TANITH LEE CYRION (Cyrion, 1982) A Carol McShane, lei sa perché
PROLOGO - IL GIARDINO DEL MIELE Il paffuto giovanotto d...
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TANITH LEE CYRION (Cyrion, 1982) A Carol McShane, lei sa perché
PROLOGO - IL GIARDINO DEL MIELE Il paffuto giovanotto dai capelli rossi creò un certo scompiglio entrando nella locanda, ma non lo fece intenzionalmente. Accecato dalla luce abbagliante della strada, aveva creduto che i tre gradini dell'entrata fossero due. Inciampando quindi sul terzo, e costretto a un involontario balzo nel tentativo di salvarsi, era piombato addosso a un'ignara figura che proprio in quell'istante passava portando con sé due fia-
schi di vino. Tra grida di sorpresa e gesti scomposti i due erano andati a finire nelle grinfie della Qirri di ottone che era posta a guardia dell'entrata. E, inevitabilmente, avevano colpito il gong che pendeva dalle mani della statua. Un forte clangore era riecheggiato nella locanda, seguito dalla caduta del primo e poi del secondo fiasco di vino. Una tenda di seta si era poi aperta a rivelare la sala più grande della locanda nonché due avventori pronti a combattere. Uno era un tipo corpulento con le sopracciglia scure, l'altro un occidentale biondo, vestito di un'armatura e palesemente un soldato, con il pugnale già sguainato in maniera molto professionale. Da un ingresso era arrivato pure, volando, il locandiere. Ai loro piedi, due persone si dimenavano e si colpivano fiaccamente. «Si stanno ammazzando?» «Il farabutto ha attaccato il mio povero schiavo!» A questo punto l'uomo dai capelli scuri, che portava il distintivo di capomastro, era intervenuto tirando da una parte il giovane dai capelli rossi, mentre lo schiavo, stordito, era rotolato dall'altra. Il locandiere, piegato sullo schiavo, piagnucolava. «Parlami, Esur. Stai morendo? E il prezzo degli schiavi è appena raddoppiato al mercato.» Il soldato aveva già rimesso il pugnale nel fodero. Con un'espressione divertita sul suo bel viso dalla barba ben curata, disse: «Deve essere stato un errore.» Si voltò e rientrò nella sala della locanda. Il giovanotto, che ora aveva anche le guance tinte di rosso, cominciò allora a spiegare quanto era successo, offrendo del denaro per il vino che era stato versato e per lo schiavo che era stato abbattuto. Il capomastro restò a guardare, giocando con la moneta d'oro che portava all'orecchio. Lasciato perdere lo schiavo, il locandiere si era messo ad esaminare la Qirri. Era l'esemplare di una statua pagana raffigurante una divinità dalle sembianze di ape, importata secoli prima, quando i remusani avevano occupato la città, ed era il simbolo di questa locanda, conosciuta come il Giardino del Miele. Per scaramanzia, il locandiere la esaminò tutta e rimase soddisfatto nel non trovarla danneggiata, poi diede un calcio allo schiavo che stava ai suoi piedi e, accettato del denaro offerto come risarcimento, decise di perdonare e dimenticare. «Che tu sia il benvenuto, signore. Il Giardino del Miele, la più dolce locanda di Heruzala, è a tua completa disposizione. Cosa possiamo portarti per soddisfare i tuoi desideri?» Asciugandosi la fronte Pel-di-carota ordinò del vino fresco.
«E capretto arrosto alle spezie, in glassa di miele, la nostra specialità...» «Più tardi,» disse il paffuto giovanotto. «Intanto...» «Sì?» «Sto cercando un uomo. Un uomo particolare. Mi è stato detto che avrei potuto trovarlo qui.» «Il suo nome, mio signore?» «Cyrion.» Il locandiere corrugò la fronte. «Questo nome l'ho già sentito. È uno spadaccino, vero? Qui non incoraggiamo gli attaccabrighe.» «Uno spadaccino, sì, ma ricco,» disse a bassa voce il capomastro. «Lo conosci?» domandò Pel-di-carota. «Ne so qualcosa.» «È famoso a Heruzala?» «Forse. E in qualche altro posto, credo.» «Si dice,» aggiunse una voce femminile, un cupo contralto, «che assomigli a un angelo.» Il capomastro, il locandiere e Pel-di-carota seguirono con lo sguardo una donna alta e affascinante che, concessa la breve notizia, era sfrecciata davanti a loro ed era uscita sulla strada. I suoi capelli, neri come la notte, erano riccamente ornati di perle, e il suo intenso profumo era rimasto nell'aria dopo il suo passaggio. (Diversamente dall'ultimo arrivato, lei non sbagliò a contare il numero dei gradini.) Un'ancella le era corsa dietro frettolosamente. «Come vedi,» disse allora il locandiere, «noi riceviamo solo i migliori clienti. Ma se, come tu dici, costui è ricco e nobile, questo Shirrian, allora può anche darsi che sia stato qui...» «Cyrion,» lo corresse il giovanotto. Fissava il capomastro con uno sguardo determinato, anche se palesemente miope. «Se mi dici quello che sai, ti ricompenserò.» «Lo farai? Quello che so non è molto.» Ma Pel-di-carota insistette perché il capomastro tornasse con lui nella sala principale, e l'uomo, con un cenno di rassegnazione, lo condusse al tavolo che aveva occupato prima dell'interruzione. Sul tavolo erano sparse alla rinfusa carte con complicati disegni di architettura, una penna, dell'inchiostro e un piccolo abaco. Sembrava un posto abbastanza piacevole per lavorarci. Sulla parete sopra il tavolo si apriva un'alta finestra, e qui un uccello dentro una gabbia cantava melodiosamente.
Nel resto della grande sala, dall'intonaco tinto d'azzurro e nell'insieme ben arredata, c'era poca gente quella mattina. In un angolo, il soldato si era riappropriato del suo posto ed era tornato al suo vino. Più in là, pigiati in una nicchia, due uomini vestiti di scuro erano intenti a dibattere le dottrine del profeta Hesuf, piuttosto animatamente. Non li aveva distolti né la fragorosa entrata del giovanotto né il vino che era stato portato loro. Pel-di-carota si mise a sedere. «Il mio nome è Roilant.» Le mani e il collo luccicavano di gioielli, e la luce che entrava dalla finestra metteva in risalto la finezza dei suoi abiti, che il vino rovesciato e la polvere della statua avevano solo leggermente sporcato. «Il nome della mia famiglia a questo punto non ha importanza. Ma stai certo che sono in grado di pagarti, se mi aiuti. Non credo che la mia offerta ti offenda.» «No.» Il capomastro scansò le sue carte e l'abaco vedendo arrivare, riluttante, lo schiavo Esur, che sbatté seccamente sul tavolo una caraffa di vino e due coppe. «Tuttavia, mi piace guadagnare il mio denaro, e ora non sono sicuro di esserne in grado. Questa è una bella locanda, rispetto alle altre, ma non è la migliore a Heruzala. Faresti meglio a cercare il tuo uomo alla Rosa, o all'Aquila.» Lo schiavo fece un grugnito di approvazione, aggiungendo qualcosa a proposito del cadere sugli schiavi di quelle locande, che erano notoriamente dei selvaggi, e poi se ne andò zoppicando in maniera teatrale. Roilant non lo sentì. «Ma mi era stato detto di venire al Giardino del Miele.» «Be', lui non è qui. Non credo che sarebbe passato inosservato. Giovane, bello, biondo come il ghiaccio, e vestito splendidamente, come Re Malban in persona, se non con più gusto.» Il soldato, al tavolo accanto, udendo il commento del capomastro, sogghignò. «Povero Malban. Completamente in balia della Regina Madre.» Roilant il rosso si risentì. «Io ho conosciuto il re. La mia famiglia è in buonissimi rapporti con la casa imperiale di Heruzala, e ti pregherei di...» La sua obiezione fu interrotta da un improvviso alterco. Il più anziano dei due uomini che discutevano un po' più in là si era improvvisamente alzato, picchiando col pugno sul tavolo. «Questo verso, come sa ogni intellettuale, è stato tradotto in modo scorretto dal Remine. Dov'è la tua intelligenza, ragazzo?» L'altro, un uomo quasi sulla sessantina, ignorando il giovanile epiteto, esclamò: «Hai assolutamente torto.»
«Ti ripeto che la parola mite è errata. Questo è risaputo da secoli...» Le loro voci tornarono ad abbassarsi. Il soldato, che aveva finito il suo vino, con la coppa in mano si diresse verso il tavolo del capomastro, e lì si sedette con fare amichevole accanto a Roilant. «Il vecchio laggiù,» disse il soldato, «ha molti anelli. La cosa non è certo straordinaria, soprattutto tra i nomadi, che devono portarsi appresso tutte le loro ricchezze. Lo è invece per un saggio, come sembra essere il vecchio...» «Per tornare a Cyrion,» disse Roilant. «Vedi,» disse il capomastro, «questo tuo Cyrion è un tipo sfuggente. E sembrerebbe essere più che un semplice spadaccino. Ora si dice che sia in viaggio con una carovana, ora che stia studiando in una delle grandi biblioteche, ora che stia mettendo alla prova la sua astuzia con qualche demone su una montagna.» Il soldato continuò con lo stesso ritmo. «Ora è a Heruzala, ora ad Andriok, poi è nel deserto. Dove sarà adesso? Nell'aria sottile, forse.» «È da due settimane che cerco di sapere dove si trovi,» disse Roilant I tre parlavano tracannando il vino ordinato da Roilant «Ho... bisogno di conoscere i suoi requisiti per un motivo particolare. La mia non è futile curiosità. E tuttavia finora ho udito solo chiacchiere.» «Quello che posso offrirti non è molto di più,» disse con gravità il capomastro. «So una storia che è successa sulla costa, nel porto di Jebba.» «Jebba!» gridò Roilant «Vuoi dire che lui si trova lì?» «Forse. O forse no. Ma sembra che ci sia stato, di tanto in tanto.» Roilant fece un sospiro di delusione. Lasciò cadere stancamente il mento e abbassò gli occhi pieni di angoscia. «Se mi dici quello che sai ti starò ad ascoltare.» «Bene,» disse il capomastro, «ma non ti garantisco che quanto dico sia attendibile. Si tratta di una storia che ha a che fare con la stregoneria. E tu puoi anche non credere a certa roba.» «Oh.» Roilant ebbe un brivido e dovette sforzarsi per tornare calmo. «Ci credo.» Il capomastro e il soldato si scambiarono involontarie occhiate. Il capomastro toccò la moneta che gli pendeva dall'oreccchio. «Be', visto che si tratta solo di raccontare una storia, non chiederò alcun compenso. Ma te la voglio narrare, perché essa descrive bene il tuo Cyrion. La storia comincia in una locanda di Jebba di gran lunga superiore
a questa...» CYRION IN CERA «Cyrion, guardati da quell'uomo.» Cyrion sollevò candidamente gli occhi. «Perché, e da quale uomo?» Mareme, la bella cortigiana, abbassò lo sguardo sotto le palpebre turchesi. Era giovane, bella, ricca, e perciò difficile da ottenere. Ed essendo una donna riservata a pochi uomini, aveva acquisito una certa esperienza dei modi di fare di quei pochi, sia dentro che fuori la camera da letto. Questo che aveva di fronte lo conosceva così bene da aver capito che le cose che lui mostrava di ignorare erano spesso quelle che invece suscitavano la sua più grande attenzione. E lei notò con quanta velocità il gioco del loto e della vespa che stavano praticando sul tavolo d'avorio aveva cominciato a volgere in suo favore. D'altra parte, il comportamento e il modo di apparire dell'uomo in questione erano difficili da ignorare. Scuro di capelli e con la carnagione olivastra e setosa che era comune in quella regione, aveva la fronte ornata d'oro, e il suo abito scarlatto, lungo come quello di un letterato o di uno scienziato, era tutto ricamato con bizzarri talismani dorati. Tre ametiste viola pendevano dall'orecchio sinistro. Col fascino satanico di un'aquila, era apparso maestosamente nel fresco giardino della lussuosa locanda con al seguito due sgherri, chiaramente delle guardie del corpo, due tipacci biechi, tutti ricoperti da cicatrici di vecchie battaglie e assetati di nuove, come appariva chiaro dal modo in cui si facevano largo facendo cadere i vasi dei fiori e alcuni sfortunati clienti. Tenevano le mani pronte sulle spade e avevano le dita rivestite di aculei. E nessuno osava sfidarli. Salirono i gradini al fianco del loro signore, e rimasero in piedi quando lui si sedette. Il posto era sulla terrazza superiore, quella più vicina all'ala della cucina, tra le colonne rivestite di mosaici e all'ombra profumata dell'arancio e della cannella. A neanche dieci piedi di distanza erano seduti Cyrion e Mareme, con le teste chinate sul loro gioco intellettuale, lui un sole d'argento, lei una chioma nera come il carbone. Più sotto, nel cortile tutto pieno di fiori e con al centro una palma che forniva necessario riparo dal sole di mezzogiorno, tutti, uomini e donne, avevano interrotto con evidente disagio la conversazione, e chi parlava lo faceva solo a bassa voce. Quelli che erano stati buttati a terra si erano rialzati
e avevano ripreso il loro posto in silenzio. Infine, cosa molto inusuale nella grande città costiera di Jebba, dove guardarsi era una cosa naturalissima, da quel momento in poi ci furono solo occhiate oblique e spaventate. Subito apparve il proprietario della locanda, tutto trafelato. Da vicino si poteva notare come il sudore ne avesse reso simile a uno specchio il volto, improvvisamente impallidito. Dinanzi all'uomo si chinò. «Cosa posso servirti, Lord Hasmun?» L'uomo sorrise. «Anguille fritte nel burro, con del pane alla cotogna. E un boccale di vino scuro, molto freddo.» Il locandiere fece mezzo passo indietro, o almeno tentò, sulle gambe tremanti. «Non abbiamo... anguille, Lord Hasmun.» Uno dei due sgherri si agitò smaniando, ma Hasmun lo frenò col lento gesto di un dito. «Allora,» disse calmo Hasmun, «procuratele, oste.» Il locandiere si precipitò velocissimo nell'ala della cucina sul retro della locanda. Un minuto più tardi ne sbucarono dei garzoni portando il pane alla cotogna, del vino scuro di Jebba immerso nel ghiaccio, e la notizia che altri erano corsi al mercato del pesce. Hasmun provò il vino. I due sgherri si agitavano irrequieti. Hasmun rise, affettuoso. «La bella vita non fa per voi, ragazzi, eh? Be', andate in strada a divertirvi un po', tesori miei.» Le guardie del corpo obbedirono, ma nel giardino la conversazione continuò sommessa, e neanche una testa osò sollevarsi. Fin quando Cyrion alzò la sua per domandare a Mareme, all'altro lato del tavolo: «Perché, e quale uomo?» «Mi rendo conto che avrei fatto meglio a tacere,» disse Mareme a bassa voce, «ma credevo che tu lo avessi notato.» «Chi, il locandiere? Oh, siamo vecchi amici,» disse Cyrion a bassa voce. Poi sembrò riprendere interesse al gioco, e mangiò due delle pedine di Mareme prima ancora che lei fosse riuscita a capire la sua mossa. Quando la ebbe capita, disse: «Sarai pure bello come gli angeli, anima mia, ma per una signora della notte astuta come me sei trasparente. Lascia stare, caro.» Cyrion, che aveva vinto al gioco del loto e della vespa, decise di far vincere a Mareme l'altro gioco che stavano facendo. «Mi sono già giunte delle voci su Hasmun qui. Ma nessuna che mi abbia
spiegato perché dovrei stare attento a lui.» «Non solo tu, amore mio. Tutti noi. Lo chiamano il bombolaio. Lo sapevi?» «Dunque costruisce pupazzi. Un mestiere affascinante costruire giocattoli, senza dubbio.» «Non si tratta dei pupazzi con cui giocano i bambini,» disse Mareme, parlando con una voce così bassa che sembrava volesse raggiungere il nadir della sua gola. «È quel genere di pupazzi che si fabbricano gli stregoni facendoli assomigliare a qualcuno che vorrebbero uccidere e nel cui fegato infilano un ago per torturare lo sventurato.» «Hasmun è solo un farmacista, anche se corre voce che sia uno stregone. E dimmi, il trucco funziona?» «Il trucco!» strillò Mareme, e stavolta sembrò che la sua voce si fosse tramutata nel verso acuto del suo topolino bianco. «Ci sono già tre morti, e altri che l'hanno contrariato sono diventati ciechi, oppure hanno tali dolori alle gambe da non poter camminare... Dio mio, sta guardando verso di noi.» Cyrion si raddrizzò sulla sedia, e lentamente voltò il capo. Il sole di mezzogiorno, filtrando attraverso gli alberi di arancio, infiammava i suoi eleganti abiti di seta, e rendeva la sua chioma pura luce. Era un'aureola adatta allo splendido volto che Mareme aveva paragonato a quello di un angelo — sebbene non fosse facile capire se somigliava più a un angelo del paradiso o a uno degli angeli caduti. In effetti Hasmun stava guardando verso di loro, apertamente, e con aria divertita. Ora poteva vedere per intero il volto angelico e, insieme, il sorriso abbagliante di Cyrion. Gli occhi di Hasmun si socchiusero compiaciuti, e anche Cyrion sembrava trovare la cosa piacevole. «Ho sentito menzionare il mio nome,» disse Hasmun. Le sue parole furono udibili per tutto il giardino, volutamente. I volti tra i fiori divennero ancora più grigi. «Forse la mia umile persona vi è nota?» «Conosciamo tutti Hasmun il bambolaio,» disse con cortesia Cyrion. Sempre in maniera gentile aggiunse, «ma facciamoci coraggio, perché la sua puzza non la sopporta nessuno.» L'espressione di voluttuoso piacere scomparve bruscamente dal volto di Hasmun, che divenne perfettamente immobile. Forse anche questo era piacere; una forma di piacere diversa. «Devi essere un po' brillo,» disse Hasmun. «Invece devo essere perfettamente sobrio,» lo corresse Cyrion, alzandosi
dalla sedia, «perché quello che sto per fare richiede una mano ferma.» Come Mercurio, a una velocità da fare strabuzzare gli occhi, Cyrion percorse la breve distanza che lo separava dal tavolo di Hasmun, e, quando lo ebbe raggiunto, per la perfetta fluidità con cui si mosse, fu come se il boccale di Jebba Nero, munito di volontà propria, si fosse lanciato nelle sue mani riuscendo a rivoltarsi quasi completamente sulla testa dello stregone. Tutto inzuppato dall'icore rosso cupo del vino, Hasmun fece un guaito come di un cane preso a calci. Poi, cercando di alzarsi, incespicò nel tavolo, mandandolo all'aria con tutto quello che ci stava sopra. Cyrion era afflitto, incredulo. «Come ho potuto essere così maldestro?» Al fracasso provocato dalla caduta del tavolo era seguito subito un baccano altrettanto forte. Le guardie del corpo di Hasmun stavano ritornando passando dal giardino. Evidentemente non si erano spinti oltre la molestia verso qualche ragazza all'entrata della locanda, e, udendo la zuffa, si erano precipitati dentro, sicuramente rendendo grazie al Demonio. Cyrion attese che i due arrivassero ai gradini, quindi, afferrata la brocca, resa viscida dal ghiaccio e dal vino, la lanciò con disinvoltura tra i loro piedi. Il primo perse l'equilibrio e, gridando dalla rabbia, andò a cadere con un rumore sordo tra i cespugli odorosi. Il secondo cadde su un ginocchio, si rialzò e, con la spada sguainata, salì con un balzo sulla terrazza. Cyrion aveva la spada ancora al fianco. Sembrava che si fosse dimenticato di averla. Inchinandosi velocemente schivò il primo goffo colpo, poi si girò con noncuranza e diede un calcio al fondoschiena del tipaccio. L'uomo lanciò un grido e precipitò in avanti per finire a dimenarsi sulla pozza di vino. L'altro sicario intanto era riuscito a districarsi dal groviglio dei cespugli. Mentre risaliva a balzi la scala, con la spada sguainata e un pugno chiodato bene in mostra, il locandiere emergeva con tutta un'aria di riverenza dal lato opposto della terrazza, quello della cucina, portando un crepitante piatto di anguille fritte. Cyrion d'un tratto si voltò, come stufo di tutta la faccenda, sfiorò il piatto pieno di quei bollenti vermi di mare e fumante di burro, e lo gettò senza fallo in faccia allo sgherro, che gli stava alle spalle. Tutto impiastrato e accecato dal burro, l'uomo lasciò cadere la spada, e, barcollando all'indietro, fece per allontanarsi dalla terrazza. Arretrando, con la testa andò a sbattere contro il bordo di una delle vasche di pietra per i fiori. Non si alzò più. Cyrion si riassettò gli eleganti abiti con le mani, la sinistra tutta inanella-
ta, e la destra nuda. Per essere uno che aveva lanciato vino e pesce fritto tutt'intorno, era sorprendentemente pulito. Come risentendosi del fatto, l'altra guardia, che era rimasta a dimenarsi in mezzo al vino, fece un ultimo tentativo di afferrare la caviglia di Cyrion. Cyrion sferrò un altro calcio, stavolta colpendo la mano. Si udì un osso spezzarsi da qualche parte, seguito da un lamentarsi soffocato. Cyrion gettò uno sguardo su Hasmun. «Un po' troppo trambusto per un po' di vino versato, maestro.» Hasmun, inzuppato e profumato di Jebba Nero, aveva avuto il tempo di rimettere in sesto i suoi nervi e il suo ingegno. Si rialzò, ed era sorprendente quanto egli somigliasse a Cyrion per altezza e corporatura, salvo che poi per tutto il resto era il suo opposto, come l'ombra lo è della luce. «Scegli,» disse Hasmun al ceffo col polso rotto. «O taci oppure muori.» Il lamento cessò. «Tu, invece,» continuò, «morirai in ogni caso.» «Come ci insegnano i sacerdoti, la vita non è che una brevissima scintilla di dolce luce che si spegne nel buio dell'eternità,» citò filosoficamente Cyrion. «Ti sbagli,» disse Hasmun. Riuscì anche a sorridere, mentre il vino gli gocciolava sugli occhi. «Il tuo spegnersi sarà piuttosto prolungato e non proprio dolce. Comincerà stanotte. Se ti interessa vedere con i tuoi occhi come posso spezzarti, vieni al mio Laboratorio. La tua puttana ti dirà dove.» E accennò a Mareme, che si copriva il volto con le mani incipriate. La bianca luce del giorno diventava sempre più rossa. Il sole andò a bagnarsi nell'oceano. Jebba divenne una città d'ambra affacciata su un mare di monete d'oro. Poi il crepuscolo cominciò a filtrare dal deserto in direzione della costa, tingendo di blu le finestre del raffinato appartamento di Mareme. Sul letto coperto da lenzuola di seta stava disteso Cyrion, ed era la perfetta immagine di un giovane dio, nudo, bellissimo e leggermente ebbro. Mareme sedeva dritta accanto a lui, giocando nervosamente con le lenzuola. «Non hai paura?» sbottò improvvisamente. «Oh, credevo di averti fatto dimenticare Hasmun.» In genere, lui era in grado di farle dimenticare ogni cosa per un po'. Anche il semplice tocco della sua mano sul viso di lei aveva questo potere. Dal momento in cui Mareme lo aveva visto, un anno prima, in un incontro
casuale, Cyrion si era impadronito dei suoi pensieri, dominando non solo il suo cuore ma anche la sua mente. Con gli altri lei era sempre abbastanza distaccata, aveva dovuto esserlo. Ma mai con Cyrion. Mareme aveva sempre rifiutato il suo denaro. Invece lui, meticolosamente, le mandava sempre dei doni. Questa sua scrupolosa lealtà la disturbava. Lei voleva che Cyrion la amasse, non che la pagasse. Una volta, stupidamente, aveva cercato di procurarsi una pozione d'amore, ma questo tentativo non aveva avuto il risultato sperato. «Come potrei dimenticare Hasmun?» disse ora. «Ascolta, mio signore, non ti ho detto tutto. Il suo Laboratorio si trova nella Via delle Tre Mura. Chi ci passa davanti ogni tanto vede nell'ingresso della bottega un piccolo pupazzo somigliante a un uomo, messo lì come per mostrare l'arte di colui che l'ha fabbricato. E nel pupazzo sono conficcati degli spilloni ornati di gemme. Ogni volta che ce n'è uno conficcato all'altezza del cuore, viene sepolto qualcuno, e il pupazzo scompare dalla bottega.» «È la stessa cosa che ho sentito dire io,» disse Cyrion. «Non c'è mai nessuno che va lì, entra di forza, si impossessa del pupazzo e ne estrae gli spilloni?» «E come si potrebbe, con Hasmun che fa la guardia? Anche quando lui lascia il laboratorio per andare a dormire, dieci di quei bestioni dei suoi restano di guardia.» Cyrion allungò la mano verso la coppa di cristallo azzurro che gli stava accanto, mentre le stelle, apparentemente impenetrabili come lui, cominciavano ad apparire alla finestra. «Dimmi,» disse Cyrion, «tu sai come fabbrica i pupazzi?» «E chi a Jebba non lo sa? Hasmun si vanta della sua arte. A lui non serve avere qualcosa che appartenga alla vittima, gli basta averla vista una volta sola. Poi crea il pupazzo a immagine della persona a cui vuole fare del male, e getta un incantesimo maligno per legare insieme l'uomo e il pupazzo. Finché l'incantesimo è attivo, egli tortura la bambola con i suoi spilloni. A un certo punto toglie l'incantesimo. Senza quello, il pupazzo è passivo, soltanto una bambola. L'uomo non sente più dolore, gioisce, crede che Hasmun lo abbia perdonato. E invece dopo un po' Hasmun rifa il maleficio, e lo tortura ancora di più, fino a quando l'uomo non resta storpio o muore urlando dal dolore. E tu, mio savio signore, hai voluto attaccare briga con uno come Hasmun. Perché lo hai fatto?» «Perché,» rispose umilmente Cyrion, «sono un masochista.» La finestra era ora irradiata di stelle. Da una gabbia dorata, il topolino
squittiva insistentemente per essere lasciato libero. Teneramente bianco come una colomba, con le orecchie tonde, di fattezze delicate e con due grandi occhi dorati, l'animaletto era il secondo amore di Mareme. Per quanto fosse minuscolo, lei di tanto in tanto lo portava per le grandi vie di Jebba legato a un lungo guinzaglio dorato. La bestiolina aveva l'abitudine di rubare gli oggetti che luccicavano, una cosa certamente imbarazzante per chiunque. Non per Mareme, la cui ecletticità, che si esprimeva in vari modi, le aveva permesso di trasformare questo fastidio in qualcosa di vantaggioso. Spesso infatti, quando ancora il suo rango non era così elevato, lei aveva lasciato che l'animaletto compisse le sue ruberie tra i vestiti che i suoi clienti lasciavano cadere a terra — orecchini, bottoni, monete. Poi, correndo lei stessa con grazia dietro al cliente già in strada, gli rendeva gli oggetti rubati scusandosi in maniera molto seducente per il suo topolino. Era stato così che si era guadagnata la sua non del tutto fondata reputazione di onesta. Mareme si alzò dal letto e lasciò uscire il topolino dalla gabbia. Lui si lanciò subito verso il tavolo dei cosmetici, per poi accomodarsi in mezzo ai vasetti di onice pieni di ciprie, unguenti colorati e ombretto nero, guardandosi ogni tanto nel prezioso specchio con la cornice d'argento che era stato l'ultimo dono di Cyrion. Le bottiglie di cristallo e un lucente coltellino per le unghie erano stati messi al sicuro dal suo sguardo vorace. Una volta Cyrion era stato a guardare il minuscolo animaletto mentre trascinava una collana di smeraldi, che era il doppio di lui, dal cofanetto dei gioielli di Mareme fino alla sua tana nella gabbia, per poi tornare indietro a prendere le perle. Mareme si inginocchiò accanto a Cyrion. «Cosa farai, Cyrion?» La luce scemava velocemente, e le lampade non erano state ancora accese. Così Mareme non si accorse del pallore attorno alle labbra di Cyrion, del suo sguardo fisso e improvvisamente opaco. Poi Cyrion disse, con disinvoltura: «Neanche un minuto fa, avrei detto che volevo aspettare, per vedere se Hasmun riusciva a mettere in pratica le sue minacce. Ora, tuttavia, non ne ho più bisogno. So che lo può fare.» Mareme ebbe un brivido. «Cosa c'è?» gli domandò con un sibilo. «Senti del dolore?» «Un po'. Credo che abbia piantato uno dei suoi dannati spilloni nella mia caviglia di cera.» Gli occhi di Cyrion si aprivano e si chiudevano. Il volto si era sbiancato
sotto la leggera doratura della pelle, ma i suoi lineamenti restavano composti. D'improvviso, tirò un profondo respiro e disse, con indifferenza: «Una dimostrazione. Ora ha tolto lo spillone. Mi vuole dare una brevissima tregua prima di mostrarmi il resto. Ma non farà molto stanotte, probabilmente. Vuole che io vada a... a visitare il suo negozio di bambole domani. Vuole che io gli chieda perdono e che implori la sua... pietà.» Questa volta, a parte il leggero incespicare nelle sue parole, Cyrion non diede segno di sofferenza. «Come ti posso aiutare?» gridò Mareme. «Non nel solito modo, credo,» sussurrò lui. «Prendi piuttosto la tua lira, e suona per me. Dicono che la musica allevii ogni dolore. Vediamo se è vero.» Fichi, palme ed alberi fioriti mandavano ondate di profumo e la loro frastagliata ombra sulle tre bianche mura che davano il nome alla strada. Nella calura del mezzogiorno, la strada era vuota e incontaminata, e verso la metà del suo percorso, tra le botteghe degli orafi e dei venditori di seta, si apriva la tana del Laboratorio di Hasmun. La porta era aperta, e sull'uscio pendevano fili di perline di ceramica blu. All'interno, si levavano come nastri i fumi dell'incenso, di un colore che era infernale anche di giorno. Appena si udì il tintinnare della tenda di perline, e si vide un'ombra penetrare nel negozio dalla strada intrisa di sole, due dei ceffi di Hasmun emersero dall'interno per intercettare il visitatore. «Pace, angioletti miei,» disse amichevolmente una voce melodiosa. «Sono qui per soddisfare la golosità del vostro signore. Lasciate a lui il piacere di danneggiarmi, altrimenti farà dei pupazzi anche per voi.» Le guardie si fecero indietro grugnendo, e Cyrion entrò nel retrobottega. Nell'oscurità, si distinguevano appena, stipate su degli scaffali, ampolle nere e neri cofanetti, e bottiglie verde piombo tappate con pergamena e coperte di ragnatele. Un cobra impolverato, imbalsamato e posto su un sostegno nell'atto di colpire sbarrava il passaggio attraverso una tenda di pelle di leone. Oltre la tenda, una cella, stracolma di cose come l'altra stanza, ma illuminata dalla luce rossiccia di una lampada che pendeva dal soffitto. Alla luce della lampada, su una sedia d'ebano sedeva Hasmun. Su un tavolo laccato, all'altezza del suo gomito giaceva un Cyrion in miniatura, nudo, biondo, e con due spilloni ornati di pietre rosse che scintillavano ardenti, uno nella caviglia destra e il secondo nel lobo dell'orecchio sinistro.
«Non sono in mostra in vetrina, come mi era stato detto,» disse Cyrion affabile. «Avevo sperato di diventare l'attrazione di Jebba.» «Quello verrà dopo,» gli rispose Hasmun con la stessa cordialità. «Hai passato bene la notte?» «In passato ho avuto rapporti con i nomadi del deserto. Loro insegnano un metodo per mutare il dolore in delizioso piacere.» Hasmun era tranquillo. Sapeva che Cyrion bluffava e stette al gioco. «Sono contento che tu l'abbia trovato piacevole. Stanotte dovrebbe esserlo ancora di più. La mascella — per lei ho uno spillone con topazio. Per il polso e la tibia — lo zaffiro. I diamanti li conservo per i tuoi occhi, mio bello. Ma per la cecità è ancora presto. Come lo è per la morte. Questo sarà un gioco lungo. Divertiti, mio caro.» Cyrion si era chinato per esaminare il pupazzo. Sembrava attratto dalla sua notevole somiglianza a se stesso, anche se da vicino poteva notare come non fosse una copia perfetta. Finché l'incantesimo non veniva attivato, gli spilloni non gli facevano alcun male, come verificò lui stesso rigirandoli nella carne di cera leggermente colorata. «Naturalmente,» osservò Cyrion, «io potrei rubarti il pupazzo. O magari ucciderti.» «Provaci,» lo invitò Hasmun lo stregone. «Mi piacerebbe se lo facessi. Provaci pure.» Cyrion aveva già intravisto quattro sgherri, che facevano ondeggiare la pelle di leone dietro cui cercavano di nascondersi. Aveva anche visto l'unica stretta finestrella in alto tra gli scaffali della cella, tanto larga da far passare solo la mano di un uomo, e nient'altro. Per quel che riguardava Hasmun, le sue dita emettevano scintille medianiche. «Provaci,» ripeté Hasmun incoraggiandolo. «Ti creerà parecchio disagio, ma mai quanto questi deliziosi spilloni, il cui dolore tu sei capace di trasformare in estasi.» Cyrion posò il pupazzo. Il suo volto era impenetrabile. «E se chiedessi pietà?» «Lo stai facendo.» Cyrion si voltò e uscì scostando di nuovo la pelle di leone. Gli sgherri, che lo videro uscire dalla cella mentre scherzavano tra di loro, cercarono di colpirlo per beffarsi di lui, ma lo trovarono in qualche modo troppo veloce per loro. Uno di essi, raggiunto da un calcio sulla coscia destinato a Cyrion, che invece era improvvisamente scomparso, dovette consolarsi pensando che, almeno per lo stregone, Cyrion non sarebbe riuscito ad esse-
re abbastanza veloce. Tornò il crepuscolo, e con esso la costante e sicura notte. A Jebba, tutti coloro che avevano litigato con Hasmun avevano avuto motivo di temere quel costante ritorno, quell'oscurità gemmata di stelle che portava con sé gemmati spilloni e un dolore gemmato di lacrime e sudore. Quella notte Mareme, con il volto pallidissimo, vagava su e giù nel suo elegante appartamento. Non riusciva a riposare, e ogni tanto, ricordando istintivamente i suoi rozzi inizi al porto, si strappava i capelli. Due ore prima dell'alba, il rumore come di una zampa di gatto sulla porta la galvanizzò. Volò all'uscio e, apertolo, fece entrare Cyrion, più bianco di lei e debilitato come un uomo dopo un mese di febbre, e che le sorrideva simpaticamente. Era avvolto strettamente nel suo mantello, e in una mano teneva due di quelle giare di vino in leggera terracotta che vendevano a tutte le ore lungo il molo. «Non posso sopportare questo...» gridò Mareme. «Piano,» disse lui, e richiuse la porta. «Ho fatto un'interessante visita a una rimessa al porto, dove, a forza di contorcermi, ho fatto scappare persino i topi. Il farmacista (Hasmun) ha finito di torturarmi per la seconda notte.» «Mi ucciderò,» disse Mareme. «Ti sei nascosto perché io non potessi vedere la tua agonia. Ma il tuo dolore è anche il mio...» «Non esattamente,» disse Cyrion. «Per tua fortuna.» «Non hai nessun progetto?» gli domandò piangendo. «Sì. Voglio bere un po' di vino del porto.» Ancora con il mantello addosso, stappò una giara, versò il liquore in due coppe di cristallo blu, e ne porse una a Mareme. La ragazza bevve controvoglia e pensierosa, poi, con un sospiro, lasciò cadere la coppa sui tappeti, cadendo distesa anche lei. Un odore soffocante si levò dal vino rovesciato, il profumo della pallina di droga che Cyrion vi aveva gettato. Egli sollevò Mareme e la stese sul letto. Poi, senza fare un rumore, fece un balzo fino alla toletta, sulla quale il topolino squittiva da dentro la gabbia. I dieci ceffi che facevano la guardia al laboratorio di Hasmun sedevano giocando ai dadi nella buia stanza tra gli scaffali di pozioni e veleni, sovrastati dal cobra imbalsamato. Tre delle quattro lampade bruciavano a singhiozzo illuminando ai giocatori i loro lanci. Nel giro di un'ora, il sole sarebbe sbucato fuori dal deserto alle spalle di Jebba e le guardie diurne a-
vrebbero sostituito queste. C'era stato di che divertirsi stanotte. Il misterioso brusio che denotava la formulazione dell'incantesimo, il suono di strumenti invisibili, il turbine di aria calda che annunciava il risveglio di forze malefiche. Poi lo strategico e interessato silenzio dello stregone che, al di là della tenda, conficcava gli spilloni. Nessuno dei ceffi di Hasmun aveva mai assistito ai suoi sortilegi. Non erano così stupidi da spiare, e del resto non avevano ambizioni in quel campo di attività. Facevano delle battute sul destino di Cyrion, ma quando ne parlavano i loro occhi diventavano fissi, e i dadi facevano più rumore. Stavano facendo un gioco tremendamente complicato, con del denaro in palio e una probabile rissa sul risultato. Per il momento tutto era calmo, uno di loro cullava il dado supplicando qualche ripugnante e malsano demone personale di essere generoso. Nel bel mezzo di quella calma, ebbe inizio un gran tumulto. Sembrò incredibilmente provenire dall'interno, dal retrobottega. Fu tutto un fracassarsi di vasellame e un urlare e un ruggire, in cui il nome di Hasmun si mescolava a imprecazioni. Le guardie corsero verso la tenda di pelle di leone e irruppero nella cella, il cui pavimento scricchiolava come sotto dei piedi, senza che ci fossero altri segni di intrusione. Subito accesero la lampada, per scoprire che il pavimento era tutto coperto dei frammenti di terracotta di una giara che apparentemente era stata lanciata dentro la cella dalla piccola finestra. Intanto le urla erano cessate. Ma prima che qualcuna delle guardie fosse riuscita ad arrampicarsi su per gli scaffali fino alla finestrella, si udì un forte ed allarmante rumore provenire dall'entrata del Laboratorio. Come un corpo unico, le dieci guardie uscirono di corsa dalla cella con la luce rossiccia e, attraversando ancora una volta il negozio, si precipitarono fuori dalla porta, oltre la tenda dell'ingresso. La porta, non più serrata ma completamente spalancata, rivelò un secondo vaso, questo riempito di catrame bollente, che era appena esploso in mille pezzi e in ogni direzione. Mentre le guardie prendevano a calci le macerie bollenti, imprecando, apparve un fantasma, che ballava selvaggiamente per la strada. Era la scarna e misera figura del più povero dei marinai. Con la testa avvolta nel copricapo a righe tipico di quella gente e il resto del corpo vestito in maniera orribilmente trasandata, con le tasche penzolanti, tutto puzzolente di bitume e di alcool di mais, e con un volto scurissimo dalla ispida barba nera che si contorceva follemente, il marinaio malediceva Hasmun con una miriade di insulti.
Tre delle guardie cercarono di acchiapparlo, ma il fantasma continuava a ballare pochi metri più in là. «Che il Demonio vomiti una miriade di tormenti su Hasmun, Gran Maestro Porco della Puzza Rancida!» gridava il marinaio. «E voi, i suoi puzzolenti schiavi, impastati nello sterco dei maiali e resi vivi con l'urina dei cani, che finiate in salamoia nel vostro stesso marciume finché il mare avrà sale!» Cinque guardie lo inseguivano, e lui puntualmente sfuggiva loro, continuando però a provocarli con ulteriori elaborazioni sui loro meriti. A metà della via, tutti tranne due si fermarono, ricordando le loro mansioni di sorveglianza al laboratorio del mago. I due che invece continuavano a correre dietro al marinaio sommergendolo di minacce girarono dietro un angolo ed entrarono in un vicolo buio. Un secondo più tardi, si trovarono entrambi stesi a terra ad annaspare mezzo soffocati, essendosi le loro gole orribilmente scontrate contro una sottile corda che qualche minuto prima il marinaio aveva teso lungo la strada, abbassandosi poi quando era tornato indietro correndo. Quando, ancora tossendo e bestemmiando, la sconfitta retroguardia, avendo perso la preda, era rientrata nel Laboratorio, tra gli altri era in corso una violenta discussione sull'identità del marinaio. In quel momento, pensarono di spegnere la lampada nella cella dello stregone. Confusi come erano, e per di più tutti infuriati, probabilmente non avrebbero notato nulla. Ma uno di loro, inciampando nel tavolo laccato, guardò verso il basso. E vide uno spazio vuoto nel punto in cui prima, inchiodata dagli spilloni, giaceva il simulacro in cera di Cyrion. Nella rimessa al molo, Cyrion si era imbattuto in un marinaio, uno dei tanti che si mettevano lì a dormire per smaltire le sbronze e le droghe della notte, prima di dirigersi barcollando verso le navi al levare del sole. Ma in questo momento, quella spaventosa e maleodorante figura non si stava dirigendo, barcollando o che altro, verso il porto; camminava invece lungo una delle più eleganti vie di Jebba. Ora, raggiunta una scalinata, l'uomo l'aveva percorsa con agilità, aveva aperto una porta con una chiave, rubata dal candido collo di una ragazza, ed era entrato nell'appartamento di Mareme, la bellissima cortigiana. Giunto lì, dopo aver acceso con una certa familiarità una lampada, il marinaio si tirò via dal capo lo straccio a righe e si pulì il viso con una pezza, rivelando così la chioma bionda, la barba e la pelle di Cyrion.
Nella rimessa, il marinaio ubriaco, che si sarebbe risvegliato negli eleganti abiti che Cyrion aveva scambiato con quel suo abbigliamento ripugnante, non avrebbe avuto di che lamentarsi. Forse gli sarebbero mancate le sue due giare di vino quasi vuote, di cui una era stata lanciata attraverso la finestra nella cella dello stregone, mentre l'altra era stata fatta esplodere fuori con dentro del bitume infiammato. Mareme, ancora addormentata, non aveva assistito alla trasformazione che Cyrion aveva effettuato su se stesso, in parte con l'aiuto dei suoi cosmetici. Né vedeva ora Cyrion tirare fuori dalla svolazzante tasca sinistra dell'abito del marinaio un sacchetto di velluto che si dimenava, e dal sacchetto il motivo di quel dimenarsi, il topolino, estremamente agitato. Dopo aver calmato con le carezze la creaturina, Cyrion la liberò dal guinzaglio dorato e la ripose nella sua gabbia. Quindi, dalla tasca destra del vestito, estrasse il fantoccio di cera. Cyrion aveva portato il topolino fino alla parete della bottega degli orafi che confinava con la finestra della cella di Hasmun. Lì, aveva assicurato un capo del lungo guinzaglio dell'animaletto al ramo di un albero che pendeva lì sopra. Il fracasso che aveva poi prodotto lanciando la giara, aveva portato le guardie fino alla cella, costringendole ad accendere la lampada. Subito dopo, l'altra giara, che lui aveva precedentemente riempito di catrame bollente, era scoppiata all'entrata del laboratorio. Il topolino si era trovato all'altezza della finestrella e, penetrandovi, era salito su uno degli scaffali. Cyrion, intanto, se la svignava, per tenere impegnate le guardie. Avendo poi seminato e quasi strangolato i suoi inseguitori, facendo il giro dell'isolato, era volato di nuovo nella Via delle Tre Mura. Stavolta, più silenzioso di una foglia, si era fermato all'altezza della finestra della cella. Il topino, sulla cui attrazione per tutto ciò che luccicava non c'era da dubitare, aveva già portato a termine la sua missione. Resi sfavillanti dalla lampada della cella, gli spilloni ingemmati conficcati nel corpo del fantoccio avevano immediatamente attratto l'animaletto. Esso era perciò sceso giù per gli scaffali e si era arrampicato sul tavolo laccato, cosa che la lunghezza del suo guinzaglio gli rendeva possibile. Dopo aver tentato di estrarre gli spilloni, senza però riuscirci, la bestiolina, stretto l'intero pupazzo tra i denti rapaci, era risalita fino al vano della finestra. La catena, assicurata al ramo, le aveva impedito di allontanarsi. Poi, come sempre accadeva, qualcuno, questa volta Cyrion, le aveva tolto il bottino tanto sudato. Era stata una lunga notte, e ancora non era finita. Cyrion posò sulla toletta di Mareme la lampada che aveva acceso, e restò fermo lì, rigirando tra
le mani il simulacro di cera, che trovava sorprendentemente somigliante a se stesso. Mareme si svegliò, il corpo rilassato e riposato, la mente limpida, il cuore come piombo. Capì subito cosa c'era nel vino. Qualche volta anche lei aveva usato quella droga con altre persone, oppure, nella piccola quantità che produceva uno stato di euforia, per il proprio piacere. Se non fosse stata distratta, il suo forte odore l'avrebbe dissuasa dal bere; del resto, Cyrion era stato gentile a procurarle quel sonno immemore. Appena sveglia, dai suoi occhi ricominciarono a sgorgare le lacrime, e attraverso le lacrime vide Cyrion che di fianco alla finestra la guardava. Era immacolato come solo lui sapeva essere, come argento appena coniato. Sbarbato, lavato, pettinato, unico e magico e avvolto nello scuro mantello da nomade del deserto che esibiva quando viaggiava: l'abito che significava che stava per partire. «Sì,» disse lei, «è saggio. Per una volta sono contenta di vederti andare via. Nel deserto, forse, starai al sicuro. Quando parti?» «Presto,» disse calmo Cyrion, «ma prima c'è qualcosa da fare. Hai avuto risvegli migliori, amore mio. Hasmun sarà qui tra poco.» Mareme spalancò gli occhi, poi diede una rapida occhiata alla sua toletta. I vasetti delle creme non erano come lei li aveva lasciati. La sottile boccetta di kohl era stesa su un fianco, e, appena Mareme si alzò, capì che il braciere ornamentale era stato acceso, vedendo il fumo stagliarsi contro il cielo azzurro oltre la finestra. Si sentiva distintamente un forte odore di catrame, cosa insolita in una stanza così elegante. «Cosa hai fatto?» «Indovina,» rispose Cyrion. Mareme stava chiudendosi la veste di seta ricamata di perle con cui si era coperta, quando si udirono dei forti colpi alla porta. Non fu chiesto il permesso di entrare. Per qualche attimo la porta fu una barriera, che poi volò dentro la stanza in mille pezzi. Apparvero quindi cinque bruti sghignazzanti che si fecero subito da parte per fare entrare Hasmun, il Bambolaio. Lui fece un saluto educato a Mareme, e a Cyrion sorrise amabilmente. «Finora,» disse Hasmun, «ho sempre avuto a che fare con codardi o idioti. Incontrare una pecora che morde la lama del macellaio è qualcosa di nuovo. E questa novità mi piace. Sarei quasi propenso a risparmiarti. Eppure, tutto sommato, credo ancora di preferirti morto. Spegnere una cande-
la è piacevole. Ma finire te, mio caro, è come oscurare un sole. Come potrei resistere?» Cyrion, fermo in un atteggiamento di pressoché sublime indifferenza, era impassibile. «E ora, signor Magnifico,» disse Hasmun, «dov'è il fantoccio?» «Cercatelo nel culo,» disse cordialmente Cyrion. Hasmun scrollò le spalle. Fece segno alle guardie di avanzare, poi le fermò con quel gesto preciso del dito con cui dimostrava il potere della sua mente sui loro muscoli. «Mareme,» disse, «forse tu preferisci dirmelo, dove il tuo cliente ha nascosto il pupazzo. Eviterebbe un uso grossolano dei tuoi mobili e della tua persona da parte di questi ruffiani. Tu sai quanto sia difficile per me controllarli.» Mareme indietreggiò terrorizzata. «Ti prego...» disse, e nient'altro, lasciando che quell'unica impotente supplica cadesse in mezzo a loro come un piccione colpito a morte. «Oh, dai, Mareme,» la incitò Hasmun. Si rivolse a Cyrion. «La tua seducente signora della notte non è sempre così timida. Ma, sicuramente, ti ama. Avrei dovuto immaginarlo, visto che ero a conoscenza del suo segreto. Una volta venne da me per un filtro d'amore, quando la mia reputazione a Jebba era ancora giovane e immacolata. Non ebbe il suo filtro. Queste idiozie non rientrano nei miei interessi. Ma ha avuto qualcos'altro. Anzi, ha avuto molto di più di quello che desiderava. Non è vero, tesoro? Parlo io,» domandò Hasmun, «o parli tu?» Mareme aveva nascosto il volto tra le mani. «Mi era sempre sembrato un po' troppo tempestivo,» disse Cyrion, «che Hasmun il Farmacista arrivasse alla locanda nel momento in cui mi ci trovavo io.» «Tempestivo e studiato. Me l'ha detto lei che saresti stato lì. Ed è stata lei a far sì che ti accapigliassi con me. Non avresti resistito all'esca, questa mia fama. Essa accendeva la tua vanità. Come la tua fama accende la mia. Gelosia. Tu vorresti distruggere il malefico Hasmun e le sue bambole di cera, e regnare da solo sulle città della costa. Vero, dolcezza? Così come io devo distruggere, e distruggerò, Cyrion.» Mareme gridò a Cyrion, da dietro le mani: «Mi ha minacciata di fare la mia effigie e torturare anche me... avevo paura. E non ho saputo dominare questa paura. Oh, Cyrion... io ti amo come la mia vita, ma non sono stata capace di morire per te. E ti giuro che ero sicura che saresti stato più astuto di lui. Nel nome di Dio, te lo giuro!»
«Ma la tua fiducia in me non è bastata a dirmi la verità,» le disse Cyrion, delicato come arsenico setacciato attraverso un sottile velo di garza. Mareme riprese il pianto che aveva interrotto. Hasmun disse: «Piangi pure le tue lacrime di smeraldo se devi, mia cara. Ma dimmi dove ha nascosto la bambola. Ricorda, posso sempre fare la tua effigie. Come ho visto Cyrion, ho visto pure te. Basta uno sguardo. Non ho bisogno di altro. Un solo sguardo, l'incantesimo, lo spillone.» «Nel vasetto del kohl!» gridò Mareme, e si gettò a terra, con la faccia sul tappeto, ai piedi dei due uomini, l'uno scuro come la notte e l'altro chiaro come il sole. Hasmun, quasi assaporando ogni passo, camminò fino al tavolo dei cosmetici. Prese il vasetto del kohl. «Un ombretto scurissimo,» disse Hasmun. «Eppure non così scuro, perché vedo un puntino bianco quaggiù.» Cominciò a grattare la sostanza. «E troppo duro, per essere ombretto, troppo appiccicoso, così granuloso che imbratterebbe gli occhi da cerbiatta di una bella donna. E non odora neanche di kohl. Che non lo sia? Che sia forse catrame preso dalle rimesse del porto? Catrame riscaldato e versato nel vaso dopo averne tolto l'ombretto, e poi la figurina di cera gettata nella sostanza rinfrescante... solo un bianco frammento di cera rimasto a testimoniare. Ora, questo vasetto è esattamente della stessa grandezza di quella figurina...» Hasmun scagliò improvvisamente il vasetto sulla nuda pietra del pavimento accanto al braciere fumante. La sottile onice, già indebolita dal calore, si spezzò. Dalle due parti in cui si era spezzato il vasetto Hasmun recuperò il solido blocco di bitume, e lo strinse teneramente a sé. «Oh, mio Cyrion. Saresti stato meravigliosamente saggio... se io non lo avessi trovato. Ma siccome l'ho trovato, non sei stato saggio. Puoi immaginarti quando attiverò l'incantesimo; tutto ciò che il bitume ha fatto sulla tua immagine, lo sentirai tu stesso, bruciato, asfissiato, accecato. Con la morte nelle narici e nella bocca. Potrei persino provare pietà. Una fine ancora più tremenda di quella che avevo escogitato per te. Desideri pregare?» Sempre impassibile, Cyrion disse: «Quanto tempo ho per le mie preghiere?» «Ho deciso di essere clemente,» disse Hasmun. «Piuttosto che lasciarti tutto il giorno con la nausea per il terrore, attiverò l'incantesimo all'istante. Morirai subito.» Cyrion volse lo sguardo altrove. Guardava il cielo azzurro oltre la finestra. Non disse niente.
Sul tappeto, Mareme non osava sollevare il capo. Alla porta, le cinque guardie del corpo avevano smesso di sogghignare e indietreggiavano con evidente disagio. Hasmun sollevò le braccia. Cominciò a salmodiare, con una voce molto più profonda e vibrante di quella che aveva quando parlava, la formula dell'incantesimo. Sulfuree ed acri, le sue parole schizzavano come gocce corrosive per tutta la stanza. Il bagliore della seta e del sole si era spento; persino la finestra era stata oscurata come da un prematuro crepuscolo. Nella gabbia, il topolino si era trasformato in una tremolante pallina di pelliccia. Nella stanza si levò un turbine, terribilmente caldo e secco. Si udivano suoni da distruggere i timpani. L'aria che si muoveva a flutti era diventata quella di un deserto dove non c'era mai stato un filo d'ombra. Poi un vento cominciò a soffiare per la camera. Venne il Caos, e il caldo alito dell'Inferno. Poi tutto fu quieto. L'incantesimo era stato lanciato sul pupazzo. Non c'era bisogno di altro. Hasmun lanciò un irrefrenabile grido di vittoria. Un grido che si spezzò, si amalgamò e si disintegrò in un urlo di angoscia, che venne a sua volta soffocato. Cadde sulle ginocchia. Si graffiava gli occhi, le narici e la bocca. Aveva il viso congestionato; le mani sembravano congelarsi contro il viso. Barcollò sulle ginocchia, e mentre barcollava, un disperato lamento uscì dalle sue labbra. Fu come una continuazione dell'urlo di prima. Soltanto Cyrion decifrò quel suono fatale come una revoca dell'incantesimo, che in qualche maniera era venuta fuori dalle mascelle di dura pietra, per pura volontà soltanto. E Cyrion, veloce come una saetta, passò da un punto all'altro della stanza. In una frazione di secondo strappò dalla presa dello stregone il pezzo di bitume con dentro il simulacro di cera. Una frazione di secondo più tardi scagliò il grumo nero nel braciere. Un'eruzione di fuoco si levò al momento dell'impatto. Immediatamente il catrame cominciò a fondere. Al suo interno, anche la cera si stava sciogliendo. Ormai l'incantesimo era mutile per Hasmun. Egli si dibatté per un po' sui tappeti nel tentativo di gridare, ma dalla sua gola venivano fuori solo dei brevi guaiti. Infine, ogni movimento e ogni suono abbandonò il suo corpo, e lui ricadde indietro sulla toletta, facendo rovesciare il suo esotico carico. Una pioggia di polvere e belletto scese su di lui, ma Hasmun non fece una mossa. Gli unguenti sgocciolavano sul suo volto annerito dall'asfissia. Lo specchio dalla cornice d'argento scivolò lentamente dalla sua posizione e andò a fracassarsi
sulle sue spalle. Hasmun giaceva senza vita, e, come gli ultimi atomi di cera e catrame si contorsero insieme nel braciere, un denso fumo si levò dai suoi abiti intatti e dalla sua carne integra. Sulla porta, le guardie si prostrarono, ma vedendo che Cyrion non vi faceva caso, si voltarono e corsero via. Non avevano più un padrone. Avevano invece una storia, quella di Cyrion il Mago. Cyrion guardò la ragazza che, attraverso le dita e le frange del tappeto, aveva visto tutto. Era tutta imbrattata di polvere rosa. Con una guancia rosa e l'altra bianca come il gesso, fissava ora Cyrion. «Anche tu sei uno stregone,» mormorò. «Ucciderai pure me?» «Nessuno stregone,» rispose Cyrion. Nei suoi occhi apparve per un attimo un'ombra di stanchezza. «Ma...» disse Mareme, ergendosi di poco dal suolo, «ma allora come...» «Avevo il fantoccio,» disse lui. «Hasmun aveva modellato la cera in modo che mi assomigliasse. Io l'ho rimodellata con il calore e con il coltellino da unghie di una donna, e ne ho colorato la pelle e i capelli con i belletti di questa donna. Quando ebbi finito, il fantoccio assomigliava a Hasmun tanto quanto prima assomigliava a me. Per la natura dell'incantesimo, questo era abbastanza. Hasmun doveva soltanto trovare il bambolotto. Tu mi hai facilitato le cose. Così lui ha fatto la sua magia, e si è trovato asfissiato, bruciato e accecato dentro un pezzo di bitume.» Mareme si mise seduta. «Ero sicura,» disse, «che lo avresti distratto.» «Mia fedele Mareme,» le disse Cyrion. Al tono carezzevole della sua voce lei ebbe un tremito improvviso. «Ma mi perdonerai... è stata la mia paura...» «Ti perdono,» disse Cyrion. Poi diede un'occhiata allo specchio frantumato dallo stregone. Prese delle monete dal suo abito da nomade e, con spietata delicatezza, le lanciò oltre il cadavere di Hasmun, in grembo a Mareme. «Comprati un altro specchio,» le disse. Mareme piangeva in silenzio, nel silenzio che seguì alla partenza di Cyrion. Sapeva che se ne era andato per sempre. 1° INTERLUDIO Quando il capomastro terminò la sua storia, il biondo soldato fece notare che era finito anche il vino. Dopo avere per qualche attimo vanamente ri-
voltato la sua coppa e la caraffa, disse: «Raccontare le storie fa seccare la gola, è vero, amico?» Il capomastro arrotolò le sue carte e prese l'abaco. «Forse. Ma lascerò che lo scopriate da soli.» «Aspetta...» Roilant emerse dal suo stato di ipnosi e afferrò la manica dell'uomo. «Ti devo porre qualche domanda.» «Perché?» «Perché?» Roilant non seppe come spiegare una cosa così evidente. «Lui,» disse il soldato strizzando l'occhio, «non crede al tuo racconto.» «Non è così,» protestò Roilant, «non esattamente.» «Signore,» disse il capomastro, alzandosi, «ti avevo informato prima di cominciare che non potevo garantirti la verità. Ti basti sapere che l'avventura si è svolta a Jebba. E io so, di sicuro, che in quella città c'era un farmacista dalla reputazione molto cattiva, che a un certo punto scomparve misteriosamente dalla circolazione. La sua bottega fu saccheggiata di tutte le sue pozioni, e un grosso serpente imbalsamato apparve al mercato. Nessuno lo comprò. Pensavano tutti che portasse con sé la maledizione dello stregone.» Roilant, tutto turbato, stava per parlare. Il soldato lo precedette, e con fare suadente disse: «Forse, ancora un po' di vino...» Roilant chiamò subito lo schiavo imbronciato, Esur, che era rimasto seminascosto lì vicino facendo finta di cercare qualcosa, e lo mandò a prendere dell'altro rinfresco. «Pranza con me,» disse Roilant al capomastro. «Ho già accettato un invito a casa di un illustre architetto. Non posso proprio rifiutare a così tarda ora.» «No. Ma allora, in nome di Dio, torna questa sera.» «Non ne vedo il motivo, signore. Ti ho detto tutto ciò che sapevo.» Roilant cedette e guardò l'uomo mentre si inchinava e usciva dalla stanza. Il giovane dai capelli rossi, anche se palesemente un aristocratico, sembrava non possedere nulla del dispotismo dell'aristocrazia. Chiunque approfittava di lui e lui, con una sorta di generosità disperata, mostrava di esserne consapevole, e invero di non aspettarsi altro. Quando il vino arrivò e il soldato cominciò a berlo, Roilant stava fissando, senza molta speranza, i due filosofi che ancora dibattevano seduti sotto la finestra. Uno sembrava appartenere a quel genere di dotti sempre in viaggio che di tanto in tanto giungevano nella città per fare delle ricer-
che alla Biblioteca Imperiale, prima di passare a quella più famosa di Askandris a Kyros. Il secondo, più vecchio, poteva anche essere un sapiente, uno di quelli che girovagavano di continuo e che spesso erano matti. Che un tipo del genere fosse entrato nella locanda era parso molto strano, anche se la sudicia barba incolta e i riccioli ancora più incolti facevano pensare proprio a un saggio. Ed era ancora più strano se si pensava al tipo di clientela che frequentava il Giardino del Miele. A meno che quello non fosse stato un sapiente di grande statura, era difficile pensare di poter ricavare qualche onore nel servirlo. L'attenzione di Roilant fu bruscamente risvegliata. Lo schiavo, Esur, gli stava bisbigliando umido nell'orecchio. «Ho detto,» ripeté Esur, «se vuoi pagare per una storia di Cyrion, io ne conosco una.» Il soldato scoppiò a ridere. «Oh, sicuro che la conosce.» Esur fece una smorfia di sdegno. «Sono solo uno schiavo, fatto unicamente per essere preso a calci e battuto e calpestato senza motivo. Però sono ancora capace di stare a sentire le cose.» Roilant disse: «Penso comunque di doverti qualcosa per averti buttato a terra. La tua vita doveva essere già abbastanza brutta senza quello.» «Lo è... lo è... se sapessi. Orfano a due anni, i miei genitori perduti, e venduto a tre anni al mercato di Heshbel, dove un bambino vale meno di una pecora...» Il soldato sputacchiò nel suo vino. Esur si accomodò con grande dignità e si appropriò della coppa di Roilant. «Se lui» (presumibilmente il locandiere) «viene, gli devi dire che ti sto aiutando, altrimenti mi picchierà. Ancora.» Esur piegò indietro la testa dall'aspetto ben curato, si versò il vino dritto in gola, e cominciò... UN EROE ALLE PORTE La città si trovava in mezzo al deserto. All'inizio poteva sembrare un miraggio; poi, uno degli immensi altipiani rocciosi che erano i denti del deserto si tinse di un blu appannato dalla distanza e dal calore. Ma Cyrion aveva trovato la strada che conduceva alla città, e avendola presa, presto i contorni del posto divennero chiari. C'erano alte mura e, dentro torri ancora più alte, alte porte di bronzo lavorato. E
sopra, l'alto e nudo cielo del deserto, che dalla sua volta risonante non rifletteva suono alcuno dalla città, né tracce di fumo dalle case. Cyrion si fermò a osservare la città. Era propenso a crederla essa stessa un deserto, una di quelle carcasse create dagli uomini e abbandonate secoli prima, quando la sabbia del deserto aveva cominciato ad insinuarsi fino alle soglie delle case. Sicuramente la città era vecchia. Tuttavia non aveva un aspetto trascurato, né quell'indefinibile malinconia delle case disabitate. Istintivamente, Cyrion sentiva che come lui stava lì a guardare la città dal di fuori, allo stesso modo altri, dall'interno, guardavano lui in silenzio. Cosa vedevano? Un uomo giovane, alto e ingannevolmente snello, ingannevolmente elegante, la cui stessa eleganza era piuttosto sorprendente, visto che aveva passato mesi a viaggiare nel deserto, sulle rotte delle carovane e lungo le rare strade battute dalla sabbia. Indossava la larga tunica scura di un nomade, ma con l'ampio cappuccio gettato indietro a mostrare che non aveva il colorito di un nomade. Al suo fianco teneva una spada in un fodero di pelle rossa. La luce del sole dava al pomello della spada una sfumatura oro-argento che era anche il colore dei suoi capelli. La mano sinistra era adorna di anelli che evidentemente nessun bandito era riuscito a sottrargli. Se le vedette della città avessero commentato che Cyrion era bello come l'Arcidiavolo in persona, non sarebbero stati i primi a farlo. Poi si sentì un rimbombare assordante e il rumore graffiante di due porte di bronzo disserrate e tirate verso l'interno sui loro binari. L'accesso alla città era stato aperto, ma subito bloccato da una folla. Stavano muti, ed erano vestiti di nero, gli uomini e le donne; anche i bambini. I loro volti erano tutti gli stessi, e fissavano Cyrion tutti allo stesso modo. Lo guardavano quasi fosse l'ultimo giorno di sole delle loro vite, l'ultima moneta dorata in un forziere altrimenti vuoto. Il senso della sua importanza sembrava essere per loro così forte che Cyrion fece alla folla un basso inchino, un po' beffardo. Mentre si inchinava, con la coda dei suoi occhi acuti, Cyrion vide un uomo fendere la folla e venire fuori dalla porta. L'uomo era alto quanto Cyrion. Aveva un volto duro, abbronzato ma giallastro, con due ali di capelli neri sotto una leggera corona, e un collare di oro bruno incastonato di gemme. Ma anche il suo sguardo si aggrappava a Cyrion. Era come lo sguardo di un'amante. O del leone affamato che guarda il cervo. «Signore,» disse l'uomo dai capelli scuri, «cosa ti porta qui, nella nostra città?»
Cyrion gesticolò pigramente con la mano inanellata. «Tra i nomadi c'è un detto: dopo un mese nel deserto, anche un albero morto suscita meraviglia.» «Semplice curiosità, allora,» disse l'uomo. «Curiosità; fame; sete; solitudine; stanchezza,» si dilungò Cyrion. Ma guardandolo, pochi avrebbero creduto che fosse affetto da tali cose. «Ti faremo mangiare, bere e riposare. Ma non potremo svelarti la nostra storia. Non stiamo qui a soddisfare i curiosi. Il nostro destino è più buio e più feroce. Aspettiamo colui che ci salverà. Lo aspettiamo nella schiavitù.» «Per quando lo aspettate?» domandò Cyrion. «Forse quello che aspettavamo sei tu.» «Io? Questo mi lusinga. Si è detto molto di me, ma non ero mai stato chiamato redentore.» «Signore,» gli disse l'uomo, «te ne prego, non farti beffa della spaventosa disgrazia di questa città, né della sua solitaria speranza.» «Niente beffe,» disse Cyrion, «ma suppongo che voi vogliate da me qualche favore. I liberatori devono faticare. Per conto del loro popolo, credo. Cosa volete da me? Non perdiamo tempo.» «Signore,» disse l'uomo, «io sono Memled, principe di questa città.» «Il principe, ma non il salvatore?» lo interruppe Cyrion, con gli occhi spalancati nel più offensivo stupore. Memled abbassò lo sguardo. «Se vuoi farmi vergognare, ne hai il diritto. Ma dovresti sapere che sono ostacolato dalle circostanze.» «Oh, certo. Naturalmente.» «Sopporto il tuo sarcasmo senza lamentarmi. Ma ti domando ancora se farai qualcosa per la città.» «E io ti domando ancora cosa devo fare.» Memled sollevò le palpebre e tornò a guardare Cyrion. «Siamo schiavi di un mostro, una bestia demoniaca. Vive nelle caverne sotto la città, ma di notte vaga a suo piacere. Pretende la carne dei nostri uomini; beve il sangue delle nostre donne e dei nostri bambini. È protetto da un'antica magia, da un patto che un centinaio di anni fa i principi della città (siano essi maledetti!) strinsero con le orde del Demonio. Nessuno che sia nato in questa città ha il potere di distruggere la bestia. Però c'è una profezia. Uno straniero, un eroe che si avventuri fino alle nostre porte, avrà questo potere.» «E quanti eroi,» disse con gentilezza Cyrion, «avete finora persuaso a
una prematura morte con questa impresa, voi e il vostro mostro?» «Non voglio mentirti. Più di una ventina. Ma se rinunci, nessuno di noi ce l'avrà con te. Le probabilità di successo sarebbero molto poche, nel caso che tu sfoderassi il tuo ingegno e la tua spada contro la bestia. E la nostra sofferenza non ti servirebbe a nulla.» Cyrion percorse con lo sguardo la folla vestita di nero. I volti inariditi erano ancora fissi sul suo. I bambini, adulti in miniatura, con la stessa aridità, immobili, muti. Se la storia era vera, dovevano avere imparato molto presto la lezione della paura e dell'infelicità, e non sarebbero vissuti abbastanza per poter approfittare di quel che avevano imparato. «Oltre alle sue abitudini alimentari,» disse Cyrion, «che altro puoi dirmi della vostra bestia demoniaca?» Memled ebbe un fremito. Il suo pallore si fece più intenso. «Non posso rivelare altro. Fa parte dell'incantesimo maligno che ci imprigiona. Noi non possiamo dire né fare niente per aiutarti. Potremmo solo pregare per te, se decidessi di mettere alla prova la tua abilità contro il Demonio.» Cyrion sorrise. «La tua schiettezza, amico mio, è assolutamente deliziosa. Ma dimmi soltanto una cosa. Se io sconfiggo la bestia, che ricompensa ottengo oltre, naturalmente, alla benedizione della tua gente?» «C'è il nostro oro, l'argento, i gioielli. Puoi portare via tutto, o quello che desideri. Vogliamo la salvezza, non le ricchezze. La nostra ricchezza non ci ha protetti dall'orrore né dalla morte.» «Credo che si possa combinare un affare,» disse Cyrion. Guardò di nuovo i bambini. «Sempre che il tesoro corrisponda alla descrizione.» Era mezzogiorno, e il sole del deserto riversava la sua luce spietata sulla città. Cyrion camminava in compagnia del Principe Memled e del suo corpo di guardia, uomini come lui vestiti di nero, ma con pesanti lame e pugnali appesi alla cintola, che presumibilmente non si erano mai macchiati del sangue del mostro. La folla si muoveva timorosa dietro il suo principe. Si udiva solo il fruscio dei piedi che si trascinavano sulla sabbia, nessuno parlava. Ogni tanto, dietro le sbarre delle finestre aggettanti, si intravedeva nell'ombra violacea qualche gabbia per uccelli. Gli uccelli dentro le gabbie non cantavano. Raggiunsero un mercato scolorito dal sole, spopolato e senza alcun tipo di mercanzia. Un pozzo al centro del mercato rivelava la presenza dell'ac-
qua, il motivo principale della costruzione di una città in quel luogo. Un'ulteriore prova della presenza dell'acqua era visibile dall'altra parte del mercato, dove un'ampia scalinata, fiancheggiata da colonne di pietra, conduceva a un massiccio muro merlato con porte di bronzo rivestite di sfavillante oro puro. Oltre il muro, il palazzo reale esibiva le sue guglie, i suoi pinnacoli e le cime di alberi di palma. Nell'aria c'era un profumo di verde, inebriante come l'incenso nel deserto. La folla si fermò esitante al mercato. Memled e il suo corpo di guardia condussero Cyrion su per la scalinata. Le porte placcate d'oro si aprirono. Entrarono dentro uno splendido palazzo, azzurro come una grotta sottomarina, dove sottili fontane diffondevano il loro fresco gorgogliare, e fiori arsi dal sole il loro dolce profumo. Servitori vestiti di nero portarono del vino fresco. Ma il cibo era povero e non eguagliava la bontà del vino. Forse i greggi erano andati a soddisfare il mostro? Cyrion non aveva visto una sola capra o una pecora in tutta la città. E non un cane, e neanche i morbidi gatti gialli e le scimmiette striate che le donne ricche amavano allevare come dei bambini. Dopo avere offerto a Cyrion da mangiare e da bere, Memled, senza quasi dire parola ma sempre cortese, lo portò a vedere il tesoro, talmente ricco che traboccava a terra. «Credevo,» disse Cyrion, osservando infastidito le corde di perle e le catene di rubini, «che con tutta questa roba vi sareste potuti comprare un eroe, se solo lo aveste mandato a chiamare.» «Neanche questo ci è concesso. Non possiamo farlo venire noi. Deve capitare qui per caso.» «Come dicono i nomadi,» disse Cyrion con seducente ingenuità, «nessuno conosce il muro meglio di colui che l'ha costruito.» In quell'istante, qualcosa tuonò nelle yiscere del mondo. Fu un pauroso e cacofonico mugghiare. Un suono assetato di violenza e di strage. Sembrava un toro, una mandria di tori, con gole d'ottone e muscoli di ferro fuso, che ruggivano tutti insieme dal sottosuolo. Il suolo tremò un poco. Uno zaffiro rotolò giù da un mucchio e andò a finire su un altro mucchio più in basso. Cyrion sembrò interessato piuttosto che disturbato. E sicuramente, non c'era altro che interesse nella sua voce mentre domandava al Principe Memled: «Forse è la vostra bestia, che contempla il pasto di questa notte?» Il volto di Memled assunse un'espressione di totale angoscia e dispera-
zione. Le sue labbra si irrigidirono. Emise un improvviso e acuto grido, come se fosse stato preso da un temuto, incancellabile dolore. Poi chiuse gli occhi. Colpito dal suo atteggiamento, Cyrion osservò: «Allora è vero che non potete parlarne? Calmati, amico mio. Parla già molto bene da sé.» Memled si copri il viso con le mani e si allontanò. Cyrion uscì dalla stanza. E subito, pallido ma sufficientemente composto, Memled seguì il suo eroico ospite. Nere guardie chiusero il tesoro. «Ora,» disse Cyrion, «visto che non posso affrontare la vostra bestia finché lei non emergerà dalle sue caverne al calare della notte, vorrei dormire. Il mio viaggio nel deserto è stato difficile, e poi, sono sicuro che sei d'accordo con me, la freschezza nei combattimenti è essenziale.» «Signore,» disse Memled, «il palazzo è a tua disposizione. Ma, mentre tu dormi, io e qualche altro rimarremo al tuo fianco.» Sorridendo Cyrion lo rassicurò: «No, amico, non lo farete.» «Signore, è meglio che tu non venga lasciato solo. Perdona la mia insistenza.» «Che pericolo c'è? La bestia non costituisce alcuna minaccia finché il sole non tramonta. C'è ancora qualche ora.» Memled sembrò preoccupato. Tese la mano a indicare la città oltre le mura del palazzo. «Tu sei un eroe, mio signore. Della gente potrebbe corrompere le guardie. Potrebbero entrare nel palazzo e disturbare il tuo riposo con domande e chiasso.» «A me la tua gente,» disse Cyrion, «è parsa particolarmente quieta. Ma se non è così, che sia la benvenuta. Io ho un sonno profondo. Dubito che qualcosa possa svegliarmi prima del tramonto, quando spero che lo farai tu o qualcun'altro.» Il volto di Memled, specchio fedele dei suoi stati d'animo, si addolcì per un po' con sollievo. «Dormi così profondamente? Allora accetto che tu dorma da solo. A meno che tu non desideri avere con te una ragazza.» «Sei molto gentile. Ma non voglio nessuna ragazza. Preferisco scegliere le mie donne dopo un combattimento anziché prima.» Memled fece uno di quei suoi sorrisi rigidi e arrugginiti. Nel profondo dei suoi occhi il disprezzo di sé, il senso di colpa e la vergogna generavano densi moti nebulosi. Le porte della sontuosa camera dove Cyrion avrebbe riposato furono chiuse. In coppe d'argento bruciavano essenze aromatiche. La penetrante
luce del sole pomeridiano era ostacolata da persiane in legno dipinto e tendaggi ricamati. Oltre le porte chiuse, dei musici suonavano piano una sensuale melodia con flauti, timpani e delle ghirza. Ogni cosa invitava al sonno. Ma non al sonno di Cyrion. Al contrario di quanto aveva detto, il suo era un sonno leggero. E nella città della bestia, non aveva alcuna propensione a dormire. La privacy era un'altra faccenda. Dopo aver chiuso dall'interno le porte della camera, cominciò a girarla tutta, misurandone le possibilità. Aprì un'imposta e scrutò oltre i tetti arroventati del palazzo fino all'ombra delle verdi palme assetate dei giardini. Tutto intorno, la città continuava la sua muta veglia. Cyrion, pensieroso, ne percepiva la tensione. Era come un grande unico cuore, sospeso tra un battito e quello successivo. Un unico cuore, o due fauci pronte a serrarsi... «Cyrion,» disse con urgenza una voce. Vedere Cyrion girarsi velocissimo era scoprire qualcosa della sua natura. Indolente alla finestra un secondo, una molla tesa e pronta a saltare una frazione di secondo più tardi. La spada era sguainata nella nuda mano destra. L'aveva sfoderata così velocemente che un occhio umano quasi non l'avrebbe visto. Tuttavia il suo respiro era rimasto immutato. E, trovando davanti a sé la stanza vuota come l'aveva lasciata, non aveva alterato di un solo atomo la sua posizione. «Cyrion,» gridò ancora la voce, proveniente dal nulla e da nessuno. «Prego il Cielo che tu sia stato tanto astuto da mentire loro, Cyrion.» Cyrion sembrò rilassarsi dallo stato di acuta vigilanza. Non era così. «Il Cielo, senza dubbio, gode delle tue preghiere,» disse. «Posso anche io godere della tua vista?» Era una voce di donna, espressiva e molto bella. «Sono in una prigione,» disse la voce. Ci fu una debolissima ombra di inganno, prontamente dissimulata. «Io parlo per metterti in guardia. Non credere loro, Cyrion.» Cyrion cominciò a muoversi per la stanza. In maniera delicata e quasi casuale sollevò con la spada i tendaggi. «Mi avevano offerto una ragazza,» disse riflessivo, «ma non avevano offerto a te una morte sicura.» Cyrion aveva terminato lo scandaglio della stanza. Sembrava piacevolmente divertito. Si inginocchiò velocemente e si mise sdraiato a terra. Dal mosaico sul pavimento mancava un tassello rotondo. Vi pose sopra l'occhio acuto e
guardando attraverso il buco vide un ambiente oscuro, fiocamente illuminato da una fonte di luce che il suo sguardo non riusciva ad abbracciare. Direttamente sotto di lui, stesa su una fitta oscurità che doveva essere un pavimento, giaceva una giovane donna che lo fissava con due splendidi occhi luminosi. In quella semioscurità sembrava lei stessa un bagliore di luce più che una cosa reale; un biancore cristallino tremolante nell'aria, una chioma come le catene d'oro del tesoro, un volto come quello scolpito di una dea, il corpo di una bellissima prostituta all'inizio della carriera — ancora vergine — e alla vita, ai polsi, alle caviglie, legate strette a dei piuoli sul pavimento, catene di ferro. «Eccoti dunque.» «È un marchingegno del pavimento che ti ha permesso di sentirmi, e me di sentire te. I principi, in passato, amavano intrattenersi nella stanza dove ora sei tu, a bere e a fare l'amore ascoltando le urla di coloro che nel frattempo venivano torturati in questa cella, e a volte anche spiando dal buco per aumentare il loro piacere. Ma o Memled se n'è dimenticato, oppure crede che io non sia più in grado di gridare. Ho intravisto la tua ombra che passava sulla fessura. Prima, il carceriere mi ha detto il tuo nome. Oh, Cyrion, sto per morire, e tu insieme a me.» Si interruppe, e le lacrime sgorgarono come gocce d'argento dai suoi splendidi occhi. «Sono tutto orecchie, mia signora,» disse Cyrion. «Le cose stanno così,» sussurrò lei, «la bestia da cui hanno finto di voler cercare scampo è, in realtà, il familiare demone della città. Loro amano questo mostro, e in suo nome commettono ogni sorta di bestialità. Altrimenti come credi che avrebbero potuto accumulare un tesoro come il loro, qui in mezzo al deserto? Una volta all'anno onorano la bestia offrendole una bellissima vergine e un valoroso guerriero. Io sarei dovuta andare in moglie a un ricco e nobile signore di una città sulla costa. Ma sono ritenuta bella, e Memled aveva sentito parlare di me. La carovana nella quale viaggiavo fu assalita da uomini di questa città, e io fui condotta qui, in questa cella, dove ho trascorso un mese. È un triste caso quello che ti ha condotto qui, a meno che non ti ci abbia inconsapevolmente attirato qualcuno degli incantesimi di Memled. Questa notte condivideremo un unico destino.» «Tu sei loro prigioniera, io no. Come pensano di farmi rassegnare al sacrificio?» «Questo è fin troppo semplice. Al crepuscolo verranno un centinaio di uomini. Tu non sembri avere paura, ma, anche con il tuo coraggio, di fron-
te a cento uomini non puoi prevalere. Ti prenderanno la spada, ti stordiranno, ti legheranno. Nel muro occidentale del palazzo c'è una porta segreta che dà su una scalinata. Dalla porta ti getteranno giù per la scalinata. Lì sotto ci sono le caverne dove vaga il mostro ruggendo in cerca di sangue. Anche a me toccherà passare attraverso quell'ingresso verso la morte.» «Una storia affascinante,» disse Cyrion, «cosa ti spinge a raccontarmela?» «Non sei un eroe?» gli domandò appassionatamente la ragazza. «Non hai promesso loro di distruggere la bestia, di essere il loro salvatore, seppure dietro compenso? Perché invece non salvi te stesso, e me?» «Perdonami, signora,» disse Cyrion, in un tono che rasentava l'ingenuità, «non ho parole. Inoltre, le nostre sorti sembrano scritte da una ferma mano. Forse dovremmo accettarle.» Cyrion si sollevò dal mosaico. Quando fu in piedi si fermò, proprio accanto alla fessura. Un attimo dopo la ragazza cominciò a gridare: «Sei un codardo, Cyrion. Malgrado tutta la tua bellezza e la tua preziosa spada, malgrado i tuoi vestiti da nomade, portati da quelli che chiamano i Leoni del Deserto, malgrado tutto ciò, codardo e stupido.» Cyrion rifletteva. Dopo un minuto disse amabilmente: «Potrei andare ora ad aprire la porta segreta, e cercare il mostro di mia spontanea volontà, pronto con la spada in pugno. Poi, se riesco ad ucciderlo, potrei tornare da te e liberarti.» La ragazza piangeva. Tra le lacrime disse, con una voce che era una lama: «Lo farai, se sei un uomo.» «Oh no, mia signora. Solo se sono la tua nozione di uomo.» La scala era angusta, e di proposito invisibile per l'oscurità, però Cyrion per farsi luce si era portato dalla stanza uno dei bastoncini profumati. La porta segreta era stata facile da scoprire, un pomello ornamentale che girava, una lastra che scorreva. Trenta gradini più in basso, Cyrion oltrepassò un altro tipo di porta, di ferro, alla sua destra. Oltre la porta, si udiva una ragazza piangere debolmente. La scala scendeva attraverso le mura occidentali del palazzo, e proseguiva nel sottosuolo. Dal fondo, nel ventre delle caverne che si estendevano, ancora non visibili, alla fine della scala, non si udiva alcun rumore inquietante. Alla fine, la scala raggiunse il fondo, e terminò. Davanti, si stendeva un nero impenetrabile, e dall'oscurità un silenzio altrettanto nero
e indistinto. Cyrion avanzava, tenendo il lucignolo dinanzi a sé. Il buio giocava con la minuscola luce, lasciando intravedere un'oasi appena percepibile di cose in miniatura, come tronchi di roccia che si elevavano verso la sommità della caverna. La tenebra prendeva Cyrion con la bocca. Lo leccava, lo avvolgeva con la lingua. L'esile stoppino acceso non era che una guarnizione per il suo palato; gustava la luce con Cyrion come un uomo gusterebbe il sale sulla carne che mangia. Poi un vento fortissimo venne dal nulla che stava davanti a Cyrion. Un bollente soffio metallico, come da una fornace. Cyrion si fermò a riflettere. Era la bestia ad aver sospirato dal chiuso delle caverne? Un istante dopo essa ruggì. Lassù, nella sala del tesoro, era sembrato che il ruggito avesse fatto vacillare le fondamenta del palazzo. Qui, esso aveva spellato anche l'oscurità, disseccandola come un frutto e mandandola in brandelli contro i tronchi rocciosi. La pietra vomitò cocci che caddero come pioggia al suolo. Le caverne stridettero, brontolarono, e poi furono mute. L'oscurità non si ricongelò. C'era una nuova luce. Un perfetto cerchio di luce, di un rosso pallido e fumoso. La luce lampeggiò. Poi furono due. Due cerchi perfetti di un rosso ribollente e vivo. Due occhi. Cyrion lasciò cadere lo stoppino e ci mise sopra il tallone. La bestia si illuminava da sé. Emergeva dal buio man mano che i suoi occhi si ravvivavano per l'interesse. Non era simile ad altre bestie; non la si poteva paragonare a nient'altro. Era uguale a se stessa, unica. Soltanto la sua grandezza era paragonabile a qualcosa. A una torre, a delle mura — la finestra rosata di un solo occhio poteva contenere nella sua cavità Cyrion in tutta la sua altezza. Quegli occhi, ora così raggianti, misero in luce per intero la caverna, le sue rocce montanti, il suolo ricoperto di strati di polvere, e le cortine di polvere fluttuanti nell'aria. Da quella polvere la bestia si sollevò. Spalancò le fauci. Cyrion si piegò velocemente, e il soffio di respiro ardente ma non incendiario passò travolgente sopra la sua testa. Non era un respiro fetido, soltanto molto caldo. Cyrion conficcò la spada nella polvere e vi si appoggiò con indolenza. Sembrava una splendida statua. Malgrado fosse uno che poteva muoversi come una saetta, ora aveva scelto di diventare pietra, su cui i due fuochi rossastri si erano fissati tingendo i chiari capelli del colore del vino diluito.
Cyrion osservava, alla luce di quei grandi occhi, la bestia demoniaca avanzare lenta verso di lui. La osservava, appoggiato alla spada e immobile. Una possente zampa, armata di artigli e lunga come una colonna, fendette l'aria per colpirlo, ma Cyrion non era più nel punto in cui si trovava un istante prima, appoggiato alla spada e perfettamente immobile. Riapparve un po' più in là, nell'ombra, nella stessa posizione e con la stessa aria indolente. Ancora una volta la morte diede un colpo con la sua falce; ancora una volta, il colpo andò a vuoto. Le fauci cozzarono l'una contro l'altra e una cascata di bava ne sprizzò fuori. Ma Cyrion era da un'altra parte, distante. La pietra era ridiventata saetta. Il quarto colpo era di Cyrion. Non sottovalutava la gravità della sua missione, ma neanche la prendeva troppo sul serio. Non c'era bisogno di riflettere, il bersaglio non richiedeva alcuna sfida, era facile... Cyrion tirò indietro il braccio e lanciò a piombo la spada che, come un dritto squarcio bianco, attraversò la caverna. L'arma incontrò l'occhio sinistro del mostro, lo frantumò come fosse stato di vetro, un vetro rosa, e andò a immergersi fino al cervello. Simile a un gatto, Cyrion saltò verso una sporgenza della roccia e vi si acquattò sopra. Una fetida secrezione nera sprizzò fino al tetto della caverna. Poi la luce impallidì gradualmente, come era apparsa. Il tuonante ruggito rifluì come un mare colossale che si ritirava da quelle aride caverne sotto il deserto. Sulla roccia sporgente Cyrion aspettò senza pietà né trionfo che la bestia, attraverso inevitabili fasi, cadesse, smettesse di muoversi e morisse. Seppure cieco nella restaurata oscurità, Cyrion ricordava la strada in maniera infallibile, come ricordava ogni cosa una volta che l'aveva scoperta, perciò, avvicinatosi al mostro, ne estrasse la spada e con essa risalì la scala immersa nel buio più fitto fino a raggiungere la porta di ferro della cella scavata nel muro. La porta era sprangata dall'esterno. Cyrion la disserrò e l'aprì. Appena dentro la prigione si fermò, registrando ogni dettaglio. Era una scatola di pietra, appena illuminata dalla debole luce di torce tremolanti. La ragazza giaceva al suolo, sempre incatenata ai piuoli come lui l'aveva vista attraverso la fessura sul pavimento. Cyrion guardò in direzione del buco, difficilmente visibile in quell'oscurità. «Cyrion,» sussurrò la ragazza, «il sangue nero del mostro è sulla tua spada, e tu sei vivo.» Il suo bel volto bianco era rivolto a lui, le ricche trecce di capelli dorati
erano sparse sul pavimento, i morbidi seni palpitavano per il tumulto del cuore. Tornarono a scendere le lacrime, ma ora i suoi occhi erano arrendevoli. Il suo sguardo non esprimeva né stupore né curiosità, ma solo amore. Cyrion le si avvicinò e, sollevando la spada per una seconda volta, le staccò la testa dal corpo. Trenta gradini più su, venne sfondata una porta. Cyrion si abbassò con grazia, si drizzò, e percorse i trenta scalini con flessuosi balzi. Oltrepassò la porta segreta e fu di nuovo nella stanza, con la spada ancora sguainata nella mano destra. Nella sinistra, quella adorna di anelli, teneva per i luminosi capelli una testa di donna. Di fronte a lui, sotto l'arco della porta della camera, che era stata forzata, Memled lo fissava con un volto grigio come la cenere. Poi l'uomo crollò sulle ginocchia, e dietro di lui, anche le guardie si inginocchiarono. Memled cominciò a singhiozzare. I suoi singhiozzi erano impetuosi, tormentati. Era evidente che non riusciva a trattenerli, e tutto il suo corpo ne era scosso. Cyrion restò lì dov'era, come ignorando il suo sanguinante trofeo. Finalmente Memled parlò. «Dopo un'eternità il cielo ha udito il nostro lamento, ha risposto alle nostre suppliche. Ci ha mandato te, l'eroe della città, che dopo un'eternità ci hai portato la salvezza. Mentre noi eravamo legati dal patto infernale, e non potevamo metterti in guardia né darti consigli. Come hai fatto a indovinare la verità?» «E cos'è la verità?» domandò Cyrion con incredibile dolcezza, stando in piedi tra la lama macchiata e la testa sgocciolante. «La verità — che il mostro era un'illusione per ingannare quegli eroi che combattevano per noi, un'illusione creata dalla lurida strega a cui tu hai mozzato la testa. Per anni, senza tregua, ci ha dissanguati, vagando di notte, banchettando con la carne e il sangue della mia gente, implacabile e spregevole lupa qual era. E la nostra esile speranza stava in una profezia, l'unico punto debole nel patto infernale: solo se un eroico viaggiatore fosse giunto alle nostre porte e avesse accettato di liberarci dal nostro tormento, noi avremmo potuto vederla morta. Ma lei ogni volta incantava e ingannava questi eroi, mostrandosi imprigionata da catene illusorie, dicendo che noi l'avremmo sacrificata, mandando ognuno di loro ad uccidere il fantasma di un mostro che non esisteva salvo che quando il suo capriccio lo permetteva. E poi l'eroe andava da lei, fiducioso, e lei lo prendeva e ucci-
deva pure lui. Abbiamo mandato a morire in questa maniera più di una ventina di eroi, perché eravamo legati dal patto e non potevamo indicare loro dove stava il male. E dunque, mio eroe, ti domando ancora una volta, come hai potuto vedere la verità in questo abisso di stregoneria?» «Piccoli dettagli,» disse laconico Cyrion. «Mi dirai quali?» il volto di Memled, tutto bagnato dalle lacrime, si sollevò, colmo ora di una gioia febbrile. «La sua vicinanza a me, che mi sembrava improbabile se lei era davvero chi pretendeva di essere. La sua estrema bellezza, sopravvissuta a un mese di prigionia e terrore, i suoi polsi e le sue caviglie che non mostravano i segni delle catene. Il fatto che, per essere una straniera, conosceva fin troppo bene i meandri e la storia di questa città. Ancora più interessante, che sapesse tante cose di me — a parte il mio nome, che non capivo perché un carceriere le avesse dovuto dire — ad esempio, che io indossavo un abito da nomade, e che mi immaginava presentabile, sebbene non mi avesse potuto vedere. Lei sosteneva di aver visto passare oltre lo spiraglio la mia ombra, ma nulla di più. Era anche a conoscenza del nostro affare, il mio e tuo, come se fosse stata ad ascoltare. Vuoi saperne ancora?» «Ogni particolare!» «Allora citerò la bestia, che era palesemente irreale. Un ruggito così forte da fare tremare il palazzo, e la casa rimaneva intatta. E lei, una creatura così gigantesca che avrebbe potuto ridurre in polvere la città, confinata in una caverna dove non aveva neppure smosso la polvere. Poi il fatto che non c'era neanche un osso, e il suo alito sano, che doveva impressionare per la forza e il calore, ma che non aveva nessun odore. Faceva meno puzza di un gatto che mangia topi. E questa cosa, che si presumeva mangiasse gli uomini e bevesse il loro sangue ed era tanto grande da riempire l'aria di puzza, era tutta pulita come una pentola lucidata in cucina. Infine, quando sono risalito ho visto che lo spiraglio non faceva vedere nulla di quello che succedeva in questa stanza, a parte un'ombra che passava. E se vuoi, avevo anche notato i denti affilati della donna.» Memled si alzò in piedi. Si diresse verso Cyrion e, a metà strada, si fermò per rivolgersi alle guardie. «Informate la città che il nostro incubo è finito.» Le guardie, esterrefatte, corsero via. Memled si avvicinò a Cyrion, guardando con odio la testa mozzata, che Cyrion aveva accortamente messo in un recipiente adatto, e che stava co-
minciando a sbriciolarsi in una specie di polvere rancida. «Siamo liberi da lei,» gridò Memled. «E il tesoro sta lì perché tu lo possa saccheggiare. Prendi tutto quello che ho. Prendi... prendi questa, l'insegna reale della città,» e con le mani afferrò il collare d'oro bruno che gli cingeva la gola. «Non c'è bisogno,» disse Cyrion con leggerezza. Ripulì la spada su un drappeggio. Memled non ci badò. Poi rinfoderò la spada. Memled sorrise, con un sorriso ancora arrugginito, ma con il volto reso vivo dall'eccitazione. «Il tesoro dunque,» suggerì Cyrion. Cyrion fu parsimonioso con il tesoro. La luce del giorno se n'era andata ora, e, sotto l'ambra liscia delle lampade, lui sceglieva in mezzo a grovigli di gioielli e matasse di metallo, tra coppe e pugnali ingemmati, tra bracciali e corazze. In breve, ce ne fu abbastanza da colmare fino all'orlo una sacca di pelle, che Cyrion si mise in spalla. Memled avrebbe voluto stiparci altri doni, ma Cyrion rifiutò l'offerta. «Come si dice tra i nomadi,» disse Cyrion, «tre asini non possono immergere il muso nello stesso secchio. Ne ho preso abbastanza.» Fuori, nella città, tutta un risplendere di luci sotto un cielo che risplendeva di stelle, canti e acclamazioni di gioia si levavano nella fredda e vuota notte del deserto. «Una notte senza sangue e senza orrore,» disse Memled. Cyrion discese la scalinata del palazzo. Memled si fermò sulla scala, circondato alla rinfusa dalle sue guardie. Nella piazza del mercato ardeva un fuoco, e la gente vi danzava intorno. Gli abiti neri erano scomparsi; le donne si erano messe tutte in ghingheri e danzando facevano scintillare e tintinnare gli orecchini che indossavano. Gli uomini bevevano, lanciando occhiate alle donne. Un po' staccati dal gruppo, due bambini, vestiti nei loro abiti migliori, stavano fermi lì, impietriti. Cyrion si soffermò sui loro volti. Il volto di un bambino: infallibile calendario delle stagioni dell'animo. Gli uomini se sono costretti imparano a fingere. Ma un bambino non ne ha avuto ancora il tempo. Cyrion esitò per un attimo. Si voltò indietro, tornò verso la scalinata, e la risalì lento. «Un'ultima cosa, principe, amico mio,» disse a Memled. «Cosa?» Cyrion sorrise.
«Eri troppo perfetto e io non me ne sarei accorto, se non me lo avesse fatto capire proprio ora un bambino.» Cyrion scagliò la sacca dalla spalla direttamente nella pancia di Memled. Un secondo più tardi nella sua mano fiammeggiò la spada, e la testa incorniciata di nero di Memled ruzzolò giù per le scale. Attorno al fuoco le danze erano cessate. Le guardie erano paralizzate e ammutolite per lo shock, e nessuna mano osò sfiorare un'arma. Cyrion ripulì la sua, stavolta sul torso ancora tremante di Memled. «Anche lui,» disse Cyrion. «Sì, signore,» disse la più vicina delle guardie, con gravità. «Ce n'erano due.» «E ogni notte il vostro principe demonio e la sua amante tiravano a sorte su chi dei due si sarebbe ingozzato della città, vero? Eppure lui non poteva impedire che si compisse la profezia dell'arrivo di un eroe alle porte della città. Era obbligato a corteggiarmi e, in ogni caso, contava sul fatto che la donna avrebbe incantato me come aveva fatto con gli altri. Quando lei non ci riuscì, fu contento che io l'avessi uccisa, perché sperava di sfuggirmi e di tenersi la città per sfamarsi lui solo. Si rappresentava alla perfezione. Mai una volta che abbia manifestato il suo lato demoniaco. Agiva come un uomo, come Memled, il principe-paura e gioia. Era troppo bravo. E io non ci sarei mai arrivato se non per l'espressione di sofferta angoscia di quei bambini laggiù, in mezzo alla folla.» «Sei certamente un eroe, e il cielo ti benedirà,» disse la guardia. Era facile capire che questo era un vero essere umano, e che erano uomini anche gli altri. Il loro sollievo al momento della liberazione era stato imprevisto e strano, come succede per tutti gli uomini, che non hanno le parti preparate a memoria di quando piangere o quando ridere. Cyrion rise sommessamente al cielo sfavillante. «Allora benedicimi, cielo.» Scese ancora una volta le scale. I due bambini stavano gridando ora, come non avevano mai osato fare prima, liberi, sani. Cyrion aprì la sacca di pelle e riversò il tesoro sulla piazza, perché sia gli adulti che i bambini vi potessero giocare. A mani vuote, come era arrivato, Cyrion se ne andò via nel deserto, sotto le stelle. 2° INTERLUDIO
Esur, che durante il suo racconto cantilenato era caduto in una sorta di trance, fece per prendere il boccale del vino, ma fu preceduto dal soldato, che era stato più veloce. «Per i Cori del Paradiso,» disse il soldato, «che storia.» Esur lo guardò con occhio torvo, e il soldato bevve un sorso di vino. «C'è da credergli? Dov'è questa città del demonio? Esisterà davvero? Chiaramente un'invenzione delle più...» Offeso, Esur si alzò, e il soldato smise di parlare, sogghignando. Esur fissò lo sguardo su Roilant. «Tu volevi una storia. Io te ne ho raccontata una. Dov'è il mio denaro?» «Veramente, io avevo chiesto informazioni su dove si trovasse Cyrion e su che tipo sia,» disse Roilant. Il soldato gorgogliò nella sua coppa da cui emerse per dichiarare: «Ma qualcosa te l'ha detta. Cyrion è capace di provare del sentimento nei confronti dei bambini. E può restare insensibile di fronte alla più bella delle donne.» Roilant si accigliò. Tirò fuori da una bisaccia una moneta d'oro e la porse a Esur, che la morse subito ferocemente con dei denti sorprendentemente bianchi. «Una buona coniatura,» disse soddisfatto Esur. «Grazie, mio generoso signore.» «Aspetta,» gracchiò il soldato, «dimmi cos'è un gresher, una gerosha...» «Vuole dire una ghirza,» disse Roilant. «Uno strumento musicale a corde, credo.» «Ah,» disse Esur, «me lo ero sempre domandato.» Il soldato singhiozzò. «Hanno del vino meraviglioso qui. Portane ancora. E mentre lo vai a prendere inventati qualche altra frottola.» «La storia è vera. Lo garantisco,» disse Esur. «L'ho sentita un po' di tempo fa durante una marcia forzata dal mercato degli schiavi di Cassireia.» «Un minuto fa era Heshbel.» Esur mostrò ancora una volta i suoi denti. «Se fossi un uomo libero...» «Ma non lo sei,» disse il soldato, e scagliò verso di lui la coppa di vino riempita solo per un quarto. Esur si chinò con un'agilità inquietante e la coppa, che in qualche modo sembrava riempirsi man mano che volava, atterrò in grembo al dotto, che
con un grido balzò in piedi. «Oh Dio,» disse il soldato ormai ubriaco, e si nascose il capo tra le mani rifiutando di partecipare a quanto seguì. Fu Roilant che, assumendosi con rassegnazione la responsabilità di quanto era successo, si alzò, attraversò la sala, e andò a chiedere scusa al dotto. Questi, ritrovato il suo equilibrio, si scrollò il vino dal lungo abito. «Non è nulla. Uno shock per raffreddare il mio accaloramento nella discussione; un rimprovero da Dio, temo. Questo gentiluomo ed io stavamo facendo un serio discorso riguardo certi insegnamenti religiosi.» All'altro capo del tavolo, il saggio, arruffato e sciatto come era apparso dal lato opposto della sala, e leggermente profumato, ma solo leggermente, lo si notava con sollievo, di un aroma caprino, non faceva caso a quanto succedeva, ancora immerso nell'esame della pergamena che lui e il dotto stavano studiando. «Tuttavia, le mie più profonde scuse,» disse Roilant. «Il mio tavolo è diventato alquanto turbolento. Stavo chiedendo di un uomo...» «...di nome Cyrion. Sì, ho udito una o due parole. Cyrion di Cyroam. O, come dicono certi, di Nessun Luogo.» «Lo conosci?» Il deluso Roilant andava cauto ora, non era più avido come prima. Il dotto si toccò uno stupendo amuleto smaltato che portava al collo. Il suo viso era piacevolmente pallido, e bello sotto le rughe dell'invecchiamento. Una delle sue belle mani affusolate si staccò dall'amuleto e diede un colpetto affettuoso sul braccio di Roilant. «Mi dispiace di doverti deludere anch'io. Come gli altri tuoi informatori, io pure ho sentito delle storie su Cyrion. Ma conoscerlo? E quanti di noi possono dire per certo di conoscere se stessi?» «Sono disperato,» disse Roilant. «Oh, non esserlo. Vedo che il tuo terzo fiasco è arrivato, con grande piacere del tuo amico guerriero. E presto verrà servito il pranzo. Il capretto è ottimo.» Fu evidente il sollievo di Roilant nel trovare una compagnia più colta. «Vorresti pranzare con me? Per scusarmi dell'improvviso arrivo del vino non richiesto.» L'uomo sorrise. «Sei molto gentile. Certamente, accetto con piacere. Questo saggio sta digiunando, e assume solo vino, latte e acqua per il resto della settimana. Non credo che gli interessi pranzare.»
«Un vero peccato,» disse Roilant senza un'ombra di rammarico. Il saggio, alzando gli occhi, gli lanciò uno sguardo folle e annebbiato, per poi ritornare borbottando alla pergamena, «mia, veramente,» confessò il dotto, mentre con Roilant attraversava la sala fino all'altro tavolo. «Ma credo che non abbia ancora finito, e si potrebbe intestardire. Piuttosto che riaverne solo un pezzo, preferisco cedergliela per un po'.» Il soldato non mostrò alcuna vergogna né diede segno di volersi scusare. «Nessuno,» proclamò, «può sedersi qui se non si impugne, improgna, impregna a raccontarci una storia su Skiriom, Spyrion, Cyripom. Capito?» «Veramente capisco,» rispose il dotto, «che stai cominciando a perdere una certa facoltà.» «Eh?» «Ma mi impegno a raccontare una storia, se il mio ospite lo desidera.» «Perché no,» disse tristemente Roilant. «Sembra che sia tutto quello che sono destinato ad ottenere» Da dietro la tenda si udirono rumori, passi, risate, e l'imperiosa sollecitazione del gong. Suo malgrado, Roilant non poté fare a meno di fissare l'entrata, e fu ripagato dall'ingresso in massa del locandiere e di due nuovi schiavi che gli correvano dietro. Il viso di Roilant però non si abbassò. I nuovi arrivi infatti includevano tre mercanti in abiti sfarzosi, accompagnati da due donne dal contegno vivace che era difficile immaginare come le loro mogli o sorelle, ma che erano abbastanza giovani per poterne essere le nipoti, e infine uno che a prima vista pareva un carovaniere, scompigliato e tutto impolverato. Ma tra questi neanche uno che fosse almeno biondo, per non parlare poi della sferzante e folgorante eleganza che Roilant, anche se solo per sentito dire, associava ormai al protagonista dei racconti. «Coraggio,» disse con premura il dotto, «abbi fiducia. Se il tuo destino ha decretato che lo troverai, lui verrà qui. Oppure lo incontrerai da qualche altra parte.» «Ma io ho bisogno di incontrarlo oggi stesso.» Roilant scrollò il capo. «Non posso più aspettare.» «Sembra che tu abbia un urgente bisogno dei suoi servigi.» Roilant divenne evasivo. «Non intendevo impicciarmi. Lascia solo che ti dia un consiglio. Anche da una serie di miti è possibile imparare qualcosa. Il fatto stesso che Cyrion sia diventato soggetto di miti dice molto su di lui. E chi lo sa, le storie potrebbero essere vere. Io ho imparato a credere nella stregoneria,
nella stessa maniera in cui credo nella potenza di Dio. E Dio è il Maestro di ogni equilibrio. Se nel mondo c'è il male, devono nascere degli uomini con la naturale capacità di sconfiggerlo. Altrimenti come sopravviveremmo?» Roilant assentì educatamente. Il soldato ruttò, e disse che gli sembrava giunta l'ora del pranzo. Seduti a un tavolo al centro della sala, i mercanti ridevano chiassosamente e le due giovani donne strillavano accompagnate dal tintinnare dei loro orecchini e dei bracciali. Su quel baccano, si sentiva il carovaniere che parlava al padrone della locanda di frumento perduto e di un fattore ladro che era scappato con metà dei suoi profitti e con la sua serva. Improvvisamente il vecchio saggio montò in piedi. Puntando il dito contro le compagne dei mercanti, gridò: «Oh esseri impuri e mostruosi! Oh sfruttatrici di uomini, oh vacche piene di vizio, oh giovenche del Diavolo! Lacrime e miseria cadranno su di voi fino alla fine dei vostri giorni, quando ad attendervi troverete un tormentoso sepolcro.» Le due donne ridacchiavano nervosamente. Uno dei mercanti, il più grosso, si mise in piedi e cominciò ad urlare con rabbia. Il locandiere si precipitò a mettere pace e il saggio ricadde seduto, con la bava alla bocca, per cui gli venne portato del latte probabilmente di capra, per ravvivare il suo profumo. Il dotto bisbigliò: «Un'altra citazione erronea, temo.» «... ci... ssione... onia,» assentì il soldato. «Capretto al miele,» disse Roilant ad uno dei nuovi schiavi.«Per tre,» aggiunse stancamente. «Hai mai visitato,» gli disse il dotto, «Teboras...?» UNA NOTTE ALL'ANNO «Fermati! Devi venire con noi.» Come una spada affilata che esce dalla sua morbida guaina, la voce emerse aspra e graffiante dalla notte profumata, e il forestiero si fermò. Tuttavia, fermatosi, non si voltò. Era avvolto in un mantello nero con cappuccio della migliore seta di Askandria, che ne celava sia l'aspetto che l'atteggiamento. Con una voce musicale ed esageratamente dolce, egli domandò: «Perché dovrei farlo?» Si udì una risata fragorosa. «Primo, perché noi siamo due e tu uno. Poi, perché se ubbidisci ti aspet-
ta una ricompensa. Per finire, perché il mio Signore Jolan te lo ordina, ed io sono qui per aggiungere peso al suo ordine.» A quelle parole, un profilo apparve pallido nel buio, tra il cappuccio e la spalla. Un profilo cesellato, straordinariamente bello, e un occhio dall'innocenza orlata di lunghe ciglia. «Supponi,» parlò il profilo, «solo per il gusto di discutere, che io rifiuti.» La voce fece un grugnito e si sentì lo spostamento d'aria di un movimento bruscamente frenato. La voce graffiante esclamò con impeto: «No Radri! Niente violenza.» Ma il forestiero avvolto nella seta era già mutato in ogni dettaglio. Il nero mantello era volato via, e il corpo agile che esso nascondeva si era voltato come un fulmine. Un angelo demoniaco stava improvvisamente di fronte ai due uomini, nella destra una spada sguainata che lampeggiava alla gola di uno, mentre con la sinistra inanellata agitava un piccolo e letale coltello vicino alle costole dell'altro. I due sobbalzarono e rimasero paralizzati e senza respiro per la sorpresa. L'angelo, con tono di scusa, disse: «Ed ora, miei signori, siate così gentili da spiegare in maniera più dettagliata la vostra richiesta.» Era mezzanotte a Teboras. Mezzanotte su tutta la silenziosa e antica città, con i suoi oleandri profumati, le sue magnifiche e spettrali rovine, con il lieve strimpellio d'arpa del suo lago dall'azzurro intenso. In questo quartiere, che con le sue eleganti vie svettava alto sull'antico Foro Remusano, ci si poteva aspettare una pioggia di fiori, o l'occasionale incontro di una ricca cortigiana con lettiga e servitori, forse anche di vedere un fantasma vagare in uno dei templi arcani. Ma non di trovarsi di fronte dei ladri. Né questi due avevano l'aspetto dei ladruncoli. Il più alto era vestito lussuosamente, le sue possenti spalle sfoggiavano delle ricche maniche in broccato ricamato d'oro — era lui quello che aveva cercato di avventarsi sul forestiero. L'altro uomo, più esile, giovane, attraente come non lo era la sua voce, e con i capelli biondi, indossava gli abiti di un principe, e, appeso a uno spesso collare d'oro, esibiva un ritratto antico e finemente dipinto di una donna, incorniciato da grossi zaffiri e da ancor più grossi rubini. Il Biondo, presumibilmente Lord Jolan, si schiarì la gola, senza riuscire a pulirla da quel tono roco. «Perdonaci, signore. Temo che siamo stati un po' troppo autoritari. La nostra voleva essere una richiesta, non un ordine. Ma Radri ha detto la verità quando ha parlato di una ricompensa.» Gli occhi innocenti e luminosi del forestiero non fecero neanche un battito. «Ma naturalmente, la ricompensa dipende dal tuo assenso a venire con noi.» «Dove?»
«Ebbene,» Jolan mosse la mano con circospezione, «soltanto in quella casa.» Un alto muro di pietra, interrotto da due pesanti cancelli e traboccante degli alberi di un cortile, sembrava indicare una dimora di una certa importanza. Era simile a parecchie altre che si incontravano lungo quella strada, e che agli occhi indiscreti esponevano tutte la stessa facciata completamente priva di finestre. Veramente, gli affari del forestiero lo avrebbero dovuto condurre un po' più avanti, là dove un tempio remusano interrompeva con i suoi antichi pilastri e i suoi fantasmi la strada che egli stava percorrendo. Era risaputo che nella zona si aggirava un fantasma. Si era anche diffusa la notizia, poi soffocata, che di tanto in tanto nel corso degli anni erano stati trovati, sparsi sul terreno accanto a questo tempio, dei resti umani di recente data. La natura del forestiero era tale che una notizia del genere lo avrebbe probabilmente intrigato. Ma l'essere interrotto forse lo intrigava ancora di più. «Quando sarò nella casa,» disse riflettendo, con spada e coltello ancora delicatamente puntati in quella maniera incivile alla giugulare e al polmone, «cosa mi sarà chiesto di fare?» Jolan tirò un sospiro. «Signore, ti sarà chiesto di esprimere un giudizio disinteressato.» «Su chi?» «Su quattro persone, due delle quali siamo io e il mio servitore, qui presente.» «Confesso che la cosa mi affascina. Un giudizio riguardo a cosa?» «Un... affare di famiglia. Ma vorrei evitare di parlarne per strada. Che ne dici di entrare? Se darai un giudizio soddisfacente, ci farai un piacere più grande di quello che tu possa immaginare. E noi ti ricompenseremo con oro, argento e gemme.» Il forestiero ripose la spada nel fodero di pelle rossa e il coltello in uno di seta. Anche la sua chioma sembrava fatta di seta, una seta dello stesso colore della luna che ora sorgeva lentamente dal foro. «Oro, argento e gemme sono argomenti irresistibili.» Il servitore, Radri, spalancò uno dei grandi cancelli. Il cortile si rivelò, ricco di alberi e irrorato da qualche parte da una fontana. La facciata della casa si distingueva appena, fiocamente illuminata da due torce poste ai lati del portico, ma sugli scalini scivolava un sottile filo di luce rossa; la porta di bronzo era socchiusa. «Prego, entra,» disse Jolan. «E, visto che me lo consenti, vorrei sapere il
tuo nome.» «Cyrion.» La casa era fatta in maniera piuttosto singolare, ma Teboras era stata sempre propensa a contaminazioni tra culture diverse. L'ingresso era dominato da una vasca di marmo, abbellita né da pesci né da fiori, ma da strati di foglie secche. Dietro la vasca si apriva una stanza illuminata da candele, con pareti affrescate e ricchi tendaggi. Eppure in tutta la camera aleggiava una certa aria di trascuratezza, di abbandono. Questo, nonostante essa fosse occupata. Le due figure si alzarono nello stesso istante. La prima era quella di un uomo vestito di un sobrio abito da sacerdote, sebbene i contorti talismani tempestati di perle che portava sul petto facessero pensare a un canone non ortodosso. Aveva un viso triste, malinconico ed esangue, su cui spiccava la bocca, rossa come di bramosia. L'altra persona era una giovane donna, piccola di statura e molto esile. La sua chioma giallo foglia era raccolta in un'elaborata acconciatura che richiamava alla mente quella voga diffusa tra i teborani di ricopiare gli affreschi remusani. Era interamente vestita di nero e come Jolan portava un collare d'oro, ma in filigrana. Bracciali d'oro le ornavano i polsi, mentre alle mani portava grossi anelli di pietre preziose. Aveva un volto serio e insieme sensuale, con grandi occhi vigili. A parte Radri, non sembravano esserci altri servitori. L'ora tarda e il silenzio che regnava nella casa inducevano a credere che la servitù fosse tutta a dormire, o che fosse stata mandata via dall'edificio. Jolan annunciò solennemente l'ospite. «E questa,» disse poi rivolgendosi a Cyrion, «è mia sorella, Sabara. E lui, il nostro religioso, è Naldinus, uno studioso, anche esperto in medicina. Tutti insieme, siamo i quattro che devi giudicare.» Né il sacerdote né la donna apparvero stupiti. Era chiaro che si trattava di una famiglia di eccentrici. Nel frattempo Radri era andato a un tavolo intarsiato, e aveva versato in cinque calici di argento martellato un vino dal colore sanguigno. Dopo aver passato i calici agli altri, prese l'ultimo per sé. Cyrion sentì l'odore del vino che trovò di una dolcezza interessante. «Al nostro ospite...» Jolan pronunciò il brindisi con intensa gravità. «E alla giustizia, che essa possa finalmente darci il suo aiuto.» Il gusto del vino fu per Cyrion ancora più interessante. Ciascuno bevve il suo vino, ma solo Radri vuotò grossolanamente la propria coppa. Il fatto
che avesse partecipato al brindisi era un segno inequivocabile del suo intimo coinvolgimento in questa riunione di famiglia. «Ed ora,» disse Jolan fissando Cyrion. «Se sei pronto...» «Sono pronto,» disse Cyrion, «per un chiarimento.» «Lo avrai. Molto presto. Ma prima, ti devo mostrare qualcosa. È il motivo per cui sei qui. Il motivo per cui ti abbiamo ordinato — volevo dire chiesto, naturalmente — di entrare. Radri, fai strada.» Il servitore prese un candelabro, tenendolo per il massiccio piedistallo, e senza dire una parola si avviò, scansando al suo passaggio una tenda. Il sacerdote scivolò subito dietro di lui, seguito dalla ragazza. Jolan fece ansiosamente cenno a Cyrion di seguirli, poi gli si accodò. La stanza si apri, alquanto inaspettatamente, su un giardino. Passando per un viale in mezzo ad alti cespugli, nella scia delle candele di Radri, essi raggiunsero una piccola costruzione a colonne. A prima vista poteva sembrare un padiglione estivo, ma la mancanza di finestre ne rivelò la vera natura. Era un sepolcro. «Non allarmarti,» disse precipitosamente Jolan. Scrutò il volto di Cyrion, che non mostrava altro che un'educata attenzione, anche adesso che Radri era occupato a liberare dalle catene la porta del sepolcro. Forse Cyrion stava notando la strana meccanicità che i suoi ospiti avevano esibito nell'accoglierlo, nella loro camminata fino al sepolcro, e ora in quel loro entrarvi ordinatamente in fila. Come se questa non fosse stata l'unica volta che tali cose erano avvenute. Come se, in effetti, si fossero ripetute frequentemente. L'interno del sepolcro era anch'esso insolito, soprattutto perché era stato arredato come una camera da letto. C'erano altri affreschi e tendaggi, lampade e candele, queste ultime metodicamente accese da Radri. Divani coperti da cuscini, sedie e tavolini poggiavano su tappeti. Dominava la scena un letto con baldacchino, le cui tende erano chiuse. Jolan con aria solenne si avvicinò alle tende e le aprì. Poi indietreggiò e proclamò, con la roca voce ancor più roca: «Mia sorella maggiore, Marival.» Lei giaceva sulle lenzuola ricamate, il mento tondo e leggermente inclinato, le calde labbra sorridenti, i seni appena coperti che ardevano, come se da poco accarezzati. Aveva la pelle più bianca del marmo, e la chioma sembrava esserle stata donata dalla notte. Era vestita in una foggia antica che le stava a pennello, e ingioiellata in una maniera che, fosse stata viva, sarebbe risultata esagerata e volgare. Ma poiché la donna era dignitosamente deceduta, persino un artista non avrebbe trovato niente da ridire. Jolan cominciò a singhiozzare, reggendosi contro il muro. Radri be-
stemmiava evitando di guardare il letto. Il sacerdote bisbigliava qualche incomprensibile preghiera dal profondo della gola. Sabara, la sorella viva, si fece avanti, e disse a Cyrion: «È bella, vero? Non trovi? Lo dicono sempre tutti. Bella Marival. Meravigliosa Marival. Non ti sembra una meraviglia?» «Mi sembra una morta,» disse Cyrion. «Oh, sì. Ma il suo fascino vive ancora. Non senti mio fratello, che piange come un bambino? E le imprecazioni di Radri? Anche Naldinus è commosso.» «E tu?» domandò Cyrion. «Io,» disse Sabara, «sono gelosa di lei, anche ora.» Il religioso parlò per la prima volta a Cyrion. «Questa casa, signore, ha un po' del magico, un po' dello scientifico. Quando Marival morì, io, servendomi di un particolare procedimento della scienza medica di Aigum, della quale sono esperto, riuscii ad imbalsamare e a conservare la sua carne.» «Dunque lei è morta e voi l'avete imbalsamata,» disse Cyrion. «Che connessione c'è con il giudizio richiestomi?» Jolan si staccò bruscamente dal muro, gli occhi ardenti. «Uno di noi, uno dei quattro che sono qui con te in questo momento, l'ha uccisa. Uno di noi ha avvelenato Marival. Tu devi stabilire chi di noi lo ha fatto.» «Io devo?» Cyrion era sinceramente incredulo. Jolan si asciugò le lacrime con le maniche del vestito. «Sì. Devi. È troppo tardi ormai per ritirarsi. Uno di noi è tormentato dalla colpa, tuttavia non vuole, non può confessare. Siamo in un inferno, da cui tu ci devi liberare. Devi scoprire chi di noi è l'assassino.» Cyrion fece pateticamente l'ingenuo. «Come?» «Ascoltando da ognuno di noi il racconto di quello che abbiamo fatto nel pomeriggio della sua morte.» «Credo,» disse Cyrion, «che fareste meglio a cercare un rimedio nella legge. So che il governatore di Teboras è capace. Oppure potreste esporre il vostro caso al re, a Heruzala...» «No. La legge non ci è di alcuna utilità.» «Be', neanch'io lo sono.» Jolan fece uno sorriso che era una smorfia, e finalmente il suo aspetto si adeguò alla sgradevolezza della sua voce. «Non hai più scelta. Naldinus ti ha detto che questa famiglia è esperta di
scienza e magia, e ha detto bene. Ora te lo dico io: questa casa non è quale essa ti appare, e neanche noi lo siamo. Anche i nostri nomi sono stati cambiati, in modo che tu potessi entrare senza sospetto. Perché ci saremmo messi in un simile guaio se non parlassimo sul serio? E le stesse magie che mascherano noi sono in grado di tenerti prigioniero in questa stanza finché non avrai fatto quello che ti chiediamo — anzi, che ti ordiniamo. Prova ad aprire la porta.» Cyrion si guardò scherzosamente intorno. I mascherati (se veramente lo erano) abitatori della casa lo fissavano intensamente. Per compiacerli, lui andò fino alla porta del sepolcro e giocherellò un po' con la maniglia. La porta non si aprì. Di più. Al terzo colpo essa, lentamente ma inequivocabilmente, svanì. La parete era diventata bianca, la maniglia si era volatilizzata; forse era soltanto un'illusione, ma se era così, questa illusione coinvolgeva, oltre alla vista, anche il tatto e l'udito. Il sordo silenzio della completa clausura si abbatté all'interno del sepolcro. Sotto il palmo di Cyrion la parete era liscia e senza giunture. Cyrion si voltò e osservò con ponderatezza i suoi carcerieri. «Con la magia a vostra disposizione, dovreste essere in grado di scoprire voi stessi chi ha ucciso Marival.» «Dove l'emozione si mischia alla magia, la magia diviene mutevole e inutilizzabile,» disse Jolan. «Non potremmo, non ne saremmo capaci.» «Abbiamo bisogno,» continuò suadente Naldinus, «di un testimone spassionato. È un infausto destino quello che grava su di noi. Non possiamo aiutarci, eppure abbiamo un disperato bisogno di aiuto. Anche l'assassino,» Naldinus abbassò il suo sguardo astuto e triste, «anche lui, o lei, è disperato, forse, per la sua condanna. Quella di essere scoperto.» «Supponiamo che io stabilisca chi di voi è il criminale, e il criminale, contrariamente alle tue speranze, Padre, rifiuti di collaborare.» «Ci è stato... promesso un segno,» disse Jolan evitando lo sguardo di Cyrion. «Un presagio inequivocabile, quando la verità verrà svelata. Tu devi solo essere giusto.» «E non dimenticare,» disse incisiva Sabara, «l'oro, l'argento e le gemme che ti aspettano come ricompensa.» «E che succede se do un parere sbagliato?» Il silenzio di tomba si fece ancora più profondo. Cyrion stette ad ascoltarlo per un attimo, e disse: «La ragione di questa domanda è che io mi sono fatto l'idea, senza dubbio stravagante, che voi abbiate già costretto altri forestieri, presi dalla strada nel cuore della notte, a venire qui per farvi da giudici. E visto che ora qui ci
sono io, devo supporre che i miei predecessori abbiano fallito nel loro compito. E dunque, qual è la vostra ricompensa per l'insuccesso?» Il sogghigno di Radri, il servitore, riecheggiò nel sepolcro illuminato dalle candele. «La morte.» Sarebbe stato chiaro a chiunque ora che l'intera famiglia non era semplicemente eccentrica, ma completamente folle. Quel continuo rimuginare sull'assassinio aveva liquefatto le loro menti. Si capì che avevano ucciso abitualmente, ripetutamente e senza scrupoli, col fine di cancellare il delitto originario, che ormai aveva assunto un'esasperata importanza. Si sarebbe potuta credere la minaccia una folle menzogna, prevedibile del resto dalle bocche di maghi dementi. Ma Cyrion non aveva dimenticato le voci sulle ossa umane rinvenute occasionalmente a soli pochi passi da lì, accanto al tempio remusano. Le favole sul fantasma erano una cosa; ma era qui che forse si trovava la sola orribile verità. Riguardo al presagio, qualora fosse stato vero, esso era però equivoco come l'atmosfera che regnava nel sepolcro. Cyrion sfoggiò uno dei suoi più incantevoli sorrisi, e con semplice e squisita eleganza andò a sedersi sulla sedia più vicina. I folli familiari si guardavano nervosamente l'un l'altro. Sebbene avessero costretto a questo brutto affare molte vittime, non ce n'era mai stata una come questa. «Bene,» disse Cyrion, con una leggera ma molto seducente impazienza, «fareste meglio a cominciare, amici. Uno alla volta, raccontatemi dei vostri rapporti con la defunta, e del suo ultimo pomeriggio in vostra compagnia. Nell'ordine che piace a voi. Ogni volta che lo riterrò opportuno, vi farò delle domande.» Seguì un breve e moderatamente violento litigio. Infine Radri fu persuaso a dare inizio al dibattito. Radri, come dichiarò lui stesso, era un soldato, ed era stato sul campo di battaglia che aveva iniziato a prestare servizio presso il padre di Jolan. Successivamente il signore lo aveva impiegato come servitore presso la sua dimora. Radri veniva trattato più come un parente che come un servo e i figli del signore, Jolan, Sabara e la figlia maggiore Marival, avevano mantenuto questa consuetudine. In realtà Marival, della cui bellezza si parlava in tutta la città, mostrava nei confronti di Radri una particolare propensione. Anzi la ragazza, pur potendo ambire al fior fiore della ricca ari-
stocrazia di Teboras, la disdegnava, preferendo Radri. «Sono cani da salotto,» aveva detto una volta Marival, «buoni a nient'altro che a ricevere piatti pieni di panna. Vengono meno alla vista del sangue. Non sanno pensare ad altro che all'ultima conquista. Hanno la forza dei fiori calpestati. Tu invece,» aveva sussurrato a Radri, «sei forte come un leone. Tu sei un uomo.» «Tu sei un bugiardo!» gridò Jolan a questo punto. «Come sempre, Radri, tu insozzi il nome di mia sorella con questa lurida assurdità.» «Insozzare il suo nome? Ho giaciuto nel suo letto, e non solo in quello,» ruggì Radri. «Non era mai sazia di me. Lei rideva degli altri, come rideva di te. Andava tutto bene fin quando ero il tuo amico, signor Jolan, ma dal momento in cui mi avvicinai a lei — e quale uomo non l'avrebbe fatto? — allora la musica cambiò. Spesso mi sono domandato,» disse aspro Radri, «se eri più invidioso di me che avevo Marival, o di Marival che aveva me.» Jolan, giallo come i suoi capelli, strinse con il pugno uno stiletto ingemmato che portava alla cintola, poi ritrasse disperatamente la mano. «Che parli pure,» mormorò, «poi parlerò io.» Radri, con un'altra bestemmia, continuò. Radri raccontò che Jolan, a causa della perversa possessività di cui aveva appena dato dimostrazione, aveva avuto a un certo punto l'idea di rinchiudere in casa tutta la famiglia. Per poterlo fare si era inventato uno dei suoi pretesti da lunatico. Tutta la servitù aveva immediatamente abbandonato la dimora, non potendo più tollerare il carattere ossessivo di lord Jolan. Jolan aveva quindi barricato le porte e serrato i cancelli. Agli altri era sembrato meglio assecondarlo. Sabara si era appartata, come era sua abitudine; Naldinus si era rivolto ai suoi soliti studi religiosi e scientifici. Jolan continuava ad essere in balia dei suoi sbalzi d'umore. Per quel che riguardava Marival e Radri, l'una aveva l'altro, e insieme si intrattenevano in sensuali passatempi. Ma, alla fine, una delle ossessioni coltivate da Jolan cominciò a produrre neri frutti. Un giorno egli aveva fatto una scenata alla sorella maggiore volendo costringerla a sposare un nobile e pigolante rampollo di città. Marival, che era sotto la giurisdizione del fratello, essendo lui il signore della casa, si era scoraggiata. Quel pomeriggio, apatica e di cattivo umore, non aveva voluto intrattenersi con Radri, dicendo che doveva abituarsi a fare a meno del piacere del suo abbraccio, perché così voleva suo fratello. Ne era nato un litigio, la cui conclusione, tuttavia, era stata che Marival si era gettata nelle forti braccia di Radri implorandolo di portarla via dalla casa, diventata ormai una prigione. Radri, sebbene riluttante
a tradire la fiducia del suo primo padrone, alla fine fu d'accordo. Con calorose promesse gli amanti si erano separati, progettando di incontrarsi di nuovo nel cuore della notte. Radri avrebbe allora forzato i cancelli, e i due sarebbero volati via verso la loro nuova vita, rifuggendo le ricchezze e pieni solo del loro amore. Nel lasciare Marival, disse Radri, egli aveva avuto la brutta sensazione che il loro piano fosse stato ascoltato. Lungo il corridoio aveva incontrato Sabara che, come lei stessa aveva detto, si stava recando proprio in quel momento nell'appartamento della sorella. A Radri non era sembrato improbabile che Sabara fosse stata tutto il tempo ad origliare fuori dalla porta di Marival, e che poi, cercando di allontanarsi, ma rendendosi conto che lui l'avrebbe sorpresa, fosse tornata sui suoi passi facendo finta di arrivare solo in quel momento. Sabara aveva sempre nutrito odio nei confronti della sorella per il suo grande fascino e il suo potere sugli uomini, mentre lei era troppo pedante e difficile per attrarli. D'altro canto, ritenendo una fortuna il fatto che ad origliare fosse stata lei anziché Jolan, Radri aveva rimosso ogni timore, e aveva cominciato a organizzare la fuga. Ma quella sera, a cena, Marival tutto d'un tratto aveva cominciato a boccheggiare, stringendosi convulsamente prima la gola e poi i fianchi, ed era infine caduta priva di sensi dalla sedia. I sensi le si erano ridestati con una febbre tormentosa, e la febbre era precipitata in coma. La sua pelle scottava, poi diventava fredda come il ghiaccio, il polso un attimo le galoppava e un attimo dopo le batteva a fatica, lei gridava per il dolore e poi improvvisamente non gridava più. Naldinus l'aveva assistita, ma, nonostante la sua grande abilità, Marival a mezzanotte era morta. I sintomi dell'avvelenamento erano risultati subito chiari a tutti. Forse la sostanza fatale le era stata somministrata con la cena. Il pasto era stato servito da Radri, visto che nella casa non c'erano altri servitori, ma dalla morte della sua amata egli non avrebbe avuto niente da guadagnare, e tutto da perdere. Anche altri le avevano passato i piatti; Jolan, per dirne una, le aveva versato del vino nella coppa pochi istanti prima che lei si accasciasse. E ancora, Sabara nel pomeriggio era stata nel suo appartamento. Con la dimestichezza che tutta la famiglia aveva con la magia, c'erano anche altri metodi per ucciderla. Un anello o un guanto avvelenati, una fiala di profumo con dentro la morte. Poteva essere stata Sabara, sopraffatta dall'odio verso Marival. Forse anche lei aveva delle intenzioni su Radri... Il racconto di Radri fu spezzato da una risata bassa ma tagliente come un rasoio, che era chiaramente di puro divertimento. Sabara, con un'espres-
sione di sprezzante e fredda ilarità, volse a Radri le spalle. «O forse,» gridò Radri, «la cagna corse dal fratello, e lord Jolan, maledetta la sua viscida e indegna pellaccia, tramò la sua vendetta su di noi.» «Grazie,» disse Cyrion con estrema cortesia. «Chi vuole raccontare la sua storia adesso?» La leggera enfasi sulla parola 'storia' non fece alcun effetto sulla compagnia. Fu Jolan ad accettare l'invito. Tanto per cominciare, disse Jolan camminando nervosamente su e giù per il sepolcro, non era vero che Radri fosse mai stato per loro qualcosa di più che un servo. (Radri imprecò furiosamente e con melodrammatica alterigia.) Senza dubbio, Jolan gli aveva occasionalmente dimostrato una certa amichevolezza, ma soltanto perché non era da lui fare l'arrogante con i suoi dipendenti (Radri fece un verso di aspra derisione). Che Radri bramasse Marival Jolan lo aveva capito, ma aveva sempre cercato di ignorare la cosa per delicatezza nei confronti di entrambi. Jolan aveva fiducia che il servo avrebbe soffocato i suoi sconvenienti appetiti. Marival, abituata come era ad essere amata e ammirata da tutti gli uomini che la vedevano, non ci avrebbe neppure fatto caso. Ma poi Jolan si era accorto che Radri, invece di soffrire in dignitoso silenzio, aveva preso a importunare Marival con le sue attenzioni. Resosi conto delle volgari intenzioni ormai manifeste dell'uomo, Jolan si era allarmato. In quel periodo si stava combinando un matrimonio tra Marival e uno dei più ricchi e nobili uomini della città, e lei stessa era ansiosa di sposarsi. Una mattina Jolan aveva sorpreso Radri nell'atto di compiere quello che appariva chiaramente come un tentativo di violentare la ragazza. Marival, che ovviamente era piena di vergogna e profondamente angosciata, poteva dire ben poco. Jolan avrebbe voluto scacciare immediatamente l'uomo, ma le sue mortificate scuse e il suo piegarsi letteralmente sulle ginocchia in atto di pentimento, e infine il ricordo di tutti quegli anni di eccellente servizio avevano indotto Jolan a ritardare la sua decisione. (Radri fece un rumore che sicuramente non era dovuto a lacrime di gratitudine.) «Poi,» disse forte Jolan, con quella voce roca e graffiante, «il destino mi prese la mano. Nel più povero quartiere di Teboras era scoppiata un'epidemia. Si trattava di una malattia mortale. Questo genere di cose può diffondersi assai rapidamente, e tutti coloro che se lo possono permettere preferiscono allontanarsi dalla città. Ma chi lascia la propria casa la abbandona alla misericordia degli sciacalli. Perciò decisi di mandare tutta la servitù in una delle proprietà di mio padre, distante poche miglia dalla città.
Questa casa è autosufficiente, avendo all'interno il proprio pozzo, ed io la rifornii in fretta di carne e pane. Come molti altri che potevano farlo, intendevo barricare tutta la famiglia in casa, evitando ogni contatto con l'esterno finché l'epidemia non si fosse del tutto estinta. Quando Radri si rifiutò di partire con il resto della servitù, che cosa avrei dovuto fare? Purtroppo mi lasciai accecare dal sentimento, e gli permisi di restare con noi. Forse credevo ingenuamente che la fedeltà al nostro nome e alla nostra casa avrebbe avuto la meglio sulla sua squallida bassezza.» «Lo credevi?» tuonò Radri. Fece un balzo in avanti, il viso paonazzo e i muscoli che si gonfiavano come se autonomamente vivi e intenzionati a fare del male. «E pensavi pure che noi avremmo creduto alla tua infantile menzogna? Un'epidemia! Quale epidemia? Non ne ho mai visto traccia. Era solo una bugia per murarci tutti e metterci ai tuoi ordini, per opprimerci. Ma anche in quel modo eri sempre troppo debole per tenerci in pugno. Le tue sorelle dovevano assecondarti, ed io — io ero rimasto per proteggere Marival, anche se non ci sono riuscito.» A quel punto aveva preso Jolan per il collo e aveva cominciato a stringerglielo sotto il collare d'oro. Jolan a sua volta aveva impugnato lo stiletto. Sabara aveva distolto il volto impassibile. Cyrion stava seduto immobile a guardare. Fu il sacerdote-scienziato, Naldinus, che, avvicinatosi, pose le fiacche zampe sulle spalle dei due uomini. «No, no,» sussurrò mellifluo, «non ora. Non dovete litigare ora. Questo gentiluomo è qui per giudicare. Come può farlo se voi passate il tempo azzuffandovi?» Jolan e Radri si staccarono. Radri si gettò scontento su un divano e cominciò a sfregarsi il petto con fare scimmiesco. Jolan, senza più agitarsi, chinò la testa e riprese la sua versione degli eventi. Trovandosi rinchiusi tutti insieme, con poche distrazioni e senza poter uscire, i protagonisti del dramma portarono presto la situazione alla crisi decisiva. Marival aveva riversato tutto il suo disprezzo e il suo disgusto su Radri in uno scambio di parole che Sabara aveva udito chiaramente attraverso il giardino fino alle sue stanze. In seguito a ciò, Marival era andata da Jolan e gli aveva confessato di temere qualche vendetta dal servo depravato. Jolan decise che Radri doveva essere mandato fuori dalla casa a qualunque costo, e stabilì di dirglielo non appena fosse finita la cena. Poi, durante la cena, Marival si era sentita male. A mezzanotte era morta, e Jolan non si era mai perdonato di non aver agito prima. Era stato colto di sorpresa, immaginando che Radri avrebbe preferito la violenza fisica al più
sottile metodo del veleno. Ma nella cella di Naldinus erano conservate molte erbe e medicine, tra cui certe letali, e probabilmente il servo ne aveva scaltramente trafugata qualcuna. Sarebbe stato anche troppo facile per lui procurarsi qualche granello mortale, e lasciarlo cadere nella coppa di vino di Marival mentre la serviva. Piuttosto che lasciarle godere un matrimonio felice con un uomo del suo stesso rango, il disgraziato l'aveva uccisa nella maniera più lenta e dolorosa che potesse escogitare. Jolan ricominciò a piangere. Si gettò all'altro capo del divano occupato dall'imbronciato Radri, e affondò la testa e le braccia nei cuscini. «Credo,» disse Sabara, girando intorno al divano per porsi di fronte a Cyrion, «che tu ti stia facendo un'immagine estremamente romantica e tenera della mia bella e defunta sorella. Sono sicura che ti sei già un po' innamorato di lei, malgrado il fatto che Marival sia solo un cadavere. Prima di andare avanti, avrei l'impietoso ma cocente desiderio di correggere la tua impressione» Sabara per un lungo e spietato istante si guardò dietro le spalle, verso la donna imbalsamata che giaceva sul letto. I suoi occhi indugiarono sulle nitide curve animalesche, sulle onde scure della chioma, sul volto squisito che pareva solo attendere di essere destato dal bacio di un amante. «Lei,» disse Sabara, «era un demonio. Tu credi nei demoni, signore? Esistono. Se fosse viva te lo dimostrerebbe. E lo farebbe proprio per te, mio signore.» Gli occhi di Sabara, coperti dalle nere ombrose ciglia, tornarono cinici a guardare in quelli di Cyrion. «Il tuo aspetto sarebbe stato una provocazione per lei, capisci. A mia sorella, voglio essere giusta verso di lei, interessava ottenere l'approvazione di ogni uomo che incontrasse. Qualunque ne fossero professione, mestiere o nascita; qualunque fosse il suo aspetto, Marival doveva averlo ai suoi piedi. E poi, nel suo letto.» Alle sue spalle, Radri ringhiava; i singhiozzi di Jolan si erano fatti momentaneamente più convulsi, ma Sabara non ci fece neanche caso. «Non devi credere,» continuò Sabara, «che mi dispiacesse la sua immoralità. Era una sgualdrina, senza neanche l'onestà della sgualdrina, ma non la condanno per questo.» «No,» la schernì Radri, «tu la condanni per la sua bellezza, brutta lucertola rinsecchita.» «Oh, no. Quella era la cosa per cui io la odiavo, la sua bellezza. Perché nessun uomo di quelli che entravano in questa casa mi avrebbe mai guardata, se avesse potuto guardare sempre lei; perché da quando avevo tredici anni sono sempre stata ingannata da quei pochi uomini da cui desideravo essere corteggiata. Sì, questo è ciò per cui la odio. Ma non è quello per cui
la condanno.» Sabara condannava Marival, come disse lei stessa, per la rovina a cui la ragazza aveva condotto la loro famiglia. Per gli stallieri, i giardinieri, i cuochi che lei sistematicamente seduceva e poi metteva da parte, e che di conseguenza si azzuffavano tra loro. Sabara condannava Marival per l'assurda indulgenza che lei aveva sempre ottenuto anche dal padre, e più tardi dal fratello Jolan. Perché finanche Jolan era stato ridotto a una specie di innamorato, disperato e frenetico come tutti gli altri. «Non so,» disse Sabara con freddezza, «se Jolan abbia mai giaciuto con lei, ma la cosa non mi sorprenderebbe. Mi avrebbe scioccato soltanto se lei fosse stata diversa da quello che era. Ma poi, mettere Radri e Jolan l'uno contro l'altro...» Radri era stato il favorito di Marival, probabilmente per la semplice ragione che era un maleducato e rozzo bruto. Di tutta la legione di uomini con cui Marival aveva praticato i suoi giochi, lui era stato il solo a trattarla rudemente, e la novità doveva esserle piaciuta. Ma alla fine, anche la rozzezza di Radri l'aveva stancata. Così Marival aveva lasciato venire alla luce il segreto che in tutto quel tempo solo Jolan, accecato dall'adorazione, non era stato capace di vedere. Essa aveva fatto in modo che Jolan li sorprendesse, lei e Radri, in mezzo ai cespugli vicino al muro. Poi aveva fatto in modo che Radri la sentisse parlare male di lui con Jolan e aveva gridato a gran voce che sarebbe andata in moglie a un ricco nobiluomo; aveva detto a Radri che Jolan le avrebbe organizzato questo matrimonio, che non sarebbe mai stata di un porco come Radri, la cui bravura a letto la faceva solo vomitare; mentre a Jolan aveva detto che era una femminuccia, e che al suo funerale avrebbe ballato nelle braccia di Radri. Una volta, a loro modo, Radri e Jolan erano stati amici. Lei aveva posto fine a questa amicizia. Marival li aveva portati al punto che in qualsiasi momento l'uno avrebbe potuto uccidere l'altro, o uccidere lei, o entrambe le cose. Sarebbe stata soltanto una questione di tempo. E Marival godeva di tutto questo. «Ho paura,» disse Sabara, «di essere stata la sola testimone in questa casa. Sono sempre stata ignorata, ma ho visto ogni cosa. Chi l'ha uccisa non è capace di ammetterlo, temendo l'ulteriore disprezzo degli altri. Ma in effetti, per me è stato un favore. Lei era un demonio. Fu per i suoi intrighi che molti si uccisero, o uccisero i loro rivali, o distrussero le loro vite al punto da diventare dei morti viventi. L'ho visto accadere tante volte. E avrebbe fatto ancora dell'altro male. La sua arroganza e la sua cattiveria andavano perfezionandosi. No, chiunque l'abbia uccisa non deve vergognar-
sene. Lei quel veleno lo meritava. Era necessario, inevitabile, che Marival fosse eliminata.» Ci fu una pausa. Sabara abbassò gli occhi. Cyrion le domandò calmo: «È vero che sei stata ad origliare la discussione tra Radri e tua sorella?» «Non ce n'era bisogno. Ho udito chiaramente il subbuglio dall'altra parte del giardino. Altrimenti come avrei saputo le cose che aveva detto del modo in cui l'amava Radri? E più tardi udii un simile alterco tra lei e nostro fratello. Aveva dei polmoni forti mia sorella, per ingaggiare due battaglie simili nello stesso giorno. Anche se quel giorno ricordo come fosse particolarmente irritabile. Trovava da ridire su ogni cosa, sul clima che era troppo caldo, sebbene fosse abbastanza mite; sul vino che era aspro. Moriva dalla voglia di vedere Jolan e Radri con le spade sguainate l'uno contro l'altro. Usava ogni mezzo per farli esplodere.» «Ed è vero,» domandò ancora Cyrion in maniera confidenziale, «che ti sei recata nella camera di tua sorella subito dopo la visita di Radri?» Gli occhi di Sabara si sollevarono, protetti come da scudi di ferro. Rimase del tutto impassibile e disse: «È vero. Ero andata per pregarla di allentare la tensione che regnava nella casa. Solo lei poteva farlo. Ma non voleva.» «E fu allora che disse che il vino era aspro?» Gli occhi e la bocca di Sabara si irrigidirono. «Lei disse così.» «Forse,» disse Cyrion con indolenza, «qualcosa era finito nella sua coppa.» Sabara indietreggiò. Un pulsare nella gola fece scintillare brevemente la collana d'oro che portava al collo. «È me che stai accusando?» Cyrion le fece un sorriso accattivante. «E come potrei? Ce n'è ancora un altro da ascoltare.» Naldinus, il sacerdote, sembrava essersi fuso con l'ombra che circondava il letto, quasi svanito come aveva fatto la magica porta. Ora, con un lieve fremito, si scrollò di dosso l'oscurità e avanzò di uno o due passi scivolando come su binari oleati. «Signore, ho un grande desiderio di parlare. Ma è del tutto improbabile che mi si attribuiscano delle responsabilità. Sono sicuro che ti renderai conto di come io non avessi niente da guadagnare assassinando lady Marival. Sono qui nella sola veste di guida religiosa della casa. E di suo medi-
co. Ho assistito tutti loro, chi una volta chi l'altra.» «Appunto,» disse Cyrion. «Dimmi della tua dimestichezza con le erbe medicinali.» Naldinus fece un gesto di modestia. La sua piccola bocca rossa succhiò l'aria, simile a uno di quei fiori che si chiudono improvvisamente sulle mosche per divorarle. «In un certo senso sono uno sperimentatore e un innovatore. Passo gran parte del mio tempo a esaminare antiche scritture. Ti stupiresti delle conoscenze che si possono acquisire in questo campo di ricerche se solo si guarda al passato piuttosto che al futuro.» «Non necessariamente,» disse Cyrion. «L'imbalsamazione della ragazza, per esempio, è veramente notevole. Hai compiuto l'intero procedimento da solo?» «Ebbene sì. Temo che il profano l'avrebbe trovato alquanto spiacevole.» «Tu invece sei un maestro.» «Ho già fatto delle esperienze di questo tipo. Oh, non su corpi umani, mi capisci. Ma su animali, sperimentalmente.» Cyrion sembrava ipnotizzato. «Come ogni vero scienziato, tu sai porti al di sopra di una misera questione come quella della sofferenza, peraltro discutibile, subita dal soggetto dei tuoi esperimenti. Quanti uomini eccellenti si sono fatti sbarrare la strada da tali stupide considerazioni. E il risultato? Niente.» «È vero,» Naldinus sorrise, stirando la boccuccia fino al suo massimo. Il malinconico volto si illuminò. «Naturalmente, nessuno desidera che gli animali soffrano ingiustamente, ma quando è necessario che io sia risoluto, so esserlo.» «Gli animali, dopo tutto,» aggiunse Cyrion, «sono stati posti sulla terra per stare al servizio degli uomini. Il fatto poi che siano ornamentali è puramente accidentale.» Naldinus sorrideva consenziente. Aveva trovato un'anima affine. Ad ogni istante la sua minuscola bocca si sarebbe potuta spaccare. «Ma dimmi,» continuò Cyrion, e il sacerdote si piegò con soggezione verso di lui, «non fosti mai tentato dall'estremo potenziale erotico di lady Marival?» Naldinus restò pietrificato, congelato. «Signore, sono un religioso. Sono celibe.» «D'accordo. Ma se, come è stato supposto, Marival esigeva un tributo da qualsiasi rappresentante del genere maschile, allora, per quanto possa sembrare stupefacente, neanche tu dovresti essere sfuggito alle sue attenzioni.»
Naldinus disse, con orgoglio e freddezza: «Bene, lo ammetto. Provò a sedurre anche me. Ma per un uomo il cui intelletto era più forte dei suoi appetiti, respingerla fu cosa da poco.» «Proprio così. Molto più piacevole sezionare un topo vivo che giocare a fare l'orso con il vaso di miele di una donna.» Naldinus ammiccò. «E tuttavia,» disse Cyrion, «lei cercò di abbordarti, non è vero? Non la trovavi bella?» Le piccole labbra, ritratte per un attimo, scomparvero, riapparendo umide e avide. «Era... ben fatta. Ma ti ho già spiegato. Sono celibe e ho la mia disciplina.» «Ma non riuscì mai,» si meravigliò Cyrion, «ad abbattere le tue difese?» «Oh, si rivolgeva a me nel mio ruolo di dottore — io mi occupo di tutta la famiglia, anche della servitù — e mi diceva che la testa le faceva male, o che il cuore le batteva troppo in fretta. Quando, dopo le prime visite, capii le sue intenzioni, fui più diffidente. Sebbene lei continuasse a farmi i suoi approcci.» «Ammirevole. Quando fu che Marival fece il suo ultimo folle tentativo di abbattere la tua virtù?» «Il giorno prima della sua morte. Eravamo alle solite. Aveva messo la mia mano sul suo petto prima ancora che potessi accorgermene.» Naldinus respirava affannosamente. «Mi fu facile respingerla.» «Malgrado le tue cure, lei morì avvelenata. Ti ha dato fastidio questo?» «No. Feci del mio meglio per lei, ma il... danno era a uno stadio troppo avanzato. Non avevo più alcun potere.» «Povero me,» disse Cyrion. Si alzò e si stirò come un gatto. I quattro nella tomba, e forse anche la quinta, la defunta, aspettavano il suo responso in un nuovo immenso e muto silenzio. «Ho solo una domanda,» disse Cyrion. «che vi riguarda tutti.» Jolan, che si era messo a sedere, con la testa appoggiata sui pugni, disse fiaccamente: «Faresti meglio a farcela, allora.» «Abbiamo stabilito,» disse Cyrion, «che io non sono il primo passante che avete forzatamente eletto a vostro giudice. Quello che vorrei sapere è il numero dei miei predecessori.» Radri sbottò: «Non ci seccare con questo. Ti basti sapere che hanno sbagliato il responso. E perciò hanno pagato.» «Se vi assicuro,» disse allora Cyrion con enorme pazienza, «che la risposta alla mia domanda sarà di estrema importanza per il mio giudizio,
me la vorrete dare questa risposta?» Jolan si alzò. Guardò Cyrion con odio, come un pazzo, e con aria di sfida disse roco: «Vuoi proprio il numero esatto? Ce ne sono stati... più di quaranta.» Cyrion annuì. «Questo mi basta.» Si rimise a sedere. Poi disse: «Ed ora sono pronto a rivelarvi l'identità dell'assassino.» «Per cominciare, la mia opinione su Marival è che lei fosse veramente come l'ha descritta Sabara, e forse anche peggio. Ma una donna che, malgrado tanta bellezza, avesse così poca fiducia in sé da essere costretta a tormentare e distruggere le vite di quanti la circondavano per dimostrare la propria abilità, era una donna più da compatire che da odiare. D'altro canto, se c'è qualcuno che ha inflitto a voi questo castigo, questa angosciosa e interminabile ricerca della verità, quel qualcuno è lei. Che ora lei sia libera mentre voi vivete nel tormento è stato il suo ultimo scherzo, un'ultima dimostrazione del suo potere su di voi. Siete ancora suoi schiavi. E lei ha fatto in modo che ciascuno di voi avesse sulla coscienza il peso di altre morti oltre la sua, quelle degli sfortunati giudici che voi uccideste tutte le volte che essi non riuscirono a risolvere il mistero, quelle morti che vi liberavano dal peso della colpa e dell'indecisione. Come si dice tra i nomadi, per cercare il mattone rotto voi avete buttato giù il muro. «Ma ora vi racconto quello che è successo veramente nel pomeriggio e nella notte in cui Marival morì. «Nel pomeriggio, Radri era entrato con la forza nella camera di Marival. Lei era inquieta e non aveva voglia di unirsi a lui nelle loro solite evoluzioni, perciò tra i due era nata una discussione. Durante questo litigio la donna aveva informato il servo che non voleva più saperne di lui, poiché stava per fare uno splendido matrimonio con uno del suo stesso rango. Radri, che in verità già da tempo aveva subodorato un probabile brusco licenziamento da parte di Marival, avrebbe voluto spezzarle il collo. Lasciando da parte le seducenti fattezze di Marival, Radri aveva sempre cercato di insinuarsi come un verme nelle grazie della famiglia, sperando alla fine di essere non solo trattato come un figlio, ma di diventare veramente tale. Marival sembrava desiderarlo quanto lui, e una volta Radri, per far risaltare la patina di genuinità dei suoi sentimenti, le aveva sottoposto un progetto di fuga per potersi sposare. Radri aveva sempre sperato che Marival rimanesse incinta. Credeva, forse troppo ingenuamente, che Jolan non l'avrebbe ripudiata, ma che anzi avrebbe fornito entrambi di una generosa do-
te. Ora che Marival voleva abbandonarlo, Radri aveva provato la delusione, non meno cocente, di essere temuto. Ma non le spezzò il collo, che in ogni caso sarebbe stato un atto alquanto ovvio da parte sua. Radri è vanitoso. Si era convinto che Sabara segretamente lo bramasse, e che gli sarebbe bastato solo mostrarle il suo fascino per averla in pugno. E tuttavia questo sarebbe valso a poco, se ad attenderlo ci fosse stata solo la misera parte di eredità di Sabara. Invece, se Marival fosse morta, Sabara avrebbe avuto anche la parte della sorella, come di regola. Chiaramente, la sua morte doveva sembrare naturale, ma l'avvelenamento del sangue non è una cosa rara. Radri aveva già macchinato tutto, e di sicuro aveva con sé il rimedio già da tempo. Se l'era procurato nel modo in cui chiunque in casa sarebbe stato capace di ottenerlo, recandosi cioè dal sacerdote col pretesto di un'indisposizione. Frugare tra le erbe sarebbe stato stupido perché avrebbe tradito la sua colpevolezza, mentre non c'era niente di più semplice che assorbire inavvertitamente con un pezzo di stoffa qualche goccia di quei liquami tossici della putrefazione di cui era impregnato il banco da dissezione di Naldinus, mentre lui era intento a preparare la pozione che avrebbe dovuto curare il fasullo malore. Molti sanno dei veleni contenuti nelle carni dei cadaveri, specialmente coloro che si sono trovati in un campo di battaglia in qualità di combattenti, e tale era Radri. Egli avrebbe potuto versare il ripugnante veleno nel cibo o nel vino di Marival durante la cena, oppure, cosa più probabile, glielo avrebbe potuto strofinare sulla pelle. Anche il più piccolo graffio sarebbe stato sufficiente a far penetrare una morte pressoché sicura.» Radri si sollevò lentamente dal divano. Aveva gli occhi sporgenti e il viso contratto. «Dici che sono io, allora?» «Dico,» rispose Cyrion, «che tu hai usato del veleno contro Marival. Siedi ora, e fammi continuare.» Con lo sguardo fisso e la bocca spalancata per lo stupore, Radri crollò di nuovo sul divano. Cyrion proseguì. «Sabara aveva udito la lite dai suoi appartamenti, e il suo furore contro la sorella era giunto al culmine. La sua disperazione era dovuta principalmente al timore di non riuscire a proteggere Jolan, di cui Sabara era innamorata, come nessuno di voi, compresa lei, aveva mai capito. Senza dubbio la confessata invidia nei confronti di Marival (un'invidia ingiustificata, dato che Sabara avrebbe molte più risorse e fascino della sua pa-
tetica sorella, se solo se ne rendesse conto) dovette giocare un ruolo determinante in quello che lei si decise a fare. Entrando nella camera di Marival, Sabara aveva cominciato a ragionare con lei. Bevevano del vino insieme. Marival si era lamentata del caldo. Poi aveva deriso Sabara che la supplicava di far tornare la pace in casa. In realtà, a quel punto era ormai improbabile che si riuscisse a metter pace tra tutti voi, e forse Sabara lo sapeva e la sua discussione con Marival non era altro che un pretesto per poter fare quello che aveva deciso. «Probabilmente,» disse Cyrion in maniera gentile, «uno dei tanti anelli di lady Sabara era stato da lei precedentemente riempito di un veleno, che aveva rubato a Naldinus o che si era procurata grazie alla sua dimestichezza con droghe e magia. Qualunque fosse il contenuto dell'anello, lei fece in modo di versarlo nella coppa di Marival. Doveva trattarsi di qualche polvere dall'azione lenta, che induceva al sonno e durante il sonno uccideva. Non credo che Sabara, con la sua mente asettica, si sarebbe abbassata ad infliggerle una fine devastante o agonizzante. Per Sabara si trattava di una giusta esecuzione. Lei era il boia, non il carnefice.» La fermezza aveva completamente abbandonato Sabara. Crollò su una sedia, nascondendosi gli occhi, e sussurrò, «Tu stai accusando me. Stai accusando me.» «Sto constatando dei fatti,» disse Cyrion. «Radri ha avvelenato Marival. Lo stesso hai fatto tu. E ancora non ho finito.» «Jolan a un certo momento nel pomeriggio aveva incontrato Marival. Lui soffriva di quel nuovo aspetto che aveva conosciuto in Marival, della sua lascivia, della sua rapace aspirazione a sposare qualche ricco nobiluomo. Jolan amava Marival, e incestuosi desideri lo tormentavano, tanto più dal momento che essi non erano mai stati gratificati, al contrario di quelli di tanti altri uomini. Durante l'incontro Jolan si era rifiutato di combinare alla sorella questo matrimonio. Il motivo del suo rifiuto, come lui probabilmente aveva dichiarato, era che la sua perduta illibatezza, che sarebbe stata scoperta durante la prima notte di nozze, avrebbe umiliato e disonorato la casa. Allora Marival, che aveva un temperamento incontrollabile, con i suoi insulti aveva inferto a Jolan una ferita che non si sarebbe mai più richiusa. In quei pochi attimi, la venerazione si era tramutata in odio. Jolan era abbastanza esperto da poter escogitare qualche incantesimo maligno per distruggerla, perciò non ebbe bisogno di ricorrere al veleno da versare durante la cena. Infatti, all'ora di cena, l'incantesimo era già stato formulato, non è così, Lord Jolan?»
«Sì,» disse Jolan. Senza più lacrime, fissava il pavimento. «È proprio come hai detto. Direi che hai indovinato con tutti. Tre luridi assassini. Sembra quasi un volgare e orrendo scherzo.» «E diventa sempre meglio,» disse Cyrion. «Durante la cena, Marival restò improvvisamente senza fiatò e, stringendosi gola e fianchi, si accasciò a terra priva di sensi. Ognuno di voi tre, nascondendo agli altri la propria scellerata gioia e il proprio orrore, accompagnò Marival al suo letto. Lì, man mano che il suo stato peggiorava, ognuno di voi, credendosi l'unico colpevole, tremava e palpitava in attesa della fine. Ma la fine non giunse così in fretta, e dopo un po' voi ve ne andaste ad alimentare i vostri terrori e la vostra rettitudine. Marival fu lasciata alle cure di Naldinus.» Cyrion alzò lo sguardo verso il prete, i cui begli occhi infossati trasalirono e si nascosero sotto le palpebre. «Naldinus,» disse Cyrion, «il prete-studioso-mago-scienziato-sperimentatore. Il casto Naldinus. L'incorruttibile Naldinus, il cui credo non gli permette di giacere con la carne viva di una donna. «Naldinus,» continuò Cyrion, «sapeva quali umori aleggiavano nella casa. Non gli mancavano certo le conoscenze per capire cosa aveva fatto stare male Marival, e si presume anche — non essere modesto, amico — che lui sapesse di essere in grado di salvarla. Ma, rimasto da solo nella stanza da letto con questa donna mezza morta, Naldinus cominciò ad essere perseguitato da due idee ossessive. La prima la mise subito in pratica, somministrando la pozione con uno di quei metodi subdoli praticati dai medici. Non si trattava, mi capite, di una pozione curativa. Era invece qualcosa che avrebbe suggellato il danno fino allora prodotto, qualcosa che garantiva in maniera assoluta che Marival non avrebbe mai più riaperto gli occhi su questo mondo. Ed era anche una prima fase importante del processo di imbalsamazione. Il migliore esperimento di Naldinus. Poi, quando non ci fu più alcun dubbio che Marival fosse morta, Naldinus, amici miei, diede libero sfogo all'altra idea che lo ossessionava. Fece con Marival quello che aveva sempre desiderato, ma che il suo ufficio, finché lei era viva, non gli permetteva di fare.» A questo punto Radri e Jolan si erano alzati con spasmodiche grida. Sabara era sprofondata nella sua poltrona, immobile. Naldinus era indietreggiato lentamente finché le sue spalle non si erano fermate "contro la parete del sepolcro. «Ti sgozzo,» gli disse Radri con una voce che l'ira aveva tramutato in un pauroso sibilare, «ti riempio quella boccaccia fradicia con le tue stesse vi-
scere...» «Credo,» disse Cyrion, con una dolcezza che in qualche modo li calmò, «che voi non vi rendiate conto dell'inutilità di un simile atto. Vorrei ricordarvi, signori e signora, che ciascuno di voi ha commesso un crimine nefando contro la donna che giace su quel letto. Nessuno dunque ha alcun diritto di prendere le armi contro un altro. Né avete ancora avuto il vostro presagio liberatorio, quel presagio che vi è stato promesso, posso solo concludere, dal tormentato fantasma di Marival.» Radri si volse a Cyrion pieno di rabbia e delusione. «Questo il presagio — nessun presagio. Infatti, le tue devono essere tutte un mare di fandonie, che ti sei inventato per sviare da te la nostra ira. Io non ho ammesso la colpa di cui tu mi accusi. Neanche il prete ha ammesso la sua, e neanche Sabara. Se Jolan lo ha fatto, be', lui è pazzo. Come hai potuto inventarti un così lurido mucchio di fandonie! Tutti e quattro avremmo avvelenato Marival! Come saresti arrivato a questa conclusione?» «Perché siete tutti ugualmente sospettabili e avevate tutti un movente per farlo,» disse con leggerezza Cyrion. «E anche perché, per vostra stessa ammissione, vi sono serviti più di quaranta giudici per scoprire la verità (nonostante io pensi che il numero sia ancora più alto). Anche ammettendo che siano stati solo quaranta, per la legge del caso almeno uno avrebbe dovuto indovinare l'identità dell'assassino. Il che mi induce a pensare che, uno alla volta, siate stati accusati tutti. Ma, poiché il segno ammonitore non è mai apparso, sono giunto alla conclusione che in questa morte abbiate avuto ognuno la sua parte.» «Ma dato che il presagio non si è ancora visto,» gracchiò improvvisamente Jolan, «devi avere sbagliato anche tu. Ognuno di noi è colpevole di aver tentato, ma chi è il vero responsabile della morte di mia sorella?» «Ognuno di voi nelle intenzioni,» disse Cyrion. «Ma nessuno nei fatti.» Si levò uno scalpore. Anche Sabara si alzò per guardare meglio Cyrion. Anche il prete riemerse strisciando di mezzo passo. «Deve essere stato il desiderio di essere protagonisti,» disse Cyrion, «a causare la vostra rovina. Per troppi anni avete sofferto della continua e mai soddisfatta malizia di Marival. Il suo fantasma si è nutrito delle vostre colpe portandovi all'eccesso, e tutto questo perché nel vostro mondo non vedevate nient'altro capace di uccidere all'infuori di voi. Ma quel giorno c'era un altro assassino in casa. Sarei portato a credere che tra di voi lo sappia anche Naldinus, e che forse l'abbia capito quella stessa notte, anche se,
qualora fosse così, quello che ha fatto dopo è stato assurdamente sconsiderato. Qui mi astengo da ogni accusa. Tuttavia, se avesse esaminato Marival il giorno prima della sua morte, come lei desiderava, avrebbe avuto qualche indizio. No, prete, quella volta non stava attentando alla tua virtù. C'era del vero nel suo mal di testa, nel cuore che le batteva forte nel petto. E il giorno dopo, nella sua irritabilità, nel suo lamentarsi del caldo... Poveri bimbi miei, ognuno di voi l'ha avvelenata, ma lei stava già morendo. Marival aveva la peste. Fu la peste a stroncarla quella sera a cena. E sarebbe stata la peste che, lasciata al suo corso, l'avrebbe finita.» «Ma se io avevo chiuso la casa!» gridò Man, con un'indignazione del tutto inopportuna e ridicola. «E prima di chiuderla l'avevi riempita di provviste. Chissà, un fornaio, un macellaio, un vinaio contagiato, o anche un venditore di lampade a olio...» «O Dei!» urlò Jolan, con la voce soffocata da qualcosa di grande e terribile. «O Dei! Dei!» E subito il prete strillando corse a grandi balzi fino alla sedia di Sabara. Perché la bellissima donna imbalsamata si stava disfacendo, tramutandosi in neve, poi in cenere e infine in sottile polline bianco che si sciolse e svanì. Nel giro di pochi secondi, di quel corpo luminoso non era rimasto più nulla salvo che una debole impronta sulle lenzuola ricamate. «Il presagio?» domandò Cyrion. «O un'imbalsamazione mal riuscita?» L'alba stava nascendo, e l'ombra amorevole della chioma di Sabara guardava Cyrion che se ne andava. Il commiato dall'eccentrica famiglia era stato rapido quanto lunga era stata la formulazione del giudizio, ma questo non l'aveva sorpreso. Riguardo al compenso promessogli, gli era stata data una chiave. Sul versante settentrionale del tempio remusano avrebbe trovato uno scrigno... Un altro al suo posto avrebbe pensato a un inganno, ma Cyrion sapeva bene che non era così. Marival aveva lanciato su di loro una maledizione i cui effetti, nonostante i magici travestimenti, erano più palesi di quanto essi stessi non immaginassero. Sulla scia della sua imbalsamazione, l'inquietudine, poi il sospetto, le accuse... e, inevitabile, la nemesi. Marival li aveva portati al limite e anche oltre, e così aveva lanciato su di loro l'ultima e più grande maledizione, per cui soltanto colui che avesse visto la verità dietro l'inganno sarebbe riuscito a liberarli. Un attimo prima che la magica porta riapparisse per farlo uscire, Cyrion aveva dato un ultimo sguardo a tutta la famiglia, e aveva visto Naldinus
raggomitolato sul pavimento, e Radri e Jolan che si sorreggevano l'un l'altro per confortarsi... non avrebbero avuto molto tempo per quel ritrovato cameratismo, solo fino al sorgere del sole. Ma tutti, persino il prete, gli erano apparsi risollevati, e lieti, per quanto potevano, che fosse finita. La voce di Jolan suonava così roca da sotto il suo collare d'oro perché Jolan era stato strangolato, naturalmente da Radri. Radri si era strofinato il petto: era forse il ricordo di una stilettata dalla mano morente di Jolan? Sabara invece aveva una voce piena e bella, per cui molto probabilmente lei si era tagliata le vene, e nascondeva i segni con i bracciali d'oro. Doveva averlo fatto in una vasca piena di acqua calda, che era il modo in cui si suicidavano le donne di Remusa. Perché loro erano tutti remusani: nonostante avessero nomi falsi e si celassero sotto false apparenze — che spiegavano la semplicità del loro abbigliamento e dell'arredamento della casa, secondo il gusto attuale — e nonostante avessero la straordinaria capacità, pur essendo morti, di parlare la lingua attuale della regione che erano ancora costretti a visitare una volta l'anno, nella notte della morte di Marival. Marival, più morta di loro, eppure libera come loro non erano. Il sole, appena nato, si levò bruscamente oltre le colonne del foro sulle sue giovani ali. Cyrion si voltò, e la casa era scomparsa, come pure il giardino e il sepolcro di marmo. Era quello che si aspettava. Naldinus, dopo aver visto morire tutti gli altri, era morto anche lui di peste, per qualche germe rimasto ancora nell'aria. C'era stata una certa giustizia in questo. E dovunque essi fossero ora, di sicuro non erano più nel loro inferno terreno. Incapaci di confessare, imploravano tuttavia di avere la pace, e lo facevano con lacrime, grida e crimini demoniaci. Solo Sabara aveva assistito alla partenza di Cyrion. Sabara... soltanto il suo nome era rimasto lo stesso, l'antico nome remusano. E c'era una sfumatura nei suoi occhi, al di là delle parole. Ma allora non erano rimasti che pochi minuti prima del sorgere del sole, e ormai anche quei minuti erano passati. Lo spoglio terreno che si estendeva dalla strada fino agli scalini del tempio remusano presentava una particolare irregolarità sulla superficie. Sembrava l'antica traccia di un confine ben delineato, come del muro di una casa. Era lì che erano state trovate le ossa, le ossa di una quarantina di uomini — ma erano molti, molti di più — che avevano deluso quattro folli spettri tormentati dalla propria colpa. Sul lato a nord del tempio cresceva un verde alberello. La terra tutt'intorno alle radici appariva spettacolarmente devastata, come da un terremo-
to che avesse stranamente infierito solo su quel punto. In mezzo alla terra giaceva un grosso scrigno in ferro dorato, in parte consumato dalla ruggine. La chiave entrava nella serratura ma girando la ruppe, e tuttavia lo scrigno si aprì. Cyrion sollevò il coperchio. Dentro, due collari d'oro, di cui uno aveva un pendente con il ritratto di una donna dai capelli neri, tutto incastonato di zaffiri e rubini; diversi talismani con perle; uno stiletto riccamente ingemmato; cinque coppe di argento martellato (chi non avrebbe riconosciuto il sublime vino remusano osannato dai poeti, a cui erano stati paragonati gli oceani al tramonto, il sangue e le labbra delle donne?); un mucchietto di scintillanti anelli preziosi; due bracciali d'oro. Soltanto Marival non gli aveva lasciato i suoi gioielli. L'estrema antichità aveva reso ogni cosa un po' opaca, coprendo gli oggetti di una leggera patina di verde che era più splendida del metallo in sé stesso, quasi fosse stato un tesoro recuperato dal fondo del mare. Valutandone soltanto il peso, era già un tesoro enormemente prezioso. Considerandone l'antichità, era qualcosa di pressoché inestimabile. Cyrion lasciò lo scrigno aperto, per farlo trovare ai fortunati, chiunque essi fossero, che sarebbero passati da lì. Per sé prese soltanto una cosa. Un unico sottile bracciale di oro verdastro che, per dodici o forse più secoli, ma per una sola notte ogni anno, aveva cinto il polso di Sabara. 3° INTERLUDIO Al Giardino del Miele il pranzo stava per essere servito. Il succulento capretto stava facendo il suo ingresso accompagnato da forme di pane e grandi piatti di verdure croccanti, fritte nell'olio e cosparse di pepe. Gli estasianti profumi avevano destato perfino il soldato dallo stupore in cui l'aveva lasciato il complesso racconto del dotto. Roilant, invece, era rimasto vigile per tutto il tempo. «Tutto questo è veramente... estremamente interessante,» disse, mentre il piatto principale veniva posto sul suo tavolo. «Grazie,» disse con modestia lo schiavo. Roilant non corresse l'equivoco. Continuava invece a tenere lo sguardo fisso sul dotto, scrutandone il volto. «Capisco come una mente erudita debba trovare affascinanti questi labirintici intrecci. Ma tu pensi che siano cose vere?» «Sì. Io ho visto con i miei occhi fantasmi e fenomeni simili, e sono un
uomo normale. Cyrion, come si può immaginare, è una persona che attira spontaneamente su di sé eventi bizzarri e misteriosi, come altri invece si attirano le disgrazie. E Teboras, o Teborius, come era chiamata una volta, è un luogo affollato di fantasmi, con quelle rovine remusane sparse dappertutto, come fantasmi dello splendore di quell'Impero decaduto.» «E la bella Sabara. È parso che avesse un debole per lei.» Replicò Roilant. «Così pare. Ammesso che lui abbia debolezze.» «Credo che sia soggetto alle umane passioni.» «Però le domina in maniera straordinaria. Un'altra cosa,» disse il dotto. Si fermò un attimo ad osservare con interesse come il biondo soldato ubriaco strappava brandelli di capretto, vi aggiungeva le verdure e mezza forma di pane, e poi si lanciava energicamente sul cibo. «Lo schiavo Esur ti ha raccontato, credo, la storia della città nel deserto e della sua bestia demoniaca. Avrai forse notato come alla fine Cyrion si lasci dietro incurante tutte le ricchezze che gli erano state offerte dal tesoro della città.» Roilant considerò la cosa. «Sì, lo fece. Mentre alla fine della storia dei fantasmi...» «Trovatosi di fronte a un antico tesoro di inestimabile valore, lascia pure questo, tenendosi solo un braccialetto, probabilmente più per stima nei confronti della donna a cui era appartenuto, che per cupidigia.» «E tuttavia si sa che Cyrion è ricco. Sicuramente questa ricchezza deve essere il frutto delle sue avventure. Non può avere sempre rinunciato così facilmente alle sue ricompense.» «Oppure non ha mai avuto bisogno di accettarle. Sai, gira una voce secondo cui sarebbe il figlio di un re Occidentale, rapito quando era piccolo per ottenere un riscatto dal padre, e alla fine abbandonato dai rapitori nel deserto, dove sarebbe stato trovato e allevato dalle tribù dei nomadi.» «Da qui il suo abito da viaggio.» «E il suo occasionale riferirsi ai proverbi e alle discipline mentali dei nomadi, gente strana, selvaggia, eppure curiosamente saggia. C'è poi un'altra voce, che vorrebbe le ricchezze di Cyrion accumulate in favolosi nascondigli sparsi un po' ovunque nelle terre che vanno da qui fino al Mare Auxiano. Gli basterebbe solo recarsi in quei posti e farsi riconoscere, per ricevere illimitate ricchezze.» «E da qui anche i vestiti raffinati da città e la predilezione per le locande di lusso.» Qualcuno, che aveva fatto il suo ingresso in silenzio, gridò improvvi-
samente dalla tenda posta all'entrata. «Foy! Nel nome di... Foy!» Tutti si guardarono intorno cercando Foy. (Fatta eccezione per il vecchio sapiente, occupato a interrompere il suo digiuno con un piatto di lenticchie e olive fritte.) Non ricevendo risposta, l'ultimo venuto, un giovane estremamente basso, attraversò la sala a grandi passi, con l'armatura che brillava fiocamente come pure il leggero elmetto che portava sul capo. Era veramente molto basso per essere un soldato, ed era come se con quello scoppio d'ira volesse compensare la sua mancanza di centimetri. Aveva un paio di baffi castano scuro sorprendentemente folti, che sembravano nascondergli gran parte del viso. Ciò che invece non nascondeva era il suo disappunto, che appariva evidente mentre marciava in direzione del tavolo di Roilant, per fermarsi accanto allo sbronzo e famelico soldato. «Foy. Devi essere all'accampamento tra mezz'ora. Ti ho cercato in ogni locanda e in ogni osteria di Heruzala.» «Oh, mammina,» disse Foy, il biondo soldato, «lascia che ti paghi per il disturbo. Siediti, anima mia, e goditi il pasto che questo generoso gentiluomo dalla rossa chioma mi sta offrendo. Tu non avrai niente da orbitare, obhic...» Foy fissava Roilant con sollecitudine. Roilant gli fece un gesto che significava che, seppure storpiate, lui di obiezioni non ne aveva. «Foy. Hai solo mezz'ora. Su, lascia perdere il pranzo.» «Lasciar perdere? Come potrei essere così maleducato? E poi non ho ancora raccontato la mia storia, che è la sola cosa che mi dà diritto a sedere qui.» «La storia? Di che diavolo parli?» «Stiamo raccontando delle storie su...» il soldato fece un enorme sforzo «...Shyrion.» Il soldato con i baffi guardò Roilant e il dotto, e annuì. «Scusatemi signori. Se questo era l'affare, temo che il mio amico debba rinunciarci. Per quel che riguarda Cyrion, potrebbe capitare a voi stessi di incontrarlo se rimanete in città.» Roilant fece cadere il coltello nel piatto. «Vorresti dire che si trova in città?» «A Heruzala? Sì. L'ho visto un'ora fa, nella Via delle Delizie.» Roilant balzò in piedi. Il soldato baffuto disse, «ma dubito che lo troveresti ancora lì. Si capiva che stava recandosi da qualche parte quando mi ha superato.»
Roilant si era già avvilito. Dovette intervenire il dotto, che disse: «Devi conoscerlo abbastanza bene.» «Gli ho anche dato il buongiorno. Ma dalle cose che sento dire preferirei non conoscerlo meglio. Una professione molto rischiosa quella del soldato mercenario. E ora Foy, nel nome di... ouuff...» concluse il soldato, finendo a sedere sulla stessa panca su cui stava Foy e diventando così ancora più basso di prima. Foy, con la bocca piena di capretto ma ora con molta calma, lucidità e precisione, disse queste parole: «Stai zitto idiota, e fa' attenzione. Ti ho colpito perché te lo meritavi. Se ti volti a guardare di chi parlo, lo faccio ancora. Il vecchio saggio laggiù, quello con gli anelli, e con la tonaca tutta inzaccherata d'olio. Giurerei che è lui quel farabutto che si spaccia per un profeta e va in giro istigando rivolte e disordini e inventando calunnie contro il nostro caro Re Malban. Per tre volte abbiamo tentato di acciuffarlo, ricordi, e quel demonio ci è sempre sfuggito. Neanche i Cavalieri dell'Angelo sono riusciti a prenderlo, e tu sai quanto è difficile che loro falliscano. Ero venuto qui e per caso l'ho visto. Ora gli sto dietro, o meglio, gli starò dietro appena si muove. Tu resta qui e tieniti pronto a seguirlo insieme a me e a trattenerlo al primo segno di ribellione. Oppure torna alla guarnigione e spiega il motivo per cui io non sarò lì.» Il soldato baffuto si mise a borbottare, grattandosi un polpaccio, apparentemente incline a restare. Roilant fissava il soldato biondo. «Tu non sei ubriaco,» gli disse a bassa voce. «Chi è che... on è ur... biaco?» domandò Foy tornando a recitare il suo ruolo. Roilant tornò seduto. «Tutto questo è assurdo.» «Niente affatto,» disse il dotto. «Ora hai la prova che Cyrion è nei paraggi, e può anche darsi che venga qui. Riguardo all'altra faccenda,» e abbassò la voce, «anche io avevo dei sospetti sul vecchio sapiente. Una persona veramente curiosa.» Il soldato baffuto si era ripreso dal colpo che Foy gli aveva inflitto, e senza dire una parola aveva deciso di unirsi alla compagnia servendosi di carne e vino. «Sono sempre stato curioso di scoprire quali fossero i veri nomi dei fantasmi, quelli remusani, una volta privi della loro veste occidentale,» disse il dotto. «Naldinus e Sabara sembrerebbero autentici. Jolan lo interpreterei come Jolius, e Radri come Radrix. Per Marival bisogna fare qualche congettura. Sospetto che si tratti di due nomi, uniti insieme. Forse Marea Va-
lia.» «Avevo una cugina che si chiamava Valia,» disse Roilant in maniera alquanto inaspettata. «Scomparì quando era ancora piccola. E rimase solo sua sorella, Eliset.» Il soldato baffuto si era nel frattempo rianimato. Se stesse anche lui recitando la commedia del compagno, o se fosse genuinamente ipersensibile al liquore, era qualcosa di difficile da stabilire. «Cyrion dunque,» disse a Roilant, lieto di poter rendersi utile, «in effetti conosco una storia.» Roilant fece un sospiro. «Vai avanti.» «Non che me l'abbia raccontata Cyrion. È stato un genio con un coltello, però. Salo che lui non compare nella storia. Nella storia c'è uno stregone.» «Ancora uno stregone,» disse Roilant afflitto. «Si chiamava Juved. Juved l'Incantatore, che in materia di arti magiche aveva superato se stesso...» CYRION IN BRONZO La torre si ergeva sulla nuvola verde dell'oasi, più vicina lei al cielo che non gli alberi. Ai suoi piedi un cerchio d'acqua perfettamente immobile, degli oleandri, un canneto, un colonnato di palme con i loro tralicci di fronde frastagliate che il sole che volgeva al tramonto lacerava con sottili dardi di fuoco. Tutto intorno, da ogni parte, le secche dune del deserto, del colore del rame sui pendii occidentali. L'uomo nella torre non osservava queste cose. Stava scrutando dentro un globo di cristallo montato su un piedistallo di ottone. Il cristallo gli mostrava un'area del deserto a un miglio di distanza dall'oasi. Sulla sabbia spoglia camminava un altro uomo, muovendosi nella stessa direzione del giorno. Verso la torre. Il viaggiatore era giovane, alto e snello, e avvolto nella nera tunica dei nomadi. Al suo fianco in un fodero di pelle rossa riposava una spada. La chiarissima chioma e lo splendido volto erano infiammati dal sole in una maniera che l'osservatore nella torre dovette trovare inquietante. Altre volte dal deserto erano giunti profeti raggianti, belli e terribili. Profeti, ma anche demoni. Qualcosa si agitò ai piedi della torre, vicino alla porta sprangata. Juved,
l'osservatore, non ci fece caso, avendo assistito tante volte a quel movimento, e conoscendone bene la natura. In pochi istanti il forestiero avrebbe raggiunto l'oasi e l'agitazione sarebbe aumentata. Poi una reazione, un grido di sorpresa. L'acciaio sarebbe emerso dalla sua guaina rossa catturando i rossi raggi del sole. Di Rosso sangue avrebbe impregnato la sabbia. Poi, per un po', Juved avrebbe avuto la pace. L'ultimo pozzo era stato sabotato, l'acqua era salata. Simili vandalismi contro la già scarsa ospitalità del deserto erano rari. Pochi uomini avrebbero osato un crimine così vile. Tra i nomadi la pena per questo misfatto era severa. Cyrion, trovando l'acqua imbevibile, aveva inciso sul pozzo il giusto segno ammonitore, e aveva proseguito il suo cammino. Per delle particolari capacità sviluppate tra i popoli del deserto, egli fu in grado di localizzare un'altra oasi. Aveva in bocca il gusto amaro del sale, e in quegli occhi dalle lunghe ciglia un'espressione che poteva sembrare di rabbia. Era il secondo giorno che passava senza acqua, una questione tra lui e la morte. Raggiunta la seconda oasi, Cyrion si fermò al limitare degli oleandri per dare un'occhiata veloce all'insieme. Fece scorrere lo sguardo su acqua, alberi, torre. Non si capì se gli fosse sfuggito qualcosa. Giunto al bordo della piccola pozza rotonda, si inginocchiò e abbassò il capo, portandosi il liquido alla bocca con la mano inanellata, la sinistra. Alle sue spalle, tra i tronchi delle palme, qualcosa si mosse. Qualcosa di grosso, pesante e straordinariamente pallido, tremolava in una insondabile fusione tra ombra e luce. Cyrion continuò a bere. Se i movimenti della mano erano ora più accorti, se la sua posizione era leggermente alterata, era veramente difficile da stabilire. Un'ombra si stagliò sullo specchio d'acqua. Istantaneamente Cyrion fu a sei piedi di distanza dal punto in cui si era inginocchiato. Mentre direttamente su quel punto era piombato qualcosa. Avendo mancato Cyrion, la creatura emise un urlo infuriato, si drizzò, e si lanciò con violenza contro l'uomo che aveva appena cercato di afferrare tra due enormi e pallide mani, le cui unghie appuntite sporgevano di cinque pollici dalle dita. Cyrion, la mancata preda, stava immobile, con la spada sguainata e impugnata quasi con delicatezza nella mano destra. Il suo volto tradiva solo una lieve sorpresa per ciò che gli stava di fronte, un essere senza dubbio
forgiato all'inferno. In qualche maniera ricordava un uomo, salvo che era troppo alto da terra per esserlo, più di otto piedi, e inoltre troppo scheletrico per poter sopravvivere, cosa che evidentemente gli riusciva. Era di un colore spaventoso, un bianco come liquefatto, un pallore assai poco probabile in quel paesaggio e sotto quel sole. Dei capelli biancastri gli penzolavano come bandiere sul cranio. Gli occhi — perché occhi ne aveva — ardevano di un irresistibile desiderio di sangue. Non aveva armi, a parte i suoi artigli, che erano abbastanza. Dopo aver aspettato un po', come se intendesse spaventare il suo avversario con il suo orribile aspetto, si lanciò un'altra volta dritto verso Cyrion. E Cyrion, ancora una volta, sfuggì all'impatto. L'essere demoniaco abbracciò al suo posto una palma, ed emise un altro urlo di rabbia. La stupenda spada fiammeggiò e sferrò un colpo che in pratica avrebbe tagliato il mostro in due. Ma l'arma, scivolando senza sforzo dentro quella carne flaccida, non incontrò tessuti né ossa, non fece uscire liquidi e non procurò alcuna ferita. Cyrion come una freccia si sottrasse al nuovo attacco non appena quell'orrore si voltò. I neri artigli solcarono l'aria a un dito dalla gola di Cyrion. La spada fulgente sferrò un secondo colpo, ora nella pancia del mostro, e per la seconda volta emerse senza traccia di sangue, la pallida carne rimanendo intatta. Vista così da vicino, nuda, era evidente che alla bestia mancava l'ombelico, mentre sui lombi presentava altri spazi vuoti. Più in alto, le sue labbra erano concave, e il naso ugualmente incavato, con le narici sporgenti; gli occhi fiammeggianti erano due abissi. La parodia rovesciata di un uomo: anche gli artigli erano curvati nella maniera sbagliata, all'infuori. Ancora una volta Cyrion lasciò un vuoto al suo posto, ma stavolta gli uncini andarono a lacerargli una manica, e la spada, scivolando su un polso invulnerabile, andò a colpire uno di questi uncini con un suono che avrebbe allietato i demoni. Il mostro emise un grido e indietreggiò con un violento balzo. Come per imitarlo, anche Cyrion si voltò e corse via. Appena la bestia, ripresasi dal dolore, gli balzò dietro, Cyrion si voltò bruscamente e sferrando in alto la spada, con un unico piroettante contorcimento la mandò contro quegli arti inumani. Ora il suono fu come di acciaio falciato. Dieci neri frammenti volarono verso il cielo rosato, seguiti e spinti da dieci forti getti di un viscoso fluido bianco.
Urlando per il tremendo dolore, il demone crollò sulle sue strane ginocchia, con la testa penzolante. Ora lo stendardo della sua chioma penzolava verso il basso, a soli cinque piedi dal terreno, accessibile. In un attimo i capelli furono stretti nella sinistra inanellata di Cyrion e recisi dalla destra con la spada. Come le unghie, anche i capelli sanguinarono a profusione. Tremando e gemendo la cosa cadde sul banco di sabbia tra le canne, macchiando con il suo sangue bianco il terreno. Contraendosi mostruosamente, sembrò sprofondare in un coma ante mortem. I suoi gemiti cessarono, ma un nuovo grido si levò, questa volta dalla torre. E poi si udì il gemito di chiavistelli disserrati e spranghe sollevate, e si vide un uomo venir fuori incespicando e finire la sua corsa sull'orlo dell'acqua. Basso di statura, grassottello, scuro di carnagione e di capelli, il nuovo venuto era vestito di una tunica su cui erano stati cuciti scarabei e simili artifici taumaturgici. «Straniero,» gridò a Cyrion, «tu hai compiuto l'impossibile.» Cyrion pulì la spada sulle canne. «Sei troppo gentile,» rispose con modestia. «Be', apprezzo la battuta,» dichiarò l'uomo, «ma come hai fatto a scoprire il punto debole del mostro?» «Era evidente,» disse Cyrion, «che era il contrario di un essere umano. E ciò che in un uomo è fragile in lui era invulnerabile. Perciò, quello che in un uomo può essere tagliato senza produrre alcun danno, le unghie e i capelli, in questa creatura erano invece parti vitali. Sta morendo, ma non è ancora morta.» «Proprio così,» disse l'uomo. «Ma mi hai fatto un grande favore. Per tre anni quell'essere disgustoso mi ha tenuto chiuso in questa torre. Io non so usare le armi, sono un filosofo. Dio sa quanto l'ho pregato di mandarmi uno come te. Mi chiamo Juved. Ti prego, entra nel mio rifugio, dividi un pasto con me. Ti voglio mostrare i tesori che ho accumulato. Puoi prendere quello che vuoi. Ti sono debitore.» Salendo per una scala di pietra Juved condusse Cyrion a una spaziosa stanza. Ovunque si guardasse si vedevano gli strumenti delle arti magiche, teschi lucidi, carte astronomiche, una lunga finestra rivolta a occidente da cui osservare personalmente i cieli, una sfera di cristallo per la chiaroveg-
genza montata su una base di ottone. Altri apparati stavano in mostra su cassapanche, scaffali e su un tavolo. Un secondo tavolo era apparecchiato con carni fredde, dolci, frutta, anche un boccale di vino, e poi c'erano coppe d'argento e vasetti d'oro per le spezie. Nella parete a meridione, un'altra porta stava socchiusa su una buia camera da letto, in cui si vedevano brillare vari e indistinti oggetti. Juved sembrava affaticato, non si capiva se per l'eccitazione o per essere sceso e subito risalito per le scale. Si lasciò quasi cadere su una sedia di legno intagliato e con un cenno invitò Cyrion a servirsi del cibo e del vino. «Sono impressionato,» disse Cyrion, «dalla qualità del tuo pranzo. Tre anni hai detto di essere stato imprigionato quassù?» «Mio caro signore,» rispose Juved, «non per vantarmi, ma sono un mago. E posso ottenere questo genere di vantaggi. Soltanto su quella orribile cosa là fuori non avevo alcun potere.» Cyrion si servì una porzione di carne e un pezzo di pane. Oziosamente, curiosava tra le spezie: zenzero, noce moscata, pepe, sale e cannella. Quando si avvicinò al boccale del vino Juved gli disse: «Anche per me, se non ti dispiace. Sono esausto, mio signore, e devo stare seduto.» Cyrion riempì una coppa e la porse al suo ospite. La mano di Juved tremava, e lui rise con aria di disapprovazione verso se stesso. «Perdona la mia debolezza. Ma ti prego, vai a guardare nella stanza accanto. Prendi qualunque cosa tu desideri.» Cyrion spalancò la porta socchiusa. Un po' di spazio era occupato da un letto, il resto della stanza conteneva misteriose figurine, talismani, statuette di animali e tavolette con incisioni. Tutti gli oggetti erano di materiali preziosi, oro e argento, onice, avorio e giada. Ma sulla parete orientale, seminascosto dalla porta, pendeva da un piolo un oggetto dall'ovale snello. Il suo splendore era debole, perché oscurato da un velo nero che stranamente, nel preciso istante in cui Cyrion si era voltato ad osservare l'ovale, era scivolato a terra. Ciò che apparve fu uno splendido specchio di bronzo dalla limpida brunitura, che rifletteva Cyrion perfettamente, quasi con la stessa chiarezza degli specchi di vetro. «Così hai trovato lo specchio di Zilumi,» disse Juved. La sua voce era più riposata. Era radioso. Non potendo vedere dall'altra stanza lo specchio, era però in grado di percepire Cyrion, e perciò, presumibilmente, di valutare la natura del suo interesse verso quella parete. «Non è bello?» «I nomadi hanno un detto,» disse Cyrion, «È difficile vedere attraverso
un velo.» Juved sembrò alterarsi. «Ma non è scivolato a terra il velo? Di solito lo fa ogni volta che qualcuno entra nella stanza... per lo spostamento d'aria, senza dubbio.» «Sì, il velo è scivolato,» disse Cyrion. Continuava a stare fermo di fronte all'ammaliante riflesso di se stesso, non si capiva se per meditare o per semplice vanità. Però era diventato incredibilmente pallido. «Ti ricorderai sicuramente della storia di Zilumi,» disse Juved, di nuovo allegro. «Di come il suo patrigno, Re Hraud, avesse rinchiuso nelle sue prigioni il profeta Hokannen, e di come Zilumi, avendo visto il profeta, se ne fosse innamorata. Lei era una maga, una specie di demonio, aveva gli occhi come oro, e i capelli dello stesso colore del bronzo dello specchio. Hraud la desiderava, e una notte la supplicò di ballare per lui qualcuna delle danze erotiche che i demoni le avevano insegnato. Era ubriaco, e le prometteva in cambio gioielli e ricchezze, e poiché il rifiuto sempre più ostinato di lei rendeva lui sempre più ubriaco e libidinoso, alla fine Hraud, davanti a tutta la sua corte e nel nome di Dio, giurò che per una sola danza le avrebbe dato qualunque cosa gli avesse chiesto. Allora lei danzò. E la sua danza fu tale, si dice, da fare accendere da sole le candele che erano spente. Quando la danza terminò, Zilumi ricordò a Hraud la sua promessa. Lui si mise a ridere e le domandò cosa desiderasse. "Voglio," disse Zilumi, "la testa di Hokannen, staccata dal suo corpo." Hraud rimase scioccato e atterrito, perché sebbene avesse imprigionato il profeta e intendesse farlo marcire nella sua cella, egli aveva paura di ucciderlo in una maniera così diretta. Ma Zilumi insistette: "Hai fatto un giuramento di fronte a Dio e alla tua corte." Hraud allora le offrì delle alternative, forzieri pieni di ricchezze, finanche il suo regno. Ma Zilumi era dura come pietra. "La testa di Hokannen e nient'altro." Alla fine, tutto bagnato di sudore, Hraud dovette accettare, ed era in procinto di dare il segnale al boia quando Zilumi riprese a parlare. "È chiaro a tutti," disse, "che dandomi la sua testa decapitata, tu mi dai la vita di Hokannen." Hraud, tormentato dal rimorso, assentì. "Allora," continuò Zilumi, "dal momento che hai ammesso che la sua vita mi appartiene, io non lo voglio decapitato, ma libero." Messo alle strette, Hraud poté solo obbedire. Il profeta fu quindi scarcerato. Zilumi, abbandonata la sua vita di lussuria e stregoneria, seguì Hokannen nel deserto, dove, per dimostrare la sincerità del suo pentimento, si tagliò i capelli e si spogliò dei suoi lussuosi abiti, e abbandonò anche i suoi strumenti magici, tra i quali c'era proprio questo specchio con cui lanciava il più crudele dei
suoi incantesimi.» Nel frattempo Cyrion non aveva fatto una mossa. «Conosco la storia. Molti pretendono di possedere degli oggetti appartenuti a Zilumi.» «Ma questo specchio,» disse Juved dolcemente, «questo specchio ti darà prova della sua malignità.» L'osservatore della torre aveva ormai ripreso abbastanza equilibrio per riuscire ad arrivare alla porta della camera. Allungatosi dentro e afferrato Cyrion per un braccio, egli guidò il giovane uomo fuori dalla camera da letto, riportandolo nell'altra stanza. «Non hai sentito che ti veniva succhiata via l'anima, mio raffinato paladino?» Cyrion riprese colore. Poi disse allegramente: «Cosa ti fa supporre che io abbia un'anima?» Un'ombra di preoccupazione sostituì il sorriso sul volto di Juved. «Mi addolora distruggerti in questa maniera,» disse. «Ma l'ego ha trionfato. Io voglio vivere. E anche se non mi piace che la tua vitalità venga sciupata, ciò che deve essere sia. Il tesoro di conoscenze magiche che io posso trasmettere al mondo dovrebbe bastare come risarcimento per la tua bellezza e la tua abilità, che sono cose fugaci. Dio mi perdonerà.» Juved aveva effettivamente acquistato energie. Il suo sorriso era allegro, salutare. «Ti ho raccontato la storia di Zilumi, Hraud e Hokannen. Ora posso raccontarti la storia di Juved e lo specchio?» Cyrion raggiunse la finestra. Era difficile immaginare quali pensieri stessero attraversando la sua mente. Ma guardava fuori dalla finestra come se lo avesse costretto qualcosa, un gesto non visto, una voce non udita che lo chiamava dall'oasi. Anche il cielo ad oriente splendeva ora come un topazio circondato di fuoco. In mezzo agli alberi tinti dal sole, accanto all'acqua, che il tramonto aveva tramutato in vino, stava in piedi qualcosa. Qualcosa di indistinto e piccolo, una cosa nana, non perfettamente visibile. Un'ombra? Un'ombra bianca? E nel punto in cui era caduto il mostro ferito a morte non c'era più niente.... «Ero riuscito ad entrare in possesso dello specchio di Zilumi, non importa come,» disse Juved, «e intendevo servirmene per particolari esperimenti di magia. Era stranamente leggero, e non aveva un graffio, come hai potuto vedere. Ma, sfortunatamente, in sua difesa era stata posta una terribile clausola, probabilmente dalla principessa in persona quando era ancora
una strega, che permetteva a lei soltanto di trarre vantaggio dai poteri dello specchio. Da allora lo specchio era rimasto sepolto in una cassa da cui solo dei potenti incantesimi potevano tirarlo fuori. Poiché riuscii a liberarlo, io fui il primo a guardare nello specchio. Sentii subito una debolezza, un ritrarsi delle mie energie, come se la mia anima, o un qualcosa di interiore ad essa comparabile, venisse spietatamente risucchiata via dal mio corpo. Quando la tensione si allentò, cominciai a ricercarne freneticamente la causa. Questa torre, dove mi ero rinchiuso per fare i miei esperimenti, era stata da me già permeata di proprietà talismaniche. Nessuna essenza malefica poteva manifestarsi all'interno delle sue mura. Ma, sbirciando fuori dalla finestra vidi — indovina cosa vidi, mio bel paladino!» «Non mi sognerei neanche di anticiparti,» disse educatamente Cyrion, ma i suoi occhi erano inchiodati sull'oasi lì sotto. «Forse hai ragione,» disse Juved. «Sarò io a rivelare cosa vidi. Era alta circa otto piedi, una cosa semi-umana, bianca come acciaio fuso, tutta pelle e cartilagine, con degli artigli neri; stava in agguato lì sotto, sbavando dalla furia. Lo specchio, capisci, aveva preso qualche frammento della mia fibra psichica, e rivolgendomelo contro e rovesciandolo, aveva creato l'esatto opposto di me stesso: gigante e scheletrico laddove io sono basso e rotondetto, bianco mentre io sono olivastro, primitivo, selvaggio e feroce, mentre io sono raffinato e timido. «Ma stupido non sono. Sbarrai le porte della torre per ulteriore precauzione, e studiando le mie carte e pergamene individuai con precisione la natura di quell'essere. Seppi dunque che il suo supremo desiderio era quello di uccidermi e bere il mio sangue, e che con la mia morte anch'esso avrebbe cessato di esistere. Seppi inoltre che, anche se ne avessi avuto il coraggio, non avrei mai potuto ucciderlo, perche, pur potendo scoprire qualche debolezza tramite cui sconfiggere la sua invulnerabilità, se quell'essere fosse morto, con lui sarei morto anch'io, legati come eravamo nello spirito, accoppiati sebbene opposti. Avevo solo due modi per salvarmi. Adottai il primo. Si trattava di attirare qui altre persone, quante più mi fosse riuscito per ogni mese dell'anno. Il mostro si sarebbe avventato su questi innocenti, li avrebbe uccisi e ne avrebbe succhiato il sangue, per poi divorarne le carni, gli organi e le ossa. Appagato per un po' il suo orribile appetito, l'essere mi avrebbe allora lasciato in pace, permettendomi anche di allontanarmi per un po' dall'oasi, ma seguendomi sempre a distanza. Ultimamente, mi recai ad un pozzo qui vicino e ne guastai l'acqua con il sale, cosa che si è rivelata utile per condurre a questa oasi ancora più vittime.
Per quanto riguarda il secondo modo di proteggermi dal demonio, non avevo mai pensato di ricorrervi, in parte perché esso richiedeva che conducessi nella torre un'altra persona oltre me, e per poterlo fare avrei dovuto imprudentemente allentare la guardia dei talismani, e poi perché il mostro si avventava su chiunque si avvicinasse. Non riuscivano mai a raggiungere la porta della torre, sebbene io sperassi di poterli fare entrare. «Poi, mio caro, il tuo avvento. Hai capito qual era il punto debole del mostro, e lo hai mandato sull'orlo della morte, una morte che naturalmente, legati come eravamo l'uno all'altro, sarebbe stata anche la mia. Per questo mi sono precipitato al tuo fianco, per questo ti ho offerto la mia ospitalità, e solo per questo ti ho spinto nella stanza dove si trova lo specchio. Perché il secondo metodo è questo: se qualcun altro dopo me guarda nello specchio, la sua anima prende il posto della mia: la sua fibra psichica viene risucchiata e la mia mi viene resa: il mio rovescio scompare e il suo si forma. E cosa ne verrà fuori nel tuo caso, mio eroico sconosciuto? Un essere tozzo quanto tu sei alto, grasso quanto tu sei snello, pallido quanto tu sei abbronzato, scuro di capelli quanto la tua chioma è bionda, orribile quanto tu sei bello. Guarda dalla finestra. Dimmi, è così?» «Giudica tu stesso,» disse Cyrion. «Tranquillo, l'ho già fatto. Ma credo che tu stia meditando vendetta, gentile signore. Farei meglio a spiegarti più dettagliatamente la situazione. In primo luogo, potresti pensare che, costringendomi a guardare un'altra volta nello specchio, lo scambio si ripeterebbe, la tua anima verrebbe liberata e la mia imprigionata ancora una volta. Dovrebbe andare così. Tuttavia, durante il mio soggiorno quassù, ho scoperto ed elaborato degli incantesimi di cui mi sarei servito nel caso, assai remoto, che fosse successo quello che tu hai fatto accadere quando hai ucciso il mio rovescio. Dovessi trovarmi di fronte allo specchio per una seconda volta, mi basterebbe recitare un'antica frase per immunizzarmi contro il suo incantesimo. Posso stare tranquillamente davanti allo specchio se questa frase è stata intonata o anche soltanto ripetuta mentalmente: tagliarmi la lingua non ti servirebbe a nulla. E non c'è alcun modo, credimi, di farmi guardare lo specchio senza che me ne accorga. Perché, se anche tu riuscissi a mascherarlo così bene da ingannarmi, nascondendolo, puta caso, dietro una tenda o un fitto velo, in quel caso la mia immagine non ne colpirebbe la superficie e il magico risucchio non avrebbe luogo. Puoi pensare di poter raggirare i miei incantesimi in un'altra maniera, facendomi perdere i sensi e trascinandomi di fronte al bronzo. Ma anche questo sarà inutile. Nel sonno o in uno stato di inco-
scienza, la materia psichica di un uomo è staccata dal suo corpo e dunque non potrebbe essere assorbita dallo specchio. Non appena riprendessi i sensi, attiverei la frase, annullando così l'influenza dello specchio. Stando così le cose, ti consiglio di rassegnarti al tuo destino. E anche alla tua morte. «Non puoi sostituire il sangue e la vita di un altro con i tuoi, come ho fatto io. Sono io la sola vittima alternativa a disposizione. E nonostante fossi impotente di fronte all'emanazione che lo specchio aveva creato dal mio stesso corpo, non lo sono contro l'emanazione di un corpo diverso dal mio e mi sono corazzato con le mie arti magiche. Inoltre ho privato la torre della protezione dei talismani per cui in qualunque momento il tuo rovescio potrebbe scoprire l'entrata e venire a distruggerti. Troppe vite sfortunate sono andate perdute fino ad ora. Tu mi hai dato l'opportunità di tornare libero, e la tua morte sarà l'ultima. Perciò, più sarà veloce e più sarà generosa. Puoi offrirti in sacrificio al tuo mostruoso rovescio oppure puoi ucciderlo. In entrambi i casi il risultato sarà identico. Morirete entrambi. Mi dispiace, ma sono irremovibile. Consolati pensando che il tuo decesso permette a un grande filosofo di sopravvivere.» «Non potrei sostenere un simile onore,» disse Cyrion. Una frazione di secondo più tardi, col balzo leggero di un gatto aveva solcato la porta ed era sceso per le scale. Ormai nauseato, Juved non stava più ad osservare dal cristallo o dalla finestra il mare di sabbia, l'oasi che si oscurava. La cosa aspettava, pallida come un faro nella notte che avanzava, l'alter ego di Cyrion, partorito dallo specchio di bronzo di Zilumi. Era come Juved lo aveva immaginato. Tarchiato per quanto Cyrion era alto, grasso per quanto lui era snello, grottesco per quanto era raffinato, orribile per quanto lui era bello. Su quella forma rovesciata e bianca come un fungo che era la testa, spessi fili neri, l'antitesi dei capelli di Cyrion. Sulla zampa destra orrendamente artigliata caricature di anelli, e nella sinistra la parodia di una spada, più larga sulla punta che alla base e del colore della putrefazione. La cosa ridacchiava, sorrideva affettatamente, invitava. Sogghignò, mostrando le radici scoperte che aveva al posto dei denti, e poi volò verso Cyrion attraversando l'oscurità come una sudicia palla luminescente. Ma era, naturalmente, sgraziata per quanto era fluido Cyrion, maldestra per quanto lui era brillante.
Agile e veloce come una meteora, Cyrion si scansò, afferrò quei fili neri e li tagliò. La cosa andò a gambe all'aria e il sangue bianco sgorgò fosforescente. La spada d'acciaio sferrò altri due colpi e gli artigli finirono in mezzo al respiro notturno degli oleandri. In attesa della morte, l'essere gemeva. E Cyrion sentiva quella morte. Quella morte che sarebbe diventata la sua. Eppure egli non manifestava nulla di quello che sicuramente gli stava accadendo. Aveva chiuso tra due parentesi quel venire meno delle sue forze; lo ignorava. Corse fin dentro la torre. Poiché i talismani erano stati rimossi, nulla gli impedì di rientrare. I suoi piedi toccavano leggeri la pietra, a ogni piede che saliva, tre o quattro gradini in meno. Quel poco rumore era mascherato dai gemiti della cosa là sotto. Juved non si aspettava di vederlo, perlomeno nel modo in cui apparve. Come un lampo Cyrion era sfrecciato nella stanza. Per un attimo il mago rimase a bocca aperta. Un attimo dopo, la pesante sfera di cristallo, che Cyrion passando aveva afferrato, incontrò la fronte del mago con un impatto che lo fece svenire. Juved si svegliò nauseato e confuso. Sebbene ricordasse con precisione tutto quello che era successo prima, lo specchio, il tracco, Cyrion e il cristallo, questi ricordi furono subito cancellati dall'atroce dolore che gli si risvegliò in testa e dalla grande quantità di sale di cui si trovò sistematicamente cosparse labbra, lingua e gengive. Alzandosi traballando sulle ginocchia, tossendo e sputando, Juved afferrò la coppa di vino che stava sul tavolo e non riuscendo a contenersi ne trangugiò con impeto un gran sorso. Sfortunatamente per lui anche il vino era stato guastato. Nella brocca e nella coppa erano state versate tutte le spezie contenute nei vasetti, non solo il sale questa volta, ma anche la cannella e il pepe, la noce moscata e lo zenzero. La nausea immediatamente reclamò ciò che le era dovuto. Riavutosi dal fastidio ma ancora scosso, con gli occhi inondati e la gola secca come un osso, Juved scese prudentemente le scale della torre. La puerile vendetta di Cyrion lo aveva sconcertato. Lo irritava il fatto che un giovane dall'aria così speciale non avesse accettato la morte con dignità, o almeno con rassegnazione, e avesse scelto invece questo dispetto violento e speziato. Juved ebbe un altro violento conato di vomito e barcollando percorse in fretta la strada che gli restava, immerso nella fresca serenità dell'oasi bagnata dal cielo. La luna pendeva sopra le palme, stagliandosi chiara come avorio scolpi-
to e inondando lo specchio d'acqua di una miracolosa lucentezza. Malgrado il dispetto di Cyrion, Juved aveva agito con grande abilità. Non c'era più nulla da temere. Che cos'era un leggero malore a confronto con una morte selvaggia? Compiaciuto del suo filosofare, Juved si inginocchiò al margine dell'acqua e si abbassò verso il prezioso liquido. Intravide tra gli oleandri un leggero pallore da cui distolse scrupolosamente lo sguardo. Presto, quella cosa mostruosa sarebbe del tutto morta e poi sarebbe svanita. Fortunatamente il corpo di Cyrion non c'era. Almeno il giovane aveva avuto la decenza di trascinarsi in mezzo al deserto per esalare l'ultimo respiro. Con gratitudine, Juved assaggiò il liquido incontaminato della pozza. Malgrado un'improvvisa sensazione di ondeggiamento, sicuramente uno strascico del malore di prima, Juved bevette con molta calma e con sempre maggiore piacere. Fino a che un'ombra allungata non oscurò il riflesso della luna sull'acqua. Allora, con un urlo di incredulità, Juved si voltò convulsamente, per dare il benvenuto alla torreggiante figura, agli abissali occhi infuocati e ai laceranti artigli dell'essere mostruoso che era il rovescio di se stesso, il primo orrore che si era sviluppato dallo specchio. Proprio dietro gli oleandri, sulle dune che la notte aveva tinto di nero, giaceva Cyrion, in attesa che la vita tornasse a lui come sabbia portata dal vento. Aveva dovuto fare molte cose nella torre prima di potersi prendere la libertà di cadere qui. Mentre il mostro morendo portava con sé anche la vita di Cyrion, e lo costringeva ad arrendersi, Cyrion si era reso conto che per logica questa partita con la morte l'avrebbe dovuta vincere lui. Ma per la morte non c'è un'entrata precisa, non ci sono garanzie, non c'è onore. E così giaceva, la luna bianca sui suoi occhi, e aspettava di finire o di continuare. Ma la vita è vita, e il suo rifluire fu come un balsamo per Cyrion. Presto poté alzarsi, e camminare fino alla pozza, mantenendosi però distante dal bordo dell'acqua, sebbene lì non fosse rimasto più mente, non una traccia né del mago né del mostro. Cyrion incise meticolosamente il segnale di pericolo sui tronchi delle palme, per avvertire che l'acqua dell'oasi non era potabile. Dopo, da un'adeguata distanza, cominciò a gettare nell'acqua con i piedi una valanga di sabbia e terra. Era un compito faticoso, ma Cyrion non si fermò finché l'oasi non fu sommersa, assorbita dal fango, e il suo fondo
notevolmente rialzato. In quel modo aveva sepolto e cancellato ciò che prima l'acqua buia della notte aveva semplicemente camuffato, senza di fatto indebolirne le proprietà riflettenti. E la sabbia accumulandosi aveva così nascosto lo specchio di bronzo che Cyrion aveva gettato nell'acqua mezz'ora prima che Juved vi si fosse chinato per bere. 4° INTERLUDIO Un limitato ma entusiastico scroscio di applausi salutò la conclusione della storia, nel corso della quale uno dei mercanti e la sua signora si erano avvicinati per ascoltare. «Veramente bizzarra. Veramente interessante,» esclamò il mercante, e diede una pacca sulla spalla del soldato baffuto, che era scosso da ebbri singhiozzi. Il mercante, al contrario del soldato, era un uomo possente, con la testa avvolta in un morbido tessuto di mussola verde con applicazioni di opali. Le mani inanellate lanciavano sprazzi di luce. Non c'era da meravigliarsi che la sua graziosa compagna si stringesse a lui con tanta determinazione. Ciò nonostante la ragazza aveva anche serbato un sorriso per i due soldati, alti o bassi che fossero, e per Roilant la strizzatina di un occhio dalla palpebra d'argento. Anche il dotto sembrò aver apprezzato la storia, e giurava che l'avrebbe ricordata in futuro. Il soldato biondo stava appoggiato sulla parete tinta d'azzurro dirigendo quei suoi occhi sporgenti su chiunque, ma in modo particolare sullo spaventoso vecchio saggio nel vano della finestra, che si stava scolando tre sciroppi di frutta sbavandosi tutto. Il digiuno, così pareva, non era stato semplicemente rotto, ma decisamente fracassato. A Roilant la storia non era piaciuta. Questo era chiaro. Se in tutto quello che stava sentendo c'era qualcosa di vero, questo non faceva che rendere più urgente il suo bisogno di trovare il prodigioso Cyrion. E dove lo si doveva cercare? «Hai detto di averlo visto nel Vicolo delle Delizie?» «Sì,» disse il soldato baffuto. «No. S... s... sulla Via delle Dee... liscie.» Riferì accuratamente della sua visita alla bottega di un barbiere lungo quella strada, dove doveva farsi pareggiare i lucidi baffoni: «Uno s... ss... truzzo sa usciare le fr... orbici meglio di quell'idiota all'... acc... ampamento.» Mentre stava seduto sotto la tenda, aveva visto passare Cyrion vestito come un principe. A questo punto il polveroso carovaniere, che si era avvicinato per parla-
re con il ricco mercante, disse riferendosi al discorso: «Vuoi dire Cyrion di Cyroam? Quello dalla chioma albina e di razza nomade? Se stai parlando di quello, temo che non fosse lui il Cyrion che hai visto nella Via delle Delizie. Io gli ho parlato proprio ieri, in un posto a circa dieci miglia da Heruzala. Era in viaggio verso Bakrad.» «Bakrad!» gridò Roilant con orrore. «Ti sbagli, sss... ignore,» disse il soldato basso. «Conosco Scyrion meglio dei miei fratelli, e l'ho visss... to nella Via delle Deliscie ss... tamattina.» Il carovaniere scrollò le spalle con compiaciuta enfasi. «Come vuoi. Ma io so chi ho incontrato.» «Anche io so chi ho — scusate — incontrato.» «Tu conosci bene Cyrion?» domandò Roilant al carovaniere. «Una volta mi fece un favore. Sì. Lo conosco.» «Era molto avanti sulla via per Bakrad?» «Non molto. Ma a quest'ora lo sarà molto di più.» Roilant bestemmiò con delicatezza e assunse l'espressione puerilmente imbronciata dell'adulto frustrato. «Se si tratta di una cosa urgente, potresti mandare un piccione da questa stazione. Ce ne sono diverse lungo quella via.» «Il tempo è... breve,» disse in maniera vaga Roilant, e il soldato baffuto lo ripagò con un'occhiata sospettosa, che era il suo modo di reagire quando veniva pronunciata una certa parola. Poi si voltò, come lo sconsolato Roilant non fece, verso il trambusto che era appena scoppiato alle loro spalle, causato, come prima, dal saggio. La seducente brunetta che tempo prima, uscendo dalla locanda, era passata davanti a Roilant, era ora riapparsa nella sala ondeggiando dentro una nuvola di veli e perle luccicanti, e seguita con grazia dalla piccola ancella che portava dei fiori. Il saggio, a questa apparizione decisamente ipnotizzante, era balzato in piedi sputacchiando tutt'intorno una pioggia di sciroppo di frutta. «Ecco la meretrice della Città, che cammina vestita di porpora e gemme, e insozza le sacre pietre col suo luridume.» La giovane donna non mostrò imbarazzo né costernazione, anzi apparve piacevolmente incuriosita, e, voltandosi pigramente, disse con la sua voce di pantera: «Calmati, stupido vecchio. Non sono vestita di porpora e non sporco niente, al contrario di te. Suggerirò vivamente al locandiere di disinfettare e profumare con un forte incenso questa locanda non appena tu
ne sarai uscito.» La giovane donna dalle palpebre argentate rideva sommessamente. I tre mercanti invece fecero uno scrosciante applauso. Il vecchio, spaventosamente nero come una pulce, alzò al cielo le sue maniche repellenti ed emettendo dei gorgoglii uscì con aria solenne dalla sala. L'acclamazione del pubblico aumentò. Si brindò in onore della bella brunetta, a cui furono promesse gabbie di colombi e fiale di rari profumi. Nel frattempo il dotto si era alzato e si era precipitato a recuperare la sua pergamena. Ci mise un po', avendola trovata tutta cosparsa di lenticchie. Nel mezzo di quel clamore Foy, il soldato biondo, balzò in piedi. «Dai, Whiskers. Se n'è andato e noi dobbiamo seguirlo.» «...eehhh?» domandò Whiskers, la cui ebbrezza ora si rivelò sfortunatamente vera. «L'agitatore, il profeta pazzo. Muoviti idiota!» E tirato a forza in piedi il traballante compagno baffuto, operazione che fu agevolata dalla piccola statura di quello, Foy lo condusse verso l'uscita. Quando raggiunsero la tenda che conduceva fuori della sala, Foy si fermò per un attimo, mentre Whiskers cercava eroicamente di recuperare un aspetto bellicoso, riuscendo soltanto a rovesciare una piccola panca. «I miei ringraziamenti per il banchetto, e le mie più profonde scuse per non poter mantenere l'impegno che mi ero assunto, ma il dovere mi chiama con la sua voce d'ottone. Domandate se c'è qualcuno qua in mezzo che conosca la storia dell'omicidio alla fortezza di Klove. Quella è davvero una bella storia.» E poiché Whiskers era già ruzzolato oltre la tenda, Foy dovette corrergli dietro. Si sentì quindi un debole colpo di gong, come se la Qirri per un attimo fosse stata stretta dall'abbraccio caloroso di un amante, e subito la voce esasperata di Foy che diceva: «Il vecchio demonio ci sfuggirà ancora.» Il tutto seguito dal rumore di un elefantesco precipitarsi sui tre gradini dell'entrata, e della porta sbattuta con violenza. Roilant disse annoiato: «Vorrei non sentire più storie.» «Povero ragazzo,» disse premurosa la prostituta dagli occhi argentati, e questo suo darsi pena convinse il mercante a riportarla immediatamente al suo tavolo. «Non devi disperare,» disse il dotto, che era tornato al tavolo con la pergamena e la stava accuratamente tamponando. «È stato sempre così con Cyrion. Uno lo vede qui, un altro lì. Tu, signore,» disse rivolgendosi al carovaniere, «saresti pronto a giurare che l'uomo che hai incontrato sulla via
per Bakrad fosse sicuramente Cyrion?» Il carovaniere apparve in un primo momento risentito, poi si mise a riflettere. Alla fine: «A dire il vero, è passato in un turbine di polvere. Noi lo abbiamo salutato gridando. Sembrava che mi conoscesse, ma col mestiere che faccio sono in molti a conoscermi. Io l'ho preso per Cyrion. Però era a cavallo, e questo è raro per Cyrion, ora che ci penso. Ma si dà il caso che io conosca la storia dell'assassinio a Klove, se voleste...» Roilant emise un suono non proprio scortese, ma decisamente non incoraggiante. «Perdonami,» disse il dotto, «ma io questa storia non l'ho mai sentita. Ora è venuto il mio turno di ordinare il vino.» Poi si rivolse al carovaniere, «accomodati, e dimmi di Klove. Il giovane gentiluomo sarà clemente.» Roilant si sentì tradito, ma non abbandonò il suo posto. Mentre loro parlavano, il locandiere era rientrato nella sala e si era accorto che il vecchio saggio non aveva pagato il suo conto. Questa scoperta aveva provocato un certo trambusto. In quegli stessi attimi un grasso prete era entrato volando nella sala, mentre gli schiavi sfrecciavano tutt'intorno servendo ma anche rovesciando i pasti fumanti, e la sala era tutta animata da una nuova frenetica attività che Roilant non pareva neppure notare, esausto com'era. Cominciava tuttavia a percepirsi in lui il desiderio, ancora embrionale, di lasciare quel posto. Il carovaniere si mise a sedere. «Klove, dunque. È la pura verità. Una faccenda veramente strana.» «La cosa mi stupisce,» disse Roilant con una lieve punta di sarcasmo ignorata da tutti. Versandosi del vino, il carovaniere cominciò a raccontare, e in quell'attimo i tre mercanti con le loro signore ritornarono in massa al tavolo di Roilant. Dall'altro lato della sala, anche la brunetta sembrava interessarsi alla storia, mentre infilzava delicatamente bocconi di capretto e di mele con le sue mani grandi ma eleganti.... LA COLOMBA SANGUINARIA Come tre macchie di nero nel fluido bianco-azzurro del cielo, gli avvoltoi si libravano lenti nell'aria. Era il solito infallibile segnale di morte, una morte sicuramente avvenuta in quel tratto di deserto su cui loro volteggiavano.
Il secondo fu un segnale più ovvio e immobile. Superato il bordo dell'ultima duna, tutto in una volta apparve il pozzo, e, immerso nell'eterno fumo della sabbia del deserto, un altro fumo più sinistro che saliva verso l'alto. Per un attimo Cyrion si fermò sul pendio, stagliandosi scuro sul pallore del deserto, con il cappuccio della tunica da nomade tirato sulla chiara chioma per proteggerla dal sole. Nulla si muoveva sui bordi erbosi del pozzo, né vicino al solitario e contorto alberello. La piccola capanna era ormai un mucchio di macerie annerite celato solo dal fumo che emanava, ora che il fuoco si era spento. Tra le rovine e l'albero si era spento anche qualcos'altro. Un uomo stava disteso a terra col volto all'ingiù, intorno a lui tante piccole macchie tutte stranamente della stessa forma e degli stessi colori, grigio, bianco e rosso, e che Cyrion riconobbe come dieci o più piccioni morti. A completare la scena gli avvoltoi, che continuavano a girare in tondo senza però scendere. A terra c'era un buon pasto ad attenderli. Se continuavano a restare in alto, doveva esserci una ragione. Sembrava come se, da quella posizione privilegiata, avessero visto e continuassero a vedere una presenza viva e potenzialmente pericolosa, che doveva trovarsi dall'altro lato del fumo. Cyrion doveva fare una scelta. Poteva tornare indietro, sebbene questa non fosse proprio una scelta, visto che la sua acqua era finita e che lui aveva impiegato tutta la mattina per raggiungere questo pozzo. Con consumata eleganza estrasse la spada dal fodero rosso. Poi discese la duna dirigendosi verso il pozzo, quasi ignorando le macerie fumanti. Piantato con disinvoltura l'acciaio nella sabbia, Cyrion cominciò a tirare su la sacca di cuoio dal fondo del pozzo facendo scorrere la corda tra le mani. Qualcosa si mosse, fu un movimento sorprendentemente fluido e completo. Lo spazio tra le macerie e l'acqua, che era vuoto tranne che di cadaveri, improvvisamente non lo fu più. Cyrion alzò gli occhi. Quello che gli stava di fronte era uno straniero, ma nonostante questo inconfondibile. Montava un destriero bianco bardato di cuoio bianco e d'argento, e anche lui era avvolto in una lucente armatura, su cui indossava una cappa candida come la neve, e un elmo d'acciaio chiarissimo con la traversa nasale che gli copriva il volto come una maschera, e con sopra un ciuffo di piume bianche. Sulla sua schiena riposava uno scudo argentato
con un emblema: una colomba bianca. Soltanto dalla colomba l'avrebbe riconosciuto chiunque. Era uno dei Cavalieri dell'Angelo, a volte chiamati "Colombe", altrimenti noti come i Cavalieri Bianchi. Cyrion continuava a tirare su l'acqua dal pozzo. Sorrideva. «Posso offrirti da bere, amico?» Il cavaliere sedeva sul suo destriero come un irreale blocco di ghiaccio nella calura del deserto. Stava totalmente immobile, neanche il cavallo muoveva le orecchie. «Dopo tutto,» disse Cyrion in maniera disarmante, «deve essere stato piuttosto faticoso pugnalare alla schiena un uomo e bruciargli la casa, per non parlare dei piccioni.» Il cavaliere parlò. «Qual è il tuo nome?» Altri, posti di fronte a una simile richiesta da parte di un Cavaliere Bianco, sarebbero stati tentati di mentire. Cyrion non ebbe questa tentazione. «Cyrion.» «E questo sarebbe il tuo nome o il tuo luogo di nascita? Provieni da Cyroam?» «Forse,» Cyrion esitò leggermente, «no.» «Sei vestito come un nomade, ma la tua pelle è chiara.» Stavolta Cyrion non rispose. «Dove sei diretto?» «In nessun luogo in particolare.» «Saprai della Fortezza di Klove, che si trova a mezza giornata di cammino a nord-est da qui.» «Certamente,» disse Cyrion, «è dove sei diretto tu, non io.» Klove apparteneva ai Cavalieri dell'Angelo, che nel deserto possedevano molti altri castelli-fortezza come questo, oltre alla roccaforte nella città di Heruzala, a sud-ovest della regione. Il cavaliere non si era ancora mosso. Era un'immobilità minacciosa. Disse: «Sì, sono diretto lì. Dalla Sacra Heruzala a Klove. Se qui hai avuto qualche problema, vai alla fortezza e chiedi di essere risarcito. Quando sarai alla porta fai il mio nome. Ti riceveranno con cortesia se porterai loro delle accuse contro di me.» Quelle parole, pronunciate in una maniera così scarna, non ebbero alcun senso. Quello che successe dopo di senso ne ebbe ancora meno, o forse ne ebbe di più. Dalla più totale stasi, l'intero corpo del cavaliere esplose nella più energica vitalità. Cyrion si sarebbe aspettato di vederlo estrarre la sua lunga
spada, ma non fu quella ad essere usata. Al suo posto, dalla mano d'acciaio del cavaliere volò una piccola ma letale cuspide di marmo dentellato. Cyrion si lanciò da parte. Ma sembrò vacillare, non era stato pienamente e sufficientemente rapido. Il piccolo peso gli sfrecciò sulla testa tirandogli via il cappuccio, e tracciando una scriminatura sulla chiara chioma che quello ricopriva. Muto, Cyrion si accasciò davanti a quel cavallo bianco, perfettamente addestrato e immobile come la pietra. La Fortezza di Klove si trovava a centocinquanta miglia di distanza da Heruzala, in un punto abbastanza inoltrato nel deserto. Nonostante questo, la collina rocciosa su cui si ergeva il castello, tra i bianchi costoni di pietra appariva tappezzata d'erba. Giù nella valle, il verde acido di un'oasi, che riforniva d'acqua la fortezza e il villaggio abbarbicato sulla roccia. Greggi di pecore e capre pascolavano belanti lungo le rive del laghetto. Le donne andavano avanti e indietro trasportando otri pieni d'acqua. Gli uomini invece si occupavano delle fucine, delle concerie, e delle altre attività che erano necessarie alla manutenzione della fortezza. I Cavalieri Bianchi non avevano nulla a che fare con mansioni di questo tipo. Un secolo prima, in qualche lontana regione dell'occidente, a un gentiluomo era apparso l'Angelo di Dio. Quello era bastato. E così erano stati fondati i Cavalieri. Erano una specie di sacerdoti, votati al celibato, scrupolosi in materia di preghiera, e dediti al digiuno in certi periodi dell'anno. In altri periodi invece andavano a combattere. Facevano la guerra contro i briganti, contro le armate di regni rivali che minacciavano Heruzala e contro ogni ribelle dentro le mura della stessa Heruzala. Provenendo dalla chiara razza occidentale, il loro pallore non si limitava soltanto ai vestiti. I nomadi del deserto, dalla pelle nera, e i popoli della costa dal colorito olivastro chiamavano le Colombe in altri modi. Anche la gente della loro stessa razza diffidava di loro. Si sapeva che praticavano strane cerimonie esoteriche, le quali erano una parte fondamentale del loro codice e della loro venerazione a Dio. E si diceva anche che in segreto portassero avanti delle altre guerre meno ambiziose. Sempre secondo queste voci, essi, tramite dei grotteschi rituali, riuscivano a rendersi ciechi alla paura e inaccessibili al dolore. Come dei disciplinati, efficienti e pensanti folli, scovavano poi qualche vittima da punire, qualcuno che aveva usurpato loro un privilegio o danneggiato le loro ricchezze, e lo uccidevano, abbattendo gli ostacoli o brutalmente scansandoli, spietati e inarrestabili demoniaci assassini. Nessuna accusa diretta, al di là delle storie, era mai stata mossa contro i
Cavalieri dell'Angelo. Il giovane re di Heruzala probabilmente li trovava utili. Oppure li temeva anche lui. Sicuramente, versava grandi somme nei loro forzieri. Le loro fortezze si stagliavano come gialli emblemi per tutto il deserto che cingeva Heruzala, e su fino a Daskiriom, nel nord. Nel rapido tramonto del deserto, Klove era diventata rossa come un papavero. Fuori dalle capanne di fango cotto ardevano già i fuochi, mentre il castello-fortezza, dall'alto della sua rocca, rifulgeva come carbone ardente nel ritrarsi della luce. Degli uccelli volteggiavano in alto oltre le torri, dei grassi e mansueti piccioni viaggiatori. Davanti a una delle ultime capanne, dove il villaggio confinava con la sabbia del deserto, una donna era intenta a rimestare in una pentola su un fuoco. A un tratto la donna si fermò a guardare qualcosa. Da occidente, dal vicino deserto, dove la notte già si ergeva come una grande montagna blu, veniva un uomo. Camminava a piedi, e camminando spesso inciampava. Indossava l'abito dei nomadi, e l'ultimo fugace bagliore del sole gli illuminava il volto, che era bianco, come chiari erano pure i capelli che lo incorniciavano, e segnato sul lato destro da uno scuro rivolo di sangue. Mentre la donna lo osservava, l'uomo barcollando raggiunse il villaggio dirigendosi subito verso di lei. Allarmata, la donna si alzò in piedi gridando al marito che era dentro la casa. Lo straniero si fermò a pochi passi da lei, vacillando leggermente. «Ho bisogno del tuo aiuto,» disse lo straniero. «Lo avrò?» «Cosa c'è?» domandò il marito della donna emergendo al suo fianco. Lo straniero si accasciò al suolo come sarebbe caduto un bambino, instabile sulle gambe. «Volete che prima vi racconti come è andata, non è vero?» chiese lo straniero. «Allora state a sentire. Vicino al pozzo con l'albero ho incontrato un Cavaliere Bianco. Mi ha rotto la testa con un pezzetto di marmo, avendomi prima detto che qui sarei stato benvoluto per il danno che mi avrebbe procurato.» La donna rimase senza fiato. Il marito corse a prendere un otre pieno d'acqua e lo mise in bocca allo straniero. Quando questo ebbe finito di bere, l'uomo disse con urgenza: «Che n'è stato della capanna vicino al pozzo?» «Bruciata, e chi ci viveva ucciso. Per non parlare dei suoi piccioni.» Anche l'uomo ora rimase a bocca aperta, come prima sua moglie. «Questo basta,» disse. «Straniero,» aggiunse poi rivolgendosi all'altro
ancora steso a terra, «devi venire con me.» «Il mio nome è Cyrion,» disse lo straniero. «Venire dove?» «Alla fortezza. E subito.» «Allora è vero? Mi aveva detto che sarei stato bene accolto a Klove se avessi parlato male di lui, chiunque esso sia...» «Oh, noi lo conosciamo bene,» disse l'uomo, tirando su lo straniero e sorreggendolo mentre insieme imboccavano il sentiero che coaduceva in alto verso la fortezza. Lungo il cammino, molti interrompevano le proprie faccende per guardarli. Alcuni ponevano al loro compagno ambigue domande, alle quali lui rispondeva altrettanto ambiguamente. Un paio corsero in suo aiuto, ma furono scansati. Il sentiero su per la roccia era ripido, e sarebbe stato difficile percorrerlo se l'invalido non si fosse più o meno ripreso. I due raggiunsero le porte del corpo di guardia esterno. Le sentinelle, che nei loro bianchi mantelli ne avevano seguito l'ascesa come statue scolpite nella stessa pietra del muro, ora si mossero. Dall'alta torre della porta una di loro gridò: «Cosa volete?» «Quest'uomo,» rispose gridando l'abitante del villaggio di Klove, «porta delle notizie, le notizie che il Gran Maestro Hulem attendeva.» Uno degli altri mantelli bianchi sul bastione sembrò reagire. Disse qualcosa al primo, che a sua volta gridò all'uomo del villaggio: «Aspetta lì. Lo facciamo entrare.» «Ti chiami Cyrion?» domandò il Maestro Vicario della Fortezza di Klove. «È perché vieni da Cyroam?» «Forse no.» Nella grande sala di pietra, che le torce illuminavano e un imponente focolare riscaldava contro la gelida notte del deserto, la tavola era stata imbandita di carne, frutta e vino, e in ogni angolo bianchi cavalieri stavano rigidi accanto alle loro rigide lance. Lo straniero ferito aveva ricevuto un nobile trattamento. Si sarebbe aspettato qualcosa di austero o anche di rude, invece le mani da guerriero che gli avevano medicato e bendato la ferita sulla fronte erano state quasi tenere. Il pasto che ne era seguito era stato buono, per non dire magnifico. Soltanto il gruppetto delle guardie, che ascoltavano con attenzione, mostrava, più che ospitalità, una cauta insofferenza. Mentre il Gran Maestro Hulem, che era stato detto avido di notizie, non era ancora apparso. Al suo posto era appena entrato nella sala il Maestro Vicario, che sembrava più propenso a una cortese chiacchierata che a
un interrogatorio. Tuttavia, l'ospite era abbastanza scaltro da non tradire la sua impazienza o il suo divertimento in questo famoso santuario. Il Maestro Vicario era fulvo di capelli e di carnagione. I suoi occhi fulvi si fossilizzarono fino a diventare pietra, ed egli disse: «Dimmi del tuo incontro con questo cavaliere. Ogni cosa, se non ti dispiace, UomoChiamato-Cyrion.» L'uomo chiamato Cyrion obbedì. Disse della capanna bruciata, dei piccioni uccisi, del cadavere dell'uomo; del Cavaliere Bianco, di ciò che aveva detto, del suo gesto veloce con la cuspide di marmo. Raccontò di quando aveva ripreso i sensi e con grande sforzo si era messo in cammino in quella direzione, verso Klove, per chiedere un risarcimento come il cavaliere gli aveva suggerito. Quando ebbe terminato, il Vicario Riccioli Fulvi si fermò per un po' a riflettere. Poi disse: «Questo è un affare tra la Loggia della Colomba di Heruzala e la nostra Loggia qui a Klove. Sono cose che non hanno alcun interesse per te. Comunque ti siamo grati, perché indirettamente ci hai fatto da messaggero.» Fece quindi un brusco cenno. Un cavaliere venne avanti e pose in braccio al messaggero una borsa tintinnante. Il messaggero la guardò. Poi, con la mano sinistra adorna di anelli, la spinse delicatamente da parte. «Credevo,» disse piano, «che avrei dovuto dare le mie notizie al Gran Maestro Hulem.» «Davvero? E perché lo credevi?» «L'uomo del villaggio è stato preciso: ha detto che le mie notizie erano proprio quelle che Hulem avrebbe voluto sentire.» A quelle parole il Vicario si lasciò sfuggire uno strano sbuffo, non proprio una risata. Il pallido volto dello straniero si sollevò ed egli domandò: «Si tratta allora di notizie che non vorrebbe sentire?» «Di qualunque cosa si tratti, amico mio, non è nulla che ti riguardi,» ribadì il Vicario. «Ci siamo presi cura di te e ti abbiamo pagato. Stanotte potrai dormire qui su un pagliericcio. Domani ti verrà dato un mulo per continuare il tuo viaggio.» Il Vicario si voltò, solo per essere richiamato dalla morbida voce che dietro di lui aveva ripreso a parlare. «Maestro,» disse, «mi sono domandato se il cavaliere che ho incontrato avesse bruciato la capanna accanto al pozzo e ucciso l'uomo e i suoi uccelli messaggeri per impedire che ti giungesse la notizia del suo arrivo. E mi domando pure per quale motivo, dal momento che mi ha detto di essere di-
retto qui, egli non sia ancora arrivato, essendo pure a cavallo. Tu pensi che possa essere venuto senza che nessuno lo vedesse? Quando sono stato portato nel tuo castello c'è stata un po' di confusione. Forse, in mezzo a quel trambusto...» La frase fu lasciata in sospeso ed ebbe uno strano effetto sul Vicario. «Forse,» concluse il biondo straniero, «dovrei parlare al Gran Maestro. Forse vorrebbe sentire i dettagli direttamente dalle mie labbra.» Il Vicario aggrottò le sopracciglia. «Vedremo. Per ora, vai nella cella che ti è stata assegnata. Domani ti interrogherò più approfonditamente.» Nei minuti che seguirono a questo scambio di parole, trenta Cavalieri dell'Angelo, armati di tutto punto, a cavallo e portando delle torce, uscirono dalla fortezza di Klove e discesero nel villaggio sottostante. Per un po' essi galopparono su e giù per le viuzze fangose, poi ancora più giù lungo i banchi di sabbia dell'oasi e nella striscia di deserto tutt'intorno. Verso mezzanotte essi tornarono a Klove, portando un destriero bianco senza cavaliere. Oltre al cavallo, non avevano trovato altre tracce del cavaliere straniero. In effetti, di stranieri non ce n'erano affatto, a parte un vecchio eccentrico, uno di quegli asceti vaganti per il deserto che, di tanto in tanto, si intrufolavano nel villaggio e scomparivano di nuovo. L'asceta stava seduto tutto rannicchiato davanti a uno dei fuochi che erano accesi nel villaggio. Malgrado la posizione che lo deformava, sembrava essere stato un uomo forte in gioventù. Forse allora era stato anche raffinato. Ora, come la maggior parte degli asceti, era sudicio, con i capelli grigi e bianchi tutti arruffati che, anche se tagliati di recente, gli penzolavano sulla fronte. Nel tremolante e opaco bagliore del fuoco, il suo volto invecchiato era una massa di solchi lineari e mobili tatti incrostati di sporcizia. Il suo abito trasandato aveva uno strappo sulla schiena, e lui nascondeva le sudicie mani sotto le lunghe maniche, borbottando tra sé e sé. Quando i cavalieri gli si avvicinarono e cominciarono a fargli delle domande, lui fu preso da un accesso d'ira talmente forte che cominciò a sbavare. Quando poi i cavalieri se ne andarono, e anche il rumore del loro scorrazzare si placò, il vecchio tornò a sedersi accanto al fuoco. Lì, di fronte alle richieste della gente che a poco a poco si era radunata attorno a lui, egli acconsentì ad esporre la sua filosofia. Filosofia che si rivelò un'ammaliante interpretazione delle esotiche parabole del deserto, dei miti di quella terra antica infestata dai leoni. E mentre il vecchio parlava, la sua ripugnante e untuosa voce assumeva un ritmo ipnotico.
Quando i cavalieri ripassarono con il destriero bianco diretti verso la fortezza, la gente intorno al fuoco si voltò a guardarli facendo commenti a bassa voce e il vecchio interruppe il suo monologo. Quando poi anche l'ultima torcia svanì dietro la porta della fortezza, egli cominciò a sbraitare contro i suoi ascoltatori, domandando loro cosa stava succedendo a Klove. Accogliendo la sua preghiera, e sentendo inoltre il bisogno di essere liberati dalle loro paure, essi lo informarono. Klove era in guerra, in poche parole. In guerra, Loggia della Colomba contro Loggia della Colomba, contro i Cavalieri Bianchi di Heruzala. Come al solito, era una cosa segreta, ma il nocciolo della questione era stato un atto di pietà compiuto dal Gran Maestro di Klove quando, un mese addietro, aveva graziato un ladro che lo supplicava di risparmiargli la vita. La notizia di questo fatto era giunta in qualche modo a Heruzala. E il Gran Maestro di Heruzala aveva considerato quell'azione come una gravissima debolezza, a cui si doveva rimediare con la morte dello stesso Hulem, sotto la spada di un cavaliere scelto dalla Loggia della città. Questi cavalieri-assassini, che si preparavano a svolgere il loro compito con l'aiuto delle arti magiche, diventavano degli abilissimi automi, e nulla poteva deviarli dalla loro meta. Dopo che la sua condanna era stata pronunciata, lo sfortunato Hulem, in preda al terrore, si era rinchiuso nella Fortezza di Klove, aspettando il vendicatore con le porte sbarrate. E fuori dalla fortezza, anche gli abitanti del villaggio attendevano, nel terrore di feroci e indiscriminate ritorsioni contro di loro. Le stazioni dei piccioni viaggiatori sparse per la regione, che erano fedeli a Hulem, avevano prestato giuramento che lo avrebbero avvertito, inviando dei piccioni con un segno particolare che significava che l'assassino si stava avvicinando. Ma fino allora non era arrivato alcun volatile. Dalla testimonianza dell'uomo che poco prima era arrivato al villaggio, si pensò che forse erano state distrutte tutte le stazioni. Fortunatamente però, tramite questo stesso straniero di nome Cyrion, Klove aveva saputo che il pericolo era in agguato nei paraggi. Nella Fortezza era stato studiato un piano per affrontare l'assassino: per l'influsso del rituale, finché non avesse portato a termine la sua missione omicida, quest'uomo sarebbe stato inaccessibile al dolore e temporaneamente invulnerabile a lance spade o frecce. Perciò si pensò di fargli finire addosso un calderone di pece bollente dal torrione della porta. Con tutta la sua invulnerabilità non sarebbe riuscito a sopravvivere a un simile attacco. Il vecchio asceta sembrò quasi sorridere.
«Supponete,» ipotizzò, «che lo scaltro assassino si sia già immaginato che si ricorrerà a simili difese. Non credete che prenderà le sue precauzioni contro una tale eventualità?» «Ma,» obiettò la gente, «lui deve venire, e quindi sarà visto. Chi non noterebbe un uomo come quello, vestito di maglia d'acciaio e coperto da un mantello bianco, anche senza il cavallo?» «Chi invero,» fece eco il vecchio, e nascose il mento sotto la tunica strappata. Ora stava palesemente sorridendo. Subito dopo fu preso da una crisi isterica di notevole entità. Si gettò in terra prendendo a pugni l'aria e sbavando a profusione. La gente si fece indietro con riverenza, osservando con sgomenta ammirazione questa dimostrazione di Divino Invasamento. Poi la crisi terminò, e l'asceta si alzò in piedi. «Devo andare alla fortezza,» disse, con un tono che non ammetteva replica. «Il Cielo mi ha concesso di prevedere quale sarà il destino del Gran Maestro Hulem.» La gente del villaggio di Klove, stordita e quasi delirante per la notte insonne e l'ansia diffusa, e suggestionata dai racconti del vecchio, decise che si doveva obbedire ai voleri del Cielo. Sotto la volta della notte del deserto, fredda, nera e tutta tappezzata di stelle, la gente del villaggio condusse l'asceta alle porte della fortezza. Lì nacque un alterco tra le sentinelle e gli abitanti del villaggio. L'asceta si mise a sedere a terra in atteggiamento di disprezzo, malefico, arrogante e silenzioso. Nel mezzo della contesa, sui bastioni apparve il Vicario che, apertosi la strada tra gli uomini e le torce, si era poi sporto per vedere il vecchio. Riccioli Fulvi era ancora vestito; la nervosa vigilanza aveva tenuto anche lui sveglio, e lontano dal suo duro pagliericcio. «Dite che il vecchio ha avuto una visione?» domandò il Vicario. Lui non sembrava uno disposto a stare dietro ai vaneggiamenti di un vagabondo epilettico, ma forse ormai era arrivato al punto che si sarebbe aggrappato a qualsiasi cosa. Alla sua domanda, in ogni caso, il vecchio fu spronato a rispondere. «Sono a conoscenza del destino del Gran Maestro,» tuonò il vecchio con dei polmoni sorprendentemente potenti. «Lo sei davvero?» Il Vicario si rivolse alla sentinella capo. Non udito dalla folla lì sotto, disse: «O Cielo, ci hai forse mandato questo vecchio perché ci aiuti? Certo, ci è stato insegnato di non rifiutare mai nessun se-
gno, qualunque esso sia. Se si pensa che Dio segnala anche la morte di un passero...» Il capitano annuì. L'ordine fu pronunciato; i cancelli della Fortezza di Klove furono aperti e i denti d'acciaio della saracinesca si alzarono. Il vecchio passò attraverso la porta e fu subito accerchiato dai cavalieri. Gli abitanti del villaggio furono mandati via, scalpitanti per la frustrazione. Strettamente sorvegliato, ma ignorando la sorveglianza, il repellente asceta fu introdotto attraverso le mura esterne nella fortezza, poi oltre il cancello interno e su per la scala, e infine fu mandato da solo nella stanza privata del Vicario. Certamente a un asceta come lui, abituato a una poverissima esistenza tra le grotte e le oasi del deserto, la stanza doveva fare una certa impressione. Del resto essa non era paragonabile alla spiritualità delle celle dei piani inferiori. Le pareti erano abbellite da arazzi e tappeti. Su un leggio stava aperto in bella mostra un grosso volume stupendamente decorato da illustrazioni colorate e fermagli ingemmati, che luccicavano alla luce del focolare allo stesso modo delle spade e degli scudi sui loro sostegni. Il Vicario beveva del vino da una coppa d'argento cesellato, mentre osservava il secondo ospite inatteso della nottata. «Bene, signore. Puoi raccontare la tua visione, ora.» L'asceta era un uomo coraggioso: si raschiò forte la gola e sputò nel fuoco. «La racconterò al Gran Maestro.» «Io agisco per conto del Gran Maestro.» «E io agisco per conto di Dio.» «Ne sei sicuro?» Il volto del Vicario appariva estremamente attento. «Vorresti dirmi che sei il portavoce di Dio?» «A portavoce, e la spada.» Il Vicario restò impietrito. Le guance gli impallidirono. «Faresti meglio a spiegarti.» «La spada delle cattive notizie che ho per Hulem. Siamo soli. Ho riflettuto, e ho deciso di rivelare a te la mia visione. Il Gran Maestro morirà stanotte, e nessuno lo può impedire. Per te invece c'è la gloria. La tua stella salirà con il declinare di quella di Hulem.» «Quello che dici è molto grave,» disse il Vicario. La voce gli tremò un poco, ma riuscì subito a controllarla. «Forse sarebbe meglio che tu parlassi con il Gran Maestro... io non ho l'autorità per trattare con te.» Si mosse bruscamente, spostò un arazzo, e diede un colpetto su un punto
del muro che esso copriva. Il muro si ritrasse, rivelando una stretta scala. «Questa scala collega il mio appartamento con quello del Gran Maestro Hulem. È la via più breve.» «Non sarebbe meglio,» sussurrò carezzevole il vecchio, «che prima mi controllassi, per vedere se ho con me qualche arma letale? Ne potrei nascondere un assortimento sotto questa tunica.» Il Vicario si tirò indietro, probabilmente immaginandosi un contatto ravvicinato con l'abito disgustosamente sporco dell'asceta. «Ho visto molti predicatori come te. Non vanno in giro armati.» «No, è vero. Non vanno armati.» Il Vicario si avviò su per la scala, e il vecchio gli strisciò dietro. In cima alla scala una solida porta sbarrava il cammino. Riccioli Fulvi batté tre forti colpi con il pugno, e chiamò oltre la porta: «Gran Maestro, sono il Vicario.» Una gola di ferro rispose con una sola parola: «Aspetta.» Qualche attimo più tardi, dall'altra parte si sentì sollevare una sbarra, e la pesante porta fu spalancata. Quello che accadde subito dopo fu qualcosa di vorticoso e selvaggio, e poté essere esaminato solo con uno sguardo retrospettivo. Era sembrato come se il Vicario avesse tentato di buttarsi da parte, e di spingere nello stesso tempo il vecchio oltre la porta. Questo era stato solo un tentativo. Ciò che era realmente accaduto era stato che il vecchio asceta, inaspettatamente agile e forte, aveva afferrato il Vicario e aveva catapultato quella figura fulva all'interno della stanza, balzandovi dentro anche lui al seguito dell'altro che precipitava, e chiudendo poi la porta con un calcio. La successiva inaspettata azione del vecchio era stata poi quella di piombare felinamente su Riccioli Fulvi, che stava a gambe all'aria, e di tramortirlo con un colpo secco alla mascella. Poi il vecchio si era alzato per fronteggiare il Gran Maestro della Fortezza di Klove. Hulem stava in piedi, comprensibilmente stordito; forse un po' più che leggermente impaurito. Il lungo abito bianco con il bavero ornato da colombe dorate lasciava intravedere la maglia d'acciaio, mentre sul tavolo giaceva una spada, segni evidenti, questi, del suo predisporsi alla lotta. Ma il volto severo e gli occhi di ghiaccio mostravano coraggio e ardore. Il vecchio asceta si piegò con grazia in un profondo inchino. Poi con un amichevole sorriso disse, «Non darti pena di impugnare la spada. Se io fossi quello che temi, difficilmente la tua spada mi fermerebbe. E poi ti a-
vrei già assalito, non credi?» Hulem continuava a fissare questo vecchio relitto umano che aveva improvvisamente cominciato a parlare con la voce seducente di un uomo giovane. «Dunque non sei quello mandato da Heruzala per uccidermi?» disse Hulem saldo come la roccia. «Lui lo credeva,» disse il vecchio-giovane asceta indicando il Vicario privo di sensi, «e quando ne fu quasi certo, e non c'erano altri testimoni che potevano assistere ai suoi misfatti, non poté più aspettare di condurmi da te. Avevi una serpe in seno, eh, signore?» «Sapevo che qualcuno aveva diffuso a Heruzala la notizia della mia clemenza con il ladro. Non mi ero accorto di quanto la spina fosse vicina a me. Ma se il mio Vicario è la serpe, tu chi sei? E, riguardo all'altra questione, dov'è ora il cavaliere assassino?» Il vecchio glielo disse. Quando il cavaliere bianco era emerso dal fumo della capanna bruciata vicino al pozzo, Cyrion aveva già dei sospetti su quali fossero i suoi moventi. Uccidere dei piccioni talmente mansueti da volare verso la spada piuttosto che ritrarsene, significava voler impedire ai messaggi mandati da quella stazione di raggiungere la loro destinazione. Uccidere il proprietario dei piccioni e bruciargli la capanna mostrava poi una determinazione intesa a non far divulgare le notizie neanche per bocca. Cyrion, che era arrivato al pozzo solo per bere, per il cavaliere era semplicemente un altro probabile divulgatore da uccidere. Così, quando il cavaliere aveva lanciato la cuspide di marmo, Cyrion si era già preparato a schivare qualsiasi cosa gli fosse venuta incontro, perché gli sarebbe stata certamente fatale. Ma poi, nella frazione di secondo durante il volo del razzo, Cyrion con grande difficoltà si era rimesso nella traiettoria dell'arma, avendo capito che il colpo, dopo tutto, non era inteso ad ucciderlo, e che lui si stava scansando troppo. Era riuscito quindi a riguadagnare abbastanza terreno da farsi fendere i capelli e graffiare la tempia. Molto tempo prima, tra i nomadi, Cyrion aveva imparato a simulare lo svenimento, sciogliendo tutti i muscoli del corpo ed assumendo una respirazione debolissima. Perciò ora aveva messo in pratica quegli insegnamenti, lasciandosi cadere sulla sabbia e attendendo con interesse lo svolgersi degli eventi. Che in effetti furono molto interessanti. Il cavaliere, sceso dal suo destriero, aveva cominciato a spogliare con
metodo Cyrion, privandolo anche della spada e degli anelli. Poi si era svestito anche lui, togliendosi maglia d'acciaio, mantello, elmo, scudo e spada, in poche parole tutto, e indossando, al posto di questi, gli abiti di Cyrion con una sola differenza, che la spada nel fodero rosso era stata legata sotto la tunica, nascosta. Ogni volta che ne aveva avuto l'opportunità, Cyrion, da sotto le palpebre, aveva spiato il cavaliere mentre faceva queste cose. Non si era stupito quando il cavaliere lo aveva coperto con il suo candido mantello per proteggerlo dal sole, né quando aveva raccolto il piccolo marmo dentellato che giaceva accanto a Cyrion e con esso si era inciso la fronte fino a farne sgorgare il sangue scarlatto. L'uomo, che apparteneva alla chiara razza occidentale, come tutti i Cavalieri dell'Angelo, era biondo quasi come Cyrion. Il sangue che gli tingeva il viso aveva un effetto drammatico, ma lui ovviamente non sentiva alcun dolore dalla maliziosa ferita che si era procurato. L'assenza di dolore, unita al suo aspetto, lo identificava con quello che Cyrion aveva ipotizzato: uno di quegli ignobili e magicamente esaltati assassini, che, per sua stessa ammissione, era diretto a Klove. Quando il cavaliere, nei panni di Cyrion ma montando il suo bianco destriero, si era allontanato fino a scomparire, Cyrion era "rinvenuto". Aveva già fatto il punto della situazione. A Klove si temeva con ansia l'arrivo di un cavaliere assassino, per difendersi dal quale erano state prese delle misure. Il cavaliere, che aveva trovato un uomo dalla pelle chiara come la sua, aveva deciso, con la sua mente assassina, di lasciarlo vivere, sostituendo se stesso a lui e viceversa. Risvegliandosi nudo e ferito nel deserto rovente, si poteva immaginare come avrebbe reagito qualunque uomo. Per cominciare, si sarebbe protetto con gli unici abiti disponibili, la maglia d'acciaio e il mantello del cavaliere, lasciati così convenientemente a portata di mano. Poi, sulle tracce del suo aggressore, si sarebbe di sicuro messo in cammino verso Klove, con l'intenzione di provocare un tumulto. Ma lì sarebbe stato scambiato per quello stesso aggressore e ucciso con qualche metodo sicuro, forse con la pece bollente rovesciata dai bastioni. Un perfetto capro espiatorio. Dalla sua posizione avvantaggiata, il vero assassino avrebbe nel frattempo già raggiunto Klove. Assumendo il nome della sua vittima e rivendicandone le lagnanze — l'aggressione da parte di un folle cavaliere — egli avrebbe avuto libero accesso alla fortezza come messaggero di notizie. Il taglio sulla fronte, la cui gravità egli avrebbe gonfiato, avrebbe ulteriormente rassicu-
rato sul fatto che non era lui l'assassino, magicamente insensibile al dolore. Alla fine, una volta che il finto cavaliere, giunto a Klove, fosse stato eliminato, la vera vittima dell'assassino sarebbe naturalmente uscita allo scoperto per finire direttamente nelle braccia della morte. Avendo chiaro tutto questo, Cyrion avrebbe potuto svignarsela nella direzione opposta a Klove, ma non aveva alcuna intenzione di lasciare il fratto non colto. E poi al cavaliere assassino era anche sfuggito qualcosa. I suoi non erano i soli vestiti di cui Cyrion poteva disporre. C'erano anche quelli dell'uomo ucciso. Cyrion aveva lavato in fretta quei vestiti dal sangue usando l'acqua del pozzo, poi li aveva sporcati di fango, sabbia e cenere presa dalle macerie fumanti della capanna. Sulla schiena era rimasto lo squarcio prodotto dalla spada, che appariva semplicemente come un ulteriore segno di pia trasandatezza. Poi Cyrion si era dato da fare sulla pelle e sui capelli, servendosi del grasso dei piccioni morti e della cenere e del carbone della capanna. In poco tempo il sole gli aveva cotto il volto, fino a renderlo un groviglio di rughe, mentre i capelli erano diventati grigi brandelli scoloriti. Così Cyrion era penetrato a Klove nei panni di un asceta piuttosto che di un cavaliere, e con le sue storie aveva conquistato il cuore della gente. Nel frattempo sapeva che il falso Cyrion aspettava quello vero con estrema impazienza. Penetrare nella fortezza era stato facile. Un teatrale invasamento, una visione profetica. Arrivare al Gran Maestro sarebbe stato molto più difficile se Cyrion non avesse incontrato sulla sua strada un verme dai capelli fulvi. L'asceta aveva già cominciato a servirsi della brocca e del lavabo del Gran Maestro. Il Gran Maestro era rimasto seduto per tutto il tempo, assistendo attonito all'inverosimile metamorfosi di quella creatura che or a gli stava di fronte contemplandolo freddamente, e che ai suoi occhi doveva apparire molto simile all'Angelo che aveva fondato l'Ordine delle Colombe. «Quello che hai fatto è incredibile, e la tua storia lo è ancora di più.» «Allora credici,» raccomandò Cyrion. «Sono costretto a farlo. Tu, uno straniero, sembri essere l'unico uomo di cui mi possa fidare.» «Oh, non credo che sia così. Il tuo Vicario aveva paura di ordire apertamente le sue trame al cospetto del resto dei tuoi uomini. Dunque, si presume che loro ti siano fedeli.»
«E quindi l'assassino si trova dentro la fortezza, fingendo di essere te. Direi che ora la pece bollente non serve più. Di solito non chiedo consigli, ma questa volta lo farò. Dimmi, cosa dovrei fare?» «Quello che il tuo aspirante assassino sta aspettando. Mandare qualcuno da lui per dirgli che il cavaliere è arrivato ed è stato ucciso alle porte della fortezza, e che tu ora vorresti parlare a... Cyrion, per ringraziarlo. Concedergli l'udienza che sta attendendo con impazienza.» «Ma mi ucciderà. Loro sono inarrestabili, invulnerabili finché l'omicidio non è stato compiuto.» «Lo so. Invulnerabili, inarrestabili, astuti, ma trascurati nei dettagli. Ti descrivo il piano.» Neanche mezz'ora più tardi, il finto Cyrion, ricevuto l'invito con apparente tranquillità, fu condotto nella camera del Gran Maestro di Klove, la cui porta fu chiusa sui due. L'assassino non indugiò. Bastò un'occhiata alla figura vestita e coperta dall'elmo che stava dritta sulla sedia. Muto e demoniaco, quell'uomo che era ormai soltanto una macchina di morte si mise a correre, sfoderando la spada da sotto la tunica durante la corsa. Sollevata la lama con entrambe le mani, egli sferrò contro la figura seduta un micidiale e terribile colpo che ne tranciò le corde vocali e la trachea, quasi staccando la testa dal resto del corpo. Poi, lasciata cadere la spada, l'assassino piombò sulle ginocchia con gli occhi di vetro e la lingua penzolante, come un idiota, la meta raggiunta, l'invulnerabilità perduta. Mentre stava inginocchiato in quel modo, un altro gli si avvicinò pian piano da dietro le spalle e lo decapitò. Il Gran Maestro, con in pugno una spada rossa, stava fermo davanti al corpo senza testa del suo nemico. Non un tremore agitava il corpo di Hulem. Neanche quando egli alzò lo sguardo verso il cadavere insanguinato che giaceva nella sua sedia indossando i suoi abiti. Sopra il collo squarciato e sotto la maschera dell'elmo con la sua cresta di oro zecchino, il volto fulvo del Maestro Vicario era inespressivo. Non aveva mai ripreso conoscenza, e in un certo senso era stato un peccato, perché aveva avuto ciò che voleva, seppure per poco e non certo nel modo che lui si aspettava. Per dieci minuti era stato Gran Maestro di Klove. Ora Hulem parlò. «Ho vinto la prima battaglia, almeno. Anche se sono ancora in guerra con la Loggia della Colomba di Heruzala.»
Cyrion lo guardò. «Dipende. Io credo che questa sia stata una prova a cui ti hanno voluto sottoporre. Hanno detto che dovevi essere punito per la tua debolezza. Manda loro queste due teste in una bella cassa. Con un messaggio: 'Questo è il modo in cui l'uomo debole dà il benvenuto ai suoi nemici'.» 5° INTERLUDIO Nel momento in cui era terminata la storia dei Cavalieri dell'Angelo, anche la brunetta aveva finito il suo pasto. Mentre il resto degli astanti, compreso il corpulento prete, era gravitato attorno al tavolo di Roilant, lei e la sua ancella si erano tenute distanti, graziosamente incorniciate dai fasci di giacinti e gigli rossi che avevano portato con sé. Il vino che aveva ordinato il dotto era finito, e i mercanti ne avevano ordinato un altro paio di fiaschi. Si stava discutendo delle straordinarie capacità di Cyrion, non solo abilissimo spadaccino e risolutore di misteri — per Lucifel! — ma anche maestro del travestimento improvvisato. Roilant, che durante tutto il racconto era rimasto seduto a rimuginare, non partecipava alla discussione. Era chiaro che c'era qualcosa che lo preoccupava. Ma lui sembrava non sapere con chiarezza cosa fosse. Il vino arrivò, e fu messo sul tavolo insieme a un fiasco nero che non era stato ordinato. «Cos'è questo?» Il locandiere si precipitò al tavolo. «Questo è il nostro vino migliore in assoluto. È per il gentiluomo dai capelli rossi.» «Ma io non l'ho ordinato,» protestò ansiosamente Roilant «Infatti. Proprio un attimo fa un bambino si è presentato alla porta della cucina con dei soldi e il messaggio che dovevamo servirti questo vino sublime.» La tavolata diede segni di ammirazione. «Da chi è stato mandato il bambino?» domandò il dotto. «Lui ha detto di essere stato mandato da un uomo biondo che lo ha fermato per strada.» «Deve essere un biondo stupido per affidare i suoi soldi a un bambino di strada,» disse con consapevolezza una delle prostitute, forse per qualche reminiscenza della propria infanzia. «Eppure sembra che questo bambino abbia meritato la sua fiducia.»
«Ma,» disse il dotto, «non devi dare qualche spiegazione al gentiluomo insieme al suo vino?» «Non ne ho alcuna,» disse l'oste del Giardino del Miele. Roilant, senza dire una parola, si mise a guardare il fiasco come se quello potesse parlargli. Fu il mercante ingioiellato ad annunciare: «Non può essere che lui abbia saputo che lo stavi cercando e ti abbia mandato questo fiasco come ricompensa? Oppure per scherzo?» «Sembrerebbe quel genere di scherzi che lui ama fare,» intonò confortante il prete. «Da quello che sento, deve possedere un ingegno brillante, anche se non sempre mite.» Roilant afferrò il braccio del locandiere. «È in cucina il bambino?» «No, è corso via. Dopo aver rubato una torta che stava vicino alla porta. È stata una giornata dura questa, signore. Prima quel vecchio profeta che non ha pagato il conto, poi quei disgraziati dei soldati del Re che non pagano mai e creano trambusto dovunque vadano, ora pure piccoli ladruncoli. E quei maledetti schiavi che si lamentano sempre...» Senza complimenti il locandiere se ne andò. Roilant sedeva immobile come una pietra mentre la compagnia continuava a esaminare il nero fiasco di vino. Alla fine qualcuno lo aprì al suo posto e versò da bere per tutti. Roilant sembrò non farci caso. Molto gradatamente, sul suo viso paffuto cominciò ad apparire l'ombra di un terribile sospetto. Volse lo sguardo verso il vano della finestra, una, due volte, poi fissò il vuoto con occhio torvo.... Non era possibile, o forse sì? «Il saggio,» sbottò alla fine. «Quella bestia puzzolente,» disse la seconda prostituta, dalle palpebre tinte di viola. «Chiamarci giovenche.» «Ma,» disse Roilant. Si volse disperatamente verso il carovaniere che aveva raccontato la storia del cavaliere assassino. «Se nella storia Cyrion si era travestito proprio come un asceta vagabondo, non credi che sia possibile...?» L'ipotesi lasciò tutti di stucco e provocò numerose imprecazioni, subito cortesemente represse in obbedienza alla schiarita di gola del prete, e incontrollati commenti. Su questo vociare si levò la voce del dotto. «I due soldati, però, sembravano conoscerlo per quello che era, un sa-
piente e un agitatore. Io stesso,» continuò il dotto, «ho avuto il dubbio piacere di un lungo dibattito con lui. La sua scienza era contestabile, ma, in sostanza, profonda. Credo anche che, a una tale vicinanza, mi sarei accorto se non fosse stato quello che sembrava.» «Non lo darei per scontato,» disse il prete. «Cyrion è un mago del travestimento e un attore impareggiabile. Anche se non riesco ad immaginarne il motivo, so che è una cosa possibile che lui sia stato qui in mezzo a noi e ci abbia beffati tutti. Mandandoci poi questo vino per tormentare il nostro generoso e giovane benefattore.» Il vivace chiacchierio su questo argomento si dilungò per qualche minuto, finché il generoso e giovane benefattore non si alzò in piedi, per essere di nuovo spinto sulla sedia. «No, no. Resta con noi. Ormai non lo prenderesti più.» Vuotarono nella sua coppa il restante vino del fiasco che gli era stato offerto e lo esortarono a bere. Roilant, con aria sconfitta, bevve. «Infatti,» disse benevolo il prete, «il travestimento potrebbe non limitarsi solo al saggio. Cyrion potrebbe ancora trovarsi qui, seduto in mezzo a noi. Chiunque in questa stanza potrebbe essere lui travestito.» «Tranne, naturalmente, le signore,» disse il mercante ingioiellato. Il prete non cavillò sull'appropriatezza del termine. Sembrava già aver deciso di far finta che le "signore" fossero davvero tali, per il bene della compagnia. Cavillò invece sulla restrizione a un sesso «Anche di questo, non possiamo essere assolutamente certi.» A tali parole si udirono ebbri gridolini. «Quando con i fratelli mi trovavo ad Andriok, mi accadde di sentire di un fatto veramente singolare. Riguardava l'eterna battaglia tra il Bene e il Male, ma stavolta l'innocenza e la pietà erano state incredibilmente snaturate per servire ai poteri del Demonio. Nella storia è coinvolto il nome di Cyrion.» Il cerchio si ricompose in vista di un ulteriore intrattenimento. Roilant si versò in gola il pregiato vino fino all'ultima goccia e poi allungò con determinazione la mano per impossessarsi di uno degli altri fiaschi. «C'era una volta,» cominciò il prete, «un uomo ricco che aveva una bella figlia...» UNA PERFIDA AMBRA «È vero che dicono che l'anello sia maledetto,» disse calmo il giovane.
«Ma per quel che mi riguarda, non do credito a queste cose. Io non credo ai demoni.» «Peggio per te, se mai ti capiterà di incontrarne uno,» disse Cyrion con un sorriso malinconico. «Be', e che avrei dovuto fare? Negli stupidi eccessi della mia prima giovinezza avevo dilapidato tutte le ricchezze della mia famiglia. Ero stato traviato da volgari amicizie. Poi, pentitomi amaramente dei miei errori, lottavo per ricostruire le mie ricchezze svanite. Nel bel mezzo di questa lotta, camminando un mattino per la città, vidi un angelo trasportato su una lettiga, la più bella ragazza di tutta Andriok: Berdice, figlia del mercante di seta Sarmur. Sarmur è ricco, io, a quell'epoca, ero senza un soldo. Ma, nel nome del mio lignaggio, egli mi permise di sposare la sua bambina, offrendomi anche un'eccellente dote. E io cos'ho da darle in cambio? Niente? Mi è venuto naturale pensare a quest'anello, l'unica ricchezza che non ho dissipato. La mia famiglia lo ha conservato, generazione dopo generazione. Deve restare chiuso in una scatola, invece di ornare la mano della mia deliziosa moglie?» Biondo, bello, e in apparenza solo un poco educatamente annoiato, Cyrion osservava l'anello in questione. Giaceva in un nido di velluto azzurro che, per contrasto, lo rendeva tanto più bello e più ricco; era intagliato nell'ambra e incastonato in oro pesante, e aveva inciso sulla superficie un disegno con un giglio, una rondine in volo, e un sole radioso. Naturalmente era splendido. Naturalmente Cyrion ne aveva già sentito parlare. Aveva un soprannome: Addio. «Che ne dici Cyrion? Che consiglio mi dai? Ammetto che c'è la leggenda della maledizione, ma per un centinaio di anni nessuno è morto a causa dell'anello.» «Nessuno l'ha neanche indossato durante tutto questo tempo.» Il giovane sospirò. Aveva un volto forte, attraente, reso ancora più attraente da due brillanti occhi azzurri, e tradito da una bocca dissoluta. Il suo nome era Volf. Veniva dall'occidente, mentre la sua sposa e il suo anello avevano origini orientali. Aveva incontrato Cyrion in una costosa taverna sulla Via del Paradiso. L'incontro era stato casuale, ma era sembrato come se Volf conoscesse già la persona e il nome di Cyrion. Poteva essere che egli lo stesse cercando di proposito per un consiglio, visto che in giro si sapeva della rigorosa saggezza di Cyrion. «Trovo interessante l'incisione,» disse Cyrion. «Oh, sì. Il giglio, simbolo dell'anima; la rondine in volo, simbolo di li-
bertà; il sole, simbolo del cielo.» «Vedo che hai riflettuto sulla faccenda,» disse ironicamente Cyrion. «Ma ora dimmi quello che sai a proposito della maledizione.» Volf fece un largo sorriso. «Quello che so dimostra che la leggenda è solamente una leggenda, una favola per spaventare i ladri, nient' altro. Narra di una regina orientale che desiderava donare al marito un anello come simbolo della sua passione. Volendo un anello eccezionale, aveva chiesto a un demone di forgiarlo. Per annullare eventuali malefici da parte del demone, gli aveva fatto incidere sull'ambra i simboli — tutti connessi alle forze del Bene — del giglio, della rondine, e del sole. Il demone però non aveva badato a questi simboli. La regina, una volta che il marito stava andando in battaglia, gli aveva donato l'anello, sperando così di proteggerlo. Ma non appena aveva levato la spada e spronato il cavallo per andare incontro al nemico, il re era caduto dalla sella morto stecchito. Non aveva neanche un graffio, ma sul suo volto era scolpita una smorfia di supremo terrore. «La battaglia fu persa, e l'anello passò al conquistatore, che dimenticò l'evento. Egli indossò l'anello per tre anni senza che gli succedesse niente, sebbene fosse un empio farabutto. Poi un giorno andò a caccia di leoni nel deserto. Nessuno si trovava vicino a lui, ma improvvisamente il suo cavallo inciampò. Un attimo dopo l'uomo era morto. Ancora una volta nessun aggressore, nessuna ferita, ma solo una smorfia di terrore. Ma tutto questo è chiaramente assurdo. Offende la nostra ragione. Devo continuare?» «Se ti secca, non ce n'è bisogno.» Cyrion si alzò. «No, no. Aspetta. Conto su un tuo consiglio, mio caro signore. Continuerò. L'anello fu ereditato dal figlio del conquistatore, che per paura non lo indossò mai. Un secolo dopo, un mago lo rubò dal tesoro del conquistatore, affascinato dai suoi magici poteri. Per qualche mese il mago lo indossò senza riportare danno. Poi un terremoto distrusse la sua casa e lui morì. L'anello fu quindi rubato nelle macerie da alcuni briganti. Il capo dei briganti lo indossò solo per un giorno. Era stato catturato dai soldati del principe di quella regione, ma mentre veniva condotto all'esecuzione era caduto al suolo senza vita. L'anello fu allora preso da uno dei soldati, che lo donò alla moglie incinta. La donna morì durante il parto — il suo volto fisso nell'orrore, naturalmente, e il bambino nato morto. Per un certo tempo l'anello rimase sepolto insieme a lei, ma quando la tomba fu saccheggiata esso entrò in possesso della mia famiglia. Si crede che per causa sua siano morti ben tre dei miei antenati, ma io imputo le loro morti alla sfortuna.
Uno cessò di vivere cadendo da un muro di cui aveva ceduto il parapetto. Un altro mori in mare durante una tempesta. E l'ultimo ebbe un colpo durante un'eclissi di sole. Da allora l'anello non è stato mai più indossato.» «E tu non lo hai mai indossato?» domandò Cyrion con innocenza. «Non ci ho mai pensato, nella mia povertà. Ma non ho paura di farlo. Guarda.» Volf levò l'anello dal giaciglio di velluto e lo infilò nel mignolo della mano sinistra. Rise, senza alcun nervosismo. «Se l'anello porta con sé un destino crudele, che esso mi falci. Ma io non ci credo. Gli uomini sono sempre stati soggetti alla morte. I decessi dei miei antenati si possono spiegare senza bisogno di ricorrere a una maledizione. Anche le morti della leggenda sono spiegabili.» «Nonostante questo,» disse Cyrion, «la morte e l'anello sembrano tenersi per mano.» «Ma senza un disegno: uomini che muoiono dopo tre anni, tre mesi, un giorno, o anche meno! E in modi così diversi. Alcuni senza motivo apparente, altri per il terremoto, la tempesta, e una donna durante il travaglio del parto. No. Coincidenze, Cyrion. Se non è così dovrò morire anch'io. Ho intenzione di indossare questo anello per un giorno e non oltre. Se dobbiamo credere alla storia che tutti coloro che indossano l'ambra ne restano uccisi, il demonio non ha altra scelta che uccidermi durante questo tempo. Sei d'accordo con me?» «Mi sembra fattibile,» disse Cyrion. «Stanotte a mezzanotte,» disse Volf, con gli occhi che gli brillavano, «mi toglierò l'anello. A quell'ora lo darò a mia moglie. Verrai a farci visita stasera? Mangia con noi, e fermati fino a mezzanotte. Conto che non ci sarà alcun pericolo, ma se anche fosse, dicono che tu sia più forte dei demoni, o di quello che viene fatto passare per tale. In tua compagnia, Berdice sarà doppiamente protetta.» Cyrion andò verso la porta. «A stasera, allora. Sempre che tu abbia voglia di restare solo con il demone dell'anello.» «Lo desidero ardentemente,» disse Volf, e rise ancora. Cyrion si accomiatò. La casa di Volf, solo una parte della dote che la figlia di Sarmur gli aveva portato, era una casa opulenta. Da un cancello di ferro battuto che dava sulla strada si entrava in un cortile pieno di fiori e di fontane. Poi si vedevano due piani di pietra tinta di bianco e di rosa, con colonne di legno di
palma e tendaggi di seta scelti con cura. In nessun posto c'era più seta che nell'appartamento della stessa Berdice. Tappezzerie impalpabili come fumo e dense come la melassa pendevano scintillanti dagli anelli, drappeggiate da cordoni di seta blu, verde e porpora. In cornici d'argento brillavano specchi di vetro. Uccelli come l'arcobaleno cinguettavano da elaborate gabbie di vimini. Berdice, al centro della camera, cinguettava anche lei. Era bella, non c'era dubbio. I capelli, sciolti e di un nero lucente, le scendevano fino alla vita sottilissima. La pelle, dal delicatissimo tono ambrato, si tingeva di un tenue rosa sulle guance e sulle labbra. Occhi di gazzella, mani delicate, seno florido, davano un'ulteriore prova di perfezione. Di bellezza ne aveva, e da buttare. Aveva anche, dall'età di tredici anni, una paralisi dalla vita in giù. Malgrado le prerogative di Berdice, i suoi attributi fisici e le sue ricchezze, l'infermità si era rivelata un ostacolo nella ricerca di un marito. Poi l'affascinante Volf, povero, ma di famiglia nobile e di sangue occidentale, si era innamorato di lei, e quando aveva scoperto la verità, si era semplicemente messo a piangere sulla spalla di Sarmur, sostenendo che l'infermità gli rendeva Berdice ancora più cara, che forse l'adorazione che aveva per lei sarebbe riuscita a curare la sua malattia, e che, anche se questo non fosse avvenuto, lui non avrebbe potuto amare nessun'altra donna. Fortunatamente, Berdice non aveva cervello. Questo l'aveva aiutata a spazzar via le sue afflizioni. Stava sempre a cinguettare. Non smetteva quasi mai. Questo poteva risultare irritante, malgrado la sua grazia e il suo coraggio. In effetti lo era. In quel momento stava facendo una breve pausa. Un'ancella era entrata, e aveva detto: «C'è una donna al cancello. Chiede di leggerti la mano. Non ho mai visto nessuna come lei prima d'ora, né una donna così imponente. Le dico di andarsene?» «Dille di venire subito qui,» cinguettò Berdice. Le piaceva sentirsi occupata durante le lunghe ore in cui il marito era assente, trattenuto in qualche taverna o in simili ritrovi. La casa era un continuo andirivieni di ciarlatani di ogni genere. Ora ne era venuta una che non era come le altre. Era una donna molto alta, con un volto fiero dai lineamenti scolpiti. Quel volto, che lei aveva abilmente ma pesantemente imbellettato, era un volto troppo mascolino per poterlo trovare bello, anche se in qualche modo la donna era attraente quanto Berdice, e forse ancor di più. Aveva la testa
avvolta in una fascia di tessuto nero ricamato di perle, e indossava una larga tunica. Braccialetti smaltati le tintinnavano ai polsi. Le mani, grandi ma belle, scintillavano di anelli. Quando fu al cospetto della figlia di Sarmur, la donna si inchinò fin quasi a toccare terra, con la fiammeggiante cortesia di una che segretamente governava il mondo. «Mia eterea padrona,» sussurrò, con una voce roca ma stranamente musicale, «mi permetti di dischiudere per te l'occulto sapere dell'universo?» «Può davsi,» disse Berdice. «Ma qual è il tuo pvezzo?» «Te lo dico subito, tenera padrona.» L'imponente chiromante si mise a sedere ai piedi di Berdice, e ispirata afferrò la mano della ragazza in una morsa inanellata. «Tu soffri,» proferì la donna. «No.» Berdice sembrava sorpresa. «Sì,» disse la chiromante. «Tu non puoi camminare.» «Che bvava,» disse Berdice. Per un attimo i suoi occhi di gazzella apparvero indifesi e disperati. Poi si fecero di vetro, e lei tornò a cinguettare: «Come facevi a sapevlo?» Quasi tutti ad Andriok sapevano della figlia di Sarmur. «Il mio talento per la divinazione,» sussurrò con modestia la chiromante. «Ma,» sibilò, «cosa può aver provocato questa tragedia? Un incidente...» «È stato un... gatto,» svelò Berdice impallidendo. «Vedo un gatto tra le tue mani,» la interruppe subito la chiromante. «Tu hai paura dei gatti. Il gatto ti ha spaventata.» «Stavo dovmendo,» confidò Berdice. «Quando mi svegliai vidi il... gatto... che dovmiva sul mio gvembo. Gvidavo e gvidavo, e lui mi fissava con il suo sguavdo maligno e fevoce. Poi mi movse e scappò via. Da quel momento non ho più camminato. Non ho mai potuto soffvive i... gatti.» Berdice rabbrividì e chiuse gli occhi. Poi gemendo disse, «Mio Dio salvami.» «Tuo marito sa di questo tuo terrore?» domandò la chiromante. «Oh, cevto,» disse Berdice. Si rianimò, e cinguettò: «Cosa avvevvà domani?» «La notte verrà prima del giorno,» disse la donna. «Cerca di capire, ragazza, ho letto le tue stelle. Tu sei nelle fauci del pericolo, sei sull'orlo della tomba.» Le ancelle, ma non Berdice, si misero a gridare infuriate. La chiromante le zittì con una sola occhiata di quei brillanti occhi incrostati di ombretto. «Manda via questi pipistrelli,» ordinò. I pipistrelli furono mandati via. «Io parlo perché voglio salvarti la vita,» disse a Berdice la chiromante.
«Mio Dio salvami,» ripeté Berdice. «Ecco degli amuleti per proteggerti,» le disse la chiromante. «Indossali, e non rivelare a nessuno la loro provenienza né la loro natura. Tu sopravviverai per la loro efficacia.» Berdice guardò gli amuleti e cercò di cinguettare. Il cinguettio fu soffocato. «Ma...» obiettò la ragazza. «Fai come ti dico,» disse la chiromante, «altrimenti non mi riterrò responsabile.» Baciando Berdice sulla fronte, che fu così abbellita da una forma di labbra rosso carminio, la chiromante si alzò. «Ti devo pagave?» disse affannata Berdice. «Prenderò questo,» e sciogliendo con disinvoltura il cordone purpureo da uno dei drappeggi, la donna uscì maestosamente dalla camera, ignorando il drappo di seta che, sciolto, era piombato in testa a Berdice. La notte rivestiva Andriok di sobrietà. E Andriok si vendicava ingioiellandosi ostentamente di luci. La casa di Volf non faceva eccezione. Resine aromatiche ardevano luccicanti e riempivano l'aria di profumi, mentre lampade di filigrana dorata irradiavano la loro luce tutt'intorno. Volf accolse Cyrion come fosse un fratello che non vedeva da molti anni ma la cui compagnia aveva continuato a desiderare ardentemente per tutto quel tempo. Avvolto nel raso di Askandris e nell'argento di Daskiriom, per non menzionare il suo stesso impareggiabile fascino, Cyrion eclissava lo splendore della casa. Entrando nella sala da pranzo, Volf gli porse la mano sinistra. Sul dito mignolo, l'anello d'ambra assomigliava a una grossa goccia di miele rossastro. «Ancora una volta, mio Cyrion, guarda. Io e lui siamo ancora insieme, ed io sono vivo e vegeto. Restano solo due ore alla mezzanotte.» «Le mie congratulazioni,» disse Cyrion. «Per ora.» «Perdonami,» disse Volf. «Dal tuo aspetto devo dedurre che a te i soldi non sono mai mancati. Io possiedo soltanto quello che mi ha dato mia moglie. E sono ossessionato dal desiderio di darle qualcosa di mio.» Proprio in quel momento due servitori entrarono nella stanza portando su una sedia decorata la moglie di Volf, e sistemandola vicino alla finestra aperta. Era vestita elegantemente (forse troppo). Un abito tutto ricamato con segni di buon auspicio, al collo delle monete d'oro con curiosi simboli,
braccialetti da cui pendevano piccoli medaglioni di giada e malachite, orecchini di zaffiri in forma di amuleti, una cintura di seta a strisce fermata da uno spillone d'oro portafortuna a forma di serpente, una rosa tra i capelli appuntata da un altro simile spillone, e un paio di sottili guanti di seta, piuttosto rigidi. «Ecco il mio leggero amore, Berdice, la mia adorata moglie,» si entusiasmò Volf. «Signora,» disse Cyrion inchinandosi. «Sembra che tu abbia paura di qualcosa. Non di me, spero.» Berdice, che era apparsa piuttosto pallida, riacquistò il colorito tutto d'un colpo. Nel vedere Cyrion gli occhi le si spalancarono allarmati. «La mia colomba non ha nulla da temere,» disse Volf. «A mezzanotte le donerò questo anello d'ambra, che da quel momento in poi la proteggerà da ogni male. Vedi, Cyrion, io credo nel volto sorridente della Fortuna, piuttosto che nel suo cipiglio.» Berdice guardò l'anello e impallidì di nuovo. «Questo è l'anello che chiamano 'Addìo'. Oh, Volf, ti fava del male!» Volf rise fragorosamente, e spiegò il suo disegno. Berdice restò inorridita. «Mio Dio salvami!» gemette. Alle sue parole Volf rise ancora più forte. «Abbi fiducia in me, mia adorata,» le disse suadente. «Dimostriamo al mondo intero che la superstizione è un'idiozia e che i demoni sono soltanto polvere. Del resto, abbiamo qui Cyrion ad assicurarci l'incolumità. Cyrion è un eroe di insuperabile ingegno e coraggio.» «Mi vuoi fare arrossire,» disse Cyrion. Berdice lo fissava confusa e sospettosa. La cena fu servita. Consumarono le numerose portate, Berdice muta, Volf volubile. Fuori dalla finestra, che incorniciava tra i suoi nastri di seta la figura di Berdice, brillavano le stelle. Da fuori penetravano pure gli inebrianti aromi delle fioriture notturne, e il canto di un malinconico usignolo. In un angolo della sala, nel frattempo, una clessidra dorata lasciava gocciolare via minuti, quarti d'ora, una mezz'ora, un'ora. E poi cominciò a consumare una nuova ora, a minuti, a quarti d'ora, a mezz'ore... Era quasi mezzanotte. Improvvisamente Berdice cominciò a cinguettare freneticamente. «Questo pomeviggio, Volf, una cosa così stvana. Una donna altissima,
diceva di esseve una chivomante e astrologa. È appavsa impvovvisamente nel mio appagamento dicendomi che savei morta...» Volf ebbe un sobbalzo e rovesciò la coppa di vino che aveva in mano. Il vino si riversò sui tovaglioli, e andò a finire sul tavolo a mosaico, penetrando nei suoi interstizi. «Ma la cosa più assuvda di tutte,» cinguettò acutamente Berdice, «è che mi sono vesa conto che quella donna eva...» «Perdonami, signora,» la interruppe con garbo Cyrion. «Ma credo che il tuo orologio ad acqua sia lento. Non è la campana di mezzanotte quella che si sta sentendo dalla fortezza?» Volf e la moglie rimasero agghiacciati. Non c'era ombra di dubbio, era il rintocco della campana. Appena esso terminò, Volf balzò in piedi e afferrò la mano destra guantata di Berdice. «Mia cara, ho l'anello al dito e sono vivo. E ora...» sfilandosi l'ambra dal dito, «...me lo tolgo. I demoni sono stati sconfitti. Questi demoni che non sono mai esistiti. Prendi, angelo mio. L'anello è innocuo. Prendilo, con tutto il mio cuore.» E con queste parole, Volf le fece scivolare l'intaglio d'ambra sull'indice. Poi, sollevando in estasi le braccia al cielo, Volf gridò a squarciagola: «Sia lodato il Cielo!» Da qualche parte nel buio del cortile davanti alla casa si udì un'imprecazione soffocata seguita da un tafferuglio. Qualcosa volò dentro la finestra. Era un qualcosa che si dibatteva, si rigirava, scalciava, sbavava e miagolava. Nel mezzo di questo dibattersi, rigirarsi, scalciare, sbavare e miagolare, esso finì in grembo a Berdice, e a quella sinfonia di rumori si unì un suono di artigli che laceravano, e un unico terribile grido. «Un... gatto!» strillò Berdice in preda ad un folle terrore. «Un... gatto — un... gatto! Oh — Mio Dio salvami!» «Berdice!» gridò Volf, la cui estasi si era mutata in agonia. Si gettò su di lei e ne strinse tra le braccia il corpo senza vita. Piangeva a dirotto. «Cyrion, neanche tu hai potuto salvarla. Sono stato un pazzo. La maledizione era vera. Il demone dell'anello l'ha uccisa, ed è stata colpa mia. Colpa della mia stupidità. Tu mi avevi avvertito. I demoni esistono. Ora non ho più nulla.» «Non proprio,» disse con dolcezza Cyrion. «Con la sua morte la sua fortuna sarà tua.»
Volf lo guardò torvo, con gli occhi lividi e pieni di lacrime. «Che me ne faccio delle ricchezze, se il mio amore è stato ucciso? Sono un uomo finito.» Cyrion stava accarezzando il gatto. Inizialmente furioso per il suo ingresso forzato attraverso la finestra, l'animale si era ora trasformato in una dolce creatura che faceva le fusa sulla spalla di Cyrion. Pensieroso, Cyrion parlò. «Il tuo dolore è prematuro, Volf. Tua moglie non è morta.» «Che scherzo malvagio. Lo è.» «No. È solo svenuta, e tra poco si risveglierà. Per tuo dispiacere, caro Volf.» Volf, tutto tremante, scrutò Berdice in volto, e restò a bocca aperta. «Hai ragione, è viva. Ma...» Il gatto baciò Cyrion sulle labbra. «Ad ogni modo, quel tuo volgare conoscente,» disse Cyrion, «l'uomo che hai pagato perché lanciasse un gatto qui dentro addosso a tua moglie, a quest'ora sarà stato già arrestato. Avevo dato l'allarme alla guardia notturna, prima di venire qui.» Volf depose Berdice sulla sedia, e si sollevò. Il suo volto aveva assunto un'espressione di incredulità. «Cosa stai dicendo?» «Cosa sto dicendo?» domandò Cyrion al gatto. «Stai insinuando che avrei pagato un uomo per spaventare mia moglie a morte?» «Francamente, mio caro,» lo rimproverò Cyrion, «mi sarei aspettato una trama migliore da te, che eri stato tanto abile da risolvere il mistero dell'anello.» «Spiegati.» «Devo proprio? Perché no. Ci passeremo il tempo finché non arriva la guardia. «Tanto per cominciare, malgrado le tue solenni affermazioni, Berdice era per te un fardello che non intendevi sopportare a lungo. L'avevi sposata, ma te ne volevi sbarazzare presto per ereditare tutte le sue ricchezze, per non parlare di quelle del padre, dopo la morte di lui. Il tuo solo problema era di trovare il modo, qualche strategia che ti lasciasse del tutto insospettabile. Fu facile. Sarmur e la figlia sono entrambi molto superstiziosi, mentre tu ti sei sempre dato da fare per mostrare il tuo scetticismo di fronte a tutto quello che non è tangibile. Da qui, l'anello d'ambra, che tu sapevi capace di uccidere chiunque, se solo se ne presentava la circostanza.
«La leggenda dell'anello è precisa, perché stava scritta nella tomba della donna, da cui la tua famiglia l'aveva rubato, non è vero? Anche le morti tra i tuoi antenati sono ben documentate. Sembrava che non ci fosse alcun disegno che le accomunasse, eppure ogni volta, ineluttabili, si verificavano le morti. Quanto ci hai messo a risolvere il mistero? Fammi ricordare le fatalità. Un re muore mentre si lancia in battaglia. Un conquistatore incespicando col cavallo. Un mago durante un terremoto. Un brigante mentre viene condotto al patibolo. Una donna durante il parto. E nella tua famiglia, un uomo muore cadendo da un muro, uno in mare durante una tempesta, un altro in preda alle convulsioni durante un'eclissi di sole. E qual è il denominatore comune? Quanto hai detto che ti ci è voluto per sbrogliare il mistero?» Volf ringhiò: «Due anni.» Cyrion smorzò un sorriso. Lui ci aveva messo due minuti, o poco meno. «La chiave sta nel pericolo,» disse Cyrion. «Nel pericolo, e in ciò che ad esso è connesso, la paura. E in una terza cosa ancora che dipende dal pericolo e dalla paura.» Cyrion tacque. «Vai avanti.» «Devo?» «Voglio vedere... se hai indovinato. Me lo devi.» «Non ti devo niente. Sarà un regalo. Passiamo alla terza cosa, allora. Mi ricordo con quanta fretta nominasti i simboli che erano incisi nell'ambra: il giglio era l'anima, la rondine la libertà, e il sole il cielo. Ma, come spesso accade nella scrittura dei segni, i simboli possono avere un significato ancora più profondo. Il giglio-anima può anche rappresentare l'ego, e quindi significare 'io' o 'me'. La rondine non rappresenta solo la libertà, ma anche la libertà dalla schiavitù, la salvezza. Per quanto riguarda il sole, esso è l'antico monogramma non solo per il cielo, ma anche per Dio. Così il giglio, la rondine e il sole ci offrono, sarai d'accordo, una frase di scrittura ideografica che va tradotta come Dio salvami. Un'esclamazione religiosa diffusa in quasi tutte le lingue, sia in passato che ora. Il re che si lancia nella battaglia sussurrando un'ultima preghiera. L'uomo che grida spaventato sul cavallo che incespica. Il mago che sente la casa tremare sotto le scosse della terra. Chi avrebbe mai immaginato che era già morto prima di venire sepolto dalle pareti? Il brigante che, sulla via del patibolo, recita la consueta preghiera dei condannati a morte. La donna che grida in preda ai dolori del parto. E il tuo antenato, che precipita dal parapetto sfondato, morto già
prima di aver toccato terra. Il secondo, morto ancor prima che le acque si richiudessero sul suo capo, e molto prima che il suo corpo fosse recuperato. Il terzo, terrorizzato dal buio dell'eclisse. Ognuno di loro aveva gridato: Dio salvami. E l'anello li aveva uccisi istantaneamente, come ammoniva l'incisione. Quelle parole, pronunciate dalla persona che porta l'anello, attivano un meccanismo sotto la pietra. Una punta sottile come un capello penetra nella pelle del dito. Del veleno scorre. Un veleno demoniaco, così virulento da uccidere nel giro di pochi istanti. La vittima si accascia al suolo, con l'orrore sul volto e apparentemente senza ferite. «Essendo a conoscenza di questo, tu potevi indossare l'anello ed evitare la morte. Ma sapevi anche che facendo saltare un gatto addosso a tua moglie, che ne aveva il terrore, lei avrebbe esclamato le parole fatali e, avendo al dito l'anello, sarebbe immediatamente deceduta. E io, con quella che tu stupidamente credevi una fama da eroe, avrei dovuto assistere alla scena come testimone dell'ineluttabilità del Fato.» «Ma Berdice non è morta,» disse Volf. Ora sembrava sfinito, non più arrabbiato né malintenzionato. La debole bocca gli tremolava, e le false lacrime per sua moglie erano diventate lacrime sincere versate per se stesso. «Fortunatamente per la ragazza,» disse Cyrion, «questo pomeriggio è capitata in visita da lei una fattucchiera, che l'ha persuasa a indossare due amuleti. Quelli.» Indicò i guanti di seta sulle mani di Berdice, le dita dei quali erano internamente tutte foderate di un sottile ma resistente strato di acciaio di Daskiriom, perfettamente articolato, e che non poteva essere perforato da nessuna punta velenosa, qualunque ne fosse la sottigliezza. Berdice cominciava a muoversi. Cyrion allontanò con garbo il felino, si chinò sulla ragazza e la prese per i gomiti. Poi la mise tutto d'un colpo in piedi. «Lo shock del secondo' gatto ti ha guarita,» disse severo Cyrion. «Ora puoi camminare. Fallo.» Berdice rimase a guardarlo a bocca aperta, poi barcollando fece un passo. Gridò, e ne fece un altro. E gridando e camminando, si lasciò condurre da Cyrion fuori dalla stanza. Sulla porta Cyrion le mise in mano un cordone di seta color porpora, ma lei quasi non se ne accorse. Sembrava aver dimenticato anche Volf, cosa che ora le sarebbe stata di grande aiuto. Quando Cyrion tornò nella stanza, le guardie stavano già bussando alla porta.
Volf si era raggomitolato su una sedia. Cyrion pose l'anello accanto a lui, sul mosaico. «L'impiccagione è un affare lungo e spiacevole,» sussurrò Cyrion con fastidio. Quando raggiunsero la sala da pranzo, le guardie vi trovarono solo un uomo, morto. Volf era riverso sul tavolo, con l'anello d'ambra infilato al dito, una smorfia d'orrore sul viso, e nessuna ferita visibile. 6° INTERLUDIO All'esposizione del prete seguì solo un leggero clamore. Tra il pubblico si era ormai diffusa una certa sonnolenza. Anche il dotto pareva un po' brillo: gli occhi dalle lunghe ciglia erano mezzo chiusi, e un lieve sorriso gli giocava sulle labbra ben disegnate. Il paffuto giovanotto dai capelli rossi, sebbene rosso in viso per il vino, non era né ubriaco né in vena di diventarlo. Piuttosto sembrava oppresso. Dal momento in cui la chiromante aveva fatto il suo ingresso nella storia, lui aveva cominciato ad agitarsi e a guardarsi intorno, come uno che temesse di diventare pazzo. Quando, verso la fine della storia, con mossa felina la brunetta si era alzata dal suo tavolo, e con i suoi veli, le perle e l'ancella si era diretta verso la scala sul retro della sala (facendo lei stessa terminare la storia, si sarebbe quasi detto), Roilant sembrava ormai fuori di sé, istupidito e apatico. Ora che il racconto era terminato, il giovane si alzò dal suo posto e, scansando a gesti le mani che si levarono per protesta, si giustificò con la scusa dell'impellenza della natura. Solo per questo gli fu permesso di allontanarsi. Uno dei mercanti gli corse dietro e lo seguì oltre la tenda, tessendo nel frattempo le lodi della sfortunata Berdice. «Un gioiello, un uccellino. Cosa darei per una moglie graziosa e ingenua come lei.» «Ne ho molta compassione,» disse Roilant. Ma il suo tono sembrò eccessivamente tetro. Poi, giunti accanto alla Qirri d'ottone, Roilant, tutto sudato, disse: «La donna che ha lasciato la sala qualche minuto fa. L'hai vista?» «Un bellissimo esemplare. Ma, sono sicuro, tutt'altro che facile.» «Ma molto alta, e dalla forte ossatura.» «Una creatura veramente desiderabile e voluttuosa.» «Non afferri il punto. Non potrebbe essersi trattato di un uomo?» Il mercante scoppiò a ridere. Rise tanto che alla fine fu costretto ad ap-
poggiarsi alla Qirri. Si teneva i fianchi per il dolore ed emetteva dei suoni gutturali. Poi, minacciato dalla sua vescica, dovette ritirarsi verso le latrine, ancora singhiozzando senza fiato per il divertimento. Il provocatore di tanta ilarità fu lasciato lì deriso e innervosito. Se quella donna era Cyrion, lui, Roilant, doveva seguirla? E se invece non era Cyrion, come avrebbe spiegato quel suo lanciarsi di corsa su per le scale per correrle dietro? Del resto — Roilant fu attanagliato da una terribile confusione — quello che aveva detto il prete era vero. Quanti di loro potevano essere Cyrion sotto false spoglie? Poteva esserlo il carovaniere, celato dalla sciatteria e dalla polvere, ma smentito dalla sua posatezza. E l'affascinante dotto: le sue rughe erano veramente il risultato dell'età avanzata, o piuttosto di un abile lavoro col pennello? Oppure uno dei tre mercanti, il terzo dei quali, ora che Roilant ci pensava, aveva un viso troppo magro rispetto alla sua corporatura. Portava forse un'imbottitura? Il prete, invece, era difficile immaginarlo come un possibile candidato. Era un uomo veramente grasso, senza il minimo fascino. E tuttavia, anche quella poteva essere una forma incredibilmente complessa di camuffamento. Poi c'erano gli schiavi. Roilant non li aveva quasi guardati, eppure glien'erano gironzolati attorno tanti nella locanda. Esur, ad esempio. Forse quello schiavo dal sorriso smagliante era Cyrion, e il locandiere era d'accordo con lui. Roilant cominciò a camminare su e giù riflettendo. Lo stava ancora facendo, quando il mercante riemerse dalle latrine e nel vederlo scoppiò in un roco grido di allegria. Roilant gli rispose con un'imprecazione, poi mortificato si scusò. Il mercante gli diede una pacca affettuosa sulla spalla. In quel momento, la porta sulla strada si aprì e dagli scalini scese barcollante Whiskers, l'accorciato soldato dai baffi castani. «Avete arrestato quel vecchio mostro di un asceta?» domandò il mercante. Whiskers fece un singhiozzo e annuì con veemenza. Li oltrepassò ruzzolando e dopo essersi maldestramente aggrovigliato nella tenda, da cui dovettero tirarlo fuori Roilant e il mercante, fece il suo rientro nella sala principale della locanda. Per essere uno dalla crescita così severamente arrestata, Whiskers sembrava tuttavia capace di causare il massimo impatto. Roilant guardò il gong tra le mani della Qirri, e per un attimo provò l'ardente desiderio di batterlo con ferocia e gridare: «Al fuoco!» Forse nel tafferuglio sarebbe finalmente riuscito a smascherare il diabolico Cyrion. Era
proprio il genere di trucco a cui lo stesso Cyrion sarebbe ricorso. Ma Roilant? Non ne sarebbe mai stato capace. Detestandosi per la sua timidezza e la sua mancanza di amor proprio, Roilant disse, «Devo sistemare il mio conto e andare via. Ho delle faccende da sistemare in città.» «Falle aspettare. Il pomeriggio è ancora giovane.» Roilant si trovò di nuovo spinto nella sala. La scena era rimasta sostanzialmente la stessa. Il reduce Whiskers, malgrado le grida di bentornato, non si era unito alla compagnia. Si era invece accasciato nel posto in cui era stata a sedere la donna dalla chioma corvina, e, lasciata cadere la testa sulle braccia, si apprestava ora a smaltire rumorosamente il suo vino con una dormita. Il russare che cominciò a sprigionarsi dai suoi baffi tremolanti si fece per un po' talmente impetuoso da costringere i conversatori a gridare, poi improvvisamente cessò. «Che noia,» disse l'ingioiellato mercante. «Già pregustavo il piacere del racconto della cattura del vecchio, e magari del suo supplizio per mano dei soldati di Malban.» Esur entrò nella sala, e dopo aver fissato tutti con la stessa imparziale avversione, cominciò a ripulire i rifiuti dei loro pranzi. Altri due schiavi lo seguirono. Roilant li esaminò entrambi. Snelli, giovani e scuri. Tutte cose che avevano molto poco significato. Un diffuso senso di stupore lo richiamò poi alla realtà. Si voltò e vide quello che tutti coloro che sedevano al suo tavolo stavano guardando, incantati, increduli e scioccati. Sulla scala che dava sul retro, immobile e palesemente divertito, stava un giovane cavaliere di media statura, dalla corporatura vigorosa e ben vestito, di intensa bellezza e cinto di una spada. Però la spada era rivestita da un fodero di pelo bianco, la mano sinistra non portava anelli, e la chioma, lunga fino alle spalle, era del colore della mezzanotte. Un gradino più su stava un giovanissimo e snello paggio, che dietro l'orecchio traslucido aveva fissati un giacinto e un giglio rosso. Il dubbio durò solo un attimo. Poi fu chiaro che queste due apparizioni altro non erano che l'elegante bruna con l'ancella di venti minuti prima. La domanda ora era ovvia, e sorprendentemente non aveva risposta. Erano un ragazzo e un gentiluomo nei panni di una ragazza e di una donna? O erano una ragazza e una donna nei panni di un ragazzo e di un gentiluomo? Quale dei due casi? L'uno o l'altro? O entrambi? Con ancora gli occhi di tutti puntati addosso, essi scesero per la scala. Passando accanto a Roilant, il cavaliere si produsse in un inchino sontuosamente affettato. «Buona giornata,» disse una voce che da seducente con-
tralto si era ora trasformata in un perfetto tenore. Poi uomo e paggio passarono oltre la tenda e scomparvero. «Maledette le mie mutande,» esplose il prete, e diventò subito rosso come una rosa, cercando poi di scusarsi e ricevendo invece congratulazioni e pacche sulle spalle. Il giovane paffuto si lasciò cadere sulla stessa sedia di prima. Nulla, era ciò che sembrava in questa assurda locanda. E lui, era ancora Roilant? Sfortunatamente sì. Esur gli si avvicinò furtivo, e portando come arma di difesa un grande piatto pieno di ossa spolpate, gli bisbigliò: «Mi sono ricordato un'altra storia di Cyrion...» «Va' via,» disse Roilant. Esur ringhiò e obbedì. Pure lance di luce dorata piovevano dentro dalle finestre. L'uccello nella gabbia tubava e saltellava, e il soldato aveva ripreso il suo letargico russare, che ora si manifestava a intervalli regolari come un improvviso scoppio di tuono. La combriccola, avendo esaurito le favole o forse il desiderio di ascoltarne, si separò, gli occhi di tutti lucidi dal dispiacere. I tre mercanti salirono ai loro appartamenti, sorreggendo sulle braccia le ammiccanti Argentina e Violetta. Il carovaniere, il cui pranzo doveva essere pagato dal mercante ingioiellato, sbadigliando e stiracchiandosi barcollò fuori nell'opulenza del pomeriggio. Anche il dotto se ne andò, per cominciare a mettere nelle borse le sue pergamene e i suoi libri. Il giorno dopo all'alba doveva unirsi a una carovana in viaggio verso il regno di Kyros e la città di Askandris. Nella più gran confusione anche gli schiavi uscivano dalla sala, investendosi l'un l'altro e rovesciando piatti. Nel giro di pochi minuti rimasero solo il rumoroso Whiskers e il demoralizzato Roilant. Il locandiere si affaccendava avanti e indietro. Roilant, che stava per finire il vino, gli disse: «La tua locanda è un manicomio.» «Non mi dici niente di nuovo,» rispose il locandiere. Roilant fissava i suoi grandi occhi, e si domandava se la zucca pelata potesse essere finta... «Comunque, mio generoso signore,» disse il locandiere, con una voce che poteva essere falsa, «mi sono ricordato dell'uomo che stavi cercando. Tu avevi sbagliato il nome.» «Io avevo...?»
«Proprio così. Lui si chiama Cyrion.» Roilant strinse forte gli occhi. Poi disse freddamente: «Una mia negligenza.» E resistette alla tentazione di battezzare l'uomo con l'ultimo goccio di vino. «E stando così le cose,» continuò il locandiere, ignaro del pericolo a cui era scampato, «sento di doverti mettere in guardia. Questo Cyrion è un avventuriero spietato. Ho sentito dire che come nemico è terribile. In confidenza...» «In confidenza, sai una storia su di lui che illustra questo suo difetto.» «No,» disse il locandiere, lasciando Roilant di stucco. Poi rovinò tutto. «C'è un vecchio che chiede l'elemosina, e che in questo momento si trova alla porta della cucina. Ogni tanto viene qui, ed io gli do da mangiare, perché ciò sia di buon auspicio per la locanda. Il vecchio è quasi cieco, ma ancora lucido. Ha passato del tempo con i nomadi, e dice di avere un po' del loro sangue nelle sue vene avvizzite. Se vuoi...» Roilant era sul punto di rifiutare. Da sopra la scala si sentì uno scroscio fragoroso di risate lascive, come una collana di perle di vetro che si spezzava. Questo in qualche modo mise all'erta Roilant. Con circospezione, egli disse: «molto bene. Fallo entrare. Lo ricompenserò.» Il locandiere annuì, e uscì di nuovo. Roilant aspettava impaziente e ansioso, e all'ennesimo crescendo di rumore di Whiskers, che ormai si era completamente disteso, egli sobbalzò dalla paura. Nel silenzio che seguì, venne il suono alquanto sinistro di un bastone che picchiettava in terra. Poi lentamente la tenda fu scostata, e nella sala entrò un vecchio, alto e vestito di nero, che con un bastone sondava la strada davanti a lui. Il cappuccio dell'abito da nomade era calato sugli occhi, che erano fasciati da una benda sottile. Aveva un volto impenetrabile, dai bei lineamenti, logorato dall'età e dal sole del deserto. Roilant restò immobile finché il vecchio non sistemò il suo scheletro su una sedia. Poi avanzò verso di lui e tutto ansimante gli si piazzò di fronte. «Ho del denaro,» disse Roilant. «In cambio del mio denaro, voglio la verità. Te lo dico subito, la mia vita è in gravissimo pericolo. La ragione per cui sono venuto qui a cercare... a cercare Cyrion, è che lo voglio assumere al mio servizio a qualunque prezzo lui decida, perché mi salvi. Mi senti?» «Ti sento,» disse il vecchio con una voce esageratamente antica. «E allora,» sbraitò Roilant, «smetti quest'inganno e rivelati.» «Sono già rivelato.»
«No. Non lo sei. Tu sei Cyrion.» Il mendicante scoppiò a ridere. Pochi denti gli erano rimasti, e l'interno della sua bocca era vecchio e raggrinzito come tutto il resto. «Cyrion? Dio non mi ha ancora fatto una simile grazia. Io sono solo me stesso, il padre di Esur, che un giorno comprerà la sua libertà e sarà ricco. Sono solo questo. Sono stato liberato e gettato via come una cosa inutile, e soltanto dopo una lunga e faticosa ricerca sono riuscito a trovare il mio ragazzo, che mi era stato strappato anni prima a Heshbel. E mentre io sono libero e senza un soldo, lui invece è uno schiavo, e vive bene. Ma come può uno schiavo aiutare il suo povero vecchio padre? Qua mi cibano per compassione, per attirare i favori della fortuna sulla locanda. Ma io non ho mai neanche toccato una moneta d'oro...» Tra imbarazzo rabbia e pietà, il confuso gentiluomo restò quasi soffocato. Quindi tirò fuori due monete e promise di dargliele. Poi in atto di penitenza si mise a sedere per ascoltare, ma veramente per l'ultima volta, una storia su Cyrion... UNA LINCE TRA I LEONI A mezzogiorno, prostrato sotto il pesante maglio del sole, il deserto giaceva in tutto simile a una creatura in punto di morte. Era solo un'illusione. Proprio sotto la pelle di questa creatura, strisciava e prosperava la vita. Gusci, cocci sepolti, tesori perduti, vene d'acqua, e magia. Poi, al crepuscolo, la creatura morente si sarebbe risvegliata e scrollandosi e stirandosi si sarebbe preparata a ricevere il fresco balsamo delle stelle. Karuil-Ysem girò la testa incappucciata di nero, e parve prestare più attenzione a quanto la vedetta gli stava dicendo. I suoi occhi, neri, vecchi, crudeli, e severamente saggi, si socchiusero. Era un atteggiamento che assomigliava molto alla prostrazione del deserto, una simulata mancanza di vita e una simulata tranquillità. «Dunque dici che ci sta seguendo dall'alba di ieri?» «Proprio così, Karuil.» «Che cammina a piedi, ed è solo. E che porta lo stesso abito che usa la nostra gente quando viaggia nel deserto.» «Esatto, Karuil.» «E dici che ha i capelli bianchi?» «O comunque molto chiari. Come quelli di un occidentale. Non é della città, ma neanche della nostra gente. Eppure cammina sulla sabbia con il
passo sicuro dei nomadi, con uguale naturalezza e con uguale abilità. Indossa una spada. Stamattina, mentre dormiva, una vipera sbucata dalle pietre gli si era avvicinata alla mano. La vipera era in procinto di morderlo, ma lui l'ha preceduta. Non avevo ancora preso fiato, che le aveva già lanciato un coltello staccandole la testa dal resto del corpo. Ha anche trovato il pozzo nascosto, quello che solo la nostra gente conosce. Chi sarà costui, Padre, che conosce le nostre usanze pur non essendo dei nostri e nemmeno della nostra terra?» 'Padre': un leggero tremore era apparso negli occhi d'aquila di Karuil quando l'altro aveva pronunciato l'appellativo reale. Gli succedeva sempre ormai, come se ogni volta si sorprendesse di essere ancora chiamato in quel modo. Karuil rivolse indietro il capo, per ammirare il nero accampamento montato di recente tra il colonnato di alberi dell'oasi. La vita si muoveva pigramente lì in mezzo, come per rendere omaggio alla temporanea morte del deserto. «Credo di sapere chi sia,» disse Karuil-Ysem. «Verrò con te. Vediamo se sono ancora saggio, o se sono diventato uno sciocco.» La vedetta spronò il suo cavallo. L'animale saltellò un po' e corse via, sollevando con lo zoccolo nudo spruzzi di sabbia rossiccia. Con non minore zelo si mosse il cavallo di Karuil. Ed erano già scomparsi. Alcuni nomadi, uomini alti, tutti con il lungo abito nero e i cappucci calati sul capo per ripararsi dal sole, sedevano sotto le prosciugate ombre delle palme, seguendo con lo sguardo Karuil e la vedetta che svanivano. «Cos'è successo?» domandò uno di loro. Il figlio di Karuil-Ysem, Ysemid, fece il gesto dei nomadi equivalente all'ammiccare. «Qualcuno ci ha seguiti, dice la vedetta. Uno dei Cavalieri dell'Angelo, forse, una Colomba che si è smarrita dal nido.» «Chi va a caccia di Leoni del Deserto dovrebbe scegliere con più attenzione le sue prede,» sentenziò un altro uomo. Ysemid ne convenne. Era bello, giovane e fiero, e all'orecchio portava una noce di zaffiro. Più in là, sulla sabbia tappezzata di ombre, si poteva ammirare un'altra delle sue ricchezze: una delle sue tre bellissime mogli. Tutta vestita di nero, ma con il busto, i polsi, le orecchie e la fronte che grondavano di gioielli, e le labbra e il mento celate da un velo ricamato con lucenti monete d'oro, gli portava da bere in un sottile calice di vetro appoggiato su un vassoio d'argento cesellato. «Mio padre, il Padre,» disse Ysemid, «ci porterà la sua carcassa, se si
tratta di un nemico. Se no, staremo a vedere.» Su un'altura tra le dune, Karuil e la vedetta fermarono i cavalli e si misero a guardare. L'inseguitore, che ora era in vista, saliva spedito e sicuro verso di loro. Anche lui doveva averli visti, ma finora non ne aveva dato segno. «Guarda come cammina, Padre. Conosce la sabbia.» «Infatti.» «E guarda i suoi capelli.» «Proprio così.» Un minuto più tardi l'oggetto del loro esame sollevò la chioma albina. Senza fermarsi, guardò dritto verso loro. Continuando ad avanzare in quella direzione, presto fu così vicino che essi riuscirono a distinguerne i lineamenti del viso, leggermente abbronzato ma per il resto veramente straordinario. «Un Gioiello di Dio,» sentenziò la vedetta con sprezzante ammirazione. L'espressione denotava grande bellezza ed era di solito usata come un insulto. I nomadi, infaticabili viaggiatori, spietati guerrieri, e fedeli a un rigido e talvolta sanguinario codice proprio della loro stirpe tendevano a credere che i più belli fossero anche i più incapaci. «Un Gioiello,» confermò il vecchio. «Ma incastonato nell'acciaio. Sì, è colui che mi aspettavo.» Karuil-Ysem scese da cavallo con sorprendente agilità. Rimase fermo in piedi, in evidente attesa che il non più straniero, il cui volto affascinante era composto e non tradiva emozioni, raggiungesse la sommità della duna. Quando il giovane era ormai a non più di venti passi, Karuil, nella lingua dei nomadi, disse: «Il deserto fiorisce sotto i passi dell'ospite gradito.» A queste parole l'altro si fermò, e nella stessa lingua replicò senza errori: «E l'acqua sgorga dalla roccia quando un amico è ritrovato.» La sua voce era bella come tutto il resto, e la vedetta stette ad ascoltarla con offeso stupore. Stupore che aumentò quando, senza troppa ostentazione, Karuil aprì le braccia e il biondo occidentale concluse il suo tragitto nella loro stretta. L'abbraccio, calmo e forte, fu dato e ricevuto. «Benvenuto, Cyrion,» disse Karuil. «Il tuo benvenuto è il benvenuto,» rispose il Gioiello di Dio il cui nome era Cyrion. «Come sei giunto fino a noi?» domandò Karuil. «Nel solito modo. Ho seguito i segni che lascia la gente di Karuil a coloro che la cercano amichevolmente.»
«La mia vedetta è sbigottita.» Cyrion guardò la vedetta, e gli sorrise con tremendo fascino. «Sono molte le vie che conducono alla saggezza, una di esse è lo stupore,» disse poi Cyrion citando con modestia un proverbio dei nomadi. Karuil rise. Era raro in lui quel secco crepitio di divertimento. «Cyrion ha trascorso del tempo tra noi. È anche uno spadaccino e avventuriero famoso in tutte le città della costa e nella stessa Heruzala dalle gialle mura, che ora è il luogo di svago degli occidentali.» «E osserva anche lui,» domandò la vedetta, «gli insegnamenti del Profeta Hesuf, come facciamo noi, e come gli occidentali pretendono di fare?» «Riconosco sagacia e virtù negli insegnamenti di Hesuf,» disse amabilmente Cyrion. «Ma come voi, ogni tanto inciampo su quel particolare precetto secondo cui dovrei essere felice di essere schiaffeggiato due volte.» La vedetta spalancò gli occhi, poi fece un largo sorriso. «Torni con noi alle tende?» domandò Karuil. «Lo vorrei, se mi è consentito.» «Ti è consentito.» Karuil non rimontò a cavallo, e fu Cyrion a prendere in mano le redini guarnite di nappe del cavallo del Re del deserto, e a condurlo. La vedetta invece trottava precedendoli a breve distanza. Per un po' ci fu il silenzio, interrotto solo dal rumore smorzato dei passi sulla sabbia rovente. Infine, quando stavano discendendo l'ultima duna, e l'oasi era già apparsa alla vista, Karuil disse: «E la vita ti va bene, Cyrion?» «Mi è andata meglio.» «Un capovolgimento di fortuna?» «Un capovolgimento,» per un attimo la voce musicale esitò, «di un certo genere. Sono tornato nel deserto perché ho un forte bisogno delle discipline che una volta imparai qui, e che mi sono venute meno per mancanza di pratica.» «I muscoli dello spirito — tu ne eri un maestro. Qual è il tuo problema?» Di nuovo, una pausa. L'uomo che cavalcava davanti a loro non era così lontano da non poter udire attraverso l'aria immobile, arroventata. «Della mia vedetta ci si può fidare,» disse Karuil. «Ma aspetta. Parleremo nella mia tenda.» Cyrion gli sussurrò piano: «Padre, non ho motivo di dubitare di nessuno del tuo Popolo. È meglio che ti parli ora. Temo che in ogni caso dovrò farlo molto presto.» Ancora un'esitazione. Poi, con voce fredda e ferma: «C'è
una malattia che colpisce il cervello e gli occhi. Di per sé non è fatale, e si manifesta solo saltuariamente. Comincia con un lieve disturbo alla vista, progredisce in un periodo di totale cecità, e termina con un dolore che per un certo numero di ore affligge metà del cranio, come se vi fosse conficcata la lama di un'ascia. Le cause sono varie e sconosciute. Le droghe in genere sono capaci di alleviare il dolore, e per quelli che hanno un temperamento pacato, il disturbo, seppure spiacevole, è tutto sommato sopportabile. Ma ti renderai conto, Padre, del pericolo che esso rappresenta per un uomo noto per aver vissuto soltanto della sua spada.» Karuil si fermò immobile. Più giù, la vasca dell'oasi faceva scintillare la sua acqua. La vedetta aveva arrestato il suo cavallo a pochi passi di distanza da loro. Guardava lontano, verso l'accampamento, ma era evidente che stava ascoltando il discorso che si svolgeva alle sue spalle. «Tu?» domandò a Cyrion Karuil-Ysem. «Sfortunatamente sì, io. Non hai mai sentito parlare di questa infermità? Ne erano afflitti gli imperatori Cassiani di Remusa. Una nobile compagnia, diresti. Ma puoi immaginare il mio stato.» «La causa?» Cyrion scrollò le spalle, sorridendo, come se stesse parlando di cose da niente. «Non ne ho idea. Un colpo in testa, forse, uno dei pochi di cui mi è stato fatto dono. O qualche forma di magia. Mi sono anche imbattuto in un paio di cose del genere... O la mia vita dissoluta. Qualunque cosa abbia aperto la porta, l'ospite è entrato. E sebbene brandendo la mia spada io sia in grado di infliggere la più grande varietà di dolori, mi può riuscire difficile combattere contro un uomo che non riesco a vedere.» La tenda di Karuil-Ysem sorgeva appartata in un verde nido d'ombra vicinissimo all'acqua. Al suo interno, una lampada di bronzo cesellato pendeva bassa da un complicato intreccio di catene tese agli angoli dalla tenda. La complessità della disposizione di queste catene dipendeva dal fatto che non si voleva che esse formassero una croce. Centinaia di anni prima, il Profeta Hesuf era quasi morto su uno strumento del genere, prima che una sollevazione popolare lo salvasse. Per questo motivo, i nomadi aborrivano qualsiasi cosa somigliasse a una croce. Dimostravano questa avversione anche nelle loro spade, le cui lame, per evitare l'odiata forma, erano curve come una luna nascente. Karuil-Ysem si mise a sedere sotto la lampada, tra i cuscini di seta, di fronte all'ingresso della tenda, da dove faceva capolino il sole. Cyrion gli
sedette accanto. Furono serviti di vino, succo di datteri e di una varietà di dolciumi che, fece notare Karuil, erano il prodotto della generosità di suo figlio. Ysemid passava ormai molto del suo prezioso tempo nelle città. Lì fuori, oltre il luccichio dell'acqua, si distingueva la sua tenda. Ora che il calore del solleone si era fatto meno cocente, gli uomini dall'abito nero si davano a violente corse con i cavalli, e polvere e grida andavano a frantumarsi contro il cielo scolorito. Assaporato l'omaggio delle delizie di Daskiriom e Heshbel, Cyrion sedeva apparentemente tranquillo e indolente, con il mento appoggiato sulla sinistra inanellata, mentre Karuil, con inaspettato appetito, continuava a tracannare e a ruminare. Alla fine, con disinvoltura, Cyrion disse: «Ritengo che nessuno ci possa più sentire qui, vero?» «Sì,» disse Karuil mentre si sceglieva un dolce. «Mentre la tua vedetta sarà già occupata a spargere la notizia del mio triste male.» Karuil sbatté gli occhi. Le palpebre dalla pelle di serpente oscillarono. Era un segnale di determinata attenzione. «La vedetta? Ti ho detto che non avrebbe parlato.» «Allora qual era il motivo del tuo invito a non parlare di fronte a lui?» Karuil posò il dolce. Il vecchio volto divenne sinistramente severo. Molto lentamente apparvero i suoi lunghi denti. «Ciò che ti ho detto e ciò che è vero possono non essere proprio la stessa cosa.» «Questo mi fa veramente piacere. Il desiderio di dare adito ad altre dicerie mi pareva tutt'altro che eccitante, per non dire maldestro.» «Anche tu allora giochi con la verità. La tua malattia è una bugia.» Cyrion fissò Karuil per alcuni momenti, poi si voltò a guardare il fermento a una trentina di metri di distanza, lì fuori, oltre lo specchio d'acqua. «La malattia,» disse con calma Cyrion, «è stata un'utile coincidenza. Non mi è stato insegnato di arrivare armato di una scusa?» «Allora è vera... questa cecità...» «È una cosa occasionale. Quelle discipline che ho imparato tra la tua gente non le ho dimenticate, e non ho bisogno di impararle di nuovo. Puoi immaginare che se fossi stato malato le avrei provate. Ma forse non mi sarebbero state d'aiuto.» «Allora,» disse Karuil, «tu saresti qui soltanto...» ci fu una pausa di distensione. Alla fine, «...perché io ti ho chiamato.» «Cosa piuttosto strana, visto che mostri assai scarsa fiducia in me.»
«Il fatto stesso che abbia cercato te, dimostra che di te mi fido come di nessun'altro. Come hai avuto il mio messaggio?» «L'ho avuto in uno dei posti che frequento e dove tu lo avevi lasciato. E come altrimenti? Se l'ho decifrato correttamente, volevi farmi capire che ti trovavi in pericolo.» Karuil, che aveva ripreso il dolce, lo posò un'altra volta. I suoi occhi assunsero un'espressione ingannevolmente assonnata. «Ah. Immaginavo che l'avresti interpretato in questo modo.» «Mi sono sbagliato?» «No. È lui il mio nemico.» Le parole vennero fuori come dardi, caustiche, secche e amare. «Si è convertito ai modi cittadini. Gozzoviglia in quella decadenza e in quella lussuria. Riempie d'oro le sue donne e di gemme la sua tenda, e mi manda tutta questa roba presa dalla città per tenermi buono...» Karuil allungò improvvisamente un pugno, e i dolci rotolarono come dadi colorati. «Ysemid vorrebbe fare di me un vecchio rimbambito. Come si fa con un vecchio leone, lui pensa di calmarmi, per poi far saltare la sua trappola.» Cyrion aspettò un attimo prima di dire: «Tra il Popolo, il parricidio è il peggiore di tutti i crimini, e riceve la peggiore delle punizioni. Ysemid rischierebbe tanto?» «Non lo so. Sì, credo che lo farà. Oh, non ancora. Ma presto. C'è chi lo ama tra di noi, chi ammira i suoi sogni. Lui vorrebbe piantare le tende fuori dalle mura delle città e fare di noi un mercato, uno spettacolo, e oziare sul letto con le sue donne mentre le ossa dei nostri figli marciscono e le nostre bambine diventano meretrici...» Karuil cessò bruscamente di parlare. La voce non gli si era affatto alterata. Le parole erano una furia, ma il corpo era rimasto immobile come un'aquila che guarda dall'alto di una roccia. «Solo io,» continuò, «ostacolo la belva. Sì. Mi ucciderà. Per questo ho fatto venire te. Te, che una volta vivevi tra la mia gente, ed eri come un figlio per me. Te lo ricordi questo?» Cyrion rispose dolcemente: «Me lo ricordo. Senza Karuil-Ysem, sarei molto meno di quello che sono. Cosa vuoi che faccia, Padre del Popolo?» «Per il momento, niente. Resta qui e aspetta, come faccio io.» Il vecchio bevve il vino di Ysemid, assaporandolo quasi fosse stato il sangue di un nemico, un rito demoniaco che in tempi remoti i nomadi avevano qualche volta praticato. «Allora,» disse Cyrion, «aspetterò.» «Ti sarà preparata una tenda. Sarai di nuovo uno di noi. Ma questo tuo
disturbo agli occhi mi preoccupa.» «No. È me che preoccupa. Quando lo vorrai, sarò ai tuoi ordini.» Un'ombra si stagliò di traverso all'ingresso della tenda. Cyrion e KaruilYsem fissarono gli occhi su di essa. Improvvisamente, l'uomo che era stato preceduto dalla propria ombra sbucò da un lato della tenda. Era improbabile, se anche avesse origliato, che fosse riuscito a sentire granché. Avevano parlato a bassa voce, e il chiasso dall'altra parte dell'acqua, che solo ora si stava placando, aveva sicuramente mascherato le parole. L'uomo fece un inchino alla maniera dei nomadi verso Karuil. Poi fissò lo sguardo su Cyrion. «Padre, il Principe Ysemid ti prega di donare anche a lui la felicità di dare il benvenuto al tuo ospite.» Cyrion si alzò, e gli venne da osservare la lampada di bronzo che pendeva ora all'altezza della sua fronte, mentre Karuil gli diceva: «Sì, va' da mio figlio, Cyrion. Il giovane leone deve soddisfare i suoi desideri.» Cyrion educatamente acconsentì. Mentre girava intorno all'oasi insieme al messaggero di Ysemid, l'uomo tentò di sottoporlo a un sentenzioso e in parte sarcastico interrogatorio. «Il Principe si domanda chi tu sia, vestito degli stessi nostri abiti, eppure di pallido sangue straniero. Si dice che tu abbia vissuto tra noi. Perché non ci ricordiamo di te?» «O non ci incontrammo allora, oppure io sono un essere vergognosamente insignificante.» «Ah! Dunque saresti vissuto tra noi — forse tua madre, disgustata da te, ti scaricò in mezzo al deserto e scappò via?» «Le madri sono notoriamente parziali. Sopportano quasi tutto. Altrimenti solo pochi tra noi sopravviverebbero.» Camminavano in mezzo al gregge di tende scure. Sui pigri fuochi che erano stati accesi arrostiva già la carne. Dove l'acqua si raccoglieva in una pozza, delle donne con le loro brocche si soffermavano a chiacchierare. All'avvicinarsi dei due uomini lanciarono delle occhiatine e si misero a ridere scioccamente. Su Cyrion i loro occhi si spalancarono, e alcuni di essi si sciolsero. Non uscendo mai dall'accampamento avevano avuto molte poche occasioni di vedere un occidentale. Lui, con la sua chioma come il cielo al primissimo albeggiare, con la sua pelle chiara, con gli occhi ornati da ciglia più lunghe delle loro, era come un essere di un altro mondo. Sul versante opposto dell'oasi le corse erano cessate. Ysemid sedeva davanti alla sua tenda su un tappeto, sorseggiando del vino da un calice di
vetro. Attorno a lui i suoi favoriti, alcuni seduti altri in piedi, scherzavano e bevevano. Le tre bellissime mogli si distinguevano per il più intenso luccichio. Come il sole toccava i loro volti, si vedeva che i veli neri che li ricoprivano erano leggeri come il fumo, una violazione delle tradizioni. Scorgendo Cyrion, Ysemid si alzò, e con gioia sollevò le braccia in un gesto di benvenuto. La vedetta non si vedeva in giro, ma sicuramente era stata qui, prima di ritornare alle sue esplorazioni nell'area intorno all'accampamento. «Guardate,» annunciò Ysemid, «il bianco felino è un amico, altrimenti mio padre, il Padre, l'avrebbe sicuramente ucciso. Vieni, amico del Popolo di Karuil.» Cyrion andò avanti e si lasciò abbracciare. A sua volta tutta la cerchia di Ysemid si mise a dargli pacche sulle spalle e a lisciargli i biondi capelli. Era tutto un luccicare di orecchini e di denti, su cui il sole declinante lanciava frustate di luce obliqua e ferma. Ysemid porse a Cyrion una coppa di vino. Cyrion lo assaggiò per cortesia e lo mise da parte. Un altro degli uomini gli porse di nuovo la coppa con gentilezza. «Non è di tao gusto?» si interessò Ysemid. «Un po' pesante. Se sei disposto a pagare un simile prezzo il vino di Andriok è meglio.» «Un mercante! Riconosce e valuta il mio vino. Che altre meraviglie sai fare, amico del Popolo di Karuil?» Cyrion fece un sorriso abbagliante. «Non dovresti sopravvalutarmi.» «Ma io indovino il tuo genio. Vieni,» disse ancora Ysemid, gettando un braccio sulle spalle di Cyrion, «abbiamo portato dei cavalli da Heshbel. Vieni a vederli. Dicci che te ne pare.» Il giovane gruppo ridente si mosse come un'onda, e trasportò Cyrion con sé. Davanti a lui, due delle mogli di Ysemid abbassarono intimidite gli occhi. La terza invece lo seguì con uno sguardo stranamente deciso. La noce di zaffiro all'orecchio di Ysemid scintillava infuocata, lanciando in continuazione frantumati bagliori di sole. Sembrava che l'occhio di Cyrion ne fosse attratto e allo stesso tempo nauseato. I cavalli stavano all'ombra di cinque palme, tutti tranne uno stallone che, seppure trattenuto da diversi ragazzi, balzava impetuosamente e scalpitava, scuotendo la testa. «Ora, secondo te,» disse Ysemid, «cosa c'è che non va in questo ani-
male? Ha disarcionato due dei miei migliori cavalieri. Appena in sella li ha buttati giù.» Cyrion non disse niente, mentre tutta la corte rideva. Il cavallo scuoteva la testa come a volerla staccare dal corpo. «Illustre ospite di mio padre,» disse Ysemid, «forse ti piacerebbe provare la tua abilità.» «No,» disse Cyrion, «mi dispiace di non poterlo fare.» Quei volti sorridenti persero improvvisamente la loro allegria. «Devo pensare che hai paura?» «Pensa piuttosto che sono consapevole che il cavallo non è castrato e che ci sono nubili puledre nelle vicinanze.» Ysemid fece un grido di gioia. «Non avevo detto che era un genio? Il vino, i cavalli...» Attraverso la folla penetrò acuta la voce di un ragazzo: «È stato preparato un alloggio per lo straniero, sotto la palma nana, a breve distanza dalle tende.» Cyrion rese omaggio a Ysemid nella nobile maniera orientale, e chiese di potersi ritirare nella sua tenda. Con amorevolezza, Ysemid gli fece cenno di andare. «Va', benedetto Gioiello di Dio.» Sicuramente notò che lo straniero camminava lentamente mentre faceva ritorno alle tende costeggiando l'oasi. Non sembrava aver voglia di guardarsi intorno, e appena raggiunse la tenda isolata che Karuil gli aveva preparato, vi entrò subito richiudendosi dietro il lembo dell'entrata. Ysemid sputò sulla sabbia, un gesto molto inusuale tra gente che imparava da subito a rispettare anche una goccia d'acqua. Il fiore rosso del tramonto sbocciò, fiorì e appassì. Ora, nella notte corvina, sfavillava l'ammasso di stelle del deserto. Quando nell'accampamento si spensero le stelle dei fuochi, Ysemid stiracchiandosi uscì dalla sua tenda, e sorrise sentendo la voce assonnata di una donna che da dentro gli mormorava qualcosa. Poi scivolò silenziosamente tra le tende, e cominciò a costeggiare l'acqua, e durante quel tragitto, a due brevi intimazioni delle sentinelle rispose con una battuta sussurrata che costrinse quelle a ridere sommessamente. Subito prima di arrivare alla tenda di Karuil, il principe raccolse nel palmo una manciata di luccichio dall'oasi e lo bevve. All'entrata della tenda, che era stata chiusa, il giovane uomo si fermò e chiamò a bassa voce: «Padre?»
Un attimo dopo, da dentro la tenda, la vecchia voce rispose agitata. «Che c'è?» «Ti disturbo? È tuo figlio, Ysemid. C'è qualcosa che mi opprime l'animo. Posso entrare?» «I vecchi hanno il sonno leggero. Entra.» Ysemid scivolò dentro la tenda. Quella che salutò i suoi occhi fu una visione veramente curiosa. Seduto sui cuscini e sovrastato dalla lampada di bronzo che bruciava fiocamente, Karuil-Ysem, Padre del Popolo, divorava voracemente gelatine dolci, tracannando sciroppi di frutta e vini profumati. Vassoi e coppe erano sparsi attorno a lui, ed egli ne attingeva avidamente con le sue dita da rapace, senza neppure interrompere il pasto all'arrivo del figlio. Ancora sorridendo, e ancora a voce molto bassa, Ysemid disse: «Che creatura disgustosa, il maiale.» Karuil, continuando senza battere ciglio il suo banchetto, rispose: «Sono il tuo schiavo. Mi prendo il mio salario.» «Non hai diritto a nessun salario, essere immondo, essendo uno schiavo.» «E per quanto ancora dovrò esserlo?» «Fin quando non mi sarò stancato di te.» «Ne sei convinto?» Gli anziani occhi luccicavano come punte di coltello. «Ma come puoi esserlo, caro figlio? Come potremmo dimenticarti, dopo che hai giocato con noi?» «Tu stai già dimenticando. Dimentichi che ho una protezione.» «Un giorno potresti perderla, la tua protezione.» «Non credo. Ed ora, dimmi cosa ti ha detto l'occidentale dentro questa tenda.» Karuil-Ysem si ficcò in bocca una fetta di lakoum cosparsa di zucchero e la mangiò, mentre il giovane lo guardava torvo e spazientito. Poi finalmente Karuil fu pronto e rispose: «Ha detto quello che ti aspettavi, essendo stato chiamato come tu ti aspettavi. Ha detto che aveva capito che ero minacciato da te e che mi avrebbe aiutato a sconfiggerti. Quindi gli ho chiesto di aspettare una mia parola. Ma c'è un'altra cosa.» «Che cosa?» Karuil si portò alle labbra un torroncino, e Ysemid, imprecando, avanzò verso di lui. Karuil allora posò il dolce, rivolgendo all'altro un sorriso contorto. «Che la presunta malattia è una malattia vera. Me lo ha confessato lui stesso.»
Ysemid, tremendamente irritato, annuì. «Era quello che pensavo, anche se sembra così strano. Strisciava quasi quando è andato alla sua tenda. E ora il male è su di lui. Uno che ho mandato prima ha trovato questo Cyrion addormentato come lo sarebbe un morto — o uno in preda alle droghe. Comunque, non l'ho mai temuto questo micetto bianco.» «Mai, bambino mio?» Ysemid con brusca mossa colpì violentemente in viso il vecchio, facendolo finire sui dolci e i cuscini. Giacendo là in mezzo, Karuil sibilò: «Trattami con più cura. Sono fragile e potrei rompermi. E questo non gioverebbe al tuo piano.» «E tu allora, essere immondo, stai attento. I dolciumi ti possono fare male quanto il mio pugno.» «È solo per un po',» disse il re abbattuto. «Mi piacciono le novità. Sono il tuo schiavo. Mi devi concedere qualcosa.» «Avrai quello che veramente desideri, e molto presto.» Karuil si rimise dritto. Il movimento fu stranamente fluido e serpentino. «Vuoi dire la libertà? Sì, la desidero ardentemente. Come la desidera pure mia sorella. Legare due come noi, piccolo birbante, è come dare fuoco a un vaso di canne secche.» «È così? Staremo a vedere.» Ysemid andò verso l'ingresso della tenda. Emergendone, guardò prima in alto, verso le stelle, poi si voltò di nuovo verso la strana figura sui cuscini. Infine a voce alta: «Che Dio ti benedica, padre.» Con un terribile ghigno Karuil rispose: «E che la luce del cielo ti illumini, Ysemid.» Ysemid non tornò subito alla sua tenda. Camminò fino alla fine dell'oasi dove, al riparo delle palme, terminavano le tende. Sotto un ultimo albero contorto e morente, che sorgeva al limitare dell'oasi, c'era l'ultima tenda. Ysemid vi si avvicinò in silenzio, sollevò il lembo dell'entrata, e guardò dentro. La luce delle stelle illuminava vagamente l'uomo, che dormiva raggomitolato nella scura tunica, con una ciocca di chiarissimi capelli che, come fili di seta, sbucavano da sotto il cappuccio su un pugno di anelli scintillanti. Sotto il pugno, la spada era inguainata e pronta all'uso. Ma Cyrion sembrava dormire come la luna, stanotte. Sarebbe stato facile ucciderlo così, ma la sua morte, in queste circostanze, non sarebbe stata opportuna. C'erano dei modi più eccitanti. Ysemid lasciò ricadere il lembo e se ne andò. Dall'ombra ordita tra due
palme lì vicino, Cyrion lo guardò andarsene. Cyrion, con i capelli ricoperti di fuliggine — di cui aveva in precedenza preso una manciata — e vestito dell'abito occidentale di seta nera che portava nascosto sotto la tunica da nomade, era difficilmente visibile nell'oscurità priva di luna. Neanche gli anelli gli luccicavano sulla mano sinistra; per una volta li aveva tolti, e li aveva lasciati su cinque pezzi di canna, sotto la ciocca di capelli recisi, sopra la spada, accanto alla tunica infagottata di cuscini. Solo il coltello aveva portato con sé. Queste elaborate precauzioni si erano rivelate uno splendido successo. Circa un'ora prima, uno dei cortigiani di Ysemid, venuto a visitare Cyrion, si era pienamente convinto, come Cyrion aveva potuto vedere. Il russare soffocato, che Cyrion aveva generosamente fornito, aveva sicuramente fatto la sua parte. Dall'altra sponda dell'acqua, si udì Ysemid scambiare un'altra battuta con una delle sentinelle. Cyrion, come un'ombra errante nel buio, muovendosi silenziosamente tra gli alberi e le tende, raggiunse quella di KaruilYsem e senza troppi preliminari vi entrò. Il Padre stava ancora lì a gozzovigliare come prima. Ora sgranò gli occhi, con una coppa di vino in una mano e dei canditi nell'altra. «Benedizioni della notte,» disse Cyrion. «Ancora affamato?» Karuil lentamente si ricompose. «Mi era stato detto che giacevi in preda al tao male.» «Qualche volta è possibile ritardare un attacco, o anticiparlo. Al momento non sento dolore, e vedo molto chiaramente.» «Perché sei qui?» «Ho visto Ysemid entrare nella tua tenda.» «Temevi per me?» Cyrion rimase leggermente stupito. «Che altro motivo avrei dovuto avere?» Karuil si adagiò sui cuscini, posando la coppa di vino e allungandosi per prenderne una di sciroppo di frutta. Cyrion si fece avanti, prese la coppa e gliela porse con gentilezza. Ma mentre stava chino su Karuil, successe qualcosa che sembrò avere a che fare con la mano sinistra di Cyrion. Si vide un debole lampeggiare che dalla gola di Karuil corse fino alla sua cintola. Nello stesso istante la coppa volò in aria, in una nuvola di sciroppo intensamente profumata, e Cyrion balzò indietro, con il coltello che gli brillava in pugno. Karuil restò seduto a bocca aperta. Restò a bocca aperta anche il suo abito. Tagliato dalla clavicola fino alla vita dalla lama di Cyrion, esso penzo-
lava aperto mettendo in mostra il petto raggrinzito e scuro di un uomo molto forte e molto vecchio. Ma c'era qualcos'altro. All'altezza del cuore si vedevano due fori neri, tagliuzzati, profondi, e completamente privi di sangue. Ferite mortali vecchie di un mese o forse più. Se Cyrion fosse mai stato più pallido di come fu ora, era difficile a dirsi. Con molta calma fece un commento su Dio che non sarebbe sicuramente piaciuto a un prete. Poi il morto vivente gli si lanciò contro, balzando con un'agilità che non avrebbe dovuto possedere e tenendo nella mano destra, ancora appiccicosa per i dolci, la spada ricurva di Karuil. Cyrion era armato solo di un coltello. Si piegò e risalì con un cuscino che mise sulla traiettoria della spada. Il cuscino incontrò la spada, che si abbatté su di esso squarciandolo. Il secondo colpo fu ancora più deciso, e tagliò quasi il cuscino da parte a parte. Quando la lama più grossa si conficcò nella seta e vi rimase impigliata, Cyrion fece per sferzare il volto di Karuil con il coltello. La spada si liberò e Karuil balzò indietro — per riflesso, perché il colpo col coltello era soltanto una finta. Era chiaro che Karuil non poteva essere ferito, e neanche ucciso: entrambe le cose erano già avvenute, eppure lui stava lì, vivace come una locusta. Ma questo, questo non era Karuil. Gli occhi di quello che era stato un uomo divamparono, pieni di odio e di una furiosa confusione. Cyrion aveva capito che ancora non si voleva farlo morire, e che l'ora della sua morte doveva essere scelta da Ysemid. Ysemid, che era il padrone di questa cosa... Cyrion si sottrasse alla terza sferzata della spada, lanciandole contro i resti del cuscino. La pila degli altri cuscini fu l'ultima tappa del suo viaggio. Avendone raggiunto la vetta, evitando con grazia di urtare la bassa lampada, egli si voltò e fece alla cadaverica creatura un inequivocabile gesto di incoraggiamento. Con un ringhio febbrile, essa si lanciò in avanti, agitando la spada in un groviglio di seta lacerata. Cyrion la guardò venirgli incontro. Poi si mosse come fiamma. Le sue mani afferrarono la lampada di bronzo e la scagliarono per la lunghezza della catena. Un secondo, e Cyrion era caduto disteso sui cuscini. Era sembrato che vi fosse stato scaraventato, invece il colpo non l'aveva toccato, anzi era quello che aveva evitato. Era passato sopra di lui con il sibilo dell'aria squarciata, trapassando in un baleno con la lama ricurva lo spazio vuoto che avrebbe dovuto essere occupato dal suo corpo. Poi venne un altro rumore: l'inesorabile clangore smorzato di un metallo mas-
siccio che si scontra a una certa velocità con un cranio umano. Con un grugnito nasale, la creatura che era stata Karuil, scaraventata indietro, era piombata giù. Cyrion a sua volta era sceso giù dai cuscini e le era balzato dietro. In meno di un attimo, aveva strappato la grande spada dalle malferme dita dalle lunghe unghie. Nel giro di un altro mezzo respiro, la spada brandita incombeva minacciosa dall'alto, quando una voce di donna, calma e dura come un osso graffiato, disse: «No. Non...» Cyrion non abbassò la spada né si guardò intorno. Guardava solo negli occhi fissi e terrorizzati che ancora vivevano nel volto morto di Karuil, ora a terra sotto di lui. La lampada aveva bruciacchiato i peli delle sopracciglia. Se la carne che esse celavano fosse stata viva, sarebbe rimasta contusa. Proprio oltre Karuil, una goccia d'olio era caduta dalla lampada e bruciava cupamente. Senza voltarsi, Cyrion stese il piede e la spense. Poi in maniera colloquiale disse: «La decapitazione. Una delle poche morti che un demone veramente teme.» «Sì,» sussurrò la voce dall'ingresso della tenda. «Siamo demoni, mio fratello ed io. E ricorda, se conosci la nostra specie, che i nostri poteri sono maggiori di notte e in luoghi bui. Uccidilo, e poi dovrai fare i conti con me.» «Be',» rispose gentilmente Cyrion, «sembra che tuo fratello abbia assassinato uno di cui io avevo una certa stima. L'uomo il cui corpo lui ora usa come un guanto. Forse in questo momento non sono pienamente in possesso delle mie facoltà.» «Non è stato lui e neanche io ad uccidere Karuil-Ysem. È stato suo figlio a farlo, con un pugnale, molti giorni e molte notti prima che tu giungessi qui. Pare che ti avesse chiamato lui, ma sei arrivato troppo tardi. Ascolta la storia, prima di giudicare.» Per un altro momento Cyrion restò fermo. Poi abbassò la spada. Scostatosi dal corpo di Karuil, egli piantò la spada in un cuscino, e restandole vicino raccolse il coltello che prima aveva lasciato cadere e lo rinfoderò. Soltanto allora guardò dall'altra parte della tenda. La giovane donna che stava lì, appena dentro la soglia chiusa della tenda, come lui era entrata in silenzio, malgrado le costose monete di cui il suo abito era fittamente ricamato e i gioielli che le cingevano la vita. Il suo volto svelato era molto bello, e dove il velo aveva scoperto i capelli se ne poteva vedere il loro colore, quell'ardente arancio-oro comune tra i demoni femmina. Però le sue lunghe unghie erano dipinte d'oro. Era la terza mo-
glie di Ysemid. Karuil-che-non-era stava ora cercando di trascinarsi verso di lei. Il cadavere fu improvvisamente preso da un forte dolore, e tirando un angosciato respiro, la donna si inginocchiò ad aiutarlo. «Sì,» osservò Cyrion. «Il corpo di un vecchio può essere costretto alla flessibilità di uno giovane, ma ne soffrirà. Sono incantato da quanta sensibilità si conservi nei nervi, e da quante informazioni sopravvivano nel cervello. E il gusto, anche. Per uno che di solito segue una dieta esclusiva a base di carne cruda e sangue, l'esperienza dei dolci di seconda mano deve essere nuova.» La diavolessa teneva il cadavere vivente stretto al petto. «Ho sentito parlare di uno che aveva il tuo nome,» disse a Cyrion con disprezzo. «Anche io ho sentito dire di te,» la ricambiò lui con cortesia. «O comunque, della tua specie.» «Sì. I nomadi ci conoscono, e credono nella nostra magia.» «E io sono stato istruito dai nomadi.» «Allora lo avevi capito subito.» «Non subito.» Cyrion guardò oltre la diavolessa, nel vuoto. Ma lei non fece l'errore di crederlo distratto. «Lo sospettavo. Solo un demonio, si dice, conosce gli incantesimi per entrare nel corpo dei morti e farne rianimare le carni.» «La sua gente crede che Karuil sia vivo.» «Dovrebbero notare, quando li abbraccia, che il suo cuore non batte.» «È stato questo che ti ha messo in guardia?» «Questo e altro. Il cervello preso in prestito da tuo fratello gli ha fornito il ricordo che una volta io ero il figlio spirituale di Karuil-Ysem, ma la memoria non è arrivata a ricordare tutto. L'informazione era imperfetta, una logora traditrice. Questo vi ha smascherati. Poi c'erano altre cose. Una era che a Karuil non piaceva lo zucchero e molto poco il vino. Una simile golosità poteva essergli nata con l'avanzare dell'età. Ma fidarsi dei cibi che gli forniva l'uomo da lui più temuto? Il Padre del Popolo non sarebbe stato così stolto.» «Tu amavi Karuil di un amore filiale e hai sete di vendetta,» disse la donna fissando Cyrion da dietro la sua chioma color pesca-dorata. Anche Cyrion la fissò, di nuovo affabile, innocente. «Davvero?» Lei continuò, «la tua e la nostra vendetta possono essere una. Lui ci ha
resi schiavi, questo Ysemid.» Mentre pronunciava quel nome, i suoi artigli dipinti graffiavano il terreno. «Hai parlato di una storia. Raccontala.» «Ascolta allora. C'è un luogo antico sperduto nel deserto, un tempio in rovina. Lui, Ysemid, venne lì. Stava cacciando, e pareva che fosse arrivato fino al pozzo del cortile inseguendo qualche bestia che poi gli era sfuggita. Invece di andarsene pure lui, aveva tirato dell'acqua per bere. Era mezzogiorno. Mio fratello dormiva. Io vidi Ysemid, e la sua bellezza mi risvegliò lussuria e fame. Mi ricoprii di illusori stracci umani e gli apparvi nei panni di una mendicante, una derelitta orfana di quel mausoleo. Parlammo un po', e lui mi offrì del cibo se avessi fatto l'amore con lui. Sapevo che non aveva cibo con sé e che cercava di ingannarmi, ma accettai ben volentieri, perché rientrava tutto nei miei piani. Ci sdraiammo ai piedi del muro...» La diavolessa scoprì i denti in una smorfia di rabbia. «Ti devo informare che non indossava l'abito dei nomadi, che ci conoscono e sono scaltri. Se fosse stato così, lo avrei evitato. Ma era vestito in abiti cittadini, lo credetti qualche figlio di mercante, una preda facile. E quando il sole stava per tramontare e mio fratello per svegliarsi...» La donna digrignò i denti affilati. Tra le sue braccia, il cadavere che conteneva il fratello sussurrò il proprio odio. «Ysemid aveva un amuleto,» continuò la diavolessa. «Era celato tramite una magia, perché io l'avevo visto e non l'avevo creduto nient'altro che un gioiello. Ricordo che avevo pensato di tenerlo come ninnolo, una volta che avessi finito con il suo proprietario. Poi, quando lui si stese su di me, quell'affare mi sfiorò la spalla e... bruciava. Ysemid si tirò subito indietro, e si mise a ridere estremamente divertito. Infine, parlando la lingua dei nomadi, disse: «Sei ciò che credevo.» Toccò l'amuleto, pronunciò la formula, e io fui legata dall'incantesimo. Subito dopo scoprì mio fratello e legò anche lui. Ora so che Ysemid era venuto lì a caccia di noi e non di animali. Gli servivano i nostri favori. Ti rendi conto del potere di quell'amuleto? Non possiamo ribellarci a lui, e dobbiamo obbedirgli in qualsiasi modo. Presto conoscemmo i suoi propositi.» Il giorno dopo, il Popolo di Karuil si era accampato a qualche miglio dalle rovine. Era stata organizzata una caccia vera, e Ysemid aveva persuaso il padre ad andare insieme a lui. Al calar della sera, il gruppo aveva trovato riparo presso le rovine, e Ysemid si era appartato con Karuil nel cortile interno, con la scusa che dovevano parlare per un po' insieme. C'erano sempre molte discussioni tra di loro. Presso i nomadi l'autorità del padre
era assoluta, e quella di un re capitale. Ysemid desiderava adottare modi urbani, e trarre profitti nelle città, usando la ricchezza della gente del deserto come merce di scambio. Karuil non avrebbe permesso una cosa simile, né c'era alcuna speranza che egli cambiasse opinione. Ysemid aveva poca scelta. O fuggire senza niente: derubare il Popolo avrebbe significato dare inizio a una zelante caccia che, anche per un principe, si sarebbe conclusa con la lapidazione, oppure rassegnarsi a vivere secondo i costumi dei suoi predecessori fin quando Karuil non fosse finalmente morto. E Karuil non dava segno di morte imminente. Era vigoroso, aveva una salute di ferro, e sarebbe sopravvissuto per un decennio o forse più. Ucciderlo era l'unica speranza di Ysemid, ma uccidere significava rischiare un'orrenda condanna a morte. Anche quelli che stavano dalla parte di Ysemid, quelli della sua corte, non avrebbero approvato il parricidio. Probabilmente Karuil-Ysem aveva presagito che si stava tramando qualche raggiro alla giustizia, altrimenti perché avrebbe fatto venire Cyrion? Nonostante questo egli aveva seguito da solo il figlio nel cortile interno del tempio, dove Ysemid lo aveva accoltellato due volte, per essere sicuro. E lì il demonio, soggiogato come sua sorella, era stato obbligato a mettere in pratica le sue arti magiche e, tramite fantastici riti demoniaci, a costringere il suo corpo nel cadavere ancora caldo di Karuil prima che esso si irrigidisse. Loro avevano supplicato Ysemid, disse la diavolessa, di poter perpetrare la frode usando degli incantesimi illusori, piuttosto che ricorrendo a un metodo così turpe. Ma Ysemid non ne aveva voluto sapere. L'illusione protratta troppo a lungo si sarebbe potuta indebolire, e inoltre poteva essere svelata in moltissimi modi. Il mattino dopo, era sembrato che il re fosse diventato più malleabile nei confronti del suo erede, e che avesse finito con l'accettare la sua visione delle cose. Ysemid aveva condotto in maniera eccellente la sua opera di seduzione del Popolo, e così, piuttosto che insospettirsi e stupirsi, quella gente si era invece rallegrata di quel mutamento di passioni, fremendo al pensiero dei benefici della vita opulenta che l'aspettava, e pensando che le proprie tradizioni non sarebbero state del tutto danneggiate né le proprie forze disperse. Inoltre, in segno di buon auspicio, Ysemid aveva trovato una deliziosa e giovane mendicante sbocciata come un fiore tra le rovine, e in breve ne aveva fatto la sua sposa. Da allora, più di un mese prima, il Popolo di Karuil si era avvicinato sempre più alle città. Ysemid seguiva sempre più i costumi cittadini. Si mormorava addirittura di un castello vicino Heshbel. Karuil, improvvi-
samente rimbambito, sembrava essersi ormai rassegnato all'idea. «E quando infine tutto sarà come vorrà lui,» disse la diavolessa leccandosi le labbra, «Ysemid permetterà a mio fratello di fingere una morte tranquilla, e poi di uscire dal corpo prima che venga seppellito. Anche se dovremo gettare un altro incantesimo sulla carne per impedirne il suo istantaneo deterioramento. Da me si separerà. Ma fino a quel momento dobbiamo servirlo. Mio fratello, grazie al palato umano, mangia i dolci, che altrimenti lo soffocherebbero. Io invece, che ho giaciuto con Ysemid ogni notte, finché lui, stanco di me come di una mortale, non mi ha confinata a un'altra tenda, io ardo dal desiderio di gustare le sue carni lacerate e il suo sangue fumante.» Ci fu un silenzio. Dopo, Cyrion domandò: «L'amuleto è lo zaffiro che porta all'orecchio?» «Sì,» disse lei con un filo di voce. E Cyrion, con apparente noncuranza: «Non potevi rubarglielo in una delle tante notti in cui Ysemid ha dormito al tuo fianco?» «L'amuleto brucia quelli come me e mi avrebbe carbonizzato le dita fino all'osso. Se fosse stato possibile prenderlo, credi che glielo avrei lasciato? Ma la gemma è conficcata nel lobo del suo orecchio ed è fermata da tre fili d'oro. Avrei dovuto strappargliela, e lui avrebbe sentito subito il dolore. E anche se mi fossi impossessata dell'amuleto, esso avrebbe continuato ad esercitare il suo potere magico, e io ad essere impotente come prima. Non sai niente delle leggi che governano queste cose?» «Dimmele tu,» disse Cyrion. Ma stavolta fu il demone maschio, intrappolato nel corpo di Karuil, a rispondere. Nella secca voce presa in prestito, disse: «A meno che non sia lo stesso Ysemid a rimuovere il gioiello con la sua mano, e con la sua mano a consegnarcelo, la protezione non cessa, e noi rimaniamo suoi schiavi e dobbiamo seguire ogni ordine che lui ci dà. Di ciò lui gode, essendo un vizioso. Adora giocare a gatto e topo. Certi uomini agiscono così, in maniera sporca e brutale.» «Non come voi, con i vostri puri e salutari peccatucci? Da quello che mi dite, mi riesce difficile trovare un modo di attaccarlo.» «Potresti costringerlo a consegnarci il gioiello,» suggerì la diavolessa. «Ne dubito. Ysemid è un nomade, malgrado le sue ambizioni. E se è vero che è un sadico, sarà sensibile a simili argomenti. Perciò preferirà qualsiasi tortura che io gli possa infliggere ai giochi che voi pratichereste. D'altra parte, se io rivelo le sue malefatte, voi due sarete costretti ad appoggia-
re le sue menzogne.» «Questa gente sa che magie come la sua e la nostra esistono.» «Ma sa pure che io sono uno straniero, e che gli stranieri mentono sempre.» Il demone Karuil si mise seduto. «Torna alla tua tenda, sorella. Ysemid potrebbe andarci e accorgersi della tua assenza.» Lei fece un verso di derisione, ma si alzò, con tutti gli ornamenti che ora tintinnavano. Era probabile che le guardie del campo l'avessero udita mentre passava, sebbene non avessero potuto vederla. Essendo quello che era, lei poteva diventare ancora meno visibile della notte. «Andrò. E tu,» disse a Cyrion, «con quella chioma d'angelo e quei begli occhi sofferenti. Tu faresti meglio a fuggire.» Cyrion estrasse la spada ricurva dal cuscino e la gettò accanto a loro. «Oh, potrei farlo.» L'alba, l'opposto del tramonto, sgorgò a oriente, infiammò l'acqua dell'oasi, e trasformò in elettro i capelli senza più cenere di Cyrion, disteso sulla sabbia a faccia in giù. Uno dei cortigiani di Ysemid gli aveva piantato un piede sulla schiena affondandovi il calcagno. Un altro lo aveva liberato della cintura armata. Altri ancora gli stavano intorno sorridendo, con sorrisi sardonici che non avevano nulla a che fare con la giocosità. «Giratelo sulla schiena.» Era il tono autoritario di Ysemid in persona. E Cyrion fu acchiappato per i capelli di elettro e per le braccia vestite di nero e debitamente rivoltato. Atterrando sollevò uno spruzzo di sabbia, e Ysemid disse: «Ora spogliatelo della tunica da nomade, la pelle di leone in cui cerca di nascondersi questo sciacallo. Cercate la prove del suo crimine.» Cyrion giaceva a terra snodato come un fantoccio e completamente inespressivo, mentre con zelo venivano eseguite queste istruzioni. In breve fu spogliato dell'abito da nomade, e poi della tunica di seta, e fu lasciato negli aderenti calzoni e nei morbidi calzari di pelle in uso tra gli occidentali, per i quali gli uomini di Ysemid, seguendo un rituale diffuso, derisero Cyrion. «Oh, andiamo,» disse Cyrion, «quando il vostro signore vivrà a Heshbel, anche lui...» Fu fatto tacere con un pugno in testa. Oltre al piccolo e letale coltello brunito, la ricerca tra i vestiti rivelò una fiala sigillata. Ysemid cominciò a mostrarla in giro; ai suoi favoriti e a tutti a coloro che, udendo il trambusto, si erano raccolti fuori dalla tenda di
Cyrion. «Vedete questa cosa? Questa è stata parte della stregoneria.» Si chinò su Cyrion. «La sua funzione?» Cyrion lo guardò, e non piacendogli quello sguardo Ysemid lo colpì ancora. «Rispondi, sciacallo.» «La fiala contiene una droga.» «Che avresti usato per il tuo piano omicida.» «Che avrei usato per intorpidire il dolore.» «Ah, certo. Il dolore alla testa e la cecità che ti sei inventato. Diavolo.» Ysemid colpì Cyrion con ancora più determinazione, e Cyrion chiuse gli occhi, apparentemente annoiato. Ysemid balzò in piedi tenendo ancora alta la fiala. Nell'altra mano teneva qualcos'altro. Con gesti lenti mostrò entrambi gli oggetti, e un silenzio piombò denso come sabbia su sabbia. «Vedete?» domandò Ysemid al Popolo. «Una piccola immagine di legno, con il simbolo, inciso proprio qui, del nome di mio padre, il Padre. Conosciamo l'uso a cui sono destinati simili giocattoli. Questo escremento dell'Arcidiavolo, questo vomito del Demonio, è venuto da noi simulando l'amicizia, e intenzionato invece a regolare il conto con Karuil, nostro Re. E se io non avessi trovato questo oggetto di stregoneria nella tenda dello straniero, chi ci dice che Karuil non sarebbe morto, lasciandoci... orfani di padre?» Allora, e solo allora, venne il morbido, vellutato ringhiare. Cyrion non guardò. Forse sapeva già come gli sarebbero apparsi, simili ai leoni a cui così spesso erano paragonati, neri leoni con occhi di nera fiamma. Era una storia improbabile, ma sarebbe bastata. Cyrion era l'alieno, ed era risaputo che gli alieni si comportavano male. Inoltre, ecco la prova finale. Si udì un mormorio: Karuil, Karuil. Poi ancora una volta piombò il silenzio dell'assassinio imminente. E in quel silenzio, la voce di KaruilYsem netta come un colpo di pugnale. «Mi sono fidato di un serpente, e sono quasi morto del suo veleno. Mio figlio mi ha salvato la vita. Prendete questa vipera e uccidetela, nel modo che riserviamo a coloro che fanno pratica di magia nera.» E dopo queste parole, il comando di legge di Karuil-Ysem, imperioso come quando era vivo: «Lo ordino.» Sulla sabbia, Cyrion rise piano. Questa volta il colpo che gli accorda-
rono portò un intervallo di oscurità. La notte di incoscienza, tuttavia, trovò un'alba ugualmente dolorosa. La luce tornò, ma mostrò ben poca pietà. Era costume dei nomadi legare i criminali condannati al centro dell'accampamento tenendoveli per un giorno intero, e poi al crepuscolo condurli per igiene a un quarto di miglio dalle tende, verso una morte che, a quel punto, era spesso desiderata. Cyrion, cosciente o meno, pendeva per le corde dai pali a cui l'avevano legato. Tutt'intorno le tende, il fresco inchiostro dell'ombra delle palme e, cullata tra di esse, l'acqua luccicante, come cielo versato a terra. Al centro, un pezzetto di sabbia indifeso sotto il caldo scolorito di mezzogiorno, sovrastato da un frammento di cielo da dove il sole batteva senza fine come un cuore ardente in agonia. Ogni tanto, naturalmente, cadeva un'ombra, un sollievo, il preludio al tormento. Gli veniva scagliata una pietra — il sangue si rapprendeva subito nella calura — qualcuno gli gridava contro, uno spillone gli graffiava un fianco, un altro gli veniva conficcato sotto un'unghia della mano ingioiellata — disdegnavano di derubarlo — oppure una pioggia di calci e schiaffi, o la polvere lanciata negli occhi o strofinata sulle labbra. I nomadi, che vivevano in una terra difficile, avevano imparato a dovere l'arte della punizione. Che non fosse peggio di così Cyrion lo doveva solo al fatto che lo si voleva mantenere perfettamente sensibile fino al momento della morte. Questo lo sapeva. Sapeva pure che ogni atto prima di questo era stato compiuto contro di lui. E ne prevedeva altri che dovevano ancora avvenire... L'orlo sottile della coppa, emerso da uno stordimento doloroso e pulsante, e premuto sulle sue labbra: solo quello non aveva previsto. «Bevi,» gli disse una donna all'orecchio. «Presto. Prima che se ne accorgano.» Cyrion non perse tempo in inutili domande. Bevve l'acqua, che la donna era stata abbastanza scaltra da riscaldare. Poi aprì gli occhi, si drizzò un po', e guardò verso di lei attraverso le lunghe, lunghe ciglia impastate di sabbia. Di fronte a lui la diavolessa, avvolta nel seducente velo. «Grazie,» disse Cyrion. «E ora, mi libererai appassionatamente?» «Se lo facessi lui ucciderebbe anche me. Ti sta facendo ciò che desiderava farti. Stupido!» «Perché allora,» sussurrò Cyrion, «sprecare l'acqua?»
«Oh, mio stupendo fiore,» lo schernì lei, «per vedere crescere e prosperare le corde che ti legano.» La bocca di Cyrion si curvò leggermente, e lei disse: «Tu hai dei poteri. La tua pelle è chiara ma non si brucia...» «No. Conosco a sufficienza le arti dei nomadi per riuscire a risparmiarmi questo inconveniente.» «La forza della Volontà.» Poi gli sussurrò: «Liberati. Uccidi Ysemid.» «Per essere subito ucciso dalla sua devota corte? Questo si verificherà al tramonto, in ogni caso.» «Lurido codardo.» «Stupendamente affascinante...» Cyrion fece una pausa, «incredibilmente seducente... bevitrice di...» «Ti perseguiterò,» lo interruppe lei. «Troveremo la tua tomba e la profaneremo.» «Povero me.» «Allora muori,» disse la diavolessa, e fece per andarsene. «Una cosa sola,» disse Cyrion, e lei si fermò. «Tuo fratello, il Re KaruilYsem, assisterà alla mia morte?» «Deve. È la loro legge. Lo sai.» «Allora,» Cyrion sospirò, abbandonandosi di nuovo alla stretta delle corde, e lasciando cadere la testa in avanti, «seguilo...» La diavolessa fu scossa da un fremito. Gli afferrò il braccio, affondando gli artìgli nella liscissima pelle nuda e nel solido muscolo che essa ricopriva. «Perché? Cosa vuoi fare?» «Per la delizia dell'amore di Dio,» bisbigliò Cyrion, «graffiami o colpiscimi. Ci sono cinque uomini che ti stanno guardando.» Lei gli ringhiò la sua furia. «Ti guarderò morire nel lago del tuo sangue, anche se non potrò berlo. Basterà questo a soddisfare la mia fame.» Ad aumentare quella furia Cyrion non si ritrasse quando le unghie della donna gli graffiarono il petto. Poi, nascondendo la coppa, la diavolessa corse via. Quando dal cielo ardente del tramonto calò sul deserto la prima frescura, l'uomo legato guardò per un attimo in alto, poi abbassò di nuovo la testa dorata. La benedizione del fresco era anche il suono di campana della sua morte. Con le ombre, vennero i suoi carnefici. Lo staccarono, ancora legato, dai pali, e se lo trascinarono dietro, fuori
dall'accampamento. Le donne, che il giorno prima lo avevano guardato con occhi languidi, avevano ora al posto degli occhi delle dure pietre, come quelle che poco prima gli avevano scagliato contro. Sebbene fosse loro permesso di tormentarlo, non potevano tuttavia vederlo morire. Ma non era molto importante. Potevano comunque immaginare come sarebbe stato. Una sorte decretata dalla tradizione e alquanto spiacevole. Quasi tutti gli uomini lasciarono l'accampamento. Si muovevano come un sinuoso gregge nero al seguito del proprio pastore. Karuil-Ysem montava a cavallo, Ysemid al suo fianco, un figlio orgoglioso, compiaciuto dall'aver salvato il proprio re e padre dall'assassino. Le prime stelle si stavano già imbarcando nel cielo rosso quando essi raggiunsero il punto scelto. Era un punto uguale ad ogni altro, soltanto sabbia nella luce del tramonto. Gli uomini formarono un grande cerchio, al centro del quale fu condotto il condannato. Cyrion camminava, ma ogni tanto cadeva, e veniva aiutato a rimettersi in piedi dai pugni e dai calci dei suoi catturatori. Erano stati portati anche i pali, che furono conficcati nella nuova sabbia, e a cui le corde furono ancora una volta assicurate. Karuil fermò il cavallo e stette a guardare. Il vento soffiava sul deserto. Il sole se n'era quasi andato, e presto sarebbe scesa la notte. E poi la notte eterna. Ma non ancora. Ysemid diede un ordine e delle torce furono accese e poste lungo il cerchio. Bisognava vedere quello che sarebbe successo, e la luce era ottima. Ysemid si avvicinò a Cyrion. Si fermò a guardare la testa ripiegata, e il suo torso di pallido oro scolpito che, malgrado lo sforzo psichico, sotto il bruciante calore del sole aveva cominciato ad arrossarsi. «Bene,» disse Ysemid. La sua voce era bassa, privata, solo per Cyrion. «Spero che tu mi senta, tenero micetto.» «Sì,» disse Cyrion, «ti sento.» «Bravo, micetto mio. Bravo.» «Non ti hanno mai raccontato la storia,» disse Cyrion — la sua voce era ormai lo sgretolarsi di se stessa, ma ancora distinta, interessante; Ysemid ascoltava attentamente — «la storia della lince che si trovò in mezzo ai leoni?» «Devo farmela raccontare, piccola lince? In fretta, spero.» «In fretta. Si racconta che la lince disse ai leoni di essere un raro e succulento animale, e che soltanto il migliore di loro sarebbe stato degno di divorarla. Al che i leoni dapprima cominciarono a litigare su chi era il mi-
gliore di loro, poi passarono alle sfide, e infine alla lotta. Essendo presuntuosi e feroci, nessuno di loro sopravvisse. La morale della storia è che la lince non fu mangiata.» «Ma la morale della tua storia è che noi non combatteremo per te, semplicemente ti uccideremo.» Ysemid venne ancora più vicino. Nel suo orecchio lo zaffiro era come una goccia stillata dal crepuscolo. «Mi vedi, favoloso guerriero?» disse Ysemid. «Guardami e vedimi. Ricordo che mio padre parlava di te, non spesso, ma in maniera efficace. Guarda, e vedrai come ci assomigliamo, ora.» E spazientitosi, Ysemid afferrò la mascella di Cyrion e gli alzò il viso tenendolo di fronte al suo. C'era qualcosa che non andava, Ysemid se ne accorse subito. Il volto non tradiva alcuna disperazione, come lui invece si aspettava, e gli occhi — cosa c'era di strano in quegli occhi? — «Guardami,» ripeté Ysemid. «Mi dispiace,» disse Cyrion, «non posso.» Ysemid lo fissò. Poi imprecò, con incredulo piacere. «Allora era vero. Il disturbo alla vista: ce l'hai ora.» «Ce l'ho ora.» «E per quanto durerà?» «Un'ora, forse un po' di più.» «Potresti morire cieco, allora.» «Non credo che abbia molta importanza. E se mai ti capiterà di studiare la malattia, vedrai che a volte con il mal di testa si arriva a desiderare la morte. Mi farai un favore.» «C'è un altro favore,» disse Ysemid. Se Cyrion avesse potuto guardarlo ora, avrebbe visto il principe risplendere di una nuova radiosa gioia. Il sadico e piuttosto prevedibile gioco che gli era germogliato in testa era per lui irresistibile. «Mi è stato detto della tua maestria con la spada. Mi è stato detto e stradetto. E la vedetta mi ha riferito le parole che hai detto mentre venivi condotto all'accampamento. Quali erano? Mi può riuscire difficile combattere contro un uomo che non riesco a vedere.» Alla fine Cyrion, inespressivo, disse: «Secondo i codici del tuo popolo puoi infliggermi qualunque punizione tu voglia, ma mi devi risparmiare questa.» «Il mio popolo, gatto-lince-sciacallo. Il mio. Non il tuo. E mio padre, non il tuo. E la mia volontà, non la tua.» Ysemid si raddrizzò. «Dirò loro che ti sei vantato che se solo fossi slegato e armato riusciresti a uccidermi. Dirò che devo accettare la sfida. Il mio valore è messo in dubbio, e io devo
umiliarti prima che tu venga ucciso nella debita maniera. Saranno d'accordo, e saranno testimoni della mia superiorità, mentre tu inciamperai continuamente, come un cieco.» «Gli uomini nel cerchio sono talmente vicini che, quando comincerà il duello, essi capiranno perfettamente la ragione per cui non posso combattere.» «Allora li farò allontanare. Dirò che tu temi un inganno. Che ti si deve mostrare come io possa batterti senza alcun aiuto.» In fretta Cyrion disse: «E anche Karuil-Ysem. Mandalo indietro insieme agli altri.» Ysemid aggrottò la fronte. Studiò il volto vuoto di Cyrion, il suo odioso fascino che anche ora lo copriva come una maschera, e gli occhi smarriti, senza speranza. «Perché? Cosa stai studiando? Tu pensi di giocarmi qualche scherzo...» Ysemid dissentì. «No. Il vecchio starà a guardare da vicino. Ma soltanto lui. Vedrai che non cercherà di aiutarti. O lo sapevi, e temi qualcos'altro? Tu hai solo Ysemid da temere. Povero guerriero dagli occhi malati.» Ysemid si voltò e si diresse verso il recinto umano gridando qualcosa. Cyrion dovette udire qualcuna delle parole, e la risposta incerta che presto si gonfiò in un pieno assenso. Poi ci fu il rumore, se non la vista, del recinto che si allargava, ritraendosi. Quando il rumore ebbe termine, Cyrion poté giudicare la distanza che era stata raggiunta. Se qualcuno dal cerchio circostante avesse voluto soccorrere un uomo al centro dello stesso cerchio, non sarebbe sicuramente riuscito a raggiungerlo in tempo. Ma chi avrebbe voluto una cosa simile? Soltanto Karuil, smontato da cavallo, si era avvicinato, sorreggendosi alla spalla di un ragazzo. Karuil che era un demonio. Un coltello recise le corde, e Cyrion, perduto il loro supporto, barcollò in avanti. Imprecando con soddisfazione, Ysemid lo sostenne, per poi spingerlo via. Qualcosa era stato messo nella mano destra di Cyrion. Qualcosa di familiare: l'impugnatura a forma di croce di una spada occidentale. Come Cyrion alzò la spada, forse per la prima volta in maniera maldestra da quando la possedeva, Ysemid gli venne incontro. Avanzava tranquillamente, danzando, quasi rozzo nella sua parodia. Il rumore della sabbia sotto i suoi passi avrebbe mandato dei segnali anche a un cieco. Cyrion deviò il colpo. Il suo braccio si levò alto e tornò indietro, sfiorando goffamente l'altra spada con la sua. Come un ubriaco, Cyrion terminò la mossa girando su se stesso. Cercò di bilanciarsi, tastando con la mano libera l'aria
che andava oscurandosi, agitata solo dalle torce. Ora Ysemid si lanciò velocemente. La sabbia rispondeva con il più ovvio fruscio a quel montarle sopra. Cyrion stette ad ascoltarlo attentamente, e poi si scansò con un balzo, finendo quasi a terra. Per un pelo si era sottratto alla giocosa spada di Ysemid. Vedendo Cyrion che continuava a perdere terreno e che muoveva con incertezza la testa per cogliere qualsiasi rumore dalla sabbia, sua unica amica, Ysemid cominciò a pestare e a calciare tutt'intorno a lui, ridendo in silenzio del panico e dello sconcerto di Cyrion. Tutto d'un tratto, Cyrion gli si lanciò addosso barcollando. Ysemid si scansò con disinvoltura, facendo girare vorticosamente la spada, poi, adirato di fronte a tanto ardire, si voltò e sferrò un colpo in direzione del fianco di Cyrion. Il colpo lo avrebbe sicuramente centrato. Fu soltanto la goffaggine di quel momento a salvarlo, facendolo finire disteso prima che la lama lo raggiungesse. Mentre cercava di rialzarsi, andò quasi a finire con la mano sull'acciaio incurvato, che gliela avrebbe tagliata fino all'osso. Anche da questo lo salvò un caso fortuito, un cedimento della sabbia che lo fece cadere sul gomito mentre la spada del nomade risaliva verso l'alto. La risata ora non era più soffocata. Avendo lo spazio per alzarsi, ma sembrando disorientato, Cyrion si rannicchiò sui piedi. Ysemid lo fissava, fissava il pallido volto ora smarrito e disperato, che cercava di leggere nella notte tutto quello che i suoi inutili occhi gli negavano. L'estasi di Ysemid era evidente a chiunque potesse vedere. Egli sferrò un altro colpo, mancando deliberatamente quella figura desolata che gli stava di fronte, roteando la spada in un turbinio di suoni metallici e bagliori di torce. In maniera comica, senza un motivo, Cyrion si piegò. Qualcosa in Ysemid traboccò. Con un grido di pura orgiastica perversione, l'erede di Karuil si lanciò in avanti, gettando Cyrion ancora una volta sulla sabbia. Ma anche il gatto alla fine affonda i denti nel dorso del topo. Inginocchiatosi su di lui, Ysemid afferrò Cyrion dai capelli, stringendoli nel pugno sinistro, mentre la destra, avvicinando la presa alla lama, si raccolse per infliggere il primo supplizio della sentenza di morte: la castrazione. Da qualche parte nella nube di sabbia che avvolgeva i due uomini, si accesero due carboni di ghiaccio ardente, due stelle, il bagliore delle torce su due occhi brillanti. E subito una spada, quasi altrettanto lucente, si levò portando con sé un'onda di sabbia. Una spada di fuoco, che bruciò.
Ysemid si rese conto di non aver sferrato il colpo evirante. Istupidito e perplesso abbassò lo sguardo per cercare la ragione del mancato successo. E vide la propria mano, recisa appena sopra il polso, che giaceva sanguinante e smarrita sotto la lama della spada di Cyrion. Prima che l'urlo riuscisse ad arrivare fino al volto di Ysemid, un pugno inanellato gli si era piantato dal basso nella mascella. I denti di Ysemid si erano serrati sulla lingua in una dolorosissima morsa. E lui crollò in una mugghiante tenebra bronzea. Il dolore che venne dopo iniziò lontano, un tremendo dolore al lobo dell'orecchio. Cyrion, presa la mano mutilata di Ysemid nella propria, e usandola come una tenaglia, ne aveva serrato le dita sullo zaffiro e aveva strappato l'amuleto dall'orecchio. Intrecciando inesorabilmente i fili d'oro che avevano in precedenza fissato il gioiello all'orecchio di Ysemid, Cyrion lo legò alle diseredate dita. L'operazione aveva richiesto solo pochi secondi. Ora, ergendosi sui piedi senza sforzo alcuno, Cyrion scagliò la mano insanguinata sulla sabbia davanti a Karuil-Ysem. Egli si chinò rapacemente per raccoglierla, ma poi si fermò completamente immobile. Da ogni parte gli uomini del Popolo stavano correndo verso di loro. Le loro grida e i sorrisi di luce delle loro spade riempivano la notte. Cyrion, con la voce secca e corrosa, gridò a Karuil: «Staccato da lui con la sua stessa mano, e da quella mano consegnato a te. Prendilo, dannazione, e usalo!» Ma fu il ragazzo su cui Karuil si era finora sorretto che si piegò a raccogliere la mano con il suo premio. Come il ragazzo si raddrizzò, dell'oro serpeggiò da sotto il suo cappuccio. Con il volto privo di belletto, e degli abiti maschili illusori o rubati, la diavolessa si portò alle labbra il pezzo di carcassa, poi si fermò. «Allora non sei cieco,» disse a Cyrion. «No. Comunque sarò morto, tra pochi istanti.» «E noi ti dobbiamo salvare svelando la verità qui e subito?» Cyrion alzò le spalle. I suoi occhi erano chiari e fermi. «La gloria tra gli schiavi. Se non ti dispiace.» «Per la tua bellezza, allora,» disse la diavolessa. E accanto a lei, KaruilYsem spalancò la bocca in un assurdo e terrificante sbadiglio. I primi nomadi erano ormai a una manciata di passi da loro, quando improvvisamente si arrestarono. Coperto da urla e ululati assetati di vendetta, si era udito come l'acuto vibrare di una corda sottile, poi tutto era piombato
nel silenzio. Si erano fermati, con l'aria di chi aveva conosciuto gli oscuri meandri della terra e, pur rispettandoli, se n'era ritratto inorridito. Non c'era paura, soltanto il rifiuto di conoscere tutto. Karuil-Ysem, il Padre del Popolo, aveva cominciato a squarciarsi, appena la tunica gli era stata aperta dal coltello rivelatore di Cyrion. Cominciarono a spaccarsi la pelle e i muscoli, e il tessuto della tunica cadde intatto dalla gabbia di ossa che cominciava a dividersi in due. Non c'era una goccia di sangue. Da dentro quel cadaverico contenitore che andava in frantumi venne uno strenuo agitarsi, poi un gemito d'angoscia, e infine la crisalide della morte fu del tutto eliminata. Un uomo nudo e ben fatto, fisicamente anche più giovane di Cyrion, stava chino a terra, il corpo stretto nelle braccia, e un manto di capelli che lo ricopriva, nero come adesso era il cielo. Cyrion parlò brevemente al Popolo di Karuil-Ysem, mentre la diavolessa abbracciava il fratello e teneva la mano insanguinata del tiranno stretta tra i loro due corpi, dove entrambi potevano vedere lo scintillare del conquistato gioiello e aspirare l'odore del sangue caldo. La storia che Cyrion raccontò fu creduta, e quando l'ebbe terminata, cosa che fece velocemente, gli uomini gli rimasero intorno come statue, evitando con gli occhi e con le parole i due demoni, e aspettando solo di sentire le inevitabili parole finali. Ma anche Cyrion aveva aspettato che qualcosa cominciasse a muoversi dietro di lui sulla sabbia, aveva aspettato i lievissimi lamenti che li informavano che Ysemid stava riprendendo i sensi. «Aveva soggiogato i demoni,» disse Cyrion. «Sappiamo cosa piace loro. Forse una morte più appropriata che non la sentenza di legge, per questo parricida. Lasciatelo a loro.» Non fu data risposta. A parte un graduale sfollare, a dieci a dieci, perfino di quelli della cerchia di Ysemid, quelli che lo avevano amato, e poi come se pure la notte volgesse la schiena per andarsene, portando le torce con sé. Il corpo del Re fu lasciato lì. Non c'era altra scelta. Era diventato tutt'uno con la polvere. Cyrion udì i demoni mormorare tra loro sulla mano e sulla gemma e sulla delizia che li aspettava. Anche Cyrion si voltò. Dalla sabbia raccolse la tunica di Karuil-Ysem, e da essa, con colpi lenti e precisi, scrollò l'inodore e sterile polvere che era stata un uomo. Poi Cyrion indossò l'abito, e lo chiuse con la cintola di pelle rossa in cui ora riposava la spada. Non sembrava prestare attenzione, mentre faceva questo, ai lamenti disperati e alle suppliche, all'acuto e crescente grido di
terrore, né alle urla sempre più intense del condannato. Sotto il gelo selvaggio delle stelle che affollavano il cielo, Cyrion andò via. Era a un miglio di distanza quando le urla cessarono. Che esse fossero finite non significava, in ogni caso, che la morte fosse già arrivata. Più tardi la luna nascente si levò, e parve ricamare dappertutto sulla sabbia i simboli dell'ultimo messaggio di Karuil-Ysem. Gli occhi e il cervello di Cyrion, dalla visione perfetta e che mai malattia alcuna aveva alterato, seguivano questi miraggi lunari, li interrogavano, vi si soffermavano. Così aveva scritto Karuil: Questo messaggio ti giunge per mano di un uomo che non è della mia gente né della tua, e che tuttavia è mio messaggero. Se il mio ricordo vive in te, vieni qui. Sono minacciato. Ho dei disturbi che non sono i disturbi dell'età. Sono caduto preda di uno spirito infernale che annienta la mìa vista un'ora alla volta, infliggendomi poi un persistente e atroce dolore che mi attanaglia metà della testa. Le mie discipline funzionano, e io non do segno di questo disturbo, ma credo che qualcuno lavori su di me, attraverso un fantoccio o qualche altra stregoneria, per colpirmi con un male a me sconosciuto, e per il quale non c'è causa né cura, a meno che tu non ne trovi una e me la porti. In realtà, credo di sapere chi sia il mio nemico. Mi ha dato di che meravigliarmi il suo improvviso interesse per la mia salute e, se è vero che egli complotta contro di me, la sua mancanza di perizia, perché sembra che lui voglia il mio male, ma non sappia che forma esso debba prendere. Ho un piano per scoprire la verità e per smascherarlo. Se ricordi me, ricorderai anche l'amuleto di zaffiro che portavo sempre sotto la tunica, sul petto, e che aveva il potere di dominare demoni e spiriti simili. Solo tu sapevi di questo talismano, tu e un'altra persona, una delle mogli favorite, che è morta, ma che, credo ora, abbia svelato il segreto. Ho intenzione di perdere di proposito questa gemma, lasciandola dove lui la possa trovare, perché lui solo sa come essa può essere usata per mettere i demoni contro di me. Lui solo. Dubito che la esibirà finché io sono vivo, ma se dovesse trovare un modo per uccidermi o per soggiogarmi, allora potrà sfoggiarla, una segreta beffa. Così tu lo saprai. Ti devo informare che se è lui che mi odia così tanto, allora, con amarezza, lascerò la mia vita nelle sue mani e in quelle di Dio. Tuttavia, se così sarà, e se tu mi sarai sempre figlio, nell'anima se non nel sangue, allora,
figlio mio, VENDICAMI. 7° INTERLUDIO «Una storia macabra,» disse Roilant alla fine. «Ma una storia di giustizia.» «Tu, sicuramente, giurerai che è vera.» «Non so se è vera.» «E che mi dici dei rapporti di Cyrion con i nomadi?» «La storia non li spiega. Spiega solo che il piano del figlio malvagio non ha funzionato.» «Decisamente.» Roilant si alzò in piedi imbronciato. Il vecchio mendicante e padre di Esur restò seduto, sorridendo alle due monete d'oro che si supponeva non vedesse. Il soldato baffuto aveva di nuovo smesso di russare, dopo aver fatto da contrappunto alla parte più appassionante della storia. Qualcosa nella sua posizione dava l'impressione che le sue gambe fossero molto più lunghe di quanto non fossero realmente. Probabilmente anche quando era ubriaco cercava inconsciamente di mascherare il suo difetto. Tale era la natura umana, cercare sempre di ingannare gli altri, e anche se stessi. Roilant, esasperato, si sorprese sul punto di abbandonarsi a uno sterile filosofare, segno inequivocabile che la sua visione della vita era giunta veramente in basso. Dopo aver lasciato un'altra moneta al mendicante (Roilant in ogni caso avrebbe tra non molto perso tutte le sue fortune; perché dunque lesinare una moneta?), il paffuto giovanotto si diresse verso la tenda. Avendo trovato il locandiere che vigilava sulla lucidatura della Qirri d'ottone da parte di uno schiavo brontolante, Roilant sistemò il suo conto. «Se domani viene Cyrion,» disse Roilant, «digli di andare ad impiccarsi.» «Dubito che glielo direi, o che gli farebbe piacere,» disse il locandiere, intascandosi il denaro con un inchino. Roilant salì i tre gradini, vi inciampò ancora una volta, sebbene meno drammaticamente di prima, e uscì fuori. La strada sonnecchiava nel pieno del pomeriggio. In vari punti, lungo le mura dorate dal sole, cadevano le ombre delle tende, e frange e nappe non avevano fremiti. Dalla grata di una stretta finestra lungo la via veniva la triste melodia di una lira occidentale, e, da un giardino vicino, il verso stri-
dulo di un pavone. Una processione di edifici si levava da lì fino alla pallida fortezza di Heruzala, dove gli stendardi di Malban, color prugna e oro, pendevano inerti come fiori appassiti contro il cielo senza nubi. Non una brezza, da nessuna parte, e il solo che ci si poteva aspettare era il caldo vento del tramonto che avrebbe soffiato dal deserto nel giro di qualche ora. A Cassireia invece una fragrante frescura fluttuava lieve dal mare, tessendo un velo sulle colline alberate... Roilant restò per un attimo in trance, rapito dal ricordo dell'incantevole scenario che aveva visto solo tre volte in vita sua, ma che, nelle ultime settimane, aveva assunto per lui una disperata importanza. Vedeva le distese di alberi dei frutteti, gli scuri pennacchi dei cipressi che vi si ergevano in mezzo. Poi le rovine delle mura esterne di un forte remusano tutto quello che restava, eccetto le ripristinate terme più avanti. Oltre le mura la verde collina, infine il palazzo. Era costruito in stile orientale, e la prima cosa che si scorgeva aprendo i battenti del cancello era il cortile esterno: adorno di affreschi, e delimitato tutt'intorno da sottili colonne e da un nastro d'acqua su cui esse si riflettevano insieme a dieci palme centenarie, le cui fronde erompevano da larghe basi simili agli ananas con la loro buccia a scaglie. E poi, ancora oltre, nel terzo stile presente in questa terra, crogiolo di popoli del passato e del presente, la torre quadrangolare, il baluardo di pietra degli occidentali, che dominava l'orlo della scogliera. E oltre la torre, il mare. Ma la scogliera era pericolosa, Valia lo aveva imparato. E la torre si sgretolava. E dalle pareti della casa i mattoni cadevano come pioggia, e l'acqua delle vasche era putrida... «Ti è piaciuto il vino?» Roilant sobbalzò, con il cuore in gola. Un'alta e snella figura era sbucata da un vicolo più avanti, e si era appoggiata alla facciata di una casa lungo la strada. «Vino...?» «Il vino nel fiasco nero che ho comprato per te. Vuoi dire che il marmocchio se n'è scappato con i soldi, alla fine? A quanto pare i soldati del Re non sono più capaci di spaventare neanche i bambini.» Roilant si era riavuto, e aveva riconosciuto il biondo soldato di prima, Foy, quello che aveva simulato in maniera superlativa la sua ebbrezza. «Sei stato tu a mandare il vino? Sì, l'ho ricevuto. Ti ringrazio,» disse Roilant con circospezione. Foy sorrise.
«Ho colto sul fatto quel puzzolente agitatore di folle, e per portarlo dentro mi son dovuto fare aiutare da altri, perché si dimenava come un'anguilla. Ho pensato che ti dovevo qualcosa. Whiskers naturalmente non è stato di nessun aiuto nella zuffa, e ora starà smaltendo la sbronza. Ufficialmente sta interrogando i testimoni.» «E tu,» disse Roilant, «sei un soldato?» «Io? E che altro dovrei essere?» «Allora,» disse Roilant, «mi è svanita anche l'ultima speranza. Pensavo che il vino poteva essere stato mandato da Cyrion,» e fece un cenno di rassegnazione allo spirito crudele che, lo sentiva, lo stava perseguitando. «Il tuo amico, comunque, si è addormentato al Giardino del Miele.» «Davvero, è lì?» Foy era divertito. «Ne voleva ancora, eh, il valoroso guerriero! Quando l'ho lasciato era prostrato sotto la tenda del venditore di dolci nella Via delle Delizie. E prima di svenire mi ha confidato un terribile segreto.» Foy sghignazzò. «Quel miserabile di un barbiere gli aveva tagliato metà dei baffi. Whiskers, povero topolino, non aveva avuto altra scelta che farsi tagliare pure l'altra metà. Poi con il terrore aveva costretto il barbiere a riattaccargli le due metà con colla di zoccolo. Sembra assurdo ma l'ho visto con i miei occhi quando Whiskers si è strappato i baffi dal viso e ha cominciato a sventolarli in aria per spaventare il venditore di dolci e tutta la sua tribù.» Roilant manifestò un diplomatico stupore. Non aveva alcun interesse, ahimè, per il triste destino dei baffoni di Whiskers, sia che fossero stati recisi, incollati, strappati o di nuovo incollati. Roilant ringraziò ancora una volta Foy per il vino e continuò per la sua strada. Svoltando nell'angusto vicolo tra due muri che segnava la fine della via, Roilant affrettò il passo. A Heruzala, di giorno e nei quartieri più ricchi, la legge si faceva rispettare, ma potevano sempre esserci dei ladri in agguato. Ma poi Roilant, che la morte attendeva nel prossimo futuro, trovò ridicola la sua istintiva prudenza. Non aveva ormai cominciato ad uscire senza scorta e vestito come se dovesse recarsi a corte? E se qualcuno gli avesse ficcato un coltello tra le costole, che gli sarebbe importato? Dopo tutto avrebbe provato una certa dolorosa soddisfazione nel morire a quel modo, evitando così... Il rumore dei passi dietro di lui era molto deciso, come se qualcuno cercasse di farlo sentire. Poteva essere innocuo, o forse no. Si poteva scegliere di scappare, oppure di voltarsi per affrontare chiunque lo stesse seguendo. Il vicolo era lungo. Armato di un elegante stiletto nell'uso del quale
non era affatto pratico, Roilant poteva tuttavia sfoderarlo per minacciare. Rassegnato, si voltò. E, malgrado la rassegnazione, la sfortuna, e la mancanza di speranza, poté tirare un sospiro di sollievo. Attraverso lo spazio angusto creato dagli alti muri veniva tranquillamente verso di lui il corto Whiskers in persona. Senza i suoi baffi. Sorpreso da tale mancanza, Roilant non riusciva a staccare gli occhi dal labbro superiore perfettamente rasato e dalla bocca grande e cesellata che la peluria aveva fino allora nascosto. Soltanto quando il soldato giunse a meno di due metri da lui, Roilant notò che qualcos'altro era cambiato. L'estremamente corto Whiskers era ora leggermente più alto dello stesso Roilant. Roilant emise un suono inquisitorio, che per sua sfortuna si tradusse in un colpo di tosse. Il soldato, tuttavia, si era fermato con un serafico sorriso, e poi con la sottile e articolata mano sinistra, sulle cui lunghe dita luccicavano non meno di sette anelli, si era tolto dal capo il leggero elmo d'acciaio. La chioma era inconfondibile. Più che semplicemente bionda, era quasi bianca, fili di bianco raso intrecciati d'oro. Ora che l'elmo era stato rimosso, i capelli erano ricaduti sulle spalle, eclissando col loro splendore la casacca di maglia metallica di gran lunga superiore per qualità a quella del povero Whiskers. La divina aureola di quella chioma circondava un volto altrettanto divino, che intimidiva, e che fu immediatamente riconosciuto: chi altri poteva infatti avere quelle sembianze? Forse, davvero, solo uno degli angeli infernali di Lucifael che il capomastro aveva suggerito nel suo racconto. La sola degna descrizione immaginabile. I grandi occhi, chiari e bellissimi, e di un colore che ricordava l'acciaio di Daskiriom, si erano fissati su Roilant, e ancora non si erano smossi. Roilant aprì bocca e disse recisamente: «Questa volta è Cyrion.» «Questa volta,» disse una voce musicale, familiare come fosse un ricordo, «lo è.» «E spero che il tuo scherzo ti abbia divertito. Veramente brillante.» «Grazie. Ma forse dovrei informarti che ce n'è stato più d'uno.» «Sorprendimi, dunque,» disse Roilant. Gli fu accordata una gentile risata. «Non ho fatto questi giochetti per farti disperare,» disse Cyrion. «Mai, quando mi dicono che c'è un uomo che mi cerca freneticamente per tutta Heruzala, divento curioso.» «E cauto?»
«Forse.» «E poi io mi precipito al Giardino del Miele e offro del denaro. Lo ammetto, neanch'io mi sarei fidato, se fossi stato al tuo posto. Devo dedurre che il capomastro sia un tuo complice o una tua spia, e che se ne sia andato dopo aver raccontato la sua parabola con l'intento di informarti?» «Puoi dedurlo, certamente. Ma possono essere stati alternativamente il locandiere, uno dei suoi schiavi, oppure la donna che ha lasciato la locanda non appena sei entrato tu, la donna che ogni tanto indossa abiti maschili. O è forse un gentiluomo che qualche volta si traveste da donna, con risultati così superbi?» «Sono stufo di discutere di queste cose. Capisco solo che sei rientrato nella locanda nei panni di questo Whiskers, e nei suoi... baffi. Immagino che tu glieli abbia rubati.» «Niente affatto. Ne ho solo consigliato il taglio, e ho offerto il prezzo corrente per un paio baffi tagliati. Il nostro amico ha accettato. Tutti gli altri accessori sono miei.» «E io, che ti cercavo dappertutto, pensavo solo a quello che avevo visto prima.» «Un errore comune. Ma ti ero sfuggito anche prima.» «Il dotto.» «Qualcuno di più umile del dotto.» «Il carovaniere.» «Povero me. Ma visto che sta diventando tutto un gioco, sono stato io a servirti il pranzo. Il mio camuffamento consisteva tutto in una tunica sulla maglia d'acciaio e in un copricapo. Non te ne sei accorto, neanche quando ti ho ringraziato per il tuo gentile apprezzamento sui miei affari a Teboras.» Roilant ci ripensò e fece una smorfia. «Dunque gli schiavi della locanda sono al tuo servizio.» «Niente affatto. Neanche gli schiavi si sono accorti di me. Erano troppo impegnati ad azzuffarsi per stabilire a quali dei loro cagnolini dare le ossa rimaste.» Roilant disse, piuttosto agguerrito: «E le storie sono tutte autentiche? Anche quella dei fantasmi remusani?» «Oh, io penso che tu creda a gran parte di quelle storie e ad ogni altra che puoi aver sentito. Altrimenti, perché cercarmi con tanto accanimento? Forse può farti piacere sapere che ormai conosco anche il tuo candore.» «Sono prostrato dalla felicità,» disse Roilant con viso arcigno.
«La prostrazione può essere faticosa. Vieni alla locanda dove alloggio. Ritroverai le forze in un fresco cortile dove servono dell'ottimo vino ghiacciato.» «La Rosa?» Azzardò Roilant, senza molta speranza. 2° PROLOGO - LA LOCANDA DELL'OLIVO L'Olivo si trovava sul fianco di una collina, a mezzo miglio di distanza fuori le mura della città. Cyrion e Roilant ci giunsero come passeggeri di un carro in viaggio verso gli oliveti che da ogni parte circondavano la locanda. Roilant, consapevole che Cyrion avrebbe potuto tranquillamente percorrere il tragitto a piedi, e rallegrato di non essere stato costretto a farlo, non rivelò la propria opinione in proposito. Come era prevedibile, stava studiando l'oggetto di recente scoperta della sua ricerca, con sbalordito e alquanto critico interesse. Cyrion, quasi disteso su dei sacchi, le mani dietro la testa dorata e i taglienti occhi fissi sull'incomparabile azzurro del cielo, sembrava rilassato come un gatto. Roilant ormai sapeva che, proprio come un gatto, la sua posizione poteva cambiare in un batter d'occhio. Roilant aveva anche notato una striscia di metallo che cingeva l'avambraccio abbronzato di Cyrion, e che non era stata menzionata nelle storie. O forse sì. Per un terzo della sua lunghezza e per metà del suo spessore, era fatta di uno strano oro antico e verdastro, il resto del metallo era argento. E più Roilant la guardava, più gli faceva pensare ad un braccialetto da donna inserito in un bracciale più grande fatto a misura del polso di un uomo. Era forse il gioiello che adornava il polso sottile di Sabara? La locanda, tutta intonacata e ingannevolmente modesta, vantava un tranquillo cortile interno al riparo di un pergolato di vite. Fu portato il vino, con una manciata di cristalli di neve versati nel fondo della caraffa. Roilant bevve, e cercò di riprendere possesso delle sue facoltà. Aveva parlato così tanto del suo urgente bisogno di trovare questo avventuriero, che ora trovava difficile esporre le cose con coerenza. Ecco il mito che gli sedeva di fronte: stupendamente radioso, come i miti in carne ed ossa non erano quasi mai, e nonostante questo reale e, si presumeva, umano. Cyrion del resto, sebbene non lo scoraggiasse affatto, neppure lo aiutava. Alla fine da un'ombra uscì di soppiatto un gatto fulvo che cominciò a fare le fusa e a strusciarsi sul calzare di Cyrion. Cyrion se ne lasciò coinvol-
gere, sembrava assorto, e Roilant ripensò alla storia di Berdice. Quella lo aveva particolarmente toccato. «Farei meglio a dirti,» disse Roilant, «il motivo per cui ti ho cercato.» Con fascino disarmante, giocando con le zampe del gatto, Cyrion disse: «Sono tutto orecchi.» «Per prima cosa ti dico che sono pronto a pagare... qualunque cosa tu mi chieda. Monete, pietre preziose, altri beni... opere di carità. Qualunque cosa. Voglio anche dirti che la mia famiglia ha dei legami con la casa reale. Sarà perciò apprezzata una certa discrezione.» Cyrion lo osservava, accarezzando il gatto. «Hai paura di diventare tu stesso il personaggio di un'altra storia?» «Forse. In realtà volevo dire che anche se il tuo aiuto potrebbe ricevere l'approvazione di Re Malban, non posso aspettarmi altrettanto dalla Regina Madre.» «Ti saresti dovuto rivolgere direttamente a lei...» «...Che comanda il giovane Re mentre lui fa solo finta di governare la città e il regno di Heruzala. Se poi non è vero che gli infami e fanatici Cavalieri dell'Angelo regnino al posto di tutti. Sì. Questa storia già la conosco. Ignorerò la tua illazione. In ogni caso, questo va oltre i poteri dello stato. Vedi, in poche parole, ho avuto la sfortuna di essermi impegnato in un matrimonio diabolico...» Roilant si fermò. Cyrion aspettava. «Comincerò per ordine. Dall'inizio.» L'inizio fu con Eliset. La bella cugina Eliset L'inizio e, molto probabilmente, la fine. C'era una volta, (come aveva detto il prete), un'illustre famiglia, il casato di Beucelair. In questa famiglia c'erano tre fratelli: il padre di Roilant e i suoi due zii. I due zii si erano ottusamente lasciati coinvolgere in un intrigo di corte lì a Heruzala, che il loro re, il padre di Malban, aveva però scoperto. La questione era stata poi appianata, i colpevoli perdonati, i giuramenti rinnovati. (Qualche anno più tardi, comunque, il vecchio re era morto in battaglia, durante l'ultimo conflitto tra Heruzala e Kyros prima che Malban e la pace prendessero il controllo, sotto gli auspici della Regina.) Ma, nonostante il perdono e i rinnovati giuramenti, i due fratelli avevano ormai perso i favori della famiglia reale, né quei favori erano stati mai più concessi loro, neanche con la morte del vecchio re. Le loro ricchezze erano perciò andate in rovina e la loro posizione sociale era decaduta. Solo il terzo fratello, il padre di Roilant, quello che si era tenuto fuori dal
complotto, aveva mantenuto il favore del sovrano, e si era arricchito. All'epoca della nascita di Eliset, Roilant aveva un anno di età. Eliset era la figlia legittima di zio Gerris, Signore di Flor. Questa legittimità andava sottolineata, perché c'era stata un'altra figlia, nata due anni prima dalla relazione di Gerris con una serva. La donna era stata da allora sistemata da Gerris in una piccola casa nella vicina Cassireia, casa che, con l'accumularsi dei debiti, era poi decaduta al livello di una stalla. La figlia invece, a cui era stato dato l'aristocratico nome di Valia, era stata legittimata e accolta nella residenza di Flor. Lì era cresciuta a stretto contatto con Eliset, che forse era un po' gelosa di quell'invadente sempliciona che il padre sembrava preferire a lei. Le due bambine erano anche diversissime nell'aspetto fisico. Nella carnagione olivastra di Valia, nelle sue scure ciocche e nel precoce maturare delle sue forme in quelle di una donna, era riconoscibile il sangue orientale. Eliset invece aveva la chioma del colore degli asfodeli, la pelle come neve, ed era mascolinamente snella. Entrambe, comunque, erano ritenute assai belle. Poi il confronto cessò di avere senso. Quando Valia aveva undici anni ed Eliset nove, Valia scomparì. Si credette che Valia fosse precipitata dalla scogliera dietro la casa, sebbene si fossero sparse anche quelle voci che spesso accompagnavano la scomparsa di una bambina o di una fanciulla: fantasmi, demoni o maghi vagabondi che l'avrebbero portata via per farne una vittima o una schiava. Tuttavia, i servi l'avevano vista giocare lungo la scogliera, e l'avevano rimproverata non molto prima che scomparisse. Il posto era pericoloso, gliel'avevano sempre detto, e il mare sotto la scogliera era molto profondo. Anche Eliset veniva sempre ammonita a non avvicinarsi a quel luogo, e in quel momento non si trovava vicino alla scogliera, ma stava invece giocando sotto l'albero di carpine insieme alla sua balia. La scomparsa di Valia fu pianta dalla madre, che morì poco dopo di dolore, e da Gerris, che, da parte sua, non sopravvisse abbastanza da poter assistere al quattordicesimo compleanno di Eliset. Al momento della sua morte, la tenuta di Flor era tutto quello che possedeva, i suoi affari andati in fumo, le sue ricchezze praticamente svanite, e i favori del re un miraggio del passato. Il possedimento vicino Cassireia, in tutta la sua inesorabile rovina, passò allora al fratello di Gerris, il secondo zio di Roilant, Mevary. Per quanto fosse piccolo, quel pezzo di terra era più di quanto lo stesso Mevary fosse riuscito a conservare. Lui divenne il tutore di Eliset, e il cugino della ra-
gazza, il figlio di Mevary, che aveva lo stesso nome, ne divenne il fratello. I due ragazzi avevano la stessa età, e stavano molto bene insieme. Ignoravano entrambi ogni attività intellettuale, e si dilettavano in furiose cavalcate per le colline circostanti: a Flor erano infatti rimasti dei cavalli. Era un peccato che questi due, così complementari l'uno all'altra, lui scuro per quanto lei era chiara, e forte per quanto lei era fragile, non potessero sposarsi. Ma non avrebbe avuto alcun senso. Per la sua mancanza di ricchezze Mevary non era certo quello che chiamano un buon partito. E d'altra parte, la povertà di Eliset le avrebbe negato nella maniera più assoluta ogni possibilità di un matrimonio tra pari. A meno che... C'era un'altra strada. Anche Gerris, prima di morire, aveva fatto questa proposta al padre di Roilant. L'unico Beucelair rimasto in possesso della sua ricchezza avrebbe dovuto essere generoso verso i parenti degradati, è sicuramente, in qualità di zio, sentiva di avere dei doveri nei riguardi di quell'innocente e pura figliola, se non verso i traviati fratelli Gerris e Mevary. Roilant era stato a Flor solo due volte, quando era bambino. Il tempo trascorso era stato breve, e all'epoca Valia era già morta. Di Eliset, che era un anno più giovane di lui, Roilant si ricordava come di una sciocca ragazzina con cui, per qualche ragione che non era mai riuscito a capire, si era sempre trovato a disagio. Gli erano piaciuti però il palazzo e il terreno intorno. Quei luoghi avevano un che di magico agli occhi di quel ragazzino grassottello che difettava in tutte le arti belliche dei maschi e preferiva stare seduto a leggere storie su altri popoli. Fin da piccolo, Roilant era sempre stato consapevole di aver deluso tutti, incluso se stesso. Non sarebbe mai diventato un guerriero o un uomo di stato, e non aveva neanche una particolare predisposizione per gli affari. Inoltre, a differenza dei suoi due cugini, lui era serio e onesto, e aveva dei capelli rossi divertenti, o che, piuttosto, venivano sempre derisi. Dopo la morte di Gerris, Mevary il vecchio aveva riproposto la questione al padre di Roilant. Il quale aveva liquidato il tedioso figlio con un: «Vai a vedere la ragazza. Se ti piace prenditela. Non abbiamo bisogno di dote.» Così Roilant aveva fatto la sua terza visita a Flor, e in questa occasione aveva visto l'acqua stagnare nelle vasche, la morte consumare le palme, e i frutteti marcire nell'abbandono. Non più desideroso di immaginarsi come un tribuno remusano, si era fermato sulle macerie delle mura, da dove aveva dovuto constatare che la torre sulla scogliera stava facendo la stessa fi-
ne. La stessa sera, a cena, Roilant aveva incontrato lo zio Mevary e suo figlio Mevary, e li aveva subito odiati entrambi. Mevary I era un uomo ormai inasprito dalla corruzione e infido. Mevary II era bello, eroico e insopportabile. Dall'alto dei suoi quindici anni, aveva fatto di tutto per fare sentire il quindicenne Roilant come uno di otto anni, per di più incapace. Poi, era apparsa Eliset. Eliset era stata come un'aurora. Irrompendo in quel miasma aveva trasformato ogni cosa. Mentre Mevary I si lamentava della mancanza di cose buone a Flor, aggiungendo, per inciso, «sicuramente ti mancano i lussi di casa,» e l'altro Mevary aveva suggerito un gioco, castello e cavaliere, nel quale aveva battuto per cinque volte Roilant, Eliset era stata gentile e affascinante. Ed era stata lei, nei due giorni che erano seguiti, a fare di tutto per tenere Roilant lontano dagli altri, inventando pretesti su pretesti per restare sola con lui, e trovando da fare perfino all'ancella. La cosa sarebbe potuta sembrare sconveniente e Roilant, estremamente rispettoso del decoro, si era sentito qualche volta a disagio. Tuttavia, Eliset era stata un modello di discrezione. Gli aveva fatto capire che aveva fiducia nel suo spirito nobile. Lo aveva fatto sentire galante, una sensazione così nuova che lui non sapeva neppure cosa fosse. Lo aveva fatto sentire anche brillante, e una volta che aveva ucciso una malefica vespa che li perseguitava, addirittura valoroso. L'aveva creduta sciocca? Ora lei lo aveva abbagliato. Rideva degli occasionali sprazzi di malumore di Roilant. Aveva confessato di essere infelice, perché soffriva ancora per la morte del padre. Era coraggiosa. Era come una stamina di pietre preziose. Era perfetta. E quando lui era partito, pur non avendogli detto nulla riguardo alla proposta di matrimonio, Eliset si era messa a piangere. Roilant era tornato a casa e aveva annunciato che, sì, sarebbe stato felicissimo di averla. E aveva trascorso i successivi tre mesi dedicandole tenibili poesie sui suoi capelli come raggi di sole e sui suoi occhi del colore del tramonto. Si erano fidanzati per lettera. L'animo di lei era così delicato che era sembrato meglio aspettare almeno un altro anno. Roilant, affranto ma anche alquanto sollevato — sposare la persona amata era una prospettiva che certamente spaventava — aveva accettato la decisione. Era passato un anno. Ne era passato un altro. Roilant aveva ricevuto dei fiori essiccati, accompagnati da poche parole firmate «Eliset». E un'altra volta, un paio di modesti guanti, che non gli entravano. Roilant, che conosceva la situazione di Eliset, aveva conservato quei guanti come un tesoro. Mandato a occi-
dente a perfezionare la sua educazione, Roilant si era immerso nella cultura di quel freddo clima, e si era assentato a lungo dai regni orientali che i suoi avi avevano conquistato dall'altra parte del mare. Tornato alla proprietà del padre a Heruzala, e sentendosi ormai maturo, aveva cominciato a pensare con impazienza al suo matrimonio. Le poche donne che lo avevano messo in condizione di sentirsi tale non avevano che rafforzato il ricordo del fascino di Eliset. Ma c'erano delle novità. Il vecchio Mevary era morto e Mevary il giovane stava impegnandosi a spendere quel poco (molto poco) che era rimasto a Flor. Sul punto di imbarcarsi per una missione di salvezza, Roilant aveva dovuto però interrompere il suo progetto. Suo padre, insieme a tutta la corte del giovane Re, era partito per una battuta di caccia che, se non fosse successo quello che era successo, sarebbe stata del tutto ordinaria. Durante la battuta, il cavallo del padre di Roilant aveva disarcionato l'uomo, riducendolo in fin di vita. L'incidente aveva lasciato tutti perplessi, perché il padre di Roilant era sempre stato un validissimo cavaliere. Affrettandosi verso la città, dove il padre stava per morire, Roilant aveva viaggiato in una nube di ostentata, rispettosa tristezza. Non c'era amore tra padre e figlio, né alcun rapporto. Tuttavia, era questa la cosa che si pretendeva da loro in tale circostanza, ed entrambi l'avevano debitamente rivendicata. Avevano parlato per un po', in una stanza oscurata del palazzo. Poi c'era stata una sconvolgente rivelazione. «Ascolta, ragazzo,» aveva detto il padre di Roilant, contorcendosi nel morbido letto per il dolore e soffocando una bestemmia, «tu sei il mio erede, ed io ho qualche franco consiglio da darti.» «Sì, padre?» «Ricordi il fidanzamento con tua cugina Eliset?» «Be', certo, signore. Stavo proprio per...» «Non farlo.» Roilant lo aveva fissato sbalordito. «Non farlo?» aveva balbettato. «Ho forse procreato un pappagallo? Ti dico, non farlo. La cosa non è mai stata debitamente formalizzata. Con qualche mancia ne uscirai fuori completamente.» «Ma lei è una Beucelair, ed è caduta in miseria. E tu avevi promesso a suo padre e a suo zio...»
«Le ho pure mandato a dire, un mese fa, che ti avrei sconsigliato questo matrimonio.» «Perché?» «Perché?» Il padre di Roilant aveva aggrottato la fronte. «Tu meriti di meglio. Ho sentito dire certe cose, e altre ne ho scoperte da me. Tu sei un giovane dal carattere forte. In fondo noi due ci siamo sempre capiti. Fidati di me. Trovati una ragazza semplice e carina, che ti apprezzi. Una che abbia una dote decente.» Roilant aveva cominciato a protestare, ma il padre lo aveva interrotto di nuovo. «Maledetto dolore,» aveva detto, ed era morto. Roilant aveva versato due o tre lacrime, principalmente perché era doveroso, ma in parte anche perché perdere qualcuno che non si è mai conosciuto è spesso più frustrante che perdere un amico. Il dovere era un'altra cosa. Per dovere a suo padre, quindi, quell'estate Roilant non aveva fatto nessun'altra mossa verso sua cugina Eliset. Quando da Flor era giunto un dozzinale talismano di semplice giaietto «in segno di condoglianza per la sua perdita», lui aveva risposto educatamente, e senza entrare in merito ad altre questioni. Soltanto durante l'inverno, quando ormai aveva diciannove anni, Roilant era venuto a conoscenza per proprio conto di una serie di notizie sulla giovane donna che sarebbe dovuta diventare sua moglie e sulla vita che essa conduceva a Flor. L'uomo che gli aveva fatto giungere queste notizie era una persona di alto rango e molto stimata presso la corte del Re, e le notizie erano contenute in una lettera portata da un messaggero al servizio di questa persona. La lettera non era firmata. Da questa risultava che Eliset non era né affascinante né casta, visto che era l'amante del suo bruno cugino, e anche di altri. Ma questo non era ancora niente in confronto alle sue altre attività. L'informatore di Roilant non era stato chiaro in proposito e si era giustificato liquidando di tanto in tanto delle cose come «superstizioni da ignoranti», senza neppure nominarle. Annaspando tra le righe, Roilant aveva infine capito che Flor era infestata dagli spiriti, e che la stessa Eliset apparteneva a una congrega clandestina di streghe di cui anche la sua vecchia balia era un'entusiasta adepta. Si diceva (oh parole odiose e troppo spesso ripetute) che la morte di Valia era stata provocata da una stregoneria quando Eliset aveva solo nove anni. E che le morti della madre di Valia e del padre e dello zio di Eliset erano state macchinate al momento opportuno. Veniva
messa in questione anche la morte del padre di Roilant. Lui, un impareggiabile cavaliere, era stato disarcionato subito dopo aver negato alla ragazza la parte di ricchezze dei Beucelair che apparteneva a Roilant. La lettera logicamente terminava con l'asserzione che un uomo ricco che avesse sposato Eliset doveva aspettarsi di morire anche lui, piuttosto velocemente e senza scampo, lasciando così la moglie in possesso delle proprie fortune. A quell'epoca, Roilant non aveva voluto credere alla magia. E tuttavia, un tormentoso, inesplicabile dubbio si era insinuato in lui, un dubbio che, aveva capito, era nato alla morte del padre. Roilant non aveva scavato a fondo la questione, ma si era deciso su tre cose. La prima era che non avrebbe ancora detto a Eliset di non avere più intenzione di tenere fede alla sua promessa; la seconda, che lui a quella promessa non avrebbe tenuto fede, e la terza, che, d'allora in poi, le avrebbe assicurato una rendita per rendere meno gravi le proprie colpe. Tutto questo fu fatto o non fatto, a seconda del caso. Eliset, da parte sua, gli aveva scritto una lettera in cui con estrema gentilezza lo ringraziava per la donazione. Soltanto una frase lo aveva disturbato, quella in cui lei esprimeva la sua ansiosa attesa del loro futuro incontro. Ma poi erano passati ancora altri anni. Roilant si era convinto di preferire donne non troppo belle, e sicuramente non troppo esigenti, e trovava una genuina felicità nella compagnia femminile. Alla fine, aveva individuato una compagna ideale, di buona nascita, di aspetto ordinario e dote modesta, ma fornita di un buon senso splendidamente sano, di una calma vivacità, e di una deliziosa disposizione all'ilarità che sollevava Roilant, perché non era mai diretta a lui. Sebbene non fosse mai stato mosso a scriverle una sola poesia, un giorno Roilant, nel giardino piuttosto malandato del padre della ragazza, si era sorpreso a dirle, mentre parlavano di un ipotetico viaggiatore perduto nel deserto: «Se io mi trovassi lì, in qualche maniera dovrei tornare. Mi mancheresti...» Da questo, e dal rossore del tutto imprevisto ma gratificante della ragazza, aveva capito che era giunto il momento di concordare certe cose. Perciò aveva fatto la conoscenza di uno o due giuristi, ed era in procinto di sciogliere il vago fidanzamento di nove anni e mezzo prima, quando... Ci fu una lunga pausa. Il gatto fulvo sedeva dritto come un fuso sulla spalla di Cyrion e teneva lo sguardo fisso su Roilant. Cyrion invece non lo guardava, ma non guardava da nessun'altra parte. «...Quando,» proseguì finalmente Roilant, «successero un paio di cose
che esiterei a raccontare se non fosse che tu, da quanto ho capito, hai una certa familiarità con l'occulto.» Per prima cosa, la lettera che i giuristi avevano scritto e inviato alla tenuta di Flor era stata riportata quella stessa notte alla residenza di Roilant vicino a Heruzala, da un messaggero che nessuno era riuscito a descrivere. Aprendo la lettera, Roilant aveva trovato la pergamena, ma piuttosto alterata. Era stata strappata in tanti piccoli pezzi che, come avevano toccato terra, avevano preso spontaneamente fuoco. In pochi attimi, le ceneri erano tutto ciò che era rimasto della pergamena. «Pensai di averlo immaginato,» disse Roilant. «Come avrebbe fatto chiunque.» «Lo avrebbe fatto chiunque?» «Io allora lo avrei fatto. E lo feci.» L'altra cosa che era successa era che il misero talismano di giaietto era uscito non si sa come da una delle scatole di Roilant, ed entrando come un turbine da una finestra aperta gli era piombato addosso ferendogli malamente la fronte. Quando Roilant lo aveva raccolto da terra, esso gli aveva bruciato la mano. Estremamente allarmato, Roilant si era precipitato fuori dalla stanza, solo per rientrarvi un'ora dopo con la teoria che qualcuno glielo avesse rubato e lanciato addosso, avendolo prima riscaldato al fuoco. Aveva trovato il talismano in frammenti, li aveva fatti togliere, e aveva cercato di dimenticare la faccenda. Cosa che si era rivelata molto facile dato che, quella stessa notte, era successo qualcosa di ben più grave. Destatosi verso mezzanotte, Roilant aveva inizialmente creduto di essere stato svegliato dalla violenta tempesta di pioggia che infuriava fuori. Ma poi aveva percepito un'orribile sensazione, come di una moltitudine di insetti che gli brulicavano sul viso sfiorandolo con le loro ali. Balzando su e strofinandosi la pelle era riuscito a farli andare via, per poi rendersi conto, alla luce di una candela accesa in gran fretta, che essi non erano niente di più — o di meno — che i fiori essiccati che Eliset gli aveva mandato in seguito al loro incontro adolescenziale, scuriti e invecchiati dal tempo. E davanti a Roilant, restato a guardarli a bocca aperta, essi erano volati in aria e si erano polverizzati. Man mano che la polvere scendeva, era apparsa in mezzo ad essa una figura. Non si vedeva chiaramente. Il tremolio della candela, il tumulto della tempesta, lo spavento di Roilant, rendevano l'indistinta apparizione ancora più difficile da focalizzare. Eppure essa era lì, impressa con la sua trasparenza nell'aria, come vapore su uno specchio. Era pallida e magra, e il suo
volto era solo una macchia, ma contenuta in un'aureola di capelli del colore degli asfodeli. Poi l'apparizione aveva parlato. Non con la voce, ma con parole luminose scritte lentamente nel buio oltre la candela. Le parole dicevano: Il legame è stato stretto e non può essere sciolto. Tu sei mio e devi venire da me prima che il mese sia terminato. «Al mattino,» disse Roilant, «lo credetti un incubo.» «Naturalmente,» disse educatamente Cyrion. E per la prima volta in vita sua, Roilant si sentì un idiota per non aver creduto nel soprannaturale. Leggermente imbarazzato disse: «Da allora, ogni notte per sette notti si ripeté la stessa cosa. Allora dovetti crederci. Ero... ero terrorizzato, lo ammetto. E quel tempo bizzarro, quella pioggia senza fine, mi avevano depresso in un modo che non avevo mai provato prima. Chiamai un uomo del villaggio vicino, conosciuto per la sua comprensione delle arti magiche. Lui esaminò la mia camera da letto e disse che sentiva odore di stregoneria in ogni suo angolo. Io riuscivo a sentire solo l'odore della pioggia. Comunque gli chiesi che cosa avrei dovuto fare, e lui si offrì di studiare la faccenda. Andò via e non lo rividi più, neppure quando mi recai al villaggio. Mi era sembrato spaventato quanto me. Cosa successe poi? Dopo sette giorni le apparizioni cessarono, e non furono rimpiazzate da nient'altro. Comunque io da allora stavo sempre all'erta, temendo qualcos'altro. D'altra parte, se mi fossi recato a Flor, quella stessa stregoneria che mi aveva chiamato sarebbe stata probabilmente usata per uccidermi. Mi sembrò più prudente stare chiuso. Poi giunsero notizie dalla città.» La ragazza di Heruzala di cui Roilant si era incapricciato stava tranquillamente seduta sotto il porticato della casa paterna, quando una parte del tetto sopra di lei si era staccata precipitando con un gran fracasso. La ragazza era rimasta illesa, ma la morte le era passata solo a un dito di distanza. Era stato tutto molto strano. La costruzione era stata sempre considerata stabile. Il padre della ragazza, che aveva mandato questa informazione apparentemente per rassicurare Roilant nel caso che gli fossero giunte altre versioni dell'evento, ma in realtà per incitare l'ardore del pretendente, era rimasto alquanto mortificato nel ricevere la risposta di Roilant. Roilant aveva espresso la sua grande gioia per l'incolumità della giovane, e il suo dispiacere per dover rinunciare per un po' di tempo alle sue visite; alla prossima occasione sperava di portare la sua novella moglie. «Per me, non c'era molta scelta. Eliset avrebbe potuto uccidermi con le
sue magie, che l'avessi sposata o no. Ma quando fu anche minacciata la mia cara... la ragazza a cui alludevo prima, non osai indugiare oltre. La sera stessa mandai una lettera ad Eliset, pagando il messaggero perché volasse nel più breve tempo possibile a Flor.» «E il messaggio diceva?» «Be', che sarei stato al suo fianco l'ultimo giorno del mese.» «Il che ti lascia veramente poco tempo per arrivarci.» «Ho passato tutto questo tempo a cercare te.» «Ed eccomi,» disse Cyrion. Roilant si incupì. «Non sono un martire. Non voglio morire. O essere ingannato. Ma non rischierei mai... la vita di una donna. E dal momento in cui ho promesso di andare da mia cugina, è andato tutto tranquillo.» «Devo dedurre,» disse Cyrion, mentre si strofinava le guance contro quelle del gatto, «che alludesti alla tua giovane donna anche nella lettera che mandasti a tua cugina per rompere il fidanzamento?» «Sì. Una cosa da imbecille. Pensavo che Eliset avrebbe tollerato meglio il rifiuto con una ragione del genere. Aggiunsi, naturalmente, che il non vederla per più di nove anni mi aveva offuscato il ricordo della sua bellezza.» «Molto carino,» disse Cyrion. Roilant lo scrutò a fondo, pensando che avesse voluto dire il contrario, come aveva ultimamente sospettato. «Se non altro,» continuò Cyrion, «Eliset non è venuta a conoscenza del tuo nuovo interesse per la stregoneria. Se lo avesse saputo, allo stesso modo avrebbe potuto scoprire che mi stavi cercando.» «Che Dio ci protegga.» «Già. Comunque, io penso che questi poteri siano di un altro genere. La mente è usata per proteggere le energie della volontà. La magia lavora solo attraverso ciò che è già, universalmente, conosciuto.» Il grassoccio giovanotto, allargando le braccia in segno di sollievo, rovesciò il suo boccale di vino. Poi guardò inorridito i risultati del suo gesto. Il gatto, invece, saltò sul tavolo in segno di approvazione, e cominciò a bere. «Vedi come sono,» disse candidamente Roilant. «Tutt'altro che un ben coordinato uomo d'azione, tutt'altro che un ingegno acuto e battagliero. Ma, fin quando non mi deruberanno, sono ricco. Mi aiuterai?» «In che modo,» disse Cyrion, «ritieni che possa farlo?» Ricordando i racconti, Roilant rifiutava di credere che Cyrion l'avrebbe abbandonato a se stesso. «La leggenda sei tu. Perciò, sei tu che decidi,» disse Roilant ferma-
mente. Il gatto aveva finito il vino. Barcollando tornò verso Cyrion, dall'altra parte del tavolo, e cadde nelle sue braccia. «Tre libagioni dovrebbero portare fortuna,» disse Cyrion. «Ma prevedo che domani dovrai partire per Flor. E viaggiare veloce.» CYRION IN PIETRA I Dove la strada svoltava per Cassireia, si apriva inaspettatamente un sentiero più piccolo che, inerpicandosi su per la collina, superava rocce e boschi, e passava in mezzo alle case sparse di due villaggi. Nel secondo di questi il sentiero si fermava, come arrestato dal pericolo. Un miglio più avanti, su una faglia tra due colline, apparivano i frutteti di Flor, e subito dopo il pendio erboso terminante con la casa e con la torre, che si stagliava alto sul mare. In tempi passati i villaggi erano stati più vicini. Ai tempi in cui il forte remusano dominava la campagna, ne sorgeva uno proprio ai suoi piedi. Ora sembrava come se quei piccoli insediamenti si fossero allontanati di proposito, e portandosi appresso le loro capre e i loro rossi buoi, fossero scivolati giù per il pendio cercando di raggiungere il mercato della città, dove una volta, sulle acque blu intenso della baia, si ergeva il palazzo di un imperatore cassiano. Per uno che non fosse un imperatore, il viaggio per Cassireia poteva anche essere spiacevole. Ma svoltare al sentiero, attraversare i villaggi sotto gli occhi curiosi della gente, raggiungere la faglia tra le colline e guardare giù, e subito su, verso Flor, forse questo poteva essere ancora più spiacevole, e poteva creare anche una certa apprensione, nel caso che il viaggiatore in questione si chiamasse Roilant di Beucelair, giunto fin qui per reclamare la sua sposa. Teoricamente, con la sposa sarebbe dovuta venire anche Flor, sua unica dote. Allo sfacelo di quel bel posto si sarebbe potuto riparare, anche in maniera fruttuosa. Ma se anche la mente del viaggiatore avesse ospitato un pensiero del genere, essa se ne dovette immediatamente disfare alla vista degli alberi di fico morti che introducevano ai frutteti. Una malattia, un flagello irreparabile. Subito dopo si incontrava un cipresso agonizzante, che molto tempo prima un fulmine doveva avere abbattuto. E poi un fiume di alberi sani, ma germogliati troppo in fretta e a un ritmo
ciascuno diverso dall'altro, con i rami che si piegavano fino in terra o si gettavano l'uno sull'altro per sostenersi, e i frutti marciti che richiamavano interi sciami di insetti, sicché tutta la zona era un folle ronzare e tremolare nella densa luce verde. Aprirsi un varco attraverso questa giungla risonante non era facile né divertente, stando a dorso di mulo. Quando infine si emerse dagli ultimi alberi, e si guadagnò il pendio, si arrivò alle mura remusane, che mostravano con sfrontatezza la loro integrità, quasi la stessa di nove anni prima. Invece l'aspetto della residenza, man mano che ci si avvicinava sull'erba ingiallita, era poco meno che allarmante. I cancelli, a cui mancavano molte delle sbarre di metallo, erano aperti e davano l'idea di non poter essere più richiusi. Dentro, il cortile d'ingresso con le sue vasche, le colonne e le palme: una rosa appassita i cui petali rapidamente cadevano. Nel canale prosciugato che una volta era stato un ombreggiato specchio d'acqua, tegole in pezzi, precipitate dal tetto. Quattro leoni di pietra, incrostati di licheni bluastri, guardavano desolati dai quattro angoli del cortile. I leoni, le pareti, i pilastri, gli alberi, tutto era consunto. Sotto una palma morta stava disteso un giovane e cencioso servitore addormentato, mentre vespe e mosche provenienti dal frutteto ronzavano fastidiosamente avanti e indietro. Apparentemente, non sembravano esserci altri esseri viventi. Il visitatore fermò il cavallo ai cancelli e si guardò intorno, mentre il sole calante infuocava la sua già ardente chioma. La sua goffaggine sulla sella fu momentaneamente minimizzata da un atteggiamento sbalordito e offeso. Sapere era un conto, vedere un altro. Dietro di lui, i due servitori heruzini insieme ai bagagli aspettavano sui loro muli. Alla fine uno dei due domandò: «È questa Flor, signore?» «Temo che lo sia.» L'altro fece uno sbuffo, appena udibile. «Devo svegliare il moccioso?» «Sembra che sia necessario.» Il primo uomo, che era più grosso di Roilant, ma che celava una notevole massa muscolare, balzò giù dal mulo e si avvicinò al ragazzo che dormiva. Prendendolo per una spalla, l'uomo lo scosse. Il ragazzo si destò e cominciò istantaneamente a prendere a pugni il suo aggressore, affondando poi i denti nella manica dell'uomo e rifiutando di lasciarla andare. Il secondo heruzino smontò dal mulo e corse in aiuto. Ne seguì una sorta di attacco, quando altri due ragazzini vestiti di stracci saltando dai rami degli
alberi piombarono tra grida acute nel mezzo dell'alterco. Il giovane paffuto continuava a sedere sul suo mulo, apparentemente scioccato, e sembrava che sarebbe potuto restare così a tempo indefinito, finché la lotta fosse andata avanti. Tuttavia, una delle ante della porta centrale oltre il colonnato diede segno che a malincuore stava per essere aperta, e subito apparve una figura, emersa dall'ombra alla luce. Quando le due candide mani con gesto elegante vennero battute, da esse emanò un lampo. «Basta! Harmul! Dassin! Immediatamente, Zimir!» Due dei ragazzi si lanciarono da parte e finirono con le facce sulle pietre frantumate dentro il canale. Il terzo restò per un attimo indeciso, prima di fuggire sotto una stretta arcata in fondo al cortile. I servitori heruzini restarono in atteggiamento bellicoso, lanciando sguardi minacciosi. Fu chiaro che la padrona di casa era incarnata dalla figura della ragazza con le candide mani. E fu chiaro anche che lei era in grado di esercitare una certa autorità, visto che uno di quei selvaggi giovani era scappato e gli altri due giacevano immobili, come resi schiavi dalla paura, davanti a lei. Quando riprese a parlare, la sua giovane voce fu come un sottile coltello. «Vergogna. Dovreste essere battuti. Se mio padre fosse vivo, vi farebbe frustare. Alzatevi. Andate dal gentiluomo e dai suoi aiutanti e chiedete loro perdono.» Il ragazzo che aveva dato inizio alla zuffa sollevò la testa e le tirò il vestito. Era un abito di lucidissima seta giallo topazio, esattamente lo stesso colore della sua chioma. «Uno mi ha colpito,» dichiarò il ragazzo. La ragazza con la chioma di topazio non disse nulla, lo guardò soltanto. Lentamente il ragazzo si alzò, seguito dal compagno. Si trascinarono fuori dal canale e si gettarono ai piedi dell'uomo dalla chioma rossa che stava sul mulo. «Perdono, signore!» «Perdonaci!» Il Rosso era chiaramente turbato. «Va bene,» mormorò. «E ora alzatevi e andate via.» «Non possono, ahimè,» gli disse la ragazza. «Zimir è scappato, ma questi devono occuparsi dei tuoi muli. Sono gli unici stallieri che abbiamo.» Il paffuto giovanotto con fare rigido e goffo smontò dal mulo, abbandonando la sua cavalcatura con evidente timore. «Lascia pure il bagaglio qui. Se ne occuperanno i miei servitori.»
Mentre il muscoloso servitore heruzino seguiva i ragazzi e i tre muli in direzione della stretta arcata, l'altro heruzino si accingeva a scaricare il bagaglio dalla quarta bestia. Solo allora il loro signore si voltò per posare gli occhi sulla donna: un delicato asfodelo sullo scenario di uno sfacelo bruciato dal sole. Lui pareva incapace di parlare, e fu lei ad avvicinarsi, con movimenti fluidi e coordinati come quelli di una danzatrice. «Roilant,» disse dolcemente. «Sei proprio tu?» «Oh, sì,» la rassicurò scioccamente. Lei gli sorrise dritto sul viso tondo. «Come sei cresciuto bene. L'ultima volta che ti ho visto eri un ragazzo, ora invece sei un uomo. Ed io, sono cambiata così tanto?» Lui arrossì e parve ancora turbato, mentre i suoi occhi esitanti sembrarono notare ora per la prima volta le parti logore del vestito di lei, che finora erano state mimetizzate dalla distanza. La rendita che le giungeva da Heruzala doveva essere stata spesa per altri bisogni. «Tu sei,» le disse con un certo sforzo, «carina come sempre.» Gli occhi della ragazza si allargarono, probabilmente per l'inettitudine di lui, tuttavia lei continuava a sorridere. «Be', se lo sono,» disse lei, «è per la mia gioia nel vederti. Credevo che mi avessi dimenticata. E sono veramente felice che non sia così.» Gli occhi del giovane erano stanchi, gonfi e perplessi. Forse non era educato dire: ma lo sai che mi hai fatto venire tu, con un invito che non ho potuto rifiutare. Costretto dalla magia nera. Perciò disse solo, «Il viaggio è stato un inferno.» «Perdonami. Manderò qualcuno a preparare la stanza da bagno, quella in stile remusano, ricordi? E ricordi la storia? Che una legione di remusani vi seppellì un tesoro tutto d'oro.... Io e te lo cercammo. Ma non trovammo l'oro, vero?» Lei stese una delle sue bianche mani come per appoggiargliela sul braccio, poi timidamente tirò indietro le dita. Non aveva gioielli, tranne che gli occhi, i capelli, i denti di madreperla, la bianca pelle di giada. «Temo che la tua ospite stia dicendo delle sciocchezze. Ma è così contenta... Oh, Roilant, è così bello che tu sia tornato. Ti prego, entra in casa. E...» Abbassò le ciglia, lunghe frange d'oro, «...chiudi gli occhi sull'inevitabile. Non è più come ai tempi di Lord Gerris. O ai tempi di mio zio.» Lui allora disse seccamente: «Se mi sposerai, non te ne dovrai preoccupare per molto ancora.» «No,» rispose la ragazza, a voce molto bassa. Era l'incarnazione, deliziosa, dell'umiliazione, che in silenzio lo supplicava di risparmiarle l'imbaraz-
zo di ricevere così apertamente la sua pietà e il suo aiuto. Persino Roilant, se fosse stato possibile, avrebbe avuto in questo momento l'impulso di darle un ceffone. Ma nessuno che avesse avuto un briciolo di intelligenza avrebbe rischiato la vita con una strega. E le mani rimasero giunte dietro la morbida schiena. Quindi la seguì dentro casa, mentre il servitore con il bagaglio gli andava dietro a fatica. L'ingresso, una specie di galleria una volta dipinta e decorata, ora piena di erbacce e ricoperta di polvere e di altri detriti, conduceva direttamente nel secondo cortile, quello interno, attorno al quale si raccoglieva il corpo della casa. Quando Roilant era venuto qui all'età di quindici anni, le fontane ancora funzionavano, seppure in maniera incerta. Ora le vasche erano paludi traboccanti di muschio e sulla via di prosciugarsi. Foglie morte scricchiolavano sotto i piedi, e un albero d'arancio cresceva esile e malato accanto alla scala che portava al piano superiore, e da lì al tetto. Pilastri d'avorio delicatamente intagliati avevano fatto da sostegno al tetto della veranda che correva tutt'intorno al secondo piano. Ora, simili a denti cariati, molti erano rotti o addirittura mancavano. «Non guardare,» disse lei. «Io cerco di non farlo. Gerco di ricordarlo come era.» Un uomo vecchio e grasso, presumibilmente uno schiavo, emerse ondeggiante dall'apertura che conduceva alle cucine e agli alloggi della servitù. Veniva da chiedersi quali favori avesse dovuto ricevere per riuscire a mantenersi così grasso. «Jobel,» chiamò Eliset, «prepara il bagno per Lord Roilant. Poi porta del vino, per favore.» Il grasso schiavo emise un grugnito di nervosismo, e si diresse riluttante il luogo che gli era stato ordinato, voltandosi più volte indietro come se sperasse di essere fermato. «Immagino che ci vorrà un po' di tempo,» disse l'intenzionato bagnante. «Temo di sì. Questi che hai visto sono gli unici servitori che abbiamo, i ragazzi e lo schiavo. Io, poi, ho un'ancella, un lusso che mi ha procurato Mevary; ma me ne servo raramente. Credo che abbia avuto una vita dura.» «Mevary l'ha procurata...» la frase incompleta — terminava con: procurata con cosai — gli era già uscita prima ancora che lui fosse stato in grado di fermarla. Dopo sembrò mortificato, ma forse era nervoso. Eliset aveva appena aperto le labbra per rispondere, che una ferma voce maschile si era abbattuta su di loro come una tegola staccatasi dal tetto.
«Sei il solito pignolo, Cugino Budino. Procurato non col denaro. La vinsi ai dadi a un mulattiere che se la teneva come sguattera, frustandola come faceva con i suoi muli.» La testa rossa si era subito sollevata e gli occhi con le borse si erano fissati verso l'alto. Dai resti della balaustra della veranda al piano di sopra si sporgeva alquanto imprudentemente un giovane, che lo guardava dall'alto in basso, in ogni senso del termine. Mevary di Beucelair e Flor, dal corpo felino e atletico e dalla sana e smagliante abbronzatura, aveva una chioma del colore delle noci, e due occhi di un nocciola molto chiaro, quasi gialli, come gli occhi dei lupi. Anche i suoi abiti irradiavano salute. Ora si capiva dove andava a finire parte della rendita. Eliset rise. «Mevary, scendi giù e sii educato. La tua vista è influenzata dalla distanza. Nostro cugino non è più un ragazzino, ma un alto e forte uomo.» «A me sembra sempre lo stesso,» disse Mevary. Raggiunse con disinvoltura un punto dove la balaustra non esisteva più, e saltò giù improvvisamente con un balzo, come un grosso felino bruno, atterrando con perfezione e scioltezza dinanzi a loro. Eliset batté le mani e rise con gioia. «Oh, non è bravo?» domandò all'altro, che evidentemente non aveva mai praticato simili acrobazie in vita sua, e si sarebbe rotto il collo qualora lo avesse fatto. «Molto.» «E tu,» disse Mevary insolentemente, «sei bravo a fare qualcosa tu, Cugino Budino?» «Penso,» disse l'altro lentamente, «di non essere un completo idiota.» «Soltanto un completo budino. Tanta bella carne succosa, se mai dovessi finire nelle grinfie di bestie selvagge.» «Mevary!» disse dura Eliset. Ma lui incontrò gli occhi di lei e sorrise. Erano amanti, lui non doveva temere l'ira soprannaturale di Eliset, come avevano fatto i tre ragazzi, non finché la poteva soddisfare. Ed era ovvio che la soddisfaceva. I contorni dei loro corpi, forse inconsciamente, si protendevano l'uno verso l'altro come piante sotto l'acqua. Poi gli occhi giallastri guardarono oltre, ed egli disse: «Immagino che quell'idiota sia il tuo servitore.» La testa rossa si voltò ancora. Il servitore di Roilant in effetti era rimasto in piedi ad aspettare accanto a una delle fontane morte, con i bagagli ai
suoi piedi. «Ne sono venuti due con me.» «Allora se ne possono andare via. Non possono alloggiare qui, devono farsi ospitare al villaggio, e tu puoi pagare per farli mangiare lì. Credi che possiamo permetterci di fare da balia a te e ai tuoi porta ventaglio?» «Molto bene.» Squadrando Mevary Roilant aveva trattenuto il respiro finché il viso paffuto non gli era diventato rosso come i capelli. «E mi sarà concesso un appartamento, o dovrò dormire nel canale?» «Il canale è già stato donato a un gran numero di lucertole. Ti sarà data la camera che era di mio padre. Spero che ti piaccia,» disse dolcemente Mevary. «Crediamo che il suo fantasma frequenti la casa.» L'acqua del tanto atteso bagno remusano era tiepida, sia nella vasca calda che in quella fredda. L'unico incidente veramente imbarazzante si verificò nella stanza da bagno. Ansioso di accertarsi del benessere e della comodità del cugino, Mevary era piombato improvvisamente lì dentro con passo felpato. Ma l'imbecille dai capelli rossi sembrava avere se non altro un buon udito; Mevary lo aveva trovato già tutto avvolto in un'ampia veste che si stringeva addosso nel determinato (e riuscito) tentativo di nascondersi. L'ovvia manovra di Mevary tesa a sorprenderlo nella sua flaccida e sconveniente nudità era fallita. Un conto era essere assassinati, un conto essere umiliati. «Jobel sarebbe dovuto venire a scrostarti. O devo supporre che in ogni caso non c'era abbastanza vapore,» disse Mevary. «Che vergogna che è questa casa. Ceneremo al tramonto, nella terrazza sul tetto. Ho notato che non hai bevuto il tuo vino. Hai paura di essere avvelenato?» Il bagnante imbacuccato lo guardava con odio. «Sì.» «Oh be', allora avrai un assaggiatore. Lo farà Dassin. Ma se non starai attento ti mangerà tutta la cena. E comunque, mio caro Budino, poteva esserci del veleno nell'acqua del bagno. Oppure in questa veste. O sparso sui delfini del pavimento, in attesa solo che i tuoi rosei piedini senza forma ci passassero sopra.» I piedi in questione, in realtà tutt'altro che piccoli, senza forma, e rosei, poggiavano ora sui delfini del malconcio mosaico verde. «Perché la mia promessa sposa,» disse il propietario dei piedi, «non ha usato la sua rendita per riparare la casa, o per vestirsi decentemente?» «Credi forse che la patetica somma che le mandavi ogni anno sarebbe bastata anche a quello?»
«A far crescere bene il micetto che eri è bastata.» «Sì. Ma lei mi adora.» Mevary, come un bizzarro felino-lupo in cerca della sua preda, andò intorno alla vasca, e intorno a quel nervoso fagotto di tessuto che al momento rappresentava suo cugino. «È un peccato che tu ancora desideri sposare Eliset. Altrimenti avrei potuto...» Mevary fece una pausa densa di significato, «...averla io. Naturalmente saprai già che dovrai vivere qui insieme a lei quando l'avrai sposata. Qui con Eliset, e con me, caro cuginetto Roilant.» Il caro cuginetto Roilant disse che non sapeva niente del genere. «Se la portassi via la uccideresti. Le spezzeresti il cuore. Gerris è sepolto qui, per non parlare anche del mio rimpianto genitore. Parenti vivi, parenti sotto terra... come potrebbe persuadersi a separarsi da tutti noi?» Prima che una nuova risposta o un nuovo rifiuto potessero essere lanciati, Mevary era uscito a grandi passi dalla stanza da bagno. A metà strada lungo il corridoio di pietra, egli si fermò un momento, come a meditare. Il corridoio in parte coperto, che una volta era stato un piccolo cortiletto, conduceva direttamente al cortile interno con le fontane prosciugate. Al centro di quel cortile-corridoio, contro una delle pareti, si trovava un antico pozzo più vecchio della casa, un mostruoso splendore di colonnine di pietra intrecciate e incorniciate da uno sfondo a mosaico, che era scarsamente visibile anche durante il giorno, quando la luce si prodigava per aprirsi nuovi varchi nel tetto sovrastante. Mevary sembrava contemplare i fiori e il pesce raffigurati nel mosaico. Il pozzo era asciutto da molto tempo, una cosa morta, una delle tante a Flor. Ciò che non era chiaro era il motivo per cui Mevary sogghignasse. Con la fine del giorno, un fuoco denso di mormorii inondò l'entroterra dal mare, dove, proprio sopra l'orizzonte, galleggiava il sole. Nuvole rosso porpora si ammassavano come una flotta sul bordo dell'acqua. Lo stesso oceano, dalla curva dell'orizzonte a quella della costa, era tinto del colore delle ciliege, come pure ogni superficie che vi si affacciava: i muri della casa, la torre diroccata, la ripida cascata della scogliera. Anche la figura di Eliset era purpurea, una figura decisamente ammaliante che aveva perso la singolare mascolinità che la caratterizzava. Si era cambiata d'abito. Mevary la osservava, entrando e uscendo continuamente dalle porte del padiglione sul tetto. Il padiglione, un ottagono, possedeva otto entrate, e una volta aveva posseduto anche otto porte. Ora ne erano rimaste solo cinque, fatte di una sottile grata di avorio tutto macchiato, e queste cinque
stavano aperte in modo che da dentro si potesse godere del tramonto e dell'attesa frescura della notte. «Dopo dieci anni, che ti è parso di lui?» domandò infine Mevary. «È migliorato. È più alto di quanto mi ero immaginata.» «Alto?» «Credevo che non sarebbe cresciuto così tanto in altezza. Ha delle mani ben fatte. E il mento gli si è delineato.» «Non come lo stomaco.» «Be',» disse lei, voltandosi con un movimento serpentino dell'abito e dei capelli sciolti, «non tutti gli uomini possono essere belli come te.» Mevary sorrise. Si mosse dal padiglione e attraversò la terrazza. Camminò fin quando il suo corpo non toccò quello di lei, poi adagiò le mani una attorno alla vita ed una sul seno di Eliset. «Salirà a momenti,» disse lei, «potrebbe vederti.» «Gli prenderebbe un colpo per lo shock.» Eliset rise piano, ma fu una risata smodata, e sollevate le mani gli cinse con esse il collo. «Prima però mi deve sposare, no? Ma ahimè...» sospirò, «come potrò giacere con un altro dopo te? Come?» «Pensa a quello che otterremo. Lo farai.» «Allora ci riuscirò, per te. Tu sei il mio solo dio, Mevary.» Lentamente, molto lentamente, Mevary piegò il capo, e più lentamente ancora assaporò il bacio che le rubò. Quando le loro labbra si staccarono, il sole era già scomparso, e dal mare aveva cominciato a levarsi una trasparente brezza blu che, soffiando verso l'alto e sfiorando il tetto, cercava la strada verso le alberate colline dell'entroterra. Dal crepuscolo si sentirono dei passi che incespicavano. Mevary ed Eliset si allontanarono. Si udì quindi uno scricchiolio, come se uno dei traballanti gradini di pietra avesse ceduto e si fosse spezzato, e poi in cima alla scala apparve il loro ospite, barcollante e tutto affannato. «Questi scalini sono pericolosi.» «Ahimè, sì...» disse Eliset. «Ahimè, sì, è proprio vero...» fece Mevary. «Ma hanno un vantaggio; dal rumore puoi capire se viene qualcuno.» Allora, a giudicare dal rumore, stava venendo anche qualcun'altro. Il primo scalatore aveva appena messo piede sul tetto che subito era apparso Harmul. Il servo era entrato a gran velocità nel padiglione e, creando un certo scompiglio tra i bassi tavolini e i cuscini, aveva cominciato ad ac-
cendere delle lampade producendo grandi nuvole di fumo. Nella cruda luce, mentre la cena cominciava a giungere nelle mani dei due giovani servitori e dell'obeso e ansimante Jobel, l'abito di Eliset apparve in tutto il suo splendore. La seta color crema era decorata da complicati disegni creati con frammenti di madreperla e di eliotropio. La cinta, che prima di scendere fino ai piedi si incrociava tre volte alla vita e una volta ai fianchi, era color porpora e adorna di perle. Eliset disse dolcemente: «Possiedo questo abito grazie alla tua generosità, Roilant. Lo indosso per onorarti e ringraziarti.» Zimir scoperchiò bruscamente un enorme piatto di cibi leggeri, e dal buio si precipitò fuori una grossa falena che andò a scontrarsi contro una lampada. La cena era interessante, non in se stessa, ma nei particolari del servizio. Dassin, chiamato da Mevary nel ruolo di assaggiatore ufficioso di Roilant, si ingozzava di tutto quello che trovava. Eliset sembrava preoccupata, sia per quella farsa che per i motivi che l'avevano causata. Ma più il suo rosso visitatore negava che ci fosse alcun bisogno di un assaggiatore, più Mevary incitava Dassin ad adempiere al suo compito. Dassin obbediva con gioia. Alla fine, evidentemente rassegnato, il suo involontario datore di lavoro smise di protestare e porse lui stesso a Dassin la coppa di vino. «Vedi,» disse Mevary, «dovremo rinunciare all'idea di sbarazzarci di lui con il veleno. Oppure rassegnarci a perdere in questo affare uno dei nostri preziosi servi.» Eliset vacillò tra un sorriso e uno sguardo disperato. «È veramente questo quello che pensi di noi?» domandò. «Noi, che abbiamo il tuo stesso sangue, Roilant, cercheremmo di farti del male?» «È una possibilità da cui sono stato messo in guardia.» «Chi ti ha messo in guardia?» gridò Eliset. Sembrò punta e per una volta estremamente attenta. «Ma,» disse il poco attraente ospite, sciacquando in una bacinella ossidata quelle mani inaspettatamente ammirate, «io non ho voluto dare credito a così bassi pettegolezzi. Perché altrimenti sarei venuto qui? Ho intenzione di fare di te la mia sposa. E ti interesserà sapere che ti ho sognata spesso. Erano degli strani sogni, che mi rammentavano il dovere... e, ehm, naturalmente... il piacere di onorare il fidanzamento che i nostri padri combinarono per noi.» «Sogni,» disse Eliset. Il suo viso, che si era voltato verso di lui, sembrava della stessa seta cremosa del vestito, i suoi occhi erano freddi e fissi
come l'eliotropio. «Non ti vedo, Roilant, come uno che si faccia influenzare dai sogni.» «Questo, però, era ben definito. Lo stesso sogno per diverse notti. Aveva qualcosa a che fare con i fiori essiccati che mi avevi mandato tanto tempo fa... e con il piccolo talismano che avevo ricevuto in occasione della prematura morte di mio padre. E nel sogno tu stavi lì, immobile e pallida. Il legame non può essere sciolto, dicevi. Vieni da me prima che il mese sia terminato.» Eliset fece una risata forzata. La cosa apparve evidente al suo osservatore, sebbene il suono di quella risata fosse brillante e naturale come quello della cascata di un ruscello. «Ero così impaziente?» Il paffuto narratore sembrò rendersi conto della sconvenienza delle sue parole, e sbuffò nel tovagliolo. Il magro e bruno cugino disse, dolce come il miele: «Forse, Eliset, è stato un segreto desiderio notturno che ti ha mandata a visitarlo per rammentargli castamente la sua promessa.» «Non credo a queste cose,» disse Eliset. Era agitata e lottava per non perdere il controllo. Mettere la strega a confronto con la sua stregoneria si stava, dopo tutto, rivelando interessante. «Eppure credi ai fantasmi che infestano questa casa,» disse Mevary. Voleva cambiare discorso? «Qui abbiamo più fantasmi che persone, Roilant. I morti senza pace sono più numerosi di noi. Vuoi che te li elenchi? Mio padre, si suppone. La vecchia balia di Eliset, Tabbit. Poi c'è un'intera legione di remusani che va e viene tra squilli di trombe e canzoni da corteo militare. La stanza da bagno è decisamente un focolaio di fantasmi. I servitori non vi si avventurano mai quando è buio, e se possono evitarlo non lo fanno neanche di giorno. Mi sbaglio, Dassin?» Dassin ingoiò quasi per intero un grosso fico e disse, roteando gli occhi: «Abbiamo sentito dei rumori e visto delle luci, nel corridoio che era l'antico cortile... e abbiamo sentito anche dei profumi venire da lì sotto.» L'orrore di Dassin sembrava sincero. Era diventato pallido, ma poteva trattarsi solo di indigestione, o forse dei primi sintomi dell'avvelenamento. «Un mese fa,» disse Dassin febbrilmente, «il vecchio Jobel per non lavorare si era nascosto lì, e si era addormentato. Quando si era svegliato era buio e una luce saliva su dal pozzo. Lui si era avvicinato e guardandovi dentro aveva visto inaspettatamente l'acqua... e sull'acqua... una minuscola nave, non più grande della mia mano, illuminata da piccolissime torce e con una
piccolissima vela rossa...» Mevary miagolò eccitato come un gatto in calore. Si rotolò sui cuscini finché la sua testa non andò a posarsi sul grembo scintillante di Eliset. «Non dovresti scherzare su questi fenomeni,» gli disse con calma Eliset. «Il mondo è pieno di stranezze. Anch'io qualche volta ho udito le voci di questi fantasmi e il suono delle trombe... ne ho anche sentito dire cose strane.» «Piccole navicelle furtive nel pozzo...» farfugliò Mevary. «Sì, sì, padrone,» disse Dassin tutto eccitato. «Calmati,» disse Mevary. «Va' via. Lord Roilant ha finito con i tuoi servigi. Vai a smaltire la nausea, oppure a morire avvelenato.» Dassin si riempì le mani di pane e trutta arraffati dal tavolo e scappò via dal padiglione e dal tetto. Poi ci fu un silenzio durante il quale li raggiunse il rumore del mare, che stranamente sembrava provenire non solo da oltre le mura, ma anche da dentro gli stessi confini della casa, come un debole, mistico cantare. Dall'entroterra anche un usignolo cantava, una musica in miniatura trasmessa dalla volta aperta della notte, un cristallo puro come il cristallo di Flor non era. «La bellezza di questo posto,» disse improvvisamente Eliset. Era lontana, e gli occhi erano due fiamme azzurre. «Farei ogni cosa per tenerlo. Anche quando tutti i tetti saranno crollati, quando non resterà più una pietra sopra l'altra, io vivrò qui in mezzo alle rovine. E quando morirò... sì, anche il mio spirito continuerà a vagare qui. Non vorrò riposare.» «Roilant ha deciso che tu vivrai a Heruzala,» disse Mevary. Lo sguardo di Eliset si spense. Guardava il suo promesso sposo non con disgusto, ma con visibile tenerezza. Era lo stesso sguardo che lui aveva visto sul volto dei carnefici, quando si accingevano a sollevare la spada. «Allora, naturalmente, gli obbedirò. Era il mio cuore che parlava, non il mio cervello. Non farci caso, Roilant. Partirò senza protestare. A patto che si trovi qualcuno che accudisca alla tomba di mio padre, che riposa qui, accanto alla torre. Domani, se me lo permetterai, ti mostrerò dove.» A questa felice prospettiva, egli non sembrò molto sollevato. «Non l'ho già vista,» si arrischiò a dire, «durante la mia ultima visita?» «Ma ancora non c'era la statua di pietra.» Chiaramente, questo faceva una certa differenza. Subito dopo l'ospite, adducendo come scusa le fatiche del viaggio, si congedò.
«Se il mio defunto padre ti sveglia,» gli gridò dietro Mevary, «rendigli i miei filiali omaggi. Dormi in pace, Roilant.» A mezzanotte Roilant, tutt'altro che beatamente addormentato, sedeva sotto l'albero di carpine che si trovava tra i frutteti e la residenza di Flor. La luna aveva già da tempo oltrepassato la casa e si era ormeggiata sul mare, sicché la sua luce in quel punto era ostacolata dall'interporsi dell'edificio. Sotto l'albero c'era dunque il buio, un buio a cui Roilant non si era abbandonato con piacere. Essendo diventato da poco superstizioso, era impreparato a una cosa così vergognosa come la paura del buio. Anche la vista di Flor aveva evocato curiose sensazioni. Mentre aspettava Cyrion, che aveva combinato di incontrarlo lì, nella sua mente si affollavano i ricordi da adolescente di Eliset, e dubbi molto potenti. Forse, dopo tutto, la visione non era stata una minaccia, ma soltanto interpretata come tale; la caduta del tetto una coincidenza: la pioggia era stata molto forte quel giorno. Forse era stata proprio la speranza di Eliset, la speranza di essere liberata dalla povertà, di riacquistare un rango e una rispettabilità, che in qualche maniera gli aveva mandato il messaggio. Nessuna magia, soltanto l'energia di una forte volontà, imbevuta di un ardente desiderio. E forse... Già confuso, ora Roilant divenne allarmato. Una figura indistinta era emersa senza fare alcun rumore dagli alberi alle sue spalle, e si era seduta accanto a lui sull'erba. «Una bellissima nottata,» disse Cyrion. «Non sei venuto dalla direzione che mi aspettavo.» «Le mie più profonde scuse. Ho seguito un tragitto indiretto.» «Nel caso qualcuno spiasse?» «Credo che non l'abbia fatto nessuno. Dassin, che avrebbe dovuto sorvegliare la tua porta, ha ceduto alla polvere che è caduta nel tuo vino stasera. All'inizio lo ha reso piuttosto loquace, ma poi ha dormito con estasiata serenità. Per quel che riguarda il mio tragitto, stavo semplicemente esplorando il terreno.» «Come hai fatto con la polvere?» «In un anello,» disse Cyrion. «Un vecchio trucco. Ricordi Sabara? Se Mevary avesse mandato uno degli altri tre servi avevo pronto un altro piano.» Roilant si spostò un poco. Poi fissò intensamente Cyrion, lasciando che
la sua debole vista notturna investigasse quello che c'era da vedere. Alla fine disse, «Ed è così che mi vedi?» «No. E come ho pensato che loro si immaginassero di vederti.» «Un'esagerazione, allora. Non sono vanitoso, ma...» «Ma questo è alquanto buffonesco, e lo è di proposito. Io e te non siamo uguali, e loro ti hanno visto una o due volte, per quanto brevemente e molto tempo fa. Che io sia più alto di quanto loro si aspettavano è credibile, i giovani crescono, sebbene Mevary non abbia preso bene il fatto che ora tu sei qualche centimetro più alto di lui. Penso che domani lo vedrò con dei calzari col tacco. Per il resto, l'imbottitura del corpo è esagerata, e per poco nella stanza da bagno non si è rivelata un castigo, se non mi fossi accorto in tempo che Mevary stava cercando di prendermi alla sprovvista. L'imbottitura delle guance che ho in bocca non è per niente più sicura, ed è una tortura. La mia confessata paura di essere avvelenato da loro è stata aumentata dall'impossibilità di godermi la cena insieme a loro. Le borse che ho sotto gli occhi prudono. Sono sicuro che ti farà piacere sapere tutto questo.» «E devo supporre che tu ti sia tinto i capelli in modo da assomigliare a un'arancia.» «La caricatura di un'arancia, te lo assicuro.» Roilant sorrise, poi rise controvoglia. «Probabilmente me lo merito questo colpo al mio già limitato amor proprio. Tu stai rischiando la vita per me.» «Davvero?» Cyrion, dopo aver rimosso l'imbottitura del viso, cominciò a mangiare una delle premature pesche di Flor. «Nel frattempo come procede la tua parte dell'affare?» «Il mio servitore ha trovato il religioso di cui mi hai parlato. Si sta procedendo come tu hai stabilito.» «Gli altri due tuoi servitori sono stati mandati al villaggio, come avevo previsto. Mevary non vuole testimoni superflui, qualunque cosa accada. È stato ordinato loro di fare i risentiti e di tornare subito a Cassireia, dopo essersi occupati dei pettegolezzi locali.» «Io ho fatto la mia parte del viaggiatore incappucciato in entrambi i villaggi. Ma l'unica voce che ho sentito era francamente poetica. Sembra che ci siano dei demoni femmine, delle specie di sirene, che emergono cantando dal mare attorno alla scogliera. Rubano le navi, quando riescono ad accalappiarle, e lo stesso fanno con i bambini piccoli, mentre sacrificano gli uomini alla loro dea.»
«Un modo di vivere noioso, anche se caotico. E che mi dici del tesoro sepolto di Flor?» «Quale tesoro?» «Lo ha menzionato tua cugina Eliset. Il bottino di una legione remusana fantasma, opportunamente sepolto sotto il locale del bagno.» «Penso,» disse vagamente Roilant, «che fosse un gioco che facevo da bambino, nulla più.» Una pausa, meno vaga. «Ti sembrerà strano... o forse no. Mi sono appena ricordato che anch'io una volta ho visto un fantasma, mentre mi trovavo nella stanza da bagno, un ragazzo con un tessuto avvolto attorno al capo che in un attimo svanì nel corridoio. Io stesso ero solo un ragazzo, ed ero in visita. Non ne avevo mai parlato prima d'ora.» Un'altra pausa, finché Roilant, chiedendosi se fosse ascoltato, domandò: «E ora?» «Ora, niente. Le mosse di questa fase del gioco sono principalmente loro. Semplicemente tieniti pronto. Ti ricordi esattamente la tua parte, vero?» «Oh certo. Ha un che di amaramente comico. Vai via?» «Ti lascio alla bellissima notte.» «Aspetta...» Cyrion si fermò, ergendosi davanti a lui con la massima eleganza, malgrado la nuova e disdicevole silhouette datagli dall'imbottitura. «Ma lei,» disse Roilant, «Eliset, è... come credevo?» «Ho sentito una parte di conversazione tra i tuoi cugini sulla terrazza del tetto. Lei gli diceva che lui era il suo solo dio, e il loro abbraccio era tutt'altro che fraterno. Gli ha pure detto che non morirai prima di averla sposata.» «Ah.» Roilant piegò il capo. «Non è che la voglio. Ma mi addolora dover pensare a lei in questo modo.» «Allora, amico mio,» disse Cyrion, «non pensare a lei in questo modo.» Poi, con il più lieve fruscio dell'erba, scomparve. Il modo più semplice per uscire dalla casa era stato quello di attraversare il piccolo recinto che fiancheggiava la stanza da bagno e di scavalcarne il relativamente basso muro, le cui pietre corrose e spostate offrivano numerosi punti d'appoggio. Al ritorno Cyrion non fece che ripercorrere in senso contrario lo stesso tragitto, fermandosi solo un momento a guardare la torre vigile a una decina di metri di distanza, quasi sull'orlo della scogliera. L'ultima occhiata della luna metteva in risalto il contorno della costruzione, la sua pronunciata inclinazione, il suo parapetto dentellato, le due o tre
crepe nere degli occhi. Quella torre sembrava più infestata di ogni altra cosa, mentre sul pendio che le stava davanti dei blocchi di pietra sparsi rivelavano il cimitero di Flor. La perfetta appendice. L'ingombrante figura salì sul muro come acqua corrente, entrò con un balzo nel piccolo cortile, e attraverso un'entrata laterale si introdusse nel buio del bagno, sottraendosi così alla grigia e morente luce della luna. Lì dentro svanì subito ogni luce, tranne il luccichio appena visibile del liquido che era rimasto nel calidario e che un'alta finestra lasciata aperta rivelava. Camminando intorno al calidario e all'altra vasca vuota, Cyrion oltrepassò un lavabo ornamentale con un serpente marino scolpito e si introdusse nel passaggio di pietra che riportava al cortile interno della casa. A metà strada lungo il corridoio, all'altezza del magnifico pozzo morto, Cyrion si fermò, come prima aveva fatto Mevary. Nel pomeriggio aveva notato che sul pozzo pendeva da un gancio d'ottone una lampada, ma accendendola ora la luce sarebbe filtrata attraverso le aperture del tetto. Cyrion preferì servirsi di una pietra focaia, di un'esca per il fuoco e di un pezzo di candela. Subito uno sbiadito colore si risvegliò dal pesce e dai fiori del mosaico smaltato che ornava il pozzo. Cyrion sottopose la parte superiore del pozzo a un esame approfondito, anche se insoddisfacente. (La reazione di Mevary davanti al pozzo, che era stata notata senza che lui se ne fosse reso conto, non aveva fornito alcun indizio.) Le colonnine intrecciate sorreggevano una tettoia, inutile dal momento che il cortile, su quel lato, era stato coperto da un tetto. Le catene che avrebbero dovuto calare i grossi secchi erano scomparse, mentre il meccanismo d'ottone a cui le catene erano state appese era ancora al suo posto: due teste di leone ruggenti con degli enormi anelli tra le fauci. Attraverso gli anelli passava il cappio di una grossa corda, che al momento scendeva giù per il condotto del pozzo, tesa come se stesse sorreggendo un peso, e che invece terminava libera a livello dell'indistinto margine del nudo fondo di pietra a una decina di metri più in basso. Brillava pulito e liscio al suo centro quel pavimento, e vuoto. Non c'era acqua ad incresparsi misteriosamente, né apparvero spettri di navi in miniatura. Cyrion raccolse pigramente una delle foglie morte che ricoprivano il pavimento del corridoio. La lasciò cadere dentro il pozzo e la guardò mentre, una spirale dopo l'altra, senza trovare ostacoli scendeva fino al fondo. Qualche attimo dopo la candela finì. Ma, sorprendentemente, la luce non
scomparve con la fiamma. Dall'altra parte del corridoio una spettrale incandescenza veniva tremolando verso Cyrion. Al suo centro sbocciò improvvisamente una figura scura. Cyrion lasciò scivolare la candela dentro la tunica, l'imbottitura si era rivelata un utile nascondiglio, quindi cominciò a camminare verso questa seconda luce. Aveva quasi raggiunto l'arcata che introduceva al cortile interno quando il bagliore, e la forma buia che esso racchiudeva, si scontrarono contro di lui. Ci fu un vorticoso ritrarsi. La forma buia spiegò un'ala, e qualcosa luccicò. Una voce agghiacciante sussurrò: «Demone o spirito, dissolviti e svanisci, te lo ordino per il potere di questo talismano.» Cyrion, con i capelli rossi e simile a un gufo, fu imprigionato dal bagliore di una piccola e antica lampada a olio, il cui fluttuante lucignolo emanava una densa luce gialla. La mano sottile che teneva la lampada era salda. L'altra mano impugnava in maniera altrettanto salda un grosso scarabeo di lucente pietra verde con su incisi occhi e altri simboli magici: un talismano, sulla cui efficacia la persona che lo brandiva sembrava riporre grosse speranze. Si trattava di una donna, e anche molto bella. Cyrion la guardò in volto, ed essendo Roilant restò a bocca aperta. Lei guardò il volto di lui e rimase senza fiato. La lampada cominciò a tremolare e dell'olio sgocciolò sulle foglie morte del pavimento. «Mio signore... sei Lord Roilant, vero? Perdonami, mio signore...» «Oh...» disse Cyrion imbarazzato, e ancora con la bocca aperta. «Signore, ho visto una luce che si muoveva. Te l'avranno detto, quest'ala della casa è soggetta a... fenomeni soprannaturali. Ho avuto paura. Piuttosto che farmi perseguitare ho preferito correre incontro a quella cosa, fiduciosa nella forza di quest'amuleto, che mi ha protetta altre volte.» «Io,» disse Cyrion, «non riuscivo a dormire. Poi mi sono accorto che avevo dimenticato qualcosa nella stanza da bagno e... sono andato a prenderla. Era la mia luce quella che hai visto. Anch'io sono rimasto sorpreso nel vedere la tua.» Lei lo guardava intensamente. Non era chiaro se gli avesse creduto, ma ora gli rese omaggio con un aggraziato inchino alla maniera orientale che, come la luce della lampada la sovrastò e indugiò su di lei, ne mise in mostra tutto lo splendore. Non era soltanto molto bella, aveva anche un accostamento di colori insolito e meraviglioso: una pelle olivastra liscissima su cui spiccavano due occhi del più freddo e più argenteo grigio. Una chioma
di tenebra densa e brillante le scendeva fino alle ginocchia, e su di essa, con il movimento fluttuante dell'inchino, la lampada rivelò un indistinto riflesso ramato. «Mio signore,» sussurrò, «io sono Jhanna, la schiava di Lady Eliset. Signore...» lo guardò in volto ancora una volta, poi chiuse gli occhi come per pregare, infine li spalancò e disse in fretta: «Ti supplico, non dirle che mi hai incontrato qui. Io... ho paura di lei, signore. Mi picchierebbe, o peggio. Molto peggio. Ti supplico...» e d'un tratto fu in ginocchio tra le foglie e la polvere. Non aveva perso nulla della sua dignità, anzi era splendida, la veste scivolatale da una spalla setosa, le palpebre tremolanti come lo erano i polsi, e la lampada che vacillava. «Ho sentito parlare della tua generosità. Abbi pietà.» Cyrion non trovava le parole, e si era accigliato. Ma alla fine le parole vennero. «Alzati. Non c'è affatto bisogno che tu ti inginocchi. Non dirò niente.» Lei immediatamente si alzò, come un'imperatrice. Il suo fervore si era placato. «Ti credo, signore. Tu sei un sincero amico per una creatura indifesa e sola in questo nido di vipere.» Lo sguardo di Cyrion si fece ancora più accigliato. «Chi sarebbero le vipere?» I denti della donna erano furiosamente bianchi, e il sorriso che li aveva rivelati ugualmente furioso. «Tu lo sai, mio signore. I tuoi cugini. Lui è un vizioso profittatore. Lei una meretrice. E... una strega.» Le parole furono sibilate, come prima aveva sibilato la sua occulta formula da dietro lo scudo dello scarabeo. I suoi occhi, come occhi di un giovane guerriero, incontrarono quelli più grigi, e attualmente meno attraenti, di Cyrion. «Dai,» disse la donna, «sono nelle tue mani. Puoi essere sincero con me, che sono meno di niente. Non ti saresti avventurato in questo pozzo nero traboccante di male se non ti ci avessero costretto i malefici incantesimi di Lady Eliset. Ne ho sentite di cose su di te. Della tua onestà, del tuo saggio distacco. Del fatto che dovevi sposare un'altra, una casta fanciulla di Heruzala. E avresti lasciato tutto quello per questo? Lei ti ha stregato con la sua volontà, e ora fa lo stesso con la sua bellezza. Ti sei perso, signore? O sei ancora capace di sfuggirle? C'è qualche modo?» «Non credo davvero,» cominciò Cyrion ampollosamente, ma di fronte a quello sguardo coraggioso la sua pretesa superbia crollò subito. «Questa
non è proprio l'arena adatta per discuterne,» concluse debolmente. Jhanna abbassò gli occhi, poi li rialzò. Sembrava una principessa. Con orgoglio, quasi con arroganza, disse: «Allora segnimi nella mia stanza, signore. Mi fido di te, non credo che approfitterai di me. E poi, anche se fosse, che importanza avrebbe? Ne è passato di tempo da quando la mia castità fu violata dal nobile Lord Mevary, che mi violentò, e che tuttora mi costringe ad essere la sua amante. Una volta ho cercato di ucciderlo. Ecco il risultato...» Voltò improvvisamente la testa e, gettando indietro i capelli, scoprì l'orecchio destro, la cui bellezza era decisamente compromessa dall'assenza del lobo. Cyrion fece una debole imprecazione. «Con il coltello,» disse Jhanna, «che io intendevo usare su di lui. È un uomo giusto, signore, bisogna ammetterlo.» «Alla tua stanza,» disse Cyrion. «Stai tranquilla, non farei... non devi temere nulla da me.» «Allora vieni. Ora te lo posso dire, ho mentito. Ero venuta a cercare te stanotte, e Dio mi ha concesso la grazia di trovarti. Mi impegno ad aiutarti in qualunque modo io possa, a proteggerti, e a distruggere quelli che odio.» Il suo viso, durante queste ultime parole, era scoperto. Nessun uomo con un briciolo di intelligenza o di intuito avrebbe dubitato di ciò che stava dicendo. Neanche Cyrion ebbe il minimo dubbio. La forza che veniva da lei era come una raffica di vento. Poi Jhanna si toccò la fronte con il talismano e spense la lampada. «Stammi dietro. Loro non se ne accorgeranno. Ora sono insieme nel letto di lei.» Cyrion non dovette ringraziarla per questa breve notizia. Se n'era già avveduto. Furtivi e silenziosi passarono attraverso il cortile interno, costeggiando la vasca più vicina, e mantenendosi rasenti al muro. Quando ebbero superato il breve passaggio che conduceva al cortile della cucina, Cyrion inciampò goffamente su una pietra consunta. Anche allora, egli fece solo un lievissimo rumore. Nel cortile, il cui pavimento era sprofondato, c'era un pozzo, l'ultimo pozzo di Flor, e tutt'intorno la cucina, la lavanderia, e i bui alloggi dei servitori e degli schiavi. Una volta questo era un posto che brulicava di attività, anche di notte, e attraverso un'arcata si potevano sentire i nitriti dei cavalli. Ora non più. Ora si udiva soltanto il fruscio di una vite essiccata sul
muro. E non c'erano luci che brillavano. La ragazza lo condusse attraverso una bassa porticina, dentro uno spazio immerso in un buio pesto. La familiarità che aveva con questo posto le faceva indovinare ogni gesto, e così chiuse la porta, prima con il battente, poi tirandogli sopra una tenda. La lampada fu riaccesa. Era una stanza senza finestre. La cella di uno schiavo. Era stata arredata con scarti di mobilia: un cassettone, una brocca e una tazza, un panchetto. Il letto era l'unica cosa relativamente sontuosa, con un materasso tutto ricoperto di cuscini, coperte e drappi, l'ultimo dei quali era di un rilucente giallo chiaro. Indicando questo giaciglio, la ragazza disse freddamente: «Quando viene qui, gli piace stare sul morbido.» Poi indicò il panchetto. «Non posso offrirti altro per sederti.» «Resto in piedi. Non mi fermerò molto. Riguardo a queste cose che hai detto, non devi temere che io ti tradisca. In effetti, per un verso, la mia situazione è proprio quella che tu hai descritto. Ho sentito la costrizione, sono stato chiamato, e sono dovuto venire. Ma,» disse Cyrion, «questo rientrava nei miei doveri. Io mi ero sottratto alla promessa data, al fidanzamento. Spero che quando avrò onorato la mia parte del patto, e l'avrò sposata...» «Allora,» disse Jhanna con compassione, «lei ti ucciderà. È soltanto la ricchezza dei Beucelair che vuole, per poterla sperperare insieme a Mevary e mandare in rovina tutto come hanno mandato in rovina questa proprietà. Nello stesso modo in cui i loro nobili padri l'avevano distratta prima di loro.» Cyrion la guardava con preoccupata attenzione. «Bene,» balbettò, «sembra... sembra che io non possa sfuggire al mio destino.» Lei cominciò a respirare in fretta, e disse: «Potresti ucciderla.» «Io non...» «Ti fai degli scrupoli, di fronte alla sua malefica magia? Non averne, mio signore. Lei è una strega.» «Bene... che arma allora, contro la sua magia? E come evitare di essere scoperto?» «Diamine!» disse Jhanna, «Sei più sveglio di quel che credessi.» «Sono un uomo disperato,» e scrollò le spalle in modo legnoso. «Non volevo essere insolente, perdonami. Ma capisci le cose più in fretta di quanto speravo.» Era come un fuoco, un fuoco che bruciava piano e tuttavia bruciava, e i suoi occhi non vedevano più Cyrion, «Bene, allora,
c'è un modo per sottometterla e punirla. Vuoi ascoltarmi?» La tozza figura si mosse verso la porta e andò a sedersi sul panchetto. «Ti ascolto.» II Era vero. Eliset era come il mattino. Il chiaro mattino dorato della sua chioma, oggi coperta da un leggerissimo velo fluttuante come un pallido e lucente vapore, il candore impareggiabile della sua pelle, e l'abito bianco. La sua prima apparizione nel logoro vestito aveva fatto un'impressione di cui Mevary l'aveva sicuramente messa al corrente, dopo il commento che Roilant aveva fatto nel bagno sulla disparità nell'abbigliamento dei cugini. Forse lei aveva sperato di toccare il suo cuore, la prima volta. (Strana idea voler toccare il cuore della propria spaurita vittima, ma forse anche questo rientrava nel loro reciproco giocare, lei a ingannarlo, e lui a ingannare se stesso.) In quell'occasione c'era stato anche un che di sciocco e smorfioso civettare che dopo di allora era scomparso. Eliset aveva ora più fiducia in lui, nel suo docile cugino Roilant. O forse ne aveva meno. Stava in piedi sotto l'ombra frantumata di un piccolo albero dai fiori del colore dello zafferano, e la sua mano, dalle dita spoglie di anelli, si posava sul rettangolo di pietra grigia. «È qui che giace mio padre Gerris.» «Oh, sì.» «C'era anche un posto per mia madre al suo fianco. Ma lei mori in terra occidentale, lontano da qui, ed è lì che è sepolta.» Lui stava in piedi accanto a lei sulla tomba, con aria solenne e grave, come cercando le prove di una presenza. Ma l'unica presenza in quel luogo era impersonificata dalla solitaria figura di pietra che si ergeva sulla lapide. «Il cimitero è sempre stato all'aperto,» disse Eliset. «Mio padre avrebbe voluto costruire una cappella, laggiù, sotto la torre. Ma poi le sue fortune andarono perdute. La cappella non fu costruita. E quando avevo tredici anni...» «Sì. Certo.» «La sua morte,» disse lei, «fu inspiegabile e crudele. Fu chiamato un dottore da Cassireia. Lo pagammo in oro. Gli demmo tutto quello che potevamo permetterci, ed anche più. Ma lui non poté fare nulla. Nulla. Si parlò addirittura di stregoneria, Roilant.»
Se questa voleva essere una minaccia, lo fu in maniera estremamente velata. La sua voce seducente l'aveva espressa con armonia, e con pochissima emozione. Poi, dopo una pausa di delicatezza, sollevato il volto, e fissati gli occhi su di lui, Eliset disse: «Devo chiedertelo apertamente, Roilant. Hai veramente intenzione di sposarmi?» Lui arrossì. (Come molte dorme, Cyrion eseguiva alla perfezione questo trucco; un tocco di lucentezza in più sulla sua già splendida interpretazione.) «Perdonami,» aggiunse Eliset, «so che è imbarazzante, ma nella mia situazione...» «Eliset, mia... cara... sì, ho intenzione di mantenere la mia promessa. Malgrado la lettera dei legali che ti ho mandato e che tu mi hai restituito in maniera così singolare, e su cui ho fatto un sogno così curioso...» «Una lettera?» Era candidamente perplessa. «Non ho ricevuto alcuna lettera da te, eccetto quella in cui mi promettevi che saresti venuto qui da me.» «C'era una lettera. Ma ora non ha importanza.» «Sì invece. Una lettera dei legali, hai detto? E che io ti avrei restituita?» «Forse ho sognato anche quella. Te l'ho detto, ho fatto degli strani sogni, sicuramente alterati dal senso di colpa per la mia scorrettezza nei tuoi confronti.» «Ma Roilant...» Improvvisamente sorrise. La mossa sembrava aver raggiunto la meta. Era contenta. «Va bene, come vuoi tu. Dimenticheremo questa lettera.» «Sì.» Lui si schiarì la gola e cominciò ad esaminare il corpo di pietra sulla tomba, i suoi piedi appuntiti, le sue mani giunte su una spada, e il volto addormentato sotto la barba. Più in basso, dalla base della tomba, si sviluppavano delle macchie di umidità e un lichene biancastro, ansioso di tessere una coperta attorno alla statua. «Ma c'è un problema. Il nostro matrimonio, che io desidero ardentemente, deve svolgersi in maniera prudente. Mi dispiace, ma ci sono... delle voci sulla tua vita a Flor. Il fatto stesso che tu abbia continuato a vivere qui dopo la morte del tuo tutore, insieme a Mevary...» Gli occhi di Eliset non vacillavano più innocentemente. Erano diventati pugnali. «E dove avrei dovuto vivere? Non ho altri parenti in vita, tranne te.» «Forse in una congrega religiosa.» «Una congrega religiosa? Flor era passata a mio zio Mevary, ma sarebbe
diventata mia al mio matrimonio. E io avrei dovuto lasciarla alle cure del figlio di Mevary? Mai.» «Quando sarai mia moglie vivrai a Heruzala.» «Sì,» disse lei, richiamata al suo dovere. «Sì, e allora perderò Flor per sempre, non è vero? Perderò la mia legittima dote, che mio cugino abiterà. E divorerà.» Tirò via la mano dalla tomba, e se la portò delicatamente agli occhi. «Ma non importa.» Come attrice, bisognava ammetterlo, era espressiva. «Voglio che questo sia chiaro, Eliset, anche se odio doverti addolorare,» insistette con tenacia. «Ti devi accontentare di un modesto matrimonio, forse addirittura segreto. Con il genere di vita che hai condotto, non è possibile altrimenti.» «No?» Lasciò cadere la mano. Sorrise senza ragione. Probabilmente, per l'incantatrice che era, gli avrebbe potuto imporre qualsiasi tipo di matrimonio lei avesse voluto. Ma era un'accortezza dell'incantatrice lasciare che la sua vittima vincesse in piccole battaglie, farlo illudere e convincere, sciocco com'era, che l'incantesimo che lo aveva dominato fosse stato soltanto un sogno e una presa di coscienza. La si poteva immaginare immersa in simili pensieri mentre stava ferma lì, quando improvvisamente tornò a volgere il suo meraviglioso sguardo verso di lui. «Farò tutto ciò che vorrai,» disse, «e lo farò con gratitudine. E sarò una buona moglie per te. Una moglie onesta. Non avrai di che lamentarti.» Era mai successo che un marito defunto si lamentasse? Camminarono tra lo scolorito gruppo di tombe. Non ce n'erano molte; la famiglia aveva posseduto Flor solo per un secolo. Poco distante si ergeva la torre: la luce del sole ne tingeva le pietre come albicocche, e metteva in mostra i fiori che erano cresciuti alla sua base. Con la luce si capiva anche la ragione della sua pronunciata inclinazione: due muri si erano sollevati, e gli altri due erano sprofondati. Senza entrarvi, Eliset e l'altro la costeggiarono, raggiungendo così il margine della scogliera. Questo, tra l'erba inaridita, era un posto pericoloso. Ci si poteva immaginare perfettamente la ragazzina, l'undicenne Valia, la figlia bastarda ma riconosciuta di Gerris, che vagava lungo il margine della torre, attratta dai fiorellini azzurri e bronzei, sedotta dal nastro indaco del mare oltre la fatale scogliera... Anche la strega forse ricordava, e rivedeva le immagini. Quale magia era stata usata allora? L'apparizione di un demone marino, forse, avventatosi sulla bambina mentre coglieva i fiori, e turbinante nell'aria; e con un grido lei era caduta giù e giù ancora, nell'abisso senza fondo, la sua scura chioma
come un fumo che si dissolve. I due cugini commedianti guardarono verso il mare. Non c'era spiaggia lì sotto a spezzare il frangersi delle acque, il blu correva puro fino alla base rocciosa della scogliera. Sospinta a forza di remi e con la bianca vela serrata, si avvicinava da settentrione una nave, il cui passaggio era orlato da una spuma scintillante, e che con ogni probabilità era diretta verso la baia e il porto di Cassireia. Si trovava a neanche un miglio di distanza da terra, a dimostrare la profondità del mare sotto la scogliera, ed era piccola come un giocattolo, a dimostrare anche l'altezza dell'imponente roccia. «Sogni e partenze,» disse Eliset. «Una volta sognai che una nave come questa mi portava via da Flor. Io tendevo le braccia verso terra, ma la terra si allontanava sempre più sull'acqua.» Cercando mentre parlava di abbellire la sua recita con un gesto, come Cyrion aveva fatto col suo rossore, Eliset fece un passo in avanti. Come poggiò il piede, il terreno erboso sotto la suola cedette. Una zolla coperta di violette volò in aria, portandosi dietro anche le radici dei fiori, e frantumandosi ruzzolò oltre il limite della scogliera, un bouquet lanciato al mare. Una pioggia di roccia e terra gli si riversò dietro, ed Eliset, che aveva perso l'equilibrio, era sul punto di seguirli. La bulbosa figura di Roilant si mosse con un turbinio di velocità che sembrò impossibile. Nello stesso istante in cui cadeva, Eliset fu afferrata, ruotata in aria, e rimessa in terra a qualche passo di distanza dal margine della scogliera. Non aveva neppure gridato, sembrava abbastanza calma, e lo ringraziò educatamente. Poi nella stretta del cugino cominciò a tremare, una reazione che sembrava, e probabilmente era, genuina. Il giovane dalla rossa chioma continuava a stringerla, senza aprire bocca. Eliset, che ora tremava anche con la voce, disse: «Questa scogliera è pericolosa, il terreno è cedevole... perfino le tombe scivolano. Un giorno la torre precipiterà nel mare... Come hai fatto a riprendermi in tempo?» Lui allora, con grande e infuriata e inopportuna solennità, disse: «Devi diventare mia moglie.» Ora la voce di Eliset fu scossa dal riso. Ancora tremante per lo spavento, e insieme sprezzante e divertita, la ragazza alzò gli occhi per guardarlo, e lui a sua volta li abbassò per guardare lei. Poi, qualcosa che essa scoprì nel volto del cugino la fece tacere, e poco a poco calmò il palpitare della paura. Improvvisamente Eliset cercò di allontanarsi e lui, invece di lasciarla andare, la strinse ancora più a sé. La testa rossa si abbassò sulla bionda. Eliset per un attimo gli oppose resistenza e si irrigidì, quindi, ricordando
i propri doveri, divenuta docile cedette. E poi, sorprendendo se stessa, cominciò a fluttuare e a dissolversi, fino a sentirsi trascinare sulle onde del mare. Il travestimento di Cyrion non era affatto superficiale. A un certo punto in un succedersi di istanti, i sensi di Eliset, pur non capendolo, avevano scoperto questo. Così, annegata nel delirio di un singolo bacio, questa volta fu lei, la dominatrice di spiriti, che dovette pensare che uno dei due, forse persino lei, fosse stato posseduto. Quando lui si ritrasse, gli occhi di Eliset si aprirono sulle stesse guance paffute, sugli stessi occhi gonfi, e sugli stessi capelli rossi. Lo fissò, e con estremo allarme scopri che stava di nuovo tremando, ma ora per un tipo di paura diverso. Soltanto quando lo vide improvvisamente imbarazzato, Eliset riuscì a controllarsi. Con il cuore che le batteva selvaggiamente e il resto di lei che ostentava una fredda impassibilità, Eliset si voltò e cominciò a ripercorrere all'indietro la strada che avevano fatto, scendendo lungo il pendio e dirigendosi verso la casa. Lui le andò dietro. «Ho organizzato le cose,» borbottò, «in una certa maniera. Se sei disposta ad accettare, ti chiederò di venire con me a Cassireia, domani mattina. A mezzogiorno dovremo trovarci in un edificio dove ci attenderanno un sacerdote e dei testimoni. Da lì poi, marito e moglie, partiremo direttamente per Heruzala.» La scena d'amore poteva non essere mai successa. Ci volle un po' perché Eliset si rendesse conto di quello che lui le stava dicendo, e quando questo accadde lei, quasi involontariamente, gridò: «No!» Era stato un rifiuto veemente, velato di terrore. «No?» Lui si fermò. Anche Eliset si fermò, continuando a volgergli le spalle, poi si voltò a guardarlo, ed era quasi più pallida che negli attimi che avevano seguito il suo salvataggio dalla morte. «Roilant, io non posso lasciare Flor così in fretta. Sapendo che forse non ci tornerò mai più... non posso. Mi devi concedere questo riguardo.» «Cosa faremo allora?» domandò lui freddamente. «Tutto il resto lo accetto. Di essere sposata in questo modo, e di essere portata via subito dopo senza alcuna delicatezza. Sì, questo non è molto importante per me. Capisco che deve essere così. Ma prima devo ritornare a Flor, almeno per una breve notte. Dovrò discutere con Mevary di certe
cose. Lui sarà il mio amministratore qui. Ed io speravo...» «Speravi?» «Che tu confermassi questo suo ruolo con qualche gratifica. In questo modo, Flor non soffrirà troppo per la mia assenza. Ma a parte questo... Roilant, io sarò la tua fresca sposa. La prima notte insieme... preferirei di gran lunga trascorrerla qui, a Flor. Dove sono stata bambina e dove sono diventata donna. Vorrà la tua indubbia generosità concedermi questo?» Era interessante chiedersi se lei lo riteneva talmente idiota da illudersi che sarebbe giunta al suo letto vergine. Forse lo credeva veramente così idiota, e la sua supplica rivelava una spaventosa ingenuità, piuttosto che una struggente nostalgia. Cyrion fece un brusco e riluttante cenno d'assenso. «Va bene. Ma solo per una notte.» Il volto di Eliset si rilassò e infine il colore riapparve sulle sue labbra. «Mio caro, sei molto gentile con me. Sebbene io per te sia un così misero partito, ti prometto ancora che non ti disonorerò.» Lui le borbottò qualcosa di rozzamente galante. Poi percorsero il resto della strada giù per il pendio. Non appena si infilarono tra i tamerici nani che si affollavano tutt'intorno al muro esterno del cortile del bagno, entrambi udirono uno strano e improvviso rumore. Un crescendo di grida indistinte, che morirono e poi crebbero ancora. Un impressionante fracasso di vasellame frantumato seguito da un urlo acuto. Poi si sentì ancora quel suono particolare, un orrendo e continuo guaire e strillare. «O Dio, che cos'è?» sussurrò Eliset. Raccolse con la mano la lunga gonna e cominciò a correre lungo il muro come una leggera fiamma bianca. Il suo tondeggiante compagno le andò dietro con sorprendente rapidità e commettendo solo gli occasionali e premeditati falli. Una porta non sbarrata immetteva alle vecchie stalle. Spingendola con violenza, Eliset vi si precipitò dentro, e poi, superato un derelitto cortile e un'arcata, raggiunse il cortile dal suolo sprofondato. Sembrava non avere dubbi sulla provenienza di quel baccano, che infatti veniva proprio da questo cortile. Visto alla luce del giorno, il cortile della cucina era lo stesso quadrato polveroso e ammantato di foglie che ci si immaginava di notte, e che ora traboccava di utensili come ceste e pentole, che dalla cucina erano stati accatastati lì fuori contro il pozzo e sul banco dove si macellava la carne.
Quando i due sopraggiunsero, la scena che si svolgeva in questo teatro era momentaneamente congelata in un tableaux vivant, come se si volesse dare modo ai nuovi arrivati di inquadrarla. Sull'ingresso aperto della cucina stava il giovane servo Harmul, stringendo in mano un lungo e letale coltellaccio da carne. Poco distante, un altro dei servi, Zimir, giaceva a terra a faccia in giù in mezzo a una giara d'olio fracassata, con olio e frammenti di terracotta sparsi intorno a lui in tutte le direzioni. L'ultimo ragazzo, Dassin, non era presente. C'erano solo altre due persone. Accanto alla porta della sua cella di schiava stava appiattita contro il muro Jhanna, come se mente la potesse più smuovere da lì. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore e i lunghissimi capelli, puro rame sotto il bagliore del sole, erano tutti scarmigliati, come se la pettinatura con cui erano stati raccolti sul capo fosse stata disfatta con violenza. Il suo misero abito aveva un grande squarcio sul corpetto, che lei teneva chiuso con entrambe le mani. Sul bordo del pozzo c'era Jobel. Nel momento in cui Cyrion era entrato nel cortile il grasso e anziano schiavo stava immobile e accovacciato. L'istante dopo era balzato in piedi e sarebbe sicuramente finito dentro il pozzo se con un furioso scatto non fosse riuscito a saltare sul suolo del cortile. Con la pancia che gli ballava e le braccia che si dimenavano riprese a fare il terribile guaito che si era sentito oltre il muro esterno. Mentre faceva così, una schiuma rosa gli usciva dalla bocca. Aveva gli occhi ardenti e come accecati dalla furia. Nel vedere Eliset, Harmul le corse incontro, con il coltello ancora stretto nel pugno. «Padrona! È posseduto da un demone!» Eliset era diventata di ghiaccio. «No,» disse. «Ho già visto una cosa come questa. È una follia che può contagiare gli altri. Ho visto morire in questo modo un cane, e poco dopo un bambino che il cane aveva morso.» «Si è avventato su di lei.» Harmul indicò Jhanna. «Le ha strappato il vestito e le ha tirato i capelli. Poi è corso qui, ha sollevato una giara piena d'olio e l'ha lanciata addosso a Zimir...» Jobel, il vecchio e grasso schiavo, si lanciò urlando contro il muro del cortile e cominciò a picchiare violenti colpi con i pugni. «Harmul,» disse Eliset, e sembrò che cercasse di prendere fiato. Poi continuò: «Povera creatura, morirà in ogni caso, e fino allora sarà una minaccia per tutti noi. È già folle ed è in un'agonia che può solo peggiorare. Lo devi uccidere, Harmul. Lancia il coltello.»
Harmul la fissò, con gli occhi fuori dell'orbita. Poi annuì col capo. IL suo braccio ossuto si levò alto e il coltellaccio volò via. Prese Jobel sulla schiena, e la lama, conficcata fino al manico, fu abbastanza lunga per trapassare tutto quel grasso e penetrare nel cuore. Con un grido roco Jobel crollò a terra. Poi cominciò a rotolarsi in preda alle convulsioni. La schiuma che gli veniva fuori dalle labbra diventò rossa. Infine, con un'incredibile contorsione, come fosse un acrobata partorito da un incubo, si colpì la nuca con i suoi stessi talloni e morì. Harmul mandò un lamento soffocato. Jhanna si nascose il volto con le mani. Zimir cominciò a strisciare fuori dai cocci della giara. «State attenti,» disse Eliset. «Non toccate la bava che gli è uscita di bocca. È veleno. Dove è caduta versate dell'olio e fatelo bruciare. Se i suoi denti vi hanno graffiato da qualche parte, dovete farvi cauterizzare la ferita. Quanto a lui, povero infelice, non dovete svestirlo né lavarlo altrimenti rischiate di infettarvi. Avvolgetelo in delle coperte o in dei sacchi così com'è. Lasciate che l'aria faccia il suo lavoro, e non mettetelo sotto terra prima di domani.» Il suo volto era bianco e calmo. Posò la mano sulla spalla di Harmul. «Sei stato bravo,» disse, e il ragazzo divenne bianco come lei. Poi Eliset uscì dal cortile della cucina e attraverso un passaggio si diresse verso il cortile interno della casa. Cyrion la seguì. Come raggiunsero la vasca vuota di una fontana lei allungò la mano e vi si appoggiò. Cyrion alzò gli occhi e vide Mevary che correva giù per le scale dalla terrazza del tetto, producendo dei leggeri suoni come di zoccoli. La ragione di quei suoni era nei calzari dal tacco alto e ornati di nappine che quest'oggi Mevary indossava seguendo la moda della regione auxiana, e che lo alzavano di qualche centimetro. Nonostante le calzature Mevary raggiunse Eliset appena in tempo per afferrarla prima che lei cadesse a terra in uno dei più magistrali svenimenti simulati a cui Cyrion avesse mai avuto il piacere di assistere. «Mi ha mandata da te con questa.» Cyrion guardava con sospetto la rosa ambrata nella sottile mano ambrata di Jhanna. Quando, con una certa riluttanza, la accettò, vide che, legato attorno allo stelo della rosa, c'era un bigliettino. Diceva così: Mio caro, perdonami, ma non cenerò con te stasera. Poiché desidero essere in forma e forte per il nostro viaggio a Cassireia, penso che sia meglio che stasera io riposi. Perciò, a domani. Eliset.
Dopo aver letto il biglietto Cyrion lo lasciò cadere, e passò ad esaminare la rosa. Il suo dolce profumo si diffondeva come una musica melodiosa, confondendosi con un altro più fosco effluvio che emanava dai capelli della schiava. Quella chioma, che ora era pettinata e raccolta sul capo, rispecchiava l'attuale tranquillità della ragazza. Che si mantenne anche quando, con molta calma, lei disse: «Il vecchio schiavo, Jobel. Una misera morte. Anche io ho visto molti morire di quella malattia. Ma signore, la freddezza con cui ha ordinato al ragazzo di ucciderlo... E si è anche preoccupata di svenire subito dopo, per sviarti, casomai ci fosse riuscita. È malvagia.» «Sì,» disse Cyrion, e posò la rosa. «Ma che mi abbia mandata qui nella tua stanza è una cosa ottima. Non ha alcun sospetto dell'intesa che c'è tra noi, e non ne ha neanche quello sciacallo di Mevary. E come vedi, ho portato ciò che ti avevo promesso.» Cyrion allungò la mano e prese da quella di lei una piccola fiala nera. «Pensi che...» «Mio signore, non esitare. Ti ho detto quale effetto avrà questa droga. È un peccato che lei non ceni con te stasera. Ma domani, quando tu e lei sarete sposati, sarà il momento di maggiore pericolo, e allora potrai agire. E io, Lord Roilant, farò qualunque cosa nei miei limitati poteri, rischierò anche la vita per impedire loro di avere la tua morte e le tue ricchezze, e per consegnarli alla giustizia. Non vedi quanto ho già rischiato per rubare questa pozione dagli scrigni di quella strega?» «Non se ne accorgerà?» Come una regina lei lo liberò dalle sue sciocche paure. «Con tutte i fetidi veleni che ha? Mai.» Jhanna gli stava di fronte immersa nei raggi di un sole che volgeva al tramonto, e la sua chioma era un'aureola infuocata. «Tu aumenti il rischio,» disse lui. «Perché rischiare tanto?» «Per il tuo bene.» «Con questo vuoi dire, immagino, che desideri avere la tua libertà e una certa somma come ricompensa?» Lei fece un sorriso che era quasi una risata. «Queste cose hanno poco significato per me ora. Dopo aver vissuto in questo modo. Dopo aver sopportato quello che ho sopportato... voglio solo vendicarmi delle ingiustizie subite. Voglio che sia fatta giustizia.» I cugini Mevary e Roilant cenarono da soli sulla terrazza assistiti da Harmul, che sembrava ancora sconvolto e che presto scomparve.
Si seppe poi che Dassin aveva fatto lo stesso, anche se in maniera più definitiva. «La morte di Jobel lo avrà impaurito. Loro non capiscono le vere cause di questi eventi. Credono che la vittima sia uccisa da demoni che poi si impossessano del suo corpo, un'idea assolutamente ridicola.» «Oh, certo,» disse Cugino Roilant con serietà. «Oppure può anche essere che Dassin sia spirato in qualche posto nascosto, per il veleno ad azione lenta che ti ho ripetutamente offerto ieri sera, e che lui, assaggiatore ingordo qual era, ha assorbito in quantità maggiore di quanto non abbia fatto tu. Dubito, comunque, che ti sarebbe servito un assaggiatore stasera. Mi sembra che tu mangi molto poco, caro cugino. Come hai fatto a diventare un così tondo e grazioso budino con queste porzioni da topolino?» «Ti prego di non insultarmi. Per il bene di Eliset, se non altro.» «Perché domani pomeriggio diventerà la tua amorevole moglie?» «Sì. E c'è qualcosa di cui io e te dovremmo discutere, Mevary.» «Ah.» Negli occhi di Mevary c'era ora un acido bagliore di attesa, che scomparve quando Cyrion riprese a parlare. «La questione della tua amministrazione di Flor.» «E pensare che per un delizioso istante,» disse Mevary, «avevo creduto che tu stessi per chiedermi dei miei rapporti con Eliset. Naturalmente sono stato come un fratello per lei.» «Naturalmente hai diviso il letto con lei, lo so bene, come lo sa mezza Cassireia, e come lo sa pure la corte del Re a Heruzala.» La bocca di Mevary si spalancò e si richiuse come la bocca di un pesce. Cugino Roilant disse, «Per me non fa alcuna differenza. Se ne facesse, puoi star certo che ora non sarei qui.» «Credevo che ti avessero attratto qui come un magnete sogni inquietanti e inquietanti desideri,» disse Mevary gioiendo malignamente. «Non ho tempo per le superstizioni. Sono qui perché ho intenzione di onorare un impegno. Se mia moglie quando saremo sposati si comporterà in maniera irreprensibile, io non solleverò questioni su avventure passate. Anche per questo, tra le altre ragioni, mi aspetto che d'allora in poi tu le stia lontano. Tu ti occuperai di Flor, che appartiene a lei e a me. Ti sarà mandato del denaro per migliorare lo stato della proprietà, mentre tu riceverai un generoso stipendio.» Mevary fece uno sbadiglio. Gli stipendi francamente non lo eccitavano più, visto che le sue speranze di guadagno erano alquanto diverse.
Cugino Roilant sembrò offeso. «In sostanza, vivrai ancora meglio di quanto non hai fatto finora.» Mevary rise. Bevve e rise ancora. «Lo spero proprio. Be', non mi sarei mai aspettato tanta generosità, caro Budino. Bevo alla tua salute. E agli stipendi.» Mevary riusciva a trattenere a stento il proprio divertimento. «Grazie. E ora vorrei ritirarmi nella mia stanza.» «Oh, che peccato. Avevo tanto sperato che rimanessi Con me a giocare a Castello e Cavaliere... Sai, ho ancora il piano e le pedine che usammo quando eravamo ragazzi. Ricordi? Tutte quelle eccitanti sconfitte...» «Ti prego di scusarmi.» «Forse ti andrebbe un po' di lotta con i bastoni, o con le spade spuntate? Sai, mi diletto ancora in attività cavalleresche. No?» «No.» «E sia, te lo concedo. Devi partire presto domani. Che Dio benedica la tua notte, che gli angeli svolazzino sul tuo letto, e così via.» Mevary si alzò in piedi e seguì con lo sguardo il cugino che scendeva le scale, torreggiando su di lui di due centimetri nei suoi nuovi calzari auxiani. Improvvisando un passo falso sul pianerottolo, e segnalando così in maniera sonora il suo arrivo sulla veranda del secondo piano, Roilant-Cyrion raggiunse poi la sua stanza con un rumoroso incespicare. Come vi entrò sentì subito un piacevole profumo. Dopo aver chiuso la porta e aver aggirato il paravento intagliato, egli vide che nella spaziosa stanza non era cambiato nulla. Tranne che le imposte delle finestre erano state chiuse per non fare entrare gli insetti notturni, e che dentro era stata accesa un'intera flotta di candele. Respirando piano, Cyrion andò a ognuna delle finestre e le aprì. Poi si voltò e spense velocemente le candele. Avvicinatosi infine al letto, egli prese in mano la rosa ambrata che aveva ricevuto nel pomeriggio, il pegno d'amore mandatogli da Eliset. I petali si erano schiusi, e il denso profumo della rosa, diventato notevolmente intenso, aveva permeato l'intera stanza. Tornato alla finestra più vicina, Cyrion gettò fuori la rosa e restò a guardarla mentre cadeva. Poi si soffermò a esaminare con attenzione il paesaggio: i tetti e i muri di Flor lì intorno, il pendio che si stendeva più in basso, la nuvola scura dei frutteti e le colline spaccate a oriente, da dove proprio in quel momento sorgeva una bionda luna. La droga contenuta nella rosa, una sostanza soporifera, era stata forse at-
tivata dal calore delle candele che le bruciavano vicino. Naturalmente ci si aspettava che lui entrasse e che, godendo di quell'aroma ammaliante, piombasse in un sonno profondo. Che la sua vita fosse in pericolo già questa notte non aveva alcun senso. Perciò, la donna che aveva preparato il fiore doveva averlo fatto per qualche altro motivo. Dormire significava perdersi qualcosa. Cyrion, spiando il cerchio della luna, si fece un'idea di cosa. Mezz'ora più tardi, quando il profumo era ormai svanito dalla stanza, Cyrion richiuse le persiane. Poi sparse attorno al letto una fiala di un unguento dal dolce profumo, si accomodò tra i cuscini, e si mise ad aspettare un ospite. L'ospite non tardò a venire. Prima si udì un gentile bussare. Poi la porta che improvvisamente si apriva. Infine un leggerissimo rumore di passi attorno al paravento. Una lampada o una candela fu accesa, e la luce si diffuse sul visitatore. «Cugino,» disse ansioso Mevary. Poi lo scosse. Cyrion borbottò qualcosa di indistinto ed emise un eloquente, monumentale russare. Mevary fece una breve risata. «Dorme come un ghiro, proprio come avevi previsto,» bisbigliò Mevary. «Non c'è da meravigliarsi, si sente ancora il profumo della droga.» «Sì,» disse dalla porta l'abile fattucchiera. Fu come il soffiare di un gatto. La luce diminuì e scomparve. Neanche un minuto dopo la strega e il suo amante si erano dileguati, lasciando lo sciocco cugino budino immobile e rantoloso nel suo sonno di piombo. Ed estremamente sveglio. Era chiaro che la morte di Jobel era stata un omicidio. Sebbene la sua schiumante follia fosse per molti versi simile a quel fatale morbo trasmesso dagli animali all'uomo, essa non lo era in alcuni salienti particolari. Non si era manifestato, ad esempio, nessuno dei sintomi che di solito precedevano lo scoppio della malattia. Né era stato notato nei dintorni alcun animale contagiato. Si era trattato con più certezza (con assoluta certezza), dell'azione di un veleno che riproduceva gli effetti della malattia. Finire un uomo ormai spacciato con il colpo netto di un coltello sarebbe potuto sembrare un atto di pietà. O un'ulteriore sicurezza. Jobel era stato decisamente imprudente a dire a Dassin ciò che aveva visto quella notte nel pozzo stregato. E Dassin altrettanto imprudente a riferirlo sotto l'in-
fluenza del vino di Cyrion, che lo stesso Cyrion aveva drogato. Che il ragazzo si fosse reso conto del pericolo che correva, era stato dimostrato dalla sua fuga. Mentre il cerchio della luna si arrampicava su per il cielo, qualcuno stava in ascolto per afferrare anche il più vago suono dietro il tamburellare del mare. Quando il suono giunse, non fu per niente vago. Era debole, ma ben definito. E sicuramente tutti gli innocenti che dormivano in quella casa, svegliandosi e udendolo, si sarebbero tirati le coperte sulle orecchie e avrebbero cominciato a tremare. I fantasmi, specialmente quelli remusani che bivaccavano nel bagno, erano dei vicini rumorosi. Era il suono di un corno, che sembrava provenire dal cuore della casa e a cui seguì un canto dal ritmo militaresco e dalle parole incomprensibili, un inno che come una marea fluttuava dagli abissi. Erano i remusani, o forse le sirene, quelle signore del mare e ladre di bambini che animavano la costa della regione. E delle quali, senza dubbio, Valia era letteralmente caduta preda. Quando Cyrion nel silenzio più assoluto scese le scale di pietra raggiungendo il cortile interno, un orribile grido si levò improvviso dalle vasche delle due fontane prosciugate. Non c'era nessuno. Era chiaro. Quelli che avevano motivo di temere qualcosa restavano saggiamente nascosti. Quelli che di motivi non ne avevano erano da qualche altra parte. Già prima di entrare nel corridoio coperto del cortile, Cyrion aveva notato lo scintillante bagliore che pulsava al suo interno. Venne ancora il suono di un corno, ma più forte, esploso sotto i piedi di Cyrion e infrantosi nell'aria sopra di lui. Ci fu una sorda vibrazione nelle pietre del lastricato. Cyrion si immerse in quel bagliore, e circondato da esso raggiunse il pozzo. Lì si fermò e guardò oltre, verso la fine del corridoio. Anche nella stanza del bagno un debole luccichio filtrava da qualche parte nella vasca mai vuota del calidario. Gran parte di quella pallida e irreale luce era ora intorno a Cyrion, e levitava come fumo dall'enorme e antico pozzo, facendo brillare gli splendidi colori del pesce e dei fiori del mosaico. La lampada sul pozzo era rimasta spenta, ma era perfettamente inutile. Attraverso gli anelli serrati nelle fauci dei due leoni pendeva ancora dentro il pozzo la corda, le cui estremità inferiori erano tese come da un peso sorto la superficie dell'acqua in cui si immergevano.
L'acqua. Stava lì, in fondo al pozzo, in quel nero e lucente gioiello dove prima si vedeva solo l'arido pavimento di pietra. Che sul fondo del pozzo non ci fossero foglie morte né detriti di alcun genere era un indizio che aveva già svelato a Cyrion qualche mistero. Il fondo era mobile, lo si poteva fare scorrere per calare o tirare su delle cose. Subito sotto il falso pavimento, ora svelato, il condotto del pozzo si allargava, e diventava tutt'uno con quello che c'era sotto. Il canto si infranse come un getto d'acqua sul volto di Cyrion. Poi venne un denso odore di pesce, e poi, inconfondibile, l'aroma dell'incenso, che si sprigionava per il condotto del pozzo in invisibili drappi. Improvvisamente la luce dentro il pozzo divenne più intensa e alla fine generò. Sporgendosi, l'osservatore vide degli intensi bagliori dorati e, dopo questi, un cuneo di fuoco. La nave era emersa dal nulla, da oltre il bordo del condotto del pozzo. La stessa demoniaca nave in miniatura che aveva visto lo schiavo, guadagnandosi così la morte. La vela era di un porpora chiaro, il colore e la grandezza di una foglia d'autunno. Delle torce ardevano sulla prua e lungo i fianchi, minuscoli lustrini di fiamma che bruciavano sull'acqua. Sul minuscolo ponte ci fu un turbine di movimento, una nuvola di vapore profumato salì serpeggiando nel pozzo, raggiunse il corridoio e vi si diffuse simile a nebbia. Quando la nebbia svanì dal pozzo, la minuscola nave era scomparsa, come per magia. Ma non si trattava affatto di magia. La sua piccolezza era dovuta soltanto alla prospettiva. Alla distanza tra l'alta cresta della scogliera e la sua base, che era anche la distanza che separava la sommità del pozzo dal fondo della caverna che si apriva proprio lì sotto. L'improvviso allargarsi del condotto sotto la base rotonda del pozzo, che prima era chiusa dal pavimento di pietra, dava l'impressione che l'acqua si trovasse nel pozzo. In realtà quell'acqua era il mare, che ricopriva il fondo della caverna a circa un centinaio di metri più in basso. E ancora, l'improvviso troncarsi della corda che pendeva dentro il pozzo, rendeva ancora più forte l'illusione che l'acqua riempisse il condotto a una decina di metri di profondità, poiché era lì che la corda, sorreggendo il misterioso peso, terminava. Una grande parte della residenza di Flor doveva trovarsi sopra la caverna, sopra il vuoto ventre della scogliera. I suoni che nascevano nella cassa di risonanza di questa cavità venivano amplificati da qualsiasi convessità presente nella casa: le fontane, il canale, il pozzo vivo nel cortile della cucina. Anche il locale dei bagni si trovava sopra la caverna, e per
questo il calidario, che doveva aver rivelato delle pericolose trasparenze nel suo pavimento, non veniva mai del tutto svuotato. Soltanto quando la caverna veniva riempita dalla luce delle torce il calidario svelava il suo segreto, e lo stesso succedeva attraverso il pozzo quando il fondo veniva aperto. Si udì un fruscio lì vicino. Forse una lucertola. Ma Cyrion non parve di questo parere. Andò a nascondersi in un buio recesso tra uno dei pilastri intrecciati del pozzo e il muro. C'era infatti un'altra ombra, che pochi attimi prima Cyrion non aveva visto. Si stagliò sul bagliore biancastro che emanava dal calidario, crebbe, e dalla porta del bagno venne nel corridoio. E stranamente, essa non assorbiva luce dall'atmosfera luminosa del pozzo. Ma nonostante questo era visibile, come per qualche altro agente interno. Era la figura di un uomo di mezz'età, ben vestito ma con un volto rapace e lupesco incorniciato da una scura chioma grigiastra ugualmente lupesca. L'uomo oltrepassò il nascondiglio di Cyrion, il pozzo illuminato, senza degnarlo di uno sguardo. I suoi occhi erano grandi e affamati, e curiosamente miopi. Il corpo si muoveva lentamente. Ma il rumore di prima doveva veramente essere stato prodotto da una lucertola, o da qualche altro rappresentante della fauna notturna che circolava per la casa, perché quest'uomo, che non assorbiva luce e non faceva ombra, non produceva neppure alcun rumore. Il canto che giungeva dalla caverna sotto il pozzo si era ormai ridotto a un mormorio indistinguibile da quello del mare. Come raggiunse la fine del corridoio, l'uomo si voltò a guardare indietro, e parve notare per la prima volta il pozzo. Il suo volto era fisso in una specie di folle ringhiare. Poi voltandosi ancora, si diresse verso il cortile interno della casa. Cyrion, che in realtà aveva programmato un'escursione nella direzione opposta, si mise a seguirlo, altrettanto silenziosamente. Alla fine del corridoio Cyrion si arrestò. La sua misteriosa preda si era fermata all'estremità del cortile, vicino alla vasca muschiosa dove una volta l'acqua di una fontana sgorgava alta verso le stelle. L'uomo voltò il capo e guardò in alto, verso i pilastri rotti della veranda e le camere che c'erano dietro. Poi si girò dall'altra parte, in direzione del cortile della cucina, avanzò di un passo verso il corridoio che conduceva a quel cortile, si fermò, e... svanì. Il suo svanire era stato deciso. Non c'era nessun trucco. Né v'era alcun
dubbio sulla sua identità. Dal suo aspetto Cyrion aveva capito che quel visitatore altri non era che il defunto padre di Mevary. Circa venti minuti più tardi si udì un nuovo rumore, un persistente graffiare e tintinnare in qualche punto del cimitero di Flor. III Era un mattino delizioso per il viaggio a Cassireia. Gli uccelli cantavano allegramente dagli alberi che fiancheggiavano la strada. Il sentiero che scendeva giù per la collina, assistito da un cielo sereno e ricco di promesse, offriva ampi scorci panoramici su tutti i fronti, e ogni tanto, per variare, si tuffava nel verde dei boschi assetati. A un tratto, nel punto in cui gli ultimi meandri del sentiero si gettavano sulla più ampia e antica via, apparvero in lontananza le bianche mura della città e, più oltre, il violento e cupo azzurro del mare. I due servitori di Roilant, si era appreso poco prima, avevano già fatto quel viaggio, essendo fuggiti dal villaggio di Flor. Apertamente imbarazzato, Cugino Roilant si era dovuto procurare dei muli e aveva dovuto pagare degli uomini per trasportare la lettiga tarlata che erano riusciti a trovare a Flor. (Solo Mevary non era sembrato affatto sorpreso nell'apprendere la notizia della fuga dei due servitori. Forse aveva già provveduto ad informarsi per conto suo al villaggio.) Eliset occupava la lettiga, e una garza consunta la riparava dal sole. La goffa figura di Roilant cavalcava il primo mulo, costretto a sopportarne il peso. L'ossuto Harmul conduceva il mulo di coda. A parte i due uomini ingaggiati per trasportare la lettiga, erano questi i componenti dell'intera compagnia. Neanche Jhanna era stata portata. «Non credo proprio che avrò bisogno che mi stia dietro,» aveva protestato Eliset, (del resto, Jhanna sembrava starle dietro molto raramente), «e visto che dobbiamo essere così prudenti, meno gente c'è, meglio sarà, no?» Non fu fatto alcun commento, neanche indiretto, sul tumulto soprannaturale della notte prima. La veglia aveva lasciato Eliset pallida ma tranquilla. Non mostrava alcun segno di qualunque cosa avesse praticato o desiderato o elaborato durante le ore in cui il pozzo ardeva dall'interno e spiriti inquieti vagavano per la casa. Un Mevary genuinamente assonnato, di pessimo umore, e con gli occhi cerchiati da livide occhiaie, aveva fornito più esaurienti indizi sui festini occulti di cui sicuramente era al corrente e a cui si supponeva prendesse
parte. Tuttavia, per quanto fosse un entusiasta sostenitore delle arti malefiche della sua amante, poteva anche darsi che lui fosse escluso dalla pratica di tali arti. I suoi bagordi potevano, dopo tutto, essersi svolti in altro modo, nella cella dei vini, e poi nel letto di un soggetto riluttante e bellissimo, che pur odiandolo gli aveva dato il benvenuto, non avendo altra scelta. Quel mattino, quando si erano messi in viaggio, Jhanna non si era vista. Si era visto invece Zimir che, infausto auspicio per un giorno di nozze, scavava una fossa dietro alle stalle. Entrarono a Cassireia attraversando un'imponente arcata, le cui pietre, alla luce del sole, erano bianche come mandorle mondate. Il grande mercato che si apriva appena dentro la città li inghiottì, con i suoi odori di carni crude e cotte, di pesce fresco, di olii aromatici, di miele tostato e frutta matura, con le sue nuvole di polveri, di farina e di mosche, e il suo chiassoso brulicare di musica e di vivaci trattative. Facendosi largo in mezzo a questa confusione, dopo un breve alterco tra Harmul e un mandriano di buoi, aggirato un carretto pieno di vasellame e superata una marea fluttuante di pecore, essi imboccarono una via laterale nota come Via della Seta, dove vestiti intrecciati con fili dorati scendevano dalle porte dei negozi come pioggia dorata. Presente e passato erano presenti in egual misura nella città. Alzando lo sguardo in ogni direzione si vedevano rovine di grandiose costruzioni. Da una parte si sgretolava il castello eretto dagli schiavi del primo Re Hraud, da un'altra le rovine del mausoleo eretto in onore di quel Hraud che era stato il patrigno di Zilumi, la maga danzatrice. Poi, lungo l'orlo azzurro del mare, correva il colonnato dell'imperatore Cassiano, che al tramonto si avvolgeva ancora nella porpora imperiale. Alla fine della Via della Seta cominciava la Via degli Uccelli, e oltre questa la Via dei Fumi, da cui il piccolo corteo emerse mezzo narcotizzato, per introdursi subito in una galleria. La galleria terminava in una piccola piazza con al centro una vasca d'acqua. Nella piazzetta si accalcavano una scuderia, un paio di locande e i bazar di un venditore di torte e di un chiaroveggente. Dall'altra parte della piazza si ergeva un piccolo tempio, solenne e grazioso, con una scolorita volta a mosaico e un ingresso ornato da pilastri. Un tempio riconsacrato e santificato, perché sull'architrave stavano scritte, in due lingue e in lettere d'oro, le parole comuni sia a oriente che a occidente: Non c'è altro dio all'infuori dell'unico Dio. La lettiga fu messa a terra sotto l'ombroso portico, ed Eliset ne uscì fuori. I portatori della lettiga furono mandati a una delle locande in compagnia
dei muli, e Harmul, indecoroso nei suoi stracci, con sua grande riluttanza fu messo a guardia alla debita distanza. Cugino Roilant condusse la promessa sposa nella chiesa-tempio, fermandosi solo all'entrata per togliersi le scarpe, secondo il costume orientale. Il posto era luminosamente freddo, e l'altare luccicava con le sue urne d'oro e d'argento. Su un drappeggio erano ricamate delle colombe, dei rami d'ulivo e un arcobaleno, a simboleggiare la prima punizione e il primo perdono. Eliset e Cyrion, alle estremamente confuse indicazioni di lui, si introdussero in una cappella laterale. Qui, attorno al secondo altare, li attendeva un gruppetto di gente. Un uomo si inchinò e presentò i testimoni ingaggiati, facendo menzione della loro discrezione. Cyrion annuiva col capo, mentre Eliset aspettava, distante, immobile come uno dei chiari raggi di luce che si lanciavano dentro attraverso le finestre. Sebbene fosse vestita semplicemente e non portasse gioielli, si era coperta con un sottile velo ricamato, che le scendeva sul viso nascondendolo quasi completamente. Solo le sue mani la tradivano, intrecciate all'altezza della vita. Infine da un ingresso laterale entrò il prete, insieme a un ragazzo che sorreggeva dei rotoli di pergamena. Fu recitata una preghiera dal tono pastorale e la cerimonia di nozze ebbe inizio, proprio mentre le campane della fortezza battevano il mezzogiorno. Il rito, come fu presto chiaro a tutti i presenti, era stato ridotto all'osso, e anche l'osso veniva recitato in fretta. Il prete, un uomo vestito di bianco, dalla folta barba, e con dei selvaggi riccioli neri che spuntavano da sotto la fascia che gli cingeva la testa, in alcuni punti parlava troppo in fretta, in altri tentennava. Sembrava anche detestare profondamente lo sposo dai capelli rossi, ed essere invece malinconicamente affascinato dalla sposa velata. Mentre legava insieme simbolicamente le loro mani con un nastro di seta, il nastro gli sfuggì di mano. Il giovane attendente afferrò la seta prima che toccasse terra. Allo scambio degli anelli fu lo sposo a confondersi, e il metallo cadde con un tintinnio sul pavimento. Di fronte alla goffaggine dei due, il prete e il cugino, Eliset era rimasta impassibile. Probabilmente aveva sentito abbastanza da capire che quanto era stato detto bastava a renderli marito e moglie, e quando quel maldestro rituale biascicante e privo di ogni dignità giunse al termine, lei capì anche che da quel momento era soggetta al suo potere legale. I documenti furono firmati. Ai testimoni fu pagato il compenso pattuito, e quelli, attraversato il tempio come un piccolo gregge belante, si riversa-
rono nella piazza. Cugino Roilant, che sembrava innervosito da questa sua nuova relazione, camminando più lentamente con Eliset verso la porta del sacro edificio, la informò che aveva preso una stanza nella locanda di fronte, dove lei avrebbe potuto pranzare e riposare prima di tornare a Flor. Eliset lo ringraziò educatamente, ed educatamente annuì al borbottio che seguì e che aveva a che fare con la sua comodità e con la rassicurazione, implicita più che chiaramente espressa, che lui avrebbe avuto da fare in città per circa un'ora, e che perciò non avrebbe diviso la stanza con lei. A una decina di passi dalla porta della chiesa, Eliset proruppe in uno scroscio di risate selvagge che risuonarono alte nella cupola. Il marito la guardò allarmato, chiedendosi sicuramente se fosse colpa della troppa eccitazione della giornata. Ricomponendosi, Eliset disse soltanto: «Hai dormito bene la scorsa notte, Roilant?» «Io? Oh, sì... e molto profondamente, anche.» Attraverso il velo, lei parve sul punto di fare una rivelazione, una sinistra promessa forse, ma alla fine si trattenne. «Ho fame,» disse soltanto. Così andarono alla locanda, dove lui la lasciò per andare a sbrigare i suoi affari cittadini. Una parte, se non tutti, di questi affari, stava seduta all'altra locanda della piazza, con davanti una coppa di vino e accanto un fagotto in cui erano arrotolati un abito da prete e un intricato cespuglio scuro di falsi capelli e falsa barba. Come Cyrion si sedette, Roilant-Veritas, con ancora un'altra parrucca inculcata sulla testa e il sudore che cominciava a colargli sulla fronte, alzò gli occhi. «Non è stato affatto divertente,» annunciò Roilant. «Volevi essere discreto. Meno attori ci sono, meglio è, dunque hai dovuto interpretare una parte anche tu. E poi, credevo che in un certo senso te lo aspettassi. Cerca di divertirti. Un po' di umorismo amaro.» «Mi sono confuso. È stato anche maledettamente difficile. Il vecchio prete mi aveva concesso l'ora di preghiera in privato nella cappella, poi, quando sono arrivato, ha cominciato a fare obiezioni.» «E tu gli hai raddoppiato la mancia.» «Gliel'ho triplicata.» «Ah.»
«No, non lo trovo per niente divertente. Era la prima volta che la vedevo da quando avevo quindici anni. Ed anche attraverso il velo... Cyrion!» «Sì?» «Non posso crederla capace di una simile scelleratezza.» Cyrion appoggiò il volto arrotondato sulla sua snella mano. «Puoi sempre tornare al mio posto e fare completa confessione, mio caro. A lei piacerebbe di sicuro. Ha un senso dell'umorismo piuttosto acido. D'altra parte, se quegli altri tuoi sospetti sono fondati, stanotte ne avremo la conferma.» «Cercheranno di ucciderti.» «No, cercheranno di uccidere te, felicemente impersonato da me. Come assassini hanno dei metodi irresistìbilmente grossolani. Non credo che riuscirebbero ad essere più sottili nello scegliere il momento adatto.» Con lo sguardo annebbiato Roilant fissava sconsolatamente la sua coppa. «Ho rovinato la funzione.» «Naturalmente. Dovevi farlo, no? Visto che il rito doveva risultare invalido, ma non in maniera evidente. Comunque, lo è stato quel poco che è servito a non farlo giudicare invalido dal legale. A un certo punto sono stato catturato dalla tua preghiera. Comparavi la nostra unione a quella delle api. Tu sai, naturalmente, che dopo l'accoppiamento il maschio dell'ape è vuoto come un guanto, e cade a terra morto stecchito.» Roilant era diventato pallido. «Non volevo... Pensi di voler andare avanti in questa storia? Il pericolo è notevole.» «Cosa che sappiamo entrambi da un po' di tempo. Il piano procede verso la meta dello smascheramento. E poi sarebbe un peccato rovinargli il divertimento.» «Ma Eliset,» sbottò Roilant. «Stanotte crederà di essere tua moglie. Cyrion non vorrai...» Le lunghe sopracciglia tìnte di rosso si inarcarono come le ali degli angeli. Il suo aspetto, seppure mascherato, era così intensamente cyrionesco che Roilant ne fu soggiogato, e alla fine sorrise. «Credo,» ammise Roilant, «che sia molto poco innocente.» «Puoi anche credere che non mi sarà permesso di arrivare a tanto.» Sola nella locanda, Eliset si era tolta il velo, ma non riposava. Camminava su e giù per la stanza, tra il tavolo con le cibarie consumate per metà e la stretta finestra con un'insignificante vista sul cortile interno. Cammi-
nava con passo leggero e alato, e aveva gli occhi pieni di fuoco. Solo una volta diede un'occhiata al giaciglio che era stato preparato per lei se avesse desiderato riposare. Senza enfasi allora, ma a voce alta, disse: «Con chiunque io giaccia questa notte, Cugino Roilant, non sarà con te.» Più tardi nel pomeriggio, quando restavano circa quattro ore di luce per fare il viaggio verso casa che durava due ore, la comitiva nuziale lasciò la locanda. Procedevano nello stesso ordine dell'andata: in testa Cyrion, goffamente abbarbicato sul dorso del mulo, poi i due portatori con Eliset sulla lettiga, e per ultimo Harmul. Non potendo seguire un esempio diverso, Harmul si era ubriacato. I quattro portatori infatti non erano perfettamente sobri. Perciò, in maniera alquanto instabile, il piccolo corteo attraversò la piazza, imboccò oscillando l'arcata della galleria e, camminando con aria svagata, percorse la Via dei Fumi, immerso in nuvole d'incenso e in fumanti vapori d'oppio. Poi passarono per la Via degli Uccelli, dove Harmul ritenne opportuno imitare ogni fischio e cinguettio che sentiva, e così raggiunsero la Via della Seta. Lì Harmul tentò senza successo di rubare una svolazzante sciarpa a strisce ricamata con stelle argentate, ci fu uno scoppio di grida e imprecazioni, e Cugino Roilant, con un'appesantita occhiata di disapprovazione verso il ragazzo, dovette rimborsare il negoziante, domandandosi poi ad alta voce cosa mai potesse farsene Harmul di un articolo del genere. Harmul altezzosamente non diede risposta né ringraziò. Ripresero quindi il cammino. Un nuovo tumulto si verificò tra le tende del mercato. Successe tutto molto in fretta. Sul loro percorso caddero improvvisamente un cesto di datteri, uno di fichi e un altro di arance. Il tutto seguito da un fruttivendolo terrorizzato e da un gruppo di piccioni incontinenti scaraventati fuori da una gabbia. La cascata di roba appiccicosa che si abbatté su di loro e il turbine di piume e altro che volteggiava sulle loro teste crearono lo scompiglio nel piccolo corteo: Roilant e il mulo si misero a scalpitare, i portatori cominciarono a dimenare le braccia libere, facendo perciò sobbalzare la lettiga, mentre Harmul gridava contro il mondo e contro Dio. In quel trambusto di invettive, alterchi, risate, frutta e lanugine, un carnoso e muscoloso individuo si precipitò fuori dalla folla e, afferrandolo con una sola mano, tirò Cugino Roilant giù dal mulo. Finirono entrambi sui datteri, spiaccicandoli tutti e rotolandovi sopra grugnendo. La divertente scenetta, che molti passanti si erano fermati a guardare e a incoraggiare, cambiò tono nel momento in cui fece la sua apparizione un lungo coltello grigio che tagliò l'aria in due. Si udirono delle
grida, ma nessuno intervenne. Il forte e pesante individuo inchiodò sotto di lui il testarossa che ancora si dimenava, e calmatolo con un pugno sul viso paffuto, alzò il braccio, alla cui estremità, come un orribile dente di ferro, il coltello era pronto a mordere. La zanna affondò. Dalla folla si levò contemporaneamente un grido, seguito subito da un generale sbigottimento. Il giovane dai capelli rossi, che era sembrato ormai senza scampo, era riuscito incredibilmente a divincolarsi e a sottrarsi al morso. Il coltello si era scontrato con un violento impatto contro il duro terreno, e la lama si era staccata dall'impugnatura. Con un grido il tipaccio balzò in piedi. Senza neppure voltarsi indietro si lanciò in mezzo la folla, rovesciando qualsiasi ostacolo inanimato o umano che incontrasse sulla strada. Presto scomparve dalla vista, e se qualcuno lo seguì, nesssuno riuscì a raggiungerlo. Cyrion, nella parte di Roilant, era in ginocchio. Tenendosi sulla bocca un fazzoletto macchiato di datteri, riuscì con qualche sforzo a rimettersi in piedi. Quindi, con la voce alquanto smorzata da quel bavaglio, e con spirito sorprendentemente caustico, ringraziò i portatori della lettiga e Harmul per il loro aiuto. Eliset alla fine era riuscita a convincere i portatori, fino allora troppo presi dalla zuffa, a mettere giù la lettiga. Spinta via la tenda ne discese e si avvicinò al cugino, ignorando lo stupore della folla. «Ti sei ferito?» «Non a morte. Mi dispiace.» «Cosa ti sei fatto?» disse lei. «Uno o due denti rotti. Non mi ha ucciso. Come speravi che facesse.» Il volto di lei attraverso il velo era ardentemente freddo. «Non mi sembra il momento né il luogo adatto per scherzare,» disse lei. «Vorresti dire che questo non era il tuo piano? In effetti mi è parso alquanto rozzo. Anche un po' prematuro. Credevo che avresti atteso la discrezione della notte, il fresco acciaio ristoratore che scivola tra le lenzuola.» «Roilant,» disse Eliset, «quell'uomo era un ladro.» «Che non ha rubato niente, né ha cercato di farlo.» La folla era ammaliata. Stava lì attorno e sorrideva di loro, di quella giovane e severa aristocratica con la chioma come una fiaccola e le guance così infuocate che sembravano sul punto di incendiare il velo che indossa-
va, e di quell'alto ma polposo giovane la cui chioma aveva invece già preso fuoco. «Mi stai dicendo,» disse Eliset, «che io ti avrei sposato solo per assassinarti?» «Perché no? Era quello che promettevano tutte le voci che ho sentito.» «Di questo avevamo già parlato. Mi era sembrato che tu avessi tenuto poco conto di quei volgari pettegolezzi.» «Ti era sembrato?» «Altrimenti, perché saresti stato così stupido da venire qui e da sposarmi?» «Un desiderio di morte, forse?» sussurrò Cyrion. «Una cosa è certa, cara mogliettina. Ora che siamo uniti, la mia vita non vale...» guardò i detriti sparsi attorno ai suoi calzari, si fermò con disprezzo davanti all'ovvio, e aggiunse, «...un fico.» Poi, colpendola più che se l'avesse schiaffeggiata, rimosse il fazzoletto dalle labbra e le regalò il più splendido e malizioso sorriso che lei avesse mai visto. Così splendido da cambiargli tutto il volto, che non era più quello di Roilant, così maligno che Eliset, prima ancora di rendersene conto, era indietreggiata di mezzo passo e, con estremo quanto inopportuno orrore, aveva calpestato un arancio, la cui istantanea esplosione aveva fatto praticamente morire dalle risate gli spettatori. Riuscendo con grande sforzo a mantenere la calma, Eliset, che era stata bianca e poi rossa, era ora diventata grigia. «Che sia veramente questo quello che pensi,» disse, «o che si tratti di uno scherzo, tu sei in ogni caso un essere spregevole. Il danno è fatto, ma può essere disfatto. Sono tua moglie soltanto nel nome, e tale rimarrò, soltanto nel nome. Vieni alla porta della mia camera, e la troverai sbarrata.» Alcuni tra la folla applaudirono affettuosamente. Lei li ignorò. «Tornatene alla tua bella proprietà a Heruzala,» concluse, «senza di me. Vai a corteggiare qualche sciocca donnetta che accetti la tua proposta, se ce ne sono di così stupide. Sì. Da me avrai il divorzio. Con piacere. E nulla più.» A questo punto si voltò verso Harmul, stralunato e inebetito dal vino, e gli gridò: «Scendi!» Harmul, rispondendo con un imbambolato cenno del capo, scese dal mulo a gambe all'aria. Eliset, con un magnifico scatto da acrobata con cui riuscì a fare istantaneamente tre cose, montare sul mulo in un mare di sottane, mettersi sulla sella in posizione da amazzone inforcando solo una staffa, e mantenere nel frattempo il massimo decoro, conquistò definitivamente il
cuore del suo folto pubblico. Impetuosa spronò il mulo al galoppo e, facendosi largo tra la folla, attraversò il mercato e uscì dalle porte della città, salutata da una venerante pioggia di fiori. Flor era stata ornata per le celebrazioni in maniera alquanto irreale. Rami di palma secchi ed esili fiorellini erano stati posti in delle urne, e una candela profumata bruciava dentro il padiglione del tetto, circondata da falene morte. «Lo ha detto di fronte a mezza città.» La voce della ragazza tremava per la paura o la vergogna, o forse per entrambe le cose. «Per la gioia di Cassireia,» commentò Mevary. «Ma capisci cosa voglio dire?» Una pausa. «Nessuno,» disse lui, «ricorderà la sostanza, resterà soltanto il ricordo dello spettacolo.» «Se lui improvvisamente morisse,» disse Eliset, impassibile come prima lo era stato il luccichio del ferro sulla lama dell'assassino, «se questo succedesse, se ne ricorderebbero.» «Allora,» disse Mevary, «dobbiamo augurare al nostro caro Cugino Roilant una vita lunga e serena. Mio Dio, che seccatura sta diventando. Come avrei voluto che quel maledetto coltello non si fosse spezzato.» Seguì poi un lungo silenzio e dal tetto venne una specie di crepitio che, insieme a un'ondata di profumo e al tremolare di fioche luci nel crepuscolo, poteva essere riconosciuto da chiunque si trovasse sulla scala sotto la terrazza. La novella sposa, sola ed esausta, era tornata a Flor quasi un'ora prima che vi giungesse a dorso di mulo il marito, con le mascelle avvolte in un fazzoletto e Harmul che con aria imbronciata lo seguiva a piedi a un quarto di miglio di distanza. Erano soli, senza portatori e senza lettiga. Eliset in quel momento si trovava nel suo appartamento. Mevary, sporgendosi dalla balaustra cariata e con le parti di legno che si sbriciolavano, aveva interrogato Roilant sull'accaduto. I segni dei bagordi della notte prima erano scomparsi. Ora era Cugino Roilant che sembrava bisognoso di riposo. «Sono stato aggredito, probabilmente da un fanatico o da un borseggiatore. Sono rimasto scioccato, e ho detto cose insensate.» «È quello che penso anch'io.»
«Spero che lei mi perdoni. Io lo dicevo con ironia, e invece sono stato preso sul serio. Ho il sospetto che mi sia stato anche rotto un dente. Non posso quasi muovere le labbra per il dolore.» «Allora faresti meglio a risparmiare i tuoi discorsi per Eliset. Credo che abbia intenzione di farti morire assiderato stanotte.» Quello che si intravvedeva del viso di Roilant dietro al fazzoletto, udendo queste parole si era rattristato. Ora, lavato, pettinato, inanellato e sfoggiando con sciatteria degli splendidi e male assortiti abiti, il sopravvissuto al tentato omicidio di Cassireia, in piedi sulle scale di pietra, stava ascoltando il breve dramma che si svolgeva di sopra. Poi si annunciò con il suo solito incespicare. «Questa scala,» disse Cugino Roilant, precipitandosi sulla terrazza. «È pericolosa?» domandò Mevary con apprensione. Con i ricami di luce che filtravano dal padiglione alle sue spalle, Mevary risplendeva nella sua eleganza carica di minaccia, abbigliato nel quarto completo di abiti impeccabilmente nuovi con cui si era fino ad ora pavoneggiato. Gli occhi gli brillavano gialli come la fiamma delle lampade, e come le lampade il loro bagliore si fece più intenso quando il blu cupo del cielo divenne nero. Cugino Roilant venne avanti. «Lei è...?» «Qui? Sì. L'ho convinta. Le ho detto che eri dispiaciuto.» «Io le ho detto che ero dispiaciuto.» «Be',» Mevary fece il timido, «è me che conosce da più tempo.» «Ma io sono suo marito.» «Sì! Lo sei. E come sta la povera faccia aggredita?» Cugino Roilant si toccò nervosamente il viso. «La gengiva si è gonfiata. Perderò sicuramente il dente.» Mevary lo guardò con aria di rimprovero. In effetti sotto il fazzoletto, ora pulito, con cui Roilant si tamponava in continuazione, il viso tondo sembrava ancora più tondo, e le labbra, che erano spinte all'infuori dal gonfiore interno, non riuscivano a chiudersi completamente. Sembrava che anche le parole gli si fossero gonfiate, per la difficoltà che trovava ad articolarle. «Perderai anche la tua prima notte nuziale.» Cyrion gli passò accanto ed entrò nel padiglione. Eliset sedeva vestita nel suo abito di seta color crema con i ricami di eliotropio, con lo sguardo fisso su una lampada. Lui farfugliò qualcosa. Lei rispose al suo farfugliare con un freddo cenno del capo.
Mevary entrò nel padiglione, si riempì la coppa vuota, e disse raggiante: «Un brindisi. All'amore.» I piatti freddi erano già in tavola, tenuti forse alla giusta temperatura dalle gelide occhiate di Eliset. Il resto della cena giunse subito dopo portato da Zimir. La testa del ragazzo era fasciata da una benda improvvisata nel punto in cui la giara d'olio lo aveva ferito. Tra lui e il gonfio Cugino Roilant (come Mevary fece notare), il posto cominciava ad assomigliare a un ospedale. «Teme,» disse Mevary ad Eliset, «di perdere un dente.» Eliset non disse niente. «Teme anche di perdere una moglie,» disse ancora Mevary. «Su, mia cara. Visto che l'hai fatto venire fin qui con la forza della magia, ora lo devi sopportare.» Eliset alzò il viso e fissò Mevary. Lui si voltò. «Guarda come hai ridotto questo pover'uomo. Non mangerà e non berrà niente.» Eliset si alzò e uscì dal padiglione. Si fermò nella terrazza, accarezzata dalla lampada sullo sfondo dell'oscurità e ignorando gli altri due. Mevary fece un largo sorriso. «Assaggia questo pane di uva passa. È molto gustoso.» «Mi riesce molto difficile...» «Mangiare. Allora bevi. Placa il tuo dolore e il tuo strazio con il sangue del vino.» Senza fare rumore, come una gazzella, apparve sul tetto un'altra figura femminile, scura per quanto l'altra era chiara. Era Jhanna, che portava nelle mani una grande ciotola piena di carni arrostite e spruzzate di burro. Entrò nel padiglione e pose il piatto sul tavolino che stava al centro di esso. Mevary apparve seccato, la sua aria affabile era scomparsa. «Vai a servire Eliset, non noi.» Jhanna fece un basso inchino, secondo gli usi orientali. Fu un inchino così complesso che parve quasi una caricatura. «È la mia signora che deve congedarmi.» Ergendosi immobile come Eliset sulla terrazza, Jhanna gli si pose di fronte. «Allora lo farà lei.» Mevary uscì a grandi passi dal padiglione. Jhanna, un nero giglio, si avvicinò al tavolino a cui era seduto Cyrion, sfiorandolo con i capelli profumati.
«Signore. Hai la fiala che ti diedi?» «Ehm... ah sì, devo averla da qualche parte.» «Con te? Allora versa la pozione nella coppa della strega. Ora, prima che loro rientrino.» «L'ho già fatto,» disse prudentemente Cyrion con la bocca dolorante. Jhanna tirò un profondo respiro. Le sue mani scivolarono oltre il tavolino e, per il beneficio della finzione, gli porsero un piatto con del pane. «Sei astuto, signore. Molto astuto.» Cyrion guardò verso una delle porte. La voce di Mevary si spandeva nell'aria stellata. «Io, voler bene a quella cagna?» «Cagna,» sussurrò Jhanna. «Sì, una cagna, quando c'è lui vicino. Stai bene attento a loro, signore. E stai attento alla tua coppa.» Poi scivolò fuori e come un fantasma scomparve per le scale. Cyrion allora si piegò in avanti e parve fare un breve inventario dei piatti e delle coppe che stavano ai tre posti. Flor era Flor, e sebbene ogni coppa fosse uguale alle altre, ognuna, per quanto erano logore, aveva qualche segno di riconoscimento. Quella di Mevary era scheggiata sul bordo, mentre quella di Eliset, che non era stata svuotata, sfoggiava una chiazza bianca sul calice. La coppa che Zimir aveva messo al posto di Roilant, e che Mevary aveva riempito prima dell'arrivo di Roilant, aveva una ruvidezza in cima allo stelo, invisibile ma subito distinguibile al tatto. Dal momento che Roilant non avrebbe mangiato niente, e che le brocche erano in comune, l'assassino avrebbe dovuto fare in modo che la polvere andasse a finire nella sua coppa. E ora, dopo il fallito tentativo a Cassireia e la sua rivelazione in pubblico, un assassino intelligente aveva tutti i suoi buoni motivi per preoccuparsi che la morte di Cugino Roilant sembrasse naturale. Le ricchezze della vedova avrebbero potuto corrompere la legge, ma avevano comunque bisogno del sostegno delle apparenze. Gli si doveva procurare una morte senza ferite, una morte per avvelenamento. E bisognava naturalmente inventare una frottola che conferisse del peso a questa morte: il povero Roilant, nato sotto una cattiva stella, sarebbe stato colpito da quella follia contagiosa di cui era stato già vittima lo schiavo Jobel. Non era raro in questi casi che morisse più di una persona. Rimasto ancora solo, Cyrion ne approfittò per annusare dentro la sua coppa. Non sembrava esserci niente di insolito per ora, ma era pur vero che il prepotente aroma della candela profumata avrebbe cancellato ogni altro odore. Cyrion si domandò chi di loro l'avesse accesa.
Fuori, nella mormorante e sfavillante oscurità, Mevary ed Eliset erano ora vicinissimi. Si udì un debole tintinnio di cristallo... la cintura di perle che veniva sciolta e cadeva giù. Cyrion scambiò la sua coppa, quella con lo stelo ruvido, con quella scheggiata di Mevary. Poi tornò a sedersi e aspettò. Mevary tornò subito dopo; Eliset, senza la cintura, un minuto più tardi. Il pasto fu ripreso nello stesso modo in cui era iniziato. Mevary continuò a mangiare. Eliset e Cyrion continuarono a non farlo. Nel giro di qualche attimo Mevary allungò la mano per prendere la coppa. La prese, la guardò, e invece della coppa alzò le sopracciglia. Poi, rimettendo la coppa sul tavolo, si voltò verso Cyrion con un sorrisetto malizioso. «Ma guarda...» disse. Cyrion era vacuo. Eliset era un'icona. «A quanto pare,» disse Mevary, «non ho più la mia coppa. Tu hai la tua, Eliset?» L'icona abbassò lo sguardo, e con lo sguardo fece gelare il vino. «Non ho idea.» «E tu, mio rosso budino? Quale coppa hai, tu?» «Assurdo,» borbottò Cyrion da un lato della sua bocca gonfia. «Hmm.» Mevary non bevve. All'improvviso, da basso e da qualche sorta di strumento venne su un'orribile e squittente melodia: presumibilmente, dalla qualità del suono, una trappola per topi pizzicata. Balzato in piedi con un'imprecazione, Mevary uscì dal padiglione e lanciò un grido verso il cortile. La sgraziata melodia ebbe fine. «Roilant,» disse Eliset fredda come ghiaccio, «vedo che insisti a recitare la parte della nostra vittima.» Si chinò sul tavolino. Con un lesto movimento scambiò la coppa di Mevary, che era stata di Roilant, con la sua. «Dunque, noi vorremmo avvelenarti?» Sollevò la coppa, posando su Roilant un bieco sguardo, e bevve. Roilant si alzò in piedi. Poi si fermò. Sbattendo sul tavolino la coppa semivuota, Eliset disse: «Allora, se era avvelenata, io morirò, non è vero?» «Sì,» rispose Roilant. «Allora sono pazza. E sono stata una pazza a sposarti. Ma ormai siamo sposati, credo. No, non ti chiuderò la porta della mia camera. Mevary mi ha... persuasa ad adempiere il mio dovere di moglie. Perciò, potrai venire quando vorrai. Sempre che tu non abbia troppa paura di me.»
Portandosi dietro la tempesta di neve che sprigionava, Eliset uscì dal padiglione, sfiorando Mevary che stava rientrando. Questa volta Eliset non si fermò, ma continuò a camminare e raggiunse le scale. Mevary guardò le coppe. «Allora,» disse. «Fammi capire. Tu hai la mia coppa, io ho quella di Eliset, ed Eliset ha la tua. Visto che gli avvelenatori siamo io e lei, e che a quanto pare lei ha bevuto dalla tua coppa, possiamo dedurne che la tua coppa non è avvelenata. Anche la mia, che ora è tua, dovrebbe essere innocua, dal momento che l'ho usata finora. Ma il vino di Eliset, che ora è passato a me... questo mi sembra un po' fosco. Non potrebbe essere, caro Budino, che sei tu quello che ha intrapreso l'arte dell'avvelenamento?» E Mevary rivoltò la coppa di Eliset facendo finire il vino sul pavimento e sui cuscini. «Ecco fatto,» disse Mevary, con una vivacità che non aveva niente di rassicurante. Tornando alla porta del padiglione gridò, «Zimir, Harmul! Altre coppe! Portatene molte!» Poi in maniera incoraggiante disse a Cyrion: «Sei davvero molto più sveglio di quanto ti ritenessi.» Cyrion sembrò offeso. Lo sembrò ancor di più quando i cenciosi servitori sbucarono sgambettando dalle scale portando dieci o più coppe, tutte uguali e tutte variamente macchiate, scheggiate o graffiate, che rovesciarono sul tavolino centrale. Mevary, scansando da parte i piatti con i cibi, riempì con una brocca le coppe sparse alla rinfusa. Quindi, tra il vino che si rovesciava e le coppe che tintinnavano, egli prese a mescolarle più vòlte tra di loro, includendo in quel metallico guazzabuglio anche la sua, quella di Cyrion, e quella di Eliset, ora di nuovo piena. «Ora,» disse infine Mevary, «ognuno di noi prende una coppa, caro cugino, e se la beve fino all'ultima goccia.» Cyrion si alzò, farfugliando la sua intenzione di andarsene. Mevary schioccò le dita. Le mani sorprendentemente forti di Zimir piombarono sulle spalle di Cyrion, spingendolo di nuovo sulla sedia. Cyrion tornò a sedersi. Come lo fece, la lama sottile e sporca di un coltello apparve a pochi centimetri dal suo occhio sinistro. «Potrebbe essere qualunque coppa, non credi? Qualunque coppa potrebbe contenere quel letale ingrediente che io ho aggiunto con un gioco di prestigio davanti ai tuoi occhi. Giacché tu mi consideri un criminale, smetterò di prendermi gioco di te fingendo. Avendoti sposato, alla tua morte E-
liset verrà in possesso delle tue ricchezze. Di tutte le tue strabilianti fortune. Perciò, bevi.» «No...» Cugino Roilant tentò di divincolarsi, e il coltello sporco gli venne ancora più vicino. «Sembra che debba essere 'sì',» disse Mevary, avvolto nella seta luccicante del suo abito. Cyrion smise di opporsi. «Va bene.» Era diventato docile. «Quale?» «Oh, una qualunque, una qualunque. Il gioco è così, ricorda. Berrai da ogni coppa sul tavolo finché non ti capiterà quella fatale. E allora berrai da quella.» Harmul rideva nervosamente per l'eccitazione, e si intuiva che anche Zimir stesse sorridendo. Cyrion prese una coppa a caso. Non era quella di Mevary: c'era un frammento che mancava, ma in un punto diverso. Cyrion la sollevò e se la gettò alle spalle, mandandola in faccia a Zimir. Ci fu un trambusto dietro Cyrion, e il minaccioso coltello si spostò. Balzando in piedi dalla sedia, Cyrion gli andò dietro. Appena egli strappò la lama dal pugno annaspante del ragazzo, Mevary, con un ululato di scherno, sguainò la spada. «Il coltello contro la mia spada? Avresti dovuto venire a tavola armato alla maniera antica dei barbari, Roilant, caro.» Poi si mise tra il tavolino e Cyrion, che, spinto dalla spada, dovette indietreggiare. «Volevi rovesciare tutto il vino? Oh, no. Troppo facile, dolce Budino.» Dal primo elegante movimento della spada, e dal secondo arco che aveva fatto indietreggiare Cyrion, era risultato subito chiaro che Mevary era un eccellente spadaccino. Cyrion indietreggiava difendendosi disperatamente, come in una recente storia, con il coltello. La spada gli si scagliò contro sfavillante e lui come un lampo deviò il colpo. Harmul si scansò dalla traiettoria con un guaito. Una parte della grata d'avorio volò in pezzi. Cyrion era uscito dal padiglione. Mevary, togliendo di mezzo Zimir e uno dei tavolini con un calcio, gli corse dietro. Sul tetto, sotto il vasto cielo nero risplendente del suo pubblico di stelle, l'aria sottile era un sollievo dopo il profumo opprimente della candela. I due uomini si fermarono, come per godere di questa nuova arena. «Naturalmente, anche la mia spada potrebbe essere avvelenata.» Mevary mosse rapidamente la lama nella notte, la puntò verso una stella, e la mandò in picchiata come l'ala di un falcone.
Cugino Roilant, con inattesa agilità, ne evitò il taglio. Poi fu lui che lanciò il coltello. Doveva colpire Mevary, e lo avrebbe fatto se il cugino lupo non fosse stato anche lui superbamente agile. Fu veloce come il pensiero, e il coltello oltrepassò il parapetto della terrazza e fu inghiottito dalla notte. Mevary, troppo sprezzante per trovare la cosa divertente, fece un balzo in avanti, puntando la spada sibilante verso Roilant. Cugino Roilant, con uno stupendo balzo all'indietro, evitò anche questo colpo, ma andò a scontrarsi con qualcos'altro. Qualcosa di debolmente luccicante che, come un lungo e sottile serpente, si srotolava dal parapetto sulla terrazza all'altezza delle caviglie. Inciampandovi con i piedi Cugino Roilant cadde, e Mevary, che dopo tutto si stava divertendo, gli si avvicinò con calma. Nel frattempo Zimir e Harmul, schiavi devoti, erano balzati fuori dal padiglione e si erano gettati sull'uomo steso a faccia in giù, ignari del fatto che attorno ai suoi piedi si era aggrovigliata la cintura di perle color porpora di Eliset. Cugino Roilant si arrese. Rimase a terra a farsi schernire dagli schiavi, mentre Mevary rientrò nel padiglione. Ma quando Mevary ritornò portando con sé una coppa di vino, Cugino Roilant ricominciò a dare segno di volersene andare. Mevary si inginocchiò e gli porse la coppa. «Ho trovato quella giusta. La mia coppa. Quella che tu avevi scambiato con la tua. Come io ovviamente avevo previsto. Potrei averla avvelenata prima, quando ho finito di bere, oppure ora. Chissà quando. Comunque sia, vuotala. Divertiti, festeggia. È la tua prima notte di nozze.» Cugino Roilant si dibatté ancora un po', con i due ragazzi che gli si stringevano alle braccia ringhiando come cani e imprecando contro di lui, fin quando la spada di Mevary non gli venne a baciare la trachea. «O lo bevi,» disse Mevary con estrema serietà, «oppure ti apro il collo e te lo verso in gola da lì.» Cugino Roilant dovette infine arrendersi. I due servitori lo lasciarono andare e Roilant si mise a sedere. Poi, con livida e bulbosa dignità, tese la mano per avere la coppa. «Scolatela tutta ora,» disse Mevary. «Come un bravo bambino.» Rovesciando indietro la rossa testa, Cyrion si versò tra le labbra l'intero contenuto della coppa, chiuse la bocca, e ingoiò con un unico sorso forzato. Mevary indietreggiò.
E indietreggiò ancora quando la tondeggiante figura con gli occhi fuori dell'orbita si mise in piedi, gli passò accanto correndo, e, per la prima volta senza inciampare, si precipitò giù per le scale fino al cortile interno. I due servi gli andarono dietro gridando. Un attimo dopo si udì da basso un tafferuglio. «L'abbiamo preso!» «Stava cercando di mettersi le dita in gola...» Mevary guardò giù dalla terrazza. «Anche un piccolo sorso,» dichiarò Mevary, «sarebbe bastato. Ormai è troppo tardi per cercare di farlo tornare indietro. Ti conviene andare da Eliset, e farti consolare da lei mentre aspetti la morte.» Harmul e Zimir lasciarono andare lo sventurato e, starnazzando per l'eccitazione, passarono veloci tra le fontane vuote e scomparvero. Sul tetto, con la sobria eleganza dello spadaccino, Mevary rinfoderò la spada. Un quarto d'ora più tardi lo sposo bussò con violenza alla porta della camera della sposa, e nell'essere ricevuto sussurrò queste romantiche parole: «Sono stato avvelenato.» «No,» rispose lei aspramente, «sono io che sono stata avvelenata.» Cyrion richiuse la porta e vi si appoggiò. Sembrava che il gonfiore fosse diminuito, e che il viso avesse riacquistato il suo normale grado di rotondità. Poi disse, «Il gentile Cugino Mevary mi ha apertamente minacciato e mi ha, per così dire, supplicato di bere la coppa di vino che all'inizio era la sua. Aveva previsto ogni mia mossa, a quanto pare. Sapeva che avrei scambiato le coppe.» «A meno che noi non avessimo avvelenato anche la tua per maggiore sicurezza.» «Se fosse stato così tu non avresti bevuto da quella coppa.» «Non lo avrei fatto?» Lo guardò con disprezzo. «Credi che io ami così tanto la mia vita? Forse non mi interessava più quello che sarebbe stato di me.» «Se eri sicura di morire, perché ti sei preparata per la prima notte di nozze?» domandò Cyrion. Eliset lo guardò per un attimo, poi abbassò gli occhi e si voltò. La diafana veste girò con lei, come pure il luminoso velo della chioma. «E tu, Roilant, se anche tu ti aspettavi di morire perché sei venuto qui?» «Gli ultimi minuti di vita bisognerà pure trascorrerli da qualche parte,» disse giudiziosamente Cyrion. «E poi, perché dovrei risparmiarti lo spetta-
colo della mia agonia? Almeno, nei miei spasimi mortali, potrei danneggiare un po' delle tue poche cose.» «Non mi importerebbe. Presto avrò tutte le tue proprietà di Heruzala per consolarmi.» «Le avrai?» Eliset si voltò a guardarlo. «O è stata tutta una bugia? Forse tu non hai nessuna proprietà. Forse la tua vedova rimarrà senza un soldo.» Ora era calma. E splendida in mezzo all'ambrato bagliore delle candele che riempiva la stanza. Una stanza a cui, nonostante i segni del degrado, lei conferiva una particolare bellezza: era forse il potere illusorio della magia? Sedendosi su una sedia dall'alto schienale, Cyrion disse: «Perché non allevii i miei ultimi istanti con qualche affascinante rivelazione? Perché non mi parli di Mevary?» «Mevary... è Mevary.» «Scusami. Intendevo il primo Mevary, il padre. Tuo zio.» Con un gesto curioso, visto che prima non aveva mostrato alcun pudore, si strinse la veste fino allora sciolta nascondendone le trasparenze. «È stato il mio tutore fino a quando ho avuto diciassette anni.» «Cioè fino a quando non è morto. Come è successo?» «È annegato,» disse dolcemente Eliset. «A mare?» «Nel bagno. Nel calidario. Lui...» per la seconda volta volse lo sguardo altrove e si avvicinò alla finestra. «Si ubriacava sempre, e anche quella volta era disgustosamente ubriaco. Così, mentre faceva il bagno, è annegato. Deve essere stato disgustoso anche mentre moriva.» «Lo amavi molto.» «Come vedi.» «L'hai ucciso tu?» «No. Qualche volta ho sognato di farlo. Ma non l'ho mai fatto.» «Il suo fantasma va in giro per la casa, lo sapevi?» «L'ho sentito dire. E non solo il suo. C'è quello della vecchia Tabbit, che era la mia balia. Ci sono interi eserciti di remusani, e demoni marini che di notte si arrampicano con i loro artigli su per la scogliera...» Voltatasi bruscamente tornò veloce verso di lui, si lasciò cadere sulle ginocchia, e con la testa china in avanti, da dietro la cascata di capelli disse: «Tu meriti la verità. La tua odiosa stupidità la merita. Bisogna dirlo a Roilant? Sì, biso-
gna dirglielo. Non ho mai avuto intenzione di mentirgli.» Alzò gli occhi e il suo sguardo sferzante incontrò quello di Cyrion. «Te lo voglio dire. Mevary ti avrà fatto capire che io non sono più pura. Ma non credo che ti abbia detto che suo padre fece di me la sua concubina nel giorno del mio quattordicesimo compleanno. Successe neanche un mese dopo la morte di mio padre. E successe qui, in questa stanza. Su quella cassapanca. Mio zio entrò nella stanza, e nel giro di cinque minuti aveva abusato di me. Quando ebbe finito mi chiese se mi era piaciuto, e se lo amavo. Quando gli dissi di no, lui mi picchiò. Poi me lo chiese di nuovo, ed io dissi di sì. Imparai presto, come vedi. Per tre anni con le menzogne soddisfeci la sua vanità, e soddisfeci anche la sua carne. Lo accoglievo sempre con bramosia. Imparai anche a stimolare ogni suo appetito. Mi troverai esperta, per quanto impura.» «E il secondo Mevary,» disse stoicamente Cyrion, «lui come ti ha trovata?» «L'hai detto, è il mio amante.» «Che tu veneri come un dio.» Per qualche attimo Eliset studiò Cyrion con un acuto sguardo azzurro. «Dunque hai sentito anche quello? E ci hai creduto come ci crede lui? No. Lui non è il mio dio. Non lo amo e non mi piace, né mi piace la sua compagnia. Seguendo la tradizione del suo nobile padre, mi violentò anche lui. Ma ormai c'ero abituata. Come suo padre, il suo modo di amare non si distingue molto da uno stupro. E come suo padre lui è meschino, geloso, uno che tratta le donne come tratta i cavalli, ma che si lascia ammansire dalle lusinghe. Dunque io lo venero.» «Perché?» «Non te l'ho appena detto? Come credi che avrei potuto vivere qui altrimenti? Anzi, come credi che avrei potuto vivere?» «Ah, certo. Non potevi sopportare l'idea di rinunciare alla tua eredità in disfacimento. Dunque hai sopportato. E hai aspettato che io venissi a onorare la mia promessa.» «Tu.» Lo guardò con disprezzo. «Avevo sperato che questo matrimonio mi regalasse un po' di pace.» «Dopo che ti fossi sbarazzata di me, naturalmente.» Lei scosse la testa in preda alla confusione, come se stesse sondando il proprio cuore. «Avevo quasi temuto che Mevary potesse prendere in considerazione questa possibilità. Ma non credo che abbia la stoffa dell'assassino. È capace di qualsiasi cosa, ma non di quello. È una cosa che ri-
chiede una sorta di nefandezza di cui non lo ritengo in possesso.» Sollevò il busto fino a sedersi sui talloni e guardò Cyrion. Poi, accigliata e irrigidita, disse: «Che c'è?» «Cosa pensi che ci sia?» «Tu stai male.» «Te l'ho detto entrando.» «Il veleno? Non ci credo.» «Mi ha detto che non me ne sarei liberato. A quanto pare aveva ragione. Dal punto di vista estetico, non hai molto di cui preoccuparti. Non sarà come la morte di Jobel. Una splendida fortuna per entrambi.» Ora lo guardava seria. Alla bassa luce delle candele si vedevano i rivoli di sudore che dai capelli cominciavano a scendergli lentamente sulle guance e sul collo. Le mani stringevano convulsamente i braccioli della sedia. Le labbra, così rapidamente sgonfiatesi, erano quasi del colore dell'ardesia. «Cosa posso fare?» domandò Eliset. «Una preghiera, magari,» disse Cyrion. Era chiaro che gli stava diventando difficile anche parlare. «Ma ti consiglio di risparmiarti il bacio d'addio.» Il dolore, perché era chiaro che sentiva dolore, doveva essere aumentato. Il suo corpo si tese, poi cominciò a contorcersi, il volto era diventato una maschera informe attorno alle labbra livide, gli occhi gli si erano congelati nelle orbite. Un sottile rivolo di sangue gli uscì da un lato della bocca, che era chiusa in un orribile sorriso. L'ultima cosa che Cyrion vide prima che l'agonia gli annebbiasse la vista, fu la figura di Eliset che, in piedi, indietreggiava nella stanza, oro su oro. Poi l'ultimo filo di coscienza gli si spezzò dentro come si spezza lo stelo di un fiore. Il mondo si dissolse in una vampata di luce nera, e Cyrion con un grido lancinante precipitò in un abisso di buio. Eliset era di nuovo alla finestra, immobile, con quel grido ancora vivo nelle orecchie. Sembrava aspettare qualcosa. Quando gli tornò vicino per assicurarsi, Cyrion si era rilassato, ed era riverso su un bracciolo della sedia, con gli occhi chiusi, un lieve sorriso, il respiro cessato e il cuore fermo. IV La vista di un cavaliere solitario che, immerso nella luce vitrea e tagliente del mattino, trottava alla volta di Flor attraversando i frutteti, non servì
da tonico all'assonnata servitù. La notte prima c'era stato un andirivieni particolarmente intenso e un ugualmente intenso aprirsi e chiudersi di porte. Non tutti erano presenti, e quelli che lo erano non erano necessariamente svegli. Il cavaliere solitario, con il suo carico consegnato senza pietà e senza scelta alle grinfie di Zimir, si rivelò un infausto messaggero. Appena Zimir come un turbine raggiunse l'ingresso delle stalle, una fosca figura lo fermò in maniera piuttosto minacciosa. Il plico, su gentile richiesta, passò ad altre mani. Pur proclamandosi destinato a Roilant di Beucelair, esso fu prontamente aperto da Mevary, per la validissima ragione che Cugino Roilant non se ne sarebbe più potuto interessare. Conteneva due documenti. Il primo, una pergamena firmata e sigillata da tre legali, certificava la validità del secondo, che non era che la copia di un altro documento, custodito sotto le volte di qualche edificio a Heruzala. Il secondo documento portava il sigillo personale di Roilant, e fu a sua volta debitamente aperto. Non c'era bisogno di essere un genio per indovinarne il contenuto. Il documento di Roilant, con fiorite espressioni legali, informava che, nel caso di un suo improvviso decesso, tutte le sue proprietà, i suoi denari e i suoi effetti sarebbero stati ereditati dalla persona del suo amato sovrano Re Malban a vantaggio del suo esercito, della sua opera caritatevole, e del mantenimento del suo regno di Heruzala. Era l'unico e più sicuro modo con cui un uomo ricco potesse togliere ai suoi eredi e alle persone a suo carico ogni diritto alle sue ricchezze. Lasciare tutto a Dio oppure al Re. Il Re, che effettivamente era lì in persona, era la scommessa migliore. Circa un'ora più tardi, dalla giungla del frutteto, sotto un gelso ricoperto di vespe, veniva un vociare confuso. Era difficile vedere le due persone, un uomo e una donna, che, come una coppia di vespe, farfugliavano sotto l'ombra arroventata. Ma le loro voci erano riconoscibili per quelle di Mevary ed Eliset. «Io non gli ho dato niente. Il codardo è morto di paura,» diceva l'uomo con la voce di Mevary, e con la sua stessa irritabilità. «Non l'hai fatto davvero, mio amato?» disse la donna carezzevolmente, e con la stessa punta di veleno che si era sentita nella sua voce due notti prima, quando avevano fatto i loro commenti su un dormiente che supponevano narcotizzato. «No, non l'ho fatto. Ma lui ha creduto che l'avessi fatto, ed è soffocato dalla paura. A meno che tu...»
«Io?» disse lei in un profluvio di innocente stupore. E lui, testualmente: «Perché no? Oh, mia dolce cugina, hai uno strano modo di procedere.» E lei, con passione: «Lo sai che ti adoro. Lo sai che ti venero. Potrei mai andare contro la tua volontà? Non ho forse rinnegato ogni cosa, ogni persona e ogni fede perché tu realizzassi i tuoi desideri?» «Oh, così va bene. Ma questa dannata assurdità legale... Il re che eredita tutta la fortuna dei Beucelair...» «E noi senza niente dopo tutto ciò che abbiamo fatto.» «E non è finita. Se il Budino ha fatto un testamento come questo, che toglie tutto alla vedova e ai parenti per lasciare ogni cosa al re, ciò significa che quel maledetto di Malban è al corrente dei sospetti che Roilant nutriva nei nostri confronti. E appena si saprà che Roilant è morto, noi verremo marchiati come suoi assassini.» Allora lei, con arroganza: «La vedova verrà marchiata prima di te.» E lui, con invidia: «Al punto in cui ci troviamo è troppo tardi per alimentare incertezze...» «Allora non ne alimentare.» «Cosa vuoi dire?» Tra i rami carichi di foglie, frutti e insetti pungenti, si intravvide il lampeggiare sensuale e famelico di due paia di occhi chiari che si fissavano con aria di sfida. «Se la morte di Roilant ci causerà subito dei problemi,» disse lei, «fa' che egli per il momento non muoia.» «È troppo tardi.» «Niente affatto. Lui è in casa, oppure se n'è andato, dipende da chi lo cerca, se qualcuno lo cercherà. Intanto, metti il corpo a dormire e dimenticalo.» «Per rivelare tutto con una nuova tomba?» «No. Lo spazio c'è. C'è un posto in più nella tomba di mio padre, un posto vuoto, ricordi? Mettici dentro il cadavere stanotte, e richiudi il coperchio. Harmul e Zimir non oseranno certo parlare. Da quello che mi hai raccontato sono coinvolti anche loro. Mentre a quella donna che tieni come una schiava, a quella sgualdrina smorfiosa, puoi imporre il silenzio, no?» Una risata. «Sì. Sei veramente brava, dolce amore mio.» Si udirono altri rumori, e poi la voce di lei, pungente come un ago: «Qui? Oh, mio bucolico amante. Ti ricordi come mi violentasti la prima volta?»
«E tu,» disse lui, «ti ricordi quanto ti piacque?» La risata della donna fu morbida come il pelo di un gatto, e le ombre verdi si congiunsero. Insinuandosi negli anfratti della scogliera con il suo splendido manto azzurro e le ghirlande di schiuma, il mare cercava grotte, cunicoli e misteriose vie, li riempiva, e poi se ne ritraeva ancora una volta. Il giorno saltò giù dall'orlo della scogliera e attraversò il mare. L'orizzonte inghiottì il sole, come una divinità marina che si prende il suo cruento sacrificio. La notte a Flor fu marcata dal fluire e rifluire della marea, dal canto di uno o due usignoli, e poi da suoni metallici, dal rumore di qualcosa di pesante sollevato e spostato, da tre o quattro stridenti cigolii, un tonfo sordo, altri cigolii, e uno scricchiolio di pietra. A Cassireia, oltre le colline, un simile interludio sarebbe stato meno udibile, con lo sbattere di miriadi di porte e imposte che venivano chiuse per la notte, con gli uomini del governatore che correvano da ogni parte sui loro cavalli, con ubriaconi che schiamazzavano o rigurgitavano, cani che ululavano i loro lamenti, e galli impazziti che, ingannati dal continuo riaccendersi di luci e occasionali incendi dolosi, cantavano incessantemente. Era questa la sinfonia che Roilant aveva ascoltato in questa come nelle altre notti passate insonni alla locanda vicino al tempio. Come cominciò ad albeggiare e i galli si misero ancora una volta a cantare, tra l'imbarazzo e l'offesa Roilant si alzò, si mise a sedere, e si accinse a scrivere una lettera alla sua donna perduta di Heruzala. Ma le parole non gli venivano. Tra lui e quella rassicurante e ordinaria immagine, un'altra se n'era introdotta come un sottile pugnale. Quella di Eliset. L'alba, secondo le scritture del profeta Hokannen, era un momento di purezza e innocenza tra le creature della terra. Il leone si avvicinava furtivamente all'oasi nel deserto, e vi beveva tranquillamente accanto al cervo. L'uccello volava a salutare il sole, la cui nascita rinnovava la promessa d'amore e di perdono di Dio. Il sorgere del sole, come un'immensa acqua, lavava via ogni peccato. Era possibile ricominciare. Nel deserto, dove il profeta, come gran parte dei profeti, aveva vissuto così a lungo, accompagnato forse da Zilumi dalla chioma di bronzo, era concepibile una simile visione. L'inizio del giorno richiedeva solo meditazione, preghiera e dibattito interiore, e solo ogni tanto qualche spedizione per rubare nidi d'api o divorare indifese locuste. A Cassireia invece l'alba portava soltanto ulteriori cacofonie, e così la
lettera non scritta di Roilant fu messa da parte. Dei pesanti passi sulle scale dimostrarono che la mossa era stata tempestiva. Forti colpi all'uscio non fecero che rafforzare questa convinzione. Roilant aprì la porta e un enorme individuo fatto di grasso e muscoli compressi, e con addosso i segni di una cavalcata piuttosto lunga, entrò nella stanza. Era il più corpulento dei due servitori Heruzini che avevano accompagnato Cyrion-Roilant a Flor e che prima erano andati a badare ai muli, poi al villaggio vicino, e poi definitivamente in città. Ora che stava ragionevolmente fermo l'uomo era anche identificabile con il folle aggressore armato di coltello che al mercato aveva buttato Cyrion giù dal mulo e aveva tentato di pugnalarlo con un coltello a cui era stata precedentemente rotta la lama. Su suggerimento di Cyrion quest'uomo era stato ingaggiato come servitore di Roilant da cinque giorni. «Che è successo?» domandò Roilant. «Il peggio che potesse succedere,» rispose l'uomo. La sua era solo cortesia, visto che stava lavorando. Finché veniva pagato per lui era tutto lo stesso. «Cosa vuoi dire con 'il peggio'?» «Durante la notte di nozze è successo qualcosa di strano, ma non strano nel modo giusto. Dopo c'è stato un frenetico andirivieni. Il giorno dopo Mevary era occupato. Poi l'ho perso. L'ho ritrovato che tornava da solo dal frutteto... aveva avuto qualche altro affare da sbrigare lì insieme a lei, credo. Divertente come certi preferiscano l'aria aperta... Poi è venuta la sera e infine la luna è tramontata. Poco dopo, un gruppo di quattro persone è uscito dalla porta sul retro, ha attraversato il cortile del bagno, ha raggiunto il cimitero, e ha aperto una delle tombe con delle leve di ferro. Vi è entrato un nuovo corpo.» «Mio Dio! Il corpo di chi?» «Di chi credi?» «Vuoi dire lui...» «C'era poca luce, ma io ero salito su quel rudere pendente della torre, e ho visto tutto dall'alto. Tra me e loro c'era un alberello, ma era molto esile, e si poteva facilmente guardare attraverso i suoi rami. C'era tuo cugino Mevary con i due ragazzi. E c'era anche lei. Anche senza la luna, i suoi capelli chiari si vedevano come uno stendardo. Il cadavere era avvolto in un lenzuolo, ma il lenzuolo era pieno di buchi, e uno ne scopriva il viso. Quello che ho visto mi è bastato per riconoscere il suo volto, mentre sulla
mano sinistra, alla sola luce delle stelle, si vedevano scintillare fiocamente gli anelli. Era pesante. E c'è stato qualche problema tra lui e il coperchio della tomba. Ha dovuto aiutare anche lei. Poi Mevary e i due ragazzi hanno richiuso la tomba e se ne sono andati via tutti.» «Dio misericordioso! Ne sei sicuro?» «Certamente. Mi trovavo a un'altezza di soli cinque metri su di lui, e poco distante. Era Cyrion, ed era morto come può esserlo solo un morto.» Roilant si rimise seduto. Le mani cominciarono a tremargli. «Questo... pericolo c'era. Lui lo sapeva.» «Allora ti avrà lasciato un piano che contemplava questa possibilità.» «Sì. Oh Dio. Speravo di non dovermene servire. E Cyrion... lo credevo invulnerabile.» «Un diavolo astuto,» confermò l'uomo. «Ma anche le volpi finiscono in trappola.» «È stata tutta colpa mia.» L'uomo era annoiato. Era stato un soldato e per lui una morte improvvisa era una banalità piuttosto che un evento. Dopo qualche altra parola Roilant congedò l'uomo che si ritirò nel suo alloggio, mentre lui cominciò a camminare su e giù per la stanza. Aveva la terribile sensazione di avere provocato, senza accorgersene, una grave tragedia. Cyrion. Che Cyrion fosse morto era qualcosa a cui non si poteva credere. Roilant non ci credeva. Ansiosamente richiamò alla memoria la storia dei Cavalieri della Colomba narrata dal carovaniere. Si ricordò di come Cyrion aveva simulato uno stato di profonda incoscienza. Dando per scontato che simili magie fossero possibili, non poteva essere che Cyrion sapesse fingere anche la morte? Se Roilant avesse assistito alla sequenza sulla terrazza del tetto, avrebbe dovuto abbandonare anche queste speranze. Il vino era stato sicuramente avvelenato, per quanto ognuno negasse di averlo fatto. E Cyrion si era versato in bocca l'intero contenuto della coppa, ingoiandolo poi in un unico doloroso sorso. Con una piccola quantità di liquido in bocca sarebbe stato anche possibile deglutire senza ingoiare niente. Ma Cyrion ne aveva assunta una gran quantità. Né erano da sottovalutare le parole scherzose di Mevary, «ne basta un piccolo sorso.» Se il veleno era veramente così nocivo, (e molti lo erano), anche se messo in bocca e immediatamente sputato, il residuo che sarebbe rimasto sulle mucose della bocca e sulla lingua, mischiandosi alla saliva, sarebbe risultato fatale. Se poi Roilant avesse assistito al dramma svoltosi successivamente die-
tro la porta chiusa dell'appartamento di Eliset, le sue angosce non sarebbero che aumentate. Durante questo dramma, infatti, il corpo di Cyrion era stato sottoposto a molte delle prove che servono a individuare eventuali segni di vita. Ma quel corpo, percosso, solleticato, bruciacchiato e punto con spilli, era rimasto inerte, e lo specchio tenuto davanti alla bocca non si era mai appannato con il respiro. E c'era ancora un'altra difficoltà che gravava sulla già problematica sopravvivenza di Cyrion. Una persona viva, sotterrata nella tomba senz'aria, sarebbe soffocata in brevissimo tempo. C'erano volute tre paia di mani per rimuovere il coperchio della tomba, oltre agli attrezzi. La pietra era pesante, e c'era anche una figura di pietra sdraiata su di essa a renderla ancora più pesante. Uno che avesse desiderato uscirne si sarebbe trovato imprigionato. Perciò, che Cyrion fosse vivo o morto, il suo futuro non sembrava dei più rosei. Jhanna aveva pianto, e molto violentemente, ma lo aveva fatto in silenzio, un metodo che aveva dovuto imparare per forza molto tempo prima. Anche l'estasi delle lacrime era stata controllata per un po'. Da quando Roilant di Beucelair era morto, era stata questa la prima occasione che aveva avuto per dare sfogo alle sue emozioni certa di non essere disturbata. Tuttavia questo suo isterismo ebbe un inizio e una fine abbastanza fulminei. Jhanna si era ormai abituata alle delusioni, era stato necessario farlo, nella posizione in cui si era trovata per gran parte della sua vita. Inoltre, quando era pronta ad esercitarla, lei possedeva un'enorme autodisciplina. Così la sua passione aveva appena raggiunto il culmine, che lei subito la placò. Ancora un minuto e, con gli occhi asciutti e il volto impenetrabile, Jhanna si voltò verso la tenda posta all'ingresso della sua cella. Subito dall'uscio si sentì un leggerissimo rumore. Poteva essere soltanto il fruscio delle foglie trascinate dalla brezza pomeridiana. Jhanna, sagace in molte cose, sapeva che era qualcos'altro. Attraversata la stanza in perfetto silenzio, la ragazza tirò da parte la tenda. Non c'era nessuno, ma a terra proprio fuori dell'uscio Jhanna trovò un piccolo pacchetto ripiegato. Lo raccolse cautamente, i chiari occhi estremamente vigili e le dita come sensori. Il pacchetto fu prima rivoltato, poi annusato. Infine, molto lentamente, fu aperto. Qualcosa di luccicante cadde al suolo. Jhanna guardò a terra, poi si chinò e raccolse la cosa luccicante. Una lunga sciarpa di seta con dei ricami a forma di stelle danzava tra le sue mani. Era quel tipo di sciarpa con cui una donna avrebbe ornato il vestito o
i capelli. Ignorando il suo misero abito, che era stato ricucito e rattoppato sul petto dopo il folle attacco di Jobel, Jhanna lanciò in aria la seta e se la lasciò scivolare sul capo. Con le stelle d'argento che scintillavano e il suo sguardo d'argento perfettamente immobile, oltrepassò in un baleno il cortile dal suolo sprofondato ed entrò nella cucina. In cucina c'era Harmul, tutto indaffarato a liberare i forni dal carbone, o a fare finta di farlo. Dopo qualche attimo, sebbene la ragazza non avesse aperto bocca né avesse fatto alcun rumore, Harmul, apparentemente riluttante, si voltò. «Ti piace,» disse Jhanna, «il mio velo?» Harmul ebbe un sussulto, e cominciò a studiarsi i piedi sporchi. «Non è un velo da vera signora?» gli domandò dolcemente Jhanna. «L'ho trovato fuori della porta, proprio ora. Il dono di un demone. Non c'era nessuno. Credi che dovrei accettarlo?» Harmul tremava. «Ti ho sentito dire,» disse il ragazzo, «che ti sarebbe piaciuto... che avresti desiderato... che volevi tanto...» Si era confuso. «Un velo con ricami d'argento,» disse Jhanna a voce molto bassa. «Ma dove l'hai trovato un velo così?» «A Cassireia. Nella Via della Seta. L'ho rubato.» «Ah!» Fedele alla sua infanzia da schiava, Jhanna apprezzò la cosa. «Ed è per me?» «Sì.» «Allora ti ringrazio. Ma cosa vorresti in cambio?» Harmul, in atteggiamento di folle adorazione, si buttò con la faccia a terra. Jhanna rise, ma la sua risata fu fredda. «Una promessa d'amore?» Harmul non stava guardando perciò non vide, sentì solo le sue forti mani strappare il velo in due pezzi che poi lasciò cadere davanti a lui sul sudicio pavimento. «Non mi si può comprare con così poco,» disse Jhanna. «So di chi sei il servo fedele. Stai attento a me.» Harmul fece un borbottio spaventato, e prima ancora che lui riuscisse a rispondere o a pensare a una risposta, o che Jhanna gli sputasse, cosa che sembrava sul punto di fare, qualcuno cominciò a gridare dall'ingresso della casa. Entrambi riconobbero la voce di Zimir. Harmul balzò in piedi e si lanciò a tutta velocità nel cortile delle stalle, e da lì, attraverso un'altra arcata, nel cortile affrescato che fronteggiava la casa. Jhanna lo seguì, ma con più calma.
Zimir, stufo di lanciare pietre contro uno dei leoni ricoperti di licheni agli angoli del cortile, si era arrampicato su una delle palme agonizzanti. Da questa posizione poteva guardare oltre il muro della casa verso i frutteti. Non stava guardando niente di particolare, dunque era rimasto abbastanza sorpreso quando aveva visto apparire qualcosa di veramente particolare. Lanciando un'occhiata alle proprie spalle, Jhanna vide che, a una delle lunghe finestre in parte distrutte che si aprivano sopra i pilastri dell'ingresso, era apparso con aria spavalda Mevary. Indossava ancora un nuovo completo, questo del colore della canna bruciata, per accoppiarlo forse al colore dei suoi occhi, e stava lì, arrogante anche nel dubbio. Lui non guardò Jhanna, e lei, fissandolo, assaporò in quel momento la visione della sua morte, sanguinosa e conclusiva. Poi anche Jhanna guardò oltre i cancelli rotti, per vedere chi o cosa si avvicinava. Poiché cavalcavano abbastanza velocemente, presto emersero dai frutteti ed entrarono nel raggio della sua vista, tre alla volta, nove cavalieri. Alla loro testa due uomini, anch'essi a cavallo: uno si sposava al suo destriero con noncurante bellezza ma con evidente perizia. L'altro, che procedeva a sobbalzi, stava in sella in maniera goffa e con aria disordinata, decisamente grasso nei suoi abiti di raso, e con le mani piene di anelli che scintillavano. La sua chioma, colpita dal sole, emanava uno splendore color arancio. Quello che Jhanna vide bastò a farle sentire il cuore come ustionato da un fuoco. E bastò anche a farle desiderare il talismano di pietra verde con cui si proteggeva dai fantasmi. Il soldato mercenario parlò per primo. Grazie a una spettacolare ed autentica barba di due giorni, era diventato del tutto irriconoscibile a quanti lo avevano visto precedentemente nella parte del servitore o dell'estemporaneo assassino. Per lui invece Flor, dove si era recato tre volte, e dove era rimasto nel frattempo a spiare, stava cominciando a diventare noiosa. L'uomo si rivolse con fastidio ai ragazzi con i quali giorni addietro aveva avuto la breve schermaglia, poiché anche questa volta erano loro gli unici occupanti del corrile: Mevary e Jhanna erano entrambi scomparsi. «Andate dai vostri padroni, e dite loro che Lord Roilant è qui.» Questa volta i monelli non diedero segno di ribellione. Fissarono per un attimo il giovane e paffuto gentiluomo dai riccioli fulvi e se la svignarono istantaneamente.
Era stato difficile, ad un'occhiata superficiale, stabilire con certezza chi era apparso più nervoso, se Harmul e Zimir, oppure Roilant. Dai numerosi corridoi, cortili e camere della casa venne un confuso diluvio di spaventosi gemiti e di porte sbattute violentemente. Alla fine riapparve Zimir. Fermatosi tra i battenti del cancello d'ingresso, il ragazzo fece dei cenni e poi scomparve ancora una volta. Roilant scese da cavallo. Nel compiere questa operazione egli non fu proprio così sgraziato come lo aveva dipinto Cyrion nella sua interpretazione. Ma quasi. Scesero dai loro destrieri anche tre dei nove cavalieri. Gli altri sei rimasero ad aspettare in atteggiamento austero e vigile. Erano dei veri uomini da combattimento. Poiché la maglia d'acciaio era rigorosamente proibita, a meno che non ci si muovesse in difesa del regno, e sotto l'egida del re, questi cavalieri indossavano delle casacche senza maniche di lino imbottito capaci di resistere anche alle frecce, dei copricapo di ferro, ed erano fittamente ricoperti di chiodi. Su tutto si stagliava il pennacchio dei Beucelair di Heruzala. Non dei semplici soldati, ma la guardia personale di Roilant, armata fino ai denti e ovviamente in grado di uccidere. Roilant, insieme al soldato mercenario e alle tre guardie, si infilò con difficoltà tra le porte socchiuse e incastrate, attraversò il corridoio, ed entrò nel cortile interno. Mevary era in piedi accanto alla più distante delle fontane prosciugate. Anche il suo colorito sembrava un po' giallo, e lui, dopo essersi esibito in un inchino insolentemente pretenzioso, si raddrizzò e mantenne la sua posizione. Non disse una parola. I suoi occhi guardavano e riguardavano Roilant. Nonostante le rassicurazioni che Cyrion aveva fatto a Roilant sotto il carpine, il suo travestimento aveva simulato così bene il vero aspetto del paffuto terzo cugino da provocare un leggero terrore in una circostanza come questa. «Signore,» disse il mercenario, «sei tu Mevary di Flor?» «Forse,» disse Mevary. «Ma io vorrei sapere chi è costui, e perché non può parlare per sé.» Punto sul vivo, Roilant riacquistò un po' della fermezza e della rabbia che l'avevano condotto fino a lassù. «Posso parlare per me. Sono Roilant, tuo cugino.» Mevary strabuzzò gli occhi. Poi fece un sorriso. «Ti aspettavamo qualche giorno fa.» «Ed io sono arrivato qualche giorno fa, no?» Mevary restò inchiodato dal terrore, poi riuscì a controllarsi e, agitando
una mano in aria con fare lezioso, disse: «Davvero?» «È quello che hai creduto tu. In realtà era un uomo che aveva assunto il mio nome e che mi assomigliava un po'.» Mevary prese fiato e corse un rischio. «Vorresti dire,» disse cautamente, «che quello era un impostore?» «No. Era un mio rappresentante. Era venuto qui per impersonare me agli occhi tuoi e di nostra cugina...» Roilant tentennò, ma poi pronunciò il nome integralmente: «Eliset. Ha agito secondo le mie istruzioni. Ora vorrei sapere dove si trova.» «Ah.» Mevary fece una pausa. Lanciò una rapida occhiata al cielo limpido e poi guardò Roilant negli occhi. «Se n'è andato ieri. Il suo comportamento ci è parso strano.» Quindi, con molta cautela, «aveva fatto a Eliset una proposta di matrimonio.» «Non ci credo.» «È assolutamente vero. E credendolo te — che idea perversa la tua, Roilant caro — lei ha accettato.» «Intendevo dire,» disse Roilant oppresso, «che non credo che quell'uomo se ne sia andato. Credo invece che sia ancora qui.» Mevary allargò le braccia. «Cercalo.» «Lo farò.» Mevary spalancò la bocca. «Mandai quell'uomo qui in mia vece,» disse Roilant, «perché io avevo avuto dei cattivi auspici. E per quanto non li ritenessi degni di considerazione, tuttavia ricevetti ammonimenti così particolari che fui costretto a prendere delle precauzioni. Mi era stato detto che tu e... ed Eliset, non appena io l'avessi sposata, avreste tentato di uccidermi per impossessarvi delle mie ricchezze. Ora è chiaro che, dal momento che voi credevate che il mio agente fosse me, lei lo ha sposato e poi lui è stato ucciso.» Mevary sembrava seccato e non disse niente. «Se avrò bisogno della prova della vostra scelleratezza,» continuò Roilant, acquistando ad ogni frase una sorta di tetra potenza, «la morte di questo sfortunato giovane che agiva al mio posto, mi fornirà questa prova. Non mi resta che trovare il suo corpo, non credi? Dopo, questi gentiluomini scorteranno te e la tua... Eliset a Cassireia, dove ho già avvertito il governatore.» Mevary era diventato decisamente pallido, ma, sfoderando le sue zanne di lupo, riuscì con un sorriso a lanciare l'ultima sfida.
«Come hai detto, non ti resta che trovare il corpo.» Una giovane voce di donna fendette l'aria come un dardo di cristallo. «Mevary, sei davvero così ottimista? Se sa così tanto, sa pure quello.» Mevary girò il capo per guardare Eliset che stava sulla veranda del primo piano. «Stai zitta, lurida cagna.» «No,» disse Roilant, con insolita veemenza, «stai zitto tu, cagnaccio villano. Io lo so.» Per un attimo guardò Eliset, pallida e immobile accanto all'avorio in disfacimento, poi volse lo sguardo altrove. «Hai sepolto il corpo accanto a quello di Gerris, senza neppure il beneficio di un adeguato sudario.» Mevary fece per indietreggiare, dimenticando che la sua schiena poggiava già sulla fontana. Allora imprecando si spostò lateralmente. «Tu sei pazzo, Roilant, pazzo!» «E lei, naturalmente,» disse ora Roilant con più calma, «te lo ha perdonato.» «Sì,» disse Eliset. Aveva attraversato la veranda e aveva cominciato a scendere le scale di pietra. Si muoveva con sicurezza. Il suo volto era fermo come il volto della morte, e tuttavia mostrava una strana compassione. «Gli ho perdonato quell'orrenda, volgare sepoltura. Io sono colpevole quanto lui.» Raggiunto il cortile esitò per un attimo, poi fece un passo verso Roilant. «Sei mio ospite,» disse, «lascia che ti faccia strada io.» Roilant sbiancò. Mevary fece altrettanto. Eliset, più bianca di loro, entrò nel cortile dal suolo sprofondato seguita dagli altri, e poi, passando davanti alle stalle, raggiunse il pendio della collina. Roilant le stava dietro a cinque o sei passi di distanza, il mercenario seguiva lui a un passo. Mevary, che all'inizio aveva avuto una mezza idea di tentare la fuga (era sembrato così dal suo improvviso volgere verso il frutteto), era stato fermato da tre guardie. Resosi conto che lì intorno ce n'erano altre nove, Mevary aveva rinunciato a quel proposito, e ora camminava proprio davanti ai suoi catturatori, sorridendo a denti scoperti in una smorfia di estremo disgusto. Essere rovinato da degli idioti non gli faceva certamente piacere. Salirono lungo il pendio disseccato dal sole, dove il piccolo albero di zafferano risplendeva come un faro. Entrando nella sua ombra merlettata, Eliset si fermò accanto alla testa della figura di pietra e, senza dire una parola, posò lo sguardo su di essa. Roilant, Mevary, il soldato e le guardie si misero tutti attorno alla lastra
ad aspettare, come attorno a un tavolo di conferenza. «Signore?» domandò infine il soldato. Roilant deglutì. «Apritela.» Appena furono portate le leve e il loro lavorio stridente e graffiante ebbe inizio, più giù, ai piedi del pendio, tra i tamerici che costeggiavano il muro del bagno, apparve un'altra figura, Jhanna, che osservava la scena come un'ombra con gli occhi. Anche ora erano solo tre le persone impegnate nel lavoro, ma, in questa occasione, tutti uomini cresciuti e forti. Fu una questione di un attimo, poi il coperchio di pietra della tomba, che era rimasto un po' allentato dalla precedente rimozione, con uno stridulo cigolio si mosse verso l'alto. Il cuore di Roilant batteva tumultuosamente. Gli era nata da poco la folle speranza che, arrivando lì il più velocemente possibile, avrebbe fatto in tempo a salvare Cyrion dall'asfissia, se lui fosse riuscito a scampare prodigiosamente alla morte. Il coperchio fu sollevato e rimosso. Questa volta il contenuto della tomba di Gerris fu rivelato alla luce intensa, spietata e abbagliante del giorno, non più al cospetto di un'oscurità priva di luna. Il soldato e le guardie si affacciarono dentro mossi da curiosità. Gli altri tre si fecero coraggio e fecero lo stesso, mossi invece da un'inesorabile urgenza. La prima a reagire fu Eliset, che fece un breve, inespressivo sospiro. Il secondo fu Mevary. Voltandosi verso Roilant, egli gridò: «Ecco, testa di budino. E dov'è la tua prova?» Roilant guardava il corpo tutto avvolto nelle fasce che giaceva a un lato della tomba e che, dall'aspetto e dall'odore, era istantaneamente identificabile per quello di Gerris di Flor, e guardava anche l'ampia superficie di pietra dall'altro lato, che, annerita e percorsa da una fitta rete di crepe, indicava il posto per un altro cadavere. A parte questo, la tomba era vuota. V Prevedere le conclusioni di una mente contorta, e le azioni che ne conseguiranno, può essere talvolta meno difficile che indovinare il percorso di una lineare razionalità. In Cyrion, con ogni probabilità, una comprensione dell'irrazionale si accompagnava a una particolare percezione dell'occulto.
Cyrion aveva predetto che, nella notte del finto matrimonio con Eliset, Roilant, da lui stesso impersonato, sarebbe stato avvelenato. Di conseguenza era stato plausibile aspettarsi che, dal momento in cui sarebbe giunto sulla terrazza del tetto, egli sarebbe stato esposto agli attacchi di ogni piatto, fiasco o coppa che gli fosse capitato davanti. Era stata questa la ragione principale per cui Cyrion aveva organizzato l'aggressione al mercato di Cassireia. Sebbene l'assalto fosse servito anche ad altri propositi. In primo luogo aveva fornito una prova generale e pubblica del vero e imminente tentativo omicida, avvisando così Eliset e quanti altri a Flor ne fossero interessati, che una cospicua folla aveva udito quello che Roilant temeva gli sarebbe successo. In secondo luogo, e in maniera alquanto casuale, esso aveva gettato una manciata di confusione in più in un calderone la cui ricetta, fino a quel momento, era sembrata più che altro quella dei due cugini conniventi. Inoltre Cyrion aveva potuto osservare la reazione di Eliset all'imprevisto allarme, un effetto secondario divertente e non parco di informazioni. La terza ragione per cui era stato inscenato quel tafferuglio era bizzarra ma di vitale importanza. Essendo stato apparentemente e ripetutamente colpito sul viso, il povero Cugino Roilant da quel momento avrebbe avuto delle validissime scuse per trovare impossibile mangiare e molto difficile bere, a causa del prevedibile e antiestetico gonfiore di bocca e labbra che era stato praticamente inevitabile. Invece, procurarsi il danno e giustificarlo con la fragile scusa di avere sbattuto contro una porta o di essere caduto dalle scale, in un clima così sospettoso non sarebbe bastato. Essere ridotto in quel modo sotto gli occhi di parecchie persone sarebbe stato molto più convincente. La vera causa del gonfiore sul viso di Cyrion, naturalmente, non era stata né il pugno né il dente rotto che quello avrebbe provocato. Il soldato mercenario, come la maggior parte di coloro che combattevano, era un maestro nella lotta simulata; Cyrion altrettanto. Il fazzoletto macchiato dai datteri era stato usato per nascondere la mancanza di lividi piuttosto che il loro insorgere. Nell'intimità della sua stanza a Flor, Cyrion si era poi tolto l'imbottitura delle guance che il suo ruolo aveva richiesto, per sostituirla con un'altra a cui era attaccato qualcosa di ancora più ingombrante. Era una specie di piccola borsa fatta di una pelle sottile, che ai lati aveva delle tasche sempre di pelle e a una estremità terminava con una rozza imitazione dell'interno delle labbra umane. Inserendola in bocca, essa si manteneva a posto sia per la suzione, che per la semplice mancanza di spazio. Una volta che il mar-
chingegno era posizionato, la parte inferiore del volto diventava simile a quella di un babbuino pensieroso. Mangiare era impossibile, e parlare era un tormento perché, sebbene la lingua potesse muoversi, lo doveva fare da sotto la pelle, e perché anche le labbra non erano completamente libere nei movimenti. I denti erano del tutto esclusi dal quadro. Il fascino di questo orribile affare consisteva tuttavia nel fatto che, qualora uno si fosse lasciato abbattere e si fosse lasciato forzare a bere un veleno, anche del tipo più corrosivo, il liquido, purché versato con attenzione dentro le finte labbra, non avrebbe avuto alcun contatto con nessuna parte della bocca, e quindi non avrebbe neanche raggiunto lo stomaco. Togliere la borsa era anche più semplice che inserirla. La si prendeva e la si tirava delicatamente. Una volta che lo strano congegno era stato estratto dalla bocca, senza che una sola goccia di veleno avesse potuto agire, la sostanza poteva essere tirata via dalle sacche ed esaminata. Tutto questo era stato fatto. E Cyrion era rimasto estremamente affascinato quando più tardi aveva identificato il veleno che era stato nella coppa. La mossa successiva era stata un po' meno facile e decisamente meno piacevole. Quando si erano aspettati che bevesse il veleno, lui lo aveva fatto. Poiché ora si aspettavano che morisse, Cyrion aveva tutte le intenzioni di non deluderli neanche questa volta. Prevedendo che dopo sarebbe stato sottoposto ad accurati esami per verificare l'effettiva sua morte, egli sapeva che fingere il decesso, per quanto la finzione fosse convincente, non sarebbe bastato. Era vero, Cyrion conosceva quelle tecniche attribuite di volta in volta ai nomadi, ai profeti e ai maghi, e praticate anche in altri luoghi, discipline ritenute magiche che riguardavano il controllo e il dominio del corpo. Tra queste tecniche e queste magie, ce n'erano due o tre che permettevano di ottenere una morte apparente, e solo una capace di procurare una vera morte fisica. Una vera morte che, purché la mente e il corpo fossero sani e in condizioni più che ottime, poteva essere temporanea, e poteva essere revocata a piacimento dell'adepto. Questa tecnica si rifaceva a un sistema di energie galvaniche naturali presente nel corpo e situato nel midollo spinale e nel cervello, un sistema conosciuto, almeno tra i nomadi, come Il Serpente. Questa 'creatura', che era energia pura, poteva essere risvegliata e sollecitata dal sistema nervoso della spina dorsale. Salendo su per le vertebre come un serpente, la carica di elettricità avrebbe infine raggiunto il cervello e lì sarebbe esplosa: questo era il morso del serpente. Poteva anche sembrare come essere colpiti da un fulmine. Il cuore si fermava, e tutte
le funzioni complementari cessavano. Il corpo giaceva in stasi, e, nel linguaggio comune a ogni medico, era morto. Mentre rimaneva impenetrabile anche alle più infallibili prove mai escogitate per stabilire il sopravvento della morte. Ciò nonostante la coscienza restava sveglia. All'inizio del processo, naturalmente, si perdevano i sensi, la coscienza si spegneva come una candela. (E in un inesperto, essa sarebbe rimasta assopita fino a che non si sarebbe ritrovata separata dal corpo e incapace di rientrarvi.) Cyrion, un adepto la cui abilità parlava da sé, fu di nuovo sveglio in meno di un'ora, e così, dalla buia guardiola del suo cranio, poté osservare lo svolgersi degli avvenimenti. Nel momento in cui gli esami finirono, e il corpo dimostrò contro ogni dubbio di essere morto, Cyrion riattivò gli organi e i flussi del proprio corpo nella maniera più sottile e impercettibile che fosse possibile. Se lo avessero esaminato ora, avrebbero sentito il suo cuore battere, per quanto debolmente e con lunghi intervalli tra una pulsazione e l'altra. Avrebbero anche notato un quasi impercettibile respiro. Ma soltanto se fossero tornati ad esaminarlo in maniera pedantemente dettagliata. E a quel punto ormai, chiunque avesse voluto studiare il cadavere lo aveva già fatto. Come dicono proprio i nomadi: a che scopo dare fuoco al fuoco? Perciò, per parte di una notte, per un giorno e per una seconda notte, Cyrion rimase ai margini della vita, perfettamente cosciente, mentre gli altri lo credevano un cadavere. Infine, questo cadavere dal debolissimo respiro fu buttato nella tomba maleodorante di Zio Gerris, il cui coperchio venne su di lui fermamente richiuso. Prevedere in anticipo dove lo avrebbero sepolto non era stato affatto difficile. La stessa Eliset aveva parlato dello spazio vuoto in questa tomba. La decisione di non seppellirlo, come il povero Jobel, nella nuda terra, sarebbe scattata al momento dell'arrivo delle carte legali indirizzate a Roilant. Come Mevary aveva intelligentemente intuito, privare i legittimi eredi delle proprie ricchezze per donare tutto al re implicava un sospetto nei riguardi dei detti legittimi eredi. Non era consigliabile, quindi, spargere la notizia della morte di Roilant. E neanche lasciare in vista a eventuali visitatori una prova così evidente come del terreno smosso di recente. In seguito a queste considerazioni Cyrion, nella notte dei fantasmi, aveva visitato la tomba sotto l'alberello di zafferano. Lavorandoci per un po' con un martello e un cesello, aveva fatto in vari punti della base della tomba una serie di piccoli buchi. La pietra, attaccata e corrosa dall'umidità, si era rivelata abbastanza fragile. I buchi che Cyrion era perciò riuscito a fa-
re, sebbene piccoli, sarebbero sicuramente bastati a far entrare nella tomba l'aria necessaria a un essere vivente che vi fosse stato chiuso dentro. Nessuno aveva preparato il corpo di Cyrion-Roilant per il suo riposo eterno. Cyrion aveva previsto anche questo. Usare simili riguardi verso una persona del cui assassinio si poteva essere accusati sarebbe stato ridicolo e irritante. Inoltre, poiché faceva caldo, era consigliabile una certa fretta. Per questi motivi l'imbottitura del travestimento di Cyrion non fu mai scoperta, come non furono scoperti quegli utilissimi attrezzi che l'imbottitura aveva contenuto durante gli ultimi fatali eventi. Quella di Cyrion in pietra doveva essere un'immagine temporanea, non una condizione permanente. Una volta che il coperchio della tomba era tornato stridendo al suo posto, la coscienza di Cyrion, remota ma saldissima, aveva cominciato a riportare il suo corpo al pieno possesso delle sue facoltà. Era logico ed evidente che non era la prima volta che Cyrion praticava questa esperienza di abbandono e ritorno alla vita. E si può anche immaginare che questo rito comportasse un certo disorientamento e una certa ebbrezza mistica. Ma se anche fosse stato così, questi particolari erano stati trascurati dall'adepto al suo ritorno. Dopo essersi sollevato dal pavimento della tomba, Cyrion aveva proceduto a riacquistare la libertà. Anche questo era logico. L'unica cosa illogica era stata che, invece di cercare di forzare il coperchio verso l'alto, lui aveva deciso di continuare ad andare verso il basso. Sotto la tomba di Gerris c'era un corso d'acqua sotterraneo, lo si capiva chiaramente dalle condizioni della base della tomba, dai licheni che la ricoprivano, e dal rigoglioso alberello che cresceva proprio in quel punto, quando tutto il resto della scogliera era coperto solo da erba bruciata e da una manciata di fiori appassiti. Poteva esserci un corso d'acqua anche sotto il pozzo infestato del corridoio, che dava sulla grande caverna che sembrava insidiare tutta quella parte della scogliera. C'era anche da raccogliere un'interessante informazione sullo spessore di materiale solido che separava il vuoto della caverna dalla superficie di terra sulla cima della scogliera. Lo spessore della roccia direttamente sotto l'imboccatura del pozzo doveva essere di una decina di metri, dato che era all'incirca questa la profondità a cui si trovava il fondo mobile del pozzo. D'altra parte, lo spessore della roccia sotto la stanza da bagno doveva essere minore, altrimenti non sarebbe stato possibile che, quando la caverna centrale veniva illuminata, la luce filtrasse attraverso la vasca del calidario. E inoltre la casa, seppure in grave disfacimento, sembrava ben salda sulle sue fondamenta. Ma appena
si oltrepassava il muro di recinzione del bagno, ecco che ogni cosa posta sul terreno franava verso il basso. Le tombe scivolavano, trascinando i fianchi fuori dal terreno. La torre era in una posizione estremamente precaria, inclinata in maniera quasi comica. Non era assurdo pensare quindi che l'area rocciosa sotto la tomba di Gerris, con in più la faglia d'acqua, non fosse molto solida né particolarmente stabile. Dopo aver acceso la prima delle tre sottili candele prese dall'imbottitura dello stomaco, Cyrion spinse in un angolo il cadavere morto con il quale egli divideva la sua temporanea dimora. Scoprì così che il fondo della tomba sotto il cadavere era più corroso di quello dall'altra parte, forse a causa dell'interazione tra le carni in decomposizione e la muffa sulla pietra. Mentre nove anni e mezzo avevano pressoché sterilizzato ogni aspetto sgradevole delle prime, essi non avevano fatto altro che permettere alla seconda di prosperare. Cyrion si mise al lavoro procedendo con calma perché, sebbene vi fosse l'aria, essa era pur sempre limitata, mentre la tomba restava minacciosamente chiusa. Quando poteva egli lavorava anche al buio, risparmiando così le candele, che erano tre. Gli attrezzi necessari, il martello, il cesello e un po' di leve e cunei, oltre a qualche altra cosa utile, furono tirati fuori dalle imbottiture del petto, della schiena e delle braccia. Insieme a un abbondante rotolo di corda. Il lavoro fu pesante, ma mai impossibile. Dopo i primi cinque minuti un grosso pezzo di pietra, venendo su tutto in una volta, portò l'odore della terra bagnata. Due ore più tardi venne su un soffio d'aria. Non sapeva di acqua fresca, ma aveva odore di pesce, come di un mare sotterraneo. Quando l'ultima candela stava per consumarsi, una parte del considerevole buco che si era formato lì sotto cedette tutto in una volta. Il rumore provocato dal materiale roccioso che rotolava giù durò per qualche istante. Cyrion ripulì il pavimento della tomba. Dopo aver inchiodato un gancio di ferro nella roccia proprio sotto la nuova apertura, fissò la corda al gancio e se stesso alla corda. Si calò attraverso il buco fissando i piedi sulla roccia, poi si voltò a prendere la candela, che pose per comodità su un pugno sporgente dalla roccia. Si voltò ancora e tirando il cadavere lo riportò nella sua precedente posizione sul lato meridionale della tomba, in modo che esso, insieme al sudario in cui era avvolto, coprisse completamente la nuova uscita. Poi Cyrion si lasciò andare giù, in un'oscurità sempre più densa.
Un attimo dopo incontrò il leggero gorgogliare del piccolo ruscello sotterraneo che aveva udito per un po'. L'incontro gli procurò involontariamente un freddo ma igienico lavaggio dalla polvere della tomba. Per un po' il ruscello lo accompagnò nella sua discesa, prima di infilarsi in un canale laterale che era troppo stretto perché Cyrion lo potesse seguire. Poco dopo, la sempre più fievole luce dell'ultima candela tremolando si spense, e intorno a lui rimase soltanto un'intensa oscurità. Cyrion non sapeva quanto sarebbe durata la discesa. Essa poteva essere bloccata da un altro pavimento naturale, oppure, cosa molto più probabile, attraverso curve e contorsioni, poteva terminare direttamente nel corpo della caverna, e da lì nell'acqua sul fondo della caverna. Mentre si calava nello stretto imbuto, sorretto soltanto dalla corda che penzolava, Cyrion era cosciente che quella roccia traditrice, così facilmente penetrata dagli attrezzi di metallo, poteva con altrettanta facilità lasciare andare il gancio di ferro a cui la corda era fissata, e farlo così precipitare nell'impenetrabile vuoto che si apriva sotto i suoi piedi. La complessità e il pericolo dell'impresa erano tuttavia essenziali al piano nella sua totalità: con questo metodo personale e segreto Cyrion avrebbe scoperto ciò che gli interessava scoprire, lasciandosi dietro nel frattempo il caos e l'incertezza. Roilant era stato lasciato fuori da questa fase del piano di proposito. Le sue doti interpretative erano scarse. Per farlo sembrare convinto del probabile assassinio di Cyrion bisognava farglielo credere veramente. Cyrion aveva sospettato che Roilant di sua iniziativa avrebbe mandato il mercenario a spiare cosa stava succedendo a Flor, ma, nel momento in cui il soldato aveva montato la guardia, lui era così immerso nella faccenda del proprio avvelenamento e dei suoi effetti, che non aveva avuto il tempo di dedicarsi a questa ipotesi di spie mandate dal proprio campo. Infatti Cyrion prevedeva che Roilant, non avendo ricevuto da lui le attese comunicazioni, sarebbe arrivato a Flor con le sue ampollose accuse, e che, per cercare i suoi resti, avrebbe messo a soqquadro tutta la casa. Il piano era stato in qualche modo rovinato dal fatto che Roilant sapeva esattamente dove era stato sepolto il cadavere. Tuttavia Cyrion, lasciando la tomba, per stare più tranquillo aveva coperto il buco con le ossa di Gerris , con la stessa meticolosità di quando partendo si chiude a chiave la porta. Fortunatamente, e non del tutto sorprendentemente, le varie persone che avevano aperto la tomba erano rimaste così stupite di non trovarvi dentro Cyrion, che non avevano pensato di
sottoporre quella malaugurata e puzzolente scatola a un esame più rigoroso. Invece si erano dati tutti a frenetiche ricerche nell'area circostante. Pensare che il prigioniero, in grado di liberarsi, l'avrebbe fatto verso l'alto, era psicologicamente inevitabile. Non c'era del resto nessun segno evidente a suggerire il contrario. Immersi in un folle speculare, non privo di un timore del soprannaturale, si chiedevano tutti come avesse fatto quel demonio travestito a sollevare da solo il pesante coperchio della tomba e a svanire senza lasciare traccia. Tutto questo Cyrion lo avrebbe previsto, se si fosse fermato a riflettere sull'apparizione della spia mandata da Roilant. L'averlo solo immaginato, seppure in maniera confusa, sarebbe comunque bastato. Da vero artista qual era, Cyrion continuava a scendere artisticamente, tramite la corda, nel buio cieco delle viscere della scogliera. Si trovava ora a circa cinque metri sotto la tomba, ma il materiale roccioso che si era precedentemente staccato sembrava essere caduto molto più in basso. Il termine della discesa rimaneva una congettura, mentre il gancio di ferro, che poteva cedere da un momento all'altro, sorreggeva tutto il suo peso. Ma prima che il gancio cedesse, o anche che la corda finisse, accadde qualcos'altro. I suoi piedi, che cercavano altra superficie su cui fare leva per continuare a scendere, incontrarono uno spazio aperto. Calandosi con estrema cautela in questa apertura, Cyrion scoprì di aver raggiunto un corridoio che curvava bruscamente, un passaggio naturale nella roccia. Appena i suoi piedi toccarono un solido, seppure franoso terreno, da un punto non distante gli giunse forte l'odore dell'oceano e, con esso, un fioco bagliore di luce. Quella luce ora gli permetteva di vedere, non più di sentire soltanto, la consistenza e l'angolazione del terreno. Era su questo terreno che i detriti rocciosi si erano schiantati, continuando poi da qui a scivolare verso il basso, e dandogli così l'impressione di essere precipitati nel vuoto molto più a lungo di quanto non avevano fatto. Cyrion nascose la parte di corda che avanzava in un interstizio della roccia, come aveva già fatto con l'imbottitura e con gli attrezzi della fuga riponendoli in alcune cavità subito sotto la tomba. Questi gesti rivelavano la stessa meticolosità del chiudere a chiave la porta. Era infatti davvero poco probabile che qualcuno trovasse quegli oggetti. Cyrion cominciò a camminare verso la luce. Aveva una forma ovale, e ora era perlacea, e tremolava come per il riflesso dell'acqua. Con la luce veniva anche il cupo e incessante mormorio
del mare. Piante umide pendevano gocciolanti dalla roccia. Dopo un minuto Cyrion attraversò l'ovale di luce, che era la bocca di una caverna, e si trovò su una sporgenza a spirale larga tre o quattro metri, una specie di loggione che correva per un terzo della sua lunghezza lungo il ventre della caverna, offrendo una panoramica quasi completa di quel posto. Ricordava in modo sensazionale il Ventre della Balena. In alto la pietra a nervature, luminosa e pallida. Tutt'intorno le pareti ripidissime di quell'enorme scheletro, tutte butterate da un centinaio di piccole cavità, e tutte percorse da uno strano riflesso a chiazze come di metallo ossidato. E in basso, a una distanza di circa ottanta metri, il fondo della caverna, una lastra d'acqua, non nera, ma di un verde cupissimo e opalescente. Sul versante occidentale la caverna si restringeva in un canale che portava sicuramente al mare aperto davanti alla scogliera, sotto forma di qualche stretta e nascosta cavità. Ma non era da lì che proveniva la luce che dava alle pareti quel riflesso così particolare. Il sole infatti non doveva ancora essere sorto. L'origine di quella luce stava invece in una serie di piccoli fuochi che bruciavano molto più giù, nelle cavità delle grotte più basse. Questi fuochi producevano poca luce, tuttavia tra il loro bagliore e il riflesso di quel bagliore su qualche sostanza nella roccia, l'intera caverna riluceva di una luminosità lattiginosa, vaga ma innegabile. Di nuovo elegante senza l'imbottitura, sebbene ancora abbigliato nei pomposi abiti della cena nuziale, Cyrion cominciò a percorrere lo scivoloso loggione che scendeva verso il basso. Aveva visto qualcosa alla sua sinistra, un po' distante lungo il sentiero. Lo attirava quasi quanto l'incandescenza nelle caverne più sotto. Un lungo e ininterrotto cappio di spessa corda scendeva giù fino a toccare il suolo. Seguendolo con gli occhi verso l'alto, Cyrion vide una curiosa gabbia d'ottone ferma contro il tetto della caverna. Sopra la gabbia, un po' scostato, si distingueva sul tetto un buco, e dal buco si vedevano pendere i lembi di un altro cappio di corda, ma più sottile. Nel punto in cui le due estremità uscivano dal buco esse venivano tese fino a raggiungere una sporgenza della roccia adiacente a cui erano fissate da ganci di ferro. Guardando in basso dall'imboccatura del buco, doveva sembrare che le corde terminassero nell'aria, oppure, per un'illusione ottica, nell'acqua che era molto più in basso. Lo strano congegno della gabbia, trovandosi a lato del buco e nascosto dal tetto che si allargava improvvisamente, non era visibile. La
sommità del buco era naturalmente l'antico pozzo nel corridoio della casa. Cyrion studiò la gabbia, e tutte le corde. Sembrava che per raggiungerla fosse necessaria qualche acrobazia. Prima ci si doveva calare lungo il pozzo servendosi della doppia corda, poi, dondolandosi pericolosamente, ci si doveva lanciare dalle corde dentro la gabbia. Una volta raggiunta la gabbia, era chiaro dalla semplice puleggia che la sovrastava, che l'occupante manovrando la corda poteva far scendere il bizzarro veicolo fino al loggione di roccia. La risalita doveva avvenire tramite un'altra via. Dall'alto, dalle viscere del pozzo, venne un lievissimo rumore. Dopo che aveva studiato il metodo di funzionamento delle corde e della gabbia, a Cyrion sarebbe stata offerta anche una dimostrazione pratica. Mostrando un cortese interesse verso il fato premuroso, Cyrion indietreggiò fino a nascondersi in una delle rugose fessure della parete, e si mise ad osservare. Subito dopo dal canale del pozzo sbucò un paio di lunghe gambe, e dopo queste un busto. Due mani sottili stringevano le corde tese, procedendo verso il basso con eccezionale controllo fisico e sorreggendo l'intero peso dell'agile corpo. Arrivati all'estremità delle corde i piedi cominciarono a scalciare; poi, raggiunta la gabbia, la tirarono verso il condotto del pozzo. Quando la gabbia si trovò direttamente sotto l'apertura del pozzo, la figura vi saltò dentro con leggerezza, tenendosi ora dalle sbarre della gabbia che traballava. Un'operazione veramente pericolosa, eppure svolta con l'agilità di una scimmietta. O altrimenti, con l'agilità di un essere umano abituato ad appendersi e a stare in equilibrio, per le oscure leggi di un intrepido ma matematico coraggio. La gabbia cominciò a stabilizzarsi e l'essere che vi stava dentro attese che il processo terminasse completamente prima di cominciare a tirare verso il basso il cappio. Per come era vestito, il passeggero della gabbia poteva sembrare uno dei ragazzi, Zimir o Harmul. Ma appena fu più vicino, Cyrion notò sul suo capo una luminosa chioma bionda raccolta in maniera accurata per impedire ai capelli di sciogliersi. Sia l'acconciatura che i vestiti erano chiaramente delle sagge precauzioni per il viaggio. La gabbia atterrò obbediente al suolo. La ragazza ne saltò fuori, e la luce dispettosa della caverna ne illuminò per un attimo il profilo. Se fosse ancora rimasto qualche dubbio riguardo al suo sesso, in quel momento esso sarebbe stato spazzato via. Lasciata la gabbia, la bionda figura cominciò a scendere lungo lo scivoloso pendio della roccia. Un attimo dopo, imboccato apparentemente un al-
tro sentiero, che non era visibile dal punto in cui si trovava Cyrion, la ragazza svanì velocemente verso il basso. A questo punto Cyrion cominciò a seguirla. Il sentiero fino allora invisibile presto si rivelò. Svoltava in basso verso l'interno della caverna, e si confondeva tra vecchie frane di materiale roccioso. A Cyrion, come lo era stato alla ragazza, questa via fu perfettamente accessibile. Egli rallentò solo quando la testa giallo topazio fu di nuovo nel raggio della sua visuale. L'idea che la ragazza si stesse dirigendo verso le grotte illuminate dai fuochi non fu stavolta il risultato delle eccezionali capacità deduttive di Cyrion. Lo avrebbe capito chiunque. A meno che non ci si volesse gettare nell'acqua torbida e ghiacciata per una nuotata, non si poteva andare da nessun'altra parte. La ragazza oltrepassò le prime sei grotte. Erano tutte buie. La settima, rivelata da una svolta nel sentiero, brillava di una luce stregata, dall'infernale bagliore rosso cupo. Il crepitio delle fiamme riecheggiava in quel martellante silenzio, avvolgendo tutto in un manto di irrealtà. (L'acqua era ora più vicina, forse a una cinquantina di metri più in basso. Le volte delle grotte e la sporgenza della roccia ne nascondevano i contorni tondeggianti. In qualche punto nascosto alla vista, sulla riva del bacino, doveva esserci la misteriosa nave.) La ragazza si era fermata davanti alla grotta illuminata. Alla fine, quel suo sguardo maligno e scolorito, quella bellezza, i gioielli degli occhi e i movimenti aristocratici del capo e del corpo l'avevano descritta abbastanza bene. Entrò nella grotta e scomparve ancora una volta alla vista di Cyrion. Ma quasi subito Cyrion la sentì parlare con quella voce musicale che, anche ad occhi chiusi, avrebbe riconosciuto come la voce di Eliset di Flor. «Salute, Oe-Tabbit.» E una voce più anziana, come una secca crosta di pane spezzata, le rispose: «Salute. Perché sei qui?» «Per portarti notizie ed esprimere la mia gioia a te e alle altre sorelle.» «Ne è morto un altro, allora.» «Sì, Oe-Tabbit. Ne è morto un altro.» «E tu ricordi la promessa alla Grande Madre, la Signora del Grande Oceano?» «Certo, Oe-Tabbit. Lui apparterrà a me soltanto perché appartiene a Lei. È il sacrificio che io Le offro.»
Seguì una lunga pausa. Poi di nuovo la voce della strega del mare, di colei che era stata la balia di Eliset e della perduta Valia, una dorma vecchia già allora, e già allora appartenente a quella folle congrega di streghe, e probabilmente vecchissima, vecchia quanto la scogliera o quasi, quella scogliera che aveva dato a Flor la sua leggenda di sirene ammaliatrici che venivano fuori dalle onde per rubare e uccidere. «Ricorda anche, figlia, che questo tuo disegno ti è permesso soltanto per il Suo volere. Tu appartieni a Lei. Tu non hai vita se non la vita che Lei ti dona.» Da un punto della grotta illuminata dal fuoco si sentì provenire l'acuta risata di una ragazza. «Lo so da tredici anni. Non Le ho già offerto sacrifici prima d'ora?» «Sì, lo hai fatto. E Lei lo ricorda. Però, stai attenta. C'è un fumo attorno a questa cosa, una nebbia. Un altro elemento che non può essere controllato e che non si rivelerà. Forse è l'interferenza di un altro essere umano. I servi forse. Sono in tuo potere?» «O così, o morti.» «Allora è qualcun altro. Uno straniero.» «O forse è un fantasma. Ogni tanto appare ancora mio zio Mevary. Io mi sono protetta da lui come tu mi avevi raccomandato. Credo che abbia un grande desiderio di farmi del male.» «Questo non è un fantasma. Le conchiglie nel fuoco mostrano un uomo con i capelli bianchi.» «Bianchi come i tuoi, Oe-Tabbit? Non lo temo. Lascia che venga a Flor, e perirà anche lui con gli altri miei nemici.» «Piano,» disse la voce orribilmente frantumata della vetusta strega dal suo nido di roccia, fuoco e mare. «Sei ancora giovane per giocare con la morte.» «Sono giovane,» disse la giovane voce. «Ma chi ha detto di aver solo giocato?» Tabbit fece un rumore sommesso e disse: «Presto sarà giorno.» Poi, con un sussurro: «Vai a vedere se qualcuno ti ha seguita.» Quando la figlia di Gerris, con orgoglio, veemenza e incertezza, uscì sul sentiero per guardare, il sentiero e tutta la parte superiore della scogliera erano deserti. Poco tempo dopo la gabbia fu di nuovo tirata su, e una figura di donna in abiti maschili salì acrobaticamente lungo il condotto del pozzo.
Anche il sole salì. In seguito a questi eventi, Jhanna aveva pianto nella sua cella; Zimir aveva individuato un gruppo di visitatori in marcia verso Flor; Roilant era apparso improvvisamente alla servitù terrorizzandola; Mevary era impallidito; Eliset aveva fatto strada fino alla tomba del padre. E infine la tomba era stata aperta per rivelare una miracolosa mancanza. Nel frattempo, a un centinaio di metri sotto le loro suole, Cyrion stava seduto in una grotta a consumare la piccola porzione di cibo e di vino di cui si era provvisto, e ad osservare la vecchia strega rugosa nei suoi occasionali vagabondaggi sulle rocce più in basso. In seguito alla scoperta della tomba vuota, si era verificata una scena piuttosto divertente. Nel mezzo di un salone in rovina al pianterreno, il cui arredamento consisteva solo di due candelieri di legno e una gabbia per uccelli vuota, Roilant aveva affrontato Mevary. Fuori, nel cortile centrale della casa, due guardie dei Beucelair stavano appoggiate a una fontana. «Te lo chiedo ancora una volta,» disse ancora una volta Mevary, «dov'è la tua prova?» «L'assenza del mio agente costituisce già una prova.» «Ah, è così? Ti ricordo che quell'imbecille se n'è andato. Si è preso i tuoi soldi e ti ha gabbato.» Roilant era diventato tutto rosso e gli tremavano le mani. Era in uno stato indeterminato tra rabbia, allarme e senso di colpa. Né la presenza di Eliset accanto alla porta lo aiutava. Provava un particolare imbarazzo nell'accusare Eliset dell'omicidio, mentre bruciava dal desiderio di avere giustizia di Mevary, con mezzi leciti o illeciti. Da parte sua Mevary era teso, allegro e inquieto a un tempo. La misteriosa scomparsa, che da un lato lo aveva tolto dai guai, dall'altro aveva posto insolubili questioni. Se il disgraziato doppione di Roilant era vivo ed era sparito, come c'era riuscito, e dove si trovava ora, e cosa stava facendo? C'era una certa distrazione da parte di Mevary, una mancanza di attenzione alle domande e alle accuse di Roilant, dovuta al fatto che il suo cervello in quel momento correva abbaiando dietro la sua preda, cercando di inseguire Cyrion fino alla sua tana, cercando di capire come uno che sembrava un cadavere potesse essere invece vivissimo. Ma c'era un'altra possibilità. Che Cyrion fosse veramente morto come era sembrato, e che qualcun altro, una terza persona, ne avesse rubato il cadavere per fini personali.
Ma per fare le necessarie ricerche Mevary aveva bisogno dell'oscurità e del collasso del confuso rosso cugino. In mancanza di meglio, Roilant annunciò: «Sei un dannato bugiardo, e le tue menzogne ti porteranno alla fine della corda.» A questo proposito Mevary, in mancanza di meglio, aveva dato a Roilant un suggerimento su come utilizzare l'estremità della corda. In questo frangente Eliset parlò, per la prima volta in un'ora. «Roilant, so bene di essere implicata quanto Mevary. Ma mi domandavo se la tua clemenza fosse tale da permettermi di ritirarmi nella mia stanza. Hai la mia parola che non fuggirò. E poi, come potrei fuggire? Le tue guardie sorvegliano ogni uscita. E in ogni caso, ho così poco denaro che non potrei neanche procurarmi un rifugio, qualora riuscissi a eludere la sorveglianza delle guardie. Comunque, se vuoi, puoi anche mettere una guardia alla mia porta. Sono veramente stanca di tutto questo, credimi.» Roilant la guardò. Il viso di Eliset era cadaverico, quasi privo ormai della sua bellezza, in un modo che suscitava simpatia. Era difficile che anche questa fosse una recita. Sembrava che, oltre a aver sopportato le tensioni del giorno, non avesse affatto dormito la notte precedente. «Sì, certo.» disse Roilant. «Non ci sarà bisogno di sorvegliare la tua porta. Mi dispiace che questo... mi dispiace...» «Il rammarico è qualcosa di superfluo,» disse Eliset. E poi, con una dignità senza enfasi che strinse il cuore a Roilant, «sei molto gentile.» Eliset uscì dal salone, e Roilant la seguì, ordinando poi alle guardie di lasciarla andare. I raggi del sole le colpirono i capelli quando, svoltando verso gli scalini della veranda, si fermò un istante a guardare l'albero d'arancio che era morto nel suo vaso. Poi salì i gradini con estrema grazia, e Roilant notò che aveva un buco in una scarpa. Raramente una potenziale assassina era stata oggetto di tanta riverenza e indulgenza da parte della sua vittima. Appena dentro la camera, Eliset ne sbarrò la porta. Era sinceramente esausta, e raggiunto il letto vi si sdraiò. Aveva preso con estrema serietà la morte dell'albero d'arancio. Non si aspettava di dormire, era troppo turbata dagli eventi, e per un po' stette tristemente a ascoltare i rumori soliti e insoliti che venivano dal cortile e dal versante più distante della casa: il mare, gli uccelli, il lontano e familiare tintinnio di un secchio che veniva riempito al pozzo della cucina, poi le annoiate risate delle guardie in giro per la casa, i nitriti dei loro cavalli (che risvegliavano il ricordo di giorni lontani), e una volta o due le
dissonanti zuffe di Roilant e Mevary che divampavano da basso. E infine il sonno cominciò a annebbiarle i sensi, e tutto diventò sempre più lontano. Sembrava che non potesse fare altro, così si lasciò andare completamente, e la luce del pomeriggio si spense. Quando si risvegliò, il mondo apparteneva alla notte. Il cielo era pieno di stelle, e la luna stava per sorgere. Doveva essere, pensò Eliset, almeno un'ora dopo il tramonto. L'evasione procurata dal sonno era stata troppo seducente. Con la nervosa sensazione di aver perso qualche evento cruciale, Eliset si alzò dal letto, accese un paio di candele e andò alla porta della camera. Ma aveva già posato la mano sulla sbarra, che si fermò. La confusione di suoni era finita. La casa era insolitamente silenziosa, come in attesa del suo risveglio. Poi, senza alcun preavviso, si udirono dei leggerissimi colpi alla porta, e lei a fatica trattenne un grido. Passò qualche attimo prima che riuscisse a dire: «Chi è?» «Roilant,» rispose un roco sussurro. Eliset rimase perplessa, la mano ancora ferma sulla sbarra, senza sollevarla. Se fosse stato veramente Roilant, il conquistatore, che bisogno avrebbe avuto di bisbigliare? Improvvisamente Eliset ebbe la fantasiosa idea che lui fosse venuto di nascosto per aiutarla a scappare da se stesso. Vagamente divertita, riconobbe che ormai non c'era più nulla di cui potesse preoccuparsi e, sollevata la sbarra, aprì la porta. La morbida luce delle candele rischiarò e illuminò la figura dell'ospite. Eliset fece tre involontari passi indietro, con gli occhi sbarrati. «Chi sei?» disse con gravità il nuovo giunto, entrando nella stanza e richiudendo la porta sulla notte. «Tu chi sei?» ripeté docilmente Eliset. «Come Roilant ti avrà spiegato, certamente in maniera adeguata, la persona che si trovava qui e che rispondeva al suo nome era un impostore. Il vero nome di quest'uomo è Cyrion. Io sono Cyrion. Buona sera.» «Ma...» disse lei. «Ma considera che, a parte la deplorevole capigliatura, non sono più travestito.» Dopo aver chiuso la porta vi si era appoggiato con disinvoltura, immerso nella luce dorata delle candele e vestito degli abiti piuttosto malconci che indossava nella notte delle loro nozze. Per il resto era ben diverso da come
Eliset lo ricordava. Un uomo giovane, alto e snello, con molto della lince e della pantera, un volto irresistibilmente affascinante come quello di un Demonio, occhi dalle lunghe ciglia simili a spade sguainate per metà, e, su tutto, lo stendardo arancione della chioma. Era stato questo, allora, a ingannarla, a provocarla, a fare di lei un'idiota, a spaventarla. Era stato lui a salvarla sull'orlo della scogliera... a morire davanti ai suoi occhi in quella stessa stanza. «Se stai per svenire,» disse Cyrion, «ti prego di considerare che io potrei non essere così veloce a prenderti come lo è stato Mevary.» Eliset disse freddamente: «Non sono mai svenuta in vita mia.» «Non credevo.» «Parli del giorno in cui è morto Jobel? Ero stanca e nauseata, e ogni tanto fingere mi è stato utile... disfarsi della sensibilità è un'ottima maniera per evitare noiose domande. Non che la mia interpretazione possa in alcun modo competere con la tua. Tu non solo svieni, tu muori.» «Anche così si evita di rispondere alle domande.» «Forse sei uno stregone.» «O forse non lo sono.» «È stato Roilant a mandarti qui?» «No.» «Allora come hai fatto a raggiungere indisturbato questa stanza? Ci sono soldati dappertutto.» «Qualcuno si è preoccupato di assicurare loro un sonno profondo.» Eliset era scettica, poi, con estrema avversione, disse: «E come hai fatto a uscire dalla tomba in cui così avventatamente ti avevamo rinchiuso?» «E il cui coperchio non è stato richiuso, come ho avuto modo di notare.» D'un tratto Cyrion le passò davanti. Avvicinandosi alle luci tirò qualcosa da sotto la sua casacca e la sigillò con una candela. «La risposta a questa, come a una moltitudine di altre clamorose domande, devo trattenermi dal dartela. Il tempo, come si continua a dire, è breve. Però, saresti così brava da consegnare questa lettera a tuo cugino Roilant?» Lei lo guardò con occhio torvo, poi guardò il foglio di carta, ripiegato e meticolosamente sigillato con la cera bollente della candela, che lui le stava porgendo. «Che follia è questa?» «La garanzia della tua innocenza,» disse Cyrion. «Quando Roilant si sveglia, dagli questo plico. Lui sarà di pessimo umore, visto che è stato drogato. Parlagli a bassa voce. Questo è per domani. Per quel che riguarda
stanotte, resta in camera.» «Un altro scherzo.» «Non esattamente. C'è un'esigua probabilità che io venga ostacolato, o sviato. Sarebbe un peccato se la tua innocenza rimanesse in dubbio, non credi?» «Innocenza? Tu mi consideri una scellerata. Tutte le cose che mi hai detto...» «Ahimè. Non c'è più tempo.» Allontanandosi dalle candele Cyrion le passò accanto e, chinando il capo iridescente verso di lei, la baciò delicatamente sulla bocca prima di andare verso la porta, aprirla, e scomparire di nuovo nel buio. Solo quando la porta fu chiusa Eliset si rese conto che la lettera le era stata messa in mano, e che lei l'aveva presa, insieme con le oscure parole e con quel bacio spettrale che le aveva elettrizzato tutto il corpo e persino i capelli. Gli impulsi la spinsero direttamente verso la porta, dove altri impulsi la fermarono. Guardò il foglio di carta sigillato che aveva in mano. Sarebbe stato facilissimo rompere e poi rifare il sigillo: la cera era lì a portata di mano. E poteva credere che Cyrion non sapesse che lei ne avrebbe approfittato? Sempre più confusa, Eliset rimise la sbarra alla porta, tornò lentamente verso il letto, e fece scorrere l'unghia del pollice su quell'improvvisato sigillo. Dopo essersi trattenuto fino allora nelle viscere della scogliera, e avere fino allora assistito a quanto vi accadeva di interessante, Cyrion era ritornato in superficie. La gabbia, che poteva essere mossa soltanto da chi la occupava, si trovava in quel momento nella posizione più alta, accanto al condotto del pozzo, dove l'aveva lasciata la sua ultima passeggera. Cyrion fu perciò costretto a arrampicarsi per una trentina di metri sulla parte libera del cappio, mentre la gabbia stava sull'altro capo, sorretta dalla puleggia che gli faceva da contrappeso. Questa operazione, insieme all'ultimo passaggio acrobatico per raggiungere le corde del pozzo, e da lì per salire fino alla bocca del pozzo e uscirne, fu eseguita da Cyrion con la stessa destrezza di chiunque altro avesse avuto occasione di passare da lì. Anzi, con ancora più destrezza. Il resto dell'impresa sarebbe stato semplice. Si trattava di localizzare Roilant, che a quell'ora si sarebbe trovato in casa, e di aggiornarlo sugli ultimi sviluppi della situazione.
Roilant in effetti era lì, bene in vista, anche se non si trovava in condizione di poter ricevere informazioni. C'erano anche altre cose in vista. Innanzi tutto, due dei soldati dei Beucelair a terra accanto a una delle fontane; poi, a terra vicino a loro, un piccolo fiasco di vino. L'odore che emanava dal sedimento del vino bastava a raccontare la storia. Erano stati quasi drogati a morte, come gli altri tre che Cyrion trovò, e come Roilant quando Cyrion, aperta la porta di uno degli appartamenti sulla veranda, da cui filtrava della luce e veniva un cupo e mascolino russare, ve lo trovò dentro. Delle carte sparse alla rinfusa su un tavolo traballante aiutarono a sciogliere lo spiacevole enigma: a quanto pare Roilant stava scrivendo un rapporto al governatore di Cassireia quando gli era stata mandata la coppa di vino che lo aveva mandato a dormire. Le carte mostravano anche che Roilant aveva già mandato due delle sue guardie perché portassero dalla città dei rappresentanti della giustizia. (Un semplice calcolo aritmetico dimostrava che dei dieci uomini di cui si parlava nella lettera ne mancavano all'appello ancora due. Cyrion li trovò nel cortile d'ingresso. Uno era drogato. L'altro, il mercenario, sembrava aver capito qualcosa e il suo interesse era stato ripagato con un una botta in testa. Vivo, ma privo di sensi, non era in grado di offrire nessun aiuto, né notizie interessanti. Un tentativo da parte di Cyrion di svegliarlo gli aveva tirato fuori solo queste parole: «Non ora, Aishab, per l'amor di Dio!») Comunque, dall'incompiuto esercizio letterario di Roilant sembrava che, dopo aver litigato infruttuosamente con Mevary per tutto il pomeriggio, Roilant avesse deciso di fermarsi in quel posto appiccicoso finché non fossero arrivati i rinforzi della giustizia. Perciò egli aveva permesso anche a Mevary di ritirarsi nei suoi appartamenti, come già aveva fatto con Eliset. E poi, quando Mevary aveva imperiosamente chiesto che gli fosse servita la cena, Roilant gli aveva permesso anche quello. La cena era poi giunta anche a Roilant e ai suoi uomini, nelle mani di un impaurito ragazzo, un servitore o uno schiavo, il cui nome era stato scorrettamente annotato da Roilant come Zunir. Secondo Roilant era ovvio che Zunir fosse terrorizzato da Mevary; un altro fattore incriminante. E forse questo era vero, visto che Zunir (o Zimir) aveva somministrato a tutti quanti un pericoloso sonnifero, sicuramente per ordine di Mevary. Il mucchio di carte, inchiostro e penne d'uccello sul tavolo di Roilant aveva però permesso a Cyrion di fare un'altra versione della storia. Lasciarla nelle mani esanimi di Roilant sarebbe stato imprudente, molto più diver-
tente invece darla a colei a cui poi l'aveva data. Tanto meglio poi se Eliset avesse letto quello che lui aveva scritto. Forse la parte più affascinante della storia sarebbe stata la notizia che la sua sorellastra, Valia, la bambina morta della leggenda di Flor, si poteva incontrare ogni tanto nella grotta marina che si apriva sotto la casa. Come con ogni droga che valga la pena di usare, per usare questa c'era stato un valido motivo. Mevary aveva degli affari da sbrigare. Per sapere questo non si era neanche dovuto aspettare di sentirne la voce, alterata e imbruttita dall'esasperazione e dalle minacce, provenire dal cortile della cucina. Comunque Cyrion parve interessato a quanto si diceva. Sebbene fosse diretto da un'altra parte, si fermò a ascoltare. «E va bene. Le discolpo dall'essersi appropriate del corpo dell'agente. Perché no? Ma ho ancora degli affari da sbrigare con loro. Perciò ci andrò io, cagna schifosa,» dichiarò educatamente Mevary. A queste parole la voce di una ragazza, oppressa e angosciata, gridò: «No! Non è ancora il momento...» Sorprendentemente era sembrata la voce di Eliset. Poi Mevary: «Al diavolo il dannato momento. Cosa me ne importa delle loro superstizioni? Non mi hanno già lasciato a aspettare tutti questi mesi per un mucchio di riti e di preghiere assurdi? Mi è bastato. Ora devo affrettarmi. E lo farò.» Qualche istante dopo Mevary veniva fuori in fretta e furia dal cortile della cucina. Cyrion era di nuovo invisibile. Come lo fu quando vide che Mevary, resosi conto che l'entrata della caverna era aperta (una sbadataggine di cui anche Cyrion si era avvalso — ignorando il funzionamento del meccanismo egli non sarebbe altrimenti potuto risalire per quella via), saltò lesto dentro il pozzo. Con una contorsione animalesca del corpo e una serie di imprecazioni, Mevary scomparve. Il locale del bagno aveva fornito un adeguato nascondiglio, e continuò a farlo. Cyrion restò lì ancora un po', lasciando cortesemente che la signora della compagnia, dopo essersi guardata attorno con circospezione, si precipitasse nel corridoio e si lanciasse anche lei dentro il pozzo sulla scia di Mevary. Cyrion diede loro il tempo di allontanarsi, quindi li seguì. VI La tetra caverna scintillava ancora. Nelle bocche delle grotte continuavano ad ardere i fuochi, sinistri segnali degli abitanti sotterranei di
quella cavità. Cyrion aveva già visto questo e anche altro. A circa sette metri sopra la superficie dell'acqua, direttamente sotto il loggione roccioso su cui lui era emerso la prima volta, la roccia presentava una rientranza. Le gallerie, con le aperture delle grotte, formavano quindi una balconata sporgente che si sorreggeva da sola per qualche naturale capriccio architettonico. Sotto questa granitica sporgenza, un pendio argilloso a forma di mezzaluna declinava verso il lago marino della caverna. La via per raggiungere questa spiaggia d'argilla, come il resto della sottile striscia di terra che circondava per intero l'acqua, si snodava attraverso dei passaggi interni scavati dal mare o creati dall'uomo centinaia di anni prima. Ed erano proprio le grotte delle streghe che davano accesso a questi cunicoli che attraversavano le pareti della scogliera. Nel suo primo viaggio di esplorazione, Cyrion aveva localizzato uno di questi passaggi, nel quale ora si introdusse. Il cunicolo non era illuminato, e il percorso si svolse per la maggior parte al buio, finché all'estremità opposta non riapparve un pallido bagliore. Un mucchietto di ossa in un saio tutto macchiato dall'umidità, che Cyrion incontrò vicino allo sbocco, indicava il punto in cui il precedente inquilino era deceduto. Se ne deduceva che la diabolica congrega non seppelliva i propri morti. Sulla spiaggia argillosa a cui i cunicoli da questo lato della caverna davano accesso, si trovava la misteriosa nave, come Cyrion aveva previsto. La sua vela scarlatta, sottile come una ragnatela, pendeva dal pennone, anch'esso a riva. Era difficile pensare che quella vela si sarebbe potuta serrare: sembrava così fragile da lacerarsi al primo tocco. I remi, invece di essere attaccati, erano semplicemente appoggiati lungo i fianchi. Era un vascello molto vecchio, incrostato e scalfito, sembrava un vascello abbandonato, portato lì dentro dal mare aperto in un tempo lontano, secoli prima. Che facesse acqua era anche troppo prevedibile. Che venisse usata per qualche rituale, ancora più prevedibile. Le torce stavano sui loro sostegni, mantenute vive e pulite come niente lo era lì dentro. La vela e le parti in legno erano annerite dal fumo. Sul ponte si vedeva una giara d'olio, un oggetto troppo comune per non essere fuori luogo in un posto simile. Sulla prua c'erano poi altri utensili, sparsi attorno a un ceppo che sembrava di legno fossilizzato. Questi arnesi erano più misteriosi, più adeguati all'atmosfera del posto, e facevano pensare a rituali magici con offerte di sangue: strani coltelli di pietra e coppe anch'esse di pietra, rutti rozzamente marchiati con un pesce che era anche un occhio. Forse il sigillo della Si-
gnora del Grande Oceano? Prima l'area attorno alla nave era deserta. Ora non lo era più. Un fuoco ardeva sulla spiaggia, alimentato da pezzi di legno portati dalla corrente e ravvivato con dell'olio e delle esche. Attorno al suo scoppiettante bagliore, che di tanto in tanto mandava lampi bluastri o di un verde brillante, indugiava un gruppo di anziane donne. Erano circa una ventina. Era impossibile contarle con precisione perché, sebbene tutte diverse per altezza e posizione, sembravano tutte ugualmente scheletrite, e indossavano tutte lo stesso saio grigio, sporco e consunto, che denotava la loro vocazione. Sotto i cappucci si agitavano come vermi i capelli, bianchi o grigi ma tutti ugualmente sudici, e dove non se ne vedevano significava che la testa era calva. I loro volti sporgevano dai capelli e dai cappucci come teste di tartaruga dai loro gusci, quando non vi si ritiravano dentro nascondendosi completamente. In testa al gruppo ce n'era una che poteva solo essere la loro guida, e che stava con arroganza a capo scoperto, a mostrare il crollo totale della sua carne e delle sue fattezze. Tutto il volto era in rovina, gli occhi, le guance, la bocca. Era il viso di uno scheletro, avvolto in un velo trasparente di pelle e completamente privo di colore, tranne che di quelli che il fuoco gli dipingeva sopra, ora ambra, ora turchese, ora un intensissimo verde giada. Avrebbe potuto avere anche centocinquant'anni. Lei. Avrebbe potuto anche non avere sesso. Il tempo aveva cancellato da lei ogni caratteristica, fisica e non, del suo sesso. Non ne aveva più. Era diventata una funzione. E allo stesso modo del ceppo di legno fossilizzato sul ponte della nave, anche lei era come carbonizzata, e portava impressi sul volto i segni di tutto quello che era stata, del suo temperamento di quando era viva e che ancora continuava a determinare le sue azioni. Di tutti questi segni il più evidente era una sorta di paziente malvagità. Nei suoi occhi brillavano ancora i bagliori di un'intelligenza rimasta attiva, ma che, non sfruttata, non si lasciava più intendere. Invece del cappuccio, sui bianchi lidi dei capelli e sull'ampia fronte solcata da una marea di rughe portava una rete di catene d'oro gocciolante di perle. C'era anche un altro particolare interessante. Alla mano destra della donna mancava il mignolo. Di fronte a quella mostruosa apparizione, a qualche metro di distanza sulla spiaggia, c'era un uomo giovane con un aspetto da lupo, con occhi come quelli di un lupo, e che non mostrava alcun timore nell'incontrare lo
sguardo folle e malefico della strega. Nella sua mano una spada sguainata mandava bagliori rossi, poi blu, poi verdi, e poi ancora rossi: Mevary, in atteggiamento tutt'altro che cortese. «Sì, l'hai già detto, Tabbit. La luna non è piena. Non è ancora l'ora per il rituale. Allora farai a meno del tuo dannato rituale. Che me ne importa se quella sgualdrina della vostra padrona non è d'accordo? Che protesti pure. Perché non mi lascia il suo oro, quest'oro di cui mi avete dato solo bocconcini, il tesoro della caverna? Poi, se ci tiene, sarò più carino con lei. Forse.» Tabbit, che le sue seguaci chiamavano "Oe" (un incomprensibile prefisso mistico della loro setta), aprì la cicatrice incavata delle sue labbra. Ne venne fuori la voce, la stessa che Cyrion aveva udito da dentro la grotta mentre parlava alla figlia di Gerris. «Non è solo la luna piena che si deve aspettare. È anche la stagione, che non è ancora, ma presto sarà.» «Al diavolo la stagione. Non te l'ho detto, vecchia? Non posso più stare qui a perdere tempo aspettando i comodi della tua dea. Devo lasciare Flor, e stanotte. Se non mi puoi aiutare, dimmi solo dove devo cercare. Questo legno marcio lo posso spingere a remi da solo se tu con la tua ciurma decrepita mi aiuti a rimetterlo in acqua. Forza, vecchie megere, fate come vi dico.» Sollevò la spada. «O pensate di essere più veloci di questa?» Vi fu un mormorio tra le donne, tutte ammassate come una colonia di grigi pipistrelli. Non sembravano impaurite. Neanche Tabbit, chiamata OeTabbit, mostrava alcun timore. «E tu, figlia. Cosa dici?» Mevary si girò di scatto e vide l'ombrosa figura che già da un po' gli stava alle spalle, dopo averlo pedinato lungo il cunicolo che dalla grotta di Tabbit conduceva alla spiaggia. «Ah, sei tu,» disse Mevary. «Allora, mia cara sgualdrinella, cosa dici tu? Mi prendo questo tesoro che tu e la tua cara vecchia balia mi avete promesso? Oppure torno su e confesso a Roilant, per finire impiccato a Cassireia?» «È vero quello che dice,» mormorò l'ombra. «Mi sono sbagliata sulla morte di Roilant. A quanto pare aveva un complice che ha fatto finta di essere lui. E se Mevary torna su, sarà certamente consegnato al governatore.» Morbida come cipria di pietra, Tabbit le domandò: «E stanno cercando anche te lassù?»
«No. Ho dato a Zimir una droga da mettere nel loro vino. Mentre a un altro Mevary ha rotto la testa con un candeliere. Dormono tutti tranne la ragazza. E lei ha imparato ad obbedire ai capricci di Mevary.» Tabbit abbassò le palpebre rugose dei suoi occhi. Sembrò in meditazione, ma solo per un attimo. E subito il terribile sguardo tornò a posarsi su Mevary. «Allora, anche se non è la stagione, sarà fatto.» Alle sue spalle si levò ancora un mormorio, e mani scheletriche cominciarono ad agitarsi come ragni nell'aria. «State calme,» disse Oe-Tabbit. «Lei lo accetterà per pietà. Sa che siamo perseguitate e che non possiamo sempre rispettare i tempi, sa che, chiuse nelle viscere di questa roccia, siamo costrette a onorarla come possiamo, e non come vorremmo. Considerate, sorelle, quanto a lungo ha atteso e quanto a lungo ha bramato di vedere il rituale completato. Lei ci perdonerà, sarà contenta se il rito sarà compiuto, anche se nella stagione sbagliata.» Dopo qualche lamento e un po' di agitazione le donne finirono per calmarsi e tacquero. Mevary stava in piedi avvolto dal bagliore del fuoco, i suoi occhi luccicavano maliziosi, avidi, diffidenti. «Dici che non vede l'ora di darmi il suo tesoro?» «Te l'abbiamo già detto molte volte, la Madre non sa che farsene delle ricchezze. E tu, figlia mia, vieni,» disse Tabbit rivolgendosi all'ombra alle spalle di Mevary. «Le conchiglie nel fuoco mi avevano detto che saresti tornata stanotte. Siamo qui e aspettiamo, come vedi. Vieni tra noi, indossa il tuo saio. Diventa una sola cosa con noi, Valia, figlia mia.» L'ombra si mosse. Scivolò accanto a Mevary ed entrò alla luce del fuoco. Mentre faceva questo, si tirò via dai capelli la sciarpa di seta giallo topazio, e le forcine che l'avevano assicurata piovvero inosservate sull'argilla. Poi per un attimo Valia si fermò tra il cugino e la congrega. Qualcosa nel suo atteggiamento rivelò che non provava grande affetto né per l'uno né per l'altra. E tuttavia, ogni centimetro del suo corpo sembrava essere attratto da una forza oscura verso quelle vecchie donne. In quegli abiti da ragazzo, che trovava sicuramente più comodi per arrampicarsi lungo le corde del pozzo, molta della sua snella sensualità andava perduta, anche se non tutta. Al bagliore del fuoco, l'ardente riflesso ramato che talvolta si rivelava sulla sua nera chioma si era infiammato, rendendo di fatto quella chio-
ma rossa e mostrando chiaramente i legami di Valia con il casato dei Beucelair, con la bionda Eliset, con il bruno Mevary, con il rosso Roilant. Anche i suoi occhi grigi dovevano la loro origine a Gerris, mentre la carnagione olivastra era l'eredità della madre, la donna che Gerris aveva accasato a Cassireia e che era morta di dolore poco tempo dopo la scomparsa di Valia. Valia, la bambina rapita dai demoni di Flor. Aveva trascorso la sua infanzia nella casetta che Gerris aveva dato alla madre, dove ogni tanto il padre veniva a fare una visita. In queste occasioni il comportamento di Gerris era sempre lo stesso: la guardava un attimo di traverso, le faceva un sorriso forzato, le lanciava un misero giocattolo, e poi Valia veniva mandata a giocare. A giocare per non disturbare la madre e il padre, che avevano altro da fare. Questo, negli anni cruciali della sua crescita, era stato ciò che Valia aveva avuto da suo padre, ciò che lui aveva rappresentato per lei: lei veniva mandata via perché era di troppo, indesiderata. E più tardi, quando il denaro a Flor scarseggiava e la casa dell'amante di Gerris si era ormai ridotta a un tugurio allietato dallo squittio dei topi piuttosto che dal canto degli uccelli, Gerris aveva rappresentato anche questo. Non sorprendeva perciò che Valia odiasse il padre. Poi, un giorno, qualcosa cambiò. La moglie di Gerris era morta in una terra lontana di cui Valia non sapeva neppure il nome. Gerris aveva ceduto a uno strano senso di colpa. Perciò, proprio quando la cosa non aveva più importanza, lui aveva deciso di abbandonare la sua amante, considerato anche il fatto che non l'aveva vista per più di un anno. Il mattino che si era recato da lei per darle la notizia, Valia stava giocando davanti alla casa, appesa a testa in giù a un albero di fico morto. Era incredibilmente agile, ma anche incredibilmente sporca e cenciosa, ed era tutta coperta dai morsi di feroci insetti che infestavano le pareti della sua misera casa. Ormai aveva solo un vago ricordo di quell'uomo capovolto dalla chioma biondorossiccia che la fissava dalla sella di un cavallo capovolto. Alla vista di Valia il senso di colpa di Gerris aveva preso un'altra piega. Quella mocciosa ricoperta di ulcerazioni era sua figlia. E lui doveva espiare il suo peccato. Doveva salvare quella bambina. Difatti la salvò. Adottandola. La tolse dal tugurio in cui lei aveva vissuto, anche se non felicemente, e la portò a Flor, dove c'erano ancora servitori per maledirla e detestarla, e un prete per insegnarle a onorare Dio e per picchiarla ogni volta che dimenticasse di farlo. E dove c'era un'altra sorella
più piccola: un giglio dorato, sottile come un giunco e placidissima, legittima e non legittimata, un essere perfetto che si addiceva a quella casa, a differenza di Valia. E c'era pure Gerris, che ora riversava su Valia un affetto falso e teatrale e montagne di regali (sempre modesti vista la penuria di denaro), che le si avvicinava riluttante e si costringeva ad abbracciarla e a lodarla. Lei non capiva, e tuttavia percepiva la falsità di Gerris, il suo poco affetto e la sua paura. E non faceva che odiarlo di più, come odiava tutti e tutto. Tranne... La vecchia donna, la balia della bionda sorella, che adesso era anche la sua balia... Di solito la vecchia non stava molto dietro a Valia, però un giorno la bambina, arrampicandosi con scioltezza e abilità sul carpine, aveva notato che quei vecchi occhi la osservavano. Dopo quell'episodio, ogni volta che si trovavano sole, Tabbit raccontava a Valia delle storie. Erano storie bellissime che narravano di un meraviglioso palazzo di cristallo e smeraldo sul fondo del mare, abitato da una dea dimenticata dagli uomini e venerata solo da pochi, dagli eletti, e questi eletti erano solo donne. A quelle che la veneravano la dea conferiva uh potere, il potere di rendere gli altri, uomini e donne, propri schiavi. Il potere di infliggere punizioni e di dare ordini. Tabbit era vecchia già allora, molto vecchia, e a una mano le mancava un mignolo. La donna aveva parlato a Valia della promessa che aveva fatto alla dea degli abissi, la Madre del Grande Oceano. Il taglio del mignolo aveva suggellato quella promessa. Ma alla Dea si potevano offrire anche altri pegni: il dito di un piede, il lobo di un orecchio, o anche un capezzolo... Valia, a cui era già cominciato a crescere il seno, aveva avuto un fremito di orrore. Ma che cos'era (le aveva detto Tabbit) un piccolo pezzetto di tessuto di fronte al potere che se ne riceveva in cambio? La cosa più dolorosa era invece che così poche erano le donne in grado di entrare a far parte della setta, che le sue devote si erano ridotte a un gruppetto sparuto. Nel tentativo di non fare estinguere del tutto la congrega, un'adepta era stata mandata tra gli uomini. Essa aveva due compiti: innanzi tutto quello di rifornire di cibo le sorelle, che cominciavano a diventare vecchie e non potevano più andarselo a cercare in giro per l'oceano, e poi quello di perlustrare la terra per trovare una bambina che fosse abbastanza bella, intelligente e forte da poter entrare nel tempio della Madre e ricevere il Suo dono di poteri soprannaturali. Il processo era stato sottile, molto più sottile di quanto non appaia nel ricordarlo o nel raccontarlo. E aveva inevitabilmente portato a due risultati:
la rivelazione di Tabbit come la sacerdotessa in missione, e l'ardente desiderio di Valia di essere lei la bambina che Tabbit cercava. Valia non si era mai sentita speciale. Era nata indesiderata, una seccatura per gli amanti, il frutto della corruzione per Dio. Non aveva alcun peso, o sentiva di non averne, e non era amata da nessuno. Odiava Gerris, e odiava il biondo giglio, Eliset, che era tutto quello che lei non poteva essere, e che qualche volta aveva cercato di essere gentile con lei, sbagliando, perché così non faceva altro che portare il suo rancore a vette sempre più alte. Valia cominciò a bramare le grazie della Dea. E le avrebbe avute. Tabbit le aveva spiegato come raggiungere il tempio, che non era altro che la tetra caverna sotto la casa. Le aveva anche detto del pozzo e della gabbia. Questo passaggio segreto esisteva, le aveva rivelato Tabbit, da tempi remotissimi. Una donna orientale, che aveva una casa nel punto in cui ora si ergeva Flor, era stata un membro della sacra setta. Era stata lei che aveva offerto un riparo alle sorelle quando, per paura delle persecuzioni, esse si erano rifugiate sotto terra, e che più tardi si era unita ad esse nei loro riti sotterranei. Anche Tabbit era entrata e uscita spesso da quel pozzo, per rifornire furtivamente e con zelo le sorelle di tutto ciò che riusciva a rubare dalla casa. Nonostante l'età Tabbit era agile come una scimmia, però la sua agilità cominciava a venire meno. Ormai c'era bisogno di una forza giovane. Una forza che obbedisse alla stessa fedeltà maniacale e ossessiva che infuocava ciascuna di quelle donne, messe a marcire sotto terra e tutte piene di odio verso gli uomini, il mondo, la vita, tutte quante. Sì, Tabbit aveva riconosciuto in Valia le qualità che la loro dea esigeva. Non saggezza, né forza, ma una tenace propensione all'inganno, il primo passo verso la follia. Alla fine era stato organizzato un piano. Valia si era fatta vedere dai servitori nei pressi della torre, sull'orlo della scogliera. Appena si era trovata sola era corsa fino al recinto del bagno, lo aveva scavalcato, e da lì si era precipitata nel cortile dove si trovava il pozzo, che allora era ancora scoperto. Seguendo le istruzioni di Tabbit aveva poi aperto il pozzo e si era calata nell'ombra luminosa che emanava dal suo interno. Poco dopo era giunta Tabbit, che aveva richiuso il passaggio segreto. Abituata com'era ad arrampicarsi sulle corde, la vecchia era entrata nel cortile del pozzo servendosi di una corda, dopo aver raggiunto la cima del muro da una finestra. Poi era tornata indietro per la stessa via, senza che nessuno la vedesse, e in brevissimo tempo era di nuovo sotto il carpine con Eliset, continuando a fingere vecchiaia e immobilità e convincendo la bambina di essere rima-
sta con lei più a lungo di quanto non avesse fatto realmente. Così Valia era passata al suo nuovo mondo. Aveva sognato bellezza e magnificenza, qualcosa di ancora più splendido del fantastico castello marino dove abitava la dea, e ancora una volta si era scoperta tradita. Non c'era alcuno splendore, c'era la schiavitù. Una schiavitù che sarebbe durata per diversi anni, durante i quali soltanto insinuandosi in pericolose crepe che arrivavano fino al limite della caverna, oppure nuotando nell'acqua ghiacciata, sarebbe riuscita a trovare la sottile breccia nella parete della scogliera e così a vedere il sole, il mare aperto, il cielo, e un orizzonte che non fosse solo di roccia. Aveva provato naturalmente a ribellarsi, ma la ribellione era inutile. Aveva fatto delle bassezze, ma anche questo non aveva portato alcun sollievo. Per lei non c'era via di scampo. Non era abbastanza forte da spingere l'antica nave verso la libertà. E lassù il pozzo era sempre chiuso. Non c'era dunque alcuna possibilità di fuga neanche per quella via. Tabbit l'aveva raggiunta dopo il primo mese, e Valia se l'era presa con lei. Tabbit era rimasta impassibile, immersa nella luccicante oscurità della spiaggia d'argilla. E quando la furia di Valia si era esaurita, Tabbit l'aveva fatta girare dicendole di guardare verso il bacino d'acqua. Poi la vecchia aveva pronunciato delle parole ed era avvenuto un miracolo. Dalle nere acque era sorta un'enorme conchiglia verde tutta scintillante di stelle. Dentro la conchiglia galleggiavano come farfalle acquatiche delle bellissime donne, e nell'aria si sentiva il profumo inebriante di mille fiori diversi, mentre dall'acqua nasceva una melodia come d'arpa... Ma presto la visione era svanita. Era soltanto un'illusione, ed era costata molta fatica a Tabbit. I suoi inizi non erano stati così etereamente fluttuanti come lei aveva fatto credere a Valia. Era stata condotta a Flor come membro della servitù, e, quando lì le cose avevano cominciato ad andare male, Tabbit aveva trovato la sua strada tra le streghe, una tradizione nel ramo femminile della sua famiglia del mondo esterno. Con l'avanzare dell'età i suoi poteri magici avevano cominciato ad abbandonarla, e presto non le sarebbe rimasto che il potere di comandare gli altri. Era stato con questo potere che, svanita la visione, Tabbit aveva ordinato a Valia, stupefatta e tremante, di girarsi verso di lei. «Tu potrai fare apparire cose più meravigliose di queste,» le aveva detto, «e fare magie ancora più potenti. Ma soltanto se resterai con noi, se ti farai istruire, se donerai a Lei la tua anima.» E Valia, che si era sempre sentita il fardello degli altri, in quel momento aveva sentito confusamente che in quella caverna era diventata qualcosa
per proprio conto. Così, seppur riluttante, aveva infine accettato quella schiavitù con una nuova devozione. Dovette sopportarla per tredici anni. Durante questi anni imparò a servirsi della magia, e che non fosse molto abile le fu astutamente tenuto nascosto fin quando, accecata dall'incrollabile fiducia dell'egocentrismo, non arrivò a convincersi di essere un'esperta. Nel frattempo pescava, si occupava dei giardini farmaceutici di erbe e funghi, e faceva il pane con la farina che anche lei, dal quattordicesimo anno di età, aveva cominciato a rubare a Flor. Ma ormai quando saliva in superficie e vedeva il mondo e la libertà, Valia disprezzava e rifiutava quel mondo, da cui lei non aveva ricevuto che noncuranza, rifiuti, e false emozioni. Le streghe invece l'avevano sedotta e rapita. L'avevano veramente voluta. Lei era rimasta con loro ed era diventata saggia e splendida, o almeno credeva di esserlo diventata. E quando Tabbit alla fine aveva detto ai suoi padroni che sarebbe tornata a casa a morire, e invece era scesa sotto terra, Valia era diventata sua figlia, la sua figlia strega, legata a lei da uno scambio di sangue come quello che, a quindici anni, aveva legato Valia alla Dea con la mutilazione del lobo di un orecchio. Ma, pur brillando nell'oscurità della caverna, Valia sapeva che sopra di lei, nella casa e sulla terra che la circondava, la vita continuava a scorrere. Il mondo era diventato l'altra parte di un'immensa porta che si trovava ai confini della caverna, non era più il mondo verso cui lei si era arrampicata o aveva nuotato quando era più piccola. Quando veniva fuori, Valia vedeva tutti loro. Il primo Mevary, suo zio, vanitoso, lascivo, e sempre ubriaco. Mevary il giovane, brutto nella sua bellezza, verso cui una parte di lei si sentiva attratta e che per questo disprezzava. Ed Eliset. La madre negligente di Valia era morta tanto tempo prima, anche lei abbandonata e disperata. Gerris era morto. Valia si era attribuita la responsabilità della morte del padre per tutti i tormenti che gli aveva augurato, anche se non in nome della madre. Qualche volta di notte, in quelle rare occasioni in cui si trovava fuori ma non stava spiando nessuno dei vivi, Valia andava sulla tomba di Gerris e vi sputava sopra, e poi scoppiava in uno strano pianto di tormentata gioia per avergli fatto quel torto. Una volta aveva anche visto Roilant. Uscita senza troppe precauzioni dal pozzo, aveva sorpreso quel ragazzo grassoccio mentre cercava con difficoltà di fare un bagno nel calidario. Lei, in abiti da ragazzo e con i capelli avvolti in una sciarpa, aveva fatto in modo di non farsi vedere. Le era ba-
stato vedere i capelli rossi di Roilant per capire che si trattava di un cugino, e per odiare anche lui. Dopo la morte di Gerris, non si sa come, era nato in lei un folle desiderio: quello di essere la morte di tutti loro, di tutti quelli che avevano avuto per diritto (e ancora avevano) quello che a lei era stato dato come una penitenza. Tra le adepte della Grande Madre era diffusa una certa passione per lo spargimento di sangue. Secoli prima, all'epoca del massimo splendore del culto, se così lo si può chiamare, si usava sacrificare dei maschi, uno ogni anno, alla Madre. A Valia era venuta improvvisamente l'idea di riportare in auge quella pratica. Non sull'acqua del mare, era vero, e comunque, sempre attraverso l'acqua... Tabbit era indulgente con lei, come lo erano tutte le sorelle ora che Valia era una di loro. Lei era la loro stella, il loro sorgere di luna. E del resto neanche Tabbit provava alcun affetto verso gli abitanti della casa. Lei li aveva solo usati, ed era pazza. La vecchia guida della setta era morta e Tabbit ne aveva preso il posto. A forza di avvolgersi nel suo fanatismo, aveva finito per indurirsi, vi era rimasta come calcificata. Perciò aveva acconsentito al folle piano di Valia. Valia era stata ad aspettare per un po' nella stanza del calidario, fino a quando Zio Mevary, a notte fonda e ubriaco, non era venuto a fare il bagno. Era un uomo vigoroso, ma quando era ubriaco, e quella volta lo era davvero tanto, perdeva tutta la sua forza, incespicava, non si reggeva in piedi. Appena aveva visto la ragazza, Mevary, sogghignando e borbottando, le aveva fatto cenno di avvicinarsi. E lei, avvicinatasi, gli aveva improvvisamente premuto sulle narici un pezzetto di tessuto con un buonissimo odore. La droga era potente, lui no. Un minuto dopo Mevary era privo di sensi e Valia gli stava addosso tenendolo con fermezza sotto l'acqua del calidario fino a quando non morì annegato. Allora Valia aveva solo diciannove anni. E diversi anni passarono prima che l'ultimo piano venisse a maturazione nella sua mente. Ormai era diventata una potente maga; le streghe le avevano detto così e lei ci aveva creduto. La loro vecchiaia, che lei disprezzava, sebbene se ne mostrasse rispettosa, significava poco per lei. Le sfuggiva il fatto inevitabile che a tutte loro non importasse più nulla delle cose della vita, né di princìpi morali, per quanto corrotti, né di doveri, per quanto straordinari. Quelle vecchie si tenevano aggrappate all'esistenza, e così semplicemente esistevano. Ammiravano ed elogiavano la brillante stella di
Valia per abitudine, e per l'oscuro e risentito fascino che esercitava su di loro la sua giovinezza. Ma in realtà avevano smesso di interessarsi sia di lei che di ogni altra cosa. Prendere Valia era stato l'ultimo tributo alla loro religione. Tenerla... ecco, dimenticavano che lei non c'era sempre stata. E Valia, che a modo suo era cieca come lo erano loro, non lo notava. A un certo punto le era venuto in mente che ormai era pronta per lasciare la congrega e vivere all'aria aperta. Si vedeva come una sacerdotessa di misteri occulti che diffondeva la sua fama tramite il culto della Dea. Cosa non le sarebbe stato possibile con i suoi poteri? Che la Dea esistesse davvero non rappresentava alcun ostacolo nella faccenda. La Madre sarebbe stata contenta di essere scelta. E se Valia credeva di riuscire a praticare liberamente il suo culto e di diventare in questo modo una regina, allora la Dea sarebbe stata contenta dell'impresa. Perché la Dea era solo un'invenzione del pantheon personale di Valia da lei stessa governato e a lei stessa complementare. Come lo era la magia, fatto che poteva spiegare perché il suo talento fosse così scarso. Ignara di tutto questo, Valia sognava quello che l'attendeva. E insieme al desiderio di fuga era venuto anche il desiderio di vendetta. Così aveva esposto la sua tesi sulla fuga a Tabbit. In questo modo: Sebbene Valia fosse prima di ogni cosa una strega-sacerdotessa, e vivesse devotamente solo per servire la Madre, essa tuttavia sentiva un forte desiderio di vendicarsi di coloro che l'avevano disprezzata da bambina. E non era la Dea stessa ad esigere la giustizia e il pagamento dei debiti con il sangue? Valia aveva escogitato un piano; le era giunto come se la Dea glielo avesse sussurrato all'orecchio. Sarebbe andata a stare lassù per un periodo di tempo, si sarebbe inserita apertamente tra la derelitta servitù e, continuando nel frattempo a rifornire le sorelle sotto terra, avrebbe cercato il modo di distruggere i suoi parenti. La morte di Eliset sarebbe stata facile da complottare. Quella di Mevary sarebbe servita a un duplice scopo. Era troppo tempo che a Lei non veniva offerto in sacrificio il sangue di un maschio. Ora si poteva rimediare a questa negligenza. L'unico problema, aveva considerato Valia, sarebbe stato quello di escogitare una tattica per attirare Mevary nella caverna non una, ma molte volte, in modo da rispettare tutti gli stadi richiesti dal rituale pre-sacrificale. «C'è un modo,» aveva detto Tabbit. «L'oro remusano.» Una sera, tornando dal villaggio dove era stato a bere, Mevary aveva incontrato una donna. Era abbastanza bella e voluttuosa da destare il suo interesse, e gli sorrideva con una familiarità e una consapevolezza che in
qualche modo lo intrigavano. La donna non aveva rivelato subito la propria identità, né lui glielo aveva chiesto. Invece si era fatto accompagnare fino ai frutteti di Flor dove, quasi subito, le era saltato addosso. Valia non era impreparata a questo, né mentalmente né fisicamente. Per quanto carnalmente fosse ancora vergine, essa non lo era sensualmente: era lei l'amante più focosa di se stessa. Ora la lussuria di Mevary l'aveva eccitata. Era uno strano e malefico trionfo quello di giacere con uno che si aveva intenzione di uccidere, un'usanza che era anche presente tra gli antichi riti della dea. Perciò Valia aveva provato un piacere perverso nell'essere violentata, un piacere dovuto non all'atto sessuale che Mevary aveva compiuto su di lei, ma a un senso di gloriosa onnipotenza. Lui aveva fatto esattamente ciò che Valia aveva previsto. Mevary l'aveva creduta sua vittima e schiava. Si era sbagliato. Quando Mevary aveva finito con il suo finto abuso, lei gli aveva rivelato chi era, non altri che la defunta Valia riemersa dalla tomba. Valia gli aveva raccontato di essere stata rapita da bambina, e che, sebbene ridotta in schiavitù, era riuscita a mettere da parte del denaro e a comprarsi la libertà. Ora era tornata a reclamare i suoi diritti di primogenita. A sentire questo, Mevary si era molto divertito. Poi Valia gli aveva detto in cosa consistevano veramente questi diritti che era venuta a reclamare: un favoloso tesoro nascosto in una caverna sotto Flor. A lei ne aveva parlato la sua vecchia balia che, insieme a un gruppo di altre pazze, ne era la custode. Bisognava assecondarle, ma lei naturalmente avrebbe saputo farlo, come avrebbe saputo farlo anche lui. Infine Valia gli aveva detto che se l'avesse aiutata a impossessarsi del tesoro, se lo sarebbero poi diviso. Lo aveva convinto. Convincerlo del proprio amore per lui non sarebbe stato affatto difficile; da questo punto di vista Mevary era un egocentrico come Valia. E non era stato neanche difficile dimostrare la verità della storia del tesoro. Valia gli aveva portato dei pezzetti di oro antico, tanto per guarnire le proprie parole: qualche moneta remusana e un frammento di una corazza. Il grosso del tesoro, gli aveva detto, giaceva sul fondo della caverna, sott'acqua, e bisognava solo ripescarlo. Le donne conoscevano il punto in cui si trovava e anche un metodo per tirarlo fuori. Se le avessero assecondate negli stupidi rituali in onore della loro divinità marina, le donne sarebbero state loro riconoscenti. Mevary era da un po' di tempo oppresso dalla povertà, una cosa che non gli piaceva affatto. Alla fine aveva pensato che non gli restava che sposare Eliset, per assicurarsi almeno quel poco che Flor aveva ancora da offrire.
Ma, poiché era pigro ed estremamente sicuro di sé, non aveva avuto alcuna fretta a mettere in atto questo suo proposito. Ora sembrava attenderlo qualcosa di molto meglio. Così Mevary aveva preso Valia in casa. Poiché non voleva rivelare a nessun altro la vera identità della ragazza, aveva detto che era una schiava e che l'aveva vinta ai dadi, una bugia che lo stuzzicava. Aveva trovato stuzzicante anche donarla come schiava all'altra sua amante, Eliset. Valia, che aveva deciso di chiamarsi con il nome della sua defunta madre, Jhanna, di cui pochi oltre a Gerris erano mai stati a conoscenza, aveva subito portato Mevary nel pericoloso pozzo e da lì nella caverna. E in occasione di questa prima visita, quasi per verificare il poco amore di Mevary verso la cugina bionda, e l'inconsapevolezza di questa riguardo alle trame della cugina bruna, "Jhanna" aveva portato con sé un regalo per Oe-Tabbit. Era un ornamento per i capelli fatto d'oro e di perle che Valia aveva rubato a Eliset, l'ultimo oggetto prezioso che era rimasto alla cugina. Naturalmente a Mevary non era importato nulla; naturalmente non si era meravigliato che Valia, assetata d'oro come sembrava, avesse dato via un oggetto come quello. Avrebbe potuto capire da quell'indizio che a Valia in realtà non interessavano né soldi, né tesori, né ricchezze. I suoi fini erano più raffinati. Ad ogni modo, il patto fu stretto. Da allora, nelle notti di luna piena Mevary, calandosi lungo il pozzo, doveva scendere nella caverna, e lì, messo su una nave non più in grado di navigare, doveva accendere le torce, intonare dei canti e spingere a forza di remi la nave in giro per il bacino della caverna, imbrattandosi tutto di cenere, inchiostro e sangue di pesce. Naturalmente tutto questo lo annoiava a morte. Lui aspettava soltanto il momento in cui il tesoro sarebbe stato tirato fuori e le vecchie lo avrebbero scongiurato di accettarlo. La dea disprezzava l'oro, gli era stato detto; era blasfemo offrirgliene. E ogni tanto a Mevary ne venivano dati dei frammenti per tenerlo buono. Mevary era esasperato, ma speranzoso. Inoltre la sua pigrizia e la sua vanità rendevano più facile ammansirlo. Poi era successo qualcosa di cui sia Mevary che Eliset erano rimasti all'oscuro. Alla residenza di Flor era giunta una lettera destinata a Eliset, che, in conformità alle recenti usanze della casa, era stata istantaneamente consegnata nelle mani di Jhanna. Era stato Harmul a consegnargliela, Harmul che aveva il terrore di lei. Jhanna si era data da fare per mostrargli i propri poteri magici e per promettergliene di ancora più potenti. Si era accorta che Harmul, come anche l'altro ragazzo, Dassin, ammirava Eliset. La seguivano tutti e due come dei cagno-
lini, impallidivano al suo tocco, erano fatuamente innamorati di lei, ma Jhanna aveva neutralizzato quell'incantesimo con degli altri incantesimi segreti fatti da lei. Intimoriti dalla sua malvagità, Harmul, Dassin, e perfino Zimir, creatura di Mevary, si prodigavano per portarle dei doni che placassero le sue ire. La lettera, aperta da Jhanna, non era altro che il messaggio con cui Roilant comunicava a Eliset la rottura del fidanzamento. Trapelava tra le righe il fatto che Roilant avesse intenzione di sposare un'altra donna. Jhanna aveva cominciato a rimuginare camminando avanti e indietro per la sua cella, una cella da schiava fornita di lussuosi guanciali e fiale di profumo che nessuna schiava nella sua posizione avrebbe potuto possedere. Nel bel mezzo del suo piano scellerato le era venuta in mente una nuova scelleratezza. Una volta Mevary, scherzando, le aveva raccontato di quella remota promessa di matrimonio, al cui adempimento ormai non credeva più nessuno. Quella lettera, piuttosto che confermare questa mancanza di fiducia, offriva il mezzo per rovesciare la situazione. Jhanna, dopo aver strappato in mille pezzi la lettera, aveva trattato i frammenti con una particolare sostanza chimica nota tra le streghe della caverna. Rimettendoli subito nell'involucro esterno, e ponendo sull'involucro un nuovo sigillo, quei pezzetti di carta sarebbero rimasti inattivi fino al momento in cui non fossero tornati a contatto con l'aria, momento in cui avrebbero spontaneamente preso fuoco. Valia aveva quindi dato a Harmul l'incarico di consegnare questo nuovo messaggio a Roilant, a Heruzala. A pagare per il messaggero sarebbe stata la stessa Eliset; le era stato detto che ne aveva bisogno Mevary per portare le sue scuse a qualcuno per un debito di gioco. Eliset era abituata a finanziare Mevary per ogni cosa, e non avrebbe fatto domande, anche per evitare il ceffone che aveva ricevuto l'ultima volta che aveva osato farne. Valia era soddisfatta del proprio ingegno. Una simile risposta a Roilant si sarebbe potuta interpretare solo in un modo: io rifiuto il tuo rifiuto. Naturalmente Roilant avrebbe creduto che la risposta proveniva da Eliset. Perciò egli non avrebbe avuto altra scelta che quella di venire a Flor di persona, o per discutere, oppure per cambiare idea e onorare quella promessa adolescenziale. E a quello scopo Valia aveva rivolto i suoi poteri su di lui, in maniera da attirarlo subito lì. Roilant si sarebbe infine convinto a sposarsi con Eliset. E invece con lei sarebbe morto. Questa scelleratezza in più aveva provocato a Valia un'estasi. Farli morire tutti e tre. L'intera famiglia dei Beucelair, tranne lei, cancellata dalla
faccia della terra. Il modo più allettante era questo: lei, Jhanna-Valia, avrebbe ucciso Roilant. Della sua morte sarebbe stata accusata Eliset che, in qualità di vedova, ne avrebbe voluto trarre dei benefici. Lei, aristocratico giglio, sarebbe stata gettata in una lurida cella, da dove, all'estremo delle proprie forze, sarebbe stata condotta a una vergognosa esecuzione pubblica. E Roilant era prontamente arrivato a Flor, carico di presagi soprannaturali. Mevary naturalmente non ne era stato affatto contento. L'ultima cosa che desiderava in quel momento era la presenza ingombrante di quel cugino dai capelli rossi, la cui ricchezza, in confronto a quello che sarebbe stato dragato dal fondo della grotta, era ormai irrilevante. Eliset aveva cominciato a fare la smorfiosa. E Valia aveva incontrato di persona una notte quell'idiota in sovrappeso. Vedendo la luce di Roilant sbucare dalla stanza del bagno, Valia aveva creduto a un attacco da parte del più anziano e defunto Mevary. Da quando Valia era tornata a soggiornare assiduamente a Flor, il fantasma aveva cominciato a perseguitarla. Valia aveva protetto la sua cella e il cortile della cucina con dei talismani che Tabbit aveva preparato per lei. Oltre questi talismani il fantasma non poteva andare, ma credendosi sorpresa all'aperto, Valia aveva cercato di respingerlo, cosa che aveva provocato un divertente equivoco. Dopo quell'incontro Valia aveva ammaliato lo sciocco Roilant, gli aveva confuso le idee, aveva nutrito le sue paure (l'aveva estasiata dipingere Eliset come l'autrice di magie che invece erano le sue), e infine gli aveva dato una fiala di unguento profumato facendogli credere che fosse una potente droga. Questa droga gli avrebbe permesso di sottomettere Eliset, la malefica strega di Flor, perché, fatta scivolare nella sua coppa, l'avrebbe istupidita e resa malleabile. Questo lui aveva affermato di averlo fatto, ma doveva aver mentito. A chiunque avesse ingerito il veleno sarebbe venuto un tremendo attacco di vomito, un trattamento che sarebbe stato estremamente gratificante riservare alla diafana Eliset. Ma poi la notte della cena nuziale, cominciata con un trionfo, era finita il mattino dopo nell'orrore e nella confusione. Quando Valia aveva portato il piatto con la carne nel padiglione, Mevary era apparso diffidente, e davanti a Eliset aveva fatto mostra di un grande odio nei confronti di Jhanna-Valia, un gioco che lui ogni tanto faceva tra le due donne. Quando Mevary era uscito dal padiglione, Valia era riuscita a rovesciare il veleno che aveva portato con sé nella coppa di Mevary, senza che testa rossa la vedesse. Poi aveva avvisato testa rossa di stare attento
alla sua coppa. Per come stavano le cose, Valia era sicura che il sospettoso Roilant avrebbe tentato di scambiare la sua coppa con quella di Mevary, di cui diffidava ancora più che di Eliset. Intanto lei aveva già posto una simile eventualità a Mevary, che se ne sarebbe guardato. E Mevary, essendo Mevary, avrebbe spinto il gioco fino alla sua logica conclusione, costringendo Roilant a bere da ogni coppa che si trovasse sul tavolo. Se, d'altro canto, il veleno fosse stato bevuto da Mevary, il sogno di Varia non ne avrebbe sofferto troppo. Lei voleva comunque vederli tutti morti, chi prima chi dopo. Se la vittima sacrificale fosse morta durante la cena, la strega che era in lei sarebbe rimasta delusa, l'assassina, invece, soddisfatta. Roilant l'avrebbe ucciso lei stessa più tardi, lasciando sempre che su Eliset ricadesse, come era ovvio, la responsabilità della carneficina, di cui Mevary ovviamente sarebbe caduto vittima nel tentativo di aiutare Roilant. Alla setta e alle streghe sarebbe rimasto Harmul, che Valia avrebbe convinto o costretto a scendere nella caverna. Il rituale doveva essere portato a termine, e forse Valia non avrebbe potuto aspettare per vederne la conclusione. Allora quello sarebbe stato il suo dono d'addio a Tabbit. E la Dea, Valia lo sapeva, sarebbe stata indulgente. Lo scisma interiore di Valia funzionava così; o la strega si sottometteva alla donna o la donna alla strega, secondo il bisogno. Alla fine le alternative si erano rivelate inutili. Le coppe erano state scambiate come lei aveva scommesso, scambiate e scambiate... Poi un tafferuglio, e Mevary aveva fatto la cosa più giusta tra tutte, forzando Roilant a bere dall'unica coppa predestinata a lui. Non era la stessa droga che aveva usato su Jobel per far tacere una volta per tutte la sua lingua troppo lunga. Dopo che Mevary le aveva riferito del racconto di Jobel, era stato necessario procurare all'uomo una morte che sembrasse naturale, per quanto orribile. Con Roilant invece, la morte doveva sembrare tutt'altro che naturale. Il veleno era un acido che corrodeva le viscere. Valia aveva atteso con ansia il momento in cui avrebbe sentito le sue lunghe urla. Stranamente di urlo ve n'era stato uno solo, e soffocato. Valia se n'era dispiaciuta, ma era stata lo stesso felice per quella morte. Ed era scesa giù nelle tenebre per dare la notizia a Tabbit. Poi, tornata su nell'intimità della sua cella, era scoppiata in un feroce pianto di gioia, la stessa gioia con cui aveva pianto sulla tomba dell'odiato Gerris. I segni del suo potere, come le unghiate di una tigre, avrebbero riempito di cicatrici il mondo intero. E poi... Poi aveva scoperto che dopo tutto non aveva avuto a che fare
con Roilant. Che non lo aveva ingannato, spaventato, incantato, né ucciso. Che forse non aveva ucciso nessuno. Valia era stata allora sopraffatta dal terrore che la ruota del fato uscisse dai binari da lei previsti. Cosa avrebbe dovuto fare ora? La questione era stata risolta da Mevary. Mevary le aveva detto di preparare una droga per il vino di Roilant e delle sue guardie. Lui sapeva della sua abilità con le pozioni. Valia aveva drogato Roilant, che non era affatto Roilant, già una volta, con una rosa gialla, nella notte di luna piena, quando il messaggio scritto da Eliset aveva fornito un'ottima scusa per l'offerta di quel fiore. Con gli uomini di Roilant fuori gioco, Mevary sarebbe fuggito dalla casa. Era stato incriminato, ingiustamente, per la morte dell'agente di Roilant, quello di cui era scomparso il corpo: il consiglio di Valia di nascondere il cadavere si era rivelato carico di conseguenze negative. E Valia aveva dovuto assicurargli che non erano state le streghe a rubarlo per i loro blasfemi riti. Nel frattempo Eliset stava facendo del suo meglio per facilitare l'incriminazione di Mevary. Lui l'aveva sempre creduta sottomessa, e anche Valia la pensava così. Né Eliset aveva mai dato segno di ribellione prima di allora. Mevary e Valia erano rimasti piuttosto sbalorditi di fronte a questa sua improvvisa volontà suicida, che sembrava intenzionata a condurre se stessa, e Mevary con lei, di fronte al governatore. Ma Mevary non doveva scappare. Valia gli aveva perciò ricordato del tesoro remusano. E lui aveva deciso di costringere le vecchie della caverna a consegnarglielo per portarselo nella fuga. La strega che era in Valia aveva protestato, ancora una manifestazione del suo schizofrenico sdoppiamento di personalità. Non era ancora giunta l'ora del sacrificio, i rituali erano incompleti. Ma poi aveva pensato, come anche Tabbit, che offrire un sacrificio fuori stagione era meglio che non offrirne affatto. E allora, dal profondo del suo cuore aveva gridato l'altra metà di lei, mettendo a tacere la sacerdotessa. Cos'altro le sarebbe importato, dopo tutto, se non che lui, la splendida e odiata bestia delle sue perverse fantasie adolescenziali, morisse sanguinosamente? Che importanza avrebbe avuto quando? Valia venne avanti, e le streghe fecero largo per riceverla. Coperta da quelle figure incappucciate, lei si spogliò dei vestiti da ragazzo e indossò il suo saio, tutto macchiato e cencioso come lo erano gli altri. Detestava il suo odore, come detestava quello dei corpi delle vecchie, non lavati per decadi. E tuttavia era un conforto tornare a sentire quell'odore familiare.
Era la sua sicurezza. E le sarebbe certamente mancato nella profumata agiatezza della sua vita futura. Mentre si allacciava il saio, la sua mente era già volata oltre il meraviglioso momento del sacrificio, e indugiava sulla sua ultima uscita attraverso il pozzo. Sarebbe bastato il più banale dei motivi, qualsiasi cosa, per giustificare la sua uscita dopo il sacrificio. E solo quando non sarebbe più apparsa, loro si sarebbero rese conto che alla fine era riuscita a liberarsi di tutti, anche delle sue sorelle. Oppure avrebbero creduto che fosse morta. Ma lei naturalmente non sarebbe morta. Aveva fatto in modo, anche nella persona di Jhanna, che nessuna accusa potesse essere mossa contro di lei. Sarebbe stato evidente a tutti che la famiglia si era distrutta da sé, davanti a un paio di innocenti spettatori. Di Roilant si sarebbe occupata più tardi, quando sarebbe emersa durante la notte. Non l'aveva ancora fatto solo per paura che Mevary potesse notarlo e insospettirsi. Uccidere un uomo una volta era un conto; Mevary aveva dato la colpa al caso, e anche a Eliset allora. Ma due volte... questo no. Soltanto dopo essersi sbarazzata di Mevary, Valia avrebbe potuto sistemare le cose con Roilant. Lasciando così Eliset a pagarne le conseguenze. Per quel che riguardava Mevary, i suoi resti non sarebbero mai stati trovati. Probabilmente Valia avrebbe messo a tacere anche Harmul e Zimir, opera di Eliset, naturalmente. Era un peccato che Dassin fosse scappato, ma del resto lui non contava nulla... Ora era pronta, e improvvisamente la luce abbagliante del suo fine ultimo le si accese dentro stordendola. La libertà finalmente, meravigliosa e terrificante. Ma non prima di aver ricevuto il compenso che aveva bramato per più di tredici anni. Il suo spirito tornò al presente, e lì restò, immerso nella sua gloria. Invece Mevary aveva uno sguardo accigliato. Il sudore gli luccicava sulla fronte. Non era per la sua vicinanza a quel fuoco viscoso. Qualche parte di lui lo stava avvertendo, ma lui ormai agiva meccanicamente, spinto solo dalla sua avidità. Ora non poteva più sfuggirle. «Vieni,» disse Valia. «La nave.» La bruna figlia di Gerris passò in testa al gruppetto di streghe e si avviò verso il malandato vascello. Le vecchie le andarono dietro in fila, e il loro numero diventava sempre più incerto man mano che altre, quasi come gocce, sgattaiolavano fuori dai loro buchi per unirsi al corteo. Le torce mandavano faville e fumo. Con una forza quasi oscena, l'accresciuto gruppo di vecchie rugose spinse quel peso sull'acqua, vi saltò dentro, e prese i remi.
L'effetto era comico, un'orrenda farsa. Mevary salì a bordo per ultimo. La nave, quel mucchio di legname fradicio, fuoco e misteriose energie antiche che cigolava e mandava bagliori, prese il largo, con la sua vecchissima ciurma che remava furiosamente. Mevary stava inchiodato a poppa, con la spada sottile ancora in mano. Tabbit era avanzata lentamente fino alla prua, e rimuginava guardando l'altare fossilizzato e gli strumenti di pietra tagliente. La spada dell'uomo scintillava non vista, ignorata, dietro di lei. E gli occhi malefici e senz'anima di Tabbit, che sembravano aver guardato il mondo per secoli, brillavano ora, non per la nascita di qualcosa, ma per una resurrezione. Accanto a lei, Valia cominciò a intonare la dolce e spietata invocazione. Queste parole arcane, come il prefisso "Oe", avevano smesso di avere un significato preciso. Ne sopravviveva soltanto l'essenza, che, a conoscerla, si sarebbe rivelata piuttosto spaventosa. Valia, che diceva le parole e ne sapeva il significato, aveva assunto una calma e mistica felicità. Il suo umore sarebbe notevolmente cambiato se avesse saputo anche che da lassù, sopra la sua testa, la sua bionda cugina, alla luce di due candele, stava leggendo e rileggendo incredula qualcosa. La nave, lamentandosi e imbarcando acqua, raggiunse il centro della caverna. Qui cominciò ad andare avanti e indietro senza meta, spinta dai vecchi tendini dei remi e delle megere. Due delle sorelle, lasciati i loro posti, avevano cominciato saggiamente a buttare fuori l'acqua. Tutt'intorno le pareti della caverna continuavano a brillare in quella debole e frammentaria luminescenza. Tabbit sollevò il capo irrorato d'oro. «Allora,» disse bruscamente Mevary, «lo prendiamo, nonna?» «Zitto,» rispose Tabbit quasi carezzevolmente. «Presto riceverai ciò che la dea ha in serbo per te. Manca poco, ormai. Ma non interrompere l'invocazione. Le parole devono essere dette. I corni devono essere soffiati. I canti si devono levare.» Mevary cominciò ad avanzare, bilanciandosi con sdegnosa destrezza sul ponte ondeggiante. Le streghe ai remi lo guardavano mentre lui passava sopra le loro teste. La voce di Valia continuava a sussurrare la formula. «Come facciamo?» disse Mevary a Tabbit, standole ora alle spalle, beffardo e sudato. «Mi hai detto di una grotta sotto il livello dell'acqua. Userai un magnete? Una canna da pesca? O farai emergere il tesoro con uno stu-
pefacente incantesimo?» «Taci. Lo vedrai.» «Non voglio tacere.» Sollevò la spada e la strofinò di piatto sul braccio scheletrito di Tabbit. «Sono io il padrone qui. Ricordalo.» «No. La padrona è Lei. La Dea, Grande Padrona, che sarà onorata e riverita.» «Al diavolo la...» Mevary si fermò bruscamente. Una delle streghe che stavano buttando fuori l'acqua, abbandonato il suo compito, era venuta alle sue spalle e ora improvvisamente gli aveva afferrato il braccio. La stretta era forte come l'acciaio, cosa sorprendente per una donna così esile e anziana. «Non mi sono mai divertito tanto,» disse una giovane voce non solo molto musicale, ma anche innegabilmente maschile. «Ma purtroppo, anche le cose belle devono finire.» Il braccio di Mevary che teneva la spada crollò. Lui si voltò, ma solo perché gli fu permesso. Anche Tabbit si voltò. Ed anche Valia, le parole dell'invocazione dissoltesi, e nessuna altra venuta a sostituirle. La strega dalla voce d'uomo stava cortesemente liberandosi del suo abito grigio lasciandolo cadere sul ponte, e rivelando così uno splendido cortigiano blasonato da una chioma color arancio. Non era la prima volta che Cyrion prendeva in prestito l'abito di un morto per effettuare un travestimento; tuttavia, non gli era capitato spesso di dover spogliare delle ossa in cunicoli sotterranei. Mevary, che per molti versi era uno stupido, aveva però l'intuito vivace e immediato di quelli incapaci di prolungati ragionamenti deduttivi. «L'agente di Roilant,» esclamò. «L'agente di Roilant,» confermò Cyrion. «E tu, naturalmente, sei Mevary. E tu,» facendo un inchino a Tabbit, «la balia fattucchiera, Tabbit.» I gelidi occhi arrivarono alla schiava Jhanna, e si posarono delicatamente su di lei. «E tu devi essere Lady Valia. Sono veramente contento di trovarti così in forma.» Valia tirò un respiro. E non smise di guardarlo mentre diceva: «Deve morire anche lui, Oe-Tabbit.» Le labbra di Tabbit si mossero. Ma non ne venne fuori alcun suono. Il volto le si era contratto. Un attimo prima la sua meta le stava di fronte, chiara, nitida... e ora era apparso questo intruso. Il puro ordine della sua volontà era stato oltraggiato dal disordine. «Non hai capito che ti hanno portato qui a morire, Mevary?» domandò
Cyrion. «No? Lo temo proprio. Uno spuntino per la Dea, che beve il sangue di uomini giovani con le sue labbra acquose. Mentre tu credevi che stessero per tirare fuori per te il tesoro dei remusani. Visto che soltanto con la prospettiva del tesoro ti avrebbero potuto convincere a prendere parte a una cosa come questa.» Cyrion sorrise a Valia, a Tabbit, e di nuovo a Valia. «Ho il tempo di spiegargli? La Dea me lo concede?» Nessuna di loro rispose. Le altre sorelle continuavano a remare e allungavano il collo per guardare, smarrite anch'esse, come lo era Tabbit, nel deserto dell'imprevisto. Cyrion cominciò a raccontare a Mevary, muovendo lentamente gli occhi da Valia a Tabbit, da Tabbit a Valia. «Penso che sia andata così. Qualche secolo fa dei soldati disertarono dalla loro legione, dopo aver rubato una certa quantità d'oro. Rubarono anche una piccola nave, e siccome la nave non aveva vela, ne rimediarono una usando i loro mantelli. Della vela non è rimasto quasi niente, ma quel rosso è quello delle legioni di Remusa, scolorito dal sale e dall'uso, e macchiato dal fumo. I soldati, che conoscevano o trovarono per caso questa caverna, spinsero la nave fino a qui, per nascondere il loro bottino fino a che non si fossero calmate le acque. Ma mentre erano qui dentro, uno dei più antichi ordini di questa devota setta li sorprese e li uccise in onore della dea. Deve essere stata una magnifica serata, vero Tabbit? Come forse avrai notato,» disse Cyrion a Mevary, «sulle pareti della caverna si vede qua e là un luccichio. Questo è dovuto in parte ai funghi che queste care signore coltivano per trarne malsane droghe e pericolose pozioni. Ma quella lucentezza ha anche un'altra ragione. In vari punti della roccia sono state attaccate in quantità veramente impressionante delle ossa umane, e sono quelle che emettono lo strano riflesso fosforescente. Va da sé,» aggiunse Cyrion, «che l'oro dei legionari uccisi fu gettato nel fondo della caverna come ulteriore offerta alla Dea. Ed è praticamente impossibile recuperarlo. Ogni tanto, per un capriccio della marea, qualche frammento viene depositato sulla riva, lungo il fianco di questo strano relitto di nave. La nave, tuttavia è molto utile per il rituale. Le serve della Dea possono allegramente navigare sul Suo materno grembo. È per questo, naturalmente, che si sono tenute la nave.» Mevary guardava minaccioso. «Dunque,» disse, «alla fine, il senso è questo. Tutto un trucco, eh?» Ora anche lui guardava un po' Tabbit e un po' Valia, e sogghignava come un lupo. «E tu mi adoravi, vero, cara cugina? Lo sapevo che dovevo guardarmi da te. Ma non mi sarei mai immaginato un intrigo come questo. Tu devi
essere pazza, vero, tesoro?» Poi senza guardarlo, Mevary disse a Cyrion: «E tu, agente di Budino. Se hai risolto questo mistero, hai risolto anche il resto? Sebbene ti abbia seppellito, non sono colpevole del tentato omicidio. Sono innocente, innocente come un angelo.» «Certo, lo so che non sei colpevole di omicidio,» disse Cyrion. «Allora mi puoi aiutare a tornare nelle grazie del caro Budino, e poi forse potremmo dividerci le sue donazioni...» Mevary cessò bruscamente di parlare. Valia, che entrambi stavano osservando, si era mossa. Aveva preso dall'altare una ciotola di pietra e un coltello di selce tagliente come un rasoio. Tenendo ogni cosa in una mano aveva poi cominciato a camminare lentamente, un passo alla volta, verso il cugino. Mevary rise. Fu una risata genuina, di derisione. Nello stesso momento strinse il pugno sulla spada. Era pronto per ricevere Valia. «Ah, è così,» disse Mevary, «credi davvero di potermi colpire? Ho intenzione di punirti, tesoro. Se lo preferisci, con la spada. Un altro passo e la tua testa non sarà più sul tuo corpo. Credimi, cara. Posso farlo. Lo farò.» Valia si fermò. Lo fissava. Sul grigio scuro del cappuccio e sulla pelle olivastra, i chiari occhi della ragazza sembravano quasi bianchi. Erano pieni di lussuria. Lui, il giovane che aveva spiato di nascosto, l'oggetto delle sue fantasie adolescenziali, il suo primo e ultimo ammaliante coinvolgimento carnale, che lei ora doveva cauterizzare. A Valia non piaceva ricevere ordini. Non ne accettava da Tabbit, e non ne accettava neppure dalla Grande Madre. Da Mevary, che era stato solo un trastullo per la sua sessualità, non ne aveva e non ne avrebbe mai accettati. Se avesse mosso la mano con il coltello, lui l'avrebbe istantaneamente colpita con la spada. Ma fu l'altra mano che Valia mosse, la mano che teneva la ciotola di pietra. La ciotola gli andò verso il viso, e un'onda di nero andò dritta negli occhi di Mevary. Era l'inchiostro che avrebbero usato per imbrattarlo per il rituale, e che lo aveva praticamente accecato. L'istinto non sempre è un alleato. In questo caso, fu l'istinto che fece alzare le mani all'uomo accecato per stringerle sugli occhi e difenderli. La spada di Mevary compì un'ampia rotazione e Valia, lanciandosi sotto la spada roteante, gli immerse il coltello di pietra per un terzo della sua lunghezza nel petto. Poi, lasciando cadere la ciotola, e usando entrambe le mani, conficcò con forza la lama del coltello fino al manico. Il sacrificio avrebbe potuto essere diverso. L'ardore con cui era stato compiuto suggeriva un altro scenario. Ma colpire il cuore era semplice. E-
rano pochi quelli che non ne conoscevano la precisa posizione. Mevary, borioso aristocratico, amante brutale, parassita, spadaccino, spaccone, giocatore d'azzardo, uomo alla moda, cadde indietro. Bastò appena lo spazio tra la prua e le file delle rematrici, i cui volti grigi e attenti si piegavano e si protendevano in avanti per guardare. Anche Valia guardava intensamente, prima l'uomo che aveva ucciso, poi improvvisamente verso l'altro, l'uomo che gli era stato alle spalle. Cyrion non si era mosso. Quelli che lo conoscevano, o che sapevano di lui, ne sarebbero stati colpiti. La sua straordinaria velocità, la sua capacità di reazione, facevano parte del suo mito personale. E tuttavia, egli non era stato abbastanza veloce da impedire, anticipando un colpo mortale, la morte di Mevary di Beucelair. Valia guardava Cyrion con un volto significativamente vuoto. E Cyrion la ricambiava con il più educato e frivolo dei sorrisi. Poi, veloce come il mercurio, Valia balzò verso il fianco della nave e lo superò, piombando sull'acqua dai riflessi dorati e scomparendo nelle sue nere profondità. Le streghe che stavano ai remi emisero un lungo e fievole gemito. Cominciava a esserci un certo scompiglio. Cyrion non degnò le megere di uno sguardo, rivolse solo una brevissima occhiata allo specchio d'acqua nel quale la ragazza si era gettata. Che avesse imparato a nuotare qui non v'era il minimo dubbio; era stata un'altra sfida a se stessa. Dopo quella brevissima occhiata, Cyrion rivolse indietro lo sguardo, e si scansò dalla traiettoria del secondo coltello che Tabbit, in modo del tutto prevedibile, gli aveva lanciato contro. Si sentì il rumore dell'arma che cadeva sul ponte dietro di lui, e la vecchia, tirate fuori le labbra dalla crepa della bocca gli disse irata: «Il rituale è stato profanato, ma ci sei ancora tu. Tu, che io ho visto nel fuoco, ma con i capelli bianchi, più bianchi dei miei.» «I miei capelli,» disse Cyrion in tono confidenziale, «una volta erano dorati come i ranuncoli. Le tremende disgrazie della mia vita li fecero diventare bianchi quando avevo diciassette anni. È una cosa che non sa nessuno. Spero che manterrai il segreto.» Tabbit lanciò in alto le braccia. Erano braccia crudeli, e anche le mani erano crudeli, tutto il suo atteggiamento era malefico. «Lasciate i remi sorelle,» gridò Tabbit. «Prendetelo!» Come disse queste parole fu tutto uno sbattere di legni e un susseguirsi di tonfi nell'acqua, e l'orda di donne alle spalle di Cyrion si levò dalle panche, le braccia e le mani artigliate già protese, folli e crudeli come quelle di
Tabbit. «Sarà lui,» disse Tabbit, «a saziare la nostra Signora con la sua prolungata e sanguinosa morte.» «Mi dispiace deludervi,» disse Cyrion. Un attimo era tra loro, tra la sacerdotessa e la sua ciurma, l'attimo dopo era al loro fianco. Mentre si spostava Cyrion afferrò una delle fiammeggianti torce e la gettò scrupolosamente nella giara d'olio. Con una perfezione di stile che nessuna di esse apprezzò egli fendette l'acqua, e dopo qualche bracciata la giara d'olio esplose. La testa corvina di Valia aveva infranto l'acqua già da un po'. Cyrion, emergendo dalle stesse tenebre sottomarine, non si preoccupò di cercarla. Anche se l'illuminazione era migliorata. E non si interessò di quanto succedeva dietro di lui, più o meno al centro del bacino d'acqua. Così si perse le urla, il fumo, l'esplosione, il completo capovolgimento di quell'ammuffita, malaugurata imbarcazione con la foglia della sua vela fiammeggiante. Né vide le vecchie schiantarsi sull'acqua come tanti bastoni ululanti. Alcune molto probabilmente erano capaci di nuotare. Altre no. Erano tutte anziane, e tutte ustionate. Sebbene nell'esaltazione del loro folle culto riuscissero a spingere a forza di remi una nave, esse non erano in grado di affrontare quell'improvvisa immersione nell'acqua ghiacciata, né il risucchio delle correnti sottomarine. Ancora meno erano in grado di spingere i loro fragili corpi, malnutriti così a lungo in vista del ricco sangue degli uomini, verso una delle rocciose, scivolose e tutt'altro che accoglienti rive. Alcune morirono subito. Altre, quelle che non sapevano nuotare, si aggrappavano gridando a loro, si dibattevano in cerca di salvezza, e andavano giù. Non era oltre i confini della logica che un paio di loro riuscisse a raggiungere la riva. Ma Cyrion non si fermò ad aspettarle quando vi arrivò. Il bagliore della nave agonizzante si era già quasi spento quando Cyrion penetrò in uno dei cunicoli nella scogliera. Quando emerse in alto sulla sporgenza rocciosa, solo una leggera chiazza d'olio macchiava ancora la superficie dell'acqua. I relitti sguazzanti erano tutti scomparsi. C'era stato un tale fracasso intorno a lui che Cyrion non aveva potuto udirne un altro. Solo quando ebbe raggiunto il loggione di roccia sopra le grotte vide la gabbia schiantata al suolo in mezzo a un mucchio di corde recise e con i fianchi schiacciati in dentro dall'impatto. Con la corda tagliata e il contrappeso della gabbia rimosso come ulteriore precauzione, sa-
rebbe stato impossibile a chiunque salire fino al pozzo. Valia aveva fatto il suo meglio per impedire di essere seguita. Cyrion non si fermò neanche un istante accanto a quel rottame. Lo superò e continuò a percorrere la galleria. Nell'oscurità del corridoio Valia si fermò un attimo, appoggiandosi sul pozzo per riprendere fiato, e ridendo un po', malignamente. Aveva raggiunto il suo scopo, malgrado l'interferenza dello straniero. Cosa fosse successo sulla nave non lo sapeva, sebbene, voltandosi, avesse visto l'esplosione di luce sull'acqua intorno ad essa. Doveva esservi stata una colluttazione, questo era chiaro. E Tabbit... che ne era stato di Tabbit? Al pensiero che Tabbit potesse essere morta nell'incendio Valia si sentì tremendamente alleggerita, come se un peso di piombo si fosse staccato dalla sua anima. Ma con la liberazione, venne anche uno spaventoso senso di perdita. E con la perdita, un piacere maligno. E con il piacere... Valia si scosse, rimproverandosi con eccitazione. Sebbene avesse fatto in modo che quell'abile idiota di uno straniero rimanesse per sempre intrappolato lì sotto, non era ancora tempo di fermarsi. Prima che la notte finisse c'era ancora da portare a termine l'assassinio di Roilant. E poi la fuga, vestita solo dei suoi stracci e dei suoi poteri. Per quel che riguardava Mevary, avrebbe aspettato di trovarsi in privato, come faceva sempre, per godersi il suo trionfo. E allora avrebbe pianto quelle lacrime di isterico piacere che era solita versare in queste occasioni. Le dispiaceva soltanto che quella morte fosse stata così brusca. Ma che importava. Ora poteva fermarsi un attimo, e studiare il decesso di Roilant. E poi a Cassireia, o dovunque Eliset sarebbe stata condannata, Valia sarebbe certamente stata una spettatrice in mezzo alla folla. L'inconsapevolezza della sua mente occlusa non le faceva vedere le imperfezioni del suo piano. Quelle che sentiva sapeva che alla fine non avrebbero avuto alcuna importanza, e aveva proprio ragione. Quando il debole bagliore cominciò ad apparire, Valia ne fu allarmata. Lo scambiò per il bagliore dell'alba. Poi quella luce si condensò. Si avvolse attorno a un'ombra, divenne l'ombra, e l'ombra cominciò a camminare verso di lei. Senza che vi fosse luce per vedere, essa tuttavia si distingueva perfettamente, come se illuminata dall'interno. Era la figura di un uomo di mezza età, con i capelli bruni che cominciavano a ingrigirsi, e con un volto che era lo stesso di Mevary, con in più vent'anni di età, e quaranta di dissolu-
tezza. Valia sentì freddo. Non era la frescura della notte, né la nuotata nell'acqua ghiacciata. Era il freddo di un estremo terrore. Nonostante questo, le sue mani intirizzite cominciarono a frugare nella tunica, finché non strinsero e tirarono fuori una pietra verde scolpita, l'amuleto che le aveva dato Tabbit per difendersi da questo fantasma: il fantasma che in vita era stato zio di Valia e padre di Mevary, Mevary. Quel caro parente che lei aveva fatto annegare nel calidario. Non era mai stata così impreparata a incontrare quella cosa, così lontana dalle protezioni magiche che avevano tenuto il fantasma a distanza anche quando veniva qui, vicinissimo al luogo del delitto. Comunque la pietra verde era potente. Un paio di volte l'aveva vista respingere i demoni che Tabbit aveva invocato. Perché dunque un terrore così incontrollabile? «Demone o spirito,» sibilò Valia, tenendo la pietra davanti a sé, «dissolviti e svanisci. Te lo ordino per il potere di questo talismano.» C'era un piccolo particolare. Il potere di ogni protezione e del talismano, sempre che ne avessero avuto, era stato dato da Tabbit. E si presumeva che ora Tabbit fosse morta. Pur muovendosi con indolenza, il fantasma aveva raggiunto Valia. Il suo volto non mostrava né piacere né rabbia. L'apparizione semplicemente la prese e la trasse a sé. E sebbene fosse privo di sostanza, Valia non riuscì a sottrarsi al suo abbraccio. Il terribile gelo del terrore si era fatto più intenso ora, per il freddo e il torpore che il morto vivente diffondeva attorno a sé e a lei. Valia cercò di urlare, ma l'urlo le morì in gola. Il suo corpo sembrava voler cadere, sprofondare, perdere coscienza. Ma la sua mente, ahimè, non poté farlo. Con un leggero schianto il talismano cadde sul pavimento del cortile coperto, e si ruppe in due parti. Fu nella stanza del calidario che Cyrion ritrovò Valia un po' più tardi, nella mezza luce dell'aurora. Il percorso di Cyrion verso la superficie era stato abbastanza semplice. Ritornato alla grotta da dove era entrato nella caverna la prima volta, egli aveva risalito il pendio, aveva tirato fuori la corda dall'anfratto in cui l'aveva nascosta, e risalendo la faglia nella roccia e il ruscello sotterraneo era sbucato di nuovo nella tomba occupata da Gerris. Il gancio di ferro in effetti si era allentato, ma si poteva dire che avesse fatto il suo lavoro più che bene finché Cyrion non lo aveva tirato via. Costretto a spingere da parte ancora una volta il corpo del padre di Eliset, Cyrion lo aveva poi risi-
stemato decorosamente prima di uscire dalla tomba, il cui coperchio, nella confusione del giorno prima, non era stato più rimesso a posto, come Cyrion aveva già fatto notare a Eliset quella stessa notte. Per il resto le cose erano rimaste pressoché come le aveva lasciate lui nella sua precedente visita. Le guardie e Roilant dormivano ancora sotto l'effetto della droga. E nessun cavallo era scomparso. Il cortile della cucina ospitava solo foglie morte. Harmul e Zimir erano assenti, scappati forse, seguendo una tradizione molto diffusa a Flor. Infine la ricerca aveva condotto Cyrion, non senza motivi, alla stanza da bagno. Ed era lì che giaceva l'altra figlia di Gerris, con la bruna chioma che sotto l'acqua mai del tutto svuotata del calidario era diventata nera, e galleggiava senza meta come una macchia d'inchiostro. Anche lei ormai non aveva più una meta, e stava lì a faccia in giù sul fondo della vasca, tutte le sue speranze, i suoi sogni, e tutta la sua potente magia, svaniti per sempre. Per la seconda e ultima volta, Valia era annegata. EPILOGO Nel roseo fiorire del primo mattino, arrivarono a Flor degli emissari del governatore di Cassireia. Dopo una discussione piuttosto confusa e non proprio amabile con Roilant di Beucelair, essi se ne andarono via. Un'ora più tardi, dopo una discussione ancora meno amabile, l'ex soldato smise anche di essere l'uomo al servizio di Roilant, e seguì gli emissari del governatore. A un'ora che approssimativamente sembrava mezzogiorno, Harmul, sceso dal suo temporaneo rifugio su un albero di mele, servì un leggero pasto nel padiglione del tetto. La giornata era rovente; freccie di sole penetravano attraverso i tralicci e si conficcavano in ogni cosa, nel legno graffiato, nella seta consunta, nella carne stanca. Roilant, alle prese con un mal di testa da nausea, guardava con disgusto il cibo e il vino. «Credi che questa volta sia innocuo?» «Del tutto innocuo,» disse Cyrion, e cominciò a mangiare del pane con del formaggio. «Anche il vino?» «Anche il vino.» «Avrei dovuto fare più attenzione.» «Si, avresti dovuto. Sono rimasto piuttosto stupito che tu non l'abbia fat-
to.» «Ma io mi aspettavo il danno direttamente da Mevary e... e da Eliset.» «E ora hai scoperto che ti eri sbagliato.» «Non potrò mai... Cosa penserà Eliset di me?» «Faresti meglio a chiederlo a lei.» «Questo rapporto che mi hai mandato,» disse piano Roilant, «dici che Eliset lo avrà letto?» «Oh, penso proprio di sì. Lei si è protetta facendo la sciocca e tenendosi all'oscuro di molte delle cose che accadevano qui. Invece non è né sciocca né all'oscuro delle cose.» «E Valia... questi dettagli che dai sulla sua vita e sui suoi fini. In nome di Dio, come hai fatto a scoprire che Jhanna era Valia, e che dietro tutto questo c'era lei?» Cyrion bevve un po' di sciroppo di frutta. Poi disse: «La sua voce la smascherò nel giro di due minuti.» «La sua voce?» «Molto bella, certo, ma quasi identica a quella di Eliset. Una cosa non molto rara tra sorelle. Anche quando uno dei genitori è diverso. «E poi vi sono stati altri indizi. La sua insolita carnagione, a metà strada tra l'orientale e l'occidentale, e i riflessi rossi dei suoi capelli, che mi fecero pensare subito alla tua famiglia. Inoltre, per la schiava violentata che fingeva di essere, il suo contegno era un po' troppo arrogante. Che fosse un'assassina apparve chiaro quando al banchetto nuziale versò il veleno nella coppa. Prima mi aveva dato un'altra droga, destinata a Eliset, dicendo di volermi proteggere. Io la esaminai e scoprii che era soltanto un unguento profumato che avrebbe causato violenti dolori intestinali, e nulla più. Jhanna era tutta intenta a perpetrare il suo crimine. Ciò nonostante il suo dono si dimostrò inutile. Tentò di mettermi a dormire con una rosa imbevuta di narcotico. Dopo essermene sbarazzato, usai l'unguento così premurosamente fornitomi per sostituire il profumo della rosa nella mia stanza, e così evitai ogni suo sotterfugio. E veniamo al banchetto avvelenato. Anche il più grossolano degli assassini non mi avrebbe mai servito un veleno così eclatante nei suoi effetti, che erano particolarmente raccapriccianti. Ne dedussi allora che chiunque desiderasse ucciderti non aveva nulla in contrario che l'omicidio fosse non solo sospettato, ma anche provato. E se fosse stato così, perché? «Vedi,» disse Cyrion, «il complotto, come tu me lo avevi illustrato all'inizio, era troppo prevedibile. Le dicerie si attaccano attorno a ogni evento come ventose, e tendono ad assumere forme familiari.
Una sorella adottata scompare in circostanze misteriose? La sorella legittima ne era invidiosa e l'ha eliminata. Una donna povera sposa un uomo ricco? Lo fa sicuramente per spogliarlo delle sue ricchezze. Sono venuto qui ansioso di alleviare il tedio che procurano i pettegolezzi con altri argomenti. E li ho trovati.» «Ma immaginare che Valla fosse viva...» «Lo credetti subito possibile. Mentre la leggenda delle sirene che abitavano nel mare e rapivano i bambini sembrava nascondere qualche verità. Poi scoprii che il pozzo era usato come un ingresso. Sfortunatamente, per la salute di Valia, un po' troppo vicino al bagno spiritato. Era chiaro che il fantasma di zio Mevary stesse perseguitando qualcuno. Mi domandavo solo chi.» Roilant ebbe un brivido. «Dovrò credere al tuo fantasma,» disse. «L'ho vista nel calidario.» «Giustizia,» disse Cyrion dolcemente. «Valia lo aveva fatto fuori, non dimenticarlo. Credo anche che sia stato il suo desiderio di uccidere il figlio a scatenare il fantasma del padre. E il fatto che lei sia riuscita a coronare quel desiderio deve aver dato allo zio la forza di uccidere a sua volta lei. Non sembra però che padre e figlio si adorassero. Forse è stato il sangue versato a spronare il vecchio.» Roilant prese un sorso di vino, si fermò a riflettere se fosse il caso di ingoiarlo, lo fece, e sospirò, per nulla riavutosi. «E tu avevi capito dall'inizio che Eliset era innocente. Potessi essere stato anch'io altrettanto perspicace.» «Non proprio dall'inizio. Ma, resomi conto che Eliset non era una stupida, rimasi sorpreso nel sentirla scherzare sul fatto che ti avrebbe permesso di morire solo dopo che tu l'avessi sposata, quando poteva immaginare che tu ti trovassi nei dintorni, magari che ti stessi recando a cena, e mi sorprese anche vederla in ansia ogni volta che tu venivi menzionato. Se fosse stato questo il piano che stavano preparando, lei sarebbe stata più cauta. Per quanto sapesse di avere su di te un grande ascendente, non avrebbe immaginato che tu avresti ascoltato di nascosto i loro discorsi e che saresti saggiamente scappato a Heruzala? Nella mia interpretazione di Roilant, tu eri andato lì convincendo te stesso che loro non avevano intenzione di farti del male. Una minaccia esplicita ti avrebbe mandato via di corsa. No. La premura di Eliset in quell'occasione era solo quella di ricordare a Mevary la donazione che lui poteva ottenere se lei ti avesse sposato. E la premura di Mevary era di incoraggiare Eliset al matrimonio con te. Il che dimostra
come lui non le avesse mai accennato alla possibilità di un'altra strada per giungere alla ricchezza. Nonostante questo, in seguito vi fu un'altra scena del genere, quando capii che Eliset stava mettendo in guardia Mevary da ogni atto diretto contro la tua vita. Aveva cominciato a temere che si stesse tramando qualcosa di ben più grave, e ti voleva salvare, se ci fosse riuscita.» «Davvero?» Roilant sgranò gli occhi e arrossì leggermente. «Vedi,» disse Cyrion affabilmente, «com'è facile per te avere fiducia in lei, malgrado le tue apprensioni adolescenziali?» «Forse sono stati solo i miei... la travagliata nascita del mio affetto per una che io... ma allora c'era mio padre. Perché lui la diffamò in quel modo, proprio sul letto di morte?» «Anche lui aveva prestato fede alle dicerie. Come fece anche il tuo successivo informatore. Eliset aveva degli amanti. Eliset praticava stregonerie.» «E la fatale caduta da cavallo di mio padre?» «Un incidente. A meno che non avesse dei nemici a corte che quel giorno si trovavano insieme a lui.» «Era ritenuto un validissimo cavaliere.» «Era un suo giudizio? Era un uomo che si faceva dei giudizi sbagliati. Perché non dovrebbe essersi sbagliato anche sul cavallo?» «Sì. Mio padre era fatto così. Non che lo stia accusando. Era la sua natura. Allora soltanto zio Mevary fu la vittima di un omicidio. Oppure ve ne fu un'altra? È così?» «Vedo che stai imparando a leggermi come se fossi una pergamena. Non ci giurerei, ma penso che anche Gerris sia stato spedito prima del suo tempo.» «Da Valia?» «No. Dall'allegro zio Mevary in persona. Lui voleva Flor, visto che le sue proprietà ormai non esistevano più. Potrebbe aver ucciso per ottenerla. Se fosse andata così, Valia, ironia della sorte, sarebbe diventata la vendicatrice del suo odiato padre.» «Ora ricordo come lui, zio Mevary, dopo aver concluso il fidanzamento ed essersi assicurato i benefici che ne conseguivano, facesse di tutto per rinviare sempre il matrimonio, cercando così di prolungare la sua tutela su Flor quanto più fosse possibile. E coinvolgendo con la forza Eliset nell'affare. Un mostro. Come lo era suo figlio. Non posso dolermi per nessuno dei Mevary, né per mio zio né per mio cugino. E tuttavia, il cugino Mevary
non meritava la morte.» «Gli impedirà, comunque, di fare dell'altro male a coloro che gli stavano intorno.» Roilant si accigliò. «In ogni caso, non v'era nessuna possibilità di salvarlo?» Cyrion, che aveva terminato il suo pasto, aveva appoggiato un gomito sul basso tavolino. Venne incontro allo sguardo di Roilant con due occhi più limpidi del limpidissimo mare d'inverno, e alquanto più freddi. «Nessuna,» disse poi con dolcezza. Quella combinazione di celestiale innocenza e demoniaca affabilità non mai era stata così eclatante. Per un attimo Roilant si sentì agitato. Quasi nauseato. Quest'uomo, a cui lui aveva affidato la propria vita e le proprie fortune, nel nome di Dio, chi era? «Dimmi,» disse Roilant, «dimmi sinceramente, cos'hai guadagnato da tutto questo affare?» Cyrion fece uno dei suoi angelici sorrisi. «Il piacere di aiutarti, mio caro. Oltre a qualsiasi folle ricompensa tu voglia posare sulla mia mano tesa.» «Una ricompensa di cui tu non hai mai provato a discutere con me.» «Davvero non l'ho fatto? Una grave mancanza.» «Ciò significa che a te non importa quanto sei pagato, o se sei pagato. Il che a sua volta significa...» «Che forse l'emozione che procura la caccia basta da sola come ricompensa?» Cyrion faceva il puntiglioso. «Che cosa terribilmente insensata.» Roilant si alzò in piedi. «Devo vedere il governatore. Il corpo di Valia è stato... è pronto per partire, credo. Dopo probabilmente mi metterò subito in viaggio per Heruzala. Mi sembra inutile restare qui a sprecare il mio tempo. A Eliset manderò delle lettere, naturalmente, e del denaro. L'intera somma a cui aveva diritto da molto tempo.» «Non dovresti dirle queste cose di persona?» disse Cyrion. «Penso di averle detto abbastanza. Le ho detto che Mevary era morto nella caverna, e che Valia... lei si è chiusa nella stanza. Non avrà che disprezzo per me. Forse odio. L'avrei potuta avere in moglie. Tutto quello che diceva era la verità. Sì, so che ha avuto degli amanti. Dannazione a loro. Che me ne importa. Ma comunque, io sono... ero... promesso a una donna di Heruzala, con cui andrò molto più d'accordo, visto che...» «Visto che ti sei convinto di valere così poco che soltanto una donna modesta e semplice potrà tollerarti,» concluse spietatamente Cyrion.
Roilant si abbandonò a una manifestazione di insolita violenza. «Stai zitto!» gridò. «Dannazione a te! Ma cosa sei, un incrocio tra una margherita e una lama di rasoio, una sorta di ibrido tra il Paradiso e l'Inferno? Hai fatto il tuo lavoro. Queste cose non ri riguardano più.» «Veramente...» «Zitto!» tuonò ancora Roilant. E afferrata la brocca del vino, gliela lanciò contro. Cyrion si piegò senza difficoltà. La brocca, scontratasi contro una delle cinque porte ancora intatte del padiglione, la sfondò, scardinandola completamente. Con un grande fracasso la porta cadde violentemente sul tetto e l'avorio andò in mille pezzi. Roilant, senza aggiungere una parola, a grandi passi uscì dal nuovo varco che aveva creato, rendendolo subito utile. All'imbocco delle scale disse: «La tua ricompensa ti sarà mandata.» «Sì?» disse Cyrion, «e dove me la manderai?» «Alla Locanda dell'Olivo. Perciò faresti meglio a tornarci.» Dieci minuti più tardi Roilant, scortato dalle sue guardie, cavalcava alla volta di Cassireia in preda a uno dei più comprensibili e meno consueti sbotti d'ira della sua vita. Indifferente a tutti questi eventi, il paesaggio decadente di Flor, germogliato nel corso del mattino, si acquietava e si assopiva nell'intensità del pomeriggio. All'interno del fitto recinto di verde del frutteto gli insetti orchestravano la loro ronzante sinfonia, fino a cadere sazi e storditi a terra; sui rami e sull'erba si disfacevano i frutti, che emanavano alcoliche esalazioni. Eliset, non più chiusa nella sua stanza, ma in questa verdissima cella di riproduzione e putrefazione, stava in piedi come una bianca statua, ingioiellata di verde dalla luce che filtrava attraverso le foglie, e respirava, esisteva, guardava, come se avesse aperto gli occhi su tutto questo dopo un sonno durato cent'anni. Anche la sua chioma era verde-oro, oro dove il sole la colpiva direttamente, mentre gli occhi, ridestatisi, erano bui di consapevolezza. Indossava l'abito consunto nel quale Cyrion l'aveva vista la prima volta, macchiato ora lungo l'orlo dai liquori dei frutti sfatti. Che fosse felice, serena, o addolorata, nulla di tutto questo era scritto su di lei. Lei era semplicemente un'armoniosa sfaccettatura del luogo e dell'ora. E quando Cyrion, senza fare alcun rumore, le sbucò di fronte attraverso una breccia nel groviglio di alberi, lei non si mosse, né verso di lui né lontano da lui, né da nessun'altra parte.
«Crei un quadro veramente affascinante,» disse morbido Cyrion. «Manca solo un dio pagano che appaia improvvisamente a spaventarti e la scena è completa.» «Un dio pagano...» fantasticò lei. «Uno ne è appena apparso.» Poi Cyrion disse: «Roilant è andato a Cassireia.» «Lo so. Ora dovrei mettermi a lutto. Mevary e Valia. Ma sarebbe una commedia, nulla più. Perciò non piango. La faccenda verrà comunque soffocata.» «Senza dubbio. Immagino che anche Harmul sia stato pagato per il suo silenzio e mandato via. E se Zimir e Dassin uscissero dalle loro tane, riceverebbero lo stesso trattamento.» «E così finalmente sarò libera di vivere la mia vita, sola fra queste rovine. Vedi, ho dovuto affrontare la realtà. Io amo Flor, ma Flor è morta. Mi sono aggrappata a un cadavere, temendo di perderlo. E ora, sembra che io sia condannata a non staccarmene più. Che destino ingrato. Tuttavia questo posto ha il suo fascino. E qui c'è il mio passato. Forse dovrei essere contenta. Ma vi sono state troppe battaglie su questo suolo. Ogni cosa dolce che vedo me ne ricorda qualche altra che è amara.» Cyrion non disse nulla. «Immagino,» continuò allora Eliset, «che un uomo d'azione come te mi debba trovare spregevole. La mia grave colpa durante tutto questo tempo è stata quella di aver deliberatamente distolto lo sguardo da tutto ciò che avveniva qui, di essermi mantenuta, quanto più ho potuto, all'oscuro di tutto. Mi sembrava l'unico modo per sopravvivere. Accettare qualsiasi cosa. Sorridere affettatamente, adulare, fare tutto quello che mi veniva ordinato... anche assistere a una sepoltura illegale. Ah, la mia cieca speranza. Ero convinta che, se non ci avessi fatto caso, l'incubo mi sarebbe passato accanto senza toccarmi. È stato così. E io sono rimasta con... molto poco. Be', allora resterò qui. Insieme ai fantasmi.» «Fantasmi nei quali credi?» «Io credo che vi siano dei fantasmi qui. Oh, non quelli a cui dedicavo un rispetto non sentito, quei tumulti che supponevo venissero dalle gozzoviglie di Mevary e Jhanna-Valia. Temevo anche oscene pratiche di stregoneria, e me ne tenevo lontana, naturalmente. Quando mi raccontasti i sogni che ti avevano portato... che avevano portato Roilant a Flor... mi domandai se in qualche modo te li avesse provocati lei, seguendo le istruzioni di Mevary. Vedi, io non credo nella magia, ma nella forza di un'ardente volontà distruttiva, in quella ci credo, e lei, Jhanna, Valia... io la temetti dal mo-
mento in cui lei entrò in casa. Era la sgualdrina di Mevary, come lo ero anch'io, come lui mi aveva fatta diventare, e mi serviva, cercando di carpirmi ogni confidenza, ogni debolezza. Io non le davo niente. Lei era come un gelido soffio alle mie spalle.» Eliset si fermò per un momento. Poi disse: «C'è un altro gelido soffio ora... mio padre. Ho letto la tua lettera, come tu prevedevi. Non faceva menzione di Gerris. È stato avvelenato?» «Può essere.» «Da mio zio.» «Vedo che non me lo domandi. E lui il più probabile candidato.» Molto lentamente Eliset si voltò, distogliendo lo sguardo da Cyrion nel modo che aveva descritto metaforicamente neanche un minuto prima. Poi disse: «Ricordo che quando afferrai la tua coppa di vino al nostro orrendo banchetto di nozze, tu mi sembrasti turbato. Temevi che potessero avvelenare anche me?» «Era possibile. Qualcuno aveva addolcito una delle coppe. E in quel momento non sapevo bene quale.» «Perciò eri già allora convinto della mia innocenza, dopo il nostro drammatico dialogo al mercato di Cassireia?» «Non del tutto. Vedi Eliset, c'era sempre una tessera di questo affascinante mosaico che non voleva mettersi a posto. Questa tessera tendeva a implicare te. Un enigma. Malgrado la tua radiosa innocenza, non potevo giurare che tu non praticassi stregonerie.» «E ora lo puoi giurare? Devo tremare?» «Te l'ho detto, era un enigma. Credo di avere trovato la risposta.» «Dunque sono assolta.» «Sei assolta. Salvo che questo non abbia qualche conseguenza sulla tua vita futura.» Eliset si fermò. Un uccello cominciò a cantare dolcemente tra le foglie. Invece di svelarle la soluzione del mistero, Cyrion cominciò a parlarle di quell'uccello, del modo in cui cantava, dei suoi colori, delle sue migrazioni. Eliset ascoltava rapita. Dopo qualche minuto si trovò a camminare accanto a Cyrion nel cuore del frutteto in fermento. Lui le parlò delle proprietà di tutti i fiori che incontravano, poi, intravedendo attraverso il groviglio di tronchi le antiche mura remusane, Cyrion si mise a raccontarle dei remusani. La sua voce, così melodiosa e così splendidamente chiara, l'aveva quasi ipnotizzata. Le lezioni erano facili. Per qualche straordinario motivo, Eliset
sentì che non avrebbe mai più dimenticato come quel piccolo uccellino sarebbe volato in inverno fino a Kyros e ad Askandris, o che il fiore bianco era in grado di curare l'insonnia, o che un ufficiale remusano, snervato dalla calura nel pieno dell'estate, aveva inciso sulla pietra di un antica locanda di Teboras queste parole: Oggi legionari arrosto. Alla fine Eliset disse: «È una curiosa conversazione quella che stiamo avendo.» «Oh,» replicò lui, «penso che in questi giorni vi siano stati abbastanza sangue e distruzione. La monotonia è una cosa spaventosa.» In quel momento emersero dal frutteto, e si ritrovarono sul prato inaridito ai piedi del pendio. Davanti a loro il terreno saliva, sempre più scuro, fino al carpine scolorito, alla casa cadente, alla torre inclinata, fino al mare che si scorgeva oltre, e che, con il suo intatto splendore, mortificava tutto il resto. Eliset ammirava la vista. «La dote di Flor. Pensa soltanto se tu mi avessi sposata veramente, invece che per finta. Tutto questo sarebbe stato tuo.» «E tu pensa soltanto che marito indegno avresti ricevuto in cambio.» «Io credevo che tu fossi Roilant.» «Davvero?» Lei lo guardò negli occhi. «Tu sai che lo credevo.» Cyrion assentì. «Prima pensavo che lo credessi. Ora mi domando se lo credevi veramente. Ma stavolta non ho alcuna prova né la logica ad aiutarmi.» Eliset aveva abbassato lo sguardo. «Molto bene. Allora, visto che non me ne fai richiesta, avrai la risposta gratis. Naturalmente io ho continuato a recitare la mia parte, a ignorare la mia scoperta nello stesso modo in cui ignoravo ogni altra cosa che potesse essere pericolosa. Poteva essere qualche trucco di Mevary. Oppure di Roilant. Perché io sapevo che tu non eri Roilant. Ed era più che un'intuizione.» «Cosa mi ha tradito?» domandò Cyrion. E poi sussurrando così piano che lei lo sentì appena, «Eliset?» Lei sollevò ancora gli occhi. Il sole li colmava di ogni sfumatura di azzurro esistente sulla terra. «Sulla scogliera,» disse. «Ti ha tradito il tuo bacio.» «Perché lui non ti avrebbe baciata.» «Perché non era il bacio di Roilant.» «E nonostante questo hai sposato me, un impostore.»
«A quel punto immaginavo che la cerimonia sarebbe stata invalida. Sebbene avessi tanta paura che ti pregai di rimanere a Flor ancora per una notte.» «Temendo che io reclamassi i diritti di un marito.» «Non avevo paura di quello,» disse lei. «Diversi uomini mi hanno costretta a sottostare ai loro voleri.» «E io sarei stato soltanto uno in più.» «Tu, finalmente, saresti stato il primo che avrei scelto con piacere.» Il suo orgoglio, il suo equilibrio non sembravano affatto turbati da quanto aveva detto, ma il battito del cuore scuoteva il candore del suo collo quasi fosse un petalo tremolante. Le mani di Cyrion, non più quelle di uno spadaccino, ma ora le mani di un musicista, le sfiorarono dolcemente la fronte, i capelli, la bocca. Quando alle mani seguirono le labbra Eliset chiuse gli occhi. E quando le braccia di lui la cinsero, lei si lasciò andare, ricordando per un istante che il piacere è solo lo scorrere di una stagione, prima di dimenticare ogni cosa tranne l'uomo che la stringeva. Dimenticò anche il calore del sole lontano, e il canto dell'uccellino che in inverno sarebbe volato via verso il deserto. In una strada di Heruzala, chiamata Via della Fortezza per la vicinanza a un'antica prigione remusana, si trovavano una serie di ricche abitazioni ora in declino. Una volta era una zona elegante, le alte mura e i pesanti cancelli delle case parlavano di un ricco passato. Una sola di quelle case in Via della Fortezza costituiva l'interesse di Roilant di Beucelair, se non di altri. Era l'abitazione che custodiva la donna da lui scelta, quella a cui lui aveva rinunciato soltanto per proteggerla dalle stregonerie di Eliset, o meglio, secondo gli ultimi sviluppi, di Valia. Di buon'ora in un mattino d'estate, la donna di Roilant fu messa in agitazione dalla notizia che un gentiluomo dai capelli rossi era venuto a trovarla. Ma la sua agitazione divenne ancora più grande quando, entrando nella stanza, si trovò di fronte un uomo diverso da quello che si aspettava. Cyrion fece un perfetto inchino. «Perdonami Signora,» disse. «Mi vergogno ad ammettere di aver ottenuto la tua udienza con l'inganno.» La donna riacquistò rapidamente la calma. Il suo volto, non bello ma piacevole, tornò disteso. Poi disse: «In effetti, avrei dovuto immaginarlo che non era Roilant. La sua lettera diceva che sarebbe stato qui a mezzo-
giorno. Sarebbe potuto arrivare con un po' di ritardo, ma certo non indecentemente in anticipo. Inoltre la mia domestica non è dedita a futili scherzi. Roteare gli occhi per lo stupore e strillare di un visitatore con i capelli rossi mi era sembrato piuttosto innaturale, per non dire antiestetico.» Cyrion sorrise. «A dispetto del tuo disappunto ti stai mostrando molto clemente. Mi rendo conto infatti di quanto grande debba essere il tuo disappunto per il fatto che io non sia Roilant.» Cyrion fece una pausa di gravità. «Tu pensi, naturalmente, che egli voglia chiederti di diventare sua moglie, finalmente.» «Io...» la donna arrossì. «La sua lettera faceva pensare a questo. Il suo matrimonio con Lady Eliset...» «...Sembra essere sfumato. Spero di non sembrarti impertinente se ti faccio subito le mie felicitazioni.» «No... affatto.» La bocca della donna si irrigidì. «Tanto meno se mi vorrai spiegare chi sei e perché sei qui.» «A quello arriveremo,» disse Cyrion. «Ma concedimi ancora un attimo.» «Perché dovrei, di grazia?» «Perché quello che sto per dire può esserti di grande aiuto.» La donna di Roilant congiunse le mani e si mise a sedere. Non tradiva alcuna emozione, salvo che le dita delle sue mani si erano intrecciate in maniera un po' troppo stretta, quasi temessero che qualcosa potesse sfuggire da loro. O infilarvisi. «Allora?» «Allora,» disse Cyrion. «Roilant non ti avrà seccata con questa faccenda, ma prima che lui abbandonasse la sua — oserei dire — sincera determinazione a dichiarare la propria affinità verso te, in favore della promessa che aveva fatto a Eliset, successero una serie di eventi anomali. All'inizio sembrò che Lady Eliset avesse cominciato a tormentarlo, ricordandogli la sua adolescenziale promessa. Poi, insieme al tormento, vennero una serie di stranezze... talismani che turbinavano in aria, petali secchi che cadevano sul suo guanciale...» «Forse,» disse la donna di Roilant con viso arcigno, «i fenomeni erano causati da una coscienza che si sentiva in colpa per aver tradito la promessa. E potrebbero ancora tornare a tormentarlo, no?» «I fenomeni erano causati dalla magia,» disse Cyrion. «Una maga molto abile, capace di piegare l'illusione alla propria volontà, e di far muovere oggetti inanimati con il potere delle proprie energie. Devo ammetterlo, so-
no rimasto impressionato dalla sua abilità.» «Sì,» disse lei, «chi crede a queste cose, ne resterebbe impressionato. D'altra parte, tenendo conto della magia, quegli oggetti che Eliset allora mandò a Roilant come pegni potevano anche essere imbevuti soltanto della loro vitalità, e capaci da loro stessi di rimproverarlo.» «Allora tu sapevi che il talismano e i fiori erano dei pegni che lei gli aveva mandato?» La donna si fermò. Ancora una volta arrossì. «Lui mi raccontò in confidenza un po' di quello che c'era stato tra loro. E mi raccontò di aver ricevuto queste cose.» «Il talismano, quindi, e i fiori. Ma credo che non ti abbia parlato di un paio di modesti guanti, altrimenti, sono sicuro, non te ne saresti dimenticata.» «Dei guanti? No, non mi ha detto che lei gli aveva mandato dei guanti. Ma perché questo dovrebbe interessare me? O te?» «Dimmi,» le domandò Cyrion, «sei veramente disposta a condannare te stessa e lui a una misera unione, soltanto perché a tuo padre piace in qualche modo l'idea, e perché i tuoi incantesimi sono falliti?» La donna di Roilant si alzò in piedi. Se all'inizio era in uno stato di agitazione, ora si sentiva in un gran tumulto. Le guance le erano diventate scarlatte, mentre le mani, che teneva ancora giunte, erano esangui. «Che stai dicendo?» «Sai bene cosa sto dicendo.» Cyrion si avvicinò a una finestra e attraverso l'inferriata ammirò il giardino incolto di rovi di rose su cui essa affacciava. «Non lo so. Io...» «Ad essere franco, sebbene tu sia stata molto abile, ci sono due o tre cosette che ti sono sfuggite. Tanto per cominciare, anche il pragmatico Roilant, di fronte ad apparizioni e a inutili amuleti volanti, non sospettò la propria coscienza né un capriccio divino, e fece fare delle indagini. L'uomo che le fece gli assicurò che la sua stanza traboccava di stregoneria. Stabilito questo, Roilant doveva per forza credere che la strega fosse Eliset. Secondo me non hai mai sentito una sola voce che le attribuiva la pratica di arti magiche, né Roilant, onorevolmente, te ne ha mai menzionate. Invece ci hai pensato tu da sola. Ora, Roilant ha scoperto che non è stata Eliset a fare quegli incantesimi, e ne ha attribuito la colpa a un'altra donna. Ma io ho visto con i miei occhi i poteri magici di quella donna in azione. E non erano granché. Senza il ricorso a sostanze chimiche e pozioni, il suo
talento era tristemente povero. Per quanto lei nella sua esaltazione si fosse convinta che fosse stata la sua forza di volontà a compiere ciò che era stato compiuto ai danni di Roilant, in effetti non fu lei a farlo. E c'è un'altra cosa. Poiché in quelle apparizioni soprannaturali furono usati degli oggetti ben definiti — un talismano, dei fiori — se ne deve dedurre che chiunque avesse effettuato l'incantesimo sapeva di questi oggetti. Eliset naturalmente ne era a conoscenza. Era stata proprio lei a mandarli. Ma Eliset non era la maga. Mentre era molto improbabile che l'altra donna di cui ho parlato ne sapesse qualcosa. Roilant non poteva avergliene parlato. Eliset avrebbe tenuto la cosa nascosta sia a lei che all'altro suo cugino, Mevary, non avendo alcun motivo di confidarsi con nessuno dei due. Fui anche colpito dalla visione, che mostrava Eliset snella e bionda, ma lasciava una macchia in corrispondenza del viso. Né lei, la visione, disse parola. Quello che voleva comunicare era scritto, in maniera veramente spettacolare, nell'aria. Sorge un problema, allora. Chi poteva essere a conoscenza di dettagli come il colore dei capelli di Eliset e i doni mandati in segreto a Roilant, e invece, ma comprensibilmente, all'oscuro di cose come la fisionomia e la voce di una persona mai vista?» Ci fu una breve pausa, durante la quale Cyrion osservava cortesemente le rose, mentre si verificavano una serie di rimostranze. Poi, riprendendo le fila del discorso, «Mi dispiace, ma questi sono i fatti. Però quale può essere il movente? Sembra che tu in fondo non desideri affatto sposare lo sfortunato Roilant. Quando capisti verso dove soffiava il vento del suo affetto, arrossisti per l'agitazione, proprio come stai facendo ora. Mentre lui, sfortunatamente, scambiò quel rossore per un consenso. Da allora hai utilizzato i tuoi più grandi poteri per spingerlo di nuovo sulla sua antica strada. Ricordare il suo dovere, sposare Eliset, e non darti più noia.» La bocca della donna di Roilant si era spalancata. Ma piuttosto che rimanere in questa posizione, essa parlò. «Tu chi sei?» «Ah, sì. Il mio nome è Cyrion. Ti dice qualcosa?» «Tu... tu furfante! Mostro! Mi stai accusando di atti illegali?» «La tua stregoneria non mi interessa, salvo che per questa faccenda. Potresti fare uscire serpenti dalle orecchie di Re Malban e non sentiresti niente da me, tranne forse qualche applauso in sordina. In questo caso, tuttavia, sarò costretto a informare il tuo promesso amante. Altrimenti, ci sarebbe un'altra soluzione.» La donna di Roilant strinse le labbra. Era pallida ora.
«Soldi. Vuoi essere pagato.» «Voglio solo impedire un triste matrimonio. L'altra soluzione e che sia tu ora a rifiutare Roilant, come hai desiderato per tutto questo tempo.» Lei cominciò a protestare, poi improvvisamente smise. Il suo buon senso le stava mostrando che non c'era più niente da discutere. «Sì,» disse alla fine. «Sì, sì. È tutto come hai detto. Roilant è un brav'uomo, ma io non ho alcun desiderio di sposarlo. Né lui, né chiunque altro. Ciò che ho desiderato ardentemente in tutti questi anni è di poter viaggiare, studiare... sola, senza ostacoli. Roilant vuole da me ciò che egli crede di vedere in me: la figlia di mio padre. Decorosa, educata, allegra, compiacente. Questo sono stata per mio padre, e lo sarò finché egli vivrà. Ma in realtà io aspiravo a essere libera. Libera di fare ciò che io desidero fare, non quello che un uomo, marito o padre che fosse, vorrebbe che io facessi. Oh, mio padre desidera fortemente questo matrimonio. Noi non siamo più ricchi come lo eravamo una volta, anche se ce la caviamo abbastanza bene. Ma lui è assetato di lussi, delle moltitudini di servitori che dimenticava di avere e a cui non chiedeva mai nulla, dei costosi abiti che non indossava mai. Nel suo ricordo lui è stato felice solo allora. E come fare a ritornare a quei lussi? Ecco, un marito ricco per la sua bambina. Io non sono bella, e pensavo che non mi avrebbe voluta nessuno, ma a quanto pare mi sono sbagliata. Roilant ha trovato in me qualcosa che gli piace, sebbene non mi abbia mai amata. Era Eliset che lui amava, e ama tuttora, questo era ovvio. Povero caro, non riusciva mai a smettere di parlarne.» La donna di Roilant, che dopo tutto non era la sua donna, scosse il capo. «Povero Roilant. Lui mi piaceva moltissimo. Ma è una buona ragione per sposarsi? Mi piace moltissimo anche il mio gatto. E il mio vecchio tutore. Dovrei forse sposarli? Ma perché mai,» gridò la giovane donna palesemente indispettita, «tutti credono che una ragazza non bella salterà in braccio al primo uomo che la vuole? E poi sono stata sottoposta a tali pressioni. Mio padre... Oh, mi ha fatta diventare matta per convincermi ad accettare la proposta. E così ho compiuto i miei incantesimi su Roilant. Certo, è stato ignobile. Mi sono biasimata più e più volte. Ma avevo studiato le arti magiche, e avevo un po' di talento, un talento assai modesto. Il mio controllo non era perfetto, temo che il talismano sia diventato bollente e lo abbia colpito, mentre i petali lo hanno davvero terrorizzato. Mi è davvero dispiaciuto vederlo così agitato nella mia sfera di cristallo... Ma poi, sapendo che lui non voleva me, ma soltanto lei, mi sentii giustificata nel forzarlo ad andare da lei ed essere felice. Ecco tutto. E naturalmente Roilant non mi ha mai detto nulla
di lei che potesse fare pensare che lui la credesse una maga. Disse solo che suo padre gli proibì di sposarla sul letto di morte perché lei era povera. Come lo sono anch'io, del resto. Ma a quanto pare io sono stata anche un'idiota. Povera me! Cosa bisogna fare?» «Quello che ti ho consigliato. Digli che non lo sposerai. La magia rimarrà affar tuo. Come ti ho già detto, un'altra è stata incolpata per quello, ma la cosa non la turba.» «Ma lui ha già subito tanti rifiuti... E mio padre piangerà e si lamenterà... Cielo! Devo rinunciare a Roilant?» «Devi. Non è lui che vuoi.» «Ma così tanti guai... per settimane...» «Di fronte a una vita di guai?» Cyrion si era voltato dalla finestra e dal giardino, dopo che un mucchietto di macerie sulla terrazza piena di rovi che imputridivano aveva richiamato la sua attenzione. «Immagino che,» disse la donna lentamente, «dal momento che mi hai scoperta, non ho altra scelta.» «Infatti.» «E su tutto il resto manterrai il segreto, se io farò la mia parte in questo affare.» Cyrion la sbalordì con un sorriso luminosamente onesto. Lei si toccò i capelli e l'abito, come rimettendosi in ordine dopo una lotta fisica. Cyrion la stava già lasciando. Alla porta però si fermò. «C'è un'ultima domanda che ti volevo fare,» disse. Lei lo scrutò nervosamente. «Di che si tratta?» «Quando la pioggia buttò giù quella parte del tetto, tu eri lì vicino?» «Il tetto...» lo fissò. «Niente affatto.» «Tuo padre, mi dispiace dovertelo dire, si è espresso in maniera diversa sull'evento. Scrisse a Roilant una lettera in cui diceva che le tegole ti avevano mancato per un pelo.» La giovane donna, che ora non apparteneva più a nessuno salvo che a se stessa, vibrò di una salutare gioia. «Veramente ha fatto questo? Bene, mio gentiluomo di nome Cyrion, quando il tetto crollò io mi trovavo nella biblioteca della casa di mia zia, tre strade più in là. Non ne udii nemmeno il fracasso.» Nel roseo declino del tramonto, le ceneri rosate del sole avevano im-
polverato i tetti e inondato il cortile della Locanda dell'Olivo. Qui, un gatto rosato inseguiva una pallina rosata dentro cui tintinnava un minuscolo campanello. Sotto le foglie rosso scuro della vite, avevano parlato per un po' le ombre di un uomo e di una donna, lei con capelli di fuoco incendiati dal sole, e lui con una chioma su cui quel rossore creava un effetto impossibile a descriversi. «No,» disse lei, «non posso più nutrirmi di sogni. E tu, come tutto il resto, svaniresti al momento del risveglio. Tu non sei ciò che voglio, Cyrion. Tutta la mia esistenza è stata segnata dall'insicurezza, dal crollo di mattoni e insieme di speranze. Non voglio amare per poi rimanere ferita. Io voglio... ho bisogno... di stare finalmente al sicuro. E lui è un uomo gentile, possiede un'intelligenza e una sensibilità che aspettano solo l'occasione di svilupparsi.» «E tu gli daresti questa occasione.» «Se non altro ci proverei. E comunque, non tradirei né insudicerei quello che lui mi darebbe. In cambio di quel porto, di quell'ancora, in cambio della pace, potrei donargli una sorta di amore. In un certo senso, è quello che ho fatto per molti anni.» «E sarai soddisfatta così, Eliset, tesoro?» «Sì. Come non lo sarei mai se mi lasciassi andare ad amarti. Ciò che è facile è spesso stupido. Sarebbe stupido amarti.» Cyrion la guardò nella luce rosa che moriva. Non disse nulla. Così lei continuò: «Perché tu mi lasceresti, Cyrion. Dei e angeli sono noti per la loro fugacità, per la loro infedeltà. Tu mi lasceresti.» «Sì,» replicò lui, con una strana e immobile tenerezza, «ti lascerei.» «Allora le nostre strade sono davanti a noi. E sono strade diverse.» Poco dopo la luce morì, e scomparendo affidò al blu della sera il compito di colorare nuovamente ogni cosa; il cielo divenne indaco, le foglie blu, e blu il gatto che giocava. Quando Roilant fece il suo ingresso nel cortile (insieme alla prima stella, anche se con meno fascino), cominciò a guardarsi intorno e non trovò pace nella quiete della sera. Era già abbattuto. Avendo ormai dato la sua parola che avrebbe incontrato Cyrion qui con la sua ricompensa, Roilant aveva mantenuto l'impegno, malgrado il suo unico desiderio fosse quello di cavalcare in fretta fino alle sue proprietà di Heruzala, e giunto lì, di ubriacarsi a più non posso. Già, perché la sposa da lui scelta lo aveva rifiutato. Era stata dolce, piena di tatto, e inflessibile. Se il matrimonio fosse stata la sua meta, gli aveva detto, di tutti gli uomini avrebbe scelto lui. Ma il matrimo-
nio non era la sua meta. Lei era una studiosa, e sarebbe stata più felice da sola. Il desolato padre, che era stato ad ascoltare nel corridoio, aveva soltanto aumentato l'angoscia di Roilant piangendo per la decisione della figlia. Evidentemente non aveva modo di costringerla. Né Roilant desiderava che lei fosse costretta. Aveva sempre pensato che lei lo desiderasse... Ora, con questa pesante delusione sulle spalle, con questo marchio di completo fallimento sul suo ego, Roilant era arrivato nel cortile della locanda per incontrare Cyrion, e, non trovandovelo, si era lasciato andare a una serie di maledizioni chiassosamente volgari e assolutamente inconsuete da parte sua. Le sue imprecazioni, in modo alquanto strabiliante, ricevettero una risposta. «Credo che sia già sulla strada per Jebba, ed è molto difficile che si fermi.» Roilant ingoiò il respiro e quasi soffocò. Quando ebbe finito di tossire, si avvicinò cautamente al buio pergolato da cui era provenuta la voce. «Eliset?» domandò senza convinzione alle foglie blu della vigna. Poi nella casa dietro di lui fiorì improvvisamente una luce, e il caldo bagliore dorato che ne sgorgò squarciò le ombre. Nel cuore di quelle ombre, incorniciato ora dalla luce e da una chioma del colore degli asfodeli, sedeva sorridendo il miraggio della sua fanciullezza e dei suoi anni adulti. E la sola che avesse mai voluto, e da cui lo avevano sempre tenuto lontano menzogne e inganni, giochi e buffoni, chiacchiere e diffidenza, gli sussurrò: «Sì, mio caro. Ti ho seguito.» E gli porse la mano. FINE