ROBERT CRAIS CORRIDA A LOS ANGELES (The Monkey's Raincoat, 1987) 1 — Sono spiacente signor Cole. Lei non c'entra nulla i...
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ROBERT CRAIS CORRIDA A LOS ANGELES (The Monkey's Raincoat, 1987) 1 — Sono spiacente signor Cole. Lei non c'entra nulla in tutto ciò. La prego, mi scusi — Ellen Lang si alzò dalla sedia davanti alla mia scrivania. Avevo fatto rivestire quella sedia, in coppia con un'altra, in un delizioso color borgogna pastello un anno prima. — Non saremmo dovute venire, Janet — disse. — Sono imbarazzata. — In nome di Dio, siediti Ellen — protestò Janet Simon. Ellen si sedette. Janet Simon continuò: — Parlane con lui, Ellen. Eric dice che è molto in gamba in questo genere di cose. Può certamente aiutarci. Coraggio Ellen. Diamine. Spostai le due statuette di Jiminy Cricket che stavano sulla scrivania e mi domandai chi diavolo fosse Eric. Ellen Lang si sistemò gli occhiali, si torse nervosamente le mani e scomparve nella sedia. Sembrava piccola sebbene non lo fosse per niente. Alcune persone danno quest'impressione. Janet Simon invece sembrava una ballerina che avesse studiato danza dalla più tenera età. Muscoli allungati e forti. Una buona ossatura. Indossava pantaloni di cotone aderenti e una maximaglietta a righe con sfumature blu, rosa e rosse. Nessun segno dell'elastico delle mutandine. Sperai che non mi considerasse un declassé coi miei Levi's bianchi e la camicia hawaiana. Forse la fondina della pistola attorno alla spalla pareggiava il conto. Ellen Lang mi sorrise cercando di mostrarsi serena in una situazione che di sereno non aveva nulla, dicendo: — Forse mi aiuterebbe sapere qualcosa su di lei. Janet Simon sospirò cercando di sottolinearlo il più possibile. — Il signor Cole è un detective privato. Fare indagini è il suo mestiere e viene pagato per questo. Tu gli dai un po' di soldi e lui ti trova Mort. Così potrai riavere Perry, liberarti di Mort e ricominciare tutto da capo. — Fece questo bel discorsetto come stesse rivolgendosi a qualcuno con danni cerebrali. Splendide gambe, però. — Grazie mamma — aggiunsi io. Janet Simon mi lanciò un'occhiata, poi prese a fissare l'orologio a forma di Pinocchio appeso sul muro accanto alla porta dell'ufficio del mio socio,
proprio sopra la targhetta su cui è scritto The Elvis Cole Detective Agency. Quando la lancetta dei minuti avanza, gli occhi di Pinocchio si spostano da una parte all'altra. Janet Simon aveva notato l'orologio sin dal momento in cui aveva messo piede nella stanza. Probabilmente per la sua originalità. Con evidente disagio Ellen Lang si scusò. — Ero soltanto curiosa, nient'altro. Mi dispiace. — Non deve scusarsi signora Lang — la rassicurai — ho trentacinque anni e ho ottenuto la mia licenza di investigatore privato sette anni fa. Lo stato della California richiede tremila ore di esperienza prima di rilasciarla. Io le ho fatte lavorando con un uomo chiamato George Feider. Il signor Feider ha lavorato come detective a Los Angeles per circa quarant'anni. Prima lavorava come guardia di sicurezza, mentre io ero nell'esercito. Sono alto uno e ottantacinque, peso ottanta chili e ho il porto d'armi. Che ne dice? Sgranò gli occhi. — Sì, devo ammettere che ne sono impressionato io stesso — aggiunsi. — Non prendo in custodia nessuno. Posso trovare suo marito e suo figlio, dopo di che il problema è suo. Non rapisco bambini a meno che ci sia ragione di credere che si trovino in pericolo. Ellen Lang mi guardò con un'espressione che faceva pensare l'avessi presa a calci. — Oh, no. No. Mort è buono, la prego signor Cole non si faccia idee sbagliate. — Janet Simon borbottò qualcosa. — Deve capire, Mort sta affrontando una fase di enorme pressione. Lo scorso anno si è dimesso dalla ICM per aprire un'agenzia in proprio come talent-scout e le cose non sono andate nel modo migliore. È stato molto preoccupato per le spese di casa, delle macchine, delle scuole. Un periodo terribile per lui. — Mort è una carogna — disse Janet Simon. Stava in piedi vicino alla porta a vetri scorrevole che dava sul balconcino. Nelle belle giornate potevo affacciarmi e vedere tutta Santa Monica Boulevard sino al mare. La vista era stata il principale punto a favore nell'acquisto dell'appartamento. Janet Simon si inseriva perfettamente in quel panorama. — Tutto ciò che voglio è riavere Perry con me. — Gli occhi di Ellen Lang si spostarono da Janet Simon a me, un po' come gli occhi del Pinocchio dell'orologio. — Mort sicuramente comprerà da mangiare in posti come McDonald's e farà stare Perry alzato sino a tardi. Mi schiarii la voce. — Signora Lang, la mia tariffa non è giornaliera. Io chiedo un tot fisso più le spese, e in anticipo. Forse la sta facendo più grave di quel che è. Perché non aspetta un po'. Mort potrebbe farsi vivo. —
McDonald's, Cristo. — Sì — disse Ellen Lang, come sollevata. — Penso proprio che lei abbia ragione. — Stronzate — commentò Janet Simon allontanandosi dal balcone e andandosi a sedere sull'altra sedia. — Non è così e lei lo sa. Mort minacciava di andarsene da almeno un anno. La tratta come una pezza da piedi e si fa le sue storielle in giro. — Ellen Lang emise un borbottio soffocato. — L'ha picchiata almeno due volte, a quanto ne so io. Ora si è preso il figlio ed è scomparso. Lei vuole riavere suo figlio. Questo è tutto ciò che chiede. È molto importante per lei. Gli occhi di Ellen Lang si fecero ancora più grandi, ma non sembravano guardare nulla in particolare. — Signorina Simon — dissi con calma — desidero che lei stia zitta con la stessa intensità con cui mi piacerebbe toglierle dal corpo con le labbra della crema di cioccolata. — Oddio — sussultò Ellen Lang. Janet Simon si alzò in piedi seguita subito da Ellen Lang. Janet Simon le mise una mano sulla spalla spingendola di nuovo a sedere. — Con chi crede di avere a che fare? — domandò. — Con una donna molto preoccupata per i problemi della sua amica. Però una donna che in questo preciso momento si comporta come una grande scocciatrice. Ho volutamente dato alla mia frase una connotazione sessuale proprio per turbarla e attrarre così la sua attenzione. Si mordicchiò l'interno della guancia cercando di decidere come giudicarmi, poi abbassò la testa e si mise seduta. — Inoltre — aggiunsi — la trovo attraente in modo irresistibile non faccio che pensarci. Si sporse in avanti — Eric ci ha detto che avete un socio. Forse dovremmo parlare con lui. Di nuovo Eric. L'Uomo Misterioso. — Per me non ci sono problemi. Janet Simon guardò verso la porta sotto il Pinocchio. Se avesse guardato più da vicino avrebbe notato la piccola incrinatura sullo stipite dovuta al fatto che qualcuno aveva forzato la serratura. Tre mani di vernice e la spaccatura era ancora visibile. Lei non la notò.— È questo il suo ufficio? — Già. — Allora? — Allora cosa? — Non ha intenzione di presentarci? — Proprio no.
Janet Simon si alzò, si avvicinò alla porta ed entrò. Io sorrisi a Ellen Lang. Lei mi guardò nervosamente ma ricambiò il sorriso. Di lì a poco Janet Simon ci raggiunse di nuovo. — Non c'è alcun ufficio — disse. — Né scrivania, mobili, niente. Che razza di ufficio è? — Italian Style contemporaneo? Inalberandosi un pochino continuò: — Eric ci aveva avvertite che avrebbe avuto questo atteggiamento. Eric. — Come avete conosciuto Eric? — Sorrisi. Mister Mattacchióne. Ho un sorriso accattivante. Come Peter Pan. Innocente, ma con un tocco di malizia. — Abbiamo lavorato assieme all'ufficio legale della Universal. Questo mi illuminò. Eric Filer. Tre anni fa. — Mi ha raccontato che lei ha ritrovato i negativi di alcune foto per lui e ha aggiunto che non era stata un'impresa facile. L'ha raccomandata caldamente. — Il Grande Eric. — Ha detto anche che si sarebbe comportato in questo modo. — È mai stata una ballerina? — le chiesi. Se voleva sorridere, cercò di evitarlo in tutti i modi. Tirò fuori un pacchetto di Salem Lights, accese una sigaretta e rimase in piedi sulla porta che dava sul balcone. Mi piaceva il suo collo quando sollevava il mento per mandare fuori una nuvola di fumo. Certe donne... Scommetto che la sua bocca sapeva di posacenere. — Ascolti, signora Lang — dissi, rivolgendomi di nuovo a Ellen. — Non so se Mort la chiamerà oppure no, né che cosa lei vuole o che cosa Mort vuole. Un paio di centinaia di donne si sono sedute dove ora è seduta lei, e il più delle volte il marito ha chiamato. Ma non sempre. La decisione finale spetta a lei. Fece cenno di sì con la testa. Janet Simon fumava. Dopo poco Ellen Lang tirò fuori due fotografie dalla borsa e le appoggiò con cura sulla scrivania. — Ogni venerdì Mort va a prendere Perry a scuola. Perry va alla Dakhurs mentre le ragazze, Cindy e Carne, vanno alla Westridgé. Il venerdì Perry esce sempre due ore prima. Però questo venerdì non sono mai arrivati a casa. Ho cercato Mort per tutto il fine settimana. Ho telefonato alla Dakhurst il lunedì ma Perry non era lì; ho chiamato ancora questa mattina e non ne sapevano niente. Sono scomparsi da quattro giorni.
Guardai le foto. Mort doveva avere quattro o cinque anni più di me, faccia tonda capelli radi, sottili e senza vita, braccia molto magre. Indossava una maglietta su cui era stampato U.S.S. Blugill, Maui, Hawaii. I suoi occhi erano quelli di uno che doveva avere appena distolto lo sguardo da un altro soggetto. Dietro la foto era stato scritto Morton Lang, trentanove anni, altezza uno e settantacinque, settanta chili, capelli e occhi castani, nessun segno particolare visibile, neo sull'avambraccio destro. La calligrafia era regolare e chiara, tutte le lettere della stessa misura. — L'ho scritto io — disse Ellen. Troppi film polizieschi. L'altra foto, formato tessera, ritraeva un ragazzino che somigliava alla versione ridotta e meno vissuta di Mort. Perry Lang, nove anni, altezza uno e quaranta, peso trentacinque chili, occhi e capelli castani, nessun segno particolare. Misi le foto sulla scrivania, aprii il primo cassetto a destra e tirai fuori una biro e un blocco di carta. Per prendere il blocco dovetti spostare la mia pistola. Una Dan Wesson 38 Special con una canna di dieci centimetri, un regalo che George Feider mi aveva fatto il giorno in cui avevo preso la licenza. Un'arma niente male. Chiusi il cassetto, misi il blocco accanto alle foto e la penna sopra il blocco. — OK — dissi. — Mort ha lasciato qualche messaggio? — No. — Perché Mort avrebbe rapito suo figlio e non anche le due ragazze? — Non lo so. — Perry era il suo preferito? — No, semmai lo era Carrie, la nostra secondogenita. Le ho domandato se Mort le avesse confidato qualcosa al riguardo, pensando che avrebbe potuto farlo, ma lei mi ha risposto di no. Scrissi Carrie sul block-notes. — Suo marito ha ritirato grosse somme recentemente? — Non ho molta pratica coi conti. Era Mort che si occupava di queste cose — aggiunse come scusandosi. — E al lavoro? Ci può essere qualcuno che sa di che genere di affari si stesse occupando suo marito? Ellen Lang guardava per terra. — Beh, come le ho già detto, lui non lavora più per una compagnia. Il suo lavoro si svolge fuori casa, e lui non parla mai di quel che fa... — Guardò altrove e arrossì, le labbra serrate in un nodo color porpora. Feci scattare la penna sul blocco di carta che non stava esattamente traboccando di informazioni.
Guardai Janet Simon. Aveva un sorriso sexy e duro sul volto. O forse era una smorfia. — Non avrei intenzione di interferire — disse. — E se io glielo chiedessi con insistenza? Janet Simon tirò l'ultima boccata dalla sigaretta, mandò il fumo verso la ringhiera e rientrò nella stanza. — Raccontagli della sua amante, Ellen. La voce di Ellen Lang era così bassa che quasi non riuscivo a sentirla. — Ha una ragazza. Vive al Piedmont Arms fuori Barrington a Brentwood. — Si chiama Kimberly Marsh — aggiunse Janet Simon. È una delle sue clienti. L'indirizzo è 412 Gorham, proprio sopra San Vicente. Appartamento numero quattro al pianterreno, sul retro. È un'attrice. — Aprì la borsa e tirò fuori due biglietti da visita che mise accanto alle fotografie. Su uno era stampato Kimberly Marsh seguito dall'indirizzo e dal numero di telefono. — L'abbiamo pedinato — spiegò Ellen Lang imbarazzata. Guardai Janet Simon. — Scommetto che l'idea è stata sua. Lei non distolse certo lo sguardo. — Sì. E sono scesa dalla macchina per andare a controllare il numero dell'appartamento e confrontarlo col nome sulla cassetta della posta. — Certe donne sono niente male. — Va bene — dissi. — E altri amici? Parlavamo ignorando Ellen Lang. — Mort voleva iniziare un film con un produttore che si chiama Garrett Rice. Sul secondo biglietto troverà nome e numero di telefono. Era uno di quegli affari in cui si fa girare la notizia che stai ingaggiando Robert Redford con l'impegno di Coppola, in modo da trovare dei finanziatori arabi. In gergo si definisce Blue Sky. — Come mai ne sa più la sua amica riguardo la sua vita che lei stessa? Ellen Lang si sporse in avanti. Per la prima volta da quando erano entrate nell'ufficio, venti minuti prima, mostrò un po' di vivacità. — Garrett è un vecchio amico. Giocavamo spesso a bridge con lui e sua moglie Lila al tempo del loro matrimonio. Poi divorziarono, credo sia stato circa cinque anni fa. Abbiamo giocato ogni settimana per quasi un anno. Mort era così felice di avere ripreso i contatti con lui. Garrett era il suo migliore amico. Ecco perché me ne aveva parlato. Janet Simon sospirò come se avesse trattenuto il fiato davanti a un film dell'orrore, e disse: — Mort non era una di quelle persone che dividono la propria vita con qualcun altro. Almeno, non con la moglie. — Beh, lui era fatto così — protestò Ellen Lang. I suoi occhi erano sempre spalancati. — Sarebbe distrutto se sapesse di questo, signor Cole, ecco perché non mi sono rivolta alla polizia, anche se Janet insisteva perché lo facessi. Non ho intenzione di creare guai con la polizia a mio marito. Non
me lo perdonerebbe mai. Mi capisce, vero? Forse fu a causa della mia espressione. Il volto di Ellen Lang si rabbuiò, il mento cominciò a tremarle e aggiunse: — Cosa c'è di sbagliato se una donna si preoccupa di non urtare i sentimenti del proprio marito? — Ebbi la sensazione che questa era una frase che ultimamente aveva ripetuto spesso. — Ha intenzione di occuparsene? — chiese Janet Simon. — C'è la questione del pagamento. Ellen distolse di nuovo lo sguardo da me. — Ho paura di aver dimenticato il libretto degli assegni. Janet spiegò: — Non è abituata a questo genere di cose. Mort si occupa di tutte le spese, così non ha pensato a portarlo. Un altro scatto della penna sul blocco. — Può capirlo, no? — continuò Janet. Mi alzai in piedi. — Certo che capisco. Che ne dice se passo a casa sua oggi pomeriggio signora Lang? Lei può farmi l'assegno e inoltre possiamo dare uno sguardo alle cose di suo marito. — Perché dovremmo farlo? — Indizi, signora. — Sembra John Cassavetes vent'anni fa — osservò Janet Simon. — E a quale grande star di oggi assomiglio? Janet Simon fece un mezzo sorriso e si alzò. Anche Ellen Lang si alzò e questa volta Janet Simon non la respinse a sedere. Se ne andarono. Scrissi vecchi amici sul blocco e vi feci un circoletto intorno, poi strappai il foglio e lo gettai via. A che serviranno certi appunti. 2 Uscii sul balconcino e mi misi a guardare la strada. Dopo qualche minuto le vidi uscire dal parcheggio sotto il palazzo in una Mustang decappottabile color azzurro cielo. Janet Simon sedeva al volante. Era il modello GT. Grande manovrabilità. Gran tenuta di strada nelle curve. E senza sacrificare una guida dolce. Rientrai in ufficio e chiamai la tavola calda al pianterreno per ordinare del manzo affumicato con pane di segale e mostarda cinese piccante, dopo di che chiamai Joe Pike. Una voce maschile rispose: — Pronto, Armeria. — Passami Joe.
La cornetta venne appoggiata su qualcosa di duro. Sentii il vociare incomprensibile e il ricevitore venne sollevato di nuovo. — Pike. — Abbiamo appena ricevuto nuove lamentele riguardo il tuo ufficio. Una donna entra, ne riesce e chiede che razza di ufficio è. Vuoto, senza telefono, senza scrivania. Cosa dovrei rispondere? — Dille che se l'ufficio le piace così tanto, ci si può trasferire. — Meno male che non sei tu a gestire le pubbliche relazioni coi clienti. — Non mi occuperei mai di trattare coi clienti. — La voce di Pike era senza espressione. Nessun ammiccamento. Nessun senso dell'umorismo. Regolare per lui. — Ecco perché adoro telefonarti — commentai. — Hai sempre la parola giusta. Sempre una cordialità che travolge. Nessuna replica dall'altra parte. Dopo un po' lo informai: — Da oggi abbiamo una nuova cliente. Ho pensato che avresti gradito saperlo. — Qualcosa di scottante? — Niente di eccitante nel primo colloquio. — Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi. Riagganciò. Scossi la testa. Che razza di collaborazione. Un intero pomeriggio a disposizione e niente da fare a parte guidare sino all'abitazione di Ellen Lang e cercare di scovare qualcosa fra sei, sette mesi di bollette telefoniche, estratti bancari e ricevute di carte di credito. Che divertimento. Decisi di andare a trovare Kimberly Marsh. L'Altra Donna. Feci scivolare la Dan Wesson dentro la fondina, indossai la giacca bianca di cotone e ritirai il panino mentre mi avviavo verso il garage. Lo mangiai in macchina mentre percorrevo la Fairfax. A Sunset girai a sinistra in direzione di Brentwood. Ho una Corvette cabriolet color giallo giamaica del 1966. Sarebbe stato più diretto imboccare il Santa Monica Boulevard ma con la cappotta abbassata era piacevole guidare lungo il Sunset. Stava preparandosi un altro di quegli inverni brutali di Los Angeles: temperature medie, nuvole sparse, schiarite. Il cielo era quel blu profondo che si vede esattamente prima o dopo un temporale. Le case bianche lungo la strada brillavano sotto il sole. Passai davanti alle piste da corsa della UCLA poi svoltai all'altezza di una villa che poteva essere stata quella che William Holden aveva usato come nascondiglio per sfuggire ai creditori in Viale del Tramonto. Stile spagnolo. Le stesse cornici e colonne. I fantasmi della vecchia Hollywood infestavano le grondaie. Quella casa mi aveva incuriosito da quando l'avevo sco-
perta, giusto due giorni dopo essere stato congedato dall'esercito, nel 1972. Amavo fantasticarci sopra ma non avrei mai voluto sapere la storia vera di quella casa. Dopo essere stato nell'esercito il senso del magico scarseggiava, e se qualcuno trovava qualcosa del genere se lo teneva ben stretto. Non sarebbe stato lo stesso sapere che la villa apparteneva a qualche tipo diventato miliardario perché aveva inventato magliette con piccoli coccodrilli cuciti sopra. Un chilometro dopo l'autostrada per San Diego svoltai a sinistra per Barrington, proseguii verso sud in direzione San Vicente, infine svoltai nuovamente a sinistra sulla Gorham. La Piedmont Arms è in fondo alla strada, in mezzo a una schiera di appartamenti e condomini. La oltrepassai, feci inversione all'incrocio e parcheggiai. Sembrava un quartiere carino. Una donna dai sottili capelli bianchi sorrise a una coppia sulla ventina che camminava lungo la strada, lui a petto nudo e lei in un corto top indiano. L'inverno a Los Angeles. I due giovani ricambiarono il sorriso. Una donna messicana piuttosto robusta con una borsa formato casa-ambulante aspettava alla fermata dell'autobus sotto un sole che accecava. Una perforatrice iniziò a funzionare da qualche parte, poi si interruppe. Si vedevano volare i gabbiani e si sentiva il profumo del mare. Splendido. C'erano quattro macchine parcheggiate davanti a me, nella zona nord della strada, due ragazzi sedevano in una Nova del '69 blu scuro che aveva una brutta macchia di ruggine sul parafango posteriore sinistro. Messicani. Quello alla guida cercò d'impressionarmi con uno sguardo torvo alla Charles Bronson. Forse erano agenti governativi. La Piedmont era una palazzina a forma di U, a due piani, decorata a stucco, con un giardino sul davanti e scale esterne che portavano al secondo piano. Attorno a ogni scala crescevano bambù e banani in onore del rinomato look "foresta tropicale". Davanti ai bambù c'erano due file di cassette della posta in ottone con un grande contenitore nel centro per riviste, pacchi e Pigmei con cerbottana. La cassetta di Kimberly Marsh era la quarta partendo da sinistra nella fila superiore. Attraverso il vetro potevo intravedere otto o nove buste. Nella buca-deposito c'erano tre cataloghi e un paio di quei foglietti pubblicitari che toccano a tutti. Un bel po' di posta. Probabilmente di almeno quattro giorni. Attraversai un piccolo atrio passando davanti ad altri alberi di banane. L'appartamento numero quattro era in fondo sulla sinistra. Quella Janet. Bussai senza ricevere risposta. Tornai al primo appartamento dove la targhetta sulla porta diceva "Manager". Un uomo grasso a forma di pera sbu-
cò da dietro le cassette postali. Stava per salire le scale quando mi vide. — Jo-Jo non è qui — disse. — Ha la lezione di aerobica il martedì. — Jo-Jo è il direttore? Assentì. — Tornerà tra le cinque e le sei. Ma le posso già anticipare che non ci sono appartamenti liberi. — Forse potrei piantare una tenda. Rimase perplesso. — Oh, stava scherzando. — Conosce Kimberly Marsh? — chiesi. — È al numero quattro. — Numero quattro — ripeté e fece l'atto di pensarci. — È quella biondina niente male? — Sì. Alzò le spalle e disse: — Si vede di tanto in tanto. Una volta l'ho salutata e lei mi ha risposto, e questo è tutto. Tirai fuori le foto di Mort. — Ha mai incontrato questo tipo? Mi guardò di traverso. — Io non so chi è lei Signor Inquisitore. — Johnny Staccato, Investigazioni Riservate. Come l'avessi convinto, fissò la foto grattandosi un braccio. — Beh, comunque non l'ho mai visto — rispose. — Sicuramente? — Sicuramente. Lo ringraziai e feci un giro sinché non sentii la porta al piano superiore aprirsi e richiudersi. Quindi tornai all'appartamento numero quattro. Bussai di nuovo pensando che la ragazza potesse trovarsi sotto la doccia, poi tirai fuori dal portafoglio due piccoli arnesi e feci scattare la serratura. — Signorina Marsh? — Forse stava riposando. Forse non voleva semplicemente rispondere. Magari era nascosta dietro l'uscio armata di un rompighiaccio che aveva immerso nel veleno per topi. Nessuna risposta. Spalancai la porta ed entrai. C'erano un divano appoggiato al muro, un mobile in vimini e un tavolinetto in vetro accoppiato a una sedia sistemata sul lato opposto della stanza. Dalla porta d'ingresso potevo vedere il soggiorno, la sala da pranzo e la cucina. Sulla sinistra, si apriva un piccolo corridoio. Sul muro sopra il divano stava appeso un poster di James Dean mentre camminava sotto la pioggia. Dava una sensazione di solitudine. Una dozzina di margherite appassite erano sistemate sul tavolinetto, in un vaso di vetro. Appoggiato al vaso c'era un bigliettino color lilla. Alla
ragazza che mi fa sentire vivo, con tutto il mio amore, Mort. Petali accartocciati erano caduti attorno al bigliettino. Su un lato del tavolo c'era una segreteria telefonica della Panasonic. Proseguii verso la cucina da dove, attraverso l'ingresso, diedi uno sguardo alla camera da letto prima di entrare nella stanza da bagno. Niente cadaveri. Nessun messaggio scritto col sangue. In terra c'erano due asciugamani, come se qualcuno ci si fosse asciugato uscendo dalla doccia e li avesse lasciati lì. Erano asciutti, dovevano essere passati almeno due giorni. Mancava lo spazzolino da denti. L'armadietto delle medicine era quasi pieno. Tornai nel soggiorno per controllare la segreteria telefonica. Il contatore dei messaggi segnava zero. Nessuna telefonata, controllai lo stesso. Il contatore segnava giusto. Entrai nella camera da letto. Il letto era intatto. Copie di L.A. Time, di Vogue, buste della spesa e altre cianfrusaglie ingombravano una piccola scrivania in un angolo sotto la finestra. Fra stampa pubblicitaria e copioni trovai un paio di quei primi piani in bianco e nero 8x10 che gli attori portano sempre con sé. Al piede scritto Kimberly Marsh in un elegante corsivo. Sulla parte posteriore era graffettata una fotocopia delle sue esperienze lavorative, curriculum e caratteristiche fisiche. Altezza uno e sessantotto, cinquantacinque chilogrammi, capelli biondo miele e occhi verdi. Aveva ventisei anni e indossava la taglia quaranta. Giocava a tennis, amava gli sport acquatici, sciava e sapeva andare a cavallo. Le sue esperienze come attrice erano piuttosto scarse. Soprattutto del teatro regionale in Arizona. Diceva di aver studiato con Nina Foch. Continuando a rovistare tra le foto ne trovai una che ritraeva Kimberly in un bikini di pelliccia. Faceva del suo meglio per assomigliare a una guerriera vikinga. Era niente male con quel costume di pelliccia. Pensai a Ellen Lang sprofondata nella poltrona del mio ufficio. Siediti, Ellen. Parla, Ellen. Misi una delle foto-ritratto in tasca. Finito con la scrivania, passai a dare un'occhiata all'armadio. Conteneva dodici scatole da scarpe, accatastate contro la parete. A destra sul ripiano, c'era un grande spazio vuoto, più o meno delle dimensioni di una valigia. Forse Lang aveva chiamato e detto: Ne ho abbastanza di quell'insignificante, asessuato peso morto che mi sono sposato, e allora, che ne dici di un salto sulle spiagge delle Hawaii con me e Perry? e forse Kimberly Marsh aveva risposto: Ci puoi contare, ma dovrò rientrare per quel ruolo che ho ottenuto in "Una vita da vivere", così aveva tirato giù la valigia, impacchettato spazzolino e vestiti per una settimana e insieme avevano preso il volo. Mica male come idea. Ellen Lang non avrebbe gradito,
ma era una buona possibilità. Chiusi l'armadio e iniziai a controllare la toeletta, dai cassetti superiori verso quelli inferiori. Nel terzo trovai una scatola di legno che conteneva una busta in plastica con marijuana, tre spinelli, due pipe strausate, un piccolo bong, uno specchio rotto, quattro fialette di vetro vuote e una mezza candela. Bene, bene. C'era una busta 9x12 piegata in due e fissata ben stretta con del nastro adesivo sotto la scatola. Conteneva un pacchetto di fotografie. La prima ritraeva una Kimberly nuda seduta sul suo davemport, triangoli bianchi ben delineati mettevano in risalto una bella abbronzatura. Non tutte le foto erano dei nudi. Un paio la ritraevano in sella a una Triumph, alcune erano state fatte su una spiaggia assieme a un bimbo muscoloso e ben cresciuto dai capelli color sabbia, il tipo sportivo. Fra le ultime ce n'era anche una di Morton Lang. Era nudo sul letto e ridacchiava appoggiato sul gomito. Una gamba femminile abbronzata che giocherellava con le parti intime del corpo di lui, spuntava da un lato della foto. Mort. Bel maiale. Strappai la foto in due e me la feci scivolare in tasca. Rimisi tutto il resto a posto, chiusi i cassetti e cercai di assicurarmi che l'appartamento fosse esattamente come l'avevo trovato. Infine me ne andai. 3 Tornai sulla strada e mi diressi verso San Vicente fermandomi ad una stazione Shell da dove chiamai Ellen Lang senza trovarla. Tirai fuori i biglietti da visita che Janet Simon mi aveva dato. C'erano due numeri telefonici stampati sul biglietto di Garrett Rice, uno col prefisso di Beverly Hills e l'altro, quello dei Burbank Studios era dell'elegante quartiere centrale Burbank. Erano quasi le quattro e il traffico iniziava ad aumentare, il cielo era già di quel tipico arancio sbiadito. Terribile. Le macchine procedevano lentamente in una lunga colonna. Dopo aver trascorso cinquantacinque minuti di questo piacevole traffico mi fermai a un altro telefono, di fronte all'entrata della Warner Brothers, per chiedere a una segretaria che conosco un permesso d'entrata. Avrei potuto telefonare direttamente a Garrett Rice, ma la gente tende a non essere reperibile quando si tratta di detective privati. Anche per quelli che hanno osato sfidare il traffico cittadino delle ore di punta. Attraversai Olive Street tra una macchina e l'altra e diedi il mio nominativo all'ingresso. Il guardiano controllò il piccolo schedario dei permessi e tirò fuori il mio. — Devo vedere Garrett Rice. Mi può indicare il suo ufficio?
— Può ripetere per favore? Strano. Di solito non appena dici un nome questi tipi ti sommergono d'indicazioni prima che tu abbia finito di pronunciarlo. Invece questa volta la guardia dovette controllare in un libretto. Forse nessuno cercava mai Garrett Rice. Forse ero il primo e avevo anche vinto qualche specie di premio. — Eccolo qui — disse, e mi diede le indicazioni. I Burbank Studios ospitano molte diverse agenzie di produzione ma la Warner Brothers e la Columbia sono le più importanti. La Aaron Spelling Productions aveva affittato lo spazio. Come miliardi di altre piccole compagnie. Tutte sistemate in edifici di un caldo color terra coperti da tegolati rossi e muri disegnati come fossero di veri mattoni. Fra un edificio e l'altro, grosse querce fanno ombra. Più potente è la compagnia nell'industria cinematografica, migliore è l'area occupata negli studios. Infatti Garrett Rice si trovava sotto la cisterna di distribuzione idrica, sul retro dell'edificio. Per due volte passai davanti allo studio senza vederlo, sinché un ragazzino in bicicletta me lo indicò. Era una palazzina tozza a due piani, sei uffici al pianterreno e sei al piano superiore, con scale di metallo sui due lati. Sempre ai lati si trovavano delle palme che occupavano anche il piccolo spazio di fronte. Le palme non sembravano passarsela molto bene. Una scavatrice e un bulldozer ingombravano la maggior parte del già ridotto parcheggio. Probabilmente questo non era il posto dove lavoravano Paul Newman e David Leon. Controllai i nomi stampigliati nei posti di parcheggio. Il secondo da destra era quello di Garrett Rice. Stanza 217. La scavatrice occupava il suo spazio. Salii le scale e trovai l'ufficio, questa volta senza bisogno d'aiuto. La porta era aperta. C'era uno stanzino delle dimensioni di un armadio riservato alla segreteria, e nessuna segretaria in vista. Una copia della rivista Black Belt sulla scrivania dell'ipotetica segretaria era aperta a un articolo sui combattimenti corpo a corpo in condizioni di scarsa visibilità. Certe segretarie... Accanto alla stanza-armadio c'era un'altra porta. L'aprii e finalmente trovai Garrett Rice. Stava dietro la scrivania col telefono attaccato all'orecchio saltellando da un piede all'altro come avesse avuto urgenza d'andare al bagno. Sulla scrivania, un vaso con una pianta secca; un'altra piantina stava all'estremità di un tavolo accanto ad un vissuto divano verde. Una confezione stappata di Lysol per profumare gli ambienti pendeva dallo
schedario. Appena mi vide chiuse il cassetto spingendo le anche contro la scrivania. Fece il movimento cercando di non dargli importanza, poi mormorò qualcosa al telefono e riagganciò. Rice doveva essere alto almeno uno e novanta, una struttura fisica sottile e la pelle rugosa di chi fa troppe lampade solari. Aveva due lividi, uno sotto l'occhio sinistro, l'altro sulla fronte, sempre da quel lato. Aveva cercato di nasconderli con del cerone. Non avrebbe dovuto indossare quella maglietta a canottiera che gli metteva in evidenza le braccia molto magre. Gli mostrai il mio biglietto da visita. — Ha un bell'ufficio — iniziai. — Mi è stato riferito che è un buon amico di Morton Lang. Lo sto cercando, e forse lei mi può dare una mano. Diede uno sguardo al cartoncino, poi a me. Aveva gli occhi lucidi ed era nervoso. — Come ha fatto ad arrivare qui? — Mio zio è il proprietario dello studio. — Balle. Con finta aria di rassegnazione continuai: — Mort è scomparso da venerdì. Ha preso il figlio con sé e non ha detto niente a casa. La moglie è preoccupata. So che lavorate assieme, così ho pensato che non ci sarebbe stato niente di strano se avesse parlato con lei. Mentre si leccava le labbra mi faceva pensare alla madre di Bambi, il sobbalzo del capo al primo sentore dei cacciatori. Soltanto che lei aveva un aspetto piacevole. Più guardavo Garrett Rice, più sentivo l'istinto di coprirmi la faccia con un fazzoletto e rinfrescare l'aria col Lysol. Guardò nuovamente il biglietto da visita e si mise a giocherellarci piegandolo avanti e indietro mentre sembrava riflettere. Poi disse: — Mort, brutta carogna. Assentii. — Proprio lui. Quando l'ha visto l'ultima volta? Guardò la porta dietro di me e mi porse la mano. — Avrebbe dovuto fissare un appuntamento. Adesso ho da fare. — Lo prenda come un aiuto alle Forze del Bene. — Devo fare delle telefonate. — Allora faccia pure. Io posso aspettare. — Mi sedetti sul divano, fra la sua valigetta e una larga macchia. La forma della macchia sembrava fosse lasciata da un parente di Topolino. Si inseriva perfettamente nell'arredamento. Garrett Rice si affrettò a chiudere la valigetta. Forse conteneva la sceneggiatura del secolo. Magari Steven Spielberg l'aveva chiamato pregan-
dolo di darvi un'occhiata. E magari potevo scalzare Garrett Rice rubando la sceneggiatura e rivendendola a George Lucas per un milione di dollari. Allargai le braccia lungo lo schienale del divano in modo che la giacca si aprisse e mostrasse la Dan Wesson. Attesi la sua reazione. Adesso respirava più affannosamente, come un uomo grasso che ha salito qualche piano di scale. Continuava a fissare la porta. Forse aveva ordinato la pizza e stava aspettando che gliela consegnassero. — Le ho detto che ho da fare — ripeté — e non so dove si trova Mort. Non lo vedo da una settimana, se non di più. Cosa crede che io sia, la sua guardia del corpo? — Prese la valigetta e tornò dietro la scrivania. Lo fissai. — Cosa c'è? — chiese visibilmente agitato. — Chi è che te le ha suonate, Garrett? — Farebbe molto meglio a non immischiarsi nelle mie faccende. La sto avvisando. Teneva la valigetta contro il petto come fosse stata uno scudo. — Non voglio avere niente a che fare con te, caro signor Rice. Voglio solo avere notizie su Morton Lang. Guardò ancora la porta dietro di me, solo che questa volta gridò: — Allora, Cristo! Dove diavolo ti sei cacciato? L'uomo che apparve sulla soglia era un po' più alto di me, e anche un po' più largo, con quel tipo di spalle ad armadio di chi ha fatto del pugilato. Aveva un paio di grossi baffi alla Gengis Khan, un gonfiore sotto il labbro inferiore e capelli crespi, molto alti al centro e sfumati ai lati. Il look non era esattamente quello di Carl Lewis. Era molto, molto nero. Mi squadrò, poi volse lo sguardo verso Garrett Rice. — Esigenze fisiologiche. Non vorrà che gliela faccia sul tappeto, vero? Rice continuò alterato: — Sbatti fuori questo ficcanaso, immediatamente. — L'uomo mi guardò pensoso. — Tu che ne dici, Elvis? Credi che dovrei sbatterti fuori? — Per la miseria! — esclamai. — Come te la passi Cleon? Garrett Rice volse lo sguardo da Cleon Tyner a me e di nuovo verso Cleon. — Che diamine significa? Cleon, Elvis... Sbatti questo miserabile fuori, subito dannazione! Cleon sogghignò e si sedette nella sedia di fronte alla scrivania di Rice. Accavallò il braccio sullo schienale mettendo in mostra la sua Smith. Indossava un paio di jeans firmati, una camicia bianca e un giubbotto grigio
di pelle di squalo. Il giubbotto gli aderiva sulle spalle e sui bicipiti. — Hai un ottimo aspetto — commentai. Cercò di fare il modesto. — Lasciamo stare i convenevoli. Ho solo perso qualche chilo e ho ripreso ad allenarmi. Come sta Joe? Garrett Rice protestò — Ehi, che storia è questa? Un tipo entra qui con una pistola, guarda lì, sotto il suo stramaledetto braccio, mi fa l'interrogatorio e non se ne va quando gli chiedo di farlo. Potrebbe essere chiunque maledizione, e tu ti metti a fare conversazione con lui. Secondo te perché ti ho assunto? Aveva la fronte madida di sudore. Cleon trasse un profondo sospiro e si sporse dalla sedia. Rice fece un salto indietro. Forse senza neanche rendersene conto. Il tono di Cleon era calmo. — Conosco quest'uomo, signor Rice. Non ha intenzione di torcerle un capello. Se per qualche motivo che solo lei può sapere, minacciasse di farle del male, allora interverrò. È per questo che sono pagato. Ma se tutto ciò che vuole è semplicemente parlare, allora la cosa più intelligente è dargli retta. — Cleon mi guardò con comprensione. — Le cose stanno così, no? Vuoi solo fare qualche domanda? — Sicuro. Si rivolse di nuovo a Rice. — Visto? Perché agitarsi tanto per niente? Garrett Rice si morse le labbra. — Non ho la minima idea di dove sia e di che cosa stia facendo Mort. Questo è tutto. — Mi hai detto di averlo visto una settimana fa. Non ti ha raccontato che aveva intenzione di lasciare la moglie? — Senti amico, eravamo a una festa, in mezzo a un sacco di gente. Era un incontro di lavoro con un grosso finanziatore a proposito di un mio progetto. Mort aveva portato un'amichetta con sé. Un'attrice. Pensava a divertirsi a quanto ne so io, non si sarebbe certo messo a parlare della moglie. — Era Kimberly Marsh? — Sì, mi sembra che il nome fosse quello. La smorfiosetta mi è stata appiccicata tutto il tempo. Va sempre così, sa? Appena queste ragazzine sanno che sei un produttore, non ti si staccano più di dosso. — L'argomento sembrava entusiasmarlo. — Mica male. Ridacchiando piegò le dita a forma di pistola e mi sparò. Considerai l'idea di ricambiare lo scherzo con la mia 38. Cleon si mordicchiava le un-
ghie ignorandoci. — Ti viene in mente qualcun altro con cui Mort avrebbe potuto parlare? — Che diavolo ne posso sapere io? — Siete amici. — Siamo soci in affari. — Giocavate a carte insieme. Ogni settimana per quasi un anno. — Ehi, io sono amico di tutti. Mi vuoi come amico? Posso esserlo. Giocherò a carte anche con te. Posso persino perdere se desideri. Guardai Cleon. Diede un'alzata di spalle. — Cerca di capire amico, per me è lavoro questo. — Insomma, tu stesso non lo definiresti un impiego d'alta classe. — Perché, ti è capitata mai una cosa del genere? Mi alzai in piedi. Anche Cleon si mosse. — Me ne vado — annunciai. Cleon fece un cenno di saluto rimanendo in piedi, vigile. Mi rivolsi di nuovo a Garrett: — Bei lividi. Sembrano macchie di fegato. — Un imbecille credeva gli avessi rubato la sua sceneggiatura. Capita in questo genere di lavoro. — Deve essere proprio un povero imbecille, se hai pensato di assumere Cleon. — Volevo qualcuno di cui potermi veramente fidare, mi piace avere il meglio. Feci un cenno di assenso. Garrett si mordicchiava le labbra. — Mi sento avvilito, Garrett — dissi — Ho affrontato il traffico dell'ora di punta per niente. — Che peccato. — Presto vedrò Ellen Lang. Le porgerò i tuoi saluti. — Dille che Mort è una carogna. — Forse sarà d'accordo con te. — Anche lei è una carogna, e tu non sei meglio. Guardai Cleon, aveva un sorriso nello sguardo. Ma non si vedeva a prima vista. Lo potevi vedere solo se lo conoscevi bene. Attraversai il pianerottolo di cemento, scesi le scale e tornai alla mia macchina. Guidai sino a Studio City per comprare delle melanzane alla parmigiana e un antipasto da Sonny's, e sei lattine di birra di grano dal negozio di liquori lì accanto. Quando lasciai Sonny's il cielo si era già tinto di un color porpora scuro e verso ovest, attraverso le palme, aveva il colore della brace accesa. Guidai verso sud lungo la Laurel Canyon, poi salii la collina in direzione di casa.
Mi sarebbe piaciuto avere qualche buona notizia per Ellen Lang. Ma le buone notizie, come il senso del magico, spesso scarseggiano maledettamente. 4 Erano le otto quando arrivai a casa. Misi la parmigiana a scaldare nel forno a micro-onde e nell'attesa mangiai l'antipasto. Unto e bisunto. Anche Sonny's stava scadendo. Sentii sbattere lo sportellino di metallo che avevo ricavato nella porta esterna, il gatto entrò in cucina. È nero pece e cammina col capo che ciondola leggermente da un lato perché una volta qualcuno gli sparò con una 22. Versai un po' di birra nel piattino e tirai fuori del cibo per gatti. Iniziò a bere la birra e poi passò alla cena. Finito di mangiare, mi rivolse lo sguardo di chi avrebbe gradito un altro sorso. Mi si strusciò addosso. — Scordatelo — dissi. Le fusa cessarono e si allontanò lentamente. Quando la parmigiana fu pronta la trasportai sul portico, assieme alla birra e al telefono senza fili. Il nero profondo del canyon appariva macchiettato per effetto delle lanterne delle abitazioni, luci arancioni, rosse, bianche e gialle brillavano nella notte. Come migliaia di schegge di diamanti bianco-azzurri gettati sulla terra, le luci si concentravano là dove il canyon si appiattiva, fra Hollywood e il bacino di fronte. Questo scenario mi piaceva molto. Abito in un rustico con la classica forma ad A in una piccola traversa di Woodroow Wilson Drive, affacciata su Hollywood. L'unica altra casa è una costruzione tutta decorata a sbalzo, ad est. Ci vivono uno stuntman che conosco assieme alla sua donna e ai loro due marmocchi. Talvolta, durante il giorno, escono sulla veranda, allora ci si vede e ci si sbraccia per salutarsi. I ragazzi hanno soprannominato la mia casa la tenda indiana. Anche questo mi piace molto. Quando comprai la casa, quattro anni fa, smontai la ringhiera del portico e la ricostruii lasciando la parte centrale staccabile. Così adesso posso toglierla e sedermi sull'orlo della balconata coi piedi a penzoloni, le melanzane in grembo e niente tra me e l'immensità là fuori. L'aria frizzante era piacevole. Dopo un po' il gatto comparve e prese a fissarmi. — E va bene — dissi. Versai un altro po' di birra sul pavimento. Mi diede uno sguardo di approvazione e si mise a leccare. Finita la parmigiana feci il numero della segreteria telefonica del mio uf-
ficio. C'erano tre messaggi di Ellen Lang e uno di Janet Simon. Ellen Lang era agitata nei primi due e in lacrime nel terzo. Janet Simon invece era Janet Simon. Richiamai Ellen Lang. Rispose Janet Simon. È così che funziona certe volte. — Mort è tornato e ha buttato all'aria la casa. Può fare un salto? — Ellen sta bene? — Quando è arrivata a casa lui era già sparito. Le ho fatto chiamare la polizia e adesso dice che non li lascerà neanche entrare in casa. — Vuole che le dia un paio di colpi col calcio della pistola? — Ma lei non si arrende mai, eh? Apparentemente no. Mi ci vollero diciotto minuti per percorrere la Laurel e risalire la statale alla volta di Encino. Ellen Lang abita nella zona pianeggiante che sovrasta Ventura Boulevard, in quel quartiere definito un irregolare Tudor Californiano dagli agenti immobiliari e la baroccheggiante Encino dalla gente di buon gusto. La Mustang azzurra cielo di Janet Simon era parcheggiata sulla strada di fronte alla casa. Entrai nel viale fermandomi dietro alla Sabaru Wagon, spensi il motore e mi diressi verso la porta. Mi aprirono prima che bussassi. Ellen Lang, da dietro gli occhiali, appariva ancora più esangue e sottile della mattina. Disse subito: — Le ho telefonato. Ho provato e riprovato e lei non c'era mai. Mi ero rivolta a lei per non dover coinvolgere la polizia che invece sarà qui a momenti. Janet intervenne: — Oh, per l'amor di Dio, Ellen! Sentivo quelle fitte fastidiose che si avvertono dietro gli occhi quando stai bevendoti una birra e vieni interrotto. Ellen Lang protestò: — Beh, questa è la casa di Mort, no? Può fare quel che vuole a casa sua, vero? Non si può richiamare la polizia e spiegare che si è trattato di un errore? Le seguii nel soggiorno senza fare commenti. Ogni pezzo dell'arredamento giaceva rivoltato; i rivestimenti in stoffa erano strappati. I libri erano stati buttati giù dai ripiani e ogni sportello era spalancato. Avevano scoperchiato il pannello posteriore del televisore. Una palma era stata sradicata e la terra era caduta sul tappeto beige, intorno al pesante portavasi d'ottone. La consolle dello stereo era rovesciata e circa duecento dischi ingombravano il pavimento. Un grosso levriero in ceramica, che vedi nei grandi negozi, giaceva spaccato sulla grata del caminetto, la testa intatta, ma capovolta sul tappeto. Pareva dormisse. — A che ora ha telefonato alla polizia? — chiesi a Ellen Lang. La risposta giunse da Janet Simon. — Da circa tre quarti d'ora. Ha detto
loro che non era urgente. — Infatti, altrimenti sarebbero arrivati tre quarti d'ora fa. In questo caso invece, avranno passato la chiamata ad una macchina di pattuglia. Potrebbero arrivare in qualunque momento. Ellen Lang incrociò le braccia nella posizione tienimi-al-caldo mentre si mordicchiava il labbro. Tutte le luci erano accese, come se Janet ed Ellen avessero cercato di eliminare ogni angolo oscuro dalla casa. C'era una piccola lampada da comodino dietro la poltrona vicino al camino, anche quella era accesa. — Ha lasciato qualche messaggio? — domandai. Scosse la testa. — Ha preso indumenti per il ragazzo? Neanche. — Non ha portato via niente? Socchiuse gli occhi e fece uno strano movimento con la bocca soffiando l'aria dai lati mentre teneva le labbra unite. — Ho controllato le mie cose. Ho controllato se gli oggetti di valore c'erano tutti. Anche i dischi di Neil Diamonds sono tutti lì, Mort adora Neil Diamonds. — Un elemento veramente utile, signora Lang. Mi guardò come se stessi svanendo davanti ai suoi occhi e lei cercasse di non perdermi. — Mort non è un ladro. Se anche ha preso qualcosa è roba che gli appartiene, questo non è rubare, vero? Ha pagato ogni cosa e questo gli dà qualche diritto, mi pare. — Parlò rivolgendosi a Janet Simon. Quest'ultima tirò fuori una sigaretta da una pochette blu, pigiò il tabacco e l'accese. Fece una tirata che avrebbe potuto gonfiare il dirigibile della Goodyear. — Ma quando ti sveglierai? — sbottò. Le lasciai ed andai nell'ingresso. C'era una porta sulla sinistra, chiusa, si sentiva il rumore di acqua corrente. — È il bagno — spiegò Janet Simon che mi aveva seguito — ci sono le ragazze. — La loro camera era subito dopo il bagno ma sulla destra. Era bianca e rosa, c'erano due letti gemelli a baldacchino e doveva essere una stanza graziosa. Adesso i materassi giacevano in terra e una delle reti era rivoltata. C'erano un guardaroba e una cesta; tutti i cassetti erano stati sfilati, gli indumenti disseminati per tutta la stanza. Un poster di Bruce Springsteen era attaccato all'anta dell'armadio, il che deponeva a favore di almeno una delle ragazze. Alcuni abiti erano rimasti ordinatamente appesi nonostante il pavimento del guardaroba fosse un ammasso di capi d'abbigliamento. In terra accanto al mobile c'erano svariati blocchi per appunti e un paio di pile di libri scolastici. I quaderni e
le copertine polverose dei libri erano ricoperti di scarabocchi, disegnini e frasi. Cindy ama Frank. BT + CL. Robby, Robby, Robby vorrei che diventassi il mio hobby, SEI PRENOTATO. Nel libro di geografia di Cindy Lang trovai un foglio ripiegato con un messaggio scritto a matita. La scritta diceva: «ELAM FREID HA ABBOCCATO ALL'AMO!!!» Mi domandai se Elam Freid era al corrente di tutto ciò. Mi chiesi quanto avrebbe pagato per venirne informato. Andai nella stanza accanto, che era quella del fratello. Più piccola della precedente vi trovavano posto un letto singolo, un guardaroba e una grande cassapanca di quercia. La cassapanca era rivoltata, e il guardaroba rovesciato sul fianco; materasso e rete erano appoggiati contro il muro. Avevo programmato di perquisire a fondo la camera di Perry. Volevo leggere il suo diario, sfogliare i suoi fumetti e vedere che cosa nascondeva sotto il materasso. Avrei voluto controllare il cestino della carta, studiare i suoi appunti e i suoi disegni attaccati al muro con le puntine. Forse, una settimana prima che se ne andassero, Mort gli aveva accennato qualcosa e il ragazzo avrebbe potuto lasciare qualche indicazione. Ma ormai ogni speranza del genere era inutile. C'era solo un'incredibile confusione lì, tanto che sperai che il ragazzo non si presentasse improvvisamente alla porta e vedesse la stanza in quelle condizioni. La stanza padronale era sul retro, affacciata sulla piscina attraverso una elegante porta a vetri. C'era profumo di Anaìs Anaìs. Sbloccai il catenaccio in cima alla porta e feci scorrere le dita sui montanti. Non c'era traccia di forzatura. Il letto sistemato su di una piattaforma era formato gigante; guardaroba, cassapanca e scrivania erano sottosopra come nelle altre stanze. L'armadio era di quelli a muro con le ante scorrevoli a specchi. La parte sinistra occupata dalla roba di Ellen, la metà destra da quella di Mort. Scatole e buste per scarpe, la custodia di una macchina fotografica Minolta e una scatola più grande con sopra scritto Bekins erano sparpagliate al centro della stanza. Mort possedeva diversi bei capi d'abbigliamento e una mezza dozzina di scarpe da sera. C'era una camicia Nino Cerruti color marrone chiaro. Mi piacevano diverse delle cose che pendevano dagli attaccapanni, oltre alle tre valigie grigio scuro Sy Devore e altre due di Carroll a Westwood. Mort aveva dimenticato un po' troppa roba in casa, ma forse amava viaggiare leggero. Sopra la testiera del letto era appesa tutta una serie di foto di famiglia. I ragazzi. Mort e i ragazzi. Ellen. Mort ed Ellen... La più bella raffigurava
Mort in piscina con la figlia piccola sulle spalle, la sorella, e Perry in braccio. Tutto sembrava perfetto in queste foto. Mort non sembrava un pazzoide. Ellen non appariva così fragile. Nelle foto niente sembra fuori posto. I guai iniziano quando l'obiettivo viene puntato da un'altra parte. La porta del bagno era ancora chiusa, l'acqua stava ancora scorrendo e Janet Simon fumando. Ellen Lang era immobile, in piedi con le braccia conserte senza espressione. Entrai nella cucina. Ogni pensile era stato svuotato così come ogni scatola di zucchero, riso, farina e cereali. Il cassetto alla base del frigo era stato sfilato e la cucina a gas era staccata dal muro e aveva lasciato strisce scure sul pavimento. Trovai una boccetta di aspirine in mezzo a una montagnola di cereali, ne inghiottii tre e tornai nel soggiorno. Janet Simon mi squadrò con occhi gelidi. Ellen Lang fissava il pavimento. Mi schiarii la voce. — Qualcuno stava cercando qualcosa e quel qualcuno sapeva anche dove cercare. È un lavoro da professionisti. Non è opera di Mort. C'è bisogno della polizia. — Constatare le cose ovvie è la mia specialità. — No — disse Ellen Lang, sottovoce. — Sì — disse Janet Simon con molta fermezza mentre spegneva con violenza la sigaretta nel posacenere. Presi un profondo respiro e sorrisi con dolcezza. — Sto andando a dare un'occhiata fuori — annunciai. Non avevo scelta. L'alternativa era prenderle tutte due a sediate. 5 Presi la grossa torcia che tengo nel cassetto della Corvette e controllai se lo stipite o la serratura erano state forzate. Nessun segno. Sul fronte della casa tre finestre ad arco si affacciavano su un giardino di azalee e bocche di leone. Neanche le finestre avevano segni di scasso e nessuno aveva calpestato i fiori. Sull'altro lato della casa c'erano quattro finestre ancora chiuse dall'interno. Attraverso un cancelletto in legno mi diressi sul retro, superando la finestrella del bagno della piscina. Nessun buco nel muro o nella vetrata, nessuna porta scardinata. Nessuno mi assalì armato di martello per poi scomparire nella notte. Mi fermai vicino alla piscina, in ascolto. Si udiva il rombo delle macchine che si dirigevano a sud. L'acqua gorgogliava nei tubi del bagno. Qualcuno aveva acceso una radio e si sentiva Tina Turner gridare What's Love Got to Do With It? Attraverso la porta a vetri potevo vedere Ellen e Janet
nel soggiorno: Ellen a braccia conserte e Janet, con la sigaretta tra le dita, che le parlava gesticolando; Ellen che scuoteva la testa e Janet che assumeva un'aria disgustata. Pensai alle grandi coppie del passato: Gianni e Pinotto, Tom e Jerry, Stanlio e Ollio. Respirai profondamente inalando gelsomino e continuai il mio giro. Nell'ala sud della casa era la stessa storia. Nessuna impronta sotto la finestra. Nessun segno di scasso o forzatura. Ciò significava che avevano usato le chiavi o il grimaldello. Forse Mort aveva incaricato qualcuno e gli aveva dato le chiavi. Ma perché? Cosa cercava? Buoni bancari? Cambiali? Forse qualche foto in cui era nudo e che temeva Ellen mostrasse agli amici? Mentre tornavo sul fronte della casa una macchina della polizia entrò nel vialetto. Mi puntarono i fari addosso intimandomi l'alt. — Devo alzare le mani? — chiesi. Una voce rispose: — Basta che stai fermo lì, bastardo. — Al servizio del cittadino con un sorriso. Uno dei poliziotti si avvicinò tenendo la mano sulla pistola. L'altro rimase al di là dei fari. Non si vede assolutamente cosa succede dietro quei fari, ecco perché uno rimane sempre lì. Il poliziotto che avanzava era alto quanto me, ma più robusto di gambe e bacino. Non che questo fosse molto importante. Sulla targhetta di riconoscimento c'era scritto SIMMS. Allargai le braccia cercando di non puntare la torcia nella sua direzione. — Pantaloni e giacca bianchi, l'ultimo grido della moda per scassinatori. — Ragazzo, guarda che se è per questo, tempo fa ne ho beccato uno che portava dei collant rossi. Mostrami un documento d'identità. — Mi chiamo Cole e lavoro per la padrona di casa. Investigatore privato. Ho una Dan Wesson 38 sotto il braccio sinistro. Mi disse che avrebbe sfilato la pistola e così fece. — Ora la licenza — aggiunse. Tirai fuori la licenza e il porto d'armi. — Elvis, che razza di nome è? — Me lo ha messo mia madre. Mi guardò con quell'aria che i poliziotti assumono quando cercano di capire se stai mentendo, poi decise di concedermi il beneficio del dubbio. — Immagino che ne avrai sentite parecchie sul tuo nome. — A mio fratello Edna succede di peggio. Rimase in silenzio, poi decise che non ne valeva la pena e mi restituì la pistola. — OK. Abbiamo ricevuto una chiamata. — L'altro poliziotto fece il giro e si unì a noi lasciando i fari accesi. Io spensi la torcia. — Sono den-
tro — spiegai. — Il nome della cliente è Ellen Lang. La casa è sua. Al suo rientro ha trovato tutto all'aria. C'è un'altra donna con lei. Ho dato un'occhiata a porte e finestre ma sembrano intatte. Il nuovo poliziotto commentò: — Non ti spiace se controlliamo anche noi, vero? — Giri con un tipo in gamba, Simms — osservai. — Farà strada. Simms mi mise la mano sul braccio indicandomi la casa. — Forza, andiamo a incontrare le signore. E tu Eddie, fai un giro di controllo. Entrando nel soggiorno, cercai di allentare la tensione. — Guarda che cosa ha portato in casa il gatto. — Ellen Lang gemette: — Oh, mio Dio. — E cadde seduta mentre, finalmente, arrivavano anche le due ragazzine. La grande aveva quattordici anni, la piccola undici. La prima era alta e un po' goffa e aveva sulla fronte i tipici brufoli dell'adolescenza. La più giovane era snella e scura e assomigliava ad Ellen. Indossavano completini bianchi e rosa. L'espressione della grande era piuttosto scocciata. — Siamo pronte — disse, ignorando sia me che il poliziotto. — Oh, tesoro. Non siete abbastanza coperte. Prendete dei maglioni. La più piccola fissò prima Simms, poi me. — È lui il detective? — Vuoi vedere la mia lente d'ingrandimento? — Che cos'è una lente d'ingrandimento? Ellen Lang si tolse gli occhiali per sfregarsi gli occhi e rimettendoseli disse: — La prego, signor Cole. L'altra si rivolse alla madre con tono di disapprovazione. — Non andiamo in Antartide, mamma, solo da Janet. — Gli adolescenti sono capaci di esprimere disapprovazione meglio di chiunque altro. — Ti prego, tesoro — piagnucolò Ellen Lang. Non era una scena piacevole. Non è mai piacevole vedere un adulto piagnucolare mentre si rivolge a un bambino. La ragazza chiuse gli occhi e sospirò con fare drammatico: — Mamma, per favore! Poi le due sorelle tornarono nell'ingresso e sparirono. Simms si presentò. — Sono l'agente Simms. Fuori c'è un altro poliziotto che sta cercando indizi. Avremmo intenzione di dare un'occhiata in giro e poi fare una chiacchierata con lei. È d'accordo? — Aveva un bel modo di fare. Semplice e rilassato. — Va bene — rispose Ellen Lang con voce quasi soffocata. Eddie bussò alla porta a vetri che collegava soggiorno e zona piscina ed entrò. Parlottarono un po' tra di loro, poi Simms disse: — Devo andare a controllare la piscina. Torno subito. — E uscì. Il profumo dei gelsomini
giunse attraverso la porta aperta. — Allora, vuole la polizia o no? — chiesi. — Ora che sono qui sarebbe saggio collaborare con loro. Scosse il capo senza guardarmi. — Per l'amor di Dio, Ellen — sbottò Janet Simon, forse per la quattrocentesima volta, e si mise a sedere sul pavimento di moquette. — La mia opinione professionale è che lei permetta alla polizia d'investigare. Questo pomeriggio sono stato nell'appartamento di Kimberly Marsh. Sembra si sia allontanata per qualche giorno. Se è così, ci sono buone probabilità che se ne sia andata assieme a Mort. Quindi se lui non è in città non può essere l'autore di questo macello. Il che significa che qualcun altro è entrato in casa. Anche se Mort avesse al limite dato l'incarico a qualcun altro, i poliziotti dovrebbero venirne a conoscenza. — Accidenti, si è dato da fare — osservò Janet Simon. Ellen Lang sbiancò quando menzionai Kimberly Marsh. Tentò di deglutire ma sembrava avere qualche difficoltà, poi si alzò e disse: — Non voglio nessuna squadra speciale, come gli ABP. Non voglio mettere Mort nei pasticci. — Gli APB c'erano prima dell'FBI, non esistono più dai tempi di Al Capone — dissi. — Non voglio neanche l'FBI. Le tempie mi pulsavano. I muscoli del collo erano tesi. Sapevo che in breve tempo avrei avuto i muscoli delle spalle annodati e lo stomaco indolenzito. — Ascolti — le dissi. — Non è stato Mort. Ellen Lang si mise a piangere. Nessun gemito, neanche il mento tremolante. Soltanto lacrime che le sgorgavano dagli occhi. — La prego, faccia qualcosa — implorò senza cercare di nascondere il volto. I poliziotti tornarono e diedero uno sguardo alla cucina. Eddie mormorò qualcosa a Simms e si diresse all'autoradio. Simms restò con noi. — Stiamo chiamando la Scientifica — ci annunciò. Ellen Lang si raggomitolò sulla sedia come se le avessero annunciato che la biopsia aveva dato esito positivo. — Oh Dio, non ne faccio una giusta. La guardai un momento, poi respirai a fondo e poi dissi: — Simms? Gli occhi di Simms mi guardarono interrogativi. Occhi inespressivi, annoiati. Gli occhi di un poliziotto di pattuglia. Lo presi da parte. — Crede sia stato il marito. È una faccenda familiare. Sono separati.
Simms imprecò sottovoce e gridò ad Eddie di aspettare. Rimase in piedi, una mano sulla pistola e una sul manganello, guardandosi intorno come stesse sprofondando in una palude di sabbie mobili. La figlia quattordicenne di Ellen rientrò, vide la madre che piangeva e commentò disgustata: — Per l'amor di Dio, mamma! — Tornò nell'ingresso. Forse il suo modello di persona adulta era Janet Simon. Ellen Lang piangeva ancora. Mi avvicinai, le misi una mano sulla spalla e le sussurrai all'orecchio: — Basta adesso. — Fece un cenno col capo e cercò di smettere. Fece del suo meglio. Simms disse: — Bene. Vuole denunciare qualche furto? Fece cenno di no senza guardarlo. — Ci sono parecchi danni — osservò lui. — Potrebbe inoltrare all'assicurazione una richiesta di risarcimento per vandalismo. Ma questo solo se facciamo il verbale e solo se si può dimostrare che non è stato suo marito. Comunque, anche lasciando da parte suo marito, i detectives devono venire a compilare il verbale. È ciò che richiede l'assicurazione, capisce? — Hai fatto un buon lavoro, Simms. Mi ignorò. Ellen tirò fuori un Kleenex e si soffiò il naso. Scosse di nuovo la testa. — Mi spiace molto di avervi disturbati. Simms guardò accigliato la stanza. — Il marito, eh? Janet Simon insistette: — Ellen, dovresti usarlo come prova in tribunale. Sentii Ellen Lang tendersi come una corda di violino. — Lasci perdere — dissi. Simms rimase un altro istante fermo, respirando pesantemente, poi scosse il capo e si accomiatò. Per un periodo che sembrò molto lungo nessuno si mosse. Poi Janet Simon tirò fuori un'altra sigaretta. — Sei drogata — disse ad Ellen. Ellen Lang prese a tremare. Lo percepii dentro il torace e attraverso il mio braccio, come vibrazioni che provenivano da un buco di solitudine che era dentro di lei. Le vibrazioni arrivavano sino alla punta dei capelli, davano la sensazione di foglie in una brezza gelata. — Vuole che resti? — le chiesi. — Mi posso arrangiare sul divano. Ellen sollevò gli occhi per asciugarsi le lacrime e tirò su col naso. — No, la ringrazio. Passeremo la notte da Janet. Diedi uno sguardo a Janet. — Accidenti ci speravo. — Janet mi ignorò, ma Ellen sorrise. Non era un gran sorriso, ma era sincero. Le dissi che sarei tornato il giorno dopo per controllare i conti e gli estratti bancari e che me li avrebbe dovuti far trovare pronti. Me ne andai. Il
freddo si faceva sentire adesso, assieme al profumo di eucalipto che arrivava dal giardino dei vicini, mischiato a quello di gelsomino. Avevo pensato tante volte che sarebbe stato bello avere eucalipto e gelsomini da odorare. Ma non era sempre vero. 6 La mattina seguente mi svegliai poco prima delle nove, appena in tempo per vedere la fine di Sesame Street. L'episodio del giorno era dedicato alla lettera D. Stava per Detective Depresso. Indossai un paio di scarpe da tennis e uscii sul portico per i miei tradizionali dodici Saluti al Sole di Hatha Yoga, poi passai alla terza e ottava sequenza di Thai-chi-chuan, i movimenti della tigre e dell'airone. Iniziai lentamente, come di dovere, poi aumentai il ritmo sino a farlo diventare una vera e propria lotta con l'avversario invisibile, il sudore cominciò a scorrere lungo il corpo e i muscoli a bruciare. Mi sentivo nuovamente in forma. Conclusi in Vischikasan, la posizione dello Scorpione, che mantenni per sei minuti. Il gatto mi aspettava in cucina. Gli porsi un caloroso sorriso e lo salutai allegramente. — Ho mantenuto la posizione dello Scorpione per sei minuti — gli comunicai pieno d'orgoglio. Il gatto rimase pensieroso sull'argomento, poi iniziò il suo bidet quotidiano. Non sai mai come comportarti con certe persone. Preparai delle uova. Le sue con il tonno e le mie con un po' di salsa tabasco. Mangiammo in silenzio. Dopo la colazione telefonai ai General Entertainment Studios. Rispose una giovane donna: — Ufficio Personale. — Può passarmi Patricia Kyle, per favore? — Chi la desidera? — Elvis Cole. — Può ripetere per cortesia? — Non sia spietata. — Io non, oh... — Una risatina. — Quell'Elvis... Attenda in linea. Patricia Kyle venne al telefono, il tono della voce così alto da potersi sentire in Swaziland. — Mi hai messo incinta, bastardo! — Patricia... La solita pazzoide. — Ho bisogno di te — replicai. — Mi fissi un appuntamento? — Oh-oh! — Mi servono delle informazioni.
— Questo è quello che dicono tutti. — Mi disse che l'avrei trovata in ufficio sino all'ora di pranzo, che ci sarebbe stato un permesso di entrata per la mia macchina all'ingresso principale e che sarei potuto andare in qualunque momento. — Questo è quello che dicono tutte. — Agganciai. Quaranta minuti dopo, lavato, spolverato, profumato e vestito mi trovavo nel parcheggio della GE e mi avviavo verso gli Uffici del Personale. La GE si trova in uno degli ultimi studios vecchio stile. Enormi e consistenti palcoscenici grigi, fianco a fianco con uffici a forma di bunker, transitabili solo attraverso un intreccio di stradine, solitamente intasate con camere da presa, luci e costumi che le grandi compagnie fanno trasportare da un posto all'altro. Lungo questi indaffarati labirinti si può incontrare chiunque. Ah, il paese dei fabbricanti di sogni. Varcai la porta dell'uscita d'emergenza, salii la prima rampa di scale che incontrai, sbucai in un piccolo corridoio dove m'imbattei in sette fra le più belle donne sulla faccia della terra, passai davanti alla reception dell'Ufficio Personale con aria disinvolta, attraversai due uffici a vetri, superai un uomo e una donna che discutevano sottovoce e mi fermai davanti alla porta di Patricia Kyle. Era al telefono. Gridai: — Abortisci, è l'unica soluzione. — Una mano mi tirò dentro l'ufficio e la porta venne chiusa con uno spintone mentre l'uomo e la donna ridacchiavano imbarazzati. — Sei impazzito!? È il mio capo! — Non lo sarà ancora a lungo. Riprese il telefono e lasciò il ricevitore appoggiato. — Affari. Ci metto un secondo. Mi misi a sedere sotto un poster di Raquel Welch che copriva l'intera parete. Qualcuno si era divertito a disegnare una vignetta sopra la testa dell'attrice. Diceva: "Prova ad avvicinarti ragazzo, ti sventro come un pesce!!!" Patricia Kyle ha quarant'anni, è alta e snella, un fisico da ginnasta, muscoli e curve ben definiti, lineamenti graziosi che tradiscono la sua origine irlandese, riccioli biondo rame. Quando ci incontrammo, quattro anni prima, era sovrappeso ed era appena uscita dal peggior matrimonio del mondo. Il suo ex però non era d'accordo. Si presentava a qualunque ora, ubriaco fradicio. Per dimostrarle quanto ancora l'amava aveva scagliato un mattone contro il vetro anteriore della BMW di lei e messo a terra tutte e quattro le gomme con uno stiletto.
A quel punto Patricia mi aveva cercato. Sistemai la faccenda. Dopo ciò lei dimagrì, smise di fumare e si mise a fare ginnastica e a correre. Trovò lavoro alla General Entertainment. Le cose le andavano a gonfie vele. Condusse la conversazione telefonica con molta diplomazia, spiegando a Nonsochi che la GE e i produttori volevano veramente il loro attore ma non potevano pagare più di quanto proposto, che era al corrente che la moglie dell'attore aveva appena partorito e quindi lui aveva bisogno di lavorare e che era così perfetto per quella parte che lei sperava proprio che l'ottenesse. Attese la replica, sorrise, salutò cortesemente e appese il ricevitore. — Allora, l'accetta la parte? Fece cenno di sì. — Gli danno duemilacinquecento dollari per due giorni di lavoro. — Già, ma questa gente lavora duramente. Si mise a ridacchiare. Era la prima volta che glielo sentivo fare. In genere sorrideva o scoppiava a ridere fragorosamente, nessuna via di mezzo. — Sei allegra, eh? — osservai. Il sorriso le si allargò. — Sono al massimo — disse. — La scorsa settimana ho corso dieci chilometri di seguito per la prima volta e, soprattutto, ho un nuovo fidanzato. — Allora è a lui che pensi in continuazione. Ecco spiegata quella risatina. — Mio Dio, spero di no. — Dimmi tutto ciò che sai su un agente, un certo Morton Lang. Si appoggiò allo schienale della sedia. — So che ha lavorato per la ICM e credo che un anno fa se ne sia andato per mettersi in proprio. Si fa sentire più o meno una volta al mese, talvolta anche più di frequente, per raccomandare un cliente o avere informazioni sui ruoli richiesti. — Lo hai sentito la scorsa settimana o di recente? — No. — Si sporse in avanti dandomi un'occhiata di chi la sapeva lunga. — È coinvolto in qualcosa di poco pulito? Cercai di assumere l'aria che nella mia fantasia assume Mike Hammer quando fa notare a una donna che l'ha combinata grossa. — Sai che accordi abbiamo, bambola. Inarcò il sopracciglio sinistro. — Bambola? — Facciamo finta che tu non abbia commesso alcuna gaffe chiedendomi informazioni riservate e proseguiamo. So che Mort aveva rapporti di lavoro con un produttore, un certo Garrett Rice.
— Garrett Rice, che meraviglia. — Pelle avvizzita, atteggiamento viscido e odora di acido. Cosa c'è che non va? Mi guardò cercando di sintetizzare il più possibile quel che aveva in mente. — Quando sei alle scuole superiori e capisci che ti piacerebbe lavorare in questo ambiente e ne parli ai tuoi genitori e a loro viene una crisi isterica, il motivo della loro crisi è che stanno pensando a uomini come Garrett Rice. — E cosa ne pensi del fatto che ha assunto una guardia del corpo? — Stai scherzando? — Per niente. È un certo Cleon Tyner. Un ragazzo a posto. Non andrebbe bene in ambienti signorili, ma in un bar è perfetto. Qualcuno ha lasciato dei segni sulla faccia del signor Rice e deve averlo minacciato. Quindi ha assunto Cleon. Patricia ci pensò su, poi fece scorrere un dito lungo il naso. — Ho sentito qualcosa a questo proposito. — Cocaina. — Sono solo chiacchiere. Non ne sono certa. Garrett non gode di una buona reputazione. Rividi la scena in cui chiudeva il cassetto e poi la valigetta. — Anche Mort? Sembrò sorpresa. — Penso proprio di no. — OK. Allora il problema è di Garrett. Mort ti ha mai parlato dei suoi amici, di chi frequentava? — Non che io ricordi. Però posso chiedere in giro. Ho un amico alla Universal Casting e lui può farmi sapere qualcosa. Tirai fuori il primo piano di Kimberly Marsh. Patricia la guardò e voltando la foto lesse il résumé, poi scosse la testa. — Mi spiace, ma non ne so nulla. — Se Mort chiama, cercherai di farti dare un recapito e mi farai sapere? — E tu hai intenzione di spiegarmi tutta questa storia? — Mort sta passando segreti governativi agli arabi. Mi fece la linguaccia. — Sii sincera: assomiglio a John Cassavetes vent'anni fa? — Non ti conoscevo vent'anni fa. — A tutti piace scherzare. — Mi alzai e mi diressi alla porta. — Peccato per Mort — disse. — Mi ricordo che era molto considerato quando lavorava alla ICM. Aveva un'ottima lista di clienti.
Si appoggiò nuovamente allo schienale, mettendo i piedi sulla scrivania. Indossava un paio di espadrillas blu e jeans aderenti. — Quando arrivi a Garrett Rice significa che sei messo male. È il bacio della morte. Un tipo come Garrett Rice può affittare un ufficio giusto alla TBS, di certo non alla Warner o alla Columbia. Non lo può vedere nessuno. — Si accigliò. — Ho incontrato Mort più di un anno fa, quando stava alla ICM. Sembrava una persona carina. — Sì, sono tutti carini. Quest'ambiente è pieno di uomini carini. — Sei un cinico, Elvis. — No, è solo che in questo giro non ho mai conosciuto qualcuno che credesse in qualcosa di valido e s'impegnasse a sostenerlo. — Oh, pazzerello — disse. Uno dei motivi per cui mi piaceva era che diceva cose come "oh, pazzerello". Tolse i piedi dalla scrivania, fece il giro e mi diede un pizzicotto sul braccio. — Ehi, quand'è che vieni a cena da me? — In tal caso potrei incontrare il tuo fidanzato. — Proprio per questo. — E se non mi piacesse? — Mentirai e mi dirai che è la migliore persona al mondo che potessi incontrare. È proprio così che funziona. Ricambiai il pizzicotto e me ne andai. 7 Arrivai a casa di Ellen Lang che era quasi mezzogiorno. Venne alla porta in calzoncini, scalza e con una camicia da uomo bianca a strisce blu annodata sotto il seno. Anche i capelli erano annodati sul capo. — Oh, Dio — mormorò. — Oh, Dio. Sorrisi rassicurante — Sì, alcuni mi chiamano così. — Non l'aspettavo. Non sono vestita. La oltrepassai ed entrai nel soggiorno. I libri e i dischi erano nuovamente nei ripiani e la maggior parte dell'arredamento era più o meno al suo posto. Il tutto dava una sensazione di ordine. C'erano una cucitrice e un rotolo di nastro adesivo sul divano grande che era ancora capovolto. Troppo pesante per lei. Feci un fischio di ammirazione. — Ha fatto tutto questo lavoro da sola? — Certo. — Senza Janet?
— Arrossì e si toccò i capelli che spuntavano dallo chignon. — Devo avere un aspetto orribile. — Sicuramente migliore di ieri. Ha l'aria di una che si è data da fare e si è distratta dalle preoccupazioni. Sta benissimo. Arrossì ancora di più e si voltò verso la sala da pranzo. Su un tovagliolo di carta era appoggiato mezzo panino. Una sottile fettina di pollo in scatola con del pane integrale tagliato diagonalmente. C'era anche mezzo bicchiere di latte. — Le devo fare le mie scuse per la scorsa notte — disse — e ringraziarla per ciò che ha fatto. — Non ho fatto granché. Distolse lo sguardo giocherellando nervosamente col nodo della camicia. — Beh, è venuto sin qui e io non ho fatto altro che comportarmi da sciocca. — Non è vero. Era solo nervosa e ne aveva tutti i motivi. Sarebbe stato meglio coinvolgere anche la polizia ma lei non ha voluto, e quel che è fatto è fatto. Assentì nuovamente senza guardarmi. Cattiva abitudine. Come se non si sentisse mai abbastanza forte da affrontare una conversazione. — Perché ha fatto in modo che la polizia se ne andasse? — Perché era quello che lei desiderava. — Ma lei e Janet non eravate d'accordo. Io non lavoro per Janet. — Una nuova vampata di rossore le salì al viso. — Se è lei ad assumermi io lavoro per lei. Ciò significa che sono dalla sua parte, agisco secondo il suo parere. E non faccio indiscrezioni sui fatti personali che mi racconta. Non intendo servirmi dei mezzi della polizia per le mie indagini. Quindi se lei non vuole i poliziotti io cerco di accontentarla. Mi guardò intensamente, poi si riscosse e distolse lo sguardo. — Lei è il primo investigatore privato che conosco. — Gli altri non sono così attraenti. Un sorriso sembrò apparirle sul volto, poi scomparve. Stavo facendo progressi. Prese dal tavolo un pacchetto di buste verdi e bianche e me le porse. — Le ho trovate sulla scrivania di Mort. — Erano bollette telefoniche, ricevute di Bullocks e Broadway e di pieni di benzina effettuati alla Mobil. Tutte divise ordinatamente. — Ci sono solo due bollette telefoniche qui — osservai. — Non ho trovato altro. — Voglio ogni cosa a partire da sei mesi fa, il libretto degli assegni e
quello dei depositi, dai movimenti effettuati dal vostro agente di cambio, se ne avete uno, agli estratti conto, tutto. — Bene, come le ho già spiegato... — Era di nuovo impacciata. — Mort si occupava di ogni cosa. — Non ho dimestichezza coi conti, mi dispiace. — Già. — Indicai il sandwich. — Perché non ne prepara uno anche a me? Nel mio ci metta un po' di cibo, però. Quando torno facciamo due chiacchiere. Riguadagnai il soggiorno e raggiunsi la camera padronale. Il materasso era nuovamente al suo posto. I capi d'abbigliamento erano piegati in bell'ordine e sul letto, sia quelli di lui che di lei, pronti per essere rimessi nei cassetti che già erano risistemati. La camera, come il resto della casa, appariva ordinata. Come minimo aveva iniziato alle tre del mattino. Sulla scrivania di Mort c'erano due scatole da scarpe piene di buste, schede e résumé degli attori oltre ad altri primi piani. Dietro ogni foto era stampato "The Morton Lang Agency" in rosso. Controllai i biglietti da visita, ne selezionai alcuni e me li misi in tasca. In una delle due scatole trovai i fogli di registrazione di una pistola automatica Walther calibro 32, acquistata nel 1980. Bene, Bene. Mi alzai, detti un'occhiata in giro, ma non trovai la pistola. Nell'altra scatola, sotto un vecchio numero di Playboy, scovai un diploma senza cornice della Kansas State University a nome di Morton Keith Lang. Doveva esserci finita sopra dell'acqua. Fatture e ricevute assieme a tutti gli incartamenti bancari erano in fondo alla scatola. Tempo di ricerca: otto minuti. La scatola forse si era nascosta quando Ellen era entrata nella stanza. Io ho dei calzini che fanno la stessa cosa. Quando tornai nella sala da pranzo trovai un grosso panino ben imbottito in un piatto di porcellana cinese nera su una tovaglietta blu e grigia. Sul panino tagliato in due troneggiavano due stuzzicadenti con bandierine color blu elettrico. Il tutto contornato di spicchi d'arancia, fragole e un ciuffetto di prezzemolo. A destra del piatto c'era una brocca d'acqua e a sinistra una ciotola dello stesso servizio con olive, peperoni toscani, cetriolini e una forchettina d'oro. Non mancava naturalmente, sistemato di fronte al piatto, un tovagliolo di lino, blu e grigio. Ellen Lang sedeva fissando attraverso la porta a vetri il giardino posteriore. Sentendomi arrivare si voltò. — Ho portato solo acqua perché non avevo idea di che cosa le andasse di bere. C'è anche della Coca Cola dietetica, latte o birra. Se desidera posso anche preparare del caffè.
— No, va benissimo così — dissi osservando ammirato lo stile con cui era stato apparecchiato il tavolo — grazie. Sedetti e mangiai uno dei peperoni toscani. Preferisco quelli col chili, ma anche quelli toscani non sono male di tanto in tanto. — Ha trovato ciò che cercava? — chiese. — Erano nella scatola sulla scrivania — dissi mostrando il pacchetto di carte. Chiuse gli occhi. — Oh, mio Dio, mi scusi. Ce le ho messe io stessa stamattina. Non so come ho fatto a non vederle. — Stress. Se una persona è stressata, tutto comincia ad annebbiarsi. Si inizia a non ricordare dove si è parcheggiata la macchina, si perdono le chiavi, non si vede quel che si ha davanti al naso. Capita a tutti, persino a Janet Simon. Diede un microscopico morso al suo panino e lo rimise nel piatto. — Non le sta molto simpatica, vero? Non risposi. — È mia amica. È una donna molto forte e comprensiva. Finalmente, Ellen. Parla, esprimiti. — È la sua àncora — dissi. — Janet Simon la offende ed è prepotente nei suoi confronti. Ciò rinforza la sua immagine di perdente, e forse è proprio ciò che lei desidera. Se Janet la considera incapace, allora diventa accettabile anche il fatto che Mort la consideri incapace. Così lui ha il diritto di trattarla nel modo in cui la tratta e lei non deve reagire, cosa che non vuole fare. — Mi chiamano Mr. Sensibilità. — A parte ciò, non ho nulla contro Janet Simon. — Lei sta scherzando. Non c'ero andato leggero, eppure lei non se l'era presa. Forse Janet Simon era stata una buona palestra. O forse non aveva recepito nulla di ciò che avevo detto. — Se uno ha un po' di senso dell'umorismo riesce a superare gli stress. Investigatori, poliziotti, personale medico. Fra questi ultimi ci sono le persone più divertenti che conosco. Ti fanno crepare dalle risate. Mi guardava assente. Nessuna reazione. — Negli ospedali lavorano le persone piu'divertenti che conosco. Ti fanno crepare dalle risate. — Oh... — Un altro scherzo. Ci scambiammo un sorriso.
— Pensa veramente quello che ha detto a proposito di Janet? Allora mi aveva ascoltato. Forse, in fondo in fondo era anche arrabbiata. — Sì. — Si sbaglia. — Se lo dice lei. Un altro micro-morso al panino, e poi lo allontanò da un lato. Forse assorbiva nutrimento dall'aria. — Sembra che le piaccia fare l'investigatore privato — osservò. — Sì, molto. — Aprii il sandwich, ci infilai due peperoni e richiusi di nuovo. — Ha dovuto studiare per diventarlo? — Sì, all'Università Sud-asiatica. Programma biennale. — Vietnam? — Già. — Deve essere stato terribile. — Sì, in effetti c'erano un bel po' di svantaggi a trovarsi lì. — Bevvi un sorso d'acqua. — Ma le difficoltà rendono forti. Se non muori, impari. Per esempio, è allora che ho deciso che volevo diventare Peter Pan. — Come ha detto? — chiese confusa. — Sto ancora scherzando. Ho imparato anche a scherzare in Vietnam. È una tecnica di sopravvivenza. Ho iniziato anche a praticare lo yoga. La respirazione pranayamica è un modo per controllare la mente. Quando ci si trova in sei in un bunker, uno attaccato all'altro con gli altri che lanciano granate dentro e ti aspetti di morire da un momento all'altro... Capisce come si sviluppa il senso dell'umorismo? — Come no. — Dallo yoga si arriva al Tai-chi-chuan e il Tai-chi porta al Tae Kwan do, il Karate coreano e poi il Wing Chun, una variazione del Kung fu cinese. Tutte attività che rinforzano l'equilibrio psico-fisico. — Stesi le mani. — Sono una fortezza di calma nel caos di questo mondo. I suoi occhi rimasero inespressivi. — Ho imparato a sopravvivere. Ho imparato che avrei continuato a respirare e quel che non avrei mai più voluto fare. Ho capito ciò che era importante per me e ciò che non lo era. Proprio come accade a lei che sta imparando che può sopravvivere a quel che le sta succedendo. Si inumidì le labbra e finse di guardare una briciola di pane sull'orlo del bicchiere. — Se io sono sopravvissuto in Vietnam lei può sopravvivere a Encino.
Perché non prova a praticare lo yoga, le farà bene. — Yoga. Sembrava non considerare lo yoga un adeguato sostituto a suo marito. — Signora Lang, ha idea di dove Mort tenesse la pistola? Sembrò sorpresa. — Ma Mort non aveva pistole. Le mostrai il foglio di registrazione. — Ma è di diversi anni fa — osservò. — Le pistole tendono a rimanere dove uno le mette. Tenga gli occhi aperti. Assentì. — Ha ragione, mi scusi. Cercherò di vedere se la trovo. — Si scusa troppo spesso, non ce n'è bisogno. Inoltre quando parla con qualcuno distoglie lo sguardo in continuazione. È un'altra cosa che deve imparare a non fare. — Mi scusi. — Appunto. Bevve un sorso di latte. Le rimase un baffo bianco sul labbro superiore. — Lei è divertente — commentò. — Sì, diciamo che mi si può definire sia divertente che intelligente. Finito di mangiare, mi misi a riordinare i documenti. Senza Janet in giro, Ellen sembrava molto più rilassata. Osservando aldilà di quegli occhi spauriti, il volto tirato e le spalle abbandonate si scorgevano tracce di giorni migliori. — Scommetto che alle Superiori era terza nella graduatoria delle ragazze più carine della scuola — osservai. Un'espressione di allegria le apparve sul viso. Si toccò nuovamente i capelli. — La seconda più carina. Le faceva bene sorridere. Non doveva esserle accaduto molto spesso di recente. — Ha conosciuto Mort all'Università? — Alle Superiori. La Clarence Darrow Senior High di Elverton, in Kansas. È lì che siamo cresciuti. — Fidanzatini sin dalle Superiori. Sorrise. — Già. Non è terribile? — Per niente. Vi siete iscritti anche allo stesso college? Assunse un'aria di rammarico. — Mort seguiva i corsi in Economia e Arte drammatica. I genitori avevano un grande negozio di vernici a Elverton, avrebbero desiderato che lui continuasse l'attività, ma Mort voleva fare l'attore. Qualcosa d'inconcepibile a Elverton. Se dici una cosa del genere ti guardano come fossi pazzo.
— A Mort non è andata poi così male. Mi rivolse uno sguardo interrogativo. — Beh, non ha forse sposato la seconda ragazza più carina della Clarence Darrow Senior High? Mi guardò ancora, scosse la testa e infine proruppe in una risatina soffocata. Mi disse che ero terribile. Le porsi i documenti attraverso il tavolo. — Faccia meglio che può. Vorrei che identificasse tutti i numeri telefonici che conosce. Controlli gli acquisti effettuati con le carte di credito e veda se le risultano, lo stesso con gli estratti conto e gli assegni staccati. Guardò le carte e il sorriso scomparve. — Non è per questo che la pago? — disse piano. — È un lavoro che dobbiamo fare insieme. Inoltre, al momento non mi ha ancora dato un soldo. — Sì, è vero. Naturalmente. — Era impacciata ed imbarazzata. Sospirai. — Ascolti, potrei farlo anch'io, ma lei ci metterà di meno. Io non conosco questi numeri telefonici e lei sì. Io non posso avere alcuna idea di cosa è stato acquistato con carte di credito o assegni. Guardava i fogli terrorizzata. — Non è che non voglio — disse — è che non sono pratica di queste cose. — Rimarrà sorpresa nello scoprire di che cosa è capace. — Non sono brava in matematica. — Provi. — Farò un macello. — Guardandola mi venne in mente una scena che avevo visto al Grand Canyon, in cui un uomo che soffriva di acrofobia si era affacciato al parapetto su insistenza della figlia. Teneva entrambe le mani sulla ringhiera e il corpo il più lontano possibile. Ce l'aveva quasi fatta quando le ginocchia gli si piegarono e crollò sul marciapiede. Ellen Lang aveva gli stessi occhi dell'uomo. Tentò di sorridere senza gran successo. — Funzionerà tutto meglio se se ne occuperà lei, capisce? Avevo capito. — Mort l'ha veramente sistemata per le feste. Si alzò di scatto e si mise a ritirare i resti del pranzo. — La smetta subito. Sta comportandosi esattamente come Janet. — No. La mia era solo una constatazione. Restò ferma un momento ansimando, poi andò in cucina. Quando tornò disse: — E va bene. Mi spieghi daccapo cosa devo fare. Ripetei le istruzioni e aggiunsi: — Ed ora a proposito del mio onorario.
— Certo, mi dica. — Sono duemila escluse le spese. — Lo ricorderò. Ci guardammo. Nessuno si mosse. Dopo un tempo che sembrò eterno, dissi: — Ebbene? Le tesi il libretto degli assegni e chiesi: — Cosa c'è che non va? L'occhio destro prese a farle piccoli scatti. Come un tic nervoso. — Non accetta pagamenti con carta di credito? C'era un gran silenzio nella casa. Si sentivano soltanto, lontani, il motore di un aereo che atterrava e l'abbaiare di un cane. Spirava una leggera brezza. Ripresi il libretto e lo guardai. Era intestato ai Signore e Signora Lang. Il conto era di tremilaquattrocentoventisei dollari. Le firme agli assegni staccati erano state scritte tutte con la stessa calligrafia maschile. — Prenda una penna che le mostro come fare. Andò in cucina. Non vedendola tornare la seguii per vedere cos'era successo. Era appoggiata al bancone, una mano sulla testa e lacrime e muco che le colavano lungo il viso. Nessun rumore. — Non è successo niente — cercai di rassicurarla. Scoppiò in lacrime e mi si appoggiò al petto, i singhiozzi la scuotevano. La strinsi, sentivo le lacrime sulla pelle, attraverso la camicia. — Ho trentanove anni e sono totalmente incapace. Cosa ho fatto, cosa ho fatto. Devo riuscire a riaverlo qui con me, ne ho bisogno. Sapevo che non si riferiva a Perry. La tenni stretta sinché smise di piangere, poi avvolsi del ghiaccio in un panno di cucina e le dissi di premerselo sul volto. Quando tornò in soggiorno le spiegai come scrivere un assegno e riconoscere le entrate e le uscite. Era svelta in matematica una volta che sapeva cosa fare. Compilato l'assegno, tentò di sorridere, ma sembrava sfinita. — Immagino che è ciò che dovrò fare per pagare i miei conti. — Già. — Mi scusi. Attraversò l'ingresso e si diresse verso la camera da letto. Rimasi fermo, seduto. Poi portai i piatti in cucina, li lavai e asciugai. Presi i documenti e passando attraverso il soggiorno notai che aveva fatto un buon lavoro nell'aggiustare il divano ma che avrebbe avuto grosse difficoltà nel rimetterlo dritto. Ascoltai e la sentii muoversi in camera. Rivoltai il divano e lo si-
stemai dove pensavo che andasse. Poi lasciai la casa. 8 Quaranta minuti più tardi ero di nuovo nel mio ufficio. Ci stavo bene. Mi piaceva quello che vedevo. Mi piaceva l'orologio a forma di Pinocchio. Mi piacevano le sedie da direttore. Sistemai le carte che avevo preso dalla scrivania di Morton Lang, registrai sul mio libro contabile l'assegno di duemila dollari che mi aveva rilasciato Ellen Lang, il suo primo assegno, riempii il modulo per depositarlo, girai l'assegno, vi scrissi sopra "non trasferibile" e riposi il tutto nella scrivania. Chiuso che ebbi il mio cassetto, tolsi la marcia al mio cervello, mettendolo in folle: impresa, questa, relativamente facile. La porta si aprì e la testolina e le spallucce di Clarence Wu sporsero attraverso la porta della sala d'attesa. — Disturbo? Clarence aveva la valigetta di lavoro. Possedeva una tipografia al secondo piano, sopra la banca. Una settimana prima gli avevo chiesto di prepararmi dei biglietti da visita che migliorassero l'immagine dell'agenzia. — Ti ho portato qualche modello — disse. — Le tue idee hanno dato buoni risultati. Non ricordavo di avergli suggerito alcuna idea. Posò la valigetta sulla scrivania, dal taschino della camicia estrasse dei biglietti che mise ben in vista. Lanciai un'occhiata al Pinocchio. Clarence mi osservò aggrottando la fronte. — Hai l'aria preoccupata — disse. — Qualche perplessità sul destino dell'uomo. Passerà. Andiamo avanti. — Ignorai quelli di ispirazione artistica e ne scelsi uno color crema col mio nome scritto stampatello in posizione centrale e la parola detective al di sotto con una Colt 45 automatica in alto a destra. — Togli la pistola e andrà benissimo. Sembrò deluso. — Niente arte? — Niente arte. — Fanne stampare cinquecento così e altrettanti con scritto "The Elvis Cole Detective Agency". Metti il numero di telefono in basso a destra e l'indirizzo in basso a sinistra. — Ti servono biglietti anche per il signor Pike? — Il signor Pike non saprebbe che farsene. — Naturalmente. — Naturalmente. Scosse il capo e sospirò. — Ci vediamo il prossimo giovedì.
Chissà se per il giovedì seguente avrei trovato Mort. Avrei chiamato Wu e gli avrei chiesto di modificare la scritta in Elvis Cole, il Detective Felice, specializzato in casi a lieto fine. Mi misi a controllare la situazione finanziaria di Mort. Vivere a Encino con tre ragazzini gli costava quattromilacinquecento dollari al mese e le entrate erano quasi nulle. Quando arrivi a Garrett Rice significa che sei messo male. Chiamai la ICM. Mi passarono un tipo che aveva conosciuto Morton Lang prima che lasciasse la compagnia. Non mi diede alcuna informazione interessante. Chiamai i clienti di Mort. Edmund Harris non era in casa. Kaitlin Rosenberg non parlava con Mort da tre settimane e mi disse di riferirgli che lo spettacolo procedeva bene. Cynthia Alport non lo sentiva da più di un mese e perché diavolo non aveva richiamato? Ric-senza-la-k Lloyd non lo chiamava da sei settimane perché aveva cambiato agente: sarei stato così gentile da dare la notizia a Mort? Il numero di Tracey Cormer dava occupato. Dopo quattordici minuti al telefono, rimisi gli indirizzi al loro posto senza avere ottenuto niente. Chiamai Kimberly Marsh, sperando che in realtà non fosse partita con Mort, ma ottenni solo la risposta della segreteria telefonica. Chiamai Ellen Lang per controllare se aveva scoperto qualcosa di interessante fra i conti. Nessuna risposta. Neanche Janet Simon era in casa. Uscii sul balcone a prendere una boccata di smog. Lavato e vestito senza un posto dove andare. Il telefono squillò. Era Lou Poitras, un mio amico poliziotto che lavora nel dipartimento della zona nord di Hollywood. — Come va, Mastino? — Niente male. Sto facendo un festino con tua moglie. Sentii una specie di ruggito. — Stai lavorando per un certo Morton Lang? — Per sua moglie. Ellen Lang. Come fai a saperlo? — Ci fu un silenzio. — Cos'è successo Lou? — Alcuni poliziotti hanno trovato Morton Lang a Lancaster circa un'ora fa, seduto nella sua Cadillac. Ucciso a colpi di pistola. Sentii un sibilo nel cervello e le mani cominciarono a tremarmi. La voce non voleva uscirmi fuori. — E il ragazzo? Lou non rispose. — Lou? — Quale ragazzo? Dopo poco riagganciai. Tirai fuori la foto di Mort, la rivoltai e rilessi la
descrizione scritta dalla moglie. Guardai la foto di Perry. Forse stava con Kimberly Marsh. Forse stava bene e lontano da chi aveva sparato a suo padre. Forse no. Aprii il cassetto e tirai fuori il mio libro contabile e l'assegno. Cancellai il deposito che avevo segnato e annullai l'assegno. Il suo primo assegno. Lo ripiegai, lo infilai nel portafoglio e andai a parlare con Lou Poitras. 9 Lasciai la macchina nel piccolo parcheggio del dipartimento di polizia della zona nord di Hollywood ed entrai. Sui due lati della stanza, pavimentata in linoleum rosso, c'erano due lunghe panche di legno, distributrici automatiche di dolci e Coca Cola e una bacheca su cui era appeso un manifesto: - UNA NOTTE DI BOX - POLIZIOTTI CONTRO POMPIERI! SCONTRO ECCEZIONALE: BULLDOG PARKER E MUSTAFA HAMSHO. Accanto al poster, un ragazzino pallido e magro dai capelli dritti parlava al telefono. Era appoggiato al muro e muoveva le caviglie nervosamente. Passai davanti a due messicani in pesanti e sporchi abiti da lavoro, superai una porta blindata, salii le scale e scesi nuovamente sbucando in una saletta, quindi entrai nella stanza della squadra investigativa. Detta anche Xanadu. Era una lunga stanza grigia con una fila di scrivanie appoggiate al muro e tre piccoli uffici in fondo. Dirimpetto alle scrivanie trovavano posto una doccia, un bagno e una cella di detenzione. Attraverso le sbarre sporgevano due mani scure. Sembravano stanche. L'ufficio di Poitras era il primo dei tre. Lou Poitras ha una faccia larga come una padella e un deretano ancora più largo. Le braccia sono così piene che fanno pensare a prosciutti di dieci chili infilati a forza dentro le maniche. Un incosciente che non immaginava le conseguenze gli aveva lasciato una cicatrice da coltello sul sopracciglio sinistro. Faceva personaggio. Quando entrai, Poitras era seduto dietro la scrivania, le mani appoggiate sulla pancia. Anche seduto occupava gran parte della stanza. — Non ti sarai portato appresso quella carogna di Pike, vero? — esordì. — Io sto bene Lou, grazie. E tu? Simms era sulla sedia di fronte alla scrivania di Lou. L'altra sedia era occupata da pile di verbali. Chi tardi arriva male alloggia. Simms era in
borghese: blue jeans e camicia safari sbiadita con una macchia d'inchiostro sul taschino, un paio di Converse Ali Stars usatissime. — Sei stato promosso? — lo apostrofai. — È il mio giorno libero. Lou ci interruppe: — Andiamo al sodo. Dammi la foto del ragazzino. Gli porsi la foto di Perry Lang. — Penny! — gridò a voce alta e girò la foto per leggere la descrizione. Penny arrivò. Due metri di pelle abbronzatissima e capelli rosso scuro. — Ti chiami Sheena, vero? — Mi ignorò. Lou le diede la foto. — Fotocopie a colori di entrambe le facciate. Mandane un po' a McGill a Lancaster, più in fretta possibile. — Mentre lasciava la stanza Simms la seguì con lo sguardo. Io feci lo stesso. — È nuova — osservai. — Già — rispose Simms sorridendo. — Cercate di controllare i vostri istinti — fece Poitras acido. — Hai qualche novità a proposito di come è morto? — Sì. Quattro colpi a distanza ravvicinata. La Scientifica è sul posto. — Qualche indizio sul ragazzo? — McGill se ne sta occupando. Ci si può fidare. Dice che nulla indica la presenza del ragazzo durante l'omicidio. Stanno facendo ricerche anche nei dintorni, ma ci vorrà un po' di tempo. — OK. Poitras si sporse verso di me, la sua fronte rugosa mi ricordava la mappa stradale di Bangkok. — Simms dice che ti occupi di questo caso. Feci un rapido resoconto. Da quando Ellen Lang mi aveva affidato l'incarico di ritrovarle marito e figlio, Kimberly Marsh, Garrett Rice e le informazioni di Patricia Kyle. Il fatto che gli affari di Mort non erano fiorenti e la sua crisi di mezz'età. Nel frattempo Simms aveva portato tre caffè. Il mio era freddo. Quando l'ebbi bevuto, Lou disse: — Hai scoperto qualcosa di sporco su Mort? — No. — Neanche connessioni? — Niente. Simms parve apprezzare il fatto. — Sembra ti sia dato molto da fare per niente. Lou tamburellava con le dita sulla scrivania. Dal suono sembrava stessero scoppiando dei mortaretti. Una volta l'avevo visto sollevare il muso di una Volkswagen maggiolino.
— Simms mi ha raccontato che qualcuno è entrato in casa Lang la scorsa notte. — Io ne so altrettanto. La moglie crede sia stato il marito. Io no, ma potrebbe anche essere. La mia opinione è che cercavano qualcosa. Simms fece scrocchiare le dita. — Pensi che la moglie sappia più di quel che dice? — No. — Cosa potrebbero aver cercato? — domandò Lou. — Non ne ho idea. Un uomo alto e magro in abito grigio scuro entrò nella stanza. Aveva un viso teso e butterato che me lo faceva pensare come il Formichiere & Stermina-blatte. — Questo bastardo lavora con Joe Pike? — s'informò con tatto. Sorrisi a Lou. — Avete preparato questa scenetta insieme? — Aspetta fuori, Mastino. Simms lasciò il posto all'uomo e Poitras chiuse la porta dietro di me. Il tutto mi fece sentire escluso. La stanza era vuota. Tutti erano fuori per l'ora di pranzo. La pupa rossa tornò con un mazzo di fotocopie e si fermò davanti alla porta chiusa. Io ero seduto dietro una scrivania, i piedi sopra, leggendo un numero di Daily Variety. C'erano svariate riviste e addirittura una copia dell'American Cinematographer. Questi poliziotti d'oggi. Mi guardò con aria interrogativa. — Sssss... C'è un incontro con un pezzo grosso di Washington. — E sollevai le sopracciglia con aria d'intesa. Mi guardò un istante e lasciò la stanza. Mi diressi alla ricerca di un altro caffè. Un poliziotto anziano con toupé e molte cianfrusaglie d'oro intorno al collo guardava La ruota della Fortuna. La stanza odorava come una stalla, ma lui non sembrava farci caso. Versai due tazze di caffè e mi avvicinai alla cella che però era vuota. Stavo in piedi nel mezzo del locale con una tazza di caffè in ciascuna mano, quando la porta dell'ufficio di Poitras si aprì e Simms fece capolino. — Ne prendo sempre due — spiegai — uno per me e uno per il mio alterego. — Entra. E portati una sedia. Posai i caffè, presi una sedia ed entrai. Lou ci presentò. — Elvis, questo è il tenente Baishe. Ha preso il posto di Giannelli da un paio di mesi. Baishe era dietro la scrivania e mi guardava come fossi stato attaccato alla suola delle sue scarpe e stesse cercando di staccarmi. Iniziò senza pre-
amboli. — So tutto di te. Vietnam, guardia di sicurezza in un paio di studios, circoli con quel bastardo di Joe Pike. Si dice che ti ritieni un duro. E che credi di essere bello. Si dice anche che sei piuttosto in gamba. Va bene. Allora ecco qui. La pattuglia di Lancaster trova Morton Lang ucciso a colpi di pistola nella sua auto, una Cadillac Seville dell'82. Tre colpi al petto e uno alla tempia, distanza ravvicinata. — Baishe si toccò la fronte, non aveva molti capelli in quella zona. — Nessun bossolo nella macchina, ma sembra si tratti di una 9mm. Poco sangue e alcuni strani lividi fanno pensare possa essere stato ucciso altrove e trasportato lì. Nessuna traccia del ragazzino. La macchina è in ordine. Nessun indizio di furto. Aveva addosso il portafoglio, carte di credito, quarantasei dollari e l'orologio. Le chiavi erano nel cruscotto. Tutto chiaro? — Seguo i movimenti delle sue labbra, Sir. Baishe guardò prima me, poi Lou che disse. — Cole ha problemi di squilibrio mentale, tenente. Baishe si alzò e mi guardò sporgendosi dalla scrivania. — Non scherzare con me, ragazzo. Finsi di essere impressionato. Dopo un po' aggiunse: — Cosa hai a che fare con questa faccenda? Ripetei la storia. Baishe chiese: — Da quanto tempo conosci la moglie? — Da ieri. — Sei sicuro? Volsi lo sguardo da Baishe a Poitras a Simms e di nuovo a Baishe. Anche Poitras e Simms lo guardavano. — Lascia perdere, Baishe — dissi — sei sulla strada sbagliata. — Chissà se scavando più a fondo scopriamo dei legami più stretti. Forse tu e la moglie siete buoni amici, tanto amici da pensare di far fuori il marito. Forse hai architettato tu la faccenda e premuto tu il grilletto. Bella storia. — Bella storia? — Guardai Poitras. Aveva la bocca aperta. Simms fissava qualcosa nel vuoto. Mi rivolsi a Baishe con un'espressione che definirei di "incredulità". Lui mi guardava con un'espressione che definirei di "disgusto". — Il postino suona sempre due volte, giusto? 1938? — dissi. — Piantala — fece Baishe. — Una splendida teoria, tenente — intervenne Lou. — Però io conosco Cole personalmente. È una brava canaglia. — Mi aspettavo una risata maniacale da parte di Baishe. Ero stanco e un po' seccato.
— Abbiamo finito? — chiesi. — Te lo diciamo noi quando puoi andare — ringhiò Baishe. Mi alzai. — Al diavolo. Non sono venuto sin qui per sentire una storia così assurda. Se avete altre domande, prendete appuntamento o chiamatemi il mio avvocato. Baishe divenne violaceo e fece per alzarsi e venire verso di me, ma Poitras gli bloccò la strada. — Tenente, posso parlarle in privato? Qui fuori. Baishe mi fissò. — Fatti ritrovare su quella sedia quando rientro. Pulce. — Pulce? Ti piace proprio fare il duro, vero? Baishe digrignò i denti ma uscì con Poitras. Fissai Simms. Sembrava annoiato. Osservai le foto incorniciate sullo schedario dietro la scrivania di Lou. Una graziosa brunetta con tre bambine in una casa in stile ranch a Chatsworth. In una, la coppia sedeva nel giardino sotto un pioppo, perfetto per bere birra e guardare una partita di baseball mentre i bambini giocavano. Era esattamente quello che stavano facendo. La foto era stata scattata da me. Lou rientrò nella stanza, da solo. — Si aspetta la tua collaborazione. Simms emise una risatina soffocata. — Hai già informato la moglie? — chiesi. — Non era in casa. C'è una macchina che la sta aspettando. — Mi immaginai una coppia di mostri parcheggiati nel vialetto in attesa di una fragile donna nella Subaru verde chiaro con due ragazzine nel sedile posteriore. Ragazzi sensibili. Come Baishe. Ci spiace signora, suo marito si è beccato quattro revolverate ed è passato alla storia. — Forse è meglio che vada io — dissi. — Sei sicuro di volerlo fare? — Ci puoi scommettere Lou. Non chiedo di meglio che sedermi con quella donna e darle la notizia che il marito è morto e che del figlio di nove anni non c'è traccia. Magari potrei anche informare le due ragazzine. Sarebbe la ciliegina. — Calmati. — Sono calmo — dissi. Simms smise di sorridere. La rossa rientrò con le fotocopie che depositò sulla scrivania. Mise la foto in cima. Mi guardò. — Cosa è successo? Nessuna battuta pronta? — Hanno ferito il mio spirito. Sorrise con simpatia. — Penny Brotman. Abito a Studio City. — E si allontanò. — Figlio di buona donna — commentò Simms.
Presi la foto e me la infilai in tasca. Feci un ghigno verso Simms e guardai Lou. — Se hai finito, vorrei lasciare questo posto. Si guardava le mani. — Non avevo idea che se ne sarebbe uscito con quella storia. Mi spiace, Mastino. — Va bene. Rifeci la strada al contrario. Niente era cambiato. I due messicani erano in attesa e il ragazzino ancora al telefono. La gente entrava e usciva. Sentivo la tensione nelle spalle e allo stomaco, la testa mi scoppiava. Mi misi in piedi dietro il ragazzo al telefono, molto vicino. Lui mormorò qualcosa e agganciò andandosi a sedere sulla panca di legno, la testa tra le mani. Chiamai Janet Simon e lasciai squillare. Al trentaduesimo squillo rispose, ansimante. — Ellen Lang ha parenti stretti, sorella, madre, o qualcosa del genere? — m'informai. — No, che io sappia. È figlia unica. Forse ha ancora una zia in Kansas, ma entrambi i genitori sono morti. Perché? — Ci possiamo incontrare a casa sua tra venti minuti? Ci fu una lunga pausa. — Cosa è successo? Glielo dissi. Dovetti interrompermi perché scoppiò a piangere. La lasciai calmare, poi dissi: — Sto arrivando — e riagganciai. Rimasi fermo lì un bel po', prendendo respiri profondi col naso ed espirando dalla bocca, cercando di rilassare il corpo. Dopodiché mi avvicinai al ragazzino per scusarmi, lasciai un quarto di dollaro sulla panchina. Si preannunciava una splendida giornata. 10 Alle tre meno venti entrai nel vialetto di casa Lang e parcheggiai accanto alla Mustang di Janet Simon. La macchina di Ellen non c'era. Bussai alla porta. Sulla strada passavano vetture cariche di mamme e bambini al rientro da scuola o diretti ai centri sportivi. In breve tempo sarebbe arrivata anche Ellen Lang con le figlie. Avrebbe visto la mia auto sul vialetto e si sarebbe innervosita. Bussai di nuovo, Janet Simon aprì. Aveva i capelli tirati indietro e un paio di grandi occhiali da sole rossi sulla testa. Tutte le donne di Encino portano occhiali rossi. È de rigueur. Aveva in mano un lungo bicchiere con un liquido color ambra e ghiaccio. Più ghiaccio che liquido. — Bene, bene — commentò. — Il bell'investigatore. — Non era al suo primo drink. Janet Simon si sedette sul divano col bicchiere in mano. Nel posacenere
c'erano quattro mozziconi. — Sa a che ora arriverà? Janet Simon prese un'altra sigaretta, l'accese e buttò fuori una grossa nuvola di fumo. Forse non mi aveva sentito. Forse avevo parlato russo senza rendermene conto e l'avevo confusa. — Fra poco. Perché? Cosa cambia? — Bevve un altro sorso. — Quanti ne ha bevuti? — Non sia stupido. Questo è solo il secondo. Ne vuole uno? — Lasciamo perdere. A Ellen potrebbe far piacere che chi la informerà che il marito è morto sia sobrio. Mi guardò attraverso il bicchiere, fece un altro tiro e disse: — Sono nervosa. È molto difficile per me. — Già. È perché amavate Mort così tanto. — Brutto bastardo. I tendini del collo erano tesi come corde di violino, le tempie mi pulsavano. Andai in cucina e riempii un bicchiere di acqua e ghiaccio. Dopo aver bevuto tornai in salotto. Janet aveva gli occhi rossi. — Sono spiacente per ciò che ho detto. Ho già vissuto situazioni del genere e sono nervoso per il compito che mi aspetta. Una parte di me vorrebbe trovarsi a Lancaster a cercare il ragazzino, ma so che prima devo assolvere quest'incombenza. Inoltre sono seccato perché alla polizia un maledetto bastardo di nome Baishe mi ha dato del filo da torcere. Non è stato divertente, ma non avrei dovuto sfogarmi con lei. Ascoltò, poi disse con calma, — Fa sempre qualche commissione dopo aver prelevato le ragazze. Forse sono andate da Baskin-Robbins. — Ho capito. — Mi sedetti nella poltrona di fronte al divano. Continuava a fissarmi. Si portò la sigaretta alle labbra, inspirò, trattenne ed espirò. Andai ad aprire la porta per far cambiare aria. — Non ti piaccio, vero? — Penso che tu sia una gran bella ragazza. — Sei convinto che io opprima Ellen. Non replicai. Da dove sedevo, di fronte alla grande vetrata, potevo vedere la strada e il vialetto. E Janet Simon. — Ma cosa diavolo ne sai tu — sbottò. Finì di bere e andò verso la sala da pranzo. Sentii rumore di vetro contro vetro, poi lei tornò e rimase in piedi, guardando fuori della finestra. — Sei sua amica — dissi — ma non le serbi alcun rispetto, la tratti come se fosse minorata e te ne vergognassi, come se il fatto che non corrisponde
al tuo prototipo di donna moderna sia un fatto personale. Così la umili. Chissà, forse se arriverai a distruggerla, Ellen cambierà e inizierà a voler diventare come tu desideri. — Mio Dio, sono stata psicanalizzata. Ora so chi sono. — Leggo Cosmopolitan quando sono in crisi — dissi. Ingollò un sorso, si sedette a terra, incrociò le braccia e mi fissò. — Che cretinate. Diedi un'alzata di spalle. — Con Ellen siamo amiche da quando i nostri figli erano all'asilo nido. Io sono quella da cui corre in lacrime. È da me che viene durante la sua crisi giornaliera. Sono l'unica amica che ha. — Un'altra tirata, un altro sorso. — Tu non l'hai vista con le borse sotto gli occhi per aver passato la notte in bianco, non hai mai ascoltato il racconto dei suoi incubi. — Tu invece sì. E io ti rispetto per questo. Il problema è il modo. Ellen non può reggere il tuo ritmo. Nel modo in cui agisci non fai che indebolire ancora di più la persona che vorresti far diventare forte. Sollevò un sopracciglio. — Ma guarda. Come siamo sensibili. Come siamo attenti e altruisti. — Hai dimenticato coraggiosi e belli. Si strinse le braccia intorno al petto come per difendersi da una bufera. Anche Ellen Lang prendeva spesso quella posa. — Forse sei troppo coinvolta — continuai — forse sei troppo addentro alla storia e soffri. Sai come reagiresti tu, ma tu non sei Ellen. Lei forse reagirebbe in modo diverso. — Forse una volta lo ero. Scossi la testa. — Non saresti mai potuta essere Ellen Lang. Mi guardò fisso. — Sono rimasta sola ed è stata dura. Mi hanno imbrogliata. Anche le mie amiche mi hanno abbandonata. I loro mariti erano amici di Stan e loro sono andate dove c'erano i soldi. — Ma tu non abbandonerai Ellen. — L'aiuterò in qualunque modo. — Dev'essere stato veramente molto difficile per te. — Assentì, quasi senza muoversi. — Mi avresti dovuto fare un fischio — dissi. — Sono sull'elenco. Tenne gli occhi fissi nei miei. — Sì, forse avrei dovuto. Si piegò per spegnere la sigaretta. Indossava jeans attillati e un top morbido che le arrivava giusto sopra il punto vita. Chinandosi mostrò la pelle abbronzata della schiena. Proprio una donna attraente. — Cosa sono tutte
quelle storie sullo Yoga, il karate e il Vietnam? — Vi raccontate sempre tutto? — Così fanno i buoni amici. — La voce non era di una persona molto lucida. — Mi sembri un po' troppo giovane per essere stato in Vietnam. — Quando sono tornato non sembravo così giovane. Sorrise. La sbronza traspariva anche nel sorriso. — Peter Pan. Le hai raccontato che volevi essere Peter Pan. — Già. — Queste sono sciocchezze. Rimanere giovane per sempre. — Non è questione d'età. È il periodo dell'infanzia, forse. All'infanzia appartengono le cose migliori. Innocenza. Lealtà. Verità. Ti trovi a sedere in una palude di riso a diciott'anni. Molti si sono arresi. Io ho deciso che a diciott'anni era troppo presto per diventare vecchio. È dura mantenersi giovani. — Così a trentacinque anni ne hai ancora diciotto. — Quattordici. La mia età ideale è quattordici. Fece una smorfia. — Stan — disse. — Stan si è arreso. Ma non ha avuto la scusa del Vietnam. — Ci sono vari tipi di guerre. — Già. Non aggiunsi altro. Stava pensando. Alla fine disse: — Come mai ti chiami Elvis? Sei nato prima che Elvis Presley diventasse famoso. — Sino all'età di sei anni mi chiamavo Phillip James Cole. Poi mia madre vide "The King" a un concerto. Il pomeriggio seguente cambiò il mio nome in Elvis. — Legalmente? — Legalmente. — Caspita. E tu non hai mai pensato a ricambiarlo? — Questo è il nome che lei mi ha voluto dare. Janet Simon scosse il capo, seguitando a fissarmi. Il volto rilassato e meno sbronza. Più forte. Più sexy. Incrociò le gambe e bevve un altro sorso. — Ti hanno mai sparato? — Sono stato colpito da frammenti di granata durante la guerra. — È stato doloroso? — All'inizio sembra uno schiaffo. Poi inizia a bruciare e i muscoli si irrigidiscono. Per me non è stato troppo doloroso. Ad altri è andata peggio. — Probabilmente Mort ha sofferto. — Se il primo colpo è stato alla testa non ha sentito nulla. Altrimenti
deve aver sofferto molto. Rabbrividì e posò il bicchiere vuoto sul tappeto. — Se Ellen te lo chiede, non dirglielo per favore. — Non lo farei mai. — Dimenticavo. Sensibile e altruista. — "Dimostra a te stesso che sei coraggioso, leale e altruista e un giorno diventerai un vero uomo." L'ha detto la Fata Turchina. In Pinocchio. Mi guardò a lungo, sinché gli occhi le diventarono rossi e si girò verso la finestra. Tre bambine camminavano in mezzo alla strada, una saltellava. Ridevano, ma noi eravamo troppo lontani per capire il motivo della risata. La casa era immersa nel silenzio. — Ellen non rientra mai prima delle quattro — sussurrò. Erano le tre meno cinque. — Mi hai sentito? — Era ancora voltata verso la finestra. — Sì. Janet Simon ebbe un brivido, poi iniziò a tremare e infine a piangere. Mi avvicinai e la lasciai singhiozzare contro il mio petto come avevo fatto con Ellen Lang. Ma questa volta mi sentivo eccitato. Cercai di rilassarmi ma lei continuava a premere il suo corpo contro il mio. Poi alzò il capo e incontrò la mia bocca. Si strinse a me e mi baciò con passione mordendomi le labbra. Era veramente agile e forte come sembrava. La presi in braccio e la feci distendere sul pavimento. Si tolse i vestiti mentre io chiudevo a chiave la porta. Il suo corpo era snello, sodo e abbronzato, aveva piccoli seni e i muscoli addominali ben definiti. Mi morse le spalle e disse "Sì" molte volte. Rimanemmo distesi sulla schiena respirando affannosamente e fissando il soffitto. Si alzò senza dire una parola, prese i vestiti e sparì nell'ingresso. Dopo un momento sentii scorrere l'acqua. Mi vestii e andai in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Quando tornai in soggiorno c'era Janet. — Bene — disse. — Bene — dissi a mia volta. Il telefono squillò, mentre Janet rispondeva diedi un'occhiata attraverso la grande finestra. Nessuna avvisaglia della Subaru verde acqua. Nessuna traccia di Ellen Lang. Né bambini in bicicletta o bambine in mezzo alla strada. Ogni cosa avveniva tra quelle mura. Janet agganciò e disse: — Erano le ragazze. Sono ancora a scuola. Janet non è andata a prenderle.
Guardai l'orologio. Le tre e ventidue. — A che ora finivano le lezioni? — Alle tre meno un quarto: — Era preoccupata. — Le ragazze mi hanno chiesto di andarle a prendere. — Te la senti di guidare? Sorrise, un po' tesa. — Mi hanno fatto passare la sbronza. — Io aspetterò Ellen qui. — Cosa devo dire alle ragazze a proposito di Mort? — Niente. Aspettiamo la madre. — Ma lei non è neanche andata a prenderle. — È stressata. Le sarà passato di mente. Rimanemmo fermi a distanza. Poi Janet uscì. Mi sedetti a bere l'acqua. Dopo mi alzai e mi misi di vedetta alla finestra. Ellen Lang non si fece viva. 11 Janet Simon arrivò con le ragazze in meno di quaranta minuti. La più grande entrò per prima, il viso gonfio, gli occhi rossi. Si chiuse nella sua camera sbattendo la porta. Janet e la piccola entrarono insieme. Janet mi fece cenno col capo per farmi capire che non aveva detto nulla alle ragazzine, e chiese: — Ellen ha chiamato? — No. La bambina lasciò i libri sul tavolo nell'ingresso e andò diritta alla televisione, l'accese e si sedette a venti centimetri dallo schermo. Stava iniziando 3-2-1 Contact. Era l'episodio dedicato all'orientamento e alle tecniche per eseguire una mappa. — Io mi chiamo Elvis, e tu? — Carrie. Si avvicinò ulteriormente allo schermo. Forse facevo troppo rumore. Janet Simon sedette a terra il più possibile lontano da me pur rimanendo nella stanza. Mi andai a sedere vicino a lei, che non mi degnò d'uno sguardo. Tornai sul divano. Bella situazione: in casa con le due ragazzine e la Grande Notizia che il padre era morto e nessuno diceva niente. Guardammo 3-2-1 Contact sino alle cinque, poi passammo a Masters of the Universe sino alle cinque e trenta e cambiammo canale per Leave to the Beaver; Janet andò nella stanza di Cindy. Sentii la porta chiudersi e uno sbraitare confuso. Cindy gridava che erano entrambi pazzi e che li o-
diava. Odiava sia lui che la madre e avrebbe desiderato andare a vivere in Africa. Carrie si avvicinò ulteriormente alla televisione. — Ehi, hai fame? — le chiesi. Scosse il capo. Aveva gli occhi gonfi. — Senti un po', potresti aiutarmi a trovare qualcosa? Tu dovresti sapere dove sono le cose, è casa tua, no? — Alzò il volume. Io mi arresi. — Mi andrebbe proprio un hamburger di carne di mulo. O una minestrina di capelli d'angelo. — Mi guardava. — O del rospo ripieno di piume d'anitra au gratin. — Ridacchiò e disse: — Posso preparare della minestra. Dalla cucina non si sentiva Cindy. La bambina preparò la pentola con l'acqua e prese una scatola di zuppa di pollo liofilizzata. — Dobbiamo aspettare che bolla — disse. — Va bene. Rimanemmo in silenzio guardandoci di nascosto con la coda dell'occhio. A un certo punto non ce la fece più. — Ce l'hai una pistola? — Certo. — Posso vederla? — È in macchina. Non la porto con me se non ne ho bisogno. È pesante. — E se ti assalgono all'improvviso? Mi guardai alle spalle. — Qui, in casa? — Hai mai visto Bateman and Evans? — Cos'è? — È un programma televisivo. Bateman and Evans, lo davano il mercoledì sera. — Non l'ho mai visto. — Perché? — Non guardo molto spesso la tivù di sera. — Perché? — Credo che favorisca l'insorgere del cancro. — Sei uno sciocco. — Probabilmente. — Mio padre è stato agente di Evans — disse. — L'ho incontrato una volta. Era un investigatore privato e portava sempre la pistola con sé. — Beh, per portare sempre la pistola devi essere anche un attore. — Si impara guardando la tivù. — Ho incontrato anche Lee Majors quella volta, e quando mio padre gli ha trovato una parte in Knightrider siamo andati alla Universal e mi sono trovata di fronte anche David Hasselhoff.
— Però. — Troverai mio padre? Una sottile sensazione di gelo mi corse dallo stomaco al petto. — Che profumino! — esclamai. — Scommetto che sai dove si trova — continuò. Scossi la testa. — La vuoi nella tazza o nella scodella? — Ci sono delle tazze blu in quell'armadio. Ora ti dico qualcosa che non deve sapere nessun altro. D'accordo? Solo io e papà ne siamo a conoscenza, e a lui non piacerebbe che qualcun altro lo sapesse. D'accordo? — D'accordo. — La mia voce era rauca. — Aspetta qui. Corse via e tornò dopo trenta secondi con un grosso album di fotografie. Doveva essere vecchio. Aveva la copertina di cuoio verde e fogli neri in feltro che dividevano le pagine dove le foto erano infilate negli angoli del cartoncino. Sulla copertina c'era scritto "Home". Nella prima pagina, datata giugno 1947, si vedevano alcune foto di un color seppia sbiadito, che raffiguravano un uomo, una donna, un neonato. Mort. Nelle pagine successive i volti degli adulti mutavano, ad un tratto scomparivano. Ma il volto del fanciullo cambiava, diventava quello di un adulto. Mort che faceva i primi passi. Mort con la bicicletta. Mort con un cane pelle e ossa e la lingua penzoloni in un campo di grano che si perde all'orizzonte, nel Kansas. — La mamma l'ha regalato a papà quando si sono trasferiti qui da Elverton, nel Kansas, dove sono nati. Ci sono foto dei nonni e della loro casa e del cane, Teddy, e di una ragazza di nome Joline Price, per via della quale la mamma lo prendeva sempre in giro. Mi portò in un tour guidato della vita di Morton Lang. Non è carino? Mort al liceo, Mort al negozio col camice. Mort con gli amici. Mort in uno spettacolo. Mort e Ellen. Il giorno della laurea. Lei era carina. Molto carina. E questa ti piace? — Una notte mi alzai per andare al bagno — stava raccontandomi Carrie — trovai papà che guardava quest'album e piangeva. Mi misi a piangere anch'io e guardammo l'album assieme. Lui mi raccontava delle persone e dei posti lì in Kansas che io non avevo mai visto. Lui diceva sempre che odiava Elverton e non ci sarebbe mai tornato, neanche in visita. Ma io credo che è proprio lì che è andato. Scommetto che se vai a Elverton in Kansas ce lo trovi e puoi convincerlo a tornare a casa. — Penso che la zuppa sia pronta — dissi.
Versai la minestra mentre lei prendeva cucchiai e tovaglioli di carta. Mangiammo nella sala da pranzo, Cindy non si sentiva più. Carrie mangiava col libro accanto al piatto. Era l'ultima volta che mangiava sicura che il padre fosse vivo, che sarebbe fra poco arrivato a sistemare le cose. Mi alzai e trovai un po' di quella roba che Janet Simon aveva bevuto. La portai a tavola. Il naso di Carrie si arricciò. Dopo poco arrivò Janet e mi fece cenno di seguirla in cucina. Lì, a debita distanza, mi disse: — Sono passate le sei, Ellen non starebbe mai senza dare sue notizie così a lungo. — Era molto pallida. — OK — dissi sentendo un brivido di freddo. Andai al telefono per chiamare Lou Poitras. 12 Raccontai a Poitras che ero rimasto tutto il pomeriggio a casa di Ellen, che lei non era andata a prendere le bambine e che non era rientrata. E che ero preoccupato. Ci fu una pausa, seguita da un rumore indistinto, quindi mi fece alcune domande. Gli descrissi Ellen e la macchina. Janet Simon sapeva il numero di targa, KLX774. Mi disse di rimanere lì e riappese. Probabilmente lo avevo colto, proprio quando stava andando a casa per la cena. — Che facciamo? — chiese Janet. — I poliziotti stanno arrivando. Possiamo portare le ragazzine da qualche parte in modo che non siano presenti? Certo. Dalla signora Martinson, appena attraversata la strada. Mentre Janet le accompagnava, trovai il modo di preparare del caffè, poi andai alla macchina e dal cruscotto tirai fuori la Dan Wesson, che misi nella fondina. Per coprirla, indossai una giacca blu che presi dal baule. Mi dava la sensazione di fare qualcosa di utile. Forse sarei potuto andare dalla signora Martinson e mostrare la Dan Wesson a Carrie. Forse così anche Carrie avrebbe avuto la sensazione che stavo facendo qualcosa. Aspettai Janet sul vialetto mentre il cielo cominciava a diventare rosso e il primo freddo della notte si faceva sentire. — Dobbiamo restare qui fuori? — chiese Janet. — Solo un momento. Ho fatto del caffè. Sembrò voler dire qualcosa, poi cambiò idea e rientrò in casa. Poitras arrivò alle otto e venti. Era già scuro. Assieme a Poitras c'era un vecchio agente, capelli grigi tagliati corti e un viso che doveva aver passato molti
secoli di pattuglia. Si chiamava Griggs. Quando mi vide finse di esserne sorpreso e disse: — Ancora non ti hanno ritirato la licenza? — Griggs è adorabile. Riuscimmo a far passare Poitras dalla porta senza dover abbattere una parete. Davanti a una tazza di caffè e dei biscotti che Janet aveva scovato, feci nuovamente il resoconto del pomeriggio. Non era granché. Poitras diede carta e penna a Janet e le chiese di scrivere più informazioni possibili su Ellen, il parrucchiere da cui si serviva, dove faceva la spesa e dove comprava i vestiti. Janet andò a scrivere in cucina. Lou osservò: — Questo Lang doveva essere coinvolto in qualcosa di poco pulito. Assentii. Poitras mi guardò senza espressione. — E tu non hai idea di cosa possa essere? — Solo mere e infondate supposizioni. Griggs grugnì. — Sono quelle che preferiamo. — Allora? — continuò Poitras. — Lang era quasi senza un soldo. Aveva bisogno di cinquemila dollari al mese per mandare avanti la baracca con quel tenore di vita e negli ultimi undici mesi ne aveva tirati su cinquemiladuecento in tutto. Aveva finito i risparmi. Nessuna banca gli avrebbe concesso prestiti perché in realtà era disoccupato. Forse si era fatto prestare soldi da qualcuno poco raccomandabile e non era stato in grado di restituirli. Poitras ci pensò su. — Se non restituisci i soldi a quella gente forse ti rompono un paio di costole, ma non ti mettono quattro proiettili in corpo. Alzai le spalle. — Te l'ho detto. Sono solo supposizioni. Poitras continuò a riflettere. Guardò Griggs che si alzò e andò in cucina a telefonare. — Avete cercato di trovare Kimberly Marsh? — chiesi. — Siamo andati a casa sua e ci hanno fatto entrare. Sembra sia partita ma non per star via molto. Parlando a un grassone con un cagnolino abbiamo saputo che ti sei presentato come Johnny Staccato. Cretinate. Griggs rientrò nel soggiorno e si sedette. — E Rice? — Non l'abbiamo trovato. Abbiamo lasciato detto che lo volevamo vedere e un messaggio sulla porta di casa. Griggs fece un sorriso stereotipato. — Bella roba questi messaggi. Lou replicò: — Si fa quel che si può. Janet Simon rientrò nella stanza e diede il foglio a Poitras. — Ho scritto
tutto quello che mi è venuto in mente. Aveva elencato nove posti. Capelli: Lolly's sulla Ventura a Balboa. Spesa: da Gelson fra Ventura e Hayvenhurst, Ralph su Ventura (Encino). Abbigliamento: da Sherman Oaks a Woodland Hills. Libri: Scene of the Crim lungo Sherman Oaks. Avrei immaginato la sua calligrafia forte e chiara, ma non era così. I caratteri erano piccoli e irregolari. Scriveva nel modo in cui avrei creduto potesse scrivere Ellen Lang. Invece era il contrario. Ellen Lang scriveva come pensavo scrivesse Janet Simon. Griggs prese il foglio e tornò in cucina a telefonare. Poitras chiese a Janet di fare un resoconto personale su ciò che era accaduto dall'ultima volta che aveva visto Ellen Lang. Mentre parlava, lui la guardava con quella faccia impassibile da poliziotto. La mano di Janet era sul bracciolo della poltrona accanto alla mia. Quando gliela toccai la ritrasse subito. Ah, che storia romantica. Poitras osservò: — Sembra che lei e la signora Lang siate molto legate. Janet assentì: — È la mia migliore amica. — Quindi se dovesse confidarsi con qualcuno, quella sarebbe lei. — Suppongo. Sì, verrebbe da me. — Una persona non viene uccisa senza motivo. — Ehi! — esclamai. Poitras mi guardò, forse con un mezzo sorriso. — Le sto solo chiedendo di collaborare, e di concentrarsi sul serio. — Lo so, ma non mi piace il modo. Janet Simon scattò: — Non c'è bisogno che tu mi difenda. — Poi disse a Poitras: — Cosa intende esattamente, sergente? — Non voglio che lo faccia all'istante, ma desidererei che riflettesse a fondo e ricordasse se il signore o la signora Lang le hanno detto qualcosa di significativo. Questo è tutto. È d'accordo? — Naturalmente — rispose Janet, ma non sembrava molto convinta. Il telefono squillò e Janet andò in cucina per rispondere. — È una donna molto bella — disse Griggs sogghignando. — Hai qualcosa in mezzo ai denti. Finse di riderne ma quando voltò la testa vidi che cercava di pulirseli con la lingua. Janet tornò dopo un momento e disse a Poitras: — È per lei. Lui andò in cucina; quando riapparve, aveva la solita faccia inespressiva. — Hanno trovato la macchina della signora Lang. Vuoi venire?
Feci cenno di sì. Janet era immobile. — Vado a preparare le ragazze — disse. — Possono dormire da me nell'attesa che la madre torni. — Ci lasciò senza uno sguardo. Griggs rimase lì e io seguii Poitras. La Subaru di Ellen Lang era sotto un lampione davanti al supermercato Ralph a Encino sulla Ventura, il terzo posto della lista di Janet Simon. Ralph era chiuso, quindi nel parcheggio c'erano soltanto la macchina di Ellen, un furgoncino del guardiano notturno e una macchina della polizia. Quando scendemmo Poitras si assicurò che il vecchio guardiano vedesse il suo distintivo. — Da quanto tempo è lì la macchina? — chiese. Il vecchio mosse la testa di lato. Alla luce del lampione i suoi capelli parevano viola; anche la mia giacca e la camicia bianca di Poitras parevano viola. Sette metri sopra di noi il lampione sfrigolava come una mosca impazzita. — Da quando sono arrivato — rispose. — Va bene. Hai il numero telefonico del proprietario del market? L'uomo anziano indicò l'edificio. — Ce l'ho dentro. — Vallo a prendere. Chiamalo e digli di venire qui. Voglio parlare con chiunque ha lavorato qui oggi. L'uomo sembrò preoccupato di venire tagliato fuori dalla storia. — Cos'è successo sergente? — Va' a telefonare. Il traffico scorreva lento su Ventura. C'erano quattro sacchetti di provviste sul sedile. Probabilmente era stata avvicinata mentre li caricava in macchina. — Cosa ne dici se apro la portiera? — chiesi a Lou. Mi avvicinai e la feci scattare. Feci istintivamente un passo indietro. — Latte andato a male — fece Lou infilando la testa nell'abitacolo. C'erano anche della lattuga appassita e delle fragole che sembravano cotte. Si scalda facilmente una macchina nei pomeriggi assolati di Los Angeles. Poitras prese in mano un cartone di latte che Ellen Lang doveva aver aperto e richiuso dopo aver bevuto qualche sorso. — Sarà qui sin dal primo pomeriggio, probabilmente sin da quando stavamo nel tuo ufficio — osservai. Poitras grugnì e si inchinò a guardare sotto i sedili. Fece il giro e si abbassò tirando fuori da sotto la macchina un paio di occhiali da sole, una
delle stanghette era rotta. — Sono di Ellen Lang — dissi. Poitras li appoggiò sul cofano della macchina, lo sguardo assorto in direzione della strada. — Il vecchio Mort — commentò — doveva frequentare proprio un bell'ambiente. 13 Più tardi Lou mi fece accompagnare da uno dei suoi agenti alla mia macchina parcheggiata a casa di Ellen Lang. Quando entrai Janet Simon era seduta sul divano, il posacenere pieno di mozziconi. — Ebbene? — chiese. — Sembra che l'abbiano rapita. Scosse la testa come avessi detto una sciocchezza, c'erano due piccole valigie vicino alla porta. — È meglio che vada a chiamare le ragazze. — Sei pentita per ciò che è successo tra noi? — le domandai. Si inumidì le labbra. — No, certo che no. — Ma sembrava adirata con se stessa, come avesse violato una promessa importante che si era fatta. — Hai bisogno di aiuto con le ragazze? — No. — Magari per quando gli dirai... — No, lascia perdere. — Evitava il mio sguardo come Ellen Lang, solo che lei non c'era abituata. — Come vuoi. Beh, hai il mio numero di telefono. — Ce l'ho. — Assentì guardando la sigaretta. Me ne andai. Rientrando a casa mi fermai a comprare una confezione di birra che bevetti insieme al gatto mentre riflettevo su Ellen Lang e Janet Simon, così diverse fra loro. Forse Janet Simon era stata veramente come Ellen Lang e forse Ellen Lang sarebbe diventata Janet Simon. Se era ancora viva. Misi un disco di George Thorogood, che suonai a tutto volume, dopodiché mi addormentai. Sognai di essere una scimmia volante, una delle tante a caccia di Morton Lang nella città di Smeraldo. La mattina dopo ero a pezzi ma potevo ancora salvarmi. Dissi al gatto di farmi trovare qualcosa di pronto per quando mi fossi alzato. Lui mi ignorò. Uscii sul portico e feci i miei esercizi di yoga, poi passai al Tae Kwan do. Lavorai duramente bruciando tutte le "Cose Cattive" e avendone la prova nel dolore che sentivo nei muscoli.
Mi feci la barba, la doccia, mi vestii, quindi mi preparai due uova alla coque, ciambelle con l'uvetta e una banana a fette. Mentre facevo colazione preparai un sacchetto con dei panini, della birra e un barattolo di olive. In cima infilai anche due libri di Elmore Leonard, Valdez is Coming e Hombre. Misi la Dan Wesson nella fondina e l'allacciai attorno al petto. Scelsi una giacca adatta ai miei pantaloni kaki. Alle otto e venti ero davanti a casa di Kimberly Marsh. Non ero di buon umore. Se il grassone col cane fosse uscito probabilmente gli avrei sparato. Magari avrebbero arrestato John Cassavetes. Passai davanti all'albero di banane e mi intrufolai nuovamente nell'appartamento. I petali erano caduti tutti dalle margherite appassite. C'era solo un messaggio telefonico di un certo Sid che proponeva a Kimberly di unirsi a lui durante la sua fase astrologica positiva. Uscii scendendo dall'altra scala e sbucai in un piazzale da dove potevo controllare entrambe le entrate. Portai la macchina. Tutto quello che dovevo fare era rimanere sveglio. Ero pronto per l'assedio. Avevo i viveri ed ero armato. Potevo resistere addirittura sino all'ora di pranzo. Sette minuti dopo, la Nova blu scuro con la macchia di ruggine parcheggiò davanti all'edificio. Nella macchina c'erano gli stessi due messicani. Che riunione di curiosoni. L'autista scese ed entrò nel palazzo. Avevo perso ogni speranza, quando lo vidi riapparire: la stessa faccia corrucciata, lo stesso tentativo di assomigliare a Charles Bronson senza però riuscirci. È dura fare il Charles Bronson quando non si ha mento. Attraversò la strada proprio davanti ad una Mercury guidata da un'anziana signora. La donna frenò di colpo. Lui le inveì contro. Che gran signore! Sentii sbattere la portiera e un'eco di musica messicana perdersi in lontananza. Verso le nove e un quarto una Volvo verde parcheggiò nel garage. Kimberly Marsh non era né alla guida e probabilmente neanche nel bagagliaio. Poi fu il turno dell'uomo a pera col cagnolino. Alle dieci e cinquanta arrivò la posta. Un altro paio di lettere per la signorina Marsh. Verso mezzogiorno tornò la Nova, ma questa volta un altro individuo scese dalla macchina. Alto e col viso rilassato. Forse con questo si poteva anche parlare. Mi appiattii mentre passava. Dopo trentacinque minuti ripassò con in mano un sacchetto unto. Probabilmente tacos o burritos. Io mangiai un panino e aprii una Budweiser. Sono le uniche ancora bevibili seppur calde. Alle tre e dieci una polverosa Porsche rossa 914 si fermò davanti al Piedmont Arms. Ne scese un aitante giovanotto che si diresse verso le cassette postali, in particolare verso quella di Kimberly Marsh. Mentre la ri-
puliva guardai se i tipi nella Nova avevano notato qualcosa. Stavano parlando e gesticolando senza prestare alcuna attenzione a quel che succedeva. Accidenti, cosa fare? Il bel fusto risalì in macchina. Gli andai dietro. Mentre guidavamo lungo la San Diego Freeway lasciai che un paio di macchine ci distanziassero. Sulla Burbank Boulevard lui si fermò a un autoricambi. Ne approfittai per andare a telefonare. Una voce mi rispose: — Armeria. — Joe Pike, per favore. L'attesa durò non più di dieci secondi. — Pike. — La storia si sta facendo interessante. Ti va di lavorare? — Cosa vuoi che faccia? — Ci sono due messicani in una Nova blu scuro con una macchia di ruggine sul parafango sinistro davanti al 412 di Gorham a San Vicente. Vorrei che li tenessi d'occhio e li seguissi. — Nient'altro? — Solo l'indirizzo. — Con Pike bisognava andarci piano, non eri mai sicuro di cosa intendesse dire. Seguii l'uomo sino alle colline sopra gli Universal Studios. Le case sono rosa e gialle o bianche e grigie, in questa zona, stile spagnolo antico e italiano ultramoderno. La 914 entrò in un vialetto, io andai avanti e feci retromarcia nel vialetto vuoto di una villetta. Tirai fuori la Dan Wesson dal cassetto del cruscotto e misi in tasca anche un sacchetto di monetine che presi da sotto il sedile. Mi avviai verso la casa. C'era una larga finestra accanto alla porta d'ingresso e rampicanti di edera e vite riempivano la facciata. Tutto era trascurato e impolverato. La Porsche, il garage, i gradini, le piante e le cimici sopra le piante. Gran classe. Mi avvicinai alla porta origliando. Si sentivano delle voci ma non si poteva distinguere se si trattasse di persone o della tivù. Passai carponi sotto la finestra e sporsi la testa. C'era un soggiorno semivuoto: un divano, una libreria di legno di quelle che si trovano nei colleges, uno stereo e un acquario con una vegetazione un po' troppo abbondante. In fondo si vedeva uno scorcio della cucina. Sul tavolo, un bicchiere pieno a metà e una bottiglia. In quel momento Kimberly Marsh, completamente nuda, uscì dalla cucina ed entrò in soggiorno. Mi vide ed urlò così forte che potei sentirla attraverso il vetro. Le sorrisi e la salutai con la mano. La porta d'ingresso si aprì e il figlio di King Kong apparve.
14 Da vicino era più basso di quel che sembrava. Ma anche i suoi muscoli erano più grossi di quel che sembrava. Era scalzo e indossava calzoncini così sbiaditi che non riuscii a leggere il nome del college. Aveva una cicatrice sulla spalla destra e due brutti segni anche sul ginocchio sinistro. La donna apparve dietro di lui avvolta in un lenzuolo. C'erano delle macchie sul lenzuolo. — Ciao Kimberly — l'apostrofai. — Sono Elvis Cole, vorrei fare due chiacchiere con te a proposito di Morton Lang. — Larry — disse lei. Lui fece schioccare le dita e disse: — Vai dentro, a questo ci penso io. — Aveva modi che facevano pensare a un figlio di papà viziato e convinto di essere onnipotente. Lo ignorai. — Sono un investigatore privato, Kimberly. Morton Lang è morto. — Morto — ripeté. Se stava per svenire dal dolore non lo diede a vedere. — Sì — continuai — dobbiamo parlarne. Larry insisteva: — Vai dentro Kimmie, lo sistemo io. Peserà almeno venti chili meno di me. Non ci sono problemi. — Larry — gli dissi — lo so che ti piace fare il maschio dominante e per me non ci sono problemi, io devo solo parlare di un paio di cose con Kimberly. Scosse la testa. — Fatti sotto, carogna. — Questo non è come giocare a pallone. — Spinsi indietro la giacca perché vedesse la pistola. Ebbe un momento di indecisione, sembrò ancora più giovane di quel che era, poi partì di testa nello stile dei giocatori di football. Indietreggiai di un passo e questo gli fece perdere l'equilibrio. Lo colpii con forza usando il sacchetto di monetine che avevo in tasca. Crollò a terra con il naso sanguinante, fra l'edera e la vite. — Forza Kimmie, aiutami a portarlo dentro. Lo sdraiammo sul divano con la testa all'indietro; mentre lei andava a vestirsi preparai un panno da cucina con del ghiaccio e gli dissi di premerselo sulla faccia. Mi guardava astioso. — Mi hai colpito con qualcosa — bofonchiò. Come intendendo, hai barato.
Kimberly tornò indossando un paio di calzoncini e una maglietta corta che le lasciava la pancia scoperta. Era snella e soda ma meno bella di quel che sembrava nelle foto. Senza trucco, il naso aveva una strana curva, e anche abbronzata appariva un po' troppo vissuta. Una vita intensa. — Perché ci sono due messicani appostati davanti al tuo appartamento, e questo cosa ha a che fare con Morton Lang? — cominciai. Spostò distrattamente lo sguardo verso Larry che sembrò volersi alzare dal divano. Tirai fuori la Dan Wesson e gliela puntai contro. — Se ti muovi ti sparo dritto al cuore. Kimberly si appoggiò allo stipite della porta della cucina, i pollici infilati nei passanti. In posa. — Sei della polizia? Poggiai la pistola sul tavolo e tirai fuori la licenza. — Ricordi cosa ti ho detto cinque minuti fa, lì fuori? — Oltre all'odore di fritto c'era quello di marijuana, sandalo e forse anche quell'aroma metallico che rimane quando si usa l'etere per tagliare l'eroina. Non guardò neanche la licenza. — Ah, sì. Investigatore privato. — Esatto. Il che significa che non devo essere gentile, non devo leggerti i tuoi diritti né aspettare l'avvocato per interrogarti. Posso far parlare la gente come voglio, e nessuno dirà niente. — Mister Minaccia. Scosse il capo. — Non so chi siano. — Mort è sparito da venerdì notte, mi segui Kimmie? — Sì. — Si è portato il figlio con sé. Conosci Perry Lang? — Sì. — Ieri una pattuglia di Lancaster ha trovato Mort con quattro pallottole in corpo. Nessuna traccia del bambino. La moglie è sparita. Forse quei due messicani vogliono far sparire anche te, Kimberly. — Spagnoli — grugnì Larry. — Cosa è successo, Kimmie? — Non lo so — ripeté grattandosi la testa. — Avanti Kimmie, Mort era innamorato di te. Sicuramente ti ha raccontato qualcosa. Guardò prima Larry, poi me, cercando di ricordare come sembrare offesa. — Mort era il mio agente e un amico — disse o, meglio, miagolò. — Sei anche tu il suo agente? — chiesi rivolto a Larry. — Va' all'inferno. Rividi il bigliettino di Mort sotto il vaso di fiori. Alla ragazza che mi fa sentire vivo, con tutto il mio amore. Molto bene, Mort. Imbecille.
Fece qualche passo verso il centro della stanza. Atto primo, scena seconda. — Ho paura. — Col buon Larry qui con te? Lui mi guardò male. Lei cominciò: — Mort mi portò a una festa a casa di un messicano. Un proprietario di banche. — Disse proprietario di banche come avesse detto conte, duca o governatore. — Gliel'aveva presentato un amico, Garrett Rice. Garrett è un produttore. In quest'ambiente bisogna frequentare la gente che conta, che ha il potere. — Quando è successo? — All'inizio della scorsa settimana, martedì. — Va' avanti. — Mort diceva che Dom aveva intenzione di finanziare alcune vecchie produzioni di Garrett e che mi dovevano conoscere, per delle parti. — Le tue o le loro? — Come? — Dom è il messicano.? — È così che lo chiamavano. Non so il cognome. — Fece una risatina. Odio le donne che ridacchiano. — È un signore anziano, molto distinto. Mi chiamava signorina Marsh. — Ridacchiò nuovamente. — Era un torero. Adesso è in affari e roba del genere. Si trattava di un'occasione importante per me — continuò. — Mort mi raccomandò di vestirmi in maniera provocante e di stare ai loro scherzi, capisci, di sorridere sempre. Sapeva come fare. Mort è bravissimo, sa come bisogna fare in queste situazioni. Pensai a Mort che piangeva guardando l'album. Pensai a Mort nella sua macchina con quattro pallottole in corpo. — Sì, è il suo punto forte. Dov'era questa festa? — Da qualche parte sulle colline, non so esattamente, era scuro. — Benone. Cos'è successo? — Era bellissimo. Si chiacchierava, si sniffava. Un ambiente sofisticato, capisci. La cocaina era di prima qualità. — Anche Mort? — Cosa? — Anche lui sniffava? — Certo. Cercai di immaginare la scena. Residenza principesca, tutto marmi e col grande tavolo su cui c'erano delle coppe di vetro piene di polvere bianca. Mort che rideva quando gli altri ridevano, che assentiva quando gli altri
assentivano. Lì in mezzo direttamente da Elverton, Kansas. No, non riuscivo a vederlo nella foto in piscina coi bambini e poi lì. Forse neanche lui, magari questo era stato il suo problema. Kimberly ridacchiò: — Piacevo veramente a Dom, capisci? Ero stufo di tutti questi "capisci". Larry si tolse il panno dalla faccia. — Sono affari, amico. — Il naso era una polpetta. — Avrai bisogno di un dottore. È rotto. Si alzò per prendere un sottile spinello da uno dei ripiani. — Per il dolore. — Chi altro c'era alla festa? — Italiani. Uomini d'affari, sembra che adesso vogliano occuparsi anche di cinema, capisci... — Sì. Finanziatori. Quanto piacevi a Dom, Kimberly? Cercò di sembrare imbarazzata, ma probabilmente alla scuola di recitazione ancora non erano arrivati a quel capitolo. — Dom, capisci, voleva conoscermi meglio. — Ridacchiò. Era la quarta volta. — E Mort cosa ne diceva? — Capisci... — No, non capisco. Altrimenti non starei qui ad ascoltarti. Stavolta fu Larry a ridacchiare. Kimberly mi fissò come avesse paura di non riuscire a spiegarsi. — Mort si è comportato come un imbecille. Dom è ricco. Disse che avrebbe potuto finanziare tre film di Garrett ed io sarei potuta essere in tutti e tre. — Il vecchio spagnolo aveva perso la testa — interloquì Larry. — Tu chiudi la bocca — ordinai. Si rabbuiò e voltò lo sguardo verso l'acquario fangoso. — Quando io e Dom tornammo, Mort si arrabbiò. Allora Dom si mise a urlare in spagnolo e alla fine Garrett Rice riuscì a calmare gli animi. Uscirono fuori a parlare; quando rientrarono, Mort e io andammo via. Proprio un imbecille. — Mort ti ha detto di cosa avevano parlato quando erano usciti in giardino? — Non abbiamo scambiato una parola mentre mi riaccompagnava. Ero così arrabbiata. — Si capisce. Mi rivolse ancora quello sguardo confuso. — Il giorno dopo mi telefonò dicendo che eravamo nei guai. Che non poteva dire altro perché la moglie era nella stanza accanto. Mi raccomandò di non aprire a nessuno e che si
sarebbe fatto risentire lui. Ero così spaventata che ho chiamato Larry e siamo venuti qui. Larry assentì orgoglioso. Il difensore delle donzelle. — Ti ha detto qualcosa del figlio? — No. Ho continuato a controllare la segreteria telefonica, ma non ha mai richiamato. Adesso tu mi dici che è morto e che due tipi sorvegliano il mio appartamento. Sono terrorizzata. Larry le rivolse uno sguardo che voleva essere rassicurante. Considerando che il suo naso sembrava una frittella, non gli uscì molto bene. — Un paio di spagnoli, falli venire qui e vediamo cosa succede. — Sì, come con me. — Tu mi hai colpito con qualcosa — replicò offeso. — Mort è stato colpito con quattro proiettili da 9mm, stupido. — Non li sopportavo più. — Un poliziotto, Lou Poitras, verrà a farvi qualche domanda. Ascoltatelo e non vi creerà problemi. Non fate gli stupidi, lui non è buono come me. Attraversai la stanza per andarmene e passai davanti all'acquario. Puzzava come un gabinetto sporco. Le alghe erano fitte e invadevano le pareti. Un pesce bianco di razza indefinita galleggiava, pancia all'aria. Mi fermai alla porta e mi voltai a guardarli. — Kimberly? — Sì? — Mort era un imbecille ad essersi innamorato di te. Mise una mano sotto la maglietta e si strinse un seno. Uscii sbattendo la porta. 15 La mattina seguente mi svegliai col sole che inondava la stanza e un soave aroma di caffè. Pike era sul portico. Indossava jeans scoloriti, una felpa con le maniche tagliate e un paio di Nike blu. Aveva occhiali scuri da pilota. Lo vedi raramente senza gli occhiali da sole. Non sorride mai. Non ride mai. Lo conosco dal 1973 e non ha mai violato queste regole. È alto due metri e adeguatamente proporzionato. Ha due frecce sulle spalle che si è fatto tatuare in Vietnam. Sono puntate verso l'esterno. Era seduto col gatto in grembo. Infilai un paio di calzoncini e lo raggiunsi. — Per la miseria, la prossima volta che mi rompi il sistema d'allarme te
lo faccio ripagare. — Se sai come far scattare la serratura con una lama piatta non danneggi il sistema d'allarme, quella roba non terrà lontani i "cattivi". — Accarezzava la schiena del gatto strapazzandolo un po', come piace a loro. — Non voglio tenere lontani i "cattivi". Preferisco farli entrare e sistemarli di persona. — Dovresti farti un cane. Un buon cane da guardia è sempre armato, non hai bisogno d'altro. — Cosa? Credi che non sia abbastanza in gamba da cavarmela da solo? Non rispose. — E poi ho il gatto. Assentì. — È questo il problema. — Il gatto sibilò e gli afferrò la mano mordendola. Poi scappò a rifugiarsi sotto il grill. Pike si alzò. — Andiamo, ho già preparato la colazione. Poi usciamo a farci una passeggiata. Aveva già apparecchiato e c'era un recipiente con l'impasto per i pancakes accanto alla padella unta. — Da quant'è che sei qui? — Circa un'ora. Ti vanno delle uova? — Certo. — Circa un'ora preparando tutto questo. Io dovevo essere stato su un altro pianeta nel frattempo. Versò il caffè e controllò il tempo di bollitura delle uova col suo grosso Rolex d'acciaio. — Raccontami tutto — disse. Seduti con davanti sei pancakes a testa inzuppati di sciroppo, col burro fuso e le uova sopra, gli feci un quadro generale. — Non c'è sovrabbondanza d'informazioni utili — commentò. — Già, si potrebbe dire così. — Ti ha detto che Dom era un matador? — Sì. — I pancakes erano buoni. Mi chiesi se aveva usato della crema di formaggio nell'impasto. — Ci ho messo della crema di formaggio — disse leggendomi nel pensiero. — Cosa ne pensi? — Ottimi. — Sai cos'è un matador? — mi domandò tra una forchettata e l'altra. — Uno che lotta coi tori. Scosse la testa. — Questo è un concetto americano che non ha niente a che fare col reale significato. Se fosse una lotta il matador e il toro sarebbero sullo stesso piano. La morte del toro è preordinata. Il compito del matador è portarla a compimento. Che bella notizia di prima mattina. — Allora, cosa significa?
La bocca di Pike si contrasse. È la cosa più vicina al sorriso che sa fare. — Significa "portatore di morte". Raffinato, eh? Sorseggiai il caffè. — E tu come mai sei così informato sull'argomento? La bocca si contrasse di nuovo. — Sai che mi interesso di morti ritualizzate. Presi dell'altro pancake. — Questo è il tuo contributo al caso? — Perché, cosa stai cercando? — Un piccolo indizio, un'idea, un lampo. Un niente, in realtà. Non sono troppo esigente. — Vedremo. Andai a prendere due banane da aggiungere ai pancakes. Pike non toccò la sua. — Non riesco a capire come fai a sopportare tutti i rompiscatole che si rivolgono all'agenzia. — Se la gente non fosse così, noi non avremmo lavoro. I rompiscatole sono il nostro pane. — Mi piaceva questa frase, forse potevo chiamare Wu e farla stampare sui biglietti da visita. — Le persone come quel Mort — disse Pike — che ridono quando quelli ridono, assentiscono quando quelli assentiscono, leccano i piedi a chiunque. — Il gatto gli saltò nuovamente in grembo. — Conosco il genere. Non mi piacciono le persone senza responsabilità, ideali e orgoglio. — Il tuo problema è che non hai le idee chiare. Il gatto mi si avvicinò elemosinando del cibo. Lo ignorai. — Non è mai così semplice. — E gli spiegai di Carrie, dell'album con le foto e di quella nella piscina coi bambini ed Ellen. — Tutti hanno delle foto — sentenziò. — La gente si mette in posa per farsi fotografare. Io ho delle foto abbracciato a mio padre e sono dodici anni che non rivolgo la parola a quel disgraziato. Non replicai. Anch'io avevo delle foto. Finii di mangiare e dissi: — Mort si è venduto. Pike sedeva eretto, masticando, i muscoli tesi. Impeccabile. — No, non si è venduto. Si è perso. È una distinzione importante. Ritirai e lavai i piatti poi raggiunsi Pike fuori. Aveva il gatto in braccio e guardava Hollywood. — La gente combina guai e io cerco di rimettere un po' d'ordine. Questo è quel che so fare. E anche tu. — Che razza di modo per guadagnarsi da vivere — commentò. — Già. — Feci per rientrare. — Andiamo amico, sono pronto per la passeggiata.
16 La Jeep Cherokee di Pike era parcheggiata nel garage. Era un vecchio modello, enorme, faceva sembrare la Corvette una macchina per nani. Ci eravamo andati a pesca insieme, e ricordo che mi ero rasato specchiandomi nel parafanghi. Avrei potuto farlo anche quella mattina. — Odio le persone che trascurano la propria auto — dissi ironico. — Anch'io — rispose Pike passando un dito sulla Corvette. Il dito divenne nero. Guidammo lungo Laurel Canyon e Hollywood Boulevard. Girammo a Loz Feliz Boulevard risalendo la collina. In giornate come quella, col cielo limpido e assolato e la leggera brezza che diffonde il profumo degli eucalipti, Loz Feliz è uno dei più bei posti sulla faccia della terra. Le leggende di Hollywood sono nate e morte qui. La gente diventata ricca con la ferrovia ci aveva costruito le grandi ville che adesso venivano rimodernate e vendute per cifre favolose. Ma Loz Feliz non era più quello di una volta. Pike prese una traversa che ci portò su per un dedalo di stradine alberate. Parcheggiò la macchina davanti a un muro di recinzione che avrei paragonato a quello di Fort Knox. La strada era silenziosa. Pike scese e si avvicinò al grande cancello nero che probabilmente pesava quanto la mia Corvette. In cima campeggiava una spada con la punta ricurva. Lo seguii. Il grosso muro era coperto di rampicanti e il giardino era così fitto di olivi, querce ed eucalipti che non si riusciva a vedere l'abitazione. — La Nova è entrata qui — disse Pike. — Oltre la collinetta, su un grande spiazzo, sorge la casa. E un garage con otto posti-macchina, la piscina con gli spogliatoi e un campo da tennis. C'è anche una dépendance per gli ospiti. La casa è su due livelli. Questa è l'unica entrata, a meno che non si scavalchi il muro. Lo guardai. Alzò le spalle. — Ho dato un'occhiata. — Ho il sospetto che tu abbia scavalcato. Hai il numero di targa della Nova? Mi tese un foglietto. — Immagino che i due tipi della Nova non siano i proprietari. — Già. C'erano un altro paio di persone che si aggiravano. Tipi sospetti. Tornammo alla Jeep. — Dom — Dissi. — Già. La spada in cima al cancello. È l'estoque. È usata dal matador per dare il colpo di grazia al toro.
Lo guardai nuovamente. — Ho controllato il nome del proprietario. Domingo Garcia Duran. Non potei trattenermi dal fissarlo. La bocca di Pike si contrasse. — Hai detto che volevi qualche indizio. 17 Joe mi lasciò a casa, presi la mia macchina e guidai verso l'ufficio. Girai la chiave ed entrai. Nessun assalto, nessuno mi puntò la pistola in faccia. Andai alla scrivania, riposi la Dan Wesson nel primo cassetto di destra, mi sedetti e presi a fissare la porta a vetri. Altri detectives hanno i loro soci con cui discutere il caso, io venivo scaricato per strada e lasciato a me stesso. Percival aveva mai abbandonato Galahad? Archer abbandonava mai Sam Spade? Garrett Rice aveva parlato di una festa. Kimberly Marsh aveva detto che Mort l'aveva portata ad una festa a casa di un gentiluomo messicano di nome Dom. Mort e Dom avevano litigato a causa di Kimberly. Il giorno dopo Mort aveva chiamato Kimberly dicendole che erano nei guai. Due messicani controllavano l'appartamento di Kimberly e Joe Pike li aveva seguiti sino alla casa di Domingo Garcia Duran, dove si aggiravano altri tipi sospetti. Avevo fame. Pensai di scendere alla tavola calda sotto l'ufficio e ordinare qualcosa. Forse la biondina alla cassa aveva un debole per John Cassavetes. Quanti forse. Non sembrava possibile che Mort fosse stato ammazzato perché aveva obiettato al fatto che Dom e Kimberly Marsh andassero a letto insieme. Tipi sospetti. Presi la cornetta e feci il numero di Eddie Ditko dell'Examiner. — Che vuoi? Ho da fare. — Ecco perché mi piace parlare con te, Ditko. Sei sempre pronto ai contatti umani. — Hai bisogno di contatti umani? Io ho un problema con gli intestini e sono preoccupato di dover venire operato ed essere costretto a portare una sacca per tutta la vita. Quell'Eddie. Che uomo di classe. — Mi sai dire niente di un certo Domingo Garcia Duran? — gli domandai. — Certo, l'ho conosciuto quando lavoravo nella redazione sportiva. Un torero, un messicano. Allo stesso livello di El Cordobes e Belmonde. Ha
fatto i soldi. Ha fatto investimenti, villa ad Acapulco, grandi alberghi, faceva la bella vita. Sempre sospettato di avere affari con la malavita di Phoenix, Jersey, della Bolivia. Penso si sia ritirato intorno al '68, '69. — Ha mai oltrepassato il limite della legalità? — Credo si sia convinto che ne valeva la pena. Cosa? un paio di milioni di dollari? Molto di più. È stato fatto il suo nome riguardo a una storia di droga che delle carogne portavano dal Sudamerica. Nessuna prova. È sempre sullo yacht di Rudy Gambino. Cosa credi che Rudy voglia da lui? Tacos? Chiacchierammo un altro po' prima di riagganciare, io cercando di scroccargli dei biglietti per la stagione dei Dodgers e lui facendo finta di non avere sentito. Cocaina. Crimine organizzato. Rudy Gambino. L'omicidio cominciava ad avere più senso. Chiamai Lou Poitras senza trovarlo e lasciai detto che mi richiamasse. Feci il numero di Janet Simon. — Come va? — OK. — Il tono era indifferente. — È stata dura? — Non ce l'ho fatta — disse dopo un attimo d'esitazione. — Cosa hai intenzione di raccontare alle ragazze riguardo Ellen? — Non posso parlare in questo momento. — Che ne dici se prendo un pollo e dei panini e faccio un salto lì? — No. — Sembra che abbia chiamato nel momento sbagliato, eh? — Già. — Beh, hai sempre il mio numero. — Certo. Riagganciammo. Faceva bene sentirsi apprezzati. Decisi di telefonare alla tavola calda e ordinare il pranzo che sarei passato a ritirare. La foschia all'orizzonte prometteva un'ondata di caldo. Pensai a Mort con dei figli tradizionali, una moglie tradizionale e una vita un po' meno tradizionale. E se veramente lui e Garrett Rice facevano affari con la droga e non col cinema? Se gli era andata male? Se lui e il figlio erano stati rapiti dopo che Mort era andato a prenderlo a scuola? Ma se lui era stato ucciso, perché rapire la moglie e buttare la casa all'aria? Forse qualcuno cercava qualcosa e pensava che Ellen Lang sapesse dove Mort l'aveva messa. Forse quel qualcuno era Domingo Garcia Duran ed Ellen e Perry erano da lui adesso. Mentre con la mente rivedevo il grande cancello nero, l'uomo più grande
che avessi mai visto fuori da un campo da football entrò nel mio ufficio. Era alto più di due metri e pesava almeno centoventi chili. Non riuscivo a definire se era messicano, indiano o di Samoa. Il naso, la fronte e gli zigomi erano alti e piatti. Gli occhi scuri mi fecero pensare allo sguardo di uno squalo. Lo seguiva un individuo più basso ma grosso. Un barilotto su gambe a spillo. Questo era senz'altro messicano. Si capiva che si riteneva un duro dal modo in cui camminava, in avanti e con le braccia distanti dal corpo. Aveva i capelli impomatati all'indietro secondo il costume delle bande di ragazzini chicanos. — Avete sbagliato — li apostrofai. — L'istituto di bellezza è in fondo al corridoio. Il messicano entrò per primo. Dopo aver aperto e controllato l'ufficio di Pike, disse qualcosa in spagnolo e appoggiò il piede sinistro sulla mia scrivania. Non mi stava molto bene, e non mi piaceva neanche il rigonfiamento della sua giacca all'altezza dell'ascella. — Sei tu Elvis Cole? — chiese l'altro. Dizione perfetta, con un leggero accento. Optai nuovamente per l'indiano d'America. — Il più delle volte. In certi casi sono l'Uomo Ragno. — Domingo Duran vuole vederti. Devi venire con noi. — Non sembrava proporre alternative. Non mi affrettai. — Navajo? — Eschimese. — Caldo da quelle parti, eh? Non sembrò avere voglia di socializzare. Tirò fuori una 380 o forse una 9mm senza puntarmela addosso. — Andiamo — disse. Lo guardai a lungo. Chissà se era stato lui a premere il grilletto su Mort. Il messicano stava giocherellando con le statuette di Jiminy Cricket. Gliele tolsi di mano. Imprecò nella sua lingua. — Non capisco lo spagnolo — dissi. — Non fa nulla — replicò l'eschimese. — Tanto a Manolo non piaci lo stesso. — Di' a Manolo di togliere il suo schifoso piede dalla mia scrivania. Lui mi fissò, fece qualche passo indietro appoggiandosi allo schedario e tradusse il messaggio. — Manolo vorrebbe che lo facessi tu — mi comunicò. — Digli che farà male. Glielo disse. L'altro sbottò a ridere e mosse la mano verso il gonfiore sotto l'ascella. Gli sferrai un calcio alla gamba che poggiava in terra e dopo
averlo atterrato lo bloccai con una ginocchiata al petto. Si sentì uno schiocco e il messicano strabuzzò gli occhi. L'eschimese non aveva fatto una piega. — Ha bisogno di un dottore — dissi — probabilmente ha qualche costola rotta e forse anche danni al fegato. Manolo tossì. Gli occhi dell'eschimese erano inespressivi. Forse diventano così dopo che si guardano le orche assassine attraverso il ghiaccio per molto tempo. — Andiamo — ordinò. — Non volevo lasciarvi l'idea che fossi un tipo facile, ragazzi. — No problem. Sollevò Manolo come un sacco. Si sentì un rantolo. — Credo che quelle costole si strofinino l'una contro l'altra. — No problem — ripeté l'eschimese. Uscimmo dall'ufficio, prendemmo l'ascensore e lasciammo il palazzo. 18 Ci aspettava una Cadillac limousine nera. L'eschimese lasciò cadere Manolo nel sedile davanti e, dopo avermi perquisito, salì dietro con me. Al volante c'era un autista di origini asiatiche. — Sembra di essere all'ufficio immigrazione — esclamai. L'autista mi squadrò attraverso lo specchietto, l'eschimese mi ordinò di stare zitto e chiuse gli occhi adagiando la nuca sul sedile. Io feci come mi era stato detto. Andammo verso Santa Monica passando davanti agli Universal Studios. A San Fernando imboccammo la Ventura e guidammo a lungo. L'eschimese dormiva o faceva finta, aspettando una mia mossa, l'asiatico guidava e basta, Manolo giaceva come un sacco sul sedile, lamentandosi di tanto in tanto. Mi misi a fischiettare la prima strofa de Il ponte sul fiume Kwait. — Chiudi la bocca — m'intimò Eskimo. Sissignore. Superammo Woodland Hills e girammo per Camarillo. In estate quelle stesse colline sarebbero state desertiche. Poco dopo lasciammo la strada principale. Incontrammo solo una vecchia stazione di servizio e un mulino abbandonato. — Se vi siete persi possiamo chiedere qualche indicazione, ragazzi — suggerii. Nessun commento. Dovevo averli proprio stancati con le mie chiacchiere.
Girammo a nord-est e dopo poco passammo sotto un cancello ad arco con scritto Cachon Ranch. Proseguimmo per un paio di chilometri e ci fermammo a ciò che immaginai fosse il ranch. Un dedalo di recinti, un ufficio principale in legno e altri due più piccoli, tre capannoni. Davanti all'ufficio era parcheggiata un'altra limousine nera. Dietro, sostavano un grosso camion e quattro polverosi furgoncini. Alcuni uomini visibilmente sudati, in jeans e camicia da lavoro erano indaffarati vicino al grosso camion. — Andiamo — ordinò Eskimo. Manolo rotolò a terra dal sedile. Nessuno accorse in aiuto. Domingo Garcia Duran era appoggiato allo steccato di uno dei recinti intento a osservare un capo di bestiame. Aveva accanto un grassone con cui commentava e faceva cenni in riferimento all'animale. Doveva essere alto all'incirca uno e settantacinque, magro con fianchi stretti e spalle larghe. Indossava morbidi pantaloni di seta nera e una maglia beige che gli metteva in risalto la figura, i mocassini erano di Gucci. Aveva un aspetto ottimo. Teneva in mano una spada sottile con la punta ricurva. Eskimo mormorò qualcosa e l'uomo grasso si allontanò. Duran mi guardò e disse: — Noi due parleremo, io ti farò delle domande e tu risponderai. Poi ti darò delle istruzioni che dovrai seguire. Prima di tutto, sai chi sono? — Karl Malden. Qualcosa di pesante mi colpì la spalla. Barcollai con un lamento ma non caddi. Eskimo mi guardava. — Ti colpirà tutte le volte che desidererò — disse Duran — e dopo di lui altri ti picchieranno. Poi ne verranno altri e butteranno il tuo corpo laggiù — e puntò la spada verso le colline — così che nessuno lo ritroverà mai. — Subisco penalizzazioni se faccio domande? La cosa pesante mi colpì di nuovo. Stavolta caddi. Non sentivo più nulla dalla spalla sinistra in giù. Forse se mi avesse colpito in testa sarebbe riuscito a farci entrare un po' di buon senso. Mi sollevarono davanti a Duran. Come un burattino. — Hai tu Ellen e Perry Lang o sai che fine hanno fatto? — chiesi aspettandomi il terzo colpo. Il colpo non arrivò e Duran disse, guardandomi come fossi ritardato: — Morton Lang è venuto a casa mia e io l'ho trattato come un ospite pur non conoscendolo. Mi ha rubato due chili di cocaina. Della cocaina molto pura, di quella usata nei laboratori. Mi è stato riferito che adesso ce l'hai tu. Guardai Duran, poi Eskimo. Poi nuovamente Duran. Lui guardava la vacca. — È bellissima, vero?
— Qualcuno ti ha raccontato che la cocaina ce l'ho io? — Vieni. Voglio mostrarti qualcosa. Eskimo mi spinse dietro Duran che si dirigeva verso il recinto più grande. Il grosso camion si era fermato lì e gli uomini erano impegnati con funi e catene — Sai cosa significa toreo? — mi domandò Duran. — No. — Toreo. Poi mi avrebbe parlato della cucina Thai e infine del macramé. Gente come Duran non bisogna contraddirla. Specialmente se non vuoi venire colpito molte volte. — È imperdonabile, perché si tratta di un'arte bella e appassionante. — Sì, con tutto quel rosso. Gridò qualcosa all'indirizzo degli uomini, poi si volse nuovamente verso di me. — Ciò che accade fra l'uomo e il toro ha a che fare principalmente con la jurisdicción. Per invitare il toro allo scontro lo devi provocare, devi invadere la sua jurisdicción, il suo spazio. Ti devi offrire alle sue corna. — Mi puntò la lama ricurva al petto, non ci voleva molta forza perché entrasse nel cuore. — Il matador più coraggioso gli offre i suoi testicoli. Guardai Eskimo pensando alla possibilità di neutralizzarlo e poi colpirlo in testa. Sicuro. — Vuoi dire che l'idea di fondo è che il toro viene a prendersi la tua virilità. — Già. Scossi il capo. — Stupido. — Credo che Eskimo sorrise ma non avrei potuto giurarci. Un rumore, e la porta posteriore del camion si aprì. Ne usci fuori un giovane manzo trotterellante, non era un granché. Lo seguiva un enorme toro nero. Era difficile immaginare petto e spalle più possenti. Un Godzilla. Una scultura di Russel. Le corna si piegavano in dentro e poi in fuori. — Guarda il portamento del capo — disse Duran. — È un pundonor. È molto orgoglioso, molto geloso della sua jurisdicción. Sente di dover difendere quel che è suo. Forse Duran stava considerando l'idea di adottarlo. — Perché stava col manzo? — Cabestros. Sono amici. È per tenerlo calmo durante il trasporto. È l'istinto della mandria. — Mi fissò. — Ti offriresti ad un simile animale? — Forse se fossi armato di un lanciamissili. — Immagina cosa si sente a trovarsi alla sua mercé. — Sorrideva, forse ricordando. — Abbiamo allevato sia la madre sia il padre. Lui ha ereditato l'aspetto del padre e il coraggio della madre. Lei è molto coraggiosa. Ha
ucciso un uomo nelle Pampas. — Non ho la tua cocaina — dissi. — Non ne so niente. — Mi è stato detto il contrario. — Ti è stata detta una cosa falsa. Sono stato assunto per trovare Morton Lang. L'hanno trovato. Non so se voi ragazzi ne sappiate qualcosa. Ora sto cercando la moglie e il figlio. E credo che li abbiate voi. Mi puntò nuovamente la spada al petto. — Forse non è stato Morton Lang a rubartela, forse qui qualcuno dei tuoi amici ne sa qualcosa. — No. — Forse l'ha presa Eskimo. — No. — Senti, se Mort avesse rubato la cocaina ed ora ce l'avessi io, non tenterei di rivendertela? Fece saltare uno dei bottoni della mia camicia con la punta della spada. — Restituiscimi la mia roba e forse ritroverai la donna e il ragazzo. Si sentì uno scalpiccio, il toro si muoveva nervosamente verso l'uscita. Duran fece cenno agli uomini di non aprire. Il manzo indietreggiava impaurito. D'improvviso il toro caricò il manzo sul fianco per due volte. L'animale crollò a terra mentre il toro, le corna insanguinate, faceva un giro del recinto fra gli applausi degli uomini. Il manzo si rialzò e gli intestini gli caddero a terra con un tonfo. Barcollò ma rimase in piedi. Erano amici. Duran mi guardò, poi saltò lo steccato. Ero stato congedato. L'eschimese mi accompagnò alla macchina, Kato era ancora alla guida. — Ti accompagnerà dove vuoi tu — mi disse. — E se gli chiedo di accompagnarmi alla polizia? — Ti porterà alla polizia. — Caspita, è così facile? L'eschimese diede un'alzata di spalle. — Fai il gioco che preferisci. Il signor Duran ha pranzato al Marina oggi. E può provarlo. Ma se consideri com'è andata e come sarebbe potuta andare, non avrà bisogno di dimostrare nulla. È meglio che fai come ti ha detto. — Non ho la droga. Mi guardò. — La donna e il ragazzo — ammonii — è meglio che non gli succeda niente. Fece un mezzo sorriso e si allontanò. Salii in macchina. L'ultima cosa che vidi fu Domingo Duran che infilava
la spada nel collo del manzo che crollava a terra fra gli applausi della folla. Chiusi la portiera. 19 Mi feci lasciare sotto l'ufficio e andai a ritirare il pranzo. Me l'avevano tenuto da parte ma erano un po' seccati. Anch'io ero un po' seccato. Molto seccato. Comprai tre birre e, uscendo, diedi un pizzicotto alla bionda alla cassa. Dovevo dimostrare che ero ancora un duro. Nella segreteria c'erano due messaggi, uno dell'autoricambi da cui avevo ordinato un pezzo originale del 1966 della Chevrolet e l'altro di Lou che mi aveva richiamato. Aprii una birra. La cosa più saggia sarebbe stato chiamare la polizia, come avevo consigliato anche a Ellen Lang. Il più delle volte gli agenti scoprono il nascondiglio e salvano i sequestrati. La polizia federale è pronta a rifornirti di tonnellate di statistiche che lo dimostrano. Finii la prima birra e attaccai la seconda. Il panino era freddo e stantio. La schiena mi doleva e anche la mano con cui avevo colpito l'amico di Kimberly Marsh. Non riuscivo ad immaginare Morton Lang che portava via due chili di cocaina da casa di Domingo Duran. Cercare di entrarci in affari e non riuscirci è un conto, un altro fare una mossa del genere sotto il suo naso. Ci voleva fegato. Anche Garrett Rice non mi colpiva per il suo coraggio. Forse qualcun altro. Chiunque altro. Eskimo, i due della Nova, il grassone del ranch. Addirittura gli italiani di cui aveva parlato Kimberly. Chissà. Magari invece proprio Mort aveva preso la droga ed Ellen lo sapeva, per questo non aveva voluto la polizia. Magari la droga era seppellita nel cortile della casa, ad Encino. Aprii la terza birra. Non era possibile. Non conoscevo Mort, ma Ellen Lang l'avevo vista, le avevo parlato. Se Mort avesse rubato i gioielli della corona a Londra, lei ne sarebbe rimasta all'oscuro.. Era andata a fare la spesa e probabilmente stava pensando a come la vita le era andata male, da che aveva lasciato il Kansas, quando due uomini l'avevano fermata, pronti a dimostrarle che c'era anche di peggio. L'avevano portata da qualche parte e le avevano fatto del male. Lei doveva aver provato molta paura. Ma dopo un po', passato il terrore iniziale, aveva pensato a me. Il Cavaliere Bianco. L'Ammazza Draghi. Il Salvatore di donzelle. "Ce l'ha il signor Cole" aveva detto, sia per toglierseli di dosso, sia perché io potessi capire e correre in aiuto. Forse.
Finii il panino e la terza birra. Va bene, Ellen. Sono il tuo uomo. Domingo Garcia Duran mi aveva fatto prelevare da due delinquenti e mi aveva parlato come si parla ad un cane che non può riferire niente di quel che gli viene detto. Non che io avessi molto da riferire. Potevo collegare Mort a Duran per una festa di cui avevano parlato sia Kimberly che Garrett Rice, ma Duran aveva già ammesso la circostanza ed era pronto a confermarla. Non aveva ammesso di aver sequestrato Ellen e il figlio. Tutto ciò che sapevo era che Mort aveva telefonato a Kimberly dicendo che avevano guai con un certo Dom. Bell'affare. Potevo riferire tutto alla polizia e lasciare la patata bollente a loro. Forse neanche questo preoccupava Duran. Forse era talmente ammanicato che avrebbe potuto interferire nelle indagini. E se non poteva lui, Rudy Gambino poteva. Rudy Gambino, Cristo. L'avevo visto prima di partire per la guerra, a Houston. Usciva dal Whitworth Hotel circondato da una folla di avvocati e giornalisti. Stava andando in tribunale per venire processato. L'accusa era corruzione di minorenne, violenza, percosse e sodomia su una bambina di dodici anni. Quel Rudy, che uomo. Era stato assolto. Finii di bere la birra e la bottiglia andò ad aggiungersi alle altre vuote. Sabato, dopo la partita dei Dodgers, di vuoti ce ne sarebbe stato un mucchio di tutto rispetto. Chiamai Lou Poitras. — Sai dirmi niente su un certo Domingo Garcia Duran? — Ha un'officina ad Alvarado. — È un altro Duran. Questo faceva lotte coi tori. È ricco, ha investimenti, conoscenze altolocate, roba del genere. — Ha qualcosa a che fare col caso Lang? Ignorai la domanda. — Frequenta Rudy Gambino. Non mi sapresti dire quanto è potente? — Intendi dire se può sempre farsi ritirare una multa, o roba del genere? — Roba del genere. — Non mi hai risposto, Mastino. — No. Non ha niente a che vedere col caso Lang. Ci fu un silenzio. — OK. — E riappese. Mi vergognavo di me stesso. Galahad che mente a Percival. Presi la macchina per scrivere e stesi un rapporto completo cominciando da quando Ellen Lang aveva messo piede nel mio ufficio. Feci delle copie e ne misi due nello schedario. La terza la imbustai e indirizzai al mio recapito personale.
Scesi per spedirla e comprare una boccetta di aspirine. Ne masticai quattro mentre la bionda alla cassa mi guardava. Risalii in ufficio. Presi altre due aspirine e pensai al da farsi. Sapevo che Ellen e Perry sarebbero rimasti vivi sinché Duran riteneva di poterli scambiare con la droga. Forse potevo andare a casa sua di notte, puntargli la pistola in bocca e dirgli di rilasciarli. O potevo firmare un assegno falso, comprare della droga e tentare il baratto. In ogni caso Ellen e Perry sarebbero dovuti sparire. Non avrebbe lasciato testimoni. Il che significava che anche Elvis doveva sparire. Guardai gli occhi del Pinocchio. Ritratto d'investigatore: giovane uomo in cerca di un piano. Chiamai l'ufficio di Garrett Rice. Una voce femminile mi disse che non c'erano né lui né Tyner. Provai a casa. Magari Rice sapeva qualcosa che non aveva detto e potevo "persuaderlo" a rivelarmela. Al quindicesimo squillo riagganciai. Non sempre i piani funzionano come prestabilito. Tirai fuori il biglietto col numero di targa della Nova e chiamai la motorizzazione. Mi qualificai e chiesi l'indirizzo del proprietario della macchina. Poco dopo me lo diedero. Le aspirine avevano aiutato la mia schiena. Presi la pistola, la misi nella fondina e indossai la giacca. Erano passate da otto minuti le quattro. Non avevo ancora un piano. Ma forse ce l'avevano quelli della Nova. Forse potevo prenderlo in prestito. 20 Quaranta minuti dopo ero in una zona residenziale della vecchia Los Angeles, tra Echo Park e lo stadio dei Dodgers. Le case — bungalow dal tetto piatto, intonacati in color bianco sporco o sabbia o giallo — avevano un portico dove invariabilmente c'erano tricicli, grandi vasi di gerani, donne messicane su sedie a dondolo. C'era odore di impasto per tortillas e di chili. Era un profumo buono, pulito. Alla motorizzazione avevano detto che la macchina apparteneva ad Arturo Sanchez, che viveva nella quarta casa su quella strada. La Nova non era nel vialetto. Parcheggiai nella prima traversa, sotto il cartellone pubblicitario delle Virginia Slims. Hiciste mucho Progresso, Chiquita! Comprai un taco e del tè freddo e mi sedetti in modo che potessi vedere la casa di Sanchez. Poco dopo la Nova entrò nel vialetto, e la controfigura di Charles Bronson, dall'aria piuttosto abbattuta, ne scese e si avviò verso casa, prendendo a calci una lattina che era in terra. Entrò.
Io rimasi in attesa. Il sole tramontò e le macchine cominciarono ad accendere i fanali. L'aria si rinfrescava. L'uomo del tacos prese a guardarmi incuriosito e sospettoso. Gli uomini rientravano dal lavoro con l'aria distrutta. Mi avvicinai al telefono pubblico fingendo di usarlo. Dopo la quarta finta telefonata tornai a sedere. L'uomo continuava a fissarmi. Erano quasi le otto quando Sanchez uscì di casa. Avviò l'auto mentre un donnone gli gridava qualcosa dalla porta. Una sgommata e si allontanò. Lo raggiunsi davanti allo stadio, il traffico era scarso, imboccammo la Stadium Way. A un certo punto svoltò in una strada affollata senza neanche mettere la freccia. I bastardi si riconoscono sin dalle piccole cose. Si fermò davanti a una palazzina d'appartamenti. Un tipo montò in macchina. Basso e compatto, una struttura da sollevatore di pesi. Riprendemmo a guidare verso nord. Arrivati a Loz Feliz Boulevard ebbi una sorpresa. Invece di voltare in direzione della villa di Duran l'autista della Nova andò dalla parte opposta. Si fermarono a un negozio di liquori poi continuarono verso le colline di Hollywood. Spensi i fari cercando di farmi guidare dai loro. Le luci di Hollywood e Los Angeles erano quasi ipnotiche, si rischiava di perdercisi. Quando rividi la macchina, era parcheggiata vicino ad un bungalow bianco. Spensi il motore e tolsi il freno a mano, facendo scivolare la vettura in un parcheggio un po' indietro. Impugnai la pistola e scesi. Potevo sentire i battiti del mio cuore. Succede, quando hai veramente paura. C'erano tre uomini nel soggiorno. Sanchez, il sollevatore di pesi e un terzo che stava infilandosi la maglietta. Aveva una discreta collezione di tatuaggi fra ragni, teschi e donne nude. Ridevano. Dietro di loro c'era un breve corridoio che portava a quel che sembrava la cucina. Girai attorno alla casa e vidi una piccola camera da letto. C'era Ellen Lang seduta in una sedia. Aveva le mani legale e un sacchetto di carta calato sul capo. Feci il giro di tutte le finestre alla ricerca del ragazzino. Non c'era. Un'entrata di servizio immetteva direttamente in cucina. Sentivo gli uomini ridere. Forse se avessi urlato Al fuoco! sarebbero scappati. Tirai il grilletto della pistola ed entrai. La cucina non doveva essere stata pulita di recente. Qualcuno si era divertito a costruire una piramide di lattine di birra vuote. Dalla mia posizione potevo vedere la schiena di Sanchez. Feci un passo e voltai nella cameretta dov'era Ellen Lang. La sentivo respirare. Mi avvicinai piano per non spaventarla.
— Non parli e non si muova. Sono io — bisbigliai. Per un attimo immaginai fosse la fine, che lei sussultasse o cadesse dalla sedia. Invece no. Rimase immobile, il corpo teso. Le tolsi il sacchetto dalla testa e le sciolsi le mani. Gli occhi erano gonfi e arrossati e mostrava un segno bluastro vicino alla bocca, ma questo era tutto. — Puoi camminare? Fece cenno di sì. — C'è anche Perry? Scosse la testa. — Ora le sfilerò le scarpe. Dobbiamo voltare a sinistra e uscire dalla cucina. Lei andrà avanti io le coprirò le spalle. Fece cenno di avere capito. Le sfilai le scarpe e gliele porsi. In quella sentimmo il rumore dello sciacquone e un uomo basso e robusto, con in mano la pagina sportiva del Times, uscì dal bagno. Disse qualcosa in spagnolo in direzione della cucina, poi si voltò e mi vide. Gli sparai due colpi al petto, cadde riverso. Spinsi Ellen Lang verso il corridoio. Il sollevatore di pesi sparò colpendo lo stipite della porta, schegge di legno mi entrarono nella guancia. Gli sparai in viso e trascinai Ellen attraverso la cucina e fuori verso la macchina. L'uomo coi tatuaggi uscì dalla porta sul davanti e sparò cinque colpi. Poi rientrò. Alcune luci si accesero. Scaraventai Ellen Lang dentro la Corvette, misi in moto e mi allontanai travolgendo due bidoni della spazzatura. Stavo tremando e la camicia era fradicia di sudore, inoltre avevo problemi a vedere bene la strada. Guidai piano, cercando di allontanarmi. Probabilmente investii un cane. A Beachwood mi fermai in una stazione di servizio aspettando che il tremore passasse. Dopo guardai Ellen Lang. Era di un pallore spettrale. Immobile, non tremava, non piangeva. Pensai che non doveva sentire nulla. Le toccai la mano. Era gelata. — Hai bisogno di un dottore? Scosse la testa. Mi tolsi la giacca e gliela misi addosso. L'uomo della stazione si sporse, probabilmente chiedendosi cosa facessimo lì al buio e decidendo se venire a controllare o no. Decise di no. Chiusi gli occhi. Avevo ucciso sicuramente un uomo se non due. Sarebbe arrivata la polizia e non avrebbe gradito. Non ero contento neanch'io. La sentii parlare: — Mort è stato ucciso, vero? Mi volsi a guardarla. — Sì. — Aveva rubato la droga come dicevano loro? — Non lo so.
Rimanemmo seduti in silenzio un altro po'. Poi avviai il motore e mi immisi nel traffico di Laurel Canyon. 21 Guidavo dolcemente lasciandomi sorpassare dalle altre macchine. Ellen teneva lo sguardo fisso davanti a sé mentre le raccontavo le cose che sapevo. Parlò solo due volte, per chiedermi come stavano le ragazze e per rispondermi "no" quando le domandai se voleva che l'accompagnassi da loro. Parcheggiammo ed entrammo in casa. Mi guardò mentre chiudevo a chiave la porta d'entrata. Rimase in soggiorno, io andai a prendere due bicchierini in cucina. Quando tornai teneva in mano uno dei miei coltelli per la carne. Glielo sfilai sostituendolo con un bicchiere con ghiaccio e whisky. Bevvi il contenuto del mio d'un fiato e lo riempii di nuovo. Il Glenlivet è perfetto per far sembrare tutto normale dopo che hai ucciso qualcuno. Le mostrai le camere lasciando accese tutte le luci a mano a mano che ci spostavamo. Volle controllare dentro tutti gli armadi e sotto i letti. Le mostrai che tutte le finestre erano chiuse dall'interno e il sistema d'allarme inserito. Quando arrivammo al bagno grande le indicai dov'erano le cose e le diedi un accappatoio perché potesse fare un bagno. — Ho una tuta da ginnastica lasciata da un amico che dovrebbe andarti bene — le dissi. — Tu dove sarai? — In cucina, devo fare delle telefonate e voglio preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Mi ringraziò e chiuse la porta. Aspettai di sentire scorrere l'acqua, mi versai dell'altro whisky e scesi. Davanti allo specchio, con un paio di pinzette, estrassi le schegge dalla guancia. Era come giocare a caccia al tesoro. Alla fine controllai l'opera. Nessun danno permanente. Almeno, nessuno visibile. Dalla cucina telefonai a Lou Poitras. — Sai che ore sono? — si lagnò. — Ho i bambini a letto. — Ellen Lang è qui da me. Per liberarla ho dovuto uccidere un paio di persone a Beachwood Canyon, in una casa subito dopo l'indicazione per Hollywood. Mi disse di aspettare e si trasferì su un altro apparecchio. — Hai anche il ragazzino?
— No. — Sei a casa? — Sì. — Tutta questa storia ha qualche relazione con le tue domande su Domingo Duran? — Sì. Ci fu un silenzio. Quel genere di silenzio che fa rumore. — Sei un imbecille, Elvis. Arrivo tra qualche minuto. Riappese. Imbecille. Quel Lou, che mattacchione. Chiamai Joe. Rispose al primo squillo. Ansimava, come avesse appena finito di correre o di fare qualche centinaio di flessioni. — Pike. Sentivo lo stereo acceso. I Doors. — La faccenda si è fatta interessante. — Gli raccontai brevemente i fatti. Non fece domande o commenti. — Mi vesto e sono da te. Pike dice che Clint Eastwood parla troppo. Tirai fuori uova, panna, funghi e una padella. Stavo tostando il pane quando Ellen Lang entrò in cucina rimanendo appoggiata allo stipite della porta. Indossava l'accappatoio ed aveva l'aria pulita. Sembrava più giovane e forse, se ce ne fosse stato motivo, avrebbe anche sorriso. — Come va? — le chiesi. — Devi essere molto stanco — disse — lascia fare a me. — Non c'è problema — risposi. — Non essere sciocco — insistette. — Non hai avuto una giornata facile. Se proprio vuoi fare qualcosa, prepara il caffè. — Sorrise, quel genere di sorriso di quando si sa che bisogna sforzarsi di farlo. Come per Mort. Ma negli occhi le si poteva leggere la disperazione. Sorrisi come niente fosse e le lasciai il posto davanti ai fornelli. Aprì tutti gli sportelli e sostituì la panna con l'olio di arachidi. Potevo riconoscere Carne in quei movimenti. — Io uso sempre la panna — dissi. — Voi uomini. La panna toglie la morbidezza alle uova. Vuoi farti una doccia prima di mangiare? — No. Preferisco farla più tardi, grazie. Si muoveva nella cucina come io non ci fossi. O qualcun altro fosse lì al posto mio. Bevvi dell'altro whisky. Per apparecchiare dovette spostare la Dan Wesson che avevo lasciato sul tavolo. Io andai a prendere i tovaglioli. La trovai con la pistola in mano,
stava odorando la canna. — Ecco i tovaglioli — dissi. M'invitò a sedere e servì le uova. Presentò i piatti con una foglia di menta, delizioso. Versò il caffè e chiese se volevo latte e zucchero. Domandò se desideravo qualcos'altro. Risposi di no. Disse che nel caso non ci sarebbe stato problema. Replicai che se fosse stato il caso avrei parlato. Cristo, volevo urlare. Cenammo in silenzio. Finì col mangiare più di me. Andava bene così. Io ero felice col mio whisky. Dopo l'ultimo boccone tirò un sospiro di sollievo. Sembrava che il suo corpo si fosse liberato di dieci anni di avvelenamento continuo. — Stanno arrivando un paio di amici — la informai. — Uno è Joe Pike, il mio socio nell'agenzia. L'altro è Lou Poitras, un sergente di polizia. È anche un amico. Probabilmente ci faremo due chiacchiere. Va bene? Sorseggiava il suo caffè. — Se avessi lasciato interferire la polizia quando me l'avevi consigliato, Mort sarebbe ancora vivo? — No. Era già morto. Non c'era niente che potesse aiutarci a salvarlo. Continuò a sorseggiare il caffè, io a bere il mio whisky. Fu così che ci trovò Poitras quando arrivò. 22 — OK, cominciamo — disse Lou. Raccontai tutta la storia. Ellen ascoltava attenta, come stesse prendendo appunti sulla sua stessa vita. Cercai di essere più breve possibile quando arrivai alla parte su Mort e Kimberly alla festa da Duran. Dopo che ebbi terminato, Lou andò in cucina a telefonare. — Stai bene? — chiesi ad Ellen toccandole il braccio. Si strinse nelle spalle. Finita la bottiglia di Glenlivet attaccai col Chivas. In fin dei conti non c'era molta differenza. Poitras rientrò e chiese ad Ellen di raccontare la sua versione. Quando vide la nuova bottiglia di whisky mi guardò male. Ricambiai l'occhiata. Ellen parlò con calma e precisione. Disse che due uomini l'avevano avvicinata e costretta a salire sulla loro macchina. Le avevano messo un sacchetto sulla testa e avevano guidato per un po'. C'era musica messicana di sottofondo. Le avevano detto che Mort aveva rubato la cocaina. Che l'avevano ucciso ed avrebbero ucciso anche lei se non avesse detto dov'era la droga. Non avevano creduto che lei non ne sapesse niente. L'avevano toccata sul seno e in mezzo alle gambe minacciando di violentarla, anche se
non l'avevano fatto. Uno aveva portato Perry e lo aveva schiaffeggiato mentre continuava a domandarle della droga. Lei aveva pregato di lasciar stare il ragazzo ma loro avevano seguitato a maltrattarlo. Fu allora che aveva fatto il mio nome. L'uomo aveva portato via il ragazzo e lei non l'aveva più visto. La guardavo e soffrivo per lei mentre raccontava. La voce le si spezzò solo quando parlò di Perry, per il resto si controllò. Doveva essere una ragazza piuttosto forte quella che era arrivata dal Kansas. Quattordici anni di vita con Mort l'avevano ridotta a ciò che Janet Simon aveva accompagnato in ufficio tre giorni prima. Mi domandai se sarebbe mai tornata ad essere quel che era. È mai possibile che qualcuno ci riesca? Quando ebbe finito, Poitras mi guardò accigliato e chiese: — Sei in grado di parlare e connettere? Continuai a bere. Poitras si scusò con Ellen, si alzò e mi fece cenno di seguirlo in cucina. Portai il bicchiere con me. Lui si versò del caffè e mi domandò se ritenevo che Mort avesse rubato la droga. — Credo che ci sia coinvolto in qualche modo ma che non sia stato lui. È qualcuno dall'interno o forse Garrett Rice. Dubito però che gli uomini di Duran siano stati così stupidi da fare una cosa del genere. Quindi rimane Rice. — L'abbiamo cercato senza fortuna — disse Lou. Mi guardava sempre più con un'aria di disapprovazione. — Abbiamo parlato con la tua amica Kimberly Marsh. Il suo ragazzo ha avuto qualche problema. — Il problema di quel ragazzo è che è un po' troppo goffo. — Cominciavo ad avere difficoltà a rimanere in piedi, ma potevo ancora farcela. — Credi che Kimberly possa essere coinvolta? — Le sarebbe piaciuto. Però non avrebbe avuto il modo. Era vestita col meno possibile e non credo portasse una grossa borsa, quindi non poteva nascondere tutta quella polvere. — Così, adesso Duran ha il ragazzino... Mi avevi chiesto quanto potere avesse Duran, ricordi? Lo guardai. Avevo difficoltà nel metterlo a fuoco. — Abbiamo prove sui contatti tra lui e il clan di Rudy Gambino per traffici a Phoenix e Los Angeles, sin dal '64. I federali lo definiscono un complice pulito, non si muove direttamente ma sempre tramite gente come Gambino. Hanno cercato di incastrarlo un paio di volte. Possiede alcune
banche a Mexico City e una a New Orleans. Gambino finanza la sua agenzia pornografica tramite la banca di New Orleans e divide con Duran. Ti è chiaro adesso che genere di potere ha? — Sì. — Già. — Raggiunse Ellen in soggiorno. — Signora Lang, chi era l'uomo che ha portato suo figlio? — Non l'hanno nominato. Parlava spagnolo con gli altri ed in inglese con Perry. Ma non era spagnolo, l'accento era diverso. — Probabilmente Eskimo — notai. — Ha visto qualcuno che poteva essere Domingo Duran — continuò Lou — o ha sentito quegli uomini fare qualche riferimento a lui? Lei volse lo sguardo verso di me. Un po' di paura era tornata. — Cosa c'è che non va? — Non si sta divertendo. È entrato tardi nel gioco e non è soddisfatto delle nostre carte. — Non avete nessuna carta. — Poitras aveva un aspetto triste e rabbioso. Come l'omino della Michelin con un brutto mal di testa. — Mi avresti dovuto avvertire appena avevi qualche sospetto, Elvis. — Di cosa sta parlando? — chiese Ellen Lang. — Che problemi ci sono? — I primi segni di panico. — Il problema è che Duran può smentire tutto — risposi — anche la mia testimonianza. Soprattutto perché le persone al posto giusto lo appoggeranno. Negherà ogni cosa, di sicuro non troveremo Perry a casa sua. Tutto ciò che avremo sarà il nome di Perry legato a quello di un tale Sanchez. — Uscì ancora più brutto di quel che era, ma ce l'avevo con Lou ed ero troppo ubriaco per controllarmi. — Più o meno è così — confermò Lou. Ellen Lang sbiancò e un angolo della bocca cominciò a tremarle. Le strinsi le mani. Il tremore cessò. — Sto bene — disse. Il telefono squillò e Lou andò a rispondere. Versai del whisky nella tazza del caffè di Ellen. — Andrà tutto bene — cercai di rassicurarla col mio poco convincente sorriso da "è-tutto-sotto-controllo". Infatti lei non sembrò convinta. Vidi la grossa mano di Eskimo sulla spalla di Perry mentre salivano sulla limousine nera. Li vidi sparire dietro le colline e Domingo Duran che con la spada ricurva puntava in quella direzione dicendo: Poi ne verranno altri e butteranno il tuo corpo laggiù, così che nessuno lo ritroverà mai. Mi versai dell'altro Chivas e andai in cucina perché Ellen non mi vedes-
se. Quando finì di parlare al telefono Lou si rivolse a me. — Come avevi pensato, ne hai fatti fuori due. La casa è intestata ad un certo Louis Foley. I vicini dicono che si è trasferito a Seattle due mesi fa e che la casa è stata messa in vendita. Probabilmente avranno tolto il cartello e forzato la serratura. — Sei grande. Ti promuoveranno tenente con Baishe dopo questa scoperta. Mi guardò. — Stai tirando la corda, Mastino. — E tu ti stai comportando come uno stupido insensibile con quella donna. È passata attraverso l'inferno, ha appena perso il marito e il figlio è in mano a quella gente. Non ha bisogno di sentire tutte le tue storie sul fatto che non abbiamo niente in mano al momento. Mi ero avvicinato molto alla sua grande faccia. — Fai un passo indietro, Elvis. La cucina era silenziosa. Il gatto entrò. Lo sentii brontolare per aver trovato un estraneo in cucina. Poi il rumore del cibo secco per gatti. — Sei ubriaco, amico — disse Lou piano. Assentii. — Hai trovato la donna e non il bambino. Hai dovuto sparare. Ti conosco e so che ne avresti fatto a meno ma non hai avuto scelta. È un peccato che il bambino non ci fosse ma tu non ne hai colpa. Sentivo gli occhi bruciarmi. Presi dell'altro Chivas. La voce divenne ancora più calma. — Ti fai coinvolgere sempre un po' troppo durante le investigazioni. Ti innamori sempre un po'. — Vai all'inferno. Poitras svuotò il mio bicchiere nel lavandino e andò vicino ad Ellen. Lo vidi mormorarle qualcosa e lei assentire sorridendo. Il gatto mi si strusciò sulle gambe e iniziò a fare le fusa. Un po' di amore era proprio ciò di cui avevo bisogno. Mi volsi verso Lou: — Grazie. — Anche ubriaco ci sai sempre fare — disse. Misi a bollire del caffè. Intanto Poitras era nuovamente al telefono prendendo appunti. Quando il caffè fu pronto ne portai una tazza ad Ellen che però si era addormentata con la tazza vuota in mano. Le toccai il braccio. Si svegliò. L'accompagnai a letto, dove si raggomitolò in posizione fetale, con gli occhi aperti. Grandi, umidi occhi da cerbiatto. Sentii un buco allo stomaco, doveva essere quella parte che il whisky non aveva riempito. — Ho paura — disse.
— Non ne hai motivo — la rassicurai. — Io non fallisco mai. Mi guardò, poi si riaddormentò. Quando ridiscesi, c'era Joe fermo nell'ingresso. La cornetta del telefono era sollevata come Lou l'aveva lasciata sentendo il mio socio arrivare. Lou stava in piedi davanti a Pike, la pistola abbandonata lungo il fianco. Rimase lì un momento, poi tornò a riagganciare il telefono. — Tutto a posto? — mi chiese Joe. — Sicuro. Vuoi qualcosa da bere o da mangiare? Scosse la testa. Intanto Lou era tornato. Il gatto stava dando il benvenuto a Pike strusciandoglisi contro le gambe. — Bene, bene — commentò Joe. — Il grande poliziotto. La faccia di Poitras era inespressiva come quella di un agente che stai cercando di convincere a levarti la multa. — Se hai voglia di allenarti un po', sai dov'è la palestra — fece Lou. La bocca di Pike si contrasse. Le spalle di Lou sembravano essersi allargate a riempire quasi tutto il soggiorno. — Vediamo se ho una birra per questi amici che son venuti a trovarmi — dissi. Mr. Diplomazia. La bocca di Pike si contrasse di nuovo. Non staccò gli occhi da Lou. — È qui la donna? Risposi di sì. — Hai intenzione di passare la notte qui? Assentii ancora. Poitras fissava Pike. Sembravano due pantere alla difesa del proprio territorio. — Starò nei paraggi. Fai un fischio se hai bisogno di me. — Si avvicinò alla porta voltandosi verso Poitras prima di uscire. — Dovremmo vederci più spesso Lou. — Vai a farti ammazzare, Pike. Un'altra contrazione della bocca e Pike uscì. Il gatto lo seguì. Il livello di tensione della stanza scese di almeno trecento gradi. — Dovrei invitarvi a cena uno di questi giorni — dissi — magari una festa. Poitras mi squadrò. — La prossima volta che quella carogna è nei paraggi, mi avverti prima. — Contaci Lou. Andò a fare l'ennesima telefonata; quando tornò in soggiorno il volto era rilassato. Come non avesse mai incontrato Pike. — Forse possiamo trovare il modo d'incastrare Duran — mi comunicò.
— Già. — Hai intenzione di rimanere in gioco? — Duran si aspetta la droga da me. Forse se avessi quella roba potrei convincerlo a scambiarla col ragazzo e potremmo anche riuscire ad incastrarlo. — Certe volte usi il cervello come un buon poliziotto — si complimentò Lou. — Abbiamo tutti dei momenti di debolezza. — Pensi che Duran tenga così tanto alla droga? — Non credo che gli importi molto della cocaina in sé. È soprattutto perché qualcuno gliel'ha soffiata in quel modo da sotto il naso. Ha un grosso senso della proprietà. — Macho — disse Poitras con un sorrisetto. Feci un cenno di sì. — Forse possiamo accordarci. Forse posso procurarti la roba. Sto contattando le persone giuste. — Come Baishe, per esempio? — Non diventi tenente se non vali qualcosa, Mastino. E questo vale anche per Baishe. — La mia fiducia ne è accresciuta. — Ecco perché ci diamo da fare al dipartimento. Per accrescere la tua fiducia. — Mise il blocco degli appunti in tasca. — Domattina passa in centrale. Se accade qualcosa prima, avvertimi. Potrebbero esserci sviluppi e dovrai seguire le nostre istruzioni. — Non potremmo agire da professionisti, invece? Poitras digrignò i denti. — Sai una cosa, Mastino? Mi sembra di aver capito che Duran fosse convinto di avere un accordo con te. Tu invece liberi la donna e uccidi un paio dei suoi. Potrebbe essere molto seccato. Potrebbe anche venirti a cercare. — In quel caso c'è Pike pronto. La faccia di Lou s'irrigidì. Aprì la porta. — Hai cattivi gusti in fatto di soci. — Chi altro si assocerebbe con me? Rimasi sulla soglia sinché Lou si fu allontanato. Nel buio sentii il gatto e Pike conversare. 23
Mi rasai e feci una doccia. La casa era silenziosa. Mi piaceva la mia casa, come l'ufficio. Spensi le luci che avevo acceso per tranquillizzare Ellen Lang. Presi sei aspirine, poi stesi un sacco a pelo sul divano e mi ci sdraiai sopra. La testa mi fluttuava nel whisky, mi misi a sedere. Era troppo tardi per il programma sportivo. Forse potevo rivedere una replica di The Thing con Ken Tobey. Quand'ero piccolo, Ken Tobey combatteva contro mostri provenienti da altri pianeti e vinceva sempre. Questo era il trucco. Ogni carogna aveva quel che gli spettava. Il gatto rientrò e mi saltò in grembo. Mi misi ad accarezzare il pelo freddo per la brezza notturna. Accarezzandolo mi addormentai. Ebbi incubi in cui mischiai Domingo Duran armato di spada che mi veniva incontro, tori mostruosi con stivali da eschimese, poi il toro diventavo io. Mentre stavo per essere incornato con qualcosa che ricordava un arpione, mi svegliai nel buio della mia casa. Ellen era in piedi davanti alla porta a vetri, guardando Hollywood. Il gatto mi scivolò da sotto il braccio allontanandosi. Non si mosse. Io rimasi in ascolto; percepivo i rumori della casa il lieve soffio del mio alito. Poi, sottovoce per non spaventarla, sussurrai: — Lo troveremo. Si voltò, il volto nell'ombra. — Non volevo svegliarti. — Non mi hai svegliato. Si avvicinò alla poltrona accanto al divano senza sedercisi. Io ero fuori dal sacco a pelo e sentivo un po' freddo, ma non mi mossi. Potevo distinguere il suo volto, adesso. Sotto i riflessi blu della luna. — Non hanno voluto credermi — disse. — Ripetevo loro che non ne sapevo nulla, ma era inutile, poi hanno portato Perry. Continuavano a schiaffeggiarlo e a toccarmi, dicevano che mi avrebbero violentata davanti a lui se non avessi parlato. Allora ho pensato a te. Ho detto loro che l'avevi tu. — Hai fatto bene. — Mi dispiace. — Non devi preoccuparti. — Non era giusto. Mi vergogno di me. Sollevai il gatto e me la misi a fianco. — Ti va del caffè? — No, grazie. — Se hai fame posso preparare qualcosa. Scossi la testa. — Se avrò bisogno di qualcosa andrò a prendermela. Ma
grazie per esserti offerta. Si accovacciò nella poltrona. — Vuoi che accenda la luce? — Se desideri. Lasciai la luce spenta. Dopo un po' il gatto si stiracchiò con un miagolio. — Non sapevo che avessi un gatto — disse Ellen. — Non ce l'ho infatti. Abita qui perché sa che lo rifornisco di cibo e birra. Non cercare di accarezzarlo. È cattivo e morde. Sorrise. — Inoltre è uno sporcaccione pieno di germi. Il sorriso si allargò per un attimo, poi scomparve. Fuori un elicottero della polizia volava basso sopra il canyon. Da piccolo vivevo in una casa vicino a un aeroporto ed avevo il terrore che aerei ed elicotteri mettessero in fuga Babbo Natale spaventandolo. Molti anni più tardi, in Vietnam, mi trovai ad esultare sentendo il frastuono dei motori: significavano la salvezza. Ellen parlò calma: — Non so se ci sono soldi. Non so se posso dar da mangiare ai miei figli e pagare le scuole, le spese di casa e il resto. — Controllerò la polizza assicurativa per te. Alla peggio venderai la casa. In ogni caso ti conviene liberarti della macchina di Mort. I ragazzi possono frequentare le scuole pubbliche. Ti adatterai facilmente, e anche loro. Era immobile. — Non sono mai stata sola. — Lo so. — Mi chiesi cosa stesse facendo Pike. — Hai i tuoi figli e ci sono anch'io. Quando questa faccenda sarà risolta rimarremo sempre in contatto. Sono un investigatore a pieno servizio. Sono a disposizione per un anno. Come l'uomo della Shell. Nessuna reazione. Forse rideva solo quando si parlava di gatti. Guardai il gatto ma non ne ebbi particolare ispirazione. — E poi c'è Janet. — Che rinforza la mia immagine perdente. — Ti mantiene umile. — Sei molto dolce nel cercare di mettermi di buon umore. Grazie — mormorò. Guardava fuori della finestra. Io guardavo lei ed immaginavo la ragazza del Kansas. La graziosa ragazza che sarebbe stato bello portare a una partita di football in una sera fredda e tenere vicina, una ragazza che avrebbe gridato di gioia per la squadra e che sarebbe stato bello abbracciare. Dopo
un bel po' disse: — Deve essere bellissimo vivere qui. — È vero. — Ci sono coyotes? — Sì, nella riserva sopra le colline. Guardò il gatto. — So che vanno a caccia di gatti. Un mio amico che vive a Nichols Canyon ne ha persi due in questo modo. Carezzai la testa dell'animale, larga e piena di cicatrici. Una bella testa di gatto. — Dimmi — fece — come si fa a vivere così a lungo con una persona conoscendola così poco? — Puoi conoscere solo quel che ti viene mostrato. — Ma io ho vissuto con Mort per quattordici anni. Conosco Garrett Rice da cinque. Ho saputo che c'erano altre donne soltanto dopo otto anni di matrimonio. Ora vengo a sapere di questa storia della droga. — Le labbra si muovevano appena. — Diceva che ero io. Che lo stavo uccidendo. Diceva che certe notti, steso sul letto, pregava che morissi o pensava a modi per farmi soffrire. — Tu non c'entravi niente. — E allora come poteva essere così, una persona che non conoscevo per niente, sua moglie. Cosa dice questo di me? — Significa che ti sei fidata di un uomo che non lo meritava. Significa che ti sei abbandonata completamente perché lo amavi. Si può giudicare il comportamento di Mort, non il tuo. — Ho fatto tanti sbagli. È stata tutta una grossa bugia. Ho trentanove anni e mi sembra di avere gettato la mia vita. — Guardami. Ubbidì. — Quando sposi qualcuno e gli dai la tua fiducia ti aspetti che questa persona sia sempre disponibile. Non deve filare tutto liscio, tu non devi essere perfetta. Ma avete fatto un patto e senza che neanche tu volti lo sguardo devi essere sicura che l'altra persona è lì. Quando tu ne hai avuto bisogno, lui non c'era. Non c'era da molto tempo. I suoi problemi non lo giustificano. Tutti ne abbiamo. È lui che ha vissuto la menzogna, non tu. È lui che ha gettato via la vita, non tu. Mosse il capo. — È così spietato quello che dici. — Mi sento spietato verso Mort in questo momento. — Respiravo sentendo ancora qualche postumo della sbronza. La stanza era più calda. Sedemmo così. La luce lunare delineava i muscoli del mio ventre e le
mie cosce. — Non intendevo lamentarmi. — Ti è stato fatto del male, ne avresti tutti i diritti. Prese un respiro profondo. — Sei un uomo molto bello. Già. Si sporse toccando con l'indice una cicatrice che avevo sullo stomaco. — Cosa ti è successo qui? Come mi toccò, i muscoli dello stomaco e del bacino si contrassero. Il suo dito era molto caldo, quasi bollente. — Ho avuto uno scontro con un uomo in Texas, mi ha ferito con un pezzo di vetro. Fece scorrere il dito sulla ferita. Mi alzai tirandola verso di me. Mi si strinse al petto e sussurrò qualcosa che non capii. Andammo in camera e facemmo l'amore. Mi chiamò Mort. Dopo la tenni stretta, passò molto tempo prima che s'addormentasse. Fu un sonno agitato e senza riposo. 24 La mattina quando lasciai il letto il cielo era color arancio vivo. Ellen era già sveglia e aveva caricato la lavatrice con gli indumenti che aveva indossato dal momento in cui era stata fermata nel parcheggio del supermercato. Quando mi fui lavato e vestito la colazione era già pronta. — Ho chiamato Janet — m'informò. — Che bel modo per cominciare la giornata. — Le ho chiesto di raccontare alle ragazze che sono dovuta andare a San Francisco per un paio di giorni. Credi abbia fatto bene? — Penso sia saggio che tu non vada a casa. Assentì. — Puoi rimanere qui. Il gatto entrò attraverso la sua porticina. Poi bussarono alla porta e Joe Pike fece il suo ingresso. Era umido di rugiada come il gatto. — Una pattuglia è passata prima dell'alba. A parte questo, niente. Gli presentai Ellen. — È quello della foto — notò Ellen. In camera da letto c'erano le istantanee di quando eravamo andati a pesca insieme. — Sono l'unico della foto — replicò lui enigmatico. Poi uscì. — È fatto così — spiegai. — Il signor Pike è il tuo socio?
— Già. — È rimasto lì fuori tutta la notte? — Tutta la notte. — Perché? — Per proteggerci. Per quale altro motivo? Joe rientrò con una borsa da viaggio e una custodia per fucile. Tirò fuori una pistola 357 Phyton e due scatole di munizioni. Andò a sedersi al tavolo vicino ad Ellen a sistemare l'artiglieria. Lei seguiva i suoi movimenti come un gatto segue quelli di un canarino. Pike era in uniforme: Levis' scoloriti, Nike blu, calzettoni bianchi, Rolex d'acciaio e felpa con le maniche tagliate. Quando ogni cosa fu sistemata a suo modo, le rivolse la parola: — Mi dispiace per i guai che sta passando. Lei tentò un sorriso. — Hai voglia di mettere qualcosa sotto i denti? — Sei gentile, ma per il momento no. Grazie. Stava in piedi vicino a lei che sembrava ancora più piccola al confronto con la sua mole e il suo potenziale di violenza. Non credo che lui se ne rendesse conto. Avveniva con quasi tutte le persone che conoscevo, anche uomini più alti di lui. Tutti tranne Lou Poitras. Joe andò in cucina. Lei lo seguì con lo sguardo. — Non avrai nulla da temere adesso. Ora che i rinforzi armati sono qui, nessuno potrà avvicinarsi. Lei continuava a guardarlo. — Passerò a casa tua prima di andare alla polizia. Hai bisogno di vestiti o altre cose? — Sì. Anche il mio spazzolino da denti. È quello verde. — Vuoi venire con me? Guardava per terra. — No, non me la sento di tornare lì per il momento. Guidare verso Encino fu piacevole in quell'ora del giorno, senza traffico. Parcheggiai nel vialetto ed entrai dall'ingresso. Una casa non è mai così calma come quando la famiglia è assente. Presi una busta dalla cucina e andai in bagno. Oltre allo spazzolino infilai altre cose che pensai potessero essere utili. Anche una serie completa di prodotti per il trucco. Non si sa mai. In camera da letto selezionai un po' di biancheria intima, dei jeans, pantaloni di cotone e qualche maglietta. Controllai la polizza. Ammontava a duecentomila dollari ma erano già stati chiesti alcuni prestiti. Rimanevano quarantamila dollari. Non era una fortuna ma sempre qualcosa. Diedi uno sguardo per la pistola di Mort. Niente. Venti minuti dopo le otto lasciavo la macchina nel parcheggio del dipar-
timento di polizia della zona nord di Hollywood. Salii all'ufficio investigativo. Poitras era vicino alla scrivania e parlava con Griggs. — Entra — disse vedendomi. — Buonissima giornata a te, Lou. Un uomo alto e biondo sedeva nell'ufficio. Era elegante e con un aspetto molto professionale. Aveva una camicia beige e una cravatta gialla con un disegno a piccoli cammelli. Seta. Era radioso: pareva uno di quei tizi, tutti pelle e ossa, che si alzano all'alba e si fanno tre set di tennis al club. Lo inquadrai nel genere "Studio legale Stanford". — Questo è O'Bannon — disse Lou presentandolo. — Il viso di Lou era diventato duro. — Delle Operazioni Speciali. Non mi offrì la mano. — Dell'ufficio centrale della Magistratura della California. Collegato alle Operazioni Speciali — precisò lui. Molto bene. — È così che ti presenti alle ragazze che cerchi di rimorchiare? Fece un sorriso da pesce lesso. — No, solo ai tipi in gamba che ne hanno stesi due a Beachwood Canyon. Vuoi continuare? Li ammaestrano bene a Stanford. — Credo di no. Quindi raccontami del tuo incontro con Duran. Iniziai da Ellen e Janet nel mio ufficio ma fui interrotto. — Poitras mi ha fatto un resoconto generale. Voglio sapere solo dei tuoi contatti con Domingo Duran. Cominciai da Manolo e l'eschimese nel mio ufficio. Mi compiacqui della mia storia. È fàcile quando sorvoli sulle parti in cui non fai una bella figura. O'Bannon prese appunti su ogni cosa. Mi ricordava Jimmie Olsen, solo più antipatico. Quando ebbi terminato mi guardò come fossi la più grossa delusione della sua vita. — Tutto qui? — Posso inventarmi qualcos'altro, se preferisci. — La donna di Lang ha avuto contatti diretti con Duran? — Il suo nome è Ellen, o signora Lang. O'Bannon mi diede uno sguardo da "mi-stai-facendo-perdere-temporagazzo". Ne ricevo parecchi di questi sguardi. — No, nessun contatto diretto. Rimise il taccuino in tasca attento a non fare pieghe sul vestito. Bisogna avere classe per appartenere alle Operazioni Speciali. — Bene — disse. — Puoi dirle che più in là andremo ad interrogarla. Guardai Lou. — Più in là?
O'Bannon assentì. — Ci sono problemi? — Credevo ci fosse qualcosa da fare subito. Sai, sciocchezze come quella del figlio rapito. — Questo caso passa alle Operazioni Speciali. Ne sei fuori. Ci occuperemo noi dell'inchiesta. Poitras disse lentamente: — Qualcuno all'ufficio centrale ha deciso che le Operazioni Speciali sono più adeguate per questo genere d'indagini. — Cosa diavolo significa? — scattai. La voce gli uscì fuori odiosa. — Secondo te cosa diavolo significa, Elvis? Ti sei bevuto un riduttore d'intelligenza stamattina? Ne siamo fuori. È finita. — O'Bannon — dissi — c'è un bambino di nove anni in mano a quella gente. Non c'è bisogno di alcuna stramaledetta indagine. Hai tutti gli elementi per agire. O'Bannon prese qualcosa dalla scrivania e la infilò nella sua valigetta di pelle. — Se ne occuperanno quelli delle Operazioni Speciali, Cole. Ne sei fuori. Non provare ad avvicinarti a Duran o a metterti in mezzo in qualunque modo. Fai un passo del genere e ti faccio ritirare la licenza per violazione al codice degli investigatori privati della California. È chiaro? — Scommetto che ti senti proprio un duro, O'Bannon. Vero? M'indirizzò lo sguardo del vincitore e lasciò la stanza. Non mi mossi per un po'. Poi mi alzai, chiusi la porta e tornai a sedere. — Chi ha ordinato di chiudere il caso, Lou? — chiesi a bassa voce. — Non è stato chiuso. Se ne occuperanno altre persone. Questo è tutto. — Stronzate. Gli occhi di Lou si fecero piccoli. Qualcuno bussò alla porta. Lou divenne rosso. — Avanti! — urlò. La porta si aprì e Griggs entrò. Richiuse e si appoggiò alla porta, le braccia conserte. Erano le dieci del mattino e sembrava già stanco. — È sempre sequestro di persona, Lou — insistetti. — Non puoi passarlo ai federali. Griggs disse calmo: — Conosci le regole. Una volta che cerchi aiuto in alto, loro devono riferire ed è fatta. — È stato Baishe a metterli in mezzo? — Maledizione, non è colpa di Baishe — tuonò Lou. — Hai Baishe nel cervello. Lui era con noi. — Cosa racconto ad Ellen Lang? — Raccontale che se ne occupano quelli delle Operazioni Speciali. Che
probabilmente passeranno ad interrogarla. — Più in là. — Sì. Più in là. — Devo dire così anche a Duran quando telefona? — Tu non devi avere rapporti con Duran altrimenti O'Bannon userà i due cadaveri di Beachwood contro di te. — Questo puzza di gente venduta! — protestai. — Duran ha fatto un paio di telefonate. Lou si appoggiò allo schienale, sembrava guardare le foto sullo schedario. — Fuori di qui, Elvis. Mi alzai e mi diressi alla porta. Griggs si spostò e l'aprì. Guardai Lou. — Sai se la pattuglia di Lancaster ha per caso trovato una Walther 32 automatica nell'auto di Lang? — E io cosa diavolo ne so? — Ne aveva una. — Arrivederci. Uscii. Sentii qualcosa di duro colpire il pavimento. Continuai a camminare. Scendendo incontrai Baishe. Il suo viso sembrava più stanco e vecchio. Mi fermò. — Ho incaricato una pattuglia di tenere d'occhio la casa di Duran. Non ho potuto fare altro. Ci salutammo con un gesto del capo, lui salì all'ufficio investigativo e io tornai alla macchina. 25 L'abitacolo era un forno. Pensai a Perry e a sua madre e al fatto che O'Bannon volesse farle alcune domande. Più in là. Perry sicuramente stava divertendosi. Eskimo gli stava mostrando come si mangia la carne di balena e Manolo lo portava in giro nella sua bella macchina. Duran invece gli insegnava lo stile perfetto per una verònica. Certo, magari quando gli avessi comunicato che il caso era passato alle Operazioni Speciali si sarebbe seccato e avrebbe interrotto le lezioni. Allora sarebbero cominciati i problemi. Tirai fuori dal portafoglio la licenza e mi misi a guardarla. La piegai e la rimisi a posto. Al diavolo, O'Bannon. Dieci minuti dopo attraversavo il parcheggio dei Burbank Studios diretto all'ufficio di Garrett Rice. Bussai alla porta chiusa a chiave. L'interno era buio. Bussai all'ufficio accanto.
La porta era aperta e una biondina stava sfogliando una copia di Daily Variety. Sollevò le sopracciglia quando entrai, una cosa che mia madre aveva fatto abbastanza spesso. — Sa se il signor Rice è qui? — Non credo. Sheila se ne è andata da almeno mezz'ora. — Sheila è la sua segretaria? — Già. Sei un attore? — Assomiglio a John Cassavetes, vero? Scosse la testa. — No. Hai l'aria dell'attore. Affamata. Le elargii uno dei miei sorrisi migliori e ridiscesi le scale rumorosamente. Attesi qualche secondo, poi risalii in silenzio. Forzai la serratura dell'ufficio di Rice ed entrai. Non era cambiato nulla dalla mia ultima visita. Stessa mobilia scadente, stessa macchia sul divano, le piante in fin di vita. Fra i contratti e i resumé degli attori sparsi sulla scrivania, c'erano svariate lettere di diffida per ulteriori violazioni sui diritti d'autore. Dietro le carte scorsi un vasetto di marjuana, due pacchetti di cartine e tre riviste pornografiche: Lesbian Delights, Women in Pain e Little Lovers. In quest'ultima, gli attori erano dei bambini. Presi un respiro profondo e mi sentii stanco. Capita spesso di sentirsi stanchi in questo mestiere. Strappai Little Lovers e lo buttai nel cestino. Andai vicino alla finestra e diedi fuoco alle immagini dei bambini e a quel che qualche animale aveva loro fatto fare. Se Garrett Rice fosse entrato in quel momento, probabilmente avrei dato fuoco anche a lui. Continuai l'ispezione senza trovare niente d'interessante. Niente cocaina. In un cassetto scovai una busta, con l'annullo postale del giugno 1958. Era un messaggio di Jane Fonda, scritto a mano. Diceva che le era piaciuto molto lavorare con Garrett che, secondo lei, era un produttore di prim'ordine. Era firmato con affetto, Jane. Gli angoli del biglietto e della busta, grigi e macchiati, stavano a indicare che Rice aveva letto spesso quelle righe. Dall'ufficio della segretaria presi un biglietto da visita su cui era scritto anche l'indirizzo di casa che non avevo. Provai a telefonargli. Dopo ventidue squilli riappesi. Forse era andato a pranzo fuori un po' in anticipo. Chiamai la segreteria telefonica all'ufficio. Niente. Non mi piaceva, dopo quel che era successo qualcuno avrebbe dovuto farsi vivo. Chiamai a casa. Uno squillo. — Pike.
— Ho bisogno del numero di telefono di Cleon Tyner. È nell'agenda sul comodino accanto al letto. Dopo qualche minuto Pike mi diede il numero. — Come sta Ellen? — Bene. Le piace prendersi cura della gente. — È la sua specialità. — Sta tirando a lucido la casa. Se arrivi, probabilmente ti lava anche la macchina. Com'è andata alla polizia? Glielo raccontai. — Operazioni Speciali — commentò. — Balle. — Sì, non è molto credibile. — Poitras è pulito. Non ti creerà problemi. — Poitras è nella nostra stessa posizione. Ho parlato con un bastardo di nome O'Bannon. Ma nessuno sa chi c'è dietro. — Cosa c'entra Cleon con tutta questa faccenda? — Lavora come guardia del corpo per Rice. Ma non ce lo vedo invischiato in storie di droga. Lo conosci. — La gente cambia. — Tu non sei cambiato dal '75. — Gli altri cambiano. Riappesi. Feci il numero di Cleon. Rispose una voce femminile e roca da cantante di bar. Scherzai un po' con Betty, la sorella di Tyner. Poi mi disse: — Beh, visto che ancora non mi hai chiesto di sposarti significa che cerchi mio fratello. — Sorprendente. Non solo sei sexy, sei anche sveglia. — Cleon sta lavorando. Non lo vedo da un paio di giorni. — Ha lasciato la città? — Non lo so. Mi ha detto soltanto che avrebbe passato un paio di giorni con un cliente che era in pericolo ed era terrorizzato. Ci salutammo con la promessa di risentirci. La ragazza dell'ufficio accanto uscì. Non si accorse di me. Uscii anch'io e tornai alla macchina. Mi diressi verso casa di Garrett Rice. Rice viveva in un'elegante villa comprata probabilmente negli anni sessanta e pagata un quarto della cifra a cui sarebbe stata venduta oggi. Un muro di cinta la divideva dalle abitazioni adiacenti. Ogni casa aveva molto verde, soprattutto edera e alberi di banane. Il tipo di posto in cui era facile
dimenticare il mondo esterno. Sulla porta c'era ancora il biglietto di Poitras. Suonai il campanello. Nessuna risposta. Bussai. Inutilmente. Non c'erano macchine parcheggiate e il garage era chiuso. Tornai alla macchina per riflettere sul da farsi. Poitras aveva detto di averlo cercato un paio di giorni prima, quindi Rice non aveva visto il biglietto o l'aveva lasciato lì apposta. O forse Garrett Rice aveva chiesto la protezione di Cleon per poter dormire sonni tranquilli mentre organizzava un viaggio chissà dove con i soldi ricavati dalla cocaina. Ma Cleon sarebbe dovuto rimanerne all'oscuro. Sapevo per esperienza che non sopportava né la droga né gli spacciatori. Bel dilemma. Accesi il motore. Ero stanco di riflettere e sedere, sedere e riflettere. Mi allontanai. Probabilmente lasciai la metà del copertone Goodyear sull'asfalto. 26 In fondo a Sunset Plaza mi fermai in una gelateria da dove chiamai Pat Kyle alla General Entertainment per chiederle se aveva novità su Mort o Garrett. Si fece lasciare il numero della gelateria e promise che mi avrebbe richiamato di lì a poco. I minuti strisciavano lenti, pesanti. Mangiucchiavo il gelato e, per impedirmi di pensare a Perry Lang a Ellen Lang e a Domingo Duran e a un tizio che si chiamava O'Bannon, cercai di concentrarmi sulla ragazza al banco. Si accorse che la fissavo e ricambiò lo sguardo. Non doveva avere più di sedici anni ed era graziosa, a parte il trucco e i capelli gialli e neri. Mi disse che assomigliavo ad Andy Summers dei Police. Tenebroso, intelligente e sensibile come lui. Forse se tutti si tingessero i capelli gialli e neri il mondo sarebbe un posto migliore. Il telefono squillò. — Scusami, ma avevo gente. — Era Pat. — Non c'è problema. Mi sono innamorato nel frattempo. — Allora forse dovrei richiamare più tardi, lasciarti il tempo per consumare la relazione. — Non credo che possa venire più consumata di così. Novità? — Niente riguardo Mort, ma ho avuto una conferma su Garrett. È un noto cocainomane, ospite fisso a tutti i party perché ha sempre qualcosa con sé.
— Vuoi dire che le voci che girano sul party di Hollywood sono vere? — No. Intendo dire che le voci su alcuni dei party sono vere. — Come l'hai saputo? — L'amica di un amico. È una fonte diretta. — Patricia, se dovessi smerciare due chili di cocaina in quell'ambiente, a chi ti rivolgeresti? Si mise a ridere. — Ti rivolgi alla persona sbagliata, io sono in piena salute e del tutto estranea alla droga. Cosa ne direbbe l'amica di un amico? — Non so come si chiama. — Non puoi chiedere in giro? Mi faresti un favore. — Non lo so. Forse avrebbe paura. — È molto importante. Un sospiro. — OK. Ti richiamo fra poco. Ritornai al mio posto e ripresi a guardare la ragazza al banco. — Che c'è? — chiese. — Sai tenere un segreto? — Sicuro. — Un farabutto, un tizio messicano, tiene in ostaggio un ragazzino. In cambio vuole una partita di cocaina. Sto cercando di mettere le mani sulla cocaina e poi trattare la liberazione del ragazzino. Forse ce la faccio anche a incastrare il farabutto. — Balle! — disse scoppiando a ridere. — Balle un accidente! Sono un investigatore privato! — Ah, sì? — Vuoi che ti mostri la pistola? — Lo so cosa vuoi mostrarmi. Che cinismo! In quel momento squillò il telefono. — La mia reputazione è probabilmente compromessa. Sono stata invitata ad uno di quei party. — Hai il nome? — Barry Fein. Garrett potrebbe essersi rivolto a lui. La ringraziai e chiamai il dipartimento di polizia. — Lou Poitras, per favore. — Non c'è. — Griggs è lì? Una pausa. Griggs venne al telefono. — Sono Cole. Avete niente su un certo Barry Fein?
— Devi essere scemo. Cosa credi che sia questa? Una biblioteca pubblica? — Considerando quel che ho visto stamattina non mi sembrava neanche un posto di polizia. Riagganciò. Sospirai e rifeci il numero. Chiesi di Griggs. — Scusami — dissi — ho detto una sciocchezza. So che non vi state divertendo con questa storia. — Ci puoi giurare, amico. Poitras e Baishe sono alla sede centrale cercando di sollevare l'inferno per questa storia, quindi l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è il tuo sarcasmo. — Mi puoi dare l'indirizzo di Fein? — Aspetta un attimo. Poco dopo Griggs era di nuovo all'apparecchio. — Fein è un maledetto spacciatore. — Già. — Ci si aspetta che tu stia alla larga da Duran. — Lo so. Ci fu una pausa durante la quale sentii i rumori di sottofondo di un posto di polizia. Voci, squilli di telefono, macchine per scrivere. — È 11001 Wilshire, appartamento 601. Si trova a Westwood. — Grazie. — Cole, se le persone sbagliate vengono a sapere che ti ho passato questa informazione per me non sarà divertente. — Quale informazione? — Già — disse Griggs, e riappese. Lasciai un biglietto da visita sul bancone. — Se qualcuno ti dà fastidio, fammi un fischio. Assentì con un breve, timido sorriso. Lasciai la gelateria e presi la macchina diretto a Westwood da Barry Fein. 27 Il 11001 di Wilshire è un elegante palazzo a nove piani bianco e grigio tutto vetrato. Gli annunci immobiliari del Times lo descriverebbero "residenza extralusso". Di fronte all'entrata erano parcheggiate una Rolls e una Jaguar. Alla reception c'era un agente di sicurezza probabilmente molto fiero di poter chiamare l'ascensore per gli inquilini, consegnare la posta e bloccare i visitatori indesiderati all'entrata.
Mi appostai vicino all'entrata del garage, fra i pioppi californiani. Quando spuntò il muso di una Cadillac verde bosco mi intrufolai nel garage. Il parcheggio del 601 era occupato da una Porsche 928 blu e da una DeLorean metallizzata. Barry Fein era in casa. Mi resi conto che per usare l'ascensore del garage avevo bisogno di un pass e le scale mi avrebbero condotto in bocca all'agente di sicurezza. Tornai all'entrata e uscii. Mi avviai attraverso Westwood Village. Sembrava il centro di una città universitaria. Piccoli ristorantini, negozi d'abbigliamento sportivo, librerie, gallerie d'arte e negozi di dischi. Molte biciclette. Entrai in una cartoleria per comprare una busta, un rotolo di scotch, un timbro che stampava URGENTE, l'inchiostro e delle targhette adesive con scritte come "maneggiare con cura". Tornato alla macchina presi una scatola vuota di biscotti McDonald e la infilai nella busta. Chiusi e scrissi Signor Barry Fein. L'avvolsi nel nastro, stampai svariati URGENTE e attaccai un po' di targhette. Lo piegai in due e lo pestai coi piedi. Contemplai l'opera. Convincente. Tornai al 11001 di Wilshire e andai alla reception. — Ho qualcosa per il signor Barry Fein — dissi. L'agente mi squadrò e tese la mano. — Ci penso io. — Doveva aver superato la cinquantina. Aveva un viso largo e occhi che non ti perdevano di vista. Ex-poliziotto. Scossi la testa. — Consegna personale. — Le consegne personali le effettuo io. Le trattative andarono avanti per un po' sinché gli dissi di chiamare Fein e di avvertirlo che c'era un pacco da parte del signor Rice. Alla fine decise di farmi passare, ma prima che salissi mi fece lasciare l'artiglieria. — La troverai qui quando scendi — mi assicurò. Presi l'ascensore sino al sesto piano. Moquette grigio azzurro, pareti bianche e lampade moderne. Mi chiesi se era abitato. Forse c'erano solo degli androidi che giacevano a letto tutto il giorno alimentati tramite tubi. Davanti al numero 601, un uomo biondo e abbronzato mi attendeva. Non doveva avere più di ventiquattro anni, una struttura fisica costruita in palestra. Tipo Pike ma basso. Non più di un metro e settanta. — Il signor Fein? — chiesi. — Io sono Charles. Viene da parte del signor Rice? — La voce era più acuta ed infantile di quel che avrei immaginato, come quella di un sensibile quattordicenne. Troppo basso per questo genere di lavoro.
Charles prese la busta e mi aprì la porta. Le nocche delle dita erano larghe e gonfie, tipiche di chi pratica il pugilato. Forse l'altezza non era un problema per lui. Mi fece strada in una stanza molto luminosa e tutta in toni pastello. L'arredamento ultramoderno stonava col mobile-bar rosso. Anche Barry Fein, che stava sorseggiando del cognac, stonava con l'ambiente. Era basso, secco e scuro con braccia e gambe molto pelose. Indossava dei bermuda e una maglietta con la scritta "RKO Pictures". Era scalzo. — Sei tu il ragazzo che ha mandato Gary? — Charles gli consegnò la busta. — È canapa indiana? — chiesi. Mi guardò. — Garrett Rice, stupido. Gary. — Beh, veramente no. — Cosa intendi dire? — Poggiò il bicchiere. C'era una stecca di Marlboro sul tavolo e un pesante Zippo. Il posacenere era pieno di mozziconi. Forse dovevo presentarlo a Janet Simon. Potevano farsi una bella fumata assieme. Barry Fein aprì la busta e vide la faccia di Ronald McDonald. — Che diavolo è questo? — Posso tirare fuori il portafogli e mostrarti qualcosa? — domandai. Charles mi guardava pensieroso. — Non sarai un poliziotto? — sibilò Barry. Gli mostrai la licenza. — È molto importante che tu mi dica se Garrett Rice ha tentato di venderti due chili di cocaina. Barry fece una smorfia e si volse verso Charles. — Parla sul serio o cosa? Charles sorrise benignamente. Forse era un bonaccione. — Ascoltami — dissi — mi spiace di avere usato l'inganno per parlarti ma non credo che altrimenti mi avresti fatto salire. Non ho intenzione di crearti problemi. È possibile che Garrett Rice abbia rubato due chili di cocaina purissima a un uomo molto cattivo. Quest'uomo la rivuole e ha un bambino in ostaggio. Garrett se l'ha rubata avrà cercato di venderla, e tu sei la persona a cui si sarebbe rivolto. Barry fece un cenno a Charles. — Sbattilo fuori. Guardai Charles. — Sono deciso, Barry. Non ce la farebbe a fermarmi. Charles fece un fischio e dal balcone entrò la sua copia sputata con un innaffiatoio in mano. Uguali sino alle nocche delle mani. — Abbiamo qualche problema, Jonathan — fece Barry.
Jonathan mi si piazzò davanti a gambe larghe. Charles era poco dietro. Stessa pelle e sguardo vago. Angeli idioti. — Attraenti, Barry — dissi. — Scommetto che a letto sono stupendi. — È arrivato il momento di andarsene — disse Charles prendendomi il braccio. Io gli versai addosso la bottiglia di cognac. Jonathan mi colpì con forza ma non abbastanza perché ero in movimento. Presi lo Zippo e diedi fuoco a Charles. Il cognac s'infiammò subito e lui cadde a terra urlando. Jonathan accorse dimenticandosi di me. Io presi una sedia e gliela spaccai sulla schiena. Tentò di rialzarsi ma cadde con un lamento. Barry era in ginocchio fissandomi. — Cristo — continuava a ripetere. Come una preghiera. Presi a scuoterlo. — Credi che stia scherzando, Barry? Dimmi di Rice. Cercò di divincolarsi. Lo schiaffeggiai. — Stai fermo! — Cristo, gli hai dato fuoco. — Cosa sai di Rice? — Sono un paio di settimane che non lo sento. — Non ha tentato di venderti la droga? — Lo giuro su Cristo. — Non ti ha raccontato niente? — No, no. — Guardava Charles oltre le mie spalle e poi nuovamente me. — Cristo, Cristo. — Dammi il pass d'ingresso al palazzo. Andò al bar e mi consegnò la tesserina. — Rice ha due chili di cocaina da laboratorio — dissi — se cerca di venderla si verrà a sapere. Chiedi in giro. Tornerò domani e tu avrai delle informazioni utili per me. Chiaro? — Cristo. Mi avvicinai a controllare Charles. Aveva la fronte annerita e in un paio di punti cominciava a sanguinare ma niente di preoccupante. Il cognac brucia rapidamente. Le ciglia erano andate. Mi alzai. — Ricorda, Barry. Non sfidare la Torcia Umana. Lasciai l'appartamento e presi l'ascensore. Uscendo mi fermai a ritirare la pistola dalla guardia che mi augurò una buona giornata. 28 Non avevo molte alternative nell'attesa di informazioni da Barry Fein. Potevo andare a rimuginare a casa o in ufficio, e qui magari avrei ricevuto
la telefonata di Duran o dell'eschimese. Decisi di andare in ufficio. Salii le scale senza far rumore, impugnando la pistola. Se le segretarie dell'agenzia di assicurazioni mi avessero visto in quel momento sarei stato un bello spettacolo. Oh, guarda, Elvis ha paura che qualcuno gli spari un'altra volta! Girai la maniglia ed entrai. Nessuno sparò. Nessuno appeso al soffitto mi saltò addosso. Non c'era neanche Eskimo accovacciato dietro la scrivania. Salvo un'altra volta. Nessuna chiamata nella segreteria. Eppure qualcuno doveva farsi vivo. Forse Poitras aveva ragione e Duran avrebbe pensato Al diavolo! E avrebbe mandato qualcuno a farmi fuori. Oppure poteva telefonare e dire semplicemente Dammi la droga o uccido il bambino. Cosa avrei potuto fare in questo caso? Tirai fuori la Dan Wesson e l'appoggiai sulla scrivania; se Eskimo fosse entrato, forse avrebbe potuto scambiarla per uno di quegli accendini da tavolo moderni e non farci caso. Sedetti in attesa. Dopo tre ore il telefono squillò. — Agenzia investigativa Elvis Cole. La voce dell'eschimese. — Hai fatto un grosso sbaglio, signor Cole. — Farebbe differenza dire che mi dispiace? — Sappiamo che la donna è a casa tua e che c'è un uomo armato con lei. Il signor Duran era convinto che avresti fatto quel che ti era stato detto, ma tu hai tradito la sua fiducia. — Non ho potuto fare diversamente. — Noi abbiamo ancora quel che abbiamo. — Lo so. — Il signor Duran vuole sempre riavere la sua roba. Vai a casa adesso. Riagganciò. Nessun accenno allo scambio. Chiamai a casa. Pike rispose al secondo squillo. — Ho appena parlato con l'eschimese — gli annunciai. — Sanno che Ellen è lì e che ci sei tu con lei. Ci fu una pausa. — Spie. Hanno fatto appostare qualcuno sulla collina o in una casa abbandonata nel canyon. — È meglio che rimanga lontana dalla scrivania e dal portico. — È inutile. Se avessero voluto spararci avrebbero potuto farlo decine di volte. Ne abbiamo parlato, avremmo dovuto tirare tutte le tende e rinchiuderla nel bagno. Sarebbe stato peggio, per lei. — L'eschimese mi ha detto di andare a casa. Ci deve essere una ragione. — Forse l'idea di chiudere le tende non è poi sbagliata — disse Pike.
— Fallo senza allarmarla. — Già. — Abbiamo bisogno di qualcosa? — Non credo. — Sto arrivando. Quando entrai Pike stava preparando la cena ed Ellen lo guardava, non era a suo agio. Probabilmente avrebbe preferito essere al suo posto. Le tendine erano tirate. — Cosa c'è per cena ragazze? — Mr. Nonchalance. Rispose Pike: — Polenta, zampetti di maiale, riso e fagioli rossi. — Aveva ancora indosso la pistola e gli occhiali da sole. — Non ha voluto che l'aiutassi. — Ellen aveva in mano un bicchiere con whisky e ghiaccio. Aveva l'aria di aver sorseggiato tutto il giorno. — Non fa avvicinare nessuno quando cucina — dissi con aria di comprensione. Spostai le tende per aprire la finestra e le riaccostai. — Buona idea — fece Pike, — l'aria è un po' viziata. — Era più facile sentire i rumori esterni con la finestra aperta. — Janet ha chiamato — disse Ellen. — Splendido. — Era preoccupata. Mi appoggiai alla porta del bagno. La finestra si affacciava sul davanti della casa. Chiunque fosse arrivato doveva entrare di lì. L'accesso sul retro è troppo scosceso per consentire un attacco da quella parte. Sorseggiava il whisky. — Voleva farmi parlare con le ragazze. Le ho detto di no. Non avrei saputo cosa dire. Non credo sarei stata in grado di parlare senza piangere. Assentivo cercando di ascoltare i rumori esterni senza che lei lo notasse. — Janet dice che devo essere forte adesso, e io non so se lo sono abbastanza. Ho trentanove anni e non voglio essere debole. Non voglio avere paura. — E non averne allora — disse Pike. Sia io che Ellen lo guardammo. Stava versando delle cipolle tritate in un recipiente. — Non averne — ripeté lei. — Questa Janet è una tua amica? — Certo. Lui scosse la testa e mise il recipiente nel congelatore.
Il telefono squillò. Risposi io. Una voce grossa con accento messicano disse: — Il ragazzino vuole parlare con la madre. — Chi è? — Passami la madre. Diedi il ricevitore a Ellen facendole cenno di aspettare mentre andavo a prendere la linea sulla diramazione. Lei era confusa. Quando fui all'altro telefono: — Perry — le dissi piano. Lei sbottò: "Perry"? Pike le si avvicinò. La voce disse: — Ascolta. Ci fu un rumore, un lamento e una voce di bambino che lanciava un urlo che mi fece gelare il sangue. Ellen lanciò un urlo a sua volta, mentre Pike cercava di toglierle la cornetta. Si divincolò schiaffeggiandolo. Lui la strinse a sé, lei lo morse, sinché gocce di sangue gli colarono dal mento e dalla mano, macchiandogli la felpa. Lui continuava a stringerla. Gridai qualcosa nel microfono. L'urlo non smetteva. La voce grossa continuò: — Non riprovarci. — No — dissi. — Il ragazzo è ancora vivo come puoi sentire. — Sì. — Sentivo anche che stavo per svenire. — Ti richiameremo. Guardai Pike mentre tenevo ancora in mano il ricevitore muto. 29 Ellen urlò e pianse e infine rimase immobile, ma il suo dolore era diventato qualcosa che si avvertiva fisicamente nella stanza. Pike andò nel bagno di servizio e tornò con la mano fasciata e gialla per la tintura di iodio. — Hai del valium o qualche altro calmante da darle? — chiese. Dissi di no. Lui uscì. Io versai del whisky e lo porsi a Ellen. Lei scosse la testa — È tutto il giorno che bevo. — Sei sicura di non volerlo? — Sì. — E un abbraccio? Singhiozzava sommessamente mentre la tenevo stretta. Dopo un po' disse: — Voglio lavarmi. Prese la busta con gli indumenti che le avevo portato e salì le scale. Sen-
tii l'acqua scorrere a lungo. Accesi la radio per il notiziario serale. Ellen ridiscese. Si era cambiata, e il viso era pulito e inespressivo. Sembrava meno vulnerabile della prima volta che l'avevo incontrata. Disse qualcosa che mi sorprese. "Dio, potrei fumare una sigaretta". L'idea che avevo di lei era quella di una persona che non avesse mai fumato. — Quando Joe rientra ce ne facciamo dare un paio — le dissi. Scosse la testa. — No. Ho smesso sei anni fa. Da un giorno all'altro. Janet dice che diventa pazza dopo un giorno senza fumare, ma quando io ho voluto ho smesso e basta. — Non è facile. — Cosa ha detto la polizia? — mi domandò. Pensai di inventare una storia ma non me ne venne in mente nessuna decente, perciò dissi: — Se ne occupano quelli delle Operazioni Speciali adesso. — Che significa? — Ne ho parlato con Joe stamattina. Non ti ha detto niente? Scosse la testa, così le spiegai come stavano le cose. Quando ebbi terminato mi chiese un bicchiere d'acqua. Tornai dalla cucina con l'acqua. Non aveva cambiato espressione. Come se il fatto che qualcuno della malavita, attraverso la politica, potesse interferire e pilotare le indagini della polizia fosse una cosa normale e senza importanza. — Cosa ne dice il sergente Poitras? — chiese. — Non può opporsi ma non è d'accordo. Lui e il tenente sono andati alla sede centrale per cercare di capire chi sta manovrando tutto questo. — Già — si limitò a dire e finì di bere l'acqua. — Mia figlia più grande, Cindy, mi odia. Dice sempre che se fossi stata una moglie migliore suo padre sarebbe stato più felice. — Parlò come stesse dicendomi che preferiva le scarpe di pelle a quelle di stoffa. — Si sbaglia. — Ho cercato di fare del mio meglio. — Lo so. — Ho tentato. — Ho controllato la polizza. Ci sono un po' di soldi. Non mi chiese quanti. Sorseggiai il whisky che avevo versato per lei. — Ascolta, troverò la droga e chi l'ha presa e ci metteremo d'accordo con Duran. Poi interverrà Poitras e lo incastreremo e questa sarà la conclusione della storia. — Ma quell'uomo, O'Bannon, ti ha detto che devi starne fuori.
Diedi un'alzata di spalle. Fece un giro della stanza guardando la libreria con tutte le mie cose. Me l'aveva costruita un'amica che si diletta di falegnameria. "Per sistemare la tua robaccia" aveva detto. Da fuori arrivava il primo canto dei coyotes. — Il signor Pike dice che leggi e rileggi sempre questi libri. — È vero. Toccò alcuni volumi. — Questi li conosco. Quando ero alle superiori ho fatto per un periodo da assistente a un insegnante. Leggevo le storie di Re Artù ai bambini. — Scommetto che ti piaceva. — Sì. — Si voltò verso di me. — È vero che Pike era un poliziotto? Ero sorpreso. — Devi proprio piacergli. Non lo dice mai a nessuno. — Allora è vero. — Sì. Non hai motivo di dubitare di ciò che ti dice. Non mente mai. — Si definisce un soldato di professione. — Ha un'armeria a Culver City ed è mio socio nell'agenzia. Ma ogni tanto va in posti come El Salvador o Botswana o nel Sudan. Così direi che è un soldato professionista part-time. — Eravate in Vietnam assieme? — No. Lui era nei Marines. Ci siamo incontrati dopo qui a L.A. Pike era nella polizia e io lavoravo con George Feider. Ci siamo conosciuti per lavoro. Quando ho saputo che lasciava la polizia gli ho fatto l'offerta. — Mi ha detto che non è stato un poliziotto di successo. — Non di successo ma molto in gamba. Tra Pike e i suoi colleghi c'era una differenza sostanziale. Per lui la filosofia, l'ideale sono tutto. Ha fatto il poliziotto tre anni e per tre anni si è comportato benissimo. In modo splendido, direi. Ma non lo definirei un poliziotto di successo. — Ti ammira molto. — È lo spirito dei Marines. Hanno il cuore grande. — Si è fatto fare i tatuaggi in Vietnam? — Sì. — Perché? — Chiediglielo. — L'ho fatto. Ma ha risposto che non avrei capito. — Joe ha delle regole di vita. Una è di non voltarsi mai indietro. Ecco cosa significano le frecce, sono puntate in avanti. Gli ricordano di non guardare al passato. — Posso capire — disse.
— Non farti prendere da Joe. La vita è molto lineare per lui, ma non è sempre come vorrebbe. Ecco uno dei suoi crucci quando lavorava nella polizia. Non sembrò sconvolta. — Puoi paragonarlo a un samurai — continuai. — Un guerriero che ha bisogno di ordine. Questo è Pike. — Le frecce. — Sì. Le frecce gli permettono di imporre ordine sul caos. Un soldato di professione ha bisogno d'ordine. Ci pensò un po'. — Vale anche per te? — No. Io sono solo un investigatore privato. Sono anche l'antitesi dell'ordine. — Mi ha detto che tu sei stato un soldato migliore di lui. Che hai avuto un sacco di medaglie. — Che ridere. Lo vedi che tipo è? Ha un senso dell'umorismo... — Ha predetto che l'avresti smentito. — Cambiamo programma, che ne dici? Credo diano La ruota della fortuna sul canale 11. Mi fissò per un po'. Non cambiò canale. — Non potrò mai tornare a essere la persona che ero, vero? — No — le dissi con dolcezza. Fece cenno di comprendere, forse non a me, ma a se stessa. — E va bene — concluse — posso capire anche questo. 30 Joe tornò con sei compresse di Valium e una boccetta di Dalmane. Durante la cena tentai di movimentare la serata sottolineando alcuni lati comici della vita senza molto successo. Ellen mangiò in silenzio tutto quello che Pike le aveva servito. Lavati i piatti andammo in soggiorno. Nessuno diceva più di cinque parole per volta. Misi su un disco di Clarence Clearwater e indossai il mio naso alla Groucho Marx. — Appropriato come sempre — commentò Pike. Ellen sorrise e distolse lo sguardo. Tolsi il naso e mi misi a leggere Valdez is Coming. Dopo un po' sentii un singhiozzo, sollevai lo sguardo e vidi le lacrime e gli occhi rossi di Ellen. Mi avvicinai, lei si volse a guardarmi: — Cosa possono avergli fatto per farlo urlare in quel modo?
Pike rientrò dalla veranda. Io abbracciai Ellen e la tenni stretta sinché chiese due calmanti. Dopo averglieli dati la accompagnai di sopra e rimasi con lei sino a quando le pastiglie fecero il loro effetto. Spensi la luce e ridiscesi. — Mi piace — disse Pike. — Le hai detto che eri nella polizia. — Mi piace moltissimo. Tirai fuori due birre, spensi le luci e uscimmo sul portico a berle. Il canto dei coyotes era cessato. — Se la spia di Duran avesse un buon fucile saremmo storia — notai. — Forse. Nuvole gonfie coprivano la luna e le stelle. Promessa di pioggia. — Ricordi l'altro giorno quando ti ho detto che Mort si era venduto? — domandai. — Beh? — Non è vero. È lei a essersi venduta. — Lo so. — È al limite adesso. Mort, il bambino. Non sa più chi è e non ha più stima di sé di una crosta di pane. Pike agitò la birra — Voglio aiutarla a superare tutto questo — disse. — Non ti stupisce che Duran mi conceda tutto questo tempo per riportargli la droga? — Sì. — Come se sapesse che non ce l'ho e mi stesse usando per ritrovarla. — Già. — Pike, come diavolo fai a vedere di notte con gli occhiali da sole? — Sono tutt'uno con la notte. — Non si capiva mai se parlava seriamente o meno. — Duran vuole che gli trovi la roba. La sua marmaglia è capace solo a pestare la gente e magari a uccidere qualcuno che può fornire informazioni utili. — Sarebbe stato più semplice assumermi. Anche se probabilmente ha pensato che avrei raccontato tutto alla polizia. — Probabilmente è quello che ha pensato. Ascoltava una canzone di Brace Springsteen in lontananza. — Joseph, cosa hai imparato da me? — Buone cose. — Per esempio?
Non rispose. Finii la birra e schiacciai la lattina. — Uno come Duran, coi soldi che ha non può prendersi tanta pena per un po' di cocaina. — Non lo fa per i soldi. — È questo che non mi piace — continuai. — Magari stiamo perdendo tempo. Magari si sveglia e dice "All'inferno!" E uccide noi e il bambino. Pike finì la birra e appoggiò la lattina in terra. Non le schiaccia mai. Probabilmente è abbastanza uomo anche senza schiacciare lattine. — E magari tu trovi la droga prima che tutto questo avvenga. Sentii una goccia di pioggia cadermi su una spalla, poi un'altra in fronte. Pike si alzò — E il momento adatto per una passeggiata. Attraversò il soggiorno e uscì dalla porta della cucina. Io ritirai le lattine vuote e mi misi al riparo. La pioggia rimbalzava sul pavimento del portico e scivolava lungo i vetri. Sistemai la lampada vicino al divano e finii di rileggere Valdez is Coming. Molto più tardi Pike rientrò, un'ombra nel buio. Mise le Nike a scolare ed entrò nel bagno di servizio. — Sei sveglio? — Una voce nel buio. — Sì. Uscì dal bagno in calzoncini e con un asciugamano sulla schiena. — Ho trovato chi ci spiava. Erano in due in una casa gialla all'inizio di Nichols Canyon. C'era un bastardo sulla veranda, che sbirciava attraverso un cannocchiale. — E l'altro? — L'ho messo a dormire in un letto ad acqua. — Li hai fatti fuori? — Già. Pike sedette sul pavimento, la schiena appoggiata al muro. Sukhasen. Una posizione yoga che favorisce il rilassamento. Non ricordavo se avesse iniziato a praticare lo yoga prima o dopo avermi conosciuto. — Col tuo coltello? — chiesi. — Sai bene Elvis che una casa contiene molti oggetti utilizzabili. — Duran non gradirà la cosa. Si rifarà sul ragazzino. Gli occhi di Pike erano due punti luminosi. Immobili. — Non saprà cosa è successo, Elvis. Nessuno verrà a saperlo. Sono scomparsi. Come non fossero mai esistiti. Feci cenno di aver capito e sentii un gelo. La pioggia continuava a scrosciare. Pensai al gatto al riparo sotto qualche macchina. Mi addormentai e sognai Perry, il mio amico Joe Pike e l'e-
schimese. Ma non ricordo la storia. 31 Il giorno dopo il cielo era ancora grigio. Guidavo verso la casa di Garrett Rice, fra il traffico veloce come sempre. La gente di Los Angeles è convinta che guidare con la pioggia o col sole è la stessa cosa. Solo un po' più umido. Lasciai la macchina in Sunset Plaza. Nulla era cambiato dal giorno precedente, a parte l'effetto pioggia. Nessuno aveva prelevato la posta o tolto il biglietto della polizia. Camminai diritto verso l'entrata come sapessi dove andare e il padrone di casa mi aspettasse. C'erano tre sacchi d'immondizia e una grossa serratura all'ingresso. Mi guardai attorno. Nessun vicino o macchina di pattuglia in vista. Saltai la siepe e mi diressi verso il retro dove c'era una bella piscina ovale che occupava gran parte dello spazio. Quella facciata era tutta a vetri e immersa fra buganvillee e piante di mimosa. Intimo. L'ideale per pomeriggi di "lavoro" con qualche stellina emergente. L'odore era molto intenso. Cercai di attribuirlo all'umidità. Ma non era umidità. Cleon Tyner giaceva riverso in terra. Non c'era battito nel collo. La pelle era fredda e rigida. Cercai di chiudergli le palpebre senza riuscirci. Lo voltai. Presentava ferite sul petto. Cleon doveva essere lì da un bel po'. Era lì quando il giorno prima avevo suonato all'ingresso frontale e mentre la pioggia notturna era scesa, scavando una pozzanghera intorno al suo corpo. Entrai nella casa, umida e fredda per la pioggia entrata attraverso la porta aperta. Il pannello del sistema d'allarme aveva le luci verdi, segno che era stato disinserito. Garrett Rice giaceva sul pavimento di cucina. Era nudo, la pelle floscia e pallida col forte contrasto dell'abbronzatura che s'interrompeva bruscamente a metà petto. Aveva contusioni e sangue secco sul viso e un unico foro di proiettile sopra l'orecchio destro. Sulla gamba sinistra e sullo stomaco mostrava delle brutte ustioni. Se l'era fatta addosso. Uscii a prendere una boccata d'aria e rientrai per perquisire quella che era stata l'abitazione di Garrett Rice. Non ci misi molto, anche perché sapevo che se Rice avesse avuto la droga l'avrebbe tirata fuori prima di venire denudato e spinto contro un fornello rovente. Perry Lang!
Feci una telefonata anonima alla polizia e portai fuori la tenda della doccia per coprire il corpo di Cleon. Cercai delle parole adatte alla situazione ma mi venivano in mente solo domande. Mi spiace, Cleon. Andrò a trovare Betty, di tanto in tanto. Tornai alla macchina diretto a Westwood. Quando raggiunsi l'11001 di Wilshire, il cielo si era schiarito, sprazzi di azzurro come quando sta per annuvolarsi di nuovo. Utilizzai il pass che mi ero fatto dare da Barry Fein per entrare nel garage. Le macchine erano tutte al loro posto, ma adesso la Porsche era parcheggiata dietro la DeLorean. Piazzai la Corvette davanti all'ascensore e salii al sesto piano. Jonathan venne alla porta. Rimase fermo bloccando l'ingresso. Sembrava che la schiena gli dolesse, e io ero pronto a fargliela dolere ancora di più. — Fai il bullo e ti ammazzo — gl'intimai. Dall'interno giunse la voce di Barry Fein. "Maledizione, Jonathan. Non puoi stare calmo lì nello stramaledetto corridoio?!" Fece un sorrisetto e mi lasciò passare mostrando che non aveva nulla in mano. Entrammo, prima lui, e poi io. Barry Fein camminava avanti e indietro nel soggiorno. Charles, seduto sul divano, aveva una grossa benda sulla guancia destra e una più piccola sulla zigomo sinistro. La pelle era lucida, come avesse messo dell'olio abbronzante. Come avevo notato, le ciglia erano bruciate. — Un giorno... — mi minacciò. Lo ignorai. — Allora, a chi ha venduto la droga Rice? Barry si fermò. — Ascolta — disse — ho chiesto e telefonato a tutte le persone che mi sono venute in mente, chiaro? Jonathan si sedette vicino a Charles poggiando casualmente la mano dietro la sua schiena. Puntai la pistola allo stomaco di Barry. — Sparo prima a lui e poi a te. — Gesù Cristo, Jonathan! Vattene di lì! Andò al bar e Charles lo seguì dietro mio suggerimento. Da sotto il cuscino su cui era seduto spuntava il calcio di una pistola. "Maledizione a voi! Non ne sapevo nulla, credimi!" gridò Barry. Prese un cuscino e glielo tirò. — Brutti disgraziati, volevate farmi ammazzare! Jonathan e Charles avevano l'aria di due psicopatici colti mentre infilzano dei cuccioli con degli spilli. — Dicevi che hai chiesto a chiunque — ricordai a Barry puntandogli la pistola contro. — Sì, sì. Giusto. Guarda, cerca di capire. Conosco tutte le persone che
conosce Garretti mi hanno detto che non ha cercato di vendere niente. Scossi la testa. — Mi aspettavo che mi dessi qualche buona informazione, questo era l'accordo — dissi continuando a puntargli la pistola contro. Sembrava stesse per farsela addosso. — Lo giuro su Cristo. Ho telefonato, ho chiesto. Garrett non ha cercato di far nessun movimento. Prendevo respiri profondi sforzandomi di riflettere. Se non era stato lui chi mi rimaneva? Pensai a Perry, alla madre, alle sorelle. Tutto sembrava crollare trascinando anche loro. — Due chili di cocaina da laboratorio non sono comuni. Chiedi e fammi sapere se qualcuno ha cercato di smerciare qualcosa del genere. — Sì. Sicuro. — E me lo fai sapere. — Uno che conosco, mi ha detto che un suo amico sta cercando di vendere qualcosa del genere. — Quanta e quando? — Un chilo e mezzo. Pura al novantanove per cento, ha detto. Dice che l'amico l'ha chiamato tre o quattro giorni fa. — Chi è quest'amico? — Un tale Larson Fisk. Splendido. Larson Fisk. — E chi diavolo è Larson Fisk? Barry sembrava spazientito. — È un attore. Probabilmente l'hai visto un milione di volte. Gli ho già venduto qualcosa. Vieni qui. Si avvicinò al mobile-bar e prese un voluminoso Accademy Players Directory. Appoggiò il catalogo sul tavolo. — Ci sono un sacco dei miei clienti qui dentro. Gli amici non fanno che dirmi che dovrebbe esserci anche la mia impronta su Hollywood Boulevard. Magari un giorno, eh? Mi mostrò Larson Fisk. Certo che l'avevo visto. Larson Fisk era Larry, il ragazzo di Kimberly Marsh. 32 La casa sulla Universal era vuota, ma non abbandonata. La 914 non era parcheggiata lì davanti ma nell'ingresso vidi una maglietta in terra e un paio di tazze da caffè sul tavolo del soggiorno. La luce del bagno sul retro era accesa. Avevo parcheggiato la macchina fuori vista. Ero entrato con la pistola in mano sperando avessero lasciato la cocaina appoggiata sopra la credenza. Non c'era.
Avevo già buttato all'aria la camera da letto e stavo iniziando dal bagnetto attiguo quando sentii uno sbattere di portiere accompagnato da una risata femminile, sonora e squillante. Kimberly Marsh e Larson Fisk stavano salendo i gradini. Lei in calzoncini e camicetta color crema annodata sotto il seno. Sexy. Lui in calzoncini e Adidas con una canottiera nera da body-building. Aveva una busta della spesa per braccio e sorrideva. Anche lei sorrideva. Feci il giro per trovarmi alle loro spalle. Come entrarono li seguii e sferrai il calcio più forte che potevo al ginocchio di Larson Fisk. Quello con le cicatrici. Ci fu uno schiocco simile a quello che senti quando tiri il collo a un pollo. Larry urlò e cadde assieme alle buste della spesa. Arance e mele rotolarono in terra. Kimberly Marsh fece un salto, si voltò verso Larry e mi vide. Larry si rotolava per terra tenendosi la gamba e battendo il pugno sul pavimento. Il colorito del viso era purpureo. Lanciò un giudizio su me e mia madre. Io agitai la pistola verso di lui. — Avanti, Larry. Se fossi quel che dici tu ti avrei già ficcato un confetto dietro l'orecchio. Inoltre, così potrai aggiungere un'altra cicatrice alla tua collezione. Chiuse gli occhi e rotolò all'indietro, continuando a maledirmi. Scossi la testa. — Vedi — dissi a Kimberly — certe persone non sai mai come accontentarle. Lei era indietreggiata, le spalle contro la libreria, il grande acquario verde col pesce morto alla sua destra. Chissà come mai alle bionde il verde dona così tanto? Non sembrava molto spaventata. — Cosa stai facendo? — chiese. — Sto togliendomi di torno Larry. È stupido ma forte. E anche cattivo — le spiegai sorridendo. — Fa male! — si lamentò Larry. Era tranquilla. Non guardò Larry neanche un secondo. Immaginai una piccola finestrina in mezzo alla sua fronte da cui si vedevano rotelline e meccanismi muoversi ticchettando. Allargai il sorriso. Lei lo contraccambiò. — Hai saputo cos'è successo a Mort, no? — Già. Ma grazie a Dio adesso posso tornare al mio appartamento, è vero? — Direi di no, non ora. Adesso vorrei che mi consegnassi la cocaina. Gli occhi le divennero molto più grandi. Rimase lì, i meccanismi sempre
più veloci, il ticchettio sempre più forte. Che razza di idee mi vengono in mente in certi momenti. Le puntavo la pistola contro. Avevo smesso di sorridere. — Dom rivuole la sua roba, Kimberly. Lo sguardo si volse per un secondo a Larry, poi nuovamente a me. — Non so di cosa stai parlando. Spostai la pistola verso Larry. — Non sa di cosa parlo, Larry. — Lui fissava la canna tenendosi il ginocchio. — Vede quella roba a casa di Duran e pensa che sarebbe carino averla. Ma come fare a portarla via? Ti fa una telefonata e ti dice dove la metterà, così tu arrivi, ti intrufoli nella casa e la prendi. Rischioso, con tutti gli scagnozzi di Duran in giro. Ci vuole coraggio. Ora, tu fai tutto questo per lei, io ti sto puntando la rivoltella contro, e lei dice che non sa di cosa parlo. Kimberly si tirò i capelli indietro sorridendo, come le avessi appena fatto un complimento. "Che sciocchezze". Fece qualche passo verso di me ancheggiando come aveva visto fare in tanti film dalle donne dei gangster. — Tu ne sai qualcosa, Larry? Magari prima che ti sistemi l'altro ginocchio. Nessuno fiatò ma si poteva sentire il loro respiro. — Allora ragazzi siete in una situazione senza via d'uscita. Se in questo momento arriva la polizia vi può accusare di possesso di droga con tentato smercio e di intralcio alle indagini. Potrebbero anche aggiungere collusione nell'assassinio di Morton Lang, ma probabilmente la scampereste. Ora, se mi date la roba, nonostante siate due carogne posso mettere una buona parola. Ancora silenzio, ma il ritmo del respiro aumentava. — OK. Bisogna passare ai fatti — dissi puntando la pistola al ginocchio sano di Larry. — Con un proiettile nell'osso significa che rimarrai zoppo. — D'accordo — disse Larry con voce tremante. — Non parlare. — Kimberly era calma. — Certo — commentai — non è il tuo ginocchio. Gli occhi di Kimberly Marsh si fecero scuri. — Questa roba vale molto. Potremmo dividere. Sarebbero sempre un mucchio di soldi. — E che mi dici del ragazzino? — Cosa vuoi che ti dica? Sentii una vampata salirmi alla testa. — Non mi sorprende che Mort si fosse innamorato di te, con la sensibilità che hai. — Sfiorai il ginocchio rotto di Larry. La faccia ritornò color porpora. — La droga, Kimberly.
Kimberly urlò "No!", mi tirò qualcosa dalla libreria e immerse le mani nell'acquario limaccioso. Nel frattempo Larry si era aggrappato alle mie gambe. Lo colpii col calcio della pistola ma lui insisteva cercando di colpirmi a sua volta in mezzo alle gambe. Kimberly era fuggita verso la cucina con in mano qualcosa che somigliava a un mattone, le braccia verdi di alghe, e lasciandosi dietro un forte odore di pesce. Continuai a colpire Larry sinché il sangue iniziò a scorrergli dalla tempia. La presa si fece più debole e infine cessò. Mi precipitai appresso a Kimberly e la raggiunsi mentre ancora cercava di aprire la porta sul retro. Le assestai un manrovescio, lei urlò e lasciò andare il mattone, che cadde con un tonfo. Aveva le dimensioni di un pacco di farina da tre chili; si sparsero alghe e fanghiglia tutt'intorno. Lei ci si buttò sopra grugnendo e sbavando. La colpii ancora, più forte che potevo. Non sarebbe stato necessario, ma spesso molte cose non lo sono. Rimase a piangere stesa sul pavimento. Presi la droga e attraversai la casa. Larry giaceva in terra fissando il soffitto. Doveva sentire molto dolore. — Ha fatto di tutto per te, Larry — dissi lentamente. — Esattamente come per Mort. Gli occhi di Larry divennero rossi. Aprii la porta e scesi i gradini. Lui stava piangendo. Lei anche. Ma non piangevano per lo stesso motivo. 33 Dal mio ufficio telefonai a un'amica che lavorava alla compagnia telefonica per farmi dare il numero di Domingo Duran a Loz Feliz. Me ne diede quattro. Al primo tentativo rispose una voce femminile che parlava solo spagnolo. Forse la cuoca. Al secondo numero, un uomo con un leggero accento disse: — La residenza del signor Duran. — Sono Elvis Cole. Devo parlare col signor Duran. La voce replicò gentilmente: — Il signor Duran non può venire al telefono in questo momento. — Con me vorrà parlare. — Sono spiacente ma è impossibile. Ha ospiti. — Avvertilo che c'è Cole che deve dargli notizie sulla droga.
La comunicazione fu interrotta. Riappesi. Poco dopo il telefono squillò. — Cole. La voce dell'eschimese. — Non sai proprio come ci si comporta. — È stata una brutta giornata. Parliamo dello scambio. Io ho la droga. — Fatti trovare alla cassetta postale davanti al tuo ufficio fra venti minuti. — E se non fossi d'accordo? Non disse nulla. — Stavo scherzando. Dopo quindici minuti la limousine era lì, mi aprirono la portiera e salii. Ci fermammo nello spazio dietro l'edificio. Alla guida non c'era Kato ma un altro, probabilmente un killer del "machete" importato appositamente dal Brasile. L'eschimese parlò — Dov'è? — Abbiamo intenzione di perdere tempo o vogliamo metterci d'accordo? Mi fissava. Assentì. — Va bene. — Definiamo l'ora e il posto per lo scambio. Io verrò solo e anche tu. Io ti consegnerò la droga e tu il ragazzo. — Va bene. — Al Griffith Park — dissi — domani a mezzogiorno, in fondo al tunnel. Ci arriveremo con le macchine. Io porterò la droga e tu il bambino. Li scambiamo, ciascuno torna alla propria macchina e la faccenda è conclusa. L'uomo al volante mi fissava nello specchietto. Forse aveva una pistola sulle ginocchia. Forse l'eschimese da un momento all'altro avrebbe urlato: "Ammazzalo!" e l'altro avrebbe fatto fuoco. Forse, forse: ci sono tanti forse nella vita che finiscono con il non avere più senso. Forse dovrei piantare questo mestiere. — Ci potrebbe essere gente nel parco — obiettò l'eschimese. Sgranai gli occhi. — Accidenti, non ci avevo pensato. — Porta la madre. — Scordatelo. — Non voglio che sia tu a effettuare lo scambio. Manda la madre con la cocaina e il ragazzo arriverà da solo. Lei lascerà la droga in terra e si allontanerà col figlio prima che io venga a prendere la roba. — No. — Inoltre il ragazzino è ferito alla mano ed è impaurito. Vedendo la madre rimarrà calmo. Se lui non rimane tranquillo le cose non andranno per il verso giusto.
— No. — Allora il problema rimane — continuò l'eschimese. — Forse tu dovresti tenerti la droga e noi il ragazzino. O magari potremmo venire a prenderci la droga direttamente. — Non la trovereste mai. Insisteva troppo con la storia della madre. Forse gli sarebbe piaciuto poter aggiungere una strage familiare nel diario delle sue gesta. — E va bene — acconsentii infine. — Domani alle dodici. Io ti manderò la madre e tu Perry Lang. In fondo al tunnel. Tu da solo e io da solo. — Sì. Scesi dalla limousine e li guardai allontanarsi nel traffico. Poi tornai alla mia macchina. Arrivato a casa scesi con il mattone di cocaina in mano. Sentii le voci di Pike ed Ellen sul retro. "Sei troppo tesa — diceva Pike — devi essere immobile ma non rigida. Non ti scapperà via." Feci il giro e li raggiunsi. Erano in piedi sul prato. Lei puntava una Ruger 25 automatica contro uno degli alberi che avevo piantato l'anno prima. Pike le girava attorno aggiustando la posizione delle spalle, della braccia e delle mani. — OK — disse alla fine. Lei lasciò andare il respiro e tirò il grilletto. Pike mi guardò. — È abbastanza in gamba. Riesce a mantenere il corpo tranquillo. — Che vuol dire? — chiese Ellen tenendo il revolver con entrambe le mani. — Vuol dire che il tuo corpo è in equilibrio coi tuoi battiti e i tuoi muscoli non tremano quando cerchi di rimanere immobile. È una reazione naturale, non si può imparare. Pike guardò il mattone. — Chi aveva la droga? Gli occhi di Ellen si spostarono sul mattone come Pike avesse detto Chi è quel marziano? — Allora non l'aveva rubata Mort? — No. Sono stati Kimberly Marsh e il suo amico. — Quella donna aveva un altro uomo? — Sì. — Un altro oltre a Mort? — Sì. — Senza che lui lo sapesse? Feci cenno di sì. Puntò la 25 all'albero e sparò di nuovo.
— Ti sei messo d'accordo con Duran? — chiese Pike. — Ho parlato con l'eschimese. Domani alle dodici in fondo al tunnel di Griffith Park. Ellen porterà la droga e la lascerà in terra, loro manderanno Perry. Lei tornerà col figlio alla macchina e l'eschimese andrà a prendere la droga. Fine della storia. Sia Ellen sia Pike mi guardavano. La bocca di Pike si contrasse. — Ah, è così. Permetteranno che tu, Ellen e Perry vi allontaniate convinti che terrete la bocca chiusa. Ellen lo fissava. — No — replicai. — Le cose andranno più o meno così. Faranno appostare per tempo degli uomini armati: al nostro arrivo ci faranno fuori tutti e recupereranno la droga. Un'ora dopo Eskimo e gli altri saranno sul jet privato di Duran in volo verso Acapulco per una lunga vacanza premio. — Ah, — fece Pike — la triste realtà viene a galla. — Non bisognerebbe avvertire il sergente Poitras? — osservò Ellen. — C'è il fatto che Duran è protetto. Se tutto quel che otterremo saranno un paio di poliziotti, non risolvererò nulla. — E allora? — Noi arriveremo lì prima di loro. Vediamo cosa succede. Se ho ragione troveremo un'altra maniera per liberare Perry. Altrimenti concludiamo il baratto e ci occupiamo d'incastrare Duran dopo che tu e i tuoi figli sarete al sicuro. — E se loro non staranno ai patti? — chiese Ellen. — Ora che sanno che hai la droga non verranno a prenderla direttamente? La bocca di Pike si contrasse ancora. Doveva essere proprio una situazione divertente per lui. — Troppo rischioso — spiegò. — Siamo qui dentro. Una macchina della polizia potrebbe passare, ci sono i vicini e l'accesso non è facile. Al Griffith Park loro sperano nel fatto che saremo esposti. Possono organizzare una bella imboscata con i cespugli, le strutture del parco, fare quello che vogliono. — Si vedeva che era di buon umore. Mi schiarii la voce. — Vogliono la droga. Ho detto a Eskimo che non la troveranno facilmente, ecco perché non verranno qui. — Guardai Pike con durezza. — Giusto? — Bisogna che vada a prendere la chitarra — disse lui. — Ci vediamo dopo. — Suona? La guardai senza rispondere, poi entrai in casa e aprii una bottiglia d'acqua. Ellen mi stava ringraziando per l'acqua quando squillò il telefono. Lei
sbiancò. Risposi io. La voce di Janet Simon. — Elvis, sono Janet Simon. Coprii la cornetta con la mano e informai Ellen. Ne fu tranquillizzata ma non particolarmente entusiasta. Con la bocca fece quella sua buffa smorfia. — Cominciavo a pensare che non volessi più parlarmi — dissi. Che uomo affascinante. — Ah, sì? — La voce era bassa e controllata, come se non avesse alcuna intenzione di parlare con me ma dovesse farlo. Mi è già capitato di sentire questo tono. — Come sta Ellen? — Felice come una Pasqua. — La sta superando? — È tranquilla. — Potrei venire lì. — Non mi sembra una grande idea. — Potrebbe aver bisogno che faccia qualcosa per lei. Non risposi. Ellen aveva un'espressione sospettosa e seccata e non sembrava ansiosa di parlare. Ma forse era solo nella mia immaginazione. — Forse posso rendermi utile — continuò. — Ci sarà della roba da portare a lavare o qualche medicinale da comprare. È così distratta. Tesi la cornetta a Ellen. — È per te. Sbuffò di nuovo e prese il ricevitore. — Sì? — Ascoltò in silenzio, poi replicò: — Veramente io sto bene. Come stanno le ragazze? — Non c'era ansia nella sua voce. — Non lo so ancora — continuò. — Non so se è vivo o morto. Non sembrava né sconvolta né agitata. — Devo andare adesso. Era passata alla noia e al nervosismo. — No, ti chiamerò io. Riappese. Senza molta delicatezza. Andai sul portico. Mi raggiunse poco dopo. "Janet" disse, come volendo iniziare un discorso. Ma rimase in silenzio. Dopo quasi due ore Pike tornò. Noi stavamo ascoltando della musica. Pike portava con sé una grossa sacca e due custodie per chitarra color verde oliva. Ellen gli si avvicinò. — Conosci Segovia? — chiese. — Rock'n'roll — rispose. Ellen entrò con lui in soggiorno. Tornò fuori pochi minuti dopo.
— Quelle non sono chitarre. — No — confermai. — Sono fucili. Assentii. — Sembri così calmo. — Mi sto sforzando. — So che non abbiamo alternative, ma sembra così irreale. — Già. — È come una guerra. Qui in piena Los Angeles. Dopo un po' aggiunse: — Spero che riusciremo a farli saltare per aria. La guardai in silenzio. 34 Poco dopo le quattro del mattino riprese a piovere. Pike era seduto al tavolo del soggiorno sorseggiando un dito di bourbon da un lungo bicchiere. — Era ora che ti alzassi — disse. Entrai nel bagno di servizio per vestirmi senza dire una parola. C'erano del caffè e del pane tostato pronti. Il thermos grande era già stato riempito. Preparai panini, acqua, bicchieri e misi tutto in due buste. Quando ebbi terminato Pike lo portò alla Jeep. Mentre era fuori, scese Ellen. Indossava un paio di jeans e una delle mie magliette. Si sedette su uno scalino. — Come va? — le chiesi offrendole del caffè e un toast. — È meglio mettere qualcosa nello stomaco. — Non credo di sentirmela. — Sciocchezze. Tirai fuori due impermeabili dall'armadio, per me ed Ellen, assieme alla sacca di Pike e alle due custodie per chitarra che misi vicino al divano. La sacca pesava una tonnellata. Salii per prendere sia la Dan Wesson sia la Beretta 9mm automatica che Pike aveva "truccato" per me. Joe rientrò e si mise a preparare l'artiglieria che era nelle due custodia. — Che roba è? — chiese Ellen Lang sbirciando. — Questo è un Heckler e Koch 380. Un fucile d'assalto — spiegò Pike. — Pike lo tira fuori per spaventare la gente — scherzai. — In realtà non spara. La bocca di Joe si contrasse. Dopo aver caricato, ripulito, unto e tolta la sicura all'HK andò a metterlo in macchina.
Infilai il mattone di cocaina in una busta e lo diedi a Ellen. — Hai paura? — le domandai. Fece cenno di sì. — Cerca di fare come me — le suggerii. — Io non ho mai paura. La guardai salire in macchina. Rimasi un attimo in cucina a pensare se avevo dimenticato qualcosa. Il gatto entrò. Misi un po' di cibo per gatti e birra nelle scodelle e uscii. Guidavamo verso Griffith Park con una pioggia così sottile che sembrava rugiada. 35 Erano le sei meno dieci e il parco era scuro, freddo e deserto. Lo attraversammo passando davanti ai tavoli da pic-nic, le siepi e i bagni pubblici. Dietro i bagni erano parcheggiati una motocicletta Norton e un vecchio pulmino della Volkswagen, ma nessun segno di vita. La radio della Cherokee era sintonizzata su un programma che trasmetteva il bollettino degli agricoltori. Per quanto ne sapevo, Pike non si era mai occupato di agricoltura in vita sua. Ellen era sul sedile posteriore, la droga appoggiata in grembo. Alla luce dei lampioni gli occhi le splendevano brillanti. All'entrata del tunnel la strada si biforcava, una entrava nel tunnel, l'altra si inerpicava verso l'osservatorio. L'entrata era chiusa da un cancello in ferro. — C'è una strada a cinquecento metri da qui che va bene per noi. Pike assentì. Scesi, aprii il cancello, feci passare la Jeep e lo richiusi. Il cielo cominciava a cambiare colore quando Pike girò nella stradina di cui avevo parlato. Avanzammo sino a giungere a un boschetto di querce. Sotto di noi si poteva distinguere la forma triangolare del parco. Vedevamo tutto ciò che avevamo bisogno di vedere. Pike fece un cenno d'approvazione. — Bella vista. — Sono felice che sia di tuo gradimento. Spense il motore lasciando la radio accesa. Alle sette meno dieci un veicolo di servizio al parco uscì dal tunnel. Una donna in uniforme aprì il cancello e risalì nel veicolo scomparendo nel buio. Mangiai un panino e mi versai del caffè; Ellen e Pike non vollero nulla. Il mondo sotto di noi cominciò a prendere vita nonostante il cielo rimanesse scuro e annuvolato. La gente alle fermate degli autobus, le macchine,
il rumore. Ellen, seduta dietro, appoggiò i piedi in alto e si mise a dormire, almeno sembrava. Pike appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. Bella coppia quei due. Proprio quando stavo per proporre di giocare a nascondino. Macchine di pattuglia, due donne in tuta che correvano sollevando schizzi d'acqua, ragazzi in bicicletta, ragazzi coi libri di scuola in attesa dell'autobus. La vita è un teatro. Poco dopo le nove il cielo finalmente esplose e grosse gocce d'acqua iniziarono a cadere pesantemente sul tetto della Jeep, Pike mangiò un panino in silenzio, Ellen continuò a non toccare niente. Erano quasi le dieci quando una Mercury Montego con tre uomini a bordo si fermò vicino ai tavoli da pic-nic. — Joe — dissi. — Li ho visti. Ellen Lang si sporse a guardare. Dopo cinque minuti, due macchine affiancarono la Montego e poco dopo altre due. Una di queste era la Nova blu scuro. — Sta organizzando un vero e proprio esercito in nostro onore — disse Pike. — Certo — commentai — ha sentito parlare di noi. — Non vedo Perry — disse Ellen. — È ancora presto — le feci notare. Pike guardava fuori dal finestrino con aria preoccupata. L'uomo dei tatuaggi scese da una delle auto e si avvicinò alla Montego. Dopo che ebbero finito di parlare la Montego si avviò per la stradina, li vedemmo passare oltre in direzione dell'osservatorio, poi riscendere e riunirsi agli altri. L'uomo tatuato diede indicazioni sui posti che dovevano prendere. Poi gli uomini, con le pistole in mano, si appostarono. Dislocarono le macchine in diversi punti. Sanchez trotterellò in mezzo agli alberi dietro i bagni pubblici. L'uomo tatuato tornò alla sua macchina e poco dopo lo vedemmo bere qualcosa. Le alte gerarchie hanno i loro privilegi. Mancavano venti minuti a mezzogiorno quando una limousine nera svoltò da Loz Feliz Boulevard ed entrò nel parco andando a parcheggiarsi all'imboccatura del tunnel. C'era Kato al volante. Ellen Lang mi strinse la spalla emettendo un suono soffocato. Pike tirò fuori il binocolo. — Non riesco a vedere niente da qui — disse seccato. Scese dalla macchina e scomparve. — Dove va? — chiese Ellen. — A vedere se Perry è nella limousine.
— Certo che è lì. — si spostava da una parte all'altra del sedile. — Deve esserci. Vogliono scambiarlo con la droga, no? Non dissi nulla. Con l'esercito che aveva piazzato, era chiaro che Duran voleva agire come avevo supposto: farci entrare nel parco ma non uscirne. L'unico dubbio era se avrebbero eliminato Perry lì con noi o dopo. Se il bambino non era lì dovevamo trovarlo. Pike tornò bagnato e infangato. Si tolse gli occhiali per asciugarli. Erano settimane che non vedevo gli occhi di Pike. Avevo dimenticato quanto erano blu, così limpidi, intensi e profondi che sembravano finti. Una volta asciutti se li rimise. — Niente ragazzino — disse. — C'è un cinese al volante e due bestioni dietro, uno dei due potrebbe essere il tuo eschimese. Ellen cominciò a tremare. Il volto teso e rosso, gli occhi si riempirono di lacrime. Non era dolore ma rabbia. Le strinsi il braccio. — È vivo. Devono lasciarlo vivo in caso tutto questo vada a monte. Se lui muore non avranno più niente. Quindi non l'uccideranno. È chiaro? Assentì. Il collo rigido. — Hai qualche idea? — chiese Pike. — Sì — risposi. — Quello della Nova, Sanchez. È fra gli alberi dietro i bagni. Pike fece cenno di aver capito. — Io mi muovo meglio nella giungla di te. Sono anche più abile a far cantare la gente. — Bosco, Joe. In America diciamo bosco, non giungla. Ripose il binocolo nella custodia e si allontanò di nuovo. Io tirai fuori la Dan Wesson e la diedi a Ellen. — Non staremo via molto — le dissi. — Se non ci vedi tra venti minuti e ti rendi conto che c'è qualcosa di storto allontanati per la strada da cui siamo venuti. Usa la pistola se è il caso, poi vai al dipartimento di polizia e cerca di Poitras. Guardò la pistola che le avevo messo in mano. — Stai bene? — Sì, sì. Sto bene. La pioggia aveva reso il bosco fangoso e scivoloso. Ma in compenso il tappeto di foglie bagnate rendeva silenziosi i nostri passi. Io mi muovevo a fatica, Pike avanzava con passo leggero, ricordava un animale preistorico. Sanchez non era solo. Accanto a lui era accovacciato un uomo con un grosso naso a becco. Parlavano sottovoce. C'era un fucile Ithaca 12 con silenziatore appoggiato alla gamba dell'altro uomo. Pike e io ci scambiammo uno sguardo d'intesa. Poi ci muovemmo con
attenzione nella boscaglia in direzioni opposte. Quando fui alle loro spalle mi alzai da dietro un albero e li tenni sotto tiro con la pistola. Sanchez sobbalzò, gli occhi fuori dalle orbite ma rimase dov'era. L'altro rotolò da un lato cercando di afferrare il fucile e gridò Hueta! Pike l'afferrò da dietro per il collo, glielo torse, poi puntò il coltello alla base del cranio e lo trafisse. L'uomo cadde, il corpo tremava a scatti. Pike gli mise il piede sulla schiena per bloccare il tremore. In tivù un uomo accoltellato o a cui hanno sparato muore e basta. Nella vita reale ci si mette di più ed è poco piacevole. Sanchez fissava il suo amico e Pike fissava lui attraverso le lenti. Toccai Sanchez facendogli cenno di tacere. Il suo volto aveva il colore della farina. — Se mentirai lui rifarà la stessa cosa a te. Parli inglese? Rispose senza distogliere gli occhi che adesso erano su Pike. — Sì, sì. — Duran ha intenzione di portare il ragazzino qui per lo scambio? Sanchez scosse la testa. — Dove tengono il ragazzo? Gli agitai la canna della 9mm davanti agli occhi. Sobbalzò. — Non lo so. Lo tenevano in una casa a Silverlake ma stamattina l'hanno portato via. Non so dove. — Qualcuno degli altri lo sa? — intervenne Pike. — Non lo so. Forse uno di loro ha guidato o sentito. Non lo so. — L'eschimese dovrebbe saperlo. — Sì — assentì. — Luca. — Sì, Luca. — È nella limousine? — chiese Pike. Sanchez assentì di nuovo. — Se vuoi Luca — disse Pike guardandomi — bisognerà fare un po' di baccano. — Duran lo sa di sicuro dov'è. La bocca di Pike si contrasse. Toccai Sanchez con la pistola. — È a casa Duran? — Sì. — Tutta la sua guardia armata è qui — dissi a Pike. Pike guardò l'orologio. — Mancano dieci minuti. Fra breve capiranno che non abbiamo intenzione di farci avanti e torneranno a casa. Non abbiamo molto tempo. Puntai la canna della 9mm in una narice di Sanchez. — In quanti sono rimasti a casa? — Il patròn ha ospiti. Gente importante. — La sua fronte era madida di
sudore. — Se ha ospiti non vorrà avere un branco di scarafaggi attorno. Qui erano in dodici. Quanti altri ce ne possono essere? — Non l'ha detto qualcuno anche a proposito dei viet-cong? — fece Pike ironico. Riattraversammo la collina tutti e tre. Arrivammo alla Jeep che la pioggerellina si era trasformata in temporale. 36 L'interno della Cherokee odorava di vestiti bagnati e fango, sudore e paura. Ci allontanammo lentamente dal boschetto sotto una fitta pioggia, Ellen seduta davanti con Pike e io e Sanchez dietro. Gli avevo legato le mani con del nastro adesivo e gli puntavo la 9mm in mezzo alle gambe. Quando arrivammo giù. Pike esclamò: — L'eschimese è sceso dalla macchina e ci sta facendo dei cenni. — Premetti la canna della pistola contro i testicoli di Sanchez e percepii l'ondata di adrenalina provocata dalla paura. — Ah-ah. Stavo solo scherzando — ci informò. Quel Pike. — Siamo fuori, ti puoi alzare — disse dopo qualche minuto. — È un altro dei tuoi scherzi? — Fidati. Girammo a sinistra. Mi sollevai e assicurai ancora il nastro intorno ai polsi di Sanchez mentre Ellen ci guardava, il volto inespressivo. — Cosa avete fatto a mio figlio per farlo urlare in quel modo? — chiese rivolta al messicano. Sanchez mi guardò. Probabilmente neanche la riconosceva. Solo una donna con una busta in testa. — È la madre del ragazzo — lo informai. Lui scosse il capo. Lei continuava a fissarlo. L'acquazzone si era trasformato in pioggerellina. Ellen sollevò la Dan Wesson e gliela puntò in viso. — Sei tu quello che ha assassinato mio marito? Il corpo di Sanchez divenne rigido. Pike mangiava un panino, indifferente. — Giuro su Dio che non ne so niente — implorò Sanchez. Lei mi guardò. — Potrei ucciderlo. — La voce era calma e controllata. — Ci credo.
Impugnava la pistola con decisione. Pike aveva ragione. — Ma potremmo avere bisogno di lui per liberare Perry — soggiunse. — Già. Abbassò la 38. Una specie di sorriso le affiorò agli angoli della bocca. Forse stava esercitandosi ad assomigliare a Pike. Si voltò avanti poggiando la pistola in grembo. — Dovremmo lasciare loro due da qualche parte — dissi. — Dove? — chiese Pike. — Il tuo Eskimo sta probabilmente controllando l'ora in questo momento. Forse hanno già trovato il corpo. — Non sarà una passeggiata — dissi. — Potrebbe anche andare male. Pike alzò le spalle. — Lei può affrontarlo. Non è vero? — Sì, — rispose Ellen — andiamo a prendere Perry. — Cinque minuti dopo eravamo sotto il muro di cinta della tenuta di Duran. Parcheggiammo la Jeep in una traversa dopo il cancello. Pike scese e trascinò Sanchez sulla strada, lo fece voltare e lo colpì dietro l'orecchio destro col calcio della pistola. L'uomo crollò a terra. Lui lo ricaricò in macchina, e col nastro gli coprì la bocca, gli occhi e legò le caviglie. Ellen si sedette al posto di guida. Chiudendole la portiera, dissi: — Se vedi qualcuno o senti sparare va' alla polizia. Se ti si mettono davanti, investili. Se Sanchez ti crea problemi, uccidilo. Quando vedi che stiamo arrivando, metti in moto e preparati a volar via. — Va bene. Pike chiuse il portellone di dietro e si avvicinò a Ellen. La guardò come si guarda qualcosa che non si vuole dimenticare. — Ci sarà una sparatoria — disse. — Lo so. — Forse anche tu dovrai ammazzare qualcuno. Fece cenno di sì. — Hai del rossetto o qualcosa del genere? Scosse la testa. — Guarda nel cassetto. Lei si piegò per cercare. Quando si riaffacciò al finestrino aveva in mano un rossetto. Estée Lauder Alba Scarlatta. Pike si disegnò una linea rossa sulla fronte e lungo il naso e due linee parallele su ogni guancia. — Mi fai impazzire, Joe — gli dissi. Lei lo guardava senza parlare e rimase ferma quando lui fece lo stesso servizio al suo viso. — Nessuna pazzia — disse Pike. — Lei vorrà dimenticare. È facile dimenticare ciò che non è reale, quindi la realtà termina a-
desso. Se fra uno o cinque anni ripenserà a questi momenti sembrerà ancora più assurdo. — Sembrate due cretini — dissi. Ellen si guardò allo specchietto. Nessun sorriso. Solo un'espressione di constatazione. Nessun saluto. Io e Pike andammo verso la casa di Duran. Lui portava in mano l'HK e io la 9mm. C'era un vecchio e contorto olivo vicino alla parete laterale del muro. — Ricordi come ti ho descritto la casa? — mi chiese. — Sei buffo con quel rossetto. — Te lo ricordi, o no? — Oltre la collinetta c'è il piazzale con le macchine. La villa è su due piani. La dépendance è sul retro. Piscina e spogliatoi. Campo da tennis a nord della piscina. Lui si arrampicò per primo, gli passai l'HK, infilai la pistola nella cintura e lo seguii. Quando scendemmo dall'altra parte ebbi l'impressione di trovarmi dietro l'hotel Hilton di Mexico City, ma Pike disse di no, quella era solo la casa per gli ospiti, la villa era più grande. Girando attorno alla dépendance coperti dagli alberi, vedemmo tre donne e quattro uomini intorno a un barbecue, cucinavano hamburger. Sembravano allegri e piuttosto ubriachi. Domingo Duran non era fra loro. Quello che rideva più sguaiatamente indossava un cappello. Aveva una faccia piatta e rotonda e il naso ricoperto di cicatrici, come se qualcuno avesse tentato di staccarglielo a morsi. Era vestito come un contadinotto del vecchio est: scarpe a lacci, nere e lucide, pantaloni classici, golf verde pisello e una camicia bianca col collo rigido. Il tutto perfettamente in tono col cappello grigio di feltro. Mentre lo guardavo non potei trattenermi dal sorridere. — Bene, bene. — Cosa c'è — chiese Pike. — Sai chi è il gentiluomo col cappello? — Beh? — Rudy Gambino. — E chi è Rudy Gambino? — Pike si rifiutava di essere informato sui personaggi del mondo del crimine. — Un gangster dell'Arizona. Newark, per l'esattezza. Sinché la sua stessa gente l'ha spedito qui perché non erano più in grado di controllarlo. Duran fa affari con lui. Compari. — Mi piace il suo naso — commentò Pike. Vicino alla piscina due gorillotti messicani vestiti di nero fumavano ap-
poggiati a un flipper. Muscoli per proteggere zio Rudy. Superata la dépendance ci fermammo dietro una fontana, da dove si teneva sott'occhio la dépendance, la piscina e il retro della villa. Era enorme, in stile mediterraneo con spessi muri bianchi e loggiati con tettoie rosse. Il patio centrale era invaso quasi per intero dalle piante. Un uomo con impermeabile seduto accanto un tavolino teneva in mano un'edizione economica della Zona morta di Stephen King. Non stava leggendo. Un fucile Remington era poggiato sul tavolo. Muscoli dell'Arizona. La dépendance aveva tre entrate sul davanti, dall'ultima uscirono due energumeni assieme a Perry Lang. Aveva gli occhi bendati e la mano sinistra era fasciata. Buona e cattiva sorte. Andava bene il fatto che lui fosse lì e che non ci sarebbe stato bisogno di far parlare nessuno. Non era furbo da parte loro tenerlo lì, ma Sanchez aveva detto che lo avevano trasferito quella mattina, forse per averlo vicino nel caso al parco qualcosa andasse storto. Forse avrei dovuto chiamare Poitras e farlo intervenire, ma nel frattempo poteva tornare l'eschimese, portare via il bambino e fargli fare una brutta fine. Il fatto negativo era che Gambino si trovasse lì. Quanti delinquenti dell'Arizona aveva con sé? Come avrebbe reagito se io e Pike fossimo saltati fuori? In condizioni normali non avrebbe interferito, ma in quel caso era ospite di Duran. Erano amici. Inoltre non sapeva se eravamo lì per lui o per Duran. Gambino si allontanò dal barbecue ed entrò nella villa, fece un rutto così forte che potemmo sentirlo da quella distanza. Che classe. I due che stavano con Perry si divisero, uno portò il bambino verso la villa, l'altro venne nella nostra direzione. Ci nascondemmo dietro gli oleandri, poi prendemmo un vialetto che sbucava dietro il garage. Sulla destra, uno spesso muro proseguiva sino alla villa con una porta d'accesso; sulla sinistra si stendeva un tappeto erboso. Potevamo accedere dalla porta o dal prato. Dal prato rischiavamo di essere visti e la porta era chiusa a chiave. Qualcuno stava avvicinandosi. Ci nascondemmo. Uno degli uomini che avevamo visto con Perry tirò fuori una chiave dalla tasca avvicinandosi alla porta. Gli saltai addosso colpendolo sulla tempia. Cadde, lo colpii ancora. Pike prese la chiave. Infilò la chiave nella toppa e aprì la porta. Un messicano basso con un abito grigio puntò una Llama automatica al petto di Pike. Ci fu uno sparo soffocato. Vidi la gamba di Pike sollevarsi rapida e sentii un tonfo sonoro, come fosse caduta una cassetta di meloni su un pavimento piastrellato. Il
messicano stramazzò col collo spezzato: Pike mise la mano sulla macchia che si allargava sopra il petto e si sedette in terra. — Va' avanti — disse. — Prendi il bambino. Sentii una gran voglia di piangere. Lo guardai e andai avanti. Avanti. Mai voltarsi indietro. Nel garage c'erano tre Cadillac limousine, due Rolls-Royce e una Ferrari giallo acceso ma nessun gangster. Uscii sul vialetto di servizio che girava attorno alla casa terminando davanti alla cucina. Lo percorsi. C'era un citofono. Spinsi il pulsante e una piccola donna scura aprì la porta. Aveva l'aria disgustata. — No mas comer! — esclamò. — Parli inglese? — No. — Scosse la testa cercando di chiudermi fuori. Probabilmente pensava fossi uno degli scagnozzi di Gambino. Le mostrai la pistola. "Vamos!" ordinai, e la sospinsi in cucina. Manolo, in camicia, sedeva al tavolo mangiando un panino. Aveva la spalla fasciata. Quando mi vide cercò la pistola. Gli sparai due colpi. Cadde all'indietro sulla sedia. Dal corridoio passai in un soggiorno che faceva sembrare quello di Barry Fein una cabina telefonica. Il gorilla di Gambino stava entrando dal patio col fucile. Mi vide e chiese: — Cosa diavolo è successo? — Questo — risposi. Lo colpii sul viso con la pistola. Barcollò lasciando andare il fucile. Gli puntai la pistola alla mascella. — Hanno portato un bambino. Dov'è? — Giuro su Dio che non lo so. Lo giuro. Lo colpii sulla bocca col calcio della rivoltella. I denti gli saltarono via e dalla bocca cominciò a colare sangue. Lui cadde in ginocchio. — Dov'è? — Ggiurr... ssu Crisst... ke no lo sso. — Duro parlare con una bocca ridotta in quelle condizioni. — Dov'è Duran? — Nell'uffissc... Sscekound... piano. — Accompagnami. Sembrava che i colpi non fossero stati sentiti. Gli hamburger stavano ancora cuocendo, la musica continuava come le risate degli uomini e delle donne. Pensai a Ellen, se aveva sentito qualcosa poteva essere andata a chiamare la polizia. Ripassammo per il soggiorno e prendemmo a salire una scala semicircolare di dimensioni mostruose. Sentivo rumore di voci e porte che sbattevano al secondo piano.
— Dove mi stai portando? — In uffissc... Ci ssciono delle potte e un... paio di persscione. — Solo un paio, eh? — Sssì. — C'è un altro modo per entrare o uscire? Sembrava confuso. Scosse la testa con visibile dolore. — No... vivo kqui, amiko, ma sso ke è issciolato da... rumore. Isolato dai rumori. Perfetto. — Perché siete qui? Stava per svenire. Lo scossi e rifeci la domanda. — Aff...ri. — Droga? Fece cenno di sì. L'ingresso era lungo e rivestito con pannelli di legno di noce di prima qualità. Impressionante. Quando arrivai alla porta, gli feci cenno di tacere mostrandogli la Beretta. — Tti kcrredo — disse. Un messicano, elegante e slanciato, sedeva a una scrivania presidenziale parlando al telefono. Stava chiedendo informazioni sui rumori che aveva sentito. Un uomo alto e biondo ascoltava, braccia conserte, appoggiato alla scrivania. I segretari personali, senza dubbio. Un'enorme porta ad arco in bronzo pesante conduceva al sancta sanctorum di Duran. Spinsi Mister Dentiera avanti, entrai e sparai. Il messicano alla scrivania rimase stecchito sulla sedia, l'altro crollò a terra. Guardai la porta, era pesante e io non sapevo come aprirla. Non c'era maniglia. Toc, toc. toc. Consegne a domicilio! Stavo cercando se ci fosse qualche pulsante sulla scrivania quando vedemmo Rudy Gambino uscire attraverso la porta di bronzo dicendo: — Cosa diavolo sta... — Aveva una Smith Police Special in mano. Quando mi vide la lasciò cadere. — Indietro, grassone — dissi. Lui indietreggiò e noi entrammo. 37 Perry Lang non era in quella stanza. Domingo Garcia Duran era seduto su un divano in pelle sotto una parete ricoperta di fotografie. I soggetti erano soprattutto arene, tori e Duran. Suppongo fossero in ricordo dei suoi Momenti d'Oro. Nelle altre era ritrat-
to insieme a matador, personalità politiche e varie celebrità. Tutti sorridevano. Erano tutti amiconi. Urrà per Hollywood! C'erano trofei appesi ai muri. Corna, zoccoli e orecchie scure imbalsamate. Quella stanza odorava di morte. Una cappa pendeva da un piedistallo rivestito in pelle, su una parete campeggiavano coppie di spade incrociate, come quella del cancello. C'erano anche svariati olii di tori e un enorme dipinto di Duran che finiva una di quelle bestie. Sulla libreria erano sistemate ulteriori statuette di tori e matador, cavalieri con lunghe lance. — Ehi, Dom — l'apostrofai. — Non ti sembra un po' troppo? — Che vuoi capirne, verme — sibilò Rudy Gambino. — Guarda che sono io che ho la pistola in mano, Rudy. C'era un tavolo in marmo di fronte a Duran con sopra una valigetta aperta. Era piena di pacchetti di banconote sistemati ordinatamente. La famosa spada ricurva di Duran era appoggiata sopra. Lui prese la spada e chiuse la valigetta. "La spada per uccidere" l'aveva definita Pike. Spinsi Mister Dentiera a terra e gli dissi di restare dov'era. Poi puntai la pistola verso Duran. — Voglio il bambino. Adesso, Dom. — La mente andò a Pike che sanguinava, a Sanchez che riusciva a disarmare Ellen... — Cosa significa, Dom? — Strillò Rudy. — Sa chi sono. Sparai un colpo nel divano. Rudy fece un salto ma Duran non si mosse né spostò lo sguardo da me. Proprio un vero uomo. — Ci accorderemo — disse. Scossi la testa. — Portami il ragazzino. Rudy avanzò verso di me, gesticolando e parlandomi come ci conoscessimo bene. — Come diavolo fai a sapere chi sono? — Abbiamo alloggiato nello stesso hotel a Houston. Ti ho visto lì. — Stronzate. — Agitò il dito verso Duran. — Nessuno doveva essere a conoscenza che mi trovo qui. Maledizione. Se Carlos e Lenny vengono a sapere che sono qui invece che in Colombia avrò grossi problemi. — Chiudi il becco Rudy — ordinai. — Gli imbrogli che fai non mi interessano. — Non sapevo che razza di storia fosse ma quel che avevo visto mi faceva supporre che Rudy stesse facendo movimenti di droga tramite Duran, tagliando fuori gli intermediari. Gambino urlò: — Non sto facendo nessun imbroglio, maledizione! Sparai ancora. Stavolta centrai un quadro. Dieci centimetri dall'orecchio di Duran. Non batté ciglio. Accidenti, io non sarei stato così in gamba. — Prendo il bambino e chiamo la polizia — dissi. — Se non fai mosse false puoi andartene col tuo aereo.
Non rispose. — OK, brutta carogna — continuai. — O mi porti il bambino o ti becchi uno di questi. — Gli puntai la pistola in mezzo agli occhi. Non stavo bleffando. Scosse la testa. — Non credo che dovrò farlo. Qualcosa di duro contro il mio collo e la voce di Eskimo: — Basta così. Rudy Gambino mi disarmò e mi assestò due schiaffi. Il labbro prese a sanguinarmi. — Cosa hai ottenuto adesso? — urlò. — Ecco quello che ti tocca. Si chinò sopra Mister Dentiera. — Eddie? Eddie era nel mondo dei sogni. Duran si sporse verso di me dicendo: — Ecco le mie proposte. Ucciderò te, poi ucciderò il ragazzo e la madre e tutto sarà concluso. — Mi guardava sereno. Capii che questo doveva essere il modo in cui guardava il toro predestinato. Completo controllo dei destini. Il Dispensatore di Morte. — Ma non riavrai la tua roba. — La droga non è mai stata realmente importante — disse alzando le spalle. — Certo — aggiunse Eskimo. La sua presenza era enorme alle mie spalle, qualcosa di oscuro, gargantico e primordiale. Prendevo respiri profondi dal naso cercando di rilassare il corpo, Pranayama. Iniziando dai piedi. Preparandomi. Focus sul ki. Se Gambino e Duran si avvicinavano, se fossi stato abbastanza rapido... Forse non avrebbe fatto grande differenza. Rudy Gambino puntò la 9mm verso di me e disse: — Tutto questo non succederà mentre sono qui io, Dom. — Contemporaneamente a "Dom" echeggiò un secco colpo nella stanza accanto. Poi un altro più forte. Vidi la gamba di Gambino cedere e lui rovinare a terra. Ellen Lang era sulla porta con la mia 38 in mano, gambe divaricate e braccia piegate nel modo che Pike le aveva insegnato. Il rossetto non la faceva apparire stupida adesso, ma oscura e aliena, una presenza che incuteva paura. Duran sorrise. Quando Eskimo fece per puntare la pistola verso di lei, gli afferrai il braccio con entrambe le mani. La pistola gli scivolò di mano e lui mi colpì sulla spalla. Tutto quel lato divenne come morto. Ma non lo mollai, strisciando e aggrappandomi gli impedii di raggiungere l'arma. Mi spinse indietro e dovetti mollare. Era in ginocchio. Lo colpii sui reni più volte e dietro l'orecchio. Mi ruppi una falange. L'eschimese grugnì e si alzò in piedi. Non sembrava molto spossato. Non si poteva dire lo stesso di me.
Ellen era ferma sulla porta, Duran avanzava verso di lei pronunciando frasi che non riuscivo a capire. Tirai un posacenere contro l'eschimese. Rimbalzò sul suo braccio. Sorrise. Gli tirai una lampada. La deviò da un lato. Tornò a sorridere. Ci sono molte tecniche nuove per vincere un avversario. Dovevo semplicemente trovarne una. L'eschimese mi venne addosso. Lo colpii in viso. Il naso insanguinato, caricò di nuovo. Gli diedi un calcio al ginocchio facendolo cadere, continuai a colpirlo in viso, cercando di bloccarlo con le ginocchia. Mi ruppi la seconda falange. Bruce Lee poteva combattere contro migliaia di uomini senza rompersi un'unghia. Questione di Karma. Duran continuava ad avanzare verso Ellen brandendo la spada. — Ellen — gridai. Eskimo mi cinse il petto col braccio, stringendo. Provai le stesse sensazioni che descrivono come quelle di un blocco coronarico: i polmoni smettono di pompare, un elefante siede sul tuo petto e hai l'assoluta certezza di stare per morire. Ellen fece un passo verso Duran e si sentì un fragoroso bang. Duran barcollò ma continuò ad avanzare. Cercai di colpire l'eschimese in viso. Lui strinse più forte. Sentii uno schiocco nella schiena. Costole inferiori. Per la miseria, tanto non mi servivano. Un altro bang dalla pistola di Ellen. Volevo urlare di andarsene, ma sapevo che se avessi usato quel fiato non me ne sarebbe restato altro. La vista cominciava a offuscarsi. Come proveniente da un altro sistema solare echeggiò una raffica. L'HK. Pike. Non doveva essere il loro giorno fortunato. Sollevai le braccia e colpii col gomito la testa di Eskimo. Un dolore acuto al braccio e un'altra costola andata. Questa era più in alto. Ellen sparò ancora. Duran si fermò e indietreggiò. Poi riprese ad avanzare. Continuai a colpire col gomito e la sua stretta si allentò. A ogni colpo sentivo un bruciore al gomito che mi diceva che l'osso era rotto. Non sembrava molto importante. Le cose basilari della vita tendono a slittare quando si sta per morire. Ormai vedevo ombre grigie e luci. Sentii un altro bang. Doveva essere il
sesto. Ellen non aveva più pallottole. Dopo l'ennesimo colpo Eskimo mollò la presa. Indietreggiai inalando più aria che potevo. Eskimo fece per alzarsi ma ricadde. Domingo Duran giaceva sul pavimento ai piedi di Ellen. Lei abbassò la pistola, poi gli sputò addosso. Non aveva avuto attimi di esitazione o tremori. Non era indietreggiata di un passo. Mi diressi verso di lei a fatica. Mi sembrava di non camminare molto diritto e avevo una gran voglia di dare di stomaco. — Perry, — ripetei — Perry. C'era un gran baccano fuori. Caddi a terra cercando la pistola. Non la trovavo. Mi misi a piangere. Doveva essere da qualche parte. Non era finita. Non sarebbe finita sinché non trovavamo il ragazzino. E ora altri bastardi sarebbero arrivati e non sapevo come fermarli. Uomini con scritte blu, FBI o POLIZIA, entrarono nella stanza. C'era O'Bannon con loro. Vide Ellen Lang, poi me. Mi si rivolse: — Tu, brutta carogna. Ricordo che sorrisi. Poi più nulla. 38 Era una delle poche volte nella vita in cui avrei voluto essere un fumatore. Ero nel Pronto Soccorso dell'Hollywood Presbyterian. Guardavo le infermiere, una in particolare, mentre il gesso del braccio si asciugava. Un bambino a cui avevano ricucito il labbro mi chiese cosa mi era successo. Risposi che ero stato ferito lottando contro delle spie. Gridai abbastanza perché l'infermiera sentisse. Un po' di nebbia londinese e una sigaretta penzolante dalla bocca, e mi avrebbe violentato. Poitras e O'Bannon fecero in quella il loro ingresso. Poitras, imponente e serio in volto, reggeva nelle mani due tazze di caffè. Non passò inosservato, lo guardarono tutti, persino i dottori. Che uomo speciale. — Che deliziosa sorpresa! — esclamai. Piotras mi porse una tazza: — Nero, giusto? — Nero. I dottori mi avevano fasciato il torace e ingessato la mano. Mi avevano somministrato dell'analgesico ma sorreggere la tazza del caffè era ugualmente doloroso. Non osavo immaginare che cosa avrebbe significato guidare. — Il bambino? — chiesi. — L'hanno trovato in uno stanzino al primo piano. Era bendato e non
sapeva cosa stava succedendo. Sta bene — disse Lou. — Gli hanno curato la mano e dato dei tranquillanti. La madre l'ha accompagnato alla caffetteria qui sotto. Voleva un hamburger. Uno degli scagnozzi di Duran gli aveva trafitto la mano con un rompighiaccio per farlo gridare. Non sapevano chi, ma con un po' di fortuna dovevo averlo ammazzato. — Lo hai già interrogato? — Non ancora. Hai lasciato un bel po' di cadaveri in giro, Campione. Stile "Rambo va a Hollywood". — Già. — Fra te, Pike e la signora Lang ne avete fatti fuori undici, contando anche quello di Griffith Park. — Io e Pike. La signora Lang non c'entra nulla. — Già. O'Bannon mi guardò coi volto teso, tanto teso che credetti il cervello gli sarebbe schizzato fuori. — Maledizione, hai rovinato quattro mesi di lavoro. Sapevamo che Duran e Gambino stavano organizzando un movimento. Avevamo messo microfoni nel telefono, nel letto, nel cesso, vivevamo con quel bastardo, in pratica. — Ti consiglio seriamente di ricorrere al Valium — dissi. — Erano nella casa di fronte — continuò Lou. — Vi hanno visti scavalcare il muro chiedendosi che diavolo stava succedendo. Siete passati per strada armati come due della Guardia Nazionale, solo che nessuno sapeva niente e non potevano intervenire se qualcuno non dava ordini. Quando la signora Lang è entrata si sono fatti avanti. O'Bannon intervenne: — Stavamo conducendo un'operazione efficiente, seria e sicura. Il caffè aveva uno strano sapore nella mia bocca. Forse dovevo richiedere un controllo all'infermiera. — Dannazione — incalzò. — Sai quanto è costata quest'operazione ai contribuenti? — Piantala — disse Poitras. — Stavamo per incastrarli tutti e due — insisteva O'Bannon. — Li avevamo e tu hai mandato tutto all'aria. Avevi ricevuto l'ordine di starne fuori. La tua stramaledetta licenza è mia. Lo guardavo. Aveva un'aria petulante molto originale per un addetto agli alti uffici magistrativi. Volevo poggiargli la mano sul capo e assicurarlo che tutto sarebbe andato bene e dirgli di ritirarsi nella sua cameretta. Inve-
ce poggiai la tazza e mi sollevai lentamente. Era doloroso stare in piedi. — Vai a farti fottere O'Bannon. Eri pronto a vendere il bambino per la tua indagine. Respirava ansimando. — Ci saremmo mossi al momento in cui i risultati sarebbero stati massimizzati. L'infermiera ci stava guardando. Mi domandai se avesse mai visto qualcuno spaccare un gesso appena fatto sulla faccia di uno delle Operazioni Speciali. — Giusto — commentai. Poitras si mise in mezzo facendoci sembrare due nani. — Va' alla centrale O'Bannon — disse — e racconta loro che il risultato è stato massimizzato. Digli anche che non sprecheranno più i soldi dei contribuenti per Rudy Gambino e Domingo Duran. O'Bannon puntò il dito verso di me. — Ti sistemerò io. — Vattene prima che ti spacchi la testa — replicai. O'Bannon rivolse un'occhiataccia a Poitras e se ne andò. — Il bambino non sa ancora del padre — disse Lou. — Lasceremo che sia la madre a dirglielo. Mi voltai verso l'infermiera e ci sorridemmo. — Abbiamo scambiato solo due parole. Mort e il bambino non sono stati rapiti mentre tornavano da scuola. Sembra che Mort non sia neanche arrivato a prendere il figlio. Uno dei delinquenti di Duran l'ha prelevato prima che arrivasse alla macchina del padre. Lo fissai. — Ho domandato a quelli di Lancaster. Non c'era nessuna 32 nella Cadillac di Lang. — No? — Abbiamo fatto fare il test della paraffina ed è risultato positivo. Cercai di riflettere. — Mastino? — Sì? — Quando sapremo esattamente com'è andata dobbiamo fare due chiacchiere, O'Bannon o no dobbiamo chiarire un paio di cose. — Lo so. — Non voglio che certi cowboy pensino di poter circolare come nel Far West, quel dannato Pike che cammina per strada con un HK-91 sotto il braccio. Mi sentii molto stanco, quella stanchezza di quando hai dato tutto te
stesso per qualcosa che poi vedi portarti via. — Saremo incriminati? — chiesi. — Baishe è già andato al dipartimento; anche se O'Bannon l'ha preceduto crede di poter sistemare tutto. Non so cosa succederà a Pike. Lo trovano, gli chiedono cosa fa e lui risponde che è un mercenario, e poi tutto quello schifo di pittura sul viso, come fosse nella giungla. Nessuno vuole più vedere queste cose. E Pike non è simpatico a nessuno al dipartimento. — Se al dipartimento ci fossero più persone come Pike ci sarebbero meno O'Bannon. Poitras non commentò. — Se incrimini Pike, incrimini anche me. Poitras sospirò. — Voglio che tu mi dia una mano a stendere il rapporto. — Puoi aspettare? — Non più tardi di domani a mezzogiorno. Ci stringemmo la mano. — Ringrazia Baishe da parte mia — dissi. Mi avviai verso l'uscita. Anche l'infermiera si allontanava con un attraente bruno baffuto. Tipo Julius Erving. Stavano ridendo. Accidenti a lui. — Mastino? — chiamò Lou. Mi fermai. — Almeno non c'era nessun venduto. È già qualcosa. — Certo. 39 Ellen e Perry erano seduti al banco della caffetteria. Mi avvicinai e misi la mano sulla spalla di Ellen. — Andiamo. È ora di tornare a casa. Mi guardò un momento e assentì. Si era lavata il viso, che risultava un po' arrossato per lo sfregare. — Devo passare a prendere le cose che ho lasciato a casa tua. Un poliziotto ci consegnò la Cherokee di Pike e guidai sino a casa. Erano quasi le sei. Aveva smesso di piovere lasciando l'aria pulita. Perry volle che la madre sedesse nel sedile posteriore con lui. Il gatto era in mezzo alla stanza. Quando entrammo e vide Perry, soffiò e andò a nascondersi sotto il divano. Ha sempre un gran senso dell'ospitalità. Mentre Ellen e Perry erano di sopra, andai in cucina e chiamai l'ospedale per avere notizie di Pike. Dissero che era stato operato, le condizioni erano serie ma senza complicazioni e la prognosi buona. Ringraziai e riappesi. Quando ridiscesero con la roba, Ellen aveva cambiato i jeans e la mia
maglietta con un grazioso completino rosa. Pike aveva ragione. Di lì a un anno non avrebbero ricordato l'odore della polvere da sparo e i segni sul viso. In fondo alla scala Perry le chiese del padre. Lei impallidì e mi guardò chiedendomi un aiuto che non le diedi. Doveva fare ciò che riteneva giusto. Portò il figlio nel soggiorno, lo fece sedere e gli disse che il padre era morto. Rimasero lì a lungo mentre Perry piangeva, infine si calmò e le si addormentò in grembo. Verso le otto disse: — Dobbiamo andare adesso. — Si alzò, col figlio di nove anni in braccio come fosse stato un neonato. Mentre guidavo verso Encino disse: — Ce la posso fare. — Sicuro. — Posso tenere la famiglia unita e magari tornare a scuola e andare avanti. — Non ne ho mai dubitato. Mi guardò: — Non mi volterò indietro. Mai. Parcheggiai davanti a casa di Janet Simon. Vidi Cindy guardare attraverso i vetri. — Vuoi che sia presente mentre glielo dici? Un attimo di silenzio. — No. Se avrò bisogno di aiuto lasciamo che venga da Perry. Feci cenno di capire. Una macchina passò illuminandola coi fari. Notai un'espressione senza età nel suo volto. Un senso di maturità e di coscienza che non è comune incontrare sui visi della gente. L'espressione di chi si è assunto le proprie responsabilità. Scendemmo. Mi fece piacere che non si aspettasse che le aprissi la portiera. — Non hai buttato via la tua vita passata con Mort — le dissi. — Mort non era stato rapito e non era coinvolto con quella gente. Loro avevano rapito Perry e lui è andato a cercarli. Ecco perché non si trovava la 32. Forse non c'era quando tu hai avuto bisogno di lui, ma ha cercato di esserci con Perry. È morto cercando di salvarlo. I suoi occhi sembravano profondi come la notte. — Come fai a saperlo? — Poitras ha fatto eseguire il test della paraffina ed è risultato che Mort aveva sparato. Non ne avrebbe avuto motivo a meno che stesse cercando di liberare il figlio. Respirò a fondo fissando la strada. Poi, in punta di piedi, mi diede un tenero bacio. — Grazie. La porta d'ingresso si aprì e Janet Simon apparve nella luce. Avanzam-
mo verso di lei. — Da tutta questa storia hai imparato molte cose oltre a sparare — dissi. — Lo so. — Sei cambiata. Guardò Janet Simon. — Ci dovranno fare l'abitudine a questo cambiamento, eh? L'aiutai a portare Perry. — Vuoi entrare? — mi chiese. Scossi la testa. — Solo se hai bisogno di me. In tal caso resterei. Ma diversamente andrò a trovare Joe. Sorrise e disse che sarebbe venuta a vedere Joe l'indomani. Mi diede un altro bacio sulla guancia e mi salutò. Janet Simon si spostò per farli passare e chiuse la porta. Forse Janet non aveva notato che ero lì. Rimasi al buio, respirando a fondo e guardando la macchina di Pike. Nonostante l'oscurità riuscivo ugualmente a vedere che era un disastro, tutta infangata e polverosa. Mi fermai a un auto-lavaggio su Ventura Boulevard. La lavai e strofinai sinché brillò. Poi salii, abbassai il finestrino e guidai lentamente verso l'ospedale per andare a trovare Joe Pike. FINE