il mare, dove ha sede la federazione del M.S.I. I giovani nazionalbolscevichi, memori delle angherie subite dai camerati più scafati, neanche mettono piede in centro godendosi il «territorio liberato», l'area più degradata della città, che è interdetta ai compagni. I militanti di Lotta continua e gli autonomi che vivono nel quartiere, stanchi delle aggressioni sistematiche, ottengono un patto di non belligeranza dai militanti dell'A.P.15. Per loro, del resto, il nemico vero sono i «kompagni» della F.G.C.I. e del Movimento lavoratori per il socialismo, che ha in Bari il punto di forza al Sud. I «katanga» del M.L.S. sono ossessionati dall'antifascismo e picchiano duro (a Milano hanno mandato in ospedale più di un autonomo e l'odio è reciproco). Nel clima del 1977 anche per l'ultrasinistra il nemico principale è il P.C.I. - il passaggio dalla non belligeranza alla benevolenza è facile. Lo scandalo di un quartiere controllato dalla teppa nera e interdetto solo ai militanti della sinistra ufficiale non può durare e così alla prima occasione - l'omicidio Petrone - il P.C.I. regola la partita per via giudiziaria . In quel periodo ricompare in città Pino Piccolo. Personaggio strano, un classico del "who's who" nero. Matto, colto, buon picchiatore, in odore di infamia al processo di A.N. a Roma, anche se aveva fatto crollare le accuse contro il nucleo barese. Il santuario di A.N. è Mola, 12 chilometri a sud di Bari, dove il capobanda Antonio Fiore mantiene un rigido controllo su 200 militanti. Fiore è un fedelissimo di Delle Chiaie, ha partecipato al viaggio in Grecia della Pasqua del 1968, ed è accusato del tentato omicidio, nel 1972, di un militante di Lotta continua, Moccia, particolarmente inviso ai notabili locali della D.C. «Ho fatto
parte», racconta ai giudici romani Piccolo, «di Avanguardia nazionale dal 1971 al 1973. Quindi sono uscito dal movimento e ho cercato di introdurmi nell'organizzazione anarchica pugliese per fare opera di provocazione; lo stesso ho fatto con Lotta continua. Nel 1975 mi sono convertito al marxismo e mi sono iscritto al Fronte della gioventù per fare opera di provocazione nei confronti della destra. Durante la mia militanza in A.N. ho partecipato a diversi episodi di violenza. Partecipai a una spedizione punitiva [...]. Nei gruppi di sinistra passai dietro ordine di un camerata. Nel 1975, [...] tentai una rapina a un benzinaio. Recentemente mi sono iscritto al M.S.I. dietro consiglio di Antonio Fiore, il quale però ignorava la mia conversione al marxismo» (2). Conversione che non gli aveva impedito di essere arrestato per una rissa davanti a una scuola, unico fascista, insieme a tre compagni . Dopo il processo, Piccolo si fa vedere per un breve periodo in «piazza rossa», poi scompare (manicomio? un'altra vita?), per riapparire in un periodo di scontri quotidiani. Dà il suo contributo a mantenere alta la tensione, aggirandosi di sera per accoltellare compagni. Alcuni giorni prima di uccidere Petrone nello scontro davanti al Comune - racconterà qualcuno - Piccolo passa davanti all'A.P.15, accappatoio e ciabatte, un lungo coltello da cucina, farneticando di «dover uccidere i rossi». Qualcuno lo aveva già ferito in scaramucce - riconoscerà poi qualche compagno - ma tutti militanti che gli erano andati addosso volontariamente, e che si curarono da dottori privati. Verità o leggenda metropolitana che sia si arriva al morto, il diciottenne Benedetto Petrone, un contrabbandiere politicizzato di Bari vecchia, il centro storico rosso e proletario. Non uno minorato dalla zoppìa, come raccontò la stampa, ma neanche un coatto armato di pistola (fatta scomparire dai portantini rossi dopo l'omicidio) come dichiararono i coimputati di Piccolo. Due settimane prima Petrone era sfuggito, scappando, a un agguato della squadraccia dell'A.P.15, e chi lo inseguì assicura che se fosse stato armato avrebbe avuto tutto il tempo di sfilare la pistola per difendersi. Racconta poi un coimputato che Piccolo dopo aver ucciso Petrone passa per una palestra di arti marziali, gestita da un malavitoso, a ritirare un «pacchetto di polvere bianca». Poiché Piccolo e chi l'ha aiutato sono della zona centro, il p.m. Magrone, che sta indagando sulle attività dell'A.P.15, imbastisce un processo bis, politico, che mette assieme Piccolo (latitante), i coimputati, gli accusati di un attentato al Partito radicale, tre dirigenti dell'A.P.15. Le accuse
vanno dalla ricostruzione del P.N.F. a una dozzina di reati vari. Magrone mischia così due bande totalmente estranee e non può provare legami organici tali da tenere il processo dato che l'omicidio è oggetto di un procedimento specifico. Non si rende conto che l'establishment cittadino rifiuta questo tipo di processo. «Da noi», ironizza Di Cagno, «non esiste il terrorismo, il banditismo politico, la rivolta giovanile violenta: sono "piezz' e core", sono figli di mammà che giocano e fanno danni» (3). Il processo per direttissima si sgonfia subito. Il p.m. lascia continuamente trasbordare la sua passione antifascista (nel 1994 sarà eletto deputato progressista). La mobilitazione permanente dei compagni che fanno casino in aula indispettisce il presidente, uno della vecchia guardia, convinto che pestaggi e blocchi stradali in corte d'Assise stonino. Gli imputati, molti figli di papà, tre minorenni, vestono in giacca e cravatta. Finisce tutto a tarallucci e vino, con pene varianti tra un anno e otto mesi (per Modola e Crocitto) e un anno per i minorenni per «attività fascista». I condannati sono sei: i tre leader dell'A.P.15 (Modola, Di Cagno e Crocitto), un coimputato di Piccolo, Montrone, accusato dell'attentato al Partito radicale e altri due giovani missini, Sergio Abbrescia (la madre, vedova a cinquant'anni di un sottufficiale dell'esercito, si suicida durante la sua detenzione) e Tommaso Bottalico. Piccolo e i suoi complici sono assolti, come Luciano Boffoli, una brillante carriera da squadrista (50 denunce per aggressione), un piede nel M.S.I., un altro in A.N. Il vago compromesso tirato fuori dal cilindro del codice è stroncato anni dopo in Appello . Ma il processo ottiene il risultato di deviare l'attenzione di Magrone dal processo contro un gruppo di fasci che controllavano le bische clandestine. Un giro di affari superiore al miliardo giustifica il durissimo trattamento riservato a una banda di coatti di Bari vecchia che cerca di entrare nel lucroso mercato della protezione. Sono spazzati via in pochi mesi a colpi di sparatorie, arresti e una campagna di stampa assai incisiva. La realtà del M.S.I. barese non è fatta solo di mazzieri e banditi. Ci sono boss della mala come i fratelli Mititiero, Tonino e Gino «il drogato» che frequentano il M.S.I., ma il partito ha una base di massa nella piccola borghesia urbana, negli ampi strati popolari che hanno nostalgia per quanto di buono ha fatto per la città il ministro fascista Araldo di Crollalanza, poi a lungo parlamentare missino. A finanziare il partito ci sono industriali di spicco come i pastai Di Vella e
commercianti di grido come Trione. Il capobanda è Maurelli, arrestato nel novembre 1975 come militante di A.N. nonostante avesse aderito alla scissione locale, Avanguardia rivoluzionaria (gruppo sospettato di un attentato al treno Lecce-Milano). Nel 1971, 9 militanti sono denunciati per ricostituzione del partito fascista: tra questi spicca Angelo Apicella, leader del Sessantotto nero a Bari, animatore del foglio nazimaoista «Uragano», anche lui arrestato per A.N. Tra i dirigenti, con Maurelli e Boffoli, c'è anche un fabbro, Guido De Bellis, detto «Gin fizz», collaboratore dei carabinieri, con tutte le passioni e le qualità di un certo tipo di neofascista (i militanti del «partito del golpe»): paracadutismo, pesca subacquea, esperto di esplosivi. Gode fama di essere riuscito a fregare A.N., portandosi via mezzo arsenale (ma non la cassa: il tenore di vita resta modesto). Delle Chiaie - al quale si sforzava di assomigliare, nel look, negli atteggiamenti - lo gratifica di odio profondo e pubblico. Ha numerosi precedenti penali per reati politici negli anni Settanta (tra cui una condanna a 4 mesi per porto d'arma), poi torna alla ribalta alla fine del 1988: è denunciato il 7 dicembre per detenzione di reperti archeologici (in un blitz che manda in galera per traffico d'armi altri camerati) e arrestato alla vigilia di Natale, quando finalmente è trovato in un appartamento blindato in via Oberdan il suo arsenale. Una carabina con cannocchiale di precisione, un MAB con otturatore, tre fucili, sei pistole, una delle quali con la dicitura «Ministero dell'interno, P.S.», centinaia di scatole di munizioni, decine di detonatori elettronici, un chilo di tritolo, maschere antigas, pezzi di ricambio per armi, un ciclostile. Sono sequestrati anche fascicoli su esponenti politici, economici e sindacali di Bari, documenti riguardanti militanti dell'eversione nera, timbri di O.N. e la solita paccottiglia neofascista (vessilli, gagliardetti) . Dopo il blitz della magistratura, la questura aveva chiuso, invocando la legge sui covi, l'A.P.15. Tre mesi dopo i camerati sono tutti fuori. Il processo per l'omicidio di Petrone e il ferimento di un altro giovane comunista si svolge solo nel 1981, dopo l'arresto in Germania e la conseguente estradizione di Piccolo. I fiancheggiatori, personaggi di qualche peso che orbitano intorno alla federazione del M.S.I. (nei cui locali era stato ospitato Piccolo dopo il delitto), sono condannati a pene irrisorie. Antonio Malfettone, uomo di fiducia del federale, già assolto nel processo politico, se la cava con 18 mesi. Carlo Montrone è l'unico che bissa la condanna (anche per lui 18 mesi). Il dirigente del Fronte
Luigi Picinni, accusato di aver partecipato all'aggressione, se la cava con sei mesi. I due minorenni Emanuele Scaramello e Vincenzo Lupelli, già assolti nel primo processo, sono amnistiati. Piccolo è l'unico colpevole per l'omicidio e il tentato omicidio. Alterna crisi paranoidi e autolesioniste, ma è mantenuto nel circuito dei carceri speciali. Quando non è troppo depresso scende al passeggio. Tutto sporco, coperto di cicatrici, alcune fresche per i tagli che si procura sistematicamente. Tra un delirante proclama anticomunista e l'altro, ai camerati che non si fanno impressionare dall'aspetto orribile e sono disposti ad ascoltarlo, racconta la sua storia: è stato contattato, utilizzato, spedito in Germania dagli «amici degli amici». Lì, per sfuggire a una latitanza di fame, lavorando in miniera invece di fruire dei soldi del narcotraffico su cui si erano buttati i suoi boss, si è sganciato. Per lo scippo di una vecchia a Berlino, è «bevuto», mandato subito giù e condannato a morire in galera. Letteralmente: perché riesce, alla fine, a impiccarsi a Spoleto . Anche il M.S.I. decide di staccare la spina: consegna una lista di nomi di militanti alla Polizia - se ci sono guai, sono loro - e non presenta ricorso per far riaprire l'A.P.15. L'espulsione del gruppo dirigente dell'A.P.15 - per «contatti con i marxisti-leninisti» - colpisce gente che la tessera del Fronte non l'ha mai avuta. Il gruppo si frantuma. Una banda - leader i fratelli Minelli e Grimaldi - ruota intorno alla sezione missina rimasta aperta vicino al «covo» chiuso e fiancheggia T.P., che ha una notevole presenza nel Materano. Nel 1978 il campeggio estivo (niente paramilitare: ginnastica, dibattiti e lunghe marce all'alba e i ragazzini rosicano perché non si spara) ha luogo a Montalbano Jonico, nelle terre di famiglia di Leucio Miele, già leader di Lotta di popolo e animatore del comitato pro Freda, morto da pochi mesi (e la madre così vuole mantenerne vivo il ricordo...). Un'altra banda - che fa capo a Di Cagno e Modola e fa base nello scantinato dove questi sconta le misure di sicurezza dopo la condanna per l'A.P.15 - comincia a frequentare i «gatti selvaggi», gli autonomi che ruotano intorno a una redattrice di «Controinformazione», Francesca Ventricelli. Un po' si discute di politica, un po' si fanno le canne. Il grosso della truppa, sconvolta, impaurita, si sbanda. Molti cominciano a «farsi». Quando Fiora Pirri, leader di Primi fuochi di guerriglia, in sciopero della fame, è trasferita nel carcere di Bari, l'unica azione di protesta è un lancio di volantini siglati con la croce celtica, organizzato da Di Cagno e Modola. Che si
preoccupano anche di fare volantinaggi sul ruolo del P.C.I. al soldo del capitale o più concretamente di organizzare la mobilitazione contro l'aumento del prezzo dei biglietti dell'autobus . «Odiavamo gli sbirri, la borghesia, gli avanguardisti», spiega Stefano Di Cagno, «nulla sapevamo dei loro contatti con le forze repressive, ma il loro modo di fare, la fine (malavitosa) che avevano fatto, ce li faceva schifare. Andavamo istintivamente a sinistra. Volantinavamo stronzate davanti alle fabbriche perché ci sentivamo interclassisti ma antiborghesi, e quindi vicini al proletariato. Fummo gli unici a volantinare in solidarietà con la Vianale quando fu carcerata e picchiata. Anzi, volantinammo - macchina in corsa - in 'piazza rossa' facendo imbufalire i compagni, arrivati tardi, secondi dopo i fasci» (4). L'aggregazione tra «rossi» e «neri» - che già si era espressa in una manifestazione di tripudio per l'«esecuzione» di Moro - va avanti in estate. Poi, per tutto l'inverno, la vita è da banda. Nel giro di un anno la droga trasforma nove politici su dieci in micro o macrospacciatoriconsumatori . Nell'estate 1979 il vecchio gruppo dirigente dell'A.P.15 si riaggrega sul piano umano. Di Cagno si rivede con i Minelli e li mette in contatto col giro di Modola e dei «gatti». Una lite notturna tra rossi e neri è l'occasione della nuova e definitiva rottura tra Modola e i Minelli. La nuova aggregazione emargina chi ha cominciato a farsi, come Francesca Ventricelli, che ha una storia con Maurelli, il leader dei fascio-criminali, diventato spacciatore e poi tossico. Si concretizza l'idea di un gruppo armato misto. Un percorso lineare: superamento nella pratica militare delle originali appartenenze (ex-A.P.15, ex-L.C.), autofinanziamento e costruzione di un'aggregazione politica, su basi programmatiche elaborate dai già ricomposti «militari». A spingere sull'acceleratore sono Di Cagno e i rossi. I Minelli preferirebbero un rapporto forte con T.P., qualche altro camerata vuole solo i soldi. Il maggior limite è la scarsa fiducia nelle capacità operative. Non se la sente nessuno di attaccare una banca, e men che meno di disarmare una pattuglia. Comunque qualcuno i soldi li comincia a tirare su, si comprano un po' di armi e di esplosivi, si falsificano i primi documenti. Il disarmo di un metronotte (dovevano essere tre, ma c'è un contrattempo) gasa l'ambiente e anche gli incerti cominciano a crederci. Altri hanno i primi abboccamenti, i fan di T.P. (ovviamente contestati dai rossi) cominciano a cedere sulle posizioni politiche. Si
programmano i primi obiettivi seri: un'armeria e una banca. Si parla anche dell'omicidio del capo della DIGOS o del disarmamento di una pattuglia. Qualcuno propone l'uccisione di un paio di carabinieri in un posto di quartiere, come esca per una strage colossale: far saltare un furgoncino bomba alla libanese all'arrivo di giudici, polizia, alti gradi. La proposta è bocciata. Non c'è ancora la classica reazione estrema degli ex-fasci ad anni di accuse di stragismo (quella teorizzata come alibi morale da Vinciguerra per Peteano: si colpiscono solo i militari armati), ma l'uso di esplosivo, soprattutto in situazioni ad alto rischio, faceva storcere il naso. Paradossalmente i più entusiasti sono proprio i rossi . Tutto è comunque molto confuso e i riferimenti politici più specifici mancano o restano quelli di provenienza. I compagni si dividono in due categorie: quelli che non sanno neanche più perché erano compagni, e quelli che sono ancora marxisti-leninisti, ma identificano nella guerra per bande degli anni Settanta la causa dello sfaldamento che hanno sotto gli occhi. Cecilia Marvulli è la sola trotzkista. Per i fasci la dinamica è simile: c'è chi la pensa allo stesso modo ma si sente solo e vuole essere protagonista e chi è in crisi di identità ed è in cerca. Il senso comune della banda è fornito da alcune semplice acquisizioni maturate nel corso di anni di militanza e poi di sbandamento: «ci eravamo scannati», spiega Di Cagno, «tra pischelli che, tutti, odiavamo l'ingiustizia sociale, i borghesi, i loro servi armati; i capi fascisti erano dei porci, le ideologie rivoluzionarie di destra alla fine solo uno strumento per imbrigliare dei ribelli; le ideologie rosse un fallimento ovunque, slegate dalla realtà, in qualche misura dipendenti/discendenti dall'universo concettuale borghese. Qualcosa si doveva fare. La Passaquindici era nata sul fumo e poco a poco, facendo, aveva creato un accenno di coscienza politico-sociale. I compagni sapevano per averlo vissuto o visto, che ci si avvicinava al loro ambiente così, tanto per, perché era giusto e poi qualcuno trovava la luce [...]. L'istinto comune era: questa è la strada, noi andiamo, qualcosa succederà. La fine è stata quella più misera, ma tant'è, a qualcuno è servito per crescere» (5) . La sera dell'11 marzo 1980 è in programma l'irruzione in una radio libera democristiana, Bari Levante, per leggere un proclama. Entrano in tre. Il D.J., Martino Traversa, diciannove anni, simpatizzante missino, impaurito, reagisce. Nella colluttazione a Di Cagno parte un colpo dal
cannemozze: la rosa dei pallettoni colpisce in pieno Traversa e ferisce di striscio un componente del commando, Nicola De Caro. Il D.J. muore dissanguato. Il tentativo di gestire la situazione fallisce sul nascere: Di Cagno insiste sulla necessità di rendersi preventivamente irreperibili, ma per qualcuno è più urgente non fare impensierire la madre. La polizia parte dal ferito e arriva subito a casa Minelli. Massimo fa coppia fissa con De Caro. Crolla dopo 18 ore di interrogatorio duro e confessa: era lui l'autista. Alle 8 e mezza di mattina, in preda al panico, De Filippis, il quarto uomo, telefona a casa Minelli. La signora lo avverte che i figli sono stati fermati. Il ragazzo, completamente nel pallone, non pensa che il telefono è sotto controllo e si lamenta: «Accidenti, adesso arriveranno da me». Si costituisce poche ore dopo. L'unico che riesce a scappare è Di Cagno, che si trascina nell'ultima avventura la moglie. Rimediano due documenti falsi e puntano sulla Spagna. Qui trovano aiuto in modo rocambolesco. Si presentano nella sede di un gruppo extraparlamentare di destra a Barcellona e chiedono ospitalità. Sostanzialmente scaricati, entrano casualmente in contatto con Ernest Milá, capo della redazione spagnola di «Confidential», nome di battaglia «Bicio», ovvero 'il verme'. Vivono insieme per qualche mese, fino a quando una mattina arriva la gendarmeria per arrestare il braccio destro di Delle Chiaie - dopo il fallito golpe Tejero anche la polizia cambia atteggiamento verso l'ultradestra - e riparano assieme a Parigi. Ventiquattr'ore di viaggio, poi il grande incontro: un invito a cena al ristorante con Delle Chiaie e signora, Sisto di Borbone e una nobildonna inglese. La conversazione: progetti di restaurazione carlista in Spagna? Nient'affatto, a reggere le fila del dialogo c'è Leda Minetti, che con gran dovizia di particolari rende edotta la nobildonna sui misteri dell'amatriciana e della mozzarella in carrozza. La strana coppia non è disposta a entrare nel giro degli avanguardisti. E devono arrangiarsi, anche perché i camerati francesi sono maledettamente tirchi . «La latitanza», racconta dieci anni dopo Di Cagno, «per noi fu uno choc. Non sapevamo dove andare, così ci mettemmo a girovagare per l'Europa bussando alle porte di tutta la fascisteria. Dietro di noi c'era il vuoto, davanti nulla. Non ci beccammo mai coi latitanti dei NAR e così non avevamo né armi né soldi. Finimmo venti giorni con i francesi della FANE, un mese con il British movement, cacciati dagli spagnoli di CEDADE (Comitato spagnolo degli amici dell'Europa) perché di
sinistra, quasi «bevuti» dai commissari del F.N. di Barcellona. Sempre in fuga. Incontrando fascisti per un buco dove dormire e un posto in cui mangiare. Per me non era difficile: in fondo avevo condiviso quelle idee fino a un anno prima, ma per Cecilia fu molto duro. Lei non aveva contatti tra i compagni 'lottarmatisti' e poi, chi ci avrebbe aiutato?! Chi ci conosceva?! Appena scappati, alla stazione di Genova, leggemmo con terrore (e rabbia) un articolo sull''Europeo' in cui mi si dipingeva come un pariolino di quelli che fanno i party in divisa da S.S. Scappavamo dalla polizia e, a volte, dalle richieste di chi ci aiutò. Non avevamo scelta. Incontrammo mio padre, l'ultima volta che l'ho visto, a Milano e ci disse 'consegnatevi o vi denuncio' e se ne andò. Non ci siamo mai venduti, ma abbiamo patito fame e freddo. Sono state fatte tante porcherie! Da persone così mediocri. In galera, e qualcuno anche fuori, ho conosciuto quelli definiti i 'manovratori', individui 'poveri', come si diceva un tempo. Eppure tanto danno hanno fatto» (6). Di Cagno è arrestato a Parigi il 23 aprile 1981: senza una lira, con Cecilia incinta e alla fame, ruba 30 franchi di roba da mangiare in un supermarket, lo fermano e invece di avere l'atteggiamento remissivo del taccheggiatore beccato, si fa saltare i nervi e picchia il "flic" per scappare. Solo che ce n'era un altro dietro, e un furgone pieno parcheggiato all'angolo. Lo identificano solo il 25 e il commissario, contentissimo, gli dà la mano fuori dell'ufficio, così che i "flic" pensano che è tutto a posto e non l'ammanettano. Lui scappa ma inciampa saltando un'auto e lo riacchiappano. La sera del 25 aprile è trasferito al carcere di Fleury Mercis. L'avvocato francese lo convince: smetti lo sciopero della fame tanto partite ugualmente e così non ti fanno vedere tua moglie. Non ha visto la moglie, ma l'hanno estradato lo stesso. Di Cagno si dichiara prigioniero politico all'arrivo in carcere a Trani, alla fine di settembre. E così si guadagna subito la promozione al circuito speciale. Il carcere è l'occasione per ripensare tutto: il passato a Bari, l'anno di latitanza con la donna, gli incontri con i capi neri di mezza Europa, dalla Spagna alla Francia, passando per la Gran Bretagna, tra miseria materiale e disgusto morale tutto è rivisto alla moviola; il senso di straniamento per il comportamento processuale dei coimputati tutti tesi a banalizzare, infangare, immiserire la comune vicenda, togliendo ancor più senso alla tragedia di Martino Traversa. «Non confessai», scrive Di Cagno, «rivendicai semmai il motivo dell'azione. I miei coimputati, che io non riconoscevo ma che si attribuivano i fatti, dissero
che era una rapina. Ben misera cosa. Tutte le loro dichiarazioni seguirono la linea abituale: siamo degli scemi, scusateci. Non che sia falso [...] ma oltre che scemi, anche furbi figli di puttana. Comunque, io accettai (in parte) la cosa. Dissi che non era vero, che io ci stavo, che uccisi per sbaglio, che era un'operazione politica con motivazioni diverse da quella di cui mi accusavano. Non potevo, senza fare la parte del dissociato, contribuire ad accusare altri con elementi nuovi. Virtualmente, anche se non avessi, come non feci, fatto i nomi, sputtanando i rei confessi li avrei inguaiati. Non potevo aiutare la giustizia che non accettavo. Rivendicai, cercai di pulire un po' quel che avevano insozzato e mi cucii la bocca. Questo ennesimo tradimento dei miei ex-fratelli l'ho sempre considerato una catarsi. Il modo per espiare a modo mio la morte di un poveraccio della mia età che non c'entrava una sega, ucciso tante altre volte dai giudici, dai miei coimputati, dai genitori, che si misero a contrattare il risarcimento coi legali dei coimputati e la mia famiglia. Avrei dovuto ricusare il difensore. Non lo feci» (7) . L'inchiesta contro il gruppo di fuoco misto non mette in risalto l'originale caratteristica della banda nonostante tre imputati fossero schedati come comunisti. Anzi, il giudice istruttore, in parallelo col processo per omicidio, costruisce un processo per una fantomatica associazione sovversiva, di spiccato stampo nazista, la Martin Bormann: «un'altra delle demenzialità baresi», commenta Di Cagno, «io ne ho avuto notizia solo nel 1982, quando ricevetti un mandato di cattura che salvò mia moglie dall'estradizione» (8) . L'antefatto. Qualche tempo prima, un giovane missino di Modugno, villaggio alla periferia di Bari, noto tra i camerati come «Sieg eil» perché così scriveva sui muri il saluto nazista, è bloccato dalla DIGOS con timbri di plastica dove artigianalmente aveva effigiato un paperotto-svastica. «Non so in che termini», racconta Di Cagno, «mi mise in mezzo. Così il giudice istruttore che condusse il processo per l'omicidio Traversa, si inventò un'associazione sovversiva Martin Bormann con alcuni dei coimputati, il tipo di Modugno, (che in aula ritrattò tra le lacrime con l'avvocato che sventolava bandi di arruolamento [suo] nella P.S. e io in gabbia che sbavavo), altri sconosciuti. Risultati: a) questa iniziativa folle (il giudice istruttore era lo stesso - Lo Sapio - nei due processi, gli imputati principali pure, le epoche anche ma nessuno unificò nulla) permise a mia moglie di non
essere estradata. Arrestata tre mesi dopo di me, incinta, fu tenuta dai socialisti di Mitterrand tanto da costringere i baresi a emettere questo mandato di cattura politico e vanificare l'impoliticità con cui cercavano le estradizioni; b) assoluzione piena perché il fatto non sussiste per noi, con occasioncina in Appello per il sottoscritto di tentare la fuga dal tribunale. "En passant" io ebbi modo di produrre qualche delirante proclama di antifascismo in aula, mia attività preferita in quei processi dove venivo seppellito da vangate di sterco tirate da imputati, accusatori, giudici, giornalisti, avvocati. Tutti mi odiavano perché gli rovinavo l'attività preferita: sminuire a oltranza (ma non seguendo le ampie possibilità date dalla verità), infangare e infangarsi, fare i pulcinella» (9). Il primo processo per la Martin Bormann è nella primavera dell'83. L'unico condannato è «Sieg eil», agli atti Giuseppe Milella . Un mese dopo, stessa corte per il processo alla banda vera. Di Cagno è condannato a 25 anni («il mio avvocato aveva convinto con un lungo lavoro ai fianchi il presidente che io ero un bravissimo ragazzo, ma io non lo sapevo ed avevo pensato bene di insultarlo durante il primo processo perché non mi fece leggere un comunicato, credo delirante, come norma») (10). Gli altri tre imputati dell'omicidio tra confessione, minor partecipazione e comportamento processuale prendono le generiche, con pene oscillanti tra i 12 e i 15 anni. La Marvulli, incriminata come mandante di tutti i reati, se la cava con 4 anni e mezzo. Pene minori per gli altri imputati: tra questi spicca Grimaldi, detto «Giuda», esperto in favoreggiamento di omicidi. Già condannato per aver aiutato la fuga di Piccolo, aveva fornito anche ai Di Cagno i documenti falsi poi, onorando il soprannome, fa una soffiata ai loro danni. L'Appello per la Martin Bormann ha luogo a dicembre. I carabinieri della scorta, gli stessi che avevano prestato servizio in corte d'Assise, ben disposti (uno è figlio di un collega) pensano che sia il processo per omicidio. All'assoluzione stringono larghi i ferri e Di Cagno ci riprova a scappare, confermando la devozione alla dea della sfiga. Un topo di biblioteca con gli occhialetti e i paragomma gli chiude una porta a vetri. Lui la sfonda, in corsa, ma si confonde e invece di scendere le scale gira a destra, andando a sbattere in tre poliziotti: riesce a stendere il primo ma gli altri due lo bloccano. La condanna per direttissima (evasione e violenza a pubblico ufficiale) è a un anno. L'estate dopo, in appello, l'effetto Bari funziona: drastiche riduzioni di
pena per tutti. Diciotto anni per Di Cagno, tra gli 8 e i 12 anni per Minelli, De Caro e De Filippis, 2 anni e mezzo con la condizionale per la Marvulli. Oltre che sfigato, Di Cagno è un romipicoglioni nato, e la durezza del carcere speciale non aiuta a mitigare le intemperanze caratteriali. Riesce così a stabilire un record significativo: per 10 anni consecutivi non gli sono concessi «i giorni», lo sconto di pena per buona condotta in carcere. «Ho conosciuto praticamente tutti i carcerati di destra», conclude Di Cagno, «ho sentito le loro storie, vissuto le loro meschinità. Così, piano piano, insieme a Roberto [Nistri], ci si è accorti che sempre, fin dall'inizio, si è appartenuto inconsciamente alla sinistra. Confusamente, facendo errori. Il principale dei quali è l'aver creduto che si possa essere 'né di destra né di sinistra' . T.P. voleva scrollarsi di dosso il fascismo, ma non poteva, perché era fascista. All'A.P.15 eravamo strasseriani perché cercavamo un fascismo non fascista. Ma non si poteva. E quindi qualcuno andò a mettere il naso tra i compagni. Non era la soluzione, ma quello è un (nuovo) inizio. Per questo (e altro) io e Roberto ci sentiamo compagni» (11) . Molti dei coimputati sono finiti nel giro della mala. A dicembre 1988 viene alla ribalta una banda di neri dediti al traffico d'armi. L'inchiesta parte dall'arresto di Vincenzo Volpicella, un ex con precedenti penali per reati politici negli anni Settanta. Nascondeva in casa quattro pistole: una antica, una ad aria compressa, due a tamburo e vari pezzi di una pistola smontata, proiettili. La polizia arresta anche Luciano Boffoli, lo squadrista assolto al processo contro l'A.P.15 (nella sua autorimessa trovano una calibro 38 e una sessantina di proiettili) e Pasquale Crocitto, già condannato per attività fasciste. Da Boffoli gli investigatori arrivano a De Bellis, suo socio in una piccola ditta di autotrasporti: «Gin fizz» se la cava con una denuncia come «tombarolo», poi una soffiata lo incastra come il responsabile del traffico d'armi. Pasquale Crocitto è coinvolto solo marginalmente nel giro: lui è specializzato nello spaccio di eroina (mezzo chilo al mese), con la pericolosa fama di «sòla». Uno dei suoi soci è Nicola De Caro (uno degli omicidi di Traversa): De Caro collabora e se la cava con un anno di carcere. Qualche mese prima era finito in galera anche Massimo Minelli, arrestato il 26 giugno: gli avevano trovato 55 grammi di cocaina e 30 di eroina pura. Un mandato di cattura colpisce anche Modola, che ha mantenuto la passione per le compagne (ha avuto una lunga storia con una ex-brigatista toscana) ma che campa di «traffici»
con gli ex-camerati: lui sfugge all'arresto. Crocitto all'uscita dal carcere insiste, ma stavolta viola le leggi della «mala»: non paga una partita di eroina ai «siciliani» e nell'estate del '91 è ucciso a Fasano, la centrale pugliese del traffico di droga. Non è il solo tra i «fasci» baresi a morire per l'eroina: agli inizi degli anni Ottanta era toccato a Maurelli, stroncato da un'overdose . NOTE . (1). Lettera all'autore, marzo 1991 . (2). Flamini, "Il partito...", cit., vol. 4, 2, p. 258 . (3). Lettera all'autore, maggio 1991 . (4). Lettera all'autore, marzo 1991 . (5). Ibidem . (6). Lettera all'autore, maggio 1991 . (7). Ibidem . (8). Ibidem . (9). Lettera all'autore, settembre 1991 . (10). Lettera all'autore, maggio 1991 . (11). Lettera all'autore, marzo 1991 . LA MALEDIZIONE DEL CINQUE . «5 MARZO 1978 - 5 MARZO 1988. GLI EROI NON MUOIONO. FRANCO VIVE». La scritta sbiadita sul muro del casermone popolare all'Appio-Tuscolano colpisce. Il riferimento a Franco Anselmi, il compagno di banco di Valerio Fioravanti, è evidente eppure qualcosa stride. Anselmi, infatti, è stato ucciso, dopo una rapina in un'armeria di Monteverde, il suo quartiere, colpito alla schiena dal proprietario, il 6 marzo 1978. Una data «storica»: ogni anno, per commemorare il primo militante dei NAR caduto in combattimento, i camerati organizzeranno una rapina. E poco importa che l'anno dopo la rapina - quella all'Omnia Sport, a quattro passi dalla questura: che vide coinvolti a diverso titolo decine di militanti del FUAN, e non solo - l'abbiano fatta dieci giorni dopo, perché un banale incidente aveva fatto saltare quella in programma per il 6: la sera prima il camioncino da parcheggiare davanti all'armeria di Prati (a duecento metri dai carabinieri) per la copertura con le armi lunghe aveva strisciato l'auto del giornalaio. Un errore incomprensibile, che mi è divenuto chiaro solo un paio di anni dopo, nel corso della ricerca, quando uno dei miei corrispondenti - un
ergastolano che non ha mai manifestato inclinazioni esoteriche o turbe superstiziose - mi ha riferito con tutta serietà della «maledizione del cinque» che ha decimato i NAR. Il riscontro è semplice: 5 ottobre 1980. Nanni De Angelis si impicca in una cella di Rebibbia . 5 febbraio 1981. Valerio Fioravanti, ferito in un conflitto a fuoco con i carabinieri a Padova, sta morendo dissanguato ed è arrestato perché Francesca Mambro per salvargli la vita telefona al 113 . 5 dicembre 1981. Alessandro Alibrandi muore nella sparatoria del Labaro . 5 marzo 1982. Francesca Mambro, ferita da un colpo di rimbalzo nel conflitto a fuoco di piazza Irnerio, è abbandonata davanti all'ospedale ed arrestata . 5 maggio 1982. Un colpo di pistola alla tempia uccide Giorgio Vale sorpreso da un'irruzione della polizia in un appartamento di via Decio Mure . Franco Anselmi, l'unico militante dei NAR «caduto» in combattimento in un giorno diverso dal 5, è stato «annesso» dall'autore della scritta alla maledizione. E invece sono state cinque (non poteva essere altrimenti) le vittime della cabala. I «guerrieri senza sonno» sono stati protagonisti di numerosi altri conflitti a fuoco (Belsito a Piramide, Vale in una stazione della metropolitana, Sordi e Cavallini all'ufficio di rappresentanza palestinese) o di sparatorie contro le forze dell'ordine (in agguati o in contatti casuali) sempre finiti bene per i militanti dei NAR e con molti poliziotti e carabinieri uccisi (la pattuglia DIGOS di Milano, il carabiniere Lucarelli nella carrozzeria di Lambrate, l'agguato al liceo «Giulio Cesare», l'agente Arnesano). Mai il 5. C'è un unico arresto incruento di rilievo: quello di Pedretti (il 5 dicembre 1979) dopo una rapina alla gioielleria Uno-A-Erre di via Rattazzi a Roma, ma solo perché il leader del FUAN (tradito da un palo vigliacco che scappa all'arrivo dei carabinieri) si arrende alla prima intimazione. Seguiamo questo lungo filo rosso di sangue partendo proprio da Franco Anselmi, ucciso a ventidue anni, mentre scappava dopo l'assalto all'armeria Centofanti. Era considerato il vecchio del gruppo. Proveniente dalla Magliana, Anselmi ha un lungo curriculum di attivista e squadrista. Amico di Mantakas, è al suo fianco quando i compagni lo ammazzano davanti alla sezione del M.S.I. di Prati. L'anniversario dell'omicidio sarà una data di culto: il giorno della vendetta, della caccia al rosso (ovvero di capelloni, drogati, finocchi e «zellosi»). Il "memorial day"
diventerà poi il 7 gennaio, data del massacro di Acca Larentia. Anselmi non ne avrà il tempo, ma i suoi 28 febbraio, per vendicare l'amico, se li è fatti tutti alla grande. Da quella mattina maledetta in via Risorgimento, comunque, non si separerà mai dal passamontagna intriso del sangue di Mikis. A scuola al liceo privato «Tozzi» è compagno di banco di Valerio: ha due anni in più ma li ha persi perché dopo un pestaggio è rimasto tre mesi in coma e ha dovuto fare una lunga riabilitazione, portandosi dietro un abbassamento della vista, che gli frutterà l'affettuoso nomignolo di «Orbo di Urbino», l'Università dove è iscritto. Fioravanti spiegherà che la frustrazione accumulata per i continui rinvii del processo contro il responsabile della menomazione (figlio di un notabile D.C.) scatenerà l'escalation militare del gruppo. Il primo anniversario Anselmi lo celebra con i Fioravanti e Alibrandi, accoltellando due compagni del «Tacito». Partecipa al raid di Sezze, nel maggio 1976, quando il deputato missino Saccucci e i suoi guardaspalle per sfuggire alla contestazione antifascista si allontanano sparando dalle auto e uccidono un giovane comunista. Dopo la distruzione del M.S.I. di Monte Mario partecipa al presidio e con Valerio e un altro camerata spara sui compagni del «Fermi»: uno è colpito tre volte. Frequenta le sezioni di Monteverde e della Montagnola, dove spicca la figura di Pedretti, responsabile dei Volontari nazionali, ed è tra i componenti del primo gruppo di fuoco di quelli che, dopo la sua morte, Francesca Mambro chiamerà Nuclei armati rivoluzionari, i NAR. Partecipa agli attacchi ai giornali, le prime azioni di guerriglia urbana della banda: alla redazione romana del «Corriere della Sera» con una molotov colpisce un custode, scatenando il più feroce dileggio . I morti di Acca Larentia offrono altro sangue al suo passamontagna, ma Franco non sa che il prossimo sarà il suo. Avrà appena il tempo di «onorare la memoria» di Mikis, ammazzando il 28 febbraio 1978 un poveraccio che non ci azzeccava niente, poi la fine. Per il terzo Mantakas-"day" la banda decide il salto di qualità: questa volta per la vendetta ci vuole il morto. Ci hanno già provato nel pomeriggio, sparando su un gruppo di compagni al Portuense. Tre i feriti: uno si è salvato solo perché è finito il caricatore. Ci riprovano la sera, dopo il solito appuntamento al Fungo dell'Eur. Partono in otto: i Fioravanti, Anselmi, Alibrandi, Pedretti e tre personaggi minori, Massimo Rodolfo, Paolo Cordaro, Francesco Bianco. Il bersaglio: i compagni del Don Bosco, a Cinecittà. Le tre auto puntano su una palazzina occupata a via
Calpurnio Fiamma: secondo una voce dal carcere è la base rossa dei killer di Acca Larentia. Grande è la delusione nel commando quando scoprono che la polizia ha appena sgomberato l'edificio. Che fare, allora? Semplice: un bel tiro al bersaglio agli «zellosi» del Don Bosco, piazza dei compagni nel ghetto di Roma sud. Il gruppo di fuoco è composto da Anselmi e dai Fioravanti. Sparano su un gruppetto intorno a una panchina. Cristiano va a segno ma gli si inceppa la pistola, una scacciacani calibro 6 modificata artigianalmente. Franco colpisce un altro che cade a terra e Valerio, che non è ancora riuscito a fare fuoco per un difetto del revolver, non si perde d'animo. Si mette a cavalcioni del secondo ferito e da distanza ravvicinata gli spara due colpi alla testa che lo uccidono. Quindici anni dopo racconterà in televisione il suo primo omicidio, ma Minoli quella volta non si è documentato bene e così quando Valerio, peccando di omissione, ammette che la sua vittima aveva avuto il tempo di guardarla negli occhi e di capire che con Acca Larentia non c'entrava, l'intervistatore non gli chiede conto della feroce determinazione criminale contro un innocente. L'attentato è ripetutamente rivendicato ma la stampa - puntando sui piccoli precedenti di Roberto Scialabba, un ladro politicizzatosi in carcere preferisce parlare di un regolamento di conti tra spacciatori. Solo Lotta continua rivendica la militanza della vittima e la matrice fascista del delitto. Dopo la caccia grossa, che è andata bene nonostante la qualità disastrosa dell'armamento - due pistole difettose su tre - la banda si pone il problema di evitare rischi inutili: gli «zellosi» del Don Bosco non erano armati e non hanno reagito, ma la prossima volta si potrebbe non avere la stessa fortuna . I giovani guerrieri sono persone semplici: loro girano armati sempre e quindi pensano che anche i compagni lo facciano. Non riuscendo a procurarsi armi decenti sul mercato clandestino, decidono di andarsele a prendere dove ce ne sono in abbondanza, in armeria. Il colpo è organizzato in quattro giorni, sotto casa. La sera del 5 si rapinano le auto, sulla Laurentina, il pomeriggio del 6 si passa all'azione in via Ramazzini a Monteverde Nuovo. Poco dopo le 16 Valerio e Franco entrano a volto scoperto nell'armeria Centofanti, tengono sotto tiro i titolari, due fratelli, e sottraggono undici pistole e due canne per pistola. Fuori, con compiti di copertura restano Cristiano e Alibrandi. Quando entra un cliente, quest'ultimo lo segue e dà man forte ai due. Anselmi si attarda a rapinare i beni personali dei presenti, per accreditare la pista
dei tossici, si «ingarella» a discutere con uno che non vuole mollare una catenina ricordo di famiglia, alla fine gliela lascia ed è così l'ultimo a uscire. L'armiere Danilo Centofanti, l'uomo della discussione, gli spara alla schiena: Cristiano è già in macchina, Valerio è appena salito a bordo con la borsa delle armi, Anselmi cade sulla porta del negozio e anche Alibrandi è ferito. L'autista, Francesco Bianco, terrorizzato tenta di partire: alla fine, nell'orgasmo della fuga, lascerà un'impronta digitale a bordo. Cristiano e Valerio gli puntano la pistola alla nuca e lo costringono a tornare indietro. Sparano all'impazzata per scendere dall'auto senza danni e portare in salvo Franco ma appena lo toccano si accorgono che è inutile. Ancora spari per evitare sorprese e la fuga. Pochi minuti dopo un secondo inutile tentativo di soccorso, da parte di Dimitri accorso in moto con un camerata appena saputo della sparatoria . Il giorno dopo cominciano le minacce a Centofanti. Valerio telefona «C'è la tua 44 Magnum che ti aspetta». L'8 è fatto ritrovare a un giornalista dell'ANSA un volantino del direttivo rivoluzionario in «onore e gloria» del camerata Anselmi: «ha concluso nell'unica maniera possibile una vita dedicata all'anticomunismo militante. Si distingueva per la sua lealtà, per il suo coraggio, per la sua generosità. Condanniamo Danilo Centofanti alla pena di morte per aver colpito alle spalle Franco [...]. Onore al camerata Franco Anselmi. Siamo pronti a seguirti. Tremino i codardi, i corrotti, le spie». Nella prima categoria è da inserire anche Paolo Cordaro, che ha partecipato ai sopralluoghi, ha fornito le armi prelevandole dalla collezione del padre, e avrebbe dovuto portare via dal luogo della rapina uno dei partecipanti ma, terrorizzato, molla Alibrandi ferito - costringendolo a fuggire a piedi se ne scappa e dà così, ingloriosamente, l'addio alle armi. Un «coccodrillo» meno ampolloso del volantino lo pronuncerà in uno dei tanti processi Valerio, dieci anni dopo: «Mi legai a Franco in maniera molto particolare perché era un ragazzo che a me piaceva moltissimo. In termini romantici era sicuramente uno dei migliori, uno dei ragazzi più generosi. Non c'era niente di spirituale né di intellettuale: era semplicemente un ragazzo dal cuore d'oro [...] la classica persona che pur avendo già pagato molto, quando c'era da ripartire ripartiva; che pur avendo già avuto conseguenze gravissime per il suo impegno politico non era rifluito nel privato, non aveva paura. E' questo che ti colpisce» (1). Del commando fa parte l'intero gruppo di fuoco del Don Bosco,
tranne Pedretti, eppure l'armiere è convinto di riconoscerlo tra i rapinatori, prima in foto, poi di persona, ma la mancanza di riscontri porterà al proscioglimento. Dell'assoluta inattendibilità dei testimoni di fatti di sangue dà prova anche il proprietario della Taunus rapinata, che riconosce in foto sia Anselmi sia Bianco. Lo smentirà Cristiano Fioravanti: erano stati lui e Bianco a rapinarla. I funerali diventano una manifestazione di massa. I Fioravanti non vi partecipano per evitare le foto della DIGOS, ma se li fanno raccontare dei camerati: «Era bellissimo, c'erano almeno mille persone. C'era pure un sacco di polizia, ma nessuno si curava di dare il proprio volto, non abbiamo avuto paura. Avevamo le bandiere, abbiamo gridato gli slogan» (2) . Due settimane dopo un commando rende omaggio al «combattente anticomunista» rivendicando con una sigla mai più usata l'omicidio a Milano di due giovanissimi autonomi, uccisi nei pressi del centro sociale Leoncavallo dall'Esercito nazionale rivoluzionario, brigata «Franco Anselmi» (3). Il delitto, compiuto due giorni dopo il sequestro Moro, destò grande impressione anche per il ruolo di Fausto Tinelli, studente, e «Iaio» Iannucci, operaio, meno di quarant'anni in due, impegnati nell'attività di controinformazione contro gli spacciatori di eroina. Le prime indagini si orientano verso gli ambienti dell'estrema destra milanese. Sono perquisite, tra le altre, le abitazioni di Andrea Calvi, leader del Circolo Ramelli, e di Angelo Angeli, il «Bombardiere delle SAM» già passato alla malavita. Due neofascisti del quartiere, i fratelli Bortoluzzi, sono arrestati dai carabinieri per detenzione di armi: il primo cade da una moto in compagnia di un amico e si fa trovare addosso una 44 Magnum dagli infermieri dell'ospedale, il secondo è fermato perché a casa c'erano altre due pistole, coltelli e armi improprie. La calibro 7.65 sequestrata risulta essere stata sottoposta a martellamento della canna, probabilmente per vanificare un'eventuale perizia balistica (Fausto e «Iaio» sono stati uccisi con una 7.65). I tre comunque si dichiarano estranei all'agguato. Tra i primi sospettati c'è anche un diciannovenne, attivista del M.S.I. di via Mancini, già arrestato nell'inchiesta per l'omicidio di Gaetano Amoroso. Le indagini puntano sull'ambiente del bar Pirata di via Pordenone, un luogo chiacchierato nel quartiere di Lambrate, incrocio di neofascisti e trafficanti di eroina. A presentarsi spontaneamente in questura, invece, è Gianluca Oss Pinter, fascista, ventisei anni, accusato dagli autonomi di essere uno spacciatore e perciò picchiato pochi giorni prima del
delitto. Era andato in giro nel quartiere a dire che Fausto era tra gli autori del pestaggio e ora teme che possa essere accusato di essere il mandante del duplice omicidio. Il duplice omicidio è avvolto nel mistero per dieci anni quando Radio popolare, intervistando un misterioso testimone, individua un presunto colpevole, un romano del giro dei NAR che ha frequenti rapporti con l'ambiente neofascista di Milano e di Cremona ed è coinvolto nell'omicidio di un compagno. Un identikit che si attaglia a Marione Corsi, leader dei fascisti proletari di Prati. Le controinchieste militanti e giornalistiche sulla morte di Fausto e «Iaio» in fasi successive alimenteranno le faticose indagini, orientandole su una pista di «delitto politico» eseguito da neofascisti romani e assai gradito alle centrali milanesi dello spaccio. Il giudice Salvini, che ha a lungo indagato senza esito, in una conversazione con le madri del Leoncavallo, conferma che l'attentato è opera degli amici romani di Anselmi e che il principale sospettato è Massimo Carminati. Tra gli indizi a carico la tecnica di usare un sacchetto di plastica per trattenere i bossoli. Alla fine anche lui si dovrà arrendere all'evidenza: non ci sono elementi a carico né sull'uno né sull'altro, neppure per mandarli in dibattimento. Ed è proscioglimento. Tra gli interrogati per il duplice omicidio c'è anche Mario Spotti, un «camerata» romano laureato in Psicologia che campava facendo l'autotrasportatore. All'epoca frequentava i neofascisti milanesi più vicini all'area della lotta armata, vantandosi di aver scambiato armi con Anselmi e di conoscere bene Valerio (al quale è attribuito, tra i tanti, anche il tentativo di omicidio di Andrea Bellini, il leader degli autonomi del Casoretto). Chiacchiere con qualche riscontro, quelle di Spotti: nell'86 è condannato per detenzione di armi. Si trasferisce poi a Bolzano, dove ha una lunga, burrascosa storia con un'impiegata della Provincia, Nadia Penna. La donna lo lascia nel 1991 ma lui continua a tormentarla. La nascita di un bambino, pochi mesi dopo, rilancia il pressing. Lei ha continuato a negare, inutilmente, che il figlio fosse suo. Le ripetute denunce portano a numerose condanne per il camionista (per molestie, percosse e ingiurie ma anche per atti di libidine violenta) che ha potuto coltivare la sua ossessione fino alla tragedia finale. Per aver tentato di vendere un Kalashnikov a un carabiniere in incognito è anche condannato a 4 anni e scarcerato un'altra volta. La mattina del 18 ottobre 1995 Spotti aspetta la donna all'uscita dell'ufficio e le spara, riducendola in fin di vita, e poi si ammazza con una rara pistola
ungherese, una Frammer 7.65. Un'arma dello stesso calibro aveva ucciso Fausto e «Iaio», e i magistrati hanno sequestrato l'arma per verificare se era già stata usata contro i due leoncavallini. Con la speranza che fosse proprio Spotti il «camerata Alfa», omicida e suicida, che ha concluso in disperata solitudine la sua personale traiettoria di morte, con un funerale senza fiori e senza gente . Di diversa natura è l'omaggio che i camerati hanno sentito di dovere a Nanni De Angelis, morto con una corda al collo, in una cella d'isolamento del carcere di Rebibbia, il giorno dopo l'arresto. Non è più tempo di manifestazioni di massa: in quei due anni e mezzo di sangue, lacrime e merda la possibilità di fare politica in piazza, faccia al sole, è finita. Dalla morte di Anselmi a quella di Nanni è successo di tutto: gli omicidi dei NAR e la strage di Bologna, la decapitazione del vertice (Fiore e Adinolfi latitanti, Dimitri e Nistri in galera, Mangiameli ucciso da Fioravanti) e lo sbando di T.P. per il blitz del 23 settembre. Nonostante il clima da scene di caccia in Bassa Baviera, decine di camerati varcano il portoncino del villino dei Parioli, per esprimere solidarietà alla famiglia. Quella casa la conoscono in tanti: negli anni dell'impegno pubblico ha rappresentato per molti la possibilità di un pasto caldo e di un materasso su cui riposare nei ristrettissimi tempi che una militanza forsennata lasciava alle più strette necessità fisiologiche. Rosa, una piccola ed energica napoletana, quattro figli militanti in T.P. (Nazzareno detto «Nanni», Marcello, Giorgio e Germana, il quinto è un bambino ma ha già preso confidenza con le perquisizioni all'alba con i mitra puntati), non ha mai sbattuto la porta in faccia a nessuno. Quando qualche mese dopo il T.G. annuncia l'uccisione di un poliziotto, il piccolo esulta, la madre lo rimbecca: «Pensa alla madre, poverina» e lui, pronto, «Perché Nanni non ce l'aveva una mamma?». A fare il giro delle redazioni, per difendere la memoria del fratello, ci pensa Giorgio: Marcello, dirigente nazionale di T.P., è anch'egli latitante e tocca a lui persona di pochissime parole - spiegare a un redattore di «Paese Sera» che Nanni non era mai stato missino ma un militante antisistema. Il simbolo che gli hanno trovato al collo, precisa, era amerindio: il loro mito. In tempi in cui imperavano i martelli di Odino e la dottrina aria di lotta e vittoria, il cugino Lele Macchi aveva scoperto la storia dei pellerossa come archetipo di una civiltà guerriera e nomade, non materialista e non gerarchica e Nanni, caratterialmente irriducibile a qualsiasi catena, era stato il primo adepto del nuovo culto. Ancora oggi
la sua stanza è tappezzata dei manifesti di Geronimo e Cavallo Pazzo. Nanni era amatissimo dai camerati, ma anche da molti compagni che gli erano amici (e tra questi Margherita Buy, militante di Lotta continua e sua compagna di scuola). Il ritratto collettivo che viene restituito da tutti quelli - e sono tantissimi - che hanno pianto la sua morte è quella di una persona incredibilmente buona e gentile, pur essendo sempre pronto a menare le mani, un «artista» che non ha mai alzato un dito per teppismo o cattiveria. Suoi sono i primi murales di destra. Nanni, campione di football americano, non si tira mai indietro se c'è bisogno, anche se alla noia della vita di sezione preferisce il cazzeggio da bar e la caccia alle donne: la prima denuncia è nel 1975, per una rissa al liceo, l'«Azzarita», ai Parioli . Responsabile della banda dei picchiatori di T.P., i «brutti», è ferito con una rasoiata alla schiena nell'autunno del 1978 a piazza Annibaliano, al quartiere Africano, nel corso di una rissa furiosa con un gruppo di compagni capitanati da Valerio Verbano, il militante autonomo che sarà ammazzato in casa da un commando neofascista nel febbraio 1980, uno dei pochi delitti dei NAR rimasti impuniti. A vendicare Nanni ci pensano subito i camerati: per qualche giorno il quartiere Africano, e il limitrofo Trieste-Salario, feudo di T.P., è impraticabile, tra caccia al «rosso» e attentati contro sedi e luoghi di ritrovo di sinistra. La prima vittima della rappresaglia rischia però di essere Maurizio Gasparri, all'epoca segretario romano del Fronte della gioventù. Per tenere a bada - ed evitare che siano coinvolti nella caccia all'uomo: il futuro sottosegretario agli Interni era uomo d'ordine fin da piccolo - le decine di militanti subito accorsi al solito tam tam, improvvisa un comizio con megafono, a piazza Santa Emerenziana. Ha però l'infelice idea di parlare di Nanni come «il nostro militante» e così qualcuno dei quadri di T.P., presenti in piazza per convincere i «pischelli» del Fronte a ingrossare le fila dell'orda vendicatrice, impugna l'accetta e si avvia a punirlo severamente per l'appropriazione indebita. L'arrivo provvidenziale di una volante da un lato e di Robertino Fiore dall'altro impedisce che si consumi il grossolano regolamento di conti. Uno impulsivo, Nanni: quando il giorno dopo l'omicidio Verbano (4) legge di collegamenti tra quella rissa e l'attentato non ci pensa su e si presenta a casa Verbano. Attraversa incurante dei rischi di linciaggio la folla dei compagni e si presenta: «Sono Nanni De Angelis, e nessuno di voi mi ha mai visto». Dà lealmente le condoglianze e si allontana .
E' fatto così: prudenza e senso dell'opportunità non fanno parte del suo bagaglio mentale. Ed è per questo che rischia di ritrovarsi fuori dal nucleo operativo, dopo il primo agguato serio, la gambizzazione di un militante di Autonomia (una rappresaglia scattata dopo alcuni attentati dinamitardi contro le case di giovanissimi militanti): ha fatto parte del gruppo di copertura, gli sono state affidate in custodia le armi, lui, un po' gradasso, le ha fatte vedere a una «pischella» compagna e la cosa si è risaputa, facendo scattare misure disciplinari. Non pecca di superbia, i suoi capi li adora, eppure è fatto così. Il fratello Marcello descrive il giorno del ferimento, in ospedale: «Mio padre stava fuori e camminava avanti e indietro. Mia madre stava in corsia con Giorgio, io arrivai con Roberto Fiore e andai da Nanni. Stava a pancia in giù e fece uno sforzo sovrumano per girarsi, per ammiccare a Roberto. Mia madre gli strillò inutilmente di stare fermo perché gli si strappavano i punti ma lui continuò a spaccarsi la schiena per girarsi. La cosa l'ho risolta io, chiamando Roberto: 'Vieni, Nanni ti vuole vedere'. Così quando Roberto gli ha chiesto come stesse ha potuto fare il ragazzo della via Paal: 'Mi hanno bucato la pleura ma non ci sono problemi anche se ho perso molto sangue'. In realtà era molto commosso che il suo capo fosse venuto a vederlo sul letto di morte. Poi immediatamente chiese dove era Dimitri, perché era abbacinato da Peppe, bastava che gli parlasse e lui si irrigidiva. Era il suo idolo, voleva lo andasse a vedere sulla lettiga, e non sapevamo che fine avesse fatto» (5) . L'attentato Ugolini è alla fine di marzo del 1979. Il mese dopo Nanni è arrestato per porto d'arma. E' il capozona di T.P. al quartiere Parioli e quando c'è bisogno rientra nei ranghi della milizia. Dopo l'arresto di Nistri e Dimitri è tra i quadri che spingono l'acceleratore per la lotta armata. Mentre Fiore e Adinolfi teorizzano che per non compromettere l'attività politica pubblica i capizona devono essere esclusi dalle attività illegali, Nanni con Dario Mariani, responsabile del quartiere Trieste, e con Vale, nuovo capo del nucleo operativo, progetta il disarmo del poliziotto di guardia all'ambasciata libanese, a Prati. A dare la «base» è il figlio del portiere, Luigi Ciavardini, diciassette anni, il sogno di una carriera in marina stroncata dall'arresto per una rapina di armi in casa di un camerata (in onore di Alberto Giaquinto, ucciso da un poliziotto negli scontri per commemorare Acca Larentia, uno dei tanti anelli della catena della vendetta nera). Ciavardini è un altro "enfant prodige" di T.P.: neanche sedicenne, al campeggio di Montalbano Jonico, si becca
un cazziatone perché ha ingenuamente chiesto quando finivano chiacchiere e riflessioni e si cominciava a fare sul serio con le armi. Nell'estate del 1978, il controllo del gruppo è saldamente nelle mani dei «politici». A comandare gli esercizi ginnici sono altri ragazzini, come Insabato o Mottironi, che a sedici anni o poco più hanno già la responsabilità di zone impegnative come Balduina o Trieste ma una pistola non l'hanno mai usata. Ora le cose sono cambiate: Mariani ha sostituito Mottironi al vertice della zona più importante di Roma, grazie alla rivolta dei «capicuib» ansiosi di menare le mani e guidati da Perucci, che finirà ammazzato a diciotto anni come traditore. A completare la banda c'è Massimiliano Taddeini, compagno di squadra di Nanni, capozona al Flaminio. Nanni, Vale e Mariani continuano a discutere ma non si decidono a eseguire il disarmo, e così entra in scena Fioravanti . Valerio suole compromettere i complici per impedire loro di tirarsi indietro. Affida a Vale la guida della Vespa e si occupa del disarmo. Quando il poliziotto ferito scappa, lo ammazza sparandogli alla schiena e così Vale, coinvolto involontariamente in un omicidio, attraversa la soglia dall'illegalità alla lotta armata quasi senza rendersene conto. Tre mesi dopo è la volta di Ciavardini a trovarsi latitante per omicidio: Valerio organizza il disarmo dei poliziotti di guardia al «Giulio Cesare», il santuario nero di T.P. al quartiere Trieste, il liceo cantato da Venditti. L'azione punta a ridicolizzare la militarizzazione del territorio. In realtà il bersaglio politico dell'operazione è proprio T.P. Fioravanti e Mambro portano infatti due ragazzini di T.P. (Vale ha poco più di diciotto anni, Ciavardini diciassette e mezzo) a sparare nella zona dove T.P. ha il maggiore radicamento, nel liceo dove decine di volte hanno picchettato e distribuito volantini, usando come base la casa della zia di Mariani, capozona del quartiere. Costringono così i leader di T.P. a una scelta lacerante: o fare propria l'azione, sanzionando la clandestinizzazione del gruppo, o sconfessare i militanti e aprire la strada alla scissione dei «combattenti». Fiore e Adinolfi scelgono ovviamente una terza posizione: non aderiscono né sabotano. Non prendono le distanze, anzi talvolta strizzano l'occhio tentando di mettere il cappello sull'attentato. Quest'ambiguità la pagheranno molto cara. I fatti sconfessano le intenzioni dichiarate: subito dopo l'impatto, Francesca e Valerio da una parte e Giorgio dall'altra cominciano a sparare sui tre poliziotti. Risultato: un morto e tre feriti, perché
Ciavardini è colpito di rimbalzo quando si piega nell'auto civetta per recuperare le armi. Sulla via di fuga cade dal vespone e nei giorni seguenti si fa vedere in giro, a mostrare le ferite come medaglie conquistate sul campo di battaglia. Valerio si trova a disposizione un altro disperato costretto in clandestinità. Taddeini, contro gli ordini di Fiore, partecipa a qualche rapina del nucleo operativo e l'unico che non fa il salto definitivo è proprio Nanni. Le cose precipitano con la strage di Bologna: Ciavardini rompe con Valerio dopo una grave infrazione disciplinare (s'è andato a fare un giro in macchina provocando un incidente e bruciando un documento di identità destinato a Cavallini), i «ragazzini» (Belsito e Soderini) rompono gli indugi e si aggregano ai latitanti e così Nanni si trova a riformare il nucleo operativo. Il 23 settembre con Taddeini e altri quadri sfugge alla grande retata anti-T.P. (decine di fermi e di arresti per banda armata) ma resta in latitanza operativa. Quindici giorni dopo la soffiata dell'amico - quel Pizzari che sarà ucciso - che ha mantenuto i contatti per Ciavardini fa cadere Nanni e Luigi nelle mani della polizia. Nanni tenta di divincolarsi e di impugnare il revolver. Per immobilizzarlo lo picchiano duramente, davanti a decine di passanti, a piazza Barberini. Le modalità dell'arresto sono descritte in una lettera alla signora De Angelis, spedita da un anonimo spettatore (il «camerata» che aveva appuntamento con i due arrestati?): «Mi scusi se vengo a turbare il suo profondo dolore, ma sento il dovere di informarLa che la cattura di suo figlio è avvenuta in circostanze da film western, con la più spietata ferocia. Pensi che alcuni uomini presenti al fatto sono addirittura svenuti per quello che i poliziotti sono stati capaci di fare ai due ragazzi arrestati. Afferratili, li hanno gettati a terra e li hanno ripetutamente colpiti al capo con i tacchi dello loro scarpe. Quello che è successo a suo figlio era il minimo che potesse accadergli dopo un simile trattamento. Per sincerarsi meglio di quanto ho sin qui detto può far interrogare, non penso che Lei personalmente ne avrebbe mai la forza, qualcuno dei negozianti i cui esercizi si affacciano sul luogo dell'arresto. Non so di cosa fosse responsabile suo figlio, ma so che la scena cui abbiamo assistito mi ha riempito di angoscia e ci ha reso ancora più disorientati. Vorrei tanto firmarmi ma ho paura. Le più sentite condoglianze» (6) . Il pestaggio riprende in questura: si sparge la voce che è stato catturato il killer di «Serpico», il collega ucciso al «Giulio Cesare». Il fratello di Ciavardini è però un capitano di polizia e così il branco sfoga la voglia
di vendetta su Nanni, che dei due sembra il «duro», al punto «da indurre successivamente la DIGOS a far fotografare e riprendere dalla televisione solo il Ciavardini, mentre solo dopo diverse ore di permanenza nei locali della Questura il De Angelis veniva trasportato in ospedale» (7). La mattina del 5 Nanni è portato al «San Giovanni» dove gli ricuciono una ferita alla nuca e una alla tempia. Nonostante i sette giorni di prognosi e l'evidente stato di stordimento per i postumi del duplice pestaggio («gli agenti di pubblica sicurezza lo hanno immediatamente disarmato, lo hanno messo per terra e si sono divertiti a pestargli il cranio [...] portato in Questura il De Angelis è stato fatto passare tra due file di poliziotti ai quali è stato detto: ecco il responsabile dell'assassinio di Serpico») (8), è trasferito in cella d'isolamento a Rebibbia e non al centro clinico di Regina Coeli. La matricola registra l'ingresso alle 14.10, l'agente che distribuisce la cena lo trova impiccato con un lenzuolo alla finestra della cella alle 17.20. La famiglia s'impegna in una dura battaglia legale per dimostrare che Nanni non s'è tolto la vita, ma che il suicidio è stato simulato per coprire il fatto che era morto in cella per le conseguenze dei colpi alla testa. Le argomentazioni tecniche ricalcano quelle addotte dai familiari del colonnello del SISMI Ferraro, trovato impiccato al portasciugamani del bagno di casa nell'estate del 1995, ma a chiudere definitivamente il contenzioso ci pensa Dimitri, il capo che «Nanni adorava». Nella prima intervista all'uscita del carcere racconta: «E' stato terribile. Ho vissuto mesi di durissimo isolamento totale. C'è chi ha scelto di uccidersi. Un mio amico, Nanni De Angelis, trascinato nel braccio d'isolamento, dopo essere stato pestato a sangue durante l'arresto, si è impiccato nella cella accanto alla mia» (9) . Nanni non trova pace neanche da morto: l'ultima violenza la tenta Izzo, il «mostro del Circeo» che, non avendo merce fresca da offrire al mercato delle indulgenze, lavora di fantasia per garantirsi i cospicui vantaggi della condizione di «collaboratore di giustizia». Dopo anni trascorsi in cella a ricostruire con Calore e Fioravanti le vicende dello stragismo ha un'infarinatura sufficiente per tentare il colpo grosso: individuare gli autori della strage di Bologna. Sa che nelle tante chiacchiere sentite nelle celle e nei cortili delle supercarceri due sono i motivi ricorrenti: la strage l'hanno voluta gli zozzoni, i vecchi leader compromessi con i servizi segreti e le logge massoniche, i Fachini e i Signorelli e prima di loro i Freda e i Delle Chiaie; a commetterla sono
stati dei ragazzini inetti che hanno provocato il crollo indesiderato di un'intera ala della stazione. L'obiettivo di chi aveva organizzato la strage - lo confermano le perizie - erano i «soliti» 15-20 morti, come a piazza Fontana, sull'Italicus e poi sul treno 904. Izzo - che non ha grandi strumenti culturali e concettuali - tenta di mettere tutto in equazione. L'importante è la verosimiglianza, per il resto nessuno lo potrà smentire. E sceglie di accusare un morto, con una consueta logica da «coatto»: Nanni, appunto. L'inserimento del nome di Ciavardini serve per fornire qualche riscontro incrociato: sa che era del giro di Fioravanti, che è stato allontanato subito dopo la strage e che gli ha dato rifugio un camerata di Osimo, il paese di Picciafuoco, l'unico imputato di cui è dimostrata la presenza in stazione quella mattina (10), e poi Mangiameli che è stato ammazzato - per la procura di Bologna perché ha scoperto qualche impiccio sul ruolo di Valerio nella strage. Izzo si fa schermo delle confidenze di una ragazzina, che all'epoca della strage aveva finito le scuole medie, Raffaella Furiozzi, sua fidanzata nel morbido carcere di Paliano, sorta di albergo dell'amore, dove persino Calore, giunto vergine ai trent'anni, conoscerà finalmente una donna, l'ex-brigatista Emilia Libera. Raffaella avrebbe saputo dal ragazzo, Dario Macciò, ucciso nel conflitto a fuoco di Alessandria, che a mettere la bomba a Bologna sono stati tre pischelli di T.P., Ciavardini, De Angelis e Taddeini. Macciò non può smentire e Izzo è convinto che il gioco sia fatto. E' sfortunato, però. Perché nel 1980 le finali nazionali di football americano si sono svolte proprio il 2 agosto, a Castel San Giorgio, nel Viterbese. La conferenza stampa di Marazzita, difensore di De Angelis, è una débâcle clamorosa per Izzo. Decine di testimoni hanno assistito, l'incontro è stato ripreso da una T.V. privata, la cassetta con la registrazione è consegnata ai magistrati, accompagnata dalle fotocopie dei giornali, con citazioni dell'ottima prestazione di Nanni, che da "fullback" assicurò ai Tori la vittoria. A questo materiale Marazzita allega una dichiarazione di un amico di Nanni, Maurizio Frosi, che gli ha telefonato subito dopo le 9 e ha trascorso con lui gran parte della giornata. I due vennero in auto a Castel San Giorgio con un altro giocatore, arrivarono a ora di pranzo, la partita iniziò alle 15 . Nanni non è l'unica vittima delle cialtronate di Izzo: la sentenzaordinanza del processo per la strage di Bologna gronda di riferimenti alla responsabilità di Fioravanti negli omicidi Pecorelli e Mattarella, tasselli fondamentali di un complicato puzzle. I grandi pentiti della
Magliana (Moretti, Mancini, Abbatino) e don Masino Buscetta hanno sbugiardato Izzo: Mattarella l'ha ucciso Cosa nostra, Pecorelli un commando misto (di cui avrebbe fatto parte il fascista Carminati, ma come uomo della banda della Magliana) su mandato della Cupola siciliana (ma su questo, a loro volta, i pentiti non sono stati creduti...). E alla fine Nanni ha trovato pace: nella notte del settimo anniversario della morte la salma è trafugata dal cimitero di Poggio Cancelli, nell'Aquilano. Giorgio e Germana spiegano alla polizia che non è una profanazione: Nanni voleva essere cremato - come i nativi americani ma per intralci burocratici (la mancanza di una dichiarazione autografa) il rito non era stato autorizzato. E' stato un gesto di pietà amicale, fraterna. Fonti non verificabili ma vicine all'ambiente di T.P. sostengono che in quei giorni sia rientrato in clandestinità in Italia anche Marcello, ancora latitante a Londra. Il giorno dopo i resti cremati di Nanni sono riconsegnati alla madre in una cassettina, avvolta in una busta di plastica e accompagnata da una lettera di spiegazioni: Nanni aveva espresso questo desiderio e nessuno aveva inteso offenderne la memoria . Un paio di anni dopo il rito funebre, mentre Giorgio finisce in galera per l'inchiesta sul progetto di evasione da Rebibbia, Marcello rompe con il centro estero di T.P. e rientra in Italia. Lo aspettano tre anni di carcere ma ha deciso che è un ragionevole prezzo per chiudere i conti con il passato. A suo modo ha onorato la memoria di Nanni, ha finito per caricarsi di responsabilità non sue firmando con Fiore e Adinolfi una memoria difensiva, "La rivoluzione è come il vento", che respinge le accuse di banda armata, ma rivendica orgogliosamente la militanza rivoluzionaria in T.P., e ora vuole tornare a fare politica alla luce del sole. Della sua traiettoria all'uscita del carcere già abbiamo detto. Anche Ciavardini è rimasto legato alla famiglia De Angelis: tra un periodo e l'altro di galera (un residuo di pena, un anno di carcere preventivo per una rapina in gioielleria a Pescara per la quale è stato condannato in primo grado a dodici anni e assolto in Appello, la condanna per l'omicidio Amato) trova il tempo di fare tre figli con Germana. E' in regime di semilibertà: lavora nell'agenzia del camerata di cui aveva «bruciato» il documento di identità destinato a Cavallini. Alla fine è stato processato per la strage di Bologna: nella sentenza di condanna per Fioravanti e la Mambro lui figurava come autore materiale ma i giudici del tribunale dei minorenni l'hanno assolto. E
allora chi ha messo la bomba? La terza vittima della «maledizione del cinque» è Valerio Fioravanti, la figura più nota e più controversa della «giovane guardia» del terrorismo nero, schiacciato da una condanna definitiva per la strage di Bologna insieme alla moglie Francesca Mambro, una sentenza che ha per molti aspetti l'insopportabile marchio dell'errore giudiziario. Nel corso degli anni è crollato l'intero castello accusatorio, che vedeva un triplice livello organizzativo (il cervello formato da Gelli e dai vertici piduisti dei servizi segreti, la rete di trasmissione composta dai leader storici della destra extraparlamentare, il braccio dei ragazzini dello spontaneismo armato) e un unico disegno strategico eversivo, che non escludeva il ricorso ad attività stragiste, che si era manifestato in una escalation di agguati e di attentati dal 1978 al 1980. Fioravanti, che pure si è macchiato di feroci e inutili delitti per «isteria», per «paranoia», come ha ammesso anni dopo, non ha ucciso né Mattarella né Pecorelli, come è stato dato per scontato per anni, e quindi non può essere considerato il «killer della P2». Né ha mai compiuto in vita sua un solo «attentato» dinamitardo. Mazzate, coltellate e pistolettate tante, sin da ragazzino, ma Valerio, a differenza di tanti camerati, con i «botti» non ci ha mai giocato. Con i bombaroli del Movimento rivoluzionario popolare Iannilli, Macchi e Aleandri, non ha mai avuto rapporti. Con il loro capo, Calore, ha fraternizzato in carcere nell'estate successiva alla campagna di primavera del '79. Nel processo di Bologna nessuno dei quattro era imputato. Anche il principale elemento di accusa - le confessioni di un vecchio malavitoso romano amico di Cristiano, un reduce dal manicomio criminale che avrebbe incontrato due giorni dopo la strage Valerio e Francesca bisognosi di documenti falsi - è dal punto di vista logico piuttosto una prova di innocenza: due clandestini, già responsabili di alcuni omicidi (Fioravanti cinque: Scialabba, Leandri, Arnesano, Evangelisti e Amato; la Mambro gli ultimi due), prima di compiere una strage di quella portata si premuniscono di documenti falsi, se non li hanno già. Merita quindi rispetto l'accanimento con cui respingono l'accusa, che in termini pratici non porta loro un solo giorno di più di carcere. La questione l'ha spiegata molto bene Francesca Mambro: «Noi ci siamo presi gli ergastoli proprio per dimostrare che i fascisti non mettevano le bombe sui treni». E' proprio lei la più accanita nell'affermare la propria innocenza e questa differenza è probabilmente iscritta nelle opposte traiettorie che li hanno portati a unirsi per la vita. Francesca proviene da
una militanza attiva nel M.S.I., nella periferia sud di Roma, dove particolarmente forti erano le istanze sociali e movimentiste ed è giunta a impugnare le armi perché si è stancata di vedersi morire al fianco gli amici inermi (Mario Zicchieri, dissanguato da una fucilata sparata da un commando delle Formazioni armate comuniste, davanti alla sezione Prenestino del M.S.I.: una rappresaglia per il rinvio a giudizio dei killer di Mantakas; Stefano Recchioni, ucciso da un capitano dei carabinieri negli scontri dopo la strage di Acca Larentia: e Francesca sarà l'unica ad avere il coraggio di firmare la denuncia contro l'ufficiale) . Valerio, ragazzo prodigio in televisione, un anno di liceo negli Stati Uniti a diciassette anni, politica non l'ha mai fatta: ha cominciato a bazzicare l'estrema destra per riportare a casa il fratello più piccolo, Cristiano, che già a dodici anni andava in giro a fare a botte con i compagni di Monteverde. I due sono rimasti coinvolti nell'escalation, da ragazzi della via Paal a guerriglieri urbani, con una successione di passaggi quasi indolori. Valerio ha indubbio carisma, coraggio, determinazione e capacità militare, qualche libro l'ha letto, e non solo di armi, ma riesce ad animare solo delle bande in cui il collante è l'amicizia. Per essere promosso leader occorre che una catena fortuita di arresti, concentrati nel dicembre 1979, decapiti i vertici dei gruppi attivi a Roma, nell'ordine FUAN, T.P. e C.L.A. Il 5 è la volta di Pedretti, leader carismatico del FUAN, fidanzato di Francesca Mambro, catturato durante una rapina in gioielleria. Il 14 sono arrestati, mentre trasferiscono un arsenale, i responsabili militari di T.P., Dimitri e Nistri. Il 17 tocca a Calore e Bruno Mariani, l'ideologo di C.L.A. e il capo dell'apparato illegale, l'M.R.P., per l'omicidio di un passante scambiato con l'avvocato Arcangeli. Fioravanti è l'unico componente del commando sfuggito alla cattura. Nel vuoto di leadership e nel generale sbandamento dell'ambiente trova spazio il progetto di Valerio di sistematica destrutturazione dei gruppi organizzati, attraverso la radicalizzazione dello scontro, il passaggio alla clandestinità, la pratica della lotta armata come unica dimensione dell'iniziativa politica. Nella sua banda finiranno per confluire nel giro di pochi mesi gli elementi più decisi dei diversi gruppi: la Mambro, De Francisci e Livio Lai dal FUAN; Cavallini e Rossi da C.L.A.; Vale, Dario Mariani, Ciavardini, Belsito e Soderini da T.P. Anche se le acquisizioni processuali escludono la responsabilità di Valerio negli omicidi più torbidi e inquietanti - Pecorelli e Mattarella - resta nel suo agire, nella breve
stagione della lotta armata e poi nei lunghi anni dei processi, più di un'ombra che ha contribuito a trasformarlo nel capro espiatorio perfetto per la strage di Bologna. E' evidente che molti dei "boatos" usati contro di lui (che si sia incontrato con Gelli, o che per suo conto abbia ammazzato un banchiere in Francia, e via così fantasticando) sono stati alimentati da un clima di crescente ostilità nei suoi confronti nell'estrema destra armata, solo in parte determinato dal discutibile stile di lavoro . Su Valerio pesa il sospetto che in più di una circostanza egli abbia lucidamente incastrato i camerati, coinvolgendoli in delitti più gravi di quelli per i quali erano disponibili, in preda della perversa logica di bruciare le navi per impedirsi di tornare indietro. A garantirgli l'odio dell'area di T.P. è bastato l'omicidio Mangiameli, ucciso per un errore di sopravvalutazione. «Fu da noi sequestrato», ha raccontato a Zavoli, «perché intendevo fargli delle domande abbastanza precise; al di là del desiderio di punire una persona con cui avevamo avuto diversi litigi, per vari motivi, in questo clima di paranoia, volevo capire cosa c'era sotto. Non riuscivo a capire che, in fin dei conti, Mangiameli era semplicemente un uomo normale impelagatosi in un'avventura troppo grande. Adesso lo so, Mangiameli è morto soltanto per degli eccessi nostri: pretendevamo troppo da una persona che più di tanto non poteva dare» (11). A isolarlo definitivamente in carcere è la scelta di accettare il confronto con i magistrati, nello sforzo luciferino di limitare i danni, anche a costo di compromettere qualche coimputato con false accuse. Fino alla decisione rovinosa di «flirtare» con Izzo e Calore sullo scivoloso terreno della «ricostruzione storica» dello stragismo, col paradossale risultato che i suoi compari hanno finito col «pentirsi» e nonostante le evidenti menzogne si sono conquistati la libertà, e lui, che aveva preso le armi per dimostrare che i camerati ammazzano ma non fanno le «stragi vigliacche», e pretendeva poi di «incastrare» gli «infami stragisti», si ritrova ora con parecchie condanne all'ergastolo e marchiato a vita come l'autore della strage di Bologna. Di quella fase Valerio ha fatto profonda autocritica. Così, a Zavoli che gli chiedeva chi ci fosse dietro l'esplosione «Non l'abbiamo mai saputo», rispose: «Io ebbi l'impressione di intuirlo in determinati anni e mi sto accorgendo proprio in questi ultimi mesi di essere stato molto sciocco quando ho pensato di intuirlo perché ho dato troppo retta alle campagne di stampa. Diciamo che paradossalmente sono stato troppo antifascista,
mi ero convinto anch'io, per un certo periodo, che dietro le bombe dovevano esserci certi fascisti, non quelli che conoscevo io, non quelli a cui volevo bene io, ma un altro tipo di fascisti da cui noi sentiamo il bisogno di differenziarci. Forse, buona parte della nostra violenza nasce proprio dall'esigenza di dimostrare che i fascisti non erano tutti come quelli che mettevano le bombe» (12). Nella stessa occasione si sforza di giustificare il suo viaggio al limite dell'«infamia»: «Io ho un certo rispetto ideologico per il pentimento. Per il tipo di cultura da cui provengo, per una certa forma di nichilismo, l'uomo che riesce a rompere col suo passato, a passare sui vincoli, a rifarsi una vita partendo da zero, può essere degno di rispetto; anzi va addirittura ammirato perché a volte dobbiamo intendere certi vincoli affettivi come una forma di debolezza. Perciò, da un punto di vista astratto, non posso prendermela con il pentito. Il pentito potrebbe essere una persona estremamente forte [...]. Da un punto di vista intellettuale li potrei capire, da un punto di vista pratico, conoscendoli e conoscendo le loro questioni processuali, non li capisco e non vedo alcuno spazio per condividere la loro scelta» (13). Una beffarda eterogenesi dei fini . L'incapacità di controllare e determinare gli effetti delle proprie azioni per altro sembra già aver segnato la sua pur brillante carriera. Se si prendono per buone le ricostruzioni che Fioravanti ha fatto dei numerosi agguati da lui organizzati esce fuori una controfigura del guerrigliero di Woody Allen nel "Dittatore dello stato libero di Bananas": nessuno si realizza con le modalità previste. Non fosse una vicenda lastricata di lacrime e sangue ci sarebbe da ridere. Ovviamente non è così: la sua freddezza e la lucida «cattiveria» sono fondamentali per portare comunque a buon fine gli attentati. La sparatoria nel mucchio a piazza Don Bosco si risolve con la morte di Roberto Scialabba perché Valerio disinceppa la pistola e spara il colpo di grazia dopo essere montato a cavalcioni del ferito. L'irruzione a Radio Città Futura, nell'anniversario di Acca Larentia (l'obiettivo prefissato era un'altra radio dell'ultrasinistra, Onda Rossa), rischia di fallire perché un componente imbranato del commando lancia una molotov: addio al processo in diretta, per impedire la fuga delle donne sorprese in trasmissione Valerio le inchioda a terra con una raffica di mitra alle gambe. L'obiettivo dichiarato dell'operazione (imporre la tregua ai compagni con un'incruenta dimostrazione di potenza) si trasforma nel suo contrario, un'ulteriore impennata nelle vendette incrociate. L'idea -
convincere i compagni a spostare il tiro comune sullo Stato - era destinata a fallire comunque, ma mitragliare un gruppo di donne inermi solo perché un conduttore aveva mancato di rispetto ai morti di Acca Larentia era il modo peggiore di aprire il dialogo. Nell'omicidio Leandri (uno scambio di persona) Valerio interviene per il colpo mortale, vista la scarsa mira del pistolero designato, Bruno Mariani. E l'intero commando, con l'eccezione di Fioravanti, si fa imbottigliare nel traffico e si arrende ingloriosamente. In questa prima fase, comunque, Valerio ha finito per intervenire in seconda battuta, per turare le falle . Quando si mette in proprio, e comincia a dispiegare compiutamente il suo progetto politico, il gioco al rilancio diventa esplicito: invece di disarmare l'agente Arnesano, come concordato, lo uccide, sparandogli alla schiena mentre scappa (e Vale, dopo l'arresto di Valerio, ne parlerà come un patto di morte che gli era stato fatto firmare in bianco...); l'incursione al «Giulio Cesare», programmata come un disarmo per «ridicolizzare la militarizzazione del territorio», si trasforma subito in un tiro al bersaglio. Esemplare è la dinamica dell'omicidio Amato: tre settimane dopo aver agito a volto scoperto nel cortile del liceo, davanti a decine di ragazzi, convince Cavallini, latitante da anni, a uccidere il magistrato perché lui non poteva esporsi al rischio di un riconoscimento. In realtà Cavallini era l'unico della banda che non aveva ancora partecipato a un omicidio, un limite assai grave. E infatti era stato proprio Valerio a curare l'inchiesta sulle abitudini del magistrato . Ancor più cinico - ai limiti dell'autolesionismo - è il comportamento con Mangiameli, un omicidio che corona il disegno lucidamente perseguito di resa dei conti finale col gruppo dirigente di T.P. Le risibili e contraddittorie motivazioni offerte in successione (un ammanco di cassa, un comportamento pavido in azione, uno stile di lavoro non preciso) finiranno per legittimare, dapprima nell'ambiente e poi nella testa dei magistrati, il sospetto di chissà qualche sozzeria da seppellire a ogni costo. I giudici, inoltre, giocano pesante, «ricamando» sulle preoccupazioni manifestate da Mangiameli dopo che un'intervista di Spiazzi all'«Espresso» aveva sottolineato il ruolo di un certo «Ciccio» nel processo di riaggregazione dei NAR. La velina dei servizi segreti costruita sulle dichiarazioni di Spiazzi descrive un «Ciccio» che non ha niente in comune con Mangiameli: «un «romanaccio» tarchiato, alto circa metri 1,75, corporatura robusta, capelli neri e lunghi tirati
all'indietro, volto rasato, età apparente anni 40-45, il quale è facilmente riconoscibile sia perché ha una voce cavernosa, sia per la forte sudorazione di cui soffre» (14). Anche il profilo socio-politico-culturale (appartenenza alla malavita politica di estrema destra di Roma, scarsa preparazione politica, disponibilità di ingenti mezzi finanziari forniti da Delle Chiaie) non ha riscontri. Qualche investigatore si prende la briga di controllare i ventinove fascisti romani di nome Francesco e arriva alla conclusione che nessuno corrisponde alla descrizione dalla fonte (senza pensare che a Roma «Ciccio» è chiamato qualsiasi «grassone»). Un altro mistero: perché Mangiameli si sente «inchiodato» dall'«infamata» di Spiazzi? Forse perché T.P. si sentiva già nel mirino dei servizi segreti dopo che un giornalista in fama di rapporti con il SID, l'ex-avanguardista Guido Paglia, aveva attribuito la responsabilità della strage a un fantomatico Terzo potere? Certo è che la «velina» del SISDE ricicla notizie di quarta mano provenienti dall'ambiente dei NAR di Fioravanti, che nel passare di orecchio in orecchio si sono fortemente deformate. E' il caso della presunta riunione svolta a Milano in un albergo e presieduta da un ex-mazziere sambabilino, passato nei ranghi della malavita, Rodolfo «Mammarosa» Crovace. I partecipanti sono così descritti: due romani del gruppo di «Ciccio», un veronese di nome Valerio, alcuni elementi della malavita milanese, alcuni giovani toscani (tra cui Tomei) collegati a un neonazista di Perugia, tale Lucidi. All'epoca sono due i militanti romani di T.P. (il gruppo controllato da «Ciccio») attivi nella «banda Fioravanti», Vale e Ciavardini; Fioravanti nella primavera '80 ha avuto frequenti contatti con la rete veneta di C.L.A.; la banda ha effettivamente rapporti con la malavita milanese (scambio di «basi» e supporto logistico). Il riferimento più criptico è al nucleo toscano-perugino: forse si allude a Mario Rossi. un nuovo affiliato della banda, già militante dei GAO di Concutelli, che avevano un forte nucleo perugino. Nella riunione sarebbe stata annunciata l'intenzione dei romani di uccidere un altro magistrato (e infatti nell'estate '80 sull'asse Roma-Veneto sarebbe stata progettata l'esecuzione del giudice Stiz). Valerio comunque tenterà di giustificarsi al processo: lui era disposto anche a sentire le ragioni di Mangiameli, ma il protagonismo di Cristiano - che ha cominciato a sparare - ha fatto precipitare la situazione. Lo smentiranno diversi militanti di T.P. Nella settimana precedente il delitto Vale si era affannato a mettere tutti in guardia: non fate incontrare Ciccio con Valerio, lo vuole ammazzare.
Nessuno aveva preso sul serio la sua determinazione omicida. Per premiarlo del suo impegno pacificatore Valerio, dopo aver sparato su Ciccio, allunga l'arma a Vale per coinvolgerlo direttamente nell'omicidio.. . In questa logica rientrano anche le false accuse, rivolte durante un interrogatorio dopo l'arresto, a Soderini per la sparatoria di Padova: un altro latitante «regalato» alla banda. In un altro interrogatorio ricostruisce l'attentato progettato dalla Mambro, Cavallini, Vale e Soderini contro Robert Nash, il funzionario italoamericano della DIGOS considerato responsabile delle torture di Nanni De Angelis (ma i sopralluoghi sono effettuati sul fratello Paul, funzionario della Mobile che abita nel palazzo di Vale a viale Medaglie d'Oro). Nell'inchiesta Valerio coinvolge anche Gabriele de Francisci, nipote di un alto funzionario del Viminale, agente di collegamento di Valerio: lo aveva raggiunto a Padova la sera del 5 febbraio per convincerlo a trasferirsi in Libano con Francesca. Aveva dato cattiva prova di sé, non partecipando al conflitto a fuoco, ma quella chiamata di correo non era una punizione diretta solo una manifestazione di una logica perversa, luciferina. Giocando col fuoco, così, Valerio si è guadagnato il disprezzo di prestigiosi militanti dello spontaneismo armato - da Zani a Nistri - che hanno finito per bollarlo definitivamente col marchio dell'«infame», la peggiore condanna per un ergastolano. Che comunque, in una sorta di perversa nemesi, ha dovuto subire anch'egli una massiccia dose di infamia. Come chiamare altrimenti le false accuse di omicidio ricevute dal fratello Cristiano, subornato e istigato dal diabolico Izzo? False accuse che tra l'altro hanno contribuito in maniera decisiva a puntellare l'assai fragile castello accusatorio del processo per la strage di Bologna . Crollato l'originale impianto di un unico cervello dell'eversione - che riciclava le idee di Amato sul carattere puramente fittizio delle tante sigle dell'arcipelago nero - circoscritta alla sola calunnia la responsabilità di Gelli, Pazienza e dei vertici dei servizi segreti, l'unica testimonianza a carico di Valerio e di sua moglie è rimasta quella di Sparti, un vecchio malavitoso romano, «padre adottivo» di Cristiano (che non esiterà a consegnare alla polizia: e la sua scelta di collaborare sarà alle origini del crollo psicologico e del tradimento del fratello minore dei Fioravanti). Un personaggio che si guadagna una sostanziale impunità avallando le accuse contro Valerio e Francesca, ma che
andrebbe sottoposto a un vaglio critico per il suo ruolo nell'intreccio tra malavita romana e servizi segreti: era infatti intimo amico di Toni Chichiarelli, il falsario autore di clamorosi depistaggi nel sequestro Moro e nell'omicidio Pecorelli, ammazzato sei mesi dopo la più grande rapina mai effettuata in Italia, lo svaligiamento del "caveau" della Brink's Sekurmark (35 miliardi di bottino, rivendicati a nome delle Brigate rosse, il 24 marzo 1984, in coincidenza con una grandiosa manifestazione sindacale a Roma). Sparti raccontò ai giudici che il suo amico aveva composto il falso volantino n. 7 delle B.R., quello che annunciava la morte di Moro mediante suicidio, per «divertirsi», facendo correre le forze dell'ordine al lago della Duchessa. Quello scherzo metteva in pratica un'intuizione del p.m. Vitalone, consigliere giuridico di Andreotti, per destrutturare le B.R., una verifica sul campo della reazione popolare alla morte di Moro che il Palazzo aveva già decretato, a prescindere dall'autonoma volontà dei brigatisti che poi quella condanna materialmente eseguirono. Un infiltrato di Azione rivoluzionaria, Enrico Paghera, per confondere ancor più le acque se lo attribuisce, parlando della necessità per il suo gruppo di alleggerire la pressione delle forze dell'ordine su Roma. Chichiarelli tentò inoltre di far credere nel suo giro che il falso gli era stato commissionato dalle B.R., di cui sarebbe stato militante. E' invece evidente che già nel 1978 funzionava la triangolazione tra "entourage" andreottiano, servizi segreti e banda della Magliana, che avrebbe poi avuto ben più significative occasioni di manifestare la propria operatività . Il «pentimento» di Cristiano desta perplessità: si lascerà trascinare in false accuse contro il fratello, ma per alcune evidenti reticenze non guadagnerà mai la piena fiducia dei giudici e sarà perciò l'ultimo a uscire di prigione. Nessun mistero, comunque, ma un evidente conflitto con il fratello maggiore, nei confronti del quale aveva sempre mostrato un complesso di inferiorità. Cristiano fa parte della nutrita schiera dei baby-killer: a diciassette anni con Alibrandi aveva ucciso Walter Rossi e poi aveva partecipato all'omicidio Scialabba e alla rapina Centofanti. Perché si può anche uccidere (e vedere morire gli amici) e restare ragazzini: e bruciare i soldi affidatigli da Valerio per comprarsi la moto, o sfracellarsi una mano per costruire un petardo a Natale a Madonna di Campiglio. Anche sul suo terreno, quello della precocissima militanza, Cristiano aveva finito per sentirsi scavalcato dal più brillante Valerio e così aveva scelto di mettersi in proprio, alternando attività malavitose
(rapine ai filatelici o nelle ville di ricche signore) a piccoli attentati dinamitardi, con l'amico del cuore, Stefano Tiraboschi, che aveva preso il posto del primo socio, Alibrandi, con cui aveva litigato senza motivo. E' dopo la strage di Bologna e due anni di sostanziale separatezza, che Cristiano riprende i rapporti con Valerio: è appena uscito di galera per le armi del covo di Ostia, il fratello è in latitanza operativa con altri quattro omicidi sulle spalle. Il primo frutto della nuova intesa è l'esecuzione sommaria di Mangiameli. Cristiano racconterà di aver sparato per farsi bello agli occhi di Valerio (piccola, agghiacciante verità). Poi si giustifica con Sparti per le tracce di sangue: ha litigato per un incidente stradale. Il giorno dopo il delitto, freddamente, mentre è in compagnia di Vale incrocia la vedova di Ciccio e la porta da Marcello De Angelis. Si aggrega alla banda: con Vale disarma due carabinieri in occasione di un controllo, partecipa a una maxirapina in Veneto. La sera del 5 febbraio è con Valerio a Padova per recuperare le armi gettate nel Lungargine Scaricatoio. Partecipa con freddezza al conflitto a fuoco e ammazza (prendendolo alle spalle) l'appuntato che aveva ferito il fratello, poi si fa prendere dal panico mentre Valerio si dissangua e insiste con Francesca di scappare prima che arrivi la polizia. Al ritorno a Roma Carminati lo fa ospitare da «Marcellone» Colafigli, boss della banda della Magliana. Un'ultima rapina poi l'arresto, grazie alle confessioni di Sparti e il crollo, cinquantacinque arresti e la morte nel cuore del fratello, per il cui amore era giunto ad ammazzare (e il fratello gliene aveva reso merito con i giudici: «Cristiano è la parte migliore della nostra generazione. Perché sa amare: la madre, le donne, i suoi cani»). Nell'autunno successivo tenta tre volte il suicidio, nel carcere di Velletri e poi di Treviso (dove era stato trasferito per il processo per la rapina all'oreficeria Giraldo), con i sedativi, tagliandosi col rasoio (giunge in coma all'ospedale), strappandosi le bende . Valerio, che lo conosce bene, ne scrive l'epitaffio: «Sto meglio io che ho l'ergastolo...». E a Rebibbia, infatti, Valerio può chiudere il cerchio dell'esperienza cinematografica: era rientrato in Italia dal liceo americano per girare un film "cochon" con Edwige Fenech - con un cappio al collo, incapace di resistere alle pressioni querule del padre ventidue anni dopo riprende da autore. Con il grafico d'avanguardia Pablo Echaurren (figlio di Sebastian Matta) e l'attrice drammatica Francesca d'Aloja (figlioccia di Gassman e moglie di Marco Risi), è
l'autore di "Piccoli Ergastoli", girato integralmente in carcere (direttore della fotografia Marco Pontecorvo, figlio del grande Gillo), film-verità sulla vita di alcuni reclusi proiettato alla Mostra di Venezia. Particolarmente prolifico per Valerio è il rapporto con Pablo Echaurren, un artista polivalente che ha collaborato anche con Renato Curcio a una collana di manifesti per la rivista «Frigidaire». Entrato in carcere come volontario per insegnare ai detenuti a dipingere (risultato: una mostra sul «gattabuismo» seguita da una collettiva sulle ceramiche dei reclusi, ovviamente chiamata "E-vasi"), Echaurren, reduce di «Lotta continua» e del «Male», diventa amico di Fioravanti e insieme scrivono due libri: "Rebibbia rapsody" e "Il ritorno di Silvio Pellico". Temi, ovviamente, penitenziari. Il «capo dei NAR» mostra di aver elaborato il lutto, senza vittimismi: «Tanta gente si è perdonata in nome dell'ideologia, noi no: siamo degli assassini» (15). Resta, certo, il groppo alla gola della condanna per la strage di Bologna: «Chi ha seguito il processo sa che non siamo stati io e Francesca. Lo sa. Sa che una strage era estranea alla nostra storia, sa che ci sono stati dei depistaggi, sa che ci è stata cucita addosso l'imputazione con testimonianze che non hanno né capo né coda. Per la prima volta in vita mia, sono anch'io una vittima» (16). E così si rifiuta di fare un film «che si piangesse addosso». Un detenuto malato di AIDS è il filo conduttore di tante piccole storie: Valerio, che rifiuta persino di fare un "cameo", si ritaglia il compito di voce narrante. Agli inizi del 1999 è finalmente ammesso al lavoro esterno, in un contrappasso niente affatto bizzarro: curerà il sito web di Nessuno tocchi Caino, l'associazione radicale contro la pena di morte, da lui più volte stupidamente comminata . NOTE . (1). Giovanni Bianconi, A mano armata, Milano, Baldini & Castoldi, 1992, P. 60 . (2). Ivi, p.p. 93-94 . (3). La prima rivendicazione telefonica, il 19 marzo alle 21.30 è del Gruppo armato «Ramelli». Il 22 marzo giunge all'ANSA di Roma una telefonata. Il giorno dopo il volantino dell'E.N.R., che presenta un simbolo nuovo: una croce celtica con le iniziali E.N.R.: «Sabato 18 marzo una nostra brigata armata di Milano ha giustiziato i servi del sistema Tinelli Fausto e Iannucci Lorenzo. Con questo gesto vogliamo vendicare la morte di tutti i camerati assassinati dagli strumenti della
reazione e della sovversione. Noi non crediamo nella lotta comunista contro lo Stato, perché, avendo tutte le forze di sinistra la medesima mentalità di questo sistema, esse sono solamente i servi di questo regime. E' quindi per questa ragione che l'unica forza veramente rivoluzionaria è l'estrema destra. Sappiano i sovversivi che non riusciranno ad eliminarci: da questo momento cominceremo ad agire, nulla ci potrà fermare, siamo stanchi di piangere i nostri camerati. Falvella, Ramelli, Zicchieri, Mantakas, Ciavatta, Bigonzetti, Recchioni marciano nelle nostre fila e gridano vendetta. Viva la rivoluzione fascista, morte al sistema e ai suoi servi, onore ai camerati assassinati dal Fronte rosso e dalla reazione» . (4). Un commando entra con un pretesto in casa per riprendersi i dossier antifascisti di cui avevano parlato i giornali quando Verbano era stato arrestato per un attentato e per un'ora tiene sotto sequestro la famiglia. Al suo rientro il giovane autonomo, vedendoli a volto scoperto, pensa che vogliano ucciderlo, ingaggia una colluttazione ed è colpito a morte . (5). Conversazione con l'autore, Londra, febbraio 1989 . (6). La lettera anonima è un espresso con timbro postale del 9.10.80. consegnatami in copia dalla signora De Angelis . (7). Michele Marchio, "In memoria di un camerata innocente che il regime ha fatto giustiziare", dattiloscritto dell'intervento al Senato nella seduta del 10 febbraio 1981, p. 4 . (8). Ivi, p. 6 . (9). Provvisionato, "Profondo...", cit . (10). Sergio Picciafuoco è un pregiudicato per reati comuni, arrestato nel 1981 perché doveva scontare una condanna a undici anni per tentato omicidio. Risulta tra i feriti lievi della strage della stazione (in ospedale aveva presentato un documento falso). Gli indizi a suo carico sono assai labili: il mancato riscontro delle modalità del suo arrivo a Bologna la mattina della strage, l'uso di un documento falso che riconduceva a Mangiameli, l'essere originario di Osimo, località marchigiana dove era attivo un nucleo di T.P., la presenza del suo nome in un elenco di detenuti di estrema destra trovato addosso a Cavallini al momento dell'arresto. I dietrologi ricamano molto sulla sua figura di malavitoso che ha goduto di grandi protezioni ma sono smentiti dai fatti: in vista della seconda sentenza d'Appello Picciafuoco si sottrae alle misure di sicurezza, mettendosi in «latitanza preventiva». Lo fermano pochi
giorni dopo, come barbone: aveva diecimila lire in tasca. La Cassazione lo ha definitivamente assolto . (11). Sergio Zavoli, "La notte della Repubblica", vol. 3, Roma, I libri dell'Unità, 1994, p. 445 . (12). Ivi, p. 437 . (13). Ivi, p. 441 . (14). Delle Chiaie - Tilgher, "Il meccanismo...", cit., p. 76 . (15). Gian Antonio Stella, "Vi racconto il mio film dall'ergastolo", «Sette», agosto 1997 . (16). Ibidem . CHIARA, VALERIO E LO SCURO . Figlia di un poliziotto, nata a Chieti il 25 aprile (del 1959), cresciuta in una casa popolare del Tuscolano, avamposto nero nella sterminata periferia sud-orientale di Roma, Francesca Mambro diventa fascista in prima magistrale, per spirito di contraddizione. Alle spalle un'istintiva propensione ai giochi e ai ruoli da maschiaccio. E infatti Francesca sarà l'unica donna con responsabilità operative nella guerriglia nera. Frequenta il Fronte della gioventù di Sommacampagna e poi via Noto, un covo sistematico bersaglio delle incursioni degli autonomi (molotov al catrame ustionano nove camerati, due dei quali ridotti in fin di vita, mentre in un attacco al contiguo M.S.I. di via Quinto Pedio, il 17 gennaio 1975, rischierà di restare carbonizzata la futura moglie del leader di Alleanza nazionale: i capelli lunghi un metro sono facile esca per il fuoco devastante degli ordigni chimici). Francesca ha una naturale vocazione per il fascismo sociale e così a sedici anni è attivista di Lotta popolare. Comincia a frequentare la sezione Prenestino, il cui segretario, Luigi D'Addio, guida la frazione peronista missina. L'uccisione di Zicchieri davanti alla sede da un commando delle Formazioni armate comuniste (la banda di Morucci che poi confluirà nella nascente colonna romana delle B.R.) la sconvolge. La decisa richiesta di una rappresaglia armata porta all'espulsione di Signorelli, di Romolo Sabatini, segretario di piazza Bologna e di D'Addio . «Lotta popolare» a Francesca piaceva perché poneva al centro i bisogni della gente più emarginata. Fedele a questa linea sociale, contro la logica degli steccati, a scuola frequenta molte compagne (una scelta a cui resterà fedele anche in carcere) ed è malvista nell'ambiente della destra. Dopo l'omicidio Pedenovi - a diciassette anni - è arrestata per un
blocco stradale, ma dopo una settimana è prosciolta. Negli scontri è sempre la più decisa: la arrestano anche dopo la morte di Recchioni. Le era caduto tra le braccia mentre infuriava la guerriglia in via Acca Larentia, dopo l'uccisione di due camerati (nell'occasione fu ferito da un lacrimogeno alla gamba Gianfranco Fini, segretario nazionale del Fronte). Recchioni era stato colpito alla testa da un proiettile sparato dal capitano dei carabinieri Sivori, ed era morto dopo due giorni di agonia: «Io posso ricordare», racconterà in televisione, «il colore degli occhi della prima persona che mi è morta vicino, per esempio: azzurri, molto belli, che però si sarebbero chiusi. Era Stefano Recchioni». Il giorno dei funerali è lì, puntuale, per gli scontri: è tra i 37 fermati per blocco stradale. Tutti assolti (tranne uno). Lei era già una leader nell'area più radicale del FUAN, ma il massacro segnerà la sua vita, con la scelta definitiva delle armi. A cavallo tra San Silvestro e l'Epifania, immediatamente prima della strage, avevano assaltato a colpi di molotov le redazioni dell'«Espresso» e del «Corriere della Sera». La seconda azione, la sera del 4 gennaio 1978, era stata rivendicata con una telefonata da Francesca: sua era la sigla NAR, adottata per l'occasione. Perde consistenza il mito difensivo di una scelta armata maturata come esigenza di sopravvivenza alla pressione esorbitante dei compagni. A questa traiettoria ha piuttosto concorso l'atteggiamento ufficiale del M.S.I., troppo remissivo per i militanti di frontiera, che si sono sentiti lasciati allo sbaraglio. Molti di questi, dopo una più o meno lunga esperienza combattente, sono ritornati alla casa madre: Franco Giomo, il rodigino condannato per l'assalto alla società CAB, è stato eletto consigliere regionale di Alleanza nazionale in Veneto nel '95 (elezione annullata per una condanna superiore a due anni per armi); Gabriele De Francisci (condannato per l'omicidio Evangelisti e imputato per quello di Amato) è nella direzione provinciale romana; Marcello De Angelis è il direttore del mensile della destra sociale di Alemanno e Storace . Francesca fino al passaggio in clandestinità resterà con un piede nel M.S.I. (il FUAN, a differenza del Fronte che dipende dal segretario del partito, è formalmente autonomo). L'8 marzo entra in azione un commando di Donne rivoluzionarie, composto da militanti del FUAN. Quando Francesca si accorge che i maschietti, senza dirlo per non offenderle, erano venuti a fare la «copertura», si incazza di brutto. La sua versione processuale è diversa: ammette di aver compiuto con il
fidanzato Pedretti l'attentato al cinema a luci rosse Ambra-Iovinelli e nega di aver partecipato a quello contro il circolo femminista e alla rivendicazione perché non le interessava. I giudici si convincono che ha voluto coprire Marinella Rita e Fulvia Angelini, ragazze degli attendenti di Pedretti, Massimo Morsello e Paolo Pizzonia. E' sempre presente alle scadenze di movimento. Si perde solo gli scontri per il primo anniversario di Acca Larentia: per partecipare ai funerali del padre. Il percorso politico è lineare: si avvicina al FUAN per non fare più anticomunismo viscerale, alla missina, anzi apprezza i compagni perché hanno preso le armi contro lo Stato. Si dissocia dall'assalto al P.C.I. Esquilino, compiuto a raffiche di mitra e lancio di granate da Pedretti e Aronica. La rappresaglia per la morte di Francesco Cecchin un militante del F.D.G. del quartiere Trieste caduto da un terrapieno mentre tentava di sfuggire al pestaggio di una «squadraccia» del P.C.I. è per Francesca un passo indietro: andavano colpiti o la polizia o gli autori materiali. «Un modo nuovo di fare politica» - così definirà l'assalto all'Omnia Sport - lo aveva già trovato. E' proprio lei a entrare per prima nell'armeria, chiedendo una canna da pesca, poi si allontana con Livio Lai a bordo di un pulmino 600. Il rapporto militante con Valerio precede il grande amore: quando lui esce dal carcere, nell'autunno del '79, lo aiuta e ne difende l'immagine dagli attacchi dei camerati, che ne criticavano l'ossessione militarista. Per i militanti di via Siena l'esercizio della violenza è solo un'espressione di un più complesso percorso rivoluzionario, che ha al centro la costruzione della comunità, la trasformazione delle persone e dei rapporti umani, prima e al di là della conquista del potere. Francesca si espone senza riserbo e diventa bersaglio delle bande antifasciste: i compagni compiono due attentati contro casa sua e lei va ad abitare con Dario. Subito dopo l'arresto di Pedretti, la polizia irrompe nel loro appartamento e vi trova Francesca e due camerati sospettati di aver partecipato alla rapina. Tutti e tre saranno colpiti da ordine di cattura il 28 agosto 1980, nel primo blitz per la strage di Bologna . La violenza e la prepotenza degli «sbirri» sono un'ulteriore spinta al passaggio in clandestinità, che compie nel marzo successivo. Da quel giorno per un anno - tranne una sola notte - sarà al fianco di Valerio, l'amore della vita. Amore e morte, è il caso di dire. Si stabiliscono in Veneto, ospiti di Cavallini, che gode di buone coperture. Da quel momento lei partecipa a pieno titolo a tutte le attività della banda. E' nel
commando che assalta il distretto militare di Padova, per procurare le armi lunghe che servono per l'evasione di Concutelli. Per un mese la coppia si trasferisce a Lugano per studiare alcune rapine. Il fallimento della missione costerà la vita al basista, Cosimo Todaro, detto l'«Infamone», e alla sua amica, una ballerina greca. In occasione di una tripla rapina a Cologno Monzese, Francesca si travisa da uomo - per sviare i sospetti - ma si ferma per consolare una vecchietta impaurita e i testimoni riconoscono la voce di donna: al colpo successivo è relegata per punizione nell'auto per il cambio, ma stremata dall'attesa si fa prendere da una crisi isterica. Partecipa all'assalto al «Giulio Cesare» al fianco di Valerio, fanno insieme fuoco sull'appuntato Evangelisti (ucciso) e Lorefice (ferito) poi fuggono in vespa. Non partecipa né ai pedinamenti - l'aveva interrogata con durezza dopo l'arresto di Pedretti né all'agguato contro il giudice Amato, ma ammette di aver conosciuto e condiviso l'obiettivo, partecipando alla stesura del volantino di rivendicazione, "Chiarimenti", la più lucida esposizione del progetto spontaneista e al tempo stesso definitiva rottura con la vecchia leadership extraparlamentare (i tre autori, lei, Valerio e «Gigi» hanno militato solo nel Fronte, e Cavallini ha bazzicato A.N. ed eredi di O.N. solo da latitante). E Francesca si becca così uno dei tanti ergastoli: «Non ho fatto pedinamenti né appostamenti per organizzare l'attentato, facevo semplicemente parte dei NAR, stavo dentro la banda e Amato era una persona che tutto l'ambiente della destra eversiva romana non vedeva di buon occhio. Centinaia di persone erano a quel tempo d'accordo su quell'obiettivo. Oggi però la nostra storia si esprime in un altro modo, c'è una riflessione a due livelli, uno politico e uno umano. Vogliamo che il nostro passato sia letto per quello che è stato cioè un gruppo compatto di persone che è passato alla lotta armata, senza legami con i servizi segreti deviati, né con i cugini più grandi di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, che alla fine non hanno combinato mai niente» (1). Una distanza che ci tiene a ribadire in ogni circostanza. Dopo l'arresto di Delle Chiaie polemizza ancora: «E' di un'altra generazione, sono entrata in galera a 23 anni dopo due anni, chiamiamola così, di lotta armata, il più vecchio di noi ha sì e no 30 anni, cosa c'entriamo con i cinquantenni, dopo l'omicidio Amato facemmo un comunicato che prendeva le distanze da quella generazione che non era della nostra linea, deve essere chiaro che noi con la strage non c'entriamo» (2) .
Il 28 agosto sono spiccati decine di ordini di cattura per la banda armata che sarebbe alle spalle degli esecutori della strage di Bologna. L'impianto accusatorio ricicla il teorema Amato: la direzione strategica del terrorismo nero è costituita dai quadri «coperti» del mai disciolto Ordine nuovo, i gruppi giovanili e spontaneisti sono terminali periferici dell'organizzazione. Solo nel febbraio 1986, il giudice istruttore di Roma Gennaro stabilisce che «sulla base delle risultanze processuali, appare forzata la "reductio ad unum", anche se non può disconoscersi che i dati acquisiti mettono in luce dimensioni contraddittorie, rilevando l'esistenza da un lato di collegamenti e legami tra nuove e vecchie strutture e dall'altro di una miriade di gruppuscoli che si aggregano e si dissolvono rifiutando anche suggerimenti autorevoli» (3). Intanto scattano le manette per i professori (Semerari, De Felice, Mutti, Fachini e Signorelli), e gruppi di militanti dei NAR (Bianco, Alessandro Pucci), del FUAN (Zappavigna, Corsi, Macrina, Pizzonia, Corrado), di C.L.A. (Iannilli, Sica, Macchi, Scarano, scarcerato proprio il 2 agosto, Neri a Roma, Napoli in Veneto). I detenuti Pedretti e Calore sono considerati mandanti della strage affidata secondo un incredibile «pentito» (4) a un buttafuori fascista della Balduina, Francesco Furlotti. Tra quelli che si sottraggono alla cattura oltre a Francesca ci sono i leader di T.P., Adinolfi e Fiore. Lei non lo sa ancora ma quei due - che per tutt'altre e ignobili ragioni Valerio voleva uccidere in quei giorni le rovineranno la vita. E' probabile, infatti, che i due documenti chiesti a Sparti subito dopo la strage di Bologna - e per i quali infine Francesca e Valerio sono stati condannati - non servissero a loro, che erano clandestini da mesi ma a Fiore e Adinolfi, dirigenti pubblici di un'organizzazione politica legale. I due, parolai ma non stupidi, capiscono subito che la strage innescherà una violentissima ondata repressiva contro tutta l'ultradestra e pensano di premunirsi di un documento falso ricorrendo al responsabile della struttura illegale di T.P. Vale, però, non ha mai trattato questi «articoli», e chiede aiuto a Cristiano appena scarcerato e «figlioccio» di Sparti. Valerio e Francesca rientrano a Roma e in due giorni organizzano una rapina in un garage e il successivo assalto a un'armeria: «Poiché la strage di Bologna era stata attribuita ai NAR», spiegherà Fioravanti, «pensammo fosse necessario dimostrare a tutti che la strage era un'azione che esulava dal tipo di attività attribuibile ai NAR. Era indispensabile compiere un'azione che rientrasse nella linea classica dei NAR, cioè la
quarta armeria da farsi. Così organizzammo la rapina» (5). Dedicandola, con la rivendicazione a nome del nucleo Zeppelin, al loro amico Elio «Kapplerino» Di Scala. Il bottino è cospicuo: tra le 63 pistole rubate una finirà nell'arsenale della Magliana . Col blitz del 28 agosto Francesca diventa latitante a tutti gli effetti, ma la sua attività non conosce soste. Anche l'assalto al camion dei Granatieri di Sardegna, per procurarsi armi lunghe, è un buco nell'acqua (i soldati, a parte una pistola, risultano essere disarmati). Francesca non partecipa all'omicidio di Mangiameli: è con Mariani a guardia delle auto mentre nella pineta si consuma il processo sommario ma, come è suo stile, se ne assumerà la responsabilità. La sera provvede con Vale e Valerio all'occultamento del cadavere nel laghetto di Tor de' Cenci, perché «certo non poteva rimanere così e poi c'erano altre storie da vedere». Nel corso dell'istruttoria dichiara che si doveva trattare di un chiarimento ma «si finì a tutt'altra faccenda», e definisce Mangiameli un «demenziale profittatore». Nel processo di Appello per la strage si impegna a ricostruite la sua traiettoria politica e umana. In questo quadro chiede un colloquio con la vedova Mangiameli che ha appena deposto in aula. Le donne si appartano in una stanzetta attigua e parlano per 20 minuti, tra urla e strepiti. Al termine Sara Amico si rifiuta di parlare alla stampa. Francesca non si tira indietro: «Ai tempi del delitto avevamo 20 anni, forse oggi saremmo meno duri, meno rigidi. Ma allora si ammazzava per molto meno. Volevo spiegare alla moglie che abbiamo ucciso Mangiameli perché non aveva rispettato certe regole. Non saprei dire se ha capito o no. Certo mi ha fatto pena. In fondo lui è morto a causa nostra» (6) . Il 13 novembre è a Siena con Valerio, Cristiano e Vale per l'evasione di un detenuto comune, sposato con un'amica di Cavallini. L'assalto al furgone fallisce per un ritardo, e per sfuggire a un controllo sono costretti a disarmare una pattuglia di carabinieri. Poi lei va ad avvertire «Gigi» e gli altri a Pisa, dove prende il treno, mentre Valerio porta Cristiano e Vale in auto a Taranto, la base dell'evasione di Concutelli. E' l'unica notte che Francesca non dorme abbracciata con Valerio. Dopo l'omicidio del brigadiere nella carrozzeria di Lambrate, sfuggono per un soffio alla cattura. Nella base caduta, a via Washington a Milano, si reca Mariani con una fotomodella. Lo chiamano «Cicalone» (dagli occhiali a fondo di bottiglia) per la vista corta. Quella volta ha la lingua corta. Non telefona per pigrizia, per controllare se tutto è a posto, ed è
arrestato. Ora anche Milano è invivibile: occorre ripiegare su Padova. Francesca partecipa alla rapina miliardaria nella gioielleria di Treviso. C'è anche lei a recuperare le armi sul Lungargine Scaricatoio, la sera del 5 febbraio 1981, quando i Fioravanti ammazzano due carabinieri. Lei è "choccata" e non riesce a sparare, anche se Valerio ferito le urla di farlo. Cristiano risolve il conflitto a fuoco, ma poi è deciso a mollare il fratello. Francesca si impunta, ma non può fare niente. Abbandona il covo al quale le forze dell'ordine stanno per arrivare guidati dalle copiose tracce del sangue perso dal ferito: comunque telefona per un'ambulanza. E Valerio si salverà. «Dopo l'arresto di Valerio», racconterà poi, «io ho tentato di tutto per portarlo via, sono rimasta sola, sono rimasta sola davvero. E' stato un momento difficilissimo perché Valerio era la persona più sensibile del gruppo quindi anche l'unico con cui poter fare certi discorsi che con gli altri non era neppure il caso di fare». Con Valerio cade l'intera struttura padovana, un intreccio tra malavita e fascisteria, e bisogna ripiegare su Roma . Nella solitudine disperata di quel periodo, Francesca finisce per avere una storia con Vale, una storia non molto importante per lei, che si sente legata a Valerio ma non ce la fa a vivere da sola l'angoscia della latitanza e della clandestinità. La centrale operativa è di nuovo Roma dove Nistri, appena scarcerato, sta riorganizzando una formidabile rete d'appoggio. A garantire il salto di qualità militare è il rientro in Italia, a giugno, di Alibrandi, forte dell'esperienza libanese. Il 30 luglio una coppia (Francesca e Alibrandi) disarma delle pistole d'ordinanza (delle Beretta 92S, che finiranno per diventare «d'ordinanza» anche per i latitanti dei NAR...) i piantoni del ministero delle Finanze all'Eur. Qualche mese prima, ad aprile, sempre Francesca, con Giorgio Vale e, ma a dirlo sono solo i pentiti, «Pippi» Bragaglia, hanno disarmato un'altra scorta, di fronte all'ambasciata dell'Arabia Saudita, aggiungendo all'arsenale del gruppo due pistole e due mitragliette M 12. Una di queste sarebbe stata gelosamente custodita, e recuperata solo nel 1989, durante le indagini per la tentata evasione da Rebibbia, anche se le perizie sull'arma non daranno alcuna certezza in questo senso. L'azione è rivendicata, con un volantino che alcune fonti indicano scritto da Roberto Nistri, dai Comitati autonomi nazionalrivoluzionari, con toni e linguaggio brigatisti: «Un commando armato ha attaccato e disarmato mercenari di Stato [...] avanguardie rivoluzionarie [...] torturatori delle questure [...] gli infami ora conosciuti come pentiti». Il
disarmo è l'ultima «prova di magnanimità»: poi solo condanne a morte, eseguite con grande spiegamento di mezzi. Il primo omicidio è il giorno dopo. La vittima è Pino De Luca, il capo di imputazione una «sòla» ad Alibrandi. Dopo l'arresto Francesca ammette di averlo conosciuto quando frequentava il FUAN come «bidonista». Più tardi confesserà di aver partecipato all'esecuzione con due persone, senza fare nomi. Un'altra dimostrazione di stile: i complici erano morti (Vale e Alibrandi), eppure lei non si era sentita di accusarli. L'omicidio è inquadrato nella campagna contro i «profittatori» dell'ambiente, ed è rivendicato come naturale prosecuzione del delitto Mangiameli. Alla fine di settembre partecipa all'uccisione di Pizzari, l'amico che ha «venduto» Ciavardini e De Angelis. E' in compagnia di Vale, con compiti di staffetta e cambio dell'auto. Così poi giustificherà il delitto: «Secondo il modo di pensare dei NAR nei confronti dei nemici bisogna aver rispetto, anche se vengono condannati a morte per quello che fanno. Nei confronti dei traditori, invece, tale rispetto non può esservi e, pertanto, vanno annientati [...] penso che Pizzari sia stato ucciso per motivi personali e poi qualcuno ne abbia rivendicato la morte collocandosi nell'area dei NAR. Voglio dire che è stato ucciso perché ha fatto arrestare due persone e ne ha cagionato la morte di una, ma il Pizzari non aveva partecipato alla lotta, e, quindi, non poteva considerarsi un traditore ma una spia». Tre settimane dopo è nel gruppo di fuoco che ammazza il capitano della DIGOS Straullu e l'autista. Ancora una volta ha compiti di staffetta e non partecipa alla sparatoria, che prevede l'uso esclusivo di armi lunghe, per sfondare una blindatura che non c'è. Francesca dovrebbe prendere le armi, ma è trattenuta da Sordi e Alibrandi perché lo spettacolo è orribile: la potenza micidiale di mitra e fucili si è scaricata sui poveri corpi devastati. Lei e «Gigi» scrivono la rivendicazione dell'intera campagna contro «pentiti» e «profittatori» . L'inclusione di Mangiameli al fianco di «infami» come Perucci e Pizzari e di un poliziotto accusato di torture - con il corollario di insulti ai leader di T.P. fuggiti a Londra - scatena la furia di Nistri e degli altri ex di T.P. La morte di Alibrandi, le convalescenze di Sordi e Belsito portano allo sbandamento. Per un paio di mesi le attività sono sospese, poi riparte il «circo delle rapine», con commando affollati, muniti di armi pesanti, decisi a sostenere il conflitto a fuoco con le forze dell'ordine. E' quello che succede il 5 marzo: Francesca è di copertura
con Vale ed altri, davanti alla B.N.L. della Circonvallazione Aurelia, zona trafficatissima da volanti e gazzelle. La prima sparatoria è all'esterno della banca con un poliziotto in borghese che si apposta dietro un'auto e intima l'alt, ma è investito da una scarica di proiettili e ferito. Il conflitto a fuoco, e il mancato arrivo di un'auto per la fuga, impone a Stefano Procopio, un altro della copertura, di caricare in auto con Francesca anche due rapinatori, i fratelli Lai. Li intercetta una volante a piazza Irnerio: lei non indossa il giubbotto antiproiettile e una pallottola le dilania gli intestini. Livio si salva, risponde al fuoco con un fucile d'assalto e un colpo di rimbalzo uccide uno studente . Anni dopo, Francesca racconterà a un giornalista che quel giorno avrebbe voluto lasciarsi morire. Ma non è andata proprio così. Gli ultimi disperati dei NAR avevano stretto un estremo patto di morte: non si sarebbe permesso a nessun ferito grave di cadere nelle mani degli sbirri, condannandolo a una vita in carcere e mettendo in pericolo la latitanza dei superstiti. Ci avrebbero pensato gli stessi camerati, con un fraterno colpo di grazia, a risparmiare torture o confessioni estorte con il Penthotal, di cui temevano l'uso al posto delle cure mediche. Francesca chiede di essere salvata, qualcuno, lo stesso che le aveva procurato un medico quando ne aveva avuto bisogno e che aveva tentato di sequestrare un chirurgo amico di famiglia, sperando fosse possibile un'operazione chirurgica, impossibile, «sul campo», pone il problema di consegnare un militante con diversi ergastoli sulle spalle. Ma interviene Vale, secco: «Non se ne parla proprio». Insieme a Roberto Nistri porterà Francesca nelle vicinanze dell'ospedale romano San Filippo Neri, sul Lungotevere. Con una telefonata ai giornali e una al suo avvocato verranno evitati sempre possibili, in certe situazioni, «suicidi» di Stato. E la storia - rimossa o occultata che fosse stata in precedenza - ritorna, raccontata da Francesca, nel drammatico epistolario con Anna Laura Braghetti, scritto per un libro, in cui la Mambro, impegnata nella battaglia finale per evitare la condanna per la strage di Bologna, si apre in uno sforzo di totale sincerità, violentando la sua naturale ritrosia: «Uno, che non era mio amico, invece di portarmi in ospedale voleva tirarmi un colpo in testa perché si dice che sotto anestesia si può parlare e si preoccupava di tornare a casa e dormire tranquillo. [...]. Giorgio e gli altri si sono sentiti all'istante adulti. E spaventati l'hanno zittito [...]. Nemmeno per loro, che erano costretti a lasciarmi davanti all'ospedale, sembrava avere più senso
quello che stava accadendo [...]. Fa più paura la morte degli altri che la tua. Il giovane medico che mi visita nel garage conferma che si tratta di una questione di tempo [...]. Giorgio si aggirava intorno alla macchina disperato, provava a proteggermi ancora cercando una via d'uscita che non c'era, come non c'erano i posti per dormire perché nessuno si sarebbe sognato di nasconderci [...]. In un momento in cui riprendo conoscenza Giorgio mi chiede cosa voglio fare [...]. Gli rispondo che potrei morire. E perdo di nuovo conoscenza. Prima che arrivino gli infermieri mi ha tolto tutto dalla borsetta lasciando solo il documento falso: 'Fino all'ultimo avranno il dubbio se sei davvero tu [...] io resterò qui vicino e non gli permetterò di spararti in testa'. Gli chiedo di non piangere e per favore di non farsi ammazzare. Gli voglio bene e se morisse anche lui non lo sopporterei [...]. Sento per l'ultima volta chiamarmi Chiara mentre mi accarezza e mi copre con la giacca. Riapro gli occhi svegliata adesso da un dolore lancinante alla pancia e alla gamba. Mi stanno togliendo dalla macchina e io voglio già tornare indietro perché so che adesso sarò davvero sola. Però Valerio mi aspetta». E da quel giorno, infatti, al centro della sua vita, c'è l'ora di colloquio settimanale con Valerio e i processi sono considerati una benedizione per la possibilità di toccarsi e parlare senza limiti di tempo. L'unica ossessione: difendersi dall'accusa della strage alla stazione. Una battaglia per ridare senso alle proprie scelte, alla propria vita e anche ai morti (Stefano, Franco, Alessandro, Giorgio). Per combatterla non esita a giocare a tutto campo. Una battaglia che non può essere considerata chiusa solo perché una sciagurata sentenza della Cassazione ha messo una pietra tombale sulla manifesta innocenza di due ergastolani pluriassassini . Nel dicembre dell'87 scrive a «il manifesto»: «Di fascistico ho poco, giusto la tendenza ad andare sempre e comunque contro corrente: 'soggettivismo' si dice così in sinistrese. Certo ragiono da donna, anzi da 'femmina', quindi sono romantica, superficiale e magari anche un po' stupida, così l'amicizia è venuta sempre prima della politica. Non ho mai capito la frenesia delle mie amiche 'rosse' su alcune teorie marxiane o sull'incremento del tasso di profitto. Per me erano panzane, ma un sorriso, un gesto gentile e solidale, uno sguardo leale l'ho sempre capito al volo. C'è tanta gente che scrive ai giornali sentendosi perseguitata. Per me è diverso, io sono 'colpevole': a suo tempo feci le mie scelte e le portai avanti con quel po' di coerenza di cui ero capace. Non sono un
angioletto e non ho mai preteso di esserlo. Ma ero sicuramente in buona fede. Ci ho creduto e mi è piaciuto vivere in quel modo, non posso dissociarmi, mi sembrerebbe ipocrita e perché, avendolo fatto di liberissima scelta, dovrei dissociarmi da me stessa. Ma non appartengo nemmeno al gruppo degli irriducibili ottusi che non hanno mai sbagliato. Ho sbagliato, altroché. Ma ne parlo solo con gli amici, con quelli cui interessa. Non sono in lista per ottenere premi di sorta, sono 'ergastolana definitiva', e pure la strage di Bologna non l'ho fatta. Contro ogni logica hanno scelto me e Valerio come capri espiatori. Persone dal percorso politico violento quanto si vuole, ma lineare, una non voglia di mediazioni con i vecchi ambienti che più di una volta ci ha meritato l'epiteto di folli senza ideologia. Il mio è un iceberg un po' scontato, dove sopra c'è la voglia di contestare tutto e tutti, le ingiustizie passate sotto silenzio, le provocazioni ben organizzate e divise tra carcere e aula di tribunale. Sotto però c'è tutta la parte di ghiaccio dolce, la voglia di vivere, la solidarietà di chi mi conosce e si fida di me nonostante gli orrifici ritrattini dei massmedia, gli affetti nati e cresciuti in mezzo a tante difficoltà, l'ottimismo (avete mai pensato che in un certo senso - semplificando molto - il cosiddetto terrorista è un ottimista, convinto che bastino quattro pistolettate per fare un mondo migliore?), la fiducia che non tutto è perduto, che non prevarranno, che anche questa nostra lotta composta e silenziosa contro i 'Signori della Giustizia' serva a qualcosa, che la 'morale' e l'etica, grazie al cielo sconfitte nelle forme intolleranti delle 'ideologie forti', sopravvivono» (8) . In un'intervista all'«Espresso» del maggio 1988 rilancia: «Qui a Bologna hanno esagerato. E' tutto troppo fasullo. Troppo disonesto. Capisco che qualcuno, anzi molti possano sentirmi come nemica, se non altro per l'etichetta di fascista, nella quale per altro io non mi sono mai riconosciuta, ma tant'è, ce l'ho e me la tengo. Dicono che abbiamo rinunciato a difenderci quasi a far capire che ci arrendiamo di fronte all'evidenza delle prove. Ma la verità è un'altra, più semplice. Non abbiamo risposto agli interrogatori perché stiamo ancora aspettando una sola accusa che sia seriamente circostanziata o almeno plausibile [...]. I magistrati non hanno mai provveduto a trovar riscontri alle dichiarazioni dei pentiti. Ci sono nel processo diverse decine di dissociati (quindi per definizione sinceri) continuamente tirati in ballo in una serie di 'tizio mi ha detto questo, Caio quest'altro'. Ma nessuna di
queste persone citate è stata ascoltata [...]. Noi non avevamo nulla a che fare con Fachini che consideravamo come Delle Chiaie un pezzo di archeologia politica [...] dall'84 all'86 Paolo Signorelli è detenuto in una sezione speciale perché si teme che Valerio voleva farlo fuori [...] farisaicamente potrei parlare dei nostri morti. Ma so che sarebbe idiota giustificarsi dicendo hanno incominciato prima loro. Io penso che nessuno dovrebbe pagare con la vita per le sue idee, per me sono tutti innocenti e a volte mi sembra di intuire che i boia sono quasi altrettanto innocenti delle vittime. Ma non nego che di fronte a certi sbirri si potesse sparare e che anzi fosse quasi obbligatorio se non si voleva avallare tacitamente la legge del più forte ma questo per me non ha mai significato guerra indiscriminata. Mio padre era un maresciallo e quindi so bene che esistono sbirri che sono uomini prima che poliziotti. Ma secondo me in effetti ci sono morti più innocenti di altri, inutili e sbagliati. Per questo odio con tutte le mie forze il processo di Bologna. Ottantacinque morti senza senso» (9). Un suo coimputato nel processo NAR 2 ne offre un ritratto in chiaroscuro: «Da molti era individuata come la donna del capo. Dopo l'arresto di Pedretti si mette con Fioravanti. Dopo l'arresto di Valerio ha una storia con Vale. E' sicuramente una di quelle convinte di quello che fanno, ci credono fino in fondo. Ed è fondamentalmente una pura. Ha freddezza, capacità militari, qualità che risaltano di più in un ambiente dal forte pregiudizio maschilista. Non ha spiccate caratteristiche politiche. Si becca alcuni ergastoli per aver assunto un atteggiamento di rottura su cose su cui le era stata data la possibilità di tirarsi fuori. C'è gente che ci maligna ma io non credo che fosse subalterna ai suoi uomini. Nell'ambito del FUAN è una ragazza che ha personalità e quindi non può essere attratta da un mediocre. Di Valerio è sicuramente innamorata, e probabilmente è l'unica volta, con Vale è una parentesi particolare, un rapporto in cui lei ha più peso, dipende da tanti fattori, la latitanza, l'essere gli unici rimasti del vecchio gruppo, un forte legame umano, sono quasi due persone che si sono trovate nello stesso letto più che una storia vera e propria» (10) . Al processo per la strage rivendica la clandestinità alla luce del sole di una milizia fatta di numerose bande armate con centinaia di militanti e contesta ai giudici l'ossessione delle trame occulte. Nella dichiarazione finale precisa, con gran dignità, guardando in faccia i togati: «Non ho commesso la strage, sono stanca di dirvelo, e a questo punto se non ci
credete non mi importa poi tanto». La maggior parte dei giornalisti stravolgeranno questo grido di dolore, trasformandolo in un'altezzosa affermazione di strafottenza. Solo perché lei aveva tenuto sempre la testa alta e lo sguardo fisso sui giudici («perché in questa aula non sarò mai io a dover abbassare lo sguardo»). Nel processo di appello risponde all'interrogatorio. «Nessuno di noi», spiega, «ha mai pensato di fare la rivoluzione, non bisogna dimenticare che allora avevamo 18 anni, semplicemente in quel periodo l'illegalità era diffusa e noi c'eravamo dentro. Avere le armi dava prestigio e c'era bisogno di autoaffermazione. Ho uno spirito di contraddizione piuttosto forte e negli anni '70 mi dava fastidio vedere che chi era di destra non aveva diritto di parlare a scuola. Non eravamo noi quelli che volevano occupare il Palazzo. Per me era importante cercare di creare un ambiente nel quale portare avanti le nostre tematiche e nel quale fare un dibattito. L'esigenza di autoaffermazione per differenziarsi dalla vecchia destra che si diceva fosse inquinata e per combattere contro gli stereotipi che consideravano il fascista il braccio armato del potere e l'amico dei questurini era molto sentita» (11). In questo contesto ridimensiona la vicenda della banda: «Io non la vedo tutta questa escalation di cui parlano i giudici di Bologna che ci hanno dipinto come i peggiori assassini sulla piazza. L'omicidio di Arnesano e quello di Evangelisti furono due disarmamenti finiti male. Arnesano morì per problemi contingenti e per Evangelista fu la stessa cosa. L'omicidio del giudice Amato costituiva invece un obiettivo mirato, ma da questo si passa alla strage con un nesso logico che hanno trovato solo i giudici bolognesi. Il p.m. Mancuso è andato a tirare fuori queste storie che al confronto di 10 anni di terrorismo non sono niente [...]. La strage è una cosa così lontana dalla nostra mentalità, non era per noi neppure concepibile fare una cosa del genere anche se la destra venne subito criminalizzata e si parlò di bomba fascista. E' stata una strage di Stato, con la quale noi non abbiamo nulla a che vedere» (12). Prima della camera di consiglio è di nuovo davanti ai giudici, a riaffermare testardamente la sua innocenza: «Voi non potete aggiungere un solo giorno di carcere a quelli che dovrò fare, non un'ora. Ma potete attaccare i miei ricordi, i miei sentimenti, il mio, chiamiamolo così, onore» . Gli esiti dei processi sono altalenanti: ergastolo in primo grado, 12 anni in appello per banda armata (una condanna assurda essendo già state
giudicate le condotte criminali riconducibili alla banda armata in diversi processi), ancora l'ergastolo nel secondo appello, conclusosi subito dopo il trionfo elettorale del centrodestra il 27 marzo 1994. La Mambro e Fioravanti sono le prime vittime del rigurgito antifascista che attraversa il Paese dopo la nomina di 5 ministri missini. Pur rassegnata al peggio Francesca sfida ancora la Corte: «Voi qui a Bologna ci volete fare passare per mostri e io qui in aula ho dovuto sentire e stare zitta quando il procuratore generale ha detto conversando con l'avvocato Baldi: 'Io quei due li voglio vedere a testa in giù a piazzale Loreto'» (13). La condanna non piega Francesca. Seguono l'appello a Funari, la presa di posizione della compagna di cella. Anna Laura Braghetti, la vivandiera del sequestro Moro, una mobilitazione trasversale che ha visto più impegnata la sinistra, anche quella più rabbiosamente antifascista, che la destra (mentre il primo «capo» della Mambro, Maurizio Gasparri, diventa sottosegretario agli Interni). La carica umana di Francesca è riuscita a fare gioco anche su chi aveva forti riserve nei confronti di suo marito. Numerosi intellettuali di sinistra aderiscono entusiasti al comitato «E se fossero innocenti»: da Luigi Manconi a Oreste Del Buono, da Giovanni Minoli a Miriam Mafai, da Michelangelo Notarianni ad Adriano Sofri e a padre Adolfo Bachelet. Ma è tutto inutile. L'unico risultato concreto della sentenza definitiva è l'arresto di Francesco Pazienza, che deve scontare circa 5 anni di pena residua. Un condono goduto in precedenza per truffa gli ha impedito di «scendere» sotto i 3 anni e accedere così ai benefici dell'affidamento ai servizi sociali. Licio Gelli, l'altro responsabile della «grande calunnia», resta impunito: la Svizzera lo ha estradato solo per il crac del Banco Ambrosiano. Quando arriva la notizia della Cassazione Valerio sta partecipando al laboratorio artistico tenuto a Rebibbia da Pablo Echaurren. Al pittore amico confida che la sua preoccupazione è per Francesca: «Mi pesa che lei non sia qui, mi pesa e mi fa male di non poter parlare con lei, di dover aspettare una settimana prima di vederla. E tanto più che so che lei ha una maniera diversa di reagire. Lei butta fuori la sua rabbia e la sua disperazione. Io me la tengo dentro. E adesso scusami, vado a correre un po'. Ho bisogno di sfogarmi» (14) . Dal fondo della loro disperazione, non sapendo più a che santo votarsi, per proclamarsi innocenti dell'atroce delitto hanno trovato la fantasia di scrivere al papa: «Padre santo, sappiamo che persone verranno da Lei e le parleranno di Francesca e Valerio. E' la storia di un dolore silenzioso
e sommesso che non riusciamo a nominare. La giustizia degli uomini vorrebbe privarci dell'unico bene che dà un senso a questa vita, la nostra appartenenza al genere umano [...]. Una sentenza pronunciata in nome della ragion di Stato da uomini in nero, dall'alto dei loro scanni e delle loro divisioni politiche. Di quell'atto atroce e disumano non siamo responsabili e non abbiamo alcuna conoscenza diretta o indiretta» (15). A consegnare la lettera al papa e a distribuirla alla stampa ci pensano l'europarlamentare Roberta Angelilli, ex-segretaria romana del Fronte della gioventù, e un consigliere provinciale di Roma di Alleanza nazionale, Bruno Petrella. Al papa chiedono la spiegazione del perché debbano «rispondere di una colpa che ci annienta e ci spazza via come povere cose, cancellandoci moralmente e civilmente dal genere umano. A Lei che in una parte del suo cuore potrà riconoscerci, chiediamo solo di capire, di farci una ragione di questa nostra sorte. Trovare una risposta del perché ci viene chiesto di assolvere al ruolo di vittime sacrificali [...] potrebbe aiutarci [...]. Sono tanti anni che viviamo la separazione l'uno dall'altro, le privazioni, i rimorsi in una nemesi per colpe reali [...]. Ma per una colpa inesistente dove possiamo trovare la forza per andare avanti? A tante domande sembra non esserci risposta sulla Terra e forse non ne abbiamo neppure diritto, ma vorremmo arrivare a sera senza quel dolore di cui sentiamo che non può nascere niente di buono e pensare al perdono come la sola risposta che l'uomo conosce da sempre» (16). La risposta è arrivata dalla Segreteria di Stato, tramite il cappellano di Rebibbia: «Il Santo Padre ha ricevuto la missiva e, mentre assicura un ricordo nella preghiera, augura loro ogni bene». Don Sandro Spriano è diventato amico di Francesca e Valerio: «E' una lettera sincera, un modo per coinvolgere una persona di una certa competenza in fatto di umanità. E' come se fosse una sorta di ultima spiaggia. Valerio e Francesca hanno certamente fatto un cammino di conversione vero, nel senso di riconoscere gli errori e i guasti prodotti in passato e cambiare rotta. Sono sinceri nel loro pentimento che non ha avuto tornaconti e [...] lo sono pure quando dichiarano la propria innocenza sulla strage» (17) . Grazie anche alla mobilitazione di tanti amici di sinistra riesce a ottenere i primi permessi e, infine, l'ammissione al lavoro esterno, presso un'associazione contro la pena di morte di area radicale, Nessuno tocchi Caino, animata da Sergio D'Elia, ex-dirigente di Prima linea. Incurante della ressa di fotografi e cameramen, Francesca è
regolarmente in piazza il giorno di Natale 1998, alla marcia organizzata dall'associazione, per promuovere una moratoria delle condanne a morte nel 2000. Le cose cominciano ad andarle meglio: anche Valerio finalmente è stato ammesso alle prime licenze premio e anche nella magistratura romana si fa finalmente strada l'idea che le stragi di Ustica e di Bologna siano state una ritorsione di Gheddafi. Lo vanno a raccontare alla Commissione stragi i p.m. romani Giovanni Salvi (fratello del capogruppo diessino al Senato), Vincenzo Roselli e Settembrino Nebbioso. All'origine delle pressioni - e delle minacce di ritorsioni libiche - la richiesta della consegna di oppositori al regime rifugiati in Italia. E alla fine, informato il governo, i nostri 007 avrebbero ceduto ai desiderata di Gheddafi. Salvi sottolinea poi la coincidenza temporale (anche nell'ora) tra la strage di Bologna e la firma del trattato Italia-Malta che intaccava i forti interessi libici nell'isola. Tre i collegamenti oggettivi tra le due stragi e la Libia: l'indicazione del nome di Affatigato come persona implicata, l'identità degli esplosivi usati, i rapporti tra il neofascista padovano Roberto Rinani, imputato per la strage e assolto in secondo grado, e un tale Antonio Del Re, coinvolto in un tentativo di golpe in Libia. Inoltre il boss di Altofonte emigrato a Londra, Francesco De Carlo, avrebbe ricevuto confidenze in carcere da un presunto agente libico Hindawi: il D.C. 9 sarebbe stato abbattuto in una battaglia aerea e la strage di Bologna sarebbe da ricollegare a questo episodio. Della stessa scuola di pensiero sarebbe stato Vincenzo Parisi, capo della polizia fino al 1994 . Qualche mese dopo l'ammissione al lavoro esterno di Valerio, nell'autunno 2000 Francesca si vede sospendere la pena: lo stato di gravidanza è incompatibile con la detenzione . Anche Giorgio Vale, l'ultima vittima della maledizione del cinque (di Alibrandi abbiamo già raccontato), proviene come Francesca Mambro dall'attivismo di piazza ma senza esperienza nel Fronte: «Drake» è uno dei tanti pischelli che «nasce» con Lotta studentesca e «cresce» con T.P. Ha compiuto da due mesi diciott'anni quando, per l'arresto di Nistri e Dimitri, si trova alla testa del nucleo operativo. Consapevole dei suoi limiti - qualità rara in un ambiente di gasati - e di quelli dei suoi capi (Fiore e Adinolfi) sceglie di affidarsi a Valerio Fioravanti, riconoscendone le indubbie qualità di leader. Una scelta che segnerà la sua breve vita. Morirà a vent'anni e mezzo, molto probabilmente ammazzato dalla polizia anche se la versione ufficiale parla di suicidio.
Il 5.5.82: la quinta vittima della maledizione non poteva che cadere di maggio. Mulatto, capelli neri crespi e carnagione olivastra, Vale può tranquillamente militare nei ranghi della destra radicale degli anni Settanta. Il vangelo di quella generazione è "La disintegrazione del sistema" di Freda, ancora lontano dei rigurgiti neorazzisti del Fronte nazionale negli anni Novanta, che al mito dell'Europa «vecchia baldracca, rotta a tutti i puttaneggiamenti» contrappone «lo stile sobrio e spartano dei vietcong» (18). Vale è più volte fermato o identificato durante volantinaggi, ronde, picchetti e una volta è arrestato per rissa. Vice di Nistri, partecipa alla gambizzazione di Ugolini. Quando diventa responsabile del nucleo incrementa il finanziamento illegale sottraendosi al controllo di Fiore. Dopo poco più di un mese dalla «promozione» si fa coinvolgere nell'omicidio dell'agente Arnesano. Gli cade anche la pistola durante la fuga, ma Valerio esprime un giudizio positivo della sua partecipazione. «A Roma», spiega un dirigente di T.P., «già esistevano rapporti di scambio di armi e di favori tra i vari gruppi operativi. Lui curava già i contatti, poi si ritrova improvvisamente privo di una figura carismatica che gli dice cosa fare e non ha la maturità per assumere un ruolo che non può essere ricoperto da Fiore. Vale sa benissimo che Robertino non è affatto il capo in cui avere fiducia. Saltata l'intermediazione di Nistri lui realizza il rapporto veramente strumentale con i vertici di T.P. e diventa facile preda dell'accelerazione militarista di Fioravanti. Va a 'fare' Arnesano per disarmarlo e si trova complice in un omicidio. E' uno dei più coscienti del fatto che è entrato in una situazione che non ha liberamente determinato eppure una volta che ci sta la vive fino in fondo. In seguito dirà esplicitamente che Valerio uccide Arnesano per legarlo in un perverso patto di sangue» (19). Mette su una batteria di minorenni: Belsito, Ciavardini, Soderini. Rapinano la collezione di armi di un amico di Elena Venditti, figlia del cronista parlamentare di «Paese Sera», fidanzata di Ciavardini e prima di Fiore. Le banche, con grande sfrontatezza, le scelgono sotto casa: la Banca d'America e d'Italia di corso Trieste, con Ciavardini e due «bori», giovani malavitosi indipendenti; l'agenzia 36 del Credito Italiano; la B.A.I. di Vigna Clara, un'altra roccaforte di T.P.; il garage Italia, ancora al quartiere Trieste . Vale partecipa all'assalto al «Giulio Cesare», un liceo dove ha svolto spesso attività politica. E' nel gruppo di fuoco con Valerio, Francesca e Ciavardini, mentre la copertura è assicurata da Cavallini, De Francisci e
Rossi. Gli è affidato l'impatto sull'agente isolato nel cortile, mentre Valerio e Francesca si occupano dei due uomini a bordo dell'auto civetta. Apre subito il fuoco su Manfreda, che si è accorto dell'agguato e così salta il «processo» programmato col disarmo della pattuglia: una leggenda urbana vuole che la vittima di Vale simpatizzasse per T.P., e che pur avendo riconosciuto Ciavardini si sia rifiutato di farne il nome. Verità o solo "boatos" è difficile dirlo. Vale scappa con Ciavardini, ferito da un colpo di rimbalzo. I due cadono dalla Vespa e si allontanano rapinando un taxi. Riprendono le rapine, si accentua il distacco da T.P . Nei convulsi giorni che seguono la strage di Bologna si consuma la separazione definitiva. La rapina all'armeria Fabbrini è l'occasione per la definitiva fusione tra la banda Fioravanti e i pischelli di T.P. Il rapporto di Vale con il movimento resta ambiguo: accusa Fiore di essersene scappato con la cassa, ma fa sapere a Mangiameli che Valerio lo vuole ammazzare. Partecipa al delitto, ma vi è trascinato per i capelli. Intanto le sue capacità operative si affinano. Quando a Dario Mariani, un altro capozona di T.P. passato in clandestinità, scippano un borsello con 17 milioni, i due eseguono in tre giorni due rapine per riparare il danno. Quando il 13 novembre incappa con Cristiano in un controllo dei carabinieri, è lui a guidare il disarmo, facendo infilare al brigadiere la testa nel cofano posteriore con un pretesto e poi saltandogli alla gola e puntandogli la pistola alla testa. Per avvalorare la pista di una strage organizzata dai ragazzini è coinvolto nel depistaggio del SISMI: sarebbe stato lui, secondo la soffiata di Belmonte, ad acquistare i biglietti per i terroristi stranieri che trasportano armi ed esplosivo sul treno Lecce-Bologna. Mentre gli «spioni» tramano ai suoi danni, la principale preoccupazione di Vale è di punire i traditori. Si procura i verbali delle confessioni di Perucci, capocuib del quartiere Trieste, e li discute con Belsito. I due sono molto legati: due soldati disciplinati, di poche parole, con una forte attitudine all'azione. Belsito le conclusioni di quella lettura le trae in proprio: va da solo ad ammazzare il «traditore» e scappa all'estero . Vale resta in prima linea. Dedica le sue attenzioni a un altro «infame»: quel Pizzari che è sospettato di avere «venduto» Nanni De Angelis e Ciavardini. Assiste dall'altro lato dell'argine alla sparatoria di Padova in cui resta ferito Valerio ma si sgancia senza rendersi conto della situazione. Torna a Roma con Francesca e «Gigi» e per qualche mese
vivacchiano di rapine. L'unica operazione tentata - l'attentato contro il funzionario della DIGOS considerato responsabile delle torture su Nanni - fallisce per una svista clamorosa. L'inchiesta è svolta sul fratello, commissario della Mobile, che abita nel palazzo di Vale. Alla fine non se ne fa niente. Vale è sempre presente nel gruppo di fuoco degli ultimi NAR, quello diretto da Alibrandi. E' lui a uccidere Pino De Luca, sorpreso in casa sotto la doccia. Pur essendo un fanatico di armi e un ottimo tiratore («E' incredibile Giorgio», commenterà con un altro latitante Belsito, «legge solo di armi, non l'ho mai visto con un bel libro politico in mano, chessò di Hitler»), non ha un ruolo da protagonista negli attentati. Negli omicidi (Pizzari, Straullu) svolge compiti di staffetta e di autista, per restare al fianco di Francesca. Nelle rapine, dove è maggiore il rischio di conflitti a fuoco ha compiti di copertura, un ruolo che richiede freddezza ed esperienza. Questo è il suo incarico nella rapina al gioielliere Marletta, un colpo miliardario che rappresenta la fusione tra i NAR e la banda di ex-tippini che si è aggregata intorno alla personalità carismatica di Nistri, che ha conservato una forte influenza sullo stesso Vale . La nuova banda passerà alla cronache giudiziarie come i NAR 2, dal nome del maxiprocesso che ne ha giudicato le attività. Agli inizi di novembre i giornali danno grande risalto alla mancata cattura della Mambro e di Vale. La notte del 6 novembre i due se la sarebbero cavata ancora una volta, dopo un conflitto a fuoco tra la Pontina e la Laurentina. I poliziotti la raccontano così ai cronisti: una civetta della DIGOS incrocia alle 4 un'auto sospetta, rubata il giorno prima al Policlinico, con tre persone a bordo, che essendosi accorte di essere seguite aprono il fuoco. Gli agenti rispondono con una raffica di mitra, bucando due ruote. Dei venti proiettili che attraversano l'abitacolo, fortunosamente solo uno colpisce alla spalla Vale che è al fianco del conducente. I tre ripiegano nella boscaglia, aprendosi la strada sparando e lasciano nell'auto una macchia di sangue. A togliere i dubbi tre giorni dopo un volantino: la sparatoria di Mostacciano è una trappola, per far uscire allo scoperto parenti e amici di Vale e dare qualche traccia per la sua cattura. E' il secondo anello di una lunga catena di lavori sporchi ai suoi danni. Il pomeriggio del 4 marzo 1982, secondo un rapporto dei carabinieri che pedinano gli avanguardisti Tilgher, Giorgi e Palladino, Vale lo avrebbe trascorso nei locali della società di quest'ultimo, l'ODAL I. Tilgher smentirà sdegnosamente («Vale, come si accerterà,
era in quel momento a centinaia di chilometri di distanza») (20). Lascia perplessi un particolare: l'estensore del rapporto sostiene di aver riconosciuto Vale dalla foto pubblicata dopo la sparatoria di piazza Irnerio del 5 marzo. E' possibile che un sottufficiale che indaga sulla strage di Bologna non avesse mai visto la foto di un noto latitante, ritenuto protagonista dell'operazione «Terrore sui treni» (solo gli «spioni» del SuperSISMI all'epoca sanno che Vale era vittima di un'operazione «sporca» )? Il giorno dopo, durante il conflitto a fuoco all'esterno della banca, è Vale che sorprende l'agente che ha aperto il fuoco sui rapinatori: lo colpisce e consente al commando di sganciarsi. Si allontana a piedi, spara una mitragliata su due poliziotti che lo scambiano per un collega (succederà ancora il mese dopo: una vecchina vedendolo con un mitra in mano a pochi passi da una banca lo avverte che è in corso una rapina, lui la rassicura: aspetta i colleghi per bloccarli...), si appropria di un'auto abbandonata da un conducente terrorizzato poi, a una pompa di benzina, si fa dare le chiavi di un'Alfa Romeo spacciandosi ancora per poliziotto. Quando, più tardi, il medico lo avverte che solo un intervento chirurgico può salvare Francesca non ha dubbi e organizza il trasporto in ospedale insieme a Nistri. Resta fino all'ultimo di guardia vicino a Francesca, di cui è profondamente innamorato, per impedire un'esecuzione sommaria. Il giorno dopo telefona al «pischello» nel cui garage lei è stata sommariamente curata: è il suo ufficiale di collegamento. La polizia è già arrivata nella casa e il «ragazzino» cerca di farglielo capire, ma Giorgio da questo orecchio non ci sente e insiste: ci vediamo al metrò. Hanno un codice preciso, a secondo del giorno è fissata una stazione per l'appuntamento. Chi controlla il telefono non ha il tempo di mobilitare molti uomini e così le pattuglie disseminate lungo la linea sono sparute. Vale è in compagnia di Nistri e di qualche altro camerata, nei pressi della fermata Furio Camillo. Li avverte: «Ho un appuntamento, ci rivediamo qui tra mezz'ora». Loro, rispettando le regole di sicurezza, si allontanano. Lui si avvia, si accorge dei poliziotti in attesa, ingaggia un conflitto a fuoco a freddo e si sgancia. Ovviamente «buca» il successivo appuntamento. Nistri, preoccupato, aspetta più di un'ora poi telefona all'ANSA: «Hanno arrestato Vale». Spera, divulgando la notizia, di scongiurare lunghi soggiorni in questura e rischi di torture: è un'altra delle misure di sicurezza che si sono dati per sopravvivere in quei giorni da lupi. La telefonista replica pronta: «Ha a che fare con la sparatoria di Furio
Camillo?». Nistri fa due più due e si convince che Vale è caduto in trappola. Quando «Drake» si presenta il giorno dopo all'appuntamento prefissato con aria serafica da vecchio professionista - «tutto a posto, ragazzi, nessun problema» - gli viene voglia di strozzarlo: anche la mattina del 7 erano continuate le telefonate di minaccia, questa volta a «Il Messaggero». I dietrologi ricameranno molto su questo equivoco banale . Per nulla superstizioso, il 5 aprile, Vale è ancora in azione: una rapina di routine, a saltare il bancone i "Boys" di Sordi, lui di copertura. Va tutto bene. Altre rapine, l'ultima il pomeriggio prima di morire, insieme a Nistri, in una compagnia di assicurazione, per procurare tagliandi in bianco. La mattina del 5 maggio un plotone di agenti della DIGOS fa irruzione in un appartamento al Quadraro, santuario di A.N., in via Decio Mure. Secondo i poliziotti Vale avrebbe gridato «Vi ammazzerò tutti», e, impugnata la pistola, la Beretta 92 rapinata a uno dei carabinieri di Siena, avrebbe sparato l'intero caricatore senza colpire nessuno, e poi si sarebbe tirato un colpo in testa. L'autopsia conferma che un unico proiettile calibro 9 lungo sparato a bruciapelo alla tempia ha causato la morte. A parte l'evidente analogia con il massacro di via Fracchia (l'esecuzione sommaria di quattro brigatisti sorpresi nel sonno da parte dei carabinieri) fatto passare per un conflitto a fuoco, i conti non tornano. Il guanto di paraffina ha infatti esito negativo. Non è il primo caso in Italia. Già non aveva tracce di polvere da sparo la mano di un altro «suicida» famoso, l'ex-colonnello del SIFAR Renzo Rocca, reclutatore di civili per il «Piano Solo» e come responsabile del centro di Ricerche economiche e industriali massima espressione operativa del complesso militare-industriale. Anche nel suo caso forti furono i sospetti che Rocca fosse stato «suicidato». Di Vale diranno che qualcuno gli ha lavato le mani durante l'autopsia: una giustificazione improbabile (perché farlo?) e grottesca (se fosse sufficiente lavarsi le mani dopo aver sparato sarebbe praticamente inutile il guanto di paraffina: ma le tracce della polvere da sparo sono più profonde nella pelle). Manca anche il movente psicologico: genitori e amici giurano che non si sarebbe mai suicidato. La polizia sarebbe arrivata alla base grazie a Carmelo Palladino, fedelissimo di Delle Chiaie, da poco arrestato per le stragi di Bologna e dell'Italicus. Il sospetto della soffiata gli costerà una condanna a morte, prontamente eseguita, nella fatale Novara, il 10 agosto, con una rudimentale garrota .
L'appartamento era stato affittato - con i soldi di Vale - da un tale Consalvi amico di Pierluigi Sortino, militante di A.N., socio della cooperativa di revisori degli enti cooperativi (CIREC) che ha tra i suoi componenti anche Silvio Paulon, già arrestato nell'estate del 1977 per aver ospitato nella sua casa del Tuscolano Delle Chiaie. I due sono fermati la mattina sotto il palazzo. Con le chiavi sequestrate all'affittuario, il commando della polizia entra senza sfondare la porta. Secondo la polizia nell'appartamento sarebbero stati sparati 140 colpi da quattro mitragliette e da quattro pistole. Vale avrebbe sparato l'intero caricatore della sua bifilare (15 colpi) ma l'unico andato a bersaglio sarebbe quello che si sarebbe sparato alla tempia. Il giudizio dei suoi camerati è lapidario: «Giorgio è stato venduto e assassinato, perché rifiutò le offerte di Palladino di entrare in A.N.». Un coimputato - anche lui convinto che Giorgio sia stato una vittima prefabbricata - così ricostruisce la vicenda: «Contro Giorgio ci provano da tempo: il SISDE (la storia uscì anche su 'Panorama' o l''Espresso'), per cercare di prendere lui e Francesca organizzò una megamessinscena con tanto di macchina sforacchiata in una sparatoria (falsa) e sangue (di bue), per far credere alla famiglia che qualcuno era rimasto ferito, ed individuare possibili 'regolari' in contatto con i latitanti. Molto strana fu anche la 'trappola' successiva tesa sempre dagli uomini del SISDE a Giorgio ad una fermata del metrò, da cui riuscì a scappare dopo una sparatoria. Infatti l'appuntamento era stato individuato tenendo sotto controllo il telefono di un pischello, ma perché il servizio non ha passato la 'soffiata' alla polizia o ai carabinieri come succede sempre - lo vuole la legge - in questi casi? D'altronde l'uccisione stessa è un classico 'dirty work'. Ad entrare per primi e da soli nell'appartamento, sono stati il commissario Genova (il poliziotto accusato di torture ai brigatisti) e il numero uno dell'antiterrorismo, Improta. Leggendo le perizie balisticolegali si capisce lontano un miglio che si è trattato di un omicidio a sangue freddo. Nonostante si sostenga che prima di uccidersi Giorgio abbia sparato tredici o quattordici colpi contro gli agenti (ma neanche uno che gli sia passato anche solo vicino) il guanto di paraffina (con una pistola 'aperta' come la 92S) è risultato totalmente negativo. Spiegazione del perito: forse all'ospedale qualcuno gli aveva lavato le mani! L'impronta dell'asta della molla di recupero dell'arma è rimasta talmente 'tatuata' sulla pelle della tempia che il perito, è costretto ad ammettere che una cosa del genere poteva essere possibile solo nel caso
si fosse premuta la pistola, prima di sparare, tanto da far penetrare un centimetro e mezzo abbondante di canna nella carne. In realtà è stato preso nel sonno, tirato fuori dal sacco a pelo in cui dormiva e 'suicidato' con una pistola di ordinanza (caso strano, il proiettile che l'ha ucciso non è stato ritrovato e durante l'operazione a un agente è 'esplosa' la canna di una 92S, senza ferirlo ma rendendo impossibile una perizia comparativa)» (21) . Forti dubbi su quello che è successo la mattina del 5 maggio 1982 in via Decio Mure sono espressi da un giornalista inglese, Philip Willan, che da vent'anni lavora in Italia: «L'operazione 'Terrore sui treni' fu seguita da un epilogo sinistro che vide ancora una volta l'eliminazione di testimoni scomodi». Anche Willan, un giornalista investigativo non sospettabile di connivenze con l'estrema destra, sottolinea il nesso tra depistaggio del SISMI, voci sull'arresto a marzo ed esito negativo del guanto di paraffina e ne trae le conclusioni: «Un eventuale arresto di Vale avrebbe certamente costituito un problema per il SISMI, dal momento che il terrorista avrebbe potuto facilmente smontare la versione dei servizi segreti sulla valigia e quindi sull'attentato di Bologna» (22). Non si spiega altrimenti tutto l'accanimento contro uno che è soltanto un buon gregario. «Vale», per Enrico Tomaselli «è una persona in gamba sul piano militare, abbastanza decisa. Era un buon quadro militare, non altrettanto sul piano politico: si è trovato ad essere il responsabile militare di T.P. per un periodo brevissimo, a cavallo del periodo in cui è entrato nel gruppo di Fioravanti. Avvertiva l'esigenza di essere comandato, è un fatto naturale. Se uno incontra qualcuno a cui riconosce l'autorità finisce con aggregarglisi. Così c'erano ragazzi che avevano in lui il punto di riferimento». Del suo semplicismo testimonia anche Sordi che riferisce un'agghiacciante scambio di battute: «Cosa ne facciamo di tutte queste armi?». E Vale, pronto: «Si daranno al momento opportuno alla gente che vorrà scendere in piazza con noi». «Vale», spiega Tomaselli, «si ritrova in alcuni momenti particolari, pur avendo coscienza critica di quello che viene fatto anche da lui. Sulla sua morte possono essere scattate due logiche, o quella del 'questi ci hanno ammazzati, rispondiamo colpo su colpo' oppure quella di esasperare i superstiti per beccarli più facilmente. Sapevano che Vale non era un pischello. Non ha mai pensato di sentirsi un capo, era uno discreto, di poche parole, non voleva atteggiarsi a quel che non era, non amava mettersi in mostra, era un po' prigioniero di se stesso. Il suo
carattere è così, si rende conto delle cose in cui si trova invischiato ma non ha la forza per tirarsene fuori. E' il caso di Arnesano ma anche di Mangiameli. Ha lo scrupolo morale di farlo avvertire che Valerio lo cerca per farlo fuori e poi non solo non si rifiuta di andarlo a prelevare sapendo che lo vogliono ammazzare, ma non rifiuta la pistola per dare il colpo di grazia» (23) . Il 5 maggio dell'82 è l'ultima tappa della maledizione che decima i NAR, ma la morte di Vale si intreccia con un'altra moria, che colpisce o sfiora gli avanguardisti accusati della strage di Bologna. La prima vittima (mancata) è Maurizio Bragaglia, il secondo di tre fratelli, tutti militanti neofascisti: il primo, Riccardo, leader della Balduina, arrestato dopo l'omicidio di Walter Rossi (24) e processato per l'attività della sezione; l'ultimo, Pierluigi, detto «Pippi», uno dei pischelli di Vigna Clara, fedelissimo di Nistri, fuggito all'estero nella primavera dell'82, è condannato per qualche rapina. Ma anche una leggenda tra i camerati romani, per una storia d'amore con una attrice famosa e bellissima, Eleonora Giorgi, ex di Lotta continua, cinque anni in più, non ancora signora Rizzoli. Maurizio è indicato in una velina stesa da Musumeci, numero due del SISMI, come il responsabile meridionale della banda armata di Delle Chiaie e responsabile dei rapporti tra T.P. e i gruppi stranieri autori della strage di Bologna. Una sera del gennaio del 1981, mentre sta per scattare l'operazione «Terrore sui treni», «un gruppo di poliziotti in borghese, con l'incarico di arrestarlo, lo attende sotto casa. Una Renault 5 simile a quella di Bragaglia arriva nella zona. Gli agenti aprono il fuoco senza intimare l'alt: una donna che si trova al volante muore sul colpo. Il rapporto parlerà di un incidente, uno scambio di persona avvenuto nel buio. Ma perché la polizia ha sparato per uccidere se l'ordine era quello di arrestare Bragaglia?» (25). Certo è che dopo l'incidente Bragaglia è retrocesso e il ruolo di «ministro degli esteri» è affidato a Vale, che è riconosciuto in foto dall'impiegata dell'agenzia di viaggi come l'acquirente dei biglietti: avendo connotati assai spiccati resta il dubbio se la signorina abbia subito pressioni per il riconoscimento o se, piuttosto, i depistatori si siano preoccupati, per verosimiglianza, di mandare un sosia a comprare i biglietti. Alle origini della scelta di Taranto come punto di partenza del carico di armi e di esplosivo c'è la soffiata di Volo, amico di Mangiameli e confidente dei servizi, che indica la casa di Gradoli come base per la liberazione di Concutelli. La sequenza cronologica è impressionante. Il 7 è uccisa la
signora sotto casa di Bragaglia, l'8 il giudice Sisti lancia l'allarme per il progetto di evasione, il 9 Musumeci consegna al collega Notarnicola un appunto sul trasporto di armi, che si vuol far credere organizzato da Fioravanti, Cavallini e Vale, il 10 è ritrovata la valigia . Per il sospetto di aver «venduto» Vale, Concutelli uccide in carcere Carmelo Palladino, imputato della strage. Anche in questo caso è lecito parlare di «esecuzione di Stato». Palladino - che per il tam tam del carcere ha gettato in pasto agli inquirenti che lo pressavano su Vale il nome di Sortino - è in isolamento a Ravenna: gli investigatori gli attribuiscono qualche ammissione e lo escludono dal circuito speciale per metterlo al sicuro dalla vendetta degli «irriducibili». Perché lo trasferiscono a Novara dove già un detenuto in odore di «infamia», Ermanno Buzzi, condannato per la strage di Brescia, è stato strangolato da Tuti e da Concutelli? Perché il direttore delle carceri, il piduista Ugo Sisti (nell'agosto '80 capo dell'ufficio istruzione di Bologna) dirà al processo della strage di ignorare i particolari del trasferimento, mentre al giudice di Novara aveva raccontato che aveva predisposto l'isolamento totale di Palladino? Negli stessi giorni un coimputato di Palladino, Maurizio Giorgi, un altro fedelissimo di Delle Chiaie, si ritrova in cella un trafficante di droga, Rudy Miorandi, informatore dei carabinieri. Ai giudici di Bologna racconta che Giorgi gli ha confidato di aver messo la bomba alla stazione. Miorandi è premiato con la libertà, nonostante i numerosi procedimenti in corso, e ottiene anche un permesso di colloquio con Giorgi. Gli offre di evadere, ma Giorgi rifiuta. Fosse stato un episodio isolato, si sarebbe potuto liquidare con la sua notoria mancanza di coraggio: di Giorgi offre un ritratto al vetriolo Vinciguerra, suo coinquilino a Buenos Aires nel 1977. Non gli ha evidentemente perdonato quella volta che lo abbandonò in un bar, quando si accorsero di essere pedinati dagli squadroni della morte del ministero della Marina, braccio armato dei golpisti, comandati dal boss della P2 argentina, l'ammiraglio Masera . Il fatto è che al centro del bersaglio è l'intero gruppo dirigente di A.N. e soprattutto Delle Chiaie. Nel secondo anniversario della strage scatta l'operazione «Pallmall» - dal nome delle sigarette fumate da «Caccola» - l'obiettivo è eliminare lui e il suo braccio destro in Bolivia, Pagliai. Ci provano prima col truffatore Elio Ciolini, un neofascista al soldo dei servizi segreti francesi, che dapprima depista le indagini sulla strage di Bologna inventandosi una triangolazione tra una superloggia massonica
di Montecarlo, operazioni finanziarie della Trilateral e A.N., poi si fa anticipare 20mila dollari e scompare. Ciolini è un «sòla», che si vende come esperto di «lavori sporchi». Alto, grassoccio, pochi capelli, quarant'anni trascorsi intensamente: ha vissuto a lungo in Francia - e infatti parla una strana neolingua - e in America Latina, dove ha sposato una peruviana e si vanta di avere una compagnia aerea. Dieci anni dopo tornerà alla ribalta. Nella primavera del '92, nelle convulse settimane che precedono le dimissioni di Cossiga, rivela un colossale piano eversivo che sarà poi definito dal presidente del Consiglio Andreotti una patacca. Anche questa volta Ciolini, detenuto a Sollicciano, ricama alla grande: i protagonisti sono uomini della CIA che avrebbero programmato da un'isola della Croazia una serie di omicidi eccellenti. Con un tocco geniale di fantasia perversa: poiché nelle settimane precedenti si sono verificati alcuni episodi di genitori uccisi senza pietà dai figli, il «pataccaro» si inventa che il piano eversivo prevedeva l'inquinamento di acquedotti con l'introduzione di sostanze che stimolano l'aggressività. Ciolini non è solo un «ballista» di genio: come la superloggia di Montecarlo sembra alludere a un'emanazione segreta della P2 che si è autonomizzata da Gelli, così la patacca del '92 anticipa di pochissimi giorni l'omicidio a Palermo di Salvo Lima . Dopo il «bidone» i servizi segreti si affidano alla malavita francese per catturare Delle Chiaie. Un componente del commando è però un vecchio amico e così «Caccola» è avvertito del progetto che prevede la sua cattura a La Paz, dove è consigliere della giunta militare come esperto di «guerra psicologica», e la scomparsa nelle acque del lago Titicaca. Negli stessi giorni è costruito un suo falso ingresso negli Stati Uniti. In questo depistaggio gioca un ruolo decisivo Pazienza, che è anche responsabile dell'operazione «Terrore sui treni». In un'intervista sull'attentato contro il papa getta là, quasi per caso, l'indiscrezione che Delle Chiaie è entrato a Miami con un turco, notizia che troverà riscontro nei registri della dogana. Chi si prende la briga di farsi registrare come S. Delle Chiaie proprio nei giorni in cui il vero Delle Chiaie (che ovviamente gira sotto falso nome) deve scomparire? Due mesi dopo un controgolpe organizzato dalla CIA porta alla deposizione dei narcogenerali. Mentre i consiglieri americani dirigono le operazioni un cargo militare italiano atterra a La Paz con 40 tra agenti e funzionari dell'UCIGOS e del SISDE. E' il 9 ottobre 1982. Il giorno dopo in un agguato a Santa Cruz della Sierra, è gravemente ferito Pagliai (è in
coma per un colpo alla nuca e paralizzato per una lesione al midollo spinale): l'operazione congiunta diventa ben presto un blitz dei soli "carabineros" locali. La versione ufficiale parla di un poliziotto boliviano che gli spara alla nuca, con una calibro 22, perché aveva fatto resistenza. Secondo «la Repubblica» Pagliai era sceso dall'auto con le mani in alto. A tradirlo è stato il capitano boliviano Larrea, con cui condivideva l'abitazione . Pagliai non aveva mai militato in A.N.: era un sambabilino coinvolto nella prima inchiesta sulla strage di Brescia. Nel autunno '73 (a diciannove anni) s'era iscritto all'Università di Parma prendendo una casa con Silvio Ferrari, il militante di Ordine nero che salta in aria il 19 maggio 1974 mentre trasporta un ordigno esplosivo. Subito dopo la tragedia Pagliai si precipita a Parma con Marco De Amici per asportare dall'appartamento un'intera cassa di materiale «pericoloso» (secondo la ragazza di De Amici, imputato per la strage, esplosivo in granelli e proiettili). Pagliai è un cattivo soggetto: implicato nel narcotraffico, schiaffeggiato da Delle Chiaie - lo racconta Vinciguerra (26) - per aver partecipato alla tortura di un oppositore, eppure la sua esecuzione sommaria è un episodio vergognoso. La mattina dell'11, nonostante le gravissime condizioni e il parere contrario dei medici, è caricato su un aereo e trasferito a Roma. A chiederne l'espulsione è direttamente l'ambasciatore americano a La Paz. A firmarlo un presidente e un ministro degli Interni non ancora formalmente in carica. Il titolare del Viminale, Rognoni, in quei giorni in visita negli Stati Uniti, sentitamente ringrazia. Pagliai non riprenderà mai conoscenza: morirà il 5 novembre, quinta vittima di una catena che anche questa volta vede tre morti (la vicina di casa di Bragaglia, Palladino e Pagliai) e due superstiti (Giorgi e Delle Chiaie). E finisce il giorno 5 . Non è però un altro ciclo cabalistico: se di maledizione si deve parlare in questo caso, è quella dei servizi segreti italiani, capaci in venticinque anni di stragi di qualsiasi sozzeria. La sola certezza e l'unico nesso reale che congiunge la prime fase dello stragismo (1969-1974: da piazza Fontana all'Italicus, finalità golpiste e anticomuniste e manovalanza fascista) e la seconda stagione (1980-1984: da Bologna al rapido 904, finalità oscura e manovalanza incerta) è il ruolo sistematico dei servizi segreti - dal capitano Labruna al maggiore Francavilla, accusato di favoreggiamento del boss Misso nell'inchiesta sulla strage di Natale nel lavoro di occultamento della verità e di assistenza ai terroristi e ai
criminali sospettati. I due neofascisti morti, in particolare, pesano sulla coscienza di Ciolini e di chi, senza nessun riscontro su quelle che erano a lume di naso evidenti fandonie, ha «comprato» le informazioni fasulle e le ha poi usate per accusare il gruppo dirigente di A.N. della strage. Al processo di Bologna il capo della polizia Parisi, nel 1980 vicedirettore del SISDE, smentisce la collaborazione di Ciolini e la trattativa per l'arresto di Delle Chiaie: «Chi si era interessato della cosa ancora una volta era il giudice Gentile [...] io non acconsentii [...] la questione fu passata al dott. Fragranza [un questore morto...] una truffa che a sua volta aveva ulteriormente perpetrato alla amministrazione Elio Ciolini» (27). Quanto alla cattura di Pagliai «l'operazione nostra si doveva svolgere in maniera assolutamente pulita e tale è stata l'azione della polizia italiana e del SISDE [...] l'operazione era guidata dal questore Fragranza» (28). Tra i responsabili della cattura di Pagliai, secondo Delle Chiaie e Tilgher, ci sarebbe stato anche Mario Fabbri. Del funzionario del SISDE processato per i rapporti con Abbruciati, i leader di A.N. sottolineano velenosamente la militanza giovanile in Caravella, il gruppo universitario neofascista da cui figlieranno la rigenerazione di A.N. e Lotta di popolo. A restare con il cerino in mano Delle Chiaie non ci sta. E, nell'arco di un trentennio vissuto pericolosamente, non ha mai perso l'occasione di rinfrescare la memoria ai tanti uomini del Palazzo che per diverse ragioni si sono avvalsi dei suoi servigi. Dall'inchiesta Salvini emergono numerosi incontri tra «Caccola» e Giorgio Almirante: in uno, la «primula nera» fa pressioni sul segretario del M.S.I. perché candidi il comandante Borghese a Reggio. Ma ritorna anche la diceria di un incontro a Madrid con Cossiga, ministro degli Interni nei governi di solidarietà nazionale, quindi almeno nel '76, quando già il regime franchista è in dissoluzione. Commemorando il ventesimo anniversario della strage di piazza Fontana, il presidente della Commissione parlamentare sulle stragi, Libero Gualtieri, ricorda che sono stati individuati almeno 40 casi di collusioni tra servizi segreti e terrorismo di estrema destra (29). Più di una generazione di comunisti rivoluzionari, a partire da quella del Sessantotto che aveva perduto l'innocenza la sera del 12 dicembre del '69, si era formata nella convinzione che «la strage è di Stato» e «Valpreda è innocente». Qualcuno, da Saverio Saltarelli agli anarchici ammazzati in un «incidente stradale» in Calabria, ha dato la vita per affermare quest'idea. Vent'anni dopo il repubblicano Gualtieri ha
riconosciuto che «la magistratura e la polizia si sono costantemente imbattute in uno sbarramento posto in essere da poteri istituzionali sufficientemente alti da permettersi di non ubbidire e sufficientemente forti da evitare ogni sanzione» (30) . NOTE . (1). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA sulla deposizione di Francesca Mambro al processo per l'omicidio Amato . (2). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA sulle dichiarazioni di Francesca Mambro in aula al processo di primo grado per la strage di Bologna, dopo l'arresto di Stefano Delle Chiaie in Venezuela . (3). Forte, "I processi...", cit., p. 243 . (4). Il primo «superteste» della strage di Bologna è un detenuto per stupro, Giorgio Farina, con un'autentica passione per le «sòle». Al numero due del SISDE, Silverio Russomanno, detenuto per la pubblicazione dei verbali del brigatista pentito Peci, racconta la sua storia sulla strage, accusando Furlotti che ben conosce perché lui fa il D.J. e la sua vittima il buttafuori. Torna alla ribalta della cronaca nel novembre del '93 quando è arrestato per una truffa miliardaria: vendeva ville fantasma sull'Appia incassando anticipi da 10 a 30 milioni dietro il paravento di quattro società immobiliari. Sono arrestati anche la sua compagna ventiseienne, l'amministratore delle società e l'addetta ai rapporti con i clienti. Le vittime della truffa sono duecento . (5). Flamini, "La banda...", cit., pp. 49-50 . (6). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA sull'udienza del primo appello sulla strage di Bologna in cui depone Sara Amico . (7). Laura Braghetti - Francesca Mambro, "Nel cerchio della prigione", Milano, Sperling & Kupfer, 1995, p.p. 136-38 . (8). Lettera a «il manifesto», dicembre 1987 . (9). Ibidem . (10). Conversazione dell'autore con garanzia di anonimato . (11). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA sull'udienza del processo di appello . (12). Ibidem . (13). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA sull'udienza finale del secondo processo di appello . (14). Giampiero Mughini, "Galeotto fu il quadro", «Panorama», 14 dicembre 1995 .
(15). Giovanni Biancone, "Mambro e Fioravanti, S.O.S. al Papa", «La Stampa», 3 febbraio 1996 . (16). Ibidem . (17). Ibidem . (18). Franco «Giorgio» Freda, "La disintegrazione del sistema", Padova, Edizioni di A.R., 1969, p. 26 . (19). Conversazione con l'autore con garanzia di anonimato . (20). Delle Chiaie - Tilgher, "Un meccanismo...", cit., p. 41 . (21). Conversazione con l'autore con garanzia di anonimato . (22). Philip Willan, "I burattinai", cit., pp. 180-81 . (23). Conversazione con l'autore, Napoli, agosto 1989 . (24). Delle Chiaie e Tilgher compiono un clamoroso lapsus freudiano nel loro libro, attribuendogli il coinvolgimento nell'omicidio di Paolo Rossi, lo studente ammazzato nell'aprile 1966 nel corso di un pestaggio a cui partecipa il gotha dello squadrismo romano. All'epoca la linea difensiva dei fascisti era stata che lo studente di sinistra era caduto per disgrazia sullo scalone della «Minerva».. . (25). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p. 401 . (26). Vinciguerra, "Ergastolo...", cit., p. 71 . (27). Delle Chiaie - Tilgher, "Un meccanismo...", cit., p. 187 . (28). Ibidem . (29). Willan, "I burattinai", cit., p.p. 180-81 . (30). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p. 142 . DAL GOLPE ALLA LOTTA ARMATA . Primavera 1975. Sulle truppe sparse della destra radicale, come trent'anni prima sulle milizie allo sbando della Repubblichina, soffia impietoso il vento del Nord. Ovunque il guardo giri, il militante nazionalrivoluzionario, il «soldato politico povero ma potente» ha poco da rallegrarsi. Vengono meno tutti i punti di riferimento e i supporti logistici e strategici. I servizi segreti americani squassati dallo scandalo Watergate e dal senso di colpa nazionale per la sporca guerra (e la disfatta in Vietnam), sono in posizione di stallo. Potenti lobby transnazionali - in particolare la Trilateral - sembrano sostenere nella periferia del dominio americano i processi democratici in atto. I regimi autoritari del Nord del Mediterraneo sono appena stati travolti (Portogallo e Grecia) dal fallimento di avventure neocoloniali o si avviano all'eutanasia (Spagna) per l'incapacità di riprodurre una classe
dirigente. Il disfacimento è in ugual misura prodotto di una dinamica interna e del mutato contesto internazionale . Per i nostri combattenti anticomunisti il colpo è durissimo. I rapporti con i servizi segreti americani, mediati dalle reti nazionali di sicurezza della NATO, sono saltati. La Grecia, prodiga di ospitalità e di aiuti durante il regime dei colonnelli, non esita a riconsegnare Massagrande, numero due del disciolto Ordine nuovo. Dagli archivi della polizia segreta portoghese, caduti nelle mani dei golpisti democratici, affluisce una messe di notizie sul personale politico e sugli intellettuali a mezzo servizio tra apparati di sicurezza Nato in Italia e PIDE, e sul ruolo dell'Aginter Press. Resiste ancora la Spagna, ma per i più svegli è evidente che - dopo l'esecuzione spettacolare di Carrero Blanco - il regime non sopravviverà a Franco. E comincia il lavoro per i nuovi padroni latinoamericani, retroterra scomodo ma più ricco e sicuro. Delle Chiaie, erede politico di Borghese, ha già incontrato Pinochet e prepara il grande salto. Anche in Italia le cose vanno male. Le ultime manovre golpiste hanno sfasciato la rete militante. Da una parte, sotto la pressione di un impetuoso movimento di massa, la magistratura perseguita sistematicamente i gruppi extraparlamentari. Dall'altra le bande armate sono liquidate o comunque scaricate dalle stesse forze che le avevano suscitate e variamente usate . In Veneto la rete ordinovista che si era perfettamente integrata nella struttura di sicurezza NATO è stata parzialmente disarticolata dall'inchiesta contro la Rosa dei venti, anche se l'intervento della Cassazione ha scongiurato il pericolo che si oltrepassi il livello operativo. E' caduto un personaggio come Spiazzi, anello intermedio della connection tra Difesa e O.N., ma l'inchiesta non sfiora Fachini che è l'agente di collegamento con il livello nazionale. Uno degli attendenti di Spiazzi, Roberto Cavallaro, un sindacalista che per alcuni mesi si è «travestito» impunemente da magistrato militare, è convinto di lavorare a un golpe organizzato da Andreotti e finanziato da Sindona (i fondi dell'industriale Piaggio furono messi a disposizione in un'agenzia svizzera del banchiere siciliano). Non di colpo di Stato si doveva parlare per Cavallaro ma di un colpo "dello" Stato (1). In Lombardia, l'inchiesta sul MAR mostra l'intreccio tra partigiani bianchi e avanguardisti neri, in un piano organico di destabilizzazione che ha qualche padrino nel Palazzo romano. Ordine nero, che ha velleità di banda autonoma, è controllato da Fumagalli - che ha lavorato per anni
nella controguerriglia della CIA - mediante alcuni agenti doppi. Il capo di Ordine nero, Giancarlo Esposti, gode della protezione di «Penna Nera» alias il colonnello Carmelo, un ufficiale che lo informa sui posti di blocco. Il giudice istruttore Arcai, che ha provato a identificarlo con il generale di polizia Giuseppe Musolino, fratello di un collega di Fumagalli alla Mercedes, è stato querelato. Gli ordinovisti coinvolti nell'inchiesta bolognese contro Ordine nero escono presto di scena: sarà così per Massagrande, socio di Spiazzi nella gestione di una palestra a Verona, per i fratelli Castori, militanti perugini, e soprattutto per il bolognese Luigi Falica, responsabile del circolo tradizionalista «Il retaggio», collaboratore della struttura di sicurezza atlantica, organizzatore per conto del SID del convegno nell'albergo di Cattolica (tappezzato di microfoni) in cui Ordine nuovo organizza il passaggio alla clandestinità . Il tentativo di Fumagalli di fondere vecchi partigiani (non solo bianchi: nel MAR c'è anche Giuseppe Picone Chiodo, fondatore della rivista socialista «Risveglio ossolano») e giovani terroristi neri con compiti di diga anticomunista non è originale. Era già stato teorizzato nel convegno dell'Istituto Pollio al Parco dei Principi (2), che nel maggio 1965 rappresenta il congresso di fondazione del partito del golpe (3), un partito non formale, di rigorosissima osservanza atlantica, che anticipò di dieci anni il berlingueriano «partito di lotta e di governo». Di lotta (anche armata) nei metodi, di governo nei fini e nei mezzi. Di suo Fumagalli ci mette una notevole spregiudicatezza, la stessa che durante la Resistenza gli aveva permesso, con i suoi Gufi, di taglieggiare gli ebrei in fuga verso la Svizzera e di finanziarsi imponendo tangenti ai contrabbandieri. Risale all'epoca, tramite un capitano degli alpini, comandante delle Brigate verdi in Valtellina, il rapporto con i servizi segreti americani. Le organizzazioni che afferiscono al MAR coprono un ampio spettro: dai transfughi di A.N. all'Associazione nazionale campeggiatori ed escursionisti; dai bombaroli delle Squadre armate Mussolini ai pacciardiani di Nuova repubblica. E poi banditi, exrepubblichini, massoni e legionari. E finanche qualche democristiano, come l'infiltrato Gianni Maifredi, dirigente di una sezione del Levante ligure e quadro della CISL (4). La stessa variegata composizione del convegno sulla guerra rivoluzionaria: missini, extraparlamentari, cattolici tradizionalisti, i gollisti di Nuova repubblica ma anche generali (uno sotto le mentite spoglie di docente universitario di Polemologia),
l'ex-ministro socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo e l'ex-direttore dell'«Unità», Renato Mieli, partigiano espulso dal P.C.I. nel 1958 . I protagonisti dei tentativi golpisti del 1974 - a ridosso dei quali avvengono le stragi di Brescia e dell'Italicus: e già nel '73 il fallito attentato di Azzi aveva fatto abortire un altro golpe (5) - sono gli "amerikani" Edgardo Sogno e Carlo Fumagalli, eroi della Resistenza, insigniti entrambi della «Bronze Star», massima onorificenza militare americana per stranieri. Fumagalli farà lo spiritoso ricordando che il p.m. Trovato, che persegue il MAR, era capitano a Salò. Spiazzi (6) tradito da un codice militare non restituito e usato come cifrario per le comunicazioni clandestine - è figlio di un generale badogliano, eletto deputato con la D.C. nel '48 e passato con i monarchici. All'uscita dal carcere si metterà a disposizione del SISDE per combattere l'eversione. La qualità delle informazioni fornite conferma il giudizio sarcastico di Tuti, che riteneva impossibile il golpe non per mancanza di volontà politica ma per imperizia delle membra (7). Anche nel gruppo padovano della Rosa dei venti, al fianco di reduci di Salò e ultrà neri come Rampazzo e Rizzato figurano personaggi di sicura fedeltà atlantica: è il caso di Dario Zagolin (la cui industria di cosmetici è considerata dalla Guardia di finanza un'attività di copertura). Gli sequestrano un archivio informativo: emergeranno poi rapporti con il colonnello Del Gaudio, comandante dei carabinieri di Padova, e con la FATSE di Vicenza. Il giudice Tamburino affida all'Arma la sua cattura, ma lo «spione» riesce a fuggire. Alla testa dell'Ufficio guerra psicologica del comando NATO era stato fino all'anno prima il generale Nardella, che si sottrae all'arresto scappando in Olanda. Nella sua biografia - forte dei ripetuti omaggi di un Cossiga scatenato nella difesa di Gladio e dei pasdaran atlantisti - Sogno si toglie lo sfizio di irridere l'attuale presidente della Camera, l'ex-giudice Violante, che ne aveva ordinato l'arresto (8). Del resto, il programma del MAR, fondandosi sul binomio bipolarismo-repubblica presidenziale, anticipava puntualmente gli attuali temi istituzionali . In sede processuale, però, le imputazioni politiche (la cospirazione, l'insurrezione) cadranno e la Corte avrà la mano pesante solo per i reati comuni, il sequestro Cannavale, le rapine. Fumagalli è condannato a 20 anni mentre sono assolti i «servitori dello Stato»: il capitano del SID D'Ovidio, suo padre, procuratore della Repubblica di Lanciano, il vicequestore di Brescia, Purificato. Anche i neonazisti della Fenice (un
piede nel M.S.I., uno in O.N., tutti e due nell'organizzazione atlantica e nelle trame stragiste) hanno rapporti organici con i carabinieri che forniscono - racconterà Vinciguerra - le tute mimetiche usate per le esercitazioni. Quella del MAR è la prima di una serie di sentenze scandalose (golpe Borghese, Rosa dei venti, riorganizzazione di O.N., A.N., Ordine nero) che alla fine degli anni Settanta (nel clima di emergenza creato dall'offensiva brigatista) negheranno sul piano giudiziario l'evidenza storica di cinque anni di trame golpiste, attentati, stragi e complotti. Il progetto di Sogno escludeva il ricorso alla manovalanza fascista (limitato forse alla fase dell'innesco: la strage dell'Italicus), anzi - pur riciclando alcuni elementi operativi dei precedenti tentativi del Fronte nazionale di Borghese - puntava a qualificarsi come un'operazione rigorosamente centrista, mediante la messa fuorilegge del M.S.I. e dei gruppi extraparlamentari di destra e di sinistra. Obiettivo fallito per un evento assolutamente imprevedibile: le dimissioni, l'8 agosto, del presidente americano Richard Nixon, sponsor dell'operazione, per lo scandalo Watergate (9) . In Emilia Romagna la protezione del SID frena ma non scongiura l'inchiesta sul convegno di Cattolica. Per i giudici che indagano sulle trame nere lì si definisce la saldatura organizzativa tra il disciolto Ordine nuovo e il neonato Ordine nero, fondato a Milano da transfughi avanguardisti e militanti delle SAM. Ipotesi abortita nel corso dell'inchiesta: perché i raccordi e gli snodi tra le diverse bande non erano interni ai gruppi operativi ma si collocavano nella zona grigia, organica agli apparati di sicurezza e alle agenzie del controllo, che godeva di una sostanziale garanzia d'impunità. In Piemonte gli ordinovisti per un'attività paramilitare che è sempre stata vissuta come socialità dopolavoristica sono perseguiti sulla base di rivelazioni di un inquietante personaggio, l'avanguardista Paolo Pecoriello, noto come confidente di polizia. Del carattere ambiguo dei campi paramilitari di Ordine nuovo c'è precisa traccia nel processo contro Graziani e i dirigenti del M.P.O.N. (10). In Toscana il tessuto militante è esteso in numerose province e si avvale delle più variegate protezioni e solidarietà: missini e massoni, 007 e generali di polizia danno una mano alle teste calde. Anche dopo le stragi continuano i sabotaggi delle linee ferroviarie. Ed è solo una soffiata, agli inizi del '75, che fa scoprire un gruppo particolarmente attivo e pericoloso, che finirà per rappresentare, nella figura del suo leader, il punto di rottura tra la vecchia guardia del
golpe e delle trame e la generazione della «lotta armata» contro il sistema. La superficialità con cui è perquisita la casa di Mario Tuti, il capobanda sotto controllo da giorni, provoca la morte di due agenti e la nascita della leggenda. Per una nuova generazione di militanti Tuti sarà non più l'ultimo bombarolo, ma il primo combattente che ha preso le armi per scendere sul terreno della guerra allo Stato. E' stato più abile Cauchi (11), il capobanda toscano, a dileguarsi giusto in tempo: il minimo per un confidente del SID. Al di là degli esiti processuali, che vedono Tuti e camerati assolti per la strage dell'Italicus, i commissari parlamentari affermano che la loggia P2 era «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale: e ciò in incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie dell'istituto». In questo quadro gli imputati sarebbero stati «istigati, armati e finanziati dalla massoneria, che dell'eversione di destra si sarebbe avvalsa nell'ambito della cosiddetta 'strategia della tensione'» (12). Il giudizio storico del presidente Tina Anselmi travalica senza sfumature le conclusioni processuali (13). Altrettanto rilevante sarà per i militanti della cellula nera il rapporto diretto con il M.S.I.: «Le persone accusate di avere fatto parte di Ordine nero (Cauchi, Batani, Donati, Rossi, eccetera) operavano stando all'interno del partito, dal quale ricevevano denaro e protezione per il tramite del federale di Arezzo e difensore di alcuni, avvocato Oreste Ghinelli» (14). La trama delle protezioni ha continuato a funzionare e le attenzioni degli inquirenti si sono concentrate sui settori più autonomi e meno compromessi negli intrecci col potere. Il diverso trattamento riservato a Cauchi e a Tuti è emblematico. Cauchi, latitante, si rifugerà in Spagna dove si distinguerà negli scontri di Montejurra e in azioni di controguerriglia nei convulsi mesi della transizione postfranchista. E' tra gli ordinovisti che si arruolano con Delle Chiaie: fermato e subito rilasciato a Barcellona, seguirà «Caccola» in America Latina, dove si rifarà la vita, con una compagna che gli darà due figli. Arrestato nel '93, le autorità argentine negheranno l'estradizione per la natura politica dei reati. E lui farà il gradasso, dichiarandosi disponibile a collaborare . A mettere nei guai Tuti è la soffiata di un dipendente di Gelli, impiegato della Lebole di Arezzo, Maurizio Del Dottore: «Ho sempre avuto la passione per le indagini e così quando il maresciallo [...] dei carabinieri del nucleo investigativo di Arezzo mi chiese di collaborare con lui, lo feci di buon grado e sarei stato sul punto di fornirgli
informazioni sul conto di Luciano Franci. Fui convocato in Questura, fornii tutte le informazioni in mio servizio che permisero di ritrovare gli esplosivi che Franci aveva occultato nella chiesetta abbandonata» (15). Al processo la passione per le indagini si è affievolita e Del Dottore subisce un breve arresto per reticenza. Il soggiorno alle celle di sicurezza gli fa passare la paura di essere considerato una spia dai camerati e gli rinfresca la memoria. La caduta dell'arsenale del F.N.R. e l'arresto dei bombaroli Franci e Malentacchi impediscono un attentato contro la Camera di commercio di Arezzo. Segue la perquisizione a casa Tuti che si conclude con un massacro. Evidentemente la cellula nera del geometra di Empoli, proseguendo la campagna contro la sicurezza dei trasporti (dopo attentati alla ferrovia a Vernio e in provincia di Arezzo era in programma un dirottamento aereo) si era dimostrata refrattaria agli ordini di rientrare nei ranghi. Dopo il fallimento dei progetti golpisti, gli sponsor politici non avevano interesse a mantenere alta la tensione col terrorismo nero. Gli sparsi nuclei operativi del partito armato del golpe non hanno tutti la stessa prontezza di riflessi. Le campagne terroristiche si trascinano stancamente in alcune realtà periferiche (16) . Intanto Tuti, latitante scomodo, si rende conto di essere stato mollato. La sua fuga finisce in Costa azzurra dopo sei mesi: «venduto» dal camerata Mennucci, è ridotto in fin di vita in un'operazione di polizia che sembra un tiro al bersaglio. In mezzo c'è una latitanza precaria, con i camerati che lo scaricano sistematicamente (il dirigente toscano di O.N., Mauro Tomei, gli promette soldi e documenti che non arrivano mai) o cercano di specularci sopra (Affatigato che lo ha ospitato a Lucca vende le sue foto e un memoriale fasullo alla stampa). Il fucile della strage è abbandonato al deposito bagagli della stazione di Firenze: per dormire è costretto a girare mezz'Italia in treno. Ai «bischeri e bischeroni» che l'hanno mollato giura vendetta. Invia una memoria difensiva alla procura di Firenze in cui accusa Peppino «l'Impresario» (l'ex-marò Pugliese, affittuario della villa in Corsica in cui ripara Graziani) di non avere onorato gli impegni, causandone l'arresto. Vinciguerra racconterà poi che «l'Impresario» ha fatto parte del manipolo fascista che il 18 aprile 1948, su richiesta di De Gasperi, presidiò, dietro una mitragliatrice, la sede D.C. di piazza del Gesù, per scongiurare eventuali assalti dei socialcomunisti dopo l'esito delle elezioni .
Tuti decide di ammazzare Tomei: «Sapevo che era a Bastia», racconterà al processo per l'Italicus, «mi comprai un fucile e progettai una bella vendetta corsa. Poi, dovetti rinunciare. Ma gli infami che non conoscete sono tanti. Li conoscerete a posteriori, domani o fra dieci anni» (17). E approfitta dell'occasione per fornire un primo elenco, annunciando «dure rese di conti per Pecoriello, Tomei, Mennucci [sarà ucciso sette mesi dopo da un commando dei NAR], Sanna, Brogi, Cesca e per tanti altri che non nomino perché altrimenti vi mettete e li mettete in allarme». Per l'unico effettivamente colpito, Mennucci, la Corte d'assise di Pisa escluderà la sua responsabilità come mandante. In realtà l'atteggiamento di Tuti - isolato in carcere, l'F.N.R. distrutto («Il nostro era un ambiente inquinato, c'era gente che faceva il doppio gioco, infiltrati, scartine») (18) - è stato a lungo simile a quello di chi grida di notte nel bosco per farsi coraggio: in carcere in Francia era giunto ad attribuirsi la mancata strage di Incisa Valdarno (il 12 aprile 1975 un'esplosione trancia due metri e mezzo di binario ma il treno non deraglia pur passando a tutta velocità) per avallare una posizione di forza inesistente (19). Partiva dal presupposto che la Francia non estradava i terroristi baschi: il dato era esatto, ma il motivo ipotizzato (riconoscimento della forza politico-militare dell'ETA) no. Per il governo francese la Spagna di Franco semplicemente non era la stessa cosa dell'Italia. La mancata strage, che aveva avuto l'effetto di imporre, col beneplacito della sinistra, l'uso dell'esercito in compiti di ordine pubblico, a presidiare linee ferroviarie ed elettriche, condizionerà a lungo la posizione di Tuti, che si presenterà al processo per l'Italicus con una condanna (Terontola) e un rinvio a giudizio (Incisa Valdarno) per strage per attentati contro i treni. E anche l'immagine pubblica: un duplice omicida ha comunque diritto a essere riprovato per quel che effettivamente ha fatto) (20). Anche quando l'assoluzione per l'Italicus gli risparmia il marchio di stragista, Tuti continua a battersi disperatamente per fugare il sospetto di partecipazione anche solo al disegno strategico e agli atti preparatori: «Proprio le molteplici infiltrazioni del nostro gruppo», precisa accoratamente, «(Affatigato per conto di O.N., Del Dottore per conto della Questura...), sia con le loro vere e proprie istigazioni e poi con le loro abbondanti dichiarazioni processuali (largamente integrate dal «contributo» di parecchi dei membri del gruppo...) conferma in pieno l'assoluta mancanza di una qualsiasi volontà e programma stragista... per non parlare dell'assoluta
incapacità a 'reggere' alle inevitabili conseguenze di un simile misfatto... E lo stesso volantino di rivendicazione di quello che doveva essere l'ultimo attentato della serie, l'ultimo gradino dell'escalation, l'attentato notturno alla Camera di Commercio di Arezzo per farne andare in frantumi le vetrate, mi pare confermi in pieno la nostra precisa volontà di fare semplici gesti dimostrativi» (21). Tuti - che i suoi ergastoli (per i due poliziotti uccisi) se li sarebbe presi - ha qualche ragione di denunciare le caratteristiche di giustizia sommaria dei primi processi contro il terrorismo nero (22). Per inciso, pur avendo già trascorso ben 26 anni in carcere (quasi tutto «speciale»), Tuti rimane l'unico detenuto politico italiano che, pur avendoli più volte chiesti, non ha mai ottenuto i benefici carcerari . La grande repressione del '74-'75 lascia sostanzialmente integra la rete militante a Roma e nei centri del Sud, dove gli ultrà neri hanno un forte radicamento sociale e rapporti consolidati con strutture e soggetti della criminalità organizzata. Questa realtà favorisce la pratica della violenza e dell'illegalità ma non il passaggio esplicito al terrorismo. E' proprio dal Sud che partirà il tentativo di riscossa della destra nazionalrivoluzionaria. E' ancor oggi opinione corrente - in assenza di una verità giudiziaria - che le stragi del '74 siano state il prodotto di un sordo scontro all'interno del partito del golpe, colpi di coda disperati dell'ala radicale che si sentiva franare il terreno sotto i piedi. In realtà i militanti neofascisti, da sempre subalterni agli apparati di sicurezza, pagano il prezzo di una svolta a sinistra in cui confluiscono spinte interne e tendenze internazionali. Ha facile gioco, vent'anni dopo, Vinciguerra a liquidare le velleità golpiste dell'estrema destra come ineffettuali, subalterne ed eterodirette (23). Rincara la dose Tuti, che pur è andato a dormire nei boschi per paura del golpe bianco, esperienza narrata in un articolo per «Quex» e usata dal p.m. nel relativo processo stravolgendo il punto di vista dichiarato dell'autore: «Malgrado l'autorità che per me aveva allora la carta stampata, il ripetuto allarmismo dei compagni [sul pericolo golpista] veniva a contrastare con la mia stessa recente esperienza militare. Nel fatidico '68 ero stato sottotenente di complemento al quartier generale della divisione corazzata Centomo, a Novara, e mi ero potuto ben rendere conto sia del bassissimo livello operativo di quella che pur era la seconda divisione dell'esercito e soprattutto dello spirito piccoloborghese, legalitario e carrieristico della casta degli ufficiali, spaventati
più che avversi ad ogni ipotesi di uscire dal loro tranquillo tran-tran» (24) . Le acquisizioni su Stay behind e le reti di sicurezza anticomunista confermano con ricchezza di particolari l'esistenza di un disegno strategico unitario di «stabilizzazione atlantica», al quale era funzionale la «minaccia» del golpe, che pesò per più di un decennio: dalla narcotizzazione del centrosinistra con il primo scintillio di sciabole al riflesso condizionato del P.C.I. di chiedere sempre meno e dare sempre più di quanto il mercato politico effettivamente offrisse. Questo disegno di stabilizzazione si è espresso in modo articolato. Per il periodo 1974'75 è lecito parlare di una «svolta a sinistra» in cui, paradossalmente, il «destro» Andreotti anticipa il «sinistro» Moro, una svolta che non è prodotto dell'autonomia della politica ma ha precise basi materiali. Con la crisi del "kippur" - il boom dei prezzi petroliferi dopo la guerra arabo-israeliana dell'autunno '73 - il grande capitale sceglie di cogestire con i sindacati una ristrutturazione selvaggia dell'apparato produttivo con il duplice scopo di ricostruire la rete di comando in fabbrica contro l'insorgenza dell'autonomia operaia, e di ristabilire margini di profitto e di produttività adeguati alla più dura concorrenza internazionale . L'esito del referendum del divorzio liquida le velleità della destra D.C. di regolare i conti con la sinistra e la conflittualità operaia per via autoritaria, e Andreotti, che in precedenza era stato l'espressione più lucida di questo disegno, balza sul cavallo dell'antifascismo e scarica col consueto cinismo i suoi uomini compromessi nelle trame nere sull'altare della nascente solidarietà nazionale. Meno ingeneroso sarà invece Moro, che già aveva coperto le attività eversive del comandante dei carabinieri De Lorenzo, imponendo centinaia di omissis alle conclusioni delle commissioni d'inchiesta sulle schedature illegali del SIFAR e sul Piano Solo e che aveva poi sostenuto il generale Miceli nello scontro per il controllo del SID. La faida - che contrappone i due cavalli di razza della D.C., nel quadro di una generale resa dei conti nell'apparato di sicurezza atlantica - si concluderà con la disfatta di entrambi i leader delle fazioni del servizio segreto. Ad esprimere le posizioni innovative (quelle dei servizi segreti tedeschi, israeliani e della minoranza della CIA che vogliono liquidare la fase «golpista» e il potenziamento della destra in funzione di stabilizzazione del Nord del Mediterraneo) sono Andreotti e il suo pupillo Maletti, mentre Moro appoggia con Miceli le posizioni maggioritarie nella CIA. Piuttosto che
alla tradizionale bipartizione tra «ortodossia atlantica» e «rinnovamento europeista», che ha diviso i vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza, a definire le posizioni è la situazione geopolitica nel Mediterraneo. Israele ha interesse a destabilizzare il fronte Sud della NATO per rendersi indispensabile agli USA mentre il complesso militare-industriale italiano vuole incrementare i rapporti con il mondo arabo (e non solo per le forniture di petrolio). In una prima fase l'iniziativa è di Andreotti: con la denuncia delle coperture offerte a Giannettini, i dossier sul golpe Borghese e la destituzione di Miceli colpisce duro ma la fazione opposta si riorganizza rapidamente. A novembre l'ala più intransigente del partito «americano», il P.S.D.I. di Tanassi, apre la crisi di governo per togliere ad Andreotti la Difesa (sarà relegato al Bilancio). Il successore, Forlani, che nel novembre 1972 aveva ambiguamente denunciato i preparativi golpisti, riequilibra i rapporti di forza silurando Maletti e rende possibile una tregua armata fondata sulla liquidazione delle componenti golpiste . Miceli, come già De Lorenzo, eletto alla Camera con i monarchici e poi confluito nella Destra nazionale, non sarà scaricato. Anche per lui c'è un seggio con il M.S.I. La scelta di flirtare con i protagonisti della stagione golpista solo più tardi sarà criticata apertamente, da Beppe Niccolai, esponente solitario dell'ultima opposizione ad Almirante: «Bisogna andare molto indietro nel tempo, a quando in parecchi, all'interno del M.S.I., corteggiavano le forze armate, senza comprendere che le stesse erano ormai inserite nel sistema, anzi ne facevano parte integrante. Quando dico forze armate, intendo riferirmi ai vertici, ai servizi segreti, coinvolti fino al collo nelle stragi fin da piazza Fontana. Noi, purtroppo, e non soltanto noi, dato che le forze armate esercitavano un forte richiamo anche per chi non stava fuori dal M.S.I., siamo caduti nei loro tranelli, ci siamo lasciati invischiare nei loro torbidi giochi che, di volta in volta, favorivano solo gli uomini di regime [...]. Ci accusarono di essere dei golpisti, degli stragisti, di tenere collegamenti occulti con le forze più retrive del paese. Il M.S.I. era estraneo a tutto ciò, ma noi sbagliammo quando aprimmo le nostre porte ai De Lorenzo, ai Miceli» (25). Anche nel M.S.I. la storia si ripete in farsa. Vent'anni dopo tra i protagonisti della rifondazione fascista c'è il generale Ambrogio Viviani, ex-responsabile del controspionaggio caduto in disgrazia per le posizioni filolibiche, eletto deputato con i radicali, passato rapidamente al gruppo misto (26) .
La svolta antifascista per l'ambiente militante della destra radicale è terribile. Cresciuti nelle anticamere del Viminale e degli uffici dello Stato maggiore, abituati a frequentazioni affettuose con i servizi segreti e gli uffici politici della questura e ad ampie coperture giudiziarie e poliziesche, ordinovisti e avanguardisti si trovano con le spalle al muro. Centinaia di arresti, una crescente pressione dell'antifascismo militante, sempre più violento ed efficiente, che crea frustrazione e senso d'impotenza nelle residue file militanti, inchieste giudiziarie contro i gruppi extraparlamentari e lo stesso M.S.I., i referenti nell'apparato dello Stato che si rivoltano contro. Le schegge centrifugano. La pesantezza della repressione in quegli anni è confermata da una statistica del Viminale. Nell'ottobre '77 - alla fine di un anno in cui la violenza della «piazza rossa» e delle bande del partito armato l'avevano fatta da padrone - c'erano 300 detenuti di destra (e 82 latitanti) contro 288 di sinistra (148 brigatisti 126 nappisti e 14 di Prima linea) e 35 latitanti. Per i terroristi neri ci sono 25 accuse di strage, 16 di omicidio, 7 di sequestro di persona, 17 di attentati dinamitardi, 8 di rapine e altro . Murelli, polemizzando con chi, come Tarchi, ha partecipato alle vicende della destra radicale per poi «chiamarsi fuori» non solo dai suoi esiti più tragici ma dalla stessa dichiarazione d'appartenenza, offre una testimonianza attendibile proprio perché non condizionata da implicazioni giudiziarie. Murelli parte da San Babila: «Non bisogna nasconderselo. La contiguità con la malavita (quella delle bische, per esempio) che gravitava attorno alla stessa piazza è forte. L'eterogeneità portata alle estreme conseguenze. C'è al contempo promiscuità e salvaguardia d'identità, insieme a tentativi, anche farseschi, di darsene di nuove. Caratteristica comune è comunque una forma di ribellismo e d'intolleranza verso le regole della vita borghese. Sono decine e decine le persone che fanno la spola tra gli ambienti di San Babila e le sezioni del partito di Milano e Lombardia, determinando così una sorta di mutazione genetica irreversibile del militante. Ed essendo un centro di non poco conto, da Milano si irradiano per tutta la nazione nuove figure di militante, assolutamente avveniristiche rispetto a quelle in auge ancora verso la fine degli anni '60 [...]. Si pensi al caso estremo per cui negli ambienti di San Babila e in quelli dei Parioli (che facevano tendenza) comincia a girare la droga 'nobile' (cocaina) contrapposta alla droga 'plebea' usata a sinistra (erba, anfetamine). C'è insomma, evidente, un fermento ribellistico che negli aspetti degenerati tende a
scivolare verso forme di nichilismo spurio» (27). Si diffonde nella destra radicale una vulgata evoliana che è una rozza elaborazione della sconfitta con evidenti scopi di razionalizzazione e di risarcimento. «L'impatto di questo testo ["Cavalcare la tigre"]», osserva Murelli, «sull'ambiente è tremendo. Chi non possiede una sufficiente conoscenza del pensiero evoliano o lo assume come una delle prime letture ne dà un'interpretazione sconvolgente: avviene così che le sedimentazioni ai margini dell'ambiente determinino il formarsi di nuovi militanti extraparlamentari particolarmente discutibili ma pur sempre in grado di contaminare l'ambiente» (28). Questa «cattiva lettura» metterà mano a due esiti diametralmente opposti, le cui traiettorie torneranno a intersecarsi con le vicende dei gruppi militanti. Si coniuga una lettura deterministica della teoria dei cicli (siamo in pieno Kali-Yuga e quindi è inevitabile il dominio delle forze demoniche e telluriche) e un'interpretazione anarchica del discorso delle vie di realizzazione e dell'equazione personale. Le due sintesi opposte saranno accomunate da un altissimo grado di autoreferenzialità. Da una parte darà vita a una nuova generazione di «maghetti», di cultori dell'esoterismo e delle pratiche misteriche che si frantumerà in una congerie di sette e conventicole sapienzali, spesso in conflitto tra loro, che pensano di risolvere lo scontro con le trionfanti forze del Male attraverso l'esercizio di attività magiche. Dall'altra forgerà una leva di «anarchi» che risolvono il conflitto col mondo mercantile-borghese nella pratica quotidiana della libertà sfrenata: uso dilagante di droghe, esercizio dell'illegalità e della violenza, intreccio nel vissuto e nelle attività con la malavita. Mentre nel primo caso siamo nel campo delle ipotesi e del retroterra culturale - l'intreccio tra pratiche sataniche e stragismo - nel secondo esistono fili da riannodare per dare il senso di alcune traiettorie e di inquietanti contiguità. Certo è che a metà degli anni Settanta, nell'estrema destra, dilagano pratiche che seppure non direttamente riconducibili alla sfera del satanismo sono segnate da un tasso di violenza abnorme . NOTE. (1). «Spiazzi mi disse»», dichiarò ai giudici Cavallaro, che tornerà alla ribalta con il caso Gladio, «che il colpo era rientrato perché aveva avuto il sospetto che Andreotti avrebbe dato un colpo a destra e un colpo a sinistra, impadronendosi del potere senza spartirlo. Spiazzi disse testualmente che il gobbo stava per fare un colpo gobbo»
(confronta "Servizi segreti", a cura di Pietro Calderoni, Napoli, Tullio Pironti, 1986, p. 70). A ulteriore conferma c'è la significativa distrazione del finanziatore, il manager genovese Lercari che, scappando in Svizzera per evitare l'arresto, dimentica a casa una borsa con le ricevute degli assegni versati per conto delle industrie saccarifere a D.C. e P.S.I . (2). Willan, "I burattinai...", cit., p. 49 . (3). «Un partito golpista e tramaiolo che nel corso degli anni cambierà adepti e fisionomia, alleanze ed equilibri interni, ma che ancora oggi larvatamente sopravvive, fatto di più anime, alimentato da complicità internazionali, tutto teso a stabilizzare il potere italiano costantemente verso il centro» (confronta Provvisionato, "I misteri...", cit., p. 74) . (4). Emilio Taviani, il ministro genovese leader dei partigiani bianchi, si affannerà a dichiarare che lui non conosceva l'infiltrato Maifredi. Sull'intransigente antifascismo dell'eroe della Resistenza - oltre che della sua inossidabile fedeltà atlantica: Taviani è il «padre» di Gladio nessun militante della destra radicale aveva dubbi. Basta ricordare l'orgoglio con cui rivendicò la decisione, presa autonomamente come ministro degli Interni, di sciogliere Ordine nuovo subito dopo la condanna di primo grado per ricostruzione del partito fascista: «Con un atto politico», dichiarò un anno dopo, il 27 ottobre 1974, a un congresso partigiano, «sanzionato dal consiglio dei ministri, sciolsi Ordine nuovo. Atto politico: perché i giuristi discutevano se la sentenza del Tribunale, non essendo definitiva, fosse sufficiente presupposto dell'atto governativo. Poi impiegarono giorni e giorni per decidere che l'atto era valido» (confronta Forte, "I processi...", cit., p. 67) . (5). Il 7 aprile 1973 Nico Azzi, del gruppo Fenice, nel predisporre un ordigno nel bagno di un vagone del Torino-Savona sposta il timer e fa esplodere il detonatore restando gravemente ferito. L'attentato doveva essere attribuito a Lotta continua, il cui giornale il terrorista aveva ostentato prima di ritirarsi per preparare la bomba. Arrestato confessa che lo scopo dell'attentato era suscitare un'ondata di terrore per provocare l'intervento dei militari, e rivendica la militanza nel M.S.I. Cinque giorni dopo sarà una granata da lui fornita a uccidere l'agente Marino negli scontri di piazza per il corteo vietato al M.S.I. Per la mancata strage saranno condannati quattro militanti della Fenice: il leader Giancarlo Rognoni (15 anni), Nico Azzi, Mauro Marzorati e Francesco De Min (13 anni). Dai processi in corso emergono le
frequentazioni tra il gruppo e quadri intermedi delle Forze armate e il ruolo operativo dei suoi militanti in numerosi attentati eseguiti in Veneto . (6). La carriera militare di Spiazzi junior è ben caratterizzata: partecipa a corsi di arditismo, svolge attività di controguerriglia in Alto Adige e dirige strutture informative nel Corpo di appartenenza. Militante monarchico, anima il circolo tradizionalista «Carlo Magno». Rivendica con orgoglio la legittimità delle sue attività, dicendosi vittima dello scontro interno all'esercito tra atlantici ortodossi e nazionalisti «europei», prolungamento della frattura prodotta ai vertici delle Forze armate dalla faida Aloja-De Lorenzo che si manifesterà anche nel cruento regolamento di conti tra Miceli e Maletti. La condanna all'ergastolo per la strage alla questura di Milano afferma invece il diretto coinvolgimento della struttura di sicurezza NATO nella strategia del terrore . (7). Resta la circostanza inquietante che la sua «soffiata» sui NAR anticipi di sei giorni la strage di Bologna. Il presunto viaggio a Roma alla metà di luglio, nel corso del quale Spiazzi avrebbe incontrato un fantomatico «Ciccio», capo dei NAR, va retrodatato al novembre '79: ne esce rafforzato il sospetto che apparati statali e internazionali si siano messi al lavoro, dopo la strage di Ustica, per coprire le responsabilità del disastro . (8). «In seguito alla perquisizione in casa di Edgardo Sogno, il Violante è venuto in possesso di un documento importante ai fini dell'indagine e assolutamente in contrasto con la tesi del collegamento tra i partigiani di tendenze liberali e gruppi antidemocratici totalitari di estrema destra. Si tratta della copia di una dichiarazione non firmata con la quale i componenti di un gruppo di ex-partigiani democratici, ufficiali dell'esercito italiano, si impegnano sul proprio onore a riprendere la resistenza nel caso in cui Italia dovesse cadere sotto un regime totalitario antidemocratico di destra o di sinistra [...] e ad agire militarmente in linea prioritaria immediata contro quegli esponenti dei partiti democratici che si rendano colpevoli di collaborare con un regime antidemocratico e totalitario [...]. La prima notizia configura quanto meno l'esistenza di una banda armata; motivo più che sufficiente per emettere subito un mandato di cattura nei confronti di Sogno. Ma un'iniziativa così clamorosa renderebbe nota all'opinione pubblica l'ostilità di Sogno e dei suoi amici non solo all'eversione di sinistra, ma
anche a quella di destra, facendo crollare la montatura che l'ha dipinto come un golpista fascista. Meglio quindi far finta di niente» (cit. in Luciano Garibaldi, "L'altro italiano", Milano, Ares, 1992, p. 296) . (9). Il piano era stato messo a punto da Luigi Cavallo, tecnico della disinformazione, anticomunista di professione (al soldo di FIAT e NATO) ma non sospettabile di compromissioni neofasciste: un "Blitzkrieg" da compiere a Ferragosto, a fabbriche chiuse, per debellare la resistenza delle roccaforti operaie, convincendo (anche con la forza) il presidente Leone a designare l'eroe (antifascista) della guerra di Spagna Pacciardi alla testa del governo evitando di mandare i carrarmati in piazza. Obiettivo del colpo di Stato centrista l'instaurazione di una repubblica presidenziale filo-atlantica . (10). Nel giugno 1970 una lettera del direttivo del M.P.O.N. fornisce i dettagli organizzativi dei corsi estivi. Sveglia alle 6. Esercizi d'autodifesa, ginnastica e karate fino alle 8. Dopo la colazione, dalle 8.30 alle 12 passeggiate in montagna ed esercizi vari. Dopo pranzo ancora karate e autodifesa, discussioni e lezioni politiche (con un dettagliato programma che va dalla teoria della guerra rivoluzionaria all'organizzazione di un gruppo operativo rivoluzionario). La sera è dedicata alla socialità con canti e bevute intorno ai fuochi da campo . (11). Augusto Cauchi, studi al liceo militare della Nunziatella a Napoli, genero di un generale di polizia, frequenta Gelli e il capoposto toscano del SID, il colonnello Mennucci Benincasa che è oggi sotto processo per i depistaggi sulle stragi di Ustica e di Bologna: poco prima di scappare all'estero si incontra con l'ufficiale per una lunga conversazione. La moglie Alessandra De Bellis riferirà che lui le aveva anticipato la strage dell'Italicus. La chiuderanno in manicomio . (12). Willan, "I burattinai...", cit., p. 73 . (13). Una strage senza colpevoli per Tina Anselmi è «ascrivibile a un'organizzazione terroristica toscana nella quale la P2 compì opera d'istigazione, concedendo finanziamenti: la loggia P2 è pesantemente coinvolta nella strage dell'Italicus e può ritenersi responsabile in termini non giuridici, ma storici, politici della sovversione nera quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale» (cit. in Baldoni Provvisionato, "La notte...", cit., p. 142) . (14). Atti dell'inchiesta del giudice istruttore di Bologna, dottor Vito Zincani (cit. in Flamini, "Il partito...", cit., vol. 4, 1, p. 269) . (15). Ivi, p. 22 .
(16). A febbraio, in meno di due settimane, sono compiuti undici attentati su obiettivi indiscriminati a Viareggio, mentre Tuti è a un tiro di schioppo, in Lucchesia. I carabinieri arrestano tre ragazzotti e cercano di accreditare la pista del protagonismo giovanile, escludendo finalità politica, ma non si accorgono che uno dei tre è un amico della banda monarco-fascista responsabile dell'efferato rapimento di Ermanno Lavorini, trovato cadavere nella Pineta di Viareggio, il cui capo aveva tentato di ridimensionare il proprio ruolo calunniando alcuni maggiorenti locali, accusati di aver partecipato a «balletti verdi». Dieci giorni dopo la campagna terroristica riprende più a nord, a Savona (già ripetutamente colpita a novembre): per l'esplosione di un ordigno in un portone ci scappa il morto. In Liguria e in Versilia erano stati attivi consistenti reparti del Fronte nazionale e della Rosa dei venti (17). Franco Coppola, "Nuova accusa di un superteste: «La strage è opera di Tuti»", «la Repubblica», 12 dicembre 1981 . (18). Ibidem . (19). Nonostante alcuni grossolani errori di tempi e di luoghi, il memoriale difensivo diventò un cardine dell'accusa di stragismo per il leader del F.N.R.: un'accusa che si è trascinata per 14 anni, stabilendo un duplice record. Dieci anni per arrivare dal rinvio a giudizio (nel 1979, senza che il giudice istruttore si prendesse la briga di verificare un alibi con riscontri documentali) al dibattimento. Un'ora sola, compresa la camera di consiglio, per un'assoluzione con formula piena, come richiesto dal pubblico ministero, il «mastino» Vigna, che aveva letto la perizia tecnica: l'attentato non poteva essere opera di un'unica persona, come aveva millantato Tuti nel memoriale . (20). «L'episodio», scriverà Tuti nell'aprile '90 all'autore, «che è stato alle origini dell'imputazione e poi della condanna, mia e del nostro gruppo, il F.N.R., per strage, l'attentato al binario ferroviario a Terontola fu dovuto all'iniziativa personale e non certo molto ragionata di un ragazzo appena sfiorato dalla condanna. [...] Quando si è deciso di passare all'azione con degli attentati dimostrativi per protestare contro la repressione nei confronti del nostro ambiente, ed anche per 'cominciare a fare sul serio', sono state distribuite alcune grossolane cariche di esplosivo con semplice innesco a miccia (c'eravamo procurati l'esplosivo, la miccia e i detonatori con un furto in una cava, mi pare la vigilia di Natale) e ognuno ha poi deciso da sé dove e come usarle... Certo, se n'è parlato (altro che compartimentazione) ma di questo
attentato a Terontola io l'ho saputo solo dopo che era avvenuto anche perché non avevo avuto occasione di incontrare prima l'autore... A dire la verità però, pure se l'avessi saputo prima, neanche io l'avrei sconsigliato, considerandolo appunto un semplice attentato dimostrativo - com'è stato in realtà: dagli atti del processo risulta chiaramente che sono passati una trentina di treni prima che se ne accorgessero - ed io stesso allora non avevo certo la maturità politica, o meglio la preveggenza, di immaginare quali ne sarebbero potute essere le strumentalizzazioni. E non nascondo che proprio per il nostro disinteresse non solo per le questioni più specificatamente politiche ma anche per la nostra stessa immagine pubblica, a favore di un preteso attivismo esistenziale, non posso escludere, ed è anche molto probabile che la scelta della ferrovia come obiettivo sia stata suggerita magari dal precedente dell'Italicus, che era stato subito attribuito al nostro ambiente (io stesso, in fondo, avevo scelto come obiettivo le linee elettriche 'ispirato' dagli Schutzen tirolesi e anche da Feltrinelli...)» . (21). Ibidem . (22). Ibidem: «Se ho forse una colpa semmai è di non aver voluto rispondere e spiegare chiaramente le cose al processo d'Arezzo. Ma da un lato c'era anche, oltre all'atteggiamento del 'duro e puro' rivoluzionario, la rabbia per lo scherzo che mi stavano facendo di processarmi senza estradizione (prima chiesta alla Francia e poi rinunciata perché proprio l'imputazione di ricostituzione del Partito fascista avrebbe potuto offrire argomenti validi alla mia richiesta di asilo politico) e poi francamente non immaginavo certo che la montatura giornalistica del Fianchini avrebbe potuto avere delle conseguenze (ancora non avevo nemmeno una comunicazione giudiziaria per l'Italicus) [...]. Certo però quella condanna a 20 anni (e 17 anni per Franci) per un attentato di cui avevo avuto notizie solo dopo la sua esecuzione è stata alla base di un'indegna montatura di cui il nostro ambiente ed io personalmente paghiamo ancora le conseguenze: personali e politiche, non certo quelle penali, di cui me ne frego bellamente» . (23). «Nulla di più falso e fuorviante», scrive Vincenzo Vinciguerra in "Una toga di fango" (dattiloscritto, Parma, 4 maggio 1993), «dell'idea che 'militari fascisti' volessero impadronirsi del potere: questa idea, che trovò una troppo facile accoglienza nella sinistra, fu diffusa ad arte proprio dagli ambienti più conservatori della classe politica. Essa aveva
una duplice funzione, quella della deterrenza psicologica nei confronti dell'opposizione (la psicosi del golpe costrinse vari uomini politici del P.C.I. e del P.S.I. a pernottare alcune volte fuori casa) e quella di diversivo nei confronti dell'opinione pubblica. Nessuna delle decisioni effettive relative alla 'strategia della tensione' vide estranee e in posizione marginale le forze politiche di governo» . (24). «L'esercito», scrive Tuti all'autore, «in caso di golpe sarebbe stato per alcuni giorni a guardare - a causa dei problemi e per muoversi e per prendere una qualche decisione - e poi si sarebbe schierato col governo legale e semplicemente con la sua mossa avrebbe soffocato ogni possibile golpe fascista. Nel mio stesso ambiente, del resto, non mi pareva ci fossero le condizioni per un simile colpo di forza... Non che mancassero, specie tra le persone più anziane, le simpatie 'militari' e quindi l'illusione che i militari, e loro insieme ai militari, potessero 'rimettere a posto le cose'... ma proprio l'ingenuità con cui veniva parlato della cosa, al bar, e quasi sempre a commento di qualche notizia nella stampa, mi faceva salutare la cosa per quello che veramente era: chiacchiere di nostalgici dei treni in orario, illusioni di pensionati per sentirsi ancora sulla breccia» . (25). Baldoni - Provvisionato, "La notte...", cit., p.p. 254-55 . (26). Dopo il "restyling" di Alleanza nazionale, Viviani si dichiara simpatizzante di Rauti e Pisanò ma ben presto li attacca, perché troppo moderati. «La politica di destra», ha dichiarato all'«Italia settimanale», «non finisce mai di sorprendermi e deludermi. A Fiuggi, sentendo Tatarella gridare 'viva la libertà, la democrazia e l'antifascismo' me ne andai schifato [lui che aveva giurato fedeltà alla Repubblica nata dalla Resistenza... ]. Ma ora Rauti sembra imitare Fini. La sua Fiamma è la copia sbiadita di A.N. Dice cose diverse, ma in soldoni teme le stesse cose. Ha il solito problema di accontentare e non 'turbare' il ceto moderato. Sull'ordine, l'immigrazione clandestina, il razzismo non ha il coraggio di gridare. Ha abolito addirittura i saluti romani» . (27). Murelli, "Dal neonazismo...", cit., p. 11 . (28). Ibidem .
SECONDO VOLUME . INDICE . Le uova del drago . Le vie della tradizione . Sapienza di Dio, sapienza dell'Uomo . Sulla via di Damasco . Alle crociate . Un piacentino pentito. Guerrieri serenissimi . Lega e dintorni . Scene di caccia in Bassa Baviera . I soldatini di Priebke . I mostri neri e la Uno bianca . La loggia di Freda . I fascisti del 2000 . Webgrafia . Cronologia . LE UOVA DEL DRAGO . E' andato crescendo negli anni il numero dei serial killer e dei maniaci protagonisti di aberranti delitti a sfondo sessuale. Eppure nell'immaginario collettivo, venticinque anni dopo, i «mostri» per antonomasia restano gli autori del «delitto del Circeo». Il primo ottobre 1975 due ragazze di borgata, Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, sono brutalizzate e massacrate da tre pariolini, Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, nella villa di famiglia di quest'ultimo. Dopo ore di sevizie inenarrabili, convinti di averle uccise, le chiudono nel bagagliaio dell'auto. La Colasanti si è però finta morta e, richiamata l'attenzione dei passanti, li denuncia. Izzo e Guido sono arrestati, Ghira no. Il processo, svolto in un clima di mobilitazione generale del nascente movimento femminista, si conclude con la condanna all'ergastolo per i tre fascio-criminali. Anni dopo Izzo racconterà che il massacro era stato un incidente in una lunga catena di delitti. Solo nel '95, dopo più di dieci anni di collaborazione, per farsi perdonare una «scappatella», si decide a ricostruire sette omicidi compiuti dalla banda, attribuendole una finalità politica del tutto inesistente . I due arrestati sono decisi a non pagarla: Guido può contare sull'appoggio incondizionato di una famiglia ricca e potente. Tenta la
strada del risarcimento danni ma Donatella Colasanti rifiuta sdegnata (1). Riesce comunque - grazie a un atteggiamento contrito - a ottenere in Appello le attenuanti generiche e la riduzione della pena a trent'anni. Per il detenuto modello Guido, figlio di papà (top manager della Banca nazionale del lavoro, affiliato alla P2 disposto a tutto pur di tirare il figlio fuori), evadere da San Gimignano è uno scherzo. La fuga è momentaneamente interrotta in Argentina: anche in questo caso l'evasione precede l'estradizione. Il rampollo pariolino gode di potenti complicità anche oltreoceano. I giudici che indagano sulla strage di Brescia chiedono di interrogarlo in carcere a Buenos Aires perché un pentito lo ha indicato come riscontro delle accuse contro Ferri. Guido scappa prima della rogatoria internazionale, ma dal fascicolo trasmesso a Brescia dalla magistratura argentina si scopre che un interrogatorio fissato in precedenza era stato rinviato su richiesta dei giudici italiani, che però ne ignoravano l'esistenza. Izzo, lo «stracciaculo» della banda, si deve altrimenti arrangiare. Riesumando una fugace militanza che aveva preceduto la scelta criminale, è ammesso nel circuito penitenziario dei «terroristi neri». Ottiene di collaborare a «Quex» (2) nonostante la ferma condanna di Freda, che gli nega, per il suo infamante delitto, il rango di «soldato politico». Lui comunque non si tira indietro. Nel giugno 1981, alla prima udienza a Bologna al processo «Quex», minaccia il presidente Antonacci: «Farai la fine di Amato». Nella frantumazione dell'ambiente dei detenuti «neri», si schiera con gli «antifascisti», Calore e Fioravanti, i duri e puri dello spontaneismo armato che ritengono fratelli dell'altra sponda i brigatisti e identificano il nemico principale nei leader storici della destra extraparlamentare colpevoli d'intelligenza con il nemico, i servizi segreti e gli apparati di controllo . Nel periodo di detenzione comune ad Ascoli Piceno nasce il progetto di ricostruzione «storica» delle stragi che trasformerà Izzo e Calore in collaboratori di giustizia, mentre Fioravanti è trattenuto sul baratro del passaggio da un «atteggiamento critico della mentalità stragista dell'estrema destra» (3) al «pentimento», dalla fermezza della Mambro e di Cavallini. Con la differenza, dal punto di vista della «produttività giudiziaria», che Calore ha guadagnato sul campo i galloni di «soldato politico», grazie a una lunga gavetta, mentre Izzo si deve arrangiare rielaborando le affabulazioni raccolte in una decina di anni di peregrinazioni nelle carceri speciali. Più che un «pentito» diventerà un
consulente per «spioni» e procuratori d'assalto, inutilizzabile in prima battuta perché le sue sono tutte notizie «de relato», ma prezioso per la conoscenza dell'ambiente, degli intrecci, dei retroscena. Delle esperienze precedenti l'arresto scriverà a don Carmelo, un prete «di sinistra» che diventa amico e confidente di molti terroristi «pentiti» o «dissociati»: «A 14 anni mi accosto ad Avanguardia nazionale [all'epoca il gruppo era sciolto e Delle Chiaie infiltrava militanti nell'ultrasinistra] e poi a Lotta di popolo credendo di risolvere con la violenza i miei problemi esistenziali. Sono denunciato più volte per risse e aggressioni a mano armata [un altro falso grossolano: nel suo fascicolo risulta solo un arresto per stupro e nessun precedente politico. Quando tenterà di attribuirsi un'aggressione alla figlia di Ingrao, Delle Chiaie ha facile gioco a dimostrare che all'epoca Izzo aveva 11l anni]. Partecipo ad attentati contro abitazioni, sedi e auto di compagni. Formo una banda a mezza strada tra delinquenza politica e comune coi miei amici di infanzia, una comunità chiusa e paranoica che si sentiva in guerra con il mondo. Per tre anni è un susseguirsi di rapine, stupri, traffici di armi e droga. Dopo l'arresto per l'omicidio in carcere mi metto coi detenuti di estrema destra e mi caccio in situazioni di guerra tra clan» (4). Questa confessione (assai reticente: non c'è menzione degli omicidi ammessi anni dopo) non è disinteressata: attribuendosi un traffico di droga a Bologna spera che il cumulo della pena sia calcolato nella sede del p.m. Libero Mancuso, che delle sue storie ha fatto ampio uso. Il tentativo fallisce perché la stessa procura dà parere negativo. Smentendo la linea difensiva per il delitto del Circeo - l'impotenza - si impegna in una faida sentimentale nel carcere di Paliano con Cristiano Fioravanti: la posta in gioco è Raffaella Furiozzi, una ragazzina che ha visto morire il fidanzato in un conflitto a fuoco con la polizia. Alla fine la spunta Cristiano. Di questa storia resta traccia nella denuncia per una tentata evasione per cui sarà condannato solo un agente di custodia . Izzo comincia a respirare aria di libertà: gode delle prime licenze e avendo raschiato il fondo del barile delle affabulazioni carcerarie decide di allargare le competenze alle cose di Cosa nostra. Maldestramente si inserisce in un tentativo di depistaggio: Giovanni Pellegriti, un picciotto catanese, comincia a strologare sui "delitti eccellenti" dopo che è stato messo in cella ad Alessandria con Izzo. Il 7 ottobre 1989 Pellegriti, sbugiardato da Falcone, confessa che era stato Izzo a dargli i particolari sull'omicidio Mattarella facendo il nome di
Lima come mandante. Falcone arresta entrambi. Il primo esito giudiziario della vicenda è una condanna a 4 anni per calunnia nel processo contro il vertice di Cosa nostra e l'assoluzione dei neofascisti accusati da Izzo: Valerio Fioravanti e Cavallini. L'incidente rallenta la sua «battaglia di libertà». Izzo riesce finalmente a evadere nell'agosto '93. Non rientra ad Alessandria da una licenza premio e fugge all'estero . Dopo un viaggio in Inghilterra, Spagna e Belgio è catturato a Parigi, il 15 settembre, seguendo le tracce di un trafficante di armi croato, suo compagno di cella. E' armato con una calibro 38 e ha una decina di milioni in contanti. Era arrivato quella mattina, stava andando a consegnare un rullino con foto scattate con una ragazza a una corrida. Giustifica la fuga con l'assenza a un controllo durante la licenza e la paura di perdere i benefici. L'attenzione degli inquirenti è attratta da un paio di coincidenze. Bagic Dobrisa, l'ultimo compagno di cella di Izzo, era stato arrestato a Milano mentre trasportava armi per una cosca, sospettata di preparare un attentato contro Antonio Di Pietro. La sua compagna, Vesna Turk, è scarcerata il 12 maggio 1993 e due giorni dopo, a via Fauro, prende il via una micidiale campagna stragista. La giovane somiglia molto all'identikit della bionda coinvolta negli attentati di Roma, Milano e Firenze, e Izzo fugge proprio mentre la DIA consegna un rapporto sulla pista mafia-terrorismo nero-criminalità organizzata per il nuovo stragismo. Dopo l'arresto, Izzo, sul quale grava il sospetto che la vacanza all'estero sia stata una missione per conto di qualche frazione dei servizi segreti, sa farsi «perdonare». Permette la cattura di Guido, riparato a San Domingo, dove sta avviando un allevamento di polli, e ricostruisce le vicende dell'Uovo del Drago, la loro banda fascio-criminale, ammettendo la partecipazione a un paio di delitti e rapporti con apparati di sicurezza. Le ammissioni proseguono lungo l'arco di un anno, fino ad abbracciare sette omicidi . Il nome della banda potrà evocare nei cinefili il bergmaniano "Uovo del serpente", ma ha forse qualche assonanza in più con la setta del Drago nero, della quale nello stesso periodo facevano parte due poliziotti arrestati per rapina. Evaso a Firenze il 5 dicembre 1975, e catturato due settimane dopo, Bruno Cesca fa «talune strane affermazioni» al giudice istruttore (5). Allo stato dei fatti, il legame con la banda di Izzo è solo una suggestione. E' comunque interessante che già a metà degli anni Settanta in Toscana - nella fase più calda della strategia del terrore e
dieci anni prima della nascita della banda della Uno bianca - agissero poliziotti-rapinatori in rapporto con la destra eversiva. Secondo il giudice Salvini le «Uova» o i «Denti del Drago» erano i nuclei di miliziani rimasti in contatto dopo la disfatta di Salò, organizzandosi segretamente come soldati politici in «sonno» pronti a ritornare in azione al momento opportuno in funzione anticomunista e antidemocratica. Izzo tenta di dare dignità politica alla banda attribuendo un ruolo di promozione e coordinamento a Enzo Maria Dantini, il professore universitario di Mineralogia, già dirigente dei Volontari nazionali del M.S.I. e poi di Primula goliardica, l'organizzazione giovanile di Nuova repubblica, fortemente infiltrata dai neofascisti. Dantini, leader del Movimento studentesco di Giurisprudenza nel '68 a Roma, è tra i fondatori di Lotta di popolo e sarà più volte tirato in ballo dai «pentiti» per le attività eversive della destra. Pur avendo abbandonato la militanza attiva nel 1973, allo scioglimento dell'O.L.P., è arrestato nel 1981 come ispiratore del Movimento rivoluzionario popolare, il braccio armato di «Costruiamo l'azione». Il professore torna alla ribalta nell'autunno 1990, quando sono divulgate le liste dei «gladiatori». La sua presenza in un elenco di 1800 nomi segnalati per l'arruolamento in Gladio, ritrovato negli archivi del SISMI a Forte Braschi, suscita una sdegnata smentita: Dantini rivendica una lunga milizia antiamericana, dal nazionalismo europeo di Primula goliardica al terzomondismo radicale di Lotta di popolo. A confermare la sua compromissione nella rete di sicurezza NATO è però una fonte autorevole, Randolfo Pacciardi (6). E' difficile perciò credere che un personaggio di questa levatura fosse il capo di una banda di giovanissimi fascio-criminali le cui uniche attività per anni sono state lo spaccio di droga, le rapine, il regolamento di conti con amici e rivali (7) . «Era normale per noi abbandonare una ragazza dopo averle puntato addosso una pistola...», ricorda Izzo, «Era il nostro passatempo. Facevamo parte di un gruppo politico legato al traffico della cocaina e dell'eroina, eravamo in contatto con l'estrema destra e con i servizi segreti». Izzo racconta come ha ucciso un concorrente, Amilcare Di Benedetto: freddato con un colpo di pistola, squartato, riempito di sassi e gettato in mare, il primo giugno 1975, per la scomparsa del bottino di una rapina a un grossista di gioielli di Ortona (8). Un destino simile è riservato a un camerata, Fabio Miconi, anche lui studente dell'istituto
privato «San Leone Magno», ricchissimo di famiglia, qualche anno in più di Izzo. Il fratello della sua ragazza era stato ucciso in circostanze poco chiare. Aveva rapporti con la CATENA, la rete di solidarietà degli ex-O.A.S. che aveva basi nel sud della Francia. Lo sospettavano di fare la cresta sull'eroina importata dai «marsigliesi» e spacciata dai «pariolini». La cosa sarebbe emersa durante una consegna in una casa di Borgo Pio. Miconi avrebbe anche nascosto documenti dell'organizzazione. La trappola scatta nella casa della vittima, con cui Guido aveva ripreso i rapporti. Salgono Esposito e Guido, ridiscendono dopo dieci minuti. Lo hanno convinto a mettersi a letto spogliato, preannunciando un imminente stupro di gruppo, poi Guido gli ha sparato col fucile di Fabio. La polizia pensa a un suicidio. E' l'ottobre '72. Izzo ha solo diciassette anni . Il vertice dell'organizzazione sarebbe stato ben introdotto nei servizi segreti e nella grande malavita, il nucleo dei pariolini era composto da Izzo, Ghira, Guido e Esposito. Tra le rapine compiute ci sono quelle a un collezionista d'armi a via Panama (rapina per la quale Ghira era già stato arrestato nel 1973 mentre Izzo era prosciolto), a un gioielliere e a una banca di via Nomentana, alle Poste del Tiburtino e di Marina San Nicola, ai mercati generali di Bologna, alla Banca del Circeo a Lacona, a un orefice di Ortona. Altri delitti, secondo Izzo, sarebbero stati compiuti dai suoi complici: Guido avrebbe ammazzato un pregiudicato in auto a Trastevere, tale Cello, il cui corpo sarebbe stato abbandonato per strada, e poi un albergatore di Roma, ucciso con nove colpi di pistola; Guido ed Esposito avrebbero commesso un omicidio nel corso di una rapina, mentre nel 1975 un pregiudicato che disturbava con tentativi estorsivi una signora fascista sarebbe stato ucciso a Mantova da Ghira, Mario Rossi e Sandro Sparapani. Quest'ultimo episodio sembra incredibile: all'epoca Rossi è segretario del Fronte della gioventù di piazza Bologna e solo quando i dirigenti di Lotta popolare sono espulsi dal M.S.I., molti mesi dopo il delitto del Circeo, confluirà nella rete ordinovista in cui militava da anni Sparapani, imputato nel secondo processo a O.N. I due saranno poi condannati per aver fatto parte della banda Concutelli, tra l'estate del '76 e l'inverno del '77 (9). L'arresto di Izzo e Guido non interrompe la spirale. Ghira ed Esposito sono accusati del sequestro di Ezio Matacchioni, uno studente neofascista rapito il 15 dicembre 1975 e liberato a Natale dalla polizia. La vittima accusa i «camerati» Ghira, Esposito, Piero Pieri (figlio di un
magistrato), Maurizio Acquarelli e Giuseppe Cobianchi. La polizia sospetta che la vittima fosse d'accordo e che i fondi sarebbero stati destinati a finanziare il terrorismo nero. Esposito è arrestato nell'estate successiva, mentre è a Ponza a fare pesca subacquea. L'episodio ispira due sambabilini, Fabrizio De Michelis e Giorgio Invernizzi. Il 26 marzo 1976 tentano goffamente di rapire un'amica che si oppone ed è brutalmente uccisa: i due, però, lasciano abbondanti tracce del loro incontro all'Idroscalo e sono arrestati e condannati all'ergastolo. Va meglio agli imputati del sequestro Matacchioni. Se la cavano con una generale assoluzione per insufficienza di prove . Esposito è la figura tipica del fascio-criminale, compiuta espressione dell'intreccio tra "reseaux" criminali e ultradestra armata. Compagno di classe di Izzo al «San Leone Magno», partecipa alle attività della banda. Scampato al processo Matacchioni, per un lungo periodo si costruisce una zona d'ombra e continua i suoi traffici. Bel ragazzo, narcisista, con un culto esasperato dell'esercizio fisico e dell'addestramento paramilitare, si specializza nel traffico di armi. Molte batterie di rapinatori, per ridurre i rischi, preferiscono affittare gli «strumenti di lavoro». Esposito è arrestato nel corso di una colossale retata che interessa il territorio nazionale ed è condotta dal giudice Lombardi di Milano: 142 i mandati di cattura, 130 gli arrestati tra cui molti insospettabili, basisti di rapine in banche e gioiellerie. Sono ricostruiti una decina di omicidi, centinaia di «colpi», ferimenti, un sequestro . L'operazione parte nell'inverno 1985 con l'arresto del re delle evasioni, Gianluigi Marasco. Scappa dopo meno di un mese dalle camere di sicurezza dei carabinieri di Milano. Col senno di poi è lecito sospettare una fuga pilotata. Subito dopo è catturato con Horst Fantazzini (un rapinatore solitario politicizzatosi in carcere e vicino agli anarcosituazionisti di Azione rivoluzionaria: la sua vicenda, narrata in un libro autobiografico, è stata trasposta nel film "Ormai è fatta", interpretato da Stefano Accorsi) mentre a Roma sono arrestati undici rapinatori, e altri cinque sono lasciati liberi ma tenuti sotto controllo per «allargare la rete». I primi pesci cadono ancora a Roma, a ottobre. Un gruppo di «trasfertisti», accusati di due rapine miliardarie a un caveau bancario di Montebelluna e a una gioielleria di Bari, confessa che ai colpi hanno partecipato anche uomini del giro di A.N. Il blitz scatta il 4 febbraio 1986: 32 arresti a Roma, 32 a Milano, altri in varie città. Sono
sequestrati 30 chili di cocaina. Tra gli arrestati i gestori di un deposito di roulotte che avrebbero ospitato Annino Mele, leader del Movimento armato sardo e tre ex-avanguardisti. Tra questi spicca, per altre vicende, il nome di Luciano Paganini Lenzi, testimone a discarico di Tilgher nell'inchiesta sulla strage dell'Italicus. Tornerà alla ribalta nell'aprile '95 per un episodio che sembra la parodia della scoperta del covo B.R. di via Gradoli. Paganini Lenzi è un tranquillo signore di 53 anni, proprietario di due avviate aziende agricole, a Reggiolo, in Emilia e a Colle di Val d'Elsa in Toscana. Un pomeriggio smarrisce le chiavi dell'appartamento di piazza Cavour, di fronte al «Palazzaccio», attuale sede della Cassazione, e chiama i vigili del fuoco. Questi sfondano una finestra e, visto un bossolo a terra, avvisano la polizia. La perquisizione, durata più di dodici ore, si conclude con l'arresto del distratto armiere e con il sequestro di un mitra israeliano, di un fucile a pompa, di quattro pistole, di 3000 cartucce, dell'attrezzatura completa per ricaricare proiettili e modificare armi e di un ricco archivio di foto, ritagli di giornali e documenti. Tra i 130 arrestati c'è anche un «compagno», che nel gennaio 1982 aveva ospitato i latitanti dei COLP in fuga dopo l'evasione dal carcere di Rovigo e il conflitto a fuoco di Monteroni di Siena, che si era concluso con la morte di Lucio di Giacomo e di un carabiniere. Nel corso dell'operazione è sequestrato un arsenale enorme, una parte consistente del quale in una cantina affittata da Gianluigi Esposito a Roma: decine di armi lunghe e corte, sei bombe a mano, esplosivo, migliaia di cartucce; un'altra parte «cade» in una villa ad Amelia. Le armi ritrovate riconducono a due poliziotti ammazzati l'anno prima, omicidi attribuiti a sopravvissuti dei NAR: l'agente dei NOCS Ottavio Conte (sulla spiaggia di Torvajanica la notte del 9 gennaio 1985) e il poliziotto della Stradale Di Lenardo (sull'autostrada Roma-L'Aquila il primo maggio) . La posizione giudiziaria di Esposito si aggrava rapidamente. Ad aprile è accusato di aver ideato ed eseguito il sequestro del figlio minorenne di un industriale comasco, rapito in Lombardia nel dicembre 1982. Forti sono anche i sospetti per l'omicidio di Conte. L'arrivo a novembre di un altro ordine di cattura per una vecchia rapina ai danni di un rappresentante di gioielli di Ortona lo preoccupa molto meno. Sono in corso gli ultimi preparativi per la «grande fuga» ed Esposito - tra gli sfottò di qualche compagno di cella inconsapevole - si sottopone con rigorosa disciplina a un intenso allenamento. Il 23 novembre è lesto ad
afferrare la corda lanciata da un elicottero che impunemente si cala sul cortile del passeggio del supercarcere di Rebibbia. Beneficiario dell'operazione è il boss franco-algerino Bellaiché, leader della seconda generazione del clan dei marsigliesi. I due escludono deliberatamente dal tentativo il compagno di cella, Luciano Cipollari, perché, detenuto per omicidio preterintenzionale, sta per ottenere gli arresti domiciliari, ma il giovanotto, particolarmente gasato - è stato da poco congedato dai paracadutisti sabotatori - quando si rende conto dell'evasione tenta egualmente di salire ma arriva tardi ed è bloccato. Liberato dopo un paio di anni di carcere «speciale», morirà in un incidente motociclistico. Gli investigatori, sotto choc per la figuraccia, si mettono al lavoro: nessun colpo di genio, solo la vecchia saggezza da maresciallo. "Cerchez la femme" e il gioco è fatto. Un'attenta marcatura della solita ragazza della Roma bene segnalata come amica del bel Gianluigi e la mattina del 14 dicembre, in una villa alla periferia di Parigi, il «grande evaso» è catturato. Le autorità francesi, assai scrupolose nella tutela del diritto d'asilo per i ricercati per terrorismo (in una ventina d'anni sono solo quattro i «terroristi neri»: Mario Tuti, Stefano Di Cagno, Stefano Procopio, dopo aver scontato la condanna per una rapina a Parigi, e Stefano Bracci, catturato nel '93 con un altro latitante dei NAR, Vittorio Spadavecchia (10) e consegnato un anno dopo), sono assai più brutali nella lotta alla criminalità organizzata e lo rispediscono rapidamente in Italia. In poco tempo Esposito accumula parecchi anni di carcere: le due condanne più pesanti sono per l'evasione (dieci anni) e per la rapina di Ortona (nove anni, con due camerati del gruppo abruzzese-marchigiano, Danilo Crocetti e Viccei), per il cui bottino Izzo ha ammazzato Di Benedetto. Mettendo assieme qualche assoluzione, qualche decorrenza termini e gli arresti domiciliari per l'evasione, subito dopo la scarcerazione fa perdere le tracce. Intanto nei guai finisce il padre, portiere del Plaza, l'albergo dove faceva base Gianni De Michelis: è accusato di aver retto bordone al ministro nei suoi «affari» romani . Nel 1998 Gianluigi Esposito verrà trovato morto in una stanza d'albergo a Firenze. Il «soldato», passato indenne attraverso guerre e galere, è stroncato da un attacco d'asma, di cui soffriva fin da bambino, reso mortale dall'impossibilità, vista la sua condizione di latitante, di chiamare un'ambulanza o di recarsi in un pronto soccorso .
Se Esposito è stato protagonista della più spettacolare evasione da un carcere italiano, Viccei è entrato nei manuali della storia criminale come organizzatore della «rapina del secolo», lo svaligiamento del deposito valori di Knightsbridge a Londra. La vicenda meriterebbe altrettanto spazio in un libro - ancora tutto da scrivere - sulle incredibili storie dei «pentiti irriducibili», cioè sui collaboratori di giustizia che, scarcerati, riprendono impunemente e ripetutamente a delinquere. Salvo, arrestati un'altra volta, godere ancora della disinvolta benevolenza dei magistrati, che si guardano bene dal revocare i precedenti benefici, come prescrive la legge, e anzi consentono loro di voltare la gabbana e rivestirsi da «irriducibili pentiti», per vendere al mercato delle indulgenze i nuovi crimini perpetrati grazie al regime premiale o la riesumazione di vecchie storie che si erano ben guardati dal raccontare (è il caso di Viccei, appunto, ma anche di Izzo). Valerio Viccei è una figura di spicco della cellula adriatica di Ordine nero, diretta dall'abruzzese Benardelli (11) ma che ha il suo santuario in Ascoli, la città sua e di Gianni Nardi (12). Figlio di un avvocato, dopo il liceo classico si iscrive anch'egli a Legge e milita nel Fronte della gioventù: è un bel ragazzo con un incontenibile spirito di ribellione e una fissazione. pericolosa per le armi, le donne e le auto di lusso ma anche per i libri di Nietzsche. Il gusto della solitudine gli procura il soprannome di «Lupo». Primo arresto a diciassette anni per furto e detenzione d'esplosivo (usato per un attentato a un ripetitore Rai). Seguono diverse condanne per rapine, documenti falsi, possesso di armi, furto d'auto. La svolta è nel 1985, con l'arresto per la mancata strage di Silvi Marina (13): lo accusano la moglie Maria Noemi Bambini, Izzo e Danieletti. Questa volta accetta subito di collaborare e ricostruisce con i giudici la linea di «terrorismo puro» espressa da Esposti (14). A suo dire le stragi del '74, compiute (Italicus, Brescia) e mancate (Silvi Marina e Vernio), erano parte di un unico disegno terroristico per preparare il golpe (15). Gli attentati dell'Italicus e di Vernio sarebbero stati eseguiti dagli «operativi» toscani, la direzione strategica del progetto andava identificata nella Fenice di Rognoni. Riferisce poi che l'avanguardista Magnetta, suo compagno di pena, l'avrebbe invitato ad affidargli i proventi delle sue rapine garantendo lautissimi profitti attraverso finanziarie milanesi nell'orbita del Banco Ambrosiano. Un'evidente fandonia (probabilmente finalizzata a rafforzare un'analoga panzana di Izzo: una rapina organizzata da
Cavallini e Fioravanti alla finanziaria milanese dell'Ambrosiano dove la banda avrebbe riciclato i proventi criminali, progetto bloccato dagli amici avanguardisti di Cavallini). Quando Magnetta finisce in carcere, l'Ambrosiano è, infatti, già avvitato nella crisi finale e non è in grado di garantire neanche i crediti dei depositanti . Nessuno si preoccupa di verificare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e così Viccei è subito trasferito al «carcere dei pentiti», Paliano, dove si ritrova con un vecchio amico, Angelo Izzo: che cos'è, infatti, un'infamata (l'accusa per Silvi Marina) rispetto agli affari già fatti (la rapina di Ortona finita con l'omicidio del bandito che aveva «scippato» il bottino) e da fare. Il sodalizio funziona benissimo. Un altro detenuto, Ivano Bongiovanni, racconterà ai giudici che Izzo e Viccei lo avevano invitato a riferire nuove accuse sulla strage dell'Italicus elaborate insieme dai due. Risulterà essere stato contattato in carcere da agenti del SISMI subito dopo l'inizio della collaborazione. Viccei ottiene presto gli arresti domiciliari: così quando nel giugno '86 l'ufficiale giudiziario si reca a notificargli il rinvio a giudizio per aver procurato le armi per far evadere da Paliano Calore, Izzo e Furiozzi, deve prendere atto che il detenuto è scappato. A Londra, dove organizza la rapina al più importante deposito valori della City . Nelle cassette di sicurezza di Knightsbridge sono custoditi gioielli, valori e documenti di alcuni dei maggiori finanzieri e uomini d'affari arabi. Il 12 luglio 1987, grazie all'appoggio del direttore, quattro «uomini d'oro» in meno di due ore ripuliscono 114 cassette (ma 40 proprietari non denunciano il furto). Il valore del bottino denunciato da accettare con beneficio in casi del genere - è di 40 miliardi. Poche ore dopo sono in volo per i Paesi più disparati. Uno dei complici non rispetta le norme di sicurezza che si erano dati e così, appena un mese dopo, scattano sette arresti, quattro dei quali di italiani. Viccei è bloccato in Spagna (i poliziotti gli sfasciano a picconate la Ferrari) e subito espulso. Dopo pochi giorni sono in quattro alla sbarra (per gli altri italiani bloccati in Spagna le procedure di estradizione sono più lunghe): Viccei, che è indicato dalla stampa inglese come Vecchi, trentaduenne disoccupato italiano, il ricettatore ebreo Eliah Ephrati, 42 anni, un uomo d'affari inglese, Israel Pinkas, 46 anni, antiquario a Campden Town, e David Pool, 47 anni, pensionato . Durante il processo inglese, si svolge quello italiano per la strage di Silvi Marina: l'accusa chiede 15 anni e mezzo ma la corte assolve tutti.
Viccei sceglie la linea della collaborazione - «Io ammetto ogni colpa, non faccio un nome, anzi baratto la completa confessione con la promessa, peraltro mantenuta, di non immischiare persone che non c'entrano. Avevano fermato care amiche...» (16) - ma non se la cava altrettanto brillantemente a Londra. E' condannato a 22 anni, una pena abnorme per un reato senza spargimento di sangue. Per risarcire i danni gli sequestrano i diritti d'autore di un libro scritto in carcere. La sua linea difensiva - il titolare dell'azienda era d'accordo e quindi il fatto va classificato come appropriazione indebita - non convince la giuria. Il diritto anglosassone non consente gli ampi margini d'impunità introdotti in Italia dalla legislazione premiale e i meccanismi di espiazione sono rigidi, Viccei si prepara perciò a una battaglia di lunga durata per riconquistare la libertà. Invoca la convenzione di Strasburgo e chiede di essere trasferito in Italia per scontare la pena. «Voglio completare», scrive a un quotidiano londinese, «i miei studi di legge interrotti dai miei guai con la legge medesima. Dal momento che non vi è stato uso di violenza né durante né dopo il colpo e considerato il fatto che nessuno dei proprietari delle cassette di sicurezza era un membro del proletariato, privato così del necessario per vivere, posso affermare con cognizione di causa che la vicenda è meno grave di quello che si pensi. Per lo meno in confronto alle malefatte di qualche gran ladrone camuffato da uomo d'affari della City». Il suo desiderio è esaudito: estradato in Italia nel novembre 1992 riprende la collaborazione con i magistrati. Per farsi perdonare la fuga e le successive imprese «vuota il sacco»: ricostruisce le attività di rapinatore e trafficante di armi, confessa l'omicidio di un complice, il cui fratello poi si suiciderà, per un litigio sulla spartizione di un bottino. Lui la racconterà così: «Era il 1981, stavo in carcere con un mio coimputato che si era comportato in modo ignobile. Era uno psicopatico riconosciuto, uno che aveva fatto fuori alcuni detenuti senza mai pagare il conto [...]. Mi avvisarono che una volta liberi mi avrebbe certamente ammazzato. Uscimmo e una notte mi portò in montagna con una scusa, mi puntò la pistola in faccia [...]. Io ero armato ma mi difesi a mani nude. Partì un colpo, ne partì un secondo e un terzo. Lui morì. Fui incriminato, prosciolto, di nuovo incriminato e di nuovo prosciolto. Alla fine il caso venne archiviato» (17). E' condannato pochi mesi dopo a 13 anni di carcere, per omicidio, rapine e traffico di armi. Con l'applicazione del condono esattamente la metà della pena avuta per una sola rapina - fosse anche «del secolo» - a
Londra. E la possibilità di accedere subito - grazie al cumulo ha scontato complessivamente più di metà pena - alla semilibertà, lavorando in una società di marketing editoriale . NOTE . (1). Nell'inverno '96, dopo aver polemizzato con le parlamentari della sinistra perché non condivideva la battaglia a oltranza sulla legge antistupro, Donatella Colasanti, simbolo della prima grande mobilitazione femminista contro la violenza sessuale, ha dato la disponibilità a candidarsi nelle liste di Alleanza nazionale . (2). Il suo primo articolo è preceduto da una presentazione polemica: «La firma di questo articolo sconvolgerà le vestali di quart'ordine della morale e dell'etica fascista, quelli che identificano l'uomo 'esistenzialmente qualificato' di cui parla Evola con un buon padre di famiglia [...]. Ai rivoluzionari facciamo presente che non può essere il sistema democratico che può accusare e condannare i camerati. Le affermazioni della giustizia borghese non ci riguardano» («Quex», n. 2, p. 35) . (3). "Parla Freda", cit., p. 29 . (4). Carmelo Di Giovanni, "Eravamo terroristi. Lettere dal carcere", Roma, Edizioni Paoline, 1989, p.p. 100-01 . (5). «A un netto riferimento all'attentato sul treno Italicus ha dimostrato vivo turbamento, poi ha detto al giudice: 'che quand'anche fosse a conoscenza di qualche cosa sarebbe inutile fare rivelazioni che esporrebbero a inutili rischi la persona di questo giudice istruttore, che tutto in ogni caso verrebbe insabbiato, facendo riferimento specifico alla Rosa dei venti e a spostamenti di competenza da una magistratura all'altra'. Ha concluso Tricomi: sembra a questo giudice istruttore di percepire che il Cesca abbia voluto far capire di essere stato mandato in Toscana per fungere da collegamento tra il Lazio e questa regione al servizio di un'organizzazione di estrema destra. Gli si chiede se conosce personalmente Tuti. Risponde soltanto che è un imbecille perché non si è attenuto all'ordine di fare sparire le armi non denunciate e consegnarsi invece di fare quello che ha fatto» (cit. in Flamini, "Il Partito...", cit., vol. 4, 2, p.p. 251-52) . (6). Pacciardi, medaglia d'oro della Resistenza, ex-ministro della Difesa di rigorosissima fedeltà atlantica, fondatore dell'Unione per la Nuova repubblica, racconta che un suo seguace, studente di mineralogia ed
esperto di esplosivi, faceva attentati in Austria per conto dei servizi segreti. La descrizione sembra calcata su Dantini, perito di parte di Freda per la strage di piazza Fontana, impegno che non gli ha impedito di tenere corsi di aggiornamento sugli esplosivi per i funzionari del Viminale (e a detta dei pentiti anche per il «bombarolo» del M.R.P., Marcello Iannilli) (confronta Randolfo Pacciardi, "Cuore di battaglia", intervista di Giuseppe Loteta, Roma, Nuove edizioni del gallo, 1990, p.p. 103-04) . (7). Gianni e Antonio Cipriani, "Sovranità limitata. Storia dell'eversione atlantica in Italia", Roma, Edizioni associate, 1991, P. 53 . (8). Un complice sostiene di essere stato rapinato dalle B.R. Izzo e Guido sentono puzza di «sòla» e chiedono a Danilo Abbruciati, al quale avevano fornito armi e divise, una mano per recuperare la refurtiva. Spunta il nome di Di Benedetto, pregiudicato di trent'anni. Lo attirano in trappola in un casolare a Riccione offrendogli una rapina a Bologna. A condurre l'interrogatorio sono Izzo, Gianluigi Esposito e Abbruciati: gli chiedono dei gioielli, si contraddice. Izzo gli spara con la 38 e lo impacchetta nell'auto. Arriva Guido, vanno alla casa al mare di un amico romano e trasportano il cadavere sulla barca di quest'ultimo, ormeggiata a Riccione. Gli aprono lo sterno, lo riempiono di piombi e affondano al largo il cadavere . (9). La «carriera» politico-militare di Mario Rossi proseguirà fino all'esperienza dello spontaneismo armato. All'uscita dal carcere manterrà i rapporti con l'area ordinovista: Paolo Bianchi lo accusa di aver partecipato assieme a lui a una rapina in provincia di Perugia, Paolo Aleandri riferisce di avergli consegnato parte dell'arsenale del boss della Magliana Giuseppucci. Nel giro di C.L.A. Rossi entra in contatto con Cavallini e partecipa alla rapina di Tivoli dell'11 dicembre 1979, che rappresenta la prima azione comune con Fioravanti. Sei mesi dopo svolge nell'agguato al liceo «Giulio Cesare» compiti di copertura al fianco di Cavallini e Gabriele De Francisci. E' arrestato nell'aprile 1981 perché nella tipografia clandestina di Egidio Giuliani trovano una sua foto per la falsificazione di un documento. In carcere è raggiunto da un mandato di cattura per l'omicidio Occorsio: riuscirà a dimostrare che il rapporto con Concutelli è successivo al delitto e sarà assolto. Al processo NAR ammette l'amicizia con Cavallini e di averlo aiutato anche illegalmente, facendo da supporto logistico per una rapina e compiendone un'altra a Milano, ma si dichiara estraneo al «Giulio
Cesare»: «Riconosco tutti, li ho conosciuti, li ho frequentati, ho condiviso con loro un certo tipo di esperienze, un certo tipo di vita...». Parla dell'ascendente che provava per Cavallini e di una sorta di doppia vita: sarà condannato a 21 anni di carcere. Indicato nel dibattito sullo spontaneismo armato come perfetto esemplare di «soldato politico», Mario Rossi aderirà al movimento della dissociazione dalla lotta armata (10). Vittorio Spadavecchia, liberato perché era stato condannato in contumacia nel processo NAR 2 per concorso in omicidio (aveva partecipato goffamente all'assalto alla sede romana dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina), ripara con moglie e figli a Londra, dove è di nuovo arrestato nel marzo '99 . (11). Bruno Luciano Benardelli nasce a Napoli ma la famiglia si trasferisce ben presto a Rocca San Giovanni (CH). Nel maggio 1972 è a Milano per la campagna elettorale di Franco Petronio, presidente della Giovane Italia. Qui stringe i rapporti con i sambabilini che daranno vita a Ordine nero. Nel marzo successivo ospita a Lanciano Cesare Ferri. Quando nel maggio 1974 il gruppo di fuoco guidato da Esposti è costretto a scappare da Milano per sottrarsi alla cattura nel blitz contro il MAR di Fumagalli, l'incontro con Benardelli è una delle tappe di avvicinamento all'accampamento di Pian del Rascino dove Esposti sarà ucciso. Amico di famiglia dei D'Ovidio (il padre è procuratore della Repubblica a Lanciano, il figlio è capitano dei carabinieri e uomo di fiducia di Maletti nel SID), Benardelli sfugge all'arresto il 16 giugno: un ordine di cattura per vecchi reati emesso dalla procura di Lanciano anticipa quello dei giudici bolognesi che indagano su Ordine nero. Si trasferisce con Ferri prima in Svizzera e poi in Grecia. Scriverà: a chi ha fatto comodo farmi allontanare da Lanciano? Si costituisce alla fine del 1975, quando l'istruttoria è chiusa per rilanciare l'inchiesta bresciana contro il MAR (sarà condannato a due anni e sei mesi) ma al tempo stesso per incastrare Maletti con le accuse su Pian del Rascino e sulla responsabilità dei D'Ovidio nella sua fuga. In primo grado a Bologna è condannato a due anni per Ordine nero. In Appello arriva la mazzata: nove anni per strage e associazione sovversiva. E' di nuovo arrestato nella primavera 1985 dal p.m. Vigna nell'inchiesta per gli attentati ai treni in Toscana finanziati da Gelli. E' anche inquisito nella terza inchiesta per la strage di Brescia: una lettera anonima lo accusa di aver collocato l'ordigno insieme con Ferri. Scarcerato, nel febbraio 1986 ripara di nuovo all'estero. E' arrestato nel 1989 al rientro da Parigi,
all'aeroporto di Fiumicino, ma tutte e due le istruttorie si concludono con un nulla di fatto . (12). Gianni Nardi, nato ad Ascoli l'11 aprile 1946, è il rampollo di una famiglia di industriali aeronautici, titolari del brevetto sul carrello retrattile. Con la famiglia si trasferisce a Milano nel 1964. Fanatico delle armi, spende 100mila lire al giorno per addestrarsi a sparare. Frequenta gli ambienti più duri del neofascismo. E' coinvolto nelle indagini per l'omicidio di piazzale Lotto (un benzinaio assassinato da rapinatori) nel febbraio del 1967. Due anni dopo, alla vigilia del processo contro un pregiudicato estraneo ai fatti, un amico di Nardi, riferisce che pochi giorni prima dell'omicidio c'era stato un incontro in casa Nardi con Esposti e un tale noto come «il Parà» in cui gli era stata mostrata una pistola e si era discusso della necessità di passare all'azione. I quattro sono interrogati dai giudici increduli. "In extremis" telegrafa l'avvocato Pisapia, invocando il segreto professionale e spergiurando sull'innocenza dell'imputato, per fatti a lui noti che non può rendere pubblici. La Corte richiama i tre accusati. L'imputato è prosciolto con formula piena. Si riaprono le indagini: l'amico di Nardi pochi mesi dopo è trovato impiccato al filo della luce in un albergo di Basilea. Per gli inquirenti è suicidio. Nell'aprile 1970 Nardi frequenta in Spagna un corso da allievo parà tra i legionari del Tercio dove fornisce informazioni sulla Folgore, nella quale aveva prestato servizio militare, avendo come ufficiale il generale Monticone. A luglio è segnalato da un generale dell'esercito per l'arruolamento in Gladio (unità N, sigla 565). A dicembre nella sua villa di Ascoli è scoperto un arsenale. E' arrestato nell'aprile 1971 con «il Parà» per favoreggiamento nell'omicidio di piazzale Lotto. Ottiene la libertà provvisoria dopo sei mesi confessando. Al processo, nel febbraio 1974, non si presenta perché è latitante ma si scordano di notificargli l'accusa di favoreggiamento ed è assolto per insufficienza di prove. Lo stralcio tardivo porterà al rinvio a giudizio per questo reato. Si specializza nel traffico di armi: è bloccato con l'auto carica di esplosivo al valico di frontiera con la Svizzera il 20 settembre 1972 con Bruno Stefàno e una fotomodella tedesca, Kiess. Sospettato per il delitto Calabresi, è scarcerato per gli esplosivi e solo in seguito colpito da un mandato di cattura per l'omicidio, poi revocato. E' ricercato per Ordine nero. Il 10 settembre 1976 muore in un incidente stradale nell'isola di Minorca schiantandosi con un'auto targata Vicenza contro un camion. Ha
documenti boliviani. Alla fine del 1975 era stato prosciolto dall'istruttoria dei golpe. Dopo la morte fonti dei servizi lo segnalano in America Latina, a partire dal 1979. In questo filone si inserisce anche l'avventuriera Donatella De Rosa, sposata con un colonnello dei parà, ex-commilitone di Nardi e per vent'anni amante di sua madre, che per sottrarsi all'accusa di aver estorto al proprio amante, il generale Monticone, comandante della Forza d'intervento rapido italiana, 700 milioni si inventa un fantastico progetto di golpe nel quale avrebbe avuto un ruolo decisivo il Nardi redivivo. Neanche gli esiti della prova del D.N.A. sul cadavere l'hanno ridotta al silenzio . (13). La mancata strage di Silvi Marina è il primo di una lunga serie di attentati alle linee ferroviarie nel 1974, escalation che culminerà nella strage dell'Italicus. Il 29 gennaio sono collocati otto chili di esplosivo sui binari della ferrovia adriatica nei pressi della località balneare teramana. Gli attentatori preparano un dispositivo con doppio detonatore, per far deragliare l'Espresso del Levante. Nel corso della notte un treno merci che marcia in direzione contraria trancia le micce evitando il disastro. L'inchiesta prende quota più di dieci anni dopo grazie alle rivelazioni dei «pentiti». Nell'ottobre 1985 sono arrestati gli ascolani Marini, cognato di Gianni Nardi - che è chiamato in causa da Viccei ma sarà prosciolto in istruttoria - e Ortensi. Al processo nel maggio 1988 sfilano numerosi pentiti. Brogi (che sarà considerato poco attendibile nel processo per gli attentati ai treni in Toscana) accusa Gelli di aver finanziato l'attentato. Danieletti si attribuisce il trasporto dell'esplosivo con un carico di armi. Calore, riferendo affabulazioni carcerarie, indica in Ortensi l'autore dell'attentato. I due imputati sono assolti, sentenza confermata in appello il 14 giugno 1994 . (14). Giancarlo Esposti è coinvolto con Nardi nella rapina di piazzale Lotto. E' incriminato a piede libero nell'aprile 1971 perché all'epoca dei fatti era ancora minorenne. E' arrestato il 10 febbraio 1972 per la «notte dei fuochi» della SAM (Squadre armate Mussolini) a Milano. In un armadietto alla stazione a sua disposizione la polizia trova 60 candelotti d'esplosivo, detonatori e micce. Leader di Ordine nero, è l'anello di congiunzione tra la banda armata neofascista e i «golpisti bianchi» di Carlo Fumagalli, che ai terroristi neri commissiona una campagna di attentati dinamitardi per creare un clima favorevole nell'opinione pubblica al progetto di golpe presidenzialista e filoamericano. Esposti con un gruppo di avanguardisti milanesi («Billo» Danieletti, Salvatore
Vivirito, Alessandro d'Intino) arruolati dal partito del golpe sfugge alla cattura nel primo blitz contro il MAR e con una Land Rover carica di armi ripara al Sud. Subito dopo la strage di Brescia una pattuglia formata da due forestali, cinque carabinieri e comandata dal maresciallo del SID Filippi, circonda la tenda in cui dormivano a Pian di Rascino, in una radura ai confini tra le province di Rieti e l'Aquila. Nei pressi c'è la Land Rover. Nel conflitto a fuoco sono feriti due carabinieri ed Esposti resta ucciso. Gli trovano una tessera del PIDE, il servizio segreto portoghese, e una dell'Università della Sorbona, foto di Cesare Ferri, e numerosi indirizzi tra cui quello di un dirigente missino e biglietti da visita di due bulgari. Nell'auto sono trovati un fucile di precisione, due mitra, una bomba a mano, quattro pistole, silenziatori e 50 chili di esplosivo al fosforo, un sacco con plastico, 50 metri di miccia e 500 detonatori, migliaia di proiettili 7.62. Sono catturati Danieletti e D'Intino mentre è assente Vivirito, tornato a Milano per rispettare le misure di sicurezza a cui è sottoposto. Il corpo è crivellato di colpi, l'ultimo sparato a bruciapelo alla testa. Evidentemente il SID ha deciso di bloccare il piano esecutivo del golpe scattato con la strage di Brescia. Sandro Saccucci, per anni collaboratore dei servizi segreti e all'epoca deputato missino, accuserà dell'omicidio di Esposti Gian Adelio Maletti. Prima di Pian del Rascino Esposti avrebbe confidato ai familiari che era stato tradito dai carabinieri. Rifiuta per due volte di espatriare: «E' tutta la vita che mi rompono le scatole: adesso li aspetto qui e non mi muovo, tanto sono armato». Aveva 24 anni . (15). La Commissione stragi così sintetizza la ricostruzione di Viccei: già nel '71-'72 esiste una cellula paramilitare ascolana contigua al Fronte della gioventù a cui appartengono Ortensi Marini e il cui controllo passa da Nardi a Esposti, che ha tra l'altro contatti con ufficiali di stanza in Veneto. Nel corso di un colloquio con Esposti del marzo-aprile '74 Viccei apprende (dopo l'attentato di Silvi Marina): a) che i milanesi intendevano portare avanti un progetto terroristico comprensivo dell'esecuzione di quattro stragi e avevano individuato le ferrovie come obiettivo preferenziale; b) che vi era stato un dissidio di fondo con Nardi che non si sentiva di eseguire la strategia stragista che era stata decisa; c) che l'attentato di Silvi Marina era stato preparato da Marini e da due milanesi dei quali Esposti non fece il nome, i quali assistettero Ortensi mentre installava l'ordigno sui binari; d) che l'attentato avrebbe dovuto essere la prima delle stragi volute dal gruppo
milanese da eseguirsi nel 1974 nel contesto di un piano di destabilizzazione e di sovvertimento delle istituzioni; e) che l'attentato era fallito a seguito di un errore tecnico di Ortensi, ma che negli intenti degli esecutori e degli ideatori avrebbe dovuto provocare una vera e propria strage. Ortensi, dopo qualche resistenza, conferma nella sostanza il racconto di Esposti sull'attentato di Silvi Marina, addebitandone l'insuccesso al comportamento dei milanesi durante la collocazione dell'ordigno sui binari. Nelle vacanze pasquali Esposti, Ortensi, Marini e Viccei avrebbero trasportato armi ed esplosivi nella villa di Nardi. In un colloquio successivo, nell'estate 1975, Ortensi riferisce che le stragi di Brescia e dell'Italicus erano opera dello stesso gruppo dei milanesi, al cui vertice erano collocati il leader di A.N. Marco Ballan (che nonostante ripetuti coinvolgimenti sarà sempre prosciolto nei processi di strage) e Giancarlo Rognoni. Marini gli racconta di aver avuto durante la latitanza rapporti con Rognoni e Concutelli e in un colloquio nel 1980 conferma la versione di Esposti sull'attentato fallito a Silvi per l'irresponsabilità di Ortensi ed esprime soddisfazione per il fatto che non vi siano state vittime . (16). Stefano Jesurum, "Scacco alla regina", «Sette», febbraio 1997 . (17). Ibidem . LE VIE DELLA TRADIZIONE . Non si fa un buon servizio alla memoria di Julius Evola, il Maestro della destra radicale, se si attribuisce una filiazione diretta tra la scelta criminale degli Izzo e dei Viccei e le sue teorizzazioni sulla «apolitia» quando giunge ad auspicare, nella sua fase «anarchica di destra», che si consumi il ciclo finale della dissoluzione del sistema. Qualche titolo in più di richiamarsi a Evola hanno invece i «camerati» in fuga dal disastro che trovano riparo nelle calde nicchie dell'esoterismo. Più di una generazione di militanti si è formata alla scuola dell'ortodossia tradizionalista, a base di «dottrina aria di lotta e vittoria», di rune e bushido (la via di realizzazione dei samurai), di duplice guerra santa e mitologia iperborea: e solo una forzatura consente di ricondurre a questa costruzione mitologica l'esercizio della violenza fine a se stessa, la ricerca della dissoluzione a tutti i costi, il tentativo di sostituire l'amoralità dell'"anarca", che è «al di là del bene e nel male», con l'immoralità di chi non ha più freni inibitori (neanche i vincoli di onore e di solidarietà con i complici, valori riconosciuti anche dal più
modesto malandrino). La vicenda di Evola è segnata - non marginalmente - dalle esperienze esoteriche (l'aristocratico romano è stato tra i referenti italiani di Maria de Naglowa, una protagonista del satanismo contemporaneo) (1), dalla pratica del tantrismo, dall'esercizio della magia sessuale e quindi molti epigoni dai tratti sulfurei hanno qualche titolo per rivendicare l'eredità . Intorno al «barone magico» sono fiorite numerose leggende: una vuole che la lesione midollare che lo ha reso paralitico non sarebbe l'effetto dell'onda d'urto di un bombardamento a Vienna nel 1944, da lui stesso in qualche modo cercata per mettersi alla prova, ma di strepitose pratiche tantriche. «Si diceva», racconta Pino Rauti, «anche se lui non ci riferì nulla al riguardo, che Evola avesse tenuto dei corsi di cultura nei famosi "Ordensburgen", gli antichi castelli dei Cavalieri Teutonici, che avesse avuto un ruolo, insomma, nella parte esoterica del Terzo Reich. E questa cosa, vera o non vera che fosse, ci affascinava: questa specie di cultura superiore che avrebbe presieduto alle sorti, soprattutto, delle S.S., questo braccio armato della rivoluzione nazionalsocialista» (2). Della prima cerchia evoliana fanno parte alcuni reduci della R.S.I. che saranno imputati al processo contro i FAR: Rauti, Graziani, Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra, che anima «Imperium», la prima rivista tradizionalista-rivoluzionaria. E poi altri giovanissimi: Maceratini, Andriani, Serpieri. La vicenda di Ordine nuovo si dipana da un cenacolo evoliano, i Figli del sole, che costituiscono una corrente del M.S.I.: ne fanno parte, con Rauti ed Erra, Giano Accame, Sergio Pessot, Renzo Ribotta, Stefano Mangiante, Pietro Vassallo. Il nome scelto «richiamava ostentatamente il bagaglio culturale evoliano di una visione virile-solare della vita contro il tellurismo 'lunare' e 'femmineo' dell'uomo del mondo moderno. Era chiarissima la posizione 'neopagana' di questa corrente destinata a spaccarsi in due tronconi» (3). Alla posizione entrista e pragmatica di Erra si contrapporrà rapidamente l'intransigenza di Rauti: Ordine nuovo per almeno dieci anni si limiterà a un'opera di formazione quadri e di ricerca culturale. Solo nel 1965 - sottolinea Pino Tosca, un ex-ordinovista approdato a posizioni d'intransigentismo cattolico - il Centro studi si apre alle centinaia di militanti missini delusi dell'ennesimo tradimento congressuale di Almirante. Nello stesso anno ha luogo - al Parco dei Principi - il congresso di fondazione del «partito del golpe» che vedrà tra i suoi «cervelloni» Rauti. I riconoscimenti reciproci, nel corso degli
anni, erano continuati: se Evola - che sostanzialmente disprezzava la militanza politica - aveva ammesso che Ordine nuovo era stato l'unico gruppo che non aveva deflettuto sul piano dottrinario, Graziani, nell'autodifesa al processo contro il M.P.O.N. (4), identificava nell'opera del Maestro "Gli uomini e le rovine" il «Vangelo della gioventù nazionalrivoluzionaria» e nella messa in pratica del verbo evoliano l'essenza politica dell'organizzazione. Per anni molti militanti «duri e puri» avevano continuato a frequentare le conventicole magicoesoteriche, ma per una breve stagione la fuga dalla politica per rifugiarsi nella più rassicurante sfera misterica sembra raggiungere dimensioni di massa . Siamo alla metà degli anni Settanta, quando il fallimento dei piani golpisti e la reazione popolare alle stragi hanno creato per la magistratura le condizioni per una dura repressione che colpisce non solo i terroristi (MAR, Ordine nero, F.N.R.) ma anche gli squadristi (O.N. e A.N. sono messi fuorilegge col consenso di Almirante): in molte città, da Milano a Napoli, da Padova a Bologna sono i militanti del M.S.I. e del Fronte della gioventù ad essere denunciati o arrestati per ricostituzione del partito fascista. Il resto lo fanno le campagne martellanti dell'ultrasinistra che alle parole («le sedi missine si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco», «il M.S.I. fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge», «uccidere un fascista non è reato») fanno seguire i fatti: i fratelli Mattei carbonizzati in casa, centinaia di sedi devastate in tutt'Italia dopo la strage di Brescia. Particolarmente gravi per il morale delle truppe sono le circostanze della morte di Mikis Mantakas, ammazzato fuori al portone della sezione M.S.I. di Prati, pochi giorni dopo l'inizio del processo per il Rogo di Primavalle. E' la prima prova di piazza di quell'aggregazione militante che prenderà poi il nome di Lotta popolare, metà frazione intransigente del M.S.I., un quarto riciclaggio dei gruppi extraparlamentari messi al bando, un quarto recupero di cani sciolti e disillusi. Un'operazione alchemica che si affloscerà appena uscita dal laboratorio, per la profonda diffidenza reciproca dei leader e della truppa. Dal primo giorno il M.S.I. ha affidato ai militanti più attempati il presidio dell'aula mentre ai giovani tocca la caccia al «rosso» nei dintorni del tribunale. Il successo dei primi due giorni (pieno controllo dell'aula, numerosi pestaggi all'attivo) porta a un clima di smobilitazione: per il 28 febbraio l'ordine è di andare tutti in aula,
disarmati. Scottati dallo smacco iniziale, i servizi d'ordine dell'estrema sinistra convocano rinforzi da altre città, per «riprendersi la piazza». Grande è la sorpresa e lo scorno quando un centinaio di militanti del Fronte della gioventù si salva dall'assalto di centinaia di «katanga» (i miliziani rossi) grazie all'intervento dei carabinieri che aprono il portone laterale del tribunale e lo rinchiudono in faccia agli inseguitori. Segue una trattativa convulsa: per garantire lo sfollamento da piazzale Clodio, le forze dell'ordine scorteranno a gruppi i «neri» assediati fino alla sezione missina di piazza Risorgimento. Nessuno pensa di disporre un presidio sul posto e così, mentre è in corso il trasferimento del secondo gruppo, i «compagni» assaltano a pistolettate il primo gruppo, uccidendo lo studente greco attivista del FUAN . Pochi minuti dopo il responsabile del servizio d'ordine di Avanguardia comunista, Fabrizio Panzieri, è fermato. A qualche metro di distanza è recuperata una pistola calibro 7.65: il poliziotto che l'ha inseguito lo accusa di essersene appena disfatto. La battaglia dei «compagni» per la liberazione di Panzieri si intreccerà con quella dei «camerati» per vendicare Mantakas. Panzieri, scarcerato nel marzo 1977 dopo una condanna per concorso morale nell'omicidio (e violentissimi scontri di protesta contro la sentenza) infoltirà i ranghi delle Unità comuniste combattenti. Il presunto omicida, il militante di Potere operaio Alvaro Lojacono, sarà condannato per aver fatto parte del commando delle B.R. che rapisce Moro, con il ruolo di tiratore scelto, ed è stato recentemente scarcerato in Svizzera, Paese di cui ha acquisito la cittadinanza, dopo aver scontato una condanna a 11 anni per l'omicidio del giudice Tartaglione. Seguono i consueti «giorni della rabbia»: per una settimana Prati è interdetto alle «zecche» (compagni, capelloni eccetera) ma in molti non sono soddisfatti dalla qualità della rappresaglia. Bisogna rispondere attaccando, sostengono: un bel raid armato in un quartiere proletario, in una base rossa, con l'obiettivo di devastare le sedi comuniste e lasciare a terra tutti i «compagni» intercettati. Comunque sostenere degli scontri durissimi con la polizia, per fare capire che se la sono cavata solo perché si sono messe in mezzo le forze dell'ordine, e non devono più pensare di potere impunemente ammazzare i «camerati». La tensione cresce: nel corso di una discussione molto animata, qualche testa calda «mena» un dirigente del Fronte assolutamente contrario alla vendetta, Gianfranco Fini .
Un altro pogrom scatta meno di due mesi dopo. L'Autonomia operaia considererà le «giornate di aprile» l'epifania del '77. La violenza antifascista si scatena dopo l'omicidio di Claudio Varalli, militante del Movimento studentesco, da parte di un avanguardista milanese, Antonio Braggion, che gli spara per difendersi (è questa la conclusione del processo, anche se il primo p.m. Ottavio Colato si era scontrato con la polizia non dando credito alla ricostruzione di una rissa tra opposti estremisti come occasione dell'omicidio). Gli scontri dilagano in tutt'Italia. Il giorno dopo, il 17 aprile, un militante dei Comitati antifascisti, Giannino Zibecchi, muore schiacciato da un camion dei carabinieri durante l'assalto alla federazione milanese del M.S.I. Il 19 a Firenze il militante del P.C.I. Rodolfo Boschi è ucciso a colpi d'arma da fuoco dopo un pestaggio da parte di una pattuglia di poliziotti in borghese che interviene con metodi squadristici negli scontri. Un autonomo, Francesco Panichi, che partecipa alla sparatoria convinto di avere contro dei fascisti, è ferito e arrestato. A Roma Sirio Paccino, militante del collettivo di via dei Volsci, è ridotto sulla sedia a rotelle da un colpo alla schiena dopo l'assalto al M.S.I. del Flaminio (5). Decine di sedi neofasciste sono devastate in pochi giorni da commandos armati o da ordigni esplosivi . Sul nuovo «pregiudizio» antifascista della grande stampa sarebbe possibile pubblicare un'intera antologia. Per rendere conto di una rappresentazione del tutto caricaturale del «nemico» - e al tempo stesso incapace di apportare il minimo di contributo di conoscenza - può essere utile citare un reportage del «Corriere della Sera»: «Una volta in piazza San Babila i giovani di Avanguardia nazionale si facevano proteggere dai picchiatori professionisti, reclutati nel sottoproletariato dell'hinterland, diecimila lire al giorno per menare cazzotti all'occorrenza. Adesso sembra che anche i picchiatori prezzolati non se la sentano più di rischiare, dato che il mestiere si è fatto troppo pericoloso... E' un po' fuori moda tra i neofascisti milanesi il mito della forza fisica, quello dell'avanguardista nero che deve essere un fascio di nervi pronto a scattare. Il feticismo incredibile di qualche anno fa - i giovani rampolli della borghesia si facevano confezionare su misura divise naziste tratte da vecchi numeri di 'Signal', collezionavano Mauser e tentavano di assomigliare a dei nibelunghi - sta scomparendo. La nuova generazione disprezza il ciarpame cimiteriale, maglioni neri, saluti romani» (6). Cinque giorni dopo c'è l'omicidio Varalli. Un mese e
mezzo dopo un lavoratore studente è accoltellato a morte nei pressi di San Babila, per aver staccato un manifesto del M.S.I. Da gente che non aveva più il «mito della forza fisica» . L'ambiente extraparlamentare è completamente allo sbando: non riesce a reggere il clima di accerchiamento e di isolamento totale. Non c'è più un interlocutore politico nella casa madre, il M.S.I., che anzi è considerato il grande traditore . La riesumazione dell'ortodossia evoliana risarcisce i militanti dal senso di frustrazione e totale impotenza. C'è chi cerca di esplorare nuovi terreni dell'impegno come il gruppo fiorentino di Tarchi, che dal dicembre 1974 pubblica la «Voce della fogna», una rivista "underground" che per la prima volta si occupa di musica pop, poesia e letteratura, pubblica vignette autocritiche e affronta temi politici con taglio fortemente ironico . C'è chi invece dalla milizia politica rifugge "tout court", giustificando la disfatta alla luce della dottrina delle quattro età, secondo la quale la storia del mondo subisce una parabola involutiva, dalla mitica età dell'oro al dominio del Terzo Stato. L'interpretazione della sconfitta come partecipazione al Kali-Yuga, cioè all'età oscura, sarà respinta dalla successiva generazione militante. «Nella dottrina delle quattro età», osserva il leader di Terza posizione Gabriele Adinolfi, «il KaliYuga comprende tutto il periodo storico a partire dall'Egitto, e quindi quest'interpretazione giustificazionista finisce per negare tutti i valori storici, culturali e politici ai quali la destra radicale si rifà, dalla grande tradizione imperiale romana al ghibellinismo. E' un problema sia di ignoranza sia di deformazione della realtà: l'impotenza politica e la mancanza di chiarezza spingono a una ricerca disperata e a vuoto. Così alcune fasce isolate partendo da questa giustificazione metafisica intesa in senso oscuro e fanatico - approdano a una lettura esoterica della realtà, in chiave cospirativa e insalubre» (7). Questa logica per il leader di T.P. è funzionale al «gioco delle sette massoniche» perché un «approccio anticristiano, di ispirazione esoterica e neopagana finisce con l'andare incontro al discorso di alcune centrali massoniche, come la P2, che farà presa su personaggi psicolabili o in ambienti politici di estrema destra neopagani che dalla massoneria non sono stati mai troppo distanti» (8). Un terreno comune alla religiosità neopagana e alla massoneria è il rito del Solstizio d'inverno, un ripescaggio dei riti pagani operato dal nazismo sin dai suoi albori per «illuminazione
magica» del Reichsführer Hienrich Himmler e per la «rinascita alla luce» delle sue S.S. E puntualmente questa pratica è stata ripresa alla grande dai teorici e dagli aderenti del movimento degli skinhead (nel Veronese e nel Vicentino in particolare). Ma c'è pure qualcun altro che celebra il Solstizio d'inverno ogni anno, nella migliore tradizione esoterica: la «Massoneria universale - comunione italiana - Grande oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani» che nel dicembre 1994 ha inviato ad amici e a fratelli un biglietto firmato dal gran segretario Giuseppe Malignano Stuart e dal gran maestro, avvocato Vincenzo Gaito, che recita così: «Con i migliori auguri per un solstizio d'inverno apportatore di luce e serenità a tutti gli uomini di buona volontà» (9) . In una consistente componente della destra radicale - basta sfogliare il catalogo di A.R. e «Risguardo», l'almanacco annuale della casa editrice di Freda, per rendersene conto - al cristianesimo visto come svilimento della spiritualità e apparenza decadente della religiosità viene contrapposto il sentire sacrale del passato classico, che per Adinolfi «solo una semplificazione didascalica consente di definire neopagano». A metà degli anni Settanta al vuoto di iniziativa politica corrisponde il ritorno di fiamma delle sette esoteriche e della pratiche magico-rituali, in un ampio repertorio che va dall'abiura del battesimo alla riscoperta di cerimoniali antichi. Più radicale sarà da parte della nuova destra di Tarchi la liquidazione dell'eredità evoliana, del tradizionalismo come «mito incapacitante»: «Molti tradizionalisti, considerando il passato come un'età dell'oro e il presente come un'epoca di tenebre in cui non c'è possibilità di migliorare le cose, si pongono automaticamente nella condizione di non fare nulla» (10). «I gruppi esoterici che nascono dal '74», osserva Marcello De Angelis (11), «sfuggono alla realtà e si chiudono in se stessi cercando giustificazioni deliranti alla ritirata. In Evola c'è un discorso forte sulla militanza politica come ascesi: si parte da un punto di vista metafisico sulla vita umana e si vede in un'attività politica intesa come servizio e come milizia una via d'accesso alla trascendenza. In queste conventicole, dove molti provengono da Ordine nuovo, si passa dall'accettazione della pratica politica come percorso iniziatico alla ricerca di tecniche trascendentali o magico-esoteriche per poi risolversi nel crollo della militanza e nella perdita di spessore e d'identità. In quegli anni ci sono camerati che scelgono di ritirarsi in piccoli gruppi esoterici che propongono una pratica di vita alternativa
alla militanza, pseudomonastica, settaria. Alcuni arrivano a buttarsi nel satanismo» . Il ritorno alla «via romana» e alla spiritualità dell'antica Roma è una corrente che già dal secolo scorso ha attraversato il "milieu" dei movimenti magici italiani e, con percorsi paralleli a quelli "völkisch" e «ariosofi» dalla Germania guglielmina al nazionalsocialismo, ha finito per alimentare tendenze minoritarie del fascismo, riunendo quanti cercavano di dare al movimento un carattere neopagano e romano, suscitando, nei primi anni del regime, qualche interesse di Mussolini. Alla fine degli anni Venti queste tendenze, al loro interno articolate, hanno una notevole fioritura pubblicistica. Il «pitagorico» Arturo Reghini cura la rivista «Atanor» e poi «Ignis» mentre Evola, noto come pittore dadaista, dà vita al Gruppo di Ur, che pubblica l'omonima rivista e i fascicoli di «Krur» che hanno tra i più appassionati collaboratori lo psicoanalista junghiano ed ebreo Emilio Servadio. Nella rivista («Indirizzi per una scienza dell'Io») si affrontavano aspetti teorici e pratici anche di magia sessuale, si traducevano e commentavano testi antichi, si descrivevano esperienze personali. «Verso la fine del secondo anno», racconterà Evola nell'autobiografia, «avvenne nel gruppo una scissione, per cause oscure, ma soprattutto in seguito a un tentativo subdolo di togliermi di mano la pubblicazione per farla controllare da elementi che (come in seguito, quando ciò non fu più politicamente rischioso, venne dichiarato apertamente) mantenevano in vita la massoneria malgrado la sua soppressione nel periodo fascista» (12). Delle pratiche magiche di Evola c'è traccia anche nel romanzo "Amo dunque sono" scritto da Sibilla Aleramo, all'epoca sua amante, nel 1927 . La pubblicazione nel 1928 di "Imperialismo pagano", una raccolta di saggi di Evola editi sulle riviste di Bottai e Arpinati - in seguito ridimensionato a una «contingente polemica estremista» - sembra indicare una prospettiva politica che la Conciliazione del 1929 liquida bruscamente. Dopo questo fallimento Evola scioglie il Gruppo di Ur e da allora non ha più organizzato i discepoli in un movimento magico strutturato. L'interesse per la ricerca esoterica prosegue anche dopo la chiusura delle riviste: nel 1931 è dato alle stampe da Laterza "La tradizione alchemica", libro che Evola si cura di aggiornare nel 1948 e ancora nel 1971. Un interesse che non era circoscritto alla sfera dottrinaria o teoretica. «Pur avendo trattato», scrive la redazione di
«Convivium» presentando uno scritto di "Ur-Krur" attribuito a Evola, «in modo esteso ed esauriente la dottrina iniziatica, Evola fu sempre, e principalmente, interessato alla pratica che, in ultima analisi, ridusse a due sole vie o metodi: quello buddhista e quello ermetico» (13). «Resta ancora da scrivere», osserva Renato del Ponte, uno dei maggiori discepoli evoliani, «la storia - per la verità alquanto densa di misteri delle forze che stanno dietro alle tendenzialità paganeggianti del 'Gruppo di Ur' ed allo stesso "exploit" di "Imperialismo pagano": tutto ciò rimanda comunque ai tentativi compiuti da certi eredi della Tradizione di Roma di rettificare in senso positivo il fascismo. Tentativo sostanzialmente fallito, ma paradigmatico per una certa azione possibile in ogni tempo» (14) . Al Maestro hanno continuato a fare riferimento decine di conventicole e di cenacoli. E anche la più significativa espressione organizzativa della «via romana» nel dopoguerra, il gruppo dei Dioscuri, si è costituita all'interno di Ordine nuovo, con presenze a Roma, Napoli e Messina, per autonomizzarsi alla fine degli anni Sessanta, sulla base del rifiuto dell'opzione tra riflusso nel M.S.I. e lotta extraparlamentare al sistema. «In quegli anni», racconta Pino Tosca, «alcuni ex-ordinovisti romani portano avanti la pubblicazione di una serie di quaderni di orientamento 'tradizionale' ('I Dioscuri'). Questo gruppo si perderà dietro la riesumazione del mito della Città Eterna e cercando iniziazioni impossibili. Le 'catene umane' adoperate da costoro sono irrise dagli altri gruppi evoliani. Sia "Europae Imperium" che la stessa "Arthos" parlano di questo gruppo come 'inquinato da alcuni riferimenti a tradizioni deteriori, come l'etrusca e dall'azione di elementi in combutta con la Loggia'» (15). I militanti «duri e puri» attribuiscono ai Dioscuri il dispregiativo epiteto di «maghetti», anche se si tramandano con invidia le voci sulle pratiche diffuse di «magia sessuale». I tradizionalisti romani erano più interessati ai riti che all'attività politica, considerata al massimo terreno di reclutamento. Anche se il gruppo si è dissolto a metà degli anni Settanta, esiste tuttora un'articolata presenza di circoli e conventicole incamminate sulla via romana. Il Centro evoliano di formazione tradizionale per alcuni anni ha pubblicato a Roma «Solstitium» mentre sono giunte alla fine degli anni Novanta in attività riviste come «Arthos» di Pontremoli e la «Cittadella» di Messina, l'Istituto siciliano di studi tradizionali di Trabia, il Centro studi «Claudio Flavio Giuliano» di Vignola, il Centro studi «Giorgio
Gemisto Pletone» di Riccione. La rivista più prestigiosa è «Via della Tradizione», la rassegna trimestrale diretta da un discepolo siciliano di Evola, Gaspare Cannizzo. La rivista, che ha cominciato le pubblicazioni nel 1971, ha visto tra i collaboratori studiosi del livello di Gianfranco De Turris, Mario Bernardi Guardi, Gabriele Fergola, Adriano Romualdi e Pio Filippani Ronconi. Un network che continua a estendersi . Nell'autunno 1994 - proprio mentre il popolo missino si avvia a consumare la grande abiura per legittimare la conquista del governo l'Associazione di studi tradizionali «Senatus» dà vita a «Politica Romana», una rivista che «fa esplicito riferimento alla grande Tradizione politico-sacrale romana, quale venne germinando nell'arcaico periodo regio e sviluppandosi quindi compiutamente nelle strutture della Roma repubblicana, sempre sotto l'egida sapiente di un Senato fedele custode ed interprete del "mos maiorum" [...]. L'Archetipo vivente di quella che è e rimane l'unica originaria Tradizione nazionale d'Italia viene a fornire un sicuro criterio che, proiettandosi nel tempo fino all'epoca attuale, consente di affrontare ogni genere di argomenti e di problemi». E infatti la rivista si occupa non solo di politica ma anche di svariati temi tradizionali: la Triade capitolina, i misteri egizi di Ra e Osiride, l'Ordine pitagorico, i Fedeli d'Amore. Nella rivista «Arthos» diretta da Renato Del Ponte è stato pubblicato nel primo numero del 1973 il progetto dell'Ordine della Corona di ferro, elaborato su richiesta di alcuni discepoli da Evola (il gran maestro è Boris de Rachewiltz). Un ordine ispirato a una spiritualità sacrale e gerarchica (organizzata con tre gradi interni) e riservato esclusivamente agli uomini: alcune giovani donne «potrebbero costituire una formazione di 'terziarie' a disposizione degli uomini dell'Ordine, per un uso comunitario e non possessivo [...] prendendo misure che prevengano la fecondazione» (16). Il Movimento tradizionalista romano, che a lungo ha avuto una sede aperta a Napoli, nella centralissima via Toledo (l'enorme insegna con due vistosissimi fasci littori «romani» è stato per un decennio il bersaglio prediletto delle sassaiole dei cortei antifascisti...) è ancora attivo (17). I tradizionalisti romani, che al generico termine di neopaganesimo preferiscono la categoria di «via romana agli Dèi», si distinguono in tre componenti religiose. La prima, più conservatrice, si riconosce principalmente nella tradizione italica e romana sviluppata fino alla
Prima guerra punica, la seconda privilegia la scrupolosità tecnica rituale come modo concreto di vivere e testimoniare la "pietas", e la terza definibile come «misterica» si caratterizza per un interesse prevalente per l'aspetto dottrinario, metafisico e teologico della tradizione grecoromana. Fortemente ispirata dal neoplatonismo, sottolinea l'unità metafisica che è sottesa alla moltitudine degli dèi. Comune alle diverse anime del movimento il richiamo alla pratica del «culto privato» e alla centralità del rito nella vita religiosa . Un bilancio assai negativo della «deriva» tradizionalista è stato tracciato da Mutti, intervenendo nel dibattito suscitato da «Heliodromos», la rivista del Fronte della tradizione, di ispirazione guénoniana: «1) Alcuni hanno eretto a sistema le vedute filosofiche della prima e dell'ultima fase dell'attività evoliana, usando la teoria dell''individuo assoluto' e l'etica del 'cavalcare la tigre' come surrogati di un'autentica dottrina tradizionale; 2) altri hanno diffuso l'opinione secondo cui sarebbe sufficiente il semplice riferimento a una 'Tradizione' astratta e non meglio definita, a 'valori tradizionali' vaghi e imprecisati, a una 'visione del mondo tradizionale' disgiunta dalla pratica di riti specifici e dall'adeguamento a un determinato modello di vita tradizionale; 3) altri ancora si sono attardati nella ricerca di improbabili residui delle tradizioni locali dell'Occidente, autocondannandosi, nella migliore delle ipotesi, a una sterile attività di archeologi, o ritrovandosi, nel peggiore dei casi, nel campo della stregoneria; 4) qualcuno ha dedicato i propri sforzi alla comprensione di dottrine e all'esercizio di pratiche esclusivamente destinate a un'umanità diversa da quella occidentale o comunque adeguate a tipi umani diversi da quello europeo, correndo inoltre il rischio di affidare la guida di se stessi ai falsi guru che infestano l'Occidente. Queste scelte procedono da un disordine mentale che l'ambiente umano di formazione evoliana deve eliminare, chiarendo a se stesso il significato dell'idea di Tradizione [...] e riconoscendo l'inanità e il pericolo connessi all'illusione di ravvivare tradizioni ormai estinte e alla pretesa di poter seguire vie non praticabili dall'uomo occidentale» (18). Un lettore replica a Mutti rilanciando la possibilità di pratiche magiche e iniziatiche per la «realizzazione interiore» dell'«uomo differenziato»: «Quando Medrano dopo aver citato come adatte per l'uomo contemporaneo la via dello ZEN e del TAO, raccomanda estrema prudenza nel dare giudizi sulle altre vie spirituali vuole alludere anche
alla 'Via della mano sinistra' introdotta da Julius Evola 'YOGA DELLA POTENZA' e particolareggiatamente da Arthur Avalon 'IL POTERE DEL SERPENTE, che sembrerebbero le più percorribili in quest'epoca di dissoluzione anche perché presuppongono solo dei principi operativi, privi di fede contingente al luogo di provenienza, tesi a provocare un graduale dominio sul corpo [...] e sui desideri a cui esso soggiace. Tali tecniche, primo fra tutti il PRANAYAMA, sono in pratica efficaci ad aprire la strada a chi voglia davvero iniziare a calcare la via dell'Essere? Sarebbe utile una risposta che serva a dissipare una volta per tutte ogni dubbio. E in che modo integrarle con l'apertura di una tradizione occidentale, dove forme e simboli della romanità sono le uniche, in Italia, correnti sotterranee suscettibili ad essere risvegliate e operanti sì da costituire un nuovo CENTRO TRADIZIONALE occulto» (19). Le domande che il lettore pone non sono retoriche ma entrano con ricchezza di particolari nel merito delle diverse possibilità «operative» per i novelli «stregoni». «Chi possiede», prosegue il lettore, «una solida preparazione teorica sulle varie dottrine tradizionali, ma non ha accompagnato che con sporadici tentativi discontinui ed eterogenei, la trasposizione pratica delle suddette può scegliere - partendo dal presupposto che sappia distinguere le forme tradizionali dalle mistificazioni che abbondano ogni giorno - seguendo le proprie inclinazioni, il metodo che riterrà più opportuno? Potrà variare le tecniche, passando ad esempio dal controllo del respiro nonché delle posizioni rigidamente prescritte dallo HATHA-YOGA (sempre se compatibili con l'ambiente e la Tradizione propria ai nostri luoghi) all'uso di specchi particolari per destare in noi un primo germe? Dall'uso del sesso secondo la Via Tantrica, all'operazione a due vasi entro il proprio corpo? Dall'alchimia taoista tendente a trasmutare l'Io all'apprendimento per mezzo del sogno dal quale, secondo lo stesso Meyrink, scaturisce la Vera Arte? E tutto ciò può avvenire indipendentemente dal luogo geografico in cui ci si possa recare o si viva?» (20) . Di tutt'altra natura la riscoperta, nel corso degli anni Ottanta, di un paganesimo di ispirazione druidica. Il neo-celtismo è un fenomeno che si sviluppa su scala europea, in evidente rapporto con l'attività politica degli adepti, e rompe il tradizionale schema che vedeva un certo tipo di destra politica interessato ai riferimenti della Roma imperiale o ai primordi germanici in Europa. Mentre negli Stati Uniti e in Germania
rappresentanti significative del femminismo - fortemente influenzate dall'ecologismo - portano alle estreme conseguenze il discorso sul simbolo della strega e si dedicano al culto della Dea e della Terra, nazionalisti di sinistra bretoni o scozzesi riscoprono la religione dei padri nel quadro di un movimento di revival politico. In questo contesto va osservato che il neoceltismo ha fatto proseliti anche in una frazione di nostalgici dell'estrema destra, nella costellazione di gruppi che si richiamano all'esperienza dei nazionalbolscevichi, l'ala minoritaria del nazismo liquidata brutalmente per le sue tendenze sinistrorse dopo la conquista del potere. I «partigiani europei», eredi della Giovane Europa di Jean Thiriart, si definiscono come «una fazione dell'estrema destra, che, passando attraverso il neofascismo si è evoluta verso il nazionalismo rivoluzionario e l'estrema sinistra anti-sionista, libertaria e non dogmatica» (21). Questa componente ha il suo punto di coagulo in Italia in «Orion». Nell'area nazionalcomunista, come ha sottolineato Murelli, non esistono problemi di appartenenza religiosa e convivono tranquillamente cattolici più o meno integralisti, pagani come Murelli, Battarra (che dichiarano però di avere da tempo abbandonato i riti del Solstizio), e Alessandra Colla (cultrice di Ipazia, la prima martire del paganesimo) (22), agnostici come Galmozzi e musulmani come Mutti o Terracciano. L'elogio delle differenze nel gruppo non cede il passo all'indifferenza: forte è la tensione contro le cosiddette «sette distruttive». Particolare spazio è stato dedicato all'attività del reverendo Moon e ai tentativi della Chiesa di Scientologia di espellere da Internet un gruppo di pressione composto da ex-adepti «danneggiati» dalla militanza nella setta. Gli scientologi sono accusati di aver progettato l'omicidio di un transfuga. Non mancano poi incursioni polemiche su figure apparentemente bizzarre, come i realiani, adepti di un culto ufologico, accusati esplicitamente di razzismo e di sostegno ai «diversi movimenti spirituali e politici che propongono la distruzione delle razze arabe, gialle e nere che accaparrano le ricchezze e le materie prime di cui la razza bianca ha bisogno» (23) o i «Ragazzi del Lago», una setta che si è sviluppata intorno alla personalità carismatica di un cultore degli UFO e che cura tutti gli aspetti organizzativi, dal servizio d'ordine alla pubblicità al servizio di hostess, ai convegni che il Centro «Pio Manzù» per la pace organizza annualmente con la sponsorizzazione di multinazionali come la FIAT, la Montedison, l'IRI, la Pirelli, l'Olivetti,
l'I.B.M. e la partecipazione di personalità internazionali del rango di Gorbaciov, Shevardnadze, Perez de Cuellar, Andreotti, De Michelis . A una corrente di paganesimo neoceltico si collega sicuramente la svolta esoterica di Umberto Bossi, che individua nelle tradizione druidiche il mito di fondazione della nazione padana: «La cultura druidica», sottolinea Giorgio Galli, «è piena di spiriti che trovano il loro habitat nei fiumi, nei boschi, nel mare. Gli elfi, le ondine, le silfidi sono parte integrante di questo complesso panorama di divinità naturali. E Bossi almeno in questo non racconta frottole, anzi, non fa altro che appropriarsi di un patrimonio già ben conosciuto» (24). Così, mentre l'ex-ordinovista Mario Borghezio si dedica alla storia dei Templari, Bossi riesuma il simbolo solare ario dello swastika, edulcorandolo nel Sole stilizzato delle Alpi . Nel complesso sistema di pensiero di Evola ha un ruolo centrale il concetto di «equazione personale»: ognuno ha una propria via di realizzazione, che deve riconoscere e perseguire con stile e con rigore. Questa libertà totale è estesa anche alla scelta religiosa, che è considerata relativisticamente come manifestazione di un Sacro che affonda nella Tradizione e al cui centro si può pervenire attraverso le più varie traiettorie. Se nelle società tradizionali ordinate gerarchicamente era stabilito con chiarezza il primato dei sacerdoti, dei guerrieri, dei sapienti, nei tempi bui della dissoluzione non è possibile individuare criteri di superiorità. Nelle pieghe del pensiero evoliano è possibile trovare legittimità alla massiccia fuga dall'impegno politico che si determina alla metà degli anni Settanta e che è in buona misura il prodotto della grande delusione per il fallimento dei progetti golpisti e l'incalzare della repressione . Nelle sue maglie, con accuse da ergastolo, incappa anche uno dei più brillanti talenti del movimento, Umberto Balistreri, direttore dei «Quaderni del Veltro», animatore nel 1972 del Coordinamento di Azione tradizionale. Siciliano emigrato a Bologna, Balistreri è il responsabile emiliano del M.P.O.N. E' perciò condannato a tre anni (pena ridotta in appello a due anni) nel primo processo per ricostituzione del partito fascista. Nel maggio 1974 è arrestato in Sicilia dove è in convalescenza dal servizio militare per gli attentati di Ordine nero e colpito subito dopo la strage di Brescia da un ordine di cattura per strage e ricostituzione del P.N.F. E' imputato anche nel processo per la ricostituzione di Ordine nuovo e soltanto dopo un anno di carcere,
nel maggio 1975, ottiene la libertà provvisoria. I due processi si concluderanno con ampia assoluzione. Subito dopo la strage alla stazione di Bologna è tirato in ballo in un'oscura lettera anonima compilata da un amico di Mangiameli, Alberto Volo, come componente di un nucleo eversivo attivo nella scuola privata «Valmigli», di cui lo stesso Volo era preside, e coinvolto nella strage. Volo, con precedenti penali per rapina, è un personaggio bizzarro: un po' mitomane, un po' con la fissazione del cospiratore. Racconterà poi ai giudici che si era autoaccusato per precostituirsi un alibi. In altre circostanze fantasticherà sul coinvolgimento di Mangiameli nell'omicidio Mattarella, su rapporti con i servizi segreti, sul suo ruolo nella struttura siciliana di Gladio (l'Universal Legione, il cui altro responsabile era l'ex-sindaco di Palermo Insalaco). Finirà poi arrestato per un banale traffico di banconote false. Cessate le disavventure giudiziarie, anche Balistreri, come i camerati del Centro studi rifluiti con Rauti nel M.S.I., ritorna alla casa madre, dove trova lavoro come segretario personale del deputato regionale siciliano Pippo Tricoli . NOTE . (1). Confronta Massimo Introvigne, "Indagine sul satanismo", «Oscar Saggi», Milano, Mondadori, 1994 . (2). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 26 . (3). Tosca, "Il cammino della Tradizione", cit., p. 47 . (4). Confronta Graziani, "Processo...", cit . (5). Il segretario della sezione, Gianfranco Rosci, arrestato perché sospettato di aver sparato contro Paccino, è scagionato dal guanto di paraffina. Tornerà più volte alla ribalta della cronaca. Nel marzo 1980 un commando dei Compagni organizzati per il comunismo uccide al suo posto un cuoco, tale Allegretti, che abitava nella sua strada. Nel 1993, in piena Tangentopoli, la moglie, stanca dei suoi tradimenti, lancia dalla finestra decine di milioni gridando che erano le mazzette che il marito intascava da quando, passato come tanti missini nei ranghi della D.C. andreottiana (o meglio sbardelliana), era stato nominato nel comitato di gestione di una USL . (6). Leonardo Vergani nel «Corriere della Sera» del 10 aprile 1975 . (7). Conversazione con l'autore, Londra, febbraio 1989 . (8). Ibidem .
(9). "Fratelli e camerati uniti nel Solstizio", «Cuore», a. 5, n. 207, 28 gennaio 1995 . (10). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 126 . (11). Conversazione con l'autore, Londra, febbraio 1989 . (12). Julius Evola, "Il cammino del cinabro", Milano, Schweiller, 1972, p. 85 . (13). "Julius Evola e la scienza alchemica", «Convivium - Rassegna trimestrale di studi tradizionali», a. 6, n. 22, luglio-settembre 1995 . (14). Renato Del Ponte, "A proposito di Julius Evola, dieci anni dopo", «Risguardo IV», Brindisi, Edizioni di A.R., 1984, p. 225 . (15). Renato Del Ponte, "Evola e l'esperienza del «Gruppo di Ur»", «Arthos», settembre-dicembre 1973 . (16). Massimo Introvigne, "Il cappello del Mago", Milano, Sugarco, 1995, p. 346 . (17). Un «Manifesto», "Orientamento per i tempi a venire", è stato distribuito dalla redazione della «Cittadella» . (18). Claudio Mutti, "Riflessioni sull'azione tradizionale. Osservazioni critiche", «Heliodromos», n. 21, aprile-maggio-giugno 1984 . (19). "Lettere ad Heliodromos", «Heliodromos», n. 22, gennaiofebbraio-marzo 1985 . (20). Ibidem . (21). "Manifesto politico del Partigiano europeo", «Orion», a. 6, n. l0, ottobre 1989 . (22). Confronta Alessandra Colla, "Una 'martire' pagana Ipazia", «Risguardo», IV, 1985 . (23). Rael, "Les extraterrestres m'ont emmené sur leur planète", edition 1987/1988, a cura del CCMMM, Paris, p. 61, cit. in Franco Morelli, "L'ambasciata degli extraterrestri a Gerusalemme", «Orion', n.s., a. 4, n. 10, ottobre 1995 . (24). Roberto Gatti, "Umberto l'esoterico", «L'Espresso», 19 settembre 1996 . SAPIENZA DI DIO, SAPIENZA DELL'UOMO . E' in questo contesto di fuga dalla politica che a partire dal 1975 due centrali operative di esoterismo applicato pescano proseliti nell'estrema destra: Helios, di ispirazione antroposofica, e Nuova Acropoli [N.A.], organizzazione internazionale teosofica che, a detta di un ex-dirigente internazionale, nasconde dietro le attività culturali e l'impegno
ecologista un apparato paramilitare clandestino dai connotati apertamente neonazisti . Helios nasce come gruppo misterico, impegnato in faide con altri gruppi di «maghetti»: i quadri più determinati parlano apertamente di prepararsi alla resa dei conti finale con le «forze del male», identificate nei Dioscuri, gli ex-ordinovisti pagani e tellurici. Dalla lotta alla «magia nera» - ma qualcuno degli adepti più profanamente bazzicava gli ambienti della lotta armata - i seguaci di Helios sono approdati a una visione misticheggiante, antroposofica (il movimento per cui simpatizza anche la signora Berlusconi che manda i figli alla scuola steineriana di Milano e non fa vedere loro la televisione), di un cristianesimo esoterico alla Massimo Scaligero. Il riconoscimento del ruolo di Maestro al massimo esponente dell'antroposofia italiana, stabilisce un evidente legame tra la generazione dei reduci di Salò e i transfughi della piccola guerra civile degli anni Settanta. «Evola», spiega Rauti, «al tempo della Repubblica sociale e anche nei primi anni del dopoguerra noi non sapevamo neppure chi fosse. Quando cominciammo il nostro approfondimento culturale noi, parlo di settanta-ottanta giovani reduci, ci invaghimmo della teosofia di Rudolf Steiner (1). Seguivamo i corsi che Massimo Scaligero teneva al Gianicolo: lui era il guru della teosofia italiana, aveva avuto esperienze fasciste e ci indottrinava» (2). Un ruolo decisivo per l'affiorare di un filone italiano di esoterismo cristiano l'avrà la sorella di Scaligero, Luciana, sposata con Paolo M. Virio, un modesto impiegato di banca dalla vocazione ascetica. Solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1969, la moglie ne darà alle stampe l'opera, che porta alla luce un'antica filiazione iniziatica che trae origini dalla Terrasanta ed è stata trasmessa per via familiare dal conte Alberti di Catenaia, nome iniziatico Erim: un problema centrale per i tradizionalisti cattolici, che lamentano la rottura - con lo sterminio dei templari - di ogni catena iniziatica in Occidente. Al centro della ricerca della coppia il recupero di una dimensione esoterica del cristianesimo, trasmessa attraverso l'insegnamento della Kabbalah. Con i Virio - nome iniziatico - che non hanno figli e non ne hanno «adottato» sul piano spirituale, si estingue un ordine che risale alle Crociate . Sulla loro falsariga una ricerca esoterico-cristiana ha ripreso vitalità negli anni Settanta. Nel 1977 è stato costituito l'Istituto romano per la ricerca interdisciplinare, che ha editato la rivista «Excalibur». Vi sono
confluiti esponenti di diverse realtà del cattolicesimo intransigente: dal filone Movimento integralista-Europa civiltà (3) Mario Polia e Paolo Galiano, dalla corrente mordiniana (4) Giuseppe Passalacqua e Gianfranco Erosch e poi Carlo Fabrizio Carli e Pierfrancesco Zarcone (che approderà al cristianesimo ortodosso). Responsabile redazionale è un oblato cistercense, Placido Procesi, medico personale di Evola e cavaliere dell'Ordine teutonico, che spingerà la «ricerca interdisciplinare» verso una spiritualità «graalica» e tematiche magicoiniziatiche che porteranno alla chiusura della rivista e all'allontanamento dei cattolici-tradizionalisti. Negli stessi anni, nei ranghi di Helios, che per alcuni anni pubblica gli omonimi «Quaderni», figurano numerosi quadri di Terza posizione, che per un periodo praticano la doppia militanza: tra questi Luca Olivieri e Nicola Solito, i responsabili di Gioventù nuova, il gruppo dei sopravvissuti al blitz del 23 settembre 1980 che a Helios approda dopo l'arresto per un attentato con una bottiglia molotov, e Giorgio Nistri, fratello di Roberto. Questo esito era probabilmente iscritto nel codice genetico dell'esperienza più «moderna» e movimentista dell'estrema destra, che si sforzava di combinare impegno sociale e tensione spirituale. Il gruppo iniziatico è ancora attivo, con un modesto sito web . Più inquietante è la vicenda di Nuova Acropoli, gruppo fondato in Argentina nel 1957 da Jorge Angel Livraga Rizzi, un professore (5) di origine italiana nato a Buenos Aires nel 1930, membro della Società teosofica, e dalla moglie Ada Albrecht, che nel 1981 dà vita all'autonoma Fondazione Hastinapura. N.A. si è poi diffusa in altri Paesi sudamericani e nella Spagna franchista. Da lì è approdata in altre nazioni europee, principalmente meridionali. Negli Stati Uniti ha solo quattro sedi: la più attiva è quella di Miami; le altre sono a Boston, Phoenix e Seattle. Il gruppo rifiuta l'etichetta di gruppo magico o di nuova religione e si considera un «movimento di pensiero» (di ispirazione teosofica) e una «scuola filosofica» (di stretta osservanza pitagorica), con 5000 membri nel 1989 (6) (500 in Italia) e un patrimonio dichiarato di otto milioni di dollari. Alcuni militanti neofascisti più avvertiti, e un po' paranoici, avevano subito messo in guardia l'ambiente: la setta esoterico-occultistica è forte in Argentina e in Italia, i santuari della P2; i duri e puri sono ossessionati dai tentativi d'infiltrazione e di controllo da parte della massoneria deviata. Qualcuno dei più cólti sa che il Maestro dei pitagorici italiani Reghini
ha collaborato con Evola nella stagione della ricerca iniziatica, alla fine degli anni Venti, col recondito scopo di garantire il controllo della massoneria sull'esoterismo fascista . Uno dei leader italiani, Miguel Martinez (7), rompe dopo quindici anni di militanza e denuncia l'esistenza di un doppio livello, con una struttura iniziatica per adepti neonazisti. La prima denuncia è del 1990 con un'intervista a «Famiglia cristiana» - seguita anni dopo da un memoriale, "Nuova Acropoli. Dentro una setta neonazista". Martinez svela i segreti di «un'organizzazione totalizzante che, livello dopo livello, inculca nei giovani adepti - inizialmente inconsapevoli - una dottrina [elaborata in Austria e Germania agli inizi del secolo] in cui si combinano elementi di nazionalismo, di tradizionalismo e di naturalismo "völkisch" (8) con le teorie occulte mutuate dalla teosofia ottocentesca di madame Blavatsky, tesa a prevedere e motivare il predominio mondiale di una 'razza superiore': quella ariana. Scopo ultimo dell'organizzazione è infatti, oltre alla propria espansione, la creazione di un 'Uomo nuovo' che dovrà preparare l'avvento di questa 'razza purissima'» (9). La struttura piramidale occulta di N.A. è ignota ai militanti di base i quali si ritengono membri di un'organizzazione culturale e umanistica, che ha promosso dall'inizio degli anni Ottanta decine d'iniziative, corsi e seminari. Tutti regolarmente pubblicizzati gratuitamente dalla stampa italiana, compresi «Famiglia cristiana» e «Cuore», che in epoca successiva ne denunceranno il disegno occulto. Molti enti locali e pubblici finanziano manifestazioni e programmi della setta o le affidano commesse (10). Agli esterni N.A. dice di leggere i tarocchi, di studiare filosofia innocente e di organizzare passeggiate nella natura. Lo spazio web - il sito italiano è stato chiuso nel 1998, restano attivi quelli in spagnolo, francese e inglese - contiene propaganda mite, ma già gli annunci di corsi di kung fu e altre arti marziali suonano allarmanti. Al vertice dell'organizzazione c'è il comandante mondiale (che è stato il fondatore fino alla morte), che governa per decreti e ha contatti diretti solo con il corpo d'élite degli Asciati. I militanti sono divisi in tre strutture: il «Corpo di sicurezza», le «Brigate maschili» e le «Brigate femminili». Il Corpo di sicurezza, divise nere da S.S. e simbolo della folgore, ha compiti di vigilanza e di pronto intervento. In Italia, dopo la svolta ecologista dei primi anni Ottanta, ha cambiato il nome in Dipartimento di protezione civile. Niente di grave, rispetto alle modifiche apportate al settimo
comandamento: «Non ucciderai, se non è strettamente necessario». Per educare i ragazzi i responsabili pensano di farli allenare con pestaggi di drogati e omosessuali, che Livraga desiderava internare in campi di concentramento (11) . Un lungo elenco di addebiti, per episodi di violenza e di terrorismo, attività di criminalità comune, contiguità con gruppi e diffusione di idee razziste e xenofobe, è riportato da Herman de Tollenaere (12), in un articolo critico (13) pubblicato dopo il convegno sulle sette di Amsterdam, per la decisione del CESNUR di affidare a una dirigente di N.A., Maria Dolores Fernandez-Figares, la relazione sullo stesso gruppo (14). Livraga Rizzi negli anni Settanta rivendica apertamente rapporti inquietanti in America Latina (con i golpisti argentini e uruguagi, i cileni di Patria y Libertad) mentre in Europa organizza un addestramento mirato dei militanti con armi da fuoco. In Francia il movimento antisette denuncia l'esistenza di un doppio livello e i rapporti con l'ultradestra (15) già nella prima fase di proselitismo. Nel 1987 N.A. ha organizzato un convegno a Lione assieme ai leader del Fronte nazionale mentre suoi membri hanno messo una bomba nella moschea di Romans. In Spagna il rapporto con la Falange fa crescere il movimento, che si contraddistingue per gli scontri di piazza con gli antifascisti ma anche per traffico illegale di quadri. Il 30 aprile 1993 la polizia fa irruzione nel quartier generale di Madrid e vi sequestra molte opere d'arte rubate. In Belgio negli anni Ottanta sono forti i legami con i terroristi neonazisti di Westland New Post (stesso indirizzo, praticamente gli stessi nomi) mentre l'adepto Marcel Barbier è arrestato per duplice omicidio ad Anderlecht. Gli arsenali della setta sarebbero ben forniti: mitra a Buenos Aires, fucili nel castello spagnolo di Santiuste, armi corte a Madrid e in casa del responsabile ateniese, condannato a un anno di carcere. Un incidente succede anche in Italia. Durante un campo a Montefiascone, nel settembre 1989, nella perquisizione di una cascina acquistata alcuni anni prima, sono trovati gagliardetti, labari, coltelli, radio ricetrasmittenti senza licenza e numerosi bossoli. I carabinieri arrestano un miliziano del corpo di sicurezza . La divisione sessista dei compiti delle Brigate rende manifesta la concezione razzista: N.A. è severamente preclusa a omosessuali, prostitute, tossicodipendenti e disabili. Le Brigate maschili, simbolo la croce celtica, ricalcano gli schemi del Fronte del lavoro hitleriano
mentre alle donne è riservata l'assistenza a bambini e anziani. Molti giovani che partecipano alle attività di volontariato ignorano l'esistenza di un livello occulto, con il suo armamentario di riti del Solstizio e saluti romani. Particolare attenzione è dedicata ai figli degli adepti: all'asilo nido, «la Catenina d'oro», insegnano ai bambini a vedere gli gnomi, gli elfi e le fate. A sette anni scatta la divisione per sesso, tra «Cavalieri della Tavola Rotonda» e «Tavola d'Iside», escludendo subnormali e bambini con problemi: l'umanità si divide in razze inferiori (i neri) e superiori (gli ariani), la selezione naturale è esaltata in nome di una malsana etica dell'uomo forte, che è inculcata insieme al disprezzo per i più deboli. Oggi in Italia N.A. si presenta come organizzazione ambientalista e apolitica ma ai primordi - fondata a Roma nel 1975, aprì quindici sedi in quattro anni - poté contare sull'appoggio di Serafino Di Luia, uno dei leader della disciolta Lotta di popolo. In altri Stati, come la Spagna e l'Argentina, le simpatie neonaziste sono dichiarate. In Messico si giunge a organizzare convegni storici revisionisti: "Hitler: colpevole o innocente". «Il mio era un caso a parte», racconta Martinez, «venivo da Ordine nuovo e non hanno dovuto usare i sotterfugi che utilizzano con le altre matricole. Si inizia con un corso, all'interno del quale l'adepto viene seguito individualmente. Lo si sonda, se ne capiscono gli interessi, lo si indirizza verso un lavoro all'interno dell'organizzazione. Per formare un capomanipolo del Corpo di sicurezza ci vogliono circa due anni. Si comincia con l'utilizzo di piccoli codici e ci si ritrova inquadrati, stretti in divise similnaziste, a fare il saluto romano. O a sparare». Gli addestramenti si svolgono su un terreno acquistato sulla Cassia, nei pressi della cascina di Montefiascone. L'esercizio della violenza è controllato: «L'organizzazione non va sputtanata, non bisogna tradirsi. Al massimo qualche scazzottata con i punk che non gradiscono Wagner e la musica celtica. Non è necessario essere disturbati mentalmente per farsi coinvolgere. Può bastare una forte dose di idealismo. Io ho avuto tutto chiaro da subito, ed è per questo che ho salito i gradini dell'associazione. L'obiettivo finale è la costruzione di uno stato piramidale, dittatoriale». N.A. rappresenta un'esperienza totalizzante: Martinez non ha mai avuto un lavoro regolare e solo a 38 anni è giunto alla soglia della laurea. Anche la moglie l'ha conosciuta nella setta «ma lei è sempre stata meno importante dell'organizzazione. Ero da solo in Egitto come capo dell'organizzazione locale. Ho avuto accesso
all'archivio generale: piani per conquistare il mondo accanto a foto di vecchietti travestiti da gerarchi. Lontano da tutto, ho avuto modo di capire come tutto ciò fosse grottesco e pericoloso» (16). Alle accuse di Martinez dà scarso credito Introvigne, che di N.A. si è occupato in due dei suoi numerosi volumi (17). Pur citando le polemiche francesi non riferisce le analoghe accuse dell'ex-dirigente, che considera «farneticante come la maggior parte delle persone in contatto con i cosiddetti movimenti anti-sette» (18). N.A. respinge sdegnosamente le rivelazioni di Martinez: l'uso di titoli come comandante, corpo o brigata non ha alcun particolare significato paramilitare e si riferirebbe alla diffusione organizzata della verità, nel rispetto della tradizione ellenica. La concezione ultraelitaria di un governo aristocratico affidato a un Consiglio supremo composto dai migliori cervelli, riconduce alla filosofia politica di Platone (dottrina che ispira anche le tesi sul «vero Stato» di Freda) (19), mentre l'antropologia e la visione della storia sono affini a quelle dei movimenti iniziatici pitagorici, che hanno notevole rilievo nel tradizionalismo italiano . Al mondo delle sette magico-religiose vanno ricondotte due esperienze locali di terrorismo minore nella seconda metà degli anni Ottanta. Per alcuni anni a Milano agiscono i Nuclei armati per la purificazione spirituale, che uniscono elementi ideologici di integralismo cattolico e fondamentalismo islamico. I NAPS debuttano il 2 ottobre 1986 accoltellando alla schiena l'ex-pastore valdese Calogero Falcone, proprietario della libreria ecumenica di San Babila. La notte di San Silvestro un ordigno danneggia la sede della Società antroposofica a via Vasto. Il 26 gennaio 1987 è compiuto un attentato contro un Tempio dei Testimoni di Geova. A febbraio l'obiettivo è il circolo Vita nuova, definito sede dei «vermi spiritualisti», ma i «purificatori» sbagliano bersaglio e danneggiano un negozio di scarpe. A marzo è la volta della Chiesa valdese metodista. Il 28 agosto 1989, dopo un anno e mezzo di inattività, i NAPS fanno esplodere un ordigno contro una palestra di arti marziali a Bovisa. Il 20 gennaio 1990 l'ultima azione: una molotov nella Galleria di corso Garibaldi rivendicata come attentato contro gli uffici del «Corriere della Sera», «sacrilego quotidiano milanese che fa pubblicità alle sette del neospiritualismo moderno e antitradizionalista. Primo e ultimo avvertimento. Se faranno ancora pubblicità alle sette faremo altri attentati». I NAPS resteranno avvolti nel mistero .
Diversa sorte tocca ai bolognesi delle Ronde pirogene antidemocratiche, responsabili dell'incendio di 120 utilitarie. Sono accusati di farne parte il professor Curzio Vivarelli, il disoccupato Luca Tubertini, entrambi aderenti all'associazione Ananda Marga, e i giovani Damiano Rossi e Mauro Borghi. I quattro sono arrestati il 23 maggio 1989. Una settimana dopo è la volta di Bruno Donati, 35 anni, impiegato. Le manette scattano anche per il padre di uno degli arrestati che per impedirne la cattura ha sparato con il fucile contro gli agenti: dovrà rispondere di tentato omicidio. Le Ronde bruciano le vecchie auto «simboli materiali dell'agglomerato sociale operaio-piccolo borghese» ma - scrivono in un volantino di rivendicazione di una campagna incendiaria - «passeremo ben presto alla demolizione delle abitazioni dei pezzenti, dei baraccati, degli emarginati... e come terza fase alla soppressione fisica di tutti gli esseri abietti». L'Ananda Marga, una setta induista, contesta l'uso del simbolo (una stella di David con sullo sfondo un sole nascente e uno swastika) da parte delle Ronde e pur riconoscendo il rapporto con i due arrestati nega ogni responsabilità per i «gesti fanatici e insulsi eventualmente attribuiti ai due, personaggi con problemi psicotici», poiché l'associazione si occupa della diffusione dello yoga come sistema per ritrovare l'armonia e l'equilibrio. Una dissociazione poco credibile: il movimento, fondato in India nel 1951 da un maestro bengalese di yoga tantrico, si è reso protagonista di numerosi e gravissimi episodi di violenza politica. Shrii Shrii Anandamurti organizza contemporaneamente un movimento spirituale e politico basato sulla Teoria dell'Utilizzazione Progressiva (il PROUT) che ha suscitato l'interesse di importanti economisti. Ananda Marga, in nome dell'opposizione al comunismo e al capitalismo, persegue una «terza via» e si dichiara contrario al sistema delle caste e fiero oppositore del Partito del Congresso. Dopo aver conseguito buoni risultati elettorali nel '67 e nel '69, il leader è arrestato nel 1971 per l'omicidio di ex-membri. La repressione prosegue: nel '75 Indira Gandhi mette al bando l'organizzazione in tutta l'India. L'assoluzione per Anandamurti nel '78 accentua il vittimismo degli adepti: alla denuncia della persecuzione politica per motivi elettorali si accompagna il gesto disperato di otto seguaci (tra i quali cinque occidentali) che si suicidano col fuoco. Il movimento prende le distanze, ma celebra il «sacrificio generoso». Così in Australia, nel 1981, due adepti sono condannati per l'omicidio di un uomo politico
ostile mentre l'anno successivo 17 membri del movimento sono uccisi in un tumulto a Calcutta. La setta agli inizi degli anni Ottanta prende piede anche in Italia, reclutando in ambienti evoliani: l'allarme è lanciato da «Heliodromos», la rivista del Fronte della tradizione che in un dotto articolo del professore Claudio Mutti (20) (sotto pseudonimo) esamina tutte le violazioni dell'ortodossia hindu (universalismo, antropocentrismo, influenze steineriane) commesse dai seguaci della nuova scuola di yoga tantrico, una dottrina che ha influenzato anche Soho Asahara, il santone di Aum, la setta della strage col gas nervino nel metrò di Tokyo . Nell'inchiesta sulle Ronde pirogene è coinvolto anche il veronese Giovanni Gunnella, figlio di Pietro, «il Professore», fiduciario della rete CIA, contatto tra Minetto e il colonnello Spiazzi. Una conversazione telefonica del giovane, residente a Firenze, sul «terzo uomo» di Ludwig (la prima organizzazione terroristica di ispirazione politico-religiosa, un mélange di intransigentismo cattolico e razzismo nazista) è citata nella sentenza-ordinanza contro le Ronde. Il giudice istruttore Grassi sottolinea i rapporti con un'altra microbanda terrorista, i Nuclei sconvolti della sovversione urbana, e con l'estrema destra veronese. Nel documento "Piro acastasi", redatto dal leader Tubertini e sequestrato al militante veronese Marco Toffoloni, emergono i punti di contatti con la "Weltanschauung" di Ananda Marga, in particolare la teoria del fuoco purificatore. Questi ultimi due militanti delle Ronde sono stati chiamati in causa da Giampaolo Albertini per la strage alla stazione di Bologna. Un rapporto del capitano Giraudo (21) sottolinea come «molte delle persone coinvolte nel procedimento relativo alle Ronde appartengono all'organizzazione Ananda Marga, struttura con estensione in vari paesi ed obiettivi non soltanto filosofici e religiosi ma anche rivoluzionari, con una struttura formata non soltanto di monaci ed adepti, ma anche da un servizio d'ordine e da regole molto rigide, di carattere quasi militare, cui erano costretti a sottoporsi gli adepti, con una simbologia nazista ed una partecipazione molto vasta di ex-appartenenti a Ordine nuovo» (22) . A flirtare apertamente con il satanismo giunge invece una cerchia contigua al disciolto Veneto fronte skinhead «unendo alle pratiche orgiastico-esoteriche una militanza di estrema destra». E' il caso della setta di Bassano del Grappa intitolata a Charles Manson, responsabile dell'eccidio di Bel Air in cui alla fine degli anni Sessanta fu massacrata
Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski. Secondo gli inquirenti, il Cerchio Satanico è una costola del disciolto movimento Veneto fronte skinhead. Le prove? Due documenti, identici per contenuto, l'uno proveniente, con tanto di sigillo, dal Cerchio Satanico, l'altro inserito in un libricino «a uso interno» firmato da «Il sentiero Veneto fronte skinhead» (23). E' l'unica commistione nota tra ambienti dichiaratamente satanisti ed estrema destra nei recenti, numerosi casi di cronaca spesso approssimativamente ricondotti alla generica categoria di satanismo . Per il resto, in una vasta gamma di fenomeni, si va da banali vicende di sfrenatezza sessuale approssimativamente ritualizzata, a episodi di provocazione di stampo situazionista - gli eletti di Satana astarottiani che, nel novembre '95, al grido di «La Chiesa vi toglie noi vi diamo» distribuiscono tre milioni in contanti ai passanti nel centro di Cagliari e la polizia interviene, invocando la legge antiterrorismo, e impone ai seguaci della setta di togliersi i cappucci. Alla fine anche per il «mostro di Firenze» è affiorata una traccia che riconduce alle «messe nere»: secondo una tardiva supertestimone, una prostituta che frequentava il torbido giro di amicizie di Pietro Pacciani e dei suoi «compagni di merende», il bosco degli Scopeti - dove è stato consumato l'ultimo duplice omicidio - sarebbe stato teatro di riti satanici. La donna ha raccontato pure di una casa dalle stelle disegnate sui pavimenti col carbone, del sangue rappreso sulle lenzuola dei letti ma anche di indicibile sporcizia e di preservativi e di bottiglie di liquori sparse dovunque. E di un mago amante di Milva Malatesta, figlia di una exdonna di Pacciani, bruciata viva nell'estate del '93 con la figlioletta. Vicende da incubo, sicuramente, ma prodotto di un sonno della ragione di tutt'altro genere. Di un incubo dissolto, per fortuna, può parlare Marco Dimitri, il leader della più nota setta luciferina, vittima di una lunga e ostinata persecuzione giudiziaria, apertamente oscurantista, ispirata dai movimenti antisetta e puntualmente smantellata da una geniale campagna di controinformazione dei neosituazionisti di «Luther Blissett». In Italia del resto ha sede la più grande comune esoterica del mondo, la Nazione di Damanhur, fondata da Oberto Airaudi nel 1975, centosettantacinque ettari in Piemonte, settecento aderenti e venticinquemila simpatizzanti. I critici e i pentiti - secondo il settimanale tedesco «Der Spiegel» - ritengono che la Nazione sia
un'organizzazione totalitaria, ma finora Airaudi si è opposto con successo alle ingerenze delle autorità . Furio Jesi, studioso delle culture della decadenza, in un saggio sul neofascismo sacro ipotizza che alcune stragi potrebbero essere ricondotte a una «pedagogia dell'atto inutile», interna a un percorso iniziatico: «La nostra impressione è che queste farneticazioni abbiano una parte non trascurabile nelle attività terroristiche degli ultimi anni. Evidentemente le bombe e le stragi hanno avuto ben altra funzione nella vita politica del paese. Ma è tutt'altro che da escludere questo: che gente mirante a partecipare al mondo attuale 'persino nelle forme più parossistiche' (24) avendo dinanzi agli occhi il modello delle S.S. e il miraggio di una razza della Tradizione da ottenere mediante l'imposizione di compiti inutili, sia stata armata e adoperata da altri per fini molto meno metafisici» (25). Di un aberrante esercizio della violenza, dalle caratteristiche spiccatamente rituali, si è resa protagonista una minuscola setta neonazista, Ludwig, fondata a Verona ma attiva in Veneto e poi in Lombardia e a Monaco di Baviera dal 1977 al 1984, entrata in «sonno» dopo l'arresto di due militanti e tornata alla ribalta con la cattura di uno dei due «serial killer», fuggito anni prima dal soggiorno obbligato. E' il primo gruppo terroristico italiano in cui l'ispirazione magico-religiosa sembra prevalere sull'approccio ideologico, un altro dei tanti primati di Verona, una realtà periferica che ha anticipato tante tendenze e vicende nazionali. A Verona infatti nasce, con gli arresti di Massagrande, Besutti e altri due militanti, l'inchiesta nazionale contro Ordine nuovo e con la cattura di Amos Spiazzi viene alla ribalta l'organizzazione di sicurezza NATO. Con la denuncia per associazione a delinquere del gruppo dirigente delle Brigate gialloblù, composto in gran parte da militanti del Fronte della gioventù, è affrontato per la prima volta come un problema di criminalità organizzata la violenza dei tifosi di calcio. A Verona, infine, con qualche anno d'anticipo su Roma e Milano, gli ultrà skinhead danno nuovo ossigeno attivistico all'estrema destra . E' durata poco più di quattro anni la fuga di Marco Furlan, dal gennaio 1991 al maggio 1995. Lo hanno sorpreso sul luogo di lavoro, un autonoleggio nell'affollatissimo aeroporto di Herakleion, nell'isola di Creta, dove era stata assunto da qualche mese per l'ottima conoscenza di diverse lingue. Le modalità della sua latitanza (il documento d'identità malamente trasformato in Marco Eurlani, il rifugio in una
affollata località turistica dove per quattro mesi all'anno sbarcano ogni giorno decine di charter dall'Italia) sembrerebbero confermare che dietro la banda non c'erano protezioni. Ha avuto sfortuna, Furlan, o ha semplicemente peccato d'eccesso di sicurezza, se è vera la storia che la polizia ha raccontato: un turista veronese resta colpito da quella faccia che ha visto da qualche parte, la moglie gli suggerisce di scattarle una foto ricordo mentre lei e la bambina si appoggiano al bancone dell'autonoleggio, informano la polizia al ritorno, dalla conferma del riconoscimento scatta il blitz. E, appena finito in prigione, al capo della polizia di Herakleion Furlan ha confessato i delitti da lui commessi, cosa che non aveva mai fatto in Italia, neanche quando, non reggendo più il carcere, aveva tentato ripetutamente il suicidio. Riaprendo clamorosamente il caso: tra le sue ammissioni c'è quella dell'esistenza del «terzo uomo» che tanti testimoni hanno visto agire sui luoghi dei delitti della banda, che gli inquirenti credevano di aver smantellato con l'arresto di Furlan e del suo amico del cuore Wolfgang Abel, bloccati mentre tentavano di appiccare il fuoco a una discoteca di Castiglione dello Stiviere, durante il veglione di Carnevale nel 1984. Furlan si giustifica con la polizia greca invocando la giovanissima età. Avevano costituito Ludwig ancora minorenni, per ripulire l'Italia da mafia e droga. Il primo attentato era stato compiuto nel campo nomadi e rivendicato soltanto tre anni dopo, specificando che erano stati usati dei fiaschi per trasportare la benzina. Il gruppo si era disciolto dopo il loro arresto. Le stesse conclusioni del processo avevano lasciato aperte molte questioni sull'organizzazione che era convinta di avere Dio dalla sua parte e rivendicava i delitti con volantini scritti con caratteri gotici e firmati «Gott mit uns - Ludwig». La sentenza definitiva condanna i due studenti modello a ventisette anni di carcere e a tre anni di casa di cura, per il parziale vizio di mente, ritenendoli colpevoli soltanto degli ultimi cinque attentati, mentre altrettanti restavano impuniti . Il 25 agosto 1977 - è il debutto confessato da Furlan - lo zingaro Guerrino Spinelli muore nel rogo della sua auto, parcheggiata in un campo nomadi a Verona. Prima di morire la vittima parlerà di un commando di tre persone. Il 19 dicembre 1978 Luciano Stefanato, un cameriere omosessuale, è bastonato e accoltellato a morte a Padova. Un anno dopo, il 12 dicembre, è la volta di un tossicodipendente di Venezia, Claudio Costa, ucciso a coltellate. I testimoni parlano di quattro uomini. I1 20 dicembre 1980 è un uomo solo ad accanirsi
contro Maria Alice Baretta, una prostituta vicentina, massacrata a colpi di accetta e di martello. Passano pochi mesi e il 24 maggio 1981 la morte viene con il fuoco. Ludwig incendia una casamatta abbandonata a San Giorgio, luogo di rifugio di tossicomani della periferia veronese che usano quelle quattro mura scalcinate per bucarsi in pace. Quella notte ci resta a dormire uno sbandato, Luca Martinotti: morirà carbonizzato. E' l'ultimo attentato che resterà impunito. Un anno dopo, il 20 luglio un commando composto da tre persone (il terzo uomo è descritto con la barba e il cappellino) massacra due frati, Mario Lovato e Giovanbattista Pigato, che passeggiano nei pressi del convento di Monte Berico nel Vicentino, usando una mazza da meccanico. Sei mesi dopo, il 26 febbraio, nel mirino della banda, che nelle rivendicazioni accentua il delirio mistico-religioso, è ancora un sacerdote, il trentino padre Armando Biason. Particolarmente efferato il rituale omicida: il cranio è sfondato con un punteruolo al quale è fissato un crocifisso. Gli strumenti sono stati comprati a Bressanone da una persona che corrisponde all'identikit del terzo uomo di Monte Berico. L'azione della banda si fa più intensa. Passano solo tre mesi e Ludwig fa un salto di qualità, dal terrorismo selettivo alla strage. Il 14 maggio nel rogo del cinema a luci rosse Eros di Milano perdono la vita sei spettatori. La cassiera dichiarerà al processo di aver venduto a Furlan tre biglietti. Nel gennaio del 1984 Ludwig espatria. Nel rogo della discoteca Liverpool di Monaco, la città di Abel, resta gravemente ustionata una guardarobiera. Morirà dopo una lenta agonia, quando i suoi assassini sono già in galera. La sera di martedì grasso finisce la folle corsa. Travestiti da Pierrot, Furlan e Abel entrano con due taniche nella discoteca Melamara di Castiglione dello Stiviere e, dopo aver sparso la benzina, appiccano con un cerino antivento il fuoco alla moquette mentre nel locale ci sono circa quattrocento ragazzi. Per fortuna il materiale è ignifugo. Bloccato, Furlan si difende: volevamo solo fare uno scherzo. L'autista che li ha accompagnati sul luogo dell'attentato fa perdere le tracce . I due si giustificano: le discoteche sono un «luogo di perdizione e di peccato per i giovani». I coltelli da cucina da ventuno centimetri che portano con sé sono una traccia importante per i precedenti delitti di Ludwig. Abel tenta inutilmente di nasconderne in cella la custodia. La linea difensiva è di negare sistematicamente tutto, anche l'evidenza. Dalla loro parte la totale mancanza di precedenti politici e di episodi di
violenza, la rispettabilità delle famiglie e le brillanti carriere universitarie: Furlan è laureando in Fisica e figlio di un noto chirurgo, Abel - il padre è un ricchissimo assicuratore - è laureato a pieni voti in Matematica. Contro, una marea montante di indizi. E finalmente, grazie all'uso di tecnologie particolarmente avanzate, la prima prova. Una perizia su fogli di carta trovati a casa di Abel afferma che su fogli sovrapposti a quelli sequestrati è stata scritta con caratteri runici la rivendicazione del Rogo di Monaco e del duplice omicidio di Monte Berico (mentre a casa Furlan emergeranno tracce della stesura del volantino sul Rogo di Milano). Abel nega disperatamente: non ha mai scritto con caratteri runici. Nei lunghi interrogatori riconosce solo di essere un bacchettone: «Nella vita», dichiara, «l'unica cosa che conta sono gli affetti e le discoteche bordello sono la loro negazione. Non ce l'ho con i giovani che le frequentano. La colpa è dei gestori. A Lazise, sul Lago di Garda distribuiscono l'eroina come se fosse Coca-Cola». Nega di essere psicotico ma ammette di aver avuto problemi di carattere nervoso. Per il p.m. ha una personalità disturbata: «è sostenitore di un giudizio assoluto di intransigenza morale che impediva una normale convivenza sociale». La sua posizione si fa sempre più grave: i Ray-ban con lenti graduate Zeiss trovati sul luogo dell'omicidio del tossicomane di Venezia sono dello stesso tipo e grado di quelle di Abel. La polizia di Monaco sequestra nella casa tedesca della famiglia un jeans UFO uguale a quello trovato nella borsa incendiaria usata in discoteca. Il testo della rivendicazione decrittata a casa Abel è brutale: «Alla discoteca Liverpool non si scopa più: ferro e fuoco sono la punizione nazista». Sul luogo è stata lasciata una sveglia di marca Peter. La signora Abel ammette che il figlio aveva una sveglia identica. Furlan, contraddicendosi, finisce per ammettere la sua presenza in Germania nel periodo della strage . I due giovani in carcere tentano ripetutamente il suicidio. Nell'inverno 1986, durante il processo di primo grado, Furlan è per un mese in rianimazione. I periti escludono la sua subornazione. Per Augusto Bellone, docente di Criminologia all'Università di Bologna, i due si sono influenzati a vicenda anche se per un altro perito, Roberto Reggiani, è «difficile superare Abel come preparazione intellettuale e acutezza cerebrale». Per il p.m. è una «follia collettiva a due senza un leader carismatico», un caso di amicizia patologica. Nessuna incertezza invece sulle rivendicazioni, le dinamiche degli omicidi, l'unicità della
matrice, l'ossessiva ritualità. Nonostante l'evidente vizio parziale di mente, il pubblico ministero chiede l'ergastolo, ritenendoli colpevoli di otto dei dieci attentati, riconoscendo l'insufficienza di prove solo per il Rogo di San Giorgio e per l'omicidio dell'omosessuale. La condanna in primo grado è a trent'anni di carcere per gli ultimi cinque delitti: gli omicidi dei religiosi, i roghi nei locali pubblici. La sentenza registra in qualche misura un'effettiva cesura nella vicenda della setta - anche se le confessioni «greche» di Furlan finiscono per ridurre a semplici illazioni quelle che a prima evidenza sembrano le manifestazioni di diverse fasi di Ludwig. Fino al Rogo di Verona - in cui per altro non è dimostrata l'intenzione omicida - è evidente la pulsione «epuratrice» della banda. Nel mirino dei giovani nazisti della Verona bene sono tutte figure della marginalità sociale: uno zingaro, una prostituta, un omosessuale, un tossicomane, un barbone. La sequenza sembra il prodotto di una selezione cosciente. Anche la scansione temporale e la distribuzione territoriale degli attentati sono omogenei: cinque azioni nell'arco di quattro anni, dall'agosto '77 al maggio '81, tre delle quali a dicembre, due volte a ridosso del Solstizio di inverno, una nel decimo anniversario della strage di piazza Fontana. La prima e l'ultima volta Ludwig colpisce a Verona, col fuoco, le altre tre uccide con armi bianche nei principali centri del Veneto (Padova, Venezia e Vicenza) . La seconda fase di Ludwig si concentra in un anno: al ritmo più intenso si accompagna l'allargamento del raggio di azione (nell'ordine Vicenza, Trento, Milano, Monaco di Baviera, Castiglione dello Stiviere) e uno stravolgimento degli obiettivi e delle modalità operative. All'originario furore da «pulizia etnica» subentra una rapidissima, feroce campagna contro la Chiesa e poi per colpire il dilagante permissivismo la ricerca della strage nei santuari del divertimento di massa: il cinema a luci rosse, la discoteca, il veglione di Carnevale. Un'escalation in cui agli elementi lucidamente terroristici si accompagna un puritanesimo parossistico e pervertito. Anche accettando l'esistenza di un gruppetto di fanatici collaboratori intorno a Furlan e Abel - che trova numerosissimi riscontri nella vicenda processuale - genera dubbi sulla natura dell'amicizia tra i due e sul loro rapporto con la «normalità» la scelta del nome: una delle ultime opere cinematografiche di Visconti, negli anni Settanta, è dedicata all'omonimo re di Baviera, sessualmente ambiguo e morto in manicomio, inseguendo il suo delirio di ricostruire la civiltà medievale. Anche dopo il loro arresto, Ludwig ha dato cenni
di vita, rivendicando lo strangolamento di una ballerina del Ghana, Florende Adobea Addo (uccisa il 14 febbraio 1985), e di Giorgio Boninsegna, omosessuale trentaduenne, entrambi trovati cadaveri lungo la Serenissima. Nelle lettere è descritto il nodo Savoia usato, ma anche altri particolari ignoti sui precedenti delitti della banda. Il 9 maggio 1987 è arrestato a Verona un telefonista ventiduenne, studente del quarto anno del Policlinico di Borgo Roma, figlio di un ufficiale dell'esercito, sorpreso mentre minacciava via telefono Salvatore De Marco, il perito grafologico che aveva incastrato Abel e Furlan. A casa sua è trovata una mascherina per disegnare le aquile e le svastiche di Ludwig. L'accusa è di minacce gravi e di procurato allarme. Le indagini sono estese inutilmente alla rivendicazione del Rogo del cinema Statuto di Torino (64 morti). Abel e Furlan sono scarcerati per decorrenza termini il 16 giugno del 1988 e inviati al soggiorno obbligato, il primo a Mestrino, il secondo a Casale Scodosia. Alla vigilia della sentenza di Cassazione Furlan scappa in bicicletta, Abel si lascia catturare. Come tutti i grandi fenomeni criminali, Ludwig ha prodotto rischi di errore giudiziario e casi di emulazione. Le indagini avevano inizialmente coinvolto il professore Romano, uno statistico di Padova, che elaborando al computer i comportamenti criminali di Ludwig aveva ipotizzato un imminente attentato antiebraico. Il professore segnala il risultato delle sue ricerche al rabbino di Padova che, insospettito da tanta premura, lo denuncia alla polizia. E' arrestato subito ma, in assenza di riscontri, è ben presto prosciolto . In nome di Ludwig viene rivendicato - ma è quantomeno un'appropriazione indebita - il raid di Martedì grasso del febbraio 1990, compiuto a Firenze contro gli extracomunitari: pestaggi di decine di venditori ambulanti e di microspacciatori nordafricani a opera di una banda di ultrà della Fiorentina o di giocatori di «calcio storico» armati di mazze di baseball e travisati con maschere di Carnevale. Il volantino di rivendicazione ricalca contenuti e stilemi della banda neonazista: la scrittura è uno stampatello in caratteri gotici, l'intestazione una svastica inscritta in un cerchio e sovrastata da un'aquila e dalla scritta «LUDWIG». Il testo è agghiacciante: «La nostra fede è nazismo. La nostra democrazia è sterminio. La nostra giustizia è morte. Firenze ha un male e noi siamo la sua cura. Rivendichiamo il raid punitivo del XXVII febbraio contro gli immigrati extracomunitari. Questo è solo l'inizio. L'erba cattiva bisogna estirparla subito prima che contagi quella
buona». La firma è in carattere molto più grande: «GOTT MIT UNS. LUDWIG». Gli investigatori - convinti che Ludwig sia stato liquidato pensano a un fenomeno imitativo. Qualche anno dopo, però, poco prima che le confessioni greche di Furlan creino qualche dubbio, riaffiora il sospetto che Ludwig sia solo andato in sonno e abbia scelto la Toscana per risvegliarsi. Anche questa volta nel mirino gli zingari. Applicando con cinica determinazione il principio che «l'erba cattiva bisogna estirparla subito» per due volte il bersaglio sono i bambini. Il 25 gennaio 1995 bombaroli razzisti abbandonano un libro per bambinibomba in un campo nomadi alla periferia di Pisa, a Cascina. Resta ferito Matteo, cinque anni, che attratto dalle figure colorate della copertina lo raccoglie: perderà una mano per l'esplosione di un congegno a strappo. L'attentato segue le minacce di motociclisti giunti nel campo. A fine febbraio è arrestato Daniele Corbizzi, vent'anni, studente universitario di Informatica di Latignano di Cascina accusato di aver confezionato l'ordigno. Il padre è proprietario di una fabbrichetta pirotecnica. Il 4 aprile scattano le manette per un suo amico, ventun'anni, idraulico: a casa sua sono trovate puntine di ferro come quelle di Corbizzi. Un parà ventenne di leva, lo zio dell'idraulico e un pastore di sessantasette anni sono indagati per detenzione di esplosivo e per l'attentato. I tre ragazzi sono difesi dagli amici che negano di essere razzisti. Il vecchio odia notoriamente gli zingari per i numerosi abigeati subiti. La frazione è composta da case sparse in campagna, due bar, contadini, pastori, operai e artigiani: «siamo pieni di africani da anni e nessuno li ha toccati. Vogliamo ordine e buona educazione. Gli zingari non rispettano né la prima né la seconda» . Mentre si indaga sul primo attentato i terroristi antirom colpiscono ancora, colpiscono più duro. La mattina del 14 marzo alle 10.28 i passeggeri di un'auto danno una scatola di legno con una Barbie a due piccoli zingari macedoni che mendicano a un semaforo di via Padre Pio. L'esplosione ferisce gravemente la ragazza, Sengul, dodici anni, che ha appena accarezzato la bambola, una scheggia di legno conficcata in gola: perderà l'avambraccio destro e dopo otto giorni è ancora in prognosi riservata. Il fratellino Emran, tre anni e mezzo, perde l'occhio sinistro. Accorre il fratello Elvis, ventidue anni, lavavetri nei paraggi. L'ordigno è dieci volte più potente del precedente: una scatola di venticinque centimetri imbottita di biglie di ferro, polvere da sparo e chiodi da tappezziere. Il 16 marzo due giovani sono arrestati per
detenzione di armi e di esplosivi: Emanuele Caso, vent'anni, capelli curati, bomber. Ama giocare con gli esplosivi, inventare miscele, confezionare ordigni. Il padre è un ambulante di San Frediano a Settimo, tre minuti di auto da Latignano. Riccardo Battaglia, ventinove anni, abita nello stesso palazzo, ha lo stesso hobby: gli ordigni esplosivi fai-da-te. Elettricista provetto, specializzato in sabotaggio durante il servizio militare in Sardegna, tiratore scelto. Gli sequestrano tre chili di polvere da sparo, una pistola calibro 9 detenuta illegalmente, un revolver 44 Magnum in regola e un fucile a pompa. Il giorno dopo è la volta di Andrea Billi, ventisei anni, barista nel locale del padre nella frazione di Casciavola, vicino a Latignano, residente da qualche anno a Pisa ma originario delle campagne di Cascina. Ex-parà, a dicembre aveva comprato un chilo e mezzo di polvere da sparo da Caso, ma gliene trovano a casa soltanto un chilo. Si difende: ho fatto un petardo col cartone della carta igienica. Ottiene gli arresti domiciliari . A casa di Caso trovano un poster di Mussolini, un foulard del M.S.I. e opuscoli sulla «distruzione dei popoli impuri». Il fratello maggiore Saverio se li attribuisce in una lettera a «la Repubblica» scagionandolo: non gliene frega niente degli zingari, è solo un fanatico di armi. Emanuele ammette: la polvere da sparo è mia, mi serve per i botti di Natale. Nessuno dei fratelli si attribuisce la copia del volantino di Ludwig di rivendicazione del raid di Carnevale '90, sequestrato nella perquisizione. La passione non basta, Emanuele è un pessimo tiratore, spara come nei film, frontalmente, e non ci azzecca mai. Si porta al poligono un manichino umano. Per la sua 44 Desert Tiger (peso tre chili, costo tre milioni, arma dei corpi speciali israeliani) usa pallottole rinforzate. Il custode-istruttore del poligono un mese prima li aveva vietato l'accesso: era un esaltato, voleva sensazioni forti, spiegherà poi ai giornalisti. La denuncia del fucile a pompa lo mette nei guai: la scrittura a stampatello somiglia molto a quella della lettera minatoria della sconosciuta organizzazione neonazista Fratellanza bianca, inviata al sindaco di Cascina, il comune delle due frazioni, il primo marzo. La lettera spiega per filo e per segno come confezionare un ordigno al T4 e minaccia di morte il sindaco (con un fucile a pompa comprato in Francia) per essersi schierato dalla parte degli zingari. Le perizie confermano i legami: è stata usata nei due attentati polvere da sparo dello stesso tipo, ma il p.m. del libro-bomba individua un diverso gruppo di fuoco. A novembre gli «epuratori» pisani colpiscono ancora.
La vittima stavolta è un "viado" brasiliano, George Luiz Dos Santos, ventott'anni, detta «Edna», che ha colpito con un calcio una scatola in metallo da caramelle lanciata dal finestrino di un'auto, riportando gravi ferite al piede e segni e tagli in tutto il corpo ma soprattutto intorno agli occhi: trenta i giorni di prognosi. Erano le tre di notte e il travestito aspettava clienti lungo una strada, via Bientinese, in provincia di Pisa, dove molti uomini e donne esercitano la prostituzione. Il capo della DIGOS di Pisa, Vincenzo Gigli, sottolinea le analogie tecniche con gli attentati antirom: anche questa volta l'ordigno composto da polvere esplosiva collegata a un congegno elettrico alimentato da pile era in una scatola. Alla polvere sono stati aggiunti cuscinetti a sfera (in precedenza biglie d'acciaio e pallini da caccia). Al di là degli esiti giudiziari emerge il profilo di un gruppo di amici (Caso e Corbizzi Fattori sono stati compagni di scuola), uniti da simpatie di estrema destra, appassionati di armi e di bricolage dinamitardo, acquirenti di esplosivi, fanatici del tiro a segno con armi vere, un arsenale acquistato regolarmente e detenuto a casa. «Si parva licet componere magnis» ci sono tracce in questa rete amicale dei modelli culturali e di comportamento che improntano le milizie di estrema destra apparse alla ribalta americana con la strage di Oklahoma City. Più vaghe le tracce, invece, sul riaffiorare di Ludwig: una sigla di ritorno per un programma analogo o qualche effettivo collegamento ancora non scoperto dagli investigatori? Ad ogni buon conto saranno condannati soltanto per detenzione di esplosivi e le bombe trappola riprendono a esplodere: nell'agosto '96 un operaio della Piaggio, 40 anni, andando al lavoro all'alba, trova una torcia di plastica su un muretto nei pressi della stazione di Pisa. L'ordigno, polvere da sparo e pallini da caccia, gli frattura la mano: il meccanismo di innesco è lo stesso degli attentati razzisti. Probabilmente i giustizieri speravano che a raccogliere la bomba trappola fosse un barbone, una prostituta o uno dei tossicodipendenti che frequenta la stazione di notte . NOTE . (1). La citazione è testuale ma Rauti è impreciso. Steiner è effettivamente uno dei leader della Società teosofica tedesca agli inizi del secolo, ma la scissione che anima dà vita a un movimento, l'antroposofia, nettamente differenziato dalla casa madre . (2). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 25 .
(3). Vedi capitolo «La madre di tutti i misteri» . (4). Sulla figura di Mordini e il suo cattofascismo vedi Tosca, "Il cammino...", cit . (5). Fonte dei titoli del signor Livraga è la cosiddetta «International University Moctezuma» fondata dal ciarlatano spagnolo Guillermo Grau che sostiene di governare un impero azteco ancora esistente . (6). La ricerca autorizzata condotta dal CESNUR sui fuoriusciti francesi ridimensiona drasticamente i dati sugli iscritti dichiarati da N.A.: pur parlando di 10mila adesioni, al centro studi sono state fornite solo 530 schede riguardanti un arco di tempo lungo dieci anni . (7). Nato in Messico ma cresciuto in Italia, Martinez è entrato a vent'anni in Nuova Acropoli, di cui è diventato membro del nucleo d'élite degli Asciati (simbolo: un fascio littorio sormontato da un'ascia bipenne), fondando diverse sedi in Italia (Siracusa, Piacenza, Milano). Dopo essere stato nominato comandante nazionale per l'Egitto, ha lasciato l'organizzazione nel 1990. Successivamente si è laureato in Lingue e Letterature Orientali (indirizzo arabo e persiano), con una tesi comparativa sulle prospettive che il premillenarismo dispensazionalista statunitense e l'islamismo radicale offrono a proposito dei luoghi santi di Gerusalemme. Collabora con varie pubblicazioni che si occupano di argomenti sociali, politici e religiosi. Attualmente anima un ricchissimo sito polemico contro Massimo Introvigne, il CESNUR e il gruppo integralista Alleanza cattolica (A.C.). Sono in corso di stampa alcuni suoi testi sulle revisioni e le applicazioni del pensiero di Helena P. Blavatski; sul cosiddetto «Christian Zionism» e sul rapporto tra «memoria culturale», politica e potere nell'approccio occidentale al Vicino Oriente . (8). Il principale ideologo del movimento "völkisch", il revival pangermanico a base di mito della terra e del sangue e di antisemitismo che prepara il nazismo, Guido List, ha a lungo frequentato la Società teosofica dai cui ranghi finì per reclutare esponenti di spicco . (9). Valerio Marchi, "Mein Kampino", «Cuore», a. 4, n. 200, 3 dicembre 1994 . (10). Nel gennaio 1989 l'assessorato all'Ecologia del Comune di Milano commissiona un breve saggio per la "Guida alla città ecologica istruzioni per l'uso". Nel settembre 1989 le Ferrovie dello Stato affidano alla filiale genovese un corso di formazione per gli annunciatori nelle stazioni, e la festa dell'«Unità» di Venezia ospita uno
stand di Nuova Acropoli. Nel febbraio 1990 un convegno su Giordano Bruno ottiene il patrocinio di Regione Campania, Provincia, Comune ed E.P.T. di Napoli. Nello stesso anno la Provincia di Roma finanzia concerti di musica classica per sostenere i Centri antidroga di don Picchi e il comandante mondiale Livraga Rizzi partecipa a un convegno in Campidoglio: "Per Roma, un'ecologia attiva". Nel suo discorso non mancano i riferimenti alle «aquile di Roma imperiale». Nell'agosto del 1991 una gita in barca per un centinaio di anziani, sostenuta da negozianti e gondolieri, vede la partecipazione del sindaco di Venezia, il socialista Ugo Bergamo. La Regione Abruzzo concede, con la malleveria dell'ex-sindaco dell'Aquila, il democristiano Enzo Lombardi, sette contributi consistenti per svariate attività, dalla festa annuale di San Massimo, al campo di addestramento per l'ecologia attiva, «Sette giorni giovani», organizzato annualmente nel Parco nazionale con il patrocinio dell'Ente Parco, dell'Aeroclub dell'Aquila, del Corpo forestale e della Regione (confronta edieffe, "Candid camerata", «Cuore», cit.) . (11). Confronta Antoine Faivre, "Les courants ésotériques et le rapport. Les exemples de Nouvelle Acropole et de la Rose-Croix d'Or Lectorium Rosicrucianum", in Massimo Introvigne - J. Gordon Melton, "Pour en finir avec les sectes", Parigi, Dervy, 1996, nota n. 1, p.p. 24445. Tra le altre affermazioni controverse del leader basta segnalarne un paio: la Seconda guerra mondiale è stata vinta dal partito sbagliato, la democrazia deve essere rovesciata, o deve morire . (12). Herman de Tollenaere è nato a Leiden, Olanda. Ha studiato storia all'Università di Leiden laureandosi nel 1974 in Storia sociale ed economica. Ha pubblicato la tesi di dottorato, dal titolo "The Potitics of Divine Wisdom. Theosophy and Labour, National, and Women's Movements in Indonesia and South Asia, 1875-1947" (Nijmegen University Press, 1996). In seguito ha firmato studi sulla storia indiana e indonesiana, e quella dei movimenti occulti come "Storia della Teosofia", "Religie Nu", "The Indian Skeptic" e "Skepter". Attualmente sta lavorando a un progetto biografico sul primo presidente indonesiano Sukarno, il cui padre era teosofo . (13). Herman de Tollenaere, "Amsterdam '97: studio o apologia?", «De Grone Amsterdammer», 13 agosto 1997, tradotto e pubblicato nel sito web: www.Xenu-com.it (14). Dall'articolo di de Tollenaere emergono numerosi intrecci tra sette e movimenti dell'estrema destra europea: in
particolare il leader della Chiesa dell'Unificazione olandese è il numero due del maggior partito xenofobo; il movimento della Croce Gloriosa di Dozulé, in Normandia, dove una donna afferma di avere visioni della Vergine Maria, attira non solo cattolici romani e i realiani cultori degli UFO ma anche monarchici legittimisti; la psico-setta tedesca dei Menschenkenner, fondata da uno psicologo adleriano di formazione libertaria, si caratterizza per una crescente paranoia anticomunista (istituzioni accademiche o locali che si oppongono alle attività della setta sono liquidati come eredi della Stasi o della Frazione dell'Armata rossa) . (15). Robert Belleret, "Les deux visages de «Nouvelle Acropole»", «Le progrès», 8-9-10 febbraio 1979 . (16). Luca Bonura, "Il nazi del vicino è sempre più verde", «Cuore», cit (17). Introvigne, "Il cappello...", cit., p.p. 181-83. Id. "I nuovi culti. Dagli Hare Krishna alla Scientologia", «Oscar», Milano, Mondadori, 1990, p.p. 114-l9 . (18). Lettera all'autore, 20 luglio 1995. Dell'attività di Martinez per il movimento antisette c'è traccia in Miguel Martinez, "I ragazzi del lago. Andreotti, la Fiat, l'uomo del turbante rosso, Perez de Cuellar e altre simpatiche figure" («Orion», a. 2, n.s., n. 9, settembre 1993), nella quale riferisce di un'inchiesta da lui effettuata, per conto dell'ARIS, «un'associazione laica che si occupa del problema delle sette distruttive» su «i ragazzi del lago». Martinez ha anche collaborato alla rivista dei bioregionalisti italiani, «Frontiere», con un articolo sulla mistica sufi . (19). Franco Giorgio Freda, "La disintegrazione del sistema", Padova, A.R., 1969 . (20). Feirefiz, "Che cos'è Ananda Marga", «Heliodromos», n. 18, gennaio-febbraio 1983 . (21). "Annotazione sulle emergenze investigative relative al coinvolgimento di strutture di intelligence straniere sulla cosiddetta «strategia detta tensione»", integralmente pubblicato in Calvi - Laurent, "Piazza Fontana", cit., p.p. 269-300 . (22). Ivi, p. 277 . (23). Valeria Gandus, "Sotto la setta il criminale campa", «Panorama», 11 gennaio 1996 . (24). Il riferimento è al saggio di Julius Evola, "Cavalcare la tigre", (Milano, Scheiwiller, 1961) .
(25). Furio Jesi, "Cultura di destra", Milano, Garzanti, 1979, p. 85 . SULLA VIA DI DAMASCO . «Più vado avanti nel mio cammino di conversione e più mi rendo conto dell'enorme importanza che sta assumendo la Chiesa nella mia vita. Senza la Chiesa, avrei forse continuato anche peggio di quello che ero prima, con l'aggravante dell'esperienza del carcere che per me è stata terribile, dieci lunghi anni drammatici. Attraverso la Chiesa invece ho ritrovato il perdono di Dio che ha ridato un significato alla vita. Il perdono ti cambia completamente l'ottica, ti aiuta a vedere la vita degli altri per quello che sono, senza giudicarli» (1). Paolo Bianchi, il rapinatore di Tivoli che consegnò Concutelli alla polizia, precisa: «ma non ho iniziato il cammino di redenzione in carcere. Quello è iniziato dopo, quando sono tornato a casa» (2). Il leader militare di O.N. lo liquidò come «Giuda da pascolo» ma con questa folgorante conversione ha dimostrato di meritare il suo nome di battesimo. La prima confessione Bianchi l'ha resa ai giudici e ha ottenuto la libertà grazie alla legge sui «pentiti». Attraverso la moglie, Isabella Vetrani, che lavorando come segretaria nello studio dell'avvocato Arcangeli aveva alimentato un comitato di solidarietà per i detenuti anticomunisti e lo aveva poi aiutato nella latitanza, ha cominciato a frequentare i neocatecumenali, un movimento carismatico cattolico. Nella riscoperta di Cristo ha trovato la soluzione dei suoi problemi . La sua vicenda l'ha raccontato al padre spirituale, don Carmelo, che abbiamo già incontrato come corrispondente di un Izzo bugiardo persino con il confessore: «Avevo iniziato a sedici anni, nel 1970, con un furto ad un ex-deposito militare. Era il periodo in cui ci consideravamo tutti rivoluzionari, a destra e a sinistra. Anche per me era valido il mito di Che Guevara, e non mi rendevo conto allora che la violenza non guarisce il male ma semmai lo aggrava [...]. Ero stato strumentalizzato dalla società, dalla scuola, specialmente dalla figura di un professore del circolo di Tivoli [Signorelli], che mi ha fatto entrare per la prima volta nel tunnel dell'avventura terroristica [...]. Dalle risse di strada e dai campi paramilitari, passai così alla lotta armata e alle rapine. Una volta guidai un commando con tale abilità e decisione da far pensare a un lavoro da professionisti. Poco dopo venni arrestato. Nel carcere di Regina Coeli tornai all'attività politica. Intanto a Roma era giunto Concutelli, che dopo il delitto Occorsio prese il comando della
costituenda organizzazione terroristica GAO. Uscito dal carcere per decorrenza termini entrai subito nella nuova organizzazione, dandomi alla latitanza. Venni di nuovo arrestato e passai il '78 in carcere. Quando uscii, nell'aprile '79, la situazione politica era cambiata: Ordine nuovo si era sciolto, nascevano i NAR. Io ero oramai diventato un vero bandito: compivo rapine a ripetizione, volevo far rinascere l'organizzazione politica del tempo di Concutelli ma incontrai diffidenza ed egoismo, da parte di piccoli gruppi. Durante una rapina venni carcerato. In carcere iniziai uno sciopero della fame. Ero disposto a farla finita per sempre» (3) . In venti righe non si può raccontare tutto ma le omissioni di Bianchi sono significative: la delazione che manda in galera Concutelli, la libertà conquistata a quel prezzo e difesa per qualche mese appoggiandosi a Calore, il tentativo dopo l'ultimo arresto di scaricare su chi l'aveva aiutato la soffiata ai danni del «comandante» di Ordine nuovo, istruendo un compagno di cella per il depistaggio. Deliberata reticenza o formidabile rimozione? E' evidente che un valore hanno le «ricostruzioni storiche» dentro un meccanismo di mercato giudiziario, altro le confidenze in un rapporto personale di tipo religiosocarismatico, ma anche per chi si è ricostruito un'identità forte è difficile riconoscere di essere stato due volte «infame» (4). La prima volta nel febbraio del 1977: la polizia ferma un'auto nel centro di Roma. Un passeggero riesce a scappare. E' il bergamasco Rossano Cochis, il braccio destro di Vallanzasca. Nella rete rimangono due pesci piccoli, Bianchi e Ferorelli, che «infame» lo diventerà qualche anno dopo, quando sarà arrestato per la Sacra corona unita. In pochi giorni sono catturati i due capibanda: prima Concutelli, poi Vallanzasca. Bianchi ottiene la libertà per futili motivi dopo un duro scontro tra procura e servizio di sicurezza, il reparto antiterrorismo del questore Santillo che ha condotto l'operazione contrattando l'impunità con l'ex-rapinatore. Dieci giorni dopo, il 22 febbraio, si fa intervistare da una radio privata e nega di aver tradito Concutelli, girando l'accusa al vice di Arcangeli. Quando il conflitto giudiziario si conclude con la vittoria dei falchi della procura, si sottrae alla cattura per qualche mese con l'aiuto di Calore, che non si cura delle minacce di Concutelli. La successiva libertà è breve: Bianchi esce dal carcere nella primavera del '79 e ci torna a luglio, per una rapina andata male a Mentana. Qualche giorno prima aveva trovato il modo di mandare in galera il boss dei
«marsigliesi», Jacques Berenguer: sottoposto a misure di sicurezza non poteva incontrare pregiudicati, ma Bianchi era in sua compagnia durante un controllo di polizia . L'anatema di Concutelli non gli crea problemi. Qualche camerata del FUAN gli custodisce le armi e fanno anche qualche «lavoretto» insieme, qualche ex-ordinovista mantiene i contatti. Il gruppo di fuoco di Mentana è composito: due banditi napoletani, un ex-missino (arrestato per aver ucciso una ragazza lanciando una bottiglia molotov contro un corteo di auto che festeggiava la vittoria elettorale del P.C.I. il 16 giugno 1975, ma al processo se l'è cavata con una condanna per omicidio colposo - il fratello diventerà un boss del narcotraffico in Brasile) e un suo amico, Bianchi, un ex-avanguardista, Massimino Rampelli. Quando li arrestano si dichiara prigioniero politico: i complici lo sconfessano dandogli del matto. «Volevamo i soldi e basta», spiegano in coro. Uno, Tomolillo, finirà in manicomio giudiziario. L'altro, Rampelli, sul punto di ottenere l'impunità per una perizia compiacente di Semerari, sarà incastrato da una lettera in cui confidava l'imbroglio a un amico. Bianchi non demorde: ci tiene a conquistare la sua fetta di piccolo potere nel convulso microcosmo eversivo. Per un anno a Rebibbia nessuno si ricorda di Concutelli, fino all'arrivo di Lele Macchi, uno dei capibanda di C.L.A., che rilancia le voci sul «tradimento» di Bianchi: era finito in galera nell'estate '80, insieme alla sua «batteria», perché li avevano trovati vicino a un'auto rubata carica di armi. Li raggiunge presto il figlio del proprietario dello storico locale romano, Piper: era sua l'Alfetta usata dai quattro. Sette anni dopo il fratello - che in seguito subirà un tentativo di sequestro sotto casa - è gambizzato: la polizia sospetta una fallita estorsione in favore dei «camerati» in prigione e arresta Macchi per tentato omicidio. In questo caso sarà assolto, ma continuerà a fare l'elastico tra dentro e fuori, accusato di rapina e poi condannato per detenzione di armi (una pistola in auto, un mitra Uzi in una villa in Sabina). La "querelle" per Bianchi si risolve con un pubblico chiarimento in cella con Signorelli, che finisce in un abbraccio tra i due. Le voci si spostano - poco galantemente - sulla Vetrani, che correrà qualche rischio . Lui continua a fare i conti con il marchio di infamia che gli ha imposto Concutelli. Così, quando Calore è arrestato per l'omicidio Leandri, Bianchi gli «organizza il piattino» istruendo il compagno di cella, falsario di professione, Marco Massimi, un poveraccio amico dei
Fioravanti (quando la moglie lo molla per un camionista, per riavere il figlio lo fa rapire dai due fratelli). Spediscono una lettera anonima in procura, che indica in Massimi il superteste dell'omicidio e inventa una pista: Calore era stato complice di Arcangeli nella svendita di Concutelli e perciò aveva volutamente indicato un bersaglio a casaccio per allontanare i sospetti. Il tentativo fallisce. Ci vorrà un anno perché Bianchi sia riconosciuto come produttore di verità giudiziarie. Le circostanze non sono lusinghiere. Aldo Stefano Tisei, il vivandiere di Concutelli, divenuto tossicomane e finito nel giro del racket si pente. Bianchi è tra gli accusati per gli intrecci tra O.N. e malavita tiburtina. Appena ricevuto il mandato di cattura, nell'autunno 1981, si «decide». Fallito il tentativo di ottenere la libertà con il «deperimento», coglie l'opportunità di rilanciarsi come «terrorista nero» e accedere ai benefici della nascente legislazione premiale. Quando esce del carcere fa coppia fissa con Tisei: insieme concedono interviste accreditandosi come dirigenti rivoluzionari (ma gran parte delle loro attività era stata puramente criminale). Nel gennaio 1986, alla vigilia del processo d'Appello per Occorsio, denunciano un attentato sotto casa di Bianchi. Poi si presentano a uno speciale del T.G. 1 per ricostruire la storia dell'eversione nera. Nonostante l'opposizione di Isabella Vetrani, alla quale l'amico «tossico» del marito non piace, i due si mettono in affari, finché Tisei non tira un bidone e scompare con i soldi. Per la coppia è una liberazione, la definitiva chiusura con un passato da dimenticare. Sono più di dieci anni che i loro destini si incrociano. Tisei è uno dei camerati tiburtini che Calore ha reclutato per la rete di appoggio di Concutelli. Poche ore prima dell'irruzione della polizia i due s'allontanano insieme da via dei Foraggi. Tisei è arrestato nel luglio '77 per favoreggiamento e scarcerato dopo un processo per armi. Nel periodo successivo si fa di eroina, mette su una batteria di rapinatori, stringe i rapporti con il boss del racket di Tivoli, Mazzitelli (che sarà poi arrestato per aver «gambizzato», col suo consenso, il vicedirettore di Rebibbia), e al tempo stesso fa il confidente dei carabinieri, per conto dei quali già aveva «lavorato» . Catturato nel marzo 1981 in una retata contro il racket, si costruisce un ruolo di «pentito nero» che trascinerà decine di innocenti in galera. Con le sue rivelazioni provoca l'arresto del comandante dei carabinieri di Tivoli e le indagini su due alti ufficiali colpevoli di averlo usato come confidente, pagandolo con piccole somme e benevola tolleranza.
Saranno scagionati tutti. Tisei è anche responsabile dell'arresto dell'avvocato Sangermano, mandato in carcere per errore al posto di un altro legale di area neofascista. In alcuni casi le sue rivelazioni - che hanno portato 200 persone in galera - sono clamorosamente smentite. E' il caso dei «morti del laghetto di Guidonia». Intorno a due cadaveri abbandonati straparla di spionaggio internazionale e di traffico di armi con la Libia coinvolgendo Calore, Bruno Mariani, Signorelli e l'imprenditore tiburtino Todini, un fiancheggiatore del M.P.O.N. Del duplice omicidio e di traffico di droga sono accusati due egiziani: un tagliaborse di stazione Termini è promosso capobanda. I «politici» sono prosciolti in istruttoria, i «comuni» rinviati a giudizio e assolti con altri accusati di traffico di droga. La sentenza lo definisce «un pentito falso e bugiardo con una lucidità di psicopatico [...]. Tisei è vittima di un affievolimento dei legami con la realtà nel tentativo di legittimare la controviolenza politica attraverso l'aspirazione di una nuova definizione della criminalità ideologizzata [...]. L'ipertrofia caratteriale e la deficienza di senso critico possono aver determinato nel Tisei una importante anomalia umorale tanto che altri giudici che si sono dovuti occupare di altre accuse da lui formulate hanno manifestato l'opportunità di apprezzare anche con perizia la personalità di questo personaggio Per le difficoltà di scandagliare l'animo umano e ancor più la psicologia di un pentito con la personalità particolare, estremamente lucida, di una lucidità tipica di uno psicopatico» (5). Dopo l'esperienza giovanile nei GAO, Tisei aveva vivacchiato ai margini della malavita eppure non ha esitato un attimo a «pentirsi», lavorando di fantasia, riciclando affabulazioni carcerarie, raschiando il fondo dei ricordi giovanili, e, quando tutto manca, inventandosi di sana pianta circostanze e particolari credibili. Racconterà poi Signorelli che era stato fermato in carcere a Roma da un giovane, che si era presentato calorosamente come Aldo di Tivoli. Incuriosito da tanta foga, il «Professore», che non ne aveva un ricordo vivo, si era informato dai malavitosi tiburtini su chi fosse: gli riferirono che anche se si era spacciato come un duro di Ordine nuovo, era meglio noto come «tossico», chiacchierone e in odore di confidente, pestato da un detenuto comune per «infamità». Il 25 febbraio 1985 Tisei compare al processo Occorsio in gabbia, perché arrestato la sera prima per spaccio di stupefacenti nei pressi di Fiesole mentre avrebbe dovuto essere agli arresti domiciliari. Nel maggio successivo al processo di Bari, Calore
ammette di aver fatto la spia per i carabinieri di Tivoli (su indicazione di Signorelli): «Incaricai Aldo Tisei, addetto alle informazioni, di schedare i compagni, lui era restio ma lo convincemmo dicendo che il capitano e il tenente della compagnia avevano rapporti politici con O.N. Il lavoro informativo continuò fino al gennaio 1977». E proprio Calore e Tisei scampano all'arresto in via dei Foraggi, il 13 febbraio 1977. Dopo il finto attentato e l'apparizione in T.V., Tisei scompare dalla scena. L'ultimo atto si consuma a Milano, il 25 ottobre 1988. Si presenta in un alberghetto, contratta sul prezzo della stanza mostrando un tesserino da poliziotto. La mattina dopo lo trovano morto sul letto, stroncato da un'overdose . Di un progetto di un vero attentato ai danni di Bianchi, organizzato dalla banda Fioravanti, parla - nella biografia di Valerio - Giovanni Bianconi: «Paolo Bianchi, un fascista romano che tra i 'camerati' aveva fama di essere una spia e che diventerà uno dei principali 'pentiti' non è stato ammazzato per pura coincidenza: la prima volta non s'è presentato all'appuntamento che gli avevano fissato in pizzeria; la seconda è successo che Valerio, Francesca e un altro, mentre stavano andando a casa sua per sparargli, hanno incontrato a poca distanza dall'abitazione del 'condannato a morte' due 'camerati' dei tempi del FUAN che li avevano riconosciuti e si erano fermati a chiacchierare con Francesca. Il piano è saltato perché, una volta saputo dell'omicidio, quelli avrebbero capito subito chi era stato ad ammazzare Bianchi» (6). Bianconi cronista giudiziario della redazione romana del «Corriere della Sera», straordinario spulciatore di atti processuali (come dimostra il volume sulla banda della Magliana, tutto costruito sui verbali d'interrogatorio) non precisa se a parlare dell'attentato sia stato Fioravanti in un colloquio con l'autore o se egli abbia attinto l'informazione da fonti giudiziarie. C'è però qualcosa di inquietante: per quello che è dato di sapere, infatti, per tutto il periodo del sodalizio Mambro-Fioravanti (cominciato dopo l'arresto di Pedretti, quindi al più presto nella seconda metà di dicembre 1979 - in realtà due o tre mesi dopo - e interrotto nel febbraio 1981 con l'arresto di Valerio) Bianchi è detenuto per la rapina di Mentana e classificato come irriducibile. Il suo «pentimento» è fissato nell'autunno del 1981, quando Fioravanti è detenuto da sei mesi... Quindi o Valerio si è attribuito - coi giudici o col giornalista per motivi oscuri un progetto di attentato che non poteva compiere, oppure Bianchi era stato illegalmente scarcerato, senza che ne risultasse
traccia nel fascicolo giudiziario, per qualche «missione sporca» che comprendeva il rischio di contattare il più spietato killer dell'ultradestra armata.. . Di «reinfiltrazioni» nell'area del terrorismo nero risulta un solo caso (7), anche se molte sono le «voci» all'interno dell'ambiente, da considerare però alla stregua di leggende metropolitane, espressione dell'inconscio collettivo della comunità. La fobia del «tradimento» è spesso la manifestazione di un'insicurezza di fondo. Molti dei «pentiti» provengono proprio dai ranghi dei «duri e puri», anzi dei durissimi e purissimi . Di questo meccanismo proiettivo è buon testimone Stefano Soderini, che pochi mesi prima di «pentirsi» scrive di Walter Sordi, con cui pure a lungo aveva fatto coppia fissa: «Sordi nasce, cresce e si muove in tutti i gruppi umani della cosiddetta destra e con nessun agglomerato umano si riesce a trovare in accordo per più di breve tempo perché ha sempre da ridire su tutto e su tutti e il suo ridire è di cose futili per le quali fomenta attriti, sparge sfide e diviene vendicativo verso chiunque non fa parte dell'effimero che desidera avere attorno. Fa parte del bagaglio di cose negative per chiunque l'averlo avuto a fianco senza averlo voluto leggerlo [sic], perché Sordi era un libro aperto in cui era scritta la sua aridità, il suo egoismo concettuale e il suo conseguente agire di carattere esclusivamente personale ben lungi dalle spinte ideali [...]. Sordi è sempre stato in cerca di fama, in cerca di darsi importanza di fronte agli amici e alle amiche, ha sempre cercato di apparire come un mitico vichingo dei nostri tempi, un guerriero senza sonno. Ha coinvolto, con le sue parole da copione, una quantità di giovani, molti neanche giunti alla maggiore età, facendo leva sulla loro buona fede, in azione di armi per sentirsi il condottiero della situazione, alla guida di quelli che lui amava definire i suoi boys. Ragazzi che poi non ha esitato a tradire infierendo su di loro più del voluto [...]. Sordi è anche la persona che per questioni di risentimento personali derivanti dalla contesa di una ragazza accusa [un camerata...] di cose dallo stesso mai commesse» (8). Soderini l'ambizione del capo non l'aveva mai avuta, consapevole della modestia delle sue risorse intellettuali e dell'assoluta mancanza di carisma . Eppure il suo "cursus honorum" lo aveva iniziato come «infiltrato». Era infatti entrato giovanissimo nel giro ordinovista a Vigna Clara, con Luca Signorelli e Pierluigi Scarano. Il professor Signorelli gli consiglia
di ritirarsi dall'attivismo spicciolo, lo indottrina e lo immette nella rete clandestina. Soderini partecipa al Solstizio di dicembre del 1977, con i camerati di Vigna Clara e di Tivoli, trenta persone in tutto, con inni e sacrifici rituali. E' ammesso poi alla festa di Capodanno a Poggio Catino nella villa di De Felice: gli permettono di sparare con una Magnum 357 e lui, poco più che sedicenne, rielabora questo evento banale in una sorta di investitura. Contattato da Nistri ha da Signorelli il via libera a entrare in T.P., per controllarla dall'interno. «Era un personaggio molto particolare», dirà di lui Adinolfi, «capitato casualmente nella galassia, per certi aspetti il più inquietante. Benché fosse stato infiltrato nel nucleo operativo di T.P. come agente di Signorelli, lui dimenticò di esserlo e finì per partire per la tangente della lotta armata non per questioni ideologiche, né di fede, né di preparazione, ma per simpatie umane e per amicizia. Ebbe una vita da bandito di estrema destra e pare si sia pentito per la mancanza di motivazioni interne, ma anche per forti pressioni psicologiche da parte della donna» (9). Più sbrigativo è il giudizio di Signorelli che, saputo del pentimento, gli scrive, «con pena indicibile»: «Altri ti deridevano mentre io e la mia Comunità familiare cercavamo di difendere la tua dignità di uomo dandoti - con la nostra solidarietà - quel calore affettivo che ti veniva negato persino dai tuoi familiari; altri ti offendevano e ti denigravano e ti prendevano in giro - come si usa con lo scemo del villaggio - mentre io e la mia Comunità familiare ti sostenevamo difendendoti dall'ingiuria dei tuoi coetanei che ritenevamo crudeli in quanto non comprendevano la tua sprovvedutezza intellettiva» (10) . I riscontri giudiziari confermano l'andamento casuale della sua militanza armata. Dopo aver partecipato a una decina di rapine del nucleo operativo di Vale si aggrega alla banda Fioravanti. Si trova coinvolto per caso nel primo omicidio: il 18 novembre 1980 è in compagnia di Cavallini nella carrozzeria di Lambrate, dove incappano in un controllo casuale dei carabinieri. «Gigi» uccide un maresciallo, riescono a scappare ma cadono i documenti e anche Soderini diventa un latitante a tutti gli effetti. Si rifugia in Veneto dove partecipa a una rapina miliardaria in una gioielleria trevigiana. Da allora alterna lunghi soggiorni all'estero (in Brasile, in Grecia) e apparizioni in Italia, quando, finiti i soldi, deve riaggregarsi al «circo delle rapine». Valerio Fioravanti, nella sua perversa logica di bruciare la terra ai latitanti, lo accusa di aver partecipato alla sparatoria di Padova in cui lui è rimasto
ferito, mentre Soderini era in Svizzera insieme a un altro componente del nucleo operativo, Pasquale Belsito, che a gennaio ha ucciso l'«infame» Perucci. All'estero Soderini vive con Daniela Zoppis, che ha già avuto un figlio da Cristiano Fioravanti: a lui ne darà altri due. Rientrato in Italia per partecipare alla rapina a un grossista di oreficeria, finisce col partecipare a un paio di omicidi dei NAR (il «traditore» Pizzari, il capitano Straullu). Incassata la quota sulla rapina esce dal giro. Torna in primavera, fa qualche colpo insieme a Sordi, ci litiga e scompare un'altra volta. Il terzo ritorno sarà fatale per lui e soprattutto per Cavallini. Soderini è rimasto senza una lira, «Gigi», che nonostante la fama di «duro» è un «buono», rientra in Italia per aiutarlo. Li arrestano tutti e due a Milano, nel settembre 1983. Il «pentimento» matura due anni dopo, quando fallisce un goffo tentativo di evasione a Venezia, durante una traduzione in tribunale. Avendo scarsa merce di scambio da offrire Soderini giunge a far arrestare la moglie per detenzione di armi (le sue), gli amici che si autotassavano per pagare il vitto e l'alloggio alla moglie e ai due figli (suoi) per poi tornare a fare coppia fissa, nel centro di osservazione psichiatrica di Rebibbia, con il tanto disprezzato Sordi. I due invieranno insieme a Stefano Procopio, detenuto nel carcere duro di Fresnay, un telegramma con l'invito a unirsi a loro, «pentendosi» . Se Bianchi, «affascinato dal mito dell'eroe, del superuomo» ha visto «Cristo come il più grande di tutti proprio perché diverso da tutti gli altri eroi, perché lui è morto per i suoi nemici» (11), altri hanno trovato nel ritorno alla fede cattolica non l'Agnello di Dio ma il Signore degli eserciti. E' il caso di Andrea Insabato, partito dal paganesimo giovanile, fatto di riti del Solstizio e di mistica dell'ascesi, e approdato a Militia Christi, il gruppo cattolico ultratradizionalista che dirige. La sua traiettoria politica rivela una perfetta circolarità: parte dalla milizia giovanile nel M.S.I. (è tra gli imputati in contumacia nel processo per la Balduina), ha la sua più compiuta espressione in Terza posizione e approda ai comitati per la continuità del M.S.I. «Sto per dire delle cose che forse mi costeranno la galera ma io non ho mai avuto paura di nessuno», è il suo esordio al convegno degli irriducibili missini all'hotel Ergife di Roma, il 29 gennaio 1995, in contemporanea al varo di Alleanza nazionale: «E' giusto condannare l'antisemitismo come ha fatto Alleanza nazionale, ma bisogna ricordarsi che il vero nemico è il sionismo, quella setta ebraica che cerca con ogni mezzo di impadronirsi
del mondo» (12). Il timore di conseguenze giudiziarie non è il prodotto della paranoia diffusa nella destra radicale, ma di diretta esperienza. Insabato si è «beccato» per il suo acceso antisionismo una condanna a ventidue mesi di carcere per incitamento all'odio razziale. Gli era andata meglio nel processo per banda armata contro T.P.: assolto dopo una lunga latitanza a Londra e un breve periodo di carcere. L'8 novembre 1992 Insabato è fermato in Curva Nord, all'Olimpico, durante una partita della Lazio, dopo che un gruppo di ultrà aveva bruciato una bandiera israeliana. Quando arriva la polizia, gli incendiari scappano, ma Insabato non ha paura e paga per tutti la risposta simbolica alla spedizione punitiva che i giovani ebrei del ghetto avevano compiuto due giorni prima contro Movimento politico: sede e moto sfasciate, uno skin all'ospedale. Un'incursione che era a sua volta una rappresaglia per l'affissione di stelle gialle sui negozi di cittadini di religione israelita. Nonostante l'odio antisraelita, non risponde allo stereotipo del neonazista. Dal racconto dei suoi camerati di gioventù emerge invece una figura di grande spessore umano . «Andrea non si muoveva da casa senza i boys. La sua ragazza era disperata, non c'era un momento che stessero soli, lui aveva dei ragazzini di quindici anni che lo chiamavano persino per i problemi scolastici. E lui l'accannava: 'Mi dispiace, ma i miei ragazzi mi chiamano per andargli a preparare l'interrogazione, scusami'. Gli cercava le donne, gli dava i soldi per comprarsi la pizza, si levava le giacche e le regalava, erano proprio i suoi bambini, e molti avevano questa mentalità comunitaria, non era possibile neanche andare a mangiare un gelato senza di loro. Andrea fu praticamente 'monitorizzato' e costruito come capozona da Nistri. E' sempre stato un uomo di destra, come indole, un perfetto militante, ma senza vasti orizzonti, con una dimensione di assenza dalla realtà estremamente interessante. Ai tempi della militanza questa tendenza veniva resa vivibile dall'urgenza delle cose, dalla concretezza dell'impegno quotidiano, nel momento che uscì di galera, e vide che non ci stava più nulla, se ne andò solo con se stesso e ha avuto un notevole riflusso ideologico che poi l'ha portato all'elaborazione di posizioni ultranazionaliste» (13). Nell'estate 1992, infatti, Insabato, che è di origini dalmate, esce dall'isolamento con un'iniziativa clamorosa. Su un settimanale di annunci gratuiti pubblicizza una casella postale per costituire un corpo di volontari per la difesa della Croazia invasa
dall'esercito ex-jugoslavo. La cosa ha qualche risalto sulla stampa, ma l'esito è grottesco. Appena sbarca a Zagabria per offrire i suoi servigi, viene bloccato dagli apparati di sicurezza - che pure hanno tollerato la presenza di centinaia di volontari e mercenari neonazisti stranieri - e subito rispedito a Roma, come persona non gradita. Non capisce spiegherà agli amici - come gli ustascia abbiano potuto minacciare di morte un camerata solo perché «nazionalista italiano». «Da un punto di vista etico», dicono ancora di lui, «è restato intatto, cosa che non è vera per molti dei nostri che sono emersi dalla esperienza carceraria. Perdendo i riferimenti della comunità politica, ha perso l'alchimia che gli permetteva di fondere i suoi principi metastorici con la storia quotidiana e quindi è receduto in questa vita principiale. E' una persona che non parla molto, di pessima compagnia: apre bocca solo se ha qualcosa da dire, e spesso non ce l'ha» (14). E' analogo il giudizio di chi l'ha conosciuto a Londra dopo il blitz contro T.P.: «Andrea è un mistico della politica, che privilegia l'aspetto tradizionale, il discorso della grande e piccola guerra santa e percepisce la milizia come missione. E' la perfetta espressione del tipo umano di Balduina, dieci parole all'anno. Su lui è pesato il carico di una responsabilità che ha avvertito come maggiore delle sue capacità, problema comune a molti quadri di T.P. ma in lui aggravato da successive vicende personali» (15) . L'esperienza di Insabato non è unica: a un cattolicesimo intransigente, di aperta ispirazione lefebvriana, approdano alcuni leader, dal fondatore di T.P., Roberto Fiore, a Maurizio Boccacci, capo del disciolto Movimento politico, che vive ai Castelli romani, dove ha sede la Fraternità Pio Decimo. Diverse sono le motivazioni. La scelta di partecipare in massa alla Messa di Natale nel duomo di Milano da parte di Azione skinhead proprio mentre monta la caccia allo skin è solo un gesto teatrale: «La Chiesa di adesso non soddisfa il bisogno di sacro. La Chiesa medievale, quella sì, difendeva il sacro e i valori della tradizione europea: la famiglia, la gerarchia, la Cavalleria, l'altruismo. Quella di oggi è su posizioni opposte. Anche per questo alcuni di noi si dicono pagani: per esprimere il bisogno di sacro e per polemica con una 'religione' cosiddetta cristiana, che il sacro ha gettato alle ortiche» (16). In Fiore, invece, c'è la riscoperta della centralità del rito come manifestazione del sacro . Dai ranghi di Ordine nuovo (è stato tra i soci fondatori) proviene anche una delle maggiori personalità del tradizionalismo cattolico, Pietro
Vassallo, che anche dopo la conversione ha mantenuto rapporti di stima e di collaborazione con Rauti, portando in dote a «Civiltà», la rivista degli ordinovisti rifluiti nel M.S.I., il rapporto con il leader tradizionalista spagnolo, il carlista Francisco Elias de Tejada e che negli ultimi anni partecipa spesso alle manifestazioni di Forza nuova su temi etici. Già agli inizi degli anni Sessanta Vassallo aveva sviluppato rapporti in ambienti tradizionalisti, partecipando alle attività dei Centri per l'ordine civile di Gianni Baget Bozzo, all'epoca critico da destra della D.C. La rivista di Vassallo, «Traditio», testimonia, nel nome della casa editrice Thule di Tommaso Romano, la linea di un percorso da Evola a Cristo che ha il suo antesignano in Attilio Mordini, il volontario della R.S.I. che interpreta l'avvento del cristianesimo non come rottura verso il mondo antico ma come compimento. Il suo contributo è portato avanti dal Centro studi mordiniani, che ha alla testa Giuseppe Passalacqua, un evoliano un po' ondivago, partito dai ranghi del Movimento integralista, transitato nella massoneria e approdato al più tranquillo porto del tradizionalismo cattolico. Sono comunque ampie le contiguità «politiche» tra destra radicale e tradizionalismo cattolico: il principale terreno unificante è la polemica contro il «mondialismo», nelle due accezioni della tendenza irresistibile allo sradicamento e alla fusione etnica determinata dalle grandi migrazioni dal Quarto mondo all'Occidente e del processo di formazione di un governo mondiale, espressione di lobby finanziarie e della volontà di potenza della comunità giudaico-massonica . A questi temi è particolarmente sensibile Irene Pivetti. Ha destato grande scandalo la sua decisione, quando era presidente della Camera, di partecipare al Rosario di riparazione per l'inaugurazione della Moschea di Roma, recita indetta dal Centro Lepanto, organizzazione integralista che ha sostenuto la candidatura di Fini al Campidoglio e ha posizioni assai radicali in tema di moralità e di costume: «Se l'omosessualità viene elevata a diritto», hanno scritto, «possono essere considerati diritti anche lo stupro, l'incesto e la bestialità, equiparati alla sodomia dalle legislazioni religiose e civili dell'Occidente» (17). Il centro ultracattolico, che vanta aderenti in tutte le grandi città italiane e migliaia di simpatizzanti, ha sede in un minuscolo appartamento del Ghetto ebraico di Roma, a via dei Delfini. L'animatore è un docente di storia dell'Università di Cassino, Roberto de Mattei, già assistente con Rocco Buttiglione di Augusto del Noce, travolto da divorante passione
per la Vandea. Il Centro Lepanto nasce nel 1982 da una scissione di «destra» di Alleanza cattolica [A.C.], che resta «il più noto, il più consistente, il più autorevole [tra] i gruppi cattolici che stanno politicamente a destra e che si pongono in una posizione critica nei confronti della modernità» (18). I due gruppi, nonostante la scissione, mantengono rapporti di ottimo vicinato per la comune filiazione da una setta fondamentalista brasiliana di ispirazione millenarista, la T.F.P. (19) (Tradizione, Famiglia, Proprietà). Alleanza cattolica (20) raccoglie fior di intellettuali, da Marco Tangheroni, direttore del Dipartimento di Storia medioevale all'Università di Pisa, a Mauro Ronco, docente di Diritto penale all'Università di Modena, dal magistrato Alfredo Mantovano, protagonista di una rapidissima ascesa in Alleanza nazionale (da responsabile della giustizia a coordinatore nazionale), all'avvocato Massimo Introvigne, direttore del CESNUR (Centro studi sulle Nuove Religioni) (21). Secondo una rivista antimassonica l'intero capitolo francese apparterrebbe alla minoranza di destra della massoneria: «La direzione del CESNUR France, associazione di studi sui 'nuovi movimenti religiosi' (chiamati anche sètte) filiale del CESNUR Italia diretto dal sociologo cattolico Massimo Introvigne, sembra controllata dalla Gran Loggia nazionale francese, con la presenza nel consiglio di amministrazione del professor Antoine Faivre, redattore in capo dei Cahiers Villard de Honnecourt, dell'avv. OlivierLouis Séguy e del professore Roland Edighoffer» (22). Séguy e il suo collega Jean-Marc Florand (quest'ultimo, sorprendentemente, un omosessuale militante) sono entrambi estremisti di desta e hanno fatto conferenze per il Front National per oltre dieci anni: Florand difende regolarmente i Testimoni di Geova nei processi (23) . Lo stemma di Alleanza cattolica ha l'aquila nera di San Giovanni e al centro il Sacro Cuore sormontato da una croce, il simbolo della Vandea reso popolare da Irene Pivetti. Rivendicano con orgoglio la propria identità di destra («Se per destra si intende la reazione storica a quel grande processo di secolarizzazione che è stata la Rivoluzione francese, ebbene sì, allora noi siamo di destra. Ma il termine che preferiamo è 'controrivoluzionari'») (24) ma negano di essere fascisti. «Fino a cinque anni fa», precisa Marco Invernizzi, responsabile della sede di Milano, la più importante, «mi sarei vergognato a dichiararmi antifascista: non volevo fare la figura di chi segue il vento [...] ma sono culturalmente, dottrinalmente antifascista, anche se mi sono preso del 'fascista' per
tutta la vita» (25). Giovanni Cantoni, che ne è il reggente, ha dato vita con altri militanti all'IDIS (Istituto per lo studio e l'informazione sociale), che pubblica ogni settimana sul «Secolo d'Italia» (e sul proprio sito web) un "Dizionario del pensiero forte", con un'evidente ambizione di pedagogia politica. Un pensiero ispirato alle dottrine controrivoluzionarie cattoliche della T.F.P. ma irrobustito dalla linfa vitale della Nuova destra americana. Il curatore della pagina, Marco Respiti, è un esplicito apologeta del catto-capitalismo. A.C. non ha mai nascosto il proprio impegno politico, in uno spettro abbastanza ampio: se l'interlocutore privilegiato è Alleanza nazionale, non mancano i rapporti con il C.C.D. (Introvigne e l'ex-capogruppo alla Camera, il torinese Vietti) ma anche con la destra radicale. Aldo Carletti, membro sia del CESNUR che di A.C., ha parlato a un convegno organizzato a Varese dal Centro studi «Trans Lineam» (26), animato da Rainaldo Graziani, il figlio di Clemente, il leader del M.P.O.N . Scrivendo su «Orion» (27), Lucio Tancredi ha accusato A.C. di aver infiltrato la «destra radicale» cercando di convertirla al neoconservatorismo di marca statunitense. I più feroci critici di A.C. e dei complessi giochi di Introvigne e del suo CESNUR sono però i gruppi cattolico-tradizionalisti che non hanno deflettuto dalle posizioni intransigenti: la scismatica Fraternità Pio Decimo e i «papisti» di «Sodalitium», l'organo ufficiale dell'Istituto Mater Boni Consilii, la fraternità che ha sede a Verrua Savoia (28), non perdono occasione per rievocare le intense frequentazioni comuni con monsignor Lefevbre (29) e le originali posizioni di estrema destra (30) . Anche Introvigne, prima di scoprirsi apostolo della libertà religiosa di gruppi come Nuova Acropoli, che negano di essere tali, non esitava a invocare ricette repressive contro il dilagare di droga e pornografia, considerate nel pensiero controrivoluzionario di Correa de Oliveira manifestazioni della «quarta rivoluzione». Nello stesso segno è la riscoperta del pentecostalismo e la valorizzazione dei movimenti carismatici vent'anni fa collegati dal «profeta» brasiliano della T.F.P. alle culture della droga e liquidati da A.C. come manifestazioni della tribalizzazione della Chiesa (31). L'organizzazione «si propone la propagazione positiva e apologetica, quindi anche polemica, e la realizzazione della dottrina sociale della Chiesa, applicazione della perenne morale naturale e cristiana alle mutevoli circostanze storiche. La sua azione si situa nel campo dell'instaurazione cristiana dell'ordine
temporale; è mossa dalla carità politica» (32) e si pone lo scopo di costruire «una civiltà che possa dirsi a buon diritto cristiana, in quanto rispettosa dei diritti divini e consapevolmente vivente all'interno delle frontiere poste dalla dottrina e dalla morale della Chiesa» (33). Ispira il movimento la promessa della Madonna a Fatima: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà». Nel frattempo, mentre attende di inserire la società nelle «frontiere» della nuova civiltà, A.C. presta una particolare attenzione «alle forze che mirano all'instaurazione dell'antidecalogo e della menzogna dottrinale e morale, con specifico riferimento al processo storico che va dalla crisi rinascimentale e protestantica al socialcomunismo e oltre, cioè alla Rivoluzione che si vuole intronizzare al posto di Dio e della sua legge» (34) . La scissione del Centro Lepanto era maturata su un primo cedimento dottrinario di A.C., una posizione non intransigente contro ogni tipo di aborto. In occasione del referendum indetto dal Movimento per la Vita nel 1981, Alleanza cattolica si era dichiarata contraria perché troppo permissivo sulla questione dell'aborto terapeutico; poi, in seguito alle pressioni delle gerarchie vaticane, poche settimane prima del voto aveva abbandonato l'astensionismo e propagandato il sì. Sulle questioni morali i lepantini sono di un rigore assoluto: tutti i celibi fanno voto di castità, «l'omosessualità è un peccato che grida vendetta davanti a Dio». Numerose le campagne su questo fronte: da quella contro la bestemmia al boicottaggio della tournée di Madonna. Così per la ritualità: a Roma sono stati autorizzati a seguire la messa preconciliare in latino, la cui restaurazione era alle origini dello scisma lefebvriano: «Siamo legati ad una tradizione», spiega De Mattei, «rigorosa e guardiamo con simpatia alle élite culturali, aristocratiche, religiose. Nell'82 i nostri avversari non erano gli islamici piuttosto i comunisti, italiani e non. Oggi ci sono pericoli emergenti più gravi, il primo è l'invasione islamica. Noi non siamo politici, anche se facciamo tutti riferimento all'area del Polo delle Libertà. La nostra preoccupazione, sia allora nei confronti dei comunisti, sia oggi nei confronti dell'Islam è squisitamente religiosa» (35). Il timore del professor De Mattei è che, dilagando le conversioni all'islamismo, gli italiani rivendichino il diritto alla poligamia. Per scongiurare i rischi dell'invasione De Mattei ha promosso una campagna contro il Trattato di Maastricht che, con la libera circolazione dei cittadini comunitari, spalanca le frontiere ai maghrebini di passaporto francese. Il vicepresidente del Centro, Stefano Nitoglia,
autore del volume "Islam. Anatomia di una setta", è lapidario: «Settario nell'accezione cristiana di separato. Alla luce di quanto sta accadendo [...] siamo stati profetici anche nella scelta del simbolo, il crociato a braccia conserte e il motto della Genesi che dice: ti schiacceremo, rivolto alla testa del serpente» (36) . Anche nell'ambito del cattolicesimo intransigente c'è chi contesta queste posizioni, come Adolfo Morganti, il fondatore del Cerchio (la casa editrice che ha promosso il movimento storiografico di rivalutazione dell'immagine antigiacobina e del brigantaggio unitario) e dei «Quaderni di Avalon», la rivista di studi antropologici e storicoreligiosi che annovera tra i collaboratori il cardinale Giacomo Biffi: «Noi crediamo che, di fronte al nichilismo del potere politico planetario, la collaborazione fra le grandi religioni sia fondamentale [...]. Distinguerei l'adesione a una religione universale come l'Islam dalla caduta in forme plateali di neospiritualismo come il neopaganesimo o l'esoterismo senza radici» (37). Così sono di natura squisitamente politica, al di là del gesto plateale dei Rosari di riparazione, le preoccupazioni di Irene Pivetti. Scarso rilievo ebbe infatti, nell'inverno '93, la dura, e isolata, presa di posizione della Pivetti contro la legge "Mancino", che sanzionava penalmente le opinioni razziste dei naziskin: nella sua rubrica su «L'Italia settimanale» di Marcello Veneziani, l'allora presidente della Consulta cattolica della Lega Nord rivendicava il diritto di «pensare male» delle grandi ondate immigratorie e dei processi di integrazione. Sapeva bene che queste idee non erano circoscritte a qualche centinaio di teste rasate, ma innervavano il senso comune dello zoccolo duro leghista e avevano ampia circolazione in ambienti cattolici fondamentalisti. Un patrimonio collettivo che affonda le radici nella discriminante di fondo dei movimenti anticonciliari: il rifiuto dell'ecumenismo, l'affermazione perentoria del primato cattolico. «Nell'ottobre di due anni fa [1993] a un convegno ufficiale della Consulta cattolica di cui allora la Pivetti era autorevole esponente, si teorizzò esplicitamente che non tutte le religioni hanno gli stessi diritti: 'Gli altri devono convertirsi, non essere riconosciuti' dichiarò in quella sede l'attuale presidente della Camera [Irene Pivetti]» (38) . Sulla stessa lunghezza d'onda è il marchese Luigi Coda Nunziante, animatore di Famiglia domani, associazione impegnata sul fronte del risanamento morale e sempre attiva nelle campagne del Centro
Lepanto. Così il marchese ha liquidato le polemiche sul Rosario antislamico: «Ma che c'è di strano? La moschea a Roma è una profanazione della città simbolo del Cristianesimo. Per noi l'unica verità rivelata è nella nostra religione. Dunque ci riuniamo per pregare affinché i musulmani si convertano» (39). Nelle maglie della legge "Mancino" ha finito per incappare il movimento: nel febbraio del 1995, la procura di Verona ha ordinato decine di perquisizioni nelle abitazioni di esponenti integralisti e attivisti di destra per «istigazione al razzismo». Tra i sospettati l'addetto stampa di Alleanza nazionale, Giovanni Perez, e il consigliere comunale della Lega Maurizio Grassi, già militante di Famiglie cattoliche, l'associazione fondata da Nicola Cavedini per «combattere l'infiltrazione dei catto-comunisti nella compagine ecclesiastica» . L'integralismo impegnato politicamente nell'estrema destra ha solide radici a Verona, dove, nel 1956, un gruppo di dirigenti missini costituì l'Alleanza cattolica tradizionalista. La data scelta, il 29 settembre, coincide con la festa dell'Arcangelo Michele, protettore della rumena Guardia di ferro. L'A.C.T. pubblica una rivista, «Carattere», diretta da Primo Siena, dal taglio radicalmente antimodernista e antimaterialista. All'interno di una rigida ortodossia cattolica, forte è il richiamo a Josè Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange spagnola. L'inchiesta del p.m. Guido Papalia - aperta dopo la distribuzione di centinaia di volantini con pesanti accuse al settimanale diocesano «Verona fedele» e al mensile dei comboniani «Nigrizia» - interessa numerose associazioni cattolico-tradizionaliste «specializzate» secondo distinti filoni tematici: il comitato «Principe Eugenio» dell'odontoiatra Marco Battei, ispirato al Savoia che difese Vienna dai turchi, attento all'invasione musulmana; Famiglia e civiltà di Palmarino Zoccatelli, sindacalista CISNAL e organizzatore di rabbiosi boicottaggi del film di Godard "Je vous salue Marie" e del concerto di Madonna, animatore del comitato S.O.S. Italia, promotore di due referendum contro la legge "Martelli" sull'immigrazione; il monarchico "Sacrum Imperium" di Maurizio Ruggiero, dapprima noto come l'Anti '89, che si batte contro l'egualitarismo giacobino e il Risorgimento. Questo gruppo, fondato per il bicentenario della Rivoluzione francese da un'insegnante fiorentino, Pucci Cipriani, diffonde per abbonamento il trimestrale «Controrivoluzione» ed è presente anche a Genova, a Napoli e a Firenze: si caratterizza da subito per l'assoluta intransigenza in campo
politico e per i durissimi attacchi ad Alleanza cattolica, colpevole di cedimenti opportunistici nello scontro con la «setta democristiana». Cipriani è tra gli animatori degli annuali raduni di Civitella del Tronto, ultima sacca di resistenza borbonica nel 1860 . Verona resta il centro di irradiazione delle posizioni più radicali dell'ultradestra cattolica, che riesce a far approvare a larghissima maggioranza (21 a 6, con 11 astenuti) una mozione del consiglio comunale che impegna la Giunta «a non deliberare provvedimenti che tendano a parificare i diritti delle coppie omosessuali a quelli delle famiglie naturali costituite da un uomo e una donna» (40). Ad animare la battaglia per la difesa delle tradizioni è un consigliere leghista: «A me», spiega Romano Bertozzo, «i gay fanno schifo, va bene? Non mi piacciono. Stop. Io non accetto esami di coscienza. Sono una persona pulita, mi piacciono le donne, le cose tradizionali. Voglio la Verona buona, la Verona di Romeo e Giulietta, non di due Romei. La mia difesa della famiglia è la riscossa di tutte le famiglie perbene» (41). La Liga Veneta, all'interno della galassia leghista, si è caratterizzata, sin dalle origini, per una più marcata contiguità con i temi e i protagonisti della destra radicale. Lo stesso fondatore, Franco Rocchetta, oggi vicino al Movimento del Nord-est dopo la rottura con Bossi, aveva militato in gioventù in Ordine nuovo, partecipando al viaggio in Grecia della Pasqua '68, tappa fondamentale della «strategia della tensione». Bertozzo è quindi un altro clerico-fascista trasmigrato sul Carroccio? Niente affatto: carrozziere in pensione, è un ex-emigrato in Brasile, iscritto alla sezione Togliatti di Verona fin dopo la morte di Berlinguer, allorché uscì dal P.C.I. per le accuse d'evasione fiscale agli artigiani. A dargli man forte un avvocato di Alleanza nazionale, Vittorio Bottoli, un altro duro, capace di intervenire in consiglio comunale sull'aborto sostenendo che «le donne prima aprono le gambe e poi se ne pentono. Sarebbe ora che tornassero a casa ad accudire i figli» (42). E gli assessori di Alleanza nazionale alle parole fanno seguire i fatti: sfrattano dai locali comunali l'Istituto per la storia della Resistenza e l'associazione dei non-udenti, chiudono lo sportello di accoglienza per gli extracomunitari, contestano l'assessore «azzurro» alla Cultura per aver ospitato all'Arena i «rossi» Gianna Nannini e Roberto Benigni, mentre l'ex-segretario provinciale, Paolo Scaravelli, eletto capogruppo in Regione, chiede l'abrogazione della legge per finanziare le aree di soste attrezzate e i corsi di scolarizzazione e formazione per i nomadi in
fuga dalla guerra nella ex-Jugoslavia. I volantinaggi di Famiglia e civiltà contro la risoluzione di Strasburgo pro-gay, il rock all'Arena, gli ecologisti, i centri sociali occupati, l'evoluzionismo e il cattolicesimo sociale, avvengono con la benedizione del vescovo. Una performance del gruppo, nel settembre 1995, ha particolare risalto mediatico: per rispondere ai 3000 gay calati a Verona, per protestare contro il clima omofobico, organizzano una marcia su Bologna per picchettare la casa del leader dell'Arcigay Franco Grillini e distribuire un volantino intimidatorio. La santa alleanza tra Lega Nord, Alleanza nazionale e cattolici oscurantisti supera persino l'ostacolo rappresentato dalla svolta secessionista del Carroccio. Nell'ottobre '96 il consiglio comunale approva una mozione di Maurizio Grassi che propone di allontanare le prostitute dalle strade e di richiuderle nelle «case». Lo stesso giorno il leader veronese di Alleanza nazionale, Nicola Pasetto, chiede la rimozione del procuratore Papalia, colpevole di applicare la legge "Mancino" in materia di odio razziale con notevole zelo ai naziskin, ai fondamentalisti cattolici ma anche alle camicie verdi della Lega (è da Verona che parte l'ordine di perquisizione della sede milanese della Lega che si risolve nel grottesco esito di un ex-ministro degli Interni picchiato dai poliziotti...). Il radicamento degli ultrà catto-leghisti è comunque indiscutibile e impermeabile alla «repressione»: per il bicentenario dell'insorgenza antinapoleonica, il 18 aprile 1998, il comitato «Pasque veronesi» porta in piazza migliaia di cittadini . In questo contesto trovano spazio anche frange più estremiste, che giungono alla minaccia diretta degli avversari. E' il caso di Repubblica veneta che istiga alla violenza contro il direttore antirazzista del Centro studi immigrazione: «Uomo bianco ricorda che eliminare criminali come Carlo Melegari è un atto meritorio perché eliminare i nemici del popolo non è reato» (43). Non mancano precedenti propriamente squadristici: è il caso di Duilio Marchesini, esponente di Civiltà cristiana, che il 5 aprile 1975, a Roma, aveva riempito di pugni un sacerdote per i film d'essai proiettati nel cinema della sua parrocchia. Civiltà cristiana aveva saldi agganci nell'aristocrazia «nera» e in Vaticano, ma anche frequentazioni profane. Qualche settimana prima dell'incidente, il suo segretario, Franco Antico, figlio di un ufficiale dei carabinieri, era stato arrestato per favoreggiamento del golpe Borghese. Un'autentica cattiveria: la «notte di Tora-Tora» aveva compiuto il suo dovere di confidente telefonando al colonnello Genovesi, responsabile
del centro di controspionaggio di Roma, per avvertirlo del tentativo in atto. La segnalazione si era persa lungo la catena di trasmissione tra i servizi di sicurezza e i corpi di polizia. E quando mai s'è visto - in un Paese civile - che un confidente sia costretto a rendere pubblica testimonianza? Anche in questo caso un breve soggiorno in carcere ha tolto ogni dubbio ad Antico, che ha finito con l'ammettere la soffiata. E' probabile che la catena telefonica quella sera non si sia fermata al capo del SID, il generale Miceli, ma sia giunta a un personaggio talmente autorevole (presumibilmente il referente «militare» dei golpisti) da imporre a Borghese il dietrofront. Dagli atti del processo emergerà che non solo Miceli sapeva del "putsch", ma che erano stati avvertiti il ministro della Difesa Tanassi, socialdemocratico, e degli Interni, Restivo, democristiano, il presidente della Repubblica, Saragat, tutti di adamantina fedeltà atlantica. Tutti tacquero, per coprire una prova generale o complici del solito doppio gioco: mostrare i muscoli e al tempo stesso liquidare l'ala più oltranzista del «partito del golpe», formata da nostalgici repubblichini e da militanti dell'ultradestra? La morte prematura di Antico, agli inizi degli anni Ottanta, ha portato allo scioglimento del gruppo e alla chiusura di «Vigilia romana», al quale collaboravano numerose personalità vaticane . Tornando ai nostri giorni, dei rigori della legge "Mancino" è stato bersaglio anche un sacerdote integralista, don Curzio Nitoglia. Per aver ricordato nel corso di un'omelia che il marxismo su basi storiche ha le proprie radici nel talmudismo giudaico, il sacerdote è stato denunciato da ignoti per «antisemitismo e incitamento all'odio razziale» (44). Poco importa che la sede del rito sia stata la sezione missina «più fascista d'Italia», quella di Acca Larentia, durante l'annuale commemorazione dei militanti uccisi il 7 gennaio 1978. La polemica antigiudaica non è un'ossessione personale del sacerdote: «Sodalitium», pubblica con ampio risalto le sue ricerche sui rapporti tra massoneria e giudaismo riprese da «Avanguardia», mensile del fronte antimondialista, con una significativa premessa: «Don Curzio Nitoglia, sacerdote cattolico fieramente contrario all'involuzione progressista filo-massonica e filosionista avviata dal Concilio Vaticano Secondo. Padre Nitoglia qualificatissimo esponente della tradizione cattolica, nonché seguace di monsignor Lefebvre - ci ha espresso il suo personale apprezzamento per la rivista 'Avanguardia' ritenendo che essa sia meritevole di accogliere la pubblicazione dei suoi scritti. A differenza di tanti
sedicenti camerati don Nitoglia non si è scandalizzato per il fatto che 'Avanguardia' affermi il progetto politico Eurasia-Islam...» (45). Don Nitoglia finirà per prendere le distanze dall'abbraccio mortale dei khomeinisti siciliani, incompatibili con lo scontro frontale con «l'espansionismo islamico». Dopo l'inaugurazione della moschea di Roma, un suo sodale torinese, il prete scismatico di rito lefebvriano don Fausto Buzzi, ha dedicato l'omelia agli errori del papa che dialoga con la mezzaluna (46). Gli stessi furori antislamici sono espressi dai «vandeani»: «Fatto si è» scrive Luciano Garibaldi, «che i più orrendi misfatti di violenza carnale che si sono di recente verificati in Italia ai danni di giovani e sventurate donne sono opera di musulmani. Generalmente trattasi di musulmani slavi [... I cattolici] solitamente si arrestano di fronte al crimine orrendo di togliere la vita alla vittima dei loro istinti animaleschi. Questa remora non appartiene di certo alle bestie umane protagoniste dei fatti che abbiamo ricordato» (47) . NOTE . (1). Carmelo di Giovanni, "Eravamo terroristi", cit., p. 38 . (2). Ivi, p. 40 . (3). Ivi, p.p. 38-39 . (4). Anche le indicazioni sulla sua decisione di collaborare sono erronee: Bianchi le attribuisce allo choc della strage di Bologna mentre dai verbali giudiziari risulta successiva alle accuse di Tisei, nell'estate del 1981. Da una lettera della moglie allo stesso sacerdote si ricava la data dello sciopero della fame: «La sua scarcerazione era stata bloccata dalla fuga in Francia di Scalzone», (ivi, p. 146) cioè nella primavera 1981, circa sei mesi dopo la strage . (5). Comitato di Solidarietà pro Detenuti Politici, "Paolo Signorelli. Il teorema, il Mostro, il Caso", Rovereto, Questione Giustizia, 1988, p. 225 . (6). Giovanni Bianconi, "A mano armata...", cit., p. 205 . (7). Il responsabile del nucleo di Osimo di Terza posizione, tale Giovagnini, dopo l'arresto per rapina, accettò di collaborare con i carabinieri e fu rimesso in libertà per controllare le attività del gruppo . (8). Comitato di Solidarietà pro Detenuti Politici, "Paolo Signorelli..." cit., p. 254 . (9).Conversazione con l'autore, Londra, febbraio 1989 .
(10).Comitato di Solidarietà pro Detenuti Politici, "Paolo Signorelli...". cit . (11). Carmelo di Giovanni, "Eravamo terroristi", cit., p. 42 . (12). Guido Caldiron, "L'ultima raffica di Pino Rauti", «il manifesto», 31 gennaio 1995 . (13). Conversazione con Marcello De Angelis, Londra, febbraio 1989 . (14). Ibidem . (15). Conversazione con Enrico Tomaselli, Napoli, agosto 1989 . (16). Confronta Maurizio Blondet, "I nuovi barbari - Gli skinheads parlano", Milano, Effedieffe, 1993 . (17). Stefano De Michele - Alessandro Galiani, "Mal di destra. Fascisti e postfascisti: i protagonisti di ieri e di oggi si raccontano", Milano, Sperling & Kupfer, 1995, p. 183 . (18). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 192 . (19). La T.F.P. è stata fondata negli anni Quaranta da Plinio Correa de Oliveira, estremista brasiliano e sedicente «profeta», promotore di una «crociata» contro la riforma agraria e il «comunismo» che chiede apertamente l'instaurazione di un regime mondiale «cristiano» basato sulla repressione e su una gerarchia di tipo medievale. Nel frattempo, in attesa dell'avvento del Regno, la T.F.P., diffusa in una trentina di Paesi di lingua neolatina, è felice di collaborare con la Nuova destra statunitense in tutto il mondo. Spesso accusata di essere un culto (exadepti parlano di riti di riduzione volontaria in schiavitù verso il «profeta» Plinio), la T.F.P. dal 1985 denuncia l'esistenza di una congiura mondiale «antisètte» manovrata da «psichiatri e comunisti» . (20). Il gruppo, fondato alla fine degli anni Sessanta dagli integralisti piacentini Giovanni Cantoni e Agostino Sanfratello, si ispira alla T.F.P. Ha 200-300 membri e meno di dieci sedi disseminate sul territorio nazionale. Ai vertici dell'organizzazione un Reggente nazionale, Giovanni Cantone, e cinque consultori, tra cui i più noti sono Massimo Introvigne e Alfredo Mantovano. La carica di reggente non indica una situazione di gestione temporanea ma un esercizio di supplenza, esercitata in nome e per conto della Madonna, e che trova l'unico precedente nei gruppi promossi da Franco Freda, che più volte si è dichiarato vicario di un «capo» che non ha ancora trovato. Ai margini della Chiesa ufficiale per i sospetti di settarismo millenarista A.C. non è mai stata sotto i riflettori ma ha goduto di improvvisa fortuna dopo il successo politico nel 1994 della destra, che ha aperto prospettive
straordinarie per il gruppo che aveva formato i propri seguaci come una élite intellettuale. L'altro motivo è stato l'improvviso successo mondiale di Introvigne come sociologo. «Il maggior esperto mondiale di nuove religioni» è un ex-seminarista, militante nel Fronte monarchico giovanile e collaboratore del «Borghese», avvocato di buon successo, esperto in diritto di autore, che ha cominciato a dedicarsi allo studio delle «nuove religioni» solo da una quindicina di anni. Ne fa fede il curriculum che compare sull'ultima di copertina del suo primo libro "Pornografia e rivoluzione sessuate" (Chiavenna, Sondrio, Libreria S. Lorenzo, 1983): «Massimo Introvigne è nato a Roma il 14 luglio 1955. Ex-allievo dei Padri Gesuiti, ha conseguito il baccellierato in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, con un elaborato sulla filosofia morale di Wittgenstein. Successivamente si è laureato in giurisprudenza presso l'Università di Torino, con una tesi sulla filosofia del diritto statunitense contemporanea. Una parte di questo lavoro, rivista e rielaborata, forma l'oggetto di una monografia che sarà pubblicata nella collana delle Memorie dell'Istituto Giuridico dell'Università di Torino. Presso la stessa Università, svolge attualmente attività di didattica e di ricerca sempre nell'ambito della filosofia del diritto. Esercita la professione legale come consulente in proprietà industriale, ed è membro di numerose associazioni professionali. In questa veste, collabora ad alcune pubblicazioni specializzate italiane e straniere (particolarmente negli Stati Uniti), ed ha partecipato a Congressi giuridici in Italia e all'estero, dove ha svolto relazioni su temi relativi alla proprietà industriale, alle licenze e alla concorrenza sleale. Fin dai primi anni del liceo, milita in Alleanza cattolica, un organismo civico-culturale che si propone la formazione di uomini e la diffusione di idee secondo i princìpi della dottrina sociale della Chiesa e il magistero politico-sociale dei Pontefici. Collabora regolarmente alla rivista "Cristianità", organo ufficiale di Alleanza cattolica, particolarmente su temi filosofici e morali; per la stessa rivista, ha svolto anche ricerche sulla cultura cattolica piemontese e sui santi torinesi dell'Ottocento. E' intervenuto come relatore, in varie città italiane, ai periodici incontri per 'amici di Cristianità', organizzati dalla rivista e da Alleanza cattolica, nonché a seminari e conferenze promossi da Alleanza cattolica, da sola o in collaborazione con altri gruppi o associazioni». Fino al 1985 tutte le pubblicazioni e le manifestazioni di A.C. che hanno per oggetto le «sette» non vedono tra gli autori o i
relatori quello che in pochi anni diverrà il «massimo esperto mondiale». L'unico articolo del 1985, sui Testimoni di Geova, è ancora concettualmente interno a una logica antisette. Il nuovo impegno di Introvigne coincide temporalmente con la condanna della T.F.P. venezuelana come «setta» . (21). Fondato nel 1988, legato a filo doppio ad Alleanza cattolica (che nella sua rivista indica puntualmente tutte le iniziative del CESNUR come manifestazioni della «buona battaglia»), il centro studi si presenta come organizzazione indipendente di ricerca e di studio ma ha finito per caratterizzarsi come struttura di fiancheggiamento libertario delle più svariate sette oggetto di persecuzione giudiziaria. «Un libro pubblicato dal CESNUR nel 1996», scrive lo storico delle religioni Herman de Tollenaere (confronta capitolo «Sapienza di Dio, sapienza dell'uomo», nota 11), «conteneva un articolo non accuratamente critico su Nuova Acropoli basato in larga misura su affermazioni orali dei leaders di Nuova Acropoli. Nel CESNUR a volte si rinviene un approccio 'solamente dottrinale' ai nuovi movimenti religiosi. Questo approccio può andare bene per un libro, per un individuo o per diversi individui che stanno facendo una ricerca. Ma non può funzionare per la sociologia della religione, o per la storia della religione nel complesso. Si dovrebbero anche studiare l'organizzazione finanziaria, le sue strutture di potere ufficiali e non ufficiali, la relazione con il suo contesto economico, sociale e politico. Un semplice 'approccio dottrinale', per esempio, a Scientology, potrebbe portare, e in pratica in certi casi porta, ad un quadro molto più edulcorato di un approccio 'anche finanziario'. Spesso gli esterni criticano alcune persone del CESNUR per avere legami personali e/o finanziari troppo stretti con organizzazioni religiose problematiche. Dirigenti del CESNUR hanno testimoniato in tribunale per conto di gruppi come Scientology e la Unification Church (Chiesa dell'Unificazione Moonies). Il 5 agosto 1997 il quotidiano nazionale olandese "Trouw" ha scritto che il californiano J. Gordon Melton 'dopo gli attacchi [con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo] da parte di Aum Shinri Kyo [la setta della 'Suprema Verità'] del 1995 è andato in Giappone per difendere il gruppo contro l''ingiusto trattamento' e l''oppressione religiosa' della polizia. La setta ha pagato il viaggio'. Che Aum Shinri Kyo abbia pagato il viaggio di Melton 'non è stato molto saggio, se guardiamo indietro' ha dichiarato il Dott. Kranenborg a "Trouw", l'8 agosto». Un
approccio sistematicamente aperto e ultratollerante in un gruppo di ispirazione cattolico-integralista viene spiegato dai critici con le esigenze di «battaglia per la libertà religiosa» ispirata dalla casa madre, la T.F.P., oggetto di attacchi giudiziari in vari Paesi, dal Venezuela alla Francia per le attività «settarie». Il braccio destro di Introvigne nel CESNUR, il veronese Pier Luigi Zoccatelli, è stato ingiustamente sospettato di simpatie sataniste per aver organizzato un concerto di un gruppo rock di ispirazione crowleriana, il Temple of Psychick Youth. Zoccatelli è anche direttore della rivista «Regina Libani Informazioni», bollettino della Commissione «Regina Libani» di Alleanza cattolica per le informazioni sulla situazione nel Libano, nel Medio Oriente e nel mondo islamico, che sostiene vari esponenti dell'estremismo cristiano libanese e organizzazioni antiislamiche. La «Regina Libani» è, inutile dire, la Madonna . (22). "Faits & Documents", 15 maggio 1997, n. 27, p. 5, cit. in "Alleanza... massonica?", «Sodalitium», dicembre 1997, p. 65 . (23). Serge Faubert, "Les cathos au secours des sectes", «L'Evenement du jeudi», 13-19 giugno 1996 . (24). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 195 . (25). Ivi, p. 193 . (26). Confronta «Orion», n. 163, aprile 1998, p. 39 . (27). Lucio Tancredi, "Massimo Introvigne: studioso o politico? Il dominio globale e la religione come arma", «Orion», a. 7, n. 9, settembre 1998 . (28). Negli ultimi anni l'Istituto Mater Boni Consilii ha preso le distanze dalle posizioni sedevacantiste, sulla base delle quali aveva rotto col movimento lefevbriano, optando per originali posizioni di diritto canonico, le cosiddette tesi di "Cassiciacum", che distinguendo elemento formale e materiale del papato, risolvono la contraddizione irresolvibile di un movimento tradizionalista che nega uno dei propri cardini teologici, l'infallibilità papale . (29). Alleanza cattolica ha guardato con grande simpatia al vescovo di Econe - il fratello di Giovanni Cantoni, Pietro, è stato ordinato sacerdote nel suo seminario, dove Introvigne ha tenuto numerose conferenze di filosofia morale, suo primo cavallo di battaglia - ma al momento della scisma non ha avuto dubbi, riconoscendo il primato del papa, vicario di Cristo in terra .
(30). Ecco il testo di un volantino di A.C. che risale al 1979 e che fa riferimento a una delle crisi di governo, seguite da elezioni anticipate, che hanno caratterizzato la storia della Prima Repubblica. Il «governo rosso» a cui si fa riferimento era un monocolore D.C., con l'appoggio esterno del cautissimo P.C.I.: «Vota anticomunista, ma non fermarti lì! Il governo rosso Andreotti-Berlinguer si è 'suicidato' per anticipare il compromesso storico, e il compromesso storico è la premessa al regime comunista». Il volantino termina con toni da 18 aprile: «Non disperare! Aiutati che Dio ti aiuta!» . (31). Pellegrino Costa, "Il pentacostalismo cattolico - Verso la tribalizzazione della Chiesa", «Cristianità», maggio 1977 . (32). Dal sito web di Alleanza cattolica, cit. in Miguel Martinez, "Storia segreta di un apologeta dei culti", 1998, diffuso in Internet nel sito www.kelebekler.org. Numerose altre citazioni di questo capitolo sono ricavate dal documentatissimo saggio di Martinez anche se ci si è limitati a citare, per semplicità espositiva, l'autore effettivo . (33). Ibidem . (34). Ibidem . (35). Attilio Giordano, "Ma il Signore è con noi contro l'Invasore", «Il venerdì di Repubblica», 11 agosto 1995 . (36). Cristina Mariotti, "Con Pivetti alla prima crociata", «L'Espresso», 7 luglio 1995 . (37). Brambilla, "Interrogatorio...", cit., p. 175 . (38). Mariotti, "Con Pivetti...", cit . (39). Ibidem . (40). Enrico Arosio, "Gay, cioè senzatetto", «L'Espresso», 28 luglio 1995 . (41). Ibidem . (42). Chiara Valentini, "Eia eia ancora qua", «L'Espresso», 26 novembre 1995 . (43). Danilo Castellarin, "Verona, città sotto accusa per odio razziale", «la Repubblica», 27 febbraio 1995 . (44). "Sacerdote, tradizionalista, indagato", «L'Italia Settimanale», 14 dicembre 1994 . (45). Don Curzio Nitoglia, "Rapporti tra giudaismo e massoneria", «Avanguardia», a. 11, n. 9, ottobre 1993 . (46). Mariotti, "Con Pivetti...", cit .
(47). Luciano Garibaldi, "La colonna infame - Se dall'Islam importiamo violenza", «Controrivoluzione - organo ufficiale dell'Anti '89», n. 5053, giugno 1997 - gennaio 1998, cit. in Luciano Tancredi, "«Voglio avere tanti amichetti di colore», disse il pedofilo", «Orion», n. 166, luglio 1998. Tancredi ha facile gioco a dimostrare che i dati citati dallo stesso Garibaldi smentiscono il suo assunto sulla furia omicida e la caratterizzazione etnico-religiosa della propensione allo stupro . ALLE CROCIATE . A perorare il dialogo ecumenico tra le principali «religioni del Libro» è un'altra componente della destra radicale, quella che, seguendo il percorso spirituale di René Guénon, è approdata all'Islam, identificando unità metafisica della Tradizione e riconoscimento dell'unicità del Dio nella sottomissione ad Allah. Tra gli interlocutori di un dialogo in odore di esoterismo (ma già i templari erano sospettati di contatti con i mistici "sufi") c'è l'animatore del Centro studi metafisici «René Guénon», Abd al Wahid Pallavicini, uno dei primi convertiti italiani, figura contestatissima nella comunità musulmana per gli incontri interconfessionali che il Centro organizza, «maggiormente rivolti ai tradizionalisti cristiani (e non, ma comunque non necessariamente ai soli musulmani) che provengono dal medesimo "imprinting" culturale» (1). Una componente significativa dei convertiti si è formata, come Pallavicini, alla scuola del Maestro della Tradizione ma ha accompagnato alla ricerca esoterica e mistica la militanza nella destra radicale, talvolta in posizione di rilievo, acquisendo uno spirito settario e una propensione alla litigiosità che trova facile esca nell'assenza di una gerarchia definita e di un sistema dottrinario chiuso nell'islamismo . Rilevante è il peso dei «guénoniani» in alcune confraternite "sufi", associazioni mistiche semisegrete caratterizzate da riti e prescrizioni particolari, quali un'obbedienza più diretta a un maestro ovvero la scelta di una guida spirituale. Una confraternita di notevole dinamismo, dapprima negli ambienti dell'immigrazione e poi tra i tradizionalisti convertiti è la "Shadilyya-Burhaniyya", di origine egiziana. A una confraternita segreta, originaria dell'Asia Centrale, i "Naqsbandi", sarebbero stati iniziati «soprattutto convertiti, anche in questo caso spesso appartenenti al mondo politico-ideologico cui si richiamano in buona parte i seguaci di Guénon [...] tradizionalisti e in parte forse impropriamente, dal punto di vista politico, di ambienti legati tanto alla
destra classica quanto alla ex-nuova destra [...]. Alcuni dei piemontesi, legati ad ambienti massonici, fanno riferimento oltralpe, e sono stati iniziati in Francia. Si tratta in ogni caso, per quanto se ne può sapere, di un numero contenuto di individui, spesso impegnati in attività intellettuali, ivi compresa naturalmente la pubblicistica islamica» (2) . Il riferimento ai coniugi Mussi è abbastanza esplicito: «Discepoli di R. Maridort», scrive Abdul Hadi Palazzi, «hanno contribuito alla diffusione di una presunta 'organizzazione iniziatica' i cui aderenti erano al contempo membri di una supposta 'filiazione' della confraternita "darqawiyyah" e della Loggia Hiram di Torino, all'obbedienza del Grande oriente d'Italia. Questa stravagante sintesi pseudoesoterica ha per anni diffuso il proprio punto di vista dalle pagine della 'Rivista di Studi Tradizionali', cui il signor e la signora Mussi collaboravano, rispettivamente sotto gli pseudonimi di Giovanni Ponte e di Silvio Grasso» (3). La rivista, edita dal 1961, afferma una concezione esoterica della Tradizione e, sulla falsariga di Guénon, riconosce ancora nella massoneria una delle poche forme organizzative che conserverebbe il "depositum" tradizionale, negando che abbia avuto un ruolo decisivo nella Rivoluzione del 1789. Le simpatie massoniche e l'antropocentrismo spiritualista precludono le possibilità di dialogo con gli evoliani ortodossi e con i tradizionalisti cattolici. Il gruppo torinese ha subìto una scissione alla scomparsa di F. Mussi: da parte del «neokhalifa degli islamo-massonici, B. Coscia, anch'egli allievo di Maridort, successivamente separatosi dalla setta sufico-massonica, in quanto non disposto [...] ad ammettere l'idea che la guida di una confraternita islamica possa essere assunta da un 'Maestro' di sesso femminile, [...] trasformandoli in fautori di un improponibile femminismo islamoesoterico» (4). Il convertito Palazzi, curatore delle attività editoriali dell'ambasciata iraniana presso il Vaticano, indirizza i suoi strali anche contro Pallavicini (al quale contesta il diritto di fregiarsi del titolo di "shayik" della "Ahmadiyya Idrissiyya" perché il Maestro l'avrebbe espulso): un intero numero della rivista «Comunità islamica» e le prefazioni di numerosi volumi editi dal khomeinista Centro islamico europeo scelgono come bersaglio polemico l'Islam dialogante e mistico di Pallavicini e la sua attività ecumenica. I capi d'accusa: mantiene uno spazio di accettazione del cristianesimo, non è uno "shayik", compie gravi errori dottrinali, non conosce l'arabo e neanche il suo maestro Guénon. E, "last but not the least", ha scelto come editore di una sua
opera Mondadori che ha osato pubblicare i "Versetti satanici" di Rushdie nonostante la "fatwa" iraniana. Palazzi ignora il principio di reciprocità: dopo aver detto peste e corna degli islamo-massonici ha collaborato con Atanor, la casa editrice esoterica che ha tra i soci gli integralisti evoliani di Europa civiltà e il Grande oriente d'Italia (5). L'esperienza di Pallavicini, sia pure liminare, non è unica. L'ultimo sopravvissuto della prima cerchia iniziatica di Evola, Corallo Reginelli, ormai ultranovantenne, ha riferito degli incontri e delle «benedizioni» ricevute - lungo il tragitto di un complesso percorso esoterico - da Padre Pio e dal Mahdi a Tripoli . Ad ogni buon conto della frantumazione dell'ambiente delle comunità islamiche in Italia è evidente traccia nel laboriosissimo negoziato tra Stato italiano e rappresentanti islamici per un'intesa. Una prima bozza di concordato è elaborata nel 1992 ma ancora se ne discute perché sono diverse le proposte di parte musulmana. L'ultima del COREIS (Comunità religiosa islamica italiana) cerca di rimediare alle più grossolane violazioni dei princìpi costituzionali richieste dall'UCOII (Unione comunità e organizzazioni islamiche in Italia): le foto velate per le donne nei documenti di identità, il diritto del marito di ripudiare la moglie senza consenso e di imporle punizioni fisiche, la poligamia. Le altre proposte sono del radicale Centro islamico culturale di Roma (sciita-iraniano) e delle Associazioni musulmane italiane. Gran negoziatore per gli islamici l'ex-ambasciatore Scialoja, convertito nel 1987: ben conoscendo le bizantine capacità di negoziazione estenuante degli apparati ministeriali, insiste con forza per un preliminare accordo tra le diversi componenti islamiche . Dalla "Darqawiyyah" è figliato un movimento di musulmani europei che in Italia ha poco più di una struttura formalizzata ma che altrove rivela grande dinamismo. Lo "shayik" dei "Murabitun", confraternita di tradizione malikita, è uno scozzese, battezzato come Ian Dallas, che ora si fa chiamare Abd al-Qadir as-Sufi al Murabit. Nel 1988 è nata in Inghilterra una rete tutta occidentale, ma ora la sede centrale è a Grenada e le presenze organizzate vanno dagli Stati Uniti al Sudafrica, con un predominio europeo. I temi affrontati sono tipici della destra radicale: la polemica anticapitalista e antidemocratica ha forti connotazioni «antiusurocratiche» e finisce per diventare antiebraica e spiccatamente razzista. Il movimento non ha finalità direttamente politiche ma si propone di costruire comunità ideali, autarchiche e
autosufficienti, anche sul piano scolastico, come ha fatto a Grenada. Anche se l'obiettivo è «formare un'élite di uomini e donne nuovi, nutriti e illuminati dalla luce del sufismo, cuore e spirito dell'Islam, consapevoli del fatto che solo attraverso una trasformazione interiore è possibile realizzare una radicale trasformazione della società [...] l'insistenza propagandistica è quasi interamente concentrata sull'esterno e in termini accentuatamente conflittuali» (6). I video propagandistici sono farciti di minacce agli ebrei e di esaltazione della «spada dell'Islam» come argomento di persuasione. Il movimento è stato presentato a Genova nel novembre 1991: il gruppo dirigente italiano ruota intorno al mondo culturale e organizzativo della destra radicale, da cui proviene anche lo "shayik", mentre gli adepti spagnoli hanno matrice di sinistra (la destra franchista e falangista è cattolicissima). In occasione della conferenza di Genova, lo "shayik" «a una domanda dell'amir italiano sul rischio dei molti riferimenti culturali a pensatori considerati (con qualche torto) 'di destra', e che temeva etichettature, avrebbe risposto più o meno: 'Non è colpa nostra se i grandi della cultura vengono da lì'. Il riferimento è per esempio a Ernst Jünger, cui un istituto culturale che fa da copertura per le attività dei "Murabitun", con sede a Friburgo, ha conferito con i buoni uffici della locale Università una laurea "honoris causa" (7). Al di là delle appartenenze politiche, li accomuna lo spirito gruppettaro, la tendenza all'intolleranza, al solipsismo e alla radicalità, la scelta di una formapartito autoritaria, il velleitarismo (una conferenza sulla legge islamica ha emesso una "fatwa" di condanna dell'uso della carta moneta) . Dalla militanza neofascista proviene anche Giovanni Oggero, promotore delle edizioni Arktos, già indagato nella prima inchiesta su «Costruiamo l'azione». La sua casa editrice (in passato Arthos) ha pubblicato testi di mistica e di economia islamica, nonché numerose opere di Guénon, e non solo attinenti all'Islam. Di più ampi interessi testimonia l'«Alba d'oro» - ispirata dalla "Golden Dawn", una delle più famose società occultiste moderne - collana di ispirazione fantastica ed esoterica, curata da Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris, presidente della Fondazione Evola e guru del "fantasy" italiano. La casa editrice pubblica anche l'omonimo «pentamestrale di cultura e indirizzi tradizionali» diretto da Renato Del Ponte, uno dei discepoli di Evola più stimati dalla destra radicale (8). La rivista, emanazione del Centro studi evoliani, ha la redazione a Pontremoli e il responsabile è un
cattolico tradizionalista, Gabriele Fergola. Oggero, cultore della Tradizione, dopo l'adesione all'Islam sciita (avvenuta in Francia) ha fondato la prima rivista militante, «Jihad». Vi hanno collaborato molti esponenti della destra radicale che sull'onda dell'entusiasmo della Rivoluzione iraniana hanno coronato la loro «cerca» personale con la conversione. L'Associazione Europa-Islam alla quale hanno dato vita si è scelto come simbolo un sigillo in lettere cufiche, di forma svasticoidale, che ripete sui quattro bracci la formula «Egli è Allah». Anche i contenuti sanno di "déjà vu": l'opposizione al «mondo moderno», l'attenuazione dei centri spirituali dell'Occidente e la loro progressiva sostituzione con gli «idoli», l'Islam come ultima possibilità di sconfiggere l'Antitradizione. Firma di punta della rivista è Umar Amin, al secolo Claudio Mutti, anche lui titolare di un personale sigillo a quattro braccia, le sue identità plurime: Claudio Mutti, per gli ambienti accademici e polizieschi (ma anche per la militanza «aperta»); Claudio Veltri, per le attività pubblicistiche nei giornali «borghesi» («L'Italia settimanale», «L'Umanità», «il Giornale»); Umar Amin per i confratelli (Mutti ricoprirebbe il ruolo di "muqaddin", il portavoce dello "shayik", dei "Murabitun"); Feirefiz per i cultori della Tradizione (è il nome iniziatico con il quale firma sulla rivista «Heliodromos» la «stroncatura» della setta Ananda Marga) . In alcuni casi la conversione è puramente strumentale. A metà degli anni Settanta subito dopo che Mutti aveva curato per le Edizioni di A.R. "Gheddafi, templare di Allah", un ordinovista veneziano scriveva a Zorzi: «Per penetrare in certi ambienti islamici mi sono fatto musulmano, il che mi ha permesso in Medio Oriente e nella nostra stessa zona di poter usufruire di certe possibilità in maniera più diretta [...]. Stiamo definendo la questione con i Maroniti e ci sono possibilità operative. Mi incontrerò con i Fratelli Musulmani di Padova» (9). In altri casi l'approdo all'Islam è il prodotto di una tormentata ricerca esistenziale: cosi è per Pino Lo Presti, il rapinatore siciliano, più volte arrestato, amico del leader della Comunità politica di Avanguardia Leonardo Fonte e imputato di associazione sovversiva per «Quex»Fronte carceri, scoperto come scrittore da Busi, che fece pubblicare tra gli «Oscar» il suo primo romanzo, "L'indominio della discordanza". Il successo letterario, clamoroso in misura del pregiudizio diffuso sull'assenza di cultura all'estrema destra, non ha risolto la sua parabola negativa. Lo Presti è morto di AIDS nell'estate 1995 .
Uno dei paradossi del contagio musulmano nell'ambiente della destra radicale è che i centri dell'integralismo islamico hanno mantenuto un atteggiamento di totale chiusura nei confronti dei nostri aspiranti "pasdaran". E' il caso dell'Istituto culturale islamico di Milano, nato come scissione «moderata» e «ortodossa» del Centro Islamico di Milano, del tutto chiuso ai convertiti, che ha finito per rappresentare il «santuario» delle reti clandestine islamiche perseguito dalla magistratura italiana che ha arrestato alcuni leader per associazione mafiosa. L'inchiesta è nata a Napoli, in occasione della straordinaria vigilanza per il vertice dei Sette Grandi del luglio 1994. In una telefonata (in arabo con marcata inflessione algerina) intercettata sull'utenza del Centro Islamico di Napoli, «Farid» e «Mourad» parlano di una mina anticarro pronta per l'uso in occasione del G7. Lo stato d'assedio neutralizza i «cattivi pensieri» degli attivisti del Fronte islamico di salvezza, ma undici mesi dopo la magistratura emette 12 ordini di arresto (eseguiti cinque a Napoli, tre a Milano, due a Roma e a Pavia) contro la rete clandestina del FIS badando bene a dare scarso rilievo all'operazione e a fornire il minimo di informazioni. Il 19 maggio era stato arrestato a Napoli Djamal Luonici, residente a Pavia, 33 anni, membro del direttivo centrale del FIS: numero uno nella lista dei latitanti in Algeria, ricercato in Francia per traffico d'armi, espulso dalla Svizzera e non estradato per evitargli la condanna a morte già decretata per il suo ruolo di commesso viaggiatore della rivoluzione islamica. Il 5 giugno scatta il blitz: tra gli arrestati per banda armata c'è il padre di Djamal, che ha ottenuto asilo politico in Italia. Tre settimane dopo nel mirino è la comunità milanese: 20 ordini di arresto (11 eseguiti: in gran parte contro egiziani) e una cinquantina di indagati per una cellula clandestina fondamentalista all'interno dell'Istituto culturale islamico. La magistratura non contesta la banda armata (le attività eversive sono all'estero) ma l'associazione a delinquere di stampo mafioso (le modalità organizzative e di finanziamento - il racket delle macellerie - sono proprie della criminalità). Le teste di cuoio rastrellano le case occupate di via Barrili, al quartiere Stadera, dove tutte le donne usano il "chador": il ricercato numero uno è l'imam Anwar Shaban, ingegnere navale. La cellula non è operativa, ma nel Bergamasco sarebbe stato allestito un campo paramilitare per addestrare i volontari in Bosnia. L'ipotesi investigativa è che l'Italia sia utilizzata come retrovia per il reclutamento dei volontari da inviare al fronte della
Jihad, in Bosnia, in Cecenia, in Afghanistan, e poi per «riciclare» i reduci prima di rimandarli in Egitto. Emergono i rapporti con la "Jamaa Islamiya" e con "Al Jihad", le principali organizzazioni internazionali integraliste, e i contatti con Omar Abdel Raham, lo «sceicco cieco» condannato all'ergastolo per la strage al grattacielo del W.T.C. di New York. Luogo privilegiato di reclutamento i centri di prima accoglienza, dove gli integralisti avrebbero svolto un duro lavoro, allontanando spacciatori e ubriachi, ma anche organizzando la solidarietà con i «fratelli» più disgraziati . Alla fine di luglio il ministro degli Interni Giovanni Coronas sottolinea come, cessato il pericolo «indigeno» per l'Italia, la minaccia venga dall'Islam radicale. Negli stessi giorni è arrestato a Trieste un venditore ambulante maghrebino diretto alla stazione di Milano: gli sequestrano un manuale in arabo per fabbricare ordigni esplosivi. A settembre scompare in Croazia Talaat Qassam, emiro della "Jamaa Islamiya": i seguaci si convincono che è stato rapito e consegnato alle autorità egiziane - dove è stato condannato a morte, ma per la polizia croata è stato rispedito in Germania - e per rappresaglia fanno esplodere un'autobomba (rubata a Bergamo) davanti un ufficio di polizia a Fiume. Muore il kamikaze mediorientale, ventinove i feriti (due gravi: uno, balcanico, considerato complice dell'attentatore, ha amputati un braccio e le gambe). L'attentato è rivendicato dal Cairo, da un Battaglione del martire «Talaat Yasine», un leader fondamentalista ammazzato al Cairo nel '94 dai corpi speciali che avevano fatto irruzione in un appartamento affittato da un'egiziana residente a Milano e amica di Anwar Shaban, il leader della cellula islamica lombarda. A metà dicembre lo «sceicco» di Milano, riparato in Bosnia a guidare un battaglione di volontari, è ucciso dalla polizia croata con altri quattro guerriglieri per aver forzato un posto di blocco alla frontiera e sostenuto un conflitto a fuoco (versione di Zagabria), ovvero assassinato in un'imboscata mentre portava aiuti umanitari in un villaggio bosniaco (versione dei fedeli dell'Istituto Islamico). Comunque un martire. Lo stesso giorno la Cassazione annulla gli ordini di arresto contro lo sceicco e i suoi seguaci. Nonostante ciò la procura chiede e il gip decide il rinvio a giudizio per i 62 imputati: per il nucleo dirigente resta l'inusitata imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra gli indagati c'è anche l'imam di Firenze, Mohamed Ebeid Abdel Al, alias Elsayed Abeed, permesso di soggiorno regolare, già sotto controllo da
anni (dirigente della Jamaa, era fuggito nel 1986 dall'Egitto): gli trovano passaporti falsi e soldi in contanti. Non si giustifica e continua i suoi frenetici giri tra Albania, Svizzera e Bosnia. Nel settembre '98 è allontanato dalla comunità per la scomparsa dei fondi dell'elemosina, due mesi dopo arrestato in Ecuador ed estradato in Egitto: lo accusano di essere tra gli organizzatori della strage di Luxor, nel novembre '97: 58 turisti e 4 egiziani massacrati a raffiche di mitra . Una seconda retata colpisce gli ambienti del radicalismo islamico nell'estate del '96: 22 algerini arrestati tra Torino (5 nel quartiere di San Salvario), Milano, Perugia e Napoli; una sessantina di perquisizioni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di armi. E una denuncia di profanazione: i poliziotti non si sarebbero preoccupati di togliersi le scarpe entrando nelle due moschee. Tra gli arrestati il custode di uno degli edifici di culto e due dipendenti dell'Istituto culturale islamico di Milano. Quasi tutti sono originari di Bab el Oued, un quartiere di Algeri roccaforte dei fondamentalisti. Sono tutti accusati di aver costituito il retroterra logistico dei guerriglieri algerini. L'inchiesta infatti è partita un anno prima, sulla base delle segnalazioni degli inquirenti francesi che ricostruiscono le frequentazioni di Khaled Kelkal, capo del GIA in Europa, accusato di essere tra gli organizzatori dell'ondata di attentati al metrò di Parigi nell'estate e ucciso dalla polizia francese il 19 settembre 1995 a Lione. Responsabile della rete è Safi Burada, alias Kamal, inviato dalla Francia per allestire una base del GIA e arrestato in Inghilterra. Dopo la sua cattura prende il suo posto l'«afgano» Rachid «Jafaar» Fettar, ex-guardia del corpo dei leader del FIS, che trasforma la sua casa di via Scherillo a Milano in una base operativa e mantiene i contatti con Alì «Tarek» Touchent, considerato la mente degli attentati di Parigi. Le norme di sicurezza sono molto rigorose: tra le conversazioni intercettate - in dialetto - affiorano aspri rimproveri per gli avventuristi, dure reprimende a chi viola le regole organizzative (due «sceicchi» vengono dall'estero per riportare all'ordine alcuni seguaci milanesi). I compiti della struttura sono quattro: assistenza ai fratelli che espatriano, supporto logistico, acquisizione e invio (dai porti di Napoli e di Mazara) di armi, autofinanziamento con lo spaccio di banconote false. Fettar, scarcerato dopo un anno, è nuovamente arrestato nel novembre 1998 per le minacce alla giornalista algerina protagonista di un'appassionata invettiva antifondamentalista nella trasmissione T.V. «Pinocchio». E alla fine nella rete delle milizie
islamiche cade anche una donna italiana, sposata con un egiziano. Sono arrestati a Torino nell'ottobre 1998, come componenti di un gruppo operativo di Osama Ben Laden, il miliardario saudita che ha organizzato una rete terroristica internazionale fondamentalista. In un garage vengono ritrovati un mitra Uzi e pistole col silenziatore. Tra gli arrestati c'è anche il capocellula, sfuggito a un blitz in Albania contro l'organizzazione umanitaria finanziata dallo «sceicco del terrore» e ospitato dalla coppia. Proprio il «rapimento» a Tirana di tre militanti egiziani che, torturati, confessano importanti informazioni sul «network» internazionale è alle origini delle stragi alle ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salam dell'agosto '98 . Tra gli apporti «teorici» della destra radicale all'islamismo italiano c'è la storiografia revisionista, nella sua variante più estrema, quella che combatte la «menzogna di Auschwitz» (10) e nega l'autenticità del diario di Anna Frank (11). L'ossessione antimondialista e la denuncia del «progetto sinarchico» (l'instaurazione di un governo mondiale controllato dalla lobby giudaico-massonica) raggiungono punte parossistiche, fino alla riesumazione dei "Protocolli dei Savi di Sion" quale lettura «edificante». La presentazione di "Comunità Islamica" da parte di «Orion» sottolinea l'ampiezza dei temi affrontati: «Contributi relativi alla politica di assimilazione mondialista, all'operato della Massoneria internazionale, ai crimini sionisti; divulgazione dei contenuti della storiografia revisionista ed esposizione del ruolo giocato dal mito dell'Olocausto» (12). La rivista dell'area nazionalcomunista in ogni numero dedica pagine all'Islam: ripubblica articoli del «Messaggero dell'Islam», pubblicizza il «Puro Islam» (rivista dei convertiti sciiti di Napoli), ospita gli interventi del leader dei "Murabitun", interviene nelle polemiche interne alle comunità islamiche, sostiene la campagna per l'apertura di una scuola islamica a Milano. Il curatore - e unico finanziatore - del «Puro Islam», Ammad De Martino, fa parte, con Battarra e Terracciano, della delegazione di «Orion» in visita «ufficiale» a Teheran. «Orion» è la punta di diamante di un composito schieramento di gruppi esoterici, iniziatici e politici che manifestano «simpatia» pur non appartenendo alla comunità islamica, né in senso propriamente religioso né culturale (anche se qualche aderente è convertito). Per i gruppi politici è evidente l'identificazione nell'Islam teocratico e guerriero, cavalleresco e gerarchizzato, un idealtipo della società da costruire. «Orion», fondato
da militanti della destra radicale, non è riducibile alla «deriva islamica» che ha investito l'area su scala continentale, creando una spaccatura verticale con quei camerati che quando sentono parlare di arabi mettono mano alla spranga. Di evidente formazione tradizionalistarivoluzionaria sono i convertiti dell'"Islamic Council for the Defense of Europe", che pubblicano la rivista di «polemologia islamica» «Centurio», dai compositi riferimenti: dal legionario romano a Federico Secondo tutto si tiene per vivificare le tradizioni militari del continente alla luce della "Jihad" . Dalla destra radicale - «insieme eterogeneo di correnti ideologiche (dai neonazisti veri e propri ai corporativisti, dai teorici della rivoluzione conservatrice ai 'cercatori del graal', dalla sinistra fascista alla corrente spiritualista e idealista dello stesso fascismo, dai razzisti ariani e celti ai semplici anticomunisti duri)» (13) - una scheggia rivoluzionaria è approdata a una posizione antimperialista e antimondialista, di lotta dura alla «congiura delle élite» plutocratiche, sioniste e massoniche, dalla parte dei popoli. La nuova sintesi che «Orion» propone ha caratteri di originalità: «una peculiare visione in chiave islamica della possibile alleanza con l'ex-Unione Sovietica e il mondo islamico, appunto attraverso la mediazione dell'Islam» (14). Ad analoga visione «geopolitica» - che però colloca il faro del movimento nazionalrivoluzionario a Teheran - è pervenuta la Comunità politica di Avanguardia, la componente neofascista che si è aggregata intorno al progetto Eurasia-Islam promosso nel 1991 dalla rivista «Avanguardia», fondata nel 1982 dal rautiano trapanese Leonardo Fonte. «Fautrice di un'alleanza spirituale e tradizionale con l'Islam rivoluzionario» (15), la rivista indica nell'Iran il baluardo e la sentinella della lotta antimondialista e si definisce come «lo spazio di riferimento culturale, il fronte di convergenza politica e il bando di mobilitazione totale della leva antisistema che fascinerà, raccoglierà, ordinerà e attiverà le migliori energie militanti dell'estrema destra, ricomponendole nel quadro della forma politica denominata Comunità politica nazionale d'Avanguardia» (16). Le microcomunità locali dovrebbero esprimere «l'aristocrazia politica del futuro partito rivoluzionario di massa, nel quale si realizzerà l'unità politica del fronte antimondialista» (17). Nonostante i propositi roboanti la rete militante è modesta: il centro librario Knut Hamsun di Trapani, sede della redazione centrale, il centro studi di Marsala «Cristianesimo e Islam» il circolo culturale
«Avanguardia» di Pescara, una serie di redazioni sparse che coincidono con le abitazioni di militanti e hanno un alto tasso di precarietà. Hanno breve vita le redazioni emiliana (anche se il responsabile continua a collaborare) e umbra (per dissensi ideologici), mentre nell'estate 1995 la redazione lombarda (costituita un anno prima) è stata «sospesa» per sei mesi . Esemplare dell'alto tasso di «litigiosità» interna la vicenda della comunità militante di Perugia, che proviene dall'esperienza del Fronte europeo, è guidata da Mario Cecere e costituisce una redazione locale dall'autunno 1993 all'estate successiva. La prima reprimenda è a gennaio, per un comunicato pubblicato dall'«Italia settimanale» sul convegno organizzato a Perugia sull'antagonismo giovanile, con tanto di minacce di espulsione. Nell'agosto la rottura ufficiale: Fonte in un editoriale denuncia il dissenso dei perugini, favorevoli a una linea meno radicale, scevra da certa iconografia del fascismo e del nazionalsocialismo. Un dissenso espresso garbatamente in una lettera di un collaboratore della rivista, Danilo Gambi, che critica il passaggio di un articolo di Fonte (sui «militanti della Comunità politica di Avanguardia che fino a qualche mese fa militavano ancora nel M.S.I.» mentre i perugini non c'erano mai stati). Maurizio Lattanzio, alter ego di Fonte, la penna più caustica della destra radicale, regola definitivamente i conti: il taglio accademico degli articoli, il rifiuto di usare il simbolo della croce celtica, il mancato apprezzamento dell'esperienza del Terzo Reich, l'assenza di qualsiasi riferimento all'Iran configurano la comunità di Perugia come «presenza critica» in una realtà organizzativa che invece pretende adesioni totali. Cecere è espulso per slealtà per aver mantenuto rapporti con Delle Chiaie, Rauti e una studentessa non meglio precisata che ha avuto contatti con Vinciguerra per una tesi sulla strage di Peteano . Presenze si registrano anche a Tricase - dove è costituita una comunità militante, che realizza un opuscolo sul Chiapas, "La rivolta dei figli del sole" - a Bari, a Bergamo, a Varese, a Massa Carrara, a Sassari (che ha poi dato vita a una redazione che cura anche un supplemento regionale) e a Treviso, presenze militanti di tipo individuale o tutt'al più di piccolissimi gruppi. Poco più di una decina di camerati partecipano al convegno nazionale di Perugia a gennaio e Lattanzio commenta amareggiato: «nonostante la geometrica perfezione politica delle coordinate progettuali da noi delineate, risulta oggettivamente asfittico
il percorso antropologico» (18). Ne consegue la definitiva chiusura di ogni tentativo di realizzare alleanze culturali nell'area di estrema destra: «al di fuori di Avanguardia - nell'area di estrema destra - non esistono dunque individui animati da un'autentica volontà politica di lotta al sistema» (19) . L'isolamento è il prodotto degli «scazzi successivi» con gli skin e poi con «Orion». Netta è la rottura - al convegno a Pacentro nel giugno 1992 - con l'area skin sul tema dell'Islam. Per «Avanguardia» l'Europa del potere bianco non va difesa ma disintegrata, «premessa strategica assolutamente pregiudiziale». Il violento antagonismo tra skin e arabimusulmani è considerato un autogol a favore del potere mondialista. La rottura sull'immigrazione impedisce il confronto sull'amalgama dell'area nazionalrivoluzionaria. Azione skinhead mette alla berlina la firma di punta di «Avanguardia»: «Un uomo sulla quarantina, dai lineamenti non proprio nordici, (forse neanche ariani), la sua camicia sbottonata lascia intravedere un petto coperto da un folto pelume ed una grossolana collana d'oro: i capelli ricci e neri ed il naso 'aquilino' completano la figura di questo 'difensore dell'Islam': Maurizio Lattanzio [...]. Lattanzio e Fonte erano isolati contro decine di lettori e diffusori contrari alla tesi che bisognava sostenere l'integralismo islamico e quindi anche l'ondata immigratoria» (20). Gli skin contro le tesi filoarabe occupano la presidenza e cambiano il tema di discussione. A sua volta «Avanguardia» si rifiuta di pubblicare un dossier immigrazione redatto da HIRD, un gruppo di lavoro di Base autonoma, il «network» degli skin, nel quale, in nome del sangue & suolo e della memoria storica del fascismo, si manifesta una linea nettamente contrapposta al progetto Eurasia-Islam. A Pacentro, per Lattanzio, si è verificato il primo salutare colpo di setaccio della selezione politica. Seguono scomuniche a mezzo stampa: nel gennaio '93 si specifica che «Avanguardia non ha niente a che vedere o che spartire politicamente con gli "Skinheads" né con il Movimento politico occidentale» (21), a marzo si rilancia: «un sedicente giornalista che sostenga che 'Avanguardia' è l'organo di stampa del movimento "skinhead" non può che essere superficiale, falsificatore e deficiente» (22) . La polemica prosegue dopo l'operazione «Runa»: il redattore emiliano (che non ha ancora completato il percorso di conversione all'Islam, al termine del quale assumerà un nuovo nome) sbeffeggia gli ambienti dell'estrema destra scioltasi come neve al sole dinanzi all'applicazione
del decreto "Mancino" e polemizza con i camerati del fu Meridiano Zero, colpevoli di aver definito la dottrina tradizionale islamica conforme al progetto mondialista. In copertina troneggiano due fotografie di Paolo Villaggio nei panni del ragionier Fantozzi «metafora comportamentale dei militanti nazionalrivoluzionari posti di fronte al 'varo' delle 'leggi razziali'» (23). Non mancano i toni vittimisticicolpevolizzanti: «Avanguardia si trova in condizioni di non operare profondamente perché 'amici' e nemici hanno scavato un fossato marcatamente profondo, precludendo al progetto Eurasia-Islam qualsivoglia approdo operativo. Accettando il colloquio con la base militante dell'Estrema Destra italiana ci siamo resi conto in meno di due anni, un record, dell'assoluta impreparazione culturale dei vari ambienti ad affrontare un'autentica battaglia antimondialista» (24) . Nonostante le evidenti affinità con «Orion», che pur ha diffuso (e finanziato) a lungo la rivista nelle librerie di Milano e di Pieve di Cento, i toni sono aspramente polemici: terreno di scontro è la centralità strategica dell'Iran al quale «Orion» contrappone il ruolo dell'opposizione nazionalcomunista in Russia, ma si finisce beceramente sul personale. Mutti protesta per le adesioni di «Avanguardia» alle tesi di Vinciguerra (che lo accusa di aver fatto parte della struttura di sicurezza atlantica) e ricorda le querele ai giornalisti che avevano rilanciato queste «calunnie». «Avanguardia», dopo la battaglia del Parlamento a Mosca, attacca «Orion» per aver gonfiato il ruolo dell'opposizione nazionalcomunista e il peso specifico al suo interno dei gruppi fascisti. Lattanzio replica a Murelli che «le flebili velleità antisistemiche di 'Orion' e del FEL sono state stoppate dal sistema che ha imposto tre condizioni: proibizione di qualsiasi ipotesi di alleanza politica con l'Iran [...]; cessazione della polemica antimondialista in chiave antiebraica e antimassonica, riduzione di 'Orion' a foglio culturale» (25). Fonte elenca i risultati raggiunti dal «progetto antagonista alle oligarchie giudaico-mondialiste dell'Occidente plutocratico, limpidamente autorevolmente ed algidamente enucleato dal nostro Maurizio Lattanzio»: la collaborazione del lefebvriano don Curzio Nitoglia (che però sarà ben presto interrotta quando il sacerdote condanna il nazismo come setta gnostico-manichea), l'imminente pubblicazione di scritti di Mussavi Lari, "ayatollah" del Centro di diffusione della cultura islamica di Qom, la crescente partecipazione di nuclei di militanti rivoluzionari, il
riconoscimento nel libro di Allievi e Dassetto sul ritorno dell'Islam che «Avanguardia ha una impostazione più dura» di «Orion». Il crescente isolamento accentua il delirio di potenza: «La Comunità politica di Avanguardia può essere giustamente definita come ultimo caposaldo planetario nella lotta contro il nuovo ordine mondiale, contro le lobbies palesi e occulte del giudaismo e della massoneria mondiale che trovano nell'usura e nell'Alta Finanza il loro monopolio di controllo e di dominio del mondo» (26) . La polemica trascende sul piano della rissa da bar. Si copia la copertina del precedente numero di «Orion», un'immagine dell'Arca di Noé, accompagnata da un distico beffardo: «A proposito di metafore bibliche relative a nuove pseudoaggregazioni politiche di cui sulla copertina di un foglio sistemico di servizio: 'Sarà come l'arca di Noé / il cane, il gatto, io e te...' (Sergio Endrigo)» (27). Non sempre le copertine hanno contenuto satirico: più spesso troneggiano foto storiche di Hitler e Mussolini. All'interno Lattanzio scende giù duro: «Murelli parla, parla, parla... e, mentre parla, 'pensa' (?) che Lattanzio abbia dimenticato quanto egli ha scritto sul numero di gennaio 1995 di 'Orion' quando, 'vantando' la sua pregressa detenzione carceraria, minaccia di tagliare la gola... a noi, naturalmente... perché, essendo stato in carcere è 'diventato' un duro ('di cervello'...), e se non lo fa è per mere ragioni di opportunità politica (?????)... Premesso che al massimo Murelli può 'tagliarsi' le palle che non ha, e che se si ritiene di "non dover fare" qualcosa non la si fa e basta [...] quando si tagliano le gole si tagliano non si scrive [...] ad ogni buon conto per tirarti una coltellata o per spaccarti una bottiglia in faccia e farti, oltre a quella di ruffiano che già porti, una maschera 'colorata' per il prossimo Carnevale, non mi occorre aver 'fatto' 20 anni di carcere... mi occorre 'solo' averlo deciso... coglione» (28), e conclude in crescendo «è una indubitabile "verità di fatto", anche se, a voi, in culo entra, ma in testa no» (29) . «Avanguardia» è travagliata da una successiva crisi di leadership: in un trafiletto, senza spiegare la decisione, si rende noto che Lattanzio ha rinunciato alla responsabilità di coordinatore politico delle microcomunità. La successiva messa a punto è nello stile del personaggio, che ama alternare le citazioni dai western di Sergio Leone e i riferimenti alle qualità estetiche di Alba Parietti e Lorella Cuccarini: «Maurizio Lattanzio "deve" verificare, coram populo, la "tenuta razziale" di coloro che, immeritatamente, hanno avuto l'epocale
privilegio di affiancarlo e/o di seguirlo lungo gli impervi, gelidi e pericolosi 'camminamenti' del "nichilismo compiuto". Insomma, deve accertare quanto valgono costoro senza di lui [...]. Ciò avverrà quale presupposto necessario a fini di propositivo passaggio ad una fase politica successiva, la quale risulterebbe obiettivamente improponibile ove ci trovassimo irreversibilmente di fronte a immondizie antropoidi piuttosto che alle "forme antropologiche 'sopraffinamente' alimentate dalle primordiali energie etico-spirituali della razza ariana". Maurizio Lattanzio deve accertare se e quanti di costoro meritino l'amicizia politico-culturale e, soprattutto la considerazione umana della "Repubblica Islamica dell'Iran" e dei suoi uomini. Su quanto detto, non c'è né abbiamo mai accettato discussione» (30). Il riferimento all'Iran non va liquidato come prodotto di una megalomania galoppante ma di una esigenza di pertinenza: il numero della rivista è una monografia sulla Repubblica Islamica dell'Iran. «Avanguardia» è aperta anche al contributo di una componente cattolico-tradizionalista. Così il «camerata» Giuseppe Grupposo, fondatore del centro studi Cristianesimo e Islam (motto: "Una corde pro traditione defendenda"), pur dando per scontato che è l'Islam il futuro del territorio oggetto del progetto politico, preferisce parlare di alleanza tra tradizioni religiose. Al campo cattolico tradizionalista, di ispirazione guénoniana, appartiene, sempre in Sicilia, il Circolo culturale mediterraneo, che edita a Palermo la rivista «Sacro e profano» e dedica ampio spazio agli atti dei convegni internazionali di incontro tra Islam e cristianesimo. Quando il rapporto con «Sodalitium» finisce «ai materassi» è il professor Grupposo a regolare i conti con i sedevacantisti contrapponendo la Tradizione ellenica alle «speculazioni teologiche morbose» e al «rapporto di odio-amore nei confronti del giudaismo» del cattolicesimo integralista: la divinità non si può incarnare, l'ebraismo non è colpevole quindi di deicidio ma di 'mancanza di civiltà'» (31). La scelta di Lattanzio di «spostarsi di lato» non va comunque nella direzione di una volontà di ricomposizione dei rapporti «diplomatici» con gli altri gruppi dell'estrema destra. Anzi, la tensione è sicuramente accentuata dalla decisione di ripubblicare sistematicamente vecchi saggi e memorie difensive di Vincenzo Vinciguerra. «Avanguardia» non perde occasione per proclamare la totale adesione all'analisi dell'autore della strage di Peteano sull'asservimento dell'estrema destra ai servizi di sicurezza atlantici,
proprio nella fase in cui la collaborazione di Vinciguerra con i magistrati ha portato al rilancio delle inchieste sul terrorismo nero e le stragi negli anni Settanta. La rete militante resta sparuta: le redazioni sarda, lombarda ed emiliana coincidono con le abitazioni dei tre responsabili, mentre scompare dalla gerenza ogni riferimento a Lattanzio . NOTE . (1). Stefano Allievi - Felice Dassetto, "Il ritorno dell'Islam", Roma, Edizioni Lavoro, 1993, p. 148 . (2). Ivi, p. 158 . (3). Abdul Hadi Palazzi, "Ortodossia islamica ed «ortodossia guénoniana»", «Convivium», a. 5, n. 19, ottobre-dicembre 1994 . (4). Ibidem. (5). Palazzi ha curato un saggio per l'opera di M. Mutahari, "Gnosi e Sufismo", Roma, Atanor, 1992 . (6). Allievi - Dassetto, "Il ritorno...", cit., p. 159 . (7). Ivi, p. 236 . (8). A Del Ponte è affidata da Freda la «lezione» su Evola per «Risguardo», la rivista-catalogo per il ventennale delle Edizioni di A.R. Il numero speciale del 1984 (più di quattrocento pagine) è una sorta di libro d'oro della rete militante e culturale che si snoda intorno alla figura carismatica di Freda . (9). Scialoja, "Il nostro...", cit., p. 85 . (10). «Olocausto? No, grazie», «Comunità islamica», 1991, a. 1, n. 0 . (11). "Il diario di Anna Frank", «Comunità islamica», gennaio 1992, a. 2, n. 1 . (12). «Orion», n. 11, 1992, cit. in Allievi - Dassetto, "Il ritorno...", cit., p. 213 . (13). Allievi - Dassetto, "Il ritorno...", cit., p.p. 218-19 . (14). Ivi, p. 221 . (15). Leonardo Fonte, "Per una nuova rivoluzione europea", «Avanguardia», a. 10, n. 8, settembre 1992 . (16). Maurizio Lattanzio, "La «erigenda» Comunità", «Avanguardia», a. 10, n. 9, ottobre 1992 . (17). Ibidem . (18). Maurizio Lattanzio, "Al cuore, Ramon...", «Avanguardia», a. 12, n. 3, marzo 1994 . (19). Ibidem .
(20). «Azione skinhead», a. 2, n. 2, dicembre 1992 . (21). «Avanguardia», a. 11, n. 1, gennaio 1993 . (22). Maurizio Lattanzio, "Cari compagni", «Avanguardia», a. 11, n. 3, marzo 1993 . (23). «Avanguardia», a. 9, n. 9, settembre 1991 . (24). Dagoberto Bellucci, "Il lato oscuro della storia", «Avanguardia» a. 11, n. 9, settembre 1993 . (25). Maurizio Lattanzio, «Giù la testa, coglioni...», «Avanguardia», a. 12, n. 2, febbraio 1994 . (26). "Avanguardia, la rivista dei veri patrioti", «Il Cittadino settimanale piemontese», 7 febbraio 1995, riprodotto anastaticamente in «Avanguardia», a. 12, n. 118 . (27). «Avanguardia», a. 12, n. 118 . (28). Maurizio Lattanzio, "Interrogatorio alle destre", «Avanguardia», a. 13, n. 8, agosto 1995 . (29). Ibidem . (30). Maurizio Lattanzio, «Indio, tu il gioco lo conosci...», «Avanguardia», a. 13, n. 7, luglio 1995 . (31). Gioacchino Grupposo, "Materialismo metafisico e politico nelle posizioni della rivista Sodalitium", «Avanguardia», a. 16, n. 3, marzo 1998 . UN PIACENTINO PENTITO . Alcuni integralisti di prestigio non sono disponibili a operazioni di caccia all'arabo. E' il caso del professor Agostino Sanfratello, protagonista di clamorose vicende giudiziarie «in difesa della morale e della vita», anche lui uscito da Alleanza cattolica all'epoca del referendum sull'aborto ma particolarmente aperto al dialogo con l'anima più rigorosamente tradizionalista della destra radicale. Sanfratello è salito agli onori della cronaca come principale accusatore di Aldo Braibanti, l'intellettuale anarchico omosessuale condannato nel '68 per aver plagiato il fratello minore del professore e un altro discepolo. Il caso giudiziario, unico in Italia, scatenò roventi polemiche e si concluse con l'abolizione del reato di plagio. Sanfratello, fondatore «pentito» dei «Quaderni piacentini», ritorna all'ovile durante il servizio militare e perviene a posizioni di totale intransigenza cattolica (è con Cantoni nella prima cerchia di Alleanza cattolica, al punto di entrare per un periodo in un seminario lefebvrista). Docente universitario a Salerno,
torna alla ribalta in un processo che lo vede contrapposto a decine di femministe: oggetto del contendere è il diritto alla vita contro il diritto all'aborto, in nome del quale animerà anche la scissione del Centro Lepanto . Nello scontro con le ideologie e le pratiche permissiviste della sinistra il professore radicalizza le posizioni e dà vita a Rovereto a un Comitato di Solidarietà pro Detenuti Politici, che si impegna nella campagna per l'assoluzione di Freda nel processo per piazza Fontana. Della corrispondenza tra il professore e il detenuto c'è traccia nel volume per il ventennale delle edizioni di A.R. «Nella mia clausura», scrive Freda presentando l'«intervento», «è penetrata una lettera di Agostino Sanfratello, il quale milita nelle file di un cattolicesimo inattuato e severo ('feudale', diciamo). Lettera che ora pubblico con regolare "imprimatur" dell'autore e del gruppo di A.R. Io come membro del corpo dei soldati politici, Sanfratello come membro di un altro 'corpo' a non voler considerare la nostra appartenenza a due distinti 'ordini' metapolitici - entrambi un identico voto solenne - quello di fedeltà alla nostra specifica idea del mondo - lo abbiamo pronunziato e prestiamo servizio ciascuno nella nostra milizia. Entrambi possiamo allora serenamente 'incontrarci', rivolgendoci, senza stupirci, il saluto: "Sursum corda!" E credo che se egli risponderà: "Habemus ad Dominum", mentre io risponderò: "Habemus ad divinum" - entrambi potremo risolvere (non dissolvere!) le profonde differenze, implicite nelle nostre risposte, nella identica, affermativa conclusione: "Nunc et semper!"» (1). Il Comitato non si è dissolto con l'assoluzione di Freda, ma si è impegnato per la scarcerazione di Signorelli, pubblicando un volume sul caso del professore detenuto per sette anni in attesa di giudizio (e le condanne all'ergastolo come mandante degli omicidi Occorsio, Leandri, Amato regolarmente annullate in Appello o in Cassazione) (2) e nell'estate '93 contro l'arresto del vertice del Fronte nazionale per violazione della legge "Mancino" (3). «Le cosche», recita l'appello per la scarcerazione di Freda, Ferri e Gaiba, «logge, lobbies e bande che preparano il 'nuovo ordine' del totalitarismo mondialista e fabbricano analoghe "leggi speciali" negli altri paesi europei non erano finora riuscite né a raggiungere un simile primato di infamia, né a scendere tanto in basso nell'esplicitezza della minaccia rivolta qui a tutto un popolo, a cui è fatta proibizione rigorosissima, sotto pene draconiane, di preferire ed affermare la propria identità» .
C'è chi si contenta, invece, della Chiesa cattolica, senza affannarsi in dispute dottrinali e in ricerche liturgiche, quando l'istituzione può rappresentare, semplicemente, il canale di mediazione più adatto per dare forza simbolica al gesto della resa: la consegna delle armi. E' il caso di Mimmo Magnetta, avanguardista milanese, responsabile della struttura clandestina di A.N. in Italia. Era stato arrestato nell'aprile del 1981: insieme a Carminati, col quale aveva partecipato alla rapina alla Chase Manhattan Bank, e a un camerata bergamasco, Graniti, avevano tentato l'espatrio clandestino in Svizzera per sottrarsi alla cattura dopo le confessioni di Cristiano Fioravanti. Purtroppo il «pentito» aveva avuto il tempo di raccontare di quel passaggio incontrollato della frontiera, lungo l'autostrada, e da giorni le squadre speciali aspettavano i fuoriusciti al varco. Con i tre neofascisti cade anche un tesoro in dollari e preziosi, che sarebbe servito a finanziare la latitanza. Il loro obiettivo era raggiungere Parigi, diventata il centro europeo di A.N. dopo la svolta democratica in Spagna . Magnetta si fa tre anni e otto mesi di carcere: a Viterbo si becca anche una coltellata di striscio, per frenare una ciurma di camorristi scatenati nella punizione di Francesco Bianco, colpevole di un comportamento poco riguardoso per i vicini di cella; a Rebibbia è tra gli animatori dell'«area omogenea» di destra. Mentre i movimentisti del FUAN, da Paolo Lucci Chiarissi a Livio Lai, approfondiscono la conoscenza - in un caso in senso biblico - con gli ex-nemici di Prima linea, convincendosi a vicenda che erano fratelli separati anche se non se ne erano ancora accorti, Mimmo, con lo spirito pratico degli avanguardisti, cerca di dare sostanza alla scelta della «dissociazione». Tramite il cappellano del carcere riconsegna le armi, poi, dagli arresti domiciliari, nel dicembre 1984 lancia un appello agli irriducibili perché depongano le armi. Un appello puramente retorico perché da due anni sono cessate le attività armate dei brigatisti neri e i sopravvissuti alle grandi retate successive al pentimento di Sordi o sono riparati all'estero o si sono riciclati nella criminalità organizzata. Ci sono però i processi in corso. Magnetta ha beccato più di otto anni per le rapine con Dimitri e si lamenta scrivendo al solito padre Carmelo: «Sicuramente inciderà negativamente su questo giudizio (mi riferisco al processo) la situazione tesa che si è venuta a creare a causa degli ultimi tristi e dolorosi eventi. Eventi che speravo non dovessero più ripetersi ma che come temevo si sono ripetuti [l'omicidio da parte delle Brigate rosse-
P.C.C. del sindaco di Firenze, Lando Conti, nel febbraio del 1986]» (4). La condanna a due anni e nove mesi per la ricostituzione di A.N. sarà l'ultimo pedaggio da pagare a una militanza politica sul filo dell'illegalità. Ai ricercatori de il Mulino racconterà che «la prima volta che mi sono sentito strumentalizzato e ho cominciato a prendere coscienza di tutta una serie di cose è stato quando fu ucciso l'agente Marino. C'erano pesanti responsabilità parlamentari del M.S.I. che però non sono mai emerse» (5). La scelta delle armi, invece, la rivendica come tutta sua. E infatti nel marzo 2000 è arrestato nelle indagini per il misterioso omicidio a Milano di un giovane attivista di destra, per detenzione di pistola (6) . Al ripudio della scelta armata è pervenuto dopo un lungo tormento interiore uno dei leader dello spontaneismo armato, Gilberto Cavallini. «Gigi» ha qualche anno in più dei «guerrieri senza sonno» (è del '52) ma come Valerio Fioravanti e Francesca Mambro proviene dalle organizzazioni giovanili missine. A Milano la situazione è molto più pesante che a Roma. Deve lasciare l'ITIS Feltrinelli, santuario di Avanguardia operaia, e rifugiarsi in un istituto privato per prendere il diploma. E' una testa calda: a ventidue anni si becca una denuncia per aver sparato a un benzinaio che gli aveva rifiutato il rifornimento. Partecipa alla spedizione punitiva in cui è ucciso - nell'anniversario della morte di Ramelli - il compagno Amoroso: una soffiata di un dirigente missino manda la squadraccia in galera. Evade durante un trasferimento alla vigilia di Ferragosto 1977. I carabinieri di scorta sono deconcentrati e l'impresa riesce in circostanze grottesche. Durante il viaggio in autostrada, all'altezza di Roseto degli Abruzzi, fermano il furgone per consentirgli un bisognino, sul ciglio di un pendio. Le catene sono lente, Cavallini si lascia rotolare nella scarpata e fa perdere le tracce. Raggiunge fortunosamente Roma dove gli procurano un falso documento. Pur avendo partecipato in carcere a San Vittore al dibattito sullo spontaneismo armato, non ha punti di riferimento e per garantirsi la latitanza si affida al proconsole milanese di A.N., il calabrese Marco Ballan, che lo «passa» a Fachini. Il leader ordinovista veneto lo sistema a Treviso, ospite per nove mesi di uno dei suoi luogotenenti, Roberto Raho, e poi lo manda in missione a Roma per controllare le attività clandestine di «Costruiamo l'azione». Cavallini ha pochi, qualificati contatti: con Aleandri, Calore e Bruno Mariani. Bruciato dall'esperienza del primo arresto - qualcuno aveva parlato in giro - è molto guardingo.
Per due anni vive a Treviso sotto falso nome, Gigi Pavan, e si fidanza con Flavia Sbroiavacca, figlia del titolare della maggiore agenzia di viaggi cittadina. Si conoscono nel 1978, due anni dopo lei gli dà un figlio, chiamato Federico in onore dell'imperatore ghibellino. Solo quando la donna è incinta, «Gigi» le confida di essere un evaso. Ai conoscenti dice di fare il pendolare con Padova dove avrebbe lavorato alla Total. In realtà «Gigi» campa a pane e mortadella, con 200mila lire al mese di collette tra i camerati. La sua frugalità è proverbiale, come la silenziosità. La prima rapina l'avrebbe compiuta solo nel dicembre del 1979, quando nasce l'aggregazione tra Calore, i resti di C.L.A. e la banda Giuliani con "guest star" Valerio Fioravanti. In quel periodo avrebbe fatto la spola tra Roma e il Veneto, per riciclare l'oro rapinato da Giuliani a un gioielliere ebreo libico, Fadlun, ucciso anni dopo dai killer di Gheddafi. Nei soggiorni romani «Gigi» è talvolta ospitato dalla ragazza di Egidio, Laura Lauricella. Giustificherà la decisione di fare rapine con la condanna a 13 anni e mezzo in primo grado per concorso nell'omicidio Amoroso (gli autori materiali avevano avuto più di 20 anni) e l'imminente paternità . Calore lo mette in guardia dalle ambiguità di Fachini ma a «Gigi» non va di rompere con chi l'ha aiutato nel bisogno, anzi rinsalda i rapporti con Raho, al quale affida armi in custodia. Diverso è il discorso con chi ha espresso istanze golpiste e ha avuto rapporti con la loggia P2. «Gigi» condanna nettamente la strage mancata a piazza Indipendenza per un difetto di fabbricazione della bomba. Il fallito attentato al C.S.M. avrebbe dovuto concludere con un bagno di sangue la campagna di primavera del '79 del Movimento rivoluzionario popolare contro bersagli simbolo dello Stato delle Multinazionali (il Campidoglio, Regina Coeli, la Farnesina). Cavallini si giustificherà con i camerati che lo prendono in giro per i rapporti con la vecchia guardia ordinovista: non sapeva che De Felice e Semerari fossero massoni e che anche Signorelli avesse rapporti con Gelli. La sera dell'omicidio Leandri incontra Valerio Fioravanti (si erano conosciuti una settimana prima, in occasione della sua prima rapina) e lo porta con sé in Veneto. Lo ospita nella casa dove vive con Flavia, incinta al terzo mese. Insieme preparano il sequestro di un Benetton. Hanno caratteri agli antipodi, sei anni di differenza eppure si integrano alla perfezione. Come Fioravanti, «Gigi» è deluso dell'ambiente: è un fascista di rigorosa formazione evoliana ma è affascinato dal Che, d'indole è un teorico ma sente il
dovere di agire. Valerio gli affiderà le rivendicazioni. All'assalto al liceo «Giulio Cesare» «Gigi» partecipa con compiti di copertura insieme a Mario Rossi e a Gabriele De Francisci, dirigente del FUAN. E' il primo agguato: un fallimento personale. Per un equivoco con il gruppo di fuoco - nel cortile c'era una «civetta» e non la volante prevista - pensa a un rinvio ma il commando entra lo stesso in azione. Parcheggia l'auto di copertura, munita di sirena, al primo angolo della traversa che dà sulla piazza della scuola e si avvia a piedi per vedere perché i quattro non arrivano. Sente gli spari e vede Vale e Ciavardini sanguinante venirgli incontro: i due gli fanno cenno di non avere bisogno di aiuto, anche se alla copertura tocca garantire la fuga del gruppo di fuoco . La volta dopo veste i panni del boia. L'obiettivo è il sostituto procuratore Amato, considerato un persecutore perché è l'unico che segue le inchieste sul risorgente terrorismo nero, fenomeno gravemente sottovalutato dal procuratore capo De Matteo. Amato era arrivato in procura nel 1977, a raccogliere l'eredità di Occorsio. Lavorava da solo e più volte aveva scritto ai superiori e al C.S.M., raccontando gli attriti con De Matteo. Era stato protagonista di uno scontro furibondo con Signorelli, al quale aveva fatto lo sgarbo di notificare l'ordine di cattura per C.L.A. (nel giugno 1979) quando il professore si era presentato in procura per ritirare carte sequestrate in una perquisizione. Il leader ordinovista sosterrà che il p.m. era ossessionato dall'unicità dell'eversione nera, ragionava per teoremi e tendeva a ricondurre tutto ad A.N. e O.N. La banda Fioravanti ha più concrete ragioni di risentimento: lo considerano responsabile degli interrogatori offensivi per Francesca Mambro, dopo l'arresto di Pedretti, e del pestaggio di Alibrandi, malmenato in questura dopo il fermo per l'omicidio Arnesano, firmato dal giovanissmo Catalani (divenuto poi famoso per l'inchiesta su via Poma) ma da lui fortemente voluto. Un avvocato si preoccupa di rassicurare il frastornato p.m.: «Stia tranquillo Catalani, sappiamo che lei ha solo firmato, ma la decisione non è sua...». Dopo l'ultimo scontro con De Matteo, Amato confida a un collega che sta per chiedere il trasferimento al «civile»: si sente isolato per gli attacchi dei difensori che gli rinfacciano una militanza di sinistra che lui nega con veemenza. L'ufficio istruzione respinge o stravolge i provvedimenti chiesti ed è benevolo con i «neri». Alibrandi senior lo accusa pubblicamente di caccia ai fantasmi. In un incontro a porte chiuse con
la prima commissione del C.S.M., il 13 giugno, denuncia lo sfascio dell'ufficio: «fino a tre mesi fa non c'è stata risposta alla mia richiesta di aiuto». Solo con il suo rifiuto di gestire l'inchiesta sul covo di Ostia per sovraccarico di lavoro nasce il pool, con Giordano e poi con Guardata a cui è affidato l'inchiesta sul «Giulio Cesare». Amato denuncia anche il disinteresse dei carabinieri, mentre con la DIGOS lavora bene . Valerio conduce l'inchiesta: la prima volta va con Alibrandi in tribunale per farselo descrivere e scopre che Amato non ha né scorta né auto blindata. L'esecuzione è affidata a «Gigi»: è l'unico che può agire a volto scoperto non essendo noto a Roma e poi è ora che anche lui «faccia» un omicidio. L'effetto sorpresa funziona: i giornalisti, abituati ai ragazzini delle bande nere della Capitale, restano sconcertati davanti ai testimoni che descrivono un uomo «alto circa 1 metro e 75, a viso scoperto, età 30-35 anni, capelli bruni e vestito nocciola con giacca e cravatta in tinta» e concludono che il killer è venuto da fuori. Cavallini rinvia più volte l'esecuzione perché vede Amato accompagnare la figlia a scuola. Il fatto di stare per diventare padre lo blocca. La mattina del 23 giugno si decide. Scende dall'Honda 400 guidata da Ciavardini, che ha il volto coperto dal casco, quando lo vede aspettare l'autobus 391 alla fermata di viale Jonio. Si accosta dietro Amato e lo fulmina con un solo colpo dietro l'orecchio sinistro. Le riprese impietose della RAI mostreranno un cadavere con le scarpe bucate. Sono le 8,05. La sera «Gigi» è già a Treviso, dove festeggia il debutto cenando a ostriche e champagne con Valerio e Francesca. La sua euforia è una reazione nervosa. «Racconta dell'emozione quasi mistica che ha avuto quando ha sparato, rievoca la vampata della pistola, i capelli della vittima che si sono aperti volando via. 'Ho visto il soffio della morte' dice pensoso» (7). Il volantino di rivendicazione, "Chiarimenti", citatissimo in tutti i libri sul terrorismo nero, è il più lucido manifesto dello spontaneismo armato (e l'azione stessa è considerata esemplare da Tuti). Nel processo di primo grado «Gigi» precisa che l'omicidio ha rappresentato la rottura definitiva con ogni struttura organizzata e gerarchizzata, in odio manifesto a O.N. e A.N. A sua volta Valerio spiega che «la scelta di Amato fu determinata dalla necessità di dare un segno evidente, quasi plateale, della rottura fra noi e alcuni apparati dello Stato ai quali eravamo, diciamo così, simpatici. Noi facevamo quello che volevamo, eravamo i figli della borghesia ai quali era permesso tutto, loro erano troppo occupati con i compagni, erano molto tolleranti» (8). Per «Gigi»
«questi episodi criminosi non erano parte di un piano eversivo ma si trattava di fatti che nascevano e si esaurivano in modo tra loro autonomo, in base a obiettivi scelti secondo le occorrenze. L'omicidio Amato voleva avere il significato di abbandonare i metodi delle lotte tra giovani di opposte fedi politiche, di svincolarsi dal passato e di dirigere semmai l'azione contro lo Stato e i suoi esponenti» (9) . Ai primi di luglio nasce Federico, ma «Gigi» non depone le armi. L'unico cambiamento: non ospiterà più Valerio e Francesca. Se arriva la polizia a casa ha deciso di arrendersi per non far correre rischi a moglie e figlio ma non può imporre questa scelta ai suoi amici. Il rapporto con la parte del boia è sempre problematico. Dopo la strage di Bologna Valerio decide che è venuto il momento della resa dei conti finale, a mano armata, con i leader della destra extraparlamentare. Lui se la vedrà con Mangiameli e poi con Fiore e Adinolfi, a «Gigi» tocca Fachini. Quando si presenta a Roma dicendo che non se l'era sentita, Valerio non ascolta ragioni: anche Mangiameli aveva famiglia eppure era finito in un laghetto con i pesi da sub. L'arresto del leader ordinovista per l'inchiesta sulla strage di Bologna chiude la polemica (10). Nei mesi successivi la banda fa la spola tra Milano e il Veneto, tra rapine e regolamenti di conti. Il 30 ottobre sono ammazzati in auto Cosimo Todaro, detto l'«Infamone», e l'amante, la ballerina greca Maria Paxou. Lui, un pregiudicato del giro delle bische, aveva fornito «basi sbagliate», si faceva anticipare soldi per pagamenti non effettuati, con le sue leggerezze metteva a repentaglio la sicurezza dei latitanti. Un colpo alla nuca di lui, uno alla guancia di lei e il discorso è chiuso. Valerio si attribuisce l'omicidio ma la Corte condannerà Mauro Addis. Il giorno dopo rapinano una gioielleria a Trieste. Il 26 novembre «Gigi» torna a Milano. Ha bisogno di un'auto pulita e si reca insieme a Soderini nella carrozzeria di Cosimo Simone a Lambrate, un «covo» storico della mala milanese e in seguito della banda di Enrico Caruso. Quella mattina arriva una «gazzella» per un controllo su un sequestro di persona. «Gigi» ha l'auto di Flavia, un'Audi 100: quando controllano via radio i documenti personali apre il fuoco. Il brigadiere Lucarelli è ucciso, l'altro carabiniere è solo ferito al polpaccio. Scappano, ma deve abbandonare i documenti e quindi è costretto a lasciare in tutta fretta la casa di Treviso. Valerio li critica aspramente: bisognava uccidere anche l'altro uomo e recuperare i documenti. «Gigi» non si abbatte, anzi comincia a prenderci gusto a fare il bandito. Una settimana dopo guida
l'assalto a una gioielleria di Treviso e apostrofa sprezzantemente la titolare: «Mi guardi in faccia che poi mi dovrà riconoscere. Io non ho nulla da perdere tanto ho già ucciso dei carabinieri». Il bottino è di tre miliardi. Un suo errore di valutazione porterà all'arresto di Valerio. In vista di un colpo importante a Milano dà in custodia le armi lunghe a un camerata inaffidabile di Padova. I fucili finiscono in un canale e «Gigi» è pronto a «espiare la colpa» provvedendo personalmente al recupero. Valerio e Cristiano, esperti e appassionati sub, lo dispensano dalla fatica. Toccherà a loro il conflitto a fuoco con la pattuglia che sopraggiunge. L'arresto di Valerio è un disastro per la banda: crolla l'intera rete di appoggio a Padova. Treviso era già terra bruciata e «Gigi» si trova costretto ancora una volta a chiedere aiuto alla vecchia guardia avanguardista, con cui riteneva di aver chiuso definitivamente i rapporti. Ballan di nuovo garantisce ospitalità a Flavia e a Federico. Un'ospitalità avvelenata: Magnetta, infatti, si offre di risolvere definitivamente il problema. In Bolivia Delle Chiaie è consigliere del governo e sarebbe felice di ospitare «Gigi» e tutta la famiglia. Basta che lui si metta a disposizione... «Gigi» ringrazia e rifiuta. Un viaggetto in Bolivia se lo fa comunque, ospite del suo amico Pierluigi Pagliai, che «lavora» per i narcogenerali. «Gigi» racconterà poi di essere stato alloggiato in una caserma. Partecipa a tutti gli agguati dell'ultima stagione dei NAR, da Pizzari a Straullu, dalla sparatoria sotto la rappresentanza dell'O.L.P. all'omicidio degli agenti DIGOS, che li intercettano mentre stanno andando ad ammazzare Giorgio Muggiani, il missino che l'ha fatto arrestare per Amoroso. Al processo NAR 2 cumulerà sei ergastoli, che si andranno ad aggiungere a quelli per gli omicidi Evangelisti, Amato e Lucarelli. E' l'ultimo catturato, nel settembre '83: era rientrato a Milano per soccorrere Soderini, rimasto senza soldi e senza appoggi. Li individuano pedinando un fiancheggiatore, Andrea Calvi, responsabile della rivista «Movimento». Ai processi è sempre presente e battagliero: difende con lucidità e determinazione il percorso politico, respinge con sdegno le accuse di asservimento alle trame golpiste e stragiste, di assoldamento alla P2 e ai servizi deviati. Trattiene per i capelli Valerio dal raggiungere Izzo e Calore sulla sponda della «collaborazione». Nonostante le voci riferite dai pentiti, conferma l'alibi di Valerio e Francesca per la strage di Bologna mentre continua un lento percorso di allontanamento dall'ambiente .
Il processo d'Appello a Bologna è l'occasione per una messa a punto, dopo le indiscrezioni giornalistiche che lo vogliono isolato a Spoleto perché si è dissociato. «Gigi» scrive alla corte d'assise d'Appello di Bologna denunciando le condizioni di carcerazione, smentisce di essere pentito o dissociato e precisa che non cerca sconti di pena: «Ho ripudiato la lotta armata e la stessa lotta politica dopo aver recuperato i valori della fede e del cristianesimo». Successivamente interrogato ripete la protesta per l'isolamento e la sorveglianza speciale a cui è sottoposto: «La mia scelta spirituale, esistenziale e politica è anteriore al mandato di cattura per l'omicidio Mattarella ed è dettata da un'esigenza di verità, voglio lanciare un messaggio di pacificazione. Ho rivendicato tutte le azioni dei NAR alle quali ho partecipato e che mi sono costate vari ergastoli, ma il nostro percorso politico esclude qualsiasi responsabilità nell'eccidio che state giudicando». Non c'è motivo di dubitare della limpidezza della sua riconversione, anche alla luce di una personalità che più volte aveva manifestato qualche dubbio morale nella scelta e nell'esercizio delle armi, un percorso sicuramente più tormentato di quello dei suoi più giovani sodali. Un progetto politico, quello della lotta armata, che comunque aveva continuato a difendere in carcere con ostinazione, come grimaldello per scardinare vecchie logiche, steccati, organizzazioni. In «Gigi» la causa rivoluzionaria si era identificata nella necessità nichilista di colpire i simboli economici e repressivi del potere: «Lo spontaneismo armato rappresenta il momento di sublimazione simbolico per la componente ribellista e per quella essenzialmente rivoluzionaria tendente all'affermazione della propria identità e alla definizione di una strategia di lotta conseguente» . A sentire i pentiti il suo discorso di rottura con la «vecchia guardia» non regge. Per il rodigino Napoli «è un vero e proprio figlio putativo di Fachini da cui è stato anche addestrato militarmente e mantiene rapporti stretti con Raho anche dopo il distacco di questi dall'ambiente». Per Izzo «Gigi» avrebbe voluto rapinare la finanziaria milanese legata al Banco Ambrosiano in cui lui e Valerio «riciclavano» il bottino delle rapine ma i suoi amici di A.N. l'avrebbero sconsigliato perché «anche se massoni erano camerati». In realtà - al di là delle interessate invenzioni di Izzo - è probabile che a Ballan e Fachini sia rimasto legato da un obbligo di riconoscenza. Il suo effettivo distacco dal giro di C.L.A. è una cartina di tornasole sull'autenticità dello spontaneismo
armato. Gli elementi da valutare sono scarsi: «Gigi» è un tipo che fa pochissimi discorsi politici. Valerio e gli altri intimi lo chiamano il «Negro» per il modo contorto di ragionare. Ne è buon esempio una lunga citazione riportata dalla sentenza Mangiameli sullo spontaneismo armato: è «finalistico nel senso che non attendeva il successo direttamente dalle singole azioni ma nel suo ricoprire un ruolo funzionale all'affermazione definitiva di un'identità pienamente rivoluzionaria all'interno e verso l'esterno delle nuove generazioni, nella sua idoneità a rompere irrevocabilmente l'ambiguità dell'ambiente di provenienza nei confronti delle istituzioni e degli apparati statali, per far emergere dal magma della contestazione destrorsa altri combattenti per creare e diffondere lo spontaneismo armato, sì da rappresentare una sorta di detonatore capace di innescare una reazione a catena di atti sovversivi. Un terrorismo cioè caratterizzato dalla sorpresa, dall'imprevedibilità, dall'indiscriminatezza degli obiettivi, e nel contempo dall'esemplarità dell'intervento, del suo valore simbolico tendenti a sostituirsi alla specificità dei risultati che il terrorismo strumentale invece si propone quale tecnica di azione autosufficiente, in sé conclusa, di sostegno di determinate istanze» . Lui, di incarnato pallido e non privo di autoironia, accetta di buon grado il soprannome, anche per un calcolo di opportunità: «Finché cercano un 'negro' io sto tranquillo». Con gli altri, i dannati del «circo delle rapine», il rapporto è puramente operativo e non si parla di politica. «Sul piano militare», spiega un coimputato nel processo NAR 2, «più che per specifiche capacità si distingue per la maturità propria di persona più adulta e per la tendenza ad affrontare la situazione con maggiore lucidità e pacatezza. Caratterialmente era poco emotivo e quindi la principale qualità sarà proprio l'essere normale, né un freddo assassino né un pazzo scatenato. Gigi è uno di quelli che non perde mai il controllo né si esalta. La sua storia è quella di un militante medio del F.D.G. che in uno scontro di piazza si trova coinvolto in un omicidio. Dopo la galera e l'evasione si aggancia a Fachini e per un periodo di alcuni anni è organico alla banda veneta. Qui opera il salto di qualità che lo lancia sulla dimensione nazionale e su un livello di gestione delle cose ben più elevato. Ad un certo punto Fachini lo presenta a Roma come un ottimo quadro militare che può servire per sviluppare l'iniziativa nella capitale. Non viene scaricato ma come militante operativo del gruppo veneto in un quadro di economia di uomini sul
territorio viene trasferito a Roma perché si pensa che là serva. Resta un buco nero di tre anni in cui lui vive ed opera in Veneto, in un centro piccolo come Treviso, con la donna, con cui si sposa il che dimostra una grossa capacità di gestione e di copertura della latitanza. Solo esaminando con esattezza il rapporto con Fachini si può capire in che misura lui si sgancia effettivamente, si autonomizza e parte per la tangente dello spontaneismo» . Sulla strada di Damasco «Gigi» era stato preceduto da un suo «attendente», Andrea Calvi, partito dal Fronte della gioventù e approdato a Comunione e liberazione, in un percorso che l'aveva visto «fiancheggiare» la lotta armata. Calvi era stato tra gli animatori del Circolo «Ramelli», una struttura sostanzialmente autonoma del F.D.G. e aveva garantito alloggi e appoggi a Milano ai militanti della lotta armata. Con Livio Lai e Gabriele De Francisci (ne sposerà la sorella Donatella) aveva dato vita a «Movimento», rivista dell'area comunitaria del FUAN. Una voce che si poneva «al di là della politica» e che finirà per rappresentare uno degli incubatoi di un discorso di oltrepassamento degli steccati destra/sinistra, non più fondato sulle elucubrazioni strategiche alla Freda, ma sulla consapevolezza di una comune dimensione umana nell'antagonismo al sistema. Calvi è arrestato con Cavallini e Soderini. In carcere è tra gli animatori del dibattito per la fuoriuscita dall'orbita neofascista. Due anni dopo, nella sua cella di Rebibbia durante il processo NAR 2, sono trovate armi ed esplosivo e sarà perciò condannato. Fermato nel corso delle indagini per la rivolta di Porto Azzurro Calvi torna in galera nell'89, per scontare un residuo di pena. Deve anche rispondere di una rapina di poche centinaia di migliaia di lire al botteghino del Teatro dell'Elfo, il locale "off" dove si sono formati Paolo Rossi e Gabriele Salvatores. All'uscita dal carcere invera il suo bisogno di comunità nell'esperienza religiosa di C.L . NOTE . (1). F.G.F, "Introduzione" a Agostino Sanfratello, "Lettera di un commilitone a un camerata", «Risguardo IV», Brindisi, Edizioni di A.R., 1984, p. 22 . (2). Comitato di Solidarietà per Detenuti Politici, "Paolo Signorelli...", cit . (3). Il 25 settembre 1993 il Comitato organizza a Salerno, sede della Libreria di A.R., il convegno "Giustizia di palazzo e democrazia
totalitaria" con Emilio Vesce, consigliere regionale veneto, radicale (nel 1968, militante di POTOP, aveva subaffittato una stanzetta nei locali della libreria di Freda a Padova) dei parlamentari Girolamo Cannariato (Rete), Antonio Parlato e Nicola Pasetto (M.S.I.), degli avvocati Clemente Manco e Leonardo Peli e del professore Sanfratello . (4). Carmelo di Giovanni, "Eravamo terroristi...", cit., p. 125 . (5). Enrico Pisetta, "Militanza politica e scelte eversive nei terroristi neofascisti", in "Ideologie, movimenti, terrorismi", cit., p. 196 . (6). Vedi capitolo 31 . (7). Bianconi, "A mano armata...", cit., p. 151 . (8). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA . (9). Ibidem . (10). L'episodio è raccontato da Bianconi, nella biografia di Fioravanti, presumibilmente su sue confidenze. Ma c'è un'incongruenza: l'arresto di Fachini precede di 7 giorni l'omicidio di Mangiameli . GUERRIERI SERENISSIMI . E' proprio nella provincia veneta, nella zona grigia tra integralismo cattolico e leghismo radicale, che viene a maturazione il primo originale fenomeno di terrorismo degli anni Novanta, la Serenissima veneta armata, che dopo una decina di interferenze nella programmazione RAI esce allo scoperto, alla vigilia del bicentenario della fine della Repubblica veneta, con un'azione clamorosa. La notte del 9 maggio 1997 un commando di otto «indipendentisti» occupa il campanile di San Marco, innalzando la bandiera con il leone oro in campo granata definita del Veneto serenissimo governo, e proclamando l'indipendenza del Veneto. Il più giovane ha vent'anni, il più anziano una cinquantina, alcuni risiedono nel Padovano, altri nel Veronese. L'intervento delle teste di cuoio dopo poche ore conclude il «blitz» con l'arresto dei componenti del gruppo, che si dichiarano prigionieri politici. L'attacco era cominciato alle 0,20, con il sequestro dell'ultimo traghetto in servizio sulla linea Tronchetto-Lido: «Questa» annuncia il capo, armato di MAB «è un'azione di guerra». Giovanni Girotto, comandante del traghetto che ha trasportato i «serenissimi» a San Marco, ricorda con un sorriso, più che con paura, l'avventura e la inquadra come un gesto dimostrativo: «Erano determinati, coordinati tra loro con radioline, ma non sembravano preparati militarmente, e prima di salire sul ferry boat hanno pagato il biglietto. Ciascuno di noi
credo abbia mascherato bene la sua ma non mi sembrava ci fosse motivo per avere forti paure. Quando sono saliti con il rimorchio, hanno mostrato una certa prepotenza e hanno rischiato di investire un marinaio. Al blindato e al fatto che alcuni indossavano una tuta mimetica non abbiamo fatto tanto caso perché spesso salgono mezzi militari. Una volta a bordo, però, quello che è sembrato il 'capo' è salito nella sala comando e con una mitraglietta mi ha intimato di mollare gli ormeggi». Un marinaio è riuscito ad avvertire dell'azione gli automobilisti che tornavano a terra . «Mi sono subito sembrate persone convinte della loro idea», aggiunge Girotto, «ma non parevano malvagi. Hanno più volte ripetuto che non ce l'avevano con noi e inneggiavano a San Marco e alla Repubblica 'Serenissima'. Hanno detto che non c'entravano nulla con la Lega o la Padania». Solo una volta in moto, il 'commando' ha detto la meta. «Abbiamo fatto presente che a San Marco non era possibile attraccare e loro prima hanno protestato e poi ci hanno lasciato fare», ricorda Girotto, «e allora siamo riusciti a portare il mezzo nella zona davanti ai Giardini reali dove c'era un piccolo spazio». Concluso l'attracco e preparato lo sbarco del blindato (costruito sulla struttura di un trattore e munito di un rudimentalissimo lanciafiamme a monocarica), il «commando» ha lasciato liberi i sei membri dell'equipaggio. «Il camion con il rimorchio» rileva il comandante, «l'hanno lasciato a bordo dicendo che non serviva e, con una battuta, che potevano regalarlo a Scalfaro». Il mezzo è stato controllato dagli artificieri che non hanno trovato nulla. Alla fine, ricorda Girotto, il commento dell'equipaggio è stato unanime: «Pazzi, che credono che la gente la pensi come loro». Dopo lo sbarco due giovanissimi carabinieri abbozzano un fronteggiamento poi, davanti al mitra spianato, si ritirano in buon ordine. Al processo si giustificheranno: «Abbiamo tentato di fermarli ma ci hanno minacciato di fare fuori tutti puntandoci contro il mitra carico [e così smontano la linea difensiva degli Otto, che parlano di un ferro vecchio inutilizzabile] e poi la centrale aveva escluso azioni di forza, pericolose per i presenti». Una sola arma basta a tenere sotto tiro i 50 turisti che si godono una piazza San Marco pressoché deserta . Dall'allarme radio, alle 0,30, all'arrivo dei rinforzi passano 40-50 minuti nonostante il comando dei carabinieri sia a 200 metri. Al processo l'avvocato Gasperini, senatore leghista, solleverà dubbi sul ritardo. I curiosi attratti dal trambusto sono allontanati ed è costruito un robusto
cordone. Dopo l'arrivo delle autorità un giovane incursore, con il volto bendato, dice in modo nervoso e concitato alle forze dell'ordine che sono determinati e pronti ad agire se minacciati: «Non vogliamo creare disordini», aggiunge. Alle 2 il vertice in prefettura decide la linea dura. Alle 5,30 arrivano da Pisa 30 carabinieri del GIS. Alle 6,30 gli incursori trasmettono il primo comunicato su Raiuno con una interferenza piratesca, sul tipo delle precedenti compiute sui T.G. nazionali: «Parliamo a nome del Serenissimo governo e comunichiamo ai veneti che dopo 200 anni questa notte su ordine del Veneto Serenissimo Governo un reparto regolare della Veneta Serenissima Armata ha liberato piazza San Marco. Oggi rinasce la Veneta Serenissima Repubblica che riprende a vincere perché noi l'abbiamo dotata della nostra incrollabile fede affinché essa viva. Viva San Marco». Alle 8,30, dopo che il sindaco Cacciari ha fallito l'ultima mediazione, le teste di cuoio entrano in azione dividendosi in tre gruppi: il primo scala il campanile usando ponteggi preesistenti, e alle 8,36 entra nell'edificio, sparando alcuni lacrimogeni. Il secondo gruppo irrompe dal loggiato, a cui accede usando il tetto mobile di una speciale Range Rover, il terzo dalla base della torre campanaria. I componenti del commando (a loro volta divisi: uno in alto, due in mezzo, tre a pianterreno) si arrendono senza resistenza - come hanno già deciso - ma uno nella colluttazione ha un timpano sfondato e un altro finisce in ospedale in stato confusionale per i colpi ricevuti in testa. Un quarto nucleo stana i serenissimi di guardia nel blindato fingendo di lanciare dell'esplosivo. I due scappano subito fuori. Alle 8,38 il blitz è concluso. Due ore dopo la piazza è riaperta ai turisti: lo spettacolo deve continuare . Gli otto del commando sono perfetti esempi della piena occupazione del Nord-est, operai, artigiani, periti meccanici, elettricisti. Sono sparsi sul territorio del policentrismo veneto, la città diffusa come proiezione urbanistica della fabbrica diffusa scoperta dal professor Antonio Negri. Cinque sono della provincia di Padova: un contitolare di una impresa di famiglia (Fausto Faccia 30 anni, di Agne), tre elettricisti (Flavio e Cristiano Contin, 54 e 23 anni, zio e nipote, di Scodosia, e Antonio Barison, 41 anni, di Conselve), un contoterzista (Gilberto Buson, 46 anni, aiuta la moglie nel suo laboratorio tessile di Cartura). I tre veronesi sono più giovani: due operai di Colognola ai Colli, il paese dei Soffiati (Luca Peroni, 25 anni, la moglie è incinta, e Andrea Viviani, 26 anni, tornitore alle Vetrerie riunite) e uno studente universitario di Pian
di Castagné (Moreno Menini, 20 anni, figlio di un ex-sindaco D.C. indagato per tangenti e morto schiacciato dal suo trattore). Si distinguono per un profilo pubblico bassissimo: tranne Contin senior e Faccia, notori militanti autonomisti, gli altri sono conosciuti come simpatizzanti leghisti e svolgono una vita sociale assolutamente banale (lo sport, il bar, gli hobby e la famiglia). Mentre i foderi combattono o comunque ne pagano le conseguenze, le sciabole si riposano. L'«ambasciatore» Peppin Segato, considerato l'intellettuale del gruppo per una laurea in Scienze politiche e un libro di storia veneta scritto, stampato e diffuso in proprio, arriva a Venezia le sera del blitz poi, colto da un improvviso attacco di codardia, se ne torna a casa a dormire e quando si ripresenta la mattina dopo a piazza San Marco scopre che è troppo tardi per assumere l'onore della trattativa, in nome e per conto del commando asserragliato (che fiducioso si era portato scorte di viveri, di biancheria e di grappa per dieci giorni, ma anche un computer con tre dischetti). In realtà gli sarebbe bastato resistere due notti: il piano prevedeva infatti per la mattina del 12 (il bicentenario) l'arrivo del «presidente» del Serenissimo governo per sconfessare le celebrazioni. Segato è arrestato nel pomeriggio a casa: nega responsabilità organizzative. Sì, il volantino trovato sul campanile l'ha scritto lui, ma tre anni prima. Il «comandante» Luigi Faccia, immediatamente fermato nella sua villetta di Senna Lodigiana, «riconosce la resa». Accetta il confronto con il giudice, ammette quello che deve ammettere e anche qualcosa in più, e dopo due giorni ottiene gli arresti domiciliari: «Se avessimo voluto fare come i tupamaros», spiega, «avremmo preso degli ostaggi. Non siamo terroristi. Volevamo risvegliare le coscienze venete, cercavamo consenso e solidarietà. Doveva essere un gesto clamoroso per raggiungere i nostri fini politici» (1). Fa infatti ritrovare in una cascina un secondo «tanketto» artigianale, radiocomandabile: era costato 50 milioni (raccolti con collette nei bar) e dieci anni di lavoro (di sera e nei week-end), ma il giorno prima dell'assalto aveva fatto cilecca. Il procuratore Papalia precisa che gli arresti domiciliari non sono un premio alla collaborazione, semplicemente non c'era più bisogno di tenere Faccia in carcere. Il fratello Fausto ha condotto militarmente l'assalto (e per rivendicare il ruolo di responsabile è l'unico che accetta l'interrogatorio giudiziario), ma è lui il «presidente». E così spiega a un esterrefatto Papalia che loro si erano indignati per la decisione di Bossi di
concludere la tre giorni sul Po a Venezia: che ci azzecca la Padania con il Veneto? Una sua confessione lascia attoniti gli inquirenti: neanche lui sa chi abbia scritto i comunicati minacciosi dell'Armata veneta di liberazione [A.V.L.], che denunciano lo «strangolamento» di uno degli otto patrioti e parlano di «guerra di liberazione», di «gloriosa sconfitta dimostrativa» e di «disprezzo dei diritti umani e della convenzione di Ginevra»: «Adesso diciamo agli occupanti dell'Italietta del Sud: attenzione noi non stiamo scherzando; liberate i nostri otto patrioti al più presto e senza ulteriori brutalità oppure noi dell'Armata veneta di liberazione risponderemo occhio per occhio, dente per dente» (2). Particolare allarme desta una telefonata all'ANSA di Mestre: una testa di cuoio «è stata riconosciuta dalle ciglia dell'arcata sopraccigliare e presto sarà punito» (3). Il terzo comunicato dell'A.V.L. denuncia l'uso politico dell'assalto: «Tutta questa tragicommedia di Venezia è orchestrata in chiave antiveneta, anti-Nord e anti-Bossi anche se noi riteniamo Bossi e i suoi accoliti, dirigenti della Lega Nord e della Liga veneta, dei traditori». Il bel gesto esalta anche gli ultrà nordisti. I tifosi dell'Atalanta, in trasferta a Piacenza, espongono lo striscione «10, 100, 1000 S. Marco: Nord libero». A Padova una curva tradizionalmente nera si scatena con gli slogan sul «Serenissimo governo» . Il dilagare dell'inchiesta, che ben presto permette di individuare l'intera rete militante - il 15 maggio, reduce dalla partecipazione a «Moby Dick», è arrestato Severino Contin, gemello e padre di due degli incursori: aveva guidato il camion con il tanketto - non frena le pressioni e i segnali bellicosi di simpatizzanti e mitomani. Finisce nelle mani di Papalia l'intero archivio, conservato nella cassaforte della cascina di Terrassa (di Domenico Brunato, un dipendente dei Faccia) e tenuto meticolosamente dal «contaiolo» Barison, con tanto di adesione rituale, firmata e timbrata. La scheda ha toni solenni: «Tu sai che la nostra amata Veneta patria è attualmente, e da troppo tempo ormai, occupata e sfruttata illegalmente dallo Stato italiano, con l'avallo e l'attivo sostegno di miserabili lacché locali. Se la Veneta patria e chi la rappresenta dovesse decidere di intraprendere giuste e appropriate azioni contro i fautori di tale scempio, saresti disposto a impegnarti sino al completo riscatto della nostra Veneta patria?» (4). I sì sono trentanove. Nessun cittadino, nessun intellettuale. Le schede personali dei militanti sono accurate: indicano, tra l'altro, modalità di svolgimento del servizio di leva, incarichi politici e fede religiosa. Tra i
materiali recuperati ci sono le videocassette che documentano le attività dell'Armata (la costruzione del tanketto, ma anche il dibattito al congresso clandestino dell'agosto '96 in cui si decide l'attacco a San Marco) e la risoluzione strategica del movimento, il PERL, ovvero il Piano d'emergenza per il riscatto del Leone, diciassette pagine di classici della vulgata indipendentista, con tanto di data di archiviazione (16 agosto 1994: la stesura è dell'83) e firma del revisore «Henry» (alias Antonio Barison). Il Piano smentisce le ipotesi di un «livello superiore» e scagiona Rocchetta: i serenissimi attaccano la sua Liga «finita nel nulla, risucchiata dai tanti posti concessi dal regime» (5). L'organigramma del Veneto serenissimo governo ricalca il consiglio maggiore: con un presidente (Faccia), un cancelliere (Contin) e sette consiglieri. Già in sede programmatica era stato deciso un atteggiamento «mite» nell'uso della forza: «Ogni azione», recita il PERL, «decisa ai danni della struttura del regime occupante cercherà di evitare spargimenti di sangue» (6). E via dettagliando, con qualche confusione terminologica: nel corso delle azioni non sono permessi «atti di perfidia» né l'uso di «armi proibite». Non mancano i riferimenti geopolitici e un abbozzo di strategia internazionale: da una parte occorre «generare allarme e preoccupazione presso la NATO e gli Usa [... dall'altra è] indispensabile aprire un canale diretto con la Santa Sede che ci è vicina per motivi storici; per i nostri tradizionali legami con la Polonia patria di Giovanni Paolo Secondo; perché siamo cattolici, perché siamo antisocialcomunisti» (7). La NATO è considerata una forza di occupazione e così Faccia idea due diverse versioni (ma la progettazione è affidata a Franco Licini, ex-consigliere provinciale leghista a Belluno, trasferito nel Veronese dopo le nozze) del «Veneto Tank distruttivo», «Attack» e «High Power», per neutralizzare le strutture militari illegalmente presenti nel territorio. Il leader dei Serenissimi non soffre della sindrome magistralmente descritta da Shakespeare e poi da Manzoni. Tra l'ideazione di un atto temerario e la sua (eventuale) attuazione, c'è solo il problema di tenere a freno la galoppante fantasia per non pensarne delle altre. Licini confessa che ce n'è voluto per dissuaderlo dal progetto di attacco alla base militare di Istriana . Al processo Faccia sorride e continua a sognare: «Siamo un'enormità. Fra sostenitori e simpatizzanti dovrebbero mettere sotto processo tre quarti del Veneto» (8). I contenuti politici e programmatici sono definiti
nello Statuto, steso nell'86 e più volte integrato e aggiornato. Lo zelo devozionale è assoluto: tra le priorità istituzionali (restaurazione del Doge, del Maggior Consiglio e dei Provveditori) spunta un nuovo Concordato che fa due volte a cazzotti con la Storia: il cattolicesimo ritorna religione di Stato come ai tempi del fascismo, ma, in barba al Concilio, nella sua versione tridentina. Per il resto non c'è niente di cui stare allegri: compiti di polizia e di igiene pubblica sono affidati all'esercito (ovvero la Serenissima armata), aborti, matrimoni misti, sindacati e massoneria sono banditi. Sono previsti anche aiuti agli emigranti veneti per finanziare il rientro nella patria liberata: emergono contatti per aprire un sito web in Brasile e una lista di 350 emigrati, potenziali finanziatori della rinascita nazionale. La sovranità rivendicata è ad amplissimo spettro: istruzione pubblica e televisione; emissione della moneta, gestione della fiscalità e della spesa pubblica, sanità, previdenza e ricerca tecnico-scientifica; istituti per il sostegno all'economia e al commercio estero; coordinamento militare con gli alleati occidentali e finanche lo sport . All'udienza preliminare di convalida degli arresti i sette (Barison è in ospedale preda di un'amnesia: ero sul campanile e mi sono ritrovato qui - racconta ai medici - e mi ricordo solo di quando ero bambino...) si dichiarano «prigionieri di guerra», ma l'intransigenza si sfilaccia in pochi giorni. A piegarne la determinazione è la gravità dei capi di imputazione, da loro assolutamente sottovalutata. Cominciano con l'accettare l'interrogatorio e poi utilizzano le numerose visite di parlamentari per far sapere che non avevano idea del guaio in cui si erano andati a cacciare. A loro volta i visitatori fanno a gara nel banalizzare l'effettiva pericolosità e le intenzioni degli Otto. Due dei giovani, tramite un deputato «azzurro» veneziano, Pieralfonso Fratta Pasini, accettano un'intervista scritta con un giornalista dell'«Espresso», Giuseppe Nicotri. Probabilmente ignoravano che anche lui s'era fatto qualche mese di galera per terrorismo, con imputazioni ben più serie: militante in gioventù in Potere operaio, era stato arrestato nel blitz di Calogero contro l'Autonomia, passato alla storia per la data (il 7 aprile del '79) con l'accusa di essere il telefonista delle B.R. nel sequestro Moro. I «veronesi» Moreno Menini e Luca Peroni ci tengono a far sapere che «noi non siamo e non vogliamo essere terroristi, la violenza ci fa proprio schifo» (9). Li lega la divorante passione per la gloriosa storia della Serenissima: Menini non si perde un convegno sulle
insorgenze antigiacobine, Peroni è andato in viaggio di nozze a Famagosta, città martire della resistenza veneziana all'avanzata ottomana, poi ha chiesto alla moglie di chiamare il figlio Marcantonio, come Bragadin. Uscendo di casa per il blitz aveva rassicurato la donna: vado a lavorare. Menini - lo ha spiegato ai giudici - si sentiva impegnato in una missione politico-religiosa (la «Serenissima come baluardo della Cristianità») ed era convinto di tornare tranquillamente a casa dopo l'occupazione del campanile (e la lettura del proclama): «Se c'è un prezzo da pagare lo pagherò. Basta che non ci appioppino sul gobbone anche quello che non abbiamo fatto né pensato [...]. Il fucile era un ferro vecchio non m grado dl sparare» (10). Se avesse saputo le conseguenze - ammette - non l'avrebbe fatto. L'insegnante del liceo lo descrive come un allievo eccellente in tutto, soprattutto a pallone. Peroni, il primo catturato, conferma che, quando erano arrivati i carabinieri, l'unica preoccupazione degli incursori era stata di stare ben fermi per evitare scherzi: «Noi avevamo intenti pacifici». Segue il rituale attacco al Carroccio: «Bossi parla da 15 anni e non conclude un tubo. E' lui che continua a mangiare i soldi di Roma» (11) . La svolta giudiziaria non deprime la mobilitazione dei supporter. Per il 12 maggio non basta una precisa disposizione dei prefetti per impedire che qui e là spuntino le bandiere orogranate con il Leone. Il conte Alvise Vitturi d'Este, gran vinicultore, elettore leghista con la Serenissima nel cuore, la espone al palazzo di famiglia, per ricordare la gloriosa esistenza della Repubblica, ma niente brindisi: «Non si festeggia qualcosa che si è perduto, e tantomeno si festeggia quel furfante di Napoleone» (12). Il giorno dopo è lanciata una molotov contro la Scuola elementare di Colognola ai Colli, santuario veronese del gruppo, già noto come il «paese dei Soffiati». Si succedono telefonate e lettere minatorie. Tra queste spiccano, da parte del Gruppo di fuoco «Ernst Nikisch», le minacce a Emilio Franzina, storico di sinistra esperto di movimenti migratori, e a Carlo Melegari, un sociologo direttore di un centro studi sull'immigrazione nel Veronese, già nel mirino degli integralisti cattolici (13). Li accusano di falsificare la storia dell'emigrazione veneta. Lo storico replica: «Da 25 anni mi occupo di storia dell'emigrazione. Questi sono quattro sciamannati che non hanno mai letto un libro» (14). Circostanza confermata in sede processuale: Antonio Barison è designato come speaker del gruppo perché parla e scrive perfettamente in italiano. E il cervellone del
gruppo, Faccia senior, trova modo di indignarsi per «la mancanza di rispetto per noi come istituzione» (15). Sull'assalto al campanile si innestano i soliti scampoli di «strategia della tensione»: il 16 maggio su un treno fermo a Venezia è trovata un'«ananas» svuotata; quattro giorni dopo a Firenze, nei pressi dell'Accademia dei Georgofili, già teatro di una strage mafiosa, è abbandonata una bomba inerte; il 23 è la volta del treno per Bologna, con tanto di ordigno e scritta «Veneto libero»; il 26 sono ritrovati un finto ordigno in una scuola di Verona - «Liberate il commilitone Contin» - e un'altra finta bomba a Firenze, a piazza della Signoria. Per l'anniversario della Repubblica una trappola esplosiva inefficiente è collegata all'asta della bandiera nazionale sul ponte del Piave (insieme a uno stendardo di San Marco). Due giorni dopo è ritrovato un finto ordigno alla stazione di Lodi, il 19 giugno è annunciata una bomba, che non c'è al Casinò del Lido, il 27 giugno una bomba scarica è fatta ritrovare dai Nuclei comunisti combattenti («La prossima volta faremo sul serio») . Si intrecciano fenomeni imitativi, residualità storiche, maniacalità sparse, ma anche un lavorio già noto di determinate agenzie e quadri operativi. A gettare benzina sul fuoco ci si mettono anche i «kids» dei centri sociali, i nipotini degli autonomi degli anni Settanta. In occasione della prima udienza «vera» del processo, il 3 giugno, indicono una bella «manifestazione di massa» al tribunale, contro la «croatizzazione» del Veneto. La polizia stabilisce rigorosamente sensi di circolazione (a piedi) e zone di divieto di accesso, per evitare «ingorghi» pericolosi tra «favorevoli» e «contrari», ma non si preoccupa di controllare l'effettiva applicazione del dispositivo. Con il bel risultato di vedere un parlamentare (Taradash) e due ex (Padovan e Rocchetta) beffeggiati e malmenati. Il più malconcio è Rocchetta: finisce all'ospedale e ricomparirà con il braccio fasciato al collo. Padovan non si scoraggia e in aula rastrella fondi tra i sostenitori: con 50 milioni tacitano quasi tutte le parti civili (compagnia dei traghetti e marittimi, procuratoria di San Marco). Anche il non violento Taradash sgancia un milione: condivide le ragioni liberiste e antistatali del «gesto dimostrativo». Anche il sindaco Cacciari sa che di questo si tratta - e lo testimonierà in un'udienza successiva - ma insiste: ci vogliono 200 milioni per i gravi danni d'immagine subiti dal Comune. La difesa punta a far presto e chiede il rito abbreviato, che assicura lo sconto di un terzo della pena, ma il p.m. non ci sta. Vuole una perizia sull'efficienza del blindato e la
testimonianza dei 48 aderenti al gruppo, indagati nel processo connesso. Nella foga dimentica di specificare i temi delle deposizioni, come prevede il nuovo codice, il presidente glielo ricorda e la difesa, battuta dall'«arbitro», reagisce chiedendone la ricusazione. E la kermesse processuale prosegue, tra il serio e il faceto, tra vendita di Tshirt della Serenissima armata e il messaggio del «comitato catalano di solidarietà ai patrioti veneti» . La retromarcia dei Serenissimi ha ritmi frenetici. Quando il processo entra nel vivo gli Otto ammorbidiscono e sfilacciano le posizioni. Cominciano le ammissioni: il «comandante» Faccia dichiara che il MAB era della sua famiglia, il «revisore» Barison spiega che avevano pensato di acquistare un elicottero, ma non ce l'avevano fatta con i soldi. Del resto anche l'obiettivo originario, Palazzo Ducale, era ben più ambizioso, ma non sarebbe bastato l'intero organico del gruppo a presidiare tutti gli accessi. L'autorità dello Stato italiano? La riconoscono, anche se quella morale lascia a desiderare. I proclami sul campanile? Frutto della fantasia di Luigi Faccia, che sul campanile non c'era come non è in carcere. Il fratello Fausto è l'unico in gabbia a mantenere un atteggiamento di fermezza «dottrinaria»: mentre lui rivendica i titoli di un «Veneto nazione storica» gli altri la buttano sull'incomparabile efficienza amministrativa dei bei tempi andati. Cristiano Contin insiste: «Ci siamo ribellati ma non volevamo il sangue, adesso tutti sanno cos'è la nostra bandiera e qual è la nostra storia» (16). Buson, Menini e Viviani si limitano a dichiarazioni spontanee, una divergenza di comportamento che segnala una prima sostanziosa spaccatura. A difendere la «ritirata tattica» dei Serenissimi resta il professor Miglio. Il senatore, critico da destra della Lega, è più realista del re: l'occupazione di San Marco resta un'azione corretta sul piano della disobbedienza civile, alla distanza i Serenissimi non cederanno, ma azioni simili si ripeteranno con maggiore avvedutezza. Alla fine la sentenza di primo grado - il 10 luglio - è il prodotto di un sapiente spirito di medietà: 6 anni ai «vecchi» (Contin senior, Faccia junior, Buson e Barison), 4 anni e 9 mesi agli "under 30" (Contin junior, Viviani, Peroni e Menini) che tornano a casa, agli arresti domiciliari: resta la finalità eversiva (il distacco del Veneto) ma il sequestro è considerato «semplice» e così gli Otto si risparmiano una condanna a due cifre. Il commento morbido di Bossi («Gli Otto erano indubbiamente simpatici ad ampi strati della popolazione. Hanno avuto
paura della reazione della gente e così non sono ricorsi alla mano pesante») scatena le proteste della base leghista che inonda di fax e telefonate le sedi e Radio Padania, Bossi capisce l'antifona e cavalca la tigre del malcontento: «Ma che avete capito? I prigionieri di Venezia vanno liberati subito». L'ordine è di montare i gazebo per raccogliere firme di solidarietà dei popoli padani ai patrioti di Venezia. Bossi trova il modo di ribaltare l'accusa di moderatismo sugli Otto: in fondo, hanno sostenuto che la loro azione mirava a richiamare l'attenzione su una richiesta di autonomia veneta nel quadro dello Stato unitario italiano. Quindi l'unico movimento autenticamente rivoluzionario di lotta è la Lega e non i Serenissimi «otto sprovveduti caduti in una trappola».. . Dopo la sentenza li va a trovare Marilena Morin, che resta impressionata dalla «grande forza d'animo»: «Per noi la missione è compiuta», le dice Contin, «siamo contenti del risultato e siamo pronti ad affrontare le conseguenze» (17). Buson fa il duro: «Lo Stato italiano poteva darmi anche 30 anni, ma il popolo veneto ci ha assolto e per il Veneto io sono un uomo libero» (18). La moglie la pensa diversamente e alla lettura della sentenza scoppia in un pianto rabbioso. Faccia junior si preoccupa del povero Segato: «Bepin Basega» è in carcere da quattro mesi «solo, senza famiglia, dimenticato da tutti. E non ha fatto niente» (19). Del resto la Corte sa benissimo che dei leader soltanto Contin è alla sbarra, essendo Faccia e Segato imputati in un processo connesso, con il rito ordinario per la mancata flagranza di reato. Per non sbagliare, la Corte che giudicherà i due capi, nel febbraio '98, comminerà la stessa pena, dopo una camera di consiglio tanto breve da legittimare il dubbio di una decisione già presa. Desta perplessità anche lo sconto negato a Luigi Faccia, nonostante lo stesso p.m., Rita Ugolini, gli abbia riconosciuto la qualifica di «dissociato», per l'ampia collaborazione assicurata nella parallela inchiesta veronese sui reati associativi. In realtà la gabbia terminologica e interpretativa degli anni di piombo rischia di generare confusione. Faccia, a differenza dei suoi adepti, ha accettato dal primo momento il confronto sul terreno giudiziario ma, a differenza dei «cattivi maestri» che si sono spesso distinti nella indegna pratica dell'«esportazione della colpa», si impegna sistematicamente a scagionare la truppa e ad accollarsi tutte le responsabilità. Alleggerisce la posizione di Menini spiegando che il «ragazzo» era stato inserito all'ultimo momento per il suo «grande attaccamento» alla patria veneta. Anche la deposizione da testimone-imputato in procedimento connesso
al processo contro gli Otto è usata come straordinaria cassa di amplificazione. L'assalto «atto simbolico e dimostrativo di liberazione» era stato già ideato nel 1981 e puntava a ottenere il «riconoscimento» (questa sì una reminiscenza brigatista) del Veneto come «nazione storica d'Europa»: «Abbiamo lavorato per vent'anni e sacrificato la nostra vita [e 50 milioni di tasca sua] per la causa veneta [...]. Non volevamo più farci offendere, noi veneti, dalla mattina alla sera. Sentirci dire imbecilli, ubriaconi, deficienti» (20). Con l'impresa del campanile - spiega con un italiano corretto ma caratterizzato da un uso ossessivo del lessico militare - volevano aprire un caso veneto: «Non siamo bombaroli né sprangaroli, non è nella nostra tradizione, e ci avrebbe fatto perdere la simpatia di cui adesso godiamo». Di qui la «funzione dimostrativa» delle armi, «un residuato bellico con la cinghia rosicchiata dai topi» (21) . Un'azione preparata in tutti i particolari, con un unico errore: pensare di resistere a lungo. Il «doge» ammette: «Non ci aspettavamo una reazione così violenta e rapida. Penso che sia stata provocata dal fatto che per la prima volta un'entità organizzata aveva liberato una porzione di territorio. Si era aperto un conflitto di diritto internazionale» (22). Quarantatré anni, rappresentante dell'impresa familiare di macchine zootecniche, Luigi Faccia è un personaggio ben noto negli ambienti venetisti: «Ero nel consiglio nazionale della Liga», racconta ai giudici, «vicino alle posizioni di Rocchetta». E il sottosegretario alla Difesa del governo Berlusconi ammette: è vero, già nell'82 era attento agli aspetti militari della Repubblica veneta. Fissato con il Sud Tirolo, chiedeva il "placet" per «iniziative di tipo non elettoralistico». Secondo Rocchetta anche Flavio Contin, il «vecio» del commando, salito sul campanile con il nipote, aveva il pallino di «tralicci e moschetto». Lui dichiara di averli allontanati dalla Liga, loro sostengono di essersene andati schifati dalla lite giudiziaria dell'85: Faccia a fare il cane sciolto, Contin nell'Unione del popolo veneto. Li riunisce il legame con l'intellettuale Segato. Pubblicista, commenta i giornali a Teleserenissima e batte a tappeto manifestazioni venetiste ma anche fiere e mercati per vendere la sua storia del popolo veneto, summa teologica dell'indipendentismo più radicale. Il sodalizio dura da più di dieci anni. Quando Bossi, nel settembre 1996 a Venezia, per la festa dell'indipendenza padana, parla di abbattere i ripetitori T.V. loro cominciano a pensare alle interferenze. Le mettono in pratica quando comincia la preparazione dell'assalto. Ma
già alla prima azione, il 17 marzo 1998, si fanno maldestramente scoprire. Lanciano il messaggio da un parcheggio di scambio con telecamere: la sosta di tre auto soltanto per un'ora e mezzo e in coincidenza con l'interferenza T.V. suscita immediati e giustificati sospetti. Sono identificati Faccia junior, Contin senior e l'operaio Andrea Viviani. L'assicurazione del camper di quest'ultimo è pagata dai suoi sodali. Le intercettazioni telefoniche danno consistenza alla traccia. Il 5 aprile è perquisito Faccia junior e il giudice Papalia prepara il blitz per l'11 maggio, vigilia del bicentenario, ma i Serenissimi, che cominciano a sentire il suo fiato sul collo, lo battono sul tempo. Per questa attesa i parlamentari leghisti - nonché avvocati difensori degli Otto - Serena e Gasperini minacciano di denunciare il procuratore veronese per omissione di atti di ufficio: doveva fermare i Serenissimi prima. La replica del magistrato è ovvia: avevano commesso solo un'infrazione al codice postale. E comunque 48 ore prima dell'assalto avevano interrotto i contatti telefonici e avevano fatto perdere le tracce. In realtà il ripetersi delle trasmissioni pirata (5 a marzo, 3 aprile e 5 a maggio, con l'avvicinarsi dell'anniversario) e la loro diffusione sul territorio (Verona e Vicenza tre volte, Venezia e Belluno due, Chioggia e Treviso) avevano abbondantemente dimostrato l'esistenza di un disegno unitario e di una estesa struttura organizzativa. Nel corso delle indagini dopo l'assalto saranno sequestrati ben quattro impianti per le interferenze T.V . Ad animare la campagna di solidarietà con gli «otto del campanile» è un imprenditore di Conegliano, ex-deputato leghista, Fabio Padovan. E' il fondatore della LIFE, il sindacato dei piccoli imprenditori protagonista di clamorosi episodi di resistenza organizzata alla Guardia di finanza: «Grandi, grandi, grandi [...] mi riconosco in pieno nel loro gesto». Si beccherà una denuncia per apologia di reato. E' la sua compagna, presidentessa della LIFE, ad animare un fondo di solidarietà per gli Otto. Annamaria Giro, una fiscalista padovana già insegnante iscritta alla C.G.I.L., interviene al consiglio nazionale della LIFE del 10 maggio allargando l'ordine del giorno: «Questa notizia è stata così gioiosa, così bella, che ho dormito proprio bene: finalmente qualcosa si muove» (23). La proposta passa per acclamazione e in dieci minuti, tra persone notoriamente parsimoniose, sono raccolti due milioni e 600mila lire (e la cifra decuplica in dieci giorni). «Non sono pazzi», interviene Padovan, «non sono showmen, hanno deciso di dare qualche
anno della loro vita per un ideale» (24). E' la volta di un consigliere comunale leghista di Conselve, Claudio Negrisolo, imprenditore edile, amico di Buson: «Xe persone semplici [...]. Se ha fatto la goliardata, l'ha fatta con spirito veneto, in Italia non possono capire» (25). Un altro leghista interviene a sostegno degli Otto, Giuseppe Drago: «Noaltri de Conselve faremo el teremoto» (26). E proprio Conselve, santuario padovano dei Serenissimi, è un laboratorio significativo della diffusione, almeno sentimentale, dei temi più radicali del nazionalismo veneto. Se non desta meraviglia che tra i simpatizzanti dell'Armata figuri un Drago, segretario leghista e militante della LIFE (ma a casa sua hanno trovato solo bandiere della Padania), merita maggiore attenzione la minaccia di «salire sul campanile» di Antonio Gobbato, sindaco popolare di Terrassa Padovana, il centro limitrofo della Bassa dove era insediato il quartiere generale dell'Armata. Il sindaco di Conselve, Giorgio Gradella, anch'egli popolare, convoca il consiglio comunale straordinario e protesta: «Il grido degli umili dev'essere ascoltato da Roma padrona» (27). E il collega di Terrassa rilancia: «In Alto Adige facevano saltare i tralicci e lo Stato italiano gli ha dato anche il culo. Vediamo cosa daranno a noi adesso che hanno paura» (28). A Conselve il fronte della solidarietà con gli Otto è amplissimo, le richieste di scarcerazione e le rivendicazioni di stampo autonomistico si sprecano. La consigliera del P.D.S. Isabella Brugnolo è l'unica che resiste a chiedere la condanna degli Otto, e a denunciare l'omertà e la mancanza di cultura («nella scuola si incitano i ragazzi a cacciare gli insegnanti meridionali» (29), mentre il consigliere leghista Pier Carlo Luise nella sua fonderia dà lavoro a due nigeriani). E così l'identità veneta segna una linea di frattura nella LIFE: i rappresentanti delle altre regioni sono contrari o comunque resistono a un'accelerazione antistatale tanto brusca. Senza conseguenze reali: perché veneti sono duemila dei tremila iscritti e Padovan ha il ferreo controllo della maggioranza. Lo stesso leader mette un paletto: il 12 maggio partecipazione individuale alle manifestazioni venetiste, perché la LIFE non fa politica. La distinzione non convince il presidente dimissionario della LIFE veneta. Diego Cancian, artigiano veneziano, contesta duramente la leadership oltranzista: Padovan è un po' esaurito, il blitz non rientra nella nostra strategia, noi siamo un sindacato che tutela le imprese, la raccolta di fondi non coinvolge le strutture. La Giro non se ne cura: i nostri eroi e le loro famiglie non saranno abbandonati. Si fa
forte di un sondaggio tra gli iscritti di Treviso (il 45% del totale): quattro su cinque sono favorevoli alla colletta e ritengono gli Otto «patrioti». Cancian rilancia denunciando Padovan ai probiviri: da settimane girava la voce della necessità di un atto clamoroso, gli ultrà sono solo 50, la secessione non è nella nostra linea, gli Otto hanno avuto la testa montata e sono stati mandati allo sbaraglio. Alla prima udienza, il 21 maggio, è fermato l'animatore del comitato di sostegno agli Otto, Geremia Agnoletti: rappresentante, dirigente LIFE, primo sottoscrittore del fondo di solidarietà. La pressione giudiziaria continua: il 19 giugno nella sede di Pordenone i carabinieri sequestrano l'elenco degli iscritti, videocassette, fotografie e verbali, su richiesta di un p.m. che accusa la "task force" della LIFE di aver turbato la regolarità di un controllo fiscale in un'azienda di Fiume Veneto . L'emersione, in modo così clamoroso, di un indipendentismo veneto e antipadano mette in fibrillazione Bossi, che da tempo è impegnato con l'indocile leadership locale della Liga - sospettata dal "senatur" di simpatie poliste - in un duro braccio di ferro. Il leader del Carroccio come il solito - ha la lingua più veloce del cervello, ma stavolta il celebre intuito tattico non funziona e sbaglia registro nel commentare a caldo l'assalto al campanile: «Sceneggiata. Una vera sceneggiata che non sta in piedi. Ma vi sembra possibile che in piazza San Marco arrivino un blindato, o un arnese simile, e otto persone armate senza che una sola persona, un solo carabiniere se ne accorgano» (30). La sua liquidazione di questa «tamurriata napoletana» scatena il dibattito nelle sezioni venete. Parecchi strizzano l'occhio - «hanno realizzato il nostro sogno» - molti contestano apertamente Bossi - «non ha capito niente, è gente nostra altro che servizi» - e Maroni, che aveva provato a fare lo spiritoso («più che il problema della secessione si riapre il problema della riapertura dei manicomi») (31). La responsabile di Montebelluna, svegliata alle 8 da Paglierini per fornire i numeri di telefonino dei dirigenti veneti, ammette il cedimento sentimentale: «Io, quando ho acceso la T.V. e li ho visti là sul campanile, mi sono messa a ridere come una pazza». Il segretario nazionale (cioè veneto) Comencini già prima del blitz del GIS era stato tempestato di telefonate di solidarietà con i «patrioti» e deve ammettere che il gruppo dirigente ha faticato a imporre ai militanti il punto di vista federale (cioè nazionale). Ad ogni buon conto il titolo dell'editoriale sulla «Padania» è eloquente della paranoia del Carroccio: "Le vere vittime siamo noi" .
Per Comencini, ex-rautiano, i responsabili della "grande manovra orchestrata dal Grande Fratello romano" sono noti: «Settori deviati dai servizi segreti o comunque gente in grado di usare ragazzi con le teste un po' calde, più vicini all'estrema destra che alla Lega» (32). Un'ammissione pesante perché proviene da uno che da quei lidi è emigrato solo nel '91. Anche il senatore trevigiano Antonio Serena, già impegnato nella campagna in difesa del Fronte nazionale di Freda, è un ex-missino. Il segretario della Liga dopo qualche settimana corregge il tiro. E' «sempre più convinto che ci sarà qualcuno che sta unendo alcuni gruppi del Veronese e della Bassa padovana. Abbiamo visto un gruppo di venetisti della prima ora che faceva le carte con i nomi scritti in veneto e che cercava la tradizione veneta, unirsi ad un gruppo di ragazzotti del Veronese, capelli a spazzola che non erano stati accettati dalla Lega, dalla nostra sezione di zona, perché questa gente veniva ad affermare che noi eravamo troppo moderati, che bisognava usare i mitra» (33). Bossi traccia il discrimine: la Lega fa la rivoluzione ma è contro il terrorismo. Quando a mobilitarsi per gli Otto sono gli ultrà patavini di Gioventù nazionale, un gruppo di cento fuoriusciti dalla Fiamma, Rauti puntualizza: i ragazzi di destra dicono no alla secessione ma solidarizzano contro la repressione, molti simpatizzanti sono exmissini da tempo passati alla Liga. Il leader Paolo Caratossidis, in seguito segretario regionale di Forza nuova, concorda con la presidente della LIFE una campagna di mobilitazione per gli Otto ma anche contro Papalia, comune nemico di venetisti, neonazisti e integralisti vari. Gli altri due leader sono più noti per episodi di violenza calcistica che politica . Ettore Beggiato, leader storico della Liga, allarga il discorso: dai primi anni Ottanta ci sono stati personaggi e piccoli gruppi che non si riconoscevano nella Liga e Contin era uno della prima ora. Lui, un'autentica passione per Manin e l'ultimo governo veneto indipendente, è amico di Contin dalla nascita della Liga e non rinnega nulla: «Non mi sento proprio di condannarli, anche se ho delle perplessità su un gesto così disperato. Soprattutto capisco il sentimento che li muove, loro parlano una lingua che gli altri non vogliono comprendere» (34). Tra i supporter atipici ci sono anche i militanti di Azione giovani - ferocemente antileghisti - a presidiare il tribunale per la prima udienza. Spiega Raffaele Speranzon, 25 anni, studente universitario, componente dell'esecutivo nazionale (e dirigente
regionale di Alleanza nazionale): c'è un malessere diffuso tra i veneti. Quindi solidarietà per gli Otto, in nome del federalismo, ma distanze nette dai «neonazisti» di Gioventù nazionale. Per Adriana Degan, segretaria della Liga della Bassa Padana, il santuario dei «Serenissimi», «sono gente di casa nostra» . La Lega promuove subito cortei contro il terrorismo di Stato in molte città e una manifestazione nazionale a Venezia, a una settimana dall'assalto. La prudenza è giustificata da una scadenza strategica: per il 25 maggio è in programma il referendum per l'indipendenza della Padania e il gruppo dirigente del Carroccio, convinto della sua valenza rivoluzionaria, teme provocazioni dei servizi segreti: «Il disegno è preciso», spiega Bossi, «dipingerci come terroristi per aprire la strada ad un nuovo partitino nel Nord Est e dividerci. No, noi non cadremo in trappola» (35). E così annuncia il ritorno della Lega sulla scena politica romana, disertata da tempo, con una clamorosa "rentrée" in Bicamerale. La linea è però rapidamente adeguata al sentimento della base: solidarietà militante per i patrioti e banalizzazione giuridica dei reati commessi. «Vogliono», accusa Beggiato, «creare i presupposti per una repressione di stampo cileno, blindare il Veneto con un carrarmato in ogni piazza» (36). Anche il consigliere leghista di Padova (dove la condanna dell'attacco è unanime) Elio Franzin ammette un «fenomeno spontaneo di solidarietà» ma non cambia idea: «il rifiuto è inequivocabile sull'uso simbolico o reale delle armi» . Il 26 giugno il p.m. fa cacciare dall'aula i deputati leghisti che applaudono il commando. Comencini non si schioda: normale manifestazione di solidarietà. I legami con gli ultrà cattolici emergono ben presto: Maurizio Ruggiero, animatore del veronese «Sacrum Imperium», ammette che il pulcino del commando, il ventenne Moreno Menini, frequentava le manifestazioni tradizionaliste: «Gli ho procurato il libro sulla Vandea italiana. Parlava in dialetto, era affascinato dal mondo dell'insorgenza contro le armate napoleoniche, [... dalla] Repubblica veneta, ma gli dicevo che non sarebbe stato possibile restaurarlo se si prescindeva dallo spirito cattolico tradizionale che ne era stato il presidio» (37). E' proprio a Menini, capelli a spazzola rossicci, che si riferiva Comencini: le camicie verdi lo avevano rifiutato dopo un colloquio ritenendolo una «testa calda». Dopo una settimana dall'assalto due noti integralisti leghisti sono tra gli indagati: lo storico militare Maurizio Grassi, consigliere comunale veronese, responsabile
della consulta cattolica, già indagato da Papalia per istigazione all'odio razziale, e il carrozziere Guglielmo Carnovelli, presidente del consiglio comunale di San Bonifacio. Grassi ammette rapporti con Peroni e Viviani («ritenevano la Lega troppo moderata») e si difende con puntiglio: indipendentista sì, ma padano, il Veneto è troppo piccolo. Lui è lontano dai metodi, ma non dagli ideali degli Otto . Il giudizio politico e le manifestazioni di solidarietà per gli Otto del campanile diventano l'occasione per una pesantissima resa dei conti tra le diverse fazioni leghiste, tra Bossi e i veneti ma anche con i transfughi, come Rocchetta e Miglio, che rivendicano l'alto patronato sull'iniziativa. L'ex-sottosegretario della Difesa, approdato all'area federalista di Cacciari, difende da subito i Serenissimi «figli miei»: «Questo atto dimostrativo può essere stato organizzato da centinaia tra le migliaia di persone che ho conosciuto in Veneto. Si sentono traditi da Bossi» (38). Per Rocchetta uguali sono l'humus, il linguaggio, certi ideali: «Vadano a perquisire la biblioteca Marciana, le vere armi sono lì [... E'] un processo alla storia veneta». L'iniziativa è «comprensibile ma non condivisibile». Per Rocchetta gli Otto del campanile non hanno agito da soli: e a mandarli lì non può essere stato Segato, che è «eccessivo» ma non è «un capo». Immediato l'attacco alla «propaganda violenta e nazista di Bossi»: «E' la Lega attuale, avventurista, che ha creato un clima sbagliato» (39). Ce n'è anche per i suoi dioscuri: «Maroni e Pagliarini che sornionamente alludono ai mitra e alla sovversione paramilitare delle camicie verdi sono infinitamente più pericolosi» (40). E per Miglio: il suo plauso è opportunista, il professore è gretto e affamato di potere come Bossi. Rocchetta cita la marcia su Venezia del 15 settembre, con i fucili da caccia che spuntavano dai bagagliai e paradossalmente ammette che si sente più garantito da questo Stato che da un colpo di mano che portasse al potere gente come Bossi: dalla sua uscita nel '94 le epurazioni si sono succedute nel Carroccio e, anche se sono ormai venticinque le leghe e le leghette in concorrenza, gli esaltati continuano a entrare e uscire dalla Lega e spesso sono utilizzati dal "senatur". Con più calma ammette di essere stato in qualche modo preavvertito ma prende le distanze da Licini: «avevo rotto da tempo, era un estremista». Proprio pochi giorni prima Rocchetta aveva pubblicato un manifesto con una frase di Paolo Sarpi - «L'autonomia la si costruisce non la si chiede» che poteva, col senno di poi, essere maliziosamente letta come
"imprimatur" all'azione. Del resto, già alle prime intercettazioni dei T.G. aveva pontificato: «C è un Veneto che non riconosce né Roma né la Padania». Il professor Miglio è esplicitamente entusiasta: «Io e il mio partito federalista battiamo le mani ai ragazzi che hanno scalato il campanile» (41). Li considera «miei buoni allievi a cui regalerei subito il mio libro sulla ribellione civile. Anzi, spero l'abbiano già letto» (42). Il sostegno del «cattivo maestro» si spinge fino a riconoscere in un atto d'insurrezione un esercizio del diritto di resistenza: «Io sono felice di essere considerato uno che ha invitato i giovani a non amare questa Repubblica e a combatterla fino a cambiarla» (43). A sua volta Beggiato spiega il risveglio culturale autonomista in chiave antileghista: «La Lega non bastava. Dava troppo spazio alle rivendicazioni economiche e sociali e Bossi gli aveva dato un'impronta troppo nordista e poi padana» (44) . Checché ne dica Comencini, infatti, il commando dei Serenissimi non è composto (solo) da quattro ragazzotti con la fregola del militarismo, ma affonda le proprie radici in una storia ormai ventennale di movimento venetista, segnata da un furioso spirito di scissione. L'antenato più lontano - anni Sessanta - è il Movimento autonomia regione Veneto. L'autonomismo veneto precede il leghismo e non è riducibile a una matrice di destra. Nei suoi ranghi milita l'ex-sindaco socialista di Venezia, Mario Rigo, oggi senatore ulivista e leader di una frazione «venetista» di sinistra. Anche il primo aggregato leghista è politicamente composito: l'antro dello stregone è il circolo «Russell» del radicale Alberto Gardin, l'editore sospettato di essere uno degli ispiratori intellettuali dell'ala più intransigente del separatismo veneto. Ai corsi di lingua della Società filologica veneta nel 1978 partecipa anche Maurizio Calligari, oggi verde, e s'incontrano l'ex-ordinovista Franco Rocchetta e Marinella Marin. Un amore nel segno della politica: si sposeranno dieci anni dopo per separarsi e ritrovarsi ancora, nel segno dell'ostilità all'egemonismo padano (e bossiano). Lei parteciperà col professore di Storia dell'arte Tamarin e altri dodici soci alla fondazione della Liga veneta, nel gennaio '80: stranamente Rocchetta non c'è. Spiega Tamarin, ulivista deluso: «Già allora era fissato con la riservatezza». Intanto i rapporti con la Società filologica sono stati interrotti, per le evidenti caratteristiche di destra del neonato movimento. La prima scissione è dell'estate '81, subito dopo il buon risultato alle Europee della lista unitaria con l'Union valdotaine: in venti
danno vita alla Lega federalista veneta. Dureranno poco. Alle politiche dell'83 i primi eletti: il venditore ambulante di biancheria Mario Girardi nel collegio senatoriale di Conegliano-Montebelluna, il segretario nazionale Tamarin (125mila voti alla Camera). Rocchetta, terzo in graduatoria, dopo il leader dei Colli Berici, il bancario Ettore Beggiato, pretenderebbe le loro dimissioni per prenderne il posto a Roma. Gli elettori non si preoccupano d'autonomia e federalismo: loro si contenterebbero di cacciare i terroni. Luigi Faccia è il più giovane dei dieci consiglieri nazionali, Flavio Contin è tra i candidati al Senato, Franco Lucini è dei pochi militanti di Belluno: «Rocchetta dice che Lucini era uno dei tanti?», polemizza Tamarin, «Xè un gran bugiardo [... Era lui] il loro nume tutelare, certe esaltazioni gliele ha insegnate lui» (45). Tra il nucleo d'acciaio della Liga delle origini - spiega il primo segretario - c'erano anche Carnovelli, il consigliere leghista indagato per l'Armata e Fabio Calzavara, il deputato che a Belluno contesta rabbiosamente Prodi . Nell'85 la scissione finisce in tribunale, per l'assegnazione del simbolo. La spuntano Rocchetta e Beggiato, che saranno eletti in consiglio regionale. Disgustati dalle beghe si allontanano dalla Liga i consiglieri nazionali Flavio Contin e Luigi Faccia, che pure al congresso era stato un possibile candidato alla segreteria e per un breve periodo aveva seguito Rocchetta. Nell'87 è Beggiato ad essere espulso (ma sarà riammesso: rieletto nel '95 in consiglio regionale, segue Comencini nella scissione anti-Bossi ed è capogruppo regionale della Liga veneta, nonché interlocutore privilegiato dei Serenissimi). L'ennesima spaccatura impedisce di raggiungere il quorum e stavolta i parlamentari leghisti sono "lumbard" (i varesini Bossi e Leoni). L'espulso fonda l'Unione del popolo veneto: alle amministrative del '90 sessantamila voti in Regione e trenta consiglieri comunali nel solo Vicentino. Nel '92 è Tamarin, bocciato nelle elezioni, a tornarsene in cattedra: la Liga rocchettiana è ancora forte ma infeudata a Bossi. Nel '92 nella valanga leghista (80 parlamentari) l'apporto veneto è minoritario (solo 15: di cui due eletti con 200mila voti dalla Lega autonomista veneta, Mario Rigo e Vittorio Ronzani). Le continue epurazioni avevano rinsanguato numerose formazioni minori, caratterizzate anche loro da sistematiche spinte centrifughe. Nell'87 una famiglia di industriali verniciai di Borgoricco (Padova), i Vecchiato, dà vita al Movimento Veneto regione autonoma che raccoglie decine di migliaia di voti tra Rovigo,
Vicenza e Padova. Nel '92 da una scissione vicentina nasce la Democrazia autonomista veneta. C'è spazio anche per un Movimento per il Veneto regione autonoma, fondato da un ex-deputato patavino, Giorgio Vido, l'Unione Nord-est, dell'ex-consigliere regionale Adriano Bertoso, la Lega Nord-est federalista, promossa dal presidente del consiglio comunale di Padova, l'avvocato Marco Carrà, tutti e tre fuoriusciti dalla Lega. Ancora più ricco il tessuto di associazioni culturali e case editrici: l'Universitaria di Gardin, tra i duecento titoli in «lingua», vanta l'"Iliade" tradotta da Casanova: un colpaccio realizzato a Praga; l'industriale vicentino Valerio Costenaro, uno dei fondatori della Liga, anima Dexmisio . Sarà proprio Gardin, sospettato di essere il «grande vecchio» dei Serenissimi, nonostante la conclamata non violenza (fu obiettore di coscienza), a proporre una lista trasversale indipendentista alle elezioni comunali di Venezia, con gli Otto di San Marco a comporre la testa di lista del «Veneto Serenissimo Governo»: una provocazione per porre il problema della sovranità veneta. Gardin, fisico robusto, modi spicci, respinge le insinuazioni dei giornalisti: gli Otto non sono terroristi ma insorti, il campanile non è stato assaltato ma occupato. L'indipendentismo può essere per l'editore un fatto «democratico, civile e non violento». Del resto un'associazione culturale da lui presieduta, assegna il «Premio per la Cultura Veneta Carlo Goldoni» agli Otto per «il loro incontrollabile amore per la Serenissima, seppure espresso in forme inconsuete e fuori dalla norma», perché «l'apporto culturale e simbolico del loro gesto ricorda imprese come il volo su Vienna di D'Annunzio». Alcune microfrazioni scelgono invece la strada della semiclandestinità rivoluzionaria. E' il caso del Movimento indipendentista padano [MIP], promosso nel marzo '97 da fuoriusciti trevigiani della Liga. A giugno '98 sono denunciati per apologia di reato Germano Gasparetto, 36 anni, segretario del Sindacato autonomo veneto e consigliere comunale leghista a Povegliano (espulso nel gennaio '97), e Gianluca Busato, consigliere comunale dissidente di Dosson di Casier, studente di ingegneria, 28 anni. Sono sequestrati 400 floppy disk: il loro «Tribunale padano» ha condannato per «alto tradimento» i segretari veneto, Comencini, e trevigiano, Foggiato: la Lega è un partito italiano in Padania, dai connotati fascisti. Il blitz è procrastinato di un paio di giorni: Gasparetto era impegnato a Roma, a discutere, come sindacalista autonomo, con il governo Prodi della
riforma dello Stato sociale. La loro attività secessionista era pubblica nella Marca. Il programma (lotta allo Stato occupante, non riconoscimento della sua autorità) spinge il MIP a sostenere incondizionatamente i Serenissimi. Il segretario «nazionale» Lino Bortolato difende gli inquisiti con improntitudine: macché «Tribunale», era un gioco satirico . All'uscita del carcere dei «veci», dopo il processo di appello (pene ridotte rispettivamente a 3 anni e cinque mesi e 2 anni e nove mesi), la scissione è formalizzata. Da una parte il Veneto serenissimo governo, con tanto di registrazione notarile (i due Faccia presidente e vice, Barison «cancelliere grando», Viviani cassiere e Peroni base). Dall'altra i Contin, Buson, Menini e Segato, accusati di intelligenza con la Liga (Menini ha partecipato ai Grigioni, confine della Serenissima, a un alzabandiera con il presidente leghista della provincia di Bergamo). Loro replicano sprezzanti: Faccia ha «cantato», Barison è «mantenuto» dalla moglie (tecnico del suono, all'uscita dal carcere non ha trovato ancora lavoro). Lo studente Menini ha invece accettato un contratto a termine alla Sanson, e nel tempo libero ha abbandonato gli studi storici per la più divertente corrispondenza con le decine di ammiratrici che si è conquistato sul campo dell'onore. Lo scazzo tra i leader in realtà aveva preceduto l'assalto. Faccia voleva che il commando resistesse sul campanile otto giorni, e accusava Contin di essere la quinta colonna della Liga. L'elettricista di Conselve replica astiosamente: mio fratello si è fatto sei mesi di carcere di cui due in isolamento totale, con nostra madre novantaduenne abbandonata, per averci accompagnato, e lui che era il capo dopo tre giorni era già a casa. L'unica cosa che non gli va giù è il «tradimento» di Peroni, figlio di sua sorella Rosalia . Intanto, con i suoi tempi e con i suoi ritmi, la macchina giudiziaria continua a macinare il movimento secessionista. II procuratore di Verona, Guido Papalia, il 19 gennaio 1999 chiede il rinvio a giudizio per 42 persone coinvolte nell'inchiesta sugli atti di pirateria televisiva (ai danni del T.G. 1): devono rispondere di banda armata e di interruzione di pubblico servizio. I prosciolti sono 14. Il magistrato veronese non ha contestato, come invece era avvenuto all'inizio dell'inchiesta, l'attentato all'integrità dello Stato, all'unità nazionale, l'insurrezione armata contro i poteri dello Stato e il crimine di guerra civile, reati per i quali è previsto l'ergastolo. Tra le accuse ci sono anche l'associazione sovversiva, l'istigazione a commettere un reato e
l'apologia di reato. Questi ultimi riguardano il contenuto dei messaggi «secessionisti». Due giorni dopo un carabiniere è ferito da un ordigno rudimentale collocato nel cortile della caserma, alle 4,30 a San Martino Buonalbergo, paese al confine con Verona. L'attentato presenta analogie con altri avvenuti nel Trevigiano tra il giugno del 1997 e l'aprile successivo. Il carabiniere ferito è stato ricoverato all'ospedale di Borgoroma e dimesso con una prognosi di 15 giorni: è stato investito da una scarica di pallini da caccia. Leggermente ferito anche il militare che era con lui. Insieme stavano uscendo in auto dalla caserma per il consueto servizio di controllo, quando hanno notato un pacco: il primo l'ha scostato con un piede e l'ordigno, confezionato con fili elettrici, polvere da sparo e pallini, è esploso. «E' un fatto preoccupante» commenta Guido Papalia . Non è purtroppo il solo. Perché se la rivendicazione dell'indipendenza del Veneto è gridata in un pubblico congresso di partito, è politica, ma se è sostenuta pacificamente dai Serenissimi è eversione. E così per tre di loro, nel marzo 1999, si sono di nuovo aperte le porte del carcere. Il tribunale di sorveglianza di Venezia ha respinto le istanze di affidamento in prova ai servizi sociali, imponendo ad Andrea Viviani, 27 anni, Luca Peroni, 30, Antonio Barison, 43, di scontare le pene definitive patteggiate in Appello, un paio d'anni a testa. La galera è stata risparmiata a Gilberto Buson in virtù dei cinque figli da mantenere. Barison, la domenica precedente, era presente al primo Congresso della Liga veneta repubblica, il partito fondato da Comencini, dopo la scissione dalla Lega Nord. A seguire l'assise c'erano anche i fratelli Flavio e Severino Contin. Mentre Comencini e i suoi, dal palco, inneggiavano al Veneto sovrano, indicando iniziative e percorsi politici per ottenere l'indipendenza, i giudici firmavano il provvedimento che avrebbe rispedito in galera tre Serenissimi. E scatta la rivolta dei lighisti contro la giustizia italiana, a fianco dei perseguitati. Al grido di «vogliamo le sentenze in nome del popolo veneto», il vicepresidente del consiglio regionale del Veneto, ha guidato, nel pomeriggio, l'occupazione di alcuni uffici del Tribunale in piazza San Marco. Le bandiere del Leone sventolavano, agitate dai simpatizzanti dei Serenissimi, mentre il segretario della Liga e quattro consiglieri lighisti salivano al primo piano del palazzo. In basso, restava il collega Alessio Morosin, l'azzeccagarbugli del partito, con Felice Casson, p.m. di turno, sopraggiunto a constatare la pacifica
occupazione. E' passato di lì anche il sindaco Cacciari, solidale con i Serenissimi e favorevole a una soluzione politica . Una brusca accelerazione nelle attività giudiziarie si registra intorno al secondo anniversario dell'assalto al campanile. Numerosi i filoni di inchiesta della procura di Verona: dalla struttura delle «camicie verdi» (inchiesta avviata nel giugno 1996) a quella di sostegno ai Serenissimi espressa da alcuni esponenti della LIFE, passando per le interferenze televisive. Per il 13 maggio, intanto, davanti al gip Paola Vacca è fissata l'udienza preliminare nei confronti di una quarantina di appartenenti al sedicente «Veneto Serenissimo Governo» accusati di banda armata e interruzione di pubblico servizio per le interferenze sul T.G. 1 nella primavera del 1997. Il procuratore capo Guido Papalia chiede la proroga di un'indagine preliminare per il reato di associazione sovversiva mossa a sei esponenti della LIFE e a un militante della Liga nell'inchiesta iniziata nel giugno del 1998 dopo che i protagonisti avevano dichiarato di sostenere gli assalitori di San Marco. Immediata la reazione della LIFE all'inchiesta veronese: l'autodenuncia di 500 cittadini di varie parti d'Italia «per gli stessi reati commessi dai loro compagni di lotta». «Ridicolizziamo», dichiara in una nota Fabio Padovan, «il terrore di Stato. Gli imprenditori, serenissimi, mansueti, della LIFE, rifiutano caparbiamente la logica del terrore e della repressione nella loro terra: il Veneto», paragonato addirittura a un «piccolo Kosovo italiano». «Basta con l'anarchia italiana», conclude il comunicato, «viva la legalità veneta» . Anche Fausto Faccia, il comandante degli Otto, non recede di un passo dalle proprie convinzioni ideali: «Siamo nostalgici della Repubblica di Venezia, ma stiamo anche operando per ottenerla». Un anno di carcere prima del processo e la convinzione di doverci tornare non hanno scalfito la fede in San Marco né il convincimento che quell'azione «impossibile» doveva essere fatta: «è stato un piccolo testamento; ci ha dato modo di poter parlare e far capire che non siamo a stipendio di nessuno. I cambiamenti si fanno attraverso il sacrificio». Faccia ricorda i tre del «commando» che sono tornati in carcere. Le nuove fasi della «lotta» del «Serenissimo Governo Veneto» sono consegnate a un opuscolo di 54 pagine dal titolo "Veneti sì Venetisti mai", un librettino che si chiude con una lettera dal carcere firmata da Luca Peroni, Antonio Barison e Andrea Viviani, e che segna, dopo un «fascicoletto azzurro» edito nel '98, un ulteriore passo nella via politica dei
Serenissimi per ottenere l'indipendenza e il ritorno della Repubblica di Venezia. Il volumetto è presentato a Venezia dallo stesso Faccia davanti a una decina di persone in una saletta senza bandiere o gonfaloni. L'incontro apre la celebrazione del secondo anniversario dell'«assalto» al campanile che si articola poi in un incontro in piazza San Marco verso la mezzanotte e la partecipazione a una messa in basilica. L'altro appuntamento è il congresso del «Serenissimo Governo» fissato per il 15 maggio a Bassano del Grappa. «E' un libro», dice Faccia, «per spiegare cos'era e com'era articolata la Repubblica di Venezia e per dire cosa vogliamo se riusciremo a liberare il Veneto; e la risposta è semplice: riprendere da dove 200 anni fa si è fermata e non credo dovremmo vergognarci se dovesse tornare il Doge» (46). Su questo il relatore non offre altre precisazioni, ma indica la speranza per il ritorno a un sistema senza contrapposizioni tra destra e sinistra. Ma alla fine per ottenere questa «libertà» il «Serenissimo Governo» diventerà un partito? Faccia tende a escludere l'ipotesi e parla invece di un lavoro continuo a tutti i livelli, specie tra i giovani, per diffondere l'idea, ricordando che in questi anni sono nati e morti molti partiti «venetisti». Intanto nel collegio Treviso-Castelfranco per l'elezione di un senatore tra i cinque candidati c'è anche un «Serenissimo» . «Fondamentalmente è un processo politico nei confronti di indipendentisti veneti che nella maggior parte dei casi hanno espresso pacificamente e in modo non violento la loro idea». A esprimere questo concetto a una sola voce nel tribunale di Verona, sono il presidente della Liga veneta Fabrizio Comencini e il capogruppo regionale Ettore Beggiato. I due esponenti leghisti hanno voluto essere presenti all'apertura dell'udienza preliminare nei confronti dei 42 indagati del «Veneto Serenissimo Governo». «Una forma di solidarietà», ha specificato Beggiato, «nei confronti di chi ha preso parte a qualche incontro e probabilmente sottoscritto qualche tessera di adesione in un periodo in cui, tra il 1983 e il 1987, nascevano decine di gruppuscoli». Comencini si è detto perplesso sull'intervento della magistratura per certe forme di «venetismo». «Sarebbe opportuno si trovasse», ha detto il leader della Liga, «una soluzione democratica per l'autogoverno della Regione» (47). Le accuse a vario titolo per le 42 persone indagate, tra cui figurano gli Otto del campanile, vanno dall'organizzazione alla partecipazione a banda armata, attentato all'unità dello Stato, distruzione del sentimento nazionale inteso come coscienza dell'unità
territoriale, all'interruzione di pubblico servizio per le interferenze sul T.G. 1 avvenute tra il 17 marzo e 1'8 maggio 1997. All'udienza preliminare prendono parte circa metà degli indagati tra cui sei - due dei quali in manette - degli Otto. Contro l'eccezione di incompetenza territoriale subito avanzata dalla difesa, Papalia oppone le sue ragioni: «Ritengo che la competenza sia di Verona», spiega ai margini dell'udienza ai giornalisti, «perché qui si sono svolte le riunioni più importanti dell'associazione e perché il centro logistico era stato individuato nella provincia di Verona dagli stessi organizzatori che avevano a questo fine affittato un appartamento a Giazza». Il procuratore capo non si oppone al patteggiamento dei soli partecipanti all'associazione, contentandosi di concordare la pena, proposta dalle difese, di un anno e dieci mesi. La successiva sentenza della Cassazione, che svincola il patteggiamento dal consenso dell'accusa, vanificherà la sua opposizione allo sconto per i leader. Alle elezioni regionali del 2000 Flavio Contin è uno dei candidati della Liga veneta. E in autunno, quando si scatena la polemica sulla definitiva condanna di Sofri per l'omicidio Calabresi, Giuliana Olcese protesta: d'accordo, grazia per Sofri, ma che ci fanno in galera Segato e Faccia, colpevoli di reati di opinione? NOTE . (1). Elisabetta Rosaspina, "«Armata», indagato anche un imprenditore", «Corriere della Sera», 15 maggio 1997 . (2). Costantino Muscau, "L'armata veneta minaccia i carabinieri", «Corriere della Sera», 11 maggio 1997 . (3). Ibidem . (4). Giuseppe Nicotri, "Gli ultrà della Secessione", «L'Espresso», 29 maggio 1997 . (5). Ibidem . (6). Ibidem . (7). Ibidem . (8). Roberto Bianchin, «Volevo che il mondo parlasse di noi veneti», «la Repubblica», 27 giugno 1997 . (9). Giuseppe Nicotri, «Che bella Venezia dall'alto», «L'Espresso», 29 maggio 1997 . (10). Ibidem. . (11). Ibidem .
(12). Roberto Bianchin, "Spuntano nei bar e sui balconi cento vessilli di San Marco", «la Repubblica», 11 maggio 1997 . (13). Vedi capitolo «Sapienza di Dio, sapienza dell'uomo» . (14). Rosaspina, "«Armata»...", cit . (15). Gian Antonio Stella, "Ma il «grande popolo veneto» è rimasto a casa a lavorare", «Corriere della Sera», 10 luglio 1997 . (16). Marisa Fumagalli, "E l'Armata fa retromarcia", «la Repubblica», 1 luglio 1997 . (17). Elisabetta Rosaspina, «Missione compiuta, il popolo veneto ci ha assolto», «Corriere della Sera», 11 settembre 1997 . (18). Ibidem . (19). Ibidem . (20). Bianchin, «Volevo...», cit . (21). Ibidem . (22). Ibidem . (23). "Gli industriali antifisco versano soldi per i patrioti", «la Repubblica», 11 maggio 1997 . (24). Ibidem . (25). Ibidem . (26). Ibidem . (27). Roberto Bianchin, "E il sindaco minaccia: «Salirò sul campanile»", «la Repubblica», 18 maggio 1997 . (28). Ibidem . (29). Ibidem . (30). Fabio Cavalera, "Bossi: l'assalto è un messaggio dei servizi", «Corriere della Sera»; 10 maggio 1997 . (31). F. Cav., "Maroni: altro che opera nostra, qui bisogna riaprire i manicomi", «Corriere della Sera», 10 maggio 1997 . (32). Fabio Cavalera, "Bossi: «Andrò a Venezia con le camicie verdi»", «Corriere della Sera», 11 maggio 1997 . (33). "Neofascisti per la secessione", «la Repubblica», 2 giugno 1997 . (34). Bianchin, "Spuntano...", cit . (35). Cavalera, "Bossi: l'assalto...", cit . (36). Roberto Bianchin, "Caccia al «serenissimo esercito»", «la Repubblica», 16 maggio 1997 . (37). Rosaspina, "«Armata»...", cit . (38). Fabrizio Ravelli, "Hezbollah di provincia, una rivincita nata al bar", «la Repubblica», 10 maggio 1997 .
(39). Elisabetta Rosaspina, "Quei giovani senza una lira a lezione da Rocchetta, il «nume tutelare»", «Corriere della Sera», 18 maggio 1997 . (40). Bianchin, "Caccia...", cit . (41). Enrico Caiano, "Miglio: applaudo quei ragazzi, sono miei buoni allievi", «Corriere della Sera», 10 maggio 1997 . (42). Ibidem . (43). Ibidem . (44). Ibidem . (45). Bianchin, "Spuntano...", cit . (46). Le citazioni di Faccia sono una sintesi dell'autore da dispacci ANSA . (47). Le citazioni di Comencini e Beggiato sono una sintesi dell'autore da dispacci ANSA . LEGA E DINTORNI . I caratteri di destra della Lega Nord sono da subito evidenti, nonostante le pretese di Bossi di accreditare il mito di un nazionalismo padano trasversale rispetto alla tradizionale bipartizione dell'asse politico. Se il livore antimeridionale costituisce il brodo primordiale che permette alla Lega di arrivare all'appuntamento della «rivoluzione italiana» con una consistente struttura organizzativa e rappresentativa, la violenza verbale e l'immaginario machista sono il tratto distintivo del "lider maximo", che costruisce le fortune politiche personali e dell'organizzazione sulle capacità di gran comunicatore. La proclamazione della «Repubblica del Nord» il 16 maggio 1991 a Pontida è ancora letta come la manifestazione folcloristica di un gruppo minoritario, in cui comincia ad aver consistenza l'afflusso di militanti e di piccoli gruppi transfughi dall'estrema destra . Ben altro impatto ha l'escalation verbale che segue il successo elettorale (8,7% e 80 parlamentari) del 1992. Gli effetti combinati delle picconate cossighiane e della mania montante di Mani pulite generano uno stato d'animo collettivo antipartitocratico, che Bossi cavalca con gran sapienza. E via in sequenza con «Oliamo i kalashnikov» (aprile), «Potremmo marciare su Roma» (settembre), «Che ci vuole a far arrivare camion di armi da Slovenia e Croazia» (novembre). La conquista di Milano nel giugno 1993 con Formentini, eurofunzionario in pensione e faccia pulita della Lega, è ininfluente. Alla Boniver, che ha parlato di Lega armata, Bossi risponde elegantemente: «'A bonazza,
noi siamo sempre armati, ma di manico». E via con il gesto dell'ombrello. Segue l'avviso ai giudici: «Una pallottola costa 300 lire. Chi vuole coinvolgerci nelle tangenti sappia che la sua vita vale 300 lire». Di fronte al pericolo che le sinistre conquistino il governo, non esita ad allearsi a Berlusconi. Scandisce la campagna elettorale con insulti e minacce ad Alleanza nazionale e promette solennemente: «Al governo, con i fascisti, MAI!». Il 21 aprile incassa (con gli stessi voti al proporzionale del 1992) 177 parlamentari. Un mese dopo il governo Berlusconi-Tatarella ha cinque ministri leghisti e un improbabile Maroni al Viminale. L'esito del voto di fiducia è proclamato dalla trentunenne presidente della Camera, la vandeana Irene Pivetti. Ma Bossi non mette la testa a posto: a luglio il governo vara un provvedimento contro gli «arresti facili». Maroni firma ma, davanti alla rivolta di massa suscitata dalla procura di Milano, Bossi lo sconfessa e impone il ritiro del decreto. In estate dà, letteralmente, i numeri: «Nel 1986 c'erano 300mila bergamaschi in armi, già pronti». L'uscita dalla maggioranza e l'appoggio esterno al governo Dini, nell'inverno '94-'95 innesta la crisi più grave: Maroni e decine di parlamentari rompono al congresso ed escono invocando la fedeltà al patto elettorale . Bossi non demorde: il Polo era una pura alleanza tattica per non essere fagocitati da Berlusconi, riciclatore del pentapartito ed emanazione nordista del potere romano-mafioso. Maroni rientra dopo il successo elettorale in primavera, qualcuno dei transfughi salverà il seggio per gentile concessione di Forza Italia ma la Lega è talmente forte da presentarsi da sola alle elezioni del 1996: non solo prende più del 10% e 80 parlamentari ma fa perdere al Polo decine di collegi del Nord dove il centrosinistra è nettamente minoritario (due anni prima i collegi lombardi e del Nord-est avevano eletto un solo deputato progressista). La campagna elettorale è segnata da un tema martellante: Polo e Ulivo sono le facce della stessa medaglia, il potere romano sui popoli padani. Alla nascita del governo dell'Ulivo risponde con la radicalizzazione secessionista. Lo scenario strategico - avvertono gli scienziati politici non è affatto delirante: dietro il folclore neoceltico c'è, infatti, l'aspettativa molto concreta che l'Italia non ce la faccia ad arrivare all'appuntamento con la moneta unica. I parametri di Maastricht sono lontanissimi ma saranno Ciampi e una Finanziaria da lacrime e sangue a infrangere il sogno leghista di arrivare al mancato ingresso nell'Euro in un contesto di crescente contropotere. In questa logica nascono il
Comitato di liberazione della Padania, il suo corpo di polizia, le Camicie verdi e il Parlamento del Nord e Bossi alza i toni: «Se me la sento di escludere l'uso delle armi? Nessuno è sicuro di niente» . L'unico dirigente che si oppone alla spinta sovversiva è Irene Pivetti che, da ex-presidente della Camera, ritiene di dover conservare un certo "aplomb" istituzionale. E' espulsa senza colpo ferire e il suo partitino federalista non raggiungerà mai l'unità in percentuale. Finirà con Dini e poi nell'UDEUR di Mastella, il più puro esemplare di democristiano meridionale sopravvissuto in posizioni di vertice all'eutanasia della balena bianca. Ottiene maggiori successi con il giovanissimo marito (il primo matrimonio, con un intellettuale scappato a Londra, era stato annullato dalla Sacra Rota) tra copertine dei rotocalchi rosa e interventi da bar dello sport al «Processo» di Biscardi. Il bersaglio successivo dell'ira di Bossi sono i mezzi di comunicazione di massa: dapprima la RAI («Abbatteremo i ripetitori»), poi i giornali, colpevoli di aver preteso di contare i partecinanti alla Marcia sul Po. E i leghisti decidono di fare da soli, con un quotidiano e una T.V. privata. Il rito di fondazione del nascente Stato padano comincia solennemente con un battesimo pagano (la raccolta dell'ampolla d'acqua sacra del dio Po) e finisce con l'invito prosastico a «gettare il tricolore nel cesso». Il 15 settembre a Venezia non ci sono (né ci potrebbero entrare) i due milioni di persone che Bossi millanta, ma anche i 120mila partecipanti reali sono una bella cifra. Intanto sul territorio i militanti «duri e puri», spalleggiati dai dirigenti più esplicitamente di destra come il torinese Mario Borghezio (1), s'impegnano nelle ronde securitarie, nella caccia a prostitute, piccoli spacciatori e immigrati in genere. Un terreno fertile per il reclutamento di attivisti e la conquista di simpatie elettorale di ampi strati sociali che, ansiosi di ordine e sicurezza, sbandano a destra. Quando il «prefetto terrone» destituisce il sindaco leghista di Monza per una condanna per abuso d'ufficio, il manifesto «indipendentista» della sezione cittadina è difeso dal segretario provinciale. Borghezio lo condanna: toni troppo moderati. Sulla stessa linea si colloca l'esercizio sistematico della difesa e della promozione del peggiore egoismo sociale, con il tentativo di introdurre nei concorsi indetti dalle amministrazioni leghiste (per lavoro e casa) un bonus per i residenti padani (2). Quando si sforza di respingere le accuse di razzismo («Se esiste un concetto estraneo alla Lega, è il razzismo [...]. Oggi il sistema capitalistico porta gli extracomunitari da noi per favorire la nascita di
una società multirazziale, di uomini identici con uguali ambizioni e nessuna tradizione [...]. Per me tutti gli uomini sono uguali, hanno la medesima dignità. Il più nero dei neri ha gli stessi diritti del mio vicino di casa. Ma a casa sua») (3) Bossi rievoca le ossessioni della più radicale destra antimondialista . La sua è invece una destra nord-europea, più xenofoba che fascista, anche se, in occasione della stagione indipendentista, il serbatoio a cui si attinge per la produzione di simboli e miti è un neopaganesimo straccione, tra tradizioni druidiche e cerca del Graal. La rinascita neoceltica in Italia è maturata nell'estrema destra e in particolare tra i giovani rautiani, in cerca di propri miti originali, alla metà degli anni Settanta. I fratelli maggiori si erano caratterizzati per un paganesimo neoclassico teso alla ricerca della «tradizione romana». E così al culto dei templari, i militanti del Fronte della gioventù, ma anche di T.P. e dei NAR, oppongono il ciclo bretone ed Excalibur, ma anche il più attuale tifo per il nazionalismo irlandese e il culto di Bobby Sands e dei martiri di Maze, combattenti dell'IRA che si lasciano morire di fame per ottenere il riconoscimento dello status di prigionieri politici da un'inflessibile signora Thatcher. Il tentativo del segretario giovanile Fini di bandire la croce celtica dai raduni del F.D.G. affonda nel ridicolo. Agli inizi degli anni Novanta, però, a far traboccare edicole e negozi di C.D. musicali celtici e di ammennicoli vari non è un ritorno di «Fiamma» ma il trionfo commerciale della new age. Lungo i Navigli è frequentatissimo il «Ceiltic Shopa»: immagini in cera di gnomi, fatine e abitanti del favoloso mondo della tradizione popolare del Nord Europa, libri sulla religione celtica e scritti di autori neopagani accompagnati da C.D. La presenza di gruppi che si ispirano alle tradizioni celtiche in Italia, e soprattutto in Lombardia, desta l'allarme del GRIS (4) che vi individua una diversa matrice culturale di destra: «Soprattutto in seguito all'affermarsi in campo storico di alcune tesi riguardo le matrici comuni dell'Europa e l'ancestrale cultura madre del nostro continente (si veda ad esempio l'opera di Nolte e della sua scuola), la convinzione che il collante culturale del nostro continente fosse la tradizione celtica è penetrato anche nel sentire comune» (5). In questo scenario il cristianesimo è considerato un usurpatore dell'autentica cultura europea, di cui sono fedeli espressioni le tradizioni celtiche e germaniche (6). Con frequenza crescente, del resto, Bossi e la destra leghista attaccano la Chiesa: come istituzione politico-finanziaria puntello del «potere
romano» ma anche come avanguardia militante e baluardo ideologico della solidarietà ai «dannati della terra» (immigrati, tossicomani, prostitute e disperati vari) che l'egoismo sociale leghista vorrebbe spazzare via con piacere: «Se la Chiesa si oppone alla Padania è possibile che si vada alla riforma. Rilanceremo il principio 'cuius regio, eius religio', l'idea della religione nazionale legata al principe, e rivendicheremo l'indipendenza dalla Roma cattolica oltre che dalla capitale» (7). I toni aspramente anticlericali non alienano simpatie alla Lega neanche nelle zone di maggiore insediamento, un tempo «bianche». Perché Bossi caratterizza la polemica come opposizione a un lontano potere politico romano e mai in termini irreligiosi o antireligiosi. Anzi, il martellamento sul leit motiv dell'opposizione storica tra celti e romani induce gruppi tradizionalisti di matrice evoliana - il Centro «Le Rune» di Chiavari - a una stizzita puntualizzazione: romani e celti hanno una comune matrice etnica indoeuropea e quindi un retaggio culturale, mitologico e religioso . In questo contesto maturano l'attivazione di alcune cattedre di cultura celtica, l'istituzione di corsi di gaelico, il successo di star musicali come Enya e l'asturiano Hevia, la diffusione con le più varie motivazioni (dall'estetico all'esoterico) del "torquis", l'antichissimo simbolo a spirale. A Milano sono più di venti i negozi specializzati, dagli alimentari preparati con le antiche ricette ai paramenti sacri. La cultura celtica è fortemente segnata dalla dimensione magico-religiosa e le sue pratiche di culto non hanno avuto soluzione di continuità in alcune aree nord-europee (8). La riscoperta del celtismo in salsa padana spazia dal sacro dei simboli delle divinità naturali (il Sole delle Alpi, l'ampolla del Po) al profano dei giochi sportivi, dalla corsa con le gamelle al taglio del tronco, dal lancio del ferro di cavallo alla corsa della vichinga (con una ragazza caricata in spalla). Al di là di alcuni aspetti palesemente farseschi, resta la straordinaria capacità di costruire intorno a un progetto politico apparentemente approssimativo un intero sistema di miti e di riti. Lo scontro tra «progetto Padania» e indipendentismo veneto è scandito dalla guerra delle bandiere, tra la bianco-verde con il Sole delle Alpi e l'oro-granata del Leone di San Marco. Tutte buone, ad ogni modo, per sostituire l'odiato tricolore. Ogni occasione serve a diffondere il progetto indipendentista. Quando la Mediaset organizza una sfilata di moda in Galleria, i leghisti milanesi s'inventano una riunione nella sede che affaccia sul palco e bombardano il parterre di
volantini che inneggiano alla «Free Padania». Mike Buongiorno saluta lo sventolio delle bandiere celtiche con il tradizionale «allegria!» e un invito al bell'applauso. A Calcinate di Varese nasce la prima scuola elementare leghista: quella pubblica era chiusa da due anni per mancanza d'iscrizioni e il sindaco di Varese, Aldo Fumagalli, fa il direttore didattico. Il personale è selezionato dopo un corso d'aggiornamento tenuto di sabato nella sede provinciale della Lega, tra pensionate e maestre in cerca di occupazione. Tra i dodici iscritti ci sono due figli del "senatur". Studiano dialetto varesotto, motti contadini e storia e geografia della Padania. La prima dispensa di Storia padana, pubblicata dall'Editoriale Nord, parla della «battaglia psicologica» dei celti, della sensibilità artistica dei veneti, del sistema economico degli etruschi. Non mancano riferimenti alla linguistica (degli umbri) e alla paleoantropologia (il cranio dolicocefalo dei liguri). E con la radicalizzazione del movimento scatta la «repressione». A ogni clamorosa azione segue un blitz . Tre giorni dopo la proclamazione dell'indipendenza della Padania a Venezia, il 18 settembre 1996, la DIGOS va a perquisire la sede federale di via Bellerio a Milano. L'obiettivo è la scrivania di Corinto Marchini, il capo delle camicie verdi lombarde: i dirigenti resistono con la forza e protestano perché l'ufficio perquisito era di Maroni. L'exministro degli Interni si distingue per combattività e così, paradossalmente, finisce in ospedale per le botte ricevute dai suoi ex«dipendenti», che dopo alcune ore di fronteggiamento si decidono a caricare. Gli indagati sono due: Marchini ed Enzo Flego, il leader veneto delle camicie verdi. Le imputazioni sono pesantissime: attentato alla Costituzione e all'unità nazionale, associazione segreta. Gli scontri in sede daranno vita a un processo per resistenza e oltraggio che si conclude con la condanna a otto mesi degli onorevoli Maroni, Borghezio, Davide Caponini e dei dirigenti leghisti Piergiorgio Martinelli e Roberto Calderoli. Bossi, arrivato come suo solito in ritardo, a scontri iniziati, ha un piccolo sconto: 7 mesi. Il p.m. aveva chiesto un anno, non ritenendo calci e pugni (anche due poliziotti si erano fatti medicare in ospedale) esercizio del mandato parlamentare o dell'attività politica dei partiti, diritti costituzionalmente garantiti. Il secondo blitz è a ridosso del summit delle Procure (e di una grande manifestazione leghista a Milano) il 21 novembre 1996. L'esito delle 17 perquisizioni (sequestrate agende, documenti, camicie verdi, foulard,
spille, gadget vari e volantini) per associazione di carattere militare (la Guardia nazionale padana [G.N.P.]) scatena la furia (Maroni) e il dileggio (Bossi) del vertice leghista. L'ex-ministro degli Interni, ancora con il dente avvelenato per le botte prese, chiede l'allontanamento di Papalia dalla magistratura: «Sono io il capo della Guardia nazionale padana. Perché non mi indaga?». Guiderà poi una delegazione d'imputati, come avvocato, dal procuratore, insieme a una "task force" di legali leghisti elabora un esposto al C.S.M., una richiesta di incompatibilità ambientale. Tra i materiali sequestrati al vicesindaco di Volongo, Angelo Corini, responsabile della Brigata Vipera della G.N.P. ci sono anche venti copie del testo del Coro del "Nabucco" e una «Gazzetta ufficiale» della Comunità europea. Il "senatur" la prende a ridere: «Quel terun de la madonna ha arrestato il 'Va pensiero'. Deve mostrare i muscoli per stroncare le idee [...]. Bel campione di democrazia il Papalia, figlio di una classe dirigente ma solo politica, solo mafiosa [...]. Meglio una camicia verde in Padania che una camicia nera in Tribunale». Gli indagati (rischiano fino a 10 anni di carcere) sono quadri intermedi lombardo-veneti: c'è il responsabile comasco della G.N.P., Luciano Grammatica, il veronese Marcantonio Brigantin, un catechista d'Induno Olona, Stefano Cavallin (9). All'operaio Riccardo Paggi, fiduciario della Valtellina, sequestrano schede manoscritte di adesione, al responsabile mantovano delle camicie verdi un fucile Flobert regolarmente denunciato. Massimo Carpeggiani s'indigna: io non sto neanche nella G.N.P. (il responsabile della Bassa è l'onorevole Anghinoni). La distinzione non è capziosa ma frutto di un'ossessione statalista: l'unico termine di paragone comprensibile è con il fascismo (tra milizia del P.N.F. e polizia di Stato). Le camicie verdi sono il servizio d'ordine del Comitato di liberazione della Padania, la G.N.P. il corpo di sicurezza del governo padano . Il referendum autogestito sull'indipendenza, il 25 maggio 1997, è l'occasione per un durissimo scontro con i prefetti (Milano, Trento, Bologna e Mantova) che invitano i sindaci a revocare l'autorizzazione a installare i gazebo elettorali. Bossi - con uno dei suoi classici "stop and go" - minaccia il ritiro della delegazione leghista appena rientrata in Bicamerale: il referendum si svolge in un clima di grande tensione, a ridosso dell'assalto a San Marco. Lo sforzo organizzativo è imponente (con l'allestimento di 13mila seggi) e la partecipazione al voto scatena l'ennesima guerra delle cifre. Nelle zone di tradizionale insediamento
(dalle valli pedemontane alla Bassa veneta) la partecipazione è massiccia (anche dei contrari, ma è un riconoscimento del radicamento leghista): nei paesi dei Serenissimi il voto è vissuto come plebiscito per la liberazione. A Conselve il gazebo è gestito dal segretario leghista Giuseppe Drago, indagato per l'Armata. Tra i votanti, la moglie e la prima figlia di Buson. Molti simpatizzanti non fanno gran differenza tra Padania e indipendentismo veneto. Quel che conta è rompere: con Roma, il fisco e i meridionali. Il successo del referendum risveglia l'inchiesta giudiziaria, in sonno da qualche mese. A giugno, un summit tra le sette procure che indagano sulla Lega (Verona, Venezia, Mantova, Brescia, Bergamo, Torino, Saluzzo) decide l'unificazione delle inchieste a Verona: le camicie verdi sono un'associazione militare collegata a un partito politico e perciò violano la legge "Scelba" del '47, nata per disarmare i partigiani e «criminalizzare» il riarmo neofascista. La Lega contesta con decisione la competenza territoriale: se il parlamento sta a Mantova, il governo ha sede a Venezia, il partito a Milano, perché indaga Verona? Alle confederazioni sindacali che promuovono una colossale manifestazione nazionale antisecessionista, Bossi risponde rilanciando il sindacato padano (SINPA) ma con scarse adesioni. Sono più di cinquecentomila in piazza a Milano, cinquantamila a Venezia e Bossi ricicla uno sfortunato aforisma craxiano: «Tutti in gita». Il capo del governo padano, Maroni, fa il superiore: «A nome del governo della Padania auguro una buona riuscita: la Padania è una terra democratica dove tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il loro pensiero». Nei giorni che precedono i cortei si registrano piccoli incidenti, tensione ai cancelli di Mirafiori, un'aggressione nel centro di Varese a due delegate C.G.I.L., ma il 20 settembre tutto fila liscio. Il vescovo di Caserta, il friulano Nogaro, costante riferimento dei movimenti filoimmigrati, coglie l'occasione per denunciare il diffondersi nella Chiesa del Nord di un sentimento di superiorità verso il Sud e quindi di velate simpatie leghiste. Un altro vescovo «rosso», Bettazzi di Ivrea, lo smentisce . A ottobre scatta la seconda ondata, con 44 indagati, di livello medioalto, tra cui Bossi, Borghezio, Flego, e i ministri padani Maroni, Gnutti, Speroni e Pagliarini. Bossi fa sapere: non andremo a deporre. E cita il martire del Lombardo-Veneto Sciesa: "tiremm innanz". Disobbedisce solo Bernardino Bosio, presidente nazionale del Piemonte e sindaco di Acqui, che si fa 600 chilometri in auto per dichiarare la sua volontà di
non rispondere all'interrogatorio. Ai giornalisti spiega che non ha mai partecipato alle attività della Guardia nazionale. Sette ore di viaggio per sette minuti di udienza. Se il sacrificio era determinato dalla volontà di guadagnare un po' di visibilità sulla stampa è sfortunato perché il giorno dell'interrogatorio, il 5 novembre 1997, la procura di Busto fa scattare un blitz contro le camicie verdi con 40 perquisizioni, e così Bosio si trova relegato al massimo in titoli di tre colonne di piede. Contro Papalia i parlamentari leghisti compatti si autodenunciano: noi tutti lavoriamo per l'indipendenza. In questo caso l'iniziativa dei magistrati anticipa quella leghista, le elezioni «politiche» padane del 26 ottobre 1997 (10), con il solito strascico della guerra delle cifre. La Lega ci prova a spararla grossa, dichiarando sei milioni di voti, il «dottor Sottile» di Prodi, il sottosegretario Arturo Parisi, li riduce a un decimo con un semplice calcolo. La Lega ha dichiarato 21901 seggi (70mila persone impegnate nell'organizzazione e cento milioni di costi vivi) ma ne sono stati autorizzati soltanto 7859 e realmente installati appena 6441 e quindi calcolando un centinaio di voti a gazebo... L'inchiesta spacca la magistratura veneta: il p.g. di Venezia Mario Daniele, inaugurando l'anno giudiziario, esprime dubbi non solo nel merito ma sull'opportunità di affrontare una questione schiettamente politica sul piano penale. Il procuratore di Verona non recede: la Padania ha un governo, un parlamento, una gazzetta ufficiale, proprie strutture militari e indice elezioni: che cosa manca per affermare che così si mette in pericolo l'integrità dello Stato italiano? A fine gennaio 1998 Papalia chiede 41 rinvii a giudizio (e tre supplementi di indagini) per attentato all'integrità dello Stato e della Costituzione, associazione finalizzata a disgregare il sentimento nazionale, associazione militare con scopi politici: le camicie verdi costituiscono una struttura militare e poliziesca e non un semplice servizio d'ordine. La requisitoria, 24 pagine, disegna l'organigramma dell'esercito padano, distinguendo la rete politica (Bossi è il condottiero; Speroni e Formentini i presidenti, Maroni, Borghezio, Pagliarini, Gnutti e Cavaliere i generali) e quella operativa (Marchini e Flego comandanti e diciassette responsabili provinciali). Anche in questo caso la scelta dei tempi è segnata da due coincidenze significative: pochi giorni prima il presidente Scalfaro ha graziato quattro terroristi altoatesini latitanti da 30 anni in Austria e condannati per l'articolo 241, qualche giorno dopo è in programma un convegno sul federalismo a Venezia, e Bossi è invitato come relatore
dai promotori, il p.g. Daniele e il presidente della Regione, Galan. Il "senatur" ringrazia: così Papalia, che è «ispirato da D'Alema e Scalfaro», porta acqua alla causa secessionista. E mette le mani avanti: «Confermo che la via maestra per noi è la gandhiana ma se a questo punto appare qualche movimento terroristico, sarebbe opera dei servizi segreti». Contro il «processo politico» che vuole liquidare la Lega Bossi rilancia la «rivolta fiscale», un'arma che già si è rivelata fallimentare. Piccoli imprenditori, professionisti e bottegai del Nord il fisco lo evadono alla grande, ma è un comportamento spontaneo, che afferisce la primaria sfera dell'economia e le dure leggi della sopravvivenza: realtà che dal loro gretto punto di vista nulla ci azzeccano con la politica . La diffusione dei testi delle intercettazioni telefoniche, che contengono pesantissimi elementi a carico di Bossi, si trasforma in un boomerang per l'accusa, perché mettendo sotto controllo i telefoni di militanti non parlamentari sono state registrate conversazioni di un deputato, in palese violazione dell'articolo 68 della Costituzione. Pochi mesi prima la Camera si è pronunciata in favore dell'onorevole Parenti, coinvolta in un caso analogo: occorre la preventiva autorizzazione del Parlamento, anche se il telefono intercettato non è di diretta pertinenza dell'onorevole. Dopo un diverso parere della Giunta per le autorizzazioni, Violante per sanare la contraddizione porta la questione in aula e ristabilisce l'intangibilità del mandato parlamentare. Le conversazioni sono quindi inutilizzabili. Ammetterle, infatti, solo a carico dei non parlamentari introdurrebbe un'evidente e odiosa violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ad ogni buon conto le trascrizioni, inutilizzabili sul terreno giudiziario, producono effetti devastanti sul terreno politico, e non solo per il fianco prestato al vittimismo leghista. Certo è che testi rimasti segreti finché erano nei cassetti di Papalia ci mettono due giorni a passare dall'ufficio del gip alle prime pagine dei giornali. Con giusto merito. Perché sentire Bossi parlare di uso del mitragliatore - nonostante la notoria incontinenza verbale - fa effetto. Il suo interlocutore, il segretario provinciale veneziano Alberto Mazzonetto, si butta sulla negativa, invocando un'identità pacifista, ma lo stesso Bossi lo smentisce con una mezza ammissione. Il clima giudiziario si fa pesante: proprio il 24 gennaio Bossi si è visto comminare la prima condanna per un discorso politico. Certo, c'era il precedente di quei 5 mesi presi per aver detto
che «bisognava raddrizzare la schiena» a quel magistrato disabile di Varese che si era permesso di indagare sui conti della Lega, ma un anno di carcere e 170 milioni di provvisionale in favore di Alleanza nazionale bruciano. Per i giudici bergamaschi annunciare in un comizio «verremo a prendere i fascisti casa per casa» costituisce un'istigazione a delinquere (sentenza che sarà confermata in appello). Bossi fa il ganassa («se la sentenza dovesse passare in giudicato sono pronto ad andare in galera e come me deve essere pronto tutto il gruppo dirigente leghista») ma secondo il professor Miglio comincia ad aver paura . Anzi, il clamoroso voto in favore di Previti - che scatena la reazione indignata della base giustizialista - non sarebbe il prodotto di un accordo sottobanco con il Cavaliere ma un segnale cifrato all'ala più oltranzista della magistratura italiana. Accompagnato da un'evidente strizzata d'occhio al centrodestra. Bossi propone l'intesa con il Polo se accetta l'elezione popolare dei p.m. Un gruppo di leghisti occupa per protesta la prefettura di Bergamo e il segretario nazionale Calderoli cavalca le spinte più estremiste. Anche Bossi solletica i militanti più violenti: «Ci sono due vie, o ci si fa mettere in galera, e si sfrutta politicamente il fatto oppure [...] ma bisogna essere organizzati e in qualsiasi caso bisogna stare bene attenti a non perdere il controllo del popolo». Sul terreno dei delitti d'opinione Bossi sceglie la sfida referendaria: annuncia una raffica di proposte ma parte dalla richiesta di abrogazione del vilipendio del tricolore, reato di cui è accusato per aver invitato, durante il corteo di Venezia, a infilare nel cesso la bandiera italiana che una signora aveva messo al balcone per contestare la sfilata leghista. Lo scopo politico dell'iniziativa è evidente: aizzare Alleanza nazionale contro Forza Italia che è impegnata in un serrato corteggiamento del Carroccio per le amministrative di primavera. E i postfascisti, si sa, quando gli toccano la bandiera... Questo scrupolo è durato poco . Il «progetto strategico padano» che, senza farsi illusioni sulla reale volontà riformista del governo, guarda alla Scozia, si caratterizza sulla crescita dell'autonomia della società civile: cooperative di consumo, consorzi per la valorizzazione del «made in Padania» e boicottaggio dei prodotti italiani (compresi lotto e totocalcio), banche e società di investimenti padani, disobbedienza fiscale. Quando la B.M.W. nega pubblicità alla Padania con una lettera provocatoria del direttore marketing («sfortunatamente per Voi sono napoletano per cui è
improbabile una nostra presenza sulle testate da Voi rappresentate») Bossi non esita a ordinare il boicottaggio della casa automobilistica tedesca che prontamente si scusa: l'autore non è alle nostre dipendenze da un mese. Una polpetta avvelenata prima di andarsene. Il conflitto latente nella Lega tra leadership bossiana e spinte autonomiste venete finisce per esplodere nella primavera 1998. La dirigenza veneta morde il freno da tempo: ha la maggioranza nei gruppi parlamentari, una diffusa rete di potere amministrativo, un ambiente culturale e sociale in forte fermento, in cui le spinte antistatuali e autonomiste influenzano anche icone della sinistra come Cacciari . Eppure il "senatur" non perde occasione per bastonare la Liga: dalla candidatura Mariconda a sindaco di Venezia al posto di Rocchetta alla scelta dei ministri nel governo Berlusconi (il piemontese Comino, i lombardi Maroni e Speroni, e solo un sottosegretariato a Rocchetta che pure era il numero due della Lega Nord), da Padovan cacciato per aver resistito alla linea «nordista» (Costituzione padana, milizia nazionale, niente governo col P.D.S.) a Comencini («un fascistone») a cui è negata la candidatura a Montecitorio. La mozione per un referendum autonomista presentata congiuntamente da Liga e Polo al consiglio regionale veneto è soltanto il pretesto della resa dei conti. Per Bossi si tratta di un cavallo di Troia del berlusconismo: i veneti spingono da tempo per avere mano libera per le alleanze elettorali con il centrodestra nelle amministrative, in una logica di conquista di spazi di potere e di gestione locale che il "senatur" aborre. L'intesa cordiale con il Polo finisce per colmare un vaso già pieno di presunti «sgarri». Il penultimo lo hanno consumato proprio i Serenissimi. Bossi li aveva liquidati come «folli» e «agenti dei servizi» e Comencini, ben consapevole del radicamento dei sentimenti venetisti più estremi nella base leghista, aveva dovuto sudare quattro camicie per convincere il leader che non erano provocatori ma combattenti di una guerra di liberazione. E quando finalmente Bossi li adotta gli Otto lo sconfessano, al processo di appello: siamo veneti, non padani. Comencini, per ricomporre la spaccatura, rifà il bel gesto di dare le dimissioni (le aveva già annunciate dopo le accuse delle Camicie verdi di averli «infamati» con Papalia). E' l'ennesimo "stop and go": Bossi decide di rinviare la collisione annunciata e con una delle sue giravolte mette una toppa. C'è stato un difetto di comunicazione: il referendum consultivo che non andava bene per il Veneto è fatto proprio dalla Lega
e sarà riproposto in Piemonte e Lombardia, per stanare Forza Italia. Resta il dissenso sull'autonomia speciale veneta, centripeta rispetto alla Padania . Bossi conferma la totale fiducia in Comencini: l'imprenditore padovano, un «uomo nuovo» nella Liga, ha costruito una carriera folgorante proprio sulla fedeltà al boss. Il salto di qualità l'aveva fatto con un colpo di genio a un congresso. La Marin - che pure per fedeltà a Bossi aveva affrontato la separazione da Rocchetta - aveva presentato e fatto approvare una mozione per l'autonomia veneta e Comencini aveva fatto accorrere (in elicottero) Bossi per riprendere in mano la situazione. Consigliere regionale rautiano, era uscito dal M.S.I. nel '9 1, dopo il ritorno alla segreteria di Fini. Un anno dopo era entrato nella Liga e nel '93 era già vicepresidente del consiglio regionale e nel '94 segretario nazionale (cioè veneto), dopo l'uscita di Rocchetta. Nonostante il ramoscello d'olivo di Bossi, Comencini insiste sulle dimissioni, alla Lega non servono paggi, i colonnelli (Maroni e Pagliarini) hanno informato male Bossi. Le ragioni del malcontento sono dichiarate: noi siamo fedeli alla linea di Bossi ma i proconsoli vengono in Veneto e pretendono di spiegarcela e così stoppano la crescita del gruppo dirigente locale. Le dimissioni di Comencini rientrano ma il malcontento organizzativo rimane: l'unico veneto che ha cariche federali è Stefani, sdraiato sulla linea padana. Del resto la Liga è l'unica realtà organizzativa che ancora tiene testa all'egemonismo "lumbard" nonostante le scissioni e le epurazioni. Bossi, dal canto suo, ha liquidato sette dei dieci soci fondatori della Lega e gli unici superstiti (Speroni e Farassino) sono ai margini (11). Rocchetta - che ancora non si perdona i 60 milioni del finanziamento pubblico dati a Umberto nell'83 per far decollare la Lega lombarda - riconosce a Bossi un talento perverso nei «giochi sporchi» della politica. «A tavola», racconta, «riempiva di insulti e di palline di pane Irene Pivetti. Con me insisteva: per imparare a fare politica devi imparare a mangiare un cucchiaio di merda al giorno» . La tregua dura meno di sei mesi, segnati da una lenta ma costante fuga degli iscritti veneti (30 a Treviso, 40 a Padova, 50 a Venezia). La tre giorni leghista di Ponte di Legno è l'ennesima occasione per umiliare i veneti: un solo relatore (il capogruppo al Senato Gasperini) su ventitré, la conferma del rifiuto delle distinzioni tra destra e sinistra («La vera contrapposizione oggi è fra il Nord unito e le lobby meridionaliste»).
L'occasione dello "show-down" è la manifestazione di Venezia a metà settembre, per il secondo anniversario dell'indipendenza. Bossi scende giù duro: unità nazionale padana, no all'identità veneta («la piantino con il nazionalismo da piccola patria, di cui approfitta Cacciari per andare contro la Lega») e agli accordi elettorali con il Polo, invocati da Comencini che contesta rabbiosamente i contatti con l'UDEUR. Per l'occasione si svolgono le elezioni dirette del primo presidente del governo provvisorio (la vicentina Del Lago, presidente della Provincia) e Telepadania inaugura le trasmissioni con una diretta di undici ore. Quando Comencini ripresenta le dimissioni di rito scopre di essere stato commissariato. Per qualche giorno continua il minuetto delle dichiarazioni e dei messaggi incrociati, per rispetto dell'idolo dell'unità del movimento, ma la marcia di avvicinamento alla scissione è a tappe forzate. Abbandonando il suo ufficio, il leader veneto si porta via gli statuti di fondazione, per dimostrare lo snaturamento della Lega. E' convinto di avere dalla sua gran parte della Liga (il «Corriere della Sera» gli attribuisce il 70% dei consensi in Veneto) ma si inganna. Lo scontro è formalmente procedurale. Prima il congresso veneto o quello nazionale? La prima ipotesi gioca a favore dell'autonomismo veneto perseguito da Comencini, la seconda, con una scontata conferma della linea di Bossi, chiuderebbe gli spazi di manovra. Per Bossi la posta è politica: lui non attacca il venetismo ma il berlusconismo strisciante che ammanta i panni del nazionalismo . Nell'immediato gli unici fedelissimi sembrano la presidente del governo padano, nonché della provincia di Vicenza, l'ex-liberale Manuela Del Lago, e il presidente nazionale Stefano Stefani, neocommissario veneto. Due volte cavaliere della repubblica, industriale orafo miliardario, Stefani ha poche ma chiare idee, soffre come un cane perché Fabrizio è un amico ma il capo è Bossi ed è lui che decide: «Io certe cose le imparo da Umberto. Lui ha sempre avuto ragione». Altri «padanisti» escono allo scoperto: l'ex-comunista Paolo Bembo («Alpini si nasce, ma solo in Padania»), l'unico ministro veneto del governo padano, Enrico Cavaliere, l'ex-monarchico Alberto Lembo (quando il Centro europeo contro il razzismo equipara la Lega al Fronte di Le Pen, ha la faccia di sostenere che loro non hanno «mai propagandato idee lontanamente razziste»). A favore della trattativa con Comencini si schierano il senatore padovano e avvocato (dei Serenissimi e di Freda) Luciano Gasperini e il deputato e sindaco di Oderzo, Bepi Covre. Dopo
il voto contro l'arresto di Previti aveva candidamente ammesso: «Mi faccio schifo». I bossiani cominciano a prendere il controllo delle sedi e Stefani sostituisce rapidamente i dirigenti locali non sdraiati sulla linea . Comencini prova a riprendere il gioco in mano convocando a sorpresa il consiglio nazionale, che si riunisce con la metà dei componenti e stila un raffinato documento politico-giuridico per rivendicare totale autonomia, libertà e sovranità della Liga veneta dalla Lega Nord, avendo ripetutamente il gruppo dirigente federale cambiato la linea e violato il patto associativo. Il testo è opera di un altro avvocato dei Serenissimi, Alessio Morosin, discendente di Dogi, il consigliere regionale autore della mozione sull'autodeterminazione che già aveva scatenato le ire di Bossi in primavera. Il congresso straordinario è convocato richiamando i princìpi della fondazione del movimento nell'89. Era proprio questo il limite che Bossi aveva posto ai mediatori: se convocano il congresso sono fuori... Mentre il consiglio venetista si riunisce a Noale, Bossi cala per un comizio a Padova e comincia la campagna finale con la tradizionale miscela di blandizie («avevo una morosa padovana»), insulti («quattro dirigenti bugiardi, Comencini traditore, vogliono accordi sottobanco con il 'nemico di Roma'») e concessioni all'orgoglio locale (Stefani parla in veneto e promette una redazione regionale del quotidiano di partito e un canale T.V.). Tre Serenissimi sventolano il Leone e invocano «Veneto libero». Poi va a sfidare Comencini nella sua tana: corteo e comizio contro gli stranieri a Verona, santuario della destra venetista. C'è poca gente ma il maltempo è un alibi di ferro per Bossi. Gli basta comunque una settimana per chiudere la partita. Ha già dalla sua il possesso del simbolo, del patrimonio, dei contributi parlamentari, tutti intestati alla Lega Nord e, si sa, nelle scissioni il controllo della roba è decisiva, ma la tenaglia che stritola Comencini e gli scissionisti è la combinazione tra sostegno dei «quadri istituzionali» (parlamentari e sindaci) e fideistica adesione dei militanti duri e puri. Bossi si può permettere di fare il magnanimo: riconosce la buona fede di molti dissidenti, promette di non fare epurazioni, offre la modifica del patto federativo, manda ambasciatori amichevoli a Comencini (Gnutti e Covre). La sua preoccupazione è dichiarata: il 3 o 4% che gli può costare la scissione rischia di spianare la strada in molti collegi a Forza Italia ed è per questo disposto a concessioni. La sua forza è che altre volte (con la rottura del Polo nel '94 e con la corsa solitaria nel '96) ha dimostrato che gli immediati
calcoli di utile politico non fanno parte del suo orizzonte mentale. Il problema glielo risolve Comencini, imponendo l'unica pregiudiziale inaccettabile: il diritto all'autogoverno del Veneto, infatti, colpisce al cuore il progetto strategico della liberazione della Padania. Fallita la mediazione, Bossi scende duro contro gli «apripista del meridionalismo berlusconista»: la T.V. padana denuncia un patto tra scissionisti e Unione industriali, da Milano arrivano i camioncini con i megafoni per far girare i parlamentari nei collegi e denunciare i «traditori» . Con gli scissionisti si schiera anche una frazione dei Serenissimi. Mentre Bossi sfida la piazza veronese, il congresso della nazione veneta di Gardin manifesta a Padova. Tra i partecipanti spiccano i Contin e Menini. Il discorso conclusivo è tenuto ovviamente dall'ideologo, Bepin Segato, in pieno delirio di onnipotenza: «Bossi è politicamente finito e in Veneto rischia di fare la fine di Mussolini. Abbiamo i numeri per l'indipendenza del Veneto». Escludendo poliziotti e giornalisti, intorno alla tomba di Antenore si contano a stento 30 indipendentisti... Dieci giorni dopo, il 4 ottobre 1998 a San Martino Lupari (Padova) rinasce la Liga veneta repubblica, sulla parola d'ordine «Padroni a casa nostra» uno slogan dei separatisti del Quebec, giusto per non riprendere alla lettera il «Veneto ai Veneti» di Rocchetta. Tra 700 delegati e qualche centinaio di spettatori c'è un solo parlamentare non leghista: Umberto Giovine, un transfuga del '94, passato a Forza Italia dopo il «ribaltone». Intervengono Flavio e Cristiano Contin, partecipa Segato. Presidente è la segretaria trevigiana Mariangela Foggiato, già nel mirino del Movimento indipendentista padano. Il congresso della Lega Nord diventa una passerella per l'ennesima giravolta tattica di Bossi: la manovra berlusconiana di infiltrare il Carroccio è fallita, stavolta si torna a fare politica a Roma. La stampa rilancia e circostanzia meglio le accuse di Bossi: secondo l'«Espresso» sarebbe già pronta la staffetta in Regione, con Galan capolista alle europee e Comencini presidente alla regione in primavera . Il congresso straordinario di fine ottobre è uno scontato trionfo di Bossi. Non solo è confermata la linea di rottura totale con il Polo e di caute aperture a D'Alema ma ottiene inoltre un mandato forte: tornare a fare politica a Roma, stringere accordi per governare con altre forze, a partire dalle prossime elezioni. L'unica alleanza ammessa è quella con il Blocco padano, emanazione diretta della Lega: portavoce unico è designato Formentini; lo compongono il Movimento terra, guidato dal
leader dei COBAS latte, Giovanni Robusti; i Cattolici padani, animati dal leader storico Giuseppe Leoni, e i Pensionati padani, che hanno già un gruppo consiliare a Milano, presieduto da Roberto Benardelli. Al congresso tutti sono d'accordo sul no alle alleanze elettorali, una ventina i dissidenti sugli accordi politici. Gnutti, che pure era stato tra il primo a spingere per la svolta riformista, raccomanda: attenti a non apparire la ruota di scorta di D'Alema. Il passaggio dalla secessione al «federalismo catalano» segna una netta rottura rispetto al precedente congresso di febbraio, svolto dopo le richieste di rinvio a giudizio di Papalia, che aveva ingessato la Lega in uno splendido isolamento . Il ritorno alla politica non si traduce in una stabilizzazione moderata del movimento. Sull'onda della mobilitazione di massa per una impressionante catena di delitti a Milano agli inizi del '99 (12), la Lega lancia un referendum anti-immigrazione e stringe accordi per la raccolta delle firme al Sud con M.S.-Fiamma tricolore e Forza nuova. Il terreno comune con l'ultradestra xenofoba è fertile. Appaiono in Internet siti tradizionalisti di ispirazione evoliana di simpatizzanti della Lega, nei forum dell'ultradestra sul web è aperto il confronto sui punti comuni (l'invasione allogena, l'ossessione dell'identità etnica e storica, il culto delle piccole patrie in funzione antimondialista). Borghezio organizza a Porta Palazzo una messa «tridentina» contro la presenza islamica. All'inizio del conflitto tra Serbia e resto del mondo per il Kosovo, nel marzo 1999, confluiscono a Belgrado due distinte delegazioni, di militanti leghisti e forzanovisti, per esprimere solidarietà contro l'aggressione mondialista. Il sostegno spregiudicato a un regime feroce e sputtanato come quello di Milosevic desta profondo sconcerto in un elettorato moderato e codino come quello della Lega, ed è probabilmente all'origine della flessione dei consensi. E così il movimentismo continua frenetico: il congresso estivo convocato dopo la batosta elettorale alle europee è l'occasione per l'ennesimo regolamento di conti. Il piemontese Comino, accusato di intelligenza con il nemico (Berlusconi) è aggredito e malmenato durante il suo intervento, poi espulso. Andrà a formare il solito movimento scissionista, con l'appoggio del moderato Gnutti, che si era dimesso in dissenso con la linea politica isolazionista. Formentini, uno dei pochi eletti all'Europarlamento, prende le distanze e si avvicina al centrosinistra. Il colpo di scena (al momento) finale è nell'inverno 2000, quando è Bossi a siglare un accordo elettorale (scritto e registrato dal
notaio, si dice) con il nemico del popolo padano, Berlusconi, ma, si sa, lui può. Per conquistare insieme le quattro regioni del Nord, subito, e in prospettiva spalancare le porte per la conquista di Palazzo Chigi nella primavera 2001 . NOTE . (1). Mario Borghezio nel 1976 è fermato a Ventimiglia, con cartoline contro Violante, che indagava sul golpe bianco. Nel 1979 è arrestato per abusivismo edilizio con 12 persone, tra le quali un esponente socialista, sorvegliato speciale per mafia dal 1990, doppia condanna cassata per vizio di forma. Commemora in privato ogni anno i morti della R.S.I. Deputato leghista dal 1992, nel 1994 è sconfitto nel collegio di Porta Palazzo nonostante la dura campagna razzista tra i bottegai, ma è rieletto col recupero proporzionale e nominato sottosegretario alla Giustizia. Nel 1993 è multato di 750mila lire per uno schiaffo a un bambino marocchino . (2). Nel giugno '97 il Comune di Campo San Martino (Padova) riconosce ai residenti veneti quattro punti nei concorsi municipali mentre per i laureati con 110 e lode (la regione si distingue per i bassissimi livelli di scolarizzazione) ci sono solo due punti . (3). Umberto Bossi - Daniele Vimercati, "Processo alla Lega", Milano, Sperling & Kupfer, 1998 . (4). Numerose informazioni sulla rinascita celtica in Italia sono state ricavate dall'articolo di Serena Tajè, "I celti in Italia", pubblicato nelle pagine web del sito nazionale del GRIS (Gruppo religioso di informazione sulle sette), un organismo di ispirazione ecclesiastica . (5). Ibidem . (Tra i gruppi più radicali spicca l'Y Cymru, dal nome del circolo sacro tracciato nei luoghi di culto: una sorta di associazione Italia-Galles, che riunisce numerosi attivisti del neopaganesimo di matrice celtica, tra cui alcuni discendenti degli antichi druidi, e numerosi bardi, gli antichi cantori. I primi studiano e divulgano testi di autori contemporanei neopagani, e organizzano le loro conferenze, i secondi si dedicano all'ascolto meditativo di musica folk di tipo new age, i cui cantautori si esibiscono al «Festival Interceltico» di Carnac, in Francia, in cui l'affluenza di italiani è numerosa. Officiano il culto pagano in modo rigoroso mostrando affinità con sette sataniche d'altra derivazione, e movimenti gnostico-luciferini di ricerca sapienzale del Graal, in cui
simboli e contenuti cristiani sono sincretisticamente distorti in ottica neopagana. Una cerchia interna di «eletti» - secondo il GRIS - sarebbe ricollegabile ad ambienti massonici con interessi politici. Vi sono anche frange più estreme che lavorano apertamente per rimpiazzare l'usurpatrice cultura cristiana e la straniera sensibilità giudaica, con l'originaria cultura europea . (7). Bossi - Vimercati, "Processo...", cit . (8). Nel pantheon politeistico celtico grande importanza avevano piante, animali e boschi sacri e a questa sfera si richiama il rito del Monviso inscenato da Bossi ma anche la crescita nel Canavese della più grande comunità esoterica del mondo, Damhanur. Nei gruppi neopagani, che si ispirano a questa tradizione, prevale l'accentuazione degli aspetti cupi e a volte sanguinari dell'esistenza: in Lombardia sono quindici i movimenti che si dichiarano eredi degli antichi druidi. Una componente significativa si caratterizza invece per un approccio misticheggiante alla questione ambientalista, per una concezione della Natura come unità vivente. Le tendenze dell'ecologismo magico - dove la lotta per la tutela dell'ambiente si coniuga ai riti di fertilità ricondotte al terreno politico possono mettere mano a opzioni assai variegate. In area anglosassone lo spettro delle posizioni va da una new age tardo-hippy a un certo femminismo radicale, mentre in altre realtà (germano-scandinave) sono inquietanti le evidenti assonanze con i temi allucinati del suolo e del sangue. Non tutto il neoceltismo italiano è riducibile alla destra radicale. «Molti, tra gli aderenti ad esempio a gruppi come il milanese Celtic Natural Life, si dichiarano sensibili al rispetto della natura, rifiutano l'alimentazione non vegetariana, sono convinti che la cultura celtica sia espressione del debito rispetto verso l'ambiente naturale, e dell'equilibrio che dovrebbe instaurarsi tra l'uomo e il pianeta» . (9). La contiguità della Lega con ambienti cattolico-integralisti in Lombardia sarebbe dimostrata anche dall'accordo elettorale che nel maggio '97 porta il candidato del Carroccio a conquistare il Municipio di Lecco, città di Formigoni e roccaforte di C.L., recuperando 9 punti di percentuale sull'Ulivo grazie a un accordo con il movimento ecclesiale (voti in cambio dell'assessorato all'Istruzione) . (10). I candidati per duecento seggi (68 alla Lombardia, 36 al Veneto, 34 al Piemonte, 23 all'Emilia, 13 alla Liguria, 8 alla Romagna, 7 al Friuli, 4 al Trentino e al Sud Tirolo, 2 a Trieste, 1 alla Valle d'Aosta)
sono 1.146, residenti in Padania. Le 46 circoscrizioni corrispondono alle province. Le liste, 43, rispecchiano spesso gli schieramenti politici nazionali: ci sono la Destra padana, guidata da Oreste Rossi, con un simbolo simile a quello di Alleanza nazionale, l'Unione femminile padana, Forza Padania, che è il calco di Forza Italia (senza tricolore), i democratici europei (centrosinistra) di Formentini (sostenuto da Maroni), i cattolici di Giuseppe Leoni e i comunisti del modenese Mauro Manfredini, presenti in 14 circoscrizioni, un gruppo di extracomunitari. Boso promuove una lista unitaria di ambientalisti e cacciatori. Non mancano le liste «italiane»: «i cittadini del Nord per un'Italia democratica» di Nando Dalla Chiesa, la lista Pannella (a Milano e a Treviso) . (11). Gli esiti politici dei transfughi sono numerosi: Franco Castellazzi fonda la «Mela» (Movimento elettorale Lombardia autonoma) ed è vicino, con Rocchetta e Marin, al cacciariano Movimento del Nord-est; Riccardo Fragassi (Alleanza toscana), Luigi Petrini (il capogruppo del ribaltone), Luigi Negri (rimasto per un periodo alla corte di Berlusconi) e Irene Pivetti sono nella lista Dini, e poi lei diventa presidente dell'ultrameridionalista UDEUR; Giulio Savelli e Alessandro Patelli (il «pirla dei 200 milioni» dello scandalo Enimont) aderiscono all'U.D.R.; Maria Ida Germontani e Piergianni Prosperini militano in Alleanza nazionale; Gualtiero Niccolini e Lucio Malan in Forza Italia, Elisabetta Bertotti nell'Ulivo . (12). Anche in questo caso non va sottovalutato il ruolo del barnum mediatico: a determinare l'allarme giornalistico sull'emergenza criminale concorrono regolamenti di conti tra bande di extracomunitari, quotidiana microcriminalità metropolitana e alcuni delitti non riducibili a nessuno dei due aspetti ma che rafforzano il panico sociale . SCENE DI CACCIA IN BASSA BAVIERA . «Cinque anni fa facemmo un'azione di preveggenza sulla questione dell'immigrazione rispetto a proposte che oggi vengono fatte da molte forze politiche 'democratiche'» (1). Ha avuto facile gioco Franco «Giorgio» Freda a difendersi dalle accuse di istigazione all'odio razziale nel processo di Verona contro i 49 militanti del Fronte nazionale accusati di ricostituzione del partito fascista (2) . Nell'autunno 1995 la ricetta apertamente razzista del suo movimento («chiusura effettiva delle frontiere all'immigrazione extraeuropea,
espulsione immediata degli stranieri clandestini, cancellazione graduale sino all'abrogazione totale della cosiddetta 'legge Martelli' e il reimpatrio di tutti gli stranieri extraeuropei il cui soggiorno in Italia risulta finora consentito dalla stessa») (3) raccoglie insospettati consensi, ben oltre le sparute pattuglie dei razzisti dichiarati. «Non sono intollerante», si difende Freda, «sono intransigente per quello che riguarda il destino delle future generazioni. Abbiamo il dovere di difendere le origini e l'essenza del nostro popolo italiano, di razza bianca e di cultura europea» (4) . La situazione è precipitata alla fine dell'estate, per effetto di un micidiale cocktail: una crescente insofferenza popolare per la presenza di extracomunitari dediti all'illegalità, la decisione della destra di cavalcare demagogicamente l'onda dell'odio xenofobo come leva di massa contro i sindaci progressisti delle metropoli del Centro-Nord e una campagna di stampa che in maniera viscerale «gonfia» casi pur gravi (gli stupri di Milano e di Roma) enfatizzando la realtà. Mancano infatti dati precisi sull'effettiva incidenza degli extracomunitari nelle statistiche criminali mentre è già dimostrato che in Italia la percezione di massa dei comportamenti illegali è abbondantemente sovrastimata. In un contesto di crisi economica profonda è facile che scatti un meccanismo sociale di fabbricazione del «nemico esterno» per scaricare frustrazioni e risentimenti. Un sondaggio Swg-L'Espresso (5) conferma il radicale slittamento a destra dell'opinione pubblica sul tema: due italiani su tre chiedono limiti all'immigrazione, più della metà vuole fare entrare solo chi ha lavoro (e il 57% chiede l'espulsione dei clandestini disoccupati) mentre quasi tre su quattro protestano per la mancata esecuzione delle espulsioni decretate. E così dalla fine di agosto l'offensiva contro gli extracomunitari dilaga, avendo come diretta protagonista la «gggente» . Comincia a Genova, a maggio: una zuffa tra maghrebini scatena una caccia all'uomo nel centro storico contro gli extracomunitari (era già successo due anni prima). In estate la furia xenofoba punta sugli zingari, con blocchi stradali e lancio di molotov contro il container dei servizi igienici in un campo nomadi in allestimento a Quarto Alto, per 36 rom bosniaci, di cui 22 bambini. Nelle perquisizioni la DIGOS trova pistole, munizioni e taniche piene di benzina pronte all'uso: alle decine di denunce per i blocchi stradali si aggiungono due arresti per gli aspiranti giustizieri. Seguono minacce al sindaco Sansa, lancio d'oggetti
contro la sede RAI e via dicendo. Il sindaco difende le scelte e contrattacca: non è una protesta spontanea, la cavalcano Alleanza nazionale e la mala di quartiere. Qualche mese dopo sono arrestati quattro minorenni: avevano formato con altri tre ragazzini (il più piccolo ha dodici anni, ma è coinvolto anche un fratellino di nove - il primo a confessare) una minigang «per cacciare i nomadi dalla Val Bisagno». Avevano cominciato a giugno con atti di teppismo spicciolo, cassette postali e cassonetti bruciati, per passare al lancio di molotov contro il Tempio dei Testimoni di Geova («rompono quando sei a casa - si giustificano - insistono per venderti quei libretti») e il ristorante del bassista dei New Trolls («era frequentato dai 'fighetti' con Mercedes e telefonino» spiegano nel corso degli interrogatori) - ma anche del portone di casa di una vecchina che li richiama per le gimkane in motorino - poi il salto di qualità: prima il lancio di bottiglie incendiarie contro il campo nomadi di Marassi (il 5 gennaio 1996), infine i preparativi per far esplodere una bombola di gas in mezzo alle roulotte di Molassana. Una trentina di attentati in tutto ma quello di Marassi è il più vigliacco: il giorno prima il sindaco ha ordinato lo sgombero del campo e solo poche famiglie non si sono ancora messe in viaggio, perché aspettano i passaporti dal consolato per tornare in Spagna. Chiuso il contestato campo di Quarto Alto, avrebbero dovuto trasferirsi al campo di Camaldoli ma si sentono braccati e rifiutano la sistemazione. I «giustizieri» sono figli di operai e di impiegati: il leader è orfano di padre e vive con sofferenza la scelta della madre di allacciare una relazione con un nomade. I ragazzi del gruppetto sono del tutto normali, qualche capello a spazzola, qualche orecchino, qualche frase sul diario che inneggia a Hitler e all'odio razziale e in corpo tanto risentimento sociale. Altra zona di frizione continua è il centro storico, oggetto del contendere lo spaccio da parte degli extracomunitari, anche se è difficile calcolare quanto ci sia di pulsione securitaria e quanto di prolungamento della guerra commerciale con altri mezzi . A Firenze il presidente del FUAN, Achille Totaro, un trentenne dalla testa liscia come una boccia, raccoglie in un mese 30mila firme ospitando tanti comunisti dietro ai banchetti per un referendum consultivo contro il progetto ultramoderato del sindaco Primicerio, che prevede numero chiuso e schedatura di massa dei 520 zingari che da anni vivono ai margini della città, espellendone altrettanti. Non sono
nomadi, ma baraccati, stanziali da tempo. Una manifestazione popolare indetta da Forza Italia in un quartiere che avrebbe dovuto ospitare uno dei nuovi campi-modello (una decina in tutta Firenze, con case prefabbricate, servizi igienici e centri sociali) si conclude con una rissa con gli autonomi che la contestano (tra i 10 denunciati due ex-nappisti frequentatori di un centro sociale occupato). Nel gennaio 1996 due energumeni, «bevuti» e impasticcati, aggrediscono un cardiologo somalo giunto in ambulanza, un sabato notte, per prestare le prime cure alle vittime di un incidente stradale a Scandicci, tre giovani finiti in un muro e semicoscienti. Amici dei feriti, gli aggressori sono invitati dal medico a non intralciare i soccorsi, ricevendone in cambio insulti, spintoni, minacce. Lui continua, con grande autocontrollo, a lavorare sperando che la situazione si tranquillizzi. Invece al rientro in ospedale scatta la seconda aggressione: i teppisti hanno seguito l'ambulanza con l'auto. Un cazzotto al medico, una testata in faccia all'autista poi l'intervento del personale dell'ospedale. Non contenti, i due attendono il medico al parcheggio. Solo allora interviene la polizia che li arresta per detenzione di un coltello e di un piccolo quantitativo di hashish. Per il duplice pestaggio solo una denuncia a piede libero . A Milano un assessore regionale di Alleanza nazionale - dopo che due romeni avrebbero stuprato una ragazza sorpresa ad amoreggiare in auto con il fidanzato all'Idroscalo - ha potuto impunemente teorizzare il taglio dei fondi di solidarietà per gli immigrati come rappresaglia. In poche settimane si costituisce un coordinamento cittadino che censisce ben 63 organismi spontanei di quartiere e ottiene la disponibilità di 7 parlamentari, dal pattista Masi ai pidiessini Smuraglia e Ghilardotti fino ad Alleanza nazionale (De Corato) Lega (Ronchi, poi prematuramente scomparso nel 1999) Popolari (Toia) e Forza Italia (Dotti) per presentare emendamenti restrittivi alla legge "Martelli". Poco importa che in sede di processo è emerso che la ragazza è stata abbordata con modi bruschi ma si è rivelata poi consenziente, durante e dopo, al punto di non chiedere aiuto agli inquilini del palazzo dove è stata portata, lasciare il numero di telefono a uno dei ragazzi e passeggiarci il giorno dopo mano nella mano. Le colleghe testimoniano che la mattina si è presentata tranquillamente a lavorare. A fare la denuncia è il fidanzato geloso e lei ha dovuto assecondarlo. I due, detenuti all'epoca del processo, sono condannati a 20 e 16 mesi per ratto a fine di libidine, senza sospensione condizionale della pena .
In Veneto la giunta regionale di centrodestra si impegna ad abrogare la civilissima normativa introdotta per assistere i «rom» in fuga dal macello della ex-Jugoslavia. A Padova desta l'indignata reazione di sindaco, Curia e Associazione esercizi pubblici il provocatorio cartello bilingue (in italiano e in arabo) affisso - alla fine di gennaio 1996 - dai proprietari del Cris Bar: «Il caffè e le bibite agli extracomunitari verranno serviti in contenitori di plastica, con l'obbligo di effettuare soste brevi, altrimenti la consumazione verrà maggiorata cinque volte del costo» (6). La proprietaria, Cristiana Bevacqua, 24 anni, si giustifica: i vecchi clienti se ne scappano per paura degli extracomunitari. Non sono razzisti - spiega - anzi, hanno sfamato decine di immigrati. Più radicale l'iniziativa del sindaco di Treviso, il leghista Giancarlo Gentilini: per respingere le «truppe di occupazione» dalla stazione toglie le panchine dai giardinetti e si dichiara disposto a tornare per i clandestini ai «carri piombati». La risposta democratica è immediata: un corteo di 3mila persone reinstalla tre panchine, regalate dall'attore trevigiano Marco Paolini, dal prosindaco di Venezia Gianfranco Bettin e dalla Lega delle cooperative. Il sindaco non si turba più di tanto e invoca l'arresto del sottosegretario agli Interni e deputata del collegio Viglieri, per aver partecipato alla manifestazione da rappresentante del governo. Ossessionato dai sederi degli extracomunitari (e dalla microcriminalità), Gentilini rilancia: vuole dotare di ferri i parapetti per evitare che si trasformino in panchine. La Viglieri insorge: pensi piuttosto ai centri di prima accoglienza. Eppure Treviso ha fame di immigrati: restano inevase 200 richieste di imprenditori perché è stata raggiunta la quota prevista di immigrati . A Torino nel quartiere di San Salvario (tra la stazione di Porta Nuova, la Fiat di corso Marconi e corso Vittorio: 2500 immigrati su 20mila abitanti) la rivolta di massa contro gli spacciatori maghrebini è guidata da un parroco per 12 anni missionario in Africa e da una militante del P.D.S. Lo schieramento contro la «mala negra» è trasversale: un exmilitante di Prima linea, Renato Poncina, è arrestato mentre sventola una pistola sotto il naso di un extracomunitario, in pizzeria. Del resto il leader di P.L. a Torino, Chicco Galmozzi, qualche mese prima ha fondato, insieme a Murelli, il Movimento nazionalcomunista. Miriam Mafai, vedova di Giancarlo Pajetta, non esita a chiedere l'immediata espulsione degli immigrati colpevoli di gravi reati. La sindrome securitaria ha colpito a vasto raggio: in un solo giorno il numero verde
attivato dal Comune raccoglie 40 denunce contro spacciatori, affittacamere in nero e agenzie immobiliari che stipano immigrati in mansarde da 30 metri quadri. Del resto anche i maghrebini non scherzano: un giovane rappresentante di commercio che ha rifiutato il lavaggio del vetro al semaforo riceve uno sputo in faccia e al primo accenno di reazione è pestato a sangue e finisce in ospedale . A Roma, a Ponte Mammolo, il quartiere sulla Tiburtina immortalato da Pasolini, in mille partecipano al corteo promosso dal deputato Mealli di Alleanza nazionale contro un campo nomadi insediato da 13 anni. A Tor de' Cenci, periferia est, l'onorevole Gramazio, meglio noto come il «Pinguino», occupa l'area destinata ai rom sulla Pontina. La mobilitazione isterica della destra giunge all'assalto fisico contro il sindaco Rutelli, il 16 dicembre 1995: una pattuglia di abitanti della Barbuta, guidati dal moderatissimo Gasparri ma anche da Buontempo e Gramazio e irrobustita da noti attivisti, tenta di invadere l'aula del consiglio comunale per protestare contro un campo provvisorio ubicato a Ciampino. L'orda sfonda i cordoni dei vigili urbani ma è bloccata appena in tempo. I tafferugli dilagano fin davanti alla porta del sindaco, tra un comizio volante di Buontempo e una replica chiarificatoria dell'assessore ai servizi sociali Amedeo Piva. Conclude la giornata un grave incidente diplomatico alla conferenza stampa convocata da Rutelli. Gli uomini dell'ufficio stampa bloccano Buontempo e Adalberto Baldoni, capogruppo di Alleanza nazionale in Campidoglio ma anche redattore capo del «Secolo d'Italia» e autore di un fondamentale lavoro a quattro mani con il «rosso» Sandro Provvisionato sugli anni di piombo (ognuno ha scritto dell'altra sponda). I due protestano: siamo anche noi giornalisti professionisti. Buontempo, isolato in un angolo, denuncia la violazione della libertà di movimento di un deputato (e in seguito segnalerà l'episodio alla DIGOS e a Irene Pivetti) e riparte la rissa. Alla testa dei militanti di destra che si scontrano con la scorta di Rutelli si distingue Bruno Petrella, il consigliere provinciale proveniente dai ranghi degli ultrà della Lazio. Per evitare i colpi i giornalisti sono costretti a salire in piedi sui divani di velluto. Solo quando la febbre isterica è passata la stampa democratica riscopre i sani valori della convivenza civile e scatena una campagna contro i genitori di studenti dell'Alberghiero di Mestre che si sono opposti al gemellaggio con l'Ipsat di Siracusa per non essere costretti a ospitare «studenti terroni». Seguono le rassicurazioni del
preside sulla disponibilità delle famiglie e l'esecrazione del sindaco Cacciari con pubbliche scuse . Il passaggio allo squadrismo di massa è il naturale sviluppo della mobilitazione popolare. La notte del 10 ottobre 1995 la polizia blocca e disarma un pattuglione composto da un centinaio di giovani di Borgo Dora (dove in sei mesi sono stati arrestati 69 spacciatori, quasi tutti nordafricani, e denunciati 91 «muschilli»), armati di bastoni, mazze, chiavi inglesi e coltelli. I 58 fermati - in prevalenza meridionali - hanno tutti meno di 35 anni (sette minorenni; 11 con precedenti penali: 7 per spaccio, 2 sono ultrà diffidati per violenze allo stadio), le 8 ragazze sono le più determinate. Alcuni sono disoccupati ma altri lavorano nel negozio di famiglia (pasticceria ma anche un'oreficeria). Qualcuno ammette: volevamo andare a dare una lezione al caseggiato di via Cecchi occupato dagli extracomunitari che spacciano, minacciano e ci sfottono pure. Quando la storia è sparata a piena pagina dai giornali diffondono un volantino di precisazione: «Non siamo assolutamente razzisti, con alcuni extracomunitari, anzi, si è instaurato un rapporto di amicizia e si passano piacevoli serate assieme. Quello che non va è la violenza di chi spaccia, scippa e ruba. Lo Stato ci ha abbandonato» (7). Tutti presenti in piazza, come al solito. Qualcuno è disposto a parlare con i giornalisti: «Siamo nati qui, abitiamo tutti nel quartiere, il razzismo non c'entra. Ma questa è la nostra zona. E quelli sono arrivati senza nemmeno chiederci il permesso. Spacciano eroina tagliata con stricnina, si ubriacano, infastidiscono le ragazze ma soprattutto ci vengono a disturbare. E questo non lo tolleriamo» (8). Come succede a settembre, in un altro quartiere: «I marocchini avevano menato cinque dei nostri. Li abbiamo invitati, la settimana dopo, a una partita di calcio per fare la pace. Sono arrivati in una dozzina, in pantaloncini e scarpette. Noi eravamo trenta e li abbiamo riempiti di botte» (9). Anche dietro il mancato raid ci sarebbe, a detta degli «indigeni», l'invadenza dei «pusher». Un ragazzino di tredici anni - si dice - rifiuta di malo modo l'offerta di una dose davanti all'oratorio. Sei marocchini lo picchiano e gli amici dei giardinetti lo vendicano menando un bambino di dieci anni, scatenando la reazione degli spacciatori adulti che avrebbero risposto con un lancio di bottiglie. Secondo uno dei fermati, operaio Fiat, le cose sarebbero andate diversamente: un ragazzo va a comprare le sigarette alla stazione, territorio considerato proprio dai marocchini, ed è malmenato e minacciato. Una storia infinita: c'è chi
rinvanga un tentativo di stupro sostanzialmente impunito (consegnammo l'autore alla polizia - raccontano - e il giorno dopo già stava fuori). Molti hanno subìto qualche torto che chiede vendetta: Marco è stato fermato dalla polizia perché voleva punire due marocchini che avevano messo le mani addosso alla sua fidanzata, Maria Teresa, una casalinga è stata minacciata col coltello perché «pretendeva» di aspettare l'autobus alla fermata. Qualcuno ricorda tafferugli negli ultimi due, tre anni senza risalto da parte della stampa. Qualche giorno prima il presidente della circoscrizione aveva organizzato una fiaccolata contro la microcriminalità: la stazione Dora è inaccostabile per la presenza delle prostitute nigeriane che fanno le pendolari in un raggio che va da Genova a Milano. Nel tratto nord della strada c'è la centrale dello spaccio: i venditori hanno meno di quattordici anni e gli adulti gli coprono le spalle. Per scongiurare ulteriori tensioni il prefetto vieta, per motivi di ordine pubblico, il corteo indetto dal M.S.-Fiamma tricolore di Rauti, deciso a cavalcare la protesta popolare. E alla fine scatta il pestaggio in pieno giorno al mercato. Un'immigrata, che vive da sei anni nel quartiere facendo la rappresentante di oggetti di arte africana, è picchiata da un ambulante mentre parcheggia la bicicletta per fare la spesa. L'uomo la afferra per i capelli e accompagna i colpi con gli insulti di rito, «negra», «puttana». Lei grida, chiede aiuto ma passa qualche minuto prima che intervengano commercianti e passanti . Dietro la campagna xenofoba di stampa e forze politiche c'è un malessere reale che ha precise basi materiali. Le fabbriche del quartiere (una tessile, una meccanica, una alimentare) sono state travolte dalla crisi: una è chiusa, due agonizzano. Girano meno soldi e i bottegai sono costretti a chiudere. Nei 500 metri di via Cecchi non c'è un solo negozio di frutta. Lo stesso giorno del raid di San Salvario una quarantina di ragazzini (dai 16 ai 18 anni) si impegnano a Mentana, alle porte di Roma, nella caccia a un albanese, che avrebbe minacciato uno di loro con una bottiglia. La gang, a bordo dei motorini, è bloccata da due consiglieri comunali. Uno, Guido Tabanella di Alleanza nazionale, accompagna i ragazzi dal sindaco . I dati diffusi dalla polizia sembrano contraddire questo clima montante di caccia alle streghe registrato anche dal «Washington Post» che parla di «una nuova ondata di febbre anti-immigrazione». Gli episodi di violenza con motivazioni razziste o antisemite sono stati nei primi otto
mesi dell'anno una decina, confermando il calo avviato nel 1993 con la legge "Mancino" (la punta era stata raggiunta nel 1992 con 54 aggressioni e 93 episodi di intolleranza) (10). Di diverso parere il settimanale «Avvenimenti» che in un servizio dopo il «pogrom di Torvajanica», di cui parliamo più avanti, presenta dati più allarmanti: nel gennaio 1995 32 aggressioni contro immigrati di cui 15 a Roma, solo 4 attribuibili a naziskin. Le vittime sono 34 (praticamente sono tutti pestaggi individuali), tre gli incendi di abitazioni e ben 7 le aggressioni contro prostitute e transessuali (11). I più prudenti dati ufficiali parlano per i primi mesi dell'anno di una decina di episodi di violenza con motivazioni razziste ma registrano il crescente clima di insofferenza che si manifesta sempre più spesso nelle forme tradizionali della protesta collettiva legale ma anche nella diversa qualità sociale delle manifestazioni di violenza. Come la decisione dei titolari dei locali dei Murazzi (il cuore della Torino "trendy") di reclutare naziskin come buttafuori dopo gli scontri scatenati a giugno dagli extracomunitari inferociti per la morte di un marocchino, annegato nel Po dove si era gettato con le manette ai polsi per sfuggire all'arresto. Una pulsione giustizialista di massa che non è riducibile al tradizionale «destra razzista e legge & ordine/sinistra integrazionista e libertaria»: a Nichelino, comune operaio della cintura torinese, la sezione P.D.S., nel giugno 1996, raccoglie 700 firme (su 45mila abitanti) per utilizzare i disoccupati in compiti di vigilanza e segnalazione della microcriminalità, un progetto di lavoro socialmente utile. Il deputato di Nichelino, Salvatore Buglio, difende l'idea: «Ma quali ronde? Siamo lontani mille miglia dalla cultura delle ronde. Ma i cittadini chiedono sicurezza. Allora, o noi ci muoviamo o la gente finirà per battere le mani alla destra» (12). Un anno dopo, quando a promuovere la serrata è il comitato di Porta Palazzo, al corteo contro spacciatori e delinquenti partecipano tutti: la destra perbene dell'ex-ministro Costa, i fascisti, i leghisti ma anche i militanti del P.D.S., e solo Rifondazione si dissocia. Anche a Milano, il maggiore coordinamento dei comitati spontanei di quartiere nati sulla diffusa domanda sociale di sicurezza è presieduto da Carlo Montalbetti, criticato per le posizioni antirondiste, considerate troppo vicine al P.D.S . Le croci dell'insorgenza xenofoba occupano l'intera carta dell'Italia centro-settentrionale ma non mancano tradizionali zone di attrito nel Sud (l'agro aversano e la costiera domiziana in Campania, Bari e
Brindisi in Puglia) e in Sicilia. A Cagliari sono lanciate bottiglie molotov contro il campo nomadi di San Simone. A Udine, per controllare i «neri», si propone l'uso di aerei da turismo . Contro la presenza di prostitute nigeriane e slave alla Roccadella di Reggio Emilia gli «indigeni» impugnano spranghe e bastoni per dar vita a una feroce caccia alle «donnine allegre». Anche a Milano, come già a Torino e a Genova, a canalizzare il furore popolare è lo spaccio di droga: per impedire la trasformazione dei parcheggi di corso Ticinese in un droga-shop i residenti insorgono contro una gang di tunisini. In quindici anni di professione giornalistica non ricordo un solo precedente di rivolte popolari contro gli spacciatori locali che infestano centinaia di piazze di Italia. L'odio per gli spacciatori neri genera insolite fraternizzazioni. Ai primi di novembre, gasati da una martellante campagna di stampa, italiani solitamente refrattari a collaborare con la polizia intasano con decine di telefonate i centralini della questura per denunciare gli spacciatori maghrebini di ponte Mosca, nel centro storico di Torino. Quando il pattuglione del nucleo operativo arriva in forze per arrestare i «pusher» ed è impegnato in una battaglia di strada con i loro guardaspalle (un centinaio di conterranei che presidiano sistematicamente la zona) decine di cittadini si offrono di testimoniare sull'aggressione subita dai poliziotti (5 i feriti) e sull'esclusiva responsabilità dei «neri» negli scontri. E non è finita: quando, alle 3 di notte, una ciurma di extracomunitari ubriachi e armati di bottiglie rotte tenta di sfogarsi dei pestaggi subiti aggredendo una coppia che rientra dalla discoteca, ancora una volta i centralini del 113 vanno in tilt. Ad averlo sempre - pensano ai piani alti della questura un simile presidio territoriale... Pronta scatta la provocazione leghista: il leader torinese Mario Borghezio propone proiettili di gomma contro gli extracomunitari. Intanto le ronde "lumbard", con berretto verde, macchine fotografiche e telefonino, pattugliano Voghera a caccia di spacciatori. A gruppi di 5-10 presidiano le piazze calde del centro dell'Oltrepò conquistato nelle amministrative del 1993: ma il crollo della giunta leghista ha fatto precipitare i consensi alle elezioni politiche del 1996 al 17 percento . A volte la sindrome securitaria si ammanta dei panni della giustizia sommaria. E' il caso dell'energumeno che frattura i polsi, nel centro di Roma, a una bambina rom, sorpresa a derubare un gruppo di turisti. Travolto dalla commozione, Maurizio Costanzo dimentico degli
obblighi della Carta di Treviso che tutela i minori dalla violenza dell'informazione, sbatte sulla ribalta del suo show la piccola. Il regista Paolo Pietrangeli, l'autore di "Contessa", «spara» numerosi primi piani dei polsi ingessati. La strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. Segue l'indignazione di rito, che non avrà seguito quando diversi quotidiani ripubblicheranno qualche settimana dopo la foto della bambina, sorpresa ancora a rubare, nonostante che il giudice minorile avesse annunciato che la piccola sarebbe stata trattenuta in istituto in attesa della decisione sull'affidamento. Due mesi dopo è fermata dai vigili a via Condotti con 4 piccoli rom mentre tentano di borseggiare una turista giapponese e finisce in un centro di accoglienza. I genitori sono arrestati: Saira non ha i nove anni dichiarati ma tredici, le hanno dato le generalità di una figlia nata nel 1987 e di cui si sono perse le tracce (morta? venduta?) per garantirle una più lunga impunità giudiziaria. A tradirli la cartella clinica della bimba scomparsa: parla di un angioma alla guancia che Saira non ha . C'è poi il forte sospetto che una caccia all'uomo scatenata il 2 settembre '95 nel quartiere milanese di Rogoredo, contro un insediamento romeno in piazza Ovidio, alle spalle dell'Ortomercato, abbia provocato la morte di due immigrati schiacciati da un treno. La scintilla: due cazzotti rifilati da qualche romeno ubriaco a due ragazzi del complesso delle «case bianche», tre isolati di nove piani e 450 appartamenti. Cinque clandestini presenti al fattaccio ricostruiscono l'episodio con funzionari del consolato: le vittime, Danut e Gregori, restano staccate e uno è vistosamente ferito da una ventina di energumeni armati di bastoni e di mazze di baseball. Ore dopo sono trovati cadaveri sulla massicciata ferroviaria. I due, cugini, lavorano come facchini ai Mercati generali e vivono in baracche di legno, in parte distrutte meno di 24 ore dopo la loro morte, in parte bruciate non si sa da chi la mattina successiva, in un altro raid. Qualcuno, nel furore della mobilitazione contro gli «invasori», è giunto a minacciare tre o quattro ragazzine del quartiere accusate di collaborazionismo per aver fatto amicizia con i romeni. La prima versione ufficiale parla di disgrazia - i macchinisti riferiscono che i due erano seduti sui binari - ma l'«Unità» rilancia l'accusa di omicidio. La procura apre un fascicolo per «morte a seguito di altro delitto». Nel maggio 1996 è arrestato il presunto capo della banda di giustizieri della notte, protagonisti della caccia all'uomo assassina. Gli unici a mobilitarsi per la sua liberazione sono i missini: «Un arresto che
tenderebbe a scoraggiare gli abitanti a difendere il diritto di risiedere nel loro quartiere» (13) . L'arresto non ferma la seconda ondata dello squadrismo giustizialista, un dispositivo sociale fortemente connotato da dinamiche imitative. Sabato 25 maggio a Milano gli ambulanti della fiera di Senigallia fanno una serrata contro gli abusivi. Il lunedì successivo sono i commercianti di via Brera che chiedono udienza al questore e minacciano di autotassarsi (2 milioni al mese) per organizzare una ronda armata contro l'intensificarsi dei furti. Mercoledì 29 c'è l'arresto per il raid dell'Ortomercato, il venerdì scendono in piazza gli abitanti della Pellerina, periferia di Torino, stanchi degli schiamazzi notturni di prostitute slave e africane. Conclude la settimana di passione milanese un attentato con bombole di gas, per protestare contro l'assegnazione di 40 appartamenti I.A.C.P. a via Spaventa a immigrati. Le tensioni continue sfociano spesso in episodi di violenza in tutto l'arco della periferia milanese, sia con attentati incendiari notturni, sia con pattuglioni scatenati. Nel novembre 1996 due molotov sono lanciate dal cavalcavia contro un'auto parcheggiata nel campo nomadi abusivo a Rogoredo. Nel luglio 1997, alla Barona, un commando a bordo di una Peugeot 205 decappottabile - preceduto da una staffetta di due motorini: sono almeno 7 i partecipanti - lancia due molotov contro una decina di marocchini con l'intenzione di fare quanto più male possibile: tre finiscono in ospedale, due hanno ustioni diffuse con 30 giorni di prognosi. A settembre una famiglia zingara (due genitori e due bambini piccolissimi) rischiano di morire carbonizzati nel rogo della scalcinata roulotte parcheggiata sul ciglio di via Santander. Il commando alle 5 del mattino incendia l'auto del capofamiglia e poi la lancia contro il retro della roulotte. Nel giugno successivo 200 milanesi armati di sassi, badili e telecamere assaltano il «bar dei marocchini», a via Meda: in cinquanta si barricano nel locale ma solo il massiccio intervento della polizia impedisce il peggio. Quattro gli immigrati feriti, uno in prognosi riservata per una badilata in testa, ma l'unico arrestato è un extracomunitario. Finisce in ospedale anche un italiano dei Comitati antirazzisti che due giorni dopo indicono un presidio davanti al bar, per contrastare la crescente intolleranza. Il Comune chiude il locale per un'autorizzazione sanitaria scaduta. A scatenare il raid una quindicina di auto danneggiate da un marocchino ubriaco una settimana prima. La Fiamma solidarizza con i rivoltosi e promette la mobilitazione delle sue
ronde. E' forte il sospetto che ad aizzare i duri del Comitato «Spaventa» e a dare consistenza alle capacità offensive del pattuglione, straordinarie rispetto alla media delle ronde spontanee, siano stati spacciatori indigeni, preoccupati della concorrenza marocchina. Tra i più focosi sostenitori delle ragioni dello scontro, un ex-consigliere leghista di zona. L'insofferenza è comunque diffusa, e non solo per lo spaccio: il quartiere è abitato da anziani (il 38 percento ha più di 65 anni), i negozianti della via, molti sono meridionali, concordano sul fatto che gli immigrati bevano alcool che non reggono e poi fanno guai . I leader naturali delle ronde non sono riducibili allo stereotipo del mazziere fascista: esemplare è la figura di Giuseppe Mannino, segretario provinciale della CISNAL autoferrotranvieri. Nel maggio 1991 è protagonista di un rabbioso scontro con il sindaco di Milano, Paolo Pillitteri. Nel piazzale dei tram un gruppo di immigrati ha impiantato una baraccopoli. Il sindacalista organizza una protesta. Il sindaco, ancora in auge, lo aggredisce verbalmente davanti alle telecamere di RAI e Fininvest: «Fascisti, nazisti, straccioni». Cinque anni dopo, il 7 giugno, Mannino - un siciliano di 49 anni emigrato a Milano nel 1965 - è alla testa del pattuglione che si impegna a garantire la sicurezza nelle case di via Rizzoli, palazzi di proprietà comunali senza recinzione presi d'assalto dalla microcriminalità. Un ragazzino, alla guida di un motorino, è malmenato, bloccato e fotografato perché lo sospettano di essere un ladro «in trasferta», mandato dai boss dello spaccio di via Tel Aviv, per sondare la capacità di autodifesa del quartiere. Il malcapitato, un saldatore incensurato, querela gli aggressori. Mannino difende l'iniziativa con i giornalisti: «E' quasi due mesi che facciamo le veglie perché abbiamo avuto un sacco di furti a tutte le ore. Siamo qui dalle dieci di sera alle due di notte, armati di macchina fotografica, penna e carta e cellulare. Sabato abbiamo scovato due immigrati sotto una panchina. Li abbiamo interrogati, non volevano dire che cosa facevano e chi erano e abbiamo chiamato il 113. Ieri sera i ragazzini in motorino erano 15, ne abbiamo bloccati due. Uno è scappato, l'altro diceva: te la faccio pagare [...]. L'abbiamo bloccato pacificamente» (14). La ronda che fa capo a Mannino è nella minoranza che appoggia la provocazione del SAP, il sindacato autonomo di polizia: presidi di agenti in borghese e cittadini, a fianco a fianco contro il crimine. A rilanciare l'idea è il doganiere Giovanni De Nicola,
animatore infaticabile di nottate antiviados e di fiaccolate contro il Leoncavallo, candidato al Comune con Alleanza nazionale. Lo stesso giorno a Torino 60 persone presidiano Porta Palazzo per scoraggiare spacciatori e extracomunitari che cucinano all'aperto. Il giorno dopo a San Salvario c'è un corteo «duro» contro lo spaccio e la Lega annuncia una raccolta di firme per un referendum cittadino abrogativo della Consulta dei cittadini stranieri mentre a Milano gli ambulanti dell'ALIA, sindacato leghista, rastrellano i mercatini rionali di via Gaeta, via Osoppo, via Canaletto, via Peroni a caccia di abusivi. A Genova il comitato antinomadi di Quarto organizza due presidi in piazza. A Sampierdarena e ad Alto abitanti armati di macchine fotografiche e cellulari segnalano la presenza di spacciatori e prostitute. Ad Asti 30-40 volontari controllano giorno e notte le strade ad alto rischio di spaccio e prostituzione . A San Salvario trecento abitanti cingono di assedio la birreria considerata base degli spacciatori: qualcuno rovescia cassonetti dei rifiuti, altri lanciano, senza far danni, bastoni e bottiglie. Tra la folla spicca qualche camicia verde leghista ma anche il caffettano dell'imam Aboussad Mustafa, responsabile delle due moschee torinesi: anche lui è contro la delinquenza e lo spaccio. Primi applausi e poi fischi per la polizia che interviene. A far degenerare subito quella che doveva essere una manifestazione pacifica le voci su una rissa tra marocchini e indigeni in una strada laterale. Ma le fiammate xenofobe non sono solo il prodotto di isteria collettiva o dell'istigazione del barnum mediatico, come succede negli stessi giorni a Ostia: «Un cronista sprovveduto del 'Giornale'», racconta il commissario di polizia del litorale romano, «s'è inventato uno scoop inesistente, utilizzando oltretutto una persona disabile mettendogli una mazza tra le mani per poi fotografarlo» (15). A riaccendere gli animi a San Salvario è la trasmigrazione di massa nel quartiere degli spacciatori allontanati dai Murazzi. E per mantenere alta la tensione ci si mettono anche gli attivisti della Fiamma: una battuta di troppo e due marocchini finiscono all'ospedale. Va peggio a una nigeriana, proprietaria di un negozio: aggredita da tre uomini e due donne, sbattuta nel vetro di una pizzeria, vede gli assalitori andarsene via impunemente nonostante l'arrivo di una pattuglia di polizia che le chiede i documenti e la minaccia di arresto per resistenza. La sua commessa, intervenuta in soccorso, è fermata e portata al commissario. Subisce anche lei un trattamento duro e deve passare al pronto soccorso
a farsi medicare. Manette, calci e schiaffi anche per una cliente, che subisce l'umiliazione della schedatura, con foto segnaletica e prelievo delle impronte digitali . Le fonti di polizia ridimensionano radicalmente le cifre diffuse - da 4mila a 8mila «rondisti» - e contestano che in alcuni casi si possa propriamente parlare di ronde. Di «intolleranza alimentata ad arte» parla il questore Giuseppe Grassi: i reati a San Salvario in un anno sono drasticamente diminuiti, a scatenare l'ultima fiammata xenofoba è uno scambio di insulti con tre marocchini, siamo quindi di fronte a un fenomeno di pura intolleranza. Che non esita a manifestarsi nelle forme più tradizionali: il 16 giugno 1996 cinque balordi torinesi, due dei quali con piccoli precedenti per furto, un po' di hashish in tasca, prendono a botte e sputi due allieve infermiere camerunesi, sposate con italiani, su un treno per pendolari. A salvare le donne sono i ferrovieri che isolano i razzisti e li consegnano alla polizia ferroviaria di Asti: si giustificheranno sostenendo che le avevano scambiate per prostitute pendolari. A Santa Rita, alle spalle di Mirafiori, gli abitanti contestano l'apertura di un dormitorio comunale per barboni. L'assessore comunale all'assistenza è assalito in un'assemblea da un comitato promosso da F.I. e Alleanza nazionale. Il corteo per la solidarietà promosso da Caritas e don Ciotti è contestato dagli abitanti del quartiere. Finisce con un attacco improvviso dei ragazzi dei centri sociali e brevi cariche della polizia. Il 15 marzo 1997 Andrea Caruso, ventotto anni, ha un rene perforato da una coltellata sferrata da un immigrato, il mese dopo una trentina di giovani aggrediscono un gruppo di extracomunitari con spranghe e bastoni. I volti sono coperti dai passamontagna, usano mazze da baseball, bastoni, spranghe e guanti imbottiti di sabbia. E a mezzanotte va la ronda del quartiere. Un maghrebino, accoltellato, finisce in ospedale. Le volanti intervengono rapidamente e arrestano tre italiani: uno studente, un impiegato e un autista, sequestrata con le armi anche una «celtica» d'oro. Gli sparuti testimoni dicono di aver riconosciuto tra i vigilantes qualche Fighter, ultrà bianconeri (più neri che bianchi, ovviamente) della curva Scirea. Se ne parlava da giorni, come rappresaglia per qualche scippo subito. Più probabilmente è un'operazione preventiva di pulizia etnica per ricacciare gli extracomunitari che, con l'avvicinarsi dell'estate, cominciano a rioccupare le rive del Po. L'assalto è preceduto da un volantinaggio leghista nel pomeriggio, svolto da Borghezio e da un pugno di militanti:
niente camicie verdi ma una chiara esaltazione delle ronde; «Non si può», commenta il giorno dopo il deputato, «lasciare una polveriera incustodita e poi stupirsi che qualcuno abbia gettato un cerino sopra». E a giugno alla stazione di Porta Nuova entrano in azione le ronde verdi, comandate da Borghezio e Matteo Brigandi, segretario cittadino . I Murazzi restano una zona caldissima per l'intolleranza, fino all'omicidio. Alle 5 di mattina del 19 luglio 1997 un clandestino marocchino, Abdellah Doumi, affoga nel Po, perché la banda che l'ha pestato e fatto cadere nel fiume gli impedisce di toccare riva, lanciandogli contro bottiglie, pezzi di legno e persino sfondandogli in testa una cassetta di frutta, tra risa e schiamazzi. Era stato già fermato due volte e arrestato un mese prima per spaccio. Pochi minuti dopo il delitto, mentre tenta di salire a bordo della sua Ducati, un «mostro» da 45 milioni, completamente ubriaco e ferito in varie parti del corpo, è arrestato per omicidio volontario Paolo Iavarone, detto lo «Yeti», neodiplomato in arti grafiche, ventunenne, secondogenito dei proprietari napoletani di una tipolitografia di San Mauro Torinese, alto, barba lunga, orecchino e un bracciale celtico tatuato sul bicipite destro. E' talmente ubriaco che farfuglia qualcosa a stento e in questura crolla a dormire su un divano. Il dirigente della Mobile, Claudio Cracovia, banalizza: «Di certo non si tratta di un episodio riconducibile a razzismo ma piuttosto alla conclusione tragica e quindi non meno grave di una lite tra ubriachi». E' cominciata così, con uno scambio di insulti tra un gruppo di marocchini e una ciurma di studenti dell'ITIS «Bodoni», che hanno festeggiato la conquistata maturità in un pub del centro e poi sono andati a tirar mattina ai Murazzi. Dalle parole allo scontro la strada è breve: i marocchini hanno la peggio e scappano, Abdellah cade o è spinto nel Po: un ambulante non fa a tempo a gettarsi in acqua che il marocchino affoga. Nel corso delle indagini emerge un più inquietante scenario. A dar man forte agli studenti ubriachi accusano gli amici di Abdellah - è intervenuto un gruppo di buttafuori dei locali del Murazzi, già protagonisti di scontri e tensioni con gli spacciatori marocchini. Il cugino della vittima ricostruisce la rissa: gli studenti cominciano a insultarli, Abdellah colpisce con un cazzotto Iavarone che cade a terra ferendosi, poi la tragica fuga verso il fiume. Un bibitaro italiano ricostruisce il seguito: il ferito si rialza e impedisce al marocchino di riconquistare la riva. La precisa descrizione del casco nero «spagnolo» del motociclista permette il fermo immediato. In realtà
Paolo era troppo ubriaco per partecipare alla rissa e il vero protagonista è il fratello maggiore Piero Iavarone, ventitré anni, che scagiona il fratello con i giornalisti e i poliziotti - precostituendosi un alibi: sostiene di essersene andato un'ora prima - e mobilita alcuni falsi testimoni (tra cui la fidanzata, figlia di un architetto, e un amico appena uscito di galera dopo due anni per droga), anche a costo di incastrare Paolo, che continua a proteggere il fratello. Un piccolo dramma familiare nella tragedia: i due sono legatissimi, la stessa passione per la moto, lo stesso ruolo tra i Granata Korps, gli ultrà più duri del Torino. Hanno entrambi precedenti per rissa. Una settimana prima Piero ha gonfiato di botte un automobilista, Paolo ha fatto 7 giorni di cella per aver picchiato un finanziere in borghese in discoteca. Pressato dai giudici, e dal timore delle analisi del sangue trovato sui suoi vestiti, Piero finisce per ammettere: è stato lui e non il fratello a picchiare il marocchino e poi a organizzare il depistaggio delle indagini. Nega di aver buttato Doumi nel fiume e viene indagato a piede libero assieme a uno dei testimoni. Altri tre testi fasulli, dopo la confessione di Piero, sono nuovamente interrogati, si contraddicono e sono denunciati per favoreggiamento. Dopo 10 giorni di carcere è liberato Paolo Iavarone. La disavventura non ha scosso le sue certezze: «I Murazzi andrebbero ripuliti dalla schifezza, spacciatori e delinquenti» (16) . Lo stesso giorno è fermato il buttafuori Andrea Demartis, detto «Bosch», cultore di arti marziali: in preda a un delirio isterico, avrebbe lanciato un aspirapolvere addosso all'immigrato che cercava di risalire dal fiume, invitandolo ad attraversare il Po a nuoto. Era in servizio al Fragil, un nuovo locale aperto sotto la prima arcata dei Murazzi, nel quadro del progetto comunale di valorizzazione dell'area e di integrazione razziale, che prevedeva tra l'altro esplicitamente il pagamento di buttafuori per garantire la sicurezza della zona. Ad accusarlo un precedente sinistro: nell'agosto 1994 picchia un giovane che voleva entrare nel locale dove lavorava, poi lo avrebbe gettato nel Po, senza altre conseguenze. «Bosch», alto, massiccio, lunghi capelli biondi, astemio, in precedenza aveva lavorato al Canoe e Kayak, il locale di Ettore Peyrot, coinvolto nell'inchiesta sulla morte di Khalid Aarabi, un marocchino diciottenne annegato il 17 giugno 1995 ai Murazzi mentre tentava di scappare nonostante le manette ai polsi e una ferita profonda al braccio sinistro. Peyrot e i suoi buttafuori lo avrebbero scoperto mentre tentava di rapinare clienti con un coltello e
lo avrebbero perciò pestato prima di chiamare la polizia. Nello scontro il marocchino ferisce a coltellate il titolare del locale. Segue una sommossa di 200 marocchini indignati con due ore di scontri con la polizia. Un video amatoriale ricostruisce l'episodio facendo emergere il ruolo di alcuni naziskin armati di mazze da baseball che sembrano impegnati in una sorta di caccia all'uomo. Il pubblico italiano, centinaia di persone, comunque, applaude e schiamazza mentre l'immigrato affoga . Il buttafuori e il proprietario del locale, dal canto loro, ce l'hanno proprio con i «negri». «Bosch», nell'aprile 1995, avrebbe guidato un raid di ultrà juventini e buttafuori per far pulizia dei banchetti di extracomunitari che vendevano birra e kebab facendo concorrenza sleale ai locali dei Murazzi: danno fuoco alle auto, lanciano le bancarelle nel Po, picchiano chi resiste. Peyrot, nell'estate 1996, è accusato di aver picchiato un ragazzo nigeriano. Una triste fine per chi aveva guadagnato gli onori della cronaca a vent'anni, quando era stato arrestato come militante di Prima linea per le accuse di Roberto Sandalo. Un altro gestore del Canoe e Kayak, Salvatore Cupani, è invece condannato per «discriminazione razziale» a due mesi di carcere: il 19 agosto 1995 aveva rifiutato l'ingresso a due maghrebini che accompagnavano Paolo Colajacomo, giornalista di «Tuttosport», e la moglie a un concerto di musica africana organizzato nel pub. Un locale maledetto: il buttafuori che blocca i due extracomunitari, Francesco Tateo, pochi mesi dopo il fatto muore per un'overdose di eroina. Come è una riva maledetta quella dei Murazzi: nel maggio 1996 ad affogare è il marocchino Rachid, caduto nel Po dopo una rissa con un gruppo di tunisini. Quattro connazionali si tuffano inutilmente per salvarlo. Non è il primo caso di violenze compiute da extracomunitari: gli scontri tra marocchini e tunisini sono frequenti e spesso finiscono a coltellate, con feriti anche gravi. Nell'occasione della morte di Rachid, i carabinieri non riescono a soccorrere il giovane perché devono prima superare la resistenza di numerosi maghrebini che lanciano contro le gazzelle sassi e bottiglie di vetro . Un mese dopo il delitto Doumi, ci si mettono in 30, al Regio Parco, a linciare un marocchino accusato di aver tentato poche ore prima di stuprare due ragazze: la polizia lo salva e l'arresta. La tensione resta alta anche a San Salvario. Ad aprile 1998 centinaia di immigrati aggrediscono gli agenti che tentano di fermare due «pusher» tunisini: i
poliziotti sono costretti a sparare, uno degli spacciatori è ferito di striscio alla spalla, l'altro riesce a scappare in manette, uno dei liberatori è ferito a una gamba e arrestato. Al termine dell'inchiesta, nel maggio 1998, il p.m. chiede il rinvio a giudizio per l'omicidio di Doumi di Piero Iavarone, Andrea Demartis, Fabio Montrucchio, Diego Trevisan e Livio Leanza (quest'ultimo in libertà) e per false dichiarazioni al p.m. di sei giovani. Secondo le testimonianze a partecipare alle varie fasi del linciaggio erano stati almeno in venti. Dei mille presenti sulle rive del Po, i p.m. avevano fatto fatica a raccogliere una trentina di deposizioni, tra testi e indagati. La condanna, nel dicembre 1998, è severa: 22 anni per Iavarone, Demartis, Montrucchio e Trevisan, assolto Leanza. Immediato l'omaggio dei Granata Korps la domenica successiva: «Ocalan in una villa all'Infernetto [il quartiere romano che ospita il leader curdo] Piero nell'inferno del carcere». E il 22 dicembre 1999 i giudici d'Appello ridisegnano le condanne per il branco, e decidono che i quattro potranno scontare la pena agli arresti domiciliari. Quattordici anni per Andrea Demartis, 9 anni e 6 mesi per Piero Iavarone, 9 anni e 4 mesi per Fabio Montrucchio e Diego Trevisan. «Non avevano intenzione di uccidere», si legge nella motivazione della sentenza. E, tra gli altri motivi che hanno spinto i giudici a ridurre la pena, concedendo arresti domiciliari e la possibilità a Iavarone di lavorare nella tipografia del padre, il fatto che gli imputati siano incensurati e le attenuanti generiche per le circostanze nelle quali avvenne la morte del marocchino. Ai tre imputati è stata inoltre riconosciuta un'attenuante particolare, il «concorso anomalo», che fa scattare una diminuzione della pena se il reato commesso è più grave di quello desiderato . Intanto, già nell'estate 1998 sono tornate in campo le ronde leghiste in risposta a un'impennata di episodi di microcriminalità violenta: una studentessa capitata in una sparatoria tra albanesi e gravemente ferita da una pallottola vagante, un'anziana portinaia rapinata, pestata e quasi stuprata da un extracomunitario, una donna e il figlioletto di quattro anni travolti dall'auto di uno scippatore. Borghezio, leader dell'ala dura del Carroccio, vanta 150 nuovi volontari in pochi giorni. Ad agosto un'egiziana con le doglie perde il bambino perché un tassista la respinge per non sporcare l'auto: l'ambulanza arriva tardi e la donna finisce in rianimazione. Indagato per omicidio colposo, l'autista subisce solo una breve sospensione della licenza. Alla fine di ottobre raid razzista alla Barriera di Milano, a ridosso di Porta Palazzo: un marocchino con
regolare permesso di soggiorno è aggredito con il lancio di molotov, poi è colpito con pugni, calci e una spranga e infine accoltellato al torace. La ronda, almeno sei gli aggressori, avrebbe agito contro gli spacciatori ma il bersaglio è sbagliato: la vittima campa con lavori saltuari ma legali. Lo stesso giorno, a San Salvario, un'algerina picchia un militante del comitato spontaneo: lo considera responsabile dell'arresto del marito spacciatore. L'intolleranza non riguarda soltanto le aree metropolitane: a Stornara, provincia di Foggia, nell'agosto 1993 più di duemila tra residenti e clandestini, mobilitati per la campagna di raccolta del pomodoro, sono evacuati per sottrarli alla caccia all'uomo scatenata senza prove dopo la morte di un pensionato ottantenne ferito da rapinatori; a Portoferraio (31 agosto 1995) ci si mettono in 15 a picchiare un tunisino, uomo di fatica di un peschereccio: lo aspettano di notte, a fine turno, per pestarlo, i carabinieri ne fermano tre che non riescono a scappare, e ne risulta che volevano punirlo per il furto di un motorino; a Gela (5 settembre 1996) due ambulanti nordafricani sono presi a bastonate sul lungomare da cinque giovani che li invitano a tornare in Africa; a Lampedusa (7 ottobre 1996) all'ennesimo sbarco di tunisini un gruppo di isolani risponde a colpi di molotov; a Modena (6 ottobre 1996), un gruppo di «bravi ragazzi» si arma di spranghe, catene e coltelli per ripulire un quartiere dagli spacciatori maghrebini. Un marocchino finisce in ospedale e scatta l'inchiesta: un arresto per detenzione di armi da guerra, nove denunce, il più grande dei giustizieri della notte ha vent'anni e nessuno uno straccio di ideologia razzista. Qualche mese dopo, nel quartiere operaio della Crocetta, in cinque bloccano e pestano selvaggiamente uno spacciatore marocchino, che si guarda bene dal denunciare l'aggressione. Il sindaco pidiessino incontra una delegazione di massa e rassicura gli abitanti: chiederà al ministro Napolitano l'invio di poliziotti per dare sicurezza al quartiere, dà ragione alla gente ma condanna blandamente il ricorso alla giustizia faida-te. Anche a La Spezia è nel quartiere rosso e operaio di piazza Brin, dietro la stazione, che si scatena la caccia allo spacciatore nero. Tredici finiscono in ospedale, non hanno documenti regolari e sono denunciati per resistenza e lesioni. Una guerriglia annunciata da sei mesi di crescenti tensioni. La città ha perso in dieci anni diecimila posti di lavoro ma il porto, primo per container del Mediterraneo, continua ad attrarre prostitute e spacciatori. A far rifluire in centro gli illegali la decisione di murare le vecchie Casermette, nei pressi dell'Oto Melara,
per anni prima casa dei neoimmigrati. I giustizieri si giustificano: non vogliamo che spaccino vicino alle giostre . A Barletta, nell'ottobre 1998 un marocchino, da dieci anni in Italia, sposato e con una figlia piccola, è disarcionato dalla bicicletta e massacrato di botte nella piazza affollata, al termine del turno di lavoro in pizzeria, a mezzanotte: finisce in rianimazione in ospedale perché i due aggressori, noti per precedenti episodi di teppismo e di «guapparia», si inferociscono per la mancata reazione a una gragnola di insulti. Tra le decine di presenti nessuno interviene a soccorrerlo, né trova niente da raccontare ai carabinieri che arrestano in flagrante i due energumeni per tentato omicidio aggravato dalla discriminante razziale. A Casei Gerola, piccolo centro alle porte di Voghera, nel dicembre 1998, almeno 200 persone si riversano in piazza per farsi giustizia sommaria di due minorenni albanesi bloccati dalla polizia dopo che il padrone dell'appartamento che stavano svaligiando li ha scoperti assieme a due complici e ha chiamato il 113. Gli agenti hanno l'idea non brillantissima di ammanettarli a un palo della piazza in attesa di rinforzi. La folla circonda i prigionieri che rispondono agli insulti sputando. In parecchi cominciano a picchiarli e solo l'arrivo dei carabinieri interrompe il linciaggio . Talvolta le approssimazioni della stampa generano confusione al limite del paradosso. E' il caso della banda di giustizieri milanesi accusata del pestaggio omicida di un tossicodipendente sieropositivo: il capo è un egiziano, la vittima un poveraccio colpevole di averne infastidito Dody, la sua ragazza. L'articolista è preciso: «Nessun collegamento con le formazioni dell'estrema destra, solo una spiccata volontà di menare le mani [...] nella loro base niente svastiche né coltelli» (17), eppure il titolista «spara» impunemente «egiziano naziskin». E' invece l'attività di questa banda una delle manifestazioni del passaggio dalla violenza più o meno organizzata degli skin ai pattuglioni di giustizieri di quartiere. Ibrahim Ahmed è arrestato ai primi di agosto 1995, di ritorno dalle vacanze a Vulcano: è un elettricista di vent'anni che da otto vive in Italia con la madre, diploma di terza media e piccoli precedenti penali (l'ultimo è il furto di una Mercedes). Lo fermano a Linate: lo cercavano da qualche giorno, dopo le confessioni di alcuni dei quattro componenti della banda - bomber e anfibi come look e uno «scannatoio» come ritrovo - già arrestati (altri tre sono ricercati) per l'omicidio commesso l'8 maggio. Si difende: «Odio i drogati». Lui ha
deciso il pestaggio e in otto sono andati a massacrare un tossico, quarant'anni, nei giardinetti del quartiere, sotto gli occhi del fratello. Alla polizia che contesta due precedenti aggressioni (a un altro «drogato» e a un extracomunitario che dormiva su una panchina) i giovani replicano sfrontati: «Volevamo ripulire il quartiere dai tossici e dai barboni». Un mese dopo, il 14 giugno, un altro gruppo di «bravi ragazzi» replica, a San Donato Milanese. Massacrano di calci e di pugni un tossico di trentanove anni che muore per il pestaggio. Aveva molestato e ferito al collo con un temperino l'unica ragazza della comitiva, Sonia, vent'anni, commessa. Una banda "sui generis": vaga ideologia di destra, nessun attivismo politico né precedenti penali, ritrovo al bar, dove vanno anche dopo la spedizione punitiva. Sono arrestati in 5: Massimo, muratore, Paolo, aspirante geometra, un altro Massimo, operaio, Moreno, in attesa di leva, e Andrea, il più grande (ha venticinque anni: gli altri ne hanno tutti venti), disoccupato. In questo caso siamo del tutto fuori dall'ambiente skin: mancano i minimi riferimenti iconografici e di costume . Evidentemente la martellante campagna di stampa e di polizia contro il «pericolo nero» è riuscita ad arginare la manifestazione, a rimuovere il sintomo, e il male si è altrimenti catabolizzato. Già in precedenza, era evidente agli osservatori più avvertiti che non tutti gli episodi di violenza razzista e xenofoba potessero essere ridotti alla categoria onnicomprensiva di naziskin. A prescindere dall'effetto emulativo bande di emarginati scelgono i simboli più efferati per avere il massimo di impatto - da subito si poteva distinguere tra le azioni di manipoli apertamente neofascisti (minoritari) e manifestazioni di violenza sociale, a volte atroce, che la grancassa mediatica riproduce in modo deformato. Un esempio significativo è l'efferato omicidio di uno stagionale sardo, a Trento, nell'ottobre 1997, da parte di una banda di balordi, anch'essi immigrati, operai saltuari nei cantieri o nelle ditte di pulizia. In un primo momento si parla di arancia meccanica contro un barbone (ammazzato a bastonate e poi dato alle fiamme) ma il rapido successo delle indagini ricostruisce uno scenario diverso. La vittima si è trasferita in Trentino per la raccolta delle mele. La sua colpa: aver picchiato e cacciato di casa Barbara, una diciottenne tossicomane e incinta. La spedizione punitiva è guidata da Mariano Farago, napoletano, ventitré anni, con cui la ragazza aveva avuto una storia in estate, abitando in un maso abbandonato. Al rientro da Marano di
Napoli il giovanotto trova il maso occupato dallo stagionale che avrebbe cacciato con la forza la ragazza e scatta la vendetta d'amore. A un primo scontro tra i due contendenti segue il raid: in cinque - tre napoletani: Farago, i fratelli Pasquale e Maurizio Canfora; il sardo Gianluca Leoni; l'albanese Ilir «Elio» Seit Norja - tornano nel maso, il giorno successivo, dopo aver bevuto birra e fumato spinelli insieme, e intimano al sardo di andarsene, poi scatta il pestaggio mentre lo stagionale comincia a raccogliere le sue cose: l'uomo finisce a terra sanguinante. Farago chiede agli amici «Lo ammazziamo?», loro rispondono di sì e lui raccoglie un ferro da stiro, gli sfonda il cranio e con l'aiuto dell'albanese continua a pestarlo, raccoglie carte e giornali e dà fuoco al corpo ancora agonizzante, noncurante dei rantoli. Arrestati il giorno dopo per le abbondanti tracce lasciate, confessano subito in quattro, ma senza traccia di pentimento. Dopo l'agghiacciante confessione, infatti, Farago dichiara: «Quando esco mi arruolo in polizia e faccio fuori un marocchino al giorno» (18). L'albanese fa gesti osceni ai fotografi. L'unico che gioca fino in fondo la parte del duro è il più piccolo d'età, Pasquale «il Grosso» Canfora, appena diciottenne, fermato poche settimane prima per aver pestato selvaggiamente, con altri giovani, una prostituta nigeriana per rapinarle poche decine di migliaia di lire: mostra la lingua ai fotografi, minaccia di ammazzare il fratello perché ha parlato. Si scopre tra l'altro che poche ore prima del delitto Farago era stato fermato dalla polizia per violazione di un precedente foglio di via. Il sospetto è che il massacro sia stato una sfida alla polizia che non punisce adeguatamente i veri «abusivi». Al processo la condanna più pesante tocca a Mariano Farago, che dovrà scontare 24 anni di reclusione. Ai fratelli Pasquale e Maurizio Canfora sono inflitti 22 anni, mentre per Gian Luca Leoni e per l'albanese Ilir «Elio» Seit Norja la pena è di 21 anni . L'osservatorio di Milano, nel febbraio 1997 divulga dati ancora preoccupanti sull'allarme razzismo: sceglie di esaminare, rilevandolo dai giornali, un caso di intolleranza al giorno, cercando di espungere gli episodi di più evidente natura criminale (la pulizia etnica nel Casertano, la tratta delle baby-prostitute dall'Albania). A primeggiare sono ovviamente Milano (68 casi) e Roma (64), metropoli dove si concentrano due terzi degli extracomunitari in regola (oltre 430mila persone). Il direttore Massimo Todisco disaggrega i dati: 163 sono i crimini contro le persone, 65 le azioni propriamente razziste, 84 le
violenze sulle condizioni di vita e 53 quelle legate al dramma dell'esodo. Le vittime: sette su dieci sono irregolari. La metà degli episodi si consumano nel mondo della prostituzione, un quarto sono commessi da altri immigrati. Tra i più gravi sono segnalati il caso della piccola nomade lasciata morire a Casamassima (era caduta da un tetto fuggendo dopo un furto in casa), della quindicenne prostituta albanese venduta dalla madre, di tre nigeriani (una sfregiata con cocci di vetro, una picchiata da cinque ragazzini a Torre Angela, nella periferia di Roma, e uno, infine, prima accoltellato e poi preso a sassate da un ragazzo in motorino). Spicca per protervia lo sciopero della fame dei secondini di Terni contro il cuoco ivoriano. Alcuni dei delitti più gravi si collocano in una zona di confine dove l'elemento determinante dell'esplosione della violenza più cieca non è riducibile alla semplice xenofobia. E' il caso, a Bologna, del ladruncolo tossicodipendente che fa irruzione di notte in un garage dove dormono maghrebini per vendicarsi del furto di un telefonino e di un orologio. Spara all'impazzata, ammazzando un marocchino e un algerino, altri due immigrati sfuggono per un soffio alla morte. La polizia va a prenderlo a casa poco dopo il raid e lo arresta: ad accusare Francesco Di Carlo, ventidue anni, i due sopravvissuti. Mancano criteri definiti per l'elaborazione statistica, anche se in tutte le rivelazioni la tendenza è a un vistoso peggioramento della situazione. Nel giugno 1997 il professore Michele Sorice della facoltà di Sociologia di Roma diffonde i dati ricavati dalla lettura di venti quotidiani ed elaborati in una ricerca da lui coordinata: 374 aggressioni e 68 omicidi (in prevalenza regolamenti di conti tra clan non sempre di diverse etnie) . Ma Giorgio Napolitano prontamente rilancia: sono quasi il doppio, esattamente 111, gli omicidi censiti dal Viminale. Il ministro degli Interni scende nel dettaglio: il trend nel breve periodo è di un aumento annuale del 10% circa (91 nel 1994, 99 nel 1995). Le donne sono il bersaglio preferito delle violenze, e non sempre solo sessuali. Roma resta la città pericolosa per gli extracomunitari (non fosse altro perché vi si concentrano il 20% delle presenze e il 90% di quelle laziali, mentre Milano ospita solo la metà degli extracomunitari lombardi). Segue Torino: Napoli e Firenze sono distanziate. Il ministro della solidarietà sociale Livia Turco insiste: non si tratta di razzismo ma di semplice intolleranza. Per il leader verde Luigi Manconi, gli immigrati sono colpiti perché percepiti come marginali e perciò vulnerabili. In
realtà scontri e conflitti all'interno della composita realtà dell'immigrazione extracomunitaria non hanno sempre il carattere del regolamento di conti e della violenza criminale: succede a Padova dove scoppia una maxirissa tra algerini da una parte e tunisini e marocchini, dall'altra, con 17 fermati. I primi volevano impedire ai secondi di spacciare eroina durante il Ramadan. A Bologna, gli ospiti del centro di accoglienza di via Stalingrado per due giorni fanno blocchi stradali contro gli spacciatori. A volte è proprio la xenofobia a scatenare la violenza o l'intolleranza tra etnie diverse: a Vicenza, una coppia di zingari scatena un putiferio in ospedale perché il figlio di sei mesi sta per essere ricoverato in un lettino a fianco di un neonato senegalese. Lo stesso giorno, sull'autobus che collega Ladispoli a Roma, un tunisino litiga per una spinta e accoltella un senegalese, dandogli dello sporco negro: se la cava con una condanna a sei mesi . A settembre l'indagine dell'Osservatorio nazionale di xenofobia, promosso dalla Caritas, conferma la gravità della situazione: nel 1996 ci sono stati 412 episodi (112 in più) di violenza su 452 extracomunitari (nel 1995 erano state 405 le vittime), a Roma 107 i casi. Le vittime: il 60% africani, per lo più maghrebini, un quarto dell'Europa orientale. Numerosi sono gli episodi di violenza e di intolleranza che vedono protagoniste direttamente le forze dell'ordine. A Catanzaro ad essere picchiata a sangue da due poliziotti è una giovane nigeriana, figlia di un diplomatico, sposata con un carabiniere e studentessa di Medicina. La accusano di non aver voluto fornire le generalità e di aver picchiato un agente col telefonino: ma dal referto risulta che è stata lei a subire una distorsione alla colonna vertebrale, ecchimosi al collo, contusioni al labbro superiore e trauma toracico, con venti giorni di prognosi. Le sono state persino strappate le trecce. Aveva inutilmente detto di aver sposato un carabiniere e di essere cognata di un ispettore di polizia. Una negra - per i due agenti - non può essere una cittadina italiana ma deve essere necessariamente una puttana. Il questore difende i suoi uomini: la donna anche in questura si era rifiutata di dire il nome. Un operaio tunisino di ventinove anni denuncia di essere stato fermato e picchiato da una pattuglia di carabinieri di Voghera senza motivo. Il pestaggio, cominciato in auto, sarebbe proseguito in caserma. I militari hanno sostenuto di essersi difesi da un'aggressione. A controfirmare la querela della vittima ci sono il portavoce dei Verdi, Luigi Manconi e il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, il comunista
Giuliano Pisapia. A Ventimiglia un giovane agente delle volanti ferisce con un coltello un pregiudicato sloveno sorpreso mentre tentava di svaligiare la sua villetta. Durante la fuga il ladro cade, sbatte la testa a terra e muore. Solo dopo due giorni di interrogatori a tappeto il magistrato ricostruisce la dinamica dell'episodio e arresta l'agente con l'accusa di omicidio volontario. A Genova una baby-sitter nigeriana, sposata con due figli, permesso di soggiorno e posizione contributiva regolare, si fa quattro giorni in cella, nell'agosto 1997, perché non aveva il ticket dell'autobus. Al gip racconta della brutalità razzista del controllore («Vuoi che non ti chiami negra? E allora tornatene al tuo paese») e della violenza dei poliziotti che prima la chiamano «puttana» e poi la trascinano per i capelli in cella. Il rapporto di polizia racconta del rifiuto della donna di fornire le generalità, di due controllori aggrediti e di due agenti medicati al pronto soccorso per la furiosa resistenza della donna. Il suo avvocato è perplesso: come fa una donna sola, e per bene, a picchiare quattro uomini? A Napoli, nel dicembre 1998, tre viceispettori di polizia sono arrestati per aver sottratto 15 milioni durante una perquisizione in casa di un gruppo di immigrati regolari a Giugliano: quando vengono a sapere che la vittima, una donna ghanese munita di permesso di soggiorno, li ha denunciati ai carabinieri, stilano un tardivo verbale e inviano una relazione in procura, ma dalle indagini della DIGOS emerge che hanno verbalizzato circostanze false per occultare la rapina: NOTE . (1). Beppe Muraro, "Non sono fascista. Difendo la razza bianca", «il manifesto», 14 ottobre 1995 . (2). Al termine dell'iter processuale, il 7 maggio 1999 la prima sezione penale della Cassazione ha condannato a tre anni di reclusione Franco Freda per violazione della legge "Mancino", detta anche antinaziskin, per la costituzione del Fronte nazionale. Le indagini sul F.N. presero l'avvio nel 1992, a Verona, sotto la direzione del p.m. Papalia dopo la distribuzione di volantini xenofobi. In particolare la suprema Corte, col patteggiamento, ha accolto la richiesta del legale di Freda, avvocato Carlo Taormina, e del p.g. della Cassazione che avevano chiesto la derubricazione del reato ascritto a Freda - condannato a circa 6 anni, dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per violazione della legge "Scelba" per ricostituzione del partito fascista - in quello di violazione
della legge "Mancino". Insieme a Freda sono stati condannati a pene minori altri 41 imputati, gravitanti attorno al F.N., tra questi Cesare Ferri (20 mesi) e Aldo Gaiba (16 mesi) . (3). Muraro, art. cit . (4). Ibidem. Il sito Internet della libreria A.R. diffonde un significativo stralcio del punto di vista del F.N. sulla questione: «Da qualche tempo, non solo le acque si tingono di quelle scorie che compendiano tutti i resti - e riassumono tutti i colori - della modernità. E' la figura stessa dell'Europa che va tingendosi, nel crepuscolo di un presente che si struscia - con effusioni di languore, lascivia e torpore - al fenomeno mostruoso dell'invasione di gente di colore. Un crepuscolo che potrebbe venir dissolto e assorbito da una eruzione etnica: per far posto a un futuro buio e caotico. Nel lezzo diffuso dalla decomposizione della volontà di custodire le proprie tradizioni etniche, da parte di un'Europa di 'anime belle' che non avvertono l'alito della morte della loro razza, di bipedi ebeti e pavidi che non sentono il pericolo del progressivo 'incistamento' di razze estranee (alle stirpi europee) nell'organismo del nostro continente, si distingue l'afrore della questione razziale. Essa si impone non nei termini materialistici della minor disponibilità di beni di consumo per noi Europei, ma come dramma metastorico in cui si continua la 'guerra occulta' tra potenze della luce e poteri delle tenebre, tra anime vigorose, nobili e rette e anime decadenti, torve e oblique. Il dovere di noi Europei, discendenti dalle genti arie d'occidente, è quello di destare le nostre coscienze, attraverso una sorta di 'educazione militare dell'anima': ricordare quella grandezza e divinità che costituisce il retaggio dei nostri avi indoeuropei e che verrebbe annientata nella convivenza con una massa mondiale magmatica. Ricordare e insorgere. Lottare - senza tumulti né violenze da noi provocati, ma senza transigere col dovere di contrastare la prepotenza degli allogeni - per la salvaguardia delle nostre comunità nazionali e razziali in Europa. Ricordare. Evocare e richiamare alla vita l'antenato ario che è in noi. Tornare alle origini dell'uomo di razza che è stato autore e generatore delle nostre stirpi - ovvero della cultura, dei costumi delle forme di vita della nostra specie. Insorgere. Difendere con generosità di cuore e perseveranza di opere quella terra e quel sangue che incarnano e manifestano, nell'ordine fisico e biologico, quelle potenze naturanti, metafisiche e metabiologiche, che sono gli dèi del Sangue e della Terra. 'Consacrare' a loro la nostra volontà significa
purificarla dalla decadenza - e purificarla equivale a stabilire la condizione fondamentale dell'esito vittorioso del nostro agire. Saranno essi, infatti le guide - disincarnate e invisibili, ma presenti - del nostro 'cammino di ronda' nella fortezza europea» (5). "Due terzi dicono alt", «L'Espresso», 1 ottobre 1995 . (6). "Padova: gli immigrati «sgraditi» in un caffè", «Corriere della Sera», 30 gennaio 1996 . (7). A. Buz., "Le ronde dei bravi ragazzi: «Ma non siamo razzisti»", «la Repubblica», 13 ottobre 1995 . (8). Ibidem . 9. Ibidem . (10). "Aggressioni in calo, ma più intolleranza", «il manifesto», 15 settembre 1995 . (11). Paolo Petrucci, "Storie di marocchini nella città violenta", «Avvenimenti», 22 febbraio 1995 . (12). Paolo Griseri, "Lavoro di ronda a Nichelino", «il manifesto», 14 giugno 1996 . (13). Luca Fazio, "Milano, arrestato il Rais di via Salomone", «il manifesto», 29 maggio 1996 . (14). Piero Colaprico, "Ronde a Milano, primi incidenti", «la Repubblica», 9 giugno 1996 . (15). Massimo Giannetti, «Ma quale ronda sul mare», «il manifesto», 11 giugno 1996 . (16). Elisabetta Rosaspina, "Torino, fermato un buttafuori", «Corriere della Sera», 30 luglio 1997 . (17). Sandro Neri, "L'egiziano naziskin confessa l'omicidio", «La Gazzetta del Sud», 3 agosto 1995 . (18). Franco Giustolisi - Cristina Mariotti, "E' morto, andiamo al bar", «L'Espresso», 30 ottobre 1997 . I SOLDATINI DI PRIEBKE . Nella marea della violenza sociale montante, spicca la resistenza di sparute pattuglie di skinhead che si distinguono ancora per i pestaggi selettivi e i raid per commemorare i martiri (in particolare il Rogo di Primavalle e il massacro di Acca Larentia). E del resto i fenomeni sociali, sia pure suscitati per via mediatica, non sono liquidabili a comando, né semplicemente per via giudiziaria. Particolarmente attiva per anni una banda di una ventina di skin a Primavalle: scritte sui muri,
aggressioni e scippi e ogni tanto anche azioni politiche. La notte di Capodanno del 1995 accoltellano due polacchi e bruciano un'auto. La sera del 5 gennaio, fallito l'assalto al centro Break out (sono respinti da una trentina di presenti), irrompono al centro sociale Interzona di Valle Aurelia (già devastato in estate quando si chiamava ancora Alice nella città): dei cinque presenti ne mandano tre in ospedale, tra cui un ragazzino di tredici anni e un baraccato sudanese, con 15 punti di sutura in testa. Il capobanda era armato di accetta. Gli autonomi accusano: sono sempre gli stessi impuniti. Break out è un bersaglio privilegiato, specialmente nell'anniversario di Primavalle: dista poche decine di metri da casa Mattei. Il 16 aprile una sassaiola contro il centro finisce con il fermo di 11 skin . L'anno dopo gli scontri sono molto più gravi. In 70, in corteo, depongono una corona sotto il palazzo del Rogo, poi, spicciata rapidamente la cerimonia, si calano i passamontagna e tirano fuori bastoni, coltelli e molotov. L'assalto a Break out fallisce: le finestre blindate resistono. Riparte il corteo ma al primo incrocio aggrediscono l'equipaggio di una volante. La reazione degli agenti scatena due ore di scontri. Il bilancio: 5 poliziotti feriti, 17 naziskin fermati, di cui solo tre arrestati. Otto sono minorenni, 5 già noti in questura. Provengono da tutta la città e sono riconducibili all'area di Movimento politico. Lo stesso giorno una banda di ragazzini - al massimo quattordicenni pestano un immigrato bengalese, non abbastanza pronto a dare soldi e sigarette, al Portonaccio. Per l'uomo è il secondo episodio in due settimane. La sera del 22 agosto 1995 una decina di skin ha selvaggiamente pestato due profughi russi nei giardinetti di Primavalle: uno dei due indossa la "kippah", il tipico copricapo israelita. A volte basta molto meno per finire sotto tiro: Caterina, sedici anni, studentessa del Visconti alta quasi un metro e 80, alle due di pomeriggio dell'8 febbraio 1996 è presa a calci nel sottopassaggio della metropolitana di via Manzoni a Roma da quattro skin perché - le dice il primo che la blocca - porta un loden «classico cappotto da comunista»: i quattro indossano, rigorosamente, bomber grigi. Ad Albano un diciannovenne disoccupato, noto come simpatizzante di Movimento politico e come spacciatore, insulta e aggredisce un tossicomane handicappato spegnendogli una sigaretta in faccia e poi prendendolo a calci. Il pestaggio avviene in piazza Mazzini, ritrovo dei naziskin dei Castelli, a
mezzogiorno di domenica. I passanti - decine - si sono girati tutti dall'altra parte . La messa al bando dei gruppi skinhead ha parzialmente fallito l'obiettivo. L'esercizio della violenza xenofoba è stato fatto proprio da ampi settori sociali che non sono egemonizzati dalle parole d'ordine dei Boccacci di turno. Le bande skin hanno altrimenti diretto le energie militanti. Mettendosi a disposizione come servizio d'ordine per le mobilitazioni antirom dei deputati di Alleanza nazionale con un saldo radicamento nelle borgate romane, come Domenico Gramazio (ma il capogruppo al Comune, Adalberto Baldoni, finisce in ospedale col naso rotto da due naziskin). Oppure affiggendo manifesti in difesa di Priebke, l'ufficiale nazista estradato dall'Argentina per il suo ruolo nel massacro delle Fosse ardeatine: «Il nostro onore si chiama fedeltà. Libertà per Priebke. A te oggi prigioniero di miserabili rinnegati rinnoviamo il giuramento di chi sa ancora lottare» (1). Tra i fermati in via del Corso colto in flagranza di attacchinaggio, con pennellessa e secchio di colla in mano, l'irriducibile Maurizio Boccacci. «Anche noi volevamo preparare un manifesto per chiedere la libertà di Priebke», dice Carlo Giannotta, segretario della roccaforte nera di via Acca Larentia, «ma non ci siamo mossi perché non volevamo provocare strumentalizzazioni da parte della sinistra» (2). Boccacci, un curriculum politico-giudiziario alto un palmo, rincara la dose: «Noi siamo fascisti, siamo ex-Fronte, ed ex-Terza posizione. Non stiamo né con Rauti, per il quale si può parlare di vigliaccheria storica, e tanto meno con Alleanza nazionale. Ma sul caso Priebke giustifico la benevolenza di Fini, visto che lui fascista non lo è stato mai» (3). I manifesti, che mostrano il profilo di un soldato tedesco delle S.S. con tanto di elmetto e sono firmati «I camerati», coprono una vasta area dell'Appio Latino, da piazza Tuscolo a piazza Re di Roma, tradizionale santuario nero della periferia sudorientale (4) . Con l'avvicinarsi del processo la mobilitazione dei naziskin monta. Si comincia, il 16 gennaio 1996, con una lapide a via Rasella, teatro dell'azione partigiana che scatenò la rappresaglia nazista (335 morti per 33 volontari altoatesini): «Ai caduti civili e militari, vittime della strage antifascista e partigiana perpetrata da vili assassini oggi medaglie d'oro di un sistema nato nel sangue e nella menzogna. Sia il cielo la patria di chi donò la vita per avere amato la propria terra, e infamia eterna per chi nel buio come sciacallo colpì. I romani», con tanto di corona ai
caduti fascisti e successiva telefonata notturna di rivendicazione: «Movimento politico, abbiamo messo una lapide in via Rasella». Carla Capponi, bersaglio degli insulti, minimizza: «Sono mentecatti, ci mancherebbe. Ma scrivetelo che sono stati ospiti di una sezione di Alleanza nazionale, scrivetelo» (5). Pochi mesi dopo tre individui si presentano a casa dell'ex-deputata del P.C.I. Al giardiniere che li avverte che la signora non c'è mostrano minacciosamente una pistola e allontanandosi velocemente avvertono: «Tanto prima o poi la dobbiamo ammazzare» (6). Non è un caso isolato: alla stessa area è attribuita l'affissione di manifesti con la foto di Rosario Bentivegna, responsabile militare dell'attacco di via Rasella, medaglia d'oro della Resistenza, con la scritta cubitale: «Terrorista». Un avvocato romano denuncia il comandante partigiano per omicidio plurimo. Bentivegna replica secco: «è una cosa ridicola». L'8 e il 9 aprile 1996 sono divelte le lapidi che ricordano i martiri delle Fosse ardeatine in via di Santo Spirito e a Largo Baccelli, una settimana dopo è incendiata la corona di fiori posata da Rutelli al mausoleo. La notte successiva è devastato il centro sociale Affabulazione di piazza Agrippa a Ostia: gli incursori si scatenano con i libri della biblioteca comunale ospitata dal centro. A Riccardo Mancini, torturato a via Tasso da Priebke e testimone d'accusa, giunge una lettera minatoria dopo l'udienza preliminare. Pochi dubbi sui responsabili della campagna pro Priebke: alle sei di mattina del 3 giugno una squadra tappezza le mura del tribunale militare di manifesti con l'immagine del giuramento di un S.S. e l'invocazione della libertà per Priebke; alle 10 si presentano per assistere all'udienza Boccacci e una decina di fedelissimi: prima dell'arrivo della polizia riescono a srotolare lo striscione «No sciacallaggio, giustizia giusta, Priebke libero» . Mentre gli ex di M.P. puntano su iniziative propagandistiche spettacolari - ma non disdegnano pestaggi e caccia al rosso, come nel caso dell'assalto durante le occupazioni di novembre 1995 al liceo «Russell» di via Tuscolana, nei pressi di Acca Larentia: un ferito grave e sei arrestati - qualcosa si muove anche sul terreno del piccolo terrorismo, sempre a sostegno della campagna pro Priebke: a gennaio un commando saccheggia e devasta la sede dell'Associazione familiari dei martiri caduti per la libertà della patria, ai primi di febbraio «i fasci» fanno esplodere una bomba carta notturna davanti alla sede dell'Associazione partigiani. «Siamo i fasci romani», telefona un ignoto
alla redazione centrale dell'ANSA, «Rivendichiamo l'attentato compiuto pochi minuti fa all'ANPI [...]. Seguiranno altri [...]. Brigata Benito Mussolini». I danni sono limitati: la rottura della vetrata del portoncino di ingresso e lo sfondamento di un tramezzo in cartongesso. Il 20 febbraio un «comando generale del Duce» depone un ordigno disinnescato davanti agli uffici di polizia giudiziaria a via Rasella e volantini alla memoria delle S.S. tirolesi uccise dai partigiani. Nelle settimane successive uno stillicidio di attentati contro sedi periferiche della sinistra: il 15 marzo tocca al P.D.S. di Torpignattara e a Rifondazione di Prati. Per la federazione comunista è il quarto episodio in pochi mesi. La settimana dopo tocca al comitato di quartiere dell'Alberone e alla sede comunista di via Sinuessa. Qualcuno rivendica a nome di Movimento politico ma è sconfessato da Boccacci. La polizia prende per buona quella dei «nuclei anticomunisti». La mobilitazione politica e il terrorismo minuto non interferiscono con l'ordinaria routine xenofoba e antisemita. Il 2 marzo due bambini ebrei, undici e dodici anni, sono malmenati all'Eur da 4 skin della Magliana, il 15 aprile un bengalese finisce all'ospedale dopo l'aggressione al Portonaccio di 5 giovanissimi (14-16 anni) in bomber, anfibi e teste rasate. Il processo Priebke costituisce uno straordinario catalizzatore di energie e un'occasione di mobilitazione permanente per le truppe sbandate dall'ala più xenofoba e antisemita dell'estrema destra romana (che non può essere automaticamente identificata con le disciolte truppe di M.P.) . La notte del 12 ottobre, a Colle Oppio, un gruppo di naziskin (quattro uomini e due donne) getta da un muraglione, a faccia in avanti, un marocchino, dopo averlo aggredito e preso a cinghiate: l'uomo era in compagnia di un amico, uscivano da un pub, l'altro riesce a scappare, lui finisce in rianimazione con fratture al capo alle costole, a un braccio. Il 30 novembre l'associazione Uomo e libertà fondata dal procuratore legale di Priebke Paolo Giachini apre le danze al teatro Manzoni. Il convegno mobilita gli intellettuali di area, Paolo Signorelli, Mario Consoli, Enzo Erra, Pietro Buscaroli, il figlio di Hess, Giano Accame, ma anche i giornalisti Massimo Fini e Mario Cervi, e i politici Mauro Mellini, Antonio Guidi, Ambrogio Viviani. Cervi, sentita l'introduzione, si dissocia in un breve intervento e se ne va tra i fischi. A metà dicembre è occupata Giurisprudenza, sulla qualificante parola d'ordine «Fuori i baroni ebrei dall'Università». Seguono scontri nella
notte con i compagni che si sono insediati alla presidenza di Lettere e lanciano un petardo sulle forze dell'ordine schierate per impedire il contatto tra le opposte bande. Le rispettive truppe erano state attratte da feste nelle facoltà occupate. Nel cuore della notte arriva il Soccorso rosso: deputati di Rifondazione ottengono dalla polizia l'impegno a non fermare nessuno e i compagni asserragliati a Lettere si ritirano, seguiti a breve distanza dai neofascisti. Proprio un anno prima, il 6 dicembre 1995, in altri scontri tra bande alla «Sapienza» erano stati i camerati a lanciare bombe carta sulla polizia. Giurisprudenza, tradizionale santuario nero, vede la destra divisa tra i moderati di Motu proprio, promotori dell'occupazione, e i radicali del Sindacato degli studenti, che ha reclutato tra ex di M.P. e di Meridiano zero, militanti della «Spina nel fianco», foglio di movimento dell'area avanguardista e di Acca Larentia, che aggrega ex-missini della sezione martire, fuoriusciti dalla Fiamma e naziskin. Il 23, il Solstizio di inverno è celebrato con un'affollata messa in onore di Priebke, sempre organizzata da Giachini, nella chiesa di Sant'Agata dei Goti. Per l'anziano don Dario Composta, 80 anni, revisionista radicale, l'ufficiale delle S.S. è «vittima delle angherie dei vincitori». Il 29 dicembre 1996, neonazisti profanano il cimitero ebraico a Prima Porta: 13 tombe sono devastate con cartelli, filo spinato e croci uncinate. Siamo ben lontani dall'orrore di Carpentras, nel sud della Francia, dove i neonazisti giungono a impalare la salma di un neonato, ma è l'episodio più grave degli ultimi anni. Sei i precedenti dall'esplosione dell'ondata xenofoba e antisemita, tre dei quali concentrati nell'arco di un mese, per i ben noti meccanismi emulativi suscitati dal barnum mediatico e di cui non sempre è certa la matrice politica: il 2 novembre 1992 numerose lapidi sono danneggiate e spezzate nel cimitero ebraico di Finale Emilia. Venti giorni dopo la polizia impedisce lo sfregio di tre tombe in un cimitero ebraico non utilizzato da vent'anni ma all'inizio di dicembre, per un episodio analogo, sono fermati due netturbini sospettati del tentativo fallito, mentre è arrestato dai carabinieri di Como il ventitreenne naziskin Vito Foligno: confessa di aver profanato il 28 novembre sette tombe nel cimitero ebraico cittadino. Ecco gli altri tre episodi: nell'ottobre 1992 a Sanremo (tombe profanate e imbrattate con le scritte: «Dieci, 100, 1000 ebrei al rogo», «Sei milioni sono pochi»), nel novembre 1993 (scritte «Juden Raus» al cimitero di Misinto a Milano) e nell'ottobre 1996 a San Cataldo di Modena (dove sono abbattute le lapidi di una cinquantina di
tombe di soldati morti nella Prima guerra mondiale, di cui tre ebrei). Più diffusa la cartografia delle scritte antigiudaiche: alla sinagoga di Livorno («Morte al rabbino»), a Vicenza, a Pordenone, a Padova, a Bassano del Grappa. A Prima Porta siamo in presenza di un raid organizzato: un tempietto è recintato col filo spinato e tra le due colonne centrali è appesa una svastica di legno dipinta d'oro. Nella terra inzuppata di nevischio piantano un cartello «Arbeit macht frei», poi nel fango, affianco a un mucchio di lapidi divelte a calci e a mazzate, conficcano altre tre croci uncinate. La comunità ebraica non ha dubbi: sono stati i naziskin. Come al solito tocca a Boccacci difendersi a mezzo stampa «Sono razzista e antisionista. Ma ho sempre attaccato i vivi a viso aperto. Anche noi faremo le nostre indagini. Se li prendiamo li lasciamo su una tomba» (7) . L'anniversario del massacro di Acca Larentia, il 7 gennaio, è l'occasione per più tradizionali scontri di piazza. Il corteo, mille persone, è indetto dalla Fiamma tricolore e dall'Associazione culturale «Acca Larentia», gli ex-missini della sezione guidati da Carlo Giannotta: tra gli striscioni anche un «Priebke libero». Si staccano un centinaio di incappucciati che puntano verso il P.D.S. dell'Alberone, la polizia resiste ed è guerriglia urbana, con tanto di camionette incendiate. Quattro poliziotti sono feriti con sassi. Segue rissa ad Acca Larentia: militanti rautiani contestano al grido di «rinnegati» i parlamentari di Alleanza nazionale Alemanno, genero di Rauti, Gramazio e Angelilli . Alla vigilia di Pasqua una dozzina di naziskin, alcuni già militanti di M.P., tra i venti e i venticinque anni, quasi tutti di Mentana, sono fermati a Frascati: volevano inscenare una manifestazione di solidarietà con Priebke, agli arresti domiciliari in un convento dei Castelli romani. Alla vigilia del 25 aprile - e della visita del presidente Scalfaro - le targhe alle Fosse ardeatine sono imbrattate con vernice. E' il modo dei camerati di salutare l'effettivo inizio - dopo tre udienze dedicate alle schermaglie procedurali - del processo contro Priebke e Hass nell'aula bunker di Rebibbia. L'anniversario della Liberazione 150 giovani, accompagnati da alcuni reduci di Salò, si recano a deporre una corona di fiori alla cappella del Verano dedicata ai caduti della Seconda guerra mondiale. La polizia impedisce l'impatto con un gruppo di autonomi di via dei Volsci. Lo stillicidio degli scontri e delle provocazioni continua. Il 6 giugno Boccacci è arrestato dagli agenti di polizia penitenziaria al
tribunale di piazzale Clodio, per violenza, resistenza e lesioni: insieme a due amici aveva tentato di salutare alcuni detenuti della banda del taglierino, che erano accompagnati verso le celle mentre i giudici si ritirano in camera di consiglio. La sede dei COBAS all'Appia Nuova subisce un attentato incendiario nella notte del 23 luglio. Poche ore prima i militanti del sindacato autonomo avevano staccato manifesti di Azione giovani in difesa di Priebke. La notte del 12 agosto nuovo raid alle Fosse ardeatine: due manichini sono impiccati a un'acacia all'ingresso del mausoleo, una provocazione rivendicata dai Fasci di azione rivoluzionaria, nucleo «Alessandro Pavolini», con una telefonata: «Andate davanti alle Fosse ardeatine, c'è un bel regalo per Bentivegna e la Capponi». Sui manichini, vestiti uno da uomo e l'altro da donna un biglietto a stampatello: «Bentivegna e Capponi: per gli sciacalli eroi, per il mondo e la storia infami stragisti. Onore ai martiri di via Rasella e delle Fosse ardeatine». La Brigata «Pavolini» aveva già rivendicato l'incendio di due corone di fiori, nell'aprile 1996, poste sotto la lapide di via Tassoni che ricorda l'eccidio nazista. Numerosi manifesti e volantini con la stessa sigla sono stati sequestrati ai componenti di una batteria della banda del taglierino, arrestati a dicembre per una serie di rapine in banca tra il maggio 1995 e il settembre del 1996: un gruppo misto di ex di M.P., «bori» e ultrà . Il militante più noto, Corrado Ovidi, ferito nell'assalto ebreo alla sede di M.P., era stato arrestato per il raid degli ultrà romanisti a Brescia guidato da Boccacci. Qualche mese dopo suo fratello Manuel è catturato per le rapine in banca con il taglierino, nelle cui attività si era già distinto un protagonista della trasferta lombarda, Massimiliano D'Alessandro, «er Polpetta». L'ultimo arresto, per entrambi, è nel settembre 1996: hanno appena rapinato la Banca di Roma al Flaminio. Nel corso della perquisizione, a casa dei due fratelli, sono trovati manifesti, da affiggere per l'8 settembre, inneggianti alla memoria all'ultimo segretario del P.N.F. La sfilza dei precedenti dei due, come del terzo complice, Claudio Corradetti, è assai composita e, al tempo stesso, impressionante. Corrado era stato arrestato in Germania nel 1991, per l'anniversario del suicidio di Hess, l'anno dopo a Roma dopo il pestaggio di uno studente del liceo «Mamiani», insieme a Franco Gagliardi, un naziskin in seguito accusato dell'omicidio di un bengalese, il 10 agosto 1993, a Grottaferrata. Manuel, dopo aver accumulato denunce per oltraggio, resistenza, danneggiamento,
apologia di fascismo e lesioni nei confronti di militanti di sinistra, è arrestato nel 1993 per violenza, lesioni e oltraggio a pubblico ufficiale al liceo «Augusto». Dopo l'arresto per una rapina con il taglierino a Pomezia, gli è interdetto l'accesso alle manifestazioni sportive. Dai ranghi della tifoseria ultrà proviene il terzo arrestato: Claudio «Drago» Corradetti, leader di Opposta fazione. Arrestato a Rimini nel 1993, insieme a cinque skin, per aver volontariamente rotto una gamba a un ragazzo, denunciato per rissa aggravata nel 1995 per una maxiscazzottata nell'autogrill di Montepulciano, dove casualmente si incrociano ultrà giallorossi e fiorentini, ancora arrestato nel 1996 per tentato omicidio dopo la partita Bologna-Verona . Ed è proprio il movimento ultrà l'altro luogo di riaggregazione dei naziskin, anche se forse è più semplice parlare di un gruppo umano polimorfo, le cui vicende si intrecciano tra violenza politica, devianza sociale e criminalità comune. Pochi giorni prima del fermo del leader dei naziskin per l'attacchinaggio pro Priebke, il p.m. di Brescia Paola De Martiis aveva concluso l'inchiesta per il raid squadristico al margine dell'incontro calcisticio Brescia-Roma del 20 novembre 1994, segnata da ben 19 arresti, chiedendo il rinvio a giudizio di «Boccacci più 26» per reati che comportano pene fino a un massimo di 15 anni e che vanno dall'apologia di fascismo alle lesioni gravissime e alla resistenza aggravata, dalla detenzione e dal porto d'arma all'attentato alla pubblica sicurezza. La maggior parte degli elementi di prova a carico degli ultrà è costituita da fotografie e riprese televisive, che l'accusa usa con criterio estensivo: ogni partecipante all'assalto è stato ritenuto ugualmente responsabile senza valutare il grado di effettiva partecipazione. Il saluto romano, gli inni cantati, lo schieramento a falange non appena la banda è scesa dal pullman costituiscono per il p.m. manifestazioni usuali del disciolto Partito fascista un'applicazione estensiva di questa valutazione giuridica porterebbe a denunciare ogni domenica alcune decine di migliaia di persone per violazione della legge "Scelba". L'intero comando della spedizione punitiva, programmata da mesi, è costituito da militanti neofascisti: con Maurizio Boccacci figurano Alfredo Quondamstefano, Corrado Ovidi, Paolo Consorti, Massimiliano D'Alessandro e Giuseppe Meloni. Quest'ultimo, con Luca Alberti, Armando Sagrestani (un altro candidato di Alleanza nazionale alle elezioni circoscrizionali, accusato di aver portato le armi a Brescia) e Daniele De Santis è accusato
dell'accoltellamento del vicequestore Selmin. Due di questi, Meloni e D'Alessandro, sono riconosciuti come leader di una «ciurma» ultrà, l'Opposta fazione, un centinaio di «duri e puri», slogan preferito «meno calcio e più calci». Meloni detto «Pinuccio la rana» ha trentun anni e un passato militante, ex-consigliere circoscrizionale del M.S.I. nel centro storico, supervotato ma costretto a dimettersi per i precedenti di violenza politica. Opposta fazione fa base nella sua pizzeria al Tiburtino, Mezzanotte e dintorni, da cui parte la spedizione punitiva, condotta da lui e Boccacci. Accusato di aver accoltellato Selmin nega e rivendica l'amicizia con il sottosegretario agli Interni Gasparri (che due anni prima aveva organizzato il convegno "Una patria chiamata curva"). A Radio Incontro Bruno Ripepi detto «il Comandante» il giorno dopo gli scontri di Brescia informa gli ultrà che «Pinuccio la rana» è stato ferito alla testa con 30 punti di sutura. Quando la magistratura allarga l'indagine ai rapporti tra società e capi ultrà, il centravanti Andrea Carnevale racconta che la sua presenza a Trigoria era abituale. Massimiliano D'Alessandro, detto «er Polpetta», ha venticinque anni ed è un ex di M.P. Tra i suoi precedenti una rissa allo stadio nel 1990 ma anche l'arresto nel 1994 per diverse rapine col taglierino a banche e uffici postali. Lo accusano di aver bastonato per primo Selmin. Nega di essere fascista e di avere partecipato agli scontri. Si difende: sono cardiopatico. Giuseppe Meloni quando si è sposato ha rinunciato alla militanza politica ma non alla leadership di Opposta fazione. Le prime condanne per il raid di Brescia arrivano nel marzo 1996: Armando Sagrestani (20 mesi), Alfonso Argentino (18 mesi) e Luigi Falchi (un anno) patteggiano la pena godendo di un sostanzioso sconto, visti i capi di imputazione (lesioni, resistenza, detenzione di armi ed esplosivo ma anche apologia di fascismo). Un mese dopo due giovanissimi tifosi calabresi della Juve sono accoltellati dopo la partita da quattro ultrà giallorossi, all'uscita della curva Nord . La repressione non piega gli irriducibili giallorossi che - del tutto indifferenti alle ragioni del tifo anche più esasperato - si distinguono nei festeggiamenti per la promozione del Bologna partecipando a un raid nel capoluogo emiliano concluso con l'accoltellamento di un algerino e l'aggressione di altri otto extracomunitari e di un italiano. Sono 11 i bolognesi arrestati per tentato omicidio e lesioni aggravate da motivi razzisti. Allo stadio spicca uno striscione giallorosso, marchiato con un simbolo di destra: «Una grande amicizia, un grande ritorno: onore».
Dopo la partita si scatena la caccia al nero. La vittima più grave, Jachine Sabi, ventisei anni, aveva la bandiera rossoblù addosso: un rene bucato da una coltellata, la faccia gonfia di botte. L'esistenza di un piano preordinato è evidente: le aggressioni ai danni degli extracomunitari si consumano in quattro distinti punti della città. L'allenatore del Bologna Ulivieri, fama di rosso, un milione donato ai carabinieri per risarcire un'auto sfasciata dagli ultrà, sbotta: «Meglio chiudere la curva». A fine luglio scattano le manette per quattro ultrà di Opposta fazione: con Corradetti sono arrestati il ventitreenne figlio di un ingegnere con lussuosissima casa, «Sudo», un disoccupato di 25 anni, «Robertino», barista di 28 anni. Nel corso delle perquisizioni sono sequestrati fumogeni, bombe carte e pallottole calibro 9. I quattro erano già stati coinvolti nelle indagini sul raid di Brescia e membri di Opposta fazione erano stati identificati dalla polizia in occasione della partita Bologna-Brescia, a conferma di un'organica alleanza con i Mods emiliani, altra banda di ultrà fascisteggianti, e di un conto aperto con i bresciani . La curva bolognese è un'altra tifoseria con una spiccata attitudine violenta: quando alla tradizionale carica data dai derby si aggiunge l'odio politico per gli ultrà rivali, la miscela esplode. E' il caso dei rapporti con i modenesi, uno dei pochi club in cui il tifo è ancora egemonizzato dagli «autonomi». Gravissimi gli scontri nel derby dell'aprile 1995, in serie C: gli ultrà calano su Modena in assetto di guerra. Alle 11 i Mods assaltano il centro sociale 22 aprile, nei pressi dello stadio: una rissa che coinvolge 100 persone ed è già finita quando arriva la polizia .«Cretini, fascisti e cretini», commentano i giovani autonomi: «Tutte le volte la stessa cosa. I bolognesi vengono prima per fare a botte. Ma stamattina sono arrivati con le spranghe e i coltelli. Ci hanno sparato con le pistole lanciarazzi, tirato i sassi e le pile. Che cosa volessero non si sa. Il Bologna è oltretutto già in B» (8). I modenesi non si limitano al lamento ma replicano attaccando il corteo dei bolognesi arrivati con il treno delle 15, nonostante le forze dell'ordine abbiano mobilitato un uomo per ogni dieci spettatori (240 contro 2500, compresi vecchi e bambini: è come se per il derby romano si schierassero 7-8mila agenti). Bilancio finale: due poliziotti feriti, 5 ultrà finiti in ospedale e 8 arrestati (tre minorenni denunciati) per la solita sfilza di reati da scontro di piazza. Per tutti scatta il divieto per due anni di frequentare gli stadi .
Lungo è anche il contenzioso con la tifoseria fiorentina, considerata «rossa», da quando un lancio di molotov contro il treno, all'ingresso della stazione di Firenze, ridusse in fin di vita un quattordicenne bolognese, Ivan Dell'Olio, nel giugno 1989. Nell'ottobre 1996 il presidente del Bologna, Giuseppe Gazzoni Frasca, confortato dal presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, tifoso rossoblù, protesta con la polizia: come mai nello stadio blindato gli ultrà viola in trasferta hanno potuto introdurre e lanciare una decina di razzi contro la curva rossoblù dopo il gol di Batistuta? Il questore parla di razzi folcloristici ma una dozzina di spettatori finisce in ospedale ferita da oggetti lanciati e alcuni tifosi fiorentini sono denunciati per porto di mazze e coltelli . Nel giugno 1995 il collettivo autonomo viola Valdarno, 17 ultrà tra i venti e i ventinove anni, operai e disoccupati, sono denunciati per associazione a delinquere. Il disegno criminoso unitario si era manifestato in una lunga catena di episodi: incidenti fuori e dentro lo stadio, l'incendio dell'auto di un calciatore, la lettera di condanna a morte a un ultrà juventino, una rissa selvaggia nel grill di Montepulciano, in 50 contro una trentina di romanisti. I pullman viaggiavano su corsie opposte e il luogo dello scontro è la galleria prensile che congiunge le due stazioni di servizio. La maxirissa è registrata dall'impianto di sicurezza. Sei i romanisti leggermente feriti, fermati tutti i partecipanti: e per i tifosi viola salta la trasferta a Foggia. Nel marzo 1996 il p.m. Fleury ordina un'altra serie di perquisizioni nelle sedi di Collettivo viola e di Viola korps. A un ultrà di San Giovanni Valdarno è sequestrato un machete. La fama di sinistra non preclude una forte pulsione securitaria: nel marzo 1996 due spacciatori sorpresi in servizio sotto la curva, alla fine di Fiorentina-Sampdoria, sono pestati a sangue. Uno, italiano, aveva appena scontato il divieto di accesso allo stadio: col socio libanese chiede soccorso alle volanti ma i giustizieri circondano i poliziotti per continuare il pestaggio. L'attitudine violenta dei tifosi viola sarà punita con cattiveria dagli ultrà della Salernitana, nell'ottobre 1998: inferociti dai pestaggi subiti a Firenze dopo una partita senza storia (finita 4 a 0 per la Fiorentina), approfittano di una clamorosa svista regolamentare per vendicarsi. A brevissima distanza dagli incidenti, infatti, è previsto che la Fiorentina, campo squalificato per le intemperanze dei tifosi, giochi la partita di ritorno di Coppa Uefa a Salerno. La sede non può essere cambiata
nonostante gli evidenti rischi di ordine pubblico. L'esito agonistico è scontato: la squadra toscana ha già vinto in Svizzera e conduce alla fine del primo tempo ma il lancio dal settore dei tifosi locali di una bomba carta contro il quarto uomo determina la perdita della partita a tavolino e la beffarda eliminazione dei viola, puniti da un'interpretazione ottusamente letterale del principio della responsabilità oggettiva del club ospitante. La polizia, sotto accusa per gli insufficienti controlli, individua dai filmati 5 presunti responsabili, entrati allo stadio forzando il varco disabili, e denuncia un parcheggiatore abusivo di ventiquattro anni, senza precedenti penali. Il questore si giustifica: avevamo disposto gli agenti per scongiurare risse tra ultrà (e infatti ai viola erano stati sequestrati coltelli, bastoni e uno striscione offensivo - «Ma che gemellaggio, terroni di merda» - e non sono mancate scaramucce, con 4 salernitani feriti). Pochi giorni dopo, riconosciuto in fotografia, è arrestato un liceale diciottenne: si difende sostenendo che lui non è mancino, come il lanciatore, e che l'ordigno è stato scagliato dall'anello superiore della tribuna, cinque o sei metri più in alto di dove si trovava con i suoi amici . E sono proprio quattro ragazzi salernitani le ultime vittime della follia che accompagna il calcio: morti carbonizzati, all'alba di lunedì 24 maggio 1999, nel rogo del vagone del treno che li riporta a Salerno dopo la sconfitta di Piacenza, che ha deciso la retrocessione in serie B. Probabilmente nelle menti di qualcuno c'è un orrido piano: incendiare tutto il treno a pochi metri dalla stazione di Salerno, per emulare gli ultrà laziali, autori di un simile attentato una settimana prima, nella stazione di Campo di Marte a Firenze. C'erano già stati morti di trasferta in circostanze analoghe, due ragazzini, ai primordi del movimento ultrà. Entrambi vittime di giochi pericolosi, per alleviare la noia del ritorno, quando l'adrenalina e le «sostanze» per tenersi su sono finite: il 21 marzo 1982 nei pressi di Civita Castellana un petardo aveva causato l'incendio di un vagone del treno Milano-Roma carico di tifosi di ritorno dalla partita Bologna-Roma. Nell'incendio Andrea Vitone, quattordici anni, muore per soffocamento. Il 13 aprile 1986 ancora un tifoso della Roma, il sedicenne Paolo Saroli è carbonizzato nell'incendio di un vagone del treno Pisa-Roma, anche questo provocato dall'esplosione di un petardo. Alla stazione di Piacenza c'è ressa. La polizia riesce a dirottare 200 esagitati su un treno verso Sud, gli altri però restano sui marciapiedi, guardati a vista dagli agenti. E'
allestito un convoglio speciale con undici vagoni. Salgono tutti senza biglietto e molti sono costretti a viaggiare nel corridoio. C'è solo una dozzina di poliziotti a fare da scorta armata. Dagli zaini iniziano a spuntare pietre, razzi, qualche spinello. L'età media è sui diciotto anni, ma c'è chi non raggiunge i sedici. Tra i molti studenti c'è anche qualcuno che lavora già. A Bologna sono aggiunti altri cinque vagoni per evitare il sovraffollamento ma la ciurma ormai è scatenata e semina il terrore in quasi tutte le tappe. Pietre contro i treni in transito, stazioni (come quelle di Firenze e Prato) devastate dai teppisti. Ad ogni fermata scattano i controlli della Polfer, ma si continua così per tutta la notte. All'alba si contano i danni e si arriva in Campania. Ancora scaramucce a Napoli, nella stazione dei Campi Flegrei, e quindi a Torre Annunziata. Poi l'arrivo a Nocera Inferiore, intorno alle 6,50. Qui succede di tutto, con due donne che vengono ferite mentre si trovano a bordo delle proprie auto, ferme a un passaggio a livello. Volano pietre, bottiglie e anche qualche sciacquone, divelto dai w.c. delle carrozze. I poliziotti tentano di far scendere dal treno i più facinorosi per identificarli ma ogni tentativo di stanarli è impossibile. Dopo un'ora di nuovo tutti a bordo, si entra nel tunnel della morte. Dalla quinta carrozza si sprigiona una fiamma. Il fumo acre avvolge tutto il convoglio, c'è chi tira il freno d'emergenza. Il macchinista capisce il dramma e riesce a portare il treno fuori dalla galleria. Ma per Simone Vitale, di ventun'anni, giocatore della squadra di A2 di pallanuoto Rari Nantes Salerno, V. L. di quindici anni, Giuseppe Diodato di ventitré anni e C. A., sedici anni, è già troppo tardi. I loro corpi sono già carbonizzati, li ha soffocati il fumo mentre dormivano rannicchiati in uno scompartimento zeppo di gente. Scatta l'allarme lungo tutta la linea, le fiamme sono alte cinque metri: le lingue di fuoco avvolgono i 1500 ragazzi che fuggono, arrancando tra i binari, tendendo mani verso qualcuno che non c'è . Scatta la caccia ai responsabili: l'accusa è di omicidio. L'inchiesta si risolve in una decina di giorni. Sarà una maglietta nera, una Nike, a tradire Raffaele Grillo, l'incendiario che girava come un forsennato per la carrozza numero cinque. Lo incastrano alcuni testimoni oculari, come il teste Alfa, uno dei nove feriti nel vagone della morte, o S. N., altro giovane salernitano. La maglietta nera è trovata dagli inquirenti a casa di Grillo il giorno dell'arresto. Un indumento cercato dagli stessi investigatori: gli incendiari erano stati visti con abbigliamento sportivo.
Sono quattro in tutto gli arrestati: Grillo, Massimo Iannone e due minorenni, L. M. e V. N. Le indagini partono da una videocassetta della polizia scientifica: le forze dell'ordine, infatti, aspettavano il convoglio ferroviario alla stazione con tanto di videocamera per riprendere e identificare i tifosi più facinorosi. Utilissima la deposizione di S. N. che ha dichiarato di aver visto «personalmente un ragazzo appiccare il fuoco prima nel bagno e poi nella cabina al centro del vagone del treno», fornendo anche un identikit di Raffaele Grillo: «un tipo biondino, con i capelli rasati e la maglietta nera». S. N. era sul quinto vagone, nella stessa cabina dove erano altri ragazzi feriti, Andrea, Oreste e Gianluca. Lo stesso S. N. in una dichiarazione successiva, presentatosi spontaneamente, racconta una storia particolare: recatosi in ospedale a trovare il testimone Alfa (quello che accusa i quattro), si ritrova con lui su tutti i passaggi avvenuti in quei drammatici momenti. I due ragazzi però riferiscono ai giudici due versioni totalmente differenti. Da una parte S. N. dice di aver visto soltanto due ragazzi appiccare il fuoco, vale a dire Raffaele Grillo e Giuseppe Diodato, una delle quattro vittime. Dall'altra c'è Alfa che dice di conoscere personalmente tre dei quattro arrestati (e dell'ultimo, V. N., descrive un particolare riscontrato, 4 o 5 nei in faccia) e di averli visti nel corridoio della carrozza «con una matassa di carte e un accendino tenuto da Raffaele mentre gli altri reggevano pezzi di spugna e altro materiale infiammabile». Il bagno incendiato è quello della carrozza successiva alla sua: non ha visto direttamente il gruppo appiccare il fuoco, ma ne ha percepito distintamente le presenza e l'azione mentre tornano sui propri passi per appiccare il fuoco nella parte centrale del vagone. Raffaele Grillo dà ogni colpa a Giuseppe Diodato, riferendo che erano presenti anche i due minorenni, cioè tre delle quattro vittime. Massimo Iannone, da parte sua, dice di essere rimasto da Nocera Inferiore a Salerno nel quarto vagone e di essersi reso conto delle fiamme affacciandosi dal finestrino. Dichiarazioni smentite dai due minorenni. V. N. ha riferito di trovarsi nella terza carrozza: «Tra il mio vagone e quello incendiato ce n'era un altro» . La violenza degli ultrà e la leadership esercitata in numerose tifoserie da militanti neofascisti non sono riconducibili a un disegno strategico o alla ricerca a tavolino di una massa di manovra. Sono autentici tifosi romanisti e leader riconosciuti dei Feddayn due ex-leader del FUAN come Guido Zappavigna e Mario Corsi che si sono fatti anni di carcere
per i NAR (il primo prosciolto in istruttoria, il secondo condannato per reati minori e assolto dall'accusa di omicidio del militante del P.C.I. Ivo Zini). Nell'autunno 1996 la magistratura romana presenta il conto a Corsi e alla sua banda. Una prima raffica di 7 arresti scatta a fine settembre per le pressioni e le violenze esercitate per assicurarsi ingressi di favore allo stadio e trasferte pagate, sotto la minaccia di scatenare disordini in curva e danneggiare così la società. Un mese dopo per 4 leader ultrà scatta un nuovo arresto (domiciliare), per i ricatti, le botte e le minacce ai cronisti del calcio, costretti talvolta a firmare articoli sotto falso nome per paura di rappresaglie: Corsi, Fabrizio «er Mortadella» Carroccia, 26 anni, Giuseppe «Peppone» De Vivo, 36 anni, leader di Frangia ostile, già sospettato per il raid di Brescia, Fabio «er Mafia» Mazzei, 33 anni. Guglielmo «Willy» Criserà, già imputato, assolto, nel processo NAR 2, in libertà vigilata, si vede interdetto per un anno l'accesso alle manifestazioni sportive . Gli episodi contestati sono numerosi: il blitz a Tele Roma Europa nel gennaio 1993, dove la presenza in video di De Vivo e Criserà sarebbe stata imposta minacciando di sfasciare tutto; telefonate minatorie alle redazioni di Radio Incontro, Radio Radio, Talk Radio e Spazio Aperto; un'irruzione nel gennaio 1996 a Radio Radio per imporre la messa in onda di un comunicato registrato con pesanti accuse a un cronista de «Il Messaggero» (Corsi, Carroccia e Criserà); il lancio in aria per tre volte di un radiocronista tra insulti, sputi, pugni e slogan fascisti durante il derby di febbraio 1996; l'ordine agli addetti di aprire i cancelli della tribuna Monte Mario durante Roma-Torino per fare entrare gratis una pattuglia di una ventina di ultrà (Mazzei); un capannello minaccioso in tribuna stampa il 12 maggio 1996, dove, nonostante la vittoria sull'Inter, «er Mortadella» riempie di improperi il presidente Sensi; gli insulti contro un giornalista dell'«Unità» (aveva fatto un'inchiesta sui giri di hashish e di prostituzione minorile in curva (9), nella zona controllata dai Boys, che gli dedicano uno striscione: «Tua sorella è qui con noi»). Il giornalista aveva raccontato così l'approccio con una delle ragazzine: «giovani, giovanissime, potrebbero avere 15-16 anni [...] sono vestite alla moda, il look è quello della ragazze che frequentano lo stadio, due sono truccatissime, la terza per niente, esitiamo, a metà delle scale. Troppo. Perché quasi subito appare un gigante con la faccia da bambino (avrà al massimo 18 anni, proprio a esagerare) ma i modi da duro, alla vita è cinto da una bandiera della Roma arrotolata: con lui c'è
un piccoletto avvolto in una sciarpa giallorossa e i capelli a spazzola. 'Che caz... fai? Se voi anna' colle ragazzine, devi pagà, scegli chi ti piace, caccia i soldi e te le porti ar cesso. Sennò vaff... e gira al largo'. L'invito eloquente è del minaccioso piccoletto. L'altro resta lì in silenzio» (10). Ad ogni modo, il cronista aveva avuto il tempo di contare, prima dell'incidente, una decina di «marchette» in mezz'ora (11). Le radio dei tifosi smentiscono la DIGOS: per l'editore di Radio Radio gli ultrà chiesero di partecipare a un dibattito e lo ottennero pacificamente, sulla stessa linea Tele Roma Europa: anzi, il conduttore ebbe persino il premio «Cuore di curva» . In effetti, va detto, l'intera inchiesta sembra essere basata su prove piuttosto labili. E per Mario Corsi la storia non sembra finire mai. Nonostante tutte le evidenze giudiziarie, nell'inverno del 2000 il consigliere comunale milanese di Rifondazione, Umberto Gay, ci riprova: lui lo sa, e basta, che «Marione» è l'assassino di Fausto e «Iaio», o quanto meno sa chi li ha ammazzati. Corsi si vede costretto a querelarlo . Dalla curva nerazzurra di San Siro, dai Boys SAN, proviene il gruppo dirigente di Azione skinhead, nata come organizzazione dalla fusione, alla fine degli anni Ottanta, tra una sparuta pattuglia di fedelissimi dello stile skin, sopravvissuti a una decennale selezione naturale, e le truppe fresche degli ultrà. Le fedine penali e le vicende dei più facinorosi permettono di individuare una vasta gamma di nemici ma anche esiti umani assai variegati. Paolo Coliva, detto «l'Armiere», è arrestato nel marzo 1990 con Massimiliano Bergomi e un altro skin per il pestaggio di due extracomunitari a Varese. Nove mesi dopo i primi due tornano in galera per aver accoltellato durante un attacchinaggio un «leoncavallino». Si fanno più di un anno di carcere e all'uscita si allontanano dal giro. Franco Caravita, altro leader storico dei Boys, rifiuta la scelta neofascista: inquisito nel 1983 per l'accoltellamento di un tifoso austriaco in un incontro di Coppa, al convegno degli ultrà dopo l'uccisione del tifoso genoano «Spagna» a Marassi è contestato per le sue posizioni pacifiste. Garante dell'armistizio che dal 1983 ha assicurato la fine delle violenze nel derby, ha finito per mettersi in affari con l'amico nemico rossonero, Giancarlo Capelli, leader delle Brigate: per anni gestiscono in società la Bottega del tifo. Erano skin duri e puri il manipolo di interisti responsabili della morte di un tifoso ascolano nel novembre 1988, Nazareno Filippini, ucciso da un calcio
alla nuca. All'epoca dei fatti la stampa dà gran risalto alla figura imponente di «Metallica», muscoli ipertrofici e testa pelata, considerato il capo della banda. Poi, con l'ingrossarsi del fascicolo di polizia, ha preso rilievo la figura del più giovane del commando. «Nino» Ceccarelli, nato a Pescara nel 1969, cresciuto a Quarto Oggiaro. Primo arresto a diciannove anni, a Como, per armi improprie. Incarcerato per l'omicidio di Ascoli, se la cava con una condanna per rissa. Leader dei Viking, un'altra banda di estrema destra, «Nino» manifesta un temperamento violento anche fuori degli stadi. Nel febbraio 1990 è arrestato per il tentato omicidio di un «pusher» libanese di hascish: gli ha bucato un polmone. Nel dicembre 1994 è lui ad essere accoltellato fuori una discoteca. Tre mesi dopo, il 5 marzo, è arrestato con due coltelli nei pressi dei pullman dei tifosi juventini a San Siro: qualcuno vede la lama e chiama la polizia. Gli era scaduto da poco il divieto di accesso allo stadio. Nel novembre 1997, mentre è già detenuto per altri reati, gli arriva un ordine di cattura per lo spaccio di hashish sulle gradinate di San Siro. A tirare le fila sarebbe un leader storico (ha quarantacinque anni) degli ultrà, Vittorio Boiocchi, che per il semplice fatto di essere stato arrestato nel quadro di un blitz antindrangheta è promosso dalla stampa al rango di boss. Al suo servizio sarebbero stati altri ultrà: «Metallica», ovvero Marcello Ferrazzi, e un altro dirigente dei Boys, Mario Serafini, ventotto anni, titolare di un'agenzia di servizi di sicurezza per manifestazioni sportive e artistiche. A casa di Cristian Scalari, ventidue anni, di Cinisello Balsamo, la polizia trova 7 chili di hashish e un chilo e un quarto di marijuana. Secondo un pentito, l'organizzazione riforniva di cocaina numerosi locali notturni: gli altri tre arrestati nel blitz, non coinvolti nel giro ultrà, avrebbero curato questo settore, smerciando almeno 3 chili di polvere. Non è il primo caso: nel marzo 1993 un ultrà bresciano è arrestato per spaccio allo stadio, nel gennaio 1994 la polizia trova un chilo di hashish in un bar ritrovo delle Brigate rossonere, nel novembre 1994 lo scandalo delle «marchette» e dello spaccio nella curva dell'Olimpico. In questo caso, però, dopo due anni di custodia cautelare, gli ultrà interisti sono tutti assolti . Anche tra i tifosi juventini forte è la componente apertamente fascista: i Drughi (i teppisti di "Arancia meccanica") si sciolgono per questioni di "merchandising" e sono ben presto rimpiazzati dai Fighters, con tanto di marchio commerciale registrato. Due milanesi ultrà al seguito della
squadra sono condannati a 4 mesi senza condizionale per il pestaggio, avvenuto il 17 maggio 1990, di due africani che telefonavano alla stazione di Genova Principe: il pretore concede la pena alternativa di 60 giorni di lavoro in una comunità di accoglienza della Caritas, un intelligente contrappasso. Anche i Viking vanno al Delle Alpi con le celtiche: nonostante gli striscioni contro i giornalisti in curva, i leader viaggiano gratis sull'aereo sociale e in passato sono stati assunti per il servizio d'ordine allo stadio . Una curva tradizionalmente «nera» è quella di Verona. Nel 1986 l'intero gruppo dirigente delle Brigate gialloblù - quasi tutti militanti del Fronte - è denunciato per associazione a delinquere: è il primo caso. Saranno condannati in dodici nel 1990 e in vista del processo d'Appello, nel novembre 1991, si autosciolgono: da allora non esistono più gruppi organizzati. Tra i leader storici della curva c'è il giovanissimo deputato Nicola Pasetto (che già dai banchi del consiglio comunale si era fatto onore lanciando topi contro il sindaco) ma anche uno degli animatori dei raduni skin di "Ritorno a Camelot". Nella primavera 1995 per violazione della legge "Mancino" sono perquisiti una ventina di militanti e sono arrestati 7 dirigenti del Veneto fronte skinhead. Tra questi Alessandro Castorina, venticinque anni, titolare di una boutique molto "chic" in centro, Francesco Guglielmo Mancini, trenta anni, di San Bonifacio, fissato di bomber e tuta mimetica ma iscritto modello del CAI, Paolo Rinaldi, leader degli skin veronesi. I principali capi di imputazione: gli striscioni neonazisti durante la partita Italia-Uruguay, nel 1989, e una cena conviviale per il centenario della nascita di Hitler (il 18 aprile dello stesso anno). Il razzismo la curva gialloblù lo profonde a piene mani ogni volta che il Verona ospita il Napoli. Stanchi di insulti e di appelli al Vesuvio a risvegliarsi, gli ultrà azzurri risolvono la partita con uno striscione poetico: «Giulietta è una zoccola». Nel maggio 1996 a finire agli arresti (domiciliari) è un trevigiano di ventinove anni, reduce dalla candidatura per la Fiamma alle elezioni politiche, precedenti penali per oltraggio, danneggiamenti e lesioni. Insieme ad altri ultrà del Verona, tra i quali un ventenne, anche lui arrestato, è accusato di aver impiccato sugli spalti - in occasione del derby col Chievo, il 28 aprile - un manichino vestito da calciatore e col volto dipinto di nero, con un eloquente cartello appeso al collo: «Negro go away». Non gli è servito dissociarsi dall'azione con i giornalisti: «Una goliardata, ma se fosse serio sarebbe un
atteggiamento da condannare» (12). Quel giorno in curva, tra le altre, spiccava la sciarpa gialloblù del sindaco, Manuela Sironi, di Forza Italia. Si difenderà: «Se mi fossi accorta di quelle scritte non sarei entrata e avrei ordinato di toglierle. Sono indignata perché per quattro idioti si sporca l'immagine della città» (13) . Dopo gli insulti in vari stadi a Ince, Desailly e Winter, l'episodio più grave di razzismo è un avvertimento alla società che aveva resa nota l'intenzione di acquistare un "coloured" olandese, Ferrier. Per l'occasione gli ultrà si erano bardati con cappucci e mantelli bianchi, a mo' del Ku Klux Klan. Nelle perquisizioni di rito è recuperato il solito armamentario: bandiere naziste, svastiche, simboli delle S.S., un coltello e una bomboletta di gas paralizzante. A ottobre ancora manette per i naziskin, per due aggressioni, una nei pressi dello stadio, nell'agosto 1995, l'altra in un bar cittadino, nel luglio 1996: tra gli arrestati ci sono ancora Mancini e Castorina. Il gip contesta la violazione del decreto "Mancino" sull'odio razziale ma si tratta di un regolamento di conti. I due sono condannati a un anno (un altro imputato, incensurato, se la cava con 10 mesi) per aver aggredito due volte un fuoriuscito dal gruppo naziskin veronese, e sua moglie, per ritorsioni dovute a disaccordi interni all'organizzazione . In molte città gli ultrà neofascisti alternano violenze da stadio e violenze politiche. Da Bari, dove un imbianchino di vent'anni, già interdetto dallo stadio per un anno, è denunciato per lesioni e favoreggiamento nel pestaggio, nel gennaio del 1995 alla Taverna del Maltese, un ritrovo di sinistra, a Torino, dove un minorenne già denunciato per gli scontri allo stadio, è accusato per un assalto degli skin contro una scuola occupata, nell'autunno 1994. A Roma la tifoseria tradizionalmente «nera» era quella della Lazio, che non esita a contestare come calciatore il fuoriclasse olandese Winter perché è «negro» (in realtà delle Indie occidentali, come Gullit o Rijkaard) ed «ebreo» (ha un nome biblico: Aaron). Le ormai comuni simpatie neofasciste non attenuano i toni in occasione del derby. Il 20 febbraio 1996 i romanisti attaccano con uno striscione: «Avete i colori degli ebrei»; la risposta è pronta: «e voi la puzza». Significativo è l'elenco degli ultrà biancazzurri arrestati il 19 dicembre 1994 per gli scontri del derby: Roberto Amico ha venticinque anni e precedenti vari per violenza e reati contro il patrimonio, politici e comuni; Massimiliano Butteroni, ventiquattro anni, già denunciato per rapine, oltraggio e
violenza a pubblico ufficiale, simpatizzante neofascista. Tre mesi dopo è di nuovo arrestato: ha accoltellato alle natiche 4 soldati prima della partita con la Juventus. Gli era stato vietato di uscire di casa la domenica pomeriggio ma la Coppa Italia si gioca il mercoledì sera... Tra gli altri arrestati - un poliziotto ventitreenne in servizio alla squadra tecnica della questura e un ultrà duro e puro (solo precedenti da stadio) - spicca il nome di Marco Fanelli, ventun anni, precedenti vari per rissa, lesioni e violenze in incontri sportivi e militante di M.P. Quattro ultrà di Latina, tre ventenni e uno di trentadue anni sono arrestati nello stesso mese per spaccio di stupefacenti. A casa sono sequestrate foto in cui sono immortalati mentre fanno il saluto romano in curva Nord. Le accuse: associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, ricettazione e porto d'arma, resistenza e false generalità, aggravata da finalità politiche e razziali. A casa di uno dei quattro sono sequestrati oggetti e simboli neonazisti e documenti di M.P. e Meridiano zero. Dallo scantinato di via Domodossola alla curva Nord al marciapiede di una banca di periferia si consuma la tragedia del trasteverino Claudio Marsili, trentadue anni, leader degli Irriducibili. Una sfilza di precedenti penali (risse, oltraggi, detenzione e spaccio di droga, reati vari contro il patrimonio) e politici (un arresto in un covo di naziskin tra svastiche, eroina e croci celtiche). E' ucciso venerdì 11 gennaio 1998 dalla guardia giurata di una filiale della Cariplo. La domenica in curva Nord spunta uno striscione enorme: «Claudio per sempre nei nostri cuori». Dal giorno dopo, come già per «Kapplerino», comincia il pellegrinaggio militante, con le scritte che invocano vendetta («Sangue chiama sangue», «Metronotte assassino», «Claudio vive»), i riti sul luogo della morte, le minacce e gli insulti al collega dell'«infame». Infine il funerale: teso, commosso e aperto da uno striscione ancora più duro, «Tre spari infami ci hanno tolto un amico» . La tragedia di Genova, il 29 gennaio 1995 - l'uccisione dell'ultrà rossoblù Vincenzo «Spagna» Spagnolo, militante del centro sociale Zapata - fa giustizia di tanta facile sociologia della miseria e delle semplicistiche assimilazioni tra violenza degli ultrà e neofascismo militante. Il capo della banda, le Brigate rossonere 2 di cui faceva parte il giovanissimo assassino, Simone Barbaglia, è Carlo Giacominelli, trentun anni e una laurea in Economia e commercio, detto il «Chirurgo» per la precisione negli accoltellamenti al gluteo. Comincia nelle Brigate rossonere, notoriamente di sinistra. E' pubblicamente schiaffeggiato per
un ammanco di cassa. «Vanta» un arresto a Perugia nel 1983 per un accoltellamento e poi è coinvolto in una sparatoria per motivi di traffico. Nell'estate 1994 guida la scissione delle Brigate. Ai giudici si dichiara leghista. Alcuni testimoni lo hanno visto in prima linea, altri lo avrebbero sentito minacciare Barbaglia: guai a te se fai il mio nome. Anche per Simone non c'è nulla che autorizzi il cortocircuito ultrà uguale fascisti. Nessun precedente politico, nessun riferimento iconografico o di look. La sua microbanda è nota come il gruppo del Barbour, il costoso giaccone griffato che è un must nei giri giovanili da discoteca. Un gruppo di pischelli che era andato a Genova armato di coltelli per guadagnare punti nel branco: così Simone finisce per ammazzare «Spagna» per paura, per inettitudine. Nell'assalto il giovane milanista si trova in prima fila, sguaina il coltello ma non lo usa e si limita a colpire con un pugno l'avversario che indietreggia terrorizzato. Parte la controcarica dei genoani e il gruppo dei milanisti si ritira. Simone è attardato e tira di nuovo fuori il coltello ma il militante autonomo non si fa spaventare e tenta di disarmare Simone, che lo colpisce allo stomaco, uccidendolo. Racconterà ai giudici: «A quel punto potevo fare due cose: o continuare a scappare col mio coltello verso la curva sud, come stavano facendo molti altri del gruppo, oppure fermarmi anch'io vicino a Carlo e tirare nuovamente fuori il coltello. L'idea di farmi vedere da Carlo scappare e di dimostrargli che non avevo abbastanza coraggio per imitarlo mi era insopportabile, sarebbe stato umiliante per me» (14). Le indagini partono a vasto raggio, ma dopo una decina di arresti il cerino acceso resta in mano al solo Simone, scaricato subito dai compagni di tifo. Trenta dei 34 imputati per rissa al processo chiedono il patteggiamento. Simone in primo grado se la cava con una condanna a 11 anni di carcere - e la concessione degli arresti domiciliari dopo 17 mesi di carcere - ma in Appello la Corte riconosce l'aggravante del futile motivo e rimanda indietro il processo. Nel secondo processo il p.m. nega ancora l'esistenza dei futili motivi ma la corte è di diverso avviso e così nel luglio 1999 lo condanna a 16 anni e mezzo, perché non applica lo sconto previsto dal rito abbreviato ma soltanto le attenuanti generiche prevalenti . Troppo scarsi sono gli indizi per classificare le Brigate rossonere 2 come una banda fascista: non basta certo il grido «Boia chi molla» lanciato all'inizio della carica contro gli ultrà del Genoa caduti
nell'imboscata. O il nome di battaglia del braccio destro del «Chirurgo», Massimo Elice, alias Olaf, un altro figlio della buona borghesia del ponente savonese, un agente di commercio che la domenica smette il doppiopetto e si diletta con il bastone animato. Un nome da vichingo, che evoca la mitologia nordica tanto cara ai picchiatori neri, adusi a caricare impugnando il martello e invocando Odino. Certo i leader trentenni, Giacominelli, Elice, il pavese Pierluigi «Gigi» Dozio, coltivano la violenza all'interno del gruppo e il raid è stato programmato in una riunione in birreria: ma lo stesso p.m., dopo aver accusato Giacominelli di aver istigato l'omicidio, fermando il succubo Barbaglia che scappava e spingendolo con il coltello sguainato contro il genoano che avanzava, arriva alla conclusione che solo l'aggressione era premeditata, non l'omicidio, e quindi i capi della banda devono rispondere di rissa aggravata. E possono chiedere il patteggiamento perché, avendo accettato di concorrere al risarcimento, 100 milioni, hanno dimostrato ravvedimento. Ma la famiglia Spagnolo non ci sta e accusa: hanno trattato al ribasso, pensano di cavarsela con 10 milioni a testa. E l'opposizione del p.m. fa saltare il disegno difensivo: Dozio, un precedente per tentato omicidio, ed Elice, che deve rispondere anche di detenzione d'arma, sono condannati a 2 anni e 2 mesi . La verità dolorosa è che nella catastrofe dell'umano degli anni Novanta certe curve di stadio come certe piazze sono diventate i catalizzatori di una violenza sociale profonda che solo occasionalmente, e talvolta casualmente, finisce per assumere propriamente i caratteri della violenza fascista. Una violenza che sembra comunque tendenzialmente in calo nella prima parte del campionato successivo: in quattro mesi sono solo 50 gli arrestati e 302 i feriti (189 esponenti delle forze dell'ordine e 113 tifosi). In aumento invece i provvedimenti di polizia contro i tifosi violenti: dei 2813 divieti di accesso allo stadio comminati nell'arco di sei anni ben 574 sono stati applicati da agosto 1995 (210 al Nord, 132 al Centro, 232 al Sud) con un record negativo per la Campania (180 di cui 116 a Napoli: ma i responsabili sono stati soprattutto protagonisti di saccheggi di autogrill, episodi certamente illegali ma a basso tasso di violenza). Un contributo alla drammatizzazione del problema la dà la stampa che esaspera il sensazionalismo. E' la tesi di Luciano Scorza, genovese, che si laurea in Scienze politiche esaminando nel dettaglio il processo di deformazione
della realtà degli ultrà operata dai mass media. Una tesi comparativa che parte da un dato inquietante: a un fatto analogo, l'omicidio di un tifoso dell'Español dopo la partita con il Gijon, la stampa spagnola dedicò 84 articoli, mentre sui fatti di Genova ne sono stati prodotti 1469: «La stampa italiana ben più avvezza a trattare notizie di questo tipo non ha perso l'occasione di "sfruttare" il fatto di cronaca per vendere l'avvenimento» (15). Lo conferma un altro dato empirico: «Spagna» era soltanto il nono morto in 15 anni di tifo violento . Lo avevano preceduto, tra strepiti molto minori, Vincenzo Paparelli (laziale, ucciso da un razzo lanciato in curva durante il derby, e per anni gli ultrà giallorossi avevano rivendicato l'omicidio col coro beffardo: «28 ottobre [1979] giornata storta, saluti e baci a Paparelli a Prima Porta e tu laziale, testa di cazzo, in curva Nord ti spariamo un altro razzo»), Stefano Furlan (durante la partita di Coppa Italia Triestina Udinese, febbraio 1984), Marco Fonghessi (un milanista accoltellato da un ultrà rossonero che lo aveva scambiato per tifoso cremonese, ottobre 1984), il sambenedettese Giuseppe Tomaselli (accoltellato nel dicembre 1986), Nazareno Filippini (dopo gli scontri tra ultrà ascolani e Boys nerazzurri, nell'ottobre 1989), il romanista Antonio De Falchi (un diciottenne stroncato da una crisi cardiaca dopo essere stato aggredito a Milano da un gruppo di ultrà rossoneri, nel giugno 1989), il bergamasco Celestino Colombi (ucciso da un infarto durante le cariche della polizia dopo Atalanta-Roma, gennaio 1993), Salvatore Moschella di Acireale (si era gettato dal treno per sfuggire alle sevizie dei tifosi messinesi, gennaio 1994) . E infatti ben presto le violenze da stadio riprendono: nell'anniversario della morte di «Spagna», due tifosi atalantini sono arrestati mentre tentano di assaltare un pattuglione di tifosi romanisti in trasferta, che avevano lanciato bombe carta durante la partita. Segue un'ora di guerriglia urbana. I due arrestati sono condannati per direttissima, rispettivamente a 12 e 8 mesi. Il primo è armato di coltello. Otto i feriti: 7 tra poliziotti e carabinieri e un bergamasco tifoso della Roma. Nel febbraio 1997 gravi incidenti si succedono nel giro di una settimana ma l'ondata emergenzialista non monta. A Reggio Emilia c'è un lancio di rubinetti contro i tifosi del Parma e poi sassate contro l'autobus: 9 denunciati, il più giovane ha ventitré anni. Sette giorni dopo una nuova Heysel è sfiorata a Firenze con la polizia pressata sui vetri antiproiettile da 400 tifosi che spingono verso il basso per dar manforte a un migliaio
di sfondatori. Un'ora prima un commando assalta il pullman che trasportava la Juventus allo stadio: rotti 4 vetri, feriti di striscio alcuni calciatori. Nella curva juventina spunta uno striscione atroce: «Ciao, ebrei». Sono 24 i denunciati del collettivo viola, operai e studenti dai diciassette ai trentun'anni: per loro scatta il divieto di accesso a manifestazioni sportive. E' quello tra tifosi viola e bianconeri un odio radicato dai primi anni Ottanta: gli incidenti e le provocazioni si susseguono negli anni. Particolarmente pesanti quelli di Torino nel novembre 1995, 11 agenti e tre ultrà feriti, di cui uno accoltellato (per aver sbagliato parcheggio), danni per decine di milioni allo stadio e al treno speciale, ma un solo fermato. A fine partita sono i tifosi viola ad attaccare i carabinieri, poi gli incidenti coinvolgono gli juventini, attaccati dalle forze dell'ordine che devono comunque creare un corridoio di sicurezza per l'evacuazione degli ospiti, per cui viene predisposto in tutta fretta un nuovo treno speciale. Il vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni, dopo un vertice sulla nuova ondata di violenza calcistica, propone un decalogo ispirato al «modello inglese»: meno repressione, spettacoli prima della partita, vigilanza dei poliziotti di quartiere sugli ultrà, misure severe con i club conniventi con le frange violente dei tifosi. Non se ne farà niente. Dal processo Spagnolo emerge come il carisma di Giacominelli e degli altri leader delle Brigate rossonere 2 si fondasse anche sul controllo di ingenti quantitativi di biglietti omaggio, presumibilmente girati dalla società ai capi ultrà. Un meccanismo che è spesso alle origini delle frizioni tra capitifosi e presidenti, con evidenti danni per l'ordine pubblico e per le squadre. Il presidente romanista Sensi è contestato anche perché ha chiuso con la politica di agevolazioni ai gruppi di destra sostenuti dal predecessore Giuseppe Ciarrapico (l'editore andreottiano che aveva affidato l'ufficio stampa della sua finanziaria Italfin '80 a Guido Giannettini e al fondatore di Meridiano zero, Rainaldo Graziani). Al presidente del Cagliari Cellino i tifosi non perdonano il suo rifiuto di finanziare la trasferta a Napoli per lo spareggio salvezza perduto con il Piacenza nel giugno 1997. A quello del Venezia gli Ultras unione, di sinistra, non perdonano di avere rinnegato la fusione con il Mestre: e così adottano come colori sociali il verde-arancio e non il tradizionale nero-verde. Anche Moratti, forte comunque dei risultati e dei fuoriclasse acquistati, da Ronaldo a Baggio, si può permettere di eliminare i pass e biglietti omaggio concessi da Pellegrini: un ultrà
gestisce parcheggi nei pressi di San Siro. La Juve paga le coreografie e affida ai capi ultrà (tutti di destra) la gestione di una parte della campagna abbonamenti in cambio di un'autocensura su simboli e nomi troppo forti. Il Milan fa differenze politiche: agevolazioni per i Commandos tigre (di destra) e non per la Fossa dei leoni (storicamente di sinistra e più forte numericamente). A Genova prevale una linea tradizionale di coinvolgimento dei leader delle tifoserie. La Samp ha affidato a due capi storici il magazzino e il negozio ufficiale della squadra, mentre la pulizia dello stadio è appaltata a una cooperativa «unitaria» di ultrà, genoani e doriani. I più attivi sul fronte del business sono gli Irriducibili della Lazio, i primi a lanciare la moda delle sciarpe all'inglese (i romanisti li sfottono come «Irriducibili spa»). Un certo «Freak», espulso dalla banda biancazzurra, si è riciclato come capotifoso dell'Español . NOTE . (1). D. Mart., "Mille manifesti pro Priebke. I neonazisti: «E' solo l'inizio»", «Corriere della Sera», 13 dicembre 1995 . (2). Ibidem . (3). Ibidem . (4). Manifesti provocatori come «Priebke libero, in carcere gli assassini di via Rassella» sono affissi anche dagli skin di Cuneo, il 23 giugno 1996, a Boves, città medaglia d'oro e martire della Resistenza. Gli skin rivelano, peraltro, una grossolana ignoranza: nella prima stesura si parla di via Rastello.. . (5). Giuliano Gallo, "Lapide a Roma in via Rasella, provocazione fascista sulla strage", «Corriere della Sera», 17 gennaio 1996 . (6). Wladimiro Settimelli, "Minacce alla partigiana: «Tanto ti uccideremo»", «l'Unità», 18 maggio 1996 . (7). Paolo Boccacci, "Condanna dal Vaticano «Aguzzini dei morti»", «la Repubblica», 31 dicembre 1996 . (8). Paolo Cascella, "A Modena un assalto skin", «la Repubblica», 28 aprile 1995 . (9). Paolo Foschi, "Sesso, droga e football", «l'Unità», 2 febbraio 1996 . (10). Ibidem . (11). Ibidem . (12). Emilio Marrese, "Verona con l'incubo da stadio", «la Repubblica», 30 aprile 1996 .
(13). Ibidem . (14). Michele Gambino, "Anatomia di un delitto per fatto calcistico", «Avvenimenti», 6 dicembre 1995 . (15). Livio Quagliata, "Dagli all'ultrà. La stampa al microscopio", «il manifesto», 15 agosto 1996 . I MOSTRI NERI E LA UNO BIANCA . «Viva l'Italia pura», «Froci Raus», il disegno di una svastica, le scritte che rivendicano l'attentato incendiario al circolo Arcigay-Arcilesbica di Siracusa, la notte del 4 gennaio 1996, non lasciano dubbi. Eppure la presidente del circolo Agata Ruscica non si contenta della risposta più semplice: «Non avevamo ricevuto minacce. E' chiaro che questi episodi sono mirati contro la nostra campagna di solidarietà verso gli immigrati e le fasce sociali più deboli e di sensibilizzazione sull'AIDS. Poi deve aver dato fastidio la nostra presenza nei quartieri a rischio, dove la criminalità tenta di assoldare gli emarginati» (1). Ai primi di marzo è la volta del camper anti-AIDS dell'Arcigay di Roma. In Calabria, due 'ndranghetisti di Africo sono arrestati per sequestro di persona e tentato omicidio: hanno seviziato un giovane pastore omosessuale che ha una relazione con un loro parente, sessantacinquenne, sposato con figli e componente di spicco della cosca. Lo sequestrano - con l'aiuto di altri quattro parenti, denunciati - nella baracca dove si incontra con l'anziano partner, lo portano in auto in campagna, dove è pestato a sangue e torturato con un bastone. Dopo aver finto di lasciarlo andare, gli sparano contro per intimidirlo, lo ricaricano in auto, lo portano su un ponte dove è appeso per le caviglie a testa in giù, su un dirupo profondo 50 metri, per alcuni minuti. Sulla via del ritorno ancora violenze e bastonate e poi è abbandonato legato a un palo con due avvisi minacciosi: niente denuncia e soprattutto niente più incontri con il vecchio amante. Il giovane si riesce a liberare e ottiene un passaggio ma l'auto è fermata dai carabinieri che lo vedono pesto e sanguinante e lo costringono a raccontare la sua odissea . Dall'estrema «periferia» al centro del Paese i fautori della pulizia etnica si alimentano di un clima di ostilità sociale che ha radici profonde. Ostia è un buon esempio dell'intreccio perverso tra violenza politica e sociale, dove l'aggregazione degli skin neofascisti ha finito per fungere da innesco delle tensioni esistenti e ha scatenato l'aggressività delle bande di quartiere. L'intero litorale romano ospita nei mesi invernali
una affollata colonia straniera. A Ostia l'estrema destra è tradizionalmente radicata: il F.D.G. ha 300 iscritti e un centinaio di attivisti, molto aggressivi contro gli extracomunitari. La «caccia al nero» è uno sport di massa: il 3 gennaio 1994 è pestato a sangue un eritreo, tre giorni dopo due pachistani che a notte fonda tornano a dormire in un alberghetto per immigrati. A febbraio, dopo uno stillicidio di provocazioni e di scontri, è incendiato il centro sociale SpazioKamino, l'ex-mercato generale occupato dai liceali per offrire un punto di aggregazione in un centro dove le uniche alternative per il tempo libero sono i bar e le sale giochi. L'attentato è compiuto di domenica sera, il 12, mentre i compagni partecipano a una festa alle case occupate. La sezione del M.S.I. è a trecento metri: è il quinto e definitivo attentato incendiario (i precedenti nel gennaio 1991, nel 1993 e due nel gennaio 1994) ed è stato preceduto da due assalti. Segue una settimana di passione: alla protesta studentesca i neofascisti rispondono con crescente aggressività. Il 14 febbraio, martedì, è preso a sassate il liceo «Enriquez». Giovedì 16 venti skin picchiano un attivista del W.W.F. biondo e dall'accento veneto: lo avevano preso per polacco. La domenica successiva è sprangato uno studente romano che aveva partecipato alla manifestazione di protesta contro l'attentato: dieci punti di sutura . In questo clima di crescente tensione domenica notte esplode la violenza di massa della «teppa» razzista. Un tunisino è accoltellato da una masnada di skin che tornava dalla discoteca - teste rasate, giubbotti e stivali neri. Uno del gruppo l'aveva schiaffeggiato qualche giorno prima e il tunisino non aveva reagito. Le provocazioni riprendono sull'autobus e poi, appena scendono, scatta la caccia all'uomo. Un altro maghrebino riesce a mettersi in salvo. La vittima designata non può: le gambe rotte in un incidente in un cantiere gli impediscono di scappare. Il risultato: lesioni in tutto il corpo, coltellate alle gambe, tre costole fratturate. Sono subito arrestati in sette (hanno tutti meno di vent'anni tranne un ventiquattrenne e un ventinovenne), tre minorenni sono denunciati, uno si sottrae all'arresto. I familiari solidarizzano e inveiscono contro i fotografi per la passerella all'uscita del commissariato: «Ma che razzismo, uno degli arrestati è un mulatto di origine eritrea». L'analisi sociologica offre il solito spaccato: qualcuno lavora, qualcuno studia, molti sono disoccupati. Pino, diciotto anni, confessa: «Le ho date io le coltellate». A casa sua una bandiera nazista,
svastiche, gadget di estrema destra. Il fratello lo difende: «Era tornato a casa tranquillo e s'era messo davanti alla T.V. Ha confessato perché l'hanno picchiato o per difendere gli altri». Il giorno dopo in T.V. un amico degli arrestati dichiara: «Non siamo naziskin, non siamo razzisti, il problema è che in Italia c'è troppa democrazia, i marocchini, gli extracomunitari vengono qui a togliere lavoro, portano sozzeria, puzzano pure, e capita che violentino le nostre ragazze». E un altro aggiunge: «Ormai anche Fini si è calato le braghe e accetta tutte queste cose. E noi che dobbiamo fa'?». L'autobus numero 1 torna alla ribalta un anno dopo per un altro episodio di feroce razzismo accaduto durante un'escalation di provocazioni e botte, scritte sui muri e assalti vigliacchi. I protagonisti sono quattro piccoli giustizieri, una donna somala al settimo mese di gravidanza, un autista che sente e non sente, gli spettatori 40 passeggeri che fanno finta di niente mentre si consuma l'aggressione. I quattro, due ultrà laziali e due romanisti, si mettono dietro la donna che è accompagnata dalla suocera, le fanno saltare il fazzoletto (l'unico indumento «africano» dato che le due vestono all'occidentale) e poi le tirano le orecchie. La vittima, ventidue anni, chiede aiuto in somalo - non sa una parola di italiano - e uno dei teppisti istiga il più piccolo, quattordici anni, terza media: «Quella t'ha insultato... Che fai, non reagisci? Comportati da uomo». E il pischello capisce la lezione e le molla un calcio nel pancione. Dei quattro uno solo è da poco maggiorenne: è un mulatto diciottenne figlio di un tecnico petrolifero italiano (morto) e di un'etiope, studia in un istituto tecnico privato. I parenti, quasi tutti di colore, lo difendono a spada tratta, la madre gli dà l'alibi («a quell'ora era in una sala giochi»). La sorella sdrammatizza: «Uno dei tre minorenni lo conosco bene. Quei ragazzi dicono di essere fascisti. Ma sono dei fascisti per modo di dire» (2). Degli altri due uno, diciassette anni, monta infissi di alluminio, un altro, sedicenne, lavoricchia in una sala giochi. Nessuno dei passeggeri interviene ma il commissariato in due ore identifica i responsabili che confessano subito: aveva dato loro fastidio il foulard . Non hanno ideologia, a stento idee. Uno si giustifica: «Per noi fare certe cose è un divertimento, ogni tanto vediamo qualche negro che non ci piace. E lo mettiamo in mezzo» (3). I quattro sono denunciati a piede libero. Che cosa sia successo al bambino della vittima non è dato sapere. Della vittima dell'accoltellamento ci è toccato leggere che è stata arrestata due volte per traffico di droga nel giro di un mese, a
settembre. La stampa dà risalto all'episodio ma non dà un'informazione fondamentale: era già un «pusher» a febbraio? Nel primo caso la violenza razziale aveva fatto velo o si era intrecciata con una rivalità di strada, la punizione per una «sòla» o un conflitto di «competenza» - e gli amici degli arrestati si sono ben guardati dall'evocare la circostanza. Era già successo, a Roma, che il tentato omicidio di due extracomunitari, fatto passare per un raid dei naziskin, si sia ben presto rivelato una spedizione punitiva per una questione di «fumo». Ma la domanda di «mostri» era troppo forte per andare per il sottile . E' una notte di gennaio del 1992: nei giardinetti di Colle Oppio sono accoltellati due maghrebini che dormono, un terzo sfugge alla violenza di una banda di 15 skin. Si scatena immediatamente il barnum mediatico: finalmente i tanto attesi naziskin - all'offensiva nella Germania appena unificata - sono sbarcati in Italia. L'unico precedente la rissa del cinema Capranica - non fa testo: è di tre anni prima, i protagonisti sono militanti dell'estrema destra di ottima famiglia, irriducibili allo schema degli «sporchi, brutti e cattivi». L'unico effetto dei titoli strillati sull'episodio è di suscitare un'ondata imitativa: una maestrina «terrona» minacciata sul treno pendolari tra Bergamo e Milano, scritte e manifesti minacciosi a Caserta ed Enna, altri pestaggi a Roma e in Sardegna. La rapida operazione di polizia, che porta all'arresto dei picchiatori in pochi giorni, getta acqua sul fuoco: tutti «bravi ragazzi», infima borghesia e proletariato del popoloso quartiere di Monti, microtraumi sociali - uno sfratto, la mancanza di lavoro - ma nessuna grande violenza tale da giustificare l'imbarbarimento. Una banda che bivacca in una sala giochi di via Panisperna, qualche ragazza, qualche ragazzino, nessun precedente penale, niente politica. Sono smentiti persino i legami coi Viking: uno solo è ultrà laziale. Il pretesto del raid è una lite per il «fumo» trasformata in un tentativo di stupro per compattare la truppa per la spedizione punitiva. Uno degli arrestati scrive sul diario: «oggi ho sprangato due marocchini» (4). Al processo, spenti i riflettori del circo, se la cavano con una condanna ridicola: 2 anni di carcere. Maurizio Boccacci - sulla cresta dell'onda per la felice intuizione di reclutare gli skin nel suo piccolo gruppo condanna seccamente il duplice tentato omicidio: «Un atto bestiale senza senso, una provocazione nei nostri confronti» (5). Una presa di distanza inutile: «Colle Oppio», spiegherà poi Roberto Valacchi, allora leader degli skin di M.P. e a metà degli anni '90 vicesindaco di una
giunta di centro destra nel suo paese dei Castelli romani, «rappresenta un punto di svolta rispetto all'attenzione riservata agli skin fino a quel momento, anche perché non c'era stato a Roma nessun fatto in cui gli skin fossero coinvolti [...] ad eccezione della vicenda del Capranica che aveva connotati politici. Tutti ne parlano ma nessuno sa quello che è emerso al processo, e cioè che in realtà quei ragazzi si erano scontrati contro un gruppo di militanti dell'Autonomia operaia che avevano avuto la peggio. Mentre a Colle Oppio non c'è assolutamente niente di politico perché non c'erano fascisti né skin» (6) . Fascisti e skin erano invece (e sono ancora) i gemelli Andrini, i protagonisti della rissa al cinema Capranica, durante un festival di fantascienza. Stefano e Germano, diciotto anni, figli di una funzionaria comunale comunista, accusati di aver sfondato il cranio a un «compagno», scappano in Svezia, dal padre, ma sono arrestati ed estradati in pochi mesi. Tra i loro coimputati due note figure dell'estrema destra romana, il figlio di un diplomatico di rango e il leader di Intolleranza, gruppo di punta della scena nazirock. All'uscita dal carcere i gemelli hanno ripreso la militanza, in Alternativa nazionalpopolare, il gruppo di Delle Chiaie. Germano è l'editore della «Spina nel fianco», Stefano continua a menare le mani: nella primavera 1994 è arrestato per uno scontro con gli autonomi alla «Sapienza» e poi denunciato per un picchettaggio all'ambasciata francese, per protestare per un naziskin ucciso dalla polizia a Parigi. Nell'inverno 1996 con il figlio di Tilgher, Mario, è tra gli animatori del Sindacato degli studenti, che riaggrega i militanti dei disciolti Movimento politico e Meridiano zero ed è coinvolto in ripetuti scontri alla «Sapienza» con i compagni, ma anche in aggressioni e pestaggi nei licei della Capitale. Non riesce a frenare l'ondata di violenza xenofoba il bel gesto di due autorevoli fratelli maggiori, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che scrivono all'«Unità» una lettera pubblicata in prima pagina. Gli «sposini dei NAR» scendono giù duro fin dall'incipit: «Ci dicono che c'è gente che nega l'esistenza dei lager nazisti e che ritiene di risolvere i mille problemi dell'Italia prendendo a bastonate i negri. Siamo in carcere da tanti anni e non possiamo verificare queste voci ma è comunque difficile crederci. Nessuno può essere così stupido da pensare sul serio cose del genere». Pur comprendendo l'atteggiamento di chi - sentendosi completamente emarginato - assume atteggiamenti di sfida (è una cultura che hanno condiviso), negano ai naziskin «il diritto di
prendervela con gli ultimi degli ultimi, con gli 'immigrati'». Perché, a differenza della loro stagione del fuoco, è finito il «triangolo della morte» tra camerati, compagni e «sbirri», che tante giovani vite ha inghiottito e «questo vi priva di ogni diritto all'odio». Dopo il bastone, la carota dell'appello alla ragione e al sentimento: «Non cadete nella provocazione, non accettate il ruolo di mostri che un tempo toccò a noi e che a questa società ancora imperfetta serve per scaricare le proprie tensioni» (7). Del resto tra NAR e naziskin non c'è continuità: qualcuno degli spontaneisti armati ha avuto parenti chiusi nei lager, altri hanno combattuto in Libano al fianco degli israeliani, Vale era «mulatto». L'appello non sortisce reazioni, al massimo un'alzata di spalle e un giudizio liquidativo. E la giostra della violenza delle ciurme riparte con assoluta indifferenza ai ragionamenti politici e agli appelli sentimentali . Un'attitudine particolarmente violenta la dimostrano le bande skin dei Castelli romani, orbitanti su Movimento politico, ma quando sono commesse le aggressioni xenofobe più feroci il gruppo è già stato sciolto di ufficio. Nell'estate 1993 è classificato come incidente (nonostante il volto tumefatto, una lesione al cranio e numerose fratture) la morte di un immigrato bengalese, il venditore di rose Iqbal Hossain, precipitato da un ponte a Grottaferrata. In realtà «per divertimento» è aggredito da una ciurma di ragazzini e gettato nel vuoto: dei nove accusati (sette arrestati, due denunciati a piede libero tre anni dopo) sei erano minorenni all'epoca dell'omicidio. Gli unici maggiorenni erano il capobanda, Franco Gagliardi detto «il Napoletano», ventisette anni, Mariangela, diciannove anni, una delle due ragazze del branco, e «Pechino», vent'anni. Quattro degli arrestati erano già stati denunciati il 25 aprile 1995 per il pestaggio di un poliomielitico italo-keniota, consumato nello stesso luogo dell'omicidio: Carlo Tamantelli, trentacinque anni, è aggredito davanti al ristorante «Squarciarelli» dove lavora come lavapiatti per pagarsi gli studi universitari. E' cresciuto tra collegi e orfanotrofi ma l'handicap fisico e sociale non gli hanno tolto la voglia di vivere e di lottare. I quattro non sono schedati come naziskin: la ragazza, diciassette anni, ha una famiglia disastrata alle spalle ed è stata affidata a un parente dal tribunale dei minorenni. L'unico maggiorenne sta facendo il militare nell'aviazione a Bracciano e finisce in galera. Processato per direttissima se la cava con 19 mesi di reclusione ed è subito scarcerato,
nonostante l'accusa di rapina per gli spiccioli dell'autobus tolti alla vittima, che non si è costituita parte civile: «non solo perché non è in grado di pagarsi un'assistenza legale, ma nella speranza che venga compresa la gravità dell'atto» (8). Gli altri due minorenni hanno studi interrotti e famiglie piccoloborghesi alle spalle. L'episodio segue di una settimana il fallito assalto al centro sociale di Frascati L'asilo. Uno solo è considerato simpatizzante di M.P., nonché capo della banda responsabile dell'omicidio: nonostante la giovanissima età ha alle spalle un passato di aggressioni, violenze e denunce. Il gruppo - spiega la DIGOS, messa in allarme da una voce confidenziale - è stato individuato con un paziente lavoro di schedatura: a rendersi protagonisti degli innumerevoli episodi di intimidazione e di violenza contro gli extracomunitari erano almeno una trentina di naziskin e soltanto dopo un lavoro di scrematura e di controlli incrociati gli investigatori hanno avviato una tornata di interrogatori, con le prime ammissioni e la decisione di procedere agli arresti. Almeno quattro confessano subito, uno crolla solo davanti al giudice, il capobanda minorenne, imperturbabile, si avvale della facoltà di non rispondere con un'alzata di spalle . Molto frequenti gli episodi di violenza xenofoba e «razzista» attribuibili agli skin lombardo-veneti. Nel Vicentino i «bonehead» arrivano all'omicidio: nel settembre 1992 uccidono a calci e pugni un tossicodipendente. Il giorno prima un'altra banda legata al Veneto fronte skinhead aveva assaltato una cascina abitata da extracomunitari: il leader del gruppo è figlio di emigrati in Belgio ed e stato schedato tra i partecipanti di "Ritorno a Camelot", il campo estivo degli skin italiani. Nel marzo 1996 un commando lancia due molotov nella casa dove vivono cinque immigrati (due coppie e una bimba), dopo aver scritto sui muri «Via i negri la muffa dell'Italia», a Mori, nei pressi di Rovereto. A soccorrere le vittime e a spegnere l'incendio un vicino italiano. La frazione luogo dell'attentato, Nomesino, è salita alla ribalta pochi mesi prima per un record di segno opposto: 100 abitanti, 18 immigrati tutti con regolare permesso di soggiorno e contratti di lavoro. Gli unici a lamentarsi con i giornalisti accorsi per i soliti servizi di colore sono delle frange leghiste, che denunciano i pericoli di islamizzazione del Trentino. Nel marzo 1996, un commando, a bordo di un'auto, lancia una molotov contro un gruppo di giovani, che chiacchierano nel cortile del centro sociale Fantasma, una vecchia
fabbrica abbandonata alla periferia di Bergamo e occupata da due settimane. La fiammata ustiona gravemente tre occupanti: uno spagnolo ventunenne (ferite al volto e alle mani, 40 giorni di prognosi), due «indigeni», di diciotto e quindici anni (venti giorni di prognosi). Nell'aprile 1997 una tanica di benzina e olio esplode sotto casa del sindaco patavino del P.D.S., Flavio Zanonato. La grande fiammata manda in frantumi la vetrata di ingresso. La rivendicazione - una telefonata al quotidiano locale nel pomeriggio successivo - è generica ma politicamente connotata: «La parte sana della gioventù di Padova si è svegliata e ha deciso di fermare il complotto giudeo e la marea rossa. La zecca comunista Zanonato è stato solo il primo. Boia chi molla. Sieg heil». L'attentato corona una settimana di tensioni tra autonomi e naziskin: il sabato precedente, dopo due cortei contrapposti, una bomba carta era stata lanciata contro la casa di un compagno del centro sociale Pedro. Il sindaco comunque non dà soddisfazione agli attentatori: «Ho saputo resistere a minacce ben più gravi durante la stagione del terrorismo» . Una piazza particolarmente calda si rivela Latina, con la propaggine di Cisterna, dove alla presenza organizzata di fedelissimi di Delle Chiaie si accompagna l'attività di un manipolo di skin non politicizzato ma dalle attitudini particolarmente violente, con un piede nella criminalità comune. Il primo episodio clamoroso è il pestaggio del leader della comunità islamica, azione che fa gridare all'empietà la destra filoislamica (da «Orion» ad «Avanguardia»). Il 7 giugno del 1994 (due giorni prima a Roma si erano registrati, come vedremo più avanti, due distinti pestaggi, con grande risalto mediatico) quattro skin aggrediscono l'imam, un carrozziere egiziano, sposato con un'italiana, tre figli. L'imam è circondato da una squadraccia su vesponi carenati ma non si lascia intimidire dalla solita escalation. Gli sputi, le urla: «andate via, ci togliete il lavoro», poi le mazzate. I quattro arrestati, che hanno agito senza ragione, si meravigliano persino: «Abbiamo solo dato quattro schiaffi a un negro». Non sapevano neanche che era l'imam. La DIGOS parla di destra becera: una trentina di giovani disoccupati, ignoranti, che imitano i modelli tedeschi ma non hanno retroterra politico e culturale. Si radunano al quartiere delle cooperative o nello spiazzo di un centro commerciale. Il sindaco missino Aimone Finestra - un repubblichino che ha goduto dell'amnistia di Togliatti minimizza ed esclude l'esistenza di tensioni razziali ma la moschea di
Latina subisce in pochi mesi due attacchi a colpi di molotov. Al processo per direttissima l'imam perdona, i quattro fanno i bravi ragazzi, patteggiano e se la cavano con poco: Massimo Marchetti, ventidue anni, e Graziano Buonamano con 12 mesi per i piccoli precedenti, il gemello Germano Buonamano e Marco Cabassi, tutti e due ventenni, con 8 mesi. L'imam ringrazia tutti per la solidarietà espressa. La notte del 20 novembre è la volta di un giovane bengalese: per qualche spicciolo aiuta gli automobilisti a un distributore di benzina self service. Vive da cinque anni in città con regolare permesso di soggiorno. Arrivano tre skin di Cisterna. «Un marocchino ci ha dato fastidio: ora sarai tu a pagare per lui» e giù botte: calci, pugni, persino una sedia sulla schiena, poi gli sfasciano il motorino. Non frena la loro furia neanche il fatto che il benzinaio sia vistosamente claudicante: un precedente pestaggio razzista ad agosto lo ha reso invalido. Nonostante le botte la vittima memorizza la targa dell'auto che si allontana. La polizia blocca il commando: hanno tutti e tre meno di vent'anni. Nonostante la giovanissima età hanno una sfilza di precedenti per rissa, violenza e reati contro il patrimonio (e uno già un foglio di via). Fanno gli spavaldi: «Questa gente che si mette ai distributori ci dà fastidio». Il p.m. di turno ordina l'arresto contestando l'aggravante dell'odio razziale. Questa volta è il questore di Latina, Gianni Carnevale, che minimizza: «E' incredibile come una brutale violenza di cinque minuti possa distruggere anni e anni di conquiste civili e di ricerca del principio di eguaglianza» (9). E le violenze continuano: a fine marzo 1995 il piazzale degli autobus è il teatro dell'aggressione. Un pregiudicato, ventitré anni, riconosce un marocchino con cui è stato in carcere (libero da due giorni dopo un periodo di detenzione per rissa). Spalleggiato da un manipolo di amici, lo provoca, gli intima di andarsene da Latina. Poi il pestaggio. La vittima scappa e si rifugia in un negozio di abbigliamento, la titolare abbassa la serranda e avverte il 113 che sopraggiunge e blocca il branco, appostato ancora fuori al negozio per completare il trattamento. Gli arresti sono sei ma il gip due giorni dopo scarcera i tre minorenni dopo la testimonianza della vittima, ricoverata in ospedale per le ferite (15 giorni di prognosi): i ragazzini erano solo spettatori. A fine maggio torna alla ribalta Marco Cabassi, in un episodio particolarmente odioso. Nei giardini dell'Oratorio di via del Lido deride un anziano con ritardi mentali e motòri, lo picchia e infine gli tira una sedia in testa. Riconosciuto dai testimoni, è denunciato per
lesioni aggravate e continuate. Un altro aggressore dell'imam, Massimo Marchetti, tenta di scagionarlo ed è denunciato per favoreggiamento. Due settimane dopo Marco Cabassi perde la vita in circostanze confuse. La sera del 12 giugno è ucciso in una sparatoria mentre con un amico scava una buca in un capannone a Borgo Santa Maria. Due complici aprono il fuoco: Cabassi, ferito al gomito e alla testa, cade riverso ed è clinicamente morto; l'amico, ventidue anni, consumatore di droga, frequentatore degli skin, un fratello ucciso in un regolamento di conti tra spacciatori, è ferito all'addome ma riesce a scappare per un chilometro e mezzo . Il rapporto con la droga è una delle cartine di tornasole per distinguere i militanti politici dagli aderenti allo stile di vita. Gli skin di M.P. e degli altri gruppi si fanno un punto d'onore di combattere il consumo di ogni droga (e la sua ideologia) come elemento di disgregazione dell'«integrità della razza» mentre i duri di strada fanno un uso sfrenato di coca, pasticche ed eccitanti. Il ferito non aiuta la polizia a chiarire il movente della sparatoria: restano così aperte le ipotesi di una vendetta per uno sgarro o un regolamento di conti per un traffico illegale. La morte di Cabassi non smobilita la banda. A fine agosto finisce in rissa un concerto dei 270 bis (la band di Marcello De Angelis). Nella piazza di Cisterna gli skin si esaltano per il rock militante dell'ex-portavoce di T.P.: "Settembre nero" (quello dei palestinesi), "Claritte e Ben" (dedicata a Mussolini e alla Petacci: «Han ballato sui loro corpi, han sputato sul loro nome, han nascosto le loro tombe, ma non li possono cancellare»). Chi contesta gli slogan e i saluti romani finisce al pronto soccorso. Alle proteste dell'opposizione il sindaco di Forza Italia si chiama fuori: «Avevo delegato l'organizzazione della serata a un consigliere di A.N.». Ai primi di ottobre un gruppo di picchiatori, di cui due noti per precedenti aggressioni razziali, manda all'ospedale due giovani che girano in motorino in un parco: uno dei due ha uno stemma antiskin (il pugno che rompe la svastica e la scritta «no al razzismo») . A Roma con gli skin impegnati nelle tradizionali attività di «caccia al compagno» e decine di pestaggi denunciati nel triennio 1991-'93, i più brutali episodi di aggressioni xenofobe sono opera di «branchi». Esemplare è il caso del pestaggio sul trenino Ostia-Roma, una domenica pomeriggio, il 5 giugno '94. Una decina di ultrà romanisti di Tor Bella Monaca, di simpatie neofasciste anche se non attivi politicamente - odiano i negri, i froci e i tifosi delle altre squadre - pesta
uno studente congolese di ventun'anni che torna a casa, una villetta nei pressi di Acilia, dopo una partita di basket. Lo circondano, lo coprono di insulti, passano agli schiaffetti, ai soliti inviti a tornare nella foresta, poi gli rubano walkman e borsello. Una ragazza si sente male e frenano, poi riattaccano. Un siciliano, militare di leva, tenta di intervenire: lo massacrano di botte con una mazza di scopa. Ci provano due carabinieri paracadutisti di ritorno dal mare ma anche per loro finisce male. Infine è pestato il «negro». Un passeggero col cellulare riesce a chiamare il 113 e alla Magliana scatta la retata guidata dai due feriti: cinque scappano, cinque finiscono diritti alla DIGOS, manette ai polsi, e beccano pure qualche schiaffone. Sono: Emiliano, 18 anni, Simone e Marco, 20 anni, F. V., 15 anni, e Danilo, 19 anni. I genitori di Danilo si definiscono comunisti: «ma in famiglia non parliamo di politica». Gli altri quattro sono minorenni, non tutti skin, e sono arrestati la notte a casa. Abitano tutti in un palazzone di via dell'Archeologia, 700 appartamenti, il comparto R5, megaportone istoriato di svastiche. Per la polizia non c'è una buona accoglienza: nessuno si affaccia, qualcuno urla da dietro le finestre «pigliatevela con i negri», altri lanciano rifiuti. Sono sequestrati quattro coltelli tra cui il canonico Opinel, il modello preferito dagli skin, trovato a casa del capo, diciassette anni, lineamenti rozzi e aria da duro. Gli abitanti del quartiere li difendono davanti agli inviati del T.G.: «Sono cojoni, non criminali. Si sono incazzati perché quello aveva il walkman e loro no» . Una settimana dopo il primo processo, 20 mesi con la condizionale e un milione di risarcimento danni è la condanna per i primi tre imputati, grazie al patteggiamento. La posizione di altri due maggiorenni, solo fermati per difetto di flagranza, è stralciata. Un tentativo di applauso, subito messo a tacere dal presidente, accoglie la sentenza. Il tribunale sente di dover motivare accuratamente una condanna assai mite per imputati accusati di violenza privata e rapina aggravata dai motivi razziali, nella speranza che i tre abbiano capito la gravità del loro gesto. Questa magnanimità non accontenta la vittima né il fratello maggiore, Roland Patrick, che lo ha accompagnato. I tre aggressori avevano firmato una dichiarazione di pentimento che non li aveva convinti. «Dopo quattro giorni in carcere chiediamo il permesso di rivolgerci alla persona che ha subito l'aggressione per dire che non abbiamo niente a che fare con i ragazzi chiamati Naziskin che portano odio nei confronti di persone diverse da loro per il colore della pelle o per motivi
religiosi» o per altro. Uno dei tre imputati l'ha letta in aula inceppandosi ogni tanto. Lo stesso giorno del pestaggio sul trenino sono arrestati tre ultrà del Labaro che aggrediscono due senegalesi alla stazione Termini. Fabrizio, trent'anni, facchino, romanista, si giustificherà con un giornalista de «il manifesto» mostrando le tessere della Federazione giovanile comunista e poi del P.C.I. di Prima Porta: «Sono solo intervenuto per difendere i miei amici che si erano attaccati coi negri», cioè due ultrà laziali ventitreenni, raro caso di amicizia intertribale Giovanni, in cerca di lavoro, voto al M.S.I., e Roberto, idraulico. Se la cavano con tre giorni di galera e poi gli arresti domiciliari. Al processo per direttissima gli avvocati contestano i 25 giorni di prognosi per un naso rotto, l'incitamento all'odio razziale («che cazzo volete e perché cazzo non ve ne andate dall'Italia»), rivendicano il risarcimento (2 milioni e 400mila lire). Anche stavolta il giudice è buono: 8 mesi e pena sospesa. La croce runica sulla sciarpa di calcio e un volantino di M.P. trovato a casa di uno degli ultrà diventano oggetti come gli altri. Il fratello difende Roberto: «E' come un dobermann, cresciuto grande e grosso, ma il cervello gli è rimasto piccolo. Pensa solo alla Lazio» . Anche altri episodi mettono in evidenza un'area sociale contigua a quella skin, che ne imita look e modelli di socializzazione ma non condivide l'esplicito impegno politico. I rapporti con i duri e puri di M.P. sono confermati dai cimeli sequestrati da volantini e gadget che dimostrano i contatti. L'occasionalità è confermata dalla mancanza di precedenti penali di tipo politico per i protagonisti delle più brutali aggressioni . E' il caso di Cagliari, spiaggia di Poetto, settimana di Ferragosto 1994. Cinque romani massacrano un venditore di bibite, senegalese, avendolo scambiato con un chincagliere ambulante che si era opposto al furto di un orecchino da parte di una ragazza del gruppo. Gli camminano addosso con gli scarponcini da montagna, mezzo volto e l'occhio destro sono tumefatti per i calci in faccia. I bagnanti sardi frenano il massacro. Il senegalese, da quindici giorni in Sardegna, vomita sangue. Un commissario, Cinzia Ricciardi, presente sulla spiaggia chiama le volanti ma è la gente a intervenire. Gli aggressori tentano di allontanarsi ma sono afferrati e consegnati alla polizia tra gli applausi. Segue una breve colluttazione con gli agenti. In questura i cinque si sfogano contro le camere di sicurezza, i ragazzi sfasciano le suppellettili, le ragazze in preda a una crisi isterica le imbrattano con feci e urina. La performance
procura la prima condanna per direttissima: un anno per oltraggio col solito patteggiamento. Per il pestaggio processo con il rito ordinario, senza la contestazione del comportamento razzista. I ritratti dei cinque arrestati, ancora una volta dell'estrema periferia di Roma est, sono rappresentativi di questa zona grigia, tra estremismo politico e violenza sociale, tra banalizzazione e capacità di autoassolversi oltre la soglia del pudore. Mauro, vent'anni, parà a Pisa, cultore di arti marziali, idee di estrema destra, ultrà romanista: «Mai stato razzista, volevo fare la carriera militare, sono distrutto, ora dovrò fare l'idraulico a vita. Quell'ambulante aveva aggredito Francesca e Fabiola col racchettone da tennis. Tutta la spiaggia si era trasformata in un campo di battaglia. Anche noi ci siamo beccati calci e pugni». Nega che qualcuno abbia detto: «Sporco negro, noi a Roma i negri li bruciamo». Alessandro, ventitré anni, terza media, biondino, capelli lunghi, camera tappezzata di chincaglieria giallorossa ma anche un faccione di Bob Marley. Quando torna a casa il giorno dopo il padre pensionato si sente male: «Tutti avevano visto quel negro colpire le nostre donne ma non le hanno aiutate perché eravamo di Roma, parlavamo romanaccio. Di politica non ci capiamo proprio niente». Il fratello Giorgio, ventisette anni, operaio diplomato, completa il terzetto. Francesca, ragazza di Alessandro, fa la commessa. Il padre è un ex-secondino. La madre l'accompagna all'ospedale per la botta al collo. «Non volevamo rubare niente. Il senegalese mi ha colpito con la racchetta ma nessuno l'ha visto e io ho detto: 'Se succedeva a Ostia lo bruciavano'. Sono arrivati gli amici nostri che stavano tinteggiando il negozio di un'amica e hanno sentito le urla. Quel senegalese insisteva: 'Ragazze belline volete comprare qualcosa', io ho detto molte volte no, Fabiola ha preso gli orecchini e quello è scattato gridando 'Mi stanno rubando la roba', mi ha colpito e ha dato anche un calcio a Fabiola. Nessuno mi ha aiutato, tutti hanno fatto finta di niente. Mi sembra di vivere un incubo, non ci credo ancora». Anche Fabiola, responsabile del tentato furto di orecchini, lavora come commessa. I testimoni sardi smontano le tesi difensive: «Erano assatanati, i ragazzi in jeans e maglietta, le ragazze in bikini e scarponcini erano le più feroci. Gridavano: 'E' quello? E' quello o non è quello?'. Era impossibile trattenerli tutti. Gridavano contro di noi: 'Che cazzo c'entrate voi, tanto è pure negro. Chi mi ha fermato? Se è uomo venga avanti. Chiamate pure la polizia, sai che paura'. Francesca ha rotto il collo della bottiglia e l'ha colpito in faccia col
frammento, Fabiola l'ha preso a calci in faccia mentre un ragazzo gli saltava sul petto». Il giorno dopo la vittima del pestaggio assiste al processo ma ha un nuovo malore e si deve ricoverare: 15 giorni è la prognosi provvisoria. Non accetta 3 milioni dai parenti dei picchiatori e al processo per lesioni aggravate da futili motivi e danneggiamenti che comincia a novembre rifiuta un'offerta doppia. Romani razzisti e cattivi, sardi buoni per il retaggio di un milione di emigrati? Nient'affatto. Nella stessa settimana la stampa registra altri due episodi di violenza xenofoba. A Ferragosto una ragazza di Serramanna, centro agricolo a 50 chilometri da Cagliari, Emanuela Orru, interviene con la famiglia per impedire il pestaggio di due senegalesi da parte di una quindicina di energumeni, ubriachi e armati di spranghe e bastoni, incitati dalla folla. Le sfracellano la mano: 55 giorni di prognosi. Gli abitanti del piccolo villaggio turistico della Orru salvano i due negri, che si erano ribellati a un furto e volevano la restituzione della merce. Il giorno dopo del pestaggio del Poetto, sulla stessa spiaggia scoppia una rissa tra sardi e algerini alla fermata 5 del tram: gli indigeni sono tre contro due ma prevalgono gli africani. Quando nel maggio 1996 a Cagliari viene accoltellato un giovane senegalese per un litigio stradale - o a freddo: è la sua versione - e l'autore del grave ferimento è scarcerato dopo tre giorni, spunta puntuale la statistica recente che segnala la montante xenofobia: da 7 a 8 studenti su dieci sono contrari all'ingresso nell'isola di extracomunitari e nomadi . Qualche volta protagonisti dei raid razzisti sono piccoli malavitosi che si erigono a paladini della comunità. E' il caso di Torvajanica, nelle vacanze di Natale 1994. La sera del 27 due marocchini ubriachi investono e uccidono Sara, una quindicenne impegnata in parrocchia nell'assistenza agli immigrati (l'autista sarà condannato per omicidio colposo aggravato a 6 anni di carcere). Era intervenuta in loro difesa durante una lite al bar. La morte di Sara diventa il pretesto per una resa dei conti generalizzata con gli extracomunitari. La mattina del 28 è accoltellato al volto un maghrebino che aspetta l'autobus: 60 punti di sutura. Gli amici di Sara - tutti bravi ragazzi, molti frequentano la parrocchia - picchettano il luogo della tragedia e non esitano a pestare il primo extracomunitario che passa in motorino. All'una di notte del 29 avviene una sparatoria al Canneto, posto melmoso tra i rifiuti: tre fucilate contro la Jetta dove dorme un marocchino ventunenne, da tre anni in Italia, con il padre che vive sul litorale laziale a Tor San
Lorenzo. Sono in quattro, a bordo di una Uno: 20 i giorni di prognosi per una ferita al braccio. In zona il rapporto tra immigrati e italiani è solo 1 a 5. Gli amici di Sara rivendicano con i giornalisti il diritto alla rappresaglia: «Sono ubriaconi, spacciatori e infastidiscono le ragazze» (e al processo per sfogare la rabbia per la mite sentenza uno picchia il fotografo dell'ANSA, altri minacciano il difensore). Ai funerali - dove non mancano gli skin - per evitare incidenti gli amici di Sara scortano Dacia Valent presente con i figli per rispondere all'appello della madre di Sara. L'eurodeputata di colore è parte in causa: dieci anni prima il fratellino sedicenne era stato assassinato, con 63 coltellate, da due compagni di scuola perché «negro», e la madre, una principessa somala, ne era morta di dolore in un anno. Il padre di Sara denuncia il carattere preordinato dei raid e condanna le aggressioni ma dopo i funerali riparte la mattanza. Il 31 pomeriggio nella piazza centrale di Torvajanica un lavavetri indiano è accoltellato alle spalle da tre skin in bomber nero mentre prende il bus per Roma. Se la cava con 10 giorni di prognosi per una ferita alla schiena. A Tor Vergata, la sera di San Silvestro, tre giovani picchiano un marocchino, ferito alla guancia. Alle 11.30 di Capodanno a Tor San Lorenzo una Panda bianca con due uomini, seguita da una Panda rossa con quattro uomini, si accosta a un marocchino di sessantasette anni, per chiedere un'informazione. L'autista della prima auto tira fuori un fucile e lo ferisce alla mano con i pallettoni. A sparare è un cinquantenne con baffi neri e giubbotto di pelle: né skin, quindi, né amico di Sara. E l'estrema periferia sudorientale di Roma resterà la frontiera dell'odio . Un anno dopo, la sera del 21 gennaio un marocchino da anni regolarmente residente in Italia ha la testa sfondata a colpi di spranga di ferro all'esterno di un bar di Tor San Lorenzo. Finisce in ospedale in coma irreversibile e muore dopo 10 giorni di agonia: l'ospedale Regina Elena addebita alla famiglia 560mila lire al giorno per la degenza. Ad aggredirlo otto facinorosi, capeggiati dal ventiquattrenne Marco Francesconi, pluripregiudicato e agli arresti domiciliari (pochi giorni prima aveva tirato una pistolettata contro un'altra persona dopo una lite). Tutto era iniziato per gli schiaffi dati al figlio quindicenne della vittima: gli avevano chiesto una sigaretta alla partita e lui non fuma. L'uomo litiga con un aggressore del figlio. Segue la spedizione punitiva: il commerciante marocchino è individuato all'esterno di un bar e massacrato. In un primo momento i carabinieri escludono il
movente razziale e ipotizzano una spedizione punitiva contro il figlio maggiore, per una storia di donne o di autoradio rubate. Il caso è sollevato dal difensore della vittima e rilanciato da un'interrogazione parlamentare. Il p.m. è lo stesso di Colle Oppio, Pietro Saviotti, che non esclude la pista xenofoba. In un primo momento l'unico arrestato è Francesconi, poi l'8 febbraio la svolta. Sono arrestati il fratello e altri due giovani, tra cui un carpentiere già noto per piccoli reati, tutti e tre vent'anni e dintorni. Secondo la madre ha un alibi ma i figli della vittima lo hanno riconosciuto. Al momento dell'arresto - per concorso in omicidio volontario aggravato da futili motivi: i bastoni se li erano portati al bar - gira con un coltello in tasca, un telefonino e molti soldi. Il 24 gennaio, per non regolarizzare la posizione della colf algerina, un vigile di Tor Bella Monaca e la moglie casalinga la minacciano, la malmenano e le rapinano soldi, gioielli e documenti. La giovane li denuncia e sono arrestati. A Tor Lupara, borgata di 13mila abitanti, divisa tra i comuni di Mentana e di Guidonia, quattro ragazzi normalissimi (dai diciotto ai ventun'anni, due piccolissimi precedenti per furto), nessun rapporto con teste pelate e ideologie naziste, prendono a schiaffi e a calci, un sabato sera all'uscita della pizzeria, quattro giovani cameriere ivoriane, due con bambini piccoli in braccio. Le donne aspettano davanti a una cabina telefonica, e vengono coperte dalla solita sfilza di insulti. A una donna strappano una scheda per telefonare e 10mila lire: l'atto procurerà loro l'accusa di rapina aggravata da motivi razziali. Arrestati per la reazione dei passanti, i quattro confessano senza batter ciglio: le abbiamo picchiate perché erano nere . La violenza xenofoba finisce spesso per colpire le donne. In occasione di una delle tante scadenze del decreto anti-immigrazione, con il periodico rigurgito emergenzialista, «il manifesto» commissiona una schedatura all'Osservatorio di Milano, che con certosina pazienza cataloga le tracce talvolta invisibili delle violenze e delle discriminazioni sui «non italiani». Un campione di 70 episodi con vittime straniere offre una vasta gamma: dall'assistente domiciliare chiesta alla Caritas di Alessandria e ripetutamente stuprata dal finto ammalato all'infermiera professionale che si vede, con il beneplacito della USL, dimezzato lo stipendio; dalla prostituta nigeriana accompagnata in auto alla periferia di Milano da un coltivatore diretto e incaprettata alla studentessa eritrea aggredita a Milano da un
energumeno che accoltella il pensionato che interviene in sua difesa. Altro è il discorso, ovviamente, sulle bande di albanesi e nigeriani che con terribili violenze organizzano il racket della prostituzione, anche se, in molti casi, non mancano connivenze e complicità italiane. Qualche volta è difficile distinguere tra movente razziale e comportamenti criminali di altro tipo. Negli stessi giorni del pogrom di Torvajanica una ancora più feroce campagna di terrore è scatenata dalla camorra nell'Agro a nord di Napoli, un'altra zona ad altissima presenza di immigrati africani. I nove giorni di offensiva contro i «neri» - che secondo gli investigatori avrebbero messo in crisi il mercato della droga - trovano scarso rilievo sulla stampa nazionale che se la cava tutt'al più con trafiletti di dieci righe, senza cogliere né l'evidente legame tra i singoli episodi né la valenza anticipatrice delle pulsioni viscerali che sono poi affiorate in tutti i grandi centri urbani contro la microcriminalità extracomunitaria. Il 28 dicembre nel centro di Giugliano è gambizzato un ivoriano di ventidue anni. Il 3 gennaio due uomini fanno irruzione in un cascinale di via Camposcina, con la minaccia delle armi costringono a uscire quattro ghanesi e appiccano il fuoco. Gli immigrati perdono risparmi e documenti. Il giorno dopo a Tre Ponte, un'altra frazione della cittadina, tre pistolettate sparate da una Uno feriscono un ghanese ventitreenne. Il 5 il commando agisce ancora a bordo di una «Uno»: quattro colpi feriscono alle gambe due giovani africani. A Varcaturo - località balneare domiziana - è colpito alle due gambe un ventiduenne: rischia di perderne una per lesioni ossee e vascolari. Il giorno dopo alla rotonda di Qualiano due uomini in una Uno bianca targata Firenze sparano contro la Renault 5 di un nigeriano di vent'anni, e lo feriscono alla gamba destra: 30 giorni di prognosi. Nel mese di aprile i carabinieri arrestano il boss di Villa Literno, principale centro di immigrazione nell'Agro aversano: Nicola Zara sarebbe responsabile dell'esodo forzato di 300 africani, avendo minacciato i proprietari di alloggi e compiuto estorsioni sui datori di lavoro per fare terra bruciata intorno agli immigrati. Anche a Napoli è la camorra a gestire in prima persona le campagne d'epurazione: nel maggio 1997 giustizieri in azione in un bar di Porta Capuana, tra il vecchio Palazzo di giustizia e la stazione ferroviaria. Sono feriti, con una raffica di mitra alle gambe, cinque maghrebini, la moglie italiana di uno di loro, un «tossico» che sta comprandosi una dose di eroina e uno spacciatore plurischedato. Don Franco Rapullino, parroco anticamorra,
conferma: «Abito nel palazzo e quel bar è una centrale di spaccio. La gente del quartiere è stanca e tende a farsi giustizia da sola» . Le ronde antinegro contano sulla solidarietà esplicita della stragrande maggioranza degli «indigeni». La cosa era emersa con chiarezza alla fine dell'estate. Nella notte tra il 16 e il 17 settembre un incendio doloso distrugge il Ghetto di Villa Literno, principale centro dell'Agro Aversano, una baraccopoli nella quale vivono in condizioni igieniche disastrose un migliaio di immigrati. Alcuni testimoni vedono un uomo scendere da un'auto e appiccare il fuoco. Gran parte degli abitanti è nel Foggiano per la raccolta del pomodoro. L'attentato corona una campagna anti-immigrazione alla quale seguono polemiche per il reinsediamento degli abitanti del Ghetto che sono infine trasferiti al campo profughi di Capua. Alla testa dello schieramento proimmigrati si trova il vescovo di Caserta, Nogaro, un friulano testardo e coraggioso già protagonista di polemiche denunce contro il sistema di potere D.C. Al suo fianco si schiera un comitato nazionale con decine di artisti, da Fazio a Dandini, da Rossi a Nannini. Il concerto tenuto a Napoli per raccogliere fondi per il reinsediamento degli abitanti del Ghetto è un successo, ma gli abitanti di Villa Literno scendono in piazza per gridare il loro no alla presenza degli immigrati. Il corteo, con centinaia di partecipanti, ha luogo una settimana dopo il rogo: alla testa è il sindaco Tavoletta. Nell'aprile 1996 a Sant'Antimo, un centro a metà strada tra Aversa e la periferia settentrionale di Napoli, un appaltatore uccide un clandestino della Guinea: aveva lavorato in un suo cantiere e con un altro immigrato gli aveva dato 4 milioni in cambio dell'attestato di lavoro per regolarizzarsi ma il documento non arrivava. Gli chiedono i soldi indietro e sono presi a pistolettate. Uno muore, l'altro è ferito di striscio alla testa. E la tensione continua. Il giorno dopo il rogo del Ghetto un misterioso gruppo di fuoco entra in azione a Villa Literno: in poche ore, nel pomeriggio, in un'area di un chilometro quadrato, i killer fanno fuoco tre volte, uccidendo a colpi di canne mozze un nigeriano con legami con l'ambiente dello spaccio e ferendo altri tre africani . Nel dicembre 1996 l'azione ha caratteristiche più evidentemente politiche. A Castelvolturno, sulla costa domiziana, esplode una rivolta di immigrati per la morte di uno spacciatore africano: accusano i carabinieri di averlo massacrato di botte. Le prime indiscrezioni sull'autopsia escludono il pestaggio e puntuali entrano in azione i giustizieri bianchi. Quattro vetture di immigrati africani sono date alle
fiamme a Ischitella, azione rivendicata da un nucleo di Tutela delle forze dell'ordine. Qualche mese dopo sono arrestati un incensurato di trentaquattro anni, e la madre, cinquantun'anni, residenti a Castelvolturno: viene loro contestata l'aggravante della finalità di odio etnico, nazionale e razziale. E i roghi continuano, una ventina in un anno, fino a quando, nel giugno 1998, l'incendio di una Renault 9, sempre sulla costa domiziana, a Mondragone, uccide un quindicenne marocchino: l'auto in fiamme si schianta contro una porta di legno e il fuoco si propaga all'appartamento che ospitava il ragazzo . Era già successo, nell'Agro Aversano, che alla mobilitazione politica anti-immigrati facesse seguito, a stretto giro, l'iniziativa terroristica. Nei giorni del pestaggio di Colle Oppio, il clima di «caccia al naziskin» aveva portato alla ribalta della stampa nazionale i manifesti furiosamente xenofobi affissi dal M.S.I. di Caserta. Le successive polemiche - con la ferma condanna del vescovo Nogaro e la presa di distanza dell'ala moderata del partito - portano alla luce la presenza di una comunità militante su posizioni assai radicali sulla questione dell'immigrazione. Il suo ideologo, Lello Ragni, autore di un saggio contro il «capitalismo mondialista» sarà poi sottoposto a provvedimenti di polizia - ben presto revocati - nel blitz contro i naziskin, per la collaborazione alla rivista revisionista «L'uomo libero», la cui redazione è considerata il "brain trust" del movimento skin. Intanto però - mentre infuria la polemica sulle parole - qualche testa calda pensava bene di passare ai fatti. La notte del 28 gennaio 1992 un commando lancia molotov in uno dei locali del Ghetto. Per sfuggire al rogo gli ospiti si lanciano dalla finestra: 18 i feriti. La coincidenza con altri due incendi in alloggi di extracomunitari nel circondario fa pensare a una «notte dei fuochi» ma le perizie escludono il dolo per gli episodi di San Cipriano d'Aversa (una stufa a gas difettosa) e di Casaluce (un braciere rovesciato). In qualche occasione ha trovato riscontro nelle indagini l'ipotesi che a organizzare gli attacchi contro gli extracomunitari siano esponenti della malavita locale, legata agli affari spiccioli che il controllo del territorio offre (sfruttamento della prostituzione, piccolo spaccio). Bande familiari o di amici soffrono di più la concorrenza dei trafficanti maghrebini (per il «fumo»), centroafricani (per l'eroina) e dell'Est europeo (per la prostituzione). E' il caso dell'assalto contro il centro di accoglienza per extracomunitari del quartiere Pilastro, il santuario della mala bolognese. Su
quell'episodio, infatti, si è innescata una delle più velenose code della «strategia della tensione», la fase apertamente terroristica della cosiddetta banda della Uno bianca . La sera del 25 settembre 1990 un commando composto da una dozzina di persone lancia molotov contro la scuola elementare «Romagnoli», dormitorio di 300 extracomunitari al Pilastro. Il bersaglio sono una decina di piccoli malavitosi che dormono in auto scassate, elette a residenza per gli arresti domiciliari. La strage è evitata da un marocchino che si è svegliato per orinare. Quattro uomini sono catturati pochi minuti dopo con una bottiglia sporca di benzina e un manganello in auto. Si proclamano innocenti. E' contestata la finalità eversiva: il raid è considerato un attacco alla politica di accoglienza. Alcuni testimoni di accusa, picchiati, si trasferiscono da Bologna. Il processo di primo grado si conclude con una condanna severa: 7 anni. Tra i quattro spicca la figura di Davide Santagata, componente di «una famiglia molto numerosa che abita al Pilastro. Una famiglia di origine meridionale, molto chiacchierata nel quartiere e molto nota a Polizia e Carabinieri. In primo luogo per i precedenti penali di alcuni suoi componenti» (10). La storia si conclude meglio: in Appello il reato è derubricato in danneggiamento e tornano liberi dopo una condanna a 3 anni e 3 mesi . Non altrettanto bene va alla famiglia Santagata, trascinata in un gioco sporco da cui si salverà a stento e dopo grandi sofferenze. Nelle settimane seguenti si succedono a Bologna (con una puntata sulla Riviera romagnola), in un crescendo terroristico, attentati sempre più sanguinari, contro immigrati, che culminano nel massacro della pattuglia dei carabinieri in servizio di ronda intorno all'isolato dell'exscuola «Romagnoli». La sera del 10 dicembre ore 19,30, avviene l'attacco a mano armata contro il minuscolo campo nomadi di Santa Caterina di Quarto, cinque roulotte a quattro passi dal Pilastro. Fa freddo e i rom guardano la T.V. A bordo della Uno bianca quattro persone: l'uomo a fianco dell'autista con il volto mascherato, scende e spara con un mitra A.R.70, che usa proiettili calibro 5.62 NATO, poggiandosi al tetto e usando un retino per raccogliere i bossoli. Un terzo uomo tira dal finestrino posteriore con la pistola. Uno zingaro racconta: sembravano petardi e abbiamo aperto la porta. Le raffiche riempiono di fori due roulotte. Nove i feriti, due gravi: sette sono nomadi, due volontari bolognesi. Mezz'ora prima erano stati fatti saltare
con il tritolo, sul colle di Barbiano, i cavi del ripetitore della RAI, procurando il black-out T.V. da Modena a Ravenna ma lasciando integro l'adiacente ripetitore della Polizia. La notte del 20 dicembre assalto al Blue Line di Rimini, ritrovo dei maghrebini sul lungomare. Al grido di «fermi, polizia», il commando spara 15 colpi su un gruppo di tunisini, tutti a segno. Il bilancio: un morto, colpito una seconda volta mentre cerca di fuggire, e 7 feriti. Le vittime sconvolte commentano: sparavano come poliziotti o carabinieri. Sabato 22, alle ore 13,20, due persone a bordo di una Golf aprono il fuoco contro due marocchini che sbarcano il lunario lavando i vetri delle auto nei pressi dell'Ipermercato Coop a Borgo Panigale, alle porte di Bologna. Uno è colpito al braccio, l'altro al gluteo. Il giorno dopo il commando torna in azione, uccidendo due «sinti» (etnia zingara che vive da cinque secoli in Emilia) nel campo nomadi di via Gobetti e ferendone altri due: gravissima una bambina di sei anni. L'assalto è alle 8. La solita Uno entra tra le roulotte, alla guida c'è un uomo sui 30-35 anni, leggermente stempiato, robusto, faccia tonda. Una donna li invita a scendere per riscaldarsi, un uomo alto 1,85, capelli all'indietro, zigomi pronunciati la schernisce, poggia il mitra sul tetto (lo stesso A.R.70 usato a Santa Caterina di Quarto), spara all'improvviso, ammazza Rodolfo Bellinati, ventotto anni, modenese, che sta caricando rottami di ferro sul suo Ape. Patrizia Della Santina, quattro figli, si sporge dal finestrino: uccisa con un solo colpo alla fronte. Pallottole anche per la figlia più piccola di Rodolfo, Sara, sei anni, e per Lierje Llukaci, una rom proveniente dal Kosovo, trent'anni, ferita al collo: si era affacciata quando aveva sentito gli spari. Il marito l'aveva inutilmente invitata a tornare a letto, rassicurandola: «Lascia stare, sono i ragazzi che sparano petardi» . Testimoni riferiscono di aver visto la notte precedente i passeggeri di una Uno bianca parlare con l'equipaggio di una gazzella dei carabinieri, altri insistono su una circostanza sconvolgente: uno dei poliziotti che fa il sopralluogo nel campo dopo il massacro era tra i killer. Non sono creduti, per un pregiudizio razzista: altrimenti, una quindicina di persone avrebbero avuta salva la vita. A cominciare dai tre giovanissimi carabinieri, di pattuglia al Pilastro, che la sera del 4 gennaio 1991 sono uccisi in un'imboscata. Insospettiti dalla presenza di una Uno bianca nei pressi della «Romagnoli», già vittima dell'attentato dei pilastrini, cominciano a seguirla. Partono decine di colpi e due dei carabinieri reagiscono, uno spara un intero caricatore di M12, l'altro della Beretta
92, 35 colpi in tutto. I testimoni parlano di un'auto che segue la gazzella, l'affianca, apre il fuoco sull'autista, poi scendono tre uomini mascherati che sparano all'impazzata, con l'A.R.70, una calibro 38 e un fucile calibro 12, mentre la gazzella finisce in un cassonetto dei rifiuti. Per tutti c'è il colpo di grazia. Otello Stefanini è accasciato sul volante, morto sul colpo, Andrea Moneta e Mauro Mitilini sono riversi sull'asfalto. Sono le 21,45. I due passeggeri anteriori della Uno sono descritti coi capelli crespi, il colorito olivastro, il naso pronunciato. Un'ulteriore dimostrazione dell'inattendibilità dei testimoni in gravi fatti di sangue. Un teste - era in auto con la ragazza - racconta: «Avanzavano lentamente cadenzando i passi come in una danza macabra. Facevano paura perché si spostavano con perfetto sincronismo, muovendosi affiancati da sinistra a destra, come ho visto solo al cinema. Sparavano sui carabinieri e per ammortizzare i colpi del fucile, facevano una strana ginnastica che non potrò dimenticare: si chinavano, frazione di un secondo, sulle ginocchia. Poi, con disinvoltura, dopo aver sparato gli ultimi colpi a distanza ravvicinatissima, se ne sono andati via, nemmeno a passo veloce, sicuri» (11). E' ritrovata una 164 targata Varese, macchiata di sangue, una Uno bianca è abbandonata in fiamme in campagna: ha i fianchi trafitti dai colpi. L'agguato è rivendicato dai Legionari della guardia di ferro. Il «Resto del Carlino» offre una pista: l'equipaggio della gazzella era stato visto parlare 15 minuti prima con tre uomini scesi da una Uno bianca, la vettura che è il «logo» della banda terroristica. Uno è più alto di 1.80, come uno dei killer. L'uomo ferito a bordo dell'Alfa 164 è individuato nel luogotenente cutoliano Marco Medda, ergastolano evaso, giunto a Bologna in mattinata, segnalato nel pomeriggio a Borgo Panigale e alle 21.15 al Pilastro, rientrato nella notte ferito al piede nella sua casa di Paullo (Milano) lasciando sangue sulle scale. Due medici sono denunciati per favoreggiamento e così una ventina di pilastrini saranno inquisiti per associazione mafiosa per aver fatto da supporto logistico. Dopo qualche giorno William Santagata (il fratello era in cella a Trani con Medda quando evase il 27 luglio 1990) telefona da un bar del Pilastro alla donna di Medda: «Come sta lo zio Attilio e i suoi problemi di gambe?». Medda, due evasioni alle spalle, una con l'aiuto di un poliziotto, ripara a Milano per qualche settimana. E' arrestato a fine febbraio a Caserta, dove sopravvivono gli ultimi fedelissimi di Cutolo: il piede ha ancora tracce di ferita. Gli sequestrano
un M12 rubato a una pattuglia della Stradale di Bologna. In carcere ha avuto rapporti con i terroristi neri e con i potenti clan calabresi della piana di Palmi, sui cui traffici di armi con la massoneria indaga Cordova . Nel luglio 1992 i fratelli William e Peter Santagata e Massimiliano Motta sono arrestati con l'accusa di avere ammazzato i carabinieri del Pilastro. Si proclamano innocenti e sono sostenuti dagli abitanti del quartiere che inscenano una manifestazione di piazza. Ma Simonetta, una ragazzina di quindici anni, testimone chiave dell'accusa, che fa parte del gruppo di amici dei Santagata e li ha continuati a frequentare dopo la strage, racconta dopo mesi di tentennamenti di aver visto scintille uscire dalle mani di Peter. Si scoprirà poi che ha cambiato tre versioni prima di accusare i Santagata. La tesi del p.m. è che i Santagata odiavano i tunisini, che avevano messo nei guai Davide. Quella sera stavano controllando un passaggio di armi, traffico in cui Medda era specializzato. Tanto che c'erano tre uomini a volto coperto e armati di fucili pronti a intervenire in caso di bisogno. Medda doveva consegnare le armi a Peter e William, che le dovevano smistare alle bande minori, una costellazione di 50 uomini. I carabinieri arrivano durante lo scambio e sono investiti dal fuoco da tre direzioni. Il 7 settembre 1993 scatta una colossale operazione di polizia contro le bande del Pilastro: 191 arresti. I boss sono accusati di alcuni crimini della banda della Uno bianca, in particolare della strage dei carabinieri e della prima sparatoria al campo nomadi, e sospettati di aver fornito a bande romagnole - alcune delle quali con venature terroristiche - le armi usate per i delitti estivi sulla costa. Dopo la strage del Pilastro la banda ha messo al chiodo l'A.R.70 e firma i delitti con una Beretta 98S, presumibilmente rubata in un'armeria del centro di Bologna, dove la titolare e il suo uomo di fiducia sono stati uccisi il 2 maggio 1991. E' la prima mafia di generazione emiliana, cresciuta da piccole bande di quartiere, come quella degli «stivali neri», «coatti» fissati con gli anfibi e specializzati nei primi anni Ottanta nel succhiare benzina e compiere furtarelli e scippi e giunta a trattare alla pari con le cosche della 'ndrangheta e della "stidda". Cinquanta gli arresti al Pilastro, altri 20 a Bologna e poi a Catania, a Trapani, a Gela, in Toscana, a Modena, a Imola, ad Alessandria, a Milano. Il caso è riaperto dopo la cattura e le confessioni dei fratelli Savi, i poliziotti della banda della Uno bianca, mentre è in corso il processo contro Medda e i Santagata. I Savi
ammetteranno tra l'altro di aver compiuto gli assalti ai campi nomadi, la sparatoria contro i lavavetri, la strage del Pilastro, non il raid di Rimini. Solo allora, e nonostante l'ostinata resistenza del p.m. Spinosa, che cerca di mantenere in vita l'originario impianto accusatorio, la montatura giudiziaria si sgonfierà. Nessuno in precedenza aveva dato credito al teste che aveva visto i carabinieri uccisi parlare poco prima con i killer, e agli amici che scagionavano i Santagata, tutti regolarmente arrestati per falsa testimonianza e poi prosciolti . Nel corso delle confessioni i fratelli Savi si sforzano di minimizzare: abbiamo cominciato - dicono all'unisono - perché Fabio aveva debiti e Roberto era stanco di tirare a stento avanti, poi abbiamo continuato solo per scopi di lucro. Gli omicidi gratuiti dei testimoni erano per motivi di sicurezza, altri delitti il prodotto di circostanze casuali. Quello che è irriducibile a questa banalizzazione - la campagna terroristica che va dal primo assalto al campo nomadi alla strage del Pilastro - è fatto passare per un geniale e per alcuni versi profetico depistaggio. Al processo contro i pilastrini Roberto Savi ci prova. Al difensore di un imputato che gli chiede «perché sparaste a Santa Caterina di Quarto?» replica: «Volevamo spostare le indagini su chi aveva lanciato le molotov contro gli extracomunitari». L'avvocato insiste: «Anche il 4 gennaio volevate depistare?». «No», risponde il capo della banda, «quello che era stato fatto era più che sufficiente [...] per dare una direzione alle indagini: indagare sulla gente del Pilastro. Sui Santagata» (12). In un'altra occasione, più modesta, il depistaggio funziona. Lo racconta Fabio Savi. Avevano abbandonato in un bar di Catania assegni rapinati a Cesena, scatenando un piccolo regolamento di conti: il boss del quartiere ordinò di punire la batteria di rapinatori sospettati per la «trasferta» non autorizzata. Ed effettivamente cinque mesi dopo la rapina del Credito romagnolo di Cesena del 10 agosto 1992 una sparatoria in un bar di Catania coinvolge numerosi pregiudicati. Provvisionato, esperto di «misteri d'Italia», pur avendo consuetudine con le singolari coincidenze che innervano trent'anni di «strategia della tensione», si pone perplesso una domanda banale: «come è possibile depistare le indagini su un fatto che deve ancora accadere? Perché questo in realtà dice di aver fatto Roberto Savi: abbiamo assaltato i campi nomadi per far ricadere la colpa sui Santagata, un cui membro della famiglia era già rimasto invischiato in atti razzistici. Poi pochi giorni dopo abbiamo colpito al Pilastro, uccidendo, per motivi del tutto
casuali, cioè senza alcuna premeditazione, i carabinieri» (13). E per l'eccidio del Pilastro sono arrestati due Santagata. Escludendo le capacità divinatorie dei Savi restano due ipotesi che si escludono a vicenda: «o i killer della Uno bianca inventano oggi il depistaggio per coprire il vero movente razzista e terrorista degli assalti al campo nomadi. Oppure dicono la verità e allora l'eccidio del Pilastro non può più essere considerato un incidente di percorso, una strage non programmata, ma un attacco premeditato e studiato attentamente a tavolino, un'altra azione di puro terrorismo» (14). Le conclusioni al quale giunge Provvisionato - al termine di un'attentissima disanima delle varie fasi che caratterizzano la storia della banda - è che i fratelli Savi costituissero lo spezzone di una banda armata di Stato, attivata nel 1986-'87 e poi lasciata in sonno o libera di agire per conto proprio per alcuni anni, essendo i suoi attacchi criminali funzionali alla destabilizzazione dell'ordine pubblico nella regione vetrina dell'opposizione di sinistra già bersaglio prediletto nella stagione delle stragi, per poi, nella fase terminale della sua vicenda, ridursi a banditismo puro, con l'ambiguo coinvolgimento di una figura controversa come quella di Eva Mikula, accusata della partecipazione a una rapina con omicidio a Pesaro. «Sul finire del 1990», osserva Provvisionato, «i giustizieri assassini hanno come un sussulto. Non cercano più nemmeno di dissimulare il loro assoluto disinteresse per il denaro, per il profitto delle loro imprese criminali [...] e piazzano tra l'ottobre del 1990 e i primi di gennaio del 1991 otto azioni di una violenza inaudita che lasciano sul terreno ben 8 morti e 15 feriti, molto più delle vittime che la banda nell'insieme ha mietuto nei due anni precedenti. Inoltre, proprio nello spazio di questi tre mesi la banda della Uno bianca va dritta al cuore del suo problema: smette di cercare vittime occasionali, in occasionali conflitti a fuoco davanti ai supermercati, ma comincia a dare l'assalto ad inermi immigrati nordafricani fermi al semaforo, a pacifici abitanti di altrettanto pacifici campi nomadi, a pattuglie di giovanissimi carabinieri [...]. Questa fase della banda si protrarrà fino alla metà del 1991, quando, dopo altre sei vittime e un agguato a una pattuglia di carabinieri, che sembra la fotocopia dell'attacco al Pilastro, una misteriosissima telefonata della Falange armata dichiarerà messa in disarmo la banda stessa, ossia completamente disattivata» (15) .
La stagione puramente terroristica della banda della Uno bianca si innesta infatti in una fase di scontro frontale tra gli apparati di sicurezza atlantica e le frazioni politiche che di queste agenzie sono state espressione e riferimento. Questa crisi è un effetto paradossale del crollo del sistema sovietico: la scomparsa del nemico produce l'implosione del complesso politico-militare anticomunista. I protagonisti sulla ribalta mediatica di uno scontro senza esclusione di colpi sono il presidente del Consiglio Andreotti e il capo dello Stato Cossiga, che in diverse fasi hanno rappresentato la massima espressione politica del cosiddetto partito "amerikano". I primi segnali di battaglia sono nel luglio 1990: un ex-agente della CIA, Riccardo Brenneke, dichiara in un'intervista al T.G. 1 che CIA e P2 hanno finanziato il terrorismo italiano. Cossiga chiede e ottiene la testa del direttore, Nuccio Fava. Ne segue una campagna di stampa sui rapporti tra Cossiga e Gelli durante il sequestro Moro. Il giudice Casson che ha avuto da Vinciguerra precise indicazioni sulle responsabilità nelle stragi dell'apparato di sicurezza NATO, ottiene da Andreotti - maestro nell'arte di cedere le postazioni bruciate per consolidare le posizioni - il permesso di mettere il naso negli archivi del SISMI. Agli inizi di agosto il presidente del Consiglio ammette l'esistenza di una struttura clandestina di sicurezza, anticomunista, che sarà poi definita Gladio ma ne limita l'esistenza al 1972 (data in cui fu dissolto invece il braccio armato, la Legione, per il diretto coinvolgimento nel terrorismo nero). La guerra dei dossier intanto dilaga: sulla sinistra D.C. impegnata nella battaglia contro la legge "Mammì" sulle T.V. arriva la tegola del caso Orfei: il consigliere di De Mita è accusato dal SISMI di essere stato per anni un agente cecoslovacco. Ai primi di ottobre, dal covo B.R. di via Montenevoso a Milano, già perlustrato a fondo dodici anni prima, torna alla luce un ampio inedito del memoriale Moro, con giudizi feroci sugli amici di partito e precisi riferimenti a Gladio. Il 18 ottobre Andreotti consegna al presidente della Commissione d'inchiesta sulle stragi, Libero Gualtieri, il promesso dossier sulla struttura clandestina, reso di pubblico dominio il 23. Nei giorni successivi sono resi noti i retroscena del Piano Solo (gli esponenti della sinistra arrestati dovevano essere rinchiusi nella base dove si addestravano i gladiatori); Casson giunge a citare come testimone Cossiga che, contro una montante campagna politica e di stampa, difende ostinatamente la legittimità e l'onore di Gladio. Per una sinistra coincidenza la mattina della strage del Pilastro
sono tolti gli omissis a tutti i documenti sul progetto di golpe nel 1964 ed emerge con chiarezza il ruolo dei carabinieri nel primo progetto di eversione delle istituzioni democratiche. Questa crisi convulsa si assesterà nei mesi successivi. Nella sua fase più acuta giocano un ruolo destabilizzante i terroristi armati della Uno bianca e i professionisti della disinformazione della Falange armata, gente che lavora in orario di ufficio - per dirla con il ministro degli Interni Mancino - e ha piena disponibilità di una rete informativa nell'apparato pubblico. L'unico arrestato per le telefonate della Falange è Carmine Scalone, educatore penitenziario, considerato tra i più stretti collaboratori di Nicolò Amato (ma l'ex-direttore degli istituti di pena ha smentito la circostanza). Scarcerato nella primavera del 1994 dopo sei mesi di custodia cautelare, ha continuato a proclamarsi vittima di una macchinazione. Il p.m. romano Saviotti nell'inverno 1996 ne ottiene il rinvio a giudizio per associazione a delinquere con la finalità di sovvertire l'ordine democratico. Nella sua requisitoria sono individuati collegamenti tra le telefonate della Falange e la produzione di dossier ricattatori (vedi il caso Di Pietro) da parte di settori deviati dei servizi segreti. Saviotti cita alcune coincidenze significative: il giorno dopo una telefonata minatoria al presidente Scalfaro (saranno 41 in tutto) la figlia Marianna è fotografata (casualmente) in compagnia del chiacchierato architetto Salabè, coinvolto nell'inchiesta sui fondi neri del SISDE. La divulgazione della foto alimenta le polemiche. Il 9 giugno 1993 arrivano le prime minacce per il pidiessino Ugo Pecchioli, appena nominato alla testa del Comitato servizi: un mese dopo una rivista russa pubblica un dossier in cui si insinuano suoi contatti con il K.G.B. Le conclusioni alle quali giunge Provvisionato è che un gruppo interno ai servizi segreti, inserito a livello medio-alto, legato da rapporti di potere e di comune ispirazione ideologica con Gladio, abbia reagito allo smantellamento della struttura da una parte lanciando avvertimenti trasversali (non solo le telefonate dei falangisti ma anche i misteriosi furti ai danni del capo della polizia Parisi e all'interno di Forte Braschi) e dall'altro eterodirigendo la banda dei poliziotti rapinatori per gettare un'intera regione nel caos e nel terrore, secondo il tradizionale schema del terrorismo atlantico, di destabilizzare l'ordine pubblico per ristabilizzare l'ordine politico. A questo modello operativo e a un simile disegno strategico allude uno degli imputati chiave dell'inchiesta sulla Rosa dei venti, Roberto Cavallaro. Il sedicente magistrato militare, in
realtà sindacalista, sottolinea, nel quadro dell'Organizzazione X (la rete di sicurezza atlantica poi identificata con Gladio), il ruolo dei gruppi paralleli (Ordine nuovo, MAR, la Fenice, Giustizieri d'Italia, Rosa dei venti), gestiti da personaggi non di alto livello: «Questi gruppi si scaricano con facilità, il più delle volte bastano pochi milioni, altre volte (se non funzionano i milioni) è necessario gettarli nelle braccia della giustizia. Spesso, poi, questi gruppi continuano ad agire con attività proprie, isolate, per lo più demenziali, fino al momento in cui se ne può ancora aver bisogno: allora si vanno a recuperare» (16). L'intervista, profetica, è del '74: il riferimento di occasione è alla sciagurata iniziativa di Rampazzo e Sedona, che si erano fatti arrestare, nell'ottobre del '73, mentre si accingevano a rapinare una banca a Lido di Camaiore, facendo uscire allo scoperto l'attività eversiva del nucleo padovano. Eppure, decontestualizzando, l'analisi di Cavallaro combacia perfettamente con l'andamento ciclico delle attività della banda della Uno Bianca. Nei giorni convulsi nei quali con la massima furia si dispiega l'iniziativa terroristica dei killer della Uno bianca - che nella settimana tra Natale e Capodanno avevano anche ucciso due passanti dopo una rapina a un benzinaio - diversi nuclei armati entrano in azione, per rilanciare la campagna contro gli zingari. Dal 4 al 12 gennaio si registrano sette attacchi a campi nomadi della Capitale: il 4 molotov contro le roulotte della Magliana, il 5 colpi d'arma da fuoco alla Casilina, il 6 spari a Tor Bella Monaca, l'8 sparatoria a via Sansotta, il 9 un ordigno esplosivo all'Aurelia e pistolettate a via Tiburtina, il 12 la settimana di fuoco è chiusa da un nuovo attacco a mano armata a Tor Bella Monaca. I 13 colpi d'arma da fuoco a Bergamo e lancio di molotov a Firenze. Se per questi ultimi due attacchi non è possibile escludere effetti imitativi, è evidente che il carattere sistematico degli attacchi romani siano il prodotto di un cervello politico-militare, evidentemente intenzionato a dare continuità ed estensione all'offensiva della banda della Uno bianca . NOTE . (1). C.M., "Svastiche e bombe gay", «Corriere della Sera», 5 gennaio 1996 . (2). Dino Martirano, "I naziskin: volevamo divertirci", «Corriere della Sera», 24 febbraio 1995 . (3). Ibidem .
(4). Alessandra Castellani, "Senza chioma né legge", Roma, Il Manifesto libri, 1994, p. 27 . (5). Ibidem . (6). Ibidem . (7). Giuseppe Valerio Fioravanti - Francesca Mambro, «l'Unità», 11 dicembre 1992 . (8). "Condannato l'aggressore dell'handicappato «nero»", «il manifesto», 5 maggio 1995 . (9). Emanuela Gasbarroni, "Botte all'immigrato", «la Repubblica», 21 novembre 1994 . (10). Sandro Provvisionato, "Giustizieri sanguinari. I poliziotti della Uno bianca", Napoli, Tullio Pironti, 1995, p.p. 154-55 . (11). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA . (12). Ivi, p.p. 153-54 . (13). Ivi, p.156 . (14). Ibidem . (15). Ivi, p. 160 . (16). Barbacetto, "Il Grande...", cit., p. 71 . LA LOGGIA DI FREDA . La scelta degli zingari come bersaglio rispecchia la «scala di intolleranza», degli italiani (che vede al primo posto nomadi e drogati) e rivela per altro un attento lavorio di "intelligence": a dicembre, infatti, si sono compiuti e formalizzati due distinti processi di aggregazione nell'ala più xenofoba e radicale dell'estrema destra politica. Da un lato il Veneto fronte skinhead, i milanesi di Azione skinhead e i romani di Movimento politico hanno dato vita all'associazione Skinhead d'Italia. Dall'altro Freda, insieme a 49 fedelissimi, ha fondato il Fronte nazionale, col dichiarato scopo di perseguire la «cacciata degli allogeni». Le due formazioni - per le teste pensanti della nuova campagna terroristica - potrebbero costituire un ottimo catalizzatore: e infatti i frequenti episodi di violenza razziale saranno sistematicamente attribuiti al movimento skin anche se solo in qualche occasione è effettivamente opera di militanti neofascisti. Sulla spendibilità del nome di Freda - e del suo braccio destro Cesare Ferri, perseguito per anni per la strage di Brescia - come ispiratore di una nuova stagione terroristica, qualche vecchia volpe dei servizi segreti deve averci fatto un pensierino. Un paio di anni dopo, mentre infuria la nuova stagione dello
stragismo (da via Fauro a via Palestro), c'è un tentativo grottesco di accollare all'ideologo nero - arrestato per le attività del Fronte nazionale - la responsabilità dell'ultima strage: uno spacciatore di eroina, detenuto come Freda nel carcere di Vicenza, racconta ai giudici di avere ricevuto confidenze dal leader neofascista. Avrebbe organizzato lui l'attentato contro il Padiglione di arte contemporanea a Milano (cinque morti nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993). La cosa si rivela ben presto una colossale bufala: il detenuto non ha mai incontrato Freda, che gli spacciatori li manderebbe nei lager. Il leader del Fronte nazionale non intende compromettersi di nuovo coi «giochi di guerra». E' già stato bruciato in gioventù dall'intelligenza luciferina: l'ambizione di piegare i servizi segreti (con cui per qualche anno ha fornicato) al proprio progetto politico gli è costata 12 anni di carcere. Eppure Freda ha continuato a difendere pubblicamente quella scelta politicamente suicida (e sudicia, sottolineano i militanti della successiva generazione dello spontaneismo armato) confermando «il convincimento che il Giannettini, del cui idealismo non ho mai dubitato, si proponesse di persuadere settori al vertice delle forze armate italiane delle sue tesi geopolitiche (anti-NATO e filorusse) e che per questo, per avere periodici contatti con loro come 'consigliere' politico non richiesto, recitasse la parte dell'informatore» (1). «Al contrario», osserverà Provvisionato, «furono i servizi segreti a 'mettere il cappello' sul partito del golpe che, pur restando al suo interno diviso tra un'ala oltranzista e l'altra meno intransigente, diventerà da quel momento lo strumento privilegiato per ogni azione innominabile che avverrà in Italia. Proprio a cominciare dalla strage di piazza Fontana» (2) . Di quell'errore di gioventù Freda porta un segno nelle carni, le ferite subite in un'aggressione nel carcere di Novara. Tornato in libertà nel 1985 si è affannato per anni a spiegare che non aveva intenzione di fare politica, anzi (esagerando) ha ripetutamente negato di averla mai fatta. Il suo, si è schernito, è solo allevamento «pollitico». Pedagogia rivoluzionaria, opera lenta di formazione di una nuova generazione di «uomini differenziati» che possa portare la sua testimonianza oltre il crepuscolo del Kali-Yuga. Sembrava aver fatta propria la critica feroce di Zani: «Freda? Tanto di capello per la sua opera di editore, ma nulla da vedere con la lotta rivoluzionaria» (3). Poi, improvvisa, la folgorazione. Col montare di uno stato d'animo xenofobo che dalle viscere del Paese profondo affiora in superficie nelle prime ondate
leghiste, Freda decide di riscendere in campo, mettendo in cantina la lezione di Evola che ha sempre condannato le semplificazioni «biologiche» del razzismo nazista. Erigendosi a paladino della civiltà europea minacciata dall'«invasione allogena» compie una clamorosa regressione ideologica rinnegando le tesi rivoluzionarie della "Disintegrazione del sistema". Al giornalista che gliela contesta replica piccato: «Sono stato chiamato... » (4) . Vent'anni prima il «manifesto del militante del fronte europeo» aveva demolito il mito dell'Europa nazione, tanto caro ai giovani fascisti: «Agli inizi [...] credevamo che l'Europa fosse veramente un mito, e rappresentasse un'idea forza: [...] gli stessi ragazzotti neofascisti guaiscono: Europa-Fascismo-Rivoluzione [...] senza verificare se esista in realtà un'omogenea civiltà europea [...] alla luce di una situazione storica mondiale per cui il guerrigliero latinoamericano aderisce alla nostra visione del mondo molto più dello spagnolo infeudato ai preti e agli USA; per cui il popolo guerriero del Nord Vietnam, col suo stile sobrio, spartano, eroico di vita, è molto più affine alla nostra concezione dell'esistenza che il budello italiota o franzoso o tedescooccidentale: per cui il terrorista palestinese alle nostre vendette dell'inglese (europeo? ma io ne dubito!) giudeo o giudaizzato [...]. L'Europa è una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli e che ha contratto tutte le infezioni ideologiche [...] una baldracca il cui ventre ha concepito e generato la rivoluzione borghese e la rivolta proletaria; la cui anima è stata posseduta dalla violenza dei mercanti e dalla ribellione degli schiavi. E noi, a questo punto, vorremmo redimerla?» (5). Vent'anni dopo la risposta è positiva. Il programma del Fronte nazionale, «sodalizio politico che intende custodire i lineamenti essenziali che formano lo Stato nazione...» (6), è chiarissimo: «la lotta senza tregua all'immigrazione extraeuropea, la bonifica e il risanamento della vita nazionale dai vari agenti di disfacimento, la segregazione progressiva dei veicoli di infezione sociale, la difesa inattenuata del lavoro e dell'occupazione, la restituzione ai membri della comunità nazionale di spazi di vita sociale» (7). Che poi la sua organizzazione raccogliesse una settantina di militanti in tutta Italia nonostante la felice intuizione sul potenziale di massa della tensione xenofoba è la prova che Freda con la politica «non ci azzecca proprio». Che poi 49 militanti del Fronte nazionale siano stati condannati in primo grado per ricostruzione del partito fascista (Freda a 6 anni, Ferri e Gaiba a 4 anni,
gli altri a pene decrescenti: e per Ferri è la prima condanna dopo le assoluzioni in serie collezionate per Ordine nero, il MAR di Fumagalli, l'omicidio Buzzi e la strage di Brescia) serve solo a confermare lo scollamento tra l'esercizio della giurisdizione e la realtà effettuale delle cose. Nel silenzio generale: l'unica voce contro è quella di Luca Bajona, dirigente veronese di Alleanza nazionale, che definisce la condanna di Freda e dei militanti del F.N. «un grave atto di intolleranza» . E' un nome, quello di Freda, che può essere speso su molti tavoli, come nel luglio 1995 quando più di 250 ordini di cattura sono emessi per i rapporti tra terroristi neri e criminalità organizzata, sullo sfondo della rivolta del 1970 per Reggio capoluogo. La sua fuga dal soggiorno obbligato di Catanzaro diventa l'occasione - secondo alcuni pentiti della 'ndrangheta - per stringere il patto tra servizi segreti, massoneria e mafia (anche se una diversa scuola di pensiero dietrologico afferma che il «triangolo maledetto» fosse attivo da anni e la sua scoperta sia costata la vita al p.m. Occorsio). Freda era scappato da Catanzaro tra la fine di settembre e i primi giorni di ottobre del 1978. Il 19 maggio 1979 lascia l'Italia e in sei giorni arriva a San Juan di Costarica, dove è arrestato il 20 agosto. Il pentito Calore aveva raccontato un'altra storia: «Verso la fine del mese di settembre 1978 a casa di Aleandri a Roma, mi incontrai con Fachini che mi informò che era in fase esecutiva il progetto di permettere l'allontanamento di Freda dal soggiorno obbligato a Catanzaro. Aleandri e Fachini mi dissero che già da diversi giorni stavano cercando di mettere a punto l'operazione ma che le persone che intendevano utilizzare per portarla a termine, si trattava di persone dell'ambiente di Vigna Clara, a quanto mi dissero, si erano dichiarate all'ultimo minuto indisponibili. Mi fu chiesto allora se nel giro di una giornata ero in grado di reperire quattro persone e un paio di automobili per portare a termine l'operazione. Io allora avvisai Pancrazio Scorza, Ulderico Sica, Fausto Latini e Benito Allatta. Una delle autovetture doveva essere quella 127 di Fausto Latini, mentre l'altra me la feci prestare senza dire a cosa mi serviva da [...] l'operazione riuscì. Freda a quanto mi disse Fachini avrebbe preferito restare in Italia essendo però assistito per tutte le sue necessità da 4 o 5 persone che avrebbero dovuto essere a sua disposizione. Noi facemmo sapere che tale soluzione non era praticabile e che se Freda fosse restato in Italia avrebbe dovuto attenersi alle norme che disciplinavano la vita dei latitanti» (8). L'inchiesta calabrese nasce a Milano dal lavoro a
tappeto sui pentiti del giudice Salvini e del capitano Giraudo. Alla procura antimafia di Reggio arriva un Tir di carte. Le indagini procedono nel riserbo consueto: già quattro mesi prima del blitz di luglio, stampa e televisioni annunciano 500 ordini di cattura per la connection terrorismo nero-'ndrangheta-servizi segreti. A Reggio si consuma così la madre di tutte le disfatte per il tanto vilipeso segreto istruttorio. «La Repubblica» del 30 marzo 1995 ha titolato: "I rapporti tra mafia, massoni, eversione nera e servizi deviati al centro dei controlli. Dai disordini del 1970 alle bombe sui treni. Nuova luce su più di vent'anni di criminalità. «Fate 500 arresti». Reggio: MAXINCHIESTA DALLA RIVOLTA A OGGI". «Avvenimenti» è più preciso: parla di 463 richieste di custodia cautelare e segnala il puntuale viaggio di Gelli a Reggio per controllare la situazione (dal primo al 3 aprile) . Il 18 luglio sono emessi 317 ordini di cattura contro 259 persone: 100 gli arresti, 76 le notifiche in carcere. Al termine della grande retata una sessantina di persone sono dichiarate irreperibili (27 erano latitanti da tempo). Le richieste di rinvio a giudizio sono complessivamente 502. Tra gli arrestati molti nomi di spicco: dall'ex-deputato socialdemocratico Paolo Romeo, ritenuto uno dei capi della 'ndrangheta, all'avvocato della famiglia Moro, Giuseppe Ruggiero, exmembro del C.S.M., accusato di aver intascato più di un miliardo per aggiustare processi. Gli avvisi di garanzia colpiscono ancora più in alto: l'ex-ministro Riccardo Misasi, numero uno della D.C. calabrese e il presidente della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale, sono indagati per associazione mafiosa. Il primo come componente della «corona», una specie di supercupola, e il secondo per aver accettato soldi per «sistemare» i processi. Per la strage di Gioia Tauro (sei morti nell'estate 1970 per quello che in un primo momento fu classificato come un incidente ferroviario) sono indagati due leader del Comitato d'azione per Reggio capoluogo, eletti al Parlamento nelle liste del M.S.I. il 27 marzo 1994: il senatore Renato Meduri e il deputato Fortunato Aloi, sottosegretario alla Pubblica istruzione nel governo Berlusconi. Per i finanziamenti alla rivolta di Reggio - sulle cui barricate sono saliti i picciotti della 'ndrangheta - è indagato l'armatore Amedeo Matacena senior, padre del deputato di Forza Italia per cui è stato chiesto l'arresto in un'inchiesta sulle cosche della piana di
Sibari (nel 1992 avrebbe comprato voti per il vicesegretario liberale Bastianuni) . Un testimone autorevole, Mario Tuti, in tempi non sospetti, ridimensionava seccamente la volontà rivoluzionaria del gruppo dirigente della rivolta: «Proprio in quel periodo mi ero reso conto che il M.S.I. (a cui sono stato iscritto fino al 72) non aveva alcuna voglia di impegnarsi in avventure armate e lo stesso poteva dirsi per i vari gruppi extraparlamentari, visto che tutti si erano attivamente impegnati a mantenere sul piano della semplice manifestazione di piazza la rivolta di Reggio Calabria, mostrando chiaramente come in definitiva mirassero solo a risultati elettorali. E invece per me già allora Reggio Calabria sarebbe stata l'occasione preziosa, e come al solito sprecata, di dare una legittimazione e una base popolare alla rivolta armata contro il regime e magari per cercare di realizzare in Aspromonte i nostri sogni guerriglieri [...]. E siccome del nostro gruppetto pisano facevano parte diversi ragazzi calabresi che studiavano a Pisa - e di due ero particolarmente amico e sono andato diverse volte a trovarli proprio nei momenti caldi della rivolta - avevo potuto toccare con mano la scarsa voglia, anzi proprio l'opposizione ad ogni tentativo di alzare il livello dello scontro» (9). In quei mesi, del resto, per Reggio passano, e sulla rivolta puntano, tutti i protagonisti della seconda ondata del terrorismo nero, da Concutelli a Vinciguerra. Una secca censura dell'inchiesta reggina viene dal Tribunale della libertà che il 29 settembre rimette in libertà l'onorevole Romeo perché la procura si è limitata a usare le dichiarazioni dei collaboranti senza sottoporle al vaglio critico e quindi mancano elementi di certezza. La difesa ha facile gioco a dimostrare come uno dei pentiti che lo accusano, Filippo Barreca, ha modificato le sue dichiarazioni dopo essere entrato in contatto con l'altro collaboratore Giacomo Lauro. Il primo grado di giudizio si è comunque concluso male per l'ex-parlamentare, con una condanna a 7 anni di carcere . Il primo terrorista nero a denunciare l'esistenza della connection è Vinciguerra: «Durante il tentativo di golpe Borghese vi fu la possibilità di mobilitare quattromila uomini messi a disposizione in Calabria da Giuseppe Nirta» (10). La cosa non ha seguito perché i congiurati chiedono un elenco nominativo degli 'ndranghetisti mobilitati con compiti di polizia (l'arresto di militanti politici e sindacali di sinistra) ed essere schedati per «fare gli sbirri» non va a genio ai «fuorilegge»
calabresi. Nirta senior sarebbe stato tra i protagonisti della svolta a destra della 'ndrangheta, organizzazione che ha avuto a lungo nei ranghi militanti e dirigenti di base del P.C.I., partito al quale si sentivano vicini molti boss della Locride per la sua carica antistituzionale e la vocazione a difendere gli interessi popolari. La svolta è ratificata in un summit a Montalto il 26 ottobre 1969, il giorno dopo il comizio del comandante Borghese a Reggio Calabria, che dà il via a una campagna di attentati terroristici nel capoluogo a opera del Fronte nazionale. Ad arricchire il fascicolo le confessioni di due pentiti di 'ndrangheta, l'ex-avanguardista reggino Carmine Dominici e il boss Lauro che ricostruisce i rapporti tra mala e «neri» durante la rivolta, confermando che a provocare la strage di Gioia Tauro (6 morti e 57 feriti per il deragliamento della Freccia del Sud il 22 luglio del 1970 otto giorni dopo l'inizio della rivolta) è stato un sabotaggio dei binari, fatti saltare con il tritolo da tre fasciocriminali, tutti già morti per cause naturali . Le accuse di Lauro sono verbalizzate nel 1993 e si fondano sulle confidenze di un amico morto in carcere nell'87: «Ho conosciuto Vito Silverini negli anni 1969-'70 perché era venuto a chiedere lavoro presso l'impresa Lauro che all'epoca gestiva servizi di pompe funebri, ambulanze e fiori [...]. Durante i moti di Reggio era stato arrestato per aver partecipato attivamente alla rivolta e rimase in carcere per circa tre o quattro mesi. Silverini è un fascista di provata fede anche se era analfabeta. Dopo essere uscito dal carcere lavorò presso la mia impresa come operaio generico e mangiava a casa mia quasi tutti i giorni perché viveva da solo. In quel periodo frequentava il Comitato d'azione per Reggio capoluogo e quindi frequentava tutti gli esponenti del gruppo tra cui Renato Meduri, Natino Aloi, Angelo Calafiore, Ciccio Franco e altri» (11). Lauro si ritrova con Silverini in carcere e, sapendolo senza famiglia, si preoccupa delle sue condizioni: «Un giorno gli chiesi se avesse problemi economici e lui mi rispose che aveva un piccolo gruzzolo da parte, frutto di alcuni 'lavori' che aveva eseguito in passato. In particolare per aver messo una bomba sui binari lungo la tratta Bagnara-Gioia Tauro che provocò il deragliamento di un treno che proveniva dalla Sicilia e la morte di sette-otto persone [...]. Io ricavai l'impressione che a dare materialmente i soldi a Silverini fosse stato Renato Meduri con il quale, sia prima che dopo questo episodio, manteneva rapporti strettissimi» (12). Mentre le accuse contro il senatore di Alleanza nazionale sono frutto di un'impressione,
l'esecuzione dell'attentato è descritta con grande dovizia di particolari: «Silverini mi raccontò che aveva portato la bomba insieme a Vincenzo Caracciolo sulla moto Ape di quest'ultimo e che lui stesso aveva confezionato l'ordigno, composto da candelotti di dinamite con accensione a mezzo miccia. Silverini era pratico della preparazione di ordigni esplosivi perché, come lui stesso mi aveva detto, aveva fatto il militare presso il Genio a Bolzano. Mi disse che si era nascosto nei pressi del luogo ove aveva collocato la bomba per vedere gli effetti della stessa e di aver visto il questore Santillo, giunto poi sul luogo, che gridava infuriato. Mi disse ancora che la bomba aveva provocato la distruzione di circa settanta metri di binari e che l'incarico gli era stato conferito dal Comitato d'azione» (13). Per i due parlamentari le accuse sono «totalmente false»: Meduri denuncia per calunnia «quei tristi figuri», Aloi, stupito dall'avviso di garanzia, definisce l'attentato «doloroso e mostruoso». Sdegnata la reazione del presidente del Consiglio regionale Giuseppe Scopelliti, segretario nazionale del Fronte della gioventù, un reggino che la rivolta non l'ha fatta (aveva tre anni) eppure «è un fatto che appartiene a tutto il popolo di Reggio, ma se ci sono prove di coinvolgimenti di mafia, massoneria e servizi segreti deviati è bene che si sappia e che si vada fino in fondo» (14). Lo spettro delle dichiarazioni degli esponenti di Alleanza nazionale dopo il blitz rende conto venticinque anni dopo della complessività della rivolta. Si va dalla stretta dichiarazione di appartenenza di Gasparri («Ripropongono un minestrone ideologico-giudiziario già cucinato. Ricetta da anni Settanta. Ci manca solo la CIA e il quadro è completo. Nessuno nega che lì ci sia la criminalità organizzata ma è contigua al potere, non contro») (15) alle argomentate contestazioni del vicepresidente del Senato Misserville e dell'ex-ministro dell'Ambiente Matteoli: «La rivolta di Reggio», dichiara il senatore, «non è stata un episodio di poco. Se ci fossero stati sospetti di collusione con la mafia, li avrebbero evidenziati e colpiti sin da subito. Non vorrei che questo di Reggio fosse il primo di una serie di fulmini contro di noi». «Sono esterrefatto», incalza l'ex-ministro, «in tanti anni di Anti-mafia, mai è emerso alcun sospetto di saldatura tra 'ndrangheta e rivolta. Ci avrebbero scannato. Ho riletto anche la relazione di Violante. Non c'è cenno» (16) . L'ex-sottosegretario alla Difesa, il palermitano Guido Lo Porto, prende le distanze: «Fu una vera insurrezione di popolo contro chi prometteva
e non manteneva. Che ci siano state strumentalizzazioni politiche non c'è dubbio. Ricordo i prodromi del brigatismo, ma anche gruppi radicali di destra. Probabilmente, non ho elementi per dirlo ma lo suppongo, ci sono anche state le strumentalizzazioni dei servizi segreti. Alla fine, comunque, grazie ad Almirante, sulle tentazioni pseudo-rivoluzionarie prevalse la destra legalitaria e democratica» (17) . Lo Porto può essere stato spinto a particolari prudenza e distacco per un condizionamento psicologico (un anno prima il pentito di una cosca lo aveva accusato di essere organico a Cosa nostra) ma in effetti, tranne un incidente «giovanile» (l'arresto con Concutelli nel 1968 mentre si addestrava a sparare col mitra: aveva trentadue anni), è sempre stato saldamente moderato. E coglie nel segno quando evidenzia la doppiezza della rivolta. Il M.S.I. fu colto alla sprovvista e in un primo momento prese le distanze per poi decidere di cavalcare la tigre sulla spinta della massiccia adesione popolare, realtà storica che da diversi punti di vista è confermata da Teodoro Buontempo e Mirko Tremaglia. «Er Pecora» polemizza: «La destra tradì il popolo. Fummo scelti dai reggini, non il contrario. Ma la destra incanalò la protesta verso il regime e non ebbe il coraggio di andare fino in fondo [...]. Io ero giovane e ricordo all'epoca la nostra rabbia. Reggio rappresentò la prima rivolta antipartitocratica. Ma la rivoluzione finì ai banchi del Consiglio comunale» (18). Il notabile bergamasco calca la mano sulle due anime del M.S.I. agli inizi degli anni Settanta: «La rivolta fu una cosa tutta reggina. Andavano per conto loro [...]. Lo stesso Ciccio Franco, altro che guidarli, ne interpretava gli umori. Quando apprendemmo della rivolta, i più giovani ne erano galvanizzati. Ma il partito restò distaccato. Dopo, fummo vicini e apprezzammo» (19). Per un'altra campagna di attentati ai treni, rivolta a impedire la grande manifestazione sindacale per «liberare Reggio» (otto bombe nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972) - la campagna fu immortalata nella canzone di Giovanna Marini "I treni per Reggio Calabria" - gli avanguardisti - secondo Vinciguerra - avrebbero usato timer dello stesso lotto della strage di piazza Fontana (un consistente quantitativo di quel tipo è stato acquistato da Freda e poi - a suo dire - ceduto a un sedicente ufficiale dei servizi algerini). Una notizia di seconda mano: all'epoca Vinciguerra era reggente di Ordine nuovo a Udine e solo in Spagna, nel 1974, è entrato in A.N. I «picciotti» avrebbero compiuto nel corso della rivolta una cinquantina di attentati dinamitardi .
L'idea-forza che 'ndrangheta e massoneria fossero un'unica realtà e che la P2 si fosse rigenerata nella rete di logge coperte che facevano capo alla Grande loggia di piazza del Gesù ha pervaso l'indagine estesa sul territorio nazionale nel 1992 dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova, protagonista di un durissimo scontro con il presidente della Repubblica Cossiga, deciso a tutelare la libertà di associazione massonica. L'intero impianto accusatorio dell'Operazione Olimpia proprio per lo sforzo esasperato di sistematizzare e ridurre a unità di una realtà complessa e contraddittoria - lascia perplessi. E' probabile che numerosi 'ndranghetisti abbiano partecipato alla rivolta: da alcuni secoli la base di massa dei "mob" urbani è costituito da lumpen. Molti neofascisti sono passati nei ranghi della malavita ed è possibile che all'inizio degli anni Settanta esistessero rapporti personali tra ultrà neri e malandrini poi sfociati in rapporti criminali organici. Quello però che i 27 «pentiti» e i magistrati non possono riscrivere è la storia della 'ndrangheta come associazione criminale, che alla fine degli anni Sessanta è un fenomeno prevalentemente rurale, con caratteristiche fortemente arcaiche. L'accumulazione primitiva di capitali che permetterà alle cosche reggine di compiere il processo di modernizzazione e di affacciarsi sul mercato internazionale degli stupefacenti accadrà soltanto nella seconda metà degli anni Settanta, con la conquista degli appalti sul porto di Gioia Tauro (che ricopre lo stesso ruolo storico del sacco edilizio di Palermo negli anni Sessanta per Cosa nostra, e della Ricostruzione dopo il terremoto del 1980 per la camorra napoletana) e i sequestri di persona organizzati in mezza Italia da affiliati inviati al soggiorno obbligato. E questo è evidente nel primo grande processo contro la nuova 'ndrangheta dove il «banchiere» del clan De Stefano, Carmelo Cortese, risulta fallito per non essere riuscito a incassare cambiali di piccolissimo taglio per 300 milioni, emesse da centinaia di clienti per pagargli la biancheria comprata a rate. Il maggior clan reggino non dispone di una liquidità relativamente modesta né è in grado di garantire un controllo del territorio tale da impedire la bancarotta del suo «forziere». Carmelo Cortese titolare della RAF, fabbrica di biancheria con 30mila clienti in Calabria (socia di minoranza la moglie di Paolo De Stefano), è imputato nel primo maxiprocesso per il vorticoso giro di assegni postdatati con esponenti di spicco del clan (uno risulterà intestato anche al marchese Zerbi, proconsole reggino di Delle Chiaie, ma è dimostrato che i due non si
conoscono), metodo truffaldino per garantirsi a vicenda liquidità. Una sola denuncia per contrabbando, sotto processo per peculato, ma anche numerose onorificenze per l'attività imprenditoriale e una passione maniacale per le frequentazioni con mafiosi di alto rango, Carmelo Cortese riporterà una condanna irrisoria: 18 mesi con un anno di condono. E due anni dopo figurerà regolarmente nel piè di lista della loggia P2. Per sostenere l'ipotesi di una massiccia confluenza di 'ndranghetisti nelle logge, occorre superare l'ostacolo dell'evidente incompatibilità tra due associazioni che pretendono entrambe fedeltà assoluta. A questo scopo i «pentiti» hanno riscritto l'organigramma della 'ndrangheta, inserendo la figura del santista, autorizzato ad avere rapporti con massoni ma anche con poliziotti e confidenti (condotta assolutamente vietata dai codici d'onore). Un rito di giuramento sequestrato a Giuseppe Chillà prevede il rinnegamento dell'onorata società per abbracciare quella dei «fratelli muratori» . L'inchiesta sulla fuga di Freda trae nuovo slancio dal pentimento di uno degli 'ndranghetisti che lo aveva ospitato nei sei mesi di soggiorno italiano, Filippo Barreca, già assolto per insufficienza di prove nel maxiprocesso sugli appalti per Gioia Tauro. Per uscire dal carcere era riuscito a farsi diagnosticare un presunto tumore: «Un giorno», ha raccontato al p.m. della D.N.A. (Direzione nazionale antimafia) Enzo Macrì, «Paolo Martino venne a casa mia insieme a Franco Freda. Mi disse che lo mandava Paolo De Stefano e che dovevo ospitare il latitante per una ventina di giorni. Vennero a trovarlo a casa mia Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Sapevo da varie fonti che l'avvocato Romeo era massone e apparteneva a Gladio. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti, ma non so dire in che modo» (20). Con l'avvocato Romeo e i fratelli De Stefano siamo nel cuore della connection. L'avvocato era stato arrestato nel 1980 e processato con la moglie per favoreggiamento di Freda: nel 1992, eletto deputato con il P.S.D.I., diventa segretario della Commissione di vigilanza RAI e riceve una richiesta di autorizzazione a procedere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pentiti sarebbe stato lui, leader della rivolta e dirigente di A.N., a promuovere l'incontro tra il comandante Borghese e i fratelli De Stefano per sancire il patto 'ndranghetaeversione nera. I De Stefano (entrambi uccisi nelle guerre di 'ndrangheta che insanguinano Reggio dalla seconda metà degli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta: Giorgio dagli eredi di don Momo
Tripodo, Paolo dai killer dei Condello, ex-alleati) erano personaggi di assoluto rilievo, accusati di contatti sistematici con i bravi ragazzi della Magliana (Paolo è anche coimputato del «banchiere» della banda, Enrico Nicoletti), sospettati per l'Anonima sequestri che aggregava marsigliesi, terroristi neri ed elementi collegati con la massoneria «coperta». Secondo i «pentiti» sarebbe stato don Paolo a istigare e garantire l'alleanza strategica tra eversione nera e 'ndrangheta: il boss raccontano agli inquirenti - disse che dovevamo prepararci alla guerra civile e infiltrarci nella rivolta per pilotarla. Giorgio è accusato di aver commissionato nel 1973, a rivolta abbondantemente consumata, un attentato terroristico contro un esercizio della catena Upim . Ad accompagnare Freda a Reggio sarebbero stati due massoni legati ai servizi segreti: un ufficiale medico del SISMI e un dipendente del museo di Santa Croce di Gerusalemme a Roma. Il superlatitante sarebbe stato ospitato da più 'ndranghetisti prima di spostarsi a Ventimiglia, tappa di avvicinamento alla Francia, da dove avrebbe preso il volo per il Costarica. Il suo arresto è merito di Filippo Barreca, autore della «soffiata» giusta. Nel centro ligure Freda sarebbe stato ospite di un calabrese, già segnalato in un vecchio rapporto della Finanza per i contatti con Freda e accusato da Barreca di essere al tempo stesso 'ndranghetista e massone (anni prima il boss dei marsigliesi Bergamelli era stato segnalato come frequentatore di una loggia nella città di confine). Gli inquirenti indicano come prova documentale una lettera di ringraziamento di Freda a componenti del clan De Stefano per l'appoggio ricevuto, elemento che è piuttosto a discarico: è notoria la sua concezione monastica della disciplina organizzativa - tanto che per un lungo periodo nella corrispondenza dei detenuti è definito antonomasticamente il «Priore» - e quindi Freda si sarebbe ben guardato dal ringraziare dei subalterni. Una lettera di ringraziamento a persone nei confronti delle quali si sente in obbligo e che viola palesemente le norme di sicurezza rientra invece perfettamente nella sua concezione di stile. Uno stile che l'ha portato a subire un'aggressione in carcere dai camerati (nel maggio 1982) per aver espresso cordoglio alla vedova del direttore del carcere di Novara (goccia che fa traboccare il vaso in una situazione di mobilitazione crescente degli «spontaneisti» contro la vecchia guardia compromessa con i servizi segreti e i progetti golpisti) .
Leader emergente tra i detenuti di Novara è Marcello Iannilli, responsabile militare del Movimento rivoluzionario popolare. Colto, di buone letture, invita i camerati ad appropriarsi della teoria dell'entropia. Il manuale di Rifkin, però, nessuno riesce a finirlo. Espertissimo artificiere, Iannilli trascorre gran parte del suo tempo in cella a studiare come fabbricare la bomba atomica. Nelle ore di socialità si affanna a divulgare il suo progetto. Con grande opportunismo tattico ogni volta ne cambia le finalità: quando parla con i «bucolici» la destinazione è un attentato contro la metropoli, ai «mercenari» assicura che servirà per la più grande rapina della storia. Con i fissati della «geopolitica» si avventura in una più precisa descrizione del progetto: una mongolfiera si leverà in volo sul confine tra le due Germanie e lascerà cadere la bomba, innescando un conflitto di immani proporzioni tra Est e Ovest. Al suo termine, armati di lance e frecce, i «nuovi indiani» (anche Iannilli è un discepolo di Lele Macchi) si sarebbero lanciati, cavalcando, alla conquista degli immensi spazi della pianura europea, disabitati dopo la catastrofe. Ai componenti della più stretta cerchia confida la verità esoterica. La Terra è circondata da asteroidi dai quali sta per partire un'invasione di extraterrestri e bisogna attrezzarsi per la battaglia finale. Questa evidente paranoia non gli garantirà l'impunità giudiziaria (nel processo Ordine nuovo bis deve rispondere di tutti gli attentati dinamitardi del M.R.P. e dell'omicidio di un vigilante nel corso di una rapina), e per evitare l'ergastolo deve ricorrere a una prosaica dichiarazione di dissociazione. All'epoca, però, Iannilli è il più duro dei duri: convince Giuliani ad accoltellare Freda (che limita i danni grazie al busto ortopedico) mentre lui stesso «dà una lezione» a Fachini nel carcere di Rebibbia. L'altro ispiratore della campagna «antifascista» è Calore, che mantiene rapporti con Freda e le edizioni di A.R. anche dopo l'accoltellamento. Del clima pesante nel carcere di Novara è paradossale testimone anche Di Cagno: «Io avevo messo in pratica, nel mio piccolo, quello che loro teorizzavano sull'unità di azione con i 'rossi'. Eppure per un articolo di 'Controinformazione', peraltro scritto dalla Ventricelli con cui per un anno avevamo fatto 'banda' assieme, stavo per essere isolato al mio arrivo allo speciale, perché Egidio Giuliani, che lo aveva letto, disse che essendo di Bari dovevo essere un 'questurino'» (21) . Lasciano comunque fortemente perplessi le rivelazioni di Lauro sulla costituzione a Reggio e Catania, nel 1979, di due logge massoniche
supersegrete con uomini di punta della criminalità organizzata e dell'eversione nera. Le informazioni di Lauro sono più precise per quel che riguarda la loggia reggina, che avrebbe avuto al vertice Paolo De Stefano e Romeo. «Tutto avvenne», ha raccontato Lauro, «in coincidenza con l'arrivo a Reggio dell'estremista di destra Franco Freda. Gli organizzatori della loggia furono lui e Romeo. Un'altra loggia con le stesse caratteristiche era stata costituita nello stesso periodo a Catania. L'obiettivo era comune: un progetto eversivo di carattere nazionale che doveva essere la prosecuzione di quello iniziato negli anni Settanta con i moti per Reggio capoluogo. Anche quello prendeva le mosse dalla stessa città e avrebbe dovuto investire tutta Italia» (22). Qualche mese dopo, nell'autunno 1979, con ambizioni simili sbarca in Sicilia Michele Sindona. Alla loggia reggina avrebbero aderito i capi della 'ndrangheta (i De Stefano, Peppino Piromalli, Antonio Nirta), estremisti di destra (Romeo, Giovanni Criseo, poi ucciso, Benito Sembianza, il leader calabrese di A.N. Fefé Zerbi) e altri personaggi di potere . L'adesione di Freda - una vita dedicata alla guerra santa contro il potere demo-pluto-giudaico-massonico - a una loggia coperta ci sembra francamente una delle fandonie più fantasiose prodotte in vent'anni di pentitismo. Il confronto tra i verbali e le deposizioni orali di Totuccio Contorno ha reso manifesto un meccanismo ben noto agli studiosi di scienze sociali che usano come fonti i materiali polizieschi e giudiziari: la sistematica traduzione dal parlato popolare - in dialetto o nelle tante sfumature delle varianti regionali dell'italiano - nel linguaggio alieno dei cancellieri e dei marescialli (fatto di «appiattamenti» e di «attingere»). E' quindi possibile che Lauro - o chi per lui - abbia tradotto nella onnicomprensiva categoria di «massoneria» discorsi orecchiati su un progetto di «organizzazione coperta» o, meglio, su un ordine, forma organizzativa tipica delle società tradizionali. Perché, come ha giustamente osservato Ferdinando Camon che di Freda ha fatto il protagonista del suo romanzo "Occidente", il «Priore» non ha mai costituito in vita sua organizzazioni (23) ma gruppi, perché, come ha spiegato lui stesso ai giudici, non ha mai trovato capi che fossero degni di averlo come adepto né si è mai sentito all'altezza di essere un capo. Per questa ragione in più di un'occasione si è definito il «Vicario», alludendo al fatto che «in vari contesti mi sia attribuita una sorta di funzione 'vicariale' [...] va inteso nel senso che con riferimento
a una comunità ideale, 'perfetta', la mia funzione poteva essere soltanto di sostituto, di 'surrogato', in attesa di un capo adeguato» (24). A un progetto di ordine, invece, Freda ci ha lavorato, e apertamente, al rientro dal Costarica: è l'Ordine dei ranghi, oggetto di un'inchiesta giudiziaria come «associazione che nell'ambito di un generale disegno di 'progressione rivoluzionaria' tendeva alla presa del potere con metodi violenti e anticostituzionali per mezzo della creazione di strutture clandestine di piccole comunità sul territorio nazionale per la preparazione di giovani da utilizzare per la guerriglia urbana e la lotta armata contro le istituzioni democratiche» (25). Un progetto di organizzazione portato avanti - per il giudice istruttore fino alla fase preparatoria - per assicurarsi il controllo dell'intera area della destra radicale, dopo che era fallito il tentativo di condizionare e ridurre «Quex» da espressione dell'area spontaneista a struttura organizzativa e disciplinata. Proprio nel dibattito su «Quex» Freda manifesta l'intenzione di trasformare il consenso intorno alla sua persona in un rapporto organizzativo. Con scarso risultato. L'Ordine dei ranghi secondo il pentito Ansaldi, uno dei papabili - «è un progetto di comunità politica finalizzata alla formazione del militante rivoluzionario e connotata da un integralismo esasperato» (26). Terracciano, in una lettera a Murelli, dopo il sequestro di una bozza di «regola», ne parla come di una «confraternita», esprimendo il senso di una realtà «monastica». Secondo il «pentito» Latini l'Ordine avrebbe dovuto essere diretto da Tuti, per il settore carcerario e da Terracciano il giovane intellettuale amico e sodale di Tarchi - per l'esterno, componenti di un consiglio di reggenza di cinque membri approvati da Freda. Le prime adesioni raccolte da Terracciano sono le «firme» di punta di «Quex», Bonazzi e Tuti. I leader «frediani» di T.P., Adinolfi e Spedicato, danno una disponibilità di massima, Tarchi e Teodoro Bonadio si riservano la risposta. Concutelli per aderire pone come condizione l'esclusione di tutti quelli che considera traditori. Terracciano contatta anche militanti della nuova leva. Ansaldi ne parla perplesso con Adinolfi . Nell'inchiesta giudiziaria sono confuse la struttura di ADEL (Associazione per la diffusione editoriale e libraria), alla quale Freda demanda - dopo la rottura con Fachini e Mutti - la gestione delle attività editoriali di A.R. - e il progetto dell'Ordine. Col risultato di mandare in galera, insieme a Terracciano, anche il segretario di ADEL, Bonadio,
ordinovista calabrese trapiantato a Bolzano, collaboratore della casa editrice e fedelissimo di Freda promosso dai pentiti capo della costituenda struttura clandestina. In realtà non aveva ancora confermato l'adesione. Del carattere assolutamente pubblico e legale di ADEL c'è del resto ampia prova. Nel catalogo delle Edizioni di A.R. del 1981, «Risguardo», nella seconda pagina di copertina sono elencate tutte le sedi territoriali: alla sede storica di via Patriarcato 34 a Padova, ove ufficialmente permane la direzione editoriale (che è ubicata nella cella di Freda) si accompagnano la segreteria amministrativa con tanto di numero di telefono di Bonadio e le sedi di Saluzzo (dove è attivo il gruppo di ex di Europa civiltà che ha dato vita alle Edizioni Barbarossa), Velletri, Pescara, Battipaglia, Cosenza, Lamezia Terme, Venezia-Marghera (che coincide con la casa di Francesco Ingravalle). E' quest'ultimo uno stakanovista della milizia politico-culturale: collaboratore di «Totalité», prestigiosa rivista francese tradizionalistarivoluzionaria, curatore delle Edizioni storico-politiche che nel 1979 pubblicano un saggio di Claudio Mutti detenuto nell'inchiesta contro C.L.A. (27), è studioso di Nietzsche (28) nonché dirigente politico di T.P. (sarà arrestato per un breve periodo). Lo stesso aggregato degli imputati e degli indiziati nel procedimento giudiziario testimonia il carattere assolutamente arbitrario dell'iniziativa poliziesca. Imputati, con Freda, sono alcuni fedelissimi come Melioli, Bonadio, Terracciano, i detenuti Tuti e Bonazzi e parte del gruppo dirigente di T.P. (Adinolfi, Spedicato e il veneziano Roberto Salvarani), il responsabile di «Tabula rasa», la rivista che rilancia le tematiche di «Quex», Tomaselli. La compagine degli indiziati è ancor più raffazzonata: a fianco ad altri fedelissimi (la compagna di Freda Rita Cardone, Francesco Ingravalle e Maria De Portada, collaboratrice storica di A.R. nonché alibi di Freda per la storia dei timer nel processo di piazza Fontana) e ad altri detenuti (Concutelli, Murelli, i giovanissimi napoletani accusati dell'omicidio Miccoli) (29), c'è un gruppo di dirigenti di T.P.-Settembre (i capizona di Brescia, Sangalli, di Napoli, Riccio, di Padova, Casellato, e di Latina, Battaglia) e un consistente nucleo palermitano (i redattori di «Tabula rasa») e altri singoli personaggi, da Del Grosso a Tarchi, che da poco si è dimesso dalla vicesegreteria nazionale del Fronte della gioventù ed è una firma di A.R . La prima elaborazione da parte di Freda è nell'autunno del '79. Il 7 novembre scrive a Tuti su un articolo di «Quex», "Organizzazione e
spontaneismo": «Mi sembra meditato, attento e lucido. Tenga presente (glielo anticipo) che, ritenendo di aver digerito - nell'arco di dieci anni la nausea suscitatami da certe esperienze [...] sto verificando le possibilità della soluzione prospettata a pagina 9» (30). Il riferimento evidente è al «sodalizio di uomini eccezionali» di cui ha parlato Tuti. «In merito allo spontaneismo», replica il leader del F.N.R., «ritengo che la nostra diversità sia più formale che sostanziale. Nessuno mette in dubbio la necessità di un ordine, di una gerarchia, di una struttura» (31). In una lettera a Terracciano nel novembre del 1980 Freda ironizza sulle schiere di proseliti e sul suo ruolo di capo occulto di T.P. Nella corrispondenza di Freda sono frequenti i riferimenti ai due livelli del sodalizio e alle strutture interne per le quali occorrono caratteristiche umane e politiche di particolare rilievo. Ma ADEL non è solo la facciata legale di un sodalizio occulto. La società costituita nella prospettiva di un'utilizzazione per l'organizzazione del sodalizio è effettivamente impegnata nella diffusione libraria. La preoccupazione di Freda per qualsiasi attività esterna che possa compromettere quella occulta si spiega con l'esigenza di non attrarre l'attenzione delle forze di polizia, cosa di cui altri non sembrano consapevoli. Freda è nettamente contrario a un immediato impegno attivistico: critica l'uso operativo di giovani da parte di T.P. e Comunità organiche di popolo (la rete militante di Signorelli), mentre ritiene necessaria una lunga preparazione politica e militare. L'unica sede territoriale attiva di ADEL è Battipaglia, la sola iniziativa svolta è un campeggio che non ha nulla di eversivo, mentre altre attività della sede sono tese a impostare un costume di vita per i militanti nella prospettiva di tempi assai lunghi. Dopo l'arresto di Terracciano nell'estate 1981 Freda scrive ad Andrea Del Grosso della fase preparatoria delle altre sedi programmate e lo invita a riprendere contatti interrotti dall'iniziativa giudiziaria. La fuga all'estero o l'arresto di gran parte dei potenziali quadri coinvolti nelle inchieste sui NAR o su T.P. (Melioli, Adinolfi, Spedicato, Salvarani, Tomaselli) determina l'aborto del tentativo . Di stretta osservanza frediana - e attiva nello stesso arco di tempo - è Heliodromos, organizzazione costituita nella Sicilia orientale come sviluppo di un cenacolo tradizionalista e che raccoglierà militanti in tutta Italia. Sulla omonima rivista (sottotitolo «Contributi per il Fronte della tradizione») scrivono numerosi autori di A.R., da Maurizio Lattanzio a Terracciano, da Antonio Medrano a Mutti. La redazione è a
Catania, l'amministrazione e il centro di diffusione libraria per corrispondenza a Siracusa, sedi principali del gruppo. I contenuti della rivista sono esemplari di un tentativo di «saldare l'aspetto propositivo della dottrina, assimilato dalla lettura di Evola e di Guénon, con quello operativo, il quale esige che si dia sbocco coerente e concreto, in noi e fuori di noi (nell'esistente), ai princìpi tradizionali» (32). Ai contributi di più stretto ambito politico (il dibattito sull'azione tradizionale, sullo schieramento internazionale, sulla comunità organica) si accompagna una robusta sezione dottrinaria con interventi e pubblicazione di testi originali del buddhismo, dell'induismo, del Tao, della «cerca del Graal» e varie rubriche che rivelano ampi interessi esoterici. La polemica con il ruolo sovversivo della Massoneria (33) è uno dei capisaldi politici: un evidente regolamento di conti interno con le componenti guénoniane che invece, sulla falsariga del Maestro, riconoscono all'Istituzione il merito di trasmettere i saperi tradizionali in forma organizzata. Nel dibattito sull'azione tradizionale tra Mutti («Un 'Ordine' propriamente detto, ossia un'organizzazione iniziatica assume normalmente come base e punto d'appoggio una sola e ben definita forma tradizionale») (34) e Medrano («Non crediamo che questo movimento debba essere composto da 'iniziati di alto rango' come deduce Claudio Mutti, né che si possa confondere la sua configurazione con la creazione di un'organizzazione iniziatica, cosa d'altronde, assurda e irrealizabile») (35), la redazione riafferma l'ortodossia guénoniana: «Un'organizzazione che sceglie la via dell'azione può avere una sua legittimazione riferendosi alla TRADIZIONE, all'IDEA, intesa come espressione significante di un 'corpus' dottrinario definitivo e atemporale» (36). Heliodromos è anche marginalmente sfiorata dalle indagini sull'ultimo gruppo di fuoco dei NAR. Sordi racconta ai giudici che quando rimane ferito nel conflitto a fuoco in cui perde la vita Alibrandi, va in «convalescenza» a Catania, da un «camerata» di Heliodromos, Carmelo Causale, con il quale è messo in contatto da un militante rodigino dei NAR, Roberto Frigato, arrestato per una rapina e considerato fedelissimo di Fachini, ma in realtà simpatizzante dell'organizzazione siciliana. Causale, dopo un lungo periodo di latitanza, al processo NAR 2 si vedrà derubricare l'imputazione da banda armata a favoreggiamento . L'attività di piccoli nuclei armati spontaneistici si era manifestata in quegli anni anche a Catania: in un arco di tempo di tre o quattro anni si
consumano le esperienze della cellula ordinovista che fa capo a Leone Di Bella e Chicco Rovella (arrestati per i GAO di Concutelli), poi la rete clandestina del Fronte di liberazione nazionale (distrutta dagli arresti dopo la morte di Prospero Candura e di Pierluigi Sciotto nel corso di un attentato a un traliccio sull'Etna la notte di Capodanno nel 1978) e infine l'iniziativa armata di un gruppo di militanti mai identificati attivi negli anni compresi tra il 1978 e il 1981. Nel periodo 1969-'80 in provincia di Catania sono stati compiuti 82 attentati: 43 si concentrano nel periodo 1978-'80. Mentre in precedenza il bersaglio preferito sono le sezioni del P.C.I. (14 attentati dal '69 al '74) ora nel mirino dei «guerriglieri» neri c'è la D.C. (4 attentati) e soprattutto centri culturali e sociali, impianti pubblici e privati, attività commerciali. Costante è il richiamo alla protesta popolare: le sigle che si alternano sono Nucleo armato protesta popolare, Gruppo armato protesta popolare, Opposizione popolare rivoluzionaria, Gruppi urbani popolari, Organizzazione popolare rivoluzionaria. I tre agguati con ferimento (il comandante delle guardie carcerarie, Salvatore Pistritto, il segretario socialista, Giulio Tognini, e Cano Di Graziano, esponente della D.C. catanese) non sono rivendicati, ma l'attribuzione all'estrema destra armata è scontata. Di iniziativa politica e militare contro lo Stato si tornerà a parlare, in tutt'altro contesto, quindici anni dopo. Dell'esistenza di un progetto separatista per la Sicilia o per l'intero Sud si sono convinti i magistrati del pool antimafia di Palermo, attribuendone la responsabilità a Riina e Delle Chiaie che avrebbero marciato in ordine sparso, in una nuova variante dell'intesa cordiale mafia-eversione nera, che nel delirio di qualcuno giungerebbe a coinvolgere un Silvio Berlusconi non ancora sceso in campo . Il 4 marzo 1994, quando il patto storico massoneria-'ndrangheta-servizi segreti-eversione nera comincia ad essere ipotizzato nelle affabulazioni di alcuni pentiti, un rapporto della Divisione investigativa antimafia disegna gli scenari strategici della nuova ondata stragista. Dando per scontato che a mettere le bombe assassine siano stati i miliziani di Cosa nostra, i superpoliziotti si sforzano di risolvere un'evidente aporia: la campagna stragista persegue obiettivi che oltrepassano gli interessi esclusivi di Cosa nostra. Ed ecco apparire il solito scenario «che vede Cosa nostra unita alle altre organizzazioni in un 'sistema criminale' e in contatto con vecchi protagonisti dell'eversione di destra, con gli agitatori della massoneria deviata, con esponenti infedeli dei servizi
segreti, con disinformatori di professione» (37). Secondo i cervelloni della DIA, i nuovi stragisti operano in un vecchio e già sperimentato quadro concettuale: «Con attentati anonimi, di matrice oscura, lontani da Palermo, il pensiero della gente va alle onnipresenti ed evanescenti organizzazioni responsabili della strage di piazza Fontana, della stazione di Bologna e di tanti altri gravissimi attentati, immagina misteriose organizzazioni italiane e straniere. Come negli anni Settanta, facendo leva sui meccanismi della paura si lanciano messaggi per ottenere contatti, condizionare le scelte, acquisire una disponibilità alla trattativa incondizionata da parte delle istituzioni» (38) . A mettere in allarme i poliziotti antimafia è la coincidenza puntigliosamente registrata nel dossier tra il progetto di Riina di fondare una Lega Sud e la decina di Leghe registrate da Gelli e da esponenti della destra eversiva. A prescindere dall'ovvia obiezione che dopo i trionfi elettorali di Bossi e i successi registrati da liste fantasma che al Nord riescono a farsi ammettere alle elezioni con il solo scopo di scippare voti al Carroccio, in Italia decine di furbacchioni ci provano a registrare una propria Lega, quello che non funziona nel ragionamento della DIA sono le date. Le Leghe fondate dall'ex-deputato missino Stefano Menicacci (avvocato e socio di Delle Chiaie nella Intercontinental import-export) e da un tale Domenico Romeo, sono registrate nel maggio 1990, ben prima della svolta terroristica di Cosa nostra. L'8 nasce la Lega pugliese. Seguono nel giro di pochi giorni la marchigiana (l'11) la molisana (il 13), la meridionale e del Sud (il 17), degli italiani (il 18) e infine la sarda. Tre leghe (Marche, Molise e Sardegna) hanno sede nello studio romano di Menicacci. Per dare sostanza allo scenario la DIA raschia il fondo del barile: e va a scovare che tra gli aderenti del Partito degli automobilisti, fondato a Firenze da un amico di Gelli, Raoul De Fiorino, nel 1989 c'è Alberto Volo, l'amico di Mangiameli mezzo mitomane e mezzo spione che millanterà la sua appartenenza a Gladio. Nel maggio 1991 è Gelli in persona a fondare una Lega italiana, sede a Roma, insieme al prefetto in pensione Bruno Rozzera (ex-P2), all'ex-senatore socialista Pittella (condannato a 7 anni di carcere per aver onorato il giuramento di Ippocrate, operando nella sua clinica di Lauria la brigatista Natalia Ligas ferita in un conflitto a fuoco) e a Enrico Viciconte, funzionario della Regione Lazio. Questi ultimi due, nel gennaio 1992, fondano la Lega italiana-Lega delle leghe, un cartello elettorale nel quale confluiscono la Lega nazional-popolare
di Delle Chiaie e Staiti di Cuddia, il Movimento lucano, la Lega Sud di Calabria e fuoriusciti dal M.S.I. Il dossier registra con puntigliosità degna di migliore occasione un'altra decina di Leghe e movimenti analoghi (e noi potremmo aggiungere la Lega latina fondata da Ugo Asinelli Gaudenzi, ex-leader di Lotta di popolo e «sponsor» giornalistico di Claudio Mutti), ma omette di sottolineare che le percentuali omeopatiche raggiunte alle elezioni in regioni a fortissimo tasso di presenza criminale dimostrano che mafia, 'ndrangheta e camorra non hanno scelto di cavalcare la tigre delle Leghe sudiste . L'unica Lega che ha registrato qualche successo elettorale, la Lega d'azione meridionale (un deputato eletto nel '94, Cerullo, ex-segretario nazionale della Giovane Italia; il sindaco di Taranto, Angelo Cito, deposto dalla Prefettura e plebiscitariamente eletto al Parlamento nel '96; un parlamentare europeo non eletto per il perverso meccanismo dei resti tra le cinque circoscrizioni nel '94 e una meno fortunata alleanza elettorale con Forza nuova alle elezioni europee del 1999) è lo sviluppo di una particolarissima esperienza: la lista civica Antenna 6 di Taranto che con felice anticipazione proietta sul terreno politico la straordinaria potenza del media, l'omonima T.V. privata di Cito. Il leader Angelo Cito, primo sindaco in carica affidato ai servizi sociali per il cumulo di condanne penali per reati a sfondo squadristico e contro il patrimonio, è anche accusato di collusioni con la Sacra corona unita e di complicità in omicidio e perciò sospeso dal prefetto al rinvio a giudizio per associazione mafiosa. Ma i cittadini di Taranto - siano anche collettivamente abbagliati dal suo peronismo televisivo - sono in ampia maggioranza convinti che abbia fatto più per la città il «sindaco con il manganello» (per le sue performance a caccia di ambulanti, extracomunitari e abusivi) che cinquant'anni di malgoverno partitocratico . A dare sostanza al fumo della grande connection non basta il ruolo significativo giocato da due ex-ordinovisti, il mafioso Pietro Rampulla, esperto di esplosivi, accusato di aver predisposto l'ordigno per la strage di Capaci, e Rosario Cattani, in rapporto con i servizi segreti, accusato a Messina di traffico di armi e arrestato dalla procura di Firenze per l'"affaire" dell'autoparco di via Salomone, la base milanese di Cosa nostra. A fornire le presunte motivazioni delle campagne terroristiche del 1992 (le stragi di Capaci e di via d'Amelio) e del 1993 (gli attentati di via Fauro e alle chiese romane del Laterano e del Velabro, le stragi di
Firenze e di Milano) attribuite a Cosa nostra, ci pensa uno dei tanti pentiti di mafia, Maurizio Avola, in galera dal marzo 1993 (quindi prima della campagna stragista spiccatamente terrorista) che comincia a collaborare dopo un anno. «All'inizio pensavano di chiamarlo Cosa nuova. Poi decisero che sarebbe stato meglio Lega Sud. Doveva essere il partito della mafia, voluto direttamente da Totò Riina per liberarsi una volta per tutte del rapporto con le forze politiche tradizionali e portare avanti liberamente le proprie esigenze legislative» (39). Avola ricostruisce dal punto di vista dei clan catanesi l'escalation terroristica dei Corleonesi. A partire dal 1990 le diverse capacità di accomodamento processuale avrebbero creato frizione ai vertici di Cosa nostra. Giovanni Brusca e Giovambattista Pullarà avrebbero manifestato aperta irritazione per le frequenti assoluzioni ottenute da Calò (assoluzioni irrilevanti, essendo il cassiere di Cosa nostra condannato definitivamente all'ergastolo per la strage di Natale). La decisione di chiudere con la D.C. (regolando i conti con Lima, ucciso nel marzo 1992) va di pari passo con l'idea di costruire un movimento politico autonomo. Le elezioni anticipate bruciano la possibilità di realizzare il progetto. Sbarrata la strada della politica, Riina sceglie la guerra: il terrore scatenato con le stragi permetterà di trattare da posizioni di forza. Falcone è il primo obiettivo, non per quello che ha fatto - spiega Avola - ma perché la sua presenza costituirebbe un ostacolo insormontabile al dialogo. Sulla decisione di uccidere anche Borsellino - caldeggiata con forza da Riina - si sarebbe manifestato l'aperto dissenso di Santapaola, che per questa presa di posizione sarebbe stato posto sotto controllo. La repressione scatenata dopo la strage di Capaci - con l'applicazione dell'articolo 41 bis - dimostrando la fondatezza dei timori espressi da Santapaola avrebbe, secondo Avola, salvato la vita del suo boss. Le confessioni di Avola si fermano alle stragi del 1993, a proposito delle quali il pentito catanese ha raccontato un particolare difficilmente verificabile: i clan catanesi avrebbero imposto all'educatore carcerario Carmelo Scalone - arrestato il 26 ottobre 1993 e condannato come telefonista della Falange armata - di rivendicare a nome della fantomatica organizzazione terroristica gli attentati. La sua ricostruzione è perfettamente compatibile con le ipotesi del pool antimafia per il periodo successivo, che vede Cosa nostra tornare sul terreno politico appoggiando apertamente il Polo delle libertà alle elezioni del 1994, ipotesi che trova riscontro nel ruolo
giocato dal commercialista di Riina, il leader massone Mandalari, nella vittoriosa candidatura di alcuni esponenti di Alleanza nazionale e di Forza Italia. La procura di Firenze lascia più volte trapelare che altri gruppi di potere abbiano affiancato il vertice mafioso nella progettazione della campagna terroristica della primavera-estate 1993, ma all'atto del rinvio a giudizio i 21 imputati sono tutti mafiosi o manutengoli. Per tutte le stragi (comprese quelle mancate, allo stadio Olimpico di Roma, durante una partita di cartello nel dicembre 1993, fallita per un banale guasto del detonatore a distanza, e ai danni di Contorno, il 14 aprile 1994 a Formello) sono accusati quadri operativi e componenti della Cupola di Cosa Nostra, da Bagarella a Riina, da Giuseppe Graviano a Giovanni Brusca . La rete logistica dispiegata per l'organizzazione delle stragi in trasferta rivela capacità di penetrazione in ambienti insospettabili: nel febbraio 1996 è arrestato un imprenditore, accusato di aver ospitato, nell'estate delle stragi, i fratelli Graviano - sospettati di essere tra gli organizzatori delle autobombe - in una villa di Forte dei Marmi, in Versilia. L'imprenditore, interessi che variano dall'edilizia alle agenzie marittime e al brokeraggio, è noto a tutti i frequentatori degli ippodromi italiani come il proprietario di Delfo, il più grande cavallo italiano alla fine degli anni Settanta. Nello stesso periodo una clamorosa anticipazione di «Avvenimenti» getta luce sinistra sulla stagione dello stragismo mafioso. Un malavitoso neofascista, Paolo Bellini, è stato infiltrato dai carabinieri del nucleo tutela patrimonio artistico nella mafia nel periodo immediatamente precedente la catena di attentati stragisti. Bellini, un neofascista emiliano, era scappato in Brasile nel 1976, per sottrarsi alla cattura dopo il tentato omicidio dell'amante della sorella. Rientra due anni dopo a Foligno, sotto il falso nome di Roberto Da Silva. Qui ottiene rapidamente il permesso di soggiorno, la patente, il porto d'armi, il brevetto da pilota e l'iscrizione alla Camera di Commercio. Si affilia all'esclusivo Aeroclub, di cui fa diventare socio onorario il procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti, che partecipa con Da Silva/Bellini e un exparlamentare missino a un raid aereo Roma-Firenze. Bellini, che figura nella lista dei latitanti neri, è riconosciuto in fotografia da un testimone che è convinto di averlo visto la mattina del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Al processo due pentiti lo accuseranno di aver fatto da autista al commando della strage. Tutte accuse cadute per la mancanza di riscontri. Il giorno dopo la strage il procuratore Sisti si allontana dal
tribunale ed è casualmente trovato dall'UCIGOS che lo cerca affannosamente in un residence nel Reggiano di proprietà del padre di Bellini. Il 15 febbraio 1981 Roberto Da Silva è arrestato a Pontassieve per un traffico di mobili rubati, ma è individuato come Paolo Bellini solo nel maggio 1982. Questa scoperta porta all'incriminazione di Sisti per favoreggiamento: il procuratore, divenuto nel frattempo direttore delle carceri e coinvolto nello scandalo P2, è accusato di aver deciso un tourbillon di trasferimenti per impedire che Da Silva venisse identificato dai numerosi neofascisti detenuti all'epoca come il latitante Bellini. Lui si difenderà sostenendo di averlo conosciuto come Da Silva e di non sapere che era figlio del proprietario del residence di Mucciatella. Alla fine di un iter giudiziario tortuoso se la cava con un'assoluzione per insufficienza di prove. E' coinvolto in numerose clamorose vicende: dagli scandali nel carcere di Ascoli per l'ingresso di agenti del SISMI per la trattativa Cutolo-B.R.-D.C. per la liberazione di Ciro Cirillo alla costruzione da parte di Alì Agca della pista bulgara per l'attentato al papa, alla decisione di trasferire a Novara i detenuti a rischio Buzzi e Palladino, puntualmente «giustiziati» da Tuti e Concutelli. Oggi Sisti, abbandonata la toga, fa l'imprenditore. Due preti e il comandante del distretto militare di Modena sono arrestati per aver concorso a occultare l'identità del neofascista . Nel 1982-'83 Bellini riceve numerose visite in carcere del SISMI: secondo «Avvenimenti» il suo contatto potrebbe essere stato il vicecapocentro di Bologna, in seguito protagonista (nel 1991) della trattativa con il boss del Brenta Felice Maniero per la restituzione della reliquia del mento di Sant'Antonio, trattativa che provocò il clamoroso arresto del responsabile del nucleo di difesa del patrimonio artistico, lo stimatissimo colonnello dei carabinieri Conforti. Bellini tornerà agli onori della cronaca quando, alla fine degli anni Ottanta, si scoprirà che Sergio Picciafuoco, un altro sospettato per la strage di Bologna, aveva cercato di ottenere da lui una pistola. Nel febbraio 1992 Bellini contatta Antonino Gioé, uomo di fiducia di Luchino Bagarella: essendosi frequentati in carcere, ora i carabinieri vogliono tentare il recupero di opere d'arte rubate o finite nei forzieri di Cosa nostra e gli affidano questa missione pericolosa . La trattativa dura sette mesi: i mesi dell'omicidio Lima, della strage di Capaci (di cui Gioé è uno degli organizzatori), della strage di Borsellino. Bellini si giustificherà sostenendo di non aver capito che
cosa stesse combinando nel frattempo il suo contatto. Una trattativa comunque non innocente: Gioé fornisce a Bellini le foto delle opere d'arte restituibili ma anche il tariffario, l'elenco dei boss da sottrarre al carcere duro dell'articolo 41 bis e ricoverare in ospedale. Nomi pesantissimi: Bernardo Brusca, Pippo Calò, Giacomo Giuseppe Gambino, Luciano Liggio. Bellini consegna i due elenchi al maresciallo dei carabinieri che manteneva i rapporti con il colonnello Conforti. La trattativa non ha esito e Gioé stizzito minaccia Bellini: «Quella non è gente seria, che ne direste se una mattina vi svegliaste e non trovaste più la Torre di Pisa?» (40). Qualche mese dopo effettivamente attentati dinamitardi devastano alcuni dei più importanti monumenti italiani (le chiese del Velabro e di San Giovanni in Laterano a Roma, il Padiglione di arte contemporanea a Milano, l'Accademia dei Georgofili a Firenze) provocando dieci morti, probabilmente per sbaglio, comunque senza preoccuparsi di fare vittime o di evitarlo. L'esplosivo destinato alla distruzione della Torre di Pisa -150 chili di tritolo - è ritrovato in una buca a Formello, nell'estate 1996 . A raccontare l'organizzazione della strage di Firenze è Vincenzo Ferro, trentun'anni, laureato in Medicina, reggente del mandamento di Alcamo dopo l'arresto del padre, Giuseppe, un boss di primo piano, nel gennaio '95. Arrestato dopo un mese, folgorato sulla via di Damasco, decide di spezzare la catena di trasmissione mafiosa e di collaborare, raccontando come lo zio, da trent'anni residente a Prato, sia stato contattato per avere la disponibilità del suo garage. L'uomo la prima volta dice no, poi quando, agli inizi di maggio, la richiesta viene «appoggiata» dal boss di Castellammare del Golfo e da uno dei killer di fiducia di Bagarella, capisce che questa proposta non si può rifiutare. Ferro spiega anche la scelta del vicoletto interno per la collocazione dell'autobomba: il piazzale degli Uffizi è controllato dalle telecamere dell'impianto di sicurezza del museo. La salvezza del patrimonio artistico implica la condanna a morte per la famiglia Nencioni e per Dario Capolicchio. A trasportare dalla Sicilia il carico dell'esplosivo (250 chili) è il camion di Pietro Carra (si pentirà anche lui), che arriva a Prato la sera del 25 maggio. A trasferire il materiale nel garage è una «batteria» di fedelissimi di Bagarella. Nel tardo pomeriggio del 26 viene rubato un furgone Fiorino. A mezzanotte parte il carico di morte. Alle 00.40 il Fiorino è parcheggiato all'angolo di via Lambertesca. L'autista accende la miccia a lunga combustione - questa volta non c'è il telecomando - e
si allontana. All'1.04, quando Firenze è svegliata dal fragore dell'esplosione e delle sirene, l'auto degli stragisti è sulla strada di Prato. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 - mentre il Viminale è isolato per due ore a causa di un misterioso black-out - l'offensiva mafiosa raggiunge il suo culmine. A mezzanotte e 4 minuti un ordigno danneggia l'obelisco di piazza San Giovanni a Roma e distrugge tutti i particolari in legno della basilica, cinque minuti dopo un'autobomba esplode davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro: in macerie il portico, divelte le cancellate. A Milano, invece, un ordigno destinato a devastare il Padiglione di arte contemporanea investe i vigili del fuoco e il vigile urbano che si stavano adoperando per disinnescarlo e per tenere a distanza i passanti. Con loro muore un extracomunitario che, ignaro, dormiva su una vicina panchina. Il giorno dopo questa strage Antonino Gioé si impicca in cella: era stato arrestato e le intercettazioni ambientali compiute ai suoi danni avevano permesso di ricostruire con precisione l'organizzazione della strage di Capaci. Secondo una consolidata tradizione mafiosa si sacrifica per salvare i suoi familiari. Nella lettera di addio lancia però un'accusa velenosa: Paolo Bellini (41) non era un trafficante in contatto con i carabinieri (figura non rarissima nel mondo dei ladri di opere d'arte: è il caso di Ermanno Buzzi), ma un infiltrato. Uno cioè che per conto dello Stato aveva spiato le attività terroristiche delle cosche ma evidentemente si era guardato bene dal riferire (o chi per lui nella catena di trasmissione gerarchica). E con un fascista infiltrato in una banda che prepara stragi e le forze dell'ordine che non sanno la storia si ripete, il cerchio si chiude: e anche noi chiudiamo il nostro viaggio, risbattuti dalla forza dell'analogia alla casella di partenza, piazza Fontana, che resta per noi, checché ne dicano i professionisti dell'antistragismo, la madre di tutte le stragi di Stato . NOTE . (1). "Parla Freda", cit., p. 4 . (2). Lettera all'autore, gennaio 1991 . (3). Provvisionato, "I misteri", cit., p. 74 . (4). Lettera all'autore, novembre 1993 . (5). Freda, "La disintegrazione...", cit., p.p. 25-28 . (6). Dall'atto di fondazione del Fronte nazionale, 21 dicembre 1990 . (7). Ibidem . (8). Boatti, "Piazza Fontana", cit., p. 283 .
(9). Lettera all'autore, Voghera, 16 aprile 1990 . (10). Guido Ruotolo, "Una superloggia tutta nera", «il manifesto», 15 agosto 1995. Giuseppe Nirta è il vecchio padrino ucciso a ottantadue anni la sera del 19 marzo 1995, uno dei cui figli - infiltrato nelle B.R. dal colonnello Delfino - sarebbe stato presente con compiti di «osservatore» a via Fani, durante il sequestro di Moro. Lo stesso pentito accusa il generale di carabinieri di avere commissionato a un commando mafioso il sequestro-arresto di Delle Chiaie nel 1982 . (11). Guido Ruotolo, "Stragi, politica e affari. La «spectre» di Reggio Calabria", «Avvenimenti», 28 giugno 1995 . (12). Giovanni Maria Bellu, "Da A.N. rabbia e stupore ma anche Milano accusa", «la Repubblica», 19 luglio 1995 . (13). Ruotolo, "Stragi...", cit . (14). Vincenzo Tessandori, "Boss e logge, patto di morte", «La Stampa», 20 luglio 1995 . (15). Francesco Grignetti, «Ombre sulla destra? Sono solo calunnie», «La Stampa», 20 luglio 1995 . (16). Ibidem . (17). Ibidem . (18). Ibidem . (19). Ibidem . (20). Tessandori, "Boss...", cit . (21). Conversazione con l'autore, dicembre 1995 . (22). Milella, "Tranquilli, ci pensa il «santista»", «Panorama», 28 luglio 1995 . (23). «Escludo comunque che ci sia stato un incontro con Delle Chiaie a carattere politico di qualsiasi tipo, perché gli obiettivi delle nostre iniziative erano diversi: Delle Chiaie si proponeva di costituire organizzazioni; io, invece, di contribuire a un'opera di educazione, di formazione ossia volevo 'allevare anime'» ("Parla Freda", cit., p. 9) . (24). Ivi, p. 22 . (25). Sentenza istruttoria di proscioglimento del procedimento n. 7318/84 del giudice istruttore Alberto Macchia, p. 4 . (26). Ivi, non numerata (ma è p. 22) . (27). Claudio Mutti, "Cultura di destra, cultura di sinistra", «Quaderni di Rue Gay-Lussac», Venezia, Edizioni storico-politiche, 1979 . (28). Francesco Ingravalle, "Nietzsche: illuminista o illuminato?", Padova, Edizioni di A.R., 1981, p. 184 .
(29). Claudio Miccoli, attivista ventenne del W.W.F., è «pestato» in una rissa in una birreria di Mergellina, tradizionale ritrovo di sinistra, scatenata da una banda di neofascisti vomerosi, comandata da Rosario «Sasà» Lasdica, e muore dopo una settimana d'agonia, nell'ottobre 1978 (30). Sentenza istruttoria cit . (31). Ibidem . (32). Heliodromos, "Le nostre considerazioni", «Heliodromos», n. 21, aprile-maggio-giugno 1984 . (33). Nel n. 18 (gennaio-febbraio 1983) ospita una velenosa biografia di Garibaldi, i numeri 19, 20 e 21 un lungo saggio di Luigi Castro sulla "Massoneria tra tradizione e sovversione", nel numero 23 si polemizza con l'ex-ordinovista catanese Antonio Lombardo (divenuto consigliere politico di Fanfani) per la sua collaborazione fissa a «Il Settimanale», «rivista piduista» . (34). "Riflessioni sull'azione tradizionale - Osservazioni critiche di C. Mutti", «Heliodromos», n. 21, cit . (35). Antonio Medrano, "Il movimento tradizionale dell'Occidente", «Heliodromos», n. 21, cit . (36). Heliodromos, "Le nostre...", cit . (37). Liana Milella, "Bombe, mafia e un po' di lobby", «Panorama», 16 giugno 1995 . (38). Liana Milella - Sandra Rizza, "Poi Riina propose: chiamiamolo «Cosa nuova»", «Panorama», 16 giugno 1995 . (39). Ibidem . (40). Paolo Mondani, "Strage Falcone. Un uomo dello Stato sapeva tutto?", «Avvenimenti», 21 febbraio 1996 . (41). Paolo Bellini tornerà alla ribalta nel giugno 1999 quando, arrestato per duplice omicidio, confesserà di aver ucciso nel 1976 Alceste Campanile, militante di Lotta continua, che secondo i suoi compagni era stato ammazzato da autonomi del gruppo di Toni Negri . I FASCISTI DEL 2000 . I fascisti del 2000 sono gli stessi degli anni Novanta, e degli anni Ottanta, e via via a risalire fino ai gloriosi anni Sessanta. Si potrebbe partire da un dato aritmetico impressionante: il convegno del Parco dei Principi, in cui si fonda il partito del golpe, avviene nel ventennale della caduta del fascismo, ma dista ben trentacinque anni da oggi. Eppure alcuni dei protagonisti di quell'epoca sono ancora alla ribalta: Pino
Rauti ha ricevuto un avviso di garanzia nell'inchiesta per la strage di piazza della Loggia, Franco Freda torna in galera per un residuo di pena irrisorio, il braccio destro di Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, è alla testa di un partitino, il Fronte nazionale, che ci mette tre mesi a ristrutturare il sito web, ma riesce a decidere il risultato elettorale alle regionali abruzzesi . E non è soltanto questione anagrafica. Perché, paradossalmente, gli epigoni del movimento politico più radicalmente innovativo dello scorso secolo si affacciano al nuovo con un'irresistibile pulsione reazionaria. Tant'è che agli inizi di giugno 2000, tra i soci fondatori della «cosa nera» (e qualcuno, goliardicamente, commenta: "ma no la cosa nera ci fa pensare ad altro...") - l'ennesima riedizione del tentativo di dare vita a un movimento unitario - ci sono tutti i grandi vecchi: da Rauti a Delle Chiaie, da Signorelli a Tilgher. Manca Fachini, già protagonista con i suddetti di altre, meno fortunate, operazioni unitarie: è morto in un incidente stradale, coinvolto poche settimane prima in un maxitamponamento nella nebbia della Bassa Padana . Manca anche Freda, e non solo perché da sempre le sue scelte politiche sono irrimediabilmente aristocratiche. Comunque non ci potrebbe essere, in quanto arrestato il primo marzo 2000: deve scontare sette mesi di una condanna a tre anni per violazione della legge "Mancino" ma, nonostante il documentato reinserimento sociale, non viene ammesso alle misure alternative. Evidentemente è scattato un'altra volta il dispositivo della moglie cinese: gli fanno pagare altrimenti l'assoluzione per la strage di piazza Fontana. Non c'è persona ben informata sulle vicende storiche dello stragismo che dubiti che il timer e la valigia usati nella Banca nazionale dell'agricoltura siano stati acquistati dall'editore patavino. Se in una qualsiasi facoltà di Diritto si svolgessero esercizi di simulazione giudiziaria, gli studenti troverebbero molto più facile condannare Freda per la strage di Milano, che Mambro e Fioravanti per quella di Bologna. Eppure diverse Corti hanno altrimenti deciso e la cosa, anzi le cose, sono passate in giudicato. Uno Stato di diritto dovrebbe tenerne conto: e invece Freda torna in galera per aver espresso in forma aulica e raffinata quello che centinaia di volte è stato scritto, detto e gridato dai dirigenti e dei militanti della Lega. Nei comizi, nei cortei, nei manifesti, nelle dichiarazioni più o meno deliranti ai giornali. E così mentre l'egoismo sociale si manifesta nelle forme del movimento politico di massa, il
«Priore» con i suoi 49 discepoli, si fa vestale di una purezza della razza che se inverata finirebbe per spezzare le reni proprio ai padroncini del Nord-est, che di quel movimento collettivo costituiscono la più potente falange. Nella stagione dello spontaneismo armato, anche i più radicali critici delle compromissioni di Freda con i servizi segreti non esitavano a riconoscere i suoi meriti di «allevatore d'anime», di diffusore del pensiero politico nazional-rivoluzionario, di autore di un progetto politico di rottura sovversiva dell'ordine costituito. Oggi i suoi discepoli organizzano accuratissime rassegne stampa per documentare le conseguenze e i rischi dell'invasione allogena seppellendo definitivamente il mito del vietcong, il soldato politico povero ma potente, suscitato alla fine degli anni Sessanta . Pino Rauti è ancora costretto a combattere con i fantasmi del passato: il lungo lavorio di magistrati, carabinieri, esperti e collaboratori di giustizia di varia natura, ha prodotto una nuova ricostruzione storica che attende avallo giudiziario. La rete militante di fedeltà atlantica che avrebbe organizzato gli attentati terroristici nel Lombardo-Veneto dal 1969 al 1974 sarebbe stata costituita dagli ordinovisti rientrati nel M.S.I. al seguito di Rauti, proprio alla vigilia della strage di piazza Fontana. Al di là degli esiti giudiziari (è facile prevedere che l'avviso di garanzia per la strage di Brescia finirà in una bolla di sapone), è evidente che l'immagine di un leader nazionalrivoluzionario difficilmente potrebbe sopravvivere al fango dell'accusa di essere al soldo dei tanto odiati servizi segreti americani. Eppure la motivazione che ha spinto una cospicua componente del gruppo dirigente della nuova Fiamma alla scissione (1), nel gennaio 2000, è molto più banale: il principale addebito che Bigliardo e camerati hanno mosso al leader carismatico è di aver subordinato le strategie del movimento all'esigenza di «sistemare» la figlia Isabella, che, rompendo con il marito Gianni Alemanno, storico leader del F.D.G., ha seguito il padre nell'avventura della rifondazione missina. E giusto per chiarire i termini del dissenso, tra le prime decisioni del neonato comitato centrale del Movimento sociale europeo, spicca l'abolizione della commissione femminile: perché non esistono problemi che riguardino solo le donne... Del resto, il buon Bigliardo alle elezioni europee aveva brillantemente bruciato il paglione alla responsabile delle donne della Fiamma. Nonostante l'assoluta impresentabilità fisica, un manifesto elettorale assai furbo (un saluto a mano aperta che nessun camerata della
circoscrizione meridionale ha dubitato fosse un malcelato e ortodossissimo saluto romano) gli ha procurato un pacco di voti e la conquista del seggio a Strasburgo. Secondo gli scissionisti, il mancato raggiungimento del secondo quorum nella circoscrizione Centro (per appena 28mila voti) è il risultato dell'infelice scelta di designare Isabella Rauti come capolista. Dell'assoluta inconsistenza dei motivi ideali della scissione è prova la gara scatenata tra i due spezzoni per conquistare l'apparentamento elettorale nelle regioni meridionali con il Polo: l'ha spuntata Rauti (probabilmente grazie alle indagini di mercato, che ovviamente privilegiano i marchi di fabbrica già noti...) e il suo uno per cento e decimi ha deciso le sorti della Calabria e dell'Abruzzo. Una rivincita assai parziale: alle politiche del 1996 ben quaranta collegi meridionali erano stati persi dal Polo con meno di cento voti e il segretario della Fiamma si era fatto merito, giustamente, di non aver consegnato l'Italia ai liberal-capitalisti. In autunno gli scissionisti tentano inutilmente di salire sul carro della lista Di Pietro . Da una precedente scissione della Fiamma, nel settembre 1997, era nato il Fronte nazionale di Tilgher e di Staiti di Cuddia, anche se è più esatto parlare dell'ennesima rigenerazione avanguardista. Si tratta in realtà dell'iniziativa di una componente organizzata che si discioglie come Alternativa nazional-popolare, aderisce ai comitati per la rifondazione missina mantenendo integra una rete di contatti consolidata nei decenni, conquista posizioni di controllo del partito in periferia grazie al talento organizzativo e all'impegno militante dei suoi quadri, tenta il colpo grosso della conquista del vertice nazionale e, scoperta e sconfessata da Rauti, dà vita a una propria organizzazione pubblica, che riesce a conquistare anche significativi successi elettorali (sempre considerando le dimensioni di scala proprie dell'ultradestra), dalle supplettive politiche a Milano alle provinciali romane. Ed è proprio agli inizi del 2000 che gli anni sembrano essersi fermati per il Fronte nazionale, con un'improvvisa retromarcia della macchina del tempo, nella notte tra il 7 e 1'8 gennaio. Un attentato incendiario distrugge completamente la sede di via Taranto 132, vicino a piazza San Giovanni, qualche minuto dopo le 3. Ignoti appiccano il fuoco, mettendo una tanica di liquido infiammabile davanti alla porta di ingresso della sede del Fronte, che è stata completamente divelta. Da lì si sviluppa un incendio che ha distrutto l'appartamento di tre stanze al primo piano dello stabile. Tre persone, che abitavano nell'abitazione attigua, sono rimaste ferite.
Trasportate all'ospedale San Giovanni, i sanitari le hanno dichiarate guaribili in pochi giorni, per intossicazione e per stato di shock. I vigili del fuoco hanno impiegato più di 20 minuti per aver ragione delle fiamme e, per precauzione, sono stati sgomberati per oltre un'ora tutti i residenti della palazzina di quattro piani. «Sono allibito», dichiara Adriano Tilgher, «da un atto vandalico di questo tipo. Non ho parole per poter commentare quanto è successo. La notizia mi è stata data da Domenico Vulpiani, dirigente della DIGOS romana, che mi ha avvisato a casa. L'attentato compiuto è un atto increscioso, ci hanno completamente distrutto l'appartamento dove abbiamo la sede della presidenza» (2). «Siamo qui da due anni», dichiara il portavoce Carlo Breschi, «e non abbiamo mai ricevuto alcuna minaccia di attentato. Non riesco a capire i motivi di ciò che è successo. Mi stupisco che nel 2000 continuino le provocazioni e si effettuino degli attentati che ci riportano indietro di venti-trent'anni. Abbiamo avuto danni a tutto l'appartamento, i computer sono bruciati, parte dell'arredamento è inutilizzabile, un muro divisorio dell'appartamento vicino è saltato. Il nostro movimento è formato per il 60% da simpatizzanti provenienti dalla destra, mentre il 40% è gente proveniente dalla sinistra o che non ha mai avuto a che fare con la politica. Abbiamo 2800 fra aderenti e simpatizzanti in tutta Italia, 500 solo a Roma. Nelle ultime elezioni provinciali abbiamo avuto l'1,6% con 25000 voti. All'interno dei nostri uffici devastati dall'attentato abbiamo anche la redazione della rivista 'La spina nel fianco'. La devastazione è stata completa: ci hanno distrutto un computer, l'hardware, i floppy disc e anche i manifesti che avevamo nel nostro magazzino» (3). Il riferimento di occasione per spiegare l'attentato è evidente - l'anniversario di Acca Larentia - ma gli esperti di antiterrorismo non si pronunciano sulla matrice politica: l'unica rivendicazione arriva in serata all'ANSA, a opera di «un portavoce delle Brigate leniniste rivoluzionarie» che ha spiegato: «Volevamo dare un segnale contro le organizzazioni di estrema destra» (4) . Lo spettro investigativo è ampio: una delle ipotesi è che i responsabili possano appartenere a gruppi di sinistra preoccupati dal successo che il Fronte nazionale ha ottenuto alle ultime elezioni provinciali, e che potrebbe cercare di ripetere nelle prossime regionali, con l'obiettivo di inserirsi in un contesto istituzionale. Le indagini riguardano anche altri gruppi in cui l'estrema destra si è frammentata, nel sospetto che si tratti
della reazione di una componente che non accetta la riunificazione con la Fiamma di Rauti, avviata dopo la scissione del M.S.E., né il progetto politico del Fronte nazionale. L'ipotesi dei contrasti interni alla destra è esclusa da Tilgher: «Un idiota, può essere stato solo un povero idiota», dice il presidente del Fronte nazionale, «Un ragazzino allevato alla scuola dell'odio da questa Repubblica che non riesce a liberarsi dal suo passato. Non ci sentivamo assolutamente nel mirino. Non abbiamo mai ricevuto minacce. Noi siamo equidistanti dalla sinistra e dalla destra, mettiamo Fini e D'Alema sullo stesso piano. La logica degli attentati non ci appartiene» (5). Anche in questo caso la storia si ripete in farsa: a lungo si era tentato di far passare per un regolamento di conti interno al M.S.I. il Rogo di Primavalle in cui persero la vita, il 16 aprile 1973, i fratelli Mattei. Non avevano avuto dubbi, invece, un mese prima i fratelli-coltelli di Forza nuova quando era toccato a loro di finire nel mirino dei soliti ignoti. La mattina del 6 dicembre 1999 un rudimentale ordigno esplosivo è ritrovato davanti la porta della federazione romana di via Marcantonio Colonna 44, a Prati. Si tratta di un contenitore di vetro dalla capienza di 300 grammi, colmo di una sostanza gelatinosa di colore beige. Dal tappo metallico esce una miccia, il cui spegnimento anticipato rende inoffensivo l'ordigno. A scoprire la bomba, piazzata al primo piano dell'elegante stabile abitato da numerose famiglie di professionisti, è lo scopino del palazzo, che vede un barattolo di vetro con la miccia sporgente dal tappo, mentre pulisce le scale. La DIGOS pensa subito a una possibile azione di risposta per due attentati antiebraici consumati nelle settimane precedenti al Museo della Resistenza di via Tasso (6) e davanti al cinema che ha in programma il film-documentario su Eichmann (7), per cui sarà arrestato a gennaio un ultrà romanista simpatizzante del movimento (8). I militanti forzanovisti sanno bene con chi prendersela (9). Dapprima litigano e poi riempiono di cazzotti un giornalista del «Corriere della Sera» che sta facendo il suo lavoro, e cioè raccogliere informazioni sull'attentato. Poche ore dopo rilancia da Londra Fiore attaccando Ferruccio De Bortoli: «La responsabilità morale di ciò che e accaduto e di ciò che, anche se spero di no, potrà accadere, è della direzione del 'Corriere della Sera'» (10) . A scatenare l'indignazione del segretario nazionale è il resoconto della conferenza stampa tenuta qualche giorno prima per respingere le accuse di connivenza con il Movimento antisionista che ha rivendicato
l'attentato contro il Museo della Liberazione di via Tasso del 22 novembre: «Eravamo stati chiarissimi: noi non siamo antiebraici e la Comunità ebraica non ha nulla da temere da noi» ma, secondo Fiore, «mentre gli altri giornali hanno riportato correttamente le nostre parole, sulla cronaca romana del 'Corriere della Sera' è apparso un titolo a tre colonne che diceva: "Noi contro gli ebrei". Questo titolo non costituisce un episodio isolato, ritengo che l'attentato di stamane sia il risultato di questa disinformazione organica portata avanti dal 'Corriere', contro il quale presenteremo una denuncia per calunnia» (11). La direzione del «Corriere della Sera» con un comunicato all'ANSA «respinge con sdegno, ritenendole gravi e infondate, le dichiarazioni del segretario di Forza nuova. Le parole di Roberto Fiore non meritano altri commenti, se non la constatazione, amara e preoccupata, del risorgere di antichi atteggiamenti di intolleranza e di personale intimidazione» . Gli inquirenti non escludono che possa essersi trattato di un atto di depistaggio a opera di alcune schegge dell'ultradestra, tesi condivisa dal vicepresidente dell'associazione ebraica Figli della Shoah, Riccardo Pacifici: «Non vogliamo replicare a personaggi che cercano soltanto di farsi pubblicità gratuita. Non dimentichiamoci che pochi giorni fa Forza nuova ha annunciato di volersi presentare come partito politico alla prossime elezioni regionali» (12). «Ripensando ad alcuni articoli apparsi sui giornali nei giorni scorsi», replica il federale romano Francesco Bianco, socio fondatore dei NAR, «dove dei giovani che dicono di chiamarsi i 'Ragazzi di via Domodossola' affermavano di essere pronti a colpire gli ambienti di estrema destra per vendicarsi dei due attentati subiti dalla comunità ebraica, mi viene naturale pensare proprio a loro come gli artefici di questo episodio, pur non avendone le prove. Noi comunque questa bombetta non la prendiamo neppure in considerazione. Non facciamo come certe realtà che per un petardo montano un dramma. Dicono poi che Forza nuova ha conquistato le curve degli stadi di calcio seminando svastiche e croci celtiche. Non è lì che si deve fare politica. Magari tutti quei ragazzi venissero poi a militare nel nostro movimento, ma la verità è che quella gente non ha nulla a che fare con Forza nuova. Noi facciamo politica alla luce del sole, prendendoci la responsabilità delle nostre azioni. Siamo sì fascisti, ma non abbiamo nulla a che fare con il nazismo» (13) . Bianco non brilla certo per qualità intellettuali - né per acutezza: per i suoi atteggiamenti strafottenti si era beccato parecchie coltellate nel
carcere di Viterbo da un paio di camorristi - eppure coglie nel segno. Forza nuova infatti è la prima organizzazione della destra radicale che si richiama specificamente all'esperienza del fascismo italiano storico, rivendicando per di più un programma e un ancoraggio ideale cattolicotradizionalista (lotta all'aborto, centralità della famiglia, restaurazione del Concordato del '29, corporativismo). Anche se alle origini della notevole crescita organizzativa c'è il trust economico costruito in Inghilterra (14) (e poi esteso in mezzo continente) da Fiore e Morsello, Forza nuova già nel nome guarda piuttosto alla Spagna clerico-fascista. A 90 chilometri da Valencia, nella località sperduta di Las Pedriches, è in costruzione un villaggio-falansterio dell'estrema destra europea, con i finanziamenti di due organizzazioni cattoliche inglesi strettamente collegate a International Third Position (15), il gruppo fondato a Londra da Fiore e Morsello insieme a Nick Griffin, leader del British National Party (16). «Il nostro è un tranquillo progetto di accoglienza rurale presentato al ministero del Turismo del Paese iberico, che si è anche offerto di sovvenzionarlo. Ci sono una piccola cappella e un ostello per famiglie. Intendiamo rilanciare anche la produzione viticola dell'area. Per l'acquisto dei primi fabbricati abbiamo speso circa quaranta milioni», dichiara Fiore (17). A versare 21 milioni di lire per la cappella a Los Pedriches è stata l'associazione Saint Michael's Archangel. Ad acquistare invece i casolari valenciani, con un assegno della Barclays Bank, è stata la Meeting Point . Per alcuni anni Fiore e Morsello hanno fatto i padri nobili dell'ultradestra: distribuendo modesti contributi, da Movimento politico agli Hammerskin alle strutture culturali di fiancheggiamento, dando lavoro a decine di camerati, compresi alcuni appena scarcerati dopo lunghe detenzioni, come Rosario Lasdica. Poi il 29 settembre 1997, il giorno dopo la nascita del Fronte nazionale ma soprattutto festa dell'arcangelo Michele, patrono della rumena Guardia di ferro, danno vita a Forza nuova, aggregando numerosi gruppi sparsi in diversi centri, promuovendo la nascita di sezioni grazie alla disponibilità di ingenti risorse finanziarie. Reclutando e valorizzando decine di quadri sopravvissuti alla repressione del movimento skin, dal vicentino Ambrosini al milanese Duilio Canu, o temprati dalla leadership delle curve nere, come il patavino Paolo Caratossidis (18), ventitreenne studente di Scienze politiche, che abbiamo già visto protagonista della campagna di solidarietà con i Serenissimi. E che si distingue, nel forum
web del movimento per deliranti proclami antiturchi e anti-islamici di esaltazione dell'invasione russa della Cecenia musulmana, che trasformano l'odiata ex-Armata rossa in un avamposto della cristianità europea . Non a caso gli ultrà patavini che orbitano nell'area forzanovista scelgono di chiamarsi Juventude crociata, giocano sull'ambiguità tra il simbolo della squadra (una croce rossa in campo bianco) e il mito politico-culturale di riferimento: la crociata antislamica, resa attuale dall'invasione «allogena». Del resto l'identità religiosa è un leitmotiv: quando, nel maggio 2000, viene incendiata in Irpinia la canonica di un «prete rosso», don Vitaliano, che nei giorni precedenti si era distinto nella mobilitazione antifascista a Bologna contro una manifestazione dell'ultradestra europea promossa da Forza nuova, Fiore in una dichiarazione diffusa nell'homepage del sito web (www.forzanuova.org) respinge sprezzantemente le accuse: «Per noi ogni Chiesa è un luogo sacro e anche se don Vitaliano si è comportato in modo indegno nei nostri confronti resta un sacerdote...» . I numeri fanno invidia a più di un partitello di Palazzo - cinquanta sezioni, duemila attivisti, migliaia di simpatizzanti, ventimila abbonati al mensile «Foglio di lotta» - ma quando Forza nuova scende nel luogo proprio del mercato politico, le elezioni, fa flop. Fiore, in vista della scadenza regionale della primavera 2000 fa il trionfalista: «Un successo travolgente. Apro una sede nuova ogni due, tre giorni. Puntiamo al mezzo milione di voti nelle prossime regionali e a toccare anche il tre percento in regioni come Basilicata, Puglia e Campania. Le nostre informazioni prevedono il crollo verticale di Alleanza nazionale e la fine dell'M.S.I., suicida per la sua scelta di desistenza a favore del Polo» (19). Tenta anche la carta della spregiudicatezza - tra i mal di pancia dei militanti locali - annunciando la candidatura a presidente della Campania dell'avvocato Vittorio Trupiano, un penalista di qualche fama, promotore di un donchisciottesco referendum per l'abolizione del carcere duro per i camorristi mentre in tutto il Paese dilaga un'agghiacciante sindrome securitaria. Alla resa dei conti l'unica lista è presentata in Basilicata, grazie all'accordo con una civica ben radicata a Potenza, mentre nelle altre regioni fallisce la raccolta delle firme necessarie. Nonostante l'adesione di spezzoni missini e talvolta della base di Alleanza nazionale e le numerose campagne di carattere sociale - dalle colonie estive gratuite per i bambini poveri, alla promozione di
cooperative sociali di produzione e di consumo alla campagna «compra italiano» con la vendita di prodotti agricoli nostrani nei mercatini londinesi - l'impianto organizzativo resta quello di una forza politica «di strada» con un'immagine poco rassicurante. Così Forza nuova diventa l'immediato capro espiatorio quando, col solito andamento ciclico, riesplode l'allarme politico-sociale per il presunto piano neofascista di infiltrazione nelle curve di cui si comincia a parlare nel settembre 1999 quando dalla Curva sud della Roma è espulso lo storico CUCS, ultimo baluardo del tifo «rosso» . «Noi, i grandi burattinai di quanto accade nelle curve? Falso», dichiara Fiore. «Del resto, siamo abituati a sentirci attribuire di tutto. Volete sapere come si autofinanzia in gran parte Forza nuova? Con le querele che facciamo ai giornali. Centinaia di milioni già entrati nelle nostre casse. Ci hanno dato la paternità di qualsiasi mostro turbi di volta in volta la loro coscienza, dalla strage di Bologna alle imprese di naziskin e skinhead. E ora gli ultrà degli stadi. Sia chiaro, noi non siamo i loro padri, ma siamo disposti ad adottarli. Lo stadio è un aspetto del tessuto sociale in cui facciamo lavoro politico. Ci fa piacere essere un riferimento per questi ragazzi. La sinistra, ma anche la cosiddetta destra di Fini, li tratta come reietti sociali, tutt'al più da ammaestrare. Noi cerchiamo di dare radice e valori alla loro protesta, spesso confusa e velleitaria» (20). «Uccidete il soldato Ryan», una testimonianza filoserba spuntata all'Olimpico all'epoca del conflitto nel Kosovo, è l'unico striscione rivendicato da Forza nuova. A scatenare l'ondata repressiva è invece l'omaggio al criminale di guerra Arkan, il leader degli ultrà della Stella rossa e poi delle milizie cetniche, ucciso a Belgrado il 15 gennaio 2000 in un attentato (un regolamento di conti? Un'operazione sporca dei servizi?), uno striscione in omaggio a Mihajlovic, il fuoriclasse serbo amico personale della «Tigre». Il responsabile dell'agenzia romana di Easy London, Maurizio Catena, è un ex-leader degli Irriducibili, mentre la mente del gruppo, Fabrizio «Diabolik» Piscitelli, si dichiara simpatizzante di Forza nuova. Quando, all'inizio del campionato, la società tenta di introdurre il biglietto per assistere agli allenamenti, è lui ad assumersi l'onore di scontrarsi con il portavoce di Cragnotti, Guido Paglia, l'ex-presidente di Avanguardia nazionale protagonista di una brillante carriera giornalistica. Per ricomporre il rapporto con la tifoseria, il patron Cragnotti manda avanti
Gigi Martini, terzino nella Lazio campione con Maestrelli e deputato di Alleanza nazionale . Dopo le svastiche e le croci celtiche, gli striscioni antisemiti o a sfondo razzista, domenica 30 gennaio allo stadio Olimpico, in Curva nord (quella occupata dagli ultrà della Lazio) la comparsa dello striscione che recita «Onore alla tigre Arkan» convince il governo a prendere provvedimenti. Per combattere il fenomeno, a botta calda i ministri dell'Interno, Enzo Bianco, e dei Beni culturali, Giovanna Melandri, stabiliscono che quando sulle curve degli stadi italiani compariranno striscioni o vessilli a sfondo razzista o antisemita, la partita dovrà essere interrotta per consentire alle forze dell'ordine di rimuoverli. La gara verrebbe ripresa solo dopo la rimozione dello striscione incriminato. Forza nuova risponde rilanciando la campagna contro la «criminalizzazione» della croce celtica e chiede polemicamente: perché sono tollerati i faccioni del Che e simboli di morte come la falce e martello? Insiste sull'assenza di legami organizzativi con le curve nere ma ammette l'identità tribale: «Il codice genetico è lo stesso», spiega Morsello, deciso e combattivo come sempre. «I ragazzi allo stadio cercano l'identità, l'appartenenza, i valori familiari della solidarietà, non ne possono più del politicamente corretto e non vogliono far parte della melassa globalizzata. Sono gli stessi che nelle strade ci fermano e ci chiedono di iscriversi. Un tempo non saremmo potuti entrare nelle borgate, oggi sono tutti dalla nostra parte. Svastica e celtica hanno rimpiazzato falce e martello, anche se ci tengo a dire che noi ci riconosciamo nel simbolo cristiano della celtica e non in quello pagano della svastica. Un delirio il nostro? Io dico di stare attenti a tutti voi giornalisti e intellettuali che pretendete di azzerare il fenomeno con questi esorcismi di parola. Allo stesso modo liquidando con un antifascismo di maniera, se non isterico, quelle degli stadi come manifestazioni di 'deficienti' o 'analfabeti'. I giovani possono essere più confusi ma sono anche più puri, avvertono visceralmente la disperazione della politica italiana. La sinistra li demonizza, noi gli diamo cittadinanza» (21) . La difesa di Morsello è abile, ma i distinguo non reggono alle evidenze sostanziali delle indagini giudiziarie: il gruppetto accusato del secondo attentato «antisionista» è composto da cinque ultrà giallorossi di Boccea, un quartiere periferico dove numerose sono le scritte xenofobe e razziste e frequenti gli episodi di intimidazione a commercianti ebrei.
Hanno agito autonomamente, per emulazione, ma il leader della piccola banda, Giuliano Castellino, incastrato da alcuni grossolani errori, ha avuto rapporti con Forza nuova. Il tasso di violenza degli ultrà capitolini è sempre altissimo, prevalentemente prepolitico, eppure gli episodi più clamorosi, come sempre, si tingono di nero. La sera dopo la partita Roma-Reggina una banda di San Lorenzo, quartiere ultrarosso della Capitale, lancia molotov contro una baracca di immigrati dell'Est in un sottopassaggio della Tangenziale Est, sfiorando la strage. Si annoiano, sono frustrati per il deludente risultato della partita che taglia definitivamente fuori i giallorossi dalla corsa per la Champions' League . In largo Passamonti (un poliziotto ucciso durante scontri armati all'Università nel 1977) c'è un sottopassaggio pedonale, profondo una quindicina di metri, per attraversare lo scalo. Qui il Comune ha autorizzato gli immigrati a ripararsi di notte dal freddo. E nel cunicolo sono state costruite alcune casupole. Gli ultrà hanno prima dato fuoco ai gabinetti chimici che il Comune ha collocato in superficie, quindi hanno lanciato molotov contro le casupole tutte occupate dagli extracomunitari, infine hanno cercato di dare fuoco all'altro ingresso così da intrappolare gli immigrati. Due di loro si presentano poco dopo, terrorizzati, al commissariato. L'aggressione è notata da un giovanotto uscito da un pub per fumarsi una sigaretta. Racconterà di aver sentito un ragazzo del gruppo urlare: «Dai fuoco anche dall'altra parte», e di essersi perciò messo all'inseguimento della Peugeot 205 bianca su cui sono saliti quattro componenti del commando. Non riesce ad annotare la targa, ma descrive con precisione un'ammaccatura posteriore e la mancanza di un faro, così gli investigatori possono identificare con sicurezza il proprietario, e arrivare agli altri tre. Due sono arrestati, gli ultrà Gino Vasselli e Simone Santini, di ventun'anni, entrambi con precedenti. Il terzo è il fratello di Gino, diciassette anni, riaffidato ai genitori: sarà indagato insieme al quarto, un detenuto in permesso premio, Gianluca. Ha diciannove anni, ma sta scontando a Casal de' Marmi un cumulo di pena di 2 anni e otto mesi per furti compiuti da minorenne. Abita in un palazzo occupato da decenni, dove il comitato di lotta egemonizzato dagli autonomi ha impedito ripetuti tentativi di sgombero. La sorella lo difende rabbiosamente con i giornalisti: «Qui è impossibile essere fascisti». E anche i giovani rapper che bivaccano
davanti alla storica sede di via dei Volsci banalizzano: è una banda di cazzari, di coatti che c'entrano poco con la politica . I quattro sono accusati di tentato omicidio e incendio doloso, aggravato dalla discriminazione razziale. Nelle abitazioni sono trovate croci celtiche, drappi con svastiche, foto con saluti romani e altro materiale iconografico e rituale dell'ultradestra. La polizia li indica come aderenti al disciolto gruppo ultrà di Opposta fazione, ma i leader riconosciuti li sconfessano (22). Al raid avrebbero preso parte in otto, divisi in due gruppi, sistemati agli ingressi del sottopassaggio. Appartengono a un branco di una ventina di teppisti che hanno firmato decine di imprese a San Lorenzo, al Prenestino, al Tuscolano e al Pigneto. Molti, nonostante la giovanissima età hanno curriculum criminali consistenti: rapina, oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale, detenzione e spaccio di stupefacenti, ricettazione, estorsione, falso. I due detenuti Gino Vasselli e Simone Santini, che si dichiarano innocenti, in carcere se la vedono brutta: per un paio di giorni, per una clamorosa svista della direzione, sono rinchiusi in due celle distinte, nell'ottavo braccio di Regina Coeli, dove sono gli unici italiani tra 97 detenuti. Sono tratti in salvo dalla rituale visita dei parlamentari di turno (in questo caso Fragalà di Alleanza nazionale e Meluzzi dell'UDEUR). La gravità delle imputazioni, che frastorna i due detenuti, non rompe la solidarietà della banda. Anzi: due dei responsabili del Rogo fanno sapere che si costituiranno, un altro amico, un muratore ventunenne che presto sarà padre, accetta di parlare con una giornalista: «Sì, Ginetto il biondo diceva che era un fascista, qualche volta faceva il saluto romano o sventolava una bandiera, ma solo per spirito di ribellione, non frequentava nessun gruppo politico, stava sempre con noi dalla mattina alla sera. L'unica cosa che io ho visto fare a Ginetto di razzista, era quando si divertiva a non pagare i marocchini o polacchi che gli pulivano il vetro della macchina. Qui ci conosciamo tutti dalla nascita, è raro che usciamo dal quartiere, quasi mai a ballare. Si va in giro con i motorini, e c'incontriamo ai giardinetti o nella bischetta di via degli Equi. Sì, vabbè, ci piace fumare, le canne non ce le facciamo mai mancare. Non è vero che Ginetto sia un ultrà di Opposta fazione, lo dicono solo perché gli hanno trovato una sciarpa, ma lui fa la collezione: la Roma ce l'ha stampata nel cuore, qualche volta andava anche in trasferta a seguire la squadra, le uniche volte che s'allontanava da noi. Con qualche amico andavamo anche a vedere la partita qui
dietro casa, al Pub 32, dove sono tutti compagni, ma a noi della politica non ce ne importa proprio niente» (23). E il Rogo? «L'altra sera quei quattro erano andati a cena, tutto pesce, poi, strafatti di canne e alcool, è successo il fattaccio. Chissà come gli sarà venuta in mente una cosa simile. Chi ha sbagliato comunque pagherà ed è giusto che sia così. Certo stinchi di santo non siamo, molti hanno qualche precedente penale, ma roba di poco conto, di solito per spaccio di fumo. Non abbiamo mai aggredito immigrati o gente di colore, e perché avremmo dovuto farlo?» (24) . Nel corteo di protesta dei tifosi laziali contro un clamoroso errore arbitrale in favore della Juve, che degenera in rabbiosi scontri con le forze dell'ordine, i cronisti riconoscono il federale romano di Forza nuova, Francesco Bianco, che si schermisce: «Noi eravamo lì esclusivamente come tifosi. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Tutto è nato dalla incompetenza di un funzionario di polizia che, avendo ricevuto un uovo sulla camicia, ha ordinato una carica indiscriminata. Ora si sta cercando di dare una connotazione politica agli incidenti per coprire quella decisione» (25). La rabbia degli ultrà biancoazzurri si è scatenata in un'ampia area della Roma bene, dai Parioli al Pinciano, per poi allargarsi da piazza del Popolo a via Veneto. Una manifestazione pacifica, consumata con urla e strepiti contro la Juve e la Federazione gioco calcio, ma che si è trasformata in guerriglia urbana: lanci di bottiglie molotov, sassi, sampietrini, bastoni, blocchetti di cemento, uova, arance, monete contro le forze dell'ordine e i loro automezzi. Sono bersagliate auto in sosta e quelle imprigioniate dal traffico bloccato dai manifestanti, travolte e danneggiate vetrine e cassonetti di rifiuti, colonnine luminose spartitraffico, motorini. «E' stata una vergogna», dichiara «Diabolik» ferito alla gamba da un candelotto, «i poliziotti in cinquanta si sono scagliati contro una persona con manganelli e calci. Hanno sparato i lacrimogeni ad altezza d'uomo. Le forze del disordine cercano di far rinascere il terrorismo, stavamo solo protestando per la perdita dello scudetto, ci hanno massacrati. Tutti possono protestare, meno che noi. Abbiamo lanciato uova ed arance, e non molotov» (26). Cragnotti difende gli ultrà, parlando di eccessi della polizia, ma il questore La Barbera replica secco: «Abbiamo sopportato 40 minuti...» . Ma non sempre la storia finisce a tarallucci e vino, con uno scudetto da festeggiare tre giorni dopo la denuncia del grande complotto. A volte
anche ai fascisti del 2000 capita di essere vittime di una cappellata. E' il caso dell'aggressione inventata dal «professor» Marsiglia, un apolide marrano di sinistra, che insegna religione nel più prestigioso liceo di Verona ma è trasferito dalla Curia per le pressioni di genitori. In realtà non ha il titolo accademico richiesto, teme di perdere il posto e denuncia un pestaggio da parte di tre naziskin. Si scatena la giusta mobilitazione contro il rigurgito antisemita - lo stesso presidente di Alleanza nazionale esprime una netta condanna del «fatto» - e del resto Verona è da sempre nell'occhio del ciclone per gli stretti legami tra destra integralista, ultrà neri ed estremisti leghisti. Il clima è già teso perché da mesi è proprio la Lega ad essere impegnata in tutto il Nord in una crociata antislamica che giunge all'aberrazione di spargere letame di maiale sul suolo destinato a una moschea a Lodi, per profanarlo e impedirne l'uso. Ma dopo un mese di indagini è proprio il tanto aborrito (da Lega e estrema destra) procuratore Papalia a smascherare l'imbroglione. Il problema dell'antisemitismo resta comunque aperto. Mentre a Verona l'avvocato del professore (che se ne è scappato in Uruguay) patteggia una condanna a 8 mesi (e il falso ideologico non sussiste perché i monsignori di Curia truffati sul titolo di studio fantasma non sono pubblici ufficiali), la Digos chiude il sito «holywar» del Movimento di resistenza popolare, un contenitore di materiali antigiudaici a 360 gradi: dall'apocrifo della polizia zarista sulla congiura ebraica mondiale «I protocolli dei savi di Sion» ai materiali messi in Rete, dagli integralisti cattolici di «Sodalitium» sulla pratica rabbinica dell'omicidio rituale ad agghiaccianti fotografie sui palestinesi vittime delle violenze dell'esercito israeliano. Non mancano i collegamenti con Radio Islam, il network del fondamentalismo islamico . Ma c'è anche chi nell'estrema destra, per l'ennesima volta, prende le distanze dai piccoli nazionalismi e rilancia il mito dell'Europa nazione. Si tratta del Partito comunitario, sezione italiana della rete organizzativa di Jean Thiriart, il grande vecchio del nazionalbolscevismo. A dar vita a questa rigenerazione è un gruppo di fuoriusciti dal Fronte nazionale che dichiarano di aver raccolto, grazie ai forti legami con il nazionalcomunismo russo e serbo, adesioni anche tra militanti di Rifondazione: «Indipendenza» li stronca come ennesimo tentativo di riciclaggio ambiguo dell'estrema destra e loro reagiscono offesi, vantando come accredito i rapporti con «Voce operaia» e la
partecipazione al campo antimperialista estivo di Assisi. Dal tamburino della rivista («Rosso è Nero», che diventa nell'autunno 2000 «Comunitarismo») emerge una rete di una dozzina di riferimenti sparsi nel territorio nazionale con tanto di numero di cellulare, ma i nomi noti sono due soltanto: il direttore, Maurizio Neri, il dirigente di Costruiamo l'azione, il cui arresto aprì l'inchiesta di Amato contro il gruppo nella primavera 1979, e Carlo Terracciano . I fascisti del 2000 continuano ad ammazzare (ancora un camerata, ancora per futili motivi) e a farsi ammazzare (dopo due «pentimenti»). La prima storia succede a Milano, un giallo che dura pochi giorni e che da subito si tinge di nero grazie alle nuove tecnologie e a una chiamata sul cellulare andata a vuoto. Alessandro Alvares, venticinque anni, studente di Scienze politiche prossimo alla laurea, segnalato come estremista di destra (una denuncia cinque anni prima per attacchinaggio illegale) ma animatore di un circolo universitario di Alleanza nazionale, è trovato cadavere (due colpi alla testa e uno alla schiena) in una stradina sterrata nei pressi di un cantiere dell'A.N.M., a Cologno Monzese. Sono le 24 di venerdì 3 marzo, due ore prime un amico, numerosi precedenti come ultrà e come militante neofascista, gli telefona inutilmente sul cellulare: voleva mettersi d'accordo per andare assieme al derby, la domenica successiva. E' evidente che il giovane si è recato in quel posto isolato di sua volontà, con il motorino, quindi è stato ucciso da qualcuno che lo conosceva bene. Il primo arrestato con l'accusa di omicidio è una vecchia conoscenza della DIGOS milanese: Mimmo Magnetta, ultimo responsabile della rete illegale di Avanguardia nazionale in Italia, poi tra i protagonisti del movimento per la dissociazione dalla lotta armata. A metterlo nei guai è un ultrà rossonero e neofascista, Alessandro Troccoli, già condannato per la rissa a Genova in cui è ucciso «Spagna» (ha patteggiato un anno e otto mesi). Accusa Magnetta di aver incontrato per ultimo Alvares, poi ammette di aver assistito all'omicidio. Dapprima arrestato per possesso di armi (imputazione confermata anche per Magnetta), è infine accusato anche di aver sparato all'amico. Il movente: Alvares si sarebbe sottratto all'impegno preso di custodire le armi che Troccoli, rientrato a Milano dopo alcuni anni vissuti a Londra, usava per fare rapine . E nei preparativi di una rapina da due miliardi (l'assalto a un furgone portavalori) muore il 18 aprile 2000, ucciso in un rapido conflitto a fuoco, Valerio Viccei. «Un collaboratore di giustizia e un ex-terrorista
in semilibertà, pronti per il sequestro lampo di un industriale, sorpresi da una pattuglia della polizia stradale, mentre erano in attesa della loro 'vittima'. L'ex-terrorista nero Valerio Viccei, ascolano di 45 anni, è stato ucciso dopo aver ferito gravemente l'assistente di polizia Enzo Baldini, 40 anni, di Tortoreto (Teramo); il collaboratore di giustizia, ex-Sacra corona unita, Antonio Malatesta, 32 anni, di Lecce, è stato ferito a un gluteo e arrestato dall'altro poliziotto in servizio, Franco Di Giannatale, 31 anni, di Teramo, che nell'inseguimento si è fratturato un polso» (27). Così il più diffuso quotidiano abruzzese (ma anche tutti gli altri). Viccei non è un pentito doppio, ma è ritornato semplicemente un ex-terrorista nero. Forse questa clamorosa rimozione collettiva dà il senso di dieci anni trascorsi da un altro giornalista a intervistare protagonisti, consultare atti giudiziari e catalogare libri, ingolfare gli hard disk dei p.c. che si sono succeduti sulla sua scrivania (per fortuna con memorie sempre più potenti) di ritagli di giornali e di dispacci di agenzia, nel tentativo di ricostruire la storia complessiva di una generazione in nero . Poi, proprio alla fine, durante la correzione delle ultime bozze il dubbio cosmico. Il 22 dicembre 2000 Andrea Insabato resta ferito per l'esplosione di un ordigno composto da polvere pirica, che si accinge a depositare davanti alla porta di ingresso de «il manifesto». L'incidente è prodotto da un errore: accende la miccia in ascensore ma sbaglia piano e non fa in tempo a scendere dall'ufficio pubblicità alla redazione. La sua linea difensiva è che si è recato in redazione il giorno prima per concordare un servizio sulla Palestina (circostanza confermata dai redattori) e che è tornato per una diabolica coincidenza proprio mentre l'ordigno sta per esplodere. Nessuno gli crede. Il «botto» produce gran rumore ma l'unico ferito è il presunto attentatore. Sull'episodio si innesca una campagna antifascista per la messa fuorilegge di Forza nuova, con il rilancio delle solite voci sul misterioso arricchimento di Fiore e Morsello e la loro decisa difesa: Insabato è un amico ma non ci azzecca, gli «irregolari» che abbiamo pagato hanno lavorato per le nostre aziende, rivendichiamo il diritto di far lavorare camerati e detenuti, quereleremo tutti quelli che ci continuano a diffamare. Certo è che il rapporto dell'UCIGOS che rilancia le solite voci contiene almeno una grossolana bufala, trasformando due pacifiche ciurme di ultrà potentini in aspiranti guerriglieri (con tanto di progetto di campo di addestramento in Scandinavia) arruolati da Forza nuova, con due
capobanda under 30 promossi a militanti di Ordine nuovo, disciolto quando i due andavano ancora all'asilo . Che cosa avevo capito in tanti anni dell'arcipelago nero se proprio Insabato che avevo rappresentato come il più mite e generoso si faceva scoppiare un petardone tra le mani, nel corridoio de «il manifesto»? Dubbi presto spazzati via: perché il personaggio in questione ancora si toglie le giacche da dosso, stavolta per darle al barboni, eppure ha creduto di poter risolvere con quel gesto le ossessioni religiose che gli riempiono la testa. E così, turbato dalla bomba al Duomo, o dagli sfottò al papa per Heider, è andato all'attacco, lui - ferocemente antisionista dell'unico giornale faziosamente filopalestinese. Confermando un particolare già descritto - che di politica non capisce niente - e un assunto generale: che nella fascisteria il nero non è l'assenza ma la somma di tutti i colori. Il viola dei paramenti dei maghetti e il bruno dei nazisti, il verde degli islamici e dei fondamentalisti ecologici e il rosso dei nazionalbolscevichi. Fino al suo contrario, il bianco della guardia al soldo della reazione e dell'imponente armata dell'integralismo cristiano . NOTE . (1). Tra i promotori della scissione un rautiano storico come Nicola Cospito, il professore romano che dirige la rivista culturale «Orientamenti» e anima un ricco sito Internet, il sindaco di Chieti Nicola Cuccullo, il presidente del comitato centrale Romolo Sabatini, già leader della frazione peronista di Lotta popolare (era il segretario della sezione di piazza Bologna) . (2). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA . (3). Sintesi dell'autore da dispacci ANSA . (4). Ibidem . (5). Massimo Lugli, "Attentato distrugge sede dell'estrema destra", «la Repubblica», 9 gennaio 2000 . (6). Un grande petardo esplode in via Tasso nell'androne del Museo Storico della Liberazione, un quarto d'ora prima della mezzanotte del 22 novembre 1999. L'ordigno assomiglia a una grande castagnola, di quelle che si fabbricano nel Napoletano per Capodanno. E' sistemato tra il grande portone a vetri e la piccola scalinata che porta all'ascensore, a soli tre metri dal portone d'ingresso del Museo, ex-sede e luogo di tortura delle S.S. La deflagrazione è fortissima, provoca una pioggia di schegge di marmo, il travertino che riveste le pareti si rompe in mille
pezzi, crolla l'intonaco, sui piani i vetri vengono giù uno dopo l'altro. Poteva provocare una tragedia, essendo stato collocato a cinque metri esatti dal contatore del gas del palazzo. Sono cinque le famiglie che abitano nell'edificio: nessun ferito, solo una donna si sente male. Rivendica il Movimento antisionista, una sigla sconosciuta agli inquirenti ma nota alla comunità ebraica romana, che la riconduce all'orbita della disciolta Base autonoma. Una voce maschile insulta un poliziotto: «Il museo della Liberazione ha fatto un botto». La prima pista investigativa è orientata verso gli estremisti da stadio. In serata esce allo scoperto Maurizio Boccacci, che non ha mai fatto niente del genere, ma è solidale con gli autori del gesto perché il museo di via Tasso rappresenta una bugia storica . (7). A soli tre giorni dall'attentato al Museo della Liberazione il Movimento antisionista piazza un altro ordigno esplosivo, più piccolo e meno potente, davanti le serrande del cinema Nuovo Olimpia, in via in Lucina, dove è in programmazione il film-documentario sul processo ad Adolf Eichmann, ma la sfida simbolica è più generale: a due passi da via in Lucina c'è la sede del Parlamento, palazzo Chigi, la Presidenza del consiglio, gli uffici di sicurezza della Camera dei deputati. Una mano esperta ha applicato sulla miccia dei cerini che a contatto con una sigaretta accesa si sarebbero dovuti incendiare (alimentando la miccia) non appena il mozzicone si fosse consumato. Un tipo di innesco già utilizzato in passato, ma fortunatamente la sigaretta si è spenta e l'ordigno, piazzato verso l'una di mattina davanti la serranda dell'uscita di sicurezza del cinema, è rimasto inesploso. Poco dopo arrivano tre telefonate di rivendicazione. La prima in questura all'1,50 da una cabina di piazzale degli Eroi. Sei minuti dopo ai carabinieri da un telefono pubblico di via Martin Luther King (villa Pamphili) All'1,59 l'ultima, di nuovo alla polizia, da piazzale Medaglie D'Oro. Una rivendicazione lunga e articolata fatta da un'unica voce maschile a nome del Movimento antisionista: «Abbiamo messo una bomba in via in Lucina. Abbiamo colpito il cinema Nuovo Olimpia, a due passi dal Parlamento, covo degli schiavi ebrei. Per questa volta ci siamo andati leggeri...». La composizione della bomba assomiglia molto a quella dei petardi che i tifosi laziali e romanisti fanno esplodere durante le partite. Ed è anche questo il motivo per il quale le indagini immediatamente si indirizzano verso l'ambiente degli ultrà capitolini. Nel corso delle perquisizioni sono sequestrati numerosi documenti. A Regina Coeli finisce un ultrà
giallorosso, A. F., ventinove anni. Nella sua abitazione c'erano 150 grammi di hashish. E' invece denunciato per possesso illegale di una pistola calibro 22 e di proiettili calibro 9 F. A., vent'anni, conosciuto per aver partecipato a manifestazioni dell'estrema destra. Stessa sorte per T. P., ventun'anni, capo degli skinhead: aveva razzi illuminanti proibiti simili a quelli utilizzati dalle barche per segnalare che sono in difficoltà . (8). A fine novembre i carabinieri denunciano dieci persone per l'attentato di via Tasso, tre dei quali sono considerati gli ideologi del nuovo Movimento antisionista e che già in passato sono stati segnalati per manifestazioni antisemite. Nei giorni precedenti tutti hanno subìto perquisizioni. I militari non hanno trovato volantini o documenti che li colleghino direttamente all'azione ma sono certi di aver imboccato la pista giusta. Negli ideali il gruppo si rifà al disciolto Movimento politico occidentale di Boccacci. La DIGOS concentra la propria attenzione sul mondo delle tifoserie. Nel mirino ci sono una ventina di persone, ma l'interesse è puntato su quattro-cinque nomi che appartengono alla frangia più estrema degli ultrà. Le perquisizioni e i controlli portano all'iscrizione nel registro degli indagati di circa trenta persone, ma nessuno è formalmente accusato di danneggiamento legato agli episodi di via Tasso e del cinema Nuovo Olimpia. A tutti sono stati contestati reati che vanno dalla detenzione di armi al possesso illegale di droga. Per gli investigatori l'attentato contro il Nuovo Olimpia è un tentativo di emulazione compiuto da persone diverse da quelle che hanno agito in via Tasso. La DIGOS denuncia come responsabile del fallito attentato al cinema Giuliano Castellino, ventitré anni, simpatizzante di Forza nuova e militante nella tifoseria degli ultrà romanisti, con vari precedenti: era già stato deferito per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate e per lesioni personali e furto. La DIGOS è arrivata a individuarlo grazie a un filmato registrato da una telecamera collocata sul muro di cinta della Camera dei deputati, a una perizia vocale, da cui è risultato che la voce che aveva telefonicamente rivendicato l'attentato a nome di un sedicente gruppo «antisionista» era la stessa del ventitreenne, e alle analisi del D.N.A. del giovane, risultate compatibili con la saliva di un mozzicone ritrovato dagli investigatori nei pressi del cinema . (9). Anche nell'ottobre 2000, dopo l'esplosione dell'«Intifada delle armi», quando un presidio di solidarietà per il popolo palestinese è
aggredito da una squadraccia a piazza Navona, i dirigenti di Forza nuova non hanno perplessità: sono stati i «ragazzi del ghetto», i gruppi di «autodifesa» ebraica . (10). "Picchiato un cronista del Corriere della Sera", «Il Messaggero», 7 dicembre 1999 . (11). Ibidem . (12). Luca Bussi, "Ordigno alla sede di Forza nuova", «Il Messaggero», 7 dicembre 1999 . (13). Ibidem . (14). La prima grossa attività di Fiore e Morsello è Meeting Point-Easy London, creata nel 1986 (15 sedi in Italia, uffici di corrispondenza in altre capitali europee spesso gestite da latitanti o militanti neofascisti: da Gabriele Adinolfi a Parigi a Roberto Salvarani a Madrid), un'agenzia di viaggi e di collocamento rivolta ai giovani che vanno in Gran Bretagna per lavorare e imparare l'inglese: ogni anno più di seimila giovani europei vi si rivolgono. Ad arricchire le casse dell'agenzia le lucrose provvigioni sul sussidio di disoccupazione assicurato a centinaia di italiani appena giunti a Londra e aiutati a infiltrarsi nelle ancora larghe maglie del "welfare" britannico. Molti giovani vanno invece a lavorare nei ristoranti del West End, noti per il supersfruttamento, o nell'East Anglia con gli Outback International Work Hostels, una società che procura manodopera straniera a basso costo e sistema il personale in alloggi scadenti, come hanno più volte ricostruito dettagliate inchieste di «Searchlight», la rivista del network antifascista, che accusa l'agenzia di usare spregiudicatamente una «sturmtruppen» di skinhead per stroncare le eventuali contestazioni dei clienti più riottosi. La principale fonte di reddito è la gestione di un vasto patrimonio immobiliare, con ben 1300 monolocali, e di scuole di lingua, come la Westminster Bridge Road, il cui contratto d'affitto è intestato a Morsello ma che è usata anche come centro congressi di neofascisti di tutta Europa. Fiore e Morsello sono soci in una catena di ristoranti e negozi alimentari e possiedono una casa discografica. Il patrimonio finanziario del gruppo è valutato intorno ai 30 miliardi . (15). L'organizzazione, nata da una delle tante scissioni del National Front, predica la distruzione dello Stato di Israele, il rimpatrio forzato dall'Europa delle minoranze etniche e la persecuzione degli omosessuali. Nel 1993 inondò Gran Bretagna e il resto dell'Europa di
manifesti in cui si proclamava: «Dio ha un piano per gli omosessuali: l'AIDS è solo l'inizio» . (16). Il villaggio è reclamizzato sul sito Internet usato dal Saint Michael's the Archangel Trust e dal Saint George's Educational Trust (amministrato da Roberto Fiore), proprietari di una rete di negozi di beneficenza, i "charity shops", come un rifugio dove i «camerati europei» faranno l'esperienza di un «ordine nuovo» e dove ai ragazzi dei quartieri poveri delle città europee sarà insegnato a smettere di «parlare, muoversi e agire come dei negri». Scopo ufficiale delle due charity (solo a Londra otto negozi dove insieme agli abiti usati ai tascabili, ai dischi e al bric-a-brac, a ritratti della Vergine, è facile trovare anche pubblicazioni fasciste), è «promuovere la comunità della Chiesa Cattolica Romana», in un Paese a maggioranza protestante, con il sostegno del Vaticano, appoggio negato dalla Santa Sede. L'attività inconsapevolmente sostenuta da migliaia di cattolici inglesi, finanzia anche «Final Conflict», una rivista di propaganda fascista, il villaggio spagnolo e un sito Internet che vende poster di Mussolini e di Hitler, libri sulla «supremazia bianca» e opere antisemite di negazione dell'Olocausto . (17). Dina Nascetti, "Fate la carità al povero nero", «L'Espresso», 2 dicembre 1999 . (18). Confronta Emilio Marrese, "Forza nuova va in curva ma senza piani", «la Repubblica», 22 settembre 1999: «Intanto», dichiara Caratossidis, «rifiutiamo che si parli di reclutamento, perché è un termine militare. Nello stadio vivono anime molto diverse, dall'operaio al figlio dell'avvocato, ed è un luogo ideale dove diffondere un messaggio. Si fa propaganda dove si può e coi mezzi che si hanno: se ho mille volantini li porto allo stadio perché sono più sicuro che vengano letti. Se non ho i soldi per la campagna elettorale, attacco uno striscione allo stadio perché so che lì avrà visibilità. Lo stadio, come discoteche o centri sociali, è un bacino da sfruttare per la ricerca di voti e consensi. La sinistra lo fa da sempre. Sarei ipocrita se dicessi che non c'è una volontà di insinuarsi in un ambiente che ci è sempre stato ostile. Se i giovani che ci sono più vicini ideologicamente la domenica vanno allo stadio anziché a impasticcarsi in discoteca non rientra in un disegno. Noi stiamo uscendo dal ghetto ma la maggioranza delle curve è ancora di sinistra. Almeno ora non dobbiamo più indossare il casco della moto per fare volantinaggio. Chiamatelo proselitismo, non
reclutamento». Caratossidis non è privo dl coraggio politico: non esiterà ad accettare di recarsi - per un reportage di Italia 1- in compagnia di un sopravvissuto nel campo di Auschwitz . (19). Giancarlo Dotto, "Piccoli Heider crescono", «L'Espresso», 17 febbraio 2000 . (20). Ibidem . (21). Ibidem . (22). Opposta fazione nasce tra il '92 e il '93, quando i più giovani, vicini all'estrema destra, si staccano da due gruppi storici della tifoseria giallorossa, Vecchia guardia e Commando ultras curva sud in cui predomina un'identità di sinistra. Originariamente non hanno un nome ed è la stampa a darglielo, attribuendo alcuni episodi a «un gruppo di fazione opposta» a quella dei due gruppi storici: da allora nasce Opposta fazione che organizza gli ultrà neofascisti di Monteverde. In seguito il gruppo aggrega i camerati di altri quartieri neri, come San Giovanni e Prati, raggiungendo i 150 aderenti. Il simbolo è uno striscione nero con uno scudo e una runa. Nel novembre del '94 viene alla ribalta nella spedizione punitiva di Brescia-Roma, promossa da Movimento politico contro le forze dell'ordine, in cui è ferito il vicequestore Giovanni Selmin. Tra i venti condannati, molti sono di Opposta fazione. Altro episodio il 12 settembre '99 durante Roma-Inter all'Olimpico: il Commando ultras curva sud è cacciato. Il suo posto, al centro della curva, viene preso dal gruppo A.S.R. Roma ultras in cui confluiscono Opposta fazione e altre sigle del «tifo nero» . (23). Daniela Onelli, "Ce n'erano altri due e si costituiranno", «la Repubblica», 21 marzo 2000 . (24). Ibidem . (25). C. Man, "Convalidato l'arresto di un ultrà", «Il Messaggero», 13 maggio 2000 . (26). Paola Vuolo - Marco De Risi; "Guerriglia ultrà nelle strade di Roma", «Il Messaggero», 12 maggio 2000 . (27). Roberto Almonti - Francesco Marcozzi, "Sparatoria con la polizia, morto ex terrorista", «Il Messaggero», 19 aprile 2000 . WEBGRAFIA . www.geocities.com/CapitolHill/2758/destra.html E' il grande portale della destra in Italia, con centinaia (o migliaia di link?) che spaziano dai giovani del C.C.D. ai più rabbiosi negatori dello sterminio ebraico. E'
organizzato per categorie: cattolici, centrodestra, destra radicale, irridentisti, italiani nel mondo, polo per la libertà, storia e cultura (da Evola alle insorgenze antigiacobine), sindacati, altre realtà. Nell'home page segnala le novità, ha una pagina sugli aggiornamenti e un buon motore di ricerca interno. Fondamentale per cominciare a navigare nell'arcipelago destro . SITI CULTURALI . - Arctogaia www.arctogaia.com/public/ital.htm Sito di area nazionalbolscevica, con pagine in russo, inglese, francese, spagnolo e italiano. Ispirato alla «visione imperiale» di Thiriart contiene numerosi saggi di Dughin, il traduttore in Russia di Evola, e di Guillaume Faye, l'ideologo della «nouvelle droite» che ispira il movimento archeofuturista . - Centro studi Trans Lineam space.tin.it/associazioni/vbanella/ E' il Centro studi aperto in provincia di Varese dal romano Rainaldo Graziani, erede di Clemente, già fondatore di Meridiano Zero, a Groppello di Gavirate, via Al lago 21. Si presenta così: «Affrancato da ogni sistema rappresenta il 'fronte dei Ribelli', ovvero uomini che indipendentemente dalle loro certezze o dai loro orizzonti culturali si sentono accomunati dall'innato senso della libertà, dalla volontà di resistere all'omologazione e mercificazione del genere umano, quindi dal rifiuto sine conditio dell'ideologia egualitaria e modernista». Il sito web pubblica un osservatorio, una collana di saggi on line e si sta per munire di un forum e una chat. Il Centro studi accompagna iniziative politico-culturali seriosissime a momenti comunitari con cene a tema e manifestazioni di vario tipo . - Carpe diem www.carpe-diem.it Rivista di area, ha forti legami con gli ambienti dell'estrema destra spagnola e in particolare con gli «Amici di Degrelle», portati in dote da Giancarlo Rognoni, che ha scritto numerosi saggi sul movimento falangista. Si presenta così: «Dopo varie esperienze politiche, nel 1990, un gruppo di nazionalpopolari ha deciso di fare politica in modo nuovo, fra la gente con la gente A questo punto sono nate diverse ed esaltanti esperienze. Prima l'apertura di due locali, poi la festa comunitaria di Cuasso al Monte nel 1992, la creazione della testata «Carpe diem», la stampa di alcuni testi, la collaborazione con il Vertex Teatro, i contatti con i nazionalpopolari spagnoli, infine l'avventura su Internet. Politicamente alcuni di noi militano in differenti
schieramenti, ma tutti siamo uniti da una comune visione del mondo, da una comune visione della spiritualità dell'uomo. Non facciamo parte, come gruppo, di schieramenti politici. Siamo disponibili a collaborare con tutti e a parlare con tutti, ma non siamo disposti a rinnegare noi stessi, le nostre idee, la nostra visione del mondo. 'Siamo quelli che siamo'». I testi sono in spagnolo e italiano, è attivo un motore di ricerca e una mailing list, sono presenti ricche sezioni di canzoni di lotta, di servizi storici e bibliografici. Hanno proprie sezioni (linkate dalla home page), la Divisione San Marco della R.S.I., i Paracadutisti di Italia, gli Amici di Degrelle . - Alburno web.tiscalinet.it/alburno/ Ricchissima rassegna stampa sui temi dell'immigrazione e il mondialismo, prodotta dal Movimento Italia meridionale, fortemente radicato a Battipaglia, il cui leader è stato tra i discepoli di Freda condannato per il Fronte nazionale. Il sito contiene anche alcuni M.P.E.G. di «Carmina burana», tradizionale colonna sonora nelle celebrazioni del solstizio organizzate dall'editore padovano - Identità nazionale members.xoom. it/Identita E' uno dei tanti siti di area prodotto da un microaggregato politico-culturale, il circolo di Identità nazionale, «esclusivamente al servizio delle idee della destra tradizionale». Lo abbiamo scelto perché emblematico di un certo approccio retorico di ispirazione «apollinea». L'home page recita una significativa dichiarazione di intenti: «Fiero del mio sentire e della mia libertà. Orgoglioso di ciò che ero e di ciò che sono. Non inseguo ciò che è passato, né vivo in attesa di ciò che è futuro ma lotto per ciò che è eterno». Il logo è una delle tante variazioni della ruota solare (il tema grafico dello swastika prenazista, con i bracci semicircolari). Nella pagina successiva scorre una striscia di testo con la dedica a un militante che ha sacrificato tutto all'idea, Luciano Fornaciari, sullo sfondo di un mondo e di un Icaro. E il sito finisce così . - Associazione Limes www.asslimes.com/ Associazione culturale di area nazionalcomunista con sede a Milano, in via Legnone 79 (zona Maciacchini), dove è attiva anche una biblioteca. L'iconografia e le epigrafi sono quelle classiche della maniera evoliana: cavalieri medievali e immagini fantasy. Limes si presenta come un'associazione nata nel novembre del 1999 con l'intento di valorizzare e diffondere, in quest'epoca di globalizzazione economica e di omologazione mentale, la cultura tradizionale e comunitaria, italiana ed europea. «Nostro intento è favorire il dialogo e l'incontro tra tutte quelle persone e quei
gruppi che non si riconoscono nell'attuale modello di sviluppo, quello liberalcapitalista, responsabile dei tanti disastri ecologici, sociali, culturali, economici che affliggono il pianeta. Vogliamo contribuire a sviluppare una visione della lotta che superi le ormai obsolete etichette 'destra/sinistra', 'comunismo/anticomunismo', 'fascismo/antifascismo', consci che 'il nemico dell'uomo' è oggi rappresentato dai fautori della globalizzazione e del mondialismo». Nella pagina dei link spicca a sorpresa, tra i collegamenti a numerose realtà del nazionalismo europeo, anche quello con Tactical Media Crew, il portale di movimento di Radio Onda Rossa, emittente storica dell'Autonomia operaia . Fronte politico occidentale www.geocities.com/Athens/Acropolis/8102/index.html Il marchio di fabbrica è da gruppo politico ma manca ogni riferimento organizzativo. Il sito contiene pochi articoli sparsi originali, opera per lo più di tale Filippo Valmaggia, dai toni fortemente antisemiti, ma acquista consistenza come sito di riferimento del revisionismo di destra, contenendo il link con l'AAARGH e il CODOH (Comitato per un dibattito aperto sull'Olocausto, portale del revisionismo di lingua inglese) e alcuni classici del negazionismo (da "Auschwitz, fine di una leggenda" di Carlo Mattogno a "Non colpevole a Norimberga" di Charles W. Porter) . - AAARGH - Associazione antichi amatori di racconti di guerra e di Olocausto abbc.com/aaargh/ Sito «istituzionale» del movimento revisionista con pagine in inglese, francese, spagnolo, tedesco, indonesiano e italiano. Il sito italiano ospita numerosi saggi, anche di autori di «sinistra», dall'islamico Roger Garaudy, già dirigente del P.C.F. ("I miti fondatori della politica israeliana") al gauchiste francese Pierre Guillaume ("Della miseria intellettuale in Francia"), dal semiologo ebreo Noam Chomsky agli storici della Resistenza Abba e Gobbi. Le sezioni più corpose riguardano gli archivi di tre autori di culto: il socialista Rassinier, sopravvissuto ai lager e antesignano del negazionismo olocaustico, il bordighista Saletta e il neofascista Mattogno . - Centro studi La Runa utenti.tripod.it/centrostudilaruna/ Il Centro studi La Runa (C.S.L.R.) è un'associazione nata a Chiavari il 22 ottobre 1994. Si occupa di studi tradizionali, storia delle religioni, indoeuropeistica, folklore, letteratura fantastica eccetera. Stampa una
rivista, di nome «Algiza», e una serie di volumi, dedicati a questi argomenti. Su «Algiza» sono anche stati pubblicati testi inediti di Julius Evola. Il sito comprende un dettagliato catalogo (tradizione, politica, società, religioni, medioevo, fantastico, storia, oggettistica, riviste), una mailing list, una lista di link, estratti della rivista e il calendario delle attività del Centro studi . - Centro studi Eumeswil www.intergate.ca/personal/eumeswil/ Sito integralmente dedicato a Ernst Jünger, lo scrittore eroe della Prima guerra mondiale, tra i leader del movimento della Rivoluzione conservatrice. Contiene testi di conferenze, attività dell'associazione e link . - Paganitas www.paganitas.com «Paganitas» è «un progetto di rivalutazione della nostra eredità ancestrale, un tentativo di ricollegare l'uomo europeo al sacro, attraverso la conoscenza della sua essenza e delle vie per trascendere la condizione umana. Oggi viviamo in un'epoca in cui la trasmissione orale della Conoscenza è praticamente scomparsa dalla nostra cultura. Per questo, chi si sente chiamato a un ritorno alla Tradizione e intende accedere alla Conoscenza, deve necessariamente avvalersi della trasmissione scritta. Viene qui proposta, perciò, una selezione di tutti quei testi attualmente in commercio, oltre ad alcuni rari e introvabili, che trattano dei vari aspetti del mondo indoeuropeo, storici, culturali, religiosi, indispensabili per una formazione di tipo tradizionale» . Le sezioni del catalogo librario sono numerose: religiosità, etnie culture e tradizioni, etnomedicina, guerre e vie del guerriero, libri fotografici, fantasy, computer grafica. Seguono sezioni di gadget e foto d'armi, una significativa serie di articoli, una bibliografia indoeuropea, cartine, link e un modulo ordini . - EstOvest estovest.hypermart.net/ Questa rivista di comparazione culturale ha come sottotitolo «Le radici del terzo millennio». Si presenta così: «Questo sito nasce dall'impegno comune di varie persone, provenienti da itinerari culturali ed esistenziali diversi, ma accomunate da analoghi interessi di studio e di riflessione, in campi come il sacro, la metafisica, lo studio comparativo delle religioni, la filosofia classica, il pensiero ecologista, eccetera. Tutte queste realtà di ordine speculativo, secondo noi animatori di EstOvest, rivestono un significativo valore nello sforzo di ricercare nuovi sensi e nuove prospettive per molti campi del sapere contemporaneo, come le scienze,
la psicologia, la politica. Settori del sapere che oggi più che mai appaiono da un lato ricchi di dati e di informazioni settoriali, ma tristemente carenti di un convincente orizzonte teorico esplicativo di carattere globale. Abbiamo sentita la necessità di raccogliere, e rendere disponibile al pubblico raggiungibile attraverso la Rete, le testimonianze e i risultati di una ricerca che spazia attraverso la sapienza e le conoscenze proprie sia dell'Oriente, sia dell'Occidente, alla riscoperta delle loro culture e valori 'tradizionali', senza comunque perdere di vista, ma anzi dedicando una particolare attenzione, agli aspetti più innovativi e stimolanti del pensiero contemporaneo. EstOvest, quindi, vuole essere un luogo di confronto e di comparazione, su molteplici livelli, tra differenti discipline, mentalità e 'punti di vista'. Un confronto non fine a se stesso, ma inteso quale via privilegiata per poter giungere ad elaborare nuove sintesi, nuovi paradigmi di pensiero, e forse a porre le basi per significativi sviluppi di civiltà per un prossimo futuro. Il simbolo dello Yin-Yang, che abbiamo scelto, ben rappresenta la possibilità di convivenza armonica e vitale di realtà radicalmente diverse. Un simbolo che ci ricorda che le 'coppie di opposti' (ad esempio: Est/Ovest, antichità/contemporaneità, razionalità/intuizione), a un livello superiore di comprensione, si rivelano essere piuttosto forme di 'complementarità'. Vorremmo, con le nostre ricerche, riproporre una concezione olista della realtà, contribuire al risveglio della facoltà di percepire l''incanto del mondo', un mondo ridotto a materia opaca, annegata in una zuppa di numeri, dalla scienza e dalla filosofia positiviste, ormai obsolete e prive di valore intrinseco, ma purtroppo ancora influenti sulla mentalità collettiva. Mito, simbolo, archetipo... sono termini e dimensioni che possono essere rivisitati e riscoperti a vari livelli, da quello religioso e metafisico, a quello scientifico e filosofico, in una prospettiva di apertura e di comprensione critica dei fenomeni della nostra epoca, come della vita individuale di ciascuno di noi» . Una pagina presenta i principali collaboratori con una breve nota biografica. Ha una mailing list di discussione, che diffonde agli iscritti aggiornamenti quotidiani, un indice degli articoli, una ricchissima pagina di link suddivisi col seguente indice tematico: Antichità classica, Tradizioni orientali, Esoterismo e Ermetismo, Filosofia italiana, Filosofia internazionale, Cristianesimo, Islam, Tradizioni orientali, New Age, Teosofia e Antroposofia, Miscellanea .
- Sodalizio del centro antico utenti.tripod.it/sodalizio Sito di tradizionalisti evoliani di culto celtico e di evidenti simpatie politiche leghiste. Il sottotitolo recita: testimonianza e preservazione dell'idea tradizionale. Nell'homepage trionfa un simbolo solare quadripartito e una citazione di Evola. Le sezioni sono: Osservatorio («spazio libero in cui sono ospitati testi scelti, articoli, foto e lavori di grafica, aventi come riferimento il mondo della Tradizione nei suoi innumerevoli aspetti politici, culturali, e spirituali»: una lunga citazione dal «Fronte nazionale» di Freda, poesie irlandesi, un brano dell'esoterista Gurdjieff, Luoghi della Tradizione (immagini di località celtiche), Aforismi (di Evola, Jünger, Confucio, Pound, Adbal Kaliq, Buddha, Rumi, Gesù, Tokuyo, Tokuan, Lorica Celtica, Gurdjieff, Abù al-Khair, Alì Hazrat, Abù Sa'id, Leo, Socrate, Marco Aurelio, Schiller, Democrito, Tommaso da Kempis, Seneca), Testi Scelti. La summa bibliografia del militante della tradizione comprende: "Rivolta contro il mondo moderno", "Gli uomini e le rovine" e "La Tradizione Ermetica" di Julius Evola; "Trattato del ribelle" di Ernst Jünger; "Lezioni spirituali per giovani samurai" di Yukio Mishima; "Tao-The-Ching" di Lao Tze, "Forme tradizionali e cicli cosmici" di René Guénon; "Introduzione alla Magia quale scienza dell'Io" del Gruppo di Ur. E ancora: "Piccola Filocalia della preghiera del Cuore" di Jean Gouillard - la "Filocalia" è una raccolta di testi tradizionali sulla preghiera ortodossa, soprattutto «solitaria» -; "Frammenti di un insegnamento sconosciuto" di P D. Ouspensky, "Incontri con Uomini straordinari" di G. I. Gurdjieff; "Il canto del Derviscio", a cura di Leonardo Arena; "Sufismo: velo e quintessenza" di F. Schuon; "Le vie dello Spirito" di Claudio Lamparelli, raccolta di testi sapienziali che intende mettere a confronto le varie concezioni religiose del mondo su temi specifici della ricerca spirituale. Infine "Il Monte Analogo" di René Daumal, che sotto le parvenze di un romanzo d'avventure ci offre una «metafisica dell'alpinismo» . Il sito comprende inoltre link (politici: la destra in Italia, Lega Nord, nazionalisti celtici; mondo celtico; esoterismo e spiritualità) email e guestbook . REALTA' LOCALI SIGNIFICATIVE . communities.msn.it/CuibMikisMantakas Sito della gioventù nazionalpopolare di Taranto, dedicato al militante del FUAN ucciso davanti alla sezione del M.S.I. Prati nel 1975. Iconografia classica,
celtica su sfondo rosso e cavaliere medievale nella home page, con tanto di citazione di rigore dell'Evola «movimentista»: «Portarsi là dove non ci si difende, ma là dove si attacca» Emblematico della retorica «legionaria» . CRONOLOGIA . 1960 25 aprile. Nascita di Avanguardia nazionale . 1961 8 febbraio. Nasce l'O.A.S . 21 giugno. Notte dei fuochi in Alto Adige: saltano 40 tralicci; seguono 160 arresti nel BAS (gruppo indipendentista sudtirolese) . 1963 Freda organizza a Padova il gruppo di A.R . 1964 1 marzo. Pacciardi organizza l'Unione per la Nuova repubblica . 25 aprile. Neofascisti di A.N. aggrediscono gli studenti all'Università di Roma . 6 settembre. In un'imboscata del SIFAR è ucciso il leader del separatismo sudtirolese Amplatz e ferito Klotz . 10 dicembre. Squadre speciali del questore Santillo e fascisti attaccano congiuntamente il corteo contro Ciombé . 1965 Scioglimento di A.N . 26 agosto. Attentato sudtirolese: uccisi due carabinieri nella caserma di Sesto Pusterla a raffiche di mitra . 1966 23 luglio. Uccisi due agenti a San Martino di Caises a raffiche di mitra: Salvatore Cabitta e Giuseppe d'Ignoti . 10 settembre. Strage di Malga Sasso: una bomba lanciata nella casermetta della Finanza causa tre morti . 1967 30 settembre. Attentato all'Alpen Express: due agenti di polizia morti a Trento . 1968 1 marzo. A.N. partecipa agli scontri di Valle Giulia che segnano l'esplosione del Sessantotto . 16 marzo. Scontri all'Università di Roma. Assalto alla facoltà di Legge, occupata dalla destra dopo una rissa furibonda sulle scale di Lettere: ferito Oreste Scalzone, arrestati decine di volontari nazionali barricati a Legge . 30 aprile. Bomba neofascista contro la casa del questore di Padova . 27 giugno. Il colonnello Rocca, ufficiale del SIFAR, è trovato cadavere in ufficio. Suicidio sospetto . 13 settembre. Il comandante Borghese fonda il Fronte nazionale .
Ottobre. Attentati al P.C.I. Quadraro e a un cinema: arrestati cinque di A.N., e il custode del M.S.I. Quadraro . 1969 27 febbraio. L'anarchico Congedo muore cadendo da una finestra durante un assalto fascista a Magistero occupato a Roma . 1 aprile. Attentato al palazzo di giustizia di Roma . 9 aprile. La polizia spara a Battipaglia contro una manifestazione popolare di protesta: due morti. Uno è Carmine Cidro, attivista della Giovane Italia. In città si erano concentrati fascisti di Napoli e di Roma . 15 aprile. Bomba al rettorato di Padova del gruppo Freda . 16 aprile. Assalto neofascista al municipio di Padova, 37 incriminati . 25 aprile. Attentati alla Fiera di Milano e alla Banca nazionale delle comunicazioni della stazione di Milano opera dei fascisti ma attribuiti agli anarchici . 27 aprile. Il generale Ciglieri, elemento di punta dello schieramento antigolpista, muore in un inspiegabile incidente stradale . 8 agosto. Attentati sui treni organizzati dai neofascisti veneti: 8 riusciti, 2 no, 10 feriti . 13 settembre. Ucciso a Padova il portiere Muraro, teste di accusa contro Fachini. La versione ufficiale parla di suicidio . 4 ottobre. Mancata strage alla scuola slovena di Trieste . 24 ottobre. Arrestati con mitra e bombe a mano a Palermo Concutelli, Lo Porto, Mistretta e Lo Presti . 21 novembre. Ai funerali del poliziotto Annarumma, morto nel corso di scontri di piazza con l'estrema sinistra a Milano, dopo un comizio sindacale, si scatena caccia al rosso con tentativi di linciaggio da parte della folla inferocita . 7 dicembre. Bomba alla questura di Reggio Calabria. Arrestati i dirigenti di A.N. Pardo e Schirinzi . 12 dicembre. Bomba di piazza Fontana. Scoppia alle 4,30 del pomeriggio. 17 morti e 88 feriti . 15 dicembre. La polizia arresta Valpreda. Lo stesso giorno Pinelli sotto interrogatorio in questura «si suicida» . 1970 19 aprile. Ferito a un comizio di Almirante a Genova il volontario nazionale Ugo Venturini. Muore il primo maggio . Aprile. Attentati del MAR in Valtellina . 16 luglio. Bruno Labate, della C.G.I.L. ferrovieri, muore a Reggio Calabria dopo una violenta carica di polizia .
22 luglio. Salta un treno a Gioia Tauro con lavoratori in trasferta sindacale: 6 morti e 50 feriti. L'attentato è opera dei neofascisti che partecipano alla rivolta di Reggio . 16 settembre. Scompare il giornalista dell'«Ora» di Palermo, Mauro De Mauro. Da ex della Decima MAS aveva condotto incisive inchieste sui piani del comandante Borghese. Non sarà mai più ritrovato . 17 settembre. La polizia spara a Reggio Calabria: muore capo operaio dell'AMA. I dimostranti rispondono: un carabiniere è ferito, un brigadiere muore di infarto . 8 dicembre. Golpe Borghese . Dicembre. Giovane Italia, Fronte monarchico giovanile e Raggruppamento giovanile monarchico costituiscono il F.D.G. I Volontari nazionali non aderiscono . 1971 Primi di gennaio. Feriti a martellate da un commando dell'estrema sinistra Pino Rauti e Paolo Zanetov, segnalato - senza riscontri giudiziari - nel libro "La Strage di Stato" come un ordinovista coinvolto nella strategia della tensione . 23 gennaio. Ingente furto di esplosivo in uno stabilimento di Bagni di Tivoli opera di un commando ordinovista . 14 febbraio. Lancio di bombe fasciste contro un corteo di sinistra a Catanzaro, ucciso il militante socialista Malacaria, 14 i feriti . 24 febbraio. Nel corso di gravi incidenti provocati dai fascisti muore a Foggia il bracciante Centola . s.d. Sogno fonda i Comitati di Resistenza democratica con la medaglia d'oro Martini Mauri . 18 marzo. Arrestati Saccucci, Rosa e Orlandini per il golpe Borghese . 1 aprile. Arrestato il leader del M.P.O.N. Clemente Graziani . 13 aprile. Arrestati Aldo Trinco, Franco Freda e Giovanni Ventura per associazione sovversiva. Trinco sarà prosciolto . 12 luglio. Scarcerati Freda e Ventura . 22 dicembre. Nuovo arresto per Freda e Ventura, con Pozzan e Marchesin dopo la scoperta dell'arsenale di Castelfranco Veneto . 1972 26 gennaio. Attentato ordinovista contro la casa del deputato missino De Michieli Vitturi a Udine . 30 gennaio. Il neofascista Trivini uccide un cameriere in un night di Bolzano . 3 febbraio. A Roma inizia il processo per la strage di piazza Fontana. Gli atti sono inviati subito a Milano per competenza .
9 febbraio. Notte dei fuochi delle SAM a Milano. 4 arresti . 25 febbraio. Cinque scarcerati per il golpe Borghese . 4 marzo. Arrestato Pino Rauti per le bombe ai treni del '69. Sarà eletto deputato per il M.S.I. a maggio e scarcerato . 31 maggio. A Peteano autobomba ordinovista uccide 3 carabinieri e ne ferisce due, attratti da una telefonata trappola . 7 luglio. Accoltellato mortalmente a Salerno in una rissa con gli anarchici il missino Carlo Falvella . 25 agosto. Ucciso a Parma da Bonazzi, Ringozzi e Saporito un militante di Lotta continua, l'operaio Mariano Lupo . 2 settembre. Potentissimi ordigni contro il settimanale «Candido» e la federazione del M.S.I. di via Mancini . 20 settembre. Arrestati alla frontiera con armi ed esplosivo Bruno Stefano, Gianni Nardi e la fotomodella tedesca Gudrun Kiess . 4 ottobre. La cassazione trasferisce a Catanzaro il processo Valpreda per legittima suspicione . 6 ottobre. Ucciso nel tentativo di dirottare un aereo a Ronchi l'ordinovista udinese Ivano Boccaccio, il telefonista della strage di Peteano Carlo Cicuttini, che gli ha fornito la pistola, fugge in Spagna . 21 ottobre. Campagna avanguardista di attentati notturni ai treni per sabotare la manifestazione sindacale nazionale a Reggio Calabria: su 7 tre riescono (Fossanova, Cisterna, Valmontone) . 27 ottobre. Ucciso dal figlio di un imprenditore a Ragusa Giovanni Spampinato, corrispondente dell'«Unità» . 26 novembre. Ucciso Fiore Mete a Conflenti (CZ): si era rifiutato di votare M.S.I . 1973 16 gennaio. Notte dei fuochi antifascisti: bombe contro Motta a San Babila, il M.S.I. di Limbiate e la CISNAL . Gennaio. Il SID fa espatriare il bidello padovano Pozzan, braccio destro di Freda . 12 febbraio. Le Brigate rosse sequestrano a Torino il segretario dei metalmeccanici CISNAL, Labate . 9 marzo. Commando neofascista, istigato dai vertici della Divisione Pastrengo dei Carabinieri sequestra e stupra a Milano Franca Rame per il suo impegno in Soccorso rosso . Aprile. Prova generale guerrigliera del MAR in Valtellina .
7 aprile. Fallito attentato al treno Genova-Milano di Nico Azzi: il militante della Fenice resta ferito dall'esplosione dell'innesco. Doveva innescare un tentativo golpista . 12 aprile. In scontri per un corteo vietato al M.S.I., una granata lanciata da Vittorio Loi uccide a Milano l'agente Marino. E' arrestato il 15 con Maurizio Murelli . 16 aprile. Rogo di Primavalle: in un attentato compiuto da un commando di Potere operaio contro la casa del segretario del M.S.I. muoiono carbonizzati due figli . 17 maggio. Davanti alla questura di Milano, nell'anniversario dell'omicidio del commissario Calabresi, Bertoli lancia una bomba contro l'auto del ministro degli Interni Rumor: 4 morti . 2 giugno. Progetto di golpe inattuato della Rosa dei venti . 18 luglio. Il neofascista Daniele Ortelli uccide a Faenza il bracciante Adriano Salvini . 31 luglio. Un missino 50enne, Giuseppe Santostefano, aggredito a Reggio Calabria da compagni, muore senza riprendere conoscenza dopo poche ore . 12 agosto. In un incidente stradale muore Adriano Romualdi, allievo prediletto di Evola, figlio di Pino, vicesegretario nazionale del M.S.I . 19 settembre. Annullato il mandato di cattura contro il comandante Borghese . 18 ottobre. Arrestati Rampazzo e Sedona in Versilia per rapina: sono quadri militari di punta della Rosa dei venti . 12 novembre. Retata a Padova contro la Rosa dei venti . 21 novembre. Si conclude il processo M.P.O.N.: 30 condanne da 5 anni a 6 mesi, segue lo scioglimento del gruppo da parte del Viminale . 23 novembre. Precipita a Marghera l'aereo Argo 16 del SID: ne saranno accusati i servizi segreti israeliani . 1974 9 gennaio. Attentato sui binari a Silvi Marina opera di Ordine nero. Evitata per caso la strage . 1 marzo. Summit di O.N. a Cattolica in un albergo gestito da un collaboratore del SID . 23 marzo. I neofascisti milanesi Marco Pastori e «Billo» Danieletti uccidono un guardone a Parco Lambro . 21 aprile. Attentato sui binari a Vernio, evitata la strage al Parigi express. Accusati Cauchi e Gelli .
23 aprile. Notte dei fuochi di Ordine nero, con attentati a Lecco Milano, e Moiano . 9 maggio. Blitz anti-MAR: arrestato Fumagalli e decine di militanti . 19 maggio. A Brescia il neofascista Silvio Ferrari muore dilaniato dall'ordigno che trasporta . 28 maggio. Bomba contro un comizio sindacale a piazza della Loggia a Brescia: 8 morti e 94 feriti . 30 maggio. Ucciso in un conflitto a fuoco a Pian di Rascino il leader di Ordine nero Giancarlo Esposti, arrestati i militanti del MAR Vivirito, D'Intino e Danieletti . 3 giugno. Blitz del p.m. Occorsio per la ricostruzione del M.P.O.N. 10 arresti, 7 latitanti, 140 perquisizioni . 11 giugno. Muore Julius Evola . 17 giugno. Due missini padovani uccisi in federazione dalle B.R . 25 giugno. Assassinato a Enna un pensionato invalido di 53 anni, Vittorio Ingria, militante del P.C.I. . 4 agosto. Attentato al treno Italicus: 12 morti e 105 feriti . 14 agosto. Guido Giannettini si costituisce a Buenos Aires . 27 agosto. Muore a Cadice il comandante Borghese . 31 agosto. Indiziati di cospirazione Sogno, Pacciardi e Martini Mauri . 10 ottobre. Blitz per il golpe Borghese. 8 arrestati tra cui il maggiore Pecorella, 17 latitanti, 29 inquisiti . 20 ottobre. Ucciso a coltellate a Lamezia da due neofascisti Adelchi Argada del Fronte popolare rivoluzionario calabrese . 27 ottobre. Arrestati a Casciago il leader di Ordine nero Fabrizio Zani e l'avanguardista Mario Di Giovanni (che sarà assolto nei processi contro MAR e Ordine nero) . 31 ottobre. Arrestato il comandante del SID, il generale Miceli . 1975 6 gennaio. Attentato alle ferrovie a Terontola e in un altro tratto nell'Aretino . 10 gennaio. Il tritolo distrugge il centro Nuova Europa di Roma . 24 gennaio. Mario Tuti uccide due poliziotti ad Empoli e ne ferisce uno . 28 gennaio. Gambizzato a Roma dai NAP il missino Manzo . 28 febbraio. Assassinato il militante greco del FUAN Mikis Mantakas davanti alla sezione M.S.I. Prati . Febbraio. Serie di 11 attentati in Versilia: tre arrestati . Riprendono gli attentati a Savona: un morto e vari feriti .
13 marzo. Massacrato a sprangate dal servizio d'ordine di Avanguardia operaia Sergio Ramelli. Morirà 48 giorni dopo . 28 marzo. Arrestati per i depistaggi su piazza Fontana i dirigenti del SID Maletti e Labruna . 12 aprile. Attentato di Incisa Valdarno attribuito al F.N.R . 16 aprile. A Milano l'avanguardista Braggion uccide con un colpo di pistola il militante di estrema sinistra Varalli . 17 aprile. Feriti a Milano il consigliere provinciale del M.S.I. Biglia e il sindacalista della CISNAL Mersi. Nell'assalto alla federazione missina di via Mancini un militante dei comitati antifascisti, Giannino Zibecchi, muore schiacciato sotto un camion dei carabinieri. Ucciso a Torino un leader delle case occupate della Falchera, Tonino Micciché di L.C., da un guardione della CISNAL . 19 aprile. L'autonomo Sirio Paccino è paralizzato per un proiettile alla schiena durante un assalto al M.S.I. Flaminio . 22 aprile. Gambizzato a Roma dai NAP il consigliere regionale D.C. Filippo De Jorio, indagato per il golpe Borghese . 29 aprile. Muore Sergio Ramelli . 25 maggio. Assassinato lo studente lavoratore Brasili presso San Babila da Caruso, Croce, Bega, Sciavicco e Nicolosi . 16 giugno. Di fronte alla sezione Berta del M.S.I. a Napoli, lancio di molotov contro un corteo di auto che festeggia la vittoria elettorale del P.C.I. Una ragazza gravemente ferita, Jolanda Palladino, morirà dopo pochi giorni. Arrestati alcuni missini . 23 luglio. Rapito in Puglia da Concutelli e camerati il banchiere Mariano: sarà liberato il 9 settembre . 26 luglio. Arrestato Mennucci che rivela il nascondiglio di Tuti . 27 luglio. Arrestato e ferito in Francia Tuti . 6 ottobre. Tentato omicidio dell'esule cileno Leighton . 29 ottobre. Assassinato con un colpo di canne mozze davanti al M.S.I. Prenestino Zicchieri, 16 anni, dalle Formazioni comuniste armate. Ferito un 15enne . 30 ottobre. Ucciso nel quartiere romano di San Lorenzo Antonio Corrado: somiglia a un dirigente di L.C . 25 novembre. 62 ordini di cattura contro A.N., 40 eseguiti, 7 notificati in carcere . 2 dicembre. Arrestati Tilgher, Di Luia, Crescenzi, Vincenzo Vinciguerra e Gubbini a via Sartorio .
8 dicembre. Summit a Nizza e rottura definitiva tra Graziani e Stefano Delle Chiaie . 1976 24 febbraio. Gravemente ferito a Roma il segretario del M.S.I. Appio, Luzzi . 26 marzo. Delitto dell'Idroscalo: due neofascisti sambabilini sequestrano e uccidono un'amica . 28 marzo. Arrestati Maletti e Labruna . 27 aprile. Ridotto in fin di vita da un commando neofascista Gaetano Amoroso, militante dell'estrema sinistra. Morirà il 30 . 29 aprile. Ucciso a Milano da un commando di Prima linea il consigliere provinciale missino Pedenovi. E' una rappresaglia per l'omicidio Amoroso . Aprile. Sentenza al processo F.N.R., 20 anni a Tuti, 17 a Franci . 5 maggio. Arresto provvisorio per Sogno e Cavallo per il golpe bianco. Saranno scarcerati il 19 giugno . 8 maggio. Mandati di cattura per Tuti, Franci e Malentacchi per l'Italicus . 9 maggio. Delle Chiaie, Cauchi e numerosi esuli neofascisti partecipano agli scontri di Montejurra in Navarra: uccisi due carlisti democratici . 28 maggio. A Sezze è ucciso il giovane comunista De Rosa da Allatta, il deputato missino Saccucci è accusato di concorso morale . 5 luglio. Sentenza contro A.N.: 31 condanne, 33 assolti . 10 luglio. Ucciso da Concutelli il p.m. Occorsio. Rivendica Ordine nuovo . 23 luglio. Rapina dei Gruppi armati ordinovisti a villa Pacifici a Tivoli: ucciso Cipriani . 26 luglio. Rapina dei GAO alla banca del ministero del Lavoro: bottino di 460 milioni . 5 settembre. Assassinato a Como il militante del P.C.I. Pietrantonio Castelnuovo . 10 settembre. A Malaga in un incidente stradale muore Gianni Nardi . 16 dicembre. Strage di piazza Arnaldo a Brescia: muore insegnante di 61 anni . 1977 28 gennaio. Arrestati gli ufficiali dei carabinieri Molino, Pignatelli e Santoro per le bombe di Trento . 29 gennaio. Arrestato per la strage di Brescia Andrea Arcai, figlio del giudice che indaga contro il MAR. Sarà scarcerato ad aprile . Gennaio. Retata antifascista in Spagna: decine di fermi e arresti .
1 febbraio. Assalto alla «Sapienza» occupata, feriti due compagni . 11 febbraio. Arrestati a Roma i «neri» Ferorelli e Paolo Bianchi. Fugge Cochis, braccio destro di Vallanzasca . 13 febbraio. Arrestato Concutelli, salta un attentato programmato contro Vigna . 30 marzo. Bruno Giudici, intervenuto in difesa del figlio aggredito da compagni a Talenti, muore di infarto. Seguono due giorni di scontri duri . 16 maggio. Sparatoria al Tribunale di Roma: arrestati i neofascisti Massimiliano Bianchi e Tagger Aye . Maggio. Inizia il processo Borghese . 11 giugno. Primo Campo Hobbit a Montesarchio nel Sannio . 29 giugno. Poggiali e Sinatti uccidono una guardia giurata a Firenze . Luglio. Arrestato a Londra Clemente Graziani . 14 agosto. Evade Cavallini durante una traduzione penitenziaria . 25 agosto. Guerrino Spinelli, zingaro, a Verona, è bruciato vivo in auto: è il primo delitto di Ludwig . 30 settembre. Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti uccidono Rossi. Saranno processati (e assolti) per violazione della legge Scelba 27 fascisti della Balduina: 2 arrestati, 7 già detenuti, 18 latitanti . Primi di ottobre. Rappresaglie per l'omicidio Rossi, scontri in tutta Italia, colpiti obiettivi non sempre fascisti. A Roma sono incendiate tre sedi, a Bologna un bar, a Catanzaro scontri tra «rossi» e «neri», a Torino il rogo del bar «L'angelo azzurro», attaccati bar a Padova (tre tra cui il Pedrocchi) a Varese, a Venezia, a Vicenza (due) e a Milano. Dopo i funerali di Rossi sono devastati il M.S.I. di Colle Oppio e di piazza Tuscolo . 4 novembre. Patrizia d'Agostini, operaia del P.C.I., ferita da ignoti all'uscita dal lavoro all'Autovox . 15 novembre. Prognosi riservata per un compagno, accoltellato nei pressi dell'Università di Napoli dai neofascisti . 25 novembre. Assolti 41 imputati per il M.P.O.N . 28 novembre. L'avanguardista Piccolo uccide il militante della F.G.C.I., Benedetto Petrone. Ferito un altro compagno . 29 novembre. Scontri dopo l'omicidio Petrone in numerose località. Devastata a Bari la sede della CISNAL: la P.S. spara . 26 dicembre. Ferimento di Roberto La Spada Giunta, redattore di Radio Città Futura a Roma .
28 dicembre. Ucciso dai Nuovi partigiani il neofascista Angelo Pistolesi . 30 dicembre. Incendio dei NAR alla sede de «Il Messaggero» e sparatoria contro militanti di Democrazia proletaria . 31 dicembre. Alle pendici dell'Etna muoiono i neofascisti Candura e Sciotto mentre confezionano una bomba . 1978 4 gennaio. Distrutto per rappresaglia col tritolo la sede del M.S.I. Arcella a Padova . 7 gennaio. Uccisi ad Acca Larentia, dai Nuclei armati per il contropotere territoriale, Ciavatta e Bigonzetti fuori la sede del M.S.I. Negli scontri successivi un tenente dei carabinieri uccide Recchioni . 2 febbraio. Sentenza MAR, 34 condanne a 167 anni . 21 febbraio. Bomba ordinovista uccide una guardia giurata al «Gazzettino» di Venezia . 28 febbraio. Valerio Fioravanti uccide Scialabba a Cinecittà . 6 marzo. Franco Anselmi muore nell'assalto dei NAR all'armeria Centofanti . 16 marzo. Ergastolo a Concutelli per l'omicidio Occorsio . 18 marzo. Assassinati a Milano Fausto e Iaio, militanti del Leoncavallo . Marzo. Escono i Fogli d'Ordine di O.N. . 17 maggio. Valerio Fioravanti durante il servizio di leva ruba 72 bombe a mano dal poligono di Vivaro (PN) . 22 maggio. Attentato M.P.R. al ministero di Giustizia non rivendicato . 14 giugno. Attentato M.R.P. all'autoparco comunale di via San Teodoro . 20 giugno. Attentato M.R.P. alla direzione regionale della Sip . 23 giugno. Secondo Campo Hobbit a Fonte Romana . 14 luglio. Sentenza per il golpe Borghese. Tutti assolti dall'accusa di insurrezione . 20 luglio. Attentato M.R.P. alla Prefettura di Roma . 28 settembre. I NAR ammazzano Ivo Zini davanti al P.C.I. Alberone . 1 ottobre. Fuga di Freda dal soggiorno obbligato di Catanzaro . 3 ottobre. Mite sentenza contro Ordine nero a Bologna. Zani è liberato . 5 ottobre. Muore l'attivista del W.W.F. napoletano, Claudio Miccoli, sprangato dai neofascisti del Vomero a Mergellina . Ottobre. Primo numero di «Quex» .
3 dicembre. Il gruppo Giuliani incendia i computer della Motorizzazione . 14 dicembre. Furto di armi e bombe a mano dei NAR alla Capitaneria di porto di Ravenna . 19 dicembre. Luciano Stefanato, cameriere gay patavino, è bastonato e accoltellato a morte da Ludwig . 21 dicembre. Assassinato in Francia Argala comandante dell'ETA. Il commando è guidato dall'italiano Vannoli . 23 dicembre. Sparatoria contro il M.S.I. di via Ottaviano. Ferito alle gambe il militante Pietro Cassiano che sta uscendo dalla sezione . 27 dicembre. I NAR lanciano una bomba a mano contro i giardinetti di piazza Irnerio, ferito ex-militante di AUTOP Ivo Nibbi . 28 dicembre. Cristiano Fioravanti ferito dallo scoppio di un ordigno che sta confezionando a Madonna di Campiglio . 1979 7 gennaio. Denunciati a Palmarola per costruzione abusiva alcuni quadri di T.P., in lotta al fianco degli abusivi nella borgata . 9 gennaio. Assalto dei NAR a Radio Città Futura: gambizzate 5 donne . 10 gennaio. Ucciso a Centocelle in uno scontro di piazza il neofascista Giaquinto colpito alla nuca da un poliziotto. Attentati al P.C.I. di Boschetto e a «Il Messaggero» . 11 gennaio. Ucciso a Talenti il camerata Cecchetti. Assaltate le sedi del M.S.I. di Colle Oppio e piazza Tuscolo e l'hotel Palatino . 26 gennaio. Compagni organizzati in volante rossa sparano al medico missino Nusca e al figlio a Centocelle . 27 gennaio. Attentati a Roma contro le case di due quadri di T.P. Francesco Buffa e Siro Barbieri . 27 febbraio. Sentenza di primo grado per piazza Fontana: insufficienza di prove per Valpreda. Ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini. 5 anni per falso e favoreggiamento a Maletti e 3 anni e 6 mesi a Labruna . Febbraio. Arrestati per rapina Zucco, Sordi e Ciavardini . 7 marzo. «Donne rivoluzionarie» dei NAR lanciano ordigni contro il cinema a luci rosse Ambra/Iovinelli e molotov contro il Circolo culturale femminista autonomo . 14 marzo. Rapina al calzaturificio Beato di Bologna, opera del Fronte carceri . 15 marzo. Rapina dei NAR all'armeria Omnia Sport . 20 marzo. Ucciso Mino Pecorelli .
30 marzo. Ferimento dell'autonomo Ugolini da parte del nucleo operativo di T.P . 19 aprile. Claudio Minetti, figlio della compagna di Delle Chiaie, uccide a Roma lo studente Ciro Principessa . 20 aprile. Attentato M.P.R. al Campidoglio . 1 maggio. Arresto di Claudio Mutti nell'inchiesta contro C.L.A . 7 maggio. Manifestazione di C.L.A. al cinema Hollywood di Roma contro i carceri speciali e i manicomi criminali . 14 maggio. Attentato M.R.P. a Regina Coeli . 20 maggio. Tentata strage del M.R.P. in piazza Indipendenza contro il C.S.M . 24 maggio. Attentato del M.R.P. alla Farnesina . 28 maggio. Francesco Cecchin, simpatizzante di T.P., cade da un muro al quartiere Trieste per sfuggire a un'aggressione del P.C.I.: morirà dopo 18 giorni di agonia . 31 maggio. Arresto di Walter Negrini e Sergio Calore nell'inchiesta contro C.L.A. 7 giugno. Arrestato Paolo Signorelli per C.L.A . 16 giugno. Rappresaglia NAR per la morte di Cecchin. Assalto al P.C.I. Esquilino: 25 feriti . 18 giugno. Valerio Fioravanti arrestato in auto con due giovani a Ponte Chiasso . 2 giugno. Sentenza di primo grado per la strage di Brescia. Ergastolo a Buzzi . Rapina alla Cariro di Vitinia di una batteria di C.L.A. comandata da Aleandri . 15 agosto. Giovanni Ventura arrestato in Argentina . Agosto. Freda è rimpatriato dal Costarica . 9 ottobre. Rapina al gioielliere libico Fadlun dalla banda Giuliani . 23 ottobre. Incendi dolosi all'ACOTRAL rivendicati da Gasparone e i briganti della Tolfa . 28 ottobre. Un razzo uccide un tifoso laziale all'Olimpico durante il derby, Paparelli . 27 novembre. Rapina alla Chase Manhattan Bank, con Dimitri e Fioravanti . 5 dicembre. Arrestato Pedretti per rapina a una gioielleria. Il M.S.I. chiude via Siena .
10 dicembre. Manifestazione proletaria a Palmarola, attaccata dagli studenti del «Fermi» e del «Castelnuovo», che riconoscono i tippini. Respinto l'attacco . 11 dicembre. Rapina all'orefice D'Amore di Tivoli: in una batteria di C.L.A. primo lavoro comune di Valerio Fioravanti e Cavallini . 12 dicembre. Claudio Costa, tossicodipendente veneziano, è accoltellato a morte da Ludwig . 14 dicembre. Arresto di Nistri, Dimitri e Montani mentre trasferiscono un arsenale dal covo di via Alessandria . 17 dicembre. Fallito attentato all'avvocato Arcangeli, ucciso per sbaglio uno studente lavoratore, Leandri, arrestati Sergio Calore, Bruno Mariani, Antonio Proietti e Antonio D'Inzillo. Valerio Fioravanti scappa . 1980 6 gennaio. Ammazzato a Palermo da Cosa nostra Piersanti Mattarella. Saranno a lungo sospettati come autori del delitto Valerio Fioravanti e Cavallini . 6 febbraio. La banda Fioravanti uccide il poliziotto Arnesano . 22 febbraio. Un nucleo mai identificato dei NAR uccide in casa al quartiere Africano il militante autonomo Valerio Verbano . 6 marzo. I NAR rapinano l'armeria Perini nell'anniversario della morte di Anselmi . 7 marzo. Attentato COIVR alla tipografia del «Secolo d'Italia»: 7 feriti . 8 marzo. Attentato M.R.P. contro la casa di Castelfranco Veneto di Tina Anselmi . Attentato COIVR contro la casa di Moi, dirigente F.D.G . 9 marzo. Fallita strage dei COIVR a Sommacampagna: trovato ordigno con 6 chili di polvere di mina nella sede del F.D.G. . 10 marzo. Compagni organizzati per il comunismo uccidono al posto di Rosci, segretario M.S.I. Flaminio, il cuoco Allegretti, iscritto alla C.G.I.L . 12 marzo. Compagni organizzati in volante rossa uccidono il segretario del M.S.I. Talenti, Angelo Mancia, guardia del corpo di Giorgio Almirante . 13 marzo. Attentato dei COIVR contro casa di Pucci, redattore capo del «Secolo d'Italia». Uno dei figli sarà arrestato per i NAR . 30 marzo. Fallito assalto al distretto militare di Padova della banda Fioravanti per procurarsi le armi lunghe necessarie per l'evasione di Concutelli .
25 maggio. Attentati ai cinema Induno e Garden in onore di Cecchin: accusati Sordi, Bianco, Corsi, Aronica, Zappavigna, Scaletti e Alfieri . 28 maggio. Assalto della banda Fioravanti al liceo «Giulio Cesare»: ucciso l'ispettore Evangelisti . 11 giugno. Attentati contro case di compagni a Monteverde, rivendicati dal Comando di lotta e vittoria . 16 giugno. Rapina di una batteria di T.P. ai danni di un collezionista d'armi. Pistole sono recuperate dalla zia di Soderini e dopo l'arresto di Fioravanti . 23 giugno. «Gigi» Cavallini uccide il p.m. romano Amato . Luglio. A Castel Camponeschi (AQ) si svolge il terzo Campo Hobbit . 17 luglio. Rissa a Villa Torlonia a un concerto di musica celtica. Il dirigente di T.P. Laganà è ferito . 2 agosto. Strage alla stazione di Bologna: 85 morti, circa 200 feriti . Scarcerati Cristiano Fioravanti e Pierluigi Scarano . 5 agosto. Rapina all'armeria di piazza Agrippa della banda Fioravanti, rivendicata con due volantini . La Francia estrada Marco Affatigato . 14 agosto. Arrestato a Bologna Luca De Orazi, minorenne componente del nucleo operativo di T.P . 28 agosto. Blitz per la strage di Bologna. Calore, Pedretti e Furlotti sono accusati della strage. Decine di dirigenti dei gruppi (FUAN, C.L.A., T.P., COP) di associazione sovversiva e banda armata. Tra questi Melioli, Semerari, Mutti, De Felice, Mambro, Fiore, Adinolfi, Zappavigna, Corsi, Scarano, Signorelli, Pizzonia, Iannilli . Agosto. Numerosi militanti dell'area FUAN-NAR di Roma e del FUAN di Trieste riparano in Libano per sfuggire alla repressione . 2 settembre. Ucciso dai NAR il tipografo de «Il Messaggero» Di Leo al posto del giornalista Concina. Secondo Cristiano Fioravanti il bersaglio originale era Rauti . 9 settembre. I fratelli Fioravanti uccidono Mangiameli, numero tre di T.P., caduto in trappola . 13 settembre. Ucciso Franco «il Negro» Giuseppucci, boss della Magliana, legato ai «fascisti mercenari» . 22 settembre. Banda Fioravanti assalta un camion dell'esercito alla Cecchignola ma i fucili sono privi di otturatori . 23 settembre. Blitz contro T.P.: arrestati Elena Venditti, Laganà, Mottironi, Buffa ed altri dirigenti .
30 settembre. Vale, Mambro e altri disarmano due finanzieri . 2 ottobre. Arrestati in una tipografia Corrado Bisini e Claudio Lombardi, dirigenti di T.P. ricercati dal blitz del 23 settembre . 4 ottobre. Arrestati Ciavardini e Nanni De Angelis . 5 ottobre. Nanni De Angelis sconvolto dal pestaggio subìto in Questura si suicida a Rebibbia . 6 ottobre. Arrestata alla stazione di servizio Piave est con un arsenale una batteria del FUAN-NAR composta dai romani Conti, Aronica, Di Vittorio, Ragno e dai veneti Falcioni e Tasinato . 30 ottobre. Uccisi a Milano dalla banda Fioravanti il malavitoso Todaro e la sua amante, la ballerina Paxou . 13 novembre. Vale e Cristiano Fioravanti rapinano due carabinieri a Siena . Arrestati 4 penalisti romani per il caso Amato-Massimi . 26 novembre. Cavallini uccide a Lambrate il maresciallo Lucarelli . 2 dicembre. Arrestati a Milano Dario Mariani e una fotomodella che lo accompagna . 19 dicembre. Rapina a Treviso alla gioielleria Giraldo della banda Fioravanti: bottino ultramiliardario . 20 dicembre. Maria Alice Baretta, prostituta vicentina, è massacrata a colpi di accetta e di martello da Ludwig . 1981 5 gennaio. Donna uccisa sotto casa dalla DIGOS a via Cortina d'Ampezzo al posto del neofascista Maurizio Bragaglia . 6 gennaio. Belsito uccide Luca Perucci al quartiere Trieste . 13 gennaio. Rinvenuta una valigia con armi ed esplosivo a Bologna sul treno Taranto-Milano. E' un tentativo di depistaggio del cosiddetto SuperSISMI sulla strage di Bologna, l'operazione «Terrore sui treni» . 5 febbraio. Sparatoria a Padova: uccisi due carabinieri, arrestato Valerio Fioravanti . Febbraio. L'ordinovista Salvatore Francia è arrestato in Spagna ed espulso . 1 marzo. Ucciso a Torino in un conflitto a fuoco Gasparella mentre con un camerata si addestra al tiro . 6 marzo. Arrestato a Roma Ciro Lai al ritorno dal Libano . 20 marzo. Assolti Freda e Ventura per piazza Fontana, 15 anni per associazione sovversiva e gli attentati ai treni . 27 marzo. Sentenza Miccoli a Napoli: 14 anni a Nonno, 6 a Romano. Pene minori a Ferrara, Torre e Rosario Lasdica .
Marzo. Liberato Fabrizio Zani per motivi di salute . 8 aprile. Arrestato Cristiano Fioravanti . 9 aprile. Arrestato Massimo Sparti . 10 aprile. Scarcerato Aldo Semerari per mancanza di indizi . 13 aprile. Blitz contro il FUAN sulla base delle confessioni di Cristiano Fioravanti: 55 mandati di cattura, 39 arresti . 14 aprile. Omicidio nel carcere di Novara di Buzzi da parte di Tuti e Concutelli . 16 aprile. Arresto di Guido Mario Naldi per «Quex», latitanti Zani e Cogolli . 21 aprile. Arrestati Carminati, Graniti, Magnetta al confine con la Svizzera . Arrestati Giuliani, Colantoni, Palermo e Torchiarolo Caracciolo . 27 aprile. Mambro e Vale rapinano M12 ad agente di guardia all'ambasciata araba . 5 maggio. Blitz contro Europa civiltà. Fermato Tacchi, arrestato Facchinetti per i rapporti con Giuliani. Arrestati Zanini, Onesti Guerra, Centi e Piermarini per il deposito di armi di Torvajanica . Maggio. Ultimo numero di «Quex» . 4 luglio. 50 mandati di cattura per l'intreccio nei rifornimenti logistici a Roma sud tra «rossi» e «neri» . 31 luglio. Assassinato in casa a Roma Pino De Luca . 25 agosto. Arrestato Enzo Maria Dantini . 11 settembre. Blitz a Londra contro i rifugiati neri: arrestati Fiore, Morsello, De Angelis, Giallombardo, Tiraboschi, Marinella e Amedeo De Francisci . 16 settembre. Rapina all'orefice Marletta: debutto del gruppo di fuoco misto NAR-T.P . 23 settembre. Arrestati il chirurgo Guida e gli avvocati Arcangeli e Vitale nell'inchiesta sul M.R.P . 28 settembre. Blitz per gli scontri a Centocelle. 17 mandati di cattura, tra gli arrestati D'Addio, Uva e Lattarulo e l'ex-segretario del M.S.I. Acca Larentia Ulrico (prosciolto dopo pochi mesi dall'accusa di tentato omicidio) . 30 settembre. Omicidio di Marco Pizzari dai NAR . 16 ottobre. Assassinato sotto casa il re degli strozzini romani, Domenico Balducci .
19 ottobre. Alibrandi, Cavallini e Vale uccidono due poliziotti della DIGOS a Milano . 21 ottobre. Uccisi dai NAR il capitano di P.S. Straullu e il suo autista, l'agente Di Roma. Il volantino di rivendicazione conclude la campagna NAR contro «traditori e profittatori», dall'omicidio Mangiameli a Straullu . 2 novembre. Una decina di arresti per O.N. di Tivoli sulla base delle accuse di Tisei . 7 novembre. Presunta sparatoria di Mostacciano smentita dai NAR . 14 novembre. Disarmo al comando di Marina di piazza Bainsizza da parte dei "Walter's Boys" . 20 novembre. Arrestati per una aggressione a Castro Pretorio Sergio Mariani e Gianni Alemanno . 24 novembre. Ordini di cattura per Occorsio contro Signorelli, Calore, Mario Rossi (arrestato a Roma) e i fratelli Sparapani (Sandro arrestato ed espulso dallo Zimbabwe, Saverio riesce a sfuggire all'arresto a Pretoria) . 27 novembre. Scoperto deposito di armi al ministero della Sanità in comune tra banda della Magliana e NAR . Arrestati per i GAO a Perugia i fratelli Castori e Gubbini, a Milano Barbara Piccioli, a Catania Rovella e Di Bella, Lamberti a Pisa e Catola a Tirrenia. Mandato di cattura notificato a Pieristé in carcere . 5 dicembre. Attaccata una volante al Labaro. Ucciso Capobianco, ferito Barbuto. Muore nel conflitto a fuoco Alessandro Alibrandi, Walter Sordi resta ferito . 6 dicembre. Belsito uccide l'agente Radice alla Piramide . 1982 17 gennaio. Mandati di cattura per spionaggio internazionale con la Libia sulla base delle farneticazioni di Tisei per Signorelli, Carole, l'imprenditore tiburtino Todini, Sergio Mariani e lo stesso Tisei . 28 gennaio. Tentata rapina al gioielliere Croce a Torino di un gruppo di fuoco misto NAR-T.P . 2 marzo. Sentenza d'appello per la strage di Brescia: tutti assolti . 5 marzo. Rapina alla B.N.L., agenzia 2 di via Aurelia 420. All'uscita dei rapinatori dalla banca si succedono vari conflitti a fuoco, in uno dei quali muore lo studente Caravillani e sono feriti gli agenti Petrillo ed Espa e i passanti Renci e Paseanti. All'ospedale Santo Spirito è portata Francesca Mambro ferita a piazza Irnerio .
20 aprile. Arrestati a Treviso Livio Lai e Sergio Bevivino, a Padova Ciro Lai e la fidanzata . 22 aprile. Si costituisce Adriano Tilgher . 23 aprile. Arrestato Paolo Lucci Chiarissi . 26 aprile. Scompare Aldo Semerari a Napoli. E' trovato decapitato sei giorni dopo. La sua morte provoca il suicidio della segretaria, Maria Fiorella Carraro . 5 maggio. Ucciso Giorgio Vale. Arrestato il suo attendente Sortino . 6 maggio. Ucciso l'appuntato Rapesta per un disarmo sbagliato da una banda di fascio-criminali ex di C.L.A . 28 maggio. Freda è sfregiato nel carcere di Novara da Giuliani . 31 maggio. Tilgher è prosciolto per la strage dell'Italicus . Maggio. Omicidio del pregiudicato romano Deidda. Sordi accuserà Nistri e Belsito, assolti al termine di un complesso iter giudiziario . Arresti nel giro di A.N. per la strage di Bologna, tra cui Leda Minetti . 7 giugno. A Torino tentato omicidio di un carabiniere nel corso di un tentativo di rapina dei NAR-T.P . Al Flaminio sono uccisi gli agenti Carretta e Sammarco. Per il duplice omicidio sarà condannato all'ergastolo Roberto Nistri . 24 giugno. Tentativo di disarmo alla sede diplomatica palestinese: Sordi e Cavallini uccidono un agente . 28 giugno. Arrestati Nistri e Zurlo . 8 luglio. Ucciso dai NAR-T.P. a Pisa Mennucci, che aveva fatto arrestare Tuti . 20 luglio. I frati Mario Lovato e GiovanBattista Pigato a Monte Berico (Vicenza) sono massacrati da Ludwig con una mazza da meccanico . 10 agosto. Concutelli uccide Palladino in carcere a Novara . 4 settembre. Mandati di cattura per la strage di Bologna contro Delle Chiaie, Giorgi, Pagliai, Danet, Frederiksen . 13 settembre. Tentata rapina a Parigi a un'armeria di Spadavecchia, Lavitola e Scaletti per procurare armi lunghe destinate all'evasione di Nistri. Arrestato Stefano Procopio, latitante . 17 settembre. Arrestati Sordi e Tomaselli . 21 settembre. Arrestato Maggi in Veneto per Ordine nuovo . Primi di ottobre. Ondata di arresti per le confessioni di Sordi: a Roma Fraschini, Lavitola, Scaletti, Stefano Bracci, Damis, Giannelli, Ponzio, a Torino Ansaldi, Maggiora, Ramirez e Cosso, a Napoli Riccio .
8 ottobre. Arrestati sul treno Stroppiana, Casellato e De Cillia dopo la rapina al Banco di S. Spirito a cui hanno partecipato con Sordi, Belsito, Zani . 10 ottobre. Agguato delle teste di cuoio in Bolivia, ferito Pagliai: morirà il 5 novembre . 30 dicembre. Mandato di cattura per la strage di Peteano contro Vinciguerra . 1983 26 febbraio. Padre Armando Biason, di Trento, ha il cranio sfondato da Ludwig con un punteruolo al quale era fissato un crocifisso . 21 aprile. Arrestati Cogolli e Zani . 14 maggio. Rogo di Ludwig al cinema Eros di Milano, 6 morti . 14 giugno. Arrestato l'avvocato Bezicheri. Sarà scarcerato dopo un anno . 12 settembre. Arrestati Cavallini e Soderini a Milano . 20 settembre. Sentenza per la strage dell'Italicus. Assolti Tuti, Franci, Malentacchi, Luddi . 30 novembre. Seconda sentenza d'appello per la strage di Brescia: tutti assolti . 1984 Marzo. Calore invita a fare chiarezza sulle stragi. Cavallini, Mambro, Fioravanti replicano col documento "Richiarimento" in cui prendono le distanze dalle stragi e affermano di non saperne nulla perché estranei . 4 marzo. Arrestati Furlan e Abel alla discoteca Melamara di Castiglione della Riviera: sono i responsabili di Ludwig . 24 marzo. Arrestato Cesare Ferri per la strage di Brescia e come mandante con Latini dell'omicidio Buzzi . 4 aprile. Sentenza di primo grado per Amato: ergastolo anche per Signorelli . 24 aprile. Due schutzen, Walter Gruber e Peter Paris, saltano in aria mentre preparano un attentato a Lana . 27 settembre. Ucciso Toni Chicchiarelli, il falsario della banda della Magliana . 2 ottobre. Ucciso a coltellate a San Siro dopo Milan-Cremonese Marco Fonghessi, tifoso del Milan di Cremona . 19 ottobre. Arrestato il generale Musumeci per l'operazione «Terrore sui treni» .
27 novembre. La corte di assise di appello assolve i 46 imputati del golpe Borghese, condannati in primo grado a pene varianti da 10 anni a 8 mesi . 23 dicembre. Strage del 904: 16 morti, più di 100 feriti . 1985 9 gennaio. Torvajanica: ucciso l'agente dei NOCS Conte . 14 febbraio. Strangolata e abbandonata sulla Serenissima ballerina ghanese, rivendica Ludwig . 20 febbraio. Saccucci è arrestato in Argentina . 25 febbraio. Arrestato Aldo Tisei per spaccio di stupefacenti . 24 marzo. Conflitto a fuoco ad Alessandria: uccisi Macciò e Ferrero, feriti e catturati Cosso e Furiozzi . 29 marzo. 8 anni e 4 mesi a Dario Mariani per una rapina . 19 aprile. Seconda sentenza di appello a Venezia per la strage di Brescia: assolti Raffaele Papa (il fatto non costituisce reato), Angelo Papa, Ferrari e De Amici (insufficienza di prove). 6 anni a Ferrari per l'omicidio colposo del cugino e altri reati specifici . Aprile. Serena De Pisa, incinta, si costituisce a Londra . 2 maggio. Sentenza NAR 1: 51 condanne, inflitti 376 anni (l'accusa ne chiedeva 587) . 9 maggio. Ucciso sull'autostrada Roma-Aquila l'agente Di Lenardo della stradale . 30 maggio. Sentenza di appello per l'omicidio Leandri. Assolto Signorelli, pene ridotte a Proietti, Mariani e Calore . 26 giugno. La cassazione annulla la condanna a Saccucci per la vicenda di Sezze . Giugno. Serena De Pisa partorisce in carcere a Londra . Luglio. Condanne al SuperSISMI «Terrore sui treni» . 1 agosto. Sentenza di appello a Bari per piazza Fontana. Insufficienza di prove per strage e 15 anni per associazione sovversiva e le bombe sui treni a Freda e Ventura, 1 anno a Maletti e 10 mesi a Labruna . 2 ottobre. Calò incriminato per la strage di Natale . 14 ottobre. Arrestati Rognoni e Ballan (banda armata) e Marini e Ortensi (attentato al treno di Silvi Marina) . Arrestato per traffico di stupefacenti, Danieletti si pente . 19 dicembre. Per l'omicidio Buzzi ergastolo a Tuti e Concutelli. Assolti Invernizzi, Bonazzi e Azzi . Dicembre. Scarcerati per decorrenza dei termini una quindicina di imputati del processo NAR 2 .
1986 13 gennaio. Mandati di cattura per la strage di Natale contro i clan Calò e Misso . Gennaio. Sventata evasione di Izzo e Furiozzi da Paliano . Rapina di Caruso e Loi a una gioielleria di Varazze . Febbraio. Blitz contro mala e neri; 130 arresti in tutta Italia. Tra questi Gianluigi Esposito e l'avanguardista Marion . 7 marzo. Stefano Soderini si pente in aula . 8 marzo. Freda in semilibertà . 12 marzo. Sentenza d'appello per Occorsio. Assolti Delle Chiaie Graziani e Massagrande, ergastolo a Signorelli . 8 aprile. Prosciolti dall'associazione sovversiva 42 imputati del blitz del 28 agosto . 13 aprile. Rogo sul treno dopo la partita di calcio Pisa-Roma: muore carbonizzato Paolo Saroli, romanista, 17 anni . 19 aprile. Sentenza d'appello al processo NAR 1: pene ridotte a 270 anni . 24 aprile. Condanne per gli omicidi Deidda e degli agenti del Flaminio. Tre ergastoli a Nistri, uno a Belsito, 23 anni a Giannelli 22 anni e 9 mesi a Petrone, 5 anni e 6 mesi a Zurlo . 21 maggio. Ergastolo in primo grado per Zani, Belsito, Procopio per l'omicidio Mennucci, 14 anni a Cogolli, insufficienza di prove per Tuti . 5 luglio. Fermato il pentito Serpieri nelle indagini per l'uccisione della fotomodella tossicomane Di Lenardo. E' accusato di aver fornito eroina alla donna . 7 luglio. Sentenza per la banda armata di Alessandria: condannati Cosso a 6 anni, Rossi a 4, la pentita Furiozzi a 2, insufficienza di prove per Campella . 16 luglio. Sentenza per gli omicidi Arnesano, Evangelisti, Mangiameli, Scialabba. Ergastolo per Fioravanti, Mambro, Cavallini. A Dario Mariani 21 anni e 1 mese, a Rossi e De Francisci 21 anni e 3 mesi, a Pedretti e Rodolfo 14 anni e 2 mesi, a Cristiano Fioravanti 15 anni e 7 mesi, 2 anni e 3 mesi a Volo . Arrestati a Roma un avvocato e un agente di custodia, accusati di aver fatto entrare armi e esplosivo a Rebibbia per un tentativo di evasione durante il processo NAR 2 . 29 luglio. Sentenza di primo grado al processo NAR 2 . 30 luglio. Rinvio a giudizio per Delle Chiaie e Fachini per piazza Fontana. Prosciolti Digilio e Trinco .
23 novembre. Fuga da Rebibbia di Gianluigi Esposito . 7 dicembre. Ucciso a coltellate ad Ascoli Piceno dopo il derby Giuseppe Tomasetti, tifoso della Sambenedettese . 14 dicembre. Catturato in Francia Esposito . 1987 26 gennaio. Bomba NAPS contro un Tempio dei Testimoni di Geova a Milano . 2 febbraio. Bomba NAPS al circolo «Vita nuova» a Milano . 10 febbraio. Sentenza Ludwig: 30 anni a Furlan e Abel . 17 febbraio. Almirante amnistiato per favoreggiamento a Cicuttini nel processo per la strage di Peteano . 17 marzo. Blitz contro la banda della Magliana: 60 arresti . 25 marzo. Arrestato Delle Chiaie a Caracas . Marzo. Bomba NAPS contro la Chiesa valdese a Milano . 1 aprile. Arrestati all'alba 12 leader delle Brigate gialloblù a Verona per associazione a delinquere . 30 aprile. Arrestato Mario Scrocca per la strage di Acca Larentia. Il giorno dopo si suicida in cella, proclamandosi innocente . 5 maggio. La Corte di assise di appello di Firenze conferma l'ergastolo a Zani per l'omicidio Mennucci . 14 maggio. A Roma arrestato Elio Di Scala, per tentato omicidio e detenzioni di armi e droga. Per futili motivi spara all'impazzata sulla folla . Otto condanne per l'omicidio Ramelli e nove per l'assalto a un bar . 23 maggio. Sentenza al processo bis alla strage di Brescia. Insufficienza di prove per Ferri, scarcerato, assolto Latini dal concorso morale nell'omicidio Buzzi, formula piena per Stepanoff . 23-29 maggio. Sei attentati antitaliani in 7 giorni: caserma dei carabinieri di Terlamo e di Carles, case popolari dei ferrovieri, sabotaggio della ferrovia Bolzano-Merano, raffiche di mitra alla casa Mangione e alla casa Montedison a Merano . 12 luglio. Rapina di 40 miliardi al deposito valori di Knightsbridge a Londra organizzata da Viccei . 12 agosto. Arrestati gli uomini d'oro della rapina di Knightsbridge . 3 ottobre. La banda dei fratelli Savi uccide un poliziotto e ne ferisce uno sull'A14 in un tentativo di estorsione denunciato . 5 novembre. Arrestati i militanti del F.D.G. di Roma Riccieri e Gentile. Fermati su una Renault 5 rubata avevano nove pistole, un cannemozze, munizioni, manette e coca .
Dicembre. Il fotografo Biloslavo - già col FUAN di Trieste nei campi della Falange in Libano - è catturato in Afghanistan dall'esercito e accusato di spionaggio . 1988 12 gennaio. Assalto al furgone Brinkes da parte di una batteria di neofascisti romani . 2 febbraio. Assolto l'avvocato Bezicheri . 3 febbraio. Processo contro 18 neofascisti accusati di aver dato vita, sotto altro nome, ad A.N. Tra gli imputati Delle Chiaie, Graziani, Massagrande, Tilgher . 6 febbraio. Assoluzione per l'omicidio Di Leo: non sono attendibili i pentiti . 17 febbraio. Gelli è estradato dalla Svizzera . 19 febbraio. A Casalecchio prima vittima della banda delle Coop . 4 maggio. Dario Mariani è arrestato alla frontiera con la Francia . 16 maggio. Arrestato l'ex-militante di T.P., Badano, a Padova, accusato di aver ucciso un agente in un conflitto a fuoco dopo una rapina. Massacrato di botte in questura si suicida il giorno dopo . 16 giugno. Decorrenza termini di custodia per Abel e Furlan . 21 giugno. Tisei condannato per calunnia . 24 giugno. Assolto De Francisci per l'omicidio Amato . 2 luglio. Ergastolo per Signorelli . 11 agosto. Sentenza per la strage di Bologna . 14 agosto. Autobomba alla questura di Milano: tentativo provocatorio di attribuirne la responsabilità a Walter Spedicato . 26 agosto. Arrestato a Bari M. Minelli per spaccio di stupefacenti . 28 agosto. Bomba NAPS contro una palestra di arti marziali a Milano . 26 ottobre. Un'overdose stronca a Milano Tisei . Ottobre. Un tifoso ascolano, Nazzareno Filippi, è ucciso da skin interisti: 5 arresti . 5 dicembre. Arrestati per rapina il vivandiere di Vale, Sortino e altri due neofascisti . 7 dicembre. Arrestati a Bari per armi e detenzione di stupefacenti Crocitto, Volpicella e Boffoli. Fermato De Bellis per detenzione di reperti archeologici . 16 dicembre. Rapina alle poste di via Mazzini: 5 neofascisti arrestati (Zaccagnini, Ragno, Lanciotti, Mei, Conti) . 24 dicembre. Arrestato a Bari De Bellis per detenzione di armi .
1989 30 gennaio. Durissima sentenza a Londra per la rapina miliardaria di Knightsbridge: 22 anni a Viccei . 18 febbraio. Arrestati alla stazione Termini Onesti (ex-banda Giuliani) e una coppia sarda per armi. Sono sospettati di preparare un'evasione da Rebibbia . 20 febbraio. Assoluzione con formula piena per Delle Chiaie e Fachini per piazza Fontana . 28 febbraio. La cassazione annulla l'ergastolo per Amato a Signorelli . 1 marzo. 15 condanne per 18 rapine alla banda Caruso con pene da 2 a 24 anni . 2 marzo. Arrestati D'Inzillo, Ponzio e De Angelis per detenzione di armi e sospettati per la tentata evasione da Rebibbia . 22 aprile. Striscioni naziskin al «Bentegodi» di Verona per la partita Italia-Uruguay . 29 aprile. Arrestato Santino Duci per rapine in solitario (circa 10) in banca . 23 maggio. Arresti per le Ronde pirogene antidemocratiche . 5 giugno. Ucciso a botte a San Siro, dopo Milan-Roma, Antonio De Falchi, tifoso della Roma . 6 giugno. Sentenza definitiva per i Nar 2. Rigettati i ricorsi di Cavallini, Zani, Nistri, Belsito e Mambro per gli ergastoli . 21 giugno. 18 anni in appello a Gabriele De Francisci per l'omicidio Amato . 1 luglio. Arrestato Ciavardini per la rapina miliardaria a Pescara: condannato a 12 anni, sarà assolto in appello . 11 settembre. Mandati di cattura a Valerio Fioravanti e Cavallini per Mattarella . 1990 15 gennaio. Rapina con bomba alle Poste di via Emilio Levante a Bologna: 43 feriti dalla Uno bianca . 10 febbraio. Sentenza d'appello per Ludwig: 27 anni ad Abel e Furlan . 27 febbraio. Firenze. Pestaggi generalizzati di extracomunitari la notte di Carnevale . 4 marzo. Molotov contro ostello per extracomunitari a Roma . 10 marzo. Aggrediti due extracomunitari a Varese. Arrestati tre di Azione skinhead e dei BOYS SAN dell'Inter: Paolo Coliva detto l'armiere (26 anni), Massimiliano Bergomi (18), Adone Gagliardi (21) . 29 marzo. Firenze. Incendiata la roulotte di 4 nordafricani . 11 aprile. Assalto al CSOA Spaziokamino di Ostia: due contusi .
10 giugno. Vugheffio (PR). Incendiata casa colonica abitata da extracomunitari . 8 luglio. Reggio Emilia. Due molotov contro comunità religiosa che ospita extracomunitari . 31 luglio. Appello per la strage di Bologna: tutti assolti . 21 agosto. Foce di Montemonaco (AP). Primo raduno "Ritorno a Camelot" organizzato da Azione skinhead, Movimento politico e da Ideogramma . 20 settembre. Molotov alla scuola «Romagnoli», dormitorio per extracomunitari a Pilastro . 6 ottobre. Primo omicidio della Uno Bianca: il testimone di una rapina che segna la targa dell'auto, Primo Zecchi . 28 ottobre. Como. Tentato omicidio di due nordafricani. 5 arresti . 3 novembre. Naziskin in azione al liceo «Mamiani»: contusi 9 studenti . 5 novembre. Muore Leda Pagliuca, ferito Stefano Delle Chiaie in un incidente stradale . 11 novembre. Campoverde (LT). Molotov contro capannone dormitorio per extracomunitari, 11 denunciati . Novembre. Esplode il caso Gladio . 7 dicembre. Milano. Durante un attacchinaggio di Azione skinhead accoltellato un giovane del centro sociale Leoncavallo. Arrestato Paolo Coliva . 8 dicembre. Castelvolturno (FO). 4 ordigni a basso potenziale contro alloggi di extracomunitari . 10 dicembre. A S. Caterina di Quarto la Uno bianca spara con un A.R.70 contro il campo nomadi: 10 feriti . 14 dicembre. Costituito legalmente a Roma da Veneto fronte skinhead, Azione skinhead e Movimento politico l'associazione Skinhead d'Italia . 19 dicembre. Assalto razzista al Blue Line di Rimini. 1 morto e 7 feriti tunisini . 21 dicembre. Costituito legalmente il Fronte nazionale di Freda . 22 dicembre. Feriti dalla Uno bianca due lavavetri africani . 23 dicembre. La Uno bianca uccide due zingari e ne ferisce parecchi nel campo nomadi di Bologna . 1991 4 gennaio. Strage del Pilastro: la banda della Uno bianca uccide tre carabinieri . 7 gennaio. Assolto Tuti, ergastolo a Belsito, 20 anni a Procopio per l'omicidio Mennucci .
5-12 gennaio. Raid in serie contro i campi nomadi della periferia romana: 4 attacchi con colpi di pistola, uno con molotov . Gennaio. Attentato incendiario al centro sociale SpazioKamino di Ostia . 2 febbraio. Fuga di Furlan dal soggiorno obbligato . 16 febbraio. Corteo naziskin a Roma e concerto dei Rock against Golfo . 8 marzo. Padova. Incendiato rifugio per extracomunitari . 15 aprile. Ucciso dalla Uno bianca Claudio Bonfigli, benzinaio a Borgo Panigale . Incendiato di notte a via Sicilia il circolo Fuori Orario . 29 aprile. Feriti tre carabinieri a Marebello di Rimini a colpi di pallettoni dalla banda della Uno bianca . 2 maggio. Nell'armeria di via Volturno a Bologna la Uno bianca uccide titolare e commessa . 14 maggio. Due molotov contro il centro accoglienza stranieri di Lambrate . 19 maggio. Incendio doloso al Corto circuito di Cinecittà: muore Auro Bruni . 23 maggio. Arrestato Egidio Giuliani in una tipografia . 19 giugno. La banda della Uno bianca uccide benzinaio a Cesena . 16 ottobre. Stefano Delle Chiaie fonda la Lega nazional-popolare . 28 ottobre. Rito del saluto per i martiri fascisti al Verano con Buontempo, Gasparri e Maceratini . 30 novembre. Accoltellato compagno a Cremona. Tra i 7 arrestati il leader del Fronte celtico . 1992 5 gennaio. Attentato a Surbo al treno Lecce-Zurigo: carica ad alto potenziale, evitata per poco la strage . 10 gennaio. Bassano. Viene dato fuoco a un rifugio di extracomunitari. Sono sospettati i Veneto fronte skinhead . 21 gennaio. Roma. Una banda di naziskin dell'Esquilino, ultrà della Lazio, accoltella due maghrebini a Colle Oppio . 28 gennaio. Notte dei fuochi a Villa Literno contro gli extracomunitari: tre incendi, uno con molotov, 18 extracomunitari feriti . 29 febbraio. Corteo a Roma di 400 naziskin . Primavera. Ostia. Assalto al CSOA Spaziokamino con bottiglie rotte, coltelli e mazze di ferro: un ragazzo di 28 anni in coma .
15 maggio. Milano. Assalto contro il centro sociale anarchico in via De Amicis. Violenti scontri tra skinhead e anarchici . 13 giugno. Convegno revisionista di M.P. Irving è respinto a Fiumicino . 27 giugno. Convegno di Avanguardia a Pacentro: rottura con gli skinhead sull'Islam . 28 giugno. Pratoni del Vivaro (PG). Vietato il terzo "Ritorno a Camelot", organizzato da M.P . 20 settembre. Bassano (Vicenza). Tre simpatizzanti del Veneto fronte skinhead assassinano a pugni e calci un tossicodipendente . 17 ottobre. 50mila missini sfilano a Roma: saluti romani e «Duce, Duce» . 30 ottobre. Carlo Digilio espulso da Santo Domingo è arrestato a Fiumicino . 1 novembre. Stelle gialle sui negozi di proprietà di ebrei a Roma . 6 novembre. I giovani ebrei assaltano la sede di M.P. a via Domodossola . 8 novembre. Andrea Insabato fermato mentre brucia all'Olimpico una bandiera israeliana . 22 novembre. Milano. Accoltellato un compagno basco del Leoncavallo . 27 novembre. Profanato cimitero ebraico di Como, arrestato uno skinhead di 21 anni, Vito Foligno . Rapina al Bambin Gesù di Roma. Uccisa guardia giurata. Arrestato Taddeini (sarà prosciolto), sospettato Di Scala . Dopo il derby, ultrà laziali rigettano in campo la maglia di Winter: è «negro» . 3 dicembre. Pieve di Soligo (TV). Esplode l'auto di Ilo Da Peppo, alto esponente del Veneto fronte skinhead . 8 dicembre. Tentato omicidio di un italo-somalo. La rivendicazione parla di vendetta per l'assalto alla sede del Movimento politico a via Domodossola . Ponte di Nanto (Vicenza). Violenze in una discoteca . 9 dicembre. Assalto al centro sociale anarchico di Livorno . 15 dicembre. Approvato il disegno di legge contro i fenomeni di discriminazione razziale, etnica e religiosa . 20 dicembre. Partecipazione in massa di Azione skinhead alla messa di Natale nella basilica di S. Ambrogio. Nessun incidente .
1993 24 febbraio. Dopo una rapina al Credito Romagnolo di Zola Predosa, viene ucciso dalla Uno bianca il 21enne Massimiliano Valente che ha assistito al cambio di auto . 6 marzo. Milano. Volantinaggio antiabortista di Azione skinhead davanti alla clinica Mangiagalli. Presenti due dirigenti del circolo integralista Santo Sepolcro . 13 aprile. Arrestato Cauchi a Buenos Aires . Arrestato Carminati per il depistaggio della strage di Bologna . 16 aprile. Sfregiato in casa a Sacrofano cingalese segretario della FOCSI . Milano. Aggrediti due cittadini dello Sri Lanka . 4 maggio. Vengono applicate le norme contro le manifestazioni razziste. Chiuse a Roma le sedi del Movimento politico, a Milano perquisita la sede di Azione skinhead, decine di denunce e di misure di sicurezza . 14 maggio. Roma. Attentato di via Fauro . 15 maggio. Roma. Assalto al centro sociale Hai visto Quinto? Distrutte 10 auto parcheggiate in strada . 23 maggio. Assalto al centro sociale Break out di Primavalle. Reazione degli autonomi e intervento delle forze dell'ordine . 27 maggio. Strage dell'Accademia dei Georgofili a Firenze: 5 morti . 2 giugno. Disinnescata autobomba nel pomeriggio nei pressi di Palazzo Chigi . 11-13 giugno. Festa nel bosco dell'area nazionalpopolare e non conformista a Oggiono . 12 luglio. Arrestati Freda, Gaiba, Ferri e tre militanti veronesi per il F.N . Metà luglio. Accoltellati due pakistani a Ostia Lido . 27 luglio. Bombe a Roma al Velabro e alla Basilica del Laterano e a Milano, al Pac: 5 morti (4 vigili del fuoco e un extracomunitario) Agosto. Izzo non rientra in carcere ad Alessandria da una licenza . 7 settembre. 191 arresti a Bologna per la banda della Uno bianca . 15 settembre. Catturato Izzo a Parigi . 16 ottobre. 30 naziskin attaccano il campo polacco di Ardea: due feriti gravi . Arrestati per l'ordigno sulla Freccia dell'Etna Mario Citanna, responsabile SISMI di Genova e i camorristi Davide Montuoro e Ciro Moglie .
26 ottobre. E' arrestato Carmine Scalone, educatore carcerario e telefonista della Falange . 14 novembre. Assalto al P.D.S. Alberone, devastata la sede, un ferito . Novembre. Incendiato il CSOA Hai visto Quinto? a Montesacro . 4 arresti per il progetto di assalto a Saxa Rubra . 1994 Gennaio. Due attentati incendiari al CSOA di Ostia . 30 gennaio. Per sottrarsi dalle mazzate degli ultrà messinesi, Salvatore Moschella, 22 anni, si getta dal treno e muore nei pressi di Acireale . 6 febbraio. Blitz contro il Fronte carcere: arrestati Cogolli, Codivilla, Donati, Ringozzi, Naldi su accuse di Ferorelli . 12 febbraio. Ostia. Distrutto da un incendio lo Spaziokamino . 19 febbraio. Ostia. Tunisino accoltellato sul bus da una banda di 70 naziskin: 11 arresti . 24 marzo. Villa San Martino, ucciso il direttore della CARIPE dalla Uno bianca . 13 aprile. Pestati tre "coloured" al Prenestino da 5 naziskin e un marocchino alla Casilina . 16 aprile. Attacco di 100 naziskin contro il CSOA Breakout nell'anniversario del Rogo di Primavalle . 20 aprile. 14 naziskin veronesi del Veneto fronte skinhead festeggiano a Monzambano (MN) l'anniversario di Hitler . 11 maggio. Arrestato il principe Alliata . 14 maggio. Corteo naziskin a Vicenza: costerà il posto a prefetto e questore . 16 maggio. Ergastolo a Fioravanti, Mambro e Picciafuoco per la strage di Bologna . 23 maggio. Attacco naziskin al CSOA Aurelio, Alice nella città: due feriti . 31 maggio. Arrestati Pedretti, Aronica, Gentile e Panizzari per rapina in banca a Tor Lupara . 5 giugno. Arrestati 3 ultrà del Labaro per il pestaggio di due senegalesi: condannati a 8 mesi . Arrestati 9 ultrà (5 minori) di Tor Bella Monaca, per il pestaggio di uno studente di colore, di 2 parà e di un soldato di leva intervenuti . 7 giugno. Quattro naziskin pestano l'imam di Latina: arrestati ma perdonati se la cavano con pene da 8 a 12 mesi . 15 giugno. Boccacci guida l'assalto al P.D.S. di Tor de' Cenci dopo il comizio antinomadi di Gramazio .
20 giugno. Muore di infarto il principe Alliata . 23 giugno. Rapina in banca a Roma: uccisi Di Scala e il vigilante, ferito Gaudenzi, simpatizzante di Movimento politico . 15 agosto. Sfregiata ad Assisi una scrittrice ebrea norvegese che vive a Foligno . 17 agosto. Arrestati a Cagliari 5 romani per il pestaggio di un senegalese . 18 agosto. Rissa a Cagliari: denunciati due senegalesi e tre italiani . 17 settembre. Incendiato il ghetto di Villa Literno . 19 settembre. L'onorevole Gramazio guida l'attacco al campo nomadi in allestimento a Tor de' Cenci . 21 settembre. L'Argentina nega l'estradizione di Cauchi . 4 ottobre. Arrestato Trincanato per l'evasione del boss Maniero . Arrestato il direttivo del Veneto fronte skinhead per incitamento all'odio razziale . 20 ottobre. Aggredito Paissan a Montecitorio da un branco di deputati di Alleanza nazionale . 22 ottobre. Corteo a Roma per i camerati in galera: 300 presenti . 29 ottobre. Milano: scontri all'hotel Stelline per un raduno repubblichino contestato da Rifondazione e Leoncavallo . 20 novembre. Scontri per la partita Brescia-Roma organizzati da Movimento politico: accoltellato un vicequestore. Tre ultrà arrestati . 21-28 novembre. Smantellata la banda della Uno bianca . 3 dicembre. Arrestato a Palermo Michelangelo La Barbera, presunto killer di Mino Pecorelli . 14 dicembre. Dieci arresti per gli scontri di Brescia, tra cui Maurizio Boccacci . 19 dicembre. Convegno a Milano con Tilgher, Delle Chiaie e Staiti, organizzato da Orion e Publicondor . Fine dicembre. Raid razzisti a Torvajanica dopo la morte in un incidente stradale di Sara Folino, provocata da un marocchino ubriaco: il 28 mattina 60 punti di sutura per un nordafricano accoltellato, pestato un extracomunitario che passa in motorino sul luogo della tragedia, il 29 notte fucilate da caccia contro un marocchino che dorme in auto. Dopo i funerali, il 31, accoltellato un indiano a Torvajanica e pestato un marocchino a Tor Vergata . 1995 1 gennaio. Fucilate contro un extracomunitario a Tor San Lorenzo: 10 giorni di prognosi .
Skin a Primavalle accoltellano due polacchi e bruciano un'auto . 2 gennaio. Assisi: nuovo sfregio per la scrittrice ebrea norvegese Myriam Geelmuydin . 3-6 gennaio. Ripetuti episodi di violenza criminale contro immigrati africani nell'Agro a nord di Napoli, Giugliano: commando irrompe nella casa di 4 ghanesi e la distrugge . 14 gennaio. Arrestati neofascisti per la banda del taglierino a Roma . 25 gennaio. Libro-bomba: ferito un bimbo rom a Pisa . 29 gennaio. Ucciso a Genova un tifoso genoano da un ultrà del Milan. Seguono durissimi scontri . Raduno all'hotel Ergife per la continuità del M.S.I . 4 febbraio. 4 ordini di cattura per la strage dei Georgofili . 22 febbraio. Arrestato Carlo Giacominelli, leader delle Brigate rossonere 2, per l'omicidio di Genova . 23 febbraio. Arrestato a Cascina Daniele Corbizzi Fattori per la prima bomba antirom . 4 naziskin picchiano a Ostia una donna somala incinta al settimo mese . 3 marzo. 2 arresti e 39 denunce a Genova per gli scontri dopo l'omicidio di Spagna . 5 marzo. Arrestato con due coltelli a San Siro Ceccarelli, leader dei Viking . 8 marzo. Accoltellati 4 militari alla partita Lazio-Juve da ultrà laziali . 10 marzo. Congresso del Movimento nazionalcomunista a Torino . 14 marzo. Bomba ferisce due bimbi rom che chiedono l'elemosina a Pisa . 16 marzo. Tre arresti a Pisa per le bombe anti-rom . Marzo. Arrestato per una rapina in banca a Pomezia Manuel Ovidi, dirigente di M.P . 2 aprile. Manifestazione su Degrelle dell'Associazione culturale Europa: 300 camerati in un albergo dei Parioli . 12 aprile. 6 ergastoli per i delitti eccellenti di Palermo. Assolti Cavallini e Fioravanti . 14 aprile. Mandati di cattura in carcere a Carminati e La Barbera per l'omicidio Pecorelli . 15 aprile. 15 naziskin assaltano il centro sociale L'Asilo di Frascati . 16 aprile. Tentato assalto al centro Break out con scontri e arresti . Aprile. Raid di ultrà juventini e buttafuori per ripulire i Murazzi degli ambulanti maghrebini .
8 maggio. Un tossicodipendente è ucciso di botte da una banda di quartiere a Milano . 12 giugno. Ucciso a Latina Marco Cabassi, leader dei naziskin, in un regolamento di conti. Ferito un suo amico . 14 giugno. Cinque balordi uccidono di botte a San Donato un tossicodipendente che aveva ferito con un coltello una loro amica . 17 giugno. Un marocchino in manette annega nel Po: voleva sottrarsi alla cattura dopo aver accoltellato il titolare di un locale . Luglio. Blocchi stradali e lancio di molotov contro il campo nomadi di Quarto alto (GE) . 6 agosto. Quattro arresti a Milano per l'arresto del tossicodipendente ucciso l'8 maggio . 22 agosto. Skin pestano due profughi russi a Primavalle: uno indossa la kippah . 2 settembre. Milano. Due rumeni, per sottrarsi alla caccia all'uomo scatenata contro le baracche del mercato ortofrutticolo di Rogoredo, muoiono travolti da un treno. Molte baracche sono incendiate . 10 ottobre. Torino. La polizia blocca un pattuglione di giovani di Borgo Dora che preparavano una spedizione punitiva anti-immigrati . Mentana. Una quarantina di minorenni in motorino si scatenano in una caccia all'albanese. Sono fermati da due consiglieri di Alleanza nazionale . 12 dicembre. Boccacci fermato con altri ex di M.P. per l'attacchinaggio di manifesti pro Priebke . 1996 21 gennaio. Commerciante marocchino massacrato a Torvajanica: muore il primo febbraio. Il 7 febbraio sette arresti . 8 febbraio. L'ex-parlamentare del M.S.I., Massimo Abbatangelo, è arrestato a Napoli per scontare la condanna per detenzione e trasporto di esplosivo per l'attentato al treno rapido 904 . Studentessa romana 16enne aggredita al metrò di via Manzoni da skin: portava il loden . 27 febbraio. Sgominata a Genova una gang di minorenni antinomadi . 6 marzo. Condannati all'ergastolo i tre fratelli Savi per i delitti compiuti in Romagna dalla banda dell'Uno bianca . 27 marzo. La Corte d'assise d'appello di Roma conferma l'assoluzione degli affiliati alla P2: non ci fu cospirazione politica contro i poteri dello Stato. Licio Gelli è stato condannato a 17 anni, 5 dei quali condonati, per millantato credito e calunnia nei confronti di alcuni
magistrati milanesi. 14 anni a Gianadelio Maletti per procacciamento di notizie riservate (la divulgazione del dossier Mi.fo.biali). Assolti: Demetrio Cogliandro, Umberto Ortolani, i generali Franco Picchiotti e Antonio Viezzer, il capitano Antonio Labruna, Enzo Giunchiglia, Salvatore Bellassai e Pietro Musumeci . 4 aprile. Chiesti a Firenze 35 rinvii a giudizio per gli attentati dell'estate del '93. I mandanti sarebbero Riina, Provenzano, Bagarella Giovanni Brusca e i fratelli Graviano . 29 maggio. Arrestato a Milano Angelo Rais, presunto leader del pattuglione che ha causato la morte dei due rumeni travolti dal treno . 7 giugno. Una ronda contro i ladri alle case popolari di via Rizzoli a Milano pesta un malcapitato giovane in motorino: lo avevano preso per una staffetta . 13 luglio. Perugia. Condannati il questore Mario Fabbri (8 mesi) il colonnello Giancarlo Paoletti (8 mesi), il sottufficiale Vittorio Faranda (6 mesi), agenti del SISDE, per false dichiarazioni al p.m. sull'omicidio Pecorelli . 23 luglio. Arrestati per favoreggiamento a fini terroristici degli indagati per la strage di piazza Fontana del 1969: Roberto Raho, Piercarlo Montagner, Stefano Tringale, e Pietro Andreatta . Agosto. Congresso clandestino del Veneto serenissimo governo . 20 novembre. Recuperati in un deposito del Viminale, alla periferia di Roma, 260 faldoni contenenti relazioni e reperti riguardanti le stragi degli anni '70 e che facevano parte dell'archivio degli Affari riservati . 21 novembre. Annullata dalla Cassazione la condanna a Licio Gelli a 17 anni per calunnia e millantato credito . Novembre. Lancio di molotov contro il campo nomadi di Rogoredo a Milano . 1997 17 marzo. Prima di una serie di interferenze nei T.G. del Veneto per diffondere proclami del serenissimo governo . 24 aprile. Negli archivi del Viminale, scoperte le liste segrete degli informatori dei servizi segreti. Si dimette il prefetto Carlo Ferrigno raggiunto da un avviso di garanzia, direttore generale della polizia di prevenzione . 26 aprile. Minacciata di morte Grazia Pradella, il sostituto procuratore di Milano che indaga sulla strage di piazza Fontana e sull'attentato a Palazzo Marino . Aprile. Raid di ultrà torinesi contro gli immigrati ai Murazzi .
1-8 maggio. Si intensificano le interferenze sui T.G. veneti: 5 in otto giorni, opera dei Serenissimi . 9 maggio. Un commando di Serenissimi assalta e occupa il Campanile di San Marco. Sono arrestati dopo poche ore dai reparti speciali del GIS . 10 maggio. Arrestato Bepin Segato, ideologo del gruppo dei Serenissimi. Avrebbe dovuto condurre il negoziato per conto del commando . 12 maggio. Il leader politico dei Serenissimi, Luigi Faccia, fermato due giorni prima, confessa e viene rimesso in libertà . 15 maggio. E' arrestato Severino Contin, padre e fratello di due dei Serenissimi di San Marco: aveva guidato il camion fino all'imbarco del traghetto . 17 maggio. Angelo Izzo dichiara che a sparare e a uccidere Giorgiana Masi nel 1977 fu Andrea Ghira . 3 giugno. Scontri tra autonomi e leghisti al processo per i Serenissimi. Picchiati Taradash, Rocchetta e Padovan . 14 giugno. Arrestati gli ex-ordinovisti Carlo Maria Maggi, Sergio Boffelli e Francesco Neami, accusati della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e dell'attentato alla Questura di Milano del 17 maggio 1973. Per Zorzi ordine di custodia internazionale . 23 giugno. Rinviati a giudizio per soppressione di documenti e microfilm su Gladio l'ex-capo del SISMI, ammiraglio Fulvio Martini, e l'ex-capo di stato maggiore del SISMI, generale Paolo Inzerilli . 10 luglio. Condannati gli otto del commando di San Marco . Luglio. Lancio di molotov contro un gruppo di marocchini alla Barona: 3 feriti . 19 luglio. Un clandestino marocchino affoga nel Po perché una banda di ultrà ubriachi e buttafuori dei Murazzi continua a colpirlo dopo che è caduto in acqua per sfuggire a un pestaggio . Ottobre. Una banda di balordi, tre napoletani, un sardo e un albanese, massacrano e bruciano vivo uno stagionale sardo a Trento. Arrestati tutti . 1998 10 febbraio. David Carrett, ufficiale dell'U.S. Navy, agente della CIA in Italia, è indagato per spionaggio politico e militare, concorso nella strage di piazza Fontana e in altri attentati avvenuti a cavallo fra gli anni '60 e '70 .
10 aprile. Interrogato da Felice Casson il comandante generale dell'Arma dei Carabinieri ed ex-direttore del SISMI, Sergio Siracusa, indagato per essersi rifiutato di rispondere a domande sulla somma pagata a Siciliano . 14 aprile. Arrestati il generale Francesco Delfino e l'imprenditore Giordano Alghisi nell'inchiesta sul sequestro Soffiantini . 17 aprile. Arrestato in Francia il neonazista Carlo Cicuttini, condannato all'ergastolo per la strage di Peteano . 9 maggio. Carlo Fumagalli, ex-capo del MAR, accusa il generale dei carabinieri Francesco Delfino di essere l'organizzatore e il mandante della strage di Brescia: a depositare materialmente la bomba nella piazza sarebbe stato il confidente dei carabinieri e «uomo di fiducia» di Delfino, Gianni Maifredi . 22 maggio. Fuga di notizie su un probabile coinvolgimento di Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie, in un progetto separatista della cupola mafiosa (in cui si inserirebbero le stragi del '92 e del '93) . 16 giugno. Carlo Digilio è colpito da un ictus . Giugno. Duecento milanesi assaltano il «bar dei marocchini» a via Meda: 4 immigrati feriti . Dicembre. 22 anni a 4 imputati dell'omicidio del marocchino annegato ai Murazzi. Un assolto . 1999 19 gennaio. Il p.m. di Verona Papalia chiede il rinvio a giudizio di 42 aderenti al serenissimo governo . Marzo. Tornano in carcere tre del commando di San Marco: Viviani, Peroni e Barison . 7 aprile. A Napoli arresti domiciliari per 9 esponenti di 3 liste di disoccupati di estrema destra . 22 aprile. Rinviati a giudizio 25 hammerskin tra cui Roberto Fiore . 1 maggio. La polizia blocca un centinaio di attivisti del centro sociale di destra Porta Aperta che, armati di bastoni e molotov, vuole attaccare la manifestazione di piazza San Giovanni. Contusi 3 poliziotti, denunciati 60 neofascisti . 7 maggio. La cassazione condanna a 3 anni Freda, a 20 mesi Ferri e a 16 mesi Gaiba per il Fronte nazionale . 30 maggio. Concutelli ottiene un permesso premio di 8 giorni da trascorrere presso l'abitazione del cappellano di Rebibbia . 3 giugno. A Reggio Emilia è arrestato con l'accusa di duplice omicidio Paolo Bellini, sospettato di essere un confidente dei servizi segreti e
inquisito nell'inchiesta sulla strage di Bologna. Confessa l'omicidio di Alceste Campanile . 8 giugno. Rinvio a giudizio per concorso nella strage di piazza Fontana di Maggi, Rognoni e Zorzi; stralcio per Digilio, rinvio a giudizio per favoreggiamento di Tringali, prosciolti Raho, Andreatta e Montagner . 21 giugno. A Milano è arrestato con l'accusa di aver sequestrato e seviziato 5 prostitute il pentito nero Alessandro Danieletti . 28 giugno. Rinviato a giudizio, per concorso nella strage di piazza Fontana, Carlo Digilio . 12 luglio. Ammesso al «lavoro esterno» Valerio Fioravanti presso l'associazione radicale Nessuno tocchi Caino. 6 agosto. A Londra, la Charity commission autorizza Roberto Fiore a riprendere il ruolo di amministratore del «Saint George's Educational Trust» . 24 settembre. A Perugia, assolti tutti gli imputati per l'omicidio Pecorelli . 14 ottobre. Roma, per possesso di armi da guerra à arrestato Luigi Conti, ex di M.P., 24 anni . 15 ottobre. Avviso di reato a Pino Rauti, segretario nazionale del M.S.Fiamma per «concorso in strage» per piazza della Loggia . 28 ottobre. Il Tribunale di sorveglianza di Padova affida in prova al servizio sociale i Serenissimi Antonio Barison e Fausto Faccia . 4 novembre. Giano Accame si dichiara indignato per il suo inserimento in una lista di presunte spie del K.G.B . 16 novembre. Nel carcere di Opera, presentando il suo libro, Vallanzasca ricorda come negli anni '70 un esponente del M.S.I. milanese, «oggi parecchio noto», gli chiese di andare a mettere bombe, e che la conversazione è registrata . 19 novembre. I pentiti Siciliano e Digilio si rifiutano di deporre al processo per la strage di via Fatebenefratelli . 21 novembre. Esplode una bomba al museo della Liberazione di via Tasso. L'attentato è rivendicato il 23 dal «movimento antisionista» . 26 novembre. Bomba contro il cinema Nuovo Olimpia dov'è in programma un film sulla vita di Adolf Eichmann . Al processo per la strage di via Fatebenefratelli, Vinciguerra ribadisce le responsabilità di Carlo Maria Maggi e degli ordinovisti . 16 dicembre. Arrestati per il furto al caveau del Palazzo di Giustizia, nella notte fra il 16 e il 17 luglio 1999, 4 carabinieri e Massimo Carminati .
20 dicembre. Indiziati di reato per l'attentato dinamitardo contro il cinema rivendicato dal «movimento antisionista», 5 tifosi della Roma fra i quali un militante di Forza nuova.