RAY BRADBURY CONSTANCE CONTRO TUTTI (Let's All Kill Constance, 2003) Questo libro è dedicato con affetto a mia figlia AL...
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RAY BRADBURY CONSTANCE CONTRO TUTTI (Let's All Kill Constance, 2003) Questo libro è dedicato con affetto a mia figlia ALEXANDRA, senza la quale, forse, il Terzo Millennio non sarebbe mai arrivato. Capitolo 1 Era una notte buia e tempestosa. È così che si avvince il lettore? Bene, allora, era una notte buia e tempestosa e la pioggia cadeva scura e a rovesci su Venice, California, da un cielo di mezzanotte sconvolto dai lampi. Pioveva dal tramonto e prometteva di continuare fino all'alba: nel diluvio, non una creatura che si azzardasse a muoversi. Le imposte dei bungalow nascondevano le fioche luci azzurre dei nottambuli che vegliavano in attesa di notizie cattive o anche peggiori. Sotto la tempesta, la sola cosa che corresse nel raggio di venti chilometri era la Morte. E qualcuno che la precedeva per sfuggirle. Quel qualcuno bussò disperatamente alla porta sottile come carta del mio bungalow, in faccia all'oceano. Mi saltò il cuore in gola: a me, che ingobbito sulla macchina da scrivere scavavo tombe per curare l'insonnia! Quando risuonarono i colpi in mezzo all'uragano, ero intrappolato in una cripta. Spalancai l'uscio e mi trovai davanti Constance Rattigan. O meglio, come tutti la chiamavano allora, La Rattigan. Una serie di fulmini-flash guizzarono in cielo e la fotografarono una decina di volte: lampo, buio, lampo, buio: Rattigan. Quarant'anni di trionfi e disastri racchiusi nel corpo di un leone marino. Abbronzatura dorata, un metro e settanta di altezza, eccola che viene ed eccola che va, sempre pronta a fare un bagno al tramonto e a tornare, stando alle dicerie, non prima dell'alba, portata dalle onde. Potete trovarla in spiaggia a tutte le ore che parla a voce spiegata con gli animali marini; e a volte, con un martini per mano, si trastulla nella piscina accanto all'oceano,
tutta nuda al sole. Come alternativa al sole, ogni tanto scende nella sala di proiezione giù in cantina per guardarsi correre interminabilmente sul soffitto bianco insieme ai fantasmi di Eric Von Stroheim, Jack Gilbert o Rod La Rocque; finché, quando le viene voglia di abbandonare il sorriso silenzioso che sfoggia sui muri dello scantinato, sparisce di nuovo nella corrente marina, bersaglio mercuriale che il Tempo e la Morte non riusciranno a ghermire. Constance. La Rattigan. «Dio santo, cosa ci fai tu qui?» gridò, il volto indomabile e abbronzato solcato da pioggia o forse lacrime. «Dio santo, e tu?» «Rispondi alla mia domanda!» «Maggie è andata all'est, a un convegno di docenti. Io sto cercando di finire un nuovo romanzo. La casa che abbiamo nell'interno è abbandonata. Il mio ex padrone di casa ha detto che l'appartamento sulla spiaggia era libero, che potevo venirci a scrivere e a nuotare. Ed eccomi qua. Ma perdio, Constance, entra o affogherai!» «È già successo. Stai indietro!» Lei non si mosse. Per un lungo momento rimase dov'era, rabbrividendo alla luce dei lampi e al clamore dei tuoni. Per un attimo mi parve di vedere la donna che conoscevo da anni, la donna più reale del reale che si tuffava continuamente tra le onde e ne emergeva, la donna di cui avevo visto l'immagine insinuarsi nelle vite di Von Stroheim e altri fantasmi del muto, sulle pareti e il soffitto della sala di proiezione nello scantinato. Poi tutto questo cambiò. Era sulla porta, senza più luci e suoni. Sembrava una bambina che stringa la borsetta al petto per ripararsi dal freddo e tenga gli occhi chiusi per una paura senza nome. Per me era difficile credere che Rattigan, l'eterna stella del cinema, fosse venuta a trovarmi nel mezzo del temporale. Finalmente dissi di nuovo: «Entra, entra». Lei ripeté in un sussurro: «Stai indietro!». Poi mi si precipitò addosso, mi diede un bacio aspirante che mi lasciò la lingua tutta salata e corse dentro. A metà stanza pensò di tornare sui suoi passi e mi sfiorò delicatamente una guancia. «Accipicchia, se hai un buon sapore» disse la Rattigan. «Peccato che ho tanta paura!» Affondò sul divano agitando i gomiti e lo inumidì. Presi un telo da ba-
gno, le feci togliere i vestiti e la avvolsi confortevolmente. «Fai così con tutte le tue donne?» domandò, battendo i denti. «Solo nelle notti buie e tempestose.» «A Maggie non lo dirò.» «Stai ferma, Rattigan, per l'amor di Dio.» «Gli uomini mi hanno sempre detto così. Poi mi hanno infilato un paletto nel cuore.» «Batti i denti perché sei mezzo annegata o per paura?» «Senti» cominciò, appoggiandosi esausta al divano. «Ho corso da casa mia fin qua, non sapevo che ti avrei trovato perché te n'eri andato da anni, ma perdio è stato bellissimo vederti! Tu mi devi salvare.» «Salvare da cosa, in nome del cielo?» «Dalla morte.» «Constance, nessuno la scampa, con quella.» «Non dire così! Non sono venuta per morire. Sono qui per vivere per sempre, Cristo!» «Quella è una preghiera, Constance, non la realtà.» «Tu vivrai per sempre, grazie ai tuoi libri.» «Una quarantina d'anni sì, forse.» «Non sputare su quarant'anni. Io saprei fare un buon uso anche di meno.» «Potresti fare buon uso di un bicchierino, piuttosto. Rimani dove sei.» Presi una mezza bottiglia di Cold Duck. «Gesù, cos'è quello?» «Non posso soffrire lo scotch e questo è el económico, roba da scrittori. Bevi.» «È cicuta.» Constance bevve e fece una smorfia. «Presto, qualcos'altro!» Nel piccolissimo bagno trovai una fiaschetta di vodka tenuta per le notti in cui l'alba è ancora lontana. Constance l'afferrò. «Vieni da mamma!» Rischiava di strozzarsi. «Piano, Constance.» «Tu non hai i crampi della morte come me.» Trangugiò altri tre sorsi e mi ridiede la fiaschetta, con gli occhi chiusi. «Dio è buono.» Poi rimise la testa sui cuscini. «Vuoi sentire la storia della cosa che m'inseguiva sulla spiaggia?» «Aspetta un momento.» Mi portai alle labbra la bottiglia di Cold Duck e
bevvi. «Forza.» «Ecco» incominciò. «Era la Morte.» Capitolo 2 Avrei voluto che ci fosse più vodka, nella fiaschetta ormai vuota. Rabbrividii e accesi il piccolo radiatore a gas nell'ingresso, rovistai in cucina e trovai una bottiglia di Ripple. «Diavolo» gridò la Rattigan, «ma questo è tonico per capelli!» Bevve e rabbrividì. «Dove eravamo rimasti?» «A te che correvi.» «Già, e la cosa da cui scappavo m'inseguiva.» Il vento bussò alla porta d'ingresso. Afferrai la mano di Constance fino a quando smisero di bussare. Lei prese la borsetta e mi fece vedere un libricino, con mano tremante. «Guarda.» C'era scritto Elenco telefonico di Los Angeles, 1900. «Buon dio» mormorai. «Sai perché te l'ho mostrato?» fece Constance. Sfogliai le pagine da A fino a G e H, e poi M, N, O fino in fondo, e vidi i nomi, i nomi di un anno perduto, oddio i nomi... «Imprimiteli» disse Constance. Cominciai dall'inizio. A come Alexander, Albert e William. B come Burroughs. C come... «Buon dio» ripetei. «Nomi del 1900, ma noi siamo nel 1960.» Guardai Constance, che sotto l'eterna abbronzatura era impallidita. «Di queste persone soltanto poche sono ancora vive.» Guardai di nuovo i nomi. «Non avrebbe senso chiamare questi numeri, o almeno la maggior parte. Questo è...» «Cosa?» «Un Libro dei Morti.» «Sciocchezze.» «Un Libro dei Morti» insistei. «Egiziano. Fresco di tomba.» «Fresco, sì.» Constance aspettava. «Qualcuno te l'ha mandato?» chiesi. «C'era un biglietto?» «Non ce n'è bisogno, ti pare?» Sfogliai altre pagine. «No. Dato che tutti questi sono morti, il significato è...»
«Che io morirò fra non molto.» «Sei l'ultima dell'elenco?» «Sì» rispose Constance. Mi alzai, aumentai la temperatura del radiatore e rabbrividii. «Che cosa spaventosa.» «Spaventosa.» «Elenchi telefonici» mormorai. «Maggie dice che mi fanno piangere anche quelli, ma dipende da quali elenchi e quando.» «Dipende, infatti. Ora...» Dalla borsetta prese un altro libricino. «Apri questo.» Lo aprii e lessi "Constance Rattigan" seguito dal suo indirizzo sulla spiaggia. Nelle prime pagine erano tutte A. Abrams, Alexander, Alsop, Allen. Continuai. Baldwin, Brandley, Benson, Burton, Buss... Il freddo mi irrigidì le dita. «Sono tutti amici tuoi, no? Li conosco, questi nomi.» «E...?» «Non proprio tutti, ma la maggior parte sono seppelliti a Forest Lawn. Solo che stanotte qualcuno li ha dissepolti grazie a questo libro dei cimiteri» dissi. «Sì, è peggio dell'elenco 1900.» «Perché?» «Questo l'ho regalato io stessa, anni fa. All'Associazione umanitaria di Hollywood. Non avevo il coraggio di cancellare i nomi, anche se i morti si accumulavano e restavano vivi in pochissimi. Ho regalato quel taccuino e adesso mi ritorna, l'ho trovato stasera quando sono uscita dal mare.» «Gesù, fai il bagno con questo tempo?» «Con il bello o con la pioggia. Solo che stasera ho trovato quell'affare nel mio giardino, come una lapide sopra una tomba.» «Nessun biglietto?» «Chi me l'ha mandato non ha voluto fare commenti. È abbastanza eloquente.» «Cristo.» Presi il vecchio elenco telefonico in una mano, il taccuino della Rattigan nell'altra. «Due Libri dei Morti, o quasi» osservai. «Quasi, proprio così» fece Constance. «Guarda qui, e qui, e qui.»
Mi indicò tre nomi in diverse pagine, ognuno contrassegnato da un cerchio rosso e una croce. «Sono nomi speciali?» chiesi. «Infatti. Quelli sono i vivi, o almeno credo. Ma sono contrassegnati, no? Una croce per ciascuno, cosa significherà?» «Un contrassegno di morte? I prossimi della lista?» «Sì, no, non lo so... mi fa paura. Guarda.» Il suo nome, sul frontespizio, era cerchiato di rosso e aveva la croce. «Un Libro dei Morti con l'elenco dei morituri?» «Tenendolo in mano, che sensazione ti dà?» «È freddo» risposi. «Terribilmente freddo.» La pioggia batteva sul tetto. «Chi sarebbe capace di farti una cosa del genere, Constance? Dimmi qualche nome.» «Mah, ce ne saranno diecimila.» Fece una pausa per calcolare meglio. «Novecento ti sembra più credibile? Decina più, decina meno.» «Dio santo, abbiamo una marea di indiziati.» «Nell'arco di trent'anni di vita? Anzi sono pochi, direi.» «Pochi!» esclamai. «Erano in spiaggia a fare la fila.» «Non avresti dovuto frequentare tanta gente.» «Anche se tutti gridavano "Rattigan"?» «Nessuno ti obbligava ad ascoltarli.» «Ma dove siamo, a una funzione battista?» «Scusami.» «Fa niente.» Prese l'ultima sorsata dalla bottiglia e fece una smorfia. «Mi aiuteresti a trovare quel figlio di puttana... o quei figli di puttana, se i Libri dei Morti li hanno spediti due pazzi diversi?» «Non sono un detective, Constance.» «E allora come mai stavi per affogare nel canale con quel deviato di Shrank?» «Be'...» «Come mai ti ho visto al Fenix Studio sulla cattedrale di Notre Dame insieme al gobbo? Per piacere, dai una mano alla mamma.» «Ti darò la mia risposta domani.» «Niente da fare, o stanotte non si va a dormire. Stringi queste povere ossa, subito...» Si alzò con i due Libri dei Morti e attraversò la stanza. Aprì la porta in
faccia alla pioggia scura e alle onde che battevano la spiaggia, agitando i due trofei. «Aspetta!» gridai. «Se devo darti una mano, avrò bisogno di quelli!» «Bravo ragazzo.» Constance richiuse la porta. «E ora, letto e carezze? Ma niente acrobazie.» «Non ci pensavo proprio, Constance» risposi. Capitolo 3 Alle due e quarantacinque, nel mezzo del nero temporale, un fulmine straordinario colpì la terra dietro il bungalow. Il tuono scoppiò, nei muri agonizzarono i topi. Rattigan saltò in mezzo al letto. «Salvami!» gridò. «Constance» dissi scrutando nel buio. «Ce l'hai con te stessa, con Dio o con me?» «Con chiunque, purché mi ascolti.» «Ti ascoltiamo.» Si buttò fra le mie braccia. Alle tre del mattino suonò il telefono: è l'ora in cui le anime muoiono, se devono morire. Alzai la cornetta. «Chi c'è a letto con te?» chiese Maggie da un paese senza vento e senza pioggia. Cercai la faccia abbronzata di Constance, con il teschio bianco sotto la pelle estiva. «Nessuno» dissi. Ed era quasi vero. Capitolo 4 Alle sei l'alba era spuntata da qualche parte, ma era nascosta dalla pioggia. I lampi saettavano ancora come flash, prendendo fotografie della risacca che frustava la spiaggia. Un fulmine inverosimile si abbatté sulla strada e io seppi che, se mi fossi allungato dall'altra parte del letto, l'avrei trovata deserta. «Constance!» La porta d'ingresso era spalancata come l'uscita da un palcoscenico e la
pioggia batteva sul tappeto; i due libretti erano a terra, in modo che li notassi. «Constance» dissi avvilito, e mi guardai intorno. Perlomeno si è rivestita, pensai. Feci il suo numero: silenzio. Infilai l'impermeabile e mi avviai sulla spiaggia, accecato dalla pioggia; mi fermai davanti alla sua casa simile a una fortezza moresca, vividamente illuminata dentro e fuori. Non c'era ombra che si muovesse. «Constance!» gridai. Le luci erano rimaste accese e il silenzio regnava fra le luci. Un'onda mostruosa si avventò sulla spiaggia. Cercai eventuali impronte che puntassero verso il mare. Nessuna. Grazie a Dio, pensai. E comunque la pioggia le avrebbe cancellate. «È okay per te!» gridai. Poi andai via. Capitolo 5 Più tardi attraversai il sentiero polveroso che corre tra gli alberi della giungla e le azalee selvatiche. Portavo due confezioni da sei birre; bussai alla porta in stile africano di Crumley e aspettai. Bussai di nuovo. Silenzio. Posai una confezione da sei davanti alla porta e feci qualche passo indietro. Dopo otto o nove lunghi respiri, la porta si aprì quel tanto da permettere a una mano macchiata di nicotina di afferrare le birre e tirarle dentro. L'uscio si richiuse. «Crumley» gridai, correndo verso la porta. «Vattene» fece una voce dall'interno. «Crumley, sono il Matto. Fammi entrare!» «Nient'affatto» rispose la voce di Crumley, adesso più liquida perché aveva aperto la prima birra. «A proposito, ha chiamato tua moglie.» «Maledizione!» mormorai. Crumley inghiottì una sorsata. «Ha detto che ogni volta che lascia la città tu cadi dal molo e finisci nel guano fino al collo, oppure ti eserciti al karate con una coppia di nane lesbiche.» «Non può aver detto questo!» «Senti, Willie» - mi chiama così perché è il diminutivo di Shakespeare -
«io sono vecchio e non ne posso più di caroselli in mezzo ai cimiteri e uomini coccodrillo che infestano i canali a mezzanotte. Posa l'altra confezione di birra e ringrazia il cielo che hai una moglie come la tua.» «Dannazione» borbottai. «Dice che se non la smetti e cominci a fare il bravo tornerà a casa prima.» «E il bello è che lo farebbe» bofonchiai. «Non c'è niente come una moglie che torni prima del previsto, per guastare la festa al caos. Aspetta.» Crumley prese una sorsata di birra. «Sei un bravo ragazzo, William, ma stavolta non ti dico grazie.» Posai l'altra confezione da sei, ci misi sopra l'elenco telefonico del 1900 con l'indirizzario personale della Rattigan e feci qualche passo indietro. Dopo un pezzo la mano emerse di nuovo, tastò i libricini come un cieco tasterebbe la scrittura Braille, li buttò da una parte e prese la birra. Aspettai ancora che la porta si riaprisse. La mano curiosa raccattò i due fascicoli e li portò dentro. «Così va bene» esclamai. Così va bene. Tempo un'ora e si farà vivo lui. Capitolo 6 Tempo un'ora, Crumley si fece vivo. Non mi chiamò William. Disse invece: «Assurdità, ciarpame, indovinelli. Tu sì che sai catturare l'attenzione della gente. Cos'è questa storia dei Libri dei Morti?». «Perché li chiami così?» «Diavolo, sono nato all'obitorio e mi hanno svezzato in un camposanto, dopodiché mi hanno immatricolato nella Valle dei Re a Karnak, che non ricordo se fosse nell'Alto o Basso Egitto. Certe notti sogno di essere avvolto nel creosoto, e non dovrei riconoscere un Libro dei Morti quando mi viene servito con la birra?» «Sempre lo stesso vecchio Crumley» commentai. «Vorrei non esserlo. Quando riattaccherò telefonerò a tua moglie!» «Non farlo.» «Perché?» «Perché...» Mi interruppi, cercai di riprendere fiato e me ne venni fuori con: «Perché ho bisogno di te!». «Assurdità.»
«Hai sentito quello che ho detto?» «Ho sentito» borbottò. «Cristo.» E alla fine: «Ci vediamo dalla Rattigan. Verso il tramonto. Quando i babau escono dal mare per venirti a prendere». «Dalla Rattigan.» Riattaccò prima di me. Capitolo 7 Tutto di notte, è questo il segreto. Nulla deve succedere a mezzogiorno: il sole è troppo luminoso, le ombre sono timide, il cielo brucia e niente osa muoversi. Non è divertente esporsi al sole, ma a mezzanotte, quando le ombre sotto gli alberi raccolgono il pizzo della sottana e cominciano a danzare, il divertimento è assicurato. Poi viene il vento, cadono le foglie. I passi echeggiano, le travi e le assi del pavimento scricchiolano. La polvere cade sulle tombe dalle ali degli angeli. Le ombre svolazzano come corvi. Prima dell'alba i lampioni stradali muoiono e la città diventa cieca per un po'. È allora che cominciano tutti i bei gialli, che si scatenano le avventure. Non dovrebbe mai arrivare l'alba, e noi tratteniamo il respiro per fermare le tenebre, risparmiare il terrore, inchiodare le ombre. È giusto, quindi, che Crumley e io c'incontrassimo sulla spiaggia, davanti alla fortezza moresca che era la casa al mare di Constance Rattigan, nell'ora in cui un'oscura risacca si abbatteva sulla riva tenebrosa. C'incamminammo e demmo un'occhiata all'interno. Le porte erano spalancate, le luci accese e Gershwin suonava attraverso i fori di un rullo per piano meccanico del 1928 destinato a ripetersi. Un'esecuzione multipla, anche se non c'erano altri ascoltatori all'infuori di Crumley e me; avanzammo in mezzo al concerto, ma di Constance neppure l'ombra. Aprii la bocca e stavo per scusarmi di aver fatto venire Crumley. «Bevi il tuo gin e stai zitto» fece lui, lanciandomi una birra. Poi continuò: «Che diavolo significa tutto questo?». Sfogliò le pagine del Libro dei Morti personale della Rattigan. «Qui, qui e anche qui.» Cinque o sei nomi erano circondati da un cerchio rosso e accompagnati da croci disegnate da poco, con forza. «Constance suppone, e io sono d'accordo, che i cerchi indichino persone ancora vive ma non per molto. Tu che ne pensi?»
«Io non penso affatto» rispose Crumley. «È il vostro picnic, amico. Avevo già preparato tutto per andare a Yosemite e passarci il week-end, poi arrivi tu e ti comporti come uno di quei produttori che pensano di migliorare il profumo di una sceneggiatura pisciando su una scena sì e una no. Farò meglio ad andarmene dritto a Yosemite. Le intuizioni ti fanno venire una faccia da coniglio selvatico.» «Aspetta» dissi, perché stava cominciando a muoversi. «Non vuoi sapere quale di questi signori è ancora vivo o magari è appena morto?» Gli strappai il taccuino di mano e glielo tirai di nuovo, in modo che fosse costretto a prenderlo. Si aprì su una pagina con un'enorme croce vicino a un nome che sembrava preso da uno striscione del circo. Crumley fece gli occhiacci e io lessi il nome sottosopra: Califia, regina Califia, Bunker Hill. Nessun indirizzo, ma c'era il numero di telefono. Crumley non riusciva ad alzare lo sguardo e continuava a fare gli occhiacci. «Sai dov'è?» domandai. «Bunker Hill, per l'inferno, lo so. Sono nato qualche isolato più a nord. È un calderone anarchico di messicani, zingari e irlandesi con lo scarico della stufa fuori della finestra, rifiuti bianchi e neri. Una volta andavo da quelle parti per sbirciare da Callahan e Ortega, Pompe funebri. Speravo di vedere cadaveri veri. Dio santo, che nomi: Callahan e Ortega fra una miriade di Juarez II, poveracci di Guadalajara, fiori appassiti di Rosarita Beach e puttane di Dublino. Assurdo!» Improvvisamente Crumley alzò la voce, furioso con se stesso per aver nominato quei posti esotici ed essersi mezzo venduto alla mia prossima impresa. «Mi stavi ascoltando? Hai sentito tutto? Cielo!» «Ho sentito» dissi. «E ora, perché non chiamiamo uno di quei numeri col cerchietto rosso e vediamo se il proprietario è ancora sopra la terra o sotto?» E prima che potesse dissuadermi, afferrai il taccuino e risalii la collina di sabbia davanti alla piscina scoperta della Rattigan, tutta illuminata e con un apparecchio telefonico sul tavolo da giardino in vetro. Trattenni il fiato, non osando guardare Crumley che non si era mosso mentre facevo il numero. Una voce rispose alcuni chilometri più in là. Il numero non era più in servizio. Maledizione, pensai. E poi... Un momento! Mi rivolsi rapidamente alle informazioni, ottenni quello che volevo e composi il nuovo numero, tenendo la cornetta staccata dall'orecchio in
modo che sentisse anche Crumley. «Callahan e Ortega, buona sera» disse una voce ricca e vellutata come se venisse dal palcoscenico dell'Abbey Theatre. Feci un sorriso estatico e vidi Crumley, ai piedi della collinetta, che si grattava. «Callahan e Ortega» ripeté la voce, ora più forte perché la sua suscettibilità era stata toccata. Lunga pausa, non aprii bocca. «Ma insomma, chi è?» Riattaccai prima che Crumley mi arrivasse addosso. «Figlio di puttana» disse, ormai conquistato. «È a due o tre isolati da dove sei nato?» «Quattro, bastardo connivente.» «E allora?» insistei. Crumley sfiorò l'indirizzario della Rattigan. «Quasi un Libro dei Morti ma non proprio, eh?» fece. «Vuoi provare con un altro numero?» Aprii il taccuino e mi fermai alla lettera R. «Qui ce n'è uno che è ancora meglio della regina Califia.» Crumley strinse gli occhi. «Rattigan, monte Lowe. Che Rattigan sarà, questo che vive a monte Lowe? È il posto in cui il trenino rosso portava la gente a fare il picnic, ma non funziona più da una vita.» I ricordi oscurarono la faccia di Crumley. Passai a un altro nome. «Rattigan: cattedrale di santa Vibiana.» «Per l'amore di Gesù, che specie di Rattigan si nasconde nella cattedrale di santa Vibiana?» «L'hai detto proprio come un cattolico resuscitato.» Scrutai l'espressione torva di Crumley, ormai permanente. «Vuoi scoprirlo? Io adesso ci vado.» Feci tre passi dimostrativi prima che Crumley imprecasse. «E come pensi di arrivarci, per l'inferno, senza macchina e senza patente?» Continuai a voltargli la schiena. «Mi accompagni tu.» Ci fu un lungo silenzio minaccioso. «D'accordo?» tentai. «Al diavolo, credi di saper rintracciare il posto dove un tempo saliva il treno di monte Lowe?» «I miei mi ci hanno portato la prima volta che avevo diciotto mesi.» «Significa che puoi indicarmi la strada?» «Memoria totale.» «Ma stai zitto» disse Crumley, buttando cinque o sei bottiglie di birra nella vecchia carretta. «E sali in macchina.»
Entrammo nella vettura e lasciammo Gershwin che salutava Parigi dal piano meccanico. Ci allontanammo. «Non dire niente» fece Crumley. «Limitati a indicare con la testa: sinistra, destra oppure dritto.» Capitolo 8 «Che sia dannato se so perché sto facendo tutto questo» brontolò Crumley, che stava per mettersi a guidare dal lato sbagliato della strada. «Ho detto, che sia dannato se so perché diavolo...» «Ti ho sentito» risposi, guardando le montagne e i primi contrafforti che si avvicinavano. «Sai chi mi ricordi?» bofonchiò Crumley. «La mia prima e unica moglie: sapeva come incantarmi con le sue grazie, le sue dimensioni e certi gran sorrisi.» «Io ti starei incantando?» «Prova a negarlo e ti butto fuori dalla macchina. Quando mi vedi arrivare fai sempre finta di essere immerso nelle parole crociate, ma prima che tu abbia scritto quattro definizioni mi tocca prendere la matita e fare il resto da me.» «Davvero mi comporto così, Crumley?» «Non farmi incazzare! Li guardi quei segnali stradali? Fallo adesso, e dimmi perché ti sei imbarcato in questa folle spedizione.» Guardai il taccuino della Rattigan che tenevo in grembo. «Constance ha detto che qualcuno la inseguiva. Che era la Morte oppure uno dei nomi in questa rubrica. Forse è stato uno di loro a mandargliela, per uno scherzo di cattivo gusto. O forse è stata lei a corrergli in braccio, come noi adesso, per vedere se è proprio lui il peccatore che manda elenchi d'oltretomba ad attrici bambine e impressionabili.» «Rattigan non è una bambina» osservò Crumley. «Sì, invece. Non sarebbe stata così grande, sullo schermo, se non avesse mescolato una pozione di Spirito di Bambina a quelle acrobazie erotiche. Non è la Rattigan anziana a essersi spaventata: è la scolaretta terrorizzata che corre nella foresta nera... Hollywood piena di mostri.» «Stai preparando uno di quei tuoi manicaretti natalizi al sugo di pazzia?» «Ti sembro pazzo?» «No comment. Ma perché uno di questi amici del cerchio rosso le avrebbe mandato due taccuini pieni di ricordi avariati?»
«E perché no. Ai suoi tempi Constance ha voluto bene a molta gente. Così, tanti anni dopo, per un motivo o per l'altro c'è molta gente che la odia. Alcuni sono stati respinti, altri dimenticati o lasciati ai margini. Lei è diventata famosa, loro sono stati trovati fra i rifiuti ai lati della strada. E magari sono vecchi, stanno morendo e prima di andarsene vogliono sciupare ogni cosa.» «Cominci a ragionare come me» disse Crumley. «Dio santo, spero di no. Voglio dire...» «Va bene, va bene. Non sarai mai un Crumley, proprio come io non sarò mai Jules Verne junior. Ma dove diavolo siamo?» Alzai in fretta lo sguardo. «Ehi» dissi, «ci siamo. Monte Lowe! Dove il vecchio convoglio rosso stramazzò e tirò le cuoia tanto tempo fa.» «Il professor Lowe» aggiunsi, leggendo un ricordo fluttuante dietro le mie palpebre «è l'uomo che ha inventato la fotografia dal pallone aerostatico durante la Guerra Civile.» «E questa dove l'hai pescata?» esclamò Crumley. «L'ho pescata» risposi, turbato. «Sei una miniera di informazioni.» «Non credo proprio» risposi, offeso. «Adesso siamo sul monte Lowe, giusto? E prende il nome dal professor Lowe e dal suo treno a scartamento ridotto per scalare montagne, è così?» «Già, già, proprio così» brontolò Crumley. «Come ti dicevo, il professor Lowe inventò la fotografia dal pallone ad aria calda e permise di scattare foto del nemico durante la grande guerra fra gli stati. I palloni e una nuova invenzione, il treno, furono ciò che permise al Nord di vincere la guerra.» «Okay, okay» brontolò Crumley. «Sono già fuori dalla macchina e pronto a dare la scalata.» Mi sporsi dal finestrino e guardai il lungo sentiero soffocato dalle erbacce che serpeggiava su per la montagna, fra le ombre della sera. Chiusi gli occhi e recitai: «È lungo più o meno cinque chilometri, fino alla cima. Vuoi davvero fartela a piedi?». Crumley diede un'occhiata alla base della montagna. «Diamine, no.» Tornò in macchina e chiuse lo sportello con un colpo secco. «C'è la possibilità di cappottarci nello strapiombo? Saremmo perduti.» «La possibilità c'è sempre. Avanti!»
Crumley fece avanzare la nostra carretta verso l'inizio del sentiero cieco, spense il motore, scese, avanzò di qualche passo e scalciò la terra, poi si mise a raccogliere erbacce. «Alleluia!» esclamò. «Ferro, acciaio! I vecchi binari ci sono ancora. Non si sono dati la pena di eliminarli, li hanno solo seppelliti.» «Visto?» feci io. Con il volto paonazzo, Crumley si precipitò dentro di nuovo, sommergendo quasi l'abitacolo. «E bravo furbo! La macchina non parte.» «Metti il piede sull'acceleratore.» «Maledizione!» Crumley schiacciò il pedale. La macchina sobbalzò. «Stramaledetti ragazzini che sanno tutto!» Cominciammo a salire. Capitolo 9 La strada che portava alla montagna correva su tutti e due i lati in mezzo alla natura incontrollata. La stagione secca era venuta presto e aveva bruciato l'erba selvatica, riducendola a una massa crespa e fragilissima. Nella luce del sole che svaniva rapidamente, il fianco della montagna aveva il colore del grano cotto dal sole fino in cima e l'erba crepitava. Due settimane prima qualcuno aveva gettato un fiammifero e il fianco del monte era esploso tra le fiamme. I quotidiani avevano scritto grandi titoli e al telegiornale l'incendio aveva avuto il massimo risalto: il fuoco è così bello. Ma adesso l'incendio era finito e anche la stagione secca. Nell'aria c'era odore di fuoco da poco domato e Crumley e io continuavamo a salire per il sentiero serpeggiante che porta al monte Lowe. A un certo punto Crumley disse: «È un bene che tu non possa vedere dalla mia parte. C'è un salto di trecentocinquanta metri». Mi strinsi le ginocchia. Crumley lo notò. «Forse sono solo centocinquanta.» Chiusi gli occhi e dietro le palpebre vidi qualcosa. «La ferrovia di monte Lowe... In parte era elettrica, in parte era trainata da un cavo.» Crumley, incuriosito, disse: «E allora?». Tolsi le mani dalle ginocchia. «La ferrovia aprì il quattro luglio 1893, con dolci a volontà, gelati e migliaia di passeggeri. Nella prima vettura viaggiava la Banda degli Ottoni di
Pasadena City e suonava Salve, Columbia, ma visto che dopo un po' si arrampicarono verso le nuvole passarono a Più vicini a Te o Signore, motivo che fece piangere circa diecimila persone. Proseguendo l'ascensione, più tardi decisero di suonare Su, sempre più su perché ormai erano vicini alla vetta. Al seguito venivano tre vagoni a cavo della Los Angeles Symphony: i violini nel primo, gli ottoni nel secondo e timpani e fiati nel terzo. Nella confusione, il conducente fu dimenticato a terra col suo oboe. Nella stessa giornata, ma più tardi, salì il Coro del Tabernacolo Mormone di Salt Lake City, pure in tre vagoni: nel primo i soprani, poi i baritoni e infine i bassi. Cantavano Avanti, soldati di Cristo, il che parve molto appropriato perché scomparivano nella nebbia. Secondo le fonti dell'epoca, diecimila miglia di nastri rossi, bianchi e blu coprivano i pantografi, le vetture a cavo e gli altri convogli. Quando finalmente la giornata fu finita, una donna isterica che ammirava il professor Lowe per aver ideato la ferrovia del monte con i suoi annessi di alberghi e taverne, fu sentita dichiarare: "Lode a Dio da cui vien tutto il bene e lode anche al professor Lowe", al che tutti piansero di nuovo.» Raccontai tutto questo. Crumley disse: «Che io sia dannato». Aggiunsi: «La ferrovia Pacific Electric copriva il tragitto fra monte Lowe, l'Allevamento struzzi di Pasadena, lo Zoo dei leoni a Seleg, la missione di San Gabriel, Monrovia, il Ranch di Baldwin e Whittier». Crumley borbottò qualcosa fra i denti, poi continuò a guidare in silenzio. Lo presi per un segno e chiesi: «Siamo arrivati?». «Per tutti i corbezzoli» fece lui. «Apri bene gli occhi.» Li aprii. «Penso che siamo arrivati.» Era vero, c'erano i resti della vecchia stazione ferroviaria e i moncherini anneriti del padiglione bruciato. Uscii dalla macchina e insieme a Crumley guardai ettari ed ettari di terreno che correvano in eterno verso il mare. «Cortez non ha mai visto un panorama simile» disse Crumley. «Lo spettacolo è grande, ti domandi perché non abbiano ricostruito tutto.» «Motivi politici.» «È sempre così. E adesso, dove diavolo lo troviamo il nostro Rattigan in un posto come questo?» «Là!» A una trentina di metri, dietro un'ampia distesa di alberi del pepe, c'era un piccolo cottage sepolto nella terra. Il fuoco non l'aveva toccato, ma la
pioggia aveva rovinato la tinteggiatura e sciupato il tetto. «Dev'esserci qualcuno, là dentro» disse Crumley mentre avanzavamo in quella direzione. «C'è sempre qualcuno, altrimenti noi che verremmo a farci?» «Vai a controllare tu. Io resterò qui a maledirmi per non aver portato dell'altra birra.» «Razza di detective.» Andai al cottage e ci volle del bello e del buono per aprire la porta. Quando finalmente cedette, arretrai spaventato e diedi un'occhiata all'interno. «Crumley» dissi finalmente. «Sì?» fece lui venti metri più in là. «Vieni a vedere.» «C'è qualcuno?» disse. «Ancora meglio» risposi con un senso di timor sacro. Capitolo 10 Entrammo in un labirinto di carta stampata. Labirinto, inferno, catacomba di stretti corridoi in mezzo a cataste di giornali vecchi: il "New York Times", la "Chicago Tribune", il "Seattle News", la "Detroit Free Press". Un metro e sessanta sulla sinistra, un metro e ottanta a destra e al centro un sentiero in cui potevi intrufolarti a stento, con il timore di provocare valanghe soverchianti e assassine. «Santa colonna!» esclamai. «Puoi dirlo forte» brontolò Crumley. «Gesù, devono essere decine di migliaia fra giornali e supplementi domenicali. Strato su strato, guardali: gialli in fondo, bianchi in cima. E non solo un mucchio, ma cento... mille, Dio santo!» Perché la volta della catacomba sfumava nella penombra e le colonne di notizie impilate curvavano al di là della vista. In seguito dichiarai che fu come trovarsi nei panni di Lord Carnarvorn davanti alla tomba di Tutankamen, nel 1922. Dove portavano quei titoli decrepiti e necrologi a iosa? Ad altre colonne di giornali, e altre ancora. Crumley ed io proseguimmo, anche se non c'era quasi spazio per le nostre pance e i sederi. «Dio, se venisse un terremoto di quelli giusti...» mormorai. «È già venuto!» esclamò una voce da molto lontano, in fondo al tunnel di carta impilata. E la mummia aggiunse: «Ha mandato all'aria tutto quan-
to, per poco non mi riduceva a una frittata!». «Chi va là?» chiesi. «Chi è?» «Un bel labirinto, eh?» La voce della mummia si fece acuta per il piacere. «L'ho costruito io stesso! Edizioni del mattino, ultimissime, inserti per le corse, i fumetti della domenica... qualunque cosa! E da quarant'anni. Una biblioteca-museo della notizia, tutto ciò che ormai non usa più. Venite, io sono da qualche parte dietro la curva a sinistra.» «E muoviti» mi esortò Crumley. «Deve pur esserci uno spiraglio con un po' d'aria fresca.» «Eccomi» continuò la voce. «Ormai siete vicini. Tenete la sinistra e mi raccomando non fumate. Questo posto è una maledetta trappola infiammabile fatta di titoli: "Hitler prende il potere", "Mussolini bombarda l'Etiopia per buona misura", "Roosevelt è morto", "Churchill innalza la cortina di ferro". Grandiosi, eh?» Girammo un ultimo angolo fra le cataste di giornali e trovammo la radura in mezzo alla foresta. All'estremità della radura c'era una branda militare e sulla branda quello che sembrava un lungo insaccato o una mummia rampante. L'odore era forte e pensai: né morto né vivo. Mi avvicinai lentamente alla branda, seguito da Crumley. Adesso riconoscevo l'odore: non era la morte, ma la gran sporcizia. Il mucchio di stracci si mosse. Antiche coperte scivolarono da una faccia che sembrava una secca fangosa segnata da rivoli d'acqua. Una debole luce brillò fra due palpebre avvizzite. «Scusate se non mi alzo» tremò la bocca di cartapecora. «Chez Monsieur de Armentières non esco più dal letto, e ormai sono quarant'anni.» Qui fece un ghigno che quasi lo uccise. Poi venne la tosse. «No, no, sto bene» sussurrò. La testa ricadde indietro. «Ma quanto tempo ci avete messo?» «Quanto...?» «Sì, vi aspettavo!» esclamò la mummia. «In che anno siamo, 1932? 1946? 1950?» «Fuochino.» «1960, giusto?» «Maledettamente» fece Crumley. «Non sono uno che fa battute a tempo perso.» La bocca polverosa e impastata del vecchio tremò. «Mi avete portato il mangime?» «Mangime?»
«No, no, non può essere. È un ragazzino quello che mi porta da mangiare attraverso i cunicoli di carta, una scatoletta alla volta sennò crolla tutto. Voi non siete lui, vero?» Ci guardammo alle spalle e scuotemmo la testa. «Vi piace il mio attico? Significato originale: luogo in cui attiravano la gente perché non si disperdesse. Poi gli abbiamo dato un altro senso e abbiamo aumentato l'affitto. Ma che stavo dicendo? Ah, sì: vi piace questo posticino?» «Sembra la biblioteca di Scienza Cristiana» osservò Crumley. «Molto di più» protestò Ramsete II. «L'abbiamo cominciata nel 1925 e non siamo più riusciti a fermarci. Afferra e colleziona, colleziona e afferra, ed è tutto cominciato il giorno in cui dimenticai di buttare il giornale del mattino. In breve mi trovai proprietario di una settimana di quotidiani arretrati, e poi di altra spazzatura marca "Tribune"/"Times"/"Daily News". Lì alla vostra destra c'è il 1939, sulla sinistra il '40. Una pila indietro ed ecco il '41. In bell'ordine!» «Ma che succede se le serve una notizia ed è sepolta sotto un metro e mezzo di carta?» «Cerco di non pensarci. Dite un giorno qualsiasi.» «Nove aprile 1937» fece la mia lingua. «Perché proprio quello?» chiese Crumley. «Non interrompere il ragazzo» sussurrò la voce da sotto le coperte e la polvere. «Jean Harlow morì quel giorno a ventisei anni. Avvelenamento uremico, funerali mañana. Forest Lawn. Alle esequie il duetto Nelson Eddy-Jeanette MacDonald.» «Dio santo!» esplosi. «Ricordo tutto, eh? Avanti un'altra.» «Tre maggio 1942» disse la mia bocca. «Morte di Carole Lombard. Incidente aereo. Pianto di Clark Gable.» Crumley si voltò dalla mia parte. «Ed è tutto quello che sai? Stelle del cinema defunte?» «Non punzecchiare il ragazzo» ammonì la vecchia voce da due metri sotto. «Cosa siete venuti a fare?» «Siamo venuti...» cominciò Crumley. «Si tratta...» continuai. «Oh no!» Il vecchio esalò una nuvola di pensieri. «Sembrate la seconda puntata.» «La seconda puntata?»
«L'ultima volta che qualcuno è salito sul monte Lowe con il proposito di buttarsi giù non ce l'ha fatta: è ridisceso ed è stato messo sotto da una macchina, cosa che gli avrà fatto tornare un po' di sale in zucca. E quando dico l'ultima volta intendo oggi a mezzogiorno!» «Oggi?» «E perché no? Questa persona era venuta a trovare il povero vecchio annegato nella polvere, il vecchietto che non si rotola più nel fieno dal lontano '32; insomma, poche ore fa questo qualcuno arriva e comincia a sbraitare da dietro quei monticelli di cattive notizie. Ricordate il mulino della fiaba? Bastava dire "fai!" e ti faceva un bel porridge caldo, e il ragazzino ci prendeva tanto gusto da dimenticare la parola che serviva a farlo smettere. Il porridge invadeva la città, la gente era costretta a mangiare per uscire dalla porta di casa. Be', io non ho il porridge: ho i giornali. Ma che stavo dicendo?» «Che qualcuno si è messo a sbraitare...» «Nella navata fra il "London Times" e "Le Figaro"? Già, era una donna e gridava come un mulo. Urla così lancinanti da vuotarmi la vescica, da minacciare l'equilibrio delle mie cataste. Basta un respiro perché il castello di carte frani e mi crolli addosso, e lei continuava a urlare!» «Pensavo che i terremoti...» «Ne ho passati anche di quelli: "La piena del fiume Yang-Tse", "Il Duce alla riscossa", eppure sono sempre qui. Neanche il grande terremoto del '32 ha fatto troppi danni. La donna, invece, mi rinfacciava tutti i miei vizi e chiedeva che le dessi determinati numeri da annate particolari. Io rispondevo provi la prima fila a sinistra, poi a destra. La roba che scotta la tengo sempre piuttosto in alto. Da come bestemmiava, si sarebbe detto che fossimo nel bel mezzo di "Londra in fiamme!" A un certo punto ha sbattuto la porta e si è precipitata fuori, cercando un punto da cui buttarsi. Non penso che sia andata davvero sotto una macchina, e comunque, sapete chi era? Non ve lo dico. Dovete indovinare.» «Non ci riesco proprio» ammisi, confuso. «Vedi quel tavolo seppellito dai rifiuti del gatto? Spazza i rifiuti e guarda i biglietti con le parole a svolazzi.» Andai verso il tavolo. Sotto un ammasso di segatura e quelli che sembravano escrementi di uccello, trovai venti o venticinque identici inviti. «"Clarence Rattigane..."» M'interruppi. «Leggi!» mi esortò il vecchio. «"Constance Rattigan"» sussultai, prima di continuare: «Sono lieti di
annunciare il proprio matrimonio in cima al monte Lowe, il 10 giugno 1932 alle tre del pomeriggio. Treno e automobili a disposizione degli ospiti. Brindisi con champagne."» «La cosa ti sconvolge, amico?» s'informò Clarence Rattigan. Alzai gli occhi. «Clarence Rattigan e Constance Rattigan» ripetei. «Un momento, non dovrebbe esserci anche il nome di Constance da nubile?» «Perché altrimenti sembra un incesto?» «È strano, singolare.» «Tu non ti rendi conto» sussurrarono le labbra. «Fu Constance a far cambiare nome a me! Una volta mi chiamavo Overholt. Disse che non avrebbe mai rinunciato al suo prestigioso cognome per un qualunque appellativo plebeo, quindi...» «E prima della cerimonia l'ha fatta battezzare?» tirai a indovinare. «Proprio così. Il pastore episcopale di Hollywood dovette giudicarmi pazzo, ma hai mai provato a discutere con Constance?» «Io...» «Non accetterò un sì come risposta. Amami o lasciami era il motto di Constance, e siccome la canzone mi piaceva mi feci dare l'olio battesimale, accettai l'unzione. Devo essere stato il primo idiota in America a bruciare il proprio certificato di nascita.» «Che io sia dannato» commentai. «No, io. E adesso che guardi?» «Lei, signore.» «Già, lo so, non ho un gran bell'aspetto» ammise. «Neanche allora lo avevo. Vedi quell'affare che luccica sugli inviti? È il manubrio d'ottone usato dal manovratore del trenino per monte Lowe. Ero io, il manovratore! Gesù, c'è un po' di birra da qualche parte?» fece improvvisamente. Non riuscivo a deglutire. «Afferma di essere il primo marito di Constance Rattigan e chiede della birra?» «Non ho detto di essere il suo primo marito, solo uno dei tanti. La birra dov'è?» Il vecchio strofinò le labbra. Crumley sospirò e si tolse qualcosa di tasca. «Qui, birra e caramelle Malomar.» «Le Malomar!» Il vecchio tirò fuori la lingua e gliene diedi una. Se la fece sciogliere in bocca come un'ostia consacrata. «Malomar e donne! Non posso vivere senza!» Poi si tirò un poco su per bere la birra.
«Torniamo alla Rattigan» insistei. «Già, già. Il matrimonio... Lei salì col treno e impazzì per il clima che c'è quassù. Pensò che fosse opera mia e propose che ci sposassimo, ma dopo la luna di miele, una notte, scoprì che non avevo niente a che fare col tempo e le venne un raffreddore di quelli. Si raffreddò anche con me, e il mio corpo non è stato mai più lo stesso.» Il vecchio rabbrividì. «È tutto?» «Come sarebbe, è tutto?! Hai mai passato con lei qualche sera d'autunno?» «Qualcuna» mormorai. Tirai fuori il taccuino della Rattigan. «È questo che ci ha portato da lei.» Il vecchio guardò il proprio nome contornato dal cerchio rosso. «Perché qualcuno avrebbe voluto mandarvi qui?» si domandò, fra una sorsata e l'altra. «Un momento, tu sei una specie di scrittore?» «Una specie.» «Ma allora il motivo è questo! Da quanto tempo la conosci?» «Qualche anno.» «Un anno con Rattigan equivale alle mille e una notte. Perduti nella Giostra. Diavolo, ragazzo, scommetto che ha segnato il mio nome con un cerchio rosso perché vuole che tu le scriva una biografia. Cominciando da me, il Vecchio Fedele.» «No» commentai. «Ti ha chiesto di prendere appunti?» «Niente affatto.» «Dannazione, non sarebbe grandioso? C'è qualcuno che ha mai scritto un libro più pazzo di Constance, più furioso della Rattigan? Un bestseller! Restale attaccato, contale anche le pulci. E appena sceso dal monte cercati un editore, io prendo la percentuale per le rivelazioni, d'accordo?» «Percentuale per...» «Adesso dammi un'altra Malomar e un po' di birra. Ti servono delle prove?» Annuii. «Sull'altro tavolo...» C'era un vaso color arancio. «È l'elenco degli invitati.» Andai a frugare nel vaso e in mezzo ai conti trovai un pezzo di carta di qualità che osservai mentre il vecchio diceva: «Ti sei mai chiesto da dove viene il nome California?». «Non era...»
«Stammi a sentire. Nel 1509, quando gli spagnoli mossero verso nord dal Messico, portarono con sé certi libri. Uno, pubblicato in Spagna, parlava di una regina delle amazzoni che regnava su un paese di latte e miele. Era la regina Califia e il paese si chiamava California. Gli spagnoli diedero un'occhiata alla valle qui sotto, videro il latte, mangiarono il miele e chiamarono il posto...» «California!» «Infatti. Ora controlla l'elenco.» Diedi un'occhiata e lessi: «Califia! Perdio, abbiamo cercato di telefonarle oggi. Dove abita?». «Questo è quanto la Rattigan vorrebbe sapere. Fu Califia a prevedere il nostro matrimonio, anche se non la sua fine. La mia signora mi intrappolò qui dentro con una banda di buoni a nulla, chiuse la porta con il lucchetto e fece scorrere cattivo champagne a fiumi, e tutto perché l'aveva profetizzato Califia. Ed è stata proprio lei, oggi, a mettersi a gridare in mezzo ai tunnel di carta stampata: "Dov'è Califia? Dovresti saperlo, tu!". Io mi sono dichiarato non colpevole e ho aggiunto: "Vattene, Constance, Califia ha rovinato tutti e due! Vai a ucciderla e poi rifallo. Quella strega".» La mummia ricadde sui cuscini, esausta. «E tutto questo» m'informai, «Constance lo ha detto oggi a mezzogiorno?» «Più o meno» sospirò il vecchio. «Ho aizzato la Rattigan a versare il sangue. Spero che trovi quella maledetta astrologa, anzi astroia, e...» La voce gli morì. «Un'altra Malomar?» Gli misi la caramella sulla lingua, dove si sciolse. Il vecchio parlava in fretta. «Non lo credereste, a giudicare da questi poveri resti, ma in banca ho mezzo milione. Andate a controllare. Uso il tam-tam di Wall Street, recito titoli anche nel sonno. Lo faccio dal 1941 e sono passato indenne attraverso Hiroshima, Enewetale e Nixon. Mi basta dire: compra Ibm, compra Bell. Così mi sono fatto questa bella tenuta sopra Los Angeles - una tana degna di Andy Gump - e il market di Glendale, ben informato, mi manda su un ragazzino con gli ultimi bollettini, le scatolette di chili e l'acqua minerale. Per la miseria, ragazzi, state buttando un'esca nel mio passato?» «Più o meno.» «Rattigan, Rattigan» continuò il vecchio. «Ancora degna di qualche bell'applauso e dei fischi degli ammiratori. Ogni tanto sui giornali esageravano, e ve ne accorgerete se ne prendete qualcuno dalla cima delle cataste, un
po' a destra, un po' a sinistra, a scelta. Quella donna lasciava una traccia luminosa come le lumache, una traccia lunga da qui a Marrakesh, e oggi è venuta a ripulire la cassetta del gatto.» «E lei l'ha vista in faccia?» «Non ce n'è stato bisogno. Quelle grida avrebbero spaccato a metà Rumpelstiltskin e poi l'avrebbero ricucito.» «Voleva soltanto l'indirizzo di Califia?» «E le carte. Prenditele e vai all'inferno! È stato un divorzio lungo e senza pretese.» «Posso tenere questo?» Mostrai un invito. «Prendine una decina. I soli a cui potrebbero interessare sono gli uomini-Kleenex che Rattigan usava e poi buttava via quando era stufa. "Ne puoi sempre avere degli altri" diceva. Prenditeli, quegli inviti. Rubami qualche giornale. Come hai detto che ti chiami?» «Non l'ho detto.» «Grazie al cielo. E adesso fuori!» esclamò Clarence Rattigan. Crumley e io ci avventurammo per la nostra strada, con cautela, ripercorrendo il labirinto in mezzo alle torri di stampa. Prendemmo in prestito qualche copia da otto diverse cataste e stavamo per uscire dalla porta principale quando un ragazzo con una scatola piena ci sbarrò la strada. «Cos'hai là?» chiesi. «Roba da mangiare.» «E da bere, di' la verità.» «Da mangiare» ripeté il ragazzo. «Lui è sempre là?» «E non tornate più!» gridò dal profondo della catacomba la voce di re Tutankamen sepolto dalle cronache. «Perché io non ci sarò!» «È lì, lo sento» disse il ragazzo, impallidendo. «Tre incendi e un terremoto, e un altro in arrivo. Lo sento che viene!» La voce della mummia svanì. Il commesso ci guardò. «È tutto tuo.» Mi feci da parte. «Non muovetevi, non respirate nemmeno.» Il ragazzo mise un piede sulla soglia. Crumley e io non ci muovemmo, non respirammo. Era andato. Capìtolo 11
Crumley riuscì a sistemare il suo corpaccio e a guidare fino ai piedi del monte senza cadere dal precipizio. Lungo la strada, i miei occhi s'illuminarono. «Non dirlo.» Crumley evitava di guardarmi. «Non voglio sentire.» Deglutii a fatica. «Tre incendi e un terremoto, e un altro in arrivo.» «Basta così!» Crumley mise mano al freno. «Non dirmi quello che pensi, maledizione. Certo che un altro terremoto è in arrivo: la Rattigan! Ci farà a pezzi. Fuori, fuori, vattene a piedi.» «Ma ho le vertigini.» «Allora cuciti la bocca.» Scendemmo tra ventimila leghe di silenzio. Una volta tornati in mezzo al traffico esaminai i giornali uno per uno. «Diavolo» dissi, «mi chiedo perché ci abbia lasciato prendere questi.» «Cosa hai trovato?» «Niente, zero, nix.» «Dai qua.» Crumley prese un giornale e tenne un occhio sulla pagina e l'altro sulla strada. Cominciava a piovere. «"Emily Starr muore a venticinque anni"» lesse. «Attento!» urlai, mentre la macchina sbandava. Lui diede un'occhiata a un altro quotidiano. «"Corinne Kelly divorzia da von Sternberg".» Buttò il giornale sul sedile posteriore. «"Rebecca Standish all'ospedale in fin di vita".» Altro lancio, altro giornale. «"Geneviève Carlos sposa il figlio di Goldwyn". E con questo?» Gliene passai altri tre fra gli scrosci di pioggia. Finirono tutti sul sedile posteriore. «Ha detto di non essere solo un burlone. E quindi?» Sfogliai le notizie. «Ci manca qualche elemento. Non conserverebbe solo roba come questa, per niente al mondo.» «No? Le noccioline collezionano pesche, le prugne collezionano noccioline. Risultato: macedonia di frutta.» «Ma perché Constance...» Mi interruppi. «Un momento.» «Sto aspettando.» Crumley strinse il volante. «All'interno, guarda le cronache mondane. Grande fotografia di Constance vent'anni più giovane, e c'è anche la mummia, sì insomma, il tizio di lassù, ma è anche lui più giovane e con un po' di carne addosso non sembra tanto male. È il loro matrimonio, e questo di fianco è l'assistente di
Louis B. Mayer, Marty Krebs. Sull'altro lato Carlotta Q. Califia, la nota astrologa!» «Che predisse a Constance un matrimonio sul monte Lowe. Con il futuro non si scherza, per cui Constance si tuffò a pesce. Ora cerca la pagina dei necrologi.» «Necro...?» «Cercali! Cosa vedi?» «Santa colonna! L'oroscopo del giorno e il nome della... regina Califia!» «Le previsioni cosa dicono? Bello? Temperatura mite? È una buona giornata per darsi al giardinaggio o per sposare un fesso? Leggimelo!» «"Settimana felice, giorno felice. Accettate qualsiasi proposta, grande o piccola". E con questo?» «Dobbiamo trovare Califia.» «Perché?» «Non dimenticare che anche lei ha un bel cerchio intorno al nome. Dobbiamo vederla prima che succeda qualcosa di spaventoso. Quella croce in rosso significa morte e sepoltura, no?» «No» disse Crumley. «Il vecchio Tutankamen di monte Lowe è sano e salvo, eppure il suo nome è contornato da un cerchio e ha la croce.» «Però ha la sensazione che qualcuno stia per andare a prenderlo.» «E chi, Constance? Quella meraviglia tutta gambe?» «D'accordo, il vecchio è ancora vivo. Ma questo non significa che a Califia non abbiano già fatto la festa. Il vecchio Rattigan non ci ha dato molti elementi, mentre lei potrebbe dirci di più. Tutto quello che ci serve è un indirizzo.» «Tutto quello che ci serve? Ehi.» Improvvisamente Crumley accostò al marciapiede e scese dalla macchina. «La maggior parte della gente non pensa. Constance non ci ha pensato, noi due non ci abbiamo pensato. C'è un posto in cui non abbiamo guardato, le Pagine gialle!» Attraversò la strada, entrò in una cabina telefonica, consultò una copia sciupata delle Pagine gialle e strappò una pagina. Poi tornò indietro. «Il numero è troppo vecchio, quindi inutile. Ma qualcosa ho rimediato.» Mi sventolò la pagina in faccia. Lessi: REGINA CALIFIA. Lettura della mano, frenologia, astrologia, necrologia egizia. La vostra vita è la mia. Benvenuti. E c'era il maledetto indirizzo zodiacale. «Ecco!» esclamò Crumley, che aveva l'affanno come non mai. «Constance ci ha mandati dalla reliquia egiziana e la reliquia ci ha fatto il nome
di Califia, colei che comandò di sposare la bestia.» «Di questo non siamo sicuri.» «Col cavolo! La vedremo.» Riavviò il motore e andammo a vedere. Capitolo 12 Salimmo al Rifugio per Ricerche Psichiche della regina Califia, nel centro spaccato di Bunker Hill. Crumley gli diede un'occhiataccia, ma io feci un cenno di lato perché contemplasse quella che per lui era sicuramente una bella vista: la scritta POMPE FUNEBRI CALLAHAN E ORTEGA. Questo lo rallegrò. «È come tornare a casa» ammise. La nostra carretta si fermò. Uscii. «Vieni dentro?» m'informai. Crumley fissò il parabrezza, le mani sul volante come se stesse ancora guidando. «Com'è che è tutto un sali e scendi, fra noi?» si chiese. «Vieni dentro? Ho bisogno di te.» «Mi farò la scarpinata.» Prima di fermarsi aveva fatto metà della ripida scala in cemento e anzi aveva abbordato il marciapiede crepato. Diede un'occhiata alla grande casa semidiroccata che sembrava una gabbia per uccelli e disse: «Mi ricorda la pasticceria della sfiga, quella dove cuociono i dolcetti della sfortuna». Continuammo la salita. Lungo la strada incontrammo un gatto, una capra bianca e un pavone. Il pavone ci guardò passare seguendoci con mille occhi. Arrivammo alla porta d'ingresso e quando bussai un'assurda nevicata di fiocchi d'intonaco mi cadde sulle scarpe. «Se è questo che tiene insieme la casa, non durerà a lungo» osservò Crumley. Bussai con le nocche. Dall'interno venne il rumore di quella che sembrava una cassaforte di tutto rispetto trascinata su un pavimento di legno duro. Qualcosa di enorme si fermò dall'altro lato della porta. Alzai la mano un'altra volta, ma una voce acuta da passerotto trillò: «Andatevene!». «Volevo solo...» «Andatevene!» «Mi dia cinque minuti» insistei. «O magari quattro, tre, due, uno, per l'amor di Dio. Ho bisogno del suo aiuto.» «No» trillò la voce. «Sono io che ho bisogno del vostro.»
Il cervello mi girava come un Rodolex. Mi sembrò di sentire di nuovo la mummia e la scimmiottai. «Si è mai chiesta da dove venga il nome California?» chiesi. Silenzio. La vocetta si ridusse a un sussurro. «Dannazione.» Scattarono tre diversi lucchetti. «Nessuno conosce quella storia sulla California. Nessuno.» Si aprì uno spiraglio. «Avanti, sbrigati» disse la voce. Simile a un pesce stella, una mano si fece avanti. «Metti qui.» Misi la mano nella sua. «Girala.» La girai con il palmo all'insù. La mano di lei la prese. «Tranquillità.» La mano massaggiava la mia, o quasi. Il pollice circumnavigava le linee del palmo. «Non è possibile» sussurrò la voce. Altri movimenti leggeri, mi saggiava i polpastrelli. «Eppure è così» sospirò. Poi: «Tu ricordi quando sei nato!». «Come fa a saperlo?» «Devi essere il settimo figlio di un settimo figlio.» «No» la smentii. «Sono figlio unico, mai avuti fratelli.» «Dio mio.» La mano che teneva la mia sussultò. «Allora sei un immortale.» «Nessuno è immortale.» «Tu sì. Non il tuo corpo, ma quello che fai. A proposito, cosa fai?» «Credevo che la mia vita fosse nelle sue mani.» Lei sorrise, ma senza emettere fiato. «Gesù, un attore? No, no, un figlio bastardo di Shakespeare.» «Lui non ebbe figli.» «Melville, allora. Un respiro sfuggito a Herman Melville.» «Vorrei che fosse così.» «Lo è.» Sentii la gran massa rotolare su ruote cigolanti. E finalmente la porta si aprì del tutto. Vidi un'immensa donna avvolta in un'immensa veste regale di velluto
scarlatto; era seduta su un trono a rotelle e arretrava sul pavimento di legno lucido verso il fondo della stanza. Si fermò accanto a un tavolino su cui erano non una ma quattro sfere di cristallo, scintillanti alla luce d'una lampada Tiffany verde e ambra. La regina Califia, astrologa, lettrice della mano, frenologa, futurista e passatista viveva in una montagna di centocinquanta chili di solida carne, e dagli occhi balenavano raggi X. Una grande cassaforte d'acciaio ammassata nella penombra. «Non mordo mica.» Entrai e Crumley mi seguì. «Lascia la porta aperta, però» aggiunse lei. Sentii il pavone che schiamazzava in cortile e mi azzardai a tendere l'altra mano. La regina Califia indietreggiò, come se scottasse. «Conosci il romanziere Greene?» ansimò. «Graham Greene?» Annuii. «Ha scritto la storia di un prete che perde la fede. A un certo punto il prete assiste a un miracolo provocato da lui stesso e lo shock della fede ritrovata per poco non l'uccide.» «E allora?» «E allora.» Fissò la mia mano come se fosse staccata dal braccio. «Signore.» «È successo anche a lei?» chiesi. «Cosa ne fu di quel prete?» «Oddio.» «Ha perso anche lei la fede, il potere di guarire?» «Sì» mormorò l'astrologa. «E adesso, proprio in questo istante, è tornato?» «Dannazione, sì.» Mi premetti la mano sul cuore per rinchiuderlo. «E come pensa sia successo?» «Non penso. Mi fa una paura del diavolo.» Poi vide i cartoncini d'invito e il giornale nella mia mano tesa. «Sei andato lassù a trovare lui» osservò. «Ha guardato. Così non vale.» La mia battuta la fece sorridere, poi bofonchiò: «La gente rimbalza su di lui e finisce qui da me». «Non troppo spesso, direi. Posso sedermi? Cadrò, se non mi siedo» dissi io. Indicò con il mento una sedia a cinquanta o sessanta centimetri da lei,
una distanza di sicurezza. Io mi ci buttai. Crumley, ignorato, aveva un'espressione contrita. «Diceva?» la esortai. «La gente non va spesso a fare visita al vecchio Rattigan, nessuno sa che è vivo sul monte Lowe. Ma qualcuno ci è andato oggi e per giunta si è messo a gridare.» «Vuoi dire che lei si è messa a gridare?» La montagna di carne per poco non si sciolse nei ricordi. «Io non l'avrei mai fatta entrare.» «Ne parla al femminile...» «È sempre un errore...» La regina Califia diede un'occhiata alle sfere di cristallo «...cercare di leggere il futuro, ma è una vera pazzia raccontare quello che si è visto. Non direi mai a nessuno quali azioni comprare, quali persone frequentare. Le diete sono un'altra cosa: io vendo vitamine ed erbe cinesi, non longevità.» «Eppure l'ha appena fatto.» «Tu sei diverso.» Si piegò verso di me e le molle della gigantesca sedia gemettero. «Hai il futuro davanti a te. Non ho mai visto un futuro così chiaro, ma in questo momento sei in terribile pericolo. Vedo perfettamente che hai una lunga vita, ma c'è qualcuno che potrebbe spezzarla. Stai attento!» Fece una lunga pausa, chiuse gli occhi e disse: «Sei amico di quella donna? Sai a chi mi riferisco». «Sì e no» risposi. «Dicono tutti così. È bianca e nera nello stesso tempo, ed è indomabile.» «Vogliamo dire di chi stiamo parlando?» «Non abbiamo bisogno di fare nomi, ma io non la farei neanche entrare. Comunque, ci ha provato un'ora fa.» Diedi un'occhiata a Crumley. «Stiamo guadagnando terreno, ci avviciniamo.» «Non fatelo» disse Califia. «Dal modo come urlava avrebbe potuto avere un coltello. "Non te la perdonerò mai!" gridava. "Ci hai indicato la strada sbagliata: giù invece che su, perso anziché trovato. Che tu possa friggere all'inferno!" Poi l'ho sentita allontanarsi, ma so già che stanotte non chiuderò occhio.» «E ha detto... so che sembra assurdo... dove era diretta?» «Non è assurdo per niente» rispose Califia. «Prima è andata dal vecchio sciocco di monte Lowe - l'uomo che ha abbandonato dopo una sola nottataccia - e poi è venuta da me, cioè da colei che l'ha messa in quel pasticcio. A questo punto, perché non fare una visita al poveraccio che celebrò la ce-
rimonia? Vuole metterci tutti insieme e scaraventarci da una rupe.» «Non farebbe una cosa del genere.» «Come fai a saperlo? Quante donne hai conosciuto in vita tua?» Finalmente dissi, mortificato: «Una». La regina Califia si asciugò la faccia con un fazzoletto abbastanza grande da coprirle metà del petto, si ridiede un contegno e lentamente avanzò verso di me, spingendo la carrozzella con piccole impennate delle scarpe piccolissime. Non potei fare a meno di meravigliarmi per la piccolezza di quei piedi, soprattutto a paragone delle vastità superiori e della gran faccia da luna piena che galleggiava sulle immensità. E sotto la carne di Califia vidi annegare lo spettro di Constance. La regina chiuse gli occhi. «Ti sta usando. Tu la ami?» «Ci vada piano.» «Be', ricordati: tieni i vestiti addosso e il motore pronto. Ti ha chiesto di aiutarla a partorire?» «Non in questi termini.» «Non in questi termini, proprio così. Lei non spreca le parole, fa solo bastardi e figli morti. Ha partorito mostri per tutta l'area di Los Angeles, sul fetido Hollywood Boulevard e nella Main che non ha sbocchi. Brucia il suo letto, disperdi le ceneri e chiama un prete.» «Quale prete, dove?» «Ti ci metterò in contatto. Ora...» S'interruppe, rifiutando di pronunciarne il nome. «La nostra amica è introvabile, dici? Una delle sue finte, servono a terrorizzare gli uomini. Basta un'ora con lei per farti lo scherzo, dopodiché quei disgraziati si prenderebbero a pugni per le strade. Conosci il gioco di zio Wiggly? Be', zio Wiggly dice torna indietro dieci caselle, cerca il Pollaio e lascia perdere tutto il resto.» «Ma lei ha bisogno di me!» «No, lei banchetta sulla rovina altrui. Benedetti siano i malvagi che godono della malvagità. Le tue ossa serviranno a infornare il suo pane. Se quella donna fosse qui la inseguirei anche in sedia a rotelle! Dio, è stata la rovina di Roma» dichiarò Califia. «Ora fammi vedere di nuovo il tuo palmo.» La sedia massiccia cigolò e la massa di carne divenne una minaccia. «Non mi dirà quello che ha visto nella mano, vero?» «No, io dico solo quello che vedo nel palmo aperto. Avrai un'altra vita, dopo questa. Straccia quei giornali, brucia gli inviti. Lascia la città e a lei di' pure di andare a morire, ma diglielo in interurbana. E adesso vai via.» «Dove?»
«Dio mi perdoni.» La regina Califia chiuse gli occhi e mormorò: «Guarda uno degli inviti». Feci come diceva. «Celebrante: Seamus Brian Joseph Rattigan, cattedrale di santa Vibiana.» «Gli dirai che sua sorella è caduta in due diversi inferni, e di portarsi l'acqua benedetta. Smamma, adesso! Ho un mucchio di cose da fare.» «Per esempio?» «Vomitare» ammise l'astrologa. Strinsi nel palmo sudato padre Seamus Brian Joseph Rattigan, mi alzai e andai a sbattere contro Crumley. «E quello chi sarebbe?» chiese Califia, notando finalmente la mia ombra. «Pensavo che lei sapesse tutto» rispose Crumley. Uscimmo e chiudemmo la porta. La casa tremò sotto il peso di Califia. «Avvertitela» ci gridò dietro. «Ditele di non tornare mai più!» Fissai Crumley. «A te il futuro non l'ha detto.» «Sia lode al cielo per le piccole grazie» mi rispose. Capitolo 13 Scendemmo le ripide scale di cemento e sotto la debole luna, vicino alla macchina, Crumley mi guardò. «Cos'è quell'aria da cane selvatico?» «Mi sono appena affiliato a una chiesa.» «Sali, per l'amore di Gesù.» Salii, in preda alla febbre. «Dove andiamo?» «Alla cattedrale di santa Vibiana.» «Santa colonna!» Crumley azionò l'accensione. «No» decisi, «non sopporterei un altro faccia a faccia. Andiamo a casa, James, che ci facciamo una doccia, tre birre e un bel sonno. Prenderemo Constance all'alba.» Superammo pian piano Callahan e Ortega. Crumley sembrava quasi felice. Prima della doccia, delle birre e del sonno ristoratore incollai sette o otto pagine di giornale sulla parete in capo al letto, in modo da poterle guardare
se mi fossi svegliato durante la notte e fossi andato in cerca di soluzioni. Nomi, fotografie, titoli grandi e piccoli conservati per ragioni misteriose o niente affatto misteriose. Alle mie spalle Crumley sbuffò. «Minchia! Hai intenzione di andare a dormire con una raccolta di notizie che erano defunte anche appena pubblicate?» «All'alba, forse, cadranno dal muro e s'infileranno sotto i miei occhi e resteranno incollate all'adesivo creativo del mio cervello.» «Adesivo creativo! Giapponesi e bushido! Tori americani! Una volta staccate dal muro quelle cose si propagheranno dentro di te?» «Perché no? Se non incameri niente, non metti fuori niente.» «Aspetta che mandi giù questo.» Crumley bevve. «Andare a letto con le celebrità e svegliarsi innocenti come prima, eh?» Fece un cenno alle foto, ai nomi, alle vite stampate sui giornali. «Constance sarebbe lì, da qualche parte?» «Nascosta.» «Vai a farti la doccia, faccio io la guardia ai necrologi. Se qualcuno si muove, grido. Che te ne pare di un margarita per la buona notte?» «Credevo che non l'avresti più domandato.» Capitolo 14 La cattedrale di santa Vibiana ci aspettava nel centro di Los Angeles, quasi nel ghetto. A mezzogiorno, puntando verso est, ci trovammo fuori dai boulevard principali. «Mai visto W.C. Fields in Se avessi un milione? A bordo di una vecchia utilitaria usata, comprata per l'occasione, si diverte a sgommare davanti ai porci che battono le strade. Eccezionale» disse Crumley. «Ecco perché odio le autostrade. A me piace ammazzare i chilometri e quello che mi passa davanti. Mi stai a sentire?» «Rattigan» dissi io. «Credevo di conoscerla.» «Diavolo» rise dolcemente Crumley. «Non si conosce mai nessuno. Tu non scriverai il Grande Romanzo Americano perché non sai distinguere una scheggia da una scoreggia. Ti preoccupi tanto dei personaggi e magari quelli non hanno un briciolo di carattere. Ti riduci a rappresentarli come principi delle fiabe e verginelle contadine, ma la maggior parte degli scrittori non sa fare neanche questo, perciò puoi continuare tranquillo con i tuoi merletti e venderli con lo sconto. Lascia ai realisti il compito di seguire il
cane con la paletta.» Non dissi niente. «Sai qual è il tuo problema?» abbaiò Crumley, poi abbassò la voce. «Che vuoi bene a persone che non lo meritano.» «Come te, Crumley?» Mi diede un'occhiata cauta. «Oh, io sono a posto» ammise. «Ho più buchi di un setaccio, ma non ci sono caduto dentro. Guarda!» Crumley tirò il freno. «La casa del papà in trasferta!» Ammirai la cattedrale di santa Vibiana in mezzo alla desolazione al rallentatore del ghetto. «Gesù avrebbe costruito qui» dissi. «Vieni con me, Crumley?» «Fiamme dell'inferno, no! Ho chiuso con la confessione a dodici anni, quando mi sono sbucciato le ginocchia contro quelle di certe donne selvagge!» «Non farai più la comunione?» «Al momento di morire. E adesso salta fuori, detective. Dalla regina Califia alla Regina degli angeli.» Scesi dalla macchina. «Di' un'avemaria per me» fece Crumley. Capitolo 15 L'interno della cattedrale era deserto: era appena passato mezzogiorno. Davanti al confessionale aspettava una sola penitente, e quando il sacerdote arrivò le fece segno di avvicinarsi. Il volto dell'uomo mi confermò che ero venuto nel posto giusto. Poco dopo la donna se ne andò e presi il suo posto nel confessionale, anche se avevo la lingua legata. Dietro la finestrella intagliata si mosse un'ombra. «E allora, figlio mio?» «Mi perdoni, padre» riuscii a dire. «Si tratta di Califia.» La porticina del confessionale sbatté e sentii un'imprecazione. Uscii a mia volta e il prete barcollò come se gli avessi sparato. Era un Déja Vu della Rattigan. Non pesava cinquanta chili e non era abbronzato come un leone marino, ma sembrava un prete fiorentino del Rinascimento magro come uno scheletro o un appendino di fil di ferro. Le ossa di Constance erano dissimulate da qualche parte, ma la carne che le
ricopriva era bianca come un teschio e le labbra del prete erano assetate di salvezza, non di letto e colazioni peccaminose. Davanti a me c'era un Savonarola che pregava Iddio di perdonare le sue folli perorazioni, ma Dio taceva e lo spettro di Constance bruciava attraverso i suoi occhi, guardava dal teschio del fratello. Padre Rattigan, calmatosi, mi trovò abbastanza innocuo, tranne per quella certa frase. Fece uno scatto con la testa per indicare la sacrestia, mi fece entrare e chiuse la porta. «È suo amico?» «No, signore.» «Bene!» Il sacerdote si riprese. «Segga, abbiamo cinque minuti. Il cardinale mi aspetta.» «È meglio che vada, allora.» «Cinque minuti» ripeté Constance dalla bocca del gemello. «Dunque?» «Ieri sono andato a trovare...» «Califia.» Padre Rattigan lasciò andare il fiato, cercando di controllare l'avvilimento. «La regina, lo so. Mi manda tutti coloro che non può aiutare. Ha una specie di chiesa anche lei, ma non è la mia.» «Constance è scomparsa un'altra volta, padre.» «Un'altra volta?» «Questo è quanto ha detto la regina... ehm, Califia.» Gli porsi il Libro dei Morti e padre Rattigan sfogliò le pagine. «Dove l'ha trovato?» «Me l'ha dato Constance. E ha detto che qualcuno gliel'aveva mandato. Per spaventarla, forse, o per ferirla, o Dio sa che altro. Voglio dire, soltanto lei sa se è un'autentica minaccia.» «Pensa che stia solo giocando a nascondino, tanto per rovinare la giornata al suo prossimo?» L'uomo rifletté. «Anch'io sono perplesso. D'altra parte, esistono quelli che ai tempi bruciarono Savonarola e che adesso lo riabilitano. Strano caso di peccatore-sant'uomo.» «Non c'è qualche affinità, padre?» azzardai. «Molti peccatori sono diventati santi, vero?» «Cosa ne sa della Firenze del 1492, quando Savonarola indusse Botticelli a bruciare i suoi quadri?» «È l'unico periodo che conosca, signore. Cioè, padre... Savonarola ai suoi tempi, Constance oggi.» «Se lui avesse conosciuto mia sorella, l'avrebbe uccisa. Ora mi faccia pensare, è dall'alba che muoio di fame. Qui abbiamo del pane e del vino,
ne assaggerò un po' prima che stramazzi a terra.» Il buon sacerdote prese una pagnotta e una caraffa di vino dall'armadietto della sacrestia e ci mettemmo seduti. Padre Rattigan spezzò il pane, poi versò un po' di vino per sé e una dose più generosa per me, che fui lieto di accettare. «Lei è di fede battista?» si informò. «Come l'ha capito?» «Preferirei non dirlo.» Posai il bicchiere. «Pensa di potermi aiutare con Constance, padre?» «No... Dio, Dio. Forse.» Mi riempì di nuovo il bicchiere. «La notte scorsa... È stato solo la notte scorsa? Be', sono rimasto in confessionale fino a tardi. Mi sembrava di dover aspettare qualcuno. Finalmente, verso mezzanotte, è arrivata una donna e per un pezzo non ha fatto che piangere, dall'altra parte della grata. Alla lunga ho cercato di scuoterla, come quando Gesù svegliò Lazzaro, ma lei continuava a piangere. È venuto fuori tutto: peccati a bizzeffe, a carrettate, peccati dell'anno scorso e di dieci anni fa, le colpe di trent'anni e ancora non riusciva a fermarsi. Confessava tutto, notte di turpitudine dopo notte di turpitudine, e quando finalmente ha taciuto e mi sono preparato a ordinarle le avemarie, l'ho sentita scappare. Ho guardato dall'altra parte del confessionale, ma era rimasto solo il profumo. Oddio, oddio.» «Era il profumo di sua sorella?» «Di Constance?» Padre Rattigan si afflosciò sullo schienale. «Bruciava come due volte l'inferno, quel profumo.» La notte scorsa, pensai. Così vicina. Se Crumley e io fossimo venuti allora... «Sarà meglio che lei vada, padre» dissi io. «Il cardinale aspetterà.» «Bene. Ma se Constance torna mi avvertirà?» «No» rispose lui. «Il confessionale è più segreto dell'ufficio di un avvocato. La cosa le dispiace?» «Sì» ammisi, giocando distrattamente con la fede che portavo al dito. Padre Rattigan la notò. «Sua moglie è al corrente di tutto?» «Più o meno.» «Non le sembra una morale un po' frivola?» «Mia moglie si fida di me.»
«Le mogli si fidano, in effetti. Che Dio le benedica. Lei pensa che mia sorella possa essere salvata?» «Lei no?» «Ci ho rinunciato quando mi ha detto che la respirazione bocca a bocca era una posizione del kamasutra.» «Che tipo, Constance! In ogni caso, padre, se tornasse lei potrebbe telefonarmi e riattaccare subito. Capirei che mi segnala il suo arrivo.» «Sappiamo come spaccare il capello, vero? Mi dia il suo numero, per me lei non è soltanto un battista ma un buon cristiano.» Gli diedi il mio numero e quello di Crumley. «Solo uno squillo, padre.» Il sacerdote osservò i numeri. «Viviamo tutti su un pendio più o meno ripido, ma per miracolo alcuni mettono radici. Non aspetti troppo, forse il suo telefono non suonerà mai, ma darò il suo numero anche alla mia assistente Betty Kelly. Per ogni evenienza. E ora mi dica, perché fa tutto questo?» «Perché Constance stava per buttarsi nel burrone.» «Stia attento a non farsi trascinare anche lei. Mi dispiace di averlo detto, ma una volta da bambina prese il monopattino e si fermò in mezzo al traffico solo per mettersi a ridere.» Mi guardò con occhio brillante, acuto. «Non so perché le confidi certe cose.» «È per la mia faccia.» «La sua cosa?» «La faccia. Quando mi guardo allo specchio non ci capisco niente neppure io: l'espressione cambia prima che possa afferrarla. Deve essere una combinazione fra il Bambin Gesù e Gengis Khan. Fa impazzire i miei amici.» La battuta rilassò il prete. «La definizione di idiot savant le calzerebbe?» «Direi di sì. Ai bulli della scuola bastava darmi un'occhiata per volermi picchiare. Diceva, scusi?» «Stavo dicendo qualcosa? Ah, sì, ecco... Quella donna isterica, quella che supponiamo fosse Constance, anche se nei singhiozzi la voce aveva un suono diverso, a un certo punto mi ha dato degli ordini. Pensi, degli ordini a un prete! Si tratta di una specie di ultimatum: ha detto che sarebbe tornata dopo ventiquattr'ore e che io avrei dovuto perdonarle tutti i peccati, migliaia e migliaia quanti sono. Come se fosse in mio potere dare un'assoluzione formato famiglia. Le ho risposto che innanzi tutto doveva pentirsi da
sola e poi chiedere perdono agli altri. Ho aggiunto che Dio l'amava e lei ha risposto che non era vero. Poi se n'è andata.» «Quindi tornerà.» «Con le colombe su una spalla... oppure le saette.» Padre Rattigan mi accompagnò al portone della cattedrale. «E qual è il suo aspetto? Quello di una sirena che canta per indurre i marinai colpevoli ad annegarsi. Anche lei è un povero marinaio?» «No, padre, sono uno che scrive storie di uomini su Marte.» «Mi auguro che siano più felici di noi. Un momento! Buon Dio, una cosa l'ha detta. Che stava per affiliarsi a una nuova chiesa e che forse non sarebbe tornata a offendermi le orecchie.» «Di quale chiesa si tratta, padre?» «Cinese. "Cinese di Grauman". Che posto!» «Per molti è un vero tempio. C'è mai stato?» «Sì, a vedere Il Re dei Re. Il cortile antistante mi è sembrato più bello del film. Ma mi pare che lei stia per mettersi a scappare.» «Vado alla nuova chiesa, padre. Quella cinese, di Grauman.» «Stia lontano dalle impronte lasciate nelle sabbie mobili. Molti peccatori ci sono sprofondati. Che film danno?» «Gianni e Pinotto in Jack and the Beanstalk.» «Deplorevole.» «Deplorevole» ripetei, e corsi via. «Stia attento alle sabbie mobili!» gridò padre Rattigan alle mie spalle, mentre già correvo. Capitolo 16 Nell'attraversare la città mi sentivo come un pallone aerostatico: pieno d'aria calda e Grandi Speranze. Crumley mi dava di gomito per calmarmi, ma dovevamo guadagnare l'altra chiesa. «Chiesa, poi!» borbottò Crumley. «Da quando in qua il doppio spettacolo è diventato trino ed è recitato dal Padre, il Figlio e lo Spirito Santo?» «Dall'epoca di King Kong, ecco quando! Anno 1932. Fay Wray mi baciò sulla guancia.» «Santa colonna.» Crumley accese la radio della macchina. «... Pomeriggio...» disse una voce. «Monte Lowe...» «Ascolta!» dissi e lo stomaco mi diventò una palla di ghiaccio. La voce continuò: «Morte... polizia... Clarence Rattigan... vittima...».
Una serie di scariche statiche. «Orribile incidente... La vittima schiacciata... schiacciata... vecchi giornali. Ricordate la tragedia dei fratelli del Bronx? Conservavano pile di giornali vecchi che crollarono, uccidendoli. Giornali...» «Spegni.» Crumley spense la radio. «Povera anima persa» recitai. «Era persa davvero?» «Quanto puoi esserlo prima di esalare l'ultimo soffio.» «Vuoi andare lassù?» «Sì, voglio andarci» dissi finalmente, accompagnando le parole con strani rumori di gola. «Tu non lo conoscevi» disse Crumley. «Perché quei rumori?» L'ultima macchina della polizia se ne stava andando; il furgoncino della morgue si era allontanato da tempo. Un poliziotto solitario in motocicletta stava alle pendici del monte Lowe. Crumley si sporse dal finestrino. «Niente in contrario se facciamo un salto su?» «L'unico che potrebbe impedirvelo sono io» disse l'agente. «Ma sto andando via.» «C'erano giornalisti?» «Non ne valeva la pena.» «Già» dissi, poi feci un rumore sommesso. «Okay, okay» brontolò Crumley. «Aspetta almeno che abbia rimesso in moto, prima di ingoiarti il pomo d'Adamo.» Aspettai che rimettesse in moto, rincantucciato in un angolo. E tacqui. Il poliziotto motociclista se ne andò. Nel tardo pomeriggio salimmo alle rovine del tempio di Karnak, alla distrutta Valle dei Re e al perduto Cairo... come li definii strada facendo. «Lord Carnarvon disseppellì un re, noi lo seppelliamo. Non mi dispiacerebbe una tomba come questa.» «Un toro del Montana» fu il commento di Crumley. «Era un cowboy lottatore. Un toro.» Sulla vetta del monte non c'erano rovine, solo una gran piramide di giornali che un bulldozer guidato da un analfabeta spalava sistematicamente. Il guidatore non aveva la minima idea di ciò che stesse falciando: gli appelli di Hearst nel '29, le filippiche di McCormick sulla "Chicago Tribune" del '32. Roosevelt, Hitler, Baby Rose Marie, Marie Dressler, Aimée Semple McPherson, seppelliti una volta e un'altra ancora, muti per sempre. Lanciai
una maledizione. Crumley dovette trattenermi. Stavo buttandomi ad afferrare VITTORIA IN EUROPA o HITLER MORTO NEL BUNKER, o almeno AIMÉE RESTITUITA DAL MARE. «Vacci piano» brontolò il mio socio. «Ma guarda cosa sta facendo di quel materiale senza prezzo! Lasciami, maledizione!» Con un salto, riuscii ad acchiappare due o tre prime pagine. In una Roosevelt veniva eletto, nell'altra era morto e nella terza era eletto di nuovo. Seguivano Pearl Harbor e Hiroshima all'alba. «Gesù» sussurrai, premendomi alle costole quelle pagine maledette e meravigliose. Crumley raccolse "TORNERÒ", PROMETTE MACARTHUR. «Capisco cosa vuoi dire» ammise. «Guarda questo, per esempio: lui era un bastardo, ma è stato il miglior imperatore del Giappone.» Il tizio che manovrava la triste falciatrice si era fermato, guardandoci come se fossimo altra immondizia. Crumley e io facemmo un salto indietro. La macchina riprese ad arare il terreno, avvicinandosi a un camion già carico di MUSSOLINI BOMBARDA L'ETIOPIA, JEANETTE MACDONALD SI SPOSA, MORTO AL JOLSON. «Pericolo d'incendio!» gridò il guidatore. Guardai mezzo del nostro secolo finire nella discarica. «Erba secca e giornali, ideale per un fuoco» riflettei. «Dio, e se...» «Se cosa?» «Se in qualche futura epoca la gente usasse giornali e libri per accendere i fuochi?» «Lo fanno già» rispose Crumley. «Le mattine d'inverno mio padre metteva i giornali sotto il carbone e accendeva la stufa.» «Va bene, ma i libri?» «Nessun dannato imbecille userebbe un libro per accendere il fuoco. Aspetta: hai lo sguardo di quando stai per partorire un'enciclopedia da dieci tonnellate.» «No» dissi. «Solo un racconto il cui eroe puzza di cherosene.» «Che razza di eroe.» Passeggiammo in un camposanto di giorni perduti, notti e anni perduti... mezzo secolo. Sotto i piedi, i quotidiani crepitavano come cereali. «Mi pare di essere a Gerico» dissi.
«Manca solo che qualcuno suoni la tromba, eh?» «Anche un grido andrebbe bene. Ultimamente si è fatto un gran gridare. Dalla regina Califia, per esempio, o qui da re Tutankamen.» «Non dimenticare padre Rattigan» disse Crumley. «Mi pare di aver capito che Constance gli ha quasi buttato giù la chiesa, o no? Guarda qui, sembra di essere sulla spiaggia di Omaha, in Normandia, nel quartier generale di Churchill. Tra un po' reggeremo l'ombrello bagnato di Chamberlain. Non ti sembra di affondare?» «Sono dentro la carta fino al ginocchio. Mi chiedo come dev'essere stato, il momento in cui il vecchio Rattigan è annegato in questa piena. I falangisti di Franco, la gioventù hitleriana, i rossi di Stalin, le sommosse di Detroit, il sindaco La Guardia che legge i fumetti nel supplemento domenicale... che razza di morte!» «Al diavolo, guarda.» I resti del letto di morte di Clarence Rattigan occhieggiavano fra una sporta di rifiuti e un ammasso di CROLLA LA BORSA e CHIUSE LE BANCHE. Raccolsi un ultimo giornale abbandonato: era la pagina teatrale e ci ballava Nijinsky. «Pazzi tutti e due» disse Crumley. «Nijinsky e il vecchio Rattigan che ha conservato la recensione.» «Toccati le palpebre.» Crumley obbedì. Le dita si bagnarono. «Meledizione, questo è un cimitero» sbottò. «Andiamocene!» Afferrai TOKYO CHIEDE LA PACE... Poi scendemmo verso il mare. Crumley mi portò all'appartamento che avevo affittato sulla spiaggia, ma pioveva di nuovo e guardai l'oceano che minacciava di annegarci tutti, magari a mezzanotte, scatenando una tempesta che avrebbe potuto restituirci il corpo di Constance morta o dell'altro Rattigan, morto anche lui. E il mio letto sarebbe andato alla deriva, incrostato di alghe. Diavolo! Staccai i giornali di Clarence Rattigan dal muro. Crumley mi accompagnò all'altra casa, quella disabitata nell'interno, dove non avrei corso rischi di tempesta, sistemò delle bottiglie di vodka sul letto (è il suo elisir), lasciò le luci accese e disse che sarebbe tornato più tardi, per vedere se la mia anima era a posto. Poi se ne andò. Sentii un lamento sul tetto. Qualcuno che richiudeva il coperchio di una bara. Telefonai a Maggie, divisa da me da un continente di pioggia.
«Sento qualcuno che piange?» domandò. Capitolo 17 Il sole era tramontato da tempo quando squillò il telefono. «Sai che ore sono?» fece Crumley. «Oddio, è notte.» «La gente che muore si porta via una parte di te. Hai finito di sospirare? Non sopporto le lamentazioni funebri né i figli bastardi che vanno in giro a spremer fazzoletti.» «Sono il tuo figlio bastardo?» «Fatti una doccia, lavati i denti e prendi il "Daily News" sul portico. Ho bussato al campanello, ma tu eri perso. La regina Califia ti ha letto la fortuna? Avrebbe dovuto leggere la sua.» «È...?» «Vado a Bunker Hill alle sette e mezza. Fatti trovare sulla porta con una camicia pulita e l'ombrello.» Alle sette e ventinove ero davanti alla porta di casa con l'ombrello e la camicia pulita. Quando salii in macchina, Crumley mi afferrò il mento e scrutò la mia faccia. «Ehi, niente acquazzoni!» Partimmo per Bunker Hill. Tutt'a un tratto passare davanti a Callahan e Ortega sembrò diverso. Non c'erano macchine della polizia e nemmeno furgoncini della morgue. «Conosci uno scotch così-così che si chiama Vecchio & Strano?» fece Crumley mentre abbordavamo l'orlo del marciapiede. «Gli fanno la stessa pubblicità che alla morte della regina Califia. Guarda.» Diedi un'occhiata al giornale che tenevo in grembo. Califia non faceva titolo, ma era seppellita in zona necrologi. «"Celebre sensitiva dei tempi del muto muore per una caduta. Alma Crown, meglio conosciuta come la regina Califia, è stata trovata sui gradini della sua casa a Bunker Hill. I vicini dichiarano di aver udito il suo pavone lamentarsi; cercandolo, Califia è caduta. Un libro di cui la scomparsa era autrice, Chimica della lettura della mano, è stato un bestseller nel 1939. Le ceneri verranno sparse nella Valle dei Re in Egitto, dove qualcuno dice che fosse nata."» «Spazzatura» commentò Crumley. Vedemmo qualcuno sul portico della regina e ci avviammo in quella di-
rezione. Era una giovane donna sui vent'anni, con lunghi capelli scuri e la carnagione da zingara, che si torceva le mani e versava lacrime fissando la porta di casa. «Spaventoso» sussurrò. «Oh, spaventoso, spaventoso.» Aprii la porta d'ingresso e diedi un'occhiata. «No, Dio, no.» Crumley constatò a sua volta la desolazione. Perché la casa era completamente vuota. Quadri, sfere di cristallo, tarocchi, lampade, libri, dischi e mobilia erano scomparsi. Il misterioso furgone di una qualche ditta di traslochi aveva portato via tutto. Entrai nel cucinino, aprii i cassetti. Vuoti, ripuliti. Negli armadietti: niente spezie e nemmeno frutta in scatola. La credenza era vuota, quindi al povero cane non era rimasto niente. In camera da letto l'armadio era pieno di appendini, ma niente calze, scarpe o gonne formato tenda. Crumley e io andammo a guardare in faccia la giovane zingara. «Ho visto tutto!» esclamò lei, indicando in ogni dove. «Hanno rubato tutto perché sono poveri. Poveri! Questa è scusa! Quando la polizia è andata via, la gente dall'altra parte della strada mi ha buttato a terra e ha invaso casa, prendendo sedie, tende, quadri e libri. Acchiappa questo, porta via quello, una fiesta! Un'ora e la casa era sgombra. Sono andati in edificio laggiù. Dio, le risate. Guardatemi le mani, il sangue! Volevate vedere le cianfrusaglie di Califia? Andate a bussare a quella porta, ci andate?» Crumley e io le stavamo ai fianchi, uno per lato. Lui le prese la mano destra, io la sinistra. «Figli puttana» ansimò la ragazza. «Figli puttana.» «È proprio così» ammise Crumley. «Puoi andartene, adesso. Non c'è niente da sorvegliare, niente di niente.» «Ma lei è dentro! Hanno preso il suo corpo, ma lei è là. Aspetterò finché non dice di andare.» Guardammo tutti e due oltre la spalla della zingara: c'era la porta con lo schermo a rete e forse un elefantiaco spettro invisibile. «Come saprai quando puoi andartene?» La ragazza si asciugò gli occhi. «Lo saprò.» «Dove vai?» chiese Crumley, perché mi ero incamminato verso il lato opposto della strada. Arrivato alla casa di fronte, bussai. Silenzio. Bussai di nuovo. Guardai attraverso una finestra laterale. Vidi sagome di mobili dove non
avrebbero dovuto essercene, in mezzo alla stanza; troppe lampade, tappeti arrotolati. Diedi un calcio alla porta, imprecai, corsi in mezzo alla strada e stavo per tempestare tutte le case quando la ragazza zingara mi si avvicinò silenziosamente e mi toccò un braccio. «Adesso posso andare» affermò. «Califia...» «Ha detto sì.» «Dove andrai?» Crumley fece un cenno verso la macchina. La ragazza non riusciva a distogliere gli occhi dalla casa di Califia, il centro della California. «Ho amici vicino a Red Rooster Plaza. Potresti...?» «Potrei» disse Crumley. La zingara guardò un'ultima volta il palazzo della regina che scompariva. «Tornerò domani mattina» promise. «Lei sa che tornerai» aggiunsi. Passammo davanti a Callahan e Ortega, ma questa volta Crumley non ci fece caso. Eravamo diretti alla piazza che prende il nome da un gallo, il rooster di quel certo colore. Lasciammo la zingara. «Dio mio» osservai mentre tornavamo indietro, «è successo come nel caso di un mio amico. Anni fa morì e gli immigrati da Cuernavaca invasero la casa per rubare la collezione di vecchi fonografi del 1900, i dischi di Caruso e le maschere messicane. Lasciarono la casa come una tomba egizia depredata.» «È questo che vuol dire essere poveri» disse Crumley. «Ero povero anch'io, da ragazzo. Ma non ho mai rubato.» «Forse non hai avuto l'occasione giusta.» Passammo un'ultima volta davanti alla casa della regina Califia. «È là dentro sul serio. La zingara aveva ragione.» «Lei aveva ragione, ma tu sei matto.» «Quello che è successo» dissi «è troppo. Troppo. Constance mi consegna due elenchi telefonici con i numeri sbagliati e sparisce. Noi due rischiamo di affogare in ventimila leghe di giornali vecchi. Adesso muore una regina. A proposito, come starà padre Rattigan?» Crumley accostò nei pressi di una cabina telefonica.
«Ecco una moneta.» Entrai nella cabina e feci il numero della cattedrale. «Il signor...» Arrossii. «Padre Rattigan, sta bene?» «Se sta bene? È in confessionale!» «Ottimo» replicai stupidamente. «Ammesso che chi è venuto a confessarsi sia una persona a posto.» «Nessuno» replicò la voce «è veramente a posto!» Sentii un clic e mi trascinai alla macchina. Crumley mi guardò come se fossi cibo per cani. «E allora?» «È vivo. Dove andiamo?» «Chi lo sa. Da questo momento in poi, la spedizione diventa un ritiro. Conosci il ritiro spirituale dei cattolici? Lunghi week-end di silenzio. Chiudi la trap, intesi?» Andammo al municipio di Venice. Crumley uscì e sbatté la portiera. Rimase via mezz'ora. Quando tornò infilò la testa nel finestrino e disse: «Ora senti questa: ho appena chiesto una settimana di congedo per malattia e non andrò al lavoro. Gesù, è questa faccenda a essere malata. Abbiamo una settimana in tutto per trovare Constance, proteggere il prete di santa Vibiana, resuscitare Lazzaro morto e dire a tua moglie che mi tenga o ti strozzo. Fai segno di sì con la testa.» Feci segno. «Nelle prossime ventiquattr'ore non parlare senza permesso. E adesso, dove sono quei dannati elenchi telefonici?» Gli diedi i Libri dei Morti. Crumley, dietro il volante, li fulminò. «Di' un'ultima cosa e poi stai zitto!» «Sei sempre il mio amico» sbottai. «Purtroppo» ammise, e diede gas. Capitolo 18 Tornammo a casa della Rattigan e ci fermammo in riva al mare. Era sera presto e le luci della villa erano già tutte accese; il posto sembrava una luna piena o il sole sorgente dell'architettura. Gershwin continuava a blandire Manhattan e Parigi, prima l'una e poi l'altra. «Scommetto che l'hanno seppellito in quel piano meccanico» disse Crumley. Prendemmo un Libro dei Morti (quello con gli amici della Rattigan tra-
passati o quasi freddi) e ripetemmo ciò che avevamo fatto prima. Lo sfogliammo una pagina dopo l'altra, con un senso di crescente mortalità. A pagina trenta cominciava la R. Ecco il defunto numero telefonico di Clarence Rattigan, con una bella croce rossa sul nome. «Maledizione, ricontrolliamo Califia.» Tornammo indietro ed eccola là, grandi segni rossi sotto il nome e una croce. «Il che significa...?» «Chiunque abbia mandato il taccuino a Constance, ha contrassegnato i nomi con l'inchiostro rosso e una croce. Poi gliel'ha passato e ha ucciso le prime due vittime. Questa è l'idea, ma sono a corto di risorse.» «Oppure, sperando che Constance vedesse le croci rosse prima che le vittime venissero assassinate, si è affidato alla sorte e ha lasciato che fosse lei a distruggerle con le sue grida. Cristo! Controlliamo gli altri segni e le croci. Controlliamo santa Vibiana.» Crumley sfogliò le pagine e lasciò andare il fiato. «Croce rossa.» «Ma padre Rattigan è ancora vivo!» urlai. «Diavolo!» Mi arrampicai sulla collinetta di sabbia e usai il telefono accanto alla piscina di Constance. Feci il numero di santa Vibiana. «Chi è?» scattò una voce brusca. «Padre Rattigan, sia lode a Dio!» «Per quale motivo?» «Sono l'amico di Constance, lo sciocco.» «Accidenti» esclamò il prete. «Non accetti più confessioni, stasera.» «Mi dà ordini?» «Padre, lei è vivo! Voglio dire, c'è qualcosa che possiamo fare per proteggerla, o...?» «No, no» protestò la voce. «Vada in quel tempio pagano, là dove proiettano Jack e l'ammazzagiganti!» La comunicazione fu interrotta. Diedi un'occhiata a Crumley, lui la diede a me. «Guarda sotto Grauman» dissi. Crumley obbedì. «Ecco il Teatro Cinese con il nome di Grauman. Cerchio rosso e croce. Ma Grauman è morto anni fa!» «Però una parte di Constance è sepolta là, o impressa nel cemento. Ti farò vedere. Ce la facciamo per l'ultima proiezione di Jack e l'ammazzagi-
ganti?» «Studiando bene i tempi» rispose Crumley, «arriveremo a film finito.» Capitolo 19 Non ci fu bisogno di studiare i tempi. Quando Crumley mi lasciò davanti al Tempio dello spettacolo, la gran cattedrale della celluloide romantica e rumorosa, prepotente e rigata di lacrime... vidi subito che il gran portale rosso in stile cinese recava un cartello con scritto CHIUSO PER RESTAURO. Gli operai andavano e venivano. Nel cortile antistante c'erano persone che confrontavano la misura delle proprie scarpe con le impronte dei divi nel cemento. Crumley mi lasciò e se ne andò via. Mi voltai a dare un'occhiata alla grande facciata di pagoda. Dieci per cento cinese, novanta per cento Grauman. Il piccolo Sid. Qualcuno dice che arrivasse alla cintola di un nano, che fosse anzi l'ottavo nano del cinema, ma che la sua modesta statura debordasse di scene madri e colonne sonore, Kong che urla sull'Empire State Building, Ronald Colman a Shangri-La. Dicono che fosse amico della Garbo, della Dietrich e della Hepburn, consigliere di Chaplin, compagno di golf di Laurel e Hardy, custode della fiamma, archivio di diecimila passati... Sid il colatore di cemento, stampatore di piedi piatti o affusolati, collezionatore e beneficiario di autografi da marciapiede. Mi trovavo su una colata lavica di firme lasciate dai fantasmi, tutta gente che aveva consegnato al tempo la misura delle proprie scarpe. Guardai i turisti che confrontavano tranquillamente la forma dei propri piedi con le impronte lasciate nel cemento, e sorridevano. Che razza di chiesa, pensai. Più fedeli qui che a santa Vibiana. «Rattigan» mormorai, «sei qui?» Capitolo 20 Si dice che Constance avesse i piedi più piccoli di Hollywood, forse del mondo. Ordinava le scarpe su misura a Roma e gliele spedivano per posta aerea due volte l'anno, perché quelle vecchie erano puntualmente rovinate dallo champagne versato dai corteggiatori impazziti. Piedi piccoli, dita minuscole, scarpe mignon. Lo dimostrano le impronte che Constance lasciò nel cemento del Grau-
man la sera del 22 agosto 1929, a confronto delle quali le ragazze scoprivano di avere piedi titanici e goffi, e presto abbandonavano il gioco per disperazione. Così eccomi solo, in una strana notte, nel piazzale del Teatro Cinese Grauman, l'unico posto della Hollywood morta e insepolta in cui il pubblico potesse restituire un sogno ed essere rimborsato. La folla si diradò. Sette od otto metri più in là c'erano le impronte di Constance e mi gelai, perché un ometto con l'impermeabile nero e un cappello a tesa larga abbassato sulla fronte aveva appena calato i piedi nelle impronte della Rattigan. «Gesù» esclamai «corrispondono!» L'ometto si guardò le piccole scarpe. Per la prima volta in quarant'anni, le orme della Rattigan erano state riempite. «Constance» sussurrai. Le spalle dell'ometto si ingobbirono. «Sono dietro di te» aggiunsi. «Sei uno di loro?» chiese una voce esile sotto il cappello nero. «Uno di chi?» ribattei. «Sei la Morte che mi dà la caccia?» «Solo un amico che cerca di starti vicino.» «Ti aspettavo» riprese la voce senza che lei si muovesse, i piedi saldamente piantati nelle impronte di Constance Rattigan. «Che significa tutto questo?» domandai. «Perché hai scatenato la caccia all'anatra selvatica? Sei spaventata o stai cercando di fare qualche trucco?» «Perché dici questo?» ritorse la voce furtiva. «Bontà divina» esclamai, «dobbiamo continuare a girarci intorno come in un indovinello da strapazzo? Qualcuno ha fatto l'ipotesi che volessi scrivere un'autobiografia e avessi bisogno di una mano. Se ti aspetti che te la dia io, no grazie, ho di meglio da fare.» «Cosa c'è meglio di me?» chiese la voce, facendosi piccina. «Niente, ma hai veramente la morte alle calcagna o stai cercando una nuova vita... Dio sa che razza di vita?» «Cos'è meglio del cimitero in cemento dello zio Sid? I nomi ci sono tutti, ma sotto non c'è niente. Fammi altre domande.» «Hai intenzione di voltarti e guardarmi?» «Non potrei parlare, se lo facessi.» «È un trucco per farti aiutare a riscoprire il passato? Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? È stato qualcuno a fare quei segni rossi nella rubrica
o sei stata tu?» «Dev'essere stato qualcun altro. Perché sarei tanto spaventata, altrimenti? A proposito di segni, devo guardarli di nuovo, devo sapere chi è già morto e chi sta per morire, anche se è ancora vivo. Hai mai avuto la sensazione che tutto stesse crollando?» «Tu no, Constance.» «Cristo, sì! Ci sono notti in cui mi sembra di essere Clara Bow quando mi addormento e Noè quando mi sveglio bagnata di vodka. La mia faccia è una rovina?» «Una bellissima rovina.» «Eppure...» Rattigan guardò verso Hollywood Boulevard. «Una volta c'erano turisti veri. Adesso hanno le pezze al culo. Abbiamo perso tutto, giovanotto. Il molo di Venice è andato a fondo, le rotaie del tram sono andate a fondo. Passava all'incrocio di Hollywood e Vine, ma è mai esistito?» «Una volta sì. Quando alle pareti del Brown Derby c'erano i ritratti di Clark Gable e della Dietrich, e i capocamerieri erano principi russi. Quando Robert Taylor e Barbara Stanwyck passavano con la decappottabile. Hollywood angolo Vine? Ci hai piantato i piedi e hai provato la più pura delle gioie.» «Parli bene, tu. Vuoi sapere dov'è stata la mamma?» Mosse il braccio e tirò fuori alcuni ritagli dall'impermeabile. Lessi i nomi Califia e monte Lowe. «Ci sono andato anch'io, Constance» dissi. «Il vecchio è rimasto ucciso dal crollo di una catasta di giornali. Dio, sembrava che fosse finito sotto il terremoto, quello grande della faglia di San Andreas. Io penso che qualcuno abbia spinto i giornali per fargli un funerale indecente. E la regina Califia? Una caduta dalle scale. E tuo fratello, il prete. Sei stata da tutti e tre, Constance?» «Non sono obbligata a rispondere.» «Fammi provare in un altro modo. Ti piaci, tu?» «Cosa?!» «Ascolta, io mi piaccio. Non sono perfetto, assolutamente no, ma non ho mai portato a letto una donna che mi sembrasse troppo fragile. Certi uomini dicono buttati comunque, vivitela. Non io, anche quando mi viene offerta su un piatto d'argento. Non avendo molto peccato, non faccio troppi brutti sogni. Oh, sicuro, c'è stata la volta in cui sono scappato dalla nonna, ma allora ero un ragazzo. Sono scappato e l'ho lasciata alcuni isolati indie-
tro, e lei tornò a casa piangendo. Ancora non riesco a perdonarmelo. Un'altra volta picchiai il mio cane: una sola volta, però l'ho fatto. Mi fa male a trent'anni di distanza. Un elenco poco adatto a farti venire gli incubi, eh?» Constance se ne stava immobile. «Buon Dio» disse, «come vorrei fare i tuoi sogni.» «Chiedi e te li darò in prestito.» «Povero, innocente, stupido ragazzo. Ecco perché ti voglio bene. Ma un giorno, davanti alle porte del cielo, scambierò i miei incubi al nerofumo con un paio di ali d'angelo. Credi che potrò?» «Domandalo a tuo fratello.» «Lui mi ha condannata all'inferno da molto tempo.» «Non hai risposto alla mia domanda, Constance. Ti piaci?» «Mi piace quello che vedo allo specchio, sì. Ma in fondo al vetro si nasconde qualcosa che mi spaventa, e di notte mi sveglio perché ci sono cose che volano dietro la mia faccia. Gesù, che tristezza. Puoi aiutarmi, tu?» «Come? Non so chi sei veramente, l'immagine allo specchio o l'altra. Qual è il diritto e quale il rovescio.» Constance mosse i piedi. «Ma non riesci a stare ferma?» scattai. «Quando dico "semaforo rosso" tu devi star ferma, piedi intrappolati nel cemento. E allora?» Vidi che i piedi le dolevano per lo sforzo di liberarsi. «La gente ci guarda!» «Il cinema è chiuso. La maggior parte delle luci sono spente. Il cortile è deserto.» «Tu non ti rendi conto. Devo andarmene subito.» Guardai le porte del Grauman, ancora aperte, attraverso le quali gli operai portavano l'attrezzatura. «È quella, la mia prossima meta. Come ci vado?» «Cammina, punto e basta.» «Non capisci, è come il saltarello. Deve esserci un sentiero che porta all'ingresso, un sentiero di orme, ammesso che riesca a trovarlo. Da che parte salto?» Mosse la testa e il cappello nero cadde sul lastrico. Apparvero i capelli di Constance, color bronzo e tagliati corti. Mi evitava ancora, come se temesse di mostrarmi la faccia. «E se dicessi semplicemente "vai"?» «Allora andrei.» «Dove ci vediamo, la prossima volta?»
«Lo sa Iddio. Presto, di' "vai". Quelli guadagnano terreno.» «Chi?» «Tutti gli altri. Mi uccideranno, se non li uccido per prima. Non vorresti che morissi proprio qua, sbaglio?» Scossi la testa. «Pronti, partenza, via?» fece Constance. «Pronti, via.» Se ne andò a zigzag attraverso il cortile, dieci passi veloci a destra, dieci a sinistra, pausa, poi altri venti passi in una serie d'impronte diverse. A quel punto si fermò come se avesse visto una mina. Un clacson suonò. Mi voltai e quando guardai di nuovo dalla parte di Constance, le porte del Teatro Grauman avevano appena inghiottito un'ombra. Contai fino a dieci per darle un vantaggio, poi raccolsi le scarpine che aveva lasciato nelle sue stesse impronte. Andai verso il primo punto in cui aveva fatto pausa e vidi quelle di Sally Simpson, 1926. Il nome era appena un'eco di tempi perduti. Mi diressi verso il secondo gruppo di impronte. Gertrude Erhard, 1924. Un fantasma del tempo ancora più vago. Le ultime, quasi davanti alla porta, erano del 1923: Dolly Dawn, Peter Pan. Dolly Dawn? Una nebbia leggera venuta dal passato mi sfiorò. Ricordai quasi. «Diavolo» mormorai. «Non ci riesco.» Stavo per consentire che il falso palazzo cinese di zio Sid m'inghiottisse con due grandi, oscure fauci di drago. Capitolo 21 Mi fermai appena al di qua delle porte scarlatte, perché ricordai, come se avesse parlato adesso, padre Rattigan che esclamava: «Deplorevole!». Il che mi indusse a tirar fuori il Libro dei Morti di Constance. Fino a quel momento avevo cercato persone, ora cercavo un luogo. Ed eccolo, sotto la lettera G: Grauman's. Seguito da un indirizzo e un nome, Clyde Rustler. Rustler, buon Dio, pensai, smise di fare l'attore nel 1920, dopo aver lavorato con Griffith e Lillian Gish ed essere rimasto coinvolto nella morte di Dolly Dimples nella vasca da bagno. Ed eccomi davanti al tuo nome (eri ancora vivo?) nel luogo in cui ti seppellirono senza preavviso e ti cancellarono dalla storia allo stesso modo che zio Stalin cancellò i suoi compari,
con una cassino a canne mozze. E il mio cuore ebbe un tuffo, perché sul nome Rustler c'erano un cerchio d'inchiostro rosso e due croci. Rattigan... Guardai nel buio, oltre la porta rossa. Rattigan, sì, ma ci sei dentro anche tu, Clyde Rustler? Allungai una mano verso la maniglia d'ottone e la strinsi, mentre una voce alle mie spalle annunciava cupamente: «Dentro non c'è niente da rubare!». Alla mia destra vidi un senzatetto smunto e vestito in varie sfumature di grigio, di quelli che parlano con tutto il mondo. «Fai pure» riuscii a leggergli sulle labbra. «Non hai niente da perdere.» Ma molto da vincere, pensai. Solo, come si scava un'antica tomba cinese che contiene spezzoni di film in bianco e nero, una voliera di uccelli che battono le ali nella notte e fuochi d'artificio che esplodono sul gran schermo affamato, rapidi come ricordi e svelti come il rimorso? Il senzatetto aspettò che mi autodistruggessi con i ricordi. Annuii, poi sorrisi. Veloce come la Rattigan, scivolai nelle tenebre del teatro. Capitolo 22 Nell'atrio c'era un esercito congelato di coolie cinesi, concubine e imperatori vestiti di cera antica in parata verso il nulla. Una delle statuine batté gli occhi. «Prego?» Dio, pensai, è assurdo fuori come è assurdo dentro, e Clive Rustler avrà novanta o novantacinque anni e starà ammuffendo. I tempi erano cambiati. Se fossi uscito in quel momento, avrei trovato almeno dieci drive-in in cui cameriere sotto i diciott'anni servivano hamburger scivolando sui pattini. «Prego?» ripeté la statuina cinese di cera. Attraversai rapidamente il primo ingresso e giù per la navata sotto la galleria, poi alzai gli occhi. Era un immenso acquario oscuro sottomarino. Immaginai mille fantasmi del cinema spaventati anche dai sussurri, che alle loro orecchie suonavano come spari, ai quali non restava che volare verso il soffitto o svanire nelle prese d'aria. Sotto la volta veleggiavano la balena di Melville, l'Aquila dei mari, il Titanic e il Bounty sempre in viaggio, mai destinato a entrare in porto. Misi a fuoco i livelli più alti della galleria, quelli che una volta si chiamavano "il paradiso dei negri". Dio mio, pensai, qui ho tre anni. Era quella l'epoca in cui le fiabe cinesi assediavano il mio letto, recitate
da una zia preferita, l'epoca in cui pensavo che la morte fosse solo un uccello eterno, un cane silenzioso in giardino. Non avevano ancora chiuso il nonno in una cassa e non l'avevano messo in mostra alle pompe funebri, ma fu quello l'anno che Tutankamen uscì dalla tomba. Perché è così famoso, Tutankamen? Per essere morto quattromila anni fa. Ragazzi, pensai, come avrà fatto? Anch'io mi trovavo in una gran tomba sotto la piramide, lì dove avevo sempre voluto essere. Ad alzare il tappeto, nei corridoi, si sarebbero trovati faraoni sepolti insieme a forme di pane fresco e lucenti spicchi di cipolle: cibo per risalire il fiume dell'Eternità. Non devono rovinare questo posto, pensai. Voglio essere seppellito qui. «Non siamo al cimitero di Green Giade» disse il vecchio cinese di cera, leggendomi nel pensiero. Avevo parlato ad alta voce. «Quando hanno costruito il teatro?» mormorai. La vecchia statua si lanciò in una lezione di quaranta giorni: «Nel 1921, fu uno dei primi. Allora qui non c'era niente a parte le palme, qualche fattoria e i cottage, e in mezzo passava una strada polverosa. Avevano fatto dei piccoli bungalow per attirare Douglas Fairbanks, Lillian Gish e Mary Pickford. La radio era nient'altro che una scatola per fiammiferi di cristallo con la cuffia: non ci potevi mica leggere il futuro... Quando aprimmo noi fu un evento. La gente veniva a piedi o in macchina, da Melrose a nord. Il sabato sera si formavano vere e proprie carovane del deserto con i fanatici del cinema; all'angolo di Gower e Santa Monica non avevano ancora costruito il camposanto, ma si riempì ben presto e il colmo fu raggiunto con la morte per peritonite di Valenti-no, nel '26. La sera dell'inaugurazione Louis B. Mayer arrivò dallo zoo di Selig in Lincoln Park, ed è lì che la MGM trovò il suo leone, cattivo ma senza denti. C'erano trenta ballerine, quella sera. Will Rogers lanciò la fune. Trixie Friganza cantò la famosa I Don't Care e in seguito ottenne una parte in un film della Swanson, nel 1934. Vai di sotto, ficca il naso nei camerini del seminterrato, troverai i resti della biancheria intima delle ragazze che morivano d'amore per Lowell Sherman. Tipo elegante coi baffetti, ma il cancro se lo prese nel '34. Mi ascolti?» «Voglio Clyde Rustler» sbottai. «Buon Gesù, nessuno si ricorda più di lui! Vedi lassù, la vecchia cabina di proiezione? Ce lo seppellirono vivo nel '29, quando costruirono la nuova cabina in prima galleria.»
Alzai gli occhi verso fantasmi di nebbia, piogge e nevi di Shangri-La, cercando il Gran Lama. Il mio mentore-ombra disse: «Ascensore non ce n'è. Fanno duecento gradini!». Una lunga salita senza sherpa verso una galleria di mezzo e un ammezzato, quindi un'altra galleria e dopo questa un'altra, in mezzo a tremila poltrone. Come si possono accontentare tremila spettatori?, pensai. Come? Se i ragazzini di otto anni non sentono il bisogno di fare pipì tre volte durante il film, è fatta! Cominciai a salire. A metà strada mi sedetti a riposare, ansimando: all'improvviso ero vecchio, invece che giovane a metà. Capitolo 23 Arrivai alla parete nascosta del monte Everest e bussai alla porta di una vecchia cabina di proiezione. «Sei chi penso?» chiese una voce atterrita. «No» risposi piano. «Sono soltanto io. Tornato per un'ultima matinée dopo quarant'anni.» Fu un colpo di genio: rigurgitare il mio passato. La voce atterrita si calmò. «Qual è la parola d'ordine?» L'ebbi subito alla punta della lingua e la dissi con la voce di un ragazzo. «Tom Mix e il suo cavallo, Tony. Hoot Gibson. Ken Maynard. Bob Steele. Helen Twelvetrees. Vilma Banky...» «Mi basta.» Passò un pezzo prima di sentire il ragno gigante che sfiorava il pannello della porta. L'uscio cigolò e un'ombra d'argento si affacciò verso di me, metafora vivente dei fantasmi in bianco e nero che avevo visto sfarfallare sullo schermo una vita prima. «Qui non viene mai nessuno» disse quell'uomo vecchissimo. «Nessuno?» «E neppure bussa alla mia porta» aggiunse il vecchio dai capelli d'argento. Anche la faccia era d'argento e i vestiti stinti erano d'argento: non per nulla viveva da settant'anni nel nido solitario sotto la roccia e guardava eternamente l'irreale scorrere nella sala sottostante. «Nessuno sa che sono qui, neppure io stesso.»
«Ma lei c'è, ed è Clyde Rustler.» «Davvero?» Per un attimo pensai che stesse per auto-perquisirsi, in cerca di giarrettiere e fermamaniche. «Chi sei tu?» Mise un po' fuori la testa, come una tartaruga dal guscio. Dissi il mio nome. «Mai sentito.» Diede un'occhiata allo schermo vuoto, di sotto. «Sei uno di loro?» «Se allude alle stelle del cinema defunte...» «A volte si arrampicano quassù. L'altra sera è venuto Fairbanks.» «Zorro-D'Artagnan-Robin Hood? Ha bussato alla sua porta?» «Ha grattato. Quando sei morto hai qualche problema. Allora, vuoi entrare o no?» Infilai la porta rapidamente, per paura che cambiasse idea. Le macchine da proiezione erano affacciate sul nulla e la stanza sembrava la camera ardente di un re Chung. Odorava di polvere, sabbia e aspra celluloide, e fra i proiettori c'era una sedia soltanto. Come aveva detto Clyde, nessuno veniva mai a trovarlo. Guardai le pareti affollate: almeno trenta fotografie, alcune sistemate alla buona con cornici comprate da Woolworth, altre in argento, altre ancora erano semplici ritagli dalle copie di "Silver Screen", la rivista di cinema. C'erano le fotografie di più di trenta donne, e non due che si assomigliassero. Il vecchissimo uomo permise a un sorriso di adombrargli la faccia. «Le mie care fidanzate, all'epoca in cui ero un vulcano attivo.» Il più anziano fra gli anziani mi guardò da un labirinto di rughe, del genere che ti vengono quando frughi la ghiacciaia alle sei del mattino in cerca dei martini premiscelati la sera. «Tengo la porta chiusa a chiave, qui. Pensavo che fossi tu quello che gridava là fuori.» «Non sono stato io.» «Però qualcuno è stato. A parte questo, nessuno è salito quassù dopo la morte di Lowell Sherman.» «Il che assomma a due necrologi in dieci minuti. Sherman? Inverno 1934, cancro e polmonite.» «Nessuno sa queste cose!» «Un sabato del 1934 andai col monopattino al Coliseum, era poco prima della partita. Lowell Sherman arrivò gridando e sbracciandosi, e quando ottenni il suo autografo dissi: "Stia bene".. Morì due giorni dopo.»
«Lowell Sherman.» Il vecchissimo uomo mi guardò con una nuova luce negli occhi. «Finché tu sarai vivo, anche lui vivrà.» Clyde Rustler si accasciò sull'unica sedia e mi squadrò di nuovo. «Lowell Sherman... A proposito, perché ti sei arrampicato quassù? C'è gente che è morta, salendo qui; zio Sid c'è venuto una volta o due, poi ha detto all'inferno, ci rinuncio, e ha costruito la seconda cabina di proiezione un centinaio di metri a valle, nel mondo reale. Ammesso che ci sia un mondo reale, non sono sceso a controllare. Allora?» Si era accorto che ispezionavo il primordiale nido d'aquila e che ammiravo le pareti tappezzate di volti di donne eternamente giovani. «Ti piacerebbe fare una scarrozzata fra quelle gattine, o forse dovrei dire leoni di montagna?» Le indicò, sporgendosi verso di me. «Quella si chiamava Carlotta o Midge o Diana. Era una bellezza spagnola, una di quelle "ragazze-oggetto" alla Cal Coolidge con la gonna che arrivava all'ombelico, un'imperatrice romana fresca del bagno di latte in un film di De Mille. A un certo punto si trasformò in una vamp di nome Illysha, ed eccola là; poi in una dattilografa, Pearl, e in una tennista inglese... Pamela. Sylvia, invece, dirigeva una trappola per nudisti a Cheyenne. Alcuni la chiamavano "Spezzacuore Hannah, la vamp di Savannah". Vestita come Molly Madison, cantava Tea for Two, Chicago e usciva da una grande conchiglia come se fosse la perla del Paradiso, la mania di Flo Ziegfeld. Suo padre la licenziò a tredici anni per condotta indegna di un essere umano, sia pure un essere umano maturato così presto: ecco a voi WillaKate. Lila Wong lavorava in un carnaio un po' speciale, mentre la straordinaria Willa ottenne più voti di un presidente, al concorso di bellezza di Coney Island nel 1929. Barbara Jo saltò giù dal treno notturno a Glendale; il giorno dopo, o quasi, Anastasia Alice Grimes era diventata il boss della Glory Film...» Tacque, io alzai gli occhi. «Il che ci porta alla Rattigan.» All'improvviso Clyde Rustler si immobilizzò. «Mi ha detto che da anni nessuno viene qui. Ma... lei è venuta oggi, vero? Magari per dare un'occhiata alle sue foto. È venuta o non è venuta?» Il vecchio si guardò le mani polverose, poi si alzò e si mise davanti a un tubo d'ottone che sporgeva dal muro, uno di quegli apparecchi che usano nei sottomarini per amplificare gli ordini. «Leo? Del vino! Mancia da due dollari.» Una vocina squittì dal tubo d'ottone. «Ma tu non bevi.» «Adesso sì, Leo. E hot dog!»
Il tubo squittì di nuovo, poi silenzio. L'uomo vecchissimo brontolò qualcosa e fissò la parete. Trascorsero cinque lunghi, terribili minuti. Mentre aspettavamo aprii il taccuino che portavo con me e copiai i nomi tracciati sulle fotografie. Il vino e gli hot dog tintinnarono nel montacarichi. Clyde Rustler trasalì, come se avesse dimenticato il piccolo ascensore. Per aprire la bottiglia con il cavatappi mandato da Leo, giù da basso, Clyde impiegò un'eternità. C'era un solo bicchiere. «È unico» si scusò. «Bevi prima tu. Io non ho paura di prendere qualcosa.» «Non ho niente che lei possa prendere.» Bevvi e gli passai il bicchiere. Vidi il rilassamento sciogliere il suo corpo. «E ora» disse, «lascia che ti mostri qualche fotogramma montato da me stesso. Perché? Be', la settimana scorsa ha telefonato una sconosciuta; la voce al telefono sembrava quella dell'infermiera di Harry Cohn: non si limitava a dire sì, continuava a ripetere sì, sì, Harry, sì! Comunque, mi disse che cercava Robin de Locksley. Un'attrice con quel nome è esistita, ma è stata come un fulmine a ciel sereno. Sparì nel castello di Hearst o nella cucina sul retro dello stesso, ed ecco che tanti anni dopo questa voce vuole sapere improvvisamente qualcosa sul suo conto. Mi ha fatto venire i brividi. Sono andato a cercare fra le pizze e ho trovato l'unico film che Locksley abbia girato; è stato nel 1929, quando il sonoro prese il sopravvento. Guarda.» Caricò la pellicola nel proiettore e accese la lampada. L'immagine partì a razzo per riempire il grande schermo. Rappresentava un'acrobata del circo che spiegava ali di corda e si lanciava a testa bassa come per togliersi l'aria troppo stereotipata dal sorriso. Dopo un po' scoppiava in una risata e cominciava a correre, inseguita da cavalieri bianchi e cattivi neri. «La riconosci?» «No.» «Riprova.» Il proiettore illuminò le tenebre con le immagini del 1923. Un ragazzaccio si arrampicava su un albero per farne cadere la frutta e rideva, ma sul davanti della camicetta si vedevano altri due piccoli pomi maturi. «Il film è Tomboy Sawyer, ma la ragazza chi è? Accidenti!» Il vecchio proiettò un'altra decina di immagini, a cominciare dal 1925 per finire con il 1952. Volti aperti, chiusi, misteriosi, ovvi, luminosi, oscuri, feroci, composti, belli, comuni, peccaminosi e innocenti.
«Non ne riconosci nessuno? E io che mi sono dato tanta pena. Dev'esserci un motivo per cui ho salvato tutti questi spezzoni. E guardami, dannazione! Lo sai quanti anni ho?» «Novanta, novantacinque?» «Diecimila anni. Gesù, mi hanno trovato che galleggiavo in una cesta sul Nilo. Sono inciampato quando scendevo dal monte con le Tavole della Legge, mi sono scottato al fuoco del roveto ardente. Marc'Antonio disse: "Sciogli i cani della guerra" e io li ho sciolti. Ho assistito davvero a questi prodigi? A volte mi sveglio la notte e batto la testa per mettere in ordine le piccole cellule. Mi sembra di avere in pugno la risposta, ma basta un movimento e il caos torna a regnare. Sei sicuro di non ricordare chi siano quelle facce? È un bel mistero.» «Stavo per dire lo stesso. Sono venuto qui perché prima di me ci è venuto qualcun altro. Forse la proprietaria della voce che strillava di sotto.» «Quale voce?» «Quella di Constance Rattigan» risposi. Lasciai che la nebbia scendesse dietro i suoi occhi. «Lei cosa c'entra in tutto questo?» domandò il vecchio. «Forse Constance lo sa. L'ultima volta che l'ho vista stava calcando le sue stesse impronte.» «E pensi che possa sapere a chi appartengano queste facce, cosa significhino i nomi? Un momento, c'era qualcuno davanti alla mia porta... Sì, dev'essere stato oggi, non può essere stato ieri. Era una donna, e ha detto: "Dammele immediatamente!"» «Darle immediatamente cosa?» «Diavolo, cosa vedi qua dentro che valga la pena di dare?» Guardai le foto sulla parete. Clyde Rustler intercettò la mia occhiata. «No, non quelle. A chi potrebbero interessare?» osservò. «Non valgono niente. Neanch'io so perché le ho attaccate lì. Esistono collezionisti di mogli o vecchie fidanzate?» «Quante ne ha avute?» «Non ho abbastanza dita per contarle tutte.» «Una cosa è sicura, Constance voleva quelle foto. Gelosia, forse?» «Constance gelosa? Senti, esiste una cosa che chiamano furore dell'automobilista. Lei aveva il furore della passera. Avrebbe voluto fare un fascio delle mie belle, tutte quante, e calpestarle, farle a pezzi, bruciarle. Avanti, finisci il vino. Io ho molto da fare.» «Per esempio?»
Ma lui stava ricaricando il proiettore, affascinato dalle mille e una notte del passato. Mi avvicinai alla parete e presi nota rapidamente di tutti i nomi sotto le foto. Poi dissi: «Se Constance ritorna, lei mi avvertirà?» «Se torna per le foto? La scaravento dalle scale!» «C'è qualcuno che ha già minacciato di farlo, solo che voleva scaraventarla all'inferno, non in seconda galleria. Lei che motivo ha?» «C'è sicuramente un motivo. Non farmelo ricordare! E a proposito, tu com'è che ti sei arrampicato quassù? Come mi hai chiamato?» «Clyde Rustler.» «Ah, già, lui. Mi è appena tornata in mente una cosa. Lo sai che sono il padre di Constance?» «Che?!» «Il padre di Constance. Pensavo di avertelo detto prima. Adesso puoi andare, buonasera.» Uscii, chiusi la porta e lasciai perdere il vecchio, chiunque fosse. E le fotografie, di chiunque fossero. Capitolo 24 Quando ebbi finito la discesa, cercai l'estremità del teatro e abbassai lo sguardo. In fondo c'era la buca dell'orchestra, ma avvicinandomi alla parete laterale diedi un'occhiata attraverso una porta che immetteva in un lungo corridoio buio, e dentro quel buio, in corrispondenza dei vecchi camerini abbandonati, la notte più fitta. Fui tentato di chiamare un certo nome. E se lei avesse risposto? In fondo al corridoio nero mi parve di sentire il rumore di un mare nascosto, o di un fiume che scorresse nelle tenebre. Misi un piede davanti e l'altro dietro. L'oceano di notte risuonò ancora una volta sulla riva infinita. Allora mi voltai e m'incamminai nel grande buio, fuori dalla caverna, attraverso i corridoi da cui tutti se n'erano andati, affrettandomi verso le porte che davano sul mondo esterno e il benvenuto cielo della sera. Portai le scarpette della Rattigan dove le avevo trovate e riuscii a sistemarle sulle impronte. In quel momento l'angelo custode mi sfiorò una spalla.
«Sei tornato dal mondo dei morti, finalmente» disse Crumley. «Puoi dirlo forte» risposi, fissando la grande porta rossa del Grauman's Chinese con le sue creature di celluloide che nuotavano nell'oscurità. «Lei è là dentro» sussurrai. «Vorrei conoscere il modo di tirarla fuori.» «Un candelotto di dinamite legato a un pacco di banconote dovrebbe servire allo scopo.» «Crumley!» «Spiacente, avevo scordato che stiamo parlando di Florence Nightingale.» Feci un passo indietro. Crumley guardò le scarpine sistemate sulle orme lasciate tanto tempo fa. «Non esattamente scarpe da tennis» constatò. Capitolo 25 Attraversammo la città in un cordiale silenzio. A un certo punto tentai di descrivere il grande oceano notturno del Teatro cinese. «C'è un seminterrato con i camerini, credo pieno di roba degli anni Venti e Trenta. Ho la sensazione che lei sia andata là.» «Risparmia il fiato» fece Crumley. «Ma qualcuno dovrebbe andare a vedere.» «Hai avuto paura di andarci solo?» «Non proprio.» «Il che significa "è esattamente così". Adesso stai zitto e goditi la passeggiata.» Arrivammo ben presto a casa di Crumley. Mi appoggiò una birra fredda alla fronte. «Tienila lì fino a quando sentirai che ti ha curato i pensieri.» Ce la tenni. Crumley accese la tv e cominciò a saltare fra i canali. «Non so cosa è peggio» disse. «Se la tua logorrea o le notizie della sera.» «Padre Seamus Rattigan» disse la tv. «Fermo lì!» gridai. Crumley tornò al canale incriminato. «... Cattedrale di Vibiana.» Bufera di statiche e neve. Crumley diede un pugno al maledetto televisore. «... Cause naturali. Si dice che fosse candidato a diventare cardinale...»
Altra tempesta di neve. L'apparecchio morì. «Lo farò aggiustare» disse Crumley. Guardammo tutti e due il telefono, chiedendogli di squillare. E facemmo un salto sulla sedia, perché squillò! Capitolo 26 Era l'assistente di padre Rattigan, Betty Kelly: faticava a parlare e sembrava che fosse andata al tappeto per la terza volta; chiedeva pietà. Le offrii la piccola pietà di cui disponevo e promisi di andarla a trovare. «La prego faccia presto, o morirò anch'io» si lamentò. Quando Crumley e io arrivammo, Betty Kelly era fuori, davanti alla chiesa di Santa Vibiana. Ci volle un po' prima che ci vedesse, agitasse timidamente la mano e subito abbassasse gli occhi. Ci avvicinammo e presentai Crumley. «Mi dispiace» dissi. Lei alzò la testa. «Allora è lei il signore che ha parlato con padre Rattigan. Oddio, andiamo dentro.» Le grandi porte della chiesa erano chiuse per la notte. Entrammo da una porticina laterale e Betty barcollò, per poco non cadde. La sorressi e la portai verso una delle panche, dove sedette senza fiato. «Siamo venuti prima che abbiamo potuto» dissi. «Lo conoscevate?» Ansimava. «È tutto così confuso. Avevate un amico comune, un conoscente, qualcuno?» «Una parente» disse Crumley. «Con lo stesso cognome.» «La Rattigan! È stata lei a ucciderlo. Aspetti!» Mi prese per la manica, perché avevo cercato di alzarmi. «Stia seduto» disse Betty. «Non voglio dire che l'abbia assassinato, però l'ha fatto morire.» Mi sedetti, raggelato. Crumley si allontanò discretamente, lei mi prese il gomito e abbassò la voce. «Lei veniva qui, in certi casi perfino tre volte al giorno, per confessarsi. Prima parlava a voce bassa, poi cominciava a dare in escandescenze. Quando se ne andava il povero padre Rattigan sembrava colpito da una fucilata, ma lei non se ne andava davvero, rimaneva nei paraggi fino a quando il fratello non cadeva esausto, preso dalla fame e incapace di nutrirsi. L'armadietto dei liquori veniva regolarmente svuotato, ma dall'odore si sa-
rebbe detto che l'avesse colpito un fulmine. Quanto alla Rattigan, continuava a ripetere sempre la stessa cosa.» «Quale?» «Che li avrebbe uccisi, uccisi! E poi urlava: "Continuerò per questa strada finché non li avrò ammazzati tutti. Aiutami ad ammazzarli, benedici le loro anime, io penserò a far fuori il resto. Li ucciderò tutti! Me li toglierò dalla groppa, li eliminerò dalla mia esistenza. Solo allora, padre, sarò libera e pulita! Ma tu aiutami a seppellirli e a fare in modo che non tornino! Aiutami!" «"Vattene via!" rispondeva padre Rattigan. "In nome di Dio, cosa mi stai chiedendo di fare?" «"Aiutami a liberarmene, prega perché non tornino indietro, che rimangano morti! Dimmi di sì!" «"Fuori di qui!" le gridava padre Rattigan, ma lei riattaccava e oggi è stato anche peggio.» «Perché, cosa ha detto?» «Ha detto: "Allora sii maledetto, maledetto, maledetto e vai all'inferno!". Gridava così forte che la gente è scappata. L'ho sentita piangere, padre Rattigan doveva essere in uno stato di shock. Poi ho sentito i passi che si allontanavano nel buio. Io ho aspettato che padre Rattigan parlasse, dicesse qualcosa, ma alla fine mi sono fatta coraggio e ho aperto la porta. Lui era là, e stava zitto perché... era morto.» A questo punto la segretaria si sciolse in lacrime. «Pover'uomo» disse. «Quelle orribili parole gli hanno spezzato il cuore, come per poco non hanno spezzato il mio. Dobbiamo trovare quell'orribile donna e farle rimangiare le parole, in modo che padre Rattigan possa tornare a vivere. Dio mio, che sto dicendo? È steso là come se gli avessero succhiato fino all'ultima goccia di sangue... Lei conosce quella donna? Allora le dica che ha compiuto la peggiore azione della sua vita. Ecco, l'ho detto. Ho buttato fuori il rospo, ma dove andrà a sfogarsi lei, giovanotto? La patata bollente è sua, mi dispiace solo di avergliela passata.» Mi guardai i vestiti, come se temessi che mi avesse letteralmente vomitato addosso. Crumley andò al confessionale, aprì le porticine su tutti e due i lati e fissò il buio. Mi avvicinai a lui e respirai a fondo. «Avete sentito l'odore?» chiese Betty Kelly. «È lì, ed è odore di rovine. Ho detto al cardinale di farlo sfasciare e bruciare.» Presi un'ultima boccata d'aria. C'era sentore di carbone e fuochi di san-
t'Elmo. Crumley chiuse le porticine. «Non servirà a niente» disse Betty Kelly. «Lei è ancora là. E anche lui, povera anima, stanco morto oltre che morto. Due bare, una affianco all'altra. Dio ci aiuti, l'ho sfibrata. Lei, giovanotto, ha la stessa espressione del povero padre Rattigan.» «Non mi dica certe cose» protestai debolmente. «Non lo farò più» promise. Guidato da Crumley, mi avviai alla porta stanco come un mendicante. Capitolo 27 Non riuscivo a dormire, non riuscivo a stare sveglio, non ero capace di scrivere né di pensare. Infine, confuso e arrabbiato, telefonai di nuovo a santa Vibiana. Quando mi rispose, Betty Kelly aveva una voce da sepolta viva. «Non posso parlare!» «Svelta» la pregai. «Ricorda quello che Constance ha detto in confessionale? Qualsiasi cosa importante, sensata, insolita?» «Dio buono» fece Betty. «Era un mare di parole, parole, parole. Ma aspetti... ripeteva che padre Rattigan doveva perdonare noi tutti! Tutti, dal primo all'ultimo! Nel confessionale c'era soltanto Constance, ma insisteva che il perdono era necessario per tutti. È ancora lì?» Alla lunga dissi: «Sono qui». «C'è altro che vuol sapere?» «Non adesso.» Riattaccai. «Noi tutti» ripetei sussurrando. «Perdonare noi tutti!» Chiamai Crumley. «Non dirmelo.» Provò a indovinare. «Stanotte non si dorme, giusto? E vuoi che ci incontriamo tra un'ora a casa della Rattigan. Hai intenzione di frugare il posto?» «Solo un'amichevole perlustrazione.» «Perlustrazione! Cos'hai, una teoria oppure un'ispirazione?» «È ragion pura.» «La puoi vendere a dosi, quella.» Crumley aveva interrotto. «Ti ha attaccato il telefono in faccia?» chiesi allo specchio.
«L'ha attaccato in faccia a te» rispose. Capitolo 28 Il telefono squillò. Lo afferrai con cautela, neanche scottasse. «Sei tu, marziano?» chiese una voce. «Henry!» esclamai. «Proprio io» confermò la voce. «È pazzesco ma mi manchi, figliolo. Qui è tutto così monotono, come disse un signore di colore al pilota di un disco volante... etnico anche lui.» «Qui invece è un'avventura continua.» Lo dissi con un groppo alla gola. «Diavolo» fece Henry, «se cominci a piangere, io me la squaglio.» «Non farlo» singhiozzai. «Oh, Henry, che bello sentire di nuovo la tua voce!» «Il che significa che hai munto la vacca e ne hai ricavato un secchio di... non dico cosa. Mi vuoi perbene o sboccato?» «Tutt'e due, Henry. Le cose qui sono pazzesche. Maggie è laggiù all'est e io ho Crumley, si capisce, ma...» «Il che significa che hai bisogno di un cieco per uscire da una stalla piena di cose da stalla, eh? Be', aspetta che prendo il fazzoletto.» Si soffiò il naso. «E quando avresti bisogno di questo nasone che sa tutto?» «Ne avrei bisogno ieri» «Sono già lì. A Hollywood, in visita a un povero rifiuto nero.» «Conosci il Teatro cinese Grauman?» «Certo che sì.» «Fra quanto possiamo vederci lì?» «Quando vuoi, figliolo. Mi troverai nelle orme di Bill Robinson, anzi nelle sue scarpe da tip-tap. Si va a esplorare un altro camposanto?» «Pressappoco.» Telefonai a Crumley per dirgli dove sarei andato, che forse avrei fatto tardi dalla Rattigan, ma che avrei portato Henry con me. «Il cieco che guida il cieco» fu il suo commento. Capitolo 29 Si trovava esattamente dove aveva detto: sulle orme danzanti e geniali di Bill Robinson. Non erano impronte confinate al paradiso dei negri, che del resto era scomparso da tempo, ma lasciate in cortile, dove migliaia di bian-
chi di passaggio potessero vederle. La figura di Henry era ritta e tranquilla, ma le scarpe appoggiate sulle orme di Robinson erano inquiete e si vedeva, anche se discretamente. Henry aveva gli occhi e la bocca chiusi, assorto in chissà quale piacevole fantasticheria. Arrivai davanti a lui e sospirai. Henry aprì la bocca: «Wrigley's raddoppia il tuo piacere, raddoppia il divertimento! Prova Doppiamenta Wrigley's, la gomma con due volte menta, ma non appiccicarla a me!» Rise e mi prese per i gomiti. «Perdio, ragazzo, hai un bellissimo aspetto. Non ho bisogno della vista per accorgermene. Mi sei sempre parso un divo dello schermo!» «Dipende dal fatto che ho visto tanti film.» «Fatti toccare, ragazzo. Ehi, adesso bevi un sacco di malto.» «Anche tu stai benone, Henry.» «Mi sono sempre chiesto come sono.» «Il tuo aspetto? È come una canzone di Bill Robinson.» «Sono proprio nelle sue orme? Di' di sì...» «Ci stai perfettamente. Grazie per essere venuto, Henry.» «Ho dovuto farlo. È passato tanto tempo dall'ultima volta che siamo andati in giro per camposanti! La sera, quando vado a dormire, conto le tombe... in un senso o nell'altro. Che razza di cimitero abbiamo qui?» Guardai la facciata orientale del Grauman. «È un posto per fantasmi. È proprio quello che dissi a sei anni, quando m'intrufolai per la prima volta dietro le quinte e guardai le cose in bianco e nero che ghignavano sullo schermo. Il Fantasma dell'Opera suonava l'organo ma qualcuno gli strappò la maschera e lui fece un balzo: era alto dieci metri, pareva che volesse ucciderti con lo sguardo. Immagini alte, immense, pallide, e gli attori sono morti quasi tutti. Fantasmi.» «I tuoi ascoltavano, quando dicevi queste cose?» «Con loro dicevo solo "mamma" e "papà".» «Sei un bravo ragazzo. Sento odor d'incenso, dev'essere quello del Grauman. Che classe... altro che rivenduglioli!» «Eccoci arrivati, Henry. Ti tengo la porta.» «Ehi, è buio qua dentro. Hai portato una torcia? È bello sapere che abbiamo una torcia e sembriamo gente che sa il fatto suo.» «Ce l'ho, Henry.» «Fantasmi, hai detto?»
«Sedute spiritiche quattro volte al giorno, per trent'anni.» «Non tenermi il gomito, mi fa sentire inutile. Se cado, sparami!» Henry entrò e si avviò nel corridoio senza quasi barcollare, finché raggiunse la buca dell'orchestra e i grandi spazi che si estendevano oltre, nei sotterranei. «Si è fatto ancora più buio?» chiese. «Fammi accendere la torcia.» La accese. «Ecco» sorrise. «Così va meglio.» Capitolo 30 Nel sotterraneo buio pesto c'erano stanze su stanze su stanze, tutte con specchi alle pareti che riflettevano all'infinito: vuoto che scruta il vuoto nei corridoi di un mar morto. Entrammo nella prima, la più grande. Henry fece descrivere un cerchio alla lampadina, come il raggio di un faro. «Molti fantasmi, quaggiù.» La luce passò e sprofondò nell'oceano. «Ma non gli stessi fantasmi del piano di sopra. Questi fanno più impressione. Mi sono sempre interrogato sugli specchi e sul fenomeno del riflesso. Ti fa vedere un altro io, giusto? Lontano un metro e mezzo o due metri, sprofondato nel ghiaccio...» Henry si protese a toccare lo specchio. «C'è qualcuno, là dietro?» «Ci sei tu, Henry, e ci sono io.» «Maledizione, vorrei sapere la verità.» Ci spostammo lungo la fredda serie di specchi. Erano là, più che semplici fantasmi. Graffiti sul vetro. Devo aver ansimato, perché Henry mi puntò la torcia in faccia. «Vedi qualcosa che io non vedo?» «Dio, sì.» Mi protesi verso la prima, fredda Finestra sul Tempo. Ritirai il dito, sporco di una leggera traccia di vecchio rossetto. «E allora?» Henry si chinò verso di me, come se potesse vederci meglio stringendo gli occhi. «Di che si tratta?» «Una scritta. Margot Lawrence, R.I.P. Ottobre 1923.» «Qualcuno l'ha impacchettata e messa sottovetro?» «Non esattamente. E a distanza di un metro c'è un altro specchio: Juanita Lopez, estate 1924.»
«Non mi dice granché.» «Prossimo specchio: Carla Moore, Natale 1925.» «Ehi» disse Henry. «I film erano muti, ma un amico che ci vedeva mi raccontò di lei. Andammo a una matinée... Carla Moore! Veramente stupenda.» Guidai il raggio della torcia. «Eleanor Twelvetrees, aprile 1926» lessi. «Helen Twelvetrees recitava in The Cat and the Canary.» «Questa potrebbe essere la sorella, ma c'erano tanti nomi d'arte che non lo sapremo mai. Lucilie LeSueur diventò Joan Crawford, Lily Chauchoin fu ribattezzata Claudette Colbert, Gladys Smith Carole Lombard. Cary Grant si chiamava in realtà Archibald Leach.» «Potresti andare a un programma di quiz.» Henry tese le dita. «E questo cos'è?» «Lo specchio di Jennifer Long, 1929.» «Ma non è quella che morì?» «Scomparve all'incirca quando sorella Aimée sprofondò in mare, per rinascere sulle spiaggia dell'Alleluia.» «Quanti altri nomi conosci?» «Tanti quanti sono gli specchi.» Henry tastò con un dito. «Mmm... È passato molto tempo, ma questo è rossetto. Di che colore è?» «Arancio brunito. Coty calor d'estate. Ciliegia Lanvier.» «Perché credi che quelle signore scrivessero i loro nomi e ci mettessero la data?» «Henry, non sono state quelle signore. Una sola donna ha scritto i nomi di tutte.» «Una donna che non era una signora? Tienimi il bastone mentre penso.» «Tu non hai il bastone, Henry.» «Strano come le tue mani sentano cose che non esistono. Vuoi che indovini chi è stata?» Annuii, anche se Henry era cieco: sapevo che avrebbe sentito il fruscio della mia testa. Volevo che lo dicesse, avevo bisogno che pronunciasse il nome. Henry sorrise agli specchi e il sorriso si ripeté cento volte. «Constance.» Sfiorò la superficie dello specchio con le dita. «La Rattigan» specificò.
Capitolo 31 Ancora una volta Henry si chinò a sfiorare una firma rossastra, poi si portò le dita alle labbra. Andò allo specchio successivo, ripeté il gesto e lasciò che fosse la lingua a decidere. «Sapori diversi» osservò. «Come diverse erano le donne...» «Ora ricordo tutto.» Strinse forte gli occhi. «Signore, Signore, quante donne mi sono passate fra le mani e attraverso il cuore, quante donne sono andate e venute. Tanti sapori... e tutte invisibili. Ma perché mi sento oppresso?» «Anch'io mi sento così.» «Crumley dice che quando apri il vaso di Pandora devi tirarti indietro... Tu sei un bravo ragazzo.» «Non sono un ragazzo.» «Sembra che tu abbia quattordici anni, l'età in cui la voce cambia e cerchi di farti crescere i baffi.» Si mosse e mi sfiorò, poi fissò con gli occhi che non vedevano l'antico residuo sulle dita. «Tutto questo ha a che fare con Constance?» «È la mia idea.» «Hai un bello stomaco: lo so perché mi sono fatto leggere i tuoi libri. Una volta mia madre disse che un bel petto vale più di due cervelli. Troppa gente usa il cervello a sproposito, quando farebbe meglio ad ascoltare la cosa che batte fra le costole. La vecchia pompa, anche se mia madre non l'ha mai chiamata così. Diceva che era come il ragno di casa e che, quando incontrava qualche sciocco tutto moine, lo sentiva sempre nello stomaco: se il ragno zampettava, lei sorrideva e rispondeva sì, ma se il ragno si contraeva e diventava una palla, mia madre chiudeva gli occhi ed era un no. Anche tu sei così. «Mia madre leggeva dentro di te. Diceva che non si scrivono racconti bavosi (intendeva paurosi) con la materia grigia. Per fare quel lavoro devi tirare le zampe del ragno che hai fra le costole. E mia madre diceva: "Quel ragazzo non starà male, non sarà mai avvelenato dagli altri perché sa come buttar fuori il marcio, come blandire il ragno appallottolato quando è tempo di liberarsi". E diceva: "Nei momenti cattivi non passerà notti insonni, non diventerà vecchio prima del tempo. Sarebbe un ottimo medico, uno
che taglia fino al dolore e lo butta via".» «Tua madre ha detto tutto questo?» arrossii. «È una donna che ha partorito dodici figli, ne ha seppelliti sei e svezzato il resto. Ha avuto un marito cattivo e uno buono. Sapeva come sciogliersi, come rilassarsi quando finalmente poteva andarsene a letto.» «Vorrei averla conosciuta.» «È ancora qui.» Henry si mise il palmo sul petto, poi ripercorse gli specchi invisibili. Tirò fuori gli occhiali neri dalla tasca, li pulì e li indossò. «Ora va meglio. Ma a proposito della Rattigan e degli specchi, è pazza o che altro? È mai stata sana di mente, perdio?» «È una che va a nuotare al largo. L'ho sentita tante volte lontano dalla riva: faceva versi strani e parlava alle foche. Uno spirito indipendente.» «Forse avrebbe dovuto restarci.» «Come Herman Melville» dissi. «Prego?» «Mi ci sono voluti anni per finire Moby Dick. Melville avrebbe dovuto restare imbarcato con Jack, il suo caro amico, perché quando era a terra si torturava fino a strapparsi l'anima dal petto. A terra, in quel capanno della dogana, invecchiò di trent'anni ed era un morto in piedi.» «Povero disgraziato» disse Henry. «Povero disgraziato» gli feci eco, tranquillamente. «E la Rattigan? Credi che avrebbe dovuto restare al largo anche lei, anziché fabbricarsi quella stranissima villa sulla spiaggia?» «È grande, bianca, luminosa e bella, ma è una tomba piena di spettri come i film che danno sullo schermo lassù. Immagini alte quindici metri e larghe cinquant'anni: proprio come questi specchi che una donna odia per ragioni ignote.» «Poveri disgraziati» sussurrò Henry. «E povera stronza» conclusi. Capitolo 32 «Vediamo che altro c'è» disse Henry. «Accendi la torcia, così non avrò bisogno del bastone.» «Sai sempre quando la luce è accesa o spenta?» «Ingenuo d'un ragazzo. Leggimi quei nomi!» Gli presi il braccio e c'incamminammo verso gli specchi, leggendo i nomi.
«Le date» sottolineò Henry. «Si avvicinano al presente!» 1935, 1937, 1939, 1950, 1955. E nomi, nomi, nomi che accompagnavano gli anni, tutti diversi. «Ancora?» disse Henry. «Non abbiamo finito?» «C'è l'ultimo, trentun ottobre dell'anno scorso.» «Com'è che ti capita sempre tutto ad Halloween?» «Il destino e la provvidenza adorano gli scavezzacolli come me.» «Hai detto la data ma non...» Henry tastò la fredda lastra. «Non c'è il nome?» «No.» «Allora lo aggiungerà. Magari è capace di muoversi facendo pochissimo rumore, solo un cane potrebbe sentirla. Inoltre, non c'è luce. Quella donna...» «Zitto, Henry.» Guardai la fila di specchi, nella notte del seminterrato dove correvano ombre e fantasmi. «Figliolo.» Henry mi prese il braccio. «Andiamocene.» «Un'ultima cosa.» Feci una decina di passi e mi fermai. «Non dirmelo.» Henry inspirò a fondo. «Il pavimento è finito.» In effetti avevo avvistato una botola rotonda in cui le tenebre sprofondavano senza fine. «Sembra vuota» fece Henry. «Un tombino per lo scolo dell'acqua piovana!» «Nei sotterranei del teatro, già.» «Dannazione!» E all'improvviso sotto di noi passò un torrente impetuoso, una marea pulita che sapeva di verdi colline e aria fresca. «È piovuto poche ore fa. Ci vuole un'ora perché le acque convogliate a monte arrivino qui. Per la maggior parte dell'anno lo scolo è asciutto, ma adesso ci saranno almeno trenta centimetri, e così fino all'oceano.» Mi chinai per tastare l'interno del tombino. C'era una scala a pioli. Henry mi lesse nella mente. «Non avrai intenzione di scendere? È buio, freddo e c'è una bella distanza fra qui e l'oceano. Se fai una mossa falsa, affoghi.» Henry tirò su col naso. «Credi che Constance sia tornata a controllare quei nomi?» «Magari è venuta dal teatro e si è calata giù.» «Ehi, arriva dell'altra acqua!» Un soffio di vento, molto freddo, spirò dall'apertura.
«Gesù Cristo!» urlai. «Cosa c'è?» Sbarrai gli occhi. «Ho visto qualcosa.» «E se non l'hai vista tu, l'ho vista io!» Il raggio della torcia lampeggiò come impazzito nella stanza degli specchi. Henry mi afferrò il gomito e si allontanò dal tombino. «Stiamo andando dalla parte giusta?» «Cristo» esclamai. «Lo spero!» Capitolo 33 Il taxi ci lasciò sul bordo del marciapiede, dietro la gran fortezza moresca della Rattigan. «Principesca» disse Henry, e aggiunse: «Il tassametro andava avanti. D'ora in poi ci penso io a guidare». Crumley non era in riva al mare ma molto più in alto: sul monticello nei pressi della piscina, con una scorta di bicchieri di martini. Due erano già vuoti. Contemplò questi ultimi con affetto e spiegò: «Adesso sono pronto per sentire le vostre manfrine e indovinelli. Mi sono fortificato. Ciao, Henry. Non ti dispiace di aver lasciato New Orleans per questa fabbrica di vermi in scatola?» «Uno di quei drink odora di vodka, giusto? Ecco una cosa che non mi dispiacerà affatto.» Presi un bicchiere per Henry e uno per me, in fretta, mentre Crumley faceva gli occhiacci perché non parlavo. «Avanti, adesso vuota il sacco» mi disse. Gli raccontai del Teatro cinese e degli specchi nello spogliatoio sotterraneo. «Inoltre» annunciai, «ho preparato qualche lista.» «Un momento, mi sembra di essere tornato sobrio» fece Crumley. «Ne ammazzerò un altro.» Alzò un bicchiere in un saluto scherzoso. «Okay, leggimi le tue liste.» «Il ragazzo delle provviste a monte Lowe. I vicini della regina Califia a Bunker Hill. La segretaria di padre Rattigan, il proiezionista in cima al Teatro cinese...» Henry s'intromise. «Al Teatro cinese?» Gli descrissi Rustler seppellito fra pile di vecchie pellicole e con la parete festonata di ritratti di donne tristi, dai nomi perduti. Henry rifletté. «Hai fatto una lista anche delle signore nelle foto?»
Sciorinai: «Mabel, Helen, Marilee, Annabel, Hazel, Betty Lou, Clara, Pollyanna...». Crumley si raddrizzò sulla sedia. «E hai l'elenco dei nomi scritti sugli specchi?» Scossi la testa. «Laggiù era troppo buio.» «Facile, ci ho pensato io.» Henry si batté un dito sulla fronte: «Hazel, Annabel, Grace, Pollyanna, Helen, Marilee, Betty Lou. Avete notato qualche corrispondenza?» Man mano che i nomi uscivano dalla bocca di Henry, io li spuntavo dalla lista che avevo fatto sul bloc-notes. Corrispondevano perfettamente. A quel punto cadde un fulmine. Le luci si spensero e sentimmo la risacca abbattersi sulla spiaggia di Rattigan, come a salarla. Una pallida luna faceva brillare la costa. Scoppiò il tuono, il che mi diede il tempo di pensare. Dissi: «Rattigan possiede la collezione completa degli annuari del cinema: ci sono le fotografie, le età di tutti i personaggi, i ruoli. Anche lei è stata candidata all'Oscar parecchie volte; forse la cosa ha un nesso con le fotografie ai piani alti del Teatro cinese e con gli specchi ai piani bassi. Ho ragione?» Il tuono echeggiò di nuovo e le luci tornarono. Entrammo in casa e prendemmo gli annuari del cinema. «Controlla i nomi sugli specchi» consigliò Henry. «Va bene, va bene» brontolò Crumley. In mezz'ora avevamo sfogliato trent'anni di annuari. «Ethel, Carlotta, Suzanne, Clara, Helen» lessi. «Constance non può avercela con tutte.» «Le probabilità dicono di sì» osservò Henry. «Che altro custodisce la sua biblioteca?» Un'ora dopo trovammo gli album che raccontavano la carriera di determinati attori, ricchi di foto e risalenti all'età dell'oro. Su una copertina la scritta recitava il nome J. Wallington Bradford. Lessi: «Alias Talullah Due, alias Swanson Gloria in Excelsius, alias Funny Face.» Nel retrobottega della mia testa suonò una campanella discreta. Aprii un altro album e lessi: «Alberto Sveltini. Una stella in velocità. Recita tutte le parti in Grandi speranze. In Racconto di Natale interpreta Scrooge, Marley, i Tre Natali e Fezziwig. In Santa Giovanna non si brucia. Alberto Sveltini, l'asso del cambio con destrezza. Nato nel 1895, attualmente disponibile.» «Un momento» riflettei, sentendomi mormorare. «Prima immagini e
specchi, adesso un tizio, Bradford, che interpreta volentieri ruoli di donne. E un altro tizio, Sveltini, che è capace di fare gli uomini, tutti gli uomini.» L'eco della campana svanì. «Constance li conosceva?» Come un sonnambulo andai ad aprire il Libro dei Morti di Constance. Eccoli. Bradford in una pagina quasi all'inizio del taccuino, Sveltini verso la fine. «Però i nomi non sono cerchiati. E quindi? Saranno vivi o morti?» «Perché non andiamo a vedere?» propose Henry. Cadde un altro fulmine, la corrente mancò di nuovo. Nel buio, Henry fece: «Non ditemelo, preferisco indovinare». Capitolo 34 Crumley ci lasciò davanti al vecchio condominio e sfrecciò via. «Ora» disse Henry, «cosa facciamo?» Dentro, alzai gli occhi verso la tromba delle scale. «Cerchiamo Marlene Dietrich e ci assicuriamo che sia viva e vegeta.» Prima ancora di bussare alla porta, sentii il profumo che veniva dall'interno. Starnutii, poi bussai. «Buon Dio» fece una voce dall'altra parte. «Non ho niente da mettere addosso.» Finalmente l'uscio si aprì e apparve un kimono a farfalla svolazzante, con dentro una reliquia dell'età vittoriana che si agitava per sistemarselo addosso. Quando smise di agitarsi mi prese la misura delle scarpe, delle ginocchia, delle spalle e finalmente il suo sguardo incontrò il mio. «J. Wallington Bradford?» Mi schiarii la gola. «Il signor Bradford?» «Chi vuole saperlo?» chiese l'essere sulla soglia. «Gesù, entra, entra. E chi sarebbe l'altra creatura?» «Io sono l'Occhio Veggente del ragazzo» rispose Henry, tastando l'aria. «È una sedia, quella? Penso che mi siederò. Certo che c'è un bell'odorino, qui dentro. Niente di personale.» Il kimono scatenò una piccola tempesta bronchiale, poi con un gran gesto della manica ci fece accomodare. «Spero che non siate qui per lavoro. Sedetevi, che Mamy prende un paio di bicchieri di gin. Grandi o piccoli?» Prima che riuscissi a parlare aveva riempito un gran bicchiere con del liquore di Bombay chiarissimo e azzurro. Sorseggiai. «Si vede che siete bravi ragazzi» disse Bradford. «Vi fermate cinque
minuti o per la notte? Dio, questo mi arrossisce. Si tratta della Rattigan, per caso?» «Rattigan!» esclamai. «Come fa a saperlo?» «È stata qui, poi se n'è andata. Ogni volta, passato qualche anno, la Rattigan sparisce: di solito è così che divorzia da un nuovo marito, da un vecchio amante, da Dio o dal suo astrologo. Quien sabe?» Annuii, stupito. «Venne qui da me anni fa, chiedendomi come facessi. Tutti quei ruoli da donna, diceva. Constance, risposi, quante vite da gatta hai vissuto tu? Mille? Non chiedere a me quali panni ho indossato o sotto quale letto mi sono nascosto.» «Ma...» «Niente ma. La madre terra sa tutto. Constance ha inventato Freud e ci ha aggiunto per soprammercato Jung e Darwin. Sapevate che è andata a letto con i capi di tutte e sei le Major? È stato per una scommessa che aveva fatto con Harry Cohn, al Brown Derby. "Mi farò Jack Warner e i suoi fratelli finché gli voleranno le orecchie" aveva promesso. «"Tutti lo stesso anno?" si informò Cohn. «"Un anno? Scherzi? Me li farò in una settimana, domenica esclusa" rispose Constance. «"Scommetto cento dollari che non ce la farai" disse Cohn. «"Scommettine mille e io ci sto" rispose la Rattigan. «Harry Cohn si illuminò. "E tu cosa scommetti?" «"Me stessa" disse Rattigan. «"Non ci credo!" fece Cohn. «Lei si mosse tutta e gli mise le mutande in mano. "Tieni queste!" Poi scappò.» Senza fiato, J. W. Bradford continuò a sognare. «Lo sapevate che una volta ho fatto Judy Garland? Poi Joan Crawford e Bette Davis. Ho fatto Talullah Bankhead in Prigionieri dell'oceano. Un'autentica nottambula, ma si svegliava tardi e a letto era una campionessa. State cercando la Rattigan? Posso farvi la lista di tutti i suoi ex. Alcuni mi sono caduti in braccio. Stavi per dire qualcosa?» «Dentro di lei, da qualche parte, c'è una personalità autentica?» «Dio, spero di no. Sarebbe terribile trovarsi a letto con me stesso! Ma torniamo alla Rattigan. Avete provato alla villa sulla spiaggia? Artie Shaw ci ha abitato dopo Caruso, che lei ha avuto quando era solo una ragazzina di tredici anni. Lo fece arrampicare sul muro della Scala e ripeté lo scherzo
con Lawrence Tibbett, ma facendo in modo che cadesse. Inutile dire che dopo la caduta quel poveretto poté cantare solo parti da soprano. Nel 1936 ci volle una squadra di infermieri per staccarla da Irving Thalberg, che Constance mandò al cimitero di Forest Lawn per eccesso di respirazione bocca a bocca. Cos'è, ti senti male?» «È come se mi avesse colpito una cassaforte da dieci tonnellate.» «Bevi un altro po' di gin, te lo dice Talullah.» «Allora ci aiuterà a trovare Constance?» «Nessun altro potrebbe farlo. Un milione d'anni fa le prestai il mio guardaroba completo. Le diedi i prodotti da make-up che mi avanzavano, le insegnai a profumarsi, a farsi le sopracciglia alte, ad aggiustare le orecchie, ad accorciare il labbro superiore, ad allargare il sorriso, ad appiattire o gonfiare il petto, a camminare sembrando più alta o più bassa. Diventai lo specchio davanti al quale posare, e lei mi vide assumere tutte le espressioni: stupore, civetteria, rimorso, paura, disperazione, piacere. Le insegnai a cantare in una gabbia dorata, a scivolare nel pigiama, a sbottonarlo sulle tette. La feci esercitare su un pony come una ragazzina, ma lei scompigliò un intero corpo di ballo. Quando le mie lezioni finirono, era un'altra donna: il che accadeva diecimila vaudeville fa. E tutto per darle modo di competere con le altre attrici, così da ottenere le parti nei film o rubare i loro uomini. «E va bene, bambolino» concluse J.W. Bradford scrivendo qualcosa su un quaderno. «Ecco i nomi di quelli che amarono Constance. Nove produttori, dieci registi, quarantacinque attori liberi e una pernice su un albero di pere.» «Insomma non stava mai ferma?» «Hai visto le foche nel mare, davanti a casa Rattigan? Lucide come olio, svelte come mercurio, si tuffano come fulmini. Così è lei, prima classificata alla maratona di Los Angeles quando ancora non esisteva! Sarebbe potuta diventare la presidentessa di tre Major, invece ha preferito la parte di Vampira, Madame Defarge e Dolley Madison.» «Grazie.» Diedi un'occhiata all'elenco, ce n'era da riempire tre volte la Bastiglia. «E adesso, se volete scusarmi, Mata Hari deve cambiarsi.» Zip! E spalancò il kimono. Zip! Afferrai Henry per un braccio e ci precipitammo per le scale, poi verso la strada. «Ehi» gridò una voce, «aspettate!»
Mi voltai e vidi Jean Harlow-Dietrich-Colbert che si sporgeva dalla ringhiera ridendo a tutti denti, come se aspettasse von Stroheim per girare un primo piano. «C'è qualcuno come me, ancora più pazzo di me. Sveltini!» «Alberto Sveltini!» esclamai. «È vivo?» «Una volta alla settimana appare in un nightclub, dopodiché va a rifarsi all'ospedale. Una volta ricucito, ripete lo spettacolo dell'addio. Maledetto imbecille, ha novant'anni suonati e afferma di aver incontrato Constance (una bugia!) sulla Strada 66 quando ne aveva quaranta o cinquanta. Guidava da un capo all'altro del paese, a sentir lui, quando s'imbatte in questo ragazzaccio con due tette sospette. Fece di lei una star mentre il suo numero cominciava a declinare. Adesso dirige un théâtre intime nel salotto. Il venerdì sera fa pagare gli spettatori per assistere all'assassinio di Cesare, al suicidio di Antonio con la spada e alla morte di Cleopatra morsa dall'aspide.» Nella tromba delle scale veleggiò un pezzo di carta. «Ecco qua! E c'è dell'altro.» «Cosa?» «Connie, Helen, Annette, Roberta... Alla nuova lezione di cambiati-lavita Constance non si è fatta vedere. La scorsa settimana sarebbe dovuta tornare, ma non l'ha fatto.» «Non capisco» gridai. «Le ho insegnato cose misteriose, luminose, speciali, terribili, stupende: gli elementi della nuova parte di cui era alla ricerca. Tornava da me per impararne altre, perché voleva essere una persona diversa, forse più simile al suo vecchio io. Il fatto è che non sapevo più come aiutarla. Dio, recitare una parte è la loro fissazione... Come convincere un attore che il gioco non è più quello? W.C. Fields imparò ad essere W.C. Fields nel vaudeville e non è mai sfuggito a quelle manette. Così ecco che arriva Constance e mi fa: "Aiutami a trovare una personalità nuova". Io le dico "Constance, non so come fare. Vai da un prete e fatti dare una pelle nuova".» A quel punto una campana suonò nella mia testa. Un prete. «Be', questo è quanto» fece Jean Harlow. «Vi ho imbarazzati ma divertiti? Ciao.» E Bradford scomparve. «Sveltini» ansimai. «Dobbiamo chiamare Crumley.» «Perché tanta fretta?» chiese Henry. «No, no, intendevo Alberto Sveltini, il coniglio che entra ed esce dal cappello, il fantasma del padre di Amleto.» «Ah, lui!» disse Henry.
Capitolo 35 Lasciammo Henry dai parenti in Central Avenue, persone gentili ed educate, poi Crumley mi portò a casa di Alberto Sveltini, novantanove anni, primo "maestro" della Rattigan. «Il primo» sottolineò lui. «L'esperto nell'arte di Bertillion che a Constance prese le impronte delle unghie, dei gomiti e delle ginocchia.» Nel vaudeville lo conoscevano come Mister Metafora, l'uomo che recitava da cima a fondo La bottega dell'antiquario e tutte le battute di Fagin in Oliver Twist, mentre il pubblico chiedeva pietà. Era più morboso di Marley, più pallido di Poe. Secondo i critici, Sveltini era l'uomo che quando si consegnava all'eternità, nella parte di Tosca, avrebbe inondato di lacrime il Tamigi. Questo mi raccontava Metafora-Sveltini, tutto lieto, mentre sedevo nel salottino che sembrava un teatro. Respinsi la scatola di Kleenex che mi offrì prima di cantare per me la parte di Lucia; ero di nuovo infuriato. «La smetta» esclamai alla fine, «e mi parli piuttosto di Constance.» «Praticamente non l'ho mai conosciuta, anche se conobbi Katy Kelleher nel 1926. La prima bimba del mio genio da Pigmalione!» «Pigmalione?» domandai, mentre i pezzi cominciavano ad andare a posto. «Ricordi Molly Callahan, 1927?» «Appena appena.» «E Polly Riordan, 1927?» «Lei sì, quasi.» «Katy fece la parte di Alice nel Paese delle Meraviglie, Molly è stata Molly in Mad Molly O'Day. Polly è Polly of the Circus dello stesso anno. Katy, Molly, Polly... in realtà era sempre Constance. C'era aria di tempesta, a quei tempi, gli sconosciuti e i grandi nomi del cinema venivano spazzati via alla stessa maniera, così le insegnai a imporsi: "Io sono Polly" gridava un giorno, e i produttori erano con lei: "Sei tu, sei tu!". Il film veniva girato in sei giorni. Poi la rinfrescavo un po' e Constance era pronta a saltare in bocca a Leo il leone: "Io sono la bella Katy Kelly!". "Sei l'unica" ruggiva d'orgoglio la belva. Finito il secondo film in quattro giorni. A quel punto Kelly spariva e Molly dava la scalata alla torre RKO. Quindi Molly, Polly, Dolly, Gerty e Connie erano sempre lei, Constance che sgattaiolava come un coniglio dal prato di uno studio a un altro.»
«E negli anni a nessuno è venuto in mente che Constance abbia recitato più di una parte?» «Solo io, Alberto Sveltini, l'ho innalzata alla fama, alla fortuna e all'amore! Il porcello ingrassato d'oro! Nessuno ha immaginato che i nomi sui cartelloni in Hollywood Boulevard fossero inventati o presi a prestito da Constance. E magari è andata al Teatro cinese con scarpe di quattro misure diverse per lasciare quattro tipi di impronte...» «Dov'è adesso questa Molly-Polly-Sally-Gerty-Connie?» «Non lo sa neanche lei. Ho sei indirizzi diversi per dodici estati diverse. Forse è affogata nell'erba alta. Gli anni sono un grande nascondiglio, e anche Dio ti nasconde. Indovina come mi chiamo io?» Fece una piroetta nella stanza e le sue vecchie ossa protestarono. «Ta-ta!» esclamò, nonostante il dolore. «Mister Metafora.» «L'hai detto!» Crollò di botto. Mi precipitai a soccorrerlo, temendo il peggio, ma aprì un occhio. «Ci sono andato vicino. Alzami un poco, per favore. Ho spaventato Rattigan allo stesso modo, così è scappata.» Continuò a parlottare: «Ma è più che naturale. Dopotutto io sono Fagin, Marley, Scrooge, Amieto, Sveltini... Uno come me doveva necessariamente incuriosirsi, domandarsi in che anno vivesse una donna come lei e se esistesse realmente. Più diventavo vecchio, più m'ingelosivo per aver avuto e perso Constance. Ho aspettato anni e anni, proprio come Amieto che aspettò fin troppo a uccidere il maledetto assassino dello spettro paterno! Ofelia e Cesare imploravano la morte: in me i ricordi di Constance riecheggiavano una carica di bufali. Così, quando ho compiuto novant'anni ho gridato vendetta con tutte le mie voci. Come un maledetto sciocco le ho mandato il Libro dei Morti, ed è per questo che Constance dev'essere scappata: per sottrarsi alle mie follie. «E adesso chiama un'ambulanza» concluse Mister Metafora. «Ho due tibie rotte e un'ernia inguinale. Hai scritto quello che ti ho detto?» «Più tardi.» «Non aspettare, scrivilo! Fra un'ora potrei essere nel Walhalla a molestare le statue. Dov'è il mio letto?» Lo misi a letto. «Deve calmarsi» gli dissi. «Il Libro dei Morti lo ha mandato lei, allora?» «Il mese scorso c'è stato una specie di mercatino, alla Lega delle Donne del Cinema. Vendevano cianfrusaglie appartenute agli attori, io ho comprato delle foto di Fairbanks e uno spartito di Bing Crosby. Quand'ecco
che fra le altre cose spunta la rubrica telefonica della Rattigan, piena dei nomi dei suoi amanti da due soldi. Dio, mi sono sentito come il serpente nel giardino. Mi sono dannato per venti centesimi! Ho esaminato il contenuto e ho bevuto il veleno. Perché non far venire i brutti sogni alla cara Constance? L'ho rintracciata, ho lasciato il Libro dei Morti e sono scappato. L'ho spaventata ben bene, sì?» «Dio, sì.» Fissai il ghigno sulla faccia di Sveltini. «Ma lei non ha niente a che fare con quel povero disgraziato sul monte Lowe?» «Il primo imbecille gabbato da Constance? Quel vecchio idiota è morto?» «L'hanno ammazzato i giornali.» «I critici ne sono capaci.» «Non intendevo questo. Gli sono cadute addosso tonnellate di vecchie "Tribune".» «In un modo o nell'altro, ti uccidono.» «E non ha nemmeno dato una spintarella alla regina Califia?» «Quella vecchia arca di Noè conteneva una coppia di ogni tipo di bugia. Alte e basse, calde e fredde... Erano escrementi di cammello, rifiuti di cavallo, ma quando disse a Constance dove andare e cosa fare, lei ci andò e lo fece. Morta anche lei?» «È caduta dalle scale.» «Non l'ho spinta io.» «Poi viene il prete...» «Suo fratello? Stesso errore. Califia le disse dove andare, ma lui, perdio, le disse di andare all'inferno. Constance fece anche questo. Cosa l'ha ucciso? Dio, ma qui sono morti tutti!» «Constance gliene ha cantate quattro. Almeno, credo sia stata lei.» «Sai cosa gli ha detto?» «No.» «Io sì.» «Lei?» «Ieri, nel cuore della notte, ho sentito delle voci e ho pensato di stare sognando. Ma era lei, doveva essere lei. Forse quello che ha detto al povero prete l'ha detto anche a me. Vuoi sentire?» «Sto aspettando.» «Già, già. Ha gridato: "Come faccio a tornare? Dov'è la prossima tappa? Come faccio a tornare?".» «Tornare dove?»
Mi accorsi che Sveltini pensava rapidamente, poi sbuffò. «Suo fratello le disse dove andare e lei ci è andata. Poi ha smarrito la strada: "Mi sono persa, fatemi ritrovare la via". Constance vuole essere trovata, è chiaro?» «Sì. No. Dio, non lo so.» «Non lo sa neanche lei, forse è per questo che si è messa a urlare. Ma la mia è una casa di mattoni e non è crollata.» «Ad altri è andata peggio.» «Al suo ex-marito, Califia e il fratello?» «È una storia lunga.» «E tu devi fare parecchia strada prima di andare a dormire.» «Già.» «Non ridurti come questa vecchia gallina matta che a seconda di dove la metti fa le uova colorate. Una sciarpa rossa, uova rosse; un tappeto azzurro, uova azzurre. Camicia viola, uova viola. Questo sono io: e hai notato il plaid che ho addosso?» Era tutto bianco e glielo dissi. «Non hai buoni occhi.» Mi ispezionò meglio. «Però parli un sacco. Sono stanco, adesso. Ciao.» E chiuse forte gli occhi. «Signore» tentai. «Sono occupato» mormorò. «Come mi chiamo?» «Fagin, Otello, Lear, O'Casey, Booth, Scrooge.» «Ah, già.» Poi cominciò a russare. Capitolo 36 Presi un taxi e tornai verso l'oceano, nel mio piccolo appartamento. Avevo bisogno di pensare. Poi qualcosa si abbatté con la forza di un'incudine sulla porta di casa, in vista del mare. Wham! Mi precipitai a sostenerla prima che cadesse. Fui abbagliato da un lampo di luce che veniva da un disco di cristallo piantato in un occhio malefico. «Salve, Edgar Wallace, stupido figlio di puttana!» gridò una voce. Rischiai di svenire perché mi aveva chiamato Edgar Wallace, quello scribacchino da dieci centesimi il ballo. «Salve, Fritz» gridai, «stupido figlio di puttana anche tu! Entra.»
«Sono già entrato.» Come se portasse grossi stivali militari, Fritz Wong mazzolò il tappeto e batté i talloni, poi si tolse il monocolo e lo tenne a mezz'aria per fissare me. «Stai diventando vecchio» esclamò con soddisfazione. «E tu lo sei già» ribattei. «M'insulti?» «È quello che ti meriti.» «Abbassa la voce, prego.» «Prima tu!» strillai. «Ti rendi conto come mi hai chiamato?» «Mickey Spillane ti andrebbe meglio?» «Fuori!» «John Steinbeck?» «È okay. E adesso abbassa la voce.» «Bene così?» sussurrò. «Riesco ancora a sentirti.» Fritz Wong se ne uscì in una gran risata. «Questo è il mio buon figlio bastardo.» «E questo è il mio papà illegittimo e infedele.» Ci demmo un abbraccio d'acciaio, in un parossismo di risate. Fritz Wong si asciugò gli occhi. «E adesso che abbiamo esaurito le formalità» ruggì, «come stai?» «Sono vivo, e tu?» «A stento. Perché tardi a offrirmi un tonico?» Portai una birra di Crumley. «Acqua di truogolo» disse Fritz. «Niente vino? Be'...» Mandò giù una sorsata e fece una smorfia. «Ora.» Sedette pesantemente sulla mia unica sedia. «Come posso aiutarti?» «Cosa ti fa pensare che abbia bisogno d'aiuto?» «Ne hai sempre bisogno. Un momento, questa non riesco proprio a sopportarla.» Andò fuori, marciò nella pioggia e tornò con una bottiglia di Le Corton, che aprì in silenzio con un fantasioso cavatappi d'argento estratto dalla tasca. Portai due vecchi ma puliti barattoli per marmellata. Fritz li guardò con disprezzo mentre versava. «1949» m'informò. «Grande annata. Mi aspetto esclamazioni di giubilo.» Bevvi. «E non trangugiarlo!» gridò Fritz. «Per l'amore di Cristo, annusa, respi-
ra.» Annusai, feci girare il boccale. «Molto buono.» «Cosa? Buono?» «Fammici pensare.» «Perdio, non pensare! Bevi e senti l'odore, fattelo uscire dalle orecchie.» Mi fece vedere come, a occhi chiusi. Lo imitai. «Eccellente.» «Adesso siediti e non dire niente.» «Questa è casa mia, Fritz.» «Non adesso, no.» Sedetti sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete, con lui che mi sovrastava come Cesare davanti a un formicaio. «E ora» m'incoraggiò, «vuota il sacco.» Quando ebbi finito, Fritz si alzò di malavoglia e mi riempì il barattolo. «Non meriti tutto questo» borbottò. «Ma te la sei cavata bene, con il vino. Non dire altro, sorseggia.» «Se c'è qualcuno che può risolvere il caso Rattigan» riprese Fritz bevendo a piccoli sorsi, «quello sono io. O dovrei dire me? Calma.» Aprì la porta sull'incantevole pioggia senza fine. «Ti piace?» «L'adoro.» «Sciocco!» Fritz incastrò il monocolo nell'occhiaia per esaminare la spiaggia da lontano. «La villa Rattigan è laggiù, vero? E lei non è a casa da una settimana... Magari è morta. Sarà l'imperatrice dei cimiteri, ma non si farà mai prendere morta. Un giorno scomparirà e nessuno saprà cosa è successo. Adesso è il mio turno di vuotare il sacco.» Versò gli ultimi bicchieri di Le Corton, detestando i barattoli ma conquistato dal vino. Era libero, disse. Senza lavoro. Non aveva fatto un film in due anni. Troppo vecchio, dicevano. «Ma io sono il più giovane acrobata nei letti di tre continenti!» protestò. «E ho messo le mani sulla Santa Giovanna di Shaw, bellissima pièce. Il problema è: che attori usare per un testo così incredibile? D'altra parte ci sarebbe un romanzo di Jules Verne fuori diritti, il che significa farne un film senza pagare, con un produttore che ruba e fa lo gnorri ma almeno non rompe le scatole, e avrei bisogno di uno scrittore di fantascienza di seconda categoria - tu - che mi sceneggi il capolavoro. Dimmi di sì.»
Ma prima che potessi parlare... Ci fu un diluvio di pioggia, un frustare di fulmini e tuoni del quale Fritz approfittò per esclamare: «Sei scritturato! In questo preciso momento. E adesso, hai altro da mostrarmi o raccontarmi?». Gli mostrai e raccontai. Cominciammo dalle foto ritagliate dai vecchi quotidiani e attaccate con lo scotch sopra la testiera del letto. Per guardare quelle immagini dannate Fritz, imprecando, dovette quasi coricarsi. «Con un occhio solo, l'altro perduto in un duello...» «Un duello?» esclamai. «Ma non avevi mai detto...» «Taci e leggi a questo Ciclope d'un regista tedesco i nomi sotto le fotografie.» Lessi i nomi. Fritz li ripeté. «Sì, me la ricordo.» Si sporse a toccare il ritaglio. «Anche questa, sì, e questa. Dio, che galleria di canaglie.» «Hai lavorato con qualcuna di loro? O magari con tutte?» «Con qualcuna ho fatto i tuffi in un motel di Santa Barbara, due centri su tre, e ti giuro che non è per vantarmi. Le cose o sono vere oppure no.» «Tu non mi hai mai mentito, Fritz.» «Sì invece, ma eri troppo stupido per accorgertene. Polly, Molly, Dolly: sembra la dimostrazione di un suonatore di campanelli svizzeri, e vale poco. Un momento... non può essere, e invece forse sì!» Era tutto proteso, stringeva l'occhio e si aggiustava il monocolo. «Perché non me ne sono accorto prima? Dummkopf. Il fatto è che è passato del tempo, fra l'una e l'altra. Anni. Prendi questa, questa e questa... buon Dio!» «Cosa c'è, Fritz?» «Sono tutte la stessa attrice, la stessa donna. Capelli e pettinatura diversi, colorito e trucco diversi... Sopracciglia grosse, sottili o assenti. Labbra piccole e carnose, ciglia vistose o mancanti del tutto, i trucchi delle donne. La settimana scorsa una donna è venuta da me sull'Hollywood Boulevard e ha detto: "Mi riconosce?" "No", le ho risposto. Lei ha insistito che era tizia e caia, io le ho guardato meglio il naso e ho visto che aveva fatto la plastica. Poi ho guardato la bocca, stessa cosa. Le sopracciglia erano nuove e come se non bastasse aveva perso quindici chili, facendosi bionda. Come diavolo pretendeva che la riconoscessi? «A proposito, dove hai preso queste foto?» «Sul monte Lowe.»
«Da quello sciocco bibliotecario dei giornali! Ci sono andato anch'io una volta a fare ricerche, ma sono scappato perché non riuscivo a respirare, la carta era troppa. Chiamami quando avrai fatto pulizia, gli ho detto. Il primo marito di Constance, un mezzo scemo che lei sposò quando era una mangiatrice d'uomini. Come ho fatto a dirigerla in almeno tre film senza sospettare i suoi travestimenti? Cristo, quella è uno spirito maligno dentro un diavolo dentro la moglie cannibale di Lucifero.» «Forse perché in quegli anni tu corteggiavi Marlene Dietrich...» «Corteggiare? È così che lo chiamano?» Fritz scoppiò a ridere e si alzò dal letto, ancora scosso. «Stacca quelle cose maledette. Se devo aiutarti, ne avrò bisogno io.» «Ce ne sono altre dello stesso genere» dissi. «Al Teatro cinese Grauman, nella vecchia cabina di proiezione, dove il vecchio...» «Quella cariatide di un demente?» «Non lo definirei così.» «Perché no? Aveva il rullo mancante del mio Atlantica, un film prodotto dall'UFA. Sono andato a vederlo e lui mi ha legato sulla sedia, costringendomi a guardare invece un serial di Rin Tin Tin. Per andarmene col mio Atlantica ho dovuto minacciare di buttarmi in galleria con tutta la sedia. E finalmente mi ha lasciato. Ecco.» Sparpagliò le fotografie sul letto e le guardò ferocemente dal monocolo. «Dici che al Grauman ci sono altre foto come queste?» «Sì» risposi. «Ti dispiacerebbe fare una corsa in Alfa Romeo a centottanta all'ora e arrivare al Teatro cinese in meno di cinque minuti?» Diventai pallidissimo. «Vedo che non ti dispiacerebbe» osservò Fritz. Si affrettò a uscire nella pioggia. L'Alfa Romeo già rombava come un razzo, quando ci salii. Capitolo 37 «Torcia, accendino, taccuino e matita nel caso avessimo bisogno di lasciare un biglietto.» Controllai di avere tutto in tasca. «E vino» aggiunse Fritz, «nel caso che i maledetti cani lassù non abbiano del brandy.» Ci passammo una bottiglia di vino e guardammo la valanga di scale buie che portavano alla vecchia cabina di proiezione.
Fritz sorrise. «Io per primo. Se cadi non voglio averti addosso.» «Bell'amicizia.» Fritz cominciò ad avanzare nel buio, io gli tenni dietro con la torcia accesa. «Perché hai deciso di aiutarmi?» chiesi, ansimando. «Ho chiamato Crumley e mi ha detto che aveva intenzione di nascondersi a letto tutto il giorno. Vedi, ritrovarmi con dei debosciati mezzo addormentati come voi mi pulisce il sangue, mi scalda il cuore. Attento a quella torcia, potrei cadere.» «Non tentarmi.» Orientai la luce. «Detesto ammetterlo» riprese Fritz, «ma tu fai del bene, non ti limiti a riceverlo. Sei il decimo bastardo che ho avuto da Marie Dressler.» Adesso eravamo più in alto, in zona sangue dal naso. Raggiungemmo la sommità della seconda galleria, Fritz imbestialito per l'altitudine ma felice di sentirsi imprecare. «Spiegamelo un'altra volta» fece. «Arriviamo lassù, e poi?» «Poi scendiamo nelle catacombe di vetro. Dobbiamo fare il gioco degli specchi, là sotto.» «Bussa» disse Fritz finalmente. Bussai e la porta della cabina si aprì sulle piccole luci di due proiettori, uno acceso e in funzione. Puntai la torcia sulla parete e trasecolai. «Cosa?» disse Fritz. «Sono sparite!» esclamai. «Le foto non ci sono più. Qualcuno ha fatto pulizia.» Disperato, ispezionai gli spazi vuoti con il raggio della torcia. I fantasmi della camera oscura erano scomparsi. «Dannazione! Gesù Cristo!» Abbassai la torcia e cominciai a imprecare. «Dìo, Fritz, mi sembra di essere te!» «Figlio, figlio mio» riconobbe lui, compiaciuto. «Muovi quella lampadina!» «Piano.» Avanzai cautamente, tenendo la torcia puntata con mano malferma sulla cosa che stava tra i due proiettori. Era il padre di Constance, ovviamente, eretto e freddo, con una mano che toccava un interruttore della macchina. Uno dei proiettori funzionava a piena velocità. La bobina passava davanti alla lente e terminava in una spirale di avvolgimento che poi la rimandava in circolo, ripetendo le immagini più o meno ogni dieci secondi, senza
posa. Il mascherino che avrebbe dovuto essere aperto per consentire alle immagini di riempire lo schermo era chiuso: in questo modo le immagini erano intrappolate all'interno della cabina, e apparivano in formato ridotto sul retro del mascherino stesso. Chinandosi e stringendo gli occhi, tuttavia, si potevano vedere... Sally, Dolly, Molly, Holly, Gaily, Nellie, Roby, Sally, Dolly, Holly... Ancora loro, sempre loro. Osservai il vecchio Rattigan congelato al suo posto, ma non riuscii a decidere se quella smorfia fosse un'espressione di trionfo o di bisogno. Tornai a guardare la parete, priva dei ritratti di Sally, Holly e Dolly: chiunque li avesse rubati non aveva previsto che il vecchio, privato della "famiglia", avrebbe proiettato la bobina ciclica per conservare comunque il passato. O forse... Non ce la facevo più a pensare. Sentii la voce di Betty Kelly ripetere le parole che aveva gridato Constance: Perdono, perdono. E Sveltini ricordare quell'altra invocazione: Come faccio a tornare indietro? Ma indietro da dove, dal suo altro io? Chi è stato a farti lo scherzo? pensai, guardando il vecchio morto. O l'hai fatto da solo? Gli occhi del vecchio, bianchi come marmo, erano immobili. Spensi il proiettore, ma le facce danzavano ancora nella mia retina: la figlia ballerina, la farfalla, la vamp cinese, il pagliaccio maschiaccio. «Povera anima persa» sussurrai. «Lo conoscevi?» chiese Fritz. «No.» «Allora non è una povera anima persa.» «Fritz, ma non ce l'hai un cuore?» «Un semplice bypass. Me lo sono fatto togliere.» «E come fai a vivere?» «Vedi, io...» Fritz mi porse il monocolo. Incastrai il freddo cristallo davanti all'occhio e guardai. «Vedi» ripeté «io sono...» «Un maledetto stupido figlio di puttana?» «Una lente!» esclamò. Poi aggiunse: «Andiamocene, questo posto sembra l'obitorio». «È sempre stato così» commentai. Telefonai a Henry e gli dissi di prendere un taxi e venire al Grauman. Pronto.
Capitolo 38 Il cieco Henry ci aspettava in un corridoio che portava alla buca dell'orchestra e di là agli spogliatoi nel sotterraneo. «Non dirmi» cominciò. «Che cosa, Henry?» «Le fotografie lassù in cabina. Kaput, vero? Nel gergo di Fritz Wong si dice così.» «Chissà come parli tu.» «Henry, come hai fatto a saperlo?» «Lo sapevo.» Il cieco puntò gli occhi che non vedevano sulla buca dell'orchestra. «Sono appena andato nella stanza degli specchi. Non ho bisogno di bastoni, e di sicuro non mi servono luci. Ho toccato il cristallo, però: ecco come ho saputo che le foto di sopra dovevano essere sparite. Ho tastato quindici metri di specchi, tutti puliti, niente più scritte. Così...» Sembrò fissare di nuovo le poltrone cieche nella parte alta della sala. «Lassù è tutto finito, vero?» «Vero.» Lasciai andare il respiro, sbalordito. «Venite, vi faccio vedere.» Henry si diresse verso la buca dell'orchestra. «Un momento, ho la torcia.» «Ma quando imparerai?» mi canzonò Henry, avviandosi con passo silenzioso. Lo seguii e Fritz osservò il corteo. «Allora» gli gridai. «Cosa stai aspettando?» Fritz si mosse. Capitolo 39 «Ecco.» Henry puntò il naso verso la lunga teoria di specchi. «Cosa vi dicevo?» Avanzai nel corridoio di cristallo, toccando prima con il raggio della torcia e poi con le dita. «E allora?» grugnì Fritz. «Prima c'erano dei nomi e adesso non ci sono più, proprio come è successo con le fotografie.» «Te l'avevo detto» rimarcò Henry. «Ma perché i senza vista non sono mai senza parola?» disse Fritz.
«Devo fare qualcosa per passare il tempo. Volete che ripeta i nomi?» Li recitai a memoria. «Hai dimenticato Carmen Carlotta» disse Henry. «Ah, sì, Carlotta.» Fritz alzò gli occhi. «E chi avrebbe rubato le fotografie lassù?» «La stessa persona che ha ripulito gli specchi.» «Quindi, è come se tutte quelle signore non fossero mai esistite» concluse Henry. Si piegò sugli specchi e diede un'ultima toccata con le dita cieche a vari punti delle superfici di cristallo. «Proprio così, ripuliti. Maledizione, i nomi erano incrostati. Dev'esserci voluto del bello e del buono per eliminarli. Chi sarà stato?» «Henrietta, Mabel, Gloria, Lydia, Alice...» «E sono venute tutte insieme?» «Sì e no. Abbiamo già assodato, Henry, che quelle donne sono nate e sono morte, sono venute e sono andate via, eppure hanno scritto i loro nomi come lapidi di un'unica tomba.» «E allora?» «I nomi non sono stati scritti contemporaneamente. A cominciare dagli anni Venti quelle donne, quelle signore o come altro vuoi chiamarle, sono venute qui per porgere i loro omaggi a un'unica morta, quella di cui dovevano celebrarsi i funerali. Quando hanno guardato nel primo specchio hanno visto una faccia, ma in quello successivo la faccia era cambiata.» «Adesso mi confondi.» «Insomma, Henry, quella che abbiamo qui è una gran parata di esequie, di nascite e morti, tutte officiate da due sole mani e un badile.» «Ma le scritte...» Henry gesticolò nel vuoto «...erano in grafie diverse.» «La gente cambia. La nostra donna non riusciva ad accontentarsi di una vita e non sapeva come viverla. Si è messa davanti allo specchio, si è tolta il rossetto e ha disegnato un'altra bocca, poi ha cancellato le sopracciglia e ne ha disegnate di migliori. Ha fatto sembrare gli occhi più grandi, ha alzato la linea dei capelli, ha calcato il cappello sulla faccia come fosse un abat-jour oppure se l'è tolto, finché a un certo punto si è tolta i vestiti ed è venuta qui nuda.» «Nuda.» Henry sorrise. «Adesso sì che ci siamo.» «Zitto» gli dissi. «Si tratta di lavoro» mi fece osservare lui. «Scrivere su quegli specchi,
guardare la sua immagine man mano che cambiava...» «Non è successo d'un colpo. Una volta all'anno, o forse due anni, si faceva vedere con la bocca più piccola o una sagoma più sottile: quello che vedeva le piaceva e s'immedesimava nella nuova personalità per sei mesi, o magari per l'estate. Che ne dici, Henry?» Lui mosse le labbra, sussurrò "Constance" e riprese: «Certo, non ha mai avuto due volte lo stesso profumo.» Henry mosse i piedi, sfiorò gli specchi e arrivò sul bordo del tombino aperto. «Ci sono vicino, eh?» «Un altro passo e finirai là dentro, Henry.» Guardammo l'apertura rotonda nel pavimento. Da sotto venne il rumore dei venti che soffiavano da San Fernando, Glendale e chissà dove altro... Far Rock? La pioggia si era ridotta a semplice acquerugiola, appena sufficiente a rinfrescarti le caviglie. «Punto morto» disse Henry. «Niente di sopra, niente qui sotto. Gli indizi sono spariti, ma dove?» Come in risposta, un grido inumano uscì dall'apertura nera sul pavimento. Trasalimmo tutti. «Gesù!» gridò Fritz. «Cristo!» dissi io. «Signore» fece Henry, «non può trattarsi di Molly-Dolly-Holly, vero?» Ripetei in silenzio quel rosario. Fritz mi lesse le labbra e imprecò. Il grido si ripeté in lontananza, come trascinato dalla corrente. Mi vennero le lacrime agli occhi, feci un balzo e barcollai sul tombino. Fritz mi afferrò per il gomito. «Avete sentito?» esclamai. «Non è niente» rispose Fritz. «Quell'urlo!» «Era solo l'acqua» insisté lui. «Fritz!» «Vorresti darmi del bugiardo?» «Fritz!» «Da come pronunci il mio nome si vede che vuoi darmi del bugiardo. Diamine, non vorrai andare sul serio là sotto? Maledizione!» «Lasciami andare!» «Se tua moglie fosse qua ti spingerebbe lei, dummkopf!» Fissai il tombino aperto. In lontananza ci fu un altro grido e Fritz imprecò.
«Verrai tu con me» decisi. «No, no.» «Hai paura?» «Paura?» Fritz si tolse il monocolo e fu come togliere il colore dal sangue. La pelle abbronzata impallidì, l'occhio lacrimò. «Paura? Di una stupida caverna sotterranea al buio, io, Fritz Wong?» «Mi dispiace» dissi. «Non dispiacerti per il massimo regista UFA nella storia del cinema.» E piantò di nuovo il fiero monocolo nell'orbita. «Bene, e adesso?» domandò. «Cerco un telefono, chiamo Crumley e gli dico di cavarti fuori dal buco nero? Dannato minorenne che corteggia la morte!» «Non sono un minorenne.» «No? E allora perché vedo uno scugnizzo pronto a tuffarsi in una pozzanghera profonda sì e no due centimetri? Dal trampolino olimpionico, per giunta. Vai avanti, rompiti il collo, affonda nella spazzatura!» «Di' a Crumley di raggiungermi nel sistema di raccolta delle acque; ci vediamo a metà strada fra qui e il mare. Se vede Constance, la fermi. Se vede me, mi blocchi anche prima.» Fritz chiuse un occhio per incenerirmi col fuoco dell'altro. Puro disprezzo sotto vetro. «Lo vuoi un consiglio da un regista che ha vinto l'Oscar?» «Cosa?» «Scendi in fretta in quel buco e quando arrivi giù non fermarti. Se qualcosa tenta di acchiapparti, scappa e non ti prenderà. Ammesso che trovi Constance, dille di venirci a raccontare tutto. Capito?» «Capito.» «Adesso muori come un cane. Oppure...» aggiunse, con un'espressione torva, «vivi come un povero vecchio che ha passato le pene dell'inferno.» «Ci vediamo sull'oceano?» «Non ci sarò.» «Sì, invece.» Fritz si rivolse a Henry, davanti alla porta del seminterrato. «Tu vuoi andare con quell'idiota?» «No.» «Hai paura del buio?» «Io sono il buio!» esclamò Henry. Se ne andarono tutti e due.
Maledicendoli in tedesco, scesi fra le nebbie, i miasmi e le cateratte della notte. Capitolo 40 E all'improvviso mi trovai in Messico nel 1945, a Roma nel 1950. Catacombe. L'oscurità ha questo di brutto: finisci con l'immaginare interminabili file di mummie strappate alla tomba perché non hanno potuto pagare l'affitto del loculo, o piramidi di ossa dove i teschi sembrano palle da polo che qualcuno sta per colpire con la mazza. Buio, e io imprigionato in un condotto che porta all'eterno crepuscolo messicano, agli immutabili sotterranei del Vaticano. Buio. Guardai la scala che portava alla salvezza, a Henry il cieco e all'adirato Fritz, ma ormai loro erano riemersi alla luce, davanti alla pazzesca facciata del teatro Grauman. Venti chilometri più a valle e in direzione di Venice, la risacca palpitava come un grande cuore. Là, per l'inferno, c'era la salvezza, ma ventimila metri di oscuro cemento mi separavano dal vento salato della sera. Ansimai in cerca d'aria, perché... Un pallido uomo era uscito barcollando dall'oscurità. Non voglio dire che ballasse sulle gambe, ma nell'insieme della figura, nelle ginocchia e nei gomiti, nel modo in cui la testa ciondolava e le mani fluttuavano nell'aria come uccelli abbattuti, c'era un che di strano. Il suo sguardo mi impietrì. «Io ti conosco» disse. Lasciai cadere la torcia. La prese lui e chiese: «Cosa fai qui?». La voce faceva tremare le pareti di cemento. «Non sarai mica...?» e fece il mio nome. «Ma certo! Gesù, e uno come te si nasconde? Viene a stare qui? Benvenuto, benvenuto.» L'ombra pallida del braccio fece saettare la torcia. «Che posticino, eh? Ci vivo da non so quanti anni. Sono venuto per la curiosità di vederlo e non sono più tornato indietro. Ho molti amici, li vuoi conoscere?» Scossi la testa. Lui sbuffò. «Diavolo, e perché dovresti conoscere gli sbandati dei sotterranei?» «Come fai a sapere il mio nome?» chiesi. «Siamo andati a scuola insie-
me?» «Non ti ricordi? Morte e dannazione!» «Harold?» tentai. «Harold Ross?» Da qualche parte si sentiva lo sgocciolare di un rivolo solitario. Tentai con altri nomi, mentre le lacrime mi salivano agli occhi. Ralph, Sammy, Arnold, compagni di scuola. Gary e Philip morti in guerra... Signore! «Chi sei? Quando ti ho conosciuto?» «Nessuno conosce nessuno» rispose lui, ritirandosi fra le ombre. «Eri il mio migliore amico?» «Ho sempre saputo che tu ce l'avresti fatta. E che io mi sarei perso» disse a un chilometro di distanza. «La guerra.» «Sono morto prima della guerra e dopo. Non sono mai nato. Come la mettiamo?» Dissolvenza. «Eddie! Ed. Edward. Eduardo, devi essere tu!» Il cuore mi batteva in fretta, la voce diventò acuta. «Quando sei venuto a trovarmi l'ultima volta? C'eri, al mio funerale? L'hai almeno saputo?» «Non l'ho mai saputo» risposi, avvicinandomi a lui. «Allora torna a trovarmi e non bussare. Mi troverai qui, sempre. Un momento! Cerchi qualcuno?» esclamò all'improvviso. «Com'è fatta? Dico, com'è questa donna? Perché è una donna, ho ragione?» «Sì» esplosi. «È andata da quella parte.» E indicò con la torcia. «Quando?» «Proprio adesso. Ma cosa ci fa, una come quella, nell'inferno di Dante?» «Che aspetto aveva?» ribattei. «Di Chanel N° 5.» «Cosa?» «Chanel! Attirerà i topi. Sarà fortunata se riuscirà ad arrivare al mare. "Stai alla larga da Muscle Beach!" le ho gridato.» «No!» «"Alla larga", ho detto. Quindi dev'essere da qualche parte. Chanel N° 5.» Ripresi la torcia e la puntai sulla sua faccia cadaverica. «Dove?» «Perché la cerchi?»
«Oh Dio, non lo so.» «Da questa parte, sì, da questa parte.» Fece una risata che rimbombò in ogni dove. «Un momento, non ci vedo.» «Non ne hai bisogno. Chanel!» Altre risate. Poi, mentre blaterava, sentii qualcosa nell'aria, un cambio di stagione o una pioggia lontana. Lavaggio a secco, pensai, no, non a secco, un diluvio, in questo dannato budello l'acqua è dappertutto, dalle caviglie alle ginocchia; per annegare ce n'è fino al mare. Proiettai il raggio di luce sopra, sotto, intorno a noi. Niente. Il rumore aumentò: altri sussurri, non un cambio di stagione, non l'asciutto che diventa umido, ma bisbigli di persone, non la pioggia sul letto del canale ma lo sciaguattare di piedi nudi sull'impiantito e il soffocato mormorio di una pacifica scoperta: curiosità, discussioni. Gente, pensai: altre ombre come quella che ho incontrato, ombre simili ai fantasmi sullo schermo della Rattigan, spettri che volteggiano nell'aria e scompaiono come scompare la pioggia. E se i fantasmi dei film fossero evasi dal proiettore di Constance, dai pallidi schermi del Teatro cinese, e il vento li avesse portati, e i fantasmi si fossero materializzati coprendosi di luce e ragnatele? E se, e se...? Stupido! Spensi la torcia, perché l'appassionato dei canali di scolo aveva borbottato qualcosa e si faceva ancora sentire nelle vicinanze. Sentii il fiato che mi sfiorava la guancia e mi ritrassi istintivamente, spaventato all'idea di illuminargli la faccia e di avvicinarmi troppo al canale, di sentire il flusso di voci fantasma che adesso erano più forti e più vicine. Il buio scorreva, la folla invisibile andava raccogliendosi; lo sciocco pazzoide che mi stava davanti diventò più alto e minaccioso, finché mi sentii afferrare per la manica, toccare e impedire, mentre le voci sullo sfondo man mano blateravano più vicine. Capii che dovevo liberarmi, scappare, mettermi a correre come il diavolo e sperare che quelli fossero spiriti senza gambe. «Io...» «Cosa c'è che non va?» esclamò il mio amico. «Io...» «Di cosa hai paura? Guarda, guarda laggiù.» Fui spinto e sballottato nel buio verso una chiazza di oscurità più consistente, formata da una massa d'ombre e carne. Una folla si era raccolta intorno a una figura che piangeva, si lamentava e cercava aiuto: una donna
che affogava nel buio. Mi avvicinai e lei continuò a piangere, a gemere e lamentarsi, tacque per un attimo e ricominciò la dolente litania. Poi qualcuno pensò di usare un accendino, tenendolo in modo che la fiammella azzurra illuminasse una creatura coperta da uno scialle e piuttosto disordinata: l'anima in pena. Raccogliendo l'ispirazione, un altro accendino emerse dalla notte, sibilò e infine la piccola luce si stabilizzò; poi un altro e un altro, finché le fiammelle formarono un cerchio di lucciole che rischiaravano l'ambiente. All'interno del cerchio di luce oscillante si accesero altri dieci, venti piccoli fuochi azzurri a rivelare il dolore, l'esaltazione, i singhiozzi, la voce dagli improvvisi pronunciamenti... A darle un corpo che rivestisse i suoi misteri. Più aumentavano le fiammelle, più la voce disperata implorava un dono invisibile: forse riconoscimento, attenzione, ma anche la richiesta di vivere, di ricevere l'assoluzione per la sua persona, la sua faccia, tutto l'essere che era. «Sento le voci, sento le voci, se non fosse per loro perderei ogni coraggio!» si lamentò. Come sarebbe? pensai. Come sarebbe? Mi sembra di riconoscerla. Ci sono quasi... «Dal cielo sono scese le campane e gli echi non sono ancora scomparsi, sui campi. Nella tranquillità della terra, io sento le mie voci!» esclamò. Come sarebbe? Mi sembra di riconoscerla. Oddio, chi sarà? Dal mare lontano soffiò un impeto di vento, impregnato del profumo d'acqua salata e un fragore di tuono. «Tu!» sbottai. «Tu!» Le fiammelle si smorzarono tutte insieme, lasciando il posto al buio più completo e alle grida di quella gente. Gridai il nome della donna, ma in risposta arrivò un fiume di imprecazioni e una valanga di piedi in corsa. Nel rumoreggiare della folla, fra le grida e i piedi in corsa una guancia morbida mi sfiorò il braccio, poi il viso e un ginocchio. Sparì mentre ancora gridavo: «Tu! Tu!». Le mani della folla mi agguantarono e mi lasciarono indietro. «No!» Mi voltai nell'altra direzione e cominciai a correre, sperando di andare verso il mare e non verso i fantasmi. Inciampai e caddi. La torcia mi sfuggì di mano. Cristo, pensai, se non riesco a trovarla...
Mi accovacciai e cominciai a cercare. «Ti prego, ti prego!» Le dita si strinsero intorno alla torcia che resuscitò la mia carne; mi alzai, barcollai al ritmo della fiumana nera e mi lanciai in una folle corsa. Non inciampare, mi dissi, usa il raggio di luce come una torcia a cui aggrapparti, non cadere e non guardarti indietro! Sono vicini, ti stanno alle calcagna, ce ne sono altri che aspettano al varco? Buon Dio. In quel momento il più gradito dei rumori echeggiò lungo il canale. Vidi una luce che avrebbe potuto essere quella del sorgere del sole davanti alle porte del paradiso, poi sentii il canto di un clacson e uno scoppio di tuono. Un'automobile! Quelli come me pensano in termini di scene da film: passate in un lampo, evanescenti a ragionarci dopo ma in quell'attimo capaci di darti la massima euforia. John Ford, pensai, la Monument Valley! Ci sono gli indiani, ma arrivano i nostri! Perché davanti a me, in carica dal mare... Arrivava la salvezza, una vecchia carretta. E alla guida, mezzo seduto e mezzo affacciato dal finestrino, Crumley. Mandava le peggiori imprecazioni, mi malediceva nel linguaggio più esasperato, ma era felice di avermi trovato. Dopo un po' ricominciò a sacramentare contro il maledetto idiota. «Non ammazzarmi!» implorai. La macchina frenò quasi sui miei piedi. «Non prima di essere usciti di qui» sibilò Crumley. La tenebra, sferzata dai fari, arretrò. Ero impietrito alla vista di Crumley che pestava sul clacson e agitava le braccia, sputava denti e stava per diventare cieco. «Sei fortunato che questo dannato trabiccolo sia riuscito a passare nel budello. Che aspetti?» Scrutai nel buio. «Niente, ma...» «Allora non hai bisogno di un passaggio.» Crumley diede tutto gas. Saltai dentro e atterrai con tanta violenza che la vecchia carretta tremò. Crumley mi prese per il mento. «Stai bene?» «Adesso sì.» «Dobbiamo farla a marcia indietro.» «A novanta all'ora?» «A cento.»
Crumley spalancò gli occhi sulla notte. «Satchel Paige raccomandava sempre di non guardarsi indietro. Magari qualcosa ti sta piombando addosso.» Una decina di forme indistinte avanzarono nella luce dei fari. «Adesso!» urlai. Partimmo... A centodieci all'ora, marcia indietro. Crumley esclamò: «Mi ha chiamato Henry, è stato lui a dirmi dove si era cacciato lo stupido marziano». «Henry» ansimai. «E anche Fritz. Secondo lui sei due volte più stupido di quanto creda Henry.» «Ed è vero. Più in fretta!» Più in fretta. Ormai potevo sentire il mare. Capitolo 41 Uscimmo dal canale di scolo e puntai gli occhi a sud, più o meno un centinaio di metri. «Dio santo, guarda!» Crumley guardò. «È villa Rattigan, quella. A cento metri. Come abbiamo fatto a non accorgerci che lo sbocco del canale era così vicino?» «Perché fino a questo momento non ce ne eravamo serviti. Non è mica la Strada 66.» «Quindi, se noi abbiamo potuto usare il condotto sotterraneo per venire dal Teatro cinese a qui, Constance può aver fatto il percorso inverso ed essere andata da qui al Grauman.» «Solo se fosse impazzita. Cielo, quella è una fabbrica per matti davvero. Guarda.» Sulla sabbia c'erano una decina di piccole impronte a zigzag. «Tracce di bicicletta. Dev'essere andata in bici, ci vorrà più o meno un'ora.» «No, non ce la vedo in bicicletta.» Mi sporsi dalla vecchia carretta per ispezionare la galleria. «È laggiù, dubito che si sia mossa. È là, pronta ad andarsene da qualche altra parte, non qui. Povera Constance.» «Povera?» scattò Crumley. «Quella è coriacea come un rinoceronte. Se continui a farti venire il mal di pancia per una strega da un soldo come lei,
chiamerò tua moglie che venga a darti i biscotti del buon cane!» «Non ho fatto niente di male, io.» «No?» Crumley fece andare la macchina a tutto gas per il resto del tragitto sulla spiaggia. «Sono tre giorni che vai avanti e indietro come un pazzo per tutta Los Angeles, prima dalle ruffiane che leggono la mano, poi nelle gallerie dei Teatri cinesi e addirittura sul monte Lowe! Hai incontrato un esercito di perdenti, e tutto per una gonnella formato A-1 che vince l'Oscar per aver perso meglio. Ho torto? Strappa lo spartito dalla vecchia pianola, se ho suonato il motivo sbagliato.» «Crumley, credo di averla vista in quel budello. Potevo dirle soltanto "vai all'inferno"?» «Certo.» «Bugiardo» ribattei. «Tu sei uno che beve vodka e piscia aranciata. Ti conosco, mascherina.» Crumley fece ruggire il motore. «Che vuoi dire?» «Sei un chierichetto.» «Cristo, fammi accostare la carretta a quella trappola per marinai rimbecilliti.» Guidò prima veloce, poi lento, con gli occhi mezzo chiusi e a denti stretti. «Vuoi spiegarti meglio?» Deglutii a fatica. «Sei un ragazzo con la voce da soprano. Tua madre e tuo padre erano orgogliosi di te, alla messa di mezzanotte. Diavolo, ti ho visto lo scheletro sotto la pelle, al cinema, quando facevi finta di non avere gli occhi umidi. Sei un cammello cattolico con la schiena rotta. I grandi peccatori, Crumley, diventano grandi santi. Nessuno è così cattivo da non meritare una seconda possibilità.» «Rattigan ne ha avute novanta.» «Credi che Gesù avrebbe tenuto il conto?» «Accidenti, sì!» «Niente affatto. Una notte, fra cent'anni, chiamerai il prete per farti dare i sacramenti e lui ti riporterà a una notte di Natale in cui tuo padre fu orgoglioso e tua madre pianse, e quando chiuderai gli occhi sarai così contento di essere di nuovo a casa che non dovrai inventarti una scusa per nascondere le lacrime. Tu non hai ancora perso la speranza, e sai perché?» «Perché, accidenti?» «Perché io voglio che sia così, Crumley. Voglio che tu sia felice, che vada a casa e trovi qualcosa, qualunque cosa prima che sia troppo tardi. Ti racconto una storia...»
«Ma perché perdi tempo in un momento simile? Sei appena scampato a una banda di pazzoidi, hai visto qualcosa nella galleria... A proposito, cos'era?» «Non so, non sono sicuro.» «Un momento.» Crumley frugò nel cruscotto, stappò una piccola fiasca e bevve con un gemito di sollievo. «Se devo starmene qui seduto con la marea che sale e te che hai le smanie... ecco, parla pure.» E parlai: «Quando avevo dodici anni arrivò in città un mago da baraccone, Mr. Electrico. Mi toccò con una spada fiammeggiante e disse con voce forte: "Vivi per sempre!". Perché avrebbe dovuto dirmi una cosa del genere, Crumley? C'era qualcosa nella mia faccia, nel modo in cui mi muovevo o stavo seduto oppure parlavo? E cosa? Tutto quello che so è che a un certo punto, bruciandomi con i suoi grandi occhi, mi disse il futuro. Allontanandomi dalla fiera mi fermai davanti alla giostra e sentii la calliope che suonava Beautiful Ohio. Piansi, perché sapevo che era successo qualcosa di incredibile, qualcosa di meraviglioso che non aveva nome. Nel giro di tre settimane, a dodici anni, cominciai a scrivere. Da allora ho scritto qualcosa ogni giorno. Che cosa significa, Crumley, che cosa significa?». «Tieni» disse lui. «Finisci questo.» Bevvi quel che restava della vodka. «Cosa significa?» ripetei pacatamente. Fu il turno di Crumley: «Quel tale capì che eri un ragazzo romantico, uno che avrebbe fatto qualunque cosa per la magia, che camminava fra le nuvole e scambiava per vive le ombre sul soffitto. Cristo, non so. Sembri uno appena uscito dalla doccia anche quando ti sei rivoltolato nei rifiuti del tuo cane. Non posso sopportare tanta innocenza, ma forse Electrico apprezzò proprio questo. Dov'è la vodka? Ah, già, finita. E tu, hai finito?». «No» risposi. «Dal momento che Mr. Electrico mi ha indicato la strada giusta, non dovrei ricompensarlo? Devo tenere la sua magia tutta per me o permettermi di aiutarlo a salvare Constance?» «Queste sono scemenze mistiche.» «Sono intuizioni, e io non conosco altro modo di vivere. Quando mi sono sposato gli amici avvertirono Maggie che non sarei andato da nessuna parte. Risposi: "Andrò sulla luna e su Marte, vuoi venire con me?". Maggie rispose di sì e finora non è andata tanto male. Ora ti domando, nel tragitto fra un "mi benedica padre" e la morte felice che ti aspetta, non puoi dedicare un momento a riportare indietro Constance Rattigan?» Crumley guardò fisso davanti a sé.
«Parli sul serio?» Si allungò verso di me, mi toccò sotto gli occhi e si portò le dita alla lingua. «Sono vere» borbottò. Poi ricordò pacatamente: «Tua moglie ha detto che piangi anche quando leggi l'elenco del telefono». «L'elenco del telefono è pieno di gente che magari si è smarrita nei camposanti. Se lasciassi perdere adesso, non me lo perdonerei mai. E non perdonerei te se mi ostacolassi.» Dopo un lungo momento Crumley scivolò fuori della macchina. «Aspetta» disse, senza guardarmi. «Devo andare a pisciare.» Capitolo 42 Tornò dopo un pezzo. «Certo sai come ferire un amico» disse risalendo nel macinino. «Tu mescola, non agitare.» Crumley piegò la testa verso di me. «Sei uno strano tipo.» «E tu un altro.» La macchina avanzò lungo la spiaggia, verso villa Rattigan. Io non parlavo. «Hai avuto un'altra intuizione fulminante?» chiese Crumley. «Mi domando» dissi «perché una donna come Constance debba essere al tempo stesso un fulmine di energia, un leone marino, un'equilibrista sorprendente e un essere umano pieno di allegria... ma anche il diavolo in carne e ossa. Una che tenta di prendere la vita per il bavero.» «Chiedilo ad Alessandro Magno» ribatté Crumley. «Oppure ad Attila, che amava tanto i cani. O a Hitler, Stalin, Lenin, Mussolini... il coro di benvenuto all'inferno. Rommel era un'ottima persona, in famiglia. Come si spiega che certa gente può tagliare la gola al prossimo? Cuocere il pane e infornare esseri umani? Come si spiega che siamo affascinati da Riccardo III, che affogava i bambini negli otri di vino? O che alla tv trasmettono soltanto repliche di Al Capone? Dio lo sa.» «Non è a lui che lo chiedo, perché ci ha lasciati liberi. Una volta che Dio ci ha tolto il guinzaglio, la scelta tocca a noi. Qualcuno ha scritto: "L'uomo fa molto più di Milton per giustificare la condotta di Dio nei suoi confronti". Io l'ho parafrasato così: "Freud vizia i ragazzini e risparmia la verga per giustificare la condotta dell'uomo verso Dio".» Crumley sbuffò. «Freud era un seme pazzo messo nel frutto al posto di
quello giusto. Ho sempre creduto che gli smargiassi debbano prendersi un bel pugno sui denti.» «Mio padre non mi ha mai rotto un dente.» «È perché tu sei un candito di Natale, del tipo ormai vecchio perché nessuno se lo mangia.» «Però Constance è bella!» «Scambi la sua energia per bellezza. All'estero le ragazze francesi mi facevano morire: fanno l'occhiolino, si muovono, ballano, starebbero in piedi sulla testa per dimostrare di essere vive. Per l'inferno, Constance è tutta batterie acide e corti circuiti. Se si azzarda a fermarsi un momento vedrai com'è...» «...Brutta? Niente affatto!» «Dammi questi.» Mi strappò gli occhiali dal naso e ci guardò attraverso. «Rosa, naturalmente. Come ti sembrano le cose, ora che sei senza?» «Non vedo niente.» «Grande! Tanto non c'è molto da vedere.» «Constance è Parigi in primavera. Parigi quando piove, o l'ultimo dell'anno.» «Ci sei stato?» «Ho visto i film. Parigi... Ridammeli.» «Me li terrò finché non prenderai lezioni di valzer da Henry il cieco.» Crumley infilò i miei occhiali in tasca. Mentre spingevamo il macinino verso il bianco castello sulla spiaggia, vedemmo due sagome scure all'altezza della piscina. Stavano sotto l'ombrellone a ripararsi dalla luna. Crumley ed io ci arrampicammo sulla collinetta e vedemmo che si trattava di Henry il Cieco e Fritz Wong. Sul vassoio erano pronti i martini. «Sapevo che dopo l'avventura nel canale avreste avuto bisogno di un po' di ristoro. Prendete e bevete.» Facemmo così. Fritz inzuppò il monocolo nella vodka, lo appoggiò all'occhio e disse: «Così va meglio». Poi finì di bere. Capitolo 43 Cominciai a muovermi, sistemando alcune sedie da campo intorno alla piscina. Crumley guardava con occhio severo e a un certo punto disse: «Fatemi
indovinare, siamo nel finale di un giallo di Agatha Christie e Poirot ha riunito i soliti sospetti accanto alla piscina». «Sciocchezze.» «Procedi.» Procedetti. «Questa sedia rappresenta il collezionista di vecchi giornali sul monte Lowe.» «Che testimonierà in absentia?» «In absentia. Quest'altra sedia è per la regina Califia, da tempo scomparsa con le sue arti arcane e i bernoccoli sulla testa.» Continuai a muovermi. «Terza sedia: padre Rattigan. Quarta sedia: il proiezionista appollaiato in un nido d'uccello al Teatro cinese Grauman. Quinta sedia, J.W. Bradford, alias Talullah, Greta Garbo, Swanson, Colbert. Sesta sedia, il professor Sveltini alias Scrooge, Nicholas Nickleby e Riccardo III. La settima rappresenta me e l'ottava sedia è per Constance.» «Un momento.» Crumley si alzò e mi attaccò il distintivo da poliziotto sulla camicia. «Dobbiamo restare qui» protestò Fritz, «ad ascoltare un giallo per ragazzi di Nancy Drew, per giunta di quart'ordine...?» «Tu, aggiustati il monocolo» ribatté Crumley. Fritz prese il monocolo per aggiustarlo. «E allora, junior?» fece Crumley. Junior continuava a muoversi dietro la fila di sedie. «Per cominciare, io sarò Rattigan che corre nella pioggia con due Libri dei Morti. O per meglio dire, dei morti e morituri.» Misi i due libretti sul tavolo di cristallo. «Ormai sappiamo che Sveltini, in un ritorno di nostalgica follia, ha inviato a Constance il taccuino con i nomi dei morti, per terrorizzarla. Lei ha cominciato a inseguire il passato, i ricordi di una vita intensa, furiosa e distruttiva.» «Puoi dirlo forte» commentò Crumley. M'interruppi. «Mi dispiace» disse Crumley. Presi il secondo libretto, il taccuino personale di Constance con gli indirizzi più recenti. «E se lei, colpita dal vecchio Libro dei Morti, fosse stata risucchiata dal dolore, dalle perdite del passato, e avesse deciso che era suo compito completare l'opera, farla finita con quell'elenco, un nome dopo l'altro? Se aves-
se fatto lei stessa i segni in rosso, e poi l'avesse dimenticato?» «Quanti se» sospirò Crumley. «Lo sciocco dica pure quant'è contento.» Fritz Wong rimise a posto il monocolo e si chinò verso di noi. «Dunque la Rattigan decide di uccidere, mutilare o almeno minacciare il proprio passato, ja?» fece con grave partecipazione tedesca. «E se passassimo alla prossima scena?» ribattei io. «Azione» sorrise Fritz, divertito. Tornai dietro la prima sedia. «Ed eccoci al capolinea della vecchia linea ferroviaria di monte Lowe.» Fritz e Crumley annuirono come se vedessero la mummia che abitava lassù, fasciata dai titoli di giornale. «Aspettate un momento, ci arrivo anch'io.» Henry il Cieco strinse gli occhi. «È stato il suo primo marito e il primo grave errore. Constance va su perché vuole eliminare i giornali che contengono l'archivio delle sue vecchie personalità: si impadronisce dei ritagli, come ho fatto io, e lancia un ultimo grido. Nessuno saprà mai se abbia spinto materialmente le pile di carta o se abbia fatto crollare tutto con un urlo, tanto il risultato è lo stesso. L'ex ferroviere di monte Lowe muore sepolto da una valanga di cattive notizie. Okay?» Diedi un'occhiata a Crumley, che per rispondere "okay" aveva spalancato la bocca. Annuì, come del resto Fritz. Henry se ne rese conto e segnalò via libera. «Sedia numero due, Bunker Hill. La regina Califia prevede il futuro, propizia il destino.» Mi tenni alla sedia, come se dovessi spingere quell'enorme donnone a rotelle. «Constance si è limitata a gridare davanti alla sua porta. Califia non è stata assassinata, proprio come non è stata assassinata la mummia egizia di monte Lowe. Certo la Rattigan è stata feroce, le avrà detto di rimangiarsi le sue maledette predizioni proprio perché propiziano il futuro. È come se Califia avesse aperto una carta stradale e Constance l'avesse seguita piena di entusiasmo ma alla cieca... scusami, Henry. Era capace di mentire, Califia? No. Il futuro in serbo era meraviglioso? Potete starne certi. Eppure, a un certo punto del gioco Constance vuole che l'altra ritratti. Califia avrebbe ritrattato volentieri e raccontato qualche nuova bugia per quieto vivere, ma la paura l'ha tradita ed è caduta nella fossa. Non si tratta di omicidio, sem-
mai di tremarella.» «E questo sistema l'astrologa» disse Crumley, cercando di nascondere la sua approvazione. «Scena tre, prima ripresa» recitò Fritz. «Scena tre, prima ripresa, terza sedia.» Mi spostai. «Questo è il confessionale di santa Vibiana.» Fritz si avvicinò. Il monocolo sembrava un proiettore teatrale che frugasse sul mio palcoscenico. Mi fece segno con la testa di continuare. «Siamo così arrivati al fratello di gran cuore, l'uomo deciso a guidare Constance sulla retta via. Ma la retta via è stretta, e per giunta ogni volta che Califia comanda "a sinistra" lui risponde "a destra". Dopo anni di eccessi e di peccato il buon sacerdote dev'essersi stancato e ha buttato la sorella fuori dalla chiesa. Ma Constance è tornata come una pazza, chiedendo l'assoluzione, urlando che il fratello la purificasse, la perdonasse: Sono della tua stessa carne, sii buono, sii comprensivo... ma lui si è messo le mani sulle orecchie e alle grida ha risposto con altre grida. Sono state le urla che uscivano dalla sua gola a ucciderlo, non quelle di Constance.» «Questa è la tua idea» intervenne Fritz, con un occhio chiuso e il fuoco del monocolo che mi penetrava. «Dimostrala. Se questa storia diventasse un dannatissimo film, dovresti ancora scrivermi il momento della verità. Come fai a sapere che il prete si è ucciso di rabbia?» «Chi è il detective, qua dentro?» intervenne Crumley. «Il ragazzo meraviglia, sicuro» biascicò Fritz, senza guardarlo e bersagliandomi con i fulmini della lente. «Ma deciderò se assumerlo o licenziarlo in base a quello che dirà adesso.» «Non sono qui per cercare lavoro» dissi. «L'hai già fatto» ribatté Fritz. «E l'alternativa è di essere buttato fuori a pedate. Io sono il capo dello studio e tu quello che viene a offrire mercanzia. Come sai che il prete si è suicidato?» Lasciai andare il fiato. «Perché l'ho sentito respirare, l'ho guardato in faccia, l'ho visto correre. Non sopportava che Constance si tuffasse nell'oceano con una faccia e tornasse a riva con una personalità diversa. Constance era l'aria calda del deserto, lui la nebbia. C'è stato uno scontro, con fulmini e cadaveri.» «Tutto si riduce dunque a un prete e a una sorella cattiva?» «A un santo e a una peccatrice» risposi. Fritz Wong si irrigidì, un riflesso sinistro e un sorriso maligno sulla faccia.
«Il posto è tuo. Crumley?» Crumley indietreggiò, come ritraendosi da Fritz, ma alla fine annuì. «Volevi una prova, no? Per me va bene. Cosa succede adesso?» Andai alla sedia successiva. «Questo è il Teatro cinese, di notte, nel punto più alto. È partito un film, sullo schermo si muovono figure come ombre sul muro. Sono le personalità multiple della Rattigan, inchiodate lì per sempre e pronte a essere esibite. L'uomo che conosce quella donna meglio di tutti - dal popò all'ombelico - è suo padre, il custode della fiamma impura; ma neanche lui l'accetta. Allora Constance si intrufola in cabina e sottrae le fotografie che parlano del suo passato. Brucerà anche quelle perché non ama più le sue vecchie incarnazioni. Per il vecchio, come per gli altri del resto, quell'ultima visita è uno shock. Lacerato dai tormenti - dopotutto, è sua figlia - accetta di separarsi dalle fotografie ma prepara un rullo a ciclo continuo in cui appaiono Molly, Dolly, Sally, Holly, Gala, Willa, Sue... Il rullo è ancora in funzione quando arriviamo noi, troppo tardi per salvare il vecchio o per recuperare le foto. Siamo al non-delitto numero quattro.» «Però J. Wallington Bradford alias Talullah Bankhead, Joan Crawford e Claudette Colbert è ancora vivo. Non sarà anche lui una vittima?» chiese Crumley. «E lo stesso vale per l'artista del cambio veloce, Sveltini.» «Sono vivi, ma non per molto. Sono persi come gattini in un temporale e Constance è piena di risentimento anche nei loro confronti.» «Perché?» s'informò Crumley. «Perché le hanno insegnato i molti modi per non essere se stessa» rispose Fritz, orgoglioso del proprio acume. «Non fare questo, fai quello, non fare quello, fai questo. Riccardo III che t'insegna la parte della figlia di Lear, di Lady Macbeth e Medea... una sola taglia per tutte. Così lei è diventata Elettra, Giulietta, Lady Godiva, Ofelia, Cleopatra. Bradford comandava, Rattigan eseguiva. E lo stesso con Sveltini. Vedi Connie come corre! Per spogliarsi ha dovuto bussare alla porta di tutti e due, seppellire le battute, bruciare i consigli. Può un maestro disammaestrare? Constance lo esigeva. L'essenza della sua vita era in una domanda: "Chi è Constance, cosa è?". Ma quei due sono maestri a senso unico, non sanno come invertire il processo. Per questo Constance è stata costretta ad andare...» «Nei camerini del sotterraneo» completai la frase. «Una volta prese le fotografie ha dovuto cancellare le tracce delle vecchie personalità anche dagli specchi. Gratta, elimina, pulisci, nome per nome e anno per anno.» Avevo finito. Sorseggiai il mio drink in silenzio.
«Cosa succede, il treno di Assassinio sull'Orient Express è arrivato in stazione?» chiese Fritz, che si era allungato sulla sedia come Cesare al bagno. «Sì.» «Siamo quindi lieti» riprese nel suo bel gutturale germanico «di offrirle l'incarico di sceneggiare il film intitolato Le molte morti di Rattigan, con inizio lunedì, a cinquecento dollari la settimana per dieci settimane, più una gratifica di ventimila dollari se il dannato film verrà realizzato.» «Prendi i soldi e scappa» fece Henry. «E tu, Crumley? Vuoi che accetti l'offerta di Fritz?» chiesi. «L'idea è peregrina ma il film sarà eccelso» rispose Crumley. «Buon Dio, ma perché sto qui a vomitare le budella?» Mi accasciai sulla sedia. «Non voglio più vivere» aggiunsi. «Ma sì che vuoi.» Fritz cambiò posizione e cominciò a scrivere su un taccuino. Cinquecento alla settimana, c'era scritto. Poi aggiunse cinque dollari autentici. «La paga dei primi dieci minuti!» «Allora credi alla mia versione? No...» Respinsi il foglietto. «Voglio prima sapere se qualcuno di voi mi crede.» «Io» rispose una voce. Guardammo tutti Henry il Cieco. «Firma il contratto» suggerì, «ma fai firmare a lui una dichiarazione in cui afferma di credere a ogni tua parola.» Esitai, poi buttai giù il mio manifesto. Fritz brontolò e mise la firma. «Quella Constance» disse a voce bassa. «Maledizione! Si presenta alla tua porta, ti si attorciglia addosso come un serpente. Diavolo, a chi importa se si uccide? Perché dovrebbe aver paura della sua agendina telefonica, o avercela con gli stupidi che le hanno mostrato la via del paradiso? A te un elenco telefonico farebbe paura? Cristo santo, no! Dev'esserci un'altra ragione per cui si è messa a correre, a cercare aiuto. Un movente. Perché darsi tanto da fare, per ottenere cosa? Ehi, un momento.» Fritz s'interruppe e prima impallidì, poi lentamente riprese colore. «No... o forse sì. Eppure non può essere. Ma certo, è proprio così!» «Cosa, Fritz?» «Sono fiero di parlare con me stesso» rispose il regista. «E sono fiero di
starmi ad ascoltare. Qualcuno di voi mi ha sentito?» «Non hai detto niente, Fritz.» «Parlerò a me stesso e voi starete a origliare, ja?» «Ja» acconsentii. Fritz mi sparò al cuore con lo sguardo. Innaffiò l'irritazione con un sorso di martini e riprese: «Uno o due mesi fa Constance venne nel mio ufficio con il fiatone. Era vero, disse, che stavo per cominciare un nuovo film? Un progetto ancora senza nome? Io risposi "Ja, forse è vero" e lei replicò: "C'è una parte per me?". Questo me lo disse praticamente all'orecchio, seduta in braccio. "No, no" risposi. "Ma deve esserci. Deve esserci, Fritz, dimmi qual è." Non avrei mai dovuto, eppure glielo dissi. Che Dio mi assista!». «Qual era il film, Fritz?» «"I miei progetti non sono adatti a te" le rinfacciai.» «Va bene, ma tu dimmi il titolo!» Fritz mi ignorò, fissando il cielo stellato attraverso il monocolo. Parlava da solo e noi origliavamo. «"Non sono adatti a te" continuai. Lei pianse. "Per favore, fammi provare" implorò. E io, implacabile: "Constance, è un personaggio che tu non sei mai stata, che non potresti essere".» Fritz prese un altro sorso dal bicchiere. «"La Pulzella di Orléans".» «Giovanna d'Arco!» «"Oh, Signore" pianse Constance. "Fosse l'ultima cosa che faccio, devo avere quella parte!"» Devo avere quella parte! ripeté l'eco. Giovanna! Una voce gridò nella mia testa. Cadde la pioggia, corse l'acqua. Dieci accendini si accesero e le fiammelle illuminarono la donna disperata che piangeva. «Sento le voci, sento le voci, se non fosse per loro perderei ogni coraggio! Dal cielo sono scese le campane e gli echi non sono ancora scomparsi, sui campi. Nella tranquillità della terra, io sento le mie voci!» A quelle parole l'uditorio sotterraneo aveva trattenuto il fiato: Giovanna d'Arco! Santa Giovanna. «Oddio, Fritz» esclamai. «Dillo di nuovo.» «Santa Giovanna.» Feci un balzo sulla sedia, che cadde. Fritz riprese il racconto: «"Constance, è troppo tardi." Così le dissi, ma
lei rispose "Non è mai troppo tardi". E io: "Ascolta, faremo un provino. Se accetti, potrai recitare una scena dalla Santa Giovanna di Bernard Shaw... Mi sembra impossibile, ma se ci riesci avrai la parte". Fu a questo punto che perse il controllo. Gridò: "Un momento! Io sto morendo! Tu però aspettami, tornerò". Dopodiché scappò e non l'ho più vista.» Chiesi: «Fritz, ti rendi conto di quello che hai appena detto?». «Maledizione, sì, ho detto Santa Giovanna!» «E non capisci? Siamo stati messi fuori pista da quello che Constance ha detto a padre Rattigan: "Ho ucciso, ho assassinato! Aiutami a seppellirli". Questo gli ha gridato in faccia, e noi pensavamo che alludesse al vecchio Rattigan su a monte Lowe, o alla regina Califia a Bunker Hill. Ma non è così, dannazione, non li ha uccisi. Semmai chiedeva aiuto per uccidere Constance!» «Come sarebbe?» fece Crumley. «"Aiutatemi a uccidere Constance", era questo il suo grido. Perché? Per la Giovanna d'Arco, la risposta è qui. Doveva avere la parte, ci si è preparata per un mese. Non ho ragione, Fritz?» «Un momento che mi aggiusto il monocolo.» Fritz mi osservò. «Stammi a sentire, Fritz. Lei non sarà adatta alla parte, ma esiste un modo in cui può trasformarsi in Giovanna d'Arco.» «Maledizione, e sarebbe?» «Accidenti! Doveva piantarti in asso, Fritz, tornare al suo passato, dare un lungo sguardo impietoso alla sua esistenza. Doveva eliminare uno a uno i suoi vecchi sé, seppellire i fantasmi, in modo che quando le altre Constance fossero morte e lei si fosse presentata al provino, forse, e dico forse, ci sarebbe stata una possibilità di avere la parte. In vita sua non ha mai interpretato un personaggio del genere. Era la sua grande opportunità, e l'unico modo di coglierla consisteva nel distruggere il passato. Non ti rendi conto, Fritz? È questa la spiegazione dei fatti che sono successi nell'ultima settimana, con il coinvolgimento di tanta gente e Constance che appare e scompare.» Fritz si difese: «No, no!». Io incalzai: «Sì, invece. La verità si trovava sotto i nostri occhi, ma quando hai detto quel nome è stata lampante. Santa Giovanna è il movente di qualunque donna sia mai esistita. Un sogno impossibile, irraggiungibile». «Per Gott!» «Non bestemmiare, caro Fritz, non sarai maledetto» dissi. «Sarai bene-
detto, invece, perché hai risolto il caso. Adesso dobbiamo trovare Constance e dirle che forse ha una possibilità. Ma solo una possibilità... A proposito, Fritz, dimmi una cosa.» «Cosa?» «Se Constance ti apparisse davvero nelle vesti della Pulzella, se fosse così incredibilmente giovane, trasmutata per miracolo, le daresti quella parte?» Fritz fece un'espressione terribile. «Non provocarmi, maledizione.» «Non lo farò. Ascolta, c'è mai stato un tempo in cui avrebbe potuto interpretare la Pulzella?» «Sì» rispose Fritz dopo un attimo. «Ma allora era allora e adesso è adesso.» «Ascoltami. E se, per miracolo, dovessimo vedercela davanti? Quando pensi a lei non pensi affatto al passato, perché lei è lì. Quando ricordi la donna che hai conosciuto un tempo tu le daresti quella parte, vero?» Fritz riflette, prese il bicchiere, lo riempì a una caraffa di cristallo smerigliato e disse: «Che Dio mi aiuti, penso di sì. Ma non insistere, non insistere!». «Fritz» continuai, «se riuscissimo a trovare quella Constance e se lei te lo chiedesse, le daresti una possibilità?» «Oddio» tuonò il regista. «Oddio... Sì, no. Non lo so.» «Fritz!» «Non gridare, maledizione. La risposta è sì, un ponderato sì.» «Okay, benissimo, meraviglioso. Ora, se solo...» Aguzzai gli occhi verso la spiaggia, là dove sboccava il condotto delle acque. Distolsi lo sguardo troppo tardi. Sia Crumley che Fritz se n'erano accorti. «Adesso Junior sa dov'è Medea» disse Crumley. Sì, pensai sì, lo so, perdio. Ma il mio grido soffocato l'aveva fatta scappare. Fritz puntò il monocolo sulla bocca del condotto. «È da lì che siete usciti?» chiese. «Non certo grazie al nostro Junior» fece Crumley. «Ho corso come un pazzo» risposi, sentendomi in colpa. «Come no! Tanto per cominciare non avresti dovuto esserci, in quel budello. Magari avrai trovato la Rattigan, ma l'hai persa di nuovo.» Magari! pensai. Dio buono, dice magari! «Il condotto dell'acqua piovana...» rimuginò Fritz Wong. «Non può es-
sere, tanto per fare un'ipotesi, che tu abbia corso nella direzione sbagliata?» «Cosa?» feci, stupito. «Qui nella pazza Hollywood» disse Fritz «non ci sono soltanto due sensi. Non potrebbe darsi che le condutture puntino in molte direzioni?» «Sud, nord, ovest e...» Frenai. «...Est» dissi lentamente. Non è facile dire "est" lentamente, ma io lo feci. «Est» ripeté Fritz. «Ja, est, est!» Inseguimmo i nostri pensieri sulle colline e giù di nuovo, verso Glendale. Nessuno va mai a Glendale, tranne... I morti. Fritz Wong incastrò il monocolo davanti al focoso occhio destro e guardò il cielo a oriente, con un meraviglioso sorriso carogna. «Per Gott!» esclamò. «Sarà un gran finale. Non c'è bisogno di sceneggiatura. Ho bisogno di dirvi dove si trova la Rattigan? A est, perché è tornata alla polvere.» «Tornata a cosa?» chiese Crumley. «Volpe astuta, gatto svelto: Rattigan torna alla polvere. Stanca, vergognosa delle sue molte vite, decide di nasconderle in un ultimo tappeto di Cleopatra. Lo arrotola e lo deposita sulla riva dell'Eternità: dissolvenza in nero. Di terra sotto cui nascondersi ce n'è a iosa.» Per un po' ci fece aspettare, poi disse: «Forest Lawn.» «Ma quello è il cimitero, Fritz!» «Chi è il regista di questa storia?» scattò il tedesco. «Hai preso la direzione sbagliata, ragazzo; sei andato verso l'aria aperta, il mare e la vita, mentre Rattigan è andata a est. La morte l'ha chiamata con i suoi venti nomi e lei ha risposto con una voce sola.» «Bastarda» borbottò Crumley. «Sei licenziato» disse Fritz. «Non sono mai stato assunto» gli fece notare Crumley. «E adesso cosa succede?» «Vai là e mi cerchi le prove che ho ragione» concluse Fritz. «Quindi» ricapitolò Crumley «Rattigan si è calata nel canale di raccolta e si è diretta ad est, o ci è andata con un'automobile, oppure ce l'hanno portata. Giusto?» «Io la girerei così. Caricate la macchina! Che meraviglia...» «Ma perché a Forest Lawn?» protestai debolmente, pensando che magari
ero stato io a farle venire l'idea. «Per morire» rispose Fritz, trionfante. «Leggi il racconto del vecchio morto di Ludwig Bemelman: questo vecchio si mise una candela accesa in testa, i fiori al collo e s'incamminò verso la tomba. Un funerale con un solo partecipante! Constance farà lo stesso. È andata a morire un'ultima volta, d'accordo? Ora devo avviare la macchina. Qualcuno viene con me? E soprattutto, ci andiamo per via di superficie o prendiamo il budello?» Guardai Crumley, lui guardò me e tutti e due fissammo Henry il Cieco. Lui sentì i nostri sguardi e fece un cenno con la testa. Fritz era già andato, e la vodka con lui. «Fate strada» disse Henry. «E ogni tanto imprecate, in modo da darmi la direzione.» Crumley e io puntammo alla vecchia carretta, con Henry alle calcagna. Fritz, nella macchina davanti, avviò il motore e suonò il clacson. «Ho capito, dannato crucco!» imprecò Crumley. Avviò la carretta con un singulto. «Da che parte la prossima battaglia stradale?» Ci fermammo all'altezza del canale di scolo, guardammo l'imboccatura e poi la strada a cielo aperto. «Quale prendiamo, sapientone? La porta dell'inferno o la Strada 66?» chiese Crumley. «Fammici pensare.» «No, questo è troppo!» esclamò lui. Fritz se n'era andato. Scrutammo la spiaggia ma non vedemmo la sua macchina. Alla nostra destra due luci rosse prendevano velocità nel tunnel. «Cristo» disse Crumley. «Come immaginavo.» Diede gas e ci tuffammo anche noi nel budello. «Ma è pazzesco» protestai. «È suicida» fece Crumley. «Maledizione!» «Sono contento di non vedere niente» commentò Henry dal sedile posteriore, parlando al vento che gli colpiva la faccia. Risalimmo il canale, diretti all'entroterra. «Ce la faremo?» gridai. «Quanto è alta la galleria?» Crumley rispose: «In alcuni tratti anche tre metri e mezzo. Più andiamo verso l'interno, più il soffitto si alza. L'acqua scende dalle montagne di Glendale, quindi il canale dev'essere molto grande per contenerla. Reggetevi!».
Davanti a noi la macchina di Fritz era quasi scomparsa. «Idiota» borbottai. «Ma lo sa dov'è diretto?» «Sì» disse Crumley. «Basta tornare al Teatro cinese e poi prendere a sinistra, verso il dannato giardino delle lapidi.» Il fragore del motore era assordante, e nel fragore vedemmo una torma di pazzi come quelli che mi avevano assalito. «Dio» gridai, «li spiaccicheremo! Non rallentare! Maledetti energumeni, e tu, continua per la tua strada!» Volammo lungo i bordi del canale. Il motore rombava, mentre la storia di Los Angeles ci passava accanto sui muri: graffiti, pittogrammi, pazzesche illustrazioni lasciate dai senza tetto nel 1940, 1930, 1925, facce e immagini di cose orrende, nessuna delle quali viva. Crumley diede tutto gas. Ci avventammo sulla folla urlante del sottosuolo e ricevemmo un tremendo benvenuto. Crumley non si fermò, avanzammo in mezzo ai corpi scaraventandoli ai lati. Uno spettro si rialzò, agitando la mano e biascicando qualcosa. Edward, Eddie, oh Eduardo! Eri tu? «Non mi hai nemmeno salutato!» delirò il fantasma, poi scomparve. Piansi ma continuammo a correre, distanziando i miei sensi di colpa. Ci lasciammo dietro ogni cosa, e più andavamo più il terrore s'impadroniva di me. «Come facciamo a sapere dove siamo?» domandai. «Non ci sono segnali, quaggiù. O quanto meno, non li vediamo.» Crumley disse: «Io penso di sì, fammi dare un'occhiata.» Sui muri c'erano effettivamente dei segni lasciati col gesso, e anche lettere nere. Crumley rallentò la macchina. Sulla parete davanti a noi qualcuno aveva intagliato una serie di croci e lapidi da vignetta. Crumley osservò: «Se Fritz vale qualcosa come guida, dovremmo essere a Glendale.» «Il che significa...» «Già. Forest Lawn.» Crumley accese gli abbaglianti e guidò la macchina lentamente a destra, poi a sinistra. Una scala portava a una griglia coperta da un tombino e sotto la scala era ferma la macchina di Fritz. Il nostro amico era sceso e si arrampicava sulla scala fiancheggiata da una serie di croci. Scendemmo anche noi, attraversammo il letto asciutto e cominciammo ad arrampicarci. Sentimmo un rumore metallico e vedemmo la figura di Fritz sotto il tombino che scivolava di lato. Una dolce pioggerella comin-
ciò a bagnargli le spalle. Salimmo la scala in silenzio. Sopra di noi, Fritz dirigeva le operazioni e gridava: «Muovetevi, là sotto!». Ci guardammo alle spalle, ma Henry il Cieco non era tipo da restare indietro. Capitolo 44 Il temporale era finito ma la pioggerella continuava. Il cielo birbone prometteva ben poco. «Ci siamo già?» disse Henry. Guardammo attraverso i cancelli del cimitero di Forest Lawn, un'erta collina coperta da una cannonata di lapidi conficcate nell'erba come meteore. «Dicono» ci informò Crumley «che in quel posto ci siano più elettori che a Paducah (Kentucky), Red River (Wyoming) o East End, Azusa.» «Mi piacciono i vecchi cimiteri» disse Henry. «Cose che puoi tastare in lungo e in largo. Tombe dove puoi sdraiarti come una statua e portare la ragazza quando è tardi, per giocare al dottore.» «C'è mai stato qualcuno che è venuto solo ad ammirare la foglia di fico del David?» chiese Fritz. «Ho sentito dire» fece Henry «che quando l'hanno spedito qui non c'era nessuna foglia di fico, per cui è rimasto imballato una quarantina d'anni e nessuna vecchia signora in scarpe da tennis ha potuto scandalizzarsi. Il giorno prima che incollassero la foglia e sciupassero il divertimento, hanno dovuto allontanare con la forza un congresso dell'Istituto Braille, i cui membri non portavano i guanti. I vivi che fanno ginnastica in un camposanto, di notte, rappresentano i preliminari; i defunti che fanno la stessa cosa sono la "piccola morte".» Sotto la pioggerella, individuammo gli uffici mortuari in fondo al sentiero. Sentii qualcuno mormorare: «Tornata alla polvere». Ero stato io. «Muoviamoci» disse Crumley. «Nel giro di mezz'ora l'acqua piovana che viene dalle montagne arriva qui sotto: la corrente porterà le nostre macchine dritte all'oceano.» Guardammo il tombino aperto: si sentiva il rumore del rigagnolo sotterraneo. «Santo cielo» sbottò Fritz. «La mia auto d'epoca.»
«Muoviamoci!» ripeté Crumley. Attraversammo il sentiero e ci dirigemmo all'edificio mortuario. «Dobbiamo chiedere a qualcuno?» feci io. «E cosa chiediamo?» Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono, pura confusione. «Potremmo fare il nome di Constance...» «Usa un po' di buonsenso» ribatté Crumley. «Chiederemo di tutti i nomi che compaiono nei titoli dei vecchi giornali, di tutti gli "alias" che abbiamo scoperto nel sotterraneo, scritti su quegli specchi con il rossetto.» «Ripeti un po'» fece Henry. «Uso metafore pure e circostanziali» disse Crumley. «E adesso spicciamoci.» Entrammo nella gran cattedrale della morte, o per metterla in altri termini nel regno degli impiegati del cimitero, degli armadietti zeppi di pratiche. Non dovemmo prendere un numero e aspettare, perché un uomo altissimo, con i capelli biondo-platino e la pelle color ostrica si materializzò davanti al banco della ricezione e ci guardò col disprezzo che meritano gli avanzi del bucato. Mise un biglietto da visita sul banco e sfidò Crumley a prenderlo. «Sei Grey?» chiese Crumley. «Elihu Phillips Grey, come può vedere.» «Siamo qui per comprare tombe e loculi.» Un sorriso da tardo inverno apparve sulla bocca di Elihu P. Grey e ci rimase come una nebbiolina. Con un gesto da mago, tirò fuori una tabella e un listino prezzi. Crumley li ignorò. «Ho anch'io la mia lista.» Tirò fuori i nomi che avevo trascritto e li sistemò in modo che Grey potesse leggerli. Quello esaminò l'elenco senza parlare. A quel punto Crumley tirò fuori un rotolo di biglietti da cento dollari. «Tienimeli, ragazzo» disse, lanciandomi il rotolo. Poi, a Grey: «Conosci quei nomi?». «Io conosco tutti i nomi.» Grey ripiombò nel silenzio. Crumley imprecò fra i denti. «Recitali, ragazzo.» Recitai i nomi uno a uno. «Holly Morgan.» Grey scartabellò nello schedario. «È qui, sepolta nel 1924.» «Polly Starr.» Altro breve controllo.
«Qui. 1926.» «E Molly Circe?» «Giusto. 1927.» «Emily Danse?» «1928.» «Tutte seppellite qui, sei sicuro?» Grey fece un'espressione amara. «Mai sbagliato in vita mia. Strano, però.» Riesaminò le carte che aveva estratto dallo schedario. «Strano. Sono parenti, per caso? Appartengono alla stessa famiglia?» «Cosa vuoi dire?» Grey appuntò lo sguardo polare sull'elenco dei nomi. «Perché vedete, sono tutte seppellite nella stessa cappella gotica. Qui in superficie.» «Ripeto, cosa vuoi dire?» Crumley si scosse la noia di dosso e afferrò le schede. «Allora?» «È strano, i cognomi sono diversi ma le hanno sepolte nella stessa tomba, una cappella con otto posti per i vari membri della famiglia.» «Ma non sono una famiglia!» disse Fritz. «Curioso» fece ancora Grey. «Strano.» Poi mi sembrò di essere colpito da un fulmine. «Un momento» sussurrai. Fritz, Crumley ed Henry si voltarono verso di me. Grey alzò le sopracciglia color della neve. «S-sì.» Riuscì a pronunciarlo come se fossero due sillabe. «E allora?» «La tomba, la cripta di famiglia... Dev'esserci un nome, sul frontone. Un nome inciso nel marmo.» Grey controllò i documenti, facendoci aspettare. «Rattigan» disse. «Sei sicuro?» «Mai sbagliato...» «Già, lo so. Ripeti quel nome.» Trattenemmo il fiato. «Rattigan.» La voce, gelida, uscì da una bocca che sembrava una trappola d'acciaio. Finalmente respirammo. Dopo un po' dissi: «Non possono essere tutte nella stessa cripta». Grey chiuse gli occhi. «Mai...» «Lo so, lo so» mi affrettai a dire. «Pensate anche voi quello che penso io?»
«Gesù Cristo» mormorò Crumley. «Che Dio la fulmini, puoi farci vedere dov'è questa tomba?» Grey fece qualche segno su una piantina. «Facile, ci sono fiori freschi davanti. La porta della cripta è aperta, ci sarà un servizio funebre domani.» «E chi viene sepolto?» «Rattigan» disse Grey, quasi sul punto di fare un sorriso. «Una certa Constance Rattigan.» Capitolo 45 La pioggia era così fitta che il cimitero sembrava invisibile. Tutto quello che riuscimmo a scorgere, mentre un veicolo elettrico ci portava verso la parte alta del colle, fu qualche monumento ai fianchi della strada. Il sentiero davanti a noi scomparve dietro l'acquazzone. Tenevo la piantina sulle ginocchia: un cerchio e una freccia delimitavano la zona che c'interessava. Il veicolo si fermò. «È qui» disse Crumley. «Giardini Azalea, lotto sedici. Edificio neopalladiano.» La pioggia ci colpiva con la pesantezza di un sipario; un guizzo di folgore illuminò una cripta slanciata, fornita di colonne palladiane intorno a un'alta porta di bronzo. La porta era semiaperta. «Così se vuole uscire, esce» osservò Crumley. «E può invitare dentro qualcuno. Ah, la Rattigan!» La pioggia si sollevò per scatenarsi in lontananza; la cripta ci aspettava, mentre il tuono rumoreggiava sul confine estremo del cimitero. La porta socchiusa fremette. Crumley parlava quasi fra sé. «Gesù, Constance si è sepolta da sola. Un'identità dopo l'altra, un anno dopo l'altro. Quando aveva finito con una parte, una faccia, una maschera, si procurava una tomba e la seppelliva. E adesso, magari per ottenere quella parte da Fritz, ha deciso di ammazzare di nuovo i vecchi alter-ego. Non entrare in quel posto, Willie.» «Ma lei è là» osservai. «Santa colonna» rispose Crumley. «Cos'è, intuizione?» «No» rabbrividii. «È un maledetto presentimento. Dobbiamo salvarla.» Scesi dal trabiccolo. «Quella è morta!» «La salverò comunque.» «Col cavolo» esplose Crumley. «Ti dichiaro in arresto. Torna qui den-
tro!» «Tu sei un rappresentante della legge, d'accordo, ma sei anche mio amico.» Fui inzuppato da uno scroscio di pioggia gelata. «Maledizione, andate tutti all'inferno! E tu vai dove vuoi, povero idiota, corri! Noi ti aspettiamo in fondo alla discesa, perché non me ne starò a guardare la tua testa che schizza da quella dannatissima porta. Quando hai finito, vieni a cercarci. Se puoi!» «E calmati» intervenne Fritz. «Non mi calmo per niente!» Fritz mi gettò una fiaschetta che mi colpì al petto. Tremavo sotto la pioggia gelida e diedi una lunga occhiata a Fritz mentre Crumley, bestemmiando, usciva dal veicolo elettrico. Eravamo in un grande cimitero con i cancelli di ferro aperti, davanti alla porta socchiusa di una tomba, e la pioggia che minacciava di lavare la terra fino al punto di farne uscire i morti. Chiusi gli occhi e bevvi la vodka. «Pronti o no» sussurrai, «è venuto il momento.» «Maledizione» disse Crumley. Capitolo 46 Era una notte buia e tempestosa. Dio, pensai, un'altra volta? Piedi in corsa. Un grido. I lampi, i tuoni di poche notti fa. E ora la stessa cosa. Le porte del cielo si spalancarono, le cateratte si riversarono dall'oscurità, con me in prossimità di una tomba fredda e una donna che forse era pazza e forse era morta in fondo al buio. Calma, mi dissi. Contatto. La porta esterna scricchiolò, quella interna cigolò. Ci trovammo nel vestibolo della cappella marmorea. Il sole era scomparso e non sarebbe più tornato, la pioggia cadeva in eterno. Era buio, ma le fiammelle di tre piccole candele votive azzurre ondeggiavano nel soffio d'aria che veniva dalla porta. Fissammo tutti il sarcofago a destra. C'era il nome di Holly, ma non c'era coperchio e tranne per una spruzzata di polvere il sepolcro era vuoto. Spostammo lo sguardo sul loculo successivo.
Fuori, la folgore guizzò nella pioggia e brontolò il tuono. Nel loculo successivo il nome di Molly era inciso nel marmo, ma ancora una volta il sarcofago non aveva coperchio ed era vuoto. La pioggia ruscellava sulla porta alle nostre spalle. Guardammo il penultimo e l'ultimo loculo verso l'alto, con i rispettivi sarcofaghi di marmo. Leggemmo i nomi di Emily e Polly e riuscimmo a vedere che una delle sepolture era vuota; tremando, mi arrampicai per verificare l'ultima. Le mie dita toccarono soltanto l'aria. Holly, Polly, Molly, Emily: eppure, sotto la luce dei lampi non c'erano corpi né altri resti. Alzai lo sguardo all'ultimo sarcofago e mi preparavo a guardarci dentro, quando, da molto lontano, arrivò il più debole dei sospiri e qualcosa che somigliava a un pianto freddo. Ritirai la mano e guardai Crumley, che fissò la sepoltura in alto e finalmente disse: «Ragazzo, è tutta tua». Lassù, fra le ombre, trattenni il respiro. «Okay» aggiunse Crumley. «Adesso tutti fuori.» Si ritirarono nella pioggia frusciante. Sulla porta Crumley diede un'altra occhiata al suo ragazzo un po' matto, mi passò una torcia elettrica e dopo avermi augurato buona fortuna se ne andò. Ero rimasto solo. Tornai in posizione, ma la torcia cadde. Per poco non svenni. Ci volle un pezzo prima che la trovassi e puntassi il raggio verso l'alto, e il cuore ebbe un tuffo simile al guizzo di luce. «Tu, là dentro» mormorai. Gesù, cosa significava? «Sono io.» Avevo appena sussurrato. Lo ripetei più forte, poi: «Sono venuto a cercarti.» «E allora?» mormorarono le ombre. Alle mie spalle la pioggia cadeva in una lastra compatta. Il lampo brillò, ma il tuono ancora non veniva. «Constance» dissi alla figura nera che giaceva nel loculo più alto, circondata da una muraglia di pioggia. «Ascoltami.» E finalmente dissi il mio nome. Silenzio. Parlai di nuovo. Oddio, pensai, è veramente morta. Basta, non ne posso più! Esci, maledizione, vattene! Ma mentre mi vol-
tavo - un movimento piccolissimo - il fatto accadde. L'ombra senza volto che mi sovrastava fremette in un tenue respiro. Non sentii praticamente nulla, ma avvertii l'ombra. «Cosa?» esalò. Mi rincuorai, lieto di aver sentito traccia di vita, qualsiasi vita, e un po' di polso. «Il mio nome.» Lo ripetei. «Oh» mormorò la voce. Questo mi diede coraggio. Mi ritrassi dalla pioggia e m'immersi nell'atmosfera fredda della tomba. «Sono venuto a salvarti» bisbigliai. «Davvero?» La voce era un mormorio, la danza di un insetto nell'aria, inaudita e non lì veramente. Come parla una morta? «Buona notte» disse il sussurro. «Non addormentarti!» esclamai. «Se ti addormenti non tornerai più indietro. Non morire.» «Perché?» chiese quell'alito. «Perché» ansimai. «Perché lo dico io.» «Allora dillo.» Un sospiro. Gesù, pensai, di' qualcosa! «Dillo!» ripeté la debolissima voce. «Esci di qui» bisbigliai. «Non è il tuo posto, questo.» «Sì.» Un fruscio lontanissimo. «No, invece!» esclamai. «È il mio» disse il respiro nell'ombra. «Ti aiuterò a venir fuori» dissi. «Da cosa?» volle sapere l'ombra. Poi, con una terribile paura: «Sono andati via? Se ne sono andati?». «Chi?» «Devono essersene andati, vero?» Finalmente il fulmine rischiarò i campi oscuri, il tuono scoppiò sulla cripta. Mi voltai per guardare i prati di marmo, i colli di lapidi lucenti i cui nomi venivano lavati via. Lapidi e pietre erano illuminati dai fuochi nel cielo: diventarono nomi sul cristallo di uno specchio, fotografie appese a una parete, parole annotate con l'inchiostro su un pezzo di carta; e di nuovo specchi, nomi e date vennero risucchiati nel condotto dell'acqua piovana, mentre le foto si staccavano dalla parete e la pellicola frusciava nel proiettore per mostrare una danza di volti sullo schermo diecimila chilometri più
in basso. Fotografie, specchi, film. Film, specchi, foto. Nomi, date, nomi. «Sono ancora là?» chiese l'ombra all'ultimo piano della cappella. «Vuoi dire sotto la pioggia?» Guardai la lunga collina del cimitero. La pioggia cadeva su dieci, cento, mille pietre. «Non dovrebbero essere là» disse lei. «Pensavo che fossero andati via per sempre, ma poi hanno cominciato a bussare alla mia porta, a svegliarmi. Mi sono tuffata nell'oceano per avere il conforto delle mie amiche foche, ma per quanto lontano mi spingessi loro mi aspettavano sulla spiaggia. E sussurravano le cose che avrei voluto dimenticare.» La voce esitò. «Per cui, se non potevo sfuggirgli dovevo ucciderli uno a uno. Chi erano, in fondo? Me stessa? Decisi di dar loro la caccia invece di essere cacciata. Rintracciai i loro nascondigli uno alla volta, e là dove si erano sepolti li seppellii di nuovo. Prima il 1925, poi il 1928, infine il 1930 e il '35. Finalmente avrebbero taciuto per sempre. Adesso è il momento di mettermi anch'io a dormire per sempre, altrimenti potrebbero tornare a chiamarmi alle tre del mattino. Ecco a che punto sono!» Fuori continuava a cadere la pioggia. Ci fu un lungo momento di silenzio, poi dissi: «Tu sei qui con me, Constance, ti sto ascoltando». Dopo un bel po' lei riprese: «Se ne sono andati tutti? La spiaggia è sicura, posso tornare a riva e non avere più paura?». Risposi: «Sì, Constance, adesso sono sepolti davvero. Sei riuscita nel tuo intento. Se bisognava che qualcuno ti perdonasse, quel qualcuno doveva essere Constance. Vieni fuori». «Perché?» chiese la voce all'ultimo piano della tomba. «Perché» risposi «può sembrare una pazzia, ma c'è bisogno di te. Quindi ti prego, riposati un momento e poi metti la mano fuori, ti aiuterò a scendere. Mi hai sentito, Constance?» Il cielo si fece buio, i fuochi morirono. La pioggia continuò a cadere cancellando pietre, lapidi e nomi, i terribili nomi scolpiti per durare ma che si scioglievano nell'erba. «Se ne sono andati?» sussurrò la voce terrorizzata. Con gli occhi pieni di pioggia fredda, risposi: «Sì». «Sì?» «Sì, il giardino è deserto. Le fotografie sono cadute, gli specchi sono puliti. Ci siamo soltanto tu e io.» La pioggia lavò le pietre invisibili, penetrando a fondo nell'erba inzuppata.
«Vieni fuori» ordinai tranquillamente. La pioggia cadeva, l'acqua scivolava sul sentiero. Monumenti, pietre, lapidi e nomi erano perduti. «Constance, un'ultima cosa.» «Cosa?» bisbigliò lei. Dopo un lungo momento mi decisi: «Fritz Wong ti aspetta. La sceneggiatura è finita, i set sono pronti e completi». Chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare. Alla fine ricordai: «"Se non fosse per le voci perderei ogni coraggio."». Esitai, poi continuai: «"È nelle campane che sento le mie voci. Dal cielo sono scese le campane e gli echi non sono ancora scomparsi, sui campi. Nella tranquillità della terra, io sento le mie voci! Senza di loro perderei ogni coraggio."». Silenzio. Un'ombra si mosse. Apparve una sagoma bianca. Le punte delle dita si tesero nel buio, poi una mano e il braccio sottile. Dopo un lungo silenzio, un respiro profondo. Liberò l'aria dai polmoni. «Vengo giù» disse Constance. Capitolo 47 Il temporale era finito, anzi era come se non fosse mai cominciato. Il cielo era limpido, non una nuvola all'orizzonte, e una brezza leggera soffiava come a rinfrescare un pezzo di pietra, uno specchio o una mente. Ero sulla spiaggia, di fronte alla fortezza moresca della Rattigan, con Crumley ed Henry silenziosissimi, mentre Fritz Wong studiava l'ambiente per decidere piani lunghi e primi piani. In casa due uomini in tuta bianca si muovevano come ombre, e a me, pazzo scrittore libero di inventare qualunque metafora, suggerirono l'immagine di due chierichetti intorno all'altare, fino a farmi desiderare che padre Rattigan fosse ancora tra noi e che uno degli uomini, per assurdo che possa sembrare, fosse proprio lui, intento a purificare la casa con una nuvola d'incenso e una pioggia d'acqua santa, e che una dimora mai benedetta fosse doppiamente benedetta adesso. Buon Dio, pensai, portaci un prete che purifichi questo covo d'iniquità! All'interno lavoravano gli imbianchini, che grattavano le pareti prima di dare una mano di vernice fresca, ignari di chi fosse la villa e di cosa vi fosse avvenuto. Fuori, sul tavolo accanto alla piscina, c'erano birre per Crumley, Fritz, Henry e me, più della vodka
se il nostro umore fosse cambiato. L'odore di pittura fresca era un tonico: prometteva una sorta di folle riscatto, l'eco del perdono. Nuova pittura, nuova vita? Ti prego, Dio. «Ma fin dove arriva, quella?» Crumley teneva d'occhio le onde a cento metri dalla spiaggia. «Non chiederlo a me» intervenne Henry. «È fuori con le foche» dissi «o da quelle parti. Ha molti amici, laggiù, sentite?» Le foche facevano il loro verso, forte o piano non avrei saputo decidere. Mi limitavo ad ascoltare. Era un bel suono, combinato all'odore di pittura fresca; la vecchia casa stava rinascendo a nuovo. «Dite ai pittori che quando dipingeranno la cassetta delle lettere dovranno lasciare spazio per un nome soltanto, ja?» «Hai ragione» disse Henry. Piegò la testa di lato e aggrottò la fronte. «È un pezzo che è andata a nuotare. E se non torna?» «Non sarebbe male» osservai. «Le piace il mare, al largo.» «I cavalloni dopo il temporale, l'ideale per fare surf. Ehi, questo è un fragore di tutt'altro tipo!» Il fragore di un ingresso teatrale. Con tempismo perfetto, un taxi arrivò rombando nel viale dietro villa Rattigan. «Dio» feci «io so chi è...» Uno sportello sbatté. Una donna avanzò pesantemente sul tratto di sabbia che correva fra la casa e la piscina scoperta, le mani strette a pugno. La donna mi si piantò davanti come una fornace accesa e alzò i pugni. «Cosa mi racconti, adesso?» urlò Maggie. «Scusa?» belai. «Scusa!» E mi diede una terribile botta sul naso. «Colpiscilo di nuovo» suggerì Crumley. «Sì, porta fortuna» incalzò Fritz. «Ma che succede?» chiese Henry. «Bastardo!» «Lo so.» «Figlio di puttana!» «Già» dissi io. Mi colpì per la seconda volta. Il sangue uscì in abbondanza, corse sul mento e bagnò le mani che avevo
alzato per difendermi. Maggie arretrò di qualche passo. «Dio, che ho fatto!» «Hai pestato un bastardo figlio di puttana» spiegò Fritz. «Proprio così» fece Crumley. «Voi state fuori da questa faccenda!» urlò Maggie. «E che qualcuno vada a prendere i cerotti.» Contemplai il liquido colorato che avevo sulle mani. «I cerotti non basteranno.» «Zitto tu, cretino di un casanova!» «Macché, è solo un'amica» belai. «Stai fermo!» ordinò Maggie, alzando il pugno di nuovo. Rimasi immobile e lei cedette. «No, no, basta, basta» cominciò a piangere. «Dio, è terribile.» «Continua, me lo merito» dissi. «Davvero, davvero?» «Sì» ammisi. Maggie scrutò la risacca in lontananza. «Dov'è quella? Là fuori?» «Da qualche parte.» «Allora spero che non torni.» «Anch'io.» «Che diavolo vorresti dire?» «Non lo so» risposi nel modo più tranquillo possibile. «Forse quella donna appartiene al mare: ha degli amici, laggiù, amici che non possono parlare ma con i quali farebbe meglio a restare, senza più tornare indietro.» «Se si azzarda a venire qua, l'ammazzo.» «Appunto, meglio che resti dov'è.» «Hai intenzione di difenderla, per caso?» «No, dico solo che non le conviene tornare. In giornate come questa, dopo un temporale, è sempre felice: le onde sono giuste, le nuvole sono andate via. L'ho vista diverse volte in giornate così: non beveva un goccio per tutto il giorno, continuava a nuotare e c'era sempre la speranza che non tornasse più.» «Ma cosa ti prende? E cosa le è preso, a quella?» «Nessuno lo sa, ma succede. Non ci sono scuse, è solo che certe cose vanno come vanno. E prima che tu te ne accorga, è tutto andato al diavolo.» «Continua, magari ci capisco qualcosa.» «No, più si parla e meno si capisce. Per un certo tempo l'abbiamo persa,
ora l'abbiamo ritrovata: forse è stata solo fortuna, forse stava male davvero. Non lo so, comunque le ho detto che se fosse andata a nuotare insieme a tutti quei nomi, forse sarebbe tornata a riva da sola. Di nuovo se stessa... Promesse, promesse. Lo sapremo quando torna.» «Zitto. Sai che ti amo, vero, stupido bastardo?» «Lo so.» «E nonostante tutto, mascalzone, continuo ad amarti. Dio ne scampi, è questa la sorte delle donne?» «Della maggior parte» convenni. «Della maggior parte. Non ci sono motivi, non esistono spiegazioni, solo nude verità. Il cane è randagio, il cane torna a casa. Il cane ti fa gli occhi dolci, tu gli dai una pedata. Lui ti perdona per averlo perdonato. Dopo un po' torna a casa e si rifugia nella cuccia, oppure riprende la vita randagia. Io non voglio una vita randagia, e tu?» «Gesù aiutami, nemmeno io. Pulisciti il naso.» Mi pulii il naso. Ancora sangue. «Mi dispiace» singhiozzò Maggie. «No, è l'ultima cosa che devi fare. No.» «Ehi, un momento!» disse Henry. «Ascoltate.» «Cosa?» chiedemmo tutti contemporaneamente. «Non lo sentite?» fece Henry. «Cosa, cosa, maledizione?» «La grande onda, la più grande di tutte, adesso arriva» bisbigliò Henry. «E porta una sorpresa con sé.» Al largo, le foche fecero sentire il loro verso. Al largo, un'onda immensa si raccolse. Crumley, Fritz, Henry, Maggie e io trattenemmo il fiato. E l'onda venne. FINE