JODI PICOULT DICIANNOVE MINUTI (Nineteen Minutes, 2007) A Emily Bestler, l'editor migliore e il difensore più strenuo che una ragazza possa desiderare, che si assicura sempre che io parta con il piede giusto, tutte le volte. Grazie per il tuo occhio attento, perché sei una ragazza pompon e soprattutto per la tua amicizia. PARTE PRIMA Se non cambiamo la direzione intrapresa, finiremo dove volevamo andare. Proverbio cinese Spero di non esserci più, quando leggerete queste righe. Non si può annullare qualcosa che è accaduto; non ci si può rimangiare una parola che è già stata detta a voce alta. Penserete a me e rimpiangerete di non aver saputo convincermi a non farlo. Tenterete di immaginare quale fosse la sola cosa giusta da dire, da fare. Probabilmente dovrei dirvi: Non accusate voi stessi, non è colpa vostra, ma sarebbe una bugia. Sia io che voi sappiamo che sarebbe stato impossibile arrivare a questo da soli. Piangerete, al mio funerale. Direte che non doveva andare così. Vi comporterete come tutti si aspettano da voi. Ma vi mancherò? E soprattutto... mi mancherete? Ma, sia io che voi, abbiamo davvero voglia di conoscere la risposta a questa domanda? 6 marzo 2007 In diciannove minuti si può falciare il prato davanti a casa, tingersi i capelli, guardare un tempo di una partita di hockey. In diciannove minuti si possono cuocere al forno i biscotti da tè o ci si può far togliere una carie dal dentista; si può piegare il bucato per una famiglia di cinque persone. Diciannove minuti sono stati il tempo necessario ai Tennessee Titans per vendere i biglietti per la partita decisiva. È la durata di una sitcom, esclusi
gli spot pubblicitari. È il tempo che ci vuole per andare dal confine del Vermont a Sterling, nel New Hampshire. In diciannove minuti è possibile ordinare una pizza e farsela consegnare. È il tempo sufficiente per leggere una fiaba a un bambino o per fare il cambio dell'olio. Si può percorrere a piedi un chilometro e mezzo. Si può cucire un orlo. In diciannove minuti si può fermare il mondo, oppure saltarne giù. In diciannove minuti, ci si può vendicare. Come al solito, Alex Cormier era in ritardo. Occorrevano trentadue minuti per andare in auto da casa sua, a Sterling, al tribunale di Grafton County, nel New Hampshire, ma solo a condizione di attraversare Orford a tutta velocità. Si infilò le calze e si precipitò al piano di sotto reggendo in mano le scarpe con i tacchi alti e le pratiche che si era portata a casa per il weekend. Si annodò i folti capelli ramati e li fissò sulla nuca con le mollette, trasformandosi nella persona che aveva bisogno di essere per uscire di casa. Alex era giudice di corte d'appello da trentaquattro giorni. Era convinta che, avendo dato prova del suo impegno come giudice della corte distrettuale federale negli ultimi cinque anni, il nuovo incarico sarebbe stato più facile. Ma a quarant'anni era ancora il giudice più giovane dello Stato. Doveva ancora lottare per imporsi come giudice imparziale - il suo passato come difensore d'ufficio la precedeva in tribunale, e gli avvocati dell'accusa davano per scontato che lei stesse dalla parte della difesa. Quando Alex, anni prima, si era candidata per la magistratura, l'aveva fatto con il desiderio sincero che chiunque, nell'ambito del sistema legale, fosse considerato innocente finché la sua colpevolezza non venisse provata. Ma non aveva previsto che, in qualità di giudice, non avrebbe usufruito come gli altri del beneficio del dubbio. L'odore di caffè appena fatto guidò Alex in cucina. Sua figlia era curva su una tazza fumante al tavolo di cucina, immersa nella lettura di un libro di testo. Josie appariva stremata: i suoi occhi azzurri erano arrossati, i capelli castani legati in una coda disordinata. «Dimmi che non sei stata alzata tutta la notte» fece Alex. Josie non alzò neppure lo sguardo. «Non sono stata alzata tutta la notte» ripeté a pappagallo. Alex si versò a sua volta una tazza di caffè e si sistemò sulla sedia di fronte a lei. «Sul serio?»
«Mi hai chiesto tu di dirtelo» replicò Josie. «Non mi hai chiesto la verità.» Alex aggrottò la fronte. «Non dovresti bere caffè.» «E tu non dovresti fumare.» Alex sentì il calore salirle al volto. «Io non...» «Mamma» sospirò Josie, «anche se apri le finestre del bagno, io sento ugualmente l'odore sugli asciugamani.» Alzò gli occhi, sfidando Alex a rinfacciarle altri vizi. Quanto ad Alex, lei non aveva altri vizi. Non aveva tempo per nessun vizio. Le sarebbe piaciuto dire che sapeva con certezza che nemmeno Josie aveva dei vizi, ma poteva soltanto trarre la stessa conclusione che tutti traevano quando incontravano sua figlia: una studentessa carina, benvoluta da tutti, che prendeva sempre il massimo dei voti, che conosceva meglio di molti altri le conseguenze che aspettano chi non riga dritto. Una ragazza destinata a grandi cose. Una giovane donna che era diventata esattamente quel genere di figlia che Alex aveva tanto desiderato. In passato Josie era stata molto orgogliosa di avere una madre giudice. Alex ricordava Josie che faceva la radiocronaca della sua carriera agli impiegati di sportello in banca, agli inservienti nei supermercati, agli assistenti di volo sugli aerei. Chiedeva ad Alex dei suoi casi e delle sue decisioni. Era cambiato tutto tre anni prima, quando Josie aveva iniziato la scuola superiore e il canale di comunicazione tra loro lentamente era diventato un muro che le divideva. Alex non pensava necessariamente che Josie nascondesse molto di più degli altri adolescenti, ma era diverso: un genitore normale poteva giudicare metaforicamente gli amici della propria figlia, mentre Alex avrebbe potuto farlo dal punto di vista legale. «Cosa prevede il tuo programma di oggi?» domandò Alex. «Compito in classe. E il tuo?» «Contestazioni d'accusa» rispose Alex. Socchiudendo gli occhi guardò dall'altra parte del tavolo, tentando di leggere il titolo del libro capovolto di Josie. «Chimica?» «Catalizzatori.» Josie si strofinò le tempie. «Sostanze che accelerano una reazione, ma non ne risultano alterate. Come quando hai monossido di carbonio e idrogeno e ci aggiungi zinco e ossido di cromo, e... cosa c'è?» «Ho avuto soltanto un piccolo flashback del perché ero scarsa in biochimica. Hai già fatto colazione?» «Caffè» disse Josie. «Il caffè non conta.»
«Quando tu sei di fretta conta» sottolineò Josie. Alex soppesò il costo di appena cinque minuti di ritardo, e quello di prendersi un'altra insufficienza sulla pagella cosmica del bravo genitore. Una diciassettenne non dovrebbe essere capace di badare a se stessa al mattino? Alex incominciò a tirar fuori l'occorrente dal frigorifero: uova, latte, bacon. «Una volta dovetti presiedere al ricovero forzato d'urgenza in ospedale psichiatrico di una donna che era convinta di essere Emeril, il cuoco della televisione. Suo marito aveva chiamato perché venissero a prenderla quando lei aveva messo mezzo chilo di bacon nel mixer e aveva cominciato a rincorrerlo per la cucina con un coltello, strillando Bam! come fa Emeril alla fine di ogni ricetta.» Josie sollevò lo sguardo dal libro. «Sul serio?» «Oh, credimi, non sarei capace di inventarmi storie del genere.» Alex ruppe un uovo in una padella. «Quando le domandai perché avesse messo mezzo chilo di bacon nel mixer, lei mi guardò e disse che, evidentemente, lei e io avevamo due modi diversi di cucinare.» Josie si alzò e si appoggiò al bancone, osservando sua madre che cucinava. Le attività domestiche non erano certo la specialità di Alex: non sapeva fare un brasato ma era fiera di avere imparato a memoria i numeri di telefono di tutte le pizzerie e i ristoranti cinesi a domicilio di Sterling. «Rilassati» disse Alex asciutta. «Credo di poterci riuscire senza incendiare la casa.» Ma Josie le tolse di mano la padella e vi collocò le strisce di bacon, come marinai che dormivano allineati l'uno contro l'altro. «Perché ti vesti così?» domandò. Alex si guardò la gonna, la camicetta e le scarpe coi tacchi e aggrottò la fronte. «Perché? Fa troppo Margaret Thatcher?» «No, voglio dire... chi te lo fa fare? Nessuno sa che cosa porti sotto la toga. Potresti metterti, che so, i pantaloni del pigiama. Oppure quel maglione dei tempi dell'università con i buchi ai gomiti.» «Che gli altri lo vedano o no, in ogni caso si aspettano che io mi vesta... be', giudiziosamente.» Josie si rannuvolò e subito si diede da fare ai fornelli, come se Alex, in un certo senso, avesse dato la risposta sbagliata. Alex osservò sua figlia le unghie a mezzaluna mordicchiate, l'efelide dietro l'orecchio, la riga a zigzag nei capelli - e vide invece la bimba in attesa vicino alla finestra della baby-sitter al tramonto, perché sapeva che a quell'ora Alex veniva a prenderla. «Non ho mai indossato il pigiama per andare a lavorare» ammi-
se Alex, «ma a volte chiudo la porta del mio ufficio e schiaccio un pisolino sul pavimento.» Un lento, meravigliato sorriso si disegnò sul volto di Josie. Quell'ammissione da parte di sua madre fu come se una farfalla le avesse sfiorato casualmente la mano: un evento così sensazionale che non si poteva prestarvi attenzione senza rischiare di perderlo. Ma c'erano chilometri da percorrere in auto e imputati da chiamare in giudizio ed equazioni di chimica da risolvere, e quando Josie asciugò il bacon con un pezzo di carta da cucina il tempo era ormai volato. «Continuo a non capire perché io devo fare colazione e tu no» brontolò Josie. «Perché devi raggiungere una certa età per guadagnarti il diritto di rovinarti la vita.» Alex indicò le uova strapazzate che Josie stava mescolando nella padella. «Mi prometti che le finirai?» Josie incrociò il suo sguardo. «Promesso.» «Allora io vado.» Alex afferrò il thermos del caffè. Mentre faceva marcia indietro per uscire con l'auto dal garage, la sua mente si era già concentrata sul verdetto che avrebbe dovuto scrivere quel pomeriggio; sul numero di contestazioni d'accusa che il cancelliere del tribunale le avrebbe ammucchiato sul tavolo; sulle istanze che dovevano essere cadute come ombre sulla sua scrivania tra venerdì pomeriggio e quella mattina. Era come rapita in un mondo lontano da casa, dove in quel preciso momento sua figlia versava le uova strapazzate dalla padella direttamente nella spazzatura senza averne mangiato un solo boccone. Talvolta Josie pensava alla sua vita come a una stanza senza porte né finestre. Era una stanza sontuosa, certo - metà dei ragazzi della Sterling High avrebbe dato volentieri il proprio braccio destro per una stanza come quella - ma era anche una stanza da cui non c'era alcuna via di fuga. O Josie era qualcuno che non voleva essere o era qualcuno che nessuno voleva. Sollevò il volto verso il getto della doccia: aveva fatto scendere l'acqua così calda che le vennero dei segni rossi, rimase quasi senza fiato e i vetri delle finestre si appannarono. Contò fino a dieci, poi finalmente uscì dalla doccia a testa china e rimase nuda e gocciolante davanti allo specchio. Aveva il volto gonfio e arrossato, i capelli aggrovigliati e appiccicati alle spalle. Si voltò di lato, esaminò il suo addome piatto, e lo tirò un poco in dentro. Sapeva che cosa vedeva Matt quando la guardava, che cosa vede-
vano tutti quanti - Courtney e Maddie e Brady e Haley e Drew - e avrebbe tanto voluto vederlo anche lei. Il problema era che, quando Josie si guardava allo specchio, intravedeva cosa c'era sotto quella pelle nuda, invece di notare cosa vi fosse dipinto sopra. Sapeva come ci si aspettava che apparisse e come ci si aspettava che si comportasse. Portava i capelli scuri lunghi e lisci; vestiva Abercrombie & Fitch; ascoltava i Dashboard Confessional e i Death Cab for Cutie. Le piaceva sentirsi addosso gli occhi delle altre ragazze della scuola quando, seduta nella caffetteria, si faceva prestare il trucco da Courtney. Le piaceva che gli insegnanti imparassero il suo nome fin dal primo giorno di scuola. Le piaceva che i ragazzi rimanessero a fissarla mentre usciva da scuola insieme a Matt che la cingeva con un braccio. Ma una parte di lei si domandava che cosa sarebbe accaduto se avesse svelato a tutti il suo segreto: che certe mattine era difficile alzarsi dal letto e stamparsi sul volto il sorriso di qualcun altro; che si sentiva come sospesa nell'aria, un'imbrogliona che rideva al momento giusto per una battuta e bisbigliava i pettegolezzi giusti e sapeva fare colpo sul ragazzo giusto, una bugiarda che aveva quasi dimenticato che cosa volesse dire essere veri... e che, quando qualcuno glielo faceva ricordare, non voleva pensarci, perché era ancora più doloroso di tutto il resto. Non c'era nessuno con cui parlare. Se provavi anche solo a mettere in dubbio il tuo diritto di appartenere ai privilegiati, al gruppo popolare, ne venivi immediatamente escluso. E Matt... be', Matt si era innamorato della finta Josie, come tutti gli altri. Nelle fiabe, quando cade la maschera, il bel principe ama ancora la fanciulla, malgrado tutto, e il suo amore la trasforma in principessa. Ma la scuola superiore non funzionava così. Quello che faceva di lei una principessa era stare agganciata a Matt. E per una strana logica circolare quello che teneva Matt agganciato a lei era il suo essere una principessa della Sterling High. Non poteva confidarsi neppure con sua madre. Non smetti di essere un giudice soltanto perché esci dal tribunale, diceva sempre sua madre. Ecco perché Alex Cormier non beveva mai più di un bicchiere di vino in pubblico; ecco perché non gridava né piangeva mai. Provarci era una parola senza senso, dato che un tentativo non era mai sufficiente: ci si aspettava sempre che ti mettessi in riga, punto e basta. Molti di quei risultati che facevano sentire particolarmente orgogliosa la madre di Josie - i suoi voti, il suo aspetto, l'essere accettata nel gruppo «giusto» - non erano il frutto di una convinzione precisa da parte di Josie, ma piuttosto la conseguenza del-
la sua paura di non essere perfetta. Josie si avvolse in un asciugamano e andò nella sua stanza. Tirò fuori dall'armadio un paio di jeans e si infilò una sopra l'altra due magliette a manica lunga che le mettevano in risalto il petto. Diede un'occhiata all'orologio: doveva sbrigarsi, se non voleva arrivare in ritardo. Ma, prima di uscire dalla stanza, esitò. Si lasciò cadere sul letto e rovistò sotto il comodino in cerca della sandwich-bag della Ziploc che aveva fissato all'intelaiatura di legno. Dentro c'era una scorta di Ambien: una pillola per volta, lo aveva sottratto alla madre, che lo usava per l'insonnia, perché lei non se ne accorgesse. In quasi sei mesi Josie era riuscita a raccogliere senza dare nell'occhio appena quindici pillole, ma aveva calcolato che, se le avesse mandate giù con un litro di vodka, avrebbero funzionato. Non si trattava di una strategia vera e propria, come decidere di suicidarsi martedì prossimo, o quando la neve si scioglierà o in coincidenza di altri eventi concreti. Era come un piano di riserva: quando fosse saltata fuori la verità e nessuno avesse più voluto saperne di lei, era logico che anche Josie non avrebbe più voluto saperne di se stessa. Risistemò le pillole sotto il comodino e scese al piano di sotto. Entrando in cucina a prendere lo zaino, si accorse che il suo libro di chimica era rimasto aperto... e sul suo posto c'era una rosa rossa a gambo lungo. Matt stava appoggiato al frigorifero nell'angolo; doveva essere entrato dalla porta aperta del garage. Come sempre, vedere Matt le faceva venire in mente il susseguirsi delle stagioni: i suoi capelli avevano tutti i colori dell'autunno; i suoi occhi l'azzurro luminoso di un cielo invernale; il suo sorriso era sfolgorante come il sole d'estate. Portava un berretto da baseball al contrario, e una maglietta della prima squadra di hockey della Sterling sopra una camicia pesante che una volta Josie aveva rubato per un mese intero tenendola nascosta nel cassetto della sua biancheria intima per poter sentire l'odore di lui ogni volta che ne sentiva il bisogno. «Sei ancora incazzata?» domandò lui. Josie esitò. «Non ero io quella fuori di testa.» Matt si staccò dal frigorifero e le si avvicinò finché poté cingerle la vita. «Sai che non posso farne a meno.» Una fossetta comparve nella guancia destra di Matt; Josie si sentiva già più accomodante. «Non è che non volessi vederti. Dovevo veramente studiare.» Matt le liberò il volto dai capelli e la baciò. Ecco perché gli aveva detto di non venire la sera prima: quando era con lui, aveva l'impressione di vo-
latilizzarsi. Talvolta, quando lui la toccava, Josie s'immaginava di svanire in una nuvola di vapore. Lui sapeva di sciroppo d'acero, di scuse. «È tutta colpa tua, lo sai» le disse. «Non mi comporterei come un pazzo se non ti amassi così tanto.» In quel momento Josie non ricordava più la scorta di pillole nella sua stanza; non ricordava più di aver pianto sotto la doccia; ricordava soltanto che cosa voleva dire sentirsi adorati. Sono fortunata, si disse, e quella parola si snodava come un nastro d'argento nella sua mente. Fortunata, fortunata, fortunata. Patrick Ducharme, l'unico detective del corpo di polizia di Sterling, era seduto su una panca nell'angolo più lontano dello spogliatoio e ascoltava gli agenti di pattuglia del turno mattutino che prendevano in giro una recluta dal girovita un po' abbondante. «Ehi, Fisher» disse Eddie Odenkirk, «sei tu quello che aspetta il bambino, o è tua moglie?» Mentre tutti gli altri ridevano, Patrick provò compassione per quel ragazzo. «È presto, Eddie» osservò. «Non potresti aspettare almeno finché avremo preso tutti una tazza di caffè?» «Certo, capitano» rise Eddie, «ma sembra che Fisher abbia già mangiato tutte le ciambelle e... che diavolo è quella roba?» Patrick segui lo sguardo di Eddie, fisso sui suoi piedi. Solitamente non si cambiava nello spogliatoio con gli agenti di pattuglia, ma quella mattina, invece di prendere l'auto, aveva fatto una camminata a piedi fino alla stazione di polizia, per smaltire le abbuffate del weekend. Aveva trascorso il sabato e la domenica nel Maine con la ragazza che al momento regnava incontrastata nel suo cuore: la sua figlioccia, Tara Frost, di cinque anni e mezzo. Sua madre, Nina, era la più cara amica di Patrick e probabilmente l'unico amore da cui non fosse mai riuscito a liberarsi, sebbene lei vivesse benissimo senza di lui. Durante il weekend, Patrick aveva deliberatamente perso un'infinità di partite a Candy Land, aveva portato la bambina a cavalluccio innumerevoli volte, si era fatto acconciare i capelli e - ecco il suo vero errore - aveva lasciato che Tara gli mettesse lo smalto rosa shocking sulle unghie degli alluci per poi dimenticarsi di toglierselo. Si guardò i piedi e arricciò gli alluci all'ingiù. «Le ragazze lo trovano eccitante» disse in tono burbero ai sette uomini nello spogliatoio che tentavano di non scoppiare a ridere in faccia a uno che, tecnicamente, era di grado superiore al loro. Patrick si infilò a razzo i calzini, poi i mocassini e uscì, ancora con la cravatta in mano. Uno, contò. Due, tre. Come a un segnale, dallo spogliatoio giunsero risate fragorose, che lo seguirono fino in
corridoio. Nel suo ufficio, Patrick chiuse la porta e si esaminò nel piccolo specchio appeso al muro. Aveva i capelli neri ancora umidi dalla doccia, il volto arrossato dalla corsa. Strinse il nodo della cravatta intorno al collo, lo sistemò e si sedette alla sua scrivania. Durante il weekend erano arrivate settantadue e-mail. Quando erano più di cinquanta, di solito significava che non sarebbe tornato a casa prima delle otto di sera per tutta la settimana. Cominciò a scorrerle, aggiungendo appunti a un elenco di cose dannatamente urgenti da fare che non si accorciava mai, nemmeno lavorando sodo. Quel giorno Patrick doveva andare in macchina al laboratorio di Stato a portare le sostanze stupefacenti: non era un compito gravoso, a parte il fatto che quattro ore della sua giornata svanivano così in un colpo solo. Aveva un caso di stupro ormai chiuso: l'esecutore era stato identificato tramite un album di foto scolastiche e le sue dichiarazioni già trascritte erano pronte per l'ufficio del procuratore generale. Aveva un cellulare che un vagabondo aveva rubato da un'auto. Dal laboratorio dovevano arrivargli certe analisi del sangue come riscontro per una rapina in una gioielleria, e aveva un'udienza presso la corte d'appello per un'esclusione di prove, e sulla sua scrivania c'era già la prima, nuova denuncia della giornata: qualcuno aveva rubato un portafogli e aveva usato le carte di credito, lasciando così a Patrick una traccia da seguire. Fare il detective in una piccola città imponeva a Patrick di essere sempre al massimo dell'efficienza. A differenza dei suoi amici e colleghi che lavoravano nei dipartimenti delle grandi città, dove disponevano di ventiquattr'ore per risolvere un caso prima che fosse considerato irrisolto, Patrick doveva prendere in esame tutto quello che arrivava sulla sua scrivania, senza limitarsi a scegliere i casi interessanti. Era difficile entusiasmarsi per un caso di assegni a vuoto o per un furto che sarebbe costato al suo autore duecento dollari di multa e ai contribuenti cinque volte tanto perché Patrick vi si dedicasse per una settimana. Ma ogni volta che iniziava a pensare che i suoi casi non fossero particolarmente importanti si ritrovava faccia a faccia con una vittima: la madre in preda a una crisi isterica perché le avevano rubato il portafoglio; i proprietari della gioielleria a conduzione familiare che erano stati derubati della pensione; il professore spaventato vittima di un furto di documenti. La speranza, Patrick lo sapeva, era l'esatta misura della distanza tra lui e la persona in cerca di aiuto. Se Patrick non si fosse impegnato, se non avesse dato il cento per cento, quella vittima sa-
rebbe rimasta per sempre una vittima: ecco perché, da quando si era arruolato nella polizia a Sterling, Patrick era riuscito a risolvere ogni singolo caso. Eppure... Quando Patrick era disteso nel suo letto, da solo, e lasciava che la sua mente seguisse una cucitura sul bordo della sua vita, non ricordava i successi ottenuti, ma soltanto i possibili fallimenti. Quando percorreva il perimetro di un capannone devastato o trovava un'auto rubata fatta a pezzi e abbandonata nei boschi o quando tendeva un fazzoletto alla ragazza singhiozzante che era stata violentata a un appuntamento, Patrick non poteva fare a meno di pensare di essere arrivato troppo tardi. Era un investigatore, ma non investigava niente. Le cose gli arrivavano così, già spezzate, ogni volta. Era la prima giornata calda di marzo, quella in cui si comincia a credere che la neve presto o tardi si scioglierà, e che giugno è davvero dietro l'angolo. Josie era seduta sul cofano della Saab di Matt nel parcheggio riservato agli studenti, e pensava che l'estate era più vicina di quanto non fosse l'inizio di quell'anno scolastico, e che di lì a tre mesi scarsi avrebbe fatto parte ufficialmente della classe dell'ultimo anno. Accanto a lei, Matt era appoggiato al parabrezza, il viso rivolto al sole. «Saltiamo la scuola» propose. «Si sta troppo bene fuori, non possiamo chiuderci là dentro per tutto il giorno.» «Se salti la scuola, finirai in panchina.» Il torneo del campionato di Stato di hockey cominciava quel pomeriggio, e Matt giocava come ala destra. La Sterling aveva vinto l'anno prima, e c'erano buone speranze di farcela anche quell'anno. «Vieni alla partita» disse Matt, e la sua non era una domanda, ma un'affermazione. «Hai intenzione di segnare?» Matt fece un sorriso maligno e l'attirò a sé con forza. «Non lo faccio sempre?» disse, ma non si riferiva più all'hockey, e lei sentì il calore salire sopra il bordo della sua sciarpa. Tutt'a un tratto Josie sentì una pioggia di colpi sulla schiena. Si alzarono entrambi e videro Brady Pryce, un giocatore di football, che camminava mano nella mano con Haley Weaver, la reginetta della scuola. Haley lanciò una seconda manciata di monetine: alla Sterling si usava così per augurare buona fortuna a un atleta. «Oggi devi rompergli il culo, Royston» esclamò Brady.
Anche il loro insegnante di matematica stava attraversando il parcheggio con in mano una logora cartella di cuoio nero e un thermos di caffè. «Salve, signor McCabe» lo salutò Matt. «Come sono andato nel compito in classe di venerdì scorso?» «Fortunatamente, lei ha altri talenti a cui ricorrere, signor Royston» replicò l'insegnante mentre frugava in una tasca. Ammiccò a Josie mentre lanciava anche lui le monetine, penny che cadevano dal cielo sulle sue spalle come coriandoli, come stelle cadenti. È logico, pensò Alex mentre svuotava la borsetta e poi ricacciava tutto dentro. Aveva cambiato borsa e aveva lasciato a casa il suo passe-partout, che le permetteva di passare dall'entrata degli impiegati sul retro del tribunale. Suonò innumerevoli volte, ma sembrava che non ci fosse nessuno in giro. «Maledizione» mormorò tra sé e sé, girando attorno alle pozzanghere di neve sciolta per non rovinare le sue scarpe di coccodrillo col tacco: uno dei vantaggi di parcheggiare sul retro era proprio non dover fare niente di simile. Poteva passare dall'ufficio del cancelliere e da lì arrivare al suo studio, e se i pianeti erano allineati aveva anche qualche probabilità di sedersi sul suo scranno senza provocare ritardi alle udienze della giornata. Davanti all'ingresso al pubblico del tribunale c'era una fila di venti persone, ma i funzionari riconobbero ugualmente Alex perché, a differenza di quanto accadeva nella circoscrizione del tribunale distrettuale, dove si rimbalzava da un palazzo di giustizia all'altro, lei avrebbe lavorato lì per sei mesi. I funzionari le fecero segno di oltrepassare la coda, ma poiché nella sua borsa c'erano le chiavi, il thermos da viaggio in acciaio inossidabile e Dio sa cos'altro i metal detector suonarono. L'allarme attirò l'attenzione generale: nell'ingresso gli sguardi di tutti si voltarono per vedere chi era stato colto in fallo. Chinando la testa, Alex si mise a correre sul pavimento di mattonelle lucide e fu sul punto di perdere l'equilibrio. Mentre stava per cadere in avanti, un uomo tarchiato la raggiunse e la sostenne. «Ehi, bambola» disse guardandola con occhi vogliosi. «Mi piacciono le tue scarpe.» Senza reagire, Alex si liberò dalla sua stretta e si avviò verso l'ufficio del cancelliere. Nessuno degli altri giudici di corte d'appello doveva affrontare quel genere di problemi. Il giudice Wagner era un tipo simpatico, ma con una faccia che sembrava una zucca lasciata marcire dopo Halloween. Il giudice Gerhardt, una donna, indossava camicette perfino più antiquate di
quelle di Alex. Inizialmente, quando Alex aveva ottenuto quel posto, aveva pensato che essere una donna relativamente giovane e moderatamente attraente fosse un bene - un voto contro gli stereotipi - ma in mattinate come quella non ne era più tanto sicura. Gettò la borsa nel suo ufficio, si infilò nella toga e impiegò cinque minuti a bere il caffè e a rivedere il programma. Ogni caso aveva la sua pratica, ma i casi dei recidivi erano tenuti insieme da un elastico, e a volte i giudici scrivevano qualche appunto su un post-it destinato a tutti quelli che si occupavano dello stesso caso. Alex aprì una pratica e vide il disegno di un omino dietro le sbarre: era un segnale con cui il giudice Gerhardt indicava che per quell'imputato era l'ultima possibilità di evitare il carcere. Suonò il cicalino per avvertire il funzionario del tribunale che era pronta per iniziare, e aspettò di udire la sua battuta d'entrata: «Tutti in piedi, entra il presidente, l'onorevole Alexandra Cormier». Entrare in un'aula giudiziaria, per Alex, era sempre come salire su un palcoscenico per un debutto a Broadway. Sapevi che ci sarebbe stato il pubblico, sapevi che gli sguardi sarebbero stati tutti puntati su di te, ma ci sarebbe stato ugualmente un momento in cui ti sarebbe mancato il fiato, in cui non saresti riuscita a credere che fossero venuti a vedere proprio te. Alex si mosse svelta dietro il banco e si sedette. Per quella mattina erano previste settanta contestazioni d'accusa, e l'aula era gremita. Fu chiamato il primo imputato, che si trascinò alla sbarra con lo sguardo altrove. «Signor O'Reilly» esordì Alex, e mentre l'uomo incrociava il suo sguardo lo riconobbe: era il tipo che aveva incontrato all'ingresso. Lui appariva palesemente a disagio, adesso che aveva capito chi fosse la donna con cui si era preso quella confidenza. «È lei che mi è venuto in aiuto poco fa, vero?» Lui deglutì. «Sì, Vostro Onore.» «Se avesse saputo che ero il giudice, signor O'Reilly, avrebbe detto 'Ehi, bambola, mi piacciono le tue scarpe'?» L'imputato abbassò gli occhi, soppesando sconvenienza e sincerità. «Credo di sì, Vostro Onore» rispose dopo un istante. «Sono scarpe fantastiche.» Nessuno osava fiatare, in attesa della sua reazione. Alex fece un largo sorriso. «Signor O'Reilly» disse, «sono perfettamente d'accordo con lei.» Lacy Houghton si chinò sulla sponda del letto e mise il volto proprio davanti a quello della sua paziente che singhiozzava. «Puoi farlo» disse deci-
sa. «Puoi farlo, e lo farai.» Dopo sedici ore di travaglio, erano tutti esausti - Lacy, la paziente e il futuro padre, il quale stava affrontando il momento cruciale in cui cominciava a rendersi conto di essere superfluo, e che in quella circostanza sua moglie desiderava la sua ostetrica molto più di quanto desiderasse lui. «Voglio che lei si metta dietro a Janine» gli disse Lacy, «e che le cinga la schiena. Janine, guardami e dammi un'altra bella spinta...» La donna digrignò i denti e partorì, perdendo ogni consapevolezza di sé nello sforzo di generare un altro essere umano. Lacy allungò la mano per sentire la testa del bambino, per guidarla oltre l'involucro della pelle e farvi passare sopra velocemente il cordone ombelicale senza mai perdere il contatto visivo con la paziente. «Per i prossimi venti secondi, la tua bambina sarà la persona più nuova su questo pianeta» dichiarò Lacy. «Ti piacerebbe conoscerla?» La risposta fu una spinta piena d'impegno. Uno sforzo estremo, un urlo liberatorio e, non appena il corpo scivoloso e violaceo si riversò fuori, Lacy fu pronta a sollevarlo tra le braccia della madre: quando la neonata pianse per la prima volta nella sua vita, era già nella posizione giusta per essere consolata. Anche la sua paziente ricominciò a piangere, ma questa volta le lacrime avevano una melodia completamente diversa, perché non erano intrise di sofferenza. I nuovi genitori si chinarono sulla loro bambina, un circolo chiuso. Lacy fece un passo indietro e rimase a guardare. Anche dopo l'istante della nascita a un'ostetrica rimaneva molto da fare, ma per il momento lei voleva soltanto il contatto visivo con quella creaturina. Dove i genitori scorgevano un mento che assomigliava a quello della zia Marge o un naso che sembrava quello del nonno, Lacy vedeva invece uno sguardo pieno di saggezza e di pace, tre chili e mezzo di potenzialità ancora inespresse. I neonati le ricordavano i piccoli Buddha, con i volti pieni di divinità. Ma non durava a lungo. Quando Lacy vedeva quegli stessi bambini una settimana dopo per i controlli di routine, erano già degli esseri umani normali, sebbene minuscoli. Quella sacralità in un certo senso era scomparsa e Lacy rimaneva sempre a domandarsi dove, in questo mondo, potesse andare a finire. Mentre sua madre era in città a far nascere l'ultimo cittadino di Sterling, New Hampshire, Peter Houghton si stava svegliando. Suo padre bussò alla porta prima di uscire per andare al lavoro: quella era la sveglia di Peter. Al
piano di sotto lo aspettavano una scodella e una scatola di cereali: sua madre se ne ricordava sempre, anche quando la chiamavano alle due del mattino. Ci sarebbe stato anche un suo biglietto che gli augurava di passare una buona giornata a scuola. Come se fosse facile. Peter gettò indietro le coperte. Andò alla sua scrivania, ancora con indosso i calzoni del pigiama, e si collegò a Internet. Le parole sulla bacheca dei messaggi erano confuse. Cercò gli occhiali: li teneva vicino al computer. Dopo esserseli infilati, lasciò cadere l'astuccio sulla tastiera: e improvvisamente vide qualcosa che aveva tanto sperato di non rivedere mai più. Peter digitò CONTROL ALT CANC, ma l'aveva ancora davanti, benché lo schermo fosse ormai vuoto, benché lui avesse chiuso gli occhi, benché ormai si fosse messo a piangere. In una città delle dimensioni di Sterling si conoscevano tutti, ed era così da sempre. Sotto certi aspetti era un conforto: era come avere una grande famiglia allargata con la quale a volte si andava d'accordo e a volte si litigava. Ma talvolta Josie ne era ossessionata: come in quel momento, mentre era in coda nella caffetteria dietro a Natalie Zlenko, lesbica convinta che, quando erano ancora in seconda elementare, aveva invitato Josie a giocare con lei e l'aveva persuasa a fare la pipì sul prato davanti a casa come un maschio. Cosa ti è saltato in mente? le aveva detto sua madre, quando era venuta a prenderla e l'aveva vista accovacciata sui narcisi col sedere nudo. E dopo dieci anni Josie non riusciva a guardare Natalie Zlenko con i capelli tagliati a spazzola e l'onnipresente macchina fotografica reflex senza domandarsi se anche Natalie ci pensava ancora. Accanto a Josie c'era Courtney Ignatio, la ragazza più femminile della Sterling High. Con i suoi capelli biondo miele sciolti sulle spalle come uno scialle di seta e i jeans a vita bassa ordinati per corrispondenza da Fred Segai, aveva generato un entourage di cloni. Sul vassoio di Courtney c'erano una bottiglia d'acqua e una banana. Su quello di Josie c'era una porzione abbondante di patatine. Era la seconda ora e, come sua madre aveva previsto, si sentiva affamata. «Ehi» disse Courtney, a voce abbastanza alta perché Natalie la udisse. «Puoi dire alla vagitariana di lasciarci passare?» Le guance di Natalie si infiammarono e lei si appiattì contro il vetro protettivo del banco delle insalate, in modo che Courtney e Josie potessero oltrepassarla. Pagarono quello che avevano preso e attraversarono la caffet-
teria. Ogni volta che entrava nella caffetteria, Josie si sentiva come una naturalista che osservi le diverse specie nel loro habitat naturale e non accademico. C'erano i fanatici di informatica, chini sui libri di testo, che ridevano di battute sulla matematica che nessun altro voleva neppure capire. Dietro di loro c'erano gli artisti fricchettoni, che fumavano sigarette ai chiodi di garofano lungo il percorso di corde dietro la scuola e disegnavano fumetti manga sui margini dei loro quaderni. Vicino al banco dei condimenti c'erano le racchie, che bevevano caffè nero e aspettavano l'autobus che le avrebbe portate all'istituto tecnico tre città più avanti per i corsi pomeridiani; e i drogati, già strafatti alle nove del mattino. C'erano pure i disadattati, ragazzi come Natalie e Angela Phlug, due emarginate amiche per disperazione, perché nessun altro voleva saperne di loro. E poi c'era il gruppo di Josie. Occupavano più di due tavoli, non perché fossero numerosi, ma perché erano esagerati: Emma, Maddie, Haley, John, Brady, Trey, Drew. Josie ricordava che, quando aveva iniziato ad andare in giro con quei ragazzi, continuava a confondere i loro nomi. Perché erano assolutamente intercambiabili. Sembravano assomigliarsi un po' tutti: i ragazzi indossavano la maglia marrone da hockey, con lucide e folte capigliature che spuntavano come un principio d'incendio sulla fronte, attraverso la cinghia dei berretti portati al contrario; le ragazze sembravano la fotocopia di Courtney, somiglianti fin nei minimi dettagli. Senza dare nell'occhio, Josie scivolò al centro del gruppo, perché anche lei somigliava a Courtney. I suoi capelli mossi erano stati asciugati perfettamente diritti; portava tacchi alti sette centimetri e mezzo, anche se per terra c'era ancora la neve. Se dall'esterno sembrava sempre uguale, era molto più facile ignorare che in realtà non sapeva come si sentisse dentro di sé. «Ciao» disse Maddie, mentre Courtney si sedeva accanto a lei. «Ciao.» «Hai saputo di Fiona Kierland?» Gli occhi di Courtney si illuminarono; il pettegolezzo funzionava da catalizzatore chimico. «Quella che ha le tette di due taglie diverse?» «No, quella è Fiona del secondo anno. Parlo di Fiona del primo.» «Quella che si porta sempre appresso una scatola di fazzoletti per le allergie?» domandò Josie, mettendosi seduta. «O forse non per quello» interloquì Haley. «Indovinate chi hanno mandato in riabilitazione perché sniffava coca.»
«Ma va'.» «E non è tutto» aggiunse Emma. «Il suo spacciatore era il capo del gruppo di studio sulla Bibbia che lei frequenta dopo la scuola.» «Oh mio Dio!» esclamò Courtney. «Precisamente.» «Ciao.» Matt si sedette accanto a Josie. «Perché ci stai mettendo tanto?» Lei si voltò verso di lui. A quell'estremità del tavolo, i ragazzi stavano utilizzando la carta delle loro cannucce per farne palline da lanciare e parlavano delle ultime sciate di primavera. «Fino a quando pensi che rimarrà aperta la half-pipe al Sunapee?» domandò John, lanciando una pallina verso un ragazzo che si era addormentato a un tavolo lontano. L'anno prima il ragazzo aveva frequentato lo stesso corso facoltativo di linguaggio mimico seguito da Josie. Come lei, era uno studente del terzo anno. Aveva braccia e gambe bianche e ossute ed era disteso come un bruco; la sua bocca, mentre dormiva, era spalancata. «L'hai mancato, incapace» disse Drew. «Se il Sunapee chiude, Killington va ancora bene. Hanno neve più o meno fino ad agosto,» La sua pallina atterrò tra i capelli del ragazzo. Derek. Il ragazzo si chiamava Derek. Matt gettò un'occhiata alle patatine di Josie. «Non avrai intenzione di mangiarle, vero?» «Sto morendo di fame.» Lui le diede un pizzicotto all'altezza della vita, come per apprezzare e criticare nello stesso tempo. Josie abbassò lo sguardo sulle patatine. Dieci secondi prima erano di un bel colore dorato e avevano un profumo paradisiaco; adesso, vedeva soltanto l'unto che macchiava il piatto di carta. Matt ne prese una manciata e passò il resto a Drew, che lanciò una pallina facendola atterrare nella bocca del ragazzo addormentato. Sputando e tossendo, Derek si svegliò. «Grande!» Drew diede un cinque a John. Derek sputò in un tovagliolo e si strofinò forte la bocca. Si guardò attorno per vedere se qualcun altro lo stesse osservando. D'un tratto Josie ricordò un segno che aveva imparato al corso di linguaggio mimico, per il resto quasi completamente dimenticato nel momento in cui era finito. Un pugno chiuso fatto girare in cerchio sul cuore significava Mi dispiace. Matt si chinò su di lei e le baciò la nuca. «Usciamo di qui.» Tirò Josie finché lei si alzò in piedi e poi si voltò verso i suoi amici. «A più tardi» disse.
La palestra della Sterling High School era al secondo piano, sopra quella che sarebbe stata una piscina se i finanziamenti fossero passati quando la scuola era ancora in fase di progettazione. Al suo posto invece ora c'erano tre aule in cui rimbombavano il passo pesante delle scarpe da ginnastica e i rimbalzi della palla sui canestri. Michael Beach e il suo migliore amico, Justin Friedman, due ragazzi del primo anno, erano seduti ai bordi del campo da pallacanestro mentre il loro insegnante di educazione fisica spiegava i meccanismi del dribbling per la centesima volta. Era fatica sprecata: i ragazzi di quella classe erano o come Noah James, già esperti, oppure come Michael e Justin: se la cavavano piuttosto bene con l'Elvish, il linguaggio del Signore degli anelli, ma per loro un home run era quello che si faceva dopo la scuola per evitare di essere acchiappati e appesi per le mutande agli attaccapanni. Erano seduti a gambe incrociate con le ginocchia in fuori, e ascoltavano lo squittio da roditore delle scarpe da ginnastica bianche dell'allenatore Spears mentre lui schizzava da un'estremità all'altra del campo. «Scommetto dieci dollari che mi chiamerà per ultimo quando formerà la squadra» mormorò Justin. «Vorrei potercene andare fuori» si lamentò Michael. «Magari ci fosse un'esercitazione antincendio.» Justin sogghignò. «Un terremoto.» «Un monsone.» «Un'invasione di cavallette!» «Un attacco terroristico!» Due scarpe da ginnastica si fermarono davanti a loro. L'allenatore Spears rivolse loro uno sguardo truce, le braccia conserte. «Voi due, volete dirmi cosa c'è di così buffo nel basket?» Michael guardò di sfuggita Justin, poi il coach. «Assolutamente niente» rispose. Dopo aver fatto la doccia, Lacy Houghton si preparò una grande tazza di tè verde e si mise a girare tranquillamente per casa. Quando i ragazzi erano piccoli e lei era sopraffatta dal lavoro e dalla vita, Lewis le aveva domandato cosa potesse fare per migliorare le cose. A lei era suonato paradossale, dato il lavoro di Lewis. Professore allo Sterling College, la sua materia era l'economia della felicità. Sì, era un vero e proprio campo di studi e, sì, lui era un esperto. Aveva tenuto seminari e scritto articoli ed era stato in-
tervistato alla CNN su come misurare gli effetti del piacere e della buona sorte in termini monetari, eppure era rimasto piuttosto incerto quando gli era toccato immaginare che cosa avrebbe fatto piacere a Lacy. Voleva forse andare a cena in un buon ristorante? Andare dalla pedicure? Fare un pisolino? Quando lei gli disse che cosa desiderava, tuttavia, lui non riuscì a capire. Lei voleva starsene a casa sua, da soli e senza impegni urgenti. Lacy aprì la porta della stanza di Peter e posò la tazza sul cassettone per potergli rifare il letto. A cosa serve, aveva replicato Peter quando lei l'aveva esortato a farselo da sé. Tanto tra qualche ora sarà di nuovo da rifare. Generalmente, entrava nella stanza di Peter soltanto se c'era lui. Forse fu per quello che, sulle prime, sentì che c'era qualcosa di sbagliato in quello spazio, come se mancasse una parte importante. Sulle prime diede per scontato che fosse l'assenza di Peter a far sembrare la stanza un po' vuota, ma poi si rese conto che il computer - un ronzio costante, uno schermo verde sempre acceso - era spento. Tirò le lenzuola e le sistemò agli angoli; vi stese sopra il piumone e sprimacciò i cuscini. Sulla soglia della stanza di Peter si fermò e sorrise: sembrava perfetta. Zoe Patterson si domandava come fosse baciare un ragazzo che portava l'apparecchio per i denti. Non che per lei ci fosse una qualche remota possibilità nell'immediato futuro, ma era convinta di dover prendere in considerazione quell'eventualità prima di trovarsi colta alla sprovvista. In effetti, si domandava cosa volesse dire baciare un ragazzo, punto e basta... anche uno che non avesse problemi dal punto di vista ortodontico, come lei. E, a voler essere sinceri, c'era forse un momento migliore di una stupida lezione di matematica per lasciar vagare la mente? Il signor McCabe, che si considerava il Chris Rock dell'algebra, stava dedicandosi alla sua quotidiana, implacabile routine. «Dunque, due ragazzi sono in coda per il pranzo, quando il primo ragazzo si volta verso il suo amico e gli dice: 'Sono senza soldi! Che faccio?' E il suo compagno risponde: '2x + 5!'» Zoe alzò lo sguardo verso l'orologio. Contò seguendo la lancetta dei minuti finché arrivò esattamente sulle nove e cinquanta, poi balzò dalla sedia porgendo a McCabe un permesso. «Ah, ortodonzia» lesse lui a voce alta. «Bene, si accerti che non le chiudano la bocca con il filo metallico, signorina Patterson. Dunque, il ragazzo dice: '2x + 5'. Un binomio. Capite? Non-
comprare-il-pranzo?!»1 Zoe sollevò lo zaino, se lo mise in spalla e uscì dall'aula. Doveva incontrarsi con sua madre davanti alla scuola alle dieci precise. Poiché parcheggiare era quasi impossibile, doveva farsi trovare pronta per salire subito in auto. Era metà mattina, e i corridoi erano vuoti e riecheggianti; sembrava di arrancare nel ventre di una balena. Zoe deviò in segreteria a notificare la sua assenza, e poi, nella fretta di uscire, andò quasi a sbattere contro un ragazzo. Era abbastanza caldo da abbassare la zip della giacca e pensare all'estate e al campo di calcio e a come sarebbe stato non portare più, finalmente, l'apparecchio per il palato. Se baci un ragazzo che non porta apparecchi per i denti e stringi troppo forte, rischi di tagliargli le gengive? Zoe aveva la vaga sensazione che, se avesse fatto sanguinare un ragazzo, probabilmente non sarebbe più riuscita a riagganciarlo. E se anche lui avesse portato l'apparecchio, come quel ragazzo biondo che si era appena trasferito da Chicago e che stava seduto davanti a lei a inglese (non che lui le piacesse o chissà cosa, benché si fosse voltato per restituirle il foglio con il compito a casa e il contatto con la sua mano fosse durato solo un tantino troppo a lungo...)? Sarebbero rimasti incastrati come ingranaggi e avrebbero dovuto portarli al pronto soccorso? Quanto sarebbe stata umiliante una situazione come quella? Zoe passò la lingua sulla siepe seghettata di paletti metallici nella sua bocca. Magari avrebbe potuto chiudersi per un po' in un convento. Sospirò e diede una sbirciata all'edificio di fronte per vedere se la Explorer verde di sua madre sbucava dalle auto che passavano in fila indiana. E proprio in quel momento vi fu un'esplosione. Patrick era fermo a un semaforo rosso nella sua auto civetta, in attesa di svoltare sulla strada principale. Accanto a lui, sul sedile del passeggero, c'era un sacchetto di carta che conteneva una fiala di cocaina. Sebbene lo spacciatore che avevano arrestato alla scuola superiore avesse ammesso che era cocaina, Patrick doveva sprecare mezza giornata per portarla al laboratorio di Stato dove qualcuno in camice bianco gli avrebbe detto quello che già sapeva. Armeggiò con il pulsante che regolava il volume della ricetrasmittente giusto in tempo per sentire che i pompieri erano stati mandati alla scuola superiore per un'esplosione. Probabilmente la caldaia; la scuola era abbastanza vecchia perché la sua struttura interna potesse crollare. Pro1
Gioco di parole sulla pronuncia di binomy e buy no meal. (N.d.T.)
vò a ricordare dove fosse collocata la caldaia alla Sterling High, e si domandò se sarebbero stati così fortunati da risolvere una situazione simile senza feriti. I colpi sparati... Il semaforo diventò verde, ma Patrick non si mosse. L'uso di un'arma da fuoco a Sterling era un evento così raro da focalizzare la sua attenzione sulla voce alla radio, in attesa di una spiegazione. Alla scuola superiore... la Sterling High... La voce alla ricetrasmittente parlava in tono più frenetico. Patrick fece un'inversione a U e si diresse verso la scuola con i lampeggianti accesi. Altre voci cominciarono a trasmettere fra una scarica statica e l'altra: agenti di polizia che comunicavano le loro posizioni in città; l'ispettore di servizio che tentava di coordinare gli uomini e chiedeva aiuto a Hanover e Lebanon. Le loro voci si sovrapponevano e si ostacolavano a vicenda, dicendo così tutto e niente. Segnale 1000, disse la voce alla radio. Segnale 1000. In tutta la sua carriera di detective Patrick aveva udito solo due volte quella chiamata. Una volta nel Maine, quando un padre inadempiente aveva preso in ostaggio un poliziotto. Un'altra a Sterling durante una potenziale rapina in banca che si era rivelata un falso allarme. Segnale 1000 significava che tutti, immediatamente, dovevano lasciare libera la radio per le comunicazioni. Significava che non si trattava della solita operazione di routine della polizia. Significava che era una faccenda di vita o di morte. Il caos era una costellazione di studenti che si precipitavano fuori dalla scuola calpestando i feriti. Un ragazzo che reggeva un cartello scritto a mano, a una finestra del piano superiore, dove si leggeva AIUTO. Due ragazze che si abbracciavano piangendo. Il caos era il sangue che diventava rosa sulla neve; erano i genitori che arrivavano alla spicciolata e si trasformavano in un torrente, e poi in un fiume in piena, urlando i nomi dei loro figli dispersi. Il caos era una telecamera puntata sulla faccia, le ambulanze e gli agenti che non bastavano, e l'assenza di una procedura che spiegasse come reagire quando il mondo che conosciamo va in pezzi. Patrick parcheggiò con le ruote anteriori sul marciapiede e tirò fuori il giubbotto antiproiettile dal baule della macchina. Sentiva già l'adrenalina pulsare, facendo ondeggiare la visuale e acuendo i sensi. Trovò il comandante O'Rourke in piedi con un megafono in mezzo alla calca. «Non sap-
piamo ancora cosa stia capitando» disse il capitano. «La SOU sta arrivando.» Patrick non contava certo sull'Unità operazioni speciali. Prima che la SWAT arrivasse, c'era tutto il tempo per sparare un altro centinaio di colpi; un ragazzo poteva venire ucciso. Tirò fuori la pistola. «Vado dentro.» «Sei matto. Il protocollo non lo prevede.» «Non c'è nessun fottuto protocollo per una cosa del genere» scattò Patrick. «Poi mi licenzierai.» Mentre saliva di corsa i gradini della scuola, era vagamente consapevole di altri due agenti di pattuglia che, ignorando gli ordini del comandante, lo seguivano in mezzo a quella confusione. Patrick li guidò ciascuno in un diverso corridoio, poi a sua volta varcò le porte a due battenti e oltrepassò gli studenti che si spintonavano nel tentativo di uscire. Gli allarmi antincendio suonavano così forte che Patrick dovette mettercela tutta per udire gli spari. Afferrò per il cappotto un ragazzo che lo superava di corsa. «Chi è?» urlò. «Chi sta sparando?» Il ragazzo scosse il capo, senza proferire parola, e si liberò dalla presa. Patrick lo guardò percorrere come un razzo il corridoio, aprire la porta, irrompere nel rettangolo di luce del sole. Gli studenti si incanalavano attorno a lui, come se fosse una pietra in un fiume. Il fumo fluttuava e gli bruciava gli occhi. Patrick udì un'altra serie di colpi d'arma da fuoco, e dovette trattenersi dal correre alla cieca in quella direzione. «In quanti sono?» domandò a una ragazza che passava come un fulmine. «Non... Non lo so...» Il ragazzo al suo fianco si voltò e guardò Patrick, combattuto tra la voglia di informarlo e l'impulso di correre via infischiandosene. «È un ragazzo... sta sparando a tutti...» Non c'era bisogno d'altro. Patrick si mise a correre nella direzione opposta alla fiumana di studenti, come un salmone che risale la corrente. Sul pavimento erano sparsi i fogli dei compiti a casa; dei bossoli rotolavano sotto i tacchi delle sue scarpe. Alcuni pannelli del soffitto erano stati rotti dai colpi e una sottile polvere grigia ricopriva i corpi abbattuti che giacevano aggrovigliati sul pavimento. Patrick ignorò ogni cosa, infrangendo la maggior parte delle procedure che aveva imparato - oltrepassando di corsa le porte che possono celare un colpevole, tralasciando aule che avrebbero dovuto essere ispezionate - per andare avanti diritto con la sua pistola e il cuore che gli batteva in ogni centimetro di pelle. Più tardi, gli sarebbero
venute in mente altre immagini che la sua mente non aveva avuto il tempo di registrare subito: le grate dei diffusori del riscaldamento che gli studenti avevano strappato per nascondersi strisciando; le scarpe che i ragazzi si lasciavano dietro mentre ne correvano letteralmente fuori; la strana premonizione di tracce della scena del crimine sul pavimento fuori dalle aule di biologia, dove gli studenti avevano tracciato i propri corpi su carta da macelleria per un compito. Attraversò di corsa dei corridoi che sembravano cerchi concentrici. «Dove?» sbraitava ogni volta che s'imbatteva in uno studente in fuga, il suo unico strumento di navigazione. Vedeva schizzi di sangue, e studenti accartocciati sul pavimento, ma non si concedeva di guardarli due volte. Salì al volo la scala principale e, proprio quando giunse in cima, una porta si spalancò. Patrick girò su se stesso, puntando la pistola, mentre una giovane insegnante cadeva in ginocchio con le mani alzate. Dietro il bianco ovale del suo volto ce n'erano altri dodici, dai tratti indistinti, spaventati. Patrick sentì odore di urina. Abbassò la pistola e se ne servì per indicare la scala. «Andate» intimò, ma non rimase abbastanza a lungo per vedere se eseguivano il suo ordine. Svoltando un angolo, Patrick scivolò sul sangue e udì un altro sparo, questa volta così forte da rimbombargli nelle orecchie. Irruppe attraverso le porte a due battenti, aperte, della palestra e scrutò la manciata di corpi sparsi, il canestro capovolto e i palloni appoggiati al muro di fronte... ma non vide nessuno sparare. Si rese conto, dai particolari che aveva osservato durante gli straordinari che faceva il venerdì sera per sorvegliare le partite nella scuola, di aver raggiunto l'estremità più lontana della Sterling High. Il che significava che lo sparatore o era nascosto lì in qualche angolo oppure l'aveva superato di corsa mentre Patrick non se n'era accorto... e poteva anche darsi che l'avesse messo con le spalle al muro in quella palestra. Patrick girò di nuovo attorno all'ingresso per vedere se era così, ma poi udì un altro sparo. Corse a una porta che conduceva fuori dalla palestra, una porta che non aveva notato quando aveva dato una prima, rapida occhiata a quel locale. Era uno spogliatoio, con piastrelle bianche alle pareti e sul pavimento. Abbassò lo sguardo, vide lo spruzzo di sangue che si apriva a ventaglio ai suoi piedi, e mosse lentamente la pistola attorno al muro d'angolo. Due corpi giacevano immobili in fondo allo spogliatoio. Dalla parte opposta, più vicino a Patrick, un ragazzo magro stava rannicchiato vicino a una fila di armadietti. Portava occhiali con la montatura di metallo, storti
sul suo volto sottile. Tremava come una foglia. «Stai bene?» sussurrò Patrick. Non voleva parlare a voce alta e indicare la propria posizione allo sparatore. Il ragazzo si limitò ad accennare di sì con gli occhi. «Dov'è?» domandò Patrick muovendo la bocca senza suono. Il ragazzo estrasse una pistola da dietro la coscia e se la puntò alla tempia. Patrick si sentì invadere da una nuova vampata di calore. «Non muoverti, cazzo» gridò, puntando la sua arma sul ragazzo. «Metti giù la pistola o sparo.» Il sudore gli scendeva copioso sulla schiena e sulla fronte, e sentiva vibrare le proprie mani appoggiate al calcio della pistola che continuava a tenere puntata, deciso a coprire di colpi il ragazzo se fosse stato necessario. Mentre Patrick sfiorava il grilletto con il dito indice, il ragazzo aprì le dita come una stella marina. La pistola cadde sul pavimento, sdrucciolando sulle piastrelle. Subito Patrick gli saltò addosso. Uno degli altri agenti - non si era nemmeno accorto che l'avevano seguito - raccolse l'arma del ragazzo. Patrick costrinse il ragazzo a sdraiarsi sull'addome e lo ammanettò, premendogli un ginocchio contro la spina dorsale. «Sei solo? Chi c'è con te?» «Solo io» rispose digrignando i denti. A Patrick girava la testa e il suo cuore batteva come un tamburo, ma riuscì vagamente a udire l'altro agente che inoltrava quell'informazione via radio: «Sterling, abbiamo fermato un uomo, sembra che non ce ne siano altri». Così, di colpo com'era incominciata, era anche finita, o quanto meno così sembrava. Patrick non sapeva se ci fossero trappole esplosive o bombe nella scuola; non sapeva quante vittime ci fossero; non sapeva quanti feriti fossero stati trasportati al Dartmouth-Hitchcock Medical Center e all'Alice Peck Day Hospital; non sapeva come procedere al vaglio di una scena del crimine così vasta. Il bersaglio era stato individuato, ma a quale irreparabile costo? Patrick cominciò a tremare in tutto il corpo, rendendosi conto che quel giorno, ancora una volta, per tanti studenti, genitori e cittadini, lui era arrivato troppo tardi. Fece qualche passo e cadde sulle ginocchia, per il semplice fatto che gli cedettero le gambe, ma fece finta di farlo volutamente, per controllare i due corpi all'altra estremità della stanza. Si accorse vagamente che lo sparatore veniva spinto fuori dallo spogliatoio dall'altro agente, verso un'auto-
pattuglia della polizia in attesa fuori dalla scuola. Non si voltò a guardare il ragazzo che se ne andava; si concentrò invece sul corpo che aveva davanti. Un ragazzo, che indossava una maglia da hockey. Sotto il fianco aveva una macchia di sangue e una ferita da arma da fuoco gli segnava la fronte. Patrick raccolse un berretto da baseball caduto poco più in là, con la scritta STERLING HOCKEY ricamata. Fece girare tra le mani il bordo del berretto, un cerchio imperfetto. La ragazza distesa accanto a lui giaceva riversa, e il sangue sgorgava da sotto la sua tempia. Era a piedi nudi, e sulle sue unghie c'era uno smalto rosa shocking, come quello che Tara aveva messo a Patrick. Gli parve che il suo cuore si fermasse. Quella ragazza, così come la sua figlioccia e suo fratello e tanti altri ragazzi di quella nazione, quella mattina si era alzata ed era andata a scuola senza immaginare neppure lontanamente il pericolo che l'attendeva. Si fidava degli adulti e degli insegnanti e dei direttori: l'avrebbero protetta. Non a caso le scuole, dopo l'undici settembre, avevano insegnanti che portavano costantemente i tesserini di identificazione e tenevano le porte chiuse durante la giornata: si presumeva sempre che il nemico fosse qualcuno che veniva dall'esterno, non il compagno di banco. D'un tratto, la ragazza si mosse. «Aiuta... mi...» Patrick si inginocchiò accanto a lei. «Sono qui» disse, toccandola delicatamente per accertarsi delle sue condizioni. «È tutto a posto.» La girò quel tanto che bastava per vedere che il sangue usciva da un taglio sul cuoio capelluto, non da una ferita d'arma da fuoco, come aveva immaginato. Passò le mani sulle braccia e sulle gambe della ragazza. Continuò a sussurrarle parole che non sempre avevano senso, ma che volevano farle capire che non era più sola. «Come ti chiami, cara?» «Josie...» La ragazza cominciò a muoversi nel tentativo di mettersi seduta. Patrick si mise in posizione strategica tra la ragazza e il corpo del ragazzo: era già abbastanza scioccata; non aveva certo bisogno di oltrepassare il limite. Lei si portò una mano alla fronte e, quando la ritrasse sporca di sangue, si spaventò. «Cos'è... stato?» Patrick avrebbe dovuto rimanere lì e aspettare che i medici venissero a prenderla. Avrebbe dovuto chiedere aiuto via radio. Ma avrebbe dovuto non sembrava più avere senso, e Patrick sollevò Josie tra le proprie braccia. La portò fuori dallo spogliatoio dove aveva rischiato di essere uccisa, scese a precipizio le scale, e uscì dal portone principale della scuola, come per salvare lei e se stesso.
Diciassette anni prima C'erano quattordici persone sedute di fronte a Lacy, considerato che ciascuna delle sette donne che frequentavano quel corso prenatale era incinta. Alcune erano dotate di quaderni per appunti e di penne, e avevano trascorso un'ora e mezzo a scrivere le dosi consigliate di acido folico, i nomi dei teratogeni e le diete più indicate per una futura madre. Due erano diventate verdi nel bel mezzo della discussione su un parto normale e si erano precipitate in bagno in preda alle nausee mattutine, che, in realtà, duravano l'intera giornata: è come parlare di estate quando in realtà si intendono tutte e quattro le stagioni dell'anno. Era stanca. A solo una settimana dal suo rientro al lavoro dopo il periodo di maternità, sembrava una palese ingiustizia dover stare comunque sveglia, anche quando non doveva passare la notte in piedi per il suo bambino, per mettere al mondo quello di qualcun altro. Il seno le doleva, ricordandole spiacevolmente che doveva di nuovo farsi aspirare il latte, da lasciare alla baby-sitter il giorno dopo per Peter. Eppure amava troppo il suo lavoro per abbandonarlo completamente. Aveva ottenuto il punteggio per essere ammessa alla facoltà di medicina e aveva pensato di specializzarsi in ostetricia e ginecologia finché si era resa conto di essere sostanzialmente incapace di rimanere seduta accanto a una paziente a letto senza provare a sua volta dolore. I medici innalzano un muro tra sé e i pazienti; le infermiere lo abbattono. Si iscrisse a un corso che le avrebbe dato un certificato di infermiera-levatrice, e che la incoraggiò a interessarsi alle condizioni emotive di una futura madre invece di limitarsi alla sua sintomatologia. Forse alcuni medici dell'ospedale la consideravano un po' strana, ma Lacy era davvero convinta che, quando si domandava a una paziente Come si sente?, gli aspetti positivi fossero quasi sempre più importanti di quelli negativi. Oltrepassò il plastico del feto in crescita e sollevò un best seller sull'approccio alla gravidanza. «Quante di voi hanno già visto questo libro?» Sette mani si alzarono. «Bene. Non compratelo. Non leggetelo. Se l'avete già a casa, gettatelo via. Questo libro vi convincerà che avrete emorragie, che soffrirete di convulsioni, che creperete e un centinaio di altre cose che normalmente non si verificano con la gravidanza. Credetemi, la sfera della normalità è molto più ampia di qualsiasi cosa vi diranno questi autori.» Lanciò un'occhiata in fondo, dove una donna si teneva un fianco. Cram-
pi? pensò Lacy. Gravidanza extrauterina? La donna indossava un completo nero e portava i capelli raccolti in una coda bassa e ordinata. Lacy la osservò pizzicarsi di nuovo la vita, ma questa volta togliendosi un minuscolo cercapersone appeso alla gonna. Si alzò in piedi. «Io... ehm, scusatemi. Devo andare.» «Può aspettare qualche minuto?» chiese Lacy. «Stiamo per andare a fare un giro nel reparto maternità.» La donna le porse il questionario che le era stato chiesto di completare durante quella visita. «Ho qualcosa di più urgente da sistemare» disse, e si precipitò fuori. «Bene» disse Lacy. «Se volete, prendetevi un momento di pausa per andare in bagno.» Mentre le sei donne rimaste uscivano in fila dalla stanza, Lacy diede un'occhiata al formulario che teneva in mano. Alexandra Cormier, lesse. E pensò: Bisognerà che la tenga d'occhio. L'ultima volta che Alex aveva difeso Loomis Bronchetti, lui si era introdotto in tre case e aveva rubato apparecchiature elettroniche che poi aveva tentato di ricettare per le strade di Enfield, nel New Hampshire. Benché Loomis fosse abbastanza intraprendente da escogitare un piano del genere, non aveva capito che, in una città piccola come Enfield, gli impianti stereo rubati potevano dare nell'occhio. A quanto pareva, Loomis aveva arricchito il suo curriculum vitae di criminale la notte prima, quando lui e due suoi amici avevano deciso di inseguire uno spacciatore di droga che non aveva portato loro roba a sufficienza. Si erano fatti, avevano legato gambe e braccia al ragazzo e lo avevano gettato nel bagagliaio dell'auto. Loomis aveva picchiato lo spacciatore sulla testa con una mazza da baseball, fratturandogli il cranio e provocandogli le convulsioni. Quando aveva iniziato a soffocare nel suo stesso sangue, Loomis l'aveva girato perché potesse respirare. «Non riesco a credere che mi accusino di aggressione» disse Loomis ad Alex attraverso le sbarre della cella di detenzione. «Ho salvato la vita a quel tizio.» «Bene» commentò Alex. «Avremmo potuto avvalercene... se non fossi stato proprio tu a cominciare a infierire su di lui.» «Deve chiedere di farmi uscire tra meno di un anno. Non voglio essere mandato in carcere a Concord...» «Potresti essere incolpato di tentato omicidio, lo sai.» Loomis aggrottò la fronte. «Stavo facendo un favore ai poliziotti, to-
gliendo di mezzo un malvivente come quello.» La stessa cosa, Alex lo sapeva, si sarebbe potuta dire per Loomis Bronchetti, se fosse stato dichiarato colpevole e mandato nella prigione di Stato. Ma il suo compito non consisteva nel giudicare Loomis. Consisteva nell'impegnarsi fino in fondo, malgrado le sue opinioni personali su un cliente. Consisteva nel mostrare una faccia a Loomis, ed essere consapevole di mascherarne un'altra. Consisteva nell'impedire che i suoi sentimenti interferissero con la sua capacità di far assolvere Loomis Bronchetti. «Vedrò cosa posso fare» gli rispose. Lacy si rendeva conto che tutti i neonati sono diversi l'uno dall'altro creaturine minuscole con le loro peculiarità e le loro abitudini, i loro motivi di fastidio e i loro desideri. Ma in un certo qual modo si sarebbe aspettata che la sua seconda incursione nella maternità producesse un altro risultato come il suo primogenito, Joey, un bimbo perfetto, che induceva i passanti a voltarsi per guardarlo, a fermarla mentre spingeva il passeggino per dirle che aveva un bambino meraviglioso. Anche Peter era bello, ma era un neonato decisamente più impegnativo. Piangeva, soffriva di coliche, e per tranquillizzarlo bisognava metterlo seduto nel suo seggiolino dell'auto o sull'asciugatrice in funzione che vibrava. Quando veniva allattato, all'improvviso si distaccava da lei. Erano le due di notte e Lacy stava tentando di far riaddormentare Peter. A differenza di Joey, che sprofondava nel sonno come se facesse un gigantesco passo giù da una scogliera, Peter sembrava dover lottare passo dopo passo. Lei gli dava dei colpetti sulla schiena e lo massaggiava descrivendo piccoli cerchi tra le sue scapole minute mentre lui singhiozzava e gemeva. Francamente, ne avrebbe avuto voglia anche lei. Nelle ultime due ore non aveva fatto che guardare sempre le stesse pubblicità dei coltelli Ginsu. Aveva contato le righe della tela grezza sul largo bracciolo del divano finché le si erano confuse davanti agli occhi. Era talmente sfinita che le doleva tutto. «Cosa c'è, ometto» sospirò. «Cosa posso fare per renderti felice?» La felicità era relativa, secondo suo marito. Sebbene la maggior parte della gente ridesse quando Lacy diceva che il lavoro di suo marito consisteva nello stabilire un prezzo per la gioia, era effettivamente quello che facevano gli economisti: trovare il valore dei beni immateriali nella vita. I colleghi di Lewis allo Sterling College avevano presentato studi riguardanti gli stimoli particolari procurati da un certo tipo di istruzione, oppure la salute sul piano universale o le soddisfazioni di lavoro. La disciplina di
Lewis non era meno importante, per quanto poco ortodossa. L'aveva reso un ospite popolare della NPR (National Popular Radio), da Larry King, ai seminari aziendali: in un certo senso, masticare numeri sembrava più sexy quando si cominciava a parlare di quanti dollari valeva una bella risata, o al limite una battuta sulle bionde stupide. Il sesso regolare, per esempio, era l'equivalente (dal punto di vista della felicità) di un aumento di stipendio di 50.000 dollari. Tuttavia, un aumento di stipendio pari a 50.000 dollari non sarebbe stato così entusiasmante se tutti avessero ottenuto un aumento di 50.000 dollari. In base allo stesso criterio, qualcosa che vi aveva reso felici in passato poteva non rendervi felici oggi. Cinque anni prima, Lacy avrebbe dato qualsiasi cosa per una dozzina di rose portate a casa da suo marito; ora, se lui le avesse dato la possibilità di fare un sonnellino di dieci minuti, si sarebbe buttata per terra in un parossismo di felicità. A parte le statistiche, Lewis sarebbe passato alla storia come l'economista che aveva inventato una formula matematica per la felicità: R/A, o Realtà diviso Aspettative. C'erano due modi per essere felici: migliorare la propria realtà o ridimensionare le proprie aspettative. Una volta, a una cena a casa di certi vicini, Lacy gli aveva domandato che cosa accadeva a chi non avesse aspettative di sorta. Non si poteva dividere per zero. Significava che, limitandocisi ad accettare tutti i colpi bassi della vita, non si sarebbe mai stati felici? Più tardi, quella sera, mentre erano in auto Lewis l'aveva accusata di aver provato a fargli fare brutta figura. A Lacy non piaceva mettersi a pensare se Lewis e la loro famiglia fossero veramente felici. Chiunque avrebbe dato per scontato che l'uomo che aveva inventato la formula fosse l'immagine stessa della felicità, ma in un certo senso non funzionava così. Talvolta Lacy ricordava il vecchio adagio «i figli del calzolaio vanno in giro scalzi» e si domandava: E i figli dell'uomo che conosce il valore della felicità? In quei giorni, quando Lewis faceva tardi in ufficio per lavorare a un'altra pubblicazione in uscita e Lacy era talmente esausta da rischiare di addormentarsi in piedi sull'ascensore dell'ospedale, tentava di autoconvincersi che era semplicemente una fase da superare: un campo di addestramento in miniatura che sicuramente un giorno si sarebbe trasformato in appagamento e soddisfazione e solidarietà e in tutti gli altri parametri che Lewis tracciava sui suoi programmi a computer. Dopotutto, aveva un marito che l'amava e due figli sani e una carriera appagante. Non significava forse aver messo in pratica nel migliore dei modi la definizione di felicità? Si rese conto che - miracolo dei miracoli - Peter si era addormentato sul-
la sua spalla, la gota vellutata come una pesca contro la sua pelle nuda. Salendo le scale in punta di piedi, andò a sistemarlo delicatamente nella sua culla e poi gettò un'occhiata nella stanza, verso il lettino dove dormiva Joey. La luna lo illuminava come se lo prediligesse. Si domandò come sarebbe stato Peter all'età di Joey. Si domandò se si può essere così fortunati due volte. Alex Cormier era più giovane di quanto Lacy avesse pensato. Ventiquattro anni, ma appariva talmente sicura da indurre la gente a pensare che avesse dieci anni di più. «Bene» disse Lacy, presentandosi. «Come si è risolta quella faccenda urgente?» Alex sgranò gli occhi, poi ricordò: il giro nel reparto maternità a cui si era sottratta una settimana prima. «Era un patteggiamento di pena.» «Lei fa l'avvocato, dunque?» domandò Lacy sollevando gli occhi dai suoi appunti. «Sono difensore d'ufficio.» Alex sporse in avanti il mento, come se si aspettasse un commento di disapprovazione da parte di Lacy riguardo al suo aver a che fare con tipi loschi. «Dev'essere un lavoro terribilmente impegnativo» osservò Lacy. «Nel suo studio sanno che lei è incinta?» Alex scosse il capo. «È fuori discussione» disse con voce incolore. «Non prenderò un permesso di maternità.» «Potrebbe cambiare idea mentre...» «Non ho intenzione di tenere questo bambino» dichiarò Alex. Lacy si appoggiò allo schienale della sedia. «D'accordo.» Non spettava a lei giudicare una madre per la decisione di rinunciare a un bambino. «Allora possiamo discutere le altre possibilità» disse Lacy. A undici settimane, Alex poteva ancora interrompere la gravidanza, se lo desiderava. «Volevo abortire» continuò Alex, come se leggesse nei pensieri di Lacy. «Ma non mi sono presentata all'appuntamento.» Alzò lo sguardo. «Due volte.» Lacy sapeva che si può anche essere decisamente abortisti senza per questo trovare la volontà o la forza di prendere la decisione per se stessi: e proprio a questo punto entrava in gioco la libera scelta. «Be', allora» disse, «posso darle qualche informazione sull'adozione, se non ha già contattato un'agenzia personalmente.» Aprì un cassetto e ne tirò fuori dei raccoglitori: agenzie per l'adozione associate alle religioni più svariate, legali specializzati in adozioni private. Alex prese gli opuscoli e li tenne come una ma-
no di carte da gioco. «Ma per il momento ci concentreremo su di lei e su come si sente.» «Sto benissimo» replicò Alex in tono conciliante. «Non ho nausea, non mi sento stanca.» Guardò l'orologio. «Ma rischio di arrivare in ritardo a un appuntamento.» Lacy intuiva che Alex era una donna volitiva, una di quelle persone che sono abituate a tenere sotto controllo tutti gli aspetti della propria vita. «È normale rallentare il ritmo quando si è incinte. Il suo corpo potrebbe averne bisogno.» «So come prendermi cura di me stessa.» «E lascerebbe che se ne occupasse qualcun altro per un po'?» Un'ombra di irritazione passò sul volto di Alex. «Senta, io non ho bisogno di sedute terapeutiche. Sul serio. Apprezzo il suo interessamento, ma...» «Il suo partner è d'accordo sulla sua decisione di dare via il bambino?» domandò Lacy. Alex girò la testa per un istante. Ma prima che Lacy potesse trovare le parole giuste per indurla a voltarsi di nuovo Alex si era già ripresa. «Non c'è nessun partner» dichiarò freddamente. L'ultima volta che il corpo di Alex aveva preso il sopravvento, lei aveva fatto quello che la sua mente le diceva di non fare: aveva concepito quel bambino. Tutto era iniziato abbastanza innocentemente: Logan Rourke, il suo professore di diritto processuale, l'aveva chiamata nel suo ufficio per dirle che in aula sapeva essere autorevole e competente. Logan diceva che i giurati non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso... e che non ci riusciva nemmeno lui. Alex pensò che Logan fosse Clarence Darrow e F. Lee Bailey e Dio uniti insieme. Il prestigio e il potere potevano rendere un uomo così attraente da togliere il respiro. Logan le apparve come quello che lei cercava da sempre. Gli credette quando lui le disse che, pur insegnando da dieci anni, non aveva mai visto in uno studente la prontezza di riflessi di Alex. Gli credette quando lui le raccontò che il suo matrimonio era tale soltanto di nome. E gli credette la sera in cui lui andò a prenderla al campus e la portò in macchina a casa sua, poi le prese il volto tra le mani e le confidò che lei era la ragione per cui lui si alzava tutte le mattine. Il diritto è una materia fatta di dettagli e dati concreti, non di sentimenti. L'errore madornale di Alex fu dimenticarsene quando iniziò la sua storia
con Logan. Si sorprese a rimandare i suoi progetti, ad aspettare le telefonate di lui che a volte arrivavano e a volte no. Finse di non vedere che lui flirtava con le studentesse di legge del primo anno che lo guardavano nello stesso modo in cui lo guardava lei. E quando rimase incinta si convinse che erano destinati a passare insieme il resto della vita. Logan le aveva detto di abortire. Lei prese un appuntamento, ma poi dimenticò di scrivere giorno e ora sulla sua agenda. Ne fissò un altro, ma si rese conto troppo tardi che coincideva con il suo esame finale. A quel punto andò da Logan. È un segno, gli disse. Può darsi, replicò lui, ma non significa quello che pensi tu. Sii ragionevole, aveva aggiunto Logan. Una ragazza madre non diventerà mai un avvocato. Deve scegliere tra la carriera e il bambino. Quello che intendeva realmente era che lei doveva scegliere tra lui e il bambino. La donna aveva un'aria familiare vista di spalle, come a volte capita quando si vede qualcuno fuori dal suo contesto abituale: il commesso del supermercato che fa la coda in banca, il postino seduto al cinema. Alex rimase a fissarla ancora un momento, poi capì che era il neonato a confonderle le idee. Attraversò l'ingresso del tribunale e si avviò verso lo sportello del segretario comunale, dove Lacy Houghton stava pagando una multa per sosta vietata. «Serve un avvocato?» domandò Alex. Lacy sollevò lo sguardo, reggendo il marsupio con dentro Peter nella piega del suo braccio. Impiegò un momento a riconoscere quel volto: non vedeva Alex dalla sua prima visita, e ormai era passato quasi un mese. «Oh, salve!» esclamò con un sorriso. «Come mai da queste parti?» «Oh, sto versando la cauzione per il mio ex...» Lacy aspettò che Alex sgranasse gli occhi, poi scoppiò a ridere. «Stavo solo scherzando. Ho preso una multa per sosta vietata.» Alex si sorprese a osservare il viso del figlio di Lacy. Portava un berretto blu allacciato sotto il mento e le sue guance si espandevano sopra il fiocco. Gli colava il naso e, quando si accorse che Alex lo guardava, le rivolse un sorriso cupo. «Ha tempo per un caffè?» domandò Lacy. Mise dieci dollari sopra la multa e li infilò nella bocca spalancata dello sportello dei pagamenti, poi sollevò il marsupio e lo sistemò un po' più in
alto nella piega del suo braccio. Quindi uscì dal palazzo del tribunale e si avviò verso un Dunkin' Donuts dall'altra parte della strada. Lacy si fermò a porgere una banconota da dieci dollari a un vagabondo seduto fuori dal tribunale, e Alex roteò gli occhi: in realtà, aveva visto quell'uomo dirigersi al bar più vicino il giorno prima, mentre usciva dal lavoro. Al coffee shop, Alex osservò Lacy togliere con disinvoltura vari strati di indumenti al bambino per poi farlo sedere sulle proprie ginocchia. Mentre parlava, si mise una mantellina sulle spalle e cominciò ad allattare Peter. «È difficile?» domandò Alex d'un tratto. «Allattare?» «Non solo quello» precisò Alex. «Tutto.» «È una capacità che si acquisisce senza problemi.» Lacy sollevò il bambino sulla spalla. I suoi piedi negli scarponcini scalciavano contro il suo petto, come se lui stesse già tentando di stabilire una distanza tra loro due. «In confronto alla sua giornata lavorativa, la maternità è probabilmente un cioccolatino.» Le venne subito in mente Logan Rourke, che aveva riso di lei quando Alex aveva detto che intendeva lavorare presso lo studio del difensore d'ufficio. Non resisterai una settimana, le aveva detto. Non sei abbastanza tosta per un lavoro come quello. Talvolta Alex si domandava se era brava come difensore d'ufficio per le proprie capacità o perché si era sentita assolutamente decisa a mostrare a Logan che si sbagliava. In ogni caso, Alex si era creata un personaggio al lavoro: era quella che dava a tutti gli imputati la medesima possibilità di farsi ascoltare nell'ambito del sistema legale, senza permettere che i clienti la coinvolgessero troppo. Aveva già fatto quell'errore con Logan. «Ha già avuto modo di contattare qualche agenzia per le adozioni?» domandò Lacy. Alex non aveva nemmeno aperto gli opuscoli che Lacy le aveva dato. Per quanto ne sapeva, erano ancora sotto il banco della sala visite. «Ho fatto qualche telefonata» mentì Alex. Era nel suo elenco delle Cose Da Fare al lavoro. Ma c'era sempre qualcos'altro che glielo impediva. «Posso farle una domanda personale?» disse Lacy, e Alex annuì lentamente - non le piacevano le domande personali. «Che cosa le ha fatto decidere di rinunciare al bambino?» Aveva mai preso sul serio quella decisione? O altri l'avevano presa per lei?
«Questo non è un buon momento» rispose Alex. Lacy rise. «Non so se ci sia mai un buon momento per avere un bambino. Sicuramente è qualcosa che sconvolge la vita di tutti i giorni.» Alex la fissò. «Io voglio che la mia vita rimanga così com'è.» Per un istante Lacy si diede da fare con il camicino del suo bimbo. «In un certo senso, quello che facciamo io e lei non è poi così diverso.» «Probabilmente la quota di recidivi è più o meno la stessa» commentò Alex. «No... Intendevo dire che noi due vediamo l'aspetto più autentico di una persona. Per questo mi piace fare l'ostetrica. Si vede com'è forte una persona di fronte a una situazione realmente dolorosa.» Lanciò un'occhiata ad Alex. «Non è sorprendente vedere che, quando le si spoglia di tutto, le persone sembrano tutte uguali?» Alex pensò agli imputati che aveva visto sfilare durante la sua vita professionale. Le si confondevano tutti nella mente. Ma era perché, come diceva Lacy, si assomigliavano tutti? Oppure perché Alex era diventata un'esperta nel non guardarli troppo da vicino? Guardò Lacy che si sistemava il bimbo sulle ginocchia. Lui batteva le manine sul tavolo e faceva piccoli gorgoglii. Improvvisamente Lacy si alzò in piedi e lo affidò ad Alex, che si vide costretta a prenderlo, se non voleva rischiare di lasciarlo cadere a terra. «Ecco, tenga Peter. Devo correre in bagno.» Alex fu colta dal panico. Calma, pensò. Devo capire cosa fare. Le gambe del bambino tiravano calci, come il personaggio di un cartone animato che cadesse giù da una scogliera. Goffamente, Alex lo fece sedere sulle sue ginocchia. Era più pesante di quanto immaginasse, e al tatto la sua pelle sembrava velluto umido. «Peter» disse formalmente. «Io sono Alex.» Il bambino allungò le manine verso la tazza di caffè di Alex, e lei si sporse in avanti per spostarla. Peter si irrigidì in volto come se fosse fatto di gesso, e poi cominciò a piangere. Gli strilli erano laceranti, di parecchi decibel sopra il normale, catastrofici. «Smettila» lo implorò Alex, mentre la gente cominciava a voltarsi a guardare. Si alzò in piedi, dando dei colpetti sulla schiena a Peter come aveva fatto Lacy, augurandosi che lui esaurisse le energie o si prendesse una laringite o semplicemente provasse pietà per la sua totale inesperienza. Alex, che sapeva sempre reagire con la dovuta prontezza, che anche quando veniva catapultata in una questione legale disastrosa sapeva sempre rimet-
tersi in piedi senza un capello fuori posto, si sentiva completamente spiazzata. Si sedette e tenne Peter sotto le ascelle. Ormai era diventato rosso come un pomodoro e la sua pelle appariva così tirata e scura che la morbida lanugine dei capelli luccicava come platino. «Senti» gli disse. «Forse non vorresti me, ora, ma non puoi avere altro.» Dopo un ultimo singhiozzo, il bambino si calmò. Fissò Alex negli occhi, come se tentasse di collocarla da qualche parte. Sollevata, Alex lo sistemò nella curva del suo braccio e sedette un po' più diritta. Abbassò lo sguardo sulla testa del bambino e vide, al centro, la pulsazione traslucida sotto la fontanella. Quando allentò la presa, anche il bambino si rilassò. Era così facile? Alex seguì col dito la morbida macchia sulla testa di Peter. Conosceva la spiegazione biologica: le membrane del cranio si spostavano quel tanto che bastava per facilitare la nascita; poi, via via che il bambino cresceva, si ricongiungevano. Era una vulnerabilità comune a tutti alla nascita, destinata a trasformarsi letteralmente nella testa dura degli adulti. «Mi scusi» disse Lacy, tornando rapida al tavolo. «Grazie di tutto.» Alex le passò il bambino come se l'avesse scottata. La paziente era reduce da una trentina di ore di travaglio in casa. Convinta assertrice della medicina naturale, aveva ridotto al minimo l'assistenza prenatale: niente amniocentesi, niente ecografie. Ma i neonati hanno il loro modo di prendersi quello che vogliono e di cui hanno bisogno quando arriva il momento di venire al mondo. Lacy posò le mani sul ventre tremante della donna come una guaritrice. Due chili e settecento grammi, pensò. Il sedere quassù, la testa quaggiù. Un medico si affacciò alla porta: «Come andiamo qui?» «Dica alla nursery della terapia intensiva che siamo a trentacinque settimane» replicò Lacy, «ma sembra che tutto vada bene.» Mentre il medico se ne andava, Lacy si piazzò in mezzo alle gambe della donna. «So che sembra destinato a durare per sempre» disse. «Ma, se lavori insieme a me per un'altra ora, avrai questo bambino.» Lacy stava indicando al marito della donna di mettersi dietro di lei, tenendola dritta mentre cominciava a spingere, quando sentì il suo cercapersone vibrare alla vita della sua tuta blu marino. Chi diavolo poteva essere? Era già di turno; la sua segretaria sapeva che stava assistendo una partoriente.
«Scusatemi» disse, lasciando l'infermiera ostetrica al suo posto mentre lei raggiungeva il banco delle infermiere e chiedeva di poter fare una telefonata. «Cosa succede?» domandò Lacy quando le rispose la sua segretaria. «Una delle tue pazienti, insiste per vederti.» «Ho un po' da fare» ribatté Lacy infastidita. «Ha detto che aspetterà. Tutto il tempo che occorre.» «Chi è?» «Alex Cormier» rispose la segretaria. Se si fosse trattato di un'altra, Lacy avrebbe detto alla segretaria di mandare la paziente da una delle ostetriche di turno. Ma c'era ancora qualcosa di sfuggente in Alex Cormier, qualcosa che non capiva chiaramente... qualcosa di fuori posto. «Va bene» disse Lacy. «Ma dille che potrebbero anche passare alcune ore.» Riagganciò e tornò di corsa in sala parto, dove si mise nuovamente tra le gambe della paziente per verificare la dilatazione. «A quanto pare, volevi soltanto che me ne andassi» scherzò. «È a dieci centimetri. La prossima volta che ti senti di spingere... metticela tutta.» Dieci minuti dopo, Lacy fece nascere una neonata di un chilo e trecentocinquanta grammi. Mentre i genitori la guardavano incantati, Lacy si voltò verso l'infermiera, comunicando tacitamente con gli occhi. C'era qualcosa che proprio non andava. «È così minuscola» osservò il padre. «Sta... sta bene?» Lacy esitò, perché effettivamente non conosceva la risposta. Un fibroma? si domandava. La sua unica certezza era che in quella donna c'era molto di più di una bambina di un chilo e trecentocinquanta grammi. E che da un momento all'altro la paziente avrebbe cominciato a perdere sangue. Ma quando toccò il ventre della paziente e premette sull'utero si sentì gelare. «Nessuno ti aveva detto che erano due gemelli?» Il padre impallidì. «Ce ne sono due?» Lacy fece un largo sorriso. Gemelli, perché no. Gemelli... be', era una sorpresa piacevole, non un terribile disastro medico. «Bene. Uno solo, per ora.» L'uomo, al fianco della moglie, si chinò su di lei e la baciò sulla fronte, felice. «Hai sentito, Terri? Gemelli.» Sua moglie non riusciva a staccare gli occhi dalla sua minuscola neonata. «È meraviglioso» disse con calma. «Ma non voglio spingerne fuori un altro.»
Lacy rise. «Oh, credo proprio che riuscirò a farti cambiare idea.» Quaranta minuti dopo Lacy lasciò quella famiglia felice con le sue due gemelle e percorse il corridoio fino alla toilette dei dipendenti, dove si sciacquò il viso e si cambiò la tuta. Salì le scale per andare nell'ufficio delle ostetriche e guardò la fila di donne sedute con le braccia appoggiate su pance di ogni dimensione, come lune nelle diverse fasi. Una di loro si alzò in piedi, con gli occhi rossi e le gambe incerte, come se una forza magnetica l'avesse spinta su all'arrivo di Lacy. «Alex» disse, ricordando solo in quell'istante che aveva un'altra paziente in attesa. «Venga con me.» Condusse Alex in una sala visite vuota e sedette di fronte a lei su una sedia. In quel momento Lacy notò che Alex si era messa il maglione al rovescio. Era un maglione a girocollo azzurro chiaro: si notava appena, soltanto perché l'etichetta era visibile sulla curva del collo. Poteva capitare a chiunque in un momento di frenesia, di turbamento... ma probabilmente non ad Alex Cormier. «Ho perso sangue» spiegò Alex con un filo di voce. «Non molto, però. Be'. Un po'.» Valutando lo stato d'animo di Alex, Lacy replicò con calma: «Potremmo controllare ugualmente». Accompagnò Alex nel corridoio fino alla radiologia. Ottenne da un tecnico di poter oltrepassare la fila di pazienti e, non appena Alex si fu distesa sul lettino, Lacy si voltò verso la macchina. Spostò il trasduttore sull'addome di Alex. A sedici settimane, il feto appariva come una creatura minuscola, scheletrica, ma sorprendentemente perfetta. «Vede quello?» domandò Lacy, indicando un cursore intermittente, una minuscola pulsazione bianca e nera. «Quello è il cuore del bambino.» Alex distolse lo sguardo, ma Lacy fece in tempo a vedere una lacrima sulla sua guancia. «Il bambino sta bene» disse. «Ed è perfettamente normale avere qualche perdita o sanguinamento. Non le ha provocate lei facendo qualcosa in particolare; e non c'è niente che lei possa fare per fermarle.» «Credevo di avere un aborto.» «Quando si vede un bambino normale, e noi l'abbiamo appena visto, il rischio di aborto è inferiore all'uno per cento. O, per dirla in un altro modo, le sue probabilità di mettere al mondo un bambino normale al momento giusto sono pari al novantanove per cento.» Alex annuì, asciugandosi gli occhi con la manica. «Bene.» Lacy esitò. «Non toccherebbe a me dirlo, in realtà. Ma per essere una
donna che non vuole questo bambino, Alex, lei sembra incredibilmente sollevata di sapere che va tutto bene.» «Io non... non posso...» Lacy lanciò un'occhiata allo schermo a ultrasuoni, dove la creatura di Alex era immortalata in un istante preciso. «Pensi soltanto a questo» disse. Ho già una famiglia, disse Logan Rourke più tardi, quello stesso giorno, quando Alex gli fece sapere che aveva intenzione di tenere il bambino. Non me ne serve un'altra. Quella notte, Alex fece una sorta di esorcismo. Riempì il suo grill Weber di carbonella e accese un fuoco, poi arrostì ogni compito a casa che aveva consegnato a Logan Rourke. Non aveva foto di loro due, né biglietti affettuosi... col senno di poi, capì fino a che punto lui fosse stato attento, e con quanta facilità lo si potesse cancellare dalla vita di lei. Questo bambino, decise, sarebbe stato soltanto suo. Si sedette a guardare le fiamme e pensò allo spazio che occupava dentro di lei. Immaginò i suoi organi che si muovevano autonomamente, tirandole la pelle. Si raffigurò il cuore che batteva, piccolo come un sassolino, per farsi spazio. Non si domandò se voleva quel figlio per avere la prova che la sua storia con Logan Rourke non era frutto della sua immaginazione, oppure allo scopo di sconvolgerlo così come lui aveva fatto con lei. Come tutti i bravi avvocati sanno, non si rivolge mai al testimone una domanda alla quale non si saprebbe rispondere. Cinque settimane dopo, Lacy non era più soltanto l'ostetrica di Alex. Era anche la sua confidente, la sua migliore amica, la sua cassa di risonanza. Solitamente Lacy non socializzava con le sue pazienti, ma per Alex fece un'eccezione alla regola. Si disse che era perché Alex, che ora aveva deciso di tenere il bambino, aveva realmente bisogno di aiuto, e non c'era nessun altro con cui si sentisse a suo agio. Era l'unica ragione, si giustificò Lacy, per cui aveva acconsentito a uscire quella sera con le colleghe di Alex. Ma anche la prospettiva di una Serata Per Sole Donne, senza bambini piccoli, perse ogni attrattiva in quella compagnia. Lacy si rese conto che due cure canalari l'una dopo l'altra dal dentista sarebbero state preferibili a una cena con un gruppo di avvocati. A tutte loro piaceva soltanto ascoltarsi parlare, quello era evidente. Lasciò che la conversazione le scorresse intorno, come se lei fosse una pietra in un fiume, e continuò a versarsi la Coca-Cola da una caraffa nel bicchiere
da vino. Il ristorante era italiano, con un pessimo sugo di pomodoro e un cuoco che aveva la mano pesante con l'aglio. Si domandò se in Italia ci fossero ristoranti americani. Alex era nel bel mezzo di una discussione animata su un processo che era giunto davanti alla giuria. Lacy udiva termini lanciati e rilanciati attorno al tavolo: FLSA, Singh v. Jutla, incentivi. Una donna florida seduta alla destra di Lacy scosse il capo. «È un messaggio chiaro» disse. «Riconoscere i danni causati da un lavoro illegale significa dichiarare che un'azienda è al di sopra della legge.» Alex rise. «Sita, voglio approfittare di questo momento per ricordarti che sei l'unico pubblico ministero seduto a questo tavolo e che non hai nessuna dannatissima possibilità di vincere questa causa.» «Siamo tutte parziali. Ci serve un osservatore neutrale.» Sita sorrise a Lacy. «Qual è la tua opinione sugli extra?» Forse avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alla conversazione a quanto pareva aveva preso una piega interessante mentre Lacy si perdeva in fantasticherie. «Be', io non sono certo un'esperta, ma poco tempo fa ho finito di leggere un libro sull'Area 51 e i tentativi di nasconderla da parte del governo. Scendeva nei dettagli a proposito della mutilazione del bestiame. Ho trovato molto sospetto che una mucca nel Nevada risulti privata dei reni senza che l'incisione riveli un trauma ai tessuti o perdite di sangue. Una volta avevo una gatta che, secondo me, fu rapita dagli extraterrestri. Scomparve per quattro settimane esatte - precise al minuto - e quando ritornò aveva disegni triangolari impressi a fuoco sul pelo del dorso, come una specie di cerchio nel grano.» Lacy esitò. «Ma senza il grano.» Tutte, attorno al tavolo, la fissavano in silenzio. Una donna con una boccuccia minuscola e un caschetto di lucenti capelli biondi ammiccò a Lacy. «Stavamo parlando di extracomunitari.» Lacy sentì il calore salirle alla nuca. «Oh» disse. «Ma certo.» «Be', se dovessi decidere io» interloquì Alex, attirando l'attenzione su di sé, «Lacy dovrebbe dirigere il Department of Labor al posto di Elaine Chao. Ha sicuramente più esperienza...»2 Tutte scoppiarono a ridere, e Lacy le osservò. Si rese conto che Alex sapeva sempre adeguarsi. Lì, oppure a cena con la famiglia di Lacy o in un'aula del tribunale o probabilmente al tè con la regina. Era un camaleonte. 2
Labor significa doglie, travaglio ma anche «lavoro». (N.d.T.)
Lacy si accorse non senza sorpresa di non sapere che colore avesse un camaleonte prima di cominciare a cambiare. C'era un momento, a ogni esame prenatale, in cui Lacy incanalava la sua fede guaritrice interiore: ponendo le mani sull'addome della paziente e indovinando, solamente dalla configurazione addominale, in quale direzione fosse disposto il bambino. Le venivano sempre in mente quei baracconi dei divertimenti di Halloween dove portava Joey: mettevi una mano dietro una tenda e sentivi una ciotola di spaghetti freddi che simulavano l'intestino oppure un cervello di gelatina. Non era una scienza esatta, ma fondamentalmente c'erano due parti dure in un feto: la testa e il fondoschiena. Se facevi girare la testa del bambino, c'era il rischio che si torcesse sulla spina dorsale. Se facevi girare il fondoschiena del bambino, lo vedevi ondeggiare. Muovere la testa significava solo muovere la testa; muovere il fondoschiena significava muovere tutto il bambino. Lasciò che le sue mani vagassero su quell'isola che era il ventre di Alex e l'aiutò a sedersi. «La buona notizia è che il bambino sta bene» disse Lacy. «La cattiva notizia è che, per il momento, è rovesciato. Podalico.» Alex si sentì gelare. «Dovrò fare un cesareo?» «Abbiamo ancora otto settimane di tempo. Possiamo fare molte cose per aiutarlo a girarsi da solo.» «Tipo?» «Moxibustione: agopuntura senza aghi che riequilibra energeticamente i meridiani.» Lacy era seduta di fronte a lei. «Ti procurerò il nome di una dottoressa. Ti darà un bastoncino di artemisia che dovrai tenere a contatto del dito mignolo del piede. Lo stesso dall'altra parte. Non ti farà male, ma ti darà una sensazione sgradevole di caldo eccessivo. Se impari a farlo a casa e cominci subito, ci sono buone probabilità che il bambino si giri in un paio di settimane.» «E se mi darò dei colpetti con un bastoncino farà una capriola?» «Be', non necessariamente. Ecco perché voglio anche che tu sistemi un'asse da stiro contro il divano per formare un piano inclinato. Dovresti distenderti lì sopra, a testa in giù, tre volte al giorno per quindici minuti.» «Santo cielo, Lacy. Sei sicura di non volere che mi metta addosso anche un cristallo?» «Credimi, sono tutte soluzioni di gran lunga preferibili a un medico che prova a capovolgere la posizione del feto... o a riprendersi da un parto cesareo.»
Alex incrociò le braccia sull'addome. «Non ho molta fiducia nelle favole delle vecchie comari.» Lacy si strinse nelle spalle. «Fortunatamente, non sei tu ad avere il sedere capovolto.» Non si è tenuti a dare ai clienti un passaggio in auto per il tribunale, ma nel caso di Nadya Saranoff Alex aveva fatto un'eccezione. Il marito di Nadya le aveva usato violenza e l'aveva lasciata per un'altra donna. Non le passava il denaro stabilito per i loro due figli, benché il suo tenore di vita fosse decoroso e il lavoro di Nadya al ristorante della catena Subway, invece, fosse pagato 5 dollari e 25 l'ora. Lei aveva presentato un esposto, ma la giustizia lavorava con troppa lentezza, e Nadya era andata da Wal-Mart a rubare un paio di pantaloni e una camicia bianca per il suo bambino di cinque anni, che avrebbe iniziato la scuola la settimana seguente e che era cresciuto troppo per portare ancora i suoi vecchi vestiti. Nadya aveva ammesso la propria colpa. Ma non potendo pagare una multa era stata condannata a trenta giorni di carcere con la sospensione condizionale della pena: il che significava, come stava spiegandole Alex in quel momento, che per un anno era libera. «Se vai in carcere» le disse mentre erano davanti alla toilette delle signore in tribunale, «i tuoi figli ne soffriranno molto. So che ti sentivi disperata, ma c'è sempre un'altra possibilità. Una chiesa. O un Esercito della Salvezza.» Nadya si asciugò gli occhi. «Non potevo andare in chiesa o all'Esercito della Salvezza. Non ho la macchina.» Giusto. Ecco perché Alex l'aveva portata in tribunale, innanzitutto. Mentre Nadya scompariva in bagno, Alex si impose di non lasciarsi commuovere. Il suo compito era di ottenere una sentenza favorevole per Nadya e c'era riuscita, considerando che era la seconda volta che la donna veniva sorpresa a rubare. La prima volta era stato in un drugstore: aveva preso del Tylenol per bambini. Pensò al suo bambino, che la costringeva a stare distesa a testa in giù su un'asse da stiro e a darsi tormentosi colpetti ai mignoli dei piedi tutte le sere, nella speranza di fargli cambiare posizione. Che genere di svantaggio poteva mai derivare dall'entrare in questo mondo al contrario? Quando vide che erano trascorsi dieci minuti e che Nadya non era ancora uscita dal bagno, Alex bussò alla porta. «Nadya?» Trovò la sua cliente davanti ai lavandini che singhiozzava. «Nadya, cosa succede?» La sua cliente abbassò il capo, mortificata. «Ho il ciclo mestruale, ma
non posso comprarmi un assorbente.» Alex prese il portamonete, cercando un quarto di dollaro da inserire nel distributore automatico appeso alla parete. Ma quando il tubo di cartone rotolò fuori dalla macchina dentro di lei qualcosa scattò, e si rese conto che quel caso, sebbene fosse ormai risolto, in realtà era ancora aperto. «Troviamoci all'uscita» ordinò a Nadya. «Vado a prendere la macchina.» Portò Nadya in auto da Wal-Mart - la scena del crimine - e gettò nel carrello tre confezioni giganti di Tampax. «Che altro ti serve?» «Biancheria intima» sussurrò Nadya. «Questo è il mio ultimo paio.» Alex spinse il carrello su e giù per i corridoi, comprando T-shirt e calze e mutande e pigiami per Nadya; biancheria, vestiti, berretti e guanti per i suoi figli; pacchetti di salatini Goldfish e di cracker quadrati, zuppa in scatola e pasta e merendine Devil Dogs. Disperata, fece quello che al momento le sembrava giusto, benché fosse esattamente quello che l'ufficio della pubblica difesa consigliava agli avvocati di non fare; ma lei si sentiva assolutamente convinta e consapevole di non aver mai fatto niente di simile per un cliente e decisa a non farlo mai più. Spese ottocento dollari proprio in quel grande magazzino che aveva sporto denuncia contro Nadya, perché era più facile sistemare una cosa sbagliata che non immaginare che il suo bambino sarebbe arrivato in un mondo da cui la stessa Alex a volte si sentiva nauseata. La catarsi finì nel momento in cui Alex porse al cassiere la sua carta di credito e udì la voce di Logan Rourke nella propria mente. Cuore infranto, l'aveva definita lui. Bene. Lui doveva pur saperlo. Era stato il primo a farlo a pezzi. D'accordo, pensò Alex con calma. È così che ci si sente quando si muore. Un'altra contrazione la sconquassò, come una raffica di proiettili contro l'acciaio. Due settimane prima, durante la visita della trentasettesima settimana, Alex e Lacy avevano parlato della terapia del dolore. Che cosa ne pensi? aveva domandato Lacy, e Alex aveva risposto con una battuta: Penso che dovrebbero importarla dal Canada. Disse a Lacy che non intendeva ricorrere alla terapia del dolore, che voleva un parto naturale, che in fondo non poteva essere così doloroso. Lo era.
Ripensò a tutte quei corsi preparto che Lacy l'aveva costretta a seguire durante i quali lei aveva fatto coppia con Lacy, perché tutte le altre avevano un marito o un fidanzato che le assisteva. Avevano osservato immagini di donne durante il travaglio, di donne con la faccia gonfia che digrignavano i denti, di donne che emettevano rumori preistorici. Alex ne aveva riso. Ci fanno vedere le immagini dei casi peggiori, si era detta. La tolleranza del dolore è diversa da un individuo all'altro. La contrazione successiva le fece contorcere la spina dorsale come un cobra: si avvolse attorno al suo ventre, azzannandola. Alex cadde pesantemente in ginocchio sul pavimento della cucina. Durante i corsi, aveva appreso che il pretravaglio poteva continuare per dodici ore o più. Dopo di che, se non fosse ancora morta, si sarebbe sparata. Durante il suo tirocinio come levatrice, Lacy era andata in giro per mesi con un righello, prendendo misure. Ora, dopo anni di lavoro, le bastava dare un'occhiata a una tazza da caffè per sapere che la sua circonferenza era di nove centimetri, che l'arancia posata accanto al telefono nella sala delle infermiere era di otto. Dopo aver visitato Alex ritrasse le dita e si tolse i guanti di lattice. «Due centimetri» dichiarò, e Alex scoppiò a piangere. «Solo due? Non posso riuscirci» ansimò Alex, contorcendosi per tentare di liberarsi dal dolore. Aveva provato a nascondere la sofferenza dietro la sua abituale maschera di professionalità, soltanto per rendersi conto che, nella fretta, doveva averla dimenticata da qualche parte. «Capisco che tu sia delusa» disse Lacy. «Ma è così che dev'essere... te la stai cavando bene. Quando tutto è a posto a due centimetri, sarà tutto a posto anche a otto. Prendiamo una contrazione alla volta.» Il travaglio era duro per tutte, Lacy lo sapeva, ma specialmente per quelle donne che avevano aspettative e cose da fare e programmi, perché non andava mai come si sarebbe pensato. Per superare il travaglio nel migliore dei modi bisognava lasciare che il corpo avesse il sopravvento sulla mente. Era un momento rivelatore della propria indole, anche dei suoi aspetti dimenticati. Per una donna come Alex, abituata a tenere tutto sotto controllo, poteva essere devastante. Il successo le avrebbe sorriso soltanto se avesse perso la sua freddezza, correndo il rischio di diventare qualcuno che non voleva essere. Lacy aiutò Alex a scendere dal letto e la guidò verso la stanza con la va-
sca per l'idromassaggio. Abbassò le luci, accese la musica e svestì Alex, che ormai aveva superato qualsiasi pudore. In quel momento, pensò Lacy, si sarebbe svestita anche davanti a un intero carcere maschile, se fosse servito a fermare le contrazioni. «Entra» la invitò Lacy, lasciando che Alex si appoggiasse a lei mentre entrava nella vasca. C'era una reazione pavloviana all'acqua calda. Talvolta bastava fare un passo dentro la vasca per far rallentare il battito cardiaco. «Lacy» annaspò Alex, «devi promettere...» «Promettere cosa?» «Che non glielo dirai. Alla bambina.» Lacy prese la mano di Alex. «Dirle cosa?» Alex chiuse li occhi e premette una guancia contro il bordo della vasca. «Che all'inizio non la volevo.» Prima di poterle rispondere, Lacy vide Alex sopraffatta dalla tensione. «Tira il fiato» disse. Soffia via da te il dolore, soffialo tra le mani, immaginalo come il colore rosso. Mettiti sulle mani e sulle ginocchia. Riversati dentro di te, come la sabbia in una clessidra. Vai sulla spiaggia, Alex. Distenditi sulla sabbia e senti com'è caldo il sole. Menti a te stessa finché non sarà vero. Quando si prova una sofferenza profonda, ci si rifugia in se stessi. Lacy l'aveva constatato innumerevoli volte. Subentrano di prepotenza le endorfine - la morfina naturale dell'organismo - e ti portano lontano, dove il dolore non potrà trovarti. Una volta, una paziente che aveva subito violenza sessuale era talmente dissociata che Lacy aveva temuto di non riuscire più a stabilire un contatto con lei e a farla rientrare in sé in tempo per spingere. Ce l'aveva fatta cantando alla donna, in spagnolo, una ninnananna. Da tre ore Alex aveva ritrovato la sua compostezza, ma grazie all'anestesista che le aveva praticato un'epidurale. Aveva dormito per un po'. Poi aveva giocato a Hearts con Lacy. Ma ora la bambina era scesa e incominciava a premere. «Perché fa ancora male?» domandò Alex, con la voce che saliva di tono gradualmente. «Perché l'epidurale funziona così. Se te ne diamo troppa, non riesci più a spingere.» «Non posso avere un bambino» si disperò Alex. «Non sono pronta.» «Va bene» disse Lacy. «Magari ne parliamo dopo.» «Che cosa mi è saltato in mente? Logan aveva ragione. Non so cosa cazzo sto facendo. Non sono una madre, sono un avvocato. Non ho un fi-
danzato, non ho un cane... Non c'è una sola pianta da appartamento che io non abbia ammazzato. Non sono nemmeno sicura di saper mettere un pannolino.» «I personaggi dei cartoni animati vanno sul davanti» disse Lacy. Prese la mano di Alex e la spinse giù in mezzo alle sue gambe, dove cominciava a spuntare il bambino. Alex allontanò bruscamente la sua mano. «È...» «Proprio così.» «Sta arrivando?» «Che tu sia pronta o no.» Iniziò un'altra contrazione. «Oh, Alex, vedo le sopracciglia...» Lacy tirò fuori la bambina dal canale uterino, tenendole la testa piegata. «So quanto brucia... ecco il mento... bellissima...» Lacy asciugò il viso della bambina, le tamponò la bocca. Girò il cordone sopra il collo della neonata e sollevò lo sguardo sulla sua amica. «Alex» disse, «facciamolo insieme.» Lacy guidò le mani tremanti di Alex attorno alla testa della bimba. «Rimani così; io spingo fuori la spalla...» Mentre la bambina sgusciava nelle mani di Alex, Lacy mollò la presa. Singhiozzando, sollevata, Alex si portò al petto quel corpicino che si dimenava. Come sempre, Lacy rimase colpita da quanto potesse essere disponibile un neonato... quanto presente. Massaggiò la schiena della piccola e osservò gli occhi azzurro chiaro concentrati su sua madre. «Alex» disse Lacy, «è tutta tua.» Nessuno vuole ammetterlo, ma le cose brutte continueranno ad accadere. Forse perché è tutta una catena, e molto tempo fa qualcuno ha fatto la prima cosa cattiva, che ha indotto qualcun altro a fare un'altra cosa cattiva, e così via. Sapete, come in quel gioco in cui si bisbiglia una frase all'orecchio di qualcuno, e quella persona la sussurra a qualcun altro, e alla fine risulta tutta sbagliata. D'altronde, forse le cose cattive accadono perché soltanto così possiamo continuare a ricordare come dovrebbe essere il bene. Ore dopo Una volta, in un bar, la migliore amica di Patrick, Nina, gli aveva domandato quale fosse la cosa peggiore che avesse mai visto. Lui aveva risposto con sincerità: risaliva a quando era nel Maine, e un uomo si era sui-
cidato legandosi con il filo di ferro alle rotaie della ferrovia. Il treno l'aveva letteralmente spaccato in due. C'erano sangue e pezzi di corpo da tutte le parti; anche gli agenti più anziani, giunti sulla scena del crimine, avevano cominciato a vomitare nei cespugli. Patrick, che si era allontanato nel tentativo di mantenere la calma, si sorprese a fissare la testa mozzata dell'uomo, con la bocca ancora atteggiata a un tacito grido. Ma quella non era più la cosa peggiore che Patrick avesse mai visto. C'erano ancora studenti che si riversavano fuori dalla Sterling High mentre squadre di soccorritori iniziavano a setacciare l'edificio per portare i primi aiuti ai feriti. Dozzine di ragazzi presentavano ferite minori e lividi causati dalla precipitosa uscita in massa, molti manifestavano sintomi di iperventilazione o di attacchi isterici, e ancora più numerosi erano quelli in stato di choc. Ma la priorità assoluta era, per Patrick, soccorrere le vittime della sparatoria, che giacevano sul pavimento dalla caffetteria alla palestra, una scia di sangue che scandiva i movimenti dello sparatore. Gli allarmi antincendio suonavano ancora, e gli estintori automatici avevano creato un fiume che scorreva impetuoso nell'atrio. Sotto gli spruzzi, due soccorritori erano chini su una ragazza che era stata colpita alla spalla destra da un proiettile. «Mettetela su una barella» disse il medico. Patrick si rese conto che la conosceva e si sentì percorso da un brivido in tutto il corpo. Lavorava al videonoleggio in città. Durante il weekend, quando aveva noleggiato Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, lei gli aveva detto che aveva ancora un addebito di 3 dollari e 40 per un ritardo nella restituzione. La vedeva tutti i venerdì sera quando noleggiava un DVD, ma non le aveva mai chiesto come si chiamasse. Maledizione, perché non glielo aveva chiesto? Mentre la ragazza si lamentava, il medico prese un pennarello Sharpie e le scrisse «9» sulla fronte. «Non abbiamo trovato i documenti d'identità su tutti i feriti» spiegò a Patrick. «Per questo abbiamo cominciato a numerarli.» La studentessa venne spostata su una barella rigida e Patrick si sporse verso di lei per coprirla con una coperta termica gialla d'emergenza (tutti gli agenti di polizia ne tenevano una nel baule dell'auto di pattuglia). La strappò in quattro parti, guardò il numero sulla fronte della ragazza e scrisse «9» anche su uno dei quattro pezzi. «Lasciatelo al posto della ragazza» avvertì. «Così sarà possibile identificarla in seguito e sapere dove è stata trovata.» Un soccorritore spuntò da dietro l'angolo. «Quelli dell'Hitchcock dicono che tutti i loro letti sono occupati. Ci sono dei ragazzi in fila sul prato da-
vanti all'entrata, in attesa, ma le ambulanze non sanno dove portarli.» «E l'Alice Peck Day?» «Sono pieni anche lì.» «Allora chiamate Concord e dite che stanno arrivando degli autobus» ordinò Patrick. Con la coda dell'occhio vide un soccorritore che conosceva, un veterano al quale mancavano soltanto tre mesi per andare in pensione, allontanarsi da un cadavere e lasciarsi cadere sui talloni, singhiozzando. Patrick afferrò per la manica un agente che passava di lì. «Jarvis, ho bisogno del tuo aiuto...» «Ma mi ha appena assegnato alla palestra, capitano.» Patrick aveva suddiviso gli agenti di primo intervento e la Major Crimes Unit della polizia di Stato in modo tale che ogni parte della scuola avesse una squadra di soccorso immediato a disposizione. Mise in mano a Jarvis i pezzi rimasti della coperta d'emergenza e un pennarello indelebile nero. «Lascia stare la palestra. Devi fare il giro di tutta la scuola e verificare insieme ai soccorritori. Ogni volta che qualcuno viene numerato e portato via, deve rimanere al suo posto un pezzo di coperta col numero.» «C'è qualcuno che perde sangue nei bagni delle ragazze» chiamò una voce. «Arrivo subito» disse un soccorritore, raccogliendo una borsa di medicinali e precipitandosi sul posto. Accertati di non aver dimenticato niente, si disse Patrick. Ma devi riuscirci, per una volta. Gli sembrava di avere la testa fatta di vetro, troppo pesante e con le pareti troppo sottili per reggere il peso di tante informazioni. Non poteva essere dappertutto nel medesimo tempo; non riusciva a parlare abbastanza in fretta o a pensare così velocemente da mandare i suoi uomini dove c'era bisogno di loro. Non sapeva cosa cazzo fare per elaborare un incubo così smisurato, eppure doveva fingere di averne almeno un'idea, perché tutti gli altri aspettavano indicazioni da lui. Le doppie porte della caffetteria si chiusero di scatto alle sue spalle. Fino a quel momento, la squadra che lavorava in quella stanza aveva esaminato e trasportato i feriti; soltanto i cadaveri erano rimasti sul posto. Le pareti di calcestruzzo erano scheggiate dove i proiettili le avevano attraversate o sfiorate. Un distributore automatico - vetri rotti, bottiglie bucate - faceva gocciolare Sprite, Coca-Cola e Dasani sul pavimento di linoleum. Un agente della scientifica stava fotografando le prove: sacche di libri, borse e testi scolastici abbandonati. Scattava una foto a distanza ravvicinata di ciascun oggetto, poi più da lontano con un piccolo evidenziatore di colore
giallo per registrarne la posizione in relazione al resto della scena. Un altro agente esaminava la forma delle macchie di sangue. Un terzo e un quarto stavano indicando un punto nell'angolo di destra in alto del soffitto. «Capitano» disse uno di loro, «a quanto pare abbiamo una telecamera.» «Dov'è il videoregistratore?» L'agente si strinse nelle spalle. «Nell'ufficio del direttore?» «Trovalo» disse Patrick. Percorse il corridoio principale della caffetteria. A un primo sguardo sembrava un film di fantascienza: tutti dovevano essere stati intenti a mangiare e a chiacchierare e a scherzare con i loro amici, e poi, in un batter d'occhio, ciascun essere umano era stato rapito dagli alieni, lasciandosi alle spalle soltanto oggetti. Che cosa avrebbe detto un antropologo della popolazione studentesca della Sterling High, basandosi sul sandwich di Wonderbread scalfito da un solo morso; sullo scatolino di lucidalabbra Cherry Bomb con l'impronta di un dito ancora evidente sulla superficie; sui blocchi per gli appunti uguali in tutto il mondo pieni di ricerche sulla civiltà azteca e con note ai margini del tipo: Amo Zach S!!! Keifer è un nazista!!! Patrick urtò per sbaglio con un ginocchio uno dei tavoli, e una manciata di acini d'uva si sparse come singhiozzi. Uno rimbalzò contro la spalla di un ragazzo, accasciato sopra la sua cartella, con il sangue che impregnava la carta intestata del college. La mano del ragazzo teneva ancora stretti gli occhiali. Stava forse pulendoli quando Peter Houghton era arrivato con tutta la sua furia? O se li era tolti perché non voleva vedere? Patrick scavalcò i corpi di due ragazze che giacevano sul pavimento come due immagini speculari, le minigonne alzate sulle cosce e gli occhi ancora aperti. Entrando nella zona adibita a cucina, contemplò i contenitori di carote e piselli che ingrigivano e la brodaglia liquefatta dello sformato di pollo rimasto nella pentola; l'esplosione delle confezioni di sale e pepe che punteggiavano il pavimento come coriandoli. I coperchietti metallici luccicanti degli yogurt Yoplait - fragola, frutti di bosco, lime e pesca - che erano ancora miracolosamente allineati in quattro file ordinate vicino al registratore di cassa, come un intrepido, minuscolo esercito. Un unico vassoio consunto di plastica, con un piatto di gelatina di frutta e un tovagliolo sopra, in attesa del resto del pranzo. Tutt'a un tratto, Patrick udì un rumore. Possibile che si fosse sbagliato... possibile che tutti si fossero lasciati sfuggire un secondo sparatore? Possibile che i suoi uomini setacciassero la scuola in cerca di superstiti... e fossero ancora a loro volta in pericolo?
Impugnò la pistola e strisciò nelle viscere della cucina, oltrepassò le rastrelliere con le enormi latte di salsa di pomodoro, di fagiolini e di salsa pronta al formaggio cheddar, superò giganteschi rotoli di pellicola per alimenti e di carta argentata Sysco, fino alla cella frigorifera dove venivano conservate carni e derrate varie. Patrick aprì la porta con un calcio e sentì l'aria fredda sulle gambe. «Fermo» gridò, e per un istante brevissimo, prima di ricordare tutto il resto, fu sul punto di sorridere. Una donna latina di mezza età, una cameriera della caffetteria, con una retina per i capelli che le copriva la fronte come una ragnatela, sbucò lentamente da uno scaffale di sacchetti di insalata mista preconfezionata. Teneva le mani alzate; tremava di freddo. «No me tire» singhiozzò. Patrick abbassò l'arma e si tolse la giacca per farla scivolare sulle spalle della donna. «È finita» disse piano, benché sapesse che non era vero. Per lui, per Peter Houghton, per tutti a Sterling... era soltanto l'inizio. «Mi faccia capire bene, signora Calloway» disse Alex. «Lei è accusata di guida pericolosa e di aver causato gravi danni fisici mentre correva per soccorrere un pesce?» L'imputata, una donna di cinquantaquattro anni che sfoggiava una brutta permanente e un completo giacca-pantaloni persino peggiore, annuì. «Esatto, Vostro Onore.» Alex appoggiò i gomiti sul banco. «E io devo sentire una cosa del genere.» La donna guardò il suo avvocato. «La signora Calloway stava tornando a casa dal negozio di animali domestici con un arowana argento» spiegò il legale. «È un pesce tropicale da cinquantacinque dollari, giudice» interloquì l'imputata. «Il sacchetto di plastica è rotolato giù dal sedile del passeggero ed è scoppiato. La signora Calloway si è chinata per prendere il pesce e proprio allora... si è verificato lo sfortunato incidente.» «Per sfortunato incidente» chiarì Alex, guardando la sua pratica, «lei intende investire un pedone.» «Sì, Vostro Onore.» Alex si rivolse all'imputata. «Come sta il pesce?» La signora Calloway sorrise. «È in gran forma» disse. «L'ho chiamato Crash.» Con la coda dell'occhio, Alex vide un agente di custodia entrare nell'aula
e sussurrare qualcosa al cancelliere, che guardò Alex e annuì. Scarabocchiò qualcosa su un foglio e l'agente lo allungò ad Alex al di sopra del banco. Colpi d'arma da fuoco alla Sterling High, lesse. Alex rimase impietrita. Josie. «La seduta è sospesa» bisbigliò, e corse via. John Eberhard strinse i denti e si concentrò per spingersi solo un paio di centimetri più avanti. Non vedeva niente, con tutto quel sangue che gli scorreva sul volto, e il suo lato sinistro era completamente paralizzato. Non poteva nemmeno udire: le sue orecchie erano ancora assordate dal colpo di pistola. Ciò malgrado, era riuscito a strisciare dal corridoio del piano di sopra, dove Peter Houghton l'aveva colpito, fino al laboratorio di arte. Pensò a quegli allenamenti in cui il coach li faceva pattinare da una rete all'altra, sempre più veloci, finché i giocatori respiravano affannosamente e sputavano sul ghiaccio. Pensò che, quando hai l'impressione di non aver più niente da dare, puoi scoprire che ti è rimasto ancora qualcosa. Si trascinò avanti per poco più di un metro, puntando il gomito contro il pavimento. Quando John arrivò agli scaffali di metallo in cui venivano riposti argilla, vernici, perline e filo metallico, provò a mettersi in piedi, ma un dolore accecante gli lacerò la testa. Qualche minuto dopo - o forse erano ore? - riprese conoscenza. Non sapeva se era ancora pericoloso tentare di spingersi fuori da quello stanzino. Era disteso sulla schiena, e qualcosa di freddo gli sferzava il volto. Vento. Veniva da una fessura nella guarnizione della finestra. Una finestra. John pensò a Courtney Ignatio: era seduta di fronte a lui al tavolo della caffetteria quando la parete di vetro alle sue spalle era esplosa. Improvvisamente, un fiore era sbocciato in mezzo ai suoi seni, acceso come un papavero. Pensò a quelle innumerevoli urla che, tutte in una volta, si erano intrecciate come in una corda di suoni. Ricordò gli insegnanti che mettevano la testa fuori dalle loro aule come serpenti, e gli sguardi sui loro volti quando udivano gli spari. John si issò sugli scaffali, con una mano sola, lottando contro il cupo ronzio che gli preannunciava un nuovo svenimento. Quando fu in piedi, appoggiato contro la struttura di metallo, rabbrividì. La sua vista era così
confusa che, quando prese un barattolo di vernice e lo scagliò con violenza, dovette scegliere tra due finestre. Il vetro andò in mille pezzi. Tuffatosi in avanti sul davanzale, riuscì a vedere gli autocarri dei pompieri e le ambulanze. Giornalisti e genitori che si accalcavano dietro a un nastro messo dalla polizia per delimitare la scena del crimine. Grappoli di studenti che piangevano. Corpi spezzati, distanziati regolarmente come traversine di rotaie sulla neve. I soccorritori continuavano a portarne fuori altri. Aiuto, provò a urlare John Eberhard, ma non gli uscì nulla. Non riusciva a formulare nessuna parola - né Guardate, né Fermatevi, neppure il suo nome. «Ehi» esclamò qualcuno. «C'è un ragazzo lassù!» Ormai in lacrime, John cercò di fare un cenno, ma il suo braccio non rispondeva. La gente cominciava a indicare. «Non ti muovere» gli urlò un pompiere, e John provò ad annuire. Ma il suo corpo non gli apparteneva più e, prima che capisse cos'era accaduto, quel piccolo movimento lo scaraventò giù dalla finestra, facendolo atterrare sul cemento due piani al di sotto. Diana Leven, che aveva lasciato il suo incarico di viceprocuratore generale a Boston due anni prima per passare in un dipartimento un po' più tranquillo, entrò nella palestra della Sterling High e si fermò accanto al corpo di un ragazzo che era caduto proprio sulla linea dei tre punti, colpito da un proiettile al collo. Le scarpe dei tecnici della scientifica cigolavano sul pavimento verniciato di gommalacca mentre scattavano fotografie e raccoglievano bossoli, introducendoli nei sacchetti di plastica destinati alla raccolta delle prove. A dirigerli c'era Patrick Ducharme. Guardandosi attorno, Diana considerò la pura e semplice quantità di reperti - abiti, pistole, macchie di sangue, caricatori vuoti, sacche di libri rovesciate, scarpe da ginnastica perdute - e capì che non era l'unica con davanti un'enorme mole di lavoro. «Che cosa sapete per il momento?» «Pensiamo che sia un solo sparatore. È in arresto» rispose Patrick. «Non sappiamo con certezza se è coinvolto qualcun altro. L'edificio è sorvegliato.» «Quanti morti?» «Dieci confermati.» Diana annuì. «Feriti?» «Non sappiamo ancora. Abbiamo chiamato tutte le ambulanze del New
Hampshire settentrionale.» «Cosa posso fare?» Patrick si voltò verso di lei. «Rubare la scena e liberarci dalle telecamere.» Lei fece per tornare indietro, ma Patrick la trattenne per un braccio. «Vuole che gli parli?» «Allo sparatore?» Patrick assentì. «Potrebbe essere l'unica possibilità che abbiamo di rivolgerci a lui prima che abbia un legale. Se pensa di farcela, proceda pure.» Diana si affrettò fuori dalla palestra e scese le scale, attenta a non intralciare il lavoro dei poliziotti e dei medici. Non fece in tempo a uscire che i media le si appiccicarono addosso, e le loro domande erano pungenti come api. Quante vittime? Quali sono i nomi dei morti? Chi è lo sparatore? Perché? Diana fece un respiro profondo e si scostò i capelli scuri dal volto. Quella era la parte del suo lavoro che le piaceva di meno: fare da portavoce davanti alle telecamere. Con il passare delle ore sarebbero arrivati altri furgoni, ma per il momento c'erano soltanto i media locali del New Hampshire - affiliati della CBS, della ABC e della FOX. Tanto valeva sfruttare il vantaggio del giocare in casa finché era possibile. «Sono Diana Leven, dell'ufficio del procuratore generale. Al momento non possiamo rilasciare dichiarazioni perché l'indagine è tuttora in corso, ma promettiamo di dare tutti i particolari non appena sarà possibile. Quello che posso dirvi ora è che questa mattina c'è stata una sparatoria nella Sterling High School. Non è chiaro chi sia l'esecutore o gli esecutori. Una persona è stata fermata. Ma non ci sono ancora imputazioni ufficiali.» Un giornalista si fece strada in mezzo all'assembramento. «Quanti ragazzi sono morti?» «Non lo sappiamo ancora.» «Quanti sono stati colpiti?» «Non lo sappiamo ancora» ripeté Diana. «Vi terremo informati.» «Quando ci saranno le imputazioni?» gridò un altro giornalista. «Cosa potete dire ai genitori che vogliono sapere se i loro ragazzi stanno bene?» Diana serrò le labbra con decisione e si predispose a raccogliere la sfida. «Grazie molte» disse, e non era certo una risposta. Lacy dovette parcheggiare a sei isolati di distanza dalla scuola, tale era
l'affollamento nei dintorni. Si era lanciata in una corsa forsennata, tenendo in mano le coperte che gli speaker della radio locale invitavano a portare per soccorrere le vittime sotto choc. Ho già perso un figlio, pensò. Non posso perderne un altro. L'ultima conversazione che aveva avuto con Peter era stata una lite. Subito prima che lui andasse a letto la sera precedente, subito prima che lei fosse chiamata per un parto. Ti avevo chiesto di portare fuori la spazzatura, gli aveva detto. Ieri. Non mi ascolti quando ti parlo, Peter? Peter le aveva lanciato un'occhiata al di sopra dello schermo del computer. Cosa? E se quello si fosse rivelato l'ultimo scambio di parole tra loro due? Niente di tutto ciò che Lacy aveva visto alla scuola per infermiere o durante il suo lavoro all'ospedale l'aveva preparata a quello che dovette affrontare quando girò l'angolo. Lo elaborò un pezzo alla volta: vetri infranti, autopompe, fumo. Sangue, pianti, sirene. Lasciò cadere le coperte vicino a un'ambulanza e attraversò un mare di confusione, procedendo insieme agli altri genitori nella speranza di poter scorgere il proprio figlio perduto prima di essere travolta dall'onda. C'erano ragazzi che correvano nel cortile fangoso. Nessuno di loro portava il cappotto. Lacy guardò una madre fortunata che aveva ritrovato sua figlia, e scrutò la folla con selvaggia disperazione, cercando Peter, consapevole di non sapere nemmeno che cosa indossava quel giorno. Frammenti di notizie fluttuavano fino a lei: ... non l'ho visto... ... hanno sparato a McCabe... ... non l'hanno ancora trovata... ... non avrei mai creduto... ... avevo perso il cellulare quando... ... Peter Houghton era... Lacy girò su se stessa, gli occhi fissi sulla ragazza che stava parlando, quella che si era ricongiunta con sua madre. «Scusate» disse Lacy. «Mio figlio... Lo sto cercando. Ho sentito che hai detto il suo nome... Peter Houghton?» La ragazza sbarrò gli occhi e si strinse alla propria madre. «Era lui a sparare.» Attorno a Lacy tutto rallentò... le sirene delle ambulanze, i passi degli studenti che correvano, i suoni chiari che uscivano dalle labbra della ragazza. Magari aveva capito male.
Lanciò un'altra occhiata alla ragazza, e immediatamente se ne pentì. La ragazza piangeva. Al di sopra della sua spalla sua madre guardava Lacy inorridita, poi con cautela fece voltare la figlia per proteggerla da quella vista, come se Lacy fosse un basilisco... come se il suo solo sguardo avesse il potere di trasformare in pietra. Dev'esserci un errore, per favore, fate che sia un errore, pensò, pur continuando a guardarsi attorno in quel carnaio e sentendo il nome di Peter gonfio come un singhiozzo nella sua gola. Impacciata, si rivolse al poliziotto più vicino. «Sto cercando mio figlio» disse Lacy. «Signora, non è l'unica. Stiamo facendo del nostro meglio per...» Lacy inspirò profondamente, conscia che da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato. «Si chiama» disse «Peter Houghton.» Uno dei tacchi alti di Alex si impigliò in una fessura del marciapiede, e lei cadde violentemente su un ginocchio. Lottando per rimettersi in piedi, si aggrappò al braccio di una madre che stava oltrepassandola di corsa. «I nomi dei feriti... dove sono?» «Sono esposti al campo da hockey.» Alex attraversò di corsa la strada, che era stata chiusa alle auto e che adesso era un'area di servizio per il personale medico che caricava gli studenti sulle ambulanze. Quando le sue scarpe la costrinsero a rallentare - erano adatte per camminare in un'aula di tribunale, non per correre in strada - si chinò a togliersele e si mise a correre scalza sul selciato bagnato. Il campo da hockey, che veniva usato sia dalla squadra della Sterling High School che dai giocatori del college, si trovava a cinque minuti a piedi dalla scuola. Alex vi giunse in due minuti e si trovò spinta avanti da una folla di genitori tutti decisi a vedere gli elenchi scritti a mano che erano stati affissi ai pannelli della porta, elenchi dei ragazzi che erano stati trasportati nelle aree ospedaliere. Non era indicato se fossero gravi... o peggio. Alex lesse i primi tre nomi: Whitaker Obermeyer, Kaitlyn Harvey, Matthew Royston. Matt? «No» disse una donna accanto a lei. Era piccola e graziosa, con occhi scuri e dardeggianti da uccello e vaporosi capelli rossi. «No» ripeté, ma ormai le lacrime avevano già cominciato a rigarle il viso. Alex rimase a fissarla, incapace di offrirle conforto, con la paura che il dolore potesse essere contagioso. Tutt'a un tratto fu spintonata da sinistra e
si ritrovò in piedi davanti all'elenco dei feriti che erano stati portati al Dartmouth-Hitchcock Medical Center. Alexis, Emma. Horuka, Min. Pryce, Brady. Cormier, Josephine. Alex sarebbe caduta se non fosse stato per i genitori in ansia che la spingevano dall'altra parte. «Scusate» mormorò, cedendo il posto a un'altra madre in preda all'agitazione. Lottò tra la folla che aumentava. «Scusate» ripeté Alex, parole che non erano più una formula di cortesia, bensì una supplica di assoluzione. «Capitano» disse un sergente dell'ufficio, mentre Patrick entrava nella stazione di polizia, e con gli occhi indicò la donna che aspettava dalla parte opposta della stanza, raggomitolata come per proteggersi. «È lei.» Patrick si voltò. La madre di Peter Houghton era minuta e non assomigliava affatto a suo figlio. Aveva una massa di riccioli bruni raccolti sopra la testa e tenuti fermi da una penna. Indossava una tuta da ospedale e un paio di zoccoli Merrell. Si domandò, rapidamente, se fosse un medico. Pensò all'ironia della sorte: Primo, non ferire. Non aveva l'aria di una persona che avesse generato un mostro, sebbene Patrick si rendesse conto che poteva essere stata colta di sorpresa dalle azioni di suo figlio come il resto della comunità. «Signora Houghton?» «Voglio vedere mio figlio.» «Sfortunatamente, non è possibile» replicò Peter. «È in arresto.» «Ha un avvocato.» «Suo figlio ha diciassette anni... dal punto di vista legale è un adulto. Questo significa che Peter dovrà appellarsi da solo al suo personale diritto di avere un legale.» «Ma lui forse non sa...» disse lei, con voce rotta. «Forse non sa che cosa deve fare.» Patrick si rendeva conto che, in un modo diverso, quella donna era a sua volta una vittima delle azioni di suo figlio. Aveva interrogato abbastanza genitori di minorenni per sapere che l'ultima cosa da fare era rompere i ponti con loro. «Signora, stiamo facendo del nostro meglio per capire cos'è accaduto oggi. E francamente spero che lei vorrà parlare con me più tardi... per aiutarmi a capire che cosa avesse in mente Peter.» Esitò, poi aggiunse: «Mi dispiace molto».
Si introdusse nell'area riservata della stazione di polizia con le sue chiavi e salì le scale fino alla stanza registrazioni con la sua cella attigua. Peter Houghton era seduto sul pavimento con la schiena contro le sbarre, e si dondolava lentamente. «Peter» disse Patrick, «ti senti bene?» Lentamente, il ragazzo girò la testa. Fissò Patrick. «Ti ricordi di me?» Peter annuì. «Ti va una tazza di caffè o qualcos'altro?» Un istante di esitazione, poi Peter annuì di nuovo. Patrick chiamò il sergente perché aprisse la cella di Peter e lo conducesse in cucina. Aveva già fatto preparare una videocamera perché, se fosse stato il caso, avrebbe registrato la lettura dei suoi diritti a Peter e poi l'avrebbe fatto parlare. Dentro, invitò Peter a sedersi al tavolo tutto graffiato, e versò due tazze di caffè. Non chiese a Peter come lo prendeva: si limitò ad aggiungere latte e zucchero e mise la tazza davanti al ragazzo. Anche Patrick si sedette. Fino a quel momento non lo aveva guardato bene - l'adrenalina ha questo effetto sulla vista - ma in quel momento lo squadrò. Peter Houghton era magro, pallido, portava occhiali con la montatura di metallo e aveva le lentiggini. Uno dei denti davanti era rotto, e il suo pomo d'Adamo era grosso come un pugno. Le nocche delle dita erano nodose e screpolate. Piangeva in silenzio, e sarebbe stato più che sufficiente a ispirare simpatia se non avesse avuto indosso una maglietta macchiata del sangue di altri studenti. «Ti senti a posto, Peter?» domandò Patrick. «Hai fame?» Il ragazzo scosse il capo. «Posso darti qualcos'altro?» Peter appoggiò la testa sul tavolo. «Voglio la mia mamma» sussurrò. Patrick guardò la riga tra i capelli del ragazzo. Se l'era fatta col pettine quella mattina pensando Oggi è il giorno in cui ucciderò dieci studenti? «Vorrei parlare di quello che è accaduto oggi. Ti andrebbe di farlo?» Peter non rispose. «Se me lo spieghi» lo incalzò Patrick, «magari io posso spiegarlo a tutti gli altri.» Peter sollevò il volto, piangendo sempre di più. Patrick capì che non avrebbero combinato niente, in quel modo; sospirò, allontanandosi dal tavolo. «Va bene» disse. «Andiamo.» Patrick riportò Peter nella cella di detenzione e lo guardò raggomitolarsi
sul pavimento, appoggiato su un fianco, con la faccia rivolta verso la parete di cemento. Si inginocchiò altrove dietro il ragazzo, in un ultimo, disperato tentativo. «Aiutami ad aiutarti» disse, ma Peter scosse il capo e continuò a piangere. Soltanto quando era ormai uscito dalla cella e stava girando la chiave nella toppa, Patrick udì Peter parlare di nuovo. «Sono stati loro a cominciare» bisbigliò. Il dottor Guenther Frankenstein lavorava come medico legale dello Stato da sei anni, un lasso di tempo pari a quello in cui aveva detenuto il titolo di Mister Universo all'inizio degli anni Settanta, prima di dover scambiare i suoi manubri con un bisturi - o, come preferiva dire lui, prima di passare dal costruire corpi allo smontarli. I suoi muscoli erano ancora formidabili, e abbastanza visibili sotto la giacca da far passare a chiunque la voglia di lasciarsi andare a battute pesanti sul suo cognome. A Patrick piaceva Guenther: come avrebbe potuto non ammirare un tizio capace di sollevare un peso pari a tre volte quello del suo corpo e contemporaneamente stabilire quanti grammi poteva pesare più o meno un fegato dopo avergli dato solo un'occhiata? Ogni tanto Patrick e Guenther bevevano qualche birra insieme, e la quantità di alcol che assumevano era sufficiente a sciogliere la lingua all'ex bodybuilder, il quale si metteva a raccontare storie di donne che si offrivano di ungere d'olio il suo corpo prima di una gara, o divertenti aneddoti su Arnold, prima che entrasse in politica. Ma quel giorno Patrick e Guenther non avevano voglia di scherzare, e nemmeno di parlare del passato. Erano sopraffatti dal presente, mentre camminavano in silenzio nei corridoi, catalogando i morti. Patrick incontrò Guenther nella scuola dopo il suo colloquio mancato con Peter Houghton. Il pubblico ministero aveva soltanto scrollato le spalle quando Patrick le aveva detto che Peter non aveva voluto o potuto parlare. «Centinaia di testimoni dichiarano che ha ucciso dieci persone» aveva commentato Diana. «Lo arresti.» Guenther si chinò accanto al corpo della sesta vittima. Era stata colpita nel bagno delle ragazze, e il suo corpo era adagiato in modo scomposto a faccia in giù davanti ai lavandini. Patrick si voltò verso il direttore della scuola, Arthur McAllister, che aveva acconsentito ad accompagnarli per l'identificazione. «Kaitlyn Harvey» disse il direttore, con voce turbata. «Una ragazza disabile... molto dolce.»
Guenther e Patrick si scambiarono uno sguardo. Il direttore non si limitava a identificare i corpi: aveva anche una o due parole di elogio per ciascuno. Patrick pensò che, con ogni probabilità, non riusciva a farne a meno: diversamente da Patrick e da Guenther, non era abituato ad affrontare la tragedia nel corso delle sue occupazioni abituali. Patrick aveva tentato di ripercorrere i passi di Peter, dall'ingresso principale alla caffetteria (vittime 1 e 2: Courtney Ignatio e Maddie Shaw), alla tromba delle scale esterne (vittima 3: Whit Obermeyer), al bagno dei ragazzi (vittima 4: Topher McPhee), attraverso un altro corridoio (vittima 5: Grace Murtaugh), al bagno delle ragazze (vittima 6: Kaitlyn Harvey). Mentre accompagnava il gruppo di sopra, svoltò a sinistra nella prima aula, seguendo una linea di sangue irregolare fino a una macchia vicino alla lavagna dove giaceva il corpo dell'unica vittima adulta... e, accanto a lui, un ragazzo teneva una mano premuta sulla ferita all'addome dell'uomo. «Ben?» disse McAllister. «Perché sei ancora qui?» Patrick si rivolse al ragazzo. «Non sei un soccorritore?» «Io... no...» «Mi avevi detto che eri un soccorritore!» «Ho detto che avevo fatto addestramento medico!» «Ben è un capo scout» spiegò il direttore. «Non potevo lasciare il signor McCabe. Ho... provato a tenere premuto, e funziona, vedete? Il sangue si è fermato.» Guenther allontanò delicatamente la mano macchiata di sangue del ragazzo dall'addome del suo insegnante. «È perché se n'è andato, ragazzo.» Il volto di Ben si contrasse. «Ma io... io...» «Hai fatto tutto quello che potevi» lo rassicurò Guenther. Patrick si rivolse al direttore. «Forse potrebbe accompagnare Ben fuori... e magari uno dei medici gli darà un'occhiata.» Choc, articolò tacitamente sopra la testa del ragazzo. Mentre uscivano dall'aula, Ben afferrò il direttore per la manica, lasciando l'impronta rosso acceso della sua mano. «Gesù» disse Patrick, passandosi una mano sul volto. Guenther si alzò in piedi. «Vieni. Togliamoci il pensiero.» Si avviarono verso la palestra, dove Guenther certificò il decesso di altri due studenti - un ragazzo nero e uno bianco - e poi nello spogliatoio dove Patrick era riuscito a mettere Peter Houghton con le spalle al muro. Guenther esaminò il corpo del ragazzo che Patrick aveva visto in precedenza, il ragazzo con la maglia da hockey, il cui berretto era stato portato via da un
proiettile. Nel frattempo, Patrick entrò nella stanza attigua delle docce e gettò un'occhiata dalla finestra. I giornalisti erano ancora lì, ma la maggior parte dei feriti era stata sistemata. C'era soltanto un'ambulanza in attesa, invece di sette. Aveva iniziato a piovere. Il mattino dopo, le chiazze di sangue sul selciato fuori dalla scuola sarebbero state pallide; quel giorno avrebbe potuto non esserci mai stato. «Questo è interessante» osservò Guenther. Patrick chiuse la finestra per non far entrare la pioggia. «Perché? È più morto degli altri?» «Già. È l'unica vittima colpita due volte. Una volta alla pancia, un'altra alla testa.» Guenther lo guardò. «Quante armi hai trovato addosso allo sparatore?» «Una in mano, una qui sul pavimento, due nel suo zaino.» «Mica male come piano di riserva.» «Fammi capire» disse Patrick. «Sei in grado di dire quale proiettile sia stato sparato per primo?» «No. Il mio fine intuito, però, mi dice che potrebbe essere quello all'addome... dal momento che è stata la pallottola al cervello a ucciderlo.» Guenther si inginocchiò vicino al cadavere. «Forse odiava questo ragazzo più di tutti gli altri.» La porta dello spogliatoio si spalancò, rivelando un poliziotto di pattuglia inzuppato dall'acquazzone improvviso. «Capitano?» disse. «Abbiamo appena trovato l'occorrente per un'altra pipe bomb nell'auto di Peter Houghton.» Quando Josie era più piccola, Alex aveva un incubo ricorrente: si trovava su un aereo che a un certo punto scendeva in picchiata. Sentiva l'effetto della forza di gravità, la pressione che la teneva con la schiena contro il sedile; vedeva borsoni e cappotti e bagagli a mano precipitare giù dai ripiani sopra la sua testa e cadere nel passaggio tra i sedili. Devo recuperare il mio cellulare, pensava Alex, con l'intenzione di lasciare sulla segreteria telefonica di Josie un messaggio che lei avrebbe potuto tenere con sé per sempre, la prova digitale che Alex le voleva bene e che pensava a lei nei suoi ultimi istanti. Ma, anche quando finalmente Alex riusciva a prendere il cellulare dalla borsa e ad accenderlo, era troppo tardi. L'aereo si schiantava al suolo mentre il telefono stava ancora cercando la connessione. Si svegliava tremante e sudata, e tentava di accantonare il sogno: rara-
mente viaggiava senza Josie; di certo non doveva prendere aerei per lavoro. Gettava indietro le coperte e andava in bagno a buttarsi acqua fredda sul viso, ma non smetteva di pensare: Ero in ritardo. Ora, mentre se ne stava seduta nella tranquilla oscurità di una stanza di ospedale dove sua figlia dormiva sotto l'effetto di un sedativo che le era stato somministrato dal medico dell'accettazione, Alex aveva la medesima sensazione. Era riuscita a sapere soltanto una cosa: che Josie era svenuta durante la sparatoria. Aveva un taglio sulla fronte adorno di una benda a farfalla e una lieve commozione cerebrale. I medici volevano tenerla una notte in osservazione, per sicurezza. La parola sicurezza aveva un significato completamente nuovo, ora. Alex aveva appreso anche, dai notiziari che si susseguivano in continuazione, i nomi delle vittime. Tra loro c'era Matthew Royston. Matt. E se Josie fosse stata con il suo ragazzo quando gli avevano sparato? Josie era rimasta in stato di incoscienza per tutto il tempo che Alex aveva trascorso nella stanza. Appariva piccola e immobile sotto le lenzuola sbiadite dell'ospedale. Il nodo al collo del suo camice d'ospedale si era disfatto. Di tanto in tanto, la sua mano destra si muoveva. Alex si avvicinava e la stringeva. Svegliati, pensava. Fammi capire che stai bene. E se quella mattina Alex non fosse stata in ritardo per recarsi al lavoro? Magari sarebbe rimasta seduta al tavolo della cucina con Josie, a parlare di quelle cose che, immaginava, dovevano essere argomento di discussione tra madre e figlia, ma per le quali lei sembrava non trovare mai il tempo. E se avesse guardato un po' meglio Josie quando era corsa di sotto, se le avesse detto di tornare a letto e di riposarsi un po'? E se avesse portato Josie a fare un viaggio deciso all'ultimo momento, a Punta Cana, a San Diego, nelle Figi... uno di quei posti che Alex sognava navigando sul computer del suo ufficio e meditava di visitare, ma non lo faceva mai? E se fosse stata una madre abbastanza preveggente da tenere a casa sua figlia da scuola quel giorno? Ovviamente, c'erano centinaia di altri genitori che avevano fatto il suo stesso errore in buona fede. Ma era una ben magra consolazione, per Alex: nessuno dei loro figli era Josie. Nessuno di loro, sicuramente, aveva tanto da perdere quanto lei. Quando sarà finita, Alex promise tacitamente, andremo nella foresta
pluviale, oppure alle piramidi, o su una spiaggia bianca come l'avorio. Mangeremo l'uva dalla vigna, nuoteremo con le tartarughe di mare, cammineremo per chilometri su strade di ciottoli. Rideremo e parleremo e ci confideremo. Lo faremo. Nel medesimo tempo, una vocina nella sua testa pianificava quel paradiso. Dopo, diceva. Perché, prima, questo processo avrà luogo nel tuo tribunale. Era vero: un caso come quello sarebbe stato subito incluso nel registro delle udienze. Alex era il giudice della corte d'appello di Grafton County, e lo sarebbe stata per i successivi otto mesi. Sebbene Josie fosse stata presente sulla scena del crimine, tecnicamente non era rimasta vittima dello sparatore. Se Josie fosse stata ferita, ad Alex sarebbe stato tolto automaticamente il caso. Ma, stando così le cose, non c'era alcun conflitto legale nel fatto che Alex svolgesse le funzioni di giudice, perché poteva separare i suoi sentimenti personali di madre di una studentessa della scuola superiore dai suoi sentimenti professionali di magistrato. Sarebbe stato il suo primo processo importante come giudice di corte d'appello, quello che avrebbe segnato in maniera indelebile il suo futuro sul banco. Non che in quel momento ci pensasse sul serio. D'un tratto, Josie si mosse. Alex osservò la figlia riprendere conoscenza. «Dove sono?» Alex passò le dita tra i capelli di sua figlia. «All'ospedale.» «Perché?» La sua mano si fermò. «Non ricordi niente di oggi?» «Matt è venuto a prendermi a casa» disse Josie, e poi si spinse su. «Cos'è stato, un incidente di macchina?» Alex esitò, non sapendo cosa le convenisse dire. Non era meglio che Josie non sapesse la verità? La sua mente stava forse tentando di proteggersi da quello a cui aveva assistito? «Stai bene» disse Alex prudentemente. «Non sei rimasta ferita.» Josie si voltò verso di lei, sollevata. «E Matt?» Lewis aveva intenzione di prendere un avvocato. Lacy si teneva quel frammento di notizia sul petto come una pietra rovente mentre si dondolava avanti e indietro sul letto di Peter e aspettava che lui tornasse a casa. Andrà tutto bene, aveva promesso Lewis, benché lei non capisse come potesse fare un'affermazione così speciosa. È chiaramente un errore, aveva dichiarato Lewis, ma non era andato alla scuola. Non aveva visto i volti
degli studenti, di ragazzi che non sarebbero mai più stati veramente ragazzi. Con una parte di sé, Lacy voleva disperatamente credere a Lewis, pensare che in un modo o nell'altro quel qualcosa di rotto si potesse aggiustare. Ma c'era un'altra parte di lei che ricordava quando lui svegliava Peter alle quattro del mattino per uscire e andare a sedersi in una posta per le anitre. Lewis aveva insegnato a suo figlio ad andare a caccia, non aspettandosi certo che un giorno Peter avrebbe anche potuto trovare un diverso genere di preda. Lacy concepiva la caccia sia come uno sport che come un'esigenza dell'evoluzione; sapeva anche come preparare un ottimo stufato di cacciagione e l'anitra teriyaki, e apprezzava qualunque pasto che l'hobby di Lewis le consentisse di mettere in tavola. Ma ora pensava È colpa di Lewis, perché non poteva essere colpa sua. Com'era possibile cambiare le lenzuola a un ragazzo tutte le settimane e preparargli la colazione e accompagnarlo in auto dall'ortodontista e non conoscerlo affatto? Dava per scontato che, se Peter rispondeva a monosillabi, era soltanto a causa della sua età; che qualsiasi madre avrebbe tratto la medesima conclusione. Lacy passava in rassegna i propri ricordi per scoprire qualche segnale di pericolo, una conversazione che potesse aver frainteso, qualcosa su cui aveva sorvolato, ma non riusciva a ricordare altro che innumerevoli momenti del tutto normali. Innumerevoli momenti del tutto normali che alcune madri non avrebbero mai più avuto con i loro figli. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi. Le asciugava con il dorso della mano. Non pensare a loro, si rimproverò tacitamente. Ora devi preoccuparti per te stessa. Aveva pensato lo stesso anche Peter? Inghiottendo le lacrime, Lacy andò nella stanza di suo figlio. Era buia, il letto in ordine come Lacy l'aveva lasciato quella mattina, ma ora vide il manifesto di un gruppo musicale che si chiamava Death Wish sulla parete e si chiese perché un ragazzo potesse aver voglia di appenderlo. Aprì l'armadio e vide le bottiglie vuote e i nastri isolanti e brandelli di stracci e tutto il resto di cui la prima volta non si era accorta. D'improvviso, Lacy si fermò. Poteva sistemare lei tutto quanto. Poteva farlo per loro due. Si precipitò di sotto in cucina e strappò dal rotolo tre sacchi neri per la spazzatura da 150 litri, e poi tornò di corsa nella stanza di Peter. Iniziò dall'armadio, ficcando nel primo sacco pacchetti di lacci da scarpe, zucchero, fertilizzante al nitrato di potassio, e... mio Dio, quelli e-
rano tubi?... Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto di tutta quella roba, ma doveva portarla fuori di casa. Quando suonò il campanello, Lacy sospirò di sollievo, immaginando che fosse Lewis... benché, se ci avesse pensato lucidamente, si sarebbe resa conto che Lewis sarebbe semplicemente entrato da solo. Abbandonò il suo carico e scese le scale, ma si trovò davanti un poliziotto che teneva in mano una sottile cartellina azzurra. «Signora Houghton?» disse l'agente. Che cosa potevano volere? Avevano già suo figlio. «Abbiamo un mandato di perquisizione.» Le consegnò il foglio e la oltrepassò, seguito da altri cinque poliziotti. «Jackson e Walhorne, andate nella stanza del ragazzo. Rodriguez, nel seminterrato. Tewes e Gilchrist, incominciate dal primo piano e, tutti, ricordatevi di controllare anche le segreterie telefoniche e i computer...» Poi si accorse di Lacy, ancora lì in piedi, sbigottita. «Signora Houghton, dovrà lasciare l'appartamento.» Il poliziotto le fece strada fino all'ingresso principale della sua casa. Stordita, Lacy lo seguì. Che cosa avrebbero pensato quando fossero arrivati nella stanza di Peter e avessero trovato quel sacco della spazzatura? Avrebbero dato la colpa a Peter? Oppure a Lacy, che glielo aveva permesso? L'avevano già trovato? Una ventata di aria fredda colpì Lacy in faccia mentre la porta principale si apriva. «Per quanto tempo?» L'agente si strinse nelle spalle. «Finché avremo finito» disse, e la lasciò fuori al freddo. Jordan McAfee faceva l'avvocato da quasi vent'anni ed era sinceramente convinto di aver visto e udito di tutto, almeno fino a quel momento. Lui e sua moglie, Selena, erano in piedi davanti al televisore a guardare il servizio della CNN sulla sparatoria alla Sterling High. «È come Columbine» commentò Selena. «A casa nostra.» «Con la differenza che questa volta» mormorò Jordan «il colpevole è ancora vivo.» Fissò lo sguardo sul neonato che sua moglie teneva tra le braccia, occhi azzurri e capelli color caffè, un misto dei suoi geni WASP e delle braccia e gambe lunghissime di Selena, e della sua pelle color ebano. Prese il telecomando per abbassare il volume, nel caso in cui suo figlio potesse recepire qualcosa inconsciamente. Jordan conosceva la Sterling High. Era in fondo alla strada del suo barbiere e a due isolati dal locale sopra la banca che aveva preso in affitto come sede del suo studio legale. Aveva rappresentato alcuni studenti che
erano stati arrestati con della marijuana nel cassetto del cruscotto o che erano stati sorpresi a bere alcolici pur essendo minorenni nel college in città. Selena, che non era soltanto sua moglie, ma anche la sua investigatrice, di tanto in tanto si recava alla scuola a parlare ai ragazzi di un caso. Abitavano lì da poco tempo. Suo figlio Thomas, l'unica cosa buona che gli era rimasta del suo primo, pessimo matrimonio, aveva ottenuto la licenza di scuola superiore a Salem Falls e adesso era studente del secondo anno di università a Yale. Jordan spendeva 40.000 dollari all'anno per sentirgli dire che aveva ristretto i progetti per la sua carriera a performance artist, o storico dell'arte, o clown di professione. Jordan aveva finito per chiedere a Selena di sposarlo e, quando lei era rimasta incinta, si erano trasferiti a Sterling, perché la circoscrizione scolastica aveva un'ottima reputazione. Figurarsi. Quando squillò il telefono e Jordan - che non voleva guardare il servizio ma non riusciva nemmeno a staccare gli occhi dallo schermo - non accennò minimamente a rispondere, Selena gli mollò il bambino in braccio e sollevò il ricevitore. «Pronto» disse. «Come va?» Jordan alzò lo sguardo e corrugò le sopracciglia. Thomas, articolò Selena muovendo soltanto la bocca. «Sì, aspetta un momento, è qui.» Jordan si fece passare il telefono da Selena. «Cosa diavolo sta succedendo?» domandò Thomas. «Su MSNBC.com c'è tutta la faccenda della Sterling High.» «Ne so quanto te» disse Jordan. «È un pandemonio.» «Conosco alcuni ragazzi, lì nella scuola. Abbiamo fatto qualche gara di atletica leggera contro di loro. È semplicemente... non sembra vero.» Jordan udiva ancora in lontananza le sirene delle ambulanze. «È vero» disse. Si udì un clic - un avviso di chiamata. «Aspetta un momento, devo prendere una telefonata.» «Parlo con il signor McAfee?» «Sì...» «Be', ecco, so che lei è un avvocato. Ho avuto il suo nome da Stuart McBride dello Sterling College...» Alla televisione, incominciava a scorrere un elenco di nomi dei morti accertati, con fotografie dell'annuario scolastico. «Senta, sono sull'altra linea» disse Jordan. «Se vuol darmi il suo nome e il suo numero di telefono, la richiamo io.»
«Mi domandavo se rappresenterebbe mio figlio» replicò la voce. «È il ragazzo che... quello delle superiori che...» La voce annaspò, poi si spezzò. «Dicono che è stato mio figlio.» Jordan pensò all'ultima volta in cui era stato il legale di un adolescente. Come questo, Chris Harte era stato colto in flagranza di reato. «Vorrebbe... vorrebbe farsi carico di questo caso?» Jordan dimenticò Thomas, in attesa. Dimenticò Chris Harte e come quel caso l'avesse sconvolto. Guardò invece Selena e il neonato che teneva in braccio. Sam si agitava, tentando di afferrarle un orecchino. Il ragazzo - il ragazzo che quella mattina era andato alla Sterling High e aveva fatto un massacro - era figlio di qualcuno. E malgrado una città che sarebbe rimasta scossa per anni, e la copertura mediatica che aveva già raggiunto il punto di saturazione, si meritava un processo equo. «Sì» rispose Jordan. «Lo farò.» Finalmente - dopo che la squadra artificieri ebbe smontato la pipe bomb rinvenuta nell'auto di Peter Houghton; dopo che centosedici bossoli furono trovati sparsi nella scuola come residui dei proiettili sparati; quando la squadra sopralluoghi aveva ormai cominciato a vagliare i reperti e la collocazione dei corpi per tracciare un diagramma in scala della scena; dopo che la scientifica aveva scattato la prima delle centinaia di istantanee che sarebbero state raccolte e registrate accuratamente - Patrick radunò tutti nell'auditorio della scuola e salì sul palco nell'ormai prossima oscurità. «Abbiamo una notevole quantità di informazioni» disse alla folla radunata davanti a lui. «Ci saranno forti pressioni perché le esaminiamo presto, e bene. Vi voglio tutti di nuovo qui tra ventiquattro ore, per fare il punto della situazione.» La folla cominciò a disperdersi. All'incontro successivo, Patrick si sarebbe visto consegnare gli album fotografici completi, tutti i reperti non mandati in laboratorio e tutti i risultati del laboratorio. In ventiquattro ore sarebbe stato sepolto sotto una tale valanga di lavoro che non avrebbe saputo da che parte voltarsi. Mentre gli altri ritornavano nelle varie dislocazioni dell'edificio per completare il lavoro che li avrebbe tenuti impegnati tutta la notte e il giorno dopo, Patrick si diresse verso la sua auto. Aveva smesso di piovere. Patrick aveva in mente di tornare alla stazione di polizia per esaminare le prove raccolte a casa degli Houghton, e intendeva parlare con i genitori, qualora fossero stati d'accordo. Ma si sorprese a guidare dritto verso il cen-
tro medico, dove parcheggiò la macchina. Entrò al pronto soccorso e mostrò il suo distintivo. «Senta» disse all'infermiera, «so che sono arrivati qui molti ragazzi, oggi. Ma una delle prime era una ragazza di nome Josie. La sto cercando.» L'infermiera mosse rapidamente le mani sulla tastiera del computer. «Josie chi?» «Questo è il problema» ammise Patrick. «Non lo so.» Sullo schermo comparve una raffica di informazioni, e l'infermiera puntò il dito contro il vetro. «Cormier. È al quarto piano, stanza 422.» Patrick la ringraziò e salì con l'ascensore. Cormier. Quel nome suonava familiare, ma non sapeva dove collocarlo. Era abbastanza comune, immaginò - forse l'aveva letto su un giornale o visto in qualche spettacolo televisivo. Oltrepassò il banco delle infermiere e seguì i numeri nel corridoio. La porta della stanza di Josie era socchiusa. La ragazza era seduta sul letto, avvolta nell'ombra, e parlava con una figura in piedi vicino a lei. Patrick bussò piano ed entrò nella stanza. Josie lo fissò con occhi vacui; la donna accanto a lei si voltò. Cormier, si rese conto Patrick. Come il giudice Cormier. Era stato chiamato a testimoniare nella sua aula alcune volte prima che lei diventasse giudice di corte d'appello. Era andato da lei per ottenere dei mandati come ultima spiaggia... dopotutto, la sua formazione era quella di difensore d'ufficio: nella mente di Patrick significava che, anche se adesso era scrupolosamente equa, una volta stava dall'altra parte. «Vostro Onore» disse. «Non sapevo che Josie fosse sua figlia.» Si avvicinò al letto. «Come stai?» Josie lo guardò fisso. «Ci conosciamo?» «Sono quello che ti ha portato fuori...» S'interruppe quando il giudice gli posò una mano sul braccio e lo attirò dove Josie non poteva udirli. «Non ricorda niente dell'accaduto» sussurrò il giudice. «Crede, non so per quale motivo, di aver avuto un incidente d'auto... e io...» La sua voce si affievolì. «Non sono stata capace di dirle la verità.» Patrick capì - quando ami qualcuno, non vuoi essere quello che fa crollare il suo mondo. «Vuole che lo faccia io?» Il giudice esitò, ma poi annuì riconoscente. Patrick tornò di fronte a Josie. «Tutto bene?» «Mi fa male la testa. I medici dicono che ho avuto una commozione cerebrale e devo passare qui la notte.» Sollevò lo sguardo su di lui. «Credo che dovrei ringraziarla di avermi salvato.» Improvvisamente, un guizzo di
consapevolezza attraversò il suo volto. «Lei sa cos'è accaduto a Matt? Il ragazzo che era in macchina con me?» Patrick si sedette sul bordo del letto di ospedale. «Josie» disse cautamente, «non hai avuto un incidente d'auto. C'è stato un incidente nella tua scuola... uno studente è entrato e ha cominciato a sparare.» Josie scosse il capo, cercando di rimuovere le parole. «Matt è una delle vittime.» Gli occhi di Josie si riempirono di lacrime. «Sta bene?» Patrick abbassò lo sguardo sul morbido e vago ondeggiare del lenzuolo tra loro. «Mi dispiace.» «No» disse Josie. «No. Lei sta mentendo.» Si scagliò contro Patrick, colpendolo tra il volto e il torace. Il giudice si precipitò verso di loro, cercando di trattenere sua figlia, ma Josie era una furia: strillava, piangeva, graffiava, e finì per attirare l'attenzione delle infermiere nel corridoio. Due di loro volarono nella stanza come angeli bianchi, allontanando Patrick e il giudice Cormier, mentre somministravano un sedativo a Josie. Nel corridoio, Patrick si appoggiò al muro e chiuse gli occhi. Gesù Cristo. Possibile che dovesse sempre mettere i suoi testimoni in situazioni come quella? Era sul punto di scusarsi con il giudice per aver sconvolto Josie quando la donna si scagliò su di lui come aveva fatto la figlia. «Cosa diavolo pensava di fare, dicendole di Matt?» «Me l'ha chiesto lei» replicò brusco Patrick. «Di dirle della scuola» precisò il giudice. «Non di dirle che il suo ragazzo è morto!» «Maledizione, lei sa che Josie doveva pur venire a saperlo prima o...» «Dopo» interloquì il giudice. «Molto dopo.» Le infermiere comparvero sulla soglia. «Ora dorme» bisbigliò una di loro. «Torneremo a vederla più tardi.» Entrambi aspettarono che le infermiere non potessero udire. «Senta» disse Patrick sforzandosi di controllarsi. «Oggi ho visto ragazzi colpiti alla testa, ragazzi che non cammineranno mai più, ragazzi che sono morti perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sua figlia... è in stato di choc... ma è una di quelli fortunati.» Quelle parole furono una sferzata per Alex, come uno schiaffo. Per un istante, a Patrick non sembrò più furiosa. I suoi occhi grigi erano appesantiti dagli scenari che, grazie al cielo, non doveva affrontare; la sua bocca rilassata in un'espressione di sollievo. Poi, come d'improvviso, i suoi lineamenti si rilassarono, fino a farla sembrare impassibile. «Mi scusi. Di solito
non sono così. È solo che... è stata una giornata veramente terribile.» Patrick cercò, ma non trovò traccia dell'emozione che, per un istante, l'aveva travolta. Tutta d'un pezzo. Così era lei. «Mi rendo conto che stava solo provando a fare il suo lavoro» disse il giudice. «Volevo parlare con Josie... ma non sono venuto per questo. Sono qui perché lei è stata la prima... be', avevo bisogno di sapere che stava bene.» Rivolse al giudice Cormier un sorriso appena accennato, di quelli che possono far breccia in un cuore. «Si prenda cura di lei» disse Patrick, poi si voltò e uscì nel corridoio, conscio del calore dello sguardo di lei sulla sua schiena, e di come fosse simile al tocco di una mano. Dodici anni prima Il suo primo giorno di asilo, Peter Houghton si svegliò alle 4 e 32 del mattino. Camminò con passi felpati fino alla stanza dei suoi genitori e domandò se era già ora di prendere lo scuolabus. Per quel che poteva ricordare, aveva sempre guardato suo fratello Joey quando vi saliva, ed era un mistero di proporzioni dinamiche: il modo in cui il sole rimbalzava sul suo naso giallo rincagnato, la porta che girava sui cardini come la mascella di un drago, il sospiro drammatico quando arrivava a una fermata. Peter aveva una macchinina Matchbox che assomigliava proprio all'autobus che prendeva Joey due volte al giorno... lo stesso autobus che ora avrebbe preso anche lui. Sua madre gli disse di tornare a dormire fino al mattino, ma lui non ci riuscì. Indossò invece i vestiti che lei gli aveva comprato apposta per il suo primo giorno di scuola e tornò a sdraiarsi sul letto, in attesa. Fu il primo a scendere per la colazione, e sua madre preparò i pancake con le gocce di cioccolato... i suoi preferiti. Gli diede un bacio su una guancia e gli scattò una foto mentre era seduto al tavolo della colazione, e poi un'altra dopo avergli fatto indossare il cappotto e avergli messo sulle spalle lo zaino vuoto, come il guscio di una tartaruga. «Non riesco a credere che il mio bambino stia per andare a scuola» disse sua madre. Joey, che quell'anno era in prima, gli disse di piantarla di fare lo stupido. «È soltanto la scuola» gli disse. «Bella roba.» La madre di Peter finì di abbottonargli il cappotto. «Una volta era bella anche per te» osservò. Poi avvertì Peter che aveva una sorpresa per lui. Andò in cucina e ricomparve con una scatola per il pranzo con sopra Su-
perman. Superman era proteso in avanti, come se tentasse di infrangere il metallo della scatola. Il suo intero corpo era leggermente in rilievo, come le lettere sui libri per ciechi. Peter pensò soddisfatto che, anche se non fosse stato in grado di vedere, avrebbe potuto ugualmente riconoscere la sua scatola per il pranzo. La prese dalle mani di sua madre e la strinse. Udì il rumore sordo di un frutto che rotolava, lo scricchiolio di carta oleata, e immaginò il contenuto della scatola, come organi misteriosi. Attesero in fondo al viale e, proprio come Peter aveva sognato tante volte, l'autobus giallo spuntò sulla cresta della collina. «Ancora una!» esclamò sua madre, e scattò una foto di Peter con l'autobus che frenava cigolando alla fermata dietro di lui. «Joey» ammonì sua madre, «sta' attento a tuo fratello.» Poi baciò Peter sulla fronte. «Il mio bambino grande» disse, e la sua bocca si raggrinzì, come faceva quando tentava di non piangere. Tutt'a un tratto Peter sentì il suo stomaco diventare di ghiaccio. E se l'asilo non fosse stato meraviglioso come se l'era immaginato? E se la sua maestra fosse stata come la strega in quel programma televisivo che a volte gli faceva venire gli incubi? E se avesse dimenticato in quale direzione andava la lettera E e tutti l'avessero preso in giro? Esitante, salì i gradini dello scuolabus. Il guidatore indossava una giacca militare e gli mancavano due denti davanti. «Ci sono dei posti in fondo» disse, e Peter percorse il passaggio tra i sedili, in cerca di Joey. Suo fratello era seduto vicino a un ragazzo che Peter non conosceva. Joey lo guardò di sfuggita mentre Peter lo oltrepassava, ma non disse niente. «Peter!» Si voltò e vide Josie che batteva una mano sul sedile vuoto accanto al suo. Aveva i capelli neri raccolti in due codini e indossava una gonna, benché lei odiasse le gonne. «L'ho tenuto per te» disse Josie. Lui le si sedette vicino, sentendosi già meglio. Stava andando su un autobus. Ed era seduto vicino alla sua migliore amica, la migliore del mondo. «Che bella scatola» osservò Josie. Lui la sollevò per farle vedere che, agitandola da una parte all'altra, sembrava che Superman si muovesse, ma proprio in quel momento una mano lo raggiunse attraverso il passaggio tra i sedili. Un ragazzo con le braccia da scimmia e un berretto da baseball al contrario afferrò la scatola di Peter strappandogliela dalle mani. «Ehi, mostriciattolo» disse, «vuoi vedere Superman volare?» Prima che Peter capisse che cosa stava facendo, il ragazzo più grande aprì un finestrino e scaraventò fuori la scatola. Peter si alzò in piedi, allun-
gando il collo per guardare fuori dall'uscita di sicurezza posteriore. La sua scatola del pranzo giaceva aperta sull'asfalto. La mela rotolò oltre la linea gialla tratteggiata della strada e scomparve sotto le gomme di un'auto che stava arrivando. «Stai seduto!» gridò l'autista. Peter sprofondò nel suo sedile. Sentiva freddo al volto, ma le sue orecchie scottavano. Sentiva il ragazzo e i suoi amici ridere, così forte come se lo facessero sopra la sua testa. Poi sentì la mano di Josie scivolare nella sua. «Ho portato il burro di arachidi» sussurrò. «Lo divideremo.» Alex si sedette nella sala visite del carcere, di fronte al suo cliente più recente, Linus Froom. Quella mattina, alle quattro, si era vestito di nero, si era infilato un passamontagna sulla testa, e aveva eseguito una rapina a mano armata ai danni del distributore di benzina di un negozio di alimentari nei pressi di Irving. La polizia, chiamata subito dopo la fuga di Linus, trovò per terra un cellulare. Squillò mentre il detective sedeva al suo tavolo. «Ehi, coso» disse chi chiamava. «Questo è il mio cellulare. Ce l'hai tu?» Il detective disse di sì, e domandò dove l'aveva perso. «Al distributore di Irving, ragazzo. Ero lì, diciamo, una mezzora fa.» Il detective propose che si incontrassero all'angolo tra la Route 10 e la Route 25A; avrebbe portato il cellulare. Inutile dire che Linus Froom si presentò e fu arrestato per rapina a mano armata. Alex guardò il suo cliente al di là del tavolo graffiato. In quel momento sua figlia stava facendo merenda con succo di frutta e biscotti, oppure ascoltava la lettura di una fiaba, o disegnava con i pastelli colorati, o qualsiasi altra cosa si facesse il primo giorno all'asilo, e lei era bloccata in una sala colloqui del carcere della contea con un criminale troppo stupido persino per svolgere bene il proprio lavoro. «Leggo qui» disse Alex, scorrendo il rapporto della polizia, «che è scoppiata una disputa quando il detective Chisholm le ha letto i suoi diritti.» Linus sollevò lo sguardo. Era un ragazzo - aveva solo diciannove anni con l'acne e le sopracciglia tanto folte da sembrare unite. «Mi ha preso per uno stronzo.» «Glielo hai detto?» «Mi ha chiesto se sapevo leggere.» Tutti i poliziotti lo facevano. La prassi prevedeva che ogni criminale fosse trattato secondo la legge Miranda. «E la tua reazione, a quanto pare,
è stata: 'Vaffanculo, ti sembro un ritardato mentale?'» Linus scrollò le spalle. «Che cosa avrei dovuto dire?» Alex si pizzicò il ponte del naso. Le sue giornate in veste di difensore d'ufficio erano una snervante confusione di momenti come quello: un enorme spreco di energia e di tempo nell'interesse di qualcuno che una settimana, un mese o un anno dopo sarebbe finito nuovamente lì davanti a lei. Eppure che altro era autorizzata a fare? Quello era il mondo in cui aveva scelto di vivere. Il suo cercapersone vibrò. Guardando di sfuggita il numero, lo bloccò. «Linus, credo che stavolta dovremo dichiararci colpevoli.» Lasciò Linus nelle mani di una guardia carceraria e infilò la testa nell'ufficio di una segretaria del carcere per farsi prestare un telefono. «Grazie a Dio» disse Alex quando la persona dall'altra parte rispose. «Mi hai salvato proprio mentre stavo per buttarmi da una finestra al secondo piano del carcere.» «Dimentichi che ci sono le sbarre» ribatté Whit Hobart ridendo. «Pensavo sempre che forse non sono state messe per tenere dentro i carcerati, ma per impedire ai loro difensori d'ufficio di scappare quando si rendono conto di come siano brutti i loro casi.» Whit era stato il capo di Alex quando lei si era unita all'ufficio della pubblica difesa del New Hampshire, ma da nove mesi era ormai in pensione. Diventato una leggenda per i suoi meriti, Whit era anche, per lei, il padre che non aveva mai avuto: uno che, a differenza del suo, era orgoglioso e non critico nei suoi confronti. Avrebbe voluto che Whit fosse lì, in quel momento, invece di essere in qualche circolo di golf sulla costa. L'avrebbe portata fuori a pranzo e le avrebbe raccontato degli aneddoti per farle capire che tutti i difensori d'ufficio hanno clienti - e casi - come Linus. E poi avrebbe trovato il modo di lasciarla con il conto da pagare e un nuovo impulso a rialzarsi per tornare a lottare. «Che cosa stai facendo?» domandò Alex. «È già l'ora del tè?» «No, quel maledetto giardiniere mi ha svegliato con l'aspirafoglie. Cosa mi sto perdendo?» «Proprio niente. Tranne che l'ufficio non è più lo stesso senza di te. È come se... mancasse l'energia.» «L'energia? Non starai diventando una seguace della New Age dedita alla lettura dei cristalli, vero, Alex?» Alex ridacchiò. «No...» «Bene. Perché è per questo che ti telefono: ho un lavoro per te.»
«Ho già un lavoro. In realtà ho da fare abbastanza per due lavori.» «Tre corti distrettuali federali della zona hanno pubblicato un'inserzione su Bar News. Dovresti presentarti, Alex. Sul serio.» «Per fare il giudice?» Si mise a ridere. «Whit, cosa stai fumando in questi giorni?» «Sapresti farlo bene, Alex. Sei brava a prendere decisioni. Sai essere equilibrata. Non lasci mai che le tue emozioni prendano il sopravvento, quando si tratta di lavoro. Sai metterti dal punto di vista della difesa, quindi capisci i contendenti. E sei sempre stata un ottimo avvocato difensore.» Esitò. «Inoltre, non accade spesso che il New Hampshire abbia un governatore donna e per di più democratico che sceglie i giudici.» «Grazie per la fiducia» replicò Alex, «ma non sono poi così adatta a quel lavoro.» Lo sapeva, perché anche suo padre era stato giudice di corte d'appello. Alex si ricordava di quando ronzava attorno alla sua sedia girevole, contando graffette, passando l'unghia del pollice sulla superficie di feltro verde del suo immacolato tampone di carta assorbente per fare un reticolato tratteggiato. Prendeva il telefono e, al segnale di libero, si metteva a parlare. Faceva finta. Poi, inevitabilmente, arrivava suo padre e la rimproverava perché aveva spostato una matita o una pratica oppure, nel peggiore dei casi, l'aveva disturbato. Sentì che il cercapersone appeso alla sua cintura ricominciava a vibrare. «Ascolta, devo andare in aula. Magari pranziamo assieme la prossima settimana.» «I giudici hanno orari regolari» aggiunse Whit. «A che ora Josie torna a casa da scuola?» «Whit...» «Pensaci» disse lui, e riagganciò. «Peter» sospirò sua madre, «com'è possibile che tu l'abbia persa ancora?» Girò attorno a suo padre, che stava versandosi una tazza di caffè, e pescò nelle viscere oscure della dispensa un sacchetto per il pranzo di carta marrone. Peter odiava quei sacchetti. La banana non ci stava mai completamente e il panino finiva sempre schiacciato. Ma che altro doveva fare? «Che cos'ha perso?» domandò suo padre. «La sua scatola del pranzo. Per la terza volta in un mese.» Sua madre iniziò a riempire il sacchetto marrone: frutto e succo sul fondo, il panino
appoggiato sopra. Lanciò un'occhiata a Peter, che non stava mangiando la sua colazione, ma vivisezionava il suo tovagliolo di carta con un coltello. Fino a quel momento aveva fatto le lettere H e T. «Se fai tardi, perderai l'autobus.» «Devi cominciare a diventare responsabile» disse suo padre. Quando suo padre parlava, Peter immaginava le parole come fumo. Rimanevano sospese nella stanza per un momento, ma, prima che ce se ne accorgesse, erano già svanite. «Santo cielo, Lewis, ha cinque anni.» «Non ricordo che Joey abbia perso la sua scatola del pranzo tre volte durante il primo mese di scuola.» Talvolta Peter guardava suo padre giocare a pallone in cortile con Joey. Le loro gambe si muovevano ritmicamente come pistoni e ingranaggi impazziti - avanti, indietro, avanti - come se danzassero insieme tenendo in mezzo la palla. Quando Peter provava a unirsi a loro, finiva per trovarsi intrappolato nella sua frustrazione. L'ultima volta aveva fatto un autogol per sbaglio. Guardò i suoi genitori al di sopra della spalla. «Io non sono Joey» disse e, sebbene nessuno dei due avesse aperto bocca, fu come se avesse udito la risposta: Lo sappiamo. «Avvocato Cormier?» Quando Alex sollevò lo sguardo, vide un suo ex cliente in piedi davanti alla sua scrivania, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Impiegò un istante a collocarlo. Teddy MacDougal o MacDonald, qualcosa del genere. Ricordava l'imputazione: puro e semplice atto di violenza domestica. Lui e sua moglie si erano ubriacati e si erano presi a botte. Alex l'aveva fatto prosciogliere. «Ho qualcosa per lei» disse Teddy. «Spero che non mi abbia comprato niente» replicò lei, e lo pensava davvero: quell'uomo era del North Country ed era talmente povero che il pavimento della sua casa era fatto letteralmente di immondizia e riempiva il freezer di quello che si procurava andando a caccia. Alex non era appassionata di caccia, ma capiva che per alcuni suoi clienti - come Teddy - non si trattava di sport, bensì di sopravvivenza. Ecco perché una dichiarazione di colpevolezza per lui sarebbe stata devastante: perché gli sarebbe costata il suo porto d'armi. «Non l'ho comprato. Giuro.» Teddy ridacchiò. «È nel mio furgone. Ven-
ga a vedere.» «Non può portarlo qui?» «Oh, no. Non posso farlo.» Oh, fantastico, pensò Alex. Che cosa può esserci nel suo furgone che non può portare qui? Seguì Teddy nel parcheggio, e nel retro del suo pickup vide un enorme orso morto. «È per il suo freezer» disse lui. «Teddy, è gigantesco. Avrebbe cibo per tutto l'inverno.» «Giusto, dannazione. Ma io ho pensato a lei.» «Grazie molte. Lo apprezzo davvero. Ma io non, ecco, non mangio carne. E non vorrei sprecarla.» Gli toccò il braccio. «Voglio davvero che lo tenga lei.» Teddy socchiuse gli occhi a causa del sole. «D'accordo.» Annuì ad Alex, salì nella cabina dell'automezzo e uscì sobbalzando dal parcheggio mentre l'orso sbatteva nel cassone del pick-up. «Alex!» Si voltò e vide la sua segretaria in piedi nel vano della porta. «È appena arrivata una telefonata dalla scuola di sua figlia» disse la segretaria. «Josie è stata mandata nell'ufficio del direttore.» Josie? Nei guai a scuola? «Per cosa?» domandò Alex. «Ha riempito di botte un suo compagno nel cortile della scuola.» Alex si avviò subito verso la sua auto. «Avverti che sto arrivando.» Sulla via di casa, Alex lanciava occhiate a sua figlia nello specchietto retrovisore. Josie era andata a scuola quella mattina con un cardigan bianco e pantaloncini kaki. Ora il cardigan era rigato di sporco. La coda di cavallo si era sciolta e tra i capelli aveva dei rametti. C'era un buco nel gomito del suo maglione; il labbro le sanguinava ancora. Eppure - quella era la cosa sorprendente - a quanto pareva il ragazzino che aveva preso a botte era conciato persino peggio. «Vieni» disse Alex conducendo Josie di sopra, nel bagno. Sfilò a sua figlia la camicetta, le lavò i tagli e li coprì di Neosporin e di cerotti. Poi si sedette davanti a Josie, sul tappetino del bagno che sembrava fatto dello stesso pelo dei Cookie Monster. «Ti va di raccontarmi?» Il labbro inferiore di Josie tremò, e lei cominciò a piangere. «È per Peter» disse. «Drew se la prende sempre con lui, e Peter ci rimane male, così oggi ho voluto fare il contrario.» «In cortile non ci sono insegnanti?»
«Assistenti.» «Bene, avresti dovuto avvertirli che gli altri prendevano in giro Peter. Picchiare Drew non serve ad altro che a renderti cattiva come lui, tanto per cominciare.» «Siamo andati dagli assistenti» protestò Josie. «Hanno detto a Drew e agli altri ragazzi di lasciare in pace Peter, ma loro non ascoltano mai.» «Così» continuò Alex, «hai fatto quello che in quel momento ti sembrava la cosa migliore?» «Sììì. Per Peter.» «Immagina se lo facessi sempre. Metti che tu abbia deciso di prenderti il cappotto di un'altra bambina perché ti piace più del tuo.» «Sarebbe come rubare» disse Josie. «Esattamente. È per questo che ci sono le regole. Non puoi infrangere le regole, nemmeno quando ti sembra che tutti gli altri lo facciano. Perché se lo facessi - se tutti lo facessimo - il mondo intero diventerebbe un posto terrificante. Un mondo in cui si rubano cappotti e si picchia la gente nel cortile della scuola. Invece di fare la cosa migliore, a volte dobbiamo impegnarci per fare la cosa più giusta.» «Qual è la differenza?» «La cosa migliore è quella che tu pensi che si debba fare. La cosa più giusta è quella che deve essere fatta - vuol dire pensare non solo a te e a come ti senti tu, ma anche a tutto il resto: chi altri è coinvolto, cos'è accaduto prima, e cosa dicono le regole.» Lanciò un'occhiata a Josie. «Perché Peter non ha reagito?» «Pensava che si sarebbe messo nei guai.» «Il caso è chiuso» dichiarò Alex. Le ciglia di Josie erano bagnate di lacrime. «Sei arrabbiata con me?» Alex esitò. «Sono arrabbiata con gli assistenti perché non hanno prestato attenzione a Peter quando i ragazzi lo prendevano in giro. E non mi entusiasma sapere che hai dato un pugno sul naso a un ragazzo. Ma sono fiera di te perché volevi difendere il tuo amico.» Baciò Josie sulla fronte. «Vai a metterti dei vestiti che non siano bucati, Wonder Woman.» Quando Josie si rifugiò nella sua stanza, Alex rimase seduta sul pavimento del bagno. La colpiva il pensiero che amministrare la giustizia riguardasse in realtà più l'essere presenti e impegnati che non tutto il resto, a differenza di quegli assistenti nel cortile della scuola, per esempio. Si può essere fermi senza essere autoritari; ci si può fare un punto d'onore di conoscere le regole; si possono prendere in considerazione tutte le prove
prima di giungere a una conclusione. Essere un bravo giudice, rifletté Alex, non era poi tanto diverso dall'essere una brava madre. Si rialzò, scese al piano di sotto e prese il telefono. Whit rispose al terzo squillo. «Va bene» disse Alex. «Dimmi cosa devo fare.» La sedia di Lacy era troppo piccola per lei; le sue ginocchia non stavano sotto il banco; i colori sulla parete erano troppo forti. L'insegnante seduta di fronte a lei era così giovane che Lacy si domandò se poteva andare a casa e bersi un bicchiere di vino senza infrangere qualche legge. «Signora Houghton» disse l'insegnante, «vorrei poterle dare una spiegazione migliore, ma il fatto è che certi ragazzi sono autentiche calamite che si attirano i dispetti. Gli altri bambini percepiscono un punto debole, e lo sfruttano.» «Qual è il punto debole di Peter?» domandò Lacy. L'insegnante sorrise. «Io non lo considero un punto debole. È sensibile, e anche tenero. Ma questo significa che è molto meno probabile vederlo in giro con altri ragazzi a giocare a guardie e ladri che trovarlo in un angolino intento a colorare insieme a Josie. I suoi compagni di classe lo notano.» A Lacy venne in mente quando lei, alle elementari, poco più grande di Peter, vedeva crescere dei pulcini dentro un'incubatrice. Le sei uova si erano schiuse, ma uno dei pulcini era nato con una zampa deforme. Era sempre l'ultimo al vassoio del mangime e alla tinozza dell'acqua, ed era più ossuto e traballante dei suoi fratellini. Un giorno, sotto gli occhi inorriditi dell'intera classe, il pulcino zoppo fu ucciso a colpi di becco dagli altri. «Consideriamo intollerabile il comportamento degli altri ragazzi» spiegò l'insegnante a Lacy. «Quando ce ne accorgiamo, mandiamo subito il bambino dal direttore.» Aprì la bocca come se stesse per dire qualcosa, ma poi la richiuse di scatto. «Cosa?» L'insegnante abbassò lo sguardo sul banco. «Sfortunatamente, quella reazione può sortire l'effetto contrario. I ragazzi individuano in Peter la ragione dei loro guai, e questo non fa che perpetuare il ciclo della violenza.» Lacy sentì il calore salirle al volto. «Che cosa sta facendo, lei personalmente, per accertarsi che questo non accada di nuovo?» Si aspettava che l'insegnante le dicesse che i ragazzi indisciplinati venivano fatti sedere in un angolino per un po', o di qualche provvedimento punitivo a cui si sarebbe fatto ricorso qualora Peter fosse stato ancora schernito dal resto della classe. Invece, la giovane donna disse: «Sto mo-
strando a Peter come cavarsela da solo. Se qualcuno gli passa davanti quando sta facendo la coda per il pranzo, o se lo prendono in giro, deve ribattere invece di limitarsi ad accettare in silenzio». Lacy sbarrò gli occhi. «Non... Non riesco a credere alle sue parole. Se qualcuno gli dà uno spintone, lui deve rispondere con un altro spintone? Quando gli sbattono sul pavimento la merenda, lui dovrebbe ricambiare?» «Ovviamente no...» «Mi sta dicendo che Peter, per sentirsi al sicuro a scuola, deve cominciare a comportarsi come i ragazzi che lo prendono in giro?» «No, sto spiegandole la realtà della scuola elementare» rettificò l'insegnante. «Vede, signora Houghton, io posso anche dirle quello che lei desidera sentirsi dire. Posso dirle che Peter è un bambino meraviglioso, e lo è. Posso dirle che la scuola insegnerà la tolleranza e la disciplina ai ragazzi che rendono la vita tanto difficile a Peter, e che questo sarà sufficiente a farli smettere. Ma la triste verità è che, se Peter vuole porre fine a tutto questo, deve contribuire a risolvere il problema.» Lacy si guardò le mani. Sembravano gigantesche sul piano di quel minuscolo banco da bambino. «Grazie. Per la sua franchezza.» Si alzò in piedi guardinga, perché è così che conviene muoversi in un mondo che non sembra più adatto a noi. Uscì dall'aula dell'asilo. Peter l'aspettava nell'atrio, seduto su una panchetta di legno sotto i cubi portaoggetti. Era suo compito, come madre di Peter, spianargli la strada perché procedesse spedito. Ma se non fosse sempre riuscita a fargli da bulldozer? Era quello che l'insegnante aveva cercato di dirle? Si chinò davanti a Peter e gli prese le mani. «Lo sai che ti voglio bene, vero?» disse Lacy. Peter assentì. «Sai che voglio soltanto il meglio, per te.» «Sì» annuì Peter. «Mi hanno detto delle scatole del pranzo. E anche di quello che capita con Drew. Ho saputo che Josie ha fatto a botte con lui. So che genere di cose ti dice Drew.» Lacy sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. «Se capiterà ancora, dovrai difenderti da solo. Devi, Peter, altrimenti io... io sarò costretta a punirti.» La vita era ingiusta. Lacy si era vista sfuggire tutte le promozioni, benché lavorasse sodo. Certe madri che si erano prese cura meticolosamente di se stesse avevano partorito sotto i suoi occhi bambini nati morti, mentre
ragazze tossicodipendenti avevano messo al mondo figli sani. Aveva visto ragazze di quattordici anni morire di cancro alle ovaie prima ancora di aver avuto la possibilità di vivere realmente. Non si può lottare contro l'ingiustizia del fato; si può soltanto subirla e sperare che un giorno le cose cambino. Ma in un certo senso era ancora più difficile da sopportare nell'interesse del proprio figlio. Lacy si sentiva lacerata all'idea di dover essere lei a tirare indietro quella tenda di innocenza, perché Peter vedesse che, per quanto lei lo amasse, per quanto lei desiderasse che quel mondo fosse perfetto per lui, la realtà sarebbe sempre stata deludente. Deglutì e guardò Peter, provando a pensare che cosa potesse fare per spronarlo a difendersi da solo, quale punizione potesse modificare il suo comportamento, benché le si spezzasse il cuore al solo pensiero. «Se capiterà ancora... niente pomeriggi a giocare con Josie per un mese.» Chiuse gli occhi a quell'ultimatum. Non le piaceva quel modo di fare il genitore, ma a quanto pareva i suoi consigli abituali di essere gentile, educato, di essere come vorresti che fossero gli altri, non avevano giovato a Peter. Se una minaccia poteva servire a far ruggire Peter, così forte che Drew e tutti quegli altri orribili bambini se la sarebbero svignata con la coda tra le gambe, allora Lacy l'avrebbe fatto. Scostò i capelli dal volto di Peter, osservando il dubbio passare come una nube sui suoi lineamenti: e perché avrebbe dovuto essere diverso? Di certo sua madre non gli aveva mai intimato niente di simile prima di allora. «È un prepotente. Uno stupido, per quanto piccolo. Ma quando crescerà diventerà soltanto uno stupido più grande, e tu... tu crescerai e diventerai straordinario.» Lacy rivolse un largo sorriso a suo figlio. «Un giorno, Peter, tutti conosceranno il tuo nome.» Nel cortile della scuola c'erano due altalene, e talvolta bisognava aspettare il proprio turno. Quando capitava, Peter incrociava le dita e sperava che non gli toccasse quella attorcigliata attorno alla sbarra da un ragazzo di quinta, perché in quel caso il sedile era incredibilmente alto rispetto al suolo e difficile da raggiungere. Aveva paura di cadere mentre tentava di salire sull'altalena oppure, eventualità persino più imbarazzante, di non riuscire nemmeno a issarsi sul sedile al primo colpo. Quando aspettava insieme a Josie, lei prendeva sempre quell'altalena. Faceva finta che le piacesse, ma Peter capiva che lei lo faceva solo perché non piaceva a lui. Quel giorno, durante l'intervallo, non si stavano dondolando. Avevano
invece arrotolato le catene più volte finché erano riusciti ad annodarle ben strette, poi vi erano saliti con i piedi e si erano messi a girare. A volte Peter si voltava a guardare il cielo e immaginava di volare. Quando si fermarono, la sua altalena e quella di Josie ondeggiarono l'una contro l'altra e lui si ritrovò con i piedi impigliati in quelli di lei. Josie rise e strinse leggermente le sue caviglie contro quelle di Peter, in modo che fossero legati come una catena umana. Lui si voltò verso di lei. «Voglio piacere agli altri» disse tutto d'un fiato. Josie inclinò il capo. «Tu piaci agli altri.» Peter allargò i piedi, liberandoli. «Volevo dire a tutti gli altri» spiegò, «non a te.» Alex dovette dedicare due giornate intere alle pratiche per diventare giudice e, mentre compilava i moduli, accadde qualcosa di speciale: si rese conto che voleva davvero fare il giudice. Malgrado quello che aveva detto a Whit, malgrado le sue riserve iniziali, stava prendendo la decisione giusta per i motivi giusti. Quando la Commissione per la selezione dei giudici la convocò per un colloquio, le venne precisato che quell'invito non era esteso a tutti. Se Alex era stata chiamata per un colloquio, voleva dire che la prendevano seriamente in considerazione per quella carica. Il compito della commissione consisteva nel fornire al governatore una lista ristretta di candidati. I colloqui della commissione giudiziaria si svolgevano presso la vecchia residenza del governatore, Bridges House, a East Concord. Erano scaglionati, e i candidati entravano da una porta e uscivano da un'altra, presumibilmente perché nessuno sapesse chi altri era stato chiamato per quel lavoro. I dodici membri della commissione erano avvocati, poliziotti, dirigenti delle organizzazioni per la pubblica difesa delle vittime. Fissavano Alex così intensamente che lei si aspettava che il volto le prendesse fuoco da un momento all'altro. Non aiutava, tra l'altro, l'essere stata alzata per metà della notte con Josie, che si era svegliata da un incubo su un serpente boa e si rifiutava di tornare a dormire. Alex non sapeva chi fossero gli altri candidati a quell'incarico, ma avrebbe scommesso che non si trattava di madri single costrette a frugare con un bastone le bocchette del riscaldamento alle tre di notte per dimostrare che non c'erano serpenti nascosti nelle cavità buie. «Mi piace il ritmo» disse con cautela, rispondendo a una domanda. Sa-
peva che ci si aspettava da lei un certo genere di risposte. Evidentemente il trucco consisteva nell'imprimere la sua personalità alle frasi standard e alle risposte previste. «Mi piace sentire l'urgenza di prendere una decisione rapida. Ho una buona conoscenza della normativa sulle prove. In tribunale mi è capitato di vedere giudici che non avevano preparato in anticipo il loro lavoro, e so che non mi comporterò come loro.» Esitò, guardando gli uomini e le donne attorno a lei, domandandosi se dovesse dare di sé un'immagine simile a quella della maggior parte delle persone che ricoprivano incarichi giuridici - e che provenivano dalle sacre file dei pubblici ministeri - o se dovesse essere se stessa e lasciar intravedere il suo background di difensore d'ufficio. Oh, al diavolo. «Il vero motivo per cui voglio essere un giudice, credo, è che mi piace il fatto che l'aula di un tribunale sia un luogo dove tutti hanno le stesse opportunità. Quando entri, per quel breve periodo di tempo, per tutti in quell'aula il tuo caso è il più importante del mondo. Il sistema funziona per te. Chiunque tu sia, da qualsiasi posto tu venga, sarai considerato in base alle regole della legge, non secondo qualche variabile socioeconomica.» Uno dei membri della commissione, una donna, diede un'occhiata ai propri appunti. «Secondo lei come dev'essere un bravo giudice, signorina Cormier?» Alex sentì una gocciolina di sudore scorrerle giù tra le scapole. «Paziente ma fermo. Deve saper prendere in pugno la situazione senza essere arrogante. Deve conoscere le regole sulle prove e le regole di un tribunale.» Fece una pausa. «Probabilmente non è quello che sentite di solito, ma io credo che un bravo giudice sia, con ogni probabilità, un mago dei tangram.» Una donna più anziana, appartenente a un gruppo di patrocinio gratuito delle vittime, sbarrò gli occhi. «Come ha detto?» «Tangram. Sono una mamma. La mia bambina ha cinque anni. E il tangram è quel gioco in cui si conosce il contorno geometrico di una figura una barca, un treno, un uccello - e bisogna trovare il modo di costruirlo da un insieme di tessere a incastro: triangoli e parallelogrammi, alcuni più grandi di altri. È facile per chi padroneggia le relazioni spaziali, perché in realtà bisogna ragionare fuori dal riquadro. E fare il giudice è più o meno lo stesso. Ci sono tanti fattori in gioco - le parti coinvolte, le vittime, le applicazioni della legge, la società, persino i precedenti - e in un certo qual modo bisogna usarli tutti per risolvere il problema all'interno di una strut-
tura data.» Nello spiacevole silenzio che seguì, Alex voltò la testa e attraverso una finestra intravide il candidato successivo che entrava dal vestibolo dell'ingresso. Sbatté le palpebre, certa di aver visto male, ma era impossibile dimenticare i riccioli argentei che una volta accarezzava con le sue dita, e non poteva togliersi dalla mente la geografia degli zigomi e della mascella che aveva seguito con le sue labbra. Logan Rourke, il suo professore di diritto processuale, il suo ex amante; il padre di sua figlia era entrato nell'edificio e si era chiuso la porta alle spalle. Evidentemente, era anche lui candidato alla carica di giudice. Alex trattenne il respiro, ancora più determinata a ottenere quel posto di quanto non fosse un momento prima. «Signorina Cormier?» continuò la donna anziana, e Alex si rese conto di non aver risposto alla sua domanda. «Sì. Mi scusi.» «Le ho chiesto se riesce sempre a completare i tangram.» Alex incrociò il suo sguardo. «Signora» disse lasciandosi sfuggire un largo sorriso, «sono la campionessa dello Stato del New Hampshire.» Sulle prime, i numeri sembravano semplicemente più grassi. Ma poi cominciavano a ondeggiare un po', e Peter doveva o contorcere la faccia o avvicinarsi di più per vedere se era un 3 o un 8. La maestra lo accompagnò in infermeria, dove aleggiava sempre un odore di tè in bustina e di piedi, e gli fece guardare un cartellone appeso alla parete. I suoi occhiali nuovi erano leggeri come una piuma e avevano lenti speciali che non si rompevano neanche se cadevano e volavano attraverso il recinto della sabbia. La montatura era di metallo, troppo sottile, secondo lui, per sostenere le lenti di vetro arrotondate che rendevano i suoi occhi simili a quelli di un gufo: più grandi del normale, luminosi, azzurro intenso. Quando si mise gli occhiali, Peter rimase esterrefatto. Improvvisamente, le forme lontane e confuse assunsero i contorni di una fattoria con i suoi serbatoi, di campi e di mandrie di mucche. Le lettere sull'insegna rossa dicevano STOP. Attorno agli occhi di sua madre c'erano righe sottili, come le grinze sulle nocche delle sue mani. Tutti i supereroi avevano accessori particolari: Batman la cintura, Superman il mantello, e lui aveva i suoi occhiali, che gli davano una vista ai raggi X. Era così entusiasta di averli che se li tenne anche quando andò a letto. Ma il giorno dopo, quando andò a scuola, si rese conto che, se la sua vi-
sta era migliorata, era anche perfettamente naturale sentirsi dire: Quattrocchi; cieco come una talpa. I suoi occhiali non erano più un segno di distinzione ma soltanto uno sfregio, l'ennesima diversità rispetto a tutti gli altri. Ma il peggio doveva ancora venire. Mettendo a fuoco il mondo, Peter capì che espressione aveva la gente quando lo guardava. Come se lui fosse la battuta più divertente di una barzelletta. E Peter, con i suoi dieci decimi, abbassò gli occhi al suolo, per non vedere. «Siamo genitori sovversivi» sussurrò Alex a Lacy mentre erano sedute con le ginocchia piegate come le zampe di una cavalletta nei banchi minuscoli, durante l'Open School Day. Prese i regoli Cuisenaire usati in aritmetica - rettangoli di varie lunghezze a colori vivaci - e li sistemò in modo da formare una parolaccia. «Si ride e si scherza finché a qualcuno capita di diventare giudice» borbottò Lacy, e scombinò le lettere con la mano. «Hai paura che ti mandi fuori a calci dall'asilo?» rise Alex. «Quanto alla faccenda di diventare giudice, la vedo probabile come vincere la lotteria, per quel che mi riguarda.» «Vedremo» commentò Lacy. L'insegnante si fermò in mezzo a loro e porse a ciascuna un foglietto. «Oggi chiedo a tutti i genitori di scrivere la parola che meglio descrive il loro bambino. Poi ne faremo un bel collage.» Alex guardò Lacy di sfuggita. «Un bel collage?» «Smettila di essere anti-asilo.» «Ma io non lo sono. In realtà, penso che tutto quello che occorre sapere sulla legge lo si impari all'asilo. Lo sai: Non colpire. Non prendere quello che non è tuo. Non uccidere. Non stuprare.» «Oh, certo, ricordo quel corso. Subito dopo l'intervallo» disse Lacy. «Sai cosa intendo. È un contratto sociale.» «E se, quando ti troverai sullo scranno del giudice, dovrai sostenere una legge in cui non credi?» «Prima di tutto, si tratta di un grosso se. Secondariamente, non mi tirerei indietro. Mi sentirei orribilmente a disagio, ma lo farei» replicò Alex. «Nessuno vorrebbe un giudice con un ordine di valori personale, credimi.» Lacy sfrangiò il margine del suo foglietto. «Se finisci per diventare il tuo lavoro, quando trovi il tempo di essere te stessa?»
Alex ridacchiò e dispose i regoli Cuisenaire in un'altra parolaccia. «Alle giornate per i genitori all'asilo, immagino.» D'improvviso comparve Josie, affannata e con le guance arrossate. «Mamma» disse tirando Alex per una mano mentre Peter si arrampicava in grembo a Lacy. «Abbiamo finito.» Fino a quel momento erano stati nell'angolo delle costruzioni, a preparare una sorpresa. Lacy e Alex si alzarono in piedi, lasciandosi condurre oltre gli scaffali con i libri e i mucchi di tappetini e il tavolo per la lezione di scienze con i suoi esperimenti sulle zucche marce, la cui scorza bucherellata e la polpa scavata ricordarono ad Alex il volto di un pubblico ministero di sua conoscenza. «Questa è la nostra casa» annunciò Josie, spingendo un cubo che serviva da porta principale e aprendola. «Siamo sposati.» Lacy diede di gomito ad Alex. «Ho sempre sognato di essere in buoni rapporti con i miei parenti acquisiti.» Peter era in piedi accanto a una cucina a gas di legno e mescolava un cibo immaginario in una pentola di plastica. Josie si infilò un camice da laboratorio di parecchie taglie più della sua. «È ora di andare al lavoro. Sarò a casa per cena.» «Va bene» fece Peter. «Ti preparerò le polpette.» «Che lavoro fai?» domandò Alex a Josie. «Sono un giudice. Passo tutta la giornata a mandare gente in prigione, poi vengo a casa e mangio pisghetti.» Fece il giro della casa di blocchi e rientrò dalla porta principale. «Siediti» le ordinò Peter. «Sei di nuovo in ritardo.» Lacy chiuse gli occhi. «È una mia impressione o è come guardarsi in uno specchio molto realistico?» Osservarono Josie e Peter mettere da parte i piatti e spostarsi in un'altra parte della loro casa di cubi, un quadrato più piccolo dentro il quadrato. Vi si sdraiarono dentro. «Questo è il letto» spiegò Josie. L'insegnante sopraggiunse alle spalle di Alex e Lacy. «Giocano sempre alla casa» disse. «Non sono teneri?» Alex guardò Peter raggomitolarsi dalla sua parte. Josie si mise a cucchiaio contro di lui, cingendogli la vita con un braccio. Si domandava come avesse fatto sua figlia a concepire un'immagine di coppia come quella, dato che non aveva mai visto sua madre neppure uscire per un appuntamento. Guardò Lacy china in un angolo dei blocchi a scrivere, sul suo foglietto, TENERO. Era la parola giusta per descrivere Peter: era tenero, quasi al
punto di apparire indifeso. Aveva bisogno di qualcuno come Josie, che lo avvolgesse come in un guscio, per proteggerlo. Alex prese una matita e spianò il foglietto. Le vennero in mente svariati aggettivi... ce n'erano così tanti per sua figlia: dinamica, leale, vivace, mozzafiato... ma si sorprese a scrivere altre lettere. Mia, aveva scritto. Questa volta, quando la scatola del pranzo atterrò sul selciato, si sfasciò aprendosi a metà e l'auto dietro lo scuolabus passò sul sandwich al tonno e sul pacchetto di Dorito. Il conducente dell'autobus, come al solito, non se ne accorse. I ragazzi di quinta erano diventati talmente abili in quella bravata che il finestrino veniva aperto e richiuso prima che qualcuno potesse strillare loro di fermarsi. Peter sentì che gli salivano le lacrime agli occhi mentre i ragazzi si scambiavano un cinque trionfante. Gli sembrava di udire la voce di sua madre nella testa: quello era il momento di far valere i suoi diritti! Ma sua madre non aveva intuito che avrebbe soltanto peggiorato la situazione. «Oh, Peter» sospirò Josie mentre lui le si sedeva di nuovo vicino. Lui si guardò i guanti. «Non credo di poter venire a casa tua venerdì.» «E perché?» «Perché la mia mamma ha detto che mi avrebbe messo in castigo se avessi perso di nuovo la scatola del pranzo.» «Non è giusto» disse Josie. Peter scrollò la testa. «Niente lo è.» Nessuno rimase più sorpreso di Alex quando il governatore del New Hampshire la scelse ufficialmente da una lista ristretta di tre candidati per un posto di giudice della corte distrettuale federale. Sebbene fosse comprensibile che Jeanne Shaheen - una giovane democratica che ricopriva la carica di governatore - volesse nominare giudice una giovane democratica, Alex era ancora un po' stordita dalla notizia quando si presentò al colloquio. Il governatore era più giovane di quanto Alex si aspettasse, e anche più carina. È esattamente quello che la maggior parte della gente penserà di me quando sarò sul banco, pensò. Si sedette e infilò le mani sotto i glutei perché non le tremassero più. «Prima di nominarla» le domandò il governatore, «c'è qualcosa che dovrei sapere?»
«Si riferisce a qualche scheletro nel mio armadio?» Shaheen annuì. Quello che davvero importava, riguardo a una persona designata a un ufficio governatoriale, era se, in qualche modo, il candidato rispecchiava o no i valori in cui credeva il governatore. Shaheen stava cercando di mettere i puntini sulle i prima di ufficializzare la decisione, e Alex non poteva che ammirarla per questo. «È possibile che qualcuno si presenti all'udienza del Consiglio esecutivo per lei e si opponga alla sua nomina?» domandò il governatore. «Dipende. Sta forse accordando qualche licenza nella prigione di Stato?» Shaheen rise. «Ne deduco che sono finiti lì i suoi clienti più insoddisfatti.» «Proprio per quello non erano soddisfatti.» Il governatore si alzò in piedi e strinse la mano ad Alex. «Credo che ce la caveremo piuttosto bene» commentò. Il Maine e il New Hampshire erano gli unici due Stati rimasti nel paese con un Consiglio esecutivo, ossia un comitato che controllava direttamente il potere del governatore. Per Alex questo significava che, nel mese tra la sua nomina e l'udienza che l'avrebbe confermata, avrebbe dovuto fare tutto il possibile per rabbonire cinque uomini repubblicani prima che la mettessero sotto torchio. Telefonava loro tutte le settimane, chiedendo se avevano qualche domanda da porle. Dovette anche scegliere dei testimoni che si presentassero a suo favore all'udienza confirmatoria. Dopo anni di lavoro come difensore d'ufficio avrebbe dovuto riuscirle facile, ma il Consiglio esecutivo non voleva sentir parlare gli avvocati. Volevano sapere di lei dalla comunità nella quale Alex lavorava e viveva: dalla sua maestra di prima elementare a un agente di polizia che la stimava malgrado la sua fedeltà al Lato Oscuro. L'aspetto delicato della faccenda era che Alex doveva ingraziarsi quelle persone per prepararle a testimoniare, ma doveva anche chiarire che, se fosse stata confermata giudice, non avrebbe dato loro niente in cambio. Poi, finalmente, per Alex giunse il momento di prendere posto sul patibolo. Si sedette nell'ufficio del Consiglio esecutivo nella State House per rispondere a domande che spaziavano da Qual è l'ultimo libro che ha letto? a Chi ha l'onere della prova in casi di abuso o abbandono? Le domande erano quasi tutte sostanziali e accademiche, finché saltò fuori una domanda trabocchetto.
Signora Cormier, a chi spetta il diritto di giudicare un altro individuo? «Be'» disse Alex. «Dipende: bisogna distinguere tra giudizio morale e giudizio legale. Dal punto di vista morale, nessuno ha il diritto di giudicare nessun altro. Ma dal punto di vista legale non si tratta di diritto, bensì di responsabilità.» Di conseguenza, qual è la sua posizione sulle armi da fuoco? Alex esitò. Le armi non le piacevano affatto. Proibiva a Josie di guardare la violenza in tivù, sotto qualsiasi forma. Sapeva come andava a finire quando si metteva un'arma in mano a un ragazzo disturbato o a un marito furioso o a una moglie maltrattata: aveva difeso troppe volte clienti come quelli per dimenticarne la tipica reazione catalitica. Eppure... Si trovava nel New Hampshire, uno Stato conservatore, davanti a un gruppo di repubblicani terrorizzati all'idea che lei si rivelasse una mina vagante di sinistra. Avrebbe dovuto presiedere una comunità in cui la caccia non solo era apprezzata ma era anche necessaria. Alex bevve un sorso d'acqua. «Dal punto di vista legale» dichiarò, «sono a favore delle armi.» «È pazzesco» disse Alex, in piedi nella cucina di Lacy. «Se vai su certi siti di toghe su Internet, le modelle sembrano tutte giocatori di baseball con il seno. Quando pensa a una donna giudice, la gente si fa venire in mente i telefilm di Bea Arthur.» Uscì nel corridoio e strillò verso il piano di sopra. «Josie! Conto fino a dieci, poi ce ne andiamo!» «Ci sono alternative?» «Ma certo, nero... o nero.» Alex incrociò le braccia. «Puoi prendere qualcosa di cotone e poliestere oppure soltanto poliestere. Con le maniche scampanate oppure avvolgenti. Sono tutte orribili. Quello che vorrei è qualcosa di segnato in vita.» «Immagino che Vera Wang non vesta i giudici» commentò Lacy. «Assolutamente no.» Si affacciò di nuovo nel corridoio. «Josie! È ora!» Lacy posò lo strofinaccio che stava usando per asciugare una padella e seguì Alex nel corridoio. «Peter! La madre di Josie deve andare a casa!» Non essendoci risposta da parte dei bambini, Lacy salì le scale. «Probabilmente giocano a nascondersi.» Alex la seguì nella stanza di Peter, dove Lacy spalancò le ante dell'armadio e controllò sotto il letto. Poi andarono a vedere in bagno, nella stanza di Joey e nella camera da letto principale. Soltanto quando scesero di
nuovo al piano di sotto udirono le loro voci provenire dal seminterrato. «È pesante» diceva Josie. Poi Peter: «Ecco. Così». Alex scese di corsa la scala di legno. Il seminterrato di Lacy era una cantina dove si conservavano gli ortaggi, risalente a un centinaio d'anni prima, con il pavimento sporco e ragnatele sospese come decorazioni natalizie. Alex seguì i sussurri che provenivano da un angolo del seminterrato e lì, dietro una pila di scatole e uno scaffale pieno di barattoli di gelatina fatta in casa, c'era Josie, con in mano un fucile. «Oh mio Dio» disse Alex senza fiato, e Josie si voltò di scatto, puntandole contro l'arma. Lacy afferrò il fucile e lo mise via. «Dove l'avete preso?» domandò severa, e soltanto allora Peter e Josie sembrarono rendersi conto che qualcosa non andava. «Peter» disse Josie. «Aveva una chiave.» «Una chiave?» gridò Alex. «Di cosa?» «Dell'armadietto» mormorò Lacy. «Deve aver visto Lewis mentre tirava fuori un fucile quando è andato a caccia, lo scorso weekend.» «Mia figlia ha continuato a venire a casa tua fino a oggi, e tu avevi delle armi in giro?» «Non sono in giro» obiettò Lacy. «Sono in un armadietto per le armi chiuso a chiave.» «Che tuo figlio di cinque anni sa aprire!» «Lewis tiene le cartucce...» «Dove?» tuonò Alex. «O farei meglio a chiederlo a Peter?» Lacy si rivolse a Peter. «Eppure lo sai. Come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere?» «Volevo soltanto farglielo vedere, mamma. Me l'ha chiesto lei.» Josie sollevò un viso spaventato. «Non l'ho chiesto.» Alex si voltò. «E adesso tuo figlio dà la colpa a Josie...» «Oppure tua figlia sta mentendo» ribatté Lacy. Si fissarono, due amiche divise e schierate ciascuna dalla parte del proprio figlio. Il volto di Alex era in fiamme. E se, continuava a pensare. E se fossero arrivate cinque minuti dopo? E se Josie avesse sparato, ucciso? Innescato da questo pensiero, se ne accese un altro: le risposte che aveva dato al Consiglio esecutivo settimane prima. Chi ha il diritto di giudicare un altro individuo? Nessuno, aveva detto.
Eppure ora lo stava facendo. Sono favorevole alle armi, aveva detto. Questo la rendeva un'ipocrita? O era soltanto una brava madre? Alex guardò Lacy inginocchiarsi accanto a suo figlio e quella vista fece scattare qualcosa in lei: l'incrollabile fedeltà di Josie a Peter d'improvviso le apparve solo come un peso che la trascinava giù. Forse era meglio per Josie se cominciasse a conoscere nuovi amici. Amici che non la facessero finire nell'ufficio del direttore e che non le mettessero fucili in mano. Alex tenne saldamente Josie al suo fianco. «Dobbiamo andare, credo.» «Sì» convenne Lacy, con voce fredda. «Credo che sia meglio.» Erano nel reparto surgelati quando Josie cominciò a fare capricci come al solito. «Non mi piacciono i piselli» piagnucolò. «Non sei costretta a mangiarli.» Alex aprì lo sportello del freezer, lasciando che l'aria fredda le baciasse le guance mentre prendeva una confezione di verdure Green Giant. «Voglio gli Oreo.» «Non puoi mangiare gli Oreo. Hai già avuto gli animaletti di cracker.» Josie era litigiosa ormai da una settimana, dall'infelice episodio a casa di Lacy. Alex era ben conscia di non poter impedire a Josie di stare con Peter durante la giornata, a scuola, ma questo non significava che dovesse permettere a Josie di coltivare quell'amicizia invitando Peter a giocare nel tempo libero. Alex caricò una boccia di acqua Poland Spring sul carrello della spesa, poi una bottiglia di vino. Subito dopo ci ripensò e ne prese un'altra. «Vuoi pollo o hamburger per cena?» «Voglio il tacchino di tofu.» Alex si mise a ridere. «Dove hai sentito parlare del tacchino di tofu?» «Lacy ce l'ha preparato a pranzo. È come gli hot dog, ma fa meglio.» Alex fece un passo avanti quando, al banco della carne, chiamarono il suo numero. «Vorrei un paio d'etti di petto di pollo disossato». «Perché prendi sempre quello che vuoi tu, mentre io non ho mai quello che voglio?» protestò Josie. «Credimi, non sei una bambina con tante privazioni come vorresti credere.» «Voglio una mela» annunciò Josie. Alex sospirò. «Mi fai il favore di non dire più voglio finché non saremo uscite dal supermercato?»
Prima che Alex si rendesse conto di cosa stava facendo sua figlia, Josie scalciò dal sedile del carrello, colpendo Alex alla vita. «Ti odio!» urlò Josie. «Sei la mamma più cattiva del mondo!» Alex aveva la sgradevole sensazione di essere osservata dagli altri clienti: dalla donna anziana che tastava i meloni, dall'inserviente del supermercato con le mani piene di broccoli freschi. Perché i bambini esplodevano sempre in pubblico, dove puntualmente si viene subito giudicati per quello che fai? «Josie» disse, sorridendo a denti stretti, «calmati.» «Vorrei che tu fossi come la madre di Peter! Vorrei poter andare a vivere con loro.» Alex l'afferrò per le spalle, così forte che Josie scoppiò a piangere. «Ora ascoltami» disse in tono sommesso ma deciso, e in quel momento le giunse un mormorio lontano, e la parola giudice. Sul giornale locale era uscito un articolo sulla sua recente nomina alla corte distrettuale; era comparsa anche una foto. Alex si era accorta di essere riconosciuta mentre oltrepassava alcune persone nel reparto panetteria e in quello dei cereali: Oh, è proprio lei. Ma ora avvertiva anche una sorta di aspettativa vigile nei loro sguardi mentre la osservavano insieme a Josie, aspettandosi che si comportasse... be'... giudiziosamente. Alex allentò la presa. «So che sei stanca» disse abbastanza forte perché l'intero supermercato udisse. «So che vuoi andare a casa. Ma devi comportarti bene quando sei in mezzo alla gente.» Josie sbatté gli occhi pieni di lacrime, ascoltando la Voce della Ragione e domandandosi che cosa avesse fatto quell'aliena della sua vera madre, che le avrebbe risposto urlando e le avrebbe detto di smetterla. Un giudice, si rese conto Alex d'improvviso, non dev'essere un giudice soltanto in tribunale. È un giudice anche quando va al ristorante o a ballare a una festa o quando vorrebbe strozzare sua figlia in un reparto del supermercato. Alex aveva ricevuto una toga da indossare, senza capire che c'era il trucco: non avrebbe mai più potuto togliersela. Se passi la vita a concentrarti su quello che tutti gli altri pensano di te, rischi di dimenticare chi sei veramente? E se il volto che hai mostrato al mondo si rivelasse una maschera... con niente sotto? Alex spinse il carrello verso le code alle casse. Per il momento, la sua bambina furiosa era ridiventata una ragazzina contrita. Aspettò che Josie smettesse di fare i capricci. «Allora» disse per confortare sia se stessa che sua figlia. «Non è meglio così?»
Il primo giorno sul banco Alex lo trascorse a Keene. Nessuno tranne il suo cancelliere sapeva ufficialmente che quello era il suo primo giorno gli avvocati avevano sentito dire che era nuova, ma non sapevano da quanto esercitasse - eppure lei era terrorizzata. Cambiò tre volte vestito e accessori, benché nessuno potesse vedere cosa indossava sotto la toga. Prima di andare in tribunale vomitò due volte. Sapeva come raggiungere gli uffici: dopotutto, aveva trattato un centinaio di altri casi proprio lì, dall'altra parte del banco. Il cancelliere era un omino di nome Ishmael che Alex ricordava dai loro incontri precedenti e al quale non era andata particolarmente a genio - era scoppiata a ridere dopo che lui si era presentato («Mi chiami Ishmael»), perché aveva lo stesso nome del protagonista di Moby Dick. Quel giorno, tuttavia, si prostrò davanti ai suoi tacchi alti. «Ben arrivata, Vostro Onore» disse. «Ecco il registro delle udienze. L'accompagno nel suo ufficio e manderò un agente del tribunale a prenderla quando saremo pronti. C'è altro che posso fare per lei?» «No» rispose Alex. «Va bene così.» La lasciò nell'ufficio, dove faceva un freddo micidiale. Regolò il termostato e tirò fuori la toga dalla sua valigetta. Dopo averla indossata, Alex entrò nel bagno attiguo e si esaminò. Stava bene. Aveva un'aria autorevole. E forse un po' da ragazza del coro. Si sedette alla scrivania e immediatamente pensò a suo padre. Guardami, papà, pensò, benché lui fosse ormai in un luogo dove non poteva più udirla. Ricordava dozzine di casi che lui aveva trattato. Tornava a casa e a cena glieli raccontava. Quello che non riusciva a ricordare erano i momenti in cui lui non era un giudice ma soltanto suo padre. Alex esaminò le pratiche che le servivano per la serie di imputazioni di quella mattina. Poi guardò l'orologio. Mancavano ancora quarantacinque minuti all'inizio della seduta; ed era tutta colpa sua e del suo maledetto nervosismo, se era arrivata troppo presto. Si alzò in piedi, si stirò. Avrebbe potuto fare anche la ruota in quella stanza, tanto era grande. Ma non lo fece, perché i giudici non fanno cose del genere. Provò ad aprire la porta e immediatamente Ishmael si materializzò nel corridoio. «Vostro Onore? Cosa posso fare per lei?» «Caffè» rispose Alex. «Lo gradirei.» Ishmael colse quell'occasione al volo, e Alex si rese conto che, se gli avesse chiesto di uscire a comprare un regalo per il compleanno di Josie, entro mezzogiorno se lo sarebbe trovato sulla scrivania già impacchettato.
Lo seguì nella sala d'aspetto, condivisa sia dagli avvocati che da altri giudici, e si diresse verso il distributore di caffè. Immediatamente, una giovane avvocatessa si fece indietro. «Prego, Vostro Onore» disse, cedendole il suo posto nella fila. Alex prese un bicchiere di carta. Doveva ricordarsi di portare una tazza da lasciare in ufficio. Inoltre, dato che il suo era un posto a rotazione che l'avrebbe portata a Laconia, Concord, Keene, Nashua, Rochester, Milford, Jaffrey, Peterborough, Grafton e Coos, a seconda del giorno della settimana, avrebbe dovuto procurarsi parecchie tazze da caffè. Premette il pulsante del distributore, ma dopo una serie di sibili e di sbuffi il bicchiere rimase vuoto. Senza nemmeno pensarci, Alex prese un filtro per prepararsi un altro caffè. «Vostro Onore, non deve farlo lei» disse l'avvocatessa, evidentemente imbarazzata data la posizione di Alex. Le prese il filtro dalle mani e cominciò a fare il caffè. Alex rimase a fissare l'avvocatessa. Si domandava se si sarebbe mai più sentita chiamare Alex, o se ormai il suo nome era diventato ufficialmente Vostro Onore. Si domandava se qualcuno avrebbe avuto il coraggio di dirle che aveva della carta igienica impigliata a una scarpa mentre attraversava l'atrio, oppure che le erano rimasti degli spinaci tra i denti. Era una sensazione strana essere esaminata così attentamente e sapere allo stesso tempo che nessuno avrebbe mai osato dirle in faccia che aveva qualcosa fuori posto. L'avvocatessa le portò un'altra tazza di caffè appena fatto. «Non so come lo prende, Vostro Onore» disse, offrendole zucchero e panna. «Va bene così» disse Alex, ma non appena ebbe preso la tazza la sua manica a campana sfiorò il bordo della Styrofoam, e il caffè si rovesciò. Tranquilla, Alex, pensò. «Oh, accidenti» fece l'avvocatessa. «Mi scusi!» Perché ti scusi, si domandò Alex, dato che è colpa mia? La ragazza stava già precipitandosi a pulire quel disastro con dei tovaglioli, ma Alex si tolse la toga per sistemarla. Per un istante si lasciò andare a un pensiero folle: invece di fermarsi lì, si sarebbe svestita completamente, togliendosi reggiseno e mutandine, e avrebbe attraversato pomposamente il tribunale come l'imperatore della fiaba. È bello il mio vestito? Avrebbe detto, e tutti le avrebbero risposto: Oh, sì, Vostro Onore. Sciacquò la manica nel lavandino e la scosse per asciugarla. Poi, tenendo ancora in mano la toga, fece per tornare nel suo ufficio. Ma il pensiero di
rimanere là seduta per un'altra mezzora, da sola, era troppo deprimente, così Alex cominciò a vagare per i corridoi del tribunale di Keene. Svoltò in posti dove non era mai stata finché giunse alla porta di un seminterrato che conduceva a una zona di carico e scarico. Fuori, trovò una donna che indossava una tuta verde da giardiniere e fumava una sigaretta. C'era un clima da pieno inverno, e il ghiaccio luccicava sull'asfalto come vetro rotto. Alex si strinse le braccia attorno al corpo - forse era ancora più freddo lì che in ufficio - e fece un cenno alla sconosciuta. «Salve» disse. «Salve.» La donna esalò una striscia di fumo. «Non l'avevo mai vista, da queste parti. Come si chiama?» «Alex.» «Io sono Liz. Sono l'intero reparto manutenzione.» Ridacchiò. «E lei in quale settore del tribunale lavora?» Alex frugò in una tasca alla ricerca di una scatola di Tic Tac, non perché volesse o avesse bisogno di una mentina, ma per guadagnare tempo prima che quella conversazione s'inceppasse bruscamente. «Mmm» disse. «Sono il giudice.» Subito l'espressione del volto di Liz cambiò, e lei fece un passo indietro, a disagio. «Sa, glielo dico a malincuore, perché era così simpatico il modo in cui lei aveva cominciato una conversazione con me. Nessun altro qui in giro ha voglia di farlo e... be', mi sento un po' sola.» Alex esitò. «Può provare a dimenticare che sono il giudice?» Liz schiacciò la sigaretta sotto lo stivale. «Dipende.» Alex annuì. Rovesciò nel palmo della mano la scatolina di plastica delle mentine, che tintinnarono come una musica. «Vuole un Tic Tac?» Dopo un istante, Liz allungò la mano. «Certo, Alex» rispose, e sorrise. Peter aveva preso l'abitudine di vagare per casa come un fantasma. Era in castigo, per un motivo collegato al fatto che Josie non veniva più a casa sua, mentre di solito si vedevano dopo la scuola tre o quattro volte alla settimana. Joey non voleva giocare con lui: era sempre a qualche allenamento di pallone o immerso in un videogioco in cui bisognava guidare molto veloci su una pista tortuosa come una graffetta, il che significava che Peter, ufficialmente, non aveva niente da fare. Una sera, dopo cena, udì un rumore nel seminterrato. Non era più tornato laggiù da quando sua madre l'aveva sorpreso con Josie e il fucile, ma in
quel momento fu attratto come una farfalla dalla luce fino al tavolo da lavoro di suo padre. Seduto su uno sgabello davanti al tavolo, suo padre teneva in mano proprio quel fucile che aveva causato tanti guai a Peter. «Non dovresti prepararti per andare a letto?» domandò suo padre. «Non sono stanco.» Osservò le mani di suo padre scorrere sulla canna affusolata dell'arma. «È bello, vero? È un Remington 721. Un calibro tre-otto-sei.» Si voltò verso Peter. «Vuoi aiutarmi a pulirlo?» Istintivamente Peter alzò gli occhi verso il piano di sopra, dove sua madre stava lavando i piatti della cena. «Secondo me, Peter, se ti interessano tanto le armi, devi imparare a rispettarle. Meglio aver paura che buscarne, giusto? Nemmeno tua madre potrebbe aver qualcosa da ridire.» Cullò il fucile sulle sue ginocchia. «Un'arma è qualcosa di molto, molto pericoloso, ma ciò che la rende così pericolosa è che la maggior parte della gente non ne capisce il funzionamento. Una volta che lo sai, invece, è soltanto uno strumento come un altro, come un martello o un cacciavite, e non serve a niente se non sai come prenderlo e usarlo correttamente. Capisci?» Peter non capiva, ma non voleva dirlo a suo padre. Stava per imparare come si usa un fucile vero! Nessuno di quei ragazzi idioti della sua classe, nessuno di quei cretini avrebbe saputo dire come si faceva. «Prima di tutto bisogna aprire l'otturatore, così, per accertarsi che non ci siano proiettili. Guarda nel caricatore, proprio qui. Ne vedi qualcuno?» Peter scosse il capo. «Ora controlla di nuovo. Non si controlla mai abbastanza. Ecco, c'è un bottoncino sotto la carcassa, proprio davanti al guardiolo del grilletto: premilo e potrai togliere completamente l'otturatore.» Peter osservò suo padre togliere il grosso fermo color argento che fissava il calcio del fucile alla canna, senza sforzo. Prese una bottiglia di solvente che era posata sul tavolo da lavoro - Hoppes #9, lesse Peter - e ne versò un poco su uno straccio. «Niente è come la caccia, Peter» disse suo padre. «Stare all'aperto nei boschi mentre tutto il mondo dorme ancora... vedere il cervo che solleva la testa e ti guarda fisso...» Allontanò lo straccio - aveva un odore che faceva girare la testa a Peter - e cominciò a passarlo sull'otturatore. «Ecco» disse. «Vuoi farlo tu?» Peter rimase esterrefatto: poteva tenere in mano il fucile, dopo quello che era accaduto con Josie? Forse perché c'era suo padre a controllare, o forse era un trabocchetto e lui sarebbe stato punito perché voleva provarci ancora. Esitante, allungò la mano verso l'arma, sorpreso, come già in pre-
cedenza, nel sentirla così incredibilmente pesante. Nel videogioco di Joey, Big Buck Hunter, i personaggi muovevano i loro fucili come se fossero leggeri come piume. Non era un trabocchetto. Suo padre voleva che lui lo aiutasse, sul serio. Peter lo osservò prendere un altro barattolo - olio per armi da fuoco - e metterne un po' su uno straccio pulito. «Asciughiamo l'otturatore e mettiamo una goccia sul percussore... Vuoi sapere come funziona un fucile, Peter? E allora vieni qui.» Indicò il percussore, un minuscolo cerchietto all'interno del cerchio dell'otturatore. «Dentro l'otturatore, dove non puoi vederla, c'è una grossa molla. Quando si tira il grilletto, si libera la molla, che colpisce il percussore e lo fa sporgere solo di tanto così.» Teneva pollice e indice separati solo di pochi millimetri, per fargli vedere. «Questo percussore colpisce il centro di un bossolo d'ottone... e ammacca un bottoncino argento che si chiama innesco. L'ammaccatura dà fuoco alla carica, cioè la polvere da sparo all'interno dell'involucro d'ottone. Vedi una cartuccia, come diventa sempre più sottile in fondo? Questa parte sottile contiene il vero proiettile e, quando la polvere da sparo esplode, crea una pressione dietro il proiettile e lo spinge dalla parte posteriore.» Il padre di Peter gli prese l'otturatore dalle mani, lo lubrificò, e lo mise da parte. «Ora guarda nella canna.» Puntò il fucile come se volesse sparare a una lampadina sul soffitto. «Che cosa vedi?» Peter sbirciò nella canna aperta da dietro. «Sembra quella pasta che la mamma prepara per pranzo.» «Già, immagino. Fusilli? È così che li chiamano? Le filettature nella canna sono come una vite. Quando il proiettile viene spinto fuori, questi solchi fanno girare il proiettile. Un po' come quando tiri una palla ovale imprimendole un movimento rotatorio.» Peter aveva tentato di farlo in cortile con suo padre e Joey, ma la sua mano era troppo piccola oppure il pallone era troppo grosso e, quando provava a fare un passaggio, quasi sempre gli cadeva ai piedi. «Se il proiettile esce con un movimento a spirale, può volare via diritto senza ondeggiare.» Suo padre cominciò ad armeggiare con una lunga asta che aveva in cima una spirale di filo di ferro. Dopo aver fissato una pezzuola alla spirale, la immerse nel solvente. «La polvere da sparo, però, lascia della sporcizia dentro la canna» disse. «E bisogna eliminarla pulendola.» Peter osservò suo padre che ficcava l'asta nella canna, su e giù, come se stesse facendo il burro. Fissò una pezzuola pulita e la fece scorrere dentro
la canna, poi un'altra, finché non uscirono senza striature nere sopra. «Quando avevo la tua età, anch'io imparai osservando mio padre.» Gettò la pezzuola nella spazzatura. Un giorno, tu e io andremo a caccia.» Solo a pensarlo, Peter provava una gioia incontenibile. Lui, che non sapeva lanciare il pallone o fare un dribbling a calcio e neppure nuotare molto bene, sarebbe andato a caccia con suo padre? Gli piaceva l'idea di lasciare a casa Joey. Si domandò quanto a lungo avrebbe dovuto aspettare quel giorno, come si sarebbe sentito facendo qualcosa con suo padre che era soltanto loro. «Ah» disse suo padre. «Ora, guarda di nuovo dentro la canna.» Peter riprese in mano il fucile al contrario, guardando dentro dalla parte della bocca, con la canna del fucile premuta contro il volto vicino all'occhio. «Gesù, Peter!» esclamò suo padre, togliendoglielo dalle mani. «Non così! L'hai preso al contrario!» Girò il fucile in modo tale che la canna puntasse in avanti, non verso Peter. «Anche se l'otturatore è smontato, ed è sicuro, non devi mai guardare dentro la bocca di sparo di un fucile. Non puntare un'arma contro qualcosa che non vuoi uccidere.» Peter socchiuse gli occhi, guardando nella canna nel modo giusto. Era lucida, argentata, brillante. Perfetta. Suo padre strofinò la parte esterna della canna con l'olio. «Ora, premi il grilletto.» Peter lo guardò fisso. Persino lui sapeva di non doverlo fare. «È sicuro» ripeté suo padre. «È quello che si fa per rimontare il fucile.» Esitante, Peter arricciò il dito attorno alla mezzaluna di metallo e premette. Liberò un fermo in modo che l'otturatore, che suo padre teneva, scivolasse al suo posto. Guardò suo padre riporre nuovamente il fucile nell'armadietto delle armi. «La gente che si lascia spaventare dalle armi non le conosce» disse suo padre. «Se le conosci, puoi maneggiarle senza correre rischi.» Peter osservò suo padre chiudere a chiave l'armadietto. Capì cosa stava cercando di dire: il mistero del fucile, il vero motivo che lo aveva spinto a rubare la chiave dell'armadietto di suo padre dal cassetto della biancheria per mostrarlo a Josie, non era più così avvincente. Ora che l'aveva vista smontata e poi ricostituita, considerava un'arma da fuoco per quello che era: un ammasso di metallo con una forma precisa, la somma delle sue parti. Un'arma non era niente, in realtà, senza una persona dietro.
Che crediate o no nel fato, il nocciolo della questione è il seguente: chi incolpate quando qualcosa va storto. Pensate che la responsabilità sia vostra, che se aveste provato con maggior convinzione, o lavorato più sodo, non sarebbe accaduto? Oppure date la colpa alle circostanze? So di alcuni che, quando verranno a sapere dei morti, diranno che è stata la volontà di Dio. Altri diranno che sono stati sfortunati. E poi c'è la mia spiegazione preferita: si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di conseguenza, lo stesso potrebbe valere per me, non vi pare? Il giorno dopo Per il suo sesto Natale, Peter ricevette in dono un pesce. Era uno di quei pesci giapponesi da combattimento, un Betta splendens con la coda frastagliata, sottile come carta velina, che somigliava alla gonna a strascico di una diva del cinema. Peter lo chiamò Wolverine, e passava ore a osservare le sue scaglie simili a raggi di luna, i suoi occhi lucenti come monete. Ma dopo qualche giorno cominciò a chiedersi come ci si doveva sentire ad avere soltanto una boccia da esplorare. Si domandò se il pesce guizzasse sopra la pianticella di plastica ogni volta che vi passava davanti perché aveva scoperto qualcosa di nuovo e di sorprendente riguardo alla sua forma e alle sue dimensioni, o perché era un modo per contare un altro salto. Peter cominciò a svegliarsi nel cuore della notte per vedere se il suo pesce dormiva, ma, qualunque ora fosse, Wolverine stava sempre nuotando. Si chiedeva che cosa vedesse il pesce: un bulbo oculare ingrandito, che sorgeva come un sole attraverso il vetro spesso della boccia. In chiesa, aveva ascoltato il pastore Ron dire che Dio vede tutto, e si domandava se lui fosse qualcosa del genere per Wolverine. Seduto in una cella nel carcere di Grafton County, Peter cercava di ricordare cosa fosse accaduto al suo pesce. Era morto, probabilmente. E forse lui l'aveva guardato fino a farlo morire. Fissava la telecamera in un angolo della cella, che lo riprendeva impassibile. Loro - chiunque fossero - volevano accertarsi che non si suicidasse prima di essere stato crocifisso pubblicamente. Ecco perché nella sua cella non c'erano né una branda né un cuscino e nemmeno un materasso: soltanto una panca dura, e quella stupida telecamera. Eppure forse era meglio così. Per quanto ne sapeva, era da solo in quella piccola sezione di celle singole. Quando l'auto dello sceriffo si era fermata
davanti al carcere, il panico l'aveva invaso. Aveva visto tutti i programmi televisivi; sapeva cosa accadeva in quel genere di posti. Per l'intera durata dell'interrogatorio Peter aveva tenuto la bocca chiusa, non perché fosse un duro, ma perché temeva, se l'avesse aperta, di mettersi a piangere, senza ricordarsi di smettere. Si udì un rumore di metallo contro metallo, come un duello di spade, e poi dei passi. Peter rimase dov'era, le mani strette tra le ginocchia, le spalle curve. Non voleva guardare con troppa ansia; non voleva sembrare patetico. In realtà, era molto bravo a rendersi invisibile. Negli ultimi dodici anni aveva perfezionato quella sua capacità. Una guardia carceraria si fermò davanti alla sua cella. «Hai una visita» annunciò, e aprì la porta. Peter si alzò in piedi lentamente. Guardò in alto verso la telecamera, poi seguì la guardia lungo un corridoio grigio dalle pareti grezze. Quanto sarebbe stato difficile uscire da quel carcere? E se, come in tutti i videogiochi, avesse azzeccato qualche mossa di kung fu e fosse riuscito a mettere fuori combattimento quella guardia, e poi un'altra, e un'altra ancora, per poi correre fuori dalla porta a inspirare quell'aria il cui profumo aveva già cominciato a dimenticare? E se fosse stato costretto a rimanere lì per sempre? Fu allora che ricordò cos'era accaduto al suo pesce. In un impeto di solidarietà per i diritti degli animali e dell'umanità, Peter aveva preso Wolverine e l'aveva gettato nel gabinetto. S'immaginava che le tubazioni finissero in un oceano sterminato, come quello dov'era andato l'estate prima in vacanza con la sua famiglia, e che magari Wolverine avrebbe trovato la via per tornare in Giappone dagli altri suoi parenti Betta. Quando Peter si confidò con suo fratello, Joey gli disse delle fogne e gli spiegò che in quel modo, invece di restituirgli la libertà, Peter aveva ucciso il suo pesce. La guardia si fermò davanti a una stanza. Sulla porta si leggeva COLLOQUI PRIVATI. Non riusciva a immaginare chi mai lo venisse a trovare, tranne i suoi genitori, e per il momento lui non voleva vederli. Gli avrebbero rivolto domande a cui non avrebbe potuto rispondere - su come fosse possibile lasciare un figlio a letto la sera e non riconoscerlo più la mattina seguente. Forse sarebbe stato più facile tornare semplicemente davanti alla telecamera nella sua cella, che lo osservava ma senza giudicarlo. «Puoi andare» dichiarò la guardia, e aprì la porta. Peter fece un respiro profondo e rabbrividì. Si domandò che cosa avesse pensato il suo pesce quando, dopo aver tanto desiderato l'acqua fresca e
blu del mare, si era ritrovato a nuotare nella merda. Jordan entrò nel carcere di Grafton County e si fermò al check-in. Prima di poter incontrare Peter Houghton doveva firmare e farsi dare un pass per i visitatori dalla guardia carceraria che stava dall'altra parte della parete divisoria di plexiglas. Jordan prese il blocco per gli appunti e scarabocchiò il suo nome, poi lo spinse attraverso la sottile fessura in fondo alla parete di plastica, ma nessuno era pronto a riceverlo. Le due guardie all'interno erano incollate a un piccolo televisore in bianco e nero sintonizzato, come qualsiasi altro televisore del pianeta, sulle ultime notizie riguardanti la sparatoria. «Scusate» disse Jordan, ma né l'uno né l'altro dei due uomini si voltò. «All'inizio della sparatoria» stava dicendo il cronista, «Ed McCabe ha guardato fuori dalla porta della classe di nona dove stava insegnando matematica, piazzandosi tra lo sparatore e i suoi studenti.» Sullo schermo comparve una donna che piangeva. Il suo nome era scritto a bianche lettere cubitali sotto la sua faccia: JOAN MCCABE, SORELLA DELLA VITTIMA. «Si preoccupava sempre dei suoi ragazzi» gemeva la donna. «Si è preoccupato di loro per tutti i sette anni in cui ha insegnato alla Sterling, e si è preoccupato di loro anche nell'ultimo istante della sua vita.» Jordan si spostò sull'altro piede. «Buongiorno.» «Solo un momento, amico» disse una delle guardie, facendo un vago cenno con la mano nella sua direzione. Il cronista ricomparve sullo schermo granuloso, con i capelli scompigliati come la vela di una barca da una brezza leggera, e il muro di mattoni della scuola alle sue spalle. «I colleghi ricordano Ed McCabe come un insegnante impegnato sempre disposto a fare uno sforzo in più per i suoi studenti, e come un uomo che amava vivere all'aperto e parlava spesso, nella sala insegnanti, del suo sogno di attraversare a piedi l'Alaska. Un sogno» concludeva il cronista con aria grave, «che non potrà mai realizzare.» Jordan prese il blocco per gli appunti e lo spinse attraverso la fessura nella parete di plexiglas, in modo che cadesse sul pavimento. Le due guardie si voltarono nel medesimo istante. «Sono venuto per incontrare il mio cliente» disse. Nei diciannove anni in cui aveva insegnato allo Sterling College, Lewis Houghton non era mai mancato a una lezione. Fino a quel giorno. Quando
Lacy gli aveva telefonato, se n'era venuto via così in fretta che non aveva nemmeno pensato di lasciare un biglietto sulla porta dell'aula universitaria. Immaginava gli studenti in attesa di vederlo comparire, in attesa di trascrivere parola per parola quello che usciva dalla sua bocca, come se quello che aveva da dire fosse sempre ineccepibile. Quale sua parola, quale banalità, quale commento aveva condotto Peter a quel punto? Quale sua parola, quale banalità, quale commento avrebbe potuto fermarlo? Lui e Lacy erano seduti in cortile, in attesa che la polizia lasciasse la casa. Be', con ogni probabilità, almeno uno di loro due aveva dato l'opportunità agli agenti di estendere ulteriormente il loro mandato. Lewis e Lacy dovevano rimanere fuori dalla loro casa per tutta la durata della perquisizione. Per un certo tempo rimasero nel viale, lanciando di tanto in tanto un'occhiata ai poliziotti che portavano fuori della stanza di Peter borse e scatole piene di oggetti che Lewis si aspettava di vedere - computer e libri - e altri che invece lo sorprendevano: una racchetta da tennis, una scatola formato gigante di fiammiferi waterproof. «Che cosa facciamo?» mormorò Lacy. Lui scosse il capo, come stordito. Per uno dei suoi articoli sul valore della felicità, aveva intervistato individui di una certa età che avevano tentato il suicidio. Che cosa ci è rimasto? dicevano, e a quell'epoca Lewis non era riuscito a capire la profondità di quella disperazione. A quell'epoca non riusciva a immaginare che il mondo potesse diventare tanto spiacevole da precludere qualunque tentativo di raddrizzarlo. «Non possiamo fare niente» replicò Lewis, e ne era convinto. Osservò un poliziotto che usciva reggendo una pila di vecchi fumetti di Peter. Prima, quando era arrivato a casa e aveva trovato Lacy che camminava su e giù per il viale, lei gli si era gettata tra le braccia. «Perché?» aveva singhiozzato. «Perché?» C'erano mille interrogativi in quell'unica domanda, ma nessuno a cui Lewis potesse rispondere. Si era aggrappato a sua moglie come se lei fosse stata un tronco in mezzo a quel fiume in piena, e poi si era accorto che gli occhi di un vicino, dall'altra parte della strada, lo spiavano dietro una tenda. A quel punto si erano spostati in cortile. Si erano seduti sul dondolo nella veranda, in mezzo a un boschetto di rami spogli e di neve che si scioglieva. Lewis sedeva immobile, con le dita e le labbra irrigidite dal freddo,
dallo choc. «Credi» sussurrò Lacy «che sia colpa nostra?» Lui la guardò fisso, stupefatto per il suo coraggio: aveva tradotto in parole quello che lui non si concedeva nemmeno di pensare. Ma che altro rimaneva da dire tra loro due? La sparatoria era avvenuta. Vi era coinvolto il loro figlio. Erano fatti indiscutibili; si potevano soltanto cambiare le lenti attraverso le quali guardarli. Lewis chinò il capo. «Non lo so.» Da dove incominciare a esaminare quei dati? Era accaduto perché Lacy aveva preso in braccio troppe volte Peter quando era piccolo? O perché Lewis aveva fatto finta di ridere quando a Peter capitava di cadere, sperando che il bambino non si mettesse a piangere se lui pensava che non ce ne fosse motivo? Avrebbero dovuto controllare più attentamente quello che leggeva, guardava, ascoltava... oppure stargli più addosso avrebbe condotto allo stesso risultato? O forse era la combinazione di Lacy e Lewis insieme. Se i figli valevano come precedenti nella storia di una coppia, loro due avevano fallito miseramente. Due volte. Lacy teneva lo sguardo fisso sul complicato disegno di mattoni in mezzo alle sue scarpe. Lewis ricordò quando aveva costruito quel patio: aveva livellato la sabbia e collocato i mattoni lui stesso. Peter avrebbe voluto aiutarlo, ma Lewis non glielo aveva permesso. I mattoni erano troppo pesanti. Rischi di farti male, gli aveva detto. Se Lewis fosse stato meno protettivo... se Peter avesse provato il dolore vero, forse sarebbe stato meno disposto a infliggerlo ad altri? «Come si chiamava la madre di Hitler?» domandò Lacy. Lewis la guardò con gli occhi sbarrati. «Cosa?» «Era una donna orribile?» Lui cinse Lacy con un braccio. «Non farti questo» mormorò. Lei seppellì il volto sulla sua spalla. «Lo faranno tutti gli altri.» Per un solo istante, Lewis si concesse di pensare che tutti si erano sbagliati - che non poteva essere stato Peter a sparare, quel giorno. In un certo senso era vero: sebbene vi fossero centinaia di testimoni, il ragazzo che avevano visto non era lo stesso con cui Lewis aveva parlato la sera precedente prima di andare a letto. Avevano avuto una conversazione a proposito dell'auto di Peter. Sai che devi farla revisionare entro la fine del mese, aveva detto Lewis. Sì, aveva risposto Peter. Ho già preso un appuntamento. Aveva mentito anche su quello?
«L'avvocato...» «Ha detto che ci telefonerà» rispose Lewis. «L'hai avvertito che Peter è allergico ai frutti di mare? Se glieli danno da mangiare...» «L'ho avvertito» disse Lewis, benché non fosse vero. Immaginò Peter, seduto da solo in una cella di quel carcere che lui oltrepassava in macchina ogni estate, sulla strada per Haverhill Fairgrounds. Ripensò a quando Peter aveva telefonato a casa la seconda notte di campeggio, supplicandoli di andare a prenderlo. Pensò a suo figlio, che era ancora suo figlio, anche se aveva fatto qualcosa di così orribile che Lewis non poteva chiudere gli occhi senza immaginare il peggio; e allora le sue costole gli sembrarono così strette da non poter respirare aria a sufficienza. «Lewis?» disse Lacy, staccandosi da lui nel vederlo respirare con affanno. «Stai bene?» Lui annuì, sorrise, ma la verità lo soffocava. «Signor Houghton?» Entrambi sollevarono lo sguardo e videro un agente in piedi davanti a loro. «Signore, può venire un momento con me?» Lacy si alzò in piedi al suo fianco, ma lui la trattenne con una mano. Non sapeva dove l'avrebbe portato quel poliziotto, che cosa stesse per mostrargli. Non voleva che Lacy vedesse se non era necessario. Lewis seguì l'agente in casa, ipnotizzato per un istante dai poliziotti in guanti bianchi che perlustravano la sua cucina, il suo armadio. Non appena giunsero alla porta del seminterrato, Lewis iniziò a sudare. Sapeva dov'erano diretti; c'era qualcosa a cui aveva accuratamente evitato di pensare da quando aveva ricevuto la telefonata di Lacy. Un altro poliziotto era fermo nel seminterrato, intralciando a Lewis la visuale. Era dieci gradi più freddo lì sotto, eppure Lewis sudava. Si asciugò la fronte con una manica. «Quei fucili» disse l'agente. «Sono suoi?» Lewis deglutì. «Sì. Vado a caccia.» «Può dirci, signor Houghton, se tutte le sue armi da fuoco sono qui?» Il poliziotto fece un passo di lato rivelando l'armadietto dei fucili con la porta di vetro. Lewis sentì che le ginocchia gli cedevano. Tre dei suoi cinque fucili da caccia erano al loro posto nell'armadietto, come ragazze che fanno tappezzeria a un ballo. Ne mancavano due. Fino a quel momento, aveva impedito a se stesso di credere a quella cosa
orribile su Peter. Fino a quel momento, era stato un incidente devastante. In quel momento, Lewis cominciò a incolpare se stesso. Affrontò il poliziotto, guardandolo negli occhi senza tradire i propri sentimenti. Un'espressione, si rese conto Lewis, che aveva imparato da suo figlio. «No» disse. «Non ci sono tutte.» La prima legge non scritta della difesa legale è agire come se sapessi tutto, quando in realtà non sai assolutamente niente. Ti trovi di fronte a un cliente sconosciuto che potrebbe avere o no una dannata possibilità di assoluzione; ma il trucco consiste nel rimanere contemporaneamente impassibili e autorevoli. Devi stabilire subito i parametri della relazione: Io sono il capo; dimmi soltanto quello che mi serve sapere. Jordan si era già trovato un centinaio di volte in quel genere di situazione: ad aspettare, in una stanza adibita ai colloqui privati, in quello stesso carcere, che arrivasse il suo prossimo buono pasto; ed era sinceramente convinto di aver già visto tutto. Ecco perché rimase sconcertato quando scoprì che Peter Houghton aveva la capacità di sorprenderlo. Considerata l'entità della sparatoria e del danno provocato, il terrore che Jordan aveva visto sulle facce riprese dalla televisione... be', quel ragazzo ossuto, con le lentiggini e gli occhiali, difficilmente poteva sembrare capace di una simile impresa. Quello fu il suo primo pensiero. Il secondo fu: Per me sarà solo un vantaggio. «Peter» esordì. «Sono Jordan McAfee, e sono un avvocato. Sono stato scelto dai tuoi genitori per rappresentarti.» Rimase in attesa di una reazione. «Puoi sederti» disse, ma il ragazzo rimase in piedi. «O puoi restare in piedi» aggiunse Jordan. Si calò sul volto la sua maschera da lavoro e alzò lo sguardo su Peter. «Domani ci sarà l'imputazione. Non otterrai la libertà su cauzione. Abbiamo la possibilità di esaminare le accuse al mattino, prima che tu ti presenti davanti alla corte.» Diede a Peter un istante per assimilare quella notizia. «D'ora in poi, non dovrai affrontare tutto questo da solo. Ci sarò io.» Era un'impressione di Jordan, o c'era stato come un lampo negli occhi di Peter quando aveva pronunciato quelle parole? In ogni caso era stata questione di un momento; Peter teneva lo sguardo fisso al suolo, privo di espressione. «Bene» disse Jordan, alzandosi in piedi. «Qualche domanda?» Come si aspettava, non vi fu risposta. Diavolo, per l'impegno che Peter
metteva in quella breve conversazione, Jordan si sentiva come se stesse chiacchierando con una delle vittime meno fortunate della sparatoria. Forse è così, pensò, e la voce nella sua testa suonò troppo maledettamente simile a quella di sua moglie. «Allora, siamo d'accordo. Ci vediamo domani.» Bussò alla porta, per chiamare la guardia giudiziaria che avrebbe ricondotto Peter nella sua cella, quando tutt'a un tratto il ragazzo parlò. «Quanti ne ho presi?» Jordan esitò, la mano sulla maniglia. Non si voltò verso il suo cliente. «Ci vediamo domani» ripeté. Il dottor Ervin Peabody abitava al di là del fiume a Norwich, nel Vermont, e lavorava part time al programma di psicologia dello Sterling College. Sei anni prima era stato uno dei sette coautori di una pubblicazione sulla violenza nelle scuole: un esercizio accademico che ricordava appena. Tuttavia, era stato chiamato dalla affiliata della NBC di Burlington un notiziario del mattino che a volte guardava al di sopra della sua scodella di cereali per il puro piacere di vedere quante cantonate prendevano quegli inetti dei commentatori. Stiamo cercando qualcuno che possa parlarci della sparatoria da un punto di vista psicologico, aveva dichiarato il direttore del programma, ed Ervin aveva replicato: Sono l'uomo che fa per voi. «Segnali di avvertimento» disse in risposta alla domanda del conduttore. «Be', questi giovani si isolano dagli altri. Tendono a stare da soli. Parlano di colpire se stessi, o gli altri. Non vanno bene a scuola, oppure sono oggetto di provvedimenti disciplinari. Sono privi di una connessione con qualcuno, di chiunque si tratti, che possa farli sentire importanti.» Ervin sapeva che il network non l'aveva cercato per la sua esperienza, ma soltanto per conforto. Tutti a Sterling - tutti nel mondo - volevano sapere che ragazzi come Peter Houghton erano riconoscibili, come se la possibilità di diventare assassini nel giro di una notte fosse una macchia sulla pelle visibile fin dalla nascita. «Dunque esiste un profilo generale dell'autore di una sparatoria in una scuola» incalzò il conduttore. Ervin Peabody guardò nella telecamera. Lui conosceva la verità: se avesse detto che quei ragazzi vestivano di nero o ascoltavano musica stravagante o erano sempre arrabbiati, avrebbe messo in discussione la maggior parte della popolazione maschile in età adolescenziale. Sapeva che, se un individuo profondamente disturbato era deciso a procurare danni, aveva buone probabilità di riuscire nel suo intento. Ma sapeva anche che gli oc-
chi di tutti, nella Connecticut Valley, e forse anche nell'intero Nord-Est, erano puntati su di lui - e lui era favorito per un posto di ruolo a Sterling. Un po' di prestigio - l'etichetta di esperto - non guastava. «Parliamone» disse. Era Lewis a sistemare la famiglia Houghton per la notte. Cominciava in cucina caricando la lavastoviglie. Chiudeva la porta principale e spegneva le luci. Poi saliva al piano di sopra, dove Lacy di solito era già a letto a leggere - quando non era fuori per assistere una partoriente - e sostava nella stanza di suo figlio. Gli diceva di spegnere il computer e di andare a letto. Quella sera si ritrovò fermo davanti alla stanza di Peter, a guardare il caos lasciato dai poliziotti dopo la perquisizione. Pensò di raddrizzare i libri rimasti negli scaffali, riponendo il contenuto dei cassetti della scrivania che erano stati rovesciati sul tappeto. Ma il suo secondo pensiero fu di chiudere sommessamente la porta. Lacy non era in camera da letto, e nemmeno in bagno a lavarsi i denti. Esitò, tendendo l'orecchio. Udiva un chiacchiericcio, come una conversazione furtiva, provenire dalla stanza sotto di lui. Tornò sui suoi passi, avvicinandosi alle voci. Con chi parlava Lacy a mezzanotte? Lo schermo del televisore scintillava verde e sinistro nello studio buio. Lewis si era persino dimenticato che c'era un televisore in quella stanza, tanto raramente veniva usato. Vide il logo della CNN e il familiare nastro con le ultime notizie che scorreva in basso. Un pensiero gli attraversò la mente: quel nastro non c'era mai stato fino all'11 settembre, fino a quando la gente non era diventata così spaventata da aver bisogno di sapere, in tempo reale, i fatti del mondo in cui viveva. Lacy era in ginocchio sul tappeto, il viso rivolto a quello del conduttore televisivo. «Si sa ancora poco di come l'uomo che ha sparato si sia procurato le armi, o di quali armi si trattasse esattamente...» «Lacy» disse, deglutendo. «Lacy, vieni a letto.» Lacy non si mosse, non diede alcun segno di averlo udito. Lewis le passò davanti, mettendole una mano sulla spalla mentre andava a spegnere il televisore. «I primi resoconti fanno riferimento a due pistole» aggiunse il conduttore, subito prima che la sua immagine scomparisse. Lacy si voltò verso di lui. I suoi occhi gli ricordavano il cielo come lo si vede dagli aerei: un grigio sconfinato che potrebbe essere ovunque e da
nessuna parte, nello stesso tempo. «Continuano a chiamarlo un uomo» disse lei, «ma è soltanto un ragazzo.» «Lacy» ripeté, e lei si alzò in piedi e si rifugiò tra le sue braccia, come se quello fosse un invito a un ballo. In un ospedale, se si ascolta attentamente si può udire la verità. Le infermiere sussurrano tra loro sopra il vostro corpo ancora immobile quando fate finta di dormire; i poliziotti si scambiano segreti nel corridoio; i medici entrano nella vostra stanza con le condizioni di un altro paziente sulle labbra. Josie stava facendo un elenco mentale dei feriti. Sembrava che lei potesse fare il gioco dei sei gradi di separazione con tutti quelli che erano rimasti feriti - quando li aveva visti per l'ultima volta; quando avevano incrociato la sua strada; dove si trovavano, rispetto a lei, quando erano stati colpiti. C'era Drew Girard, che aveva afferrato Matt e Josie per avvertirli che Peter Houghton stava sparando a tutta la scuola. Emma, che era seduta a tre sedie di distanza da Josie nella caffetteria. E Trey MacKenzie, un giocatore di football noto per le feste che dava a casa sua. John Eberhard, che quella mattina aveva mangiato le patatine fritte di Josie. Min Horuka, uno studente di Tokyo che usufruiva di un piano di scambi culturali e che l'anno prima si era ubriacato sul percorso di corde dietro il campo sportivo e poi aveva urinato nel finestrino aperto dell'auto del direttore. Natalie Zlenko, che era in coda davanti a Josie nella caffetteria. L'allenatore Spears e Miss Ritolli, due ex insegnanti di Josie. Brady Pryce e Haley Weaver, i due studenti dell'ultimo anno che formavano la coppia dell'anno. C'erano altri che Josie conosceva soltanto di nome: Michael Beach, Steve Babourias, Natalie Phlug, Austin Prokiov, Alyssa Carr, Jared Weiner, Richard Hicks, Jada Knight, Zoe Patterson, tutti estranei ai quali, ora, si sentiva legata per sempre. Era più difficile scoprire i nomi dei morti. Venivano sussurrati a voce ancora più bassa, come se il loro stato fosse contagioso per gli altri sventurati che occupavano i letti dell'ospedale. Josie aveva udito alcune voci: che McCabe era stato ucciso, e anche Topher McPhee - lo spacciatore della scuola. Per racimolare briciole di notizie, Josie tentò di guardare la televisione, che parlava ventiquattr'ore su ventiquattro della Sparatoria alla Sterling High, ma com'era prevedibile sua madre entrò nella stanza e la spense. Da quella sua incursione proibita era riuscita a sapere soltanto che c'erano state dieci vittime.
Matt era uno di loro. Ogni volta che Josie ci pensava, al suo corpo accadeva qualcosa. Smetteva di respirare. Tutte le parole che conosceva si coagulavano in fondo alla gola, come un macigno che bloccasse l'uscita da una cava. Grazie ai sedativi, molte cose le sembravano irreali, come se camminasse sul pavimento spugnoso di un sogno, ma, nell'istante in cui pensava a Matt, il sogno diventava una cruda realtà. Non avrebbe mai più baciato Matt. Non l'avrebbe mai più udito ridere. Non avrebbe mai più sentito la stretta della sua mano intorno alla vita, e non avrebbe più letto un bigliettino che lui le infilava nelle fessure del suo armadietto, e non avrebbe più sentito il proprio cuore battere nella mano di lui quando le slacciava la camicetta. Ricordava soltanto una metà, se ne rendeva conto... come se la sparatoria avesse non solo spaccato la sua vita in un prima e in un dopo, ma le avesse anche sottratto certe capacità: la capacità di resistere per un'ora senza sciogliersi in lacrime; la capacità di vedere il colore rosso senza sentirsi a disagio; la capacità di formare l'ossatura della verità a partire dalle nude ossa della memoria. Ricordare il resto, dopo quello che era accaduto, sarebbe stato quasi osceno. Fu così che Josie si ritrovò a cambiare direzione e a passare, come se fosse ubriaca, dai momenti romanticamente sfuocati con Matt a immagini macabre. Continuava a pensare a un verso di Romeo e Giulietta che l'aveva spaventata quando avevano studiato Shakespeare in nona. Con i vermi che sono le tue ancelle. Romeo l'aveva detto al corpo apparentemente morto di Giulietta nella cripta dei Capuleti. Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Ma nel mezzo c'erano tanti passaggi di cui nessuno parlava mai e, quando le infermiere se ne andarono nel cuore della notte, Josie si sorprese a domandarsi quanto tempo occorresse perché la carne si staccasse da un cranio; che cosa accadesse ai bulbi oculari; se Matt avesse già cessato di sembrare Matt. E poi si svegliò e si ritrovò a urlare, con una dozzina di medici e infermiere che la tenevano giù. Se dai il tuo cuore a qualcuno e lui muore, lo porta via con sé? Devi passare il resto della vita con un buco dentro che non può essere riempito? La porta della sua stanza si aprì e sua madre fece un passo avanti. «E allora» disse, con un sorriso finto così largo che le divideva l'intera testa come la linea dell'equatore. «Sei pronta?» Erano solo le sette del mattino, ma Josie era già stata dimessa. Annuì a
sua madre. In quel momento Josie quasi la odiava. Si dava da fare tutta concentrata e preoccupata, ma era troppo tardi: sembrava che avesse preso la sparatoria come il segnale di svegliarsi e capire che tra lei e Josie non c'era assolutamente alcuna relazione. Ripeteva in continuazione a Josie che lei c'era, se Josie aveva bisogno di parlare, ma era ridicolo. Se anche Josie avesse voluto - e lei non voleva - sua madre era l'ultima persona al mondo con la quale si sarebbe confidata. Non avrebbe capito... nessuno avrebbe capito, tranne gli altri ragazzi che giacevano nelle stanze di quell'ospedale. Non si era trattato di un assassinio qualsiasi per strada, cosa che sarebbe già stata abbastanza penosa. Quello era il peggio che poteva accadere, in un luogo dove Josie doveva tornare, che lo volesse o no. Josie indossava vestiti diversi da quelli del giorno prima, che erano misteriosamente scomparsi. Nessuno gliene aveva parlato, ma Josie pensava che fossero macchiati dal sangue di Matt. Avevano fatto bene a gettarli via: lavaggi e candeggi non sarebbero mai riusciti a far sparire quelle macchie, perché Josie sapeva che le avrebbe viste sempre. La testa le doleva ancora nel punto in cui aveva sbattuto contro il pavimento quando era svenuta. Aveva una ferita alla fronte e aveva evitato per miracolo che le dessero dei punti, sebbene i medici avessero voluto tenerla in osservazione per tutta la notte. (Per che cosa? si domandava Josie. Un ictus? Un coagulo di sangue? Suicidio?) Quando Josie si alzò in piedi, sua madre si precipitò al suo fianco, cingendola con un braccio per sorreggerla. A Josie venne in mente il modo in cui lei e Matt camminavano a volte per strada d'estate, ciascuno con la mano infilata nella tasca posteriore dei jeans dell'altro. «Oh, Josie» disse sua madre, e lei si rese conto di aver ricominciato a piangere. Accadeva così spesso, ormai, che Josie non era più in grado di dire quando iniziava e quando finiva. Sua madre le porse un fazzoletto. «Vuoi sapere una cosa? Incomincerai a sentirti meglio quando arriverai a casa. Te lo prometto.» Bene, bella notizia. Oh, be', Josie non avrebbe certo potuto incominciare a sentirsi peggio. Ma riuscì a fare una smorfia che avrebbe potuto essere un sorriso a non guardarlo troppo da vicino, perché capiva che era di quello che sua madre aveva bisogno in quel momento. Fece i quindici passi che la separavano dalla porta di quella stanza d'ospedale. «Abbi cura di te, tesoro» disse una delle infermiere mentre Josie passava davanti alla loro postazione.
Un'altra, quella che a Josie piaceva di più, quella che le aveva dato delle scagliette di ghiaccio da succhiare, sorrise. «Non tornare a trovarci, chiaro?» Josie si diresse lentamente verso l'ascensore, che sembrava allontanarsi di più ogni volta che gli lanciava un'occhiata. Mentre oltrepassava una stanza, notò un nome familiare sulla targhetta che indicava il paziente: HALEY WEAVER. Haley era una studentessa dell'ultimo anno, e negli ultimi due anni era stata eletta reginetta della scuola. Lei e il suo ragazzo, Brady, erano i Brangelina della Sterling High - un ruolo che, secondo Josie, lei e Matt avevano buone probabilità di ereditare una volta che Haley e Brady si fossero diplomati. Persino quelle povere illuse che morivano dietro a Brady per il suo sorriso un po' misterioso e per il suo corpo scultoreo dovevano riconoscere che c'era una sorta di giustizia ideale nel suo stare con Haley, la ragazza più bella della scuola. Con quella sua cascata di capelli biondo chiaro e i limpidi occhi azzurri, aveva sempre ricordato a Josie una fata delle fiabe: la serena, celestiale creatura che scende ondeggiando a esaudire i desideri di qualcuno. Sul loro conto circolava ogni genere di pettegolezzo: che Brady aveva rinunciato a una borsa di studio per giocare a football in certi college che non avevano corsi d'arte adatti a Haley; che Haley si era fatta fare un tatuaggio con le iniziali di Brady in un punto che nessuno poteva vedere; che al loro primo appuntamento lui aveva sparso petali di rosa sul sedile del passeggero della sua Honda. Josie, che apparteneva allo stesso gruppo di Haley, sapeva che erano quasi tutte cazzate. La stessa Haley aveva ammesso che, prima di tutto, era un tatuaggio provvisorio, e in secondo luogo che non erano petali di rosa, ma un mazzo di lillà che lui aveva rubato dal giardino di un vicino. «Josie?» sussurrò Haley dall'interno della stanza. «Sei tu?» Josie sentì la mano di sua madre sul braccio, che la tratteneva. Ma poi i genitori di Haley, che impedivano la visuale chiara del letto, si spostarono. La metà destra del volto di Haley era coperta dai bendaggi; al di sopra, i suoi capelli erano rasati fino al cuoio capelluto. Aveva il naso fratturato, e l'unico occhio visibile era completamente iniettato di sangue. La madre di Josie trattenne il respiro silenziosamente. Josie fece un passo nella stanza e si costrinse a sorridere. «Josie» disse Haley. «Le ha uccise. Courtney e Maddie. Poi ha puntato l'arma contro di me, ma Brady si è buttato davanti.» Una lacrima rigò la
guancia libera dai bendaggi. «Sai, quando la gente dice sempre che sarebbe pronta a farlo per te.» Josie cominciò a tremare. Voleva rivolgere a Haley mille domande, ma batteva i denti così forte che non riusciva a pronunciare una sola parola. Haley si aggrappò alla sua mano, e Josie trasalì. Voleva allontanarsi. Voleva far finta di non aver mai visto Haley Weaver in quello stato. «Se ti faccio una domanda» continuò Haley, «mi dirai la verità?» Josie annuì. «La mia faccia» bisbigliò. «È rovinata, vero?» Josie guardò Haley nell'occhio. «No» disse. «È a posto.» Entrambe sapevano che non diceva la verità. Josie salutò Haley e i suoi genitori, si aggrappò a sua madre e si avviò ancora più precipitosamente verso gli ascensori, benché a ogni passo sentisse una specie di tempesta dietro i suoi occhi. D'improvviso ricordò di quando aveva studiato il cervello durante le lezioni di scienze: una barra di acciaio aveva perforato il cranio di un uomo, e quando aveva riaperto bocca quel tale si era messo a parlare in portoghese, una lingua che non aveva mai studiato. Forse sarebbe stato così per Josie, da quel momento in poi. Forse la sua lingua nativa, da lì in poi, sarebbe stata una sfilza di bugie. Quando Patrick tornò alla Sterling High la mattina dopo, i detective della scientifica avevano trasformato i corridoi della scuola in un'immensa ragnatela. A partire dai punti in cui erano state trovate le vittime, avevano teso dei nastri: un groviglio di linee che si diramavano da un punto in cui Peter Houghton si era fermato per un certo tempo a sparare prima di spostarsi. I nastri si intersecavano in alcuni punti: un reticolato di panico, un grafico del caos. Rimase per un istante al centro del trambusto, osservando i tecnici che facevano ondeggiare il nastro attraverso i corridoi e tra due file di armadietti e nei vani delle porte. Immaginò come doveva essere stato cominciare a correre al suono degli spari, sentire gente alle spalle che spingeva come un'onda, sapere di non potersi spostare più velocemente di un proiettile. Capire troppo tardi di essere in trappola, prede di un ragno. Patrick si fece strada attraverso la ragnatela, attento a non disturbare il lavoro dei tecnici. Si sarebbe servito di quello che avevano fatto per avvalorare i racconti dei testimoni. In tutto erano 1026. Il primo notiziario del mattino delle tre reti locali era dedicato all'impu-
tazione di Peter Houghton prevista per quella mattina. Alex era in piedi davanti al televisore nella sua camera da letto, sorseggiando una tazza di caffè e tenendo lo sguardo fisso sullo sfondo dietro i cronisti zelanti: il suo ex posto di lavoro, la corte distrettuale. Aveva sistemato Josie nella sua camera da letto a dormire il buio sonno senza sogni dei sedativi. A essere davvero sinceri, anche Alex aveva bisogno di stare da sola per un po'. Chi avrebbe mai immaginato che una come lei, che era diventata maestra nell'indossare un volto da mostrare al pubblico, trovasse così faticoso dal punto di vista emotivo rimanere padrona di se stessa davanti alla propria figlia? Voleva sedersi e ubriacarsi. Voleva piangere di gioia, la testa sepolta nelle mani, per la fortuna che aveva avuto: sua figlia era a due porte di distanza da lei. Più tardi, avrebbero fatto colazione insieme. Quanti genitori in quella città stavano svegliandosi solo per rendersi conto che, per loro, non sarebbe mai più stato così? Alex spense il televisore. Non voleva compromettere la sua obiettività come futuro giudice di quel caso ascoltando quello che i media avevano da dire. Sapeva che l'avrebbero criticata - qualcuno avrebbe dichiarato che, dal momento che sua figlia frequentava la Sterling High School, Alex non avrebbe dovuto occuparsi di quel caso. Se Josie fosse stata colpita dallo sparatore, lei sarebbe stata senz'altro d'accordo. Se Josie fosse stata ancora amica di Peter Houghton, Alex si sarebbe ritirata. Ma, stando così le cose, il giudizio di Alex non poteva essere compromesso più di quello di qualsiasi altro giudice residente in quella zona o che conoscesse un ragazzo che frequentava quella scuola o che fosse il genitore di un ragazzo. Capitava continuamente nei tribunali del North Country: qualcuno che conoscevi finiva inevitabilmente nella tua aula di tribunale. Quando Alex lavorava a rotazione come giudice della corte distrettuale, si trovava di fronte imputati che aveva conosciuto personalmente: il suo postino sorpreso a portare droga nella propria auto; il suo meccanico che litigava con la propria moglie. Fintantoché la disputa non coinvolgeva Alex personalmente, era perfettamente legale - di fatto, obbligatorio per legge - che lei trattasse il caso. In quelle circostanze, era sufficiente non identificarsi con nessuno. Diventavi il giudice e basta. La sparatoria, secondo Alex, apparteneva allo stesso genere di casi, benché fosse più impegnativo degli altri. In effetti, era convinta che, in un caso così massicciamente preso di mira dai media come quello, occorresse qualcuno con un background di avvocato difensore, proprio
come il suo, qualcuno che riuscisse a essere veramente imparziale nei confronti dello sparatore. E più ci pensava più fermamente si convinceva che non si poteva fare giustizia senza il suo coinvolgimento, e le sembrava ancor più risibile ipotizzare che lei non fosse il miglior giudice per quel caso. Bevve un altro sorso di caffè e andò in punta di piedi dalla sua camera a quella di Josie. Ma la porta era spalancata e sua figlia non c'era. «Josie?» chiamò Alex, in preda al panico. «Josie, stai bene?» «Sono qui da basso» disse Josie, e Alex sentì di nuovo sciogliersi quel nodo che aveva dentro. Scese le scale e trovò Josie seduta al tavolo della cucina. Indossava una gonna, i collant e un maglione nero. I suoi capelli erano ancora umidi, dopo la doccia, e aveva tentato di nascondere la benda facendo ricadere qualche ciocca sulla fronte. Alzò gli occhi e guardò Alex. «Sembro a posto?» «In che senso?» domandò Alex, confusa. Si aspettava forse di poter andare a scuola? I medici avevano detto ad Alex che Josie poteva anche non recuperare mai più il ricordo della sparatoria, ma poteva anche cancellare dalla sua mente il fatto che fosse accaduta? «L'imputazione» disse Josie. «Tesoro, è fuori discussione che tu possa anche solo avvicinarti al tribunale, oggi.» «Ma devo.» «Non ci andrai» dichiarò Alex laconicamente. Josie la guardò come se stesse tentando di chiarirsi le idee. «Perché no?» Alex aprì la bocca per rispondere, ma non ci riuscì. Non era logico. Era una specie di istinto viscerale: non voleva che sua figlia rivivesse quell'esperienza. «Perché ho deciso così» replicò alla fine. «Non è una risposta» l'accusò Josie. «So cosa faranno i media se ti vedranno in tribunale oggi» disse Alex. «So che non sarà una sorpresa per nessuno quello che accadrà durante quell'udienza. E so che non voglio perderti di vista proprio oggi.» «E allora vieni con me.» Alex scosse il capo. «Non posso, Josie» disse piano. «Questo diventerà il mio caso.» Guardò Josie impallidire, e capì che fino a quel momento Josie non aveva considerato una simile eventualità. Il processo, implicitamente, avrebbe innalzato tra loro un muro ancora più spesso. Come giudice, sarebbe stata al corrente di notizie che non avrebbe potuto condividere con sua figlia, di segreti che non avrebbe potuto mantenere. Mentre Josie
lottava per uscire da quella tragedia, Alex doveva entrarci fino al collo. Perché aveva pensato così tanto a giudicare quel caso, e così poco a come questo avrebbe influito su sua figlia? A Josie non importava un bel niente che sua madre fosse un bravo giudice in quel momento. Lei voleva soltanto una madre o, meglio, ne aveva bisogno: e la maternità, a differenza della legge, non era mai riuscita facile ad Alex. Inaspettatamente, pensò a Lacy Houghton, una madre che in quel momento stava attraversando un inferno completamente diverso dal suo, la quale avrebbe semplicemente preso Josie per mano e si sarebbe seduta vicino a lei e il suo atteggiamento sarebbe apparso comprensivo, non forzato. Ma Alex, che non era mai stata un tipo alla June Cleaver, doveva tornare indietro di anni per trovare un momento di connessione, qualcosa che lei e Josie avevano fatto in precedenza e che potesse funzionare nuovamente per tenerle unite. «Vai di sopra a cambiarti, poi facciamo i pancake. Ti è sempre piaciuto.» «Già, quando avevo cinque anni...» «I biscotti con le gocce di cioccolato, allora.» Josie sbatté gli occhi fissando Alex. «Hai fumato?» Alex appariva ridicola anche a se stessa, ma voleva disperatamente mostrare a Josie che poteva e voleva prendersi cura di lei, e che il suo lavoro veniva al secondo posto. Si alzò in piedi e aprì gli armadi finché trovò una scatola di Scarabeo. «Be', allora cosa ne dici di questo?» disse Alex, tirando fuori la scatola del gioco. «Scommetto che non riuscirai a battermi.» Josie la oltrepassò. «Hai vinto» disse senza espressione, e se ne andò. Lo studente intervistato da un'affiliata di Nashua della CBS ricordava Peter Houghton perché avevano frequentato insieme un corso di inglese in nona. «Dovevamo scrivere un racconto narrato in prima persona, e potevamo scegliere chiunque» disse il ragazzo. «Peter optò per la voce di John Hinckley, lo psicopatico che nel 1981 tentò di assassinare Ronald Reagan. Dalle cose che diceva, sembrava che guardasse fuori dall'inferno, ma alla fine scoprivi che era in paradiso. La nostra insegnante ne rimase entusiasta. Mostrò il tema al direttore e tutto il resto.» Il ragazzo esitò, facendo scorrere il pollice lungo la cucitura dei jeans. «Peter disse loro che era licenza poetica, e che non era un narratore realistico - cosa che anche noi avevamo pensato.» Guardò la telecamera. «Credo che abbia preso A.» Al semaforo, Patrick si addormentò. Sognò di correre per i corridoi della
scuola, udendo gli spari, ma ogni volta che girava l'angolo si trovava sospeso a mezz'aria: il pavimento era scomparso sotto i suoi piedi. Udì il suono di un clacson e subito scattò. Alzò una mano per scusarsi verso l'auto che gli si era avvicinata per superarlo e guidò fino al laboratorio di criminologia, dove era stata data la priorità agli esami balistici. Come Patrick, quei tecnici lavoravano da ventiquattro ore filate. Il suo tecnico preferito, e anche il più fidato, era una donna di nome Selma Abernathy, una nonna di quattro nipotini che s'intendeva di tecnologia d'avanguardia più di qualsiasi altro fanatico dell'argomento. Sollevò lo sguardo quando Patrick entrò nel laboratorio, e alzò un sopracciglio. «Hai schiacciato un sonnellino» lo accusò. Patrick scosse il capo. «Parola di scout.» «Sei troppo bello per essere uno morto di stanchezza.» Lui ridacchiò. «Selma, ti sei presa una cotta per me, ma adesso devi veramente darci un taglio.» Lei si aggiustò gli occhiali sul naso. «Dolcezza, sono abbastanza sveglia da non innamorarmi di qualcuno che mi renderebbe la vita una rottura di scatole. Vuoi i tuoi risultati?» Patrick la seguì a un tavolo, su cui c'erano quattro armi: due pistole e due fucili da caccia a canne mozze. Erano etichettati: Arma A, Arma B, le due pistole; Arma C e Arma D i fucili. Riconobbe le pistole: erano quelle rinvenute nello spogliatoio, l'una impugnata da Peter Houghton, l'altra posata a breve distanza da lui sul pavimento di piastrelle. «Prima ho esaminato le impronte nascoste» spiegò Selma, e mostrò i risultati a Patrick. «L'Arma A aveva un'impronta che coincide con il tuo indiziato. L'Arma C e la D erano pulite. L'Arma B presentava un'impronta parziale non decisiva.» Selma indicò con un cenno del capo il retro del laboratorio, dove enormi barili d'acqua venivano usati per testare le armi. Doveva aver provato ciascuna arma nell'acqua, si rese conto Patrick. Quando un proiettile veniva sparato, la sua rotazione nella canna di un'arma lasciava striature sul metallo. Di conseguenza era possibile, esaminando un proiettile, dire esattamente da quale arma era uscito. Patrick se ne sarebbe avvalso per ricostruire i movimenti di Peter Houghton: dove si era fermato a sparare, quale arma aveva usato. «L'Arma A è stata la più usata durante la sparatoria, le Armi C e D sono rimaste nello zaino rinvenuto sulla scena del crimine. Il che è veramente
un bene, perché con ogni probabilità avrebbero causato danni maggiori. Tutti i proiettili rintracciati sui corpi delle vittime sono stati sparati dall'Arma A, la prima pistola.» Patrick si domandava dove Peter Houghton avesse preso il suo arsenale. E nel medesimo tempo si rendeva conto che non era difficile trovare qualcuno a Sterling che andasse a caccia, o tirasse al bersaglio sul sito di una vecchia discarica nei boschi. «Dalla polvere da sparo residua, deduco che l'Arma B è stata usata. Eppure non è stato ancora rinvenuto un proiettile che lo confermi.» «Stanno ancora lavorando...» «Lasciami finire» disse Selma. «L'altro particolare interessante riguardo all'Arma B è che si è inceppata dopo quell'unico sparo. Quando l'abbiamo esaminata, abbiamo trovato una striatura doppia di un proiettile.» Patrick incrociò le braccia. «Non ci sono impronte sull'arma?» volle chiarire. «C'è un'impronta non decisiva sul grilletto... probabilmente è rimasta quando il tuo indiziato l'ha gettata via, ma non posso dirlo con certezza.» Patrick annuì e indicò l'Arma A. «È quella che lui ha lasciato cadere quando l'ho bloccato nello spogliatoio. Presumibilmente, è l'ultima che ha usato.» Selma sollevò un proiettile con un paio di pinzette. «È probabile che tu abbia ragione. Questo è stato rinvenuto nel cervello di Matthew Royston» aggiunse. «E le striature fanno pensare a uno sparo dall'Arma A.» Il ragazzo nello spogliatoio, quello trovato insieme a Josie Cormier. L'unica vittima che era stata colpita due volte. «E il proiettile nello stomaco del ragazzo?» domandò Patrick. Selma scosse il capo. «È uscito pulito. Potrebbe essere stato sparato sia dall'Arma A che dall'Arma B, ma non lo sapremo finché non mi avrai portato una pallottola.» Patrick osservò le armi. «Deve aver usato l'Arma A per tutto il resto della scuola. Non riesco a immaginare che cosa l'abbia spinto a usare l'altra pistola.» Selma gli lanciò un'occhiata; lui notò per la prima volta i segni scuri sotto i suoi occhi, il prezzo pagato per quella notte di emergenza. «Ma soprattutto non riesco a immaginare che cosa l'abbia spinto a usare quelle armi.» Meredith Vieira fissava con aria grave la telecamera, dopo aver assunto un contegno adeguato a una tragedia nazionale. «Continuano a giungere
nuovi particolari sul caso della sparatoria alla Sterling» esordì. «Per conoscerli, ci colleghiamo con Ann Curry in redazione. Ann?» La conduttrice del telegiornale annuì. «Durante la notte, gli investigatori hanno appreso che quattro armi sono state introdotte nella Sterling High School, sebbene soltanto due siano state effettivamente usate dallo sparatore. Inoltre, c'è la prova che Peter Houghton, l'indiziato per la sparatoria, era un fan di un gruppo punk hardcore, i Death Wish, e spesso scriveva sul loro sito Internet e scaricava canzoni sul suo computer. Canzoni che, col senno di poi, hanno indotto qualcuno a domandarsi che cosa i ragazzi dovrebbero ascoltare e che cosa no.» Sullo schermo verde alle sue spalle comparve un testo: Fiocchi di neve nera cadono Cadaveri di pietra camminano I bastardi ridono Li travolgerò tutti, nel mio Giorno del Giudizio. I bastardi non vedono La bestia sanguinaria in me L'uomo con la falce cavalca per la libertà Li travolgerò tutti, nel mio Giorno del Giudizio. «La canzone dei Death Wish Il Giorno del Giudizio contiene un terrificante presagio che è diventato un evento fin troppo reale a Sterling, nel New Hampshire, ieri mattina» disse Curry. «Raven Napalm, il leader dei Death Wish, ha tenuto una conferenza stampa ieri in tarda serata.» Il filmato mostrava ora un uomo con capelli neri alla moicana, ombretto color oro e cinque piercing al labbro inferiore, in piedi davanti a un gruppo di microfoni. «Viviamo in un paese in cui i ragazzi americani muoiono perché li mandiamo oltremare a uccidere gente per il petrolio. Ma quando un ragazzo triste, sconvolto, che non riesce più a vedere la bellezza della vita, va a sfogare in modo sbagliato la sua rabbia sparando su una scuola la gente comincia a puntare il dito sulla musica heavy metal. Il problema non sono le canzoni rock, è il tessuto stesso di questa società.» Sullo schermo comparve di nuovo il volto di Ann Curry. «Torneremo sulla tragedia di Sterling nel corso del giornale. Quanto alle notizie dall'interno, il Senato ha bocciato la legge sul controllo delle armi mercoledì scorso, ma il senatore Roman Nelson dichiara che non è l'ultimo atto di
questa battaglia. È in collegamento con noi oggi dal South Dakota. Senatore?» Peter era convinto di essere rimasto sveglio tutta la notte, eppure non aveva udito i passi della guardia carceraria avvicinarsi alla sua cella. Sobbalzò al suono della porta metallica che si apriva. «Ecco» disse l'uomo, e porse qualcosa a Peter. «Indossalo.» Sapeva di dover andare in tribunale quel giorno; glielo aveva detto Jordan McAfee. Pensò che doveva essere un completo o qualcosa del genere. La gente non indossa sempre dei completi in tribunale, anche quando arriva dritta dal carcere? Si supponeva che così apparissero più simpatici. Pensò che l'aveva visto in televisione. Ma non era un completo. Era un giubbotto antiproiettile in Kevlar. Nella cella di detenzione sotto il tribunale, Jordan trovò il suo cliente disteso sul pavimento, supino, un braccio ripiegato a proteggersi gli occhi. Peter indossava un giubbotto antiproiettile, come se fosse scontato che tutti quelli che si sarebbero ammassati in aula quella mattina volessero ucciderlo. «Buongiorno» esordì Jordan, e Peter si sedette. «O no» mormorò. Jordan non reagì. Si chinò un po' più vicino alle sbarre. «Ecco il piano. Contro di te sono stati emessi dieci capi d'accusa per omicidio di primo grado e diciannove capi d'accusa per tentato omicidio di primo grado. Lasciamo perdere la lettura delle imputazioni, le analizzeremo una per una in un altro momento. Adesso dobbiamo soltanto presentarci e inoltrare una dichiarazione di non colpevolezza. Voglio che tu non dica una parola. Se hai qualche domanda, fammela a voce bassa. Ma sarai muto a tutti gli effetti per la prossima ora. Chiaro?» Peter lo guardò fisso. «Chiarissimo» disse, tetro. Ma Jordan stava osservando le mani del suo cliente. Tremavano. Dalla lista di oggetti rinvenuti nella stanza di Peter Houghton: Computer portatile Dell. CD di giochi: Doom 3, Grand Theft Auto, Vice City. Tre manifesti di aziende produttrici di armi. Tubi di diverse lunghezze.
Libri: Il giovane Holden, Salinger; Della guerra, Clausewitz; romanzi a fumetti di Frank Miller e Neil Gaiman. DVD: Bowling a Columbine. Annuario della Sterling Middle School, vari volti cerchiati con un pennarello nero. Un volto cerchiato e sbarrato con le parole LASCIARLA VIVERE sotto l'immagine. Ragazza identificata nella didascalia come Josie Cormier. La ragazza parlava a voce così bassa che il microfono, appeso a un'asta sopra la sua testa come una pentolaccia, stentava a cogliere i fili sciolti della sua voce. «L'aula della signora Edgar è proprio accanto a quella di McCabe, e a volte li sentiamo muovere le sedie o dare le risposte a voce alta» diceva. «Ma questa volta abbiamo udito le urla. Signora Edgar... lei ha preso il suo tavolo e lo ha spostato contro la porta dicendoci di andare tutti in fondo all'aula, vicino alle finestre, e di sederci sul pavimento. I colpi di pistola facevano il rumore dei pop-corn. E poi...» S'interruppe asciugandosi gli occhi. «E poi non si è sentito più urlare.» Diana Leven non si aspettava che lo sparatore apparisse così giovane. Peter Houghton era ammanettato e incatenato, indossava la sua tuta arancione e il giubbotto antiproiettile, ma aveva le guance rosee come mele di un ragazzo che non ha neanche superato la pubertà, e sarebbe stata pronta a scommettere che non aveva ancora bisogno di radersi. Anche gli occhiali la turbarono. La difesa si sarebbe aggrappata a quel dettaglio, ne era certa, per sostenere una forma di miopia che gli avrebbe reso impossibile prendere la mira. Le quattro telecamere che il giudice della corte distrettuale aveva accettato come rappresentanti dei media - ABC, CBS, NBC e CNN - si misero a ronzare come un quartetto vocale a cappella non appena l'imputato venne introdotto in aula. Poiché il silenzio era tale che si sarebbe potuto udire il suono dei propri dubbi, Peter si voltò immediatamente verso di loro. Diana si rese conto che i suoi occhi non erano poi tanto diversi da quelli delle telecamere: scuri, ciechi, vuoti dietro le lenti. Jordan McAfee, un avvocato che a Diana non piaceva molto sul piano personale ma che, doveva ammetterlo a denti stretti, era maledettamente bravo a fare il suo lavoro, si chinò verso il suo cliente nel momento in cui Peter giunse al tavolo della difesa. L'agente di custodia si alzò. «Tutti in piedi» tuonò, «presiede l'onorevole Charles Albert.»
Il giudice Albert entrò frettolosamente in aula, la toga frusciante. «Seduti» disse. «Peter Houghton» incominciò, rivolto all'imputato. Jordan McAfee si alzò in piedi. «Vostro Onore, rinunciamo alla lettura delle imputazioni. Desideriamo presentare dichiarazione di non colpevolezza per tutte, e chiediamo che venga fissata entro i prossimi dieci giorni un'udienza probatoria.» Non fu una sorpresa per Diana: perché Jordan avrebbe dovuto volere che tutti udissero dieci capi d'accusa distinti contro il suo cliente e tutti di omicidio di primo grado? Il giudice si rivolse a lei. «Signorina Leven, il regolamento esige che un imputato accusato di omicidio di primo grado - e in questo caso si tratta di più omicidi - sia trattenuto senza cauzione. Immagino che per lei non sia un problema.» Diana nascose un sorriso. Il giudice Albert, che Dio lo benedicesse, era riuscito ugualmente a infilare nel discorso i capi d'accusa. «Esatto, Vostro Onore.» Il giudice assentì. «Va bene, allora, signor Houghton. Lei rimane detenuto in attesa di giudizio.» L'intera procedura era durata meno di cinque minuti, e il pubblico non era soddisfatto. Volevano il sangue. Volevano la vendetta. Diana guardò Peter Houghton camminare con passo incerto in mezzo a due vicesceriffi che lo tenevano saldamente e voltarsi un'ultima volta verso il suo avvocato con una domanda sulle labbra che non formulò. Poi la porta si chiuse alle sue spalle, e Diana prese la sua cartella e uscì dall'aula dirigendosi verso le telecamere. Si fermò davanti a un numero inverosimile di microfoni. «Peter Houghton dovrà rispondere di dieci capi d'accusa per omicidio di primo grado e di diciannove capi d'accusa per tentato omicidio di primo grado, e di svariate altre accuse quali possesso illegale di esplosivi e di armi da fuoco. La deontologia ci impedisce di commentare le prove in questa fase, ma la comunità può star certa che perseguiremo questo caso con vigore, che stiamo lavorando giorno e notte con i nostri investigatori per accertarci che tutte le prove siano raccolte, conservate e appropriatamente utilizzate affinché questa indicibile tragedia non rimanga impunita.» Aprì la bocca per continuare ma si rese conto che c'era un'altra voce che parlava, dalla parte opposta dell'atrio, e che i cronisti abbandonavano la sua conferenza stampa improvvisata per ascoltare invece Jordan McAfee. Era in piedi, con un atteggiamento misurato e contrito, le mani nelle tasche dei pantaloni, e fissava Diana. «Condivido il dolore della comunità
per le sue perdite, e rappresenterò il mio cliente fino in fondo. Peter Houghton è un ragazzo di diciassette anni; è molto spaventato. E vi chiedo il favore di rispettare la sua famiglia e di ricordare che questo è un caso da dirimere davanti ai giudici.» Jordan esitò, sempre da protagonista dello spettacolo, ma poi guardò di nuovo la folla. «Vi chiedo di ricordare che quello che vedete non è sempre come sembra.» Diana sorrise compiaciuta. I cronisti - e la gente di tutto il mondo che ascoltava il discorso studiato di Jordan - avrebbero percepito il piccolo espediente con cui aveva concluso e si sarebbero immaginati che avesse qualche incredibile asso nella manica, qualcosa per dimostrare che il suo cliente non era un mostro. Diana, invece, la sapeva più lunga. Era capace di tradurre il legalese, perché lo parlava correntemente. Quando un avvocato ricorreva a una misteriosa retorica come in quel caso, era perché non aveva nient'altro da usare in difesa del suo cliente. A mezzogiorno, il governatore del New Hampshire tenne una conferenza stampa sui gradini del Campidoglio a Concord. Sul risvolto della giacca aveva uno di quegli alamari di nastro bianco e marrone, i colori della Sterling High, che erano spuntati alle casse delle stazioni di servizio e dei WalMart. Li vendevano a un dollaro ciascuno: il ricavato era destinato al Fondo per le vittime della Sterling. Uno dei suoi uomini aveva fatto cinquanta chilometri in auto pur di procurargliene uno, dato che il governatore aveva intenzione di entrare in lizza per i democratici alle primarie del 2008 e sapeva che quello era un momento mediatico perfetto, durante il quale lui poteva assurgere a ritratto della più intensa compassione. Certo, condivideva il dolore dei cittadini di Sterling, e soprattutto di quei poveri genitori delle vittime, ma era anche abbastanza calcolatore da rendersi conto che un uomo in grado di guidare uno Stato attraverso uno degli incidenti più tragici mai avvenuti nelle scuole di tutta l'America sarebbe stato considerato un leader forte. «Oggi, l'intero paese soffre insieme al New Hampshire» disse. «Oggi, tutti noi proviamo lo stesso dolore di Sterling. Sono tutti nostri figli.» Volse lo sguardo in alto. «Sono stato lassù a Sterling, e ho parlato con gli investigatori che stanno lavorando sodo, giorno e notte, per capire che cos'è accaduto ieri. Mi sono trattenuto con alcuni familiari delle vittime, e all'ospedale con i coraggiosi sopravvissuti. Una parte del nostro passato e una parte del nostro futuro sono scomparse in questa tragedia» dichiarò il governatore fissando solennemente le telecamere. «Ora c'è una cosa sola
da fare: concentrarsi sul futuro.» Josie impiegò meno di una mattina a imparare le parole magiche: quando voleva che sua madre la lasciasse sola, quando era stanca di sua madre che la osservava con occhio di falco, bastava dire che aveva bisogno di fare un sonnellino. Allora sua madre si faceva da parte, completamente ignara dell'espressione rilassata che compariva sul suo volto nell'istante in cui Josie la aiutava a cavarsi dall'imbarazzo, e senza sapere che soltanto allora Josie la riconosceva. Di sopra, nella sua stanza, Josie stava seduta al buio con le tendine avvolgibili tirate e le mani abbandonate in grembo. Era pieno giorno, ma non lo si sarebbe detto. La gente escogitava tutti i modi possibili per far apparire le cose diverse da com'erano realmente. Una stanza poteva essere trasformata in una notte artificiale. Il botulino trasformava le facce della gente in quello che non erano. Un videoregistratore digitale dava l'illusione di poter fermare il tempo, o quanto meno di poterlo riordinare a proprio piacimento. Una contestazione d'accusa in tribunale poteva fungere da cerotto su una ferita che in realtà richiedeva un laccio emostatico. Annaspando nel buio, Josie riuscì a prendere il sacchetto di plastica che aveva nascosto sotto il letto, la sua scorta di sonniferi. Lei non era migliore di qualsiasi altra stupida persona al mondo, di tutti quelli convinti che, se si fossero messi a fingere con tutte le loro forze, ce l'avrebbero fatta. Pensava che la morte fosse una risposta, perché era troppo immatura per capire che era la questione più grande di tutte. Fino al giorno prima non sapeva quali tracce lascia il sangue che schizza su una parete imbiancata. Non immaginava che la vita esce prima dai polmoni e infine dagli occhi. Si era raffigurata il suicidio come una dichiarazione definitiva, un vaffanculo alla gente che non capiva fino a che punto fosse difficile per lei essere la Josie che loro si aspettavano. In un certo qual modo pensava che, se si fosse uccisa, sarebbe riuscita a vedere le reazioni di tutti gli altri; che sarebbe stata lei a ridere per ultima. Fino al giorno prima, non aveva capito veramente. I morti erano morti. Quando si muore, non si torna indietro a vedere che cosa si è perduto. Non ci si può scusare. Non si ha a disposizione una seconda possibilità. La morte non era qualcosa che si potesse controllare. In realtà, aveva sempre il coltello dalla parte del manico. Strappò il sacchetto di plastica per aprirlo nel palmo della mano e si ficcò cinque pillole in bocca. Andò in bagno, aprì il rubinetto e avvicinò le
labbra aperte finché le pillole si misero a nuotare nella boccia delle sue guance gonfie d'acqua. Mandale giù, ordinò a se stessa. Invece Josie cadde davanti al gabinetto e sputò le pillole. Buttò via le pillole rimaste, ancora strette nel suo pugno chiuso. Tirò l'acqua prima di poterci pensare due volte. Sua madre salì le scale perché aveva udito i singhiozzi. Filtravano attraverso gli stucchi che tenevano insieme le mattonelle e gli intradossi e l'intonaco che ricopriva il soffitto al pianterreno. In realtà sarebbero diventati parte di quella casa come i mattoni e la malta, sebbene né l'una né l'altra delle due donne se ne rendesse conto, per il momento. La madre di Josie si precipitò nella stanza e si inginocchiò accanto a sua figlia nel bagno attiguo. «Che cosa posso fare, bambina mia?» sussurrò, passando le mani su e giù sulle spalle e sulla schiena di Josie, come se la risposta fosse un tatuaggio visibile invece di una cicatrice sul cuore. Yvette Harvey era seduta su un divano e guardava le foto del diploma di ottava classe di sua figlia, scattate due anni, sei mesi e quattro giorni prima che morisse. I capelli di Kaitlyn erano più lunghi, ma il sorriso decisamente asimmetrico e il viso tondo come una luna, parte integrante della sindrome di Down, erano rimasti identici. Che cosa sarebbe accaduto se non avesse deciso di mandare Kaitlyn, come tutti, alla scuola media? Se l'avesse mandata in una scuola per ragazzi disabili? Forse quei ragazzi erano meno arrabbiati, forse era meno probabile che quell'ambiente generasse un killer? La produttrice del programma televisivo The Oprah Winfrey Show le restituì il suo pacco di foto. Yvette non aveva mai saputo, fino a quel giorno, che c'erano diversi livelli di tragedia, che anche se il programma di Oprah ti chiamava per chiederti di raccontare la tua triste storia volevano prima accertarsi che fosse sufficientemente triste, e soltanto allora ti avrebbero lasciato parlare davanti alle telecamere. Yvette non aveva mai pensato di mostrare il suo dolore in televisione: in realtà, suo marito era talmente contrario che aveva rifiutato di essere presente quando la produttrice si era recata a casa loro per invitarli. Ma lei era decisa. Aveva ascoltato le notizie. E, ora, aveva qualcosa da dire. «Kaitlyn aveva un sorriso meraviglioso» disse affabilmente la produttrice. «È vero» confermò Yvette, ma poi scosse il capo. «Era vero.»
«Conosceva Peter Houghton?» «No. Non erano dello stesso anno, e non sono mai stati in classe insieme. Kaitlyn stava nel centro per chi ha difficoltà di apprendimento.» Con il pollice premette il margine della cornice d'argento fino a farsi male. «Tutta questa gente che va in giro a dire che Peter Houghton non aveva amici... che tutti lo prendevano in giro... non è vero» disse. «Mia figlia non aveva amici. Mia figlia veniva presa in giro tutti i giorni. Mia figlia si sentiva emarginata, perché lo era. Peter Houghton non era un disadattato, come tutti vorrebbero farlo apparire. Peter Houghton era soltanto cattivo.» Yvette abbassò lo sguardo sul vetro che copriva la foto di Kaitlyn. «Al dipartimento di polizia, l'operatore di sostegno per chi ha subito un lutto mi ha detto che Kaitlyn è stata la prima a morire» osservò. «Voleva farmi capire che Katie non sapeva cosa stesse accadendo... che non ha sofferto.» «Dovrebbe essere di conforto» ammise la produttrice. «Lo era. Finché non abbiamo iniziato a parlare tra noi e ci siamo resi conto che l'operatore di sostegno aveva detto la stessa cosa a tutti i genitori che si erano ritrovati con un figlio ucciso.» Yvette sollevò lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime. «Il fatto è che non possono essere morti tutti per primi.» Nei giorni che seguirono la sparatoria, le famiglie delle vittime furono coperte di doni: denaro, cibo, servizi di baby-sitter, dimostrazioni di simpatia. Il padre di Kaitlyn Harvey si svegliò una mattina dopo una leggera nevicata di fine primavera e scoprì che il viale di casa sua era già stato spazzato da un volontario dei Samaritans. La famiglia di Courtney Ignatio diventò beneficiaria della chiesa locale, i cui membri sottoscrissero l'impegno a fornire cibo o servizi di pulizia nei diversi giorni della settimana, secondo un programma a rotazione che sarebbe continuato sino alla fine di giugno. La madre di John Eberhard si vide arrivare un furgone accessibile agli handicappati, dono della Ford di Sterling, per aiutare suo figlio ad abituarsi alla vita da paraplegico. Tutti i feriti della Sterling High ricevettero una lettera dal presidente degli Stati Uniti, scritta sull'impeccabile carta da lettere della Casa Bianca, che li lodava per il loro coraggio. I giornalisti, che sulle prime erano apparsi importuni come uno tsunami, diventarono una presenza regolare per le vie di Sterling. Dopo aver continuato per giornate intere a sprofondare con i loro stivali neri dai tacchi alti nel fango molle di un tipico marzo del New England, andarono al FarmWay locale a comprarsi zoccoli Merrell e stivali di gomma. Smisero di
domandare al banco della reception della Sterling Inn perché i loro cellulari non prendevano e si raggrupparono invece nel parcheggio della stazione di servizio della Mobil, il punto più elevato di tutta la città, dove se non altro c'era un minimo di segnale. Gironzolavano davanti alla stazione di polizia, al tribunale e al coffee-shop locale, pronti ad appropriarsi di qualsiasi brandello di notizia. Ogni giorno a Sterling c'era un altro funerale. La cerimonia funebre di Matthew Royston si tenne in una chiesa che non era abbastanza grande per contenere il dolore di tutti quelli che piangevano la sua morte. Compagni di scuola, genitori e amici di famiglia erano stipati nei banchi, in piedi lungo le pareti, si riversavano fuori dall'entrata. Un contingente di ragazzi della Sterling High indossava una T-shirt verde con il numero 19 sul davanti, lo stesso che Matt portava sulla maglia da hockey. Josie e sua madre si erano sedute in fondo nel primo posto libero che avevano trovato, ma Josie sentiva ugualmente che tutti la fissavano. Non capiva se fosse perché tutti sapevano che era la ragazza di Matt o perché riuscivano a vederla dentro. «Benedetti coloro che piangono un lutto» lesse il pastore, «perché saranno confortati.» Josie rabbrividì. Lei piangeva un lutto? Il lutto era forse quel buco al centro del corpo che diventava sempre più largo ogni volta che si provava a tamponarlo? Oppure lei era incapace di provare il lutto, perché significava ricordare, e lei non poteva farlo? Sua madre si chinò più vicino a lei. «Possiamo andarcene. Non hai che da dirlo.» Era già abbastanza arduo non avere un indizio di chi fosse lei, ma lì, in quel Dopo, aveva l'impressione di non riconoscere nemmeno gli altri. Gente che l'aveva ignorata per tutta la sua vita improvvisamente conosceva il suo nome. Gli occhi di tutti si inumidivano quando la guardavano. E sua madre era la più estranea di tutti, come una di quelle aziendaliste convinte che avevano un'esperienza di pre-morte e diventavano ecologiste. Josie si era aspettata di dover lottare contro sua madre per partecipare al funerale di Matt, ma con grande sorpresa di Josie era stata sua madre a proporlo. Lo stupido strizzacervelli da cui Josie doveva andare - probabilmente per il resto della sua vita - continuava a parlare di ritrovare l'equilibrio. Ritrovare l'equilibrio, a quanto pareva, significava capire, come ci si aspettava da lei,
che perdere la normalità è qualcosa che si supera, come quando si perde una partita di pallone o la propria T-shirt preferita. Ritrovare l'equilibrio significava anche che sua madre si era trasformata in una folle, ipercompensatrice macchina emotiva, che continuava a chiederle se aveva bisogno di qualcosa (quante tazze di tisana al giorno può bere una persona senza liquefarsi?) e a cercare di comportarsi come una madre normale, o quanto meno come lei s'immaginava che fosse una madre normale. Se davvero vuoi farmi star meglio, Josie avrebbe voluto dire, ritorna a lavorare. Soltanto allora avrebbero potuto fingere che fosse tutto come al solito, ed era stata proprio sua madre la prima a insegnare a Josie come fingere. Davanti alla chiesa c'era una bara. Josie sapeva che non era aperta; l'aveva sentito dire in giro. Era difficile immaginare che Matt fosse dentro a quella scatola laccata di nero. Che non respirasse; che il suo sangue fosse fuoriuscito e le sue vene fossero state invece riempite di sostanze chimiche. «Amici, mentre siamo qui riuniti per ricordare Matthew Carlton Royston, ci troviamo sotto l'ala protettrice dell'amore di Dio che guarisce» disse il pastore. «Siamo liberi di riversare il nostro dolore, di sfogare la nostra collera, di guardare il nostro vuoto, sapendo che Dio se ne prenderà cura.» L'anno prima, durante storia antica, avevano appreso come gli egizi preparavano i morti. Matt, che studiava soltanto quando Josie lo costringeva a farlo, ne era rimasto sinceramente affascinato. Il modo in cui il cervello veniva risucchiato fuori attraverso il naso. I beni che finivano in una tomba con il faraone. Gli animali domestici che venivano sepolti insieme a lui. Josie leggeva il capitolo del libro di storia a voce alta, la testa posata sulle ginocchia di Matt. Lui l'aveva interrotta posandole una mano sulla fronte. «Quando me ne andrò» aveva detto, «ti porterò con me.» Il pastore rivolse lo sguardo alla congregazione. «La morte di una persona amata ci scuote nel profondo. E quando si tratta di una persona giovane e ricca di potenzialità e di capacità il sentimento di dolore e di perdita può essere ancora più schiacciante. In momenti come questo ci rivolgiamo ai nostri amici e alla nostra famiglia per avere aiuto, per una spalla su cui piangere e per qualcuno che percorra insieme a noi questo cammino di sofferenza e di tormento. Non possiamo riavere Matt, ma possiamo recuperare la tranquillità sapendo che lui ha trovato nella morte quella pace che gli è stata negata qui sulla terra.» Matt non andava in chiesa. I suoi genitori sì, e avevano provato a con-
vincerlo ad andarci, ma Josie sapeva che lui detestava farlo. Pensava che fosse come sprecare una domenica e che, se Dio fosse stato uno con cui valeva veramente la pena di passare del tempo, probabilmente sarebbe andato in giro con il tettuccio della sua Jeep abbassato oppure a giocare a hockey su uno stagno ghiacciato invece di starsene seduto in un edificio affollato a leggere canti e preghiere. Il pastore si fece da parte, e il padre di Matt si alzò in piedi. Josie lo conosceva, naturalmente: era un tipo che raccontava le barzellette peggiori, stupidi giochi di parole che non facevano ridere nessuno. Aveva giocato a hockey all'UVM finché le ginocchia l'avevano sorretto, e nutriva grandi speranze per Matt. Ma nel giro di una notte era diventato curvo e tetro, come se di lui fosse rimasto solo il guscio che lo conteneva. Si alzò in piedi e parlò della prima volta che aveva portato Matt a pattinare, di come avesse iniziato a tirarlo mentre lui stava aggrappato a un bastone da hockey soltanto per accorgersi, poco più tardi, che Matt non aveva bisogno di quel sostegno. La madre di Matt cominciò a piangere. Singhiozzi forti, rumorosi... che sembravano schizzare sulle pareti della chiesa come vernice. Prima di capire cosa stesse facendo, Josie si ritrovò in piedi. «Josie!» sussurrò sua madre con impeto, accanto a lei. E in quell'istante intravide qualcosa della madre a cui era abituata, quella che non dava mai spettacolo di sé. Josie tremava così forte che i suoi piedi sembravano non toccare terra, mentre percorreva la navata centrale nell'abito nero che si era fatta prestare da sua madre, mentre si avvicinava alla bara di Matt, come attratta magneticamente da una calamita. Sentiva su di sé gli occhi del padre di Matt, udiva il bisbiglio della congregazione. Raggiunse la bara, talmente lucida che il suo volto vi si specchiava, ed era il volto di un'imbrogliona. «Josie» disse il signor Royston, scendendo dal pulpito per abbracciarla. «Stai bene?» La gola di Josie era chiusa come un bocciolo di rosa. Come poteva quell'uomo, il cui figlio era morto, fare a lei quella domanda? Ebbe l'impressione di dissolversi, e si domandò se fosse possibile trasformarsi in un fantasma senza morire; se quella parte della faccenda fosse soltanto un dettaglio. «Volevi dire qualcosa?» continuò Royston. «Riguardo a Matt?» Prima che lei si rendesse conto di quello che stava accadendo, il padre di Matt l'accompagnò sul pulpito. Josie era vagamente consapevole di sua madre, che non era più seduta e stava facendosi strada tra i banchi verso la
parte anteriore della chiesa... a quale scopo? Per farla sparire? Per impedirle di commettere un altro errore? Josie fissava un paesaggio di facce che riconosceva ma che in realtà le erano del tutto sconosciute. Lei lo amava, pensavano tutti. Era con lui quando è morto. Il respiro di Josie era intrappolato come una farfalla nella gabbia dei suoi polmoni. Ma che cosa doveva dire? La verità? Josie sentì che le sue labbra si contorcevano, il suo volto si contraeva. Incominciò a singhiozzare, così forte che le assi di legno del pavimento della chiesa si curvarono e cigolarono; così forte che, persino nella bara sigillata, Josie era sicura che Matt potesse udirla. «Mi dispiace» disse con voce rotta - a lui, a Royston, a chiunque potesse udirla. «Oh, Dio, mi dispiace tanto.» Non si accorse che sua madre stava salendo i gradini del pulpito, che la cingeva con un braccio, conducendola dietro l'altare in un piccolo vestibolo usato dall'organista. Non protestò quando sua madre le allungò un Kleenex e le passò una mano sulla schiena. Non si accorse neppure quando sua madre le sistemò i capelli dietro le orecchie, come faceva sempre quando Josie era piccola, un gesto che ricordava appena. «Penseranno tutti che io sia un'idiota» disse Josie. «No, pensano che Matt ti manca.» Sua madre esitò. «So che sei convinta che sia colpa tua.» Il cuore di Josie batteva così forte da far palpitare il tessuto leggero di chiffon dell'abito. «Cara» le disse sua madre, «non potevi salvarlo.» Josie prese un altro fazzoletto, e fece finta che sua madre avesse capito. Massima sicurezza voleva dire che Peter non aveva un compagno di cella. Non aveva una pausa per l'ora d'aria. Il cibo gli veniva portato tre volte al giorno nella sua cella. Le sue letture erano controllate dalle guardie carcerarie. E poiché la sorveglianza temeva ancora che potesse suicidarsi la sua stanza consisteva in un gabinetto e una panca: niente lenzuola, niente materasso, niente che potesse servirgli come via d'uscita dal mondo. Il muro di fondo della sua cella era fatto di quattrocentoquindici mattoni. Li aveva contati. Due volte. Poi, si era preso il tempo di guardare dritto nella telecamera che lo osservava. Peter si domandava che cosa ci fosse all'altra estremità di quella telecamera. S'immaginava un gruppo di guardie carcerarie riunite attorno a un monitor televisivo scadente, che si davano
gomitate e si spanciavano dalle risate quando Peter doveva andare in bagno. Oppure, in altre parole, un altro gruppo di persone che avevano trovato il modo di sbeffeggiarlo. La telecamera aveva una luce rossa, una spia di accensione, e una singola lente che luccicava come un arcobaleno. Attorno alla lente c'era un bordo di gomma che sembrava una palpebra. Peter fu colpito dal pensiero che, se anche non avesse avuto istinti suicidi, in quella situazione gli sarebbero venuti nel giro di poche settimane. In carcere non calava mai il buio, soltanto una vaga oscurità. Non che importasse granché, dal momento che non c'era altro da fare che dormire. Peter si stendeva sulla panca, domandandosi se ci fosse il rischio di perdere l'udito, non esercitandolo mai, e se anche la capacità di parlare funzionasse allo stesso modo. Ricordava di aver imparato, durante una delle lezioni di sociologia, che nel vecchio West, quando i pellerossa venivano gettati in prigione, a volte morivano improvvisamente. Si riteneva che individui tanto abituati alla libertà di spazio non potessero sopportare la reclusione, ma Peter aveva un'altra interpretazione. Quando si ha se stessi come unica compagnia, e quando non si vuole socializzare, c'è un solo modo di lasciare la stanza. Una delle guardie era appena entrata per il controllo di sicurezza - un passo di pesanti scarponi che oltrepassavano le celle - quando Peter udì: So che cosa hai fatto. Oh merda, pensò Peter. Sto già diventando pazzo. Lo sanno tutti. Peter girò i piedi sul pavimento di cemento e fissò la telecamera, che tuttavia non rivelò alcun segreto. La voce suonava come un vento che soffiava sulla neve... triste, un sussurro. «Alla tua destra» disse, e Peter si alzò in piedi lentamente e andò in un angolo della cella. «Chi... chi c'è?» domandò. «Era ora, cazzo. Pensavo che non avresti mai smesso di piangere.» Peter cercò di vedere attraverso le sbarre, ma non vi riuscì. «Mi hai sentito piangere?» «Dannato marmocchio» disse la voce. «Deciditi a crescere.» «Chi sei?» «Puoi chiamarmi Carnivoro, come fanno tutti.» Peter deglutì. «Che cosa hai fatto?» «Niente di quello che dicono loro» rispose Carnivoro. «Quanto manca?»
«Quanto manca a cosa?» «Quanto manca al tuo processo?» Peter non lo sapeva. Era l'unica domanda che aveva dimenticato di rivolgere a Jordan McAfee, probabilmente perché aveva paura della risposta. «Il mio è la settimana prossima» disse Carnivoro prima che Peter potesse rispondere. La porta di metallo della cella era come ghiaccio contro la sua tempia. «Da quanto tempo sei qui?» domandò Peter. «Dieci mesi» rispose Carnivoro. Peter immaginò di stare seduto in quella cella per dieci mesi esatti. Pensò a tutte le volte in cui avrebbe contato quegli stupidi mattoni, a tutte le pisciate che le guardie avrebbero osservato sul loro piccolo televisore. «Hai ucciso dei ragazzi, vero? Sai che cosa succede in questo carcere a quelli che uccidono dei ragazzi?» Peter non reagì. Aveva più o meno la stessa età di tutti quelli della Sterling. Non era come se fosse andato in una scuola materna. E aveva avuto i suoi buoni motivi. Non voleva più parlarne. «Perché non hai ottenuto la cauzione?» Carnivoro rise in tono beffardo. «Perché dicono che ho stuprato una cameriera e poi l'ho accoltellata.» In quel carcere pensavano tutti di essere innocenti? Per tutto quel tempo Peter era rimasto disteso su quella panca, a convincersi che non c'era nessun altro come lui nel carcere di Grafton County - e adesso saltava fuori che non era vero. Era così che lo considerava Jordan? «Sei ancora lì?» domandò Carnivoro. Peter si distese sulla sua panca senza aggiungere altro. Voltò la faccia contro il muro, e fece finta di non sentire mentre l'uomo vicino a lui tentava ripetutamente di stabilire un contatto. La prima cosa che colpì Patrick, nuovamente, fu quanto sembrasse più giovane il giudice Cormier quando non era sul banco. Andò ad aprire la porta in jeans e coda di cavallo, asciugandosi le mani con uno strofinaccio per i piatti. Josie era in piedi dietro di lei, con l'espressione esausta e lo sguardo vacuo che aveva già visto una dozzina di volte, in precedenza, sul volto di altre vittime che aveva interrogato. Josie era una tessera fondamentale del puzzle, l'unica che avesse visto Peter uccidere Matthew Ro-
yston. Ma, a differenza di quelle vittime, Josie aveva una madre che conosceva le tortuosità del sistema legale. «Giudice Cormier» disse. «Josie. Grazie per avermi lasciato venire.» Il giudice lo fissò. «È tempo sprecato. Josie non ricorda niente.» «Con tutto il rispetto, giudice, è mio compito sentirlo dire dalla stessa Josie.» Lui si preparava a una discussione, ma lei fece un passo indietro per lasciarlo entrare. Lo sguardo di Patrick perlustrò l'ingresso: il tavolo antico con un falangio che si riversava sulla sua superficie, i paesaggi raffinati appesi alle pareti. Dunque era così che viveva un giudice. La sua casa invece era poco più di un garage, un deposito di biancheria, di giornali vecchi e di cibi che avevano superato da tempo la data di scadenza, dove lui passava qualche ora tra i suoi turni di lavoro. Si rivolse a Josie. «Come va la testa?» «Fa ancora male» rispose lei, così piano che Patrick la udì a stento. Si voltò di nuovo verso il giudice. «C'è una stanza dove poter chiacchierare per qualche minuto?» Lei li accompagnò in cucina, ed era esattamente quel genere di cucina a cui Patrick talvolta pensava quando immaginava dove avrebbe ormai dovuto stare. C'erano armadietti in legno di ciliegio, l'ambiente era inondato dal sole che entrava dalla veranda e sul banco c'era un casco di banane. Si sedette di fronte a Josie, in attesa che il giudice prendesse posto accanto alla figlia, ma con una certa sorpresa vide che rimaneva in piedi. «Se avete bisogno di me» disse, «sono di sopra.» Josie la guardò, offesa. «Non puoi proprio rimanere?» Per un istante, Patrick vide qualcosa come una luce negli occhi del giudice - desiderio? rimpianto? - ma svanì prima che potesse darle un nome. «Sai che non posso» disse dolcemente. Patrick non aveva figli, ma era assolutamente certo che, se uno dei suoi figli fosse stato così vicino alla morte, gli sarebbe stato molto difficile perderlo di vista anche solo per un momento. Non capiva esattamente come andassero le cose tra madre e figlia, ma sapeva che era meglio non entrare nel merito. «Sono sicura che il detective Ducharme renderà tutto assolutamente indolore» disse il giudice. Suonò come un desiderio, ma anche come un avvertimento. Patrick le fece un cenno di assenso. Un bravo poliziotto faceva tutto il possibile per proteggere e servire, ma quando era qualcuno di sua conoscenza a essere
stato derubato o minacciato o colpito c'era altro in gioco. Si facevano telefonate in più; ci si liberava dagli altri impegni perché quello avesse la precedenza. Patrick l'aveva già sperimentato, in forma più intensa, anni prima, con la sua amica Nina e il figlio di lei. Non conosceva Josie Cormier personalmente, ma sua madre lavorava in ambito giudiziario - Gesù, era ai massimi livelli - perciò sua figlia meritava di essere trattata coi guanti. Osservò Alex salire le scale, poi tirò fuori carta e penna dalla tasca del cappotto. «E allora» cominciò, «come stai?» «Senta, non deve fingere che gliene importi qualcosa.» «Non sto fingendo» replicò Patrick. «Non capisco nemmeno perché è qui. Qualsiasi cosa le dica chiunque, quei ragazzi non diventeranno meno morti.» «È vero» assentì Patrick, «ma prima di mettere sotto processo Peter Houghton dobbiamo sapere esattamente che cosa è accaduto. E sfortunatamente io non c'ero.» «Sfortunatamente?» Abbassò lo sguardo e fissò il tavolo. «A volte penso che sia più facile essere chi ha subito il danno, invece di chi non è riuscito a impedirlo.» «Io c'ero» disse Josie, turbata. «Non sono riuscita a impedirlo.» «Ehi» disse Patrick, «non è colpa tua.» Lei sollevò lo sguardo su di lui, come se desiderasse intensamente di potergli credere, ma sapesse che lui si sbagliava. E chi era Patrick per dirle qualcosa di diverso? Ogni volta che lui rivedeva la sua folle corsa alla Sterling High, immaginava cosa sarebbe accaduto se si fosse già trovato nella scuola all'arrivo dello sparatore. Se avesse disarmato il ragazzo prima che potesse colpire. «Non ricordo niente della sparatoria» dichiarò Josie. «Ricordi che eri in palestra?» Josie scosse il capo. «E di essere corsa là con Matt?» «No. Non ricordo nemmeno di essermi alzata e di essere andata a scuola, tanto per cominciare. È come se nella mia mente ci fosse uno spazio vuoto: io lo salto e basta.» Patrick sapeva, perché aveva parlato con gli psicologi che assistevano le vittime, che era perfettamente normale. L'amnesia è uno dei modi di cui la mente dispone per proteggersi dal rivivere qualcosa che altrimenti ci distruggerebbe. In un certo senso avrebbe voluto essere fortunato come Josie, capace di far svanire quello che aveva visto.
«E Peter Houghton? Lo conoscevi?» «Tutti sapevano chi era.» «Cosa vuoi dire?» Josie scrollò le spalle. «Si faceva notare.» «Perché era diverso da tutti gli altri?» Josie pensò un momento. «Perché non provava nemmeno a inserirsi.» «Tu e Matthew Royston stavate insieme?» Immediatamente, le lacrime sgorgarono dagli occhi di Josie. «Gli piaceva essere chiamato Matt.» Patrick prese un fazzoletto di carta e lo allungò a Josie. «Mi dispiace che sia andata così, per lui, Josie.» Lei chinò il capo. «Anche a me.» Lui aspettò che si asciugasse gli occhi, che si soffiasse il naso. «Sai perché a Peter non piaceva Matt?» «Di solito tutti lo prendevano in giro» replicò Josie. «Matt no.» Veramente? pensò Patrick. Aveva visto l'annuario confiscato dalla stanza di Peter, con i cerchi attorno a certi ragazzi che erano poi diventati le vittime, e altri no. C'erano molte ragioni per questo: a cominciare dal fatto che Peter aveva compreso in ritardo la verità, che dare la caccia a trenta persone in una scuola in cui ce n'erano un migliaio era più difficile di quanto immaginasse. Ma, di tutti i bersagli che Peter aveva segnato nell'annuario, soltanto la foto di Josie era stata cancellata, come se lui avesse cambiato idea. Soltanto sotto il suo volto aveva scritto due parole a lettere maiuscole: LASCIARLA VIVERE. «Lo conoscevi personalmente? Hai frequentato qualche corso o roba del genere con lui?» Lei alzò lo sguardo. «Una volta lavoravo con lui.» «Dove?» «Nella copisteria in centro.» «Voi due andavate d'accordo?» «Qualche volta» rispose Josie. «Non sempre.» «Perché no?» «Una volta lui appiccò il fuoco in quel posto, e io feci la spia. Così perse il lavoro.» Patrick prese nota sul suo taccuino. Perché Peter aveva deciso di risparmiarla quando aveva tutte le ragioni per avercela con lei? «Prima di questo» domandò Patrick, «avresti detto che eravate amici?» Josie piegò il fazzoletto che aveva usato per asciugarsi le lacrime e ne
fece un triangolo, poi uno più piccolo, poi un altro più piccolo ancora. «No» disse. «Non eravamo amici.» La donna vicino a Lacy indossava una camicia di flanella a scacchi, puzzava di sigarette e le mancava la maggior parte dei denti. Lanciò un'occhiata alla gonna e alla blusa di Lacy. «È la prima volta che viene?» domandò. Lacy annuì. Erano in attesa in una stanza lunga, fianco a fianco su una fila di sedie. Davanti ai suoi piedi c'era una linea divisoria rossa, poi una seconda fila di sedie. Carcerati e visitatori stavano seduti come immagini allo specchio, parlandosi in codice. La donna accanto a Lacy le sorrise. «Si abituerà» le disse. A Peter era concessa la visita di un solo genitore, una volta ogni due settimane, per un'ora. Lacy si era portata un cesto colmo di muffin e biscotti fatti in casa, riviste, libri - tutto quello che, secondo lei, poteva aiutare Peter. Ma la guardia carceraria che l'aveva registrata per la visita aveva confiscato tutto. Niente prodotti da forno. E niente materiale da leggere, non prima che fosse stato esaminato con cura dal personale del carcere. Un uomo con la testa rasata e tatuaggi che gli coprivano le braccia come maniche si diresse verso Lacy. Lei rabbrividì: era una svastica quel segno disegnato con l'inchiostro che aveva in fronte? «Ciao, mamma» mormorò, e Lacy guardò gli occhi della donna che cancellavano i tatuaggi e la testa nuda e la tuta arancione per vedere un ragazzino che catturava girini in una pozza fangosa dietro la loro casa. Tutti, pensò Lacy, sono figli di qualcuno. Distolse lo sguardo dai due che si salutavano e vide Peter accompagnato nella sala visite. Per un momento il suo cuore si fermò: sembrava troppo magro, e dietro gli occhiali i suoi occhi erano vacui. Ma poi represse con forza i propri sentimenti e gli regalò un sorriso smagliante. Fece finta che non la disturbasse vedere suo figlio vestito da carcerato; finse di non aver dovuto rimanere seduta in macchina a lottare contro un attacco di panico, dopo essere entrata nel parcheggio del carcere; si comportò come se fosse perfettamente normale essere attorniata da spacciatori di droga e stupratori, mentre domandava a suo figlio se gli davano abbastanza da mangiare. «Peter» disse, stringendolo tra le braccia. Fu solo per un istante, ma lui ricambiò l'abbraccio. Lei premette il volto contro il suo collo, come faceva da bambino, e lei pensava che l'avrebbe divorato... ma non aveva l'odore di suo figlio. Per un momento si concesse di abbandonarsi alla fantasticheria che ci fosse stato un equivoco. Peter non è in carcere! È il figlio disgrazia-
to di qualcun altro! Ma poi capì che non era così. Lo shampoo e il deodorante che lui doveva usare in quel luogo non erano gli stessi che usava a casa. Questo Peter aveva un odore più pungente, più ordinario. D'un tratto sentì battere sulla sua spalla. «Signora» disse la guardia, «deve lasciarlo andare, ora.» Se solo fosse facile, pensò Lacy. Sedettero l'uno di fronte all'altra, la riga rossa in mezzo a loro. «Stai bene?» domandò lei. «Sono ancora qui.» Il modo in cui lo disse - come se ormai si aspettasse tutt'altro - fece rabbrividire Lacy. Aveva la sensazione che lui non si riferisse all'eventualità di essere rilasciato sotto cauzione, e l'alternativa - l'idea che Peter volesse suicidarsi - era qualcosa che lei non poteva concepire. Sentì la gola stretta, e si sorprese a fare l'unica cosa che si era ripromessa di non fare: si mise a piangere. «Peter» bisbigliò. «Perché?» «La polizia è venuta a casa?» domandò Peter. Lacy annuì... sembrava che fosse accaduto da tanto tempo. «Sono andati nella mia stanza?» «Avevano un mandato...» «Hanno preso le mie cose?» esclamò Peter, la prima emozione che vedeva in lui. «Hai lasciato che prendessero le mie cose?» «Che cosa facevi con quelle cose?» sussurrò lei. «Quelle bombe. Le armi...?» «Non capiresti.» «E allora aiutami, Peter» disse lei, scorata. «Aiutami a capire.» «Non sono riuscito a farti capire in diciassette anni, mamma. Perché dovrebbe essere diverso adesso?» Il suo volto si contrasse. «Non so nemmeno perché ti sei disturbata a venire.» «Per vederti...» «E allora guardami» gridò Peter. «Perché cazzo non mi guardi?» Si prese la testa tra le mani, dalle sue esili spalle curve giunse il suono di un singhiozzo. Ma allora tutto si riduce a questo, comprese Lacy. Guardi l'estraneo seduto di fronte a te e decidi, categoricamente, che non è più tuo figlio. Oppure decidi di trovare qualsiasi frammento rimasto di tuo figlio in quello che è diventato adesso. Ma si trattava davvero di scegliere, essendo madre? La gente poteva discutere del fatto che mostri non si nasce, ma si diven-
ta. La gente poteva criticare le sue capacità di madre, sottolineando i momenti in cui Lacy aveva deluso Peter con un atteggiamento troppo tollerante o troppo severo, troppo distante o troppo opprimente. La città di Sterling avrebbe analizzato fino all'esasperazione quello che lei aveva fatto a suo figlio... ma che dire di quello che lei aveva fatto per lui? Era facile essere orgogliosi di un ragazzo che prendeva tutti A e che faceva sempre il canestro vincente, un ragazzo che il mondo già adorava. Ma la vera personalità emergeva quando si riusciva a trovare qualcosa da amare in un bambino che tutti gli altri detestavano. E se quello che lei aveva fatto o non aveva fatto per Peter fosse stato il criterio errato di valutazione? E vedere in che modo lei, da quel terribile momento in poi, si sarebbe comportata non era un po' come dare un voto alla sua capacità di essere madre? Si sporse oltre la linea rossa finché riuscì ad abbracciare Peter. Non le importava che fosse permesso o no. Le guardie potevano anche venire a portarglielo via, ma fintantoché non accadeva Lacy non aveva intenzione di lasciar andare suo figlio. Il video ripreso dalla telecamera di controllo della caffetteria mostrava gli studenti coi vassoi e che facevano i compiti e chiacchieravano quando Peter era entrato nel locale impugnando un'arma. Vi fu una scarica di proiettili e una cacofonia di urla. Un rilevatore di fumo scattò. Quando tutti iniziarono a correre, lui sparò di nuovo, e questa volta due ragazze caddero a terra. Altri studenti le calpestarono nel tentativo di fuggire fuori. Quando le uniche persone rimaste nella caffetteria furono Peter e le vittime, lui percorse le file di tavoli, come per verificare quello che aveva fatto. Oltrepassò il ragazzo a cui aveva sparato, che giaceva in una pozza di sangue appoggiato a un libro, ma si fermò a prendere un iPod che era rimasto sul tavolo, mettendosi gli auricolari prima di spegnerlo e posarlo giù di nuovo. Girò la pagina di un quaderno aperto. Poi si sedette davanti a un vassoio intatto e vi depose l'arma. Aprì una scatola di Rice Krispies e li versò in una ciotola di polistirene. Aggiunse il contenuto di una lattiera e mangiò tutti i cereali prima di rialzarsi in piedi, recuperare la pistola e uscire dalla caffetteria. Era quanto di più agghiacciante, di più deliberato che Patrick avesse mai visto in vita sua. Guardò il piatto di spaghetti cinesi all'uovo che si era cucinato per cena e si rese conto di aver perso l'appetito. Lo depose su un mucchio di giornali vecchi, riavvolse il nastro e si costrinse a guardarlo ancora una volta.
Quando squillò il telefono, sollevò il ricevitore, ancora distratto dalla vista di Peter sullo schermo del televisore. «Sì.» «Be', ciao anche a te» disse Nina Frost. Lui si sciolse quando udì la sua voce. Le vecchie abitudini sono dure a morire. «Scusa. Sono nel marasma più totale.» «Lo immagino. Le notizie continuano ad arrivare. Come te la passi?» «Oh, sai» rispose, ma quello che intendeva dire veramente era che non dormiva la notte; che vedeva le facce dei morti ogni volta che chiudeva gli occhi; che la sua bocca era piena di tutte quelle domande che era sicuro di aver dimenticato di fare. «Patrick» disse lei, perché era la sua amica più affezionata e perché lo conosceva meglio di chiunque altro, incluso lui stesso, «non sentirti in colpa.» Lui chinò il capo. «È accaduto nella mia città. Come potrei non sentirmi così?» «Se tu avessi un videotelefono, sarei in grado di dirti se ti sei messo il cilicio oppure mantello e stivali» disse Nina. «Non è divertente.» «No, in effetti» ammise lei. «Ma devi pur sapere che al processo farai canestro subito. Hai, quanti?, un migliaio di testimoni?» «Più o meno.» Nina tacque. Patrick non aveva bisogno di spiegare a lei, una donna che viveva con il rimpianto come compagno costante, che condannare Peter Houghton non era sufficiente. Per ritrovare la tranquillità, Patrick doveva prima di tutto capire perché Peter l'aveva fatto. Così avrebbe potuto impedire che accadesse di nuovo. Da un rapporto investigativo dell'FBI, redatto da agenti speciali incaricati di esaminare le sparatorie nelle scuole di tutto il mondo: Abbiamo scoperto una somiglianza nelle dinamiche familiari degli autori di sparatorie nelle scuole. Spesso lo sparatore ha una relazione disturbata con i suoi genitori, oppure ha genitori che accettano un comportamento patologico. In famiglia si avverte una mancanza di intimità. Lo sparatore può guardare la televisione o usare il computer senza limiti di orario, e talvolta ha accesso alle armi. Nell'ambiente scolastico, abbiamo rilevato una tendenza al di-
stacco dal processo di apprendimento da parte dello sparatore. La scuola stessa tendeva a tollerare un comportamento irrispettoso, un'ostentata mancanza di disciplina e una rigidità culturale da parte di alcuni studenti che godevano di un prestigio attribuito loro dagli insegnanti e dalla direzione. Gli sparatori hanno in genere facile accesso a film, programmi televisivi e videogiochi violenti; fanno uso di stupefacenti e di alcol; fanno parte di un gruppo di ragazzi come loro che si ritrova anche fuori da scuola e che sostiene i loro comportamenti. Inoltre, prima di un'azione violenta, ci sono le prove di una specie di fuga di notizie - un indizio che sta per accadere qualcosa. Queste tracce possono assumere la forma di poesie, scritti, disegni, messaggi su Internet o minacce rivolte direttamente o indirettamente a qualcuno. Malgrado gli aspetti comuni che abbiamo descritto, consigliamo di non usare questo rapporto per creare uno schema che permetta di identificare ipotetici, futuri autori di sparatorie nelle scuole. Nelle mani dei media, questo potrebbe portare a etichettare molti studenti non violenti come potenzialmente letali. In realtà, molti adolescenti che non commetteranno mai atti violenti possono manifestare alcuni dei tratti compresi in questo schema. Lewis Houghton era un uomo abitudinario. Tutte le mattine si svegliava alle 5 e 35 e andava a correre sul tapis roulant nel seminterrato. Faceva la doccia e mangiava una ciotola di cornflakes mentre scorreva i titoli del giornale. Indossava sempre lo stesso soprabito indipendentemente dal clima caldo o freddo, e lasciava la macchina sempre nello stesso posto, all'interno del parcheggio della facoltà. Una volta aveva provato a raffigurare matematicamente l'effetto della routine sulla felicità, ma il calcolo doveva tener conto di una variabile interessante: la misura della gioia apportata dalla familiarità poteva essere ampliata o ridotta dalla resistenza individuale al cambiamento. In altri termini - come avrebbe detto Lacy, parla come mangi, Lewis - per ogni persona come lui che amava lo stanco tran tran della familiarità, c'era un'altra persona che la trovava opprimente. In quei casi, il quoziente di comfort diventava un numero negativo, e svolgere le attività abituali di fatto riduceva la felicità. Era così, a suo avviso, per Lacy, che vagava per casa come se non l'a-
vesse mai vista prima, che non riusciva a sopportare il pensiero di tornare al suo lavoro. Come puoi pensare che io mi preoccupi del figlio di qualcun altro, ora? aveva protestato. Continuava a insistere che bisognava fare qualcosa, ma Lewis non sapeva cosa. E poiché non poteva consolare né sua moglie né suo figlio Lewis decise che non gli rimaneva altro da fare che consolare se stesso. Dopo essere rimasto seduto in casa per cinque giorni, in seguito all'incriminazione di Peter, una mattina si svegliò, preparò la sua cartella, mangiò i cornflakes, lesse il giornale e andò al lavoro. Durante il percorso, si mise a riflettere sull'equazione per la felicità. Uno dei principi della sua scoperta - F = R/A, o felicità uguale realtà diviso aspettativa - era fondato sulla verità universale che si nutre sempre qualche aspettativa per qualcosa che deve accadere. In altre parole, A era sempre un numero reale, dal momento che non si poteva dividere per zero. Ma recentemente si era posto domande sulla verità di quell'asserzione. La matematica poteva guidare un uomo solo fino a un certo punto. Nel cuore della notte, quando era sveglio e fissava il soffitto, sapendo che sua moglie, distesa accanto a lui, fingeva di dormire ma faceva la stessa cosa, Lewis era giunto alla conclusione che si può essere condizionati dall'assoluta mancanza di aspettative. Di conseguenza, quando si perde il primo figlio non si soffre. Quando il secondo figlio viene arrestato per aver compiuto un massacro, si rimane impassibili. Si poteva dividere per zero: ci si sentiva come in un canyon nel quale il cuore si abituava a stare. Non appena mise piede all'università, Lewis si sentì meglio. Lì non era il padre dello sparatore e non lo era mai stato. Era Lewis Houghton, professore di scienze economiche. Lì, il suo ruolo era ancora intatto; non doveva esaminare l'insieme delle proprie ricerche e domandarsi a che punto avevano incominciato a sgretolarsi. Quella mattina Lewis aveva appena tirato fuori un fascio di fogli dalla sua cartella quando il preside della facoltà di economia si affacciò alla porta. Hugh Macquarie era un uomo robusto - gli studenti del college lo chiamavano, alle sue spalle, Huge Andhairy3 - che ricopriva il suo ruolo con evidente soddisfazione. «Houghton? Che cosa fai qui?» «L'ultima volta che ho controllato, l'università mi pagava ancora per lavorare» rispose Lewis, provando a fare una battuta. Non sapeva fare battute, non ne era mai stato capace. Non brillava per tempismo; non sapeva valorizzare la battuta più divertente di una barzelletta. 3
«Grosso e peloso». (N.d.T.)
Hugh entrò nella stanza. «Mio Dio, Lewis, non so cosa dire.» Esitò. Lewis non gliene fece una colpa. Lui per primo sapeva a stento cosa dire a se stesso. C'erano cartoncini ad hoc per il lutto, per la perdita di un animale domestico, per chi si ritrovava senza lavoro, ma nessuno sembrava conoscere le parole giuste per consolare qualcuno il cui figlio aveva appena ucciso dieci persone. «Pensavo di telefonarti a casa. Lisa voleva persino portarvi un piatto pronto o roba del genere. Come se la sta cavando Lacy?» Lewis spinse gli occhiali più in alto sul ponte del naso. «Oh» disse. «Sai, stiamo cercando di andare avanti il più normalmente possibile.» Mentre lo diceva, si raffigurò la propria vita come un grafico. Normale era una linea che si allungava sempre di più, avvicinandosi a un asse senza mai raggiungerlo veramente. Hugh si sedette sulla sedia davanti alla scrivania di Lewis, la stessa sedia su cui a volte si metteva uno studente che aveva bisogno di delucidazioni in microeconomia. «Lewis, prenditi un po' di vacanza» gli disse. «Grazie, Hugh. Lo apprezzo molto.» Lewis lanciò un'occhiata in fondo alla stanza, a un'equazione sulla lavagna che stava cercando di risolvere. «Ma adesso ho veramente bisogno di stare qui. Mi evita di pensare all'essere là.» Prendendo un gessetto, Lewis cominciò a scrivere sulla lavagna una lunga, bella serie di numeri che lo fece sentire più calmo. Sapeva che c'è una differenza tra qualcosa che ti rende felice e qualcosa che non ti rende infelice. Il trucco era autoconvincersi che fossero la stessa cosa. Hugh posò una mano sul braccio di Lewis, fermandolo a metà equazione. «Forse mi sono espresso male. È necessario che tu ti prenda un periodo di vacanza.» Lewis lo guardò fisso. «Ah. Um. Capisco» disse, benché non fosse così. Se Lewis voleva scindere la sua vita lavorativa da quella familiare, lo Sterling College non poteva fare lo stesso? A meno che... Era stato prima di tutto un suo errore? Se sei incerto sulle decisioni che hai preso come padre, puoi rimediare alle tue insicurezze con l'autostima in ambito professionale? Oppure il rattoppo sarà sempre fragile, una parete di carta che non regge il peso? «Soltanto per un po'» aggiunse Hugh. «È la cosa migliore.» Per chi? pensò Lewis, ma rimase in silenzio finché udì Hugh chiudersi la porta alle spalle e andarsene.
Quando il preside se ne fu andato, Lewis riprese in mano il gessetto. Guardò fisso la lavagna finché le equazioni cominciarono a confondersi, e a quel punto iniziò a scribacchiare furiosamente, un compositore con una sinfonia dal ritmo troppo veloce per le sue dita. Perché non se n'era reso conto prima? Tutti sapevano che se dividi realtà per aspettativa ottieni un quoziente di felicità. Ma se inverti i termini dell'equazione - aspettativa diviso realtà - non ottieni l'opposto della felicità. Quello che ottieni, capì Lewis, è la speranza. Logica pura: assumendo che la realtà sia costante, l'aspettativa deve essere maggiore della realtà per creare ottimismo. D'altro canto, un pessimista è qualcuno con aspettative inferiori alla realtà, una frazione di profitti che diminuiscono. La condizione umana significava che quel numero si avvicinava allo zero, ma senza raggiungerlo: non si rinuncia mai completamente alla speranza, che può ripresentarsi prepotentemente alla prima occasione. Lewis indietreggiò di un passo rispetto alla lavagna, per verificare il proprio lavoro. Un individuo felice, in compenso, aveva assai poco bisogno di speranza. Viceversa, un ottimista è così perché vuole credere in qualcosa di meglio della sua realtà. Cominciò a domandarsi se ci fossero eccezioni alla regola: se una persona felice poteva essere piena di speranza, se l'infelice poteva aver già rinunciato a qualsiasi aspettativa di un miglioramento della situazione. Fu così che gli venne da pensare a suo figlio. Rimase in piedi davanti alla lavagna e si mise a piangere, mentre le sue mani e le sue maniche si coprivano di una sottile polvere di gesso bianca, come se fosse diventato un fantasma. L'ufficio della Squadra Secchioni, come Patrick chiamava affettuosamente i ragazzi della scientifica che si infiltravano nei dischi rigidi dei computer per trovare prove di pornografia e archivi scaricati da The Anarchist Cookbook, era pieno di computer. Non c'era soltanto quello prelevato nella stanza di Peter Houghton, ma anche molti computer della Sterling High, compresi quello dell'ufficio del direttore e altri sequestrati in biblioteca. «È bravo» disse Orestes, un tecnico che, Patrick sarebbe stato pronto a scommetterci, era lui stesso troppo giovane per aver concluso la scuola secondaria. «Non si tratta solo di programmi in HTML. Il ragazzo la sapeva lunga.»
Estrasse alcuni file dalle viscere del computer di Peter. Contenevano grafici che non avevano molto senso per Patrick, finché il tecnico batté sulla tastiera e tutt'a un tratto sullo schermo apparve un drago tridimensionale che sputava fuoco verso di loro. «Uau» esclamò Patrick. «Già. Da quello che vedo, aveva realmente inventato alcuni videogiochi, e li aveva impostati per poterci giocare su un paio di siti dove puoi anche avere un riscontro da altri utenti.» «C'era qualche area messaggi su quei siti?» «Amico, mi dia un minimo di fiducia» disse Orestes, e cliccò su un sito che aveva già richiamato la sua attenzione. «Peter usava il nome DeathWish. Sono un ...» «... un gruppo musicale» concluse Patrick. «Lo so.» «Non sono soltanto un gruppo musicale» rettificò Orestes rispettosamente, mentre le sue dita volavano sulla tastiera. «Sono la voce moderna della coscienza collettiva.» «Dillo a Tipper Gore.» «Chi?» Patrick rise. «Lei era prima della tua epoca, credo.» «Che cosa ascoltava di solito da ragazzo?» «Gli uomini delle caverne, che sbattevano dei sassi» rispose Patrick seccamente. Lo schermo si riempì di una serie di messaggi da DeathWish. Quasi tutti riguardavano eventuali migliorie da apportare a una certa grafica o recensioni di altri giochi che erano stati collocati sul sito. Due citavano canzoni del gruppo dei Death Wish. «Questo è il mio preferito» disse Orestes, e lo fece scorrere sul video. Da: DeathWish A: Hadesl991 Questa città è un vero schifo. Il prossimo weekend c'è un festival dell'artigianato in cui le vecchie streghe espongono un po' di stronzatine fatte da loro. Dovrebbero chiamarlo festival delle cagate. Mi nasconderò nei cespugli fuori dalla chiesa. Esercitazione di tiro al bersaglio mentre attraversano la strada: dieci punti ciascuna! Yee ha! Patrick si sistemò meglio sulla sedia. «Be', questo non prova niente.» «Già» commentò Orestes. «I festival dell'artigianato sono una noia e ba-
sta. Ma guardi questo.» Si girò facendo ruotare la sedia per raggiungere un altro computer, collocato su un tavolo. «Si era infiltrato nella protezione del sistema informatico della scuola.» «A quale scopo? Cambiare i suoi voti?» «Non proprio. Il programma che ha scritto ha violato le protezioni del sistema della scuola alle 9 e 58.» «La bomba sull'auto è esplosa a quell'ora» mormorò Patrick. Orestes girò il monitor in modo che Patrick potesse vedere. «Questo era su ogni singolo schermo di ogni singolo computer della scuola.» Patrick fissò lo sfondo purpureo, le lettere rosso fiammante che scorrevano sul video come un'insegna luminosa: PRONTI O NO... IO ARRIVO. Jordan era già seduto al tavolo della sala visite quando Peter Houghton fu introdotto da una guardia carceraria. «Grazie» disse alla guardia, fissando Peter, che immediatamente passò al vaglio la stanza, mentre il suo sguardo si posava sull'unica finestra. Jordan l'aveva già notato più volte nei carcerati che aveva rappresentato: un essere umano normale si trasformava rapidamente in un animale in gabbia. Era un enigma del tipo l'uovo e la gallina: erano animali perché erano in prigione... o erano in prigione perché erano animali? «Siediti» disse, e Peter rimase in piedi. Imperterrito, Jordan iniziò a parlare. «Voglio spiegarti le regole base, Peter» dichiarò. «Tutto quello che ti dico è segreto. Tutto quello che mi dici tu è segreto. Io non posso riferire a nessuno quello che tu mi dici. Io posso dirti, invece, di non parlare con i media o con la polizia o con chiunque altro di un dato argomento. Se qualcuno cerca di contattarti, tu devi contattare me immediatamente - con una telefonata a carico del destinatario. In qualità di tuo legale, devo parlare in vece tua. D'ora in poi, io sono il tuo migliore amico, tua madre, tuo padre, il tuo sacerdote. È tutto chiaro?» Peter gli lanciò uno sguardo truce. «Chiarissimo.» «Bene. Allora.» Jordan tirò fuori dalla sua cartella un blocco di carta per appunti e una matita. «Immagino che tu abbia qualche domanda da farmi. Possiamo cominciare da lì.» «Odio stare qui» esplose Peter. «Non capisco perché devo stare qui.» Quasi tutti i clienti di Jordan, all'inizio della detenzione in carcere, erano taciturni e terrorizzati, per poi passare rapidamente alla collera e all'indignazione. Ma in quel momento Peter sembrava un adolescente qualsiasi: era come Thomas quando aveva la sua età, quando il mondo apparente-
mente ruotava attorno a lui e solo casualmente anche Jordan abitava nel medesimo mondo. Tuttavia, l'avvocato dentro di lui ebbe la meglio sul genitore, e lui cominciò a domandarsi se Peter Houghton potesse realmente non sapere perché era in carcere. Jordan sarebbe stato il primo a dichiarare che il ricorso all'infermità mentale raramente funzionava ed era grossolanamente sopravvalutato, ma forse Peter poteva essere l'eccezione alla regola... e quella era la chiave per garantirsi un proscioglimento. «Che cosa vuoi dire?» lo incalzò. «Sono stati loro a farmi questo, e invece adesso io sono l'unico che viene punito.» Jordan si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. Peter non provava rimorso per quello che aveva fatto, era più che evidente. In realtà, si considerava una vittima. Ma quello era l'aspetto positivo del fare l'avvocato difensore: a Jordan in realtà non importava. Non c'era posto, nella sua etica professionale, per i suoi sentimenti personali. In precedenza aveva lavorato con la feccia della terra: killer e stupratori che si sentivano martiri. Il suo lavoro non consisteva nel credergli o nel pronunciare un giudizio. Consisteva semplicemente nel fare o dire qualsiasi cosa fosse necessaria per restituire loro la libertà. Malgrado quello che aveva appena detto a Peter, non era né un prete né uno strizzacervelli né un amico per un cliente. Era semplicemente un manipolatore di opinioni. «Bene» disse Jordan pacatamente, «devi comprendere la posizione del carcere. Per loro, tu sei soltanto un assassino.» «E allora sono tutti ipocriti» ribatté Peter. «Se vedessero uno scarafaggio, lo schiaccerebbero con il tacco, no?» «È così che descriveresti quello che è accaduto nella scuola?» Peter distolse gli occhi rapidamente. «Lo sa che non ho il permesso di leggere i giornali?» disse. «Non posso neanche andare a fare ginnastica in cortile come tutti gli altri.» «Non sono qui per ascoltare le tue lamentele.» «Perché è qui?» «Per aiutarti a venirne fuori» replicò Jordan. «E se vuoi che questo accada devi parlare con me.» Peter incrociò le braccia sul petto e squadrò Jordan: prima la sua camicia con il colletto, poi la sua cravatta, infine le scarpe nere lucide. «Perché? In realtà a lei non frega un cazzo di me.» Jordan si alzò in piedi e cacciò il blocco per appunti nella cartella. «Sai
una cosa? Hai ragione. Non me ne frega davvero un cazzo di te. Sto solo facendo il mio lavoro perché, a differenza di te, non voglio che lo Stato mi paghi vitto e alloggio per il resto della mia vita.» Si avviò verso la porta, ma fu richiamato indietro dal suono della voce di Peter. «Perché tutti sono così sconvolti all'idea che quei cretini siano morti?» Jordan si voltò lentamente, prendendo nota mentalmente che la bontà non funzionava con Peter, e neppure la voce dell'autorità. Quello che l'aveva fatto reagire era pura e semplice rabbia. «Quello che voglio dire è che la gente piange per loro... e loro erano degli idioti. Tutti dicono che ho rovinato loro la vita, ma a nessuno sembrava importare quando gli altri rovinavano la mia vita.» Jordan si sedette sul bordo del tavolo. «Come?» «Da dove vuole che cominci» rispose Peter, amaro. «Dalla scuola materna, quando la maestra distribuiva le merende, e uno di loro mi tirava via la sedia per farmi cadere e tutti gli altri morivano dalle risate? Oppure dalla seconda elementare, quando mi tenevano la testa nel gabinetto e facevano scorrere l'acqua un sacco di volte, solo perché sapevano che potevano farlo? Oppure da quella volta in cui mi picchiarono mentre tornavo a casa da scuola, e dovettero darmi dei punti?» Jordan prese il blocco per gli appunti e scrisse PUNTI DI SUTURA. «Chi erano?» «Un intero branco di ragazzi» replicò Peter. Quelli che volevi uccidere? pensò Jordan, ma non formulò la domanda. «Secondo te, perché ti avevano preso di mira?» «Perché sono delle teste di cazzo? Non lo so. Sono come un branco di lupi. Devono fare in modo che qualcun altro si senta una merda perché loro possano sentirsi in gamba.» «Cosa facevi per tentare di fermarli?» Peter sbuffò. «Se per caso non se n'è accorto, Sterling non è esattamente una metropoli. Tutti sanno tutto. Ti ritrovi alle superiori con gli stessi ragazzi che erano con te nel recinto di sabbia all'asilo.» «Non riuscivi a girare al largo?» «Dovevo andare a scuola» disse Peter. «Sembra incredibilmente piccola quando bisogna starci otto ore al giorno.» «Ma ti aspettavano anche fuori da scuola?» «Quando riuscivano a prendermi» rispose Peter. «Se ero da solo.» «Ti tormentavano... con telefonate, lettere, minacce?» domandò Jordan. «Su Internet» replicò Peter. «Mi mandavano degli SMS, dicendomi che
ero un perdente, e cose del genere. Poi presero un'e-mail che avevo scritto e la mandarono a tutta la scuola... come se fosse uno scherzo...» Guardò altrove e tacque. «Perché?» «Era...» Scosse il capo. «Non voglio parlarne.» Jordan prese un appunto sul blocco. «Hai mai raccontato a nessuno quello che ti capitava? Genitori? Insegnanti?» «Non frega un cazzo a nessuno» rispose Peter. «Ti dicono di ignorarlo. Dicono che controlleranno per essere sicuri che non si ripeta più, ma non controllano mai.» Si avvicinò alla finestra e premette le palme delle mani contro il vetro. «C'era una bambina nella mia classe di prima elementare che aveva quella malattia, quando la colonna vertebrale cresce fuori dal corpo...» «La spina bifida?» «Quella. Aveva una sedia a rotelle e non poteva stare seduta dritta o cose del genere, e prima che entrasse in classe la maestra ci diceva che dovevamo trattarla come se fosse uguale a noi. Il fatto è che lei non era uguale a noi, e lo sapevamo tutti, e lo sapeva anche lei. Cosa dovevamo fare, mentirle in faccia?» Peter scosse il capo. «Tutti dicono che va bene essere diversi, ma l'America è considerata un crogiolo, e allora che cazzo vuol dire? Se è un crogiolo, si cerca di rendere tutti uguali, no?» Jordan si sorprese a pensare al passaggio di suo figlio Thomas alla scuola media. Si erano trasferiti da Bainbridge a Salem Falls, un ambiente scolastico così piccolo che i gruppi di ragazzi avevano già innalzato muri spessi come quelli delle prigioni per proteggersi dagli estranei. Per un po', Thomas era stato un camaleonte: tornava a casa da scuola e si chiudeva nella sua stanza, poi ne riemergeva come giocatore di pallone, come attore, come genio della matematica. Dovette cambiare pelle parecchie volte durante la sua adolescenza prima di trovare un gruppo di amici che lo lasciassero essere chi voleva; e il resto della carriera di Thomas nella scuola superiore era stato abbastanza pacifico. Ma se non avesse trovato quel gruppo di amici? Cosa sarebbe accaduto se avesse continuato a cambiare strati di se stesso finché al centro non fosse rimasto più niente? Come se potesse leggere nei pensieri di Jordan, Peter d'improvviso lo fissò. «Ha figli?» Jordan non parlava della sua vita personale con i clienti. Il loro rapporto esisteva all'interno di un tribunale, punto e basta. Le poche volte nella sua carriera in cui quella regola non scritta era stata infranta, aveva rischiato di
distruggersi personalmente e professionalmente. Ma incrociò lo sguardo di Peter e disse: «Due. Un bimbo di sei mesi e un ragazzo che studia a Yale». «Allora lo sa» disse Peter. «Tutti vogliono che i loro figli crescano e vadano a Harvard o che diventino l'attaccante dei Patriot. Nessuno guarda il proprio bambino pensando: Oh, spero che mio figlio cresca e diventi un ragazzo anomalo. Spero che vada a scuola tutti i giorni pregando di non attirare l'attenzione di nessuno. Ma vuol sapere una cosa? Ragazzi così ne crescono tutti i giorni.» Jordan si ritrovò a corto di parole. Quella era la linea sottile tra unico e strano, tra ciò che faceva diventare un ragazzo ben inserito in un gruppo come Thomas e ciò che rendeva instabili, come Peter. Gli adolescenti avevano la capacità di cadere da una parte o dall'altra di quella corda tesa, e com'era possibile individuare un momento preciso in cui si spostava l'ago della bilancia? D'improvviso pensò a Sam quella mattina, quando Jordan gli cambiava il pannolino. Il bimbo si era preso gli alluci e li teneva stretti, affascinato dall'averli individuati, e tutt'a un tratto si era cacciato un piede in bocca. Guardalo, aveva detto scherzosamente Selena al di sopra della sua spalla, tale il padre, tale il figlio. Quando ebbe finito di vestire Sam, Jordan pensò con stupore a quale mistero doveva sembrare la vita a una creatura così giovane. Immaginate un mondo che sembra tanto più grande di voi. Immaginate di svegliarvi una mattina e di trovare un pezzo di voi stessi di cui non conoscevate nemmeno l'esistenza. Quando non ti inserisci, diventi superumano. Senti gli occhi di tutti gli altri su di te, attaccati come il velcro. Riesci a udire un bisbiglio su di te a un chilometro di distanza. Vuoi sparire, anche quando sembra che tu sia ancora lì in piedi. Puoi urlare, e nessuno sentirà alcun suono. Diventi il mutante caduto nella vasca di acido, il burlone che non sa togliersi la maschera, l'uomo bionico privo di tutti gli arti ma non del suo cuore. Sei qualcosa che una volta era normale, ma così tanto tempo fa che non riesci nemmeno a ricordare come fosse. Sei anni prima Peter capì di essere condannato, il primo giorno della sesta, quando sua madre, a colazione, gli consegnò un regalo. «So quanto lo desideravi» dis-
se, e aspettò che lui aprisse il pacchetto. Dentro c'era un quaderno a tre anelli con un disegno di Superman sulla copertina. E lui l'aveva tanto desiderato. Tre anni prima, quando averne uno era ancora cool. Era riuscito a sorridere. «Grazie, mamma» disse, e lei lo guardò raggiante, mentre lui immaginava tutti i modi in cui quello stupido quaderno si sarebbe ritorto contro di lui. Josie, come al solito, era giunta in suo aiuto. Aveva detto al custode della scuola che il manubrio della sua bicicletta si era stortato e che lei aveva bisogno di un pezzo di nastro isolante per aggiustarlo alla meglio in modo da poter tornare a casa. In realtà, non era andata a scuola in bicicletta: era andata a piedi con Peter, che abitava un po' più lontano dal centro, ma era passato a prenderla lungo la strada. Benché non si vedessero mai fuori dalla scuola - era così da anni, grazie a un contrasto tra le loro madri che né l'uno né l'altra riuscivano a ricordare nei particolari - Josie usciva ancora con Peter. Grazie a Dio, perché nessun altro lo faceva. Stavano seduti vicini a pranzo, si leggevano a vicenda la brutta copia dei compiti di inglese, in laboratorio facevano coppia fissa. Le estati erano sempre difficili. Si mandavano e-mail, e ogni tanto si vedevano al laghetto che c'era in città, ma nient'altro. Poi, a settembre, riprendevano a frequentarsi come se non ci fosse mai stata nessuna interruzione. Quello voleva dire essere il migliore amico di qualcuno, pensava Peter. Quel giorno, grazie al quaderno di Superman, iniziarono l'anno con un momento critico. Aiutato da Josie, Peter fabbricò una specie di copertina con il nastro isolante e un giornale vecchio che avevano rubato nel laboratorio di scienze. Poteva sempre toglierla quando tornava a casa, aveva suggerito Josie, perché sua madre non si offendesse. Quelli di sesta avevano l'intervallo di pranzo alla quarta ora, quando erano solo le undici, ma a quell'ora si sentivano affamati come se non mangiassero da mesi. Josie comprava qualcosa - l'abilità culinaria di sua madre si limitava, diceva lei, a compilare un assegno per le cameriere della caffetteria - e Peter rimaneva in piedi accanto a lei nel serpentone della fila per prendere un cartone di latte. Sua madre gli preparava un sandwich tagliando via la crosta al pane, un sacchetto di carote a bastoncini, un frutto biologico che a volte era ammaccato e a volte no. Peter fece scivolare il suo quaderno sul vassoio della caffetteria, imbarazzato malgrado la copertina di giornale. Infilò una cannuccia nel suo cartone di latte. «Sai, non dovrebbe fare differenza il quaderno che usi» disse
Josie. «Che cosa te ne importa di quello che pensano?» Mentre si avviavano verso la sala da pranzo, Drew Girard andò a sbattere contro Peter. «Guarda dove vai, ritardato» disse Drew, ma era troppo tardi: il vassoio di Peter era già caduto. Il latte si rovesciò sul quaderno ricoperto, riducendo il giornale a una poltiglia bagnata e rivelando al di sotto il disegno di Superman. Drew scoppiò a ridere. «Porti anche le mutande di Superman, Houghton?» «Chiudi il becco, Drew.» «Altrimenti cosa mi fai? Vuoi sciogliermi con la tua vista ai raggi x?» La signora McDonald, l'insegnante di arte che sorvegliava la sala da pranzo - e che una volta Josie giurava di aver visto sniffare colla nella dispensa -, si fece avanti indecisa. Già prima del settimo anno, c'erano ragazzi come Drew e Matt Royston che erano più alti degli insegnanti e avevano la voce profonda e dovevano radersi. Ma c'erano anche ragazzi come Peter, che pregavano tutte le sere perché la pubertà arrivasse anche per loro, ma che in realtà non ne avevano ancora visto alcun segno vitale. «Peter, perché non vai a sederti...» La signora McDonald sospirò. «Drew ti porterà un altro cartone di latte.» Probabilmente avvelenato, pensò Peter. Cominciò ad asciugare il suo quaderno con un tampone fatto di tovaglioli di carta. Ma, per quanto lo asciugasse, ormai puzzava. Forse poteva dire a sua madre che gli si era rovesciato il latte a pranzo. Era la verità, dopotutto, anche se era stato un po' aiutato a farlo. E magari si sarebbe rivelato un incentivo sufficiente, per lei, a comprargli un nuovo, normale quaderno per gli appunti, come l'avevano tutti. Dentro di sé, Peter se la rideva: in realtà, Drew Girard gli aveva fatto un favore. «Drew» disse l'insegnante. «Intendevo dire ora.» Mentre Drew faceva un passo dentro la caffetteria, verso la piramide di cartoni del latte, Josie allungò un piede furtivamente costringendolo a inciampare e a finire lungo disteso a faccia in giù. Nella sala da pranzo, gli altri ragazzi si misero a ridere. Era così che funzionava quella società: la tua faccia rimaneva in fondo al totem soltanto finché riuscivi a trovare qualcun altro che prendesse il tuo posto. «Cerca la kriptonite» sussurrò Josie, a voce abbastanza alta perché Peter la udisse. I due vantaggi principali dell'essere un giudice di corte distrettuale, se-
condo il modo di pensare di Alex, erano: primo, prendere in considerazione i problemi della gente e dare a tutti l'impressione di essere ascoltati; secondo, la sfida intellettuale. Quando prendeva una decisione, doveva creare un equilibrio tra molti fattori: le vittime, la polizia, le forze dell'ordine, la società. E tutti dovevano essere considerati nel contesto di un precedente. La parte peggiore di quel lavoro era il non poter dare agli altri quello di cui avevano effettivamente bisogno quando arrivavano in tribunale: a un imputato, una sentenza che costituisse una cura, invece di una punizione. A una vittima, un'offerta di scuse. Quel giorno c'era una ragazza in piedi di fronte a lei, poco più grande di Josie. Indossava un giubbino NASCAR e una gonna nera a pieghe, aveva i capelli biondi e l'acne. Alex aveva visto altre ragazzine come lei bazzicare i parcheggi quando il centro commerciale del New Hampshire aveva ormai chiuso per la notte, e sgommare in cerchio sulle auto truccate dei loro ragazzi. Si domandava come sarebbe stata quella ragazza se avesse avuto un giudice come madre. Si domandava se c'era stato un momento in cui quella ragazzina aveva giocato con animali di pezza sotto il tavolo di cucina e se aveva letto libri sotto le coperte con una pila quando tutti credevano che dormisse. Alex non finiva mai di stupirsi al pensiero che, con il gesto di una mano, la traiettoria della vita di qualcuno poteva prendere una direzione completamente diversa. La ragazza era stata accusata di aver accettato beni rubati: una collana d'oro da 500 dollari che le aveva dato il suo ragazzo. Alex abbassò lo sguardo su di lei dal banco. C'era una ragione se il banco era così alto nelle aule dei tribunali: non aveva niente a che fare con la logica, quello che contava era l'intimidazione. «Lei rinuncia ai suoi diritti consapevolmente, volontariamente e nel pieno possesso delle sue facoltà? E si rende conto che, ammettendo la sua colpevolezza, riconosce la verità dell'accusa?» La ragazza sbatté gli occhi. «Non sapevo che fosse rubata. Credevo che fosse un regalo di Hap.» «Se lei leggesse il testo della denuncia, vedrebbe che è accusata di aver accettato consapevolmente quella collana, sapendo che era rubata. Se non sapeva che era rubata, ha il diritto di essere rinviata a giudizio. Ha il diritto di richiedere una difesa legale. Ha il diritto di farsi assegnare da me un legale che la rappresenti perché è accusata di un reato di Classe A, punibile con un massimo di un anno in carcere e un minimo di 2000 dollari di ammenda. È suo diritto che l'accusa venga provata oltre ogni ragionevole
dubbio. Ha il diritto di vedere, ascoltare e interrogare tutti i testimoni che sono contro di lei. È suo diritto che io emetta mandato di comparizione per ottenere prove o testimonianze a suo favore. Ha il diritto di appellarsi alla Corte Suprema, oppure alla Corte d'Appello per un procedimento giudiziario ex novo se io incorro in un errore di legge o se lei non è d'accordo con la mia decisione. Ammettendo la sua colpevolezza, lei rinuncia a questi diritti.» La ragazza deglutì. «Be'» replicò. «L'ho data in pegno.» «Non è questa l'essenza dell'accusa» spiegò Alex. «L'essenza dell'accusa è che lei ha preso la collana pur sapendo che era stata rubata.» «Ma io voglio dichiararmi colpevole» ribatté la ragazza. «Mi sta dicendo che non ha fatto quello di cui l'incolpa l'accusa. Non può dichiararsi colpevole di qualcosa che non ha commesso.» In fondo all'aula, una donna si alzò in piedi. Sembrava una fotocopia tristemente più anziana dell'imputata. «Io le ho detto di dichiararsi non colpevole» si giustificò la madre della ragazza. «Quando è arrivata qui oggi aveva intenzione di farlo, ma poi il pubblico ministero le ha detto che le conveniva ammettere la sua colpevolezza.» Il pubblico ministero saltò su dalla sua sedia come un pupazzo a molla dalla sua scatola. «Non l'ho mai detto, Vostro Onore. Le ho detto che oggi, all'ordine del giorno, c'era la questione della colpevolezza, e nient'altro. E che se invece si fosse dichiarata non colpevole e fosse stata rinviata a giudizio la questione non sarebbe più stata all'ordine del giorno e Vostro Onore avrebbe preso la decisione che voleva.» Alex provò a immaginare come dovesse essere stare nei panni della ragazza, completamente sopraffatta dalla statura massiccia di quel sistema legale, incapace di parlarne il linguaggio. Guardando il pubblico ministero probabilmente vedeva Monty Hall. Prende il denaro? Oppure sceglie la Porta Numero Uno - che potrebbe nascondere una decappottabile, oppure un pollo? Quella ragazza aveva preso il denaro. Alex fece cenno al pubblico ministero di avvicinarsi al banco, «Ha tratto qualche prova, dalla sua indagine, per dimostrare che la ragazza sapeva che era rubata?» «Sì, Vostro Onore.» Tirò fuori il rapporto della polizia e glielo porse. Alex gli diede una scorsa: era impossibile, dato quello che aveva detto ai poliziotti e il modo in cui i poliziotti l'avevano trascritto, che non sapesse che era rubata.
Alex si rivolse alla ragazza. «Stando ai fatti contenuti nel rapporto della polizia, uniti all'evidenza delle prove, dichiaro che ci sono gli estremi per la sua colpevolezza. Qui ci sono prove sufficienti a sostenere che lei sapeva che la collana era stata rubata, e l'ha presa ugualmente.» «Non... Non capisco» disse la ragazza. «Significa che accetto la sua ammissione di colpevolezza, se lei continua a offrirmela. Ma» aggiunse Alex «prima deve dirmi che è colpevole.» Alex guardò la bocca della ragazza irrigidirsi e iniziare a tremare. «D'accordo» bisbigliò. «Sono colpevole.» Era una di quelle giornate d'autunno incredibilmente belle, quando trascini i piedi sul marciapiede al mattino mentre cammini verso la scuola, perché non riesci a credere di dover sprecare otto ore lì dentro. Josie era seduta in classe per la lezione di matematica, e fissava l'azzurro del cielo... ceruleo era una parola che figurava nel vocabolario di quella settimana, e il solo pronunciarla dava a Josie l'impressione di avere la bocca piena di cristalli di ghiaccio. Udiva quelli di settima giocare a bandiera durante l'ora di ginnastica nel cortile sul retro, e il ronzio del tosaerba mentre il custode oltrepassava la loro finestra. Un pezzo di carta lanciato sopra la sua spalla le cadde in grembo. Josie lo aprì, e lesse il messaggio di Peter. Perché dobbiamo sempre risolvere per x? Perché x non si arrangia da solo e non ci lascia in PACE????? Lei si voltò, rivolgendogli un mezzo sorriso. In realtà, a lei matematica piaceva. Le dava soddisfazione sapere che, se si fosse data abbastanza da fare, alla fine ci sarebbe stata una risposta con un senso. Non si era inserita nel gruppo popolare della scuola perché lei era una che prendeva sempre A. Peter era diverso: lui prendeva B, C e una volta aveva preso D. Nemmeno lui si era inserito, ma non perché fosse geniale. Semplicemente perché era Peter. Se c'era un palo totemico della impopolarità, Josie sapeva che la sua collocazione era ancora piuttosto in alto. Ogni tanto si domandava se andava in giro con Peter perché apprezzava la sua compagnia o perché stare con lui la faceva sentire a posto con se stessa. Mentre tutti lavoravano a quel compito in classe, la signora Rasmussin navigava su Internet. Era la favola di tutta la scuola: chi riusciva a sorprenderla mentre si comprava un paio di pantaloni su Gap.com, chi la tro-
vava a leggere siti web dei fan delle soap opera. Un ragazzo giurava di averla sorpresa a guardare un sito pornografico, una volta, mentre si avvicinava al suo tavolo per rivolgerle una domanda. Josie finì presto, come al solito, e quando alzò gli occhi vide la signora Rasmussin al suo computer... ma c'erano lacrime che le rigavano le guance, e lei aveva l'aria strana di chi non si rende nemmeno conto di piangere. Si alzò in piedi e uscì dall'aula senza nemmeno dire ai ragazzi di stare tranquilli durante la sua assenza. Non appena fu uscita, Peter diede un colpetto sulla spalla a Josie. «Cosa le succede?» Prima che Josie potesse rispondere, la signora Rasmussin tornò. Il suo volto era bianco come il marmo, e le sue labbra sembravano cucite insieme. «Ragazzi» disse, «è accaduta una cosa terribile.» Nel centro multimediale, dove furono raggruppati gli studenti della scuola media, il direttore disse loro quello che sapeva: due aerei si erano schiantati contro il World Trade Center. Un altro aveva colpito da poco il Pentagono. La torre Sud del World Trade Center era crollata. Il bibliotecario aveva acceso un televisore, e tutti i ragazzi poterono seguire il notiziario. Benché fossero andati a prenderli per farli uscire dalle aule, il che di solito era un'occasione da festeggiare, nella biblioteca c'era un silenzio tale che Peter poteva udire il battito del proprio cuore. Si guardò attorno, lungo le pareti della stanza, verso il cielo fuori dalle finestre. Quella scuola non era una zona sicura. Niente lo era, qualunque cosa se ne dicesse. Era quello che si provava in guerra? Peter fissò lo schermo. Nel centro di New York la gente singhiozzava e urlava, ma la si intravedeva appena a causa della polvere e del fumo nell'aria. Le fiamme divampavano ovunque, e gli ululati delle pompe antincendio e degli allarmi delle automobili erano incessanti. Non assomigliava per niente a New York come Peter ricordava di averla vista una volta, quando vi era andato in vacanza con i suoi genitori. Erano saliti in cima all'Empire State Building e avevano in programma una fantastica cena al Windows on the World, ma poi Joey era stato male per aver mangiato troppi pop-corn ed erano tornati in albergo. Per quel giorno la signora Rasmussin aveva lasciato la scuola. Suo fratello lavorava nel settore titoli al World Trade Center. Ora non più.
Josie era seduta accanto a Peter. Benché ci fosse qualche centimetro di distanza tra le loro sedie, lui la sentiva tremare. «Peter» sussurrò lei, terrorizzata, «c'è gente che salta giù.» Lui non riusciva a vedere bene come lei, nemmeno con gli occhiali, ma quando socchiuse gli occhi capì che Josie aveva ragione. Sentì male al petto mentre guardava, come se le sue costole fossero diventate improvvisamente una taglia in meno. Che razza di persone erano quelle che facevano una cosa simile? Rispose da sé alla propria domanda: Persone che non vedono altra via d'uscita. «Credi che potrebbero colpire anche qui?» bisbigliò Josie. Peter le lanciò un'occhiata. Avrebbe voluto sapere cosa dire per farla sentire meglio, ma la verità era che non si sentiva all'altezza e non sapeva nemmeno se ci fossero parole, nella lingua inglese, per esprimere quel genere di trauma che sbalordiva, la consapevolezza che il mondo non è come credevi. Voltò le spalle allo schermo per non dover rispondere a Josie. Altre persone si gettavano dalle finestre della torre Nord; poi vi fu un boato assordante, come se la Terra stessa aprisse le sue fauci. Quando l'edificio crollò, Peter esalò il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento, sentendosi sollevato, perché ora non poteva vedere più niente. I centralini delle scuole erano completamente intasati, e i genitori si dividevano in due categorie: quelli che non volevano spaventare a morte i loro figli irrompendo nella scuola e accompagnandoli in un bunker sotterraneo, e quelli che volevano superare quella tragedia tenendo stretti per mano i propri bambini. Sia Lacy Houghton che Alex Cormier appartenevano alla seconda categoria, e giunsero a scuola contemporaneamente. Parcheggiarono l'una accanto all'altra nell'area destinata agli autobus, uscirono dalle rispettive auto, e soltanto allora si riconobbero: non si vedevano dal giorno in cui Alex aveva portato via sua figlia dal seminterrato di Lacy, dove erano custodite le armi. «Peter è...» cominciò Alex. «Non lo so. Josie?» «Sono venuta a prenderla.» Entrarono insieme nella direzione della scuola e poi percorsero il corridoio fino al centro multimediale. «Non riesco a credere che permettano loro di guardare le telecronache» disse Lacy, affrettandosi al fianco di Alex.
«Sono grandi abbastanza per capire quello che sta accadendo» commentò Alex. Lacy scosse il capo. «Io non sono grande abbastanza per capire quello che sta accadendo.» Il centro multimediale era invaso dagli studenti: sulle sedie, sui tavoli, sdraiati sul pavimento. Alex impiegò un istante a capire che cosa ci fosse di tanto innaturale in quell'assembramento: nessuno emetteva un suono. Persino gli insegnanti erano in piedi con le mani sulla bocca, come se temessero di lasciar uscire le loro emozioni perché, una volta rotto l'argine, tutto il resto sarebbe stato travolto. Davanti alla sala c'era un solo televisore, e tutti gli occhi fissavano lo schermo. Alex individuò Josie perché le aveva rubato una delle sue fascette per i capelli: quella leopardata. «Josie» chiamò, e sua figlia subito si guardò attorno, poi quasi si arrampicò sugli altri ragazzi nel tentativo di raggiungere Alex. Josie la travolse come un uragano, emozionata e agitata, ma Alex sapeva che da qualche parte dentro di lei c'era il nucleo di quella tempesta. E allora, come con qualsiasi forza della natura, bisognava prepararsi a un altro assalto prima che ritornasse la normalità. «Mamma» singhiozzò, «è finita?» Alex non sapeva cosa rispondere. Come genitore, ci si aspettava da lei che conoscesse tutte le risposte, ma non era così. Ci si aspettava che fosse capace di tenere al sicuro sua figlia, ma non poteva promettere nemmeno quello. Doveva assumere un'espressione coraggiosa e dire a Josie che andava tutto bene, quando in realtà non lo sapeva nemmeno lei. Persino mentre si recava lì dal tribunale, si era sentita consapevole della fragilità delle strade sotto le sue ruote, della linea di demarcazione del cielo che poteva essere infranta così facilmente. Oltrepassando i pozzi pensò alla contaminazione dell'acqua potabile; si domandava quanto distasse da lì la centrale nucleare più vicina. Eppure aveva passato anni a essere il giudice che gli altri si aspettavano che fosse: una persona posata e controllata, una persona che sapeva trarre le giuste conclusioni senza isterismi. Poteva certo assumere il medesimo contegno anche per sua figlia. «Va tutto bene» disse Alex con calma. «È finita.» Non sapeva che, proprio mentre lei parlava, un quarto aereo stava precipitando su un campò in Pennsylvania. Non si rendeva conto che il suo modo di tenere stretta Josie contraddiceva le sue parole.
Sopra la spalla di Josie, Alex fece un cenno di saluto a Lacy Houghton, che se ne stava andando portandosi appresso i suoi due figli. Sconcertata, si accorse che Peter era diventato alto, ormai, alto quasi come un uomo. Quanti anni erano passati dall'ultima volta che l'aveva visto? È sufficiente un batter d'occhi per perdere il contatto con qualcuno, rifletté Alex. Si ripromise di non lasciare che accadesse a lei con sua figlia. Perché in quei casi essere un giudice era meno importante che essere una madre. Quando il cancelliere di Alex le aveva comunicato le ultime notizie sul World Trade Center, il suo primo pensiero non era stato per i membri della sua circoscrizione... bensì soltanto per Josie. Per qualche settimana, Alex mantenne le promesse che aveva fatto a se stessa. Riorganizzò la propria giornata di lavoro in modo da essere a casa quando c'era Josie. Lasciò gli incartamenti legali in ufficio invece di portarli a casa per leggerli durante il weekend. Ogni sera, dopo cena, parlavano - non era un semplice chiacchierare, ma un'autentica conversazione: sul perché Il buio oltre la siepe poteva essere il miglior libro mai scritto; riguardo al come capire se si è davvero innamorati; persino del padre di Josie. Ma poi vi fu una settimana in cui un caso particolarmente complicato la trattenne in ufficio fino a tardi. E Josie riprese a dormire tutta la notte, invece di svegliarsi urlando. Ritornare alla normalità significava, almeno in parte, cancellare i confini di quello che era anormale, e nel giro di alcuni mesi le sensazioni che Alex aveva provato l'11 settembre furono lentamente dimenticate, come un'onda che lavi via un messaggio scarabocchiato sulla sabbia. Peter detestava il calcio, ma faceva parte della squadra della scuola media. Vigeva la regola secondo cui tutti-possono-giocare: di conseguenza, anche i ragazzi che in circostanze normali non avrebbero fatto parte della prima squadra della scuola o di quella delle riserve o - chi voleva prendere in giro? - della squadra, punto, potevano unirsi agli altri. Fu questo - più della convinzione di sua madre che per inserirsi si dovesse cominciare con lo stare nel gruppo - che lo portò a una stagione di allenamenti pomeridiani in cui si ritrovava a esercitarsi nei passaggi e a correre dietro al pallone più spesso di quanto lo rinviasse; e alle partite due volte alla settimana in cui scaldava le panchine dei campi di calcio delle scuole medie di tutta Grafton County. C'era una sola cosa che Peter odiava più del calcio, ed era vestirsi per gli allenamenti. Dopo la scuola, si procurava qualcosa da fare vicino al suo
armadietto, o trovava una domanda da rivolgere a un insegnante, in modo da poter andare nello spogliatoio dopo che la maggior parte dei suoi compagni di squadra era già uscita a fare gli esercizi e il riscaldamento. Allora, in un angolo, Peter si spogliava senza dover ascoltare quelli che lo prendevano in giro perché il suo torace presentava una specie di cavità in basso, e senza che qualcuno gli attorcigliasse l'elastico dei boxer per dargli una smutandata. Lo chiamavano Peter Omo, invece di Peter Houghton, e anche quando era da solo nello spogliatoio continuava a sentire lo schiocco delle loro dita quando si davano un cinque e la risata che rotolava verso di lui come una chiazza di petrolio. Dopo l'allenamento, di solito riusciva a impegnarsi in qualcosa che gli desse la certezza di arrivare per ultimo nello spogliatoio: raccoglieva i palloni, rivolgeva all'allenatore una domanda sulla partita successiva, o semplicemente si riallacciava le scarpe coi tacchetti. Se era davvero fortunato, arrivava alle docce quando tutti gli altri erano già andati a casa. Ma quel giorno, non appena terminato l'allenamento, scoppiò un temporale. Il coach richiamò tutti i ragazzi fuori dal campo e li mandò nello spogliatoio. Peter si avviò lentamente verso la fila di armadietti d'angolo. Molti ragazzi si dirigevano già alle docce, l'asciugamano arrotolato attorno alla vita. Tra gli altri, Drew e il suo amico Matt Royston. Mentre camminavano ridevano, dandosi dei pugni nelle braccia per vedere chi riusciva ad assestare il colpo più forte. Peter voltò le spalle alle altre sezioni di armadietti e sgusciò fuori dalla tuta, per poi coprirsi rapidamente con un asciugamano. Il suo cuore batteva all'impazzata. Immaginava già che cosa avrebbero detto tutti gli altri se l'avessero guardato, perché lo vedeva anche lui, nello specchio: la pelle bianca come la pancia di un pesce; protuberanze che sporgevano dalla colonna vertebrale e dalle clavicole. Le braccia senza un solo fascio di muscoli. Da ultimo Peter si tolse gli occhiali e li depose sul ripiano del suo armadietto aperto. Tutto gli apparve meravigliosamente confuso. Chinò la testa e si avviò verso la doccia, togliendosi l'asciugamano solo all'ultimo momento. Matt e Drew si stavano già insaponando. Peter si fece arrivare il getto d'acqua sulla fronte. Immaginava di essere un avventuriero su qualche fiume spumeggiante, colpito ripetutamente da una cascata che lo risucchiava come in un vortice. Quando si asciugò gli occhi e si guardò intorno, intravide i contorni indistinti dei corpi di Matt e Drew. E la macchia scura in mezzo alle loro gambe: il pelo pubico.
Peter non l'aveva ancora. D'improvviso Matt si voltò di lato. «Cristo. Smettila di guardarmi il cazzo.» «Fottuto finocchio» disse Drew. Peter distolse immediatamente lo sguardo. E se fosse saltato fuori che avevano ragione? E se il suo sguardo fosse caduto lì proprio per quel motivo? O, peggio, se gli fosse venuto duro proprio in quel momento, come gli capitava sempre più di frequente? Voleva dire che era gay, no? «Non stavo guardando voi» sbottò Peter. «Non riesco a vedere niente.» La risata di Drew rimbombò contro le pareti piastrellate della doccia. «Forse hai il cazzo troppo piccolo, Mattie.» Improvvisamente Matt prese Peter per la gola. «Non ho gli occhiali» fece Peter con voce soffocata. «Ecco perché.» Matt lasciò la presa, sbattendo Peter contro il muro, poi uscì dalla doccia. Allungò una mano e staccò l'asciugamano di Peter da un gancio, lanciandolo sotto il getto d'acqua. L'asciugamano cadde, fradicio, sopra il canale di scolo al centro del pavimento. Peter lo raccolse e se lo avvolse attorno alla vita. La stoffa era inzuppata d'acqua, e lui piangeva, ma pensava che forse non se ne sarebbe accorto nessuno perché gocciolava anche ogni parte del suo corpo. Tutti lo guardavano. Quando era con Josie, non sentiva niente: non aveva voglia di baciarla né di tenerle la mano né altro del genere. Non gli sembrava di provare sensazioni di quel genere neanche per i maschi; tuttavia, o si è omosessuali o si è eterosessuali. Non si può essere né l'uno né l'altro. Si precipitò verso la fila d'armadietti d'angolo e trovò Matt davanti al suo. Peter socchiuse gli occhi, tentando di vedere che cosa avesse in mano Matt, ma poi udì: Matt aveva preso i suoi occhiali e, tenendoli in mano, vi fece sbattere contro l'anta dell'armadietto, lasciando cadere la montatura fracassata sul pavimento. «Così non puoi guardarmi» disse, e se ne andò. Peter si mise in ginocchio sul pavimento, tentando di raccogliere i pezzi di vetro rotti. Ma, non riuscendo a vedere, si tagliò una mano. Sedette a gambe incrociate, con l'asciugamano ripiegato in grembo. Si portò il palmo della mano più vicino al volto, finché tutto fu chiaro. Alex stava sognando di camminare completamente nuda per Main Street. Andava in banca e versava un assegno. «Vostro Onore» diceva
l'impiegato di sportello sorridendo. «Bella giornata, vero?» Cinque minuti dopo, entrava nel coffee shop e ordinava un bicchiere di latte scremato. La barista era una ragazza con improbabili capelli viola e un piercing diritto che le attraversava il ponte del naso all'altezza delle sopracciglia. Quando Josie era piccola, se entravano in quel caffè Alex doveva dirle di non guardare fisso. «Vuole anche dei biscotti, Giudice?» domandava la barista. Andava in libreria, in farmacia e al distributore di benzina, e in ciascuno di quei posti sentiva su di sé lo sguardo della gente. Sapeva di essere nuda. Loro sapevano che lei era nuda. Ma nessuno diceva niente finché non arrivava all'ufficio postale. L'impiegato delle poste di Sterling era un uomo anziano che probabilmente lavorava lì fin dai tempi del Pony Express. Porgeva ad Alex un rotolino di francobolli, poi furtivamente le copriva una mano con la sua. «Signora, forse non spetterebbe a me dirglielo...» Alex sollevava lo sguardo, in attesa. Le rughe di preoccupazione sulla fronte dell'impiegato si distesero. «Ma l'abito che indossa è splendido, Vostro Onore» diceva. La sua paziente urlava. Lacy udiva i singhiozzi della ragazza per tutto l'ingresso. Corse il più velocemente possibile, voltando l'angolo ed entrando nella stanza d'ospedale. Kelly Gamboni aveva ventun anni, era orfana e aveva un QI pari a 79. Aveva subito uno stupro di gruppo da parte di tre ragazzi della scuola superiore che erano in attesa di giudizio in un riformatorio a Concord. Kelly abitava in un pensionato per studenti cattolici: di conseguenza, l'aborto per lei non poteva essere una scelta. Ma un medico del pronto soccorso riteneva necessaria una nascita pilotata, dopo trentasei settimane di gravidanza. Kelly era distesa sul letto con un'infermiera che tentava inutilmente di confortarla, mentre lei stringeva convulsamente un orsacchiotto di pezza. «Papà» gridava rivolgendosi a un genitore morto da anni. «Portami a casa. Papà, mi fa male!» Il medico entrò nella stanza e Lacy si scagliò contro di lui. «Come si permette» disse. «Questa è una mia paziente.» «Bene, se è stata portata all'unità di pronto soccorso è diventata mia» replicò il medico. Lacy guardò Kelly e poi uscì in corridoio; non poteva certo giovare a Kelly vedere lei e il medico che litigavano. «Quando è arrivata qui si lamentava perché da due giorni bagnava la biancheria intima. L'esame ha ri-
velato la rottura prematura del sacco amniotico» dichiarò il medico. «Non ha febbre e dall'ecografia risulta che il feto è reattivo. Il parto pilotato è la soluzione più ragionevole. E lei ha firmato il modulo per il consenso.» «Potrà anche essere ragionevole, ma non è consigliabile. È una ritardata mentale. Non sa neanche cosa le sta capitando. È terrorizzata. E sicuramente non è in grado di acconsentire.» Lacy girò sui tacchi. «Chiamo lo psicologo.» «Lei non chiama proprio nessuno» disse il medico afferrandola per un braccio. «Mi lasci andare!» Cinque minuti dopo, quando arrivò lo psicologo, stavano ancora strillando. Il ragazzo che Lacy si trovò davanti sembrava un coetaneo di Joey. «Dev'essere uno scherzo» commentò il medico, e per la prima volta Lacy si trovò d'accordo con lui. Seguirono entrambi lo strizzacervelli nella stanza di Kelly. La ragazza era ormai raggomitolata su se stessa e si teneva l'addome, piagnucolando. «Ha bisogno di un'epidurale» mormorò Lacy. «A due centimetri è pericoloso» ribatté il medico. «Non importa. Ne ha bisogno.» «Kelly?» disse lo psichiatra, chinandosi davanti a lei. «Sai che cos'è un parto cesareo?» «Uh-u» gemette Kelly. Lo psichiatra si raddrizzò. «È in grado di acconsentire, a meno che una corte abbia deciso diversamente.» Lacy apparve delusa. «Ne è sicuro?» «Ho altri sei consulti che mi aspettano» disse brusco lo psichiatra. «Spiacente di averla delusa.» Lacy gli urlò dietro: «Non sono io a rimanere delusa!» Tornò di corsa vicino a Kelly e le strinse una mano. «Va tutto bene. Mi prenderò cura io di te.» Rivolse una preghiera a chi era in grado di spostare le montagne, affinché smuovesse il cuore degli uomini. Poi sollevò il volto verso il medico. «Primo, non far male» disse piano. Il medico si grattò il ponte del naso. «Le farò un'epidurale» sospirò. E solo in quel momento Lacy si rese conto che stava trattenendo il respiro. L'ultima cosa al mondo che Josie desiderava era uscire a cena con sua madre, perché in tal caso avrebbe dovuto passare tre ore a guardare il maître, gli chef e gli altri ospiti che la ricoprivano di smancerie. Si trattava di
festeggiare il compleanno di Josie, e lei proprio non riusciva a capire perché non potesse semplicemente farsi portare a casa un pasto cinese e una videocassetta. Ma sua madre insisteva nel dire che se rimanevano a casa non era una festa. Finì per trascinarsi dietro a sua madre come una dama di corte. Li aveva contati. C'erano stati quattro Lieto di vederla, Vostro Onore. Tre Sì, Vostro Onore. Due Non c'è di che, Vostro Onore. E un Vostro Onore, le abbiamo riservato il miglior tavolo del nostro locale. Talvolta Josie leggeva su People di quelle celebrità sempre intente a ricevere omaggi da aziende di borse e negozi di scarpe e biglietti gratis per le prime a Broadway e le partite allo Yankee Stadium. Mentre sua madre, per dire le cose come stavano, era una celebrità soltanto nella città di Sterling. «Non riesco a credere» disse sua madre «di avere una figlia di dodici anni.» «Io dovrei risponderti qualcosa tipo: devi essere stata una bambina prodigio?» Sua madre rise. «Be', funzionerebbe.» «Ho intenzione di prendere la patente fra tre anni e mezzo» precisò Josie. La forchetta di sua madre sbatté contro il piatto. «Grazie di avermelo detto.» Il cameriere si avvicinò al tavolo. «Vostro Onore» disse, collocando un vassoio di caviale davanti alla madre di Josie, «lo chef le manda questo antipasto con i suoi complimenti.» «Che volgarità. Uova di pesce?» «Josie!» Sua madre sorrise rigidamente al cameriere. «La prego di ringraziare lo chef.» Sentiva gli occhi di sua madre su di sé perché aveva criticato il cibo. «Cosa c'è?» chiese in tono di sfida. «Be', avevi il tono di una marmocchia viziata, tutto qui.» «Perché? Perché non mi piace vedermi mettere sotto il naso degli embrioni di pesce? Non li mangi nemmeno tu. Almeno io sono stata sincera.» «E io sono stata discreta» ribatté sua madre. «Non pensi che il cameriere sarà andato a dire allo chef che la figlia del giudice Cormier è una sfacciata?» «Cosa me ne importa?» «A me importa. Quello che fai tu si riflette su di me, e io ho una reputazione da difendere.»
«Di che cosa? Di una che si fa dire smancerie?» «Di una che è al di sopra delle critiche sia in tribunale che fuori.» Josie inclinò il capo da una parte. «E se io facessi qualcosa di male?» «Di male? Di male come?» «Mettiamo che fumassi uno spinello» disse Josie. Sua madre si irrigidì. «C'è qualcosa che vuoi dirmi, Josie?» «Tranquilla, mamma, non lo faccio. Era un'ipotesi.» «Perché lo sai, ora che vai alla scuola media, ti capiterà di incontrare ragazzi che fanno cose pericolose, o semplicemente stupide, e io spero che tu...» «... abbia il buonsenso di non farle» concluse Josie, facendole eco come se recitasse una filastrocca. «Già. Chiaro. Ma se capitasse, mamma? Se tornassi a casa e mi trovassi fatta in soggiorno? Mi consegneresti?» «Cosa vuol dire, mi consegneresti?» «Chiameresti la polizia. Tradiresti il mio segreto.» Josie ridacchiò. «L'hashish.» «No» rispose sua madre. «Non ti denuncerei.» Quando era più piccola, Josie aveva l'abitudine di pensare che crescendo avrebbe finito per assomigliare a sua madre: figura sottile, capelli scuri, occhi chiari. Quegli elementi c'erano tutti nella sua fisionomia, eppure, crescendo, cominciava ad assomigliare a qualcun altro... qualcuno che non aveva mai conosciuto. Suo padre. Si domandò se suo padre, al pari di lei, riuscisse a memorizzare un oggetto in un istante e poi, chiudendo gli occhi, sapesse raffigurarlo sulla carta. Si domandava se suo padre fosse stonato e se gli piacesse guardare film dell'orrore. Si domandava se avesse le sopracciglia diritte, così diverse da quelle delicatamente arcuate di sua madre. Si domandava, punto e basta. «Se non mi denunciassi perché sono tua figlia» disse Josie, «vorrebbe dire che non sei veramente giusta, no?» «Mi comporterei come un genitore, non come un giudice.» Sua madre allungò un braccio e posò la mano su quella di Josie: era strano, perché sua madre non era tipo da gesti del genere. «Josie, tu puoi venire da me, lo sai. Se hai bisogno di parlare, io sono pronta ad ascoltarti. Non ti metterai nei guai dal punto di vista legale, qualunque cosa tu mi dica... né riguardo a te né riguardo ai tuoi amici.» Per dirla proprio francamente, Josie non ne aveva molti. C'era Peter, che lei conosceva da sempre. Benché Peter non venisse più a casa sua e vice-
versa, a scuola passavano ancora del tempo insieme, e lui era l'ultima persona al mondo che avrebbe potuto fare qualcosa di illegale, secondo Josie. Sapeva che uno dei motivi per cui le altre ragazze la escludevano era proprio Peter, perché erano sempre appiccicati, ma lei diceva a se stessa che non importava. In realtà non aveva voglia di essere circondata da gente a cui importava soltanto quello che accadeva a One Life to Live e di ragazze che facevano le baby-sitter solo per comprarsi i vestiti da The Limited; a volte sembravano tutti talmente finti che, pensava Josie, se avesse punto uno di loro con una matita appuntita, sarebbero scoppiati come palloncini. E allora cosa importava se lei e Peter non erano popolari? Lei diceva sempre a Peter che non contava niente; poteva benissimo cominciare a crederlo anche lei. Josie staccò la propria mano da quella di sua madre e fece finta di essere affascinata da una crema di asparagi. C'era qualcosa negli asparagi che lei e Peter trovavano comico. Una volta avevano fatto un esperimento per vedere quanti bisognava mangiarne perché la pipì avesse quell'odore strano, ed erano sufficienti meno di due bocconi, sul serio. «Smetti di usare la tua Voce da Giudice» disse Josie. «La mia cosa?» «La tua Voce da Giudice. È quella che usi quando rispondi al telefono. O quando sei con gli altri. Come adesso.» Sua madre aggrottò la fronte. «Ma è pazzesco. È la stessa voce che...» Il cameriere passò lieve accanto a loro, come se pattinasse nella sala da pranzo. «Non vorrei interrompervi... è tutto di suo gradimento, Vostro Onore?» Senza perdere un colpo, sua madre si voltò verso il cameriere. «È fantastico» rispose, e sorrise finché lui si fu allontanato. Poi si rivolse di nuovo a Josie. «È la stessa voce che uso sempre.» Josie guardò lei, poi la schiena del cameriere. «Può darsi» disse. L'altro ragazzo della squadra di calcio che avrebbe preferito essere da qualsiasi altra parte si chiamava Derek Markowitz. Si era presentato lui stesso a Peter mentre erano seduti in panchina durante una partita contro il North Haverhill. «Chi ti ha costretto a giocare?» aveva domandato Derek, e Peter aveva risposto che l'aveva voluto sua madre. «Anche la mia» ammise Derek. «È una nutrizionista e impazzisce per la forma fisica.» A cena, Peter raccontava ai suoi genitori che gli allenamenti procedevano bene. Si inventava storie che prendevano spunto da quello che facevano
gli altri ragazzi sotto i suoi occhi: prodezze atletiche di cui lui non sarebbe mai stato capace. Si comportava così per vedere sua madre che lanciava un'occhiata a Joey e diceva qualcosa tipo: «Scommetto che in questa famiglia non c'è un solo atleta». Quando venivano per applaudirlo durante le partite, e Peter non lasciava mai la panchina, diceva che era perché il coach faceva giocare i suoi preferiti. E in un certo senso era vero. Come Peter, Derek era pressoché il peggior giocatore di calcio del pianeta. Era di carnagione talmente chiara che le sue vene sembravano una carta stradale sotto la pelle, e aveva i capelli così biondi che bisognava cercare con impegno per trovare le sopracciglia. Durante le partite, sedevano vicini in panchina. A Peter piaceva Derek perché si portava di nascosto delle barrette di Snicker durante gli allenamenti e le mangiava quando l'allenatore non guardava, e perché sapeva raccontare battute divertenti: Perché l'arbitro ha interrotto la partita di hockey tra lebbrosi? Perché c'era un fallo d'angolo da perdere la faccia. Cosa c'è di più divertente di attaccare Drew Girard a un muro? Stracciarlo. A un certo punto accadde che Peter effettivamente aspettava gli allenamenti soltanto per ascoltare Derek - sebbene nel contempo Peter cominciasse anche a preoccuparsi e a chiedersi se Derek gli piacesse soltanto perché era Derek, o perché lui era gay; allora si sedeva un po' più in là, o diceva a se stesso che doveva riuscire a tutti i costi a non guardare Derek negli occhi per tutta la durata dell'allenamento, perché non si facesse idee sbagliate. Un venerdì pomeriggio erano in panchina, a guardare gli altri che giocavano contro il Rivendell. Tutti si aspettavano che lo Sterling riuscisse a suonargliele a occhi chiusi (non che questa fosse una ragione sufficiente, per il coach, per far giocare sul serio Peter o Derek durante una vera partita di campionato). Nell'ultimo minuto del quarto finale il punteggio stava diventando umiliante - Sterling 24, Rivendell 2 - e Derek stava raccontando a Peter un'altra delle sue storielle. «Un pirata entra in un bar con un pappagallo sulla spalla, una gamba di legno e un volante sui pantaloni» disse Derek. «Il barman dice: 'Ehi, guarda che hai un volante sui pantaloni'. E il pirata risponde: 'Arrrg, lo so. Mi sta proprio mandando fuori strada'.» «Bella partita» commentò l'allenatore, congratulandosi con ciascun giocatore con una stretta di mano. «Bella partita. Bella partita.» «Vieni?» domandò Derek, alzandosi in piedi. «Ci vediamo dopo» rispose Peter, e mentre si chinava per sistemarsi gli scarpini vide un paio di scarpe da donna davanti a sé - e le riconobbe, per-
ché vi inciampava sempre nello spogliatoio di casa. «Ciao, tesoro» lo salutò sua madre, sorridendo. Peter rimase senza fiato. Quale ragazzo di scuola media aveva la mamma che veniva a prenderlo al campo sportivo, come se uscisse dalla scuola materna e avesse bisogno di essere tenuto per mano quando attraversava la strada? «Dammi solo un minuto, Peter» disse sua madre. Peter alzò lo sguardo quel tanto che bastava per vedere che la squadra non era rientrata nello spogliatoio, come al solito, ma rimaneva a guardare per godersi l'ultima umiliazione. Proprio quando pensava che non poteva accadergli niente di peggio, sua madre si avvicinò con passo deciso all'allenatore. «Coach Yarbrowski» disse. «Potrei scambiare due parole con lei?» Uccidetemi adesso, pensò Peter. «Sono la madre di Peter. E mi domando perché lei non fa giocare mio figlio durante le partite.» «Si tratta di un lavoro di squadra, signora Houghton, e ho giusto intenzione di dare a Peter l'opportunità di mettersi in pari contro...» «Siamo già a metà della stagione, e mio figlio ha il diritto di giocare in questa squadra di calcio come tutti gli altri ragazzi.» «Mamma» interloquì Peter, augurandosi che ci fossero dei terremoti nel New Hampshire, che una voragine si spalancasse sotto i piedi di sua madre e la inghiottisse a metà di una frase. «Basta.» «Non preoccuparti, Peter. Ci penso io.» L'allenatore si grattò il ponte del naso. «Metterò Peter in una partita lunedì, signora Houghton, ma non sarà un successo.» «Non deve essere un successo. Deve solo essere un divertimento.» Si guardò attorno e sorrise, senza motivo, a Peter. «Giusto?» Peter la udiva appena. La vergogna era come un colpo che gli rimbombava nelle orecchie, rotto soltanto dal brusio dei suoi compagni. Sua madre si accoccolò davanti a lui. Lui non aveva mai capito veramente che cosa volesse dire amare qualcuno e odiarlo nel medesimo tempo, ma ora incominciava a farsene un'idea. «Quando ti vedrà su quel campo, ti farà giocare in attacco.» Gli diede un colpetto sul ginocchio. «Ti aspetto nel parcheggio.» Gli altri giocatori risero mentre lui li oltrepassava. «Cocco di mamma» dicevano. «Combatte lei tutte le tue battaglie, omo?» Nello spogliatoio lui si sedette e si tolse gli scarpini. Aveva un buco in
un calzino in corrispondenza dell'alluce, e lo fissò come se fosse veramente stupito da quel particolare, ma in realtà era perché tentava con tutte le sue forze di non piangere. Scattò come una molla quando sentì che qualcuno si sedeva accanto a lui. «Peter» disse Derek. «È tutto a posto?» Peter tentò di dire di sì, ma quella bugia proprio non voleva uscirgli dalla gola. «Che differenza c'è tra questa squadra e un cane?» domandò Derek. Peter scosse il capo. «Un cane ha i coglioni in vista.» Derek ridacchiò. «Ci vediamo lunedì.» Courtney Ignatio era una delle ragazze-canottiera. Era così che Josie chiamava quel gruppo, in mancanza di un termine migliore - le ragazze che indossavano top che lasciavano scoperto l'ombelico e che, durante gli spettacoli degli studenti, ballavano al suono di canzoni come Bootylicious e Lady Marmalade. Courtney era stata la prima ragazza di settima ad avere un cellulare. Era rosa, e talvolta squillava in classe, ma gli insegnanti non si arrabbiavano mai con lei. Quando era stata messa in coppia con Courtney a sociologia per tracciare una cronologia della Rivoluzione americana, Josie era contrariata: era sicura che avrebbe dovuto fare tutto da sola. Invece Courtney l'aveva invitata a casa sua per lavorare al progetto e Josie si era sentita dire da sua madre che, se non ci fosse andata, si sarebbe ritrovata davvero a sobbarcarsi tutto il lavoro. Fu così che andò da Courtney e si sedette con lei sul suo letto, a mangiare biscotti con gocce di cioccolato e a organizzare schede di appunti. «Cosa c'è?» domandò Courtney, in piedi di fronte a lei con le mani sui fianchi. «Cosa c'è cosa?» «Perché fai quella faccia?» Josie si strinse nelle spalle. «La tua stanza. È completamente diversa dalla mia.» Courtney lanciò un'occhiata in giro, come se vedesse la sua camera per la prima volta. «Diversa come?» Courtney aveva uno scendiletto peloso viola intenso e lampade con perline di vetro e sciarpe di garza di seta per creare atmosfera. L'intero piano di un cassettone era dedicato al trucco. Dietro alla porta era appeso un manifesto di Johnny Depp, e su una mensola troneggiava uno stereo ultimo
modello. Aveva anche il suo lettore DVD personale. La stanza di Josie, al confronto, era spartana. Aveva uno scaffale per i libri, una scrivania, un cassettone e un letto. Il suo piumone sembrava la coperta imbottita di una vecchia, in confronto a quello in satin di Courtney. Ammesso che Josie avesse uno stile, era da Giovane Secchiona Americana. «Diversa e basta» disse Josie. «Mia madre fa l'arredatrice. Lei è convinta che questa sia la camera che tutte le ragazze vorrebbero.» «E tu?» Courtney si strinse nelle spalle. «Ho l'impressione che sembri un po' un bordello, ma non voglio deluderla. Prendo il mio quaderno, e cominciamo...» Quando Courtney uscì per andare di sotto, Josie si sorprese a guardarsi nello specchio. Attratta dal piano del cassettone con sopra l'occorrente per il trucco, si ritrovò a curiosare tra tubetti e flaconi che le erano assolutamente sconosciuti. Sua madre si truccava raramente - magari il rossetto, ma nient'altro. Josie sollevò un tubetto di mascara e svitò la chiusura, poi passò un dito sullo spazzolino nero. Aprì un flacone di profumo e annusò. Riflessa nello specchio, osservava quella ragazza che appariva identica a lei prendere un rossetto - «Super Intenso!» c'era scritto sopra - e metterselo. Il suo volto sembrò sbocciare come un fiore, come se quel tocco di colore l'avesse risvegliata. Era davvero così facile diventare un'altra? «Che cosa stai facendo?» Josie fece un balzo udendo la voce di Courtney. Nello specchio guardò Courtney avvicinarsi e prenderle il rossetto dalle mani. «Io... scusami» balbettò Josie. Ma rimase sorpresa quando Courtney Ignatio ridacchiò. «In effetti» disse, «ti sta bene.» Joey prendeva voti migliori di quelli di suo fratello minore. Era anche più bravo negli sport. Era più simpatico; aveva più buon senso; sapeva disegnare qualcosa di più di una linea retta; a una festa, era quel genere di ragazzo a cui tutti ronzano attorno. C'era una cosa sola, per quanto ne sapeva Peter (e le aveva contate), che Joey non sapeva fare: sopportare la vista del sangue. Quando Joey aveva sette anni e il suo migliore amico volò sopra il ma-
nubrio della bicicletta e si ferì alla fronte, fu Joey a svenire. Quando alla televisione c'era un programma medico, lui doveva uscire dalla stanza. Per quel motivo non era mai andato a caccia con suo padre, sebbene Lewis avesse promesso ai suoi figli che, non appena avessero compiuto dodici anni, sarebbero stati abbastanza grandi da poter andare con lui e imparare a sparare. Peter aveva la sensazione di aver passato l'autunno ad aspettare quel weekend. Si era documentato sul fucile che suo padre aveva intenzione di fargli usare: un Winchester Modello 94 a leva calibro 30-30 che era stato di suo padre, prima che acquistasse il Remington 721 automatico calibro 30.06 che usava adesso per la caccia al cervo. Ora, alle 4 e 30 del mattino, Peter riusciva a stento a credere che lo teneva in mano, con la sicura accuratamente inserita. Avanzava furtivamente nei boschi dietro suo padre, e il suo respiro si cristallizzava nell'aria. La notte prima aveva nevicato: erano le condizioni ideali per la caccia al cervo. Erano usciti il giorno prima in cerca di impronte fresche: certi punti sugli alberi vivi dove un maschio aveva strofinato le ramificazioni delle sue corna ed era tornato più volte a sfregarsi, marcando il suo territorio. Ormai si trattava solo di trovare lo stesso punto e di verificare se ci fossero tracce fresche, per capire se il cervo era tornato. Il mondo era diverso quando non c'era nessuno. Peter tentava di calcare le orme di suo padre, mettendo i propri scarponi nell'impronta lasciata dai suoi. Faceva finta di essere nell'esercito, per un attacco di guerriglia. Il nemico era dietro l'angolo. Da un momento all'altro poteva sorprenderlo e provocare uno scontro armato. «Peter» sibilò suo padre sopra la sua spalla. «Tieni il fucile puntato verso l'alto!» Si avvicinarono all'anello di alberi dove avevano visto la traccia sul tronco. Quella mattina le tracce delle corna erano fresche, la polpa bianca dell'albero e la striscia verde chiaro di corteccia sfaldata apparivano scorticate. Peter guardò in basso, vicino ai suoi piedi. C'erano tre serie di tracce, e una era molto più larga delle altre due. «È già stato qui» mormorò il padre di Peter. «Probabilmente sta seguendo le femmine.» I cervi in calore non erano furbi come al solito: erano talmente concentrati sulle femmine a cui davano la caccia che si dimenticavano di evitare gli esseri umani che potevano dare la caccia a loro. Peter e suo padre camminavano silenziosamente nei boschi, seguendo le tracce verso la palude. D'improvviso suo padre alzò una mano: il segnale
di fermarsi. Guardando in alto, Peter riuscì a scorgere due femmine: una più vecchia, l'altra doveva avere solo un anno. Suo padre si voltò, formulando in silenzio Non muoverti. Quando il maschio sbucò dagli alberi, Peter rimase senza fiato. Era immenso, maestoso. Il suo collo robusto reggeva il peso di un palco a sei punte. Il padre di Peter accennò impercettibilmente al fucile. Vai. Peter armeggiò nervosamente con il fucile, che sembrava pesare una decina di chili in più. Lo sollevò fino alla spalla e inquadrò il cervo nella propria visuale. Il cuore gli batteva così forte che il fucile continuava a tremare. Le istruzioni di suo padre gli riecheggiavano nella mente, come se gliele sussurrasse distintamente anche in quel momento: Spara sotto la gamba anteriore, nella parte bassa del corpo. Se lo colpisci al cuore, lo ammazzerai all'istante. Se manchi il cuore, centrerai i polmoni, e il cervo correrà per un centinaio di metri prima di stramazzare al suolo. Poi il cervo si voltò e lo guardò, gli occhi puntati sulla faccia di Peter. Peter premette il grilletto, mandando il colpo a vuoto. Volutamente. I tre cervi inclinarono il capo nello stesso tempo, non sapendo da dove provenisse il pericolo. Mentre Peter si domandava se suo padre si fosse accorto della sua inettitudine - o se avesse pensato semplicemente che aveva sbagliato a sparare -, un secondo sparo partì dal fucile di suo padre. Le femmine si diedero alla fuga. Il maschio cadde come un sasso. Peter rimase in piedi vicino al cervo, osservando il sangue che gli sgorgava dal cuore. «Non volevo rubarti il colpo» disse suo padre, «ma se tu avessi ricaricato il fucile ti avrebbero sentito e sarebbero scappati.» «No» disse Peter. Non riusciva a staccare gli occhi dal cervo. «Va bene così.» Poi vomitò nei cespugli. Udiva suo padre intento a fare qualcosa dietro di lui, ma non voleva voltarsi. Fissava invece con insistenza una chiazza di neve che aveva già cominciato a sciogliersi. Sentì suo padre avvicinarsi. Peter avvertì l'odore del sangue sulle sue mani, il disappunto. Suo padre gli batté una mano sulla spalla. «La prossima volta» sospirò. Dolores Keating era stata trasferita alla scuola media quell'anno in gennaio. Era una ragazzina che passava inosservata: non particolarmente carina, non particolarmente intelligente, una che non creava guai. Durante l'ora
di francese era seduta davanti a Peter, e la sua coda di cavallo andava su e giù mentre coniugava i verbi a voce alta. Un giorno, mentre Peter faceva del suo meglio per non addormentarsi ascoltando Madame che recitava le voci del verbo avoir, notò che Dolores era seduta in mezzo a una macchia d'inchiostro. Pensò che fosse piuttosto divertente, dato che indossava un paio di calzoncini bianchi, ma poi capì che non si trattava affatto di inchiostro. «Dolores ha le mestruazioni!» gridò forte, assolutamente sconvolto. In una famiglia di maschi, fatta eccezione per sua madre, naturalmente, le mestruazioni erano uno dei grandi misteri sulle donne, insieme alla loro capacità di mettersi il mascara senza conficcarselo negli occhi e a quella di allacciarsi un reggiseno didietro, senza vedere quello che stavano facendo. Tutta la classe si voltò, e la faccia di Dolores diventò rossa come i suoi calzoncini. Madame l'accompagnò nel corridoio, e le suggerì di recarsi in infermeria. Sulla sedia davanti a Peter c'era una piccola pozza rossa di sangue. Madame chiamò il bidello, ma ormai la classe era fuori controllo: le voci si diffondevano come il fuoco in un sottobosco, e tutti commentavano quanto sangue ci fosse, e il fatto che Dolores era ormai una delle ragazze di cui tutti sapevano che aveva avuto le mestruazioni. «Keating perde sangue» disse Peter al ragazzo seduto vicino a lui, i cui occhi si accesero. «Keating perde sangue» ripeté il ragazzo, e ben presto quelle tre parole diventarono un ritornello che tutta la classe ripeteva. Keating perde sangue, Keating perde sangue. Dall'altra parte dell'aula, Peter incrociò lo sguardo di Josie - Josie, che negli ultimi tempi aveva iniziato a truccarsi. Anche lei ripeteva quella cantilena insieme agli altri. La sensazione di appartenenza era come l'elio; Peter si sentiva lievitare. Era stato lui a cominciare; tracciando una riga attorno a Dolores, era diventato parte della cerchia più ristretta. Quel giorno a pranzo era seduto con Josie quando arrivarono Drew Girard e Matt Royston con i loro vassoi. «Abbiamo saputo che hai visto il fatto» disse Drew, e si sedettero perché Peter potesse raccontare loro i dettagli. Incominciò a ingigantirli: un cucchiaio di sangue diventò una tazza; la chiazza sui calzoncini bianchi passò da dimensioni modeste a una macchia di Rorschach di una certa entità. I due chiamarono i loro amici, alcuni dei quali erano nella stessa squadra di calcio di Peter, ma non avevano ancora parlato con lui dall'inizio dell'anno. «Raccontalo anche a loro, è da morir dal ridere» disse Matt sorridendo a Peter come se Peter fosse uno di
loro. Dolores rimase a casa da scuola. Peter sapeva che non avrebbe fatto nessuna differenza se fosse stata assente per un mese o più a lungo, perché la memoria dei ragazzi di sesta è come una trappola d'acciaio, e per il resto della scuola superiore Dolores sarebbe sempre stata ricordata come la ragazza che aveva avuto le mestruazioni durante la lezione di francese e aveva macchiato la sedia di sangue. La mattina del suo ritorno, quando scese dall'autobus fu immediatamente affiancata da Drew e Matt. «Per essere una donna» dissero, strascicando le parole, «sei senza tette.» Lei si allontanò e Peter non la rivide fino all'ora di francese. Qualcuno, e lui proprio ignorava chi fosse, aveva avuto un'idea. Madame arrivava sempre in ritardo; veniva infatti dalla parte opposta della scuola. Così, prima che suonasse la campanella, tutti dovevano avvicinarsi al banco di Dolores per darle un assorbente interno procurato da Courtney Ignatio, che ne aveva rubato una confezione a sua madre. Drew fu il primo. Mentre deponeva l'assorbente sul banco, disse: «Forse ti è caduto questo». Sei assorbenti dopo, la campanella non suonava ancora e Madame non era ancora arrivata. Anche Peter si avvicinò, tenendo il rotolino nel pugno, pronto a lasciarlo cadere, ma poi si accorse che Dolores piangeva. Non si udiva, e si vedeva appena. Ma, proprio mentre stava per posare l'assorbente, Peter si rese conto tutt'a un tratto che era così che ci si sentiva a stare dall'altra parte, e così si era sentito lui quando aveva passato quell'inferno. Peter schiacciò l'assorbente nel pugno. «Basta» disse piano, e poi si rivolse agli altri tre studenti che, in coda, aspettavano di umiliare Dolores. «Adesso basta.» «Che problema hai, omo?» domandò Drew. «Non è più divertente.» Forse non era mai divertente. Solo che per una volta non era toccato a lui, e questo era già sufficiente. Il ragazzo alle sue spalle spinse via Peter e lanciò il suo assorbente che rimbalzò sulla testa di Dolores e rotolò sotto la sedia di Peter. Poi fu la volta di Josie. Guardò prima Dolores, poi Peter. «Non farlo» mormorò lui. Josie strinse le labbra e allargò le dita, lasciando scivolare l'assorbente sul banco di Dolores. «Ops» disse e, quando Matt Royston rise, andò a
mettersi al suo fianco. Peter era disteso in attesa. Sebbene Josie non uscisse più con lui ormai da alcune settimane, lui sapeva che cosa faceva lei dopo la scuola: di solito andava in città a bere un tè ghiacciato con Courtney & Co. E poi faceva un giro a vedere le vetrine. A volte lui la seguiva a una certa distanza e la guardava come si osserverebbe una farfalla che fino a un momento prima sembrava soltanto un bruco, domandandosi come diavolo fosse avvenuta quella trasformazione radicale. Aspettò finché lei ebbe salutato le altre ragazze, e poi la seguì lungo la strada fino a casa sua. Quando lui la raggiunse e la prese per un braccio, lei strillò. «Dio!» disse. «Peter, mi hai spaventato a morte!» Lui aveva pensato a cosa chiederle, perché le parole non gli venivano facilmente, e capiva di doversi esercitare più degli altri; ma quando ebbe Josie così vicina, dopo tutto quello che era accaduto, qualsiasi domanda gli sembrava un rimprovero. Si sedette invece sul cordone del marciapiede, passandosi le mani tra i capelli. «Perché?» domandò. Lei si sedette accanto a lui, incrociando le braccia sulle ginocchia. «Non lo faccio per ferirti.» «Sei talmente finta con loro.» «Semplicemente non sono come quando sto con te» replicò Josie. «È quello che ho detto: finta.» «Ci sono diversi modi di essere veri.» Peter la schernì. «Se è questo che ti insegnano quegli idioti, sono stupidaggini.» «Non mi insegnano niente» ribatté Josie. «Sto con loro perché mi piacciono. Sono divertenti e mi fanno divertire e quando sono con loro...» s'interruppe bruscamente. «Cosa?» sbottò Peter. Josie lo guardò negli occhi. «Quando sono con loro» continuò, «piaccio alla gente.» Peter intuì che i cambiamenti possono essere davvero drastici: in un istante, si può passare dal voler uccidere qualcuno al voler uccidere se stessi. «Non permetterò più che ti prendano in giro» promise Josie. «Non tutto il male vien per nuocere, giusto?» Peter non reagì. Non lo riguardava.
«Solo che... Solo che non posso proprio uscire con te, ora» spiegò Josie. Lui sollevò il volto. «Non puoi?» Josie si alzò in piedi, allontanandosi da lui. «Ci vediamo, Peter» disse, e uscì dalla sua vita. Quando la gente ti guarda fisso, te ne accorgi; è come il calore che sale dal selciato durante l'estate, come qualcosa di rigido nella parte bassa della schiena. Non c'è bisogno di udire neppure un sussurro per sapere che riguarda te. Avevo l'abitudine di mettermi in piedi davanti allo specchio del bagno per vedere che cosa fissavano. Volevo capire che cosa li inducesse a voltarsi, che cosa ci fosse in me di così incredibilmente diverso. Sulle prime non riuscivo a spiegarmelo. Semplicemente, ero io. Poi, un giorno, guardando nello specchio capii. Guardai nei miei occhi e odiai me stesso, forse come facevano tutti loro. Quel giorno incominciai a credere che forse avevano ragione. Dieci giorni dopo Josie aspettò finché non sentì più la televisione nella camera da letto di sua madre - il talk show di Leno, non quello di Letterman - e poi rotolò sul fianco per guardare le evoluzioni dei led della sua sveglia digitale. Quando furono le due di notte, decise che non c'era più pericolo, tirò indietro le coperte e si alzò dal letto. Sapeva come scendere al piano di sotto senza farsi sentire. L'aveva già fatto un paio di volte, per trovarsi dietro casa con Matt. Una notte, lui le aveva mandato un SMS sul cellulare - CVD ora. Gli era andata incontro in pigiama, e per un momento, quando lui l'aveva toccata, aveva davvero pensato che si sarebbe dissolta tra le sue dita. C'era solo un punto in cui le assi del pavimento scricchiolavano, e Josie lo conosceva così bene da poterlo evitare. Al piano di sotto, rovistò tra i DVD impilati finché trovò quello che voleva - quello che non voleva essere sorpresa a guardare. Poi accese il televisore e abbassò il volume tanto da doversi sedere molto vicino allo schermo e alle casse per udire. La prima persona che comparve sullo schermo fu Courtney. Teneva una mano alzata, come per bloccare chi la stava riprendendo. Rideva, però; i lunghi capelli le ricadevano sul viso come una cortina di seta. La voce fuori campo era quella di Brady Pryce: Dacci qualcosa per Girls Gone Wild,
Court. La telecamera si offuscò per un istante, poi vi fu un primo piano di una torta di compleanno. Al TUOI SEDICI ANNI, JOSIE. Un susseguirsi di facce, tra cui anche quella di Haley Weaver, che cantavano per lei. Josie fermò il DVD. C'erano Courtney, Haley, Maddie, John e Drew. Passò un dito sulla fronte di ciascuno di loro, prendendo ogni volta una piccola scossa elettrica. Per la sua festa di compleanno avevano fatto un barbecue a Storrs Pond. C'erano hot dog, hamburger e mais dolce. Avevano dimenticato il ketchup e qualcuno dovette prendere l'auto per andare a comprarlo a un minimarket in città. Il biglietto di auguri di Courtney era firmato MAS, migliori amiche sempre, sebbene Josie sapesse che aveva scritto la stessa cosa sul biglietto di Maddie un mese prima. Quando lo schermo riprese a ronzare e comparve il suo volto, Josie pianse. Sapeva cosa veniva dopo. Ricordava quella parte. La telecamera allargò l'inquadratura e c'era Matt, che la cingeva con le braccia mentre lei stava seduta sulle sue ginocchia sulla sabbia. Lui si era tolto la camicia e Josie ricordava che aveva sentito il calore della pelle di lui contro la propria. Com'è possibile essere così vivi un momento, e poi tutto si ferma: non solo il tuo cuore e i tuoi polmoni, ma il modo in cui sorridevi lentamente, il lato sinistro della tua bocca che si piega prima del destro; e il tono della tua voce; la tua abitudine di tormentarti i capelli mentre fai il compito di matematica? Non posso vivere senza di te, diceva sempre Matt, e Josie si rese conto che ormai lui non doveva più farlo. Non riuscendo a smettere di piangere, si mise in bocca la mano chiusa a pugno per impedirsi di fare rumore. Osservava Matt sullo schermo come si studierebbe un animale mai visto prima, come se si dovesse memorizzarlo per poter dire al mondo, più tardi, che cosa si è scoperto. La mano di Matt era aperta contro il suo addome nudo, e sfiorava l'orlo del suo bikini. Guardò se stessa spingerlo via, arrossendo. «Non qui» disse la sua voce, una voce buffa, una voce che non suonava come quella di Josie alle sue orecchie. È sempre così, quando si ascolta la propria voce registrata. «E allora andiamo da qualche altra parte» replicò Matt. Josie sollevò la giacca del pigiama per sentire la propria pelle. Aprì la mano sull'addome. Vi passò sopra il pollice, come aveva fatto Matt, fino alla curva del seno. Tentò di far finta che fosse lui. Per il suo compleanno lui le aveva regalato un medaglione d'oro, e lei,
da quel giorno, quasi sei mesi prima, non se l'era più tolto. Josie lo portava anche nel DVD. Ricordò che, quando se l'era guardato allo specchio, aveva notato l'impronta del pollice di Matt sul retro, lasciata dalle sue dita mentre glielo metteva al collo. Le era sembrato molto intimo, e per qualche giorno aveva fatto tutto il possibile per non cancellare quella traccia. La notte in cui Josie si era data appuntamento con Matt dietro casa, sotto la luna, lui aveva riso vedendole indosso quel pigiama con i disegni di Nancy Drew. Che cosa stavi facendo quando ti ho mandato il messaggio? le aveva domandato. Dormivo. Perché hai voluto vedermi nel cuore della notte? Per essere sicuro che tu mi stessi sognando, era stata la sua risposta. Nel DVD, qualcuno chiamò il nome di Matt. Lui si voltò, ridacchiando. I suoi denti sembravano quelli di un lupo, pensò Josie. Aguzzi, incredibilmente bianchi. Stampò un bacio sulla bocca di Josie. «Torno subito» le disse. Torno subito. Premette ancora PAUSE, proprio mentre Matt si alzava in piedi. Poi si portò le mani al collo e staccò il medaglione dalla sottile catenina d'oro. Aprì la zip di un cuscino del divano e infilò la collana nell'imbottitura. Spense il televisore. Fece finta che Matt rimanesse sospeso così per sempre, a pochi centimetri da Josie perché lei potesse raggiungerlo e stringerlo ancora, benché sapesse che il DVD si sarebbe resettato prima che lei uscisse dalla stanza. Lacy sapeva che avevano finito il latte. Quella mattina, mentre lei e Lewis sedevano come due zombie al tavolo della cucina, lei l'aveva detto: Piove ancora. Abbiamo finito il latte. Hai parlato con l'avvocato di Peter? Lacy si sentiva straziata all'idea di non poter andare a trovare Peter per un'altra settimana, secondo il regolamento del carcere. Si sentiva morire al pensiero che Lewis non fosse ancora andato a trovarlo. Come ci si poteva aspettare che lei eseguisse tutti i gesti della routine quotidiana sapendo che suo figlio era seduto in una cella a meno di trenta chilometri da lei? A un certo punto della vita arriva lo tsunami. Lacy lo sapeva, perché era già stata travolta dalla sofferenza in passato. Quando accade, ci si ritrova, giorni dopo, su un terreno sconosciuto, senza radici. L'unica alternativa è spostarsi su un terreno più elevato fintantoché è ancora possibile.
Ecco perché Lacy si sorprese a comprare un cartone di latte presso una stazione di servizio, mentre il suo istinto più profondo le suggeriva di strisciare sotto le coperte e mettersi a dormire. Non era facile come sembrava: per andare a prendere il latte doveva prima uscire dal garage con i giornalisti che bussavano contro i finestrini della sua auto e le bloccavano la strada. Doveva eludere il furgone del telegiornale che la seguiva in autostrada. Di conseguenza, le toccò comprare il latte a un distributore di benzina di Purmort, nel New Hampshire, dove le capitava raramente di andare. «Sono 2 dollari e 59 centesimi» disse la cassiera. Lacy aprì il portafoglio e tirò fuori tre biglietti da un dollaro. Poi notò, scritte a mano e in piccolo, vicino alla cassa, le parole Fondo in memoria delle vittime della Sterling High, scritte a mano, in piccolo, su una scatola da caffè vuota per raccogliere le offerte. Iniziò a tremare. «Capisco» disse la cassiera con calore. «È stata davvero una tragedia.» Il cuore di Lacy batteva così forte che anche l'altra donna doveva udirlo, ne era certa. «Viene da pensare a quei genitori, vero? Voglio dire, come hanno fatto a non capire?» Lacy annuì, temendo che il suono della sua voce bastasse a farla uscire dall'anonimato. Essere d'accordo era quasi facile: Poteva mai esserci un figlio più crudele? Una madre peggiore? È semplice dichiarare che dietro ogni figlio terribile c'è un genitore terribile, ma che dire di coloro i quali hanno fatto del loro meglio? E di quelli, come Lacy, che avevano amato incondizionatamente, protetto ferocemente, dispensato tutte le coccole possibili - e ciò nonostante avevano cresciuto un assassino? Non avevo capito, avrebbe voluto dire Lacy. Non è colpa mia. Ma rimase in silenzio perché, a essere proprio sincera, non era affatto sicura di crederlo. Lacy vuotò il portafoglio nella scatola da caffè, monete e banconote. Frastornata, uscì dalla stazione di servizio lasciando il cartone del latte sul banco. Dentro di lei non era rimasto niente. Aveva dato tutto a suo figlio. Ma il dolore più straziante è che, per quanto vivo possa essere il nostro desiderio che i nostri figli siano straordinari, o per quanto ci sforziamo di fingere che siano perfetti, siamo destinati a rimanere delusi. Si dà il caso che i ragazzi siano più somiglianti a noi di quanto immaginiamo: hanno subito non uno,
ma molteplici danni. Ervin Peabody, il professore di psichiatria del college, offrì all'intera città di Sterling un momento di elaborazione collettiva della sofferenza presso la chiesa intonacata di bianco del centro. Sul quotidiano uscì un semplice trafiletto e due espositori viola furono collocati presso il coffee shop e la banca, ma fu sufficiente a diffondere la notizia. All'ora stabilita per la riunione, le sette di sera, le auto erano parcheggiate fino a mezzo chilometro di distanza; la gente si accalcava anche in strada, fuori dalle porte aperte della chiesa. I media, che erano accorsi in massa per non perdersi l'evento, furono allontanati da un folto gruppo di poliziotti di Sterling. Selena si strinse più forte il bambino al petto mentre un'altra ondata di cittadini la oltrepassava. «Sapevi che sarebbe stato così?» sussurrò a Jordan. Lui scosse il capo, e i suoi occhi perlustravano la folla. Riconobbe alcune delle persone che erano presenti alla contestazione d'accusa, ma c'era anche una schiera di facce nuove, non strettamente collegate alla scuola: anziani, studenti del college, coppie con bimbi piccoli. Erano venuti per una sorta di effetto di rimbalzo, perché il trauma di una persona è, per un'altra, la perdita dell'innocenza. Ervin Peabody era seduto in fondo alla sala, a fianco del capo della polizia e del direttore della Sterling High. «Buonasera a tutti» disse, alzandosi in piedi. «Ci siamo riuniti qui, questa sera, perché siamo ancora tutti sconvolti. Quasi di colpo, il mondo attorno a noi è cambiato. Forse non conosciamo tutte le risposte, ma abbiamo pensato che possa esserci utile cominciare a parlare dell'accaduto. E ancora più importante, forse, sarà ascoltarci vicendevolmente.» Un uomo in seconda fila si alzò in piedi, tenendo la giacca in mano. «Mi sono trasferito qui cinque anni fa, perché mia moglie e io volevamo allontanarci dalla frenesia di New York. Avevamo messo su famiglia e cercavamo un posto... be', semplicemente un po' più tranquillo. Quando giri in macchina per Sterling, quelli che ti conoscono ti salutano con un colpo di clacson. Se vai in banca, l'impiegato si ricorda il tuo nome. Luoghi così non esistono più in America, e adesso...» S'interruppe. «E adesso non è più così neanche a Sterling» terminò per lui Ervin. «So com'è difficile quando l'immagine che ti sei creato di qualcosa non corrisponde alla sua realtà; quando l'amico che hai di fianco si trasforma in un mostro.»
«Mostro?» sussurrò Jordan a Selena. «Be', che cosa poteva dire? Che Peter era una bomba a orologeria? Questo li farà sentire tutti più al sicuro.» Lo psichiatra guardava la folla. «Sono convinto che il solo fatto che siate tutti qui stasera dimostri che Sterling non è cambiata. Non potrà mai più tornare a essere normale, questo lo sappiamo... Dobbiamo immaginare un nuovo genere di normalità.» Una donna alzò la mano. «E la scuola? I nostri figli dovranno tornare là dentro?» Ervin lanciò un'occhiata al capo della polizia, al direttore. «Per il momento nella scuola sono ancora in atto le indagini» dichiarò il capo della polizia. «Ci auguriamo di poter terminare l'anno in una sede diversa» aggiunse il direttore. «Siamo in contatto con l'ufficio del sovrintendente a Lebanon, per sapere se possiamo usare una delle loro scuole vuote.» Un'altra voce di donna: «Ma dovranno pur tornarci, presto o tardi. Mia figlia ha solo dieci anni, ed è terrorizzata all'idea di dover mettere di nuovo piede in quella scuola. Si sveglia nel cuore della notte urlando. Pensa che là dentro ci sia qualcuno con un fucile ad aspettarla». «Dovrebbe essere contenta che sua figlia possa avere gli incubi» ribatté un uomo. Era in piedi accanto a Jordan, a braccia conserte, gli occhi rossi accesi d'ira. «Vada da lei tutte le notti, quando piange, e la tenga stretta e le dica che è al sicuro. Le dica una bugia, come facevo io.» Un mormorio percorse la chiesa, come un rotolo di filo dipanato. È Mark Ignatio. Il padre di una delle vittime. In effetti, una linea di discriminazione si era aperta a Sterling, un abisso così profondo e nero che non avrebbe più potuto essere colmato per molti anni. C'era già una differenza, in quella città, tra coloro che avevano perso i figli e coloro che li avevano ancora e si preoccupavano per loro. «Alcuni di voi conoscevano mia figlia Courtney» continuò Mark, avanzando di qualche passo. «Forse faceva la baby-sitter per i vostri bambini. Oppure, d'estate, vi serviva un hamburger allo Steak Shack. O magari la conoscevate di vista, perché era una ragazza molto, molto bella.» Si voltò verso il palco. «Vuole dirmi come posso immaginarmi un nuovo genere di normalità, dottore? Non oserà insinuare che un giorno sarà più facile. Che riuscirò a superarlo. Che dimenticherò che mia figlia giace in una tomba, mentre uno psicopatico è ancora vivo e vegeto.» D'improvviso l'uomo si rivolse a Jordan. «Come fa a mettersi la coscienza a posto?» lo accusò.
«Come diavolo fa a dormire la notte, sapendo che lei è il difensore di quel figlio di puttana?» Tutti gli occhi nella sala erano puntati su Jordan. Al suo fianco, sentiva Selena che stringeva la faccia di Sam contro il petto, facendo scudo al bambino. Jordan aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a trovare una sola parola. Un suono di passi in mezzo alle file di posti lo distrasse. Patrick Ducharme si dirigeva verso Mark Ignatio. «Non posso immaginare neanche lontanamente il dolore che prova, Mark» disse Patrick, guardando dritto negli occhi quell'uomo stravolto dalla sofferenza. «E so che lei ha tutti i diritti di venire qui a esprimere la sua pena. Ma nel nostro paese un individuo è innocente fintantoché non viene dimostrata la sua colpevolezza. Il signor McAfee sta solo facendo il suo lavoro.» Batté una mano sulla spalla di Mark e abbassò la voce. «Perché non andiamo a prenderci una tazza di caffè, io e lei?» Mentre Patrick accompagnava Mark Ignatio verso l'uscita, Jordan ricordò che cosa voleva dire. «Vivo qui anch'io» cominciò. Mark si voltò. «Non per molto.» Alex non era il diminutivo di Alexandra, come la maggior parte della gente dava per scontato. Semplicemente suo padre la chiamava con il nome del figlio che avrebbe voluto avere. Alex aveva cinque anni quando sua madre morì di cancro al seno, e fu suo padre a crescerla da quel momento in poi. Non era quel genere di papà che ti insegna a cavalcare o andare in bicicletta o saltare sassi. Le insegnò invece i corrispettivi latini di parole come rubinetto, piovra e porcospino; le spiegò i primi dieci emendamenti della costituzione americana. Lei si serviva della scuola per attirare la sua attenzione: vinceva gare di ortografia e concorsi di geografia, collezionava il massimo dei voti in tutte le materie, superava con successo tutti i corsi universitari che frequentava. Voleva essere esattamente come suo padre, quel genere di uomo che i negozianti salutano con deferenza quando lo vedono camminare per strada: Buon pomeriggio, Giudice Cormier. Voleva udire il cambiamento di tono nella voce di una receptionist quando sentiva che c'era in linea il Giudice Cormier. Suo padre non l'aveva mai tenuta in braccio, non le aveva mai dato il bacio della buonanotte, non le aveva mai detto che le voleva bene, ma tutto questo faceva parte del personaggio. Da suo padre, Alex imparò che tutto
può essere distillato in fatti. Il calore, l'educazione dei figli, l'amore potevano tutti essere riassunti e spiegati, più che sperimentati. E la legge... be', la legge avvalorava il sistema di convinzioni di suo padre. Qualsiasi sentimento si presentasse nel contesto di un'aula di tribunale aveva una spiegazione. All'interno di un assetto logico, era anche concesso provare dei sentimenti. Quello che si sente per i clienti non è quello che si ha veramente nel cuore, o quanto meno si può fingere che sia così, per evitare che qualcuno possa avvicinarsi tanto da far male. Il padre di Alex aveva avuto un attacco cardiaco quando lei era al secondo anno della facoltà di legge. Lei si era seduta sul bordo del suo letto d'ospedale e gli aveva detto che gli voleva bene. «Oh, Alex» aveva sospirato lui. «Non preoccuparti di questo.» Lei non aveva pianto al suo funerale, perché sapeva che lui avrebbe voluto così. Suo padre aveva mai desiderato, come lei adesso, che la loro relazione avesse un fondamento diverso? Aveva forse rinunciato a quella speranza, optando per una relazione maestro e allievo invece che padre e figlio? Per quanto tempo si può procedere parallelamente al proprio figlio prima di perdere ogni speranza di incrociare la sua vita? Alex aveva letto innumerevoli siti web sul dolore e sulle sue fasi; aveva studiato il periodo immediatamente successivo alle sparatorie in altre scuole. Ma nonostante le sue ricerche, ogni volta che tentava di stabilire un contatto con Josie, sua figlia la guardava come se non l'avesse mai vista prima. Altre volte Josie scoppiava a piangere. Alex non sapeva come contrastare né l'una né l'altra reazione. Si sentiva impotente, ma poi ricordava che non si trattava di lei, bensì di Josie, e si sentiva ancor di più una fallita. L'aspetto paradossale non era sfuggito ad Alex: lei assomigliava a suo padre più di quanto avesse mai pensato. In tribunale si sentiva a suo agio come non le capitava mai entro i confini di casa sua. Sapeva esattamente cosa dire a un imputato che arrivava per la terza volta con un'accusa per guida in stato di ebbrezza, ma non era in grado di sostenere una conversazione di cinque minuti con la propria figlia. Dieci giorni dopo la sparatoria alla Sterling High, Alex entrò nella stanza di sua figlia. Era metà pomeriggio e le tende erano tirate; Josie era nascosta nel bozzolo delle sue coperte. Benché il suo istinto più immediato fosse spalancare le persiane e lasciar entrare la luce del sole, Alex si sdraiò invece sul letto. Cinse con le braccia la sua bambina infagottata. «Quando eri molto piccola» disse Alex, «a volte venivo qui a dormire con te.»
Qualcosa si mosse, e dalle lenzuola comparve il volto di Josie. Aveva gli occhi rossi, il viso gonfio. «Perché?» Lei si strinse nelle spalle. «Non sono mai stata un'appassionata di temporali.» «Perché non ti trovavo mai qui quando mi svegliavo?» «Tornavo sempre nel mio letto. Avrei dovuto essere quella forte... Volevo farti credere che non avevo paura di niente.» «Supermamma» bisbigliò Josie. «Ma ho paura di perderti» disse Alex. «Ho paura che sia già accaduto.» Josie la fissò per un momento. «Anch'io ho paura di perdermi.» Alex si mise seduta e sistemò i capelli di Josie dietro le orecchie. «Usciamo di qui» propose. Josie si irrigidì. «Non voglio uscire.» «Tesoro, ti farebbe bene. È come una terapia fisica, ma per il cervello. Segui i tuoi sentimenti, lo schema della tua vita di ogni giorno, e forse ricorderai spontaneamente come si fa.» «Non capisci...» «Se non provi, Jo» disse lei, «allora significa che ha vinto lui.» La testa di Josie si spostò. Alex non ebbe bisogno di dirle chi fosse lui. «Lo sapevi?» Alex udì la propria voce che formulava quella domanda. «Sapere cosa?» «Che avrebbe potuto farlo?» «Mamma, io non voglio...» «Continuo a pensare a lui come a un ragazzino» disse Alex. Josie scosse il capo. «Era tanto tempo fa» mormorò. «La gente cambia.» «Lo so. Ma certe volte lo vedo ancora porgerti quel fucile...» «Eravamo piccoli» la interruppe Josie con gli occhi pieni di lacrime. «Eravamo stupidi.» Spinse indietro le coperte, colta da un'urgenza improvvisa. «Credevo che volessi andare da qualche parte.» Alex la guardò. Un avvocato avrebbe insistito su quel punto. Una madre, invece, non poteva farlo. Qualche minuto dopo Josie era seduta in auto accanto ad Alex. Si allacciò la cintura di sicurezza, poi la slacciò, poi l'agganciò di nuovo. Alex controllò con lo sguardo che la chiusura fosse a posto. Mentre guidava si mise a parlare di banalità: dei primi narcisi che avevano spinto le testoline coraggiose fuori dalla neve nello spartitraffico della strada principale; dell'equipaggio dello Sterling College che stava allenandosi sul fiume Connecticut, con i remi delle barche che spezzavano il
ghiaccio rimasto. Del termometro della macchina che segnava più di 10 gradi. Alex prese di proposito la strada più lunga, quella che non passava davanti alla scuola. Soltanto una volta Josie girò la testa per guardare fuori, e fu mentre transitavano davanti alla stazione di polizia. Alex si infilò in un parcheggio davanti al ristorante. La strada pullulava di gente che approfittava della pausa pranzo per fare acquisti e di persone affaccendate, che portavano scatole da spedire e parlavano al cellulare e lanciavano occhiate alle vetrine. Per chiunque non ne sapesse di più, era tutto regolare a Sterling. «Allora» disse Alex voltandosi verso Josie. «Come va?» Josie si guardò le mani posate in grembo. «Bene.» «Non è poi così male come pensavi, vero?» «Non ancora.» «Ho una figlia ottimista.» Alex le sorrise. «Ci facciamo un panino con bacon, lattuga e pomodoro e un'insalata?» «Ma non hai ancora visto un menu» disse Josie, e scesero dall'auto. D'improvviso una Dodge Dart arrugginita passò il semaforo all'imbocco della strada principale scoppiettando mentre accelerava. «Idiota» borbottò Alex. «Dovrei prendere il numero di targa...» Si interruppe rendendosi conto che Josie era scomparsa. «Josie!» Poi Alex vide sua figlia: si era buttata a terra sul marciapiede, lunga distesa. Era bianca in volto e tremava. Alex si inginocchiò accanto a lei. «Era una macchina. Soltanto una macchina.» Aiutò Josie a mettersi in ginocchio. Tutto intorno, la gente guardava pur facendo finta. Alex protesse Josie dai loro sguardi. Ancora una volta aveva sbagliato. Proprio lei, famosa per la sua abilità nel giudicare, tutt'a un tratto sembrava esserne rimasta priva. Pensò a qualcosa che aveva letto su Internet: che a volte, quando c'è di mezzo la sofferenza, si fa un passo avanti e poi tre indietro. Si domandò perché Internet non aggiungesse che, quando qualcuno che ami è stato colpito, il dolore consuma anche te, fino alle ossa. «Va bene» disse Alex, tenendo un braccio attorno alle spalle di Josie. «Ti riporto a casa.» Patrick aveva preso l'abitudine di vivere, mangiare e dormire con il suo caso. Alla stazione di polizia era freddo e autorevole - era il punto di riferimento, del resto, per tutti gli investigatori -, ma a casa si interrogava in continuazione. Sul frigorifero c'erano le foto delle vittime; sullo specchio
del bagno aveva tracciato una cronologia indelebile della giornata di Peter. Rimaneva sveglio fino a notte fonda, seduto a scrivere elenchi di domande: Che cosa stava facendo Peter a casa prima di uscire per andare a scuola? Che altro c'era sul suo computer? Dove aveva imparato a sparare? Come si era procurato le armi? Da dove scaturiva la sua rabbia? Durante la giornata, tuttavia, procedeva faticosamente in mezzo all'imponente mole di informazioni da elaborare, e l'ancor più imponente mole di informazioni da raccogliere. In quel momento, Joan McCabe era seduta di fronte a lui. Aveva pianto tanto da consumare anche l'ultima scatola di Kleenex del posto di polizia, e ora stringeva tra le mani una salviettina di carta. «Mi dispiace» disse a Patrick. «Credevo che a poco a poco sarebbe diventato più facile.» «Non credo che funzioni così» disse lui amabilmente. «Apprezzo che lei trovi il tempo per parlarmi di suo fratello.» Ed McCabe era l'unico insegnante rimasto ucciso nella sparatoria. La sua aula era in cima alle scale, vicino alla palestra. Lui aveva avuto la sfortuna di uscirne e di provare a fermare quello che stava accadendo. Secondo i registri della scuola, Peter aveva avuto McCabe come insegnante di matematica in decima. Aveva preso B. Nessuno ricordava che quell'anno Peter non fosse andato d'accordo con McCabe; quasi tutti gli altri studenti non ricordavano nemmeno che Peter facesse parte della classe. «Non c'è davvero nient'altro che posso dirle» concluse Joan. «Ma può darsi che Philip ricordi qualcosa.» «Suo marito?» Joan sollevò lo sguardo su di lui. «No. Il compagno di Ed.» Patrick si appoggiò contro lo schienale della sedia. «Compagno. Nel senso che...» «Ed era gay» finì Joan per lui. Poteva voler dire qualcosa, ma poteva anche darsi che non volesse dire niente. Per quanto ne sapeva Patrick, Ed McCabe, che fino a mezzora prima era soltanto una delle sfortunate vittime, poteva essere stato il motivo per cui Peter aveva cominciato a sparare. «A scuola nessuno lo sapeva» disse Joan. «Credo che avesse paura delle reazioni. Alla gente, in città, diceva che Philip era stato il suo compagno di stanza all'università.» Un'altra vittima, che però era ancora viva, era Natalie Zlenko. Un proiettile l'aveva raggiunta al fianco, e avevano dovuto asportarle il fegato. Patrick ricordò di aver visto il suo nome figurare come presidente della se-
zione del glaad (Gay et Lesbian Alliance Against Defamation) della Sterling High. Era stata una delle prime a essere colpita. McCabe era stato uno degli ultimi. Forse Peter Houghton era omofobico. Patrick porse il suo biglietto da visita a Joan. «Mi farebbe veramente piacere parlare con Philip» disse. Lacy Houghton mise una teiera e un vassoio di sedano davanti a Selena. «Non ho latte. Sono andata a comprarlo, ma...» La sua voce si affievolì, e Selena provò a riempire quello spazio vuoto. «Apprezzo molto la sua disponibilità a parlare con me» disse Selena. «Qualunque cosa lei possa dirmi ci servirà per aiutare Peter.» Lacy annuì. «Qualsiasi cosa» ripeté. «Qualsiasi cosa lei voglia sapere.» «Bene, incominciamo con le cose più facili. Dove è nato?» «Precisamente al Dartmouth-Hitchcock» rispose Lacy. «Parto normale?» «Assolutamente sì. Nessuna complicanza.» Accennò un sorriso. «Quando ero incinta avevo l'abitudine di camminare per quasi due chilometri al giorno. Lewis pensava che avrei finito per partorire nel vialetto di casa di qualcuno.» «L'ha allattato? Mangiava molto?» «Mi scusi, ma non capisco perché...» «Perché dobbiamo sapere se può esserci qualche turba mentale» rispose Selena senza mezzi termini. «Qualche problema organico.» «Oh» fece Lacy debolmente. «Sì. L'ho allattato. È sempre stato in buona salute. Un po' più piccolo degli altri bambini della sua età, ma né Lewis né io siamo molto robusti.» «Sotto il profilo delle relazioni sociali, come si comportava Peter da bambino?» «Non aveva molti amici» ammise Lacy. «Non era come Joey.» «Joey?» «Il fratello maggiore di Peter. Peter ha un anno di meno, ed è molto più tranquillo. Lo prendevano in giro per la sua corporatura e perché non ha le capacità atletiche di Joey...» «Che rapporto c'è tra Peter e Joey?» Lacy abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate. «Joey è morto un anno fa. Vittima di un incidente d'auto, il guidatore era ubriaco.» Selena smise di scrivere. «Mi dispiace tanto.»
«Sì» disse Lacy. «Anche a me.» Selena si appoggiò un po' più indietro sulla sedia. Era un pensiero folle, se ne rendeva conto, ma nel caso la sfortuna fosse contagiosa non voleva stare troppo vicino. Pensò a Sam: l'aveva lasciato quella mattina addormentato nella sua culla. Durante la notte si era tolto un calzino scalciando; i suoi alluci erano teneri come piselli freschi; quasi le veniva voglia di assaggiare quella sua pelle color caramello. Buona parte del linguaggio dell'amore era così: divorare qualcuno con gli occhi, berselo con lo sguardo, aver voglia di mangiarselo. L'amore è un mezzo di sostentamento, che scorre e pulsa nel sangue. Si rivolse a Lacy. «Peter andava d'accordo con Joey?» «Oh, Peter adorava suo fratello maggiore.» «Glielo ha detto lui?» Lacy si strinse nelle spalle. «Non ce n'era bisogno. Andava a tutte le partite di football di Joey, sempre pronto a esultare, come noi, del resto. Quando ha cominciato la scuola superiore, tutti si aspettavano grandi cose da lui, perché era il fratello minore di Joey.» Il che poteva essere, Selena lo sapeva bene, sia una fonte di frustrazione che un motivo di orgoglio. «Come ha reagito Peter alla morte di Joey?» «Era distrutto, proprio come noi. Piangeva molto. Passava il tempo nella sua stanza.» «Dopo la morte di Joey, la sua relazione con Peter è cambiata?» «Credo che sia diventata più forte» rispose Lacy. «Io ero sopraffatta. Peter... Ha lasciato che ci appoggiassimo a lui.» «Lui si è appoggiato a qualcun altro? Ha qualche relazione intima?» «Intende dire con qualche ragazza?» «O ragazzo» precisò Selena. «Era ancora in quell'età difficile. So che aveva chiesto a qualche ragazza di uscire, ma credo che sia finito in niente.» «Com'erano i voti di Peter?» «Non era uno che prendeva tutti A come suo fratello» spiegò Lacy, «ma prendeva anche B e talvolta C. Gli abbiamo sempre detto di fare meglio che poteva.» «Aveva qualche difficoltà ad apprendere?» «No.» «E fuori da scuola? Che cosa gli piaceva fare?» domandò Selena. «Ascoltava musica. Giocava ai videogame. Come tutti gli altri adolescenti.»
«Ha mai ascoltato la sua musica o giocato a quei giochi?» Sul volto di Lacy comparve un vago sorriso. «Ho cercato decisamente di evitare.» «Controllava il suo modo di usare Internet?» «Davamo per scontato che lo usasse soltanto per progetti scolastici. Abbiamo parlato a lungo del chattare e di come possa essere pericoloso Internet, ma Peter aveva la testa sulle spalle. Noi...» S'interruppe, distogliendo lo sguardo. «Ci fidavamo di lui.» «Sa che cosa scaricava?» «No.» «E le armi? Sa dove se le è procurate?» Lacy fece un profondo sospiro. «Lewis va a caccia. Una volta portava con sé Peter, ma a Peter non piaceva tanto. I fucili sono sempre chiusi nel loro armadietto...» «E Peter sapeva dov'era la chiave.» «Sì» mormorò Lacy. «E le pistole?» «Non ne abbiamo mai avute in casa nostra. Non ho idea di dove le abbia prese.» «Ha mai controllato la sua stanza? Sotto il letto, negli armadi, e altre cose del genere?» Lacy incrociò il suo sguardo. «Abbiamo sempre rispettato la sua privacy. Credo che sia importante per un ragazzo avere il proprio spazio, e...» Serrò le labbra. «E...?» «E a volte quando cominci a cercare» continuò Lacy a voce bassa «trovi cose che in realtà non vorresti vedere.» Selena si chinò in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia. «Quando accadde, Lacy?» Lacy si avvicinò alla finestra, tirando da parte la tenda. «Lei avrebbe dovuto conoscere Joey per capire. Era uno studente dell'ultimo anno, era iscritto a un corso di studi avanzato, era un atleta. E poi, una settimana prima di prendere il diploma, rimase ucciso.» Con la mano tormentava il bordo del tessuto. «Qualcuno doveva pur andare nella sua stanza... per inscatolare la roba, per gettare via quello che non avevamo intenzione di tenere. Mi ci volle un po' di tempo, ma poi finalmente ci riuscii. Stavo passando in rassegna i suoi cassetti quando trovai la droga. Soltanto un po' di polvere, in un sacchetto di plastica, un cucchiaio e un ago. Non sapevo che fosse
eroina finché non andai a cercare su Internet. La gettai nel gabinetto e mi liberai dell'ago ipodermico al lavoro.» Si voltò verso Selena, rossa in volto. «Non riesco a credere che sto dicendole questo. Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a Lewis. Non volevo che lui... o chiunque... pensasse male di Joey.» Lacy sedette di nuovo sul divano. «Non andavo nella stanza di Peter volutamente, perché avevo paura di quello che avrei potuto trovare» confessò. «Non sapevo che avrebbe potuto essere anche peggio.» «Le capitava di entrare nella sua stanza mentre c'era lui? Bussando prima alla porta o mettendo dentro la testa?» «Certo. Entravo per augurargli la buonanotte.» «Di solito cosa stava facendo?» «Era al computer» disse Lacy. «Quasi sempre.» «Non vedeva cosa c'era sullo schermo?» «Non lo so. Lui chiudeva il file.» «Come reagiva quando lei lo interrompeva inaspettatamente? Sembrava turbato? Infastidito? Aveva l'aria di chi si sente in colpa?» «Perché vuole giudicarlo?» domandò Lacy. «Lei non dovrebbe stare dalla nostra parte?» Selena continuò a guardarla con fermezza. «L'unico modo che ho a disposizione per indagare su questo caso è chiederle i tatti, signora Houghton. Ed è quello che sto facendo.» «Era come qualsiasi altro ragazzo della sua età» disse Lacy. «Era insofferente quando gli davo il bacio della buonanotte. Non sembrava imbarazzato. Non si comportava come se volesse nascondermi qualcosa. È questo che vuole sapere?» Selena posò la penna. Quando l'interrogato incominciava a mettersi sulla difensiva, era il momento di chiudere il colloquio. Ma Lacy continuò a parlare, spontaneamente. «Non ho mai pensato che ci fossero dei problemi» ammise. «Non sapevo che Peter era sconvolto. Non sapevo che voleva uccidersi. Non sapevo niente di tutto questo.» Si mise a piangere. «Quelle famiglie là fuori, io non so cosa dire a tutti loro. Vorrei poter spiegare che anch'io ho perso qualcuno. L'ho perso molto tempo fa.» Selena cinse con le braccia la donna più piccola di lei. «Non è colpa sua» disse, usando le parole che, lo sapeva, Lacy Houghton aveva bisogno di udire.
Con un senso dell'ironia da scuola superiore, il direttore della Sterling High aveva collocato il Circolo per lo studio della Bibbia nell'aula accanto all'Unione di gay e lesbiche. Si riunivano il martedì alle 15 e 30, nelle Aule 233 e 234 della scuola. L'Aula 233 era, durante la giornata, quella di Ed McCabe. Del Circolo per lo studio della Bibbia faceva parte anche la figlia di un ministro locale, di nome Grace Murtaugh. Era stata uccisa nel corridoio che conduceva alla palestra, colpita davanti a un distributore d'acqua. La leader dell'Unione gay e lesbiche era ancora in ospedale: Natalie Zlenko, una fotografa dell'annuario scolastico, era uscita allo scoperto come lesbica al termine del suo primo anno da matricola, quando era andata a una riunione nell'Aula 233 per vedere chi altri vi fosse come lei sul pianeta. «Non dovremmo fare nomi.» La voce di Natalie era così flebile che Patrick dovette chinarsi sul letto d'ospedale per udirla. La madre di Natalie gironzolava alle sue spalle. Quando era entrato per rivolgere qualche domanda a Natalie, la donna gli aveva detto che gli conveniva andarsene, altrimenti avrebbe chiamato la polizia. Dovette ricordarle che lui era la polizia. «Non cerco i nomi» precisò Patrick. «Ti sto soltanto chiedendo di aiutarmi ad aiutare una giuria che deve capire perché è accaduto.» Natalie assentì. Chiuse gli occhi. «Peter Houghton» disse Patrick. «È mai venuto a una riunione?» «Una volta» rispose Natalie. «Ha detto o fatto qualcosa che ti è rimasto in mente?» «Non diceva e non faceva niente, punto e basta. Si fece vedere quella volta, e poi non tornò mai più.» «Capita spesso?» «A volte» disse Natalie. «La gente non è pronta a uscire allo scoperto. E qualche volta ci sono certi idioti che vogliono soltanto sapere chi è gay per rendere la loro vita scolastica un inferno.» «Secondo te, Peter rientrava in una di queste categorie?» Lei rimase a lungo in silenzio, gli occhi sempre chiusi. Patrick si fece indietro, credendo che si fosse addormentata. «Grazie» disse a sua madre, proprio mentre Natalie riprese a parlare. «Peter era già oggetto di scherno da molto tempo, quando si presentò a quella riunione» disse. Mentre Selena interrogava Lacy Houghton, Jordan era alle prese con i pannolini: Sam era spaventosamente riluttante a addormentarsi da solo.
Tuttavia, poiché un giro in macchina di dieci minuti a volte era sufficiente per metterlo fuori combattimento come un pugile, Jordan coprì con cura il bambino e lo sistemò sul sedile dell'auto. Soltanto quando inserì la retromarcia si accorse che i cerchioni delle ruote della sua Saab grattavano il vialetto: gli avevano tagliato tutte e quattro le gomme. «Maledizione» disse Jordan, mentre Sam ricominciava a gemere sul sedile posteriore. Tirò fuori il bambino, lo riportò in casa e lo sistemò nel marsupio che Selena usava per portarselo in giro per casa. Poi telefonò alla polizia per denunciare quell'atto di vandalismo. Jordan capì di essere nei guai quando l'agente che gli rispose non gli domandò di sillabare il suo cognome: lo sapeva già. «Provvederemo» disse l'agente, «ma prima abbiamo uno scoiattolo su un albero che ha bisogno di essere aiutato a scendere.» La comunicazione s'interruppe. È il caso di fare causa a degli sbirri perché sono degli insopportabili bastardi? Per qualche insperato miracolo - feromoni da stress, probabilmente Sam si era addormentato, ma sobbalzò, mettendosi a piangere, quando squillò il campanello. Jordan tirò con violenza la porta per aprirla e Selena entrò. «Hai svegliato il bambino» la accusò mentre lei prendeva in braccio Sam. «E allora non dovevi chiudere la porta a chiave. Oh, ciao, tesorino» cinguettò Selena. «Il tuo paparino è stato un mostro per tutto il tempo che ho passato fuori?» «Qualcuno mi ha tagliato le gomme.» Selena gli lanciò un'occhiata sopra la testa del bambino. «Be', tu sai benissimo come farti degli amici e influenzare la gente. Lasciami indovinare: i poliziotti non si sono propriamente precipitati a soccorrerti?» «Precisamente.» «Dipende dal territorio, immagino» disse Selena. «Tu sei quello che ha in mano questo caso.» «Sarebbe bello avere un po' di comprensione da parte della propria moglie.» Selena si strinse nelle spalle. «Non era compresa tra le promesse che mi sono state chieste. Se vuoi un party di commiserazione, apparecchia la tavola per uno.» Jordan si passò una mano tra i capelli. «Be', sei riuscita almeno a far dire qualcosa alla madre? Che, per esempio, Peter era in cura da uno psichiatra?»
Lei si tolse la giacca mentre reggeva Sam prima con una mano e poi con l'altra, si slacciò la camicetta e si sedette sul divano per allattare il bambino. «No. Ma aveva un fratello.» «Sul serio?» «Già. Ora è morto, ucciso da un pirata della strada, ma prima era il Ragazzo Modello, il figlio che tutti gli americani vorrebbero avere.» Jordan si lasciò cadere sul divano accanto a lei. «Posso usarlo per...» Selena strabuzzò gli occhi. «Solo per una volta, puoi evitare di fare l'avvocato e concentrarti invece sull'essere un uomo? Jordan, quella famiglia è talmente a pezzi che non ha possibilità di scampo. Il ragazzo era tossicomane. I genitori erano alle prese con il loro dolore e avevano la testa altrove. Peter non aveva nessuno a cui aggrapparsi.» Jordan sollevò lo sguardo verso di lei, mentre un sorriso gli si disegnava sul volto. «Notevole» commentò. «Il nostro cliente ispira già simpatia.» Una settimana dopo la sparatoria alla Sterling High, la Mount Lebanon School, una scuola elementare che era diventata un edificio amministrativo quando il numero di studenti a Lebanon era diminuito, fu attrezzata per ospitare temporaneamente i ragazzi della scuola superiore fino al termine dell'anno scolastico. Il giorno in cui ricominciarono le lezioni, la madre di Josie entrò nella sua camera. «Non sei costretta a farlo» le disse. «Puoi prenderti qualche settimana in più, se vuoi.» C'era stata una valanga di telefonate, un'ondata di panico iniziata qualche giorno prima, quando tutti gli studenti avevano ricevuto la comunicazione scritta che la scuola ricominciava. Pensi di tornare? E tu? Si sparsero varie voci: una madre non permetteva ai suoi figli di tornare; qualcuno si era fatto trasferire al St Mary; chi avrebbe preso il posto del signor McCabe. Josie non aveva telefonato a nessuna delle sue amiche. Aveva paura di udire le loro risposte. Josie non voleva tornare a scuola. Non riusciva a immaginare di dover camminare per un corridoio, anche se fisicamente non era più la Sterling High. Non sapeva che genere di reazione si aspettassero il sovrintendente e il direttore da ciascuno di loro - e per tutti sarebbe stato lo stesso: avrebbero reagito - perché sentire qualcosa di reale sarebbe stato devastante. Eppure c'era un'altra parte di Josie che capiva di dover tornare a scuola; lei apparteneva a quel mondo. Gli altri studenti della Sterling High erano gli unici che realmente comprendessero che cosa voleva dire svegliarsi al mat-
tino e desiderare ardentemente quei tre secondi prima di ricordare che la vita non era più quella di prima; gli unici che avevano dimenticato come fosse facile pensare che il terreno sotto i piedi fosse sicuro. Se andavi alla deriva insieme a un migliaio di altre persone, potevi ancora dire seriamente di essere perduto? «Josie?» disse sua madre, come per incitarla. «Va bene» mentì lei. Sua madre uscì e Josie cominciò a raccogliere i libri. Si accorse, tutt'a un tratto, di non aver mai fatto il compito in classe di scienze. I catalizzatori. Non ricordava più niente su quell'argomento. La signora Duplessiers non sarebbe stata così malvagia da tirar fuori il compito in classe proprio il primo giorno della ripresa, no? Durante quelle tre settimane il tempo non si era fermato: era cambiato completamente. L'ultima mattina in cui era andata a scuola, non pensava a niente in particolare. A quel compito in classe, forse. A Matt. A quanti compiti avrebbe avuto da fare quella sera. Cose normali, in altre parole. Una giornata normale. Non c'era niente che la facesse sembrare diversa dalle altre mattinate a scuola. Come poteva dunque Josie essere sicura che anche quella nuova giornata non si sarebbe disintegrata? Quando scese in cucina, Josie trovò sua madre con indosso un completo: un abito da lavoro. Ne fu sorpresa. «Riprendi oggi?» domandò. Sua madre si voltò, tenendo in mano una spatola: «Oh» rispose, esitante. «Ho solo pensato che se tu fossi andata... Puoi sempre farmi cercare dal cancelliere, se c'è qualche problema. Te lo giuro su Dio, Josie, sarò lì in dieci minuti...» Josie si lasciò cadere su una sedia e chiuse gli occhi. In un certo senso non importava che lei stessa ricominciasse la scuola proprio quel giorno. Continuava a immaginare sua madre a casa, seduta ad aspettarla, perché non si sa mai. Ma era stupido, decisamente stupido. Non era mai stato così, dunque perché adesso avrebbe dovuto essere diverso? Perché, sussurrò una voce nella mente di Josie. È cambiato tutto. «Mi sono organizzata in modo da poterti venire a prendere a scuola. E se c'è qualche problema...» «Già. Chiamo il cancelliere. Per qualsiasi cosa.» Sua madre sedette di fronte a lei. «Amore, che cosa ti aspettavi?» Josie sollevò lo sguardo. «Niente. Ho smesso da molto tempo.» Si alzò. «Stai facendo bruciare i pancake» disse, e tornò nella sua stanza. Seppellì il volto nel cuscino. Non sapeva cosa diavolo ci fosse che non
andava. Era come se, dopo, fossero rimaste due Josie: la ragazzina che continuava a sperare che fosse stato un incubo, che non fosse mai accaduto, e la persona reale che ancora soffriva così tanto da voler aggredire chiunque le si avvicinasse troppo. Il fatto era che Josie non sapeva quale delle due persone avrebbe preso il sopravvento e in quale momento. E sua madre che, Gesù santo, non sapeva neanche far bollire l'acqua e adesso si lanciava a fare i pancake per Josie che tornava a scuola. Quando era più piccola aveva immaginato di vivere in quel genere di famiglia dove il primo giorno di scuola tua madre preparava una colazione esagerata con uova e bacon e succo di frutta per farti cominciare bene la giornata - invece di tante scatole di cereali tutte in fila e un tovagliolo di carta. Be', ora otteneva quello che aveva desiderato, no? Una madre che si sedeva accanto a lei quando piangeva, una madre che aveva temporaneamente abbandonato il lavoro che era lo scopo della sua vita per prendersi invece cura di Josie. E Josie cosa faceva? La respingeva. Le diceva, fra le righe, Non ti è mai importato niente di quello che accadeva nella mia vita quando nessuno guardava, perciò non sperare di poter cominciare adesso. D'improvviso Josie udì il rumore di un motore nel viale. Matt, pensò, prima di riuscire a impedirselo; e da quell'istante ciascun nervo nel suo corpo si tese tanto da farle male. In un certo senso, non aveva pensato a come sarebbe andata fisicamente a scuola: Matt passava sempre a prenderla. Sua madre, ovviamente, l'avrebbe accompagnata in macchina. Ma Josie si domandava perché non aveva pensato prima a quei dettagli organizzativi. Perché ne aveva paura? Oppure non voleva? Dalla finestra della sua stanza vide Drew Girard scendere dalla sua Volvo malandata. Mentre lei scendeva ad aprire la porta di casa, anche sua madre uscì dalla cucina. Teneva in mano il rilevatore di fumo, staccato dal suo supporto di plastica sul soffitto. Drew era in piedi in un cono di luce, e con la mano libera si faceva scudo agli occhi. L'altro braccio era ancora fasciato. «Avrei dovuto telefonare.» «Va bene così» disse Josie. Si sentiva stordita. Si rendeva conto che, sullo sfondo, gli uccelli erano tornati da dove svernavano. Drew guardò prima Josie, poi sua madre. «Ho pensato che, ecco, magari avevi bisogno di un passaggio.» Tutt'a un tratto era come se Matt fosse lì con loro; Josie sentiva le sue dita sulla nuca. «Grazie» disse sua madre, «ma oggi accompagno io Josie.»
Il mostro dentro Josie balzò fuori. «Preferisco andare con Drew» disse, prendendo lo zaino dal pilastro in fondo alla ringhiera delle scale. «Ci vediamo all'uscita.» Senza voltarsi a guardare in faccia sua madre, Josie si precipitò verso l'auto, che le appariva come un rifugio. Dentro, attese che Drew mettesse in moto e uscisse dal viale. «Anche i tuoi genitori sono così?» domandò Josie, chiudendo gli occhi mentre l'auto partiva velocemente. «Non ti lasciano respirare?» Drew le lanciò un'occhiata. «Già.» «Hai parlato con qualcuno?» «Vuoi dire con la polizia?» Josie scosse il capo. «Qualcuno di noi.» Abbassò lo sguardo. «Sono andato in ospedale a trovare John un paio di volte» disse Drew. «Non riusciva a ricordare il mio nome. Non riusciva a ricordare parole come forchetta o spazzola o scala. Stavo seduto lì a dirgli stupidaggini: chi ha segnato nelle ultime partite dei Bruins e cose del genere - ma per tutto il tempo non ho fatto che domandarmi se sapesse che non avrebbe camminato mai più.» A un semaforo, Drew si voltò verso di lei. «Perché non a me?» «Cosa?» «Perché siamo noi i fortunati?» Josie non sapeva che cosa rispondere. Guardò fuori dal finestrino, fingendo di essere affascinata da un cane che strattonava il suo padrone, invece del contrario. Drew entrò nel parcheggio della Mount Lebanon School. Di fianco all'edificio c'era un campo da gioco: dopotutto, in origine quella era una scuola elementare e, anche se ormai ospitava uffici amministrativi, i ragazzi che abitavano nei dintorni usavano ancora le sbarre per arrampicarsi e le altalene. Davanti all'ingresso principale della scuola erano schierati il direttore e una fila di genitori, che chiamavano per nome gli studenti invitandoli a entrare. «Ho qualcosa per te» disse Drew, e allungandosi verso il sedile posteriore prese un berretto da baseball: Josie lo riconobbe. Qualsiasi cosa vi fosse stata ricamata sopra, era ormai disfatta da tempo; la visiera era sbrindellata e attorcigliata come una cima di felce. Lo porse a Josie, che passò delicatamente un dito sulla cucitura interna. «L'aveva dimenticato nella mia auto» spiegò Drew. «Avevo intenzione di darlo ai suoi genitori... dopo. Ma poi ho pensato che forse avresti voluto tenerlo tu.»
Josie annuì, mentre le lacrime scendevano sulla filigrana della sua gola. Drew appoggiò il capo contro il volante. Josie impiegò qualche istante a capire che anche lui stava piangendo. Lei gli si avvicinò e gli mise una mano su una spalla. «Grazie» riuscì a dirgli, e si mise in testa il berretto da baseball di Matt. Aprì la portiera e prese lo zaino, ma invece di avviarsi verso la scuola si infilò attraverso i cancelli arrugginiti del campo da gioco. Camminò in mezzo al recinto di sabbia e guardò le impronte delle sue scarpe, domandandosi quanto vento o quanta pioggia sarebbero stati necessari per farle scomparire. Per ben due volte Alex uscì dall'aula scusandosi per telefonare a Josie sul cellulare, pur sapendo che Josie lo teneva spento durante le ore di lezione. Tutt'e due le volte lasciò lo stesso messaggio: Sono io. Volevo soltanto sapere se ce la fai. Alex incaricò il cancelliere, Eleanor, di avvertirla se Josie l'avesse richiamata. Per qualsiasi motivo. Tornare al lavoro era un sollievo per lei, ma dovette costringersi a prestare attenzione al caso che aveva davanti. Alla sbarra c'era un'imputata che sosteneva di non avere esperienza del sistema giudiziario penale. «Non capisco come funziona il tribunale» disse la donna, rivolgendosi ad Alex. «Posso andare, adesso?» Il pubblico ministero era nel bel mezzo dell'interrogatorio. «Prima, parli al giudice Cormier dell'ultima volta in cui è venuta in tribunale.» La donna esitò. «Forse a causa di una multa per eccesso di velocità.» «Che altro?» «Non riesco a ricordare» ribatté lei. «Non è in libertà vigilata?» domandò il pubblico ministero. «Oh» replicò la donna. «Giusto.» «Per quale motivo è in libertà vigilata?» «Non riesco a ricordare.» Alzò lo sguardo verso il soffitto, aggrottando le sopracciglia mentre pensava. «Incomincia per f. F... F... F... Falso! Per quello!» Il pubblico ministero sospirò. «Non aveva a che fare con un assegno?» Alex guardò l'orologio, pensando che, se riusciva a liberarsi di quella maledetta donna, poteva andare nuovamente a vedere se Josie l'aveva chiamata. «Che ne dice di falsificazione» interloquì. «Incomincia sempre per F.» «Anche frode» precisò il pubblico ministero.
La donna guardò Alex senza capire. «Non riesco a ricordare.» «Chiedo un'ora di sospensione» annunciò Alex. «La corte si riunisce di nuovo alle undici.» Non appena ebbe varcato la porta per andare nel suo ufficio, si liberò della toga. Quel giorno le sembrava soffocante, una sensazione che Alex non comprendeva bene, perché in quel luogo si era sempre sentita a suo agio. La legge era una serie di regole che lei capiva, un codice di comportamento in cui determinate azioni avevano determinate conseguenze. Non poteva dire lo stesso della sua vita personale, dove una scuola che riteneva sicura si era trasformata in un mattatoio, dove una figlia generata dal suo corpo era diventata qualcuno che Alex non comprendeva più. Be', a voler essere onesti, qualcuno che lei non era mai riuscita a comprendere. Con un senso di frustrazione, si alzò in piedi ed entrò nell'ufficio del cancelliere. Due volte, prima che il processo iniziasse, aveva chiamato Eleanor per qualche banalità, sperando che invece di risponderle «Sì, Vostro Onore» il cancelliere si lasciasse un po' andare e chiedesse ad Alex come stava, e come stava Josie. Così, almeno per un istante, almeno per qualcuno, non sarebbe stata un giudice, bensì un genitore qualsiasi che si era appena preso lo spavento peggiore della sua vita. «Ho bisogno di una sigaretta» disse Alex. «Vado al piano di sotto.» Eleanor le lanciò un'occhiata. «Va bene, Vostro Onore.» Alex, pensò lei. Alex Alex Alex. Fuori, Alex si sedette sul blocco di cemento vicino alla zona di carico e si accese una sigaretta. Aspirò profondamente, con gli occhi chiusi. «Il fumo uccide, lo sa.» «Come la vecchiaia» ribatté Alex, e guardandosi intorno vide Patrick Ducharme. Lui alzò lo sguardo verso il sole, socchiudendo gli occhi. «Non mi aspettavo che un giudice avesse dei vizi.» «Probabilmente è anche convinto che ci mettiamo a dormire sotto il banco.» Patrick ridacchiò. «Be', sarebbe piuttosto sciocco. Non c'è abbastanza spazio per un materasso.» Lei gli allungò il pacchetto. «Lasci che gliene offra una.» «Se vuole corrompermi, ci sono modi più interessanti.» Alex si sentì avvampare. L'aveva detto sul serio? A un giudice? «Se non fuma, perché è qui fuori?»
«Per la fotosintesi. Stare tutto il giorno chiuso in tribunale mi rovina il feng shui.» «La gente non ha il feng shui. Soltanto i luoghi ce l'hanno.» «Ne è proprio sicura?» Alex esitò. «Be'. No.» «Ecco, ha visto?» Si voltò verso Alex, e per la prima volta lei notò che aveva una ciocca di capelli bianchi, proprio sulla fronte. «Mi sta guardando fisso.» Alex distolse immediatamente lo sguardo. «Non c'è problema» ribatté Patrick, ridendo. «Sono albino.» «Albino?» «Sì, proprio così. Pelle chiara, capelli bianchi. Ma è recessivo, così ho una striatura da puzzola. Mi manca un solo gene per assomigliare a un coniglio.» La guardò dritto in faccia, ridiventando serio. «Come sta Josie?» Lei soppesò l'idea di alzare la solita muraglia cinese, dicendogli che non intendeva parlare di niente che potesse compromettere il suo caso. Ma Patrick Ducharme aveva fatto l'unica cosa che Alex desiderava: l'aveva trattata come una persona e non come un personaggio pubblico. «È tornata a scuola» gli confidò Alex. «Lo so. L'ho vista.» «Lei... Lei c'era?» Patrick si strinse nelle spalle. «Già. Non si può mai sapere.» «È accaduto qualcosa?» «No» ribatté lui. «Era... tutto come al solito.» Quella parola rimase sospesa tra loro due. Niente sarebbe più stato come al solito, e lo sapevano entrambi. Si può aggiustare qualcosa che si è rotto, ma se sei stato tu a sistemarlo in cuor tuo sai sempre dov'è il difetto. «Ehi» disse Patrick, toccandole una spalla. «Tutto bene?» Lei si accorse, mortificata, di essersi messa a piangere. Asciugandosi gli occhi, Alex si scostò da lui. «È tutto a posto, per quanto mi riguarda» rispose, sfidando Patrick a mettere in dubbio le sue parole. Lui aprì la bocca come per dire qualcosa, ma poi la richiuse di scatto. «La lascio ai suoi vizi, allora» disse, e tornò dentro. Soltanto quando tornò nel suo ufficio Alex si rese conto che il detective aveva usato il plurale. Perché non l'aveva sorpresa soltanto a fumare, ma anche a mentire.
C'erano nuove regole: tutte le entrate, eccettuata quella principale, sarebbero state chiuse dopo l'inizio delle lezioni, benché uno studente che avesse deciso di sparare potesse già trovarsi all'interno. Non si potevano più portare gli zaini nelle aule, anche se non era certo impossibile nascondere un'arma sotto un cappotto o in una borsa o anche in un quaderno a tre anelli con cerniera. Tutti, sia studenti che insegnanti, dovevano portare al collo dei tesserini d'identità. Si presumeva che servisse a responsabilizzare tutti, ma Josie non poteva fare a meno di domandarsi se, in quel modo, la volta dopo non sarebbe stato più facile identificare le vittime. Durante la prima ora, si diffuse dall'altoparlante la voce del direttore che dava il bentornato a tutti alla Sterling High, benché non fosse la Sterling High. Propose un minuto di silenzio. Mentre gli altri ragazzi nelle loro aule chinavano il capo, Josie si guardava attorno. Non era l'unica a non pregare. Alcuni ragazzi si passavano dei biglietti. Un paio ascoltavano l'iPod. Un ragazzo copiava gli appunti di matematica di qualcun altro. Si domandò se anche loro, come lei, avessero paura di onorare i morti, perché li faceva sentire più colpevoli. Spostandosi, Josie batté il ginocchio contro il banco. I banchi e le sedie che erano stati portati in quella scuola di ripiego erano per bambini piccoli, non per profughi della scuola superiore. Di conseguenza, nessuno ci entrava. Josie aveva le ginocchia contro il mento. Alcuni ragazzi non riuscivano nemmeno a sedersi nel banco; dovevano scrivere con il quaderno sulle ginocchia. Sono Alice nel Paese delle Meraviglie, pensò Josie. Guardatemi mentre cado. Jordan aspettò che il suo cliente si sedesse di fronte a lui nella sala visite del carcere. «Parlami di tuo fratello, Peter» disse. Guardandolo dritto in faccia vide comparire un lampo di disappunto nell'istante in cui Peter si rendeva conto che ancora una volta Jordan aveva dissotterrato qualcosa che sperava rimanesse nascosto. «Di che cosa, riguardo a lui?» ribatté Peter. «Andavate d'accordo?» «Non l'ho ucciso io, se è questo che vuole sapere.» «No.» Jordan scrollò le spalle. «Sono soltanto sorpreso perché finora non mi hai mai parlato di lui.» Peter gli diede un'occhiata. «Quando avrei dovuto parlarne? Quando mi
aveva detto di tenere la bocca cucita durante l'imputazione? Oppure dopo, quando è venuto qui a dirmi che dovevo soltanto ascoltare quello che aveva da dirmi?» «Com'era?» «Senta. Joey è morto, e lei naturalmente lo sa. Non riesco proprio a capire perché parlare di lui dovrebbe aiutarmi.» «Che cosa gli accadde?» lo incalzò Jordan. Peter strofinò l'unghia del pollice contro il bordo di metallo del tavolo. «Il ragazzo modello che prendeva tutti A è stato falciato da un automobilista ubriaco.» «Difficile sconfiggerlo, in questo caso» commentò Jordan con cautela. «Cosa intende dire?» «Be', tuo fratello era il figlio ideale, giusto? È già difficile così, ma se poi muore diventa un santo.» Jordan stava facendo l'avvocato del diavolo, per vedere se Peter abboccava all'amo, e in effetti il volto del ragazzo si trasformò. «È impossibile sconfiggerlo» disse Peter orgogliosamente. «È impossibile misurarsi con lui.» Jordan batteva ritmicamente la matita sul bordo della sua cartella. La collera di Peter era nata dalla gelosia o dalla solitudine? Il suo massacro era stato un modo per attirare l'attenzione su di sé, finalmente, al posto di Joey? Come poteva formulare una difesa imperniata sul fatto che il gesto di Peter era un atto di disperazione, e non un tentativo di raggiungere la stessa notorietà di suo fratello? «Senti la sua mancanza?» domandò Jordan. Peter sorrise ammiccando. «Mio fratello» disse, «mio fratello, il capitano della squadra di baseball; mio fratello che si classificò primo di tutto lo Stato a un concorso di francese; mio fratello che era in ottimi rapporti con il direttore; mio fratello, il mio leggendario fratello, aveva l'abitudine di aspettarmi a un chilometro dall'entrata della scuola superiore per non farsi vedere in macchina con me per tutto il percorso.» «Come mai?» «Non si ottengono precisamente dei vantaggi facendosi vedere in giro con me, se non l'ha ancora notato.» Jordan ebbe un flash delle ruote della sua auto, tagliate fino alla parte metallica. «Joey non si schierava dalla tua parte, se qualcuno faceva il prepotente con te?» «Sta scherzando? Joey fu il primo a cominciare.»
«In che modo?» Peter si diresse verso la finestra di quella piccola stanza. Il rossore gli saliva dal collo, come se la memoria potesse bruciargli la carne. «Di solito diceva alla gente che ero stato adottato. Che mia madre era una puttana tossicomane, e per quel motivo il mio cervello era incasinato. A volte lo diceva proprio davanti a me e, quando io m'incazzavo e lo colpivo duro, lui non faceva altro che ridere e sculacciarmi e poi tornava a guardare i suoi amici come se fosse la prova di tutto quello che aveva detto prima. E allora, sento la sua mancanza?» ripeté Peter, e guardò in faccia Jordan. «Sono contento che sia morto.» Jordan non era tipo da lasciarsi stupire facilmente, eppure Peter Houghton l'aveva già scioccato più volte. Peter era, semplicemente, quello che diventa una persona quando la si riduce alle emozioni nude e crude e private del filtro delle convenzioni sociali. Se la si ferisce, piange. Se la si fa arrabbiare, picchia. Se nutri qualche speranza, preparati alla delusione. «Peter» mormorò Jordan, «avevi intenzione di ucciderli?» Immediatamente Jordan si maledisse, perché aveva appena formulato l'unica domanda che un avvocato difensore non deve mai rivolgere, istigando Peter ad ammettere la premeditazione. Ma, invece di rispondere, Peter gli fece a sua volta una domanda che implicava una risposta inquietante. «Be'» disse, «lei cosa avrebbe fatto?» Jordan ficcò un altro pezzo di budino alla vaniglia in bocca a Sam e poi leccò a sua volta il cucchiaio. «Non è per te» disse Selena. «Ha un buon sapore. Non come quella schifezza a base di piselli che gli fai mangiare.» «Scusami se sono una brava madre.» Selena prese un asciugamano inumidito e asciugò la bocca a Sam, poi applicò lo stesso trattamento a Jordan, che si dimenò sotto la sua mano. «Ho i nervi a pezzi» disse. «Non posso far apparire simpatico Peter perché aveva perso suo fratello, dal momento che lui odiava Joey. Non posso neanche avere una valida difesa legale per lui, a meno che non giochi la carta dell'infermità mentale, e sarà impossibile dimostrarla, con la montagna di prove che l'accusa ha a disposizione per dichiarare la premeditazione.» Selena si voltò verso di lui. «Lo sai che il problema è proprio questo?»
«Quale?» «Tu credi che sia colpevole.» «Be', santo cielo. Lo stesso vale per il novantanove per cento dei miei clienti, ma questo non mi ha mai impedito di ottenere delle assoluzioni.» «Certo. Ma, nel tuo intimo, tu non vuoi che Peter Houghton venga assolto.» Jordan aggrottò la fronte. «È una stronzata.» «È una stronzata vera. Uno come lui ti fa paura.» «È un ragazzo...» «... che ti fa saltare i nervi, giusto un po'. Perché lui non ha voglia di starsene seduto ad aspettare che il mondo lo riempia ancora di merda, e non è quello che ci si aspetterebbe.» Jordan alzò lo sguardo su di lei. «Far fuori dieci studenti non ti fa diventare un eroe, Selena.» «E invece sì, agli occhi di tutti gli altri ragazzi che non hanno il coraggio di farlo» disse Selena pacatamente. «Magnifico. Potresti diventare il leader del fan club di Peter Houghton.» «Io non giustifico quello che ha fatto, Jordan, ma ne capisco le cause profonde. Se anche tu non fossi nato con la camicia. Voglio dire, sinceramente, ti è mai capitato di non essere nel gruppo d'élite? A scuola, o in tribunale o da qualsiasi altra parte? La gente ti conosce, la gente alza gli occhi per guardarti. Hai sempre la strada spianata e non ti rendi neanche conto che altri non percorreranno mai quella strada.» Jordan incrociò le braccia. «Hai intenzione di tirare fuori un'altra volta la storia del tuo orgoglio africano? Perché a dirti la verità...» «A te non è mai capitato di vederti sbarrare la strada soltanto perché sei nero. Nessuno ti ha mai guardato con disgusto perché hai in braccio un bambino e hai dimenticato di infilarti la fede al dito. Vorresti fare qualcosa - passare all'azione, urlargli addosso, dire loro che sono degli idioti - ma non puoi. Essere emarginati è la sensazione che genera più impotenza, Jordan. Ti abitui così tanto a un mondo che gira in un certo modo, che non ti sembra più possibile fuggirne.» Jordan sorrise compiaciuto. «Hai usato l'ultima parte del mio discorso di chiusura del caso Katie Riccobono.» «La moglie maltrattata?» Selena si strinse nelle spalle. «Be', se anche fosse, è adatta.» Improvvisamente Jordan sbatté le palpebre. Si alzò in piedi, prese sua moglie e la baciò. «Sei così maledettamente brillante.»
«Non ho intenzione di discutere, ma devi dirmi perché.» «Sindrome da donna maltrattata. È una difesa legale valida. Le donne maltrattate non riescono a staccarsi da un mondo che continua a respingerle. Finiscono per sentirsi costantemente minacciate e allora passano all'azione, e sono sinceramente convinte di proteggere se stesse... anche quando i loro mariti si addormentano in fretta. Questo calza a pennello con Peter Houghton.» «Lungi da me l'intenzione di ricordartelo, Jordan» disse Selena, «ma Peter non è una donna, e non è sposato.» «Non è questo il punto. È un disturbo da stress post-traumatico. Quando quelle donne prendono un fucile e sparano al marito o gli affettano l'uccello, non pensano alle conseguenze... ma soltanto a impedire l'aggressione. Ed è proprio quello che Peter continua a ripetere: voleva soltanto farli smettere. E in questo caso è persino meglio, perché non devo lottare contro la solita confutazione del pubblico ministero sul fatto che una donna adulta dovrebbe essere grande abbastanza da sapere cosa sta facendo quando impugna un coltello o un'arma. Peter è un ragazzo. Per definizione, lui non sa quel che sta facendo.» I mostri non saltano fuori dal nulla; una moglie non si trasforma in un'assassina a meno che qualcuno non la renda tale. Il dottor Frankenstein, sotto questo aspetto, era il marito che la dominava. E, nel caso di Peter, era l'intera Sterling High School. I prepotenti lo prendevano a calci, lo sbeffeggiavano, gli davano pugni e pizzicotti, tutti comportamenti intesi a costringere qualcuno a tornare da dove è venuto. Peter aveva imparato dalle mani dei suoi aguzzini come controbattere. Nel suo seggiolone, Sam cominciò ad agitarsi. Selena lo sollevò e lo prese in braccio. «Nessuno ha mai fatto niente di simile» obiettò. «Non esiste la sindrome da vittima del bullismo.» Jordan prese la scodella di budino alla vaniglia di Sam e vi passò dentro la punta dell'indice. «Adesso esiste» disse, e assaporò quel che restava del dolce. Patrick era seduto al computer del suo ufficio al buio, intento a spostare un cursore sul videogame inventato da Peter Houghton. Si cominciava scegliendo un personaggio, uno dei tre ragazzi: il campione delle gare di ortografia, il genio in matematica, il fanatico del computer. Uno era piccolo e magro, con l'acne. Uno portava gli occhiali. Uno era decisamente sovrappeso.
Non occorreva essere armati. Bisognava invece andare nelle varie aule della scuola e usare il proprio ingegno: nella sala degli insegnanti c'era la vodka, che serviva a fabbricare le granate. Nella stanza della caldaia c'era un tubo da usare come bazooka. Nel laboratorio di scienze si trovava l'acido ustionante. Nell'aula di inglese c'erano dei libroni pesanti. In quella di matematica compassi per trafiggere e righelli di metallo per tagliare. La stanza dei computer conteneva cavi metallici, per strangolare. La falegnameria aveva seghe a motore. Nell'aula di economia domestica c'erano frullatori e ferri da maglia. Nel laboratorio d'arte c'era una fornace. Si potevano combinare i materiali per confezionare armi d'attacco fatte con oggetti diversi: proiettili incendiari con il bazooka e la vodka, lame avvelenate usando le sostanze chimiche e i compassi, trappole realizzate con cavi del computer e libri pesanti. Patrick spostò il cursore lungo i corridoi e sulle scale, negli spogliatoi e nell'ufficio del custode. Ne rimase impressionato, mentre svoltava angoli virtuali, perché aveva già compiuto quel percorso. Era il pianterreno della Sterling High. Lo scopo del gioco era prendere di mira gli atleti muscolosi, i prepotenti, e i ragazzi più popolari. Ciascuno valeva un certo numero di punti. Ucciderne due in un colpo solo equivaleva a triplicare i punti. Ma si poteva anche rimanere feriti. C'era il rischio di essere colpiti con violenza alle spalle, schiaffati contro un muro, rinchiusi in un armadietto. Se si riusciva ad accumulare 100.000 punti, si vinceva un fucile. Se si ottenevano 500.000 punti, si vinceva una mitragliatrice. Con un milione, potevi metterti a cavalcioni di un missile nucleare. Patrick osservò una porta virtuale spalancata. Fermi tutti, polizia! gridarono i suoi speaker, e una falange di reparti scelti della polizia piovve sullo schermo. Posizionò nuovamente la mano sulle frecce della tastiera, preparandosi. Già due volte era arrivato fino a quel punto e poi era stato ucciso o si era ucciso, il che significava perdere. Ma quella volta sollevò la sua mitragliatrice virtuale e guardò i poliziotti cadere in una pioggia di sangue rosso vivo. CONGRATULAZIONI! HAI VINTO NASCONDITI-E-GRIDA! lesse sullo schermo. VUOI GIOCARE ANCORA? Il decimo giorno dopo la sparatoria alla Sterling High, Jordan era seduto nella sua Volvo nel parcheggio del tribunale distrettuale. Come si aspettava, c'erano i furgoni bianchi dei telegiornali ovunque, e i loro satelliti pun-
tavano al cielo come le corolle dei girasoli. Batteva le dita sul volante a tempo con il CD dei Wiggles, che stava adempiendo al suo facile compito di impedire a Sam di avere una crisi isterica sul sedile posteriore. Selena era già sgusciata in tribunale senza farsi vedere da nessuno: i media infatti non la riconoscevano come una che avesse a che fare con quel caso. Mentre lei si avvicinava di nuovo alla macchina, Jordan allungò la mano verso il foglio che lei gli porgeva. «Grande» disse. «Ci vediamo dopo.» Si chinò a liberare Sam dal seggiolino dell'auto mentre Jordan si avviava verso il tribunale. Non appena un cronista lo vide, vi fu una specie di effetto domino: i flash si accesero come una fila di fuochi d'artificio; gli furono cacciati davanti alla bocca i microfoni. Lui li spinse via con un braccio teso, mormorando «No comment» e si affrettò a entrare. Peter era già stato condotto nella cella di detenzione dell'ufficio dello sceriffo, in attesa di comparire davanti alla corte. Camminava a grandi passi descrivendo un piccolo cerchio, parlando tra sé e sé, quando Jordan fu introdotto nella cella. «Così oggi è il gran giorno» disse Peter, un po' nervoso, un po' senza fiato. «È curioso che sia tu a parlarne» commentò Jordan. «Ricordi perché siamo qui oggi?» «Per una specie di test?» Jordan si limitò a fissarlo. «Udienza probatoria» disse Peter. «È quello che mi ha detto la settimana scorsa.» «Bene. Quello che non ti ho detto è che abbiamo intenzione di rinunciare.» «Rinunciare?» ripeté Peter. «In che senso?» «Nel senso che ci ritiriamo prima ancora di cominciare a giocare» replicò Jordan. Tese a Peter il foglio che Selena gli aveva dato in macchina. «Firmalo.» Peter scosse il capo. «Voglio un altro avvocato.» «Chiunque abbia un po' di sale in zucca ti dirà lo stesso...» «Cosa? Di mollare il colpo senza neanche averci provato? Lei ha detto...» «Ho detto che ti avrei fornito la miglior difesa possibile» lo interruppe Jordan. «Ci sono già fondati motivi per credere che hai commesso un crimine, dato che centinaia di testimoni sostengono di averti visto sparare nella scuola quel giorno. Il punto non è se l'hai fatto o no, Peter, è perché
l'hai fatto. Un'udienza probatoria oggi significa che loro prendono un sacco di punti e noi nessuno: significherebbe garantire al pubblico ministero la possibilità di fornire le prove ai media e al pubblico prima che abbiano ascoltato la nostra versione dei fatti.» Ripresentò il foglio a Peter. «Firmalo.» Peter incrociò il suo sguardo, furente. Poi prese il foglio dalle mani di Jordan e una penna. «Che rottura» disse mentre scarabocchiava la sua firma. «Lo sarebbe ancora di più se andassimo all'udienza.» Jordan prese il foglio e uscì dalla cella, dirigendosi fuori dall'ufficio dello sceriffo per consegnare al cancelliere la rinuncia. «Ci vediamo là.» Quando giunse in aula, vide che era gremita. Ai media era stato concesso di disporsi nelle ultime file, le telecamere pronte. Jordan cercò con gli occhi Selena: stava coccolando Sam al centro della terza fila dietro il tavolo del pubblico ministero. E allora? gli domandò con un impercettibile movimento delle sopracciglia. Jordan fece un piccolissimo cenno d'assenso. A posto. Il giudice che presiedeva non aveva molta importanza per lui: era semplicemente qualcuno che doveva approvare senza sollevare obiezioni quel processo e passarlo alla corte presso la quale Jordan avrebbe dovuto allestire il suo spettacolo accuratamente preparato. L'onorevole David Iannucci: di lui Jordan ricordava che aveva il riporto e che quando ci si presentava davanti a lui bisognava fare il possibile per tenere lo sguardo fisso sulla sua faccia da furetto e non sulla linea di demarcazione del suo scalpo. Il cancelliere chiamò il caso di Peter, e due agenti di custodia introdussero l'imputato da una porta laterale. La tribuna, dalla quale proveniva il ronzio di una conversazione tranquilla, si zittì di colpo. Peter non guardò in su mentre entrava; continuò a fissare il suolo anche quando lo sistemarono al suo posto a fianco di Jordan. Il giudice Iannucci esaminò il foglio che gli era stato messo davanti. «Vedo, signor Houghton, che desidera rinunciare all'udienza probatoria.» Quella notizia, come Jordan aveva previsto, suscitò un profondo sospiro collettivo da parte dei media, che avevano sperato nello spettacolo. «Lei è consapevole che oggi avrei avuto l'obbligo di verificare se ci siano o no indizi ragionevoli per ritenere che lei ha commesso gli atti di cui è accusato, e che, rinunciando all'udienza probatoria, lei non mi chiede questa verifica; che lei ora cadrà sotto la giurisdizione del gran giurì e che io sottoporrò il suo caso alla corte suprema?»
Peter si voltò verso Jordan. «Che razza di lingua è?» «Rispondi sì» ribatté Jordan. «Sì» ripeté Peter. Il giudice Iannucci lo guardò fisso. «Sì, Vostro Onore» lo corresse. «Sì, Vostro Onore.» Peter si voltò di nuovo verso Jordan e, sottovoce, borbottò: «Sempre la stessa rottura». «Può andare» dichiarò il giudice, e gli agenti di custodia prelevarono Peter e lo condussero fuori. Jordan si alzò in piedi, lasciando il posto all'avvocato difensore del caso successivo. Si avvicinò a Diana Leven al tavolo del pubblico ministero: stava sistemando quelle pratiche che non aveva mai avuto l'occasione di usare. «Bene» disse, senza prendersi il disturbo di guardarlo. «Non posso certo dire che sia stata una sorpresa.» «Quando ha intenzione di mandarmi le prove a carico?» domandò Jordan. «Non ricordo di aver già ricevuto la sua lettera con questa richiesta.» Lo oltrepassò, affrettandosi nel corridoio tra le file di posti. Jordan si appuntò mentalmente di incaricare Selena di scrivere due righe all'ufficio del pubblico ministero, una formalità, ma sapeva che Diana ci teneva. In un caso tanto importante, il procuratore distrettuale doveva seguire tutte le regole alla lettera, perché così facendo, se il caso fosse finito in appello, un errore procedurale non avrebbe potuto capovolgere il verdetto iniziale. Subito fuori dalle doppie porte dell'aula, lo attendevano al varco gli Houghton. «Che diavolo succede?» domandò Lewis. «Non la paghiamo forse perché lavori in aula?» Jordan contò fino a cinque tra sé e sé. «Ne ho parlato con il mio cliente, Peter. Mi ha autorizzato a rinunciare all'udienza.» «Ma lei non ha detto niente» replicò Lacy. «Non gli ha dato neanche una possibilità.» «L'udienza di oggi non sarebbe stata di alcuna utilità per Peter. Inoltre, avrebbe posto la vostra famiglia sotto il microscopio di tutte le telecamere che oggi aspettavano fuori dall'aula. Prima o poi dovrà accadere. Preferite sul serio che accada subito?» Guardò prima Lacy Houghton e poi suo marito, poi di nuovo lei. «Vi ho fatto un favore» disse Jordan, e li lasciò con quella verità scomoda, una pietra che diventava ogni momento più pesante. Patrick stava recandosi all'udienza per Peter Houghton quando ricevette una chiamata sul cellulare che lo mandò a tutta velocità nella direzione op-
posta, allo Smyth's Gun Shop di Plainfield. Quando arrivò, il proprietario del negozio, un ometto rotondo con la barba macchiata di tabacco, era seduto fuori sul cordone del marciapiede, e singhiozzava. Accanto a lui c'era un agente di pattuglia, che indicò con il mento in direzione della porta aperta. Patrick si sedette vicino al proprietario. «Sono il detective Ducharme» disse. «Vuol dirmi cos'è accaduto?» L'uomo scosse il capo. «È stato un attimo. Lei ha chiesto di vedere una pistola, una Smith & Wesson. Ha detto che voleva tenerla in casa, per proteggersi. Ha chiesto se c'erano opuscoli che illustrassero quel modello, e quando mi sono voltato per cercarli... lei...» Scosse il capo e tacque. «Dove ha preso i proiettili?» domandò Patrick. «Io non glieli avevo venduti» spiegò il proprietario. «Doveva averli nella borsa.» Patrick assentì. «Rimanga qui con l'agente Rodriguez. Forse dovrò farle altre domande.» Dentro il negozio di armi c'era uno spruzzo di sangue e materia cerebrale sulla parete di destra. Il medico legale, Guenther Frankenstein, era già chino sopra il corpo, che giaceva di lato sul pavimento. «Come diavolo hai fatto ad arrivare così presto?» domandò Patrick. Guenther si strinse nelle spalle. «Ero in città per una mostra di figurine di baseball da collezione.» Patrick si chinò accanto a lui. «Collezioni figurine di baseball?» «Be', non posso collezionare fegati, ti pare?» Lanciò un'occhiata a Patrick. «Dobbiamo smettere di vederci per motivi di questo genere, sul serio.» «Lo vorrei anch'io.» «Piuttosto ovvio» disse Guenther. «Si è ficcata l'arma in bocca e ha premuto il grilletto.» Patrick notò la borsa sul banco di vetro. Vi frugò dentro e trovò una scatola di munizioni con lo scontrino di Wal-Mart. Poi aprì il portafoglio della donna e vi trovò la sua carta d'identità. Nel frattempo Guenther girava il corpo. Benché i residui del colpo d'arma da fuoco le annerissero i lineamenti, Patrick la riconobbe prima ancora di vedere il suo nome. Aveva parlato con Yvette Harvey; era stato lui a dirle che la sua unica figlia - una ragazza affetta da sindrome di Down - non era sopravvissuta alla sparatoria della Sterling High.
Indirettamente, si rese conto Patrick, il numero di vittime di Peter Houghton continuava ad aumentare. «Collezionare fucili non significa volerli usare» disse Peter, assumendo un'espressione torva. Faceva incredibilmente caldo per essere la fine di marzo - una temperatura anomala di ventinove gradi - e l'impianto di aria condizionata del carcere era guasto. I carcerati andavano in giro in mutande; tutte le guardie avevano i nervi a fior di pelle. La squadra addetta all'impianto di condizionamento che era stata chiamata per far apparire il carcere come un ambiente umano lavorava così lentamente che, secondo Jordan, avrebbe ultimato il proprio compito giusto in tempo per quando la neve avrebbe ricominciato a cadere. Era seduto con Peter ormai da più di due ore in una sala colloqui calda come una sauna, e si sentiva fradicio fino all'ultima fibra del suo completo. Aveva voglia di mollare il colpo. Aveva voglia di andarsene a casa e di dire a Selena che non avrebbe mai dovuto farsi carico di quel caso, e che voleva andare in macchina con la sua famiglia alla spiaggia di trenta chilometri scarsi di cui godeva il New Hampshire e di gettarsi completamente vestito nell'Atlantico gelido. Morire di ipotermia sarebbe stato senz'altro meglio della morte lenta che Diana Leven e l'ufficio del procuratore distrettuale avevano in serbo per lui in tribunale. Anche la più piccola speranza che Jordan aveva nutrito di scoprire una difesa valida, sia pure mai usata in precedenza davanti a un giudice, era caduta gradualmente nelle settimane successive all'udienza a causa delle risultanze giunte dall'ufficio del procuratore distrettuale: pile di incartamenti, fotografie e prove. Con tutto quel materiale informativo, era arduo immaginare che a una giuria importasse capire perché Peter aveva ucciso dieci persone: le aveva uccise e basta. Jordan si grattò il ponte del naso. «Collezionavi armi» ripeté. «Immagino che ti sia capitato di ammucchiarle sotto il tuo letto in attesa di avere una bella vetrina in cui esporle.» «Non mi crede?» «Chi colleziona armi non le nasconde. Chi colleziona armi non ha classifiche di persone con le foto cerchiate.» Il sudore imperlava la fronte di Peter, il colletto della sua uniforme del carcere e le sue labbra serrate. Jordan si chinò in avanti. «Chi è la ragazza cancellata?»
«Quale ragazza?» «Nelle foto. L'hai cerchiata, e poi hai scritto LASCIARLA VIVERE.» Peter distolse lo sguardo. «È soltanto una che conoscevo.» «Come si chiama?» «Josie Cormier.» Peter esitò, poi guardò di nuovo in faccia Jordan. «Sta bene, vero?» Cormier, pensò Jordan. L'unica Cormier che conosceva era il giudice a cui era stato assegnato il caso di Peter. Non poteva essere. «Perché?» domandò. «L'hai colpita?» Peter scosse il capo. «Questa è una domanda capziosa.» Era accaduto qualcosa di cui Jordan non era al corrente? «Era la tua ragazza?» Peter sorrise, ma non incrociò il suo sguardo. «No.» Jordan era stato qualche volta presso la corte distrettuale del giudice Cormier. Lei gli piaceva. Era tosta, ma era corretta. In realtà, era il giudice migliore che potesse capitare a Peter per il suo caso - l'alternativa era il giudice di corte suprema Wagner, un uomo molto anziano e che tendeva a stare dalla parte dell'accusa. Josie Cormier non era rimasta vittima della sparatoria, ma quello non era l'unico elemento che poteva compromettere il giudice Cormier in quanto magistrato per quel processo. Jordan pensò subito alle possibili intromissioni di testimoni, alle innumerevoli faccende che potevano andare storte. Si domandava come fare per scoprire cosa sapesse Josie Cormier della sparatoria, senza che nessun altro venisse a sapere che lui stava indagando in quella direzione. Si domandava se la ragazza sapesse qualcosa che avrebbe potuto giocare a favore del caso di Peter. «Hai parlato con lei da quando sei qui?» disse Jordan. «Se le avessi parlato, avrei chiesto a lei se sta bene?» «Be', allora non parlare con lei» gli ingiunse Jordan. «Non parlare con nessuno tranne che con me.» «È come parlare al muro» borbottò Peter. «Vedi, potrei snocciolarti un migliaio di cose che preferirei fare invece di stare seduto con te in una sala colloqui dove si muore dal caldo.» Peter strinse gli occhi a fessura. «E allora perché non se ne va a fare qualcuna di queste cose? Tanto, non ascolta neanche una parola di quello che dico.» «Ascolto ogni parola, Peter. Ascolto e poi penso agli scatoloni di referti
che il procuratore distrettuale ha mandato nel mio studio, e non ce n'è uno che non ti faccia apparire come un killer spietato. Ti ascolto quando mi dici che collezionavi armi, come se fossi una specie di fanatico della Guerra Civile.» Peter si tirò indietro. «Bene. Vuole sapere se avevo intenzione di usare le armi? Sì, certo. L'avevo progettato. Nella mia mente avevo pianificato tutto. Mi ero preoccupato anche dei particolari, fino all'ultimo istante. Volevo uccidere la persona che odiavo più di tutte. Ma poi non sono riuscito a farlo.» «Quelle dieci persone...» «Solo perché erano lì» disse Peter. «Ma allora chi volevi uccidere?» In fondo alla stanza l'aria condizionata improvvisamente resuscitò. Peter distolse lo sguardo. «Me stesso» rispose. Un anno prima «Continuo a pensare che non sia una buona idea» disse Lewis mentre apriva lo sportello posteriore del furgone. Il cane, Dozer, era disteso al suo fianco, e lottava per respirare. «Hai sentito il veterinario» disse Lacy, accarezzando la testa del cane da caccia. Un cane così bravo. L'avevano preso quando Peter aveva tre anni; ora, all'età di dodici anni, i suoi reni non funzionavano più. Tenerlo in vita con i farmaci serviva soltanto a loro, non a lui: era difficile immaginare la loro casa senza il cane che zampettava nei corridoi. «Non mi riferivo all'idea di abbatterlo» precisò Lewis. «Mi riferivo all'idea di portare tutti.» I ragazzi si lasciarono cadere dal retro del furgone come macigni. Socchiusero gli occhi al sole, incurvarono le spalle. Le loro schiene larghe ricordavano a Lacy le querce che diminuivano gradualmente in larghezza verso il suolo. Entrambi avevano l'abitudine di buttare in fuori il piede sinistro quando camminavano. Avrebbe desiderato che si accorgessero di quanto si assomigliavano. «Non riesco a credere che ci abbiate trascinato qui» disse Joey. Peter prese a calci la ghiaia del parcheggio. «È una stronzata.» «Attento a come parli» lo avvertì Lacy. «E quanto al fatto di essere tutti qui non riesco a credere che siate così egoisti da non voler dare l'ultimo saluto a un membro della famiglia.»
«Potevamo salutarlo a casa» brontolò Joey. Lacy si mise le mani sui fianchi. «La morte fa parte della vita. Anch'io vorrei essere circondata da persone che amo quando sarà la mia ora.» Aspettò che Lewis prendesse in braccio Dozer, poi chiuse lo sportello del furgone. Lacy aveva chiesto l'ultimo appuntamento della giornata, perché il veterinario non fosse di fretta. Si sedettero nella sala d'attesa deserta, con il cane disteso come un lenzuolo sulle gambe di Lewis. Joey prese una copia di Sports Illustrated di tre anni prima e cominciò a leggere. Peter incrociò le braccia e fissò il soffitto. «Parliamo del più bel ricordo che abbiamo di Dozer» propose Lacy. Lewis sospirò. «Per amor del cielo...» «Non ha senso» aggiunse Joey. «Per me» disse Lacy, come se non avessero neanche parlato, «risale a quando Dozer era un cucciolo, e lo trovai sul tavolo da pranzo con la testa ficcata nel tacchino.» Accarezzò la testa del cane. «Quell'anno mangiammo una zuppa per il Giorno del Ringraziamento.» Joey sbatté la rivista su un angolo del tavolo e sospirò. Marcia, l'assistente del veterinario, era una donna con una lunga treccia che le scendeva oltre i fianchi. Lacy aveva fatto nascere i suoi due gemelli cinque anni prima. «Ciao, Lacy» disse Marcia andandole subito incontro per abbracciarla. «Tutto bene?» Lacy sapeva che il problema, quando si tratta di morte, è che ci si trova privi del solito lessico consolatorio. Marcia si avvicinò a Dozer e lo grattò dietro le orecchie. «Volete aspettare qui fuori?» «Sì» disse Joey muovendo soltanto le labbra e voltandosi verso Peter. «Entriamo tutti» decise Lacy senza esitare. Seguirono Marcia in una delle sale mediche e sistemarono Dozer sul lettino. Lui raspò per aggrapparsi, le unghie che risuonavano contro il metallo. «È bravo» disse Marcia. Lewis e i ragazzi entrarono in fila nella stanza, e si allinearono lungo la parete come uno schieramento di poliziotti. Quando il veterinario entrò, tenendo in mano la siringa ipodermica, tentarono di indietreggiare ulteriormente. «Mi aiutate a tenerlo fermo?» chiese il veterinario. Lacy fece un passo avanti, annuendo, e mise le braccia attorno a quelle di Marcia. «Bene, Dozer, la tua è stata una bella battaglia» disse il veterinario. Si
rivolse ai ragazzi. «Non sentirà niente.» «Che cos'è?» domandò Lewis, fissando l'ago. «Un insieme di farmaci che rilassano i muscoli e interrompono la trasmissione nervosa. E senza trasmissione nervosa non c'è né pensiero né sensazione né movimento. È un po' come perdersi nel sonno.» Tastò per cercare una vena nella zampa del cane, mentre Marcia teneva fermo Dozer. Iniettò la soluzione e grattò la testa a Dozer. Il cane fece un profondo respiro, poi cessò di muoversi. Marcia si fece indietro, lasciando Dozer tra le braccia di Lacy. «Avete un minuto» disse, mentre lei e il veterinario uscivano dalla stanza. Lacy era abituata a tenere una nuova vita tra le mani, non a sentirla abbandonare un corpo nelle sue braccia. Era semplicemente un altro genere di passaggio - dalla gravidanza alla nascita, dall'infanzia alla vita adulta, dalla vita alla morte - ma c'era qualcosa di ancor più difficile nel perdere un animale domestico, come se fosse sciocco provare sentimenti così forti per qualcosa di non umano. Come se ammettere di amare un cane - che era sempre tra i piedi e graffiava la poltrona e portava fango in casa - al pari dei propri figli biologici fosse sciocco. Eppure. Quello era il cane che aveva stoicamente e tacitamente permesso a Peter, quando aveva due anni, di cavalcarlo come un cavallo in giro per il cortile. Quello era il cane che aveva avvertito tutti abbaiando quando Joey si era addormentato sul divano mentre faceva riscaldare la cena, finché il forno aveva preso fuoco. Quello era il cane che stava seduto sotto la scrivania sui piedi di Lacy nel cuore dell'inverno, mentre lei rispondeva alle e-mail, condividendo con lei il tepore del suo pallido ventre rosato. Lacy si chinò sul corpo del cane e cominciò a piangere - sulle prime tacitamente, poi con forti singhiozzi che fecero allontanare Joey e trasalire Lewis. «Fa' qualcosa» udì Lacy: era Joey, e aveva una voce velata e roca. Poi sentì una mano sulla spalla e immaginò che fosse Lewis, ma Peter cominciò a parlare. «Quando era un cucciolo» disse. «Quando andammo a sceglierlo dalla figliata. Tutti i suoi fratelli e sorelle tentavano di arrampicarsi sul recinto, mentre lui era in cima alla scala, e ci guardava, ma inciampò e cadde addosso agli altri.» Lacy alzò il volto e lo guardò fisso. «È il mio ricordo più bello» disse Peter. Lacy si era sempre considerata fortunata per aver ricevuto, in un certo senso, un figlio che non era fatto con lo stampino del tipico ragazzo ameri-
cano, ma era invece emotivo e sensibile e sapeva essere in sintonia con quello che gli altri sentivano e pensavano. Allentò la presa delle mani aggrappate al pelo del cane e aprì le braccia perché Peter potesse infilarcisi dentro. Non poteva più farlo con Joey, che era già più alto di lei e più muscoloso di Lewis, ma poteva ancora con Peter. Anche l'ossatura della spalla, che appariva così larga sotto una maglietta di cotone, sembrava più delicata sotto le sue mani. Non ancora cresciuto e come soltanto abbozzato, un uomo in attesa di diventare tale. Se soltanto fosse stato possibile tenerli così per sempre: racchiusi in una goccia d'ambra, destinati a non crescere mai. Per tutta la sua vita, a qualsiasi concerto o spettacolo della scuola, Josie aveva sempre avuto un genitore solo tra il pubblico. Sua madre, bisognava riconoscerlo, aveva sempre modificato le date delle udienze per poter vedere Josie fare la placca nella recita scolastica sull'igiene dentale, o per ascoltare il suo assolo di cinque note nel coro di Natale. C'erano anche altri ragazzi che avevano un genitore solo - i figli di genitori divorziati, per esempio -, ma Josie era l'unica in tutta la scuola a non aver mai conosciuto suo padre. Quando era piccola e in seconda elementare i suoi compagni preparavano bigliettini a forma di cravatta per la Festa del Papà, lei era costretta a sedersi in un angolo con una ragazza il cui padre era morto prematuramente di cancro a solo quarantadue anni. Come tutti i bambini curiosi, nel corso degli anni Josie aveva fatto domande a sua madre. Voleva sapere perché i suoi genitori non erano più sposati; non si aspettava di sentirsi dire che non si erano mai sposati. «Lui non era un tipo da matrimonio» era stata la risposta, e Josie non aveva capito perché quello significasse anche che lui non era il tipo che mandava un regalo a sua figlia per il compleanno o che la invitava a casa sua per una settimana durante l'estate o che le telefonava per sentire la sua voce. Quell'anno avrebbe studiato biologia, ed era già agitata per la lezione di genetica. Josie non sapeva se suo padre aveva gli occhi castani o azzurri; se aveva i capelli ricci o le lentiggini o sei dita del piede. Quando aveva espresso a sua madre le sue preoccupazioni, lei aveva scrollato le spalle. «Sicuramente ci sarà qualcuno, nella tua classe, che è stato adottato» le disse. «Rispetto a loro, tu conosci il cinquanta per cento in più del tuo background.» Ecco le informazioni che Josie era riuscita a mettere insieme su suo padre:
Si chiamava Logan Rourke. Insegnava alla facoltà di legge che sua madre aveva frequentato. I suoi capelli erano diventati bianchi troppo presto, ma - sua madre glielo aveva assicurato - erano tutt'altro che brutti, anzi, erano molto cool. Aveva dieci anni più di sua madre, il che significava che ne aveva cinquanta. Aveva le dita affusolate e suonava il pianoforte. Non sapeva fischiare. Non era certo sufficiente a stilare una biografia standard, se qualcuno l'avesse chiesto a Josie, ma nessuno si era mai preso quel disturbo. Era seduta nel laboratorio di biologia vicino a Courtney. Josie di solito non sceglieva Courtney come compagna di laboratorio - non brillava certo per le sue capacità -, eppure sembrava che non le importasse. La signora Aracort era l'insegnante incaricata di fare da punto di riferimento per le ragazze pompon, e Courtney era una di loro. Per quanto scarso fosse il loro rendimento in laboratorio, riuscivano sempre a prendere A. Il cervello dissezionato di un gatto era collocato sul banco davanti alla signora Aracort. Emanava odore di formaldeide e sembrava che fosse stato schiacciato da un'auto. Come se non bastasse, avevano appena fatto la pausa pranzo. («Questo» aveva detto Courtney rabbrividendo «mi farà diventare ancora più bulimica.») Josie stava tentando di non guardarlo mentre lavorava al progetto di quella lezione: a ciascuno studente era stato dato un computer portatile Dell per navigare su Internet e cercare esempi di ricerche su animali. Fino a quel momento Josie aveva catalogato uno studio sui primati realizzato da un'azienda farmaceutica che produceva pillole antiallergiche, in cui le scimmie venivano rese asmatiche e poi curate, e un altro che riguardava la sindrome della morte in culla e i cuccioli. Per sbaglio premette un bottone sul browser e trovò l'home page di The Boston Globe. Sullo schermo spiccava il servizio principale di quel numero: la gara tra il procuratore distrettuale in carica e il suo sfidante, preside della Harvard Law School, un uomo di nome Logan Rourke. Josie sentì una stretta allo stomaco. Non poteva essercene un altro, no? Socchiuse gli occhi, si avvicinò di più allo schermo, ma la fotografia non era nitida e c'era il riflesso del sole. «Che cos'hai?» sussurrò Courtney. Josie scosse il capo e chiuse il suo computer portatile, come per nascondere meglio il suo segreto. Non usava mai gli orinatoi. Se anche aveva bisogno urgente di urinare,
non voleva farlo accanto a qualche gigantesco studente del dodicesimo anno che avrebbe potuto fare commenti su... be', sul fatto che lui era un pivello di nona, soprattutto nelle parti più basse. Preferiva entrare in una cabina e chiudere la porta per garantirsi la privacy. Gli piaceva leggere le pareti del bagno. Una delle cabine aveva una serie di battute botta e risposta. Altre svelavano i nomi di ragazze disposte a fare pompini. C'era uno scarabocchio che attirava spesso lo sguardo di Peter: TREY WILKINS È FROCIO. Non conosceva Trey Wilkins - probabilmente non era nemmeno più uno studente della Sterling High - ma Peter si domandava se anche Trey fosse entrato in quel bagno e avesse usato le cabine per urinare. Peter era venuto via dalla lezione di inglese durante un test di grammatica a sorpresa. Sinceramente non pensava che, nel grandioso schema della vita, potesse importare qualcosa se un aggettivo modificava un sostantivo o un verbo o se invece cancellava la faccia della Terra, cosa che lui si augurava vivamente che accadesse prima di dover tornare in classe. Aveva già fatto quel che doveva in bagno; ora si limitava a lasciar passare il tempo. Se avesse sbagliato quel test, sarebbe stata la seconda volta di fila. Ma non era tanto la collera dei suoi genitori a impensierire Peter. Era il modo in cui l'avrebbero guardato, delusi perché non era bravo come Joey. Udì la porta del bagno aprirsi e, quando i due ragazzi entrarono, sembrò che si portassero appresso il brusio del corridoio. Peter chinò la testa, scrutando sotto la porta della cabina. Nike. «Sto sudando come un maiale» disse una voce. Il secondo ragazzo rise. «È perché sei una botte di lardo.» «Già, davvero. Potrei batterti a basket giocando con una mano legata dietro la schiena.» Peter udì un rubinetto aprirsi e sentì scorrere l'acqua. «Ehi, mi stai schizzando!» «Ahhh, così va molto meglio» disse la prima voce. «Almeno adesso non sudo più. Ehi, controllami i capelli. Sembro Alfa Alfa.» «Chi?» «Cosa sei, ritardato? Il ragazzo dei Little Rascals che si vede in tivù, con quel ciuffo di capelli ritti in piedi sulla nuca.» «In realtà, sembri un vero frocio...» «Sai...» Altre risate. «In effetti assomiglio a Peter.» Non appena Peter udì il suo nome, sentì il cuore battere all'impazzata. Aprì la porta della cabina e uscì. In piedi davanti alla fila di lavabi c'era un
giocatore di football che lui conosceva solo di vista, mentre l'altro era suo fratello. I capelli di Joey erano grondanti d'acqua e gli stavano ritti sulla nuca come capitava a Peter certe volte, anche quando tentava di lisciarli con il gel di sua madre. Joey gli lanciò una rapida occhiata. «Sparisci, mostro» gli intimò, e Peter si precipitò fuori dal bagno, domandandosi se fosse possibile per uno come lui che era già scomparso da buona parte della sua stessa vita. I due uomini in piedi davanti al banco di Alex condividevano una villa bifamiliare, ma si detestavano. Arliss Undergroot era un installatore di stucchi Sheetrock ampiamente tatuato su tutt'e due le braccia, con la testa rasata e un tale numero di piercing da far scattare il metal detector del tribunale. Rodney Eakes era un bancario addetto allo sportello, vegano, con un'apprezzata collezione di registrazioni originali su disco di spettacoli di Broadway. Arliss abitava di sotto, Rodney di sopra. Qualche mese prima, Rodney aveva portato a casa una balla di fieno, con l'intenzione di usarla per la pacciamatura del suo giardino biologico, ma aveva sempre rimandato e la balla di fieno era rimasta nella veranda di Arliss. Arliss aveva chiesto a Rodney di portarla via, ma Rodney non era riuscito a provvedere in tempo. Così, una sera, Arliss e la sua ragazza avevano tagliato lo spago e sparso il fieno sul prato davanti all'ingresso principale. Rodney aveva chiamato la polizia, che in effetti aveva arrestato Arliss (sulla base di un reato perseguibile dalla legge) con l'accusa di atti di emulazione: espressione legale equivalente a distruzione di una balla di fieno. «Per quale motivo la popolazione del New Hampshire che paga le tasse dovrebbe sborsare denaro perché un caso come questo finisca in tribunale?» domandò Alex. Il relatore d'accusa per la polizia si strinse nelle spalle. «Il capo mi ha chiesto di procedere» disse, ma poi fece roteare gli occhi. Aveva già dimostrato che Arliss aveva preso la balla di fieno e l'aveva sparsa sul prato: l'onere della prova era soddisfatto. Ma una dichiarazione di colpevolezza in quel caso significava che Arliss avrebbe avuto la fedina penale sporca per il resto della sua vita. Forse era un vicino di casa insopportabile, ma non si meritava quella sanzione. Alex si rivolse al pubblico ministero. «Quanto ha speso la vittima per la balla di fieno?» «Quattro dollari, Vostro Onore.»
Alex guardò dritto in faccia l'imputato. «Ha con sé quattro dollari, oggi?» Arliss annuì. «Bene. Il suo caso verrà archiviato senza condizionale non appena lei avrà risarcito la vittima. Tiri fuori dal suo portafoglio quattro dollari e li dia subito all'agente, che li porterà al signor Eakes in fondo all'aula.» Lanciò un'occhiata al suo cancelliere. «Facciamo una pausa di quindici minuti.» Nel suo ufficio, Alex si tolse la toga e prese un pacchetto di sigarette. Scese le scale sul retro fino al pianterreno e se ne accese una, inalando profondamente. Certi giorni era orgogliosa del suo lavoro, ma altre volte, come in quel momento, si domandava persino perché gliene importasse qualcosa. Trovò Liz, la giardiniera, intenta a rastrellare il prato davanti al tribunale. «Le ho portato una sigaretta» disse Alex. «Cosa c'è che non va?» «Come fa a sapere che qualcosa non va?» «Perché lei lavora qui da non so quanti anni e non mi ha mai portato una sigaretta.» Alex si appoggiò all'albero, guardando le foglie lucide come gioielli impigliate nei rebbi del rastrello di Liz. «Ho appena sprecato tre ore su un caso che non meritava nemmeno di arrivare in un tribunale. Ho un'emicrania terribile. E sono rimasta senza carta igienica nel mio bagno e ho dovuto chiamare il cancelliere perché se ne facesse dare un rotolo dal personale della manutenzione.» Liz guardò gli alberi mentre un colpo di vento portava un'altra manciata di foglie sul prato appena rastrellato. «Alex» disse. «Posso farle una domanda?» «Certamente.» «Quand'è stata l'ultima volta che ha scopato?» Alex si voltò a bocca aperta. «Che cosa c'entra con...» «La maggior parte della gente che va a lavorare passa il tempo a domandarsi quanto manca al momento di tornare a casa per fare quello che davvero ha voglia di fare. Per lei funziona al contrario.» «Ma non è vero. Josie e io...» «Cosa avete fatto di divertente voi due nell'ultimo weekend?» Alex raccolse una foglia e la fece a pezzettini. Negli ultimi tre anni, gli impegni sociali di Josie erano diventati fitti di telefonate e pigiama party e
uscite di gruppo per andare al cinema o riunirsi nel seminterrato di qualcuno. Quel weekend Josie era uscita a fare acquisti con Haley Weaver, una studentessa del terzo anno che aveva appena preso la patente. Alex aveva scritto due sentenze e aveva pulito il cassetto per la frutta e la verdura del frigorifero. «Le organizzerò un appuntamento al buio» disse Liz. A Sterling c'erano alcune ditte che assumevano i teenager per un lavoro dopo la scuola. Dopo la sua prima estate al Quik-Copy, Peter concluse che era perché quei lavori erano quasi tutti stronzate, e non si trovava nessun altro che li facesse. Era lui a fotocopiare la maggior parte del materiale per le lezioni allo Sterling College, portato dai professori. Sapeva come ridurre un documento a un trentaduesimo del formato originale, e come aggiungere il toner. Quando i clienti pagavano, si divertiva a indovinare che genere di banconota avrebbero tirato fuori dal portafoglio basandosi soltanto su come erano vestiti o portavano i capelli. I ragazzi del college usavano sempre i venti dollari. Le mamme con il passeggino tiravano fuori subito una carta di credito. I professori avevano sempre banconote da un dollaro spiegazzate. Si era trovato un lavoro perché aveva bisogno di un computer nuovo con una grafica migliore, per poter fare il design dei giochi a cui lui e Derek si dedicavano negli ultimi tempi. Peter non finiva mai di stupirsi constatando che, quando inserivi una sequenza di comandi apparentemente senza senso, li vedevi, come per magia, diventare un cavaliere o una spada o un castello sullo schermo. Gli piaceva il concetto in sé: che qualcosa che una persona comune poteva liquidare come privo di significato fosse in realtà eloquente e accattivante se soltanto si sapeva come guardarlo. La settimana prima, quando il suo capo gli aveva detto di aver assunto un altro studente della scuola superiore, Peter era diventato così nervoso da doversi chiudere in bagno per venti minuti prima di poter continuare a comportarsi come se nulla fosse. Per quanto stupido e noioso fosse quel lavoro, era un paradiso. Peter rimaneva da solo per tutto il pomeriggio; non doveva preoccuparsi come quando gli capitava di incrociare i ragazzi cool. Ma, se il signor Cargrew aveva assunto qualcuno della Sterling High, quella persona sapeva chi fosse Peter. E anche se quel ragazzo non faceva parte del gruppo più popolare la copisteria non sarebbe rimasta a lungo un luogo tranquillo. Peter avrebbe dovuto pensarci due volte prima di dire o fare qualcosa, perché altrimenti sarebbe diventato argomento di pettego-
lezzi per tutta la scuola. Con sua grande sorpresa, Peter scoprì che la sua nuova collega era Josie Cormier. Entrò dietro Cargrew. «Questa è Josie» la presentò lui. «Vi conoscete?» «Un po'» rispose Josie, mentre Peter rispondeva: «Come no». «Peter ti spiegherà cosa c'è da fare» disse Cargrew, e uscì per andare a giocare a golf. Ogni tanto, quando Peter attraversava l'atrio della scuola e vedeva Josie con il suo nuovo gruppo di amici, non la riconosceva. Si vestiva in maniera diversa, ora: portava jeans che lasciavano scoperto il suo addome piatto e un arcobaleno di T-shirt a strati l'una sopra l'altra. Il trucco faceva apparire i suoi occhi immensi. E un po' tristi, pensava lui talvolta, ma dubitava che lei se ne rendesse conto. L'ultima conversazione importante che aveva avuto con Josie risaliva a cinque anni prima, quando erano in sesta. Lui era sicuro che la vera Josie sarebbe uscita da quella nebbia di popolarità e avrebbe capito che la gente con cui andava in giro era tutta apparenza e niente sostanza. Era sicuro che, non appena quella gente avesse cominciato a prendersela con qualcun altro, Josie sarebbe tornata da Peter. Oh mio Dio, avrebbe detto, e avrebbero riso insieme del suo viaggio agli inferi. Cosa mi passava per la mente? Ma Josie non tornò mai strisciando da lui e lui iniziò a uscire con Derek della squadra di calcio, e quando fu in settima trovava realmente arduo credere che lui e Josie, una volta, erano andati avanti due settimane a scambiarsi una stretta di mano segreta che nessun altro sarebbe mai stato in grado di imitare. «Allora» disse Josie il primo giorno, come se non l'avesse mai visto prima, «cosa dobbiamo fare?» Lavoravano insieme da una settimana. Be', non insieme - era più come eseguire una danza ritmata dai sospiri e dai borbottii gutturali delle fotocopiatrici e dallo squillo insistente del telefono. Di solito, se parlavano era per darsi qualche informazione: È rimasto altro toner per le fotocopie a colori? Quanto devo far pagare a uno che vuol ricevere un fax qui? Quel pomeriggio, Peter stava fotocopiando articoli per un corso di psicologia al college. Di tanto in tanto, mentre le pagine passavano nel fascicolatore automatico, vedeva scansioni di cervello di schizofrenici - cerchi rosa acceso vicino ai lobi frontali che si riproducevano in varie gradazioni di grigio. «Qual è quella parola che si usa per chiamare qualcosa con il nome della marca invece che con il nome vero?»
Josie stava fissando con punti metallici un altro lavoro. Si strinse nelle spalle. «Come Xerox» disse Peter. «O Kleenex.» «Jell-O» rispose Josie dopo un istante. «Google.» Josie alzò gli occhi. «Band-Aid» disse. «Q-tip.» Lei rifletté un istante, con la faccia atteggiata a una smorfia. «FedEx. Wiffle ball.» Peter sorrise. «Rollerblade. Frisbee.» «Crock-Pot.» «Quello non...» «Continua» disse Josie. «Jacuzzi. Post-it.» «Magic Marker.» «Ping-Pong!» Ormai avevano smesso entrambi di lavorare. Erano in piedi l'uno accanto all'altra, e ridevano, quando il campanello sopra la porta suonò. Matt Royston entrò nel negozio. Portava un berretto da hockey della Sterling - benché mancasse ancora un mese all'inizio della stagione, tutti sapevano che sarebbe stato scelto per la prima squadra della scuola, sia pure come matricola. Peter, che si sentiva estasiato come davanti a un miracolo dal fatto che Josie era tornata a essere come una volta, la guardò voltarsi verso Matt. Le sue guance si fecero rosee; gli occhi le brillavano come la parte più scintillante di una fiamma. «Che cosa fai tu qui?» Si appoggiò contro il banco. «È così che tratti tutti i tuoi clienti?» «Ti serve una fotocopia?» La bocca di Matt si contrasse in una smorfia. «Assolutamente no. Io sono un originale.» Lanciò un'occhiata in giro. «Allora è qui che lavori.» «No, vengo qui soltanto per avere caviale e champagne gratis» scherzò Josie. Peter assisteva a quello scambio di battute da dietro il banco. Aspettava che Josie dicesse a Matt che aveva da fare, il che non era necessariamente vero, ma loro due stavano conversando. O quasi. «A che ora smetti?» domandò Matt. «Alle cinque.» «Alcuni di noi vanno a casa di Drew, stasera.» «È un invito?» disse Josie, e Peter si accorse che, mentre lei faceva un sorriso, un largo sorriso, aveva una fossetta che prima non aveva mai nota-
to. O forse lei non aveva mai sorriso a lui in quel modo. «Vuoi che lo sia?» replicò Matt. Peter si avvicinò al banco. «Dobbiamo tornare a lavorare» sbottò. L'occhiata di Matt colpì Peter come uno schiaffo. «Smettila di guardarmi, omo.» Josie si spostò in modo da impedire a Matt di vedere Peter. «A che ora?» «Alle sette.» «Ci vediamo là» disse lei. Matt batté le mani sul banco. «Fantastico» ribatté, e uscì dal negozio. «Saran Wrap» disse Peter. «Vaselina.» Josie si voltò verso di lui, confusa. «Cosa? Ah. Giusto.» Raccolse il materiale che stava mettendo insieme con la cucitrice, impilò altri pacchi di fogli, allineò i margini. Peter aggiunse carta alla macchina che stava svolgendo il suo lavoro. «Lui ti piace?» domandò. «Matt? Credo di sì.» «Non è così» disse Peter. Premette il pulsante COPY e osservò la macchina che cominciava a partorire un centinaio di neonati identici. Poiché Josie taceva, andò a mettersi di fianco a lei, vicino al tavolo su cui uscivano le fotocopie. Prese in mano un pacco di fogli e li impilò, poi glieli diede. «Che cosa si prova?» le domandò. «Come che cosa si prova?» Peter pensò un momento. «Quando ci si sente al top.» Josie allungò la mano al di sopra di lui per prendere un altro pacco di materiale e lo mise insieme con la cucitrice. Preparò tre fascicoli, e Peter era sicuro che avesse intenzione di ignorarlo, ma poi lei parlò. «Come se avessi fatto un passo falso» disse, «e stessi per cadere.» Mentre lo diceva, Peter udì nella sua voce una nota che sembrava una cantilena. Ricordava nitidamente quando stava seduto sul viale di Josie al caldo di luglio, tentando di fare un fuoco con segatura, luce del sole e occhiali. La sentiva strillare sopra la sua spalla mentre correvano a casa dopo la scuola, sfidando Peter a prenderla. Vide un tenue rossore dipingerle il volto e capì che quella Josie che una volta era sua amica c'era ancora, intrappolata in svariati bozzoli, come una di quelle bambole russe contenute l'una nell'altra, e quando si trova l'ultima è così piccola da stare nel palmo della mano. Se soltanto avesse potuto far ricordare anche a lei quei momenti. Forse non era per essere popolare che Josie aveva cominciato a farsi vedere in gi-
ro con Matt & Company. Forse era perché aveva dimenticato che le piaceva uscire con Peter. Con la coda dell'occhio, guardò Josie. Stava mordicchiandosi il labbro inferiore, tutta concentrata sul fissare dritti i punti metallici. Peter avrebbe tanto desiderato saper essere disinvolto e spontaneo come Matt, ma gli sembrava di non aver fatto altro, per tutta la sua vita, che ridere un po' troppo forte o un po' in ritardo; per non parlare del fatto che era di lui che si rideva. Non sapendo come comportarsi per essere diverso da quello che era sempre stato, fece un profondo respiro e si disse che fino a non molto tempo prima Josie l'aveva accettato ugualmente. «Ehi» le disse. «Vieni a vedere.» Entrò nell'ufficio attiguo, quello dove Cargrew teneva una foto di sua moglie e dei suoi figli e il suo computer, che non bisognava assolutamente toccare e che era protetto da una password. Josie lo seguì e rimase in piedi dietro la sedia su cui sedette Peter. Lui batté alcuni tasti e improvvisamente lo schermo si animò. «Come hai fatto?» domandò Josie. Peter scrollò la testa. «Gioco molto con i computer. Mi sono inserito in quello di Cargrew la settimana scorsa.» «Non credo che dovremmo...» «Aspetta.» Peter si fece strada nel computer finché trovò un file accuratamente nascosto: lo scaricò e aprì il primo sito porno. «Quello è... un nano?» mormorò Josie. «E un asino?» Peter inclinò il capo. «Io pensavo che fosse un gatto molto grosso.» «In ogni caso, è assolutamente osceno.» Rabbrividì. «Aaagh. E adesso come faccio a prendere la busta paga dalle mani di quello là?» Poi abbassò lo sguardo su Peter. «Che altro sai fare con il computer?» «Qualsiasi cosa» si vantò lui. «Anche... inserirti in altri posti? Scuole e roba del genere?» «Certamente» disse Peter, sebbene in realtà non sapesse farlo. Stava incominciando a imparare la crittografia e a usarla per creare dei wormhole. «Sai anche trovare un indirizzo?» «Niente di più facile» replicò Peter. «Di chi?» «Di qualcuno a caso» disse lei, e si chinò su di lui per digitare. Lui sentì il profumo dei suoi capelli - di mela - e avvertì la pressione della spalla di lei contro la sua. Peter chiuse gli occhi, aspettando di essere colpito dal fulmine. Josie era carina, ed era una ragazza, eppure... lui non sentiva niente.
Forse perché lei gli era troppo familiare... come una sorella? O perché non era un lui? Smettila di guardarmi, omo. A Josie non lo disse, ma quando aveva scoperto il sito porno di Cargrew si era sorpreso a guardare i ragazzi, non le ragazze. Significava che era attratto da loro? E poi guardava anche gli animali. Forse non era semplice curiosità? Un confronto, magari, tra lui e gli uomini? E se fosse saltato fuori che Matt - e tutti gli altri - avevano ragione? Josie cliccò con il mouse alcune volte finché sullo schermo comparve un articolo di The Boston Globe. «Ecco» disse indicando col dito. «Quello lì.» Peter socchiuse gli occhi e lesse la didascalia. «Chi è Logan Rourke?» «Chi se ne importa» ribatté Josie. «Uno così, in tutti i casi, non ha l'indirizzo nell'elenco telefonico.» Era vero, ma poi Peter immaginò che chiunque fosse in lizza per una carica pubblica probabilmente doveva essere abbastanza intelligente da escludere i propri dati personali da un elenco del telefono. Impiegò dieci minuti a scoprire che Logan Rourke aveva lavorato per la Harvard Law School, e altri quindici per inserirsi nei file del personale docente. «Beccato» disse Peter. «Abita a Lincoln. Conant Road.» Guardò al di sopra della propria spalla e vide sul volto di Josie un sorriso aperto, contagioso. Lei rimase a fissare lo schermo per un lungo momento. «Sei bravo» gli disse. Gli economisti, si dice spesso, conoscono il prezzo di tutto e il valore di niente. Lewis ci pensava mentre apriva quell'enorme file sul computer del suo ufficio, la World Values Survey, l'indagine mondiale sui valori dei beni. Realizzata da sociologi norvegesi, presentava dati riguardanti centinaia di migliaia di individui in tutto il mondo, con un interminabile elenco di particolari. Alcuni semplici, come l'età, il genere, l'ordine di nascita, il peso, la religione, lo stato civile, il numero di figli, e altri più complessi, come le concezioni politiche e le credenze religiose. L'indagine aveva preso in considerazione anche la distribuzione del tempo: quanto tempo un individuo passava al lavoro, quanto spesso si recava in chiesa, quante volte alla settimana faceva sesso e con quanti partner. Quello che sarebbe sembrato tedioso alla maggior parte della gente per Lewis era come un giro sulle montagne russe. Quando si iniziava a vagliare gli schemi di una mole di dati tanto imponente, non si poteva immaginare dove si sarebbe andati a finire: quanto sarebbe stata profonda la caduta o
quanto alta la salita. Esaminava quelle cifre abbastanza spesso da sapere che sarebbe stato in grado di sfornare rapidamente una relazione per la conferenza della settimana dopo. Non doveva essere perfetta: si trattava di una piccola riunione e i suoi colleghi di rango più elevato non sarebbero stati presenti. Per quell'occasione poteva far bastare quello che aveva trovato, mentre in seguito l'avrebbe ampliato e approfondito per poi pubblicarlo su una rivista accademica. La questione nodale del suo scritto riguardava il prezzo da assegnare alle variabili di felicità. Si è sempre detto che con il denaro si può comprare la felicità, ma quanto ne occorre? Il guadagno ha un effetto causale o diretto sulla felicità? Erano più felici gli individui che avevano più successo nel lavoro, oppure ricevevano un salario superiore perché erano più felici? Ma la felicità non poteva neppure essere limitata ai propri guadagni. Il matrimonio valeva di più in America o in Europa? Il sesso contava? Perché coloro che si recano in chiesa sembrano raggiungere livelli superiori di felicità rispetto a quelli che non ci vanno? Perché gli scandinavi, che hanno un punteggio elevato sulla scala della felicità, presentano un tasso di suicidi tra i più alti del mondo? Mentre si accingeva a selezionare le variabili dell'indagine usando l'analisi di regressione multifattoriale sul software di ricerca STATA, Lewis rifletteva sul valore che lui stesso aveva assegnato alle variabili della sua felicità personale. Quale compenso monetario poteva corrispondere al non avere una donna come Lacy nella sua vita? E al non avere un posto di ruolo allo Sterling College? E alla sua salute? Secondo lui, l'individuo medio non era sempre in grado di capire che lo stato coniugale era associato a uno 0,07 del livello di aumento della felicità (con uno standard di errore pari allo 0,02 per cento). D'altro canto, provate a dire a un uomo qualunque che essere sposato ha lo stesso effetto di una felicità aggiuntiva pari a 100.000 dollari l'anno, e riuscirà a considerare la questione secondo la prospettiva corretta. Ecco i risultati delle sue ricerche fino a quel momento: 1. Un guadagno maggiore è associato a una felicità maggiore, ma con rendimenti decrescenti. Per esempio, un individuo che guadagna 50.000 dollari risulta più felice di un individuo con un salario di 25.000 dollari. Ma il guadagno incrementale di felicità che deriva dal ricevere un aumento da 50.000 a 100.000 dollari è di gran lunga inferiore. 2. Malgrado i miglioramenti concreti, la felicità ristagna nel tempo: un'en-
trata relativa potrebbe essere più importante di un guadagno assoluto. 3. Il benessere è superiore tra le donne, sposate, con educazione elevata e i cui genitori non hanno divorziato. 4. La felicità delle donne declina col tempo, forse perché hanno raggiunto una maggiore parità con gli uomini nell'ambito del lavoro. 5. Negli Stati Uniti i neri sono molto meno felici dei bianchi, ma la loro soddisfazione riguardo alla vita è in ripresa. 6. I calcoli indicano che il «risarcimento» per la condizione di disoccupazione dovrebbe essere pari a 60.000 dollari all'anno. Il «risarcimento» per essere neri dovrebbe essere di 30.000 dollari all'anno. Il «risarcimento» per essere vedovi o separati dovrebbe equivalere a 100.000 dollari all'anno. C'era un gioco che Lewis aveva l'abitudine di fare da solo, dopo la nascita dei bambini, quando si sentiva così sfacciatamente fortunato che sicuramente la tragedia non avrebbe tardato a colpirlo. Stava disteso a letto e si costringeva a scegliere che cosa fosse disposto a perdere prima: il suo matrimonio, il suo lavoro, un figlio. Si domandava quanto impiegasse un uomo a ridursi a niente. Chiuse la finestra con i dati e rimase a fissare il salvaschermo del computer. Era una foto scattata quando i bambini avevano otto e dieci anni, a uno zoo di animali domestici nel Connecticut. Joey si era issato suo fratello sulle spalle, a cavalluccio, e ridevano, con un tramonto striato di rosa sullo sfondo. Qualche momento dopo, un cervo (un cervo che aveva fatto il pieno di steroidi, aveva detto Lacy) aveva colpito dal basso i piedi di Joey e i due ragazzi erano caduti e si erano sciolti in lacrime... ma non era quello che Lewis amava ricordare. La felicità non è soltanto quello che di fatto accade; è anche quello che si sceglie di ricordare. C'era un'altra scoperta che aveva catalogato: la felicità era a forma di U. Le persone sono più felici quando sono molto giovani o molto vecchie. La depressione si verifica, all'incirca, verso i quarant'anni. O in altri termini, pensava Lewis con un certo sollievo, era esattamente come previsto. Benché avesse A in matematica e la materia le piacesse, quel voto era l'unico per il quale Josie dovesse darsi da fare. I numeri non erano facili per lei, sebbene la sua logica non facesse una grinza e scrivere un tema
fosse per lei di estrema facilità. Sotto quell'aspetto, immaginava, era come sua madre. O forse come suo padre. McCabe, l'insegnante di matematica, camminava tra le file di banchi, facendo rimbalzare una pallina da tennis contro il soffitto e cantando, storpiandola, American Pie di Don McLean: Bye, bye, che valore gli dai traffichiamo col pi greco finché non finirai... I ragazzi della nona che faticano e poi Dicono, McCabe, perché, dai? Oh, McCabe, perché, daaii... Josie cancellò una coordinata sul foglio di carta millimetrata che aveva davanti. «Non stiamo nemmeno usando il pi greco» disse un ragazzo. L'insegnante fece una giravolta e lanciò la pallina da tennis in modo da farla rimbalzare sul banco del ragazzo. «Andrew, sono veramente felice di vedere che si è svegliato in tempo per accorgersene.» «Vale come un quiz a sorpresa?» «No. Forse dovrei andare in TV» meditò McCabe. «C'è un Math Idol?» «Dio, spero di no» brontolò Matt dal banco dietro Josie. Le sfiorò la spalla e lei spinse il suo foglio verso l'angolo di sinistra in alto del suo banco, perché sapeva che in quel modo lui avrebbe visto meglio le risposte al compito. Quella settimana stavano lavorando sui grafici. Oltre a un fantastiliardo di compiti in cui bisognava prendere dei dati e farli stare per forza in grafici e diagrammi a colonna, ogni studente doveva creare e presentare un grafico di qualcosa che conosceva bene e che gli stava a cuore. McCabe lasciava dieci minuti alla fine di ogni lezione per la presentazione. Il giorno prima Matt aveva mostrato un grafico delle età relative dei giocatori di hockey della NHL (National Hockey League). Josie, che avrebbe presentato la sua l'indomani, aveva fatto un sondaggio tra le sue amiche per capire se c'era un rapporto tra il numero di ore che ciascuna passava a fare i compiti e la media dei suoi voti. Quel giorno toccava a Peter Houghton. Josie l'aveva visto portare il suo grafico a scuola, una specie di manifesto arrotolato. «Bene, osservate» disse McCabe. «Si parla di pie. Non di pi greco, questa volta.»
Il grafico di Peter era un diagramma a torta. Era stato sfumato accuratamente con i colori, e le etichette a computer identificavano ciascuna sezione. Il titolo in cima al diagramma era POPOLARITÀ. «Quando sei pronto, Peter» disse McCabe. Peter sembrava quasi sul punto di svenire, ma in realtà lui appariva sempre così. Da quando Josie aveva cominciato a lavorare alla copisteria avevano ripreso a parlarsi, ma, come per una regola non scritta, soltanto fuori da scuola. Dentro era diverso: era come una boccia per i pesci dove qualsiasi cosa dicessi e facessi veniva osservata da tutti gli altri. Quando erano bambini, Peter non aveva mai dato l'impressione di accorgersi quando attirava l'attenzione per il solo fatto di essere se stesso. Come quando aveva deciso di parlare in marziano durante l'intervallo, per esempio. Josie pensava che l'altra faccia di quell'atteggiamento, se si voleva vederlo da un punto di vista ottimistico, era che Peter non cercava mai di assomigliare a qualcun altro. Lei non poteva certo dichiarare lo stesso per quanto la riguardava. Peter si schiarì la voce. «Il mio grafico riguarda la situazione di questa scuola. Il mio campione statistico sono i ventiquattro studenti di questa classe. Potete vedere qui» e indicò una fetta della torta «che un po' meno di un terzo della classe è popolare.» C'erano sette fette sfumate di viola, il colore della popolarità, ciascuna con il nome di un diverso compagno di classe. C'erano Matt e Drew. Alcune ragazze che durante la pausa pranzo stavano con Josie. Ma anche il clown della classe era compreso in quel gruppo, notò Josie, e il ragazzo nuovo che si era trasferito da Washington. «Qui sopra ci sono i cervelloni» spiegò Peter, e Josie vide i nomi del primo della classe e della ragazza che suonava la tuba nella banda. «Il gruppo più numeroso è quello che definisco normale. E gli emarginati sono più o meno il cinque per cento.» Erano tutti ammutoliti. Era uno di quei momenti, si rese conto Josie, in cui sarebbe stato un bene avere psicologi di gruppo che invitassero tutti a dimostrare un po' di tolleranza in più per le differenze. Vide che McCabe aggrottava le sopracciglia come un origami mentre tentava di trovare il modo di trasformare la presentazione di Peter in un momento da After School Special televisivo; vide Drew e Matt guardarsi e ridacchiare; e soprattutto notò Peter, che era beatamente inconsapevole dell'inferno che stava per scatenarsi. McCabe si schiarì la voce. «Sai, Peter, forse tu e io dovremmo...»
Matt alzò la mano. «Signor McCabe, avrei una domanda.» «Matt...» «No, sul serio. Non riesco a leggere quella fettina del diagramma. Quella arancione.» «Oh» disse Peter. «È un ponte. È evidente. Una persona che può trovare posto in più di una categoria, o che va in giro con diversi generi di persone. Come Josie.» Si voltò a guardarla, con gli occhi che gli brillavano, e Josie sentì tutti gli sguardi puntati su di sé: una pioggia di frecce. Si chinò sul banco come una rosa di mezzanotte, lasciando che i capelli le ricadessero sul volto. A voler essere sincera, era abituata a sentirsi osservata - bastava andare in giro con Courtney perché capitasse di continuo - ma c'era una differenza tra chi ti guardava perché voleva essere come te e chi ti guardava perché la tua sventura faceva sentire gli altri un gradino più su. Come minimo, i ragazzi si sarebbero ricordati che una volta Josie era stata un'emarginata che andava sempre in giro con Peter. Oppure avrebbero pensato che Peter avesse una strana cotta per lei, che fosse semplicemente disgustoso, e sarebbe andata avanti così all'infinito. Un mormorio percorse l'intera classe come una scarica elettrica. Non è normale, mormorò qualcuno, e Josie pregò pregò pregò che non parlassero di lei. Poiché esiste un Dio, suonò la campanella. «E allora, Josie» disse Drew. «Sei il Tobin o il Golden Gate?» Josie tentava di riempire il suo zaino, ma i libri si sparsero sul pavimento, con le pagine aperte. «Il ponte di Londra» ridacchiò John Eberhard. «Guarda, sta crollando.» Ormai, qualcuno della classe di matematica doveva aver raccontato a qualcun altro in corridoio cos'era accaduto. Josie udiva le risate che l'avrebbero seguita per tutta la giornata, o forse più a lungo, come la coda di un aquilone. Si rese conto che qualcuno stava provando ad aiutarla a raccogliere i libri, e poi, una frazione di secondo dopo, che quel qualcuno era Peter. «No» disse Josie, alzando una mano, come un campo di forza che immobilizzò Peter sul posto. «Non rivolgermi mai più la parola, intesi?» Nell'atrio, voltò l'angolo alla cieca finché trovò il vialetto che conduceva al laboratorio di falegnameria. Josie era stata troppo ingenua pensando che, una volta stabilita l'appartenenza a un gruppo, questo diventasse una specie di roccaforte. Invece il Dentro esisteva soltanto perché qualcuno aveva tracciato una linea nella sabbia, in modo che tutti gli altri fossero Fuori; e
quella linea cambiava costantemente. Poteva capitarti di finire improvvisamente, non per colpa tua, dalla parte sbagliata. Quello che Peter non aveva rappresentato nel grafico era la fragilità della popolarità. Quello era il paradosso: lei non era affatto un ponte; era completamente dedita a diventare parte del suo gruppo. Aveva escluso gli altri da quel posto dove voleva così disperatamente stare. Perché quei ragazzi non avrebbero dovuto accoglierla di nuovo tra loro? «Ehi.» Al suono della voce di Matt, Josie tirò il fiato frettolosamente. «Tu lo sai, non sono sua amica.» «Be', veramente lui ha ragione a proposito di te.» Josie lo guardò con gli occhi sbarrati. Era stata una diretta testimone della crudeltà di Matt: di come lui avesse sparato elastici contro degli studenti non di madrelingua inglese che non conoscevano le parole per rivolgersi agli insegnanti; di come avesse soprannominato una ragazza sovrappeso il Terremoto che Cammina; di come avesse nascosto il libro di testo di matematica di un ragazzo timido solo per vedergli saltare i nervi, credendo di averlo perduto. In quei casi era divertente, perché non si trattava di Josie. Ma essere l'oggetto della sua umiliazione era come ricevere uno schiaffo. Aveva creduto, erroneamente, che andare in giro con la compagnia giusta le garantisse l'immunità, mentre invece era una beffa. Potevano tagliarti fuori comunque, soltanto perché questo li faceva apparire più in gamba, più cool, diversi da te. Vedere quel sogghigno sulla faccia di Matt, come se pensasse che lei era ridicola sotto tutti i punti di vista, le faceva ancora peggio, perché l'aveva considerato un amico. Be', a essere sincera, a volte lei avrebbe desiderato qualcosa di più: quando lui aveva quel ciuffo di capelli che gli ricadeva sugli occhi e il suo sorriso si accendeva lentamente come una miccia, lei riusciva a parlare solo a monosillabi. Eppure Matt faceva quell'effetto a tutte... persino a Courtney, che in sesta era uscita con lui per due settimane. «Non ho mai pensato che l'omo dicesse cose che valeva la pena di ascoltare, ma i ponti fanno passare da un posto all'altro» disse Matt. «Ed è quello che tu fai con me.» Prese la mano di Josie e se la strinse al petto. Il suo cuore batteva così forte che lei riusciva a sentirlo, come se la possibilità fosse qualcosa che si poteva tenere nel palmo della mano. Sollevò lo sguardo su di lui, tenendo gli occhi spalancati mentre lui si chinava a baciarla, per non perdersi un solo, sensazionale momento. Josie assaporava il suo calore come una caramella alla cannella, di quelle che bruciano la
gola. Finalmente, quando Josie ricordò che doveva respirare, si staccò da Matt. Non era mai stata così consapevole di ogni centimetro della propria pelle; persino le parti nascoste sotto strati di T-shirt e maglione erano diventate vive. «Gesù» disse Matt indietreggiando lentamente. Lei fu colta dal panico. Forse si era ricordato che stava baciando una ragazza che cinque minuti prima era un paria, dal punto di vista sociale. O forse lei aveva fatto qualcosa di sbagliato durante il bacio. Non c'era un manuale da poter leggere per sapere come regolarsi. «Credo di non essere molto brava in questo» disse Josie esitante. Matt aggrottò le sopracciglia. «Se fossi più brava... mi uccideresti.» Josie sentì un sorriso aprirsi dentro di lei come la fiamma di una candela. «Sul serio?» Lui annuì. «Era il mio primo bacio» ammise lei. Quando Matt le sfiorò il labbro inferiore con il pollice, Josie lo sentì dappertutto: dalla punta delle dita alla gola al calore in mezzo alle gambe. «Be'» disse lui. «Non sarà l'ultimo.» Alex stava preparandosi nel suo bagno quando Josie entrò con aria noncurante, cercando un rasoio nuovo. «Cos'è quello?» aveva domandato Josie, scrutando il volto di Alex nello specchio come se appartenesse a un'estranea. «Il mascara?» «Be', so cos'è» continuò Josie. «Voglio dire, cosa ci fa su di te?» «Magari avevo voglia di truccarmi un po'.» Josie si lasciò cadere sul bordo della vasca, sghignazzando. «E magari io sono la regina d'Inghilterra. Cos'è... una nuova foto per una rivista di legge?» Poi di colpo spalancò gli occhi. «Non è che stai andando a qualcosa come... un appuntamento?» «Non 'qualcosa come' un appuntamento» replicò Alex, sfumando il fard sulle guance. «È un appuntamento vero.» «Oh, santo cielo. Dimmi di lui.» «Non so niente. Me l'ha organizzato Liz.» «Liz la custode?» «Fa la giardiniera» rettificò Alex. «Quello che è. Deve pur averti detto qualcosa di questo tizio.» Josie esi-
tò. «È un uomo, vero?» «Josie!» «Be', risale davvero a molto tempo fa. Il tuo ultimo appuntamento che riesco a ricordare fu con quel tale che non mangiava nessuna verdura.» «Non era quello il problema» disse Alex. «Era che non voleva che io mangiassi nessuna verdura.» Josie si alzò e prese un rossetto. «Questo colore è adatto a te» commentò, e passò il rossetto sulle labbra di Alex. Alex e Josie erano alte uguali; guardando negli occhi di sua figlia Alex vedeva un sottile riflesso di se stessa. Si domandò perché non l'avesse mai fatto con Josie: sedersi con lei in bagno e giocare con gli ombretti, mettersi lo smalto sulle unghie dei piedi, arricciarsi i capelli. Erano ricordi che tutte le altre madri di una femmina sembravano avere; soltanto ora Alex capiva che sarebbe stato compito suo creare quelle occasioni. «Ecco» disse Josie, girando Alex perché si vedesse nello specchio. «Cosa ne pensi?» Alex guardava, ma non se stessa. Al di sopra della spalla guardava Josie, e per la prima volta vedeva un pezzo di sé in sua figlia. Non tanto la forma del viso quanto invece la sua luminosità; non il colore degli occhi ma il sogno che li annebbiava come fumo. Nessun trucco, per quanto costoso, avrebbe potuto farla apparire com'era Josie in quel momento. Era semplicemente quello che capita a una persona quando è innamorata. Si può essere gelose della propria figlia? «Be'» continuò Josie, dando un colpetto sulla spalla ad Alex. «Io ti chiederei un secondo appuntamento.» Il campanello della porta suonò. «Non sono ancora vestita» disse Alex, in preda al panico. «Vado ad aprirgli io.» Josie si precipitò giù dalle scale; mentre Alex si contorceva per infilarsi in un abito nero e metteva le scarpe coi tacchi, le giungevano i suoni della conversazione, dal piano di sotto. Joe Urquhardt era un bancario canadese che era stato compagno di stanza del cugino di Liz a Toronto. Liz le aveva assicurato che era un bell'uomo. Ma Alex le domandò perché, se era così bello, fosse ancora single. Come risponderesti tu a questa domanda? aveva replicato Liz, e Alex aveva riflettuto un momento. Non sono poi così bella, aveva risposto. Rimase piacevolmente sorpresa nel constatare che Joe non aveva una faccia da stupido, che i suoi capelli castani ondulati non sembravano attac-
cati alla testa col nastro biadesivo, e che aveva i denti. Quando vide Alex fece un fischio. «Tutti in piedi» disse. «E con tutti intendo dire Mister Fortunato.» Il sorriso si irrigidì sul volto di Alex. «Mi scusi un momento solo» disse, e trascinò Josie in cucina. «Sparami adesso.» «D'accordo, è veramente terribile. Ma almeno mangia verdure. Gliel'ho chiesto.» «E se tu andassi a dirgli che mi sono ammalata di colpo?» propose Alex. «Potremmo farci portare la cena a casa, tu e io. Noleggiare una videocassetta o cose del genere.» Il sorriso di Josie sbiadì. «Ma, mamma, io ho già altri impegni.» Sbirciò dal vano della porta Joe in attesa. «Potrei dire a Matt che...» «No, no» disse Alex, con un sorriso forzato. «Una di noi deve avere una bella serata.» Uscì dalla cucina e trovò Joe che teneva in mano un candeliere e ne esaminava la base. «Mi dispiace molto, ma è accaduta una cosa.» «Dimmi tutto, baby» esclamò Joe, guardandola con aria maliziosa. «No, il fatto è che non posso uscire stasera. C'è un caso» mentì. «Devo tornare in tribunale.» Forse le sue origini canadesi avrebbero impedito a Joe di capire fino a che punto fosse improbabile che la corte si riunisse il sabato sera. «Oh» disse. «Be', lungi da me intralciare il cammino della giustizia. Un'altra volta?» Alex assentì, accompagnandolo alla porta. Si tolse le scarpe coi tacchi e salì le scale a passi felpati per indossare i suoi vestiti peggiori. Voleva mangiare cioccolata per cena; voleva guardare film da piangere fino a ubriacarsene. Mentre passava davanti al bagno, udì scorrere l'acqua della doccia: Josie si preparava per il suo appuntamento. Per un momento Alex rimase con la mano sulla porta, domandandosi se a Josie avrebbe fatto piacere che lei entrasse e la aiutasse a truccarsi, si offrisse di sistemarle i capelli... come Josie aveva fatto poco prima con lei. Ma per Josie era naturale: aveva passato la vita a rubare momenti del tempo di Alex, quando Alex era indaffarata a prepararsi per qualcos'altro. In un certo senso, Alex aveva dato per scontato che quel tempo fosse illimitato, che Josie sarebbe sempre rimasta lì ad aspettarla. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata lei, un giorno, a essere lasciata a casa. Alex finì per allontanarsi dalla porta del bagno senza aver bussato: aveva talmente paura di sentirsi dire da Josie che non aveva bisogno dell'aiuto di
sua madre da non provare nemmeno a offrirglielo. L'unica cosa che aveva salvato Josie da una catastrofe sociale assoluta come conseguenza dell'esercitazione di matematica di Peter era stata la sua simultanea consacrazione come ragazza di Matt Royston. A differenza degli altri studenti del secondo anno che formavano coppie occasionali - conoscenze casuali alle feste, amicizie che a volte sfociavano in incontri sessuali - lei e Matt erano una cosa sola. Matt la accompagnava alle sue lezioni e spesso la salutava sulla porta con un bacio sotto gli occhi di tutti. Chiunque fosse stato così stupido da nominare Peter Houghton unitamente a Josie avrebbe dovuto vedersela con lui. Questo era evidente per tutti tranne che per lo stesso Peter. Al lavoro, sembrava non percepire i segnali che Josie gli lanciava, come voltargli le spalle quando lui entrava nella stanza, ignorarlo quando le rivolgeva una domanda. Alla fine lui la mise alle strette un pomeriggio nel magazzino. Perché ti comporti così? le domandò. Perché, quando ero gentile con te, tu hai creduto che fossimo amici. Ma noi siamo amici, replicò lui. Josie l'aveva guardato in faccia. Non sei tu a deciderlo, gli disse. Un pomeriggio al lavoro, quando Josie uscì per gettare la spazzatura nel cassonetto dell'immondizia, Peter era già lì. Era la sua pausa di quindici minuti: di solito attraversava la strada per andare a comprarsi un succo di mela, ma quel giorno era chino sopra il bordo metallico del cassonetto. «Spostati» disse lei, sollevando i sacchi della spazzatura e gettandoli dentro. Non appena toccarono il fondo, si alzò un getto di scintille. Quasi immediatamente, il fuoco lambì i cartoni impilati nel cassonetto, rimbombando contro il metallo. «Peter, vieni via da lì» urlò Josie. Peter non si mosse. Le fiamme danzavano davanti al suo volto, il calore gli stravolgeva i lineamenti. «Peter, sbrigati!» Lo raggiunse, afferrandolo per un braccio, spingendolo giù a terra sul selciato mentre qualcosa - toner? olio? - esplodeva dentro il cassonetto. «Dobbiamo chiamare il 911» gridò Josie, e subito scattò in piedi. I pompieri arrivarono in pochi minuti, e spruzzarono qualche sostanza chimica nociva nel cassonetto. Josie fece chiamare Cargrew, che era sul campo da golf. «Grazie a Dio non vi siete fatti niente» disse a entrambi. «Josie mi ha salvato» ribatté Peter. Mentre Cargrew parlava con i pompieri, lei rientrò nella copisteria, e Pe-
ter la seguì. «Sapevo che mi avresti salvato» disse Peter. «Per questo l'ho fatto.» «Fatto cosa?» Ma Peter non ebbe bisogno di rispondere, perché Josie aveva già capito: ecco cosa faceva Peter vicino al cassonetto quando invece avrebbe dovuto essere in pausa. Evidentemente era stato lui a gettare il fiammifero, nel momento in cui l'aveva udita uscire dalla porta sul retro con i sacchi della spazzatura. Josie continuava a dirsi, mentre tirava da parte il signor Cargrew, che stava facendo soltanto quello che qualsiasi impiegato responsabile avrebbe fatto: dire al capo chi aveva tentato di distruggere la sua proprietà. Non ammetteva di essere spaventata da quello che Peter aveva detto, dal fatto che fosse vero. E fingeva di non sentire quel sottile malessere al petto una versione su scala ridotta del fuoco che Peter aveva appiccato - che identificò, per la prima volta in assoluto nella sua vita, come desiderio di vendetta. Quando Cargrew licenziò Peter, Josie non ascoltò la conversazione. Sentiva il suo sguardo su di sé - acceso, accusatore - mentre se ne andava, ma lei concentrò invece l'attenzione su un lavoro mandato da una banca locale. Mentre guardava fisso i fogli che uscivano dalla macchina, considerava come fosse strano misurare il successo dalla somiglianza che ciascun prodotto aveva con quello iniziale. Dopo la scuola, Josie aspettava Matt presso l'asta della bandiera. Lui sgusciava alle sue spalle e lei fingeva di non vederlo arrivare, finché lui non la baciava. La gente guardava, e a Josie piaceva. In un certo senso pensava alla sua condizione come a un'identità segreta: ora, se anche prendeva tutti A o diceva che le piaceva sul serio leggere nel tempo libero, di lei non avrebbero pensato che era un mostro di stranezza, semplicemente perché, quando la gente la vedeva, notava prima di tutto la sua popolarità. Immaginava che fosse un po' come quello che sperimentava sua madre ovunque andasse: quando sei il giudice, nient'altro di te conta veramente. A volte aveva incubi in cui Matt capiva che lei era un'imbrogliona: che non era bellissima; che non era cool; che non era affatto degna di ammirazione. Cosa ci eravamo messi in mente? immaginava che dicessero i suoi amici, e forse per quella ragione era arduo per lei considerarli amici persino quando era sveglia. Lei e Matt avevano fatto dei progetti per quel weekend: progetti importanti che lei riusciva a stento a tenere per sé. Mentre stava seduta sui gradi-
ni di pietra davanti all'asta della bandiera ad aspettarlo, sentì che qualcuno le dava un colpetto sulla spalla. «Sei in ritardo» lo accusò, ridacchiando, ma quando si voltò vide Peter. Sembrava scioccato proprio come si sentiva lei, benché fosse stato lui a cercarla. Nei mesi trascorsi da quando Josie aveva fatto licenziare Peter dalla copisteria, lei aveva fatto in modo di evitare qualsiasi contatto con lui: non era un'impresa facile, dato che erano insieme nella classe di matematica tutti i giorni e si incrociavano più volte nei corridoi. Josie si accertava sempre di avere il naso in un libro o di concentrare fermamente la propria attenzione su un'altra conversazione. «Josie» disse lui, «possiamo parlare un minuto?» Gli studenti sciamavano fuori da scuola; lei sentiva le loro occhiate su di sé come colpi di frusta. La guardavano fisso perché era lei o perché era con lui? «No» rispose laconicamente. «È solo... Ho veramente bisogno che il signor Cargrew mi faccia di nuovo lavorare. So di aver sbagliato. Pensavo che forse... forse se tu gli dicessi...» S'interruppe. «Tu gli piaci» disse Peter. Josie voleva dirgli di andarsene; che lei non voleva più lavorare con lui, e ancor meno farsi vedere a chiacchierare con lui. Ma era accaduto qualcosa nei mesi passati, da quando Peter aveva appiccato il fuoco al cassonetto. Il risarcimento che, secondo lei, lui le doveva, dopo la sua elegia in onore di Josie durante matematica, le bruciava nel petto ogni volta che ci pensava. E Josie aveva cominciato a domandarsi se Peter si era fatto un'idea sbagliata non perché fosse pazzo, ma perché lei glielo aveva fatto credere. Dopotutto, quando nella copisteria non c'era nessuno, parlavano tra loro, ridevano. Lui era un ragazzo a posto... anche se non veniva voglia di stare con lui, necessariamente, in pubblico. Ma sentirsi in quel modo era diverso da agire di conseguenza, no? Lei non era come Drew e Matt e John, che spingevano Peter contro il muro quando camminavano vicino a lui in corridoio, o che gli rubavano il sacchetto marrone del pranzo per giocarci come al bowling finché si strappava e il suo contenuto si rovesciava sul pavimento... o era forse così anche lei? Non intendeva parlare al signor Cargrew. Non intendeva lasciar credere a Peter che lei volesse essergli amica, o anche solo che le andasse bene conoscerlo. Ma non intendeva nemmeno essere come Matt, che faceva dei commenti su Peter che a volte le facevano male dentro.
Peter era seduto di fronte a lei, in attesa di una risposta, e poi tutt'a un tratto non c'era più. Stava ruzzolando giù dagli scalini di pietra mentre Matt troneggiava su di lui. «Gira al largo dalla mia ragazza, omo» disse Matt. «Trovati un ragazzo carino con cui giocare.» Peter era finito a faccia in giù sul selciato. Quando sollevò la testa, aveva un labbro sanguinante. Guardò prima Josie, e lei notò sorpresa che non sembrava né sconvolto né arrabbiato: solo sinceramente, profondamente stanco. «Matt» disse Peter, alzandosi sulle ginocchia. «Hai il cazzo grosso?» «Ti piacerebbe saperlo» replicò Matt. «Veramente no.» Peter si rimise in piedi vacillando. «Mi chiedevo soltanto se sia lungo abbastanza perché tu possa fotterti da solo.» Josie avvertì la tensione tra loro due un istante prima che Matt si scagliasse su Peter come un uragano, prendendolo a pugni in faccia e atterrandolo con la forza del proprio corpo. «Questo ti piace, lo so» sputò Matt mentre costringeva Peter a stare giù. Peter scosse il capo, le lacrime gli rigarono le guance, mescolandosi al sangue. «Dai... smettila...» «Scommetto che a te piacerebbe riuscirci» lo derise Matt. Ormai si era raccolta una folla. Josie si guardò attorno freneticamente, cercando un insegnante, ma le lezioni erano finite e non c'era nessuno in giro. «Basta» gridò, guardando Peter divincolarsi mentre Matt lo aggrediva di nuovo. «Matt, fermati.» Lui mollò ancora un pugno e si alzò in piedi, lasciando Peter accartocciato su un fianco come una foglia. «Hai ragione. Perché spreco il mio tempo» disse Matt, e fece per andarsene, aspettando che Josie gli si mettesse al fianco e lo seguisse. Stavano avviandosi verso la sua auto. Josie sapeva che avrebbero fatto un giro in città e avrebbero preso un caffè prima di tornare a casa sua. Una volta a casa, Josie si sarebbe concentrata sui compiti finché fosse diventato impossibile ignorare Matt che le accarezzava le spalle o la baciava sul collo, e poi avrebbero fatto l'amore finché non si fosse udita la macchina di sua madre entrare in garage. C'era ancora una furia scatenata in Matt; teneva i pugni stretti lungo i fianchi. Josie gliene prese uno, gli aprì la mano, intrecciò le proprie dita alle sue. «Posso dirti una cosa senza che ti arrabbi?» domandò. Era una domanda retorica, e Josie lo sapeva. Matt era già arrabbiato. Era l'altra faccia della passione che la faceva sentire come se dentro avesse una
scossa - indirizzata però, in maniera negativa, contro un debole. Lui non rispose, ma Josie procedette spedita. «Non capisco perché te la prendi con Peter Houghton.» «È stato l'omo a cominciare» ribatté Matt. «Hai sentito cos'ha detto.» «Be', certo» replicò Josie. «Ma tu l'avevi già sbattuto sui gradini.» Matt smise di camminare. «Da quando sei diventata il suo angelo custode?» E la guardava in un modo che la colpì nel vivo. Josie rabbrividì. «Non lo sono» si affrettò a dire, e poi fece un profondo respiro. «Solo che... non mi piace il modo in cui tratti i ragazzi che non sono come noi, è chiaro? Soltanto perché non vuoi andare in giro con dei perdenti non significa che devi torturarli, no?» «Sì, invece» disse Matt. «Perché, se non ci fossero loro, non potremmo esserci noi.» Strinse gli occhi a fessura. «Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» Josie si sentì frastornata. Non sapeva se Matt si riferiva al diagramma di matematica fatto da Peter o, peggio, alla sua amicizia con Peter nei primi anni di scuola... ma non voleva nemmeno scoprirlo. Era la sua paura peggiore, dopotutto: che quelli in si rendessero conto che lei era sempre stata out. Non avrebbe detto a Cargrew quello che le aveva chiesto Peter. Avrebbe persino fatto finta di non conoscerlo, se fosse tornato da lei. E non avrebbe neppure mentito a se stessa fingendo di essere meno orribile di Matt quando prendeva in giro Peter o lo picchiava. Si fa quel che si può per rafforzare la propria posizione nella gerarchia. E il modo migliore per stare in cima è passare sopra qualcun altro per arrivarci. «Allora» disse Matt, «vieni con me?» Lei si domandò se Peter stesse ancora piangendo. Se avesse il naso rotto. Se fosse quella la cosa peggiore. «Sì» disse Josie, e seguì Matt senza guardarsi indietro. Lincoln, nel Massachusetts, era un sobborgo di Boston che un tempo era terra agricola e poi era diventato un'accozzaglia di case imponenti dal valore immobiliare spudoratamente alto. Josie guardava fuori dal finestrino quel paesaggio nel quale avrebbe potuto capitarle di crescere, in circostanze diverse: i muri di pietra che strisciavano attorno alle ville, l'indicazione «monumento storico» consumata presso case che avevano quasi duecento anni, il piccolo banchetto di gelati che odorava di latte fresco. Si domandò
se Logan Rourke avrebbe proposto loro un giro fino al Dairy Joy per mangiare insieme un sundae. Forse sarebbe andato dritto al banco ordinando burro di arachidi senza nemmeno chiederle quale fosse il suo gusto preferito; forse un padre può cavarsela a istinto. Matt guidava pigramente, il polso inclinato sul volante. A solo sedici anni, aveva già la patente ed era sempre pronto a recarsi dappertutto: a prendere un litro di latte per sua madre, a ritirare gli abiti in lavanderia, ad accompagnare Josie a casa dopo la scuola. Per lui, non era importante la destinazione, bensì il viaggio: per quel motivo Josie gli aveva chiesto di accompagnarla a trovare suo padre. Inoltre, non aveva alternative. Non poteva certo chiederlo a sua madre, dato che sua madre non sapeva nemmeno che Josie era andata in cerca di Logan Rourke. Avrebbe potuto senz'altro arrangiarsi fino a Boston prendendo un autobus, ma raggiungere una casa nei sobborghi era più complicato. Così alla fine si era decisa a dire a Matt tutta la verità: che non aveva mai conosciuto suo padre, e che l'aveva trovato su un giornale, perché era in gara per una carica pubblica. Il viale di Logan Rourke non era grandioso come gli altri che avevano oltrepassato, ma era immacolato. Il prato era stato rasato ed era poco più alto di un centimetro; una spruzzata di fiori di campo sporgeva in fuori attorno alla base di ferro della cassetta per la posta. Appeso al ramo di un albero sopra le loro teste c'era il numero civico: 59. Josie sentì i capelli drizzarsi sulla nuca. L'anno prima, quando aveva giocato nella squadra di hockey su prato, quello era il numero della sua maglia. Era un segno. Matt si infilò nel viale. C'erano due auto: una Lexus e una Jeep, e anche un camion dei pompieri giocattolo. Josie non riusciva a staccare gli occhi da quel camion. Per qualche motivo, non aveva immaginato che Logan Rourke avrebbe anche potuto avere altri figli. «Vuoi che entri con te?» chiese Matt. Josie scosse il capo. «Sono tranquilla.» Mentre si avviava verso l'ingresso principale, incominciò a domandarsi che cosa diavolo le fosse venuto in mente. Com'era possibile capitare a casa di qualcuno che era un personaggio pubblico? Sicuramente ci sarebbe stato un agente del Servizio Segreto o qualcosa del genere, magari un cane da guardia. Come se lei l'avesse evocato, si sentì abbaiare. Josie si voltò in direzione
del suono e scoprì un minuscolo Yorkshire con un nastrino rosa al collo che si precipitava verso i suoi piedi. La porta principale si aprì. «Titania, lascia che il postino...» Logan Rourke s'interruppe quando notò Josie in piedi davanti a lui. «Tu non sei il postino.» Era più alto di come se l'era immaginato, ed era identico a come appariva sul Globe: capelli bianchi, naso aquilino, figura slanciata. Ma gli occhi erano dello stesso colore dei suoi, così elettrici che Josie non riusciva a distogliere lo sguardo. Si domandò se fossero stati quegli occhi a far crollare anche sua madre. «Sei la figlia di Alex» disse lui. «Be'» replicò Josie. «E tua.» Attraverso la porta aperta Josie udì lo strillo di un bambino ancora stordito e divertito dal gioco di rincorrersi. Una voce di donna: «Logan, chi è?» Lui si chiuse la porta alle spalle, perché Josie non potesse vedere altro della sua vita. Sembrava incredibilmente a disagio, sebbene, in tutta franchezza, Josie capisse che doveva essere un po' sconcertante trovarsi davanti la propria figlia, abbandonata prima che nascesse. «Che cosa fai qui?» Non era ovvio? «Volevo conoscerti. Pensavo che forse anche tu desideravi conoscermi.» Lui fece un profondo respiro. «Questo non è certo un buon momento.» Josie lanciò un'occhiata dietro di sé, al viale, dove Matt era ancora fermo con l'auto. «Posso aspettare.» «Vedi... è solo che... Sono in corsa per una carica politica. E in questo momento non posso permettermi una simile complicazione...» Josie si fissò su quella parola. Lei era una complicazione? Guardò Logan Rourke tirar fuori il portafoglio e prendere tre banconote da cento dollari. «Ecco» disse, mettendogliele in mano. «Basteranno?» Josie tentò di respirare, ma qualcuno le aveva piantato un palo nel petto. Capì che quel denaro doveva servire a pagare il suo silenzio. Che suo padre pensava che lei fosse venuta a ricattarlo. «Dopo l'elezione» le disse, «magari usciamo a pranzo.» Le banconote erano intatte nel palmo della sua mano, come quelle appena messe in circolazione. Josie ebbe un improvviso ricordo di quando era piccola e accompagnava sua madre in banca: sua madre le lasciava contare i biglietti da venti per essere sicura che il cassiere le avesse dato l'importo richiesto; e il denaro nuovo aveva sempre odore di inchiostro e di buona
sorte. Logan Rourke non era suo padre, come non lo era il ragazzo che aveva preso le loro monete al casello, come non lo era qualsiasi estraneo. Si può condividere il DNA con qualcuno e non avere niente in comune con lui. Josie si rese conto, fugacemente, di aver già imparato quella lezione da sua madre. «Bene» disse Logan Rourke, e fece per avviarsi di nuovo verso la porta. Esitò con la mano sulla maniglia. «Non... Non so come ti chiami.» Josie deglutì. «Margaret» disse, in modo da essere per lui una bugia così come lui lo era per lei. «Margaret, allora» replicò lui, e rientrò. Mentre tornava alla macchina, Josie aprì le dita come un fiore. Guardò le banconote cadere a terra vicino a una pianta che sembrava, come tutto in quel luogo, particolarmente rigogliosa. A dire il vero l'idea di quel gioco, dall'inizio alla fine, era venuta a Peter durante il sonno. In precedenza aveva già creato giochi per computer - imitazioni del Pong, gare automobilistiche e persino uno scenario di fantascienza che ti permetteva di giocare online con qualcuno in un altro paese che si fosse collegato a quel sito - ma quella era l'idea più grandiosa che avesse concepito fino a quel momento. Gli venne perché, dopo una delle partite a football di Joey, si erano fermati in una pizzeria dove Peter aveva mangiato troppa pizza con polpette e salsiccia, ed era rimasto a guardare un videogioco che si chiamava CACCIA AL CERVO. Bisognava inserire il proprio quarto di dollaro e sparare con il finto fucile ai cervi maschi che sbucavano dagli alberi con la testa; se si colpiva una femmina, si perdeva. Quella notte Peter sognò di andare a caccia con suo padre, ma, invece di braccare il cervo, andavano in cerca di gente reale. Si era svegliato madido di sudore, con la mano contratta come se impugnasse un'arma. Non era stato particolarmente difficile creare degli avatar, ossia persone computerizzate. Aveva fatto qualche esperimento e, anche se la tonalità della pelle non era quella giusta e la grafica non era perfetta, sapeva come differenziare le razze e il colore dei capelli e costruirle attraverso il linguaggio di programmazione. Sarebbe stata una figata inventare un gioco in cui la preda fosse umana. Ma i giochi di guerra erano ormai triti e ritriti, e anche quelli di bande
rivali erano superati, grazie a Grand Theft Auto. Peter capì che gli serviva un nuovo cattivo, uno che anche altri avessero voglia di ammazzare. Quello era il bello di un videogioco: guardare qualcuno che si prendeva una punizione meritata. Provò a pensare ad altri microcosmi dell'universo che potessero diventare campi di battaglia: invasioni di alieni, sparatorie nel selvaggio West, missioni di spionaggio. Poi Peter pensò alla linea del fronte che doveva superare tutti i giorni. E se prendi le prede... e le fai diventare i cacciatori? Peter balzò fuori dal letto e si sedette alla sua scrivania, tirando fuori l'annuario dell'ottava classe dal cassetto dove l'aveva relegato mesi prima. Avrebbe creato un gioco informatico che fosse come La rivincita dei Nerds, ma aggiornato al ventunesimo secolo. Un mondo immaginario dove l'equilibrio di potere veniva capovolto, dove il perdente aveva finalmente la possibilità di sconfiggere i prepotenti. Prese un pennarello e incominciò a sfogliare l'annuario, cerchiando le foto. Drew Girard. Matt Royston. John Eberhard. Peter voltò pagina e si fermò un momento. Poi cerchiò anche il volto di Josie Cormier. «Puoi fermarti qui?» disse Josie, quando si rese conto che proprio non poteva passare un minuto di più in auto facendo finta che il suo incontro con suo padre fosse andato bene. Matt aveva appena accostato quando lei aprì la portiera, e corse via sull'erba alta nei boschi che fiancheggiavano la strada. Si lasciò cadere sul tappeto di aghi di pino e cominciò a piangere. Che cosa si fosse aspettata in realtà non avrebbe saputo dirlo... certo qualcosa di diverso. Magari di essere accettata incondizionatamente. O quanto meno un po' di curiosità. «Josie?» disse Matt, sopraggiungendo alle sue spalle. «Stai bene?» Provò a dire di sì, ma era stanca di mentire. Sentì la mano di Matt che le accarezzava i capelli, e che la fece soltanto piangere più forte; la tenerezza era tagliente come un coltello. «Non gliene frega niente di me.» «E allora a te non dovrebbe fregare niente di lui» replicò Matt. Josie gli lanciò un'occhiata. «Non è così semplice.»
Lui la prese tra le braccia. «Ehi, Jo.» Matt era l'unico che le avesse dato un soprannome. Non ricordava che sua madre l'avesse mai chiamata con uno di quei nomi sciocchi, come Pumpkin o Ladybug, come facevano gli altri genitori. Quando Matt la chiamava Jo, le veniva in mente Piccole donne e, sebbene fosse pressoché certa che Matt non avesse mai letto il romanzo della Alcott, segretamente le faceva piacere essere associata a un personaggio così forte e sicuro di se stesso. «È stupido. Non so neanche perché sto piangendo. Solo che... Avrei voluto piacergli.» «Io sono pazzo di te» disse Matt. «Questo non conta?» Si chinò in avanti e la baciò proprio sulla riga lasciata dalle lacrime. «Conta moltissimo.» Sentì le labbra di Matt spostarsi dalla sua guancia al suo collo, a quel punto dietro le orecchie che la faceva sempre sentire come se stesse sciogliendosi. Non era abituata a lasciarsi andare, ma Matt riusciva sempre a persuaderla, ogni volta che erano da soli. È colpa tua, le diceva, e le rivolgeva quel suo sorriso. Se tu non fossi così eccitante, riuscirei a staccare le mie mani da te. Già quello era un afrodisiaco per Josie. Lei? Eccitante? E, come Matt le prometteva sempre, era davvero bello lasciare che lui la toccasse dappertutto, lasciare che la assaporasse. Via via che l'intimità con Matt aumentava, si sentiva come se precipitasse da una scogliera: le mancava il respiro, aveva un rimescolio nello stomaco. Ancora un passo, e avrebbe potuto volare. A Josie non veniva in mente, quando il cuore le batteva forte, che poteva rischiare di cadere. Ora sentiva le mani di lui muoversi sotto la sua T-shirt, scivolando dietro l'allacciatura del reggiseno. Le loro gambe erano intrecciate; lui si muoveva contro di lei. Quando Matt le sollevò la camicetta e l'aria fredda le sfiorò la pelle, lei tornò di colpo alla realtà. «Non possiamo» sussurrò. I denti di Matt le carezzarono una spalla. «Abbiamo la macchina parcheggiata lungo la strada.» Lui sollevò lo sguardo su di lei, ebbro, febbrile. «Ma io ti voglio» disse Matt, come aveva già fatto più volte. Questa volta, tuttavia, lei lo guardò. Ti voglio. Josie avrebbe potuto fermarlo, ma capì che non ne aveva l'intenzione. Lui la voleva, subito, ed era quello che più aveva bisogno di sentire. Per un momento Matt rimase fermo, domandandosi se il fatto che lei
non avesse respinto le sue mani significasse quello che lui pensava. Lei udì il fruscio di un pacchetto di preservativi - Da quanto tempo se lo portava appresso? Poi lui si slacciò i jeans e le sollevò la gonna, come se si aspettasse ancora che lei cambiasse idea. Josie sentì che Matt tirava giù l'elastico delle sue mutandine, e le sue dita bruciavano mentre si insinuavano dentro di lei. Non era come le altre volte, quando il suo tocco aveva lasciato una traccia simile a una cometa sopra la sua pelle; quando si sorprendeva a desiderarlo dopo avergli detto di fermarsi. Matt spostò il peso del proprio corpo e si distese nuovamente su di lei, ma questa volta con più calore, stringendola di più. «Ou» gemette lei, e Matt esitò. «Non voglio farti male» disse. Lei girò la testa. «Fallo» disse Josie, e Matt spinse con impeto i propri fianchi contro quelli di lei. Provò un dolore che, sebbene lei se lo aspettasse, la fece gridare. Matt scambiò il suo grido per passione. «Lo so, amore» gemette. Lei sentiva il battito del cuore di lui, ma dall'interno, e poi lui cominciò a muoversi più veloce, sbattendo contro di lei come un pesce rimasto appeso a un amo su una darsena. Josie avrebbe voluto chiedere a Matt se anche a lui aveva fatto male la prima volta. Si domandava se facesse sempre male. Forse il dolore era il prezzo che tutti pagavano per l'amore. Voltò il viso nella spalla di Matt e cercò di capire perché, sebbene lui fosse ancora dentro di lei, si sentisse vuota. «Peter» disse la signora Sandringham al termine della lezione di inglese. «Posso parlarti un momento?» Sentendosi chiamare dall'insegnante, Peter si lasciò cadere sulla sua sedia. Cominciò a pensare alle scuse che avrebbe potuto trovare per i suoi genitori quando fosse tornato a casa con un'altra insufficienza. In realtà la Sandringham gli piaceva. Aveva meno di trent'anni, e in effetti, quando blaterava riguardo alla grammatica o a Shakespeare, veniva spontaneo immaginare che, non molto tempo prima, doveva esser stata seduta un po' scomposta in un banco, come tutti gli altri ragazzi, a domandarsi perché l'orologio sembrava non procedere mai. Peter attese che il resto della classe fosse uscito prima di avvicinarsi al tavolo dell'insegnante. «Volevo parlarti del tuo tema» disse la signora Sandringham. «Non ho ancora dato voti a nessuno, ma ho dato un'occhiata al tuo compito e...» «Posso rifarlo» si affrettò a dire Peter.
La Sandringham aggrottò la fronte. «Ma Peter... Io volevo dirti che questa volta ti meriti A.» Glielo porse. Peter rimase a fissare il voto rosso vivo sul margine del foglio. Dovevano scrivere riguardo a un evento importante che aveva cambiato la loro vita. Benché fosse accaduto soltanto una settimana prima, Peter aveva scritto di quando era stato licenziato per aver appiccato il fuoco al cassonetto, al lavoro. In tutto il tema, non aveva mai citato Josie Cormier. La Sandringham aveva cerchiato una frase nella conclusione: Ho imparato che prima o poi si viene presi, quindi bisogna pensare bene prima di agire. L'insegnante mise una mano sul polso di Peter. «Hai davvero imparato qualcosa da quell'incidente» disse, e gli sorrise. «Io sono pronta a fidarmi di te.» Peter assentì e prese il foglio. Gli sembrava di nuotare in mezzo agli altri studenti nel corridoio, mentre lo teneva in mano. Immaginò cosa avrebbe detto sua madre se fosse tornato a casa con un compito che recava sopra una A bella grassa: se, per una volta nella sua vita, avesse fatto qualcosa che tutti si aspettavano da Joey, non da Peter. Ma prima di tutto sarebbe stato costretto a dire a sua madre dell'incidente del cassonetto. Oppure avrebbe dovuto ammettere che era stato licenziato in tronco, e che adesso passava le ore dopo la scuola in biblioteca invece che alla copisteria. Peter accartocciò il tema e lo gettò nel primo cestino dei rifiuti che trovò. Non appena Josie cominciò a passare il suo tempo libero quasi esclusivamente con Matt, Maddie Shaw si insinuò senza esitare nel ruolo di amica del cuore di Courtney, In un certo senso, quel ruolo era più adatto a lei che a Josie: camminando dietro a Courtney e Maddie, era difficile distinguerle. Maddie aveva studiato così attentamente lo stile e il modo di muoversi di Courtney, che era passata dall'imitazione a una sorta di arte. Quella sera erano tutti a casa di Maddie perché i suoi genitori erano andati a trovare suo fratello maggiore, studente del secondo anno a Syracuse. Non bevevano: era la stagione di hockey, e i giocatori dovevano firmare un patto con l'allenatore - ma Drew Girard aveva preso a noleggio la versione integrale di una sex comedy di moda tra i teenager, e i ragazzi discutevano su chi fosse la più eccitante, Elisha Cuthbert o Shannon Elizabeth. «Io non butterei fuori dal letto né l'una né l'altra» disse Drew.
«Tanto per cominciare, cosa ti fa credere che ci entrerebbero?» rise John Eberhard. «La mia fama si sparge ovunque...» Courtney lo guardò maliziosa. «È l'unica parte di te che si sparge ovunque.» «Ehi, Court, forse vuoi accertartene.» «O forse no...» Josie era seduta sul pavimento con Maddie, e tentava di giocare con la tavola Ouija. L'avevano trovata nell'armadio del seminterrato, insieme a Scale e Serpenti e a Trivial Pursuit. Le punte delle dita di Josie sfioravano appena la tavoletta. «Stai spingendo?» «Giuro su Dio, no» disse Maddie. «E tu?» Josie scosse il capo. Si domandava che genere di fantasma potesse presentarsi a una festa di teenager. Qualcuno che era morto tragicamente, di sicuro, e troppo giovane, forse in un incidente d'auto. «Come ti chiami?» disse Josie a voce alta. La tavoletta ruotò sulla lettera A, poi sulla B, e si fermò. «Abe» annunciò Maddie. «Dev'essere Abe.» «Oppure Abby.» «Sei maschio o femmina?» domandò Maddie. La tavoletta scivolò fuori dal bordo completamente. Drew si mise a ridere. «Forse è gay.» «Come qualcuno di nostra conoscenza» disse John. Matt sbadigliò e si stirò, e la sua camicia si sollevò. Benché Josie gli desse le spalle, riusciva praticamente a sentirlo, tanto i loro corpi erano in sintonia. «Anche se tutto questo è terribilmente divertente, noi usciamo. Jo, vieni.» Josie guardò la tavoletta scrivere una parola: N-O. «Io non vengo» disse. «Mi sto divertendo.» «Miao» fece Drew. «Chi è schiavo della sua micia?» Da quando si erano messi insieme, Matt passava più tempo con Josie che con i suoi amici. E sebbene Matt le avesse detto che preferiva di gran lunga fare lo stupido con lei che non passare il tempo con degli stupidi Josie capiva che era pur sempre importante che lui godesse ancora del rispetto di Drew e di John. Ma questo non significava che dovesse trattarla come una schiava. «Ho detto che ce ne andiamo» ripeté Matt. Josie gli lanciò un'occhiata. «E io ho detto che verrò quando ne avrò vo-
glia.» Matt sorrise ai suoi amici, compiaciuto. «Non sei mai venuta in vita tua prima di incontrare me» disse. Drew e John scoppiarono a ridere, e Josie si accorse di arrossire per l'imbarazzo. Si alzò in piedi, distogliendo gli occhi, e salì di corsa le scale del seminterrato. All'ingresso della casa di Maddie prese la sua giacca. Quando udì dei passi alle sue spalle, Josie non si voltò nemmeno. «Mi stavo divertendo. E ora...» Se ne uscì in un gridolino quando Matt l'afferrò per un braccio e la fece girare su se stessa, tenendola per le spalle contro la parete. «Mi fai male...» «Non farmi mai più una cosa del genere.» «Sei tu che...» «Mi hai fatto fare la figura dell'idiota» disse Matt. «Ti avevo detto che era il momento di andare.» C'erano dei lividi sulla sua pelle dove lui l'aveva stretta così forte, come se lei fosse una tela e lui fosse deciso a lasciarvi sopra la sua impronta. Lei si accasciò sotto le sue mani: istinto, una resa. «Mi... Mi dispiace» bisbigliò. Fu come se avesse pronunciato la parola magica... la stretta di Matt si allentò. «Jo» sospirò, e rimase con la fronte contro la sua. «Non mi piace condividerti con gli altri. Non puoi farmene una colpa.» Josie scosse il capo, ma non si fidava ancora a parlare. «È solo che ti amo così tanto.» Lei spalancò gli occhi. «Davvero?» Lui non aveva ancora pronunciato quelle parole, e nemmeno lei le aveva dette, sebbene fosse quello che sentiva, perché se lui non le avesse dette a sua volta Josie era sicura che si sarebbe semplicemente volatilizzata sul posto per la terribile umiliazione. E invece era Matt che diceva di amarla, per primo. «Non è evidente?» disse lui, e le prese la mano, se la portò alle labbra e le baciò le nocche delle dita così dolcemente che Josie quasi dimenticò tutto quello che era accaduto prima di arrivare a quel momento. «Kentucky Fried People» disse Peter, rimuginando sull'idea di Derek. Erano seduti ai bordi del campo da gioco, durante l'ora di ginnastica, mentre venivano scelte le squadre di basket. «Non so... non sembra un po'...» «Didascalico?» disse Derek. «Da quando ti preoccupi di essere politica-
mente corretto? Vedi, prova a immaginare di andare nel laboratorio di arte, se hai punti a sufficienza, e di usare il forno come un'arma.» Derek si era messo a esaminare il nuovo gioco al computer di Peter, indicando difetti e possibili miglioramenti del progetto. Sapevano che avrebbero avuto tutto il tempo di chiacchierare, perché erano destinati a essere gli ultimi ragazzi da scegliere per le squadre. Il coach Spears aveva optato per Drew Girard e Matt Royston come capitani - non era poi una gran sorpresa - perché erano atleti della prima squadra della scuola, benché fossero soltanto al secondo anno. «Muoversi, gente» li incitò l'allenatore. «I vostri capitani devono capire che avete una gran voglia di giocare. Devono pensare che sarete il futuro Michael Jordan.» Drew indicò un ragazzo sul fondo. «Noah.» Matt fece un cenno di assenso al ragazzo seduto vicino a lui. «Charlie.» Peter si rivolse a Derek. «Ho sentito che, anche se si è ritirato, Michael Jordan prende ancora quaranta milioni di dollari per i diritti pubblicitari.» «Vuol dire che guadagna 109.589 dollari al giorno, per non lavorare» calcolò Derek. «Ash» chiamò Drew. «Robbie» disse Matt. Peter si chinò per avvicinarsi a Derek. «Se va al cinema, spende dieci dollari, ma intanto che è lì ne intasca 9132.» Derek ridacchiò. «Se fa cuocere un uovo per cinque minuti, guadagna 380 dollari.» «Stu.» «Freddie.» «O-boy.» «Walt.» Ormai erano rimasti solo tre ragazzi: Derek, Peter e Royce, che aveva problemi di aggressività e girava sempre con il suo assistente scolastico. «Royce» disse Matt. «Guadagna 4560,85 dollari in più di quelli che prenderebbe lavorando da McDonald's» aggiunse Derek. Drew scrutò Peter e Derek. «Ne fa 2283 guardandosi una replica di Friends» disse Peter. «Se volesse mettere da parte i soldi per una Maserati nuova, gli occorrerebbero ben ventuno ore» disse Derek. «Maledizione, vorrei poter giocare a basket.»
«Derek» scelse Drew. Derek fece per alzarsi. «Già» disse Peter, «ma se Michael Jordan risparmiasse anche un cento per cento delle sue entrate per i prossimi quattrocentocinquant'anni non guadagnerebbe quanto Bill Gates in questo istante.» «D'accordo» disse Matt, «io prendo l'omo.» Peter si trascinò alle spalle della squadra di Matt. «Dovresti essere bravo a questo gioco, Peter» disse Matt, abbastanza forte perché tutti potessero udire. «Devi soltanto tenere le mani sulle palle.» Peter si appoggiò a un materassino che era stato messo contro la parete, come se quello fosse l'interno di un manicomio. Una stanza di gomma, dove poteva succedere il finimondo. Per certi versi gli sarebbe piaciuto essere sicuro della propria identità come sembravano essere tutti gli altri. «D'accordo» disse l'allenatore Spears. «Si gioca.» La prima tempesta di neve della stagione arrivò la vigilia del Giorno del Ringraziamento. Incominciò dopo mezzanotte, con raffiche di vento che scuotevano le vecchie fondamenta delle case e la grandine che batteva sui vetri delle finestre. Saltò la corrente, ma Alex se lo aspettava. Si svegliò con un balzo in quel silenzio assoluto che sopraggiunge insieme a una défaillance della tecnologia, e prese la torcia elettrica che aveva messo vicino al letto. C'erano anche le candele. Alex ne accese due e osservò la loro ombra, tanto più grande, tremare lungo la parete. Ricordava notti come quella quando Josie era piccola, quando si rifugiavano a letto insieme e Josie si addormentava tenendo le dita incrociate perché la mattina dopo non ci fosse la scuola. Perché agli adulti non capita mai quel genere di vacanza? Anche se il giorno dopo non ci fosse stata la scuola - com'era molto probabile, se le sue previsioni erano giuste -, anche se il vento avesse continuato a ululare come se la terra fosse in preda a chissà quali sofferenze e il ghiaccio si fosse incrostato sui tergicristalli, Alex avrebbe dovuto presentarsi in tribunale. Le lezioni di yoga, le partite di basket e gli spettacoli teatrali sarebbero stati rinviati, ma nessuno cancellava mai la vita reale. La porta della camera da letto si spalancò. Comparve Josie in canottiera e boxer da uomo: Alex non aveva la minima idea di dove li avesse presi, e si augurò che non appartenessero a Matt Royston. Per un istante, Alex
stentò a riconoscere in quella giovane donna tutta curve e capelli lunghi la figlia che ancora si aspettava di vedere, una ragazzina con la treccia disfatta, che indossava un pigiama di Wonder Woman. Gettò indietro le coperte su un lato del letto, invitandola. Josie si tuffò nel letto, tirandosi le lenzuola fino al mento. «È incredibile, là fuori» disse. «Sembra che il cielo stia crollando.» «Io mi preoccuperei di più per le strade.» «Pensi che domani nevicherà?» Alex sorrise nel buio. Josie poteva anche essere cresciuta, ma le sue priorità erano sempre le stesse. «È molto probabile.» Con un sospiro di soddisfazione, Josie si lasciò cadere sul cuscino. «Mi domando se Matt e io potremo andare a sciare da qualche parte.» «Se le strade sono ridotte male non ti muoverai di casa.» «Ma tu sì.» «Io non ho scelta» disse Alex. Josie si voltò verso di lei, e i suoi occhi riflettevano la luce della candela. «Tutti possono scegliere» ribatté. Si sollevò su un gomito. «Posso farti una domanda?» «Certo.» «Perché non hai sposato Logan Rourke?» Alex si sentì come se fosse stata gettata in mezzo alla tempesta, nuda; era decisamente impreparata per la domanda di Josie. «E questo come ti è venuto in mente?» «Cosa c'era in lui che non andasse bene? Mi hai detto che era bello e intelligente. E dovevi amarlo, almeno per qualcosa...» «Josie, è una vecchia storia... e non dovresti preoccupartene, perché non ha niente a che fare con te.» «Ha tutto a che fare con me» ribatté Josie. «Io sono per metà lui.» Alex fissò il soffitto. Forse il cielo stava davvero crollando; forse era quello che capitava quando pensavi che i tuoi giochi di prestigio creassero un'illusione duratura. «Lui era tutte quelle cose» disse Alex pacatamente. «Non è stato per lui. È stato per me.» «E poi era sposato.» Alex si mise seduta nel letto. «Come l'hai scoperto?» «È su tutti i giornali, adesso che è in gara per una carica. Non c'è bisogno di essere scienziati nucleari.» «Gli hai telefonato?» Josie la guardò negli occhi. «No.»
Una parte di Alex desiderava che Josie avesse parlato con lui: per sapere se lui aveva seguito la carriera di Alex, se aveva mai chiesto di lei. L'atto di lasciare Logan, che le era sembrato doveroso nei confronti della sua bambina non ancora nata, ora appariva egoistico. Perché non ne aveva parlato prima a Josie? Per proteggere Logan. Josie era cresciuta senza conoscere suo padre, certo, ma non sarebbe stato peggio se avesse appreso che lui voleva farla abortire? Una bugia in più, pensò Alex, soltanto una piccola bugia. Soltanto per evitare un dolore a Josie. «Non voleva lasciare sua moglie.» Alex lanciò un'occhiata di traverso a Josie. «Non potevo costringere me stessa a diventare tanto piccola da poter entrare nel posto che voleva assegnarmi, pur di essere parte della sua vita. Non ti sembra sensato?» «Immagino di sì.» Sotto le coperte, Alex prese la mano di Josie. Era un tipo di gesto che poteva sembrare forzato alla luce del sole - qualcosa di troppo apertamente emotivo perché una di loro lo esigesse dall'altra - ma lì, al buio, con il mondo in subbuglio intorno a loro, sembrava perfettamente naturale. «Mi dispiace» disse. «Di che cosa?» «Di non averti lasciato scegliere se averlo vicino o no mentre crescevi.» Josie scrollò le spalle e respinse la sua mano. «Hai fatto la cosa giusta.» «Non so» sospirò Alex. «La cosa giusta ti costringe a essere terribilmente sola, a volte.» D'improvviso si voltò verso Josie, guardandola con un sorriso forzato. «Perché ne parliamo? Al contrario di me, tu sei fortunata in amore, no?» Proprio in quell'istante, tornò la corrente. Al pianterreno, scattò il bip del forno a microonde che doveva essere resettato; la luce nel bagno spioveva gialla nel corridoio. «Credo che tornerò nel mio letto» disse Josie. «Oh. Va bene» replicò Alex, intendendo invece che le avrebbe fatto piacere se Josie fosse rimasta lì con lei. Mentre Josie camminava a passi felpati in corridoio, Alex allungò una mano per resettare la sua sveglia. Lampeggiava 12:00 12:00 12:00, come se i suoi LED fossero in preda al panico, come la mezzanotte di Cenerentola ricorda quanto sia difficile arrivare al lieto fine della fiaba. Con grande sorpresa di Peter, il buttafuori del Front Runner non guardò nemmeno il suo documento di identità falso, e lui si ritrovò spinto dentro prima di avere il tempo di pensarci sopra due volte: finalmente era lì.
Uno sbuffo di fumo lo colpì in volto, e gli ci volle un minuto per abituarsi alla penombra. La musica riempiva ogni spazio in mezzo alle persone: quella roba, la technodance, era così forte che la sentiva risuonare nella testa. Due donne alte stavano ai lati dell'entrata, a controllare i nuovi arrivati. Peter dovette dare una seconda occhiata per rendersi conto che una delle due aveva un'ombra di barba sul volto. Uno dei due. L'altro sembrava una ragazza più di quasi tutte le ragazze che Peter avesse mai visto, ma a dire il vero Peter non aveva mai visto un travestito così da vicino. Forse erano dei perfezionisti. Gli uomini stavano in piedi a gruppi di due o tre, a parte quelli che stavano appollaiati come falchi su una balconata che si affacciava sulla pista da ballo. C'erano uomini che indossavano pantaloni di pelle, uomini che baciavano altri uomini negli angoli, uomini che passavano abbracciati. Specchi su tutte le pareti facevano sembrare il club immenso, le sue stanze enormi. Non era stato difficile scoprire il Front Runner, grazie a Internet e alle sue chat room. Non avendo ancora la patente, Peter aveva dovuto prendere un autobus a Manchester e poi un taxi che l'aveva portato davanti al club. Non sapeva ancora bene perché fosse lì: era come un esperimento di antropologia, nella sua mente. Per capire se si trovava più a suo agio in quella società, che non nella sua. Non voleva uscire con un ragazzo... non ancora, in ogni caso. Voleva soltanto sapere come fosse stare in mezzo a degli omosessuali, nel loro mondo. Voleva sapere se, guardandolo, avrebbero capito immediatamente che lui era uno di loro. Peter si fermò davanti a una coppia che si era appartata in un angolo buio. Nella vita reale era strano vedere un ragazzo baciare un ragazzo. Certo, si vedevano baci tra gay nei programmi televisivi - Grandi Momenti che di solito erano abbastanza controversi da attirare l'attenzione dei giornali, cosicché Peter sapeva quando erano in programma - e talvolta li guardava soltanto per capire se sentiva qualcosa, osservandoli. Ma erano pur sempre finti, come del resto gli approcci regolari in tutti i programmi televisivi... a differenza di quello che accadeva sotto i suoi occhi in quel momento. Aspettava di capire se il suo cuore cominciava a battere un po' più forte, se si accorgeva che per lui aveva un senso. Ma non si sentiva particolarmente eccitato. Curioso sì - la barba non pungeva quando si baciavano? - e non disgustato, ma Peter non avrebbe saputo dire se era convinto di volerci provare a sua volta.
I due uomini si staccarono l'uno dall'altro e uno socchiuse gli occhi. «Questo non è un peep-show» disse, e gli diede uno spintone. Peter inciampò, cadendo contro qualcuno seduto al bar. «Ehi» disse l'uomo, ma poi gli si illuminarono gli occhi. «Cos'abbiamo qui?» «Scusi...» «Non fa niente.» Aveva poco più di vent'anni, capelli a spazzola di un biondo quasi bianco e macchie di nicotina sulle punte delle dita. «Prima volta qui?» Peter si voltò verso di lui. «Come lo sa?» «Perché sembri un cerbiatto davanti ai fari di un'auto.» Spense la sigaretta e chiamò il barman che, notò Peter, sembrava uscito dalle pagine di una rivista. «Rico, offri da bere a questo mio giovane amico. Che cosa gradisci?» Peter deglutì. «Pepsi?» I denti dell'uomo brillarono. «Sì, giusto.» «Io non bevo.» «Ah» disse l'uomo. «Ecco, allora.» Allungò a Peter due tubetti, poi ne tirò fuori dalla tasca altri due per sé. Non contenevano polvere... soltanto aria. Peter lo osservò mentre apriva un tubetto, inspirava profondamente, poi faceva lo stesso con la seconda fiala nell'altra narice. Peter lo imitò, e sentì la testa girare come quella volta che si era bevuto una confezione da sei lattine di birra quando i suoi genitori erano andati a vedere Joey che giocava a football. Ma a differenza di quella volta, in cui dopo voleva soltanto dormire, Peter adesso sentiva ogni cellula del proprio corpo ronzare, ed era perfettamente sveglio. «Io sono Kurt» disse l'uomo, tendendogli la mano. «Peter.» «Sotto o sopra?» Peter si strinse nelle spalle, fingendo di sapere di che cosa stesse parlando quel tale, mentre in realtà non ne aveva la minima idea. «Dio mio» disse Kurt, stupefatto. «Sangue fresco.» Il barman mise una Pepsi davanti a Peter. «Lascialo in pace, Kurt. È soltanto un ragazzo.» «Allora forse dovremmo fare un gioco» disse Kurt. «Ti piace il biliardo?» Una partita a biliardo era qualcosa che Peter sapeva controllare perfettamente. «Sarebbe fantastico.» Guardò Kurt estrarre un biglietto da venti dollari dal portafoglio e la-
sciarlo a Rico. «Tieni il resto» gli disse. La sala del biliardo era attigua alla zona principale del club, quattro tavoli già impegnati in diverse fasi del gioco. Peter si sedette su una panca accostata alla parete, studiando la gente. Alcuni si toccavano: un braccio sulla spalla, un colpo sul fondoschiena; molti invece si comportavano come un qualsiasi gruppo di ragazzi. Come semplici amici. Kurt prese una manciata di quarti di dollaro dalla tasca e li posò sul bordo del tavolo. Credendo che fosse la posta in palio per la partita, Peter tirò fuori dalla giacca due dollari spiegazzati. «Non è una scommessa» rise Kurt. «È quello che paghi per giocare.» Si alzò in piedi mentre il gruppo davanti a loro mandava l'ultima palla in buca, e cominciò a infilare le monete nel tavolo, finché non ne uscì un torrente colorato di palle a strisce e di colore uniforme. Peter prese una stecca dalla parete e strofinò il gesso sulla punta. Non era forte a biliardo, ma aveva già giocato un paio di volte senza fare niente di assolutamente stupido, come strappare il panno o far saltare la palla oltre il bordo del tavolo. «Così, sei uno che scommette» disse Kurt. «Potrebbe essere interessante.» «Io metto cinque dollari» disse Peter, sperando di sembrare più adulto. «Io non gioco per denaro. Se vinco, ti porterò a casa. E, se vinci tu, sarai tu a portarmi a casa.» Peter non riusciva proprio a capire che senso avesse per lui vincere o perdere, dal momento che non voleva andare a casa con Kurt e, sicuro come l'oro, mai e poi mai avrebbe portato Kurt a casa propria. Depose la stecca sul bordo del tavolo. «Dopotutto, credo di non aver voglia di giocare.» Kurt afferrò Peter per un braccio. I suoi occhi erano troppo accesi nella sua faccia, come piccole stelle infuocate. «I miei quarti di dollaro sono già lì. È tutto pronto. Volevi fare una partita... il che significa che devi finirla.» «Lasciami andare» disse Peter, mentre la sua voce saliva di tono su una scala di panico. Kurt sorrise. «Ma abbiamo appena cominciato.» Alle spalle di Peter, parlò un altro uomo. «Non hai sentito il ragazzo?» Peter si voltò, ancora trattenuto da Kurt, e vide McCabe, il suo insegnante di matematica. Era uno di quei momenti strani, come quando vai al cinema e vedi la signora che lavora nell'ufficio postale, e hai la sensazione di averla già vista da qualche parte, ma senza scatoloni, bilance e affrancatrici postali attorno,
e non riesci a capire chi sia. McCabe teneva in mano una birra e indossava una camicia di una specie di seta. Depose la bottiglia e incrociò le braccia. «Non rompergli i coglioni, Kurt, altrimenti chiamo la polizia e ti faccio buttare fuori da qui.» Kurt scrollò le spalle. «Come vuoi» disse, e tornò nel bar saturo di fumo. Peter teneva lo sguardo fisso sul pavimento, in attesa che McCabe parlasse. Era sicuro che l'insegnante avrebbe chiamato i suoi genitori oppure avrebbe stracciato il suo documento d'identità davanti a lui, o gli avrebbe chiesto perché pensava che venire in un bar gay nel centro di Manchester fosse una buona idea. Improvvisamente Peter si rese conto che avrebbe potuto chiedere la stessa cosa a McCabe. Mentre alzava lo sguardo, considerò un principio matematico che sicuramente il suo insegnante conosceva già: Se due persone hanno lo stesso segreto, non è più un segreto. «Probabilmente hai bisogno di un passaggio per tornare a casa» disse il signor McCabe. Josie teneva la propria mano su quella di Matt, simile alla zampa di un gigante. «Guarda come sei piccola in confronto a me» disse Matt. «È strano che io non ti uccida.» Poi oscillò, ancora dentro di lei, e lei sentì la sua mole su di sé. Lui mise la propria mano attorno alla gola di lei. «Perché» disse «potrei.» Strinse soltanto un po', premendole la trachea. Non tanto da sottrarle l'aria, ma abbastanza da impedirle di parlare. «Non farlo» riuscì a dire Josie. Matt la guardò fisso, sorpreso. «Non fare cosa?» disse e, quando ricominciò a muoversi dentro di lei, Josie fu sicura di aver frainteso. Per quasi tutta l'ora di viaggio da Manchester, la conversazione tra Peter e il signor McCabe fu superficiale come una libellula posata sulla superficie di un lago, toccando di sfuggita argomenti che non interessavano particolarmente a nessuno dei due: la situazione dei Bruins nel campionato di hockey, l'imminente ballo ufficiale d'inverno, che cosa richiedeva un buon college ai candidati in quel periodo. Quando ebbero lasciato la Route 89 all'uscita per Sterling e l'auto percorreva strade buie in direzione della casa di Peter, McCabe accennò alla
ragione per la quale si trovavano lì. «Quanto a stasera» esordì. «Pochi sanno di me nella scuola. Non sono ancora uscito allo scoperto.» Il piccolo rettangolo di luce riflessa dallo specchietto retrovisore faceva somigliare i suoi occhi a quelli di un procione. «Perché no?» Peter udì la propria voce formulare quella domanda. «Non che io mi aspetti che il corpo insegnante non sia comprensivo... semplicemente non credo che li riguardi. Giusto?» Peter non sapeva cosa rispondere, ma poi capì che McCabe non chiedeva la sua opinione... se non per la direzione da prendere. «Sì» disse Peter. «Svolti qui, è la terza casa sulla sinistra.» McCabe si piazzò di fronte al viale di Peter ma non svoltò. «Te lo dico perché mi fido di te, Peter. E perché, se hai bisogno di parlare con qualcuno, voglio che tu ti senta libero di venire da me.» Peter si slacciò la cintura di sicurezza. «Io non sono gay.» «D'accordo» replicò McCabe, ma nei suoi occhi comparve un accenno di tenerezza. «Io non sono gay» ripeté Peter con maggiore fermezza aprendo la portiera dell'auto, e subito corse via, il più velocemente possibile, in direzione della casa. Josie scosse il flaconcino di smalto per le unghie OPI e guardò l'etichetta sul fondo. Non sono un rosso per cameriere. «Secondo voi chi ha queste pensate? Sarà un gruppo di donne che si riunisce attorno a un tavolo?» «No» disse Maddie. «Probabilmente sono soltanto vecchie amiche che si ubriacano una volta all'anno e scrivono tutti i gusti che gli vengono in mente.» «Non è un gusto se non lo mangi» rettificò Emma. Courtney si girò sul letto, e i suoi capelli ricaddero di lato come una cascata. «Che noia» annunciò, sebbene fosse la sua casa e il suo pigiama party. «Ci deve pur essere qualcosa di eccitante da fare.» «Telefoniamo a qualcuno» suggerì Emma. Courtney ci pensò sopra. «Per fare uno scherzo?» «Potremmo ordinare una pizza e farla recapitare a qualcuno» propose Maddie. «L'abbiamo fatto l'ultima volta con Drew» sospirò Courtney, poi sghignazzò e prese il telefono. «Mi è venuto in mente qualcosa di meglio.» Mise il viva-voce e compose un numero: un motivo musicale che suonò terribilmente familiare a Josie. «Pronto» disse una voce insonnolita dall'al-
tra parte. «Matt» disse Courtney, mettendosi un dito sulle labbra per far tacere le altre. «Ciao.» «Maledizione, Court, sono le tre del mattino.» «Lo so. Solo che... C'è qualcosa che voglio dirti da tanto tempo, e non so come fare, perché Josie è mia amica e tutto...» Josie si mise a parlare, per far capire a Matt che era un trucco, ma Emma le tappò la bocca con una mano e la spinse indietro sul letto. «Tu mi piaci» disse Courtney. «Anche tu mi piaci.» «No, voglio dire... Mi piaci.» «Fantastico, Courtney. Se l'avessi saputo, credo che avrei fatto sesso scatenato con te, ma si dà il caso che ami Josie, e probabilmente lei è lì vicino a te, adesso.» Il silenzio si ruppe, le risate scrosciarono come vetri infranti. «Dio! Come lo sai?» disse Courtney. «Perché Josie mi dice tutto, anche quando viene a un pigiama party a casa tua. E adesso togli il viva-voce e lascia che le dia la buonanotte.» Courtney sollevò il ricevitore. «Bella risposta» disse Josie. La voce di Matt era rauca di sonno. «Ne dubitavi?» «No» rispose Josie sorridendo. «Bene, divertiti. Ma non così tanto come se ci fossi io.» Lei lo ascoltò sbadigliare. «Vai a letto.» «Vorrei averti qui» disse lui. Josie voltò le spalle alle altre ragazze. «Anch'io.» «Ti amo, Jo.» «Anch'io ti amo.» «E io» annunciò Courtney «tra poco vomito.» Allungò una mano e premette il tasto per interrompere la telefonata. Josie gettò il ricevitore sul letto. «L'idea di chiamarlo è stata tua.» «Tu sei gelosa e basta» disse Emma. «Vorrei avere io qualcuno che non può vivere senza di me.» «Sei molto fortunata, Josie» commentò Maddie. Josie aprì di nuovo il flaconcino di smalto e una goccia cadde dallo spazzolino sulla sua coscia, come una perla di sangue. Tutte le sue amiche - be', forse Courtney no, ma le altre sì - sarebbero state disposte a uccidere pur di trovarsi al suo posto. Ma morirebbero per questo, bisbigliò una voce dentro di lei.
Alzò lo sguardo su Maddie e su Emma con un sorriso forzato. «Parliamone» fece Josie. In dicembre, Peter trovò un lavoro nella biblioteca della scuola. Era responsabile delle attrezzature audiovisive, il che significava che tutti i giorni dopo la scuola doveva passare un'ora a riavvolgere microfilm e a mettere i DVD in ordine alfabetico. Portava le lavagne luminose e i TV/VCR nelle aule, perché fossero già pronti per i professori che ne avevano bisogno quando arrivavano a scuola al mattino. Stare in biblioteca gli piaceva soprattutto perché nessuno lo disturbava. I ragazzi cool non ci sarebbero andati neanche morti dopo la scuola. Era più probabile che Peter incontrasse studenti portatori di handicap, accompagnati da qualcuno che li assisteva, intenti a svolgere i loro compiti. Aveva ottenuto quel lavoro dopo aver aiutato la signora Wahl, la bibliotecaria, ad aggiustare il suo antiquato computer perché non le si inchiodasse più tanto spesso. Peter era diventato così il suo studente preferito alla Sterling High. Lasciava che fosse lui a chiudere quando lei aveva già finito la sua giornata, e gli aveva dato la sua chiave personale per azionare l'ascensore di servizio e trasportare attrezzature da un piano della scuola all'altro. L'ultimo lavoro di Peter quel giorno fu riportare un proiettore da un laboratorio di biologia del secondo piano alla sala audiovisivi. Era entrato in ascensore e aveva appena premuto un pulsante per chiudere la porta quando qualcuno lo chiamò, chiedendogli di tenere aperta la porta. Un istante dopo, Josie Cormier zoppicò dentro. Camminava con le stampelle, ostentando un tutore. Lanciò un'occhiata a Peter mentre le porte dell'ascensore si chiudevano, poi abbassò subito lo sguardo sul pavimento di linoleum. Pur essendo trascorsi mesi da quando lei l'aveva fatto licenziare, Peter sentiva ancora una fitta di rabbia quando vedeva Josie. Gli sembrava di udire Josie che contava mentalmente i secondi in attesa che le porte dell'ascensore si riaprissero. Be', nemmeno io sono entusiasta di essere chiuso qui dentro insieme a te, stava pensando Peter, ma in quell'istante l'ascensore sobbalzò, scricchiolò e si fermò. «Cosa c'è che non va?» Josie premette il pulsante del primo piano. «Non servirà a niente» disse Peter. Distese un braccio oltre lei, notando che Josie stava rischiando di perdere l'equilibrio nello sforzo di indietreggiare, come se lui soffrisse di una malattia contagiosa, e premette il pulsan-
te rosso di EMERGENCY. Non accadde niente. «Che rottura» disse Peter. Teneva lo sguardo fisso sul soffitto dell'ascensore. Gli eroi dei film si arrampicavano sempre attraverso le condutture dell'aria nella tromba dell'ascensore, ma, anche provando a salire in piedi sopra il proiettore, non sapeva come aprire lo sportello senza un cacciavite. Josie premette di nuovo il pulsante. «Pronto?!» «Non ti sentirà nessuno» disse Peter. «Gli insegnanti sono andati via tutti e il custode guarda Oprah dalle cinque alle sei nel seminterrato.» Le lanciò un'occhiata. «Cosa ci fai qui, tra l'altro?» «Una ricerca autonoma.» «Che roba è?» Lei sollevò una stampella. «Serve a ottenere dei crediti quando non si può fare ginnastica. Che cosa stavi facendo tu qui?» «Adesso lavoro qui» disse Peter, ed entrambi rimasero in silenzio. Secondo la logica, pensava Peter, prima o poi qualcuno li avrebbe trovati. Probabilmente il custode li avrebbe scoperti quando avesse portato di sopra lo spazzolone per i pavimenti, ma, in caso contrario, avrebbero dovuto aspettare fino al mattino dopo, quando sarebbero arrivati di nuovo tutti. Accennò un sorriso, pensando a cosa avrebbe potuto dire in tutta sincerità a Derek: Indovina un po', ho dormito con Josie Cormier. Aprì un iBook e premette un pulsante, avviando una presentazione di PowerPoint sullo schermo. Amebe, blastospore. Divisione di cellule. Un embrione. È sorprendente pensare che tutto ha avuto inizio così, che siamo stati microscopici, indistinguibili. «Tra quanto tempo ci troveranno?» «Non lo so.» «I bibliotecari non si accorgeranno che non sei tornato?» «Neanche i miei genitori si accorgerebbero che non sono tornato.» «Oh, Dio... E se restiamo senz'aria?» Josie batté sulle porte con una stampella. «Aiuto!» «Non resteremo senz'aria» disse Peter. «Come lo sai?» In effetti non lo sapeva. Ma che altro avrebbe potuto dire? «Negli spazi chiusi perdo il controllo dei nervi» gemette Josie. «Non posso stare così.» «Soffri di claustrofobia?» Si domandò come mai non lo sapesse. Ma, in effetti, perché avrebbe dovuto saperlo? Negli ultimi sei anni non aveva
certo fatto parte attivamente della sua vita. «Mi sa che devo vomitare» si lamentò Josie. «Oh, merda» disse Peter. «Non farlo. Chiudi gli occhi, così non ti accorgerai nemmeno di essere in un ascensore.» Josie chiuse gli occhi, ma subito oscillò sulle stampelle. «Aggrappati.» Peter le tolse le stampelle per farla stare in equilibrio su un piede solo. Poi la sostenne per le mani mentre lei si lasciava cadere sul pavimento, distendendo la gamba infortunata. «Come ti sei fatta male?» domandò Peter, accennando al gesso. «Sono caduta sul ghiaccio.» Lei si mise a piangere e ad annaspare - iperventilazione, intuì Peter, sebbene avesse soltanto visto scritta quella parola, senza mai averla sperimentata. Bisognava respirare in un sacchetto di carta, no? Peter cercò nell'ascensore qualcosa che potesse servire. C'era un sacchetto di plastica con dei documenti sul carrello del materiale audiovisivo, ma metterselo in testa non sembrava una trovata geniale. «D'accordo» disse seguendo un'ispirazione improvvisa, «facciamo qualcosa che ti distragga dal pensiero di essere qui.» «Tipo cosa?» «Potremmo fare un gioco, magari» suggerì Peter, e udì le stesse parole ripetute nella sua testa, la voce di Kurt al Front Runner. Scosse la testa come per allontanare il pensiero. «Venti Domande?» Josie esitò. «Animali, vegetali o minerali?» Dopo sei round di Venti Domande e un'ora di geografia, a Peter era venuta sete. Doveva anche fare pipì, ed era un bel guaio, perché con ogni probabilità sarebbero rimasti lì fino al mattino ed era assolutamente impossibile per lui farla con Josie che lo guardava. Josie rimaneva zitta, ma quanto meno aveva smesso di tremare. Pensò che si fosse addormentata. Ma poi lei parlò. «Vero o Sfida» disse Josie. Peter si voltò verso di lei. «Vero.» «Mi detesti?» Lui inclinò la testa. «A volte.» «Sarebbe giusto» commentò Josie. «Vero o Sfida?» «Vero» disse Josie. «Tu detesti me?» «No.» «E allora perché» domandò Peter «ti comporti come se fosse così?» Lei scosse il capo. «Devo comportarmi come gli altri si aspettano da me.
Fa parte di... tutto l'insieme. Se io non...» Prese l'impugnatura di gomma della sua stampella. «È complicato. Non capiresti.» «Vero o Sfida» disse Peter. Josie ridacchiò. «Sfida» «Leccati il tallone.» Lei si mise a ridere. «Non riesco nemmeno a camminare sul tallone» disse, ma si chinò, si sfilò il mocassino e tirò fuori la lingua. «Vero o Sfida?» «Vero.» «Fifone» disse Josie. «Sei mai stato innamorato?» Peter guardò Josie, e pensò a quando avevano legato un biglietto con i loro indirizzi a un palloncino e l'avevano lasciato andare dietro casa di Josie, sicuri che sarebbe arrivato su Marte. Invece, avevano ricevuto una lettera da una vedova che abitava a due isolati di distanza. «Be'» rispose. «Credo di sì.» Lei spalancò gli occhi. «Di chi?» «Non era quella la domanda. Vero o Sfida?» «Vero» disse Josie. «Qual è l'ultima bugia che hai detto?» Il sorriso scomparve dal volto di Josie. «Quando ti ho detto che sono scivolata sul ghiaccio. Matt e io abbiamo litigato e lui mi ha picchiato.» «Ti ha picchiato?» «Non proprio... Ho detto qualcosa che non dovevo dire, e quando lui... be', ho perso l'equilibrio, in ogni caso, e lui mi ha colpito alla caviglia.» «Josie...» Lei inclinò la testa. «Non lo sa nessuno. Non lo dirai, vero?» «No.» Peter esitò. «Perché non l'hai detto a nessuno?» «Non era questa la domanda» replicò Josie, facendogli il verso. «Te lo chiedo ora.» «E allora io accetterò una sfida.» Peter strinse le mani a pugno lungo i fianchi. «Baciami» disse. Lei si chinò verso di lui lentamente, finché il suo volto fu troppo vicino per poterlo vedere. I suoi capelli ricaddero sulla spalla di Peter come una tenda e lei chiuse gli occhi. Aveva il profumo dell'autunno: sidro di mele e sole tiepido e la sferzata del freddo in arrivo. Lui sentì il proprio cuore lottare, chiuso entro i confini del suo corpo. Le labbra di Josie toccarono appena i margini delle sue, quasi la sua guancia e non del tutto la sua bocca. «Sono contenta di non essere rimasta
chiusa qui da sola» disse lei timidamente, e lui assaporò le parole, dolci come una caramella alla menta sul suo respiro. Peter abbassò lo sguardo su di sé e pregò che Josie non si accorgesse che gli era venuto duro come il marmo. Cominciò a sorridere così tanto che quasi gli fece male. Dunque non era vero che non gli piacevano le ragazze: peccato che quella giusta fosse una sola. Subito dopo si sentì bussare alla porta di metallo. «C'è qualcuno?» «Sì!» gridò Josie, lottando per rimettersi in piedi con le stampelle. «Aiuto!» Si udì battere rumorosamente e martellare, il suono di un cric che si apriva un varco. Le porte si spalancarono, e Josie si precipitò fuori dall'ascensore. Matt Royston era in attesa vicino al custode. «Mi sono preoccupato perché non eri ancora tornata a casa» disse, e chiuse Josie in un abbraccio. Ma l'hai picchiata, pensò Peter, e poi ricordò di aver fatto una promessa a Josie. Ascoltò la sua esclamazione di sorpresa quando Matt la sollevò tra le braccia, trasportandola senza che dovesse usare le stampelle. Peter riportò l'iBook e il proiettore in biblioteca e chiuse la stanza audiovisivi. Ormai era tardi, e doveva andare a casa a piedi, ma quasi non gli importava. Decise che la prima cosa che doveva fare era cancellare il cerchio attorno alla foto di Josie nell'annuario, e togliere le sue caratteristiche dalla lista dei cattivi nel suo videogioco. Stava rivedendo mentalmente la logistica del gioco, in termini di programmazione, quando finalmente giunse a casa. Impiegò un momento a capire che c'era qualcosa che non andava: in casa le luci non erano accese, ma le auto c'erano. «Ehi?» chiamò, vagando dal soggiorno alla sala da pranzo alla cucina. «C'è nessuno?» Trovò i suoi genitori seduti nel buio al tavolo della cucina. Sua madre sollevò lo sguardo, inebetita. Era evidente che stava piangendo. Peter sentì una specie di calore schiudersi in petto. Aveva detto a Josie che i suoi genitori non avrebbero notato la sua assenza, ma non era affatto vero. A quanto pareva, i suoi genitori, erano sconvolti. «Sto bene» si affrettò a dire Peter. «Sul serio.» Suo padre si alzò in piedi, trattenendo le lacrime, e abbracciò Peter. Peter non riusciva a ricordare l'ultima volta in cui suo padre lo avesse abbracciato così. Benché volesse rimanere freddo, benché avesse sedici anni, si aggrappò a suo padre e si strinse a lui. Prima Josie, e ora questo? Quello si stava rivelando il più bel giorno della vita di Peter.
«Si tratta di Joey» singhiozzò suo padre. «È morto.» Chiedete a qualsiasi ragazza, oggi, se vuole essere popolare e lei vi risponderà di no, anche se la verità è che, se fosse in un deserto a morire di sete e potesse scegliere tra un bicchiere d'acqua e la popolarità istantanea, probabilmente sceglierebbe la seconda. Vedete, non si può ammettere di volerla, perché così si diventa meno cool. Essere veramente popolari deve apparire come qualcosa che si è, mentre in realtà è qualcosa che si fa. Mi domando se c'è qualcuno che si impegni più a fondo in qualcosa di quanto facciano le ragazze per essere popolari. Intendo dire che persino i controllori del traffico aereo e il presidente degli Stati Uniti vanno in vacanza, ma se considerate la studentessa media di scuola superiore vi accorgerete che vi si dedica per ventiquattro ore al giorno, per l'intera durata dell'anno scolastico. E allora come si fa a entrare in questo luogo privilegiato? Be', ecco l'importante: non siete voi a deciderlo. L'importante è cosa pensano tutti gli altri di come vi vestite, cosa mangiate a pranzo, che cosa guardate al TiVo, quale musica avete sull'iPod. Tuttavia, mi sono sempre domandata: se l'opinione degli altri è quello che conta, vi capita mai di averne una veramente vostra? Un mese dopo Sebbene il rapporto investigativo di Patrick Ducharme fosse sul tavolo di Diana da dieci giorni dopo la sparatoria, il pubblico ministero non gli aveva dato neanche un'occhiata. Prima di tutto aveva un'udienza probatoria da preparare, e in secondo luogo era comparsa davanti al gran giurì, ottenendo un atto formale d'accusa. Soltanto adesso cominciava a vagliare le analisi delle impronte digitali, della balistica e delle macchie di sangue, insieme ai rapporti originali della polizia. Aveva trascorso la mattinata a esaminare pazientemente la logistica della sparatoria e a organizzare mentalmente la sua dichiarazione iniziale lungo il medesimo percorso di distruzione seguito da Peter Houghton, tracciando le sue mosse da una vittima all'altra. La prima a essere colpita era stata Zoe Patterson, sui gradini della scuola. Alyssa Carr, Angela Phlug, Maddie Shaw. Courtney Ignatio. Haley Weaver e Brady Pryce. Lucia Ritolli, Grace Murtaugh. Drew Girard.
Matt Royston. E altri ancora. Diana si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Un libro dei morti, una mappa dei feriti. Ed erano soltanto quelli feriti così gravemente da dover essere trattenuti in ospedale, ma ce n'erano moltissimi che erano stati ricoverati e poi dimessi, e centinaia le cui ferite erano troppo profonde per essere visibili. Diana non aveva figli: maledizione, dato il suo ruolo, gli unici uomini che incontrava erano o criminali, il che era orribile, oppure avvocati difensori, il che era anche peggio. Tuttavia aveva un nipotino di tre anni che, nella sua scuola materna, era stato ripreso perché aveva detto a un suo compagno di classe, puntandogli il dito contro: «Bang, sei morto». Quando sua sorella le aveva telefonato indignata, blaterando qualcosa sui primi dieci emendamenti della costituzione, Diana aveva forse pensato che suo nipote era destinato a diventare uno psicopatico? Neanche per un momento. Era soltanto un bambino, e scherzava. Anche gli Houghton avevano pensato la stessa cosa? Diana abbassò lo sguardo sull'elenco di nomi che aveva davanti. Era suo compito collegare quei punti, ma la vera necessità era un'altra: bisognava tracciare una linea che stabilisse il momento cruciale in cui la mente di Peter Houghton aveva vacillato, impercettibilmente, passando dal e se al quando. Il suo sguardo cadde su un altro elenco: quello dell'ospedale. Cormier, Josie. Secondo le registrazioni mediche, la ragazza, diciassettenne, era stata tenuta in osservazione per una notte dopo un breve svenimento, e aveva una lacerazione al cuoio capelluto. In fondo al modulo di consenso per le analisi del sangue c'era la firma di sua madre: Alex Cormier. Non poteva essere. Diana si appoggiò allo schienale della sedia. Non si vorrebbe mai fare la parte di chi deve chiedere a un giudice di ritirarsi. Si poteva magari dichiarare che si dubitava della sua capacità di essere imparziale e, dato che Diana doveva comparire spesso nella sua aula, quella non sarebbe certo stata una mossa brillante ai fini della carriera. Ma sicuramente il giudice Cormier sapeva di non poter presiedere imparzialmente quel caso, perché sua figlia era tra i testimoni. Certo, Josie non era stata colpita, ma era ugualmente rimasta ferita durante la sparatoria. Senza dubbio Alex Cormier si sarebbe ritirata. Il che significava che non c'era niente di cui preoccuparsi. Diana tornò a concentrarsi sul verbale aperto sulla sua scrivania, leggen-
do finché le lettere si confusero sulla pagina, finché Josie Cormier fu solo un altro nome fra gli altri. Tornando a casa dal tribunale, Alex passava davanti al memoriale improvvisato che era stato eretto per le vittime della Sterling High. C'erano dieci croci di legno bianche, benché uno dei ragazzi morti, Justin Friedman, fosse ebreo. Le croci non erano nei pressi della scuola, ma su un tratto della Route 10 dove c'era soltanto l'alveo di piena del fiume Connecticut. Nei giorni successivi alla sparatoria, attorno alle croci c'era sempre gente che aggiungeva qualcosa alle pile di fotografie, Beanie Babies e mazzi di fiori di ciascuna vittima. Alex uscì dalla carreggiata quasi automaticamente, fermando la macchina sul ciglio della strada. Non sapeva perché si fosse fermata proprio in quel momento, e non prima. I suoi tacchi alti sprofondavano nell'erba spugnosa. Incrociò le braccia e si avvicinò alle lapidi commemorative. Non erano state collocate secondo un ordine particolare, e il nome di ciascuno degli studenti morti era inciso sul listello trasversale della croce. Alex non conosceva quasi nessuno di loro, ma Courtney Ignatio e Maddie Shaw avevano le loro croci l'una accanto all'altra. I fiori lasciati sulle tombe erano appassiti, e il loro involucro verde giaceva a terra disfatto. Alex si inginocchiò, passando le dita su una poesia sbiadita fissata alla lapide di Courtney. Courtney e Maddie erano venute a casa sua per un pigiama party parecchie volte. Alex ricordava di aver sorpreso le ragazze in cucina, a mangiare pasta per biscotti ancora cruda, anziché di metterla nel forno, e i loro movimenti erano fluidi come onde. Ricordava di essersi sentita gelosa di loro: perché erano così giovani, perché non avevano ancora fatto un errore che poteva cambiare la loro vita. Ma ora si sentiva arrossire a quel doloroso pensiero: quanto meno lei aveva una vita che poteva essere cambiata. Fu davanti alla croce di Matt Royston, tuttavia, che Alex cominciò a piangere. Puntellata alla base di legno chiaro c'era una foto incorniciata, chiusa in un sacchetto di plastica per preservarla dalla neve e dal vento. C'era Matt, gli occhi luminosi, un braccio attorno al collo di Josie. Josie non guardava la macchina fotografica. Fissava Matt, come se non vedesse nient'altro. In un certo senso, era meglio avere un istante di cedimento lì, davanti a quel memoriale improvvisato, che non a casa, dove Josie avrebbe potuto udirla piangere. Si era comportata in modo distaccato e controllato per il
bene di Josie, ma l'unica persona che non poteva ingannare era se stessa. Poteva anche riprendere la sua routine quotidiana come si riprende un punto su un lavoro a maglia, poteva dire a se stessa che Josie era stata fortunata, ma quando era da sola sotto la doccia, oppure in quello spazio intermedio tra la veglia e il sonno, Alex si sorprendeva a tremare in maniera incontrollabile, come capita quando si sbanda per evitare un incidente e bisogna portarsi sul bordo della strada per accertarsi di essere realmente, veramente interi. La vita era ciò che accadeva quando svanivano i vari e se, quando quello che si sognava o sperava oppure, come in quel caso, si temeva finiva per accadere sul serio. Alex aveva passato molte notti a pensare alla fortuna che aveva avuto, a come tutto fosse appeso a un filo, a come si potesse passare senza soluzione di continuità da una parte all'altra. La croce davanti alla quale era inginocchiata avrebbe potuto essere quella di Josie, e quella foto avrebbe potuto essere attaccata alla sua lapide. Una contrazione involontaria della mano dello sparatore, un passo falso, un rimbalzo del proiettile... e tutto sarebbe stato diverso. Alex si rimise in piedi e respirò come per riprendere forza. Mentre tornava alla macchina, vide la buca stretta nella quale c'era stata un'undicesima croce. Quando erano state erette le dieci croci, qualcuno ne aveva aggiunta un'altra con il nome di Peter Houghton. Notte dopo notte quella croce era stata abbattuta o devastata brutalmente. Sul giornale erano usciti degli articoli a quel proposito: Peter Houghton meritava una croce, pur essendo ancora più che mai vivo? Innalzare un memoriale per lui era una tragedia o una parodia? Alla fine, chiunque avesse inciso la croce di Peter aveva deciso di desistere e di non continuare a rimetterla al suo posto ogni giorno. Mentre saliva di nuovo in macchina, Alex si domandò come avesse potuto, finché non era venuta lì per se stessa, dimenticare che qualcuno, in un modo o nell'altro, considerava anche Peter Houghton una vittima. Da Quel Giorno, come Lacy aveva preso l'abitudine di chiamarlo, aveva fatto nascere tre bambini. Ogni volta, sebbene la nascita fosse tranquilla e il parto facile, qualcosa era andato storto. Non per la madre ma per l'ostetrica. Quando entrava in sala parto, Lacy si sentiva invelenita, troppo negativa per dare il benvenuto nel mondo a un altro essere umano. Sorrideva come faceva sempre durante il parto e offriva alle neomamme tutto il sostegno e le cure mediche di cui avevano bisogno, ma nel momento in cui si
accomiatava da loro, tagliando l'ultimo cordone ombelicale tra ospedale e casa, Lacy sapeva di rivolgere loro il consiglio sbagliato. Invece di tranquille banalità come Lasciate che mangi quando ne ha voglia e Non tenetelo in braccio troppo a lungo, avrebbe voluto dire loro la verità: Il bambino che avete tanto atteso non è chi vi immaginate che sia. Ora siete due estranei, e continuerete a esserlo per anni. Anni prima aveva l'abitudine, mentre stava distesa a letto, di immaginare come sarebbe stata la sua vita se non fosse diventata madre. Rivedeva Joey che le portava un mazzo di erbacce, tarassaco e trifoglio; Peter che si addormentava contro il suo petto con la sua treccia ancora stretta nella manina. Riviveva i pugni chiusi per il dolore durante il travaglio, e il mantra che aveva l'abitudine di far ripetere: Immagina che cosa avrai, quando sarà tutto finito. La maternità aveva ravvivato i colori del mondo di Lacy; l'aveva inorgoglita con la convinzione che la sua vita non avrebbe potuto essere più completa di così. Quello che non aveva capito era che talvolta, con una visione tanto acuta e veritiera, ci si può anche ferire. Che soltanto chi ha sperimentato una simile pienezza può comprendere davvero il dolore di essere vuoti. Non l'aveva detto alle sue pazienti - Dio, non l'aveva detto nemmeno a Lewis -, ma in quei giorni, quando era distesa a letto e immaginava come sarebbe stata la sua vita se non fosse stata madre, si era ritrovata a inghiottire due parole amare: più facile. Quel giorno Lacy riceveva in studio: aveva già visto cinque pazienti e stava per passare alla sesta. Janet Isinghoff, lesse, aprendo il raccoglitore. Sebbene fosse la paziente di un'altra ostetrica, la politica del gruppo era che ogni donna conoscesse tutte le ostetriche, dato che non si poteva mai sapere chi sarebbe stata di turno al momento del parto. Janet Isinghoff aveva trentatré anni, era una primipara, con una storia familiare di diabete. Era stata ricoverata una sola volta per appendicite, soffriva di una forma non grave di asma e in generale godeva di buona salute. Era anche lei in piedi davanti alla porta della sala visite, e stringeva tra le dita i laccetti del suo camice da ospedale mentre parlava animatamente con Priscilla, l'infermiera del reparto di ostetricia. «Non me ne importa» stava dicendo Janet. «Se dovesse capitare, andrei in un altro ospedale e basta.» «Ma non è questo il nostro modo di procedere» le spiegava Priscilla. Lacy sorrise. «Posso esservi utile?» Priscilla si voltò, mettendosi tra Lacy e la paziente. «Non è niente.»
«Eppure non sembrava» replicò Lacy. «Non voglio che il mio bambino venga fatto nascere dalla madre di un assassino» sbottò Janet. Lacy ebbe l'impressione che i suoi piedi piantassero radici nel pavimento, e il suo respiro era debole come se avesse appena ricevuto un colpo. E non era forse così? Priscilla diventò paonazza. «Signora Isinghoff, credo di poter parlare a nome di tutte le nostre ostetriche dicendole che Lacy è...» «Basta così» mormorò Lacy. «Capisco.» Fino a quel momento le altre infermiere e levatrici erano rimaste a guardare; Lacy sapeva che sarebbero accorse in sua difesa: avrebbero detto a Janet Isinghoff di trovarsi un'altra ostetrica, avrebbero spiegato che Lacy era una delle levatrici più brave e più esperte del New Hampshire. Ma contava poco, in realtà. Non si trattava soltanto della richiesta di Janet Isinghoff di avere un'altra levatrice che facesse nascere il suo bambino; il nocciolo della questione era che, se anche Janet se ne fosse andata, ci sarebbe stata un'altra donna, l'indomani o il giorno dopo ancora, che avrebbe avanzato la medesima, ansiosa richiesta. Chi avrebbe voluto che il proprio neonato venisse toccato per la prima volta da quelle stesse mani che avevano tenuto stretta quella di un assassino quando attraversava la strada; che gli avevano scostato i capelli dalla fronte quando era malato; che l'avevano cullato per farlo addormentare? Lacy uscì dalla porta di emergenza e salì di corsa quattro piani di scale. Talvolta, quando le capitava una giornata particolarmente difficile, Lacy si rifugiava sul tetto a terrazzo dell'ospedale. Si distendeva supina, fissava il cielo e fingeva, davanti a quel cielo, di poter essere da qualsiasi parte sulla Terra. Un processo era soltanto una formalità: Peter sarebbe stato dichiarato colpevole. Non importava quanto provasse a convincere se stessa - o Peter - del contrario; la realtà dei fatti era lì in mezzo a loro due durante quelle terribili visite in carcere, immensa e indicibile. A Lacy ricordava quando ci si imbatte in una donna che non si vede da un po' di tempo e la si scopre con pochi capelli e senza sopracciglia: è evidente che è alle prese con la chemioterapia, ma fa finta che non sia così, perché è più facile per tutt'e due. Quello che Lacy avrebbe voluto dire, se qualcuno le avesse dato l'opportunità di salire su un podio, era che le azioni di Peter erano sorprendenti erano devastanti - per lei come per chiunque altro. Anche lei aveva perso
suo figlio quel giorno. Non solo fisicamente, perché era entrato in carcere, ma personalmente, perché il ragazzo che lei conosceva era scomparso, inghiottito da quella bestia che lei non riconosceva, capace di azioni per lei inconcepibili. E se Janet Isinghoff avesse avuto ragione? Se fosse stato qualcosa che Lacy aveva detto o fatto... o non detto o fatto... a condurre Peter a quel punto? Si può odiare un figlio per quello che ha fatto, e continuare ad amarlo per quello che è stato? La porta si aprì e Lacy si girò senza esitare. Non saliva mai nessuno, ma non era mai capitato che lei uscisse così sconvolta. Tuttavia non era né Priscilla né una delle sue colleghe: Jordan McAfee era in piedi sulla soglia, con un fascio di carte in mano. Lacy chiuse gli occhi. «Perfetto.» «Sì, è quello che mi dice mia moglie» fece lui muovendo un passo avanti con un largo sorriso in volto. «O forse è soltanto quello che io vorrei sentirmi dire da lei... La sua segretaria mi ha detto che probabilmente l'avrei trovata qui, e... Lacy, si sente bene?» Lacy annuì, poi scosse il capo. Jordan la prese per un braccio e la condusse a una sedia pieghevole che qualcuno si era portato fin sul tetto. «Brutta giornata?» «Può ben dirlo» rispose Lacy. Cercava di evitare che Jordan vedesse le sue lacrime. Era stupido, lo sapeva, ma non voleva che l'avvocato di Peter pensasse che lei era quel genere di persona che andrebbe trattata coi guanti. In quel caso lui non avrebbe potuto dirle tutta la verità su Peter, e lei invece voleva conoscerla, qualunque fosse. «Ho bisogno che mi firmi certe carte... ma posso tornare più tardi...» «No» disse Lacy. «Va... bene.» Più che bene, si rese conto. In un certo senso le faceva piacere stare seduta accanto a qualcuno che credeva in Peter, anche se lei lo pagava per farlo. «Posso rivolgerle una domanda professionale?» «Ma certo.» «Perché è così facile per la gente puntare il dito contro qualcuno?» Jordan si sedette davanti a lei, sul bordo del tetto, il che rese nervosa Lacy, ma, ancora una volta, non poteva darlo a vedere, perché non voleva che Jordan pensasse che era fragile. «La gente ha bisogno di un capro espiatorio» disse lui. «Fa parte della natura umana. È il peggior ostacolo che dobbiamo superare come avvocati difensori, perché, sebbene chiunque venga arrestato sia da considerarsi innocente fintantoché non si dimostri la sua colpevolezza, la gente dà per scontato che sia colpevole per il solo fat-
to che è stato tratto in arresto. Sa quanti poliziotti hanno arrestato gente che non aveva commesso alcun reato? Lo so, è pazzesco... voglio dire, lei pensa che si profondano in scuse e si accertino che la famiglia, gli amici e i colleghi di quella persona capiscano che è stato solo un errore madornale, oppure che dicano solo 'Spiacente' per poi andarsene?» Incrociò il suo sguardo. «Capisco che sia difficile leggere gli articoli che hanno già condannato Peter prima ancora che il processo sia iniziato, ma...» «Non si tratta di Peter» disse Lacy laconicamente. «Incolpano me.» Jordan assentì, come se l'avesse immaginato. «Non l'ha fatto a causa di come l'abbiamo cresciuto. L'ha fatto nonostante questo» continuò Lacy. «Lei ha un bambino piccolo, vero?» «Sì. Sam.» «E se saltasse fuori che è diverso da come l'aveva sempre creduto?» «Lacy...» «Per esempio, se Sam le dicesse che è gay?» Jordan scrollò le spalle. «Che male ci sarebbe?» «E se decidesse di convertirsi all'islamismo?» «Ha il diritto di scegliere.» «E se diventasse un kamikaze?» Jordan rimase in silenzio per un istante. «Io non voglio neanche pensare a qualcosa di simile, Lacy.» «No» disse lei, affrontando il suo sguardo. «Nemmeno io volevo.» Philip O'Shea e Ed McCabe erano stati insieme per quasi due anni. Patrick guardava le foto sulla mensola del camino: i due uomini che si tenevano abbracciati sullo sfondo delle Montagne Rocciose in Canada; il Corn Palace nel South Dakota; la Tour Eiffel. «Ci piaceva viaggiare» disse Philip riempiendo un bicchiere di tè ghiacciato e porgendolo a Patrick. «A volte, per Ed, era più facile andare via che rimanere qui.» «Perché?» Philip si strinse nelle spalle. Era un uomo alto, magro, con le lentiggini che apparivano quando arrossiva per l'emozione. «Ed non aveva detto a tutti del... del suo stile di vita. E, a voler essere proprio sinceri, avere dei segreti in una piccola città è un casino.» «Signor O'Shea...» «Philip. La prego.» Patrick assentì. «Mi domando se Ed le avesse mai citato il nome di Peter Houghton.»
«Era il suo insegnante, lo sa.» «Già. Volevo dire... be', a parte quello.» Philip lo condusse in una veranda riparata da vetrate, con le sedie di vimini allineate. Ogni stanza che aveva visto in quella casa sembrava uscita da una rivista: i cuscini sui divani erano disposti in modo da formare un angolo di quarantacinque gradi; c'erano vasi con dentro perle di vetro; le piante erano tutte floride e verdi. Patrick ripensò al suo soggiorno, dove poco prima aveva trovato un pezzo di toast ficcato in mezzo ai cuscini del divano su cui si era formata, ormai, quella che si poteva chiamare penicillina. Poteva essere uno stereotipo ridicolo, ma quella casa aveva scritto sopra Martha Stewart in ogni angolo, mentre quella di Patrick assomigliava di più a un covo di spacciatori. «Ed aveva parlato con Peter» spiegò Philip. «O quanto meno ci aveva provato.» «Di che cosa?» «Dell'essere un po' un'anima persa, credo. Gli adolescenti tentano sempre di inserirsi. Se non riescono a far parte del gruppo popolare, ci provano con quello degli atleti. Se non funziona, passano al gruppo che fa teatro... o magari a quello dei tossicodipendenti» disse. «Ed pensava che Peter avrebbe potuto provare con il gruppo dei gay e delle lesbiche.» «Peter ha detto a Ed che era gay?» «Oh, no. Ed provò a far uscire allo scoperto Peter. Tutti ricordiamo come ci si sentiva quando si provava a capire che cosa ci fosse di diverso in noi, alla sua età. Preoccupati a morte che qualche altro ragazzo omosessuale andasse in giro a rivelare la nostra identità.» «Secondo lei, Peter potrebbe essersi preoccupato che Ed rivelasse la sua identità?» «Sinceramente ne dubito, soprattutto nel caso di Peter.» «Perché?» Philip sorrise a Patrick. «Ha mai sentito parlare del gaydar?» Patrick si accorse di arrossire. Era come essere in presenza di un afroamericano che faceva una battuta razzista, semplicemente perché poteva permetterselo. «Credo di sì.» «I gay non sono chiaramente distinguibili: non è come avere un colore diverso della pelle oppure un handicap fisico. Si impara a optare per l'affettazione, oppure ci si aggrappa a sguardi che durano soltanto un po' più a lungo. Si diventa abbastanza bravi a capire se uno è gay, oppure se ti sta fissando soltanto perché tu lo sei.»
Prima che si rendesse conto di quello che stava facendo, Patrick si era spostato leggermente da Philip, che si mise a ridere. «Si rilassi. Le sue vibrazioni dicono chiaramente che lei sta dall'altra parte.» Sollevò lo sguardo su Patrick. «E lo stesso vale per Peter Houghton.» «Non capisco...» «Può darsi che Peter si sia sentito confuso riguardo alla propria sessualità, ma Ed non aveva il minimo dubbio» dichiarò Philip. «Quel ragazzo è eterosessuale.» Peter spalancò la porta e irruppe nella sala dei colloqui, stizzito. «Perché non è venuto a trovarmi?» Jordan sollevò lo sguardo dagli appunti che stava prendendo su un taccuino. Notò, distrattamente, che Peter era un po' ingrassato - e a quanto pareva aveva qualche muscolo in più. «Ho avuto da fare.» «Bene, e io sono sempre bloccato qui, da solo.» «Già, e io mi sto rompendo il culo per fare in modo che non sia una condizione permanente» replicò Jordan. «Siediti.» Peter si accasciò su una sedia, lo sguardo pieno di collera. «E se oggi non me la sentissi di parlare con lei? A quanto pare, lei non è sempre disposto a parlare con me.» «Peter, cosa ne dici di lasciar perdere queste stronzate e lasciarmi lavorare?» «Come se m'importasse qualcosa del suo lavoro.» «Be', dovrebbe importartene» disse Jordan. «Dal momento che sei tu il beneficiario.» Alla fine di questa faccenda, pensò Jordan, o mi copriranno di insulti o mi faranno santo. «Voglio parlare degli esplosivi» disse. «Dove hai trovato qualcuno che ti desse roba simile?» «Su www.boom.com» rispose Peter. Jordan lo guardò attonito. «Be', non è poi così lontano dal vero» continuò Peter. «Voglio dire, Il libro di cucina dell'anarchico è online. Lo stesso vale per circa diecimila ricette per i cocktail Molotov.» «Non hanno trovato un cocktail Molotov alla scuola. Hanno trovato esplosivi al plastico con una spoletta e un dispositivo a tempo.» «Già» commentò Peter. «Be'.» «Mettiamo che mi venisse in mente di fare una bomba con la roba che ho in giro per casa. Cosa dovrei usare?» Peter scrollò le spalle. «Giornali. Fertilizzante... come Green Thumb,
tutta quella roba chimica. Cotone. E gasolio, ma quello probabilmente bisogna prenderlo a un distributore di benzina, dunque tecnicamente non dovrebbe averlo in casa.» Jordan lo osservò enumerare gli ingredienti. C'era una determinazione agghiacciante nella voce di Peter, ma ancora più sconcertante era il tono con cui pronunciava le parole: evidentemente era qualcosa di cui Peter si era sentito orgoglioso. «L'avevi già fatto.» «La prima volta provai a costruirne una soltanto per vedere se ci riuscivo.» La voce di Peter era sempre più animata. «Poi ne ho fatte altre. Di quel genere che lanci e scappi via di corsa.» «Che cosa aveva questa di diverso?» «Gli ingredienti, tanto per cominciare. Bisogna ricavare il cloruro di potassio dalla candeggina, e non è facile, ma è un po' come lavorare nel laboratorio di chimica. Mio padre veniva in cucina quando io filtravo i cristalli» spiegò Peter. «Era quello che gli dicevo... un credito extra.» «Gesù.» «In ogni caso, quando hai finito, ti serve la vaselina, che noi teniamo sotto il lavabo del bagno, e il gas che trovi in un fornello da campeggio, e quel genere di cera che si usa per mettere i sottaceti in un vaso a chiusura ermetica. Ero un po' spaventato all'idea di usare un detonatore» disse Peter. «Voglio dire che non avevo mai fatto niente così in grande fino a quel momento. Sa, quando avevo iniziato a pensare all'intero progetto...» «Basta» lo interruppe Jordan. «Basta così, per il momento.» «È lei che me l'ha chiesto» ribatté Peter, punto nel vivo. «Ma è una risposta che io non posso ascoltare. Il mio compito è farti assolvere, e non posso mentire davanti alla giuria. D'altro canto, non posso mentire sulle cose che non conosco. E a questo punto posso dire in tutta sincerità che tu non avevi progettato in anticipo ciò che accadde quel giorno. Vorrei attenermi a questa linea di condotta e, se hai un minimo di istinto di autoconservazione, dovresti farlo anche tu.» Peter si avvicinò alla finestra. I vetri erano opachi, graffiati dopo tutti quegli anni. Da cosa? si domandò Jordan. I carcerati li graffiano con le unghie per tentare di uscire? Peter non poteva vedere che la neve si era ormai sciolta; che i primi crochi erano già spuntati. Forse era meglio così. «Vado in chiesa» disse Peter. Jordan non aveva una particolare propensione per la religione istituzionalizzata, ma non intendeva certo scoraggiare chi sceglieva quel conforto.
«Fai bene.» «Lo faccio perché mi lasciano uscire dalla cella per andare alle funzioni» spiegò Peter. «Non perché ho scoperto Gesù o roba del genere.» «D'accordo.» Si domandò cosa avesse a che fare con gli esplosivi o con qualsiasi altra cosa attinente alla difesa di Peter. Francamente, Jordan non aveva tempo di mettersi a fare una discussione filosofica con Peter sulla natura di Dio - doveva trovarsi con Selena entro due ore per vagliare possibili testimoni a favore della difesa -, ma qualcosa gli impediva di interrompere Peter. Peter si voltò. «Lei crede all'inferno?» «Sììì. È pieno di avvocati difensori. Chiedilo a qualunque pubblico ministero.» «No, sul serio» disse Peter. «Scommetto che dovrò andarci.» Jordan sorrise forzatamente. «Io non scommetto quando non posso riscuotere la posta in gioco.» «Padre Moreno, sa, il sacerdote incaricato delle funzioni religiose qui dentro? Dice che, se si accetta Gesù e ci si pente, si ottiene il perdono... che la religione è come un gigantesco lasciapassare gratuito che ti libera da qualsiasi cosa. Ma non può essere vero... perché padre Moreno dice anche che ogni vita ha un suo valore... e allora i dieci ragazzi che sono morti?» Jordan comprese meglio, ma udì la propria voce rivolgere ancora una domanda a Peter. «Perché hai usato quell'espressione?» «Quale?» «I dieci ragazzi che sono morti. Come se fosse stata una progressione naturale.» Peter aggrottò la fronte. «Perché lo è stata.» «In che senso?» «È come quegli esplosivi, immagino. Se hai acceso l'innesco, o distruggi la bomba prima che scoppi... o la bomba distrugge tutto quanto.» Jordan si alzò e fece un passo verso il suo cliente. «Chi ha acceso il fiammifero, Peter?» Peter sollevò la faccia. «Chi non l'ha acceso?» Ora Josie pensava ai suoi amici come a persone che si era lasciata alle spalle. Haley Weaver era stata mandata a Boston per un intervento di chirurgia plastica; John Eberhard era in qualche istituto di riabilitazione a leggere libriccini colorati per bambini e a imparare come si fa a bere con la cannuccia; Matt e Courtney e Maddie se n'erano andati per sempre. Ave-
vano lasciato Josie, Drew, Emma e Brady: un gruppo talmente decimato da non potersi neppure più definire un gruppo. Erano nel seminterrato di Emma, a guardare un DVD. In quei giorni quello era il massimo della loro vita sociale, perché Drew e Brady avevano ancora bendaggi e ingessature e inoltre, sebbene nessuno di loro osasse dirlo a voce alta, andare nei posti che avevano l'abitudine di frequentare ricordava loro chi non c'era più. Il film l'aveva portato Brady - Josie non ricordava neppure il titolo, ma era uno di quei film che erano usciti dopo American Pie, nella speranza di sbancare il botteghino allo stesso modo, offrendo ragazze nude e ragazzi audaci e tutto quello che Hollywood immaginava fosse tipico della vita dei teenager, mescolando tutto insieme come una specie di insalata cosmica. In quel momento, sullo schermo c'era un inseguimento in macchina. Il protagonista urlava davanti a un ponte levatoio che si apriva lentamente. Josie sapeva che sarebbe riuscito ad attraversarlo. Prima di tutto, era una commedia. Secondariamente, nessuno aveva il coraggio di uccidere il protagonista prima che la storia fosse finita. Terzo, il suo insegnante di fisica aveva usato proprio quel film per dimostrare, scientificamente, che, data la velocità dell'auto e la traiettoria dei vettori, l'attore poteva realmente saltare il ponte... ma solo se non tirava vento. Josie sapeva anche che la persona nell'auto non era reale, perché non era l'attore che aveva quel ruolo, ma uno stuntman che l'aveva fatto migliaia di volte. Eppure, anche mentre guardava l'azione svolgersi sullo schermo del televisore, vedeva qualcosa di completamente diverso: il parafango dell'auto, che colpiva l'estremità del ponte aperto. Il metallo contorto volava in aria, per poi crollare in acqua e affondare. Gli adulti dicevano sempre che gli adolescenti guidavano troppo veloce o si ubriacavano o non usavano il preservativo perché pensavano di essere invincibili. Ma la verità era che in qualsiasi momento si può morire. Brady avrebbe potuto avere un attacco cardiaco sul campo da football, come quei giovani atleti del college che d'improvviso cadevano a terra morti. Emma avrebbe potuto essere colpita dal fulmine. Drew poteva trovarsi a entrare in una normalissima scuola superiore in una giornata completamente fuori dal normale. Josie si alzò in piedi. «Ho bisogno di un po' d'aria» mormorò, e si precipitò fuori dal seminterrato, salì le scale di corsa e uscì dall'ingresso principale della casa di Emma. Si sedette nella veranda e guardò il cielo, due stelle l'una accanto all'altra. Non si è invincibili quando si è giovani. Si è
soltanto stupidi. Udì la porta aprirsi e chiudersi frettolosamente. «Ehi» disse Drew, mettendosi a sedere vicino a lei. «Tutto bene?» «Benissimo.» Josie s'incollò un sorriso al volto. Lo sentiva gommoso, come una carta da parati che non è stata lisciata a dovere. Ma era diventata così brava in quello - fingere - che era diventata la sua seconda natura. Chi avrebbe mai pensato che aveva ereditato qualcosa da sua madre, dopotutto? Drew prese un filo d'erba e cominciò a sfilacciarlo con il pollice. «Dico la stessa cosa quando quell'idiota dello strizzacervelli della scuola mi chiama per chiedermi come sto.» «Non sapevo che chiamasse anche te.» «Credo che chiami tutti quelli che erano, capisci, vicino...» Non finì la frase: Vicino a quelli che non ce l'avevano fatta? Vicino a chi era morto quel giorno? Vicino alla morte a loro volta? «Credi che qualcuno dica mai qualcosa di sensato allo strizzacervelli?» domandò Josie. «Ne dubito. Lui non c'era quel giorno. Non può capire veramente.» «C'è qualcuno che può capire?» «Ci sei tu. Ci sono io. E quei ragazzi lassù» disse Drew. «Benvenuta nel club a cui nessuno vuole iscriversi. Sei un membro a vita.» Josie non ne aveva l'intenzione, ma le parole di Drew e quello stupido ragazzo nel film che cercava di saltare il ponte e il modo in cui le stelle le pungevano la pelle, come iniezioni per una malattia terminale, d'improvviso la fecero scoppiare a piangere. Drew le si avvicinò, cingendola con il braccio sano, e lei si appoggiò a lui. Chiuse gli occhi e premette il volto contro la flanella della sua camicia. Era una sensazione così familiare che le sembrava di essere tornata a casa, nel suo letto, dopo anni di circumnavigazioni per tutto il globo, e scoprisse che il materasso aveva mantenuto l'impronta del suo corpo e del suo peso. Eppure... il tessuto della camicia non aveva il solito odore. Il ragazzo che la stringeva non era della stessa taglia, né della stessa forma, non era lo stesso ragazzo. «Non credo di farcela» bisbigliò Josie. Immediatamente Drew si staccò da lei. Era arrossito, e non riusciva a guardare Josie negli occhi. «Non intendevo quello. Tu e Matt...» La sua voce divenne incolore. «Be', so che sei ancora sua.» Josie guardò in su verso il cielo. Gli fece un segno di assenso, come se avesse voluto alludere proprio a quello.
Tutto incominciò quando la stazione di servizio lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica. Peter non si era presentato all'appuntamento per la revisione dell'auto. Voleva prenderne un altro? Lewis era solo in casa quando ascoltò quel messaggio. Compose il numero prima ancora di rendersi conto di quello che stava facendo: nessuna meraviglia, dunque, se ora si ritrovava effettivamente al nuovo appuntamento. Uscì dall'auto e consegnò le chiavi all'inserviente del distributore. «Aspetti dentro» disse l'uomo. «C'è il caffè.» Lewis si versò una tazza, aggiungendovi tre zollette di zucchero e molto latte, come avrebbe fatto Peter. Si sedette e, invece di prendere una copia ormai logora di Newsweek, mosse il pollice su PC Gamer. Uno, pensò. Due, tre. A un certo punto l'inserviente del distributore entrò nella sala d'attesa. «Signor Houghton» disse, «l'auto qui fuori non ha bisogno di revisioni fino a luglio.» «Lo so.» «Ma... ha preso questo appuntamento.» Lewis annuì. «In questo momento non ho qui quell'auto.» Era stata sequestrata e portata da qualche parte. Come del resto i libri, i giornali, il computer di Peter e Dio solo sa cos'altro. L'inserviente lo guardò fisso, come capita di fare quando ci si accorge che la conversazione prende una piega che esula dalla razionalità. «Signore» disse, «non possiamo revisionare una macchina che non è qui.» «No» convenne Lewis. «Certo che no.» Depose la rivista sul tavolino, lisciando la copertina stropicciata. Poi si passò una mano sulla fronte. «Solo che... mio figlio aveva preso l'appuntamento» disse. «Ho voluto presentarmi io per lui.» L'inserviente annuì, indietreggiando lentamente. «Certo... posso lasciare la macchina parcheggiata qui fuori?» «Così lei sa» disse Lewis a bassa voce «che avrebbe superato la revisione.» Una volta, quando Peter era piccolo, Lacy l'aveva mandato allo stesso campeggio dov'era stato Joey, che si era tanto divertito. Era in un posto sul fiume nel Vermont, e i campeggiatori facevano sci d'acqua sul lago Fairlee, prendevano lezioni di vela e compivano gite notturne in canoa. Peter aveva telefonato la prima sera, supplicandoli di andare a riprenderlo. Lacy
era già pronta ad avviare la macchina per andare da lui, ma Lewis l'aveva dissuasa. Se non prova nemmeno, aveva detto Lewis, come potrà mai sapere se è in grado di resistere? Al termine delle due settimane, quando Lacy rivide Peter, in lui notò dei cambiamenti. Era più alto, e anche ingrassato. Ma c'era qualcosa di diverso nei suoi occhi: una luce che era stata ridotta in cenere, in un certo qual modo. Quando Peter la guardava, sembrava diffidente, come se capisse che lei non era più dalla sua parte. Ora la guardava allo stesso modo anche se lei gli sorrideva, fingendo che non ci fosse il riflesso della luce fluorescente sopra la sua testa; fingendo di potersi allungare fino a toccarlo invece di rimanere a fissarlo dall'altra parte della linea rossa tracciata sul pavimento del carcere. «Sai che cosa ho trovato in soffitta ieri? Il dinosauro che ti piaceva tanto, quello che ruggiva quando gli tiravi la coda. Pensavo sempre che te lo saresti portato anche in chiesa al tuo matrimonio...» Lacy s'interruppe, rendendosi conto che forse non ci sarebbe mai stato nessun matrimonio per Peter, e nessuna chiesa, ma solo il carcere. «Bene» continuò, aumentando l'intensità del suo sorriso. «L'ho messo sul tuo letto.» Peter la guardò fisso. «D'accordo.» «La mia preferita, tra le tue feste di compleanno, fu quella del dinosauro, quando noi avevamo seppellito quegli ossi di plastica nel recinto della sabbia e tu dovevi scavare per tirarli fuori» aggiunse Lacy. «Te lo ricordi?» «Mi ricordo che non era venuto nessuno.» «Certo che erano venuti...» «Cinque bambini, forse, perché le mamme li avevano costretti» disse Peter. «Dio. Avevo sei anni. Perché ne parliamo ancora?» Perché non so cos'altro dire, pensò Lacy. Lasciò vagare lo sguardo nella sala visite: c'erano pochi carcerati, e quei pochi affezionati che credevano ancora in loro, raggruppati sui due lati della linea rossa. In realtà, si rese conto Lacy, quella linea divisoria tra lei e Peter esisteva già da anni. Tenendo il mento sollevato, ci si poteva persino illudere che niente li separasse. Era soltanto quando si cercava di oltrepassarla, come in quel momento, che si capiva di avere davanti una barriera reale. «Peter» sbottò Lacy, «mi dispiace di non essere venuta a prenderti al campeggio, quella volta.» Lui la guardò come se fosse pazza. «Ehm, grazie, ma ormai l'ho superato da un secolo.»
«Lo so. Ma a me dispiace tuttora.» Era dispiaciuta per mille motivi, tutt'a un tratto: per non aver prestato più attenzione quando Peter le aveva mostrato qualcosa di nuovo che aveva imparato a fare con il computer; per non avergli comprato un altro cane dopo la morte di Dozer; perché non erano tornati ai Caraibi durante le vacanze invernali, dal momento che Lacy aveva erroneamente dato per scontato che avessero tutto il tempo del mondo. «Dispiacersi non cambia niente.» «Cambia per la persona che si dispiace.» Peter gemette. «Ma che cazzo è? Brodo caldo per il ragazzo senz'anima?» Lacy indietreggiò. «Non c'è bisogno di dire parolacce per...» «'fanculo» cantò Peter, «'fanculo 'fanculo 'fanculo 'fanculo 'fanculo.» «Non ho intenzione di stare seduta qui a sentire queste...» «Sì, invece» disse Peter. «E sai perché? Perché, se te ne vai, avrai soltanto qualcosa in più di cui dispiacerti.» Lacy era seduta a metà sulla sedia, ma la verità insita nelle parole di Peter la fece ricadere pesantemente contro lo schienale. Lui la conosceva, evidentemente, molto meglio di quanto lei avesse mai conosciuto lui. «Mami» disse lui piano, e la sua voce sembrava oltrepassare la linea rossa. «Non dicevo sul serio.» Lei alzò lo sguardo su di lui, la gola chiusa dalle lacrime. «Lo so, Peter.» «Sono contento che tu venga qui.» Peter deglutì. «Anche perché sei l'unica.» «Tuo padre...» Peter sbuffò. «Non so cosa ti abbia detto, ma io non l'ho più visto, dopo la prima volta.» Lewis non andava a trovare Peter? Era una novità per Lacy. Dove andava quando usciva di casa, dicendole che si recava al carcere? Immaginò Peter, seduto nella sua cella la settimana in cui aspettava una visita che non arrivava. Lacy si costrinse a sorridere - doveva usare il suo tempo per arrabbiarsi, non quello di Peter - e immediatamente cambiò argomento. «Per l'imputazione... Ti ho portato una bella giacca da indossare.» «Jordan dice che non ce n'è bisogno. Per l'imputazione mi vestirò così. Non ho bisogno della giacca fino al processo.» Peter sorrise appena. «Spero che tu non abbia ancora tolto il cartellino del prezzo.» «Non l'ho comprata. È il blazer di Joey per i colloqui.»
I loro occhi si incontrarono. «Ah» mormorò Peter. «Ecco cosa facevi in soffitta.» Vi fu un silenzio mentre entrambi ricordavano Joey che scendeva di sotto indossando quel blazer di Brooks Brothers che Lacy gli aveva comprato al Filene's Basement di Boston con un forte sconto. Era stato acquistato per i colloqui del college; Joey stava organizzandoli all'epoca dell'incidente. «Hai mai desiderato che fossi morto io» domandò Peter, «invece di Joey?» Lacy sentì il proprio cuore pesante come un macigno. «Ovviamente no.» «Eppure avresti ancora Joey» disse Peter. «E niente di tutto questo sarebbe accaduto.» Lei pensò a Janet Isinghoff, la donna che non l'aveva voluta come ostetrica. Diventare adulti voleva anche dire imparare a non essere completamente sinceri... imparare quando è meglio mentire, invece di far male a qualcuno con la verità. Ecco perché Lacy si era sempre presentata a quelle visite con un sorriso stiracchiato come una maschera di Halloween sul volto, quando in realtà avrebbe voluto scoppiare a piangere ogni volta che vedeva Peter accompagnato nella sala visite da una guardia carceraria. Ecco perché parlava di campeggi e animali di pezza - ricordi del passato di suo figlio - invece di scoprire chi era diventato. Ma Peter non aveva mai imparato a dire una cosa quando intendeva dirne un'altra. Era uno dei motivi per cui era stato ferito tante volte. «Sarebbe un lieto fine» continuò Peter. Lacy respirò forte. «No, se tu non ci fossi.» Peter la guardò per un lungo momento. «Stai mentendo» disse, ma non in tono arrabbiato e nemmeno accusatorio. Come se si limitasse a constatare i fatti, a differenza di lei. «Io non sono...» «Puoi anche dirlo un milione di volte, ma non serve a renderlo più vero.» Poi Peter sorrise, così candidamente che Lacy provò un dolore come una frustata. «Saresti capace di convincere papà, e i poliziotti e chiunque altro ti ascoltasse» disse. «Ma non puoi convincere un altro bugiardo.» Quando Diana si avvicinò al registro delle udienze per verificare quale giudice presiedesse all'imputazione di Houghton, Jordan McAfee era già lì. Diana lo odiava per principio, perché lui non aveva strappato due paia di calze tentando di infilarsele, perché quella non era una giornata no per i
suoi capelli, perché non sembrava minimamente turbato dal fatto che metà della città di Sterling fosse sui gradini davanti al tribunale, e chiedesse giustizia. «Buongiorno» disse lui, senza nemmeno guardarla. Diana non rispose. Ma spalancò la bocca quando lesse il nome del giudice che presiedeva a quel caso. «Credo che ci sia un errore» disse al cancelliere. Il cancelliere diede un'occhiata al registro delle sentenze. «Questa mattina c'è il giudice Cormier.» «Per il caso Houghton? Mi prende in giro?» Il cancelliere scosse il capo. «Assolutamente no.» «Ma sua figlia...» Diana chiuse la bocca di colpo, mentre i pensieri ronzavano nella sua testa. «Dobbiamo avere un incontro a porte chiuse con il giudice prima dell'imputazione.» Non appena il cancelliere se ne fu andato, Diana affrontò Jordan. «Cosa diavolo è saltato in mente alla Cormier?» Non capitava spesso a Jordan di vedere Diana Leven agitata, e francamente era interessante. Per la verità, anche Jordan era rimasto scioccato nel vedere il nome Cormier sul registro delle sentenze, esattamente com'era accaduto al pubblico ministero, ma non aveva intenzione di dirlo a Diana. Non scoprire le proprie carte era l'unico vantaggio che gli rimaneva, ormai, perché decisamente il suo caso non valeva granché. Diana aggrottò la fronte. «Si aspettava forse che lei....» Il cancelliere ricomparve. Jordan nutriva una simpatia particolare per Eleanor; alla corte suprema lei gli lasciava una certa libertà e persino rideva delle battute sulle bionde sceme che lui teneva in serbo per lei, mentre la maggior parte dei cancellieri erano casi disperati di supponenza. «Il giudice vi riceve ora» annunciò Eleanor. Mentre seguiva il cancelliere nell'ufficio del giudice, Jordan si chinò a sussurrarle il clou di una barzelletta che le stava raccontando prima che Leven lo interrompesse bruscamente con il suo arrivo. «E suo marito guarda nella scatola e dice: 'Tesoro, non è un puzzle... sono cereali surgelati!'» Eleanor fece una risatina e Diana assunse un'espressione truce. «Cos'è, una specie di linguaggio cifrato?» «Proprio così, Diana. È il linguaggio segreto di un avvocato difensore per dire: Fai quello che vuoi, ma non riferire al pubblico ministero quello che ti dico.» «Non mi stupirebbe» mormorò Diana mentre entravano nell'ufficio del
giudice. Il giudice Cormier indossava già la toga, pronta a iniziare l'imputazione. Teneva le braccia conserte e stava in piedi davanti alla scrivania. «Bene, avvocati, abbiamo un mucchio di gente che aspetta in aula. Qual è il problema?» Diana lanciò un'occhiata a Jordan, ma lui si limitò a corrugare la fronte. Se lei voleva suscitare un vespaio, andava benissimo, ma lui voleva starne fuori. Avrebbe lasciato che la Cormier se la prendesse con il pubblico ministero, non con la difesa. «Giudice» disse Diana esitante, «mi risulta che sua figlia fosse nella scuola durante la sparatoria. In effetti, abbiamo avuto un colloquio con lei.» Jordan dovette riconoscere un certo merito alla Cormier: il giudice riusciva a guardare Diana come se non avesse presentato un'obiezione pertinente e scomoda, ma come se avesse detto qualcosa di assolutamente grottesco. Come il clou di una battuta sulle bionde svampite, per esempio. «Ne sono perfettamente consapevole» disse il giudice. «C'era un migliaio di ragazzi a scuola, al momento della sparatoria.» «Naturalmente, Vostro Onore. Solo che... prima di presentarci davanti a tutti, volevo domandare se la corte ha intenzione di presiedere soltanto all'imputazione, o se lei intende presiedere all'intero caso.» Jordan guardò Diana, domandandosi perché fosse così assolutamente sicura che la Cormier non avrebbe dovuto occuparsi di quel caso. Che cosa sapeva lei di Josie Cormier che lui non sapeva? «Come ho detto, c'era un migliaio di ragazzi nella scuola. Alcuni dei loro genitori sono agenti di polizia, altri lavorano qui alla corte suprema. Uno lavora persino nel suo ufficio, signorina Leven.» «Sì, Vostro Onore... ma quell'avvocato in particolare non si occupa di questo caso.» Il giudice la fissò, con calma. «Ha intenzione di chiamare mia figlia come testimone, signorina Leven?» Diana esitò. «No, Vostro Onore.» «Bene, ho letto la dichiarazione di mia figlia, avvocato, e non vedo per quale ragione non dovremmo procedere.» Jordan ripassò velocemente quello che aveva appreso fino a quel momento: Peter aveva chiesto se Josie stava bene. Josie era presente durante la sparatoria.
La foto di Josie nell'annuario, tra i documenti probatori, era l'unica contrassegnata dalle parole LASCIARLA VIVERE. Ma, secondo sua madre, qualunque cosa avesse detto alla polizia non avrebbe interferito con il caso. Secondo Diana, niente di quello che Josie sapeva era abbastanza importante da farla chiamare come testimone dal pubblico ministero. Lasciò cadere lo sguardo, mentre la sua mente rivedeva quei fatti infinite volte come se riavvolgesse continuamente il nastro di una videocassetta. Una videocassetta che non significava niente. L'ex scuola elementare che serviva come collocazione fisica per la Sterling High non aveva una caffetteria: i bambini mangiavano in classe, ai loro banchi. Ma poiché quella non sembrava una soluzione adeguata per gli adolescenti la biblioteca era stata trasformata in una caffetteria improvvisata. Niente più libri o scaffali, ma la moquette aveva ancora l'ABC sparso nel suo tessuto, e un poster del Gatto e il cappello matto ancora appeso accanto alle porte a due battenti. Josie non si sedeva più con le sue amiche nella caffetteria. Non si sentiva a suo agio, come se mancasse una massa critica e loro fossero state scisse come un atomo sotto pressione. Preferiva relegarsi in un angolo della biblioteca dove c'erano dei gradini rivestiti di moquette e dove le piaceva immaginare che un'insegnante leggesse a voce alta ai suoi alunni della scuola materna. Quel giorno, quando arrivarono a scuola, le telecamere erano già in attesa. Bisognava camminare dritto in mezzo a loro per arrivare all'entrata principale. Le avevano evitate la settimana prima - sicuramente era accaduta qualche tragedia da un'altra parte che aveva richiamato i giornalisti -, ma erano tornati in massa per seguire l'imputazione. Josie si era domandata come potessero coprire in tempo il percorso dalla scuola al tribunale, che si trovava più a nord. Si domandava quante volte durante la sua carriera scolastica sarebbero ritornati. L'ultimo giorno di scuola? Per l'anniversario della sparatoria? Per il diploma? Immaginava l'articolo su People che sarebbe stato scritto di lì a un decennio sui sopravvissuti al massacro della Sterling High - «Dove sono adesso?» John Eberhard avrebbe ripreso a giocare a hockey, o almeno a camminare? I genitori di Courtney avrebbero lasciato Sterling? Dove sarebbe stata Josie? E Peter? La madre di Josie era il giudice del processo di Peter. Benché non ne
parlasse con Josie - dal punto di vista legale, non poteva farlo - non era come se Josie non lo sapesse. Josie era divisa tra un profondo sollievo, sapendo che la sua mamma si sarebbe incaricata di quel caso, e il terrore più assoluto. Da una parte, sapeva che sua madre avrebbe cominciato a mettere insieme gli eventi di quel giorno, il che significava che nemmeno Josie doveva parlarne. Dall'altra, una volta che sua madre avesse cominciato a mettere insieme gli eventi di quel giorno, che altro sarebbe riuscita a capire? Drew entrò in biblioteca, lanciando in aria un'arancia e prendendola al volo ripetutamente con una mano. Guardò la folla di studenti, riuniti in piccoli gruppi sulla moquette con i vassoi del pasto caldo in equilibrio sulle ginocchia come le mazze da cricket, finché individuò Josie. «Cosa succede?» domandò sedendosi vicino a lei. «Non molto.» «Ti hanno fermato le iene?» Si riferiva ai giornalisti della televisione. «Ho fatto una corsa per evitarli.» «Vorrei che andassero tutti a farsi fottere» disse Drew. Josie appoggiò la testa alla parete. «Io vorrei soltanto che tutto ritornasse normale.» «Magari dopo il processo.» Drew si voltò a guardarla. «È strano, sai, con la tua mamma e tutto il resto?» «Noi non ne parliamo. Non parliamo di niente, in realtà.» Prese la bottiglia d'acqua e bevve un sorso, perché Drew non si accorgesse che le tremava la mano. «Lui non è pazzo.» «Chi?» «Peter Houghton. Ho visto i suoi occhi quel giorno. Sapeva esattamente quale inferno stesse scatenando.» «Drew, smettila» sospirò Josie. «Be', è vero. E non importa se un fottutissimo avvocato di successo dichiara che tenterà di tirarlo fuori dai guai.» «Credo che debbano deciderlo i giurati, non tu.» «Gesù santo, Josie» disse lui. «Non avrei mai pensato che fossi proprio tu l'unica che lo difende.» «Io non lo difendo. Sto solo dicendoti come funziona il sistema legale.» «Be', grazie, Marcia Clark. Ma di questo non te ne frega niente quando ti hanno tolto una pallottola dalla spalla. O quando il tuo migliore amico, o il
tuo ragazzo, sta morendo dissanguato davanti...» S'interruppe bruscamente perché a Josie era sfuggita di mano la bottiglia d'acqua, che si era rovesciata addosso a lei e a Drew. «Scusa» disse lei, asciugando il disastro con un tovagliolo di carta. Drew sospirò. «Scusami tu. Forse sono un po' fuori di testa, con le telecamere e tutto il resto.» Strappò un pezzo del tovagliolo fradicio e se lo ficcò in bocca per poi sputarlo contro la schiena di un ragazzo sovrappeso che suonava la tuba nella banda della scuola. Oddio, pensò Josie. Non è cambiato proprio niente. Drew lacerò un altro pezzo di tovagliolo e lo arrotolò nel palmo della mano. «Adesso basta» disse Josie. «Come?» Drew scrollò le spalle. «Non eri tu che volevi tornare alla normalità?» Nell'aula del tribunale c'erano le telecamere di quattro emittenti televisive: ABC, NBC, CBS e CNN; più i giornalisti di Time, Newsweek, The New York Times, The Boston Globe, e la Associated Press. I media avevano incontrato Alex la settimana precedente nel suo ufficio, perché lei potesse decidere chi di loro sarebbe entrato in aula a rappresentare la propria testata mentre gli altri avrebbero atteso fuori sui gradini del tribunale. Sapeva che le piccole luci rosse sulle telecamere indicavano che stavano registrando; sentiva il grattare delle penne sui fogli mentre i giornalisti trascrivevano testualmente le sue parole. Peter Houghton era diventato negativamente famoso e, come conseguenza diretta, ora Alex avrebbe avuto i suoi quindici minuti di notorietà. O forse sessanta, pensò Alex. Era il tempo che le occorreva soltanto per leggere tutte le imputazioni d'accusa. «Signor Houghton» disse Alex, «lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, Courtney Ignatio. Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona...» Abbassò gli occhi mentre pronunciava quel nome. «Matthew Royston.» Le parole erano di routine, e Alex avrebbe potuto pronunciarle anche dormendo. Ma invece si concentrò, misurando la propria voce e persino sottolineando il nome di ciascuno dei ragazzi morti. La sala era gremita e Alex riconosceva i genitori di quegli studenti, e anche alcuni studenti. Una madre, una donna che Alex non conosceva né di vista né di nome, era se-
duta in prima fila, alle spalle del tavolo della difesa, tormentando tra le mani la foto 24 x 30 di una ragazza sorridente. Jordan McAfee era seduto vicino al suo cliente, che indossava la tuta arancione del carcere ed era in manette, e faceva tutto il possibile per evitare di guardare Alex mentre lei leggeva le imputazioni d'accusa. «Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, vale a dire Justin Friedman... «Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, vale a dire Christopher McPhee... «Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, vale a dire Grace Murtaugh...» La donna con la foto si alzò in piedi mentre Alex elencava i capi d'accusa. Si chinò al di sopra della barra, tra Peter Houghton e il suo avvocato, e sbatté la foto sul tavolo con tale impeto che il vetro si ruppe. «Te la ricordi?» gridò la donna, e la sua voce era tagliente. «Ti ricordi di Grace?» McAfee sobbalzò. Peter chinò il capo, tenendo gli occhi incollati al tavolo che aveva di fronte. Ad Alex era già capitato di avere in aula gente che disturbava, ma non riusciva a ricordare nessun altro che le avesse fatto mancare il respiro. Il dolore di quella madre sembrava colmare tutto lo spazio vuoto nella sala, e scaldare i sentimenti degli altri spettatori portandoli a uno stato di eccitazione. Le sue mani cominciarono a tremare; le appoggiò sotto il banco perché nessuno vedesse. «Signora» disse Alex. «Sono costretta a chiederle di sedersi...» «L'hai guardata in faccia quando le hai sparato, bastardo?» L'hai fatto? pensò Alex. «Vostro Onore» la richiamò McAfee. La capacità di Alex di giudicare quel caso con imparzialità era già stata messa in dubbio dal pubblico ministero. Sebbene non dovesse giustificare le proprie decisioni con nessuno, aveva dichiarato agli avvocati che non aveva difficoltà, in quel caso specifico, a tenere separato il suo coinvolgimento personale da quello professionale. Era convinta che si trattasse semplicemente di considerare Josie non come sua figlia, in particolare, ma come una delle centinaia di persone presenti durante la sparatoria. Non si
era resa conto che in realtà avrebbe finito per considerarsi non come un giudice, ma come un'altra madre. Puoi farlo, si disse. Ricorda soltanto perché sei qui. «Agenti» mormorò Alex, e i due robusti agenti di guardia del tribunale afferrarono la donna per le braccia e la scortarono fuori dall'aula. «Brucerai all'inferno» gridò la donna mentre le telecamere la seguivano lungo il corridoio in mezzo ai posti a sedere. Alex non la guardava più. Aveva gli occhi fissi su Peter Houghton, mentre l'attenzione del suo avvocato era distratta da qualcos'altro. «Signor McAfee» disse. «Sì, Vostro Onore?» «Chieda al suo cliente di tenere le mani bene in vista.» «Chiedo scusa, giudice, ma mi sembra che ci siano già abbastanza pregiudiziali...» «Lo faccia, avvocato.» McAfee annuì a Peter, che sollevò i polsi ammanettati e aprì i pugni. Nel palmo della mano di Peter brillò una manciata di vetri rotti staccati dalla cornice della foto. Sbiancando, l'avvocato prese i vetri. «Grazie, Vostro Onore» mormorò. «Non c'è di che.» Alex guardò la galleria e si schiarì la gola. «Confido nel fatto che non vi saranno altre manifestazioni di questo genere, altrimenti sarò costretta a chiudere la seduta al pubblico.» Continuò a leggere i capi d'accusa in un'aula talmente silenziosa che si potevano sentire i battiti del cuore; si poteva udire la speranza che saliva fluttuando verso le travi del soffitto. «Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, vale a dire Madeleine Shaw. Lei è accusato di aver compiuto, il 6 marzo 2007, un omicidio di primo grado, violando l'articolo 631:1-A, procurando volutamente la morte di una persona, vale a dire Edward McCabe. «Lei è accusato di tentato omicidio di primo grado, violando gli articoli 630:1-A e 629:1, per aver commesso un atto in continuazione del delitto di omicidio di primo grado, vale a dire di aver sparato a Emma Alexis. «Lei è accusato di possesso di armi da fuoco in un edificio scolastico. «Di possesso di ordigni esplosivi. «Di uso illegale di un ordigno esplosivo. «Di detenzione di beni rubati, vale a dire armi da fuoco.» Quando ebbe finito, Alex era quasi afona. «Signor McAfee» disse, «co-
me si dichiara il suo cliente?» «Si dichiara non colpevole per tutte le imputazioni, Vostro Onore.» Un mormorio si diffuse per tutta l'aula come se fosse contagioso: accadeva sempre quando veniva pronunciata la dichiarazione di non colpevolezza, e Alex lo trovava sempre ridicolo. Che cosa ci si aspettava che facesse l'imputato? Che si dichiarasse colpevole? «Data la natura delle accuse, lei non ha il diritto alla libertà provvisoria su cauzione secondo la legge. Lei è demandato alla custodia dello sceriffo.» Alex sciolse la corte e si avviò verso il suo ufficio. Dentro, con la porta chiusa, si mise a percorrere la stanza a passi lunghi come un atleta dopo una gara particolarmente dura. Se c'era qualcosa di cui si sentiva sicura, era la sua capacità di giudicare imparzialmente. Ma se l'imputazione le era riuscita tanto difficile cos'avrebbe fatto quando il pubblico ministero avrebbe cominciato a sottolineare realmente gli eventi di quel giorno? «Eleanor» disse Alex, premendo il pulsante per comunicare dall'interno con il cancelliere, «cancelli i miei impegni per le prossime due ore.» «Ma lei...» «Li sospenda» ripeté bruscamente. Vedeva ancora i volti di quei genitori nella sala. Quello che avevano perduto era scritto sulle loro facce, come una ferita collettiva. Alex si liberò dalla toga e scese le scale sul retro, avviandosi verso il parcheggio. Ma invece di fermarsi ad accendersi una sigaretta salì in macchina. Guidò dritto fino alla scuola elementare e parcheggiò nella corsia antincendio. Nel parcheggio per gli insegnanti era rimasto un solo furgone della stampa e Alex ne fu terrorizzata, finché si rese conto che la targa era di New York e le probabilità che qualcuno la riconoscesse senza la sua toga da giudice erano quasi inesistenti. L'unica persona che aveva il diritto di chiedere ad Alex di ritirarsi era Josie, ma Alex sapeva che sua figlia avrebbe finito per capire. Era il primo caso importante di Alex presso la corte suprema. Implicava un comportamento sano per la stessa Josie, perché procedesse con la sua vita. Alex tentò di ignorare l'ultima ragione con cui lottava per tenersi stretto quel caso, quella che la tormentava come una spina nel fianco, come una scheggia, e in qualsiasi modo la prendesse continuava a pungerla nel vivo: aveva maggiori possibilità di apprendere dal pubblico ministero e dalla difesa che cosa aveva passato Josie, mentre sua figlia non glielo avrebbe mai detto. Entrò in direzione. «Sono venuta a prendere mia figlia» disse Alex, e la
segretaria le allungò un modulo da compilare. STUDENTE, lesse Alex. ORA DI USCITA. MOTIVO. ORA DI ENTRATA. Josie Cormier, scrisse. 10.45. Ortodontista. Sentiva su di sé lo sguardo della segretaria: evidentemente la donna si domandava perché il giudice Cormier fosse in piedi di fronte alla sua scrivania invece di essere in tribunale a presiedere all'imputazione di cui tutti aspettavano notizie. «Per favore, dica a Josie di venire direttamente alla macchina» disse Alex, e uscì dall'ufficio. Non erano trascorsi neanche cinque minuti quando Josie aprì la portiera dal lato del passeggero e scivolò sul sedile. «Non ho l'apparecchio.» «Avevo bisogno di trovare un pretesto veloce» spiegò Alex. «È il primo che mi è venuto in mente.» «Ma allora perché sei qui?» Alex guardò Josie alzare il pulsante della ventilazione. «Ho bisogno di un motivo per pranzare con mia figlia?» «Ma sono le dieci e mezzo.» «E allora mariniamo la scuola.» «Come vuoi» disse Josie. Alex si staccò dal cordone del marciapiede. Josie era a mezzo metro di distanza da lei, ma avrebbero potuto benissimo trovarsi in due continenti diversi. Sua figlia fissava ostinatamente fuori dal finestrino, guardando passare il mondo. «È finita?» domandò Josie. «L'imputazione? Sì.» «Sei venuta per questo?» Come poteva Alex descrivere la sensazione che aveva provato, vedendo tutte quelle madri e quei padri senza nome nella sala, senza un figlio in mezzo a loro? Se perdi tuo figlio, forse non puoi nemmeno più definirti un genitore. E se sei così stupida da lasciare che tua figlia ti scivoli via? Alex guidò fino in fondo a una strada da cui si godeva la vista del fiume. La corrente era molto veloce, come sempre in primavera. Se non lo conoscevi meglio, se ti limitavi a guardarlo in fotografia, poteva anche venirti voglia di fare una nuotata. Non avresti capito, con una sola occhiata, che l'acqua poteva anche toglierti il respiro; che la corrente poteva spazzarti via. «Volevo vederti» confessò Alex. «Oggi in aula c'era gente... gente che probabilmente d'ora in poi si sveglierà ogni giorno con il rimpianto di non
averlo fatto: lasciare tutto nel bel mezzo della giornata per andare a pranzo con la propria figlia, invece di dirsi che, tanto, potranno farlo un'altra volta.» Si voltò verso Josie. «Per quella gente non ci sarà mai più un'altra volta.» Josie si concentrò su un filo bianco fuori posto, e rimase in silenzio abbastanza a lungo perché Alex cominciasse a maledire mentalmente se stessa. Ecco cosa capitava a dare retta impulsivamente all'istinto materno. Alex si era lasciata spaventare dalle proprie emozioni durante l'imputazione; invece di dire a se stessa che era ridicola, aveva reagito a quelle emozioni. Ma è esattamente quello che accade quando si incominciano a setacciare le sabbie mobili dei sentimenti, invece di attenersi il più possibile ai fatti concreti. È l'inferno che si scatena quando hai il cuore in mano: è probabile che qualcuno te lo strappi. «Mariniamo la scuola» disse Josie con calma. «Niente pranzo.» Alex si appoggiò al sedile, con un certo sollievo. «Come vuoi» disse scherzosamente. Aspettò che Josie la guardasse in faccia. «Voglio parlarti del caso.» «Credevo che non potessi.» «In un certo senso volevo parlare proprio di questo. Anche se questa fosse la più incredibile opportunità di carriera che si sia mai vista al mondo, farei un passo indietro se capissi che finirebbe per renderti tutto più difficile. Puoi ancora venire da me in qualsiasi momento e chiedermi tutto quello che vuoi.» Entrambe fecero finta, per un momento, che Josie si comportasse così regolarmente, mentre in realtà erano anni che non si confidava con Alex. Josie la guardò di traverso. «Anche riguardo all'imputazione?» «Anche riguardo all'imputazione.» «Che cos'ha detto Peter in aula?» domandò Josie. «Niente. Parla soltanto l'avvocato.» «Che aspetto aveva?» Alex pensò un istante. Subito dopo aver visto Peter con indosso la tuta del carcere, si era meravigliata di trovarlo così cresciuto. Sebbene l'avesse visto nel corso degli anni - in fondo alla classe durante gli eventi della scuola, alla copisteria quando lui e Josie avevano lavorato insieme per un breve periodo, e persino alla guida della sua auto nella via principale - in un certo senso si aspettava che lui fosse ancora lo stesso ragazzino che giocava all'asilo con Josie. Alex considerò i pantaloni arancione, i sandali di gomma, le manette. «Aveva l'aspetto di un imputato» rispose.
«Se verrà condannato» domandò Josie, «non uscirà mai più dal carcere?» Alex provò una stretta al cuore. Josie tentava di non farlo apparire, ma come avrebbe potuto non temere che qualcosa di simile si verificasse di nuovo? E, ancora, come poteva Alex, in qualità di giudice, promettere che Peter sarebbe stato condannato prima ancora che fosse processato? Alex ebbe l'impressione di camminare sospesa su una corda, tra la sua responsabilità personale da una parte e l'etica professionale dall'altra, tentando con tutte le sue forze di non cadere. «Non devi preoccuparti di questo...» «Non è una risposta» disse Josie. «Molto probabilmente vi passerà il resto della sua vita, sì.» «Se fosse in carcere, la gente potrebbe andare a parlare con lui?» Tutt'a un tratto, Alex non seguiva più il ragionamento logico di Josie. «Perché? Tu vuoi parlare con lui?» «Non lo so.» «Non riesco a immaginare perché dovresti volerlo, dopo...» «Una volta eravamo amici» ribatté Josie. «Tu e Peter non siete più amici da anni» replicò Alex, ma poi ebbe un'intuizione: capì perché sua figlia, che sembrava terrorizzata all'idea che Peter uscisse di prigione, volesse ancora comunicare con lui dopo la sua detenzione: per il rimorso. Forse Josie credeva di aver fatto - o di non aver fatto - qualcosa che aveva condotto Peter al punto in cui era arrivato e di avergli spianato la via verso la Sterling High. Se Alex non comprendeva il concetto di senso di colpa, chi mai poteva farlo? «Cara, ci sono persone che si prendono cura di Peter... persone che lo fanno perché è il loro lavoro. Non sei tu a doverlo fare.» Alex fece un piccolo sorriso. «Tu devi soltanto prenderti cura di te stessa, non credi?» Josie distolse lo sguardo. «Ho un compito in classe la prossima ora» disse. «Possiamo tornare a scuola, adesso?» Alex guidava in silenzio, perché ormai era troppo tardi per rettificare; per dire a sua figlia che c'era qualcuno che si prendeva cura anche di lei; che Josie non era sola. Alle due del mattino, quando ormai da cinque ore esatte faceva rimbalzare tra le braccia un bambino malato e piagnucoloso, Jordan si rivolse a Selena. «Ricordami perché abbiamo avuto un figlio.» Selena era seduta al tavolo della cucina - be', no, in effetti era adagiata in
modo scomposto, con la testa posata sulle braccia che fungevano da cuscino. «Perché tu volevi trasmettere la predisposizione genetica perfettamente equilibrata della mia discendenza.» «Francamente, penso che quello che ci stiamo trasmettendo sia soltanto un'influenza virale.» Improvvisamente, Selena si mise seduta. «Ehi» bisbigliò. «Si è addormentato.» «Grazie a Dio. Liberami da lui.» «Puoi starne certo... in tutto il giorno, non è mai stato così bene come in questo momento.» Jordan le lanciò uno sguardo torvo e si lasciò cadere sulla sedia di fronte a lei, le mani ancora atteggiate a cullare il bambino. «Non è il solo.» «Ti riferisci ancora al tuo caso? Perché a voler essere sinceri, Jordan, io sono così maledettamente stanca che ho bisogno di qualche indizio, ecco, se proprio vogliamo tornare sull'argomento...» «Proprio non riesco a capire perché non si sia ritirata. Quando il pubblico ministero ha tirato in ballo sua figlia, la Cormier ha lasciato cadere l'argomento... ma la cosa più importante è che la Leven ha fatto lo stesso.» Selena sbadigliò e si alzò in piedi. «A caval donato non si guarda in bocca, amore. La Cormier andrà decisamente meglio per te, come giudice, che non Wagner.» «Eppure c'è qualcosa che non mi torna.» Selena gli sorrise indulgente. «Allergia da pannolini, eh?» «Che sua figlia non ricordi niente ora non significa che non possa farlo più avanti. E come potrà la Cormier rimanere imparziale, sapendo che il ragazzo di sua figlia è stato ammazzato dal mio cliente mentre lei era lì a guardare?» «Be', puoi avanzare la mozione di toglierle il caso» disse Selena. «Oppure puoi aspettare che lo faccia Diana.» Jordan le diede un'occhiata. «Se fossi in te, terrei la bocca chiusa.» Lui allungò una mano, afferrando la cintura della sua vestaglia, che si slacciò. «Quando mai tengo la bocca chiusa?» Selena rise. «C'è sempre una prima volta» disse. Ogni braccio di massima sicurezza aveva quattro celle, un metro e ottanta per due metri e quaranta. Dentro alla cella c'erano un letto a castello e un gabinetto. Peter impiegò tre giorni prima di riuscire a fare i suoi bisogni
mentre le guardie carcerarie gli passavano accanto, senza che le sue viscere si bloccassero, ma - e da questo capiva che si era abituato a stare lì - ormai, probabilmente, poteva cagare a comando. A un'estremità della passerella del carcere di massima sicurezza c'era un piccolo televisore. Poiché c'era spazio per una sola sedia davanti alla TV, il tizio che era lì dentro da più tempo aveva il diritto di sedersi. Tutti gli altri stavano in piedi dietro di lui a guardare, come dei mendicanti in coda per la zuppa. Non c'erano molti programmi adatti ai carcerati. Principalmente erano su MTV, anche se poi finivano sempre per guardare Jerry Springer. Peter immaginava che fosse perché, anche al più disastrato dei falliti, faceva piacere scoprire che fuori di lì c'era gente ancora più stupida di lui. Se qualcuno nel braccio faceva qualcosa di sbagliato - non necessariamente Peter, ma per esempio una testa di cazzo come Satan Jones (Satan non era il suo vero nome; si chiamava Gaylord, ma se provavi a pronunciarlo anche solo a bassa voce ti saltava alla gola), che aveva disegnato una caricatura di due delle guardie che facevano sesso tra loro sulla parete della sua cella - tutti perdevano il privilegio della televisione per quella settimana. Non rimaneva che avviarsi lentamente verso l'altra estremità della passerella: c'era una doccia con una tenda di plastica, e il telefono, che potevi usare per un dollaro al minuto, e a intervalli di alcuni secondi sentivi Questa chiamata proviene dal carcere di Grafton County, nel caso ti fosse capitata la fortuna di dimenticartene. Peter faceva i piegamenti. Li odiava. Odiava tutti gli esercizi di ginnastica, in realtà. Ma l'alternativa era stare sempre seduto e diventare talmente rammollito che chiunque poteva pensare di prendersela con te, oppure uscire durante l'ora di ginnastica. Uscì, un paio di volte, non per lanciare la palla nel canestro o per fare jogging e neanche per comprare di nascosto vicino alla recinzione metallica droga o sigarette che venivano contrabbandate in carcere, ma soltanto per stare all'aperto e respirare un'aria che non fosse già stata respirata dagli altri rinchiusi come lui in quel luogo. Sfortunatamente, dal cortile dove si faceva ginnastica si vedeva il fiume. Poteva sembrare un vantaggio, ma in realtà era il dispetto più crudele. A volte soffiava il vento e Peter poteva sentirne l'odore - il suolo lungo gli argini, l'acqua fredda - e lo tormentava il pensiero di non poter scendere al fiume e togliersi scarpe e calze per mettere i piedi dentro, per nuotare, oppure, cazzo, per annegare se ne aveva voglia. Finì per non uscire più. Peter terminò i suoi cento piegamenti - per colmo d'ironia, dopo un mese si era talmente irrobustito che probabilmente avrebbe potuto prendere a
calci in culo Matt Royston e Drew Girard contemporaneamente - e si sedette sulla branda con il suo modulo per lo spaccio del carcere. Una volta alla settimana si andava a comprare roba come collutorio e carta, con i prezzi aumentati in maniera ridicola. Peter ricordava di essere andato a St John un anno con la sua famiglia; al supermercato i cornflakes costavano qualcosa come dieci dollari, perché erano una merce rara. Non che lo shampoo fosse una merce rara, ma in carcere sei in balia dell'amministrazione, il che significa che possono spararti un prezzo di 3 dollari e 25 per una bottiglia di Pert, o 16 dollari per un ventilatore. L'alternativa era sperare che un carcerato che veniva trasferito nella prigione di Stato ti lasciasse i suoi averi, ma a Peter sarebbe sembrato di essere una specie di avvoltoio. «Houghton» disse una guardia, gli scarponi pesanti che risuonavano sulla passerella di metallo, «c'è posta per te.» Due buste piovvero nella cella e scivolarono sotto la branda di Peter. Si allungò per afferrarle, graffiando con le unghie il pavimento di cemento. La prima lettera era di sua madre, come immaginava. Peter riceveva lettere da sua madre almeno tre o quattro volte alla settimana. Di solito le lettere riguardavano stupidaggini come qualche editoriale sul giornale locale o notizie sulla crescita rigogliosa del suo falangio. Per un certo periodo pensò che scrivesse in codice - qualcosa che a lui serviva sapere, qualcosa di trascendente e di surreale - ma poi cominciò a capire che scriveva soltanto per riempire il foglio. Fu allora che smise di aprire le lettere di sua madre. Non si sentiva neanche in colpa. La ragione per cui sua madre gli scriveva, Peter ne era consapevole, non meritava che lui leggesse le lettere. Era solo per poter dire a se stessa che gli aveva scritto. In realtà non era colpa dei suoi genitori se erano due idioti, pensava Peter. Prima di tutto, lui aveva fatto ampiamente pratica di quella condizione particolare. In secondo luogo, le uniche persone che lo capivano, sul serio, erano quelle che si trovavano a scuola quel giorno, e decisamente non si davano da fare per saturare di lettere la sua cassetta della posta. Peter gettò nuovamente la lettera di sua madre sul pavimento e guardò l'indirizzo sulla seconda busta. Non lo riconobbe. Non era di Sterling e neppure del New Hampshire, per la verità. Elena Battista, lesse. Elena da Ridgewood, New Jersey. Lacerò la busta e diede una scorsa al biglietto. Peter, mi sembra già di conoscerti, perché ho seguito quello che è ac-
caduto alla scuola superiore. Adesso io sono all'università, ma credo di sapere che cosa hai passato... perché è stato così anche per me. Infatti ora scrivo la mia tesi sulle conseguenze di essere vittime del bullismo a scuola. So che è presuntuoso da parte mia pensare che tu voglia parlare con una come me... ma credo che, se avessi conosciuto uno come te quando ero alla scuola superiore, la mia vita sarebbe stata diversa, e forse non è mai troppo tardi???? Con amicizia Elena Battista Peter nascose la busta lacerata contro la coscia. Jordan gli aveva detto specificatamente che non doveva parlare con nessuno, fatta eccezione, ovviamente, per i suoi genitori, e per lo stesso Jordan. Ma i suoi genitori non contavano nulla e, a voler essere sinceri, non si poteva certo dire che Jordan facesse la sua parte fino in fondo, il che significava essere presente fisicamente abbastanza spesso perché Peter potesse confidargli qualunque macigno gli gravasse sul petto. Inoltre, lei era una ragazza dell'università. Era una figata pensare che una ragazza dell'università aveva voglia di parlare con lui; ed era poco probabile che lui avesse da dirle qualcosa che lei non sapesse già. Peter prese di nuovo il formulario per lo spaccio e sbarrò la casella per un biglietto d'auguri generico. Un processo poteva essere scisso in due metà: quello che era accaduto il giorno dell'evento, ed era il pubblico ministero che doveva vedersela con quella faccenda; e tutto quello che aveva condotto a quell'evento, ed era la difesa che doveva farsene carico. A quello scopo, Selena si diede da fare per interrogare tutti quelli che erano venuti in contatto con il loro cliente durante i diciassette anni della sua vita. Due giorni dopo l'imputazione di Peter presso la corte suprema, Selena era seduta con il direttore della Sterling High nel suo ufficio provvisorio nella scuola elementare. Arthur McAllister aveva la barba biondo-rossa, la pancia prominente e non mostrava i denti quando sorrideva. A Selena faceva venire in mente Teddy Ruxpin, uno di quei bizzarri orsi parlanti che si trovavano in commercio quando lei era piccola. Di conseguenza le fece una strana impressione quando cominciò a rispondere alle domande sulle politiche antibullismo nella scuola superiore. «Episodi di quel genere non sono tollerati» dichiarò
McAllister, sebbene Selena si fosse aspettata quella linea di condotta. «Abbiamo il pieno controllo della situazione.» «Così, se un ragazzo viene da lei a lamentarsi perché lo tormentano, quali sono le ripercussioni per il prepotente?» «Un particolare che abbiamo notato, Selena - posso chiamarla Selena? -, è che, se la direzione interviene, per il ragazzo è peggio che essere preso di mira.» Esitò. «So cosa dice la gente della sparatoria. So che la paragonano a Columbine e a Paducah e a quelle che si sono verificate in precedenza. Ma sono sinceramente convinto che non siano state questioni di bullismo, di per se stesse, a indurre Peter a fare quello che ha fatto.» «Quello che si presume che abbia fatto» rettificò automaticamente Selena. «Prende nota degli episodi di bullismo?» «Se aumentano, e i ragazzi mi vengono segnalati, sì.» «Le sono mai stati segnalati episodi di bullismo ai danni di Peter Houghton?» McAllister si alzò in piedi e prese un raccoglitore da un armadio. Incominciò a sfogliarlo, per poi fermarsi a una pagina. «In realtà, Peter mi era stato segnalato due volte, quest'anno. Era stato trattenuto per punizione perché faceva a botte nei corridoi.» «Faceva a botte?» disse Selena. «Oppure reagiva alle botte degli altri?» Quando Katia Riccobono piantò un coltello nel petto a suo marito mentre lui dormiva profondamente - quarantasei volte - Jordan si rivolse al dottor King Wah, uno psichiatra forense specializzato nella sindrome della donna maltrattata. Era un atteggiamento tipico del disturbo da stress posttraumatico: una donna che era stata più volte vittima, sia mentalmente che fisicamente, era così costantemente spaventata per la propria vita che il confine tra realtà e fantasia diventava confuso, al punto che la donna si sentiva minacciata anche quando la minaccia era sopita, o, come nel caso di Joe Riccobono, quando lui giaceva addormentato a smaltire tre giorni di bisboccia. King aveva vinto il caso per loro. Negli anni che erano trascorsi da allora, era diventato uno dei principali esperti nella sindrome della donna maltrattata, e compariva abitualmente come teste per la difesa in tutta la nazione. I suoi emolumenti erano saliti alle stelle; ormai era difficile ottenere il suo tempo. Jordan si recò nello studio di King a Boston senza appuntamento, immaginando che il suo fascino avrebbe avuto la meglio su qualunque guardiana
in veste di segretaria che il bravo dottore potesse aver assunto, ma non aveva fatto i conti con una strega ormai prossima alla pensione di nome Ruth. «Per un appuntamento con il dottore deve aspettare sei mesi» annunciò, senza nemmeno prendersi il disturbo di guardare in faccia Jordan. «Ma si tratta di una questione personale, non professionale.» «Capisco» disse Ruth con un tono che indicava chiaramente il contrario. Jordan intuì che non sarebbe servito a niente dire a Ruth che quel giorno era veramente carina, o farle dono di una delle sue battute sulle bionde svampite, e neanche esibire i suoi precedenti di successo come avvocato difensore. «È un'emergenza di famiglia» disse. «La sua famiglia sta vivendo un'emergenza di tipo psicologico» ripeté Ruth laconicamente. «La nostra famiglia» improvvisò Jordan. «Io sono il fratello del dottor Wah.» Poiché Ruth si limitò a guardarlo fisso, Jordan aggiunse: «Il fratello adottivo del dottor Wah». Lei alzò un sopracciglio e premette un pulsante sul suo telefono. Un momento dopo, squillò. «Dottore» disse. «Un uomo che sostiene di essere suo fratello vuole vederla.» Riagganciò. «Dice che può entrare.» Jordan aprì la pesante porta di mogano e trovò King che mangiava un panino, i piedi incrociati sul piano della sua scrivania. «Jordan McAfee» disse, sorridendo. «Avrei dovuto immaginarlo. E allora dimmi... Come sta la mamma?» «Come diavolo faccio a saperlo, sei sempre stato tu il suo preferito» scherzò Jordan, e fece un passo avanti per stringere la mano a King. «Grazie di avermi ricevuto.» «Dovevo pur scoprire chi aveva abbastanza chutzpah da spacciarsi per mio fratello.» «Chutzpah» ripeté Jordan. «L'hai imparato alla scuola cinese?» «Già, l'yiddish veniva subito dopo il pallottoliere.» Fece segno a Jordan di sedersi. «E allora come va?» «Bene» rispose Jordan. «O, meglio, magari non così bene come stai tu. Tutte le volte che mi sintonizzo su Court TV vedo la tua faccia sullo schermo.» «È un grosso impegno, questo è sicuro. In effetti, ho soltanto dieci minuti, prima del mio prossimo appuntamento.» «Lo so. Per questo ho colto al volo la possibilità di vederti... vorrei una tua valutazione sul mio cliente.» «Jordan, amico, sai che lo farei volentieri, ma se si tratta di lavoro giudi-
ziario ho una lista d'attesa di sei mesi per il prossimo appuntamento.» «Questo caso è diverso, King. Si tratta di imputazioni multiple di omicidio.» «Omicidi?» disse King. «Quanti mariti ha ammazzato?» «Nessuno, e non è una donna. È un ragazzo. Un adolescente. Per anni è stato vittima di bullismo, poi ha avuto un'inversione di tendenza e si è messo a sparare alla Sterling High School.» King offrì metà del suo panino al tonno a Jordan. «D'accordo, fratellino» disse. «Ne parliamo dopo pranzo.» Josie spostò lo sguardo dal semplice pavimento grigio piastrellato alle pareti di grossi mattoni di cemento, dalle sbarre di ferro che isolavano il centralino dalla zona di attesa alla pesante porta con la serratura automatica. Era una specie di prigione e si domandò se i poliziotti lì dentro avessero mai pensato a quel paradosso. Ma poi, non appena l'immagine del carcere si affacciò alla sua mente, Josie pensò a Peter e ricominciò ad aver paura. «Non voglio stare qui» disse, voltandosi verso sua madre. «Ti capisco.» «Ma perché vuole parlarmi ancora? Gli ho già detto che non riesco a ricordare niente.» Avevano ricevuto la lettera con la posta; il detective Ducharme aveva «qualche altra domanda» da rivolgerle. A Josie, e questo significava che ora doveva essere a conoscenza di qualcosa che non sapeva la prima volta che l'aveva interrogata. Sua madre le aveva spiegato che un secondo colloquio era soltanto un modo per accertarsi che il pubblico ministero avesse fatto tutto regolarmente, senza tralasciare neanche una virgola; che non significava nient'altro, ma che lei doveva comunque presentarsi alla stazione di polizia. Dio santo, ci mancava solo che fosse Josie a far fallire l'indagine. «Non devi far altro che ripetergli che non ricordi niente... e poi tutto sarà finito» disse sua madre, e posò delicatamente la mano sul ginocchio di Josie, che aveva cominciato a tremare. Josie avrebbe voluto alzarsi in piedi, precipitarsi fuori dalle doppie porte della stazione di polizia e mettersi a correre. Avrebbe voluto raggiungere a tutta velocità il parcheggio e attraversare la strada, oltrepassare i campi da gioco della scuola secondaria e andare nei boschi che delimitavano il lago della città, arrampicarsi sulle montagne che a volte vedeva dalla finestra della sua camera da letto se le foglie erano cadute dagli alberi, finché non
fosse arrivata il più in alto possibile. E poi... E poi forse avrebbe aperto le braccia e sarebbe precipitata giù dal mondo. E se quello fosse stato un incontro truccato? E se il detective Ducharme fosse stato già al corrente... di tutto? «Josie» disse una voce. «Ti ringrazio molto per essere venuta qui.» Lei alzò lo sguardo e vide il detective davanti a loro. Sua madre si alzò a sua volta. Josie ci provò, sul serio, ma non riuscì a trovare il coraggio di farlo. «Giudice, apprezzo molto che lei abbia portato qui sua figlia.» «Josie è molto turbata» disse sua madre. «Non riesce ancora a ricordare niente di quel giorno.» «Ho bisogno di udirlo dalla stessa Josie.» Il detective si inginocchiò per poterla guardare negli occhi. Josie osservò che aveva dei begli occhi. Un po' tristi, come quelli di un cane bassotto. Le venne spontaneo domandarsi come fosse ascoltare tutti quei racconti dai feriti e da coloro che erano ancora sotto choc; se non si potesse evitare di assorbirli per osmosi. «Prometto» disse gentilmente «che non ci vorrà molto tempo.» Josie cominciò a immaginare che sensazione avrebbe provato quando la porta della sala visite si fosse chiusa; se le domande potessero accumularsi come la pressione in una bottiglia di champagne. Si domandò che cosa le facesse peggio: non ricordare cosa fosse accaduto, per quanto intensamente si cercasse di richiamarlo alla memoria, oppure ricordare tutto fino all'ultimo, terribile momento. Con la coda dell'occhio Josie vide sua madre sedersi alle sue spalle. «Non entri con me?» L'ultima volta che il detective aveva parlato con lei, sua madre aveva addotto la stessa scusa: lei era il giudice, non poteva assistere all'interrogatorio del poliziotto. Ma poi c'era stata quella conversazione dopo l'imputazione; sua madre era uscita dal suo ruolo per lasciar capire a Josie che essere il giudice di quel caso non sarebbe stato incompatibile con il suo agire come madre. O in altri termini: Josie era stata così stupida da pensare che le cose tra loro potessero iniziare a cambiare. Sua madre aprì la bocca e poi la richiuse, come un pesce fuor d'acqua. Ti ho fatto sentire a disagio? pensò Josie, mentre le parole si imprimevano nella sua mente come segni di frustate. Benvenuta nel club. «Vuoi una tazza di caffè?» disse il detective, e poi scosse il capo. «O una Coca. Non so, i ragazzi della tua età bevono già caffè oppure sto isti-
gandoti al vizio perché sono così stupido da non saperlo?» «Il caffè mi piace» disse Josie. Evitò lo sguardo di sua madre mentre il detective Ducharme la conduceva nella zona più riservata della stazione di polizia. Entrarono in una sala visite e il detective le versò una tazza di caffè. «Latte? Zucchero?» «Zucchero» disse Josie. Prese due zollette dalla ciotola e le aggiunse alla tazza. Poi si guardò attorno: il tavolo di formica, le luci fluorescenti, la normalità della stanza. «Cosa c'è?» «In che senso?» disse Josie. «Qual è il problema?» «Stavo proprio pensando che questo non sembra il genere di luogo dove si tenta di estorcere una confessione a qualcuno.» «Dipende: bisogna vedere se c'è qualcuno a cui estorcerla» replicò il detective. Quando Josie impallidì, si mise a ridere. «Stavo solo scherzando. Sinceramente, gli unici casi in cui mi capita di estorcere confessioni sono quelli in cui recito la parte del poliziotto alla TV.» «Lei recita la parte del poliziotto alla TV?» Lui sospirò. «Non importa.» Prese un registratore collocato al centro del tavolo. «Registrerò questa conversazione, come l'altra volta... soprattutto perché sono troppo stordito per ricordarla tutta correttamente.» Il detective premette un tasto e si sedette di fronte a Josie. «La gente non fa altro che dirti che assomigli alla tua mamma?» «Mmm, mai.» Inclinò il capo. «Mi ha fatto venire qui per chiedermi questo?» Lui sorrise. «No.» «In ogni caso non le assomiglio.» «E invece sì. Gli occhi.» Josie abbassò lo sguardo sul tavolo. «I miei sono di un colore completamente diverso.» «Non mi riferivo al colore» disse il detective. «Josie, dimmi ancora che cosa hai visto il giorno della sparatoria alla Sterling High.» Sotto il tavolo, Josie intrecciò le mani. Affondò le unghie di una mano nel palmo dell'altra, perché ci fosse qualcosa che le faceva più male delle parole che lui le faceva dire. «Avevo un compito in classe di scienze. Ho studiato fino a tardi, e al mattino quando mi sono svegliata pensavo a quel compito. È tutto quello che so. L'ho già detto, non riesco nemmeno a ri-
cordare di essere stata a scuola, quel giorno.» «Ricordi perché sei svenuta nello spogliatoio?» Josie chiuse gli occhi. Rivedeva lo spogliatoio: il pavimento di piastrelle, gli armadietti grigi, il calzino spaiato ficcato in un angolo della doccia. E poi tutto divenne rosso come la rabbia. Rosso come il sangue. «No» disse Josie, ma le lacrime le impastavano la voce. «Non riesco nemmeno a capire perché pensarci mi fa piangere.» Detestava farsi vedere così; detestava essere così; ma più di tutto detestava il non sapere quando sarebbe accaduto: come se d'improvviso cambiasse il vento, salisse la marea. Josie prese il fazzoletto che il detective le porgeva. «Per favore» bisbigliò, «posso andare, adesso?» Vi fu un istante di esitazione, e Josie sentiva il peso della compassione del detective cadere su di lei come una rete, capace di trattenere soltanto le parole, mentre il resto - la vergogna, la collera, la paura - filtrava semplicemente attraverso le sue maglie. «Certo, Josie» disse lui. «Puoi andare.» Alex fingeva di leggere il Rapporto annuale della città di Sterling quando Josie d'improvviso si precipitò fuori dalla porta di sicurezza nella sala d'attesa della stazione di polizia. Piangeva forte, e di Patrick Ducharme non c'era traccia. Lo ucciderò, pensò Alex lucidamente, con calma, dopo essermi presa cura di mia figlia. «Josie» disse, mentre Josie la oltrepassava e usciva dall'edificio, correndo nel parcheggio. Alex la rincorse, e finalmente la raggiunse davanti alla loro macchina. Cinse Josie alla vita con le braccia e sentì la fibbia della sua cintura. «Lasciami sola» singhiozzò Josie. «Josie, tesoro, che cosa ti ha detto? Parlami.» «Non posso parlarti! Tu non capisci. Nessuno di voi capisce.» Josie indietreggiò. «Quelli che capivano sono tutti morti.» Alex esitò, non sapendo bene quale fosse la mossa giusta. Avrebbe potuto stringere Josie tra le braccia e lasciarla piangere. Oppure poteva farle capire che, per quanto fosse turbata, aveva in sé la forza per reagire. Alex pensava che fosse un po' come l'Allen charge: l'ordine che un giudice dà a una giuria, se questa non è in grado di raggiungere un verdetto unanime, di tornare a discutere il caso e trovare un verdetto a tutti i costi, eseguendo il loro dovere di cittadini americani. Per lei aveva sempre funzionato in tribunale. «So che è difficile, Josie, ma tu sei più forte di quello che pensi, e...» Josie la respinse con forza, allontanandosi bruscamente. «Smetti di par-
larmi così!» «Così come?» «Come se io fossi uno stramaledetto testimone o avvocato su cui stai cercando di far colpo!» «Vostro Onore. Mi dispiace interromperla.» Alex si voltò di scatto e vide Patrick Ducharme in piedi a mezzo metro da loro, ad ascoltare ogni singola parola. Le guance di Alex si fecero rosse. Era esattamente quel genere di comportamento che non si poteva tenere in pubblico se si era un giudice. Probabilmente lui sarebbe tornato alla stazione di polizia e avrebbe inviato una e-mail collettiva all'intera unità operativa: Indovinate cosa ho udito per caso. «Sua figlia» disse. «Ha dimenticato la felpa.» Rosa e col cappuccio, era piegata ordinatamente sul suo braccio. La porse a Josie. Ma poi, invece di andarsene, le mise una mano sulla spalla. «Non preoccuparti, Josie» disse, incrociando il suo sguardo come se loro due fossero le uniche persone al mondo. «Sistemeremo tutto.» Alex si aspettava che Josie scattasse anche con lui, e invece lei sembrò calmarsi al suo tocco. Assentì, come se lo credesse possibile, per la prima volta da quando si era verificata la sparatoria. Alex sentì qualcosa nascere dentro di sé: capì che era sollievo, perché finalmente sua figlia aveva recepito un minimo barlume di speranza. E rimpianto, più amaro di una mandorla amara, perché non era stata lei a riportare la quiete sul volto di sua figlia. Josie si asciugò gli occhi con la manica della felpa. «Va meglio?» le chiese Ducharme. «Credo di sì.» «Bene.» Il detective fece un cenno ad Alex. «Giudice.» «Grazie» mormorò lei, mentre lui si voltava e tornava alla stazione di polizia. Alex udì lo sbattere della portiera mentre Josie scivolava sul sedile del passeggero, ma lei rimase a guardare Patrick Ducharme finché scomparve alla vista. Avrei voluto farlo io, pensò Alex, e deliberatamente si trattenne dal completare quel pensiero. Come Peter, Derek Markowitz era un mago del computer. Come Peter, non aveva la fortuna di essere alto e muscoloso e nemmeno lui, in effetti, aveva ricevuto i doni della pubertà. Aveva i capelli appiccicati in piccoli ciuffi, come se gli fossero stati trapiantati. Indossava una camicia sempre
ficcata in qualche modo nei pantaloni, e non era mai stato popolare. A differenza di Peter, non era andato a scuola, un giorno, ad ammazzare dieci persone. Selena si sedette al tavolo di cucina dei Markowitz, mentre Dee Dee Markowitz la guardava come un falco. Era lì per interrogare Derek nella speranza che potesse testimoniare a favore della difesa, ma, a essere proprio sinceri, le notizie che le aveva fornito Derek lo rendevano un candidato decisamente più appetibile per il pubblico ministero. «E se fosse tutta colpa mia?» stava dicendo Derek. «In fondo, ero l'unico che poteva avere un indizio. Se avessi ascoltato più attentamente, magari avrei potuto fermarlo. Avrei potuto parlarne a qualcun altro. E, invece, credevo che scherzasse.» «Penso che nessuno avrebbe agito diversamente nella tua situazione» gli disse Selena gentilmente, e ne era convinta. «Quel Peter che tu conoscevi non era quello che andò a scuola quel giorno.» «Già» disse Derek, e annuì tra sé. «Pensa di aver finito?» domandò Dee Dee, facendo un passo avanti. «Derek ha una lezione di violino.» «Quasi, signora Markowitz. Volevo soltanto chiedere a Derek di quel Peter che lui conosceva. Come vi eravate conosciuti, voi due?» «Eravamo nella stessa squadra di calcio in sesta» rispose Derek, «e per tutti e due era una bella rottura.» «Derek!» «Scusa, mamma, ma è così.» Lanciò un'occhiata a Selena. «Inoltre, nessuno di quegli atleti avrebbe saputo scrivere in HTML, neanche se fosse stato indispensabile per salvarsi la vita.» Selena sorrise. «Certo, be', considerami tra quelli impreparati dal punto di vista tecnologico. Così voi due siete diventati amici quando eravate nella squadra?» «Ce ne stavamo in panchina, perché non ci facevano mai giocare» continuò Derek. «Ma in realtà diventammo veramente amici più tardi, quando lui smise di uscire con Josie.» Selena mosse nervosamente la penna. «Josie?» «Ma sì, Josie Cormier. Anche lei frequenta la scuola.» «Ed è amica di Peter?» «Lo era, in un certo senso, era l'unica ragazza con la quale lui sia mai andato in giro» spiegò Derek, «ma poi lei entrò nel gruppo dei ragazzi popolari, e lo mollò.» Guardò Selena. «A Peter non importava, in realtà. Di-
ceva che era diventata una puttana.» «Derek!» «Mi spiace, mamma» disse. «Ma anche questo è vero.» «Volete scusarmi?» chiese Selena. Uscì dalla cucina e andò in bagno, dove tirò fuori il cellulare dalla tasca e chiamò casa. «Sono io» disse quando Jordan rispose, e poi esitò. «Perché questo silenzio?» «Sam si è addormentato.» «Non è che hai messo su un altro video dei Wiggles solo per leggerti i tuoi verbali, eh?» «Hai chiamato apposta per accusarmi di essere un cattivo genitore?» «No» ribatté Selena. «Ho chiamato per dirti che Peter e Josie una volta erano molto amici.» Nel carcere di massima sicurezza, Peter aveva il permesso di vedere un solo visitatore effettivo alla settimana, ma certe persone non contavano. Per esempio, il suo avvocato poteva andare a trovarlo tutte le volte che lo reputava necessario. Ma la vera follia era che anche i giornalisti avevano quel privilegio. Peter non dovette far altro che firmare una breve autorizzazione in cui si diceva che sceglieva di sua spontanea volontà di parlare con i media, ed Elena Battista ottenne il permesso di incontrarlo. Era sexy. Peter se ne accorse subito. Non indossava un maglione oversize sformato, bensì una camicetta attillata con i bottoni. Se si chinava in avanti, Peter riusciva a vedere l'incavo tra i seni. Aveva lunghi capelli ricci e folti e occhi castani da cerbiatta, e Peter pensò che era piuttosto difficile credere che, a scuola, qualcuno l'avesse mai presa in giro. Ma lei era seduta lì davanti a lui, quella era la verità, e riusciva appena a guardarlo negli occhi. «Non riesco a crederci» disse, le dita dei piedi allineate sulla linea rossa che li separava. «Non riesco a credere che sto davvero incontrandomi con te.» Peter fece finta che lo dicessero tutti. «Già» commentò. «Sei stata fantastica a venire in macchina fin qui.» «Oh, Dio, era il minimo che potessi fare» disse Elena. Peter pensò a certi racconti che aveva udito, di ragazze che scrivevano ai carcerati e alla fine li sposavano con una cerimonia in carcere. Pensò alla guardia che aveva introdotto Elena, e si domandò se avesse detto a tutti che Peter Houghton aveva una ragazza sexy che andava a trovarlo. «Non ti spiace se prendo appunti?» domandò Elena. «Per la mia ricer-
ca?» «Lo trovo fantastico.» La osservò tirar fuori una penna e tenere il cappuccio in bocca mentre apriva il quaderno per gli appunti a una pagina bianca. «Come ti ho detto, sto scrivendo sugli effetti del bullismo.» «Come ti è venuto in mente?» «Be', quando ero alla scuola superiore, certe volte pensavo che avrei preferito uccidermi piuttosto che tornare in classe il giorno dopo, perché sarebbe stato più facile. Immaginavo che, se io la pensavo così, doveva pur esserci altra gente che la pensava allo stesso modo... ed ecco come mi è venuta l'idea.» Si chinò in avanti - allarme scollatura - e incrociò lo sguardo di Peter. «Spero di poterla pubblicare su una rivista di psicologia o altro del genere.» «Sarebbe fantastico.» Lui trasalì: Dio santo, quante volte aveva intenzione di pronunciare la parola fantastico? Doveva sembrarle un ritardato totale. «Allora, forse potresti cominciare raccontandomi con quale frequenza ti capitavano. Le prepotenze, voglio dire.» «Tutti i giorni, credo.» «Che genere di prepotenze erano?» «Le solite» disse Peter. «Sbattermi in un armadietto, lanciare i miei libri dal finestrino dell'autobus.» Le snocciolò una litania che aveva già fatto sentire a Jordan un migliaio di volte: ricordi di quando gli davano una gomitata mentre saliva le scale, di quando gli strappavano gli occhiali e glieli rompevano, di insulti lanciati come palle durante una partita di baseball. Lo sguardo di Elena si intenerì. «Dev'essere stata veramente dura per te.» Peter non sapeva cosa dire. Voleva che lei continuasse a interessarsi alla sua storia, ma non aveva intenzione di apparirle come un perfetto incapace. Si strinse nelle spalle, sperando che fosse una risposta sufficiente. Lei smise di scrivere. «Peter, posso chiederti una cosa?» «Sicuro.» «Anche se in un certo senso esula dall'argomento?» Peter fece cenno di si. «Avevi progettato di ucciderli?» Si era nuovamente chinata in avanti, le labbra socchiuse, come se qualunque cosa Peter stesse per dire fosse come una cialda, l'ostia della comunione che lei aveva aspettato per tutta la vita. Peter riusciva a udire i passi
di una guardia varcare la porta alle sue spalle, riusciva praticamente ad assaporare il respiro di Elena attraverso il microfono. Voleva darle la risposta giusta - voleva che suonasse abbastanza pericolosa da risvegliare il suo interesse, da farle venir voglia di tornare. Sorrise, in un modo che sperava fosse affascinante. «Diciamo semplicemente che bisognava farli smettere» rispose Peter. Le riviste nello studio del dentista di Jordan vivevano sugli scaffali tanto a lungo quanto il plutonio. Erano così vecchie che la celebre sposa in copertina aveva ormai due bambini dai nomi di personaggi biblici, o di qualche frutto; che il presidente definito Uomo dell'Anno non era già più in carica. Per quel motivo, quando gli capitò sotto mano l'ultimo numero di Time mentre aspettava il suo turno per un'otturazione, Jordan si sentì come se si fosse imbattuto in un filone aurifero. SCUOLA SUPERIORE: LA NUOVA LINEA DEL FRONTE? lesse in copertina, e c'era anche un'immagine della Sterling High scattata da un elicottero, con i ragazzi che ancora sciamavano fuori da tutte le uscite dell'edificio. Distrattamente diede una scorsa all'articolo e ai vari trafiletti, senza aspettarsi di vedere alcunché di cui non fosse già a conoscenza o che non avesse già visto sui giornali, ma un brano catturò la sua attenzione. «Nella mente di un killer» lesse, e vide la foto scolastica ormai strausata di Peter quando era in ottava. Poi iniziò a leggere. «Maledizione» disse, e scattò in piedi, avviandosi alla porta. «Signor McAfee» lo chiamò la segretaria, «il dentista la sta aspettando.» «Dovrò prendere un altro appuntamento...» «Be', non può portarsi via la nostra rivista...» «La metta sul mio conto» disse Jordan bruscamente, e si precipito giù per le scale fino alla sua auto. Il cellulare squillò proprio mentre girava la chiavetta dell'accensione: si aspettava che fosse Diana Leven, al colmo della gioia per la fortuna che aveva avuto - e invece era Selena. «Ciao, sei stato dal dentista? Mentre torni a casa, devi passare in farmacia a comprare dei pannolini. Li ho finiti.» «Non sto venendo a casa. Ho problemi molto più seri in questo momento.» «Amore» disse Selena, «non esistono problemi più seri.» «Te lo spiego dopo» disse Jordan, e spense il telefono, per non essere raggiungibile nel caso in cui Diana l'avesse cercato.
Arrivò al carcere in ventisei minuti - un record personale - e attraversò l'ingresso come un fulmine. Poi schiaffò la rivista contro il divisorio di plastica che lo separava dalla guardia carceraria, intenta a scrivere il suo nome. «Ho bisogno di portare dentro questo quando vedrò il mio cliente» disse Jordan. «Be', mi dispiace» ribatté la guardia, «ma non può portarsi niente che abbia punti metallici.» Frustrato, Jordan posò la rivista in bilico contro la sua gamba e strappò i punti metallici che la tenevano insieme. «Bene. Posso vedere il mio cliente, adesso?» Lo introdussero nella stessa sala visite che usava sempre in carcere, e lui si mise a camminare avanti e indietro mentre aspettava Peter. Quando arrivò, Jordan sbatté la rivista sul tavolo, aperta su quell'articolo. «Che cazzo avevi in mente?» Peter rimase a bocca aperta. «Lei... lei non ha mai detto che scriveva per Time!» Diede una scorsa alle pagine. «Non riesco a crederci» mormorò. Jordan si sentiva come se tutto il sangue del suo corpo gli fosse salito alla testa. Di certo era così che ci si sentiva prima di avere un ictus. «Hai un'idea di quanto siano gravi le imputazioni contro di te? Di quanto sia terribile il tuo caso? Di quante prove ci siano contro di te?» Batté la mano aperta sull'articolo. «Credi davvero che questo ti procuri comprensione?» Peter assunse un'aria truce. «Be', grazie per la lezione. Magari se fosse venuto qui a darmela qualche settimana fa, ora non avremmo questa discussione.» «Oh, sei impagabile» esclamò Jordan. «Io non vengo abbastanza spesso, perciò tu decidi di vendicarti di me parlando ai media?» «Lei non era i media. Era mia amica.» «Figuriamoci» disse Jordan. «Tu non puoi avere degli amici.» «Be', che altro c'è di nuovo?» lo fulminò di rimando Peter. Jordan aprì la bocca per inveire ancora contro Peter, ma non ci riuscì. La verità di quell'osservazione lo colpì, perché gli ricordò il colloquio che Selena aveva avuto all'inizio della settimana con Derek Markowitz. Gli amici del cuore di Peter lo abbandonavano, o lo tradivano o gli spillavano i suoi segreti per una tiratura di milioni di copie. Se davvero voleva svolgere bene il suo lavoro, non poteva essere soltanto un avvocato per Peter. Doveva essere il suo confidente, e invece fino a quel giorno non aveva fatto altro che trattarlo come un idiota, come tutti gli altri nella sua vita.
Jordan si sedette vicino a Peter. «Senti» disse con calma. «Non puoi più fare niente di simile. Se qualcuno si mette in contatto con te, per qualsiasi motivo, devi dirmelo. E, in cambio, io verrò a trovarti più spesso di prima. D'accordo?» Peter espresse il suo assenso stringendosi nelle spalle. Per un lungo momento rimasero seduti vicini, in silenzio, senza sapere cosa ci sarebbe stato dopo. «E adesso?» domandò Peter. «Devo parlare ancora di Joey? O prepararmi per quel colloquio psichiatrico?» Jordan esitò. Era venuto a trovare Peter soltanto per rimproverarlo aspramente di aver parlato con una giornalista; se non fosse stato per quello, non sarebbe andato da lui. Certo, avrebbe potuto chiedere a Peter di raccontargli nuovamente della sua infanzia o della sua storia scolastica o delle sue sensazioni riguardo al bullismo, ma in un certo senso nemmeno quello sembrava il modo giusto. «In realtà, ho bisogno di un consiglio» disse. «Mia moglie mi ha regalato un videogioco a Natale, Agents of Stealth. Il fatto è che io non riesco neppure a superare il primo livello senza farmi eliminare.» Peter lo guardò di sottecchi. «Be', si è registrato come Droid o come Regal?» Come diavolo faceva a saperlo? Non aveva nemmeno tirato fuori il CD dalla custodia. «Come Droid.» «Quello è stato il suo primo errore. Vede, non può arruolarsi nella Legione dei Pirofori - bisogna essere dei prescelti per entrarci. L'unico modo per farlo è iniziare dall'Accademia e non dalle Miniere. Capisce?» Jordan abbassò lo sguardo sull'articolo, ancora aperto lì sul tavolo. Il suo caso era diventato immensamente più difficile, ma forse, per controbilanciare quel dato di fatto, la sua relazione con il suo cliente era diventata più facile. «Già» disse Jordan. «Incomincio a capire.» «Questo non le piacerà» disse Eleanor, porgendo un documento ad Alex. «Perché no?» «È una mozione per toglierle il caso Houghton. Il pubblico ministero chiede urgentemente un'udienza.» Un'udienza significava che sarebbe stata presente la stampa, che sarebbero state presenti le vittime, che sarebbero state presenti le famiglie. Significava che Alex sarebbe stata pubblicamente sotto esame prima che il suo caso potesse procedere. «Bene, non la otterrà» disse Alex sbrigativa-
mente. Il cancelliere esitò. «Io ci penserei due volte.» Alex incrociò il suo sguardo. «Può andare, ora.» Attese che Eleanor chiudesse la porta dietro di sé, poi chiuse gli occhi. Non sapeva cosa fare. Effettivamente, durante l'imputazione si era sentita più scossa di quanto avesse previsto. Era vero, inoltre, che la distanza tra lei e Josie poteva essere misurata proprio secondo i parametri del suo ruolo di giudice. Eppure, proprio perché Alex aveva dato per scontato, senza il minimo dubbio, di essere infallibile - perché si era sentita subito sicura di poter essere un giudice imparziale per quel caso -, si era messa in un circolo vizioso. Un conto sarebbe stato ritirarsi prima che iniziasse il procedimento legale. Ma, se faceva marcia indietro ora, rischiava di sembrare volubile (nel migliore dei casi) oppure inetta (nel peggiore). Non voleva associare nessuno di quei due aggettivi alla propria carriera giudiziaria. Se non concedeva a Diana Leven l'udienza che le chiedeva, Alex avrebbe dato l'impressione di volersi nascondere. Meglio lasciare che dessero voce al loro punto di vista e fare la parte della ragazza grande. Alex premette un tasto sul suo telefono. «Eleanor» disse, «la metta in programma.» Si passò le dita tra i capelli e poi se li lisciò di nuovo. Aveva bisogno di una sigaretta. Rovistò nei cassetti della scrivania ma trovò soltanto un pacchetto vuoto di Merit. «Non è possibile» borbottò, poi si ricordò del suo pacchetto d'emergenza, nascosto nel baule della macchina. Afferrando le chiavi, Alex si alzò, uscì dal suo ufficio e scese di corsa le scale sul retro fino al parcheggio. Spalancò la porta antincendio e, dallo sgradevole rumore che udì, comprese di averla sbattuta in faccia a qualcuno. «Oh santo cielo» gridò, rivolta all'uomo che si piegò su se stesso per il dolore. «È tutto a posto?» Patrick Ducharme si raddrizzò, sussultando. «Vostro Onore» disse. «Devo smetterla di incontrarmi con lei. Letteralmente.» Lei aggrottò le sopracciglia. «Non dovrebbe stare in piedi dietro una porta antincendio.» «E lei non dovrebbe spalancarla. E così dov'è oggi?» domandò Patrick. «Dov'è cosa?» «L'incendio?» Lui annuì a un altro poliziotto, avviandosi verso una radiomobile ferma nel parcheggio. Alex fece un passo indietro e incrociò le braccia. «Mi sembra che abbiamo già parlato di, be', del fatto di parlarne.» «Prima di tutto, non stiamo parlando del caso, a meno che ci sia qualche
metaforico passo avanti di cui non sono a conoscenza. Secondariamente, la sua posizione in questo caso sembra essere in dubbio, almeno stando all'editoriale uscito oggi sullo Sterling News.» «C'è un editoriale su di me oggi?» disse Alex, esterrefatta. «Che cosa dice?» «Be', glielo direi, ma vorrebbe dire parlare del caso, no?» Ridacchiò e fece per andarsene. «Un momento» disse Alex, seguendo il detective. Quando lui si voltò, lei lanciò un'occhiata in giro per accertarsi che fossero soli nel parcheggio. «Posso farle una domanda? Ufficiosamente?» Lui assentì lentamente. «Josie le sembrava... non so... a posto, quando ha parlato con lei l'altro giorno?» Il detective si appoggiò contro il muro di mattoni del tribunale. «Sicuramente lei la conosce meglio di me.» «Be'... certo» disse Alex. «Ma pensavo che magari avesse detto a lei - a un estraneo - qualcosa che non aveva voglia di dire a me.» Abbassò lo sguardo al suolo, tra loro due. «A volte è il modo più facile.» Sentiva gli occhi di Patrick su di sé, ma non riusciva a recuperare il coraggio per affrontarli. «Posso dirle io qualcosa? Ufficiosamente?» Alex annuì. «Prima di accettare questo posto, lavoravo nel Maine. E ho avuto un caso che non era solo un caso, non so se mi spiego.» Alex assentì. Si sorprese ad ascoltare nella voce di lui una nota che non aveva mai colto prima, una nota bassa che suonava angosciata, come un diapason che non smettesse mai di vibrare. «C'era una donna, laggiù, che rappresentava tutto per me, e lei aveva un bambino che rappresentava tutto per lei. E quando lui rimase ferito, come non dovrebbe mai accadere a un bambino, mossi mari e monti per lavorare su quel caso, perché pensavo che nessuno sapesse risolverlo meglio di me. Che a nessuno potesse importare di più di quel risultato.» Guardò Alex dritto negli occhi. «Ero assolutamente certo di poter separare i miei sentimenti riguardo all'accaduto dal modo in cui dovevo svolgere il mio lavoro.» Alex deglutì, la gola arida. «E ci riuscì?» «No. Perché, quando ami qualcuno, qualunque cosa provi a raccontare a te stesso, quello smette di essere un lavoro per te.» «Che cosa diventa?» Patrick ci pensò un momento. «Vendetta.»
Una mattina, quando Lewis disse a Lacy che sarebbe andato a trovare Peter in carcere, lei salì nella propria auto e lo seguì. Da quando Peter le aveva confessato che suo padre non era andato a trovarlo, né durante l'imputazione né dopo, Lacy aveva tenuto nascosto quel segreto. Parlava sempre meno con Lewis, perché temeva che, una volta che avesse aperto bocca, le sarebbe sfuggito un uragano. Lacy usò la precauzione di tenere un'auto tra la propria e quella di Lewis. Le venne in mente quando - sembrava passata una vita - si davano appuntamento, e lei seguiva Lewis nel suo appartamento o lui seguiva lei. Si inventavano dei giochi, facendo muovere il tergicristallo posteriore come un cane agita la coda, accendendo e spegnendo i fanali secondo il codice Morse. Lui si dirigeva a nord, come se andasse al carcere, e per un momento Lacy ebbe un dubbio: Peter le aveva forse mentito, per qualche motivo? Lei pensava di no. Ma, del resto, non credeva neppure che Lewis le mentisse. Cominciò a piovere proprio mentre raggiungevano il parco del Lyme Center. Lewis mise la freccia e svoltò in un piccolo parcheggio con una banca, lo studio di un artista, un negozio di fiori. Lei non poteva seguirlo, altrimenti lui avrebbe riconosciuto subito la macchina: andò invece nel parcheggio del negozio di ferramenta attiguo e fermò l'auto dietro l'edificio. Forse ha bisogno del Bancomat, pensò Lacy, ma uscì dalla sua auto e si nascose dietro i serbatoi dell'olio a osservare Lewis che entrava in un negozio di fiori, e ne usciva cinque minuti dopo con un mazzo di rose rosa. Le sembrò di smettere di respirare. Aveva una relazione? Lei non aveva mai considerato la possibilità che le cose potessero andare persino peggio, che la loro piccola famiglia potesse rompersi ulteriormente. Lacy si precipitò di nuovo in macchina e riuscì a seguire Lewis. Era vero, lei si era lasciata ossessionare dal processo di Peter. E forse era stata colpevole di non aver ascoltato Lewis quando aveva bisogno di parlare, perché niente di quello che lui poteva dirle riguardo a seminari di economia o pubblicazioni o eventi attuali sembrava avere qualche importanza, ormai, da quando suo figlio se ne stava seduto in prigione. Ma Lewis? Lei si era sempre immaginata come lo spirito libero nella loro unione; e aveva visto in lui l'ancora di salvataggio. La sicurezza era un miraggio; essere legati contava poco se l'altra estremità della corda era logora.
Si asciugò gli occhi con una manica. Lewis le avrebbe detto, naturalmente, che era soltanto sesso, non amore. Che non significava niente. Le avrebbe detto che la gente affronta il dolore nei modi più svariati, quando il dolore è come un buco nel petto. Lewis mise di nuovo la freccia e girò a destra... questa volta, in un cimitero. Nel petto di Lacy cominciava, lentamente, a bruciare qualcosa. Be', questo era davvero disgustoso. Era lì che si incontrava con l'altra? Lewis scese dall'auto, portandosi appresso le rose ma non l'ombrello. La pioggia cadeva più forte ora, ma Lacy era decisa ad arrivare in fondo. Tenendosi sempre a una certa distanza, lo seguì in una sezione nuova del cimitero, quella con le tombe più recenti. Non c'erano ancora le lapidi; i riquadri di terreno sembravano un patchwork: terra marrone contro il verde del prato tosato. Alla prima tomba, Lewis si inginocchiò e depose a terra una rosa. Poi passò a un'altra, facendo la stessa cosa. E poi un'altra, e un'altra, mentre i capelli gli gocciolavano sulla faccia; mentre la sua camicia si inzuppava di pioggia; mentre lui si lasciava alle spalle dieci fiori. Lacy gli giunse alle spalle mentre lui deponeva l'ultima rosa. «So che ci sei» disse lui senza voltarsi. Lei riusciva a stento a parlare: capiva che Lewis, di fatto, non la stava ingannando, ma era sopraffatta dall'aver scoperto come lui trascorresse, in realtà, il suo tempo durante quelle giornate. Non avrebbe saputo dire se lei piangeva di più o se era il cielo a piangere per lei. «Come osi venire qui» lo accusò, «invece di andare a trovare tuo figlio?» Lui alzò gli occhi e la guardò. «Conosci la teoria del caos?» «Non me ne importa niente della tua dannata teoria del caos, Lewis. M'importa di Peter. E non so dirti quanto...» «C'è la convinzione» la interruppe lui «che si possa spiegare soltanto l'ultimo momento del tempo, linearmente... ma che tutto quello che ha condotto a esso possa derivare da una serie di eventi. Così, capisci, un ragazzo lancia un sasso sulla spiaggia e da qualche parte nel mondo si scatena uno tsunami.» Lewis si alzò, le mani in tasca. «Io l'ho portato a caccia, Lacy. Io gli ho detto di insistere con lo sport, anche se non gli piaceva. Io gli ho detto mille cose. E se una delle tante avesse indotto Peter a fare quello che ha fatto?» Si piegò su se stesso, singhiozzando. Lacy gli si avvicinò, e sentiva la pioggia tamburellare sulle sue spalle e la sua schiena.
«Abbiamo fatto del nostro meglio» disse Lacy. «Non è stato sufficiente.» Lewis girò il capo in direzione delle tombe. «Guarda. Guarda.» Lacy guardò. Attraverso la pioggia sferzante, con i capelli e i vestiti incollati addosso, passò in rassegna le tombe e vide i volti dei ragazzi che sarebbero stati ancora vivi, se suo figlio non fosse mai nato. Lacy si mise una mano sull'addome. Il dolore la tagliava in due, come il trucco di un prestigiatore, ma lei sapeva che mai niente l'avrebbe più ricomposta. Uno dei suoi figli aveva fatto uso di stupefacenti. L'altro era un assassino. Lei e Lewis erano stati i genitori sbagliati per quei figli? O non avrebbero mai dovuto essere genitori e basta? I figli non commettono i propri errori. Affondano nelle fosse in cui sono stati guidati dai loro genitori. Lei e Lewis avevano creduto sinceramente di percorrere la via giusta, ma forse avrebbero dovuto fermarsi a chiedere quale direzione prendere. Forse allora non avrebbero mai dovuto guardare Joey, e poi Peter, fare quell'unico, tragico passo e precipitare in caduta libera. Lacy ricordava di aver portato a esempio i bei voti di Joey in confronto a quelli di Peter; di aver detto a Peter che forse doveva provare con il calcio, perché Joey aveva amato tanto quello sport. L'accettazione cominciava a casa, ma anche l'intolleranza. Quando Peter aveva iniziato a sentirsi escluso a scuola, si rese conto Lacy, era già abituato a sentirsi un emarginato nella sua stessa famiglia. Lacy chiuse forte gli occhi. Per il resto della sua vita, l'avrebbero conosciuta come la madre di Peter Houghton. Sotto un certo aspetto, poteva anche sentirsi emozionata, ma si deve porre attenzione ai propri desideri. Attribuirsi il merito delle cose buone che un figlio ha fatto significa anche accettare la responsabilità dei suoi errori. E per Lacy questo significava che, invece di risarcire quelle vittime, lei e Lewis dovevano cominciare a essere più vicini in famiglia... a Peter. «Ha bisogno di noi» disse Lacy. «Più che mai.» Lewis scosse il capo. «Non riesco ad andare da Peter.» Lei fece un passo indietro. «Perché?» «Perché penso ancora, tutti i giorni, all'ubriaco che travolse l'auto di Joey. Penso a quanto ho desiderato che fosse morto lui invece di Joey; a quanto lui si meritasse di morire. I genitori di tutti questi ragazzi pensano la stessa cosa di Peter» disse Lewis. «Sai, Lacy... non me la sento di bia-
simare nessuno di loro.» Lacy tornò indietro, rabbrividendo. Lewis accartocciò il cono di carta che prima conteneva i fiori e se lo ficcò in tasca. La pioggia cadeva tra loro come una tenda, rendendo loro impossibile vedersi l'un l'altro nitidamente. Jordan aspettava in una pizzeria vicino al carcere che King Wah tornasse dal suo colloquio psichiatrico con Peter. Era in ritardo di dieci minuti, e Jordan non sapeva se fosse un bene o un male. King spalancò la porta come una folata di vento, l'impermeabile che fluttuava dietro di lui. Si infilò al tavolino al quale era seduto Jordan e prese una fetta di pizza dal suo piatto. «Puoi farcela» dichiarò, e masticò un boccone. «Dal punto di vista psicologico, non c'è una differenza significativa tra la terapia di una vittima di ripetuti episodi di bullismo e la terapia di una donna adulta affetta da sindrome della donna maltrattata. In entrambi i casi il nocciolo della questione è il disturbo da stress post-traumatico.» Posò la crosta nuovamente sul piatto di Jordan. «Sai cosa mi ha detto Peter?» Per un momento Jordan pensò al suo cliente. «Che stare in carcere è una rottura?» «Be', lo dicono tutti. Mi ha detto che preferirebbe essere morto piuttosto che passare un altro giorno a pensare che cosa poteva accadergli a scuola. Chi ti ricorda?» «Katie Riccobono» disse Jordan. «Quando decise di sottoporre suo marito a un triplo bypass con un coltello per la carne.» «Katie Riccobono» rettificò King, «l'immagine simbolo della sindrome della donna maltrattata.» «E così Peter diventa il primo esempio di sindrome da vittima del bullismo» commentò Jordan. «Sii sincero con me, King. Credi che una giuria possa identificarsi in una sindrome che nemmeno esiste sul serio?» «Una giuria non è composta da donne maltrattate, ma da donne che hanno saputo sottrarsi prima. D'altro canto, ogni singolo membro di quella giuria ha frequentato la scuola superiore.» Prese la Coca-Cola di Jordan e bevve un sorso. «Sapevi che un singolo episodio di bullismo nell'infanzia può essere traumatico per un individuo, nel corso del tempo, esattamente come un singolo episodio di abuso sessuale?» «Mi prendi in giro.» «Pensaci. Il denominatore comune è il sentirsi umiliati. Qual è il ricordo più forte che hai della scuola superiore?» Jordan dovette riflettere un momento prima che un ricordo della scuola
superiore, uno di una certa importanza, gli si affacciasse alla mente. Poi incominciò a ridere. «Ero a educazione fisica e stavo facendo un test di fitness. Tra le altre cose bisognava arrampicarsi su una corda che pendeva dal soffitto. Nella scuola superiore, io non avevo il fisico massiccio di oggi...» King sbuffò. «Naturalmente.» «... così ero già preoccupato di non arrivare in cima. Ma scoprii che non era quello il problema. I guai cominciarono con la discesa, perché arrampicarmi con la corda tra le gambe mi aveva procurato una vistosa erezione.» «Ci siamo» disse King. «Chiedi a dieci persone, e la metà di loro non sarà in grado di ricordare niente di concreto della scuola superiore: hanno rimosso tutto. L'altra metà ricorderà un momento incredibilmente doloroso o imbarazzante. Saranno rimaste incollate a quel ricordo come mosche.» «È terribilmente deprimente» sottolineò Jordan. «Be', la maggior parte di noi cresce e capisce che nel grande disegno della vita quegli episodi erano soltanto una minuscola parte del puzzle.» «E quelli che non capiscono?» King lanciò un'occhiata a Jordan. «Diventano come Peter.» Alex stava frugando nell'armadio di Josie: prima di tutto perché Josie aveva preso in prestito la sua gonna nera e non gliela aveva mai restituita, e Alex ne aveva bisogno quella sera. Doveva uscire a cena con Whit Hobart, il suo ex capo, che si era ritirato dalla carica di difensore d'ufficio. Dopo l'udienza di quel giorno, in cui il pubblico ministero aveva avanzato la proposta di sottrarle il caso, aveva bisogno di qualche consiglio. Aveva trovato la gonna, ma aveva scoperto anche un'infinità di tesori. Alex sedette sul pavimento con una scatola aperta in grembo. La frangia di un vecchio costume da jazz di Josie, che risaliva alle lezioni che aveva preso quando aveva sei o sette anni, cadde nel palmo della sua mano come un sussurro. La seta era fredda al tatto. Aveva lasciato il colore su un costume di finta pelliccia di tigre che Josie aveva indossato una volta per Halloween e aveva tenuto per quando voleva mettersi in maschera: il primo e ultimo tentativo da parte di Alex di cimentarsi con il cucito. A metà del lavoro, si era arresa e aveva unito saldamente il tessuto con della colla a caldo. Quell'anno Alex aveva progettato di portare Josie a dolcetto o scherzetto, ma a quell'epoca era difensore d'ufficio, e uno dei suoi clienti era stato nuovamente arrestato. Josie era uscita con i vicini di casa e i loro bambini; e quella sera, quando Alex finalmente era rientrata, Josie aveva
rovesciato la sua federa piena di caramelle sul letto. Puoi prenderne metà, le disse Josie, perché ti sei persa tutto il divertimento. Passò il pollice sull'atlante che Josie aveva fatto in prima, colorando ogni continente e poi laminando le pagine; lesse le sue pagelle. Trovò un elastico per i capelli e se lo mise al polso. Sul fondo della scatola c'era un biglietto, scritto con la calligrafia a svolazzi di una ragazzina: Cara mamma ti voglio tanto bene. Baci baci baci. Alex passò le dita sulle lettere. Si domandava perché Josie avesse ancora quel biglietto; perché non fosse mai stato consegnato alla destinataria. Josie aveva aspettato, e poi se n'era dimenticata? Si era arrabbiata con Alex per qualche motivo e aveva deciso di non darglielo affatto? Alex si alzò, poi sistemò di nuovo con cura la scatola dove l'aveva trovata. Piegò la gonna nera sul braccio e si diresse nella sua camera. Quasi tutti i genitori, lo sapeva, frugavano nei cassetti dei loro figli alla ricerca di preservativi e sacchettini di marijuana, per tentare di coglierli sul fatto. Per Alex era diverso. Per Alex, cercare in mezzo alle cose di Josie era un modo per rimanere aggrappata a tutto quello che aveva perso. La triste verità riguardo al vivere da soli era che Patrick non avrebbe saputo come motivare la seccatura di cucinare per sé. Consumava la maggior parte dei suoi pasti in piedi davanti al lavello: che senso avrebbe avuto, dunque, darsi da fare con pentole, padelle e ingredienti freschi? Non poteva certo rivolgersi a se stesso e dire: Patrick, che ricetta straordinaria, dove l'hai scovata? In ogni caso aveva messo a punto una pianificazione scientifica. Lunedì era la sera della pizza. Martedì, da Subway. Mercoledì cucina cinese. Giovedì, zuppa; e venerdì mangiava un hamburger nel bar dove aveva l'abitudine di fermarsi a bere una birra tornando a casa. Nel weekend finiva gli avanzi, che erano sempre tanti. Talvolta consumava il suo pasto nella più completa solitudine (c'era forse qualcosa di più triste del Pupu platter hawaiano per uno?), ma, per lo più, la sua routine gli aveva procurato tutta una serie di amici. In pizzeria Sal gli dava trecce d'aglio gratis, perché era un cliente abituale. Il ragazzo del Subway, di cui Patrick non conosceva il nome, puntava un dito verso di lui e sorrideva. «Abbondante-italianatacchino-formaggio-maionese-olive-extra-sottaceti-sale e pepe» esclamava, l'equivalente verbale della loro stretta di mano segreta. Poiché era mercoledì, Patrick si trovava al Drago d'Oro, in attesa della sua cena da asporto. Mentre osservava May che gliela preparava in cucina
(dove diavolo si poteva comprare un wok tanto grosso? si domandava sempre), gettò uno sguardo al televisore sopra il banco del bar e vide che la partita dei Sox iniziava in quel momento. Una donna era seduta da sola, intenta a sfrangiare il bordo di un tovagliolo di carta da cocktail mentre aspettava che il barman le portasse il suo drink. Gli dava le spalle, ma Patrick era un detective e certi particolari poteva immaginarseli anche da quella visuale. Come per esempio il fatto che aveva un gran culo e che i suoi capelli avrebbero avuto bisogno di essere liberati da quella crocchia da bibliotecaria per poter ondeggiare sulle sue spalle. Patrick guardò il barman (un coreano di nome Spike, che Patrick trovava sempre piuttosto divertente dopo la prima Tsing-tao) aprire una bottiglia di pinot nero, e registrò anche quell'informazione: era una donna di classe. Niente bicchiere con l'ombrellino di carta dentro, non era roba per lei. Si accostò con esitazione alla donna e porse a Spike un biglietto da venti. «Offro io» disse Patrick. Lei si voltò e per una frazione di secondo Patrick rimase inchiodato sul posto, a domandarsi come fosse possibile che quella donna misteriosa avesse il volto del giudice Cormier. A Patrick venne in mente quando, alla scuola superiore, gli era capitato di vedere da una certa distanza la mamma di un amico nel parcheggio e automaticamente aveva verificato se fosse da considerarsi una Potenziale Ragazza Sexy, finché si era reso conto di chi fosse veramente. Il giudice strappò la banconota da venti dollari dalla mano di Spike e la restituì a Patrick. «Non può pagarmi da bere» disse, e tirò fuori i contanti dalla sua pochette, per poi darli al barman. Patrick si sedette sullo sgabello accanto a lei. «Bene, allora» disse. «Può pagarne uno a me.» «Non credo.» Gettò un'occhiata alla sala del ristorante. «In realtà credo che non dovremmo farci vedere mentre parliamo insieme.» «Gli unici testimoni sono le carpe koi nell'acquario vicino alla cassa. Credo che lei sia al sicuro» osservò Patrick. «Inoltre, stiamo solo parlando. Non stiamo parlando del caso. Di sicuro ricorda ancora come si fa conversazione al di fuori di un tribunale, vero?» Lei sollevò il suo bicchiere di vino. «Comunque, lei cosa ci fa qui?» Patrick abbassò la voce. «Sto organizzando una retata per spaccio di stupefacenti da parte della mafia cinese. Importano oppio grezzo nei pacchetti di zucchero.»
Lei spalancò gli occhi. «Davvero?» «No. E poi glielo direi, se fosse vero?» Sorrise. «Sto solo aspettando la mia cena da portar via. E lei?» «Aspetto una persona.» Non si era reso conto, fintantoché lei non ebbe detto questo, che apprezzava la sua compagnia. Lo divertiva metterla in agitazione, il che, a dire il vero, non era poi così difficile. Il giudice Cormier gli ricordava il Mago di Oz: ti intimidiva a forza di parolone, campanelli e trombette, ma poi, quando sollevavi la tenda, era soltanto una donna comune. E si dava il caso che avesse un bel culo. Sentì il calore salirgli al volto. «Famiglia felice» disse Patrick. «Scusi?» «È quello che ho ordinato. Volevo soltanto aiutarla a continuare questa conversazione casuale.» «Prende un piatto solo? Nessuno va al ristorante cinese per ordinare un piatto solo.» «Be', non tutti hanno dei figli a casa.» Lei passò un dito sul bordo del suo bicchiere. «Lei non ne ha?» «Mai stato sposato.» «Perché no?» Patrick scosse il capo, sorridendo debolmente. «Non sono portato.» «Accidenti» commentò il giudice. «Quella donna ha fatto proprio un bel lavoro su di lei.» Lui era rimasto a bocca aperta. Era davvero così trasparente? «Non crederà di aver monopolizzato il mercato con le sue sorprendenti capacità investigative» disse lei, ridendo. «Solo che noi lo chiamiamo intuito femminile.» «Già, le farà guadagnare il distintivo da detective in men che non si dica.» Lanciò un'occhiata alla sua mano senza la fede al dito. «Perché lei non è sposata?» Il giudice ripeté la risposta che aveva dato lui. «Perché non sono portata.» Lei sorseggiò il vino in silenzio per un momento, e Patrick si mise a tamburellare con le dita sul banco di legno del bar. «Lei era già sposata» ammise. Il giudice posò il bicchiere, vuoto. «Anche lui» confessò e, quando Patrick si voltò verso di lei, lo guardò dritto negli occhi. I suoi erano di quel grigio pallido che fa pensare al tramonto, alle pallot-
tole d'argento e all'inizio dell'inverno. Il colore che riempiva il cielo prima che venisse squarciato dal fulmine. Patrick non se n'era mai accorto prima, e improvvisamente capì perché. «Non ha gli occhiali.» «Sono davvero felice di sapere che a Sterling c'è uno così perspicace come lei a proteggerci e aiutarci tutti.» «Lei di solito porta gli occhiali.» «Soltanto quando lavoro. Ne ho bisogno per leggere.» E di solito quando la vedo sta lavorando. Ecco perché non si era mai accorto di quanto fosse attraente Alex Cormier: prima, quando le loro strade si incrociavano, lei vestiva sempre i panni perfettamente abbottonati del giudice. Non era mai stata china sul banco di un bar come un fiore di serra. Non era mai stata così completamente... umana. «Alex!» chiamò qualcuno alle loro spalle. Era un uomo elegante, con un abito di buon taglio e scarpe con la mascherina allungata, e quel tanto di capelli grigi alle tempie che lo faceva apparire distinto. Aveva scritto avvocato da tutte le parti. Era sicuramente ricco e divorziato; quel genere di uomo che la sera si siede e si mette a parlare del codice penale prima di fare l'amore. Quel genere di uomo che dorme dalla sua parte del letto invece che con le braccia così strette attorno a lei che anche dopo essersi addormentati sono ancora uniti. Gesù Santo, pensò Patrick, guardando il pavimento. Da dove salta fuori? Ma che cosa gliene importava dell'uomo con il quale Alex Cormier aveva un appuntamento, anche se era abbastanza vecchio da poter essere suo padre? «Whit» disse lei, «sono così felice che tu sia riuscito a venire.» Lo baciò sulla guancia e poi, continuando a tenere la sua mano, si rivolse a Patrick. «Whit, ti presento il detective Patrick Ducharme. Patrick, Whit Hobart.» L'uomo aveva una bella stretta di mano, cosa che irritò ancor di più Patrick. Aspettò di vedere che cos'altro il giudice intendesse dire su di lui per presentarlo. Ma, in effetti, che cosa avrebbe potuto dire? Patrick non era un vecchio amico. Era uno che lei aveva incontrato mentre era seduta al bar. Non avrebbe nemmeno potuto dire che erano entrambi coinvolti nel processo Houghton, perché in quel caso lui non avrebbe dovuto parlare con lei. Cosa che, si rese conto Patrick, lei aveva tentato di dirgli ripetutamente.
May comparve dalla cucina, tenendo in mano un sacchetto di carta ripiegato e chiuso accuratamente. «Ecco, Pat» gli disse. «Ci vediamo la settimana prossima, d'accordo?» Lui sentì su di sé lo sguardo del giudice. «Famiglia felice» disse lei, offrendogli come premio di consolazione il più minuscolo dei sorrisi. «Lieto di averla vista, Vostro Onore» disse Patrick educatamente. Aprì la porta del ristorante con tale energia da farla sbattere sui cardini contro il muro esterno. Era quasi giunto alla sua auto quando si accorse che non aveva neanche più fame. Il titolo principale del notiziario delle 23.00 era l'udienza della corte suprema per rimuovere il giudice Cormier dal caso. Jordan e Selena erano seduti a letto nel buio, ciascuno con una ciotola di cereali in equilibrio sullo stomaco, a guardare la madre in lacrime di una ragazza paraplegica gridare davanti alla telecamera. «Nessuno parla a favore dei nostri figli» diceva. «Se questo caso si imbroglia per colpa di qualche casino legale... be', loro non ce la faranno a sopportare tutto quanto una seconda volta.» «Nemmeno Peter» precisò Jordan. Selena depose il cucchiaio. «La Cormier presiederà questo caso anche se dovesse strisciare per raggiungere il banco.» «Be', io non posso certo prendere qualcuno che le giri le ginocchia al contrario, no?» «Prova a vedere il lato positivo» disse Selena. «Niente di quello che dirà Josie potrà mai danneggiare Peter.» «Dio santo, hai ragione.» Jordan si sedette così bruscamente che rovesciò il latte sulla coperta. Posò la ciotola sul comodino. «È geniale.» «Che cosa?» «Diana non ha intenzione di chiamare Josie a testimoniare per l'accusa, perché per loro non ha niente di utile da dichiarare. Ma non c'è niente che impedisca a me di chiamarla come testimone per la difesa.» «Stai scherzando? Vuoi mettere la figlia del giudice nell'elenco dei tuoi testimoni?» «Perché no? Una volta era amica di Peter. Lui ne ha avuti talmente pochi. È tutto in perfetta buona fede.» «Non vorrai sul serio...» «Nooo, sono sicuro che non la userò. Ma non c'è bisogno che il pubblico ministero lo sappia.» Sorrise a Selena. «E tra parentesi... neanche il giudice.» Anche Selena posò la sua ciotola. «Se metti Josie nell'elenco dei testi-
moni... La Cormier deve ritirarsi.» «Precisamente.» Selena si chinò verso di lui, prendendogli il volto con le palme delle mani per stampargli un bacio sulle labbra. «Sei terribilmente bravo.» «Sarebbe a dire?» «Hai sentito.» «Capisco» Jordan fece una smorfia, «ma non mi disturberebbe sentirlo ancora.» La coperta scivolò giù mentre lui la cingeva con le braccia. «Sei un ingordo» mormorò Selena. «Non è per questo che ti sei innamorata di me?» Selena rise. «Be', non è stato per il tuo fascino e la tua grazia, amore.» Jordan si chinò sopra di lei, baciando Selena tanto da farle dimenticare, o almeno così sperava, che stava prendendosi gioco di lui. «Facciamo un altro bambino» le sussurrò. «Sto ancora svezzando il primo!» «E allora facciamo come se dovessimo averne un altro.» Non c'era nessuno al mondo come sua moglie, pensò Jordan: statuaria e meravigliosa, più intelligente di lui (anche se davanti a lei non l'avrebbe mai ammesso) e così perfettamente in sintonia con lui da costringerlo a rinunciare quasi completamente al suo scetticismo per ammettere che c'era qualcosa di paranormale tra loro. Seppellì il volto nel punto di Selena che amava di più: quella parte in cui la sua nuca finiva nelle spalle, dove la sua pelle era del colore dello sciroppo d'acero e aveva un sapore ancora più dolce. «Jordan?» disse lei. «Non ti preoccupi mai per i nostri figli? Voglio dire... hai capito. Facendo quello che fai... e vedendo quello che vedi?» Lui rotolò sulla schiena. «Bene» disse. «Ecco come rovinare il momento.» «Dico sul serio.» Jordan sospirò. «Certo che ci penso. Mi preoccupo per Thomas. E per Sam. E per chiunque altro possa arrivare.» Si sollevò su un gomito in modo da poter trovare i suoi occhi nel buio. «Ma poi mi viene in mente che è questo il motivo per cui li abbiamo avuti.» «In che senso?» Lui guardò al di sopra della spalla di Selena, l'occhio verde lampeggiante del piccolo monitor. «Magari» disse Jordan, «saranno quelli che cambieranno il mondo.»
In realtà Whit non aveva deciso per Alex. La decisione era già stata presa quando lei l'aveva incontrato a cena. Ma lui le aveva dato quel conforto di cui lei aveva bisogno per lenire le sue ferite, quella giustificazione che lei temeva di dare a se stessa. Prima o poi ti capiterà un altro caso importante, le aveva detto. Mentre non recupererai mai questo momento con Josie. Alex entrò nel suo ufficio a passo svelto, soprattutto perché sapeva che quella era la parte più facile. Divorziare dal caso, mettere per iscritto l'intenzione di ritirarsi, non era così terrificante come quello che sarebbe accaduto il giorno dopo, quando non sarebbe più stata il giudice del caso Houghton. Quando, invece, avrebbe dovuto fare la madre. Eleanor sembrava introvabile, ma aveva lasciato gli incartamenti per Alex sulla sua scrivania. Si sedette e diede una scorsa a quei fogli. Jordan McAfee, che il giorno prima all'udienza non aveva neanche aperto bocca, notificava la sua intenzione di chiamare Josie a testimoniare. Alex sentì una scintilla nel ventre. Non avrebbe saputo trovare le parole per descrivere quella sensazione: l'istinto animale che sopraggiunge quando ti rendi conto che qualcuno che ami è stato preso in ostaggio. McAfee aveva commesso il crudele peccato di trascinare Josie in quella faccenda, e la mente di Alex girava vorticosamente mentre si domandava come avrebbe potuto farlo licenziare o persino radiare dall'albo. Ora che ci pensava, non le importava neanche tanto che il castigo si verificasse entro i confini della legge o al di fuori. Ma improvvisamente Alex si calmò. Non era Jordan McAfee che lei doveva rincorrere sino ai confini della Terra... era Josie. Avrebbe fatto di tutto per impedire che sua figlia soffrisse ancora. Forse avrebbe dovuto ringraziare Jordan McAfee per averla aiutata a capire che aveva già dentro di sé la materia grezza per essere una buona madre, dopotutto. Alex si sedette davanti al suo computer portatile e cominciò a scrivere. Il suo cuore batteva come un martello mentre si avvicinava alla scrivania del cancelliere e porgeva il foglio a Eleanor. Ma non è normale, in fondo, quando ci si lancia da una scogliera? «Deve chiamare il giudice Wagner» disse Alex. Patrick non aveva bisogno del mandato di perquisizione. Ma quando udì
un altro agente dire che doveva passare dal tribunale si intromise. «Sto andando proprio là» disse. «Te lo prenderò io.» In realtà, non doveva andare verso il tribunale, ma lo faceva di sua spontanea volontà. E non era il buon samaritano che si offriva di percorrere in auto più di sessanta chilometri per puro buon cuore. Patrick voleva andarci per una sola ragione: era un altro pretesto per vedere Alex Cormier. Si infilò in uno spazio vuoto e scese dalla sua auto, individuando immediatamente la Honda di Alex. Era un buon segno: per quanto ne sapeva lui, quel giorno avrebbe anche potuto non essere in tribunale. Ma rimase subito esterrefatto e lanciò un'altra occhiata per accertarsi di aver visto bene: nell'auto c'era qualcuno... e quel qualcuno era il giudice. Non si muoveva, si limitava a fissare il parabrezza. I tergicristallo erano in funzione, ma non pioveva. Sembrava che non si accorgesse nemmeno che stava piangendo. Provò la stessa fitta di disagio alla bocca dello stomaco che sentiva sempre quando arrivava sulla scena del crimine e vedeva una vittima in lacrime. Sono arrivato troppo tardi, pensò. Ancora una volta. Patrick si avvicinò alla macchina, ma il giudice non doveva averlo visto arrivare. Quando bussò al finestrino, lei fece un balzo e si asciugò gli occhi precipitosamente. Lui mimò il gesto di abbassare il vetro. «Tutto a posto?» domandò. «Sto benissimo.» «A guardarla non si direbbe.» «E allora smetta di guardarmi» scattò lei. Lui si aggrappò con la mano al bordo della portiera. «Senta. Vuole andare da qualche parte a parlare? Le offrirò un caffè.» Il giudice sospirò. «Non può offrirmi un caffè.» «Be', però possiamo prenderne uno.» Si alzò e girò attorno alla portiera del passeggero, l'aprì e scivolò nel sedile accanto a lei. «Lei è in servizio» precisò Alex. «Stavo per fare la pausa pranzo.» «Alle dieci del mattino?» Patrick allungò la mano verso il cruscotto, girò la chiave dell'accensione e avviò la macchina. «Esca dal parcheggio e svolti a sinistra, d'accordo?» «Altrimenti?» «Santo cielo, non le viene in mente niente di meglio che discutere con qualcuno che porta una Glock?» Lei lo guardò per un lungo momento. «Lei non può assolutamente ag-
gredirmi in auto» disse il giudice, ma incominciò a guidare, come lui le aveva chiesto. «Mi ricordi di arrestare me stesso più tardi» disse Patrick. Alex aveva imparato da suo padre a dare sempre il massimo ed evidentemente valeva anche quando si trattava di cadere in basso. Perché non ritirarsi dal processo più importante della sua carriera, chiedere un periodo di congedo e uscire a prendere un caffè con il detective che si occupava del caso tutto in un colpo solo? Per giunta, si disse, se non fosse uscita con Patrick Ducharme, non avrebbe mai saputo che il ristorante cinese Drago d'Oro apriva alle dieci del mattino. Se non fosse uscita con lui, avrebbe dovuto andare a casa in macchina e cominciare una nuova vita. Tutti, al ristorante, sembravano conoscere il detective e nessuno gli fece caso quando andò in cucina a prendere una tazza di caffè per Alex. «Quello che ha visto prima» disse Alex esitante. «Non vorrà...» «Dire a qualcuno che lei ha avuto un piccolo crollo nervoso nella sua auto?» Lei abbassò lo sguardo sulla tazza di caffè che lui le aveva messo davanti, non sapendo neanche bene come reagire. La sua esperienza le diceva che, quando ti mostri debole davanti a qualcuno, la tua debolezza verrà usata contro di te. «A volte è difficile essere un giudice. La gente si aspetta che tu agisca sempre come tale, anche quando hai l'influenza e ti senti come se stessi raggomitolandoti su te stessa per poi morire, o quando imprechi contro la cassiera che ti ha dato il resto sbagliato apposta. Non c'è molto spazio per gli errori.» «Il suo segreto è al sicuro» disse Patrick. «Non dirò a nessuno della comunità delle forze dell'ordine che lei ha dei veri sentimenti.» Alex bevve un sorso di caffè, poi alzò lo sguardo su di lui. «Zucchero?» Patrick incrociò le braccia sul banco del bar e si chinò verso di lei. «Tesoro?» Ma vedendo la sua espressione scoppiò a ridere e poi le allungò la zuccheriera. «Sinceramente, non è niente di grave. Tutti abbiamo giornate schifose al lavoro.» «Ma lei si siede nella sua auto a piangere?» «Di recente non mi è capitato, ma lo sanno tutti che durante i miei attacchi di frustrazione rovescio gli armadietti con dentro le prove.» Versò il latte in un bricco e si sedette. «Sa, non sono cose reciprocamente incompa-
tibili.» «Di che cosa sta parlando?» «Dell'essere un giudice e dell'essere umani.» Alex aggiunse il latte alla sua tazza. «Lo dica a tutti quelli che vogliono il mio ritiro.» «Non è a questo punto che lei mi dice che non possiamo parlare del caso?» «Sì» disse Alex. «Soltanto che io non sono più su quel caso. Prima di mezzogiorno la notizia sarà di dominio pubblico.» Lui smise di scherzare. «Per questo era così turbata?» «No. Avevo già deciso di lasciare il caso. Ma poi ho appreso che Josie è nell'elenco dei testimoni per la difesa.» «Perché?» disse Patrick. «Non ricorda niente. Che cosa può dire?» «Non lo so.» Alex guardò in su. «Eppure, se fosse colpa mia? Se l'avvocato l'avesse fatto soltanto per farmi lasciare il caso perché ero troppo ostinata per ritirarmi da sola la prima volta che la questione è stata sollevata?» Pur vergognandosene immensamente, si accorse che ricominciava a piangere, e fissò il banco del bar nella speranza che Patrick non se ne accorgesse. «E se lei dovrà stare in piedi davanti a tutti in aula a rivivere quell'intera giornata?» Patrick le passò un tovagliolo di carta, e lei si asciugò gli occhi. «Mi spiace. Di solito non sono così.» «Qualsiasi madre la cui figlia abbia sfiorato la morte ha il diritto di crollare quando non ne può più» disse Patrick. «Senta. Ho parlato con Josie due volte. Conosco perfettamente la sua posizione. Non importa se McAfee la chiama alla sbarra... niente di quello che lei avrà da dire potrà nuocerle. Il motivo di conforto è che ora lei non deve preoccuparsi di un conflitto d'interessi. Josie ha bisogno di una brava madre, adesso, e non di un bravo giudice.» Alex sorrise contrita. «Peccato che invece abbia me.» «Non dica così.» «È la verità. Tutta la mia vita con Josie è stata una serie di sconnessioni.» «Bene» sottolineò Patrick, «perché in tal caso si presume che ci sia stato un momento in cui eravate connesse.» «Nessuna di noi due torna tanto indietro con i ricordi. Lei ha avuto conversazioni migliori con Josie di quelle che ho avuto io negli ultimi tempi.» Alex fissò lo sguardo sulla tazza di caffè. «Qualsiasi cosa io dica a Josie sembra sbagliata. Mi guarda come se provenissi da un altro pianeta. Come
se non avessi alcun diritto di agire come un genitore preoccupato ora perché non mi comportavo così prima dell'accaduto.» «Perché non lo faceva?» «Lavoravo. Molto» rispose Alex. «Tanti genitori lavorano molto...» «Ma io sono brava a fare il giudice. E sono una pessima madre.» Alex si coprì la bocca con la mano, ma era troppo tardi per rimangiarsi la verità, che si avvolgeva a spirale sul bancone del bar davanti a lei, velenosa. Come le era saltato in mente di confessarlo a qualcuno quando riusciva a stento ad ammetterlo con se stessa? Eppure aveva attirato l'attenzione di un poliziotto sul suo tallone di Achille. «Forse dovrebbe provare a parlare con Josie nello stesso modo in cui parla con la gente che viene da lei in tribunale, allora» suggerì Patrick. «Lei mi detesta quando mi comporto da avvocato. E poi in aula io parlo poco. Soprattutto ascolto.» «Bene, Vostro Onore» disse Patrick. «Anche questo potrebbe funzionare.» Una volta, quando Josie era bambina, Alex l'aveva persa di vista abbastanza a lungo perché Josie trovasse il tempo di arrampicarsi su uno sgabello. Dalla parte opposta della stanza, Alex osservò con terrore l'istante in cui il corpicino leggero di Josie perdesse l'equilibrio. Non poteva raggiungerla in tempo per impedirle di cadere; ma non voleva gridare perché temeva che anche l'eventuale spavento potesse farla precipitare. Così Alex rimase ferma, in attesa che l'incidente si verificasse. Ma invece Josie riuscì ad aggrapparsi allo sgabello; a stare in piedi sul piccolo sedile rotondo; a raggiungere l'interruttore della luce come desiderava. Alex la guardò accendere e spegnere le luci, guardò il suo volto illuminato da un sorriso ogni volta che capiva come le sue azioni potessero trasformare il mondo. «Finché non siamo in tribunale» disse esitante, «mi farebbe piacere che mi chiamasse Alex.» Patrick sorrise. «E a me farebbe piacere che mi chiamasse Vostra Maestà Re Kamehameha.» Alex non riuscì a trattenersi dal ridere. «Ma, se è troppo difficile da ricordare, Patrick va benissimo.» Prese il bricco di caffè e se ne versò un po'. «Secondo giro gratis» disse. Lei lo osservò aggiungere zucchero e latte, nelle stesse quantità che aveva usato per la prima tazza. Era un detective; notare i dettagli era il suo la-
voro. Ma Alex pensò che probabilmente non era quello che lo rendeva un poliziotto così bravo. Era perché aveva la capacità di usare la forza, come qualsiasi altro agente di polizia, ma in realtà ti metteva in trappola con la gentilezza. Il che, Alex lo sapeva, era ancora più pericoloso. Non era una cosa che avrebbe messo mai nel suo curriculum vitae, ma Jordan era particolarmente dotato per ballare a tempo le canzoni dei Wiggles. La sua preferita era «Patata bollente» ma quella che davvero entusiasmava Sam era «Macedonia di frutta». Mentre Selena era di sopra a farsi un bagno caldo, Jordan mise il DVD - lei era contraria a bombardare Sam con i media, e non voleva che lui imparasse a fare lo spelling di D-O-R-OT-H-Y, come nel gioco di Dinosaur, prima di sapere almeno scrivere il proprio nome. Selena voleva sempre che Jordan facesse qualcos'altro con il bambino, come imparare a memoria Shakespeare o risolvere equazioni differenziali, ma Jordan era un convinto assertore del lasciare che la televisione svolgesse il suo lavoro riducendo il cervello di un individuo in pappa... giusto il tempo, quanto meno, per godersi una bella, sciocca lezione di tango. I neonati erano sempre il giusto peso, e quando finalmente li mettevi giù avevi la sensazione che ti mancasse qualcosa. «Macedonia di frutta... gnam gnam!» canticchiò Jordan volteggiando finché Sam aprì la bocca e ne lasciò scaturire uno scroscio di risatine. Squillò il campanello e Jordan si spostò armoniosamente nell'ingresso insieme al suo piccolo compagno. Mettendosi in sintonia - o cercando di farlo - con Jeff, Murray, Greg e Anthony sullo sfondo, Jordan aprì la porta. «Facciamo un po' di macedonia, oggi» cantò, ma poi vide chi c'era in piedi nella veranda. «Giudice Cormier!» «Spiacente di averla interrotta.» Lui sapeva già che lei si era ritirata dal caso: la bella notizia era stata diffusa nel pomeriggio. «No, non importa. Venga... dentro.» Jordan guardò di sfuggita la schiera di giocattoli che lui e Sam avevano lasciato nella loro scia (doveva anche rimetterli a posto prima che Selena scendesse). Nascondendo a calci dietro il divano tutti quelli che poteva, condusse il giudice in soggiorno e spense il DVD. «Dev'essere suo figlio.» «Sì.» Jordan abbassò lo sguardo sul bambino, che era in procinto di decidere se lanciare o no un urlo ora che la musica era cessata. «Sam.»
Lei si avvicinò, lasciando che Sam avvolgesse la sua manina attorno al suo indice. Sam avrebbe potuto incantare anche Hitler, probabilmente, eppure sembrava che la sua vista mettesse ancor più in agitazione il giudice Cormier. «Perché ha messo mia figlia nell'elenco dei testimoni?» Ah. «Perché» rispose Jordan «Josie e Peter una volta erano amici, e potrei aver bisogno di lei come testimone a favore di Peter, per quanto riguarda il carattere del mio imputato.» «Erano amici dieci anni fa. Sia sincero. L'ha fatto per togliermi il caso.» Jordan issò Sam più in alto sul suo fianco. «Vostro Onore, con tutto il dovuto rispetto, non ho intenzione di permettere a nessuno di giudicare questo caso per me. E men che meno a un giudice che non è nemmeno più coinvolto nel caso stesso.» Vide qualcosa lampeggiare nei suoi occhi. «Naturalmente» disse lei rigida. Poi girò sui tacchi e se ne andò. Chiedete a qualsiasi ragazza oggi se vuole essere popolare e lei vi dirà di no, anche se la verità è che, se fosse in un deserto a morire di sete e potesse scegliere tra un bicchiere d'acqua e la popolarità istantanea, probabilmente sceglierebbe la seconda. Non appena udì bussare, Josie prese il suo quaderno e lo cacciò tra il materasso e la rete del letto, ossia nel nascondiglio più vecchio del mondo. Sua madre entrò nella stanza, e sulle prime Josie non avrebbe saputo dire che cosa ci fosse di strano. Ma dopo un istante capì: fuori non era ancora buio. Di solito, quando sua madre tornava a casa dal tribunale, era ora di cena, mentre adesso erano solo le 15 e 45; Josie era appena tornata da scuola. «Devo parlarti» disse sua madre, sedendole accanto sul piumone. «Oggi ho rinunciato al caso.» Josie la fissò. In tutta la sua vita, non aveva mai visto sua madre fare marcia indietro davanti a una sfida legale; inoltre, non avevano parlato di recente proprio del fatto che lei non voleva ritirarsi? Provò quella specie di nausea sottile che le veniva quando l'insegnante la chiamava e lei non era stata attenta. Cosa aveva scoperto sua madre che fino a qualche giorno prima non sapeva? «Cos'è successo?» domandò Josie, e sperò che sua madre non fosse così attenta da percepire come la sua voce risuonasse nella stanza.
«Be', è l'altra cosa di cui devo parlarti» rispose sua madre. «La difesa ti ha inserito nell'elenco dei testimoni. Potrebbero chiederti di presentarti in aula.» «Cosa?» gridò Josie, e per un istante tutto si fermò: il suo respiro, il suo cuore, il suo coraggio. «Non posso presentarmi in aula, mamma» disse. «Non farmi questo. Ti prego...» Sua madre allungò una mano e il suo contatto la rincuorò, perché Josie era sicura di svenire da un momento all'altro. Sublimazione, pensò, l'atto di passare dallo stato solido a quello gassoso. Poi si rese conto che aveva studiato quel termine per il compito in classe di scienze che non aveva mai sostenuto per via di tutto quello che era capitato. «Ho parlato con il detective e so che non ricordi niente. L'unica ragione per cui sei ugualmente su quell'elenco è che una volta, tantissimo tempo fa, tu e Peter eravate amici.» Josie si tirò indietro. «Mi giuri che non dovrò presentarmi in tribunale?» Sua madre esitò. «Tesoro, non posso...» «Ma devi!» «E se andassimo a parlare con l'avvocato difensore?» propose sua madre. «A che cosa servirebbe?» «Be', se lui vede fino a che punto ti agita questa prospettiva, forse ci penserà due volte prima di sentirti come testimone.» Josie si distese sul letto. Per qualche istante sua madre le accarezzò i capelli. Josie credette di averla udita sussurrare Mi dispiace, poi si alzò e chiuse la porta dietro di sé. «Matt» bisbigliò Josie, come se lui potesse udirla; come se lui potesse rispondere. Matt. Respirò il suo nome come ossigeno e immaginò che si scomponesse in migliaia di minuscoli frammenti, incanalandosi nei suoi globuli rossi, fino a battere nel suo cuore. Peter spezzò in due una matita e mise l'estremità con la gomma nella sua focaccia di mais. «Buon compleanno a me» cantò sottovoce. Non finì la canzone; che senso aveva, dal momento che si sapeva già a chi era dedicata? «Ehi, Houghton» disse una guardia, «abbiamo un regalo per te.» In piedi dietro di lui c'era un ragazzo non molto più grande di Peter. Si dondolava avanti e indietro sui talloni e aveva il moccio che gli colava dal
naso. La guardia lo introdusse nella cella. «Naturalmente condividerai con lui la tua torta» disse la guardia. Peter si sedette sul letto più basso, giusto per far capire chiaramente al ragazzo chi contava di più. Il ragazzo rimase in piedi con le braccia strette attorno alla coperta che gli avevano dato, lo sguardo fisso al suolo. Poi alzò una mano e si spinse gli occhiali sul naso, e fu in quel momento che Peter si rese conto che c'era qualcosa, be', che non andava in lui. Aveva lo sguardo vitreo, appiccicoso dei ragazzi disabili. Peter capì perché avevano messo quel ragazzo proprio nella sua cella e non in quella di qualcun altro: pensavano che fosse meno probabile che Peter se lo scopasse. Sentì le proprie mani chiudersi a pugno. «Ciao» disse Peter. Il ragazzo dondolò la testa verso Peter. «Ho un cane» disse. «Tu hai un cane?» Peter immaginò le guardie che si godevano la scena sui loro piccoli monitor collegati, in attesa che Peter reagisse a quella stronzata. In attesa che Peter facesse qualcosa, punto e basta. Allungò una mano e tolse gli occhiali al ragazzo. Erano spessi come il fondo di una bottiglia di Coca-Cola, con una montatura di plastica nera. Il ragazzo cominciò a strillare, stringendosi la faccia tra le mani. Il suo urlo risuonò come una tromba ad aria compressa. Peter gettò gli occhiali sul pavimento e vi pestò i piedi sopra, ma con le sue ciabatte di gomma non riuscì a rovinarli granché. Allora li raccolse e li sbatté contro le sbarre della cella finché il vetro si ruppe. A quel punto arrivarono le guardie a sottrarre il ragazzo a Peter, benché lui non lo avesse nemmeno toccato. Lo ammanettarono mentre gli altri carcerati lo incitavano gridando. Venne trascinato in corridoio e poi nell'ufficio del sovrintendente. Si sedette ingobbito su una sedia, con una guardia che lo sorvegliava da vicino, finché giunse il sovrintendente. «Cosa succede, Peter?» «È il mio compleanno» rispose Peter. «Volevo soltanto passarlo da solo.» Pensò che in fondo era buffo: prima della sparatoria era convinto che la miglior cosa al mondo fosse essere lasciato solo, perché nessuno potesse dirgli che non si inseriva. Ma ora si accorgeva - non che avesse intenzione di dirlo al sovrintendente - che nemmeno lui si piaceva molto. Il sovrintendente cominciò a parlare di provvedimento disciplinare; quali conseguenze avrebbe avuto su di lui nel caso di un verdetto di colpevolez-
za, quali privilegi gli rimanevano. Peter non lo ascoltava di proposito. Pensò invece a come si sarebbero arrabbiati tutti gli altri, perché quell'episodio sarebbe costato loro una settimana di televisione. Pensò alla sindrome da vittima del bullismo di Jordan e si domandò se ci credeva; se qualcuno ci credeva. Pensò che nessuno di quelli che lo vedevano in carcere - né sua madre né il suo avvocato - diceva mai quello che avrebbe dovuto dire: che Peter sarebbe rimasto in carcere per sempre, che sarebbe morto in una cella identica a quella. Pensò a quanto avrebbe preferito mettere fine a quella vita con un proiettile. Pensò che di notte si udivano le ali dei pipistrelli sbattere conto gli angoli di cemento del carcere, e gli urli. Nessuno era così stupido da piangere. Alle nove del mattino di sabato, quando Jordan aprì la porta, aveva ancora indosso i pantaloni del pigiama. «Vuole scherzare» disse. Il giudice Cormier aveva un sorriso incollato al volto. «Siamo partiti con il piede sbagliato e ne sono davvero spiacente» replicò. «Ma sa com'è quando sono i figli ad avere dei problemi... è difficile pensare lucidamente.» In piedi davanti alla porta, teneva sottobraccio un clone più giovane di se stessa. Josie Cormier, pensò Jordan, scrutando la ragazza che tremava come una foglia di pioppo. Aveva capelli castani che le ricadevano sulle spalle e occhi di un azzurro che non aveva mai visto. «Josie è davvero spaventata» spiegò il giudice. «Mi domandavo se possiamo sederci un minuto... magari lei potrebbe rassicurarla riguardo alla testimonianza. Sentire se quello che sa o non sa può davvero esserle utile.» «Jordan? Chi è?» Lui si voltò e vide Selena in piedi nell'ingresso, con Sam in braccio. Lei indossava un pigiama di flanella, che forse poteva dare una parvenza di maggiore formalità. «Il giudice Cormier voleva sapere se possiamo parlare con Josie riguardo alla sua testimonianza» riferì caustico, con la palese intenzione di comunicare a Selena che si trovava in un brutto guaio, dal momento che, come tutti sapevano tranne forse Josie, l'unico motivo per cui aveva reso noto il suo intento di convocarla era togliere il caso alla Cormier. Jordan si voltò di nuovo verso il giudice. «Come vede, non sto ancora lavorando alla cosa.» «Ma senza dubbio si sarà fatto almeno un'idea di cosa sta perseguendo
chiamandola come testimone... altrimenti non l'avrebbe inclusa nell'elenco» sottolineò Alex. «Perché non telefona alla mia segretaria e prende un appuntamento...» «No, ora» insistette il giudice Cormier. «La prego. Non sono qui in veste di giudice, ma soltanto come madre.» Selena fece un passo avanti. «Entrate» disse, usando il braccio libero per cingere le spalle di Josie. «Tu devi essere Josie, vero? E lui è Sam.» Josie sorrise timidamente al bambino. «Ciao, Sam.» «Caro, potresti offrire al giudice un caffè o del succo di frutta.» Jordan guardò fisso sua moglie, domandandosi cosa diavolo le avesse preso. «Ma certo. Accomodatevi.» Fortunatamente, la casa non era come la prima volta che la Cormier era arrivata senza preavviso: non c'erano piatti nel lavello; niente fogli sparsi sui tavoli; i giocattoli erano misteriosamente scomparsi. Jordan poteva ben dirlo: sua moglie era una fanatica dell'ordine. Prese una delle sedie del tavolo di cucina e la offrì a Josie, poi fece lo stesso con il giudice. «Come lo prendete, il caffè?» domandò. «Oh, siamo a posto così» rispose lei. Sotto il tavolo strinse la mano di sua figlia. «Sam e io andiamo in soggiorno a giocare» annunciò Selena. «Perché non rimani?» Lui le lanciò uno sguardo eloquente, supplicandola di non lasciarlo solo a farsi annientare. «Finiremmo per distrarti» si giustificò Selena, e portò con sé il bambino. Jordan si sedette pesantemente di fronte alla Cormier. Era bravo quando si trattava di prendere una decisione sui due piedi; sicuramente ce l'avrebbe fatta anche in quella circostanza. «Be'» disse, «in realtà non c'è niente di cui spaventarsi. Volevo soltanto rivolgerti qualche domanda molto semplice riguardo alla tua amicizia con Peter.» «Noi non siamo amici» replicò Josie. «Sì, lo so. Ma lo siete stati. Mi interessa sapere quando l'hai incontrato per la prima volta.» Josie diede un'occhiata ad Alex. «Alla scuola materna, o forse prima.» «D'accordo. Giocavate a casa tua? O sua?» «Tutt'e due.» «Avevate altri amici che passavano abitualmente il tempo con voi?» «Direi di no» rispose Josie. Alex ascoltava, ma non poteva evitare di esaminare con la mentalità da avvocato le domande di McAfee. Non sa niente, pensò. Non c'è niente.
«Quando avete smesso di frequentarvi?» «In sesta» rispose Josie. «Avevamo soltanto cominciato a fare cose diverse.» «In seguito hai avuto qualche contatto con Peter?» Josie si agitò sulla sua sedia. «Soltanto nei corridoi e roba del genere.» «Ma hai lavorato con lui, giusto?» Josie guardò di nuovo sua madre. «Non per molto.» Madre e figlia lo fissavano, come per tentare di prevedere cosa avrebbe detto, il che era incredibilmente buffo, perché lui decideva di domanda in domanda. «Cosa puoi dirmi dei rapporti tra Matt e Peter?» «Non esistevano» rispose Josie, ma le sue guance si fecero rosa. «Matt si comportava con Peter in un modo che poteva farlo arrabbiare?» «Può darsi.» «Potresti essere più precisa?» Lei scosse il capo, le labbra serrate. «Quando hai visto per l'ultima volta Matt e Peter insieme?» «Non ricordo» bisbigliò Josie. «Si erano picchiati?» Le lacrime le rannuvolarono gli occhi. «Non lo so.» Si voltò verso sua madre e poi lentamente abbassò la testa sul tavolo, il volto premuto contro la curva del suo braccio. «Tesoro, vai ad aspettarci nell'altra stanza» disse alla fine il giudice. Entrambi osservarono Josie sedersi su una poltrona in soggiorno, asciugandosi gli occhi, piegandosi in avanti per guardare il bambino che giocava sul pavimento. «Senta» sospirò il giudice Cormier. «Il caso non è più mio. So che è per questo che lei l'ha inclusa nell'elenco dei testimoni, pur non avendo la minima intenzione di chiamarla. Ma ora non voglio discutere questo suo diritto. Le parlo da genitore a genitore. Se le consegno un affidavit, una dichiarazione firmata da Josie in cui lei dichiara di non ricordare niente, ci penserà due volte prima di chiamarla alla sbarra?» Jordan lanciò un'occhiata al soggiorno. Selena aveva persuaso Josie a mettersi sul pavimento accanto a lei. Stava spingendo un aereo giocattolo ai piedi di Sam. Quando lui scoppiò in quella risata fragorosa tipica dei bambini, Josie accennò persino un sorriso. Selena incrociò il suo sguardo e aggrottò la fronte con aria interrogativa. Lui aveva avuto quello che voleva: il ritiro di Cormier. Poteva anche essere così generoso da farle quella concessione.
«Va bene» disse al giudice. «Mi faccia avere l'affidavit.» «Quando dicono di far bollire il latte» spiegò Josie, strofinando con un'altra spugnetta Brillo il fondo annerito della pentola, «non credo che intendano questo.» Sua madre prese un asciugapiatti. «Be', e io come facevo a saperlo?» «Forse dovresti cominciare con qualcosa di più facile del pudding» suggerì Josie. «Tipo?» Lei sorrise. «Pane tostato?» Ora che sua madre era a casa durante il giorno, lei non aveva più pace. Sua madre aveva finito per mettersi a cucinare, una buona idea soltanto se lavoravi con i vigili del fuoco e avevi bisogno di garantirti il posto di lavoro. Anche quando sua madre si atteneva alla ricetta, il piatto non riusciva come avrebbe dovuto, e inevitabilmente Josie la incalzava con i dettagli per scoprire che aveva usato lievito in polvere invece di bicarbonato di sodio, o farina di frumento integrale invece di farina bianca. (In casa non ne avevamo, si lamentava.) Sulle prime, spinta dall'istinto di autoconservazione Josie aveva suggerito un corso di cucina serale: non sapeva realmente cosa dire quando sua madre presentava una mattonella di polpettone carbonizzato con la stessa teatrale reverenza che avrebbe riservato al Sacro Graal. Ma poi diventò una specie di gioco. Quando sua madre doveva fare qualcosa che non sapeva fare (e in cucina era totalmente inetta), in realtà era piuttosto divertente stare con lei. Ed era fantastico, per Josie, sentirsi come se avesse sotto controllo una situazione, di qualsiasi genere, che si trattasse di fare il pudding al cioccolato o di grattar via i suoi rimasugli dal fondo di una teglia. Quella sera avevano preparato la pizza, e Josie l'aveva considerata un successo finché sua madre aveva provato a tirarla fuori dal forno e la pizza si era piegata a metà strada sulle serpentine interne, il che significava che dovevano accontentarsi di formaggio alla griglia come cena di riserva. Aprirono una confezione di insalata - qualcosa che sua madre, qualunque sforzo facesse, non potesse rovinare, aveva pensato Josie. Ma poi, grazie al disastro del pudding, erano rimaste senza dessert. «Perché hai voluto fare come Julia Child, comunque?» le domandò sua madre. «Julia Child è morta.»
«Nigella Lawson, allora.» Josie si strinse nelle spalle e chiuse il rubinetto dell'acqua; si tolse anche i guanti gialli di plastica. «Non ne posso più della zuppa, credo» disse. «Non ti avevo detto di non accendere il forno quando non ero in casa?» «Sì, ma non ti ho ascoltato.» Una volta, quando Josie era in quinta, gli studenti avevano dovuto costruire un ponte con i bastoncini dei ghiaccioli. L'idea era di realizzare un progetto che potesse reggere il massimo della pressione. Ricordava di aver fatto un giro in auto sul fiume Connecticut e di aver studiato gli archi e i puntoni e i sostegni dei ponti veri, tentando di copiarli meglio che poteva. Al termine di quella lezione, erano venuti due ingegneri del Genio militare con una macchina progettata apposta per applicare peso e torsione su ciascun ponte e stabilire quale allievo avesse costruito il ponte più solido. In occasione di quella prova, erano stati invitati i genitori. La madre di Josie era in tribunale, ed era l'unica assente quel giorno. O così si era sempre ricordata fino a quel momento, quando Josie si rese conto che sua madre era stata lì, almeno gli ultimi dieci minuti. Poteva essersi persa il test del ponte di Josie, durante il quale i bastoncini si staccarono e scricchiolarono per poi crollare in un catastrofico fallimento, ma era arrivata in tempo per aiutare Josie a raccogliere i pezzi. La pentola luccicava, quasi fosse d'argento. Il cartone del latte era ancora pieno a metà. «Potremmo ricominciare» propose Josie. Non udendo risposta, Josie si voltò. «Mi piacerebbe» rispose sua madre pacatamente, ma a quel punto né l'una né l'altra si riferivano più al cucinare. Si udì bussare alla porta, e la connessione tra loro, evanescente come una farfalla che si posi sulla mano, si spezzò. «Aspetti qualcuno?» domandò la madre di Josie. Non aspettava nessuno, ma andò ugualmente alla porta. Quando la aprì, Josie si trovò davanti il detective che l'aveva interrogata. Ma i detective non si presentano a casa tua soltanto quando ti trovi in un guaio serio? Respira, Josie, disse a se stessa, e notò che lui aveva in mano una bottiglia di vino proprio mentre sua madre veniva a vedere che cosa accadeva. «Oh» esclamò sua madre. «Patrick.» Patrick? Josie si voltò e si accorse che sua madre stava arrossendo. Lui porse la bottiglia di vino. «Dal momento che questo sembra il nostro
pomo della discordia...» «Be', allora» fece Josie, a disagio, «ecco, io stavo per... per andare a studiare.» E lasciò sua madre a chiedersi come fosse possibile, dato che aveva finito i compiti prima di cena. Volò su per le scale, battendo i piedi forte per non udire quello che sua madre stava dicendo. Nella sua stanza, mise un CD con la musica e alzò il volume al massimo. Poi si gettò sul letto a fissare il soffitto. Per Josie il coprifuoco era a mezzanotte, anche se adesso non lo usava più. Ma prima l'accordo era il seguente: Matt accompagnava a casa Josie entro mezzanotte; in compenso, la madre di Josie svaniva come fumo nell'istante in cui entravano in casa, ritirandosi al piano di sopra. Di conseguenza lei e Matt potevano fare quello che volevano in soggiorno. Josie non sapeva quale fosse la giustificazione razionale del comportamento di sua madre: a meno che non si sentisse più tranquilla sapendo che Josie lo faceva nel soggiorno di casa invece che in auto o sotto una tettoia. Ricordava come stavano insieme al buio, i loro corpi fusi in uno solo e il loro silenzio circospetto. Il solo sapere che in qualsiasi momento la sua mamma poteva scendere a bere un bicchiere d'acqua o a prendere un'aspirina rendeva tutto più eccitante. Alle tre o alle quattro del mattino, quando i suoi occhi erano velati e sentiva il mento irritato dal contatto ripetuto con la barba corta di Matt, Josie gli dava il bacio della buonanotte sulla porta di casa. Guardava le luci posteriori dell'auto scomparire come il fuoco di una sigaretta che si spegne. Saliva in punta di piedi al piano di sopra, oltrepassava la camera da letto di sua madre e pensava: Tu non mi conosci affatto. «Se non le permetto di pagarmi da bere» disse Alex, «che cosa le fa credere che accetterò da lei una bottiglia di vino?» Patrick ridacchiò. «Non ho intenzione di dargliela. Ho intenzione di aprirla, e lei può semplicemente scegliere di farsene prestare un po'.» Mentre lo diceva entrò in casa, come se conoscesse già la strada. Andò in cucina, annusò due volte - c'era ancora odore di pizza carbonizzata e di latte bruciato - e incominciò ad aprire e chiudere i cassetti a caso cercando un cavatappi. Alex incrociò le braccia, non perché avesse freddo, ma perché non riusciva a ricordare di aver mai sentito quella luce dentro di sé, come se il suo corpo ospitasse un secondo sistema solare. Osservò Patrick prendere due bicchieri da vino da un armadietto e riempirli.
«Al non essere in servizio» disse, facendo un brindisi. Il vino era ricco e pieno; come velluto; come l'autunno. Alex chiuse gli occhi. Le sarebbe piaciuto trattenere quell'istante, dilatarlo fino a coprirne tanti altri che c'erano stati prima. «E allora, come ci si sente?» domandò Patrick. «A essere disoccupati?» Lei rifletté un momento. «Oggi ho fatto un panino al formaggio grigliato senza bruciare la padella.» «Spero che l'abbia incorniciato.» «No, quello lo lascio al pubblico ministero.»4 Sorrise del suo piccolo gioco di parole, ma poi lo sentì dissolversi in coda ai suoi pensieri mentre immaginava la faccia di Diana Leven. «Non si sente mai in colpa?» domandò Alex. «Perché?» «Perché per mezzo secondo ha quasi dimenticato tutto quello che è accaduto.» Patrick depose il suo bicchiere di vino. «A volte, quando esamino i referti e vedo l'impronta di un dito o una foto o una scarpa che apparteneva a uno dei ragazzi morti, mi soffermo a guardarla un po' più a lungo. So che è pazzesco, ma è come se qualcuno dovesse farlo, perché vengano ricordati per un paio di minuti in più.» Sollevò lo sguardo su di lei. «Quando qualcuno muore, la sua vita non è l'unica che si ferma in quel momento, sa?» Alex alzò il suo bicchiere di vino e lo vuotò. «Mi racconti come la trovò.» «Chi?» «Josie. Quel giorno.» Patrick incrociò il suo sguardo, e Alex capì che stava soppesando da una parte il suo diritto di sapere che cosa avesse passato sua figlia e dall'altra il proprio desiderio di risparmiarle una verità che l'avrebbe colpita nel vivo. «Era nello spogliatoio» cominciò in tono calmo. «E io credevo... credevo che fosse morta anche lei, perché era coperta di sangue, a faccia in giù vicino a Matt Royston. Ma poi si mosse e...» La sua voce si incrinò. «È stata la cosa più bella che abbia mai visto.» «Lei sa di essere un eroe?» Patrick scosse il capo. «Io sono un vigliacco. Mi sono precipitato nell'edificio soltanto perché, se non l'avessi fatto, avrei avuto gli incubi per il resto della mia vita.» 4
To frame significa «incorniciare» ma anche «accusare ingiustamente». (N.d.T.)
Alex rabbrividì. «Io ho gli incubi, anche se non c'ero.» Lui spinse via il bicchiere di Alex e le studiò il palmo della mano, come se volesse leggerle la linea della vita. «Forse dovrebbe provare a non dormire» disse Patrick. La sua pelle sapeva di piante sempreverdi e di menta, così da vicino. Alex sentiva il proprio cuore battere forte attraverso la punta delle sue dita. Immaginò che anche lui potesse udirlo. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto dopo... che cosa dovesse accadere dopo... ma sarebbe stato casuale, imprevedibile, scomodo. Era già pronta a staccarsi da lui quando le mani di Patrick la tennero saldamente ferma. «Basta fare il giudice, Alex» sussurrò, e la baciò. Quando il sentimento ritorna, in una tempesta di colori, di forza e di sensazioni, il massimo che si può fare è aggrapparsi alla persona che si ha accanto e sperare di resistere. Alex chiuse gli occhi aspettandosi il peggio... ma non fu sgradevole: fu soltanto diverso. Più confuso, o più complicato. Esitò, ma poi ricambiò il bacio di Patrick, decisa ad ammettere che bisogna perdere il controllo per poter trovare quello che si è perduto. Il mese prima Quando si ama qualcuno, c'è uno schema a cui adeguarsi per stare insieme. Anche se non ve ne accorgete, i vostri corpi eseguono una coreografia: un tocco sul fianco, una carezza sui capelli. Il suono di un bacio, una pausa, un altro più lungo, la mano di lui che scivola sotto la tua camicetta. È una routine, ma non nel senso noioso della parola. È soltanto il modo in cui avete imparato a unirvi, ed è per questo che, quando state con un ragazzo da tanto tempo, i vostri denti non si toccano quando vi baciate; non vi date un colpo al naso o al gomito. Matt e Josie avevano uno schema. Quando cominciavano a fare l'amore, lui si chinava in avanti e la guardava come se non riuscisse a vedere nessun'altra parte del mondo. Josie pensava che fosse una specie di ipnotismo, perché dopo un po' anche lei si sentiva allo stesso modo. Poi lui la baciava, così lentamente che c'era soltanto una lieve pressione sulla sua bocca, finché era lei a premere di più contro di lui. Lui si faceva strada nel suo corpo, dalla bocca al collo, dal collo ai seni, e poi le sue dita compivano una missione di ricerca-e-salvataggio sotto la vita dei suoi jeans. Durava quasi dieci minuti, poi Matt rotolava via da lei, tirava fuori il preservativo dal portafoglio e facevano sesso.
Josie non aveva niente in contrario. A voler essere sincera, quello schema le piaceva. Sembrava di stare sulle montagne russe: si procedeva su per la salita, sapendo che cosa c'era dopo sulla pista e sapendo anche che lei non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Erano in soggiorno a casa di Josie, al buio, con il televisore acceso per avere un rumore di sottofondo. Matt si era già tolto i vestiti e si chinava su di lei come un'onda di marea, sfilandosi i boxer. Scattò in avanti e si mise tra le gambe di Josie. «Ehi» disse lei, mentre lui tentava di infilarsi dentro di lei. «Dimentichi niente?» «Oh, Jo. Solo per una volta, voglio che non ci sia niente in mezzo a noi.» Le sue parole avevano il potere di scioglierla, così come i suoi baci o le sue carezze; lei lo sapeva, ormai. Detestava quell'odore gommoso che permeava l'aria nel momento in cui lui apriva la confezione di Trojan e gli rimaneva sulle mani finché avevano finito. E, Dio santo, c'era forse qualcosa di meglio che avere Matt dentro di sé? Josie si spostò un poco, sentì il proprio corpo adeguarsi a lui e le sue gambe tremare. Quando Josie aveva avuto la prima mestruazione, a tredici anni, sua madre non le aveva tenuto la tipica conversazione a cuore aperto da madre a figlia. Le aveva dato, invece, un libro su probabilità e statistiche. «Ogni volta che fai sesso, puoi rimanere incinta o no» aveva detto sua madre. «C'è il cinquanta per cento di probabilità. Perciò non ingannare te stessa pensando che, se lo fai soltanto una volta senza precauzioni, le probabilità saranno a tuo favore.» Josie spinse via Matt. «Non credo che dovremmo farlo» sussurrò. «Fare sesso?» «Fare sesso senza... lo sai. Niente.» Lui era deluso: Josie lo capiva dal modo in cui il suo volto si era irrigidito per un solo istante. Ma si risollevò, tirò fuori il portafoglio e trovò un preservativo. Josie glielo prese di mano, aprì la confezione, lo aiutò a infilarlo. «Un giorno...» cominciò lei, ma poi lui la baciò, e Josie dimenticò quello che voleva dire. Lacy aveva iniziato a spargere granturco sul prato retrostante la casa fin da novembre per aiutare i cervi durante l'inverno. Molta gente del posto non era d'accordo sull'aiutare artificiosamente i cervi a cavarsela durante l'inverno: erano quelli che si trovavano i giardini rovinati d'estate dai cervi
sopravvissuti. Ma per Lacy era una questione di karma. Finché Lewis insisteva con l'andare a caccia, lei doveva fare quel poco che poteva per controbilanciare le sue azioni. Si infilò gli stivali di gomma perché c'era ancora parecchia neve sul terreno, sebbene avesse fatto caldo abbastanza perché la linfa cominciasse a scorrere, il che significava che almeno in teoria la primavera stava arrivando. Non appena Lacy uscì, sentì l'odore di sciroppo d'acero raffinato provenire dalla sugar house dei vicini, come cristalli di zucchero nell'aria. Trasportò il secchio di mangime sul sedile dell'altalena in cortile - una struttura di legno che i ragazzi usavano per giocare quando erano piccoli, e che Lewis non si era mai deciso a smantellare. «Ciao, mamma.» Lacy si voltò e si trovò accanto Peter, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans. Indossava una T-shirt e un gilet imbottito, e lei immaginò che doveva avere un gran freddo. «Ciao, tesoro» disse. «Che cosa c'è?» Probabilmente si contava sulle dita di una sola mano il numero di volte in cui Peter era uscito dalla sua stanza negli ultimi tempi, e ancor più di rado era uscito di casa. Faceva parte della pubertà, lo sapeva, perché gli adolescenti tendono a rintanarsi in qualche buco e a fare qualsiasi cosa dietro porte chiuse. Nel caso di Peter, si trattava del computer. Era costantemente online: non tanto per navigare sul web quanto invece per programmare, e lei come poteva biasimare quel genere di passione? «Niente. Cosa stai facendo?» «Quello che ho fatto per tutto l'inverno.» «Sul serio?» Lei alzò lo sguardo su di lui. In confronto alla bellezza di quella giornata frizzante, Peter appariva decisamente fuori luogo. I suoi lineamenti erano troppo delicati per armonizzarsi con la linea scoscesa delle montagne sullo sfondo dietro di lui; la sua pelle sembrava quasi bianca come la neve. Lui non c'entrava, e Lacy si rese conto che quasi sempre, quando vedeva Peter da qualche parte, le veniva spontaneo fare la stessa osservazione tra sé e sé. «Ecco» disse Lacy, tendendogli il secchio. «Aiutami.» Peter prese il secchio e cominciò a spargere manciate di granturco sul terreno. «Posso chiederti una cosa?» «Certo.» «È vero che sei stata tu a chiedere a papà di uscire con te?» Lacy ridacchiò. «Be', se non l'avessi fatto, probabilmente avrei dovuto
aspettare per sempre. Tuo padre ha tanti pregi, ma l'intuito non è uno di quelli.» Aveva conosciuto Lewis a una manifestazione a favore dell'aborto. Sebbene Lacy fosse la prima a dire che non c'era dono più grande di avere un bambino, era anche realista: aveva mandato a casa un numero sufficiente di madri troppo giovani o troppo povere o troppo sopraffatte per comprendere che il loro bambino aveva assai poche probabilità di vivere una buona vita. Era andata con un'amica a una dimostrazione davanti al palazzo del governo di Concord ed era rimasta sui gradini con un gruppo di donne che reggevano dei cartelli: SONO PER LA LIBERA SCELTA E VOTO... CONTRO L'ABORTO? NON FATELO. Aveva guardato tra la folla, quel giorno, e si era accorta che c'era un uomo da solo: vestito bene, in giacca e cravatta, proprio nel bel mezzo delle manifestanti. Lacy ne era rimasta affascinata. Non sembrava il tipo adatto a una manifestazione. Uau, aveva detto Lacy, facendosi strada verso di lui. Che giornata. A chi lo dice. Era mai stato qui? domandò Lacy. Per me è la prima volta, rispose Lewis. Anche per me. Erano stati separati da un nuovo flusso di manifestanti che salivano i gradini di pietra. Un foglio volò via dalla pila che Lewis reggeva, ma quando Lacy riuscì ad afferrarlo lui era stato inghiottito dalla folla. Era la copertina di un testo più lungo: lo dedusse dagli argomenti elencati in cima, e aveva un titolo che le faceva quasi venire sonno: «La distribuzione delle risorse della pubblica istruzione nel New Hampshire: un'analisi critica». Ma c'era anche il nome dell'autore. Lewis Houghton, Facoltà di economia dello Sterling College. Quando lo chiamò per dirgli che aveva trovato il foglio, Lewis disse che non gli serviva. Poteva stamparne un'altra copia. Sì, disse Lacy, ma io devo restituirle questo. Perché? Per farmelo spiegare da lei a cena. Quando uscirono per andare in un ristorante di sushi, Lacy apprese che il motivo per cui Lewis si trovava davanti al palazzo del governo non aveva niente a che fare con la manifestazione a favore dell'aborto. Lui era lì soltanto perché aveva un appuntamento fissato in precedenza con il governatore. «Ma come hai fatto a dirglielo?» domandò Peter. «Che ti piaceva, voglio
dire, in quel modo?» «Per quel che ricordo, al nostro terzo appuntamento lo presi e lo baciai. Poi di nuovo, ma soltanto per farlo tacere perché continuava a parlare di libero commercio.» Lei gli lanciò un'occhiata al di sopra della spalla e d'improvviso quelle domande assunsero un senso. «Peter» disse, mentre un sorriso la illuminava. «C'è qualcuna che ti piace?» Peter non ebbe nemmeno bisogno di rispondere: diventò paonazzo. «Posso sapere come si chiama?» «No» rispose Peter con enfasi. «Bene, non importa.» Intrecciò il suo braccio a quello di Peter. «Santo cielo, ti invidio. Non c'è niente di paragonabile a quei primi mesi, quando non si riesce a pensare che all'altro. Voglio dire che qualsiasi forma d'amore è meravigliosa... ma innamorarsi... be'.» «Non si tratta di questo» disse Peter. «Il fatto è che... praticamente non sono ricambiato.» «Scommetto che lei è agitata quanto te.» Lui fece una smorfia. «Mamma. Lei si accorge a stento della mia esistenza. Io non... io non vado in giro con il genere di gente che frequenta lei.» Lacy guardò suo figlio. «Be'» disse. «Allora il tuo primo impegno è cambiare questa situazione.» «Come?» «Trovare modi per relazionarti con lei. Magari in posti dove sai che non vanno i suoi amici. E cercare di farle vedere quel lato della tua personalità che lei solitamente non vede.» «Tipo?» «Quello che hai dentro.» Lacy batté una mano sul petto di Peter. «Se le dici come ti senti, forse rimarrai sorpreso dalla reazione.» Peter inclinò il capo e diede un calcio a un mucchietto di neve. Poi la guardò di nuovo, timidamente. «Sul serio?» Lacy annuì. «Per me ha funzionato.» «D'accordo» disse Peter. «Grazie.» Lei lo guardò trascinarsi su per la collina fino alla casa, e poi rivolse di nuovo l'attenzione ai cervi. Lacy doveva nutrirli finché la neve non si fosse sciolta. Quando cominci a prenderti cura di loro, devi continuare, altrimenti non ce la faranno. Erano sul pavimento del soggiorno, quasi nudi. Josie avvertiva il sentore
di birra nel respiro di Matt, ma probabilmente ne era impregnata anche lei. Entrambi ne avevano bevute alcune a casa di Drew: non tanto da ubriacarsi, ma a sufficienza per sentire un leggero stato di euforia, abbastanza perché le mani di Matt sembrassero essere dappertutto su di lei nello stesso tempo, e lei sentiva la pelle di lui come fuoco contro la sua. Le sembrava di fluttuare piacevolmente in una nebbia familiare. Sì, Matt l'aveva baciata: un bacio breve, poi uno più lungo, avido, mentre la sua mano si dava da fare per sganciarle il reggiseno. Lei era distesa pigramente e si offriva a lui come una festa, mentre lui le sfilava i jeans. Ma poi, invece di procedere come al solito, Matt si sollevò di nuovo sopra di lei. La baciò così forte da farle male. «Mmmm» disse lei, respingendolo. «Rilassati» mormorò Matt, e poi le affondò i denti nella spalla. Le prese le mani e gliele alzò sopra la testa, poi sfregò i fianchi contro i suoi. Lei sentiva la sua erezione, calda contro lo stomaco. Non era come al solito, ma Josie doveva riconoscere che era eccitante. Non ricordava di avere mai avuto una sensazione così violenta, come se il suo cuore battesse tra le sue gambe. Si aggrappò alla schiena di Matt per tenerlo più vicino a sé. «Sììì» gemette lui, e le allargò le cosce con una spinta. Poi d'improvviso Matt era dentro di lei e si muoveva ritmicamente così forte da spingerla all'indietro sul tappeto, e la parte posteriore delle gambe di lei bruciava. «Aspetta» disse Josie, tentando di rotolare via da lui, ma lui le tappò la bocca con la mano e continuò a muoversi sempre più forte finché Josie lo sentì venire. Sperma, appiccicoso e caldo, umido sul tappeto sotto di lei. Matt le prese il volto tra le mani. «Gesù, Josie» bisbigliò, e lei si accorse che aveva le lacrime agli occhi. «Ti amo così maledettamente tanto.» Josie distolse lo sguardo. «Anch'io ti amo.» Lei rimase tra le sue braccia per dieci minuti, poi disse che era stanca e che aveva bisogno di dormire. Dopo il bacio della buonanotte a Matt sulla porta di casa, andò in cucina e prese il detersivo per i tappeti da sotto il lavello. Lo strofinò nel punto bagnato sul tappeto, pregando che non rimanesse la macchia. # include <stdio.h> main ( ) { int time
for(time=0; time
sa più ovvia: Con amore, Peter Houghton Lo digitò, lo lesse ancora una volta. Poi, prima di riuscire a fermarsi, premette il tasto ENTER e inviò il suo cuore attraverso la scheda di rete a Josie Cormier. Courtney Ignatio si annoiava mortalmente. Josie era sua amica e tutto il resto, ma, come dire, non c'era niente da fare. Avevano già guardato tre film di Paul Walker in DVD, controllato il sito di Lost per la biografia di quel ragazzo sexy che faceva la parte di Sawyer, e avevano letto tutti i Cosmopolitan che non fossero già stati riciclati, ma non c'era TV via Internet, niente cioccolato nel frigorifero, e nessuna festa allo Sterling College in cui intrufolarsi. Era la seconda notte di Courtney a casa Cormier, grazie a quel Super Genio del suo fratello maggiore, che aveva trascinato i suoi genitori in un vorticoso tour dei college della Ivy League sulla East Coast. Courtney si fece cadere un ippopotamo di stoffa sullo stomaco e giocherellò con i suoi occhi a bottone. Aveva già provato a farsi raccontare fin nei minimi particolari l'ultima notte di Josie con Matt. Dettagli importanti, tipo quanto fosse grosso il suo cazzo e se lui lo usava in modo particolare: ma Josie aveva recitato la parte dell'ingenua stile Hilary Duff con lei e si era comportata come se non avesse mai udito prima la parola sesso. Josie era in bagno a fare la doccia; Courtney sentiva ancora l'acqua scorrere. Rotolò su un fianco e si mise a esaminare una foto incorniciata di Josie e Matt. Sarebbe stato facile detestare Josie, perché Matt era il non plus ultra dei boyfriend: alle feste si guardava sempre attorno per accertarsi di non essersi allontanato troppo da Josie; le telefonava per augurarle la buonanotte, anche se l'aveva accompagnata a casa soltanto da mezz'ora (sì, Courtney ne aveva avuto la prova tangibile proprio la sera prima). A differenza della maggior parte dei ragazzi della squadra di hockey - e con molti di loro Courtney era già uscita - Matt sembrava preferire sinceramente la compagnia di Josie a quella di chiunque altro. Ma c'era qualcosa riguardo a Josie che impediva a Courtney di essere gelosa. Era il modo in cui la sua espressione ogni tanto sembrava dissolversi, come una lente a contatto colorata, lasciando vedere cosa ci fosse veramente sotto. Josie poteva anche essere una metà della Coppia Più Fedele Della Sterling High School, ma sembrava quasi che il motivo principale per cui si portava addosso quell'etichetta fosse che quello era l'unico modo, per lei, di sapere chi era.
Hai ricevuto un messaggio. Era la voce automatica del computer di Josie. Fino a quel momento, Courtney non si era resa conto che avevano lasciato il computer acceso, e per di più online. Si sedette alla scrivania, muovendo il mouse per riattivare lo schermo. Magari era Matt che mandava qualcosa di cyberporno. Sarebbe stato divertente scherzare un po' con lui e fare finta di essere Josie. Ma l'indirizzo del mittente risultava nuovo a Courtney: dopotutto, lei e Josie avevano una Buddy List quasi identica. Non c'era l'oggetto. Courtney cliccò sul link, pensando che si trattasse di un messaggio pubblicitario: come far diventare più grosso il tuo pene in trenta giorni; un rifinanziamento per la casa; un vero affare per le cartucce di stampa. L'e-mail si aprì, e Courtney cominciò a leggere. «Oh mio Dio» mormorò. «Questa sì che è bella, cazzo.» Cliccò decisa sul testo della e-mail e la inoltrò a
[email protected]. Drew, digitò. Mandala a tutti. La porta del bagno si aprì, e Josie rientrò nella stanza con indosso l'accappatoio, un asciugamano avvolto attorno alla testa. Courtney chiuse la finestra del server. «Arrivederci» disse la voce automatica. «Cosa succede?» domandò Josie. Courtney si voltò sulla sedia sorridendo. «Stavo solo controllando la mia posta» disse. Josie non riusciva a dormire; la sua mente era in tumulto come un fiume in piena. Era esattamente quel tipo di problema di cui avrebbe voluto poter parlare con qualcuno... ma con chi? Con sua madre? Sììì, giusto. Matt era fuori questione. E Courtney... o qualsiasi altra sua amica - be', temeva che, se solo le avesse pronunciate a voce alta, le sue peggiori paure si sarebbero avverate. Josie aspettò finché udì soltanto il respiro di Courtney. Balzò fuori dal letto e corse in bagno. Chiuse la porta e si tirò giù i pantaloni del pigiama. Niente. Aveva un ritardo di tre giorni. Il martedì pomeriggio, Josie era seduta su un divano nel seminterrato di Matt a scrivere un tema di sociologia per lui sullo storico abuso di potere in America, mentre Matt e Drew facevano sollevamento pesi. «Ci sono innumerevoli argomenti di cui potresti parlare» disse Josie.
«Watergate. Abu Ghraib. Il massacro alla Kent State.» Matt stava sforzandosi al massimo sotto il peso di un bilanciere mentre Drew lo sfotteva. «La cosa più facile, Jo» disse. «Forza, fighetta» fece Drew. «Se continui così ti retrocederanno alla seconda squadra.» Matt fece una smorfia e distese completamente le braccia. «Vediamo se riesci tu a sollevarlo» grugnì. Josie osservò il gioco dei suoi muscoli, li immaginò forti abbastanza da compiere quella fatica e anche teneri quanto occorreva per abbracciarla. Lui si sedette, asciugandosi la fronte e lo schienale della panca per i pesi, perché anche Drew potesse provare. «Potrei scrivere qualcosa sul Patriot Act» propose Josie, mordicchiando l'estremità della matita. «Sto solo tentando di fare il tuo interesse, amico» disse Drew. «Voglio dire, se non riesci a farcela per il coach, fallo per Josie.» Lei alzò lo sguardo. «Drew, ci sei o ci fai?» «Io sono stato progettato in maniera intelligente» scherzò lui. «Dico solo che è meglio che Matt stia attento, ora che deve sostenere un confronto.» «Di che cosa state parlando?» Josie lo guardò come se fosse pazzo, ma, in segreto, era nel panico. In realtà non contava che Josie avesse mostrato o no interesse per qualcun altro; contava solo che Matt lo pensasse. «Era uno scherzo, Josie» disse Drew, distendendosi sulla panca e chiudendo i pugni attorno alla sbarra di metallo. Matt rise. «Già, è la parola giusta per descrivere Peter Houghton.» «Hai intenzione di andare a letto con lui?» «Vorrei» disse Matt. «Ma non ho ancora deciso come.» «Forse ti occorre un'ispirazione poetica per elaborare il piano adeguato» disse Drew. «Ehi, Jo, prendi il mio quaderno. L'e-mail è nella tasca sul davanti.» Josie si allungò sul divano per prendere lo zaino di Drew e rovistò tra i suoi libri. Tirò fuori un foglio piegato e, quando lo aprì, vide un'e-mail con il suo indirizzo scritto in alto, e tutta la popolazione studentesca della Sterling High come destinatario. Da dove veniva? E perché lei non l'aveva mai vista? «Leggi» disse Drew, sollevando i pesi. Josie esitò. «So che tu non mi pensi. E sicuramente non hai mai immaginato noi due insieme.» Quelle parole sembravano pietre nella sua gola. Smise di leggere, ma
non importava, perché Drew e Matt stavano recitando l'e-mail parola per parola. «Da solo, io non sono niente di speciale» disse Matt. «Ma con te... credo...» Drew si contorceva dal ridere mentre lasciava cadere i pesi sul loro supporto. «Cazzo, non ce la faccio quando rido così.» Matt si mise sul divano accanto a Josie e infilò il suo braccio attorno a lei, sfiorandole il seno con il pollice. Lei si agitò, perché non voleva che Drew vedesse, ma Matt insistette e si spostò insieme a lei. «Tu ispiri i poeti» disse sorridendo. «Poeti di quart'ordine, ma anche Elena di Troia probabilmente iniziò con una specie di limerick, giusto?» Il volto di Josie si imporporò. Non riusciva a credere che Peter le avesse scritto cose simili, che avesse mai pensato che lei potesse accettarle. Non riusciva a credere che tutta la scuola sapesse che lei piaceva a Peter Houghton. Non poteva lasciarli credere che anche lei provava qualcosa per lui. Neanche morta. Ma più devastante ancora era il fatto che qualcuno avesse deciso di farle quello scherzo. Non la sorprendeva il fatto che qualcuno avesse letto la sua posta elettronica: ciascuno di loro conosceva le password degli altri; poteva essere stata una qualsiasi delle ragazze, o persino lo stesso Matt. Ma perché i suoi amici le avevano giocato uno scherzo del genere, qualcosa di così assolutamente umiliante? Josie conosceva già la risposta. I ragazzi di quel gruppo... non erano suoi amici. In realtà i ragazzi popolari non hanno amici; stringono alleanze. Stavi al sicuro fino a che nascondevi la tua fiducia, perché in qualsiasi momento gli altri potevano decidere di renderti ridicolo, sapendo che in ogni caso nessuno avrebbe riso di loro. Josie ci rimase male, ma capì anche che parte dello scherzo consisteva in un test per osservare la sua reazione. Se fosse andata in giro ad accusare i suoi amici di essersi intrufolati nella sua posta e di avere violato la sua privacy, il suo destino sarebbe stato segnato. La cosa più importante era che non manifestasse emozioni, come ci si aspettava da lei. Dal punto di vista sociale era talmente al di sopra di Peter Houghton che un'e-mail come quella non era mortificante, ma patetica. In altre parole: Non piangere, ridi. «È un perdente assoluto» disse Josie, come se non gliene importasse niente del tutto; come se, al pari di Drew e Matt, lo trovasse soltanto spassoso. Appallottolò il foglio e lo gettò dietro il divano. Le sue mani tremavano.
Matt adagiò la testa ancora sudata sulle ginocchia di lei. «Su che cosa ho deciso di scrivere, ufficialmente?» «Indiani d'America» rispose Josie distrattamente. «Come il governo infranse i trattati e sottrasse loro la terra.» Si rese conto che era qualcosa che lei conosceva bene: l'essere sradicati, la consapevolezza di non potersi mai sentire a casa. Drew si sedette, mettendosi a cavalcioni sulla panca. «Ehi, come posso procurarmi una ragazza che aumenti il mio rendimento scolastico?» «Chiedi a Peter Houghton» rispose Matt, ridacchiando. «È lui il maestro d'amore.» Mentre Drew se la rideva di nuovo, Matt prese la mano di Josie, quella che teneva la matita. Le baciò le nocche delle dita. «Tu sei troppo brava per me» le disse. Alla Sterling High gli armadietti erano sfalsati, una fila in alto e una fila in basso, il che significava che se ti capitava uno di quelli in basso dovevi penare per prendere i libri, il cappotto e tutto il resto mentre qualcun altro stava praticamente in piedi sulla tua testa. L'armadietto di Peter non solo era nella fila in basso, ma era anche in un angolo, il che significava che non poteva mai farsi abbastanza piccolo per prendere quello che gli serviva. Peter aveva cinque minuti per passare da una lezione all'altra, ma era il primo a uscire nei corridoi quando suonava la campanella. Era un piano accuratamente calcolato: se usciva il più presto possibile, si trovava nei corridoi nel momento di maggiore affollamento ed era meno probabile che uno dei ragazzi cool lo prendesse di mira. Camminava a testa china, lo sguardo fisso sul pavimento, finché raggiungeva il suo armadietto. Vi si era inginocchiato davanti, e stava scambiando il suo libro di matematica con il testo di sociologia, quando due tacchi a zeppa neri si fermarono accanto a lui. Lanciò un'occhiata alle calze a disegni, alla minigonna di tweed, al maglione asimmetrico e alla lunga cascata di capelli biondi. Courtney Ignatio era in piedi con le braccia conserte, come se Peter le avesse già sottratto fin troppo tempo, mentre non era neppure stato lui a fermarla, prima di tutto. «Alzati» gli disse. «Non ho intenzione di arrivare in ritardo a lezione.» Peter si alzò e chiuse l'armadietto. Non voleva che Courtney guardasse dentro, perché vi aveva appeso una foto di lui e Josie quando erano piccoli. Aveva dovuto salire in soffitta dove sua madre teneva i suoi vecchi album
di foto, dal momento che era passata al digitale due anni prima, e ora avevano soltanto CD. Nella foto, lui e Josie erano seduti sul bordo di un recinto per la sabbia alla scuola materna. Josie teneva una mano sulla spalla di Peter. Era la parte che gli piaceva di più. «Senti, l'ultima cosa che voglio è rimanere qui e farmi vedere a parlare con te, ma Josie è mia amica, per questo mi sono offerta di farlo, innanzitutto.» Courtney lanciò uno sguardo nel corridoio, per accertarsi che non arrivasse nessuno. «Tu le piaci.» Peter si limitò a fissarla. «Ti sto dicendo che tu le piaci, ritardato. Con Matt ormai è finita; ma lei non vuole mollarlo finché non è sicura che tu voglia fare sul serio con lei.» Courtney lanciò uno sguardo a Peter. «Le ho detto che è il suicidio sociale, ma per amore lo si fa, immagino.» Peter sentì tutto il sangue affluirgli alla testa, un oceano nelle sue orecchie. «Perché dovrei crederti?» Courtney scosse i capelli. «Non me ne frega un cazzo se mi credi o no. Ti sto solo dicendo quello che ha detto lei. Che cosa ne farai non mi riguarda.» Camminò per il corridoio e scomparve dietro un angolo non appena suonò la campanella. Peter ormai era in ritardo. Lui odiava essere in ritardo, perché poi sentiva gli sguardi di tutti su di sé quando entrava in classe, come un migliaio di corvi che gli beccassero la pelle. Ma non era poi così importante, nel grande schema delle cose. Il piatto migliore della caffetteria erano i Tater Tots, crocchette di patate annegate nell'unto. Praticamente sentivi i jeans diventare più attillati attorno alla vita e la tua faccia scoppiare... eppure, quando l'inserviente della caffetteria gliene dava a cucchiaiate, Josie non riusciva a resistere. A volte si domandava: Se fossero nutrienti come i cavoli, mi piacerebbero così tanto? Avrebbero quel buon sapore se non facessero così male? Quasi tutte le amiche di Josie bevevano soltanto bevande dietetiche a pranzo; prendere qualcosa di sostanzioso e a base di carboidrati voleva dire farsi etichettare come balena o bulimica. Di solito, Josie si limitava a tre Tater Tots, e poi lasciava che il resto lo divorassero i ragazzi. Ma quel giorno aveva avuto l'acquolina in bocca per due ore di lezione pensando ai Tater Tots, e non riuscì a evitare di prenderne uno in più. Se non si trattava di sottaceti o gelato, era ugualmente fame compulsiva? Courtney si allungò al di sopra del tavolo e sfiorò con le dita l'unto sul
vassoio dei Tater Tots. «È un'indecenza» disse. «Perché la benzina costa così tanto se su queste patatine c'è abbastanza olio da riempire il serbatoio del pick-up di Drew?» «È un tipo d'olio diverso, Einstein» disse Drew. «Davvero pensavi di poter prendere i Crisco al distributore della Mobil?» Josie si chinò per aprire la cerniera dello zaino. Si era portata una mela: doveva essere da qualche parte. Rovistò tra i fogli sparsi e il trucco, così concentrata nella ricerca da non accorgersi che lo scambio di battute tra Drew e Courtney - o chiunque altro, per quel che le importava - era finito. Peter Houghton era in piedi vicino al loro tavolo, con un sacchetto marrone in una mano e un cartone di latte aperto nell'altra. «Ciao, Josie» disse, come se lei potesse ascoltarlo, come se lei non morisse di mille morti diverse in quel solo secondo. «Ho pensato che forse ti farebbe piacere pranzare con me.» La parola mortificata suonava come se significasse diventare di marmo, non potersi muovere per salvare la propria anima. Josie immaginò per quanti anni, da quel momento, gli studenti avrebbero indicato il doccione di pietra in cui lei si era trasformata, ancora abbarbicata alla sedia di plastica della caffetteria, dicendo: Oh, sì, ho sentito che cosa le è capitato. Josie udì un mormorio alle sue spalle, ma in quel momento non sarebbe stata capace di muoversi neanche a costo della sua stessa vita. Alzò lo sguardo su Peter, desiderando che ci fosse qualche genere di linguaggio segreto in cui quello che dicevi non era quello che intendevi dire, e chi ascoltava capisse automaticamente che tu stavi parlando quella lingua. «Ehm» cominciò Josie. «Io...» «Lei ti amerà» disse Courtney. «Quando l'inferno sarà di ghiaccio.» L'intera tavolata scoppiò a ridere, ma Peter non capiva quel gioco di parole. «Che cosa c'è nel sacchetto?» domandò Drew. «Burro di arachidi e gelatina?» «Sale e pepe?» cantilenò Courtney. «Pane e burro?» Il sorriso sul volto di Peter svanì non appena lui comprese in quale fossa era precipitato e quanti gliel'avevano scavata. Il suo sguardo passò da Drew a Courtney a Emma e poi tornò su Josie - e, quando la guardò, lei dovette distogliere gli occhi, perché nessuno, nemmeno Peter, vedesse fino a che punto le faceva male fargli del male; comprendere che, malgrado quello che Peter aveva creduto di lei, lei non era diversa da tutti gli altri. «Credo che Josie dovrebbe almeno esaminare la merce» disse Matt e,
quando udì la sua voce, Josie si rese conto che non era più seduto vicino a lei. Era in piedi, in realtà, dietro a Peter, e con una sola mossa felpata cacciò i pollici nelle asole dei calzoni di Peter e glieli tirò giù fino alle caviglie. La pelle di Peter era bianco latte sotto le violente luci fluorescenti della caffetteria, il suo pene una minuscola conchiglia a spirale su un nido sparso di pelo pubico. Lui si coprì immediatamente i genitali con il sacchetto del pranzo, ma nel farlo rovesciò il cartone del latte, che si sparse sul pavimento in mezzo ai suoi piedi. «Ehi, guardate» disse Drew. «Eiaculazione precoce.» L'intera caffetteria cominciò a girare come un carosello - luci abbaglianti e colori arlecchino. Josie udiva ridere e tentava di farlo a sua volta. Il signor Isles, un insegnante di spagnolo che non aveva collo, si precipitò su Peter mentre lui si tirava su le mutande. Afferrò Matt con un braccio e Peter con l'altro. «La smettete voi due» sbraitò, «o dobbiamo andare dal preside?» Peter fuggì, ma ormai tutti nella caffetteria rivivevano il glorioso momento in cui era rimasto senza mutande. Drew diede un cinque a Matt. «Amico, è stato il pranzo più maledettamente figo che abbia mai visto.» Josie riprese in mano lo zaino, fingendo di cercare quella mela, ma non aveva più fame. Solo che non voleva vederli, in quel momento. E non voleva che loro la vedessero. Il sacchetto del pranzo di Peter Houghton era vicino ai suoi piedi, dove lui l'aveva lasciato cadere mentre scappava. Lei vi guardò dentro. Un sandwich, forse di tacchino. Una confezione di pretzel. Carote, pelate e tagliate a bastoncini da qualcuno che gli voleva bene. Josie infilò il sacchetto marrone nello zaino, dicendosi che avrebbe cercato Peter e glielo avrebbe restituito, o lasciato vicino al suo armadietto, ma sapeva che non avrebbe fatto né l'una cosa né l'altra. Invece, se lo sarebbe portato appresso finché avrebbe cominciato a puzzare, finché sarebbe stata costretta a gettarlo via fingendo che fosse facile liberarsene. Peter si precipitò fuori dalla caffetteria e avanzò sbandando come la pallina di un flipper lungo i corridoi stretti finché giunse al suo armadietto. Cadde sulle ginocchia e appoggiò la testa contro il metallo freddo. Come aveva potuto essere così stupido, fidarsi di Courtney, pensare che a Josie potesse fregare qualcosa di lui, pensare che lei potesse innamorarsi di uno come lui?
Sbatté la testa finché gli fece male, poi digitò alla cieca i numeri dell'armadietto. Lo spalancò e prese la foto che lo ritraeva insieme a Josie. La schiacciò nel palmo della mano e percorse di nuovo il corridoio. Strada facendo, venne fermato da un insegnante. McCabe lo guardò aggrottando la fronte, mettendogli una mano sulla spalla, mentre avrebbe dovuto capire che Peter non sopportava di essere toccato, che si sentiva come se centinaia di aghi gli pungessero la pelle. «Peter» disse McCabe, «stai bene?» «Bagno» disse Peter con voce rauca, e scappò via, correndo lungo il corridoio. Si chiuse in una cabina e gettò la foto di lui e Josie nella tazza del gabinetto. Poi si slacciò la patta e vi pisciò sopra. «'fanculo» sussurrò, e poi lo ripeté con un tono di voce abbastanza alto da rimbombare contro le pareti della cabina. «'fanculo tutti.» Nel preciso istante in cui sua madre uscì dalla stanza, Josie si tirò fuori dalla bocca il termometro e lo tenne contro la lampadina della sua luce da notte. Socchiuse gli occhi per leggere i numeri minuscoli, poi se lo ficcò di nuovo in bocca mentre udiva i passi di sua madre. «Mmm» commentò sua madre, tenendo il termometro verso la finestra per leggere meglio. «Credo proprio che tu sia malata.» Josie fece una specie di grugnito sperando che fosse convincente e rotolò su se stessa. «Sei sicura che starai tranquilla, qui da sola?» «Sììì.» «Se hai bisogno di me, chiamami. Posso sospendere l'udienza e tornare a casa.» «D'accordo.» Si sedette sul letto e le diede un bacio sulla fronte. «Vuoi del succo di frutta? O una zuppa?» Josie scosse il capo. «Credo di aver bisogno soltanto di tornare a dormire.» Chiuse gli occhi perché sua madre recepisse il messaggio. Aspettò finché udì l'auto uscire dal viale, poi rimase a letto altri dieci minuti per accertarsi di essere rimasta da sola. A quel punto Josie uscì dal letto e accese il computer. Cercò su Google abortivo - la parola che aveva cercato il giorno prima, quella che significava qualcosa che mette fine a una gravidanza. Josie aveva riflettuto. Non era che non volesse avere un bambino; non
era nemmeno che non volesse un bambino da Matt. L'unica cosa che sapeva con certezza era che per il momento non voleva ancora dover prendere quella decisione. Se l'avesse detto a sua madre, lei avrebbe imprecato e urlato e poi avrebbe trovato il modo di portarla all'Associazione per il controllo delle nascite oppure dal medico. Per la verità, non erano le imprecazioni e le urla a preoccupare Josie. Era rendersi conto che, se sua madre l'avesse fatto diciassette anni prima, Josie non solo non avrebbe avuto quel problema, ma non sarebbe neanche stata viva. Josie si era trastullata con l'idea di contattare nuovamente suo padre, il che le avrebbe richiesto un'enorme dose di umiltà. Lui non aveva approvato la nascita di Josie, perciò in teoria era poco probabile che si prendesse il disturbo di aiutarla ad abortire. Comunque... C'era qualcosa nel rivolgersi a un medico, o a una clinica o anche a un genitore, che non riusciva a mandare giù. Sembrava così... deliberato. Prima di arrivare a quel punto, dunque, Josie aveva deciso di fare qualche ricerca. Non potendo rischiare di farsi sorprendere a scuola mentre consultava quei siti su un computer, aveva deciso di bigiare. Si mise sulla sedia della sua scrivania, una gamba ripiegata sotto di sé, e si meravigliò nel trovare quasi 99.000 voci. Alcuni rimedi li conosceva già: quelle storie di vecchie comari riguardo al mettersi dentro un ferro da maglia, o assumere lassativi oppure olio di ricino. Altri non se li sarebbe mai immaginati: irrigazioni di potassio, inghiottire radici di zenzero, mangiare ananas acerbi. Poi c'erano le erbe: infusioni d'olio di calamo, artemisia, salvia e gaulteria; cocktail di Cimicifuga racemosa e mentuccia. Josie si domandava dove si potessero trovare quelle sostanze: non certo in farmacia nello scaffale accanto all'aspirina. I rimedi a base di erbe, diceva il sito web, funzionavano il 40-45 per cento delle volte. Il che, secondo lei, era quanto meno un inizio. Si chinò più vicino, per leggere. Non iniziare un trattamento a base di erbe dopo la sesta settimana di gravidanza. Ricordare che questi trattamenti non sono affidabili per porre termine a una gravidanza. Bere gli infusi mattina e sera, per non annullare i progressi fatti durante la giornata. Tenere il sangue, aggiungervi acqua per diluirlo e osservare i coaguli e
i tessuti per accertarsi che la placenta sia passata. Josie fece una smorfia. Usare da ½ a 1 cucchiaio di erbe essiccate per ciascuna tazza d'acqua, 3-4 volte al giorno. Non confondere il tanaceto con il senecio, che si è rivelato fatale per le mucche che l'hanno mangiato perché cresceva lì vicino. Poi scoprì qualcosa che sembrava un po' meno, be', medievale: la vitamina C. Forse era quello che ci voleva per lei. Josie cliccò sul link. Acido ascorbico, otto grammi, per cinque giorni. Le mestruazioni dovrebbero iniziare il sesto o il settimo giorno. Josie si alzò e andò a vedere nell'armadietto delle medicine di sua madre. C'era una grossa bottiglia bianca di vitamina C, e alcune più piccole di acidophilus, vitamina B12 e integratori a base di calcio. Aprì la bottiglia, esitante. L'altra avvertenza comune a tutti i siti web riguardava l'accertarsi di avere un motivo per sottoporre il proprio corpo a quei trattamenti a base di erbe prima di iniziarli. Josie tornò a piedi nudi nella sua stanza e aprì lo zaino. Dentro, ancora nel sacchetto di plastica della farmacia, c'era il test di gravidanza che aveva comprato il giorno prima tornando da scuola. Lesse le istruzioni due volte. Com'era possibile fare la pipì così a lungo su un bastoncino? Aggrottando la fronte, andò in bagno e tenne quella bacchetta minuscola tra le gambe. Poi la mise nel suo piccolo contenitore e si lavò le mani. Josie sedette sul bordo della vasca e osservò la linea di controllo diventare azzurra. Poi, lentamente, guardò comparire la seconda linea, perpendicolare: un segno più, positivo, una croce da portare. Quando lo spazzaneve finì la benzina proprio in mezzo al viale di casa, Peter andò a cercare la tanica di scorta che tenevano in garage, soltanto per scoprire che era vuota. La rovesciò, e vide una sola goccia cadere a terra in mezzo alle sue scarpe da ginnastica. Di solito gli si doveva chiedere almeno sei volte di uscire a spalare i sentieri che conducevano alla porta principale e a quella sul retro, ma quel giorno si dedicò al suo compito di routine senza che i suoi genitori dovessero chiederglielo. Voleva - no, cancella - doveva uscire perché i suoi piedi potessero muoversi al medesimo ritmo della sua mente. Ma quando socchiuse gli occhi di fronte al sole che tramontava vide ancora uno svolgersi di immagini in fondo ai suoi occhi: l'aria fredda che gli pungeva le natiche
mentre Matt Royston gli calava le mutande, il latte che si rovesciava sulle sue scarpe da ginnastica, lo sguardo sfuggente di Josie. Peter arrancò lungo il viale verso la casa dei vicini al di là della strada. Weatherhall era un poliziotto in pensione, e lo si capiva dalla sua casa. C'era una grande bandiera in mezzo al cortile principale; d'estate l'erba veniva tosata come un taglio di capelli a spazzola; in autunno non c'erano mai foglie sul prato. Peter era solito domandarsi se Weatherhall uscisse nel cuore della notte a rastrellarle. Per quanto ne sapeva Peter, Weatherhall passava ormai il suo tempo a guardare il Game Show Network e a curare il suo giardino in stile militare in sandali e calzini neri. Poiché non lasciava che l'erba crescesse più di un centimetro, di solito aveva un cinque litri di benzina di scorta da qualche parte. Peter se l'era già fatta prestare altre volte a nome di suo padre per il tosaerba o per lo spazzaneve. Peter suonò il campanello - che eseguiva Hail to the Chief, l'inno presidenziale - e Weatherhall rispose. «Figliolo» disse, pur conoscendo il nome di Peter da anni. «Come va?» «Bene, signor Weatherhall. Ma mi stavo domandando se per caso ha un po' di benzina da prestarmi per lo spazzaneve. Be', benzina che io possa usare. Voglio dire, poi non posso restituirgliela.» «Entra, entra.» Tenne la porta aperta per Peter, che entrò in casa. C'era odore di sigari e di cibo per gatti. Vicino alla sua poltrona La-Z-Boy c'era una ciotola di Fritos; alla televisione, Vanna White giocava con una vocale alla Ruota della Fortuna. «Grandi speranze» gridò Weatherhall ai concorrenti mentre passava. «Che cosa siete, ritardati mentali?» Condusse Peter in cucina. «Aspetta qui. Il seminterrato è impresentabile.» Il che significava, pensò Peter, che doveva esserci un granello di polvere su uno scaffale. Si appoggiò al bancone, le mani aperte sul piano di formica. A Peter piaceva Weatherhall, perché, anche quando cercava di essere burbero, si capiva che in realtà rimpiangeva di non fare più il poliziotto e non aveva nessuno con cui tenersi in esercizio. Quando Peter era più giovane, Joey e i suoi amici provavano sempre a fare qualche scherzo a Weatherhall, ammucchiando la neve in fondo al suo vialetto pulito, o lasciando che i cani facessero i loro bisogni sul prato perfettamente curato. Ricordava quando Joey aveva più o meno undici anni e aveva bersagliato di uova la casa di Weatherhall per Halloween. Lui e i suoi amici erano stati colti sul fatto. Weatherhall li trascinò in casa per una chiacchierata che li spaventasse ab-
bastanza da farli rinsavire. Quel tizio è fuori di zucca, gli aveva detto Joey. Tiene una pistola nel barattolo della farina. Peter tese l'orecchio verso le scale che conducevano nel seminterrato. Udiva ancora il signor Weatherhall trafficare là sotto, per prendere la tanica di benzina. Esitando si avvicinò al lavello, dove c'erano quattro barattoli di acciaio inossidabile. BICARBONATO DI SODIO, lesse sul barattolo più piccolo, e poi sugli altri, in ordine di grandezza: ZUCCHERO DI CANNA. ZUCCHERO. FARINA. Peter aprì con circospezione il barattolo della farina. Uno sbuffo di polvere bianca gli salì al volto. Tossì e scosse la testa. Figurarsi: Joey gli aveva mentito. Oziosamente, Peter aprì il barattolo dello zucchero lì accanto e si trovò davanti una semiautomatica calibro 9. Era una Glock 17 - probabilmente la stessa che il signor Weatherhall portava quando faceva il poliziotto. Peter lo sapeva perché conosceva le armi da fuoco - fin da quando era bambino. Ma c'era una differenza tra un fucile da caccia o una doppietta e quell'arma snella e compatta. Suo padre diceva che chiunque tenesse in casa un'arma da fuoco che si impugna con una mano sola pur non dovendo usarla per obblighi di lavoro era un idiota; invece di proteggere, quell'arma procurava facilmente dei guai. Il problema, con un'arma di quel genere, è che la bocca è talmente corta che ci si dimentica di tenerla a distanza di sicurezza; mirare era semplice e sbrigativo come puntare un dito. Peter la toccò. Fredda. Levigata. Ipnotica. Sfiorò il grilletto, mettendo le mani a coppa attorno all'arma: era un peso lieve, liscio. Un suono di passi. Peter richiuse il barattolo e si mise a vagare per la cucina, con le braccia conserte. Weatherhall apparve in cima alle scale, tenendo tra le braccia una tanica rossa di benzina. «Fatto» disse. «Riportala piena.» «Certo» rispose Peter. Uscì dalla cucina e non guardò in direzione del barattolo, benché fosse quello che voleva fare, più di ogni altra cosa. Dopo la scuola, Matt arrivò con della zuppa di pollo di un ristorante della zona e un album di fumetti. «Perché non sei a letto?» domandò. «Hai suonato alla porta» disse Josie. «Dovevo rispondere, ti pare?» Lui la circondò di premure come se avesse la mononucleosi o il cancro, non semplicemente un'influenza, come gli aveva detto lei quando lui l'aveva chiamata con il cellulare da scuola quella mattina. Riaccompagnandola
a letto, la fece sedere con la zuppa sulle ginocchia. «Questa dovrebbe guarire, più di qualsiasi medicina, vero?» «E i fumetti?» Matt si strinse nelle spalle. «La mamma me li prendeva sempre quando ero piccolo e rimanevo a casa malato. Non so. Per qualche motivo mi facevano sempre sentire meglio.» Mentre lui le si sedeva vicino sul letto, Josie prese uno degli album. Perché Wonder Woman era sempre così eccessiva? Se portavi una quarta con coppe della sesta, come potevi, sul serio, lanciarti dagli edifici e combattere il crimine senza un buon reggiseno da jogging? Quel pensiero ricordò a Josie che in quei giorni riusciva a stento a mettersi il suo reggiseno, perché aveva i seni particolarmente doloranti. Le venne in mente il test di gravidanza che aveva avvolto in fazzoletti di carta e gettato nel bidone dell'immondizia in strada perché sua madre non lo trovasse. «Drew sta progettando una festa alla grande per venerdì sera» disse Matt. «I suoi genitori vanno a Foxwoods per il weekend.» Matt aggrottò la fronte. «Spero che ti sentirai meglio per venerdì, così potrai venire. Che cosa pensi di avere, comunque?» Lei si voltò verso di lui e fece un profondo respiro. «Il problema è quello che non ho. Le mestruazioni. Ho un ritardo di due settimane. Oggi ho fatto un test di gravidanza.» «Ha già parlato con un tale dello Sterling College per comprare un paio di barili per la birra alla spina da un club privato. Questo party sarà uno sballo, puoi starne certa.» «Mi hai sentito?» Matt sorrise con quell'indulgenza che si ha per un bambino che ti ha appena detto che il cielo sta crollando. «Credo che la tua reazione sia esagerata.» «Era positivo.» «Può darsi che sia lo stress.» Josie rimase a bocca aperta. «E se non fosse stress? E se fosse vero, per esempio?» «E allora ci siamo dentro insieme.» Matt si chinò in avanti e la baciò sulla fronte. «Amore» disse, «non riuscirai mai a liberarti di me.» Qualche giorno dopo, quando nevicò, Peter svuotò deliberatamente lo spazzaneve di tutta la benzina e poi attraversò la strada per andare a casa di
Weatherhall. «Non dirmi che sei rimasto ancora senza» fece lui mentre apriva la porta. «Credo che mio padre non abbia avuto ancora il tempo di andare a riempire la nostra tanica» replicò Peter. «Bisognerà che ci vada presto» ribatté Weatherhall, ma stava già rientrando in casa, lasciando la porta spalancata perché Peter potesse seguirlo. «Bisogna attenersi a un programma, perché è così che funziona.» Mentre passavano davanti al televisore, Peter lanciò un'occhiata al cast di Match Game. «Big Bertha è talmente grossa» stava dicendo Gene Rayburn, «che invece di fare paracadutismo acrobatico con un paracadute, usa un telone.» Non appena Weatherhall scomparve al piano di sotto, Peter aprì il barattolo dello zucchero sul bancone della cucina. La pistola era ancora dentro. Peter la prese e ricordò a se stesso di respirare. Chiuse il barattolo e lo rimise esattamente dov'era prima. Poi prese la pistola e se la strinse addosso, con l'apertura in avanti, nella cintola dei jeans. La parte bassa del suo gilet era piuttosto larga sul davanti, tanto da celare qualsiasi protuberanza. Cautamente aprì il cassetto delle posate e sbirciò negli armadietti. Quando passò la mano sulla parte alta del frigorifero, coperta di polvere, sentì il corpo liscio di una seconda pistola. «Sai, è saggio tenere una tanica di scorta...» La voce di Weatherhall andava e veniva dal fondo delle scale del seminterrato, accompagnata dal suono dei suoi passi. Peter lasciò la pistola al suo posto e scattò con le mani lungo i fianchi. Sudava quando Weatherhall entrò in cucina. «Tutto bene?» domandò, scrutando Peter. «Sembri quasi un po' malato.» «Sono rimasto alzato fino a tardi per fare i compiti. Grazie per la benzina. Grazie ancora.» «Di' a tuo padre che la prossima volta non lo tirerò fuori dai pasticci» disse Weatherhall, e fece un cenno con la mano a Peter dalla veranda. Peter attese finché Weatherhall ebbe chiuso la porta, poi cominciò a correre, scalciando neve nella sua scia. Lasciò la tanica di benzina vicino allo spazzaneve e si precipitò in casa. Chiuse a chiave la porta della sua stanza, tirò fuori la pistola dai pantaloni e si sedette. Era nera e massiccia, fatta con una lega di acciaio. Quello che era davvero sorprendente era che la Glock sembrava finta, come la pistola giocattolo
di un bambino - sebbene Peter si rendesse conto che invece avrebbe dovuto meravigliarsi perché le armi giocattolo erano tanto realistiche da sembrare vere. Estrasse il carrello e lo liberò. Fece scattare fuori il caricatore. Chiuse gli occhi e si puntò la pistola alla tempia. «Bang» sussurrò. Poi la depose sul letto e tirò fuori una delle sue federe. Vi avvolse la Glock, arrotolandola come per fasciarla. Fece scivolare la pistola tra il materasso e la rete del letto e si sdraiò. Era come in quella fiaba, in cui la principessa sentiva un fagiolo o un pisello o qualcosa del genere. Ma Peter non era un principe, e quella protuberanza non l'avrebbe tenuto sveglio la notte. In realtà, l'avrebbe fatto dormire meglio. Nel sogno di Josie, lei era in piedi in uno splendido tepee. Le pareti della tenda erano fatte di morbida pelle di daino, cucita saldamente con filo dorato. Immagini fiabesche erano dipinte tutt'intorno a lei in varie sfumature di rosso, ocra, viola e azzurro: storie di caccia, d'amore e di morte. Ricche pelli di bufalo erano impilate a formare alti cuscini; pezzi di carbone scintillavano come rubini nel focolare. Quando sollevò lo sguardo, vide le stelle cadenti attraverso le volute di fumo. Improvvisamente Josie capì che i suoi piedi scivolavano; peggio, che non c'era modo di fermarli. Guardò in basso e vide soltanto il cielo; si domandò se fosse stata così sciocca da credere che avrebbe potuto camminare tra le nuvole, o se il terreno sotto i suoi piedi sarebbe scomparso mentre lei guardava da un'altra parte. Incominciò a cadere. Sentiva la testa sbattere contro i talloni; sentiva la gonna che indossava gonfiarsi come un palloncino e il vento soffiare tra le sue gambe. Non voleva aprire gli occhi, ma non poteva fare a meno di sbirciare: il suolo saliva verso di lei a una velocità allarmante, riquadri di terreno grandi come francobolli, verde, marrone e azzurro, che diventavano sempre più grandi, sempre più dettagliati, sempre più realistici. C'era la sua scuola. La sua casa. Il tetto sopra la sua stanza. Josie si sentiva sfrecciare verso quel tetto e tentava di prepararsi all'inevitabile collisione. Ma nei sogni non si tocca mai terra; non ci si vede mai morire. Josie si sentì invece schizzare, e i suoi vestiti ondeggiavano come i tentacoli di una medusa mentre fendeva l'acqua calda. Si svegliò, senza fiato, e capì che si sentiva ancora bagnata. Si sedette, sollevò le coperte e vide la macchia di sangue sotto di sé. Dopo tre test di gravidanza positivi, quando il suo flusso mestruale era
ormai in ritardo di tre settimane... un aborto. DiotiringrazioDiotiringrazioDiotiringrazio. Josie affondò il viso nelle lenzuola e cominciò a piangere. Era domenica mattina e Lewis era seduto al tavolo di cucina, a leggere l'ultimo numero di The Economist e a consumare metodicamente una cialda di farina integrale calda, quando il telefono squillò. Lanciò un'occhiata a Lacy, che, accanto al lavello, tecnicamente era più vicina al telefono, ma lei alzò le mani gocciolanti di acqua e sapone. «Potresti...» Lui si alzò e rispose. «Pronto?» «Signor Houghton?» «Sono io» disse Lewis. «Sono Tony, di Burnside. I suoi proiettili a punta cava sono pronti.» Burnside era un negozio di armi. Lewis ci andava in autunno a comprare il solvente Hoppe e le munizioni; un paio di volte era stato così fortunato da poter portare un cervo da pesare. Ma era febbraio; la stagione dei cervi era finita. «Non li ho ordinati» ribatté Lewis. «Ci dev'essere un errore.» Riagganciò e si sedette di nuovo davanti alla sua cialda. Lacy sollevò dal lavello una grossa padella per friggere e la mise ad asciugare nello scolatoio. «Chi era?» Lewis girò la pagina della rivista. «Qualcuno che ha sbagliato numero» disse. Matt aveva una partita di hockey a Exeter. Josie andava a vederlo quando giocava in casa, ma raramente lo seguiva quando la squadra era in trasferta. Quel giorno invece aveva chiesto a sua madre di prestarle la macchina ed era arrivata fino alla costa, partendo abbastanza presto da poterlo trovare nello spogliatoio prima della partita. Si affacciò allo spogliatoio della squadra ospite e rimase immediatamente colpita dalla puzza di tutto l'insieme. Matt le dava le spalle: indossava la protezione per il torace, i pantaloni imbottiti e i pattini. Non si era ancora infilato la maglia. Alcuni ragazzi si accorsero della sua presenza prima di Matt. «Ehi, Royston» disse uno studente dell'ultimo anno. «Credo che sia arrivato il presidente del tuo fan club.» A Matt non piaceva che lei si facesse vedere prima di una partita. Dopo, invece, era obbligatorio: aveva bisogno di qualcuno con cui festeggiare la vittoria. Ma aveva messo bene in chiaro che non aveva tempo per Josie quando si preparava; che gli altri ragazzi l'avrebbero preso in giro se lei
avesse cominciato a stargli appiccicata; che il coach voleva che i giocatori rimanessero da soli per concentrarsi sulla partita. Tuttavia, Josie pensava che per una volta si potesse fare un'eccezione. Un'ombra passò sul volto di Matt quando dai suoi compagni giunsero i primi fischi. Matt, hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a metterti le braghe? Ehi, avanti, dategli una mazza più grossa... «Già» Matt rispose di scatto e, passando sopra i materassini di gomma, si diresse verso Josie. «Ti piacerebbe avere qualcuno che ti succhiasse via la cromatura dal pomello.» Josie sentì le guance in fiamme mentre l'intero spogliatoio scoppiava a ridere a sue spese, e i commenti volgari non si concentravano più su Matt ma su di lei. Afferrandola per un braccio, Matt portò fuori Josie. «Ti avevo detto di non disturbarmi prima di una partita» disse. «Lo so. Ma era importante...» «Questo è importante» la corresse Matt, indicando con un gesto la pista. «Io sto benissimo» sbottò Josie. «Mi fa piacere.» Lei lo fissò. «No, Matt. Voglio dire... sto benissimo. Avevi ragione tu.» Quando capì che cosa, in realtà, stesse cercando di dirgli Josie, lui le cinse la vita con le braccia e la sollevò da terra. Il suo equipaggiamento li divideva come un'armatura mentre lui la baciava. A Josie vennero in mente i cavalieri che partivano per la battaglia; e le ragazze che si lasciavano alle spalle. «Non dimenticarlo» disse Matt, e sorrise. PARTE SECONDA Quando inizi un viaggio di vendetta, incomincia a scavare due fosse: una per il tuo nemico, e una per te. Proverbio cinese Sterling non è il cuore di una grande metropoli. Non si trovano spacciatori sulla Main Street, o famiglie sotto la soglia della povertà. La criminalità è quasi inesistente. Ecco perché la gente non ha ancora superato il trauma. La loro domanda è: Com'è possibile che sia accaduto qui? Bene. Come avrebbe potuto non accadere qui?
Tutto nasce da un ragazzo disturbato che aveva la possibilità di procurarsi armi da fuoco. Non occorre andare in una grande metropoli per trovare qualcuno che corrisponda a questi criteri. È sufficiente aprire gli occhi. Il prossimo probabile candidato in questo momento potrebbe essere al piano di sopra, oppure sdraiato davanti al vostro televisore. Ma attenzione: continuate a far finta che dove siete voi non accadrà niente. Raccontate a voi stessi che siete immuni grazie al luogo in cui vivete o semplicemente perché siete voi. In questo modo è più facile, non vi pare? Cinque mesi dopo Si può capire molto di una persona osservando le sue abitudini. Per esempio, Jordan si era imbattuto in potenziali giurati che bevevano religiosamente la loro tazza di caffè davanti al computer e leggevano da cima a fondo il New York Times online. Ce n'erano altri che, tra i loro welcome screen su AOL, non avevano neppure gli aggiornamenti delle ultime notizie, perché li trovavano troppo deprimenti. C'era gente di campagna che possedeva il televisore ma riusciva a vedere soltanto una granulosa emittente pubblica perché non poteva permettersi la spesa del cablaggio fino al sentiero in cui abitava; e c'erano altri che si erano comprati elaborati sistemi satellitari con i quali riuscivano a vedere le soap giapponesi o l'Ora di Preghiera di Sister Mary Margaret alle tre del mattino. C'era chi guardava la CNN e chi invece FOX News. Era la sesta ora di esame preliminare individuale, il procedimento mediante il quale sarebbe stata selezionata la giuria per il processo di Peter. Ne derivavano lunghe giornate in tribunale con Diana Leven e con il giudice Wagner, perché i giurati si sedevano uno dopo l'altro nel posto riservato al testimone per essere sottoposti alle domande più svariate dalla difesa e dal pubblico ministero. Lo scopo era trovare dodici individui, più un sostituto, che non fossero stati colpiti personalmente dalla sparatoria; una giuria che si rendesse disponibile per un processo lungo, se fosse stato necessario, e non dovesse invece preoccuparsi delle proprie questioni personali o che avesse bambini piccoli da accudire. Un gruppo di persone che non avessero passato gli ultimi cinque mesi ad ascoltare tutte le notizie sull'accaduto, o, per dirla nel modo in cui Jordan cominciava a pensarli affettuosamente: quei pochi fortunati che erano vissuti sotto una campana di
vetro. Era agosto, e nell'ultima settimana le temperature erano schizzate a quasi trentotto gradi durante la giornata. Come se non bastasse, l'impianto dell'aria condizionata del tribunale era guasto, e il giudice Wagner, quando sudava, puzzava di naftalina e di piedi. Jordan si era già tolto la giacca e slacciato il primo bottone della camicia sotto la cravatta. Persino Diana, che lui segretamente considerava una specie di robot di Stepford come nel film La donna perfetta, si era raccolta i capelli sulla nuca e li aveva fermati con una matita. «A che numero siamo arrivati?» domandò il giudice Wagner. «Al giurato numero sei milioni settecentotrentamila» mormorò Jordan. «Giurato numero ottantotto» annunciò il cancelliere. Questa volta era un uomo, che indossava pantaloni kaki e una camicia a maniche corte. Aveva i capelli che andavano diradandosi, scarpe da barca e portava la fede nuziale. Jordan prese nota di tutto sul suo taccuino. Diana si alzò e si presentò, poi cominciò a snocciolare la sua litania di domande. Le risposte dovevano stabilire se un potenziale giurato doveva essere escluso per qualche motivo: per esempio perché aveva un figlio che era stato ucciso alla Sterling High e non poteva essere imparziale. Altrimenti, Diana poteva scegliere di usare uno dei suoi diritti di esclusione dei giurati senza motivazione. Sia lei che Jordan avevano quindici possibilità di escludere un giurato potenziale per puro istinto. Fino a quel momento, Diana aveva usato una di quelle sue possibilità contro un programmatore di software basso, calvo e tranquillo. Jordan aveva escluso un ex incursore della Marina. «Che lavoro fa, signor Alstrop?» domandò Diana. «L'architetto.» «È sposato?» «Da vent'anni, il prossimo ottobre.» «Ha figli?» «Due, un maschio di quattordici anni e una ragazza di diciannove.» «Frequentano la scuola pubblica?» «Be', mio figlio sì. Mia figlia è al college. A Princeton» disse orgogliosamente. «Sa qualcosa di questo caso?» Rispondere sì, Jordan lo sapeva, non l'avrebbe escluso. L'importante era quello che pensava o non pensava, malgrado ciò che i media avevano detto.
«Be', soltanto quello che ho letto sui giornali» specificò Alstrop, e Jordan chiuse gli occhi. «Legge sempre lo stesso quotidiano?» «Una volta prendevo lo Union Leader» fu la risposta, «ma gli editoriali mi facevano impazzire. Ora cerco di leggere almeno le pagine principali del New York Times.» Jordan rifletté. Lo Union Leader era noto come un giornale conservatore, mentre il New York Times era liberale. «E la televisione?» domandò Diana. «C'è qualche programma che le piace particolarmente?» Evidentemente il giurato ideale non doveva guardare dieci ore di Court TV al giorno. Ma nemmeno crogiolarsi nelle maratone di Pee-wee Herman. «60 Minuti» rispose Alstrop. «E I Simpson.» Ma allora, pensò Jordan, era un tipo normale. Quando Diana passò a lui la parola, balzò in piedi. «Che cosa ricorda di aver letto su questo caso?» domandò. Alstrop si strinse nelle spalle. «C'è stata una sparatoria alla scuola superiore e l'accusato è uno degli studenti.» «Conosceva qualcuno di quegli studenti?» «No.» «Conosce qualcuno che lavori alla Sterling High?» Alstrop scosse il capo. «No.» «Ha parlato con qualcuno coinvolto in questo caso?» «No.» Jordan salì sul banco dei testimoni. «C'è una regola, in questo Stato, secondo la quale si può svoltare a destra col rosso, se prima ci si ferma al semaforo. La conosce?» «Certo» disse Alstrop. «Ammettiamo che il giudice le dica che non può girare a destra col rosso, che deve stare fermo finché la luce ridiventa verde, anche se lei ha davanti un segnale che dice chiaramente GIRARE A DESTRA COL ROSSO. Che cosa farebbe?» Alstrop guardò il giudice Wagner. «Farei quello che ha detto il giudice, immagino.» Jordan sorrise tra sé e sé. Non gliene importava un bel niente delle abitudini di Alstrop come automobilista: quell'esempio e la conseguente domanda erano un modo per eliminare chi non fosse in grado di superare le convenzioni. In quel processo ci sarebbero state informazioni non necessa-
riamente intuitive, e lui aveva bisogno che i componenti della giuria avessero una mentalità sufficientemente aperta da capire che le regole non erano sempre quello che si pensava che fossero, che era possibile ascoltare le nuove disposizioni e comportarsi di conseguenza. Quando ebbe finito il suo interrogatorio, lui e Diana si avviarono verso il banco. «C'è qualche motivo per escludere questo giurato dal caso?» domandò il giudice Wagner. «No, Vostro Onore» disse Diana, e Jordan scosse il capo. «Dunque?» Diana assentì. Jordan lanciò un'occhiata all'uomo, ancora seduto al banco dei testimoni. «Per me va bene» dichiarò. Alex si era svegliata, ma faceva finta di dormire ancora. Teneva invece gli occhi socchiusi per poter guardare l'uomo sdraiato dall'altra parte del suo letto. Quella relazione, che durava da quattro mesi, era ancora un mistero per lei, così come la costellazione di lentiggini sulle spalle di Patrick, l'avvallamento della sua colonna vertebrale, il sorprendente contrasto dei suoi capelli neri su un lenzuolo bianco. Sembrava che avesse invaso la sua vita per osmosi: trovava la camicia di lui nel suo bucato; sentiva il profumo del suo shampoo sul proprio cuscino; stava per telefonargli e lui era già in linea. Alex era stata sola per tanto tempo; era concreta, risoluta e ferma nei suoi propositi (oh, ma chi voleva prendere in giro... quelli erano tutti eufemismi per esprimere quello che lei era realmente: ostinata): si sarebbe aspettata che quell'improvviso attacco alla sua privacy la irritasse. E invece scopriva di sentirsi disorientata quando Patrick non c'era, come un marinaio che abbia appena avvistato la terra dopo mesi di navigazione e che senta ancora il rollio dell'oceano sotto di sé, benché ormai non ci fosse più. «Lo sento che mi guardi, sai?» mormorò Patrick. Un pigro sorriso scaldava il suo volto, ma teneva ancora gli occhi chiusi. Alex si chinò su di lui, facendo scivolare la mano sotto le coperte. «Che cosa senti?» «Che cosa non sento?» Rapido come un fulmine, le afferrò il polso e la spinse sotto di sé. I suoi occhi, ancora appesantiti dal sonno, erano di un azzurro così limpido che ad Alex venivano in mente i ghiacciai e i mari del Nord. Lui la baciò, e lei si avvinghiò a lui. Poi d'improvviso Alex spalancò gli occhi. «Oh, merda» disse. «Non era esattamente quello che avevo in mente...» «Sai che ore sono?»
La sera prima aveva tirato le tende della sua camera da letto a causa della luna piena. Ma ora il sole filtrava attraverso la fessura più sottile in fondo al davanzale. Alex udiva Josie armeggiare con pentole e padelle giù in cucina. Patrick si allungò al di sopra di Alex per prendere l'orologio da polso che aveva lasciato sul comodino di lei. «Oh, merda» ripeté, e gettò indietro le coperte. «Sono già in ritardo di un'ora per arrivare al lavoro.» Lui afferrò i boxer mentre Alex balzava fuori dal letto e prendeva la vestaglia. «E Josie?» Non che avessero nascosto a Josie la loro relazione: Patrick passava spesso dopo il lavoro o veniva a cena o trascorreva lì la serata. Qualche volta Alex aveva provato a parlare di lui a Josie, per capire che cosa pensasse del fatto che sua madre, miracolosamente, avesse ripreso a vedere qualcuno, ma Josie aveva fatto tutto il possibile per evitare quella conversazione. La stessa Alex non avrebbe saputo dice con certezza come sarebbe andata a finire, ma sapeva che lei e Josie erano state un tutt'uno così a lungo che inserire Patrick tra loro significava lasciare da sola Josie, cosa che in quel momento Alex voleva assolutamente evitare. Stava tentando di recuperare il tempo perduto, in effetti, pensando a Josie prima che a chiunque altro. Per quel motivo, se Patrick si tratteneva per la notte, lei si accertava che se ne andasse prima che Josie si alzasse e lo trovasse in casa. A parte quel giorno, un pigro giovedì d'estate: erano quasi le dieci. «Forse è una buona occasione per dirglielo» suggerì Patrick. «Dirle cosa?» «Che noi...» La guardò. Alex lo fissò. Lei non poteva finire la frase per lui, perché davvero non conosceva la risposta. Non si sarebbe mai aspettata di parlarne con lui in quel modo. Stava con Patrick perché lui era bravo in quello: nel soccorrere chi aveva avuto la peggio? Quando quel processo fosse finito, lui se ne sarebbe andato? E lei? «Che stiamo insieme» disse Patrick risoluto. Alex gli voltò le spalle e tirò con forza la cintura della sua vestaglia. Non era, per parafrasare ciò che Patrick aveva detto prima, esattamente quello che aveva in mente. Ma, in realtà, lui come poteva saperlo? Se lui le avesse chiesto in quel momento che cosa voleva dalla loro relazione... be', lei lo sapeva: voleva amore. Voleva qualcuno da cui tornare a casa. Voleva sognare una vacanza che si sarebbero regalati a sessant'anni e sapere che lui sarebbe stato lì con lei nel momento in cui avrebbe messo piede sull'aereo.
Ma con lui non avrebbe mai ammesso niente del genere. Se l'avesse fatto, e lui le avesse rivolto uno sguardo senza espressione? Non era forse troppo presto per pensare a cose del genere? Se lui glielo avesse chiesto in quel momento, lei non avrebbe risposto, perché rispondere era il modo più sicuro per vedersi restituire il proprio cuore. Alex rovistò sotto il letto, cercando le pantofole. Trovò invece la cintura di Patrick e gliela lanciò. Forse, la ragione per cui non aveva detto apertamente a Josie che andava a letto con Patrick non aveva niente a che vedere con il proteggere Josie, e molto, invece, con il proteggere se stessa. Patrick si infilò la cintura sui jeans. «Non deve essere una condizione segreta» disse. «Tu hai il diritto... lo sai.» Alex gli lanciò un'occhiata. «Di fare sesso?» «Stavo cercando qualcosa di un po' meno brutale» ammise Patrick. «Ho anche il diritto di salvaguardare la mia privacy» precisò Alex. «In tal caso dovrò recuperare l'acconto che avevo lasciato, immagino.» «Potrebbe essere una buona idea.» «O magari potrei semplicemente comprarti dei gioielli.» Alex fissò il tappeto perché Patrick non vedesse che stava tentando di analizzare quella frase, di individuare il collegamento tra le parole. Dio, era sempre così frustrante non essere quella che conduceva lo spettacolo? «Mamma» gridò Josie in fondo alle scale, «i pancake sono pronti, se ne vuoi.» «Ascolta» sospirò Patrick. «Possiamo continuare a nasconderlo a Josie. Devi soltanto distrarla mentre io me ne vado.» Lei assentì. «Cercherò di farla rimanere in cucina. Tu...» Diede un'occhiata a Patrick. «Sbrigati.» Alex fece per uscire dalla stanza, ma lui le prese una mano e la tirò con forza. «Ehi» disse. «Ci vediamo.» Si chinò per baciarla. «Mamma, si raffreddano!» «A più tardi» disse Alex, spingendolo via. Scese le scale di corsa e trovò Josie che mangiava pancake ai mirtilli. «Che profumo... Non riesco a credere di aver dormito così tanto» incominciò Alex, ma poi si accorse che la tavola era apparecchiata per tre. Josie incrociò le braccia. «Allora, come lo prende il caffè?» Alex si lasciò cadere su una sedia di fronte a lei. «Non era previsto che tu lo scoprissi.»
«A: sono una ragazza grande. B: in tal caso il brillante detective non avrebbe dovuto lasciare la sua macchina nel vialetto di casa.» Alex raccolse un filo sulla tovaglietta. «Niente latte, due zollette di zucchero.» «Bene» disse Josie. «Almeno lo so per la prossima volta.» «Che impressione ti fa?» domandò Alex pacatamente. «Preparargli il caffè?» «No. La parte sulla prossima volta.» Josie giocherellò con un grosso mirtillo sopra il suo pancake. «Non è qualcosa che posso realmente scegliere, no?» «E invece sì» disse Alex. «Perché se tu non sei d'accordo, Josie, io smetterò di vederlo.» «Lui ti piace?» domandò Josie, fissando il piatto. «Sì.» «E tu piaci a lui?» «Credo di sì.» Josie sollevò lo sguardo. «E allora non dovresti preoccuparti di quello che pensano gli altri.» «Io mi preoccupo di quello che pensi tu» precisò Alex. «Non voglio che tu ti senta come se fossi meno importante per me perché c'è lui.» «Devi soltanto essere responsabile» ribatté Josie, con un lento sorriso. «Ogni volta che fai sesso, puoi rimanere incinta o puoi non rimanere incinta. C'è il cinquanta per cento delle probabilità.» Alex alzò le sopracciglia. «Accidenti. Non pensavo nemmeno che mi ascoltassi quando ti ho fatto quel discorso.» Josie premette il dito su una goccia di sciroppo d'acero che era caduta sulla tavola, gli occhi fissi sul piano di legno. «Così, lui ti... piace... lo ami?» L'aveva detto con voce esitante, tenera. «No» si affrettò a dire Alex, perché, se riusciva a convincere Josie, sicuramente sarebbe riuscita a convincere anche se stessa che quello che sentiva per Patrick era in tutto e per tutto passione e non... be'... quello. «Sono passati solo pochi mesi.» «Non credo che sia una questione di tempo» disse Josie. Alex decise che la via migliore per attraversare quel campo minato fosse l'unica che salvaguardava lei e Josie dal rimanere ferite: far finta che non fosse nulla, soltanto uno svago, una fantasia. «Non saprei nemmeno come mi sentirei, se mi capitasse di innamorarmi da un momento all'altro» disse con tono leggero.
«Non è come alla televisione, come se fosse tutto perfetto di colpo.» La voce di Josie si affievolì fino a diventare quasi un pensiero. «Quando capita, è più come passare tutto il tempo a capire quante probabilità ci siano che vada male.» Alex sollevò lo sguardo su di lei, raggelata. «Oh, Josie.» «Non importa.» «Non intendevo farti...» «Lasciamo stare, d'accordo?» Josie le rivolse un sorriso forzato. «Non è certo brutto, sai, per essere un uomo di quell'età.» «Ha un anno meno di me» puntualizzò Alex. «Mia madre che sta con un ragazzino.» Josie sollevò il vassoio di pancake e glielo offrì. «Si raffreddano.» Alex prese il vassoio. «Grazie» disse, ma continuò a sostenere lo sguardo di Josie tanto da far capire a sua figlia che le era davvero riconoscente. Proprio in quel momento Patrick scendeva furtivamente le scale. Quando giunse in fondo, si voltò per mostrare ad Alex il pollice alzato. «Patrick» lo chiamò lei. «Josie ci ha preparato i pancake.» Selena conosceva quel luogo comune: bisognava dire che non c'era differenza tra maschi e femmine. Ma sapeva anche che, se lo si fosse chiesto a qualsiasi mamma o insegnante di scuola materna, si sarebbero espresse diversamente, in termini non ufficiali. Quella mattina, era seduta su una panchina del parco a guardare Sam che affrontava un recinto di sabbia con un gruppo di bambini piccoli come lui. Due bambine fingevano di infornare pizze fatte di sabbia e sassolini. Il bambino accanto a Sam tentava di demolire un camion ribaltabile sbattendolo ripetutamente contro la struttura di legno del recinto per la sabbia. Nessuna differenza, pensò Selena. Già, proprio così. Si mise a osservare con un certo interesse Sam che si allontanava dal bambino che aveva di fianco e cominciava a imitare le bambine, passando la sabbia in un setaccio per fare una torta. Selena ridacchiò, sperando che quello fosse un piccolo indizio dal quale dedurre che suo figlio sarebbe cresciuto fuori dagli stereotipi e avrebbe fatto qualsiasi cosa che gli fosse apparsa più adatta a sé. Ma funzionava così? Osservando un bambino, è possibile capire chi diventerà? A volte, quando scrutava Sam, le sembrava di intuire che genere di adulto sarebbe diventato un giorno: era come se nei suoi occhi ci fosse il guscio dell'uomo che un giorno l'avrebbe abitato. Ma talvolta si poteva decifrare qualcosa di più
degli attributi fisici. Quelle bambine sarebbero diventate mamme-chestanno-a-casa come Betty Crocker, o imprenditrici d'azienda come la signora Fields? E il comportamento distruttivo del ragazzino sarebbe sfociato in tossicodipendenza o alcolismo? Peter Houghton aveva preso a spintoni i suoi compagni di giochi o aveva calpestato i grilli o aveva fatto qualcos'altro, da bambino, da cui si potesse dedurre che in futuro sarebbe diventato un killer? Il bambino nel recinto di sabbia depose il camion e si mise a scavare, apparentemente per arrivare in Cina. Sam abbandonò il forno e si allungò per prendere il veicolo di plastica, ma poi perse l'equilibrio e cadde, battendo un ginocchio sulla struttura di legno. Selena si alzò in un lampo, pronta ad aiutarlo a rimettersi in piedi prima che cominciasse a piangere. Ma Sam guardava i bambini che gli stavano intorno, come se capisse di avere un pubblico. E, sebbene il suo faccino diventasse rosso e raggrinzito come un'uvetta per il dolore, non pianse. Per le bambine era più facile. Potevano dire Questo fa male, oppure Non mi piace sentirmi così, e la loro rimostranza era socialmente accettabile. I ragazzi, invece, non parlavano quel linguaggio. Non lo imparavano da bambini ma non riuscivano ad appropriarsene nemmeno da adulti. Selena ricordava l'estate precedente, quando Jordan era andato a pescare con un vecchio amico, la cui moglie aveva da poco presentato istanza di divorzio. Di che cosa avete parlato? domandò quando Jordan tornò a casa. Di niente, rispose Jordan. Stavamo pescando. Per Selena non aveva senso: erano rimasti fuori sei ore. Come si faceva a stare seduti accanto a qualcuno su una piccola barca per tutto quel tempo senza parlare a cuore aperto delle proprie faccende? Senza chiedere all'altro se riusciva a cavarsela malgrado quella crisi; se era preoccupato per la sua vita a venire. Guardò Sam, che ora teneva in mano il camion e lo stava facendo rotolare in quella che prima era la sua pizza. I cambiamenti potevano essere istantanei, si rese conto Selena. Pensò a come Sam la cingeva con le sue braccine e le dava baci; a quando veniva da lei di corsa se lei gli apriva le braccia. Ma prima o poi si sarebbe reso conto che i suoi amici non tenevano la mano della loro madre per attraversare la strada; che non infornavano pizze e torte nel recinto di sabbia, ma costruivano città e scavavano caverne. Un giorno - alla scuola media, o anche prima - Sam avrebbe iniziato a rintanarsi nella sua stanza. Si sarebbe sottratto alle sue carezze. Le avrebbe risposto con un grugnito, si sarebbe comportato in modo rude, da uomo.
Forse è tutta colpa nostra, se gli uomini diventano così, pensò Selena. Forse l'empatia semplicemente si atrofizzava, come un muscolo mai utilizzato. Josie disse a sua madre che avrebbe svolto un lavoro di volontariato estivo organizzato dalla scuola per seguire bambini delle elementari e delle medie in matematica. Parlò di Angie, i cui genitori si erano separati durante l'anno scolastico e che era stata bocciata in algebra come conseguenza indiretta. Descrisse Joseph, un malato di leucemia che era stato assente da scuola per sottoporsi alle terapie e che faceva molta fatica a comprendere le frazioni. Tutti i giorni a cena sua madre le domandava del lavoro, e Josie aveva una storia da raccontare. Peccato che fosse solo... frutto della sua invenzione. Joseph e Angie non esistevano; e, tra l'altro, non esisteva nemmeno il volontariato di Josie. Quella mattina, come tutte le mattine, Josie uscì di casa. Prese l'autobus dell'Advance Transit e salutò Rita, la conducente che avrebbe fatto quel percorso per tutta l'estate. Quando gli altri passeggeri scendevano alla fermata più vicina alla scuola, Josie rimaneva al suo posto. Non si alzava, in realtà, fino al capolinea, un chilometro e mezzo a sud del Whispering Pines Cemetery. Quel posto le piaceva. Al cimitero, non incontrava nessuno con cui non si sentisse di parlare. Se non era nello stato d'animo adatto, poteva anche stare zitta. Risaliva il sentiero tortuoso, divenuto ormai così familiare che avrebbe potuto dire a occhi chiusi dove, nel selciato, c'era un avvallamento e dove svoltava a sinistra. Sapeva che il cespuglio di ortensie azzurro intenso era a metà strada dalla tomba di Matt; che quando si sentiva il profumo del caprifoglio ci si trovava a pochi passi dalla meta. Ormai, c'era una lapide di pietra, un blocco di marmo immacolato che recava il nome di Matt inciso. L'erba aveva cominciato a crescere. Josie si sedette sul monticello di terra che si era formato, e che era caldo, come se il sole filtrasse nel terreno e trattenesse il calore in attesa del suo arrivo. Prese il suo zaino e ne tirò fuori una bottiglia d'acqua, un panino con burro di arachidi, un sacchetto di salatini. «Ci crederesti che la scuola ricomincia tra una settimana?» disse a Matt, perché talvolta lo faceva. Non che si aspettasse da lui una risposta; solo che si sentiva meglio parlandogli dopo tanti mesi in cui non gli aveva parlato. «Però non aprono la vera scuola, per il momento. Forse per il Giorno del Ringraziamento, hanno detto, quando avranno finito di costruirla.»
Che cosa stessero facendo, in effetti, della scuola era un mistero. Josie si era informata e aveva saputo che la palestra e la biblioteca erano state abbattute, come del resto la caffetteria. Si domandò se quelli della direzione fossero così ingenui da credere che, una volta eliminata la scena del crimine, gli studenti si sarebbero lasciati convincere che non fosse mai accaduto niente. Aveva letto da qualche parte che i fantasmi non vagano soltanto nei luoghi fisici: che talvolta seguono una persona. Josie non si era mai sentita molto incline al paranormale, ma a questo credeva. Sapeva che certi ricordi, per quanto si provasse ad allontanarli, rimanevano per sempre. Josie si mise distesa, i capelli sparsi sull'erba appena spuntata. «Ti fa piacere avermi qui?» bisbigliò. «Oppure mi diresti di lasciar perdere, se fossi tu quello che può parlare?» Non voleva udire la risposta. In realtà non voleva nemmeno pensarci. Così aprì gli occhi più che poté e fissò il cielo, finché sentì bruciare quell'azzurro luminoso in fondo agli occhi. Lacy era nel reparto uomo di Filene's, e tastava con le mani le giacche sportive di tweed ruvido, quelle blu da cerimonia e quelle stropicciate di tessuto indiano. Aveva guidato per due ore fino a Boston, dove avrebbe avuto la scelta più ampia possibile per il completo che Peter avrebbe indossato al processo. Brooks Brothers, Hugo Boss, Calvin Klein, Ermenegildo Zegna. Erano stati confezionati in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in California. Sbirciò il cartellino con il prezzo, rimase senza fiato, ma poi capì che non importava. Molto probabilmente quella era l'ultima occasione che le si presentava di comprare un abito per suo figlio. Lacy si spostava metodicamente nel reparto. Scelse un paio di boxer di cotone egiziano finissimo, una confezione di magliette bianche di Ralph Lauren, calzini di cachemire. Trovò pantaloni color kaki - 30 x 30. Prese da un appendiabiti una camicia oxford con il colletto button-down perché Peter aveva sempre detestato avere il colletto che spuntava da un maglione a girocollo. Optò per un blazer blu, come le aveva suggerito Jordan. Dev'essere vestito come se lo stesse mandando alla Phillips Exeter Academy, le aveva detto. Le venne in mente che, più o meno a undici anni, Peter aveva sviluppato un'avversione per i bottoni. Verrebbe da pensare che sia facile aggirare un problema simile, e invece bisognava eliminare la maggior parte dei pantaloni. Lacy ricordava che andava in macchina nei posti più impensati per
trovargli un pigiama con pantaloni di flanella a quadri e l'elastico in vita che potessero servire anche di giorno. Ricordava di aver visto dei ragazzi indossare la parte sotto del pigiama per andare a scuola soltanto l'anno prima, e di essersi domandata se Peter aveva inaugurato una nuova moda, o semplicemente era stato leggermente fuori tempo. Quando ebbe raccolto tutto quello che le serviva, Lacy continuò a camminare nel reparto uomo. Toccò un arcobaleno di fazzoletti di seta così morbidi che sembravano dissolversi sotto le sue dita e ne scelse uno dello stesso colore degli occhi di Peter. Passò in rassegna le cinture di cuoio nere, marrone, lavorate, di coccodrillo - e le cravatte stampate a pois, con i fiordalisi, a strisce. Scelse un accappatoio così soffice che quasi le venne da piangere, pantofole di shearling, un costume da bagno rosso ciliegia. Prese roba finché il peso tra le sue braccia sembrò quello di un bambino. «Oh, lasci che l'aiuti con quelli» disse una commessa, prendendo parte della merce dalle sue braccia e portandola alla cassa. Incominciò a piegare i capi, a uno a uno. «So come ci si sente» continuò, sorridendole comprensiva. «Quando mio figlio se n'è andato, credevo di morire.» Lacy la fissò. Possibile che lei non fosse l'unica donna ad aver vissuto un'esperienza così terribile? E una volta che ti era capitato, come a quella commessa, diventavi capace di individuare le altre persone in mezzo a una folla, come se ci fosse una società segreta di madri ferite nel profondo dai propri figli? «Viene da pensare che durerà per sempre» stava dicendo la donna, «ma, mi creda, quando ritornano per Natale o per le vacanze estive e ricominciano a mangiarti la casa e la camicia, ti sorprendi a desiderare che il college duri tutto l'anno.» Il volto di Lacy si irrigidì. «Giusto» disse. «Il college.» «Ho una figlia all'università del New Hampshire, mentre mio figlio è a quella di Rochester» disse la commessa. «Harvard. È dove andrà mio figlio.» Una volta ne avevano parlato: Peter preferiva la facoltà di informatica a Stanford, e Lacy si era messa a scherzare, dicendo che avrebbe buttato via qualunque brochure di college a ovest del Mississippi, perché erano troppo lontani. La prigione di Stato era cento chilometri a sud, a Concord. «Harvard» ripeté la commessa. «Dev'essere un ragazzo in gamba.» «Lo è» assentì Lacy, e continuò a parlare a quella donna del finto passaggio di Peter al college, finché la bugia non ebbe il sapore della liquirizia
sulla sua lingua; finché riuscì quasi a crederci. Poco dopo le tre, Josie rotolò sulla pancia, spalancò le braccia e premette il volto nell'erba. Sembrava che tentasse di aggrapparsi al suolo, il che, immaginava, non era poi tanto lontano dal vero. Respirò profondamente: di solito, sentiva soltanto l'odore dell'erba e della terra, ma di tanto in tanto, quando aveva piovuto da poco, avvertiva un leggerissimo profumo di ghiaccio e di shampoo Pert, come se Matt fosse ancora lì, sotto la superficie. Raccolse la carta del panino e la bottiglia d'acqua vuota e le mise nel suo zaino, poi ridiscese il sentiero tortuoso fino ai cancelli del cimitero. C'era un'auto che bloccava l'entrata: soltanto due volte, quell'estate, Josie si era trovata lì mentre passava un corteo funebre, e aveva provato un certo fastidio allo stomaco. Si mise a camminare più svelta, nella speranza di allontanarsi e prendere l'autobus dell'Advance Transit prima che la cerimonia cominciasse, ma poi capì che l'auto che bloccava i cancelli non era un carro funebre, non era nemmeno nera. Era la stessa che aveva visto parcheggiata nel viale di casa sua quella mattina, e Patrick vi era appoggiato contro a braccia conserte. «Che cosa fai qui?» domandò Josie. «Potrei rivolgerti la stessa domanda.» Lei si strinse nelle spalle. «È un paese libero.» In realtà Josie non aveva proprio niente contro Patrick Ducharme. Solo che la rendeva nervosa, sotto vari aspetti. Non riusciva a guardarlo senza pensare a Quel Giorno. Ma ora non poteva evitarlo, perché era anche l'amante di sua madre (non era strano dirlo?) e, in un certo senso, era persino più sconcertante. Sua madre era al settimo cielo, innamorata, mentre Josie doveva strisciare su una tomba per andare a trovare il suo ragazzo. Patrick si staccò dalla macchina e fece un passo verso di lei. «Tua madre pensa che in questo momento tu stia insegnando a fare le divisioni.» «Ti ha detto di pedinarmi?» disse Josie. «Preferisco parlare di sorveglianza» rettificò Patrick. Josie sbuffò. Non intendeva sembrare sprezzante, ma non poté farne a meno. Il sarcasmo era come un campo di forza; se lo disattivava, c'era il rischio che Patrick si accorgesse che lei era davvero sul punto di crollare. «Tua madre non sa che sono qui» disse Patrick. «Volevo parlarti.» «Rischio di perdere l'autobus.» «Dopo ti accompagnerò dove vorrai» ribatté lui, esasperato. «Sai, quan-
do svolgo il mio lavoro, passo un sacco di tempo a desiderare di portare indietro l'orologio, per trovarmi accanto alla vittima di uno stupro prima che accada, o a piantonare una casa prima che vi entrino i ladri. So cosa vuol dire avere l'impressione che non ci sia niente da dire o da fare per migliorare la situazione. E so che cosa vuol dire svegliarsi nel cuore della notte rivedendo lo stesso momento innumerevoli volte, così vividamente che sembra davvero di riviverlo. In realtà, scommetto che tu e io rivediamo lo stesso momento.» Josie deglutì. In quei mesi, malgrado tutte le conversazioni animate da buone intenzioni che aveva avuto con medici e psichiatri e anche con altri ragazzi della scuola, nessuno aveva saputo esprimere, così sinteticamente, il suo stato d'animo. Ma non poteva lasciare che Patrick se ne accorgesse, non poteva riconoscere la propria debolezza, anche se aveva la sensazione che lui la percepisse ugualmente. «Non fingere di avere qualcosa in comune con me» disse Josie. «Ma l'abbiamo» replicò Peter. «Tua madre.» Guardò Josie negli occhi. «Lei mi piace. Tanto. E sarei contento di sapere che tu non hai niente in contrario.» Josie sentì la gola chiudersi. Provò a ricordare quando Matt le diceva che lei gli piaceva; si domandò se qualcuno glielo avrebbe mai detto di nuovo. «Mia madre è una donna adulta. Può prendere le sue decisioni riguardo a chi sc...» «Non dirlo» la interruppe Patrick. «Non dire cosa.» «Non dire qualcosa che poi rimpiangerai di avere detto.» Josie fece un passo indietro, fulminandolo con gli occhi. «Se pensi che ingraziandoti me otterrai lei, ti sbagli. Ti conviene provare con fiori e cioccolatini. A lei non importa niente di me.» «Non è vero.» «Non ti si è visto in giro abbastanza a lungo perché tu possa saperlo, ti pare?» «Josie» insistette Patrick, «lei ti vuole un bene dell'anima.» Josie sentì che la verità le toglieva il respiro, come se parlarne fosse ancora più difficile che mandarla giù. «Ma non tanto quanto ne vuole a te. Lei è felice. Lei è felice mentre io... io so che dovrei essere felice per lei...» «Ma tu sei qui» disse Patrick, indicando il cimitero. «E sei sola.» Josie annuì e scoppiò in lacrime. Si voltò, imbarazzata, e poi sentì Patrick che la abbracciava. Non le disse niente, e per quell'unico istante arri-
vò persino a piacerle: nessuna parola, nemmeno detta con le migliori intenzioni, avrebbe potuto penetrare là dove il suo cuore soffriva di più. Lui la lasciò piangere finché lei smise da sola, e Josie rimase per un momento appoggiata alla sua spalla, domandandosi se fosse nel bel mezzo della tempesta oppure alla fine. «Sono una stronza» sussurrò. «Sono gelosa.» «Credo che lei lo capisca.» Josie si staccò da lui e si asciugò gli occhi. «Le dirai che vengo qui?» «No.» Gli lanciò un'occhiata, sorpresa. Pensava che lui stesse dalla parte di sua madre. «Ti sbagli, lo sai» disse Patrick. «Riguardo a cosa?» «All'essere sola.» Josie guardò in su, verso la collina. Dai cancelli non si poteva vedere la tomba di Matt, ma era ancora là... come tutto il resto riguardo a Quel Giorno. «I fantasmi non contano.» Patrick sorrise. «Le madri sì.» Quello che Lewis aborriva di più era il suono delle porte di metallo che sbattevano. Contava poco che, di lì a trenta minuti, avrebbe già potuto lasciare il carcere. L'importante era che i carcerati non potevano farlo. E che uno di quei carcerati era lo stesso ragazzo a cui lui aveva insegnato ad andare in bicicletta senza le ruote piccole; lo stesso ragazzo il cui fermacarte fatto alla scuola materna era ancora sulla sua scrivania; lo stesso ragazzo che lui aveva visto respirare per la prima volta. Sapeva che vederlo sarebbe stato uno choc per Peter... per quanti mesi aveva detto a se stesso che quella settimana avrebbe trovato il coraggio di andare a trovare suo figlio in carcere, soltanto per scovare un'altra commissione da sbrigare o altre carte da studiare? Eppure, quando una guardia carceraria aprì una porta e condusse Peter nella sala visite, Lewis capì che aveva sottovalutato lo choc che sarebbe stato per lui vedere Peter. Era più grande. Forse non più alto, ma più largo: le spalle riempivano la camicia; le braccia erano indurite dai muscoli. La sua pelle appariva traslucida, quasi azzurra sotto quella luce innaturale. Le sue mani non stavano ferme un momento: prima le contorceva tenendole lungo i fianchi, poi, quando si sedette, si mise ad agitarle sui fianchi della sedia. «Bene» disse Peter. «Chi l'avrebbe detto.»
Lewis si era preparato sei o sette discorsi, spiegazioni del perché non era stato capace di andare da suo figlio prima, ma quando vide Peter seduto lì gli vennero soltanto due parole alle labbra. «Mi dispiace.» La bocca di Peter si irrigidì. «Per che cosa? Perché mi hai cancellato per sei mesi?» «In realtà mi riferivo» ammise Lewis «a questi diciotto anni.» Peter si appoggiò allo schienale della sedia, fissando Lewis. Lui si costrinse a ricambiare lo sguardo. Peter poteva forse assolverlo, anche se Lewis non era del tutto certo di poter ricambiare il favore? Passandosi una mano sul volto, Peter scosse il capo. Poi cominciò a sorridere. Lewis sentì le ossa distendersi, la muscolatura rilassarsi. Fino a quel momento, non sapeva davvero cosa dovesse aspettarsi da Peter. Poteva ragionare tra sé e sé quanto voleva e dirsi che le scuse si accettano sempre; poteva ricordare a se stesso che era lui il genitore, il responsabile: ma era tutto estremamente difficile da ricordare quando si stava seduti nella sala visite di un carcere, con una donna a sinistra che tentava di fare piedino al suo amante oltre la linea rossa di divisione, e un uomo a destra che rovesciava un fiume di imprecazioni. Il sorriso sul volto di Peter si irrigidì, si contrasse in una smorfia. «'fanculo» sbottò. «'fanculo perché sei venuto qui. Non te ne frega un cazzo di me. Tu non vuoi dirmi che ti dispiace. Tu vuoi soltanto ascoltarti mentre lo dici. Sei qui per te, non per me.» Lewis sentiva la testa come se fosse piena di pietre. Si chinò in avanti, e il suo collo sembrava incapace di reggere il peso, tanto che appoggiò la fronte sulle mani. «Non riesco a far niente, Peter» sussurrò. «Non riesco a lavorare, non riesco a mangiare. Non riesco a dormire.» Poi sollevò il volto. «I nuovi studenti arrivano al campus in questi giorni. Li guardo, dalla mia finestra... indicano sempre gli edifici o la Main Street o ascoltano le guide che li accompagnano attraverso il cortile... e io penso a quanto desideravo fare lo stesso con te.» Anni prima, dopo la nascita di Joey, aveva scritto a proposito delle crescite esponenziali di felicità: i momenti in cui il quoziente cambiava a passi da gigante dopo un episodio scatenante. Ne aveva tratto la conclusione che il risultato era variabile, basato non sull'evento che causava la felicità, ma invece sulla condizione in cui ci si trovava quando si era verificato. Per esempio, la nascita di un figlio è una cosa quando sei felicemente sposato e progetti di costruire una famiglia; è tutt'altra cosa quando hai sedici anni e hai messo incinta una ragazza. Il clima freddo è perfetto se vai in vacanza
a sciare, ma è deludente se ti capita di passare una settimana sulla spiaggia. Un uomo che una volta era ricco in piena depressione poteva scoprirsi incredibilmente felice di avere un dollaro; un cuoco gourmet mangerebbe anche i vermi se si trovasse abbandonato su un'isola deserta. Un padre che si fosse augurato che suo figlio crescesse beneducato, che fosse una persona di successo e indipendente, in circostanze diverse potrebbe semplicemente essere felice di averlo vivo e in buona salute, perché potrebbe dire al ragazzo che non ha mai smesso di amarlo. «Ma lo sai che cosa dicono del college» disse Lewis, raddrizzandosi un poco. «Che è sopravvalutato.» Le sue parole sorpresero Peter. «Tutti quei genitori che sborsano quarantamila dollari all'anno» disse Peter, sorridendo debolmente. «E io sono qui, a usare la maggior parte dei soldi delle tue tasse.» «Che cosa potrebbe chiedere di più un economista?» scherzò Lewis, sebbene non fosse divertente. Non era affatto divertente. E capì che anche quella era una specie di felicità: aver voglia di dire qualsiasi cosa - di fare qualsiasi cosa - pur di far sorridere tuo figlio, come se ci fosse ancora qualcosa di cui sorridere, anche se a ogni parola ti sembra di inghiottire vetro. Patrick teneva i piedi incrociati sulla scrivania del pubblico ministero, mentre Diana Leven esaminava i rapporti rilasciati dagli esperti di balistica nei giorni successivi alla sparatoria, per preparare la testimonianza del detective al processo. «C'erano due fucili da caccia, che non sono mai stati usati» spiegò Patrick, «e due pistole uguali - Glock 17 - che erano registrate a nome di un vicino che abita al di là della strada. Un poliziotto in pensione.» Diana alzò lo sguardo dalle carte. «Non male.» «Già. Be', conosci i poliziotti. Che senso ha tenere la pistola sotto chiave se devi essere pronto a usarla? Comunque, l'Arma A è l'unica che è stata usata in quasi tutta la scuola - le striature sui proiettili che abbiamo trovato corrispondono. L'Arma B è stata usata - ce l'hanno detto gli esperti di balistica - ma non si è trovato un proiettile che corrisponda alla sua canna. Quell'arma fu trovata inceppata, sul pavimento dello spogliatoio. Houghton aveva ancora in mano l'Arma A quando fu arrestato.» Diana si appoggiò allo schienale della sedia, le dita intrecciate davanti a sé. «McAfee ti domanderà perché Houghton aveva tirato fuori l'Arma B nello spogliatoio, se l'Arma A aveva funzionato così magnificamente fino
a quel momento.» Patrick si strinse nelle spalle. «Potrebbe averla usata per colpire Royston all'addome, e poi, quando si è inceppata, è tornato all'Arma A. Oppure, ancora, potrebbe essere persino più semplice di così. Dal momento che il proiettile uscito dall'Arma B non è stato recuperato, è possibile che fosse il primo colpo sparato. La pallottola potrebbe essersi fissata nel materiale isolante in lana di vetro della caffetteria, per quel che ne sappiamo. Si è inceppata, il ragazzo ha impugnato l'Arma A e si è ficcato quella inceppata in tasca... e poi, alla fine della sua carneficina, l'ha gettata via oppure l'ha lasciata cadere per caso.» «Oppure. Detesto quella parola. È lunga tre sillabe ma è piena come un uovo di ragionevoli dubbi...» S'interruppe quando si udì bussare alla porta, e la sua segretaria mise dentro la testa. «Il suo convocato per le due in punto è arrivato.» Diana si voltò verso di lui. «Sto preparando Drew Girard a testimoniare. Forse potresti rimanere.» Patrick si spostò su una sedia da un lato della stanza per lasciare a Drew il posto di fronte al pubblico ministero. Il ragazzo entrò dopo aver bussato piano. «Signorina Leven?» Diana girò attorno alla scrivania. «Drew. Grazie di essere venuto.» Indicò Patrick. «Ricordi il detective Ducharme?» Drew gli rivolse un cenno del capo. Patrick scrutò i calzoni ben stirati del ragazzo, la camicia con colletto, il suo atteggiamento educato. Non aveva l'aria arrogante del campione di hockey che si crede la star del campus, com'era stato descritto a Patrick dagli studenti durante le sue indagini. Del resto, Drew aveva visto uccidere il suo migliore amico; era stato colpito a sua volta a una spalla. Il mondo in cui aveva spadroneggiato non esisteva più. «Drew» disse Diana, «ti abbiamo convocato qui perché hai ricevuto un mandato di comparizione, il che significa che un giorno della prossima settimana dovrai testimoniare. Ti faremo sapere quando, di preciso, tra qualche giorno... ma per il momento volevo accertarmi che tu non fossi nervoso riguardo al comparire in aula. Oggi, ripasseremo alcuni punti su cui verrai interrogato, e il funzionamento della procedura. Se hai qualche domanda, faremo il possibile per risponderti. D'accordo?» «Sì, signora.» Patrick si chinò in avanti. «Come va la spalla?» Drew si girò per guardarlo in volto, piegando inconsciamente quella par-
te del corpo. «Devo ancora fare la fisioterapia e cose del genere, ma va molto meglio. Tranne che...» la sua voce si affievolì. «Tranne cosa?» domandò Diana. «Perderò l'intera stagione di hockey.» Diana incrociò lo sguardo di Patrick; esprimeva simpatia per un testimone. «Credi che tornerai a giocare ancora?» Drew arrossì. «I medici dicono di no, ma io credo che si sbaglino.» Esitò. «Quest'anno sono un senior, e contavo abbastanza su una borsa di studio di atletica per il college.» Vi fu un silenzio scomodo, come se nessuno volesse riconoscere né il coraggio di Drew né la verità. «Allora, Drew» disse Diana. «Quando entreremo in aula, incomincerò col chiederti come ti chiami, dove abiti, se eri a scuola quel giorno.» «D'accordo.» «Facciamo una prova. Quando sei andato a scuola quella mattina, che materia avevi alla prima ora?» Drew si raddrizzò un poco sulla sedia. «Storia americana.» «E alla seconda ora?» «Inglese.» «Dove sei andato dopo la lezione di inglese?» «Avevo la terza ora libera, e quasi tutti quelli che hanno un'ora libera vanno nella caffetteria.» «Sei andato lì?» «Già.» «C'era qualcuno con te?» proseguì Diana. «Sono sceso da solo, ma quando sono arrivato lì mi sono messo a chiacchierare con un po' di gente.» Guardò Patrick. «Amici.» «Quanto a lungo sei rimasto nella caffetteria?» «Non so, mezz'ora, forse?» Diana annuì. «Poi cosa accadde?» Drew abbassò lo sguardo sui suoi pantaloni e passò il pollice sulla piega. Patrick notò che la sua mano tremava. «Eravamo tutti lì a... be', a parlare... e poi ho sentito quel botto assordante.» «Sapresti dire da dove proveniva il suono?» «No. Non capivo cosa fosse.» «Hai visto qualcosa?» «No.» «E allora» chiese Diana «che cosa hai fatto quando l'hai udito?»
«Ho fatto una battuta» rispose Drew. «Ho detto che probabilmente era il pranzo della scuola che scoppiava o qualcosa del genere. Oh, finalmente, hamburger al formaggio radioattivi.» «Sei rimasto nella caffetteria dopo il botto?» «Sì.» «E poi?» Drew si guardò le mani. «C'era un suono simile a quello dei fuochi d'artificio. Prima che chiunque potesse immaginare di cosa si trattava, Peter fece irruzione nella caffetteria. Portava uno zaino e impugnava una pistola, e cominciò a sparare.» Diana alzò la mano. «Fermiamoci qui, per il momento, Drew... Quando sarai alla sbarra, a questo punto ti chiederò di guardare l'imputato e di identificarlo per la registrazione. È chiaro?» «Sì.» Patrick si rese conto che non stava vedendo la sparatoria nello stesso modo in cui aveva visto qualsiasi altro crimine. Non visualizzava neppure il suo svolgimento come un prequel dell'agghiacciante videocassetta sulla caffetteria che aveva guardato. Immaginava invece gli altri amici di Drew, seduti a un lungo tavolo, mentre udivano quei fuochi d'artificio, senza il benché minimo presagio di quello che stava per accadere. «Da quanto tempo conosci Peter?» domandò Diana. «Siamo cresciuti tutti e due a Sterling. Abbiamo frequentato la stessa scuola, come dire, da sempre.» «Eravate amici?» Drew scosse il capo. «Nemici?» «No» disse. «Non propriamente nemici.» «Hai mai avuto qualche problema con lui?» Drew guardò in alto. «No.» «Sei mai stato prepotente con lui?» «No, signora» disse. Patrick sentì le mani chiudersi a pugno. Sapeva, dopo aver interrogato centinaia di ragazzi, che Drew Girard aveva chiuso Peter Houghton negli armadietti; che gli aveva fatto lo sgambetto mentre scendeva le scale; che gli aveva sputato palline di carta nei capelli. Niente di tutto questo giustificava l'azione di Peter... però era la realtà dei fatti. C'era un ragazzo che marciva in carcere; c'erano dieci persone che si decomponevano nelle tombe; ce n'erano dozzine che dovevano sottoporsi alle terapie di riabilitazione e alla chirurgia correttiva; ce n'erano centinaia, come Josie, che non riuscivano ancora a ripercorrere quella giornata senza scoppiare in lacrime;
c'erano genitori, come Alex, che confidavano in Diana per fare giustizia a nome loro. E quello stronzetto mentiva spudoratamente. Diana sollevò lo sguardo dai suoi appunti e fissò Drew. «Dunque, se ti venisse chiesto sotto giuramento se hai mai maltrattato Peter, quale sarebbe la tua risposta?» Drew alzò gli occhi su di lei, e la sua aria spavalda si era indebolita quel tanto che bastava a Patrick per capire che era spaventato a morte all'idea che loro sapessero qualcosa di più di quello che ammettevano con lui. Diana lanciò un'occhiata a Patrick e posò la penna. Non aveva bisogno di un ulteriore invito: scattò dalla sua sedia in un istante e afferrò Drew Girard per la gola. «Ascolta, piccolo bastardo» disse Patrick, «non provarci nemmeno. Sappiamo che cosa facevi a Peter Houghton. Sappiamo che eri sempre in prima fila. Ci sono dieci morti e altre diciotto vittime che non riavranno mai quella vita che pensavano di vivere, e ci sono così tante famiglie in questa comunità destinate a soffrire per sempre, che non riesco nemmeno a contarle. Non so a che gioco tu voglia giocare: se vuoi recitare la parte del chierichetto per proteggere la tua reputazione o se hai soltanto il terrore di dire la verità - ma, credimi, se vai sul banco dei testimoni per mentire sulle tue azioni passate, ti farò chiudere in carcere per aver ostacolato il corso della giustizia.» Lasciò andare Drew e si allontanò, guardando fuori dalla finestra dell'ufficio di Diana. Non aveva l'autorità per arrestare Drew, qualunque fosse il motivo - non avrebbe potuto farlo neanche se il ragazzo avesse spergiurato - e men che meno per mandarlo in carcere, ma Drew non l'avrebbe mai saputo. E forse era sufficiente a spaventarlo e indurlo a cambiare atteggiamento. Con un profondo respiro Patrick si chinò a raccogliere la penna di Diana che era caduta e gliela porse. «Te lo chiedo un'altra volta, Drew» disse lei pacatamente. «Hai mai fatto il prepotente con Peter Houghton?» Drew lanciò un'occhiata a Patrick e deglutì. Poi aprì la bocca e cominciò a parlare. «Sono lasagne alla griglia» annunciò Alex quando Patrick e Josie ebbero assaggiato entrambi il primo boccone. «Cosa ve ne pare?» «Non sapevo che le lasagne si potessero fare alla griglia» disse Josie lentamente. Iniziò a staccare la pasta dal formaggio come se stesse scalpellandola. «Come sono fatte, esattamente?» domandò Patrick, prendendo la caraffa
dell'acqua e riempiendosi il bicchiere. «Sono normali lasagne. Ma parte del ripieno è schizzata in giro nel forno, e c'era tutto quel fumo... e stavo per ricominciare da capo, ma poi mi è sembrato di capire che stavo solo aggiungendo qualcosa di diverso al piatto, una specie di gusto affumicato.» Era raggiante. «Geniale, no? Voglio dire che ho guardato su tutti i libri di cucina, Josie, e ti assicuro che mai nessuno ha preparato questo piatto.» «Non ho dubbi» disse Patrick, e tossì nel tovagliolo. «Mi piace veramente cucinare» continuò Alex. «Mi piace prendere una ricetta e, sapete, partire per la tangente e vedere cosa ne viene fuori.» «Le ricette sono un po' come le leggi» replicò Patrick. «Conviene provare ad attenervisi, prima di commettere un reato grave...» «Non ho fame» dichiarò Josie tutt'a un tratto. Spinse via il piatto, si alzò e corse di sopra. «Il processo inizia domani» disse Alex, a mo' di spiegazione. Seguì Josie, senza neppure scusarsi perché sapeva che Patrick avrebbe capito. Josie aveva sbattuto la porta e messo su della musica; sarebbe stato inutile bussare. Alex girò la maniglia ed entrò, andando subito ad abbassare il volume dello stereo. Josie era distesa sul letto a faccia in giù, il cuscino sopra la testa. Quando Alex si sedette sul letto vicino a lei, non si mosse. «Vuoi parlarne?» domandò Alex. «No» rispose Josie con voce smorzata. Alex si chinò a togliere il cuscino dalla sua testa. «Provaci.» «È come se... Dio, mamma... cosa c'è che non va in me? È come se il mondo ricominciasse a girare per tutti gli altri, mentre io non posso nemmeno più salire sulla giostra. Anche voi due, che dovete pur avere più che mai in mente quel processo, ridete e scherzate come se riusciste a togliervi dalla testa quello che è accaduto e quello che accadrà, mentre io non riesco a non pensarci nemmeno per un secondo.» Josie alzò lo sguardo su Alex, gli occhi pieni di lacrime. «Tutti sono andati avanti. Tutti tranne me.» Alex mise una mano sul braccio di Josie e lo accarezzò. Ricordò come le piaceva il puro e semplice contatto fisico con Josie subito dopo la sua nascita: le piaceva pensare che, in qualche modo, lei aveva creato dal nulla quella minuscola, calda, perfetta creatura che si muoveva in continuazione. Aveva trascorso ore sul suo letto con Josie accanto a sé, a toccare la sua pelle di neonata, le dita dei suoi piedini simili a perline, la pulsazione della sua fontanella. «Una volta» disse Alex, «quando lavoravo come difensore
d'ufficio, un mio collega organizzò una festa per tutti gli avvocati e le loro famiglie in occasione del Quattro di Luglio. Io ti portai con me, anche se avevi soltanto tre anni. C'erano i fuochi d'artificio e per un istante distolsi lo sguardo da te per vederli, e quando mi voltai non c'eri più. Cominciai a gridare e qualcuno si accorse che tu... eri immobile sul fondo della piscina.» Josie si sedette: quella storia che non aveva mai sentito raccontare prima attirava la sua attenzione. «Mi tuffai, ti trascinai fuori e ti feci la respirazione bocca a bocca, e tu buttasti fuori l'acqua. Non riuscivo neanche a parlare, tanto ero spaventata. Ma tu eri furiosa con me. Mi dicesti che stavi cercando le sirene, e io ti avevo interrotto.» Con il mento appoggiato sulle ginocchia sollevate, Josie accennò un sorriso. «Sul serio?» Alex assentì. «Ti dissi che la volta dopo avresti dovuto portarmi con te.» «Ci fu una volta dopo?» «Be', dimmelo tu» disse Alex, e poi esitò. «Non c'è bisogno dell'acqua per sentirsi annegare, no?» Josie scosse il capo e ricominciò a piangere. Si spostò, per mettersi tra le braccia di sua madre. Patrick sapeva che quella era la sua rovina. Per la seconda volta nella sua vita, era diventato così intimo con una donna e con sua figlia da dimenticare che in realtà lui non faceva parte della loro famiglia. Lasciò vagare lo sguardo sulla tavola e sui resti dell'abominevole cena di Alex. Poi cominciò a sparecchiare, togliendo i piatti che nessuno aveva toccato. Le lasagne alla griglia stavano raffreddandosi nel piatto da portata, come un mattone annerito. Impilò le stoviglie nel lavello e iniziò a far scorrere l'acqua calda, poi prese una spugna e si mise a strofinare. «Oh, santo cielo» disse Alex alle sue spalle. «Sei davvero l'uomo perfetto.» Patrick si voltò, le mani ancora insaponate. «Tutt'altro.» Prese un asciugapiatti. «Josie...» «Si è ripresa. Si riprenderà. O almeno continueremo a dirglielo tutti e due finché sarà vero.» «Mi dispiace, Alex.» «A chi non dispiace?» Lei si mise a cavalcioni su una sedia della cucina e appoggiò la guancia alla sua spina dorsale. «Domani andrò al processo.» «Ne ero sicuro.»
«Sei davvero convinto che McAfee possa farlo assolvere?» Patrick piegò l'asciugapiatti, lo mise accanto al lavello e si avvicinò ad Alex. Si mise in ginocchio davanti alla sua sedia. «Alex» disse, «quel ragazzo è entrato nella scuola come se eseguisse un piano di battaglia. Ha cominciato nel parcheggio, lanciando una bomba per distogliere l'attenzione. Ha girato attorno alla facciata della scuola e ha colpito una ragazza sui gradini. È entrato nella caffetteria, ha sparato a un gruppo di ragazzi, ne ha uccisi alcuni - poi si è seduto a consumare una ciotola di stramaledetti cereali prima di continuare la sua marcia omicida. Non vedo come, dato questo genere di prove, un giurato possa avere dubbi sulla colpevolezza dell'imputato.» Alex lo guardò fisso. «Dimmi una cosa... perché Josie è stata fortunata?» «Perché è viva.» «No, voglio dire, perché è viva? Era nella caffetteria e nello spogliatoio. Ha visto gente morire attorno a sé. Perché Peter non ha sparato a lei?» «Non lo so. Accadono cose che proprio non riesco a capire. Alcune... be', sono come la sparatoria. Altre...» Coprì la mano di Alex con la propria nel punto in cui era aggrappata allo schienale della sedia. «Altre non lo sono.» Alex sollevò lo sguardo su di lui, e Patrick si sorprese di nuovo a pensare che averla trovata, che stare con lei, era come il primo croco che si vede sbucare dalla neve. Soltanto quando si dà per scontato che l'inverno possa durare per sempre, quella bellezza inaspettata ti coglie di sorpresa. E se non distogli gli occhi da quella vista, se continui a guardare, il resto della neve in qualche modo si scioglie. «Se ti chiedessi una cosa, saresti sincero con me?» domandò Alex. Patrick annuì. «Le mie lasagne non erano un granché, vero?» Lui le sorrise attraverso le fessure della sedia. «Non rinunciare al lavoro che fai di giorno» le disse. Nel cuore della notte, non riuscendo ancora a dormire, Josie sgattaiolò fuori di casa e si distese sul prato davanti all'ingresso. Rimase a fissare il cielo, che incombeva così basso a quell'ora che lei riusciva a sentire le stelle pungerle il volto. Lì fuori, senza le pareti della sua stanza attorno, era quasi possibile credere che qualsiasi suo problema fosse minuscolo, nel grandioso disegno dell'universo. Il giorno dopo, Peter Houghton sarebbe stato processato per dieci omici-
di. Al solo pensiero - al pensiero dell'ultimo omicidio - Josie provava una stretta allo stomaco. Non poteva andare ad assistere al processo, come invece avrebbe tanto voluto, perché era su quello stupido elenco dei testimoni. Doveva invece rimanere isolata, un termine moderato per dire che non doveva avere informazioni di alcun genere. Josie fece un profondo respiro e pensò a una lezione di sociologia alla scuola media durante la quale aveva imparato che alcuni - forse gli eschimesi? - credono che le stelle siano buchi nel cielo dai quali la gente che è morta può ancora sbirciarti. Era considerato un conforto, ma Josie l'aveva sempre trovato un po' raccapricciante, come se significasse essere spiati. Le venne in mente anche una storiella veramente sciocca su un tizio che, passando davanti a un manicomio con una siepe alta, sente i pazienti cantare Dieci! Dieci! Dieci! e sbircia attraverso un buco nella siepe per vedere che cosa succede... soltanto per sentirsi ficcare un rametto in un occhio e udire i pazienti cantare Undici! Undici! Undici! Quella storiella gliel'aveva raccontata Matt. Forse lei si era persino messa a ridere. Ecco cosa non ti dicono gli eschimesi: Che quella gente dall'altra parte deve uscire dalla propria strada per vederti. Ma tu puoi vedere loro in ogni momento. Devi soltanto chiudere gli occhi. La mattina del processo per omicidio di suo figlio, Lacy tirò fuori dall'armadio una gonna nera, una camicetta nera e calze nere. Si vestì come per andare a un funerale, ma forse non era poi tanto diverso. Strappò tre paia di calze perché le sue mani tremavano e alla fine decise di stare senza. Al termine di quella giornata le scarpe le avrebbero lasciato le vesciche sui piedi, e Lacy pensò che forse era un bene, perché avrebbe potuto concentrarsi su un dolore pienamente sensato. Non sapeva dove fosse Lewis, e nemmeno se quel giorno sarebbe andato al processo. In realtà non si parlavano più dal giorno in cui lei l'aveva seguito al cimitero, e lui da allora andava a dormire nella stanza di Joey. Nessuno di loro due entrava mai in quella di Peter. Ma quella mattina si costrinse a girare a sinistra invece che a destra in cima alle scale e aprì la porta della stanza di Peter. Dopo l'irruzione della polizia, lei aveva sistemato di nuovo tutto dando all'insieme una parvenza di ordine, dicendo a se stessa che non voleva che Peter tornasse in una casa che era stata buttata all'aria da cima a fondo. Rimanevano ancora dei buchi: la scrivania sembrava nuda senza il computer, gli scaffali dei libri era-
no semivuoti. Si avvicinò e prese un tascabile. Il ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde. Peter lo stava leggendo per il corso di inglese quando era stato arrestato. Si domandò se avesse fatto in tempo a finirlo. Dorian Gray aveva un ritratto che diventava vecchio e malvagio mentre lui rimaneva giovane e apparentemente innocente. Forse la silenziosa, riservata madre che avrebbe testimoniato per suo figlio aveva un ritratto da qualche parte devastato dalla colpa, lacerato dal dolore. Forse la donna nel ritratto aveva il permesso di piangere e gridare, di crollare, di afferrare suo figlio per le spalle e dirgli Che cos'hai fatto? Trasalì al suono di qualcuno che apriva la porta. Lewis era sulla soglia, e indossava il completo che riservava per le conferenze e le tesi di laurea. Teneva in mano una cravatta di seta azzurra e non parlava. Lacy prese la cravatta dalla mano di Lewis e si mise dietro di lui. Gliela fece passare attorno al collo e delicatamente sistemò il nodo, e abbassò il colletto. Quand'ebbe finito, Lewis le prese la mano e non la lasciò più andare. Non c'erano parole, sul serio, per momenti come quello: quando capisci che hai perso un figlio e l'altro ti è sfuggito via. Sempre tenendo la mano di Lacy, Lewis la guidò fuori dalla stanza di Peter. Chiuse la, porta alle loro spalle. Alle 6 precise, quando Jordan scese furtivamente al piano di sotto per dare una scorsa ai suoi appunti in vista del processo, trovò un solo posto apparecchiato sulla tavola: una ciotola, un cucchiaio e una scatola di Krispies al cacao. Era il suo pasto abituale prima dell'inizio di una battaglia. Sorridendo, perché Selena doveva averlo preparato a notte fonda, dal momento che erano andati a letto contemporaneamente la sera prima, si sedette e si versò una porzione abbondante, poi cercò il latte nel frigorifero. Sul cartone del latte c'era un post-it: BUONA FORTUNA. Mentre Jordan si sedeva a mangiare, squillò il telefono. Lo afferrò subito, perché Selena e il bambino stavano ancora dormendo. «Pronto?» «Papà?» «Thomas» disse lui. «Che cosa fai alzato a quest'ora?» «Be', ecco, non sono ancora andato a letto.» Jordan sorrise. «Ah, poter tornare giovani come quando si andava al college.» «In ogni caso, ti ho chiamato soltanto per augurarti buona fortuna. Inizia oggi, vero?»
Abbassò lo sguardo sui cereali e improvvisamente ricordò le immagini riprese dalla telecamera nella caffetteria della Sterling High: Peter seduto, proprio come lui, a mangiare una ciotola di cereali, con attorno i cadaveri degli studenti. Jordan spinse via la scodella. «Sì» disse. «Inizia oggi.» La guardia carceraria aprì la cella di Peter e gli porse una pila di abiti piegati. «È il momento del ballo, Cenerentola» disse. Peter aspettò che uscisse. Sapeva che glieli aveva comprati sua madre; aveva anche lasciato i cartellini col prezzo perché capisse che non li aveva presi dall'armadio di Joey. Erano da preppy, quel genere di abiti che, immaginava, si indossavano per una partita di polo... benché non ne avesse mai vista una. Peter balzò fuori dalla sua tuta e infilò i boxer e i calzini. Si sedette sul letto per infilarsi i pantaloni, che gli andavano un po' stretti in vita. La prima volta sbagliò ad abbottonarsi la camicia e dovette ricominciare da capo. Non sapeva come fare dritto il nodo della cravatta. La arrotolò e se la infilò in tasca per farsi aiutare da Jordan. Non c'era uno specchio nella sua cella, ma Peter immaginava di aver assunto un aspetto normale. Se qualcuno l'avesse trasportato dal carcere a una strada affollata di New York o sugli spalti di una partita di football, la gente probabilmente non gli avrebbe dato una seconda occhiata; non si sarebbero accorti che, sotto tutta quella lana morbida e quel cotone egiziano, c'era qualcuno che mai avrebbero immaginato. In altre parole, in fondo non era cambiato nulla. Stava per lasciare la cella quando si rese conto che non gli era stato dato un giubbotto antiproiettile, come all'imputazione. Probabilmente non era perché ci sarebbe stato meno odio attorno a lui, ora; era più verosimile che fosse stata una dimenticanza. Stava per dirlo alla guardia, ma poi chiuse la bocca di scatto. Forse, per la prima volta nella sua vita, Peter era stato fortunato. Alex si vestì come per andare al lavoro, e in effetti era così, a parte il fatto che non si presentava da giudice. Si domandò come sarebbe stato sedersi in aula nel ruolo di cittadino. Si domandò se la madre disperata dell'imputazione sarebbe stata presente. Sapeva che sarebbe stato difficile ascoltare quel processo, e capire una volta di più quanto fosse stata vicina a perdere Josie. Alex fingeva ancora di andarci soltanto perché quello era il suo lavoro; ma ci andava perché doveva. Un giorno Josie avrebbe ricordato e avrebbe avuto bisogno di
qualcuno che la sostenesse; e, dal momento che la prima volta Alex non era lì a proteggere Josie, ora doveva essere testimone. Corse al piano di sotto e trovò Josie seduta al tavolo di cucina, con indosso una gonna e una camicetta. «Ci vado» annunciò. Le sembrò un déjà vu: era accaduto esattamente lo stesso il giorno dell'imputazione di Peter, a parte il fatto che sembravano passati secoli, e lei e Josie erano entrambe molto cambiate. Quel giorno, Josie era nell'elenco dei testimoni per la difesa, ma non le era stato consegnato un mandato di comparizione, il che significava che non doveva assolutamente presentarsi in tribunale durante l'intero processo. «So che non posso andarci, ma anche Patrick deve rimanere isolato, no?» L'ultima volta che Josie aveva chiesto di andare in tribunale, Alex aveva rifiutato senza mezzi termini. Ma quel giorno si sedette di fronte a Josie. «Hai un'idea di come sarà? Ci saranno le telecamere, ce ne saranno molte. E ragazzi sulle sedie a rotelle. E genitori furiosi. E Peter.» Lo sguardo di Josie ricadde sul suo grembo come un sasso. «Stai tentando un'altra volta di impedirmi di andare.» «No, sto tentando di impedire a te stessa di farti del male.» «A me non è stato fatto del male» precisò Josie. «Ecco perché devo andare.» Cinque mesi prima, Alex aveva preso quella decisione per sua figlia. Ma quel giorno capì che Josie meritava di parlare per sé. «Ci vediamo alla macchina» le disse con calma. Si tenne quella maschera sul volto finché Josie chiuse la porta dietro di sé, poi si precipitò in bagno al piano di sopra e vomitò. Temeva che rivivere la sparatoria, benché a distanza, impedisse definitivamente un recupero da parte di Josie. Ma soprattutto era preoccupata perché per la seconda volta non avrebbe potuto far niente per impedire a sua figlia di soffrire. Alex rimase con la fronte appoggiata contro il freddo bordo di porcellana della vasca da bagno. Poi si alzò in piedi, si lavò i denti e si sciacquò il viso. Si precipitò alla macchina, dove sua figlia stava già aspettandola. Poiché la baby-sitter era arrivata in ritardo, Jordan e Selena dovettero fendere la folla sui gradini del tribunale. Selena se lo aspettava, eppure non era del tutto preparata alle orde di giornalisti, ai furgoni della televisione, agli spettatori che tenevano in alto i loro videofonini per scattare una foto a
quella calca. Jordan recitava la parte del cattivo, quel giorno: la stragrande maggioranza dei presenti era di Sterling e, dal momento che Peter sarebbe stato condotto in tribunale attraverso un passaggio sotterraneo, Jordan era il loro capro espiatorio. «Come fa a dormire la notte?» gridò una donna a Jordan mentre lui la oltrepassava di corsa sui gradini. Un'altra reggeva un cartello: C'è ancora la pena di morte nel NH. «Caspita» disse Jordan sottovoce. «Ci sarà da divertirsi.» «Andrà tutto bene» replicò Selena. Ma lui si era fermato. C'era un uomo, in piedi sui gradini, che teneva alto un pezzo di un manifesto con due foto ingrandite: una era di una ragazza, l'altra di una donna graziosa. Kaitlyn Harvey, capì Selena, riconoscendo il volto. E sua madre. Sopra le foto c'erano due parole: DICIANNOVE MINUTI. Jordan incrociò lo sguardo dell'uomo. Selena sapeva che cosa stava pensando: che avrebbe potuto esserci lui al suo posto, che anche lui aveva così tanto da perdere. «Mi dispiace» mormorò Jordan, e Selena intrecciò un braccio al suo e lo spinse di nuovo sulle scale. Ma c'era anche un'altra folla. Indossavano camicie di un giallo abbagliante con VBA stampato sul petto, e cantavano: «Peter, non sei solo. Peter, non sei solo». Jordan si chinò su di lei. «Che cazzo è?» «Le Vittime del bullismo in America.» «Vuoi scherzare» commentò Jordan. «Esistono sul serio?» «Ti converrà crederci» ribatté Selena. Jordan cominciò a sorridere per la prima volta da quando si erano avviati in macchina al tribunale. «E tu li hai scoperti per noi?» Selena gli strinse il braccio. «Più tardi mi ringrazierai» disse. Il suo cliente sembrava sul punto di svenire. Jordan rivolse un cenno del capo al vicesceriffo, il quale lo lasciò nella cella di detenzione che Peter occupava in tribunale, e poi si sedette. «Respira» gli intimò. Peter annuì e inspirò a pieni polmoni. Tremava. Jordan se l'era aspettato, aveva visto la stessa cosa all'inizio di tutti i processi a cui aveva preso parte. Anche il più incallito dei criminali improvvisamente era in preda al panico quando capiva che quel giorno la sua vita era appesa a un filo. «Ho qualcosa per te» gli disse Jordan, e tirò fuori dalla tasca un paio di occhiali. Erano spessi, con la montatura di tartaruga, le lenti come il vetro delle
bottiglie di Coca-Cola, molto diversi da quelli sottili con la montatura di metallo che portava solitamente Peter. «No» disse Peter, poi la sua voce s'incrinò. «Non ne ho bisogno di nuovi.» «Be', mettili ugualmente.» «Perché?» «Perché tutti noteranno questi sulla tua faccia» disse Jordan. «Voglio che tu appaia come uno che non potrebbe mai, neanche in un milione di anni, vederci abbastanza bene da poter sparare a dieci persone.» Le mani di Peter si chiusero attorno al bordo metallico della panca. «Jordan? Cosa mi succederà?» A certi clienti era necessario mentire, perché potessero affrontare il processo. Ma, in quel caso, Jordan pensò che Peter aveva il diritto di conoscere la verità. «Non lo so, Peter. Non hai molte probabilità, perché ci sono tutte quelle prove contro di te. Sarà difficile che tu venga assolto, ma ho tuttora intenzione di fare il possibile per te. D'accordo?» Peter annuì. «Voglio soltanto che cerchi di rimanere tranquillo, quando sarai là. Devi apparire patetico.» Peter chinò il capo, e contrasse il volto. Sì, proprio così, pensò Jordan, ma poi si accorse che Peter si era messo a piangere. Jordan si spostò dall'altra parte della cella. Anche quello era un momento familiare per un avvocato difensore. Jordan di solito lasciava che il suo cliente avesse quel crollo finale in privato prima di entrare in aula. Non faceva parte del suo lavoro, e, a voler essere onesti, Jordan era lì soltanto per lavoro. Ma udiva Peter singhiozzare alle sue spalle, e in quella triste canzone c'era una nota che arrivava dritta a Jordan. Senza pensarci su due volte, Jordan fece il giro e si sedette di nuovo sulla panca. Cinse Peter con un braccio, e sentì il ragazzo rilassarsi contro di lui. «Andrà tutto bene» gli disse, e sperò che non fosse una bugia. Diana Leven scrutò la sala sovraffollata, poi chiese a un agente in aula di spegnere le luci. Premette un tasto del suo computer portatile e diede inizio alla sua presentazione su PowerPoint. Sullo schermo accanto al giudice Wagner comparve un'immagine della Sterling High School. Sullo sfondo il cielo era azzurro, con qualche nuvola simile a zucchero filato. Una bandiera sventolava. Tre autobus della scuola erano allineati come una carovana nel viale circolare davanti alla scuola. Diana lasciò quella sola immagine, senza alcun commento, per quindici secondi.
Nell'aula c'era un silenzio tale che si poteva udire il ronzio del computer portatile dello stenografo. Oh, Dio, pensò Jordan. Dovrò sciropparmi tutto questo per le prossime tre settimane. «Così appariva la Sterling High School il 6 marzo 2007. Erano le 7 e 50, e le lezioni erano appena cominciate. Courtney Ignatio aveva l'ora di chimica, e stava eseguendo un quiz. Whit Obermeyer era dal direttore per giustificare il suo ritardo, visto che quella mattina aveva avuto dei problemi con l'auto. Grace Murtaugh stava uscendo dall'infermeria, dove le avevano dato del Tylenol per l'emicrania. Matt Royston era a lezione di storia con il suo migliore amico, Drew Girard. Ed McCabe stava scrivendo i compiti sulla lavagna per la sua classe di matematica. Niente faceva pensare a nessuna di queste persone e neanche a tutti gli altri della Sterling High School, alle 7 e 50 del 6 marzo, che quella non sarebbe stata una giornata scolastica come tante altre.» Diana cliccò su un pulsante e comparve un'altra foto: Ed McCabe, disteso sul pavimento con le viscere che gli uscivano dal ventre mentre uno studente in lacrime premeva entrambe le mani sulla sua ferita aperta. «Così appariva la Sterling High School alle 10 e 19 del 6 marzo 2007. Ed McCabe non assegnò mai i compiti a casa alla sua classe di matematica, perché diciannove minuti prima Peter Houghton, uno studente diciassettenne del terzo anno della Sterling High School, irruppe dall'ingresso con uno zaino che conteneva quattro armi - due fucili da caccia con le canne segate, e due pistole semiautomatiche calibro 9 cariche.» Jordan si sentì tirare per il braccio. «Jordan» sussurrò Peter. «Non ora.» «Ma mi viene da vomitare...» «Manda giù» gli intimò Jordan. Diana tornò alla diapositiva precedente, l'immagine perfetta della Sterling High. «Come vi ho detto, signore e signori, nessuno alla Sterling High School aveva la benché minima motivazione per credere che quella non sarebbe stata una giornata scolastica come tante altre. Ma una persona sapeva che sarebbe stata diversa.» Si avvicinò al tavolo della difesa e puntò il dito contro Peter, che abbassò subito gli occhi. «La mattina del 6 marzo 2007 Peter Houghton incominciò la sua giornata mettendo in uno zaino azzurro quattro armi da fuoco e l'occorrente per far esplodere una bomba, più le munizioni sufficienti a uccidere potenzialmente centonovantotto persone. Le prove dimostreranno che, quando arrivò a scuola, mise quella
bomba nell'auto di Matt Royston per distogliere da sé l'attenzione. Mentre la bomba esplodeva, lui saliva i gradini d'entrata della scuola e sparava a Zoe Patterson. Poi, nel corridoio, sparò ad Alyssa Carr. Proseguì fino alla caffetteria e sparò ad Angela Phlug e a Maddie Shaw - la sua prima vittima - e a Courtney Ignatio. Mentre gli studenti cominciavano a darsi alla fuga, lui sparò a Haley Weaver e a Brady Pryce, a Natalie Zlenko, a Emma Alexis, a Jada Knight e a Richard Hicks. Poi, mentre i feriti singhiozzavano e morivano intorno a lui, sapete che cosa fece Peter Houghton? Si sedette nella caffetteria e si mangiò una scodella di Rice Krispies.» Diana lasciò che quella notizia andasse a segno. «Quando ebbe finito, prese la sua pistola e lasciò la caffetteria, sparando a Jared Weiner, Whit Obermeyer e a Grace Murtaugh nel corridoio, e a Lucia Ritolli, un'insegnante di francese che tentava di portare in salvo i suoi studenti. Si fermò nel bagno dei maschi e sparò a Steven Babourias, a Min Horuka e a Topher McPhee; poi andò nel bagno delle ragazze e sparò a Kaitlyn Harvey. Salì le scale e colpì Ed McCabe, l'insegnante di matematica, John Eberhard e Trey MacKenzie prima di raggiungere la palestra e sparare a Austin Prokiov, all'allenatore Dusty Spears, a Noah James, a Justin Friedman e a Drew Girard. Infine, nello spogliatoio, l'imputato sparò due volte a Matthew Royston - una volta allo stomaco e poi alla testa. Forse ricordate questo nome: era il proprietario dell'auto su cui Peter Houghton aveva messo la bomba all'inizio della sua strage.» Diana si mise davanti alla giuria. «L'intero pandemonio durò diciannove minuti nella vita di Peter Houghton, ma le prove mostreranno che i suoi effetti dureranno per sempre. E ci sono moltissime prove, signore e signori. Ci sono molti testimoni che si presenteranno... ma alla fine di questo processo voi sarete convinti oltre ogni ragionevole dubbio che Peter Houghton, volutamente e coscientemente, con premeditazione, causò la morte, all'interno della Sterling High School, di dieci persone e tentò di ucciderne altre diciannove.» Si diresse verso Peter. «In diciannove minuti, si può falciare il prato davanti a casa, tingersi i capelli, guardare un tempo di una partita di hockey. In diciannove minuti si possono cuocere al forno i biscotti da tè o ci si può far togliere una carie dal dentista; si può piegare il bucato per una famiglia di cinque persone. Oppure, come Peter Houghton sa... in diciannove minuti si può fare in modo che il mondo si fermi di colpo.» Jordan si avviò verso la giuria, le mani in tasca. «La signorina Leven vi
ha detto che la mattina del 6 marzo 2007 Peter Houghton entrò alla Sterling High School con uno zaino pieno di armi cariche, e che sparò a molte persone. Bene, lei ha ragione. Le prove ve lo dimostreranno e non ne discuteremo. Sappiamo che è una tragedia sia per quelli che morirono sia per quelli che vivranno portandosi appresso i postumi della disgrazia. Ma ecco che cosa la signorina Leven non vi ha detto: quando Peter entrò alla Sterling High School quella mattina, non aveva intenzione di fare una strage. Entrò con la precisa intenzione di difendersi dagli abusi di cui era stato vittima per dodici anni. «Il primo giorno di scuola di Peter» continuò Jordan, «sua madre lo mise sull'autobus dell'asilo con una scatola per il pranzo di Superman nuova fiammante. Durante il tragitto, quella scatola fu gettata dal finestrino. Ora, tutti noi abbiamo ricordi infantili di altri bambini che ci prendevano in giro o facevano i prepotenti, e la maggior parte di noi è in grado di scrollarseli di dosso, ma nella vita di Peter Houghton questo genere di situazioni non si verificava una volta ogni tanto. Fin dal primo giorno all'asilo, Peter sperimentò una serie continua e ininterrotta, oltre che quotidiana, di insulti, tormenti, minacce e prepotenze. Lo chiudevano negli armadietti, gli cacciavano la testa nei gabinetti, gli facevano lo sgambetto, lo prendevano a pugni e a calci. Una sua e-mail personale è stata inviata a un'intera scuola. Gli hanno tirato giù le mutande proprio in mezzo alla caffetteria. La realtà di Peter era un mondo dove, qualsiasi cosa facesse, e per quanto tentasse di farsi piccolo e insignificante, lui era sempre e comunque la vittima. Di conseguenza, cominciò a rivolgersi a un mondo alternativo: un mondo che lui stesso aveva creato, protetto dal codice HTML. Peter si era fatto un proprio sito web, creava videogiochi e li riempiva di quel genere di persone da cui avrebbe voluto essere attorniato.» Jordan passò la mano lungo la sbarra del banco della giuria. «Uno dei testimoni che ascolterete è il dottor King Wah. È uno psichiatra legale che ha esaminato Peter e ha parlato con lui. Vi spiegherà che Peter soffriva di una malattia chiamata disturbo da stress post-traumatico. È una diagnosi medica complicata, ma reale, e i ragazzi che ne soffrono non riescono a distinguere tra una minaccia immediata e una minaccia poco pericolosa. Voi e io saremmo certamente in grado di percorrere un corridoio e di tenere d'occhio contemporaneamente un prepotente che non presta attenzione a noi, mentre Peter vedrebbe quella stessa persona e il suo cuore accelererebbe i battiti... il suo corpo si accosterebbe un po' di più al muro... perché Peter è sicuro di essere notato, minacciato, picchiato e ferito. Il dottor Wah
non solo vi ragguaglierà sugli studi che sono stati svolti su ragazzi come Peter, ma vi dirà anche quale segno abbiano lasciato in lui anni e anni di tormenti da parte della comunità della Sterling High School.» Jordan si mise nuovamente davanti ai giurati. «Ricordate l'inizio di questa settimana, quando parlavamo con voi per capire se eravate giurati adatti a questo caso? Una delle domande che rivolgevo in quella circostanza a ciascuno di voi, nessuno escluso, era se comprendevate di aver bisogno di ascoltare le prove in aula e di applicare la legge come vi dice di fare il giudice. Da quello che avete imparato a educazione civica in ottava classe o da Law & Order il mercoledì sera alla televisione... dovete dedurre che, fintantoché non avrete ascoltato le prove e udito le istruzioni della corte, non saprete quali siano le vere regole.» Sostenne lo sguardo di ciascun giurato a turno. «Per esempio, quando la maggior parte della gente sente pronunciare la parola autodifesa, dà per scontato che significhi che qualcuno impugna una pistola o punta un coltello alla gola... che ci sia una minaccia fisica immediata. Ma in questo caso l'autodifesa può non significare quello che pensate. E quello che le prove vi mostreranno, signore e signori, è che la persona che entrò alla Sterling High e sparò tutti quei colpi non era un killer dotato di sangue freddo che aveva premeditato ogni cosa, come vuol farvi credere il pubblico ministero.» Jordan tornò dietro il tavolo della difesa e mise le mani sulle spalle di Peter. «Era un ragazzo terrorizzato che aveva chiesto protezione... e non ne aveva mai ricevuta.» Zoe Patterson continuava a mangiarsi le unghie, benché sua madre le avesse detto di non farlo; benché un'infinità di occhi e (oh cacchio) di telecamere fossero concentrati su di lei, seduta sul banco dei testimoni. «Che cosa avevi dopo l'ora di francese?» domandò il pubblico ministero. Lei aveva già detto il suo nome, il suo indirizzo e descritto l'inizio di quella terribile giornata. «Matematica, con il signor McCabe.» «Andasti in classe?» «Sì.» «A che ora iniziò la lezione?» «Alle nove e quaranta» disse Zoe. «Avevi visto Peter Houghton prima della lezione di matematica?» Lei non poté farne a meno, lasciò che il suo sguardo scivolasse verso Peter seduto al tavolo della difesa. Quella era la stranezza: lei l'anno prima
era una matricola e non lo conosceva affatto. E anche ora, anche dopo che lui le aveva sparato, se le fosse capitato di camminare per strada e di oltrepassarlo, non sapeva se l'avrebbe riconosciuto. «No» disse Zoe. «Niente di insolito durante l'ora di matematica?» «No.» «Sei rimasta sino alla fine?» «No» disse Zoe. «Avevo un appuntamento dall'ortodontista alle dieci e un quarto, perciò sono uscita un po' prima delle dieci per passare in direzione e aspettare la mia mamma.» «Dove avreste dovuto incontrarvi?» «Sui gradini all'entrata. Lei sarebbe arrivata in macchina.» «Firmasti per uscire da scuola?» «Sì.» «Ti recasti sui gradini dell'entrata?» «Sì.» «C'era qualcun altro là fuori?» «No. Le lezioni erano in corso.» Guardò il pubblico ministero tirar fuori una grande foto panoramica della scuola con il parcheggio, com'era prima. Zoe aveva girato in macchina intorno alla costruzione, e adesso c'era una staccionata alta attorno all'intera area. «Puoi farmi vedere dove ti eri messa?» Zoe indicò il punto. «Lasciamo che la registrazione mostri che la teste si avviava verso i gradini dell'entrata della Sterling High» disse la signorina Leven. «Ora, cosa accadde mentre eri lì in piedi ad aspettare tua madre?» «Vi fu un'esplosione.» «Avresti saputo dire da dove provenisse?» «Da qualche parte dietro la scuola» disse Zoe, e lanciò un'altra occhiata alla veduta formato manifesto, come se potesse ancora esplodere proprio in quel momento. «Poi cosa accadde?» Zoe strofinò la mano contro la gamba. «Lui... sbucò da un lato della scuola e cominciò a salire i gradini...» «Per 'lui' intendi l'accusato, Peter Houghton?» Zoe annuì, deglutendo. «Salì i gradini e io lo guardai e lui... lui puntò una pistola e mi sparò.» Sbatteva le palpebre troppo in fretta, tentando di non piangere. «Dove ti sparò, Zoe?» domandò il pubblico ministero con un tono com-
prensivo. «Alla gamba.» «Peter ti disse qualcosa prima di spararti?» «No.» «In quel momento sapevi chi era lui?» Zoe scosse il capo. «No.» «Avevi riconosciuto il suo volto?» «Sì, era uno della scuola e tutto...» La signorina Leven voltò le spalle alla giuria e ammiccò appena a Zoe, il che la fece sentire meglio. «Che genere di arma usava, Zoe? Era un'arma piccola che teneva con una mano sola oppure un'arma grossa che lui impugnava con tutt'e due le mani?» «Un'arma piccola.» «Quante volte sparò?» «Una.» «Disse qualcosa dopo averti sparato?» «Non ricordo» disse Zoe. «Che cosa facesti dopo?» «Volevo scappare da lui, ma la mia gamba sembrava in fiamme. Tentai di correre ma non ci riuscivo... Mi accasciai e finii per cadere giù dai gradini, e poi non riuscivo più a muovere nemmeno il braccio.» «Che cosa fece l'imputato?» «Entrò nella scuola.» «Vedesti da che parte si dirigeva?» «No.» «Come va la tua gamba adesso?» domandò il pubblico ministero. «Ho ancora bisogno del bastone» rispose Zoe. «Mi sono presa un'infezione perché il proiettile ha portato la stoffa dei miei jeans nella gamba. Il tendine è attaccato al tessuto della cicatrice, che è ancora molto sensibile. I medici non sanno se mi opereranno ancora, perché potrebbe essere ancora più dannoso.» «Zoe, eri in una squadra sportiva l'anno scorso?» «Calcio» rispose lei, e si guardò la gamba. «Oggi iniziano gli allenamenti per la stagione.» La signorina Leven si rivolse al giudice. «Non ho altro da aggiungere» dichiarò. «Zoe, forse il signor McAfee vorrà farti qualche domanda.» L'altro avvocato si alzò. Zoe era nervosa riguardo a quella parte, perché, pur avendo fatto le prove con il pubblico ministero, non aveva idea di cosa
potesse chiederle l'avvocato di Peter. Era come qualsiasi altro esame. Avrebbe voluto conoscere le risposte esatte. «Quando Peter impugnava la pistola, si trovava a poco meno di un metro da te?» domandò l'avvocato. «Sì.» «Non sembrava che stesse correndo proprio verso di te, vero?» «Credo di no.» «Sembrava che volesse soltanto salire di corsa i gradini, giusto?» «Già.» «E tu eri in attesa proprio sui gradini, esatto?» «Sì.» «Dunque è giusto dire che ti trovavi nel posto sbagliato al momento sbagliato?» «Obiezione» disse la signorina Leven. Il giudice, un uomo grosso con una zazzera di capelli bianchi che in un certo senso spaventava Zoe, scosse il capo. «Respinta.» «Non ho altre domande» disse l'avvocato, e allora la signorina Leven si alzò di nuovo. «Quando Peter entrò» chiese, «cosa facesti?» «Cominciai a urlare chiedendo aiuto.» Zoe guardò la sala, tentando di individuare sua madre. Se guardava sua madre, poteva riuscire a rispondere, perché tutto era già passato ed era quello che bisognava tenere a mente, sebbene lei avesse la sensazione che non fosse così. «Sulle prime non arrivò nessuno» mormorò Zoe. «Ma poi... poi arrivarono tutti.» Michael Beach aveva visto Zoe Patterson uscire dalla stanza dove erano stati isolati i testimoni. Era una strana collezione di ragazzi: c'era di tutto, dai perdenti come lui a ragazzi popolari come Brady Pryce. Ma il particolare più strano era che nessuno sembrava propenso a stare nel proprio solito gruppo: gli sfigati da una parte, gli atleti dall'altra, e così via. Invece, erano tutti seduti l'uno accanto all'altro a un lungo tavolo da conferenze. Emma Alexis, una delle strafighe, adesso era paralizzata dalla vita in giù, e si spostò con la sedia a rotelle accanto a Brady. Gli chiese se poteva avere metà della sua ciambella con la glassa. «Subito dopo essere entrato in palestra» domandò il pubblico ministero, «che cosa fece Peter?» «Muoveva intorno un'arma» rispose Michael. «Riuscivi a vedere che genere di arma fosse?» «Be', piuttosto piccola.» «Una pistola?»
«Sì.» «Disse qualcosa?» Michael lanciò uno sguardo al tavolo della difesa. «Disse: 'Tutti gli atleti, fronte al centro'.» «Cosa accadde?» «Un ragazzo cominciò a correre verso di lui, come se volesse buttarlo a terra.» «Chi era?» «Noah James. Lui... lui era... un senior. Peter gli sparò, e lui crollò a terra.» «Cosa accadde dopo?» domandò il pubblico ministero. Michael fece un respiro profondo. «Peter disse: 'Chi è il prossimo?' e il mio amico Justin mi afferrò e cominciò a trascinarmi verso la porta.» «Da quanto tempo eravate amici tu e Justin?» «Dalla terza» disse Michael. «E poi?» «Peter deve aver visto qualcosa muoversi, si voltò e cominciò a sparare.» «Ti colpì?» Michael scosse il capo e strinse le labbra. «Michael» disse il pubblico ministero con calma, «chi colpi?» «Justin era davanti a me quando iniziò la sparatoria. E poi lui... cadde a terra. C'era sangue dappertutto e io cercavo di fermarlo, come fanno in televisione, premendogli lo stomaco. Non prestavo attenzione a nient'altro, tranne che a Justin, e poi tutt'a un tratto sentii un'arma contro la mia testa.» «Cosa accadde?» «Chiusi gli occhi» disse Michael. «Pensavo che volesse uccidermi.» «E poi?» «Udii quel rumore e, quando aprii gli occhi, lui stava tirando fuori quell'arnese con tutti i proiettili e ne infilava dentro un altro.» Il pubblico ministero si avvicinò a un tavolo e sollevò un caricatore. Soltanto a vederlo nella sua mano Michael rabbrividì. «Infilò questo nell'arma?» domandò. «Sì.» «Cosa accadde dopo?» «Non mi sparò» disse Michael. «Tre persone attraversarono di corsa la palestra, e lui le seguì nello spogliatoio.» «E Justin?»
«Rimasi a guardare» bisbigliò Michael. «Guardai la sua faccia mentre lui moriva.» Era la prima cosa che vedeva al mattino quando si svegliava e l'ultima prima di andare a dormire: il momento in cui la luce negli occhi di Justin si era spenta. Quando la vita se ne va da una creatura, non lo fa gradualmente. È qualcosa di istantaneo, come quando qualcuno tira una tenda davanti a una finestra. Il pubblico ministero si avvicinò di più. «Michael» disse, «tutto bene?» Lui assentì. «Tu e Justin eravate atleti?» «Proprio per niente» ammise. «Facevate parte del gruppo di quelli popolari?» «No.» «Tu e Justin siete mai stati vittime di bullismo nella scuola?» Michael lanciò un'occhiata, per la prima volta, a Peter Houghton. «Chi non lo è stato?» disse. Mentre Lacy aspettava il suo turno per parlare in difesa di Peter, ripensò alla prima volta in cui si era resa conto di poter detestare il proprio figlio. Lewis aveva invitato a cena un importante economista di Londra, e Lacy si era presa una giornata libera per pulire la casa e fare tutti i preparativi. Pur non avendo dubbi sulla propria abilità come ostetrica, la natura del suo lavoro implicava che i bagni non venivano puliti regolarmente; che bioccoli di polvere si accumulavano sotto i mobili. Solitamente a lei non importava: pensava infatti che una casa vissuta fosse preferibile a una sterile, a meno che non dovesse venire qualcuno: in quel caso subentrava l'amor proprio. Di conseguenza quella mattina si era alzata, aveva fatto colazione e aveva già spolverato il soggiorno quando Peter - che allora frequentava il secondo anno - si era buttato rabbiosamente su una sedia al tavolo della cucina. «Non ho biancheria pulita» sbraitò furioso, sebbene la regola, in casa loro, fosse che, quando la sua cesta di biancheria sporca era piena, toccava a lui lavarsela: era talmente poco quello che Lacy pretendeva da lui, che non le sembrava una richiesta irragionevole. Lacy gli suggerì di farsi prestare qualcosa da suo padre, ma Peter sembrava disgustato all'idea e lei decise di lasciare che si arrangiasse da solo. Quanto a lei, ne aveva abbastanza. Di solito lasciava che la stanza di Peter fosse una specie di porcile dove regnava il più assoluto disordine, ma quando passò davanti alla porta quel-
la mattina notò la cesta della biancheria. Be', lei era a casa dal lavoro, e lui era a scuola. Poteva fargli quel favore. Quel giorno, quando Peter tornò a casa, Lacy non solo aveva passato l'aspirapolvere e lavato i pavimenti, cucinato un pasto di quattro portate e pulito la cucina: aveva anche lavato, asciugato e piegato tre carichi di biancheria di Peter. Erano impilati sul letto, indumenti puliti che ricoprivano completamente il metro e ottanta del materasso, suddivisi in pantaloni, camicie, biancheria. Lui non doveva far altro che sistemare tutto nel suo armadio e nei suoi cassetti. Peter arrivò, astioso e di pessimo umore, e immediatamente si precipitò di sopra nella sua stanza e al suo computer, il posto in cui passava la maggior parte del tempo. Lacy, che in quel momento aveva un braccio immerso nel gabinetto per strofinarlo, si aspettava che notasse quello che aveva fatto per lui. E invece lo udì sbraitare. «Dio! E io dovrei metter via tutta questa roba?» Poi sbatté la porta della sua stanza con tale violenza che la casa tremò intorno a lei. D'improvviso, Lacy non ci vide più dalla rabbia. Aveva fatto, di propria spontanea volontà, una gentilezza a suo figlio, a quel figlio ridicolmente viziato, e lui la ricambiava in quel modo? Sciacquò i guanti di gomma e li lasciò nel lavabo. Poi salì le scale con passi pesanti e spalancò la porta della stanza di Peter. «Qual è il tuo problema?» Peter le rivolse uno sguardo truce. «Qual è il tuo problema! Guarda questo caos.» Fu come se in Lacy scattasse un circuito elettrico, provocandone la reazione immediata. «Caos?» ripeté. «Io ho sistemato il caos. Vuoi vedere un caos?» Oltrepassò Peter, rovesciando una pila di T-shirt ordinatamente piegate. Afferrò i suoi boxer e li gettò sul pavimento. Prese i pantaloni dal letto e li scagliò contro il computer, facendo crollare la torre di CD-ROM, e i dischetti argentei si sparsero ovunque. «Ti odio!» urlò Peter, ma senza perdere un colpo Lacy gli urlò di rimando: «Anch'io ti odio!» Soltanto allora si accorse che lei e Peter ormai erano alti uguali; che stava litigando con un ragazzo che arrivava all'altezza dei suoi occhi. Uscì dalla stanza e lui sbatté la porta dietro di lei. Quasi subito, Lacy scoppiò a piangere. Non era quella la sua intenzione... ovvio che non lo era. Lei voleva bene a Peter. Ma in quel momento odiava quello che lui aveva detto; quello che lui aveva fatto. Quando bussò alla porta, lui non rispose. «Peter» disse. «Peter, mi dispiace di averlo detto.» Appiccicò l'orecchio alla porta, ma dall'interno non proveniva alcun suono. Lacy tornò di sotto e finì di pulire il bagno. Per tutta la durata della
cena si mosse come uno zombie, facendo conversazione con l'economista senza sapere realmente quello che diceva. Peter non si era unito a loro. Non lo rivide, in realtà, fino al mattino dopo, quando andò a svegliarlo e trovò la stanza già vuota... e immacolata. I vestiti erano stati piegati e riposti nei cassetti. Il letto era già stato rifatto. I CD di nuovo in ordine, a formare una torre. Peter era seduto al tavolo di cucina, a mangiare una scodella di cereali, quando Lacy scese di sotto. Lui non incrociò il suo sguardo e lei fece altrettanto... il terreno tra loro due era ancora troppo fresco per avventurarcisi. Ma gli versò un bicchiere di succo di frutta e glielo posò sulla tavola. Lui disse grazie. Non parlarono mai di quello che si erano detti, e Lacy aveva giurato a se stessa che, per quanto frustrante potesse essere avere per figlio un adolescente maschio, per quanto egoista ed egocentrico fosse Peter, lei non si sarebbe mai più lasciata andare al punto di detestare sinceramente, visceralmente suo figlio. Ma mentre le vittime della Sterling High raccontavano le loro storie nell'aula di un tribunale in fondo al corridoio dove Lacy sedeva si augurò che non fosse toppo tardi. Sulle prime, Peter non la riconobbe. La ragazza che veniva accompagnata sugli scalini da un'infermiera - la ragazza con i capelli rasati a causa dei bendaggi, con il volto devastato dai postumi di ferite cutanee e fratture ossee - si insediò sul banco dei testimoni in un modo che gli ricordò i pesci introdotti in un nuovo contenitore. Nuotavano guardinghi lungo il perimetro, come se sapessero che dovevano saggiare i pericoli di quel posto sconosciuto prima di poter cominciare a adattarvisi. «Vuoi dirmi il tuo nome per il verbale?» disse il pubblico ministero. «Haley» rispose la ragazza a voce bassa. «Haley Weaver.» «Lo scorso anno, eri una senior della Sterling High?» La sua bocca si arrotondò, poi si appiattì. La ferita rosa sulla sua tempia, che disegnava una curva come la cucitura su una palla da baseball, diventò più scura, arrossata dalla collera. «Sì» rispose. Chiuse gli occhi, e una lacrima scivolò sulla guancia incavata. «Ero la reginetta dell'anno.» Si chinò in avanti, dondolando leggermente mentre piangeva. Peter sentì il petto dolergli, come se fosse sul punto di esplodere. Pensò che magari stava per morire lì, proprio in quel momento, risparmiando a tutti la seccatura di dover continuare. Aveva paura di sollevare lo sguardo,
perché se l'avesse fatto avrebbe visto di nuovo Haley Weaver. Una volta, quando era piccolo, stava giocando con un pallone da football Nerf nella camera da letto dei suoi genitori ed era andato a sbattere contro un'antica bottiglia di profumo che apparteneva alla sua bisnonna. Era di vetro, e si ruppe in mille pezzi. Sua madre gli disse che sapeva che era stato un incidente, e incollò insieme i pezzi. Continuò a tenerla sul cassettone e, ogni volta che lui vi passava davanti, rivedeva i punti in cui si era rotta. Per anni, aveva pensato che era peggio che se fosse stato punito subito. «Facciamo una breve pausa» disse il giudice Wagner, e Peter lasciò cadere la testa sul tavolo della difesa, un peso troppo grande da sopportare. I testimoni erano divisi in due stanze, quelli dell'accusa nell'una e quelli della difesa nell'altra. Anche i poliziotti avevano la loro stanza. I testimoni non dovevano vedersi tra loro, ma in realtà nessuno notava davvero se qualcuno usciva per andare alla caffetteria a prendere una tazza di caffè o una ciambella, e Josie aveva preso l'abitudine di rimanerci per ore. Fu là che incontrò Haley, mentre beveva succo d'arancia con la cannuccia. Brady le stava vicino e le reggeva il bicchiere. Erano stati contenti di vedere Josie, ma lei fu felice quando se ne andarono. Faceva male, fisicamente, dover sorridere a Haley e far finta di non guardare buche e incavi sul suo volto. Raccontò a Josie che aveva già subito tre interventi di chirurgia plastica a New York e che il chirurgo non si era fatto pagare. Brady non lasciava mai andare la sua mano; a volte le passava le dita sui capelli. A Josie veniva da piangere, perché sapeva che, quando lui guardava Haley, la vedeva ancora come nessun altro poteva più vederla. C'erano anche altri che Josie non aveva più visto dopo la sparatoria. Insegnanti, come la signorina Ritolli e il coach Spears, che vennero a salutarla. Il DJ dell'emittente radiofonica della scuola, lo studente del corso speciale con quella brutta forma di acne. Tutti si recavano di tanto in tanto nella caffetteria dove lei stava seduta in pianta stabile con una tazza di caffè. Alzò lo sguardo quando Drew venne a sedersi davanti a lei. «Perché non stai nella stanza con tutti noi?» «Sono sull'elenco della difesa.» Ovvero, come era sicura che tutti, nell'altra stanza, pensassero, dalla parte dei traditori. «Oh» disse Drew, come se capisse, benché Josie fosse certa che non era così. «E ti senti pronta?»
«Non devo essere pronta. In realtà non hanno intenzione di chiamarmi.» «E allora perché sei qui?» Prima che potesse rispondere, Drew fece un cenno con la mano, e lei si accorse che era arrivato John Eberhard. «Amico» disse Drew, e John si diresse verso di loro. Zoppicava, notò Josie, ma camminava. Si chinò per dare un cinque a Drew e lei vide una grinza nella cute dove il proiettile gli era entrato nella testa. «Dove sei stato?» chiese Drew, facendo posto a John perché si sedesse vicino a lui. «Davo per certo che ti avrei visto in giro durante l'estate.» Lui fece un cenno di assenso a tutti e due. «Io sono... John.» Il sorriso di Drew sbiadì come se fosse stato dipinto. «Questo... è...» «Questo è incredibile, cazzo» mormorò Drew. «Può sentirti» lo zittì Josie, e si accucciò davanti a John. «Ciao, John. Io sono Josie.» «Jooooz.» «Giusto. Josie.» «Io sono... John» disse lui. John Eberhard aveva giocato come portiere nella squadra di hockey campione dello Stato fin dal suo primo anno. Ogni volta che la squadra aveva vinto, l'allenatore aveva sempre sottolineato la prontezza di riflessi di John. «Scaar-pa» articolò, e strascicò il piede. Josie abbassò gli occhi sulla banda di velcro slacciata della scarpa da ginnastica di John. «Ecco fatto» commentò, sistemandogli la scarpa. D'improvviso non se la sentiva più di rimanere lì, a vedere quella scena. «Devo tornare» disse, alzandosi in piedi. Mentre si allontanava, girando l'angolo senza guardare, andò a sbattere contro qualcuno. «Scusi» mormorò, e poi udì la voce di Patrick. «Josie? Tutto a posto?» Lei si strinse nelle spalle, poi scosse il capo. «Allora siamo in due.» Patrick teneva in mano una tazza di caffè e una ciambella. «Lo so» disse. «Sono un cliché che cammina. Ne vuoi?» le offrì il dolce e lei lo prese, benché non avesse fame. «Arrivi o te ne vai?» «Arrivo» mentì lei, ancor prima di rendersene conto. «Allora fammi compagnia per qualche minuto.» La guidò a un tavolo dalla parte opposta della stanza rispetto a Drew e John. Lei sentiva il loro
sguardo su di sé, come se si domandassero perché si metteva a chiacchierare con un poliziotto. «Odio fare quello che aspetta» disse Patrick. «Almeno tu non sei agitato all'idea di testimoniare.» «Certo che lo sono.» «Ma non lo fai sempre?» Patrick annuì. «Ma non per questo è più facile alzarsi in piedi di fronte a una sala piena di gente. Non so come faccia la tua mamma.» «E allora cosa fai per superare la paura da palcoscenico? Immagini il giudice in mutande?» «Be', non questo giudice» rettificò Patrick, e poi, rendendosi conto dell'implicazione nascosta nelle sue parole, arrossì violentemente. «Probabilmente è un bene» osservò Josie. Patrick prese la ciambella e ne mangiò un boccone, poi gliela rese. «Provo soltanto a dire a me stesso, quando sono là, che dicendo la verità non rischio di mettermi nei guai. Poi lascio che Diana svolga tutto il lavoro.» Bevve un sorso di caffè. «Ti serve qualcosa? Da bere? Qualcos'altro da mangiare?» «Sto bene così.» «Allora ti riaccompagno. Vieni.» La stanza per i testimoni della difesa era piccola, perché erano veramente in pochi. Un uomo di razza asiatica che Josie non aveva mai visto prima era seduto dandole le spalle, e batteva le dita sulla tastiera di un computer portatile. Era arrivata anche una donna che non c'era quando Josie era uscita, ma non riusciva a vederla in volto. Patrick si fermò davanti alla porta. «Come pensi che stia andando in aula?» domandò lei. Lui esitò. «Sta andando.» Josie oltrepassò l'agente giudiziario che li controllava, avviandosi verso la sedia sotto la finestra dove si era rannicchiata prima, a leggere. Ma all'ultimo momento si sedette al tavolo al centro della stanza. La donna era già seduta con le mani ripiegate davanti a sé e non guardava assolutamente niente. «Signora Houghton» mormorò Josie. La madre di Peter si voltò. «Josie?» Socchiuse gli occhi, come per mettere meglio a fuoco l'immagine di Josie. «Mi dispiace tanto» sussurrò Josie. La signora Houghton annuì. «Bene» disse, ma poi si zittì, come se quella frase fosse soltanto una scogliera da cui lanciarsi nel vuoto. «Come sta?» Immediatamente Josie desiderò di potersi rimangiare quel-
la domanda: come pensava che potesse stare la madre di Peter, santo cielo? Probabilmente stava ricorrendo a tutto il suo autocontrollo per evitare di dissolversi in schiuma e di venire assorbita dall'atmosfera. Il che, si rese conto Josie, significava che avevano qualcosa in comune. «Non mi aspettavo di vederti qui» disse la signora Houghton a bassa voce. Dicendo qui non intendeva il tribunale; si riferiva a quella stanza. Con quei pochi testimoni scovati per schierarsi dalla parte di Peter. Josie si schiarì la voce, per far strada alle parole che non diceva da anni, a quelle parole che ancora temeva di pronunciare di fronte a chiunque altro o quasi, per paura della loro eco. «Lui è mio amico» disse. «Ci mettemmo a correre» disse Drew. «Era come un esodo di massa. Volevo soltanto allontanarmi il più possibile dalla caffetteria, così mi diressi verso la palestra. Due miei amici avevano udito gli spari, ma non sapevano da dove provenissero, perciò li afferrai e dissi loro di seguirmi.» «Chi erano?» domandò Leven. «Matt Royston» rispose Drew. «E Josie Cormier.» Al suono del nome di sua figlia pronunciato a voce alta, Alex rabbrividì. Sembrava così... reale. Così immediato. Drew aveva individuato Alex tra il pubblico, e la guardò dritto in faccia mentre pronunciava il nome di Josie. «Dove andaste?» «Pensammo che, se riuscivamo a raggiungere lo spogliatoio, potevamo uscire dalla finestra arrampicandoci sull'acero, per metterci in salvo.» «Arrivaste allo spogliatoio?» «Josie e Matt sì» disse Drew. «Ma io fui colpito.» Alex ascoltò mentre il pubblico ministero chiedeva a Drew la gravità delle ferite che aveva riportato e se avessero davvero posto fine alla sua carriera nell'hockey. Poi lei lo affrontò decisa. «Aveva già incontrato Peter prima del giorno della sparatoria?» «Sì.» «Quando?» «Eravamo nella stessa classe. Ci si conosce tutti.» «Eravate amici?» domandò Leven. Alex lanciò un'occhiata attraverso il corridoio centrale a Lewis Houghton. Era seduto proprio dietro a suo figlio, gli occhi fissi sul banco. Alex ebbe un flash di lui, anni prima, che apriva la porta di casa quando lei andava a prendere Josie dopo un pomeriggio di giochi. Eggo il giudige, dice-
va, e rideva della propria battuta. Eravate amici? «No» disse Drew. «Aveva qualche problema con lui?» Drew esitò. «No.» «Aveva mai litigato con lui?» chiese Leven. «Probabilmente ci eravamo scambiati qualche parola» disse Drew. «L'aveva mai preso in giro?» «Qualche volta. Ma si trattava solo di scherzi.» «L'aveva mai aggredito fisicamente?» «Quando eravamo più piccoli, può darsi che gli abbia dato qualche spintone.» Alex guardò Lewis Houghton. Teneva gli occhi chiusi. «Le è capitato di rifarlo, da quando eravate alla scuola superiore?» «Sì» ammise Drew. «Ha mai minacciato Peter con un'arma da fuoco?» «No.» «Ha mai minacciato di ucciderlo?» «No... eravamo, lei capisce. Era solo per scherzare.» «Grazie.» Si sedette, e Alex guardò Jordan McAfee alzarsi. Era un buon avvocato, migliore di quanto lei si fosse immaginata. Aveva allestito un bello spettacolo: sussurrava con Peter, metteva una mano sulla spalla del ragazzo quando lo vedeva sconvolto, prendeva numerosi appunti sull'interrogatorio in corso e li condivideva con il suo cliente. Stava umanizzando Peter, malgrado il fatto che il pubblico ministero stava facendo di lui un mostro, malgrado il fatto che la difesa non aveva ancora cominciato a fare la sua parte. «Non aveva problemi con Peter» ripeté McAfee. «No.» «Ma lui aveva dei problemi con lei, vero?» Drew non rispose. «Risponda, signor Girard» disse il giudice Wagner. «A volte» ammise Drew. «Ha mai dato una gomitata al petto a Peter?» Lo sguardo di Drew scivolò lateralmente. «Può darsi. Per caso.» «Ah, sì. Capita sempre di allungare una gomitata quando meno te l'aspetti...» «Obiezione...»
McAfee sorrise. «In realtà, non capitava per caso, vero, signor Girard?» Al tavolo dell'accusa, Diana Leven sollevò la penna e la fece cadere sul pavimento. Quel rumore indusse Drew a lanciare un'occhiata, e un muscolo si piegò nella sua mascella. «Era solo per scherzo» rispose. «Ha mai chiuso Peter in un armadietto?» «Forse.» «Solo per scherzo?» disse McAfee. «Già.» «D'accordo» proseguì. «Gli ha mai fatto lo sgambetto?» «Credo di sì.» «Aspetti... mi lasci indovinare... era uno scherzo, vero?» Drew gli lanciò uno sguardo torvo. «Sì.» «In realtà, faceva ogni genere di porcherie a Peter per scherzare fin da quando eravate bambini, giusto?» «Non siamo mai stati amici» disse Drew. «Lui era diverso da noi.» «Noi chi?» domandò McAfee. Drew si strinse nelle spalle. «Matt Royston, Josie Cormier, John Eberhard, Courtney Ignatio. Ragazzi così. Siamo usciti insieme per anni.» «Peter conosceva tutti in quel gruppo?» «Certo, era una scuola piccola.» «Peter conosce Josie Cormier?» Tra il pubblico, Alex trattenne il respiro. «Sì.» «Ha mai visto Peter parlare con Josie?» «Non so.» «Bene, più o meno un mese prima della sparatoria, quando eravate tutti insieme nella caffetteria, Peter vi raggiunse per parlare a Josie. Può raccontarci come andò?» Alex si chinò in avanti sulla sua sedia. Sentiva gli sguardi su di sé, e scottavano come il sole in un deserto. Capì, dalla direzione, che ora Lewis Houghton fissava lei. «Non so di che cosa parlassero.» «Eppure era presente, vero?» «Sì.» «E Josie è una sua amica? Non una di quelle persone che uscivano con Peter?» «Già» disse Drew. «Lei è una di noi.» «Ricorda come finì quella conversazione nella caffetteria?» domandò
McAfee. Drew abbassò lo sguardo a terra. «Lasci che l'aiuti, signor Girard. Finì con Matt Royston che si avvicinava a Peter e gli tirava giù i pantaloni mentre lui tentava di parlare con Josie Cormier. Le risulta?» «Sì.» «La caffetteria era piena di ragazzi quel giorno, vero?» «Già.» «E Matt non si limitò a tirare giù i pantaloni a Peter... gli tirò giù anche le mutande, è corretto?» Drew contrasse la bocca. «Già.» «E lei vide tutto.» «Sì.» McAfee si rivolse alla giuria. «Lasciatemi indovinare» disse. «Era uno scherzo, vero?» Nell'aula era caduto un pesante silenzio. Drew lanciava sguardi truci a Diana Leven, implorandola subliminalmente di trascinarlo via dal banco dei testimoni, pensò Alex. Era la prima persona, oltre a Peter, che era stata offerta in sacrificio. Jordan McAfee ritornò al tavolo dov'era seduto Peter e prese un foglio. «Ricorda in quale giorno a Peter vennero tirati giù i pantaloni, signor Girard?» «No.» «E allora lasci che le mostri il Reperto della Difesa numero 1. Lo riconosce?» Allungò il foglio a Drew, che lo prese e scrollò le spalle. «Questa è una e-mail che lei ricevette il 3 febbraio, due giorni prima che Peter venisse privato dei calzoni nella caffetteria della Sterling High School. Può dirci chi gliela inviò?» «Courtney Ignatio.» «Era una lettera che era stata scritta a quella ragazza?» «No» disse Drew. «Era stata scritta a Josie.» «Da chi?» lo incalzò McAfee. «Da Peter.» «Che cosa diceva?» «Riguardava Josie. E come lui fosse interessato a lei.» «Vuol dire sentimentalmente.» «Immagino di sì» rispose Drew.
«Che cosa fece lei di quella e-mail?» Drew guardò in alto. «La inoltrai a tutti gli studenti della scuola.» «Mi faccia capire bene» insistette McAfee. «Lei prese un biglietto estremamente riservato che non le apparteneva, un foglio con i sentimenti più profondi, più intimi di Peter e lo rese noto a tutti i ragazzi della sua scuola?» Drew tacque. Jordan McAfee sbatté il foglio sulla sbarra di fronte a lui. «Ebbene, Drew?» disse. «È stato uno scherzo divertente?» Drew Girard sudava a tal punto che gli sembrava impossibile che tutta quella gente non lo indicasse puntando il dito. Sentiva il sudore scorrere in mezzo alle scapole e fare giri viziosi sotto le ascelle. E perché no? Quella puttana del pubblico ministero l'aveva lasciato sulla sedia che scotta, al banco dei testimoni. Aveva lasciato che quell'avvocato del cazzo lo infilasse sullo spiedo, e ora, per il resto della sua vita, tutti avrebbero pensato di lui che fosse uno stronzo, mentre invece lui, come qualsiasi altro ragazzo della Sterling High, aveva voluto soltanto divertirsi un po'. Si alzò in piedi, pronto a scaraventarsi fuori dal tribunale e possibilmente a correre fino alla città più vicina a Sterling - ma Diana Leven si dirigeva verso di lui. «Signor Girard» disse, «io non ho ancora finito.» Lui si lasciò cadere sulla sedia, come se si sgonfiasse. «Ha mai preso in giro qualcun altro che non fosse Peter Houghton?» «Sì» disse lui cautamente. «È quello che fanno tutti i ragazzi, no?» «A volte.» «Qualcuno di quei ragazzi che erano stati oggetto di insolenze le ha mai sparato?» «No.» «Ha mai visto calare i calzoni a qualcun altro che non fosse Peter Houghton?» «Certo che sì» disse Drew. «Qualcuno di quei ragazzi a cui erano stati calati i pantaloni le ha mai sparato?» «No.» «Ha mai mandato in giro l'e-mail di qualcun altro per fargli uno scherzo?» «Un paio di volte.»
Diana incrociò le braccia. «Quelle persone le hanno mai sparato?» «No, signora» disse. Lei tornò al suo posto. «Non ho altre domande.» Dusty Spears capiva i ragazzi come Drew Girard perché un tempo era stato uno di loro. A suo modo di vedere, i prepotenti o erano abbastanza bravi da ottenere una borsa di studio in una delle Big Ten, le prime dieci università d'America, dove potevano fare le conoscenze di lavoro giuste con cui giocare sui campi da golf per il resto della loro vita, oppure si rompevano le ginocchia e finivano a insegnare ginnastica in una scuola media. Indossava una camicia con il colletto e la cravatta, e questo lo irritava, perché il suo collo appariva ancora come quando era l'«estremo stretto» dello Sterling nell'88, mentre i suoi addominali non erano più gli stessi. «Peter non era un vero atleta» disse al pubblico ministero. «In effetti non l'ho mai visto al di fuori delle lezioni.» «Ha mai visto Peter subire le prese in giro di altri ragazzi?» Dusty scrollò le spalle. «Le solite storie da spogliatoio, immagino.» «E lei interveniva?» «Probabilmente dicevo ai ragazzi di smetterla. Ma fa parte del diventare adulti, no?» «Ha mai sentito dire che Peter minacciasse qualcuno?» «Obiezione» disse Jordan McAfee. «È una domanda ipotetica.» «Accolta» disse il giudice. «Se l'avesse sentito dire, sarebbe intervenuto?» «Obiezione!» «Accolta. Di nuovo.» Il pubblico ministero non si scompose. «Ma Peter non le ha mai chiesto aiuto?» «No.» Lei tornò al suo posto, e l'avvocato di Houghton si alzò. Era uno di quei tipi untuosi che innervosivano Dusty: probabilmente era stato un ragazzo che non riusciva quasi mai a prendere e rilanciare la palla, ma sorrideva compiaciuto quando tentavi di insegnarglielo, come se sapesse già che un giorno, comunque fosse andata, avrebbe guadagnato il doppio di Dusty. «La Sterling High ha una sua posizione ufficiale riguardo al bullismo?» «Non lo tolleriamo.» «Ah» disse McAfee seccamente. «Be', è un bene sentirglielo dire. Di-
ciamo, dunque, che lei è testimone quasi quotidianamente di episodi di bullismo che si svolgono in uno spogliatoio sotto il suo naso... secondo la posizione ufficiale della scuola, che cosa ci si aspetta da lei?» Dusty lo fissò. «È nelle direttive della scuola. Ovviamente non ce l'ho davanti.» «Fortunatamente, io sì» disse McAfee. «Lasci che le mostri quello che è indicato come Reperto della Difesa numero 2. È questa la direttiva della Sterling High School riguardo al bullismo?» Sporgendosi in avanti, Dusty diede uno sguardo alla pagina stampata. «Sì.» «Lei trova questo nel suo manuale di insegnante tutti gli anni ad agosto, è corretto?» «Sì.» «E questa è la versione più recente, per l'anno scolastico 2006-2007?» «Immagino di sì» disse Dusty. «Signor Spears, io voglio che lei esamini questo manuale molto attentamente - tutt'e due le pagine - e che mi indichi dove viene detto quello che lei deve fare se, come insegnante, si trova a essere testimone di episodi di bullismo.» Dusty sospirò e cominciò a scorrere i fogli. Di solito, quando riceveva il manuale, lo buttava in un cassetto insieme ai menu dei ristoranti che facevano le consegne a domicilio. Sapeva le cose importanti: non perdere una giornata di lavoro; segnalare i cambiamenti nel curriculum ai direttori della facoltà; fare attenzione a non rimanere soli in una stanza con una studentessa. «Lo dice qui» disse, leggendo, «che lo Sterling School Board si impegna a fornire un ambiente di apprendimento e lavoro che garantisca la sicurezza personale dei suoi membri. Minacce fisiche o verbali, vessazioni, molestie, bullismo, offese verbali e intimidazioni non saranno tollerati.» Alzando lo sguardo, Dusty chiese: «È questa la risposta alla sua domanda?» «No, effettivamente non lo è. Che cosa ci si aspetta da lei, come insegnante, se uno studente compie atti di prepotenza nei confronti di un altro studente?» Dusty continuò a leggere. C'era una definizione di molestie, di bullismo, di offese verbali. Si parlava di un insegnante o un funzionario della scuola a cui si doveva fare rapporto, se il comportamento aveva avuto come testimone un altro studente. Ma non c'erano regole, né catene di eventi che un insegnante o un funzionario dovesse innescare.
«Non trovo niente del genere» disse. «Grazie, signor Spears» replicò McAfee. «È tutto.» Sarebbe stato facile per Jordan McAfee notificare il suo intento di chiamare Derek Markowitz a testimoniare, dal momento che era uno dei pochi testimoni sul suo carattere che Peter Houghton aveva, in qualità di amici. Ma Diana capiva che lui contava per l'accusa a causa di quello che aveva visto e udito, non per il suo rapporto di amicizia. Aveva visto numerosi amici tradirsi a vicenda nel corso degli anni in cui aveva svolto la sua professione. «E così, Derek» disse Diana, tentando di farlo sentire a suo agio, «tu eri amico di Peter.» Lo osservò cercare lo sguardo di Peter e provare a sorridere. «Sì.» «Vi capitava di passare del tempo insieme dopo la scuola?» «Sì.» «Che cosa vi piaceva fare?» «Tutti e due avevamo la passione del computer. A volte giocavamo ai videogame, e poi cercavamo di imparare la programmazione per poter creare noi altri giochi.» «Peter ha mai inventato dei videogiochi senza di te?» domandò Diana. «Sì, certo.» «Che cosa accadeva quando finiva?» «Ci giocavamo. Ma ci sono anche siti web dove altri possono scaricare il tuo gioco e sperimentarlo per te.» Derek alzò lo sguardo in quell'istante e notò le telecamere in fondo all'aula. Rimase prima a bocca aperta, poi si irrigidì. «Derek» disse Diana. «Derek?» Attese che lui si concentrasse su di lei. «Voglio farti vedere questo CD-ROM. È contrassegnato Reperto dell'Accusa numero 302... Puoi dirmi che cos'è?» «È il gioco più recente di Peter.» «Come si chiama?» «Nasconditi-e-Grida.» «Di che si tratta?» «È uno di quei giochi in cui si va in giro a sparare ai cattivi.» «Chi sono i cattivi in questo gioco?» domandò Diana. Derek lanciò di nuovo un'occhiata a Peter. «Sono gli atleti.» «Dove si svolge il gioco?» «In una scuola» disse Derek.
Con la coda dell'occhio Diana vide Jordan agitarsi sulla sedia. «Derek, eri a scuola la mattina del 6 marzo 2007?» «Sì.» «Che cosa avevi alla prima ora quella mattina?» «Trigonometria avanzata.» «E la seconda ora?» domandò Diana. «Inglese.» «E dopo dove andasti?» «Avevo ginnastica alla terza ora, ma l'asma mi dava dei problemi, così avevo una giustificazione medica per essere esonerato da quella lezione. Dato che avevo finito presto il compito d'inglese, chiesi alla signora Eccles di poter andare a prendere la giustificazione nella mia auto.» Diana annuì. «Dov'era parcheggiata la tua auto?» «Nel parcheggio degli studenti, dietro la scuola.» «Puoi mostrarmi su questo diagramma da quale porta uscisti alla fine della seconda ora?» Derek si avvicinò al cavalletto e indicò una delle porte sul retro della scuola. «Che cosa vedesti una volta fuori?» «Uh, molte macchine.» «E neanche una persona?» «Sì» disse Derek. «Peter. Sembrava che stesse prendendo qualcosa dal sedile posteriore della sua auto.» «Che cosa facesti?» «Andai a salutarlo. Gli domandai perché era in ritardo a scuola, lui si tirò su e mi guardò in modo strano.» «Strano. Cosa vuoi dire?» Derek scosse il capo. «Non so. Come se, per un secondo, non sapesse chi ero.» «Ti disse qualcosa?» «Disse: 'Vai a casa. Sta per accadere qualcosa'.» «Pensasti che fosse insolito?» «Be', sembrava un po' Ai confini della realtà...» «Peter ti aveva mai detto niente di simile?» «Sì» rispose Derek con calma. «Quando?» Jordan obiettò come Diana si aspettava, e il giudice Wagner respinse l'obiezione, come lei aveva sperato. «Qualche settimana prima» disse Derek, «la prima volta che giocammo a Nasconditi-e-Grida.» «Che cosa aveva detto?»
Derek abbassò lo sguardo e meditò prima di rispondere. «Derek» disse Diana, avvicinandosi, «devo chiederti di rispondere.» «Aveva detto: 'Quando accadrà realmente, sarà terribile'.» Un ronzio si levò dal pubblico, come uno sciame d'api. «Sapevi che cosa intendeva dire?» «Pensavo... Pensavo che scherzasse» disse Derek. «Il giorno della sparatoria, quando trovasti Peter nel parcheggio, vedesti che cosa stava facendo nella sua auto?» «No...» Derek s'interruppe, schiarendosi la voce. «In un certo senso le sue parole mi fecero ridere e gli dissi che dovevo tornare in classe.» «Poi cosa accadde?» «Rientrai nella scuola dalla stessa porta e andai in direzione a portare la mia giustificazione per ginnastica e farla firmare dalla signora Whyte, la segretaria. Lei stava parlando con un'altra ragazza, che usciva da scuola per andare a un appuntamento dall'ortodontista.» «E poi?» domandò Diana. «Quando lei se ne andò, la signora Whyte e io udimmo un'esplosione.» «Vedesti da dove proveniva?» «No.» «Cosa accadde dopo?» «Guardai lo schermo del computer sul tavolo della signora Whyte» disse Derek. «Vi scorreva sopra una specie di messaggio.» «Che cosa diceva?» «Pronti o no... io arrivo.» Derek deglutì. «Udimmo quei piccoli botti, come tante bottiglie di champagne, e la signora Whyte mi afferrò e mi trascinò nell'ufficio del direttore.» «C'era un computer in quell'ufficio?» «Sì.» «Che cosa c'era sullo schermo?» «Pronti o no... io arrivo.» «Quanto a lungo rimanesti in quell'ufficio?» «Non lo so. Dieci, venti minuti. La signora Whyte provò a chiamare la polizia, ma non vi riuscì. Il telefono non funzionava.» Diana si mise di fronte al banco. «Giudice, a questo punto l'accusa vorrebbe mostrare in modo completo il Reperto dell'Accusa numero 303, e chiediamo che sia fatto vedere alla giuria.» Guardò l'assistente che spingeva su un carrello un televisore collegato a un computer, per potervi inserire il CD-ROM.
NASCONDITI-E-GRIDA, si leggeva sullo schermo. SCEGLI LA TUA PRIMA ARMA! La figura in 3D di un ragazzo che portava occhiali con la montatura di corno e una camicia da golf attraversò lo schermo e si fermò a guardare un arsenale di balestre, Uzi, AK-47 e armi biologiche. Ne prese una, e poi, con l'altra mano, la caricò di munizioni. C'era un'immagine ravvicinata della sua faccia: lentiggini; apparecchio per i denti; sguardo febbrile. Poi lo schermo diventò azzurro e cominciò a scorrere una frase. Pronti o no, si leggeva. Io arrivo. A Derek piaceva McAfee. Non che fosse un granché come aspetto, ma aveva una moglie terribilmente sexy. Inoltre, era probabilmente l'unica persona, oltre a lui, che non avesse rapporti di parentela con Peter e comunque provasse compassione per lui. «Derek» disse l'avvocato, «tu e Peter siete amici dalla sesta, giusto?» «Sì.» «Hai trascorso molto tempo con lui sia a scuola che fuori.» «Già.» «Hai mai visto altri ragazzi prendere in giro Peter?» «Sempre» disse Derek. «Ci chiamavano froci e omo. Ci davano dei colpi con il tacco delle scarpe. Quando passavamo nel corridoio, ci facevano lo sgambetto o ci sbattevano negli armadietti. Cose del genere.» «Ne hai mai parlato con un insegnante?» «Una volta lo facevo, ma serviva solo a peggiorare la situazione. Mi accusavano di fare lo spione.» «Tu e Peter parlavate di come vi maltrattavano?» Derek scosse il capo. «No. Era già bello avere qualcuno che capiva.» «Con che frequenza accadeva... una volta alla settimana?» Lui sbuffò. «Piuttosto una volta al giorno.» «Soltanto tu e Peter?» «No, c'erano altri.» «Chi si dedicava di più al bullismo?» «Gli atleti» disse Derek. «Matt Royston, Drew Girard, John Eberhard...» «Nessuna ragazza partecipava agli atti di bullismo?» «Certo, quelle che ci guardavano come se fossimo insetti su un parabrezza» disse Derek. «Courtney Ignatio, Emma Alexis, Josie Cormier, Maddie Shaw.» «E che cosa facevate quando qualcuno vi sbatteva contro un armadiet-
to?» domandò McAfee. «Non potevamo reagire, perché non siamo forti come loro, e non si riusciva a fermarli... perciò aspettavamo e basta.» «Sarebbe corretto dire che questo gruppo che hai nominato - Matt, Drew, Courtney, Emma e tutti gli altri - se la prendeva con una persona più che con chiunque altro?» «Sì» disse Derek. «Peter.» Derek guardò l'avvocato di Peter sedersi accanto a lui e poi l'avvocato donna alzarsi e ricominciare a parlare. «Derek, hai detto che anche tu subivi atti di bullismo.» «Già.» «Hai mai aiutato Peter a fabbricare una pipe bomb per far saltare in aria la macchina di qualcuno?» «No.» «Hai mai aiutato Peter a inserirsi nelle linee telefoniche e nei computer della Sterling High, in modo tale che, una volta cominciata la sparatoria, nessuno potesse chiamare aiuto?» «No» disse Derek. «Non hai mai rubato armi né le hai nascoste nella tua stanza, vero?» «No.» Il pubblico ministero si avvicinò di un passo. «Non hai mai ideato un piano, come Peter, per entrare nella scuola e uccidere sistematicamente quelli che ti avevano molestato di più, Derek?» Derek si voltò verso Peter, per poterlo guardare dritto negli occhi mentre rispondeva. «No» disse. «Ma a volte vorrei averlo fatto.» Di tanto in tanto, nel corso della sua carriera come ostetrica, Lacy si era imbattuta in qualche ex paziente al supermercato o in banca o su una pista ciclabile. Le avevano presentato i loro bambini... che avevano tre, sette, quindici anni, ormai. Guardi che splendido lavoro ha fatto, dicevano talvolta, come se far venire al mondo un bambino avesse qualcosa a che fare con quello che poi sarebbe diventato. Proprio non sapeva che cosa sentisse nei confronti di Josie Cormier. Trascorsero la giornata a giocare all'impiccato, e l'ironia della situazione, dato il destino di suo figlio, non le sfuggì. Lacy conosceva Josie da quando era nata, ma poi l'aveva vista da bambina e quando era la compagna di giochi di Peter. Per quel motivo, c'era stato un momento in cui aveva avuto un odio viscerale per Josie, così forte come nemmeno Peter sembrava a-
verlo provato, perché era stata così crudele da lasciarsi alle spalle suo figlio. Josie non aveva dato inizio alle molestie che Peter aveva subito durante gli anni della scuola media e della scuola superiore, ma non era nemmeno intervenuta e, nel registro di Lacy, quello la rendeva ugualmente responsabile. Ora doveva ammettere, tuttavia, che Josie Cormier era diventata una giovane donna piuttosto sorprendente, tranquilla e riflessiva, non come tutte quelle ragazze frivole e volgari che andavano in giro nel Mall of New Hampshire o costituivano l'élite sociale della Sterling High: ragazze che Lacy aveva sempre paragonato volentieri a quei ragni detti vedove nere, in cerca di qualcuno da distruggere. Lacy era rimasta sorpresa quando Josie le aveva rivolto domande educate sul conto di Peter: Era agitato per il processo? Era duro stare in carcere? Lo tormentavano anche lì? Dovresti scrivergli una lettera, le suggerì Lacy. Sono sicura che gli farebbe piacere avere tue notizie. Ma lo sguardo di Josie era diventato sfuggente, e in quel momento Lacy aveva capito che, in realtà, Josie non era interessata a Peter; stava solo tentando di essere gentile con Lacy. Quando la corte concluse il suo lavoro per quella giornata, ai testimoni fu detto che potevano tornare a casa, purché si impegnassero a non guardare il telegiornale, a non leggere i giornali e a non parlare del caso. Lacy si scusò dicendo che doveva andare in bagno mentre aspettava Lewis, che avrebbe tentato di farsi strada in mezzo ai cronisti che sicuramente erano assiepati all'uscita del tribunale. Era appena uscita dalla cabina e stava lavandosi le mani quando entrò Alex Cormier. Il frastuono del corridoio entrò insieme ai suoi tacchi, per poi rimanere chiuso fuori bruscamente quando la porta sbatté alle sue spalle. I loro occhi si incontrarono nel lungo specchio sopra il bancone dei lavabi. «Lacy» mormorò Alex. Lacy si raddrizzò e prese un fazzoletto di carta per asciugarsi le mani. Non sapeva cosa dire ad Alex Cormier. Riusciva a stento a immaginare che un tempo aveva avuto qualcosa da dirle. Nello studio di ostetrica di Lacy c'era un falangio che stava morendo lentamente, finché la segretaria aveva spostato una pila di libri che chiudevano una finestra. Si era dimenticata di spostare la pianta, però, e metà dei germogli cominciò a strisciare verso la luce, crescendo in improbabili direzioni laterali che sembravano sfidare la gravità. Lacy e Alex erano come quella pianta: Alex era andata avanti in una direzione diversa, e Lacy... be',
lei no. Lei era appassita, avvizzita, come se fosse rimasta aggrovigliata alle sue migliori intenzioni. «Mi dispiace» disse Alex. «Mi dispiace che tu debba affrontare tutto questo.» «Dispiace anche a me» ribatté Lacy. Alex aveva l'aria di voler continuare a parlare, ma non lo fece, e Lacy aveva lasciato cadere la conversazione. Fece per uscire dal bagno in cerca di Lewis, ma Alex la chiamò. «Lacy» disse. «Io mi ricordo.» Lacy si girò per guardarla. «Metteva sempre il burro di arachidi sulla metà alta del pane e la crema di marshmallow sul fondo.» Alex fece un piccolo sorriso. «E aveva le ciglia più lunghe che io abbia mai visto in un bambino. Riusciva a trovare qualunque cosa io facessi cadere: un orecchino, una lente a contatto, una spilla, prima che andasse perduto definitivamente.» Fece un passo verso Lacy. «Le cose continuano a esistere finché c'è qualcuno che le ricorda, non credi?» Lacy fissò Alex tra le lacrime. «Grazie» sussurrò, e se ne andò prima di crollare completamente davanti a una donna - a un'estranea, in fondo - che poteva fare quello che Lacy non poteva: aggrapparsi al passato come se fosse qualcosa da custodire come un tesoro, invece di setacciarlo per cercarvi gli indizi di un fallimento. «Josie» disse sua madre mentre tornavano a casa in macchina. «Oggi in aula hanno letto un'e-mail. Peter l'aveva scritta a te.» Josie la guardò in faccia, terrorizzata. Avrebbe dovuto immaginare che durante il processo quella faccenda sarebbe saltata fuori; come aveva potuto essere così stupida? «Non sapevo che Courtney l'avesse mandata in giro. L'ho persino vista dopo tutti gli altri.» «Dev'essere stato imbarazzante» commentò Alex. «Be', eccome. L'intera scuola sapeva che lui si era preso una cotta per me.» Sua madre le lanciò un'occhiata. «Intendevo dire per Peter.» Josie pensò a Lacy Houghton. Erano passati dieci anni, ma Josie era rimasta ugualmente sorpresa da come fosse dimagrita la mamma di Peter; dal fatto che i suoi capelli fossero quasi tutti grigi. Si domandò se il dolore potesse far passare il tempo più velocemente, come un difetto di funzionamento in un orologio. Era incredibilmente deprimente, perché Josie ricordava la madre di Peter come una donna che non portava nemmeno l'o-
rologio al polso, alla quale non importava del trambusto purché il risultato finale valesse la fatica. Quando Josie era piccola e andava a giocare a casa di Peter, Lacy preparava i biscotti con gli avanzi della sua dispensa: fiocchi d'avena e germe di grano e orsetti gommosi e marshmallow; carruba e farina di granturco e riso soffiato. Una volta, d'inverno, aveva rovesciato un sacco di sabbia nel seminterrato, perché potessero costruire castelli. Lasciava che disegnassero sul pane dei loro sandwich con colori per alimenti e latte, perché anche il pranzo fosse un'opera d'arte. A Josie piaceva stare a casa di Peter; era così che si era sempre immaginata una famiglia. Guardò fuori dal finestrino. «Pensi che sia tutta colpa mia, vero?» «No...» «È questo che hanno detto gli avvocati oggi? Che la sparatoria è avvenuta perché a me non piaceva Peter... nel modo in cui io piacevo a lui?» «No. Gli avvocati non hanno detto niente del genere. La difesa ha parlato soprattutto di come Peter venisse preso in giro. Del fatto che non aveva molti amici.» Sua madre si fermò a un semaforo rosso e svoltò, il polso leggermente abbandonato sul volante. «In ogni caso, perché hai smesso di uscire con Peter?» Essere impopolare era una malattia contagiosa. Josie ricordava Peter alla scuola elementare, quando prendeva la carta stagnola che aveva avvolto il suo panino per il pranzo e le dava la forma di un cappello con le antenne, e se lo metteva in testa nel campo da gioco per cercare di ricevere le radiotrasmissioni degli alieni. Lui non si rendeva conto che gli altri ridevano di lui. Non se n'era mai reso conto. Ebbe un flash improvviso di lui in piedi nella caffetteria, una statua con le mani che tentavano di coprire i genitali, i calzoni accartocciati attorno alle caviglie. Ricordò il commento di Matt più tardi: Gli oggetti visti in uno specchio sono molto più piccoli di quanto appaiano. Forse Peter aveva finalmente capito che cosa pensavano gli altri di lui. «Non volevo essere trattata come lui» disse Josie, rispondendo a sua madre, ma quello che realmente intendeva era Non avevo abbastanza coraggio. Tornare in carcere era una specie di involuzione. Bisognava abbandonare i segni esteriori del genere umano come scarpe, abito e cravatta, e lasciarsi spogliare, per poi farsi sondare con un guanto di gomma da una delle guardie. Ti veniva data un'altra tuta da carcerato e ciabatte troppo grandi per i tuoi piedi, per farti assomigliare di nuovo a tutti gli altri e per impe-
dirti di fingere con te stesso di essere migliore di loro. Peter si sdraiò sulla branda coprendosi gli occhi con le braccia. Il compagno che gli stava a fianco, un tizio in attesa di processo per lo stupro di una donna di sessantasei anni, gli domandò com'era andata in aula, ma lui non rispose. Era pressoché l'unica libertà che gli era rimasta, e voleva tenere per sé la verità: che quando l'avevano ricondotto nella sua cella si era sentito veramente sollevato perché era tornato (poteva dirlo?) a casa. Lì, nessuno lo fissava come se fosse un microbo in una capsula di Petri. In realtà, nessuno lo guardava e basta. Lì, nessuno parlava di lui come se fosse un animale. Lì, nessuno lo accusava, perché erano tutti nella stessa barca. Il carcere non era poi tanto diverso dalla scuola pubblica. Le guardie carcerarie erano esattamente come gli insegnanti: il loro compito era far stare ciascuno al suo posto, dar da mangiare a tutti e accertarsi che nessuno si facesse male in maniera grave. Ma, a parte quello, ti abbandonavano a te stesso. E, come la scuola, il carcere era una società artificiosa, con la propria gerarchia e le proprie regole. Qualunque occupazione svolgessi, non aveva senso: pulire i cessi tutte le mattine o spingere un carrello di libri nell'area di minima sicurezza non era tanto diverso dallo scrivere un tema sulla definizione di civitas o memorizzare i numeri primi - non dovevi usarli tutti i giorni nella vita reale. E, come a scuola, l'unico modo per cavartela in carcere era tener duro e far passare il tempo stabilito. Inutile dirlo: Peter non era popolare neanche in carcere. Ripensò ai testimoni che Diana Leven aveva condotto o trascinato o portato in sedia a rotelle alla sbarra quel giorno. Jordan gli aveva spiegato che si trattava soltanto di compartecipazione; che l'accusa voleva mostrare tutte quelle vite rovinate prima che l'attenzione ricadesse sull'evidenza principale; che lui avrebbe avuto ben presto l'opportunità di mostrare che anche la vita di Peter era stata rovinata. Ma a Peter importava poco. Era più stupito, dopo aver rivisto quegli studenti, di quanto poco fosse cambiato. Peter fissò le molle rivestite di stoffa della branda in alto, sbattendo rapidamente le palpebre. Poi rotolò verso il muro e si cacciò l'angolo del suo cuscino in bocca, perché nessuno lo udisse piangere. Anche se John Eberhard non poteva più chiamarlo frocio, e men che meno parlare... Anche se Drew Girard non sarebbe mai più stato l'atleta di una volta... Anche se Haley Weaver non era più uno schianto... Erano ancora, tutti, parte di un gruppo nel quale Peter non poteva entrare
e nel quale non sarebbe mai entrato. 6 e 30, quel giorno «Peter. Peter?!» Lui rotolò su se stesso e vide il padre in piedi sulla soglia della sua camera. «Sei sveglio?» Aveva l'aria di essere sveglio? Peter grugnì e rotolò sulla schiena. Chiuse di nuovo gli occhi per un momento e passò in rassegna la sua giornata. Inglesefrancesematematicastoriachimica. Un'unica condanna, lunga e lunga, una lezione che stillava in quella successiva. Peter si sedette, passandosi energicamente le mani tra i capelli per farli stare dritti. Al piano di sotto, udiva suo padre tirar fuori le stoviglie dalla lavapiatti, come una specie di tecnosinfonia. Prese il suo thermos, lo riempì di caffè e abbandonò Peter a se stesso. Peter strascicò i pantaloni del pigiama sotto i talloni mentre si alzava dal letto e andava a mettersi sulla sedia. Si collegò a Internet perché voleva vedere se qualcuno gli aveva mandato altri feedback su Nasconditi-eGrida. Se era valido come pensava lui, sarebbe entrato in qualche gara di non professionisti. C'erano ragazzi come lui in tutta la nazione - in tutto il mondo - che non avrebbero esitato a pagare 39 dollari e 99 per giocare a un videogame dove la storia veniva riscritta dai perdenti. Peter immaginò quanto avrebbe potuto diventare ricco con i diritti d'autore. Forse avrebbe potuto mollare il college, come Bill Gates. Magari un giorno la gente gli avrebbe telefonato, facendo finta che un tempo fossero amici. Socchiuse gli occhi, poi prese gli occhiali, che teneva vicino alla tastiera. Ma poiché erano le sei del mattino, maledizione, e a quell'ora nessuno può avere molta coordinazione nei movimenti, fece cadere l'astuccio degli occhiali sui tasti funzione. La schermata che avrebbe dovuto connetterlo a Internet si ridusse a icona e, al suo posto, sullo schermo si aprì il cestino. So che tu non mi pensi. E sicuramente non hai mai immaginato noi due insieme. Peter sentì che cominciava a girargli la testa. Con un dito premette il tasto CANC, ma non accadde nulla.
In ogni caso, da solo, io non sono niente di speciale. Ma, con te, credo di poterlo diventare. Tentò di riavviare il computer, ma sembrava morto. Peter non riusciva a respirare; non riusciva a muoversi. Non riusciva a far altro che fissare la propria stupidità, lì davanti a lui, in bianco e nero. Provava dolore al petto e pensò che forse gli stava venendo un infarto, o magari era così che ci si sentiva quando i muscoli si pietrificavano. Muovendosi a scatti, Peter si chinò per prendere il cavo di alimentazione e invece batté la testa su un lato del tavolo. Gli vennero le lacrime agli occhi, o almeno così disse a se stesso. Tolse la spina e il monitor diventò nero. Poi si sedette di nuovo e capì che non era cambiato niente. Vedeva ancora quelle parole, chiare come la luce del giorno, scritte sullo schermo. Sentiva l'elasticità dei tasti sotto le dita: Con amore, Peter Gli sembrava di sentirli tutti ridere. Peter lanciò un'altra occhiata al suo computer. Sua madre diceva sempre che, quando capitava qualcosa di brutto, si poteva considerarlo come un fallimento oppure come un'opportunità per procedere in un'altra direzione. Magari quello era un segno. Il respiro di Peter era leggero mentre tirava fuori dallo zaino i libri di testo e tre quaderni con gli anelli, la calcolatrice e le matite e appallottolava i compiti in classe che gli erano stati riconsegnati. Sollevò il materasso ed estrasse le due pistole che aveva messo da parte, nel caso potessero servire. Da piccolo avevo l'abitudine di mettere il sale sulle lumache. Mi piaceva guardarle dissolversi sotto i miei occhi. La crudeltà è sempre una specie di divertimento, finché ci si rende conto che qualcosa fa male. Un conto sarebbe essere un perdente se questo significasse non avere nessuno che ti presta attenzione, ma a scuola vuol dire che tutti si daranno da fare per stanarti. Tu sei la lumaca, e loro mettono il sale. E non hanno sviluppato una coscienza. C'è una parola che abbiamo imparato a sociologia: Schadenfreude. È quando ti diverti a vedere qualcuno soffrire. La domanda vera, però, è:
perché? In parte credo che si tratti semplicemente di istinto di autoconservazione. E in parte è perché un gruppo, sempre, si sente maggiormente un gruppo quando si coalizza contro un nemico. Non importa se il nemico non ti ha mai fatto niente di male: devi solo fingere di detestare qualcuno più di quanto detesti te stesso. Sapete perché il sale funziona con le lumache? Perché si scioglie nell'acqua di cui è composta la pelle delle lumache, e l'acqua nel loro corpo comincia a scorrere fuori. La lumaca si disidrata. Funziona anche con le chiocciole. E con le sanguisughe. E con la gente come me. Con qualsiasi creatura, in effetti, che abbia la pelle troppo sottile per reggersi in piedi da sola. Cinque mesi dopo Per quattro ore sul banco dei testimoni, Patrick rivisse il giorno peggiore della sua vita. Il segnale che gli era giunto attraverso la radio mentre guidava; il fiume di studenti che si riversava fuori dalla scuola, come un'emorragia; le sue scarpe che scivolavano su una pozza di sangue oleosa mentre correva per i corridoi. Il soffitto, che gli crollava intorno. Le urla di chi chiamava aiuto. I ricordi che si imprimevano nella sua mente ma di cui si sarebbe reso conto solo più tardi: un ragazzo che moriva fra le braccia di un suo amico sotto il cesto della pallacanestro in palestra; i sedici ragazzi trovati ammassati in uno sgabuzzino dei bidelli tre ore dopo l'arresto, perché non si erano resi conto che il pericolo era passato; l'odore di liquirizia dei pennarelli Sharpie usati per scrivere i numeri sulla fronte dei feriti, per poterli identificare in seguito. Quella prima notte, quando le uniche persone rimaste nella scuola erano i tecnici della scientifica, Patrick si era messo a camminare per le aule e i corridoi. Si sentiva, a volte, come il custode dei ricordi, colui che doveva facilitare quell'invisibile passaggio tra com'era un tempo e come sarebbe stato da lì in poi. Calpestò le macchie di sangue per entrare nelle aule dove gli studenti si erano accalcati insieme agli insegnanti, in attesa dei soccorsi, con le giacche ancora appese alle sedie come se fossero sul punto di tornare in qualsiasi momento. I proiettili avevano scavato buchi negli armadietti; eppure in biblioteca qualche studente aveva avuto sia il tempo che la voglia di sistemare i pupazzetti di Gumby e Pokey dell'addetto ai materiali multimediali in una posizione compromettente. Le bocchette antincendio avevano trasformato un corridoio in un mare, ma le pareti erano
ancora ricoperte di poster a colori vivaci che annunciavano un ballo di primavera. Diana Leven sollevò una videocassetta, la prova dell'accusa numero 522. «Può identificarla, detective?» «Sì, la presi dall'ufficio del direttore della Sterling High. Mostrava le riprese fatte il 6 marzo 2007 da una telecamera piazzata nella caffetteria.» «Su quella cassetta c'è una rappresentazione accurata?» «Sì.» «Quando la visionò l'ultima volta?» «Il giorno prima che iniziasse il processo.» «È stata alterata in qualche modo?» «No.» Diana si diresse verso il giudice. «Chiedo che questa registrazione venga resa pubblica alla giuria» disse, e un addetto introdusse in aula, su un carrello, lo stesso apparecchio televisivo che era già stato usato in precedenza nel corso del processo. La registrazione era granulosa ma ancora intelligibile. Nell'angolo in alto a destra c'erano le cameriere, che versavano il cibo nei piatti di plastica mentre gli studenti arrivavano in fondo alla coda l'uno dopo l'altro, come gocce nel tubo di una flebo. C'erano tavoli pieni di studenti, e gli occhi di Patrick gravitarono verso un tavolo al centro, dove Josie era seduta con il suo ragazzo. Lui stava mangiando le patatine fritte che lei aveva preso. Dalla porta sulla sinistra entrò un ragazzo. Portava uno zaino azzurro e, benché non lo si vedesse in faccia, aveva la stessa corporatura esile e le spalle un po' curve che chiunque conoscesse Peter Houghton avrebbe subito identificato. Era esattamente sotto l'occhio della telecamera. Risuonò uno sparo mentre una ragazza si accasciava all'indietro su una delle sedie della caffetteria, e una macchia di sangue fioriva sulla sua camicetta bianca. Qualcuno urlò, poi tutti si misero a gridare, e vi furono altri spari. Peter ricomparve nella telecamera con una pistola in pugno. Gli studenti iniziarono a fuggire in disordine, nascondendosi sotto i tavoli. Il distributore delle bibite, coperto di proiettili, spumeggiava e schizzava su tutto il pavimento. Alcuni studenti si accasciavano nel punto in cui erano stati colpiti; altri, feriti, tentavano di allontanarsi strisciando. Una ragazza che era caduta fu calpestata dagli altri studenti e alla fine giacque immobile. Quando vide che le uniche persone rimaste nella caffetteria erano o morte o ferite,
Peter ruotò su se stesso. Percorse un corridoio tra i tavoli, fermandosi qui e là. Andò al tavolo accanto a quello dov'era seduta Josie e depose la pistola. Aprì una scatola di cereali ancora intatta posta su un vassoio della caffetteria, versò i cereali in una scodella di plastica e aggiunse del latte da un cartone. Mandò giù cinque cucchiaiate, poi smise di mangiare, prese dallo zaino un altro caricatore, lo inserì nella pistola e uscì dalla caffetteria. Diana si chinò a prendere qualcosa sotto il tavolo della difesa: era un sacchettino di plastica che allungò a Patrick. «La riconosce, detective Ducharme?» La scatola di Rice Krispies. «Sì.» «Dove la trovò?» «Nella caffetteria» rispose. «Sullo stesso tavolo che avete appena visto nel video.» Patrick si concesse di guardare Alex, seduta tra il pubblico. Fino a quel momento non c'era riuscito... pensava di non poter svolgere bene il suo lavoro, se si preoccupava di come quelle informazioni e quei dettagli così precisi potessero colpirla. In quel momento, invece, guardandola, vide che era impallidita, e che sedeva rigida sulla sua sedia. Dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non allontanarsi da Diana, saltare la sbarra e inginocchiarsi accanto a lei. Va tutto bene, avrebbe voluto dirle. È quasi finita. «Detective» disse Diana, «quando lei bloccò l'imputato nello spogliatoio, che cosa aveva in mano?» «Una pistola.» «Vide altre armi attorno a lui?» «Sì, una seconda pistola, a circa tre metri di distanza.» Diana sollevò una foto che era stata ingrandita. «Lo riconosce?» «È lo spogliatoio dove Peter Houghton è stato fermato.» Indicò un'arma sul pavimento vicino agli armadietti, e poi un'altra a poca distanza. «Questa è la pistola che lasciò cadere, l'Arma A» disse Patrick, «e questa, l'Arma B, è quella che giaceva sul pavimento.» A circa tre metri di distanza, sulla stessa traiettoria lineare, c'era il corpo di Matt Royston. Una larga pozza di sangue si allargava sotto i suoi fianchi, e la metà superiore della sua testa era mancante. Dalla giuria giunse qualche sussulto, ma Patrick non vi fece caso. Stava fissando Alex, che non guardava il corpo di Matt, ma la macchia lì accanto: una striscia di sangue che usciva dalla fronte di Josie, nel punto in cui era stata ritrovata.
La vita era una serie di se: il risultato sarebbe stato completamente diverso se soltanto tu avessi giocato alla lotteria l'altra notte; se avessi scelto un altro college; se avessi investito in azioni invece che in obbligazioni; se non avessi accompagnato il tuo bambino all'asilo per il suo primo giorno di scuola la mattina dell'11 settembre. Se soltanto un insegnante avesse impedito una volta, a un ragazzo, di tormentare Peter nel corridoio. Se Peter si fosse messo la pistola in bocca, invece di puntarla contro qualcun altro. Se Josie fosse stata in piedi di fronte a Matt, forse sarebbe stata lei quella sepolta al cimitero. Se Patrick fosse arrivato un secondo più tardi, avrebbe potuto essere colpita a sua volta. Se lui non fosse stato il detective di quel caso, non avrebbe conosciuto Alex. «Detective, lei raccolse quelle armi?» «Sì.» «Sono state esaminate per le impronte digitali?» «Sì, dal laboratorio di criminologia dello Stato.» «Il laboratorio ha trovato impronte significative sull'Arma A?» «Sì, una, sull'impugnatura.» «Dove sono state prese le impronte digitali di Peter Houghton?» «Alla stazione di polizia, quando lo registrammo.» Patrick illustrò alla giuria la meccanica del rilevamento delle impronte digitali: il confronto di dieci loci, la somiglianza di solchi e spirali, il programma informatico che verificava la corrispondenza delle impronte. «Il laboratorio ha confrontato le impronte digitali sull'Arma A con quelle di un'altra persona?» domandò Diana. «Sì, con quelle di Matt Royston. Erano state prese dal suo corpo.» «Quando il laboratorio raccolse le impronte sull'impugnatura dell'arma e le confrontò con le impronte digitali di Matt Royston, si verificò se le impronte erano compatibili?» «Non lo erano.» «E quando il laboratorio le confrontò con quelle di Peter Houghton furono in grado di stabilire se erano compatibili?» «Sì» disse Patrick. «Lo erano.» Diana annuì. «E l'Arma B? C'erano impronte?» «Soltanto un'impronta parziale, sul grilletto. Niente di significativo.» «Che cosa vuol dire, esattamente?» Patrick si rivolse alla giuria. «Un'impronta è considerata significativa quando si tratta di classificare impronte digitali, se può essere confrontata con un'altra impronta conosciuta e di conseguenza o esclusa o inclusa ri-
spetto alla compatibilità con quell'impronta. La gente lascia impronte digitali in continuazione su tutto quello che tocca, ma non si tratta necessariamente di impronte che si possono usare. Potrebbero essere impronte confuse o troppo incomplete per essere considerate significative dal punto di vista legale.» «Dunque, detective, lei non sa per certo chi abbia lasciato l'impronta digitale sull'Arma B.» «No.» «Ma potrebbe essere stato Peter Houghton?» «Sì.» «Ha le prove che nessun altro alla Sterling High School avesse con sé un'arma quel giorno?» «No.» «Quante armi, alla fine, furono rinvenute nello spogliatoio?» «Quattro» disse Patrick. «Una pistola con l'accusato, una sul pavimento e due fucili a canne mozze in uno zaino.» «Oltre a esaminare le armi rinvenute nello spogliatoio per le impronte digitali, il laboratorio ha svolto altre analisi legali su di esse?» «Sì, un test di balistica.» «Può spiegarlo?» «Be'» disse Patrick, «sostanzialmente si tratta di sparare con l'arma nell'acqua. Ogni proiettile che esce da un'arma ha dei segni che si formano quando un proiettile passa attraverso la canna. Questo significa che si può attribuire ciascun proiettile a un'arma che sia stata usata, sparando per prova in modo da vedere l'aspetto del proiettile e confrontandolo poi con quelli trovati. Si può anche rilevare se l'arma è mai stata utilizzata esaminando i residui all'interno della canna.» «Lei ha esaminato tutte e quattro le armi?» «Sì.» «E quali sono stati i risultati dei suoi test?» «Soltanto due delle quattro armi hanno effettivamente sparato» disse Patrick. «Le pistole, A e B. I proiettili che abbiamo trovato provenivano tutti dall'Arma A. L'Arma B, quando la recuperammo, era inceppata con un caricamento doppio. Il che significa che due proiettili erano entrati insieme nella camera di scoppio, impedendo all'arma di funzionare correttamente. Quando il grilletto fu premuto, l'arma si bloccò.» «Ma lei ha detto che l'Arma B sparò.» «Almeno una volta.» Patrick sollevò lo sguardo su Diana. «Fino a que-
sto momento il proiettile non è stato trovato.» Diana Leven guidò meticolosamente Patrick attraverso la scoperta dei dieci studenti morti e di diciannove feriti. Lui cominciò dal momento in cui uscì dalla Sterling High con Josie Cormier tra le braccia per deporla in un'ambulanza e terminò con l'ultimo corpo trasportato all'obitorio per essere sottoposto a esame medico; poi il giudice congedò la corte per quel giorno. Quando scese dal banco dei testimoni, Patrick si fermò un momento a parlare con Diana del programma per l'indomani. Le porte a due battenti del tribunale erano aperte, e Patrick poteva vedere i giornalisti che risucchiavano le storie di tutti i genitori arrabbiati che avessero voglia di concedere un'intervista. Riconobbe la madre di una ragazza - Jada Knight - che era stata colpita alla schiena mentre fuggiva dalla caffetteria. «Quest'anno mia figlia non si presenterà a scuola prima delle undici, perché non riesce a sopportare di essere qui quando inizia la terza ora» disse la donna. «Tutto la spaventa. Questa tragedia le ha rovinato la vita: perché la condanna di Peter Houghton dovrebbe essere meno severa?» Non aveva la minima intenzione di subire l'assalto dei media e, dal momento che era l'unico testimone di quella giornata, era destinato a essere aggredito. Rimase dunque in attesa, seduto sul parapetto di legno che separava chi operava nel tribunale dal pubblico. «Ciao.» Si voltò al suono della voce di Alex. «Che ci fai qui?» Aveva dato per scontato che lei fosse di sopra, ad accompagnare Josie fuori dalla stanza in cui venivano isolati i testimoni, come aveva fatto il giorno prima. «Potrei farti la stessa domanda.» Patrick fece un cenno del capo verso il vano della porta. «Non ero dell'umore adatto alla battaglia.» Alex gli si avvicinò, finché rimase in piedi tra le sue gambe, e lo cinse con le braccia. Seppellì il volto contro il suo collo e, quando fece un profondo, rumoroso respiro, Patrick lo sentì nel proprio petto. «Avresti potuto ingannarmi» disse lei. Non era una gran giornata per Jordan McAfee. Il bambino gli aveva sbavato addosso, proprio mentre usciva di casa. Era arrivato in tribunale con dieci minuti di ritardo perché quei giornalisti maledetti si moltiplicavano come conigli e non c'erano posti dove parcheggiare, e il giudice Wagner
l'aveva ripreso per la mancanza di puntualità. Come se non bastasse, per qualche motivo ignoto a Jordan, Peter aveva smesso di comunicare con lui, fatta eccezione per qualche grugnito; e per di più doveva iniziare la mattinata di lavoro sottoponendo a un controinterrogatorio il cavaliere dalla scintillante armatura che si era precipitato nella scuola ad affrontare il malvagio sparatore... be', essere un avvocato difensore non avrebbe potuto essere più fantastico. «Detective» disse avvicinandosi a Patrick Ducharme al banco dei testimoni, «dopo aver terminato con l'esame medico, tornò al dipartimento di polizia?» «Si.» «E trattenne là Peter, vero?» «Sì.» «Nella cella di un carcere... con sbarre e lucchetto?» «In una cella di detenzione» rettificò Ducharme. «Peter era già stato incolpato di qualche crimine?» «No.» «Di fatto non fu accusato di nulla fino alla mattina seguente, è così?» «È corretto.» «Dove trascorse la notte, Peter?» «Nel carcere di Grafton County.» «Detective, ha mai parlato con il mio cliente?» domandò Jordan. «Sì, certo.» «Che cosa gli domandò?» Il detective incrociò le braccia. «Se voleva un caffè.» «Se ne assunse lei l'incarico?» «Sì.» «Gli domandò qualcosa dell'incidente nella scuola?» «Gli domandai cosa fosse accaduto» rispose Ducharme. «Come reagì Peter?» Il detective aggrottò la fronte. «Disse che voleva sua madre.» «Si mise a piangere?» «Sì.» «In realtà, non smise mai di piangere, per tutta la durata dei suoi tentativi di interrogarlo; è così?» «Sì, è così.» «Gli rivolse altre domande, detective?» «No.»
Jordan fece un passo avanti. «Non doveva disturbarsi, perché il mio cliente non era nelle condizioni più adatte per essere sottoposto a interrogatorio.» «Non gli rivolsi altre domande» ribatté Ducharme pacatamente. «Non ho idea di quali fossero le sue condizioni.» «E così lei ricondusse un ragazzo - un ragazzo di diciassette anni, che piangeva perché voleva sua madre - in cella di detenzione?» «Sì. Ma gli dissi che volevo aiutarlo.» Jordan lanciò uno sguardo alla giuria e lasciò che la frase facesse presa per un momento. «Quale fu la reazione di Peter?» «Mi guardò» rispose il detective, «e disse: 'Sono stati loro a cominciare'.» Curtis Uppergate faceva lo psichiatra legale da venticinque anni. Aveva il diploma di tre diverse università di medicina della Ivy League e un curriculum vitae alto abbastanza da poter fare da fermaporta. Aveva la pelle bianca come un giglio, ma portava i capelli grigi lunghi fino alle spalle raccolti in tante treccine, e si era presentato in tribunale indossando un dashiki. Diana quasi si aspettava che lui la chiamasse Sista quando lei cominciò a interrogarlo. «In quale ambito è specializzato, dottore?» «Lavoro con teenager violenti. Li valuto per conto del tribunale per stabilire la natura dei loro disturbi mentali, se ne hanno, e per decidere un adeguato piano di terapie. Informo la corte anche di quello che poteva essere il loro stato mentale quando hanno commesso un crimine. Ho collaborato con l'FBI per creare i loro profili di sparatori nelle scuole, e per esaminare le analogie tra casi come Thurston High, Paducah, Rocori e Columbine.» «Quando si è occupato per la prima volta di questo caso?» «Nell'aprile scorso.» «Ha visionato le registrazioni di Peter Houghton?» «Sì» rispose Uppergate. «Ho visionato tutte le registrazioni che ho ricevuto da lei, signorina Leven: esaurienti registrazioni mediche e scolastiche, rapporti di polizia, colloqui con il detective Ducharme.» «Che cosa cercava, in particolare?» «Prove di malattia mentale» fu la risposta. «Spiegazioni fisiche del comportamento. Un quadro psicosociale paragonabile a quelli di altri ragazzi che abbiano compiuto atti violenti in una scuola.»
Diana lanciò un'occhiata alla giuria; i loro occhi erano vitrei. «Come risultato del suo lavoro, è giunto a una conclusione con un grado ragionevole di certezza medica sullo stato mentale di Peter Houghton il 6 marzo 2007?» «Sì» rispose Uppergate, rivolgendosi alla giuria, parlando lentamente e con chiarezza. «Peter Houghton non soffriva di nessuna malattia mentale quando diede inizio alla sparatoria nella Sterling High School.» «Può dirci come è giunto a questa conclusione?» «La definizione di sanità implica l'essere in contatto con la realtà di quello che si fa nel momento in cui lo si fa. Ci sono le prove che Peter aveva progettato questo attacco da un certo tempo - aveva accumulato munizioni e armi, aveva compilato elenchi di vittime designate, aveva fatto le prove generali della sua Armageddon attraverso un videogame di sua invenzione. La sparatoria non era un punto di partenza, per Peter: era qualcosa su cui rifletteva da tempo, con estrema premeditazione.» «Ci sono altri esempi della premeditazione di Peter?» «Inizialmente, quando giunse a scuola e vide un suo amico nel parcheggio, tentò di avvertirlo, perché si mettesse in salvo. Prima di entrare nella scuola fece esplodere una pipe bomb in un'auto, come diversivo per poter entrare indisturbato con le sue pistole. Nascondeva armi già cariche. Prese di mira zone della scuola in cui lui stesso era già stato vittima di molestie. Queste non sono le azioni di qualcuno che non sa quel che fa: contraddistinguono invece un giovane uomo raziocinante, arrabbiato, forse sofferente, ma non certo allucinato.» Diana camminò a lunghi passi per fermarsi davanti al teste. «Dottore, lei era in grado di confrontare informazioni riguardanti sparatorie avvenute nelle scuole in passato con questa, per supportare la sua conclusione che l'imputato era sano di mente e responsabile delle proprie azioni?» Uppergate si girò le trecce sulle spalle. «Nessuno degli sparatori di Columbine, Paducah, Thurston o Rocori aveva una posizione sociale. Non erano isolati dal mondo, ma nella loro mente non si percepivano come membri del gruppo allo stesso livello di chiunque altro appartenesse a quel gruppo. Peter faceva parte della squadra di calcio, per esempio, ma era uno dei due studenti che non venivano mai fatti giocare. Era intelligente, ma dai voti che prendeva non si sarebbe detto. Aveva un interesse sentimentale, ma non era corrisposto. L'unico ambito in cui si sentiva a suo agio era un mondo di sua invenzione: i giochi al computer in cui Peter era non solo a suo agio... era Dio.»
«Questo significa che il 6 marzo viveva in un mondo di fantasia?» «Assolutamente no. Se così fosse stato, non avrebbe progettato il suo attacco tanto razionalmente e metodicamente.» Diana si voltò. «Ci sono alcune prove, dottore, del fatto che Peter era vittima di atti di bullismo nella scuola. Ha esaminato questa informazione?» «Sì, certo.» «Le sue ricerche le hanno chiarito gli effetti del bullismo su ragazzi come Peter?» «In ogni singolo caso di sparatoria in una scuola» disse Uppergate, «si è giocata la carta del bullismo. È il bullismo, presumibilmente, a far scattare un giorno lo sparatore che controbatte con la violenza. Ciò nonostante, in tutti gli altri casi - e anche in questo, a mio avviso - il bullismo sembra esagerato dallo sparatore. Le molestie non sono significativamente peggiori per lo sparatore che per chiunque altro nella scuola.» «Ma allora perché sparare?» «Diventa un modo pubblico per assumere il controllo di una situazione in cui solitamente si sentono impotenti» spiegò Curtis Uppergate. «Il che significa, inoltre, che l'avevano progettato da un certo tempo.» «Il teste è suo» annunciò Diana. Jordan si alzò in piedi e si avvicinò al dottor Uppergate. «Quando ha incontrato Peter per la prima volta?» «Be', non siamo stati presentati ufficialmente.» «Ma lei è uno psichiatra?» «L'ultima volta che ho controllato, sì» disse Uppergate. «Credevo che l'ambito della psichiatria si fondasse sull'instaurare un rapporto con il paziente e sul tentativo di conoscere che cosa pensa lui del mondo e come lo elabora.» «Questa è una parte.» «Ma una parte straordinariamente importante, no?» replicò Jordan. «Sì.» «Firmerebbe una prescrizione medica per Peter, oggi?» «No.» «Perché lei deve incontrarlo fisicamente prima di decidere se quel farmaco è adatto a lui, è corretto?» «Sì.» «Dottore, ha avuto la possibilità di parlare con gli autori della sparatoria alla Thurston High?»
«Sì» rispose Uppergate. «E con il ragazzo di Paducah?» «Sì.» «Rocori?» «Sì.» «Columbine no...» «Sono uno psichiatra, signor McAfee» ribatté Uppergate. «Non un medium. Tuttavia, ho parlato a lungo con le famiglie dei due ragazzi. Ho letto i loro diari e ho esaminato le videocassette.» «Dottore» domandò Jordan, «ha mai parlato una volta personalmente con Peter Houghton?» Curtis Uppergate esitò. «No» disse. «Non gli ho parlato.» Jordan si sedette, e Diana si mise davanti al giudice. «Vostro Onore» dichiarò. «L'accusa ha terminato.» «Per te» disse Jordan, lanciando a Peter un mezzo panino mentre entrava nella sua cella di detenzione. «O stai facendo anche lo sciopero della fame?» Peter gli lanciò un'occhiata torva, ma tirò fuori il panino dalla carta e gli diede un morso. «Non mi piace il tacchino.» «A dire il vero non me ne importa.» Si appoggiò alla parete di cemento della cella di detenzione. «Vuoi dirmi chi ha pisciato nei tuoi cereali stamattina?» «Ha un'idea di cosa voglia dire stare seduto in quell'aula e ascoltare tutta quella gente che parla di me come se io non ci fossi? Come se io nemmeno udissi quello che dicono di me?» «Sono le regole del gioco» minimizzò Jordan. «Ora tocca a noi.» Peter si alzò in piedi e andò dall'altra parte della cella. «È questo, per lei? Un gioco?» Jordan chiuse gli occhi, contando fino a dieci per non perdere la pazienza. «Ovviamente no.» «Quanto la pagano?» domandò Peter. «Questo non ti...» «Quanto?» «Chiedi ai tuoi genitori» disse Jordan con voce incolore. «Che io vinca o perda, la pagheranno lo stesso, giusto?» Jordan esitò, e poi assentì. «Perciò non le importa assolutamente un cazzo del risultato, vero?»
Jordan rimase colpito, oltre che sorpreso, perché Peter aveva le carte in regola per diventare un eccellente avvocato difensore. Quella sorta di ragionamento circolare - che sottoponeva qualcuno a un severo interrogatorio per abbandonarlo non appena si metteva nei guai - era esattamente quello che ci voleva in un'aula di tribunale. «Cosa?» accusò Peter. «Adesso ride di me, oltre a tutto il resto?» «No. Stavo solo pensando che saresti un buon avvocato.» Peter si mise nuovamente a sedere. «Fantastico. E magari la prigione di Stato offre questa laurea insieme a un diploma di scuola superiore.» Jordan prese il panino dalle mani di Peter e ne mangiò un pezzo. «Stiamo a vedere come va» disse. Le giurie rimanevano sempre impressionate dal curriculum vitae di King Wah, e Jordan lo sapeva. Aveva sottoposto a colloquio più di cinquecento soggetti. Era stato perito di parte in 248 processi, senza contare quello in corso. Aveva scritto più di qualsiasi altro psichiatra legale specializzato nel disturbo da stress post-traumatico. E - questa era la parte migliore - aveva insegnato a tre seminari frequentati anche dal testimone del pubblico ministero, il dottor Curtis Uppergate. «Dottor Wah» esordì Jordan, «quando iniziò a lavorare su questo caso?» «Fui contattato da lei, signor McAfee, in giugno. Acconsentii a incontrare Peter in quel periodo.» «E lo incontrò?» «Sì, per più di dieci ore di colloqui. Ho anche letto i rapporti della polizia, le valutazioni mediche e scolastiche di Peter e quelle del fratello maggiore. Ho conosciuto i suoi genitori. Poi l'ho mandato da un mio collega, il dottor Lawrence Ghertz, che è neuropsichiatra infantile, perché anche lui lo esaminasse.» «Che cosa fa un neuropsichiatra infantile?» «Studia le cause organiche della sintomatologia e dei disturbi mentali nei bambini.» «Che cosa fece il dottor Ghertz?» «Eseguì svariate risonanze magnetiche del cervello di Peter» rispose King. «Il dottor Ghertz usa la risonanza magnetica cerebrale per mostrare che nel cervello degli adolescenti avvengono cambiamenti strutturali che non solo spiegano la tempistica di alcune tra le principali malattie mentali come la schizofrenia e il disturbo bipolare, ma forniscono anche le motivazioni biologiche di alcuni comportamenti incontrollati che i genitori di so-
lito attribuiscono a scompensi ormonali. Questo non per dire che non ci siano scompensi ormonali negli adolescenti, ma che siamo anche in presenza di scarsi controlli cognitivi necessari per un comportamento maturo.» Jordan si rivolse alla giuria. «Avete capito? Perché io mi sono perso...» King sorrise. «In parole povere? Si può comprendere molto di un ragazzo osservando il suo cervello. In realtà potrebbe esserci una ragione fisiologica anche per quelle occasioni in cui dite a vostro figlio diciassettenne di rimettere il latte nel frigorifero, e lui annuisce ma poi vi ignora completamente.» «Mandò Peter dal dottor Ghertz perché riteneva che fosse bipolare o schizofrenico?» «No. Ma tocca a me escludere quelle cause prima di cominciare a cercare altre ragioni del suo comportamento.» «Il dottor Ghertz le inviò un rapporto dettagliato dei suoi risultati?» «Sì.» «Vuole mostrarcelo?» Jordan sollevò il diagramma di un cervello che era già stato registrato come prova, e lo porse a King. «Il dottor Ghertz ha dichiarato che il cervello di Peter appariva molto simile al cervello di un normale adolescente in quanto la corteccia prefrontale non era così sviluppata come nel cervello di un adulto.» «Accidenti» commentò Jordan. «Mi sto perdendo un'altra volta.» «La corteccia prefrontale è esattamente qui, dietro la fronte. È una specie di 'presidente' del cervello, incaricato del pensiero deliberato e razionale. È anche l'ultima parte del cervello che si sviluppa, e questo è il motivo per cui spesso gli adolescenti si mettono nei guai.» Poi indicò una macchiolina sul diagramma, localizzata centralmente. «Questa è l'amigdala. Dal momento che il centro responsabile delle decisioni, in un adolescente, non è ancora del tutto funzionale, i ragazzi possono fare assegnamento su questo pezzetto del cervello. Questo è l'epicentro impulsivo del cervello, quello che ospita sensazioni come la paura, la collera e l'istinto viscerale. O, in altri termini, quella parte del cervello che corrisponde a 'Perché anche i miei amici pensavano che fosse una buona idea'.» Quasi tutti i giurati ridacchiarono, e Jordan cercò lo sguardo di Peter. Non era più accasciato sulla sua sedia; era seduto dritto, e ascoltava con attenzione. «È affascinante, in realtà» disse King, «perché un ventenne potrebbe essere fisiologicamente capace di prendere una decisione fondata... mentre un diciassettenne no.»
«Il dottor Ghertz procedette ad altri test psicologici?» «Sì. Eseguì una seconda risonanza magnetica, realizzata mentre Peter lavorava a un compito semplice. A Peter erano state date alcune fotografie di volti e gli era stato chiesto di identificare le emozioni che rispecchiavano. A differenza di un gruppo di controllo formato da adulti che avevano dato quasi tutte le risposte corrette, Peter tendeva a fare errori. In particolare, identificava espressioni impaurite come collera, confusione o tristezza. La scansione mostrava che, mentre era concentrato su quel compito, era l'amigdala a svolgere il lavoro... non la corteccia prefrontale.» «Che cosa ne deduce, dottor Wah?» «Be', la capacità di Peter di pensare in modo razionale, pianificato, premeditato è ancora in fase evolutiva. Fisiologicamente, non è ancora in grado di farlo.» Jordan osservò la reazione dei giurati a quell'affermazione. «Dottor Wah, lei ha detto che si è incontrato anche con Peter?» «Sì, nel carcere correzionale, per dieci sedute di un'ora ciascuna.» «Dove vi vedevate?» «In una sala visite. Io gli spiegai chi ero e che stavo lavorando con il suo avvocato» disse King. «Peter era riluttante a parlare con lei?» «No.» Lo psichiatra fece una pausa. «Sembrava apprezzare la compagnia.» «Inizialmente, qualcosa in lui la colpì?» «Sembrava che non provasse emozioni. Non piangeva, non sorrideva, non rideva, non manifestava ostilità. Nel linguaggio medico, la chiamiamo anaffettività.» «Di che cosa parlavate?» King guardò Peter e sorrise. «Dei Red Sox» rispose. «E della sua famiglia.» «Che cosa le raccontò?» «Che il Boston meritava di vincere un'altra volta il campionato. Il che, essendo io un tifoso degli Yankee, era sufficiente a mettere in discussione la sua capacità di pensiero razionale.» Jordan sorrise. «Che cosa le raccontò della sua famiglia?» «Spiegò che viveva con sua madre e suo padre, e che suo fratello maggiore Joey era stato ucciso da un automobilista ubriaco circa un anno prima. Joey aveva un anno più di Peter. Parlammo anche di quello che gli piace fare - soprattutto programmazione e computer - e della sua infanzia.»
«Che cosa le disse a questo proposito?» domandò Jordan. «La maggior parte dei ricordi d'infanzia di Peter riguarda situazioni in cui veniva molestato da altri bambini o da adulti che lui aveva percepito come capaci di aiutarlo e invece non lo erano. Descrisse tutto, dalle minacce fisiche - Togliti dai piedi o ti stendo con un pugno - alle azioni fisiche percorrere un corridoio e ritrovarsi sbattuto contro il muro perché senza accorgersene si era avvicinato troppo a qualcuno che lo stava oltrepassando - a insulti che feriscono i sentimenti - come essere chiamato omo o finocchio.» «Le disse quando iniziarono questi atti di bullismo?» «Il primo giorno di asilo. Salì sull'autobus, mentre camminava in mezzo ai sedili gli fecero lo sgambetto, e la sua scatola del pranzo con Superman fu gettata fuori dal finestrino. Proseguirono fino a poco prima della sparatoria, quando subì un'umiliazione pubblica dopo che il suo interesse sentimentale per una sua compagna di scuola fu rivelato a tutti.» «Dottore» disse Jordan, «Peter chiedeva aiuto?» «Sì, ma anche quando gli veniva dato il risultato gli si ritorceva contro. Una volta, per esempio, dopo essere stato spintonato da un ragazzo a scuola, Peter reagì. Un insegnante era presente e portò i due ragazzi nell'ufficio del direttore dove rimasero per punizione. Nella mente di Peter, lui si era difeso, eppure era stato punito ugualmente.» King si mise più comodo sul banco. «Ricordi più recenti erano accentuati dalla morte del fratello e dall'incapacità di Peter di mantenere gli stessi suoi standard come studente e come figlio.» «Peter ne parlò ai suoi genitori?» «Sì. Peter voleva bene ai suoi genitori, ma non aveva la sensazione di poter contare su di loro per avere protezione.» «Protezione da cosa?» «Guai a scuola, sensazioni che provava, istinti suicidi.» Jordan si voltò verso la giuria. «Sulla base dei suoi colloqui con Peter, e delle constatazioni del dottor Ghertz, ha potuto diagnosticare lo stato mentale di Peter il 6 marzo 2007, con un grado accettabile di certezza medica?» «Sì. Peter soffriva di PTSD, disturbo da stress post-traumatico.» «Vuole spiegare di che cosa si tratta?» King annuì. «È un disturbo psichiatrico che può verificarsi in seguito a un'esperienza in cui una persona viene oppressa o molestata. Per esempio, tutti sappiamo di certi soldati che tornano a casa dalla guerra e non riesco-
no a integrarsi a causa del PTSD. Gli individui che soffrono di PTSD spesso rivivono quell'esperienza attraverso incubi, hanno difficoltà a dormire, si sentono isolati. In casi estremi, dopo l'esposizione a un trauma grave, potrebbero manifestare allucinazioni o dissociazione.» «Intende dire che Peter era vittima di un'allucinazione la mattina del 6 marzo?» «No. Credo che fosse in uno stato di dissociazione mentale.» «Di che cosa si tratta?» «Si verifica quando si è fisicamente presenti, ma mentalmente lontani» spiegò King. «Quando si possono separare i propri sentimenti riguardo a un evento dalla consapevolezza di quell'evento.» Jordan corrugò la fronte. «Un momento, dottore. Lei ritiene che una persona in condizioni di dissociazione mentale possa guidare un'auto?» «Assolutamente sì.» «E posizionare una pipe bomb?» «Sì.» «E caricare armi?» «Sì.» «E sparare con quelle armi?» «Sicuramente.» «E, per tutto quel tempo, quella persona non sa che cosa sta facendo?» «Sì, signor McAfee» disse King. «È esattamente così.» «A suo avviso, quando Peter scivolò in questo stato di dissociazione mentale?» «Durante i nostri colloqui, Peter spiegò che la mattina del 6 marzo si alzò presto e andò a controllare su un sito web i feedback sul suo videogioco. Per caso, aprì un vecchio file sul suo computer: l'e-mail che aveva inviato a Josie Cormier, spiegandole i suoi sentimenti per lei. Era la stessa email che, settimane prima, era stata inoltrata all'intera scuola, e che aveva preceduto un'umiliazione ancora più grave, quando gli furono tirati giù i pantaloni nella caffetteria. Mi disse che aveva visto l'e-mail, ma non riusciva a ricordare che cosa accadde dopo.» «Anch'io apro vecchi file per caso sul mio computer un mucchio di volte» disse Jordan, «ma non entro in uno stato di dissociazione mentale.» «Il computer era sempre stato un porto sicuro per Peter. Era il mezzo che lui usava per creare un mondo in cui trovarsi a proprio agio, popolato da personaggi che lo stimavano e di cui lui aveva il controllo, mentre nella vita reale non era così. Quello che scatenò la dissociazione fu vedere che
quell'unica zona sicura era diventata improvvisamente un altro posto dove poteva subire l'ennesima umiliazione.» Jordan incrociò le braccia, recitando la parte dell'avvocato del diavolo. «Non so... qui stiamo parlando di un'e-mail. Siamo sicuri che sia giusto paragonare il bullismo al trauma dei veterani della guerra in Iraq, o dei superstiti dell'11 settembre?» «La cosa importante da ricordare riguardo al PTSD è che un evento traumatico colpisce persone diverse in maniera differente. Per esempio, in certi individui, una violenza sessuale può scatenare il PTSD. In altri, una breve palpazione è sufficiente a innescarlo. Non importa se l'evento traumatico è una guerra, o un attacco terroristico o un'aggressione sessuale o il bullismo: quello che conta sono le premesse emotive del soggetto.» King si rivolse alla giuria. «Forse avete sentito parlare, per esempio, della sindrome della donna maltrattata. Non ha senso, se lo si considera dall'esterno, che una donna, sia pure dopo essere stata molestata per anni, uccida il proprio marito mentre lui dorme profondamente.» «Obiezione» disse Diana. «Qualcuno vede una donna maltrattata in questo processo?» «Accolta» rispose il giudice Wagner. «Una donna maltrattata è psicologicamente convinta di subire una minaccia fisica anche quando nell'immediato non è così, perché uno schema costante e crescente di violenza l'ha portata a soffrire di PTSD. Vivere in questo stato di paura cronica che accada qualcosa, che continui ad accadere, la conduce a impugnare l'arma in quel momento, anche se suo marito sta russando. Per lei, lui è ancora una minaccia immediata» disse King. «Un ragazzo che soffre di PTSD, come Peter, è terrorizzato dall'idea che il prepotente finisca per ucciderlo. Anche se in quel momento il prepotente non lo sta sbattendo in un armadietto né lo prende a pugni, potrebbe accadere da un momento all'altro. E così, come la moglie maltrattata, passa all'azione persino quando - per voi e per me - niente sembra giustificare l'attacco.» «Qualcuno potrebbe accorgersi di questa specie di paura irrazionale?» domandò Jordan. «Probabilmente no. Un soggetto che soffre di PTSD ha già compiuto tentativi infruttuosi di chiedere aiuto, ma dal momento che le molestie continuano lui smette di chiedere. Si isola dal punto di vista sociale, perché non può mai sapere con assoluta certezza quando l'interazione condurrà a un altro episodio di bullismo. Probabilmente pensa di togliersi la vita. Si
rifugia in un mondo di fantasia, dove può assumere il controllo. Tuttavia, inizia a ritirarvisi così spesso che diventa sempre più difficile, per lui, distinguere quel mondo dalla realtà. Durante gli episodi effettivi di bullismo, un ragazzo affetto da PTSD talvolta si ritira in uno stato alterato di coscienza: una dissociazione dalla realtà che gli impedisce di provare dolore o umiliazione mentre l'episodio si verifica. Il che è esattamente quello che credo sia accaduto a Peter il 6 marzo.» «Anche se nessuno dei ragazzi che facevano i prepotenti con lui era presente nella sua stanza quando comparve l'e-mail?» «Esatto. Peter aveva passato tutta la sua vita a essere picchiato e deriso e minacciato, al punto da credere che quegli stessi ragazzi l'avrebbero ucciso se lui non avesse fatto qualcosa. L'e-mail innescò uno stato di dissociazione e, quando andò alla Sterling High e si mise a sparare, era completamente inconsapevole di quello che faceva.» «Quanto a lungo può durare uno stato di dissociazione?» «Dipende. Peter potrebbe essere stato dissociato per parecchie ore.» «Ore?» ripeté Jordan. «Assolutamente sì. Non c'è un momento durante la sparatoria che mi mostri, da parte sua, una percezione consapevole delle sue azioni.» Jordan lanciò uno sguardo all'accusa. «Abbiamo visto tutti un video in cui Peter è seduto nella caffetteria dopo aver sparato e mangia una scodella di cereali. Questo ha un significato agli effetti della sua diagnosi?» «Sì. In effetti, non riesco a pensare a una prova più chiara di come Peter fosse ancora dissociato in quel momento. Ecco un ragazzo completamente inconsapevole di essere attorniato da compagni di scuola che ha ucciso, oppure ferito o messo in fuga. Si siede e si prende il tempo di consumare con calma una ciotola di Rice Krispies, indifferente alla carneficina che lo circonda.» «E quanto al fatto che Peter abbia sparato a molti ragazzi che non facevano parte di quello che si potrebbe definire comunemente il 'gruppo popolare'? E al fatto che ci siano stati ragazzi disabili e borsisti e persino un insegnante tra le sue vittime?» «Ancora una volta» disse lo psichiatra, «non stiamo parlando di un comportamento razionale. Peter non calcolava le sue azioni; nel momento in cui sparava, si era separato dalla realtà della situazione. Chiunque Peter incontrasse durante quei diciannove minuti era una minaccia potenziale.» «A suo avviso, quando terminò lo stato di dissociazione di Peter?» domandò Jordan.
«Quando Peter era in arresto, e parlava con il detective Ducharme. Quando iniziò a reagire normalmente, dato l'orrore della situazione. Cominciò a piangere e a chiedere di sua madre, il che indica un riconoscimento di quello che lo circondava e una reazione appropriata, da ragazzo.» Jordan si appoggiò alla balaustra del banco dei giurati. «Trattando questo caso, dottore, ci siamo imbattuti in alcune prove del fatto che Peter non era l'unico ragazzo della scuola vittima di episodi di bullismo. Dunque perché lui reagì in quel modo?» «Be', come ho detto, individui diversi hanno reazioni differenti allo stress. Nel caso di Peter, ho constatato un'estrema vulnerabilità emotiva, che, in realtà, era il motivo per cui lo prendevano in giro. Peter non corrispondeva ai codici dei ragazzi. Non era un grande atleta. Non era robusto. Era sensibile. E la differenza non sempre viene rispettata, in particolare quando si tratta di adolescenti. L'adolescenza riguarda l'inserirsi, non lo stare al di fuori.» «Come può un ragazzo emotivamente vulnerabile alzarsi un giorno e portare a scuola quattro armi, per poi sparare a ventinove persone?» «In parte è dovuto al PTSD, la reazione di Peter alle prepotenze croniche. Ma una grossa responsabilità è imputabile anche alla società che ha generato sia Peter sia quei prepotenti. La reazione di Peter è rafforzata dal mondo in cui vive. Vede videogiochi violenti in vendita sugli scaffali dei grandi magazzini; ascolta musica che esalta l'assassinio e lo stupro. Osserva i suoi aguzzini maltrattarlo, spintonarlo, pestarlo, umiliarlo. Vive in uno Stato in cui, signor McAfee, sulle targhe delle auto si legge VIVI LIBERO O MUORI.» King scosse il capo. «Peter non ha fatto altro, una mattina, che trasformarsi in quella persona che ci si era sempre aspettati che fosse.» Nessuno lo sapeva, ma una volta Josie aveva rotto con Matt Royston. Uscivano insieme da quasi un anno quando Matt passò a prenderla un sabato sera. Un ragazzo di estrazione sociale elevata, che faceva parte della squadra di football - uno che conosceva Brady - dava una festa a casa sua. Ti va di andarci? aveva chiesto Matt, benché si stesse già dirigendo là con la sua auto quando glielo domandò. Quando arrivarono, la casa era già vibrante di animazione. Le auto erano parcheggiate sul bordo del marciapiede, lungo i lati della casa e sul prato. Attraverso le finestre del piano superiore, Josie vide gente che ballava; mentre percorrevano il viale, una ragazza stava vomitando nei cespugli. Matt non le lasciava la mano. Procedettero tortuosamente in mezzo a pa-
reti di corpi, seguendo una specie di sentiero fino alla cucina, dove c'era la birra alla spina, e poi tornarono nella sala da pranzo, dove il tavolo era stato spostato lateralmente per creare una pista da ballo più grande. I ragazzi a cui passarono accanto non erano soltanto della Sterling High, ma anche di altre città. Alcuni avevano gli occhi cerchiati di rosso e l'aria persa di chi sta fumando erba. Ragazzi e ragazze si annusavano a vicenda, girando in cerchio alla ricerca di sesso. Lei non conosceva nessuno, ma non era importante, perché era con Matt. Si strinsero più vicini, nel calore di un centinaio di altri corpi. Matt infilò una gamba tra le sue mentre la musica pulsava come il sangue, e lei sollevò le braccia per aderire meglio a lui. Ma quando volle usare il bagno tutto andò storto. Sulle prime Matt voleva seguirla, e le disse che non era prudente, per lei, rimanere da sola. Alla fine lo convinse dicendogli che sarebbe tornata dopo mezzo minuto, ma quando fece per allontanarsi un ragazzo alto che indossava una maglietta dei Green Day e un orecchino a cerchietto si voltò troppo bruscamente e le rovesciò addosso la sua birra. Oh, merda, disse lui. Non importa. Josie aveva un fazzoletto in tasca; lo tirò fuori e cominciò ad asciugarsi la camicetta. Faccio io, disse il ragazzo, e le prese di mano il fazzoletto. Nello stesso tempo entrambi capirono che era ridicolo tentare di assorbire tutto quel liquido con un quadratino sottile di Kleenex. Lui cominciò a ridere, e lei lo imitò, e la mano di lui indugiava ancora lievemente sulla sua spalla, quando Matt arrivò e gli diede un pugno in faccia. Che cosa fai! urlò Josie. Il ragazzo era disteso sul pavimento, e altri stavano tentando di lasciare libero il passaggio rimanendo però abbastanza vicino per non perdersi lo scontro. Matt la afferrò per il polso così forte che lei pensò che si sarebbe rotto. La trascinò fuori dalla casa e in auto, dove lei sedette in un silenzio impietrito. Stava solo cercando di aiutarmi, disse Josie. Matt fece retromarcia e sbandò all'indietro. Vuoi rimanere? Vuoi fare la troia? Si era messo a guidare come un pazzo: passava col rosso, salendo con le ruote sui marciapiedi, superava del doppio i limiti di velocità. Lei gli ripeté tre volte di rallentare, poi si limitò a chiudere gli occhi e a sperare che finisse presto. Quando Matt si fermò facendo stridere i freni davanti a casa di lei, Josie si voltò verso di lui, insolitamente calma. Non voglio più uscire con te, gli
disse, ed era uscita dall'auto. La voce di lui la seguì fin sulla porta di casa: Bene. Perché dovrei aver voglia di uscire con una troia del cazzo, dopotutto? Lei era riuscita a dribblare sua madre, simulando un'emicrania. In bagno, si era guardata allo specchio, tentando di capire chi fosse quella ragazza che improvvisamente era diventata così inflessibile, e perché si sentiva come se stesse ancora piangendo. Era rimasta sdraiata sul letto per un'ora, con le lacrime che le scendevano dall'angolo degli occhi, domandandosi perché - se era stata lei a voler chiudere - si sentisse tanto infelice. Quando il telefono squillò dopo le tre del mattino, Josie lo afferrò e riagganciò: se sua madre avesse risposto, avrebbe pensato che qualcuno aveva sbagliato numero. Trattenne il respiro per qualche istante, poi sollevò il telefono e digitò *69. Sapeva, ancor prima di vedere la serie familiare di numeri, che era Matt. Josie, aveva detto lui, quando lei l'aveva richiamato. Mentivi? Su cosa? Dicendo che mi amavi? Lei aveva affondato il volto nel cuscino. No, aveva bisbigliato. Non posso vivere senza di te, aveva detto Matt, e poi lei aveva udito qualcosa che suonava come un flacone di pillole agitato in mano. Josie era rimasta raggelata. Cosa stai facendo? Cosa te ne importa? La sua mente aveva cominciato a correre. Lei aveva la patente, ma non aveva il permesso di prendere la macchina da sola, e non quando era buio. Abitava troppo lontano da Matt per correre da lui. Non muoverti, disse. Solo... non fare niente. Giù in garage aveva trovato una bicicletta che non usava più dalla scuola media e aveva pedalato per i sei chilometri che la separavano da casa di Matt. Quando arrivò, stava piovendo; aveva i capelli e i vestiti incollati alla pelle. La luce era ancora accesa nella stanza di Matt, che era al primo piano. Josie bussò alla finestra, e lui aprì per aiutarla ad arrampicarsi dentro. Sulla sua scrivania c'era un flacone di Tylenol e una bottiglia aperta di Jim Beam. Josie lo guardò in faccia. Tu hai... Ma lui la prese tra le braccia. Sapeva di liquore. Mi hai detto di non farlo. Farei qualsiasi cosa per te. Poi si era tirato indietro. Tu faresti qualsiasi cosa per me? Qualsiasi cosa, giurò lei.
Matt la prese di nuovo tra le sue braccia. Dimmi che non lo pensavi sul serio. Lei sentì che una gabbia le calava attorno; si rese conto troppo tardi che Matt l'aveva presa in trappola imprigionandole il cuore. E come qualsiasi animale inconsapevole che tutt'a un tratto venga catturato Josie poteva fuggire soltanto lasciandosi dietro un pezzetto di sé. Mi dispiace tanto, aveva ripetuto Josie almeno mille volte quella notte, perché era tutta colpa sua. «Dottor Wah» disse Diana, «quale compenso ha percepito per il suo lavoro su questo caso?» «Il mio onorario è di duemila dollari al giorno.» «Sarebbe corretto affermare che una delle componenti più importanti per formulare la diagnosi dell'imputato era il tempo che lei avrebbe trascorso a colloquio con lui?» «Assolutamente corretto.» «Nel corso di quelle dieci ore, lei confidava nel fatto che lui fosse sincero con lei nella sua ricostruzione dei fatti, giusto?» «Sì.» «Ma lei non ha modo di sapere se è stato sincero.» «Svolgo questo lavoro da un certo tempo, signorina Leven» disse lo psichiatra. «Ho interrogato abbastanza persone da capire quando qualcuno sta tentando di rifilarmi una menzogna.» «Per stabilire se un adolescente le sta rifilando una menzogna lei ricorre, almeno in parte, alla considerazione delle circostanze, vero?» «Certo.» «E le circostanze in cui lei ha trovato Peter includevano l'essere rinchiuso in carcere per più omicidi di primo grado?» «È esatto.» «Perciò, fondamentalmente» continuò Diana, «Peter aveva un notevole incentivo a trovare un modo per uscirne.» «Oppure, signorina Leven» replicò il dottor Wah, «potrebbe anche dire che lui non aveva niente da perdere dicendo la verità.» Diana strinse le labbra; rispondere sì o no sarebbe stato più che sufficiente. «Lei ha detto che la sua diagnosi di PTSD si fondava in parte sul fatto che l'imputato tentava di ottenere aiuto senza riuscirci. Lo ha dedotto da informazioni che lui le ha fornito durante i colloqui?» «Sì, corroborate dai suoi genitori, e da alcuni degli insegnanti che hanno
testimoniato per lei, signorina Leven.» «Lei ha detto anche che parte della sua diagnosi di PTSD è esemplificata dal fatto che Peter si rifugiava in un mondo di fantasia, giusto?» «Sì.» «E lo ha dedotto dai giochi al computer di cui Peter le parlava durante i colloqui?» «Esatto.» «Non è forse vero che quando lei ha mandato Peter dal dottor Ghertz gli ha detto che gli avrebbero fatto alcune scansioni del cervello?» «Sì.» «Peter non potrebbe aver detto al dottor Ghertz che una faccia sorridente sembrava arrabbiata, se pensava che l'avrebbe aiutato riguardo alla diagnosi?» «Immagino che sia possibile...» «Lei ha detto anche, dottore, che leggere un'e-mail la mattina del 6 marzo ha gettato Peter in uno stato di dissociazione, abbastanza forte da durare per tutta la carneficina messa in atto da Peter alla Sterling High...» «Obiezione...» «Accolta...» disse il giudice. «Lei ha tratto quella conclusione da altro che non fosse quello che Peter Houghton le ha detto - Peter, che stava nella cella di un carcere, accusato di dieci omicidi e di diciannove tentati omicidi?» King Wah scosse il capo. «No, ma qualsiasi altro psichiatra avrebbe fatto lo stesso.» Diana si limitò a sollevare un sopracciglio. «Qualsiasi psichiatra che stesse per intascare duemila dollari al giorno» disse, e ancor prima che Jordan obiettasse ritirò la propria osservazione. «Lei ha detto che Peter soffriva di istinti suicidi.» «Sì.» «Dunque voleva uccidersi?» «Sì. È piuttosto comune nei pazienti affetti da PTSD.» «Il detective Ducharme ha testimoniato che nella scuola quella mattina furono rinvenuti centosedici bossoli. Un'altra trentina di pallottole non usate fu trovata addosso a Peter, e altre cinquantadue pallottole non usate furono rinvenute nello zaino che portava con sé, insieme alle due armi che non usò. Dunque, se la matematica non è un'opinione, dottore, di quanti proiettili stiamo parlando?» «Centonovantotto.»
Diana lo guardò in faccia. «In diciannove minuti, Peter ha avuto duecento possibilità di uccidersi, invece di eliminare tutti gli altri studenti che incontrava alla Sterling High. È corretto, dottore?» «Sì. Ma c'è una linea estremamente sottile tra un suicidio e un omicidio. Molti individui depressi che hanno preso la decisione di spararsi scelgono, all'ultimo momento, di sparare a qualcun altro.» Diana aggrottò la fronte. «Credevo che Peter fosse in uno stato di dissociazione mentale» disse. «Credevo che fosse incapace di scegliere.» «Lo era. Premeva il grilletto senza pensare minimamente alle conseguenze e senza la consapevolezza di quello che stava facendo.» «O quello oppure era una linea di carta velina quella che lui si è sentito di scavalcare, giusto?» Jordan si alzò in piedi. «Obiezione. Questo è bullismo nei confronti del mio testimone.» «Oh, per l'amor del cielo, Jordan» scattò Diana, «non può usare la sua difesa su di me.» «Avvocati» li richiamò il giudice. «Lei ha anche testimoniato, dottore, che questo stato di dissociazione di Peter terminò quando il detective Ducharme cominciò a fargli domande alla stazione di polizia, è esatto?» «Sì.» «Sarebbe corretto affermare che lei ha fondato la sua assunzione sul fatto che in quel momento Peter ha iniziato a reagire in maniera appropriata, data la situazione in cui si trovava?» «Sì.» «E allora come spiega il fatto che alcune ore prima, quando tre agenti puntarono un'arma contro di lui e gli dissero di lasciar cadere la sua, Peter fu in grado di fare quello che gli veniva chiesto?» Il dottor Wah esitò. «Be'.» «Non è forse una reazione appropriata, quando ci sono tre poliziotti con le armi spianate e puntate contro di te?» «Depose l'arma» disse lo psichiatra, «perché, sebbene a livello subliminale, capiva che altrimenti gli avrebbero sparato.» «Ma dottore» lo incalzò Diana. «Credevo che ci avesse spiegato che Peter voleva morire.» Si sedette di nuovo, soddisfatta perché Jordan non poteva fare niente contro la piega che ormai la situazione aveva assunto grazie a lei. «Dottor Wah» disse lui, «lei ha passato molto tempo con Peter, vero?»
«A differenza di altri miei colleghi» fu la risposta precisa, «io credo fermamente nell'importanza di incontrare il cliente di cui si parlerà in aula.» «Perché è tanto importante?» «Per costruire un rapporto» spiegò lo psichiatra. «Per favorire una relazione tra medico e paziente.» «Prende alla lettera qualsiasi cosa le dica un paziente?» «Certo che no, soprattutto in determinate circostanze.» «In realtà, ci sono molti modi per avvalorare il racconto di un paziente, vero?» «Ovviamente. Nel caso di Peter, ho parlato con i suoi genitori. Nei registri della scuola si accennava a episodi di bullismo - sebbene non ci fossero riscontri da parte della direzione. La documentazione che ho ricevuto dalla polizia conferma l'affermazione di Peter secondo cui la sua e-mail fu inoltrata a parecchie centinaia di membri della comunità scolastica.» «Tra gli elementi avvaloranti ha individuato qualcosa che l'ha aiutata a diagnosticare lo stato di dissociazione in cui Peter si trovava il 6 marzo?» domandò Jordan. «Sì. Benché dalle indagini della polizia risultasse che Peter aveva stilato un elenco di vittime designate, le persone colpite erano di gran lunga più numerose che sull'elenco... ed erano, di fatto, studenti di cui lui non conosceva neppure il nome.» «Perché è così importante?» «Perché rivela che durante la sparatoria Peter non mirava a studenti individuali. Si limitava ad agire meccanicamente.» «Grazie, dottore» disse Jordan, e fece un cenno di assenso a Diana. Lei guardò lo psichiatra. «Peter le ha detto di essere stato umiliato nella caffetteria» disse. «Ha citato qualche altro luogo preciso?» «Il campo di gioco. Lo scuolabus. Il bagno dei ragazzi e lo spogliatoio.» «Quando Peter diede inizio alla sparatoria nella Sterling High, andò nell'ufficio del direttore?» «No, che io sappia.» «In biblioteca?» «No.» «Nella sala riservata agli insegnanti?» Il dottor Wah scosse il capo. «No.» «Nel laboratorio di arte?» «Non credo.»
«In realtà, Peter passò dalla caffetteria, ai bagni, alla palestra, allo spogliatoio. Si recò metodicamente nei luoghi in cui era stato maltrattato, giusto?» «Così sembra.» «Lei ha detto che agiva meccanicamente, dottore» disse Diana. «Ma questo non lo chiamerebbe invece un piano?» Quando Peter tornò in carcere quella sera, la guardia che lo condusse in cella gli tese una lettera. «Non c'eri quando hanno distribuito la posta» disse, e Peter non riuscì a parlare. Era così poco abituato a quella dose concentrata di gentilezza. Si sedette con le spalle alla parete sulla branda in basso e guardò la busta. Era un po' agitato, ora, riguardo alla posta: lo era da quando Jordan l'aveva rimproverato perché aveva parlato con quella giornalista. Ma quella busta non era battuta a macchina, come l'altra. Quella lettera era scritta a mano, con cerchiolini paffuti che fluttuavano come nuvole sopra le «i». Lacerò la busta e dispiegò la lettera. Profumava di arance. Caro Peter, tu non mi conosci di nome, ma ero il numero 9. È così che ho lasciato la scuola, con una grossa etichetta scritta a pennarello sulla fronte. Tu hai tentato di uccidermi. Non sono al tuo processo, dunque non cercarmi tra la folla. Non riuscendo più a stare in questa città, mi sono trasferita altrove con i miei genitori un mese fa. Inizio la scuola tra una settimana qui nel Minnesota, e la gente ha già sentito parlare di me. Sanno soltanto che sono una vittima della Sterling High. Non ho interessi, non ho una personalità, non ho nemmeno una storia, a parte quella che mi hai dato tu. Avevo la media del 4.0, il massimo dei voti, ma non m'importa più molto dei voti. Questo è il punto. Avevo tanti sogni, mentre ora non so più se andrò al college, perché non riesco ancora a dormire la notte. Non sopporto che qualcuno arrivi di soppiatto alle mie spalle, e neppure le porte sbattute troppo forte, e neanche i fuochi d'artificio. La mia terapia è durata già abbastanza perché io possa dirti una cosa: non metterò mai più piede a Sterling. Mi hai sparato alle spalle. I medici dicevano che ho avuto for-
tuna, che se avessi starnutito o mi fossi voltata a guardarti ora sarei su una sedia a rotelle. Invece, devo solo abituarmi alla gente che mi fissa quando mi dimentico e indosso un top: chiunque può vedere le ferite da proiettile e i tubi nel petto e i punti di sutura. Non me ne importa: prima fissavano i foruncoli sulla mia faccia; ora hanno semplicemente qualcos'altro su cui fissare l'attenzione. Ho pensato molto a te. Credo che dovresti andare in carcere. Sarebbe giusto, mentre questo non lo era, dunque ristabilirebbe un certo equilibrio. Ero nel tuo corso di francese, lo sapevi? Ero seduta nella fila vicino alla finestra, la seconda dal fondo. Mi sei sempre sembrato un po' misterioso, e mi piaceva il tuo sorriso. Mi sarebbe piaciuto essere tua amica. Un saluto Angela Phlug Peter piegò la lettera e la infilò nella federa del cuscino. Dieci minuti dopo, la tirò fuori nuovamente. La lesse per tutta la notte, ancora e poi ancora, finché fu l'alba; finché non ebbe più bisogno di vedere le parole per recitarle a memoria. Lacy si era vestita per suo figlio. Benché fuori ci fossero quasi ventinove gradi, indossava un maglione che aveva tirato fuori da uno scatolone in soffitta: era di angora rosa, e a Peter, quando era piccolo, piaceva accarezzarlo come un gattino. Al polso portava un braccialetto che Peter le aveva fatto in quarta arrotolando minuscoli ritagli di giornale e facendone tante perline dai colori vivaci. Aveva una gonna grigia a disegni che una volta aveva fatto ridere Peter perché diceva che sembrava la scheda madre di un computer, e non era tanto adatta. I suoi capelli erano intrecciati ordinatamente, perché ricordava che con la coda di cavallo aveva spazzolato la faccia di Peter l'ultima volta che gli aveva dato il bacio della buonanotte. Aveva fatto una promessa a se stessa. Per quanto potesse essere dura, per quanto potesse mettersi a singhiozzare rispondendo alle domande, non avrebbe mai distolto lo sguardo da Peter. Lui sarebbe stato, aveva deciso, come una di quelle immagini di spiagge bianche che talvolta le partorienti portano con sé e usano come punto focale. Il volto di Peter le avrebbe dato
la forza di concentrarsi, anche se il suo polso era incostante e il suo cuore perdeva qualche colpo; avrebbe mostrato a Peter che c'era ancora qualcuno che non aveva mai smesso di vegliare su di lui. Quando Jordan McAfee la chiamò al banco dei testimoni, accadde qualcosa di molto strano. Lei entrò con l'agente di custodia, ma invece di procedere verso la piccola balconata di legno dove doveva sedersi il testimone il suo corpo si mosse di propria iniziativa nella direzione opposta. Diana Leven capì dove si dirigeva prima della stessa Lacy: si alzò in piedi per obiettare, ma poi cambiò idea. Lacy camminava svelta, le braccia lungo i fianchi, finché giunse davanti al tavolo della difesa. Si inginocchiò accanto a Peter in modo da poter vedere soltanto il suo volto. Poi allungò la mano sinistra e gli toccò la faccia. La sua pelle era ancora morbida come quella di un bambino, calda al tatto. Quando gli prese le guance tra le mani a coppa, sentì le sue ciglia che le solleticavano il pollice. Era andata a trovare suo figlio in carcere tutte le settimane, ma c'era sempre stata una linea divisoria tra loro due. La sensazione di lui sotto le mani, vitale e reale, era quel genere di regalo che si sente il bisogno di tirar fuori ogni tanto dalla scatola, per tenerlo in alto, per osservarlo con stupore, per non dimenticare che lo si possiede ancora. Lacy ricordava il momento in cui le avevano messo Peter tra le braccia per la prima volta, ancora appiccicoso di vernix caseosa e di sangue, la sua bocca rossa e umida arrotondata nel pianto di un neonato, le braccia e le gambe aperte in quell'improvviso spazio infinito. Chinandosi in avanti, fece la stessa cosa che aveva fatto la prima volta che aveva incontrato suo figlio: chiuse gli occhi, mandò una preghiera e gli diede un bacio sulla fronte. Un agente le toccò una spalla. «Signora» cominciò. Lacy scosse via quella mano e si alzò in piedi. Si avviò al recinto dei testimoni e aprì il fermo del cancelletto per poter entrare. Jordan McAfee le si avvicinò, tendendole una scatola di Kleenex. Poi si girò di spalle perché la giuria non lo vedesse parlare. «Tutto a posto?» sussurrò. Lacy assentì, guardò in faccia Peter e offrì un sorriso come un sacrificio. «Vuol dirmi il suo nome per il verbale?» domandò Jordan. «Lacy Houghton.» «Dove abita?» «1616 Goldenrod Lane, Sterling, New Hampshire.» «Chi abita con lei?»
«Mio marito, Lewis» rispose Lacy. «E mio figlio, Peter.» «Ha altri figli, signora Houghton?» «Avevo un figlio, Joseph, ma è stato ucciso da un automobilista ubriaco lo scorso anno.» «Può raccontarci» disse Jordan McAfee «quando si rese conto per la prima volta che era accaduto qualcosa alla Sterling High School il 6 marzo?» «Ero di turno all'ospedale per tutta la notte. Sono un'ostetrica. Quella mattina, dopo aver portato a termine un parto, andai nella stanza delle infermiere e le vidi raggruppate attorno alla radio tutte insieme. C'era stata un'esplosione alla scuola superiore.» «Che cosa fece dopo aver appreso la notizia?» «Dissi a qualcuno di sostituirmi, e andai a scuola in macchina. Dovevo accertarmi che Peter stesse bene.» «Di solito Peter come andava a scuola?» «In macchina» rispose Lacy. «Con la sua auto.» «Signora Houghton, mi parli del suo rapporto con Peter.» Lacy sorrise. «È il mio bambino piccolo. Avevo due figli, ma Peter è sempre stato il più tranquillo, il più sensibile. Ha sempre avuto bisogno di un po' di incoraggiamento in più.» «Quando Peter cominciò a diventare grande, c'era confidenza tra voi due?» «Assolutamente sì.» «Com'era il rapporto di Peter con suo fratello?» «Era buono...» «E suo padre?» Lacy esitò. Sentiva la presenza di Lewis nell'aula come se fosse seduto lì vicino a lei, e lo rivide mentre camminava sotto la pioggia nel cimitero. «Credo che Lewis avesse un legame più forte con Joey, mentre Peter e io abbiamo più aspetti in comune.» «Peter le ha mai parlato dei problemi che aveva con altri ragazzi?» «Sì.» «Obiezione» disse il pubblico ministero. «Prova per sentito dire.» «Respinta, per il momento» dichiarò il giudice. «Ma faccia attenzione d'ora in avanti, signor McAfee.» Jordan si rivolse di nuovo a lei. «Perché, secondo lei, Peter aveva dei problemi con quei ragazzi?» «Lo tormentavano perché non era come loro. Non era molto atletico.
Non gli piaceva giocare a guardie e ladri. Aveva senso artistico, era creativo e riflessivo, e i ragazzi ridevano di lui per questo.» «Lei che cosa fece?» «Provai» ammise Lacy «a rafforzarlo.» Mentre parlava indirizzava le parole a Peter, e sperava che lui potesse leggerle come una scusante. «Che cosa fanno tutte le madri quando vedono il proprio figlio maltrattato da qualcun altro? Dissi a Peter che gli volevo bene; che quei ragazzi non capivano niente. Gli dissi che era meraviglioso, sensibile, gentile e bello, tutte quelle cose che ci aspetteremmo dagli adulti. Sapevo che tutte le qualità per le quali lo prendevano in giro a cinque anni si sarebbero trasformate in pregi a trentacinque anni... ma non potevo farlo diventare adulto in una notte. Non è possibile far scorrere più velocemente la vita di un figlio, per quanto lo si desideri.» «Quando iniziò la scuola superiore Peter, signora Houghton?» «Nell'autunno del 2004.» «Peter subiva ancora molestie?» «Più che mai» disse Lacy. «Avevo persino chiesto a suo fratello di tenerlo d'occhio.» Jordan le si avvicinò. «Mi parli di Joey.» «Joey piaceva a tutti. Era bello, era un ottimo atleta. Sapeva relazionarsi facilmente sia con gli adulti che con i ragazzi della sua età. Lui... be', lasciò un vuoto in quella scuola.» «Dev'essersi sentita molto orgogliosa di lui.» «Sì. Ma credo che, a causa di Joey, insegnanti e studenti avessero un preconcetto riguardo a un ragazzo Houghton, ancor prima che Peter arrivasse. E quando fu lì, e tutti si resero conto che non era come Joey, per lui la situazione poté soltanto peggiorare.» Osservava il volto di Peter trasformarsi mentre lei parlava, come un cambiamento di stagione. Perché non aveva mai trovato il tempo prima, quando l'aveva, di dire a Peter che lo capiva? E si rendeva conto che Joey aveva lasciato un'ombra così grande che era difficile ritrovare la luce del sole? «Quanti anni aveva Peter quando Joey morì?» «Era alla fine del secondo anno.» «Dev'essere stato devastante per la famiglia» osservò Jordan. «Sì.» «Che cosa fece per aiutare Peter ad affrontare quel dolore?» Lacy abbassò lo sguardo. «Non ero in grado di aiutare Peter. Riuscivo a stento ad aiutare me stessa.»
«E suo marito? Fu un sostegno per Peter in quel periodo?» «Credo che entrambi tentassimo di vivere alla giornata... Se non altro, Peter era quello che teneva unita la famiglia.» «Signora Houghton, Peter le aveva mai detto che intendeva colpire qualcuno a scuola?» La gola di Lacy si irrigidì. «No.» «C'è mai stato qualcosa nella personalità di Peter che potesse farle credere che sarebbe stato capace di compiere un gesto simile?» «Quando guardi negli occhi il tuo bambino» disse Lacy dolcemente, «vedi tutto quello che speri possa diventare... non tutto quello che vuoi che non diventi.» «Ha mai trovato progetti o appunti da cui dedurre che Peter stesse preparando quell'evento?» Una lacrima le rigò la guancia. «No.» Jordan abbassò il tono di voce. «Lei cercava, signora Houghton?» Lacy ripensò al momento in cui aveva sgomberato la scrivania di Joey; a quando era rimasta in piedi vicino al gabinetto a guardar scomparire le droghe che aveva trovato nascoste nel suo cassetto. «No» confessò. «Non guardavo. Credevo di aiutarlo. Dopo la morte di Joey, non volevo altro che tenermi vicino Peter. Non volevo invadere la sua privacy; non volevo contrastarlo; non volevo che qualcuno gli facesse del male. Avrei voluto che rimanesse un bambino per sempre.» Alzò lo sguardo, piangendo più forte. «Ma non è possibile, quando si è genitori. Perché fa parte del tuo compito lasciarli crescere.» Vi fu un certo trambusto tra il pubblico mentre un uomo in fondo all'aula si alzava in piedi, quasi travolgendo una telecamera. Lacy non l'aveva mai visto prima. Aveva capelli neri radi e i baffi; i suoi occhi erano infuocati. «Pensi un po'» disse con astio. «Mia figlia Maddie non crescerà mai.» Indicò una donna seduta accanto a lui, e poi un'altra su una panca più avanti. «E neanche sua figlia. O suo figlio. Maledetta puttana. Se avessi svolto meglio il tuo compito, io potrei ancora fare il mio.» Il giudice cominciò a battere il martelletto. «Signore» disse. «Signore, devo chiederle di...» «Tuo figlio è un mostro. È uno stramaledetto mostro» gridò l'uomo, mentre due agenti del tribunale balzavano su di lui afferrandolo per le braccia e trascinandolo fuori dall'aula. Una volta, Lacy era stata presente alla nascita di una bimba alla quale mancava la metà del cuore. La famiglia sapeva che non sarebbe sopravvis-
suta; avevano scelto di portare avanti la gravidanza nella speranza di poter avere qualche breve momento sulla terra con lei prima che se ne andasse per sempre. Lacy era rimasta in piedi in un angolo della stanza mentre i genitori tenevano in braccio la figlia. Non scrutava le loro facce; non ce la faceva. Si concentrò invece sui bisogni fisici della neonata. La osservò: era tranquilla e aveva un pallore bluastro, eppure mosse un minuscolo pugno in un movimento lento, come un astronauta che navighi nello spazio. Poi, a una a una, le sue dita si dispiegarono e aprì la mano. Lacy pensava a quelle dita in miniatura, al loro sfuggire. Si voltò verso Peter. Mi dispiace tanto, disse muovendo solo la bocca, tacitamente. Poi si coprì il volto con le mani e pianse. Quando il giudice chiese una breve sospensione e i giurati uscirono in fila, Jordan si avvicinò al banco. «Giudice, la difesa chiede di essere ascoltata» disse. «Intendiamo fare ricorso per annullare questo processo.» Pur voltandole le spalle, ebbe la sensazione che Diana stesse roteando gli occhi. «Proprio quello che ci vuole.» «Bene, signor McAfee» disse il giudice, «per quali motivi?» Per il motivo che non ho trovato assolutamente niente di meglio per salvare il mio caso dal disastro, pensò Jordan. «Vostro Onore, c'è stato un inverosimile sfogo emotivo da parte del padre di una vittima di fronte alla giuria. Un discorso di quel genere non può essere ignorato, e non ci sono indicazioni che lei possa dare loro perché lo cancellino dalla memoria.» «È tutto, avvocato?» «No» disse Jordan. «Fino a questo momento, la giuria non sapeva che tra il pubblico ci sono anche i familiari delle vittime. Ora lo sanno, e sanno anche che ogni loro mossa verrà osservata da quelle stesse persone. È un carico di pressione enorme per la giuria in un caso che è già estremamente coinvolgente dal punto di vista emotivo e fin troppo pubblicizzato. Come si può pensare che mettano da parte le aspettative di queste famiglie e svolgano il loro compito in maniera equa e imparziale?» «Sta scherzando?» disse Diana. «La giuria chi pensava che ci fosse fra il pubblico? Gente che passa di qui per caso? È ovvio che è pieno di gente che ha subito le conseguenze della sparatoria. Sono venuti qui per questo.» Il giudice Wagner alzò lo sguardo. «Signor McAfee, non intendo dichiarare nullo questo processo. Capisco la sua preoccupazione, ma credo di potervi porre rimedio dando precise indicazioni ai giurati affinché ignorino qualunque sfogo emotivo proveniente dal pubblico. Chiunque sia implica-
to in questo caso si rende conto dei sentimenti coinvolti e che non sempre la gente riesce a controllarsi. Tuttavia, emetterò anche un'istanza cautelare destinata al pubblico affinché moderi le proprie reazioni, altrimenti il processo continuerà a porte chiuse.» Jordan represse un sospiro. «La prego di prendere nota della mia opposizione, Vostro Onore.» «Naturalmente, signor McAfee» disse il giudice. «Ci vediamo tra un quarto d'ora.» Mentre il giudice usciva per recarsi nel suo ufficio, Jordan tornò al tavolo della difesa, tentando di farsi venire in mente qualche magia per salvare Peter. La verità era che, nonostante quello che King Wah aveva detto, nonostante la spiegazione chiara del PTSD, nonostante la probabile e completa empatia dei giurati nei confronti di Peter, Jordan aveva dimenticato l'unico punto saliente: si sarebbero sempre sentiti più addolorati per le vittime. Diana gli sorrise mentre usciva dall'aula. «Niente male come tentativo» gli disse. La stanza preferita di Selena in tribunale era nascosta vicino allo stanzino del custode ed era piena di vecchie carte geografiche. Non aveva la minima idea del perché fossero in un tribunale invece che in una biblioteca, ma a volte le piaceva rifugiarsi lì, quando era stanca di guardare Jordan camminare sussiegoso davanti al banco. Ci era andata qualche volta, durante il processo, per accudire Sam nei giorni in cui non avevano la babysitter. Quel giorno condusse Lacy nel proprio rifugio e la fece sedere davanti a una carta geografica del mondo che aveva al centro l'emisfero meridionale. L'Australia era purpurea, la Nuova Zelanda verde. Era quella che Selena prediligeva. Le piacevano i draghi rossi dipinti nei mari, e le fiere nuvole tempestose negli angoli. Le piaceva la rosa dei punti cardinali, raffinatamente disegnata per dare l'orientamento. Le piaceva pensare che da un'altra angolazione il mondo potesse apparire completamente diverso. Lacy Houghton non smetteva di piangere, e Selena sapeva che invece doveva riuscirci, altrimenti il controinterrogatorio sarebbe stato un disastro. Si sedette vicino a Lacy. «Posso portarle qualcosa? Zuppa? Caffè?» Lacy scosse il capo e si asciugò il naso con un fazzoletto. «Non posso fare niente per salvarlo.» «A questo penserà Jordan» disse Selena benché, in tutta franchezza, non
riuscisse a immaginare per Peter una situazione diversa da una lunga permanenza in carcere. Si scervellò, provando a pensare che cos'altro potesse dire o fare per calmare Lacy, mentre Sam si protendeva verso una delle sue trecce e la tirava con forza. Bingo. «Lacy» disse Selena. «Potrebbe tenermelo un momento mentre cerco una cosa nella mia borsa?» Lacy sollevò lo sguardo. «Davvero non... non le dispiace?» Selena scosse il capo e depose il bambino sulle sue ginocchia. Sam fissò Lacy, provando diligentemente a metterle il pugno in bocca. «Gah» disse. L'ombra di un sorriso comparve sul volto di Lacy. «Che ometto» sussurrò, e spostò il bambino per tenerlo più saldamente. «Posso?» Selena si voltò e vide la porta socchiudersi: Alex Cormier guardò dentro. Lei si alzò immediatamente. «Vostro Onore, non può entrare...» «La lasci» disse Lacy. Selena fece un passo indietro mentre il giudice entrava nella stanza e si sedeva accanto a Lacy. Posò una tazza di plastica sul tavolo e gliela offrì, con un lieve sorriso, mentre Sam le afferrava il dito roseo e glielo tirava. «Il caffè qui è orribile, ma te l'ho portato ugualmente.» «Grazie.» Selena si spostò con circospezione dietro le carte geografiche impilate finché riuscì a mettersi dietro le due donne, e rimase a osservarle con la stessa sbalordita curiosità che avrebbe manifestato se una leonessa avesse accolto amorevolmente un impala anziché divorarlo. «Sei stata brava fin qui» osservò il giudice. Lacy scosse il capo. «Non abbastanza.» «Non ti rivolgerà molte domande durante il controinterrogatorio, ammesso che lo faccia.» Lacy si strinse il bambino al petto e lo accarezzò sulla schiena. «Non credo di riuscire a tornare là dentro» disse, e la sua voce era come spezzata. «Ce la farai» ribatté il giudice. «Perché Peter ha bisogno di te.» «Lo odiano. Mi odiano.» Il giudice Cormier mise una mano sulla spalla di Lacy. «Non tutti» disse. «Quando rientreremo, mi metterò seduta in prima fila. Non devi guardare il pubblico ministero. Guarda soltanto me.» Selena era a bocca aperta. Spesso, quando i testimoni erano persone fra-
gili o bambini, si sceglieva qualcuno su cui potessero concentrare l'attenzione per rendere meno spaventoso l'atto di testimoniare. Per far capire loro che, in tutta quella folla, avevano almeno un amico. Sam trovò il proprio pollice e cominciò a succhiarlo, addormentandosi contro il petto di Lacy. Selena guardò Alex allungare la mano per fare una carezza sui capelli scuri di suo figlio, soffici come le piume di un marabù. «Tutti pensano che, quando si è giovani, si commettano tanti errori» disse il giudice a Lacy. «Ma io non credo che, da adulti, se ne facciano di meno.» Quando entrò nella cella di detenzione dove era custodito Peter, Jordan stava già facendo la verifica dei danni. «Non ci danneggerà» annunciò. «Il giudice darà precise istruzioni alla giuria perché ignori completamente quello sfogo.» Peter era seduto sulla panca di metallo, la testa fra le mani. «Peter» disse Jordan. «Mi hai sentito? So che è stato brutto, e capisco che ti abbia sconvolto, ma dal punto di vista giuridico non influirà sul tuo...» «Devo dirle perché l'ho fatto» lo interruppe Peter. «A tua madre?» disse Jordan. «Non puoi. È ancora in isolamento.» Esitò. «Ascolta, appena riesco a farti parlare con lei, io...» «No. Io, ecco, io devo dirlo a qualcuno.» Jordan guardò il suo cliente. Peter aveva gli occhi asciutti; teneva i pugni chiusi sulla panca. Quando sollevò lo sguardo, non aveva l'aria terrorizzata del ragazzino seduto in aula accanto a lui il primo giorno del processo. Era diventato adulto, improvvisamente. «Tra non molto racconteremo la tua versione dei fatti» disse Jordan. «Devi soltanto avere pazienza. So che è difficile da credere, ma in qualche modo ne usciremo. Stiamo facendo del nostro meglio.» «Non noi» disse Peter. «Lei.» Si alzò in piedi e si avvicinò a Jordan. «Aveva promesso. Aveva detto che toccava a noi. Ma quando ha detto noi intendeva dire che toccava a lei, vero? Non ha mai pensato che io mi sarei alzato in piedi e avrei detto a tutti cos'è accaduto veramente.» «Hai visto cos'hanno fatto a tua madre?» ribatté Jordan. «Hai un'idea di cosa accadrebbe se tu ti alzassi e andassi a sederti al banco dei testimoni?» In quell'istante, qualcosa dentro Peter si spezzò: non la collera, e nemmeno la sua paura nascosta, ma l'ultimo filo di speranza. Jordan pensò alla testimonianza che aveva reso Michael Beach, quando aveva detto che im-
pressione si prova quando la vita lascia il volto di una persona. Non era necessario essere presenti alla morte di qualcuno per vederlo. «Jordan» disse Peter. «Se dovrò passare il resto della mia vita in carcere, voglio che ascoltino la mia versione dei fatti.» Jordan aprì la bocca, con l'intenzione di dire al suo cliente che no, cazzo, non l'avrebbe lasciato andare alla sbarra a far crollare il castello di carte che lui aveva costruito nella speranza di ottenere l'assoluzione. Ma chi voleva prendere in giro? Non certo Peter. Respirò a fondo. «D'accordo» disse. «Raccontami quello che hai intenzione di dire.» Diana Leven non aveva domande da rivolgere a Lacy Houghton, il che, Jordan lo sapeva, era decisamente un bene. Oltre al fatto che l'accusa non poteva chiederle niente a cui non avesse già risposto in maniera più efficace il padre di Maddie Shaw, non sapeva se Lacy poteva accumulare altro stress senza arrivare al punto di pronunciare parole inintelligibili. Mentre veniva accompagnata fuori dall'aula, il giudice alzò lo sguardo dalla sua pratica. «Il suo prossimo testimone, signor McAfee?» Jordan inspirò profondamente. «La difesa chiama Peter Houghton.» Dietro di lui, vi fu un improvviso trambusto. Udì l'affrettarsi dei cronisti a tirar fuori di tasca altre penne e a voltare pagina sui loro blocchi per gli appunti. Udì i mormorii dei familiari delle vittime mentre seguivano i passi di Peter fino alla sbarra dei testimoni. Vide Selena a distanza, gli occhi sbarrati di fronte a quell'evoluzione imprevista. Peter si sedette e guardò fisso soltanto Jordan, come lui gli aveva detto di fare. Bravo ragazzo, pensò. «Tu sei Peter Houghton?» «Sì» disse Peter, ma non era abbastanza vicino al microfono per farsi udire. Si chinò in avanti e ripeté quella parola. «Sì» disse, e nel medesimo tempo un violento stridore proveniente dall'impianto di amplificazione risuonò attraverso gli altoparlanti dell'aula. «Che classe frequenti, Peter?» «Ero al terzo anno quando sono stato arrestato.» «Quanti anni hai, ora?» «Diciotto.» Jordan si diresse verso la giuria. «Peter, sei tu la persona che andò alla Sterling High School la mattina del 6 marzo 2007, e sparò a dieci persone uccidendole?» «Sì.»
«E ne ferì altre diciannove?» «Sì.» «E causò danni a innumerevoli altre persone, e a una gran quantità di beni?» «Sono io» disse Peter. «Non intendi negare tutto questo oggi, vero?» «No.» «Vuoi spiegare alla giuria» chiese Jordan «perché l'hai fatto?» Peter lo guardò negli occhi. «Sono stati loro a cominciare.» «Chi?» «I prepotenti. Gli atleti. Quelli che mi hanno chiamato mostro per tutta la mia vita.» «Ricordi i loro nomi?» «Ce ne sono tanti» disse Peter. «Vuoi dirci perché hai creduto di dover ricorrere alla violenza?» Jordan aveva detto a Peter che, qualunque cosa avesse detto, non doveva arrabbiarsi. Che doveva rimanere calmo e padrone di sé mentre parlava, altrimenti la sua testimonianza si sarebbe ritorta contro di lui - in maniera ancora più grave di quanto Jordan potesse prevedere. «Ho provato a fare quello che la mia mamma voleva che facessi» spiegò Peter. «Ho provato a essere come loro, ma non ha funzionato.» «Che cosa intendi dire?» «Ho provato con il calcio, ma non mi hanno mai fatto giocare. Una volta, ho aiutato alcuni ragazzi a fare uno scherzo a un insegnante spostando la sua auto dal parcheggio fin dentro la palestra... mi hanno trattenuto a scuola per punizione, ma gli altri ragazzi no, perché facevano parte della squadra di basket che aveva una partita il sabato.» «Ma, Peter» disse Jordan, «perché questo?» Peter si inumidì le labbra. «Non era previsto che finisse così.» «Avevi progettato di uccidere tutte quelle persone?» Avevano fatto le prove nella cella di detenzione. Peter doveva dire solo quello che aveva detto prima, quando Jordan gli aveva dato l'imbeccata. No. No, non l'avevo progettato. Peter abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Quando l'avevo fatto nel gioco» disse pacatamente, «avevo vinto.» Jordan si irrigidì. Peter era uscito dal copione, e ora Jordan non riusciva a ritrovare il filo del suo discorso. Sapeva soltanto che avevano chiuso il sipario prima che lui terminasse. Ripeté tra sé e sé, frettolosamente, la ri-
sposta di Peter: non era poi così male. Lo faceva apparire triste, solitario. Puoi ancora recuperare, si disse Jordan. Andò verso Peter, tentando disperatamente di comunicargli che doveva concentrarsi su di lui; Peter doveva adeguarsi a lui. Lui aveva bisogno di far vedere alla giuria che quel ragazzo aveva scelto di andare lì di fronte a loro per manifestare il suo rimorso. «Ora capisci che non vi furono vincitori quel giorno, Peter?» Jordan vide qualcosa luccicare negli occhi di Peter. Una minuscola fiamma, che era stata riaccesa: l'ottimismo. Jordan aveva svolto il suo compito troppo bene: dopo aver ripetuto a Peter per cinque mesi che sarebbe riuscito a farlo assolvere, che aveva una strategia, che sapeva quello che faceva... Peter, maledizione, aveva scelto quel momento per credergli, finalmente. «La partita non è ancora chiusa, giusto?» disse Peter, e sorrise speranzoso a Jordan. Mentre due dei giurati distoglievano lo sguardo, Jordan lottò per mantenere la calma. Tornò al tavolo della difesa, imprecando sottovoce. Quella era sempre stata la rovina di Peter, no? Lui non aveva idea di come apparisse o suonasse al comune osservatore, alla persona che non sapeva che Peter non stava facendo di tutto per apparire come un killer omicida, ma tentava invece di condividere uno scherzo personale con uno dei suoi rarissimi amici. «Signor McAfee» disse il giudice. «Ha altre domande?» Lui ne aveva mille: Come puoi farmi questo? Come puoi far questo a te stesso? Come posso far capire a questa giuria che tu non avevi in mente quello che sembra? Scosse il capo, ripercorrendo il suo piano d'azione, e il giudice la prese per una risposta. «Signorina Leven?» disse. Jordan alzò la testa di scatto. Un momento, avrebbe voluto dire. Un momento, sto ancora pensando. Trattenne il respiro. Se Diana domandava qualcosa a Peter - fosse stato anche solo il suo secondo nome - lui avrebbe avuto l'opportunità di ripartire. E sicuramente, in quel caso, avrebbe lasciato alla giuria un'impressione diversa di Peter. Diana sfogliò le sue pagine di appunti, poi le posò sul tavolo capovolte. «L'accusa non ha domande, Vostro Onore» dichiarò. Il giudice Wagner chiamò un agente di custodia. «Riconduca il signor Houghton al suo posto. La corte si aggiorna per il weekend.» Non appena la giuria si sciolse, l'aula scoppiò in un boato di domande. I
cronisti risalivano la corrente degli spettatori verso il bar, sperando di bloccare Jordan per avere un suo commento. Lui afferrò la cartella e si precipitò fuori dall'uscita sul retro, attraverso la quale gli agenti stavano accompagnando Peter. «Aspettate» disse. A passi lenti si avvicinò ai due uomini, fermi in piedi con Peter in mezzo a loro, ammanettato. «Devo parlare con il mio cliente riguardo a lunedì.» Gli agenti si scambiarono un'occhiata, poi guardarono Jordan. «Due minuti» dissero, ma non si allontanarono. Se Jordan voleva parlare a Peter, doveva farlo a quelle condizioni. Peter era acceso in volto, radioso. «Ho fatto un buon lavoro?» Jordan esitò, cercando le parole. «Hai detto quello che volevi dire?» «Già.» «Allora hai fatto davvero un buon lavoro» disse Jordan. Rimase in piedi nell'atrio a guardare gli agenti che conducevano via Peter. Poco prima di svoltare l'angolo, Peter sollevò le mani unite, facendogli un cenno. Jordan annuì, le mani in tasca. Sgattaiolò fuori dal carcere attraverso un'uscita posteriore e oltrepassò tre furgoni delle emittenti televisive con le antenne paraboliche issate come enormi uccelli bianchi. Attraverso il vetro posteriore di ciascun furgone, Jordan riuscì a vedere i producer che montavano i video per i notiziari. Il suo volto era su tutti gli schermi televisivi. Superò l'ultimo furgone e udì, attraverso il finestrino aperto, la voce di Peter. La partita non è ancora chiusa. Jordan si mise la cartella su una spalla e camminò con passo più spedito. «Oh, sì che lo è» disse. Selena aveva cucinato per suo marito quello che lui chiamava il «pasto del boia», la stessa cosa che gli serviva tutte le sere che precedevano l'arringa finale: oca arrosto, come per dire Ti sei dato la zappa sui piedi. 5 Mentre Sam era già a letto, mise un piatto davanti a Jordan e poi si sedette di fronte a lui. «Non so davvero cosa dire» ammise. Jordan allontanò il piatto. «Non sono ancora pronto per questo.» «Di cosa stai parlando?» «Non posso chiudere il caso con questo.» «Tesoro» precisò Selena, «dopo oggi, non riusciresti a salvare questo caso nemmeno con un'intera squadra di pompieri.» 5
To cook one's goose significa «darsi la zappa sui piedi». (N.d.T.)
«Non riesco a rassegnarmi. Ho detto a Peter che aveva una possibilità.» Rivolse uno sguardo angosciato a Selena. «Sono stato io a lasciarlo salire sul banco, pur sapendo che non era una buona idea. Deve pur esserci qualcosa che possa fare... qualcosa che possa dire perché la testimonianza di Peter non sia l'ultima presentata alla giuria.» Selena sospirò e prese il piatto con la cena. Prese anche il coltello e la forchetta di Jordan e si tagliò un boccone, intingendolo nella salsa di ciliegie. «È un'oca maledettamente buona, Jordan» gli disse. «Non sai cosa ti perdi.» «L'elenco dei testimoni» disse Jordan, alzandosi in piedi e mettendosi a rovistare in una pila di carte in fondo al tavolo da pranzo. «Ci sarà pur qualcuno che non abbiamo chiamato e che potrebbe aiutarci.» Scorse i nomi. «Chi è Louise Herrman?» «L'insegnante di terza di Peter» rispose Selena con la bocca piena. «Cosa diavolo ci fa nell'elenco dei testimoni?» «È stata lei a contattarci» rispose Selena. «Ha detto che, se avessimo avuto bisogno di lei, era disposta a testimoniare che in terza era un bravo ragazzo.» «Be', non funzionerebbe. Mi serve qualcuno di recente.» Sospirò. «Non c'è nessun altro, qui...» Passando alla seconda pagina, vide un solo, ultimo nome battuto a macchina. «A parte Josie Cormier» disse Jordan lentamente. Selena posò la forchetta. «Vuoi chiamare la figlia di Alex?» «Da quando chiami il giudice Cormier Alex?» «La ragazza non ricorda niente.» «Be', non potrebbe fregarmene di meno. Magari adesso ricorda qualcosa. Facciamola venire e vediamo se parla.» Selena setacciò le pile di carte che coprivano il tavolo d'appoggio, la mensola del camino, la copertura del girello di Sam. «Ecco la sua dichiarazione» disse, porgendola a Jordan. La prima pagina era l'affidavit che il giudice Cormier gli aveva consegnato: quello in cui si diceva che Jordan non avrebbe chiamato Josie alla sbarra perché non sapeva niente. La seconda era il colloquio più recente della ragazza con Patrick Ducharme. «Erano amici dall'asilo.» «Erano amici.» «Non me ne importa. Diana ha già preparato il terreno: Peter si era preso una cotta per Josie; ha ucciso il suo ragazzo. Se riusciamo a farle dire qualcosa di positivo su di lui - fosse anche solo mostrare che lo perdona -
avrà un certo peso sulla giuria.» Si alzò in piedi. «Torno in tribunale» annunciò. «Ho bisogno di un mandato di comparizione.» Quando il campanello squillò, il sabato mattina, Josie era ancora in pigiama. Aveva dormito come un sasso, ma non se ne stupì, perché non era riuscita a dormire bene per tutta la settimana. I suoi sogni erano pieni di strade su cui correvano soltanto sedie a rotelle; di serrature a combinazione senza numeri; di reginette di bellezza senza volto. Lei era l'unica persona rimasta seduta nella stanza di isolamento dei testimoni, il che significava che era quasi finita; che presto avrebbe potuto di nuovo respirare. Josie aprì la porta e trovò quell'afroamericana alta, sbalorditiva, sposata con Jordan McAfee, che le sorrideva tendendole un foglio. «Devo darti questo, Josie» disse. «Tua madre è in casa?» Josie prese il foglio azzurro ripiegato. Forse si trattava di un party per il cast alla fine del processo. Sarebbe stato davvero cool. Chiamò sua madre da sopra la spalla. Alex apparve con Patrick, che la seguiva come un'ombra. «Oh» fece Selena, sbattendo le palpebre. Imperturbabile, sua madre incrociò le braccia. «Cosa succede?» «Giudice, mi dispiace disturbarla il sabato, ma mio marito si domandava se Josie può parlare con lui oggi.» «Perché?» «Perché ha un mandato di comparizione per sua figlia: lunedì dovrà testimoniare.» La stanza cominciò a girare. «Testimoniare?» ripeté Josie. Sua madre fece un passo avanti, e dallo sguardo sul suo volto si poteva dedurre che avrebbe combinato un guaio serio se Patrick non le avesse messo un braccio attorno alla vita per trattenerla. Lui prese il foglio azzurro dalle mani di Josie e gli diede una scorsa. «Non posso andare in aula» mormorò Josie. Sua madre scosse il capo. «Avete un affidavit firmato da Josie in cui si dice che lei non ricorda niente...» «So che non se lo aspettava. Ma le cose stanno così: Jordan chiamerà Josie lunedì, e preferiamo parlare con lei della sua testimonianza in anticipo, piuttosto che farla entrare impreparata. È meglio per noi, ed è meglio per Josie.» Lei esitò. «Può scegliere la via più difficile, giudice, oppure quella che le suggeriamo noi.»
La madre di Josie serrò le mascelle. «Alle due in punto» disse digrignando i denti, e sbatté la porta in faccia a Selena. «Me l'avevi promesso» gridò Josie. «Mi avevi promesso che non avrei dovuto andare là a testimoniare. Dicevi che non avrei dovuto farlo!» Sua madre l'afferrò per le spalle. «Tesoro, so che sei spaventata. So che non vuoi andarci. Ma niente di quello che dirai lo aiuterà. Sarà molto breve e indolore.» Lanciò un'occhiata a Patrick. «Perché diavolo lo fa?» «Perché il suo caso è già finito nel cesso» disse Patrick. «Vuole che Josie glielo salvi.» Non occorreva altro: Josie scoppiò a piangere. Jordan aprì la porta del suo studio, reggendo tra le braccia Sam come se fosse un pallone da football. Erano le due in punto, e Josie Cormier e sua madre erano arrivate. Il giudice Cormier aveva la stessa aria invitante di una parete rocciosa a picco; sua figlia, invece, tremava come una foglia. «Grazie per essere venute» disse lui, incollandosi un immenso, amichevole sorriso sulla faccia. Soprattutto, voleva che Josie si sentisse a suo agio. Le due donne non dissero una parola. «Sono dispiaciuto» disse Jordan, indicando Sam con un gesto. «Mia moglie avrebbe già dovuto essere qui a prendere il bambino per lasciarci parlare tranquillamente, ma sulla Route 10 si è ribaltato un camion di legname.» Ampliò ulteriormente il suo sorriso. «Dovrebbe essere qui a minuti.» Indicò il divano e le poltrone nel suo studio, invitandole a sedersi. Sul tavolo c'erano dei biscotti, e una caraffa d'acqua. «Posso offrirvi qualcosa da mangiare, o da bere?» «No» disse il giudice. Jordan si sedette, facendo dondolare il bambino su un ginocchio. «Bene.» Fissò l'orologio, constatando sorpreso quanto possano essere lunghi sessanta secondi quando si vuole soltanto che il tempo passi in fretta, e poi d'improvviso la porta si spalancò e Selena si precipitò dentro. «Scusate, scusate» disse, agitata, protendendosi per prendere il bambino. Ma, così facendo, la borsa con i pannolini le scivolò dalla spalla, cadendo sul pavimento e atterrando di fronte a Josie. Josie si alzò, guardando fisso lo zaino caduto di Selena. Indietreggiò, inciampando nelle gambe di sua madre e in un fianco del divano. «No» gemette, e si accoccolò come una palla in un angolo, coprendosi la testa con
le mani mentre cominciava a piangere. Quel suono provocò gli strilli di Sam, e Selena se lo strinse contro la spalla mentre Jordan osservava senza dire nulla. Il giudice Cormier si accucciò accanto a sua figlia. «Josie, cosa succede? Josie? Che cos'hai?» La ragazza si dondolava avanti e indietro, singhiozzando. Alzò gli occhi su sua madre. «Mi ricordo» bisbigliò. «Più di quanto abbia detto.» Il giudice rimase a bocca aperta, e Jordan approfittò del suo stupore per cogliere al volo il momento. «Che cosa ricordi?» domandò, inginocchiandosi accanto a Josie. Il giudice Cormier lo spinse via e aiutò Josie a rialzarsi. La fece sedere sul divano e le versò un bicchiere d'acqua dalla caraffa. «Va bene così» mormorò il giudice. Josie respirò e rabbrividì. «Lo zaino» disse, indicando con il mento quello sul pavimento. «Cadde dalla spalla di Peter, come ha fatto questo. La cerniera era aperta, e... e cadde fuori una pistola. Matt l'afferrò.» Il suo volto si contrasse. «Sparò a Peter, ma lo mancò. E Peter... e lui...» Chiuse gli occhi. «E allora Peter gli sparò e lo colpì.» Jordan incrociò lo sguardo di Selena. La difesa di Peter dipendeva dal PTSD: come un evento può innescarne un altro; come una persona rimasta traumatizzata può essere incapace di ricordare quell'evento. Come qualcuno, in quel caso Josie, può osservare una borsa di pannolini che cade a terra e vedere invece cos'era accaduto nello spogliatoio mesi prima: Peter, con un'arma puntata contro di lui - una minaccia reale e presente, un prepotente sul punto di ucciderlo. Oppure, in altre parole, quello che Jordan aveva sempre detto. «È un casino» disse Jordan a Selena quando Alex Cormier e la figlia erano ormai tornate a casa. «E gioca a mio favore.» Selena non se n'era andata con il bambino; ora Sam si era addormentato in un cassetto vuoto dell'armadio per i raccoglitori. Lei e Jordan sedettero al tavolo dove, meno di un'ora prima, Josie aveva confessato che recentemente aveva iniziato a ricordare frammenti e stralci della sparatoria ma non l'aveva detto a nessuno, terrorizzata all'idea di dover andare in tribunale a parlarne. E quando la borsa dei pannolini era caduta il ricordo era riemerso, colpendola in pieno. «Se l'avessi scoperto prima che il processo cominciasse, l'avrei presentato a Diana e l'avrei usato tatticamente» disse Jordan. «Ma ora che la giuria
è già riunita forse posso fare di meglio.» «Niente di meglio di un tiro in porta allo scadere del tempo» commentò Selena. «Immaginiamo che Josie sia sul banco dei testimoni a raccontare tutto alla corte. Improvvisamente, quei dieci morti non sono più quello che sembravano. Nessuno conosceva la vera storia che sottendeva questa, il che mette in discussione qualsiasi cosa il pubblico ministero abbia detto alla giuria sugli spari. In altre parole, se l'accusa era all'oscuro di questo, cos'altro non sa?» «E» puntualizzò Selena «questo esemplifica quanto ha detto King Wah. Ecco uno dei ragazzi che tormentavano Peter, con un'arma puntata contro di lui, proprio come lui si era sempre immaginato che sarebbe accaduto.» Esitò. «Certo, Peter rimane quello che aveva introdotto l'arma...» «Ma è irrilevante» disse Jordan. «Non sono costretto ad avere tutte le risposte.» Baciò Selena dritto sulla bocca. «Devo soltanto accertarmi che non le abbia neanche l'accusa.» Alex si sedette sulla panchina, guardando un gruppo disordinato di ragazzi del college che giocavano a Ultimate Frisbee come se non avessero idea che il mondo era crollato. Vicino a lei, Josie stringeva le ginocchia al petto. «Perché non me l'hai detto?» domandò Alex. Josie sollevò il volto. «Non potevo. Tu eri il giudice del caso.» Alex sentì una fitta sotto lo sterno. «Ma anche dopo il mio ritiro, Josie... quando andammo da Jordan e tu dicesti che non ricordavi niente... È per questo che ti ho fatto firmare l'affidavit.» «Credevo che fosse quello che volevi da me» si giustificò Josie. «Mi avevi detto che, se firmavo, non avrei dovuto testimoniare... e io non volevo andare in tribunale. Non volevo più vedere Peter.» Uno dei giocatori del college fece un salto e mancò il frisbee. Veleggiò verso Alex, atterrando in una nube di polvere ai suoi piedi. «Scusi» disse il ragazzo, facendo un cenno con la mano. Alex lo raccolse e lo lanciò in volo. Il vento sollevò il frisbee e lo portò più in alto, una macchia contro un cielo perfettamente azzurro. «Mami» disse Josie, benché non la chiamasse più così da anni. «Che cosa mi succederà?» Alex non lo sapeva. Non come giudice, non come avvocato, non come madre. L'unica cosa che poteva fare era consigliarla nel migliore dei modi e sperare che fosse sufficiente, di fronte a quello che doveva ancora acca-
dere. «D'ora in poi» disse Alex a Josie, «devi soltanto dire la verità.» Patrick era stato chiamato per una negoziazione di ostaggi in un caso di violenza domestica a Cornish, e giunse a Sterling soltanto poco prima di mezzanotte. Invece di tornare a casa, andò da Alex: lì si sentiva più a casa, comunque. Aveva tentato di telefonarle parecchie volte quel giorno per sapere com'era andata con Jordan McAfee, ma nella località dove si trovava lui il cellulare non prendeva. La trovò seduta al buio sul divano del soggiorno, e si mise vicino a lei. Per un istante, fissò la parete, proprio come Alex. «Che facciamo?» sussurrò. Lei lo guardò in volto, e lui capì che stava piangendo. Si maledisse Dovevi fare altri tentativi per telefonarle, dovevi tornare a casa prima. «Cosa c'è?» «Ho sbagliato tutto, Patrick» disse Alex. «Credevo di aiutarla. Credevo di sapere quel che facevo. E invece salta fuori che non sapevo niente.» «Josie?» domandò, tentando di mettere insieme i pezzi. «Dov'è?» «Dorme. Le ho dato una pillola per dormire.» «Vuoi parlarne?» «Siamo state da Jordan McAfee, oggi, e Josie gli ha detto... gli ha detto che ricordava qualcosa della sparatoria. In realtà, ricordava tutto.» Patrick emise un leggero fischio. «Dunque mentiva?» «Non so. Credo fosse spaventata.» Alex sollevò lo sguardo su Patrick. «E non è tutto. Secondo Josie, Matt sparò a Peter per primo.» «Cosa?» «Lo zaino che Peter portava in spalla cadde a terra davanti a Matt, e lui prese una delle pistole. Sparò, ma lo mancò.» Patrick si passò una mano sul volto. Diana Leven non sarebbe stata contenta. «Che cosa accadrà a Josie?» disse Alex. «Nel migliore dei casi andrà alla sbarra e l'intera città la odierà per aver testimoniato in difesa di Peter. Nel peggiore, rilascerà falsa testimonianza e verrà accusata per questo.» La mente di Patrick galoppava. «Non puoi preoccuparti di questo. Esula dalle tue possibilità. E poi Josie si comporterà bene. È una sopravvissuta.» Si chinò a baciarla, dolcemente, la sua bocca che si arrotondava sulle parole che non poteva ancora dirle, e sulle promesse che aveva paura di fare. La baciò finché sentì che lei si rilassava. «Dovresti prendere una di quelle pillole per dormire» sussurrò.
Alex inclinò la testa. «Tu non rimani?» «Non posso. Ho ancora del lavoro da sbrigare.» «Hai fatto tutta la strada per venire qui soltanto per dirmi che te ne vai?» Patrick la guardò, rimpiangendo di non poterle spiegare che cosa doveva fare. «Ci vediamo dopo, Alex» disse. Alex si era confidata con lui, ma come giudice sapeva che Patrick non poteva mantenere il suo segreto. Lunedì mattina, quando Patrick avrebbe visto il pubblico ministero, aveva il dovere di dire a Diana che cosa sapeva ora di Matt Royston: che era stato lui a sparare il primo colpo nello spogliatoio. Legalmente, era obbligato a svelare quell'ulteriore complicazione. Tuttavia, tecnicamente, aveva tutta la domenica per fare quello che voleva di quell'informazione. Se Patrick avesse trovato la prova delle affermazioni di Josie, avrebbe potuto attutire il colpo per lei sul banco dei testimoni... e diventare un eroe agli occhi di Alex. Ma c'era un'altra parte di lui che voleva cercare nello spogliatoio anche per un'altra ragione. Patrick sapeva di aver perlustrato personalmente quel piccolo spazio in cerca di prove, e nessun altro proiettile era stato trovato. Ma, se Matt avesse sparato per primo a Peter, avrebbe dovuto essercene uno. Non voleva dirlo ad Alex, ma Josie aveva già mentito una volta. Non c'era motivo perché non lo facesse di nuovo. Alle sei del mattino, la Sterling High School era un gigante addormentato. Patrick aprì il portone principale ed entrò nei corridoi al buio. Erano stati puliti professionalmente, ma questo non gli impediva di vedere, alla luce della sua torcia, i punti in cui i proiettili avevano rotto i vetri e il sangue aveva macchiato il pavimento. Si muoveva rapidamente, e i tacchi delle sue scarpe riecheggiavano mentre spingeva da parte i teli blu da cantiere ed evitava i mucchi di legname. Patrick aprì le porte a due battenti della palestra e si fece strada scricchiolando attraverso i tratteggi simili a un codice Morse che segnavano le tavole del pavimento verniciate in poliuretano. Premette una fila di interruttori e la palestra fu inondata di luce. L'ultima volta che era stato lì, c'erano le coperte del pronto soccorso distese sul pavimento, in corrispondenza dei numeri che erano stati scritti a pennarello sulla fronte di Noah James, di Michael Beach, di Justin Friedman, di Dusty Spears e di Austin Prokiov. C'erano i tecnici della scientifica che strisciavano sulle mani e sulle ginocchia, scattando foto di scheggiature nei muri di cemento, estra-
endo proiettili dal tabellone del canestro di basket. Aveva passato ore alla stazione di polizia, la sua prima sosta dopo aver lasciato la casa di Alex, a esaminare l'impronta digitale ingrandita rinvenuta sull'Arma B. Non era decisiva; e lui aveva dato per scontato, oziosamente, che fosse di Peter. Ma se fosse stata di Matt? C'era il modo di provare che Royston aveva impugnato l'arma, come sosteneva Josie? Patrick aveva studiato le impronte prese dal cadavere di Matt e le aveva confrontate in tutti i modi possibili con l'impronta parziale, finché le linee e le sporgenze gli erano apparse ancora più confuse. Se c'era una prova da trovare, doveva essere nella scuola. Lo spogliatoio appariva esattamente come nella foto che aveva usato durante la sua testimonianza all'inizio della settimana, a parte il fatto che i corpi, ovviamente, erano stati rimossi. A differenza dei corridoi e delle aule della scuola, lo spogliatoio non era stato né pulito né sistemato. Quel piccolo spazio era troppo danneggiato, non fisicamente, ma psicologicamente, e la direzione aveva deciso all'unanimità di demolirlo, insieme al resto della palestra e alla caffetteria, più avanti quello stesso mese. Lo spogliatoio era un rettangolo. La porta per accedervi, dalla palestra, si trovava al centro di una lunga parete. Esattamente di fronte, c'erano una panca di legno e una fila di armadietti di metallo. Nell'angolo all'estrema sinistra dello spogliatoio c'era un piccolo vano che si apriva su una cabina da doccia comune. In quell'angolo era stato rinvenuto il corpo di Matt, con Josie distesa accanto. A dieci metri di distanza, nell'angolo all'estrema destra dello spogliatoio, si era rannicchiato Peter. Lo zaino azzurro era caduto esattamente a sinistra del vano della porta. Se Patrick doveva credere a Josie, Peter era entrato di corsa nello spogliatoio, dove Josie e Matt erano andati a nascondersi. Presumibilmente, lui impugnava l'Arma A. Gli era caduto lo zaino, e Matt, che doveva essere in piedi al centro della stanza, abbastanza vicino da raggiungerlo, aveva afferrato l'Arma B. Matt aveva sparato a Peter - il proiettile che non era mai stato ritrovato, quello che dimostrava che l'Arma B aveva sparato - e l'aveva mancato. Quando aveva provato a sparare di nuovo, l'arma si era inceppata. In quel momento, Peter gli aveva sparato, due volte. Il problema era il seguente: il corpo di Matt era stato trovato ad almeno quattro metri dallo zaino da cui aveva preso l'arma. Perché Matt era indietreggiato, e poi aveva sparato a Peter? Non aveva senso. Era possibile che gli spari di Peter avessero fatto arretrare il corpo di Matt, ma la fisica più elementare spiegava a Patrick che un colpo spara-
to da dove Peter era in piedi non poteva aver gettato a terra Matt nel punto in cui era stato trovato. Inoltre, non erano state trovate macchie di sangue che potessero far pensare che Matt era in piedi da qualche parte vicino allo zaino quando era stato colpito da Peter. Probabilmente era caduto nel punto in cui era stato colpito. Patrick procedette verso la parete dove aveva bloccato Peter. Cominciò dall'angolo più in alto e metodicamente passò le dita su ogni sporgenza e su ogni nicchia, sugli spigoli degli armadietti e al loro interno, attorno alla curva dei muri perpendicolari. Strisciò sotto la panca di legno e perlustrò la parte sotto. Puntò la torcia contro il soffitto. In un ambiente così ristretto, un proiettile sparato da Matt avrebbe dovuto fare danni tali da essere visibili, eppure non c'era assolutamente nessuna prova che un'arma avesse sparato, con successo, in direzione di Peter. Patrick andò nell'angolo opposto dello spogliatoio. C'era ancora una piccola macchia scura di sangue sul pavimento, e un'impronta di scarpa essiccata. Oltrepassò la macchia e andò nella cabina della doccia, ripetendo la stessa, meticolosa indagine della parete di piastrelle a cui Matt avrebbe dovuto voltare le spalle. Se avesse scoperto in quel punto il proiettile mancante, dove era stato rinvenuto il corpo di Matt, sarebbe risultato evidente che non era stato Matt a sparare con l'Arma B: in quel caso Peter doveva aver impugnato anche quell'arma, oltre all'Arma A. Oppure, per dirla in un'altra maniera: Josie aveva mentito a Jordan McAfee. Fu un compito facile, perché le piastrelle erano bianche, intatte. Non c'erano né fessure né schegge né frammenti, niente che facesse pensare a un proiettile che avesse perforato lo stomaco di Matt per poi colpire la parete della doccia. Patrick fece un altro giro, guardando in luoghi che non avevano senso: la parte alta della doccia, il soffitto, il tubo di scarico. Si tolse le scarpe e i calzini e trascinò i piedi lungo il pavimento della doccia. Fu quando sfregò l'alluce lungo il bordo del tombino di scarico che lo sentì. Patrick si chinò appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia e tastò lungo il margine del metallo. Sulla piastrellatura che contornava l'inferriata del drenaggio c'era un lungo segno simile a un graffio. Data la sua collocazione, era comprensibile che fosse passato inosservato: i tecnici che l'avevano visto dovevano aver pensato che fosse soltanto dello sporco. Lo strofinò col dito e poi guardò con una torcia nello scarico. Se il proiettile era scivo-
lato attraverso la grata, doveva essersene andato da tempo - eppure i buchi del drenaggio erano troppo piccoli per farlo passare. Aprendo un armadietto, Patrick staccò con le mani un piccolo specchio quadrato e lo collocò sul pavimento della doccia, proprio dove c'era il segno. Poi spense le luci e tirò fuori un puntatore laser. Rimase in piedi dov'era stato bloccato Peter e puntò la torcia sullo specchio, osservando la luce rimbalzare sulla parete opposta delle docce, dove nessun proiettile aveva lasciato il segno. Compiendo un movimento circolare, continuò a puntare il raggio finché la luce riflessa colpì proprio il centro di una finestrella che serviva per la ventilazione. Si mise in ginocchio, segnando il punto in cui si trovava con una matita che aveva in tasca. Poi tirò fuori il cellulare. «Diana» disse quando il pubblico ministero rispose. «Domani devi bloccare l'inizio dell'udienza.» «So che è insolito» disse Diana in aula la mattina seguente, «e che è qui presente una giuria, ma devo chiedere un aggiornamento fino all'arrivo del mio detective. Nel corso delle indagini ha trovato qualcosa di nuovo sul caso... qualcosa di scagionante, pare.» «Gli ha telefonato?» domandò il giudice Wagner. «Parecchie volte.» Patrick non rispondeva al cellulare. Se l'avesse fatto, lei avrebbe potuto dirgli senza mezzi termini fino a che punto desiderava ucciderlo. «Obiezione, Vostro Onore» disse Jordan. «Noi siamo pronti per continuare. Sono certo che la signorina Leven mi fornirà questa informazione scagionante, se e quando arriverà, ma a questo punto intendo giocarmi le mie possibilità. E dal momento che siamo tutti qui al banco vorrei aggiungere che ho un testimone pronto a testimoniare subito.» «Quale testimone?» domandò Diana. «Non ha nessun altro da chiamare.» Lui le sorrise. «La figlia del giudice Cormier.» Alex era seduta fuori dall'aula, e teneva stretta la mano di Josie. «Sarà tutto finito prima che tu abbia avuto il tempo di accorgertene.» Il colmo dell'ironia, Alex lo sapeva, era che mesi prima, quando si era battuta così strenuamente per essere il giudice di quel caso, era perché si sentiva più a suo agio offrendo a sua figlia un aiuto giuridico anziché emotivo. E ora che era lì, con Josie che stava per testimoniare in quell'arena
che Alex conosceva meglio di chiunque altro, non era in grado di darle nessun consiglio che la aiutasse dal punto di vista giuridico. Faceva paura. Faceva star male. E Alex non poteva far altro che guardare sua figlia soffrire. Un agente del tribunale le raggiunse. «Giudice» disse. «Sua figlia è pronta?» Alex strinse la mano di Josie. «Limitati a dire quello che sai» le disse, e si alzò per andare a sedersi in aula. «Mamma?» la richiamò Josie, e Alex si voltò. «E se quello che sai non è quello che la gente vuol sentire?» Alex cercò di sorridere. «Di' la verità» disse. «Non puoi sbagliare.» Per completare la serie di rivelazioni, mentre Josie si avviava alla sbarra, Jordan porse a Diana una sinossi della sua testimonianza. «Quando l'ha avuta?» bisbigliò il pubblico ministero. «Durante il weekend. Mi spiace» disse, benché in realtà non lo pensasse. Si avvicinò a Josie, che appariva piccola e pallida. Aveva i capelli raccolti ordinatamente in una coda di cavallo, e teneva le mani piegate in grembo. Evitava accuratamente gli sguardi concentrandosi sulla grana del legno di cui era fatto il parapetto del banco dei testimoni. «Vuoi dirmi il tuo nome?» «Josie Cormier.» «Dove abiti, Josie?» «45 East Prescott Street, a Sterling.» «Quanti anni hai?» «Diciassette.» Jordan si avvicinò di un passo, perché solo lei potesse udirlo. «Vedi?» mormorò. «È una pacchia.» Le strizzò l'occhio, e pensò che lei avrebbe potuto almeno rispondergli con un accenno di sorriso. «Dov'eri la mattina del 6 marzo 2007?» «Ero a scuola.» «Che lezione avevi la prima ora?» «Inglese» disse Josie a bassa voce. «E la seconda?» «Matematica.» «La terza ora?» «Avevo un'ora buca.» «Dove la trascorresti?»
«Con il mio ragazzo» fu la risposta. «Matt Royston.» Guardava di lato, sbattendo le palpebre troppo in fretta. «Dove eravate tu e Matt durante la terza ora?» «Eravamo usciti dalla caffetteria. Stavamo andando al suo armadietto, prima dell'ora successiva.» «Poi cosa accadde?» Josie si guardò in grembo. «Vi fu molto rumore. E la gente cominciò a correre. Urlavano di armi, di qualcuno con un'arma. Un nostro amico, Drew Girard, ci disse che era Peter.» Alzò lo sguardo, e i suoi occhi incontrarono quelli di Peter. Per un lungo momento continuò a fissarlo, poi chiuse gli occhi e si voltò. «Sapevi cosa sarebbe accaduto?» «No.» «Vedevi qualcuno sparare?» «No.» «Dove andasti?» «In palestra. L'attraversammo di corsa, verso lo spogliatoio. Capivo che lui era sempre più vicino perché continuavo a udire gli spari.» «Chi c'era con te quando arrivasti nello spogliatoio?» «Credevo Drew e Matt, ma quando mi voltai mi accorsi che Drew non c'era. Era stato colpito.» «Vedesti Drew mentre veniva colpito?» Josie scosse il capo. «No.» «Vedesti Peter prima di entrare nello spogliatoio?» «No.» Il suo volto si contrasse e lei si asciugò gli occhi. «Josie» proseguì Jordan, «cosa accadde dopo?» 10.16, quel giorno «Mettiti giù» sibilò Matt, e spinse Josie per farla scivolare dietro la panca di legno. Non era un buon nascondiglio, ma nessun punto dello spogliatoio si prestava particolarmente a quello scopo. Il piano di Matt era arrampicarsi sulla finestra della doccia, ed era persino riuscito ad aprirla, ma poi udirono gli spari in palestra e capirono che non avevano il tempo di trascinare la panca e salirvi sopra. Si erano letteralmente chiusi in trappola. Lei si accoccolò a palla e Matt si accucciò davanti a lei. Il cuore di Josie batteva forte contro la sua schiena, e lei continuava a dimenticarsi di respi-
rare. Lui cercò dietro di sé finché trovò la sua mano. «Se succede qualcosa, Jo» sussurrò. «Io ti amavo.» Josie cominciò a piangere. Stava per morire; stavano per morire tutti. Pensò a un centinaio di cose che non aveva ancora fatto e che le sarebbe tanto piaciuto fare: andare in Australia, nuotare con i delfini. Imparare tutte le parole di Bohemian Rhapsody. Ottenere il diploma. Sposarsi. Si asciugò il volto sulla camicia di Matt, e poi la porta dello spogliatoio si spalancò. Peter entrò con passo pesante, gli occhi feroci, impugnando un'arma. Aveva la scarpa sinistra slacciata, notò Josie, e poi non riusciva a credere di averlo notato. Lui alzò la pistola contro Matt, e lei non poteva farci niente. Urlò. Forse fu il rumore; forse la sua voce. Peter sembrò sconcertato, e gli cadde lo zaino. Gli scivolò dalla spalla, e contemporaneamente un'altra pistola gli cadde da una tasca aperta. Ruzzolò sul pavimento, atterrando proprio davanti al piede sinistro di Josie. Avete presente quei momenti in cui il mondo si muove così lentamente che potete sentire le vostre ossa spostarsi, la vostra mente vacillare? Quando pensate che, qualsiasi cosa accada, per il resto della vostra vita ricorderete ogni minimo dettaglio di quell'unico minuto per sempre? Josie guardò la propria mano protendersi, guardò le proprie dita chiudersi attorno al freddo calcio nero della pistola. Impugnandola nervosamente, riuscì a raddrizzarsi barcollando, puntando l'arma contro Peter. Matt indietreggiò verso le docce, coperto da Josie. Peter impugnò saldamente la sua pistola, puntandola ancora contro Matt, benché Josie fosse più vicina. «Josie» disse. «Lasciami finire.» «Sparagli, Josie» disse Matt. «Sparagli, cazzo.» Peter tirò indietro il carrello della pistola perché un proiettile passasse dal caricatore e si mettesse in canna. Osservandolo attentamente, Josie imitò i suoi gesti. Ricordò quando era alla scuola materna con Peter, quando gli altri ragazzi raccoglievano bastoni o sassi e correvano in giro strillando Mani in alto. Ma lei e Peter per che cosa usavano i bastoni? Non riusciva a ricordare. «Josie, Cristo santo!» Matt sudava, gli occhi sbarrati. «Sei così maledettamente stupida?»
«Non parlarle così» gridò Peter. «Chiudi il becco, idiota» disse Matt. «Credi che lei voglia salvarti?» Si rivolse a Josie. «Che cosa aspetti? Spara.» E lei sparò. Lo scatto dell'arma le lacerò due strisce di pelle alla base del pollice. Alzò le mani di colpo, stordita, con un ronzio nel cervello. Il sangue era nero sulla T-shirt grigia di Matt. Lui rimase un istante in piedi, sotto choc, la mano sopra la ferita allo stomaco. Lei vide la sua bocca chiudersi attorno al suo nome, ma non riuscì a udirlo, mentre le sue orecchie vibravano tanto forte. Josie? E poi cadde sul pavimento. La mano di Josie cominciò a tremare violentemente; non fu sorpresa quando l'arma le cadde a terra, tanto stranamente respinta dalla sua stretta quanto vi era stata incollata qualche istante prima. «Matt» gridò, correndo verso di lui. Premette le proprie mani sul suo sangue, perché è così che si dovrebbe fare, si sa, ma lui si contorceva e gridava per il dolore. Il sangue cominciò a schiumargli fuori dalla bocca, strisciando sul collo. «Fai qualcosa» singhiozzò, rivolta a Peter. «Aiutami.» Peter si avvicinò, sollevò la pistola che teneva in pugno e colpì Matt alla testa. Inorridita, lei balzò indietro, come per allontanarsi da entrambi. Non era quello che intendeva; non poteva essere quello che intendeva. Fissò Peter, e capì che in quel momento, mentre non pensava, sapeva esattamente cosa aveva provato lui mentre percorreva la scuola con il suo zaino e le sue armi. Ogni ragazzo in quella scuola aveva un ruolo: atleta, cervello, bellezza, mostro. Peter non aveva fatto altro che quello che tutti segretamente sognavano: essere qualcuno, anche solo per diciannove minuti, che nessun altro potesse permettersi di giudicare. «Non dirlo» sussurrò Peter, e Josie capì che le offriva una via di scampo: un patto sigillato col sangue, la complicità del silenzio. Non condividerò i tuoi segreti, se tu non condividerai il mio. Josie annuì lentamente, poi il suo mondo si fece nero. Credo che la vita di un individuo sia un po' come un DVD. Puoi vedere anche tu la versione che vedono tutti gli altri, oppure puoi scegliere il director's cut: il modo in cui lui voleva che tu lo vedessi, prima di aver sistemato tutto. Ci sono dei menu, probabilmente, che ti consentono di iniziare nei momenti migliori e di non dover rivivere quelli brutti. Puoi misurare la tua
vita dal numero di scene alle quali sei sopravvissuto, oppure dai minuti in cui sei rimasto lì inchiodato. Probabilmente, però, la vita è più come uno di quegli stupidi nastri della videosorveglianza. Sgranati, anche quando li fissi attentamente. E in loop: la stessa cosa, ancora e ancora. Cinque mesi dopo Alex si fece strada spingendo tra il pubblico, in mezzo al caos suscitato dalla confessione di Josie. Da qualche parte in quella folla di gente c'erano i Royston, che avevano appena appreso che il loro figlio era stato colpito da sua figlia, ma per il momento lei non poteva pensarci. Riusciva soltanto a vedere Josie, intrappolata al banco dei testimoni, mentre Alex lottava per oltrepassare la sbarra. Era un giudice, maledizione. Avrebbero dovuto permetterle di andarci, ma due agenti la tenevano saldamente indietro. Wagner stava battendo il suo martelletto, benché a nessuno importasse. «Una sospensione di quindici minuti» ordinò e, mentre un altro agente trascinava Peter attraverso una porta sul retro, il giudice si rivolse a Josie. «Signorina» le disse, «lei è ancora sotto giuramento.» Alex guardò Josie mentre veniva condotta attraverso un'altra porta, e la chiamò. Un istante dopo Eleanor era al suo fianco. Il cancelliere prese Alex per un braccio. «Giudice, venga con me. Qui non è al sicuro, adesso.» Era la prima volta, per quel che riusciva a ricordare, che Alex si lasciava condurre da qualcuno. Patrick arrivò in aula proprio quando scoppiò il pandemonio. Vide Josie alla sbarra piangere disperatamente; vide il giudice Wagner lottare per mantenere il controllo... ma soprattutto vide Alex tentare risolutamente di raggiungere sua figlia. Avrebbe voluto tirar fuori subito la sua pistola e aiutarla in quell'impresa. Quando riuscì a farsi strada lungo il corridoio al centro dell'aula, Alex era scomparsa. La vide di sfuggita mentre sgattaiolava in una stanza dietro il banco e saltò la sbarra per seguirla, ma sentì qualcuno che lo afferrava per la manica. Infastidito, abbassò lo sguardo e vide Diana Leven. «Che diavolo sta succedendo?» chiese lui. «Prima tu.» Lui sospirò. «Ho passato la notte alla Sterling High, tentando di verifica-
re le affermazioni di Josie. Non avevano senso: se Matt avesse sparato a Peter, avrebbe dovuto esserci una prova tangibile del colpo nella parete alle sue spalle. Ho dato per scontato che lei stesse mentendo ancora una volta e che fosse stato Peter a sparare a Matt non provocato. Quando ho provato a immaginare che cosa avesse colpito quel primo proiettile, ho usato un laser per vedere dove potesse essere rimbalzato, e allora ho capito perché non l'avevamo trovato durante i primi rilevamenti.» Frugando nel soprabito, tirò fuori un sacchetto sigillato con dentro una pallottola. «I pompieri mi hanno aiutato a estrarlo dalla corteccia di un acero fuori dalla finestra delle docce. Ho preso l'auto e sono andato dritto al laboratorio per farlo esaminare - sono rimasto con loro per il resto della notte con in mano la frusta perché si decidessero a farlo subito. Non solo era il proiettile sparato dall'Arma B, ma recava anche tracce di sangue e di tessuti compatibili con quelli di Matt Royston. Il fatto è che, ribaltando l'angolazione di quel proiettile - se stai vicino all'albero e fai rimbalzare il laser dalle piastrelle dove ha colpito, per vedere da dove è partito il proiettile - non ti trovi affatto vicino al punto in cui c'era Peter. Era...» Il pubblico ministero sospirò stancamente. «Josie ha appena confessato di aver sparato a Matt Royston.» «Bene» disse Patrick, tendendo il sacchetto sigillato a Diana, «finalmente sta dicendo la verità.» Jordan si chinò contro le sbarre della cella di detenzione. «Ti eri dimenticato di dirmelo?» «No» disse Peter. Si voltò. «Sai, se l'avessi detto fin dall'inizio, il tuo caso avrebbe potuto prendere una piega ben diversa.» Peter era disteso sulla panca della cella, le mani dietro alla testa. Con sua grande sorpresa, Jordan lo vide sorridere. «Era ancora mia amica» spiegò Peter. «Non si rompe una promessa fatta a un amico.» Alex era seduta nell'oscurità dalla sala visite dove gli imputati solitamente venivano portati durante le pause, e si rendeva conto che a quel punto sua figlia avrebbe dovuto adeguarsi. Ci sarebbe stato un altro processo, e questa volta sarebbe stato imperniato su Josie. «Perché?» domandò. Riusciva a vedere i contorni argentei del profilo di Josie. «Perché tu mi hai detto di dire la verità.»
«Qual è la verità?» «Amavo Matt. E lo odiavo. Odiavo me stessa perché lo amavo, ma se non fossi rimasta con lui non sarei stata più nessuno.» «Non capisco...» «Come potresti? Tu sei perfetta.» Josie scosse il capo. «Noi, invece, siamo tutti come Peter. Alcuni di noi riescono a nasconderlo bene. Che differenza c'è tra passare la vita tentando di essere invisibile e fingere di essere la persona che tutti, secondo te, vogliano che tu sia? In entrambi i casi, stai imbrogliando.» Alex pensò a tutte le feste alle quali le era capitato di andare e alla prima domanda che le veniva sempre rivolta: Che cosa fai? come se fosse sufficiente a definirla. Nessuno ti chiedeva mai chi eri veramente, perché quello cambiava. Potevi essere un giudice o una madre o una sognatrice. Potevi essere solitaria o visionaria o pessimista. Potevi essere la vittima, e potevi essere il prepotente. Potevi essere il genitore, e anche il figlio. Potevi ferire un giorno e guarire il giorno dopo. Io non sono perfetta, pensò Alex, e forse quello era il primo passo per diventare così. «Che cosa mi accadrà?» domandò Josie, la stessa domanda che le aveva rivolto il giorno prima, quando Alex pensava di essere in grado di dare risposte. «Che cosa ci accadrà» rettificò Alex. Un sorriso vagò sul volto di Josie, e scomparve rapido com'era venuto. «Te l'ho chiesto prima io.» La porta della sala visite si aprì, facendo entrare luce dal corridoio, proiettando la sagoma di qualsiasi cosa venisse dopo. Alex prese la mano di sua figlia e fece un profondo respiro. «Andiamo a vedere» disse. Peter fu condannato per otto omicidi di primo grado e di due di secondo grado. La giuria decise che nel caso di Matt Royston e di Courtney Ignatio non aveva agito con premeditazione e deliberazione. Era stato provocato. Una volta pronunciato il verdetto, Jordan si incontrò con Peter nella cella di detenzione. Era stato riportato in carcere soltanto fino all'udienza finale. Poi sarebbe stato trasferito alla prigione di Stato di Concord. Dovendo scontare otto condanne consecutive per omicidio, non sarebbe uscito mai più. «Stai bene?» domandò Jordan, mettendo una mano sulla spalla a Peter. «Già.» Lui scrollò le spalle. «Sapevo che sarebbe andata a finire così.»
«Ma ti hanno ascoltato. Per questo hanno dichiarato preterintenzionali due degli omicidi.» «Credo che dovrei ringraziarla per averci provato.» Sorrise obliquamente a Jordan. «Le auguro una buona vita.» «Verrò a trovarti, quando capiterò a Concord» disse Jordan. Guardò Peter. In sei mesi, da quando il caso gli era stato affidato, il suo cliente era cresciuto. Peter era alto come Jordan, ora. Probabilmente aveva anche messo su qualche chilo. Aveva una voce più profonda, un'ombra di barba sulla mascella. Jordan si meravigliò di non aver notato prima quei cambiamenti. «Bene» disse Jordan. «Mi dispiace che non sia andata come speravo.» «Anche a me.» Peter tese la mano, e Jordan invece lo abbracciò. «Abbi cura di te.» Fece per uscire dalla cella, ma Peter lo richiamò. Gli tendeva gli occhiali che Jordan gli aveva portato per il processo. «Questi sono suoi» disse Peter. «Continua a tenerli. A te serviranno di più.» Peter mise gli occhiali nel taschino della giacca di Jordan. «Mi farebbe piacere sapere che ne avrà cura lei» disse. «E non c'è poi tanto che io voglia davvero vedere.» Jordan annuì. Uscì dalla cella di detenzione e salutò le guardie di custodia. Poi si avviò verso l'uscita, dove Selena lo aspettava. Avvicinandosi a lei, si mise gli occhiali di Peter. «Cosa fai con quelli?» domandò lei. «Mi piacciono.» «Ma tu ci vedi perfettamente» puntualizzò Selena. Jordan considerò il modo in cui le lenti rendevano il mondo smussato agli angoli, il che lo rendeva più circospetto nei movimenti. «Non sempre» disse. Nelle settimane dopo il processo, Lewis cominciò a giocare con i numeri. Aveva svolto alcune ricerche preliminari e le inserì in un software statistico, per vedere che genere di schemi ne emergeva. E - questa era la cosa interessante - non avevano assolutamente niente a che fare con la felicità. Cominciò invece a osservare le comunità in cui le sparatorie nelle scuole si erano verificate in passato per confrontarle con il presente, allo scopo di capire come un singolo atto di violenza possa intaccare la stabilità economica. O, in altri termini, una volta che ti eri sentito mancare la terra sotto i
piedi, avevi la possibilità di tornare su un suolo sicuro? Insegnava ancora allo Sterling College - fondamenti di microeconomia. A fine settembre le lezioni erano cominciate da poco e Lewis si ritrovò a scivolare facilmente nel circuito delle lezioni. Parlare di modelli di Keynes, di widget e di concorrenza era pura routine per lui - qualcosa di talmente facile che riusciva quasi a considerarlo uno dei tanti corsi istituzionali per matricole, come tutti quelli che aveva tenuto in passato, prima che Peter fosse giudicato colpevole. Lewis insegnava percorrendo avanti e indietro lo spazio tra le file di banchi, un male necessario da quando il campus era stato dotato di copertura Wi-Fi e gli studenti giocavano a poker online o si mandavano SMS tra loro mentre lui spiegava, e fu così che gli capitò di conoscere i ragazzi in fondo all'aula. Due giocatori di football facevano a turno a strizzare una bottiglia d'acqua col tappo apri-e-chiudi in modo tale che il getto formasse un arco e ricadesse a spruzzo sul collo di un altro ragazzo. Quest'ultimo, due file avanti, continuava a guardarsi intorno per vedere chi lo schizzasse d'acqua, ma gli atleti si erano ormai messi a guardare i grafici sullo schermo posto sulla parete di fronte dell'aula, con la stessa aria innocente di due chierichetti. «Ora» disse Lewis senza perdere un colpo, «chi vuol dirmi cosa succede se si mette il prezzo sul punto A del grafico?» Prese la bottiglia d'acqua dalle mani di uno degli atleti. «Grazie, signor Graves. Mi era venuta sete.» Il ragazzo due file avanti alzò una mano come una freccia, e Lewis gli fece un cenno di assenso. «Nessuno comprerebbe il widget a quel prezzo» disse. «Così la domanda cadrebbe, il che significa che il prezzo dovrebbe scendere, altrimenti ci si ritrova con un intero carico di eccedenze in magazzino.» «Ottimo» disse Lewis, e diede un'occhiata all'orologio. «D'accordo, ragazzi, lunedì faremo il capitolo successivo di Mankiw. E non sorprendetevi se ci sarà un quiz a sorpresa.» «Se ce lo dice, non è una sorpresa» puntualizzò una ragazza. Lewis sorrise. «Ops.» Rimase in piedi accanto alla sedia del ragazzo che aveva dato la risposta esatta. Stava mettendo il suo blocco per gli appunti nello zaino, già talmente zeppo di carte che la cerniera non si chiudeva. Aveva i capelli troppo lunghi e sulla sua T-shirt c'era un'immagine di Einstein. «Ha fatto un buon lavoro, oggi.» «Grazie.» Il ragazzo si spostava da un piede all'altro; Lewis ebbe l'im-
pressione che non sapesse bene cos'altro dire. Gli tese la mano. «Ehm, lieto di conoscerla. Intendo dire che la conosciamo già tutti, ma non così, personalmente.» «Giusto. Può ripetermi il suo nome?» «Peter. Peter Granford.» Lewis aprì la bocca per parlare, ma poi scosse il capo. «Che cosa?» Il ragazzo inclinò il capo. «Ho avuto l'impressione che, be', lei stesse per dire qualcosa di importante.» Lewis osservava quell'omonimo, il suo modo di atteggiare le spalle, un po' curve, come se non meritasse molto spazio nel mondo. Sentì quel dolore familiare che lo colpiva come un martello al petto ogni volta che pensava a Peter, a una vita da sprecare in prigione. Rimpiangeva di non aver osservato più spesso Peter quando Peter era lì sotto i suoi occhi, perché adesso era costretto a compensare con ricordi imperfetti o, peggio ancora, a trovare suo figlio nei volti degli estranei. Lewis cercò in fondo, nel suo intimo, e tirò fuori quel sorriso che riservava per i momenti in cui non c'era assolutamente niente di cui essere felici. «Era importante» disse. «Lei mi ricorda qualcuno che una volta conoscevo.» Lacy impiegò tre settimane a trovare il coraggio di entrare nella stanza di Peter. Ora che il verdetto era stato pronunciato, ora che sapevano che Peter non sarebbe mai più tornato a casa, non c'era motivo di considerarla come aveva fatto negli ultimi cinque mesi: come un tempio, un rifugio per l'ottimismo. Si sedette sul letto di Peter e si portò il suo cuscino al volto. C'era ancora il suo odore, e si domandò quanto tempo avrebbe impiegato a dissolversi. Lanciò un'occhiata in giro, ai libri sparsi sugli scaffali - quelli che la polizia non aveva preso. Aprì il cassetto del comodino e passò le dita sul nastrino di seta di un segnalibro, sui punti metallici di una cucitrice. La cavità vuota di un telecomando, senza pile. Uno specchio per ingrandire. Un vecchio mazzo di carte dei Pokemon, un gioco di magia, una pen drive portatile su un portachiavi. Lacy prese lo scatolone che si era portata dal seminterrato e vi ripose ogni cosa. Ecco la scena del crimine: guarda cos'è rimasto e prova a ricreare il ragazzo. Piegò il piumone, poi le lenzuola, poi tolse la federa. Improvvisamente ricordò una conversazione a cena in cui Lewis le aveva detto che per
10.000 dollari si poteva abbattere una casa con una palla d'acciaio. Figurarsi quanto meno occorreva per distruggere qualcosa che innanzitutto era ancora da costruire: in meno di un'ora, quella stanza sarebbe apparsa come se Peter non l'avesse mai abitata. Quando fu tutto impilato e ordinato, Lacy si sedette di nuovo sul letto e guardò le pareti spoglie, l'intonaco un po' più chiaro nei punti in cui c'erano stati dei manifesti appesi. Toccò la cucitura che profilava il materasso di Peter e si domandò quanto a lungo avrebbe continuato a pensarla come la stanza di Peter. Si dice che l'amore sposta le montagne, che fa girare il mondo, che è l'unica cosa di cui si ha bisogno, ma se si entrava nel dettaglio non funzionava così. L'amore non poteva salvare un singolo ragazzo: non quelli che erano andati alla Sterling High quel giorno, aspettandosi la normale routine; non Josie Cormier; sicuramente non Peter. E allora qual era la ricetta segreta? Era l'amore mescolato con qualcosa di più? Fortuna? Speranza? Perdono? Ricordò, d'improvviso, quello che le aveva detto Alex Cormier durante il processo: Una cosa continua a esistere fintantoché c'è qualcuno che la ricorda. Tutti avrebbero ricordato Peter per diciannove minuti della sua vita, ma gli altri nove milioni? Sarebbe stata Lacy la loro custode, perché era l'unico modo per tenere viva quella parte di Peter. Per ogni ricordo di lui che riguardasse un proiettile o un grido, lei ne avrebbe avuti centinaia di un genere diverso: di un bambino che sguazzava in un laghetto, o che andava in bicicletta per la prima volta o che faceva ciao in cima alla struttura in legno su cui si arrampicano i bambini. Un bacio della buonanotte, o un biglietto disegnato a pastelli per la Festa della Mamma o una voce stonata sotto la doccia. Li avrebbe uniti tutti quanti insieme: i momenti in cui il suo bambino era stato come quelli di tutti gli altri. Se li sarebbe portati indosso, come perle preziose, ogni giorno della sua vita; perché, se li perdeva, il ragazzo che aveva amato, cresciuto e conosciuto se ne sarebbe andato davvero. Lacy cominciò a stendere di nuovo le lenzuola sul letto. Sistemò il piumone, lo aggiustò agli angoli, sprimacciò il cuscino. Rimise i libri sugli scaffali e i giocattoli e gli attrezzi e tutte le altre cianfrusaglie nel comodino. Infine, srotolò i poster e li riappese alle pareti. Fece attenzione a mettere le puntine negli stessi buchi già esistenti. Così facendo, non avrebbe recato altri danni.
Esattamente un mese dopo la sua condanna, quando ormai le luci erano spente e le guardie carcerarie facevano un'ultima ispezione sulla passerella, Peter si chinò per togliersi il calzino destro. Si girò su un fianco, nel letto in basso, in modo da essere di fronte al muro. Si mise il calzino in bocca, spingendolo il più giù possibile. Mentre faticava a respirare, sprofondò in un sogno. Aveva sempre diciott'anni, ma era il suo primo giorno di scuola. Aveva lo zaino e la scatola del pranzo di Superman. Lo scuolabus arancione arrivò e, con un sospiro, spalancò le mascelle. Peter salì i gradini e si voltò verso il fondo dell'autobus, ma quella volta era l'unico studente. Percorse il corridoio tra le file di posti fino in fondo e guardò fuori dal vetro posteriore. C'era così tanta luce che credette che il sole li rincorresse lungo la strada. «Quasi arrivati» disse una voce, e Peter si guardò attorno in cerca del guidatore. Ma come prima non c'erano passeggeri così ora non c'era nessuno al volante. Sorprendentemente, nel sogno, Peter non era spaventato. Sapeva, in un certo qual modo, che era diretto esattamente dove voleva andare. 6 marzo 2008 La Sterling High era irriconoscibile. Aveva un tetto nuovo di lamiera verde, davanti alla facciata cominciava a spuntare l'erba, e c'era un atrio di vetro alto due piani sul retro della scuola. Una targa sui mattoni dell'entrata principale recava la scritta UN PORTO SICURO. Più tardi, quel giorno, ci sarebbe stata una cerimonia per ricordare coloro che erano morti un anno prima, ma poiché Patrick era stato coinvolto nei nuovi protocolli di sicurezza per la scuola era riuscito a portarvi Alex di soppiatto per fargliela vedere in anticipo. All'interno non c'erano armadietti: soltanto cubi aperti perché tutto fosse ben visibile. Gli studenti erano in classe; soltanto alcuni insegnanti passavano nell'ingresso. Portavano il tesserino di riconoscimento al collo, come i ragazzi. Alex non aveva ben capito perché: la minaccia veniva sempre dall'interno, non dall'esterno, ma Patrick le spiegò che in quel modo la gente si sentiva più al sicuro, il che era già mezza battaglia vinta. Il cellulare di Alex squillò. Patrick sospirò. «Credevo che li avessi avvertiti...» «L'ho fatto» disse Alex. Lo aprì di scatto e la segretaria del difensore
d'ufficio di Grafton County cominciò a recitare velocemente una litania di guai. «Stop» disse Alex, interrompendola. «Ricorda? Non sono reperibile per tutta la giornata.» Si era dimessa dalla carica di giudice. Josie era stata accusata di complicità in omicidio di secondo grado e dopo l'appello la pena era stata ridotta a cinque anni. Di conseguenza, ogni volta che Alex aveva un ragazzo in aula accusato di qualcosa, non riusciva a essere imparziale. Per un giudice, il peso delle prove aveva la precedenza; ma, per una madre, non erano i fatti che contavano, bensì i sentimenti e soltanto quelli. Tornare al suo incarico iniziale, quello di difensore d'ufficio, le sembrò non solo naturale ma anche confortante. Capiva, per esperienza diretta, quello che provavano i suoi clienti. Andava a trovarli quando si recava a far visita a sua figlia nel penitenziario delle donne. Piaceva agli imputati perché non era condiscendente e perché diceva loro la verità su quello che li aspettava: Alex Cormier era così come la si vedeva. Patrick la condusse dove una volta c'era la scala posteriore della Sterling High. Ora invece c'era un immenso atrio di vetro che copriva il punto in cui prima c'erano la palestra e lo spogliatoio. Fuori, si vedevano i campi da gioco, dove i ragazzi che avevano l'ora di ginnastica disputavano una movimentata partita di calcio, approfittando di quell'inizio di primavera e della neve ormai sciolta. Dentro erano stati allestiti tavoli di legno con sgabelli dove gli studenti potevano incontrarsi o fare uno spuntino o leggere. In quel momento c'erano alcuni ragazzi che studiavano per un compito in classe di geometria. I loro sussurri salivano come fumo fino al soffitto: complementare... supplementare... intersezione... punto finale. Su un lato dell'atrio, davanti alla parete di vetro, c'erano dieci sedie. Erano le uniche ad avere lo schienale e a essere verniciate di bianco. Bisognava guardare da vicino per capire che, essendo fissate al pavimento, non potevano essere state trascinate lì dagli studenti e dimenticate. Non erano né allineate né collocate a distanza regolare l'una dall'altra. Non recavano né nomi né targhe, ma Lutti sapevano perché erano lì. Lei sentì Patrick arrivare alle sue spalle e farle scivolare il braccio attorno alla vita. «È quasi ora» disse, e lei annuì. Mentre lei andava verso uno degli sgabelli liberi e cominciava a trascinarlo più vicino alla parete di vetro, Patrick glielo prese. «Santo cielo, Patrick» mormorò lei. «Sono una donna incinta, non una malata terminale.» Anche quella era stata una sorpresa. Il bambino doveva nascere alla fine di maggio. Alex cercava di non pensarlo come un sostituto di sua figlia che
sarebbe rimasta in carcere ancora per quattro anni; immaginava invece che potesse essere quello che li avrebbe aiutati tutti quanti. Patrick si sedette vicino a lei su uno sgabello e Alex guardò l'orologio: 10.02. Respirò profondamente. «Non sembra più la stessa.» «Lo so» disse Patrick. «Credi che sia un bene?» Lui pensò un momento. «Credo che sia necessario» rispose. Lei notò che l'acero, quello che cresceva fuori dalla finestra dello spogliatoio al secondo piano, non era stato abbattuto durante la costruzione dell'atrio. Da dove era seduta non si vedeva il buco che era stato scavato per recuperare un proiettile. L'albero era immenso, con un grosso tronco nodoso e rami contorti. Probabilmente era lì da molto più tempo della scuola, forse c'era già prima che Sterling sorgesse. 10.09. Sentì la mano di Patrick scivolarle in grembo mente lei guardava la partita di calcio. Sembrava che tra le due squadre ci fosse una forte discrepanza: adolescenti che giocavano contro ragazzini ancora esili e bassi. Alex osservò un attaccante caricare un difensore dell'altra squadra, lasciando il ragazzo più basso a terra mentre la palla finiva in rete come un bolide. Malgrado tutto quello che è accaduto, pensò Alex, niente è cambiato. Guardò ancora l'orologio: 10.13. Gli ultimi minuti, ovviamente, erano i più duri. Alex si ritrovò in piedi, le mani premute contro il vetro. Sentiva il bambino scalciare dentro di sé, come per rispondere al lato più oscuro del suo cuore. 10.16. 10.17. L'attaccante tornò nel punto in cui il difensore era caduto e gli tese una mano per aiutare il ragazzo più piccolo ad alzarsi. Ritornarono verso il centro del campo, parlando di qualcosa che Alex non riusciva a udire. Erano le 10.19. Si sorprese a lanciare un altro sguardo all'acero. La linfa scorreva ancora. Ancora qualche settimana e ci sarebbe stata una peluria rossa sui rami. Poi i germogli. Poi l'esplosione delle prime foglie. Alex prese la mano di Patrick. Uscirono dall'atrio in silenzio, ripercorsero i corridoi, oltrepassarono le file di cubi. Attraversarono l'entrata e varcarono la soglia dell'entrata principale, ripercorrendo i passi che avevano compiuto. Ringraziamenti
Immagino che sia un paragrafo piuttosto interessante quello in cui ringrazio per primo l'uomo che mi ha insegnato a sparare con una pistola contro una catasta di legna nel cortile di casa mia: il capitano Frank Moran. Grazie anche al suo collega, il tenente Michael Evans, per le informazioni dettagliate sulle armi da fuoco, e al capo della polizia Nick Giaccone per le innumerevoli e-mail con domande all'ultimo minuto sulle indagini, la cattura e tutto ciò che riguarda la polizia. La detective Claire Demarais ha avuto il merito particolare di regnare incontrastata su tutte le questioni legali e di aver condotto Patrick attraverso una scena del crimine di proporzioni enormi. Sono fortunata ad avere molti amici e una famiglia in cui ciascuno è esperto nel suo ambito e mi lascia condividere le sue storie, o fa da cassa di risonanza: Jane Picoult, il dottor David Troub, Wyatt Fox, Chris Keating, Suzanne Serat, Conrad Farnham, Chris e Karen van Leer. Grazie a Guenther Frankenstein per il generoso contributo della sua famiglia all'espansione della Howe Library di Hanover e per avermi permesso di usare il suo meraviglioso cognome. Glen Libby ha risposto pazientemente alle mie domande sulla vita nel carcere di Grafton County, e Ray Fleer, vicesceriffo presso l'ufficio dello sceriffo di Jefferson County, mi ha procurato materiale e notizie sulla sparatoria nella scuola di Columbine. Ringrazio David Plaut e Jake van Leer per la battuta sulla matematica veramente brutta; Doug Irwin per avermi insegnato l'economia della felicità; Kyle van Leer e Axel Hansen per lo spunto di Nasconditi-e-Grida; Luke Hansen per il programma in C++; ed Ellen Irwin per il grafico della popolarità. Sono riconoscente, come sempre, al gruppo della Atria Books che mi fa apparire molto meglio di quello che sono in realtà: Carolyn Reidy, David Brown, Alyson Mazzarelli, Christine Du Plessis, Gary Urda, Jeanne Lee, Lisa Keim, Sarah Branham e l'infaticabile Jodi Lipper. A Judith Curr, grazie per aver tessuto le mie lodi senza mai fermarsi nemmeno per riprendere fiato. A Camille McDuffie, grazie per avermi creato quanto vi sia di più prezioso nell'editoria: un nome commerciale. Brindo a Laura Gross con un sorso di whisky delle Highlands, perché non riesco a immaginare tutto questo senza di lei. Quanto a Emily Bestler, be', leggete la dedica all'inizio di questo libro. Un grazie molto speciale al giudice Jennifer Sargent, perché senza i suoi suggerimenti il personaggio di Alex non sarebbe esistito. E a Jennifer Sternick, il mio pubblico ministero personale: sei una delle donne più brillanti che abbia mai conosciuto, rendendo così divertente il nostro lavoro (lunga vita a King Wah), perciò è evidente che è tutta colpa tua se conti-
nuerò sempre a chiederti aiuto. Grazie, come sempre, alla mia famiglia Kyle, Jake e Sammy - che si preoccupa di ricordarmi che cosa conta davvero nella vita. E a mio marito, Tim: se sono la donna più fortunata della terra, è grazie a lui. Infine, vorrei ringraziare un gruppo di persone che sono state il cuore e l'anima di questo libro: i superstiti delle sparatorie nelle scuole realmente avvenute in America, e quelli che mi hanno aiutato con il ricordo delle loro emozioni: Betsy Bicknase, Denna O'Connell, Linda Liebl e l'incomparabile Kevin Braun. Grazie di aver avuto il coraggio di rivisitare i vostri ricordi e la gentilezza di prestarmeli. Infine, alle migliaia di ragazzi là fuori che sono un po' diversi, un po' spaventati, un po' impopolari: questo libro è per voi. FINE