Jean Genet DIARIO DEL LADRO
il Saggiatore, Milano novembre 1975. Titolo originale: "Journal du voleur", Gallimard, Pari...
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Jean Genet DIARIO DEL LADRO
il Saggiatore, Milano novembre 1975. Titolo originale: "Journal du voleur", Gallimard, Paris 1949. A cura di Giorgio Caproni. *** a SARTRE al CASTORO
L'abito dei forzati è a righe bianche e rosa. Se l'universo, di cui mi compiaccio, io per comandamento del cuore lo elessi, la facoltà ho almeno di scoprirvi gli svariati sensi che voglio: "ebbene, uno stretto rapporto esiste tra i fiori e gli ergastolani". La fragilità, la delicatezza dei primi sono della medesima natura della brutale insensibilità dei secondi (1). Ch'io abbia da raffigurare un forzato - o un criminale, - sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch'esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo. Vòlto a ciò che viene chiamato il male, per amore ho perseguito un'avventura che mi ridusse in carcere. Anche se non son sempre belli, gli uomini votati al male possiedono le virtù virili. Di loro volontà, o grazie a una scelta per loro operata da un qualche infortunio, s'inabissano lucidi e senza querimonie in un elemento di riprovazione, ignominioso, simile a quello in cui l'amore, quand'è profondo, precipita gli esseri (2). I giochi erotici rivelano un mondo innominabile che il linguaggio notturno degli amanti rende palese. Un tale linguaggio non si scrive. Lo si sussurra di notte in un orecchio, con voce arrochita. All'alba, lo si dimentica. Negando le virtù del vostro mondo, i criminali disperatamente acconsentono a organizzare un universo proibito. Accettano di viverci. V'è un'aria nauseabonda: riescono a respirarla. Ma - i criminali sono remoti da voi - come nell'amore essi si isolano e mi isolano dalla società e dalle sue leggi. Il loro, è un mondo che sente di sudore, di sperma e di sangue. Infine, è un mondo che propone al mio animo assetato e al mio corpo la dedizione piena. Proprio perché esso possiede queste condizioni d'erotismo, io m'accanii nel male. La mia avventura, da rivolta né rivendicazione mai mossa, sino a quest'oggi è stata soltanto una lunga stagione d'accoppiamenti, appesantita, complicata da un greve cerimoniale erotico (cerimonie figurative che menano al bagno penale (3) e lo annunziano). Se esso rappresenta la sanzione, e ai miei occhi anche la giustificazione, del più ignobile delitto, sarà pure il segno dell'estremo avvilimento. Tale punto definitivo, cui conduce la riprovazione degli uomini, doveva apparirmi come il luogo ideale del più puro accordo amoroso, cioè il più torbido dove si celebrano illustri nozze di cenere. Desideroso di cantarle, utilizzo quanto m'offre la forma della più squisita sensibilità naturale, che già il vestito dei forzati suscita in me. Oltre che con le sue tinte, con la sua ruvidezza la stoffa evoca certi fiori dai petali leggermente villosi, particolare sufficiente perché all'idea di forza e d'onta io associ quanto s'ha di più naturalmente prezioso e fragile. Questo accostamento che m'illumina su me stesso, mai s'imporrebbe a un'altra mente, mentre io non posso evitarlo. Offrii dunque agli ergastolani la mia tenerezza, volli chiamarli con nomi seducenti, designare i loro delitti ricorrendo - per pudore - alla più sottile metafora (senza tuttavia ignorare, sotto quel velo, la sontuosa muscolatura dell'omicida, la violenza del suo sesso). Non è forse con quest'immagine che preferisco figurarmeli alla Guyana: i più forti, che arrazzano, i più «duri», velati dal tulle della zanzariera? E ogni fiore in me depone una così profonda tristezza che tutti non posson significare altro che il dolore, la morte. Proprio in
funzione del bagno penale, dunque, cercai l'amore. Ogni mia passione me lo fece sperare, intravedere, m'offre criminali, m'offre a loro o m'invita al crimine. Mentre scrivo questo libro, gli ultimi forzati stanno rientrando in Francia. Ce lo annunziano i giornali. L'erede dei re prova un vuoto simile se la repubblica lo priva della consacrazione. La fine del bagno penale c'impedisce d'accedere con la nostra coscienza viva nelle mitiche regioni sotterranee. Ci hanno reciso netto il più drammatico flusso: il nostro esodo, l'imbarco, la processione sul mare, che si compiva a capo chino. Il ritorno, quella medesima processione a ritroso non hanno più senso. In me la distruzione del bagno penale corrisponde a una sorta di castigo del castigo: mi castrano, mi operano dell'infamia. Senza preoccuparsi che così decapitano i nostri sogni delle loro aureole, ci svegliano anzitempo. Le carceri centrali hanno un loro prestigio: non è il medesimo. E' minore. La grazia elegante, un poco flessa, n'è bandita. L'atmosfera, in esse, è così pesante da costringerti a andar carponi. A strisciare. Le centrali arrazzano più duro, più cupo e rigido, la greve e lenta agonia del bagno era, dell'abiezione, un più perfetto sboccio (4). Infine, gonfie adesso di malvagi maschi, le centrali ne son tutte nere come d'un sangue carico di gas carbonico. (Scrivo «nere». Il vestito dei detenuti - prigionieri, prigionia, carcerati anche, parole troppo nobili per denominarci - me lo impone: è il bigello bruno). Proprio a queste volgerà il mio desiderio. So che una burlesca apparenza spesso si manifesta nel bagno penale o in prigione. Sul massiccio e sonoro basamento degli zoccoli la corporatura dei puniti è sempre un po' gracilina. Stupidamente il loro profilo si piega su una carriola. Di fronte a un secondino abbassano il capo con in mano la gran cappellina di paglia - ch'io vorrei ornata, dai più giovani, d'una rosa rubata col consenso del secondino stesso - o un berretto di bigello bruno. Conservano un contegno di miseranda umiltà. (Se li picchiano, qualcosa in loro deve però ergersi: il vile, il falso, la viltà, la falsità sono - mantenuti allo stato di più dura, più pura viltà e falsità - induriti da una «risciacquata» come il ferro dolce sotto una doccia gelida.) S'ostinano nella servilità, ma che importa. Senza trascurare i deformi, gli sciancati, sono i criminali più belli quelli che la mia tenerezza adorna. - Il delitto, mi dico, deve aver brancolato un bel po' prima d'ottenere la perfetta riuscita d'un Pilorge o d'un Ange Soleil. Per finirli a dovere (l'espressione è crudele!) fu necessario il concorso di numerose coincidenze: alla bellezza del volto, alla forza e all'eleganza del corpo si dovettero aggiungere il gusto del delitto, le circostanze che formano il criminale, il vigore morale capace d'accettare un simile destino, infine il castigo, la crudeltà di quest'ultimo, le intrinseche qualità che permettono al criminale d'uscirne risplendente, e su tutto questo, oscure plaghe. Se l'eroe combatte contro la notte e la vince, su di lui ne resti almeno un brandello. Lo stesso brancolamento, la stessa cristallizzazione di casi fortunati presiede alla riuscita d'un poliziotto puro. Gli uni e gli altri mi sono cari. Ma se amo il delitto, è per quanto esso contiene di castigo, «di pena» (giacché non posso immaginare ch'essi non l'abbiano intravista. Un di costoro, l'ex pugile Ledoux, rispose sorridendo agli agenti investigativi: «Dei miei delitti, è prima di commetterli che avrei potuto pentirmi») dov'io voglio accompagnarli affinché siano, comunque, appagati i miei amori. In questo mio diario non voglio tener nascosti gli altri motivi che mi fecero ladro, il più semplice dei quali il bisogno di mangiare, tuttavia, nella mia scelta, mai entrarono la rivolta, l'amarezza, la collera o altri sentimenti del genere. Con una cura maniaca, «una cura gelosa», predisposi la mia avventura come si predispone un letto, una camera per l'amore: ho spasimato per il delitto. Chiamo violenza un'audacia in riposo innamorata dei pericoli. La distingui in uno sguardo, in una mossa, in un sorriso, ed è in te che produce i suoi rimescolii. Essa ti smonta. E' una calma, tale violenza, che ti agita. Si dice talora: «E' un maschio che non gli manca la grinta». I delicati lineamenti di Pilorge erano d'un'estrema violenza. Violenta era soprattutto la loro delicatezza. Violenza del disegno dell'unica mano di Stilitano, immobile, semplicemente posata sul tavolo, e che rendeva inquietante e pericoloso il riposo. Ho lavorato con ladri e rocchettoni il cui prestigio mi trascinava, ma pochi si mostrarono veramente audaci, mentre colui che lo fu più d'ogni altro - Guy era privo di violenza. Stilitano, Pilorge, Michaelis erano vigliacchi. E Java. Da costoro, ancorché in riposo, immobili e sorridenti, sfuggiva dagli occhi, dalle frogie, dalla bocca, dal cavo della mano,
dalla pattina rigonfia, dal brutale montarozzo del polpaccio sotto il panno o la tela, una radiosa e cupa collera, visibile sotto forma di vaporosità. Ma quasi sempre è segnalata soltanto dall'assenza dei segni consueti. Il viso di René è anzitutto incantevole. La curva concava del naso gli dà un'aria sbarazzina, ma inquietante è il pallore plumbeo della sua inquieta faccia. I suoi occhi son duri; calmi e sicuri i gesti. Nei vespasiani, tranquillamente percuote i pedé, li fruga, li deruba, talora gli dà, come colpo di grazia, una calcagnata sul grugno. Non lo amo ma son dominato dalla sua calma. Opera, nel buio più conturbante, intorno ai pisciatoi, ai praticelli, ai boschetti, sotto gli alberi degli Champs-Elysées, presso le stazioni, a porte Maillot, al bois de Boulogne (sempre di notte) con una serietà che esclude qualsiasi romanticismo. Quando torna, alle due o alle tre, lo sento ben rifornito d'avventure. Alle quali partecipò ogni punto del suo corpo, notturno: le mani, le braccia, le gambe, la nuca. Ma lui, ignaro di tali meraviglie, me le racconta con linguaggio preciso. Di tasca cava gli anelli, le vere, gli orologi, bottino della serata. Le mette in un gran bicchierone che ne sarà presto ricolmo. I pedé non lo stupiscono né le loro abitudini: queste esistono soltanto per facilitare i suoi colpi gobbi. Nei suoi discorsi, quand'è seduto sul mio letto, il mio orecchio afferra brandelli d'avventure. «Un ufficiale in mutande da lui derubato del portafoglio (5) e che, con l'indice puntato, gli intima: Uscite!» «La risposta di René, canzonatorio: E che ti credi in caserma?» «Un pugno mollato troppo forte sul cranio d'un vecchio.» «Il tizio che sviene quando René, smanioso, apre un cassetto ch'è una riserva di fiale di morfina.» «Il pedé in bolletta ch'egli costringe a inginocchiarglisi davanti.» Seguo attento questi racconti. La mia vita d'Anversa se ne irrobustisce, prolungandosi in un corpo più saldo, con metodi brutali. Io incoraggio René, lo consiglio, lui mi ascolta. Gli dico di non parlar mai per primo. - Lascia che l'amico s'avvicini, lasciatelo ronzare intorno. Mostrati un po' stupito della sua proposta d'amore. Studia con chi hai da fingere ignoranza. Ogni notte, qualche parola m'illumina. La mia immaginazione non divaga al loro proposito. Il turbamento che provo sembra nascere dal fatto che in me assumo a un tempo la parte di vittima e quella di criminale. Anzi, in realtà emetto, proietto di notte la vittima e il criminale scaturiti da me, fo che s'incontrino da qualche parte, e verso l'alba la mia emozione è grande nell'apprendere che per un pelo la vittima ha schivato la morte e il criminale la galera o la ghigliottina. E così il mio turbamento si prolunga sino a quella regione di me stesso ch'è la Guyana. Senza ch'essi lo vogliano, i gesti di questi ragazzotti, i loro destini son tumultuosi. La loro anima sopporta il peso d'una violenza che non aveva desiderata. Essa la teneva soggetta. Quelli che nella violenza respirano il loro clima naturale, sono semplici davanti a se stessi. Dei moti che compongono quella loro vita rapida e devastatrice, ciascuno è semplice, diritto, netto come il tratto d'un gran disegnatore - ma dall'incontro di questi tratti in movimento scoppia la tempesta, il fulmine che li uccide o mi uccide. Eppure, che è mai la loro violenza a petto della mia, consistente nell'accettare la loro, nel farla mia, nel volerla per me, nel captarla, nell'utilizzarla, nell'impormela, nel riconoscerla, nel premeditarla, nel discernerne e nell'assumerne i rischi? E che era mai la mia, voluta e necessaria alla mia difesa, alla mia durezza, al mio rigore, a petto della violenza ch'essi subiscono come una maledizione, salita da un fuoco interiore insieme con una luce esteriore che li incendia e che ci illumina? Sappiamo che le loro avventure sono puerili. Loro stessi son degli sciocchi. Accettano d'uccidere o d'essere uccisi per una partita a carte dove l'avversario - o loro stessi - baravano. Tuttavia, è proprio grazie a maschi siffatti che son possibili le tragedie. Una tale definizione - attraverso tanti esempi contrastanti - della violenza, vi dimostra che utilizzerò le parole non perché dipingano meglio un avvenimento o il suo eroe, ma perché vi istruiscano su di me. Per capirmi, una complicità del lettore sarà necessaria. Lo avvertirò comunque non appena il mio lirismo mi farà perdere la bussola. Stilitano era alto e robusto. Aveva un passo a un tempo elastico e pesante, vivace e lento, ondeggiante. Era lesto. Gran parte del suo potere su di me - e sulle mine del Barrio Chino risiedeva in quello sputo che Stilitano faceva andare da una guancia all'altra, e che talvolta distendeva come un velo davanti alla bocca. «Ma dove va a pescarlo, mi dicevo, quel suo sputo, da dove lo fa salire, così pesante e bianco? Mai il mio avrà la pastosità e il colore del suo. Rimarrà
sempre vetro filato, trasparente e fragile.» E' quindi naturale ch'io immaginassi senza sforzo che cosa mai sarebbe stata la sua verga se la avesse spalmata in mio onore d'una così bella materia, di quella preziosa ragnatela, tessuto che in segreto chiamavo il velo palatino. Portava un vecchio berretto grigio con la visiera piegata in due. Come lo buttava sull'impiantito della nostra stanza, subito diventava il cadavere d'una povera pernice con l'ala tarpata, ma quando se lo metteva in testa, un po' sull'orecchio, la parte opposta della visiera restava alzata lasciando scoperta la più trionfante ciocca bionda. Dovrò forse parlare dei suoi begli occhi così limpidi, modestamente bassi - pur se di Stilitano si poteva dire: «Il suo contegno è immodesto» - sui quali si richiudevano ciglia e sopracciglia così bionde, così luminose e così folte da generar non l'ombra della sera ma l'ombra del male? Infine, che mai significherebbe ciò che mi sconvolge quando vedo nel porto, a strattoni, a colpetti, spiegarsi e salire una vela, con fatica, su per l'albero d'un bastimento, prima esitando, poi risolutamente, se quei movimenti non fossero il simbolo degli stessi moti del mio cuore verso Stilitano? L'ho conosciuto a Barcellona. Viveva tra gli accattoni, i ladri, le checche e le mine. Era bello, ma resta da stabilire se tanta bellezza non la dovesse al mio scadimento. I miei vestiti erano sporchi e in uno stato pietoso. Avevo fame e freddo. Eccola, l'epoca più miserabile della mia vita. 1932. La Spagna allora, da un capo all'altro, era un verminaio di bordaglia: i suoi accattoni. Vagavano di villaggio in villaggio, nell'Andalusia perché è calda, nella Catalogna perché è ricca, ma l'intero paese ci era propizio. Fui dunque un pidocchio, con la coscienza d'esserlo. A Barcellona frequentavamo soprattutto calle Mediodìa e calle Carmen. A volte ci coricavamo in sei su un letto senza lenzuola e sin dall'alba andavamo a mendicare nei mercati. Lasciavamo il Barrio Chino in gruppo, e sul Parallelo ci sparpagliavamo, ciascuno con una sporta infilata nel braccio, dato che le massaie eran più propense a darci un porro o una rapa piuttosto che un soldo. A mezzogiorno rientravamo, e con quanto avevamo raccolto ci preparavamo la zuppa. Son gli usi di questa bordaglia che ora descriverò. A Barcellona vidi quelle coppie d'uomini dove il più innamorato diceva all'altro: - Stamani il paniere lo prendo io. Prendeva la sporta e usciva. Un giorno Salvador mi strappò dolcemente di mano il paniere e mi disse: - Vado a chiedere al posto tuo. Nevicava. Uscì sulla strada gelata, coperto d'una giacca lacera, a brandelli - le tasche ciondolavano scucite - e d'una camicia sporca e intostita. Povero era il suo volto e infelice, sornione, pallido, e sudicio perché non osavamo lavarci tanto faceva freddo. Verso mezzogiorno tornò con gli ortaggi e un po' di grasso. Qui già segnalo uno di quegli strappi - terribili, perché li provocherò nonostante il pericolo - che m'hanno rivelato la bellezza. Un immenso amore - e fraterno - gonfiò il mio corpo e mi trascinò verso Salvador. Uscito poco dopo di lui dall'albergo, lo vedevo da lontano implorar le donne. Avendo già mendicato per altri o per me, conoscevo la formula: mescola religione cristiana e carità; confonde il povero con Dio; del cuore è una così umile manifestazione da profumar di violetta, credo, la lieve e diritta nuvola di vapore ch'esce dalla bocca dell'accattone che la pronunzia. In tutta la Spagna s'usava allora dire: - «Por Dios». Senza udirlo immaginavo Salvador mormorarla davanti a tutti i banchi e a tutte le massaie. Lo sorvegliavo come il magnaccia sorveglia la sua puttana, ma con quanta tenerezza nel cuore! Così la Spagna e la mia vita di mendicante m'avranno fatto conoscere i fasti dell'abiezione, perché ci voleva molto orgoglio (cioè amore) per abbellire quei personaggi luridi e disprezzati. Mi ci volle molto ingegno. Lo acquistai a poco a poco. Se m'è impossibile descriverne il meccanismo, posso almeno dire che lentamente mi costrinsi a considerare quella vita miserabile come una necessità da me impostami. Non cercai mai di farne cosa diversa da quello che era, non cercai di ornarla, di mascherarla, ma al contrario volli che s'affermasse nella sua esatta sordidezza, e i più sordidi segni divennero per me segni di nobiltà.
Rimasi costernato quando, nel perquisirmi dopo una retata - evoco una scena che precedette quella con la quale ha inizio questo libro, - una sera, il poliziotto stupito, tirò fuori dalla mia tasca, con altre cose, un tubetto di vaselina. Osarono scherzarci sopra perché conteneva vaselina al gomenolo. Tutto l'ufficio, e anch'io a volte - dolorosamente, - rideva a crepapelle e si torceva udendo battute come queste: - «Li prendi dal naso, tu?» - «Proteggiti, proteggiti dal raffreddore, potresti rifilare al tuo uomo la tosse asinina.» In un linguaggio di guappi mal traduco l'ironia cattiva delle frasi spagnole, splendide o velenose. Si trattava d'un tubetto di vaselina già più volte arrotolato nella parte inferiore. Come dire ch'era stato usato. Fra gli oggetti eleganti tratti di tasca agli uomini incappati nella retata, era il segno dell'abiezione, d'un'abiezione più d'ogni altra tenuta nascosta, ma anche il segno d'una segreta grazia che m'avrebbe presto salvato dal disprezzo. Quando mi trovai chiuso in cella, e abbastanza mi fui ripreso da poter superare la disavventura dell'arresto, l'immagine di quel tubetto di vaselina non mi lasciò più. I poliziotti me l'avevano mostrato trionfanti perché con quello in pugno potevan brandire la loro vendetta, il loro odio, il loro disprezzo. Or ecco che quel misero oggettuzzo sporco, la cui destinazione appariva agli occhi del mondo - di quella ristretta rappresentanza del mondo ch'è la polizia e anzitutto quella particolare radunanza di poliziotti spagnoli, maleolenti d'aglio, di sudore e d'olio ma quattrinosi nell'aspetto, e forti della lor muscolatura e della lor sicurezza morale - tra le più spregevoli, diventò per me estremamente prezioso. Al contrario di molti oggetti che la mia tenerezza distingue dagli altri, quello non fu coronato da alcuna aureola; rimase, lì sul tavolo, un piccolo tubetto di vaselina di piombo grigio, spento, strizzato, livido, la cui stupefacente discrezione e perfetta aderenza a tutte le banali cose della matricola d'un carcere (il banco, il calamaio, i regolamenti, l'antropometro, il lezzo) m'avrebbero, tra la generale indifferenza, desolato, se il contenuto stesso di quel tubetto, forse a causa della sua oleosa natura evocante una lampada a olio, non m'avesse fatto pensare a una lucerna funeraria. Nel descriverlo, ricreo quell'oggettino, ma ecco che interviene un'immagine: sotto un lampione, in una via della città dove sto scrivendo, il viso smorto di una vecchietta, un viso piatto e tondo come la luna, pallidissimo, che non saprei dire se triste o ipocrita. La donna mi si avvicinò, mi disse ch'era molto povera e mi chiese un po' di denaro. La dolcezza di quel viso da pesce luna m'illuminò all'istante: la vecchia usciva di prigione. - E' una ladra -, mi dissi. Mentre m'allontanavo da lei, una sorta di lancinante fantasia, ben viva dentro di me e non ai margini della mia mente, m'indusse a pensare che forse era mia madre quella che avevo incontrato. Di mia madre, che m'abbandonò in fasce, non so nulla, ma sperai che fosse quella vecchia ladra che andava mendicando nella notte. «Se lo fosse davvero?» mi dissi allontanandomi dalla vecchia. Ah, se lo fosse davvero, andrei a coprirla di fiori, di biancospini e di rose, e di baci! Andrei a versar lacrime di tenerezza sugli occhi di quel pesce luna, su quella faccia tonda e sciapa! Ma perché, mi dissi ancora, perché versarvi lacrime? Non gli ci volle molto, al mio spirito, per sostituire a quei consueti contrassegni dell'affetto un gesto qualunque, e magari il più screditato, il più vile, cui affidavo il compito d'esprimere le stesse cose dei baci, o delle lacrime, o dei fiori. «Mi contenterei di sbavarle addosso», pensavo, traboccante d'amore. (La parola biancospini pronunziata più sopra s'era forse associata, nella mia mente, a quei fiori bianchi che son gli sputi?) Di sbavare sui suoi capelli o di vomitare sulle sue mani. Ma l'avrei adorata, quella mia madre ladra. Il tubetto di vaselina, la cui destinazione v'è abbastanza nota, così avrà fatto sorgere il viso di colei che durante un sogno prolungatosi lungo le nere viuzze della città fu la mamma più adorata. M'era servito alla preparazione di tante segrete gioie, in luoghi degni della sua discreta banalità, da esser diventato la condizione della mia letizia, come il mio fazzoletto macchiato ne era la prova. Su quel tavolo era la bandiera alzata per annunziare alle invisibili legioni il mio trionfo sui poliziotti. Ero in cella. Sapevo che per tutta la notte il mio tubetto di vaselina sarebbe rimasto esposto al ludibrio l'inverso di un'Adorazione Perpetua - da parte di un gruppo di poliziotti belli, forti, saldi. Così forti
che il più debole, stringendolo appena con due dita, avrebbe potuto farne scaturire, preceduto da una lieve scorreggina, breve e sozza, una stringa di pasta che avrebbe continuato a uscire in un ridicolo silenzio. Eppure ero sicuro che quel meschino oggettuzzo, così umile, avrebbe tenuto testa a costoro, sarebbe riuscito, con la sua sola presenza, a far andare in bestia tutte le polizie del mondo, si sarebbe tirato addosso ogni disprezzo, ogni odio, ogni muta e bianca rabbia, un tantino beffardo forse, come l'eroe d'una tragedia divertito dal suo attizzar l'ira degli dèi, e al par di lui indistruttibile, fedele alla mia felicità, e orgoglioso. Vorrei trovar le parole più nuove della lingua francese per cantarlo. Ma allora avrei anche voluto battermi per lui, organizzare massacri in suo onore e pavesar di rosso una campagna al crepuscolo (6). Dalla bellezza della sua espressione dipende la bellezza d'un atto morale. Il dire che è bello già decide che lo sarà. Resta da provarlo. Se ne incaricano le immagini, vale a dire le corrispondenze con le sontuosità del mondo fisico. L'atto è bello se provoca, e nella nostra gola induce a scoprire, il canto. Talvolta la coscienza con la quale possiamo aver pensato un atto ritenuto vile, la forza espressiva che deve manifestarlo, ci costringono al canto. Se il tradimento ci fa cantare, è perché è bello. Tradire i ladri per me non sarebbe soltanto un ritrovarmi nel mondo morale, pensavo, ma anche un ritrovarmi nella pederastia. Diventando forte, sono il mio proprio dio. Io detto. Applicata agli uomini la parola bellezza m'indica l'armoniosa qualità d'un viso e d'un corpo cui s'unisce talora la grazia virile. La bellezza allora è accompagnata da movenze magnifiche, dominatrici, sovrane. Noi immaginiamo che attitudini morali particolarissime le determinino, e coltivando in noi tali virtù speriamo, ai nostri poveri visi, ai nostri corpi infermi, di conferire quel vigore che per natura possiedono i nostri amanti. Ahimé, codeste virtù ch'essi stessi non possiedono mai costituiscono la nostra debolezza. Adesso mentre scrivo sto pensando ai miei amanti. Li vorrei spalmati della mia vaselina, di quella dolce materia dal lieve sentor di menta; vorrei che immergessero i muscoli in quella sua delicata trasparenza, senza di che i loro attributi più cari son meno belli. Quando un arto è asportato, m'hanno detto, quello che resta diventa più forte. Nel sesso di Stilitano speravo si fosse raccolto il vigore del suo braccio amputato. Immaginai a lungo un membro solido, manganellatore, capace della peggior tracotanza, sebbene anzitutto m'incuriosisse ciò che Stilitano mi permetteva di conoscerne: la sola piega, ma curiosamente esatta sulla gamba sinistra, dei suoi pantaloni di tela turchina. Forse tale particolare avrebbe meno ossessionato i miei sogni se, a ogni istante, Stilitano non vi avesse portato la mano sinistra, e se non avesse, come le damine quando fanno la riverenza, indicando la piega, pizzicato delicatamente la stoffa con le unghie. Credo che non abbia mai perso il suo sangue freddo, ma davanti a me era particolarmente calmo. Con un lieve sorriso impertinente, ma senza dar peso alla cosa, mi guardava adorarlo. So che mi amerà. Prima che varcasse, col paniere in mano, la porta dell'albergo, ero così commosso che per la strada abbracciai Salvador, che però mi respinse. - Sei matto? Ci prenderanno per "mariconas"! Parlava assai bene il francese che aveva imparato nelle campagne di Perpignano dov'andava a vendemmiare. Ferito, mi scostai da lui. Il suo viso era violetto. Aveva il colore dei cavoli che si sbarbicano d'inverno. Salvador non sorrise. S'era urtato. - «Valeva proprio la pena, dovette pensare, d'alzarsi così presto per andare a mendicar nella neve. Jean non sa contenersi.» Aveva i capelli irti e bagnati. Dietro i vetri, alcuni volti stavan guardandoci, perché in basso l'albergo era occupato dal salone d'un caffè che dava sulla strada, e che bisognava attraversare per salire in camera. Salvador si nettò con la manica il viso e entrò. Esitai. Entrai a mia volta. Avevo vent'anni. Se possiede la limpidezza d'una lacrima, perché la goccia esitante sull'orlo d'una narice non dovrei berla con il medesimo fervore? Ero, per far questo, abbastanza allenato nella riabilitazione dell'ignobile. Se non avessi temuto di disgustar Salvador, lo avrei fatto nel caffè. Ma lui tirò su col naso, e capii che s'era inghiottito il moccio. Col paniere infilato in un braccio, passando attraverso gli accattoni e i malfattori, si diresse in cucina. Mi precedeva. - Ma che hai? - dissi.
- Ti fai notare. - Che male c'è? - Non ci si bacia così, sul marciapiede. Stasera, se vuoi... Disse tutto questo con broncio sgraziato e uguale sprezzo. Avevo soltanto voluto dimostrargli la mia gratitudine, scaldarlo col mio povero affetto. - Ma che ti sei creduto? Qualcuno lo urtò senza scusarsi, mentre mi separavo da lui. Non lo seguii in cucina. M'avvicinai a una panca dove, accanto alla stufa, c'era un posto vuoto. Poco mi preoccupavo di sapere attraverso quale procedimento, sebbene follemente invaghito di vigorosa bellezza, sarei riuscito a innamorarmi di quel pidocchioso e laido accattone, malmenato dai meno arditi, a accendermi per le sue natiche angolose... e se avesse, per disgrazia, un sesso stupendo. Il Barrio Chino era allora una sorta di covo popolato, più che da spagnoli, da stranieri ch'eran tutti dei teppisti pidocchiosi. Talvolta indossavamo camicie di seta verde mandorla o giunchiglia, calzavamo scarpe di tela fruste, e i nostri capelli parevano incollati da cento mani di vernice. Non avevamo capi ma, piuttosto, dei direttori. Non sono in grado di spiegare come lo diventassero. Probabilmente per un seguito di felici operazioni nella vendita delle nostre tristi refurtive. S'occupavano dei nostri affari e ci indicavano i colpi, dei quali si riservavano un'equa parte. Non formavamo bande più o meno organizzate, ma in quel vasto e sporco disordine, nel cuore d'un quartiere puzzolente d'olio, d'orina e di merda, pochi uomini smarriti si rimettevano a un altro più abile. Tanto lerciume era reso scintillante dalla giovinezza di molti di noi, nonché da quel più misterioso fulgore di certuni veramente sfavillanti, ragazzotti carichi nel corpo, nello sguardo e nei gesti d'un magnetismo che fa di noi il loro oggetto. Fu così che rimasi fulminato da uno di essi. Per poter parlare meglio di Stilitano, il monco, aspetterò ancora qualche pagina. Si sappia intanto che di nessuna virtù cristiana era adorno. Tutto il suo fulgore, tutta la sua potenza, avevan la loro sorgente fra le sue gambe. La sua verga, e ciò che la completa, tutto l'apparato era così bello ch'io non riesco a chiamarlo altrimenti che organo generatore. Lo credevi morto, perché di rado, e lentamente, gli si muoveva: invece vegliava. Elaborava nella notte d'una pattìna, ben abbottonata anche se con una mano sola, quella luminosità che renderà splendente il suo portatore. I miei amori con Salvador durarono sei mesi. Non furono i più inebrianti ma i più fecondi. Ero riuscito a amare quel corpo gracilino, quel viso grigio, quella barba rada e piantata in modo ridicolo. Salvador aveva cura di me, ma io la notte, presso la candela, cercavo nelle cuciture dei suoi pantaloni i pidocchi, nostri intimi di casa. Ci abitavano, i pidocchi. Ai nostri vestiti davano un'animazione, una presenza che, una volta scomparse, li rendevano morti. Ci piaceva sapere - e sentire - il pullulio di quegli animaletti translucidi che, senza essere addomesticati, erano così nostri che il pidocchio d'un altro, e non di noi due, ci disgustava. Ne andavamo a caccia ma con la speranza che in giornata si sarebbero schiuse le lendini. Con le unghie li schiacciavamo senza schifo e senza odio. Non ne buttavamo il cadavere - o spoglia - nell'immondezzaio, lo lasciavamo cadere, sanguinante del nostro sangue, nella nostra biancheria sciamannata. I pidocchi erano l'unico segno della nostra prosperità, anzi dell'inverso della prosperità, ma era logico che inducendo la nostra condizione a operare un riassetto che la giustificasse, giustificassimo nel contempo il segno di tale condizione. Diventati non meno utili, per la conoscenza del nostro svilimento, dei gioielli per la conoscenza di ciò che vien chiamato un trionfo, i pidocchi erano preziosi. Ne ricavavamo a un tempo vergogna e gloria. Ho a lungo vissuto in una camera senza finestre, tranne uno sportelletto che dava sul corridoio dove, la sera, cinque visucci, crudeli e teneri, sorridenti o contratti nell'anchilosi d'una scomoda posizione, madidi di sudore, cercavano quegli insetti della cui virtù partecipavamo. Era giusto ch'io fossi l'amante del più povero e del più brutto in fondo a tanta miseria. Grazie a ciò conobbi uno stato di privilegio. Faticai, ma ogni vittoria ottenuta - le mie mani lerce orgogliosamente esposte m'aiutavano a esporre orgogliosamente la barba e i capelli lunghi mi dava la forza - o la debolezza, che qui è la stessa cosa - per la vittoria successiva, che naturalmente nel vostro linguaggio prenderebbe il nome di scadimento. Tuttavia, poiché lo splendore, la luce sono necessari alla nostra vita, avevamo in quel buio un raggio di sole che
riusciva a attraversare i vetri e la sporcizia, avevamo il nevischio, la brina, elementi che se indicano delle calamità, evocano anche gioie il cui segno, staccato nella nostra stanza, ci bastava: del Natale e dei Cenoni conoscevamo soltanto ciò che sempre li accompagna e li rende più dolci a chi li celebra: il gelo. Coltivare le piaghe, per gli accattoni, è anche un mezzo per procurarsi un po' di denaro - di che vivere - ma se nella miseria furon condotti a ciò dall'inerzia, l'orgoglio che ci vuole per tenersi al disopra del disprezzo è una virtù virile: come uno scoglio un fiume, l'orgoglio fende e divide il disprezzo, lo spacca. Entrando sempre più a fondo nell'abiezione, l'orgoglio sarà più forte (se quell'accattone sarò io) quando avrò acquistato la scienza - forza o debolezza - d'approfittare d'un tal destino. Bisogna, a mano a mano che questa lebbra mi guadagna, ch'io la guadagni e ch'io guadagni. Diventerò dunque sempre più ignobile, sempre più oggetto di disgusto, sino al punto finale ch'io non so ancora che cosa sia ma che deve muovere da una ricerca estetica quanto morale? La lebbra, cui paragono la nostra condizione, provocherebbe, dicono, un'irritazione dei tessuti, il malato si gratta: arrazza. In un solitario erotismo la lebbra si conforta e canta il proprio male. La miseria ci innalzava. Attraverso la Spagna recavamo una segreta e velata magnificenza, priva d'arroganza. I nostri gesti erano sempre più umili, sempre più spenti, quanto più intensa era la brace d'umiltà che ci faceva vivere. Così, il dono in me si sviluppava di dare un senso sublime a un'apparenza tanto povera. (Non parlo ancora di dono letterario.) Sarà per me una disciplina molto utile, che ancor oggi mi permette di sorridere teneramente ai fondacci più umili, siano essi umani o materiali, e persino al vomito, alla bava che lascio colar sul viso di mia madre, persino ai vostri escrementi. Conserverò in me l'idea di me accattone. Volli esser simile a quella tale che, al riparo dalla gente, serbò in casa la figlia, una sorta di mostro orribile, deforme, che camminava a quattro zampe grugnendo, stupido e slavato. Quando partorì, la sua disperazione dovette esser tale da diventar l'essenza stessa della sua vita. Decise d'amare quel mostro, d'amare la bruttezza uscita dal suo ventre dove s'era elaborata, e d'innalzarla piamente. In tal modo l'idea di mostro la conservava nel proprio intimo dove le aveva ordinato un altarino. Con devote attenzioni, con mani morbide nonostante i calli delle quotidiane fatiche, col caparbio accanimento dei disperati s'oppose al mondo, al mondo oppose il mostro che del mondo assunse le dimensioni e la potenza. Nuovi principi s'ordinarono muovendo da quello, senza posa combattuti dalle forze del mondo che cozzavano contro di lei ma che venivano fermate dai muri della dimora dove sua figlia era rinchiusa (7). Ma, poiché talvolta dovevamo rubare, conoscevamo anche le bellezze chiare, terrene, dell'audacia. Prima che ci addormentassimo, il capo, il cavaliere ci consigliava. Con documenti falsi, per esempio, ci presentavamo in vari consolati chiedendo il rimpatrio. Il console, commosso o infastidito dalle nostre lagne e dalla nostra miseria, dalla nostra sporcizia, ci dava un biglietto ferroviario per un posto di frontiera. Il capo lo rivendeva alla stazione di Barcellona. Ci indicava anche i furti da commettere in chiesa - cosa che non osavan fare gli spagnoli - o nelle ville signorili, infine era lui a portarci i marinai inglesi o olandesi ai quali dovevamo prostituirci per poche pesetas. Così, a volte rubavamo, e ogni scucio ci rimetteva per un istante a galla. Una veglia d'armi precede ogni spedizione notturna. Il nervosismo provocato dalla paura, dall'angoscia talora, facilita uno stato d'animo prossimo alle inclinazioni religiose. Tendo allora a interpretare ogni minimo accidente. Le cose diventano segni della fortuna. Cerco d'affascinare le ignote potenze dalle quali mi sembra dipendere la riuscita dell'avventura. Tento d'affascinarle con atti morali, soprattutto con la carità: do più volentieri e in maggior copia agli accattoni, lascio il mio posto ai vecchi, cedo loro il passo, aiuto i ciechi a attraversare la strada, eccetera. Così ho l'aria di riconoscere che al furto presiede un dio cui son gradite le buone azioni. Questi tentativi per lanciare una rete aleatoria dove dovrebbe incappare il dio di cui non conosco nulla, mi sfibrano, mi snervano, favoriscono ancor più quel mio stato d'animo religioso. Al gesto di rubare comunicano la gravità d'un atto rituale. Esso si compirà davvero nel cuore delle tenebre, rese ancor più cupe dal fatto che avvenga soprattutto di notte, durante il sonno della gente, in un luogo chiuso, e noi stessi forse mascherati di nero. Il camminare in punta di piedi, il silenzio, l'invisibilità di cui abbisogniamo anche in pieno giorno, mentre a
tentoni le mani organizzano nel buio gesti d'una complicatezza, d'una cautela insolite - il semplice girare la maniglia d'una porta richiede una quantità di movimenti ciascun dei quali ha il brillio della faccetta d'un gioiello - (quando scopro dell'oro, mi sembra d'averlo dissotterrato: ho frugato continenti, isole oceaniane; i negri mi circondano, le loro picche avvelenate minacciano il mio corpo indifeso, senonché, agendo la virtù dell'oro, un gran vigore m'atterra o mi esalta, le picche s'abbassano, i negri mi riconoscono come un dei loro, e io entro a far parte della tribù) - la prudenza, la voce sussurrata, l'orecchio teso, la presenza invisibile e nervosa del complice e la comprensione d'ogni suo minimo cenno, tutto ci raccoglie in noi stessi, ci comprime, fa di noi una palla di presenza così ben descritta dalla frase di Guy: - «Ci si sente vivere». Ma in me tale presenza totale che si trasforma in una bomba di una potenza che m'appar terribile, conferisce all'atto una gravità, un'unicità terminale - lo scucio nel momento in cui si compie è sempre l'ultimo, non perché si pensi di non compierne più dopo di quello, non si pensa, ma perché un tale concentramento di sé non può aver luogo (non nella vita, ce ne condurrebbe, spinto oltre, fuori) - e tale unicità d'un atto che (la rosa, la sua corolla) sboccia in gesti coscienti, sicuri della loro efficacia, della loro fragilità e pur tuttavia della violenza ch'essi conferiscono a quell'atto, gli accorda anche qui il valore d'un rito religioso. Anzi, spesso lo dedico a qualcuno. Per primo ebbe il privilegio di un tale omaggio Stilitano. Credo che proprio da lui io sia stato iniziato, cioè che proprio l'assillo del suo corpo m'abbia impedito di desistere. Alla sua bellezza, alla sua tranquilla spudoratezza dedicai i miei primi furti. Nonché alla singolarità di quello stupendo monco, la cui mano, mozzata al polso, stava imputridendo da qualche parte, sotto un castagno, mi disse, in una foresta dell'Europa centrale. Durante il furto il mio corpo è esposto. So che scintilla d'ogni mio gesto. Il mondo è tutto teso alla mia riuscita, anche se agogna il mio capitombolo. Pagherò caro un errore, ma se all'errore riparerò credo che vi sarà giubilo nella dimora del Padre. Oppure cado, e di disgrazia in disgrazia è il bagno penale. E allora i selvaggi, inevitabilmente, l'ergastolano che tentava «la Bella» li incontrerà di nuovo, grazie al procedimento che, più sopra, descrive in succinto la mia intima avventura. Attraversando la foresta vergine, se troverà un giacimento aurifero custodito da antiche tribù, verrà da queste ucciso o tratto in salvo. E' ben lunga la strada che imbocco per raggiungere la vita primitiva. M'occorre anzitutto la condanna della mia razza. Salvador non mi diede mai occasione d'essere orgoglioso di lui. Se rubava, erano oggettuzzi dalla mostra d'un negozio. La sera, nei caffè dove ci pigiavamo, s'insinuava triste fra i più belli. Quella nostra vita lo sfibrava. Quando rientravo, mi sentivo arrossire nel vederlo accoccolato, raggomitolato su se stesso, su una panca, stringendosi sulle spalle la coperta di cotone verde e giallo con la quale usciva a mendicare nelle giornate di tramontana. Aveva anche un vecchio scialle di lana nera che io mi rifiutavo di mettere. Infatti, se il mio animo sopportava, anzi desiderava l'umiltà, giovane e violento il mio corpo rifiutava l'umiliazione. Salvador parlava con voce secca e triste: - Ci vuoi tornare in Francia con me? Lavoreremo in campagna. Rispondevo di no. Non capiva la mia nausea - non il mio odio - della Francia, né che la mia avventura, se geograficamente si fermava a Barcellona, vi doveva proseguire in profondità, sempre più in profondità, verso le più remote regioni di me stesso. - Ma lavorerò soltanto io. Tu te n'andrai a spasso. - No. Lo lasciavo alla sua panca, alla sua squallida povertà. Presso la stufa o il banco andavo a fumar le cicche che avevo racimolato in giornata, vicino a un giovane andaluso, sprezzante nel suo maglione bianco e sporco che ne esagerava i muscoli del torso e i bicipiti. Dopo essersi fregate le mani l'una con l'altra, come fanno i vecchi, Salvador lasciava la sua panca. Andava nella cucina comune a prepararsi una minestra e a mettere un pesce sulla graticola. Una volta mi propose di scendere a Huelva per la raccolta delle arance. Era una sera in cui aveva subìte tante e tali umiliazioni, tante e tali strapazzate mendicando per me, da osar di rinfacciarmi il mio poco successo alla Criolla. - Parola, quando adeschi un cliente, sei tu a dover pagarlo -, mi disse.
Litigammo davanti al padrone dell'albergo, che decise di metterci alla porta. Salvador e io stabilimmo allora di rubar l'indomani due coperte e di nasconderci in un treno merci diretto verso il sud. Ma fui tanto abile da portar, quella sera stessa, la mantellina d'un carabiniere (8). Passando vicino ai "docks" dove quelli montano la guardia, uno di loro m'aveva chiamato. Feci quant'egli esigeva, nella garitta. Forse, senza aver il coraggio di dirmelo, sentì poi il bisogno di lavarsi a una fontanella; mi lasciò solo per un istante e io me la squagliai con la sua ampia mantellina di panno nero. Me la avvolsi intorno al corpo per tornare all'albergo, e provai la gioia dell'equivoco, non ancora la gioia del tradimento, ma già la confusione s'andava stabilendo, insidiosa, che m'avrebbe permesso di respingere i principali ostacoli. Aprendo la porta del caffè vidi Salvador. Era il più triste degli accattoni. Il suo viso era della stessa qualità, e quasi della stessa materia, della segatura che copriva il pavimento del caffè. Immediatamente riconobbi Stilitano, in piedi fra i giocatori di ronda. I nostri sguardi s'incontrarono. Il suo indugiò su di me, e arrossii. Mi levai la mantellina nera e subito la si contrattò. Senza ancora prendervi parte, Stilitano guardava quel pietoso mercato. - Fate presto, se la volete. Decidetevi. Il carabiniere verrà sicuramente a cercarmi -, dissi. I giocatori strinsero un poco i tempi. Ci s'era abituati, a simili ragioni. Quando uno spintone m'avvicinò a lui, Stilitano mi disse in francese: - Sei parigino? - Sì, perché? - Così. Sebbene fosse stato lui a interpellarmi, sperimentai, nel rispondere, la natura quasi disperata del gesto che osa l'invertito quando abborda un giovanotto. Per mascherare il mio turbamento, avevo la scusa del fiatone, avevo dalla mia la precipitazione del momento. Disse: - Sei stato bravo. Sapevo che quell'elogio era un astuto calcolo, ma fra quegli accattoni Stilitano (non ne conoscevo ancora il nome) com'era bello! Teneva un braccio, con l'estremità coperta da un'enorme fasciatura, piegato sul petto, come se lo avesse al collo, ma sapevo che la mano non c'era più. Stilitano non era un frequentatore del caffè dell'albergo, e nemmeno della calle. - E a me, la mantellina, quanto me la metti? - Me la pagheresti? - Perché no? - Con che cosa? - Hai paura? - Di dove sei? - Serbo. Vengo dalla Legione. Sono un disertore. Mi sentii di botto leggero leggero. Distrutto. L'emozione creò in me un vuoto che venne colmato dal ricordo d'una scena nuziale. In una sala da ballo dove i soldati ballavan fra loro, me ne stavo a guardar le loro danze. Mi parve allora che l'invisibilità di due legionari si fosse fatta totale. L'emozione li aveva fatti sparire per incanto. Se fin dall'inizio di «Ramona» la loro danza fu casta, lo restò quando si sposarono scambiandosi sotto i nostri occhi un sorriso come ci si scambia un anello?... A tutte le ingiunzioni d'un invisibile clero la Legione rispondeva sì. Ciascun di loro era a un tempo la coppia velata di tulle e vestita in alta uniforme (buffetterie bianche, cordellina scarlatta e verde). Si scambiavano esitanti la loro maschia tenerezza e la loro verecondia di sposa. Per mantener l'emozione al suo estremo apice, fecero più lieve la danza, e più lenta, mentre le loro virilità, intorpidite dalla stanchezza d'una lunga marcia, dietro una barricata di ruvida tela si minacciavano, si sfidavano senza prudenza. Le visiere di cuoio verniciato dei loro kepì si scontravano a colpettini. Sapevo d'esser dominato da Stilitano. Cercai di giocar d'astuzia: - Questo non prova che puoi pagare. - Abbi fiducia in me. Un viso così duro, un corpo così vigoroso mi chiedevano d'aver fiducia in loro! Salvador ci stava guardando. Sapeva il nostro accordo, e che già avevamo deciso la sua rovina, il suo abbandono. Feroce e puro, era il teatro d'una "féerie" che si rinnovava. Cessata la danza, i due soldati si
staccarono l'uno dall'altro. E ciascuna di quelle due metà d'un solo blocco solenne e stordito, esitò, s'avviò, felice di sfuggire all'invisibilità, e addolorata, verso una ragazza per il ballo successivo. - Ti do due giorni per pagarmela, dissi. Ho bisogno di grana. Anch'io ero alla Legione. E ho disertato. Come te. - Sarà fatto. Gli tesi la mantellina. La prese con la sua unica mano e me la restituì. Sorridente ma imperioso, disse: - Arrotolala -. E beffardo aggiunse: - In attesa di farmela io, una bella arrotolata. Si sa la frase: «Baciare con una bella arrotolata di lingua». Non battei ciglio e feci quanto m'aveva detto. La mantellina sparì all'istante in un nascondiglio del padrone. Forse quel semplice furto aveva conferito un qualche splendore al mio volto, o semplicemente Stilitano volle mostrarsi gentile; mi disse ancora: - Lo paghi un bicchiere? A un veterano di Bel-Abbès? Un bicchiere di vino costava due soldi. In tasca ne avevo quattro ma li dovevo a Salvador che ci stava guardando. - Sono al verde -, disse Stilitano, con orgoglio. I giocatori a carte formavano nuovi gruppi che per un attimo ci separarono da Salvador. Mormorai fra i denti: - Ho quattro soldi e te li passerò di nascosto, ma dovrai esser tu a pagare. Stilitano sorrise. Ero perduto. Ci sedemmo a un tavolo. Aveva già attaccato a parlare della Legione quando, fissandomi, s'interruppe. - Eppure, mi sembra d'averti già incontrato. Io, ne serbavo vivo il ricordo. Dovetti aggrapparmi a invisibili sartie, mi sarei messo a tubare. Le parole non avrebbero da sole, né il tono della voce, potuto esprimere la mia passione, non solo avrei cantato, ma è proprio l'appello della più innamorata selvaggina che la mia gola avrebbe voluto lanciare. Forse mi si sarebbero rizzate sul collo bianche piume. Una catastrofe è sempre possibile. La metamorfosi è in agguato. Mi protesse il pànico. Son vissuto nella paura delle metamorfosi. E' per render sensibile al lettore il più delizioso sgomento - accorgendomi che l'amore stava piombando su di me (il paragone non è imposto soltanto dalla retorica) come un girifalco - che ricorro all'immagine della tortorella. Che cosa provai allora lo ignoro, ma mi basta evocare l'apparizione di Stilitano perché il mio smarrimento subitamente si tramuti oggi in un rapporto tra uccello crudele e vittima. (Se non avessi sentito il mio collo gonfiarsi in un tenero tubare, avrei piuttosto parlato d'un pettirosso.) Una curiosa bestia apparirebbe se ciascuna mia emozione si trasformasse nell'animale che suscita: la collera soffia nel mio collo di cobra, questo stesso cobra gonfia ciò che non oso nominare, la mia cavalleria, le mie giostre nascono dalla mia insolenza... D'una tortora conservavo soltanto una raucedine che Stilitano notò. Tossii. Dietro il Parallelo c'era un terreno in abbandono dove la teppa giocava a carte. (Il Parallelo è un viale di Barcellona parallelo alle celebri Ramblas. Fra quelle due vie, molto larghe, una moltitudine di strade anguste, buie e sporche, forma il Barrio Chino.) Accovacciati, i teppisti organizzavano giochi, disponevano le carte su un riquadro di stoffa o sulla polvere. Un giovane gitano conduceva una delle partite e andai a risicare i pochi soldi che avevo in tasca. Non sono un giocatore. I ricchi casinò non mi attirano. L'atmosfera illuminata dai lampadari elettrici m'infastidisce. L'affettata disinvoltura dei giocatori eleganti mi dà la nausea, infine l'impossibilità d'agire su quegli aggeggi meccanici: palle, roulettes, cavallini, mi scoraggia, mentre mi piaceva la polvere, la sporcizia, la foga dei teppisti. Atterrato dalla collera o dal desiderio, mentre mi chino su di lui, di Java vedo il profilo schiacciato sul cuscino. Il dolore, la contrazione dei suoi lineamenti ma anche la loro radiosa angoscia, li ho spiati spesso sul faccino scarruffato di quei ragazzacci accovacciati. Era tutta una folla tesa verso la vincita o la perdita. Ogni coscia fremeva di stanchezza o di inquietudine. Quel giorno il tempo era burrascoso. Ero preso nell'impazienza così giovane di quei giovani spagnoli.
Giocai e vinsi. Vinsi a ogni colpo. Per tutta la partita non avevo aperto bocca. D'altronde il gitano era per me uno sconosciuto. L'uso mi permetteva d'intascare il denaro e d'andarmene. Il ragazzo era così bello in volto ch'ebbi la sensazione, lasciandolo così, di mancar di rispetto alla bellezza a un tratto triste di quel viso, affranto dal caldo e dalla noia. Gli resi garbatamente il denaro. Un poco stupito, lo prese e con semplicità mi ringraziò. - Salve, Pépé -, lanciò passando uno zoppo dai capelli crespi e cotto dal sole. - Pépé -, mi dissi, - si chiama Pépé. - E me n'andai, poiché avevo notato la sua mano piccola e delicata, quasi femminea. Ma fatti pochi passi in quella folla di ladri, di zoccole, d'accattoni, di checche, mi sentii toccare una spalla. Era Pépé. Aveva lasciato il gioco. Mi parlò in spagnolo: - Mi chiamo Pépé -, e mi tese la mano. - Io, Juan. - Vieni. Andiamo a bere. Non era più grande di me. Il suo viso mi parve meno schiacciato da come l'avevo visto dall'alto, quando lui se ne stava accovacciato a terra. I lineamenti erano più fini. - E' una femminella -, mi dissi evocando la sua mano gracile, e pensai che la sua compagnia m'avrebbe annoiato. Aveva deciso che il denaro da me vinto ce lo saremmo bevuto. Girammo da una taverna all'altra e per tutto il tempo che restammo insieme si mostrò delizioso. Non aveva camicia ma una maglietta blu, molto scollata. Dall'apertura usciva un collo saldo, ampio quanto la testa, sul quale, quando voltava il capo senza muovere il busto, un tendine enorme s'inturgidiva come un membro virile. Cercai d'immaginarne il corpo, e a dispetto delle mani piuttosto fragili lo intuii solido, dato che le cosce colmavano la stoffa leggera dei pantaloni. Faceva caldo. Il temporale non scoppiava. Il nervosismo dei giocatori cresceva intorno a noi. Le zoccole pareva si fossero appesantite. La polvere e il sole ci opprimevano. Più che alcolici, preferimmo bere gazzose. Seduti presso i venditori ambulanti, ci scambiavamo rade parole. Sorrideva sempre, con una punta di stanchezza. Mi pareva disposto a indulgere. S'era accorto che il suo musetto mi piaceva? Non lo so, comunque fece finta di nulla. Del resto, mi comportavo come lui, avevo la stessa aria un po' sorniona, apparivo pronto a tutto contro il passante ben vestito, possedevo la sua medesima giovinezza e sporcizia, ed ero francese. Verso sera gli venne voglia di giocare, ma era troppo tardi per cominciare una partita, tutti i posti erano presi. Girammo un poco fra i giocatori. Quando sfiorava una zoccola, Pépé la sfotteva. A volte le mollava un pizzicotto. Il caldo si faceva sempre più afoso. Il cielo quasi rasentava il suolo. Il nervosismo della folla stava diventando irritante. L'impazienza s'impadroniva del gitano che non si decideva a scegliere una partita. In tasca faceva ballonzolare gli spiccioli. Tutt'a un tratto mi prese per un braccio. - Venga! (9) Mi portò, a due passi di lì, nell'unico gabinetto pubblico del Parallelo, gestito da una vecchia. Stupito dalla sua improvvisa decisione, gli chiesi: - Che vuoi fare? - Aspettami un attimo. - Perché? Mi rispose con una frase spagnola che non capii. Glielo dissi e lui fece, scoppiando in una risata, davanti alla vecchia che stava aspettando i suoi due soldi, l'atto di masturbarsi. Quando uscì, era un poco acceso in volto. Continuava a sorridere. - Ora sì, son pronto. Apprendevo così in quale modo, qua, certi giocatori usassero prendere le dovute precauzioni in ogni grande occasione, per esser più calmi. Tornammo sullo spiazzo in abbandono. Pépé scelse un gruppo. Perse. Perse tutto quel che gli era rimasto. Cercai di trattenerlo, era troppo tardi. Permettendoglielo la consuetudine, all'uomo che teneva il banco chiese di concedergli sul piattello una puntata per la successiva partita. L'uomo rifiutò. Mi parve allora che quanto costituiva la gentilezza del gitano inacidisse, come inacidisce il latte, e si trasformasse nella più feroce ira ch'io abbia mai conosciuto. Svelto arraffò il banco. L'uomo s'alzò d'un balzo e cercò di mollargli un calcio. Pépé lo schivò. Mi porse il denaro, ma l'avevo appena intascato che il suo coltello si aprì. Lo
piantò nel cuore dello spagnolo, un giovanottone abbronzato, che cadde a terra e che, nonostante l'abbronzatura, impallidì, si contrasse, si torse, e spirò sulla polvere. Per la prima volta vedevo qualcuno render l'anima. Pépé era sparito, ma quando, distolti gli occhi dal morto, alzai il capo, vidi, che lo guardava con un lieve sorriso, Stilitano. Il sole stava tramontando. Il morto e il più bello degli esseri umani m'apparivano confusi nella medesima polvere d'oro, tra una folla di marinai, di soldati, di teppisti, di ladri d'ogni paese del mondo. Non girava: portando Stilitano, intorno al sole la Terra tremava. Stavo facendo conoscenza, nel medesimo istante, con la morte e con l'amore. La visione fu tuttavia brevissima giacché non potevo restarmene lì, temendo d'esser stato visto con Pépé e che un amico del morto mi strappasse il denaro che custodivo in tasca, ma mentre m'allontanavo da quel luogo la mia memoria conservava e commentava la scena che a me appariva grandiosa: «Commesso da un fanciullo che fu delizioso, l'assassinio d'un uomo maturo la cui abbronzatura poteva così impallidire, assumere il lividore della morte, e questo sotto il vigile e ironico sguardo d'un giovanottone biondo col quale, in segreto, m'ero fidanzato». Per quanto rapida fosse stata l'occhiata che gli lanciai, avevo avuto il tempo di capire la magnifica muscolatura di Stilitano e di vedere, appallottolato nella sua bocca schiusa, uno sputo bianco, pesante, compatto come un bianco verme col quale giocherellava, stirandolo dall'alto in basso fino a velarne, tra le due labbra, la bocca. Era a piedi nudi sulla polvere. Aveva le gambe rinchiuse in un paio di pantaloni di tela turchina sbiadita, consunta e sbrindellata. Le maniche della camicia verde erano rimboccate, e una di esse su un polso monco, lievemente appuntito, dove la pelle ricucita mostrava una dolce e pallida cicatrice rosa. *** Stilitano sorrise e si burlò di me. - Mi sfotti? - Un po' -, disse. - E tu approfittane. Sorrise ancora, spalancando gli occhi. - Perché? - Lo sai, d'essere un bel ragazzotto. E credi di poter sfottere tutti quanti. - Ne ho il diritto, son simpatico. - Ne sei sicuro? Scoppiò in una risata. - Sicurissimo. Non c'è da sbagliarsi. Anzi, son così simpatico che a volte la gente mi s'appiccica addosso. Per staccar qualcuno da me, devo fargli delle carognate. - Quali? - Ti piacerebbe saperlo, eh? Aspetta, e mi vedrai all'opera. Avrai tempo di rendertene conto. Dove dormi? - Qui. - Male. La polizia si metterà in moto. Comincerà proprio col venir qui. Vieni con me. Dissi a Salvador che quella notte non potevo passarla in albergo, ma che un veterano della Legione m'offriva la sua camera. Impallidì. L'umiltà del suo dolore mi fece arrossire. Per lasciarlo senza provar rimorso, lo insultai. Lo potevo fare perché mi amava sino alla devozione. Al suo sguardo desolato ma carico d'un odio da povero imbelle, risposi con una parola: «Checca». Raggiunsi Stilitano che stava aspettandomi fuori. Il suo albergo si trovava nel ronco più buio del quartiere. Vi abitava da pochi giorni. Dal corridoio aperto sul marciapiede, una scala portava nelle camere. Durante il tragitto mi disse: - Vuoi che restiamo insieme? - Se si può. - Hai ragione. Ce la sbroglieremo meglio. Davanti alla porta del corridoio, disse ancora:
- Passami la scatoletta. Già non avevamo, in due, che una sola scatola di fiammiferi. - E' vuota -, dissi. Bestemmiò. Mi prese per la mano, passandosi la sua dietro la schiena, dato che mi trovavo alla sua destra. - Seguimi -, disse. - E fa' silenzio, la scala è pettegola. Adagio adagio, uno scalino dopo l'altro, mi guidò. Non sapevo più dove stessimo andando. Un atleta stupendamente agile mi portava a passeggio nella notte. Un'Antigone più antica e più greca mi faceva scandire un calvario ripido e tenebroso. La mia mano era fiduciosa e mi vergognavo d'inciampar talvolta in un sasso, in una radice, o di perder la bussola. Sotto un cielo tragico, i più bei paesaggi del mondo li percorrevo quando di notte Stilitano prendeva una delle mie mani. Di qual natura era il fluido che da lui si scaricava su di me, dandomi una scossa elettrica? Ho camminato per perigliosi lidi, sono sboccato in lugubri piane, ho udito il mare. Come lo toccavo, la scala si trasformava: era l'arbitro del mondo. Grazie al ricordo di quei brevi istanti potrei descrivervi passeggiate, fughe anelanti, inseguimenti in contrade della terra dove mai mi recherò. Il mio rapitore mi portava via con sé. - Gli sembrerò impacciato -, pensavo. Tuttavia m'aiutava gentile, paziente, e il silenzio che mi raccomandava, il segreto di cui circondava, quella sera, la nostra prima notte, per un attimo mi fecero credere al suo amore per me. Il tanfo di quella casa era né più né meno quello di tutte le altre case del Barrio Chino, senonché il suo spaventoso odore rimarrà in eterno, per me, l'odore stesso non soltanto dell'amore, ma anche della tenerezza e della fiducia. L'odore di Stilitano, l'odore delle sue ascelle, l'odore della sua bocca, quando il mio olfatto se ne sovviene e, all'improvviso, li ritrova con inquietante verità, li ritengo capaci di rendermi possibili le più folli audacie. (A volte, incontro qualche ragazzotto, la sera, e l'accompagno nella sua camera. A piè della scala, poiché i miei teppisti abitano in malfamati alberghi, questi mi prende per la mano. Con la stessa accortezza di Stilitano mi guida.) - Fa' attenzione. Mormorava questa frase, troppo dolce per me. Data la posizione del mio e del suo braccio, i nostri corpi erano appiccicati insieme. Per un istante sentii il movimento delle sue mobili natiche. Mi scostai un po', per rispetto. Salivamo, fra gli angusti limiti di due esili pareti che forse proteggevano il sonno delle puttane, dei ladri, degli sfruttatori e degli accattoni di quell'albergo. Ero un bambino guidato con prudenza dal babbo. (Oggi sono un babbo guidato dal figlio verso l'amore.) Al quarto pianerottolo entrai nella sua misera cameretta. L'intero ritmo del mio respiro ne rimase sconvolto. Amavo. Nei bar del Parallelo Stilitano mi presentò ai suoi compagni. Nessun di loro parve notare che mi piacevano gli uomini, tant'è pieno di mariconas il Barrio Chino. Facemmo insieme, lui e io, qualche colpo non rischioso che ci procurava il necessario per vivere. Abitavo con lui, mi coricavo nel suo letto, ma quel maschione grande e grosso era così pieno di delicato pudore che non riuscii mai a vederlo per intero. Se da lui avessi ottenuto ciò che con tanto ardore desideravo, Stilitano ai miei occhi sarebbe rimasto l'incantevole e saldo padrone, la cui forza e il cui fascino però non avrebbero soddisfatto la mia brama di tutte le possibili forme della virilità: quella del soldato, quella del marinaio, dell'avventuriero, del ladro, del criminale. Rimanendo inaccessibile, divenne la visibile essenza dei personaggi or ora nominati, i quali uno per uno mi atterrano. Ero dunque casto. Talora, aveva la crudeltà d'ordinarmi d'abbottonargli la cintura, e la mia mano tremava. Fingeva di non accorgersene e si divertiva. (Parlerò più avanti del carattere delle mie mani e del senso di quel tremore. Non senza ragione, in India, dicono che le persone e le cose sacre o immonde sono Intoccabili.) Stilitano era felice di avermi ai suoi ordini e agli amici mi presentava come il suo braccio destro. Ora, proprio la mano destra gli era stata amputata, e certamente, mi dicevo rapito, io ero appunto il suo braccio destro, ero colui che faceva le veci
dell'arto più forte. Che avesse qualche amante fra le zoccole della calle del Carmen, può darsi, ma a me non risultava. Esagerava il suo disprezzo per le checche. Vivemmo così per alcuni giorni. Una sera ch'ero alla Criolla, una delle puttane mi disse d'andarmene. Era venuto, mi disse, un carabiniere. Cercava me. Era sicuramente quello che prima avevo soddisfatto e poi fatto fesso. Tornai in albergo. Avvertii Stilitano, il quale mi disse che avrebbe pensato lui a sistemar la faccenda, e uscì. Sono nato a Parigi il 19 dicembre 1910. Raccolto in un brefotrofio, non mi fu mai possibile saper di più del mio stato civile. A ventun anni riuscii a ottenere un certificato di nascita. Mia madre si chiamava Gabrielle Genet. Mio padre rimane tutt'ora ignoto. Ero venuto al mondo al n. 22 di rue d'Assas. «Potrò così aver qualche informazione sulla mia origine», mi dissi, e andai in rue d'Assas. Il 22 era occupato dalla Maternità. Si rifiutarono di darmi informazioni. Fui allevato nei Morvan, da una famiglia di contadini. Quando, nella brughiera, specie al crepuscolo, di ritorno da una delle mie solite visite alle rovine di Tiffauges dove visse Gilles de Rais (10), incontro dei fiori di ginestra (11), provo per loro una profonda simpatia. Li osservo serio, con tenerezza. Il mio turbamento par provenire da un comando dell'intera natura. Sono solo al mondo, e non sono affatto sicuro di non essere il re - la fata forse - di quei fiori. Mentre passo, essi mi rendono omaggio, s'inchinano senza inchinarsi ma mi riconoscono. Sanno che sono il loro rappresentante vivo, mobile, agile, vittorioso del vento. Sono il mio emblema naturale, e io affondo radici, grazie a loro, in questo suolo di Francia nutrita delle ossa polverizzate dei bambini, degli adolescenti infilati, trucidati, bruciati da Gilles de Rais. Proprio in virtù di questa spinosa pianta delle Cevenne (12), partecipo alle avventure di Vacher. Infine, per lei di cui porto il nome, il mondo vegetale è mio familiare. Posso considerar senza pietà tutti i fiori, fanno parte della mia famiglia. Se grazie a loro mi congiungo coi reami inferiori - ma è fino alle felci arborescenti e alle loro paludi, è fino alle alghe che vorrei scendere - ancor più m'allontano dagli uomini (13). Del pianeta Urano, sembra, l'atmosfera è così pesante che le felci si fanno terragne (14); le bestie si trascinano schiacciate dal peso dei gas. E' a codesti esseri umiliati, sempre striscianti sul ventre, che voglio mescolarmi. Se la metempsicosi mi concede una nuova dimora, io ho già scelto quel pianeta maledetto, lo abito con gli ergastolani della mia razza. Fra spaventosi rettili, inseguo una morte eterna, miserabile, in tenebre dove nere saranno le foglie, densa e fredda l'acqua delle paludi. Il sonno mi sarà negato. Al contrario, sempre più lucido, riconosco l'immonda fraternità dei sorridenti alligatori. Di fare il ladro, non lo decisi in un'epoca precisa della mia vita. Condotto dall'inerzia e dalla fantasia nella casa di correzione di Mettray, dove sarei dovuto restare fino alla «ventunesima», evasi e m'arruolai per cinque anni, tanto per riscuotere il premio d'arruolamento. Dopo pochi giorni disertai, portandomi via le valige appartenenti a degli ufficiali negri. Un tempo vissi di furto, ma la prostituzione si confaceva meglio alla mia indolenza. Avevo vent'anni. Avevo dunque sperimentato l'esercito quando giunsi in Spagna. La dignità che conferisce l'uniforme, l'isolamento dal mondo che impone, e lo stesso mestiere di soldato mi concessero un po' di pace e - quantunque l'Esercito se ne stia a lato della società - un poco di fiducia in me. La mia condizione di fanciullo naturalmente umiliato, per qualche mese venne raddolcita. Conobbi finalmente la dolcezza d'essere accolto dagli uomini. La mia vita di miseria, in Spagna, era una sorta di degradazione, di caduta comportante vergogna. Ero scaduto. Non che durante la mia permanenza nell'esercito io fossi stato un puro soldato, agli ordini di quelle rigide virtù che creano le caste (la pederastia sarebbe bastata a rendermi riprovevole), ma ancora proseguiva nel mio animo un lavorio segreto che un giorno venne a maturazione. Forse è la loro solitudine morale - cui aspiro - a farmi ammirare e amare i traditori. Un tale gusto della solitudine è infatti il segno del mio orgoglio, e l'orgoglio la manifestazione della mia forza, del suo uso, nonché la prova di tale forza. Perché avrò così infranti i vincoli più saldi del mondo: i vincoli dell'amore. E di quale amore non ho
io bisogno, cui attingere sufficiente vigore per distruggerlo? Proprio al reggimento fui per la prima volta (almeno, così credo) testimone della disperazione d'uno dei miei derubati. Derubare dei soldati era un tradire, giacché con ciò rompevo i vincoli d'amore che m'univano al soldato derubato. Plaustener era bello, forte e fiducioso. Montò sulla branda per guardare nel suo bottino, almanaccò per cercarvi il biglietto da cento franchi che io avevo preso un quarto d'ora prima. I suoi gesti eran quelli di un clown. S'imbrogliava. Immaginava i nascondigli più insoliti: la. gavetta, dove pur aveva appena finito di mangiare, la borsa delle spazzole, la scatoletta del grasso. Era ridicolo. Diceva: - Mica sarò matto, mica l'avrò ficcato qua. E per nulla sicuro di non essere matto, controllava, non trovava niente. Continuando a sperare contro ogni evidenza, si rassegnava e s'allungava sulla branda per subito rialzarsi e tornare a cercare dove già aveva cercato. La sua certezza d'uomo saldo sulle proprie gambe, sicuro dei propri muscoli, la vedevo sbriciolarsi, polverizzarsi, incipriarlo d'una dolcezza che non aveva mai posseduto, sgretolare le sue rigide angolosità. Assistevo a quella silenziosa trasformazione. Fingevo indifferenza. Tuttavia quel giovane soldato pieno di fiducia in se stesso mi parve così degno di pietà nella sua ignoranza, nella sua paura, nel suo stupore, quasi, a proposito d'una malignità che ignorava - lontano dal pensare ch'essa osasse manifestarsi proprio a lui per la prima volta scegliendolo appunto come vittima - nonché nella sua vergogna, ch'io fui lì lì per intenerirmi e esser tentato di rendergli il biglietto da cento franchi che, piegato in sedici, avevo nascosto in un crepaccio della caserma, presso lo stenditoio. La faccia d'un derubato è laida. Una cornice di facce di derubati dona al ladro un'arrogante solitudine. Ebbi il coraggio di dirgli, in tono asciutto: - Mica sei carino, a vederti. Par che tu abbia una colica. Va' alla latrina, va', e tira la catena. Questa considerazione mi salvò da me stesso. Conobbi una curiosa dolcezza, una sorta di libertà mi rendeva leggero, al mio corpo coricato sulla branda dava una straordinaria agilità. Era forse questo il tradimento? M'ero violentemente staccato da un immondo cameratismo cui ero portato dal mio carattere affettuoso, e mi stupivo di derivarne una grande forza. Avevo rotto con l'Esercito, avevo spezzato i legami dell'amicizia. L'arazzo detto «La Dama del Liocorno» m'ha scombussolato per dei motivi che non m'accingerò a enumerare. Ma quando passai, dalla Cecoslovacchia in Polonia, il confine, era un mezzogiorno, d'estate. La linea di frontiera, ideale, attraversava un campo di segala matura d'un biondo come quello della chioma dei giovani polacchi; un biondo che riassumeva la dolcezza un poco butirrosa di tutta la Polonia, ch'io sapevo, nel corso della storia, eternamente ferita e commiserata. Ero con un altro ragazzo, come me espulso dalla polizia ceca, ma prestissimo lo persi di vista, smarritosi forse dietro un boschetto o forse perché aveva deciso di lasciarmi: scomparve. Quel campo di segala confinava dalla parte polacca con un bosco il cui limitare era formato da immobili betulle. Dalla parte ceca, con un altro bosco, ma d'abeti. A lungo rimasi accovacciato sul margine, intento a chiedermi che cosa nascondesse quel campo, quali guardie di finanza, se lo avessi attraversato, avrebbe celato la segala. Forse invisibili lepri lo percorrevano. Ero inquieto. A mezzogiorno, sotto un cielo terso, l'intera natura mi proponeva un enigma, e me lo proponeva con soavità. - Se qualcosa deve accadere, mi dicevo, sarà l'apparizione d'un liocorno. Un momento e un luogo come questi posson partorire soltanto un liocorno. La paura, e quella sorta d'emozione che sempre provo quando passo una frontiera, suscitavano a mezzogiorno, sotto un sole di piombo, la prima "féerie". M'azzardai in quel mare dorato come s'entra nell'acqua. In piedi attraversai la segala. Procedevo lento, sicuro, con la certezza d'esser l'araldico personaggio per il quale s'è formato un naturale blasone: azzurro, campo d'oro, sole, foreste. Queste immagini, dove avevo anch'io il mio posto, si complicavano dell'iconografia polacca. «In questo cielo meridiano deve planare, invisibile, l'aquila bianca!» Raggiunte le betulle, ero in Polonia. Un incantamento d'ordine diverso stava per essermi offerto. «La Dama del Liocorno» è per me l'altera espressione di quel mio passaggio della linea a mezzogiorno. Avevo or ora conosciuto, grazie alla paura, il turbamento di fronte al mistero della
natura diurna, mentre la campagna francese dove vagai soprattutto di notte era interamente popolata dal fantasma di Vacher, l'uccisor di pastori. Percorrendola ascoltavo in me i motivetti che certamente vi suonava con la sua fisarmonica e mentalmente invitavo i fanciulli a accorrere per offrirsi alle sue mani di sgozzatore. Peraltro, se ve ne parlo, è per cercar di dirvi verso quale epoca la natura m'inquietò, provocando in me la creazione spontanea d'una fauna favolosa, o di situazioni, di casi di cui ero il prigioniero timoroso e incantato (15). Il passaggio delle frontiere e questa emozione ch'esso mi causa, dovevano permettermi d'apprendere direttamente l'essenza della nazione in cui entravo. Più che in un paese, penetravo all'interno d'un'immagine. Naturalmente desideravo di possederla ma sempre continuando ad agir su di essa. Poiché l'apparato militare, meglio d'ogni altra cosa, la rappresenta, è questo che desideravo alterare. Per lo straniero non v'è che un mezzo: lo spionaggio. Forse in me vi si mischiava anche la preoccupazione di profanare col tradimento un'istituzione la cui qualità essenziale vuol essere la lealtà - o lealismo. O forse desideravo allontanarmi ancor di più dal mio proprio paese. (Le spiegazioni che do mi si presentano spontanee alla mente, esse appaiono valide nel mio caso. E soltanto per il mio caso le si accettino.) Comunque sia, voglio dire che per una certa naturale disposizione alla "féerie" (resa ancor più esaltata dalla mia emozione di fronte alla natura, dotata d'un potere dagli uomini riconosciuto) ero pronto ad agire non secondo le regole della morale ma secondo certe leggi d'un'estetica romantica che della spia fanno un personaggio inquieto, invisibile ma potente. Infine, in certi casi, una simile preoccupazione dava una giustificazione pratica al mio ingresso in un paese dove nulla m'obbligava a andare, tranne, tuttavia, l'espulsione da un paese vicino. Proprio a proposito del mio sentimento di fronte alla natura parlo di spionaggio, ma fu quando venni abbandonato da Stilitano che me ne nacque l'idea come un conforto, e come per ancorarmi al vostro suolo dove la solitudine e la miseria mi facevano non camminare ma "(in)volare". Perché son così povero, e già mi si accusava di tanti furti, che uscendo da una stanza troppo lievemente in punta di piedi, trattenendo il respiro, nemmeno adesso son sicuro di non portar via, con me, i buchi delle tendine o delle tappezzerie. Non so sino a che punto Stilitano fosse a parte dei segreti militari, né che cosa avesse potuto apprendere alla Legione, negli uffici d'un colonnello. Ma gli venne l'idea di trasformarsi in spia. Né il profitto che avremmo potuto trarne né il pericolo di tale azione esercitavano su di me un qualche fascino. Soltanto, già l'idea del tradimento possedeva quel potere che, sempre di più, avrebbe finito con l'imporsi su di me. - A chi venderli? - Alla Germania. Senonché, dopo qualche attimo di riflessione, decise: - All'Italia. - Ma tu sei serbo. Son vostri nemici. - E con questo? Se l'avessimo portata sino in fondo, quest'avventura m'avrebbe un poco fatto uscire dall'abiezione in cui mi trovavo impigliato. Lo spionaggio è un'operazione di cui ogni Stato prova tanta vergogna da sentire il bisogno di nobilitarla, appunto perché è turpe. Di tale nobiltà avremmo beneficiato. Salvo che, nel nostro caso, si chiamava tradimento. Più tardi, quando in Italia fui arrestato e gli ufficiali m'interrogarono sulle difese della nostra frontiera, riuscii a escogitare una dialettica capace di giustificar le mie confidenze. Nel presente caso Stilitano m'avrebbe spalleggiato. Con quelle rivelazioni, desideravo soltanto d'essere il promotore d'una tremenda catastrofe. Stilitano poteva tradire il proprio paese e io il mio per amor di Stilitano. Quando vi parlerò di Java, scoprirete in lui gli stessi caratteri, nonché lo stesso viso, quasi, di Stilitano e, come i due lati d'un triangolo si ricongiungono alla parallasse ch'è in cielo, Stilitano e Java vanno incontro a una stella per sempre spenta: Marc Aubert (16). Se, rubata al carabiniere, la mantellina di panno blu a me già aveva dato come il presentimento d'una conclusione in cui la legge e il fuorilegge si confondono, l'una cosa dissimulandosi nell'altra ma non senza provare un pizzico di nostalgia per la virtù del proprio opposto, a Stilitano avrebbe permesso un'avventura meno spirituale o sottile ma più profondamente, nella vita quotidiana,
perseguita, e meglio utilizzata. Non si tratterà, ancora, di tradimento. Stilitano era una potenza. Il suo egoismo segnava nette le sue naturali frontiere. (Stilitano "era per me" una potenza.) Quando entrò, a tarda notte, mi disse che tutto era sistemato. Aveva incontrato il carabiniere. - Ti lascerà in pace. E' finita. Potrai uscire come prima. - E la mantellina? - L'ho io. Presentendo che quella notte doveva essere avvenuta una strana confusione di bassezza e di seduzione mischiate insieme, da cui ero naturalmente escluso, non osai chieder di più. - Forza! Con un gesto della sua mano viva, mi fece capire che voleva spogliarsi. Come le altre sere, m'inginocchiai per staccare il grappolo d'uva. Sotto i pantaloni portava appuntato una di quei grappoli finti i cui acini, di sottile cellulosa, sono imbottiti d'ovatta. (Ciascuno di quegli acini è grosso come una regina Claudia, e a quei tempi, in quel paese, le donne eleganti se ne adornavano il cappellino di paglia, la cui tesa si piegava sotto il peso.) Ogniqualvolta, alla Criolla, turbato dal turgore, un pedé gli metteva la mano sulla pattìna, le sue dita incontravano inorridite quel coso ch'esse credevano un grappolo del suo vero tesoro, il ramo dove, comicamente, stavano appesi troppi frutti. La Criolla non era soltanto un localetto di zie. Vi vedevi ballare dei giovanotti in abiti femminili, ma anche qualche donna. Le puttane vi portavano i loro magnaccia e i loro clienti. Stilitano avrebbe fatto quattrini a palate se sui pedé non ci avesse sputato sopra. Li disprezzava. Col suo grappolo d'uva si divertiva del loro dispetto. Il gioco durò alcuni giorni. Staccai dunque quel grappolo trattenuto da uno spillo di sicurezza sotto i pantaloni blu, ma, invece di posarlo come al solito sul caminetto ridendo (giacché scoppiavamo dal ridere e scherzavamo durante l'operazione), non resistetti alla tentazione di trattenerlo fra le mani giunte e di posarvi sopra la guancia. Il viso di Stilitano, lassù sopra di me, divenne orrendo. - Molla là! Troione. Per aprir la pattina m'ero accovacciato, ma il furore di Stilitano, se il mio abituale fervore non fosse bastato, mi fece cadere in ginocchio. Proprio la posizione che, mio malgrado, prendevo mentalmente davanti a lui. Non mi mossi più. Stilitano, con tutt'e due i piedi e l'unico pugno, prese a colpirmi. Avrei potuto scappare, rimasi lì. «La chiave è nella porta», pensavo. Fra la squadra delle gambe che mi percuotevano rabbiose, la vedevo infilata nella toppa, e avrei voluto dar due mandate per rinchiudermi da sodo col mio carnefice. Non cercavo di spiegarmi la sua collera, così sproporzionata rispetto alla causa, giacché la mia mente ben poco si curava dei moventi psicologici. Quanto a Stilitano, da quel giorno non s'appiccò più il grappolo d'uva. Sul far del mattino, entrato in camera prima di lui, io aspettavo. Nel silenzio, sentivo il misterioso fruscio del foglio di giornale ingiallito che sostituiva il vetro mancante. «E' sottile», mi dicevo. Scoprivo molte parole nuove. Nel silenzio della stanza e del mio cuore, nell'attesa di Stilitano quel lieve rumore m'inquietava, giacché prima che ne avessi capito il senso un breve attimo d'angoscia trascorreva. Chi - o che cosa - segnala la propria presenza nella stanza d'un povero in così fuggevole modo? «E' un giornale stampato in spagnolo», mi dicevo ancora. «E' naturale ch'io non comprenda il rumore che fa.» Mi sentivo allora veramente in esilio, e il mio nervosismo stava rendendomi permeabile a quella che - in mancanza d'altre parole - chiamerò la poesia. Sul caminetto, il grappolo d'uva mi stomacava. Stilitano una notte si alzò per buttarlo nel cesso. Finché l'aveva portato, quel grappolo non aveva nociuto alla sua bellezza. Anzi, la sera, ingombrandole un poco, aveva finito col donare alle sue gambe una lieve incurvatura, al suo passo un dolce impaccio un tantino tondeggiante, e quando mi camminava vicino, davanti o dietro, provavo un turbamento per me delizioso perché preparato dalle mie mani. Fu per l'insidioso potere di quel grappolo, credo ancora, ch'io restavo attaccato a Stilitano. Me ne sarei liberato un giorno
quando, in una balera, ballando con un marinaio, per caso gli infilai una mano sotto il bavero. Quel gesto, in apparenza il più innocente, doveva rivelare una virtù fatale. Posata aperta sulla schiena del giovanotto, la mia mano sapeva d'essere dolcemente, pietosamente nascosta dal contrassegno, su di loro, del candore dei marinai. Sentiva su di sé i battiti della stoffa, e non poteva, la mia mano, impedirsi di credere che Java battesse l'ala. E' ancora troppo presto per parlare di lui. Molto prudentemente, non farò commenti su quel suo misterioso portarsi in giro il grappolo, tuttavia mi piace vedere in Stilitano un pedé che si odia. «Vuol disviare e ferire, disgustare quegli stessi che lo desiderano», mi dico se penso a lui. Considerandola con maggior rigore, ancor più mi turba l'idea - e posso da essa trarre il maggior profitto - che Stilitano si fosse comprata una piaga posticcia per il più nobile punto del suo corpo (so che l'aveva stupendo) al fine di salvare dal disprezzo la sua mano mozza. Così, con un sotterfugio molto grossolano, rieccomi a parlare degli accattoni e dei loro mali. Dietro un male fisico reale o finto che lo rivela e lo fa dimenticare, più segreto si cela un male dell'anima. Enumero le piaghe segrete: i denti guasti, il fiato fetido, la mano mozza, il puzzo dei piedi, eccetera, per nasconder le quali e stimolare il nostro orgoglio, noi avevamo: la mano mozza, l'occhio orbo, la gamba di legno, eccetera. Si è scaduti finché portiamo i segni dello scadimento, e la conoscenza dell'impostura, che veglia in noi, a poco serve. Traendo un utile dal solo orgoglio voluto dalla miseria, suscitavamo la pietà coltivando le piaghe più disgustose. Diventavamo un rimprovero alla vostra felicità. Intanto Stilitano e io vivevamo miserabilmente. Quando, grazie a qualche pedé, portavo un po' di soldi, manifestava tanto orgoglio ch'io mi domando a volte se nella mia memoria egli non sia grande soltanto a causa delle vanterie di cui ero il pretesto e il principale confidente. La qualità del mio amore esigeva da lui una prova della sua virilità. Se era la meravigliosa belva che la ferocia ottenebra e rende scintillante, s'abbandonasse dunque a giochi degni di tale ferocia. Lo istigai al furto. Decidemmo di svaligiare insieme un negozio. Per tagliare il filo telefonico che molto imprudentemente passava vicino alla porta, ci voleva una pinza. Entrammo in uno dei tanti empori di Barcellona dove c'è un reparto di ferramenta. - Tu trova il modo di non muoverti, se mi vedi fregar qualcosa. - Non devo far nulla? - Nulla. Guardare e stop. Stilitano aveva ai piedi scarpe bianche di tela con suole di corda. Portava i soliti pantaloni blu e una camicia kaki. Lì per li non notai nulla ma quando uscimmo vidi con stupore, alla patta di stoffa che serviva a abbottonare il taschino della camicia, una sorta di lucertoletta inquieta e nello stesso tempo tranquilla, che si teneva appesa coi denti. Era la pinza d'acciaio di cui avevamo bisogno, e che Stilitano aveva rubato. «Che incanti le scimmie, gli uomini e le donne», mi dicevo, «è sempre possibile, ma di qual natura può mai essere il magnetismo scaturito dai suoi muscoli dorati, dai suoi ricci, da quella sua ambra bionda, per avvincere anche le cose?» Di questo, non ne dubitavo affatto, le cose gli eran sottomesse. Come dire ch'egli le capiva. Conosceva così bene la natura dell'acciaio, e la natura di quel particolare frammento d'acciaio brunito che si chiama pinza, che questa se ne restava, sino allo stremo delle proprie forze, docile, innamorata, sospesa alla camicia dove con precisione era riuscito a appenderla, mordendo, per non cadere, disperatamente la stoffa con le sue magre mascelle. Poteva tuttavia accadere che quegli oggetti, cui basta un gesto maldestro per irritarli, lo ferissero. Stilitano si tagliava, aveva la punta delle dita finemente tagliuzzata, l'unghia nera e schiacciata, ma tutto
questo accresceva la sua bellezza. (Le porpore del tramonto, affermano i fisici, son dovute a un maggior spessore dell'aria che soltanto le onde corte riescono a attraversare. Quando nulla accade in cielo, verso mezzogiorno, una tale vista ci turberebbe di meno, lo stupore nasce dal fatto che si presenta di sera, nell'ora più patetica del giorno, quando il sole si corica, quando sparisce per proseguire un suo misterioso destino, quando muore forse. Per render così fastoso il cielo, quel certo fenomeno fisico è possibile soltanto nel momento più esaltante per l'immaginazione: il coricarsi del più brillante astro.) Le cose di quotidiano uso renderanno Stilitano più bello. Le sue stesse vigliaccherie sciolgono il mio rigore. Mi piaceva il suo gusto per la pigrizia. Aveva delle fughe, come si dice d'un gas (17). Quando avemmo la pinza, abbozzò una ritirata. - Potrebbe esserci un cane. Pensammo di sopprimerlo con una bistecca avvelenata. - I cani dei ricchi, mica sgargarozzano roba qualunque. A un tratto Stilitano si ricordò del leggendario trucco degli zingari: il ladro, dicono, indossa pantaloni spalmati di grasso di leone. Stilitano sapeva ch'era impossibile procurarsene, ma l'idea lo eccitava. Smise di parlare. Forse si vedeva, di notte, dietro un cespuglio a spiare una preda, con un paio di pantaloni intostiti dal grasso. Era forte della stessa forza del leone, reso selvaggio dal sentirsi, così, pronto per la guerra, per il rogo, per lo spiedo e per la tomba. Nella sua armatura di grasso e di fantasia era meraviglioso. Non so se si rendesse conto della bellezza che gli veniva da quel suo adornarsi della forza e dell'audacia d'uno zigano, né se godesse di penetrar così i segreti della tribù. - Ti piacerebbe esser gitano? - gli domandai un giorno. - Io? - Già. - Forse non mi dispiacerebbe, soltanto non potrei restar rinchiuso in un carrozzone. Dunque, sognava, qualche volta. Pensai d'aver scoperto la crepa da dove far passare un poco della mia tenerezza, sotto quel suo guscio di sasso. Troppo poco amava le avventure notturne perché con lui potessi conoscere autentiche ebbrezze spiando, uno accanto all'altro, i muri, i vicoli, i giardini, scavalcando insieme steccati, (in)volando. Non ne conservo alcun serio ricordo. Avrò profonda la rivelazione dello scucio, in Francia, con Guy. ("Quando ci trovammo rinchiusi nell'angusto sgabuzzino ad aspettar la notte e il momento d'entrare negli uffici abbandonati del Monte di Pietà di B., Guy m'apparve all'improvviso chiuso, segreto. Non era più il maschio qualunque che puoi sfiorare, toccar col gomito dove vuoi; era una sorta d'angelo sterminatore. Tentava un sorriso, magari dentro di sé scoppiava silenziosamente dal ridere, ma le sue sopracciglia continuavano a restarsene unite. Dall'interno di quella piccola checca racchiudente un malfattore, un maschio deciso sorgeva, terribile, pronto a tutto, e in primo luogo all'omicidio se qualcuno avesse osato intralciar le sue imprese. Rideva e nei suoi occhi mi pareva di leggere una volontà omicida che si sarebbe esercitata contro di me. Quanto più mi guardava, tanto più avevo la sensazione ch'egli leggesse in me la stessa volontà decisa a esercitarsi contro di lui. Allora, s'irrigidiva. I suoi occhi si facevan più duri, le sue tempie metalliche, più nodosi i muscoli del viso. In risposta, io m'indurivo altrettanto. Mettevo a punto un arsenale. Lo spiavo. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, incerti l'uno dell'altro ci saremmo, credo, uccisi a vicenda, per la paura che uno di noi s'opponesse alla decisione terribile dell'altro".) Con Stilitano, sempre accompagnandolo, feci altri colpi. Conoscemmo un guardiano notturno che ci teneva informati. Grazie a lui vivemmo a lungo soltanto di scuci. L'audacia d'una tal vita di ladri - e la sua luce - non avrebbero significato nulla se Stilitano, al mio fianco, non ne fosse stata la prova. La mia vita stava diventando stupenda secondo gli uomini poiché possedevo un amico la cui bellezza rientra nell'idea del lusso. Ero il cameriere che deve custodire, spolverare, pulire, lucidare un oggetto di gran valore ma che per miracolo d'amicizia m'apparteneva. «Quando passo per la strada, chissà che la señorita più ricca, la più bella», pensavo, «non m'invidi? Qual malizioso principe, doveva domandarsi costei, quale cenciosa infanta possono andarsene a piedi, e con un amante così bello?»
Di tale periodo parlo con emozione, e lo magnifico, ma se prestigiose parole, cariche, voglio dire, nella mia mente, di prestigio più che di senso, mi si presentano, ciò forse significa che la miseria ch'esse esprimono e che fu la mia, è anch'essa fonte di meraviglia. Voglio riabilitare questo periodo, scrivendolo, coi nomi delle più nobili cose. La mia vittoria è verbale e la devo alla sontuosità delle espressioni, ma che sia benedetta questa miseria che mi suggerisce simili scelte. Accanto a Stilitano, nel periodo in cui dovevo viverla, smisi di desiderare l'abiezione morale e odiai ciò che deve esserne il segno: i miei pidocchi, i miei stracci e la mia sporcizia. Forse a Stilitano il suo solo potere bastava perché egli s'imponesse senza che un atto audace si rendesse necessario, tuttavia avrei voluto con lui vivere più brillantemente, benché mi fosse dolce attraversare alla sua ombra (cupa come doveva esserlo quella d'un negro, la sua ombra era il mio serraglio) gli sguardi d'ammirazione delle mine e dei loro uomini, mentre sapevo ch'eravamo entrambi due poveri ladri. Lo incitavo a sempre più pericolose avventure. - Ci occorre una rivoltella -, gli dissi. - Saprai servirtene? - Con te, il fegato di bruciare un tipo l'avrei. Poiché ero il suo braccio destro, toccava a me far da esecutore. Ma quanto più gravi erano gli ordini cui obbedivo, tanto più grande era la mia intimità con chi li emanava. Lui intanto sorrideva. In una banda (associazione a delinquere) sono i giovanottelli e gli invertiti a mostrarsi audaci. Son loro gli incitatori ai colpi rischiosi. Fanno la parte del pungiglione fecondatore. La potenza dei maschi, l'età, l'autorità, l'amicizia e la presenza degli anziani li rendono più forti, più sicuri. I maschi non dipendono che da se stessi. Sono il lor proprio cielo e sapendosi deboli esitano. Relativamente al mio stato particolare mi sembrava che gli uomini, i duri, fossero formati da una specie di femminea nebbia nella quale mi piacerebbe tuttora smarrirmi per sentirmi ancor di più un solido blocco. Una certa distinzione di modi, il passo più sicuro m'attestavano la riuscita, l'ascesa nel mondo secolare. Al fianco di Stilitano, camminavo sulla scia d'un duca. Ero il suo cane, fedele ma geloso. Il mio aspetto andava assumendo un suo preciso carattere, fiero. Sulle Ramblas, una sera incrociammo una donna col figlio. Questi era un bel giovincello, avrà avuto una quindicina d'anni. Il mio occhio indugiò sui suoi capelli biondi. Lo sorpassammo e io mi voltai. Il ragazzotto non si scompose. Per veder chi guardassi, anche Stilitano si voltò. Soltanto allora la madre, mentre l'occhio di Stilitano s'appuntava col mio sul figlio, se lo strinse contro, o si strinse a lui, quasi per proteggerlo dal pericolo dei nostri due sguardi, che peraltro ignorava. M'ingelosii di Stilitano, cui era bastato un sol moto del capo perché, ebbi l'impressione, questo fosse stato avvertito come una minaccia dalla schiena di quella madre. Un giorno che l'aspettavo in un bar del Parallelo (un bar ch'era allora il ritrovo di tutti i pregiudicati francesi: rocchettoni, ladri, ciurmatori, evasi dal bagno penale o dalle carceri della Francia. L'argot, un poco cantilenato e d'accento marsigliese, di qualche anno in ritardo sull'argot di Montmartre, era la loro lingua ufficiale. Vi si giocava non a ronda, ma a "passe anglaise" o a poker) Stilitano s'appropinquò. I magnaccia parigini lo accolsero con la loro abituale cortesia, un tantino cerimoniosa. Austero, ma col sorriso negli occhi, gravemente posò il grave deretano sulla sedia di paglia, il cui legno gemette con l'impudicizia d'un "sommier". Il rantolo di quella seggiola esprimeva a pennello il mio rispetto per il solenne sedere di Stilitano, il cui fascino non era tutto e sempre situato lì, ma lì, in quel sito - anzi, su di esso - si dava appuntamento, s'accumulava, delegava le proprie più carezzevoli onde - e certe masse di piombo! - per dare alle terga un'oscillazione e un peso scampaneggianti. Mi rifiuto d'esser prigioniero d'un automatismo verbale, ma ancora una volta devo ricorrere a un'immagine religiosa: quel deretano era un Repositorio. Stilitano sedette. Sempre con quella sua elegante aria stanca - «Ho la fiacchite cronica», soleva dire a proposito e a sproposito - distribuì le carte per la partita a poker, dalla quale ero escluso. Nessuno di quei signori si sarebbe permesso d'allontanarmi dal gioco, ma fui io stesso, per cortesia, a andarmi a porre alle spalle di Stilitano. Chinandomi per sedermi, vidi un pidocchio sul colletto della sua giacca. Stilitano era bello, forte, e
ammesso in una riunione di maschi simili a lui, la cui autorità egualmente risiedeva nei loro muscoli e nel loro saper che avevano la rivoltella. Sul colletto di Stilitano, ancora invisibile agli altri uomini, il pidocchio non era una macchiolina sperduta, ma si muoveva, si spostava con una velocità impressionante, quasi stesse percorrendo, stesse misurando il proprio regno - anzi il proprio spazio. Su quel colletto non soltanto era a casa sua, ma era anche il segno che Stilitano apparteneva a un mondo decisamente pidocchioso nonostante l'acqua di Colonia e la camicia di seta. Lo esaminai più attentamente: i capelli, vicino al collo, erano troppo lunghi, sporchi e tagliati a scale. - Se il pidocchio continua a quel modo, gli ruzzolerà sulla manica o nel bicchiere. I magnaccia lo vedranno... Come per un moto di tenerezza, m'appoggiai alla spalla di Stilitano e a poco a poco portai la mano fin sul colletto, ma non potei terminare il gesto, con una spallata Stilitano si liberò e l'insetto continuò a sgambare. Fu un magnaccia di Pigalle, legato, si diceva, a una banda internazionale di passatori di donne, a uscirsene in quest'osservazione: - Eccone uno, ma di quelli belli, che ti dà la scalata. Tutti gli occhi si volsero - ma senza perder di vista il gioco - verso il colletto di Stilitano, che storcendo il collo riuscì a veder l'animaletto. - Sei tu a raccattarli -, mi disse mentre lo schiacciava. - Perché proprio io? - Perché sì. Il tono della sua voce era d'un'arroganza da non ammetter repliche, ma i suoi occhi sorridevano. Gli uomini continuarono la partita a carte. Proprio quello stesso giorno Stilitano m'informò che avevano arrestato Pépé. Era nelle carceri di Montjuich. - E come l'hai saputo? - Un giornale. - Che cosa rischia? - Ergastolo. Non facemmo nessun commento. Questo diario che sto scrivendo non è soltanto uno svago letterario. A mano a mano che vo avanti, ordinando quanto mi propone la mia vita trascorsa, a mano a mano che m'ostino nel rigore della composizione - dei capitoli, delle frasi, del libro stesso - sento consolidarsi in me la volontà d'utilizzare, a virtuosi fini, le mie miserie d'una volta. Ne sperimento il potere. Nei pisciatoi, dove Stilitano non entrava mai, il maneggio dei pedé m'illuminava su molte cose: eseguivano la loro danza, il sorprendente movimento d'un serpente nel suo ondulare, altalenare a destra e a sinistra, leggermente inclinato indietro. Mi portavo via quello, in apparenza, più quattrinoso. Le Ramblas, ai miei tempi, erano percorse da due giovani mariconas con una scimmietta addomesticata sulla spalla. Era un facile espediente per abbordare i clienti: la scimmia saltava sull'uomo che le veniva indicato. Una di queste mariconas si chiamava Pedro. Era un tipetto pallido e mingherlino. Aveva un vitino quanto mai flessibile, e svelto il passo. Gli occhi soprattutto erano meravigliosi, con quelle loro ciglia immense voltate all'insù. Avendogli chiesto, per scherzo, chi dei due fosse la scimmia, lui o l'animale che aveva sulla spalla, ci litigammo. Gli mollai un pugno: le sue ciglia mi rimasero appiccicate alle falangi, erano finte. Avevo così appreso l'esistenza del trucco. Stilitano si faceva consegnare un po' di denaro dalle zoccole. Il più delle volte glielo rubava, sia quando pagavano, tenendosi la moneta, sia di notte dalla borsetta, mentr'erano sul bidé. Attraversava il Barrio Chino e il Parallelo tormentando tutte le donne, ora infastidendole, ora carezzandole, sempre ironico. Quando tornava in camera, sul far del mattino, si portava un fascio di giornaletti per ragazzi, pieni di figure a vivaci colori. A volte faceva un lungo giro per comprarne in
un chiosco aperto sino a tarda notte. Leggeva le storie che, a quei tempi, corrispondevano alle odierne avventure di Tarzan. L'eroe v'è amorosamente disegnato. Tutte le sue cure l'artista le dedicava all'imponente muscolatura di quel cavaliere, quasi sempre nudo o vestito in modo osceno. Poi Stilitano s'addormentava. S'ingegnava perché il suo corpo non toccasse il mio. Il letto era molto stretto. Spengendo, diceva: - Salve, bimbo. E alla sveglia: - Salve, bimbo (18). La nostra camera era piccola piccola. Sporca. La catinella bisunta. A nessuno sarebbe saltato in testa, nel Barrio Chino, di pulir la propria stanza, gli oggetti personali o la biancheria - tranne la camicia e, il più delle volte, soltanto il collo di questa. Per regolare il costo di quella camera, una volta la settimana Stilitano fotteva la padrona che, gli altri giorni, lo chiamava Señor. Una sera corse il rischio di dover fare a botte. Stavamo passando per la calle del Carmen e la notte era vicina. Gli spagnoli hanno nel corpo, talvolta, ondeggianti flessuosità. Certe loro pose, allora, diventano equivoche. In piena luce Stilitano non sarebbe caduto in inganno. In quell'incipiente oscurità sfiorò tre uomini che parlavano sottovoce ma i cui gesti erano a un tempo vivaci e languidi. Passando vicino a loro li apostrofò, con la sua voce più insolente e con parole volgari. Erano tre magnaccia, vigorosi e svelti, che risposero agli insulti. Allocchito, Stilitano si fermò. I tre s'avvicinarono: - Di', mica ci avrai preso per mariconas, per parlarci così? Pur essendosi accorto del granchio, Stilitano, davanti a me, volle far lo smargiasso. - Be', e con questo? - Maricona lo sarai tu. S'avvicinarono delle donne e alcuni uomini. Si formò un capannello intorno a noi. La zuffa apparve inevitabile. Uno dei giovanotti provocò a muso duro Stilitano. - Se non sei una peppia, fatti sotto! Prima di venire alle mani, o alle armi, i teppisti confabularono a lungo. Non certo per tentare un componimento del conflitto, ma per incitarsi al combattimento. Altri spagnoli, loro amici, incoraggiavano i tre magnaccia. Stilitano si sentì in pericolo. Non si curò più di far brutta figura davanti a me. Disse: - Ehi, ragazzi, mica vi vorrete mettere con uno storpio. Tese verso di loro il moncherino. Lo fece con tanta semplicità, tanta sobrietà che quella sua laida gigionata, invece di mostrare ai miei occhi uno Stilitano ributtante, me lo nobilitò. Si ritirò non già sotto una pioggia di sberleffi, ma avvolto in un mormorio che esprimeva il disagio di quegli uomini leali di fronte alla miseria or ora scoperta accanto a loro. Stilitano indietreggiò lentamente, protetto dal moncherino teso, che si limitava a tenere a quel modo davanti a sé. L'assenza della sua mano non era meno reale e efficace d'un attributo regale, della stessa mano della giustizia. Quelle, che una di loro chiama le Caroline, sull'area d'un vespasiano distrutto si recarono in processione. I rivoltosi, durante le sommosse del 1933, avevano estirpato una delle tazze più sporche, ma anche la più amata. Si trovava vicino al porto e alla caserma, e l'orina calda di migliaia di soldati ne aveva corroso la lamiera. Constatatane la morte definitiva, con scialli, mantiglie, abiti di seta, giacche aderenti, le Caroline - non tutte, ma una scelta e solenne delegazione - si recarono sul posto a deporre un fascio di rose rosse legate con un velo nero. Il corteo si mosse dal Parallelo, attraversò calle de San Pablo, scese le Ramblas de los Flores sino alla statua di Colombo. Le checche eran forse una trentina, alle otto del mattino, al sol levante. Le vidi passare. Le accompagnai da lontano. Sapevo che il mio posto era in mezzo a loro, non perché fossi una di loro, ma perché le loro voci stridule, i loro gridi, i loro gesti smaccati non avevano altro scopo, mi sembrava, che quello di sfondare la cortina di disprezzo del mondo. Le Caroline erano grandi. Erano le Figlie della Vergogna.
Arrivate al porto girarono a destra, verso la caserma, e sulla lamiera arrugginita e puzzolente del pisciatoio abbattuto, sul mucchio di ferraglia morta della tazza deposero i fiori. Non facevo parte del corteo. Appartenevo alla folla ironica e indulgente che si divertiva. Pedro ostentava con disinvoltura le sue ciglia finte, le Caroline le loro matte imprese. Intanto Stilitano, col suo negarsi al mio piacere, stava diventando il simbolo della castità, anzi della frigidità. Se fottesse spesso delle ragazze, lo ignoravo. Nel nostro letto, e per coricarsi, aveva il pudore di porsi così abilmente fra le gambe un lembo della camicia da impedirmi di veder qualcosa del suo sesso. Lo stesso erotismo del suo incedere, veniva corretto dalla purezza dei lineamenti. Diventò la figurazione d'un ghiacciaio. Al più bestiale negro, alla faccia più camusa e possente avrei voluto offrirmi, affinché in me, restandomi soltanto la sessualità, il mio amore per Stilitano si facesse ancor più stilizzato. Potevo dunque osare davanti a lui tutte le più ridicole posture e le più umilianti. Andavamo spesso insieme alla Criolla. Sino a quel momento non gli era mai saltato di sfruttarmi. Quando gli portai le pesetas guadagnate con qualche uomo dei pisciatoi, Stilitano decise che avrei lavorato alla Criolla. - Dovrei vestirmi da donna? - mormorai. Sostenuto dalla sua poderosa spalla, da Calle del Carmen a Calle Mediodía, l'avrei avuto il coraggio di marcare, in gonna a lustrini? Tranne i marinai stranieri, nessuno se ne sarebbe stupito, ma né Stilitano né io avremmo saputo scegliere il vestito o la pettinatura, perché ci vuol gusto. Fu questo forse a trattenerci. Avevo ancora in mente i sospiri di Pedro, del quale ero diventato amico, quando andava a vestirsi. - Quando li vedo appesi, i miei orpelli, mi mettono addosso una tristezza! Mi par d'entrare in sagrestia e di prepararmi a dire una messa funebre. Sanno di pretaglia. D'incenso. D'orina. Eccoli lì che ciondolano! Mi domando come riesca a infilarmi in quella sorta di budella! - Dovrò averne anch'io un paio così? Forse dovrò addirittura cucirmeli e tagliarmeli con l'aiuto del mio uomo. E portar piantato in testa un bel «torsolo» (19), o tanti torsoli, con relativo cavolo. Con orrore mi vedevo infiocchettato d'un enorme cavolone fatto non di nastro ma d'oscene membrane di bue. «Sarà un cavolo frollo», mi diceva ancora una beffarda voce interiore. Il cavolo frollo d'un vecchio. Un cavolo frollato, o frullato! E fra quali capelli? Quelli d'una parrucca posticcia o nei miei sudici e ricci? Sapevo, quanto alla mia toilette, che ne avrei portata una molto sobria, con modestia, mentre l'unico mezzo di cavarmi d'impiccio sarebbe stato la più folle stravaganza. Tuttavia, accarezzavo l'idea di cucirvi una rosa di panno. Avrebbe formato un rigonfiamento sull'abito e sarebbe stata il "pendant" femminile al grappolo di Stilitano. ("Parecchio tempo dopo il nostro nuovo incontro a Anversa, parlai a Stilitano del grappolo finto, nascosto nelle sue brache. Mi raccontò allora che una puttana spagnola, sotto il vestito, portava appuntata alla stessa altezza una rosa di stamigna. - Per rimpiazzare il perduto fiore della verginità -, mi disse".) In camera di Pedro guardavo le gonne con malinconia. Mi diede l'indirizzo di certe tizie, qualcosa come delle rigattiere, dove avrei trovato abiti della mia taglia. - Avrai una toilette, Juan. Ero stomacato da quella parola da macellai (pensavo che da noi, in Francia, per toilette s'intende anche quel tessuto adiposo che avvolge le budella nel ventre degli animali). Fu così che Stilitano, ferito forse dal pensiero del suo amico travestito, rinunziò. - Mi sembra inutile -, disse, - sono certo che per adescar qualche soggetto te la sbroglierai egualmente. Ahimè, il padrone della Criolla esigeva ch'io apparissi vestito da signorina. Da signorina! "Moi-même demoiselle Je me pose à ma hanche..."
Capii allora quanto sia difficile accedere alla luce facendo scoppiare l'ascesso della vergogna. Travestito, potei una volta apparire con Pedro, esibirmi con lui. Andai, una sera, e fummo invitati da un gruppo d'ufficiali francesi. Al loro tavolo c'era una signora d'una cinquantina d'anni. Mi sorrise gentile, con indulgenza, e, non resistendo, mi chiese: - Le piacciono gli uomini? - Sì, signora. - E... questo, quand'è cominciato? Non presi a schiaffi nessuno, ma la mia voce suonò così alterata ch'io subito mi resi conto della mia collera e della mia vergogna. Per rifarmi in qualche modo, quella stessa notte derubai uno degli ufficiali. «Se la mia vergogna è sincera», mi dissi, «nasconda almeno un elemento più aguzzo, più pericoloso, una sorta di dardo sempre pronto a minacciare chiunque la provochi. Può darsi che essa non mi fosse stata tesa contro come un trabocchetto, che fosse stata involontaria, ma pur restando quello che è, voglio che mi nasconda e che, al suo coperto, io possa spiare.» A Carnevale era facile travestirsi, e in una camera d'albergo rubai una gonna andalusa e un corpetto. Dissimulato dalla mantiglia e dal ventaglio, una sera attraversai svelto la città per recarmi alla Criolla. Per render meno brusca la rottura col vostro mondo, sotto la gonna conservai i pantaloni. Appena raggiunto il banco, lo strascico della mia veste si strappò. Furibondo, mi voltai. - Pardon. Mi scusi. Il piede d'un giovanotto biondo s'era impigliato nei pizzi. Ebbi appena la forza di mormorare: «Ma faccia attenzione». Il viso di quel giovane così impacciato, che si scusava e sorrideva nello stesso tempo, era talmente pallido ch'io arrossii. Accanto a me qualcuno mi disse, piano: - Voglia scusarlo, señora, zoppica. «Non si zoppica sui miei vestiti!» ruggì l'attrice tragica racchiusa in me. Ma ridevano, intorno a noi. «Non si zoppica sulle mie toilettes», ruggii nel mio intimo. Elaboratasi dentro di me, nel mio stomaco, ebbi l'impressione, o negli intestini, avvolti nella loro «toilette», questa frase dovette certamente tradursi in uno sguardo terribile. Furibondo e umiliato, uscii fra le risate degli uomini e delle Caroline. Andai fino al mare e vi annegai la gonna, il corpetto, la mantiglia e il ventaglio. L'intera città gioiva, ebbra di quel Carnevale tagliato fuori della terra, solo in mezzo all'Oceano (20). Ero povero e triste. («Ci vuole gusto...». Io già mi rifiutavo d'averne. Me lo proibivo. Per mia natura ne avrei avuto molto. Ma sapevo che coltivandolo in me m'avrebbe - non affinato - ammollito. Lo stesso Stilitano si stupiva ch'io fossi così rozzo. Volevo di proposito che le mie dita fossero come intorpidite: "mi impedivo d'imparare a cucire".) Stilitano e io partimmo per Cadice. Da un treno merci all'altro arrivammo presso San Fernando e decidemmo di proseguir la strada a piedi. Stilitano sparì. Aveva trovato modo di darmi un appuntamento alla stazione. Non c'era. Aspettai a lungo, vi tornai per due giorni di seguito, benché sicuro che m'avesse abbandonato. Ero solo e senza denaro. Quando me ne resi conto, sentii di nuovo la presenza dei pidocchi, la loro desolante e dolce compagnia nelle cuciture della camicia e dei pantaloni: Stilitano e io non avevamo smesso d'essere quelle monache dell'alta Tebaide che non si lavavano mai i piedi e lasciavano che la loro camicia imputridisse. San Fernando si trova in riva al mare. Decisi di raggiunger Cadice, costruita in mezzo alle acque, ma congiunta al continente da un lunghissimo molo. Quando vi misi piede, era sera. Avevo, davanti a me, le alte piramidi di sale delle saline di San Fernando, e più lontano, in mare, si profilava sullo sfondo del tramonto una città di cupole e di minareti: in quell'estrema terra occidentale, avevo a un tratto la sintesi dell'Oriente. Per la prima volta in vita mia trascurai un essere umano per le cose. Dimenticai Stilitano. Per campare, al mattino andavo di buonora al porto, alla "pescatoria", dove i pescatori soglion sempre buttar dalla barca qualche pesce pescato durante la notte. Tutti gli accattoni conoscono questa consuetudine. Invece d'andarmeli a cuocere, come a Malaga, sul fuoco degli altri straccioni,
me ne tornavo solo, fra gli scogli che guardano Porto Reale. Il sole sorgeva quando i miei pesci eran cotti. Quasi sempre senza pane né sale, li mangiavo. In piedi, o sdraiato sulla scogliera, o su questa seduto, sull'estremo lembo orientale dell'isola, volto verso la terraferma, ero il primo uomo illuminato e riscaldato dal primo raggio di sole. Il quale era anche la prima manifestazione di vita. I miei pesci li avevo raccolti nelle tenebre, sulle banchine d'attracco. Ancora nelle tenebre avevo raggiunto i miei scogli. L'arrivo del sole mi prostrava al suolo. Gli tributavo un culto. Una sorta di maliziosa intimità si stabiliva fra lui e me. L'onoravo, certamente senza complicati rituali, ché mai mi sarei sognato di scimmiottare i popoli primitivi; ma so che quell'astro divenne il mio dio. Sorgeva nel mio corpo, nel mio corpo continuava la sua parabola e la terminava. Se lo vedevo nel cielo degli astronomi, è perché lassù vedevo l'ardita proiezione di quello che conservavo in me. Magari, oscuramente lo confondevo con Stilitano scomparso. Vi indico, a questo modo, quale poteva essere allora la forma della mia sensibilità. La natura m'inquietava. L'amore per Stilitano, lo sconquasso prodotto dalla sua irruzione nella mia miseria, non so che altro, mi diedero in balia degli elementi. Ma questi son cattivi. Per ammansirli, volli contenerli. Ricusai di misconoscerne tutta la crudeltà, anzi mi felicitai con loro ch'erano capaci di possederne tanta, li lusingai. Poiché una tale operazione non poteva riuscire per via dialettica, ricorsi alla magia, vale a dire a una sorta di "predisposizione" voluta, a un'intuitiva complicità con la natura. Il linguaggio non mi sarebbe stato d'alcun ausilio. Fu allora che mi divennero materne le cose e le circostanze dove tuttavia, pungiglione d'ape, vegliava la punta dell'orgoglio. (Materne: vale a dire aventi la femminilità come elemento essenziale. Scrivendo questo non intendo minimamente alludere a nessun riferimento mazdeista: indico soltanto che la mia sensibilità esigeva di vedersi intorno una disposizione femminile. Lo poteva, perché era riuscita a impossessarsi delle qualità virili: durezza, crudeltà, indifferenza.) Se tentassi di ricostruire il mio atteggiamento d'allora con delle parole, il lettore non si lascerebbe abbindolare più di me. Sappiamo che il linguaggio è incapace di richiamare sia pure il semplice riflesso d'ogni stato d'animo defunto, estraneo. E' una verità cui non sfuggirebbe tutto questo mio diario qualora volesse esser la notazione di ciò che io fui. Preciserò quindi che vuole invece illuminare su ciò che sono oggi mentre sto scrivendo. Non è una ricerca del tempo passato, ma un'opera d'arte la cui materia-pretesto è la mia vita d'una volta. Sarà un presente fissato con l'aiuto del passato, e non viceversa. Si sappia dunque che i fatti sono quali li dico, ma l'interpretazione che ne traggo è quale io sono - diventato. Di notte vagavo per la città. Dormivo contro un muro, al riparo dal vento. Pensavo a Tangeri, la cui vicinanza m'affascinava, e al prestigio di quella città, o piuttosto di quel covo di traditori. Per sfuggire alla mia miseria, inventavo i più audaci tradimenti, che avrei compiuto con calma. Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l'amore per la lingua francese, ma allora! Questo mio gusto del tradimento dovrà meglio formularsi quando sarò poi interrogato al momento dell'arresto di Stilitano. «Per denaro», mi domandavo, «e sotto la minaccia delle botte dovrei denunziare Stilitano? L'amo ancora e rispondo no, ma dovrei denunziare Pépé che assassinò il giocatore di ronda al Parallelo?» Avrei accettato forse - ma a prezzo di quale vergogna - di sentir marcio il mio animo sin nel profondo, in quanto così esso avrebbe esalato quel puzzo che costringe la gente a tapparsi il naso. Ora, forse il lettore ricorderà che ogni mia permanenza nella mendicità e nella prostituzione costituì per me una disciplina dove imparai a utilizzare gli elementi ignobili, a servirmi di essi, a compiacermi infine della mia scelta in loro favore. Avrei fatto lo stesso (forte della mia abilità a trar partito dalla vergogna) col mio animo decomposto dal tradimento. La fortuna m'accordò che il problema mi si ponesse all'epoca in cui un giovane guardiamarina veniva condannato a morte dal tribunale marittimo di Tolone. Aveva consegnato al nemico i piani d'un'arma, o d'un porto militare, o d'una nave. Non parlo d'un tradimento suscettibile di causar la perdita d'una battaglia navale, leggera, irreale, sospesa alle ali delle vele d'una goletta, ma della perdita d'un combattimento di mostri d'acciaio in cui riponeva il proprio orgoglio un popolo non più infantile ma duro, aiutato,
sorretto dai sapienti calcoli matematici dei tecnici. In breve, si trattava d'un tradimento da tempi moderni. Il giornale che riportava questi fatti (lo scopersi a Cadice) diceva, certo stupidamente in quanto non so che cosa potesse saperne: «... per il gusto del tradimento». Accompagnava il resoconto la fotografia d'un giovane ufficiale, bellissimo. M'innamorai di quella sua immagine, che porto sempre addosso. Poiché l'amore si esalta nelle situazioni pericolose, in me stesso, segretamente, offrii all'esule di spartir con lui la sua Siberia. La Corte marittima, col mio oppormi ad essa, facilitava ancor di più la mia scalata verso di lui al quale m'avvicinavo con tallone pesante ma alato. Si chiamava Marc Aubert. Andrò a Tangeri, mi dicevo, e forse sarò chiamato fra i traditori, e diventerò uno dei loro. Lasciai Cadice per Huelva. Scacciato dalla guardia civica tornai a Jerez, poi a Alicante seguendo la riva del mare. Me n'andavo solo. Talvolta incrociavo o doppiavo un altro barbone. Senza nemmeno sederci su un mucchio di sassi, ci dicevamo qual villaggio fosse più propizio agli accattoni, quale alcade meno disumano, e proseguivamo nella nostra solitudine. Sfottendo la nostra bisaccia, si diceva allora: «Va a caccia con una doppietta di pezza». Ero solo. Camminavo umilmente sull'estremo ciglio delle strade, lungo i fossati dove la polvere dell'erba bianca m'incipriava i piedi. In quel naufragio, tutte le disgrazie del mondo mi facevano colare a picco in un oceano di disperazione, ma anche sperimentavo la dolcezza di potermi aggrappare al terribile e forte ramo d'un negro. Più forte di tutte le correnti del mondo, esso era anche più sicuro, più consolante, e d'un mio sospiro più degno di tutti i vostri continenti. Verso sera mi sudavano i piedi, perciò nelle serate estive procedevo sul fango. Mentre me lo riempiva d'un piombo che mi fungeva da pensiero, il sole mi svuotava il capo. L'Andalusia era bella, calda e sterile. L'ho percorsa tutta. A quell'età non conoscevo la stanchezza. Trasportavo con me un tal fardello d'angoscia che avrei trascorso l'intera vita, n'ero certo, vagabondando. Non più un fronzolo per ornar l'esistenza, il vagabondaggio diventò la mia realtà. Non so più che cosa pensassi, ma ricordo che offersi a Dio tutte le mie miserie. Nella mia solitudine, lontano dagli uomini, potevo davvero dirmi prossimo a esser tutto amore, tutto devozione. «Son talmente lontano da costoro», dovetti dirmi, «da non sperar più di raggiungerli. Ch'io me ne distacchi completamente, dunque. Fra noi i rapporti saranno ancor minori, e l'ultimo verrà rotto se al loro disprezzo per me contrapporrò il mio amore per loro.» Così, invertendo il movimento, come dicono i macchinisti, ecco che vi concedevo la mia pietà. La mia disperazione non s'esprimeva certo in questa forma. Infatti, tutto nei miei pensieri si sparpagliava, ma la pietà che dico io doveva cristallizzarsi in precise riflessioni che, nella mia testa bruciata dal sole, prendevano una forma definitiva e ossessiva. L'abbattimento - non credo che fosse la stanchezza - m'impediva di riposarmi. Alle fontane, più non andavo a bere. Avevo la gola arsa. Mi bruciavano gli occhi. Avevo fame. Il sole, al mio viso ispido di barba, dava riflessi di rame. Ero magro, giallo, triste. Imparavo a sorridere delle cose e a meditar su di esse. Dalla mia presenza di giovane francese su quei lidi, dalla mia solitudine, dalla mia condizione d'accattone, dalla polvere dei fossi sollevata intorno ai miei piedi in due minuscole nuvolette distinte, una per ciascun di loro, rinnovate a ogni passo, il mio orgoglio traeva il profitto d'una consolante singolarità cui contrastava la banale sordidezza del mio strambo abbigliamento. Mai le mie scarpe sfondate, o i miei calzini sporchi, ebbero la dignità che solleva, che porta al disopra della polvere i sandali dei Carmelitani, mai la mia giacca sudicia permise ai miei gesti la minima nobiltà. Fu nell'estate del '34 che percorsi le strade andaluse. La notte, dopo aver mendicato qualche soldo in un villaggio, proseguivo per la campagna e m'addormentavo in fondo a un fosso. I cani mi fiutavano da lontano - il mio fetore m'isolava ancor di più - abbaiando quando lasciavo una cascina o quando vi arrivavo. «Ci vado, non ci vado?» mi dicevo passando vicino a una casa bianca, cinta di muri cosparsi di calce. La mia esitazione durava poco. Il cane legato alla porta non smetteva d'uggiolare. M'avvicinavo. Uggiolava più forte. Alla donna che si presentava senza abbandonar la soglia chiedevo un soldo nel mio spagnolo meno corretto - l'essere uno straniero mi proteggeva un poco - e mi ritiravo a fronte bassissima, impassibile in volto, se l'elemosina mi veniva negata.
Della bellezza di quell'angolo di mondo, neppure osavo rendermi conto. A meno che non lo facessi per cercare il segreto di tale bellezza, cioè, dietro di essa, l'impostura di cui saremmo vittime se ci fidassimo. Rifiutandola, scoprivo la poesia. «Eppure, tanta bellezza è fatta apposta per me. La registro e so che se intorno a me appare così evidente, è per sottolineare quant'io sia miserabile.» Sulle rive dell'Atlantico e su quelle del Mediterraneo attraversavo porti di pescatori la cui elegante povertà feriva la mia. Senza che mi vedessero, sfioravo uomini e donne ritti in un angolo d'ombra, ragazzi che giocavano su una piazza. L'amore che gli esseri umani sembran nutrire l'un per l'altro, allora mi straziava. Passando, bastava che due maschi si scambiassero un saluto, un sorriso, perché io mi ritraessi sui più estremi capi del mondo. Gli sguardi che i due amici si scambiavano - e le loro parole, talvolta - erano la più sottile emanazione d'un raggio d'amore scaturito dal cuore d'entrambi. Un raggio di luce dolcissima, delicatamente ritorto: un raggio d'amore filato. Mi stupivo che tanta delicatezza, che un dardo così fino e d'una materia così preziosa com'è l'amore, e così casto, s'elaborassero in una fucina tenebrosa come il muscoloso corpo di quei maschi, mentre costoro continuavano a emettere quei dolci raggi in cui scintillano a volte le goccioline d'una misteriosa rugiada. Mi pareva di sentir dire dal più anziano all'altro - che non ero più io, - parlando di quel punto del corpo da lui certamente prediletto: - Anche stanotte, voglio spianarle io, le pieghe della tua aureola! Non potevo sopportare allegramente che ci si amasse senza di me. ("Nella colonia penale di Belle-Isle, Maurice G. e Roger B. s'incontrano. Hanno diciassett'anni. Li conobbi a Parigi. Con loro, ma senza che l'uno sapesse dell'altro, feci qualche volta l'amore. Si vedono un giorno a Belle-Isle, mentre pascolano le vacche o le pecore. Non so come, parlando di Parigi, la prima persona di cui si ricordano sono io. Si divertono, si meravigliano apprendendo che furono miei amici entrambi. Me lo riferisce Maurice. - Eravamo diventati davvero due compagnetti, pensando a te. Lo so io le pene, la sera... - Perché? - Dietro il tramezzo che separa gli uomini, ne sentivo i gemiti. Era più bello di me e tutti i duri se lo farcivano. Io me ne dovevo star li senza poter far nulla. Quel che mi commuove, è l'apprendere come ancora si perpetui la miracolosa infelicità della mia infanzia a Mettray".) All'interno delle varie terre percorrevo paesaggi d'aguzze rupi, che rosicchiavano il cielo, laceravano l'azzurro. Tale rigida indigenza, arida e cattiva, era una sfida alla mia e alla mia umana tenerezza. Peraltro, m'incitava alla durezza. Mi sentivo meno solo scoprendo nella natura una delle mie qualità essenziali: l'orgoglio. Volevo essere una rupe fra le altre. Ero felice d'esserlo, e fiero. Mi sentivo, così, attaccato al suolo. Avevo i miei compagni. Sapevo che cosa fosse il regno minerale. - Terremo testa ai venti, alle piogge, ai colpi. La mia avventura con Stilitano retrocedeva nella mia mente. Lui stesso andava assottigliandosi, non era più che un punto brillante, d'una purezza meravigliosa. «Era un uomo», mi dicevo. M'aveva infatti confessato d'aver ucciso un tizio della Legione, ed ecco come si giustificava: - Ha minacciato di farmi fuori. L'ho accoppato. Aveva una baiaffa più grossa della mia. Che colpa ne ho. Distinguevo ormai soltanto le qualità e i gesti virili che avevo conosciuto in lui. Irrigiditi, fissati per sempre nel passato, essi componevano un oggetto solido, indistruttibile perché ottenuto da particolari indimenticabili. Talvolta, all'interno di tale mia vita negativa, mi concedevo la realizzazione d'un atto, di certi furti a detrimento dei miseri, la cui gravità mi dava una qualche consapevolezza. Le palme! Un sole mattutino le dorava. Fremeva la luce, non le palme. Vedevo le prime. Orlavano il mar Mediterraneo. La brina sui vetri, d'inverno, aveva maggior varietà, ma al pari di essa le palme mi precipitavano - meglio di essa, forse - nell'intimo d'un'immagine natalizia nata paradossalmente dal versetto sulla festa precedente la morte di Dio, sull'ingresso a Gerusalemme, sui rami di palma gettati sotto i piedi di Gesù. La mia infanzia aveva sognato palmizi. Eccomi vicino a questi.
M'avevano detto che a Betlemme la neve non cade. Dischiuso, il nome d'Alicante mi rivelava l'Oriente. Ero nel cuore della mia infanzia, del suo istante più gelosamente conservato. A una svolta di strada stavo per scoprire, sotto tre palme, quel presepio dove, da bambino, andavo ad assistere alla "mia natività" tra il bue e l'asino. Ero, del mondo, il povero più umile, camminavo misero fra la polvere e la stanchezza, meritevole infine della palma, maturo per la deportazione, per i cappelli di paglia e i palmizi. Addosso a un povero le monete non sono più il segno della ricchezza ma del suo contrario. Senza dubbio, di straforo, derubavo qualche ricco idalgo - di rado, guardinghi come sono - ma tali furti, nel mio animo, restavano senza effetto. Parlerò di quelli commessi ai danni d'altri accattoni. Il delitto d'Alicante ci illuminerà al proposito. Si ricorderà che a Barcellona Pépé, fuggendo, aveva avuto il tempo di passarmi il denaro raccattato sulla polvere. Per scrupolo d'eroica fedeltà verso un eroe, per timore, anche, che Pépé, o qualcuno dei suoi, mi ritrovasse, avevo sotterrato quel denaro ai piedi d'una catalpa, in un giardinetto presso Montjuich. Ebbi la costanza di non parlarne mai a Stilitano, ma quando, con lui, decisi d'andare verso il sud, dissotterrai il denaro (due o trecento pesetas) e lo spedii, indirizzato a me, fermo posta, a Alicante. Dell'azione del paesaggio sui sentimenti si è discusso spesso, ma non, mi sembra, di tale azione su un atto morale. Prima d'entrare a Murcia, attraversai il palmeto d'Elche, e già di così buona voglia ero sconvolto dalla natura, che i miei rapporti con gli uomini cominciarono a esser quelli che abitualmente gli uomini hanno con le cose. Arrivai a Alicante di notte. Dovetti addormentarmi in un cantiere, e verso l'alba ebbi la rivelazione del mistero della città e del suo nome: in riva a un mare tranquillo, e tuffandovisi, montagne bianche, qualche palma, qualche casa, il porto e, al sole nascente, un'aria luminosa e fresca. (Rivivrò un momento simile a Venezia.) Tutte le cose erano legate fra loro da un rapporto d'allegrezza. Per esser degno d'entrare in un tal sistema, mi parve necessario romper garbatamente con gli uomini, purificarmi. Poiché il legame che mi univa a loro era sentimentale, dovevo staccarmi senza scalpore. Lungo la strada m'ero ripromesso un'amara gioia dal ritirare il denaro dall'ufficio postale e dallo spedirlo a Pépé, nel carcere di Montjuich. In una baracca che stava aprendo bevvi una tazza di latte caldo e mi presentai allo sportello della posta. Non fecero nessuna difficoltà per consegnarmi l'assicurata. Il denaro, dentro la busta, era intatto. Uscii e strappai i biglietti di banca per buttarli in una fogna, ma per render più completa la rottura, su una panchina rincollai i pezzi e mi offrii un sontuoso pranzo. Pépé doveva crepar di fame in gattabuia, ma io, con questo delitto, mi ritenevo liberato da ogni preoccupazione morale. Intanto, non percorrevo a caso le strade. Il mio cammino era quello di tutti gli accattoni, e come loro dovevo anch'io conoscere Gibilterra. La notte della roccia percorsa, popolata da soldati e da cannoni addormentati, l'erotica massa mi facevano perder la testa. Dimoravo nel villaggio di La Linea, ch'è un immenso bordello e nient'altro, e lì cominciò anche per me il periodo del barattolo di conserva. Tutti gli accattoni del mondo - li ho visti eguali nell'Europa centrale come in Francia - possiedono uno o più barattoli di latta (già contenenti piselli o spezzatino d'agnello con fagioli), che muniscono d'un manico di fil di ferro. Sulla strada o fra i binari, camminano con quei barattoli sospesi a una spalla. Ebbi il mio primo barattolo a La Linea. Era nuovo. L'avevo raccolto in una pattumiera dove l'avevan buttato il giorno prima. La latta era lucida. Con un ciottolo ribadii gli orli dov'era stato aperto per non tagliarmi, e me n'andai vicino ai reticolati di Gibilterra a raccoglier gli avanzi dei soldati inglesi. In tal modo, ruzzolavo ancor più in basso. Non mendicavo più una moneta ma pochi rimasugli di sbobba. E per giunta, con la vergogna di doverli chiedere a dei soldati. Mi sentivo indegno, se la bellezza d'uno di essi, o il potere della sua uniforme, m'aveva turbato. La notte cercavo di vendermi a loro, e ci riuscivo grazie al buio delle viuzze. Gli accattoni, a mezzogiorno, potevan disporsi in gruppo in qualsiasi punto del recinto, ma la sera facevamo la coda in uno dei passaggi a zig zag, presso la caserma. Nella fila, una sera riconobbi Salvador. Quando, a Anversa, due anni più tardi, incontrerò di nuovo Stilitano ingrassato, questi avrà al braccio una mantenuta di lusso dalle lunghe ciglia finte, impastoiata in un abito di raso nero. Sempre molto bello nonostante i lineamenti appesantiti, riccamente vestito di lana, con tanto
d'anello d'oro, si lasciava guidare da un ridicolo cagnolino bianco, minuscolo e stizzoso. Fu allora ch'ebbi la rivelazione di quel magnaccia: al guinzaglio teneva la propria buaggine, la propria arricciata, azzimata, coccolata meschinità. Anch'essa lo precedeva e lo guidava in una città triste, sempre bagnata di pioggia. Abitavo in rue du Sac, presso i "docks". Di notte vagavo pei bar, sulle rive dell'Escaut. A quel fiume, a quella città di diamanti tagliati e rubati, associavo la radiosa avventura di Manon Lescaut. Mi sentivo molto da vicino partecipe del romanzo, entravo nell'immagine, m'idealizzavo, diventavo un'idea di bagno penale e d'amore insieme confusi. Con un giovane fiammingo che lavorava in una giostra, rubavo biciclette nella città dell'oro, delle gemme, delle marinare conquiste. Proseguirò nella mia povertà là dove Stilitano era ricco e amato. Non oserò mai rinfacciargli d'avere, alla polizia, denunziato Pépé. Del resto, non so nemmeno io se a esaltarmi non fosse proprio la sua delazione piuttosto che il delitto del gitano. Senza potermene precisare i particolari - e tale incertezza, dando al racconto un timbro storico, lo rendeva ancor più bello, - Salvador fu felice di riferirmela. Rotta talora per non cedere a un troppo limpido canto di vittima, la sua voce gioiosa, ebbra, provava il suo odio per Stilitano, e la sua amarezza. Un tal sentimento faceva apparir Stilitano più forte, più grande. Né Salvador né io ci stupimmo del nostro incontro. Poiché era uno dei primi, e aveva una certa anzianità a La Linea, sfuggii al pagamento della decima che due o tre accattoni brutali e forti esigevano. Andai presso di lui. - Ho saputo tutto quel ch'è successo -, mi disse. - Che cosa? - Che cosa? L'arresto di Stilitano. Tutta la dolcezza di Salvador s'era tramutata in una sorta di acidità. Mi parlò astiosamente e mi raccontò l'arresto del mio amico. Non era avvenuto per il furto della mantellina o d'altro, ma per l'assassinio dello spagnolo. - Non è stato lui -, dissi. - Certo. Chi non lo sa. E' stato il gitano. Ma è stato Stilitano a svesciare tutto quanto. Sapeva il nome. Hanno pescato il gitano nell'Albaicin. Stilitano lo hanno arrestato per proteggerlo dai fratelli e dai compagni del gitano. Sulla strada d'Alicante, grazie alla resistenza contro la quale dovetti lottare, grazie a ciò che dovetti mettere in opera per abolire quello che chiamano rimorso, il furto da me commesso diventò ai miei occhi un atto durissimo, purissimo, luminoso quasi, e che soltanto dal diamante può essere raffigurato. Compiendolo avevo distrutto una volta di più - e, andavo dicendomi, una volta per tutte - i cari vincoli della fraternità. «Dopo questo fatto, dopo un simile delitto, quale altra perfezione morale potrei mai sperare?» Poiché quel furto era indistruttibile, decisi di farne l'origine d'una perfezione morale. «E' vile, flaccido, lercio, basso... (lo definirò soltanto con parole esprimenti vergogna), nessuno degli elementi che lo compongono mi lascia una sola possibilità di magnificarlo. Tuttavia non rinnego affatto questo ch'è il più mostruoso dei miei figli. Voglio coprire il mondo della sua abominevole progenie.» Ma è un'epoca della mia vita, questa, che non riesco troppo bene a descrivere. La mia memoria vorrebbe dimenticarla. Par che ne voglia offuscare i contorni, incipriarla di talco, proporle una formula paragonabile a quel bagno di latte che le elegantone del Cinquecento chiamavano "un bagno di modestia". Mi feci riempire la gavetta d'un rimasuglio di rancio e me n'andai in un angolo a mangiarmelo solo. Con me conservavo, col capo sotto l'ala, il ricordo d'uno Stilitano sublime e abietto. Ero fiero della sua forza e forte della sua complicità con la polizia. Per tutta la giornata fui triste ma serio. Una sorta d'insoddisfazione gonfiava ogni mio atto, anche il più semplice. Avrei voluto che un'aureola, visibile, splendente, si manifestasse sulla punta delle mie dita, che la mia potenza mi sollevasse da terra, esplodesse in me e mi dissolvesse, mi sparpagliasse in forma d'acquazzone ai quattro venti. Sarei piovuto sul mondo. La mia polvere, il mio polline avrebbero attinto le stelle. Amavo Stilitano. Ma amarlo nella rocciosa aridità di quella terra, sotto un sole irrevocabile, mi sfibrava, m'orlava di
fuoco le palpebre. Piangere un poco sarebbe stato per me uno sfogo. O parlare molto, a lungo, brillantemente, davanti a un uditorio attento e rispettoso. Ero solo e senza amici. Rimasi per qualche giorno a Gibilterra, ma soprattutto a La Linea. All'ora dei pasti, davanti ai reticolati inglesi, Salvador e io ci incontravamo indifferenti. Più d'una volta, da lontano, lo vidi indicarmi, col dito o col mento, un altro barbone. Il periodo della mia vita in cui ero rimasto con Stilitano lo incuriosiva. Cercava di interpretarne il mistero. Avendola trascorsa con un «uomo», mescolata con la sua, quella mia vita, anche perché raccontata da un testimone, autentico martire, m'adornò agli occhi degli altri accattoni d'un curioso prestigio. Me ne accorsi da precisi - benché sottili - indizi, e senza arroganza ne portai il peso mentre in me proseguivo quanto, credevo io, m'indicava Stilitano. Avrei voluto imbarcarmi per Tangeri. Film e romanzi hanno fatto di quella città un luogo tremendo, una sorta di bisca dove i giocatori mercanteggiano i piani segreti di tutti gli eserciti del mondo. Dalla costa spagnola, Tangeri mi sembrava una città fiabesca. Era il simbolo stesso del tradimento. A volte andavo a Algesiras, a piedi, vagavo nel porto e guardavo in lontananza dove, all'orizzonte, appariva la famosa città. - A quale orgia di tradimenti, di mercanteggiamenti - mi chiedevo, - ci si può abbandonare laggiù? Certo, la ragione m'impediva di pensare che potessi essere utilizzato per scopi spionistici, ma così grande era la mia brama da credermi illuminato da essa, da essa designato. In fronte, visibile a tutti, recavo incisa la parola traditore. Misi perciò da parte un po' di denaro e presi posto in una barca da pesca, ma il mare grosso ci costrinse a rientrare a Algesiras. Un'altra volta, grazie alla complicità d'un marinaio, riuscii a salire a bordo d'un piroscafo. I miei abiti sbrindellati, la faccia sporca, i capelli lunghi e luridi spaventarono la finanza che m'impedì di sbarcare. Tornato in Spagna, decisi di passare da Ceuta: appena arrivato, mi misero dentro per quattro giorni e dovetti tornare là da dov'ero partito. Probabilmente a Tangeri, come del resto in qualsiasi altro posto, non sarei mai riuscito a perseguire un'avventura regolata da un'organizzazione con una sua sede e relativi uffici, un'avventura governata da regole di strategia politica internazionale, ma quella città rappresentava così bene, per me, e così stupendamente, il Tradimento, che soltanto là, mi sembrava, sarei potuto approdare. - Comunque sia, che begli esempi vi avrei trovato! Vi avrei trovato Marc Aubert, Stilitano e altri ancora, di cui avevo subodorato, anche se non osavo crederci troppo, l'indifferenza di fronte alle regole della lealtà e della rettitudine. Dir di loro: «Sono falsi», m'inteneriva. M'intenerisce ancora, talvolta. Sono i soli che ritengo capaci di qualsiasi audacia. La molteplicità delle loro linee morali, le loro tortuosità formano quegli architettonici intrecci ch'io chiamo avventura. S'allontanano dalle vostre regole. Non sono fedeli. Possiedono soprattutto una tara, una piaga, paragonabile al grappolo d'uva nei calzoni di Stilitano. Infine, quanto più la mia colpevolezza sarà grande ai vostri occhi, intera, pienamente assunta, tanto più grande sarà la mia libertà. Tanto più perfetta la mia solitudine e la mia unicità. Con la mia colpevolezza, inoltre, acquistavo il diritto all'intelligenza. Troppi mi dicevo pensano e non ne hanno il diritto. Non lo hanno pagato con un'impresa tale da rendere indispensabile il pensare alla "vostra salvezza". Questo mio "inseguire" i traditori e il tradimento, altro non era che una forma d'erotismo. E' raro quasi non s'è mai avverato - che un ragazzo m'offra la vertiginosa gioia che soli possono offrirmi gli intrecci d'una vita in cui io sia mescolato con lui. Un corpo disteso sotto le mie lenzuola, accarezzato in piedi in una via o di notte in un bosco, su una spiaggia, mi concede la metà del piacere: non ardisco vedermi in atto d'amarlo, perché ho conosciuto tante situazioni dove la mia persona, avendo una sua propria importanza nella grazia, era il solo fattor di fascino del momento. Non le ritroverò mai più. Così, m'accorgo d'aver cercato soltanto situazioni cariche d'intenzioni erotiche. Ecco ciò che, fra l'altro, diresse la mia vita. So che esistono avventure il cui eroe e i cui particolari sono erotici. Son queste che ho voluto vivere. Pochi giorni dopo appresi che Pépé era stato condannato all'ergastolo. Mandai tutto il denaro che possedevo a Stilitano, carcerato.
Sono state ritrovate due mie fotografie del casellario giudiziario. In una ho sedici o diciassett'anni. Indosso, sotto una giacca del brefotrofio, un maglione strappato. Il viso è d'un ovale purissimo, il naso schiacciato, appiattito da un pugno durante una zuffa dimenticata. Lo sguardo è disincantato, triste e caldo, serissimo. Avevo una chioma folta e disordinata. Vedendomi a quell'età, il mio sentimento s'espresse quasi a alta voce: - Povero maschiotto, hai sofferto. Parlavo con bontà d'un altro Jean che non ero io. Allora soffrivo per la mia bruttezza, che adesso non scorgo più sul mio viso di fanciullo. Molta insolenza - ero uno sfrontato - mi permetteva tuttavia di procedere nella vita con spigliatezza. Se ero inquieto, lì per lì non traspariva nulla. Ma al crepuscolo, quand'ero stanco, il capo mi si piegava, e sentivo il mio sguardo appesantirsi sul mondo e confondersi con quello, o ritirarsi in me stesso e sparire, conoscendo, penso, la mia solitudine assoluta. Quand'ero garzone di fattoria, quand'ero soldato, quand'ero all'orfanotrofio, nonostante l'amicizia e talvolta l'affetto dei miei superiori, ero, rigorosamente, solo. Il carcere m'offrì la prima consolazione, la prima pace, la prima promiscuità amica: e nell'immondo. Tanta solitudine m'aveva costretto a trovare un compagno in me stesso. Considerando il mondo al di fuori, la sua indefinitezza, la sua confusione ancor più perfetta di notte, lo erigevo a divinità di cui ero non soltanto il pretesto più caro, oggetto di tante cure e precauzioni, scelto e guidato dall'alto pur se attraverso prove dolorose, sfibranti, sull'orlo della disperazione, ma anche l'unico scopo di tanto suo operare. E, a poco a poco, grazie a una sorta d'operazione che soltanto malamente riesco a descrivere, senza alterare le dimensioni del mio corpo ma perché era più facile forse contenere una così preziosa ragione di tanta gloria, fu in me che collocai tale divinità - origine e disposizione di me stesso. La inghiottii. Le dedicavo canti che andavo inventando. La notte fischiettavo. La melodia era religiosa. Era lenta. Il ritmo un poco greve. Con esso credevo di mettermi in comunicazione con Dio: il che avveniva, Dio non essendo altro che la speranza e il fervore contenuti nel mio canto. Per la strada, con le mani in tasca, la fronte bassa o alta, guardando le case o gli alberi, fischiettavo i miei inni goffi, non gioiosi ma nemmeno tristi, gravi. Scoprivo che la speranza non è che nel modo d'esprimerla. Così, la protezione. Non avrei mai fischiettato su un ritmo leggero. Riconoscevo i temi religiosi: creano Venere, Mercurio, o la Vergine. Nella seconda fotografia ho trent'anni. Il viso mi si è indurito. Spiccano le ossa mascellari. La bocca è amara e cattiva. Ho l'aria d'un teppista nonostante gli occhi rimasti dolcissimi. D'una dolcezza del resto ch'è quasi impossibile scoprire per via della fissità impostami dal fotografo ufficiale. Grazie a tali due immagini posso ritrovar la violenza che mi animava allora: dai sedici ai trent'anni, negli stabilimenti di pena per minori, nelle carceri, nei bar non è l'avventura eroica ch'io cercavo, bensì vi inseguivo la mia identificazione con i più belli e più sfortunati criminali. Volevo esser la prostituta che accompagna in Siberia il suo amante o quella che gli sopravvive non per vendicarlo ma per piangerlo e per magnificarne la memoria. Senza credermi figlio di magnanimi lombi, l'incertezza della mia origine mi permetteva d'interpretarla. Vi aggiungevo la singolarità delle mie miserie. Abbandonato dai miei familiari, già mi pareva naturale aggravare il fatto con l'amore per i ragazzi e tale amore col furto, e il furto col delitto, o col compiacimento del delitto. Così rifiutavo decisamente un mondo che m'aveva rifiutato. Questo mio precipitarmi quasi con gioia verso le situazioni più umiliate, trae anch'esso, forse, la propria necessità dalla mia immaginazione infantile, che s'andava inventando, perch'io vi facessi passeggiare la figurina minuta e altera d'un ragazzino abbandonato, castelli, parchi popolati di guardie più che di statue, abiti da sposa, funerali, nozze, e più tardi, ma appena un poco più tardi, quando questi sogni verranno oltre ogni dire contraddetti, sino al totale inaridimento in una vita miserabile, dai penitenziari, dalle prigioni, dai furti, dagli insulti, dalla prostituzione, in modo del tutto naturale addobberò, di quei medesimi ornamenti (e del linguaggio raro ad essi attinente) che già addobbavano le mie abitudini mentali e gli oggetti del mio desiderio, la mia reale condizione d'uomo ma innanzitutto di bambino troppo umiliato, che soltanto nella mia conoscenza delle prigioni troverà il suo pieno appagamento. Al detenuto il carcere offre lo stesso senso di sicurezza
d'una reggia all'invitato d'un re. Sono i due edifici costruiti con maggior fede, quelli che meglio danno la certezza d'esser quello che sono - quello che vollero essere, e lo rimangono. Le murature, i materiali, le proporzioni, l'architettura sono in armonia con un insieme morale che renderà quelle dimore indistruttibili finché resisterà l'ordinamento sociale di cui sono il simbolo. Il carcere mi circonda d'una perfetta garanzia. Sono sicuro che fu costruito apposta per me - col palazzo di giustizia, sua dipendenza, suo monumentale vestibolo. Tutto, in esso, fu destinato a me secondo i più seri dettami. La rigidità dei regolamenti, la loro angustia, la loro precisione son della stessa natura dell'etichetta di corte, della squisita e tirannica cortesia di cui è fatto oggetto l'invitato in una corte reale. Come quelle del carcere, le assise della reggia posano su pietre da taglio di alta qualità, su scalee di marmo, sull'oro vero, sulle sculture più rare del regno, sull'assoluta potenza dei suoi ospiti; ma altre analogie risiedono nel fatto che, delle due fabbriche, una è la radice e l'altra la cima d'un organismo vivente che circola fra questi due poli che lo contengono, lo comprimono, mentre entrambe rappresentano la forza allo stato puro. Quanta sicurezza su quei tappeti, fra quegli specchi, nell'intimità stessa delle latrine della reggia. L'atto di cacare, nelle ore piccole, in nessun altro luogo assume l'importanza che solo può conferirgli l'esservi riusciti in un gabinetto dai cui vetri smerigliati distingui la facciata scolpita, le guardie, le statue, il cortile d'onore; in un piccolo cesso dove la carta di seta è come da tutte le altre parti, ma dove tra breve, in vestaglia di raso e babbucce rosa, spettinata, senza polvere di riso sui capelli già polverulenti, verrà a scaricarsi pesantemente una qualche damigella d'onore; in un piccolo cesso da dove solide guardie non mi strapperanno brutalmente, giacché cacarvi dentro diventa un atto importante, con un suo proprio posto nella vita cui il re m'ha invitato. Un'egual sicurezza me la concede la prigione. Nulla la demolirà. Ventate, temporali, rovesci non la intaccano. La prigione resta sicura di sé e voi, nel suo seno, sicuri di voi. Eppure, proprio per quella serietà che presiedette a tali costruzioni - quella serietà che permette a entrambe di guardarsi con rispetto, e all'una e all'altra di misurarsi da lontano e d'intendersi - sarà proprio per quella serietà, per la sua terrena importanza, che esse periranno. Posate sul suolo e sul mondo con maggior negligenza, forse potrebbero resistere, ma il loro severo aspetto m'impone di guardarle senza pietà. Riconosco che esse hanno le loro assise in me stesso, che esse sono il segno delle mie estreme e più violente tendenze, e già il mio spirito corrosivo sta lavorando per distruggerle. A capofitto mi son buttato in una vita miserabile ch'era la concreta apparenza di regge distrutte, di giardini saccheggiati, di splendori morti. Ne costituiva le rovine, ma quanto più tali rovine erano mutilate, tanto più mi pareva lontano, sepolto in un passato sacro, ciò di cui esse avrebbero dovuto essere il segno visibile, tanto da non saper più se abitassi sontuose miserie o se magnifica fosse la mia abiezione. Tale idea d'umiliazione, alla fine, a poco a poco si staccò da quanto la condizionava, furono spezzati i cavi che la trattenevano a quelle ideali dorature giustificandola agli occhi del mondo, ai miei occhi carnali, scusandola quasi - ed essa rimase sola, di se stessa sola ragione d'essere, sola necessità di se stessa e di sé solo scopo. Ma fu proprio l'immaginazione, invaghita di regali fasti, del monello abbandonato, a permettermi di dorar la mia vergogna, di cesellarla, di farne un lavoro d'oreficeria nel senso abituale della parola, sino a quando, con l'uso forse e con l'usura delle parole velandola, non ne fosse scaturita l'umiltà. L'amore per Stilitano mi rimetteva al fatto d'una così eccezionale disposizione. Se grazie a lui avevo conosciuto una qualche nobiltà, ecco che ritrovavo il vero senso della mia vita - come si dice il senso del legno - e che questa doveva manifestarsi fuori del vostro mondo. Conobbi a quel tempo una durezza e una lucidità che spiegano il mio atteggiamento verso i poveri: la mia miseria era così grande da darmi l'impressione d'essere impastato di quella. Era la mia stessa essenza, percorrente e alimentante il mio corpo quanto la mia anima. Sto scrivendo questo libro in un grande albergo d'una delle più lussuose città del mondo, dove sono ricco senza con ciò poter compiangere i poveri: io sono loro. Se davanti ad essi m'è dolce pavoneggiarmi, deploro, precisissimamente, di non poterlo fare con maggior fasto e insolenza. - Avrei una macchina silenziosa e nera, lucida di vernice, dal fondo della quale guarderei noncurante la miseria. Davanti ad essa trascinerei processioni di tanti me stesso in sontuosi fronzoli affinché la miseria mi guardasse passare, affinché i poveri ch'io non avrei smesso d'essere mi
vedessero rallentare con nobiltà in mezzo al silenzio d'un motore di lusso e in tutta la gloria terrena, figuratrice, se voglio, dell'altra. Con Stilitano fui la povertà senza speranza, che nel paese d'Europa più scheletrito conobbe la più asciutta formula poetica, talora intenerita dalla notte, e il mio inquieto fremito davanti alla natura. Scrivevo qualche pagina più sopra: ... «una campagna al crepuscolo». Non immaginavo allora ch'essa potesse nascondere gravi pericoli, occultare guerrieri pronti a uccidermi o a torturarmi, al contrario essa m'appariva così dolce, così materna e così buona ch'io temevo di non restar me stesso, per fondermi meglio in tale bontà. Mi capitava spesso di scendere da un treno merci e di vagar nella notte, di cui ascoltavo il lento lavorìo; m'accovacciavo sull'erba, o non osavo farlo e restavo in piedi, fermo in mezzo a un prato. Mi figuravo la campagna, a volte, teatro d'un fatto di cronaca dov'io collocavo quegli eroi che, con maggior efficacia, simboleggiano sino alla morte il mio vero dramma: fra due salici isolati un giovane assassino che, con una mano in tasca, punta una rivoltella e spara nella schiena d'un fattore. A dar tanta ricettiva dolcezza ai vegetali, era forse l'immaginaria partecipazione a un'avventura umana? Io li capivo. Non radevo più quella peluria che dispiaceva a Salvador, e meglio assumevo l'apparenza muscosa d'un fusto. Salvador non mi parlò mai più di Stilitano. Stava diventando sempre più brutto e tuttavia riusciva a concedere un po' di piacere ad altri barboni, in un vicolo o su un tavolaccio, secondo il capriccio. - Bisogna proprio esser viziosi per far l'amore con quel maschio lì -, m'aveva detto un giorno Stilitano, a proposito di Salvador. Benedetto vizio, dolce e benigno, se ci permette d'amare anche chi è brutto, sporco e sfigurato! - Ne trovi sempre, maschi? - Mi difendo -, disse scoprendo i denti radi e neri. C'è sempre qualcuno, fra loro, che ti dà un rimasuglio di tascapane o di gavetta. Compiva sempre la sua elementare funzione con scrupolosa regolarità. La sua era una mendicità stagnante. Era diventata un lago immobile, trasparente, mai turbato da un soffio, e quel povero così colmo d'onta era la perfetta immagine di ciò che avrei voluto essere. Proprio allora, forse, se avessi incontrato mia madre, e se costei fosse stata più umile di me, avremmo proseguito insieme l'ascesa - sebbene il linguaggio sembri esigere il vocabolo caduta o un altro qualsiasi indicante moto verso il basso - l'ascesa, dico, difficile, dolorosa, che porta all'umiliazione. Con lei avrei corso quest'avventura, l'avrei scritta per magnificare i termini gesti o parole - più abietti grazie all'amore. Tornai in Francia. Senza noie passai la frontiera, ma fatto qualche chilometro nella campagna francese, alcuni gendarmi mi fermarono. I miei stracci erano troppo spagnoli. - Documenti! Mostrai dei pezzetti di carta sporchi e tutti strappati a forza di piegarli e di dispiegarli. - E la scheda? - Quale scheda? Apprendevo così l'esistenza dell'umiliante scheda antropometrica. La consegnano a tutti i vagabondi. A ogni gendarmeria ci mettono un visto. Fui sbattuto dentro. Dopo numerosi soggiorni in varie carceri, il ladro lasciò la Francia. Percorse dapprima l'Italia. Oscure sono le ragioni che ve lo condussero. Forse per la vicinanza della frontiera. Roma. Napoli. Brindisi. L'Albania. Sul "Rodi" che mi sbarcò a Santi Quaranta rubo una valigia. A Corfù le autorità portuali mi negano il permesso di soggiorno. Sulla barca da me noleggiata per arrivarci, mi costringono a passarci la notte prima di ripartire. Poi è la Serbia. Poi l'Austria. La Cecoslovacchia. La Polonia dove cerco di spacciare zloty falsi. Dappertutto è il furto, il carcere, e da ciascuno di questi paesi l'espulsione. Passo, di notte, frontiere, passo autunni disperanti, in cui tutti i ragazzi son grevi e stanchi, e primavere in cui tutt'a un tratto, al calar della sera, essi escono da non so quale rifugio dove s'eran preparati, per pullulare nelle viuzze, sui lungofiume, sui bastioni, nei giardini
pubblici, nei cinema e nelle caserme. Infine è la Germania hitleriana. Poi il Belgio. Ad Anversa ritroverò Stilitano. Brno - o Brünn - è una città della Cecoslovacchia. Vi arrivai a piedi, sotto la pioggia, dopo aver varcato la frontiera austriaca a Retz. I furterelli compiuti nei negozi mi permisero di vivere per qualche giorno, ma ero senza amici, sperduto fra una popolazione nervosa. Avrei invece desiderato di riposarmi un poco, dopo quel mio turbolento viaggio attraverso la Serbia e l'Austria, dopo quella mia fuga davanti alla polizia di quei paesi e davanti a certi suoi complici accaniti nel voler la mia rovina. La città di Brno è buia, umida, oppressa dal fumo delle sue fabbriche e dal colore delle sue pietre. Il mio animo vi si sarebbe disteso, illanguidito come in una stanza con le imposte chiuse se almeno per qualche giorno avessi potuto non preoccuparmi del denaro. A Brno si parlava tedesco e ceco. Per questo, nella città, bande rivali di giovani cantastorie ambulanti si facevan la guerra, quando venni accolto da una di esse che cantava in tedesco. Eravamo in sei. Io facevo la questua e disponevo del denaro. Tre miei compagni suonavano la chitarra, un altro la fisarmonica, il quinto cantava. Fu in piedi, contro un muro, in un giorno di bruma, ch'io vidi la "troupe" mentre dava un concerto. Uno dei chitarristi aveva una ventina d'anni. Era biondo, indossava una camicia scozzese e un paio di pantaloni di velluto a coste. La bellezza è rara a Brno, quel viso mi sedusse. Indugiai a lungo a guardarlo e sorpresi il sorriso d'intesa che si scambiava con un omone roseo in volto, austeramente vestito e con in mano una cartella di pelle. Quando m'allontanai da loro mi chiesi se quei giovani s'erano accorti che il loro compagno si dedicava ai ricchi pedé della città. M'allontanai ma feci in modo di ritrovarli spesso a questo o a quell'altro crocicchio. Nessuno di loro era di Brno, tranne quello che diventò il mio amico e che si chiamava Michaelis Andritch. I suoi gesti eran pieni di grazia senza essere effeminati. Finché rimase con me non si curò mai di donne. Con mia sorpresa vidi per la prima volta un pederasta dai modi virili, persino un poco bruschi. Era l'aristocratico della "troupe". Dormivano tutti in una cantina, dov'anche cucinavano. Delle poche settimane trascorse con loro non saprei riferire che qualche raro fatto privo d'importanza, salvo il mio amore per Michaelis col quale parlavo in italiano. Mi fece conoscere l'industriale. Era roseo e grasso, tuttavia pareva non aver peso sulla terra. Ero sicuro che Michaelis non provava per lui nessun affetto, nondimeno gli feci presente che il furto sarebbe stato più bello della prostituzione. - Ma, sono il uomo - (21), mi diceva con una certa arroganza. Ne dubitavo, ma facevo finta di crederci. Gli raccontai qualche mio furto e gli dissi che avevo conosciuto la prigione: mi ammirò. In pochi giorni, aiutato dalla qualità dei miei abiti, acquistai molto prestigio ai suoi occhi. Ci andò bene qualche furto, e divenni il suo maestro. Porrò una gran civetteria nel dire che fui un ladro abile. Mai venni colto sul fatto, «in flagrante». Ma poco importa, per il mio profitto terreno, ch'io sappia rubare in modo ammirevole: quello che soprattutto ho cercato, è d'essere la coscienza del furto, di cui scrivo il poema: cioè mostro, rifiutandomi d'elencare le mie imprese, quanto devo ad esse nell'ordine morale, quanto a cominciar da esse costruisco, quanto oscuramente cercano, forse, i ladri più semplici, quanto anche loro potrebbero ottenere. «Una gran civetteria...»: mia estrema discrezione. Questo libro: "Diario del ladro": inseguimento dell'Impossibile Nullità. Decidemmo di partire molto alla svelta dopo aver svaligiato il borghese. Dovevamo recarci in Polonia, dove Michaelis conosceva dei falsari. Avremmo spacciato zloty falsi. Pur non avendo dimenticato Stilitano, quest'altro prendeva il suo posto nel mio cuore e contro il mio corpo. Quanto mi restava del primo, direi ch'era una sorta d'influsso che dava al mio sorriso, scontrantesi col ricordo del suo, una certa crudeltà, e qualche austerità ai miei gesti. Ero stato l'amato d'un così bel rapace (un avvoltoio (22) della più nobile specie), che nei confronti d'un grazioso chitarrista potevo pur sbandierare certe insolenze, quantunque non ne permettesse molte tant'era sveglio il suo occhio. Non oso tentarne il ritratto, vi leggereste le qualità che scopro in ogni
altro mio amico. (Pretesti alla mia iridescenza - poi alla mia trasparenza - alla mia assenza infine questi ragazzi di cui parlo svaporano. Di loro resta soltanto ciò che resta di me: io sono soltanto grazie a loro che non sono nulla, esistendo soltanto grazie a me. M'illuminano, ma io sono la zona d'interferenza. I ragazzi, la mia Guardia crepuscolare.) Questi aveva forse un poco di gentile malizia in più, e per definirlo meglio son tentato d'usare, tant'era la grazia con cui vibrava, l'antiquata espressione: - Era un gentil violino (23). Passammo il confine con pochi soldi, perché il vecchio non s'era fidato, e arrivammo a Katowice. Vi trovammo gli amici di Michaelis, ma il secondo giorno la polizia ci arrestò per traffico di monete false. Restammo in carcere, lui tre mesi e io due. E' proprio qui che si colloca un fatto che interessa la mia vita morale. Amavo Michaelis. Far la questua mentre i ragazzi cantavano non era umiliante. Nell'Europa centrale si è abituati a queste "troupes" di giovani, e ogni nostro gesto veniva scusato grazie alla nostra giovinezza e allegria. Senza dover vergognarmene potevo amar teneramente Michaelis e dirglielo. Infine avevamo, in segreto, le nostre ore di lusso, la notte, in casa del suo amante. A Katowice, prima d'essere incarcerati, restammo un mese insieme in questura. Avevamo una cella per uno, ma al mattino, prima che s'aprissero gli uffici, due questurini venivano a chiamarci per svuotar la latrina portatile e lavar l'ammattonato. Così l'unico istante in cui potevamo vederci trascorreva sotto il segno della vergogna, perché a quel modo i questurini si vendicavano dell'eleganza del francese e del ceco. Di buon mattino, ci svegliavano per vuotare il bugliolo. Scendevamo cinque piani. La scala era ripida. A ogni scalino una piccola ondata d'orina bagnava la mia mano e quella di Michaelis che i questurini m'obbligavano a chiamare Andritch. Avremmo voluto sorridere per dare una lieve tinta di comicità a quegli istanti, ma il puzzo ci costringeva a stringerci il naso e la fatica ci irrigidiva il volto. Infine, non ci favoriva certo lo sforzo che dovevamo compiere per servirci dell'italiano. Seri, con solenne lentezza, con cautela, portavamo giù quell'immenso pitale di metallo dove, per un'intera nottata, sventole di questurini s'erano scaricati della loro materia solida e liquida, calda appena scodellata ma ormai fredda al mattino. Lo vuotavamo nei cessi del cortile e lo riportavamo su vuoto. Evitavamo di guardarci. Se avessi conosciuto Andritch nella vergogna, e se non gli avessi dato, di me, una radiosa immagine, sarei restato calmo portando con lui la merda dei carcerieri, ma per trarlo fuori dall'umiliazione m'ero irrigidito sino a diventare una sorta di ieratico simbolo, un canto, per lui, stupendo, capace di sollevare gli umili: un eroe. Vuotato il bugliolo, i questurini ci buttavano uno strofinaccio e lavavamo il pavimento. In ginocchio davanti a loro ci strascicavamo per sfregare i mattoni e per asciugarli. Ci prendevano a calcagnate con gli stivali. Michaelis capiva certamente la mia pena. Non sapendo leggere negli sguardi e nei gesti, non ero sicuro che mi perdonasse quella mia caduta in basso. Una mattina mi venne l'idea di ribellarmi e di rovesciare il bugliolo sui piedi delle madame, ma raffigurandomi con la fantasia quale sarebbe stata la vendetta di quei bruti - mi trascineranno nella piscia e nella merda, mi dissi, m'obbligheranno, frementi di collera in ogni loro muscolo, a leccarla - conclusi che la mia era una situazione eccezionale, offertami in quanto nessun'altra avrebbe potuto realizzarmi meglio. - Decisamente è una situazione rara - mi dissi, - eccezionale. Davanti a colui che adoro e ai cui sguardi apparvi come un angelo, ecco che mi si scaraventa a terra, ch'io mordo la polvere, che mi rovescio come un guanto e mostro esattamente l'inverso di quello che ero. E allora, perché non essere proprio tale «inverso»? Poiché l'amore che Michaelis nutriva per me - la sua ammirazione, piuttosto - era possibile soltanto in passato, farò a meno di tale amore. Pensando a questo, il volto mi si indurì. Sapevo di rientrare in un mondo da cui ogni tenerezza è bandita, essendo il mondo di tutti quei sentimenti che sono in opposizione con la nobiltà, con la bellezza. Esso corrisponde, nel mondo fisico, al mondo dell'abiezione. Senza aver l'aria d'ignorare tale situazione, Michaelis la sopportava con leggerezza d'animo. Scherzava con le guardie, spesso sorrideva, il suo viso era tutto uno scintillio d'innocenza. La sua gentilezza con me m'irritava. Cercò d'evitarmi le faticacce ma gli diedi una strigliata.
Per allontanarmi maggiormente da lui, mi ci voleva un pretesto. Non dovetti aspettar molto. Una mattina si chinò per raccattare il lapis caduto a uno dei questurini. Per le scale lo insultai. Mi rispose che non capiva. Cercò di calmarmi mostrandosi più affettuoso, m'irritò. - Sei un vigliacco -, gli dissi. - Sei un puzzone. Le madame te ne risparmian sin troppe. Finirai un giorno col leccargli davvero gli stivali! Chissà che non vengano a farti visita in cella! Lo odiavo perché era il testimone del mio scadimento dopo avermi visto quale un possibile Liberatore. Il mio vestito aveva perso la tinta, ero sporco, con la barba lunga, i capelli ispidi: imbruttivo e riprendevo quell'aria da teppista che dispiaceva a Michaelis perché era, per natura, la sua. Intanto sprofondavo nell'onta. Non amavo più il mio amico. Anzi, a questo amore - il primo da me provato capace di darmi un senso di protezione - subentrò una sorta di odio insano, impuro perché contenente ancora qualche filo di tenerezza. Ma se fossi stato solo, so che i questurini li avrei adorati. Appena chiuso in cella, subito sognavo la loro possanza, la loro amicizia, una possibile complicità tra loro e me, nella quale, scambiandoci le nostre reciproche virtù, essi si fossero rivelati dei teppisti e io un traditore. - E' troppo tardi - mi dicevo ancora. - Soltanto quand'ero ben vestito, quando avevo un orologio e scarpe lucide, soltanto allora avrei potuto essere un loro pari, ora è troppo tardi, sono un barbone. Mi pareva definitivamente stabilito ch'io dovessi restarmene nella vergogna, quantunque un felice tentativo, per qualche mese, m'avesse rimesso al mondo. Decisi di vivere a capo chino, e di seguir la mia sorte nel senso della notte, all'inverso di voi, e di sfruttare il rovescio della vostra bellezza. La mente di molti letterati s'è soffermata spesso a meditar di bande. Il paese - s'è detto della Francia - n'è infestato. Così, si sono immaginati fieri banditi uniti dalla stessa volontà di saccheggio, dalla crudeltà e dall'odio. E' possibile, questo? A me sembra poco probabile che uomini simili possano organizzarsi. Il collante che tenne insieme le bande, temo, sì, che fosse magari l'avidità, ma sotto la maschera della più legittima ira, o rivendicazione. Con pretesti simili, con simili giustificazioni, si fa presto a elaborare una morale sommaria che proprio da tali pretesti prende lo spunto. Tranne che nei bambini, non è mai il Male (cioè un accanirsi nel contrario della vostra morale) a unire i fuorilegge e a formare le bande. In carcere ogni criminale può sognare un'organizzazione ben fatta, chiusa ma forte, rifugio contro il mondo e la sua morale: ma è tutto un vuoto castellare. La prigione è quella fortezza - l'ideale caverna, covo di banditi - contro le cui mura s'infrangono le forze del mondo. Appena in contatto con esse, è soltanto alle leggi banali che il criminale obbedisce. Se ai nostri giorni la stampa parla di bande di disertori americani e di teppisti francesi, non si tratta d'organizzazione, ma d'accidentale e breve collaborazione fra tre o quattro uomini al massimo. Quando a Katowice uscì di carcere, ritrovai Michaelis. Io ero libero da un mese. Vivevo di piccole rapine nei villaggi circostanti e dormivo in un parco pubblico un poco fuori città. S'era d'estate. Altri teppisti venivan lì a coricarsi sui praticelli, riparati dall'ombra e dai rami bassi dei cedri. All'alba, da un'aiola fiorita s'alzava un ladro, un giovane accattone sbadigliava al primo sole, altri si spidocchiavano sugli scalini d'un falso tempietto greco. Non parlavo con nessuno. Solo solo me n'andavo qualche chilometro più in là, entravo in una chiesa e rubavo i soldi dalla cassetta delle elemosine con uno stecco invischiato. La sera, sempre a piedi, tornavo nel parco. Quella Corte dei miracoli era chiara. Tutti i suoi ospiti erano giovani. Mentre in Spagna si raggruppavano e s'informavano reciprocamente sui luoghi d'abbondanza, qui ogni accattone, ogni ladro ignorava gli altri. Sembrava entrato nel parco da una porta nascosta. Silenziosamente scivolava fra i cespugli e i boschetti. Soltanto il fuoco d'una sigaretta o un furtivo passo ne segnalavano la presenza. Al mattino ne era sparita ogni traccia. Ora, tanta eccentricità mi rese più alato. Accovacciato nel mio cantuccio d'ombra, ero stupefatto di trovarmi sotto quello stesso cielo stellato che già avevano visto Alessandro e Cesare, io ch'ero soltanto un accattone e un ladro infingardo. Avevo attraversato l'Europa con mezzi che sono il rovescio di quelli baciati dalla gloria, e tuttavia stavo scrivendo una mia segreta storia, con particolari non meno preziosi della storia dei grandi conquistatori. Bisognava dunque che tali particolari componessero, di me, il più singolare dei personaggi. Seguendo la mia linea, continuavo a conoscere le più scialbe disavventure. Può darsi che ad esse mancassero quelle
mie toilettes di checca svergognata che deploravo di non essermi portate dietro, magari nelle valige o sotto gli abiti secolari. Son tuttavia proprio quei veli pagliettati e strappati ch'io in segreto indossavo, di notte, appena varcato il recinto del parco. Sotto una sciarpa di tulle indovino il traslucido pallore d'una spalla nuda: è la purezza del mattino, quando le Caroline di Barcellona, in processione, se n'andavano a infiorare il pisciatoio (24). La città si stava svegliando. Gli operai si recavano al lavoro. Davanti a ogni portone, sul marciapiede, venivan buttati secchi d'acqua. Coperte di ridicolo, le Caroline erano al riparo. Nessuna risata poteva ferirle, i loro miserrimi stracci ne testimoniavano l'estrema indigenza. Il sole risparmiava quella ghirlanda che emetteva una sua propria luminosità. Tutte erano morte. Quelle che vedevamo passeggiare per le strade erano Ombre tagliate fuori dal mondo. Le Checche formano una popolazione pallida e variopinta che vegeta nella coscienza della brava gente. Mai avranno diritto alla piena luce del sole, al vero sole. Ma remote nel loro limbo provocano i più curiosi disastri, forieri di nuove bellezze. Una di esse, la Teresona, aspettava i clienti nei vespasiani. Al crepuscolo, in uno dei pisciatoi rotondi, presso il porto, si portava un seggiolino pieghevole, si sedeva e lavorava a maglia, o all'uncinetto. S'interrompeva per mangiare un panino imbottito. Si trovava nel suo. Un'altra, la signorina Dora - Dora esclamava con la sua vocetta acuta: - Come sono cattive... gli uomini! Da questo grido, ch'io ricordo, nasce una breve ma profonda meditazione sulla loro disperazione che fu la mia. Sfuggito - per quanto tempo! - all'abiezione, ci voglio tornare. Che il mio soggiorno nel vostro mondo mi permetta almeno di comporre un libro per le Caroline. Ero casto. I miei abiti femminili mi preservavano e aspettavo il sonno in una posa artistica. Mi stuccavo sempre più dal suolo. Lo sorvolavo. Ero sicuro di poterlo percorrere intero con la stessa facilità e i miei furti nelle chiese mi rendevano ancor più leggero. Michaelis, tornato, m'appesantì un poco - perché m'aiutava a rubare - sorridendo di continuo col suo noto sorriso. Mi meravigliavo dei misteri notturni e che anche di giorno la terra fosse tenebrosa. Sapendo quasi tutto della miseria e anche che essa è purulenta, qui la vedevo profilarsi sotto la luna, ritagliarsi in ombre cinesi nell'ombra delle foglie. Era ormai priva di profondità, era soltanto una "silhouette" ch'io avevo il pericoloso privilegio d'attraversare col mio spessore di sofferenza e di sangue. Appresi che anche i fiori di notte sono neri, quando volli coglierne per portarli sugli altari dove ogni mattina scassinavo la cassetta delle elemosine. Con quei mazzolini non cercavo di propiziarmi un qualche santo o la Beata Vergine, volevo soltanto fornire occasioni, al mio corpo, alle mie braccia, di poter assumere atteggiamenti di convenzionale bellezza, capaci d'integrarmi nel vostro mondo. Ci si stupirà che siano così pochi i personaggi pittoreschi da me descritti. Carico d'amore, il mio sguardo non distingue, e non distingueva :allora, quei sorprendenti aspetti che inducono a considerar gli individui alla stregua di oggetti. A ogni comportamento, in apparenza il più strano, attribuivo di primo acchito, senza riflettere, una giustificazione. Il gesto o l'atteggiamento più insoliti mi sembravano corrispondere a un'intima necessità: non sapevo, né so ancora, irridere. Ogni osservazione udita mi pareva cadere a proposito, anche la più strampalata. Avrò così attraversato i penitenziari, le carceri, avrò conosciuto i postriboli, i bar, le strade senza stupirmi. Se ci penso, non ritrovo nella mia memoria nessuno di quei personaggi che un occhio diverso dal mio, più divertito, avrebbe fermato con uno spillo. Questo libro, probabilmente, deluderà. Per romperne la monotonia, voglio pur tentare di raccontar qualche aneddoto, di riportar qualche frase. In tribunale. Il giudice: - Perché avete rubato questo rame? Il detenuto: - La miseria, signor presidente. Il giudice: - Non è una scusa. - Ho girato tutta l'Europa -, mi disse Stilitano. - Son stato persino in Grecia. - T'è piaciuta?
- Mica male. Ma è in gran parte distrutta. Bel maschio, Michaelis mi confessa d'essere orgoglioso degli sguardi d'ammirazione che gli tributano gli uomini, più che di quelli delle donne. - Sono più bullo di te. - Però gli uomini non ti piacciono. - Che importa. Son felice di vederli sbavare invidia davanti alla mia bella grinta. Per questo, con loro, son gentile. Inseguito in rue des Couronnes, il terrore ispiratomi dagli agenti in borghese mi veniva comunicato dall'orribile fruscio dei loro impermeabili gommati. Ancor oggi, quando lo sento, mi si stringe il cuore. Durante quell'arresto, per il furto di documenti concernenti la Quarta Internazionale, conobbi B. Avrà avuto sì e no ventidue o ventitré anni. Temeva la relegazione. Mentre aspettavamo di passare alla sezione antropometrica, mi si fece accanto. - Anch'io -, dissi, - rischio la relegazione. - Davvero? Resta accanto a me, forse «quelli» ci metteranno nella stessa celluzza. (Il detenuto suol nominare con un amichevole diminutivo la propria cella.) Ci aggiusteremo in modo da esser felici, se dovremo partir relegati. Tornati dall'identificazione, trovò il modo di farmi questa confidenza: - Sai, ho conosciuto un maschio di vent'anni che un giorno mi chiese di trovargli un mecco. Infine, quella stessa sera mi confessò: - T'ho detto una fregnaccia. Son io a averne voglia. - Ne troverai qui -, gli dissi. - Per questo non mi fo troppa bile. B. non venne condannato alla relegazione. Lo ritrovai a Montmartre. Mi presentò un suo amico, un prete, col quale, la notte, batteva i pisciatoi. - Perché non gli dài il castigo, al tuo curatonzolo? - Che ne so. E' troppo togo. Quando lo incontro me ne parla spesso. Lo chiama «il suo reverendo» con una certa tenerezza. Il prete, che lo adora, gli ha promesso un posto di fabbriciere in parrocchia. Senza sospettare che cosa stessero distruggendo, i poliziotti stracciarono dieci o dodici disegni scopertimi addosso. Quegli arabeschi, senza che loro lo immaginassero, raffiguravano i ferri, piatti e dorsi, d'antiche rilegature. Quando dovemmo, A., G. e io, svaligiare il museo di C., fui incaricato di rendermi conto della topografia e del possibile bottino. Quel furto, compiuto da altri anziché da noi, è peraltro troppo recente perché possa precisarne i particolari. Non sapendo che scusa dare alle mie numerose visite, mi venne l'idea, sentendo vantare i libri antichi chiusi in alcune bacheche, di chieder il permesso di copiarne, alla svelta e sommariamente, le rilegature. Per parecchi giorni di seguito tornai nel museo e rimasi per ore intere davanti ai libri, disegnando come potevo. Tornato a Parigi, m'informai sul valore venale delle opere; stupefatto appresi che valevan moltissimo. Non avrei mai pensato, prima, che dei libri potessero costituir lo scopo d'un setaccio. Di quelli non ce ne impadronimmo, ma mi nacque di lì l'idea di frequentare le librerie. Misi a punto una borsa truccata e divenni così abile in quel genere di furti da spinger la raffinatezza sino a portarli sempre a buon fine sotto il naso del libraio. Di Java, Stilitano aveva l'andatura tutta d'un pezzo, un poco barcarolante, fendente la tramontana, e se si alza per andarsene, se Java si sposta, provo la stessa emozione di quando sotto i miei occhi passa, s'avvia in silenzio e con dolcezza un'automobile di gran lusso. Il secondo forse aveva nei muscoli delle natiche maggior sensibilità. Sculettava di più. Ma al par di lui Java tradiva con gioia. Al par di lui gli piaceva umiliar le mine.
- E' un troione, te lo garantisco io -, mi disse. - Sai che m'ha fatto sapere, poco fa? Non lo indovinerai mai. Che lei stasera non potrà venire perché ha un appuntamento con un vecchio, e che i vecchi, quelli, pagano meglio. E' una gran troia. Ma gliene farò ingoiare, rospi! Nel suo nervosismo spezza la sigaretta cavata dal pacchetto. Ruggisce. Su di lui: ai polsi il segno dell'abito da palombaro. E la scollatura della maglia bianca da cui escon le braccia. Ciascun braccio ha il vigore e l'elegante personalità d'un indolente e osceno marinaio. Sotto l'ascella, ho visto tatuata la lettera A. - Che significa? - Categoria sanguigna. Quand'ero Wagen S.S. Tutti eravamo tatuati. Senza guardarmi, aggiunge: - Non me ne vergognerò mai, della mia lettera. Nessuno riuscirà a farmela sparire. Son pronto ad accoppar chiunque per conservarla. - Sei orgoglioso d'essere stato S.S.? - Sì. Il suo viso somiglia stranamente a quello di Marc Aubert. La stessa fredda bellezza. Riabbassa il braccio, poi si alza e si aggiusta il vestito. Sbarazza i capelli dai fili di borraccina e di corteccia d'albero. Saltato il muro, camminiamo in silenzio sui ciottoli. Nella folla mi guarda con un pizzico di tristezza e di malizia mescolate insieme. - Di noi, possono anche dire che ci siamo fatti inculare da Hitler, io me ne frego. Poi scoppia in una risata. Coi suoi occhi azzurri, protetti da una pelliccia di sole, fende la folla, l'aria, la tramontana, con una tal superiorità che mi prendo io l'incarico di vergognarmi per lui. Dopo aver conosciuto Erik, dopo averlo amato, poi perduto, ecco che ora incontro... (25) Sia l'uno sia l'altro hanno certamente provato la terribile gioia d'appartenere all'esercito maledetto. Ex guardia del corpo d'un generale tedesco, è dolce. Fece un corso d'addestramento di qualche settimana in un campo dove gli insegnarono a usare il pugnale, a restarsene sempre in guardia, a esser pronto a farsi uccidere per proteggere l'ufficiale. Ha conosciuto le nevi della Russia, ha saccheggiato i paesi attraversati: la Cecoslovacchia, la Polonia e la stessa Germania. Delle sue ricchezze non ha conservato nulla. La Suprema Corte di Giustizia l'ha condannato a due anni di carcere da poco terminati. A volte mi parla di quel tempo e il ricordo che in lui sopra ogni altro emerge è la sua profonda gioia nel veder dilatarsi la pupilla di colui che stava per uccidere. Per la strada rodomonteggia: cammina soltanto al centro della carreggiata. La sera si offre, testa agli uni, croce agli altri. L'assassinio non è il mezzo più efficace per raggiungere il mondo sotterraneo dell'abiezione. Al contrario, il sangue versato, il costante pericolo in cui verrà a trovarsi il corpo dell'assassino che un giorno o l'altro può esser decapitato (l'omicida regredisce, ma la sua è una regressione ascendente) e il fascino che egli esercita in quanto, per essersi opposto così bene alle leggi della vita, si suppongono in lui i più facilmente intuibili attributi d'una grandissima energia, impediscono alla gente di disprezzare un tal criminale. Altri reati sono più avvilenti: il furto, l'accattonaggio, il tradimento, l'abuso di fiducia, eccetera, e son proprio quelli ch'io ho scelto di commettere, pur rimanendo di continuo ossessionato dall'idea d'un omicidio capace di tagliarmi fuori, irreparabilmente, dal vostro mondo. Avendo fatto rapida fortuna in Polonia, la mia eleganza saltava agli occhi, ma se i polacchi non sospettaron mai di me, il console francese, che sul mio conto non s'ingannava affatto, mi pregò di lasciare il consolato seduta stante, Katowice entro quarantott'ore e, al più presto, la stessa Polonia. Con Michaelis decisi di tornare in Cecoslovacchia, ma sia all'uno sia all'altro fu negato il visto d'ingresso. Noleggiammo un'auto col suo autista perché ci conducesse alla frontiera da una strada di montagna. Io avevo una rivoltella. - Se l'autista si rifiuta di portarci, lo accoppiamo e continuiamo con la macchina. Seduto dietro, con una mano sulla mia arma e l'altra nella mano di Michaelis, più forte di me ma altrettanto giovane, avrei sparato con gioia nella schiena del guidatore. La macchina andava piano,
su una salita. Michaelis era pronto a saltare al volante, quando l'autista si fermò proprio davanti a un posto di frontiera che non avevamo visto. Quel delitto mi veniva negato. Scortati da due gendarmi tornammo a Katowice. Era notte. - Se mi trovano la rivoltella in tasca, pensai, ci arrestano, forse ci condannano. La scala che portava all'ufficio del capo della polizia era buia. Mentre salivo, mi venne fulminea l'idea di lasciar l'arma su uno scalino. Finsi un passo falso, m'abbassai, e posai l'arma in un angolo, vicino al muro. Durante l'interrogatorio (Perché volevo andare in Cecoslovacchia? Che ci facevo, lì?) tremavo al pensiero che la mia astuzia venisse scoperta. Conoscevo, in quel momento, la gioia inquieta, fragile come il polline sul fior di nocciòlo, la mattutina e dorata gioia dell'assassino che la fa franca. Se non avevo potuto commettere il delitto, ero almeno dolcemente irrorato dalle frange della sua aurora. Michaelis mi amava. La dolorosa posizione in cui mi conobbe trasformò forse quell'amore in una sorta di pietà. Nelle varie mitologie son numerosi gli eroi che si tramutano in serve. Forse oscuramente temeva che nel mio stato ripiegato, larvale, stessi elaborando una sapiente operazione e che la mia metamorfosi si compisse sollevandomi, provvisto di subitanee ali come il cervo cui miracolosamente Dio concede di sfuggire ai cani che lo accerchiano, davanti ai miei guardiani fulminati dalla mia aureola. Il solo inizio dell'esecuzione d'un omicidio bastò, e Michaelis mi guardò con gli occhi d'una volta, ma io non lo amavo più. Se riferisco la mia avventura con lui, è perché si veda come una fatalità s'accanisse a corrompere i miei atteggiamenti, sia che il mio eroe sprofondasse, sia ch'io stesso apparissi di miserabile fango. Java non farà eccezione. Già so che la sua durezza non è che un'apparenza, e ch'essa non riveste ma è fatta della più molle gelatina. Parlare del mio lavoro di scrittore sarebbe un pleonasmo. La noia delle mie giornate in carcere m'indusse a rifugiarmi nella mia vita d'una volta, vagabonda, austera o miserabile. Più tardi, e libero, scrissi ancora, per guadagnar soldi. L'idea d'un'opera letteraria mi farebbe alzar le spalle. Tuttavia, se esamino ciò che scrissi, oggi vi scorgo, pazientemente perseguita, una volontà di riabilitazione degli esseri, degli oggetti, dei sentimenti ritenuti vili. Averli nominati con le parole che di solito indicano la nobiltà, forse è stato un tantino puerile, facile: tiravo via. Utilizzavo il mezzo più corto, ma non l'avrei fatto se, in me, quegli oggetti, quei sentimenti (il tradimento, il furto, la vigliaccheria, la paura) non avessero richiamato l'epiteto riservato di solito e da voi ai lor contrari. Sull'istante, nel momento in cui scrivevo, forse volevo magnificare dei sentimenti, degli atteggiamenti o degli oggetti onorati da un qualche stupendo ragazzo davanti alla cui bellezza mi curvavo, ma oggi che mi rileggo, tali ragazzi li ho dimenticati, di essi non rimane che l'attributo da me cantato, ed è questo che risplenderà nei miei libri d'un fulgore pari all'orgoglio, all'eroismo, all'audacia. Non ho cercato scuse per loro. Nessuna giustificazione. Ho voluto che avessero diritto agli onori del Nome. Tale operazione per me non sarà stata vana. Già ne sento l'efficacia. Abbellendo quel che voi disprezzate, ecco che il mio spirito, stancatosi d'un gioco consistente nel nominare con un nome prestigioso ciò che mi scombussolò il cuore, ricusa ogni epiteto. Esseri e cose, senza confonderli, li accetta tutti nella loro eguale nudità. Poi si rifiuta di vestirli. Così non voglio più scrivere, muoio alla Lettera. Tuttavia, da qualche giorno i giornali m'informano che il mondo è inquieto. Si riparla di guerra. A mano a mano che l'inquietudine cresce, che si precisano i preparativi (non più le reboanti dichiarazioni degli uomini di Stato ma la minacciosa esattezza dei tecnici) conosco una strana pace. Ritorno in me stesso. Mi ci sistemo un luogo delizioso e feroce da dove guarderò senza temerlo il furore degli uomini. Aspetto il rombo del cannone, il fragor delle trombe della morte per preparare una bolla di silenzio senza posa ricreata. Li allontanerò ancor di più coi molteplici e sempre più spessi strati delle mie avventure d'un tempo, masticate, rimasticate, sbavate intorno a me, filate e avvoltolate come la seta del bozzolo. Lavorerò per concepire la mia solitudine e la mia immortalità, per viverle, se uno stupido desiderio di sacrificio non mi farà uscire da esse. In carcere la mia solitudine era totale. Lo è meno adesso che ne parlo. Allora ero solo. La notte mi lasciavo portar giù da una corrente d'abbandono. Il mondo era un torrente, una rapida di forze
unitesi per condurmi al mare, alla morte. Avevo l'amara gioia di sapermi solo. Ho nostalgia di quel rumore: in cella, quando con mente vaga sognavo, sopra di me un detenuto tutt'a un tratto si alza e cammina in lungo e in largo, con passo sempre eguale. Vago rimane anche il mio fantasticare ma quel rumore (quasi in primo piano per la precisione) mi ricorda che il corpo che lo sogna, quello dal quale esce fuori, è in carcere, prigioniero d'un passo netto, improvviso, regolare. Vorrei essere i miei ex compagni di miseria, i figli della sventura. Invidio l'aureola che secernono e ch'io utilizzo per fini meno puri. Il talento sta tutto nella gentilezza verso la materia, consiste nel dare un canto a ciò che era muto. Il mio talento consisterà nell'amore che provo per quanto compone il mondo delle carceri e dei bagni penali. Non ch'io li voglia trasformare, condurre sino alla vostra vita, o ch'io conceda loro indulgenza o pietà: riconosco ai ladri, ai traditori, agli assassini, ai malvagi, ai falsi una bellezza profonda - una bellezza in incavo - che a voi nego. Soclay, Pilorge, Weidmann, Serge de Lenz, Madame della Polizia, subdoli confidenti, voi m'apparite a volte ornati - quasi di abbigliamenti funebri e di jais - di così bei delitti che invidio agli uni la mitologica paura che spirano, agli altri i loro supplizi, e a tutti l'infamia in cui alla fine si confondono. Se mi guardo indietro non scorgo che un seguito d'azioni meschine. I miei libri le raccontano. Essi le hanno adornate d'epiteti grazie ai quali le ricordo con gioia. Son dunque stato quel piccolo miserabile che conobbe soltanto la fame, la mortificazione del corpo, la povertà, la paura, la bassezza. Da tanti accigliati atteggiamenti, ho tratto motivi di gloria. - Senza dubbio son questo -, mi dicevo, - ma almeno ho coscienza d'esserlo, e tanta coscienza distrugge la vergogna e mi consente un sentimento ch'è poco conosciuto: l'orgoglio. Voi che mi disprezzate, d'altro non siete fatti che d'un susseguirsi d'eguali miserie, senonché voi non ne avrete mai la coscienza, e con essa l'orgoglio, vale a dire la coscienza d'una forza che vi permetta di tener testa alla miseria - non alla vostra propria miseria, ma a quella di cui è composta l'umanità. Possono, pochi libri e qualche poesia, provarvi in che modo utilizzai tutte le mie disgrazie, e come queste fossero necessarie alla mia bellezza? Ho scritto troppo, sono stanco. Ho penato tanto per render così penosamente ciò che i miei eroi fanno così alla svelta. Quando la fifa curvava Java, costui era bello. Grazie a lui la paura era nobile. Veniva restituita alla sua dignità di moto naturale, senz'altro significato che quello d'un timore organico, d'un panico delle viscere davanti all'immagine della morte o del dolore. Java tremava. Vedevo una diarrea gialla colargli giù per le monumentali cosce. Sul suo volto meraviglioso e così teneramente baciato, o così ingordamente, errava il terrore, sconvolgendone i lineamenti. Era un cataclisma veramente matto per osar di scomporre così nobili proporzioni, così esaltanti rapporti, e così armoniosi, e tali proporzioni, tali rapporti erano all'origine della crisi, ne erano responsabili, così belli ne erano anche l'espressione poiché ciò che chiamo Java era a un tempo padrone del suo corpo e responsabile della sua paura. La sua paura era bella a vedersi. Tutto ne diventava il segno: i capelli, i muscoli, gli occhi, i denti, il sesso, e la virile grazia di quel fanciullo. Dopo questo, nobilitò la vergogna. La portò davanti a me come un fardello, come una tigre uncinata alle sue spalle ma la cui minaccia dava ai suoi gesti quale insolente sottomissione! Una delicata e deliziosa umiltà ne addolcì poi il comportamento. Il suo maschio vigore, la sua rudezza son velati come potrebbero esserlo, da un crespo, gli sfavillii del sole. Sentivo, mentre lo guardavo battersi, che rifiutava il combattimento. Forse temeva d'essere il meno forte o che l'altro maschio gli sformasse la faccia, ma lo vedevo colto da terrore. Si raggomitolava e avrebbe voluto addormentarsi per essere svegliato nelle Indie o a Giava, o per essere arrestato dalla polizia e condannato a morte. E' dunque vigliacco. Ma grazie a lui so che la paura e la vigliaccheria possono esprimersi con le più adorabili smorfie. - Ti fo grazia -, buttò lì il maschio con disprezzo. Java non batté ciglio. Accettò l'insulto. Si rialzò dalla polvere, raccattò il berretto e se n'andò senza nemmeno spolverarsi i ginocchi. Era ancora bellissimo. Marc Aubert m'insegnò che il tradimento si sviluppa in un corpo ammirevole. Potremmo dunque decifrarlo, se cifrato, in tutti i segni che formano a un tempo il traditore e il tradimento. Esso era
espresso da capelli biondi, occhi chiari, una pelle dorata, un sorriso carezzevole, un collo, un torso, due braccia, due gambe, un sesso pei quali avrei dato la vita e accumulato tradimenti su tradimenti. - Bisogna -, mi dissi, - che questi eroi siano giunti a una perfezione tale ch'io non desideri più di vederli vivere affinché possano completarsi nel loro temerario destino. Se hanno raggiunto la perfezione, eccoli sull'orlo della morte senza temer più il giudizio degli uomini. Nulla può alterare la loro stupefacente riuscita. Mi permettano dunque ciò che si nega ai miserabili. Quasi sempre solo, ma aiutato da un compagno ideale, attraversai altre frontiere. La mia emozione era ogni volta egualmente grande. Varcai ogni sorta d'Alpi. Dalla Slovenia all'Italia, aiutato dai finanzieri, poi abbandonato da loro, risalii un torrente melmoso. Combattuto dal vento, dal freddo, dai rovi, dal novembre, raggiunsi una vetta dietro la quale era l'Italia. Per conquistarla affrontai mostri nascosti dalla notte o rivelati da essa. Rimasi impigliato nei reticolati d'un forte dove sentivo camminare e bisbigliare sentinelle. Col cuore che mi batteva, accovacciato nel buio, sperai che prima di prendermi a fucilate esse m'accarezzassero e m'amassero. Così la notte la speravo popolata di guardie voluttuose. M'avventurai a caso per un sentiero. Era quello buono. Lo intuivo dalla riconoscenza delle mie suole sul suo fondo onesto. Più tardi, lasciai l'Italia per l'Austria. Attraversai di notte dei campi di neve. La luna vi proiettava la mia ombra. In ogni paese lasciato avevo rubato e conosciuto le carceri, tuttavia andavo non attraverso l'Europa ma attraverso il mondo degli oggetti e delle circostanze con un'ingenuità sempre più fresca. Tante meraviglie m'inquietavano ma m'indurivo sempre di più per penetrarne, senza pericolo per me, il solito mistero. M'avvidi presto che nell'Europa centrale è difficile rubare senza rischio, la polizia essendo perfettamente organizzata. La povertà dei mezzi di comunicazione, la difficoltà di varcar frontiere ammirevolmente sorvegliate, m'impedivano di fuggire alla svelta, la mia qualità di francese dava ancora nell'occhio in modo scandaloso. Notavo d'altronde che rari sono i miei connazionali che, all'estero, facciano i ladri o gli accattoni. Decisi di tornare in Francia e di condurvi - magari limitando addirittura alla sola Parigi la mia attività - un destino di ladro. Continuar la mia rotta intorno al mondo compiendo furterelli più o meno importanti, anche questo però mi seduceva. Scelsi la Francia per amor di profondità. La conoscevo abbastanza per esser sicuro di concedere al furto tutta la mia attenzione, tutte le mie cure; di lavorarlo come materia unica di cui sarei diventato il fedele artigiano. Avevo allora ventiquattro o venticinque anni. Al perseguimento d'un'avventura morale sacrificavo la dispersione e gli ornamenti. Le ragioni della mia scelta, il cui senso mi si rivela oggi forse soltanto perché devo scriverlo, non m'apparvero con chiarezza. Credo che avessi bisogno di scavare, di forare una massa di linguaggio in cui il mio pensiero si trovasse a proprio agio. "Forse volevo accusarmi nella mia lingua". L'Albania, l'Ungheria, la Polonia, come del resto l'India o il Brasile, non m'avrebbero offerto una materia altrettanto ricca quanto la Francia. Infatti il furto - e quanto ad esso si ricollega: le pene del carcere e l'onta del mestiere di ladro - era diventato un'impresa disinteressata, una sorta d'opera d'arte in azione e pensata poiché effettuabile soltanto con l'aiuto del linguaggio, il mio, confrontato con le leggi da questo originate. All'estero sarei stato soltanto un ladro più o meno abile, ma, pensandomi in francese, mi sarei riconosciuto francese - tale qualità non lasciandone sussistere nessun'altra - presso stranieri. Ladro nel mio paese, utilizzando, per diventarlo e scolparmi d'esserlo, la lingua dei derubati - che sono me stesso a causa dell'importanza del linguaggio - significava dare a tale mia qualità di ladro la possibilità d'essere l'unica. Diventavo straniero. Il malessere creatovi forse da una politica confusa impone agli Stati dell'Europa centrale quella loro polizia d'una schiacciante perfezione. Parlo naturalmente della sua prontezza. Hai l'impressione che laggiù un delitto, grazie al gioco delle delazioni, sia conosciuto ancor prima d'esser commesso, ma i loro poliziotti non hanno la finezza dei nostri. Proveniente dall'Albania, accompagnato da Anton, un austriaco, entrai in Jugoslavia mostrando alla dogana un passaporto ch'era soltanto un estratto del foglio matricolare francese cui avevo aggiunto quattro pagine d'un passaporto austriaco (rilasciato ad Anton) munite dei visti del consolato serbo. Più d'una volta, in treno, per la strada, in albergo
porsi ai gendarmi jugoslavi quello strano documento: lo trovarono regolare. Timbri e visti eran di lor soddisfazione. Quando venni arrestato - per aver sparato una revolverata ad Anton - i poliziotti me lo restituirono. Amavo la Francia? Il suo lustro, allora, m'aureolava. Poiché l'addetto militare francese a Belgrado aveva ripetutamente richiesto la mia estradizione - al che s'opponevano le leggi internazionali - la polizia jugoslava ricorse a un compromesso: m'accompagnò alla frontiera più vicina alla Francia, l'Italia. Di carcere in carcere attraversai la Jugoslavia. Vi incontrai criminali violenti e cupi, che bestemmiavano in una lingua selvaggia, ricca di moccoli che sono i più belli del mondo. - Io glielo sfondo, a... - E io lo sfondo al muro! Dopo qualche istante, scoppiavano in una risata, mostrando i loro candidi denti. Il re di Jugoslavia era allora un ragazzino dai dodici ai quindici anni, grazioso, con la scriminatura di lato, Pietro Secondo, il cui ritratto, che fregiava anche i francobolli, lo trovavi appeso nella matricola di tutte le carceri, in tutti gli uffici della polizia. La collera dei teppisti, dei ladri, saliva verso quel fanciullo. Inveivano. Ruggivano contro di lui. I rauchi insulti di quegli uomini malvagi somigliavano a scenate d'amore fatte in pubblico a un amante crudele. Gli davan della puttana. Quando giunsi dopo averne conosciute altre dieci dove trascorsi soltanto qualche notte - nella prigione di Sussak (frontiera italiana), mi rinchiusero in una cella dov'eravamo, forse, una ventina. Vidi subito Rade Peritch. Era un croato condannato a due anni di carcere per furto. Per approfittare del mio cappotto, mi fece coricare sul tavolaccio, accanto a lui. Era bruno e ben piantato. Indossava una tuta da meccanico di tela turchina, un po' sbiadita, con una tasca molto ampia nel mezzo, dove affondava le mani. Passai due sole notti nel carcere di Sussak, ma mi bastarono per innamorarmi di Rade. Separava il carcere dalla strada non un muraglione ma un fossato, sul quale dava la finestra della nostra cella. Quando i poliziotti, poi i finanzieri m'ebbero fatto passar la frontiera italiana, su per i monti in una nottata glaciale, me ne andai sino a Trieste. Nell'anticamera del consolato francese rubai un soprabito che rivendetti subito. Col denaro comprai dieci metri di corda, una sega da ferro e, attraverso Piedicolle, tornai in Jugoslavia. Una macchina mi portò a Sussak dove arrivai di notte. Dalla strada lanciai un fischio. Rade apparve alla finestra, e con molta facilità gli passai gli arnesi. La notte dopo tornai, ma si rifiutò di tentar l'evasione, peraltro facile. Aspettai sino all'alba, con la speranza di convincerlo. Alla fine, battendo i denti dal freddo, ripresi la via dei monti, rattristato dal pensiero che quel costolone preferiva la sicurezza del carcere all'avventura con me. Riuscii a passare il confine italiano e a raggiunger Trieste, poi Venezia, infine Palermo dove mi misero dentro. Mi torna in mente un particolare spassoso. Quando, nel carcere di Palermo, entrai in cella, i detenuti mi chiesero: - Come va, la principessa? (26) - Non lo so -, risposi (26). La mattina, al passeggio in cortile, mi fecero lo stessa domanda, ma io non sapevo nulla della salute della Principessa di Piemonte, nuora del re (si trattava di lei). Capii dopo che era incinta e che l'amnistia, sempre concessa dopo un parto regale, dipendeva dal sesso del neonato. Gli ospiti delle carceri italiane avevano le stesse preoccupazioni delle persone di corte al Quirinale. Rilasciato, mi condussero al confine austriaco, che passai presso Willach. Rade aveva fatto bene a rifiutarsi d'andarsene. Durante il mio viaggio nell'Europa centrale vengo idealmente accompagnato da lui. Non soltanto egli cammina e dorme accanto a me, ma, nelle mie decisioni, voglio esser degno dell'immagine ardita che di lui m'ero fatta. Ancora una volta un uomo di grande bellezza nel viso e nel corpo mi offriva l'occasione di dar prova del mio coraggio. Né elencando, né intrecciando o sovrapponendo i fatti - di cui ignoro che cosa siano e che cosa li limiti nello spazio e nella durata, - né attraverso una loro interpretazione che senza distruggerli ne creerebbe dei nuovi, riuscirei a trovare, non dico la loro ma, per loro tramite, la mia chiave. Una bislacca idea m'indusse a citarne alcuni, fingendo d'ometter quelli - i primi, costituenti la trama palese della mia vita - che sono i nodi dei fili versicolori. Se la Francia è un'emozione che di artista in artista - quasi neuroni che si danno
il cambio - procede sino alla fine, io non sarei altro che una filza d'impressioni, le prime delle quali son da me ignorate. I ganci d'un alighiero afferrante un annegato per trarlo fuori da uno stagno, mi hanno fatto soffrire nel corpo ancor bambino. Era mai possibile, infatti, che si cercassero cadaveri con degli arpioni? Ho percorso la campagna, rapito dal mio scoprire, fra le messi o sotto gli abeti, degli annegati cui concedevo inverosimili funerali. Cosa posso dire, ch'era il passato - o che era il futuro? Tutto è già attanagliato, persino la mia morte, in una banchisa di "essendo": il mio tremore quando un maciste mi chiede se può esser la mia sposa (scopro che il suo desiderio è il mio tremore) una sera di Carnevale; al crepuscolo, da una collina di sabbia, la vista dei guerrieri arabi in atto d'arrendersi ai generali francesi; il dorso della mia mano posata sulla pattina d'un soldato ma soprattutto, su di essa, lo sguardo canzonatorio del soldato; il mare a un tratto fra due case m'appare a Biarritz; dal penitenziario evado a passettini minuscoli, spaventato dall'idea non d'essere riacciuffato ma di diventar preda della libertà; sulla sua enorme coda ch'io cavalco un biondo legionario mi porta per venti metri sui bastioni; non il bel calciatore, né il suo piede, né la sua scarpa ma il pallone, finché cessando d'essere quel pallone eccomi diventato il «calcio d'inizio», e smetto d'esserlo per diventare l'idea che va dal piede al tallone; in cella, ladri sconosciuti mi chiamano Jean; quando, coi piedi nudi in un paio di sandali, attraverso di notte i campi di neve alla frontiera austriaca, non cederò, ma allora, mi dico, bisogna che quel mio doloroso istante concorra alla bellezza della mia vita, quell'istante e tutti gli altri mi rifiuto che siano dei cascami, utilizzando la sofferenza che mi procurano mi proietto nel cielo dello spirito. Alcuni negri mi danno da mangiare sulle banchine di Bordeaux; un illustre poeta porta le mie mani sulla sua fronte; un soldato tedesco viene ucciso sulla neve, in Russia, e suo fratello me lo scrive; un giovane tolosano m'aiuta a saccheggiare le camere degli ufficiali e dei sottufficiali del mio reggimento a Brest: muore in prigione; parlo di qualcuno - e in questo il tempo d'aspirar delle rose, in carcere di sentir cantare una sera il convoglio per il bagno penale, d'innamorarmi d'un acrobata in guanti bianchi - morto da sempre, vale a dire fissato, giacché mi rifiuto di vivere per un altro scopo che non sia quello insito nella prima disgrazia: che la mia vita sia leggenda vale a dire leggibile e che la sua lettura faccia nascere qualche emozione nuova che chiamo poesia. Io non son più nulla, soltanto un pretesto. Muovendosi lentamente, Stilitano s'esponeva all'amore come ci si espone al sole. Offrendo ai raggi ogni lato del corpo. Quando lo incontrai di nuovo ad Anversa s'era ingrossato. Non che fosse diventato grasso, ma una maggior pienezza di carni ne arrotondava le angolosità. Nella sua andatura ritrovai la stessa elasticità, selvaggia e più vigorosa, meno rapida e più muscolosa, altrettanto nervosa. Nella via più sporca d'Anversa, presso l'Escaut, sotto un cielo grigio, la schiena di Stilitano m'apparve zebrata dall'ombra e dalla luce alternate d'una persiana spagnola. Inguainata in un abito di raso nero, la donna che gli camminava accanto era in tutto e per tutto la sua femmina. Fu sorpreso di vedermi e, mi parve, lieto. - Jeannot! Tu ad Anversa? - Stai bene? Gli strinsi la mano. Mi presentò a Sylvia. Nell'esclamazione non lo riconobbi troppo, ma come aprì la bocca per una frase pronunciata con maggior dolcezza, rividi lo sputo bianco che gliela velava, formato da non so quali mucose, rimaste però intatte, sì da permettermi di ritrovar Stilitano fra i suoi denti. Senza precisare, dissi: - Ce l'hai ancora. Stilitano comprese. Arrossì un poco e sorrise. - Lo hai notato? - Sfido. Ne sei troppo orgoglioso. Sylvia domandò: - Di che state parlando? - Pupa, parliamo. Pensa ai fatti tuoi. Questa innocente complicità mi mise all'istante in contatto con Stilitano. Su di me piombarono tutti i vecchi fascini: la gagliardia delle spalle, la mobilità delle natiche, la mano forse strappatagli nella
giungla da un'altra belva, infine il sesso così a lungo negato, sepolto in una notte pericolosa, protetta da mortali profumi. Ero in sua balia. Senza saper nulla delle sue occupazioni, ero certo che regnava sulla folla dei postriboli, dei "docks", dei bar, quindi dell'intera città. Saper accordare cose di cattivo gusto, ecco il colmo dell'eleganza. A colpo sicuro, Stilitano era riuscito ad assortire scarpe di coccodrillo gialle e verdi, un vestito marrone, una camicia di seta bianca, una cravatta rosa, un foulard di vari colori e un cappello verde. Il tutto era trattenuto da spilli, bottoni e catenine d'oro, e tuttavia Stilitano era elegante. Di fronte a lui ridiventai lo stesso disgraziato d'una volta, senza che per questo egli apparisse imbarazzato. - Son qui da tre giorni -, dissi. - E te la sbrogli come? - Come prima. Sorrise. - Ricordi? - Vedi -, disse alla sua donna, - sto maschio è un amicone. Un fratelluzzo. Può venir nel nostro buco quando vuole. Mi portarono a mangiare in una trattoria presso il porto. Stilitano mi confidò che trafficava oppio. La sua donna faceva la puttana. Parole come «macuba» e oppio bastavano a far prendere il volo alla mia fantasia, vedevo Stilitano trasformato in un audace e ricco avventuriero. Era un rapace volteggiante in ampi cerchi. Tuttavia, se a volte il suo sguardo era crudele, del rapace non aveva la rapacità. Anzi, nonostante la sua ricchezza, Stilitano aveva ancora l'aria di giocare. Non mi ci volle molto a scoprire che fastosa era soltanto la sua apparenza. Viveva in un alberguccio. Sul caminetto vidi per prima cosa un gran mucchio di giornaletti per ragazzi, pieni di figure a colori. Le didascalie non erano più in spagnolo ma in francese: la loro puerilità era la stessa, e così la bellezza, il vigore e il coraggio dell'eroe, quasi sempre nudo. Ogni mattina Sylvia gliene portava dei nuovi che Stilitano leggeva a letto. Pensai che ormai doveva aver trascorso due anni leggendo infantili storie a colori, mentre ai margini il suo corpo maturava - e forse il suo spirito. Rivendeva oppio comprato dai marinai, e sorvegliava la sua donna. Tutti i suoi beni se li portava addosso: i vestiti, i gioielli, il portafoglio. Mi offrì di lavorare alle sue dipendenze. Per qualche giorno trasportai minuscoli sacchettini in casa di clienti sornioni e inquieti. Come in Spagna, con la stessa prontezza, Stilitano s'era legato ai teppisti di Anversa. Nei bar gli si offriva da bere, tormentava le mine e i pedé. Affascinato dalla sua nuova bellezza, e forse ammaccato dal ricordo della nostra amicizia, mi lasciavo andare ad amarlo. Lo seguivo dappertutto. Ero geloso dei suoi amici, geloso di Sylvia, e soffrivo quando verso mezzogiorno lo incontravo, profumato, fresco ma con gli occhi bistrati. Ce n'andavamo insieme sulle banchine. Parlavamo del tempo andato. Soprattutto, gli piaceva raccontarmi le sue avventure, perché era un vantone. Non mi saltò mai in testa di rimproverargli la sua doppiezza, mai il suo tradimento e la sua vigliaccheria. Anzi, ammiravo quel suo sopportarne, nel mio ricordo, così candidamente e arrogantemente il segno. - Ti piacciono sempre gli uomini? - Certo. Perché, ti scoccia? Con un sorriso a un tempo gentile e sfottente rispose: - Io? Sei matto. Tutto il contrario. - Perché, tutto il contrario? Esitò e cercò di ritardare la risposta: - Eh? - Hai detto tutto il contrario. Allora piacciono anche a te. - A me? - Già. - No. Ma a volte mi domando che roba sia. - Ti eccita? - Figurati. Dico così...
Rise, imbarazzato. - E Sylvia? - Sylvia, lei mi serve per la pagnotta. - E basta? - Sì. Tutto qua. Se in aggiunta al suo potere su di me, ora si metteva a darmi anche qualche speranza, Stilitano minacciava proprio di ridurmi in schiavitù. Già mi sentivo far scuffia in un elemento profondo e triste. E che mi riservavano, le burrasche di Stilitano? Glielo dissi. - Lo sai che la mia cotta non è finita e che mi piacerebbe far l'amore con te. Senza guardarmi, rispose con un sorriso: - Vedremo. Dopo una lieve pausa, disse: - Cos'è che ti piace fare? - Con te, tutto! - Vedremo. Non batté ciglio. Nessun moto lo spinse verso di me, mentre tutto il mio essere avrebbe voluto riversarsi in lui, mentre avrei voluto dare al mio corpo la flessibilità d'un giunco per attorcigliarmi intorno a lui, mentre su lui avrei voluto piegarmi tutto, incurvarmi. La città era esasperante. Il tanfo e il trambusto del porto mi scombussolavano. Camalli fiamminghi ci urtavano, ma Stilitano, anche se storpio, era più forte di loro. Forse, nella sua squisita imprudenza, aveva in tasca qualche granello d'oppio che lo rendeva prezioso e condannabile. Per far capo ad Anversa avevo attraversato la Germania hitleriana dove mi trattenni qualche mese. Da Breslavia raggiunsi a piedi Berlino. Avrei voluto rubare. Una strana forza mi tratteneva. All'Europa intera la Germania ispirava terrore, era diventata, soprattutto ai miei occhi, il simbolo della crudeltà. Già era fuori legge. Anche lungo l'Unter den Linden avevo la sensazione di camminare in un campo organizzato da banditi. Ero convinto che il cervello del più scrupoloso borghese berlinese celasse tesori di doppiezza, di odio, di cattiveria, di crudeltà, di cupidigia. Mi emozionava l'esser libero in seno a un intero popolo messo all'indice. Senza dubbio vi rubai come altrove ma con un certo imbarazzo nell'animo poiché ciò che comandava quell'attività e ciò che ne risultava - quel particolare atteggiamento morale eretto a virtù civica - tutta una nazione lo conosceva e lo dirigeva contro gli altri. «E' un popolo di ladri», sentivo in me stesso. «Se rubo qui, non compio nessuna azione singolare e tale da attuarmi meglio: obbedisco a un normale ordine. Non lo distruggo. Non commetto il male, non guasto nulla. Lo scandalo è impossibile. Rubo a vuoto.» Mi pareva che gli dèi che presiedono alle leggi non si ribellassero, semplicemente si stupivano. Mi vergognavo. Ma soprattutto desideravo tornare in un paese dove le leggi della morale corrente sono oggetto di culto, sulle quali si fonda la vita. A Berlino scelsi, per campare, la prostituzione. Mi sbramò per qualche giorno poi m'abbandonò. Anversa mi offriva leggendari tesori, i musei fiamminghi, i diamantai ebrei, gli armatori attardatisi di notte, i passeggeri dei transatlantici. Esaltato dal mio amore volevo vivere con Stilitano pericolose avventure. Lui stesso pareva volersi prestare al gioco e abbagliarmi con la sua audacia. Guidando con una mano sola, una volta giunse all'albergo, di sera, su una moto della polizia. - L'ho fregata a un pulé, mi disse sorridendo e senza nemmeno voler scendere dalla macchina. Capì però che l'atto d'inforcarla era per me uno spettacolo da farmi perder la testa, abbandonò la sella, finse d'esaminare il motore e ripartì con me dietro. - Liquidiamola in quattro e quattr'otto. - Sei matto, può servirci per qualche colpo... Esaltato dal vento e dalla corsa avevo l'impressione d'esser trascinato nel più rischioso inseguimento. Un'ora dopo la moto era bell'e venduta a un navigante greco che la imbarcò immediatamente. Ma mi era stato concesso di scorger Stilitano al centro di un'azione autentica,
perfetta, giacché la vendita della macchina, la discussione sul prezzo, la conclusione dell'affare furono un capolavoro di finezza dopo la prova di forza (27). Stilitano, al par di me, non era propriamente un uomo maturo. Pur essendolo davvero, giocava al gangster, cioè ne inventava gli gatteggiamenti. Non conosco teppista che non sia un bambino. Quale mente «seria», passando davanti a una gioielleria, a una banca, inventerebbe minuziosamente, e ponderatamente, i particolari d'un assalto o d'un setaccio? L'idea d'un'associazione fondata - non sugli interessi degli affiliati - su una complice intesa prossima all'amicizia, dove mai avrebbe potuto scovarla, per trovare aiuto, se non in una sorta di vago sogno, di gioco gratuito che vien chiamato romantico? Stilitano giocava. Gli piaceva sapersi un fuorilegge, sentirsi in pericolo. Una preoccupazione estetica lo trascinava a questo. Tentava di copiare un eroe ideale, l'immagine d'uno Stilitano già scolpito in un cielo d'apoteosi. E' così che obbediva alle leggi che assoggettano i teppisti, e li fan risaltare. Senza di quelle non sarebbe stato nulla. Accecato anzitutto dalla sua augusta solitudine, dalla sua calma e dalla sua serenità, mi figuravo che egli si creasse da se stesso, anarchicamente, guidato soltanto dall'impudenza, dalla sfacciataggine dei suoi modi. Invece, "cercava un modello". Quello, forse, impersonato dall'eroe, sempre vittorioso, dei suoi giornaletti per ragazzi? A ogni modo, il lieve castellare di Stilitano era in perfetto accordo coi suoi muscoli e col suo gusto per l'azione. Nel cuore di Stilitano, probabilmente, aveva finito con lo scolpirsi l'eroe delle sue figure. Continuo a rispettarlo, perché se osservava l'esteriorità d'un protocollo conducente a ciò, dentro di sé, e senza testimoni, soffriva per le costrizioni del corpo e del cuore: alla sua donna negò sempre la tenerezza. Senza interamente darci l'uno all'altro, prendemmo l'abitudine di vederci ogni giorno. Facevo colazione in camera sua e la sera, quando Sylvia era al lavoro, cenavamo insieme. Poi ce n'andavamo per bar a sbronzarci. Ballava anche, quasi tutta la notte, con ragazze molto carine. Come capitava lì, prima al suo tavolo, poi, successivamente, dall'uno all'altro, l'atmosfera cambiava. Si faceva a un tempo pesante e frenetica. Quasi tutte le sere si picchiava, selvaggio, meraviglioso, con la sua unica mano prontamente armata d'un coltello a serramanico, bruscamente aperto nella tasca. I camalli, i naviganti, i magnaccia facevan cerchio intorno a noi o ci davan man forte. Quella vita mi spossava perché mi sarebbe piaciuto gironzolare sulle banchine, nella nebbia o sotto la pioggia. Nella mia memoria quelle notti sono gremite di faville. Parlando d'un film, un giornalista ebbe a scrivere: «L'amore fiorisce fra le risse». Meglio d'un bel discorso, questa frase ridicola mi ricorda quei fiori detti «bocche di leone», che fioriscono fra i cardi secchi, e per loro tramite il mio vellutato affetto, che Stilitano soleva ferire. Se non mi affidava nessun lavoro, a volte rubavo biciclette che andavo a rivendere a Maestricht, in Olanda. Quando apprese che riuscivo a varcare abilmente la frontiera, Stilitano un giorno venne con me, e ci spingemmo sino ad Amsterdam. La città non lo interessò. M'ingiunse d'aspettarlo per qualche ora in un caffè, e scomparve. Avevo imparato che non bisognava fargli domande. Il mio lavoro interessava anche lui, il suo non doveva interessar me. La sera facemmo ritorno, ma alla stazione mi consegnò un pacchetto, legato con lo spago e sigillato, grosso come un mattone. - Io proseguo in treno -, mi disse. - Ma, la dogana? - Sono in regola. Non t'impicciare. Tu passa, come al solito, a piedi. E non aprire il pacchetto, è per un socio. - E se mi beccano? - E' un divertimento che non ti consiglio di prenderti, andrebbe a finir male per il tuo bel faccino. Sapiente nel disporre i contrari fascini fra i quali sarei oscillato senza mai esser padrone di me stesso, mi baciò con bel garbo e s'avviò verso il treno. Guardai allontanarsi, davanti a me, quella tranquilla Ragione, custode delle Tavole della Legge, l'autorità contenuta nella sicurezza del passo, nella noncuranza, nel gioco quasi luminoso delle natiche. Ignoravo il contenuto del pacchetto, era il segno della fiducia e del buon vento. Grazie a lui, passavo una frontiera non più per un mio meschino bisogno, ma per obbedire, per sottomettermi a una suprema Potestà. Staccati gli occhi di dosso a Stilitano, d'altro non mi preoccupai che d'andarne in cerca, e in questo mi guidava il
pacchetto. All'epoca delle mie spedizioni (i miei furti, le mie perlustrazioni, le mie fughe) gli oggetti erano animati. Se pensavo alla notte, la pensavo con la N maiuscola. I sassi, i ciottoli della strada avevano una loro sensibilità dalla quale dovevo farmi riconoscere. Gli alberi si stupivano di vedermi. La mia paura si chiamava panico. Di ogni oggetto, ne liberava lo spirito che per commuoversi non aspettava altro che il mio tremore. Intorno a me il mondo inanimato fremeva sommesso. Persino alla pioggia avrei potuto parlare. Ben presto mi preoccupai di considerare come un privilegio una tale emozione e di preferirla a ciò che ne costituiva il pretesto: la paura, e a ciò che era il pretesto di tale paura: uno scucio o la mia fuga davanti alla polizia. Favorita dalla notte, la stessa inquietudine infine turbò le mie giornate. Così io mi spostavo in un universo enigmatico poiché questo aveva perduto il significato pratico. Ero in pericolo. Infatti non consideravo più gli oggetti secondo la loro consueta destinazione, ma secondo l'amichevole inquietudine che mi procuravano. Il pacchetto di Stilitano, fra il petto e la camicia, accusava, precisava ancor meglio il mistero d'ogni cosa, mentre nel contempo lo risolveva grazie al sorriso, affiorantemi sulle labbra sin quasi a scoprirmi i denti, e mi dava il coraggio necessario per passar liberamente. Trasportavo forse gioielli rubati? Quali erano le preoccupazioni delle varie polizie, quale lo scopo di tanti segugi, di tanti cani poliziotti, di tanti telegrammi cifrati di cui non fosse causa quel minuscolo involtino? Dovevo dunque stanare tutte le forze nemiche, Stilitano mi aspettava. «E' un bel puzzone», mi dicevo. «Si guarda bene dallo scottarsi le dita. Che gli manchi una mano, mica è una ragione.» Arrivato ad Anversa filai diritto al suo albergo, senza radermi e lavarmi, volendogli apparire con gli attributi della mia vittoria, con la mia barba lunga, la mia sporcizia e la stanchezza che mi spezzava le braccia. Non è forse questo che si vuol simboleggiare quando si ricopre il vincitore di lauri, di fiori, di catene d'oro? Io la recavo nuda. In camera sua, davanti a lui, gli porsi il pacchetto con esagerata naturalezza. - Ecco qua. Sorrise, d'un sorriso trionfante. Penso che non ignorasse che tutto era riuscito grazie al suo potere su di me. - Tutto liscio? - Tutto liscio. E' stato facile. - Ah! Sorrise ancora e aggiunse: - Meglio così. - Ma non osavo dirgli che il transito sarebbe riuscito anche a lui senza rischi, perché già sapevo che Stilitano era una mia creazione, e che dipendeva da me il distruggerla. Capivo tuttavia perché Dio abbia bisogno d'un angelo, ch'egli chiama messaggero, per la riuscita di certe missioni che lui stesso non saprebbe compiere. - Che c'è, dentro? - Be', macuba. In segreto avevo fatto passar dell'oppio (28). Non disprezzai Stilitano per avermi esposto al pericolo d'esser preso al suo posto. «E' naturale», mi dicevo. «E' un puzzone e io sono un bischero.» Il suo manifestarsi a me a quel modo aumentava la mia gratitudine verso di lui. Davanti a me, se si fosse manifestato con un numero abbastanza alto d'atti audaci da cui fosse stata bandita la mia partecipazione, divenendo a un tempo causa e fine, Stilitano su me avrebbe perso ogni potere. Oscuramente lo intuivo incapace di un'azione che impegnasse intera la sua persona. Le cure che dedicava al proprio corpo ne erano la prova. I suoi bagni, i suoi profumi, il suo scaldar sino a tardi le lenzuola, la stessa forma acquistata dal suo corpo: la morbidezza. Comprendendo che forse ero io a indurlo ad agire, m'attaccavo a lui, sicuro di trarre la mia forza da quella potenza elementare e disordinata di cui era formato. La stagione dell'anno (l'autunno), la pioggia, il tetro colore delle costruzioni, la goffaggine dei fiamminghi, il particolare carattere della città, la mia stessa miseria spingendomi alla tristezza, fu anzitutto una profonda malinconia che quell'insieme di cose, davanti alle quali restavo turbato, mi fece scoprire in me stesso. Sotto l'occupazione tedesca, al cinegiornale, vidi i funerali delle cento o
centocinquanta vittime del bombardamento d'Anversa. Le bare, ricoperte di tulipani o di dalie, esposte fra le rovine d'Anversa erano altrettante bancarelle di fiori davanti alle quali passava per benedirle una moltitudine di preti e di chierichetti in cotta di pizzo. Quest'immagine, che fu l'ultima, m'aiuta ancora a credere che Anversa mi scopriva zone d'ombra. «Si celebra», mi dicevo, «il culto di questa città il cui spirito», che allora intuivo molto bene, «è la Morte». Tuttavia solo l'apparenza delle cose doveva causarmi quel turbamento nato soprattutto dalla paura. Poi il turbamento scomparve. Credetti di percepire le cose con smagliante lucidità. Avendo, anche la più banale, perso l'usuale significato, giunsi a chiedermi se fosse proprio vero che in un bicchiere si beve o che una scarpa si calza. Scoprendo il senso particolare di ogni cosa, il concetto di numerazione mi abbandonava. A poco a poco Stilitano perdeva su di me il suo favoloso potere. Mi credeva nelle nuvole: ero attento. Senza esser silenzioso ero altrove. Grazie agli accostamenti propostimi da oggetti apparentemente di contrarie destinazioni, la mia conversazione prendeva una piega umoristica. - Mi sa che sei picchiato, parola mia. - Picchiato! - ripetevo sgranando gli occhi. «Picchiato.» Così credo di ricordare d'aver avuto la rivelazione d'una conoscenza assoluta considerando, secondo il lussuoso distacco di cui sto parlando, una molletta per stendere i panni abbandonata su un fil di ferro. L'eleganza e la bizzarria di quel comune oggettivo "m'apparvero senza stupirmi". Gli avvenimenti stessi li percepii nella loro autonomia. Il lettore intuisce come un tale atteggiamento potesse esser pericoloso nella vita che stavo conducendo, dove dovevo star sempre con gli occhi aperti, rischiando d'esser preso se perdevo di vista il senso usuale degli oggetti. Grazie all'aiuto e ai consigli di Stilitano ero riuscito a vestirmi con eleganza, anche se si trattava d'un'eleganza particolare. Sdegnando le rigide mode dei teppisti, la fantasia fece capolino nel mio abbigliamento. Così, nell'attimo stesso in cui cessavo d'essere un accattone che l'onta tagliava fuori dal mondo pratico, questo stesso mondo mi sfuggiva. Degli oggetti distinguevo l'essenza, non le qualità. Infine il mio "humour" mi liberava dalla pania degli esseri cui mi ero appassionatamente legato. Mi sentivo perduto e assurdamente leggero. Un giovane rocchettone, accovacciato in un bar, giocava con un cagnolino, e quella sbarazzinata mi parve così insolita in quel luogo, ch'io sorrisi, rallegrato, tanto al rocchettone quanto al cane: li avevo capiti. E anche avevo capito come l'autobus carico di persone serie e frettolose possa cortesemente fermarsi al minuscolo cenno del dito d'un bambino. Se un pelo rigido usciva, minaccioso, dalla narice di Stilitano, senza tremare prendevo le forbici e lo tagliavo. Quando, più tardi, senza privarmi di restar sconvolto da un bel ragazzo, metterò in pratica, in ciò, lo stesso distacco; quando accetterò di restare scosso e, negando all'emozione il diritto di comandarmi, l'esaminerò con la medesima lucidità, avrò del mio amore piena conoscenza; cominciando da quello stabilirò rapporti col mondo: allora nascerà l'intelligenza. Ma Stilitano aveva perso ogni incanto. Non lo servivo più. Se mi picchiava o mi svillaneggiava. Se m'insegnava che cosa vuol dire insulti e botte. Anversa ai miei occhi aveva perso il suo carattere di tristezza e di poesia marittima e turpe. Vedevo chiaro e poteva capitarmi di tutto. Avrei potuto commettere un delitto. Quel periodo durò forse sei mesi. Ero casto. Armand era in viaggio. Benché lo sentissi chiamare, a volte, con altri nomi, gli conserverò questo. Io stesso non sono forse, con quello di Jean Gallien che ho oggi, al mio quindicesimo o sedicesimo nome? Rientrava dalla Francia, dove, saprò più tardi, faceva passar dell'oppio. Bisogna, perché io possa tradurlo in una sola parola, che un volto m'appaia soltanto per pochi istanti. Se indugia, della lealtà, o della luminosità, o della franchezza che mi suggeriva, una piega del labbro, uno sguardo, un sorriso da me scoperti complicano l'interpretazione. Il viso diventa sempre più complesso. I segni s'aggrovigliano: è illeggibile. In quello di Stilitano m'ingegnavo di veder la durezza, alterata appena, all'angolo dell'occhio o della bocca, non so bene, da un cenno d'ironia. Il volto d'Armand era falso, sornione, cattivo, subdolo, brutale. Forse m'è facile scoprirvi tutto questo dopo aver conosciuto l'uomo, ma so che quella mia impressione d'allora poteva essermi data soltanto da tutte quelle qualità miracolosamente riunite su un'unica. faccia. Ipocrisia, cattiveria, stupidità, crudeltà,
ferocia son termini riducibili a uno solo. Piuttosto, voglio dire che la loro enumerazione, sul volto, vi si leggeva non nello spazio ma nel tempo, secondo il mio proprio umore o secondo, nell'intimo d'Armand, ciò che provocava l'apparizione di tali qualità sui suoi lineamenti. Era un bruto. Non presentava nessuna armonica bellezza, ma, sul suo viso, la presenza di ciò che ho detto - e che era limpido perché così poco turbato dal suo contrario - gli dava un'apparenza cupa e tuttavia scintillante. Prodigiosa era la sua forza fisica. Aveva allora circa quarantacinque anni. Avendo vissuto così a lungo in familiarità col proprio vigore, lo sopportava con disinvoltura. Aveva infine avuto l'abilità di trarne il miglior partito, tanto che quel vigore, quella potenza muscolare, visibile nella forma del cranio e nell'attaccatura del collo, rafforzava ancor di più, imponeva quelle qualità detestabili. Le rendeva lampeggianti. Il volto era camuso, credo per natura, in quanto il naso non appariva rovinato da un pugno. Aveva la mascella forte, solida. Il cranio era perfettamente rotondo e quasi sempre rasato. La pelle, sulla nuca, formava tre pieghe rese più visibili da un residuo di sporcizia. Era alto e di stupenda costituzione. Si spostava in genere con lentezza, pesantemente. Rideva poco, e senza schiettezza. La sua voce. Era di tono molto grave, sorda, quasi bassa. Senza che la si potesse dire una voce profonda, aveva un timbro che pareva ovattato. Armand, parlando molto svelto, o parlando mentre camminava a passo veloce, dalla celerità della loquela in contrasto col tono grave della voce, otteneva una sapiente riuscita musicale. Su un ritmo così precipitato, ci si aspettava un timbro acuto, o, da una voce così grave, ch'essa si muovesse pesantemente, difficoltosamente: era agile, invece. Tale contrasto generava inoltre eleganti inflessioni. Armand articolava appena le parole. Le sillabe non si urtavano. Poiché il suo linguaggio, nella sua semplicità, era disinvolto, le parole si concatenavano con orizzontale tranquillità. Proprio dalla sua voce si capiva quanto fosse stato ammirato in gioventù, specie dagli uomini. E' da una sorta d'impertinente sicumera che si riconoscono coloro che riscossero, per la loro forza e la loro bellezza, l'ammirazione degli uomini. Sono, a un tempo, più sicuri di sé e più inclini alla gentilezza. La voce d'Armand toccava un punto della mia gola e mi mozzava il respiro. Era raro che avesse fretta, ma se, per uno strano caso, doveva correre alla svelta a un appuntamento, fra Stilitano e me, mentre camminava con la testa alta, un poco protesa in avanti, ad andatura sciolta nonostante la massiccia corporatura, la sua voce che, con quel suo timbro grave, andava facendosi sempre più rapida, riusciva un capolavoro perfino troppo ardito. Ci fosse pure la nebbia, dalla gola di quel plumbeo atleta usciva una voce di limpidissimo azzurro. Sino a supporre che fosse appartenuta a un adolescente frettoloso, svelto, gioioso, festeggiato, sicuro della sua grazia, della sua forza, della sua bellezza, della sua stranezza, della bellezza e della stranezza della sua voce. Dentro di sé, nei suoi organi che immagino elementari ma di solidi tessuti e di bellissime tinte iridate, in intestini caldi e generosi, credo ch'egli elaborasse la sua volontà d'imporre, di applicare, di rendere visibili l'ipocrisia, la stupidità, la malvagità, la crudeltà, la servilità, e di ottenerne su tutt'intera la propria persona la più oscena riuscita. Lo vidi in camera di Sylvia. Appena entrai Stilitano s'affrettò a dirgli ch'ero francese, e che ci eravamo conosciuti in Spagna. Armand era in piedi. Non mi tese la mano ma mi guardò. Rimasi vicino alla finestra con l'aria di non interessarmi di loro. Quando decisero d'andare al bar Stilitano mi disse: - Vieni anche tu, Jeannot? Ancor prima ch'io avessi risposto, Armand domandò: - Te lo porti sempre dietro? Stilitano rise e disse: - Ba, se ti scoccia, possiamo lasciarlo qui. - Ma no, fallo venire. Li seguii. Dopo aver bevuto si separarono e Armand non mi strinse la mano. Lasciò il bar senza nemmeno guardarmi. Su di lui, Stilitano non mi disse una parola. Qualche giorno dopo, incontratolo vicino ai "docks", Armand m'ingiunse di seguirlo. Quasi senza parlarmi mi portò nella sua camera. Con lo stesso evidente disprezzo mi sottomise al proprio piacere. Dalla sua forza e dalla sua età dominato, posi ogni impegno nel mio lavoro. Schiacciato da quella massa di carne, orba anche del più sottile filo di spiritualità, conoscevo finalmente la vertigine d'un
incontro col bruto perfetto, indifferente alla mia felicità. Scoprii ciò che un vello, folto sul torso, sul ventre e sulle cosce, può contenere di dolcezza e trasmetter di forza. Lasciai infine che tanta notte tempestosa mi seppellisse. Per gratitudine o per timore, sul braccio peloso d'Armand deposi un bacio. - Che ti gira? Sei matto? - Mica ho fatto nulla di male. Gli rimasi vicino per servire al suo piacere notturno. Quando si coricava, strappandola dai passanti dei pantaloni, Armand faceva schioccar la cintola di cuoio. Essa scudisciava una vittima invisibile, una forma di carne trasparente. L'aria sanguinava. Allora, se mi spaventava, era per la sua impotenza a esser quell'Armand che vedo io, pesante e malvagio. Lo schiocco lo accompagnava e lo sosteneva. La sua rabbia, la sua disperazione di non esserlo lo facevan tremare come un cavallo domato dall'ombra, tremare "a verga a verga". Non avrebbe tuttavia tollerato che vivessi senza far nulla. Mi consigliò di serpeggiare intorno alla stazione, o allo zoo, e di adescarvi clienti. Conoscendo il terrore ispiratomi dalla sua persona, disdegnò di sorvegliarmi. Gli portavo immancabilmente il denaro guadagnato. Lui, da parte sua, operava nei bar. Coi camalli e i barcaioli effettuava numerosi traffici. Lo rispettavano. Come - a quei tempi - tutti i magnaccia e i teppisti di quella città, calzava scarpe di tela con suole di corda. Silenzioso, il suo passo era ancor più greve ed elastico. Spesso portava un paio di pantaloni da marinaio, di pesante panno blu, con quella parte che vien chiamata brachetta mai completamente abbottonata, sì che gliene ricadeva davanti un triangolo, se non era, talvolta, il lembo un poco rovesciato d'una tasca che portava sul ventre. Nessuno aveva un passo più ondeggiante del suo. Penso che in quei pantaloni ci s'infilasse per ritrovare il ricordo del suo corpo di teppista, di magnafregna, di marinaio ventenne. Restava fedele a quelli come lo si resta alle mode della giovinezza. Ma, già figurazione egli stesso del più irritante erotismo, voleva esprimer questo anche col linguaggio e col gesto. Abituato al pudore di Stilitano, e, nei bar dei camalli, alla loro grossolanità, ero il testimone, spesso il pretesto delle più impudenti precisazioni. Davanti a chiunque, del suo sesso Armand parlava sempre con lirismo. Nessuno lo interrompeva. A meno che un duro, infastidito dal tono e dai discorsi, non lo rimbeccasse. Con una mano infilata nella tasca, a volte s'accarezzava mentre beveva in piedi davanti al banco. Altre volte, vantava la grossezza e la bellezza - nonché la forza e persino l'intelligenza - del suo sesso in effetti massiccio. Non sapendo a che cosa corrispondesse in lui una simile ossessione del proprio sesso e della propria forza, lo ammiravo. Per la strada, se mi traeva a sé con un braccio come per stringermi, un brutale colpo di quello stesso braccio teso mi respingeva. Poiché ignoravo tutto della sua vita, tranne che aveva corso il mondo e che era fiammingo, cercavo di distinguergli addosso i segni del bagno penale dal quale, evadendo, si fosse portato dietro quel cranio rapato, quei muscoli pesanti, la sua ipocrisia, la sua violenza, la sua ferocia. L'incontro con Armand fu un tal cataclisma che, pur continuando a vederlo spesso, Stilitano mi parve essersi allontanato da me sia nel tempo sia nello spazio. Già da un bel pezzo ormai, e in un luogo quanto mai remoto, m'ero sposato con quel giovanotto la cui durezza, velata d'ironia, subito s'era mutata in una deliziosa dolcezza. Mai Stilitano, finché vissi con Armand, ci scherzò sopra. La sua discrezione mi diventò delicatamente dolorosa. Presto egli rappresentò per me i Giorni Defunti. Al contrario di lui, Armand non era vigliacco. Non solo non si rifiutava di picchiarsi con uno, ma accettava i colpi di forza pericolosi. Osava addirittura concepirli e metterli a punto. Una settimana dopo il nostro incontro, mi disse che si sarebbe assentato, e che aspettassi il suo ritorno. M'affidò le sue robe: una valigia con un po' di biancheria, e partì. Per qualche giorno mi sentii alleggerito, non sentii più il peso del timore. Uscivo spesso con Stilitano. Se non si fosse sputato sulle mani per far girare un argano, non avrei notato un ragazzo della mia età. Quel gesto, proprio di chi lavora, mi diede un tal capogiro che mi parve di piombare in caduta libera in un'epoca - o in una regione di me stesso - da lungo tempo dimenticata. Risvegliatomisi il cuore, il corpo mi si disintorpidì di colpo. Con incredibile precisione e rapidità registrai il ragazzo: il suo gesto, i capelli, lo scatto delle reni, il suo incurvarsi ad arco, la giostra sulla quale lavorava, i giranti cavallini di legno e la musica, il lunapark, la città d'Anversa che li conteneva, la Terra che
girava con precauzione, l'Universo che custodiva un fardello così prezioso, e io stesso lì, sgomento di possedere il mondo e di sapere che lo possedevo. Quello sputo sulle sue mani non lo vidi: riconobbi il contrarsi della guancia e la punta della lingua fra i denti. Vidi, anche, il maschio sfregarsi le palme dure e nere. Mentre s'abbassava per impugnar la manovella, notai la cintola di cuoio, screpolata, ma spessa. Una simile cintola non poteva essere un ornamento come quella che tien su i calzoni delle persone eleganti. Con la sua materia e il suo spessore era tutta compresa di questa sua funzione: trattenere il segno più evidente della mascolinità che, senza tale striscia di cuoio, non sarebbe nulla, non conterrebbe più, non custodirebbe più il suo tesoro virile ma pioverebbe sui tacchi d'un maschio impastoiato. Il ragazzo portava un camiciotto, lasciando intravedere, fra quello e le brache, la pelle. Poiché la cintola non era infilata nei cosiddetti passanti, a ogni mossa risaliva un po' mentre i pantaloni scendevano. Affascinato, la guardai. La vidi agire con fare sicuro. Al sesto colpo di reni cinse, tranne che sulla pattina dov'eran fermati i due capi riuniti, la schiena e i fianchi nudi del maschio. - E' un bello spettacolo, eh? - mi disse Stilitano. Vedendo che guardavo proprio quello, non alludeva alla giostra ma al suo genio tutelare. - Va' a dirgli che lo ami, su. - Non mi sfottere. - Parlo sul serio. Sorrideva. Non avendo né l'età né il piglio necessari per poterlo abbordare od osservare con la spocchia, lieve o divertita, delle persone distinte, decisi di allontanarmi dal maschio. Stilitano mi prese per la manica: - Vieni. Mi liberai. - Lasciami -, dissi. - Ma se lo vede anche un cieco, che ti piace. - E con questo? - Con questo? Ma invitalo a bere un bicchiere. Sorrise ancora e disse: - Hai paura d'Armand? - Sei matto? - E allora. Vuoi che ci provi io? In quel momento il ragazzo stava rialzandosi, col sangue che gli affluiva al volto, lucido di sudore: era un fallo congestionato. Riaggiustandosi la cintola sui pantaloni, si avvicinò a noi. Eravamo sulla carreggiata, lui in piedi sullo zoccolo di tavole della giostra. Poiché lo guardavamo, sorrise e disse: - Fa venir caldo. - E anche sete, no? - disse Stilitano. E rivolto a me, aggiunse: - Ce lo paghi un gotto? Robert venne con noi al caffè. La gioia procuratami da quel fatto, la sua semplicità mi sconvolsero. Non ero più né accanto a Robert né accanto a Stilitano, mi sparpagliavo in tutti i cantoni del mondo e registravo cento particolari che deflagravano in tante lievissime stelle. Non so più quali. Ma la stessa assenza la conobbi quando accompagnai per la prima volta Lucien. Ascoltavo parlare una massaia che sbava contrattando un geranio: - Mi piacerebbe avere in casa una. pianta... - diceva. - Una bella pianta... Facendole desiderar tutta per sé una pianta, da lei scelta con le sue radici e la sua terra fra l'infinità delle piante esistenti, tale brama di possesso non mi sorprendeva. Grazie al pensiero espresso da quella donna, ora sapevo qualcosa sul senso di proprietà. «Annaffierà la sua pianta», mi dicevo. «Le comprerà un portavasi di maiolica. La esporrà al sole. La amerà teneramente...» Robert camminava accanto a me. Di notte, avvolto in una coperta, dormiva sotto i teloni della giostra. Gli offrii di condividere la mia camera. Venne a dormirvi. La seconda sera, poiché tardava, andai a cercarlo. Senza che se
n'accorgesse lo vidi in un bar, vicino ai "docks", intento a parlare con uno che aveva tutta l'aria d'un pedé. Non gli dissi nulla ma avvertii Stilitano. L'indomani mattina, prima che Robert tornasse al lavoro, Stilitano venne a trovarci. Il suo incredibile pudore lo impacciava ancora, era molto imbarazzato da quanto doveva dirci. Alla fine ci riuscì: - Lavoreremo insieme. Tu li attiri in un pisciatoio o in una camera ammobiliata, e io arriverò con Jeannot. Diremo che siamo tuoi fratelli e il tizio dovrà scucire. Fui lì lì per dire: «E Armand, che farà?» Stetti zitto. Nel letto c'era Robert, col busto alzato, fuori delle lenzuola. Per non metterlo in imbarazzo, avevo cura di non sfiorarlo. Fece presenti a Stilitano i rischi d'una simile impresa, ma capivo che, da parte sua, quei rischi li vedeva lontani, imprecisi, avvolti in una fitta nebbia. Alla fine assentì. Il fascino di Stilitano aveva agito su di lui. Ne provai vergogna. Amavo Robert, e io non sarei riuscito a indurlo ad accettare, ma soprattutto mi appariva crudele l'idea che venissero ripresi e utilizzati quei medesimi mezzi propri della nostra vita intima in Spagna che Stilitano e io eravamo i soli a conoscere. Quando Stilitano uscì, Robert scivolò sotto le lenzuola e si rannicchiò contro di me. - E' il tuo uomo, eh? - Perché me lo domandi? - Si vede, ch'è il tuo uomo. Lo strinsi a me e cercai di baciarlo, ma lui si scostò. - Sei matto. Queste cose, noi due mica dobbiamo farle! - E perché? - Bah. Che ne so. Abbiamo la stessa età, non sarebbe spassoso. Quel giorno si alzò tardi. Facemmo colazione con Stilitano e Sylvia, poi Robert andò a ritirar la paga e a dire al suo padrone che non avrebbe più lavorato alla giostra. Bevemmo per tutta la serata. Armand era già partito da otto giorni, e ancora non si faceva vivo. Mi venne dapprima l'idea di fuggirmene da Anversa, e magari dal Belgio, portandomi via le sue robe. Poiché il suo potere agiva a distanza, fui trattenuto, e non per timore ma perché attratto dalla violenza di quell'uomo maturo, maturatosi nel male, un autentico bandito, capace, solo lui, di trascinarmi, quasi direi di trasportarmi in quel mondo spaventoso dal quale lo credevo risalito. Non abbandonai la mia camera, ma ogni giorno la mia angoscia cresceva. Stilitano m'aveva promesso di non dirgli la mia passione per Robert, ma non ero affatto sicuro che costui, maliziosamente, non mi tradisse. Col monco, Robert si mostrò del tutto a suo agio. Liberatosi d'ogni impaccio, apparve pieno di brio, sfottente, un tantino sfrontato. Quando parlavano di possibili colpi, notai che il suo sguardo si faceva a un tratto attento, e quando la spiegazione era finita, Robert la coronava con un gesto eloquente: il pollice e il medio riuniti sembravano introdursi nella tasca interna d'un'invisibile giacca per cavarne delicatamente un invisibile gioiello. Lieve era quel gesto. Robert lo disegnava lentamente nell'aria, con due spezzature: la prima, quando la mano sembrava uscir dalla tasca del derubato, l'altra quando entrava nella sua. Robert e io servivamo Stilitano come si serve un sacerdote o un pezzo d'artiglieria. In ginocchio davanti a lui, gli allacciavamo una scarpa per uno. La cosa si complicava per l'unico guanto. Quasi sempre toccava a Robert il privilegio di schiacciare il bottone automatico. Il racconto di alcune operazioni riusciteci non vi insegnerebbe nulla sulle nostre abitudini. Il più delle volte Robert e io salivamo col pedé. Quando questi dormiva, buttavamo il denaro a Stilitano, appostato sotto la finestra. Al mattino il soggetto ci accusava. Ci lasciavamo frugare da lui, che però non aveva il coraggio di denunciarci. In un primo tempo, Robert tentò di giustificare i propri furti. Il ladro alle prime armi pretende sempre, derubandolo, di castigare un porcaccione. - E' tutta gente viziosa -, diceva. La ricerca dei difetti dei pedé da lui borseggiati lo rendeva noioso; Stilitano, con brusca franchezza, lo richiamò all'ordine. - Se non la pianti coi tuoi predicozzi, finirai prete. Una sola ragione ci spinge a far quello che facciamo: la grana.
Un simile linguaggio rese più sbrigliato Robert. Sicuro d'esser sostenuto da Stilitano, si mostrò capace delle più matte licenze. I suoi discorsi divennero molto buffi. Stilitano ci si divertiva e usciva soltanto con lui. Il mio umore si fece più grigio. Ero geloso dei miei due amici. Infine Robert, che amava le ragazze, sorrideva a tutte quante. Era amato. Per questo lo sentivo, con Stilitano, non contro di me ma fuori della mia portata. Mi superava in bellezza, e perché gli fosse più facile attirare gli uomini, Stilitano gli diede i miei vestiti. Robert li portava disinvolto, sorridente. Io avevo soltanto un paio di pantaloni, una giacca e qualche camicia strappata. Contro Stilitano inventai misere vendette. Paragonato ad Armand, diventava sempre più piatto, privo di spessore. La sua bellezza mi parve sciapa. Il suo linguaggio era scolorito. Da Armand speravo nuove rivelazioni. Non posso dire che all'origine della mia decisione di scrivere libri pornografici si trovino i suoi impudichi atteggiamenti, ma certamente rimasi sconvolto dall'insolenza d'una sua risposta a Stilitano che molto calmo, anche se con una lieve punta d'indifferenza, gli chiedeva il motivo d'un così appassionato lirismo. - I miei coglioni - disse, - i miei coglioni. Le donne non se ne vanno forse spaparacchiandoti in faccia le belle tettine, pavoneggiandosi, le donne? I miei coglioni, io ho pure il diritto d'offrirli a chi mi pare, di metterli in mostra, e magari, i miei coglioni, di presentarli su un vassoio. Posso addirittura - ne ho pieno diritto, son belli - spedirli in dono a Pola Negri o al Principe di Galles! Stilitano poteva arrivare al cinismo, non al canto. Seppellite da tempo dentro di me - dove, accumulandovisi, rendevano più greve il mio rancore - risalivano alla superficie, per ammorbarmi il fiato, la sua vigliaccheria, la sua mollezza, la sua infingardaggine. Ciò che un tempo lo rendeva bello - come un'ulcera che scolpisca e dipinga la carne - diventava per me motivo di disprezzo. Nessun dei due pareva accorgersi della mia gelosia, della mia rabbia, e che queste stessero lavorando sui nostri rapporti. Un giorno ch'ero solo con lei, Sylvia, per la strada, mi prese a braccetto. Mi si strinse contro. Due uomini ch'io amavo, con la loro reciproca e inequivocabile amicizia, s'allontanavano da me, mi negavano l'accesso alla schietta cordialità - schietta e gioiosa ma ancor di più m'avviliva la donna d'uno di loro, col suo desiderio così vicino alla consolazione dei poveri. Contro il mio corpo, la sua anca e i suoi seni quasi mi provocavano il vomito. Davanti a Stilitano, certo per ferirlo, ebbe il coraggio di dire che le piacevo. Robert e lui scoppiarono in una risata: - Allora, non vi resta che andarvene a... spasso tutt'e due. Noi, ora usciamo insieme. Scacciato dal loro sorriso, mi vedevo rotolar giù per le scale di luce dominate da Stilitano. Raggiunsi la mia Spagna e i miei stracci, le mie notti fra i poveri, arricchito di qualche gioia ma disperato: eccomi ormai sicuro di non poter far altro che morder la polvere, leccare i piedi - i miei, impolverati da marce estenuanti. Già l'idea di pidocchio covava su me le sue uova. Poiché queste si sarebbero presto schiuse, non mi tagliai più i capelli. Decisi d'uccidere Stilitano e Robert. Non riuscendo a essere un teppista nella gloria, desideravo esserlo nella pena: scelsi il bagno penale o la morte infamante. A sostenermi avevo tuttavia il ricordo d'Armand e la speranza del suo ritorno, ma non si faceva vivo. Eravamo in Belgio. Soltanto la polizia francese ha su di me un ascendente favoloso. E così pure, tutto l'apparato penitenziario. Ciò che commettevo fuori della Francia non era un peccato ma un errore. Che cosa avrei mai trovato nei bagni penali e nelle carceri del Belgio? Soltanto il fastidio, forse, d'esser privato della libertà. A Stilitano e a Robert proposi una spedizione a Maubeuge. - Se li uccido nelle Ardenne, m'arresterà la polizia francese e sarò condannato alla Guyana. Né l'uno né l'altro accettò di seguirmi. Un giorno che ero solo in camera sua, dalla tasca d'una giacca appesa nell'armadio rubai la rivoltella a Stilitano. La vita di cui ho parlato più sopra, l'avrò vissuta fra il '32 e il '40. Mentre stavo scrivendola per voi, ecco di quali amori ero preoccupato. Avendoli annotati, li utilizzo. Ch'essi servano a questo libro.
Ho morso a sangue Lucien. Speravo di farlo urlare, la sua insensibilità ha avuto la meglio su di me; ma so che giungerei sino a dilaniar le carni del mio amico, sino a perdermi in un'irreparabile strage in cui conserverei la lucidità mentale, in cui conoscerei l'esaltazione di chi ha toccato il fondo. «Che mi crescano i segni di tale degenerazione, mi dicevo, unghie e capelli lunghi, denti aguzzi, la bava, e che sotto i miei morsi Lucien conservi in volto la sua indifferenza, giacché ogni indizio d'un troppo grande dolore mi costringerebbe ad aprir le mascelle e a chiedergli perdono.» Quando i miei denti gli mordevano le carni, stringevo le mascelle sino al tremito, e tutto il mio corpo fremeva. Ruggisco e tuttavia amo - e con quanta tenerezza! - il mio piccolo pescatore del Suquet. Se si allunga stretto a me, con le mie mescola dolcemente le sue gambe ancor meglio confuse insieme dalla stoffa così soffice dei nostri pigiama, poi cerca, con molta cura, il punto dove rannicchiar la guancia. Finché non dorme, sentirò contro la sensibilissima parete del collo, il fremito della sua palpebra o delle sue ciglia all'insù. Se prova qualche pizzicorino alle narici - non permettendogli la sua pigrizia, la sua neghittosità d'alzar la mano - per grattarsi strofina il naso sulla mia barba, dandomi così delle delicate testate, come un vitellino che poppi la madre. La sua vulnerabilità è allora totale. Un mio sguardo cattivo, una mia parola troppo dura lo ferirebbero, o meglio trapasserebbero senza lasciar traccia una materia fattasi tenera tenera, quasi molle, elastica. Può capitare che un'ondata di tenerezza salitami dal cuore, e anche per me imprevista, passi nelle mie braccia che lo stringono più forte, e lui allora, senza muovere il capo, preme le labbra su quella parte del mio volto o del mio corpo con la quale si trovano in contatto. E' l'automatica risposta all'improvvisa pressione del mio braccio. All'ondata di tenerezza risponde sempre con quel suo baciotto in cui sento espandersi a fior della mia pelle la dolcezza d'un ragazzo semplice e candido. Da quel segno riconosco quanto sia docile alle ingiunzioni del cuore, quanto il suo corpo sia sottomesso al mio spirito. Sussurro, con la voce soffocata dal peso della sua testa: - Quando sei così, ridotto a zero contro di me, ho l'impressione di proteggerti. - Anch'io -, dice. E subito mi dà uno dei suoi baciotti-risposta. - Anche tu, cosa? - Ho anch'io l'impressione di proteggerti. - Sì? Perché? Ti sembro debole? In un soffio, con adorabile grazia, mi dice: - Sì... io ti proteggo. Dopo aver baciato i miei occhi chiusi, lascia il mio letto. Lo sento chiuder la porta. Immagini si formano sotto le mie palpebre: nell'acqua chiara, insetti grigi, agilissimi, si spostano sul fondo melmoso di non so quali fontane. Corrono nell'ombra e nell'acqua chiara dei miei occhi, il cui fondo è melma. Mi stupisco che un corpo così ben fornito di muscoli, si dissolva a tal punto al mio calore. Per la strada, cammina dondolando le spalle: la sua durezza è scomparsa. Tutto ciò che era spigolo vivo, lampo d'uno scoppio, s'è smussato, salvo l'occhio che continua a brillare sulla neve smottata. Questa macchina per mollar cazzotti, zuccate, pedate, s'allarga, s'allunga, si dispiega, con mio stupore dimostra ch'era soltanto dolcezza contratta, tesa, più e più volte ripiegata su se stessa, aggrovigliata, gonfiata, e io apprendo come tale dolcezza, tale elastica docilità nel rispondere alla mia tenerezza possa trasformarsi in violenza, in cattiveria qualora la dolcezza non sia più il motivo d'essere di se stessa, qualora la mia tenerezza finisse, per esempio se abbandonassi il ragazzotto, se togliessi alla debolezza la possibilità d'occupare quel corpo meraviglioso. Vedo ciò che ne comanderebbe i sussulti. Che rabbia, aver simili risvegli. La sua dolcezza s'aggroviglierebbe, si contrarrebbe, si ripiegherebbe più e più volte su se stessa per formare una molla terribile. - Se tu mi lasciassi, diventerei rabbioso -, m'ha detto. - Sarei il più teppista dei teppisti. A volte ho paura che la sua docilità nei confronti del mio amore, tutt'a un tratto non m'obbedisca più. Mi ci vuol molta prudenza e devo essere svelto nell'approfittare di ciò che egli offre alla mia felicità. Verso sera, quando Lucien mi stringe fra le braccia e mi ricopre il volto di baci, una tristezza mi vela il corpo. Si direbbe che il mio corpo si oscuri. Un'ombra lo copre di crespo. I miei
occhi guardano in me stesso. Lascerò che questo fanciullo si stacchi da me? Cada dal mio albero? Si schiacci al suolo? - Il mio amore è sempre triste. - Davvero, come ti bacio diventi triste, l'ho notato. - Ti dispiace? - No, non fa nulla. Sono allegro io al posto tuo. Dentro di me, bisbiglio: «T'amo... t'amo... t'amo...» Forse, mi dico, il mio amore finirà con l'uscir fuori dal mio animo, com'esce dal corpo un tossico sotto l'azione del latte o d'una purga. Nella mia, tengo la sua mano. La punta delle mie dita indugia sulla punta delle sue. Interrompo infine il contatto: lo amo ancora. La medesima tristezza vela il mio corpo. Lo vidi così, la prima volta: Lucien scendeva dal Suquet a piedi nudi. A piedi nudi attraversava la città, entrava in un cinema. Portava un abito d'un'eleganza impeccabile: un paio di pantaloni di tela turchina e una maglia da marinaio a righe bianche e blu, con le maniche corte rimboccate sino alla spalla. Non mi perito di scrivere che portava anche un paio di piedi nudi, tant'essi m'apparivano come accessori finemente lavorati per completare la sua bellezza. Ammiravo spesso la sua padronanza di sé, e il prestigio che gli conferiva, tra la folla vanitosa di quella città, la semplice e gentile affermazione della sua bellezza, della sua eleganza, della sua giovinezza, della sua forza e della sua grazia. Al centro di tanta profusione di felicità, mi parve serio e sorrise. Della pianta araucaria le foglie son rosse, spesse e lanuginose, lievemente grasse e brune. Ornano i cimiteri, le tombe dei pescatori morti da molto tempo e che, per secoli, passeggiarono su questa costa ancora selvaggia e dolce. Abbronzarono i muscoli, già neri, alando barche e reti. Il loro abbigliamento era allora pressoché invariabile nei suoi particolari ormai dimenticati: una camicia molto scollata, un fazzoletto multicolore intorno al capo bruno e ricciuto. Camminavano a piedi nudi. Sono morti. La pianta, che cresce anche nei giardini pubblici, mi fa pensare a loro. Il popolo d'ombre che son diventati continua, come un popolo di folletti, le sue maliziose mariolerie, il suo ardente chiacchiericcio: rifiuto la loro morte. Non disponendo d'altri mezzi più belli per risuscitare un giovane pescatore del 1730, al solo fine di farlo vivere più intensamente m'accovacciavo al sole sulla scogliera o, la sera, nell'ombra dei pini, e ne costringevo l'immagine a prestarsi al mio piacere. Non sempre la compagnia d'un monello bastava a distrarmi da loro. Una sera, scossi le foglie morte rimastemi attaccate ai capelli, alla giacca, m'abbottonai i pantaloni e chiesi a Bob: - Conosci un certo Lucien? - Sì, perché? - Così. M'interessa. Il maschio non batté ciglio. A tentoni, si sbarazzava degli aghi di pino. Si sfiorò con la mano i capelli, diligentemente, per sentire i fili di borraccina, uscì un poco dall'ombra del bosco per guardar se le sue brache da soldato fossero rimaste impillaccherate di sperma. - Che tipo è? - dissi. - Quello? Un piccolo teppista. Bazzicava mecchi della Gestapo. Una volta di più, mi trovavo al centro d'un vortice inebriante. La Gestapo francese conteneva questi due elementi affascinanti: il tradimento e il furto. Vi si aggiunga l'omosessualità, e diverrà scintillante, inattaccabile. Essa possedeva queste tre virtù ch'io erigo a virtù teologali, capaci di comporre un corpo non meno duro di quello di Lucien. Che dire contro di lei? Era fuori del mondo. Tradiva (intendendo, per tradire, infranger le leggi dell'amore). S'abbandonava al saccheggio. Si escluse dal mondo, infine, con la pederastia. Si consolidò dunque in una solitudine imperforabile. Java doveva, al proposito, insegnarmi molte cose, delle quali parlerò. - Sei sicuro di quello che dici? Bob mi guardò. Con una scrollata del capo, liberò la fronte dai riccioli bruni. Camminava al mio fianco, nell'ombra. - E che te lo direi a fare, allora?
Feci silenzio. M'osservavo attento. In me s'infrangevano ondate formate dalla parola Gestapo. Su di esse camminava Lucien. Esse sorreggevano .i suoi piedi pieni di grazia, il suo corpo muscoloso, la sua agilità, il suo collo, la sua testa incoronata di capelli brillanti. Mi stupivo della mia certezza che in fondo a quel palazzo di carne risiedesse perfetto il male, componendo quel perfetto equilibrio di membra, torso, ombre e luci. Il palazzo, lentamente, sprofondava nelle onde, navigava in mezzo al mare che batte la costa dove camminavamo, e diventando a poco a poco liquido anche lui, diventò il mare stesso. Quanta pace, quanta tenerezza m'opprimevano davanti a una solitudine così preziosa in un così ricco scrigno. Avrei voluto addormentarmi senza dormire, su quelle onde richiuder le braccia. L'ombra del mondo, del cielo, della strada e degli alberi entrava in me dai miei occhi, si stabiliva in me. - E a te, è mai venuta l'idea d'entrar lì dentro, per far qualche colpo? Verso di me, Bob voltò un poco il capo. Il suo volto, ora luminoso, ora buio, rimase impassibile. - Sei matto. Dove sarei, adesso? In galera con gli altri. In galera o morto, come i capi di quell'organizzazione: Laffon, Bony, Clavié, Pagnon, Labussière. A farmi staccare e conservare il pezzetto di giornale con le loro fotografie, fu il desiderio di trarne materia per alimentare un'argomentazione in favore del tradimento. Ora, a questo ho sempre attribuito un volto radioso. Maurice Pilorge, dal volto così chiaro, così mattutino, era più bugiardo della luna. Mentiva. Mi mentiva e tradiva sorridendo tutti i suoi amici. Lo amavo. Quando appresi che aveva assassinato Escudero, rimasi per un attimo stordito, perché il dramma, ancora una volta, s'avvicinava a me, sino a toccarmi, entrava nella mia vita, mi esaltava, mi conferiva un'importanza (i teppisti dicono: - Se caca, è al di sopra della sua puzza -) assolutamente nuova. E gli votai quel culto che conservo vivo ancor oggi a distanza, forse, d'otto anni dalla sua decapitazione. Nel periodo che va dall'omicidio alla morte, Pilorge divenne più grande di me. Fu quando potei dire, pensando alla sua vita troncata netta, nonché al suo corpo in putredine, «Povero marmocchio», ch'io lo amai. Allora, accettavo ch'egli mi fosse non d'esempio ma d'aiuto nel percorrere una strada diretta al cielo dove spero di congiungermi con lui (non scrivo di raggiungerlo). Avevo sotto gli occhi dei volti (salvo quello di Labussière) annoiati, abbiosciati dai troppi spaventi e dalla vigliaccheria. Avevan contro la cattiva qualità della carta, della stampa, l'esser stati colti dall'obiettivo in un penoso momento. Avevano l'aria di gente presa in trappola, ma in una trappola tesa da loro stessi, in una trappola interiore. Nella bellissima foto che lo mostra con le sue bende, Velpeau Weidmann ferito dal piedipiatti che lo arrestò, è anche lui una bestia presa in trappola, ma nella trappola degli uomini. Contro di lui, non si rivolta la sua verità per imbruttirgli la faccia. Quello che ho visto e che talvolta vedo, quando lo guardo, sul ritratto di Laffon e dei suoi amici, è il loro rivoltarsi contro se stessi. - Un autentico traditore, un traditore per amore -, mi dico allora, - non ha un'aria falsa. Ciascun degli uomini di cui parlo avrà senz'altro avuto i suoi momenti di gloria. In quei momenti dev'essere stato luminoso. Ho conosciuto Labussière, l'ho visto uscire con delle amanti, con delle macchine sontuose. Era sicuro di sé, sistemato nella sua verità, tranquillo al centro della sua attività di pianola ben pagato. Non si torturava davvero. - Gli scrupoli, i sentimenti che provocano in altri tanti turbamenti che i loro volti denunziano, lasciano intatto a Lucien il suo candore -, mi dicevo. Bob sperava, descrivendomelo come un puzzone, di staccarmi da lui. Gli rimasi invece ancor più attaccato. Amorosamente lo immaginavo «bruciare» e torturare. Avevo torto. Non tradì mai. Gli chiesi se avrebbe accettato di condurre con me la mia stessa vita, anche in ciò che avrebbe presentato di pericoloso; mi guardò negli occhi, e mai avevo visto sguardo più fresco. Era una sorgente che inondava un prato già umido dove crescono miosotidi e quella graminacea che nel Morvan chiamano erba tremula. Poi mi disse: - Sì. - Posso dunque contar su di te, sulla tua amicizia? Stesso sguardo e stessa risposta. - Condurrò la tua stessa vita, salvo che non voglio rubare.
- Perché? - Perché no. Preferirei lavorare. Tacqui. - Se ti lasciassi, hai detto, diventeresti un bandito. Perché? - Perché avrei vergogna di me stesso. Qualche giorno dopo gli dissi: - Sai, dovremo arrangiarci con quel che ci rimane. Non abbiamo quasi più grana. Lucien camminava guardando a terra. - Trovassimo almeno qualcosa da grattare -, disse. Per non romperlo, feci attenzione alla fragilità del meccanismo che gli aveva fatto pronunziare quelle parole, cercai di non dir nulla di troppo brutalmente trionfante. Parlai d'altro. All'indomani d'una visita a G. H. si fece più esplicito. G. H. abita in un appartamento che ammobiliò in quattro giorni durante l'ingresso dei tedeschi a Parigi. Indossata con tre suoi amici l'uniforme della Wehrmacht (uniformi trafugate da alcune puttane ai soldati abbrutiti dalla stanchezza, dall'alcool e dall'amore) saccheggiò varie palazzine private di parigini in fuga. Il suo camion faceva la spola, stracarico, fra Passy e il garage. Ora possiede mobili, tappeti. "Moquettes" simili, mi dissi, sulle quali, dai piedi, m'entra dentro la discrezione, creano il silenzio, anzi la solitudine e la quiete che offre un cuore materno. Vi si possono pronunziare le peggiori parole, preparare i più abominevoli delitti. Di lampadari, nel suo appartamento se ne trovano a mucchi. Dei tre amici che avevano un'eguale parte di bottino, due sono morti, freddati in Italia al seguito di Darnand. L'altro è all'ergastolo. Quei due morti e la condanna hanno consacrato il diritto di proprietà di G. H. Lo hanno autenticato. Sicuro - o no - di non essere mai scoperto, cammina sui suoi tappeti, si spaparacchia sulle sue poltrone, con un'autorità che prima non aveva. - Che vengano a sloggiarmi, "quei là" -, mi disse. Trae la sua forza dalla certezza. del proprio diritto a occupare quei mobili da lui conquistati, quelle sontuose spoglie che Lucien ammira. L'appartamento, come fatto, come azione che continua a svolgersi, fa parte del dramma. E' il tabernacolo infinitamente prezioso in cui veglia il testimone. Da quando so che gli altri son morti, anch'io entro da G. H. con maggior sicurezza, con minor meraviglia. Ogni oggetto non ha più quell'aria d'appartenere a un altro padrone, d'esser soggetto a un'altra anima. Tutto, lì, è definitivamente acquisito dal suo attuale proprietario. Uscitone, Lucien mi disse per le scale: - Con un tipo così, dev'essere uno spasso, il lavoro. - Che lavoro? - Il suo! - Quale? - Be', lo sai, il furto. Forse Armand vive in un lusso pari a quello o è stato fucilato. Quando i tedeschi occuparono la Francia, dov'era tornato, era logico che entrasse nella Gestapo. L'appresi da un agente in borghese che, durante un arresto, mi trovò addosso la sua foto. Lì doveva finire, e io avrei dovuto seguirlo. La sua influenza mi ci portava diritto. ("Avendo smarrito gran parte di questo diario, non posso rammentarmi con quali parole si richiamasse alla mia memoria l'avventura d'Albert e di D., di cui, senza prendervi parte, fui testimone. Non mi sento la forza di intraprenderne un nuovo racconto, ma per una sorta di rispetto ispiratomi dal tono tragico dato dai due al loro amore, mi sento in dovere di citarlo. Albert aveva vent'anni. Veniva da Le Havre. D. lo incontrò alla Santé. Quando ne uscirono, vissero insieme. In Francia c'erano i tedeschi. D. fu accolto nella Gestapo. Un giorno, in un bar, uccise con una revolverata un ufficiale tedesco che sfotteva il suo amico. Nel disordine ebbe il tempo di passar la sua arma ad Albert.
- Fa' sparir la rabbiosa. - Taglia. Taglia, Dédé. Non aveva fatto cinquanta metri, quando uno sbarramento gli bloccò la fuga. Certamente intravide, con folgorante rapidità, le torture che avrebbe subito. - Passami la rivoltella -, disse ad Albert. Albert non obbedì. - Passamela, ti dico, devo ammazzarmi. Era troppo tardi, i tedeschi erano già su di loro. - Bébert, non voglio che mi prendano vivo. Uccidimi. Albert lo freddò con una pallottola in testa e si suicidò. Quando stesi questo frammento smarrito del diario, ero da un pezzo ossessionato dalla bellezza d'Albert, sempre con quel suo berretto della marina fluviale in testa (col nastro nero pieno di fiori ricamati in oro). D. portava in giro per Montmartre i suoi stivali e la sua insolenza. Litigavano di continuo (D. aveva allora quarant'anni), sino a quella loro morte alla quale non assistei. Ignoro, nella prima forma data a questo racconto, a quale conclusione morale volessi giungere. Non provo in me nessuna febbre che m'induca a riscriverlo".) So la straordinaria calma di quando si sta compiendo un furto e il timore che l'accompagna. Il mio corpo ha paura. Davanti alla vetrina d'un gioielliere, finché non sarò dentro non riesco a credere che ruberò. Appena entrato, son sicuro che uscirò con un gioiello: un anello o le manette. Questa certezza si traduce in un lungo brivido che mi lascia immobile ma che corre dalla nuca ai calcagni. Si esaurisce nei miei occhi prosciugandomene gli orli. Le mie cellule, si direbbe, si trasmettono un'onda, un moto ondulatorio ch'è la sostanza stessa della calma. Mi penso dal tallone alla nuca. Accompagno l'onda. Essa è nata dalla paura. Senza di essa non esisterebbe questa calma dov'è immerso il mio corpo - dove il mio corpo approda. M'occorre una grande attenzione per non fuggire. Uscendo dal negozio, penerei molto a correre o soltanto a camminare svelto. Una sorta d'elastico mi trattiene. Ho i muscoli pesanti, serrati. Ma una vigilanza molto acuta li dirige per la strada. Stento a vedere Lucien in una situazione simile. Svenirebbe? E durante uno scucio? Scassinata la serratura, come spingo la porta scatta in me un ammasso di tenebre, o più esattamente un fittissimo velo di vapori in cui il mio corpo è chiamato a entrare. Entro. Per una mezz'ora opererò, se sarò solo, in un mondo ch'è l'inverso di quello ordinario. Il cuore mi batte a tutto spiano. La mia mano non trema mai. La paura non m'abbandona un ;attimo. Non penso precisamente al proprietario del luogo, ma tutti i miei gesti lo evocano a mano a mano che lo vedono. Sono immersi in un'idea di proprietà mentre sto saccheggiando la proprietà. Ricreo il proprietario assente. Egli vive non di fronte ma intorno a me. E' un fluido ch'io respiro, che mi entra dentro, che mi gonfia i polmoni. L'inizio dell'operazione procede senza troppa paura. Questa arriva quand'ho infine deciso d'andarmene. La decisione nasce quando nell'appartamento non è rimasto più nessun angolo segreto, quand'io ho preso il posto del proprietario. E non necessariamente appena ho scoperto il tesoro. Guy quasi sempre si siede a tavola e mangia nella cucina o nel salotto saccheggiato. Certi setacciari vanno al cesso dopo il sacco. Non sopporto il pensiero che Lucien si sottometta a questi riti. Non è un temperamento religioso. Scoperto il tesoro bisogna uscire. Allora la paura m'invade il corpo. Vorrei precipitar tutto. Non dico precipitarmi, cioè proceder più svelto, ma far sì che tutto, magicamente, s'affretti. Ch'io sia fuori di lì! E lontanissimo. Ma quali gesti fare per riuscir più rapido? I più pesanti, i più lenti. La lentezza porta con sé la paura. A palpitare, non è più il mio cuore ma tutto il mio corpo. Sono un'immensa tempia, la ronzante tempia della stanza depredata. M'è accaduto di preferire d'addormentarmi lì, un'oretta dietro una porta, per calmarmi, piuttosto che scender per la strada e svignarmela, perché pur sapendo di non essere inseguito moltiplicherò sempre gli zig zag, infilerò varie strade, tornerò sui miei passi, quasi volessi imbrogliare una pista. Dopo un furto rapido, la cosa è ancor più emozionante: cammino più svelto, accelero, i segmenti che compongono le linee spezzate sono più brevi. Son trasportato, si direbbe, alla stessa andatura con la quale compio il furto. Non sopporterei che Lucien s'esponesse così. La sua non è un'andatura
furtiva. Nei suoi movimenti, nel suo comportamento troviamo una lieve esitazione, un freno, paragonabili a quel freno che trattiene le ultime sillabe sull'angolo della bocca umida dei giovani americani. Lucien è pudico. Un giorno, minacciai di lasciarlo. - Per un po', va bene, ma alla fine il troppo stroppia. Dei tuoi capricci, ne ho abbastanza. Senza baciarlo, uscii. Per tre giorni mi rifiutai di vederlo. Non se ne lamentò mai. - Come sbarazzarmi di lui, allora? - mi chiesi. Mi visitarono alcuni scrupoli, m'amareggiarono, m'avvelenarono, coi miei pensieri, il corso di quella mia vita già tanto travagliata. Speravo che mi si gettasse al collo. Aspettai un miracolo, ma ci voleva un temporale per scoprire quel cielo. La sera del terzo giorno entrai in camera sua. - A mangiare un boccone, ci sei andato? - Non ho più un soldo. - E a me, non potevi chiederne? - Credevo che tu non me ne volessi dar più. Parlò in tono semplice, poi tacque. Non fece nessun tentativo per riagganciarsi alla vita. Quel suo restare insensibile di fronte alla propria infelicità mi esasperava. «Forse muore dalla voglia di farlo», mi dicevo; soltanto, la sua poca immaginazione gli impedisce di trovare il gesto giusto. Tutt'a un tratto, mi apparve murato in un sotterraneo dal quale non riuscisse a far intendere la sua voce - una voce certamente molto discreta e molto dolce. Era l'anima d'un paralitico desolata in fondo a un corpo immobilizzato. Ma ciò che finì di sciogliere il mio rigore, fu il ricordo di una frase che m'aveva detto a proposito della sua spalla lussata: «Non è colpa mia». Aveva messo tanta umiltà nello scusarsi a quel modo, che nel buio mi era parso di coglierne il rossore. - Non posso -, mi dissi allora, - lasciar così solo questo povero ragazzotto. Potrebbe ricordarsi d'avermi detto quella frase, e pensare che ho un cuore di sasso. Quando, due minuti dopo, era fra le mie braccia, lo agguantai per i capelli obbligandolo ad alzare il viso che aveva nascosto sul mio collo, e vidi che piangeva. Per quei tre giorni aveva sofferto la più nera angoscia. Sentii allora d'essere in pace con la mia anima e di recar la pace a quel fanciullo. Ero fiero d'esser la causa delle lacrime, della gioia e del dolore del ragazzotto. Per grazia mia, era una sorta di gioiello che il suo pianto e la sua pena indurivano sino allo scintillio. La sua disperazione e il suo ritorno alla vita lo rendevano ancor più bello. Lo rendevano prezioso. Le sue lacrime, i suoi singhiozzi sul mio collo provavano la mia virilità. Ero il suo uomo. Asciugatosi il volto, sdraiatosi accanto a me sul letto, Lucien prese a tormentarmi l'orlo dell'orecchio. Lo arrotolava, lo srotolava, lo tartassava. - Vuol prendere una piega falsa -, disse. Abbandonò l'orecchio per la guancia, per la fronte che pieghettò con le sue dita crudeli. (Le sue dita mi massaggiano la pelle con dura precisione. I suoi gesti non son macchinali. Lucien pone moltissima attenzione in quello che fa.) Pareva volesse provarmi molti volti nessun dei quali lo soddisfacesse. Mi lasciavo lavorare da quel ragazzotto cui il gioco permette che un'angoscia ancor maggiore esca da lui. L'inventar quelle rughe, quei solchi, quelle protuberanze lo divertiva, ma sembrava divertirlo mantenendolo serio. Non rideva. Sotto tali dita inventive sentivo la sua bontà. L'essere impastato, intagliato da quelle mi pareva una benedizione, e sentivo tutto l'amore che deve provar la materia verso chi la foggia con tanta gioia. - Che le fai, alla mia guancia? La mia domanda è lontana. Dove sono? Che accade qui, in questa camera d'albergo, su un letto d'ottone? Dove sono? Ciò ch'egli sta facendo m'è indifferente. Il mio spirito si riposa. Presto quest'aereo che sta rombando si schiaccerà al suolo. Io rimarrò qua, il volto finalmente sul suo collo. Lui non si muoverà. Resterò preso nell'amore, come lo si resta nel ghiaccio, o nel fango, o nella paura.
Lucien mi cincischiava, mi sminuzzava la pelle, le sopracciglia, il mento, la guancia. Spalancai ancor di più gli occhi, lo guardai e, senza sorridere, giacché non ne avevo la forza, gli dissi con tristezza (non avevo nemmeno la forza di mutar tono): - Che le fai, alla mia guancia? - Ci faccio dei nodi. Rispose con semplicità, come si parla d'un fatto naturale a uno pronto a capire a volo, o a uno che non capirà mai un fatto così semplice, così misterioso. La sua voce era un tantino sorda. Quando mi tirò su il sopracciglio per massaggiarlo, scostai un poco il capo. Tese le mani per riprenderlo, per riavvicinarlo a sé. Lo scostai di nuovo. Tese le braccia e invocò lamentosamente, quasi come un fantolino: - Jean, ti prego, lasciami fare. - Mi fai male. - Un pochettino appena, mio piccolo Jean. Un pochettino appena il tuo sopracciglio. Capisco che cosa leghi lo scultore alla sua argilla, il pittore ai suoi colori, ogni artigiano alla materia che sta lavorando, e la docilità, l'acquiescenza della materia ai gesti di colui che la anima, so quale amore passa, dalle dita, in queste buche, in queste protuberanze. Lo abbandonerò? Lucien m'impedirebbe di vivere. A meno che la sua quieta tenerezza, lo spaurito pudore non diventino sotto il sole del mio amore una tigre o un leone. Se mi ama, mi seguirà? - Che sarà di lui, senza di me? Orgoglioso, si rifiuterà di tornare a casa sua. Vicino a me, deve certo essersi abituato alla pigrizia e al lusso. Girerà pei bar? Diventerà cattivo, crudele per vendetta, per sfida, per odio verso tutti gli uomini. Al mondo, fra tante altre, una disgrazia mi lascia indifferente, ma soffro all'idea che quel ragazzotto imbocchi la via dell'onta. Sul ciglio della sua china, il mio amore si esalta. Sul punto di finire, accende ogni sera l'apoteosi del sole al tramonto. - Che sarà di lui? Il dolore dilaga su di me, mi ricopre. Vedo Lucien: le sue dita intorpidite, livide, pesanti, sensibili, gelate sin nell'osso s'aprono a stento per entrar nelle tasche dei pantaloni, orlate di sporcizia e intostite: lo vedo là a battere i piedi per il freddo, nel tramontano asciutto, davanti ai caffè dove non si ha il coraggio d'entrare, forse dai suoi piedi indolenziti nascerà una nuova danza, una parodia. Si tirerà su il bavero della giacca. Nonostante il vento che gli screpola le labbra, sorriderà ai vecchi pedé. Su di me dilaga il dolore, ma quale felicità, sul mio corpo e nel mio cuore, spande questi profumi quando, con quel medesimo pensiero che m'induce ad abbandonarlo, lo salvo da tutto il male cui lo voto? Non mi odierà. Nauseabonde zaffate risalgono dalla mia Spagna alle mie narici. Posso far qualcosa di meglio che collocarlo, per qualche pagina, in una delle posizioni più umilianti da me conosciute? Una goffa, puerile e magari orgogliosa idea di redenzione mi porta a credere ch'io mi sottoponga a tante vergogne affinché queste siano risparmiate a lui. Ma perché più efficace riesca l'esperimento, per un istante farò rivivere Lucien nei miei miserabili panni. In un libro intitolato "Miracolo della rosa", d'un ergastolano cui i compagni sputano sulle guance e sugli occhi, assumo l'ignominia della posizione, e parlando di lui dico: «Io...» Qui è il contrario. Con gli altri barboni senza nobiltà, Lucien era accovacciato contro un blocco di pietra su un terreno in abbandono presso il porto, dove gli accattoni erano tollerati. Ciascuno s'accendeva un minuscolo focherello di stecchi, dove riscaldava qualche chicco di riso, una manciata di fagioli distribuitigli in un barattolo di latta alla porta d'una caserma. Quel cibo, poiché proveniente da soldati stupendi tra i quali egli sarebbe stato il più bello, e poiché lasciato da questi, rimestato dalla loro pietà, o dal loro disprezzo a quella commisto, quel cibo, quella innominabile sbobba, gli si pietrificava, nell'inghiottirlo, in gola. Si sentiva stringere il cuore. Le lacrime trattenute gli indurivano le palpebre. La pioggia aveva spento tutti i fuochi che fumavano ancora. Gli accattoni proteggevano come meglio potevano la loro sbobba, nascondendo il barattolo sotto un lembo della giacca, sotto il sacco che s'eran buttati sulle spalle. Il terreno in abbandono si trovava sotto il muro di sostegno del viale che raggiunge le Ramblas, i passanti appoggiati alla spalletta dominavano una vera Corte dei
Miracoli dove, in qualsiasi momento, s'assisteva a magre dispute, a magre zuffe, a povere transazioni. Ogni atto era una parodia. Son grotteschi, i poveri. Ciò ch'essi facevano costì non era che il deformato riflesso di sublimi avventure protraentisi forse in ricche dimore, in individui degni d'esser visti e ascoltati. Gli accattoni che s'azzuffavano e s'insultavano attenuavano la violenza dei loro gesti e dei loro gridi per non fregiarsi, con quella, d'alcun nobile attributo, riservato al vostro mondo. Gli altri accattoni, guardando tali battaglie, posavano su di esse un occhio leggero, giacché anche questo non dev'essere che un riflesso. A una battuta, a un insulto sonoro e buffo, a un improvviso afflusso d'eloquenza come a un colpo abilmente, troppo sapientemente inferto, negavano il sorriso o la parola d'ammirazione. Anzi, ma in silenzio, e nel segreto del cuore, lo biasimavano come se si fosse trattato d'un'incongruenza. E un'incongruenza lo era, rifiutata dal loro pudore. Per esempio, nessun povero avrebbe detto all'altro in tono di compatimento: - Povero amico mio, su. Passerà -. Avevano del tatto, quei signori. Per loro sicurezza, onde evitare qualsiasi incrinatura che potesse lasciar adito all'angoscia, osservavano un'indifferenza prossima alla più stretta cortesia. Il loro linguaggio conservava il ritegno dei classici. Sapendosi ombre o riflessi, deformi e grami, pietosamente s'adoperavano per possedere una grama discrezione di gesti e di sentimenti. Parlavano non a bassa voce, ma in tono intermedio tra alto e basso. La scena che voglio descrivere si svolgeva sotto la pioggia, ma anche a mezzogiorno, sotto il sole di luglio, su di essi la pioggia pareva cader dolcemente facendo loro battere i denti. A volte, appariva un soldato. Diceva qualche parola in spagnolo, e cinque o sei tra i più umili, tra i più vecchi e i più brutti, si precipitavano miserabilmente: il soldato ne portava due sino al lavatoio dove strizzavano e stendevano dei panni. A tali inviti, Lucien non rispondeva mai. Guardava davanti a sé - e dal fondo d'una garitta di tristezza - il mare in lontananza ammollarsi. Teneva gli occhi fissi. Era sicuro che da quel sogno non sarebbe mai uscito. La sporcizia ne metteva in risalto i lineamenti. Il sudore gli rendeva il volto unto, liscio, perfetto per l'obiettivo. Si radeva di rado e male, insaponandosi con la mano. Non avendo, come me a quell'epoca, tagliato i cavi che trattengono prigioniero colui che non ha altro scampo tranne il distacco, manteneva rapporti col vostro mondo mediante la sua giovinezza, la sua bellezza, il suo amore per l'eleganza, la sua fame, il suo bisogno di gloria terrena. Mi riesce doloroso degradarlo. Proverei una gran gioia se potessi chiamarlo birbone, briccone, canaglia, farabutto, teppista, furfante, tutti bei nomi che hanno il compito d'evocare ciò che per derisione voi chiamate bella gente. Ora, tali parole cantano. Gorgheggiano. Per voi esse evocano anche i più dolci e spinti piaceri, giacché in sordina, precedute o seguite da tenero, caro, adorabile o diletto, ch'esse sottilmente attirano, le sussurrate ai vostri amanti. Che Lucien si disperi e ch'io ne soffra! Lacerato il velo del pudore, messe in mostra le parti vergognose, conosco, le guance in fiamme, il bisogno di nascondermi o di morire, ma credo che affrontando tali penose angustie e perdurando in esse, l'impudicizia mi permetterà d'apprendere strane bellezze. (Mi azzardo a usar questa parola presupponendo di scoprire un mondo più luminoso dove senza turbare l'emozione, senza turbare l'amore, un riso discreto - e futile - sarà permesso.) Lucien soffriva ma sordamente, si macerava. Se si guardava le mani sporche, a volte un empito di rabbia lo precipitava verso una fontana. Si lavava coraggiosamente il torso, poi i piedi, le mani, si risciacquava la faccia e con un pettine sdentato si pettinava i capelli. Quel suo tentativo per raggiungervi cadeva nel vuoto. Pochi giorni dopo, il sudiciume corrodeva il suo coraggio. Sempre di più la tramontana lo gelava, la fame lo indeboliva - non di quella nobile debolezza propria dei languori morbosi: il suo corpo continuava a restar bello, senza ch'egli se ne potesse gloriare perché sarebbe stata insolenza - un puzzo spaventoso lo allontanava da voi. Ho detto a sufficienza ciò che gli stava accadendo. Passarono dei turisti francesi che si sporsero dalla spalletta. Un piroscafo aveva fatto scalo a Barcellona ed erano scesi a terra per qualche ora. Stranieri in quel paese, in bellissimi impermeabili di gabardine, e ricchi, avevano scoperto in sé il diritto di trovar pittoreschi quegli arcipelaghi di miseria, la cui visita costituiva forse lo scopo segreto e inconfessato delle loro crociere. Senza curarsi che avrebbero potuto ferirli, tennero, là in alto sopra gli accattoni, un preciso dialogo in termini netti, quasi tecnici. - V'è un accordo perfetto, fra la tonalità del cielo e la tinta leggermente verdastra degli stracci.
- ... quel "côté" Goya... - Molto curioso, a osservarlo bene, il gruppo a sinistra. Vi sono scene alla Gustavo Doré, la cui composizione... - Son più felici di noi. - Hanno qualcosa, in loro, di più sordido dei baraccati, a Casablanca, ricordate? Bisogna proprio dire che il costume marocchino, anche a un "semplice" accattone, conferisce una dignità che un europeo non potrà mai avere. - Li abbiamo sorpresi tutti intirizziti. Bisognerebbe vederli in una bella giornata di sole. - Oh no, l'originalità delle pose... D'in fondo alle loro calde imbottiture, i turisti osservavano quella popolazione raggomitolata col mento sulle ginocchia, mal riparata dal vento e dall'acqua. Mai, nel mio cuore, avevo conosciuto odio o invidia pei ricchi che si scostavano da noi disgustati. La prudenza ci consigliava sentimenti attutiti: la sottomissione, la servilità. I ricchi obbedivano alle leggi della ricchezza. Quando li vide avvicinarsi, Lucien provò una sorta d'angoscia. Era la prima volta che vedeva degli uomini venire a esaminare le sue abitudini, le sue anomalie, le sue stranezze. Di colpo, vertiginosamente, venne precipitato in fondo all'innominabile, e tale caduta, mozzandogli il fiato, gli fece sobbalzare il cuore. Fra le mani inguantate di quella gente vedeva malignamente brillare l'obiettivo delle loro macchine fotografiche. Alcuni accattoni capivano il francese ma soltanto lui distingueva le sfumature miste d'insolenza e d'autoritaria benevolenza. Ciascuno si sbarazzò, annoiato, delle coperte e degli stracci, e sollevò un poco il capo. - Volete guadagnar qualcosa?... Come gli altri, Lucien si alzò in piedi, s'appoggiò sui gomiti, s'accovacciò, secondo le scene che i turisti volevan riprendere. Sorrise persino a un vecchio accattone, come gli era stato ordinato, e lasciò che gli scompigliassero e gli calassero sulla fronte bagnata i capelli sporchi. Le pose furono lunghe perché il tempo era scuro. I turisti si lamentarono della scarsa luce ma lodarono la qualità delle pellicole. Se gli accattoni provavano l'ingenua vanità di giovare a un pittoresco senza il quale la Spagna sarebbe stata meno bella, Lucien invece sentiva straripar la vergogna, e affogarlo. Appartenevano a un sito illustre. Io stesso, a Marsiglia, quando avevo sedici anni, in mezzo ad altri ragazzotti in attesa dei signori che ci avrebbero scelto, sapevo forse di concorrere a comporre quel gruppo di quindici o venti teppisti che la gente viene a vedere d'in capo al mondo e che san l'elemento estensibile ma essenziale, necessario per formare una città cara ai pedé? Ne conosco qualcuno della mia età che mi dice, se mi incontra: - Ah sì, ricordo, eri uno di rue Bouterie, oppure: «Eri di Cours Belsunce». Per un soprappiù di bassezza, i barboni si disposero nei punti più sporchi, sdegnando la minima precauzione per la loro persona; Lucien s'era seduto su uno scalino bagnato, coi piedi in una pozzanghera. Non tentava più nessuno sforzo per congiungersi col vostro mondo, disperava, ormai. La sua pietosa immagine era destinata a illustrare il viaggio d'un dilettante milionario. - Voi, voi vi ho ripreso cinque volte -, disse un uomo. Porse dieci pesetas a Lucien, che ringraziò in spagnolo. Gli accattoni furon parchi nel mostrar la loro gratitudine e la loro gioia. Se alcuni se n'andarono a bere, gli altri ripresero la loro posizione ripiegata, come se dormissero, in realtà secernendo una sorta di verità che apparterrà soltanto a loro e li salverà: l'indigenza allo stato puro. Questa scena non è che una fra le molte e vorrei con essa che l'idea di Lucien si purificasse sino a toccar la perfezione, sino a rendersi degna della felicità che allora andavo procacciandogli. Ciò che so di lui: la tenerezza, la gentilezza, la vulnerabilità, più che qualità difetti (ma come in francese si dice «il difetto della corazza», ossia il tallone d'Achille), proponendomelo in quelle posizioni dove la sua infelicità sarebbe tale ch'egli s'ucciderebbe. Tuttavia, per amarlo più di me stesso, ho bisogno di saperlo debole, fragile, sì da non esser mai tentato (contro di me) d'abbandonarlo. Le mie avventure gli giovano. Le ho vissute. All'immagine da me voluta di Lucien offro d'attraversare, crudelmente, le stesse prove. Solo che, ad averle sofferte, sarà il mio corpo, e il mio spirito. Poi, a cominciar da queste, formerò di lui un'immagine ch'egli imiterà.
Ho descritto male quest'operazione consistente nell'accollarmi il dolore altrui, ma a parte il fatto che troppo confusamente ne distinguo il meccanismo, è troppo tardi, sono troppo stanco perch'io possa accingermi a mostrarvene meglio il funzionamento. Allo scopo non di sistemar Lucien nella felicità ma di fargli emanare felicità, voglio lavorarlo secondo un'immagine di lui da me già preparata, portata con me, schizzata anzitutto con le mie proprie avventure. Così, a poco a poco, lo abituerò a capirle, a sapermi impastato da quelle, a parlarne egli stesso senza arrossire, senza compiangermi o intenerirsi, giacché deve sapere ch'io ho ormai deciso che a trarne beneficio sarà soltanto lui. Esigo dunque che conosca la mia prostituzione, e la riconosca. Che conosca i particolari dei miei più vili ladrocini, che ne soffra e li accetti. Che sappia inoltre la mia origine e la mia pederastia, la mia viltà, la mia strana immaginazione che mi spinge a desiderar come madre urna vecchia ladra dal volto scialbo e sornione; il mio gesto per chiedere l'elemosina; la mia voce, ora rotta, ora velata, secondo una convenzione riconosciuta dagli accattoni e dai borghesi; il modo da me inventato, ingegnoso, d'accostare i pedé; le mie arie di checca nervosa; la mia vergogna di fronte ai bei ragazzi; la scena in cui uno di loro rifiutò la mia tenerezza per la faccia tosta e la grazia d'un teppista; l'altra in cui il console francese si tappò il naso vedendomi entrare e mi fece sbattere alla porta; infine gli interminabili viaggi per l'Europa perseguiti nei miei stracci, nella fame, nel disprezzo, la stanchezza e i viziosi amori. Quando da Stilitano fui abbandonato presso San Fernando, ancor più grande fu in me l'angoscia, ancor più profondo il sentimento della mia povertà. (Parlando dei poveri, gli arabi dicono: «Miskin». Ero meschino). Ciò che mi portavo addosso non era più nemmeno il suo ricordo, ma l'idea d'un essere favoloso, origine e pretesto di tutti i desideri, terribile e dolce, lontano e vicino, al punto di contenermi in quanto, essendo adesso sognato, aveva, seppur brutale e duro, l'inconsistenza gassosa di certe nebulose, le loro gigantesche dimensioni, il loro splendore nel cielo, e persino il loro nome. Ridotto con la bocca per terra dal sale e dalla stanchezza, i miei piedi calpestavano Stilitano, la polvere da me sollevata era la sua materia impalpabile mentre i miei occhi bruciati cercavano di scorgere i più preziosi particolari di una sua immagine più umana, nonché più inaccessibile. "Per ottenere qui la poesia, cioè per comunicare al lettore un'emozione che allora ignoravo - che ancora ignoro - le mie parole fanno appello alla sontuosità carnale, all'apparato delle cerimonie di quaggiù, ahimé non all'ordinamento, che si vorrebbe razionale, della nostra epoca, ma alla bellezza delle epoche morte o moribonde. Ho creduto, esprimendola, di sbarazzarla di quel potere che esercitano gli oggetti, gli organi, le sostanze, i metalli, gli umori, ai quali a lungo fu reso un culto (diamanti, porpora, sangue, sperma, fiori, orifiamme, occhi, unghie, oro, corone, collari, armi, lacrime, autunno, vento, chimere, marinai, pioggia, crespo), e di disfarmi del mondo ch'essi significano (non di quello che nominano ma di quello che evocano e nel quale m'impegolo), tentativo che rimane vano. E' sempre ad essi che ricorro. Proliferano e m'agguantano. Per colpa loro attraverso i vari strati genealogici, il Rinascimento, il Medioevo, le epoche carolingia, merovingia, bizantina, romana, le epopee, le invasioni, per pervenire alla Favola dove ogni creazione è possibile". Mi domandavo che cosa potesse nascondere quel velo di saliva, il segreto senso dell'oleosità e della bianchezza del suo sputo, non malaticcio ma anzi d'un impressionante vigore, capace di provocare orge d'energia. (Scosso dall'incontro, secondo il capriccio delle mie letture, di termini evocanti la religiosità, con tutta naturalezza me ne servivo per pensare ai miei amori che così nominati assumevano proporzioni mostruose. Con essi m'ingolfavo in un'originaria avventura governata dalle forze elementari. Forse l'amore per crearmi meglio mi rimetteva al fatto di tali elementi, che chiamano le parole conturbanti usate per nominarli: culti, cerimoniali, visitazioni, litanie, regalità, magia... Da un tal vocabolario, dall'informe universo ch'esso propone e ch'io contenevo, venivo
disperso, annientato.) In quel disordine, in quell'incoerenza, di villaggio in villaggio andavo mendicando. Lungo le coste spagnole, ogni tre o quattro chilometri, le guardie di finanza hanno costruito dei casotti dai quali si può sorvegliare il mare. Una sera qualcuno entrò in quello dove m'ero sdraiato per dormire. Quand'ero un miserabile, e camminavo sotto la pioggia o nel vento, la più piccola anfrattuosità, il minimo riparo diventava per me abitabile. A volte lo adornavo di sapienti comodità ricavate da certe sue caratteristiche: il palco d'un teatro, la cappella d'un cimitero, una caverna, una cava abbandonata, un vagone merci, che so io? Ossessionato dal pensiero d'un alloggio, idealmente abbellivo, secondo la sua propria architettura, quello da me prescelto. Mentre mi veniva negata ogni cosa, desideravo esser fatto per le scanalature delle colonne finte che ornano le facciate, per le cariatidi, pei balconi, per la pietra da taglio, per quella pesante sicurezza borghese che s'esprime tramite loro. - Bisognerà ch'io ami tutte queste cose, mi dicevo, che mi siano care, ch'io appartenga ad esse perché esse appartengano a me e l'ordine che sorreggono sia il mio. Ahimé, non ero ancora fatto per loro. Tutto me ne allontanava, tutto impediva quel mio amore. Mi mancava il gusto della felicità terrena. Oggi che sono ricco ma stanco prego Lucien di prendere il mio posto. Piegato in due, rannicchiato nel mio cappotto per sfuggire all'umidità del mare, dimenticavo il mio corpo e la sua stanchezza immaginando per la baracca di giunchi e di canne quei particolari che ne avrebbero fatto un'abitazione perfetta, costruita apposta per riparare l'uomo che in pochi istanti diventavo affinché il mio animo s'accordasse al sito - il mare, il cielo, la scogliera, le lande - e alla fragilità della costruzione. Un uomo urtò contro di me. Bestemmiò. Non avevo più paura, di notte, anzi. Era una guardia di finanza d'una trentina d'anni. Armato del suo fucile veniva per spiare i pescatori o i marinai dediti al contrabbando tra il Marocco e la Spagna. Cercò di farmi uscire, poi, illuminandomi il volto con la sua lampada, e accortosi ch'ero giovane, mi disse di restare. Divisi con lui la sua cena: il pane, qualche oliva, delle aringhe, e bevvi un po' di vino. Parlammo un poco, poi mi accarezzò. Mi disse ch'era andaluso. Non ricordo più se fosse bello. Attraverso l'apertura si vedeva il mare. Non riuscimmo a distinguere nessuna barca ma sentimmo dei remi batter l'acqua e delle voci parlare. Si mosse per uscire ma io resi più sapienti le mie carezze. Non riuscì a strapparsene, i contrabbandieri poteron certamente approdare tranquilli. Sottostando ai capricci del finanziere, obbedivo a un ordine dominatore che era impossibile non servire: quello della Polizia. Per un attimo non ero più il vagabondo affamato e cencioso scacciato dai cani e dai bambini, e nemmeno ero più il ladro audace che la fa in barba ai piedipiatti, ma la favorita che, in una notte stellata, culla il vincitore. Quando compresi che pei frodatori uno sbarco senza pericolo dipendeva soltanto da me, mi sentii responsabile non solo nei loro confronti ma nei confronti di tutti i fuorilegge. C'era altrove chi mi sorvegliava e non potevo sottrarmi. Mi sorreggeva l'orgoglio. Alla fine, poiché la guardia la trattenevo simulando l'amore, l'avrei più saldamente trattenuta, mi dissi, se il mio amore si fosse rinvigorito, e non potendo far di meglio l'amai con tutte le mie forze. Le concessi la mia notte più bella. Non perché fosse felice ma per addossarmi - e per liberarne lei - la sua propria ignominia. Il tradimento, il furto e l'omosessualità sono i soggetti essenziali di questo libro. Un rapporto esiste fra questi, e anche se non sempre evidente mi sembra almeno di riconoscere una sorta di scambio vascolare fra il mio gusto per il tradimento, il furto e i miei amori. Quando l'ebbi colmato di piacere, il finanziere mi domandò se avessi sentito qualcosa. Il mistero di quella notte, di quel mare dove s'aggiravano invisibili ladri, mi turbò. L'emozione particolarissima che mi sono azzardato di chiamar poetica, lasciava nel mio animo qualcosa come una scia d'inquietudine che andava attenuandosi. Il bisbiglio d'una voce, di notte, e sul mare il rumore d'invisibili remi, nella mia particolare situazione m'avevano sconvolto. Indugiavo attento a coglier quegli atti che, erranti, mi parevano in cerca, come lo è d'un corpo un'anima in pena, d'una coscienza che li registrasse e li provasse. Come l'hanno trovata, essi cessano: il poeta esaurisce il mondo. Ma s'egli ne propone un altro, non può esser che con la sua
propria riflessione. Quando, alla Santé, presi a scrivere, non avvenne mai per rivivere le mie emozioni o per comunicarle, ma affinché io potessi, dell'espressione di quelle imposta da quelle, comporre un mondo (morale) sconosciuto (da me stesso in primo luogo). - Sì -, dissi. Mi chiese da che parte, secondo me, erano sbarcati. Il suo sguardo frugava il buio. Aveva il fucile in mano, pronto a sparare. Ora, il mio amore per l'esattezza è talmente forte, ch'io fui lì lì per indicargli la direzione giusta: dovetti alla riflessione la mia lealtà verso i contrabbandieri. Insieme, come se fossi stato il suo cane, facemmo qualche passo sulla scogliera e rientrammo nel casotto per nuove carezze. Sulla litoranea, proseguii il mio viaggio. Ora di notte, ora di giorno. Registravo stupefacenti visioni. La stanchezza, la vergogna, la miseria mi costringevano a cercar aiuto soltanto in un mondo dove ogni fatto aveva un senso che non so definire ma che non è quello che tale mondo propone a voi. La sera sentivo cantare: alcuni contadini stavano raccogliendo arance. Di giorno entravo nelle chiese per riposarmi. Poiché l'ordine morale trae origine dai precetti cristiani, desideravo familiarizzarmi con l'idea di Dio: alla messa del mattino, in stato di peccato mortale, facevo la comunione. Il sacerdote prendeva un'ostia nel ciborio (un prete spagnolo)! - In quale salsa sono inzuppate? - mi domandavo. La salsa era l'unzione delle pallide dita del sacerdote. Per staccarle e prenderne soltanto una, le maneggiava con un gesto untuoso, come se avesse rimescolato nel vaso d'oro un liquido denso. Ora, sapendo che le ostie sono una sfoglia di pasta bianca e secca, me ne stupivo. Rifiutandomi d'ammettere un Dio di luce secondo le spiegazioni dei teologi, Dio mi riusciva sensibile - o, meglio che Dio, una stomachevole impressione di mistero - attraverso qualche brutto, sordido (e originato da una puerile immaginazione) particolare della liturgia romana. - Da una tale nausea -, mi dicevo, - è sorta l'ammirevole struttura delle leggi dalle quali mi trovo preso. Nel buio della chiesa, davanti al sacerdote in pianeta, avevo paura. Ma poiché gli idalghi inginocchiati accanto a me non si scostavano dai miei stracci, e raccoglievano sulla punta della lingua la stessa ostia, ben sapendo che il suo potere si manifesta all'interno della nostra anima e non altrove, per coglierla in flagrante delitto d'impostura e farne la mia complice, la masticavo ingiuriandola mentalmente. Altre volte mi raccomandavo non a Dio ma alla nausea procuratami dalle finzioni religiose, dall'ombra delle cappelle dove vegliano vergini e ceri in abbigliamento da ballo, dal canto dei morti o dal semplice spegnimoccoli. Annoto questa curiosa impressione perché non priva d'analogia con quella che per tutta la vita proverò in circostanze ben lontane da quella ora descritta. L'esercito, i locali della polizia e i loro ospiti, le carceri, un appartamento svaligiato, l'anima della foresta, l'anima di un fiume (la minaccia - il rimprovero o la complicità della loro presenza di notte) e, sempre di più, ogni avvenimento cui assisterò, stabiliscono in me la medesima sensazione di un disgusto e di un timore che mi fanno pensare che l'idea di Dio io la nutra nelle mie budella. Sempre a piedi, lasciando il Sud, risalii verso la Francia. Ciò che conobbi di Siviglia, di Triana, d'Alicante, della Murcia, di Cordova, fu soprattutto il dormitorio pubblico e la ciotola di riso che ci servivano. Tuttavia riconoscevo, sotto tanti orpelli, sotto tante idiote dorature, l'angolosità, la muscolatura che, irrigidendosi all'improvviso, le ridurrà in schegge qualche anno dopo. All'interno della mia angoscia. non ignoravo la presenza della voluttà, d'una punta di furore. (Da un periodico comunista ritaglio una poesia scritta con l'intento di fustigare i guerrieri della Legione Azul, i fascisti, gli hitleriani. Composta contro di loro, essa invece li canta. Eccola: ROMANCE DELLA LEGIONE AZUL "Siamo cattolici, e dei più fini. Siamo anzitutto bravi assassini. Voi, di repubblica non ci parlate,
ma di sonore manganellate, d'olio di ricino a pieni catini. ... La neve cade sulle Castiglie. A noi le madri, a noi le figlie. Croci di ferro porteremo, divise verdi indosseremo, croci di ferro porteremo. A noi le madri, a noi le figlie. Cade la neve sulle Castiglie". Scritta da uno spagnolo, mediocre rimatore, questa poesia dice intera la Spagna. La Legione Azul era formata da un gruppo di sicari inviati in Russia per aiutare Hitler. Il colore del cielo in aiuto del diavolo!) Non m'arrestarono né i carabinieri né i vigili urbani. Quello che vedevano passare non era più un uomo ma un curioso prodotta della sventura, contro il quale le leggi sono inapplicabili. Avevo passato i limiti dell'indecenza. Avrei potuto, per esempio, senza che ci se ne stupisse, ricevere un principe del sangue, un grande di Spagna, chiamarlo cugino e parlargli il più bel linguaggio. Nessuno si sarebbe sorpreso. - Ricevere un grande di Spagna. Ma in quale palazzo? Se, per farvi comprender meglio sino a che punto avessi raggiunto una solitudine che mi conferiva potere e autorità di sovrano, utilizzo questo accorgimento retorico, è che me lo impongono una situazione, un esito che s'esprimono con le parole deputate a esprimere il trionfo nel secolo. Una parentela verbale traduce la parentela della mia gloria con la gloria nobilitare. Parente dei principi e dei re lo ero per una sorta di segreta relazione ignorata dal mondo, quella che permette a una pastorella di dar del tu a un re di Francia. Il palazzo di cui parlo (non può chiamarsi diversamente) è l'architettonico insieme delle delicatezze, sempre più impalpabili, ottenute dal lavorio dell'orgoglio sulla mia solitudine. Giove rapisce Ganimede e lo fotte: avrei dunque potuto permettermi qualsiasi stravizio. Possedevo l'eleganza semplice, la spigliatezza dei disperati. Il mio coraggio consisté nel distruggere tutte le consuete ragioni di vita e nello scoprirmene altre. La scoperta avvenne lentamente. Della disciplina osservata - non del regolamento interno del penitenziario - a Mettray scoprirò più tardi le virtù. Per diventare un colono, mi sforzai. Come la maggior parte dei piccoli teppisti, avrei dovuto spontaneamente, senza rifletterci sopra, compiere i vari atti che "attuano il colono". Avrei conosciuto le pene e le gioie ingenue, la vita m'avrebbe proposto soltanto pensieri banali, quelli che chiunque può formulare. Mettray, che pur sbramava i miei appetiti amorosi, ferì sempre la mia sensibilità. Soffrivo. Crudelmente mi vergognavo d'esser rapato, vestito d'un'infame divisa, di trovarmi consegnato in quell'ignobile luogo; conoscevo il disprezzo degli altri coloni, più forti di me o più cattivi. Per sopravvivere alla mia desolazione, quand'ero maggiormente ripiegato su me stesso, elaboravo senza porvi mente una rigida disciplina. Il meccanismo era pressappoco questo (da allora lo utilizzerò sempre): a ogni accusa fattami, anche se ingiusta, avrei risposto con un sì dal profondo del cuore. Appena pronunziata quella parola - o la frase d'egual significato - sentivo dentro di me il bisogno di diventare ciò che m'avevano accusato d'essere. Avevo sedici anni. M'avete capito: nel mio cuore non lasciavo nessun posto dove potesse trovare asilo il sentimento della mia innocenza. Mi riconoscevo il vile, il traditore, il ladro, il pedé che vedevano in me. Un'accusa può esser fatta senza prove, e al fine di sentirmi colpevole forse a qualcuno sembrerà che avessi dovuto compiere gli atti propri dei traditori, dei ladri, dei vili, invece niente di tutto questo: dentro di me, con un poco di pazienza, riflettendo scoprivo sufficienti ragioni per esser chiamato con quei nomi. E mi stupivo di vedermi composto d'immondizie. Divenni abietto. A poco a poco m'abituai a tale stato. Lo confesserò tranquillamente. Il disprezzo che nutrivan per me si cambiò in odio: ero riuscito. Ma quali e quante lacerazioni avevo conosciuto! (29)
Due anni dopo ero forte. Un tale allenamento - simile agli esercizi spirituali mi aiuterà per erigere a virtù la povertà. Tuttavia il trionfo l'ottenni soltanto su di me. Anche quando affrontavo il disprezzo dei fanciulli o degli uomini, soltanto me stesso dovevo vincere, poiché si trattava non di modificare gli altri, ma me. Il mio potere su di me diventò grande, ma a esercitarlo così, sul mio io più recondito, diventai molto maldestro nei confronti del mondo. Né Stilitano né gli altri miei amici mi gioveranno, in quanto di fronte a loro sarò sempre troppo preoccupato di atteggiarmi ad amante perfetto. Le mie corse per l'Europa, forse, sarebbero riuscite a darmi una qualche destrezza, se non avessi rifiutato le cure quotidiane a vantaggio d'una sorta di continua contemplazione. Prima di quanto sto per riferire, già qualche azione l'avevo compiuta, ma nessuna di esse l'avevo esaminata con l'acutezza che riservavo alla mia vita morale. Conobbi l'ebbrezza dell'azione quando riuscii a legare stretto un uomo che una sera, ad Anversa, m'aveva portato con sé presso le banchine. Stilitano se n'era andato a ballare con Robert. Ero solo e triste, divorato dalla gelosia. Entrai in un bar e bevvi un goccio d'alcool. Mi balenò per un istante l'idea d'andare in cerca dei miei due amici, ma proprio l'idea di cercarli mi provava che li avevo perduti. I bar affumicati e chiassosi dov'essi bevevano e ballavano erano la traduzione terrena d'una regione morale in cui s'erano isolati da me e dal resto del mondo quel mattino stesso, quando entrando in camera avevo visto Stilitano, sul punto d'uscire, tender la mano inguantata, alzarla un poco e Robert sorridendo, quasi senza toccarla, schiacciare il bottone automatico del guanto. Non ero più il braccio destro di Stilitano. Un pezzo d'uomo mi chiese da accendere e m'offrì un bicchiere. Quando uscimmo voleva portarmi a casa sua, ma io mi opposi. Rimase un attimo incerto, poi si decise per i "docks". Avevo adocchiato il suo orologio d'oro, la sua fede e il suo portafoglio. Sapevo che non avrebbe gridato aiuto ma appariva forte. Non ne sarei venuto a capo se non con l'astuzia. Non preparai nulla di preciso. Pensai tutt'a un tratto d'utilizzare la cordicella datami da Stilitano. Raggiunto un angolo dei "docks", l'uomo mi chiese d'amarlo. - D'accordo. M'ingegnai perché si calasse i pantaloni sino ai calcagni, in modo da rimanervi impastoiato qualora volesse mettersi a correre. - Allarga le... Con entrambe le mani fece quanto gli avevo ordinato, e subito io gliele legai insieme, dietro la schiena. - Ma che combini? - Acqua in bocca, eh?, testa di cazzo. Avevo usato la stessa formula e lo stesso tono di voce che avevo udito da Stilitano, un giorno che fummo sorpresi a rubare una bicicletta. Posato sulle cose più umili, lo sguardo di Stilitano veniva rammorbidito dalla gentilezza: sul tavolo della trattoria, la sua mano prendeva con infinita bontà il menù unto e bisunto. Gli oggetti potevano affezionarglisi, giacché non li disprezzava. Come ne toccava uno, all'istante Stilitano ne riconosceva la qualità essenziale e da quella traeva un magnifico partito. Sorridendo, lo sposava. Dei ragazzotti, più che il loro broncio è il sorriso a incantarmi. Lo contemplo a lungo, a volte: m'affascina. Diventa una cosa staccata dal viso, animata da una sua singolare anima. E' quasi un animale prezioso, dalla vita dura e tuttavia fragile, è un'adorabile chimera. Se riuscissi a ritagliarlo, e a toglierlo dal viso dove giocherella, a portarmelo in tasca, la sua maliziosa ironia mi farebbe compier prodigi. Càpita ch'io tenti d'adornarmene - che è anche un voler guardarmene - invano. E', quel sorriso, il vero ladro. - E che cavolo, mi leghi? Ascolta, ti darò... - Mosca.! Saprò servirmi da solo. La paura d'esser sorpreso, o che il tizio spezzasse la funicella, svegliò la mia intelligenza in giri e nodi più sicuri. Gli frugai le tasche. Con la violenta gioia di sempre, le mie dita riconobbero i biglietti di banca e i documenti personali. Tremante di paura, non osava muoversi.
- Lasciami un po'... - Chiudi il becco! Non ci son motivi perché istanti simili debbano cessare. Avevo in mia balìa uno dei miei derubati, e volevo fargli pagar caro il fatto d'esserlo. Il luogo era buio ma poco sicuro. Un finanziere poteva sempre fare un giro d'ispezione e scoprirci. - Vecchio sozzone, credevi davvero che... Dall'occhiello del panciotto, dov'era attaccata la catena, gli strappai l'orologio. - E' un ricordo -, mormorò. - Appunto. Mi piacciono, i ricordi. Gli mollai un cazzotto in faccia. Emise un gemito, ma in silenzio. Davanti a lui, con la stessa prontezza di Stilitano, aprii il coltello e gli mostrai la lama. Vorrei esser più preciso nel dire che cosa fu per me quel momento. La crudeltà che m'imponevo dava una forza sorprendente non soltanto al mio corpo ma anche al mio animo. Mi sentii capace, con la mia vittima, d'esser magnanimo e di slegarla. Capace anche d'ucciderla. Della mia forza doveva essersi accorta pure lei. Nonostante l'oscurità, la intuivo umile, compiacente, ben disposta ad assecondar la mia ebbrezza. - E non berciare, se non vuoi che t'accoppi (30). Mossi un passo nel buio. - Senti... - Che vuoi? Con voce dolce, tremando forse in previsione d'un mio rifiuto, mormorò: - Lasciami almeno... Quando ritrovai Stilitano avevo qualche migliaio di franchi belgi e un orologio d'oro. Pensai dapprima d'andargli a raccontare la mia impresa perché ne restasse ferito, e Robert con lui. Poi, a poco a poco rallentando il passo, mi feci meno vanaglorioso. Decisi di restare il solo depositario di quella mia avventura. Sapevo, ed ero il solo a saperlo, di che fossi capace. Tenni nascosta la mia refurtiva. Era la prima volta che vedevo che faccia fa la gente da me derubata: una brutta faccia. Di tale bruttezza ero io la causa e ne provavo un crudele piacere, che immaginavo dovesse trasfigurarmi il volto, rendermi splendente. Avevo allora ventitré anni. Mi sentii da quel momento capace di spingermi lontano nell'efferatezza. Il possesso di quel denaro e dell'orologio abolì quanto restava in me del mio gusto per una miserabile povertà. (Senza distruggere il gusto per la sventura, ma una pomposa sventura.) Cionondimeno beneficiavo, per perseverare nella crudeltà e nell'indifferenza al dolore altrui, della rigida disciplina appresa durante l'accattonaggio. Provocai nuove aggressioni. Riuscirono. Dalla subdola condizione del ladro che si vergogna, ero dunque in salvo. Per la prima volta affrontavo l'uomo. Lo combattevo a viso aperto. Avevo vivo il sentimento di diventar vibrante, cattivo, gelido, rigido, lucente, tagliente come la lama d'una spada. Di tale mia trasformazione nessuno, né Stilitano né Robert, s'accorgeva. Vivevano in un loro ben condiviso cameratismo, cercando donne o trascurandole insieme. Verso Stilitano il mio atteggiamento non mutò. Gli dimostravo la medesima deferenza e Robert, nei suoi confronti, la medesima impertinenza. La personalità di Stilitano, in fondo alla quale vegliava e dettava ordini la parte più preziosa di me stesso, mi copriva forse perch'io mi sentissi protetto dalla corazza d'un eroe? Oppure io utilizzavo la voce, le parole, i gesti del mio amico come si toccano reliquie di cui urga mettere alla prova il potere magico? Era Stilitano che combatteva al mio posto. Accettava di bere coi pedé, sculettava davanti a loro, li depredava. Era la mia ossessione, l'averne coscienza mi faceva soffrire, ma sapevo anche che sbarazzatomi d'un tal sostegno sarei sprofondato. Lui ignorava a che cosa segretamente lo facessi servire, nonché d'essere ciò che si chiama la patria: l'entità che combatte al posto del soldato e lo sacrifica. Tremavo nello scender le scale della camera dove avevo, un istante prima, costretto il cliente a consegnarmi il denaro, giacché Stilitano, precipitosamente, si ritirava da me. Non era più con l'idea d'offrirglielo che conteggiavo il bottino. Allora ero solo. Ridiventavo inquieto. Ero dominato dal mondo dei maschi. Quando l'ombra li confondeva, ogni gruppo da questi formato mi proponeva un enigma senza ch'io potessi leggerne la soluzione sulla
loro fronte. I maschi immobili e silenziosi, avevano la violenza di corpuscoli elettronici gravitanti intorno a un sole d'energia: l'amore. - Se -, mi dicevo -, pervenissi a bombardarne uno, quale disintegrazione si produrrebbe, quale repentino annientamento? Oscuramente, mi dicevo ancora, devono pur saperlo per restarsene con tanto rigore al loro posto. Stremato dallo sforzo che m'aveva permesso d'affrontare gli uomini, ero ormai in balìa delle potenze delle tenebre. Diventavo lucido. M'invadeva una paura retrospettiva. Decidevo di por fine a lavori così pericolosi: non appena, di sera, un uomo si voltava al mio passaggio, sottilmente Stilitano s'introduceva in me, mi dotava di muscoli, rendeva più elastica la mia andatura, m'irrobustiva i gesti, mi coloriva quasi. Agiva. Sentivo nel mio passo, sul marciapiede, il peso del suo corpo greve, da monarca di periferia, che faceva scricchiolar le sue scarpe di coccodrillo. Posseduto da lui, mi sapevo capace di qualsiasi efferatezza. Il mio occhio era più chiaro. Invece d'inselvatichirmi, quella mia trasformazione m'adornava di grazie virili. M'accorgevo di diventar focoso, impetuoso. Una sera, incollerito dalla spocchia d'un pedé, mi misi a batter coi pugni un invisibile tamburo. - Sporco fregnone - dicevo fra i denti, mentre dentro di me la mia coscienza si desolava nel ferire, nell'insultare chi era la miseranda espressione del mio più caro tesoro: la pederastia. Escluso per nascita e per gusti da un certo ordine sociale, non ne distinguevo la varietà. Ne ammiravo la perfetta coerenza che mi ripudiava. Rimanevo stupefatto davanti a un edificio i cui particolari se la intendevano contro di me. Nulla al mondo era insolito: le stelle sulla manica d'un generale, il corso della Borsa, la raccolta delle olive, lo stile giudiziario, il mercato del grano, le aiole di fiori... Nulla. Un tale ordine, temibile, temuto, i cui particolari eran tra loro in stretta connessione, aveva un senso: il mio esilio. Soltanto nell'ombra, subdolamente, avevo sino a quel momento agito contro di esso. Oggi osavo toccarlo, mostrar che lo toccavo insultando coloro che lo componevano. Nello stesso tempo, riconoscendomi il diritto di farlo, vi riconoscevo il mio posto. Mi parve naturale che nei caffè i camerieri mi chiamassero «signore». Tale breccia, con un poco di pazienza e di fortuna, avrei potuto allargarla. Ma ero trattenuto dalla mia troppo lunga abitudine a vivere a capo chino e secondo una morale ch'è l'inverso di quella che governa tale mondo. Temevo infine di perdere il beneficio del mio laborioso e lungo procedere in senso opposto al vostro. Con la sua donna, Stilitano aveva una bruschezza di modi che gli invidiavo, mentre da Robert tollerava d'esser preso garbatamente in giro. Sorrideva, allora, in modo delizioso, scoprendo i suoi denti bianchi. Se sorrideva a me, il sorriso era eguale ma, forse perché non gli suscitavo sorpresa, non riuscivo a leggervi la medesima freschezza, la medesima complicità. Ai piedi di Stilitano era tutto un saltellar di cerbiatti. Robert avvolgeva intorno a lui le proprie ghirlande. Erano, il monco la colonna, e l'altro i glicini. Il fatto che s'amassero sino a quel punto senza mai far l'amore, mi turbava. Stilitano m'appariva sempre più inaccessibile. Scoprii, non ricordo come, che la moto nera non l'aveva rubata al poliziotto. Anzi, non l'aveva rubata affatto. S'erano prima messi d'accordo: abbandonata per qualche istante, Stilitano non avrebbe avuto che da inforcarla e venderla. Il denaro se lo spartirono. Questa scoperta avrebbe dovuto allontanarmi da lui, invece me lo rese ancor più caro. Ero innamorato d'un falso teppista, in paranza con un piedipiatti. Erano, insieme, un traditore e un impostore. Fatto di fango e di nebbia, Stilitano era pur sempre una divinità cui potevo continuare a sacrificarmi. In entrambi i sensi della parala, ero posseduto da lui. Di Stilitano, oltre al suo passato nella Legione straniera, che seppi a forza di particolari piuttosto meschini che di quando in quando rievocava, conobbi come aveva impiegato il suo tempo dal giorno della nostra separazione a quello del nostro nuovo incontro. Erano trascorsi, credo, quattro o cinque anni, durante i quali aveva corso la Francia vendendo a prezzo altissimo dei pizzi di basso costo. Ecco che cosa mi raccontò sorridendo. Un amico gli fabbricò una carta che, come rappresentante, lo autorizzava - e soltanto lui - a vendere i pizzi fatti dai giovani tubercolotici del sanatorio di Cambo.
- Di Cambo, capisci, perché a Cambo non c'è sanatorio. Così non potevano accusarmi di truffa. Be', in ogni paesotto andavo a trovare il parroco. Gli presentavo la mia carta, la mia mano mozza, e i pizzi. Gli dicevo che, nella sua chiesa, mica ci sarebbero state male delle tovaglie d'altare fatte da dei malatini. Il curato, ci potevi giurare, mi spediva da tutte le carampane ingranate. Poiché andavo da parte del parroco, non osavano sbattermi alla porta. Né osavano non comprare. Gli rifilavo allora, a cento francozzi, delle pezzuole di pizzo fatto a macchina che avevo pagato uno scudo in rue Myrrha. Stilitano me lo raccontava così, senza fiorettature, con voce neutra. Mi disse d'aver guadagnato molti soldi ma non gli credetti, poiché non era molto industrioso. D'un tale imbroglio, doveva più che altro esser stata l'idea a sedurlo. Infine un giorno che, lui assente, in un cassetto scoprii un mucchio di medaglie al valor militare, di croci di guerra, di Nissam, d'Uissam-Alauita, d'Elefante bianco, mi confessò che, indossata un'uniforme francese, se n'era fregiato il petto e, così bardato, aveva chiesto l'elemosina sul metrò mostrando il suo moncherino. - I miei dieci franchi al giorno me li facevo. Alla bella facciaccia dei parigini. Mi riferì altri particolari che non ho il tempo di riportare. Lo amavo ancora. Le sue qualità (come quelle di Java) fanno pensare a certe droghe, a certi odori che non osi dir gradevoli ma di cui non puoi fare a meno. Frattanto, quando ormai non lo aspettavo più, tornò Armand. Lo trovai a letto, che fumava una sigaretta. - Salute, maschio -, mi disse. Mi porse per la prima volta la mano. - Be', tutto bene? Niente grane? Ho già detto della sua voce. Aveva la stessa freddezza, direi, del suo occhio azzurro. Così come guardava senza fissar lo sguardo sugli oggetti o sulle persone, parlava con voce resa irreale dal suo prender così poca parte alla. conversazione. A proposito di certi sguardi, si può parlar di raggi (lo sguardo di Lucien, di Stilitano, di Java), ma non di quello d'Armand. Nemmeno la sua voce inviava raggi. A emetterla era un gruppo di minuscoli personaggi ch'egli teneva segreti in fondo al cuore. Non tradendo nulla, essa non avrebbe potuto tradire. Vi si distingueva tuttavia un accento vagamente alsaziano: i personaggi del suo cuore erano "boches". - Sì, tutto bene -, dissi. - Ho conservato le tue robe, come vedi. Ancor oggi mi càpita di desiderare che la polizia m'arresti per dirmi: «Invero, signore, vedo che non è stato lei a commettere i furti, di cui sono stati arrestati gli autori». Vorrei essere innocente di tutto. Nel dare ad Armand quella risposta mi sarebbe piaciuto fargli sapere che chiunque altro - all'infuori di me - e sempre me, tuttavia - lo avrebbe derubato. Quasi con un brivido, trionfavo nella mia fedeltà. - Oh, figurati, avevo piena fiducia. - E tu, tutto bene? - Ma sì, mica ha funzionato male. Osai sedermi sulla sponda del letto, e posar la mano sulle lenzuola. Egli aveva, quella sera, sotto la luce che cadeva dall'alto, la forza, la muscolatura delle grandi giornate. Intravidi a un tratto la possibilità di sfuggire al malessere, all'inquietudine in cui i rapporti per me inesplicabili tra Stilitano e Robert mi sprofondavano. Se avesse accettato, non di amarmi ma che io lo amassi, Armand, di me maggiore per età e forza, m'avrebbe salvato. Arrivava al momento giusto. Ammirandolo già, ero pronto a posare, sul suo petto coperto di borraccina bruna, teneramente la guancia. Allungai la mano. Sorrise. Mi sorrise per la prima volta e questo bastò, lo amai. - Gli affari non sono andati male -, disse. Si voltò su un fianco. Un leggerissimo irrigidimento m'indicò ch'io speravo che la sua mano terribile mi piegasse la testa secondo l'imperioso gesto col quale esigeva che mi chinassi per il suo piacere. Oggi, innamorato, avrei resistito un poco perché si innervosisse, perché mi desiderasse ancor di più.
- Ho voglia di bere un bicchiere. Mi alzo. Uscì dal letto e si vestì. Quando fummo per la strada, si felicitò con me per i miei colpi così ben riusciti contro le zie. Ero sbalordito. - Chi te l'ha detto? - Non te ne curare. Sapeva pure che ne avevo legata una. - E' stato un bel lavoro. Non avrei mai creduto. Mi riferì allora che gli uomini del porto conoscevano il mio metodo. Ogni mia vittima mi segnalava a un'altra o al camallo (questi si son prestati tutti, coi pedé) che si portava a casa per una notte. Dai pedé ero ormai conosciuto e temuto. Armand arrivava a proposito per informarmi della mia fama, e che questa costituiva per me un pericolo. L'aveva appresa appena tornato. Se Stilitano e Robert la ignoravano ancora, presto sarebbero stati messi a giorno. - E' togo quello che hai fatto, bimbo. Mi piace. - Oh, mica è dura. E' gente che se la fa sotto. - E' togo, ti dico. Non avrei mai creduto. Vieni a bere. Tornati a casa non pretese nulla da me, e ci addormentammo. Rivedemmo in seguito Stilitano. Armand conobbe Robert e gli bastò vederlo per desiderarlo, ma il ragazzotto, malizioso, gli sfuggiva. Un giorno gli disse ridendo: - Hai già Jeannot, non ti basta? - Lui è un'altra cosa. Infatti, dacché aveva saputo le mie audacie notturne, Armand mi trattava come un compagno. Mi parlava, mi dava consigli. Il suo disprezzo era scomparso, sostituito da una sollecitudine velata di tenerezza, quasi materna. Mi consigliava sul modo di vestirmi. E la sera, finita la nostra sigaretta, mi augurava la buona notte e s'addormentava. Accanto a lui, che ora amavo, ero costernato di non potergli dar nessuna prova del mio amore inventando le più abili carezze. La forma d'amicizia che mi concedeva m'obbligava alla massima castigatezza. Pur se nei miei misfatti sapessi quanta parte avesse il trucco, e nella mia audacia la paura, mi sforzavo d'esser l'uomo che Armand vedeva in me. Ad azioni eroiche, mi dicevo, non devono corrispondere atti che per convenzione le negano. E' semplice, Armand non avrebbe ammesso che servissi al suo piacere. Il rispetto stesso gli impediva d'usare come prima il mio corpo, mentre un tale uso m'avrebbe caricato di maggior forza e coraggio. Stilitano e Robert vivevano coi soldi guadagnati da Sylvia. Dimenticato, invero, il nostro subdolo comportamento coi pedé, il secondo fingeva di disprezzare il mio lavoro. - Me lo chiami sgobbo, quello? Bello sgobbo -, disse un giorno. - T'attacchi a vecchi che se stanno ancora in piedi posson ringraziare il colletto duro e il bastone. - Fa bene, è sempre meglio scegliere. Non sapevo che sul piano morale tale replica di Stilitano avrebbe all'istante suscitato una delle più ardite rivoluzioni. Ancor prima che Robert avesse risposto, con voce un poco più grave continuò: - E io, che ti credi, eh? - E rivolto a Stilitano: - Che ti credi? Io, quando serve, e sai bene cosa voglio dire, non ai vecchi m'attacco, ma alle vecchie. Non agli uomini ma alle donne. E scelgo sempre le più deboli. Quello che m'interessa, a me, è la grana. Il bello d'uno sgobbo sta nella sua riuscita. Quando avrai capito che non è fra cavalieri erranti che lavoriamo, avrai capito tutto. Lui (e m'indicava con la mano, giacché non mi chiamava mai per nome né col diminutivo), lui è in anticipo su voialtri, e ha ragione. La sua voce non tremava, ma in me l'emozione era così forte da farmi temere che, nel suo dire, Armand prendesse a mescolare sconvolgenti confidenze. La solida materia dell'ultima parola mi rassicurò. Tacque. Nel mio intimo sentii scaturire (schiudersi in un mare di rimpianti) una moltitudine di pensieri tutti tesi a rimproverarmi d'aver ceduto alle apparenze dell'onore. Mai Armand tornò sull'argomento (che né Stilitano né Robert avevano osato discutere) ma questo aveva ormai deposto il suo germe nel mio spirito. Il codice d'onore proprio dei teppisti mi parve ridicolo.
Armand a poco a poco divenne l'Onnipotenza in fatto di morale. Cessando di vederlo come un blocco, indovinai in lui una somma di esperienze dolorose. Peraltro, il suo corpo rimaneva altrettanto massiccio, e lo amavo in quanto mi proteggeva. Trovata tanta autorevolezza in un uomo sul cui volto - voglio crederlo - non affiorava mai la paura, ecco che ora sentivo di pensare con nuova e strana esultanza. Senza alcun dubbio, sarà soltanto più tardi che deciderò di sviluppare e di sfruttare i numerosi sentimenti dell'ambiguità nei quali, insieme con la vergogna mista al diletto, mi scoprii sede e confusione di contrari, ma già presentivo che spetta a noi dichiarare ciò su cui fonderemo i nostri principi. Più tardi, la mia volontà, liberata dai veli della morale grazie alla riflessione e all'atteggiamento d'Armand, la applicherò al modo di considerare la polizia. Fu a Marsiglia che incontrai Bernardini. Quando poi lo conoscerò meglio lo chiamerò Bernard. Ai miei occhi, la polizia francese è la sola a possedere la mostruosa potenza d'una mitologia. Quando avevo ventidue anni, Bernard ne aveva trenta. Vorrei farne con precisione il ritratto, ma la mia memoria conserva soltanto l'impressione di forza fisica e morale che mi diede allora. Eravamo in un bar di rue Thubaneau. Un giovane arabo me lo additò. - E' un magnaccia perfetto -, disse. - Ha sempre delle belle ragazze. Quella che era con lui mi parve molto carina. Forse mi sarebbe passato inosservato se non m'avessero detto ch'era un piedipiatti. Le polizie d'ogni paese d'Europa m'incutevano la paura che ispirano a tutti i ladri, ma quella francese mi turbava, anche, per una sorta di terrore originato più dal sentimento della mia nativa e irrevocabile colpevolezza che dal pericolo cui m'esponevano i miei incidentali falli. Come il mondo dei teppisti, quello dei poliziotti era un mondo cui non avrei mai avuto accesso, in quanto la lucidità (la coscienza) m'impediva di confondermi con quell'universo informe, instabile, vaporoso, di continuo ricreantesi, elementare e favoloso, del quale i motociclisti in divisa son tra noi la delegazione coi suoi attributi di forza. Più d'ogni altra, la polizia francese era per me tutto questo. Forse per il fatto del suo linguaggio, in cui scoprivo abissi. (Essa non era più un'istituzione sociale ma una sacra potenza, che agiva direttamente sul mio animo, turbandomi. Soltanto i tedeschi, al tempo di Hitler, riuscirono a essere contemporaneamente la Polizia e il Delitto. Questa magistrale sintesi di contrari, questo blocco di verità erano spaventosi, carichi d'un magnetismo che ci farà a lungo impazzire.) Bernardini era, qua in terra, e visibile ai miei occhi, la manifestazione, forse breve, d'un'organizzazione demoniaca non meno stomachevole dei riti funebri, dei paramenti funerari, non meno prestigiosa peraltro della gloria regale. Sapendo che lì, sotto quella pelle, in quella carne, era una particella di ciò che non avrei mai sperato per la mia, corso da un fremito lo guardavo. Come un tempo Rodolfo Valentino, aveva i capelli neri appiccicati, lustri, separati a sinistra da una scriminatura. diritta e bianca. Era forte. Il suo volto mi parve rugoso, con un che del granito, e desiderai in lui un'anima brutale e crudele. Capivo a poco a poco la sua bellezza. Credo anzi che fossi io a crearla, decidendo ch'essa fosse quel viso e quel corpo, muovendo dall'idea di polizia che avrebbero dovuto significare. L'espressione popolare che designa tutta intera l'organizzazione aumentava il mio turbamento. - La Segreta. E' della Segreta. Abilmente, m'ingegnai per seguirlo, per incontrarlo, a debita distanza, nei giorni successivi. Organizzai un sottile pedinamento. Senza che lo sospettasse, appartenne alla mia vita. Infine lasciai Marsiglia. In segreto serbai di lui un ricordo a un tempo doloroso e tenero. Due anni dopo venni arrestato alla stazione Saint-Charles. Gli agenti mi picchiarono, sperando di farmi confessare. La porta del commissariato s'aprì e con stupore vidi apparire Bernardini. Temevo che aggiungesse le sue botte a quelle dei colleghi, invece li fece smettere. Mai mi aveva notato quando amorosamente lo seguivo. Il mio volto, anche se lo avesse intravisto due o tre volte, dopo due anni l'avrebbe egualmente dimenticato. A ordinargli di risparmiarmi, non furono né la simpatia né la bontà. Come gli altri, era una carogna. Non sono in grado di spiegar perché, ma mi protesse. Quando venni rilasciato, due giorni dopo, feci in modo di rivederlo. Lo ringraziai. - Lei, almeno, è stato generoso.
- Oh, dovere mio. Non è il caso d'intontire i maschi. - Prende un bicchiere con me? Accettò. L'indomani lo incontrai di nuovo. Fu lui a invitarmi. Eravamo i soli avventori del bar. Col cuore che mi batteva, dissi: - E' da un pezzo che la conosco. - Ah! E da quando? Con un groppo in gola, temendo che s'arrabbiasse, gli confessai il mio amore e le mie astuzie per seguirlo. Sorrise: - E così, avevi preso una cotta? E adesso? - Non è finita del tutto. Rise più forte, forge lusingato. (M'ha confessato Java che lo rende più fiero l'amore o l'ammirazione d'un uomo che non l'amore o l'ammirazione d'una donna.) Ero in piedi accanto a lui e gli dicevo il mio amore un po' pagliaccescamente temendo ancora che la gravità della mia confessione gli ricordasse la gravità delle sue funzioni. Sorridendo, in tono un tantino canagliesco, dissi: - Che vuol che le dica, a me i bei maschi piacciono. Mi guardò con indulgenza. La sua virilità lo proteggeva e gli impediva la crudeltà: - E se te le avessi suonate, l'altro giorno? - Francamente, mi sarebbe dispiaciuto. Ma mi trattenni dal dire oltre. Insistendo su quel tono, la mia non sarebbe stata più la semplice confessione d'uno strambo capriccio passeggero, bensì d'un amore così profondo da lasciare un livido nel pudore del poliziotto. - Ti passerà -, mi disse ridendo. - Lo spero bene. Non sapeva però che accanto a lui, davanti a quel banco, schiacciato dalle sue spalle quadre e dalla sua sicurezza, a turbarmi più d'ogni altra cosa fosse l'invisibile presenza della sua placca d'agente investigativo. Quell'oggetto metallico aveva per me il potere d'un accendino fra le dita d'un operaio, d'un coltello a serramanico, d'una rivoltella, dove violentemente s'ammassa la virtù dei maschi. Solo con lui, in un angolo buio, forse avrei avuto l'audacia di sfiorare la stoffa, d'insinuar la mano sotto i risvolti della giacca dove di solito i piedipiatti portano il distintivo. La sua virilità aveva sede in quella placca non meno che nel suo sesso. Se si fosse eccitato sotto le mie dita, avrebbe tratto da essa una forza che forse l'avrebbe gonfiato ancor di più, gli avrebbe dato mostruose dimensioni. - Possiamo rivederci, no? - Certo, vieni a stringermi la mano. Per non irritarlo con la mia fretta, mi trattenni per qualche giorno dall'andarlo a trovare, poi finimmo con l'amarci. Mi fece conoscere sua moglie. Ero felice. Una sera, mentre fiancheggiavamo le calate della Joliette, la solitudine in cui a un tratto ci trovammo, la prossimità del Forte SaintJean, rigurgitante di legionari, la sgomentante desolazione del porto (che cosa mai poteva accadermi di più disperante d'esser con lui in quel posto?) mi diedero a un tratto un'enorme audacia. Rimasi abbastanza lucido per notare che anche lui rallentava il passo, mentre mi stringevo ancor più al suo fianco. Con mano tremante gli toccai goffamente una coscia, poi non sapendo come andare avanti impiegai macchinalmente la formula che usavo coi pedé timidi: - Che ora è? - Eh? Guarda, io fo mezzogiorno. Rise. Lo rividi spesso. Per la strada gli camminavo accanto, ricalcando il passo sul suo. Se si era in pieno giorno, facevo in modo che la sua ombra si proiettasse sul mio corpo. Questo ingenuo giochetto m'appagava. Continuavo nel mio mestiere di ladro, derubando di notte il pedé che m'aveva scelto. Le puttane di rue Bouterie (quel quartiere non era stato ancora distrutto) mi compravano gli oggetti rubati. Ero sempre lo stesso. Esageravo un poco, forse, nel trovar buona ogni occasione per sfoderare e metterla sotto gli occhi dei piedipiatti la carta d'identità nuova fiammante, che lui stesso aveva timbrato con
un bollo della questura. Bernard conosceva la mia vita, che mai mi rimproverò. Una volta, peraltro, cercò di giustificarsi d'essere un piedipiatti, mi parlò di morale. Poiché ogni atto io lo consideravo soltanto dal punto di vista estetico, non potevo capirlo. La buona volontà dei moralisti s'infrange contro quella ch'essi chiamano la mia malafede. Se costoro possono provarmi che un atto è detestabile per il male che fa, io solo posso decidere, in base al canto che solleva in me, della sua bellezza, della sua eleganza; io solo posso rifiutarlo o accettarlo. Nessuno potrà riportarmi sulla retta via. Tuttalpiù potrebbero intraprendere la mia rieducazione artistica - col rischio però, da parte dell'educatore, di lasciarsi convincere e convertire alle mie idee, se fra due personalità la bellezza è provata da quella che sovraneggia. - Sai, io non ti rimprovero d'essere un pulé. - Non ti scoccia? Ben sapendo che mi sarebbe stato impossibile spiegargli la vertigine che mi precipitava verso di lui, maliziosamente volli ferirlo un poco. - Be', non mi sfagiola troppo, ecco. - Credi che non ci voglia coraggio a star nella polizia? E' più pericoloso di quanto credi. Ma parlava di coraggio e di pericolo fisici. Del resto, non è che s'interrogasse molto. Salvo alcuni (Pilorge, Java, Soclay, il cui volto, peraltro, annunzia una dura virilità, ma dissimula fangose paludi come quelle zone tropicali dette savane tremolanti) gli eroi dei miei libri e gli uomini che sceglievo d'amare possedevano la stessa massiccia apparenza, la più immorale imperturbabilità. Bernard somigliava a costoro. Col suo abito fatto, aveva l'eleganza smaccata dei marsigliesi che sfotteva. Portava scarpe gialle con tacchi molto alti, e tutto il suo corpo ne restava inarcato. Era la più bella faccia di meteco che avessi mai conosciuto. Nel suo animo scoprivo, per mia fortuna, l'inverso delle leali, rigide qualità che s'attribuiscono ai piedipiatti sullo schermo. Era un puzzone. Con tutti quei suoi difetti, quale meravigliosa conoscenza del cuore avrebbe potuto avere, e quanta bontà, se si fosse fatto intelligente! Me lo figuravo in atto d'inseguire un pericoloso criminale, d'acciuffarlo in piena corsa, come certi giocatori di rugby agguantano l'avversario che ha in mano il pallone, gli si buttano addosso, lo stringono per la vita e da quello vengon trascinati via, con la testa schiaffata su una coscia o sulla pattìna nemiche. Il ladro avrebbe tenuto stretto il suo tesoro, lo avrebbe protetto, si sarebbe divincolato un poco, poi i due uomini, non ignorando d'aver lo stesso corpo saldo e pronto a tutte le audacie, nonché lo stesso animo, si sarebbero scambiato un amichevole sorriso. Imponendo un seguito a questo breve dramma, era il bandito ch'io consegnavo alla polizia. Nell'esigere (e con quanto fervore!) che ogni mio amico possedesse il proprio doppio nella polizia, a quale oscuro desiderio obbedivo? Non ho mai adornato né il teppista né il piedipiatti di quelle virtù cavalleresche che s'accordano agli eroi. L'uno non è mai stato l'ombra dell'altro ma sia l'uno sia l'altro m'apparivano fuori della società, respinti da questa e maledetti, e forse volevo fonderli insieme per porre meglio in risalto la confusione che ne fa l'uomo della strada quando mescolandoli dice: - Non è certo fra i chierichetti che la polizia recluta i suoi uomini. Se volevo che fossero belli, poliziotti e teppisti, è perché i loro corpi splendenti si vendicassero del disprezzo in cui voi li tenete. Muscoli sodi, un viso armonioso dovevano cantare e glorificare le immonde funzioni dei miei amici, imporvele. Quando m'imbattevo in un bel ragazzotto, tremavo al pensiero che egli potesse avere un'anima nobile, ma soffrivo se un'anima scaltra e spregevole abitava un corpo patito. Poiché la rettitudine è dalla vostra parte, non volevo più saperne, mentre ne riconoscevo spesso il nostalgico richiamo. Dovevo lottare contro le sue seduzioni. Poliziotti e criminali son l'emanazione più virile di questo mondo. La si ricopre d'un velo. Essa rappresenta le vostre parti vergognose che con voi, tuttavia, chiamo le parti nobili. Le ingiurie che si scambiano i nemici, esprimono un finto odio, anzi m'appaiono cariche di tenerezza. A volte lo incontravo al bar, passeggiavo con lui per la strada. Potevo allora credermi un qualche machiavellico ladro che giochi «alla leale» col piedipiatti, flirti con lui, delicatamente lo sfidi
aspettandosi d'esser beccato. Mai ci scambiavamo impertinenze, tracotanti o ironiche minacce, tranne una: prendendomi all'improvviso per un braccio, mi diceva deciso: - Andiamo, seguimi... E con voce dolce, illanguidita da un sorriso, aggiungeva: - ... a bere un bicchiere. I poliziotti soglion ricorrere a un certo numero di spiritosaggini del genere. Bernardini vi si esercitava con me. Quando lo lasciavo, gli dicevo: - Io me la squaglio. Forse macchinale in lui, un tale gioco mi turbava. Avevo la sensazione di penetrare nell'intimo più riposto della polizia. Dovevo in effetti essermici profondamente smarrito perché un poliziotto potesse far dell'ironia con me sulle sue funzioni. Era tuttavia un gioco, mi sembra, che ci mostrava quando fosse risibile la nostra reciproca condizione, dalla quale cercavamo di evadere per ricongiungerci sorridendo nella pura amicizia. Dai nostri rapporti l'invettiva era bandita. Ero un suo amico, anzi volevo essere il suo amico più caro, e se io sentivo che non ci amavamo nelle nostre due qualità maggiori: di poliziotto e di ladro (erano queste a legarci), entrambi sapevamo ch'esse eran soltanto un mezzo, qualcosa di paragonabile ai due poli contrari dell'elettricità, il cui incontro fa scoccare l'incomparabile scintilla. Senza dubbio avrei potuto amare un uomo pari per fascino a Bernard, ma, dovendo scegliere, piuttosto che un teppista avrei preferito un piedipiatti. Accanto a lui, ero soprattutto soggiogato dal suo magnifico piglio, dal gioco dei muscoli che indovinavo sotto i vestiti, dal suo sguardo, infine da certe sue singolari qualità, ma quand'ero solo e pensavo al nostro amore, a dominarmi era la potenza notturna di tutt'intera la polizia («Notturna» o «Tenebrosa» son le parole che s'impongono volendo parlare di essa. Come tutti gli altri, i poliziotti si vestono di vari colori, ma se li penso vedo, sul loro viso e sugli abiti che indossano, come un'ombra). Un giorno mi chiese di svesciargli i nomi di alcuni miei apostoli. Nell'accettar di farlo sapevo di rendere ancor più profondo il mio amore per lui, ma al proposito non toccherà certo a voi saperne di più. Si usa dire, d'un giudice, che incombe librandosi fra le nuvole. Nel simbolismo dell'Impero bizantino, ricalcato sull'ordinamento del Cielo, gli Eunuchi, dicono, rappresentano gli Angeli. Alla loro toga i giudici devono un'ambiguità ch'è il segno dell'angelicità ortodossa. Ho già detto altrove il disagio che l'idea di quegli esseri celesti provoca in me. Così i giudici. Le loro vesti sono strambe. Comiche le loro consuetudini. Se li osservo, li giudico e mi preoccupo della loro intelligenza. In un'udienza dov'ero comparso per furto, dissi al presidente Rey: - Vuol permettermi di mettere in chiaro (si trattava di stabilire certe provocazioni da parte di informatori pagati dalla polizia) che cos'è proibito dire in tribunale, e anzitutto mi permette di interrogarla? - Che cosa? Ma neanche per idea. Il Codice... Aveva fiutato il pericolo d'un rapporto troppo umano. La sua integrità ne sarebbe rimasta lesa. Scoppiai in una risata, perché avevo visto quel giudice sottrarsi: ritirarsi sotto la sua toga. I giudici possiamo schernirli, non i piedipiatti che hanno braccia per stringere i criminali, cosce per inforcare e dominare possenti moto. La polizia la rispettavo. Essa può uccidere. Non a distanza e per procura, ma di sua propria mano. I suoi omicidi, anche se avvengono per ordine altrui, dipendono sempre da una volontà individuale, personale, che implica, insieme con la decisione, la responsabilità dell'omicida. Al poliziotto s'insegna a uccidere. Amo queste macchine-sinistre ma sorridenti, destinate all'atto più difficile: l'omicidio. Nelle Waffen S.S. allenavano Java così. Perché diventasse una buona guardia del corpo - lo fu d'un generale tedesco - gli insegnarono, lui dice, l'uso rapido del pugnale, di certe prese di judo, d'un sottile laccio, o delle sue nude mani. La polizia esce da una tale scuola come i giovani eroi di Dickens dalle scuole di borseggio. A furia di frequentare i locali della squadra del buon costume o della squadra della strada, ho imparato a conoscere la stupidità degli agenti: essa non mi smonta. Come non mi smonta la meschina bruttezza della maggior parte di loro. Quelli non sono poliziotti, non lo sono ancora, ma un goffo tentativo verso l'insetto perfetto. Le loro risibili e tapine esistenze forse rappresentano i vari stadi d'una metamorfosi che porta a una forma più compiuta, raggiunta soltanto da qualche raro esemplare. Tuttavia, non era nella loro funzione
eroica che volevo bene ai poliziotti: nella pericolosa caccia ai criminali, nel loro sacrificio di sé, in certi atteggiamenti che li rendono popolari; ma nei loro uffici, mentre consultavano schede e fascicoli. I bollettini delle ricerche affissi al muro, le foto e i connotati di assassini in fuga, il contenuto dei casellari, gli oggetti sotto sigillo creano un'atmosfera di sordo rancore, di abietta infamia che mi piace saper respirata da quei pezzi d'uomini che ne restano contaminati, malignamente corrosi da essa nell'animo. Era a questa polizia - notate che ne esigo per giunta rappresentanti bellissimi - che andava la mia devozione. Continuazione d'un corpo agile e forte, adusato alla lotta fisica, le loro mani larghe, pesanti, potevano scompigliare - con brutale e commovente malagrazia - fascicoli interi, carichi di sottili argomentazioni. Dei delitti in essi contenuti, non sono i più sgargianti quelli che vorrei conoscere, ma i più oscuri, quelli cosiddetti sordidi i cui eroi san privi d'ogni colore. Grazie agli sfalsamenti morali che provocano, i delitti creano "féeries": quei gemelli, l'un dei quali è assassino, l'altro morente quando gli si ghigliottina il fratello; i neonati soffocati con pane caldo; certe meravigliose trovate d'una macabra messa in scena per ritardare la scoperta d'un omicidio; lo stupore del criminale che si smarrisce nel proprio itinerario, gira su se stesso e torna, per farsi prendere, sul luogo del misfatto; la clemenza d'una nevicata giunta a proteggere la fuga d'un ladro; il vento che imbroglia le piste; le grandiose scoperte dovute al caso, il cui fine è la decapitazione d'un uomo; l'accanimento, contro di te, degli oggetti; la tua ingegnosità per vincerli; sono altrettanti segreti che trovi in tutte le prigioni, ma che qui furono strappati da petti umani, esalati lentamente, a lembo a lembo, sotto l'influsso della minaccia e della paura. Invidiavo l'agente Bernardini. Poteva, da un casellario, tirar fuori un omicidio o uno stupro, gonfiarsene, pascersene e tornarsene a casa. Non voglio dire che potesse con quelli distrarsi, come con un romanzo giallo. Distrarsi, no. Ma piuttosto far sue le più inaspettate situazioni, le più disgraziate, e assumersi le confessioni più umilianti: sono le più ricche. Non sorriderne mai: sono le più idonee a suscitare le meraviglie dell'orgoglio. Al testimone lucido e pieno di simpatia di tante miserabili confessioni, la più vasta intelligenza pareva permessa. Forse fu anche codesta sua ricerca a portarmi a tali incredibili avventure del cuore. Che cosa non racchiudeva la questura di Marsiglia? Mai, peraltro, me la sentii di chiedere a Bernard di farmici tornare con lui, o tantomeno di farmi leggere i suoi rapporti. Sapevo che frequentava certi "gangsters" del quartiere dell'Opéra, quelli dei bar di rue Saint-Saëns. Nient'affatto sicuro sul mio conto, non me ne fece conoscere nessuno. Mai mi curai di sapere se facessi male ad amare un piedipiatti. In camera d'un amico, guardando il letto e tutto l'arredamento borghese: - Qua non potrei certo far l'amore. E' un luogo che mi gela. Per sceglierlo, da parte mia avrei dovuto utilizzare qualità tali, aver preoccupazioni così remote dall'amore, da togliere ogni incanto alla mia vita. Amare un uomo, per me, non vuol dire soltanto lasciarsi turbare da certe peculiarità ch'io definisco notturne, perché creano in me una tenebra dov'io tremo (i capelli, gli occhi, un sorriso, il pollice, la coscia, il vello, eccetera), vuol dire costringer queste peculiarità a restituire in ombra tutto ciò che possono, a sviluppare ombra dall'ombra, e quindi infittirla, moltiplicarne il dominio e popolarlo di buio. A turbarmi, non è soltanto il corpo coi suoi ornamenti, né i soli giochi dell'amore, ma il prolungamento di ciascuna sua qualità erotica. Ora, tali qualità possono esser soltanto ciò che di esse avranno fatto le avventure vissute da chi ne reca il segno, da chi ha in sé codeste peculiarità, in cui credo di scoprire il germe di quelle stesse avventure. Così, da ogni zona d'ombra, in ogni ragazzo, traevo la più inquietante immagine per accrescere il mio turbamento, e da tutte le zone d'ombra un universo notturno dove il mio amante sprofondava. Va da sé che chi ha un maggior numero di tali peculiarità m'attira più degli altri. E io, traendo da esse tutto quello che possono dare, le prolungo in avventure audaci che san la prova della loro potenza amorosa. Ciascuno dei miei amanti suscita un romanzo nero. Costituiscono quindi, tali notturne e pericolose avventure in cui mi lascio trascinare da foschi eroi, l'elaborazione d'un erotico cerimoniale, d'una stagione d'accoppiamenti a volte lunghissima. Bernardini possedeva numerose peculiarità del genere, e forse era stato il loro sboccio a determinare la sua sorprendente carriera nella polizia che, a sua volta, dava a quelle un senso e le giustificava.
Lasciai Marsiglia in capo a qualche settimana, troppe mie vittime mi minacciavano, sporgevan denunzia. Ero in pericolo. - Se ti dessero l'ordine d'arrestarmi, lo faresti? Non apparve imbarazzato per più di dieci secondi. Inarcando appena un sopracciglio, mi rispose: - Cercherei di non farlo io. Pregherei un compagno. Invece di disgustarmi, tanta bassezza accresce il mio amore. Lo lasciai nondimeno, e giunsi a Parigi. Ero più calmo. Questo breve incontro con un poliziotto, l'amore che nutrivo per lui, quello che da lui avevo ricevuto, l'amoroso mischiarsi dei nostri due opposti destini, tutto ciò m'aveva purificato. Riposato, sbarazzato per un po' di tutte le scorie che deposita il desiderio, mi sentivo lavato, purgato, pronto per un più agile balzo. Quando più tardi, quindici o sedici anni dopo, prenderò una cotta per il figlio d'un piedipiatti, sarà in teppista che cercherò di trasformarlo. ("Il ragazzotto ha vent'anni. Si chiama Pierre Fièvre. Mi ha scritto perché gli compri una moto. Dirò qualche pagina più innanzi il suo ruolo".) Aiutato adesso da lui, Armand mi dava la metà dei nostri guadagni. Esigeva una certa mia indipendenza, e volle che avessi una camera a parte. Per prudenza forse - giacché, sebbene mi proteggesse, il pericolo aumentava - la scelse in un altro albergo, in un'altra via. Verso mezzogiorno andavo da lui e mettevamo a punto la nostra spedizione della sera. Ce n'andavamo a pranzo. Questo non gli impediva di continuare a trafficare oppio in società con Stilitano. Sarei stato felice, se il mio amore per Armand non avesse assunto un'importanza tale che ora mi domando se proprio non lo notò mai. La sua presenza mi faceva perder la testa. La sua assenza mi riempiva d'inquietudine. Derubata una vittima, trascorrevamo un'ora insieme, in un bar, ma poi? Non sapevo niente delle sue notti. Diventai geloso di tutti i giovani teppisti del porto. Infine la mia angoscia raggiunse il colmo quando un giorno, davanti a me, Robert, ridendo, lo rimbrottò: - E io, credi che avrei da dir poco, su te? - Che potresti dire? - Be', cavolo. Su di te, qualche diritto ce l'ho. - Tu, bagascetta? Robert scoppiò in una risata. - Appunto. Proprio perché sono una bagascetta. Son la tua donna, cavolo. Lo disse senza alcun imbarazzo e senza millanteria, lanciandomi una maliziosa occhiata. Pensai che Armand lo avrebbe picchiato, o che gli avrebbe risposto così duramente da farlo tacere, invece sorrise. Pareva non tenesse in spregio né la troppa confidenza del ragazzotto né la sua passività. Due atteggiamenti, ne sono certo, che se li avessi assunti io lo avrebbero reso feroce. Così, venivo a conoscenza dei loro amori. Forse, per Armand, io ero l'amico da lui stimato; ahimé, avrei preferito che m'avesse scelto come sua amante prediletta. Appoggiato allo stipite della porta - atteggiamento da giannizzero di guardia ai giardini - Armand una sera stava aspettandomi. In ritardo di un'ora, ero sicuro che m'avrebbe investito, picchiato forse, avevo paura. Dall'ultimo o penultimo gradino della scala lo vidi nudo sino alla cintola: i pantaloni di tela blu, ampi, acciaccati sui piedi, facevano da zoccolo non al busto d'Armand ma alle sue braccia incrociate. Forse la testa le dominava, non so, le sue braccia sole esistevano, salde, muscolose, formanti un pesante tortiglione di carne bruna e ornate - una di esse - d'un delicato tatuaggio raffigurante una moschea, col minareto, la cupola, e una palma piegata dal simun. Su entrambe cadeva, s'ammonticchiava, proveniente dal collo, sospesa alla nuca, una lunga sciarpa di mussola beige, di quelle che i legionari o i soldati delle truppe coloniali s'avvolgono intorno al capo per proteggersi dalla sabbia. Schiacciati sui pettorali, da essi completamente nascosti, spiccavano i bicipiti. Quelle braccia esistevano sole, voglio dire che erano lì, posate davanti a lui, lo scudo e, in rilievo, l'arme d'Armand. Sui sistemi planetari, i soli, le nebulose, le galassie, una meditazione, folgorante o svogliata, non mi permetterà, non mi consolerà mai di non contenere il mondo: davanti all'Universo mi sento perso ma il semplice attributo d'una possente virilità mi rassicura. Cessano i pensieri inquieti, le angosce.
La mia tenerezza - la raffigurazione in marmo o in oro, anche la più mirabile, non vale il modello di carne - depone su quella forza braccialetti d'avena fatua. La paura - a causa del ritardo - che quasi mi dava i brividi, favoriva probabilmente la mia emozione e me ne faceva scoprire il senso. Il bizzarro tortiglio di quelle braccia già rappresentava a sufficienza l'arme d'un guerriero nudo, ma esse recavan per giunta il ricordo delle campagne africane. Il loro tatuaggio - minareto e cupola - mi turbava infine, ricordandomi l'abbandono di Stilitano mentre avevo sotto gli occhi la visione di Cadice in mezzo al mare. Gli passai davanti, Armand non si mosse. - Sono in ritardo. Non osavo guardargli le braccia. Erano talmente Armand ch'io temevo di essermi sinallora sbagliato rivolgendomi ai suoi occhi o alla sua bocca. Esse, o ciò che esse esprimevano, non avevano altra realtà fuor di quella che, d'improvviso, s'era or ora creata dall'intreccio di quelle braccia davanti a un torso da lottatore. Scioltesi quelle, la più acuta, la più esatta realtà d'Armand si sarebbe dissolta. Capisco oggi che quel nodo di muscoli sarei arrossito a guardarlo perché in esso scoprivo Armand. Se lo stendardo del re portato da un cavaliere al galoppo appare solo, possiamo restare scossi, scoprirci il capo, se lo portasse il re in persona rimarremmo atterrati. Lo scorcio che propone il simbolo quand'è portato da ciò che esso deve significare, dà e distrugge il significato e la cosa significata. (E tutto s'aggravava per il fatto che quel tortiglione copriva il torso!) - Ho fatto il possibile per arrivare in tempo, ma sono in ritardo, non è colpa mia. Armand non rispose. Sempre appoggiato fece una giravolta sul proprio asse, tutto d'un pezzo. Come le porte d'un tempio. (Scopo di questo racconto è d'abbellire le mie revolute avventure, cioè d'ottener da queste la bellezza, scoprire in esse ciò che oggi susciterà il canto, sola prova di tale bellezza.) Le sue braccia restarono annodate. Armand rimaneva statua dell'Indifferenza. Segni anche d'un'arma magistrale che trascurava d'alzarsi dietro la tela blu dei pantaloni, le sue braccia evocavano la notte - il loro colore ambrato, il loro pelo, la loro erotica massa (senza ch'egli osasse arrabbiarsi, una sera che era coricato, come un cieco riconosce col dito un viso, col mio sesso percorsi le sue braccia incrociate) ma soprattutto il tatuaggio blu facevano apparire in cielo la prima stella. A piè dei muri di quella moschea, appoggiato alla palma piegata un legionario m'aveva aspettato spesso al crepuscolo in quel medesimo atteggiamento indifferente e sovrano. Pareva far la guardia a un invisibile tesoro, e ora mi viene in mente che proteggeva, nonostante i nostri umori, la sua intatta verginità. Era più vecchio di me. Era sempre il primo agli appuntamenti nei giardini di Meknès. Lo sguardo perduto nel vuoto - o su una precisa visione? - fumava una sigaretta. Senza spostarsi d'un ette (mi diceva appena buonasera, non mi porgeva la mano) gli accordavo il piacere desiderato, mi raggiustavo le brache e lo lasciavo. Mi sarebbe piaciuto che mi stringesse fra le braccia. Era bello, e se ne ho smarrito il nome, ricordo che pretendeva d'esser figlio della Goulue. La contemplazione delle braccia d'Armand, penso, era quella sera l'unica risposta a tutte le inquietudini metafisiche. Dietro di esse Armand spariva, distrutto e tuttavia più presente e più efficace di quanto potesse esserlo la sua persona, giacché egli era l'animatore del blasone. Del fatto in sé conservo un ricordo poco preciso, salvo che Armand mi diede due o tre schiaffi che non sarebbe gentile celarvi. Non tollerava che lo facessi aspettare un solo istante. Forse temeva che sparissi definitivamente. Per qualche giorno finsi di considerare i loro bisticci, fra lui e Robert, con indulgenza, ma soffrivo, d'amore, di dispetto, di rabbia. Quella mia angoscia forse oggi l'avrei risolta lavorando all'accoppiamento di quei due uomini che amavo: l'uno per la sua forza, l'altro per la sua grazia. Una carità adesso possibile, familiare al mio cuore, m'avrebbe indotto a provocare la felicità non di due uomini ma delle due più perfette entità da essi significate: la forza e la bellezza. Se l'una e l'altra non possono unirsi in me, che almeno la mia bontà, da sola, fuori di me, riesca un nodo di perfezione - d'amore. Avevo qualche soldo da parte. Senza avvertir nessuno, né Stilitano, né Armand, né Sylvia, né Robert, presi il treno e tornai in Francia.
Nelle foreste di Maubeuge, capii che il paese che penavo tanto a lasciare, l'avviluppante regione di cui provavo improvvisa la nostalgia varcandone l'ultima frontiera, era la radiosa bontà d'Armand, e che questa era fatta di tutti gli elementi, visti alla rovescia, che ne componevano la crudeltà. A meno che non sopraggiunga, e di tal gravità da rendere impotente, al suo cospetto, la mia arte letteraria, un qualche altro fatto, e che non m'occorra, per domar la nuova iattura, un nuovo linguaggio, questo libro sarà l'ultimo. Aspetto che mi piombi sulla zucca il cielo. La santità consiste nel rendere utile il dolore. Nel costringere il diavolo a essere Dio. Nell'ottenere il riconoscimento del male. Da cinque anni sto scrivendo libri: posso dire d'averlo fatto con piacere, ma ho finito. Con la scrittura ho ottenuto quanto cercavo. Ciò che, essendo per me un ammaestramento, mi farà da guida, non sarà quello che ho vissuto, ma il tono col quale lo riporto. Non gli aneddoti ma l'opera d'arte. Non la mia vita ma la sua interpretazione. Sarà ciò che mi offre il linguaggio per evocarla, per parlar di lei, per tradurla. Per comporre bene la mia leggenda. So quello che voglio. So dove vado. I capitoli che seguiranno (ho già detto che un gran numero di essi è andato perduto) li consegno alla rinfusa. (Per leggenda non intendo l'idea più o meno decorativa che il pubblico cui non è ignoto il mio nome si farà di me, ma l'identità tra la mia vita futura e la più audace idea ch'io stesso e gli altri, dopo il mio racconto, se ne potranno formare. Resta da precisare se il compito della mia leggenda consista in un'esistenza quanto più possibile audace nell'ordine criminale.) Per la strada, tant'ho paura che un poliziotto mi riconosca, so ritirarmi in me stesso. Poiché la mia più genuina essenza s'è rifugiata nel più segreto, profondo eremo (un luogo in fondo al mio corpo dove veglio, dove spio sotto forma di fiammella) non temo più nulla. Commetto l'imprudenza di credere il mio corpo sbarazzato di ogni segno distintivo, e che esso sembri vuoto, non identificabile, talmente, di me, tutto ha così bene abbandonato la mia immagine, il mio sguardo, le mie dita i cui tic svaporano, e che anche gli agenti vedano che chi cammina sul marciapiede accanto a loro è un guscio vuoto, sbarazzato del suo uomo. Ma sol ch'io passi da una via tranquilla, la fiamma s'ingigantisce, m'occupa le membra, mi sale sino al volto e lo colora della mia somiglianza. Accumulo le imprudenze: salire sulle macchine rubate, passar davanti ai negozi dove ho operato, mostrar documenti troppo spudoratamente falsi. Ho la sensazione che di qui a poco tutto debba cedere. Le mie imprudenze son grosse e so che la catastrofe dalle ali di luce scaturirà da un lieve, lievissimo errore (31). Ma mentre spero come una grazia la sventura, è bene ch'io m'adoperi nei soliti giochi del mondo. Voglio attuarmi in un destino quant'altri mai raro. Scorgo molto male com'esso sarà, lo esigo non d'una graziosa curva leggermente piegata verso la sera, ma d'una bellezza mai vista, bello a causa del pericolo che lo travaglia, lo sconvolge, lo mina. Oh, fate ch'io sia soltanto pura bellezza! Procederò lento o svelto, ma oserò quanto bisogna osare. Distruggerò le apparenze, i teloni cadranno bruciati e io apparirò li, una sera, sul palmo della vostra mano, tranquillo e limpido come una statuina di vetro. Mi vedrete. Intorno a me, non ci sarà più nulla. Dall'imponenza dei mezzi, dalla magnificenza dei materiali messi in opera per avvicinarsi agli uomini, misuro sino a che punto il poeta fosse lontano da loro. La profondità della mia abiezione lo ha costretto a questo lavoro da ergastolano. Ora, la mia abiezione consisteva nella mia disperazione. E la disperazione era la forza stessa - e a un tempo la materia - per abolirla. Ma se la più bella è l'opera che esige il vigore della maggior disperazione, bisognava che il poeta amasse gli uomini per poter intraprendere uno sforzo simile. E che riuscisse. E' giusto che gli uomini s'allontanino da un'opera profonda se essa è il grido d'un uomo mostruosamente impantanato in se stesso. Dall'imponenza dei mezzi che esigo per scostarvi da me, misurate l'affetto che ho per voi. Giudicate sino a che punto vi ami da queste barricate che alzo nella mia vita e nella mia opera (l'opera d'arte non dovendo esser altro che la prova della mia santità, importa che tale santità sia reale non soltanto per fecondar l'opera stessa, ma anche perché, su un'opera già forte della santità, m'appoggi per uno sforzo maggiore verso una destinazione ignota) affinché il vostro fiato (sono estremamente corruttibile) non possa guastarmi. Il mio affetto è d'una pasta frale. E l'alito degli uomini turberebbe
i metodi di ricerca d'un nuovo paradiso. Del male, imporrò la visione candida, dovess'io, in tale ricerca, lasciar la pelle, l'onore e la gloria. Creare non è uno dei soliti giochetti un tantino frivoli. Il creatore s'è impegnato in un'avventura terrificante che consiste nell'assumersi egli stesso sino in fondo i pericoli corsi dalle sue creature. Una creazione che non abbia all'origine l'amore è inconcepibile. Come porre di fronte a se stessi, con altrettanta forza di se stessi, ciò che si dovrà disprezzare o odiare? Il creatore dovrà dunque sobbarcarsi il peso del peccato dei suoi personaggi. Gesù si fece uomo. Egli espia. Dopo averli, come Dio, creati, libera dei lor peccati gli uomini: lo si flagella, gli si sputa in faccia, lo si deride, lo si inchioda. E' questo il senso dell'espressione: «Soffre nella sua carne». Lasciamo stare i teologi. «Assumere il peso del peccato del mondo» vuol precisissimamente dire: soffrire in potenza e di fatto tutti i peccati; aver aderito al male. Ogni creatore deve così addossarsi - ma la parola dice poco - far suo sino al punto di sentirlo come la sua propria sostanza, circolante in ogni sua arteria, il male da lui distribuito e liberamente scelto dai suoi eroi. In questo ci piace vedere una delle numerose utilizzazioni del generoso mito della Creazione e della Redenzione. Se ai suoi personaggi concede il libero arbitrio, la libera disposizione di se stesso, ogni creatore, nel segreto del proprio cuore, spera che scelgano il Bene. Ogni amante non si comporta diversamente, sperando d'essere amato per se stesso. Desidero, per un istante, volgere uno sguardo acuto sulla realtà della suprema beatitudine nella disperazione: quando, all'improvviso, ci si trova soli di fronte alla propria subitanea rovina, quando assistiamo all'irreparabile distruzione della nostra opera e di noi stessi. Darei tutti i beni di questo mondo - e in effetti bisogna darli - per conoscere lo stato disperato - e segreto - che nessuno sa ch'io so. Hitler solo, nei sotterranei del suo palazzo, durante gli ultimi istanti della disfatta della Germania, sicuramente conobbe un tale istante di pura luce - lucidità fragile e solida - la coscienza della propria caduta. Il mio orgoglio s'è colorato con la porpora della mia vergogna. Se la santità è il mio fine, non riesco però a dire che cosa essa sia. Mio punto di partenza è la parola stessa che indica lo stato più vicino alla perfezione morale. Di cui non so nulla, salvo che senza di essa la mia vita sarebbe vana. Non riuscendo a imbastire una definizione della santità - come del resto della bellezza - voglio in ogni istante crearla, cioè far sì che tutti i miei atti mi conducano verso di essa, che io ignoro. Voglio che in ogni istante mi guidi un fermo proposito di santità sino ai giorno in cui sarà tanta la mia luce che la gente dirà: «E' un santo», o, più probabilmente: «Era un santo». Lunghi brancolamenti mi portano a questo. Un metodo non esiste. E' oscuramente e senz'altre prove all'infuori della certezza d'esercitare la santità ch'io compio i gesti destinati a condurmici. Che la si possa raggiungere attraverso una disciplina matematica non lo nego del tutto, ma temo che così s'ottenga una santità facile, educata, di collaudate forme, in una parola accademica. Il che è ottenere un simulacro. Mossosi dai principi elementari delle varie morali e religioni, il santo raggiunge il suo scopo soltanto se si sbarazza di essi. Come la bellezza - e la poesia - con la quale la confondo, la santità è del tutto personale. Originale ne è la manifestazione. Tuttavia, mi sembra, ha come base unica la rinunzia. La confonderò quindi anche con la libertà. Ma soprattutto voglio esser santo perché questa parola indica la più alta attitudine umana, e farò di tutto per riuscirci. Userò a tal fine il mio orgoglio, e a tal fine lo sacrificherò. La tragedia è un momento gioioso. I sentimenti gioiosi saranno manifestati dal sorriso, da un giubilo di tutto il corpo, e dal volto. L'eroe ignora la serietà d'un tema tragico. Non deve vederla, se mai la intravide. Conosce per sua natura l'indifferenza. Nelle balere di periferia trovi giovani seri, indifferenti alla musica, ch'essi sembrano condurre piuttosto che subire. Altri seminano allegramente fra le ragazze la sifilide contratta con una di esse: al disfacimento dei loro corpi meravigliosi, annunziato dalle figure di cera dei baracconi, vanno incontro tranquilli, col sorriso sulle labbra. Se - necessario epilogo - è alla morte che l'eroe va incontro (e a meno che non sia
incontro alla felicità, è come andare incontro alla più perfetta, e quindi più lieta, realizzazione di sé) ci va con cuore allegro. A una morte eroica, il poeta non sa tenere il broncio. E' eroe soltanto grazie a tale morte, essa è la condizione tanto amaramente cercata dagli esseri privi d'ogni gloria, è la gloria, è, infine (tale morte e l'accumularsi delle manifeste disgrazie che ad essa conducono), il coronamento d'una vita predisposta, ma soprattutto è la vista della nostra immagine in uno specchio ideale che ci restituisce in eterno risplendenti (sino alla consumazione di quella luce che porterà il nostro nome). La tempia sanguinò. Di due soldati che si erano azzuffati per un motivo da un pezzo dimenticato, il più giovane cadde, la tempia scoppiata in schegge sotto il pugno di ferro dell'altro che guardò il sangue scorrere, diventare un cespo di primule. Rapidamente, tale fioritura s'espanse. Raggiunse il viso che presto rimase coperto di migliaia di quei fiori fitti, violetti e dolci come il vino vomitato dai soldati. Infine, l'intero corpo del giovane crollato sulla polvere si ridusse a un tumuletto dove le primule s'ingigantirono sino a trasformarsi in margherite trascorse dal vento. Soltanto un braccio rimase visibile e s'agitò, ma il vento muoveva tutti quegli steli. Il vincitore, presto, più non vide che una mano accennante maldestramente un gesto d'addio e di disperata amicizia. A sua volta, anche quella mano scomparve nel terriccio fiorito. Lentamente, il vento cessò, accorato. Si rabbuiò il cielo che poco prima illuminava l'occhio del giovane soldato brutale e assassino. Questi non pianse. Si sedette sul tumuletto nel quale s'era mutato il suo amico. L'aria riprese un poco a muoversi, ma meno decisa. Il soldato fece l'atto di scacciarsi i capelli dagli occhi e si riposò. Si addormentò. Il sorriso della tragedia è inoltre governato da una sorta d'ironia verso gli Dei. L'eroe tragico delicatamente sfida il proprio destino. Lo attua con tanto garbo che questa volta l'oggetto non è più l'uomo, ma son gli Dei. Già condannato per furto, posso esserlo di nuovo senza prove, in seguito a una sola lieve accusa, a un dubbio. Alla legge basta per ritenermi capace del fatto. Il pericolo, per me, non esiste soltanto quando rubo, ma in ogni momento della mia vita, perché ho rubato. Una vaga inquietudine offusca la mia vita, la appesantisce e la alleggerisce insieme. Per conservare limpido, acuto il mio sguardo, ogni mio atto dev'essere sfiorato dalla coscienza perch'io possa alla svelta correggerlo, cambiarne il significato. Questa inquietudine mi tiene all'erta. Mi conferisce l'aspetto attonito del capriolo immobile nella radura. Ma l'inquietudine mi trascina, anche, in una sorta di capogiro, mi fa ronzar la testa e mi costringe a fare scuffia in un elemento di tenebre dove mi rintano quando, sotto le foglie, sento il rimbombo d'uno zoccolo sul suolo. Mercurio, m'è stato detto, presso gli antichi era il dio dei ladri, che così sapevano quale potenza invocare. Ma noi, noi non abbiamo nessuno. Parrebbe logico invocare il diavolo, ma nessun ladro avrebbe il coraggio di farlo seriamente. Patteggiar con lui sarebbe un impegnarsi troppo a fondo, tant'egli s'oppone a Dio che, ben sappiamo, è il definitivo vincitore. Neanche l'assassino avrebbe il coraggio di pregare il diavolo. Per abbandonar Lucien organizzerò intorno all'abbandono, affinché sembri travolto da questi, una valanga di disastri. Sarà un fuscello al centro d'un tornado. Anche se venendo a sapere che una tal disgrazia sono stato io a volerla, mi odierà, il suo odio mi lascerà indifferente. Il rimorso, il rimprovero dei suoi begli occhi non avranno sufficiente forza per commuovermi, poiché sarò al centro d'una tristezza disperata. Perderò cose che mi son più care di Lucien, e che mi sono meno care dei miei scrupoli. Così, ucciderei volentieri Lucien per far sparire sotto un delittuoso fasto la mia vergogna. Ahimé, un religioso timore m'allontana dall'omicidio, e m'attira verso di esso. Rischia di far di me un sacerdote, e della vittima Dio. Per distruggere l'efficacia dell'omicidio, forse mi basterà ridurla all'estremo con la pratica necessità dell'atto criminoso. Per qualche milione, un uomo riuscirei ad ammazzarlo. Il prestigio dell'oro può combattere quello dell'omicidio.
Che l'ex pugile Ledoux, oscuramente, l'avesse capito? Per vendetta uccide un complice. Mette a soqquadro la camera del morto per simulare una rapina, e vedendo un biglietto da cinque franchi lasciato sul tavolo, lo prende e spiega alla sua amica stupita: - Lo tengo come amuleto. Non sia mai detto che uccido senza che mi frutti qualcosa. Fortificherò molto rapidamente il mio spirito. L'importante è, mentre vi si pensa, di non permettere alle palpebre, o alle narici, d'assumere una piega tragica, bensì d'esaminar l'idea omicida con grande spigliatezza, l'occhio ben aperto, spalancato dalla pelle della fronte che si corruga come per effetto d'un ingenuo stupore, della meraviglia. Nessun rimorso, nessun preliminare dispiacere potranno allora trovare asilo nell'angolo del vostro occhio, o scavare precipizi sotto i vostri piedi. Un sorriso beffardo, un tenero motivetto fischiettato fra i denti, un pizzico d'ironia nelle dita che agguantano la sigaretta basteranno a rimettermi in contatto con la desolazione in una solitudine satanica (a meno ch'io non vagheggi un qualche assassino cui quel gesto, quel sorriso, quel tenero motivetto siano abituali). Dopo aver derubato dell'anello B.R.: - Se lo venisse a sapere? - mi dicevo. L'ho venduto a uno che conosce! Immagino, poiché mi ama, il suo dolore e la mia vergogna. Son dunque pronto al peggio: alla morte. La sua. Ho visto, sul boulevard Haussmiann, il posto dove certi scassinatori si son fatti arrestare. Per fuggir dal negozio, uno di loro tentò d'attraversarne il cristallo. Accumulando i guasti intorno al proprio arresto, pensava di conferirgli un'importanza tale da indurre a togliere al fatto la precedente: lo scasso. Cercava già di circondar la propria persona d'una pompa sanguinosa, stupefacente, da intimidire, al cui centro lui avrebbe addirittura fatto pena. Il criminale magnifica la sua impresa. Vuol scomparire sotto il fasto, in una gigantesca messa in scena, provocata dal destino. E ciò mentre scompone il proprio gatto - lo smembra - in rigidi momenti distinti. - Che posson farmi gli insulti degli uomini, quando il mio sangue... Potrei ancora, senza arrossire, ammirare i bei criminali, se non ne avessi conosciuto la natura? Se hanno avuto la disgrazia di servire alla bellezza di numerosi poemi, voglio aiutarli. L'utilizzazione del delitto da parte d'un artista è cosa. empia. Qualcuno mette a repentaglio la propria vita, la propria gloria, per servir da fronzolo a un dilettante. L'eroe, sia pure immaginario, è sempre ispirato da un essere vivente. Mi rifiuto di trar diletto dalle loro pene se ancora non le ho spartite. Voglio prima incorrere nel disprezzo degli uomini, nel loro giudizio. Della santità di Vincenzo de' Paoli diffido. Doveva accettare di commettere il delitto al posto del galeotto di cui prese il posto ai ferri. Il tono di questo libro rischia di scandalizzare gli spiriti migliori anziché i peggiori. Non vo in cerca di scandalo. Riunisco queste note per pochi giovani. Mi piacerebbe che le considerassero come consegna d'un'ascesi sopra ogni altra delicata. L'esperienza è dolorosa e non l'ho ancora portata a termine. Che suo punto di partenza sia una romantica fantasticheria, non ha importanza se la tratto col rigore d'una formula matematica; se da essa traggo i materiali utili all'elaborazione di un'opera d'arte, o al compimento d'una perfezione morale (all'annientamento, forse, di quegli stessi atti, alla loro dissoluzione) vicina a quella santità che per me è ancora soltanto la più bella parola del linguaggio umano. Limitato dal mondo, al quale mi oppongo, tagliato fuori da questo, sarò tanto più bello, scintillante, quanto più acute saranno le angolosità che mi feriscono e mi danno una forma e più crudeli i miei tagli. Bisogna continuare ogni atto sino al suo compimento. Qualunque sia il loro punto di partenza, la fine sarà bella. Un'azione è infame soltanto quando non è portata a termine. Quando volsi il capo, i miei occhi rimasero abbagliati dal triangolo grigio formato dalle gambe dell'assassino, che se ne stava con un piede sul breve rialzo del muretto e l'altro, immobile, sulla polvere del cortile. Quelle due gambe erano vestite di bigello ruvido, rigido, squallido. Rimasi una seconda volta abbagliato
giacché, smesso di masticare il gambo d'una rosa bianca che avevo fra i denti, e gettato sbadatamente il fiore (forse in faccia a un teppista), questo, con sorniona scaltrezza, s'aggrappò alla pattina che nella stoffa grigia forma un severo angolo. Quell'innocente gesto sfuggì alla guardia carceraria. Sfuggì anche agli altri detenuti e all'assassino stesso, che avvertì appena un leggerissimo urto. Quando si guardò le brache, arrossì di vergogna. Gli era forse parso di scoprire uno sputo? O il segno d'una qualche voluttà concessagli dal solo fatto di trovarsi per un istante sotto il più limpido cielo di Francia? Insomma, col volto in fiamme e facendo finta di nulla per non dar nell'occhio, strappò via quell'assurda rosa, furtivamente aggrappataglisi addosso con la punta d'una spina, e se la ficcò in tasca. Chiamo santità non una condizione, ma la condotta morale che mi porta ad essa. E' quel punto ideale d'una morale, del quale non posso parlare perché non lo scorgo. S'allontana quando lo avvicino. Lo desidero e lo temo. Una tal condotta può apparire idiota. Peraltro, anche se dolorosa, è allegra. E' una folle. Scioccamente, assume la figura d'una Carolina sollevatasi sulle gonne come un cavallo sulle zampe posteriori, e annitrente di felicità. Pongo, non tanto nella solitudine, ma nel sacrificio, la virtù più alta. E' la virtù creatrice per eccellenza. Dovrebbe comportar dannazione. Ci si stupirà se affermo che il delitto può servirmi a rafforzare il mio vigore morale? Quando potrò, una buona volta, balzar nel cuore dell'immagine, essere io stesso la luce che la porta sino ai vostri occhi? Quando sarò nel cuore della poesia? Rischio di perdermi confondendo la santità con la solitudine. Ma con questa frase, non rischio forse di ridare alla santità quel senso cristiano che voglio staccare da essa? Questa ricerca della trasparenza è probabilmente vana. Raggiuntala, essa sarebbe il riposo. Cessando d'essere «io», cessando d'essere «voi», il sussistente sorriso è un sorriso eguale posato sulle cose. Il giorno stesso del mio arrivo alla Santé - per uno dei miei numerosi soggiorni fra quelle mura comparvi davanti al direttore: avevo chiacchierato dallo sportelletto con un amico che avevo riconosciuto passando. Fui punito con quindici giorni di beverino, dove fui condotto seduta stante. Mi trovavo lì da tre giorni quando un casermiere mi passò delle cicche. Me le mandavano i detenuti della cella cui ero stato assegnato e nella quale non avevo ancor messo piede. Uscito dalla pulcinella, li ringraziai. Guy mi disse: - Avevamo visto che c'era un nuovo; è segnato sulla porta: Genet. Genet non sapevamo chi fosse. Non ti vedevamo arrivare. Avevamo capito ch'eri al beverino e t'abbiamo passato i mozzoni. Soltanto perché il mio nome, sui registri, mi fissava in quella cella, già i suoi occupanti si sentivano compartecipi d'una pena sconosciuta, incorsa per un delitto al quale non avevano preso parte. Guy era l'anima della cella. Ne era, quell'adolescente bianco e ricciuto, butirroso, l'inflessibile coscienza, il rigore fatto persona. Come si rivolgeva a me, sentivo il senso di questa strana espressione: «Nelle reni una scarica di parabellum». Fu arrestato dalla polizia. Davanti a me, fu scambiato questo dialogo: - Sei stato tu a fare il colpo di rue de Flandre. - No, non sono stato io. - Sei stato tu. La portinaia t'ha riconosciuto. - Sarà un tizio con la mia faccia. - Lei dice che si chiama Guy. - Sarà un tizio con la mia faccia e il mio nome. - Ha riconosciuto i tuoi stracci. - Un tizio con la mia faccia, il mio nome e i miei stracci. - I capelli sono eguali. - La mia faccia, il mio nome, i miei stracci e i miei capelli.
- Sono state prese le impronte. - La mia faccia, il mio nome, i miei stracci, i miei capelli e le mie impronte. - La solfa, può galoppar lontano. - Fino in fondo. - Sei stato tu a fare il colpo. - No, non sono stato io. Fu da lui che ricevetti la lettera dove si trova questo brano (ero stato rinchiuso, ancora una volta, nel carcere della Santé). «Mio piccolo Jeannot, son troppo in dura per poterti mandare un pacco. Non ho più strutto ma ci tengo a dirti questo che spero ti farà piacere, cioè che per la prima volta ho fatto osanna pensando a te e ho goduto. Puoi almeno esser sicuro che fuori c'è un compagno che pensa a te...» Gli rimprovero a volte la troppa familiarità con l'agente Richardau. Cerco di spiegargli che un poliziotto è ancor più spregevole d'un pianola, Guy mi sta appena a sentire. Cammina a passettini. Non ignora intorno al collo il bavero sventolante della sua camicia di seta, troppo floscio, sulle spalle la sua giacca d'ottimo taglio; tiene la testa alta e, severamente, guarda diritto davanti a sé la rue (triste e grigia, squallida) de Barbès, ma dove un magnaccia, dietro le tendine d'un albergaccio d'alloggio, può sempre vederlo passare. - Sì, in fondo hai ragione -, dice. - Son tutti dei puzzoni. In capo a un istante, quando credevo che ormai, a quello che avevo detto, non ci pensasse più (e in effetti era trascorso un po' di tempo senza ch'egli pensasse a nulla, per sentir meglio, al polso, il peso d'un braccialetto d'argento, o perché in lui si creasse un vuoto dove collocare questo suo pensiero) mormorò: - Sì. Però un piedipiatti è un'altra cosa. - Ah, trovi? Nonostante i miei argomenti volti a far tutt'uno del piedipiatti e del pianola, e a bollare maggiormente il primo, la penso come Guy, e non gli ribatto che invece è la stessa cosa. Amo segretamente, sì, amo la polizia. Non gli dirò mai la mia emozione quando in cours Belsunce, a Marsiglia, passavo davanti alla mensa riservata ai poliziotti. L'interno era popolato di piedipiatti marsigliesi, in divisa e in borghese. Quella mensa m'affascinava. Sono serpi che vi s'acciambellano e vi si strusciano l'una con l'altra in una familiarità - che non ostacola - che favorisce forse l'abiezione. Impassibile, Guy cammina. Lo sa che il disegno della sua bocca è troppo molle? Dà al suo volto una grazietta infantile. Biondo per natura, s'è tinto i capelli di castano. Vuol passare per un còrso - lui stesso resterà preso dal gioco - e ho il sospetto che gli piaccia truccarsi. - Sono ricercato -, mi dice. L'attività del ladro è una successione di gesti contratti, ma scottanti. Provenendo da un intimo calcinato, ciascuno di questi gesti è doloroso, penoso. Il proprio gesto il ladro lo canta soltanto dopo il furto, e grazie alla letteratura. La buona riuscita gli innalza in corpo un inno che la bocca ripeterà. Lo smacco ne incanta la disperazione. Al mio sorriso, alla mia alzata di spalle, Guy risponde: - Ho un'aria troppo giovane. Con gli altri teppisti bisogna apparire uomini. Ammiro la sua volontà che non si piega mai. Una sola sua risata, mi dice, lo tradirebbe. Mi fa pena come un leone che il domatore fa camminare sulla corda tesa. D'Armand - del quale parlo poco; mi trattiene il pudore, nonché la difficoltà, forse, di dire chi fu e che cosa fu per me, di rendere nel suo giusto valore la sua autorevolezza morale - la bontà era, credo, una sorta d'elemento dove le mie qualità segrete (inconfessabili) trovavano la loro giustificazione. Fu dopo averlo lasciato, dopo aver frapposto tra me e lui la frontiera, che lo misi alla prova. M'apparve intelligente. M'accorsi cioè che aveva osato superare le regole morali, non inconsciamente, con la ingannevole facilità dei maschi che le ignorano, bensì al prezzo d'un
grandissimo sforzo, nella certezza di perdere un tesoro inestimabile, ma anche con la certezza di crearsene un altro, più prezioso di quello che perdeva. I gangsters d'una banda internazionale s'erano arresi alla polizia - «senza lotta e vigliaccamente», scrissero i giornali belgi. - come apprendemmo una sera in un bar dove ognuno commentava il loro comportamento. - Son dei fifoni, cristo -, disse Robert. - Non ti sembra? Stilitano non rispose. Non se la sentiva, davanti a me, di parlar di spago o di coraggio. - Non dici niente? Non la pensi come me? Pretendono d'aver fatto colpi formidabili, assalti a banche, assalti a treni, e carini carini si gettano fra le braccia dei pulé. Avrebbero dovuto difendersi, sino all'ultima cartuccia. Comunque, la pagheranno, perché è stata richiesta l'estradizione. La Francia li reclama. Ci rimetteranno la capoccia. Io, al doro posto, avrei... - E io, invece, stai proprio rompendomi il cazzo! La collera d'Armand fu improvvisa. I suoi occhi dardeggiavano indignazione. Con maggior umiltà, Robert disse: - No? Non la pensi come me? - Alla tua età, avevo fatto qualcosa più di te, ma degli uomini non ne parlavo, tantomeno se acciuffati. A quelli, non resta che il tribunale. Non sei all'altezza di giudicarli, tu. Questo tono didascalico ridiede un poco d'animo a Robert, che s'azzardò a rispondere: - Questo non impedisce che si siano sgonfiati. Se avessero fatto tutto quello che si va dicendo... - Sporco fregnoncello, ma è proprio perché hanno fatto quello che si va dicendo che si sono, come dici tu, sgonfiati. Quello che volevano, lo sai? Eh? Lo sai? Te lo dirò io. Dal momento che, per loro, era finita, hanno voluto prendersi un lusso che per tutta la vita non avevano avuto il tempo di concedersi: sgonfiarsi. Capisci? Consegnarsi alla polizia, per loro è stata una vacanza. Stilitano non batteva ciglio. Dal sottile sorrisetto che gli fioriva sulle labbra, mi parve di capire che il senso della risposta d'Armand gli riusciva familiare. Non in quella forma affermativa, eroica, insolente, ma in stile verboso e confuso. Robert non rispose. Di quella spiegazione non capiva un'acca, salvo, forse, che lo poneva un po' fuori di noi tre. Avrei da solo, ma più tardi, trovata quella giustificazione. La bontà d'Armand consisteva nel permettermi di trovarmi, in essa, a mio agio. Capiva tutto. (Nel senso che aveva risolto i miei problemi.) Non voglio con questo dire che la spiegazione che lui osava dare della capitolazione dei gangsters fosse valida per quei gangsters stessi, ma che lo sarebbe stata per me se si fosse trattato di giustificare la mia capitolazione in analoghe circostanze. La sua bontà consisteva inoltre nel trasformare in festa solenne, in grande e ridicola parata, ciò ch'era soltanto un vile abbandono di posto. La preoccupazione d'Armand era la riabilitazione. Non degli altri o di sé: della miseria morale. Le conferiva gli attributi che son l'espressione dei piaceri del mondo ufficiale. Son lontano dall'aver la sua statura, i suoi muscoli e il loro pelame, ma vi sono giorni in cui, se mi guardo allo specchio, mi par di ritrovare sul mio volto un'ombra della sua severa bontà. Allora sono fiero di me, e della mia faccia schiacciata e greve. Ignoro in quale fossa comune sia sotterrato, o se è ancora in piedi, a portare in giro, indolente, quel suo corpo elastico e forte. E' il solo di cui voglia trascrivere il nome esatto. Tradirlo anche in così poco sarebbe già troppo. Quando si alzava dalla sedia, regnava sul mondo. Avrebbe potuto ricever ceffoni senza scomporsi, essere insultato nel corpo; sarebbe rimasto illeso, grande quanto prima. Nel nostro letto tutto il posto lo occupava lui, con le sue gambe quanto più poteva divaricate ad angolo ottuso, soltanto fra le quali trovavo un po' di posto dove rannicchiarmi. Dormivo all'ombra del suo sesso, che a volte mi ciondolava sugli occhi e a volte, al risveglio, m'ornava la fronte d'un massiccio e curioso corno bruno. Quando si destava, il suo piede, non brutalmente ma con imperiosa pressione, mi scacciava dal letto. Non parlava. Fumava, mentre io preparavo il caffè e i toast per quel Tabernacolo dove riposava - e si elaborava la Scienza. Da una conversazione piuttosto inopportuna, una sera apprendemmo che Armand, da Marsiglia a Bruxelles, di città in città, di caffè in caffè, per guadagnarsi da mangiare, andava ritagliando pizzi di carta davanti ai clienti. Il camallo che ci informò - Stilitano e io - non lo voleva affatto prendere in
giro. Parlava, con molta naturalezza, di centrini, di fazzoletti da taschino, di moccichini, di tutto un delicato lavoro di merceria ottenuto con un paio di forbici e un foglio ripiegato. - L'ho visto io, Armand, l'ho visto esibirsi in quel suo numero -, disse. Immaginare il mio maestro, massiccio e calmo, in atto di compiere un lavoro donnesco, mi commuoveva. Nessun ridicolo poteva colpirlo. Non so da quale bagno penale provenisse, se ne fosse stato liberato o se ne fosse evaso, ma quanto apprendevo di lui provava quale scuola di raffinatezze fossero le rive del Maroni o le carceri centrali di Francia. Nell'ascoltare il camallo, Stilitano aveva un sorriso cattivo. Temevo che cercasse di ferire Armand: avevo ragione. Il pizzo fatto a macchina col quale abbindolava le pie signorotte di campagna era un segno di nobiltà, metteva a nudo, su Armand, la superiorità di Stilitano. Tuttavia non osavo implorarlo di tacere: mostrare, nei confronti d'un amico, tanta raffinatezza morale, avrebbe rivelato in me, nel mio cuore, bizzarri paesaggi illuminati di luci così tenere che un semplice tocco di pollice avrebbe sciupato. Fingevo indifferenza. - Se ne imparano sempre di nuove. - Mica c'è nulla di male. - Quello che dico anch'io. Uno si difenda come può. Per sentirmi più saldo forse, per puntellare la mia inconsistenza, avevo bisogno di figurarmi i miei amanti tagliati nella più dura pietra. Ed ecco che proprio quello che ammiravo di più mi si mostrava composto di piccole miserie umane. Oggi, il ricordo che mi visita più spesso è Armand - che non ho mai visto in quella sua occupazione - in alto d'avvicinarsi ai tavoli delle trattorie e di ritagliare - in punto Venezia - i suoi pizzi di carta. Forse aveva scoperto proprio allora, senza l'aiuto di nessuno, l'eleganza non delle cosiddette buone maniere, ma del "numeroso" gioco degli atteggiamenti. Sia per pigrizia, sia come segno di sottomissione da parte mia, sia infine che provasse il bisogno d'un cerimoniale atto a valorizzare la sua persona, esigeva che gli accendessi la sigaretta tenendola in bocca io e la infilassi poi in bocca a lui. Non dovevo nemmeno aspettare la manifestazione del suo desiderio, dovevo prevenirlo. In un primo tempo mi regolai così ma in seguito, fumatore anch'io, per far più presto e per economia di gesti, mi mettevo fra le labbra due sigarette, le accendevo e ne porgevo una ad Armand. In modo brusco mi proibì un tale procedimento che giudicava privo di bellezza. Dovetti, come prima, prendere una sigaretta dal pacchetto, accenderla, appuntargliela in bocca e prenderne un'altra per me. Poiché portare il lutto è anzitutto un sottomettermi a un dolore cui mi sottrarrò in quanto lo trasformo in un'energia necessaria per uscire dalla morale comune, sono incapace di rubare fiori e di portarli sulla tomba d'un morto che mi fu caro. Rubare determina un atteggiamento morale che non s'ottiene senza sforzo, è un atto eroico. Il dolore, per la perdita d'una persona cara, scopre in noi dei legami con gli uomini. Esige da parte di chi resta l'osservanza d'una dignità anzitutto formale. A tal punto che la preoccupazione di tale dignità c'indurrà a rubar dei fiori qualora non ne potessimo comprare. Questo gesto fu in me provocato dalla disperazione di non poter attuare le solite formalità d'addio a un morto. Guy venne a trovarmi per dirmi come Maurice B. fosse stato accoppato. - Ci vuol qualche corona. - Perché? - Per il trasporto. La sua voce era asciutta. Temeva, allungando le sillabe, che tutta l'anima gli si illanguidisse. E forse pensava che non era quello il momento delle lacrime e dei piagnistei. Di quali corone intendeva parlare, di quale trasporto, di quale cerimonia? - Il funerale. Ci voglion dei fiori. - Grana ne hai? - Nemmeno un soldo. Andremo in cerca. - Dove? - Non certo in chiesa. Dai nostri soci. Nei bar. - Son tutti in dura.
Non una sepoltura per un morto reclamava Guy. Voleva anzitutto che le fastosità del mondo fossero accordate al suo amico teppista fatto fuori dalle pallottole d'un piedipiatti. Al più umile, intesser di fiori il manto ritenuto più ricco dagli uomini. Onorar l'amico, ma soprattutto glorificare i più miserabili coi mezzi che si concedono coloro che li considerano, anzi li stabiliscono come tali. - Non ti fa schiattar di rabbia saper che i piedipiatti fatti fuori hanno funerali di prima classe? - Perché, a te scoccia? - E a te no? E i presidenti di tribunale, quando li accompagnano al camposanto, con tutta la Corte d'Assise dietro? Guy era esaltato. L'indignazione lo illuminava. Era generoso e senza ritegno. - Non c'è nessuno che abbia un po' di grana. - Bisogna trovarla. - Va' a fregar dei fiori coi suoi amici. - Sei matto! Lo disse con voce sorda, pieno di vergogna, di rammarico forse. Un matto può, ai suoi morti, celebrar funerali insoliti. Può, deve inventare i riti. Già Guy ha il commovente aspetto d'un cane che sta cacando. Ponza, ha lo sguardo fisso, le quattro zampe raccolte sotto il corpo inarcato; e trema, dalla testa allo stronzo fumante. Ricordo la mia vergogna, in giunta al mio stupore, davanti a un gesto così inutile, quando al cimitero, una domenica, dopo essersi guardata intorno, mia madre adottiva sradicò da una tomba sconosciuta e ancora fresca un piede di calendole che trapiantò sulla tomba di sua figlia. Rubar non importa dove dei fiori per ricoprir la bara d'un morto adorato è un gesto, Guy lo capiva, che non potrà mai appagare il ladro. Nessun umorismo, in queste faccende, può esser tollerato. - Allora, che intendete fare? - Un setaccio, e a tutta birra. Una rapina. - Hai qualcosa in vista? - No. - E allora? Con due compagni, di notte, saccheggiarono dei suoi fiori il cimitero di Montparnasse. Scavalcarono il muro di rue Froideveaux, vicino al pisciatoio. Fu, mi raccontò Guy, uno spasso. Forse andò prima a scaricarsi alle latrine, come ogni volta che si reca a compiere uno scucio. Di notte, se è buio, di solito la fa davanti al portone, o a piè delle scale, in cortile. Tanta confidenza col luogo lo rassicura. Sa che in argot uno stronzo è una sentinella. - Vado a mettere una sentinella -, dice. - Saliremo più tranquilli. Il posto ci sarà meno estraneo. Con una lampadina tascabile, andarono in cerca di rose. Le si distinguevano ben poco, sembra, dal fogliame. Rubavano, correvano, scherzavano fra i sepolcri in preda a un'allegra ebbrezza. «Roba da chiodi», mi disse. Le donne furono incaricate d'intrecciar le corone e di formare i mazzi. I più belli, furono i loro maschi a comporli. Al mattino, tutto era già appassito. Buttarono i fiori nella spazzatura e la portinaia dovette certo chiedersi a quale orgia, quella notte, ci si fosse abbandonati in quelle camere dove di solito non entra mai un mazzo, tranne, qualche volta, un'orchidea. La maggior parte dei magnaccia non se la sentirono d'assistere a un funerale così povero; la loro dignità o arroganza richiedeva tutta intera la pompa mondana. Ci mandarono le loro donne. Ci andò anche Guy. Al ritorno me ne raccontò la malinconia. - S'aveva un'aria così barbona! Peccato che tu non sia venuto. C'eran soltanto puttane e teppisti. - Oh, sai, io ne vedo ogni giorno. - Non lo dico per questo, Jean, ma perché qualcuno potesse rispondere quando i beccamorti hanno chiesto dei familiari. Io mi vergognavo. (Quando mi trovavo nella colonia penale di Mettray, m'ordinarono d'assistere al funerale d'un giovane colono, deceduto all'infermeria. Lo accompagnammo al piccolo cimitero del penitenziario. I becchini erano dei ragazzi. Calata la bara, giuro che se un beccamorto, come in città, avesse domandato: «I familiari?», mi sarei fatto avanti io, minuscolo nel mio lutto.)
- Perché ti vergognavi? Guy si stirò un poco, poi sorrise. - Troppo racchio -, disse. - Funerale da poveri. «Abbiamo terribilmente sbevazzato tutta la notte. San contento di tornarmene a casa. Potrò almeno levarmi le scarpe.» Giovanissimo, desiderai di svaligiar le chiese. Conobbi più tardi il piacere di asportarne i tappeti, i vasi e a volte i quadri. A M..., G... non notò la bellezza dei pizzi. Quando gli dissi che le cotte e le tovaglie d'altare costavano molto, corrugò la fronte schiacciata. Volle sapere una cifra. In sacrestia, mormorai: - Non saprei. - Quanto? Cinquanta? Non risposi. Avevo fretta d'uscir da quella stanza dove i preti si vestono, si svestono, s'abbottonano le tonache, s'allacciano i camici. - Eh? Quanto? Cinquanta? Vinto dalla sua impazienza, risposi: - Di più. Centomila. Le dita di G... tremavano, diventavano pesanti. Strappava le stoffe e le trine spigolose. Quanto al suo viso, mal rischiarato e sconvolto dalla cupidigia, non saprei dire se fosse orrendo o stupendo. Riacquistammo la calma sulle rive della Loira. Ci sedemmo sull'erba aspettando il primo treno merci. - Fortunato te che te ne intendi. Io i pizzi li avrei lasciati. Fu allora che Guy mi propose di mettermi in più stretta società con lui. «Tu basterà che mi indichi i colpi, ad agire ci penserò io», mi disse. Mi rifiutai. Non si può, nel mestiere di svaligiatore, realizzare quanto è stato concepito da un altro. Chi agisce deve essere abbastanza abile da saper correggere, nella linea di condotta predisposta, quanto comporta l'imprevisto. Eppoi, Guy la vita del ladro non la concepiva che come una vita magnifica, splendente, scarlatta e dorata. Per me invece è cupa, sotterranea, rischiosa e pericolosa quanto la sua ma d'un pericolo diverso da quello di rompersi il collo cadendo da un tetto, d'andarsi a sfracellare contro un muro in un'auto rubata, di morir colpito da una pallottola calibro 6. La boria di certi spettacoli dove ci si traveste da cardinali per depredare il tesoro delle basiliche, o dove si prende l'aereo per metter fuori pista la banda rivale, non è fatta per me. Che me ne importa di simili pomposi giochi. Quando rubava una macchina, Guy faceva sempre in modo di metterla in moto all'apparizione del proprietario. Lo divertiva la faccia dell'uomo che vedeva la sua macchina, docile al ladro, piantarlo in asso. Era una festa, per lui. Scoppiava in un'immensa risata metallica, un po' forzata, artificiale, e partiva come un bolide. Quanto a me, era raro che alla vista del derubato, del suo stupore, della sua rabbia e del suo scorno, non soffrissi. Quando uscii di carcere, ci ritrovammo in un bar di sfruttatori: "La Villa". I muri erano coperti di foto con dedica: ritratti di "entraîneuses", ma soprattutto di pugili e di ballerini. Non aveva denaro. Era anche lui evaso da poco. - Non hai nulla in vista, vero? - Oh, sì. A bassa voce gli dissi la mia intenzione di svaligiare un amico che possedeva certi oggetti artistici che potevamo vendere all'estero. (Avevo appena scritto un romanzo, "Nostra Signora dei Fiori", la cui pubblicazione m'aveva procurato delle conoscenze fra i ricchi.) - Bisogna fare il cappotto al mecco? - Non è il caso. Ascolta. Presi fiato, mi chinai verso di lui. Cambiai la disposizione delle mie mani sulla sbarra del banco, spostai una gamba, insomma mi disposi in modo d'a esser pronto a saltare. - Ascolta. Potremmo spedire il tipo in gattabuia per otto giorni.
Non posso propriamente dire che Guy avesse scomposto i tratti del volto, ma tutta la sua fisionomia si trasformò. Forse gli si era immobilizzatala faccia, gli si era indurita. Mi sentii a un tratto spaventato dalla durezza di quello sguardo azzurro. Guy piegò un poco il capo su una spalla, senza cessar di squadrarmi, o più esattamente di tenermi gli occhi piantati addosso, quasi volesse inchiodarmi con quelli. Ebbi improvvisa la rivelazione della frase: «T'inchioderò al muro». La sua voce, nel rispondermi quanto dirò più sotto, era bassa, eguale, ma puntata sul mio stomaco. Gli usciva dalla bocca con la rigidità d'una colonna, d'un ariete. Per il fatto stesso d'esser così contenuta, monocorde, sembrava compressa, compatta. - Come, proprio tu mi dici una cosa simile, Jeannot? Proprio tu mi proponi di spedire un mecco in casanza? Il mio viso rimase immobile quanto il suo, altrettanto duro ma teso con maggior sforzo di volontà. Al temporale del suo volto, dove s'addensavano nuvole nere, opponevo la rupe del mio, ai suoi lampi e ai suoi fulmini i miei spigoli e le mie punte. Sapendo che la sua severità doveva per forza sciogliersi e precipitare in disprezzo, per un attimo cercai di fargli fronte. Pensai alla svelta come rimediare perché non credesse che avevo desiderato un'azione abietta. Mi occorreva tempo. Tacqui. Lasciai che il suo stupore e il suo disprezzo si scaricassero interi addosso a me. - Io posso far fuori un uomo. Se vuoi lo accoppo, lo saccheggio il tuo mecco. Non hai che da dirmelo. Eh, Jeannot? Su, vuoi che lo faccia fuori? Continuai a tacere e lo guardai fisso. Immaginavo impenetrabile il mio volto. Guy doveva certamente vedermi teso, credermi davvero in un momento estremamente drammatico, a causa d'una volontà inamovibile, d'una decisione che doveva stupirlo al punto di scombussolarlo. Ora, io temevo invece quella sua severità, tantopiù che non m'era mai apparso più virile di quella sera. Seduto sull'alto sgabello, le sue cosce muscolose spiccavano sotto la stoffa rasa dei pantaloni dove la sua mano, su quelle appoggiata, appariva forte, pesante e ruvida. Per non saprei precisar quale componente in comune con loro - di cattiveria, di stupidità, di virilità, d'eleganza, di pomposità, di viscidità - era in tutto eguale agli sfruttatori che ci stavano attorno, e loro amico. Mi schiacciava. Mi schiacciavano, «quelli». - Ma ti rendi conto che cosa vuol dire spedire un tizio laggiù? Ci siamo passati tutt'e due. Via, non è cosa da noi. Aveva mai tradito, lui, venduto i suoi amici? La sua intimità con un agente della Polizia giudiziaria m'aveva fatto temere - e sperare - che fosse un infame. Temere perché rischiavo d'essere denunciato, temere anche perché m'avrebbe preceduto nel tradimento. Sperare perché avrei avuto un compagno e un sostegno nell'abiezione. Capii la disperata solitudine del viaggiatore che ha perduto la propria ombra. Continuavo a tacere e guardavo fisso Guy. Il mio volto restava immobile. Potevo ancora attendere, prima di correre ai ripari. Che annaspasse pure nel suo stupore, sino a perder la bussola. Tuttavia non potei non accorgermi del suo disprezzo quando disse: - Ma Jeannot, io ti considero un fratello. Ti rendi conto? Se un mesco, un mecco di qui, ti volesse far berrettare, non ci penserei un attimo a fargli la pelle. E ora, tu mi dici... Abbassò la voce perché s'erano avvicinati dei magnaccia. (Anche delle puttane avrebbero potuto sentirci. Il bar era stipato.) Cercai di render più duro il mio sguardo. Congiunsi le sopracciglia. Masticavo all'interno delle mie labbra e mantenevo il silenzio. - Sai, se me l'avesse proposto un altro, invece di te... Nonostante il guscio della volontà sotto il quale mi proteggevo, la fraterna dolcezza dei suo disprezzo mi umiliava. Il tono della sua voce, le sue parole mi lasciarono indeciso. E' o non è anche lui un pianola? Non lo saprò mai con certezza. Se lo è, può sempre disprezzarmi per un atto ch'egli stesso non si rifiuterebbe di commettere. Può anche darsi che gli ripugni d'avermi come compagno nell'abiezione perché io, ai suoi occhi, ho minor prestigio, minor sfavillio d'un qualsiasi altro ladro che lui sarebbe pronto ad accogliere. Sapevo il suo disprezzo. Poco mancò che non mi dissolvesse come una rupe di zucchero. Dovevo, ma senza troppa fermezza, conservare la mia inflessibilità. - Ma, Jeannot, me l'avesse detto un altro, lo avrei stroncato. Non so come t'abbia lasciato dire una cosa simile. Proprio non so.
- Basta così. Risollevò il capo, rimase con la bocca semiaperta. Lo aveva sorpreso il tono. - Che? - Ho detto va bene. Mi piegai più vicino a lui e gli posi una mano sulla spalla. - Guy caro, mi piace quello che dici. Ho avuto fifa quando, da grande amicone, t'ho visto con R. (il poliziotto), non te lo nascondo. M'era preso lo spago. Lo spago che tu fossi diventato un infame. - Sei matto. Ero in rapporti con quello, prima di tutto perché non è meno teppista d'un teppista, eppoi perché m'occorrevano delle carte. E' un tipo che, a grana, funziona. - Basta. Ora sono tranquillo, ma ieri, quando vi ho visto bere un bicchierotto insieme, ti giuro che non m'andava affatto. Perché io, gli infami, non son mai riuscito a mandarli giù. Ti rendi conto che mazzata in testa sarebbe stata per me perdere la fiducia? Scoprir che potevi svesciare? Non usai la prudenza da lui mostrata nei suoi rimproveri, e alzai un poco la voce. Il sollievo di non soggiacer più al suo disprezzo mi ridava lena, mi faceva compiere un balzo troppo in alto e troppo prematuro. M'esaltava il piacere d'essere uscito dal disprezzo, d'aver inoltre schivato uno scontro che avrebbe schierato contro di me tutti gli sfruttatori del bar, di dominare a mia volta Guy con l'autorevolezza datami dalla mia padronanza della lingua. Infine, una sorta di compassione per me stesso, in quanto mi sentivo un vinto anche se ricadevo sulle quattro zampe, fece trovar senza sforzo, alla mia voce, inflessioni commoventi. La mia durezza, la mia intransigenza erano rimaste incrinate, e la faccenda dello scucio (di cui nessun dei due ebbe più il coraggio di parlare) sfumò definitivamente. Manieratissimi magnaccia mi circondavano. Discorrevano ad alta voce ma pieni di garbo. Guy mi parlò della sua donna. Risposi come meglio potei. Un velo di profonda tristezza mi ricopriva, trapassato a tratti dai lampi della mia rabbia. La solitudine (la cui immagine potrebbe essere una sorta di nebbia o vapore uscente da me), la solitudine, squarciata per un istante dalla speranza, si richiuse su di me. Avrei potuto avere un compagno nella libertà (perché infine son sicuro che Guy sia un infame), e questo non m'è stato concesso. Mi sarebbe piaciuto tradire con lui. Perché i miei complici voglio poterli amare. Non deve, questa mia condizione (di svaligiatore) estremamente solitaria, lasciarmi murato con un ragazzo privo di grazia. Durante l'azione, la paura ch'è la materia (o meglio la luce) di cui son quasi interamente composto, rischia sempre di farmi crollare fra le braccia del mio complice. Non credo di preferirlo grande e robusto perché mi protegga in caso di smacco, ma perché una troppo forte paura mi getti nell'alveo delle sue braccia, delle sue cosce, rifugi adorabili. Pericolosa è una tal preferenza che più d'una volta ha permesso alla paura di piegarsi così totalmente, di diventar tenerezza. Con troppa facilità m'abbandono su quelle belle spalle, su quella schiena, su quelle anche. Guy nel lavoro era desiderabile. Viene a trovarmi, sconvolto. Non riesco a capire se il suo panico sia reale. Ha una faccia, stamani, da far pietà. Si trovava più a suo agio nei corridoi e per le scale della Santé, coi magnaccia il cui prestigio sta tutto nella vestaglia che indossano quando si recano dal loro avvocato. Era forse la sicurezza che offre il carcere a dargli quel piglio più disinvolto? - Devi levarmi dalla merda. Indicami un colpo perché possa ritirarmi in provincia. S'ostina a vivere fra i magnaccia, e nei suoi nervi a fior di pelle, nelle pose fatalone del capo riconosco i modi teatrali delle checche e delle attrici. «E' possibile», mi chiedo, «che a Montmartre gli 'uomini' s'ingannino sul suo conto?» - Mi prendi alla sprovvista. Mica trovi sempre un setaccio sottomano, a un palmo dal naso. - Uno sgobbo qualsiasi, Jeannot. Brucio un mecco, se necessario. Son capace di bruciare un mecco per venti chili. Ieri ho rischiato l'ergastolo. - Questo non m'aiuta -, dissi sorridendo. - Tu non ti rendi conto. Vivi in un grande albergo. Mi irrita. Che ho da temere dagli alberghi dorati, dai lampadari, dai saloni, dall'amicizia degli uomini? Le comodità permetteranno audacie, forse, alla mia mente. E la mia mente già lontana, son sicuro che il mio corpo la seguirà.
Tutt'a un tratto mi guarda e sorride: - Il signore mi riceve in salotto. Non potremmo andarcene in camera tua? C'è il tuo marmocchio? - Già. - E' carino? Chi è? - Lo vedrai. Quando se n'andò, chiesi a Lucien che ne pensasse di Guy. In segreto, sarei stato felice che s'amassero. - Ha un'aria strana, con quel suo cappello. Vestito maledettamente male. E subito prende a parlar d'altro. Né i tatuaggi di Guy, né le sue avventure, né la sua audacia potranno mai interessar Lucien. Ne ha notato soltanto il ridicolo della bardatura. L'eleganza dei teppisti può forse esser contestata da un uomo di gusto, ma ogni giorno, soprattutto ogni sera, con commovente serietà, s'agghindano con le stesse cure d'una cocotte. Vogliono brillare. L'egoismo riduce al solo corpo la loro personalità (squallore dell'abitazione d'un magnaccia vestito come un principe). Ma tale ricerca di un'eleganza quasi sempre raggiunta, che cosa indica in Guy? Che vuol significare quando nei particolari si esaurisce in quel ridicolo cappelluccio blu, in quella giacca striminzita, in quel fazzoletto al taschino? Peraltro, se non ha la grazia infantile e il tono discreto di Lucien, in Guy un temperamento appassionato, un cuore più caldo, una vita più ardente, più bruciata, me lo renderanno sempre caro. E' capace, come dice, di spingersi sino all'assassinio. E' pronto a rovinarsi, in una sera, per sé o per un amico. Il fegato non gli manca. E forse tutte le qualità di Lucien non valgono ai miei occhi una sola delle virtù di quel ridicolo teppista. Il mio amore per Lucien e la felicità che mi procura, già di per sé m'invitano ad ammettere una morale più consona al vostro mondo. Non ch'io sia più generoso, lo sono sempre stato, ma il rigoroso scopo cui miro, crudele come l'asta di ferro della bandiera piantata in vetta al ghiacciaio, così bramato, così caro al mio orgoglio e alla mia disperazione, mi sembra una minaccia troppo grossa per il mio amore. Lucien ignora ch'io sia sulla rotta di queste mie regioni infernali. Inoltre mi piace andare dove lui mi porta. Quanto più inebriante, sino al capogiro, alla caduta, al vomito, sarebbe l'amore che gli consacro se Lucien fosse un ladro o un traditore. Ma mi amerebbe, allora? Non devo forse la sua tenerezza e quella lieve confusione che produce in me al suo sottostare agli ordini della morale, alla dolcezza? Eppure mi piacerebbe legarmi con qualche mostro d'acciaio, sorridente ma gelido, che uccide, ruba e consegna ai giudici padre e madre. Lo desidero anche per essere io stesso la mostruosa eccezione che si permette un mostro, delegato di Dio, e che si confà al mio orgoglio nonché al mio gusto per la solitudine morale. L'amore di Lucien mi appaga, ma basta ch'io passi da Montmartre, dove son vissuto a lungo, perché subito quanto vi vedo, quanto v'indovino di sporcizia, mi faccia battere il cuore, m'arrazzi il corpo e l'anima. Più di chiunque altro so che nei quartieri malfamati non c'è nulla di speciale, son privi di mistero, eppure restan per me misteriosi. Tornare a vivere in quei luoghi, soltanto per essere in armonia con la mala, comporterebbe un mio impossibile ritorno al passato, inquantoché pallida è costì l'anima dei teppisti dal volto pallido, e d'una desolante idiozia sono i più terribili magnaccia. Ma la notte, quando Lucien è tornato in camera sua, mi raggomitolo pieno di paura sotto le lenzuola, e bramo, pressato contro il mio, il corpo d'un 'ladro più duro, più pericoloso, e più tenero. Progetto per l'immediato futuro una vita rischiosa da fuorilegge nei più incanagliti quartieri dei più incanagliti porti. Lascerò Lucien. Accada quel che accada. di lui. Io, partirò. Andrò a Barcellona, a Rio o altrove, e anzitutto in carcere. Vi ritroverò Sek Gorgui. Dolcemente il grande negro s'allungherà sulla mia schiena. Il negro, più immenso della notte, mi coprirà. Tutti i suoi muscoli avranno tuttavia coscienza d'essere, addosso a me, gli affluenti d'una virilità che converge in quel punto così duro, così violentemente carico, mentre l'intero corpo sussulterà di quel suo bene e di quel suo interesse che esistono soltanto per la mia felicità. Resteremo immobili. Lui conficcherà più a fondo. Una sorta di sonno, sulle mie spalle, abbatterà il negro. Mi schiaccerà la sua notte, dove a poco a poco mi diluirò. Tenendo la bocca aperta, lo sentirò torpido, trattenuto in quel tenebroso asse dal suo perno d'acciaio. Io sarò leggero. Non avrò più nessuna responsabilità. Sul mondo volgerò lo sguardo limpido prestato dall'aquila a Ganimede.
Quanto più amo Lucien, tanto più s'allontana da me il mio gusto per il furto e per i ladri. Son felice d'amarlo, ma una gran tristezza, fragile come un'ombra e pesante come il negro, si stende su tutta la mia vita, si posa appena su di essa, la sfiora e la schiaccia, entra nella mia bocca dischiusa: è il rimpianto della mia leggenda. Il mio amore per Lucien mi fa sperimentare le orrende dolcezze della nostalgia. Per abbandonarlo posso lasciar la Francia. Bisognerebbe allora che lo fondessi col mio odio per lei. Ma è un ragazzo affascinante che ha gli occhi, i capelli, il petto, le gambe dei teppisti ideali, di quelli che io adoro e che avrei l'impressione d'abbandonare abbandonando lui. Il suo fascino lo salva. Stasera, facevo scorrere le mie dita fra i suoi riccioli. Con aria pensosa mi dice: - Vorrei tanto vedere il mio bamboccio. Invece di conferirgli durezza, la frase lo rammorbidisce. (Durante uno scalo, aveva reso incinta una ragazza.) I miei occhi si posano su di lui con maggior gravità, con maggior tenerezza, anche. Questo monello dal volto fiero, dal sorriso, dagli occhi vivi e dolci, malizioso, lo osservo con lo stesso sguardo che volgerei su una giovane sposa. La ferita che arreco alla sua mascolinità mi costringe a un improvviso rispetto, a nuove finezze, e quella sorda, remota e quasi richiusa ferita lo illanguidisce come il ricordo delle sofferenze del parto. Mi sorride. Una felicità più grande mi gonfia il petto. Sento che maggiore s'è fatta la mia responsabilità come se - alla lettera - il cielo avesse benedetto la nostra unione. Ma lui, più tardi, accanto alle sue amanti, potrà dimenticare che cosa fu per me? Che ne sarà della sua anima? Di quale male non sarà mai guarito? Avrà, a questo proposito, l'indifferenza di Guy, quel suo medesimo sorriso quando, con un'alzata di spalle, par voglia lasciar dietro di sé, disperdere al vento della sua scattante andatura, quella sua pesante e profonda pena: la malinconia del maschio ferito? Nei confronti d'ogni cosa, non ne scaturirà una qualche disinvoltura? Roger (32) m'aveva spesso raccomandato di non lasciarlo troppo a lungo solo coi pedé da lui adescati. Le nostre precauzioni erano le seguenti: come usciva dal pisciatoio o dal boschetto dove una zia lo aveva abbordato, ora Stilitano ora io lo seguivamo da lontano sin nella camera, generalmente in un alberguccio gestito da un'ex puttana in una via lurida e puzzolente: io, o Stilitano, aspettavamo qualche minuto, poi salivamo. - Ma non tardare troppo, Jeannot. Capito? Non venir troppo tardi. - Dobbiamo pur lasciargli il tempo di spogliarsi. - Certo. Ma fai presto, insomma. Lascerò comunque cadere una pallottolina di carta davanti alla porta. Questa raccomandazione me la fece tante volte, e in tono così insistente, che un giorno infine gli dissi: - Ma perché vuoi che faccia tanto presto? Non hai che da aspettarmi. - Sei matto. Io ho paura. - E paura di che? - Se il tipo ha il tempo di palpeggiarmi, son fottuto. Mica son sicuro di riuscire a oppormi. - Be'? Non ti opporre. - Figuriamoci. Se eccitato seriamente, sì. Ma così non si deve. Non dir nulla a Stil, però. Smarrito nella foresta, trascinato via dall'orco, Roger seminava dietro di sé dei sassolini bianchi; rinchiuso da un malvagio carceriere, segnalava la propria presenza con un messaggio lasciato davanti alla porta. Scioccamente una sera mi divertii con la sua paura. Stilitano e io aspettammo un bel po' prima di salire. Trovata la porta, la aprimmo con infinite precauzioni. Un minuscolo ingresso, angusto come un'alcova, ci separava dalla camera. Con un garofano rosso stretto dall'alluce, e coricato nudo sul letto, Roger ammaliava un vecchio signore che stava spogliandosi lentamente davanti allo specchio. In quello specchio peraltro vedemmo questo spettacolo: Roger, con abile mossa, si portava il piede alla bocca e afferrava il garofano. Fiutatolo per qualche istante, se lo fece scorrere sotto l'ascella. Il vecchio era agitato. S'imbrogliava coi suoi bottoni, le bretelle, e bramava il giovane corpo, abile nel coprirsi di fiori. Roger sorrideva.
- Sei il mio roseto rampicante -, disse il vecchio. Questi non aveva ancor cominciato la sua frase quando Roger, guizzante sotto le spigolose lenzuola, si voltò bocconi e, infilatosi il garofano nel sedere, mentre con la guancia schiacciava il cuscino, gridò ridendo: - E questo qua, vientelo a fottere tu. - Arrivo, - disse Stilitano avviandosi. Era calmo. Il suo pudore (già ho detto come questo ne ornasse la violenza a volte quasi bestiale; tuttavia, avendo appreso meglio, oggi, che quel suo pudore non era un oggetto, una sorta di velo sulla sua fronte e sulle sue mani - esso non imporporava Stilitano - e tantomeno un sentimento bensì un impaccio, l'attrito che impedisce ai vari pezzi d'un meccanismo interiore di funzionare con scioltezza, nobilmente, il rifiuto d'un organismo di partecipare alla gioia d'un altro, il contrario della libertà, e che forse a provocarlo era una sciocca codardia, mi fo scrupolo di chiamarlo un ornamento; non già ch'io voglia dire, con ciò, che talora la buaggine non conferisca ai gesti - sia per la loro irresolutezza, sia per la loro bruschezza - una grazia che altrimenti non avrebbero, e che per loro una tale grazia non costituisca una guarnizione, ma è un fatto che il pudore di Stilitano era pallore, ciò che lo generava non era un afflusso di torbidi pensieri, di misteriose ondate, non era confusione capace di sollevarlo verso nuove contrade, ignote e tuttavia presentite - avrei allora trovato delizioso quel suo esitare sulla soglia d'un mondo la cui rivelazione gli turbava le guance, non era l'amore ma il riflusso della vita stessa, che ritirandosi faceva posto soltanto allo spaventoso vuoto dell'imbecillità. Cerco di spiegare come meglio posso, basandomi unicamente sul colore delle sue guance, l'atteggiamento di Stilitano. E' poco. Ma forse a questo modo riesco a dir qualcosa del personaggio disseccato nella mia memoria), il suo pudore questa volta non gli impacciò né la voce né il passo. Minaccioso, avanzò verso il letto. Più svelto, molto più svelto Roger, con un balzo, si precipitò sui suoi indumenti. - Troia. - Ma voi, mica avete il diritto... Il vecchio signore tremava. Pareva una di quelle caricature raffiguranti un tizio colto in flagrante adulterio. Volgeva la schiena allo specchio, che ne rifletteva le spalle strette e la calvizie qua e là chiazzata di giallo. Una luce rosata illuminava la scena. - Mosca, tu. E tu -, disse a Roger, - vèstiti, e a tutta birra. Ritto davanti al mucchio dei suoi vestiti, Roger, innocente, non aveva abbandonato il suo purpureo garofano. Con la stessa innocenza continuava a restarsene in stato d'erezione. Mentre si vestiva, Stilitano intimava al vecchio di consegnargli i suoi tesori. - Porco. Credevi proprio di fotterti mio fratello? - Ma io non ho... - Mosca. Scuci la grana. - Quanto volete? - Tutto. Stilitano lo disse con voce talmente gelida che il vecchio non osò ribattere. - L'orologio. - Ma... - Conto fino a dieci. Con questa frase abituale nei miei giochi infantili, Stilitano m'apparve ancor più crudele. Mi sembrò che stesse giocando e che potesse spingersi molto lontano, dato che si trattava soltanto d'un gioco. Il vecchio si sfilò la catena dov'era attaccato l'orologio e, avvicinatosi, la porse a Stilitano, che la prese. - Gli anelli. - I miei anelli... Adesso il vecchio balbettava. Fermo in mezzo alla stanza, Stilitano indicava con esattezza gli oggetti concupiti. Ero dietro a lui, un tantino a sinistra, con le mani in tasca, e lo guardavo nello specchio. Ero sicuro che questa volta, davanti a quella vecchia checca tremante, si sarebbe mostrato
ancor più crudele di quanto non lo fosse per natura. Difatti, avendogli detto il vecchio che le nodosità delle articolazioni gli impedivano di sfilarsi gli anelli, m'ordinò di far scorrere l'acqua. - Insapónati. Con la massima coscienziosità, il vecchio s'insaponò le mani. Cercò di togliersi le due "chevalières" d'oro, ma invano. Disperato, temendo che gli tagliassero le falangi, tese la sinistra a Stilitano col peritoso patema d'una sposina a piè dell'altare. Di Stilitano, massiccio - al signor B. la mia emozione apparirà quasi visibile quando, nel suo parco, mi lascerà impalato davanti a un tumuletto carico di garofani, dicendomi: «E' una delle mie più belle aiole» - stavo dunque per assistere alle nozze con un vecchio tutto tremolante e con la mano madida? Con una delicatezza e un'attenzione in cui mi parve di scorgere una strana ironia, Stilitano cercò di rimuovere gli anelli. Il vecchio, con una mano, si reggeva l'altra sulla quale veniva compiuta l'operazione. Forse segretamente gioiva nel vedersi depredato a quel modo da un bel giovanotto. (Annoto l'esclamazione d'un povero gobbetto cui René, senza concedergli un solo istante di piacere, aveva strappato il suo unico biglietto da mille: «Peccato che non abbia riscosso la mia paga. T'avrei regalato tutto!» E la risposta di René: «Puoi sempre spedirmela, senza temer d'offendermi».) Come si fa coi fantolini, o come facevo io con lui quando gli insaponavo l'unica mano, Stilitano a sua volta insaponava con cura quella del vecchio. Adesso erano calmi tutt'e due. Collaboravano in un'operazione molto semplice che filava da sola. Stilitano non s'intestardiva, ci metteva intera la sua pazienza. Ero sicuro che i suoi massaggi avrebbero assottigliato le dita sino all'esito desiderato. Alla fine si scostò dal vecchio e, sempre pacatamente, lo schiaffeggiò due volte. Rinunciò agli anelli. L'ho fatta un po' lunga con questo racconto, per due motivi. Il primo, perché mi permette di rivedere una scena d'una seduzione per me inesauribile. All'impudicizia di Roger nel darsi ai vecchi s'aggiungevano alcuni elementi che sono all'origine del mio lirismo. Anzitutto, i fiori uniti alla robustezza d'un ragazzo di vent'anni. Senza smetter di sorridere, questo ragazzo poneva di fronte - e sottometteva - la propria virile baldanza al tremolante desiderio d'un vecchio. La brutalità di Stilitano nel distruggere quel confronto, e la sua crudeltà nel perseguirne sino in fondo la distruzione. Infine, in quella camera, davanti a uno specchio, dove tanta giovinezza mi sembrava, nonostante le apparenze, complice e innamorata di se stessa, la presenza d'un vecchio signore seminudo, ridicolo, "pietoso", la cui persona affranta, appunto perché m'è avvenuto di definirla "pietosa", era il mio simbolo vivente. Il secondo motivo: penso che per me tutto non sia ancora perduto poiché in tal modo Stilitano confessava d'amare Roger, e questi d'amar lui. Nella vergogna, s'erano riconosciuti. Se in punta di piedi Lucien viene nella mia stanza o se vi entra come una ventata, provo sempre la stessa emozione. I tormenti immaginari che inventai per lui mi son cagione d'una pena più acuta di quella che proverei se li avessi sofferti davvero. Devo credere che l'idea che ho di lui mi sia più cara del fanciullo che n'è il pretesto, il supporto? Ma io non posso vedere in pena nemmeno la sua persona fisica. Talora, in certi momenti di tenerezza, gli si vela lievemente lo sguardo; le ciglia s'accostano, una sorta di nebbiolina gli appanna l'occhio. La bocca allora accenna un commosso sorriso. L'orrore di quel volto - perché mi fa orrore - è un tuffo nel mio amore per quel ragazzotto. Vi annego come nell'acqua. Mi ci vedo annegare. La morte mi ci affonda. Non devo, quand'è coricato, strapiombar troppo spesso sul suo volto: vi perderei la mia forza, e quella che vi attinga non val che a perder me stesso e a salvar lui. L'amore che mi ispira è fatto di mille segni d'una gentilezza profonda da lui giuntami, dal profondo del suo cuore, segni che pur sembrando trasmessi a caso attirano soltanto la mia attenzione. Talvolta mi dico che se rubassimo insieme riuscirebbe ad amarmi di più, accetterebbe i miei capricci d'innamorato. - L'angoscia infrangerebbe la sua vergogna -, mi dico, - la scorza della sua vergogna. Mi rispondo allora che il suo amore, rivolgendosi a un uguale, avrebbe maggior violenza, maggior tumulto la nostra vita, lui non sarebbe più forte. Pur di evitargli ogni pena proveniente da me preferirei ucciderlo. Lucien, che altrove ho chiamato mio ambasciatore su questa terra, mi ricollega
coi mortali. Tutta la mia industria consiste nel servire - per lui e per mezzo di lui - quell'ordine che rinnega l'altro cui vorrei dedicare tutte le mie cure. Lavorerò pertanto a far di lui un capolavoro visibile e semovente. Il pericolo è insito negli elementi ch'egli mi porge: l'ingenuità, la spensieratezza, l'indolenza, l'innocenza del suo animo, il suo rispetto umano. Dovrò così utilizzare cose piuttosto fuori delle mie abitudini, ma con esse voglio approdare a una felice soluzione. Se mi avesse offerto le qualità contrarie le avrei lavorate con lo stesso animo ardente, per raggiungere una soluzione opposta ma altrettanto rara. Ho detto più sopra che il solo criterio d'un atto è la sua eleganza. Non mi contraddico affermando che la mia scelta è caduta sul tradimento. Tradire può essere un bel gesto, elegante, composto di nervosa forza e di grazia. Abbandono decisamente l'idea di nobiltà che a vantaggio d'una forma armoniosa distrae una bellezza più recondita, quasi invisibile, che bisognerebbe scoprire non negli atti o negli oggetti riprovati, ma altrove. Nessuno fraintenderà se scrivo: «Il tradimento è bello», né sarà così vile da credere - da fingere di credere - ch'io voglia parlare di quei casi in cui esso è reso necessario e nobile, quando permette che si compia il Bene. Io parlo del tradimento abietto. Di quello che nessuna scusa eroica giustificherà. Di quello subdolo, strisciante, generato dai meno nobili sentimenti: l'invidia, l'odio (sebbene una certa morale osi classificare l'odio fra i sentimenti nobili), la cupidigia. Basta per questo che il traditore abbia coscienza del proprio tradimento, che lo voglia e che sappia spezzare quei legami d'amore che lo univano agli uomini. Indispensabile per ottenere la bellezza: l'amore. E la crudeltà che lo spezza. Se ha cuore - mi si capisca - il colpevole decide di essere l'uomo che il delitto ha fatto di lui. Trovare una giustificazione gli è facile, altrimenti come potrebbe vivere? La trae dal proprio orgoglio. (Notare lo straordinario potere di creazione verbale dell'orgoglio come della collera.) Si rinchiude nella sua onta mediante l'orgoglio, parola che indica la manifestazione della più audace libertà. All'interno della sua vergogna, si avvolge nella propria bava, tesse una seta che è il suo orgoglio. Tale veste non è naturale. Il colpevole l'ha tessuta per proteggersi, e l'ha tessuta purpurea per abbellirsi. Niente orgoglio senza colpevolezza. Se l'orgoglio è la più audace libertà - Lucifero che incrocia i ferri con Dio - se l'orgoglio è il meraviglioso manto in cui si erge la mia colpevolezza, tessuto di questa, voglio esser colpevole. La colpevolezza suscita la singolarità (distrugge la confusione) e se il colpevole ha il cuore duro (giacché non basta aver commesso un delitto, bisogna meritarlo e meritar d'averlo commesso), questo lo issa su un piedistallo di solitudine. La solitudine non mi vien regalata, me la guadagno. Mi conduce a lei l'amore per la bellezza. Voglio in essa definirmi, delimitare i miei confini, uscire dalla confusione, trovare un ordine. L'essere un trovatello m'è valso una giovinezza e un'infanzia solitarie. L'essere un ladro mi permetteva di credere alla singolarità del mestiere di ladro. Ero, mi dicevo, una mostruosa eccezione. In effetti, il mio gusto e la mia attività di ladro erano in relazione con la mia omosessualità, scaturivano da questa, che già mi teneva in un'insolita solitudine. Grande fu il mio stupore quando m'accorsi sino a che punto fosse diffuso il furto. Ero sprofondato in seno alla banalità. Per uscirne, non mi restò che gloriarmi del mio destino di ladro, e di volerlo. Fu in questo che si vide un mio ghiribizzo, di cui sorrisero gli sciocchi. Venni definito un cattivo ladro? Pazienza. La parola ladro determina chi, come principale attività, ha il furto. Lo precisa eliminando - finché vien chiamato così - tutto ciò ch'egli è di diverso da ladro. Lo semplifica. La poesia consiste nella sua maggior coscienza della propria qualità di ladro. Può darsi che la coscienza di qualunque altra qualità suscettibile di diventare essenziale, al punto di denominarvi, sia egualmente poesia. Nondimeno è giusto che la coscienza. della mia singolarità prenda nome da un'attività asociale: il furto. Senza dubbio il colpevole, e chi s'inorgoglisce d'esserlo, deve la propria singolarità alla società, ma doveva già possederla perché questa la riconoscesse in lui e gliela imputasse a delitto. A essa ho cercato d'oppormi ma già m'aveva condannato, punendo in realtà non tanto il ladro quanto l'irriducibile nemico il cui spirito solitario le incuteva paura. Ora, essa conteneva quella singolarità che le si volgerà contro, che sarà per lei una freccia nel fianco, un rimorso - un turbamento, - una ferita donde le sgorga quel sangue che volontariamente non osa versare. Se non potrò avere il più
brillante, voglio il più miserabile dei destini, non per amore d'una sterile solitudine, ma per ottenere, da così rara materia, un'opera nuova. Non più a Montmartre o agli Champs Elysées, un giorno incontrai Guy a Saint-Ouen. Era sporco, sbrindellato, con un dito di sudiciume addosso. E solo in un gruppo d'acquirenti più poveri e più sporchi dei venditori. Cercava di smerciare un paio di lenzuola, probabilmente rubate in una camera d'albergo. (Più d'una volta mi son sobbarcato simili fardelli che rendevan ridicoli la mia figura e il mio passo: libri sotto l'ascella che impedivano alle mie braccia di muoversi, lenzuola o coperte arrotolate intorno alla vita e che mi facevan sembrare obeso, ombrelli giù per la gamba dei pantaloni, medaglie in una manica...). Era triste. Con me c'era Java. Ci riconoscemmo subito. Dissi: - Sei tu, Guy? Non so che cosa lesse sul mio viso, il suo si fece terribile. - Già, proprio io; lasciami in pace. - Ascolta... Teneva le lenzuola sugli avambracci, nella posa piena di dignità dei manichini che presentano in vetrina i tessuti. Inclinando un poco il capo su una spalla, come per scandir meglio le parole, disse: - Dimenticami... - Ma... - Amico mio, dimenticami. La vergogna, l'umiliazione dovevano certamente prosciugargli la bocca impedendogli di pronunziare una frase più lunga. Java e io proseguimmo. Per ritrovare in se stesso - con atti che li rinneghino o che mirino ad annientarli - i seducenti svaligiatori, la cui occupazione, il cui mestiere m'incantano, Maurice R. inventa - e applica - certi suoi trucchi contro di loro. La sua ingegnosità prova, oltre a questa sua mania, come in segreto (e forse ignorandolo) vada in cerca, in se stesso, del male. Ha bardato casa sua di sapienti dispositivi: in una placca di lamiera posata sul davanzale delle sue finestre passa la corrente ad alta tensione, ha installato un sistema di soneria, serrature complicano le porte, eccetera. Ha ben poco da proteggere, ma in tal modo si tiene in contatto con lo spirito agile e scaltro dei malfattori. Dio: il mio tribunale intimo. La santità: l'unione con Dio. Essa sarà quando cesserà quel tribunale, vale a dire quando giudice e giudicato saranno confusi insieme. Un tribunale dà il tratto alla bilancia del bene e del male. Pronuncia una sentenza, infligge una pena. Cesserò d'essere il giudice e l'imputato. I giovani che s'amano si sfibrano nella ricerca di situazioni erotiche. Queste son tanto più "curiose", sembra, quanto più l'immaginazione che le scopre è povera e più profondo è l'amore che le suscita. Nel sesso della sua donna, René schiacciava acini d'uva e poi se li mangiava spartendoli con lei. A volte ne offriva agli amici, stupiti che si offrisse loro quella strana marmellata. Usa anche spalmarsi la coda di spuma al cioccolato. - La mia donna è ghiotta -, dice. Un altro mio amante orna di nastri il suo intimo vello. Un altro ha intrecciato, minuscola, una ghirlandetta di pratoline per la «cappella» del suo amico. Un culto fallico si celebra, con fervore, in camera, dietro le tendine della pattina abbottonata. Se, approfittando del turbamento, se ne impadronisce una rigogliosa fantasia, quali feste si celebreranno, cui saranno invitati vegetali e animali, e da queste, al di sopra di queste, quanta spiritualità! Io, fra i peli di Java, sistemo le piume che di notte escono fuori dai buchi del guanciale. La parola coglioni è nella mia bocca qualcosa di rotondo. So che la mia gravità, quando invento quel luogo del corpo, diventa fa mia virtù precipua. Come, dal cappello, il prestigiatore cava cento meraviglie, da essi posso cavare tutte le altre virtù.
René mi domanda se conosco qualche pedé da derubare. - Non fra i tuoi compagni, naturalmente. I tuoi compagni sono sacri. Ci penso per qualche istante, e infine mi viene in mente Pierre W., dal quale Java fu ospitato per qualche giorno. Pierre W., una vecchia zia (cinquant'anni), calva, smancerosa, con un paio d'occhiali a stanghette d'acciaio. «Per far l'amore li posa sul comò», m'aveva detto Java, che lo aveva incontrato sulla Costa Azzurra. Per scherzo, un giorno chiesi a Java se Pierre W. gli piacesse. - Lo ami, confessalo. - Sei matto. Macché amarlo. Però è un buon compagno. - Lo stimi? - Be', sì: mi ha sfamato. Mi ha anche mandato della grana. Così mi disse sei mesi fa. Oggi gli chiedo: - E da Pierre W. non c'è da grattar nulla? - Mica molto, sai. Ha un orologio d'oro. - Tutto qua? - Forse anche dei soldi. Ma bisognerebbe scovarli. René vuol delle precisazioni. Le ottiene da Java, che accetta anche di fissare un appuntamento col suo ex amante, e di trascinarlo in un tranello dove René lo deruberà. Quando ci ebbe lasciati. René mi disse: - Però è un bel puzzone, Java. Bisogna esser proprio lerci per far quello che ha fatto. Io, vedi, non ne avrei il coraggio. Una curiosa atmosfera, di lutto e di tempesta, oscura il mondo: amo Java che mi ama, e l'odio ci drizza l'un contro l'altro. Non ne potevamo più, ci odiavamo. Quando quest'odio rabbioso appare, mi par di sparire, lo vedo sparire. - Sei un porco! - E tu uno stronzetto! Per la prima volta è deciso, s'arrabbia, vuole uccidermi, la collera lo indurisce: cessa d'essere un'apparenza per essere un'apparizione. Ma quello ch'egli era per me scompare. Quello che io ero per lui cessa d'esistere mentre rimane in entrambi, a vigilare, a sorvegliare il nostro delirio, la certezza d'una riconciliazione così profonda da strapparci le lacrime quando ci ritroveremo. La sua viltà, la sua fiacchezza, la volgarità d'ogni suo atto o sentimento, la sua imbecillità, la sua codardia non m'impediscono d'amare Java. Aggiungo la sua gentilezza. Il confronto, o la mescolanza di questi elementi, o la doro interpretazione, sfocia in una qualità nuova - una sorta di lega - che non ha nome. Aggiungo ancora la persona fisica di Java, il suo corpo massiccio e tenebroso. Per rendere al vivo questa qualità nuova, mi s'impone l'immagine d'un cristalloide, del quale gli elementi sopra elencati siano altrettante faccette. Java sfavilla. La sua acqua - il suo scintillio - è appunto la singolare virtù ch'io chiamo Java e che amo. Preciso: non amo né la viltà né l'imbecillità, non amo Java "per" l'una o "per" l'altra, ma mi affascina quel loro incontrarsi in lui. Ci si stupirà che dall'unione di qualità tanto molli s'ottengano gli spigoli vivi del cristallo di rocca; ci si stupirà ch'io paragoni - non degli atti - ma l'espressione morale degli atti ad attributi del mondo commensurabile. Ho detto che ero affascinato. E' una parola che da sola contiene l'idea di fasci - e soprattutto di fasci luminosi simili allo scintillio dei cristalli. Questo scintillio è il risultato d'una certa disposizione di superfici. E' ad esso che paragono la qualità nuova - virtù - ottenuta dalla fiacchezza, dalla viltà, eccetera. Questa virtù non ha nome, se non quello di chi la emette. Che scaturito da lui, tale scintillio, e proiettato, m'incendi, avendo trovato una materia infiammabile, significa ch'esso è l'amore. Essendomi applicato alla ricerca di ciò che in me paragono a tale materia, con la riflessione ottengo l'assenza di tali qualità. Il loro incontro sulla persona di Java m'abbacina. Java sfavilla. Brucio, perché mi brucia. Con la penna sospesa per una breve meditazione, le parole che mi urgono alla
mente evocano la luce e il calore, termini che di solito si usano parlando dell'amore: abbacinamento, raggi, braciere, fasci, fascino, bruciatura. Tuttavia le qualità di Java - quelle che compongono il suo scintillio - sono glaciali. Ciascuna di esse, separatamente, evoca un'assenza di temperamento, di temperatura (33). Quanto ho or ora scritto, lo so, non rende al vivo Java, ma dà l'idea d'un suo momento, davanti a me. Precisamente il momento della nostra rottura. E' proprio adesso che m'abbandona che spiego con l'immagine perché soffro. La nostra separazione è brutale, dolorosa, per me. Java mi sfugge. I suoi silenzi, i suoi frettolosi baci, le sue frettolose visite - arriva in bicicletta - sono una fuga. Sotto gli ippocastani degli Champs-Elysées, gli ho detto il mio appassionato amore. Ho buon gioco. A legarmi ancora a lui, e proprio al momento di lasciarlo, è la sua emozione, il suo smarrimento davanti alla mia decisione, alla brutalità di questa rottura improvvisa. E' sconvolto. Ciò che gli dico - di noi, di lui soprattutto - fa, di noi, due esseri così strazianti che i suoi occhi s'appannano. E' triste. Si desola in silenzio e tale sua desolazione lo aureola d'una poesia che lo rende più seducente, in quanto eccolo scintillar nella nebbia. Mi lego ancor di più a lui, mentre devo lasciarlo. La sua mano, nell'afferrar la sigaretta che gli porgevo, è troppo debole, troppo esile per la pesante muscolatura del suo corpo. Mi alzo, lo bacio e gli dico che quel bacio è l'ultimo. - No, Jeannot, te ne darò degli altri -, dice. Qualche minuto dopo, pensando a questa scena, ho a un tratto la certezza che proprio la fragilità della sua mano, senza che sulle prime me ne fossi accorto con chiarezza, aveva reso definitiva, irrevocabile la mia decisione. Le sue dita appiccicose per le pallottoline di vischio schiacciate il primo dell'anno. Le mani ricolme entrambe del suo sperma. La nostra camera è oscurata d'ai panni stesi a asciugare sulle corde che a zig zag vanno da una parete all'altra. Quel bucato - camicie, slip, fazzoletti, calzini, asciugamani, mutande - intenerisce nell'anima e nel corpo i due ragazzi che si spartiscono la stanza. Ci addormentiamo, fraternamente. Se il palmo delle sue mani, rimasto a lungo nella saponata, è più morbido, in compenso egli lo rende più violento nei nostri amori. ("Un brano - riconciliazione con Java - è stato soppresso per scrupolo dall'autore, obbediente alla propria tenerezza per l'eroe".) Non c'è città importante della Francia dove non conosca almeno un ladro col quale ho lavorato, o col quale, dopo averlo conosciuto in carcere, ho fatto progetti, preparato, allestito colpi. Presso costoro, son sicuro di trovare un appoggio se nell'una o nell'altra città mi sentissi solo. Questi maschi, scaglionati per tutta la Francia, talvolta all'estero, pur se non li vedo spesso, mi son di conforto. Mi rende felice e calmo il saperli vivi, attivi e belli, acquattati nell'ombra. Nella mia tasca, il taccuino coi loro nomi cifrati è dotato di potere consolatorio. Ha lo stesso prestigio d'un sesso. E' il mio tesoro. Trascrivo: Jean B. a Nizza. Incontrato una notte nei giardini Alberto Primo. Non ebbe il coraggio d'accopparmi per derubarmi del denaro, ma mi segnalò l'affare del Mont-Baron. René D. a Orléans, Jacques L. e Martino, marinai che son rimasti a Brest. Li conobbi nel carcere del Bougen. Trafficammo stupefacenti insieme. Dédé il nizzardo, a Cannes, un magnaccia. A Lione, dei guappi, un negro e il tenutario d'un casino. A Marsiglia, ne conosco venti. Gabriel P. a Pau. Eccetera. Ho detto che son belli. Non d'una bellezza normale, ma di un'altra, fatta di possanza, di disperazione, di numerose qualità la cui enunciazione richiede un commento: la vergogna, la malizia, la pigrizia, la rassegnazione, il disprezzo, la noia, il coraggio, la vigliaccheria, la paura... L'elenco sarebbe lungo. Tali qualità sono scolpite sul volto e sul corpo di questi miei amici. Esse vi si urtano, vi si scavalcano, vi si scontrano. Per questo dico che costoro hanno un'anima. Alla complicità che ci unisce, s'aggiunge un segreto accordo, una sorta di fragile patto, che un nonnulla, s'ha l'impressione, potrebbe rompere, ma che io so proteggere, trattare con abili dita: è il ricordo delle nostre notti d'amore, o a volte d'un breve colloquio amoroso, o degli strusciamenti accettati con un sorriso e un trattenuto sospiro d'un presentimento di voluttà. Tutti, con animo gentile, acconsentirono ch'io mi ricaricassi a ciascuna delle loro asperità, come a dei terminali d'una batteria elettrica, dove si
polarizza la corrente. Credo che tutti, oscuramente, sapessero, così, d'incoraggiarmi, d'accrescere il mio entusiasmo, di ridarmi lena nel lavoro, e di permettermi d'accumulare abbastanza forza emanata da loro - per proteggerli. Tuttavia, sono solo. Il taccuino che ho in tasca è la testimonianza scritta che ho avuto tali amici; ma verosimilmente la loro vita ha la medesima incoerenza della mia, e quindi, in concreto, di loro non so nulla. La maggior parte, forse, è in carcere. Dove, gli altri? Se stanno vagabondando, quale caso me li farà incontrare di nuovo? E ciascun di noi, sotto quale forma? Nondimeno, se le contrapposizioni di vile e di nobile dovessero permanere, sarò non foss'altro riuscito a distinguere in loro i momenti di fierezza, di rigore, a riconoscerli come elementi sparsi d'una severità che voglio adunare in me per ottenerne un volontario capolavoro. D'Armand - corporatura da marinaio, massiccia e dinoccolata, occhio greve, cranio rasato, naso schiacciato non dal pugno d'un uomo ma per aver urtato, cozzato contro i cristalli che ci taglian fuori dal vostro mondo - l'apparenza fisica, se non allora, oggi, evoca il bagno penale, del quale m'appariva come il più significativo, il più illustre rappresentante. Verso di lui ero chiamato, ero spinto a capofitto, e soltanto adesso, disperato, in lui oso sprofondarmi. Quanto in lui scorsi di materno, non ha nulla di femmineo. Gli uomini, a volte, usano interpellarsi così: - E allora, la Vieille? - Salute, la Roulante! - Sei tu, la Cavale? (34) E' un vezzo proprio del mondo della miseria e del delitto. Del delitto punito che su di sé - o in sé reca il marchio d'infamia dalla condanna. (Ne parlo come d'un fiore, e per dir meglio d'un giglio, dal momento che appunto da un giglio era rappresentato tale marchio.) Simili vocativi indicano lo scadimento di uomini che già furono forti. Essi possono, oggi che son feriti, sopportar l'equivoco. Anzi, lo desiderano. La tenerezza che a ciò li inclina non è femminilità ma scoperta dell'ambiguità. Penso che siano pronti a fecondarsi da soli, a deporre e a covare le loro uova senza che il crudele aculeo dei maschi si smussi. Se, tra i più umili accattoni, ci si dice: «Come va, la Grinche (o la Chine)?», la Guyana è un nome femminile. Essa contiene tutti quei maschi che son detti i duri. Inoltre è una contrada tropicale, alla periferia del mondo, la più febbricosa - c'è la febbre dell'oro - dove la giungla cela ancora sui suoi acquitrini tribù feroci. Mi dirigo verso di lei - giacché, scomparsa, è adesso la regione ideale della sventura e della penitenza, verso la quale si dirige non la mia persona fisica ma quella che la sorveglia - con un misto di timore e di consolatrice ebbrezza. I duri che la frequentano son rimasti virili - come quelli della Chine e della Grinche - mia dal loro sfacelo hanno appreso l'inutilità di darne la prova. Armand era uomo, con stanchezza. Come gli eroi sugli allori, dormiva sui suoi muscoli, si riposava nella sua forza e su di essa. Premendogli col polso la nuca delicata, se piegava, brutale, il capo d'un marmocchio, lo faceva con indifferenza e per non aver dimenticato i metodi e le consuetudini prive d'ogni cautela d'un mondo dove forse era vissuto a lungo, da dove io pensavo che provenisse. Se era buono, ho già detto più sopra, lo era per offrirmi un'ospitalità destinata ad appagare, così puntualmente, i miei più reconditi desideri - quelli che scopro con maggior pena, in ambo i sensi della parola, ma che sono anche i soli capaci di far di me il personaggio più bello, cioè più identico a me stesso. Aspiro alla Guyana. Non più al luogo geografico oggi spopolato, evirato ma alla vicinanza, alla promiscuità insomma, non nello spazio ma nella coscienza, dei sublimi modelli, dei grandi archetipi della sventura. Essa è buona. Il movimento respiratorio che la solleva e la riabbassa in un ritmo lento, ma pesante, regolare, è governato da un'atmosfera di bontà. Tale luogo par contenere la siccità, l'aridità più crudele, ed eccolo invece esprimersi con un tema di bontà: suscita, e impone, l'immagine d'un seno materno, carico al par di esso di rassicurante forza, donde sale un odore lievemente nauseabondo che mi dà una pace vergognosa di sé. La Vergine e Madre, e la Guyana, le chiamo entrambe Consolatrici degli afflitti. Armand sembrava contenere le stesse malefiche caratteristiche; ora, se lo evoco, non insorgono immagini crudeli, ma le più tenere, quelle appunto per mezzo delle quali esprimerei il mio amore non per lui ma per voi. Quando lasciai, come ho già detto più sopra, il Belgio, assillato da una specie di rimorso o di vergogna, in treno non feci che pensare a lui e, persa ormai la speranza di
riaverlo ancora sotto mano o sotto gli occhi, andavo curiosamente in cerca del suo fantasma: poiché il treno mi stava allontanando da lui, dovevo sforzarmi di ridurre lo spazio e il tempo che da lui mi separavano, risalirli, l'uno e l'altro, sempre più velocemente col pensiero, mentre sempre di più mi s'imponeva, mi si precisava - e sola capace di consolarmi della perdita d'Armand - l'idea della sua bontà, tanto che quando il treno (esso attraversò prima un bosco d'abeti e forse la scoperta d'un paesaggio luminoso tutt'a un tratto, mediante la sua brusca rottura con l'ombra benefica degli abeti, preparò l'idea di disastro) presso Mauberge passò su un ponte con un fracasso spaventoso, ebbi l'impressione che, crollato il ponte e il treno spezzatosi in due, sul punto di cadere in quell'improvviso baratro, quella sola bontà che già mi colmava sino a comandare i miei atti, sarebbe bastata a riattaccare insieme i due tronconi, a ricostruire il ponte, a permettere al convoglio d'evitare il disastro. Superato il viadotto, mi chiesi addirittura se tutto quanto ho or ora detto non fosse accaduto davvero. Il treno proseguì sulla strada ferrata. Il paesaggio francese respingeva dietro di me il Belgio. La bontà d'Armand non consisteva nel fare il bene: la mia idea d'Armand, allontanandosi dal proprio pretesto fatto d'ossa e di muscoli, diveniva una sorta d'elemento etereo dove mi rifugiavo, ed era un rifugio così dolce che dal suo seno inviavo al mondo messaggi di gratitudine. In lui avrei trovato la giustificazione, presso di lui l'approvazione del mio amore per Lucien. Contrariamente a Stilitano, m'avrebbe contenuto col carico di tale amore e di tutto quanto deve conseguirne. Armand m'assorbiva. La sua bontà non era dunque una delle qualità riconosciute dalla morale corrente ma ciò che, via via che lo penso, suscita ancora in me emozioni da cui nascono immagini di pace. Ne acquisto conoscenza dal linguaggio. Abbandonandosi con mollezza, Stilitano, Pilorge, Michaelis, tutti i magnaccia e i teppisti da me incontrati restano impettiti, non severi ma calmi, privi di tenerezza; persino nella voluttà, o nella danza, rimangono soli, riflettendosi in se stessi, specchiandosi delicatamente nella loro virilità, nella loro forza, che li leviga e li limita con la stessa preziosità d'un bagno d'olio, mentre di fronte a loro, non intaccate da quelle focose presenze, opulente amanti si riflettono in se stesse e rimangono se stesse, isolate dalla loro sola bellezza. Vorrei radunarli in un bel mazzo, questi ragazzotti. Imporre su loro una campana di vetro. Forse allora un'irritazione fonderebbe la materia invisibile che li isola: nell'ombra d'Armand che li contiene tutti potrebbero fiorire, schiudersi e offrirmi quelle feste di cui s'onora la mia Guyana ideale. Meravigliandomi che tutti, salvo uno, i sacramenti della Chiesa (già è sontuosa la parola) evochino delle solennità, il sacramento della penitenza avrà infine il suo posto nel cerimoniale liturgico. Quand'ero bambino si riduceva a un chiacchiericcio tutto pieno di vergogna, ipocrita, scambiato con un'ombra dietro la grata del confessionale, nonché a qualche preghiera recitata in fretta, in ginocchio su una sedia; oggi si svolge in tutta la sua pompa terrena: se non proprio la breve passeggiata verso il patibolo, è il dispiegarsi di questa a prender la via del mare e a prolungarsi per tutta l'intera vita in una regione favolosa. Non insisto sulle caratteristiche che la Guyana possiede e che davvero la fanno apparire cupa e splendida: le sue notti, le sue palme, i suoi soli, il suo oro li si ritrovano a profusione su ogni altare. Se dovessi vivere - ci vivrò forse, ma è un'idea per me intollerabile - nel vostro mondo, che pur tuttavia m'accoglie, ne morrei. Oggi che ho, dopo aver vinto a viva forza, con voi firmato un'apparente tregua, mi ci trovo in esilio. Non voglio sapere se è per espiare un delitto da me ignorato ch'io bramo il bagno penale, ma ne ho così grande nostalgia che mi ci dovranno pur condurre. Ho la certezza che soltanto là potrò continuare una vita che fu stroncata sul nascere. Sbarazzatomi d'ogni preoccupazione di gloria e di ricchezza, con lenta, minuziosa pazienza compirò i gesti penosi dei puniti. Eseguirò tutti i giorni un lavoro comandatomi da una regola la cui unica autorità consiste nel suo essere emanata da un ordine cui è sottoposto, e da cui è creato, il penitenziario. Mi logorerò. Coloro che vi ritroverò m'aiuteranno. Diventerò polito come loro, levigato come dalla pomice. Ma sto parlando d'un bagno penale abolito. Che io lo ricostituisca dunque in segreto, e che io ci viva in ispirito come in ispirito i cristiani soffrono la Passione. La sola via praticabile deve passare
attraverso Armand e proseguire nella Spagna degli accattoni, della povertà vergognosa di sé e umiliata. Scrivo queste note e ho trentacinque anni. Quanto mi resta da vivere, voglio continuarlo nel contrario della gloria. Stilitano aveva maggior rettitudine d'Armand. Se penso a loro, è, secondo la rappresentazione che me ne offre la mente, all'universo in espansione che dovrò paragonare Armand. Anziché precisarsi e ridursi in limiti osservabili, Armand si va deformando a mano a mano che lo inseguo. Stilitano invece è già ben delineato. La differente natura del pizzo di cui ebbero a occuparsi, resta significativa. Quando Stilitano osò ridere del talento d'Armand, questi lì per lì non s'arrabbiò. Credo che fosse in grado di comandare a sua volontà la collera. Non penso che l'osservazione di Stilitano l'avesse ferito. Continuò a fumar la sua sigaretta, placidamente, poi disse: - Mi credi un fesso, no? - Non ho detto questo. - Va' là, che lo so. Continuò a fumare, lo sguardo assente. Venivo così a sapere d'una delle mortificazioni - che furon certamente numerose - sofferte da Armand. Quella sua massa di fierezza non era composta soltanto d'audaci, e nemmeno d'onorevoli, elementi. La bellezza, il vigore, la voce, il fegato non sempre gli avevano assicurato il trionfo, visto che aveva dovuto, come un miserello, sottoporsi a un tirocinio da merlettaia, quello che si usa imporre ai bambini, cui non si osa affidare altro materiale che la carta. - Non si direbbe -, disse Robert, col capo sui gomiti appoggiati sul tavolo. - Non si direbbe che cosa? - Be', cavolo, che sai fare quelle robe lì. La sua abituale malagrazia non osava prender di petto quell'uomo e la sua miseria: Robert esitava nel parlare. Stilitano sorrideva. Meglio d'ogni altro doveva accorgersi della sofferenza d'Armand. Al par di me temeva e sperava la domanda - che d'altronde Robert non ebbe il coraggio di formulare: - Dov'hai imparato? Un camallo che stava avvicinandosi la lasciò in sospeso. Passando vicino ad Armand, costui si limitò a dire un'ora: le undici. Le musichette dell'autopiano rendevano meno greve il fumo denso del bar dove ci trovavamo. Armand rispose: - D'accordo. Il suo volto rimase triste. Essendo rare, lì, le ragazze, il tono generale era cordiale e semplice. Se un uomo si alzava dalla sua sedia, lo faceva con tutta semplicità. Soltanto più tardi, pensando alle sue mani e alle sue dita pesanti, mi dissi che il pizzo di carta uscente da quelle doveva essere per forza brutto. Armand era troppo maldestro per lavori simili. Ammenoché non avesse imparato al bagno penale o in carcere. L'abilità dei forzati è stupefacente. Fra le loro dita criminali appaiono talvolta delicati e fragili capolavori realizzati con pezzetti di fiammiferi, pezzetti di cartone, di spago, pezzetti di non so che altro. L'orgoglio che ne provano è della stessa qualità del materiale usato e del capolavoro ricavatone: è umile e fragile. Càpita che dei visitatori si felicitino con gli ergastolani per un calamaio intagliato in una noce come ci si felicita con una scimmia o un cane: pieni di meraviglia per tanta maliziosa astuzia. Quando il camallo si fu allontanato, Armand non mutò volto. - Se credi che uno possa saper far tutto, sei un fessacchiotto. Invento le parole qui riportate ma non ho dimenticato con quale tono di voce furono dette. In sordina, tale voce famosa, tuonava. Il temporale rumoreggiava colpendo, con dito leggero, le più preziose corde vocali del mondo. Armand si alzò, senza smettere di fumare: - Andiamo, disse. - Andiamo. Aveva deciso, con questa parola, che ce ne saremmo andati a dormire. Stilitano pagò. Armand uscì, sfoderando la sua eleganza favorita: il passo affrettato. Camminò in mezzo alla strada. La sua disinvoltura era la solita. Salvo che, quella sera, non proferì nessuna di quelle sue parole, di quelle sue espressioni abituali che lo facevan passare per grossolano. Penso che stesse inghiottendo la
propria amarezza. Camminava svelto, con la testa alta, eretta. Stilitano, accanto a lui, drizzava la sua guizzante ironia, Robert la sua giovane insolenza. Vicino a loro, io li contenevo, contenendo l'idea fattami di loro, ero la loro riflettente coscienza. Faceva freddo. I due costoloni che stavo accompagnando erano freddolosi. Affondate nelle tasche per congiungersi nel posticino più tenero e caldo del corpo, le loro mani tendevano il traliccio dei calzoni mettendo in evidenza le natiche. Nessuno parlava. Giunti presso rue du Sac, Stilitano strinse la mano a Robert e ad Armand, e disse: - Vado a dare un'occhiata a Sylvia, prima di tornare a casa. Vieni con me, Jeannot? Lo accompagnai. Camminammo per un po' senza parlare, traballando sui ciottoli. Stilitano sorrideva. Senza guardarmi disse: - Sei proprio diventato amico, con Armand. - Sì. Perché? - Ba, niente... - E allora, perché l'hai detto? - Così. Camminammo ancora allontanandoci dal posto dove lavorava Sylvia. - Di' un po'. - Che cosa? - Se io avessi della grana, l'avresti il fegato di fregarmi? Per spavalderia - e sapendo già che la mia audacia non poteva esser altro che una forma del mio spirito - risposi di sì. - Sì. Perché no? Se tu ne avessi un bel mucchio. Rise. - E Armand, te la sentiresti? - Perché me lo chiedi? - Rispondi. - E tu? - Io? Perché no? Se ne ha un bel mucchio. Dal momento che frego gli altri, non ci sarebbe motivo... Ma tu? Rispondi. Dal cambiamento di tempo nel verbo, improvvisamente al presente in luogo d'un imperfetto dubitativo, capii che c'eravamo messi d'accordo per derubare Armand. E io sapevo d'aver simulato il mio cinismo, per calcolo e per pudore, nel dichiarare a Stilitano che lo avrei derubato. Una tal crudeltà nei nostri rapporti doveva certamente cancellare la crudeltà delle nostre azioni rivolte contro un amico. In effetti avevamo compreso che qualcosa ci univa, la nostra complicità non risultava dall'interesse, era nata dall'amicizia. Risposi: - E' pericoloso. - Mica poi tanto. Ero sconvolto dall'idea che Stilitano avesse dovuto passar sopra all'amicizia ricambiatagli da Robert per farmi una simile proposta. Per gratitudine, lo avrei baciato se il suo sorriso non avesse fatto schermo. Infine, pensai che forse aveva chiesto la stesa cosa a Robert e che questi s'era rifiutato. In quel medesimo momento, probabilmente, Robert tentava di stringer con Armand rapporti non meno intimi di quelli che mi univano a Stilitano. Ma io avevo la certezza di aver scelto, in quello "chassécroisé", il mio cavaliere. Stilitano mi spiegò quello che s'aspettava da me: che rubassi, prima che avesse avuto il tempo di farla passare in Olanda o in Francia, la provvista d'oppio che gli avrebbero portato i marinai e i macchinisti d'un "tremp-boat" battente bandiera brasiliana, l'"Aruntai". - Che te ne fotte, d'Armand? Noi eravamo insieme in Spagna. Della Spagna, Stilitano ne parlava come d'un teatro d'eroismi. Camminavamo nella gelida umidità della notte. - Armand, puoi figurarti, quando c'è da fregare un maschio...
Capii che non dovevo protestare. Poiché non possedevo abbastanza potere per dettare e imporre, uscite da me, delle leggi morali, dovevo ricorrere alle solite finte, accettar di agire da giustiziere per scusare i miei delitti. - ... mica fa complimenti, lui. Sul suo conto, se ne racconta più d'una. Prova a domandarlo ai mecchi che l'han conosciuto. - Se saprà che sono stato io... - Non lo saprà. Tu dovrai soltanto dirmi dov'ha infilato il malloppo. Quando sarà fuori, salirò nel suo cuccio. Cercai di salvare Armand e dissi ancora: - Mi stupirei, se lo lasciasse in camera. Deve certamente avere un nascondiglio. - Allora, dovremo scoprirlo. Sei troppo furbo per non riuscirci. Prima che m'avesse accordato quella stima che ho detto più sopra, certamente non avrei tradito Armand. Il solo pensarci m'avrebbe fatto orrore. Finché non m'aveva concesso la sua fiducia, tradirlo, del resto, non aveva alcun senso: sarebbe stato, semplicemente, un obbedire alla regola più elementare che governava la mia vita. Oggi lo amavo. Riconoscevo la sua onnipotenza. E se lui non mi amava, mi comprendeva nella sua propria persona. La sua autorità morale era così assoluta, così generosa da rendere impossibile una rivolta intellettuale in seno a quella. Non avevo altro modo di provare la mia indipendenza se non agendo in campo sentimentale. L'idea di tradire Armand m'illuminava. Lo temevo e lo amavo troppo per non desiderare d'ingannarlo, di tradirlo, di derubarlo. Già pregustavo l'inquieta voluttà che accompagna il sacrilegio. Se era Dio (aveva conosciuto la pietà) e se di me s'era compiaciuto, mi era dolce rinnegarlo. E ancor più dolce m'era che in questo m'aiutasse Stilitano, che non mi amava e che non avrei potuto tradire. Il carattere, pungente, di costui, meravigliosamente suscitava quest'immagine: lo stiletto che trapassa l cuore. La forza del diavolo, il suo potere su di noi risiedono nella sua ironia. Seduce, probabilmente, appunto per il suo distacco. La forza con la quale Armand rinnegava le regole, provava la sua forza - e la forza di quelle regole su di lui. Stilitano, di tali regole, ne sorrideva. La sua ironia mi dissolveva. Eppoi aveva l'audacia di manifestarsi su un viso di grande bellezza. Entrammo in un bar e Stilitano mi spiegò quello che avrei dovuto fare. - A Robert, gliel'hai detto? - Sei matto. Deve restar fra noi. - E credi che la faccenda frutti della grana? - Hai voglia. E' un avaro. Ha fatto un colpo formidabile in Francia. Stilitano, sulla faccenda, pareva avesse riflettuto da un bel po'. Lo vedevo risalire da una vita notturna, trascorsa sotto i miei occhi e rimasta segreta. Dietro il suo riso, vigilava, spiava. Usciti dal bar, ci abbordò un accattone: ci chiese qualche soldo. Stilitano gli lanciò un'occhiata non priva di disprezzo: - Fa' come noi, amico. Se vuoi della grana, prenditela. - Ditemi almeno dove ce n'è. - Ce n'è in tasca mia e se la vuoi vieni pure a cercarla. - Voi ragionate bene, ma se foste... Stilitano rifiutò la conversazione che rischiava d'andar per le lunghe, e nella quale a sua volta avrebbe corso il rischio di abbiosciarsi. Era molto abile nel tagliar corto per mettere in rilievo la propria intransigenza, per dividere in sezioni nette la propria apparenza. - Noi, quando ne vogliamo, la prendiamo dove si trova -, mi disse. - Ma non ci esponiamo certo per far la carità ai barboni. O che avesse compreso che quello era il momento buono per darmi una lezione di severità, o ch'egli stesso sentisse il bisogno di consolidare il suo egoismo, Stilitano lo disse in modo tale - con una così sapiente noncuranza - che quel suo parere assunse nella notte, nella bruma, le dimensioni d'una verità filosofica, un tantino arrogante, che non dispiaceva al mio temperamento, naturalmente
incline alla pietà. Potevo infatti riconoscere, in quella verità contro natura, la virtù d'un atteggiamento capace di proteggermi contro me stesso. - Hai ragione -, dissi, - se ci facciamo pizzicare, mica ci va lui, al fresco. Che se la sbrogli, se ha fegato. Con tale frase non soltanto ferivo il più prezioso - anche se dissimulato - periodo della mia vita, ma mi confermavo nella mia ricchezza partecipando delle qualità del diamante, in quella città di diamantai, e in quella notte d'egoistica solitudine piena di luccicanti sfaccettature. Ci avvicinammo al luogo dove lavorava Sylvia ma ormai era tardi, era tornata a casa (35). (Voglio notare che, verso la sua donna, la sua ironia si spengeva. Ne parlava con sgarbo, ma senza sorridere.) Poiché in Belgio la prostituzione non soggiaceva a precisi regolamenti come in Francia, un magnaccia poteva abitare senza rischio con la sua donna. Stilitano e io prendemmo la via del suo albergo. Abile, non parlò più dei nostri progetti ma evocò la nostra vita in Spagna. - Però, avevi proprio preso una bella cotta, a quei tempi. - E adesso? - Adesso? Ce l'hai sempre? Penso che volesse sincerarsi del mio amore ed esser sicuro che per lui avrei lasciato Armand. Erano le tre o le quattro del mattino. Venivamo da un paese dove luce e rumore son violenti. - Non più come prima. - Davvero? Sorrise, e mi guardò di tralice, senza smettere di camminare. - Cos'è che non va? Il sorriso di Stilitano era terribile. La preoccupazione - come più d'una volta, e soprattutto da allora d'esser più forte di quanto lo fossi per natura, di superare la mia indole, di mentire su di essa, m'aveva indotto a pronunciare una frase che, pur se detta in tono pacato, era una provocazione. Dovevo spiegare, chiarire quella mia prima proposizione posta come la premessa d'un teorema. Dalla spiegazione, e non viceversa, doveva nascere il mio nuovo atteggiamento. - Nulla, va tutto bene. - E allora? Non ti piaccio più come prima. - Non t'amo più. - Ah! Passavamo in quel momento sotto una delle arcate del viadotto ferroviario. C'era più buio che altrove. Stilitano s'era fermato, e, voltatosi verso di me, mi guardava. Fece un passo in avanti. Non indietreggiai. Con la bocca quasi sulla mia, mormorò: - Jean, mi piace la tua faccia di bronzo. Trascorsero alcuni istanti di silenzio. Ebbi paura che tirasse fuori il coltello per ammazzarmi e credo che non mi sarei difeso. Ma sorrideva. - Accendimi un fumìno -, disse. Gli presi di tasca una sigaretta, la accesi, ne tirai una boccata e gliela sistemai fra le labbra, nel mezzo. Con un abile colpo di lingua la spostò nell'angolo destro della bocca e, sorridendo ancora, avanzò d'un passo, a rischio di scottarmi la faccia se non mi fossi tratto indietro. La mia mano, che tenevo penzoloni davanti a me, s'avviò da sola verso il suo corpo: gli si stava muovendo. Stilitano sorrideva e mi guardava negli occhi. Il suo petto doveva immagazzinar con facilità il fumo. Aperta la bocca, non ne sfuggì fuori un solo bioccoletto. Di lui e dei suoi accessori non appariva che la parte crudele. Il tenero, il molle eran messi al bando. Eppure l'avevo visto, poco tempo prima, in posizioni mortificanti. E' un'attrazione del luna-park il cosiddetto Palazzo degli Specchi, che consiste in un baraccone con dentro un labirinto tramezzato di cristalli, alcuni muniti di stagno, altri trasparenti. Si paga, si entra e il problema è d'uscirne. E' allora che disperatamente urti contro la tua propria immagine o contro un altro visitatore separato da te da un vetro. Gli sfaccendati, dalla strada, assistono alla ricerca dell'invisibile via d'uscita. (La scena che dirò mi suggerì l'idea d'un balletto intitolato "'Adame Miroir".) Giunto presso quel baraccone, unico nel luna-park, mi parve così notevole l'assembramento degli spettatori ch'io capii che là si doveva veder qualcosa
d'eccezionale. Ridevano. Tra la folla riconobbi Roger (36). Fissava il groviglio di quel sistema di specchi, e tragico era il suo volto contratto. Prima ancora d'averlo visto, compresi che Stilitano, e soltanto lui, era preso in trappola, "visibilmente" smarrito nei corridoi di vetro. Nessuno poteva sentirlo, ma dai suoi gesti, dalla sua bocca si capiva che stava urlando di collera. Guardava rabbioso la folla che lo guardava ridendo. Il custode del baraccone se ne restava lì indifferente. Situazioni simili càpitano ogni giorno. Stilitano era solo. Tutti gli altri se n'eran tratti fuori, salvo lui. Stranamente l'universo si velò. L'ombra che d'improvviso avvolse cose e persone era l'ombra della mia solitudine di fronte a quella disperazione, giacché non potendone più d'urlare, di cozzare contro gli specchi, rassegnato a esser lo zimbello degli sfaccendati, Stilitano s'era accovacciato per terra, mostrando così il suo rifiuto a proseguire. Esitai, incerto se andarmene o battermi per lui e demolire la sua prigione di cristallo. Senza esser visto, guardai Roger: continuava a fissare Stilitano. Mi feci più vicino a lui: i suoi capelli lisci ma morbidi, spartiti nel mezzo, gli ricadevano curvi sulle guance per ricongiungerglisi sulla bocca. Quella sua testa suggeriva l'immagine di certe palme. Aveva gli occhi bagnati di pianto. Se mi si accusa d'utilizzare accessori come baracconi, carceri, fiori, refurtive sacrileghe, stazioni, frontiere, oppio, marinai, porti, orinatoi, funerali, camere d'un postribolo, e d'ottenerne mediocri melodrammi confondendo la poesia con un facile pittoresco, che rispondere? Ho già detto quanto ami i fuorilegge senz'altra bellezza che il loro corpo. Gli accessori elencati son pregni della violenza degli uomini, della loro brutalità. Le donne non vi hanno parte. Sono gesti d'uomini quelli che li animano. I luna-park, nel Nord, son dedicati ai grandi maschi biondi. Soltanto questi li frequentano. Al loro braccio le ragazze s'aggrappano in modo penoso. Erano esse a ridere della disgrazia di Stilitano. Risoluto, Roger entrò. Pensammo che si sarebbe sperso fra gli specchi. Scorgemmo i suoi bruschi e lenti mutamenti di direzione, il suo passo sicuro, i suoi occhi tenuti bassi per raccapezzarsi meglio sul suolo, meno ipocrita dei cristalli. Guidato dalla propria certezza fece capo a Stilitano. Vedemmo le sue labbra mormorar qualcosa. Stilitano si rialzò e, ripreso a poco a poco il suo solito appiombo, uscirono entrambi in una sorta d'apoteosi. Non m'avevano visto, e liberi, gai, continuarono a divertirsi, mentre io, solo, me ne tornai a casa. Era forse l'immagine di Stilitano ferito a turbarmi così? Lo sapevo capace di trattenere il fumo di un'intera sigaretta che, consumandosi, si sarebbe palesata con la sola brace. A ogni aspirazione il volto gli s'illuminava. Sotto le mie dita che lo sfioravano appena lo sentii arrazzare. - Ti piace, eh? Non risposi. A che pro? Sapeva che la mia spavalderia faceva già cilecca. Si tolse di tasca la mano sinistra e circondandomi le spalle col braccio mi strinse a sé, mentre la sigaretta gli difendeva la bocca., proteggendola da un bacio. Qualcuno stava avvicinandosi. Mormorai rapidissimo: - T'amo. Ci staccammo l'uno dall'altro. Quando lo lasciai davanti al portone del suo albergo, era sicuro che gli avrei dato tutte le informazioni concernenti Armand. Rientrai e mi coricai nella mia camera. Mai, nemmeno quando mi ingannavano o mi odiavano, ero riuscito a odiare i miei amanti. Separato da una parete da Armand coricato con Robert, soffrivo di non essere al posto d'uno di loro, o di non essere con loro, o di non essere uno di loro, li invidiavo ma non sentivo nessun odio. Salii la scala di legno facendo molta attenzione perché era sonora e anche le tramezze eran quasi tutte di legno. Quando si sfilò la cintola immagino che quella sera Armand non l'abbia fatta schioccare come una frusta. Doveva accorgersi della sua forte e virile tristezza e senza dubbio fu con un qualche gesto silenzioso che indicò a Robert d'obbedire al suo piacere. Per me Armand dimostrava ancor meglio, così, la propria potenza; anch'essa procedeva dalla sventura, dall'abiezione. Quel suo pizzo di carta aveva la stessa struttura fragile, non proprio fatta per la vostra morale, dei trucchi dell'accattone. Apparteneva all'artificio, era posticcia quanto le piaghe, i moncherini, la cecità.
Questo libro non vuol essere, proseguendo nel cielo il proprio solitario cammino, un'opera d'arte, oggetto staccato da un autore e dal mondo. La mia vita trascorsa potevo dirla in altro tono, con altre parole. L'ho eroicizzata perché avevo in me quanto occorre per farlo, il lirismo. Per amor di coerenza mi sento in dovere di continuare la mia avventura a partire dal tono del mio libro. Esso sarà servito a precisare le indicazioni che mi presenta il passato; sulla povertà e sul delitto punito ho messo il dito nei modo più pesante, e a più riprese. Andrò verso di loro. Non con la ragionata premeditazione di trovarli, propria dei santi della chiesa, ma lentamente, senza cercar di eludere le fatiche, gli orrori del cammino intrapreso. Ma lo si capirà? Non si tratta di applicare una filosofia della sventura, tutt'altro. Il bagno penale nominiamo questo luogo del mondo e dello spirito - cui mi dirigo, m'offre più gioie dei vostri onori e delle vostre feste. Tuttavia, proprio di codeste cose andrò in cerca. Aspiro al vostro riconoscimento, alla vostra consacrazione. Eroicizzato, il mio libro, divenuto la mia Genesi, contiene - deve contenere - i comandamenti che non potrò trasgredire: se ne sarò degno, mi riserverà la gloria infame di cui esso è il gran maestro, giacché, se non a lui, a chi riferirmi? E dal solo punto di vista d'una morale più ovvia non sarebbe forse logico che questo libro trascinasse il mio corpo e m'attirasse in carcere - non, preciso ancora, secondo una rapida procedura comandata dai vostri costumi, ma per una fatalità ch'esso contiene, che vi ho messa io, e che, come ho voluto io, mi conserva quale testimone, campo d'esperienza, prova del nove della sua virtù e della mia responsabilità? Le feste del bagno penale: voglio parlarne. Già la presenza intorno a me di maschi feriti è una grande felicità concessami. Mi limito peraltro a segnalarla, altre situazioni (l'esercito, lo sport, eccetera) me ne possono offrire una simile. Il secondo volume di questo "Journal" lo intitolerò "Affaire de moeurs". Mi propongo di riportarvi, di descrivervi, di commentarvi le feste d'un intimo bagno penale che vo scoprendo in me dopo la traversata di quella contrada di me che ho chiamato Spagna.
NOTE.
1. Il mio turbamento vien dal mio oscillare dagli uni agli altri. 2. Parlo del forzato ideale, dell'uomo che in sé aduna tutte le "qualità" di punito. 3. "Bagne", dall'italiano "bagno". Era il luogo, nei porti, che aveva sostituito le galere e dove venivano rinchiusi i forzati. I bagni furono soppressi nel 1870. I condannati ai lavori forzati, dal 1854 al 1938, subirono la pena della deportazione. (N.d.t.) 4. La sua abolizione mi priva a tal punto che in me e soltanto per me, segretamente, ricompongo un bagno penale, più tristo di quello della Guyana. Aggiungo che soltanto a proposito d'una centrale si può dir «la buiosa». Il bagno è al sole. Tutto vi avviene in una luce cruda, che non posso esimermi dallo scegliere come segno di lucidità. 5. Lui dice: «Gli ho fatto il quacquero». 6. Mi sarei infatti battuto a sangue piuttosto di rinnegare quel ridicolo arnesino. 7. Dai giornali appresi che dopo quarant'anni di piena dedizione quella madre annaffiò di benzina o di petrolio - la figlia addormentata e l'intera casa, appiccandovi il fuoco. Il mostro (la figlia) soccombette. La vecchia (settantacinque anni) fu tratta dalle fiamme e salvata, cioè comparve davanti alla Corte d'Assise.
8. In Spagna son detti carabinieri i doganieri. (N.d.t.) 9. Così nel testo, in italiano. (N.d.t.) 10. A Tiffauges, in Vandea, si trovano le rovine del castello di Gilles de Retz, maresciallo di Francia (1404-1440), i cui delitti ispirarono a Perrault la favola di Barbablù. (N.d.t.) 11. In francese, "genêt", affine foneticamente a "genet", ginnetto. (N.d.t.) 12. Lo stesso giorno che c'incontrammo, Jean Cocteau mi chiamò «la sua ginestra di Spagna». Ignorava che cosa quella terra avesse fatto di me. 13. I botanici conoscono una varietà di ginestra che chiamano ginestra alata. 14. Piante terragne o terragnole, vale a dire striscianti. (N.d.t.) 15. Il primo verso che mi stupii d'aver formato è questo: «mietitore di fiati mozzi». Me lo ricorda quant'ho scritto più sopra. 16. Questo viso si confonde anche con quello di Rasseneur, uno scassinatore col quale lavoravo intorno al 1936. Dal settimanale «Détective» apprendo ora la sua condanna alla relegazione, mentre in quella stessa settimana, per la stessa condanna, alcuni scrittori hanno rivolto al Presidente della Repubblica una petizione per chiedere la mia grazia. La foto di Rasseneur davanti al tribunale era in seconda pagina. Il giornalista, ironico, afferma che appariva molto contento d'essere relegato. La cosa non mi stupisce. Alla Santé era un reuccio. Sarà un capoccia a Riom o a Clairvaux. Rasseneur, credo, è di Nantes. Derubava anche i pederasti - o peppie. Ho saputo, da un compagno, che un'auto, guidata da una delle sue vittime, lo cercò a lungo per tutta Parigi per investirlo «incidentalmente». Son terribili, a volte, le vendette delle zie. 17. Nel testo: "Il fuyait, comme on le dit d'un récipient": perdeva, come si dice d'un recipiente. Ma "fuyait" significa anche e soprattutto fuggiva. Ho leggermente modificato il testo per conservare il doppio senso in accordo con ritirata. (N.d.t.) 18. Mentr'io lasciavo strasciconi, dovunque si trovassero, i miei indumenti, Stilitano, la notte, posava i suoi su una sedia, sistemando bene i pantaloni, la giacca, la camicia perché non si sgualcissero. Aveva così l'aria di considerar vivi i suoi vestiti, e di voler che la notte riposassero bene dopo una giornata di fatica. 19. "Noeud", nel testo, cioè nodo, fiocco, ma anche, in argot, membro virile. Naturalmente, anche qui, per conservare il gioco di parole, ho dovuto apportare qualche variante al testo. (N.d.t.) 20. Rileggendo questo testo, m'accorgo d'aver collocato a Barcellona una scena della mia vita situata a Cadice. E' stata la frase «solo in mezzo all'Oceano» a ricordarmelo. Nello scriverla, commisi dunque l'errore di porla a Barcellona, ma nella sua descrizione doveva insinuarsi quel particolare che ora mi permette di ricollocarla nel luogo giusto. 21. In italiano nel testo. (N.d.t.)
22. "Sacre", nel testo, cioè «sagro», falco dell'Europa meridionale e dell'Asia, ma anche, nel linguaggio familiare, «uomo senza scrupoli e senza morale», come noi diciamo «avvoltoio» d'un uomo avido e crudele. (N.d.t.) 23. "Violon" (violino), si diceva una volta nel senso di sciocco, di impertinente, e anche, nell'espressione "petit violon" (piccolo violino) nel senso di "povero diavolo". Da "petit violon", si racconta fu trattato una volta, dalla polizia, Corneille. Dir "violino" a uno era come dirgli "mauvais ménétrier", cioè violino da strapazzo (nei balli campestri) o cattivo suonatore di gironda. (N.d.t.) 24. Il lettore è avvertito - è pur la volta che pensi un poco anche a lui - che questo mio rapporto sulla mia vita intima o su quanto essa suggerisce non sarà che un canto d'amore. La mia vita fu, esattamente, una preparazione ad avventure erotiche (non a giochi erotici) di cui adesso desidero scoprire il senso. Ahimè, ciò che m'appare più carico di virtù amorosa è l'eroismo, e poiché gli eroi esistono soltanto nella nostra mente, bisognerà crearli. Così ricorro alle parole. Quelle che utilizzo, anche se con esse tento una spiegazione, canteranno. Quanto sto scrivendo è mai stato vero? E' falso? Reale sarà soltanto questo libro d'amore. I fatti che gli servirono da pretesto? Devo restarne il depositario. Non i fatti io intendo restituire. 25. Devo lasciare il nome in bianco. 26. In italiano nel testo. (N.d.t.) 27. Quando, in questi giorni, Pierre Fièvre, figlio d'un agente della mobile, e anche lui allievo poliziotto (ha ventun anni) m'ha detto di voler entrare nella pula per avere una moto, son rimasto scombussolato. Ho rivisto le natiche di Stilitano schiacciar la sella della moto rubata. 28. 1947. Un giornale della sera m'informa che lo hanno arrestato per una rapina notturna a mano armata. Il giornale dice: «... il bel monco era pallido...». Tale lettura non mi procura nessuna emozione. 29. Invidio come un privilegio la vergogna che due giovani fidanzati conobbero in una loro avventura pubblicata da «France-Dimanche». Alla ragazza, Nadine, gli abitanti di Charleville avevano offerto per derisione, il giorno dello sposalizio, una croce uncinata tutta fiorita. Durante l'occupazione tedesca, Nadine era stata l'amante d'un capitano berlinese, caduto sul fronte russo. «La ragazza fece dire una messa e portò il lutto.» La foto del giornale mostra Nadine e suo marito mentre escono dalla chiesa dove il prete li ha uniti in matrimonio. Lei scavalca la croce uncinata. Gli abitanti di Charleville la guardano con occhio cattivo. - «Dammi il braccio e chiudi gli occhi», le avrebbe mormorato il marito. Lei passa sorridendo davanti alle bandiere francesi abbrunate. Invidio l'amara, altezzosa felicità di quella giovane. Darei il mondo intero (in mano alla polizia!) per gustarla anch'io. 30. René, del quale riparlerò in seguito, m'ha raccontato che a Nizza una checca agiva allo stesso modo coi pedé. L'aneddoto riportatomi m'avvicina ancor di più a lui. 31. Ma chi impedirà il mio annientamento? Parlando di catastrofe, non posso non evocare un sogno: una locomotiva m'inseguiva. Correvo sul binario. Sentivo vicino l'ansito della vaporiera. Lasciai le rotaie per correr fra i campi. Crudele, la locomotiva continuava a seguirmi, ma davanti a una piccola e fragile barriera di legno, che riconobbi come uno degli steccati che cingevano un prato appartenente ai miei genitori adottivi, dove da bambino portavo a pascolar le vacche, si fermò gentile, cortese. Raccontando a un mio amico questo sogno, dissi: «... il treno si fermò alla barriera della mia infanzia...».
32. Probabile svista per: Robert. (N.d.t.) 33. Il sogno di Java. Entrando in camera mia - perché pur dormendo con la sua amante, durante la giornata viene a trovarmi - Java mi racconta il suo sogno. Ma, prima, il suo incontro del giorno innanzi con un marinaio, sul metrò. - E' la prima volta che guardo un bel mecco, mi dice. - Non hai cercato di strusciarti un po' a lui? - Sei matto. Ma son salito nel suo vagone. Se me l'avesse proposto, forse avrei accettato di farci l'amore insieme. Poi, per compiacenza, mi descrive il marinaio. Infine, mi racconta il sogno fatto la notte, dopo quell'incontro. Lui era, nel sogno, mozzo su un bastimento, e un altro marinaio lo rincorreva con un coltello. Quando questi lo ebbe acchiappato fra il cordame, cadendo in ginocchio davanti al coltello alzato, Java disse: - Conto sino a tre. Ammazzami, se non sei un vigliacco. Appena pronunciata l'ultima parola, l'intera scena si dissolse. - Dopo, mi disse, ho visto un culo. - E poi? - Mi son svegliato. 34. Tutti nomi allusivi, non traducibili. Pressappoco: compagnone, o anche evaso riacciuffato, per il primo; puttana, o anche «magliaro», per il secondo; fuga, evasione, per il terzo. "Grinche" = ladro, dall'italiano grancio (stesso senso). "Chineur" = (anche) mendicante. La "Chine" è il mondo dei mendicanti, come la "Grinche" è il mondo dei ladri. (N.d.t.) 35. Ci allontanammo a gran velocità, perché è un segno risaputo: quando le puttane non son più al loro posto di lavoro, vuol dire che i piedipiatti son vicini. «Sparita la puttana, la pula non è lontana», dice un proverbio della mala. 36. Robert? Vedi nota 32 (N.d.t.)