WILLIAM KATZ ANNIVERSARIO DI SANGUE (Double Wedding, 1990) Consigli «La moglie è la prima a saperlo e l'ultima a crederc...
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WILLIAM KATZ ANNIVERSARIO DI SANGUE (Double Wedding, 1990) Consigli «La moglie è la prima a saperlo e l'ultima a crederci», sentenziò Woody Evans rivolgendosi a Sarah, sorseggiando champagne. Erano a un party, in mezzo a una folla di invitati che rumoreggiavano, e il commento dell'avvocato divorzista prendeva spunto dalle chiacchiere e dalle voci che correvano sul conto di un senatore e di sua moglie. «Ne sei convinto?» chiese Sarah. «Certo, lo dicono loro, le mogli. Sanno ciò che fanno i rispettivi mariti: qualcuna conosce persino il nome dell'altra donna. Ma, vedi, è la natura umana. Non riescono a crederci, così fingono che non sia successo niente. Fa' che non capiti anche a te.» «Oh, non succederà», rise Sarah, posando il bicchiere sul tavolino, «il mio matrimonio è fantastico. Io non sarò la prima a saperlo perché non c'è niente da sapere.» «Davvero?» replicò Evans con un sorriso cinico, frutto di un'esperienza di quarant'anni nel campo dei matrimoni falliti. «Lo sai come chiamo le donne che affermano una cosa del genere?» «Come?» «Future clienti.» Parte prima 1 Washington Bret Lewis era sorpreso di sentirsi vagamente colpevole. Dopo tutto, sapeva già da mesi che stava per chiudere il suo matrimonio con Sarah e da settimane sapeva anche in che modo. Il suo piano, minuziosamente preparato sin nei minimi dettagli, era quasi completo, ma ora, al volante della sua Lincoln, nel traffico mattutino, con Sarah accanto a sé, provava un'improvvisa punta di rimorso. Francamente, era imbarazzato. Perché doveva sentirsi colpevole di un'azione che riteneva necessaria per l'avanzamento
della sua carriera? Il sottosegretario alla Marina degli Stati Uniti deve possedere nervi d'acciaio; un uomo calcolatore deve restare immune da sentimenti infantili. Però era il ventesimo anniversario del loro matrimonio, Sarah ne parlava da settimane e, la sera prima, gli aveva infilato un biglietto sotto il cuscino. Ecco perché si sentiva a disagio. Proseguirono a passo d'uomo sulla Sedicesima strada; davanti a loro c'era la Casa Bianca. Erano le sette e un quarto del mattino e sarebbe stata una delle più lunghe giornate di Sarah Lewis. «Ho prenotato da Jimmy Lee's per questa sera», stava dicendo lei. «Perfetto», replicò Bret. Si costrinse a mostrarsi interessato, ma la sua mente galoppava altrove. Forse sarebbe bastata una pila tascabile, pensava, o il rivestimento esterno di una radio portatile. Entrambi sarebbero andati benissimo, perché potevano nascondere un esplosivo. «Ho prenotato il nostro solito tavolo», continuò lei. «Per quattro. Jimmy sfoggerà la stessa argenteria di vent'anni fa.» «Magnifico.» Compra del grasso. Maledizione, ormai dovevi averlo già fatto. Va' da un concessionario Lincoln, ma uno lontano da casa, paga in contanti e mettiti gli occhiali neri. «Ho ordinato una cena a base di specialità di pesce, ma non troppo piccanti.» «Brava.» Simula il guasto, fallo apparire il lavoro di un dilettante... e non farne una tragedia con la polizia. Forse il guasto non verrà segnalato immediatamente... «Bret, ma tu non mi stai ascoltando!» protestò Sarah. «No... voglio dire sì, certo che ti ascolto.» L'automobile era bloccata dietro una limousine appena uscita dall'ambasciata nigeriana. Tolse le mani dal volante e si girò verso di lei. «Ti ricordi quando ci siamo conosciuti? Eravamo due ragazzi e io venivo a trovarti con quell'autobus sgangherato ogni weekend.» «Mi ricordo.» «Davvero sono passati vent'anni?» Lei sorrise, un sorriso raggiante. «Sicuro.» «Sai, stamattina ho preso una decisione», le annunciò Bret solennemente. «Potrebbero passarne altri cinquanta.» «Cinquanta?» ripeté Sarah. «Be', mi vedo su una sedia a dondolo, fra cinquant'anni. A rivivere i miei ricordi.» Buffo, pensò Bret. Lui la vedeva in una bara, senza altri ricordi.
Se Woody Evans, l'avvocato divorzista che aveva dato i suoi consigli a Sarah durante il party, avesse ascoltato quel dialogo, avrebbe dovuto ammettere che si sbagliava. Sarah Lewis sembrava diversa dalle sue clienti: non sospettava assolutamente nulla. L'uomo seduto sul sedile accanto a lei stava progettando di porre fine alla sua vita e lei di trascorrere una serata insieme al ristorante. In realtà, nell'ambiente di Washington erano considerati una coppia molto solida. Bret era una stella nascente del dipartimento della Difesa, già più volte citato nella pagine di politica estera del New York Times, uno che sapeva il fatto suo e si vedeva; Sarah era conservatrice al Museo nazionale aerospaziale, o meglio, secondo qualcuno, una donna che s'interessava di aerei. Aveva il brevetto di pilota civile e, se non fosse stato per un leggero disturbo cardiaco, avrebbe ottenuto anche quello di pilota militare. Aveva l'età di Bret, ma sembrava molto più giovane; portava i capelli biondi tagliati corti e aveva grandi occhi di un azzurro intenso. Suo marito diceva che assomigliava a Grace Kelly o a quelle bionde un po' fredde dei film di Hitchcock. Una strana coppia, per alcuni. Lui un arrivista ambizioso, affascinante, duro e spietato, a seconda delle circostanze; lei, invece, avrebbe potuto benissimo insegnare nelle campagne del Nebraska, introducendo i più giovani al mondo del volo. Professionalmente, Bret viveva nell'ambiente segreto della marina, e gli piaceva. Era soddisfatto di conoscere cose di cui gli altri non erano informati, gli dava un profondo senso di potere ed era convinto che, se era capace di tenere per sé le più segrete operazioni militari, a maggior ragione era in grado di nascondere i suoi progetti su Sarah. «Dicevi sul serio?» chiese Sarah. «A che proposito?» «A proposito di quegli altri cinquant'anni.» «Sì, lo pensavo davvero», rispose lui toccandole teneramente il braccio. Ancora bugie, come quando le diceva che l'amava e le era fedele. In realtà, Bret stava già pensando alla donna elegante che si sarebbe seduta al suo fianco una volta sistemata quella faccenda e che lo avrebbe accompagnato al lavoro ogni mattina, la donna che con la sua presenza gli avrebbe dato la spinta verso il vertice. Forse avrebbe acquistato una nuova auto per lei, se la sarebbe meritata ed era importante impressionarla. Sarah fissò la Casa Bianca. Faceva troppo caldo per essere giugno, a Washington, pensò, e il traffico caotico e l'aria condizionata che la colpiva
in pieno volto non creavano il clima migliore per festeggiare un anniversario. Poi vide i ragazzi, studenti dell'ultimo anno delle superiori in visita a Washington, giusto per respirare la storia del loro Paese, felici e spensierati, più ansiosi di divertirsi che di imparare. Ecco, Laurie avrebbe avuto la loro età. Anche lei sarebbe andata in gita e Sarah, a casa, si sarebbe preoccupata proprio come i genitori di quei ragazzi, per il timore che in qualche gruppo circolasse la droga. Si sforzò di cacciare quel pensiero dalla mente. Non pensarci, non lasciarti andare proprio oggi. È successo diciassette anni fa. «Diamoci una mossa!» ringhiò Bret, rivolto all'automobilista che lo precedeva. «Sta' calmo», gli disse Sarah. «Abbiamo un sacco di tempo.» Io ho un sacco di tempo, replicò mentalmente Bret. Sarah era abituata agli scoppi di collera del marito, ma aveva notato che negli ultimi mesi erano diventati più frequenti. Una volta era persino sceso dalla macchina per aggredire verbalmente un automobilista che procedeva troppo lentamente. C'era forse qualcosa che non andava? «Ma quello non è Tim Curran?» chiese all'improvviso lei, indicando un uomo sulla sessantina con un abito blu che usciva dall'albergo Hay-Adams, direttamente di fronte alla Casa Bianca. L'uomo teneva la testa abbassata per nascondere il viso. «Sembrerebbe lui», convenne Bret. «Ma sì, è lui.» «Che ci fa da queste parti, a quest'ora? Non è tipo da andare in albergo per la colazione, e poi vive a Langley.» «Ha un'amica all'Hay-Adams», spiegò Bret indifferente. «Un'avvocatessa con i capelli rossi.» «Mmm. Gli uomini fanno di queste cose, vero?» «Capita nel nostro governo, amore mio. Il presidente della Commissione per i servizi armati mette le corna a Betty. Saranno già tre mesi.» «Chi è lei?» «Lavora in uno studio legale specializzato nei contratti per il ministero della Difesa. Cerca un appoggio al Congresso per aiutare un costruttore di motori a reazione.» «Capisco», disse Sarah. «Ne sono sicuro. Lei arriva alla sera e al mattino spunta il contratto.» Sarah osservò Tim Curran proseguire sino in fondo all'isolato, alla ricer-
ca di un taxi: evidentemente, non voleva farsi vedere dal portiere. I portieri hanno buona memoria con i giornalisti. È strano che abbiamo incontrato proprio Tim Curran, pensò Bret, mentre costeggiava Lafayette Park e passava davanti alla Casa Bianca. In un certo senso, lo riteneva responsabile della sua decisione di liberarsi di Sarah. Bret ricordava bene la sera in cui ne avevano parlato, cinque mesi prima. Si trovava con lui negli uffici della Rayburn House, in Independence Avenue, verso mezzanotte. Avevano discusso degli stanziamenti alla marina per il nuovo anno fiscale ed erano rimasti soltanto loro due nell'ufficio di Curran, che non approvava la necessità di concedere un finanziamento per un altro incrociatore della classe Aegis. Avevano appena chiuso l'argomento delle sovvenzioni, quando Curran si era girato nella sua poltrona imbottita e aveva lanciato a Bret Lewis una lunga occhiata distratta, prendendo tempo. Bret aveva provato un freddo senso di disagio. Curran voleva qualcosa, voleva sempre qualcosa e a Bret non piaceva quello sguardo rapace negli occhi penetranti dell'uomo che aveva dinanzi. «Tu hai circa quarant'anni, non è vero Bret?» gli aveva chiesto. «Quarantuno», aveva replicato lui, un po' sorpreso dalla domanda. «Hai insegnato in un college prima di venire qui, giusto?» «Sì, insegnavo scienze politiche.» «Bene, bene. È una gran professione, quella dell'insegnante: ispiratore della gioventù del Paese. Vuoi restare nel governo?» «Certo. Perché me lo chiede?» Curran aveva continuato a fissarlo. «Sai, ti ho osservato», aveva continuato. «Osservo un sacco di gente in questa città, gente che va e che viene, per la maggior parte che se ne va o che se ne dovrebbe andare.» Si era alzato e si era avvicinato a un mobiletto per prendere un sigaro Avana di contrabbando. «Fumi?» «No, grazie.» «Che bravo, tanto di guadagnato per la salute. Ma impara a farti una fumatina, se capita l'occasione.» Aveva strizzato l'occhio a Bret come un padre che dia qualche consiglio delicato a un figlio e aveva acceso il sigaro con un accendino d'oro che portava impresso il marchio di una ditta che forniva materiale alla Difesa. Bret aveva capito al volo. «Sai, Bret», aveva ripreso Curran, «potresti salire direttamente la scala che porta in cima a questo piccolo villaggio. Sei abbastanza giovane, brillante, di bell'aspetto; perlomeno, così affermano le signore.» Di nuovo lo aveva squadrato, analizzandone la figura muscolosa, i folti capelli castani,
la montatura degli occhiali. «Tu potresti raggiungere la vetta.» Aveva tirato una boccata dal sigaro. «Mi spiego, marinaio?» «Sono molto lusingato, signor presidente», aveva borbottato Bret. «Sei in gamba, ti ho visto lavorare con grande intelligenza e furbizia, ma ti ci vuole una base politica, Bret. Dovresti candidarti per il Senato, forse.» Curran si era avvicinato a una carta geografica degli Stati Uniti appesa a una parete. «Vieni da New York, mi pare.» «Esatto.» «Un gran bel casino, New York. Però anche Franklin Roosevelt veniva da New York. Lo sapevi?» «Sì, lo sapevo. E anche lui era sottosegretario alla Marina.» «Ecco, Roosevelt ha seguito la tradizione di famiglia, e cioè servire il Paese nel Pentagono. Qualcuno mi ha detto che tu e tua moglie siete cresciuti a New York.» «A Long Island, per la precisione. Abbiamo frequentato il liceo insieme e da allora non ci siamo mai separati.» «Anche quando eri militare? Perché hai fatto il militare, mi auguro.» Bret aveva sorriso. «Certo. Anche lei si è arruolata: eravamo ufficiali di marina a San Diego, nei primi anni Settanta, gli anni migliori della nostra vita.» «Mi piace come lo dici. Gli anni del militare, i migliori. Ho conosciuto tua moglie: una bella bionda, occhi fantastici, una figura che farebbe voltare anche un...» «La ringrazio a nome suo», lo aveva interrotto Bret. «Devi salutarmi Susan.» «Sarah.» Quell'errore colpì Bret. Curran era il primo a commetterlo nell'ambiente della Casa Bianca. «Ah, già, Sarah. Davvero una graziosa signora. Ma... e questa non vuol essere una critica...» «Ma che cosa?» «Ecco, vedi, in questo mestiere anche le mogli fanno parte del gioco, dello show. Lei dovrà aiutarti, Bret. È una fortuna che lavori con gli aerei, eh? Perché ci lavora, mi pare...» «Sì, è ingegnere aeronautico. Lavora come conservatrice al Museo aerospaziale.» «Una posizione veramente notevole», aveva commentato Curran. «Dovresti tenere una sua fotografia mentre sorride dalla carlinga di un F-15.
Ma per aiutarti in politica, lei dovrà essere un po' più... come dire?» «Calcolatrice?» «Bravo, è la parola giusta.» «So che cosa intende dire», aveva ammesso Bret e sapeva esattamente che cosa aggiungere. «Sarah», aveva ripreso con un blando sguardo di disprezzo sulla faccia, «è il tipo di donna che si sceglie gli amici perché le piacciono, non certo per quello che le possono dare.» «Peccato, eh?» «Temo di sì.» Curran aveva fissato il soffitto. «Be', potrebbe cambiare, no? Essere un po' più... tollerante.» «Non lo so», aveva risposto Bret. «Non è nel suo stile.» «Uhm... Peccato davvero. Il tuo è un buon matrimonio, Bret?» «Sì, è buono.» «Non c'è bisogno dell'avvocato?» Bret aveva esitato. L'idea stava formandosi. «Direi proprio di no.» «Be', almeno su questo siamo tranquilli. Brutta roba il divorzio, caro Bret. Lascia strascichi legali, magari uno scandalo...» Curran lo aveva guardato direttamente negli occhi. «Beato l'uomo il cui matrimonio disastroso si conclude con la moglie che vola giù da un ponte.» La mente di Bret tornò alla realtà, mentre passava davanti al palazzo del ministero del Tesoro. Proseguì per Pennsylvania Avenue, attraversò il Mall e si diresse verso il Museo aerospaziale. Il Campidoglio era sulla sinistra. Come sempre, i suoi occhi si soffermarono sui gruppi di persone che vi si recavano a lavorare; non poteva perdere l'occasione di fare un cenno con la mano a qualche personaggio illustre, qualcuno che poteva aiutarlo. «Fred Saunders», disse indicando un tipo allampanato che entrava nel Senato zoppicando leggermente, con una borsa sotto il braccio. Saunders era nella Commissione finanza del Senato, una brava persona, utile da frequentare. Bret agitò la mano in un gesto di saluto, ma non era sicuro che l'altro l'avesse riconosciuto. Un aiutante del ministro della Marina non era granché per un anziano senatore. Sarah, come al solito, non mostrò eccessivo interesse. Forse lo avrebbe manifestato, se Saunders fosse stato un povero senzatetto, pensò Bret. C'era anche un gruppo di dimostranti in jeans e maglietta che si stava radunando sul Mall. Innalzavano uno striscione su cui era scritto in rosso a
grandi lettere: SALVATE MANUEL RAMIREZ! «Chi è Manuel Ramirez?» s'informò Sarah. «È un uomo che si trova nel braccio della morte, in Virginia», rispose Bret. «Ha ucciso un poliziotto che lo aveva arrestato per eccesso di velocità.» Sarah lo guardò storto. Di regola, Bret non seguiva le notizie della Virginia, ma sapeva tutto sulla legislazione in vigore in quello Stato, specialmente nel campo degli omicidi. Un uomo che progretta di liberarsi di sua moglie deve conoscere queste cose. «Io sono contro la pena di morte», osservò Sarah. Magnifico, pensò Bret. Lei non capisce che genere di mostri circolino nel mondo. Qualche volta guidano una Lincoln. 2 Bret svoltò in direzione del museo, fermandosi davanti all'ingresso principale. Già prima che le porte si aprissero, alcuni bambini premevano il naso contro il vetro per avere una fugace visione delle meraviglie all'interno. Attraverso l'immensa vetrata si potevano vedere il primo apparecchio dei fratelli Wright, l'aereo di Lindbergh, lo Spirit of St. Louis, il Bell X-1 di Chuck Yeager e la capsula spaziale di John Glenn. Era un mondo fantastico, l'espressione del potere e della gloria. Ecco, pensava Bret, avrebbe portato lì la futura signora Lewis, dopo un decente periodo di lutto. «Ricordati che saranno a casa nostra alle sette e mezzo», disse Sarah. «Tornerò presto», promise Bret. «Ho detto al ministro che è il nostro anniversario e lui capisce certe cose.» «Ringrazialo per me», soggiunse Sarah. «Sicuro.» Si baciarono. «Ciao, a stasera», ribadì lei. «Sta' attenta», si raccomandò lui. Sarah prese la sua borsa di pelle, scese dall'auto e si avviò verso l'ingresso, scansando un gruppo di turisti sudcoreani che si fotografavano a vicenda. Poi, come sempre, si voltò per l'ultimo saluto e Bret fu sicuro di cogliere uno strano sguardo negli occhi di sua moglie. Non capiva, ma vi lesse un miscuglio di passione, di stupore e di curiosità ansiosa. Sarah sapeva? Sospettava qualcosa? Impossibile. Le donne si preoccupano sempre, specialmente il giorno dell'anniversario del loro matrimonio, concluse Bret.
Hanno paura che i loro mariti possano morire. Sarah entrò nel museo. «Salve, Frank», esclamò rivolgendosi al robusto guardiano in divisa, che aveva fatto parte della polizia militare in aviazione. «Salve, signora Lewis», rispose Frank. «Buon anniversario!» Lei parve sorpresa. «Come lo sa?» Il guardiano strizzò l'occhio, spostando i folti baffi verso la guancia destra. «Lo so. Ho chiesto all'ufficio del personale tutte le date di compleanno e feste simili.» «È molto gentile, Frank. Grazie.» Sarah proseguì, poi si fermò. Sbirciò in direzione di uno fra i più popolari oggetti esposti al museo, un pezzo di roccia lunare riportata sulla terra dall'Apollo nel 1972. Vi si avvicinò e sfregò la roccia. Per un attimo provò un senso di vergogna... un ingegnere, uno scienziato che si lasciava andare alla superstizione come i ragazzi delle scuole che venivano in visita! Ma ogni donna che aveva sognato di diventare un'astronauta e che lavorava in quel museo doveva essere un'inguaribile romantica. Perciò tornò a sfregare la roccia. «Lo spero», mormorò fra sé. «Lo spero tanto.» Bret si allontanò e tornò a tuffarsi nel traffico, fermandosi un momento per lasciar attraversare la strada a un gruppo di anziani turisti diretti al museo. Poi proseguì verso il George Mason Memorial Bridge, che lo avrebbe condotto sul lato del fiume Potomac che si trovava in Virginia e quindi verso il Pentagono. Poi iniziò il rituale. Avanzando lentamente fra le altre auto, inclinò lo specchietto retrovisore in modo da vedere la propria faccia. Poi si assicurò che tutti i finestrini fossero chiusi e strinse i denti, cosicché nessuno nelle vetture vicine e neppure i passanti potessero vedere la sua bocca muoversi. Mise a fuoco nella mente una scena che si svolgeva nel parcheggio di un motel. Quella scena gli sfilava nel cervello da mesi, talvolta gli appariva in sogno, altre volte durante le riunioni con gli ufficiali di marina, ma più spesso quando programmava le azioni e i gesti che lo avrebbero liberato da Sarah. Vedeva se stesso, intontito e confuso, con le mani tremanti per la collera e la frustrazione. Vedeva gente che accorreva, le auto della polizia che si fermavano sgommando. Sentiva i gemiti e le grida, ma soprattutto sentiva il crepitio del fuoco.
E infine, con quelle immagini stampate nella mente, Bret Lewis, il freddo e razionale Bret Lewis, cominciò a smaniare. «È morta! Oh mio Dio, è morta!» Si costrinse a inumidirsi gli occhi, il suo viso si contrasse nell'angoscia. «Gesù! Era diretto a me! Bastardi maledetti! Perché non hanno colpito me?» Ansimava. Serrò ancora di più i denti e con un gemito soggiunse: «Non ne è rimasto più niente! Dio santissimo, non c'è più niente!» Così va bene, pensò. Molto, molto bene. 3 La donna dietro il bancone riconobbe Al Durfee appena entrò dalla porta del negozio. Durfee aveva quarantasette anni, era piccolo e tarchiato, con i capelli neri ricci: una figura difficilmente dimenticabile. Inoltre, era già ben conosciuto al Savannah Photo Labs, un negozio di foto ottica in una vecchia strada della Washington settentrionale, che lavorava per professionisti, dilettanti, tipi particolari che scattavano foto che altri laboratori non erano disposti a sviluppare e persone che avevano bisogno di foto per strani scopi. Al Durfee apparteneva all'ultima categoria. Era un detective privato, con alle spalle una storia di tre nasi fracassati che diceva al mondo come fosse specializzato in affari matrimoniali. E in quel momento si presentava a ritirare le ultime stampe. «Come va, Al?» gli chiese Evelyn Banks. «Da cani. Sono rimasto in piedi tutta notte», borbottò lui. «Certe persone in questa città non conoscono il pudore. Non capisco come un uomo possa cornificare la moglie alle tre del mattino e alzarsi alle otto per tenere un discorso al Congresso.» «Lo fanno per la patria, Al», spiegò Evelyn con un sorriso. Era una graziosa brunetta di trentatré anni, che si era dedicata alla fotografia dopo una breve carriera come modella. «Ho qui tre rullini», disse Al, posando le pellicole sul bancone. «Modello standard?» chiese Evelyn, prendendo un modulo. «Sì, come al solito. Anzi, no: fammi un formato venti per trenta di tutto.» «Così grandi?» «La cliente ha la vista corta, voglio che veda bene la faccia del marito. E
poi ritiro l'altro ordine.» «D'accordo, eccolo. Sono buone, Al. Hai occhio.» «Già, nero, qualche volta.» «Mi è parso di riconoscere la signora, in queste foto», aggiunse Evelyn. «Ma non saprei identificarla.» Al fissò la giovane donna. «Evvie, te l'ho già detto tante volte: non dobbiamo discutere di queste cose. Tu sviluppi le foto, d'accordo? Senza guardarle. O meglio, puoi guardarle per vedere se sono venute bene. Ma devi comportarti come un medico: non puoi parlare dei pazienti con gli estranei.» «D'accordo, d'accordo, Al.» Evelyn gli diede una grande busta scura. «Mettimele in conto», disse lui. Fece scivolare fuori dalla busta le foto lucide che gli aveva appena consegnato Evelyn, le esaminò rapidamente e poi, scuotendo la testa, borbottò: «Queste causeranno un sacco di infelicità». Naturalmente, succedeva sempre così. Al Durfee si guadagnava da vivere con le cattive notizie. 4 Sarah accompagnò due ingegneri della Saab a visitare il museo, fermandosi di tanto in tanto per mostrare loro da vicino gli apparecchi appesi ai cavi nel grande salone. «Questo», annunciò quando si trovarono davanti all'aereo della trasvolata di Lindbergh, «è lo Spirit of St. Louis, che Charles Lindbergh pilotò attraverso l'Atlantico nel 1927.» Fuori si era fermato un pullman carico di ragazzini in visita al museo, che scesero e si raggrupparono nell'ingresso. Lei stava per attaccare a parlare ai due ingegneri svedesi del piccolo apparecchio di Chuck Yeager, il Bell X-1, quando vide un uomo entrare dall'ingresso principale facendosi strada fra gli studenti. L'uomo si avvicinò a Frank, il guardiano, e gli disse qualcosa. Sarah inforcò gli occhiali. Sì, doveva essere lui. Anche se non lo vedeva in volto, riconobbe l'andatura, lo stile. Il cuore prese a batterle forte. Conosceva quell'uomo e sapeva perché fosse venuto. Vide che Frank gli indicava il settore del museo dove si trovava il suo ufficio. Al Durfee, detective privato. Lei lo aveva assunto.
Lo aveva fatto perché era di gran lunga meno innocente e meno remissiva di quanto pensasse Bret. Non si era mai tradita, aveva sempre mantenuto il controllo in presenza di suo marito, ma Sarah Lewis sapeva, era stata la prima a saperlo. Non era sicura di che cosa si trattasse, ma sapeva che qualcosa non andava. E mentre osservava l'investigatore che si faceva strada fra la folla, si chiese se dovesse crederci o se, come tante donne, si sarebbe imposta di negare. «Ora vi affido al dottor McGill», disse con un tono un po' assente ai due ingegneri svedesi. «Vedrete che vi offrirà una conversazione molto interessante.» «Ne sono certo», convenne uno dei due, quasi sollevato di liberarsi da quella donna che sembrava molto distratta. «Il dottore ci ha fatto visita alla Saab due anni fa.» Sarah si affrettò ad affidare gli ospiti a Mark McGill, un giovane collega esperto in missili e voli spaziali. Lui si aspettava di dover concludere il giro del museo, ma non pensava di dover intervenire così presto. Sarah si avviò verso il suo ufficio, nel settore amministrativo, cercando di apparire il più indifferente possibile, pur rendendosi conto che questo ventesimo anniversario di matrimonio poteva trasformarsi in un incubo. Durfee aveva certamente scelto un giorno simbolico per farsi vedere. Forse tutto era nelle mani degli dei e lui seguiva semplicemente le istruzioni. Lo vide che aspettava davanti alla porta del suo ufficio, con una vecchia borsa sdrucita in mano. Il detective non era certo l'essenza dell'eleganza, ma a Sarah non interessava la classe, in quel momento. Lei voleva soltanto informazioni, informazioni che potevano cambiare la sua vita. «Al?» Lui la vide apparire e raddrizzò le spalle. «Oh, salve, signora Lewis. Il suo ufficio era chiuso.» «È venuto senza telefonare.» «Be', ho immaginato di trovarla qui. Sa, con il telefono non si sa mai se qualcuno ascolta. Una volta lavoravo per un ambasciatore europeo e...» «Al, ha qualcosa?» Durfee distolse lo sguardo. «Forse sarebbe meglio andare a sederci nel suo ufficio, signora Lewis.» Sarah rimase immobile per un momento, fissandolo senza parlare. Poteva leggergli in faccia la sua incertezza. Era decisa a mantenere la calma, a non lasciarsi andare, ma non poteva ignorare il profondo turbamento che sentiva dentro. «Preferirei evitare il mio ufficio, se per lei fa lo stesso, mi
sembra un po' troppo rischioso. Andiamo dietro uno degli stand.» «Come vuole, signora. È lei che paga.» Questo Sarah lo sapeva bene. Dal suo libretto di risparmio aveva prelevato milleduecento dollari per pagare i servizi di Durfee. Sapeva che la tariffa sarebbe potuta aumentare, qualora fosse emerso qualcosa e avesse avuto ancora bisogno del detective. Se fosse restata senza soldi, avrebbe dovuto farseli prestare da qualcuno, poiché Bret esaminava con esasperante pignoleria ogni assegno staccato dal conto corrente comune. Era arrivato al punto di tenere una piccola calcolatrice in ogni stanza del loro appartamento! «Bel posto qui», osservò Durfee, guardando i velivoli e i missili appesi al soffitto di ciascun piano. «Non era mai entrato nel museo?» chiese Sarah. «No, mai. Se si ricorda, quando lei mi ha assunto, ci siamo incontrati in un ristorante.» «Sì, è vero», sospirò lei, riandando con il pensiero al momento così imbarazzante in cui aveva parlato per la prima volta con un investigatore privato, sentendosi decisamente in colpa. Si avviarono verso la galleria dei pionieri del volo, la preferita di Sarah. Quand'era al liceo aveva fatto un tema sulla vita di Amelia Earhart e aveva letto tutto quello che aveva potuto trovare sull'aviatrice. In quella galleria poteva toccare il monomotore Lockheed Vega della Earhart. Sedettero dietro una vetrina in cui erano esposte numerose foto. Durfee osservò attentamente Sarah e notò come tenesse dritta la schiena e la testa eretta. Normale, pensò il detective, la prima cosa a cui le donne nella sua posizione davano importanza era come apparire agli estranei, compreso un detective privato. Questione di orgoglio. Poteva essere un elemento positivo, ragionava Durfee, ma poteva anche condurre alla catastrofe. Sarah fece un profondo sospiro. «Immagino che lei abbia qualcosa da raccontarmi», iniziò. «Esatto», rispose Al Durfee. «Alcune persone amano i rapporti scritti, ma io non sono un bravo scrittore e così...» «D'accordo, Al, vada avanti.» Durfee restò in silenzio per un istante. L'esordio non gli piaceva quasi mai. «Signora», attaccò, «credo che i suoi sospetti possano essere fondati.» «Bret ha davvero una relazione?» Non era tanto una domanda, quanto una rassegnata constatazione. «È possibile. Non posso provarlo, ma sembra che in effetti sia così.» Lui
notò che gli occhi della signora s'inumidivano, qualcosa che neppure l'orgoglio riusciva a nascondere. Ma sapeva che quella donna non cercava il divorzio: semplicemente affrontava con fierezza il fallimento del suo matrimonio. «Bene», disse lei. «La prego di rispondere alla domanda con chiarezza.» Durfee infilò la mano nella borsa. «Le dice niente il nome di Alison Carver?» Sarah si drizzò di colpo. «È lei?» «Proprio lei.» «Non è possibile!» protestò Sarah. Era un pensiero ridicolo. «Alison Carver è membro del Congresso, fa parte della Commissione stanziamenti. Mio marito ha a che fare con lei da anni.» «A quanto pare, signora.» «Non intendevo in quel senso. Non mi sembra logico.» «Non lo è mai.» «Certo, vive sola ed è molto attraente, ma è tutta lavoro e basta, e viene da un distretto ultraconservatore della California. Non è il tipo che si lasci coinvolgere in una relazione extraconiugale.» Durfee si strinse nelle spalle e prese nella borsa una busta, da cui tirò fuori una serie di fotografie lucide. Poi, con un movimento che le ricordò le decine di detective visti al cinema o in televisione, dispose le foto davanti a Sarah. «Sono sicuro che riconoscerà la signora», continuò. «E che conosce... intimamente il signore che è con lei.» Sarah esaminò le foto, analizzandole nei minimi particolari. «Dove sono state scattate?» volle sapere con una punta di collera nella voce, quasi a rimproverare il messaggero per il messaggio. Durfee prese una fotografia. Ritraeva Bret e una donna alta e magra con un impermeabile Burberry e una borsa di pelle. Sullo sfondo si notavano alcune colonne. «Questa è stata presa davanti al Campidoglio, verso le undici di sera. I due sono usciti insieme.» «Potrebbero essere stati a una riunione ufficiale», osservò Sarah. «Signora, lei mi ha assunto perché mi ha dichiarato che suo marito molto spesso ritornava a casa tardi, la sera, e perché le sue scuse cominciavano a non reggere. Le chiedo: le ha mai detto di incontrarsi con questa signora?» «No, non l'ha mai nominata.» «Se questi incontri fossero legittimi, non avrebbe esitato a parlargliene, non le pare?»
«Non lo so.» «Suo marito frequenta molte donne: ce ne sono a decine, nel Pentagono. Ne ha mai nominata qualcuna?» «Sì.» «Allora perché non parlare di Alison Carver?» Non riuscendo a trovare una risposta, Sarah tornò a rivolgere la propria attenzione alle foto. Il suo tono di voce divenne difensivo, scettico. «Queste dove sono state scattate?» «Questa in Virginia, non lontano dal confine del distretto. Davanti a...» Sarah esaminò la foto più da vicino. Bret era in compagnia della stessa donna, che in quell'occasione indossava un cappotto di lana. Sullo sfondo c'era un edificio lungo e stretto, con un'insegna al neon. «E un motel?» bisbigliò Sarah. «Il Cheshire Motel.» L'amarezza si diffuse sul volto di Sarah, i suoi grandi occhi solitamente vivaci si appannarono. «Ci siamo andati la settimana in cui ci siamo sposati», sospirò. «Doveva proprio portarla laggiù?» «Non saprei», rispose Durfee. «Non ho pensato di chiederglielo.» «Forse un giorno lo farò io», disse Sarah. «Ecco, c'è un fatto strano, signora Lewis. Li ho pedinati, ma non sono entrati nel motel, se la cosa può farle piacere. Si sono limitati a parcheggiare, sono scesi e hanno ammirato il panorama.» «Perché?» «Non saprei proprio. Forse lei è un'appassionata di architettura.» Sarah fece passare le altre fotografie, poi si fermò bruscamente e il suo viso assunse un'espressione più sollevata. «Senta», proseguì, guardando l'investigatore. «Potrebbe trattarsi di un errore. Voglio dire, non ci sono delle prove concrete.» Durfee conosceva il seguito. Tutte così: niente prove, un equivoco... è solo un'amica, magari con qualche problema di famiglia. «È vero, queste non sono prove, signora Lewis. Voglio dire, potrebbero essere solo amici... che si vedono tutte le sere a mezzanotte.» «Ma non c'è nulla di strano! Forse mio marito gradisce la sua compagnia, oppure lei ha delle difficoltà sul lavoro e lui l'aiuta a risolverle.» «Tutto è possibile», convenne Durfee. «Ma certe cose appaiono evidenti.» «Evidenti per lei, forse», sbottò Sarah. «Io non sono tanto sicura che...» Poi s'interruppe con una risata ironica. «Ma chi voglio prendere in giro?»
domandò, a nessuno in particolare, e poi abbassò la testa di fronte alla realtà schiacciante. Al Durfee capiva benissimo che cosa le passasse per la mente, aveva già visto scene simili. Una moglie ama suo marito e così si lascia sopraffare dall'emozione. «Non ci pensi», tentò di consolarla l'investigatore. «Ha ancora tutta la vita davanti a sé.» Lei gli diede una rapida occhiata, poi abbassò di nuovo lo sguardo e non rispose subito. Sapeva che non avrebbe mai potuto prendere in considerazione l'idea del suicidio, era una donna troppo forte, troppo indipendente; ma capiva anche le donne che ci pensavano, in occasioni del genere. Per lei non c'era soltanto la perdita di un uomo. Il suo era un matrimonio durato vent'anni, l'invidia di tante amiche che non erano state così fortunate. «Devo prendere una decisione, vero?» mormorò alla fine. «Temo di sì», replicò Durfee. «Ma io ho l'impressione che lei vorrebbe salvare il suo matrimonio.» «E così.» «D'accordo. Qualche volta un figlio tiene unite le persone...» «Non ci sono figli», tagliò corto Sarah. «Nemmeno in vista, immagino», concluse Durfee, calcolando l'età di Sarah. «Abbiamo avuto una figlia», spiegò lei, «si chiamava Laurie. L'avevamo voluta con infinito amore. Le avevamo preparato una cameretta meravigliosa, Bret le aveva comprato persino un'enciclopedia. È nata idrocefalica ed è morta il giorno dopo. Io non ho potuto più avere altri bambini.» «Oh, mi spiace», borbottò Durfee. «Se non sono indiscreto... non avete mai pensato di adottarne uno?» «No. Io sono una figlia adottiva, Al. Suppongo che non lo sapesse.» «No, signora, non me l'aveva detto.» «Francamente, non è stato uno scherzo: l'unica adottata in una famiglia con tre bambini. Vede, cercano di addolcirti la pillola dicendoti che sei quella che è stata scelta, ma non funziona mai. A tavola sei sempre l'ospite, quella che i parenti indicano di continuo fra sussurri e bisbigli. Non credo che potrei adottare un bambino, con questi ricordi.» «Già, capisco. Anch'io ho un cugino che è stato adottato. Sì, posso capire.» «D'accordo, ma non è questo il punto. Prima ho bisogno di riflettere.» «Certo. Le serve qualcos'altro da me? Intendo dire una sorveglianza continua?»
«No. Il problema era la notte: di giorno lui è al Pentagono. Lei ha fatto ciò che mi occorreva.» Sarah mise insieme un tremulo sorriso. «Grazie, Al.» «Sempre a sua disposizione, signora. Solo, avrei voluto portarle notizie migliori.» Sarah sospirò. Le sembrava che il mondo le fosse crollato sulle spalle. «In fondo alla mia mente continuo a sperare che non sia vero. Come qualsiasi altra moglie che desidera una bugia.» Durfee si chiese che cosa cercasse realmente. Certo, era una persona amabile e gli era simpatica; ma gli erano state simpatiche tante altre donne che avevano compiuto gesti per cui s'erano conquistate uno spazio nel notiziario serale. 5 «Siamo convinti che si trovino qui, in un piccolo villaggio appena fuori Tripoli, nel Libano settentrionale. E pensiamo che sia possibile tirarli fuori.» «Ammiro il suo entusiasmo», disse Bret Lewis. «Grazie, signore.» Bret lo osservava dalla sua poltrona di pelle all'estremità di un lungo tavolo di quercia, nel suo ufficio, al Pentagono. Il capitano di corvetta Roger Eltron, un ufficiale di colore dalla muscolatura notevole e dall'atteggiamento aggressivo, stava indicando un punto su una mappa del Medio Oriente, illustrando un piano per liberare due cittadini americani prigionieri di un'ignota banda di terroristi. I due uomini facevano parte di un gruppo di medici e paramedici che si erano recati in Libano per prestare soccorso dopo un'epidemia d'influenza. Erano stati rapiti, come molti altri prima di loro, anche se non si occupavano affatto di politica, ma questa volta alcuni contatti nel Paese erano riusciti a comunicare di nascosto alle autorità americane la località del nascondiglio. In virtù di un accordo segreto, avrebbero ricevuto venticinquemila dollari, se le informazioni erano esatte e se gli Stati Uniti fossero riusciti a liberare gli ostaggi. Bret non era entusiasta del piano per il riscatto, poiché gli ricordava il tentativo di barattare armi in cambio di prigionieri durante la presidenza Reagan. Vero che in questo caso si trattava di una semplice ricompensa, ma Bret aveva veri e propri incubi per il fatto di essere stato incaricato della consegna del riscatto. Quasi gli pareva di vedere il titolo sotto il proprio
ritratto: «Ufficiale della marina consegna un assegno a un gruppo di terroristi che abbatte aerei di linea e massacra i civili». Gli americani non amavano i ricatti e quel denaro poteva sempre essere usato per acquistare delle armi. Comunque, quella era la missione di Bret e lui doveva nascondere i suoi pensieri agli uomini che lo circondavano. Al Pentagono non era salutare indagare sulla politica. «Abbiamo foto aeree del villaggio?» chiese. «Sì, signore, materiale scattato da un satellite KH-11.» «Può localizzare l'edificio in cui quelle persone sono trattenute?» «Secondo noi è uno dei tre fabbricati a due piani.» «Sono vicini?» «Nello stesso isolato.» «Vediamo se riusciamo a trovare l'indirizzo esatto. Potremmo effettuare una consegna speciale.» C'erano altre quattro persone al tavolo, due ufficiali di marina e due esperti civili, che avevano fatto carriera nella fiorente industria dell'antiterrorismo. Bret era quasi divertito dai due civili. Gli facevano venire in mente quei contadini che andavano a letto la sera pregando: «Dio, mandami una tempesta o un uragano!» Ragazzi che apparivano quasi eccitati ogni volta che veniva catturato un ostaggio. Aspettavano solo quello per salire alla ribalta internazionale, per apparire su giornali e riviste. Per quanto riguardava i due ufficiali di marina presenti, a lui ne interessava solo uno: il capitano Avery Masters, che era seduto in fondo al tavolo, prematuramente grigio a quarantanove anni, con un'espressione eternamente preoccupata negli occhi. Bret aveva invitato Masters a sedersi e a offrire i suoi consigli, se occorreva, ma aveva un altro motivo per volerlo presente. Aveva un lavoro per lui, qualcosa di più importante, di più personale che dare suggerimenti a una riunione al Pentagono. Era un'ironia della sorte, ricordò Bret, che Masters una volta avesse accompagnato a casa Sarah dopo un ricevimento al Pentagono in onore di un ammiraglio che andava in pensione. Ora le loro vite si sarebbero incrociate di nuovo, ma le circostanze sarebbero state completamente diverse. Per il momento, però, lui doveva concentrarsi sulla crisi degli ostaggi. Bret aveva ricevuto l'incarico di costituire una nuova unità speciale antiterrorismo e, nonostante l'onore, la missione lo preoccupava. Poteva migliorare la sua carriera e ne era consapevole. Anche gli strateghi dietro una scrivania potevano diventare degli eroi, ma bastava un errore e i riflettori
l'avrebbero coperto di una luce negativa. Una svista e i suoi sogni politici sarebbero naufragati. Gli americani vogliono il successo immediato nelle operazioni di antiterrorismo, ma Bret sapeva che le probabilità di successo con i medici fatti prigionieri erano ridotte al trenta per cento, nonostante la sicurezza del capitano Eltron. «Mi pare che lei abbia considerato la possibilità di usare i SEAL della Sesta flotta», osservò Bret, riferendosi ai commando di terra, di mare e d'aria. «Esatto, signore», confermò Eltron. «Abbiamo già tutte le unità sul posto, nel Mediterraneo, come emerge dal fascicolo sulla sua scrivania.» «Sì, l'ho letto. Un rapporto molto accurato e preciso. A suo parere, quanto tempo ci vorrebbe per far scattare l'operazione, se otteniamo il benestare?» «Calcoliamo di poter far sbarcare i SEAL in trenta ore, sempre che le condizioni del tempo siano favorevoli.» «Bene», approvò Bret. «Naturalmente, lei pensa a una operazione notturna.» «Certamente.» Dopo avere posto alcune domande d'obbligo ai presenti, Bret si rivolse di nuovo a Eltron. «Capitano, oggi ho una giornata piuttosto intensa. Perché per il momento non sospendiamo la seduta e ci ritroviamo fra tre ore?» L'ufficiale ripose la mappa con scritto sopra TOP SECRET a grandi lettere rosse e il gruppetto si alzò per congedarsi, ciascuno con l'inevitabile dossier contenente gli appunti presi durante il colloquio. Bret si alzò a sua volta per accompagnarli alla porta. Indossava un elegante abito blu. «Ehm, capitano Masters», esordì, mentre l'ufficiale con quattro strisce dorate sulle spalline della giubba era quasi fuori dalla porta. «Sì, signore?» «Si fermi un momento, per cortesia.» «Naturalmente, signore.» Avery Masters era un ufficiale dei sottomarini che non aveva un passato all'Accademia navale. Si era diplomato in un piccolo college del Texas e si era fatto strada esclusivamente con i suoi mezzi. Aveva partecipato alla riunione sull'antiterrorismo in qualità di esperto per lo sbarco dei sommergibili. Al Pentagono circolava la voce che fosse in qualche guaio, e che ne fosse a conoscenza. Era ingrassato e il suo conto presso un negozio di liquori era salito parecchio. L'espressione ansiosa nei suoi occhi si fece più intensa. Bret intuì che era più malmesso di quanto fosse lecito a un ufficia-
le di marina, ma proprio per questo era l'ideale. «Devo chiudere la porta?» chiese Masters. «Sì, per favore.» Masters chiuse la porta e rientrò nell'ufficio. Dai gesti di Bret, capiva che stava per essere messo in discussione un argomento serio, poiché Lewis si tolse gli occhiali, vi alitò sopra e poi li pulì con il lembo della giacca, un gesto nervoso che accompagnava immancabilmente le questioni importanti. Masters si guardò intorno, mentre Bret si rimetteva gli occhiali e l'osservava con attenzione. «Non mi pare che lei sia mai venuto qui da solo, capitano.» «Una volta, per un momento», rispose Masters. «Mi sembra un po' imbarazzato.» Era una constatazione. Bret Lewis occupava uno dei più spettacolari uffici del Pentagono, una testimonianza dei suoi molteplici interessi. La stanza in sé era abbastanza comune, con le pareti marrone chiaro e un tappeto blu scuro. La scrivania di tek aveva qualche macchia di caffè, graffiature e segni che testimoniavano l'avvicendamento di quattro amministrazioni. Ma erano gli oggetti che facevano la differenza, che facevano di quell'ufficio l'argomento di vari articoli sul Washington Times e destavano l'invidia fra coloro che, al Pentagono, potevano vantare solo qualche modellino di nave o una bandiera. Bret si avvicinò al capitano Masters, che stava osservando una vetrina con il ripiano di vetro. «Quelle sono bacchette, capitano», fece con un sorriso. «Per le bande militari?» «No», gli rispose Bret con un tono leggermente sprezzante. «Sono le bacchette di famosi direttori d'orchestra di musica sinfonica. Ciascuna è lavorata a mano, naturalmente.» «Io credevo che una bacchetta fosse soltanto un bastoncino», confessò Masters. «E pensavo che si acquistassero nei grandi magazzini.» «Quasi tutti lo credono. Si trovano in qualsiasi negozio di articoli musicali, ma un vero conoscitore si fa fare a mano la sua bacchetta. Ci sono abili artigiani per cose di questo genere. Ogni direttore esige una presa e un equilibrio diversi e alcuni maestri desiderano persino un colore speciale. Guardi quella bianca, la seconda a sinistra: è stata scelta da un direttore della Scala, perché i cantanti sul palcoscenico potessero vederla. E quella, con l'impugnatura con la forma di una testa di bambino, era usata da Leo-
nard Bernstein.» «È un po' come per chi desidera un calcio speciale per la sua pistola», commentò il capitano Masters. Notò che Bret faceva una smorfia. «Lei suona qualche strumento?» «No», rispose Bret, piuttosto brusco. La domanda gli ricordava il periodo della sua infanzia, quanto sognava di diventare un grande concertista. Aveva il potenziale per esserlo, già si vedeva davanti alle platee d'Europa e magari della Russia. Ma un giorno suo padre aveva licenziato il maestro di pianoforte e gli aveva detto senza mezzi termini che un pianista non aveva futuro. Masters capì che la sua domanda sul talento musicale non era stata gradita dal suo interlocutore e passò a un'altra vetrina, dove erano esposti alcuni modellini di aerei. Bret gli indicò una sedia. «Vogliamo sederci?» lo invitò con voce nuovamente seria, per qualche ragione che Masters non riusciva a immaginare. Bret si accomodò dietro la scrivania, nella poltrona che aveva oliato personalmente e che non produceva il minimo scricchiolio. «Si tratta della missione?» chiese Masters, sedendosi. «No», rispose Bret. «Non so nemmeno se ci sarà una missione. Al momento ne dubito.» «Credo che potremmo portarla a compimento», continuò Masters. «Ho accuratamente studiato lo spiegamento delle forze in...» «Capitano Masters», lo interruppe Bret. «Sono sicuro che lei è al corrente dell'inchiesta Kearns.» Masters s'irrigidì. Ecco che veniva fuori. Cominciò a muoversi a disagio sulla sedia. «Sì, ne sono al corrente.» «Che cosa sa in proposito?» «Si tratta di certi siluri.» «Soltanto siluri, capitano?» La faccia di Masters era rigida per la tensione. «Siluri difettosi.» «Esatto», confermò Bret, notando l'espressione che era immediatamente apparsa sul volto dell'altro. Tutto funzionava alla perfezione, Masters reagiva esattamente come aveva previsto. «Signor sottosegretario, dove vuole arrivare?» domandò Masters, intuendo che non sarebbe stata una giornata facile. «Lei... ehm... era coinvolto nell'acquisto di quei siluri, dico bene?» «Lei ha il rapporto, signore. C'è tutto, nel rapporto.» «Infatti, e lei si è lasciato coinvolgere. Ha accettato regali dal contraente
e da due subappaltatori; è andato anche a caccia con loro, ha partecipato a pranzi, ha ricevuto biglietti di teatro e ha comprato molte, molte bottiglie. Con la loro carta di credito.» Bret tacque, per osservare l'effetto delle sue parole. «Ci sono inoltre le prove che lei ha partecipato... se così si può dire con un eufemismo... all'operazione di miglioramento dei risultati del test sul prototipo...» Era una questione estremamente delicata, lì al ministero della Difesa. Negli anni Ottanta c'erano state alcune voci, qualche volta anche affermazioni dirette, secondo le quali i test di alcune nuove armi erano stati manomessi per ottenere un contratto di fornitura. «Sono accuse false», protestò Masters. «Può anche darsi che abbia sbagliato nell'accettare qualche cortesia, ma è tutto.» «È quanto dichiara?» «Sì, signore.» «Sa bene che le sue dichiarazioni saranno discusse.» «Sì, signore, lo so, ma vorrei farlo in presenza di un avvocato.» «Capisco. Queste, però, non sono accuse formali, capitano. Mi auguro, anzi, che non lo diventino mai.» «Scusi, signore?» Masters trovava strana la cosa. Prima un tono decisamente accusatore e poi, all'improvviso, un'apparente benevolenza. Questo era esattamente quanto sperava Bret... confonderlo, spingerlo a collaborare. «Le illustro brevemente la questione», riprese Bret, poi gettò un'occhiata al calendario, su cui aveva annotato a matita il giorno del suo ventesimo anniversario di matrimonio. Per poco non sorrise. «Il rapporto è preliminare, le prove contro di lei, seppure notevoli, sono, a mio avviso, largamente indiziarie.» «Direi proprio di sì, signore.» «Ma lo saranno anche per la corte marziale?» Avery Masters arrossì. «Che cosa vuol dire? Un minuto fa ha detto che sperava...» «Stia calmo, capitano. Non abbiamo ancora deciso di gettarla a mare. Ma non sarebbe poi tanto difficile, sa?» Masters non parlò. «Io posso accettare questo rapporto oppure respingerlo», riprese Bret. «Posso mettere in dubbio le sue conclusioni e posso esigere informazioni supplementari. In realtà, capitano, posso fare quello che mi pare di questo fascicolo, compreso distruggerlo. Oppure mandarlo all'ufficio legale.»
«Questo sarebbe ingiusto, signore.» «Lasci giudicare a me. È ovvio che a lei piacerebbe diventare ammiraglio, comandante di flotta, un giorno. Ha una buona carriera alle spalle, un ottimo stato di servizio in Vietnam, diverse onoreficenze. Suo padre era un ufficiale dell'esercito, suo fratello è giudice federale...» Masters sospirò profondamente, pur cercando di conservare il suo atteggiamento militaresco. «Sarebbe un disonore.» «Però si può evitare. La maniera c'è, capitano. Semplice ma efficace.» Bret capì che ormai il suo interlocutore era pronto a mordere l'esca. Quell'uomo era nei guai e il suo destino giaceva letteralmente nelle sue mani. Solo Bret poteva risparmiare la vergogna alla sua famiglia, ai suoi tre figli. Masters era un individuo orgoglioso, ma anche un uomo pratico. «Va bene, che cosa dovrei fare?» chiese alla fine. «Mi serve un favore», gli rispose Bret. «Devo continuare?» «La prego.» «Sappiamo entrambi che lei ha libero accesso a certo... materiale... grazie al suo lavoro per l'antiterrorismo. Ho qui un breve elenco.» A quel punto, Bret prese dal taschino del panciotto una busta di plastica trasparente, che conteneva un foglietto ripiegato. Consegnò il foglio a Masters. Il capitano inforcò gli occhiali ed esaminò la lista, senza mutare espressione. «Esplosivo, tipo Semtex», lesse. «Detonatore a distanza, come specificato. Etichette false per impedire che il congegno sia rintracciato.» Il capitano sollevò lo sguardo. «Immagino che le serva per un'operazione.» Bret lo fissò, impassibile. «Capitano, non occorre che lei lo sappia.» «Mi scusi.» «Mi dica, può procurarsi questo materiale?» «Con facilità.» «Quando?» «Quasi immediatamente.» «Senza farsi notare?» «Assolutamente.» «Può consegnarmelo qui?» «Sì.» «C'è pericolo che qualche metal detector lo segnali?» «No, conosco il sistema per aggirare i detector.» «L'operazione presenta altri problemi che non ho tenuto presente?» «Nessuno, mi pare.»
«Molto bene. Ero sicuro di poter contare su di lei, capitano Masters», concluse Bret, soddisfatto. «Lei è il tipo di ufficiale che raccomanderei per un grado superiore.» «Grazie, signore.» Finalmente Bret sorrise. «È ovvio che di questa faccenda non dovrà parlare con nessuno. Deve rimanere esclusivamente fra noi. Una mossa falsa e il rapporto Kearns diventa una patata bollente.» Anche allora Masters non fece commenti. Aveva sempre giudicato Lewis un tipo furbo e in grado di ingannare chiunque, perciò si chiese che accidenti fosse quell'elenco. Forse qualche funzionario del Pentagono stava organizzando un'operazione illegale, magari su richiesta della Casa Bianca. Niente di strano, considerando la questione dell'Iran e le numerose attività segrete degli anni Settanta e Ottanta. Ma perché Bret Lewis gli aveva consegnato personalmente la lista? Avrebbe potuto passarla a un funzionario di grado inferiore, che l'avrebbe consegnata a un militare. Masters non avrebbe mai immaginato che Lewis stava progettando un omicidio, e che quella conversazione nelle alte sfere del Pentagono si riferiva in realtà a un matrimonio che stava per concludersi con un atto estremo. Dal canto suo, Bret riponeva una grande fiducia nel capitano Avery Masters. Conosceva l'uomo e la sua reputazione: non era troppo curioso e non si poneva domande profonde. Lui voleva le stellette sulle spalline ed evitare a qualsiasi costo il danno che poteva derivargli dal rapporto Kearns. Sapeva anche, perché figurava nel dossier del capitano, che una volta aveva ucciso un uomo durante una missione segreta in Grecia. In seguito era saltato fuori che la vittima, indicata dagli agenti americani come spia sovietica, era completamente innocente e, quando Masters aveva saputo dell'errore, non era sembrato eccessivamente turbato. Lui aveva svolto il suo lavoro e ne aveva ricavato un vantaggio per la sua carriera. Insomma, era un uomo con cui a Bret Lewis sarebbe piaciuto fare affari. «Qualche domanda?» chiese Bret. «No, credo di sapere che cosa vuole», rispose Masters. «Bene, allora abbiamo concluso, capitano. Ah, sì, c'è un'altra cosa. Lei avrà notato che la lista è dattiloscritta. Ho usato la macchina da scrivere di un altro ufficio del governo. Avrà notato anche che il foglietto era in una busta di plastica, cosicché dalla carta non esiste modo di risalire a me.» Tacque perché l'altro assimilasse il concetto. «Mi premeva farle notare la mia meticolosità.»
«Ne sono consapevole, signore. La ringrazio.» Il capitano Avery Masters si alzò e se ne andò senza aggiungere una parola. Bret era soddisfatto. Aveva concluso il suo discorso con una nota di intimidazione, esattamente come doveva fare un uomo calcolatore. La prima fase del suo piano per liberarsi di Sarah era scattata. Naturalmente, il piano svolto avrebbe avuto successo, grazie alla cortese collaborazione della marina degli Stati Uniti. 6 Sarah era ancora scioccata per le foto che le aveva mostrato Al Durfee e mentalmente rivedeva una sola persona: Alison Carver. Il nome seguitava a frullarle per la testa. Alison Carver. E in quel momento, mentre sedeva nel suo ufficio con la porta chiusa, sentiva l'impulso irrefrenabile di correre alla Camera dei Deputati e affrontare la Carver, per dirle in faccia che sapeva tutto, di fronte ai suoi onorevoli colleghi. Ma poi soffocò l'impulso, non era ancora pronta per una scena del genere. E di nuovo le si affacciò alla mente una tenue speranza: forse Durfee si era sbagliato. Sulla scrivania c'era un pacco di foto che Sarah si era fatta mandare dall'ufficio Pubbliche relazioni del museo e cominciò a scorrerle. Erano state scattate durante alcune celebrazioni che il museo aveva tenuto in onore dei VIP di Washington, compresi i membri del Congresso. Alison Carver era stata una visitatrice regolare, ricordava Sarah. Forse figurava anche in quelle foto, magari in compagnia di Bret. Eccola, infatti, in un'immagine, mentre sorrideva ad alcuni funzionari del museo, e in un'altra in compagnia di Sarah. Incredibile. Lei non se ne ricordava neppure. C'erano altre foto della Carver, ma in nessuna appariva con Bret. Ma che importanza aveva? Forse non volevano sbandierare la loro relazione. Alla fine Sarah mise via le foto. Sapeva che stava per rimandare una decisione fatale che temeva di prendere. No, non avrebbe lasciato Bret semplicemente in base al rapporto di un investigatore, lei voleva salvare il loro matrimonio. E non si sentiva di affrontare suo marito, ben sapendo che lui poteva avere una reazione negativa. Al momento non le veniva in mente nessuna soluzione. Il nome di Alison Carver le bruciava nel cervello, stava diventando u-
n'ossessione. Doveva decidere. E in fretta. 7 Il cavaliere in sella al cavallo bianco vide le due figure, a un centinaio di metri circa: un uomo e una donna che parlavano con aria seria. Li studiò per alcuni minuti. L'uomo agitava tutte due le mani, cercava di convincere la donna, evidentemente. I loro corpi erano vicinissimi. I gesti della donna erano meccanici, come se lei fosse molto nervosa, ma lo guardava sempre in faccia. Una donna di classe, il tipo che sa affrontare le situazioni. Grazie al suo lavoro, il cavaliere era un esperto nell'interpretare i movimenti del corpo. Ne aveva già visti molti altri; capitava spesso lì. Le coppie venivano lì di frequente, qualcuna in crisi, qualcuna innamorata, ma sempre perché quel luogo sembrava offrire una specie di approvazione divina. Il cavaliere girò la testa e guardò in avanti. D'altra parte, il suo compito non era quello di osservare le coppiette, lui indossava la divisa del Terzo fanteria dell'esercito degli Stati Uniti, la Vecchia Guardia. Cavalcava uno dei sei cavalli bianchi che trainavano il carro funebre su una collina dell'Arlington National Cemetery. Stavano per seppellire un generale in pensione con gli onori militari. Tre cavalieri montavano i cavalli bianchi sulla sinistra del feretro, mentre quelli a destra procedevano senza sella e senza cavalieri. Davanti al carro, marciava una banda militare, seguita da alcuni soldati, poi le bandiere e un altro gruppo di soldati. I turisti se ne stavano fermi, mentre il corteo funebre passava sulla stretta strada in mezzo a una selva di tombe, e qualche spettatore scattò alcune foto. Comprensibile. Arlington era un luogo leggendario. La coppia che il cavaliere aveva visto sembrava del tutto indifferente al rito finale della sepoltura. Quei due avevano solo occhi l'uno per l'altra. Si erano visti molte volte prima d'allora, ma quella era la prima volta ad Arlington. Bret Lewis riteneva che lui e Ramy Jordan potessero passare inosservati in un cimitero più che in qualsiasi altro luogo e così aveva scelto una panchina proprio di fianco alla tomba di Dashiell Hammett, lo scrittore di libri gialli. Un luogo ideale per progettare un omicidio. A un osservatore occasionale, Ramy e Bret potevano sembrare marito e moglie. Anche Ramy aveva quarantun anni e tutto di lei parlava di stile e di classe. I capelli rossi, lunghi sino alle spalle, acconciati dal miglior par-
rucchiere della città, erano raccolti da un fermaglio d'oro; l'abito estivo, dal taglio molto semplice, verde pastello, era chiaramente un modello esclusivo; la collana di perle di Tiffany e gli occhiali da sole, che Ramy teneva in mano, erano eleganti come l'abito. Non era certo una casalinga di Washington uscita per la scappatella di un pomeriggio. Era una donna che raramente si portava dietro le carte di credito, perché non ne aveva alcun bisogno. Bastava il suo nome. «Non capita tutti i giorni che io acconsenta ad uccidere mio marito», stava dicendo Ramy, abbassando gli occhi verdi. «Dio, non riesco a credere alle mie parole!» «Non capita tutti i giorni che io acconsenta a uccidere mia moglie», replicò Bret. «E io credo alle mie parole!» Lei alzò i suoi grandi occhi verdi e lo osservò attentamente. Aveva avuto altre relazioni, ma ogni volta era stata lei a troncare. Quegli uomini, o cosiddetti uomini, senatori, avvocati, diplomatici... erano tutti così inetti, così boriosi! Questo, invece, era per sempre. Bret Lewis poteva salvarla da Shel Jordan, che racchiudeva benessere, ottusità e insensibilità in un unico involucro sorridente. Nei momenti di fantasia, Ramy sperava di scivolare via con Bret in un tramonto infuocato, senza lasciarsi alle spalle scandali e ansie, ma nei momenti più realistici, sapeva che bisognava giungere a questo. Prima o poi, tutte le relazioni amorose giungono a un bivio. «Io ho sempre sperato in un semplice divorzio», disse dopo un momento. «È lo stesso principio», ribatté Bret. «Solo che evitiamo le pratiche legali.» Rimasero silenziosi per alcuni minuti, guardandosi negli occhi, mentre i battiti dei loro cuori facevano da contrappunto ai tamburi del corteo funebre a pochi metri di distanza. «Sarai capace di vivere da solo, Bret?» «Senza problemi. Sai com'è Sarah; è un pezzo da museo senza ambizioni. L'ho cresciuta io. In realtà, ci pensavo proprio l'altra notte: un sacco di uomini si lamentano che la propria moglie non è la donna che hanno sposato. Io ho un problema al contrario. Mia moglie è sempre la stessa donna che ho sposato. Da vent'anni è sempre la stessa...» Tacque per un attimo, prima di chiederle: «E tu sapresti vivere da sola, Ramy?» Lei sospirò profondamente. «Sì, certo, se tu desideri che sia così.» «Sei fantastica», esclamò Bret. «Non te ne pentirai.» Quante risate si sarebbe fatto l'avvocato Woody Evans! Avrebbe raccon-
tato in giro la storia del sottosegretario e della signora dell'alta società. «Lui voleva uccidere sua moglie. Faceva parte del piano per proseguire la sua carriera politica e desiderava la moglie giusta che lo aiutasse. Aveva persino ricattato un capitano della marina per ottenere ciò che gli occorreva. Sino a quel punto era stato facile, ma sua moglie sapeva che stava succedendo qualcosa: le mogli lo sanno sempre. Perciò aveva assunto un occhio di lince e lui le aveva portato le foto della donna. Terribile. Il guaio era che la donna era una delle due. Già, perché ce n'era una di giorno e una di notte e ognuna recitava una parte differente nella vita di quell'uomo.» E poi, appena divulgata la notizia ai ricevimenti, Evans avrebbe gioito a raccontare la sua storia in un tribunale, in toga, una mano in tasca, camminando lentamente avanti e indietro. «Signore e signori della giuria», avrebbe detto, per poi interrompersi subito. Avrebbe fissato Bret Lewis con lo sguardo sdegnato di un predicatore di campagna. «Quest'uomo», avrebbe tuonato, «il sottosegretario della più potente marina del mondo, è un topo di fogna!» «Eppure vorrei che ci fosse qualche altro modo», rispose Ramy. «Non c'è, te l'ho già spiegato», insistette Bret. «I divorzi sono un disastro, specialmente in questa città, la stampa ti è subito addosso. Continuerebbero all'infinito. Quell'imbecille di tuo marito assumerebbe i migliori avvocati e ti trascinerebbe all'inferno. Non voglio che ti tratti a quel modo, assolutamente.» Bret era sorpreso della propria forza di persuasione. Aveva convinto una donna che non aveva mai tenuto in mano lo scontrino di un parcheggio ad assassinare suo marito e l'aveva convinta che con l'omicidio avrebbe ereditato un patrimonio favoloso, meno le tariffe legali e un lascito per beneficenza. Mica male. «Sei sicuro che non ci scopriranno, Bret?» «Come potrebbe succedere? Al Pentagono organizzo piani ben più complessi. Questo è facilissimo e il materiale me lo sono procurato da qualcun altro.» «Dunque, qualcuno sa?» «È un tipo sicuro, lo tengo in pugno.» «Che cosa vuoi dire?» «Che, se parla, gli rovino la vita. Credimi, l'uomo cerca solo benessere e felicità.» Sentirono il rumore degli zoccoli dei cavalli, mentre il corteo funebre si avvicinava. Un turista con una cinepresa passò di corsa davanti a loro, cercando di mettersi in buona posizione per inquadrare il feretro.
«E che cosa succede se commettiamo una svista?» gli domandò Ramy. «Dio mio, sto già parlando come un criminale!» «In questa città sei un'onorata cittadina. Non ci saranno sviste, non ci sarà niente che sia collegato a noi.» «Non abbiamo discusso il metodo.» «Un'esplosione.» «Una sola?» «Sì, certo.» «Vuoi dire... Shel e Sarah insieme...» «Sì», confermò Bret. «È più pulito. Dovremo farli salire sulla stessa auto, ma non sarà difficile. La mia auto.» «Perché la tua?» «Perché, quando salterà in aria, tutti penseranno che il bersaglio dovevo essere io. Sembrerà il gesto di un terrorista per colpire un funzionario americano.» Ramy osservò il corteo funebre, che si era fermato. Si udiva soltanto lo scalpiccio intorno ai cavalli e i passi dei soldati. Gli uomini della Vecchia Guardia cominciarono a rimuovere la bara dal carro. Ramy guardò altrove. Lei e Bret erano gli unici che non tenevano gli occhi puntati sulla cerimonia. La sua mente, che era in grado di affrontare i più difficili problemi sociali, stava diventando confusa e incerta. Io sono una donna adulta, ho quarantun anni, si disse, una donna importante, che conosce tutto il jet set di Washington e chiama illustri personaggi per nome. E me ne sto seduta in un cimitero a progettare di uccidere mio marito e la moglie di un altro uomo. Ho una paura matta, eppure sono ansiosa di farlo, perché la mia vita deve cambiare e questo è l'uomo capace di cambiarla. Bret la osservava con grande attenzione. L'espressione di lei tradiva confusione ed eccitazione insieme. Capì di averla in pugno: Ramy avrebbe fatto tutto ciò che le diceva. Non le aveva mai visto quello sguardo, lo stesso che aveva letto sui visi dei soldati che si imbarcavano per un raid antiterroristico. I loro occhi dicevano la stessa cosa: «Perché lo faccio? Non lo so, ma in ogni caso non vedo l'ora di andare». «Quando lo facciamo?» chiese Ramy. «Fra nove giorni.» Lei sospirò, poi scosse leggermente la testa, come se fosse sorpresa di se stessa. «Che ti prende?» volle sapere Bret.
«Quando hai detto nove giorni, mentalmente ho riesaminato il mio programma sociale e mondano. Non è da idioti?» «No, mi sembra che sia normale. Naturalmente, se succede qualcosa... voglio dire, se tu e Shel dovete andare a qualche cerimonia importante, il nostro piccolo affare slitterà di qualche giorno.» Ramy non riusciva a credere che lui potesse rimanere così calmo e freddo. Far slittare un omicidio per una festa danzante? «No», ribatté decisa. «Va bene così.» «Dovremo farci vedere in pubblico, dopo, addolorati e insieme», le ricordò Bret. «Anzi, dovremo esercitarci. Sai, davanti alla mia videocamera.» «Non costringermi a fare una cosa del genere», protestò Ramy. «Sono orribile in televisione.» «Va bene, allora ci eserciteremo in qualche altro modo. La stampa sarà tutta dalla nostra parte, due intimi amici che perdono i rispettivi coniugi in un attentato terroristico contro gli Stati Uniti.» La bara del generale fu portata lentamente sino alla fossa, dove aspettava la vedova. Era troppo giovane per essere una vedova, non dimostrava più di cinquant'anni. Era tutta vestita di nero e tratteneva a stento le lacrime. «Un attentato terroristico contro gli Stati Uniti», ripeté Bret. Come suonava bene! Mentre lo ripeteva, sei uomini della Vecchia Guardia in guanti bianchi issarono la bandiera americana sopra la cassa. Ramy, ora, osservava la cerimonia, concentrando tutta la sua attenzione sulla vedova. «Quella sarò io fra meno di due settimane», disse. «E tutte le persone che odiavano mio marito saranno presenti. Parleranno sottovoce del testamento, calcoleranno a quanto ammonti il capitale. Parleranno di cifre intorno alla sua tomba. Lo so, perché anch'io ho fatto i conti.» In lontananza potevano sentire vagamente le parole di un cappellano militare, e poi la banda cominciò a suonare Onward Christian Soldiers. «Presto tutto sarà finito», soggiunse Bret. «Non soffrirai più.» L'aria odorava di cordite per gli spari a salve. La vedova tremava a ogni scarica. Finalmente il caposquadra ammainò la bandiera e la banda attaccò America the Beautiful. La bandiera ripiegata fu consegnata alla vedova da un ufficiale. Ramy si asciugò gli occhi. «Ah, ancora una cosa...» mormorò, come se chiedesse una concessione.
«Che cosa?» volle sapere Bret. «Desidero continuare il mio lavoro di volontaria.» 8 Phil e Francesca Black erano i direttori, i redattori e gli editori di Flash, un settimanale scandalistico popolare che certo nessuno poteva confondere con il New York Times. «Il Presidente incontra il vampiro» era stata la storia che aveva assicurato a Flash un posto di primo piano. La Casa Bianca non si era neppure degnata di smentire: del resto, Flash non aveva mai pubblicato le foto di quell'incontro, come aveva promesso ai suoi lettori. «Sono state requisite dalla CIA», era stata la spiegazione e Phil Black aveva chiesto un'indagine. Phil Black era cresciuto a Brooklyn ed era stato espulso dalla scuola superiore; Francesca, invece, era nata e cresciuta a Los Angeles ed era stata espulsa dal college. Entrambi, però, affermavano di essere australiani, pensando così di avere un tocco di classe in più, un maggior lustro sulla scena internazionale. Noleggiavano videocassette di Crocodile Dundee e leggevano libri in dialetto australiano, per migliorare l'accento. Flash veniva stampato in una casa affittata a tre isolati dal Campidoglio. Per tutto il giorno funzionavano telefoni automatici che si rivolgevano ai potenziali abbonati con un messaggio che iniziava così: «Per favore, non riappendete, altrimenti non saprete nulla del membro del Congresso che prende istruzioni da Jack lo Squartatore... per iscritto». Le pareti erano tappezzate di articoli della rivista incorniciati, che si riferivano a noti ambienti altolocati del governo. SENATORE COLLEZIONA TESTE UMANE; VISTO IL FANTASMA DI JOHN WAYNE ALLA CASA BIANCA; I NASTRI PORNO DI REAGAN. Ma c'era una particolarità di Flash, che lo rendeva unico nel suo genere: la cosiddetta «pagina cinque». Ben curata e documentata, metteva sempre alla berlina qualche personaggio pubblico; aveva rovinato funzionari del governo, ambasciatori e anche un senatore. La «pagina cinque» era davvero temibile e Phil Black l'adorava. Phil era sulla cinquantina e anche in ufficio indossava un completo nero a tre pezzi, con una camicia di seta nera e una cravatta pure nera. Francesca, il cui vero nome era Mildred, straripava dalla sua sedia e il suo alito sapeva immancabilmente di alcol. Aveva ventisei anni, ma il suo viso ne dimostrava quaranta.
Suonò il campanello della porta blindata e Phil voltò gli occhi arrossati verso il monitor in bianco e nero che mostrava chi c'era all'esterno. Sebbene Flash non avesse mai rivelato il suo indirizzo e sulla porta non ci fosse nessun cartello o targa che indicasse che cosa si pubblicasse all'interno, Phil temeva sempre qualche incursione nei suoi schedari. Questa volta, però, conosceva il visitatore e premette il tasto del citofono. «Vieni, Al», disse, cercando di sottolineare il più possibile l'accento australiano. «Ti apro.» La porta si sbloccò con uno scatto. Al Durfee entrò e la porta si richiuse automaticamente alle sue spalle. Il detective salì lentamente la scala di legno, reggendo l'immancabile borsa e bussò alla porta dell'ufficio principale. Phil Black andò ad aprire. «...'giorno, Al», salutò, facendolo entrare. «Hai il fiato corto?» Aveva letto in un libro che l'espressione, in australiano, significava: «Sei venuto a piedi?» «Ho preso un taxi», rispose Durfee che ansimava leggermente per avere fatto le scale. «Torni da una missione?» «Sì.» «Sembri distrutto.» Durfee gli scoccò un'occhiata strana. «Phil», l'apostrofò, «sono stanco morto: sono rimasto alzato tutta la notte. E poi piantala con quell'accento australiano, io sono un detective privato e so benissimo che vieni da Brooklyn. Sai bene che lo so.» «Devo esercitarmi», spiegò Black. «È come un corso di spagnolo, capisci?» «Va bene, ma ora piantala.» Black e Durfee si capivano. Avevano già lavorato insieme molte volte: i Black assumevano Durfee per svolgere missioni di spionaggio e controlli di documenti. Il lavoro di Durfee finiva immancabilmente sulla pagina cinque e la sua precisione era leggendaria. Una volta aveva passato intere settimane a ricostruire una serata in un ristorante, che si era svolta due anni prima, per provare che un funzionario del governo si trovava nel locale con una donna che era risultata essere una spia sovietica. Se la storia fosse apparsa su un vero giornale, avrebbe vinto il premio Pulitzer. «A che cosa dobbiamo l'onore?» attaccò Phil. «Immagino che non sarai venuto per mostrarci saggi d'arte.» «Io? Figurati, ho l'allergia per l'arte!» «Hai qualcosa di buono?»
«Per che altro sarei venuto? Ciao, Francesca.» La donna, che era impegnata a scrivere un articolo, con la faccia che rifletteva lo schermo verde del computer, si limitò ad agitare un braccio grassoccio. «Bene, lasciamo perdere le cortesie sulla salute», suggerì Phil. «Stammi a sentire, Al, è una giornata faticosa. Tre travestiti di destra, roba che scotta. Perciò veniamo subito al punto.» Senza dire una parola, Al prese una busta dalla borsa, tirò fuori alcune fotografie e le sparpagliò su un tavolo di fronte a Black. Phil le studiò con occhio interessato. A Durfee piaceva il suo modo di osservare, poteva significare denaro contante. Cinquemila dollari? Come minimo. Forse addirittura settemilacinquecento. Black alzò gli occhi dalle foto. «E allora?» Durfee aveva frainteso lo sguardo. Forse duemilacinquecento dollari. «Che significa 'allora'?» «Che cosa c'è di speciale?» borbottò Black. «È un tale che passeggia con la sua bambola.» «Non la riconosci?» «No.» «Alison Carver.» «Una puttana?» «Un membro del Congresso.» «E chi se ne sbatte?» «Del partito Conservatore della California, molto vicina a gruppi ecclesiastici. Ha una relazione con quel tizio, Bret Lewis.» «E chi è?» «Il sottosegretario alla Marina.» Phil Black lo fissò con sublime incredulità. «Il sottosegretario alle navi? Al, tu mi sorprendi! Vedi, questo non è il Washington Post. Ai nostri lettori non interessano i sottosegretari.» «Molto presto tutti sapranno chi è Bret Lewis», ribatté Durfee. «Sta aspirando a cose molto più... e con l'appoggio di Tim Curran.» «Ah», fu il commento di Phil. «Sicuro, 'ah'. Potrebbe andare lontano, al governo, al Senato, magari anche più su. Queste foto non sono per adesso, Phil, rappresentano un investimento. Ti ricordi di Gary Hart con quella modella sulla barca?» «Già, già.»
«Te le posso vendere alle solite condizioni, più un extra se usi le foto dopo che lui avrà raggiunto una posizione più in vista. Sono ragionevole, ti pare? Aspetta ancora un po' e mi arrabbio.» Phil sorrise. Era la solita storia, Durfee recitava sempre la parte dello sbruffone, ma aveva bisogno di denaro contante. Quelle foto significavano per lui un pasto e la lavanderia. «Dove le hai prese?» volle sapere. «Sua moglie mi ha assunto.» «Dovresti vergognarti. Usi delle foto per cui sei già stato pagato», rise Black. Al lo imitò. Già in altre occasioni, Durfee aveva venduto delle fotografie pagate dai clienti. A certe condizioni, però: il suo nome non appariva mai e le foto erano extra, non erano mai state viste dai clienti. Qualora fossero state stampate e qualcuno di loro fosse diventato sospettoso, Durfee sarebbe stato pronto a giurare che erano state scattate dai fotografi di Flash e che la rivista aveva divulgato la storia di sua iniziativa. «Parlami della pollastrella», suggerì Phil. «Dici che è un crociato di Dio?» «Che cosa?» «Oh, scusami, Al. Così si chiamano in Australia i credenti.» «Sì, lo è», rispose Durfee. «Ma è una bugiarda. Circola voce che si presenterà alle elezioni per il governatore e, in questo caso, le foto faranno notizia. Rubare il marito di un'altra non è scritto nelle Sacre scritture.» «Cielo, no», convenne Phil Black. «E quindi abbiamo un giovane ambizioso e una giovane peccatrice.» «Pensa a quanto varranno queste foto in futuro», insistette Al. «L'America deve investire.» «Sono d'accordo», ammise Phil. «Va bene, facciamo cinquecento dollari.» «Cinquecento? Phil, io non sono un missionario!» «Seicento, proprio perché sei tu.» «Phil! Non stai comprando delle semplici fotografie, stai comprando il mio fiuto. Queste sono persone da tenere d'occhio.» «E va bene, mille dollari. Vorrà dire che farò un'ipoteca sulla mia Mercedes.» In realtà, Phil Black comprava le foto semplicemente per rendere felice Durfee. Non voleva perdere un collaboratore prezioso come l'investigatore, che sapeva sempre tutto ciò che avveniva a Washington. «Non te ne pentirai, Phil», decretò Durfee.
«Probabilmente sì. Dimmi una cosa, Al, ora che hai i soldi, sii sincero: perché ci vedi una grossa storia in questa faccenda?» Al Durfee aspirò profondamente e lasciò uscire il fiato piano piano. «Omicidio», annunciò finalmente. «Che cosa? Tu pensi che questo Lewis ucciderà sua moglie?» «No.» «E allora?» «Sarà lei a ucciderlo.» «Oh, andiamo! Come ti sei fatto quest'idea?» «La conosco, Phil, mi ha assunto. È una signora di classe, colta, con una buona posizione al Museo aerospaziale. Ma dentro è un vulcano. È il tipo che cerca di nascondere i suoi sentimenti, ma poi esplode. Lo farà.» «Quando?» volle sapere Black, cominciando a prendere appunti. «Presto.» «Tu cercherai di fermarla, Al?» «Non servirebbe.» «Buon Dio, spero proprio che tu abbia ragione», concluse Phil Black. E, guardando le foto che aveva appena acquistato, soggiunse: «Credo di avere fatto un affare». 9 Ramy Jordan ritornò con la sua Mercedes coupé rossa nella villa di quindici stanze a McLean, in Virginia, non lontano dalla sede della CIA. Non faceva che pensare all'appuntamento con Bret ad Arlington, un incontro accompagnato dal battito smorzato dei tamburi di un funerale militare, pieno di ricordi di morte e di pianto. Il piano per eliminare sia sua marito sia la moglie di Bret cominciava a sembrarle accettabile. Era contenta che Bret avesse scelto un modo così rapido e senza complicazioni. Perché causare dolore e sofferenza? Una donna raffinata non l'avrebbe mai approvato. Eppure, perdurava in lei quel senso di incredulità. Si trattava di uccidere. Io sarò coinvolta in un omicidio, seguitava a ripetersi, mentre svoltava nella via. Nessuno nella posizione di Ramy Jordan riusciva a immaginare di essere coinvolto in un fatto di sangue, ma lei sapeva benissimo che era l'attrazione elettrica per Bret Lewis che le impediva di guardare la realtà. Non pensava all'assassinio, pensava: Bret sarà tutto mio. Presto. Mentre imboccava il viale della casa in stile coloniale e guardava il garage a tre posti, sentì un simbolico fardello sollevarsi dalle sue spalle. Fra
due settimane se ne sarebbe andata e non l'avrebbe più sentito imboccare il viale a bordo della sua BMW e suonare il clacson tre volte come per annunciare l'arrivo di un re. Non avrebbe più dovuto intrattenere dirigenti di industrie militari mezzo ubriachi, pronti a pagare a Shel tariffe oscene per ottenere una visita a un senatore ammalato. Shel non sarebbe mai potuto diventare l'uomo che era Bret, uno statista. Bret sarebbe arrivato a posizioni che non si potevano comperare con il denaro e Ramy aveva sempre avuto bisogno di qualcuno in cui credere. Mentre entrava nel garage, parcheggiando la sua Mercedes vicino alla Cadillac (che Shel teneva soltanto per mostrare una lodevole lealtà alle case di produzione americane), si appoggiò allo schienale e, con un leggero sorriso sulle labbra, cominciò a organizzare il funerale di suo marito. Avrebbe steso lei stessa il programma della celebrazione funebre, come aveva fatto Jacqueline Kennedy. Garofani bianchi. Shel diceva sempre che voleva garofani bianchi al suo funerale e lei avrebbe insistito per esaudire il suo desiderio. Dopo tutto, la vedova distrutta dal dolore doveva mostrare pieno rispetto per la volontà del defunto. Ci sarebbe stato anche un organista a suonare Nearer my God to Thee. Era l'inno preferito di Shel, da quando aveva visto in televisione un film che raccontava il naufragio del Titanic. E la bara, anche se di Shel sarebbe rimasto ben poco, doveva essere di bronzo. Ramy scese dalla macchina e pronunciò queste parole: «Un Jordan è a casa». Automaticamente, il meccanismo attivato dalla sua voce richiuse la porta del garage. Ramy scosse la testa e scoppiò a ridere. Entrò in casa premendo un codice di tre cifre sulla serratura di sicurezza. La porta dava ingresso alla cucina, il primo simbolo del successo di Shel Jordan. C'era persino un computer incastonato in un piccolo armadio di legno e, come in tutte le altre stanze, c'era un telefono con una segreteria telefonica e blocchi di carta per prendere appunti, sparsi qua e là. La luce dell'immensa stanza era soffusa. E naturalmente c'era anche un tavolo delle riunioni: i potenti si riunivano e discutevano in cucina. Ramy posò la sua borsa di Gucci sul tavolo immacolato e si avvicinò al frigorifero per prendere una Diet Coke. Poi suonò, o più precisamente, ronzò il telefono. Ramy sollevò il ricevitore. «Pronto.» «Ramy?» Era Bret. Era nel suo ufficio, alla scrivania, con la porta chiusa. «Ciao...» disse Ramy con un fremito d'eccitazione, lasciandosi cadere su una poltrona di pelle.
«Lui non c'è, vero?» s'informò Bret. «No, certo», rispose lei guardando l'orologio. «In questo momento ha un appuntamento con un amico personale di Imelda Marcos.» «Volevo soltanto sentire la tua voce», continuò Bret in tono pacato. «È stata una giornata importante, no?» «Sì.» «I tuoi problemi presto finiranno e lui uscirà dalla tua vita, per sempre.» «Non vedo l'ora.» «Anch'io. Lui è stato cattivo con te, Ramy. Cattivo con una persona che mi è molto cara.» «Non puoi immaginarti quanto sia stato cattivo», confermò Ramy. «Sono contento che tu abbia approvato tutto ciò che ti ho proposto.» «Hai ragione, è l'unico modo. Risolve ogni cosa.» «Se soltanto avessi saputo prima quanto fossi infelice con Shel...» «Ecco... l'ho tenuto dentro per tanto tempo, ma quando sei apparso tu... mi sono sfogata. Ciò che hai fatto significa molto per me. Non so che cosa mi sarebbe successo, senza di te.» «Ora non devi pensarci più. Risolveremo insieme i nostri problemi. Ho parlato con la persona di cui ti ho accennato.» «Quale persona?» «Sai...» «Oh, certo.» Lei immaginò che alludesse all'uomo che gli avrebbe procurato l'esplosivo. «Anche lui pensa che non sorgeranno problemi.» «Bene», approvò Ramy. «Ho completa fiducia in lui. Non c'è uomo migliore, per questo genere di cose.» «Mi fa piacere. Molto dipende da lui.» «E senti... in realtà, è proprio per questo che ti ho telefonato: se vuoi parlare, se hai dei dubbi, desidero che mi chiami subito.» Era tipico di Bret, pensò Ramy. Era sempre così premuroso, così sensibile, così diverso da Shel. «Lo farò», promise. «Presto staremo insieme.» In quel momento, ci fu un trillo sulla scrivania di Bret e una segretaria gracchiò nell'interfono per annunciare che il ministro della Difesa era in linea. «Devo lasciarti», le disse, e la conversazione finì. Ramy posò il ricevitore rosso fuoco del telefono sulla sua forcella e restò a lungo immobile a fissare l'apparecchio, quasi accarezzandolo con gli oc-
chi, come se dentro ci fosse Bret. Lei non poteva sapere e neppure lontanamente immaginare che quella breve conversazione segreta con il suo amato Bret sarebbe stata riportata sui giornali di tutto il mondo. Non poteva prevedere quale ruolo avrebbe giocato nel suo destino e in quello di Bret Lewis, come nel destino di tutti coloro che avevano a che fare con il matrimonio dei Lewis e dei Jordan. Il destino. Certo, non sarebbe stato come Ramy Jordan si aspettava. Sarah Lewis prese una decisione drastica, probabilmente la più drastica della sua vita. Ma era inevitabile, necessaria. Seduta nel suo ufficio, con la porta chiusa, come quella di suo marito durante la telefonata a Ramy Jordan, Sarah decise di affrontare Bret quella sera stessa. Si rendeva conto che non era una decisione completamente razionale, ma ormai aveva deciso. Doveva affrontarlo e cercare di salvare il suo matrimonio. I suoi sentimenti oscillavano fra la rabbia e il dolore. Woody Evans avrebbe potuto descrivere perfettamente lo svolgimento dei suoi pensieri. Aveva raccontato scene del genere migliaia di volte, davanti a una corte riunita per un caso di divorzio. Da una parte, era stato un buon matrimonio, rifletteva Sarah, e lei voleva che continuasse. Era una tentazione pensare che Alison Carver fosse solo una scappatella, un'avventura di poca importanza, forse una variazione normale dopo vent'anni. Bret era un tipo con i piedi per terra. Probabilmente avrebbe chiuso l'episodio, se lei lo avesse pregato di farlo. Naturalmente. Avrebbe capito che cosa poteva perdere e che cosa significavano vent'anni di matrimonio. D'altra parte, Bret poteva non avere intenzione di troncare. Sarah era decisa a prepararsi al peggio. Se doveva finire, che finisse senza tante storie. Non lo pregherò, non gli chiederò niente. Ho la mia indipendenza, la mia posizione al museo. Sono stata una single per metà della mia vita, posso continuare a esserlo per il resto. Naturalmente, Sarah ragionava come se avesse dovuto continuare a vivere. Quando Sarah lo aveva assunto, Al Durfee le aveva scarabocchiato alcuni numeri di telefono dove poteva essere rintracciato. Uno era quello di un bar, un altro quello della camera di sua madre in una casa di riposo e l'ultimo quello di un inventore che gli forniva alcuni congegni di sorveglianza. Durfee non c'era ai primi due numeri. Al terzo rispose una voce caver-
nosa. «Kean Observation. Parla Bill Kean.» «Scusi, c'è Al Durfee?» Sarah sentì sbattere il ricevitore e qualcuno che gridava: «Ehi, Al, è per te!» Durfee rispose. «Pronto, Durfee», dichiarò in tono molto formale. «Al, sono Sarah Lewis.» «Che piacere, signora 'L'», esclamò Durfee, cercando di impressionare il suo amico inventore. «Vuole un lavoro di sorveglianza?» Ricordandosi che aveva appena venduto qualche foto della sua cliente a Phil Black, provò una punta di rimorso ma, come Bret Lewis, fu capace di soffocarlo. «No, non è per questo motivo che ho chiamato», rispose Sarah. «Ah! È successo qualcosa? Non se ne sarà già andato, eh?» «No. Per quello che mi risulta, è ancora al Pentagono e noi siamo ancora sposati.» «Grazie al cielo. Di solito i mariti se ne vanno e le mogli se la prendono con me.» «Al, ho pensato di affrontare mio marito... stasera», annunciò Sarah. «Per rovinare l'anniversario?» «È una sensazione intima. Io devo assolutamente farlo», spiegò lei. «In qualche ristorante alla moda, come nei film.» La mente di Sarah era troppo concentrata sul suo problema per accorgersi dell'ironia di Durfee. «No», proseguì. «Lo farò a casa. Ecco perché ho telefonato: lei mi ha mostrato le foto, ma non me le ha lasciate.» «Di proposito.» «Sì?» «Non si possono lasciare in giro fotografie come quelle, signora. Se qualcuno le scopre... un marito, insomma, potrebbe sentirsi male.» «Vorrei averle.» «Perché?» «Quando affronterò Bret, voglio mettergliele sotto il naso... proprio come ha fatto lei con me.» Durfee restò in silenzio per qualche istante, mentre preparava la risposta. «Signora 'L', se permette, non è saggio. Gli uomini sono capaci... ecco, gli uomini si arrabbiano molto più delle donne. Se lo faccia dire da uno psichiatra. Il miglior modo, a mio avviso, è quello di mettersi seduta con suo marito e dirgli semplicemente che si sente offesa, che non si sarebbe mai aspettata di vedere in pericolo il vostro matrimonio... ma che ha saputo di
quest'altra donna.» «Senza le fotografie? Senza prove? Lui potrebbe negare», gli fece osservare Sarah. «Non negano mai. Di solito, quando vengono scoperti, provano persino sollievo. Inoltre, spesso hanno già deciso di dirlo alle mogli.» Sarah rimuginò un momento su queste ultime parole. A lei non andava di andare in un ristorante come nei film e restarsene seduta a chiacchierare del più e del meno. Lei voleva le prove davanti a sé, alle parole preferiva i fatti reali. «Senta, vorrei proprio quelle foto», disse infine. «Signora, le dispiace se le faccio qualche domanda?» ribatté Durfee. «Credo di no.» «Suo marito ha una pistola?» Sarah esitò. «Ebbene, signora, ha un'arma?» «Sì, ha una pistola», fu la risposta. «È un tipo collerico?» «Stia a sentire, Al, ho capito dove vuole arrivare», replicò Sarah. «Lui non ha mai alzato la voce con me e non mi farebbe mai del male, fisicamente. Bisogna conoscerlo. Bret non è il tipo.» Durfee soppesò la richiesta di Sarah, prima di aggiungere altro. Lei si accorse dell'imbarazzo e della preoccupazione del detective dal modo in cui respirava. «Va bene, signora Lewis», concluse Durfee. «Lei è una donna intelligente, dotata di buonsenso; ha tutto il diritto di avere la sua roba. Le porterò le fotografie. Ma l'avverto, o meglio, la prego di tastare il terreno, prima.» «Non ho paura di lui, gliel'ho già detto.» «Mi dia retta, cerchi di sondarlo. Gli dica che sa ciò che sta facendo e aspetti di vedere la sua reazione, poi gli mostri le foto. Lui vorrà sapere come le ha avute.» «Che cosa dovrei dirgli?» «Gli dica che le ha scattate un amico. I mariti s'infuriano, quando vengono a sapere che le mogli hanno assunto un investigatore privato. L'ego maschilista, capisce.» Sarah era in parte d'accordo sui consigli di Durfee. Sapeva che sarebbe stato mortificante ammettere con Bret che aveva assunto un investigatore privato. In realtà, era più mortificata che intimorita all'idea del confronto. Le venne da ridere, quando si rese conto che temeva di mettere Bret in imbarazzo. Ma che c'era di strano? Lei lo amava, lo sapeva bene, e non im-
portava ciò che lui aveva fatto. L'avrebbe sempre amato. Tossirò sino alle lacrime, durante l'elogio funebre di Sarah, pensava Bret, mentre accendeva il distruggidocumenti nel suo ufficio. Era l'unica cosa decente da fare. 10 Uno per uno, Bret infilò i fogli nel distruggidocumenti, poi rimase a guardare le lunghe strisce di carta che cadevano nei sacchetti scuri e infine bruciò il tutto nell'inceneritore. Lì c'è il mio futuro, pensava. Con questi fogli inizio il capitolo finale di Sarah. Il primo a passare fra le lame del distruggidocumenti fu lo schizzo di un'automobile posteggiata nel parcheggio di un basso edificio. Alcune linee conducevano da tre punti diversi dell'edificio sino alla macchina, accompagnate da alcune indicazioni: quarantadue passi, novantotto passi, centosedici passi. Il disegno mostrava anche i punti dov'erano piazzati i lampioni del parcheggio. Le ombre proiettate dai riflettori potevano essere utili, pensò Bret, specialmente se cadevano fra le auto. Il secondo disegno era un diagramma su cui erano tracciate alcune linee dal basso edificio all'auto parcheggiata, alternativamente in quattro posizioni differenti. Su quel foglio Bret aveva scritto: «Posteggiare nel punto più lontano dall'edificio. Niente luce, nessuna persona». Il terzo disegno raffigurava in modo piuttosto approssimativo una bomba comandata a distanza, nascosta in un piccolo contenitore dentro la borsetta di una signora. Bret aveva disegnato un cerchio intorno alla posizione dell'antenna, una sottile striscia di metallo che correva su un lato del contenitore. Nel quarto disegno compariva un trasmettitore, con un comando a distanza nascosto nella tasca di uno smoking. Erano evidenziate parecchie posizioni per la leva. Il quinto e ultimo schizzo, infine, descriveva il probabile raggio d'azione di una bomba esplosa in un parcheggio. «Stare lontani dalla finestra», aveva scritto Bret. Impiegò circa trenta secondi a mandare il suo capolavoro nel limbo del distruggidocumenti. Sapeva che avrebbe dovuto rifare ogni disegno almeno altre due volte, prima di compiere l'omicidio. Quindi, era meglio eliminarli. Lui aveva il suo orgoglio, uno strano senso della dignità professiona-
le. Che cosa sarebbe successo, se fosse morto e qualcuno avesse trovato i disegni? Che cosa avrebbero pensato a Washington di Bret Lewis? Quando ebbe finito, spense il distruggidocumenti, si avvicinò allo stereo di cui andava tanto orgoglioso e mise un disco di Ormandy che dirigeva l'Eroica di Beethoven. Prese dalla vetrina una bacchetta usata da Karajan durante una tournée in America e cominciò a dirigere un'orchestra immaginaria. Sarah tornò a casa presto. Con gesti precisi e meticolosi dispose le foto scattate da Al Durfee l'una accanto all'altra, sul letto che divideva con Bret da vent'anni. Erano dodici in tutto, a colori. Le sistemò sul bordo del copriletto bianco, in modo che Bret potesse notarle in qualsiasi posizione, poi andò alla porta, uscì e rientrò immediatamente. Voleva controllare personalmente l'impatto che avrebbero prodotto. I suoi occhi si soffermarono sulla fotografia in cui Bret compariva mentre sorrideva ad Alison Carver, sugli scalini del Campidoglio. Quando Bret l'avrebbe vista, concluse Sarah, avrebbe capito che sua moglie sapeva tutto, che non aveva un alibi plausibile. Riesaminò il suo piano strategico. Dove doveva trovarsi, lei, quando Bret sarebbe entrato nella stanza? Dietro di lui, pronta a cogliere la sua reazione? Oppure in cucina, per dargli il tempo di esaminare le fotografie? Decise che era meglio mettersi alle spalle di suo marito. Voglio essere presente, si disse, voglio vedere tutto. Ma che cosa avrebbe visto, in realtà? Immaginò come sarebbe andata. Ecco, Bret entra in camera, con lei dietro, vede le foto dalla porta, ma non capisce subito di che si tratti. Di certo pensa: «È qualcosa che riguarda l'anniversario». Sorride, credendo che Sarah abbia tirato fuori delle vecchie immagini scattate durante i loro vent'anni insieme. Lui si avvicina al letto. Guarda meglio e capisce, ma resta calmo. Bret rimane sempre calmo. Avrebbe osservato le foto, girando lentamente intorno al letto e, solo dopo averle esaminate una per una, avrebbe alzato lo sguardo, fissando sua moglie. Allora avrebbe parlato. Sarah era più che sicura che non avrebbe chiesto: «Dove le hai prese?» Era troppo sofisticato per una domanda del genere. Piuttosto avrebbe detto: «Come l'hai saputo?» In altre parole, dove aveva sbagliato perché lei si accorgesse della cosa, prima di tutto? Lei gliel'avrebbe spiegato: troppo spesso rientrava tardi la sera, tutte
quelle storie a proposito di riunioni d'emergenza... e non c'era nessuna crisi nazionale. E allora una moglie sospetta. A questo punto lui avrebbe ammesso che era vero, senza cercare scuse. Avrebbe potuto anche dichiarare che intendeva continuare a vedere la sua amica, oppure che aveva deciso di troncare. Oppure ancora: «Intendo sposarla, perciò parliamone». Alla fine, Sarah avrebbe saputo se sarebbero rimasti insieme per i prossimi cinquant'anni o se sarebbe rimasta sola. Si sentiva stranamente sollevata. L'aspettava la notte più importante della sua vita. Mentre Sarah faceva i suoi piani, Bret provò l'impulso di tornare a visitare il luogo del delitto, come gli capitava quasi ogni giorno. Doveva conoscere ogni centimetro del terreno, valutare tutte le possibilità di errore, scoprire se c'era qualche trappola che non avesse previsto. Uscì dal Pentagono alle cinque e mezzo, spiegando alla sua segretaria che era il suo anniversario di matrimonio. Lei fece qualche commento sul fatto che fosse così felicemente sposato. Si avviò verso il parcheggio del Pentagono, salutando alcuni funzionari. Come al mattino, l'aria era soffocante; la camicia gli s'incollava addosso. Si voltò e guardò la finestra del capitano Masters. La luce era accesa. Povero Masters! Gli conveniva lavorare su quella lista e procurarsi tutto ciò che vi era elencato. Bret salì sulla Lincoln e uscì dal parcheggio. In pochi minuti raggiunse la Jefferson Davis Highway e, dopo un po', la Lee Highway. Proseguì fino al piccolo Cheshire Motel, in un angolo di Arlington, in Virginia. Un tempo il Cheshire era molto più elegante, sempre che l'architettura di un motel possa definirsi elegante, ma ora era un ritrovo per frettolosi visitatori che combinavano affari con le società e le agenzie di Washington. Bret non era mai entrato nel parcheggio del motel, temeva di farsi notare. Di solito passava lì accanto e rallentava; qualche volta imbucava una lettera nella vicina cassetta postale o prendeva un giornale dall'apposito distributore. Non aveva mai parlato con nessuno e, se c'era ancora luce, portava gli occhiali da sole. Quella sera rimase in auto. Aveva un obiettivo particolare: studiare il raggio della visuale dall'ufficio del motel a una grande sala da pranzo che il complesso spesso affittava. Era possibile che qualcuno nell'ufficio ve-
desse che cosa succedeva? Sarebbero stati in grado di distinguere i volti? Continuò per un po' a osservare e a prendere appunti, poi riprese la strada per Washington. Accese la radio, sintonizzandola sulla stazione locale della CBS. Lo speaker del notiziario stava dicendo: L'FBI ha arrestato oggi a Washington due studenti iraniani, accusati di voler far esplodere una stazione telefonica nella Virginia settentrionale. I due uomini hanno negato ogni accusa, sebbene l'FBI confermi che è stato trovato dell'esplosivo nel loro appartamento. Magnifico, pensò Bret. Una notizia che poteva diventare utilissima, nelle prossime due settimane. Alle sette e tre minuti, Bret entrò nel garage sotto il palazzo sulla Massachusetts Avenue, la via conosciuta come Embassy Row. L'edificio era considerato lussuoso, ma non particolarmente ricco; c'era un servizio di portineria giorno e notte e i custodi portavano guanti bianchi e livrea blu, con berretti di tipo militare. Ma quello non era il posto dove abitava l'élite di Washington, era solo un bel fabbricato, con appartamenti per coloro che sognavano, ma che non avevano ancora realizzato il sogno. Nel garage, Bret vide un sacco di targhe diplomatiche, ma sapeva che una soltanto apparteneva a un ambasciatore, e neppure tanto importante. Le altre erano auto di funzionari di secondo e terzo livello delle ambasciate o dei consolati dei più vari Paesi. Bret odiava quel garage. Ogni volta che vi rientrava, si sentiva declassato. Quella di sottosegretario, in poche parole l'aiutante del ministro della Marina, non era una gran carica, era un posto di serie B. Ma un giorno, promise a se stesso, avrò anch'io l'autista che mi apre la portiera e non dovrò stracciare carte personali o correre per i motel della Virginia. Un giorno avrò una moglie che conta. Inserì l'antifurto della Lincoln e poi chiuse la portiera. Gli avevano già rubato la radio due volte e Bret sospettava che l'autore del furto fosse in qualche modo collegato a una di quelle auto con targa diplomatica. Oltre la borsa, reggeva un mazzo di venti rose rosse, una per ogni anno del suo matrimonio con Sarah. Sapeva che non ci sarebbe mai stato un mazzo con ventun rose.
Sarah era ancora in camera da letto e stava fissando le fotografie, quando sentì suonare il campanello. Un brivido di gelo le serpeggiò lungo la spina dorsale e il cuore prese a batterle furiosamente. Era giunto il momento, ormai non poteva più tirarsi indietro. Ma quando fece per andare ad aprire, la colpì il pensiero che non si era preparata nulla da dire, aveva solo immaginato che cosa avrebbe detto lui. Si allontanò lentamente dalla camera e si diresse verso la porta d'ingresso, poi si voltò indietro a guardare la stanza. Era come se ci fosse dentro la sua vita intera. L'appartamento aveva due camere da letto e una grande entrata. Sarah entrò nella sala e proseguì verso la porta, fece scattare le due pesanti serrature e aprì. Lui sorrideva. Il suo sorriso migliore, proprio come lei si aspettava. «Felice anniversario, amore», disse Bret. Dio, sembra sincero, pensò Sarah. Neppure un attimo di esitazione nella sua voce calda e' profonda. «Buon anniversario», rispose lei sottovoce. Lui le porse le rose con un ampio gesto. «Bret, sono magnifiche!» esclamò lei. Bret entrò. Seguì un lungo bacio, più lungo di quello di un anno prima. Ma lui intuì subito che qualcosa non andava. «Che cosa c'è?» volle sapere. «Niente.» «Tremi...» Lei si sforzò di ridere. «No, ti sbagli.» Lui non si arrese. «Hai avuto un incidente?» Lei pensò in fretta. «Come sei sensibile!» La faccia di lui si oscurò. «Sarah, sei ferita? O è successo qualcosa a qualcuno?» Sarah si voltò. «Non è stato niente di grave», lo rassicurò con un sorriso. «Quelle rose sono davvero splendide. Le hai scelte tu, vero? Credimi, non c'è proprio niente di cui preoccuparsi. Stavo attraversando la strada con il verde e un tale con una Corvette non ha rispettato il rosso e per poco non mi ha investito.» «Hai preso il numero di targa?» Tipica domanda di Bret, pensò lei. «No, non mi è parso importante. Come vedi, sono sana e salva. Il tremore mi passerà e questa è una serata meravigliosa. Pensiamo solo all'anniversario.»
Bret scosse la testa, quasi volesse dire che era fortunata a essere ancora viva. «D'accordo», concluse a voce alta. «Basta che tu stia bene. Non si sa mai, di questi tempi. Ci sono in giro dei maniaci; anzi, sono tutti maniaci. E alla guida di una Corvette, oltretutto. Probabilmente era qualche avvocato arricchito che andava al ministero della Difesa. Ma sono contento che tu me ne abbia parlato, non devono esserci segreti fra noi.» Sorrise benevolo e seguì Sarah in cucina, dove lei cominciò a disporre le rose in un alto vaso di vetro. «Dopo le metto sul pianoforte», disse. Non voleva lasciarlo solo neppure per un istante, voleva vedere tutto, ogni espressione, ogni gesto. Ormai era a pochi metri dalle foto. Una questione di minuti, forse di secondi. «Fuori si va arrosto», proseguì Bret. «Do un'occhiata alla posta e faccio una doccia.» «D'accordo, ma ricordati che arriveranno fra poco.» «Lo so, ma alla doccia non rinuncio.» Allungò il braccio per prendere la posta sul bancone della cucina e diede una rapida scorsa alle lettere. «Mi sono dimenticato che questo mese scadeva l'assicurazione della macchina», borbottò, fermandosi a guardare una busta commerciale. Sarah sbirciò in direzione della camera da letto. «Guarda questa copertina di Newsweek», stava dicendo Bret mostrandole la rivista. «Sam Bissell, senatore degli Stati Uniti, eletto nel grande stato del South Carolina, fervente patriota e possibile futuro candidato alla presidenza. Bene, aspettiamo che scoprano che ha falsificato le sue cartelle cliniche per non andare in Vietnam.» «Tu come lo sai?» «Saresti sorpresa di scoprire quante cose sappiamo... e quante ne teniamo nascoste.» Altre lettere. Sarah gettò un'occhiata verso la camera, osservandolo compiere come ogni giorno il rituale della posta. Finalmente finì di esaminare tutto. «Forse resteremo fuori per tutta la notte», osservò Bret avvicinandosi a sua moglie. Non sembra proprio uno che abbia una relazione, pensò lei, mentre tornavano a baciarsi. Bret uscì dalla cucina e fece per dirigersi verso la camera. Sarah si morse il labbro. Era saggio tutto questo? Era il modo giusto? Ma ormai era fatta, le fotografie giacevano in bell'ordine sul letto. Lei lo seguì, proprio come aveva stabilito. Bret era a metà strada. Ecco, poteva essere la fine del suo matrimonio, in quello stesso minuto.
Poi lui si fermò e si voltò. «Dio, che sete!» esclamò. «Dovrebbero mettere l'aria condizionata in tutta la città.» E fece per tornare in cucina. Pausa. Sarah lo seguì di nuovo in cucina, dove lui aprì il frigorifero e frugò nell'interno. Prese una bottiglia di plastica di Diet Coke, ne riempì un bicchiere e rimase a guardare le bollicine. «Vuoi qualcosa, tesoro?» «No, grazie.» Che strano sguardo, pensò lui, sembra quasi spaventata. Non era nello stile di Sarah. Forse era una reazione all'incidente con la Corvette. Bret sbatté la porta del frigo e mise un freno ai suoi pensieri. Non diventare sentimentale e non lasciamoci andare ai sensi di colpa. È pericoloso per un uomo che ha in mente di trasformare il suo appartamento in un pied-à-terre da scapolo. Ingollò la Coca. Ora non vedeva l'ora di fare la doccia. Sarah sapeva che quando si sarebbe spogliato in camera, avrebbe messo gli abiti sul letto. Lui posò il bicchiere. Fine della pausa. 11 Il pensiero colpì Sarah come un lampo. Era irrazionale, fuori dal suo modo d'essere. Eppure lei capì che probabilmente era giusto così. «Scusami, ho dimenticato una cosa», disse e ritornò di corsa in camera. Dietro di lei risuonarono i passi di Bret. Sfrecciò verso il letto, afferrò la prima foto e facendo scivolare la mano sul copriletto raccolse le altre. Aveva quasi finito, quando Bret apparve sulla porta. Sarah si sentì gelare. «Che cosa sono quelle?» chiese lui. Sarah non rispose. «Fotografie?» «Sì.» «Per me?» Lei si costrinse a sorridere, tenendo le foto contro il petto. «Certo che sono per te. Ma più tardi.» Fingendosi commosso, lui ricambiò il sorriso. «Proibito vederle subito?» «Esatto. M'ero scordata di averle lasciate fuori.» Bret si strinse nelle spalle. «Va bene», acconsentì, «non ho mai discusso
con una signora che s'intende di aerei più di me. Le guarderò più tardi.» In realtà, non gliene importava nulla, probabilmente erano soltanto vecchie foto di famiglia. Sparì nel bagno, completamente soddisfatto. L'ho ingannata per bene, concluse fra sé. Sarah si lasciava prendere dalla nostalgia e non sospettava di niente. Lei si lasciò cadere sul letto, esausta, stringendo ancora le foto. E va bene, doveva ammettere di avere avuto paura. I rischi erano troppo alti, le informazioni troppo vaghe, ma quale altra donna, nella sua posizione, avrebbe agito con maggior determinazione? Si sarebbero presentate altre occasioni per affrontarlo, momenti in cui lei si sarebbe sentita più sicura. Ascoltò il rumore del getto della doccia, poi mise via le foto e prese un vecchio album in cima all'armadio. Si affrettò a tirar fuori qualche immagine da mostrare a Bret, giusto per conservare la sua credibilità. «Hai confermato la prenotazione?» gridò Bret da sotto la doccia. «Certo», rispose lei giocherellando nervosamente con una fotografia e accorgendosi che le tremavano ancora le mani. «Non vedo l'ora di ritornare in quel locale. Quanti ricordi!» Il Jimmy Lee's era un ristorante cinese in Connecticut Avenue, dove si diceva che si incontrassero le spie dei Paesi orientali. Era stato il locale preferito di Sarah e Bret prima di sposarsi e vi andavano a ogni anniversario. Lui aveva detto che gli suscitava tanti ricordi e il commento confuse Sarah ancora di più. Un uomo che ha intenzione di andarsene non parla di ricordi. Sotto la doccia, Bret riusciva a pensare con chiarezza, mentre si rinfrescava con il getto d'acqua fredda. Sapeva quanto difficile sarebbe stata la serata che lo aspettava, perché sarebbe stato anche l'inizio del piano per eliminare sua moglie dalla propria vita. «Un brindisi», mormorò rivolto allo specchio. «Un brindisi per tutti noi.» Diede un'occhiata all'orologio: le sette e diciotto. Gli altri sarebbero arrivati fra venti minuti e di solito erano puntuali. Mentre provava davanti allo specchio diverse espressioni, desiderò che Tim Curran potesse vederlo. Era vero, proprio come aveva affermato quest'ultimo, felice è l'uomo che chiude un cattivo matrimonio con la moglie che vola giù da un ponte. Ma, in assenza di una simile fortuna, occorreva ideare un piano, che non poteva certamente essere un piano comune. Curran sarebbe stato deluso del suo protetto, se avesse semplicemente gettato la moglie in un fosso o se avesse assunto qualcuno per compiere il lavoro.
Sarebbe invece rimasto impressionato dal suo piano. Non solo Sarah sarebbe stata eliminata, ma suo marito sarebbe diventato una figura simpatica... magari un eroe. Sarah posò in soggiorno le vecchie foto che aveva preso dall'album. La grande stanza era zeppa di mobili del diciannovesimo secolo americano; ogni pezzo era stato acquistato ad aste o vendite pubbliche. Cercò di non guardare le foto che rappresentavano la cronaca della sua vita con Bret. Suonò il telefono e Sarah si alzò per avvicinarsi al piccolo scrittoio che un tempo era appartenuto al ministro del Tesoro di Theodore Roosevelt. «Pronto», disse, prendendo una matita. «Oh, mi dispiace, in questo momento non può venire all'apparecchio. Vuole lasciare un messaggio?» Il messaggio della persona all'altro capo del filo era breve. Sarah lo scrisse su un'agenda. «La ringrazio, glielo farò avere subito.» Dopo qualche minuto, sentì chiudersi la doccia e aprirsi la porta del bagno. Bret rientrò in camera, cominciò ad aprire e chiudere i cassetti e poi, finalmente, apparve in soggiorno indossando un completo estivo marrone chiaro, finendo di annodarsi la cravatta di una tonalità più scura. All'occhiello portava il distintivo di una onorificenza al valor civile che aveva ricevuto dal ministro della Difesa per il suo notevole contributo alla lotta contro il terrorismo internazionale. Lo portava sempre, con ogni abito. Lui vide subito le fotografie. «Ora posso guardarle?» domandò. Si stampò sul viso un altro sorriso smagliante, mentre le osservava, una dopo l'altra. «Guarda questa», commentò. «È fantastica.» «Grazie», rispose Sarah, osservando ogni gesto di lui, cercando qualsiasi indizio, uno spunto. Bret guardò altre foto, ma sapeva che cosa avrebbe fatto un calcolatore in simili situazioni. Le posò, attraversò la sala e andò a baciare sua moglie. «Come stai?» «Benone», rispose Sarah, quasi dimenticandosi la storiella dell'incidente. «Non ti avrà preso di striscio, vero?» «No, Bret, non mi ha fatto niente. Per favore, smettila di fare la chioccia.» «Mi piace», fece lui con un ampio sorriso. «Io la chioccia, tu il mio pulcino.» Sarah non sapeva più come comportarsi. Ma era tutto vero? Lui poteva avere rotto con la Carver. «Ah, già, prima che me ne scordi», disse. «Hanno telefonato per te.»
«Chi?» «Un certo capitano Masters.» Bret s'irrigidì e capì che si notava. «Che cosa ti prende?» volle sapere Sarah. «Niente, ma Masters si occupa di questioni molto delicate. Che cosa voleva?» «Ha lasciato solo un messaggio. Ha detto che era riuscito a procurarsi tutto ciò che gli avevi ordinato e ha aggiunto che tu sai di che cosa si tratta.» «Capisco», borbottò Bret rilassandosi. «Be', è una buona notizia.» «Archiviata?» lo stuzzicò Sarah. «Certamente», rispose lui, gustando con piacere quel momento: lei gli aveva trasmesso il messaggio che l'avrebbe condotta al suo destino fatale. Bret, però, desiderava cambiare discorso, perciò tornò alle foto sparse nella stanza. «Non le vedevo da anni», osservò. «Questa fatta a Manila, per esempio. Ti ricordi la guida che ci aveva messo a disposizione la marina?» «Non era in grado di rispondere a nessuna domanda», ribatté Sarah. «Probabilmente era del servizio segreto. E guarda quest'altra, davanti allo stadio di Grenoble, in Francia.» «È stato fantastico il mese che abbiamo passato all'università laggiù», fece lei. Squadrò suo marito, chiedendosi se le fotografie suscitassero davvero in lui delle emozioni o se invece lui fingesse. «Naturalmente», aggiunse, «è difficile guardarle ora. Ormai sono passati vent'anni, con tutti i loro problemi.» Bret non fece commenti. Dopo tutto, i problemi con Sarah sarebbero finiti presto. «Quanti mariti e quante mogli sono stati fotografati con l'uniforme della marina?» chiese dopo un momento. «Pochissimi, ci scommetto», rispose Sarah. «Sai», riprese Bret, «alcuni ufficiali di queste foto sono capitani, ora. Guarda Lloyd...» Improvvisamente ronzò il citofono della portineria del palazzo. «Vado io», disse Sarah. Corse in cucina e premette il tasto del citofono. «Sì? Sì, sì, li faccia salire. Li aspettiamo.» Poi rientrò in soggiorno. «Sono qui.» «Perfetto. Credo proprio che anche loro vorranno guardare queste foto, sai.» «Lo spero. Ho tirato fuori anche quelle di Londra; credo che quello sia stato il nostro viaggio più bello.» «Sì, è così.» Ora Bret cominciava a trovare quelle immagini più interes-
santi di quanto avesse creduto. Ciascuna gli dava nuove idee per l'elogio funebre che avrebbe pronunciato per Sarah. Esaminò una foto di sua moglie sorridente fra due bambini, in Guatemala. Ecco, quella sarebbe andata bene per il funerale. Suonò il campanello alla porta e Sarah si mosse per andare ad aprire. «Sarà di certo una serata bellissima», annunciò, mentre Bret la raggiungeva. «Chi è?» chiese lei, anche se conosceva già la risposta. «Devo mostrare la mia carta d'identità?» tuonò una voce maschile dall'altra parte dell'uscio. Sarah fece scattare le due serrature e aprì la porta. Ecco davanti a lei due fra le persone che le erano più care al mondo. Orfana e senza figli, quei due amici erano per Sarah quasi come un fratello e una sorella. «Entrate», li invitò. Ramy Jordan era raggiante. Shel Jordan stava leggermente dietro di lei. Dapprima non si mossero e Sarah, sorpresa, spalancò la porta. «Avete intenzione di restarvene lì impalati?» Lentamente, Shel Jordan infilò la mano nella tasca della giacca e tirò fuori un foglio. Intanto, sua moglie guardava Bret negli occhi, quegli stessi occhi che l'avevano fissata con tanta intensità al cimitero di Arlington. Poi distolse lo sguardo. «Ho una poesia», annunciò Shel. Le poesie erano una sua piccola mania. Si schiarì la gola e lesse: Complottiamo, facciamo mille calcoli per sapere dove andremo. Ma stasera che importa? Sono vent'anni dal nostro glorioso, doppio matrimonio! 12 Shel e Ramy entrarono in casa come vent'anni prima, quando loro, Bret e Sarah si erano sposati con una doppia cerimonia al Cheshire Motel in Virginia. Di nuovo, per un attimo, gli occhi di Ramy e Bret s'incrociarono, ma stavolta solo per un istante. Meglio non destare sospetti.
«Congratulazioni... a tutti noi», esclamò Shel, baciando Sarah sulla guancia e stringendo la mano di Bret. Scambio di complimenti e di baci fra tutti e quattro. Mentre Bret si avvicinava per baciare Ramy, le bisbigliò all'orecchio: «Non guardarmi così. Avremo anni e anni per farlo». Lei si limitò a sorridere. «Ci crederesti?» chiese Ramy a Sarah, afferrando con calore le mani della donna che aveva in mente di aiutare a uccidere per poi prenderne il posto. «Ci pensi, vent'anni con le stesse persone?» «Spero che ci ritroveremo di nuovo tutti insieme fra altri venti», soggiunse Sarah sorridendo a Bret. «Ci ritroveremo», promise Ramy. Certo che sarebbe stato così, pensava; lei e Bret insieme che si abbracciavano e si baciavano. L'unica differenza sarebbe stata l'assenza degli altri due. «Prima dobbiamo bere», decretò Bret. «Vino per tutti?» E andò in cucina. Sarah notò che l'altra coppia sfoggiava gioielli in oro e pietre preziose, come il magnifico anello al dito di Ramy e i polsini d'oro con monogramma di Shel, raffinati ed eccentrici. Ma il luccichio non riusciva a nascondere certe realtà. Shel aveva quarantasei anni, era il più vecchio dei quattro e cominciava a mostrare uno stomaco esageratamente pronunciato. Dimostrava più della sua età. «Siete molto eleganti», disse Sarah che, pur essendo vagamente invidiosa della ricchezza dei Jordan, non lo lasciava mai trasparire. Tuttavia, la loro amicizia stupiva gli altri amici: arrampicatori sociali di Washington con un'immensa tenuta, auto di lusso, ricevimenti sontuosi e un funzionario governativo di medio livello, con una moglie impiegata in un museo. Come potevano trovarsi a loro agio, quei quattro? Qual era il segreto di quello strano legame che risaliva a più di due decenni? «Ehi, guarda un po' questa roba», esclamò Shel osservando le foto nel soggiorno. «Ramy, vieni a vedere.» Shel ne aveva presa una di tutti e quattro, scattata davanti al Lincoln Memorial nel 1969. «È del periodo in cui ci siamo conosciuti», proseguì, «ma è come se fosse ieri. Gesù, ricordo persino l'orologio che portavo al polso!» Si erano conosciuti a Washington, quando Bret e Sarah seguivano un corso di addestramento speciale della marina prima di partire per San Diego. Ramy era la segretaria di un avvocato, ed era in cerca di un marito ricco; Shel era l'aiutante di un membro della Commissione finanze del Sena-
to. Nessuno al Campidoglio aveva dubbi su che cosa significasse la parola «aiutante», nel suo caso. Lui si procacciava fondi per la campagna elettorale, più o meno leciti, da uomini d'affari la cui posizione veniva illustrata davanti alla commissione, secondo il loro grado di generosità. «E questa te la ricordi?» chiese Ramy, prendendo una foto di loro quattro al Senato. «Sicuro», rispose Shel. «È stato prima che mi mettessi in proprio. Mi piace questa foto, ho sempre pensato che il Senato fosse la mia casa.» L'idea del doppio matrimonio era nata in modo molto spontaneo. Era stata una modesta cerimonia al Cheshire Motel con pochi amici e solo parenti stretti, ma da allora festeggiavano sempre insieme l'anniversario. «Spero che Jimmy Lee non ci deluda stasera», stava dicendo Shel, intrecciando le mani grassocce. «Non credo proprio», rispose Sarah. «Ho prenotato io stessa e gli ho detto che è il nostro ventesimo anniversario.» «È un posticino modesto, ma mi piace sempre», riprese Shel. «Non c'è niente che non va nella semplicità.» Era il commento che aveva fatto durante tutti quegli anni per dimostrare a Sarah che non si preoccupava affatto della differenza della loro posizione economica. Vero che lui guadagnava più di trecentomila dollari l'anno con le sue manovre politiche, ma era altrettanto vero che provava una sincera amicizia per i Lewis. Ramy, mentre chiacchierava con Sarah, rifletteva su come quel legame così intimo iniziato con un doppio matrimonio sarebbe finito con un doppio funerale entro pochi giorni. E in quel momento si chiese quali fiori fossero più adatti per una morte improvvisa e violenta. Si ripromise di approfondire con discrezione la questione. Certe cose erano importanti. «Il vostro appartamento è così accogliente», disse a Sarah, mentre continuavano a guardare le fotografie. «Non è cambiato per niente», convenne lei, colta di sorpresa. Strano, Ramy non aveva mai fatto commenti sull'appartamento, prima di allora. Quella sera, invece, Ramy lo osservava con attenzione. Dopo un doveroso periodo di lutto, rifletteva, lei e Bret si sarebbero sposati, due vecchi amici che univano le loro vite per guarire dal dolore. L'appartamento sarebbe stato un comodo punto d'appoggio in città, anche se, naturalmente, andava ristrutturato e sistemato secondo il suo gusto. Tutta quella paccottiglia sarebbe finita a qualche associazione benefica. «Il viaggio a Londra!» esclamò Shel, prendendo un'altra foto. «E stato il più bello. L'Imperial War Museum, tutti dovrebbero visitarlo.» Poi fu la
volta di una fotografia posata sul pianoforte che Sarah aveva comprato da una compagnia teatrale. «Ehi, Ramy, vieni qui!» Ramy odiava quegli ordini continui, ma accontentò il marito, come faceva sempre. Bret le aveva raccomandato che la prima regola in una congiura era quella di non cambiare le abitudini. E poi Shel aveva reazioni selvagge, sapeva imprecare, gridare. Cerca di tenerlo buono, finché non ti sarai liberata di lui. «Te la ricordi questa?» chiese Shel, spingendo la moglie verso una foto che ritraeva loro quattro su una spiaggia. «Vicino a quel posto ho comprato una proprietà.» «E abbiamo perso un sacco di soldi», gli ricordò lei. «È stato ammortizzato, però.» Riapparve Bret con quattro bicchieri di vino su un vassoio d'argento. «Ecco l'uomo più intelligente che conosco», osservò Shel. «Hai ragione», replicò Bret, scherzando. Offrì a ciascuno un bicchiere. «Facciamo un brindisi», suggerì. Tutti tacquero. Shel posò la foto che stava esaminando. «A noi», brindò Bret. «Venti magnifici anni trascorsi e un numero illimitato per il futuro.» «Prosit», replicò Shel. Tutti bevvero. «Quanti amici conoscete», chiese poi Shel in modo retorico, «che sono tuttora sposati con il loro rispettivo primo marito o la rispettiva prima moglie?» «Non molti», convenne Ramy. «Siamo fantastici», continuò Shel. «E io sono sicuro che seguiranno altri vent'anni, come ha promesso Ramy.» «Un altro brindisi?» insistette Bret. Si guardarono, poi intervenne Ramy. «Io ne ho uno.» E stavolta guardò Bret direttamente. «Ai nostri sforzi. Possano funzionare alla perfezione.» Bret sorrise a Sarah, alzò il bicchiere e bevve lentamente. «E adesso ho una sorpresa», annunciò all'improvviso, «una vera sorpresa. Neppure Shel, che sa sempre tutto quello che succede a Washington, se l'immagina.» «Dev'essere vero», ammise lui, stringendosi nelle spalle. «Non so proprio di che cosa tu stia parlando.» «Bret, non ci avrai mica comprato un regalo, vero?» domandò Ramy. «Nessun regalo.» «Per fortuna, ci sarei rimasta male. Noi non abbiamo portato niente.» Brava, pensò Bret. L'ha detto bene. «No», ripeté. «Si tratta di un'idea, di una proposta.»
«Spara», lo incitò Shel. «Questa sera sono vent'anni che siamo sposati», riprese Bret. «Avete mai sentito parlare di coppie che rinnovano il giuramento?» «Sicuro», disse Ramy. «In pratica si risposano.» «Esatto. Ripetono la cerimonia e qualche volta chiamano persino lo stesso pastore.» «Ramy, i Miller l'hanno fatto», osservò Shel. «Perché non lo facciamo anche noi?» propose Bret. Sarah era inebetita. «Noi?» «Perché no?» Non riusciva a crederci. «Ma perché?» «Perché è eccitante», rispose subito Bret. «Potremmo celebrare un altro doppio matrimonio. Ci siamo sposati al Cheshire. D'accordo, non ci risposeremo laggiù, oggi. Ma in ricordo dei vecchi tempi...» «È un'idea straordinaria», approvò Ramy. «Così romantica. Non trovi, Sarah?» In un primo tempo Sarah non disse nulla. Certo, era romantico, ma Bret aveva una relazione con un membro del Congresso. Gli uomini che hanno una relazione extraconiugale non vanno a rinnovare il giuramento... non gli uomini razionali, comunque. «Certo», riuscì a farfugliare alla fine. «Potrebbe diventare un ricordo meraviglioso.» Ma le sue parole non avevano calore, e neppure entusiasmo. Non era nel carattere di Bret, anche se non avesse avuto una relazione. Era un uomo attraente, d'accordo, dinamico, su questo non c'erano dubbi, ma un inguaribile romantico... no davvero! «Aspettate un momento», intervenne Shel. «Io non sono tanto sicuro.» Aveva uno strano sguardo preoccupato. Sarah notò che gli vibrava l'occhio destro, segno che era sotto tensione. «Su, Sheldon, non fare il guastafeste», borbottò Ramy. «Ehi, io non sono un guastafeste», protestò Shel. «Voglio dire, credo che sarebbe divertente.» «E allora?» lo incalzò Bret. «E allora mi chiedo: è roba per gente come noi?» «Che cosa vuoi dire?» insistette Ramy. «Be'... chi è che fa queste cose, di solito? Io ho l'impressione che siano solo le vecchie coppie...» Ramy alzò gli occhi al cielo. «Che razza di puritano!» borbottò fra i denti, abbastanza forte perché tutti la sentissero.
«Shel», cercò di spiegare Bret. «Io e Sarah siamo stati a una cerimonia simile proprio l'anno scorso. Lui era un avvocato, lei una copywriter. Una coppia fantastica, giovane, vivace. Potremmo farlo tutti insieme e invitare qualche amico...» «Be'...» «D'accordo», tagliò corto Bret. «Se proprio non vuoi, lasciamo perdere. Non possiamo mica fare un doppio matrimonio senza uno sposo, no?» «Ammetto di essere un po' noioso», confessò Shel. «Un po'!» intervenne Ramy, che s'interruppe di botto, notando l'occhiata di Bret. «Allora dovrò cancellare la prenotazione che ho fatto per la sala riservata al Cheshire», continuò Bret. «Per quando?» domandò Ramy, pur conoscendo già la risposta. «Per il prossimo weekend. Mi sembrava un'idea magnifica...» Tutti guardarono Shel, che improvvisamente cominciò a sorridere, mentre il faccione gli si illuminava. «Che gran figlio di...» «Colpevole», concesse Bret, scoppiando in una risata fragorosa. «E va bene, facciamolo», acconsentì Shel. «Diavolo, non capita spesso di sposare la stessa bellissima donna!» Ora tutti ridevano, assassini e vittime predestinate. Delle grandi risate. «Hai parlato di persone che si sono rivolte allo stesso pastore», azzardò Ramy. «L'ho convocato», annunciò Bret. «Davvero?» esclamò Shel. «Ecco, non proprio. L'ho rintracciato tramite la sua chiesa. Si è ritirato, ora, e vive a Manassas. Gli ho telefonato.» «Si ricordava di noi?» volle sapere Sarah. «No, ma non ha importanza. Ha detto che sarebbe stato lieto di rinnovare i matrimoni, se lo desideravamo.» «Certo che lo desideriamo», confermò Ramy. Sarah continuava a chiedersi se ciò che stava avvenendo fosse reale. Pazienza se l'idea fosse venuta a Ramy e Shel, ma Bret? Forse Alison Carver avrebbe potuto fare la damigella d'onore. «Dovranno esserci dei fiori», stava dicendo Ramy. «Certo», convenne Sarah. «Tireremo fuori gli album del primo matrimonio e studieremo le foto.» «Veramente, ci ho già pensato», annunciò Bret con un largo sorriso. «Ma pensa proprio a tutto quest'uomo!» fu il commento di Shel.
«Ho guardato gli album», spiegò Bret, «e ho cercato di ricreare la cerimonia originale. Non ho ancora fatto l'ordinazione...» «Questa faccenda comincia a piacermi», ammise Shel. «È davvero eccitante.» «Un'altra cosa», aggiunse Sarah. «Dobbiamo trovare lo stesso fotografo. Era uno che passava gran parte del suo tempo a mangiare e il resto a scattare foto orribili, sfocate e confuse, con gli ospiti che tiravano fuori la lingua e facevano le boccacce.» «Si è trasferito in Alaska», riferì Bret. «Bene.» E mentre tutti ridevano, Sarah ebbe l'impressione di palpare l'elettricità nell'aria. Doveva essere una cena per festeggiare un anniversario, ma ora stava diventando una riunione per preparare un nuovo matrimonio. Guardando le facce sorridenti degli altri, concluse che sarebbe stato meraviglioso, se non fosse stato per quella grande nube... Beata Ramy che aveva un marito fedele, a cui era fedele! Ci sono persone che hanno un motivo per festeggiare. 13 Il Jimmy Lee's non poteva certo definirsi un locale elegante. Anzi, era così modesto che i redattori delle guide dei ristoranti erano convinti che quell'aspetto così poco appariscente fosse intenzionale. Forse Jimmy pensava che fosse chic, oppure immaginava che le spie che vi mangiavano cercassero un ristorante che non desse assolutamente nell'occhio. Il locale era costituito da un'unica sala, lunga e stretta, in Connecticut Avenue, con il menu attaccato su una vetrina con lo scotch. «Un tavolo per quattro per il ministro Lewis», annunciò Shel Jordan all'impiegato che sedeva vicino alla porta principale, con un registro davanti a sé, su cui erano segnate le prenotazioni per la serata. Jimmy Lee era vicino e sentì. «Ministro Lewis, che piacere rivederla!» esclamò, agguantando la mano di Jordan. Jimmy era in grado di ricordare l'ordinazione di un intero pranzo per sei persone, comprese le specialità più strane, ma non era un buon fisionomista. «È lui Lewis», spiegò Shel. «Ministro Lewis, che piacere rivederla!» ripeté Jimmy a Bret, senza minimamente scomporsi. «Buonasera, Jimmy», salutò Bret. «Il suo tavolo è già pronto, signor ministro», dichiarò Jimmy con uno
strano accento, un misto di orientale e inglese che tradiva le sue origini per metà cinesi e per metà scozzesi. Il proprietario del ristorante scortò personalmente la comitiva verso la sala da pranzo, ma venne improvvisamente bloccato da un tale che aspettava in coda con la moglie. «Mi scusi!» protestò il cliente a voce così alta da richiamare l'attenzione di mezzo ristorante. «Anche noi abbiamo prenotato e lei ci ha detto che saremmo stati i prossimi!» Jimmy gli posò la mano sul braccio. «Chiedo scusa. Il signore ha una prenotazione speciale.» Jimmy era un genio a far aspettare le persone dando la precedenza ai clienti più importanti, persino quelli di cui non riconosceva la faccia. Accompagnò Bret e i suoi ospiti a un tavolo nel ristorante quasi al completo e porse loro quattro grandi liste, ciascuna con un largo fiocco dorato. «Buon appetito! Gli scampi che avete ordinato sono particolarmente buoni, stasera.» «Grazie, Jimmy», replicò Bret. Il proprietario andò alla porta a ricevere un colonnello dell'esercito. Non era un locale rumoroso, grazie allo spesso tappeto sul pavimento e al soffitto insonorizzato, ma arrivava parecchio fumo dalla zona riservata ai fumatori e i camerieri si affrettavano fra i corridoi che separavano i tavoli. Ben poco indicava che quello fosse un ristorante cinese, all'infuori delle due lanterne decorative appena oltre la porta principale e la scrittura cinese sulle copertine dei menu. «Mi piace questo posto», stava dicendo Shel, aprendo il menu. «Qualcuno si ricorda la prima volta che ci siamo venuti?» «Non farmelo ricordare», rispose Ramy. «Facciamo finta che fosse ieri.» «Jimmy era solo un ragazzo. Suo padre, il cinese, dirigeva il locale e noi eravamo tutti curiosi e affamati. Si poteva avere un pasto completo per dieci dollari. Non ve lo ricordate? Ho ancora le ricevute. Per via delle tasse, sapete.» Shel inforcò gli occhiali da vista e affondò la testa nel menu. Mentre gli altri leggevano la lista, Bret sbirciò Ramy. Si scambiarono un lieve, rapido sorriso. Presto, pensava Ramy, non sarebbero stati più lì ad ascoltare le insulsaggini di Shel. Presto sarebbero rimasti loro due soli... e sarebbero andati in ristoranti più eleganti. «Ordiniamo il primo, il resto lo decidiamo dopo», suggerì Shel. «Ma io ho già ordinato gli scampi per tutti», gli ricordò Sarah. «Be', allora prendiamo tutti gli scampi.»
Bret spostò lo sguardo verso Sarah. Era l'ultima volta che venivano insieme al Jimmy Lee's? Sarah ricambiò lo sguardo e i loro occhi s'incontrarono come se fosse una serata romantica di tanti anni prima. Ma lei sapeva che non era così. Se tutto si sfasciava, quello sarebbe stato l'ultimo anniversario da festeggiare in quel locale. Con uno sforzo, ricacciò indietro le lacrime. Era stata una giornata spaventosa, ma quello era il momento peggiore. In futuro, rifletté, sarebbe venuta sola nel ristorante, giusto per ricordare i vecchi tempi. Il pensiero la sorprese. Bret stava guardando attraverso le tende, fuori dalla vetrina principale, alcune persone che entravano, quando qualcosa gli si affacciò d'improvviso alla mente. Per far esplodere la carica avrebbe dovuto calcolare il momento preciso, altrimenti il colpo avrebbe potuto investire la finestra del salone del motel e gettargli i vetri in faccia. Doveva studiare quel problema. Si ripromise di farlo. «Stai sognando a occhi aperti?» gli chiese Sarah. «Oh, no. Stavo soltanto pensando alla finestra del soggiorno che dev'essere sostituita.» «Chiamerò qualcuno», lo rassicurò Sarah. «Le finestre sono pericolose.» «Già», convenne Bret. Poi notò che sua moglie s'irrigidiva improvvisamente. «Hai visto un fantasma?» Lei si costrinse a rilassarsi. «È solo una fitta allo stomaco, dev'essere il vino di prima.» «Vuoi un digestivo o...» «No, è passato.» Ma non era passato e non era un bruciore di stomaco, perlomeno non causato dal vino. Sarah guardava verso il fondo della sala, dove una donna stava uscendo dalla toilette delle signore per tornare al suo tavolo. Era in ombra e si stava avvicinando. Sarah era sicura... quasi sicura. No, non poteva essere! Gettò un'occhiata a Bret, che sedeva con la schiena rivolta alla donna e leggeva di nuovo il menu. Lui poteva averla... Impossibile! Continuò a fissare la figura femminile che avanzava nel ristorante e che a un certo punto emerse dall'ombra. Nessun dubbio. Si sentì avvampare di collera. Che diavolo ci faceva lì Alison Carver? Ormai era a pochi passi e i suoi occhi incrociarono quelli di Sarah. Riconobbe la moglie di Bret per averla incontrata a qualche cerimonia, ma
non si fermò e non si mostrò sorpresa. Sarah continuò a fissarla. Poi la Carver si fermò proprio davanti al loro tavolo e si rivolse a Bret, che teneva la faccia affondata nel menu. «Signor ministro», disse. Signor ministro, pensò Sarah. Era così che lo chiamava? Anche a letto? Bret sollevò lo sguardo. «Onorevole Carver, che piacevole sorpresa!» Onorevole? pensò ancora Sarah. Che bella commedia! «Sarah, Ramy, Shel, conoscete l'onorevole Carver della California? E nella Commissione stanziamenti. Lavoriamo insieme sul bilancio militare.» Tutti salutarono con un cenno del capo. Shel e Alison Carver non si conoscevano. Lui la considerava di livello troppo modesto per coltivarla, almeno in senso politico. «È in compagnia?» chiese Bret. «No, sono sola», rispose la Carver. «Torno in ufficio per un lavoro.» Sarah sapeva che era venuta per vedere Bret. Naturale. Quale altra spiegazione? Una coincidenza? Macché, era un modo per stare insieme anche con la moglie presente. Sarah guardò la donna con attenzione. Indipendente e orgogliosa com'era, non poté fare a meno di porsi una vecchia domanda: che cos'ha lei che io non ho? Certo, un'onorevole era superiore alla conservatrice di un museo, ma quella non poteva essere la sua unica attrattiva. Era, piuttosto, il fascino della Carver, la sua voce abituata alla televisione, il suo stile. Ecco che cosa doveva essere. «State festeggiando qualcosa?» chiese lei. «Il nostro ventesimo anniversario», la informò Shel. «Magnifico!» esclamò l'onorevole. «Allora vi auguro altri cinquant'anni.» Era tutto preordinato, pensò Sarah, oppure Bret l'aveva avvertita che sarebbe andato in quel ristorante. Forse lei lo spiava, lo controllava, ed era piombata lì per disorientarlo. «A proposito», proseguì Alison Carver guardando direttamente negli occhi la sua rivale. «Suo marito non fa che parlare di lei e del suo lavoro. Dev'essere meraviglioso avere un uomo che ha tanta stima e tanto rispetto.» «Certo», rispose Sarah con una fitta al cuore. «È un marito così tollerante e... fedele.» «Be', ora devo andare; il mio staff mi aspetta.» Tornò a rivolgersi a Sarah. «Lieta di averla conosciuta. Dovremmo rivederci.»
«Con piacere», acconsentì Sarah. «Sono sicura che abbiamo degli interessi in comune.» La donna badò a non far slittare la sua attenzione su Bret, ma si allontanò con un semplice «arrivederci» a tutti, scambiò qualche parola con Jimmy Lee e uscì dal ristorante. «Una signora in gamba», osservò Ramy. «Leggo sempre di lei sui giornali.» Grazie, pensò Sarah. Una vera amica, Ramy! Ma già, come poteva sapere? «Pare che stia per sposare un avvocato di Houston», continuò Ramy. «Fa parte di un comitato per un programma antidroga in cui lavoro anch'io. L'ho saputo da uno dei nostri collaboratori. Ma forse sono solo chiacchiere.» «Lo credo anch'io», confermò Bret. «T'interessi anche a queste cose, Bret?» gli domandò sua moglie. «Oh, non proprio. Ma sentiamo di tutto.» «Che importanza ha?» intervenne Shel. «Piuttosto, parliamo del nostro matrimonio. Senti, Bret, se la spesa è esorbitante, pago io.» «D'accordo», accettò Bret. «Dovremmo usare la sala dei ricevimenti, come la prima volta.» «Che bello!» esclamò Ramy. «Vi ricordate? Quando siamo usciti dal motel, gli amici ci hanno gettato addosso il riso», aggiunse Shel. «Chissà che non lo rifacciano», suggerì Ramy, strizzando l'occhio a Bret. Il riso lo avrebbero gettato solo a loro due... gli unici a uscire vivi dalla sala. Si avvicinò un cameriere con un secchiello d'argento contenente una bottiglia di champagne. «Non l'abbiamo ordinato», osservò Shel. «No, infatti. Offre l'onorevole Carver», spiegò il cameriere. «Con i suoi migliori auguri di buon anniversario.» «Che gentile!» esclamò Sarah. «Davvero gentile.» E così, nel corso di una cena cinese nello stesso ristorante dove più di vent'anni prima avevano programmato il loro primo matrimonio, programmarono ogni particolare della seconda cerimonia. Sarah era ancora stupefatta di quella storia e del fatto che Bret avesse proposto quella strana, eppure romantica celebrazione.
Mentre chiacchieravano, si accorse che suo marito la sbirciava e poi osservava Ramy, ma non ci trovò niente di strano. Lei pensava solo ad Alison Carver. Che rapporto aveva Bret con quella donna? Che cos'aveva in mente? Ciò che Bret aveva in mente era l'omicidio. Tutti i suoi piani convergevano verso un unico punto: il doppio matrimonio. Continuò a scoccare occhiate a Sarah e Ramy, due donne che sostenevano ruoli importanti in quel piano. Quella era probabilmente l'ultima volta che le vedeva insieme, perlomeno prima della nuova cerimonia. Ecco Sarah, una donna modello, una moglie stupenda secondo ogni punto di vista. Ma lui s'era stancato della sua mancanza di ambizione, della sua indifferenza alle necessità di un marito aggressivo. Presto sarebbe stata sostituita da una donna che poteva cambiare il suo destino. Ed ecco Ramy. Così perfetta, così «Washington». Lei sapeva conversare con un ambasciatore o con un senatore e, quando entrava in una stanza, persino i muri la notavano. Era una donna che si divertiva a recitare una parte e che sapeva sempre come recitarla. Anche in quel momento... sosteneva un ruolo essenziale per il futuro di Bret. Quando ebbero finito di mangiare, riapparve il cameriere. «Il dolce della fortuna», annunciò, e posò quattro piatti coperti davanti a loro. Naturalmente, Shel afferrò il primo. «Che cosa dice?» volle sapere Ramy. Lui sollevò il coperchio e tirò fuori un bigliettino arrotolato. «Dice: 'Il vostro intuito alla fine trionferà'.» «Ehi, non male», osservò Bret. «E il tuo, Sarah?» Sarah lesse: «Niente è mai esattamente come appare». Si strinse nelle spalle e soggiunse: «Mi chiedo che cosa voglia dire». «Probabilmente è un vecchio proverbio cinese», replicò l'amica. «State a sentire», si intromise Bret. «Il mio dice: 'Ciò che non sai ti danneggerà per sempre'.» «Giusto», approvò Shel. «Bisogna attenersi ai fatti.» E si rivolse a sua moglie. «E tu, Ramy?» Ramy stava già svolgendo il suo bigliettino. Lo lesse fra sé e sorrise. «Allora?» la incalzò Shel. «C'è scritto: 'Farai qualcosa di importante per qualcuno che ami'.» Ramy si rivolse a suo marito, ma prima diede una rapida occhiata a Bret. «Lo spero di tutto cuore.»
14 «Anch'io ti amo e non vedo l'ora di stare sempre con te.» Era la mattina dopo. Bret parlava dal suo ufficio, sulla linea privata, e Ramy si estasiava a ogni parola. Era distesa sull'immenso letto matrimoniale, adagiata sul copriletto di satin rosa con un grande monogramma al centro, SJ. Nella camera da letto quasi tutto era rosa, compreso il telefono e, ovviamente, la sua camicia da notte. Sapeva che Bret avrebbe chiamato a quell'ora, come faceva quasi ogni giorno. «Che noia ieri sera, non è vero?» disse Ramy. «Facevo fatica a stare sveglio», rispose Bret. «L'unica cosa che mi ha fatto resistere è stato il pensiero che presto il problema sarà risolto. Aspetto che mi arrivi il materiale fra qualche minuto. Sembra buono, molto buono.» «Shel vuole mettersi lo smoking di vent'anni fa per la cerimonia della settimana prossima», riferì Ramy. «L'ha tirato fuori dall'armadio appena siamo tornati, ieri sera.» «Be', in effetti un abito nero può fargli comodo», commentò Bret. «Quando vi ho visto insieme, tu e lui, ieri, non riuscivo a credere di averlo sposato», continuò Ramy. «Se penso che il mio errore è durato vent'anni!» «È arrivato il momento di rimediare», ribadì Bret. «Ora ti lascio», disse lei. «Ricordati di farmi avere la merce.» «D'accordo. Ancora qualche giorno e tutto sarà finito.» «A proposito», aggiunse Ramy. «Lo sai che cos'ha detto l'idiota, ieri sera, quando siamo tornati a casa?» «No, che cosa?» «Era così eccitato per questa storia del doppio matrimonio che continuava a ripetere: 'Sarà una bomba'!» Bret rise appena. «Speriamo», borbottò. «Non vorrei che il mio vecchio amico si sbagliasse.» La conversazione finì. Bret compose immediatamente un altro numero. Mentre Bret faceva l'altra telefonata, il capitano Avery Masters si avvicinava al suo ufficio, percorrendo un lungo corridoio coperto da uno spesso tappeto. «Sono il capitano Masters, ho appuntamento con il signor Lewis», an-
nunciò alla segretaria. «In questo momento è al telefono. Se vuole attendere, si accomodi, capitano.» «Ehm... è una questione urgente», insistette Masters. «Le dispiace interromperlo?» L'impiegata sapeva che non c'era da discutere con la parola «urgente». Premette il tasto dell'interfono. «Sì?» rispose Bret. «C'è il capitano Masters, signore. Dice che è urgente.» «Gli dica di aspettare un momento», ribatté Bret. «Anche questo è abbastanza urgente. È la polizia.» Masters, sorpreso, sedette. «Non voglio allarmare mia moglie», stava spiegando Bret al telefono, «ma sono sicuro di non sbagliarmi. È la mia posizione, capisce. Quando siamo rientrati, ho visto dei segni sulla serratura. Ma le ripeto, non mancava niente, almeno, niente di cui mi sia accorto.» Rimase in ascolto e aggiunse: «No, non voglio presentare una denuncia, ma solo riferirvi la cosa. Come le ho detto, non l'ho neppure accennato a mia moglie. Ieri ha avuto un piccolo incidente...» L'agente all'altro capo del filo suggerì a Bret di cambiare la serratura. «Ci ho già pensato», replicò lui. «Dirò a mia moglie che era rotta. Francamente, credo che possa essere stato qualcuno del personale dello stabile che cercava qualche soldo. Ma in casa non c'era denaro.» L'agente fece altri commenti discreti e gli rivolse qualche domanda. «Sì, ho una pistola», rispose Bret. «Ma prego il cielo di non doverla mai usare.» Completò il rapporto verbale alla polizia e con un sorriso posò il ricevitore. Era decisamente soddisfatto. Ora ci sarebbe stata una testimonianza scritta sull'effrazione avvenuta nel suo appartamento. Era stato lui stesso a manomettere la serratura. «Faccia entrare il capitano Masters, per favore», ordinò all'interfono. La porta si aprì e apparve Masters. Indossava una divisa bianca con quattro mostrine dorate sulle spalline, già pronto a recarsi a un ricevimento ufficiale all'ambasciata canadese, più tardi. Portava una piccola borsa nera di materiale antiproiettile, un tessuto che garantiva una perfetta tenuta anche se colpito da un coltello o da un piccolo proiettile. «Buongiorno, si-
gnore», salutò Masters. «Buongiorno, capitano», rispose Bret. «Ho ricevuto il suo messaggio, ieri sera. Grazie di essere stato così tempestivo ed efficiente.» «Facciamo del nostro meglio.» «Immagino che abbia la merce.» «Sì, è qui. Tutto quello che le occorre, in tre esemplari, come lei ha ordinato.» «È sicuro che non ci siano stati errori?» s'informò Bret. «Le marche e i numeri di modello sono esattamente quelli che ho chiesto?» «Assolutamente. Come le ho detto ieri, questo materiale è abbastanza comune.» Abbastanza comune: era esattamente ciò che voleva Bret. Non doveva esserci niente di strano. Il capitano Masters posò la borsa sulla scrivania. «La ringrazio», fece Bret. «Le assicuro che ne verrà fatto buon uso.» «Non ho dubbi, signore», rispose Masters. «Per quanto invece riguarda il rapporto Kearns», continuò Bret, «l'ho riesaminato l'altra sera. Le prove sono maledettamente indiziarie, non crede capitano?» «L'ho sempre ritenuto, signore.» «Vedrò di archiviare il rapporto in qualche schedario innocuo», promise Bret, notando il sollievo sulla faccia del suo interlocutore. Ma Masters captò il messaggio forte e chiaro. Aveva fatto ciò che gli era stato chiesto e ora doveva tenere la bocca chiusa. Lo schedario innocuo poteva sempre essere riaperto. «Adesso penso che dovremmo rilassarci», suggerì Bret. «Sa, capitano, credo che le piacerà fare un giretto con la mia flotta aerea.» In un primo tempo Masters non capì, poi il suo sguardo si spostò sulla vetrina piena di modellini d'aereo degli anni Cinquanta, una curiosità che aveva attirato l'attenzione di tutti, dal ministro della Difesa all'ultimo impiegato. Masters lo considerò un onore. Bret si alzò e vi si avvicinò. Come al solito, indossava un completo dal taglio perfetto, grigio fumo stavolta, con panciotto e cravatta marrone. «Quelli erano giorni in cui modellini simili venivano costruiti dai ragazzi di tutta l'America», dichiarò Bret aprendo la vetrinetta. «Al giorno d'oggi non ne fanno più così. Fabbricano tutta roba di plastica, che si può mettere insieme in un paio d'ore. Tutto in serie, tutto stampato. Non c'è amore nell'assemblare un modellino di plastica, capitano.» «Sono d'accordo con lei, signore», convenne Masters, che intuiva sem-
pre quand'era il momento di dire le parole giuste. «Ora, guardi questo B-29 di StromBecker. Ah, se ricordo questo nome! Un tempo era un sogno per tutti i ragazzi. Due bigliettoni e mezzo per questo bombardiere. Sono tanti per un ragazzo. Vede le rifiniture?» «Ne ho costruito qualcuno anch'io», gli rivelò Masters. «Ne andavo matto.» «I giocattoli di una nazione parlano della sua cultura, capitano. Lavoravano sodo, a quei tempi.» «Scommetto che avrebbe voluto avere un figlio con cui costruire aerei», azzardò Masters. «Non c'è bisogno di un figlio per questo», ribatté Bret senza dare ulteriori spiegazioni. Il capitano Masters, nonostante la sua ambiguità morale, aveva una mente più acuta di quanto Bret immaginasse. Che tipo d'uomo, pensava in quel momento, era quello che teneva modellini d'aeroplani in una vetrina e bacchette per direttori d'orchestra in un'altra? C'era un legame fra le due cose? Probabilmente sì, concluse il capitano. Entrambe le cose rappresentavano la danza con il potere di quell'individuo... il potere su un'orchestra, il potere simbolico di modelli d'aerei militari. Masters s'immaginò Bret Lewis che fissava gli aeroplani e se ne vedeva al comando. Ricordò di avere fatto parte di una corte marziale che doveva giudicare un ufficiale perché aveva sparato a un soldato che gli aveva disobbedito. Anche quell'ufficiale, quand'era ragazzo, aveva costruito centinaia di modellini. Lo aveva messo in rilievo il rapporto di uno psichiatra. E Bret Lewis era così. Eppure, si ricordò Masters, Lewis non aveva mai preso il brevetto di pilota. Bret Lewis, come molti uomini che il capitano conosceva a Washington, era semplicemente ossessionato dal potere, dalla smania di comandare. Non era una persona da contrariare. Bisognava restare fedeli a Bret Lewis e agire con assoluta lealtà. «Anch'io ho costruito qualche modellino», stava dicendo Bret. «Prima l'intelaiatura su cui si incollava della carta leggera... Lo avrà visto anche lei. Era un'esperienza meravigliosa. I ragazzi d'oggi non sanno neppure che cosa si provi a far volare un aeroplanino con un comando a distanza. Se ne diventa parte, si resta lassù con lui. Si preme un bottone e... le cose succedono.» Non ci sono dubbi, pensava Masters. Nessun dubbio. Ma neppure lui,
con la sua fervida immaginazione, poteva prevedere quale bottone avrebbe premuto Bret Lewis. 15 Sarah si trovava nella sala del Trasporto aereo del museo, che ospitava un argenteo DC-3 bimotore del 1930, l'apparecchio più pesante sospeso con i cavi. Ai suoi lati c'era la scritta: EASTERN AIR LINES. Aveva trovato alcuni documenti che parlavano dei primi impieghi di quell'aereo e ne stava discutendo con un curatore specializzato in velivoli a elica. Intorno a loro c'era un gruppo di boy scout di Baltimora, rumorosi e spensierati. Quando era venuta al lavoro con Bret, aveva portato con sé le foto di Durfee nella borsa. In un primo tempo, aveva stabilito di lasciarle a casa, chiuse a chiave nel suo armadietto, ma poi l'aveva presa una paura irrazionale, paura che scoppiasse un incendio e che le foto fossero salvate e consegnate a Bret. Come avrebbe potuto spiegare la loro presenza? Che cosa avrebbe potuto dire, se non affrontarlo, in quel momento? Ma Sarah sapeva benissimo che la paura di un incendio era praticamente una fantasia, forse un trucco psicologico che la sua mente aveva ideato per evitare il problema reale. Lei era al ristorante. Alison Carver in persona. Ed era sola. No, non poteva essere una coincidenza, Bret doveva sapere che c'era. Era stato intenzionale, ma perché? Lui aveva talmente bisogno di quella donna da desiderare di vederla anche nel giorno del suo ventesimo anniversario di matrimonio? Ma allora che senso aveva la proposta di ripetere la cerimonia nuziale? Doppia, per giunta. Stava finendo di parlare con l'altro conservatore, quando guardò fuori da una delle immense finestre del museo che si affacciavano sul Mall. Cadeva una leggera pioggerellina e tutto luccicava. Anche i pullman da turismo allineati davanti all'ingresso erano lucidi. A un tratto, Sarah vide un uomo scendere da una Cadillac bianca con autista e aprire un ombrello. Anche a quella distanza le parve di riconoscerlo. Ma per quale ragione Shel Jordan sarebbe dovuto venire al museo? Lo osservò mentre si avviava verso l'ingresso, reggendo l'ombrello in una mano e una piccola borsa nell'altra. Shel Jordan. Ora camminava più rapidamente, scansando la folla, chiaramente ansioso e nervoso. Perché? Era giunto quasi all'ingresso, senza correre, quasi trotterellando. Il suo
viso si fece più distinto, un viso angosciato, certo non il viso del buontempone della sera prima. C'era qualcosa che non andava, era successo qualcosa di grave. Sarah era l'unica persona che Shel conoscesse al museo e quindi stava venendo da lei, senza annunciare la sua visita. Si accorse che il cuore le batteva forte e i muscoli s'irrigidivano. Ramy. Forse si trattava di Ramy. Le era capitato qualcosa e Shel si rivolgeva alla sua amica più intima. Ramy non era mai stata brava a guidare un'auto, ci vedeva poco. Forse era stanca... O forse no? Forse si trattava di Bret. Ma certo: tutti coloro che lavoravano con Bret al ministero della Marina sapevano che Shel Jordan era il suo migliore amico. Sarah si precipitò nel suo ufficio, proprio come aveva fatto il giorno prima, quando aveva visto arrivare Durfee. Non voleva trovarsi di fronte a Shel nella galleria principale, con visitatori e guardiani intorno. Shel era un tipo emotivo e sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Sedette alla scrivania su cui erano sparsi disegni di un caccia inglese che il museo stava per acquistare e, mentre aspettava, risuonò un secco colpo all'uscio. «Avanti», disse lei. La porta si aprì e sulla soglia c'era Shel. Sembrava teso e molto stanco. «Shel!» esclamò lei. «Come mai qui?» «Posso entrare?» chiese lui. Era strano, di solito entrava in una stanza senza chiedere il permesso. «Certamente.» La curiosità e la paura di Sarah erano evidenti. «Accomodati, Shel. C'è qualcosa che non va, a quanto pare.» Jordan si lasciò cadere sulla sedia e gettò l'ombrello sul pavimento. «Shel, calmati», lo invitò Sarah, preoccupata che potesse avere un attacco di cuore. «Vuoi un po' d'acqua?» Lui agitò la mano e fece di no con la testa. «Non ho bisogno d'acqua, ho solo bisogno di un buon consiglio, e tu pure.» «Come? Che cosa stai dicendo, Shel?» Lui alzò una mano quasi a chiedere tempo. «Lasciami riprendere fiato», disse, cercando di respirare normalmente. «Mi dispiace piombare qui in questo modo, avrei dovuto telefonarti. Ma dovevo venire.» «Avanti, parla», lo incalzò Sarah. Dopo qualche minuto, Shel parve calmarsi, sebbene respirasse a fatica sotto il panciotto nero tirato sullo stomaco prominente. «È successo qualcosa.»
Si trattava di Bret, Sarah ne era sicura. «Che cosa, dimmi?» lo pregò. Shel aveva gli occhi lucidi, come se stesse per piangere. «Senti, Bret ha avuto dei problemi ultimamente?» «Problemi?» «Sì, di qualsiasi genere», fece Shel. «No. È capitato qualcosa a mio marito?» «In un certo senso sì.» «In che senso?» «Sarah, mi è difficile chiedertelo, ma devo farlo. Tu capirai. Qualcosa è andato storto nel vostro matrimonio?» Sarah spalancò la bocca. Era preparata a sentire brutte notizie di carattere medico. Che cosa sapeva Shel? Alison Carver gli aveva parlato, gli aveva telefonato? «È una domanda difficile», rispose. «Perché me lo chiedi?» «Vuoi proprio saperlo?» «Voglio sapere tutto.» «Sarah, cara, ho scoperto una cosa che non ti farà piacere, ma noi due siamo vecchi amici e ho pensato che fosse leale... Voglio dire, se posso esserti utile...» «Vieni al punto, Shel.» «Subito. Ecco quello che sta succedendo: Bret ha una relazione.» «Sì», convenne Sarah con un profondo sospiro. «Sì? Che cosa vuol dire 'sì'?» «Lo sapevo.» Shel si appoggiò allo schienale. Sembrava sbalordito. «Come?» «Ho cominciato a sospettare qualche mese fa. Bret aveva preso l'abitudine di rientrare alle ore più strane e non era per il lavoro, lo capisco perfettamente quando è sotto pressione per il lavoro. Una donna lo capisce.» «Oh», bofonchiò Shel e l'esclamazione risuonò quasi come un lamento. «Lo hai sempre saputo...» «Be', l'ho sospettato per tutto questo tempo. Immagino che tu abbia scoperto la stessa cosa. Se sai tenere un piccolo segreto...» «Io sono nato per mantenere i segreti.» «Detesto ammetterlo, ma ho assunto un investigatore che ha seguito Bret, ha scattato delle fotografie. In realtà...» Sarah sbirciò in direzione della sua borsa. Non le andava di mostrare le foto a Shel, forse perché si vergognava di aver indagato, oppure perché quelle foto erano così umilianti. Lui glielo lesse negli occhi. «Le hai qui?»
«Sì.» Shel Jordan capiva di non poterle chiedere di vederle, ma rimase a guardare Sarah mentre prendeva la borsa e l'apriva. «Lei è una donna molto elegante», osservò. «Oh sì, l'ho studiata ieri sera.» «Ma non capisco. Perché Bret avrebbe fatto...» Sarah prese la busta e tirò fuori le fotografie. Erano capovolte. «Sei sicura di volermele mostrare?» chiese Shel. «Voglio dire, so già che tipo è la signora.» «Tu sei il più caro amico di Bret, il nostro più caro amico», replicò Sarah. «So che lo fai a fin di bene. Guardale.» Con un gesto leggermente drammatico, gli porse le foto. Shel le fissò e per un momento non disse niente. Prese la prima e la studiò. «Interessante?» chiese Sarah. «Non è lei.» «Che cosa?» «Questa è Alison Carver.» «Esatto.» «Cara, non è lei la donna con cui Bret ha una relazione.» «Come?» «È Ramy.» «Chi?!» Era addirittura inebetita. In quel momento, il coro di una scuola militare si stava esibendo davanti al museo. Davvero poco opportuno. «Shel, stai scherzando!» «Lo vorrei con tutto il cuore.» «Oh, andiamo, è pazzesco! Ti inventi le cose. Ti dico che lui ha una relazione con quella donna del Congresso. Era persino al ristorante, ieri sera, probabilmente per controllarlo. E poi, guarda le foto!» Lentamente Shel infilò la mano nella sua borsa e tirò fuori una cassetta. «Sarah, qui c'è un nastro.» «Un nastro? Gesù! E che c'è su quel nastro?» «Frasi da innamorati.» «Dove l'hai preso?» «Sei stata in casa mia milioni di volte, sai che ho telefoni e fax in tutte le stanze. Ho anche questo dispositivo che registra automaticamente le telefonate. Lo uso per i miei affari e ieri, per caso, l'ho lasciato acceso. Me ne
sono accorto quando sono rientrato e ho visto che il nastro era stato inciso. Naturalmente, l'ho fatto scorrere. Un colpo di fortuna.» Sarah fissò il nastro, poi di nuovo le foto a colori che decoravano la sua scrivania. Che diavolo stava succedendo? «Ma allora lui ne ha... due?» domandò con un filo di voce. «Cielo, non lo so!» replicò Shel. «So solo ciò che hanno detto.» «Io non ci credo», dichiarò Sarah, con voce tremante, «assolutamente no.» «Farai meglio a crederci.» «Tu lo sapevi sin da ieri sera, quando eravamo tutti insieme. Come hai potuto...» «Non volevo lasciarmi sfuggire ciò che avevo scoperto. Siamo nella stessa barca, tu e io. Volevo che tu sentissi il nastro, prima di agire.» Sarah tirò un profondo sospiro. «Be', ti ringrazio. Hai portato un registratore?» Shel frugò per un attimo nella cartella e ne estrasse un piccolo Sony che usava solitamente per dettare degli appunti. Vi inserì la cassetta. «Sei sicura di volerlo sentire?» le domandò. «Sì», rispose Sarah con voce ferma. «Non sarà certo peggio di queste foto.» «Non esserne così sicura», l'ammonì Shel. «Qualche volta una parola vale più di mille foto.» Premette un tasto. Un leggero gracchiare, poi il nastro cominciò. «Pronto.» «Ramy?» «Ciao...» «Lui non c'è, vero?» «No, certo. In questo momento ha un appuntamento con un amico personale di Imelda Marcos.» «Volevo solo sentire la tua voce. È stata una giornata importante, no?» «Sì.» «I tuoi problemi presto finiranno e lui uscirà dalla tua vita, per sempre.» «Non vedo l'ora.» Shel scosse la testa disperato, mentre Bret pronunciava quelle parole.
«Anch'io. Lui è stato cattivo con te, Ramy. Cattivo con una persona che mi è molto cara.» «Non puoi immaginarti quanto sia stato cattivo.» «Sono contento che tu abbia approvato tutto ciò che ti ho proposto.» «Hai ragione, è l'unico modo. Risolve ogni cosa.» «Probabilmente parlano del divorzio», intervenne Shel. Il nastro continuò. «Se soltanto avessi saputo prima quanto tu fossi infelice con Shel...» «Ecco... l'ho tenuto dentro per tanto tempo, ma quando sei apparso tu... mi sono sfogata. Ciò che hai fatto significa molto per me. Non so che cosa mi sarebbe successo, senza di te.» «Ora non devi pensarci più. Risolveremo insieme i nostri problemi. Ho parlato con la persona di cui ti ho accennato.» «Quale persona?» «Sai...» «Con ogni probabilità si tratta di un avvocato», commentò Shel. «Stanno attenti a non pronunciarne il nome.» Ramy proseguì. «Oh, certo.» «Anche lui pensa che non sorgeranno problemi.» «Bene.» «Ho completa fiducia in lui. Non c'è uomo migliore, per questo genere di cose.» «Mi fa piacere. Molto dipende da lui.» «Potrebbe essere Saul Kaplan o Woody Evans», osservò Shel. Sarah ricordò che una volta, durante un party, Woody Evans le aveva detto: «La moglie è la prima a saperlo e l'ultima a crederci». Di nuovo la voce di Bret. «E senti... in realtà, è proprio per questo che ti ho telefonato: se vuoi parlare, se hai dei dubbi, desidero che mi chiami subito.» «Lo farò.» «Presto saremo insieme.»
Si udì il suono di un interfono e subito dopo una voce incomprensibile. «Devo lasciarti», disse Bret. Shel fermò il registratore e Sarah lo fissò. «Quella piccola... quei due piccoli miserabili...» Puntò il dito in direzione del registratore. «Ma è proprio vero?» «Sì», rispose Shel pacatamente. «Ancora non ci credo», ribatté Sarah, cercando disperatamente di contenere la collera che si accumulava dentro di lei. «Ramy è la mia più vecchia amica, la mia...» S'interruppe per guardare nuovamente le foto. «Impossibile!» Erano passate solo ventiquattr'ore da quando Al Durfee stava seduto sulla stessa sedia che ora occupava Shel e le presentava il suo capolavoro. Allora la sua vita si era interrotta e ora s'interrompeva di nuovo. «Ne ha due», osservò con voce calma. In viso aveva dipinta l'umiliazione, e anche la rabbia. «Due donne, e torna a casa con le rose!» «Be', se non altro ce ne sono volute due per rimpiazzarti», commentò Shel con una risata nervosa. «Ecco, voglio dire...» «D'accordo», tagliò corto lei, rialzando la testa di scatto. «Nessuno sa che cosa dire in momenti come questo. Ci vorrebbe un libro: Che cosa dire a una donna che sta perdendo il marito. Potrei scriverlo io, ormai sto diventando un'esperta.» Si riprese e soggiunse: «Mi dispiace tanto, Shel. Ho dimenticato che c'è in ballo anche la tua Ramy». Shel abbassò gli occhi. «Va tutto bene», borbottò. «Forse doveva succedere. Io sono un tipo noioso, magari con qualche soldo, ma è tutto.» «Non parlare così.» «Ma è vero. Ramy vuole un po' più di dinamismo, di fantasia. Bret è diverso, lui frequenta tanti bei posti. Io dove vado? In banca e basta.» Abbassò la testa sulla camicia da cento dollari, con il doppio mento che tremolava. Era vero, pensò Sarah. Shel non aveva proprio niente di eccitante per una donna, ma di certo non era l'uomo peggiore del mondo. «Non buttarti giù», cercò di consolarlo. «Non siamo noi gli imbroglioni.» «Che importa?» Sarah fece un sorrisino ironico. «Siamo sempre stati così vicini. Non riesco ad accettarlo. L'onorevole... quella almeno posso quasi capirla, ma Ramy...» I suoi grandi occhi scuri si animarono. «Qui c'è qualcosa che non funziona, per tutti e due. La gente passa di questi periodi folli. Voglio dire,
questa faccenda della nuova promessa, del doppio matrimonio. Bret deve sicuramente averne parlato con Ramy. Sono coinvolti tutti e due. Ma perché? Perché ripetere la cerimonia?» «Quando Bret ha lanciato la proposta, io avevo in mente il nastro. Neppure io riuscivo a crederci.» «Hai qualche idea, Shel?» «Niente di particolare. Forse lo fanno per dimostrare il loro affetto per noi. Poi, dopo qualche mese, annunciano di voler chiedere il divorzio. Potranno sempre dire che ci amavano, però... E possono usare la storia del nuovo giuramento in un'aula di divorzio per dimostrarlo. Magari sono convinti che gli faciliterà le cose da un punto di vista legale.» «Sarebbe tipico di Bret, ma non certo di Ramy», osservò Sarah. «È lui che dirige la baracca.» «Come al solito. Ascolta, cerchiamo di vedere la cosa con un po' di ottimismo: forse stanno cercando di rimettere insieme i nostri matrimoni, oppure stanno cercando di rompere la loro piccola relazione e riaccendere l'antica fiamma. Per questo pensano che il doppio matrimonio potrebbe aiutarli.» «Questo è un punto di vista troppo ottimista; io non ci credo», replicò Shel. «Quel nastro non è certo la prova di due persone che vogliono rinsavire.» «Vero», ammise Sarah. «Potremmo stare seduti qui anche tutto il giorno a vagliare teorie», rifletté Shel. «In ogni caso, come spieghiamo Alison Carver?» «Questo davvero non lo so.» Shel si agitò un poco sulla sedia, come se volesse andarsene. «Ascolta», sibilò. «Ora vado a casa e faccio due chiacchiere con mia moglie.» «No!» «Perché?» «Perché non sei pronto. Come me, del resto. Volevo affrontare Bret con queste foto. Be', non ce l'ho fatta e non chiedermi perché. Ora c'è il nastro. Dio solo sa se non ci faranno altre sorprese. Forse Bret ha in serbo altre cose.» «Se non parliamo, che cosa facciamo?» chiese Shel. A Sarah parve strano che lui facesse una domanda simile, o che facesse delle domande. Di solito Shel era sempre il primo a proporre una soluzione, ma in quel momento pareva smarrito, come se la sua volontà fosse stata spezzata. «Dipende dai tuoi sentimenti», rispose finalmente lei.
«I miei sentimenti? Sono offeso, furibondo!» «Non parlo di quei sentimenti, parlo di ciò che provi per Ramy.» «È una puttana.» «La pensavi così prima del nastro?» «No.» «L'amavi?» «Certo. E tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro, Sarah.» «L'ami ancora?» Shel tacque per un istante. Sarah lesse angoscia e dolore nei suoi occhi. «E complicato.» «Anche per me è complicato», rispose Sarah. «E io ho maggior concorrenza. Potresti amarla... di nuovo?» «Sì», rispose Shel senza esitare. «Se le cose si aggiustassero, sì. Perché?» «Potrà anche sembrarti pazzesco», spiegò Sarah, «però questi due non sono il Bret e la Ramy che conosciamo. Se noi agiamo insieme, se ci facciamo consigliare da qualche esperto, chissà che non si possano salvare i nostri matrimoni.» «Vuoi dire che te lo riprenderesti?» Sarah fece un profondo sospiro e lasciò uscire lentamente il fiato. Sebbene si fosse sempre vantata di essere una donna razionale, capiva di non poter prendere una decisione interamente razionale, in questa occasione. Questa volta prevalevano l'istinto e i sentimenti. «Sì», ammise alla fine. «In questo momento mi sento come dopo avere visto le foto. Lotterò per tenermi Bret e con il tempo le cose si appianeranno. Non posso garantirlo, però. E se Bret persiste in ciò che sta facendo, allora lo mollerò. Non chiederò nulla, non pregherò, non mi metterò in ginocchio, ma ci proverò.» Shel la guardò con una specie di imbronciata ammirazione. «Mi piace il modo in cui l'hai detto», le confessò. «Immagino che io pure provi la stessa cosa. Perché chiudere la porta dopo vent'anni positivi?» «Sono contenta che tu sia d'accordo», disse Sarah sottovoce. «Allora dovremmo acconsentire a questo ridicolo doppio matrimonio?» chiese Shel. «Perché no? Male non può fare, qualunque sia il loro motivo. Ma prima dovremo parlare con degli esperti, magari uno psicoanalista. Siamo noi ad avere bisogno di aiuto, ormai.» «Mi chiedo che cosa direbbero, se venissero a sapere che noi siamo al
corrente», ragionò Shel fra sé. «Io ho l'impressione che cercherebbero di mettere fine a questa storia disgustosa. Ci vogliono bene, in fondo.» «Sei ottimista, Sarah.» «Forse sono solo una che ha fede.» In quello stesso momento Bret Lewis, dietro la porta chiusa del suo ufficio, stava esaminando l'esplosivo e i detonatori che gli aveva portato il capitano Masters. Nove giorni all'ora fatale. Davanti a sé aveva una nuova vita. 16 Shel se ne andò e Sarah rimase seduta alla sua scrivania, fissando nel vuoto. Di tanto in tanto, le giungeva il vociare dei ragazzi in visita al museo e il ronzio del condizionatore d'aria, ma per il resto tutto era silenzio. Si sentiva svuotata, sopraffatta dagli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore. La rivelazione del tradimento di Ramy Jordan era stata un vero trauma, ma non gridò, si tenne tutto dentro, come sempre. «La fredda bionda controllata dei film di Hitchcock», mormorò fra sé. Non si sarebbe spezzata neppure sotto quell'ultimo assalto. Un colpetto alla porta e Hal Tennis aprì senza essere invitato, sbattendo la maniglia contro il muro. Tennis era l'addetto alle pubbliche relazioni del museo, un giovane di ventiquattro anni, appassionato di fumetti. «Salve, Hal. Che modo di entrare!» «Scusami, Sarah, ma ero così eccitato. C'è una donna nel Texas che afferma di essere Amelia Earhart. Pare che abbia le prove. Non è incredibile?» Sarah sapeva che c'era già stato un numero illimitato di donne che si erano fatte avanti dopo la scomparsa della Earhart, dispersa durante il suo volo intorno al mondo, vicino all'Isola Hosland, nel Pacifico, nel 1937. Probabilmente, questa era una delle tante che volevano apparire in televisione o scrivere un libro e farlo pubblicare da qualche editore di cui nessuno aveva mai sentito parlare. «Interessante», commentò Sarah, fissando il giovane collega come se avesse annunciato che aveva comprato il ponte di Brooklyn. «Solo interessante?»
«Io mi baso sulla scienza, Hal, e questa mi pare una frottola.» «Io invece sono un agente pubblicitario e a me piacciono le frottole», replicò Hal. «Senti, portami le prove dell'identità della signora, va bene? In questo momento ho da fare.» Hal Tennis si strinse nelle spalle, decisamente sorpreso che Sarah Lewis non fosse saltata sulla sedia, e si chiuse la porta alle spalle. Sarah sorrise, riflettendo sull'assurdità di ciò che le aveva appena detto Hal. Una falsa Amelia Earhart. Un falso marito. Una falsa amica, Ramy Jordan. La gente è davvero meravigliosa, concluse. Lavorò per un po' e dopo qualche minuto suonò il telefono. Sollevò il ricevitore. «Pronto.» «Ciao, amore. Sono contento di trovarti in ufficio.» Quasi non riusciva a credere che quell'individuo avesse il coraggio di chiamarla «amore». O Bret stava male, o era completamente diverso dall'uomo che aveva sposato vent'anni prima. «Ciao, Bret.» «C'è qualcuno con te?» chiese lui, notando la sua voce gelida. «Sicuro, hai indovinato.» «D'accordo, volevo solo dirti che farò tardi, stasera.» «Sì?» «Già, devo andare alla CIA. Ci preoccupano queste minacce su Washington. Non so esattamente in quale ufficio si terrà la riunione.» «Credevo che fosse l'FBI a occuparsi delle questioni nazionali», osservò Sarah. Seguì una pausa. Strano commento da parte di Sarah, pensava Bret. Non lo aveva mai sfidato prima d'allora e di solito non mostrava un grande interesse per i dettagli del suo lavoro. «È proprio dalle minacce interne che derivano le implicazioni estere.» «Giusto. Be', ti terrò in caldo la cena.» «Grazie. Farò più presto che posso», le promise Bret. «Non mi piace fare tardi la sera, lo sai.» «Certo, Bret.» «Ho voglia di stare con te. Sai, proprio oggi pensavo che dovremmo prenderci una vacanza. Andare da qualche parte, magari in California, oppure in Europa o nel Sudamerica.» «Perché non in Giappone?» suggerì Sarah. «Mi piacerebbe», replicò Bret. «Ho un sacco di amici della marina in Estremo Oriente. Ci divertiremmo un sacco. Sono stato talmente occupato in
questi ultimi tempi che ho l'impressione di averti trascurato. Faremo una seconda luna di miele dopo la nostra piccola cerimonia, la settimana prossima.» «Fantastico!» esclamò Sarah, praticamente rimanendo senza fiato. «Ne parliamo quando torni a casa.» «Arrivederci, amore.» «Ciao, Bret.» Riappesero contemporaneamente. Sarah continuò a fissare il telefono, incredula. Nulla quadrava. D'accordo, lui aveva una relazione, anzi due... di cui lei era al corrente, ma che cos'era tutta quella storia di complimenti e di tenerezze? Un nuovo matrimonio doppio, con una delle sue amanti che rinnovava il suo vincolo con un altro uomo, una seconda luna di miele in Giappone e le continue bugie sul fare tardi per delle riunioni, quando in realtà sarebbe stato con tutta probabilità in compagnia di Alison Carver. Con tutta probabilità. Sarah sfogliò la sua agenda. Doveva chiamare Durfee e controllare nuovamente i movimenti di Bret. Sarebbe stata Alison, quella sera? O ce n'era una terza? «Glielo dirò entro due settimane», dichiarò Bret. «Le spiegherò che le cose non funzionano più, che vent'anni sono tanti, che il nostro matrimonio si è esaurito e io voglio uscirne. Lei è una donna matura. Si arrabbierà, piangerà, ma alla fine si rassegnerà.» «Sono contenta che si giunga a una conclusione», ribatté Alison Carver. «Non posso più aspettare.» «Be', in ogni caso, ci sarà un 'rispettabile' periodo da aspettare, Ally.» «Questo lo capisco, l'ho già preventivato e sai bene che non mi farò avanti subito dopo che avrai mollato Sarah. Dovremo fingere di essere due persone che si ritrovano e che pongono fine alla loro solitudine. È il genere di storia che scrivono nei romanzi a puntate. Fa sempre un certo effetto.» Stavano parlando nell'ufficio della Carver, nel Rayburn Building. Era un ufficio accogliente, con una scrivania di quercia e diverse poltrone. Le pareti erano tappezzate con i soliti riconoscimenti: una targa del comitato californiano «Diritto alla vita», offerta alla Carver per la sua lotta contro l'aborto; un diploma onorario di una scuola superiore del suo distretto; una targa della Lega navale degli Stati Uniti e, soprattutto, una sua fotografia con George Bush. «Vedrai che per il divorzio non ci vorrà molto», riprese Bret. «Darò l'in-
carico a Woody Evans e lo pregherò di fare qualche telefonata al tribunale.» «Peccato», osservò la Carver, osservando le foto di sua madre e di suo padre sulla scrivania. «Tua moglie mi è sembrata una persona gradevole, l'altra sera.» «Hai detto bene», le confermò Bret. «Gradevole. Ed è così da venti anni, gradevole, e basta.» Alison sorrise, il cinico sorriso di una donna che un attimo prima ti fa un complimento e subito dopo ti sferra una sciabolata. Lui continuò a osservarne la figura snella, quasi magra. Sapeva che andava tutti i giorni in palestra e che spesso la si vedeva fare jogging intorno al Mall, nei weekend. Ma erano soprattutto i lunghi capelli neri e la voce modulata che colpivano in lei e che la rendevano attraente. Alison Carver aveva quarant'anni, ma ne dimostrava trenta, ed era una donna importante. Bret conosceva bene la sua storia. Alison aveva ottenuto i massimi onori accademici all'università della California e aveva iniziato la sua carriera come giornalista del Los Angeles Times, poi un membro del Congresso le aveva offerto un posto di addetto stampa a Washington ed era stato allora che il tarlo della politica aveva cominciato a insinuarsi nella sua mente. Così Alison era tornata in California, dove era stata membro del governo per due legislature, prima di essere eletta al Congresso. Aveva sempre dichiarato di non avere mai avuto il tempo di sposarsi, ma inevitabilmente circolavano strane voci secondo le quali gli uomini non l'interessavano. Le chiacchiere la preoccupavano ed erano state uno dei primi motivi che l'avevano spinta a cercarsi un uomo che alla fine avrebbe sposato. Nel suo distretto gli abitanti erano conservatori e profondamente cattolici. Sposare Bret Lewis e assumere l'immagine della donna di famiglia poteva tornarle utile. Dapprima la Carver si era preoccupata che il divorzio di Bret potesse crearle problemi d'immagine, ma poi tutti e due avevano convenuto che quel «marchio infamante» era ormai scomparso. Negli anni Cinquanta, ricordava la Carver, il divorzio di Adlai Stevenson lo aveva perseguitato durante ben due campagne presidenziali, mentre c'era stato solo qualche vago accenno appena sussurrato quando Ronald Reagan si era candidato e aveva vinto. «Dopo il nostro matrimonio, dovrai iniziare a costruirti una base politica», osservò Alison. «È il momento buono. La gente ha sempre molta curiosità per le persone sposate da poco.»
«Tim Curran vuole presentarmi a certi esponenti del mondo finanziario di New York.» «Può servire», approvò Alison, «ma prima informati su di loro. Tim Curran conosce un sacco di persone che è meglio non fare apparire nell'album dei ricordi.» «Già, me l'immagino. Ma devo procurarmi del denaro per costruirmi una base politica.» «Senti, perché non provi qui a Washington?» «No, se voglio candidarmi a qualche carica», le fece notare Bret. «George Bush è rimasto per poco tempo nel Congresso», replicò lei. «In realtà, è stato sconfitto alle elezioni per il Senato da Lloyd Bentsen e poi di nuovo da Reagan per la nomination dei Repubblicani nel 1980, ma ha continuato con incarichi marginali.» «Sicuro, ma uno era la carica di presidente nazionale del Partito repubblicano», ricordò Bret. «Vero», convenne Alison. Erano in piedi tutti e due e sembravano in preda a una smania virulenta di farsi strada a Washington, che andava ben al di là di qualsiasi coinvolgimento sentimentale. «Devi aspirare a una posizione più concreta», decretò lei. «E non attraverso una carica marginale, hai ragione. Persino quella di segretario di Stato conduce a un punto morto. Tutti si limitano a qualche servizio in televisione, a meno che non trovi qualcuno che ti sostenga come vicepresidente...» «La strada è lunga.» «Sì, è vero. No, devi costruire qualcosa in uno Stato.» «Ho avuto anch'io questa idea», ammise lui. «Ma che cosa ne diresti se per un po' lasciassi da parte la base politica e mi dedicassi agli affari?» «Che genere di affari?» «Alison, ricevo offerte in continuazione. Sappiamo bene come funziona il sistema. Io so le cose che loro vogliono sapere e conosco le persone che vogliono incontrare. Potrebbe essere una passeggiata arrivare al livello di vicepresidente...» «Ci vorrebbe qualche industria», rifletté lei. «Specialmente se all'interno ci fossero persone con un canale preferenziale per l'amministrazione statale. Ma dove ti manderebbero? Bret, spero che non ci separeremo!» «Lo spero anch'io. Sono pronto a rinunciare a qualsiasi ambizione, pur di stare con te, Ally, tesoro.» «È meraviglioso sentire un uomo parlare così. Dimentichiamoci la politica per ora, avremo anni interi per questo. Parliamo di noi.»
«Il mio argomento preferito.» «Sai, mi stavo domandando... Pensi che Sarah abbia qualche dubbio su noi due?» «Assolutamente no», rispose Bret, sicuro. «Non è una donna sospettosa. In un certo senso, è molto semplice, nonostante il suo aspetto. Bisogna capirli, questi ingegneri in gonnella. Lei va al museo, armeggia con i suoi aerei e torna a casa. Non sospetta una relazione più di quanto non sospetti un divorzio.» «Vorrei tanto che ci fosse un mezzo più rapido», si lasciò sfuggire Alison, poi si rese conto delle implicazioni di ciò che stava dicendo. «No, scusami, fa' come se non l'avessi detto.» Bret la fissò incredulo. Voleva che lei ricordasse quello sguardo. «Mi fa piacere che tu non l'abbia detto», mormorò. «Sai? Io voglio bene a Sarah. Noi due saremo l'uno dell'altra, un giorno, ma non voglio ferirla più di quanto non sia costretto a fare.» «Sei buono, Bret», dichiarò Alison e gli si avvicinò per baciarlo, un bacio che durò circa un minuto. Bret cominciava a provare un senso di potere personale come non gli era mai capitato. Aveva ingannato sua moglie, teneva in pugno Ramy Jordan e adesso era in grado di raggirare persino la saggia e sofisticata Alison Carver. Però non poteva confidarle ciò che intendeva fare. Lei aveva i suoi limiti: Ramy, invece, considerava l'omicidio sotto un aspetto romantico, perché cercava disperatamente di liberarsi di suo marito per poter vivere con Bret. Alison Carver era un po' più realistica. Davanti al Rayburn Building, in piedi nell'ombra, c'era Al Durfee. L'investigatore osservò spegnersi le luci del palazzo una dopo l'altra. Rimasero accese solo nell'ufficio di Alison Carver e, di tanto in tanto, poteva vedere due figure. Il mirino telescopico sulla sua macchina fotografica le aveva identificate: Alison Carver e Bret Lewis. Stavolta Al impresse anche il bacio sulla pellicola. In un certo senso gli dispiaceva, Sarah gli era simpatica, ma ora lui aveva le prove di ciò che la signora temeva e doveva consegnargliele. Prima Al Durfee aveva dato a quel matrimonio sei mesi di vita, un anno al massimo, ma adesso, basandosi sugli aspetti geometrici dell'abbraccio a cui aveva appena assistito, riduceva la sua stima a tre mesi, quattro, non di più. Durfee si attardò vicino all'edificio, dopo il bacio. Era un po' preoccupato per la presenza di un tale che gironzolava nelle vicinanze, un uomo alto
circa un metro e ottanta, con la barba di due giorni e i gesti che facevano pensare a un drogato o a uno squilibrato. Ma quando la luce di un lampione gli illuminò la faccia, Al lo riconobbe: era un agente di polizia travestito, lo stesso che aveva già incontrato parecchie volte mentre svolgeva altri incarichi. Immaginò, a ragione, che l'agente aspettasse un compratore di droga per arrestarlo. Considerando il posto, Durfee si augurò che l'acquirente fosse un pezzo grosso della politica. Era ancora là che guardava quando, dieci minuti dopo, Bret uscì dal Rayburn Building, solo. Praticamente il lavoro di Durfee era finito, non ci sarebbero stati incontri al motel né visite alla casa in città di Alison Carver. Durfee mise la macchina fotografica nella sua Ford giardinetta e si allontanò. Avrebbe fatto sviluppare le foto in mattinata e nel pomeriggio sarebbero pervenute all'ufficio di Sarah Lewis. Durfee, però, se n'era andato troppo presto, perché la serata di Bret era appena cominciata. Sotto il sedile della Lincoln parcheggiata nella via, c'era un pacchetto avvolto in una carta scura: era un ordigno esplosivo, uno dei tre che Masters gli aveva consegnato quel mattino. Bret l'aveva portato fuori dal Pentagono con la massima facilità, poiché nessun agente dei servizi di sicurezza si sognava di controllare un funzionario. Nella sua borsa c'era una scatoletta per il comando a distanza, il cui segnale funzionava fino a seicento metri. Cominciava un'altra fase del suo piano. Come studioso del terrorismo e della sua psicologia, Bret Lewis sapeva che nulla sconcertava investigatori e reporter più di un complotto. Un incidente era abbastanza grave, due o tre facevano notizia e attiravano l'attenzione e l'interesse dei giornalisti e dei funzionari del governo. Una sequenza di incidenti significava inoltre inviti agli esperti, perché apparissero in televisione. Lewis accese il motore e imboccò la strada che l'avrebbe condotto a Falls Church, una cittadina in Virginia, vicina ad Arlington. Era a circa otto chilometri dal Pentagono ed era una fra le residenze degli impiegati del ministero della Difesa. La notte era quasi fredda, un tipico esempio del tempo balzano che incombeva su Washington; nelle zone più basse del Mall c'era persino una leggera nebbia. Sembrava di essere a Londra, più che a Washington, eppure Bret si sentiva quasi ispirato. Che notte meravigliosa per un delitto! Anche con la nebbia, sentì quel brivido che immancabilmente provava quando attraversava la città e passava davanti alla Casa Bianca. Stavolta la
guardò dal retro, fissando il grande prato dove solitamente si ricevevano i visitatori stranieri e dove, se i suoi sogni si realizzavano, un giorno lui stesso avrebbe salutato gli uomini più potenti del mondo. Erano le undici e trentaquattro minuti e Bret non trovò traffico sulle strade per la Virginia. Washington andava a dormire presto e si alzava presto. «Signora Lewis?» «Sì.» «Sono Al Durfee. L'ho svegliata?» «Be'... sì, ma non importa, Al.» Sarah aveva lasciato la cena di Bret nel forno e si era coricata. Balzò a sedere sul letto e accese una lampada. Sapeva che Al non l'aveva chiamata per discutere della sua tariffa o della sua filosofia di vita. In realtà, Durfee si era detto che aveva l'obbligo di avvertire immediatamente Sarah a proposito di quello che aveva visto, senza aspettare che le foto fossero già sviluppate. Non poteva sapere se Bret sarebbe rientrato a casa quella stessa sera per annunciare il divorzio a sua moglie. Al voleva che la signora avesse le ultime notizie, nel caso il marito decidesse in questo senso. Durfee chiamava da una cabina telefonica del Washington Hilton Hotel, la cui hall era affollata di invitati che festeggiavano un giudice federale prossimo alla pensione. «Mi scusi se la disturbo, signora», riprese Al, «ma credo che ormai abbiamo la questione in mano.» «Che cosa vuol dire?» Sarah aveva un tono ansioso. «Li ho sorpresi, mentre avevano un colloquio molto intimo... davvero intimo, mi creda, nel Rayburn Building. Non si erano preoccupati di abbassare le tende.» «Capisco», mormorò Sarah. Poi la sua voce risuonò gelida. «E non era un bacio d'addio, vero?» «Direi piuttosto un arrivederci... Avrò la pellicola sviluppata alle undici.» Sarah non provò nessun turbamento, soltanto un generale sconforto; quella era la conferma che chiudeva le ultime possibilità di speranza. In un certo senso, era quasi contenta di sapere, in modo certo e definitivo, che Bret aveva una relazione con due donne distinte. «La ringrazio di avermi chiamata, Al», riprese. «Almeno ora siamo sicuri.» «Sicurissimi.» «Voglio dirle una cosa: quell'onorevole non è la sua unica amante.»
«Ah, no?» fece Durfee. Adorava lo scandalo, era una delle attrazioni del suo lavoro. «Proprio così», continuò Sarah. «Ha una storia anche con una nostra intima amica. Suo marito ha registrato una conversazione e me l'ha fatta ascoltare, oggi.» «Divertente?» domandò Durfee e subito si morse la lingua per l'indiscrezione. «In un certo senso... sì.» «Signora Lewis», proseguì Durfee. «Come ha fatto a sposare quell'individuo? No, non me lo dica: lui non ha mai mostrato questo aspetto della sua personalità. Succede sempre così. Dicono tutte la stessa cosa, me lo sento ripetere quattro volte la settimana, qualche volta cinque. Voglio dire, Pat Nixon ha sposato Richard Nixon. Debbie Reynolds... si è impegolata con Eddie Fisher. Capita alle migliori signore che conosco, anche le più avvedute. Davvero, sa.» Sarah si lasciò sfuggire una risata ironica. «Molto consolante.» «Mi stia a sentire, signora Lewis: se è vera la faccenda dell'altra donna, considerando la prima per certa, allora lei ha bisogno di un azzeccagarbugli.» «Un... che cosa?» «Un avvocato. Io non aspetterei nemmeno un giorno e affrontarlo significherebbe una gran perdita di tempo.» «Ci stavo appunto pensando», ammise Sarah. «Magari dopo la cerimonia...» «Quale cerimonia?» «Non ci crederà, ma lui vuole che ci risposiamo. La settimana prossima.» «Che cosa vuole?! Mi scusi l'espressione, ma questo si chiama prendere la gente per il culo!» «In un certo senso ha ragione. Sarà un doppio matrimonio, la ripetizione della cerimonia con i nostri più cari amici, com'è avvenuto vent'anni fa e la sposa dell'altra coppia è l'altra donna.» Durfee prese appunti su un quadernetto simile a quelli che usano i ragazzi a scuola. Questo avrebbe fatto parte della sua autobiografia. «Signora Lewis», concluse alla fine, «io non posso darle altri consigli. Suo marito è l'uomo più strano su cui io abbia mai dovuto investigare. Ci batte di una lunghezza.» Era così, infatti.
Battere di una lunghezza significa programmare tutti i dettagli, anticipare le mosse di tutti gli altri. Bret Lewis guidava lentamente nella zona di Arlington, diretto verso Falls Church e, nonostante procedesse a velocità moderata e l'aria fredda circolasse nell'auto, aveva le mani sudate. Non riusciva a capirne il motivo, però. Non si sentiva particolarmente nervoso né provava alcun senso di colpa per essere diventato ciò che era. Un vero calcolatore doveva accettare certe ambiguità morali e, in ogni caso, nella sua professione l'assenza di scrupoli costituiva la norma. Come un poliziotto, anche un agente antiterrorismo era in grado di assumere facilmente le caratteristiche del suo avversario. Bret si chiese se non stesse accadendo qualcosa alla sua psiche, qualche elemento non previsto. Ma no, non aveva l'impressione di dover cambiare rotta, e poi sapeva quanto fosse attratto da una nuova affascinante vita che poteva condurlo ai più alti vertici del potere. E sapeva anche che non avrebbe abbandonato Sarah, se non fosse stato assolutamente convinto di doverlo fare. Ma era proprio quando pensava a lei che gli sudavano le palme delle mani. Se non era senso di colpa, che cos'era? Poi capì. Provava ancora sentimenti per Sarah e questo produceva in lui una reazione. Con lei aveva trascorso vent'anni meravigliosi, a parte il trauma per la bambina. Mentre proseguiva a velocità moderata, si accorse che qualcosa nel suo intimo lo trascinava verso di lei e probabilmente la sensazione sarebbe durata anche dopo che lei fosse scomparsa dalla scena. Meno male, pensò, meno male che sono abbastanza forte per resistere. Giunto a Falls Church, si diresse verso una zona in fase di sviluppo, dove un'impresa edile stava costruendo nuove case e un piccolo centro commerciale, alla periferia della città. Bret sapeva che non avrebbe trovato traffico in quell'area. Davanti agli occhi gli si parò il desolante spettacolo di un cantiere deserto: l'intelaiatura di legno delle case, i bulldozer silenziosi, i mucchi di legname e di mattoni, la sabbia tutt'intorno. C'era anche una baracca, ma a quell'ora era deserta. Bret fece in modo di procedere sulla strada asfaltata per non lasciare impronte di copertoni sul terriccio. Sarebbe stato facile risalire alle impronte. Fermò l'auto. Dalla borsa tirò fuori una scatola per dolci, decorata con bandierine di alcune nazioni europee, poi aprì la portiera e posò la scatola sul ciglio della strada, a pochi metri di distanza da un bulldozer fermo. Richiuse la portiera e si allontanò.
I suoi occhi frugavano dappertutto: non c'erano automobili in arrivo e nessuno che camminasse ai bordi della strada. Usò il contachilometri per calcolare mezzo chilometro poi, senza fermarsi, infilò nuovamente la mano nella borsa e prese uno dei comandi a distanza che gli aveva procurato Masters, tenendolo in mano. Premette il tasto. Anche da quella distanza sentì lo spostamento d'aria prodotto dall'esplosione e sentì il bulldozer inclinarsi sul fianco e muoversi dalla sua posizione sul terreno. Seguì un altro botto più smorzato, probabilmente provocato dai pneumatici del bulldozer, e poi un rumore di vetri che andavano in frantumi in una delle case in costruzione. I vetri lo preoccupavano, era uno dei fattori più imprevedibili in qualsiasi esplosione. Aveva funzionato. Il materiale di Masters funzionava perfettamente, ma Bret Lewis non era tipo da accettare un'attrezzatura senza prima sperimentarla. Provò un brivido viscerale per ciò che aveva fatto. Ora doveva premere quel tasto ancora una volta. Si allontanò a velocità moderata. Mai una volta sentì una sirena della polizia. Il notiziario alla radio, che ascoltò mentre percorreva il Memorial Bridge, tornando verso Washington, non fece alcun cenno a una forte, misteriosa esplosione vicino a Falls Church. Davvero straordinario, pensò. La gente sente uno scoppio nel mezzo della notte e nessuno denuncia il fatto. La gente se ne infischia, tutti pensano che qualcun altro abbia fatto una telefonata. Ma al mattino avrebbero saputo e sarebbero cominciate le indagini. Era esattamente ciò che voleva. 17 «La polizia di Falls Church si sta occupando del caso, signore.» Bret alzò le sopracciglia con aria interrogativa. «Strano, ha tutta l'aria di essere una bomba terrorista. Al laboratorio non affermano che hanno usato il C-4?» «Sì, signore. Ma il C-4 è un esplosivo molto comune e non vogliono seminare il panico fra la gente.» Lawrence W. Simon sedeva su una sedia nell'ufficio di Bret. Era un ufficiale di marina di trentasei anni, temporaneamente assegnato alla sezione antiterrorismo che Lewis dirigeva. Più precisamente, raccoglieva notizie e
informazioni sui gruppi terroristici di tutto il mondo. Magro, dall'aspetto delicato, Simon non aveva nulla del marine; parlava sempre sottovoce e giocava a scacchi nelle ore libere. Gli avevano affibbiato il soprannome di «Tonto» perché era risultato il primo del suo corso, all'Accademia Navale, quindi tonto non lo era affatto. Ecco perché lo chiamavano così. «Hanno sempre molta paura di impressionare la gente», si lamentò Bret. «Forse, se l'impressionassero un po' di più, il mondo resisterebbe meglio. Bene, dunque il C-4 è un esplosivo comune. Però, secondo il rapporto del mattino, chiunque l'abbia fatto esplodere, ha usato un sofisticato controllo a distanza.» «Non sappiamo sino a che punto fosse sofisticato, signore», replicò Simon controllando i suoi appunti. «Comunque, lo considerano un atto criminale.» «C'è qualche motivo particolare?» «Ecco, la ditta di costruzioni...» Bret alzò la testa. «Costruzioni. Crimine organizzato?» «Ci sono alcune testimonianze che paiono confermarlo, signore.» «Perciò è stato un avvertimento.» «Questa è la teoria della polizia locale. Non si sono verificati danni gravi, tranne a un bulldozer, ma loro pensano che si tratti di un messaggio.» «Sì, può darsi. Io, comunque, non la penso così. Sono convinto che invece sia un esperimento.» «Vale a dire?» «Un test per verificare che un certo congegno funzionasse. Forse per vedere se fosse efficace con il macchinario pesante.» «Capisco, signore, ma...» «Lo so, è solo un'ipotesi. Comunque mi tenga informato, Larry. Ora devo occuparmi d'altro.» Simon si alzò per congedarsi, del tutto inconsapevole, come Masters, di essere diventato una pedina nei piani di Bret, che certo se ne infischiava altamente se l'esplosione di Falls Church fosse considerata un atto terroristico o un avvertimento del crimine organizzato. A lui interessava che il laboratorio dell'FBI avesse identificato l'esplosivo come C-4, una miscela usata comunemente dai terroristi e fabbricata in numerosi Paesi del blocco sovietico. Gli premeva che il congegno a distanza fosse stato individuato come mezzo per la detonazione e soprattutto gli stava a cuore che la sua conversazione con Simon avesse messo in evidenza che forse i terroristi avevano un motivo per far scattare l'esplosione. Così, quando, fra otto
giorni, sarebbe scoppiata la sua bomba, si sarebbe ritrovato lo stesso schema d'azione. Era quanto aveva in mente. Prese l'apparecchio telefonico privato e fece un numero. Dopo pochi istanti, rispose una voce maschile. «Qui è Shel Jordan», annunciò una voce gioviale all'altro capo del filo. «Sono Bret.» «Giusto in tempo.» «Sei libero per il pranzo?» s'informò Bret. «Certo. Avevo un appuntamento, ma per te posso rinviarlo.» «Volevo parlarti del nuovo matrimonio.» «Vediamoci all'una.» «Perfetto», approvò Bret, annotandolo sull'agenda che la sua segretaria teneva sempre aggiornata. «Ho in serbo qualche cosa che ti piacerà. Potremmo sfruttarla.» «L'hai lì con te?» «In una scatoletta.» «Portala.» La conversazione finì. Mancavano otto giorni. Ora ogni passo doveva essere studiato da lui con la massima precisione. Nessuno sapeva ciò che aveva ideato, assolutamente nessuno. Bret uscì per il pranzo a mezzogiorno, anche se ci voleva soltanto mezz'ora per raggiungere l'ufficio di Shel, in un asettico e moderno edificio sulla K Street. Doveva fermarsi prima in un altro posto. Inforcò gli occhiali da sole e proseguì sino a un negozio di elettronica ad Arlington che era il paradiso di adolescenti e ragazzini che sognavano la gloria dell'ingegneria conquistata con bizzarri strumenti che loro non sapevano neppure maneggiare. Il negozio si chiamava Morry's, e Morry ne era il proprietario e l'unico commesso da trent'anni. Rude, sui sessant'anni, sedeva con volto impassibile dietro il bancone, con tre voluminosi cataloghi davanti a sé, e accoglieva i clienti con un calore che era diventato leggendario. «Lei è uno stupido», stava dicendo Morry al cliente che in quel momento era la sua vittima. «Questo trasformatore non è stato costituito dalla RCA. Non venga qui a farmi perdere tempo con queste stupidaggini. Il prossimo!» Parlava con voce tonante; lui sapeva tutto e gli altri non capivano niente. «Lei mi sta chiedendo qualcosa che non esiste!» dichiarò rivolgendosi al
cliente successivo, una donna. «Io non posso fare miracoli, non sono il Padreterno. Mandi qualcuno che se ne intende. Il prossimo!» Bret cominciò a camminare lungo il corridoio fra gli scatoloni, fingendo di interessarsi a interruttori, potenziometri e altre delizie di quel paradiso edisoniano. Si fermò in una corsia e vide che era solo; allora infilò la mano nella tasca destra della giacca, ne tirò fuori una piccola busta scura, vi inserì il pollice e l'indice e prese un biglietto di plastica avvolto in carta velina. Si guardò intorno e, sicuro che nessuno lo guardasse, lo fece scivolare dalla carta velina, lasciandolo cadere fra due scatoloni. Poi si rimise in tasca la busta e la carta velina. Rigirò fra le mani un interruttore, lo esaminò come un comune cliente e lo rimise a posto. Poi, come uno che non riesce a trovare ciò che cerca, si voltò per andarsene. «Le è caduto qualcosa.» Era una voce acuta e petulante; Bret sentì un tuffo al cuore. Si voltò, trovandosi davanti una faccia seminascosta sotto un paio di occhiali neri. «Dice a me?» Un uomo con i denti sporgenti e il sorriso da scimmione annuì deciso. «Dovrebbe stare più attento a come usa le mani», decretò, «così non lascerebbe cadere le cose.» Parlando puntava il dito verso il pavimento. Ma non verso il cartoncino. Bret guardò giù. Per terra, davanti a uno scatolone, c'era una sottile striscia di carta bianca. «Non è mio», dichiarò. «Sì, invece», replicò l'altro. «L'ho visto cadere.» Non volendo fare una scenata, Bret si chinò a raccogliere il foglio. Era l'oroscopo che aveva trovato nel dolce da Jimmy Lee's. Chissà come era finito nella busta! Lo sbirciò per un attimo. «Ciò che non sai ti danneggerà per sempre.» Non gli era piaciuta la massima quella sera al ristorante e non gli piacque neppure ora. «Grazie», disse all'uomo che lo fissava con un sorrisetto compiaciuto. «Di niente», rispose l'altro. Bret uscì dal negozio augurandosi di non dovervi tornare mai più. Percorse a piedi tre isolati sino alla sua automobile, vi salì e si allontanò. Missione compiuta. «Mi dispiace per tutti e due. Non è una situazione tanto insolita, ho visto altri casi del genere, ma mi dispiace. Immagino che cosa si provi.» «Grazie», mormorò Sarah.
«Grazie», le fece eco Shel. Parole appena sussurrate, ma sincere. Il dottor Lorenzo Rosenthal sedeva in una comune sedia a dondolo, mentre parlava con loro. L'ufficio, a dire il vero, assomigliava a una biblioteca, con i pannelli di legno e le file di libri, alcuni rari, in mostra in una vetrina. In un angolo sonnecchiava un cocker spaniel di nome Sigmund, del tutto incurante del dramma umano che si consumava davanti a lui. L'ufficio era situato in una casetta di mattoni in College Park, nel Maryland, non lontano dal campus dell'università. Rosenthal insegnava alla facoltà di psicologia ed esercitava anche la professione privatamente. Era uno specialista di problemi coniugali e di rapporti fra genitori e figli. Era un uomo magro, di cinquantacinque anni, con la testa completamente calva, un pizzetto grigio alla Van Dyck e le orecchie più larghe del comune, come per trattenere tutto ciò che ascoltava. «E così siete venuti a parlare con me di questa faccenda», osservò rivolgendosi ai due. «Mi pare, signor Jordan, che sia stato lei a prendere l'appuntamento.» «Sì, dottore.» «Per favore, mi chiami Lorenzo. Tutti i miei pazienti mi chiamano per nome.» «D'accordo, Lorenzo. Avevo chiesto in giro, dicendo che mi stavo informando per conto di un amico...» «La solita scusa», lo interruppe Rosenthal. «Già. E poi è saltato fuori il suo nome. Il migliore, hanno detto.» «Sono lusingato. Ora, lei sa che io sono uno psicologo, non uno psichiatra, quindi non mi occupo di disturbi patologici. Sono sicuro che avrete notato il mio nome e il mio leggero accento, perciò lasciate che risponda subito alla domanda che vi farete appena uscirete di qui: 'È spagnolo, ma gli spagnoli hanno nomi come Rosenthal?' Vengo da Cuba e sono approdato qui negli anni Sessanta, dopo l'avvento di quel rivoluzionario che fuma sigari. Per ciò che riguarda il nome, anche a Cuba c'è una minoranza di Rosenthal.» «Interessante», commentò Shel. «Specialmente per me», precisò Rosenthal. «Avrete anche notato che non porto la fede nuziale. Dopo tutto ciò che ho sentito negli anni della mia professione, non ho mai voluto correre il rischio.» Sarah e Shel risero. Rosenthal aveva un modo di raccontare le cose che metteva la gente a proprio agio. «E per finire, voglio presentarvi il mio socio e consigliere, Sigmund,
sdraiato in quell'angolo. Non abbiate timore di parlare davanti a lui. Rispetta rigorosamente l'etica professionale.» Sarah diede un'occhiata al cocker, che sembrava tranquillamente addormentato. «Ma veniamo a noi, Sarah», proseguì Rosenthal, spostando leggermente il corpo minuto sulla sedia a dondolo, che era troppo grande per lui. «Sono rimasto colpito dal fatto che lei e suo marito siete cresciuti insieme. Mi parli di questo.» «Siamo cresciuti in un sobborgo di New York, ma ci siamo conosciuti solo alle scuole superiori. Eravamo simili, per molti aspetti.» «Mi dica.» «Ambiziosi, ecco. Bret era presidente del consiglio degli studenti e vicepresidente dei Greeters. Eravamo stati scelti per presentare la scuola ai nuovi studenti.» «Molto bene. Dunque, esisteva un reciproco rispetto.» «Sempre, e credo che esista tuttora. In tutti questi anni, da quando abbiamo deciso di andare insieme all'università, non c'è mai stata nessun'altra... sino a ora.» «Nessuna di cui lei sapesse.» «Be', sì... è così.» «Siete stati insieme all'università?» «Separatamente. Bret è andato alla Columbia, io invece a New York. Ma eravamo emotivamente insieme. Abbiamo pagato bollette del telefono spaventose.» «Dunque lei pensa che la lontananza abbia rafforzato i vostri sentimenti.» «Oh sì!» annuì prontamente Sarah. «Veniamo alla situazione attuale. Lei ha saputo, o meglio ha sospettato, dei movimenti, diciamo così, di suo marito qualche mese fa, quando lui rientrava tardi e le sue giustificazioni non reggevano.» «Sì.» «Sorprendente.» «Perché?» «Abbiamo un uomo che partecipa alla vita politica internazionale, un esperto di strategia militare, eppure non riesce a ingannare sua moglie.» «È un complimento?» chiese Sarah. «In parte sì. Conosce la massima: 'La moglie è la prima a saperlo e l'ultima a crederci'?»
«Me l'ha riferita un avvocato», rispose Sarah. Il dottor Rosenthal si strinse nelle spalle. «Pensavo che fosse una mia tesi, ma la gente mi copia. Andiamo avanti. Lei è diventata sospettosa, ha assunto un investigatore privato e ha scoperto una relazione. Poi ne ha scoperta un'altra con la sua più cara amica, e suo marito intanto le propone di rinnovare la cerimonia nuziale. Lei non lo affronta direttamente perché desidera salvare il suo matrimonio, chiedendo consiglio a me e ad altri.» «Sì.» «Lei è una donna saggia. Approfondiremo il caso, ma la mia impressione iniziale è che ci sia speranza. Mi baso soprattutto sul fatto che lui ha due relazioni.» «Come sarebbe a dire?» volle sapere Sarah. «È evidente», rispose Rosenthal. «Lui non può sposarle tutte due.» Shel si girò a guardare l'amica; i suoi occhi solitamente arrossati cominciavano a illuminarsi. «Certo che è evidente! E noi non ci abbiamo mai pensato!» «In situazioni di grande tensione emotiva spesso ciò che è ovvio ci sfugge», decretò lo psicologo. «Secondo lei, Bret vuole trasmettere una specie di segnale tenendosi due donne?» chiese Sarah. «Come ho detto, bisogna approfondire», replicò l'altro. «E si ricordi, io non l'ho mai conosciuto e non lo conoscerò mai. Ma sul modulo che ha compilato, lei ha scritto che non ha mai litigato con suo marito.» «Esatto.» «Proprio mai?» «Be', abbiamo avuto delle divergenze, ma non per problemi veramente seri. Voglio dire, non abbiamo mai urlato né picchiato i pugni sul tavolo.» «Nessun cambiamento in questo modo di comportarsi, di recente?» «No», ribadì Sarah. «Qualche volta Bret è teso e nervoso, per via del suo lavoro e ha avuto qualche breve periodo di depressione in passato, ma il nostro rapporto è sempre stato buono. Mai una minaccia, mai un rammarico. Mi ha proposto persino una seconda luna di miele.» «Lui ha quarantun anni», osservò Rosenthal. «Sono crisi che capitano, a questa età, davvero. Molti uomini abbandonano la moglie senza neppure avvertirla, ma non mi pare il caso di suo marito. È un individuo orgoglioso.» «Molto orgoglioso.»
«Io non posso garantirglielo», riprese lo psicologo, «ma credo che il suo istinto sia giusto. Può darsi che queste siano solo scappatelle. Due relazioni contemporaneamente, la nuova cerimonia, la seconda luna di miele, nessun cambiamento sensibile nella personalità... credo proprio che esista la speranza di superare questo periodo. Ma, le ripeto, mi baso su scarse informazioni e posso solo guidarla passo dopo passo. Però voglio darle un suggerimento...» «La prego», lo incalzò Sarah. «Sia lei sia Sheldon non avete avuto la fortuna di avere figli. Lei, Sarah, afferma che non vuole adottarne perché l'adozione talvolta porta pessimi risultati. Dico bene?» «Io sono stata adottata», spiegò lei. «Lei sa che cosa vuol dire sentirsi un oggetto e non avere lo stesso sangue dei genitori?» «Io ho un figlio adottivo», replicò Rosenthal, impassibile, «e sono un padre celibe. Non lo considero un oggetto, non vado a controllargli il sangue e lui non lo fa con il mio. Oggi ha quattordici anni e il nostro rapporto è magnifico.» Sarah fu colta di sorpresa. Era la prima volta che sentiva parlare di adozioni in senso positivo. «Oh, non sapevo che lei avesse un figlio», osservò con voce pacata. «Un figlio adottivo», la corresse Rosenthal. «Credo che dovrebbe discuterne con suo marito. Talvolta le persone soffocano il desiderio di avere figli, soprattutto dopo una tragedia come la sua, ma in età matura, quando cominciano a pensare alla morte, l'istinto paterno o materno può riaffiorare. Esplori i suoi sentimenti sull'adozione e ne parli con suo marito. Potrebbe essere proprio questo...» «...che ci separa?» «Vale la pena di indagare.» Sarah restò in silenzio. Capiva, naturalmente, che Rosenthal in quella prima seduta cercava solo di presentarle le cose in maniera logica e concluse che forse all'origine di tutto c'era la questione dei figli. Forse Bret non voleva riprendere il discorso, sapendo che lei era contraria all'adozione. Forse, pensò, aveva sbagliato lei. «Ci ripenserò», promise. «Probabilmente avrei dovuto farlo prima. Forse, se Bret fosse tornato sul discorso... Ma credo che sia solo un pretesto.» «La vita è una catena di pretesti», ribatté lo psicologo. «È un campo dove l'uomo raggiunge la perfezione.» (Nello stesso momento in cui Sarah si sforzava di aprire la sua mente al-
la possibilità di adottare un bambino, Bret stava infilando un detonatore a distanza nella tasca della giacca, assicurandosi che non si notasse il rigonfiamento. In realtà, nella sua mente c'era davvero un bambino. .. il figlio che sperava di avere con Alison Carver.) «Le rivolgerò un'ultima domanda per questa prima seduta.» Rosenthal guardò Sarah negli occhi. «Se non dovesse funzionare, se suo marito dovesse lasciarla per sempre... lei come si vede fra due anni?» Sarah si agitò, a disagio sulla sedia. «Ci ho pensato», ammise. «È normale.» «Riuscirei a sopravvivere, tengo a puntualizzarlo. Non mi rivolgerei alle femministe per avere conforto. Sarebbe un dolore, un dolore profondo, ma sarei capace di superarlo. Continuerei a occuparmi della mia carriera e magari mi risposerei, se arrivasse la persona giusta.» «Lei ha tutta la mia ammirazione», approvò Rosenthal. «Il suo è un atteggiamento perfetto.» «Grazie», sussurrò Sarah. Nel suo intimo, però, non sapeva se sarebbe stata capace di continuare a vivere come aveva dichiarato. «Bene, ora a lei, Sheldon», riprese Rosenthal. «Questa è una seduta congiunta, cosa che di solito non faccio. Tuttavia, data la profonda amicizia fra voi due, e dal momento che, a quanto pare, lei non ha segreti...» «Non ho nulla da nascondere a Sarah», confermò Shel. «Sino a due giorni fa avrei giurato che Bret fosse il mio migliore amico. È chiaro che mi sbagliavo.» «Piuttosto duro», commentò Rosenthal. «Qualche volta le emozioni deformano il comportamento.» «Be', io non riesco a essere così tollerante, dottore, sto perdendo mia moglie. Le ho parlato di quel nastro.» «Sì. Mi stava dicendo di Sarah...» «Stavo dicendo di credere che Bret fosse mio amico, ma so che Sarah lo è. Siamo coinvolti tutti e due in questa faccenda.» «Vero. Non sospettava nulla, lei?» «Prima di sentire quel nastro, zero assoluto. Certo, la mia Ramy parlava in termini lusinghieri di Bret...» «Per esempio?» «Oh, le solite cose.» «Sheldon, ciò che è solito per lei, può non esserlo per me. La prego di essere più preciso.» «Mi scusi, dottore. Eco, lei affermava di aver sentito dire che lui se la
cavava molto bene al DDD.» «Al DDD?» «Il dipartimento della Difesa. Poi diceva che era simpatico e intelligente, le solite cose che dicono gli amici. Diavolo, non ho mica preso appunti!» «No, certo. Ha avuto qualche problema nel suo matrimonio?» Shel guardò Sarah, come se fosse imbarazzato, quasi a indicare che certe cose voleva tenerle per sé. In un primo momento non rispose. «Se desidera discuterne in privato, non abbia scrupoli», suggerì Rosenthal. «No, non c'è problema», replicò subito Shel, «Be', abbiamo avuto qualche lite.» «Non lo sapevo, Shel», intervenne Sarah. «Ramy non è il tipo che ne parli, neppure con te», rispose Shel. «E poi l'ho sempre pregata di tenere la cosa per noi e lei me l'ha sempre promesso. Non è che non ci fidassimo di te, ma io ero piuttosto restio.» «Ci sono molte persone che la pensano come lei», convenne Rosenthal. «E non ne ha mai parlato con Bret?» «No. I segreti sono il mio mestiere.» «Mi parli dei vostri scontri.» «Ecco, vede, io ci tengo molto a Ramy. Voglio dire... mi guardi, per favore. Non sono certo un divo del cinema. Avere una moglie così bella, così fantastica ai party, amica di tutti... Insomma, mi rendeva orgoglioso. Ma Ramy non era affatto orgogliosa di me, io non ho classe.» «Shel, ti ho sempre detto di non buttarti giù», si intromise Sarah. «Va bene, va bene», la interruppe Rosenthal. «Dobbiamo rivelare i nostri veri sentimenti. Lei crede, Sheldon, che Bret abbia intuito questa disaffezione in Ramy?» «No, Bret non agisce così. È stata Ramy a provocarlo.» «Che cosa?» esclamò Sarah. «Lo ha già fatto una volta, con un altro.» «Questa è nuova», commentò Rosenthal. «Anzi, l'ha fatto due volte.» «Adesso il quadro è completo», osservò lo psicologo. «È stata sua moglie a cominciare in ogni occasione?» «Ne abbiamo parlato allora e Ramy lo ha ammesso. E poi Bret non avrebbe fatto la prima mossa con un'amica di famiglia, lui ha il senso della proprietà.» «Questo è vero», aggiunse Sarah.
«Ora comprendo bene l'importanza di avervi qui tutti e due», dichiarò Rosenthal. «Vi aiutate a vicenda.» «E ci aiuteremo sempre», dichiarò Sarah. «Dunque, riepiloghiamo», suggerì Rosenthal. «Sebbene occorrano altre prove, una cosa la possiamo stabilire: è stata Ramy a iniziare la relazione. Essendo una bella donna, non le è stato difficile fare colpo su Bret e, dal momento che lui continua a spassarsela con un'altra, possiamo supporre che Ramy abbia fatto colpo in un periodo in cui era vulnerabile. Ma queste sono solo supposizioni, che approfondiremo nelle prossime sedute. Ora voglio porle ancora una domanda. La prima seduta è sempre breve; capisco lo stress a cui sono sottoposti i pazienti. Sheldon...» «Sì?» «Le chiedo ciò che ho già chiesto a Sarah. Se finisse male, se Ramy dovesse lasciarla, come si vede lei fra due anni?» Shel guardò Rosenthal, poi Sarah, e poi di nuovo il dottore. Non rispose. «Sheldon, la mia domanda la mette a disagio?» «Be'... sì», rispose Shel. «Preferisce pensarci su o rispondere in privato?» «Le rispondo subito», tagliò corto Shel. «Noi uomini cerchiamo di apparire coraggiosi, come quando sono andato da Sarah con questo nastro.» «Comprensibile», osservò Rosenthal. «Ma io non sono così coraggioso. Se Ramy mi lasciasse, come sarei fra due anni, dice?» «Questa era la domanda.» «Non ci vorrebbero due anni, basterebbero sei mesi.» «E come sarebbe?» insistette Rosenthal. «Morto.» «Scusi?» Lentamente, Shel alzò il braccio destro, piegò la mano a forma di una pistola e se la puntò alla tempia. «Bang», disse. 18 Tutto luccicava da Sleson's, a parte la reputazione dei clienti. Era una nuova gioielleria a circa sei isolati dalla Casa Bianca, vicina a numerosi studi legali, mediatori e altro ancora. Una posizione magnifica, in un luogo che esaltava l'avidità e l'apparenza, i due comandamenti della capitale della nazione. I «consulenti» da Sleson's (nessuno osava chiamarli
commessi) scommettevano fra loro su chi, fra i clienti, sarebbe stato incriminato entro il mese, chi non avrebbe mai pagato il conto e chi avrebbe inscenato una rapina per ritirare il premio dell'assicurazione. Conoscevano bene i loro clienti. «Vorrei che si leggesse bene l'iscrizione: 'Alla mia carissima amica Sarah, per sempre'.» «Molto grazioso, signora», approvò il signor Hans rivolto a Ramy, mentre scriveva con cura quelle parole sul modulo di ordinazione. Vicino al foglio, nell'astuccio che luccicava sotto la luce del faretto proiettata dal soffitto, c'era un bracciale d'oro con il cartellino del prezzo: duemilaquattrocentocinquanta dollari. Ramy l'aveva comprato per Sarah... perché Bret gliel'aveva ordinato. Anche quello faceva parte del piano, dei meticolosi dettagli che avrebbero dato i loro frutti fra sei giorni. Il prezzo era insignificante. Dopo tutto, rifletteva Ramy, Shel non sarebbe vissuto abbastanza per vedere il conto dell'American Express. «Crede che sia troppo lunga la scritta per le dimensioni del pezzo?» chiese Ramy al signor Hans. L'altro non guardò neppure il braccialetto; stava osservando, alle spalle di Ramy, un'altra cliente che entrava in quell'istante. «No, signora», rispose il «consulente». «Mi pare, anzi, che sia di ottimo gusto.» In realtà, il suo vero nome non era Hans, ma Irving, e veniva da Brooklyn. Pierre Sleson, però, sapeva che le clienti preferivano i commessi con nomi europei. Pierre aveva cominciato come venditore di Mercedes Benz. «Si tratta di un'occasione speciale», spiegò lei, seguendo le istruzioni di Bret. «Io e questa signora ci siamo sposate insieme vent'anni fa e ora rinnoviamo la promessa di matrimonio.» «Davvero molto commovente, signora», rispose Hans, ritornando a guardare alle spalle della cliente. «Desidera farlo recapitare alla signora?» «No, passo io a prenderlo. Domani, per favore.» «Naturalmente.» «Però vorrei cambiare l'astuccio.» «Ma certo, signora, potrà scegliere un'altra confezione, quando l'articolo sarà pronto.» «Perfetto. Sarah adora il rosso.» «Una confezione in rosso», approvò il signor Hans, ricordando che aveva un astuccio rosso di scorta nel cassetto della scrivania. Ramy uscì dalla gioielleria provando un brivido di emozione per il fatto
di partecipare a quella grande avventura. Ancora non sapeva perché Bret avesse insistito che lei facesse un regalo così costoso a Sarah, ma lui le aveva promesso che l'avrebbe messa al corrente di tutto il piano prima del magico giorno. Si allontanò dal parcheggio con il cuore che cominciava a martellare. Fra meno di mezz'ora l'avrebbe incontrato: era la prima volta dopo quell'orribile cena, la sera dell'anniversario. Ora, finalmente, sarebbero stati soli, anche se solo per parlare e sognare. Fra sei giorni avrebbero imboccato il sentiero verso la libertà. Ramy non poteva sapere che Shel aveva appena confidato a uno psicologo di aver pronto un colpo nella canna di una pistola, se lei lo avesse lasciato. Secondo il piano, Ramy sapeva che sarebbe stato lui a lasciarla. E l'esplosione sarebbe stata ben più forte di un colpo di pistola. «Circa un etto di questa roba scaraventa in aria un'auto per parecchi metri e la rende irriconoscibile», disse Bret con il tono di un professore che spiega ai suoi allievi. «Io ne userò qualche grammo di meno. È più che sufficiente e il pacco resta più piccolo, pulito e ordinato.» Lui e Ramy erano seduti in macchina, la stessa che avevano progettato di rendere completamente irriconoscibile, sul raccordo anulare intorno al Jefferson Memorial. Bret sceglieva sempre punti turistici per gli incontri con Ramy, perché così era convinto di non incontrare nessuno che conoscessero. Di solito, gli abitanti di Washington non vanno a visitare il Jefferson Memorial. «Com'è piccola e sottile», osservò Ramy, guardando una pila tascabile di metallo nero, in cui Bret aveva inserito i pezzi di una bomba telecomandata. «Proprio qui sta il bello», replicò lui. «E con il telecomando non hai bisogno di fare nessun collegamento.» «Che cosa?» «Non avrai bisogno di attivarla.» Il sole si rifletteva sul finestrino dalla parte di Bret e quindi Ramy non riusciva a guardarlo bene. Era perplessa per ciò che lui aveva detto. «Parli di me?» «Mi pareva che ne avessimo già discusso», ribadì Bret. «Tu mi hai detto solo che avrei partecipato, che avrei avuto un ruolo. Senti, Bret, io non sono un killer di professione.» «Ramy, tutto quello che ti chiedo è di piazzare il congegno. Tutto qui. Non lo vedrai neppure esplodere.»
Lei ci pensò un momento. Forse si era scordata di ogni cosa, oppure lui le aveva rivelato così poco che era difficile accettarlo, ora che glielo dichiarava così apertamente. «Capisco», mormorò alla fine. «A una certa ora, dopo la cerimonia, tu dirai a Shel che vai fuori, alla mia auto. Gli spiegherai che vuoi mettere sul sedile anteriore il braccialetto per Sarah, come fai tutti gli anni con il dono per la tua amica. Lui non ha mai fatto domande. Allora uscirai. Nella borsetta avrai il braccialetto e questa pila tascabile. Metterai il regalo sul sedile. La lampadina sarà avvolta in una comune carta velina, per non lasciare impronte. Poserai l'ordigno sulla console, fra i due sedili anteriori, poi rientrerai e dirai a Shel di attirare Sarah alla macchina, anche se saremo ancora al motel, perché vuoi che trovi il regalo. Suggeriscigli di uscire con lei per un ultimo spuntino. Dio, l'abbiamo fatto decine di volte! Sono assolutamente sicuro che Sarah accetterà, indovinando che c'è un regalo che l'aspetta. Usciranno insieme e saliranno in macchina, mentre io li osserverò da una finestra. Un piccolo scatto dell'interruttore...» «Spero che la finestra non ti esploda in faccia», osservò Ramy preoccupata. «Ho considerato anche questo», replicò Bret. «So già dove mettermi.» «E sei sicuro che funzionerà?» «Il congegno si troverà in mezzo a loro. Li colpirà entrambi con la stessa forza.» «Bret», fece lei con passione. «Sei così preciso!» «Altro che precisione, in un caso come questo!» esclamò lui ignorando il complimento. «Ma il nostro ruolo non finisce quando esplode il congegno, tu dovrai anche dare spettacolo come attrice. Tuo marito è rimasto ucciso. Dovrai diventare isterica, irragionevole, nessuna dichiarazione razionale, nessun discorso logico, altrimenti desterai dei sospetti.» «Dovrò correre alla macchina?» «Sì. Ma capisci...» «Che cosa?» «Non vorrai avvicinarti troppo. Non sarà soltanto la mia Lincoln ad apparire irriconoscibile.» Ramy deglutì. L'aveva immaginato anche prima, ma ora, tradotto in parole, suonava terribile. «Mi lascerò cadere in ginocchio, magari batterò i pugni sul terreno.» «Buona idea. E ricordati di non trascurare i ricordi.» «I ricordi?»
«Quando le persone sono colpite da un dolore improvviso, cominciano a ricordare le cose a voce alta... ciò che hanno appena fatto, oppure balbetterai che stavi per comprare una torta e roba del genere. E comincia a gemere, pensando che solo qualche minuto prima avevamo rinnovato il matrimonio, magari parla di qualche progetto di Shel per il futuro.» «Giusto», approvò Ramy, come sempre impressionata dalla precisione di Bret. «Poi avrai uno scoppio di rabbia contro chi ha fatto una cosa simile. Griderai che vuoi ucciderlo, lui o loro. E infine...» «Sarà meglio che me lo scriva», lo interruppe Ramy. «Non scriverti un bel niente, impara tutto a memoria, a costo di ripeterlo dieci volte. E, per finire, capirai che anche Sarah è morta. Altro scoppio di rabbia. Puoi anche svenire, se vuoi.» «Probabilmente succederà in ogni caso.» «Naturalmente griderò anch'io, ma per la maggior parte del tempo resterò impietrito, in un silenzio terrificante. Poi correrò al tuo fianco e ci conforteremo a vicenda.» «Non voglio parlare con i giornalisti», dichiarò Ramy, «specialmente con le lacrime che mi scorrono sulle guance. Avrò un aspetto orribile.» «Non dovrai parlare con nessuno, ci penserò io. Non passerà molto tempo e cominceranno a fare congetture sui terroristi. L'attenzione si concentrerà su di me. Non scopriranno mai la verità.» «Sto pensando ai funerali», disse Ramy. «Ci sono cose a cui Shel tiene molto e io voglio accontentarlo.» «Di questo parleremo dopo», tagliò corto Bret. «Qualsiasi cosa tu faccia, non comportarti come se avessi già pensato prima ai preparativi per il funerale. Dovrai mostrarti confusa. È così che si comportano le persone innocenti... anche parecchi giorni dopo.» «Va bene, ma Shel vuole la musica che esce dalla fossa. Uno di quei meccanismi elettrici, sai. Sono sicura che potremo procurarcelo in fretta.» «Giusto», la rassicurò Bret. Ramy sospirò. «Comincio a credere che sia tutto reale, che tutto succederà come stabilito.» «Sarà tutto finito fra meno di una settimana», la confortò Bret. «Tutto quello che abbiamo sognato e programmato diventerà realtà.» «Solo una domanda...» «Che cosa?» «È un po' che mi tormenta. Voglio dire, io sono pronta a fare tutto per te,
per noi. Tu, però, vuoi che collochi la bomba nella tua auto...» «Esatto.» «Ma perché? Non si può già sistemarla in macchina? Perché devo portarmela in giro?» «In altre parole», osservò Bret, «pensi che dovrei piazzarla io stesso.» «Io non voglio tirarmi indietro, ma non sarebbe più logico?» «No», ribatté lui, «per diversi motivi. Prima di tutto, io potrei restare coinvolto in un incidente e la bomba esploderebbe. Secondo: l'auto potrebbe essere rubata nel parcheggio del motel, qualcuno potrebbe trovare la bomba e usarla contro persone innocenti o, peggio ancora, potrebbero ricattarmi. E poi, ancora più importante, Sarah potrebbe scoprirla. Non voglio correre questo rischio.» Ramy si sporse per baciarlo. «Avrei dovuto pensarci, prima di sfidare il tuo buonsenso.» «Avrai tempo nei prossimi anni», sorrise Bret. Bret concluse la lezione spiegando che avrebbe rimesso al sicuro il congegno sino alla sera del doppio matrimonio. Lei doveva lasciare un po' di spazio nella borsetta. Sarebbe andato tutto bene, un lavoretto rapido e facile. Bret riaccompagnò Ramy alla Mercedes che aveva lasciato poco lontano. In un certo senso, gli dispiaceva accettare ciò che aveva ideato e programmato. Era difficile persino per uno come lui arrendersi all'inevitabile rottura di due matrimoni iniziati così felicemente vent'anni prima. Ma lui sentiva che la sua sorte stava cambiando. Era l'anno di Bret Lewis. Parte seconda 19 Quella della cerimonia era una giornata piena di sole, l'ideale per l'occasione, pensava Sarah. Era seduta vicino a Bret nella Lincoln e cercava di scacciare i brutti pensieri, costringendosi a mostrarsi contenta a ogni costo. Era tutto in ordine: l'abito verde che aveva ritirato dalla tintoria, i mazzolini di fiori conservati nel ghiaccio, l'impianto di allarme dell'appartamento attivato. Bret non aveva voluto che mettesse in valigia la sua giacca, ma lei lo capiva, era sempre così metodico e pignolo! Mentre passavano davanti a un distributore della Shell, sulla strada che conduceva al Cheshire, lui le
strinse leggermente la mano. Un buon segno, considerò Sarah. Stringendole la mano, Bret sperò che non si accorgesse delle sue palme sudate. Quel sudore indicava che nel suo subcosciente considerava l'eventualità di un fallimento, pensiero che si affrettò a scartare. Il piano era superbo e il telecomando era al sicuro nella tasca destra della giacca. Erano le sette e mezzo di sera, mentre si avvicinavano alla loro destinazione. Entro un'ora e mezza sarebbe stato tutto finito e lui sarebbe ritornato a casa con la macchina di qualcun altro. Ma, proprio mentre cambiava corsia per entrare nel parcheggio del motel, una Toyota blu gli tagliò la strada. Non poté fare a meno di imprecare e solo dopo qualche minuto riuscì a calmarsi, anche grazie alle parole gentili di sua moglie. Povera Sarah, era davvero un peccato. In quel momento vide Shel nello specchietto retrovisore, con la sua BMW 750i blu: stava salutando alcuni ospiti che osservavano la luccicante automobile come se fosse entrato un monarca. Sarah scese e, mentre Bret parcheggiava la Lincoln, si chiese a chi stesse pensando suo marito: ad Alison o a Ramy? Oppure a tutte e due? Avrebbe dovuto affrontarlo durante quella serata speciale? Doveva fargli capire che sapeva? Sarebbe rimasta sorpresa, se avesse saputo che in effetti Bret pensava a tutte tre le donne della sua vita. Il Cheshire Motel aveva solo ventitré stanze, tutte situate in due lunghi edifici con il tetto piatto, con la sala ricevimenti al centro. Separato, c'era un piccolo ufficio con un'insegna luminosa che diceva: AMPIO PARCHEGGIO PER FESTE, MATRIMONI, CONGRESSI. Soltanto dodici camere erano occupate, ma le luci erano accese anche in quelle libere, per dare un'aria di prosperità che era svanita da un pezzo. Alcuni degli ospiti registrati erano in affari con il Pentagono, altri erano in visita a parenti ad Arlington e due erano spie bulgare, controllate a vista in un'altra stanza da agenti dell'FBI. Infine, c'erano i soliti ospiti di passaggio, che spesso facevano la differenza fra perdita e profitto. Ramy, che si era assunta l'incombenza di parcheggiare la BMW lontano dalla Lincoln, scese dall'auto e si diresse verso i Lewis. «E un sogno», tubò abbracciando Sarah. «Proprio come vent'anni fa.» Sarah cercò di controllarsi e ricambiò l'abbraccio. A un tratto, le due coppie si ritrovarono a ridere e scherzare come se fosse tutto vero, come se nessuno di loro avesse lo stomaco contratto per la tensione. «Lo stesso soffitto verde», osservò Sa-
rah. «Già, ancora con la vernice scrostata», aggiunse Bret. «Abbiamo la stessa camera?» s'informò Sarah. «Sorpresa», rispose Bret. Prese una grossa chiave dalla tasca dei pantaloni e la fece penzolare davanti a sua moglie. La targhetta di metallo con il numero otto dondolava avanti e indietro con un clic metallico. «Vuoi seguirmi?» chiese. «Devo pensarci», rise Sarah. «Naturalmente hai provveduto a tutto.» Ramy pregò fra sé che fosse vero. Bret aveva trascurato qualcosa? C'era qualche intoppo? Era davvero quel superbo ideatore che si vantava di essere? Ramy sapeva che il suo futuro dipendeva dalle risposte a quelle domande. «Perché non entriamo?» suggerì Bret. Allora entrarono nelle loro stanze, proprio come avevano fatto venti anni prima, quando i loro sentimenti erano così diversi e il mondo sembrava a portata di mano. Adesso Bret Lewis custodiva nella sua valigetta una piccola, ma potente bomba e, mentre apriva la porta della stanza dove lui e Sarah avevano passato la loro prima notte, il suo cuore batteva forte... e non di passione, ma per il presentimento dell'orrore che di lì a poco li avrebbe inghiottiti tutti quanti. «C'è lo stesso odore», osservò Sarah. «Tutti i motel hanno uno strano odore», replicò Bret. «È la sola cosa che si ricorda di un motel.» Si guardarono intorno sorridendo. Era tutto familiare, come se gli anni fossero stati secondi: la piccola stanza, il letto matrimoniale, una poltrona, la tappezzeria sbiadita. «Sembra la stessa», osservò Sarah. «Probabilmente hanno cambiato i mobili, ma hanno tenuto lo stesso colore della tappezzeria», considerò Bret, mettendole un braccio intorno alla vita. «Ti ricordi che non riuscivamo a far funzionare il televisore?» «Sì, ma io ero contenta», ricordò Sarah con una risatina. E Sarah non ridacchiava mai. «Quella sera diluviava. Siamo usciti tutti tardi per fare uno spuntino e abbiamo trovato solo pioggia.» «Un attimo», disse Sarah e andò in bagno. «Vieni qui», chiamò. Bret posò le valigie sul letto e la raggiunse. «Che cosa hai scoperto?» «Da' un'occhiata.» Sarah gli indicò l'incrinatura nello specchio sopra il lavabo.
«Incredibile, c'è ancora», commentò Bret. «Lo tengono davvero bene quest'albergo! Vuoi che vada a protestare?» «Oh, andiamo!» «Gli dirò che mi sono già lamentato vent'anni fa e che vorrei che entro il duemila lo specchio venisse sostituito.» «Stavolta lascia la mancia», lo punzecchiò Sarah. Bret gettò un'occhiata all'orologio sul comodino: mancava poco più di un'ora. Gli pareva già di sentire l'urlo delle sirene, il panico, i pianti. Cominciarono a disfare la valigia per la notte. Bret aprì la borsa degli abiti e tirò fuori un'altra piccola sacca di plastica che portava spesso con sé durante i suoi viaggi. «Ora che ci penso», soggiunse. «Ho fatto una lista per il party. Vado a vedere se c'è tutto.» «Vengo con te», suggerì Sarah. «No. Perché invece non ti riposi un po'? Può darsi che io abbia da discutere con i fornitori, magari con il fiorista.» Premuroso come sempre, pensò Sarah. Sapeva che sua moglie detestava le discussioni. Dio, se soltanto lui avesse saputo... Era lo specchio del loro matrimonio, pensava Ramy. Shel non aveva creduto opportuno prenotare la loro camera di vent'anni prima, nossignore. Doveva avere la stanza più grande e più costosa dell'albergo, anzi, una suite con annesso un salottino e un cucinino, il televisore a colori, gigantesco, e c'era persino un piccolo bar, che Shel aveva ordinato di rifornire abbondantemente. Ora, mentre Ramy preparava due gin tonic, osservava suo marito. Sta' calma. Fra un'ora tutto sarà finito e poi la libertà. Mescolò le bibite e gli porse il bicchiere, ma lui non la vide, perché teneva la testa affondata in una delle grandi valigie di Vuitton, da cui usciva solo qualche suono soffocato. «Un secondo.» Ramy posò il bicchiere sul mobile bar. «Mentre sistemi la roba, andrò a dare un'occhiata alla sala del party.» «Perché?» «Be', non si sa mai, potrebbe esserci qualcosa da mettere a posto.» «Ci ha già pensato Bret.» «Bret non ha il tocco di una donna. Torno subito.» Shel teneva ancora la testa dentro la valigia. Non osò affrontarla. Ramy sgusciò fuori dalla porta e attraversò rapidamente il parcheggio. Il
sole che tramontava gettava un bagliore arancione su ogni cosa. Entrò nell'edificio dove si sarebbe svolta la festa, una bassa costruzione con l'interno in mattoni. Bret l'aspettava appena oltre la porta. «Brava, puntualissima.» Si guardò intorno, per assicurarsi che nessuno li osservasse, poi infilò la mano nella piccola borsa di plastica e ne tirò fuori una pila tascabile nera. Dentro c'era l'esplosivo e un detonatore e, incollata sul fondo della lampada, piegata in una spirale, c'era una sottile antenna. Senza un briciolo di emozione, Ramy la prese e la mise nella sua borsetta. «Fatto», annunciò. «Ricordati», sussurrò Bret, «devi collocarla sulla console centrale. E questa è una chiave di scorta della mia auto.» «Perché? Non l'hai lasciata aperta?» «Sì, ma potrebbe servire nel caso Sarah andasse a prendere qualcosa e la chiudesse con la sicura.» «Previdente come sempre.» «Bene», riprese Bret. «Andiamo a controllare che tutto sia in ordine per la cerimonia.» Sorrise, prima di soggiungere: «Atto primo». Entrarono nel salone, dove gli operai stavano preparando l'interno per il ricevimento. Il fiorista stava già disponendo enormi fasci di garofani lungo i corridoi e un uomo sistemava le sedie pieghevoli, molte con le gambe arrugginite. Ramy gli si avvicinò. «Potrebbe mettere le sedie più vicine e un po' più avanti?» gli chiese con squisita cortesia. «Non ci saranno molti invitati.» Non che gliene importasse granché, delle sedie, ma recitava la sua parte per maggior credibilità. In fondo alla sala, il proprietario del negozio di gastronomia che avevano chiamato allineava sui vassoi tartine e panini. Bret stava chiedendogli se poteva dargliene uno, visto che lui era uno dei due sposi. Con il sandwich in mano, si avvicinò poi alla finestra che dava sul parcheggio. Ramy dettò le ultime istruzioni al fiorista e lo raggiunse. Rimasero in piedi per un attimo, in assoluto silenzio. Bret fissava la sua Lincoln. Che peccato! Aveva sempre tenuto così bene la sua macchina. Infilò la mano nella tasca destra della giacca. Era da quel punto che avrebbe azionato il detonatore. Ramy fu colta da un brivido. «Che cosa c'è?» sussurrò Bret. «Non so, però ho la brutta sensazione che non riuscirai a mandare quei
due nella tua auto nello stesso momento.» «Fidati di me», la rassicurò. «Te l'ho detto che ho previsto ogni minimo dettaglio. Funzionerà. E poi, a un party, con qualche bicchierino in corpo, nessuno fa domande. Mandarli insieme alla macchina sarà uno scherzo.» «Mi fido di te», mormorò Ramy. «Certo, mi fido, ma mi vengono i brividi.» «Lo so.» «Comincio a capire, a rendermi conto che moriranno!» «Sicuro, saranno definitivamente morti.» «Non scherzare.» «Io? Non scherzo affatto, ma è necessario.» «Già, suppongo di sì.» «Nessuna supposizione; è la volontà di Dio.» Bret amava quell'espressione. Gli sembrava sublime mescolare Dio con l'omicidio. Molte sette religiose lo facevano da secoli. «Scusatemi, siete i signori Lewis?» Ramy sobbalzò. «Sono il signor Havalon, il direttore. Va tutto bene?» «Oh! Ehm... sì, tutto a posto», rispose Bret. «Volevo avvertirvi», riprese il direttore, «che è arrivato il pastore.» Indicò un uomo con i capelli bianchi, in fondo alla sala, seduto su una sedia, concentrato su un libricino nero. «Oh, grazie», borbottò Bret e Havalon si allontanò. «Adesso calmati», bisbigliò Bret a Ramy appena furono di nuovo soli. Le prese un braccio e la guidò attraverso la sala. «Il signore e la signora Lewis: non suona poi tanto male, eh?» Si avvicinarono al pastore e Bret notò che gli tremavano le mani. «Il dottor Clifton?» L'uomo si girò. «Sì?» «Sono Bret Lewis.» «Chi?» «Lewis, Bret Lewis. E lei è Ramy Jordan. Ci ha sposato vent'anni fa, signore. Stasera ripetiamo la cerimonia.» «Ah! Bret Lewis.» «Esatto, signore.» «E questa è la sua sposa.» Un altro brivido serpeggiò lungo la schiena di Ramy. Un altro segno del
Signore. Bret soffocò una risata. «No, lei è la sposa di Shel. Stavamo dando un'occhiata.» «Bene, bene. Sì, mi ricordo di tutti e due. Formavate una bella coppia.» «Grazie, dottore», disse Bret. «Siamo lieti che sia venuto lei.» «Oh, io, invece, sono contento che siate venuti voi», ribatté il pastore. «È bello ricordarsi di Dio.» «Sì, signore. Ma ora la lasciamo alla sua lettura.» «Bravi. E non arrivate in ritardo.» Bret e Ramy salutarono il pastore e poi si allontanarono. «Gesù!» esclamò Ramy. «Ce la farà?» «Ha novantun anni», spiegò Bret. «Quando l'ho chiamato, mi pareva abbastanza lucido ed è arrivato sin qui. Credo che se la caverà. Questi predicatori ripetono sempre le stesse cose.» «Non voglio che sia lui a celebrare i funerali», mormorò Ramy. Sarah si era avvicinata alla finestra, per esaminare il suo vestito alla luce del sole che stava tramontando, quando vide Bret e Ramy uscire vicini vicini dalla porta principale. Forse era solo un caso, o forse no. Stavano attraversando lo spiazzo del motel e Sarah notò che Bret sbirciava nella sua direzione. Poi, con aria del tutto naturale, salutò Ramy con un cenno della mano e tornò verso Sarah. La porta si aprì. «Che strano, Ramy ha avuto la mia stessa idea», disse Bret entrando. «Voleva vedere se tutto procedeva bene.» «È Shel che paga il conto», replicò Sarah, lisciandosi il vestito. «Era più logico che ci andasse lui a controllare.» «Ramy ha detto che si stava vestendo; ci andrà più tardi. Conosci Shel: si aspetta che le cose vadano sempre per il meglio, visto che firma un assegno con incise sopra le sue iniziali. Ah, fra l'altro, il salone del ricevimento è lo stesso. Ti piacerà.» Sarah si infilò il vestito e Bret le si avvicinò per chiudere la lampo. Nello specchio vide riflessa la sveglia: circa quarantacinque minuti, poi la vittoria. Tornò vicino al letto, si tolse la giacca e cominciò a sbottonarsi la camicia. Sarah prese la giacca di Bret che era distesa sul letto e fece per infilare la mano nella tasca sinistra. «Che cosa cerchi?» volle sapere Bret, colto da un panico improvviso. Il detonatore era nella tasca destra.
«Volevo uscire a prendere un po' d'aria. Mi serve la chiave della stanza.» Bret si rese conto che istintivamente aveva messo anche quella nella tasca destra. «Te la prendo io», disse. «Bret, ti prego, io non...» «Stasera sono il tuo schiavo», dichiarò lui. Infilò la mano nella tasca, tastò il detonatore e la chiave. Che stupido, pensò. Dovevo stare più attento. Diede la chiave a Sarah. «Non scappare con un altro», si raccomandò con un largo sorriso. Quaranta minuti. Ancora quaranta minuti al momento in cui Bret avrebbe premuto un tasto e avrebbe fatto saltare in aria la sua auto. Ramy guardò l'ora, mentre osservava Shel che indossava una giacca di seta rossa. Ecco che dimostra il suo buon gusto in ogni cosa, pensò voltandosi. Ramy, invece, aveva optato per qualcosa di più sobrio. La stampa l'avrebbe avvicinata dopo l'esplosione e ci sarebbe stata anche la televisione. Lei doveva apparire distrutta dal dolore. Poco trucco, pochissimo mascara, così non sarebbe colato sulle guance. Indossò un sobrio abito blu con un garofano bianco, poi raccolse i lunghi capelli in uno chignon, che fissò sulla nuca. Si aggiustò il garofano e, sorridendo, ne infilò uno all'occhiello della giacca di Shel. Erano di nuovo tutti nel parcheggio a scambiarsi saluti e abbracci. Ramy cingeva la vita di Sarah, mentre si avviavano all'edificio dove si sarebbe tenuto il ricevimento, ma tutti erano stranamente silenziosi. Niente scherzi, nessuna storiella nostalgica, nessun commento sulla cerimonia ormai imminente. Ora erano quattro persone con una missione precisa, sperdute in strani pensieri. Entrarono. Shel fu il primo a rompere il silenzio. «Guardate», esclamò indicando i fiori, le file di sedie, il tavolo per il rinfresco coperto da un telo di cellophane arancione e verde e un altare con addobbi di velluto rosso. «Non vi suscita tanti ricordi?» «Sicuro», rispose Ramy. Cielo, sii gentile con lui! Al suo cuore non rimangono molti battiti. Bret vide il dottor Clifton che sonnecchiava su una sedia, la grande Bibbia accanto a sé. Decise di non svegliare il vecchio pastore, se non un attimo prima della funzione. Shel e Sarah si diressero insieme verso un angolo della sala, per salutare alcuni invitati che stavano arrivando.
Bret rimase con Ramy. «Hai tutto?» sussurrò. «Sì», rispose lei in un bisbiglio. «In fondo alla borsetta, sopra il braccialetto per Sarah.» Lanciò un'occhiata verso l'amica e i suoi occhi divennero lucidi. «Smettila», ordinò Bret. «Non riesco a farne a meno. È la mia migliore amica, non mi ha mai fatto del male.» «Ne ha fatto abbastanza», tagliò corto Bret. «Sii forte.» Tim Curran, invitato sia da Bret sia da Shel, arrivò con la sua Cadillac Fleetwood marrone, l'omaggio illecito di un commerciante d'auto. Shel voleva che lui partecipasse alla cerimonia, perché sperava di ottenere un favore per uno dei suoi clienti. «Uno dei miei più cari amici del Congresso», diceva. Anche Bret voleva Curran... come testimone dei successivi avvenimenti. Curran avrebbe potuto notare l'atteggiamento di Bret dopo la tragedia e magari scrivere un appunto sul carattere e il coraggio da lui dimostrati in quella triste circostanza. Curran diede la mancia a un inserviente perché gli parcheggiasse l'auto, che venne sistemata poco oltre quella di Bret. Peccato, pensò lui. Come minimo, Curran avrebbe dovuto far rimettere i finestrini alla Cadillac, e magari far cambiare i pneumatici. Ma non si sarebbe arrabbiato. Avrebbe semplicemente dichiarato che lui pure era stato vittima del terrorismo e che era sfuggito alla morte per puro miracolo. «Onorevole!» esclamò Bret andandogli incontro. Come sempre, Curran era solo. Non portava mai la moglie con sé, cosa che probabilmente costituiva una benedizione per la signora, poiché il marito l'avrebbe umiliata corteggiando sfacciatamente ogni donna presente. Curran si avvicinò rapidamente, con la mano tesa e un pronto sorriso. Indossava un completo blu, una camicia bianca e una cravatta rossa. Banale. «Bret!» esclamò Tim Curran con calore. «Che bella serata! Che idea! Mi ricorda il mio matrimonio con la mia meravigliosa moglie. Trentasei anni, Dio la benedica.» «Onorevole, le sono molto grato di essere venuto», rispose Bret. Curran non gli aveva ancora concesso l'onore di chiamarlo per nome. «Non potevo certo mancare. Ho annullato una cena con l'ambasciatore egiziano, per essere qui.» Tutte balle. Sarah, che aveva visto Curran, si avvicinò per raggiungere i due uomini. «Purtroppo mia moglie non è potuta venire», riprese Tim Curran. «Lo desiderava tanto, ma non si sente molto bene.»
«Mi spiace», disse Bret, sapendo che probabilmente la signora non era nemmeno stata informata del ricevimento. «Le presenti i miei ossequi. Lei conosce già mia moglie Sarah.» Curran osservò la donna che aveva considerato inadatta e che aveva bocciato qualche mese prima, dicendo a Bret che sarebbe diventata un ostacolo, per la sua mancanza di spirito mondano e sociale. «Se conosco Sarah?! Mi sono preso una cotta per lei dal primo momento in cui l'ho vista.» Sarah era disorientata. Sapeva quello che si diceva di Curran, ma doveva ammettere che il complimento le faceva piacere. «Grazie, signor Curran», mormorò. «Siete una coppia perfetta. Ora, Sandy... Sarah, le voglio confidare una cosa, e cioè quanto ho detto al suo maritino: voi due andrete lontano. La gente parla di voi, vi ammira. Un giorno o l'altro deve parlarmi del suo lavoro al museo, io adoro i piloti.» «Io veramente non volo», replicò Sarah, violando il primo comandamento di Washington: mai contraddire i potenti. «Capisco.» Curran gettò un'occhiata a Bret, che rispose con una leggera smorfia. «Bene», riprese l'onorevole, «sono sicuro che il museo è un luogo affascinante. Ci mando sempre i miei elettori e i ragazzi ne vanno pazzi. Possono vedere la capsula di John Glenn, che io conosco personalmente. Viene dal mio Stato, lo sapeva? Non è un uomo eccitante, ma incarna i giusti valori. Credo che sia terribilmente importante per i giovani.» «Assolutamente», convenne Sarah. Curran si guardò intorno nella sala, per vedere se ci fosse qualcun altro con cui valesse la pena di fermarsi a parlare e intanto pensava: «Perché questa cerimonia ripetuta?» Forse era soltanto un rituale, concluse, una cosa inventata da Sarah. Non ci capiva un accidente. «Credo che stiamo per cominciare, onorevole», gli disse Sarah, alzando gli occhi verso il vecchio orologio sulla parete. «Sarà molto commovente», osservò Curran. Tutta quella faccenda era maledettamente strana, rifletté. Forse Bret amava davvero sua moglie, forse era uno di quelli che non sanno troncare perché hanno una concezione romantica dell'amore. Grave errore, seguitò a rimuginare l'onorevole. L'amore è un inconveniente per la politica. Ma Curran si era lasciato ingannare. Neppure la mente più astuta e più
scettica poteva immaginare che tutto facesse parte di un piano. Tim Curran era stato usato in passato, ma sapeva sempre quando e per quale scopo e che cosa dovesse aspettarsi in cambio. Ora persino lui si faceva prendere in giro. Bret, osservandolo, sentì di averlo superato persino nella sua grandezza e si concesse un leggero sorriso. Modesto e discreto, ma era l'indizio di un prossimo trionfo. 20 Erano le otto e mezzo. I quattordici invitati erano ai loro posti, Tim Curran in prima fila. «Stai sempre davanti», aveva insegnato a Bret. «Il posto indica la tua importanza, anche al cimitero.» Non sembrava un vero matrimonio, e infatti non lo era. Gli invitati, in abito scuro, scherzavano fra loro poco prima che la cerimonia cominciasse, qualcuno si scambiava il biglietto da visita. Tutti consideravano la ripetizione del matrimonio una festa mondana, niente di particolarmente solenne e, nella sala, l'odore delle tartine si mescolava al profumo dei garofani. In fondo c'era un pianoforte che avrebbe suonato un tale assunto da Shel. Il pianista si sistemava sullo sgabello e continuava a guardare l'orologio. Appena fuori dalla porta, le due coppie erano in attesa. Ramy aggiustò con cura il garofano all'occhiello di Shel e Sarah tirò fuori un fazzoletto, per ogni evenienza. Nella tasca destra di Bret c'era il detonatore, con la levetta alzata, l'esatta posizione per il pollice che avrebbe premuto il bottone e, nella borsetta di Ramy, un po' troppo grande per la circostanza, pensò Sarah, c'erano l'esplosivo e il braccialetto per la sua migliore amica. Ramy evitava lo sguardo di Sarah. S'irrigidì, soffocando rimorsi e sentimenti. Niente doveva interferire con il piano. «Mancano pochi secondi», stava dicendo Shel. «Sicuro. Qualcuno desidera ritirarsi?» chiese Bret. Seguirono risatine nervose. Sarah guardò Shel. Gli leggeva la tensione dipinta sul volto paffuto, ora leggermente sudato. Povero Shel. Con tutti i suoi soldi, che cosa gli restava? «Come sta il reverendo?» s'informò Shel. Bret sbirciò attraverso la porta. In piedi, dietro il pulpito, il dottor Clifton stava in piedi con la Bibbia davanti a sé, sorridendo agli invitati. «Gli avranno ricaricato le batterie. Credo che ora resisterà almeno trenta ore.» Cerca di scherzare, osservò Sarah. Gli uomini che hanno qualcosa da na-
scondere scherzano sempre. Il pianista, a cui era stato detto di non suonare la marcia nuziale, attaccò una versione piuttosto incerta di Vivaldi, come gli aveva suggerito Shel. «C'è anche in quel film, Kramer contro Kramer», aveva dichiarato Shel, così dimostrando tutta la sua competenza in fatto di musica classica. Le due coppie cominciarono ad avanzare nel corridoio centrale. Non marciavano, camminavano molto semplicemente, prima i Lewis, poi i Jordan. Ora sorridevano, anzi, Shel strizzò l'occhio a qualche invitato e Bret si fermò a stringere la mano a un ospite ritardatario. Soltanto pochi minuti, pensava Bret. Si guardò intorno; quelle stesse persone le avrebbe riviste al funerale. I Lewis e i Jordan si fermarono in piedi davanti al dottor Clifton, raggiante come un padre che si vede porgere quattro gemelli. «Benvenuti, ragazzi», esclamò con voce straordinariamente ferma e baritonale. E poi... Bret non poteva crederci. Con gli occhi sbarrati dalla sorpresa, notò che la cinghia della borsa che Ramy portava a tracolla le stava scivolando dalla spalla. Esitò a muoversi: richiamare l'attenzione della donna avrebbe potuto destare sospetti. La cinghia continuò a scivolare lentamente dal braccio e la borsetta cadde sul pavimento. Il tonfo si sentì in tutta la sala. Qualcuno in fondo ridacchiò. «Ma che cos'ha in quella borsa, una boccia da bowling?» «Scusi», sussurrò Ramy rivolgendosi al dottor Clifton ed evitando lo sguardo di Bret, che sapeva che non c'era pericolo che la bomba esplodesse, ma temeva un eventuale danneggiamento. Che scema, pensò lui. Non è neppure capace di reggere una borsetta. Ormai non era più sicuro al cento per cento. Era possibile che lui premesse il tasto e non succedesse niente. Ecco un imprevisto che non aveva calcolato. Ora doveva aspettare, sudare e forse la bomba non sarebbe esplosa. Shel raccolse la borsetta e la diede a sua moglie con un sorriso. Lei provò un certo sollievo; era chiaro che Shel non si era accorto di quanto pesasse. Scoccò un'occhiata in direzione di Bret, ma lui non la guardò. «Credo che possiamo incominciare, figli miei», attaccò il dottor Clifton. Ma la mente dei «suoi figli» era lontana milioni di chilometri. «Ah!» incominciò il pastore. «L'amore è eterno, l'amore vero. L'amore che, in questi tempi turbolenti, dura negli anni...» «Amen», disse Tim Curran con voce quieta.
«Quante volte capita di vedere un amore espresso con tanta fedeltà?» chiese Clifton. E chi se ne infischia? pensò Bret. Continuava a sorvegliare la borsa di Ramy. Il congegno era stato compromesso dalla caduta? E in caso affermativo, come fare? «Per vent'anni Ramy e Sheldon, Sarah e Bret hanno tenuto fede alla loro promessa...» Poteva esaminare la bomba prima che Ramy la collocasse nell'auto, pensava Bret. Ma dove? C'era il rischio d'essere visto. «...e oggi sono tornati qui insieme», continuò Clifton, «per riaffermare con le parole ciò che hanno suggellato con i fatti.» Avrebbe tentato comunque e, se non avesse funzionato, avrebbe dovuto improvvisare una seconda occasione, ma l'omicidio doveva avere luogo. «Non ho dubbi che queste persone siano pronte a offrirsi la loro vita a vicenda», cantilenò il pastore. «Senz'altro», sussurrò Ramy. «È possibile rinnovare il giuramento in molte forme», sentenziò Clifton. «Qualche volta le coppie innamorate lo fanno per iscritto, altre invece ripetono le parole che hanno pronunciato durante la prima cerimonia. Oppure ancora...» Accidenti, quanto la fa lunga, pensò Bret. Non se lo ricordava così, il reverendo Clifton, ma lui sembrava deciso a recitare tre atti. «Spesso noi pastori facciamo semplicemente ciò che crediamo più appropriato...» Bret non poteva fare altro che sperare. «...e quindi questo è un ricongiungimento», proseguì il reverendo con voce assonnata. Poi, all'improvviso, s'interruppe. Si schiarì la gola e guardò direttamente Bret che, senza accorgersene, aveva cominciato a spostarsi e a voltarsi continuamente. All'occhiata di Clifton, Bret restò immobile. La funzione continuò. Alcuni invitati presero a sbirciare l'orologio. Finalmente Clifton arrivò al punto. «Vuoi tu, Sheldon, ancora una volta, prendere Ramy come tua fedele sposa per onorarla e amarla...» «Oh, certo, lo voglio», rispose Shel, guardando Ramy raggiante. Lei sorrise di rimando, ma i suoi occhi evitarono quelli del marito. Non poteva guardare un uomo che avrebbe aiutato ad assassinare entro pochi minuti. «E tu, Ramy, vuoi ancora una volta prendere Sheldon come tuo legittimo sposo, per amarlo e onorarlo nel bene e nel male...» Che razza di frase, pensò Ramy. Naturalmente, lui non avrebbe sofferto.
Cercò di sorridere e si dimenticò di rispondere. «Lo vuoi?» ripeté Clifton vagamente seccato. «Oh, sì, assolutamente sì.» Lei guardò Shel e si sforzò di sorridergli. Poi spostò lo sguardo verso Bret, che stava impassibile, probabilmente infastidito nel vedere che lei chiedeva la sua approvazione come una scolaretta. Clifton rivolse la sua attenzione ai Lewis e non poté fare a meno di allungare la cerimonia con una nota personale. «Ho prestato servizio come cappellano militare, nella seconda guerra mondiale», ricordò. «Sono stato a bordo di navi da combattimento nel Pacifico, da Guadalcanal a Okinawa. Perciò Bret, amico marinaio, vuoi un'altra volta prendere Sarah...» Bret, che non sapeva nemmeno nuotare, assunse un'espressione compunta. «Sì, lo voglio», rispose quando fu il suo turno e sorrise a Sarah, voltandosi leggermente per farsi notare da tutta la sala. Lei lo guardava attenta. Ecco, era lo sguardo che aveva visto, o almeno aveva creduto di vedere, per quei vent'anni. Uno sguardo affettuoso, colmo d'amore e di stima. Poi Sarah guardò Ramy. Non riusciva a odiarla. Se c'era stata una relazione, senza dubbio era successo per iniziativa di Bret. Nonostante le rivelazioni di Shel sulla sua infedeltà, Ramy non era infatti il tipo da iniziare qualcosa, se non forse un lavoro di decorazione. «E tu Sarah...» «Lo voglio», disse lei con voce ferma, voltandosi verso suo marito con un sorriso. Il reverendo Clifton si attardò per fare presente che la nuova cerimonia non avrebbe cambiato nulla di quella avvenuta vent'anni prima e aggiunse che non c'era bisogno di rinnovare i voti per dimostrare la devozione l'uno per l'altra. Oh, insomma, sbrigati! lo spronò mentalmente Bret. «Tutti i presenti avranno capito che i vostri sono due matrimoni perfetti. Eppure sono contento che stasera siate venuti da me, poiché siete un esempio di ciò che davvero significa un sacro matrimonio.» Forse potrebbe celebrare anche il funerale, pensò Bret. Il pianista cominciò a suonare. I Lewis e i Jordan si congratularono a vicenda e ringraziarono il dottor Clifton. Bret aiutò il pastore a scendere dal pulpito e lo fece sedere. «Grazie, e che Dio vi benedica», aggiunse Clifton con una voce improvvisamente debole e incerta. «Mi è piaciuto, sai Jeff?» Bret non lo corresse neppure. «Hai il mio indirizzo?» chiese poi. «Sì, signore, l'ho scritto.»
«Manda l'assegno a quell'indirizzo.» «Arriverà per posta.» «D'accordo.» Bret ascoltò appena le istruzioni, la sua mente era concentrata sui minuti successivi, i più importanti della sua vita. Raggiunse Sarah e i Jordan, che si erano allontanati dall'altare fermandosi nel corridoio per stringere la mano agli amici. Tim Curran gli diede una pacca sulla schiena. «Commovente», fu il suo commento. Quasi ignorò Sarah. Nel regno del suo dio personale, non c'erano benedizioni per coloro che non erano in grado di offrire un party grandioso. Ancora poco tempo, pensò Bret. Ben presto avrebbe saputo se la libertà era a portata di mano, se la sua vita sarebbe cambiata. «Salve, Sid», disse a Sidney Nelson, un vicesegretario del ministero degli Interni, che conosceva dai tempi dell'università «Grazie d'essere venuto.» «È fantastico», replicò Nelson. «Quasi mi pento di non essermi sposato.» Bret osservò Ramy. Avevano concordato di non parlarsi, se non in gruppo. Lui non voleva che qualcuno degli ospiti ricordasse una conversazione che avrebbe potuto destare qualche sospetto. «Meryl!» esclamò Bret, faccia a faccia con un'amica di Sarah, un'altra conservatrice del Museo aerospaziale, una bella donna sulla trentina. «Come va, Meryl? Sarah mi racconta sempre dei vostri pranzetti; io, però, non ti vedo mai.» «Ora mi vedi», replicò Meryl. «Sai, per poco non mi mettevo a piangere, durante la cerimonia. È naturale, del resto: le donne divorziate piangono per un sacco di cose.» «Nessuna prospettiva?» s'informò Bret. «Scusa, forse non avrei dovuto chiedertelo.» «Non ti preoccupare. No, Superman non è ancora volato nel museo. E non so se mai arriverà.» Bret rise. Osservò Ramy avvicinarsi al marito, che stava parlando con Tim Curran e un avvocato di Washington del suo nuovo affare come rappresentante di un costruttore di missili. Bret si fece più vicino, fingendo di prendere un sandwich, per ascoltare ciò di cui parlavano. «Salve a tutti», stava dicendo Ramy. «Tesoro, tu conosci Tim Curran, il famoso esponente del Congresso»,
fece Shel. «È questo è Wendell Morton, dello studio Ethridge & Morton.» «Ma certo che conosco questi signori», replicò Ramy rivolgendo un sorriso smagliante a Curran. Dio, pensava Bret, questa donna, a differenza di Sarah, sa come comportarsi. «Mi sono preso una cotta per questa signora», dichiarò Curran rivolgendosi a Ramy. Ecco una svista. Curran non ripeteva mai la stessa frase a un party. «Onorevole, si è fatto un'amica per tutta la vita», tubò Ramy. Bret continuava a guardare la sua borsetta, che ora la donna teneva saldamente per la cinghia, per evitare che le scivolasse dalla spalla. «Shel», riprese Ramy. «Esco un attimo, vado alla macchina di Sarah.» «La macchina di Sarah? E perché?» «Indovina.» «Non afferro.» «Sheldon, che cosa faccio tutti gli anni?» Shel parve pensare un momento, poi cominciò a ridere, come se fosse imbarazzato per la sua mancanza di intuito. «Sapete che cosa fa mia moglie?» chiese agli altri due uomini. «Tutti gli anni compra un regalo per Sarah e glielo lascia sul sedile anteriore dell'auto.» «Molto commovente», decretò Tim Curran e l'avvocato annuì, chiedendosi quando si sarebbe parlato di affari. «Naturalmente», si affrettò ad aggiungere Shel, «il nostro regalo per i Lewis verrà recapitato a casa. Non si può lasciare un televisore sul sedile.» «Un dono magnifico», ribadì Curran. «Mi piacerebbe ricevere un regalo simile.» «Allora io vado», annunciò Ramy. «Ricordati di chiudere le portiere, dopo», le raccomandò Shel. «Sta' tranquillo.» Bret si accorse che il suo cuore cominciava a battere forte. «E dopo», continuò Ramy, preparandosi ad andare, «ho un incarico per te.» «Sì? Vuoi conoscere un ambasciatore, Ramy?» rise suo marito, strizzando l'occhio agli altri due. «No, una cosa molto più semplice», rispose lei. «Ricordi la sera del nostro vero matrimonio, quando tu e Sarah siete usciti per andare a cercare uno spuntino?» «Certo che mi ricordo», confermò Shel. «Devi rifarlo», disse Ramy in tono perentorio.
«Stasera?» «Certo. Sarà divertente.» «Be'», borbottò Shel, piuttosto imbarazzato. «Non sarebbe il caso di andare a prendere qualcosa di più... elegante?» «No, Sheldon. Non sarebbe così romantico.» «Hai già chiesto a Sarah se vuole venire?» «Non ancora, ma sarà entusiasta dell'idea.» Shel si strinse nelle spalle, alzando le mani grassocce in un gesto conciliante. «Va bene, sarai accontentata. Tutto ciò che desidera Ramy è un ordine per Shel.» «Arrivederci», salutò lei e ripeté il gesto di strizzare l'occhio a Curran e Morton come aveva fatto Shel. Poi si diresse verso la porta. Bret la osservava, cercando di apparire indifferente. La vide fermarsi e voltarsi a guardare Shel e Sarah. Uscendo per andare alla macchina, lei sapeva di firmare la condanna a morte di entrambi. Con noncuranza, Bret si avvicinò alla finestra che aveva scelto in precedenza. Un suo amico vi stava seduto davanti, mangiando un sandwich. Bret rimase in piedi vicino a lui. Osservò Ramy uscire dall'edificio e avviarsi verso il parcheggio. Teneva la borsa più stretta che mai. La donna non si voltò indietro. Bret le aveva dato istruzioni specifiche di non girarsi. Nella sua mente lei ripassava gli ordini: sgusciare in macchina dalla parte del conducente, posare il dono di Sarah sul sedile destro e, infine collocare la bomba sul ripiano fra i due sedili, con la lampadina rivolta all'insù, esattamente come la teneva di solito Bret. Lei continuò a camminare, poi si fermò un momento per lasciar passare un'auto. Ci siamo, pensò Bret. «È buonissimo questo roast beef», disse l'amico seduto vicino alla finestra. «Già.» «Hai avuto coraggio a rifare questa cerimonia», continuò l'altro, passandosi un tovagliolino sulla bocca. «Grazie», rispose Bret. «Vero amore, eh? Lo sai quanto sgancio io per gli alimenti ogni mese?» Ramy era quasi arrivata. «No, non lo so.» «Spara una cifra.»
«Mille.» «Tremila. Tremila dollari e sono stato sposato con lei solo per sei mesi.» «Eh, già», borbottò Bret. Ramy era accanto all'auto. Aprì la portiera e sgusciò dentro. «Mi piace vivere da solo, ma tre bigliettoni fanno male al cuore. Ogni anno ci compreresti una Mercedes.» «È un'indecenza», convenne Bret. La luce all'interno della macchina era accesa. Bret vide Ramy prendere il braccialetto dalla borsa e posarlo sul sedile, poi la sua mano tirò fuori l'ordigno. «Una bella festa», stava dicendo l'amico. «Mi fa piacere», rispose Bret. Ramy posò l'ordigno sulla console. Bret infilò la mano nella tasca destra e tastò il detonatore. «Che stupida», mormorò fra sé. «Ha bevuto tutta la storia.» «Una vera bomba», sentenziò l'amico. Bret premette il tasto. 21 Il lampo illuminò tutto il parcheggio. Poi, dopo un istante, il botto assordante, rumore di vetri infranti e di metallo. «Oh, mio Dio!» gridò Bret voltando le spalle alla finestra per ripararsi. In quella frazione di secondo, vide volare via una portiera della sua Lincoln. L'interno della vettura s'incendiò e i finestrini posteriori volarono in mille schegge. Non vide Ramy. Non doveva vederla. Sentì le grida nella sala. Il suo primo pensiero fu: ha funzionato. Ben fatto, Bret, ben congegnato. Il secondo fu rivolto ai suoi timori che gli piovessero i vetri in faccia, timori esagerati. L'abitacolo aveva contenuto gran parte dello scoppio. Le finestre del motel avevano tremato, una s'era incrinata, ma nessuna era andata in frantumi. Poi la sala piombò nel silenzio. Improvvisamente si spensero le luci. «Gesù!» mormorò qualcuno. «Che cosa è stato?» «Sembrava lo schianto di un aereo», disse un altro.
«No, è scoppiato qualcosa!» Spingendosi a vicenda, gli invitati si fecero strada verso la finestra. La Lincoln bruciava. «La nostra macchina!» Era Sarah. «Bret, è la nostra macchina!» Una voce. «Ramy!» Era Shel. E poi un urlo impressionante: «Ramy! Oh, mio Dio, Ramy!» Jordan fece per correre alla porta. Bret si precipitò a fermarlo. «Shel, calmati. Cerchiamo prima di sapere...» «Lasciami andare! Lei era andata alla tua auto. Il regalo. Ha lasciato un regalo per Sarah!» Tutti potevano sentirlo. Il viso di Sarah divenne di pietra. No, non era possibile che Ramy fosse dentro la macchina! Si levò un mormorio. Nella sala illuminata solo dal riverbero arancione dell'auto in fiamme, gli ospiti fissarono Shel, la sua faccia contorta dall'angoscia. «Ramy!» «Forse è in camera», gridò Bret, mentre Sarah correva da Shel per abbracciarlo. Bret schizzò fuori dalla porta. «La troverò! Vado a riprenderla, sarà tutto a posto!» E corse fuori. «Non avvicinarti troppo!» gli gridò qualcuno. «Potrebbe esplodere il serbatoio.» Sirene. Qualcuno dall'ufficio aveva chiamato la polizia subito dopo lo scoppio. In lontananza, fari lampeggianti. Altri si precipitarono ad aiutare Bret. Shel barcollò, rallentato dal suo peso, picchiando il pugno sulla mano aperta. Sarah corse fuori con lui. «Ora vado a prenderla», ansimò Shel. «Devo andare.» Sarah lo trattenne, allontanandolo dall'inferno che divampava davanti a loro. Nonostante tutte le grida di avvertimento, Bret balzò su un'auto parcheggiata accanto alla Lincoln. Guardò attraverso il parabrezza, con il volto distorto dall'angoscia, poi guardò indietro verso Shel, ma non disse niente. Si limitò a tendere le mani in avanti e i suoi occhi erano colmi di lacrime. «No!» gridò Shel. «Oh, no, no, no!» Bret saltò giù dall'auto, corse verso l'amico e gli gettò le braccia al collo. «Non guardare», lo pregò. «Non c'è scampo. Non guardare.» Sarah lo sentì. Piangeva. «Perché?» singhiozzò. «Che cosa è successo? L'auto è esplosa?» «Una bomba», spiegò Bret. «La macchina era stata manomessa.» Poi, seguendo il copione che aveva ripassato tante volte, indietreggiò per appoggiarsi all'auto più vicina. «Volevano uccidere me! Ero io il bersaglio!»
gridò. «Povera Ramy. Perché proprio lei?» Poi batté il pugno sul baule della vettura. Gli invitati intorno a lui cercarono di trattenerlo, ma lui continuò. Si vincono degli Oscar per molto meno. Ormai Shel stava seduto sul marciapiede, la faccia affondata fra le mani. Diceva qualcosa e seguitava a ripetere il nome della moglie, ma nessuno in realtà lo ascoltava. Tutti erano ammutoliti per l'orrore. Il tempo sembrava essersi fermato. Non c'era modo di avvicinarsi alla Lincoln. Non si poteva tirare fuori nulla. Il proprietario del motel era corso fuori con un grosso estintore, ma restava impalato a osservare la macchina che cominciava a perdere la vernice rivelando il metallo di sotto. Sino a quel momento, il serbatoio non era esploso, né sarebbe mai accaduto. Prevedendo quell'evenienza, Bret era arrivato al motel con il serbatoio quasi vuoto. Alcuni veicoli dei pompieri entrarono nel parcheggio, seguiti dalla vettura del comandante. Shel si appoggiò a un vigile del fuoco. «Lei è là dentro, ma è morta. Morta!» Non ci volle molto al pompiere per averne la conferma. Sarah si avvicinò a Shel e, mettendogli una mano sul braccio, cercò di trascinarlo via. Bret stava ancora appoggiato all'auto, ma adesso osservava i vigili del fuoco che cominciavano a lavorare. Tuttavia, prima che allestissero le apparecchiature, una figura scivolò alle spalle di Bret e gli mise una mano sulla spalla. Lui, con gli occhi arrossati per esserseli sfregati con un po' di detersivo che aveva versato nel fazzoletto, si girò. Era Tim Curran. «Onorevole, che orribile...» «Lo so, lo so, Bret», lo interruppe Curran. «È spaventoso. La signora si era appena risposata. Le persone che fanno di queste cose sono dei veri criminali. Ma Bret, segui il mio consiglio: fra poco arriverà la stampa, la televisione. Quella bomba era destinata a te.» «Non è questo il modo di diventare un eroe», borbottò Bret. «Non hai capito. Quelli sono avvoltoi. Nessun reporter è diventato famoso scrivendo una storia importante. Diventano famosi con una storia spettacolare.» «Che cosa sta dicendo?» «La donna è morta. Un funzionario del governo è vivo e lei è morta.» «Non penserà che vorranno dare la colpa a me...» «Certo che no, ma vorranno sapere a che cosa stavi lavorando. Che cosa hai fatto per meritarti una bomba?»
«Sono un funzionario dell'antiterrorismo», disse Bret. «Lo sai tu e lo so io, ma qualcuno di quei ragazzi farà di te il prossimo Ollie North, e non sarà un complimento. Tienti pronto, Bret. Ci saranno domande. Spiega loro che stai svolgendo un normale lavoro, non diretto a qualcuno in particolare. Questo dimostra che razza di animali siano i terroristi. Una donna innocente muore perché questi assassini sono fedeli a qualche causa. Parla dell'Iran e della Siria, loro ci crederanno. E cerca di concentrarti su Ramy. Sii umano, offrile un'elegia funebre.» Un consiglio maledettamente buono, pensò Bret. 22 Le dodici e cinquanta del mattino dopo, nell'appartamento dei Lewis. Bret aveva insistito perché Shel passasse la notte con loro, i suoi amici più cari. Aveva staccato tre dei quattro telefoni, lasciando collegato solo quello in cucina, e aveva spiegato che il trillo in piena notte poteva disturbare Shel. La polizia del distretto di Columbia aveva messo un agente di guardia alla porta dell'appartamento e uno nell'atrio, temendo che chiunque avesse attentato alla vita di Bret Lewis potesse riprovarci. L'FBI aveva già interrogato Bret circa le possibili connessioni con il mondo del terrorismo e le ambasciate americane in Paesi con governi ostili erano state allertate sulla possibilità di un complotto internazionale. Quattro imprese di pompe funebri avevano già telefonato, una offrendo addirittura elogi funebri preregistrati. L'appartamento era torrido. Erano arrivati soltanto da un quarto d'ora, dopo essere stati per ore e ore alla polizia e dopo che Shel aveva riconosciuto l'orologio e la collana di Ramy all'obitorio... l'unico modo dignitoso che aveva avuto per identificare ciò che era rimasto di Ramy. L'aria condizionata cominciava a fare effetto e, in sottofondo, si udiva il continuo ronzio del condizionatore. «Voglio controllare», stava dicendo Bret. «Voglio assicurarmi che trattino bene Ramy.» Bret, Shel e Sarah si trovavano in soggiorno; lei teneva un braccio intorno alla vita di Shel e cercava di consolarlo. Avevano ancora tutti e due la faccia annerita e gli abiti macchiati, i capelli arruffati e pieni di polvere per l'esplosione. Ciò che Bret voleva vedere era un notiziario locale, che andava in onda all'una di notte. Gli interessava sapere come lui sarebbe stato descritto. La reputazione di Ramy era del tutto irrilevante. Lei non era af-
fatto presente nei suoi pensieri e al mattino il suo ricordo sarebbe stato bandito dalla sua memoria, tranne per la necessità di dire frasi appropriate alla gente, in tono commosso e convincente. «Sì, senti che cosa dicono», approvò Shel. Bret si scusò e andò lentamente in camera da letto, con il corpo stanco e indolenzito. Prese il telecomando e accese il televisore, poi sedette sul bordo del letto e aspettò, mentre il presentatore spiegava alcuni benefici dell'assicurazione sulla vita per gli anziani. Nel soggiorno, Shel mormorò qualcosa a Sarah seduta vicino a lui. Ora, senza Bret presente, le sue parole tese e forzate assumevano un nuovo significato. «La perdono», le disse. Parole che non avrebbe mai potuto pronunciare davanti a Bret. «La perdono, qualsiasi cosa abbia fatto o intendesse fare. Spero che mi ascolti.» «Ti ascolta», confermò Sarah. «Era una brava ragazza, una buona moglie. Forse ero io il problema, ma che importa, ormai?» Shel rise con amarezza. «Non dovremo più andare da Lorenzo Rosenthal.» «Suppongo di no.» «Sai, le avevo sempre detto come avrebbe dovuto comportarsi, nel caso io fossi morto all'improvviso. 'Ramy, non lasciarti soffocare dal dolore, continua a vivere la tua vita', le ripetevo. Non avevo mai pensato a una cosa del genere... voglio dire, non pensavo che le donne morissero all'improvviso. Non me l'immaginavo, ma è vero. Di solito sono i grassoni che muoiono per disturbi cardiaci.» «Ora dovresti riposare, Shel», suggerì Sarah. «No, voglio parlare. È meglio per me, Sarah. Se non ti dispiace, però.» «No, certo.» Lui s'interruppe per tirare un profondo sospiro, lasciando uscire il fiato con un suono asmatico. «È andata così. Una bomba. Poteva essere un incidente d'auto o un incendio, oppure qualsiasi altra disgrazia. Te ne stai seduto con gli amici, ed ecco che succede all'improvviso.» «Sì, è proprio così», convenne Sarah. «Voglio sapere chi è stato.» «Tutti lo vogliamo.» Ma nella mente di Sarah c'era qualcos'altro. Certo, la morte violenta di Ramy l'aveva intontita, ma lo choc era accompagnato da uno strano, inde-
scrivibile torpore. Dopo tutto, Ramy era una delle due donne. Che effetto avrebbe avuto la sua morte su Bret? E sul loro matrimonio? Ora qualcosa sarebbe cambiato, pensava Sarah, ma non riusciva a immaginare che cosa. Bret sembrava profondamente sconvolto per l'omicidio di Ramy, però era impossibile leggere oltre quel turbamento. In un certo senso, ragionava Sarah, la sua vita era complicata come lo era dieci ore prima. Quando cominciò il notiziario, sul video apparvero facce sorridenti. La trasmissione era condotta da due annunciatori, un uomo e una donna. «Tutto è cominciato con un lampo improvviso e un rumore assordante», attaccò il presentatore, con una voce che risuonò in tutta la stanza. «Una donna innocente, un probabile attentato terrorista.» Sullo schermo apparve una foto di Ramy. «Ramy Jordan è rimasta uccisa questa sera da una bomba piazzata in un'auto ad Arlington, in Virginia.» Sul video apparvero la Lincoln in fiamme e i vigili del fuoco che tentavano di spegnere l'incendio. «Per ironia della sorte, la moglie del noto uomo d'affari Sheldon Jordan aveva appena ripetuto la cerimonia nuziale dopo vent'anni...» Bret alzò il volume, per sentire con chiarezza ogni frase. Voleva sapere come ne usciva lui. «Nell'ipotesi di un attentato terroristico, è stato chiamato l'FBI e un agente ha dichiarato che probabilmente l'ordigno è stato fatto esplodere con un comando a distanza. L'auto apparteneva a Bret Lewis...» Bret aguzzò le orecchie. «...sottosegretario alla Marina che si occupa di terrorismo. La polizia ritiene che la bomba fosse destinata a lui, presumibilmente piazzata da qualche gruppo terroristico per rappresaglia contro gli Stati Uniti.» Ed ecco Bret sullo schermo. L'aria smarrita, il viso triste, il braccio intorno alle spalle di Sarah, in piedi accanto a lui. «Ancora non posso crederci», stava dicendo. «Era una delle nostre migliori amiche, una signora bella e gentile. Eravamo qui per una cerimonia che noi consideravamo sacra. Chiunque abbia fatto una cosa simile... Li ritroveremo, a costo di setacciare l'intero universo.» «Pensa che la bomba fosse destinata a lei?» chiese un reporter. «Be', senza dubbio nessuno aveva interesse a uccidere Ramy Jordan. Sì, credo proprio che la bomba fosse indirizzata a me.» Si fece avanti una giornalista, in piena vista sullo schermo. «Signor sottosegretario, è per caso impegnato in qualche missione segreta che può a-
vere provocato una rappresaglia?» Era la domanda tipo Ollie North, come l'aveva definita Tim Curran. Sullo schermo Bret vide se stesso fissare la faccia della giornalista. Sapeva che la donna era convinta che il male albergasse solo a Washington. «No», rispose alla fine. «Non ci sono in corso missioni, ma soltanto una costante sorveglianza sulle attività terroristiche. Per quanto riguarda i possibili autori... be', sulla stampa sono apparse storie che si riferiscono a studenti iraniani, qui a Washington, e naturalmente sappiamo bene chi sono i siriani. Senza contare il colonnello Gheddafi.» «Ha le prove che qualcuno di loro sia coinvolto?» insistette la reporter. «Preferirei non fare commenti.» Bravo, si disse Bret osservando il proprio viso. Lasciava i giornalisti con un piccolo mistero. Forse lui sapeva qualcosa, o forse no. Comunque, ne usciva come un uomo al centro dell'azione, il coraggioso funzionario che aveva evitato la morte per un soffio e che ora distraeva l'attenzione da Ramy. Ottima performance, pensò, proprio come voleva Curran. «Scusate, ma ora basta», stava dicendo ai giornalisti. «Quella povera donna aveva un marito meraviglioso e il nostro posto in questo momento è accanto a lui.» Patriottico. Dovere civico innanzi tutto. Uomo di famiglia. Ottimo amico. Quello sarebbe stato l'anno di Bret Lewis. Bret stava per tornare in soggiorno con Sarah e Shel, quando un'altra immagine apparve sullo schermo. Erano agenti in borghese che esaminavano attentamente la sua auto dopo che l'incendio era stato domato. Osservò attentamente il televisore. Sperava che fossero in gamba, che si dimostrassero meticolosi e professionisti abili. Era il genere di investigatori che esigeva il suo piano. E se poi non avessero fatto bene il loro lavoro, Bret doveva assicurarsi che le autorità incaricassero le persone più adatte a svolgerlo. Avrebbero trovato ciò che dovevano scoprire per rendere perfetto il piano di Bret. Quindi tornò in soggiorno. «E allora?» chiese Shel. «Che cosa hanno detto?» «Era un buon notiziario, condotto molto bene.» «Hanno tirato in ballo i miei affari?» s'informò Shel. «Niente di simile. Hanno detto buone parole sul conto di Ramy.» «Così va bene. Voglio che la gente parli positivamente di mia moglie.» «Tutti noi sentiamo la sua mancanza», osservò Bret. Né Shel né Sarah fecero commenti. Lei si domandò che cosa esattamente intendesse dire Bret. Quali erano state le loro ultime parole insieme? E
perché avevano celebrato di nuovo quel doppio matrimonio? Sarah si riscosse dai suoi pensieri e si costrinse a prestare attenzione a Shel. «Voglio collaborare», stava dicendo lui. «Collaborare?» ripeté Bret. «Alle indagini.» «Senti, ci sono dei professionisti...» «Intendo dare una mano», insistette Shel. «Ascolta, non credo che tu possa fare qualcosa. Ero io il bersaglio e sembrerebbe una bomba dei terroristi. Voglio dire, non possiamo esserne assolutamente sicuri, ma chi altri può essere? Tu pensa solo a ristabilirti e a superare lo choc. Magari dovresti andare via per un po'...» «No, starò qui. Voglio parlare con la polizia. Vedi, forse la bomba era destinata proprio a Ramy.» «Che cosa?!» fece Sarah. «Per colpire me. Io non sono molto amato, Sarah, e ho rapporti con persone di pochi scrupoli. Tu non crederesti che alcuni dei...» «Shel», lo interruppe Bret, «come potevano sapere che Ramy stesse per andare alla mia auto?» Shel esitò, poi si strinse nelle spalle. «Forse hanno sbagliato macchina», azzardò. «Non mi sembra molto convincente», replicò Bret. «Allora immaginiamo qualcosa che lo sia. Ho una pista, Bret, una pista assolutamente buona.» Sarah fu sicura di scorgere un sorriso negli occhi di Bret, mentre Shel faceva quell'affermazione. Non riusciva a capire. Suo marito cercava di ridicolizzare Shel? Oppure stava pensando alla sua relazione con Ramy? O, ancora, gli dava fastidio lo zelo dell'amico? Sarah lo scrutò. Fu colta da un presentimento. A un tratto, sentì che la tragedia non si limitava alla fine di Ramy, ma che quello era soltanto l'inizio di qualcos'altro, qualcosa che si prospettava ancora più sinistro. Non le piaceva quello sguardo negli occhi di Bret. Era un uomo dai mille segreti, un eterno calcolatore. Quali misteri, si chiese in quel momento, si nascondevano dietro quello strano ammiccare? 23 «Posso solo dire, con tutta sincerità, che l'amavo. E non è un'esagerazio-
ne, non lo dico soltanto perché se n'è andata. È la verità. Le persone che conoscevano bene Ramy l'amavano tutte. Tutti i presenti conoscevano il suo calore, la sua generosità, la sua bontà, ma soprattutto quanta devozione nutrisse per Shel, a cui rimangono solo ricordi meravigliosi.» Bret Lewis era in piedi sul pulpito della moderna cappella, piena di fiori e corone. Lo spazio riservato al pubblico era stipato ai limiti della capienza e un gruppetto di persone stava in piedi in fondo. Un organista suonava in sordina e un coro, assunto per l'occasione da Shel, era alle spalle di Bret, con il libro dei Salmi fra le mani. La bara di Ramy era sotto il pulpito. Era di solida quercia e sul coperchio spiccava un'unica rosa del giardino che lei curava con tanto amore. Mentre Bret parlava, si guardò intorno e notò i cenni di approvazione dei presenti. Sapeva, naturalmente, che le persone presenti al funerale conoscevano appena Ramy e che perciò non potevano stabilire con certezza la sua devozione, ma tutto rientrava nel rituale. Persino Sarah annuì, sebbene avesse i muscoli del collo irrigiditi, mentre Bret esaltava la fedeltà di Ramy a Shel. Lei riusciva solo a pensare a quel nastro che Shel le aveva portato al museo. Come poteva Bret essere così sfacciato con le sue bugie? Ma un funerale è un'occasione per dire falsità; approvare e mentire è sempre tipico di un funerale. La chiesa era stipata di avvocati, onorevoli, funzionali del ministero della Difesa e giudici che Shel aveva favorito durante la sua carriera. Erano venuti per Shel e non per Ramy, Bret lo sapeva; fra loro, solo un cinque per cento era sinceramente addolorato. C'erano persino alcuni poliziotti in borghese alla porta. «Ricordo quando ho conosciuto Ramy, più di vent'anni fa», continuò Bret. «Sono sempre stato convinto che fosse una donna di classe, una figura che poteva accendere il mondo, ma non sapevo che sarebbe morta così giovane e in circostanze così terribili.» Altri cenni di assenso. Gli occhi dei presenti sbirciavano l'orologio. Bret rivolse un'occhiata a uno dei cameraman che stavano effettuando le riprese per il notiziario serale. «E per Ramy», continuò, «soprattutto per Ramy... e per Shel, noi oggi promettiamo di dare la caccia a chiunque abbia organizzato questo orrendo crimine, per ottenere giustizia. Promettiamo che li cercheremo finché avremo vita.» A questo punto si levò un applauso, un po' fuori luogo per un funerale... ma utile e gradito a Bret. Parlò ancora per qualche minuto e finalmente alle undici e mezzo, per-
mettendo così agli intervenuti di correre a pranzo, la funzione terminò. Shel rimase in piedi in fondo alla cappella e salutò i presenti uno per uno. Lui ne conosceva forse la metà, ma tutti avevano un piccolo ricordo di Ramy, un episodio affettuoso da raccontare. Sarah gli stava vicino con Bret. C'era anche un registro dei visitatori, l'elemento più importante di un funerale ricco, in modo che ciascuno potesse lasciare per iscritto il segno tangibile della sua presenza. Mentre gli ultimi partecipanti si dirigevano al parcheggio, Bret notò un individuo appoggiato alla porta che lo guardava direttamente. Era un tipo sui trentacinque anni, alto e muscoloso, completamente calvo, con una barbetta ben curata. Poteva sembrare un lottatore russo, ma con quella camicia stretta e i pantaloni aderenti aveva piuttosto l'aria di un americano solitario. Bret non l'aveva mai visto e non rimase impressionato dallo sguardo penetrante che gli rivolgeva lo sconosciuto. L'uomo non si mosse. Alla fine, Bret gli si avvicinò, un poco infastidito da quello sguardo. «Desiderava parlarmi?» chiese. «Sì», rispose quel tale. «Ebbene?» «Lei è il signor Lewis.» «Sicuro, lo sa benissimo. Il mio nome è stampato sul programma. Mi ha visto sul pulpito, no?» L'altro sorrise. «Era solo una domanda di routine, niente di personale.» Con un gesto indifferente, tirò fuori un distintivo, che sventolò sotto la faccia di Bret, prima di rimetterlo nel taschino. «Mi chiamo Kyle King. Sono stato assegnato a questo caso.» «Che razza di nome!» commentò istintivamente Bret, concludendo che quel tipo era piuttosto strano. «Lei ha ragione. In realtà mi chiamo Francis Lafayette Undermeyer, ma ho iniziato in teatro. Facevo il ballerino di tip tap. È stato il mio agente a darmi il nome d'arte.» «Capisco. Un ballerino che diventa detective.» «Sì, signore. Tutti ci evolviamo.» Bret non sembrava affatto divertito. «Credevo che del caso si occupasse l'FBI.» «Ci stanno dando una mano. Io sono della Squadra omicidi. Dev'essere svolta anche un'indagine della Squadra omicidi, mentre l'FBI indaga nell'ambiente del terrorismo. Capisco che per lei questo è un brutto momento, ma di belli non ce ne sono quasi mai, vero? Mi pare piuttosto scosso.»
«La signora era una carissima amica.» «Sicuro, ne hanno parlato in televisione.» «Scusi?» «Lasci perdere, considerazioni personali. Ascolti, non mi va di essere invadente, ma esistono alcuni punti oscuri e so che lei vuole acciuffare gli autori dell'attentato. Anche noi vogliamo prenderli.» «Stia a sentire, signor...» «Tenente va benissimo.» «Senta, tenente, io sarò lieto di concederle tutto il tempo che desidera, ma ora stiamo per andare al cimitero.» «Vorrà dire che faremo aspettare un attimo il carro funebre», replicò King con un sorriso. «Non si preoccupi, ma devo parlarle adesso.» «Ci sono nuovi sviluppi?» s'informò Bret. «No. Magari ci fossero!» «Usciamo», gli suggerì Bret. Si voltò a guardare Shel e Sarah che parlavano con il direttore del coro e con il pastore. Non gli garbava affatto l'intrusione di King. Più che un poliziotto, quell'uomo sembrava più un attore in attesa di una parte in un film. Non aveva niente del poliziotto moderno e scientifico che Bret avrebbe voluto fosse assegnato al caso. Si spostarono nel corridoio, poco lontano da coloro che erano intervenuti alla funzione, che in quel momento si stavano scambiando biglietti da visita e firmavano il registro. «Dunque, di che si tratta?» chiese Bret. «Cerchiamo di ricostruire l'intera faccenda, cominciando dall'amicizia fra voi.» «Perché? Senta, questo è un atto terroristico. Una bomba telecomandata. L'FBI mi ha chiamato ieri sera tardi e mi ha comunicato che la composizione chimica era identica a quell'esplosivo di Falls Church. Perché vuole conoscere la nostra storia?» «Signor Lewis, io dipendo dai miei capi, lei dai suoi.» «D'accordo. Io stesso sono nell'amministrazione statale, capisco il suo punto di vista. Bene, ci conosciamo da più di vent'anni.» «Tutti?» «I Lewis e i Jordan.» «E siete sempre rimasti in stretti rapporti, per tutto questo tempo?» «Sì, sempre. E, se eravamo lontani, ci telefonavamo. Una profonda, sincera amicizia.» «Non si è mai verificato nessun incidente, tentata violenza, minacce di
morte?» «No, sebbene mia moglie si preoccupi sempre per me.» «Per via del suo lavoro nell'antiterrorismo?» «Certo. E dopo ciò che è accaduto, per lei sarà ancora peggio.» «I Jordan non hanno mai subito attentati?» volle sapere il poliziotto. «No, naturalmente.» «Nessuno dei due le ha mai parlato di minacce? Voglio dire, Jordan probabilmente ha a che fare con gente piuttosto decisa.» «Be', sì, in effetti tratta con persone che vogliono un sacco di cose. Può anche darsi che fra loro ci sia qualche duro, ma non ha mai alluso a minacce precise e il suo impianto di sicurezza a casa non è dei più solidi. Pensi che non ha neppure un cane da guardia. Perciò non ha mai ritenuto di essere in pericolo. Mi creda, la bomba era diretta a me. Era la mia auto, capisce?» «Questa è anche la nostra ipotesi.» «Ipotesi?» «Be', non si può mai sapere. L'autore del delitto non potrebbe avere scambiato la sua macchina con quella del signor Jordan?» «Improbabile. Shel ha una BMW.» «Oppure potrebbe avere collocato un ordigno in tutte e due le automobili, non sapendo quale avrebbe guidato la signora.» «Questa è una supposizione che non sta in piedi», tagliò corto Bret. «Però è possibile. Come è possibile un'altra cosa.» «Che cosa?» «È possibile che non sia stato un attentato terroristico.» Bret guardò il detective con un'aria quasi scandalizzata. «Oh, andiamo! Due più due fa quattro.» «Qui non si tratta di aritmetica, signor Lewis, si tratta di omicidio. In un caso di omicidio le valutazioni sono diverse.» «Che cosa vuol dire?» «Ho lavorato su una teoria», gli spiegò King. «Ci pensi: perché un terrorista avrebbe collocato una bomba su una console fra i due sedili anteriori della sua Lincoln?» «E perché non avrebbe dovuto?» ribatté Bret. Fingeva di essere annoiato, ma in realtà era decisamente soddisfatto di King. Sta facendo tutto ciò che dovrebbe fare, pensava. King gli apparve improvvisamente un elemento assai utile. «Perché quell'ordigno avrebbe potuto essere facilmente scoperto», gli
stava dicendo King. «Lei avrebbe potuto vederlo, oppure sua moglie. E poi perché questo terrorista sconosciuto si sarebbe dovuto fermare nelle vicinanze per fare esplodere la bomba con un telecomando? Poteva benissimo piazzare il congegno nel motore...» «Il cofano della mia auto ha un antifurto. Avrebbe dovuto controllare, tenente.» «Ha ragione, signor Lewis. È stata una svista da parte mia, ma questo non cambia la mia teoria. L'attentatore avrebbe potuto mettere la bomba sotto il cruscotto e collegarla con l'accensione e poi andarsene tranquillamente. Voglio dire, doveva trovarsi in un raggio di cinquanta o sessanta metri dalla macchina, quando è saltata in aria, e sapeva che qualcuno poteva vederlo, che poteva essere sorpreso.» «Evidentemente contava sul fatto che era notte.» «Rischioso, però. Io sostengo che può non essere stato un attentato terroristico. Insomma, lei non è una figura di primo piano. Senza offesa, signore, ma la sua morte non sarebbe stata un danno irreparabile.» «Vero.» Questo faceva impazzire Bret. «Forse il bersaglio era proprio la signora Jordan, oppure sua moglie. Chiunque abbia fatto esplodere quell'ordigno, sapeva che una donna stava salendo sull'auto, perché evidentemente osservava la scena. Dico bene?» «Non mi lascia troppa scelta», convenne Bret. Poi tacque, come se riflettesse sul punto di vista del poliziotto. «A pensarci bene, però, lei ha ragione. Io stesso, infatti, mi sono chiesto perché la bomba sia esplosa quando una donna è entrata in auto, e non quando sono salito io. Ma ci sono due spiegazioni. Primo: può darsi che l'autore del delitto non abbia visto salire nessuno. Non sappiamo quale fosse il suo punto d'osservazione, c'erano altre vetture nel parcheggio che potevano bloccargli la visuale. Forse ha visto solo aprirsi la portiera, oppure accendersi la luce nell'interno.» «È possibile», ammise il tenente. «Possibilissimo.» Il suo sorriso si allargò, ma Bret ebbe l'impressione che fosse il sorriso di un avvoltoio pronto a colpire. «Seconda spiegazione», riprese Bret. «E lei non immagina quanto mi costi parlarne...» «Il bersaglio poteva anche essere sua moglie», lo interruppe King. «Sì. Colpire Sarah per arrivare a me. È vero, io non sono un alto funzionario, ma lavoro per l'antiterrorismo e ci sono persone che hanno il mio nome sulla lista. Persone che colpiscono le famiglie.» «Tutto ciò che dice è verosimile», concesse King, «ma, per essere un at-
tentato terroristico, mancano alcuni elementi: nessuno lo ha rivendicato, nessuno ha inviato messaggi minacciosi.» «Non lo fanno sempre», affermò Bret. «Dipende dalla loro strategia.» «Giusto, però metta insieme le mie principali obiezioni», gli suggerì il poliziotto. «Uno: il metodo è piuttosto grossolano. Due: anche se lei o sua moglie poteste essere il bersaglio, non sono convinto che l'assassino non abbia identificato la persona che saliva in macchina. Non si progetta nulla di così rischioso, senza chiedersi chi sale su una macchina.» «Vero, questo è un punto a suo favore», convenne Bret. «Ma lei parla come se il mondo fosse razionale. I terroristi operano in modo strano e molti di loro sono anormali. Comunque, ammettiamo pure che non fosse un attentato terroristico, ammettiamo che fosse diretto a Ramy Jordan. Perché?» «Un rancore personale», replicò King, «un amante deluso. Questa è la mia teoria preferita. È accaduto proprio la sera in cui la signora ha rinnovato la promessa di matrimonio. Consideri la data, signor Lewis.» «L'ho considerata», replicò Bret, «però non ne sono affatto convinto e credo che lei stia seguendo una pista impossibile. Ma ha sollevato alcune interessanti obiezioni. In ogni caso, farà fatica a spiegare perché qualcuno che ce l'aveva con Ramy abbia piazzato una bomba nella mia automobile, o perché abbia addirittura usato una bomba. Non quadra.» «È solo una teoria», lo rassicurò King. «In questo caso sono parecchie le cose che non quadrano.» «Che cosa farà?» volle sapere Bret. «Aspettiamo i referti del laboratorio. Lei sarà reperibile, mi auguro.» «Io sono sempre reperibile.» «Parleremo ancora. Dovrò parlare anche con sua moglie e con il signor Jordan. Grazie infinite, signor Lewis. Le mie sentite condoglianze.» Senza aggiungere una parola, King girò sui tacchi e uscì per dirigersi verso la sua auto. Bret rimase a osservare il detective. Dall'iniziale antipatia per lui, era passato a un'incredibile simpatia. Kyle King svolgeva la sua indagine nella direzione che lui desiderava. Era soltanto questione di tempo e la fase successiva del piano avrebbe cominciato a funzionare. 24 In mezzo a Sarah e Bret, Shel rabbrividì al primo colpo di tuono. Erano
riuniti in un piccolo gruppo, mentre il temporale aumentava rapidamente d'intensità. I dodici amici che erano venuti al cimitero se ne stavano stretti sotto gli ombrelli, ma la bara era sferzata dalla pioggia battente e il sacerdote, vestito con i paramenti, sfidava la pioggia torrenziale. «Dio piange», stava dicendo il pastore, «piange perché ha dovuto separare Ramy da Shel.» Sarah non poté fare a mano di pensare che Dio fosse l'avvocato del divorzio definitivo. «E ha ragione di piangere», biascicò il pastore, «poiché era un matrimonio celebrato in cielo.» E sfasciato in terra, soggiunse fra sé Sarah. «Ma non finirà, perché Shel e Ramy un giorno si riuniranno in quel luogo glorioso che noi mortali possiamo soltanto sognare.» Shel piangeva. Il suo corpo massiccio era scosso da tremiti e il doppio mento gli tremava, mentre ascoltava le parole del pastore. Oltre Bret e Sarah, erano presenti i parenti dei Jordan e pochi intimi. Qualche singhiozzo occasionale, alcuni sinceri, altri di convenienza. Sarah era ancora persa nella sua strana incertezza, fra il dolore sincero per la perdita dell'amica e l'orrore di quella morte terribile, e un imbarazzante senso di sollievo per non dover più temere la concorrenza di una rivale. In quelle due ultime settimane, Sarah si era trasformata da razionale e metodico ingegnere in una donna che si aggrappava a qualsiasi cosa, pur di spiegare quello che era successo. Ma non aveva trovato la risposta e la tormentava l'idea che suo marito potesse essere tuttora in pericolo, sotto la minaccia di chi aveva ucciso Ramy. Guardò nella direzione di Bret. Strano, pensò, lui non le aveva detto nulla, non le aveva fatto neppure un cenno. Era importante? Significava qualcosa? Certo, avevano dovuto occuparsi di Shel, ma... Era anche strano che Shel non le avesse detto una parola sui fatti che avevano preceduto la morte della moglie, era come se cercasse di santificarla. Nemmeno un riferimento alla sua relazione con Bret o a quel nastro maledetto che le aveva portato al museo. Sarah temeva che l'amico potesse esplodere con Bret, affrontandolo con una reazione ritardata, ma Shel non aveva detto niente. La relazione sembrava appartenere al passato e basta. Vicino al gruppo dei parenti, al riparo sotto un ombrello nero, c'era Kyle King. Il poliziotto si limitava a osservare, valutando i personaggi, quasi prendendo le misure a coloro che avrebbe dovuto torchiare nei giorni successivi. Bret era soddisfatto, ma corrugava ostentatamente la fronte ogni
volta che guardava nella direzione di King. Il servizio funebre si concluse e tutti i presenti affrontarono il vento e la pioggia per deporre una rosa sulla bara inzuppata. Ramy fu sepolta sulla collina che aveva scelto, rivolta a est, verso il sole del mattino. Shel salutò gli amici e i parenti, che si affrettarono verso le rispettive auto, parcheggiate lungo la strada, dove King era appostato. Alla fine rimasero solo Shel, Sarah e Bret. Nonostante la pioggia torrenziale, si fermarono davanti alla fossa di Ramy per alcuni minuti, in silenzio. «Desidero ringraziarvi entrambi», disse Shel alla fine, mentre si preparavano ad andarsene. Aveva la voce rauca e il volto scavato. «Se non vi avessi avuto qui vicino in questo momento, avrebbero dovuto mettere anche me nella fossa.» Sarah lo abbracciò, Bret gli cinse le spalle con un braccio. «Voglio avere soltanto buoni ricordi», continuò lui. «Qualsiasi cosa sia accaduta, be'... chi può saperne il perché?» Fu l'unica allusione di Shel alla relazione di sua moglie. Sarah guardò Bret, ma lui rimase assolutamente impassibile. «La vita continua», disse Bret, a nessuno in particolare, «ma non potrò mai dimenticare che Ramy è morta al posto mio.» E Sarah, mentre osservava i due uomini che si prendevano sottobraccio, ebbe un lampo d'intuizione. Bret era sconvolto per la morte di Ramy in un modo tutto suo: si sentiva colpevole di essere sopravvissuto. Avrei dovuto capirlo prima, concluse lei. Ciò che non comprese allora, fu il fatto che era tutta una finzione. Kyle King, con i pantaloni inzuppati di pioggia, andò verso la sua scrivania di metallo, al comando di polizia di Arlington, e gettò l'ombrello in un angolo, bagnando la parete. Poi si lasciò cadere su una sedia, esausto dopo il lavoro di una mattinata dedicata al caso di Ramy Jordan e dopo essere rimasto fuori per ore e ore con quel tempaccio. Come sempre, sulla sua scrivania c'era una copia dell'Hollywood Reporter. Lo sfogliò, per leggere le ultime notizie sul mestiere che amava di più. In segreto, aveva già presentato numerose domande per diventare consulente tecnico per film e telefilm polizieschi, ma nessuno s'era mai fatto vivo. O meglio, nessuno voleva un poliziotto di un piccolo dipartimento della Virginia, dove non succedeva mai niente. Hollywood cercava qualcuno di New York o di Los Angeles, oppure di qualche città pittoresca come New Orleans. King era
leggermente amareggiato. E inguaiato. Era sincero quando aveva parlato con Bret alla cappella. Non era ancora pronto ad accettare l'omicidio di Ramy Jordan come un atto di terrorismo internazionale. Gli tornava alla mente una frase che gli aveva detto un vecchio agente della Squadra omicidi: «Tutti hanno un motivo per essere assassinati». Persino un santo poteva avere dei nemici, King ne era convinto. E Ramy Jordan, considerando chi fosse, la sua ricchezza, la sua condizione sociale, suo marito, di certo aveva dei nemici, anche se le sorridevano e le facevano dei complimenti. Lo scetticismo di King, inoltre, era stato rafforzato da un rapporto preliminare del suo dipartimento, in cui si citavano alcune indagini sugli affari e le conoscenze di Shel Jordan. Il soggetto, riferiva il rapporto, è stato fotografato dalla polizia in compagnia di noti appartenenti ad associazioni del crimine organizzato. Ora, King sapeva che poteva essere un'esagerazione e che essere fotografato con un criminale non significava che lo fosse anche Jordan. Ma se Shel fosse stato seriamente collegato a quella gente? Il detective era al corrente che nel mondo del crimine si parlava spesso di ricompense e retribuzioni. L'omicidio dei membri di una famiglia faceva parte del sistema. Se anche Ramy personalmente non aveva nemici, di certo suo marito ne aveva. C'era anche dell'altro in quel rapporto. I vicini riferivano di frequenti litigi fra i coniugi Jordan, negli ultimi tre mesi; qualche volta la signora usciva di casa e si allontanava in macchina. King decise di incontrarsi di nuovo con Bret Lewis, poi di andare da Sarah Lewis e da Shel Jordan. Non si curò di prendere un appuntamento con Bret, perché gli appuntamenti mettevano in guardia le persone, le allarmavano. Il detective decise di tornare fuori sotto la pioggia, di salire sulla sua auto, accendere la radio per ascoltare Frank Sinatra e dirigersi verso il Pentagono. Bret tornava in ufficio per la prima volta dopo il delitto. Sulla scrivania trovò alcuni biglietti di condoglianze mandati dai membri del personale che conoscevano la sua amicizia per i Jordan e un elenco delle persone che avevano telefonato durante la sua assenza, compresi il ministro della Difesa e Tim Curran. Venne accolto con espressioni di simpatia da parte degli amici, come se lui stesso avesse sfiorato la morte in combattimento o in un incidente in tempo di pace.
Il suo primo appuntamento era con il capitano Avery Masters, l'ufficiale che gli aveva fornito il materiale usato per l'omicidio di Ramy. Bret era sicuro che Masters non avrebbe mai collegato quel materiale con l'esplosione al Cheshire Motel. E poi, anche nel caso ci avesse fatto un pensierino, la carriera di Masters dipendeva da lui. «È stata un'esperienza scioccante», stava dicendo Bret al capitano, appoggiandosi allo schienale della poltrona e giocherellando con una bacchetta che una volta era appartenuta a Leopold Stokowski. «Suppongo che voi ufficiali in divisa abbiate conosciuto il pericolo di beccarvi un colpo d'arma da fuoco, ma io non sono mai stato un bersaglio.» «Serve a concentrare la mente», rispose Masters. «Hanno messo un uomo di guardia alla mia auto», spiegò Bret. «Credo che mi sentirò un prigioniero. Suppongo sia necessario, ma io sono uno spirito libero e l'idea non mi piace proprio.» «Bisogna essere prudenti», decretò Masters. «Anch'io sono stato un bersaglio dei terroristi, quando sono stato mandato in Grecia. Qualcuno ha messo un serpente velenoso nella mia macchina, ma, fortunatamente, l'ho visto prima che lui vedesse me.» «Un serpente!» esclamò Bret. «D'ora in avanti esaminerò minuziosamente l'interno della mia auto, qualunque sia quella che prenderò questa settimana. Sa, Masters, l'esplosivo era identico a quello che lei mi ha fornito per la mia... operazione. Secondo lei, qualcuno potrebbe averlo preso dai nostri magazzini?» «È sempre possibile, signore», rispose Masters, «ma è improbabile. Come lei ben sa, è necessario firmare un registro per prendere qualsiasi cosa dal magazzino, e finora non risulta che manchi niente. Ma i documenti e i registri sono oggetti strani, a cui succedono cose incredibili. Ho conosciuto un sacco di maghi in questo mestiere...» Bret squadrava Masters dalla testa ai piedi. Il capitano non tradiva alcun segno di sospetto e Bret stava per chiedergli altro materiale, per dargli l'impressione di continuare le sue operazioni. Non voleva che Masters si concentrasse sull'ultima ordinazione. «Dopo avere partecipato ad alcune riunioni, preparerò un'altra lista», riprese Bret, «e gliela passerò. Ah, fra l'altro, prima che me ne dimentichi... per quanto riguarda le sue difficoltà... personali, il rapporto Kearns e tutto il resto... Ecco, credo che tutto si aggiusterà; ho fatto sondare il terreno e pare che non ci sia un reale desiderio di inchiodarla al muro.» «La ringrazio, signore», replicò Masters, visibilmente sollevato.
«In realtà, mi piacerebbe lavorare con lei, capitano», proseguì Bret, «però in modo che le persone giuste nella burocrazia conoscano la sua efficienza. Ma stia attento a non commettere infrazioni ai regolamenti, non vorrei che una brillante carriera venisse rovinata da qualche gesto imprudente.» «Prudenza è il mio secondo nome», replicò Masters. Molto bene, pensò Bret accompagnando il capitano alla porta, lo tengo in pugno e probabilmente sarà così finché non andrà in pensione. Bret cominciò a sfogliare i giornali di Washington e di New York. Strano, c'era ben poco sulla morte di Ramy. I quotidiani di Washington pubblicavano articoli con titoli come: «L'FBI indaga sul terrorismo internazionale in seguito a un'esplosione in un motel». Gli articoli, però, non erano particolarmente approfonditi; erano trascorsi soltanto tre giorni dal presunto attentato e non c'era nient'altro da dire. Inoltre, sino a quel momento nessuno aveva ancora trovato qualche prova concreta e Ramy Jordan non era un alto funzionario governativo, il cui omicidio avrebbe occupato tutte le prime pagine. La previsione di Tim Curran, secondo il quale la stampa avrebbe perseguitato Bret per il suo presunto coinvolgimento in operazioni probabilmente illegali, non si concretizzò. Non ancora, almeno. Bret aveva avuto sentore che alcuni giornalisti lavorassero in questo senso e in un articolo si parlava apertamente del ruolo di Lewis nella questione iraniana, ma nessun reporter si era accampato fuori dalla porta del suo ufficio. Bret aveva già preparato le risposte, nel caso fosse stato interrogato, e l'ufficio stampa del Pentagono si era offerto di aiutarlo. Stava per aprire il Washington Times, quando l'interfono mandò un ronzio. «C'è un certo detective King che desidera vederla, signore», annunciò la sua segretaria. «Per l'incidente.» Bret fu sorpreso, ma sorrise fra sé. Quel King era ostinato, ma lui apprezzava la caparbietà in una pedina utile. «Mi lasci fare una telefonata e poi lo faccia entrare», disse alla segretaria, e chiamò l'ufficio meteorologico, una strategia per evitare di apparire troppo ansioso di incontrare King. Ammucchiò alcuni rapporti sulla scrivania, svitò la stilografica e finse di essere completamente assorbito dagli affari della marina degli Stati Uniti, quando King fu introdotto nell'ufficio. «Buongiorno, tenente», lo salutò alzandosi e tendendogli la mano. Notò che gli orli dei pantaloni del detective erano ancora umidi di pioggia. «Mi dispiace di averla costretta a uscire con questo tempaccio.»
«Ci sono abituato», rispose King. «Senta, mi scuso per essere venuto così presto, so che abbiamo parlato stamattina, ma avrei qualche altra domanda.» «Poteva usare il telefono», gli fece notare Bret. «Detesto i telefoni, mi piace vedere in faccia le persone. Teatro dal vivo, film. Si capiscono meglio gli stati d'animo.» «Stati d'animo?» ripeté Bret. «Sì, signore.» «Certo, certo. Si sieda, prego. Che cosa posso fare per lei?» King si sedette e intanto gettò uno sguardo tutt'intorno nell'elegante ufficio e in particolar modo osservò la raccolta di bacchette da direttore d'orchestra e i modellini di aerei. Non disse una parola, però. La sua mente era rivolta all'omicidio di Ramy. «Ehm... vorrei rivolgerle ancora qualche domanda riguardante la signora Jordan.» «Perché? C'è qualcosa di nuovo?» «Oh, no! Sto soltanto cercando di raccogliere qualche informazione in più.» «Dunque non accetta ancora completamente l'idea di un attentato terroristico?» chiese Bret. «Seguo tutte le tracce», spiegò il poliziotto. «E va bene, vada avanti.» «Signor Lewis», attaccò King, «vorrei che per un attimo lei scartasse l'ipotesi del terrorismo. Le viene in mente qualcun altro che potrebbe aver voluto uccidere Ramy Jordan?» «Lei va dritto al punto», notò Bret. «Cercherò di aiutarla.» Finse di riflettere sulla domanda, prima di soggiungere: «Lei capisce, naturalmente, che io non conosco tutte le persone che conosceva Ramy». «Certo.» «No, non riesco a pensare a nessuno che potesse desiderare di ucciderla.» «Vedo. La signora non ha mai scherzato a proposito di eventuali nemici?» «Scherzato?» «Qualche volta le persone fanno soltanto vaghe osservazioni sui problemi che li assillano, ma in realtà sono preoccupate...» «A dire il vero, Ramy non aveva l'abitudine di scherzare», precisò Bret. «Non ricordo di averla mai sentita raccontare una barzelletta o un aneddo-
to, e se qualcosa la tormentava, l'avrebbe detto senza tante storie.» «Per esempio? Che cosa la tormentava?» «Ecco... Be', non mi pare di aver detto che qualcosa la turbasse.» «Ma c'era qualcosa?» «Senta, tenente, si ricordi che tutti...» «Credo che lei mi stia nascondendo qualcosa, signore. Che cosa la tormentava? Poteva essere suo marito?» «Gliel'ha detto qualcuno?» «Sì.» «Bene, allora saprà che Ramy aveva qualche tensione, nel suo matrimonio. Talvolta capita, nelle coppie sposate», aggiunse Bret riprendendo in mano la bacchetta di Stokowski. «Lei è sposato?» «Divorziato due volte.» «Allora capirà.» «Credo di no. Sono stato sposato con due ballerine», spiegò King. «Non sono persone comuni.» «Capisco. Be', poiché ero suo amico, Ramy si confidava con me. Dopo tutto, ero anche amico di Shel. Credo che volesse salvare il suo rapporto e pensava che io potessi aiutarla.» «Erano serie queste tensioni?» «Avevo l'impressione che lo fossero, ma sia lei che lui hanno accettato prontamente di ripetere la cerimonia nuziale, un'idea che mi era venuta anche per aggiustare le cose fra loro.» «Era sicuro che avrebbe funzionato?» «No, ma lo speravo. Non esisteva un motivo razionale per i loro problemi, era semplicemente un fatto emotivo, la parte più difficile da sistemare.» «Il signor Jordan conosce gli esplosivi?» «No, che io sappia. Ehi, che cosa le viene in mente?» «E la signora Jordan?» A questo punto, Bret tacque e fissò direttamente King negli occhi. «Senta, dove vuole arrivare?» «Sto solo chiedendo.» Lo sguardo di Bret si fece gelido. «Lei si sta domandando se la signora Jordan può essere saltata in aria accidentalmente, mentre cercava di piazzare una bomba per uccidere suo marito. Non è così?» «Signor Lewis, nel nostro lavoro dobbiamo considerare tutte le possibilità.»
«Tanto per cominciare», ribatté Bret, e in quel momento la sua voce aveva una nota ostile, «lei non avrebbe certo messo una bomba nella mia automobile. Secondo, Ramy non sarebbe stata in grado di collegarla a un detonatore. E ora smettiamola, per favore.» Bret sbatté il pugno sulla scrivania, rovesciando un portapenne. «Non è il caso di scaldarsi tanto», osservò King senza scomporsi. Ma Bret seguitò a fissarlo con occhi gelidi. «Mi stia a sentire: Ramy Jordan era una mia amica. Non c'era un filo di malizia nel suo animo; è morta in un attentato che era destinato a me. Lo sa che cosa vuol dire rendersi conto che una persona a cui si vuol bene è morta al proprio posto?» King non rispose, non era ancora del tutto convinto che Ramy Jordan fosse morta al posto di qualcun altro. «È un pensiero che mi perseguiterà per il resto della mia vita», aggiunse Bret. «Ha tutta la mia comprensione», replicò King. «E forse questo non è il momento migliore per discutere di certe cose. Credo di avere ottenuto le informazioni che mi interessavano.» Si rifiutò di commentare l'evidente commozione di Bret e chiuse il suo taccuino. «La prego di capire che cerco soltanto di raccogliere dei dati.» Bret mise insieme un sorriso forzato. «Lo capisco perfettamente. È solo che... che comincio ora a sentirne l'effetto.» Più tardi, rimasto solo nell'ufficio, con la porta chiusa, Bret buttò giù qualche appunto sulla sua conversazione con King. Sarebbe stato importante ricordare esattamente ciò che aveva rivelato e ciò che non aveva detto. Poi, con un senso di sublime soddisfazione, attraversò la stanza sino al mobiletto dello stereo e l'accese. Mise un disco del Messia di Handel, si sistemò la cuffia e ascoltò le prime note del coro dell'«Alleluja». Appropriato, pensò, molto appropriato. Il tenente King si stava muovendo proprio nella direzione desiderata, perciò quella musica celebrativa era il massimo. Sarebbe stata solo questione di tempo e poi King, o un altro come lui, avrebbero fatto l'ultima scoperta. 25 Quando Kyle King vide lo Spirit of St. Louis appeso nel Museo aerospa-
ziale, il suo primo pensiero fu che Jimmy Stewart aveva recitato la parte di Charles Lindbergh in un film. Secondo il suo modo di pensare, se da un fatto non ricavavano un film, voleva dire che non era mai accaduto. E, osservando i velivoli esposti, concluse che lui avrebbe impersonato alla perfezione uno dei piloti, anche se nessuno di loro era calvo e con il pizzetto. Come molti abitanti di Washington, King evitava le attrazioni turistiche, perciò non era mai entrato nel museo. Vi si era recato in quel momento, non per studiare la storia del volo o per immergersi in fantasie spaziali, ma per interrogare Sarah Lewis. Un guardiano gli indicò l'ufficio di Sarah. Lui si avviò in quella direzione e bussò alla porta chiusa. «Avanti.» King aprì l'uscio. «Mi scusi, lei è Sarah Lewis?» «Sì, sono io», rispose Sarah, che appariva stanca e tesa. «Lei è il professor Levi, del MIT?» «Ehm... no, signora. Sono il tenente King, della polizia di Arlington, incaricato del caso Jordan.» «Oh! Capisco.» «Ho già parlato con suo marito due giorni fa e ora vorrei parlare anche con lei.» Dapprima nessuna risposta, solo una vaga e imbarazzata espressione interrogativa sul viso. King era in attesa. «Ha qualche documento di identificazione?» «Certo.» L'uomo tirò fuori il portafoglio di pelle nera, che teneva sempre pulito, e le mostrò il distintivo. Mentre lo esaminava, Sarah si chiese perché Bret non le avesse parlato di quel poliziotto. L'omicidio di Ramy era l'avvenimento principale della loro vita, un detective era andato a trovarlo e lui non gliene aveva parlato. Strano. Osservandolo attentamente, concluse che King assomigliava più a un barista che a un investigatore, ma annuì e gli fece segno di sedersi. «Io capisco che sia molto difficile per lei, signora», attaccò King. «So che la signora Jordan era una sua intima amica.» «La più cara», confermò Sarah. Di nuovo quella spiacevole incertezza. La più cara amica, ma anche la rivale. King captò una certa freddezza nella sua risposta, qualcosa che non si aspettava dalla più cara amica della defunta, ma forse non era niente. «Sto raccogliendo e valutando alcune informazioni sulla signora Jordan. Lei capisce, noi dobbiamo esaminare ogni aspetto del caso, come ho detto anche
a suo marito. Più ne sappiamo, più saremo aiutati.» «Ma se si tratta di un atto terroristico diretto contro mio marito...» ribatté Sarah. «Può darsi che non si tratti di terrorismo.» «No?» «Suo marito non gliene ha parlato?» «No.» «Sono sorpreso.» «Forse voleva proteggermi.» Adesso difendo Bret, pensò lei, ed era vero. Perché lo faceva? «Allora parliamone noi due», le suggerì King. «Sono qui per chiederle di certe storie che ho sentito. Si riferiscono al matrimonio della signora Jordan.» Sarah parve pietrificarsi, anche se cercava di non mostrarlo. Allora King sapeva? Sino a che punto? Tutto sarebbe finito sui giornali? Prese un modellino dell'Electra Lockheed di Amelia Earhart e cominciò a girare nervosamente un'elica. «Che cosa sa del suo matrimonio?» «Che c'erano delle tensioni.» Sarah tacque un momento. Poi rispose: «Mi dica, tenente, ha discusso di questo con mio marito?» «Sì, signora. In effetti pare che i signori Jordan avessero dei problemi. Lei ne era al corrente?» «Tutti hanno dei problemi.» «Parlo di quelli dei Jordan.» Di nuovo Sarah esitò e continuò a far girare l'elica. «Senta signora, lei ha qualche informazione da darmi?» insistette King senza nascondere la sua impazienza. «Mi sta mettendo in una posizione delicata», rispose finalmente lei. «Ramy è morta. Mi hanno insegnato a...» «...non sparlare dei morti.» «Esatto.» «Non vado in cerca di pettegolezzi, signora Lewis.» «In un certo senso, mi pare di sì.» «Io cerco solo informazioni. Le tensioni in un matrimonio possono indurre una persona a fare strane cose. E se c'era un altro uomo...» Sarah soffocò un singulto. «Mi scusi?» «Mi sembra sconvolta per questa supposizione.» «Senta», replicò Sarah, «non mi aspettavo d'essere interrogata. Pensavo
che si trattasse di un attentato terroristico e ora lei mi chiede di parlare delle difficoltà coniugali di una persona che non c'è più. Vorrei che mio marito mi avesse avvertita.» S'interruppe bruscamente per ricomporsi. «La prego, mi dica ciò che le ha riferito mio marito sull'argomento.» «Riguardo alla signora Jordan?» «Sì.» «Mi ha detto solo che sapeva di alcune tensioni, precisando che qualche volta la signora ne discuteva con lui. Immagino che anche voi due ne abbiate parlato.» «Be', no. Non so spiegarmi perché, ma Ramy conosceva bene Bret ed evidentemente ha preferito confidarsi con lui. È comprensibile.» «In che senso, signora?» «Qualche volta un uomo sa dare un consiglio migliore sul modo di trattare gli altri uomini.» «Questo è vero», convenne King. «Però mi sembra un po' strano. Eravate i suoi più cari amici, ma lei e suo marito non avete mai parlato del loro matrimonio. A lei non sembra curioso?» Sarah azzardò un sorriso, se non altro per avere il tempo di inventare una risposta. «Senta, tenente, la verità è che parlavamo solo occasionalmente di queste cose e non erano conversazioni lunghe. Non ho mai pensato che ci fosse una situazione difficile fra Ramy e Shel e non mi piace affrontare questo discorso, mi creda. Mi sento come se spiassi qualcuno.» King restò impassibile. «Ramy, la signora Jordan, ha mai discusso dei suoi problemi con lei?» s'informò. «Le ho già detto che non mi va di...» «Per favore, signora. Sto cercando di risolvere un caso di omicidio. Vuole collaborare?» La voce di King, risultato di alcune lezioni di recitazione, era ferma e suadente. «Glielo chiedo un'altra volta: Ramy ha mai discusso con lei dei suoi problemi coniugali?» «No davvero. Qualche volta anche alle amiche più intime si nasconde qualcosa. Questione d'orgoglio. Ramy mi riferiva quando lei e suo marito avevano avuto una piccola lite, ma non era poi la fine del mondo.» «Di certo è stata la fine del suo mondo.» «Non vorrà insinuare che Shel...» «Oh, no, no! Era soltanto un modo di dire», si corresse King. Poi tacque, chiaramente deluso. Si passò una mano sul cranio lucido, come se si tirasse indietro i capelli, un gesto inconscio che gli veniva spontaneo ogni volta che non otteneva ciò che voleva. «Signora», riprese, «perché ho l'impres-
sione che lei mi nasconda qualcosa?» «Non saprei proprio», rispose lei dopo qualche istante. «Ma vuole sapere una cosa? Io sto provando la medesima sensazione.» «Davvero?» «C'è qualcosa che non vuole dirmi?» insistette Sarah. «Qualcosa che lei sa di Ramy, del suo matrimonio?» «No», rispose pronto King. Lei lo guardò in faccia. Forse il poliziotto diceva la verità, forse sapeva soltanto che c'erano tensioni fra Ramy e Shel. Non significava necessariamente che fosse a conoscenza della relazione fra Ramy e Bret; senza dubbio Bret non gliene aveva parlato. Perché rivelare un segreto che Ramy s'era portata nella tomba? «D'accordo, tenente», disse finalmente Sarah. «Il fatto è che in realtà non so molto.» «Capisco.» Adesso, più controllata, sostenne lo sguardo del poliziotto. Non voleva aggiungere altro, perché si vergognava di confessare l'apparente fallimento del suo matrimonio. «La signora Jordan le sembrava depressa?» stava chiedendo King. «Assolutamente no. Era tutta eccitata all'idea di ripetere la cerimonia nuziale. Certo, quando litigava con suo marito non era particolarmente allegra, ma non l'ho mai vista depressa.» «Ha mai detto frasi tipo: 'Vorrei essere morta'?» «Tutti diciamo cose del genere.» «Ma quasi nessuno lo pensa sul serio.» «Se sta insinuando che Ramy avesse propositi suicidi, le assicuro che si sbaglia.» «Ne è sicura?» «No, è solo la mia impressione.» «Aveva paura?» «Di che cosa?» «Di qualcuno.» «Di suo marito, per esempio?» «Cominciamo da lui», approvò il poliziotto. «No, Ramy non aveva paura di Shel. Non è il tipo che incute paura e lei non ha mai espresso timori. Certo, qualche volta aveva alcune perplessità sui suoi soci d'affari.» «Perplessità?»
«Erano personaggi di dubbia moralità, ma lei non mi ha mai detto di avere subito violenze, né minacce.» «Capisco. Ramy è morta nella sua auto, signora.» «Sì. Ecco perché pensiamo che si tratti di terrorismo.» «Naturalmente», convenne King. Il detective controllò le sue annotazioni, sfogliando le pagine del taccuino con una grazia insolita. Sarah notò che batteva i piedi sul pavimento di mattonelle. «Non mi sembra di avere altro da chiederle», concluse King e infine sorrise, in un modo che a Sarah parve vagamente sinistro. «Avrei voluto esserle più utile», disse Sarah. «Lo speravo anch'io, ma grazie comunque. Può darsi che ritorni. Ogni testimone mi suggerisce una nuova linea d'interrogatorio. Mi scusi per avere approfittato del suo tempo.» King rimise il libretto degli appunti nella tasca interna della giacca e fece per alzarsi. «Tenente King», lo fermò Sarah. Lui tornò a sedersi. «Sì?» «Non vorrei apparire meschina, ma mi dica: Ramy aveva un altro uomo?» «Non lo so», rispose lui stringendosi nelle spalle. «Basandosi su quello che sa, pensa che avesse un altro uomo?» «Perché me lo chiede? Sembrava ansiosa di saperlo anche prima.» «Era solamente una domanda», replicò Sarah gelida e calma. «Non lo so ancora», precisò King. «Se però l'aveva, dovrò parlargli.» Poi, guardandola direttamente negli occhi, come un sergente che fissa una recluta spaventata, aggiunse: «Non ha un nome da suggerirmi, vero?» «Naturalmente no.» Kyle King se ne andò, frustrato e per niente soddisfatto. L'istinto gli suggeriva che l'assassinio di Ramy Jordan non era collegato all'ambiente dei terroristi come sostenevano l'FBI e i commentatori televisivi di Washington, ma finora non era riuscito a trovare un movente per l'omicidio. Inoltre, sentiva che Shel Jordan aveva la chiave del mistero. Doveva essere necessariamente Shel, un uomo di grande influenza, un uomo di potere, ma che inevitabilmente aveva sferrato parecchi calci, in vita sua. Adesso, pensava King, poteva essere giunto il momento che Shel, a sua volta, si beccasse qualche calcio negli stinchi.
26 Nei giorni che seguirono la morte di Ramy, Sarah fu colpita dal pensiero che si stava verificando qualcosa di nuovo: Bret era sempre presente. Niente più sedute fino a tardi la sera, niente più crisi di governo che lo trattenessero al Pentagono. Era a casa alle sette quasi ogni sera e sembrava più tranquillo, più sereno. Un mistero. Non c'era alcun indizio della presenza dell'onorevole Carver. Sarah aveva pensato di assumere di nuovo Al Durfee, per effettuare un pedinamento, ma ormai sembrava non esserci un motivo particolare per farlo. Aveva letto un articolo sul Washington Post, in cui si diceva che la Carver stava per partire per un viaggio di due settimane d'ispezione alle basi militari in Europa. Bene. L'appartamento dei Lewis aveva assunto l'atmosfera e l'aspetto del lutto. Il pianoforte, su cui pochi giorni prima erano poggiati diversi biglietti d'auguri e di congratulazioni per l'anniversario, era ora tappezzato di messaggi di condoglianze, mentre gli auguri erano stati relegati in un cassetto della scrivania. Sebbene i Lewis e i Jordan non fossero parenti, tutti sapevano quale profonda amicizia legasse le due coppie e, dopo che la stampa aveva pubblicamente affermato che il bersaglio era Bret, gli amici o i semplici conoscenti avevano fatto a gara per testimoniare tutta la loro partecipazione. Qualcuno aveva persino mandato dei fiori. L'atmosfera funerea che regnava nella casa rendeva più facile a Bret nascondere l'esultanza per quanto era successo. Ringraziava ogni giorno Ramy per la sua collaborazione e Masters per la qualità del materiale fornitogli. Era soddisfatto della credulità della Washington ufficiale nell'accettare la tesi di un attentato terroristico, che gli dava una momentanea celebrità; ed era riconoscente anche a Kyle King, per l'instancabile tenacia con cui conduceva le indagini. Era proprio ciò che Bret voleva. Qualche volta si sentiva guidato da un'ignota forza spirituale, tanto completa era la sua gratitudine per i frutti che la buona sorte gli aveva offerto. Ma, a un certo punto, cominciò a domandarsi se avesse sbagliato a nascondere a Sarah il suo colloquio con King. Certo, meno parlava di Ramy con sua moglie, meglio era. Tuttavia, aveva previsto che King sarebbe andato da lei per interrogarla e il fatto di non avere accennato al poliziotto poteva destare i suoi sospetti. Ma quello era un piccolo ostacolo in una sequenza altrimenti perfetta, che si sarebbe conclusa con un finale altrettanto
perfetto. «Mi sentivo così imbarazzata», stava dicendo Sarah davanti a un piatto di verdure al vapore, il giorno che King era stato da lei. «Non mi piaceva quel suo sondare di continuo il terreno.» Bret le era di fronte, al tavolo della cucina, senza giacca né cravatta, con la camicia sbottonata. Il caldo, che si era placato per alcuni giorni, era tornato e il ronzio del condizionatore d'aria faceva da sottofondo alla conversazione. «Anch'io ero seccato», confessò lui, «ma King fa semplicemente il suo lavoro.» «Perché non lasciano che se ne occupi l'FBI?» «Perché anche loro devono svolgere le indagini. Inoltre, quelli della polizia cominciano ad abbandonare l'idea del terrorismo. Così mi pare, almeno.» «Come mai?» «King non te l'ha spiegato? Un sacco di contraddizioni e la semplice sensazione che Shel avesse dei nemici.» Tacquero per un po', ciascuno riflettendo per proprio conto. «Ha messo un'enfasi particolare sul loro matrimonio», osservò finalmente Sarah. «Perché no? Quando si effettua un controllo su qualcuno, si scava nella sua vita privata. In questo caso non è diverso.» «Sono molto sorpresa che tu non mi abbia detto che cosa ti ha chiesto quel poliziotto», riprese Sarah. Anche lei voleva tastare il terreno. «Perché ripeterlo?» replicò Bret, senza mostrare grande interesse per la verdura davanti a lui. «È una faccenda che desidero mettermi alle spalle. Forse avrei dovuto dirti che mi ha interrogato, ma non ne vedo la ragione.» «Ramy era anche amica mia.» «Sì, cara, lo so.» «Quel detective mi ha dato l'impressione di credere che tu ne sapessi più di me dei loro guai.» «Davvero?» «Sì, Bret, davvero.» Lui smise di mangiare e alzò gli occhi per scrutare sua moglie. La barba lunga di un giorno dava al suo volto sudato un'espressione più dura e decisa del solito. «Va bene», rispose. «Credo che dovrò chiarire questa faccenda.» Si alzò di scatto, infilò le mani in tasca e cominciò a camminare su e giù per la cucina. Il suo gesto improvviso fece battere all'impazzata il cuore di
Sarah, che non si era aspettata una reazione simile. Aveva previsto i soliti modi evasivi, forse qualche scusa, ma non era preparata a veder «chiarire la faccenda». «Volevo parlartene, credimi», attaccò lui. «O forse no. Sta' a sentire, è una questione molto delicata.» «Delicata?» ripeté Sarah, pensando al peggio. «Quei due avevano davvero dei problemi e Ramy si è rivolta a me. Voglio dire, mi ha pregato di incontrarla parecchie volte. Una volta ci siamo visti ad Arlington, c'era il funerale di un generale.» «Che cosa voleva?» «Consigli. Sembrava che Ramy e Shel fossero sul punto di separarsi, lei cominciava a trovarlo insopportabile. Guardiamo in faccia la realtà: posso capirlo, lui non è certo il Principe Azzurro. Ma Ramy voleva salvare il suo matrimonio e mi ha chiesto se conoscevo dei consulenti di professione o qualche psicanalista.» «E tu che cosa le hai detto?» «Francamente non molto, non ne abbiamo avuto l'occasione. Avevamo appena cominciato a vederci quando... abbiamo celebrato il doppio matrimonio.» «A me non ha raccontato niente», osservò Sarah, quasi indifferente. «Infatti, mi aveva confidato che non ti avrebbe rivelato niente. Non so, forse pensava di avere fallito nel suo matrimonio, mentre tu avevi avuto successo.» Mente dall'inizio alla fine, pensò Sarah. Bret non aveva detto una sola cosa sincera, ma sembrava convinto di quanto affermava. «Va' avanti», suggerì Sarah. «Insomma, si era creata una situazione pesante. Allora io ho pensato che la doppia cerimonia nuziale potesse aiutare le cose. Sai, l'emozione, la nostalgia... Lo pensava anche Ramy. Francamente, ne avevamo parlato.» «Ah, sì?» «Stavo per fornirle i nominativi di alcuni medici, quando è successa la tragedia.» «Questa è l'unica ragione per cui vedevi Ramy in privato?» volle sapere Sarah. «Sì. Per quale altro motivo, se no?» Non esplodere, si disse lei, non ancora. Si strinse nelle spalle e mormorò: «Chiedevo soltanto». Ma Bret la fissava con uno sguardo fra l'ostile e l'offeso, uno sguardo
che la sorprese. Lui prese a scuotere la testa. «Non chiedevi soltanto», sentenziò, e il suo tono di voce risuonò minaccioso. «Come?» «Sai perfettamente quello che voglio dire.» «No, non lo so.» «Tu credi che ci fosse qualcosa fra noi, non è così?» Gesù! pensò Sarah, ora ne parla. E lei era completamente impreparata. Istintivamente scosse la testa. «Oh, sì che lo credi», insistette lui. «Ecco perché l'hai chiesto. Ho letto il sospetto nei tuoi occhi, Sarah. Non è possibile! Solo pochi giorni dopo l'omicidio di Ramy, sospetti che ci fosse qualcosa fra noi. Dopo vent'anni meravigliosi, dopo la ripetizione della cerimonia, dopo questa tragedia... Non mi pare vero. Io...» «No, no Bret, hai capito male», si ritrovò a mormorare lei. Che cosa credeva di guadagnarci, Bret? «Sono offeso», dichiarò lui. «E turbato.» «È stata una domanda stupida la mia», ammise Sarah. Chissà perché non le importava niente di calmare la collera di suo marito. Era già abbastanza arrabbiata per conto suo e non si sentiva di affrontarlo ora, perché poteva distruggere ogni cosa. «Lascia perdere. Ramy è morta.» «Ma tu hai sospettato. Ammettilo, Sarah.» Bret non le aveva mai parlato a quel modo. «No», ribadì lei. «Mi ami?» Era sempre più strano. «Bret, come puoi chiedermi una cosa simile?» «È una semplice domanda.» «Ti ho risposto alla cerimonia nuziale.» «Per favore, rispondimi di nuovo.» «Bret, certo che ti amo.» «Anch'io ti amo e non ti ho mai tradita. Con nessuno. Desidero che tu lo capisca. In tutti questi anni non ti ho mai tradito, desidero restare con te per il resto della mia vita, l'ho detto alla cerimonia e lo ripeto.» «Ti ringrazio», disse Sarah, ancora scossa per l'attacco sleale di suo marito. «E sono convinto che anche tu non mi abbia mai tradito», aggiunse Bret. «No, infatti.» «Me lo assicuri, Sarah?» «Certo», rispose lei. Lo stava rassicurando, si rese conto Sarah. Pazzesco! Erano cose fuori
dal mondo. Lei stava tranquillizzando l'uomo di cui aveva sentito la voce su un nastro, l'uomo ritratto sulle foto di Al Durfee, l'uomo che le aveva mentito con un'impudenza incredibile. Forse era ancora lo choc per la morte di Ramy. Sarah era completamente disorientata. «La tua fedeltà significa tanto per me», stava proclamando Bret. «Non esiste altro.» «Bret, tu sei esausto», osservò Sarah. «Perché non ti corichi per un po'? La tensione comincia a farsi sentire.» «Ti preoccupi sempre per me», sorrise lui. «Non ti dispiace se non finisco il pranzo?» «No, certo.» «Hai ragione, cercherò di dormire. Sono contento di avere chiarito questo piccolo equivoco.» Bret si avvicinò alla moglie e la baciò sulla fronte, poi, senza aggiungere una parola, si ritirò in camera da letto e sorrise, un largo sorriso di soddisfazione. Dovette controllarsi per soffocare la risata che stava per prorompergli dalla gola. «Perché ho questo potere?» chiese a se stesso, muovendo appena le labbra. «Perché riesco a manipolare così bene la gente?» Si guardò nello specchio, compiaciuto della propria immagine riflessa e soprattutto contento di un'altra giornata di lavoro. Tutto filava alla perfezione. E tutto sarebbe finito fra poco. 27 Era una figura patetica, seduto nel suo studio con una vestaglia di satin su cui spiccava una fascia nera al braccio. Non era il solito Shel Jordan che gli amici e i compagni conoscevano e neppure l'uomo che poteva entrare in Campidoglio ed essere salutato per nome da tre quarti del Senato oppure sollevare il ricevitore del telefono nel suo ufficio e comporre il numero privato dei regnanti di una mezza dozzina di nazioni. Questo Shel Jordan, in lutto stretto e con evidenti segni di abbattimento, era l'individuo che Kyle King affrontò mentre svolgeva le indagini sulla morte improvvisa e violenta di Ramy. Per un breve istante, all'inizio del colloquio, King si chiese se Jordan riuscisse ad afferrare le domande, ma l'infermiera privata, assunta per il periodo del lutto, annuì ripetutamente, quasi a indicare che per il poveretto parlare di Ramy costituiva una buona terapia.
Shel non guardò neppure il poliziotto, che sedeva su una copia della sedia a dondolo preferita del presidente Kennedy. Rimase quasi immobile sul divano, a parte la curiosa abitudine di rigirare una penna a sfera fra le mani. La penna faceva parte di una preziosa collezione di cui Shel si serviva per firmare assegni e contratti per milioni di dollari. «So che questo è un momento difficile per lei», esordì King con voce sommessa. «Sì», sussurrò Shel, continuando a giocherellare con la penna. «Mia madre è stata uccisa da un pirata della strada che poi è fuggito», proseguì il detective. «Io avevo tredici anni e ho visto come ha reagito mio padre, perciò posso capirla.» «Grazie», disse Shel. «Se la sente di parlare di lei?» Shel sollevò leggermente la testa. «Che cosa c'è da dire?» La sua voce era così debole che King dovette tendere l'orecchio verso di lui. «Lei l'ha vista dopo? Ha visto come l'hanno ridotta?» «No, signore», replicò il poliziotto. «Ma non è il caso di soffermarsi su questo. Pensi solo ai bei tempi.» «I bei tempi», ripeté Shel con un pesante sospiro, che parve vibrare in tutto il suo corpo massiccio. «Mi sforzo di pensarci. Sono stati tanti i momenti belli, persino gli attimi di tristezza diventavano belli, quando ero con Ramy. Abbiamo un figlio, lo sa?» «Sì, signore.» «Non parliamo molto di lui. Ecco che uso di nuovo il plurale, dovrò abituarmi... Nostro figlio ha dei problemi mentali. Avrà notato che non c'era al funerale, ma ha sempre capito di avere un padre e una madre. Abbiamo avuto dei bei momenti anche con lui, ma è strano, le nostre ore migliori le abbiamo trascorse con i Lewis. Sempre insieme, come una famiglia. Strano che Ramy sia morta al posto di Bret.» «Sempre che sia vero.» «Ne dubita? Ho letto sui giornali che voi della polizia seguite una nuova pista. Non so.» «Può darsi che non si tratti di terrorismo.» «Di che cosa, allora?» «Stiamo investigando.» «Bene, continuate a investigare», aggiunse Shel stringendo il pugno. «Sino in fondo. Continuate a fare indagini, non importa dove arriverete.» «Come dice?»
«Ho detto qualcosa?» fece Shel. «Ehm... l'ultima frase: 'Non importa dove arriverete'.» «A che proposito?» «Che cosa voleva dire, signore?» «Niente di particolare. Doveva significare qualcosa?» «Be', me lo chiedevo. Capisco quello che prova, signore, ma lei è un uomo di una certa influenza in questa città, e per guadagnare prestigio qualche volta bisogna...» «Farsi dei nemici», concluse Shel. «Esatto. Capisco che possa suonare offensivo, non intendevo insinuare...» osservò King. «Non è affatto offensivo», lo interruppe Shel. «È vero. Dio, se è vero.» Posò la penna sul tavolo vicino al divano e ne prese un'altra, ricominciando a girarla fra le mani. «Sa quante volte ci ho pensato, dopo la tragedia?» «Lo immagino», convenne King. «Ogni minuto. Lo sa che cosa vuol dire chiedersi se si è fatto qualcosa che ha condotto alla morte la propria moglie?» «No, signore.» «È un inferno. Si comincia con gli elenchi, si ripassano nomi nella mente, si compilano le liste. Ecco, guardi qui, nella tasca della vestaglia...» Shel infilò la mano nella tasca destra e tirò fuori un foglio con alcuni nomi scarabocchiati sopra. «Ho fatto un elenco. Persone che potevano nutrire vecchi rancori. Certo, è stupido, queste persone non...» «Potrei avere quella lista?» chiese King. Shel esitò. «Be', io... penso di sì. Ma badi che non sono molto lucido, in questo momento. Quei nomi sono soltanto... nomi.» «Ci siamo abituati, signore.» King capiva che l'altro poteva essere restio a coinvolgere amici o soci in affari. «Oltre ai nomi sull'elenco, c'è qualcuno che aveva un rancore particolare, un serio motivo di vendicarsi?» «Contro di me o contro Ramy?» «Contro tutti e due.» «Contro Ramy nessuno, la gente le voleva molto bene. Lei era al funerale, ha visto, no?» «Sì, c'ero.» «Ha visto quanta gente? Una folla come si vede alle esequie di un senatore. Sono venuti tutti per Ramy, da vent'anni mia moglie. E venuto anche un vecchio avvocato. Era stata la sua segretaria prima che ci sposassimo, un'ottima segretaria.»
«Ne sono sicuro.» «No, nessuno odiava Ramy. Per quanto riguarda me, lei sta chiedendo troppo. Basta pestare i piedi a qualcuno e quello strilla. Oppure non strilla affatto, ed è proprio di questi che bisogna preoccuparsi.» «Ha mai ricevuto delle minacce?» «Non recentemente.» «Ma ne ha ricevute in altri momenti?» «Un paio d'anni fa, avevo unto qualche ingranaggio a favore di una ditta che voleva un contratto per riparare le piste. Per l'aviazione, sa.» «Sì, certo.» «La concorrenza non ha apprezzato i miei sforzi, così ho ricevuto qualche telefonata che si riferiva alla mia testa.» «La sua testa?» «Sì, su come poteva essere staccata dal corpo.» «Ah! Eppure non ha mai installato un impianto di sicurezza», osservò King. «Non mi va di vivere a quel modo», replicò Shel. «Ho alcuni apparecchi in casa... i soliti allarmi. Ma non intendo vivere in un bunker.» «Non ha neppure un cane.» «Mi piacerebbe, ma la mia allergia...» «Capisco», borbottò King, prendendo appunti sul solito libretto. «Senta, signor Jordan, ora dobbiamo parlare di qualcos'altro.» «Sì? Ha scoperto qualcosa?» s'informò Shel. «Qualcuno che ce l'aveva con noi?» «Be', non esattamente», rispose King. «Non ho scoperto nessuno che volesse farle del male, ma c'è un argomento di cui dobbiamo discutere.» «Se si tratta di quell'accordo per la nave cisterna, io non c'entro, tenente. E poi è una questione federale, non rientra nella sua giurisdizione. Non mi danno pace, mi creda. Una sera sono venuti qui, Ramy era in vestaglia. Volevano...» «Si tratta del suo matrimonio, signore.» Shel tacque e lasciò cadere in grembo la penna. «Mi dispiace», riprese King, «ma abbiamo alcune informazioni a questo riguardo che...» «È per questo che è venuto?» lo interruppe Shel, che non era arrabbiato, in realtà. Era troppo debole per dare sfogo alla sua collera, ma sul suo viso grassoccio era apparsa un'espressione sofferente. «Il corpo di mia moglie è ancora caldo e lei viene a parlarmi delle chiacchiere sul nostro conto.»
«Le chiedo di nuovo scusa. Non intendevo procurarle un dolore.» «Parole vuote, tenente.» «Ma io devo svolgere il mio lavoro. Lei stesso, poco fa, mi ha detto di investigare sino in fondo. C'è chi dice che lei e la signora Jordan avevate... alcune difficoltà.» «È vero. Non mi vergogno a dirlo, ma questo non cambia i miei sentimenti per Ramy. Sì, avevamo avuto qualche discussione.» «Le dispiace essere più chiaro?» «Mi dica che cosa sa.» «Soltanto questo, signor Jordan. Discussioni. So anche che sua moglie si allontanava in macchina, dopo una scenata.» «È vero anche questo», convenne Shel. Era il ritratto di un uomo sconfitto e distrutto. «Non sempre avevo ragione io.» «C'era un altro uomo?» King fece una smorfia alla propria domanda e, per un istante, provò un senso di vergogna. Eppure, stranamente, Shel sorrise. Un pallido sorriso, che ebbe l'effetto di togliere un fardello dalle sue spalle, di liberarlo da un segreto terribile. «Domanda interessante», replicò. «C'era, signore?» «Tenente, sono stato interrogato dalle autorità più di una volta. Conosco la tecnica, lo stile. Voi della polizia non rivolgete mai una domanda, se non conoscete già la risposta. Perciò lei è già al corrente, me lo dica lei. Anzi, mi parli della relazione di mia moglie con Bret Lewis.» King non batté ciglio. Un vecchio poliziotto gli aveva insegnato a non mostrare mai sorpresa, ma incassò l'ammissione di Shel come un pugile al primo round. Cominciò a trascrivere ciò che Jordan aveva appena detto, ma la matita gli tremava fra le dita. La bomba era esplosa dal nulla. «Le mie informazioni non erano così specifiche», dichiarò, quasi indifferente. «Sì, giusto», disse Shel, che in realtà non ci credeva, «immagino che abbia ottenuto un vero scoop.» «Da quanto tempo questa relazione andava avanti, signore?» «Non lo so. Ho registrato una loro conversazione telefonica, roba pesante, ma io la perdono. Perdono mia moglie perché probabilmente era colpa mia, avrei dovuto fare di più per lei.» Un nastro registrato, una prova. King non riusciva neppure a immaginarne il significato, ma la notizia scoperchiava un vespaio che doveva essere esaminato al microscopio. Perciò Bret aveva mentito, o perlomeno gli aveva nascosto dei dati, e questo gettava dubbi e sospetti su tutto ciò che
Lewis aveva affermato. «Il signor Lewis le ha mai lasciato capire di essersi... impegolato con sua moglie?» chiese il detective. «Mai. Senta, non voglio parlarne, è roba passata. Bret è tuttora mio amico. Forse amava mia moglie, forse lei aveva bisogno di sentirsi amata da Bret, ma posso passarci sopra, ormai. Posso passare sopra a un sacco di cose, ora che Ramy se n'è andata.» «Certo, capisco. E in un certo senso suppongo sia un bene che la signora Lewis non abbia mai saputo.» «Sta scherzando?» «Come?» «Gliel'ho detto. Le ho fatto sentire il nastro.» «Dunque lo sapeva?» Ora King era quasi allibito. «Sicuro. Ero certo che fosse stata Sarah a dirglielo.» 28 «Che cosa voleva che le dicessi?» «La verità.» «D'accordo, non ne ho parlato. Mi dispiace. Non credevo che potesse avere a che fare con il caso. Ero imbarazzata. .. e non volevo offendere la memoria di Ramy.» «Va bene, accetto le sue scuse.» King si trovava di nuovo nell'ufficio di Sarah. La porta era chiusa. Lei aveva gli occhi arrossati, ma aveva fatto di tutto per ricacciare indietro le lacrime. «Sicché Shel le ha detto...» «È saltato fuori durante il nostro colloquio», spiegò King. «Ha parlato di lei in termini affettuosi e di stima. Desiderava che questa faccenda restasse privata e lo rimarrà, entro i limiti della legalità e della professionalità.» «Già, ma come l'ha scoperto lei, potrebbe anche scoprirlo qualcun'altro», osservò Sarah. «Lo so. Cercherò di impedire che la faccenda si divulghi, ma non sono il Padreterno.» Era calata una nuova ondata di caldo e King indossava un abito tutto spiegazzato di stoffa leggera, con la spalla sinistra più bassa della destra. Sulla sua testa pelata luccicavano alcune gocce di sudore. Quel giorno era decisamente poco attraente. «Bene, ora conosce la storia», riprese Sarah. «Shel mi ha portato il nastro.» «Non aveva mai avuto nessun sospetto, prima?»
Di nuovo Sarah esitò. «Non aveva mai avuto dubbi, prima?» ripeté King. «Non sapevo di questa donna», rispose lei alla fine, «di Ramy, voglio dire. Ma sapevo che ce n'era un'altra.» «Una seconda donna?» «Sì, ho paura che mio marito mi fosse doppiamente infedele. Glielo dico perché non voglio essere accusata di reticenza.» «Saggia decisione.» «Questo lo lasci giudicare a me», replicò Sarah. «Esigo la sua parola che mio marito non sarà informato. Sto tentando di salvare il mio matrimonio, tenente, cerchi di capire.» «Signora Lewis», attaccò il poliziotto, «farò di tutto per accontentarla. Le sole cose che m'interessano sono i fatti che potrebbero aiutarmi a risolvere quest'omicidio, fatti che non conosco. Quasi tutte le informazioni che raccogliamo in un caso come questo sono inutili, ma per ora non posso distinguere ciò che è insignificante da ciò che è fondamentale. Quindi faccio un sacco di domande.» «Su questo siamo d'accordo.» «E spero di arrivare a qualche cosa. Non informerò suo marito di quanto mi dirà, a meno che non sia chiamato a farlo in un'aula di tribunale. E allora, se si arriverà a tanto, l'intera faccenda sarà gridata ai quattro venti, per così dire.» «Per così dire», mormorò Sarah. «Mi parli dell'altra donna.» «È l'onorevole Alison Carver, senatrice della California.» Oh, che meraviglia sputare fuori il rospo, finalmente! Sarah per poco non si mise a ridere quando lo disse, anche se preferiva tenersi quella soddisfazione per sé. «Capisco», disse King prendendo appunti sul suo blocchetto nuovo con la copertina verde, che s'era portato dietro appositamente per quella visita. «Un'onorevole.» Roba da film, pensava, proiettando la storia sullo schermo, con lui come consulente tecnico. «Sì, un membro del Congresso», confermò Sarah. «Ha le prove?» «Fotografie.» «La relazione continua?» «Non lo so. Spero che sia stata solo un'avventura passeggera. Bret ha ripreso a tornare a casa a orari regolari, dopo la morte di Ramy, e non noto in lui nessun mutamento particolare. Forse si è trattata solo di una scappa-
tella.» «Speriamo, signora Lewis», la consolò King. «Non ne ha mai parlato con suo marito o... con l'altra?» «No, non proprio.» «Che cosa vuol dire 'non proprio'?» «Ho fatto qualche vago accenno, alcune sere fa, anzi, per poco non me lo lasciavo sfuggire. Non so se Bret abbia capito fino a che punto so, ma ne dubito. Si è mostrato turbato e ha negato di avermi mai tradita.» «Ma lei non gli ha creduto, non è così?» «La macchina fotografica non mente e neppure il microfono del registratore. Mi è difficile credergli.» «Certo», convenne King. «Anch'io proverei la stessa cosa.» «Ma domani è un altro giorno. Rossella O'Hara non ha detto qualcosa di simile, tenente?» «Sicuro. Alla fine del film.» «A meno che non sia legalmente necessario», stava dicendo King a Bret, al Pentagono, poco più tardi, «niente di ciò che mi dirà verrà riferito a sua moglie.» «Io amo mia moglie», replicò Bret, chiaramente scosso da quanto aveva appena saputo. «Ne sono sicuro», commentò King impassibile. «Si capisce benissimo.» «E questa cosa fra me e Ramy... non è vera.» «Me lo sta dicendo sinceramente?» «Sì. So che Sarah sospettava qualcosa, ne abbiamo parlato. Si era fatta un'idea sbagliata.» «Esiste un nastro», gli ricordò King. «Scusi?» «Un nastro registrato.» «Che genere di nastro?» «Una conversazione fra lei e la signora Jordan.» «Come lo sa?» «La polizia ha un sacco di modi per scoprire le cose.» «Ah! Intercettavano le telefonate di Shel.» King si limitò a stringersi nelle spalle, senza rivelare la sua fonte d'informazioni. «Non ha niente da dire su quel nastro?» insistette. «Non l'ho sentito, tenente», rispose Bret, camminando su e giù per la stanza e sbirciando le sue vetrine ogni volta che vi passava davanti. «Non
so se lei ce l'abbia sul serio, ma sono sicuro che è tutto un malinteso. Ramy e io eravamo intimi... molto intimi, ma non nel modo che lei crede. Cercavo solo di aiutarla, tutto qui.» «Mi risulta che il nastro non confermi quanto lei sta affermando», ribatté King gettando un'occhiata al suo libricino. Evitava di guardare Bret, cercando di turbarlo, di spaventarlo. «Ma lei non l'ha ascoltato?» «No, mi è stato descritto. Lo ascolterò al momento opportuno.» Sulla scrivania di Bret c'era un messaggio diplomatico dell'ambasciata elvetica a Roma, in cui si riferiva che intermediari svizzeri in Libano stavano negoziando per il rilascio degli ostaggi americani, ma che si doveva far fronte a parecchie richieste da parte dei rapitori. Prima chiedevano un milione di dollari al giorno, ora erano diventati due. Per un attimo Bret interruppe la sua conversazione con King e si avvicinò alla scrivania per studiare il messaggio, un pretesto per riordinare le idee. Non che la visita di King lo disturbasse, anzi, era perfetta, era proprio ciò che Bret voleva per essere sicuro di recitare la sua parte alla perfezione. Kyle King era sulla pista giusta e lui doveva tenercelo. «Tenente King», disse finalmente. «Ha mai avuto delle amiche?» «Certo.» «Voglio dire amiche intime. Non flirt romantici, ma vere amiche.» King scrollò le spalle e ripensò ad alcune attrici che lui amava definire «le mie più care amiche», ma che in realtà non lo erano. «No, non ho mai avuto amiche intime.» «Allora non può capire.» «Già.» «Se lei avesse sentito il nastro, riuscirebbe ad afferrare ciò che voglio dire», continuò Bret. «Senta, sono persino disposto ad ascoltarlo con lei. Credo proprio che ogni cosa si sistemerebbe.» «Si potrebbe provare», convenne King. Non sapeva più che cosa pensare, ma non si tradì. «Un'altra cosa, signore...» «Sì?» «Alison Carver.» Bret reagì appena. «Alison Carver?» «L'onorevole.» «Ah, sì, la conosco. Che cosa c'entra lei?» «La conosce?» «Naturale. È un personaggio importante nell'ambiente in cui lavoro.»
«La sua relazione con lei...» Bret finse una certa collera, si voltò di scatto e rimase in piedi accanto al poliziotto, che sedeva di fronte alla scrivania. «Perché mi fa queste domande?» «Perché le devo fare», replicò King, serafico. «Questo caso non si sta rivelando così semplice, signor Lewis.» «Che cosa c'entra un'onorevole del Congresso?» «Non una qualsiasi onorevole, signore. Quell'onorevole. Vede, in questo caso ho trovato matrimoni piuttosto strani... alludo a lei e ai Jordan, e gli strani matrimoni producono strane idee, e le strane idee fanno nascere strani movimenti...» «Lei è pazzo!» King si concesse uno dei suoi rari sorrisi. «È fantastico come la mia sanità mentale venga regolarmente messa in discussione», osservò. «Di solito da un uomo che ha qualcosa da nascondere.» Bret reagì appena anche stavolta. Ma, accidenti, si divertiva un mondo. «Non ho niente da nascondere. La signora in questione e io siamo amici.» «Lei ha un sacco di amiche», osservò King. «Oppure le aveva.» «Non c'è nulla di strano. Tratto molti affari con Alison Carver.» «A quali ore?» «A tutte le ore.» «Anche a mezzanotte?» «Come lo sa?» «Lo nega?» «Come lo sa?» «Risponda alla mia domanda», ribadì King. «Qualche volta la vedo dopo le ore d'ufficio. Mi è simpatica. Nessuna legge vieta di avere delle amiche.» «Questo è vero, ma esiste la decenza. Che cosa racconta a sua moglie?» «Che cosa gliene importa, King?» «Me ne importa, mi piacciono i pettegolezzi», ribatté il poliziotto. «Inoltre ho un profondo interesse professionale per lei.» «Sono un sospetto?» «Sì.» «È assurdo.» «Vuole chiamare in causa la Corte suprema?» «Se sono un sospetto, non risponderò ad altre domande se non in presenza del mio avvocato.»
«Oh, lei guarda i film polizieschi! Va bene, può trovare Perry Mason sulle pagine gialle.» «Ho di meglio.» «Allora lo chiami.» «Naturalmente, lei non ha prove contro di me. Non c'è bisogno che me lo dica un avvocato», ribatté Bret. «Ma ho degli indizi», replicò King, alzandosi e fissando l'altro con lo sguardo penetrante che usava con le persone che incominciava a detestare. «Sono importanti: conducono ai fatti.» «Tenente King, posso guardare nella mia sfera di cristallo e fare una previsione?» «Senza un avvocato?» «Senza un avvocato.» «Certo, faccia pure.» «Io le predico, tenente, che sta per fare una figuraccia.» «Lo terrò presente», concluse il poliziotto. Ora entrambi fingevano d'ignorarsi. Bret tornò presso la sua scrivania e si sedette, King chiuse il suo taccuino e lo infilò nella tasca interna della giacca. Poi, senza aggiungere una parola, si alzò e uscì, sorridendo alla segretaria di Bret. Mentre percorreva i corridoi del Pentagono, sfiorando ufficiali con le stellette sulle spalline, King sentiva che quel caso stava per giungere a un punto di rottura. Così pure Bret. Entrambi conoscevano i pericoli, i rischi. La bomba era pronta a esplodere. Parte terza 29 La bomba non esplose subito, però. Ci vollero tre mesi, ma quando accadde, squassò tutta Washington e dilagò attraverso i network televisivi. La città era abituata agli scandali politici e aveva imparato a convivere con gli omicidi nelle strade buie, ma non ricordava niente di simile. Nessuna aula del tribunale di Arlington era grande abbastanza. Quello non sarebbe stato semplicemente un processo, sarebbe stato un circo e le autorità locali riuscirono a sistemare i possessori del biglietto. Il nuovo
auditorium di una scuola in costruzione venne modificato rapidamente, in modo che i mass media avessero spazio e il pubblico potesse osservare l'imputato e, cosa ugualmente importante, le celebrità presenti. Le strade fuori dalla scuola si riempirono di furgoni con antenne a microonde, pronte a trasmettere immagini e suoni agli spettatori a casa. Era circolata la voce per settimane, prima che venisse annunciato l'atto di accusa e fosse fissata la data del processo. La parola terrorismo era stata accantonata. Kyle King, con un atteggiamento hollywoodiano, aveva solleticato le orecchie dei cronisti più pettegoli e alcuni reporter avevano sviluppato teorie personali, basate su indagini svolte per conto proprio. Il nome di Bret Lewis era stato sussurrato dalle labbra di parecchi giornalisti. Ambizioso, astuto, un arrampicatore. Era autunno e il tempo si manteneva discreto. L'auditorium era una costruzione ultramoderna, con alte finestre da cui filtra la luce, come in una cattedrale. Non si trattava solo di fare giustizia, ma di allestire uno show che i media e il pubblico apprezzavano con entusiasmo. In seconda fila sedeva Al Durfee, che aveva deciso di rinunciare a una giornata di lavoro per seguire l'udienza. Accanto a lui c'erano Phil e Francesca Black, soddisfatti e contenti degli sviluppi della situazione. Le foto che Durfee aveva venduto loro per pochi dollari valevano oggi l'equivalente di un Rembrandt e il prezzo sarebbe salito dopo la condanna. «Le hai messe al sicuro?» chiese Durfee. «Certo», rispose Phil, dimenticando persino l'accento australiano. «Dove?» «Al, non posso dirtelo.» «Non intendevo il luogo, ma la città.» «Qui.» «Sbagliato, Phil. Nascondile da un'altra parte. Le persone che non vogliono vedere pubblicata quella roba faranno il diavolo a quattro. E fai fare delle copie.» «Già fatto», replicò Phil, seccato. «Siamo professionisti, sai. Ti prego di non offenderci.» Un colpo di martelletto, poi un altro e la folla cominciò a zittirsi. Sul banco, il giudice Thomas «Bo» Meeker aveva un aspetto severo e sembrava incurante del trambusto intorno a lui. Thomas Meeker aveva fatto l'avvocato per la maggior parte della sua carriera, ma era stato giudice in un tribunale penale per quattro anni prima di quel processo. Aveva cinquantun anni, era robusto, con il naso rotondo, gli occhietti scuri e una gran
massa di capelli grigi. «La Corte è riunita», annunciò Meeker con accento meridionale. «Silenzio, prego.» Si schiarì la gola e poi continuò. «Mi scuso per le condizioni di affollamento, ma abbiamo fatto il possibile per soddisfare il pubblico interesse per questo caso. Se in aula ci sarà calma e silenzio, procederemo bene, altrimenti farò sgomberare.» Meeker portava mezzi occhiali e fissò severamente da sopra le lenti l'intero auditorium, abbastanza soddisfatto. L'immensa sala era silenziosa; da ogni fila emanava un senso di attesa, ogni giornalista teneva in mano matita e taccuino. «Questo caso ha richiamato più interesse di qualsiasi altro», continuò Meeker, «posso capirlo. Ma il mio compito è quello di assicurarmi che giustizia sia fatta. Sarà un processo onesto, condotto come qualsiasi altro.» Alla parola «onesto» Meeker guardò severamente verso il tavolo della pubblica accusa e in particolare verso il pubblico ministero, L. Howard Gresh. Dallo sguardo del giudice traspariva chiaramente un profondo disprezzo. Solo la madre poteva amare Howie Gresh e anche lei doveva trovarlo un fardello insostenibile. Howie Gresh, di soli trentadue anni, trapiantato a Washington da Filadelfia, era un individuo insignificante e borioso. Pesava non più di cinquanta chili e appariva persino rivoltante, con quelle spalle gracili, la faccia macilenta e il suo metro e cinquantacinque di altezza. Inoltre, aveva una voce da soprano. Ma al pubblico piaceva. Era il piccoletto brutto e antipatico che aveva fatto carriera nonostante il suo aspetto, il ragazzino che si era imposto all'attenzione di compagni e insegnanti a scuola. Si vantava di aver fatto condannare persone a pene che talvolta sembravano sproporzionate a reati di poco conto. Per Howie tutti erano colpevoli di qualche cosa. Gli innocenti? «Un uomo innocente è qualcuno che sta per commettere il suo primo errore», soleva dire con una risatina che sembrava lo squittio di un topo. Ma al pubblico piaceva anche questo. Il giudice spostò gli occhi dall'antipatico Gresh al tavolo della difesa dove c'era Woody Evans, l'uomo meglio vestito in tutta l'aula, con un panciotto nero di seta in bella mostra sullo stomaco rotondo. Evans aveva il doppio dell'età di Gresh e, a differenza del pubblico ministero, trasudava gentilezza e benevolenza, che erano in parte innate, in parte acquisite. Aveva visto molti film di Spencer Tracy e si era creato l'immagine di quel tipo di avvocato, il tipo da cui si va per un consiglio di qualsiasi genere,
dalle tasse alla persona giusta da sposare. Era famoso per la sua massima: «La moglie è la prima a sapere e l'ultima a crederci». Era anche famoso per i suoi casi di divorzio. Il giudice Meeker provava simpatia per lui. «Questo è un crimine odioso», intonò Meeker, ora cupo e serio. «Una donna è stata assassinata, brutalmente strappata alla sua famiglia e ai suoi amici. Nella mia carriera di avvocato e di giudice raramente ho visto un delitto così spietato. È un caso che grida giustizia e castigo, ma un castigo alla persona che se lo merita. Siamo qui per processare una persona accusata del delitto e spetterà alla giuria, soltanto alla giuria, decidere se questa persona è innocente o colpevole.» Tutti gli occhi erano puntati sul giudice che aveva un aspetto imponente. Di nuovo tornò a rivolgersi al tavolo della difesa. «L'accusata si alzi, prego.» Gli sguardi si spostarono verso il tavolo della difesa a cui sedevano solo due persone, Evans e l'imputata. Evans fece cenno alla sua cliente di alzarsi, era il momento che tutta l'aula aspettava, e che la stampa attendeva da mesi. L'imputata si alzò. «Lei è accusata dell'omicidio di Ramy Jordan», annunciò Meeker. «Si dichiara colpevole o innocente?» «Non colpevole», sussurrò Sarah Lewis. Pandemonio in aula, anche se la risposta era scontata. Era la realtà del momento che contava, il fatto di sentire Sarah pronunciare quelle parole. Il giudice Meeker batté tre volte il martelletto e il frastuono si calmò, per lasciare il posto a un mormorio sommesso. Appena consapevole del trambusto intorno a lei, Sarah barcollò. Con la coda dell'occhio vide Bret in prima fila. Lui stringeva la mascella con aria di sfida e, mentre sua moglie mormorava le parole «non colpevole», Bret alzò i pollici. Era un piccolo segnale. Molti occhi erano puntati su di lui e Bret sapeva che almeno tre giornalisti avevano notato quel gesto. Una reporter conosciuta come «la Rossa», poiché da trentatré anni assisteva vestita di rosso ai più spettacolari processi della Virginia settentrionale, annotò sul suo taccuino: «Un gesto che dice al mondo intero che lui sarà al fianco di sua moglie, a qualunque costo». La Rossa sapeva che un processo ha bisogno di eroi e aveva adottato Bret per quel ruolo. «Occhi arrossati, faccia tesa», scrisse. «L'atto d'accusa, i titoli a caratteri cubitali e adesso questo tumulto in aula stanno avendo ef-
fetto su entrambi.» Dall'altra parte della sala, alle spalle della pubblica accusa, un impassibile Shel Jordan non tradì la minima reazione al «non colpevole». Seduto scomposto su una sedia, più grasso e triste che mai, Jordan non aveva battuto ciglio in tutta quella confusione; solo, di tanto in tanto, fissava Sarah con una strana espressione d'incredulità. «Silenzio», tuonò il giudice Meeker. Poi tacque, finché non si sentì più volare una mosca e cominciò la scelta dei giurati. Il vero processo non sarebbe iniziato ancora per un po' di tempo, probabilmente una settimana, ma era già cominciato nelle strade, durante sedute e riunioni, dibattiti programmati dalla stampa e specialmente dalle televisioni. Perciò, dopo che Meeker ebbe battuto il suo martelletto per indicare la prima sospensione, i reporter si precipitarono alla porta, piazzandosi come cecchini pronti a tendere un'imboscata ai protagonisti del processo. Il primo a uscire fu il minuscolo Howie Gresh, raggiante di orgoglio e tutto compiaciuto, dopo una mattinata che trovava estremamente positiva. In qualità di viceprocuratore distrettuale, Gresh puntava in alto e sapeva come comportarsi davanti a telecamere e microfoni. «Signor Gresh, come le pare che sia andata?» fu la prima domanda. «Benissimo», rispose l'ometto, facendosi strada fra la folla. La sua vocetta stridula lo precedeva. «Sono contento che la gente l'abbia vista e sentita bisbigliare. Vedete, quando sono colpevoli, bisbigliano sempre, perché si vergognano.» «E la scelta della giuria?» «Abbiamo scelto due giurati. Sono soddisfatto. Si tratta di onesti cittadini che non permetteranno a una fredda intellettuale di cavarsela dopo avere assassinato una brava donna di famiglia.» «È sicuro che chiederà la pena di morte?» «Certamente. Che altro? Se lei fosse la madre di Ramy Jordan non chiederebbe la massima pena?» «La difesa afferma che in realtà voi non avete nessuna prova.» «Dicono sempre così, e io vinco sempre. Come posso vincere senza prove?» Gresh ridacchiò. «Il movente le sembra sufficiente?» Gresh si accigliò. Il reporter che gli aveva rivolto la domanda sembrava scettico. «C'è un ottimo movente. Lei ha ucciso l'amica perché credeva che
cercasse di portarle via il marito.» «Ed era vero?» «Era vero che cosa?» «Ramy Jordan cercava di rubarle Bret Lewis?» «Aspettiamo e vediamo», replicò Gresh, sgusciando fra le telecamere per dirigersi a un furgone della televisione dove era atteso per un'intervista in esclusiva con un famoso giornalista. Un reporter vide Sarah uscire da una porta laterale diretta verso un'auto con Woody Evans al suo fianco che la teneva per un braccio. Appena vide i reporter, l'avvocato spinse la donna e insieme sfrecciarono verso la macchina. «No comment!» gridò ai cronisti. «La signora Lewis non si lascia intervistare, per il momento.» Faceva parte della strategia. Evans sapeva che Sarah era ancora troppo traumatizzata per affrontare la stampa. Lui contava di presentarla ai reporter più tardi, come una donna accusata ingiustamente, la vittima di un pubblico ministero ambizioso. E poi Woody Evans sapeva che c'era comunque una buona esca da dare in pasto ai giornalisti affamati. Bret Lewis, che aspettava dentro l'aula, secondo accordi presi con l'avvocato, non aveva niente in contrario a parlare con i media. Anzi, si era offerto spontaneamente. «Sarò il tuo uomo di punta», lo aveva rassicurato. Bret, il marito fedele, si sarebbe battuto in pubblico per far riconoscere l'innocenza di sua moglie. Bret si era preparato all'impatto con la stampa. Tim Curran gli aveva suggerito quale atteggiamento assumere; non solo lo aveva consigliato per telefono, ma gli aveva mandato un biglietto. Bret, non importa che cos'abbia fatto tua moglie; tu devi difenderla con passione. Ricordati che nessuno perdona un uomo che abbandona la propria donna. Perciò, per te lei è innocente. Anche se hanno una foto di lei con la bomba fra le mani, è innocente. Quelli là fuori si tradiscono a vicenda, mogli e mariti, ma si sentono migliori se si schierano dalla parte della lealtà. È la «grande menzogna». Fa parte della nostra professione. Bret era d'accordo. Se la lettera non fosse stata così personale, l'avrebbe fatta incorniciare. «Signor Lewis», gridò un reporter, mentre Bret emergeva dal tribunale. «Come si sente la prima mattina del processo?»
«Distrutto», rispose Bret, «questa storia è una farsa. La polizia non ha trovato il vero assassino o ha preferito non trovarlo, perciò si accaniscono contro mia moglie.» «Le starà vicino?» chiese una donna. «Sino alla fine.» I reporter annotarono la sua risposta, sebbene qualcuno pensasse che fosse un po' strano parlare già di fine. «Lei come fa a essere tanto sicuro che sua moglie è innocente?» «La conosco da più di vent'anni. Ramy Jordan era la sua più cara amica.» «Ma si dice che lei e la signora Jordan...» «Bugie, tutto sarà chiarito. Se Sarah avesse pensato che fosse vero, me l'avrebbe chiesto. È la persona più dolce e gentile di questo mondo.» «Che cosa intendeva dire quando ha affermato che forse la polizia ha preferito non trovare il vero assassino?» «Sentite», sbottò Bret. «Sono davvero furibondo. Il bersaglio ero io e, detto fra noi, forse ci sono persone che non vogliono mettere in imbarazzo qualcuno.» «Chi?» incalzarono i reporter. «Certi Paesi stranieri.» «Non può essere più esplicito?» urlò un telecronista. «Preferirei di no. In ogni caso, il terrorismo è pericoloso e qualche volta noi abbiamo interessi in Paesi che lo appoggiano.» «Sta accusando qualcuno?» «Sto soltanto avanzando un'ipotesi. La cosa più importante, però, è che mia moglie Sarah è innocente. Lotterò per lei e non l'abbandonerò mai. Adesso, se non vi dispiace...» Bret si scostò dai giornalisti, orgoglioso delle proprie dichiarazioni, e soffocò la tentazione di sorridere. Come aveva fatto prima dell'esplosione, si era esercitato ad assumere un'espressione battagliera davanti allo specchietto dell'auto presa a noleggio. Era davvero soddisfatto del suo approccio con la stampa. Shel Jordan fu l'ultimo a uscire dal tribunale durante la pausa per il pranzo. Come c'era da aspettarsi, aveva con sé un addetto alle pubbliche relazioni, Earl Willingham, direttore di un certo numero di pubblicazioni di carattere commerciale prima di mettersi in proprio a Washington. Aveva quarantacinque anni e parlava bene, talvolta in tono pomposo. Spesso assisteva un cliente che desiderava essere lasciato in pace.
Shel non parlò. «Il signor Jordan è comprensibilmente sconvolto», attaccò Willingham con una voce baritonale ben esercitata. «Rispondo io alle vostre domande.» «Non può parlare di persona?» chiese un reporter. «Preferisce di no. Sua moglie è stata assassinata. Il signore mi ha pregato di assisterlo.» «Che cosa prova per Sarah Lewis?» «Angoscia, dolore», rispose Earl Willingham. «È chiaro. Tuttavia, il signor Jordan è un uomo leale e desidera aspettare che siano presentate le prove.» «Davvero è angosciato?» volle sapere un giornalista rivolgendosi a Shel, nella speranza di ottenere una risposta diretta. «Ho detto che il signor Jordan...» intervenne Willingham con voce ferma. Ma fu interrotto da Shel. «Dirò una cosa per la persona che non è qui. Ramy chiederebbe giustizia. Nient'altro. Non ero un marito meraviglioso, ma lei sì, era una moglie meravigliosa. Farò in modo che abbia giustizia, costi quel che costi.» 30 Era stata composta la giuria. Sette uomini e cinque donne, nove bianchi e tre negri. Dei sette uomini tre erano impiegati, uno era un pilota in pensione, uno un falegname e due direttori di piccole industrie. Delle cinque donne, due erano casalinghe, una programmatrice di computer, una segretaria di una scuola e una biologa. «Chiamo a testimoniare Shel Jordan.» La voce di soprano di Howie Gresh risuonò nell'auditorium e nella sala calò il silenzio. Gresh teneva segreta la sua tattica e nessuno si era aspettato che il primo testimone fosse il marito della vittima, anche se sapevano che Gresh amava le situazioni a sorpresa. «Giuri di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità.» «Lo giuro», rispose Shel, con la mano posata su una vecchia Bibbia sgualcita. Gresh non perse tempo con i preliminari e non si curò neppure di presentare a Shel Jordan le sue condoglianze. «Signor Jordan», attaccò. «Lei ha detto a Sarah Lewis che sua moglie Randy aveva una relazione con suo marito?» «Sì.»
«E Sarah Lewis le ha creduto?» «Sì.» «Come lo sa?» «Be', le ho fatto ascoltare un nastro che avevo registrato. Qualche volta registro le telefonate a casa mia, per affari e cose simili, sa. Quel nastro riportava una conversazione fra il signor Lewis e mia moglie. Era una conversazione... intima.» «E qual è stata la reazione di Sarah?» «Sembrava offesa, ferita.» «Ha detto di voler fare qualcosa?» «Sì. Ha detto che voleva salvare il suo matrimonio.» «Capisco. La signora... ecco... amava suo marito?» «Oh, sì.» «La relazione fra sua moglie e il signor Lewis è stato un colpo per la signora?» «Be', in un certo senso sì, in un certo senso no.» «Si spieghi meglio.» «Sentiva che... a dire il vero, lei mi ha confidato che era convinta che suo marito frequentasse un'altra donna.» «Chi era questa donna?» «Un membro del Congresso, l'onorevole Carver.» Tutti in aula restarono a bocca aperta e Meeker batté furiosamente il martelletto. «Questa non è una telenovela», tuonò il giudice. «Silenzio, per favore! Prosegua, signor Gresh.» «Così la signora Lewis credeva che suo marito avesse due amanti...» «Sì.» Shel guardò in direzione di Sarah, che sedeva immobile, concentrandosi sulle istruzioni di Woody Evans: non mostrare nessuna emozione, non perdere il controllo. «Soprattutto», le aveva detto l'avvocato, «cerca di essere amabile, gentile. Alla giuria piacciono sempre le persone amabili.» «La signora aveva un piano?» riprese Gresh. «Certo. Come ho detto, voleva salvare il suo matrimonio e io volevo salvare il mio, perciò abbiamo deciso di andare da un consulente di questioni matrimoniali. Uno psicologo del genere.» «E ci siete andati davvero?» «Sì, da un certo dottor Lorenzo Rosenthal. Poi c'è stata la doppia cerimonia a...» «Capisco. Mi dica, la signora Lewis ha mai espresso propositi di vendetta verso sua moglie?»
«No, mai.» «Ne è sicuro?» Shel Jordan si appoggiò all'indietro sulla sedia e rifletté. Era quasi elegante nel suo completo blu scuro con cravatta chiara, l'immagine di una raffinata rispettabilità, a parte il peso eccessivo. «Be', era arrabbiata.» «Mi descriva la sua collera.» «Ha detto che non si sarebbe mai aspettata una cosa simile da Ramy.» «Nessuna minaccia?» «No.» «Non le è parso un po' strano?» «Che cosa vuol dire?» «Non è sembrato strano che una donna, che ha appena saputo che il suo amato marito ha una tresca con la sua migliore amica, non abbia fatto minacce?» «Be', forse sì. Voglio dire... Dio mi perdoni, ma io ho descritto a Sarah mia moglie come una sgualdrina, dopo avere sentito quel nastro. Invece la reazione di Sarah è stata piuttosto blanda.» «In che senso?» «Dopo avere visto la sua reazione, io l'ho definita ottimista. 'Sei un'ottimista, Sarah', le ho detto.» «E sino alla morte di Ramy lei afferma che Sarah non ha mai pronunciato minacce contro Ramy, che non l'ha mai affrontata?» «Certo. Lo ripeto.» «Non le ha dato l'impressione di una donna che avesse in mente di fare qualcosa e volesse nasconderlo?» «Obiezione!» gridò Woody Evans balzando in piedi. «Accolta!» tuonò il giudice Meeker. «Signor Gresh, lei sa perfettamente che non sono permesse domande simili. La sua è una pura supposizione.» «Chiedo scusa, vostro onore», soggiunse Gresh, con un sorriso malevolo. Tanto aveva già fatto il punto alla giuria, anche se la domanda non sarebbe stata verbalizzata. La Rossa capì che si trattava del primo attacco a Sarah Lewis. Un tocco dopo l'altro, si disse la giornalista, e il pubblico ministero l'avrebbe dipinta come un'attrice. Aveva visto giusto. «Signor Jordan, ora devo rivolgerle una domanda difficile», riprese Gresh. «Può darsi che sia penosa per lei, però è importante che la corte sappia.» «Capisco. Dica pure.» «Era la prima volta che sua moglie... aveva una storia con qualcun al-
tro?» Nuovi mormoni in aula. Meeker scoccò un'occhiata severa agli spettatori e ai giornalisti e il brusio si smorzò. «Ecco, no», rispose Shel. «Ci sono state... altre occasioni.» «Sarah Lewis ne era al corrente?» «Obiezione!» strillò di nuovo Evans. «Tutto questo è irrilevante.» «Vostro onore, non è irrilevante», ribatté Gresh alzandosi dal banco dell'accusa. «Se la signora Lewis era a conoscenza degli... svaghi amorosi di Ramy Jordan, è possibile che il fatto abbia modificato la sua opinione sul conto dell'amica.» «Vada avanti, ma non insista troppo», concesse il giudice. «No, certo, vostro onore.» «La signora Lewis ne era al corrente», riprese Shel con voce sommessa. «Ne ho parlato nello studio dello psicologo, il dottor Rosenthal.» Per un attimo Sheldon Jordan parve travolto dall'emozione e, quando riprese a parlare, lo fece con voce quasi impercettibile. «La migliore amica di Ramy... la sua amica più cara...» Era il momento culminante. Gresh se la godeva un mondo, avrebbe abbracciato Shel. «Grazie», concluse Howie Gresh. «Le assicuro che ha tutta la nostra comprensione. Non ho altre domande, vostro onore.» Meeker guardò Shel. «Se la sente di continuare?» «Sì», mormorò l'altro. Meeker si rivolse a Evans. «Domande, avvocato?» «Nessuna, per ora», rispose Evans. Woody Evans giocava bene le sue carte, annotò la Rossa sul suo taccuino. Shel Jordan, il marito della vittima, era una figura simpatica e attaccarlo poteva rivelarsi una mossa controproducente. Avrebbe significato inimicarsi la giuria. «Può andare, signor Jordan», suggerì Meeker a Shel. Lui si alzò con una certa difficoltà e scese dal banco dei testimoni. Si avviò verso una porticina laterale, ma prima di uscire lanciò un'occhiata a Sarah che teneva gli occhi abbassati. Durante una pausa del processo, Alison Carver emise un comunicato ufficiale in cui negava assolutamente qualsiasi legame sentimentale con Bret Lewis. Anzi, l'onorevole era profondamente offesa per il sospetto che lei potesse rovinare un matrimonio e si diceva convinta che Sarah Lewis fosse dotata di una vivida immaginazione.
Il comunicato della Carver seguitava a rimbalzare nella mente di Phil e Francesca Black, seduti accanto a quella miniera d'oro fotografica che era Al Durfee. Stampare le foto? Aspettare? Venderle? I due decisero di aspettare, sperando in qualche rivelazione esplosiva che avrebbe fatto aumentare ancora il valore delle foto. «Chiamo a testimoniare Morry Sherman.» Howie Gresh sorrise mentre pronunciava quel nome, come se sapesse che il prossimo testimone avrebbe cominciato ad annodare il cappio intorno al collo di Sarah. Morry Sherman avanzò nell'aula, salì sul banco dei testimoni e si sedette con un tonfo. «Qual è il suo nome?» chiese Gresh. «Morris Sherman, ma tutti mi chiamano Morry.» «Bene, Morry. Che mestiere fa?» «Ho un negozio di elettronica ad Arlington, un negozio per professionisti. I nostri clienti conoscono il fatto loro.» «Ne sono convinto, Morry. Senta, ore le mostrerò del filo di ferro.» Gresh tornò al tavolo della pubblica accusa e prese una busta di plastica con dentro alcuni minuscoli pezzetti di filo metallico per uso elettrico. Tornò presso il teste e spinse la busta verso Morry, che la prese. «Riconosce questo materiale, Morry?» «Certo. Lo vendo nel mio negozio.» «È un prodotto comune?» «No, è un filo speciale. Vede, gli altri non lo...» «D'accordo, Morry. È sicuro di riconoscerlo?» lo interruppe il pubblico ministero. «Certo che sono sicuro. Se crede, possiamo andare nel mio negozio e le mostro da quale rotolo è stato preso.» «Vostro onore», continuò Gresh rivolto verso il giudice, «questo è il reperto A. Verrà identificato come proveniente da quanto è rimasto della bomba che ha ucciso la signora Ramy Jordan.» «Cattivo uso dell'attrezzatura», borbottò Morry. «Ora senta, Morry», riprese Gresh. «Di recente, lei ha trovato una carta di credito nel suo negozio e l'ha tenuta, non è così?» «Giusto. Qualche volta chi l'ha perde torna a cercarla.» «Le chiedo: a chi è intestata quella carta di credito?» «A Sarah Lewis.» «No!» esclamò Sarah, perdendo il controllo che Evans le aveva tanto
raccomandato. «C'è stato un furto, l'hanno portata via da casa!» Mormorio in aula. I reporter più esperti di processi videro subito il legame: Sarah era andata nell'unico negozio della zona che vendeva il filo metallico usato per la bomba. Perché vi si sarebbe recata, se non per acquistarlo? «Lei ricorda di avere notato nel suo negozio la signora Lewis?» «No, ma viene tanta gente. E poi gli scaffali sono alti e stretti; dalla cassa non vedo chi entra.» «Perciò è possibile che un cliente entri ed esca senza che lei lo veda.» «Sicuro. Io mi fido.» «Quel filo che abbiamo esaminato è stato venduto lo stesso giorno in cui ha trovato la carta di credito della signora Lewis?» proseguì Gresh. «Certo.» «A chi?» «Non ricordo. Senta, è mai stato nel mio negozio? Voglio dire, è sempre affollatissimo.» «Non lo metto in dubbio. Ah, un'altra cosa ancora: la signora Lewis non è venuta a cercare la sua carta di credito, vero?» «No, non è tornata.» «Non le è parso strano?» «Obiezione! Di nuovo supposizioni», urlò Evans. «Attenzione, signor Gresh», borbottò Meeker. «Proceda pure, ma faccia attenzione!» «Morry», riprese Gresh, senza fare una piega. «Non crede che la signora Lewis non sia tornata a cercare la sua carta di credito perché non voleva attirare l'attenzione su di sé?» «Obiezione!» «Signor Gresh, questo è un colpo basso», intervenne il giudice. «Vostro onore, chiedo scusa per la mia indelicatezza professionale», concesse Gresh. E di nuovo la giuria captò il messaggio. «Non ho altre domande», concluse poi il pubblico ministero. Il giudice si rivolse alla difesa. «Signor Evans?» Woody Evans si alzò. Si avvicinò lentamente al banco dei testimoni e cominciò a parlare con voce bassa e misurata. «Morry, lei si considera un uomo perbene, non è così?» «Perbene e onesto.» «Naturalmente. E non vorrebbe vedere distrutta la vita di una donna in-
nocente, non è vero?» «No.» «Bravo. Adesso voglio che guardi attentamente la mia cliente, seduta laggiù.» L'avvocato indicò Sarah, adesso di nuovo calma, con gli occhi bassi, composta e dignitosa nel suo abito grigio. «Desidero che dica alla corte se ha mai visto quella donna nel suo negozio.» «No, non l'ho mai vista. Ma con quegli scatoloni...» «Però, se avesse comprato qualcosa», ricordò Evans al teste, «sarebbe uscita da dietro gli scatoloni per andare a pagare. E allora l'avrebbe vista, vero signor Morry?» «Sì, è chiaro», rispose Morry. «Ma lei non l'ha vista.» «Be'...» «Non l'ha vista?» «Non posso ricordare. Voglio dire, con tutti quei clienti. Molti sono clienti abituali.» «Tanto abituali da non notare una faccia nuova?» «Qualche volta sì, altre no.» «Lei non vorrebbe che la signora Lewis venisse condannata in base alla sua testimonianza, vero?» «No», rispose Morry. «Senta, solo perché ha lasciato cadere una carta di credito...» «Se è stata lei.» «Già.» «Non è detto che una carta di credito con il suo nome fosse necessariamente in suo possesso, giusto?» «Obiezione!» gracchiò Gresh. «Congetture, ipotesi!» «Obiezione accolta», concesse il giudice Meeker. «Ritiro la domanda», acconsentì Woody Evans. Come già Gresh prima di lui, aveva lanciato il suo messaggio alla giuria. «E non ho altre domande.» Morry scese dal banco, ma non appariva particolarmente contento. Lui era un esperto di elettronica, trattava strumenti di precisione e numeri. Ora, mentre usciva dalla porta laterale, si sentiva vagamente a disagio circa la sua testimonianza, era come se lo avvolgesse una nebbia impalpabile. Aveva ragione. Anche i giornalisti provavano la medesima sensazione. La Rossa annotò sul suo taccuino: «Con questo teste il pubblico ministero ha provato solo che qualcosa appartenente a Sarah è stato rinvenuto nell'u-
nico negozio della zona in cui si vende certo materiale utilizzato nella bomba, ma ci sono ancora parecchi se». «Non hanno una sola prova», dichiarò Bret ai giornalisti durante una pausa. «Che cos'hanno? Quella carta di credito era sparita da parecchi giorni. C'era stato un furto nell'appartamento.» «Lo aveva denunciato?» «Certo. Ma chi fa caso a un furtarello, con tutto ciò che sta succedendo?» Naturalmente, era stato lui a simulare il furto e, comunque, era soddisfatto della testimonianza di Morry. Capiva che la carta di credito non costituiva una prova decisiva, ma era pur sempre un sospetto che andava ad aggiungersi agli altri. «Se l'accusa non presenta altro, dirò all'avvocato di mia moglie di chiedere che il caso venga archiviato», proseguì Bret. «Come sono i rapporti con sua moglie?» volle sapere un reporter. «Ottimi. Lo vedrete quando salterà fuori la verità. Qui ci sono solo accuse campate in aria, non la verità.» «Un marito orgoglioso e fedele», scrisse la Rossa. Sapeva ciò che faceva vendere un giornale. Così pure Bret. 31 «Chiamo a testimoniare Kenneth Warren», ordinò Gresh. Kenneth Warren, di circa ventotto anni e il portamento eretto di un generale, avanzò verso il banco e si sedette. Si guardò intorno nell'aula, poi guardò Sarah, Bret e infine Shel Jordan. Warren colse un'espressione interrogativa sul viso dell'imputata. Sapeva che il giovane avrebbe testimoniato, ma non ricordava chi fosse, naturalmente. Del resto come poteva? Il loro contatto era stato brevissimo. «Dica il suo nome», lo invitò Gresh. «Kenneth Lawrence Warren», rispose il teste. «La sua occupazione?» «Sono cameriere di un'azienda di ristorazione.» «Lei era stato assegnato al ricevimento dei Lewis e dei Jordan, la sera in cui furono celebrate per la seconda volta le loro doppie nozze?» «Sì, signore.» «Era abbastanza vicino da sentire le conversazioni fra i membri delle
famiglie Lewis e Jordan?» «Sì.» «Signor Warren, è stato confermato che Ramy Jordan è uscita per andare alla macchina dei Lewis a depositare un oggetto. Sa per caso che oggetto fosse?» «Sì. Era un regalo per la signora Lewis.» «Un regalo. Come l'ha scoperto?» «Ecco, ho sentito i signori Jordan che ne parlavano. Poi Shel Jordan l'ha accennato al signor Curran e a un altro invitato.» Dal tavolo della difesa nessuna obiezione immediata. «Il signor Jordan ha detto altro?» s'informò Gresh. «Sì. Ha spiegato che sua moglie lasciava ogni anno il suo regalo d'anniversario sul sedile anteriore della macchina della signora Lewis.» «Dunque Sarah Lewis sapeva che la signora Jordan sarebbe andata alla sua auto e che il regalo doveva trovarsi sul sedile anteriore.» «Sicuramente. Hanno parlato di quell'abitudine, io ho sentito tutto. Ogni anno la stessa cosa, hanno detto, ogni anno.» Un mormorio in aula. Quella testimonianza confermava che Sarah era colpevole, se sapeva in anticipo che l'amica sarebbe andata alla sua auto. E lo sapeva certamente, perché Ramy faceva la stessa cosa ogni anno per festeggiare il loro anniversario. «Signor Warren», continuò Howie Gresh, «ha sentito dire qualcosa dalla signora Lewis a proposito di questa tradizione?» «Be', questo no, ma lei ha visto la signora Jordan uscire per andare alla macchina.» «Sì? E come?» «L'ha salutata con un cenno della mano, mentre era ancora in sala e infine l'ha vista, come tutti noi, dalla finestra.» «Grazie. Non ho altre domande.» «La difesa non ha domande da fare», annunciò Evans. La teste successiva impiegò solo trenta secondi a deporre. Era una robusta cameriera del Cheshire Motel, con i capelli prematuramente grigi. Gresh, le prestò apparentemente scarsa attenzione, sperando di trarre in inganno Woody Evans, facendogli credere che le sue dichiarazioni fossero secondarie. Invece erano importanti, molto importanti. «Ha visto la signora Lewis scendere dalla sua auto, quando è arrivata?» fu la domanda di Gresh. «Certo», rispose la cameriera.
«Indossava l'abito da cerimonia?» «No.» «Lo indossava quando è uscita dalla sua camera?» «Sissignore.» «La signora è andata direttamente al ricevimento o si è fermata alla macchina?» «È andata direttamente in sala.» «Grazie, ho finito.» Il giudice Meeker si rivolse a Woody Evans. «Domande, avvocato?» Dapprima Evans non rispose, rimase seduto sulla sua sedia e fissò la cameriera, cercando di indovinare perché fosse stata chiamata a deporre. Non si era lasciato ingannare da Howie Gresh, ma sapeva che lui lavorava a una sua teoria ed era sicuro che fra pochi secondi avrebbe capito perché la donna si trovasse al banco dei testimoni. Perciò si alzò e si avvicinò lentamente. «Signora, lei porta gli occhiali?» chiese Evans. «Sì, signore.» «Normalmente le occorrono per vedere?» «Quasi sempre.» «Li portava quella sera?» «Sì, signore.» «Va bene. Può spiegare alla corte perché è stata in grado di vedere Sarah Lewis così da vicino, mentre avrebbe dovuto essere al lavoro?» «Sapevo che mi avrebbe fatto questa domanda e io non voglio perdere il posto», replicò la donna. «Ma vede, non capita di vedere molte cerimonie nuziali al Cheshire ed è uno spettacolo eccitante per noi che ci lavoriamo. Perciò mi sono fermata a gironzolare fuori dalle camere.» «Solo gironzolare?» «Sì, signore. Là non avevo mai visto un matrimonio.» Evans concluse che la teste era troppo simpatica per attaccarla, qualunque fosse il motivo per cui si trovava là. Bisognava congedarla con gentilezza. «Grazie», borbottò l'avvocato. «Lei è stata di grande aiuto.» Seguì la testimonianza di alcuni tecnici, ma il pubblico sentiva che il momento importante stava per arrivare. Passarono sei giorni e la tensione aumentò. Gresh compì la sua mossa alle dieci del mattino, abbastanza presto perché i reporter della televisione potessero riprendere le varie scene e scrivere gli articoli per il telegiornale delle cinque. «Chiamo a testimoniare il tenente Kyle King», intonò il pubblico mini-
stero. Kyle King avanzò dal fondo dell'aula. Indossava un sobrio completo preso a prestito da un avvocato suo amico e calzava scarpe prestate da suo fratello, aveva il cranio lucidissimo e s'era messo una crema sulla barbetta. Era la sua grande occasione, in aula c'era gente della televisione. Chissà che non saltasse fuori qualcosa di buono anche per lui! King giurò. «Buongiorno, tenente King», esordì Gresh. «Lei è un detective della polizia di Arlington?» «Esatto», rispose King. Si era esercitato a modulare la voce per una settimana. «Ha avuto l'incarico di investigare sull'omicidio di Ramy Jordan?» «Precisamente.» «Quando le è stato affidato il caso, esisteva qualche ipotesi della polizia?» «Sì, signore. Tutti pensavano che si trattasse di un atto di terrorismo. Vede, il signor Lewis è un funzionario della marina e si occupa appunto di antiterrorismo. Sapevano che c'erano dei gruppi stranieri che operano nelle vicinanze e c'era già stata un'esplosione a Falls Church, poco prima del fatto.» «Un'esplosione simile?» «I. test di laboratorio hanno dimostrato che il materiale era identico.» «Lei che ne pensava della teoria del terrorismo?» «Be', non ne ero molto convinto, a me piace verificare tutte le ipotesi. Sono un poliziotto così.» «Encomiabile», fu il commento di Gresh. «Ha interrogato i protagonisti, vero?» «Sì.» «Hanno collaborato?» «Dapprima credevo che collaborassero. Il signor Shel Jordan era disponibile, mi ha raccontato tutto ciò che volevo sapere, non mi ha tenuto nascosto nulla. I Lewis...» «Vada avanti.» «Be', c'erano alcune cose strane riguardant il loro matrimonio e loro non sono stati molto sinceri con me.» «Si spieghi meglio.» «Il signor Lewis non mi ha parlato dei suoi... impegni extraconiugali e la signora non mi ha detto che sapeva... perlomeno non ha parlato finché non
le ho riferito ciò che avevo scoperto.» «In altre parole, la signora Lewis era... reticente?» «Obiezione!» tuonò Evans. «Si tratta soltanto di voci, di dicerie.» «Vostro onore», attaccò Gresh. «Questa testimonianza è di estrema importanza. Ciò che mi propongo di chiarire non sono i dettagli dei commenti che il signore o la signora Lewis possano aver fatto al tenente King, ma il concetto che si è fatto il detective in seguito agli interrogatori.» Meeker rifletté per qualche secondo. «D'accordo, proceda, ma si limiti all'essenziale, signor Gresh.» «Lo farò, vostro onore. Glielo chiedo di nuovo, tenente: la signora Lewis appariva reticente?» «Sì, direi che lo fosse.» «Questo ha stimolato la sua curiosità di investigatore?» incalzò Gresh. «Certo.» Il poliziotto guardò il pubblico in aula e vide parecchi inviati della televisione. «Quando si ha l'esperienza che ho io, sempre a contatto con il crimine, si...» «Mentre lei conduceva queste indagini, era in corso un'altra inchiesta investigativa?» lo interruppe Gresh. «Sì, è così», rispose King, passandosi la mano sulla testa pelata. «Ha i risultati di quel lavoro?» «Naturale. Tutto passa attraverso il sottoscritto.» «Le dispiace descrivere l'esplosivo collocato nell'auto dei Lewis?» riprese Gresh. «Era del tipo C-4, chiamato Semtex, ed era stato inserito in una pila tascabile.» «E il congegno come è stato fatto esplodere?» «Con un comando a distanza.» «Quanto esplosivo è stato trovato?» «Be', solo frammenti. La pila si è squarciata, ma alcune parti del rivestimento sono rimaste intatte.» «E questi pochi frammenti hanno rivelato qualcosa di insolito?» «Sì, certo.» «Si spieghi.» «Uno aveva attaccato parecchi capelli umani.» «L'esame di laboratorio ha permesso di determinare di chi fossero quei capelli?» «Sì.» «Quella persona è seduta in aula?»
«Sì, signore.» «Vuole indicarcela?» Con gesto drammatico, Kyle King puntò l'indice verso Sarah Lewis. Un boato. «È una bugia!» gridò Sarah, dimenticandosi delle raccomandazioni di Evans e balzando in piedi. Anche Bret si alzò. «È falso! Hanno falsificato l'intera faccenda!» Meeker batté il martelletto. «Signor Lewis, si sieda!» ordinò. «Si sieda o la faccio uscire. Lo stesso vale per lei, signora Lewis. Avete sentito?» Woody Evans tirò giù Sarah, ma Bret rimase in piedi, rosso in faccia, il dito puntato contro il poliziotto. «Stanno cercando di coprire qualcuno. È stato un attentato terroristico!» «Usciere!» chiamò il giudice. Un uomo robusto in divisa blu avanzò nel corridoio e afferrò Bret. L'aula era in tumulto. Bret oppose resistenza. «Giù le mani! Si tratta di mia moglie! È in gioco la sua vita!» «Portatelo via!» ordinò il giudice. L'usciere spintonò Bret nel corridoio dell'aula e poi fuori della stanza. «Non riuscirete a farmi tacere!» continuò a gridare Bret prima che la porta si chiudesse alle sue spalle. Era stato il momento più drammatico del processo e persino Sarah sembrava sopraffatta. Come poteva ora dubitare di Bret? Bret si era preparato a quella scena più volte, ma era stata superiore a ogni sua aspettativa. Il quadro dell'uomo pronto a combattere per la sua famiglia e per il suo Paese e a gettare in faccia all'odioso Howie Gresh quei solidi valori era completo. Rise fra sé, pensando quanto fosse stato facile raccogliere sul cuscino di Sarah qualche capello da fissare alla bomba. Nella sala tornò la calma, Kyle King era ancora sul banco dei testimoni. Fantastico, stava pensando, di certo nei verbali avrebbero fatto il suo nome. «Tenente King», riprese Gresh. «La prego di ignorare la scenata di poco fa. Tutti sappiamo che le persone diventano più emotive di fronte alla verità. Ora le chiedo: sono stati trovati altri capelli umani nei frammenti della bomba?» «No.» «Bene. Allora le chiedo se la camera del motel occupata dalla signora Lewis è stata perquisita.» «Sì.» «Avete trovato qualcosa?»
«Direi di sì. Un paio di guanti.» «Un paio di guanti?» ripeté Gresh, seguendo il copione. «E che cosa c'è di strano?» «Be', prima di tutto ci siamo chiesti perché una persona portasse i guanti nel mese di giugno.» Al tavolo della difesa Woody Evans si mosse a disagio. Non era stato informato di questo particolare. «Avevi dei guanti?» sussurrò a Sarah. «No», rispose lei in un bisbiglio. «Non mi pare.» «Come non ti pare?» ribatté l'avvocato. «Ho comprato degli accessori e forse in mezzo a quella roba c'era anche un paio di guanti... Non lo so. Ma non li ho mai portati.» «Tenente King», riprese Gresh. «Quei guanti hanno rivelato qualcosa?» «Sì. Avevano tracce d'esplosivo.» Altro boato in aula. «No!» gridò Sarah, girando la testa in cerca di suo marito, ma Bret non c'era. I suoi occhi incrociarono quelli di Shel, occhi che bruciavano. A un tratto lui si alzò. «Sgualdrina! Sei stata tu!» Meeker batté il martelletto. «Usciere!» Stavolta l'uomo si precipitò senza ulteriori istruzioni. «L'hai uccisa tu! Mi hai mentito, non hai mai voluto salvare il tuo matrimonio. Mi hai usato!» «No, Shel, non è vero!» ansimò Sarah, scoppiando in singhiozzi. «Chiedo una sospensione», disse Woody Evans e il giudice Meeker non poté fare altro che concedere una pausa. I reporter si precipitarono ai telefoni. Uno di loro riuscì a rintracciare Bret, che apparve furibondo quando il giornalista gli riferì ciò che aveva dichiarato King. «Sono prove fasulle!» esplose. «Sarah non ha mai portato guanti!» Naturalmente, sapeva tutto di quei guanti perché ce li aveva messi lui, dopo avervi attaccato particelle di esplosivo. Kyle King sgusciò via da tutti i reporter. Sebbene fosse affamato di pubblicità, capiva che quello non era il momento di parlare con la stampa. Stava testimoniando, era sotto giuramento. Bisognava mantenere lo stile, concluse. Ma Shel Jordan si rese disponibile. Allontanò il suo uomo delle pubbliche relazioni e si lasciò circondare dai cronisti. «Non ci avevo mai voluto credere!» esclamò in tono amaro. «Non avevo mai voluto pensare che Sa-
rah fosse capace di una cosa simile, ma ormai ho sentito abbastanza e non ho più dubbi.» «Ma come avrebbe potuto fabbricare quella bomba?» gli fece notare un giornalista. «Vuole scherzare!» replicò Shel. «Lei è ingegnere e lavora con piloti e militari. Probabilmente il marito le ha sempre parlato di esplosivi. Nessun problema. E poi un poliziotto mi ha detto che era una bomba rudimentale.» «Ha intenzione di rientrare in aula, signor Jordan?» «Se me lo permettono, vorrei esserci. Per la memoria di mia moglie.» Un altro giornalista scorse Woody Evans che si precipitava a parlare con un nuovo avvocato che si era aggiunto alla difesa. Evans allontanò il reporter con un gesto infastidito. Non sorrideva e non era affatto calmo, sapeva che la sua cliente era nei guai. La Rossa, osservando l'avvocato assediato dai reporter, ricordò una citazione di Woody Evans, di solito riservata alle sue lezioni alla facoltà di Giurisprudenza: «L'avvocato dovrebbe essere il primo a sapere... e il primissimo a crederci». 32 L'udienza riprese e Kyle King tornò sul banco dei testimoni. Aveva avuto modo di rinfrescarsi, di cambiarsi la camicia e di applicarsi un po' di cerone, per schiarire le ombre sotto gli occhi. Così sembrava più giovane. L'aula era stracolma; il giudice Meeker aveva concesso a Bret e a Shel di rientrare e di prendere posto fra gli spettatori, con l'avvertimento di non interrompere l'udienza e di non disturbare. C'erano anche i coniugi Black, in quarta fila, insieme ad Al Durfee, che osservava con attenzione Sarah Lewis. L'imputata aveva conferito con il suo avvocato durante la pausa ed Evans le aveva detto chiaro e tondo che la testimonianza di King non migliorava certo la sua posizione. «Tenente King», riattaccò Gresh. «Vorrei richiamare la sua attenzione sull'abito che indossava Sarah Lewis quella sera. Questo indumento è stato oggetto di indagine?» «Sì.» «Potrebbe spiegarci perché?» «Sì, certo. Qualsiasi indumento lascia delle fibre, una traccia. In questo caso poteva dirci qualcosa circa i movimenti dell'accusata.» «Era un indumento nuovo?»
«Sì. Era stato acquistato due giorni prima.» «Da quanto ha dedotto, la signora Lewis non lo aveva mai indossato prima della cerimonia?» «No. Quando l'abbiamo interrogata, poco prima che fosse accusata, mi ha detto di averlo provato nel negozio, poi a casa una volta, per mostrarlo a suo marito, e di averlo messo via per il ricevimento.» «Com'è stato portato al Cheshire Motel, il vestito?» «In una borsa.» «Capisco. Senta, tenente, il laboratorio ha esaminato i sedili dell'auto in cui è esplosa la bomba?» «Be', era bruciata quasi completamente, ma erano rimasti sufficienti frammenti da esaminare.» «Ha ispezionato il sedile di guida?» «Eccome. È stata la prima cosa.» «Ha trovato qualcosa?» «Sì, c'erano delle fibre, in gran parte degli abiti del signor Lewis. E poi dei signori Jordan, che salivano spesso su quell'auto. Abbiamo trovato anche fibre dell'abito da cerimonia della signora Lewis.» «Oh! Ma la signora Lewis non aveva indossato quell'abito prima della cerimonia.» «Già, è così», ammise King. «Perciò dobbiamo dedurre che sia salita in macchina dopo la cerimonia.» «È una bugia!» gridò Sarah e di nuovo nell'aula si scatenò il pandemonio. «Sta mentendo!» Al Durfee osservava l'imputata dal suo posto in quarta fila. Quando un accusato pensa di dover convincere il suo avvocato, e lui lo sapeva perché avere assistito a innumerevoli processi, era nei guai. Grossi guai. Bret si teneva la testa fra le mani. La stampa avrebbe riferito che appariva sempre più angosciato. Shel Jordan fissava Sarah, la bocca semiaperta, e seguitava a borbottare: «Dopo la cerimonia, dopo la cerimonia...» Naturale. Lei era salita in macchina dopo la cerimonia per collocare la bomba. Ma Howie Gresh non era ancora completamente soddisfatto. «Tenente King», disse. «Forse c'è un po' di confusione. Non è possibile che il signor Lewis abbia toccato il vestito della moglie, magari aiutandola a chiudere la lampo, e che poi sia risalito nella sua auto lasciando qualche fibra sul sedile anteriore?» Improvvisamente in tutta l'aula si diffuse un sommesso mormorio. Howie Gresh non poteva certo aiutare la difesa, nessuno ci credeva. La do-
manda doveva nascondere un motivo. «Abbiamo tenuto in considerazione questa possibilità», rispose King. «È stato il vestito stesso a rispondere all'interrogativo.» «In che senso?» «Abbiamo trovato tracce di grasso vicino all'orlo e siamo risaliti al meccanismo della portiera della Lincoln.» Era fatta. Sarah si voltò verso Evans, che evitò il suo sguardo angosciato. L'avvocato guardava fisso davanti a sé. Forse aveva ragione sua zia, forse avrebbe dovuto fare il chirurgo. Nel brusio generale, una voce soltanto risuonò discordante. «È una montatura!» esclamò Bret Lewis, abbastanza forte da permettere ai reporter vicini di sentire chiaramente. Chiaro che era una montatura, pensava Sarah. «È una montatura!» ripeté con forza Bret. Quella parola, però, aveva ben poco peso sull'opinione dei presenti. Perché avrebbe dovuto essere una macchinazione? E chi avrebbe avuto interesse a incastrare Sarah Lewis, che invece aveva un valido movente, i mezzi e anche l'opportunità per compiere quel crimine? «Non ho altre domande», annunciò Gresh. «La sua testimonianza è stata illuminante, tenente King.» «Signor Evans?» domandò il giudice Meeker. Nel suo intimo, il giudice patteggiava per Evans, un collega brillante e preparato, e disprezzava invece Gresh, con i suoi modi contorti. E Gresh si divertiva un mondo a raccogliere la sfida. Woody Evans si alzò lentamente e si avvicinò al teste. Sino a quel momento Kyle King era parso rilassato e tranquillo; ora, però, doveva vedersela con la parte avversa, che lui aveva messo in grave difficoltà con la sua testimonianza. «Buongiorno, tenente», esordì Evans. «Buongiorno», rispose freddamente il poliziotto. «Avrà sentito l'espressione 'montatura' in aula, vero?» «Ho sentito qualche...» «Un termine piuttosto forte», lo interruppe Evans. «Lei ha delle prove pesanti nel suo dossier, ma c'è qualcosa che mi tormenta.» «Sì?» «Già: nessun testimone. È vero o no?» «Chiedo scusa...» «Nessun testimone», ripeté ancora Evans. «Solo qualche capello. Lei parla di capelli di Sarah Lewis nei resti di quella bomba, ma nessuno ha
visto la signora Lewis con la bomba. Perché lei non ha trovato nessuno che l'abbia vista, vero?» «No.» «E poi il paio di guanti. Ha dei testimoni pronti a giurare di avere visto la signora Lewis con i guanti?» «No.» «Le fibre dell'abito della signora nell'auto. Qualcuno l'ha vista salire in macchina?» «No.» «Qualcuno ha visto il grasso della portiera sul vestito?» «No, ma...» «Ma che cosa, tenente? Il fatto è che nessuno ha visto niente di niente. Oh, certo, avete tutta quella roba del laboratorio, che però non prova un accidente. Ha un teste che possa associare la signora Lewis all'esplosivo o che l'abbia vista farlo detonare?» «No. Ecco perché ci sono i test di laboratorio.» «Torno a ripetere», continuò Evans senza alzare la voce. «Non avete testimoni. È facile avvicinarsi alle cose della signora Lewis. I suoi capelli? L'abito della cerimonia? Chiunque può averceli messi. Ha mai preso in considerazione la possibilità che qualcun altro possa averlo fatto, tenente?» «Ehm... non direttamente, signore.» «Capisco. Non direttamente. Be', allora forse le conviene incominciare a farlo.» Evans cominciava a fare presa e lui lo sapeva. Chi era quel qualcuno a cui aveva alluso? Un terrorista? Shel? Evans ci aveva pensato. In effetti, Shel aveva un movente per uccidere Ramy: lo tradiva. Ma non era un esperto di esplosivi e non aveva motivo per incastrare un'alleata come Sarah. Anzi, probabilmente sarebbe stato felice di poter umiliare Ramy con un divorzio, se avesse voluto liberarsi di lei. Restava Bret, pensava Evans, in piedi davanti a King. Anche Bret aveva mezzi e opportunità ed era l'unico che avesse accesso agli oggetti di Sarah e ai suoi capelli. Ma dov'era il movente? Se aveva davvero una relazione con Ramy, perché ucciderla? E se proprio doveva eliminarla, perché forse lo ricattava, perché incastrare Sarah? Tutto era contro Sarah: il movente, le prove della Scientifica, la scelta di un congegno che una persona esperta d'ingegneria avrebbe potuto fabbricare facilmente. Evans non poteva evitare la conclusione che la sua cliente fosse colpevole.
«Non ho altre domande», annunciò a King. «La difesa chiede una sospensione.» «Nessuna obiezione», concesse il giudice Meeker. Le voci cominciarono a circolare quasi immediatamente e il notiziario del pomeriggio, a Washington, trasmise una notizia ufficiosa. «Al processo contro Sarah Lewis circola voce di un possibile accordo. L'avvocato della difesa Woody Evans e il pubblico ministero sono rimasti a lungo a porte chiuse...» L'Associated Press riferì che Sarah ed Evans si erano ritirati a parlare per più di un'ora in una stanza vicino allo studio del giudice Meeker. Nessun giornalista aveva potuto entrare, ma qualcuno che si era avvicinato all'uscio aveva dichiarato di avere sentito una certa animazione. Le congetture andavano ben oltre un accordo. Praticamente tutta la stampa pensava che Sarah avrebbe evitato la galera, che al massimo avrebbe scontato un periodo in una casa di cura per malattie mentali. Ma quale sarebbe stata la reazione di Shel? Nessuno lo sapeva. E poi, finalmente, l'annuncio. Woody Evans indisse una conferenza stampa. Tutti sapevano che cosa stesse per succedere. Sarah era accanto a lui, appariva cupa e depressa, ma non distrutta. «Non ci sarà nessun accordo», annunciò Evans. «La signora Lewis chiede la piena assoluzione.» 33 La giuria aveva deciso. «Philip Gruson», chiamò il cancelliere, pronunciando distintamente ogni sillaba. «In nome del popolo americano contro Sarah Lewis, qual è il verdetto?» «Colpevole.» «Liza Farrell.» «Colpevole.» «Robert Jefferson.» Era il primo giurato di colore. «Colpevole.» «Brock Lawrence.» Il pilota in pensione. «Colpevole.» Voce chiara e ferma. «Mary Bellows.» Casalinga.
«Colpevole.» «George Baker.» Impiegato. «Colpevole.» Avrebbero dovuto ascoltarmi, pensava Evans. Sapeva che stava pensando più alla sua reputazione che alla sua cliente. Una vera catastrofe, le prove erano solide e inconfutabili. Sarah era finita. «Roy Queensbury.» «Colpevole.» «Alexandra Burke.» «Colpevole.» Adesso c'era da preparare l'arringa, rifletteva Evans. «Questa donna è stata un cittadino esemplare», avrebbe detto. «È rispettata in tutta la comunità.» «Suzanne Hodges.» «Colpevole.» «Andrew White.» «Colpevole.» «John Muller.» «Colpevole.» «Beatrice Oliver.» «Colpevole.» «La donna che ha collocato quella bomba è completamente diversa dalla donna che è davanti a questa corte.» Evans smise di pensare quando il cancelliere terminò di chiamare i giurati. Il mormorio in aula si trasformò in un boato. Colpevole. Omicidio premeditato. Gli occhi di tutti si appuntarono su Sarah, che sedeva fissando vagamente il banco dei giurati, non ancora pronta ad accettare il destino che dodici persone sconosciute le avevano assegnato. E mentre la realtà cominciava a colpirla, soffocò la tentazione di urlare, di scagliare il suo disprezzo contro di loro, contro Howie Gresh, contro il giudice, persino contro il suo avvocato. Non avranno questa soddisfazione, seguitava a ripetersi, non usciranno di qui dicendo che sono pazza. Era sicura che in appello avrebbe vinto. Tutto il processo era stato una farsa, un imbroglio, una perversione della giustizia. Bret l'avrebbe aiutata. Lui era un uomo brillante, avrebbe trovato la soluzione. Gli occhi dei presenti si spostarono su Shel Jordan. Il vedovo teneva la testa china, come se fosse assorto in preghiera. Poi alcuni giornalisti lo vi-
dero tirar fuori un ritratto della moglie, fissarlo per alcuni secondi e infine baciarlo. La Rossa annotò sul taccuino: «Per Shel Jordan l'agonia non finirà mai, ma forse questo momento di sacrosanta vendetta aiuterà ad alleviargli un dolore indescrivibile». Bret fu il primo a uscire dall'aula. «Vorrei leggere un breve comunicato», annunciò ai giornalisti che gli si affollavano intorno. «Per favore, restate un po' più indietro, fatemi respirare.» I reporter si tirarono indietro, tranne quelli della radio e della televisione che gli piantarono i microfoni in faccia. Il comunicato era scritto a mano, lo aveva scarabocchiato mentre ascoltava il verdetto della giuria. «È un momento di grande tristezza», attaccò con aria stanca e tirata. Era rimasto alzato tutta la notte per studiare quell'espressione. «Ma è anche il momento di stare vicino a mia moglie. È l'ora della lealtà, dell'amore, della fiducia. Se mi chiedete se sono arrabbiato, la risposta è sì.» «Guardi da questa parte e ripeta», suggerì un reporter della televisione. Bret eseguì e fissò direttamente la telecamera. «Sì, sono arrabbiato. Oggi non è stata fatta giustizia; il pubblico ministero ha presentato prove inconsistenti e io non avrò pace finché il verdetto non sarà cambiato. Mia moglie è innocente. Lotterò sino all'ultimo respiro per provarlo, a costo della mia vita, se necessario.» Alcuni spettatori dietro i giornalisti applaudirono. «Ha parlato con sua moglie?» volle sapere un cronista del Washington Post. «Solo per pochi istanti. Come certo sapete, non la rilasciano neppure su cauzione. Troppo pericoloso, ha detto il giudice, potrebbe togliersi la vita. Ho avuto occasione di parlarle subito dopo il verdetto, mentre la portavano via. Non so se possiate immaginare che cosa si provi a vedere la propria moglie in manette, e sapere che andrà in prigione. Basta il modo in cui Sarah mi ha guardato...» «Che cosa le ha detto?» «Era più preoccupata per me che per sé. Credo che sia convinta che non ci sia stata nessuna relazione fra me e la signora Jordan. Solo una sincera e affettuosa amicizia. Sarah temeva che fossi a pezzi. Le ho detto che avrei lottato disperatamente. Poi l'hanno portata via.» In quel momento Shel Jordan uscì dall'aula. Alcuni reporter si precipitarono verso di lui, lasciando un vuoto intorno a Bret. I due amici di un tem-
po si guardarono e negli occhi di Shel affiorò uno sguardo amaro e risentito. Bret si girò, il viso che tradiva pena e dolore. «Eravamo buoni amici», confidò a un giornalista vicino, «e ora non ci rivolgeremo più la parola. Che cosa terribile!» «Sarete...» «Basta domande», tagliò corto Bret facendosi strada fra la calca dei reporter. «Vi prego, basta con le domande.» «Vostro onore», attaccò Howie Gresh il giorno della sentenza. «In tanti anni di carriera raramente ho sentito una collera così profonda verso un assassino. Questa donna, Sarah Lewis, aveva tutto ciò che si può desiderare: una bella casa, una posizione prestigiosa e un marito che, nonostante le sue allucinazioni, l'amava teneramente. Eppure lei ha creduto che la sua migliore amica cercasse di rovinare il suo matrimonio. E allora che cos'ha fatto? L'ha assassinata, a sangue freddo. Non l'ha mai affrontata, non l'ha mai cercata per chiederle se si sbagliasse. Ha semplicemente piazzato una bomba in una macchina per farlo apparire un atto di terrorismo e ha premuto il tasto di un telecomando...» Sarah osservava attenta il pubblico ministero, troppo inebetita per odiarlo, troppo disperata per offendersi alle sue parole. «Quanto tempo può parlare?» chiese a Evans. «Quanto gli pare», sussurrò lui. «Ma di solito è breve.» «Ramy Jordan aveva tutto per desiderare di vivere», continuò Gresh con la sua vocetta sempre più acuta. «Era giovane, esuberante, sempre pronta a fare del bene...» Bret, in seconda fila, appariva serio e furioso, ma doveva lottare per nascondere un sorriso divertito. Ramy, fare del bene? Era più divertente che al funerale. «...e pertanto chiedo la pena di morte.» Così concluse la sua arringa la pubblica accusa. Bret fissò Gresh con occhi rabbiosi. Persino Shel parve leggermente sorpreso, ma dopo pochi secondi annuì ripetutamente. Meeker batté il martelletto per calmare il brusio che serpeggiava fra la folla. «Silenzio in aula!» tuonò. «Non siamo al circo, ma in un tribunale.» Poi il giudice si voltò verso il tavolo della difesa. Ora ci sarebbe stata la domanda di grazia.
Sarah si alzò lentamente e di nuovo prese il brusio. Lei avrebbe pronunciato personalmente l'istanza per ottenere la grazia. Per la prima volta, in questo processo, avrebbe parlato in propria difesa. Il mormorio si quietò e nell'aula piombò un silenzio pesante. Kyle King osservava attento dalla terza fila. Ecco, doveva assolutamente proporre un film su quel caso! Bret seguì sua moglie con gli occhi, mentre avanzava verso il giudice. Anche Shel la seguì, ma nel suo sguardo c'era soltanto ripugnanza. «Vostro onore», esordì Sarah con una voce sorprendentemente forte, come se avesse raccolto tutto il suo coraggio per quell'ultimo appello. «Vostro onore, so che fra pochi minuti lei pronuncerà la sentenza. Di nuovo devo protestare la mia innocenza. Non ho commesso questo delitto, non ho mai commesso nessun atto criminale. Le prove sono state manipolate. La giuria non ha voluto crederlo, quando il mio avvocato lo ha dichiarato, ma alla fine lo dimostreremo. Tutte quelle cose sono state messe apposta, non so perché e non so da chi. Non sono mai andata in quel negozio di strumenti elettronici, non mi sono macchiata il vestito e non capisco come mai i miei capelli siano finiti su quell'esplosivo. «Il signor Jordan ha testimoniato che Ramy non aveva ricevuto il mio biglietto d'auguri per l'anniversario di quest'anno, sebbene io glielo avessi sempre mandato. Il signor Gresh ha insinuato che non c'era un biglietto perché io sapevo... che Ramy non sarebbe stata viva per riceverlo. No, vostro onore. Se avessi avuto modo di testimoniare, avrei chiarito subito questo punto: ero troppo ferita per inviarlo. Credevo che Ramy volesse portarmi via mio marito. Forse ho esagerato, forse il signor Jordan e io abbiamo mal interpretato quella telefonata, ma questo è l'unico motivo.» Sarah s'interruppe per riprendere fiato. Evans fece per avvicinarsi, ma lei gli fece cenno di restare dov'era. «Vostro onore, non posso chiedere la grazia, perché non ho fatto niente di male. Posso soltanto chiederle di ricordare quanti imputati siano andati in prigione in questo Paese... e in seguito siano stati riabilitati perché innocenti. La supplico, vostro onore, se ne ricordi! Ricordi i loro nomi e i nomi dei loro cari, le cui vite sono state distrutte, costretti a vivere nell'ombra e nella vergogna. Si sono verificati molti errori nel nostro sistema giudiziario, perciò io non chiedo pietà, ma saggezza. Non posso leggere nella sua mente, vostro onore, perciò non so come valuterà le prove presentate contro di me, ma io ho la coscienza pulita e la storia proverà che dico la verità. Ora è tutto nelle sue mani.» Sarah concluse. Il giudice Meeker, come al solito, appariva impassibile.
Era il suo stile. L'imputata, invece di voltarsi, indietreggiò lentamente fino alla sua sedia, senza distogliere gli occhi da quelli del giudice. L'unico rumore in aula era il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento di legno. Poi si sedette, stranamente delusa. Sperava in un gesto di appoggio e di comprensione da parte della folla, ma c'era solo silenzio. Durante la pausa, molti spettatori uscirono dall'aula, tenendo le mani in tasca per il freddo; era già inverno. Fuori aspettava una folla di imputati minori che dovevano essere giudicati; qualcuno scommetteva sulla sentenza. «La Corte!» annunciò qualcuno vicino alla porta e tutti rientrarono. Era il momento decisivo e definitivo. «Credo di non avere mai provato tanta angoscia nell'emettere una sentenza», attaccò Meeker, tenendo il mano il foglio che avrebbe deciso il destino di Sarah. Lei stava in piedi davanti al banco, con Evans al suo fianco, eretta e dignitosa. «È un crimine brutale e l'imputata dimostra di non provare alcun rimorso, aggrappandosi tuttora a una protesta d'innocenza in cui soltanto lei crede. Persino il modo dell'esecuzione, perché si tratta di un'esecuzione, è stato atroce. Non solo la vittima è rimasta uccisa, ma altri innocenti avrebbero potuto morire, se il serbatoio fosse esploso. Un pensiero che non mi ha fatto dormire.» Silenzio in aula. «D'altra parte», riprese Meeker, «ho già visto in passato situazioni simili; so che talvolta è un mistero ciò che passa nella mente di una persona. So anche che certe situazioni comportano profondo dolore e con il dolore la ragione sparisce. L'imputata, dopo tutto, non ha precedenti penali, è stimata e amata dalla comunità. Una cittadina modello...» Dalla seconda fila si levò una voce. «Finché non ha ucciso mia moglie!» Tumulto in aula. Il giudice Meeker batté il martelletto. «Silenzio!» Un usciere si precipitò verso Shel, che però si affrettò a sedersi. Tornò la calma e il giudice riprese: «L'imputata, probabilmente, può essere riabilitata. Potrebbe svolgere un lavoro utile a beneficio della società». Evans si fece più vicino a Sarah che respirò più liberamente. «Ho soppesato attentamente i fatti», continuò Meeker, «il delitto, il passato pulito dell'imputata, il suo potenziale di bene e ho preso la mia deci-
sione.» Tutti allungavano il collo, Sarah lottava per non mostrare emozione. Shel Jordan fissava il giudice. «Ho concluso», annunciò Meeker, «che la natura orribile del delitto supera ogni altra considerazione. Pertanto condanno Sarah Lewis alla pena capitale...» Nessuno riuscì a sentire il seguito. Parte quarta 34 «La sentenza è giusta, commisurata al delitto. Dio salvi la sua anima.» Fu l'unico commento di Shel Jordan, rilasciato tramite il suo incaricato. «È pazzesca», fu invece il commento di Bret davanti a una telecamera in aula. «Lotterò fino all'ultimo respiro», disse Sarah a suo marito, che riferì la dichiarazione alla stampa. I giornalisti non si accontentarono. Si precipitarono nell'ufficio e a casa di Shel, ma furono accolti da un comunicato: «Il signor Jordan si è ritirato in una località nota soltanto a lui e a pochi intimi. Desidera restare solo con il ricordo di sua moglie». Anche Bret si dileguò, ma un comunicato del Pentagono annunciò che l'indomani il signor Lewis sarebbe tornato al lavoro e si sarebbe reso disponibile alla stampa nel corso della settimana. E così tutto finì. Sarebbe seguito il processo d'appello, naturalmente, ma intanto una donna si trovava nel braccio della morte in Virginia. Il processo divenne l'argomento preferito nei bar e nei ristoranti di tutta la zona. Quella sera Shel Jordan sedeva in un piccolo cottage isolato, a circa dieci chilometri da Charlottesville, in Virginia, e guardava la televisione. Il cottage gli era stato prestato da un amico, che aveva voluto offrirgli un rifugio segreto per evitare la costante invasione dei cronisti. Era da poco passata la mezzanotte; la sera era fredda e una fitta pioggia aveva cominciato a cadere sulle foglie degli alberi intorno al villino. Tranne due luci interne e il riflesso dello schermo televisivo, era buio pesto. In fondo alla strada polverosa apparvero i due fari di una macchina. Quando l'automobilista fu sicuro di avere trovato la strada, spense i fanali,
per non essere visto da eventuali passanti, e finalmente si fermò davanti al villino. Prese dal sedile accanto a lui un sacchetto e il più silenziosamente possibile aprì la portiera, scese e richiuse. Proseguì a piedi sino alla porta del cottage e suonò il campanello. Passò un po' di tempo, ma finalmente sentì spegnersi il televisore e poi un rumore di passi verso l'uscio. La porta si aprì. Shel Jordan rimase immobile, fissando il visitatore. Bret Lewis lo fissò a sua volta. Alla fine Shel indietreggiò e Bret entrò. I due uomini rimasero in silenzio. Bret alzò lentamente una mano, Shel fece altrettanto e se le strinsero con forza e decisione. Un sorrisetto misterioso comparve prima sulle labbra di Bret e poi su quelle di Shel. Infine, i due scoppiarono in una risata fragorosa dandosi una manata sulle spalle, e abbracciandosi, senza smettere di ridere. «Ce l'abbiamo fatta!» esclamò Shel euforico. «Vittoria incondizionata», gli fece eco Bret. «Non avevo mai sognato che sarebbe stato così perfetto», continuò Shel. «Sei tu l'ideatore, vecchio amico. Il merito è tutto tuo.» «No, l'abbiamo ideato insieme», ribatté Bret. «Due uomini che tentano di liberarsi delle rispettive mogli assassinandone una e incastrando l'altra per l'omicidio.» Sempre ridendo si lasciarono cadere in poltrona, esausti. «Niente divorzio», proseguì Shel, «quindi niente alimenti a quelle sgualdrine.» «Pressappoco come avevo spiegato a Ramy al cimitero di Arlington», osservò Bret. «A parte il fatto che ho tralasciato un paio di dettagli.» «Già, per esempio chi sarebbero state le vittime», ridacchiò Shel. Un'altra risata. Bret allungò il braccio verso il tavolino per posarvi il sacchetto che aveva portato. «A ripensarci bene, sono i dettagli che contano», rifletté Shel. «Mio padre mi ha insegnato che la differenza fra un uomo di successo e un fallito è sempre un dettaglio. Se penso a come hai convinto Ramy...» Bret scrollò le spalle. «Sei stato tu la chiave, Shel, tu l'hai preparata.» Spinse il sacchetto verso di lui. «Aveva capito che non ti piaceva più e si è lasciata manipolare facilmente.» «L'idea del doppio matrimonio è stata davvero brillante», replicò l'altro. «Che copertura per un omicidio!»
«All'inizio hai fatto resistenza, però», lo stuzzicò Bret. «Certo, per rendere la cosa più verosimile», convenne l'altro e accettò il bicchiere che l'amico aveva preso dal sacchetto. «E per la storia dei terroristi e l'idea di fare esplodere un'altra bomba a Falls Church... Ti ho ammirato davvero, amico. Tu dovresti davvero lavorare nelle pubbliche relazioni, con lo stile che hai.» «Ora siamo entrambi nelle pubbliche relazioni», gli ricordò Bret, prendendo un bicchiere per sé. «Qual è stata la parte più difficile? Sai che cosa penso io?» «Che cosa?» «Il nastro, quel maledetto nastro.» «Stupida Ramy», convenne Shel. «Abbiamo dovuto registrare una decina di telefonate, prima di beccare quella giusta. Mi è piaciuto il modo in cui hai gridato in tribunale che il nastro non provava un accidente, anche se Sarah pensava che fosse la prova di tutto.» «Be', il nastro ha fatto la sua parte», ammise Bret, cercando un cavatappi nel sacchetto di carta. «Ti ha fornito il pretesto per andare da Sarah e a lei ha dato un movente. Il resto è stato facile... voglio dire, preparare tutte quelle prove fasulle... convincere Ramy ad andare alla macchina. Sai, lei era disposta ad amarmi sino in fondo.» «Ti amava, altro che storie!» sghignazzò Shel. «Devo ammettere che siamo degli attori in gamba», sentenziò Bret. «Ho visto Sarah, prima di venire qui. Lei è convinta che mi stia battendo per aiutarla ed è anche convinta che revocheranno la sentenza.» «Non c'è pericolo», dichiarò Shel. «Soprattutto dopo che ho fatto in modo di affidare la causa a Meeker. Quel giudice ha sempre dimostrato un odio profondo verso le donne che uccidono. Molti non lo sapevano. Non revocheranno un bel niente.» «Brindiamo», suggerì Bret, tirando fuori una bottiglia dal sacchetto. «Sei uscito apposta per prendere lo champagne?» chiese Shel. «No, no, sarebbe stato troppo rischioso», rispose Bret. «Avevo pregato Sarah di comprarne una bottiglia... per festeggiare dopo la doppia cerimonia.» «Che razza di serpente!» commentò Shel. La sua faccia era più viva di quanto l'amico riuscisse a ricordare. «E tanto che ce lo meritiamo», soggiunse Bret e, alzando la bottiglia, lesse l'etichetta. «Dom Perignon dell'Ottantadue. Ottimo.» «Vorrei che Marlene fosse qui», sospirò Shel.
«Le hai parlato oggi?» «Da una cabina telefonica, come sempre. Quando questa storia si calmerà, correrò da lei a Dallas. Detesto il fatto di dover essere discreto a tutti i costi.» «Presto tutto sarà finito», lo consolò Bret, infilando la punta del cavatappi nel tappo della bottiglia. «Dopo, potrai portarti Marlene dovunque andrai.» «E Alison Carver?» Bret esitò. «Già. L'unica cosa che non è andata per il verso giusto. Non avrei mai pensato che Sarah arrivasse ad assumere un detective privato! Però, in un certo senso, è stato un punto a nostro favore. L'ha fatta apparire ancora più paranoica di quanto volessi.» «Pensi di riuscire a sposare Alison?» domandò Shel. «È una questione delicata. Io lo vorrei: mi sarebbe così utile, ma il suo nome, purtroppo, è venuto fuori al processo. Dovrò essere molto prudente, ma ce la farò. Sicuro. Come per tutto il resto.» Shel sogghignò. «Credi che potremo fare un doppio matrimonio?» «Per amor del cielo!» bofonchiò Bret, facendo saltare il tappo. «Ne ho avuto abbastanza di una volta... anche se il funerale di Sarah dovrebbe essere divertente.» Shel spinse in avanti i bicchieri perché potesse versare lo champagne. «Da questo momento brindiamo da uomini liberi, due pilastri della comunità.» Sollevarono i bicchieri e si guardarono. «A noi», propose Bret, «e alle nostre beneamate.» I bicchieri si toccarono. «Alla giustizia americana», aggiunse Shel, «che ci ha servito così bene.» Si portarono i bicchieri alle labbra. Jordan ingollò lo champagne in una sorsata, notando però che l'amico toccava appena il bicchiere. «Ehi, tu non...» «Solo un sorso», rispose Bret. «Devo guidare.» «Oh, certo, capi...» Shel s'interruppe, il viso rotondo atteggiato in un'espressione di sorpresa. «Sai, non mi sento...» Bret non parlò. Rimase semplicemente in piedi e guardò l'amico, come lo aveva fissato quando era entrato. Lo sguardo di Shel divenne angosciato. «Bret, brutto figlio di...» Furono le ultime parole pronunciate da Shel Jordan. Si accasciò sul pavimento, rovesciando vasi e suppellettili, e guardò in su verso l'amico, l'angoscia che si trasformava in collera, poi più nulla. Giacque immobile.
Bret rimase in piedi a guardarlo. «Sai, Shel», disse, quasi volesse farsi capire da un cadavere, «mi sei sempre piaciuto. Eri un tipo di compagnia, sempre pronto agli scherzi o a raccontare una barzelletta e sempre disponibile a offrire party fantastici. Il guaio è, caro amico, che in realtà non ti ho mai rispettato. Parlavi troppo e ti piaceva troppo l'alcol, non potevo fidarmi di te. Proprio non potevo.» Poi guardò il bicchiere vuoto di Shel che giaceva accanto al corpo. «Ho cercato di non farti soffrire, credimi.» Bret si sedette e si lasciò sfuggire un profondo sospiro, concedendosi un po' di tempo. Due dei quattro protagonisti del suo piano originale, Shel e Ramy Jordan, erano morti e Sarah era nel braccio della morte, con scarse probabilità di cavarsela. Ma non c'era tempo per complimentarsi. La cosa più importante era quella di disfarsi dell'amico. Poi avrebbe dovuto inscenare la battaglia per la vita di Sarah e infine doveva studiare a fondo la sua relazione con Alison Carver: il suo futuro politico esigeva che il matrimonio ottenesse la pubblica approvazione. Si alzò e cominciò a ispezionare il cottage, per eliminare qualsiasi traccia della sua presenza. Infilò i guanti di gomma che teneva in tasca e, usando un asciugamano, ripulì ogni superficie da eventuali impronte digitali. Sempre con i guanti, prese i due bicchieri di champagne, la bottiglia, il tappo, il cavatappi e rimise tutto nel sacchetto che aveva portato, per portarli con sé e seppellirli. Poi controllò le carte personali di Shel, in particolare l'agenda di pelle nera nella sua borsa, per assicurarsi che non vi fossero riferimenti alla sua visita. Lo stesso fece per il magnetofono sulla scrivania. E infine il corpo. Bret uscì per andare alla sua macchina, prese due sacchi e li portò in casa. Mise un sacco dentro l'altro, per renderli più resistenti, infilò il cadavere nel sacco rinforzato e se lo caricò in spalla. Trascinò il pesante fardello giù per i tre scalini del cottage e lo caricò nel baule dell'automobile. A operazione conclusa si sentì soddisfatto, aveva fatto tutto secondo i suoi calcoli. Era ora di andarsene, di concludere la visita al suo più vecchio amico. Spense persino la luce. Aveva sempre ammirato la frugalità di Shel. La corsa sino al luogo che aveva scelto richiese un'ora, circa. Si trattava di una strada con poco traffico, a metà fra Charlottesville e Washington. Bret aveva già scavato la fossa fra i cespugli parecchie sere prima e l'aveva coperta di rami e foglie. Vi depose Shel e ricoprì la fossa. Passò una mac-
china, mentre lavorava fra i cespugli, ma non rallentò neppure. Dopo tutto, non c'era niente di strano in un'auto ferma sul ciglio della strada. «Be', addio, vecchio amico», sussurrò Bret. «Spero che l'alloggio sia di tuo gusto. Ti farò spedire la posta.» 35 Ci vollero quattro giorni, quanto aveva previsto Bret. La segretaria chiamò Shel ripetutamente per i primi tre, ottenendo solo la risposta della segreteria telefonica. Anche il suo avvocato cercò di rintracciarlo e giunse alla conclusione che doveva essere partito. La gente capiva e nessuno si preoccupò più di tanto, sebbene i suoi amici cominciassero a impensierirsi. Ma dopo quattro giorni, la sua segretaria decise di chiamare la polizia della Virginia. Un agente si recò al cottage dove aveva alloggiato Shel e vide la sua auto parcheggiata fuori. Notò che la macchina era ferma da qualche giorno, perché era piovuto e non c'erano tracce di pneumatici. Sbirciò dalla finestra: nessun segno di vita. Salì gli scalini e rimase sorpreso di non trovare la porta chiusa a chiave. Non c'erano impronte sul tappeto. Nessuno era stato lì da giorni, concluse. La polizia diramò una descrizione di Shel Jordan e i giornali uscirono con il titolo: «Scomparso Shel Jordan». Forse Shel aveva deciso di sparire o di uccidersi, sopraffatto dal dolore? O era stato rapito? O assassinato, magari da qualche complice di Sarah? Nessuno sospettò di Bret. Al massimo, pensava la gente, era Shel che aveva motivi di rancore verso l'amico, dopo tutto, era stato lui a rubargli la moglie. Ma che motivo poteva avere Lewis per eliminare l'amico di sempre? Appena apparve la notizia della scomparsa di Jordan, Bret si affrettò a chiamare il tenente King, per offrirgli il suo aiuto. Poi, nel giro di pochi giorni, il fatto perse importanza. Bret andava ogni giorno a trovare Sarah in prigione. Nel parlatorio comunicavano attraverso la rete metallica, parlando sempre con voce sommessa, quasi un bisbiglio, perché si diceva che le guardie registrassero le loro conversazioni, per venderle poi alla stampa. «Voglio rivolgermi a un nuovo avvocato per la difesa», annunciò Bret durante un colloquio. «Non mi sembra che Evans abbia fatto un buon lavo-
ro.» «Comincio a crederlo anch'io», confessò Sarah. «Hai in mente qualcuno?» «Lionel Merton, un famoso penalista di Richmond. Mi sono informato: è il migliore, per i processi d'appello.» «Ma costerà...» «Pensi al denaro? Dobbiamo tirarti fuori di qui, Sarah, sei innocente. Vedrai, ricominceremo daccapo. Ci sono state incomprensioni fra noi ed è stato terribile, ma appartengono al passato. Tu e io siamo inseparabili.» Lei gli credette. Aveva forse altra scelta? «Sicuro, dovremo affidare il caso a Merton», riprese Bret. «Riesaminerà ogni pagina del processo e vedrai che ribalterà tutto.» «Io voglio soltanto che sia ribaltato il verdetto», disse Sarah. «Questo è sicuro. La gente è dalla tua parte. Pensa che sono stato avvicinato da tre editori che vorrebbero pubblicare la tua storia. Tutti molto comprensivi. E poi ci sono i gruppi femministi.» Sarah aveva completa fiducia in suo marito, ormai i sospetti di un tempo erano svaniti, anzi, qualche volta arrivava a pensare che fosse stato il destino a sottoporla a una prova così terribile per rinsaldare la loro unione. «Come vanno le indagini?» chiese dopo un po'. «Per il tuo processo?» «No, per l'omicidio di Ramy.» «Sarah, ho già cercato di spiegartelo. In realtà, non c'è nessuna indagine. Certo, qualche giornalista segue una sua pista personale, perché non ha digerito il verdetto; ma per quanto riguarda la polizia... il suo compito è finito. Con il nuovo avvocato ci rivolgeremo a un investigatore privato perché se ne occupi.» Sarah azzardò un pallido sorriso. «Forse apparirò in televisione», osservò. «Solo se la giustizia trionferà», decretò Bret, e quasi fece una smorfia, mentre lo diceva. «Dio, darei qualunque cosa per sapere chi è stato», stava dicendo Sarah. «Certe volte mi sembra...» «Ti capisco», la interruppe lui. «Un giorno lo sapremo e sapremo anche perché la polizia voleva incastrarti. Hanno ricevuto degli ordini. Credimi, eseguono degli ordini.» «Di chi?» Bret si strinse nelle spalle. «Ogni giorno penso a quelle prove messe in-
sieme con tanta astuzia. E so che esiste la corruzione, la vedo in ogni momento.» Le loro mani si toccarono attraverso la rete metallica, sotto lo sguardo attento di una guardia in gonnella che li osservava. «Sono disperata, quando devi andare via, Bret», sussurrò Sarah. «Anch'io», sospirò lui. «Ma devo fare alcune telefonate. Sta' tranquilla, è solo questione di tempo.» S'interruppe un attimo prima di aggiungere: «Queste sono cose che capitano solo agli altri, non è vero?» «Me lo ripeto ogni giorno», rispose Sarah. Si alzarono e si gettarono un bacio attraverso la rete. Mentre ritornava al suo appartamento, Bret ripensò al colloquio con Sarah. Trovava quegli incontri in prigione più difficili di ogni altro aspetto di tutto il suo piano... ancora più difficili che uccidere Ramy e Shel. Non si era reso conto di quanto fosse dura apparire convincente davanti a una moglie condannata a morte. Lui era un buon attore, un bravissimo bugiardo, ma si sentiva sempre più a disagio, quando si sedeva dall'altra parte della rete metallica. Accese la radio, ascoltando appena le notizie economiche e finanziarie. A un certo punto, però, sentì le parole «Shel Jordan». Bret alzò il volume. Fonti attendibili della polizia della Virginia hanno rivelato, poco fa, che si è aperto uno spiraglio nell'inchiesta per la scomparsa di Sheldon Jordan. Queste fonti hanno comunicato alla CBS che si è più vicini a risolvere il caso di quanto lo si fosse stamattina, ma si rifiutano di rivelare i dettagli dei nuovi sviluppi. Nel frattempo... Bret era confuso. Come potevano essere più vicini? Di certo non avevano trovato il cadavere, era sepolto in mezzo al nulla. Nessuno poteva trovare quel corpo e nel cottage non c'erano tracce. A meno che... qualche referto di laboratorio non avesse rivelato qualcosa. Oppure c'erano dei testimoni? Il villino era isolato. No, impossibile. Forse era una balla, quella che avevano trasmesso, forse era lo scherzo di qualche poliziotto burlone. Del resto, non poteva fare niente. Non poteva andare in giro a fare domande, per cercare di scoprire che cosa sapesse la polizia. Arrivò a casa e accese subito il televisore, sperando di sentire ulteriori notizie. Niente. Ma quella sera, per la prima volta da quando era iniziata quella lunga storia, Bret si gettò sul letto senza addormentarsi. Reazione ritardata, si disse, un
accumulo di nervosismo. Comprensibile e spiegabile. Passerà, come passerà Sarah. Non passò. Il fuoco di fila fu annunciato da una calma telefonata. Bret era in casa, era appena tornato da una visita a Sarah e si era preparato un'insalata per cena. Quando suonò il telefono, era sicuro che fosse il suo ufficio che gli annunciava la cattura di un importante terrorista. Ma non era una voce del ministero della Marina. «Signor Lewis?» «Sono io.» «Sono il tenente King. Si ricorda?» «Ah, sì... naturalmente.» «Ecco... potrei fare un salto da lei? È urgente.» «Urgente?» «Sì, signore. È successo qualcosa e devo parlarle.» Bret capì che era meglio non insistere al telefono, per non apparire nervoso e apprensivo. «Certamente. L'aspetto, tenente.» «Grazie. Vengo subito.» Bret riappese e aspettò. Era completamente disorientato, ma King gli era parso cordiale, non ostile. Aveva chiesto il permesso di venire, non si era presentato semplicemente alla porta e non aveva fatto intendere che si sarebbe portato appresso altri poliziotti. Perciò Bret si rilassò, mentre l'aspettava. Quando Bret gli aprì la porta, dopo circa venti minuti, il detective della Virginia gli rivolse un gran sorriso, uno di quei sorrisi da cinematografo, rassicurante. «Buonasera, signor Lewis», esordì King. «Piacere di rivederla.» «Entri, entri», lo invitò Bret. King entrò reggendo la sua vecchia borsa. «A che cosa devo questo insolito onore?» domandò Bret. «Al destino», rispose il poliziotto. «Al destino?» «Proprio così, signor Lewis. Credo di avere buone notizie per lei.» Bret si strinse nelle spalle, per darsi un contegno. «È sempre un piacere sentire delle buone notizie», rispose calmo. «Andiamo in soggiorno.» Mentre sedevano, notò che King frugava la stanza con gli occhi osservando la montagna di posta ammucchiata sul tavolo e persino sulle sedie. «Scusi il disordine», borbottò Bret. «C'è un sacco di posta per mia moglie.
Lettere di simpatia, persino preghiere.» «Capisco», disse King. «Alla gente sua moglie piace.» «L'amano», precisò Bret. «Le vogliono tutti molto bene. E ora sentiamo, quali sono le buone notizie?» Notò che King continuava a sorridere. «Signor Lewis, abbiamo fatto una scoperta importante», annunciò il detective. «Avete trovato Shel?» «No.» «Allora?» «Ancora più importante. Stavamo svolgendo delle indagini sulla scomparsa del signor Jordan e non avevamo trovato assolutamente nulla. Abbiamo perquisito le sue abitazioni, le auto, l'ufficio e non è saltato fuori niente. Ma vede, qualche volta bisogna fidarsi del proprio istinto.» «Sicuro.» «Così sono andato a casa del signor Jordan e ho fatto rimuovere ogni cosa, rivoltando mobili e tappeti. Con un mandato, s'intende. E alla fine ho trovato qualcosa sotto un tappeto.» «Sì?» «Una cassaforte incassata nel pavimento. Davvero un lavoro ben fatto. Abbiamo dovuto aprirla con la fiamma ossidrica. Dentro... c'era del materiale notevole.» «Che cosa c'era?» volle sapere Bret, ancora ignaro del seguito. «Vede, a quanto pare, il signor Jordan amava tenere appunti.» «Sì, era molto metodico negli affari, teneva sempre delle annotazioni.» «Questi appunti raccontavano una storia», continuò il tenente, «una storia vera.» «Che cosa intende dire?» «Signor Lewis, si regga forte: pare che sia stato il signor Jordan a uccidere sua moglie.» Controllati, ordinò Bret a se stesso. Sta' calmo, lascia che la reazione svanisca lentamente. Fissò il poliziotto e il suo viso assunse un'espressione di stupore. «Che cosa?» domandò con voce calma. «Ripeta.» «Jordan ha ucciso sua moglie.» «Vuole scherzare?» «Ho l'aria di uno che vuole scherzare?» «E avete le prove...» «Abbiamo trovato i piani del delitto nella cassaforte di Jordan. C'erano cose che solo l'assassino poteva sapere... a proposito della bomba, del de-
tonatore e...» «È incredibile! Sono sbalordito», mormorò Bret. Ma si sentiva mancare il cuore. King era un manipolatore, sapeva come cavare informazioni in un attimo di sbandamento. Che cosa avrebbe detto dopo? «Che cos'altro c'era in quella cassaforte?» domandò infine. «Be', c'era qualcosa che parlava anche di lei.» «Che cosa?» Ecco fatto. Una trappola. «Un promemoria, ma niente d'importante.» Niente d'importante? No, non era una trappola. Ma se la polizia ora pensava che fosse Shel l'assassino, Sarah... «Il signor Jordan», riprese King, «veniva spesso a casa sua, giusto?» «Certo.» «Noi pensiamo che abbia preso gli oggetti che appartenevano a sua moglie. Potrebbe essersi introdotto di nascosto; i capelli, ad esempio, potrebbe averli presi dalla spazzola, in bagno.» «Sicuro», convenne Bret cercando di apparire sgomento. «Sì, potrebbe averlo fatto. È... è incredibile!» «Molto credibile, invece, signor Lewis. Ora cominciamo a credere che il signor Jordan abbia ucciso la moglie perché pensava che avesse una relazione con lei e ha cercato d'incastrare sua moglie, perché anche lei aveva un movente. Dubitiamo che sia solo scomparso, probabilmente è fuggito perché ha avuto paura che indovinassimo com'erano andate le cose. Un individuo in gamba.» «Già», convenne Bret. «Davvero in gamba.» E Sarah? Doveva parlare di Sarah. Cercava di guadagnare tempo, mentre dentro di lui esplodeva un senso di orrore. «Questo significa che Sarah...» «Abbiamo già contattato il tribunale di Arlington. Appena controllate queste nuove prove, la signora Lewis potrebbe tornare in libertà. È una notizia fantastica, signor Lewis.» King sorrise e Bret lo odiò con tutte le sue forze. Solo un'ora prima era felice, tutto andava perfettamente bene, e adesso, a causa di pochi stupidi appunti che quell'imbecille teneva in una cassaforte, vedeva il suo nuovo mondo sbriciolarsi. Appunti. Quel cretino teneva appunti! E Sarah. Sarah! «Mio Dio», Bret disse a se stesso. «La riavrò indietro!» 36
«Ho raggiunto una decisione», annunciò Meeker, aggiustandosi gli occhiali e prendendo un foglio dalla grande scrivania di mogano. Aveva deciso di tenere l'udienza nel suo studio, una stanza accogliente e severa, con le pareti coperte di libri, in gran parte volumi di legge, ma molti anche sulla storia del Sud. Howie Gresh era stato lì parecchie volte e ogni volta aveva espresso ammirazione per quella collezione di volumi. Anche Woody Evans era stato in quello studio, ma non era certo il tipo da accattivarsi i favori del giudice con l'adulazione. Solo Meeker era seduto. Howie Gresh stava in piedi davanti all'imponente scrivania, come Evans, e vicino a questi c'era Sarah Lewis, che indossava il camicione grigio da detenuta. Meeker s'era aspettato di vederla più felice, considerando le circostanze dell'udienza; dopo tutto, era stata restituita al mondo dal braccio della morte; eppure Sarah sorrideva appena. Forse aveva sofferto troppo, pensava il giudice. Ci voleva tempo per riprendersi. Alle spalle di Sarah, per speciale concessione del giudice, c'era Bret. Non aveva un ruolo legale nel procedimento, ma aveva chiesto di essere presente per sostenere sua moglie. Le teneva costantemente gli occhi addosso. Un bravo giovane, pensò Meeker. «Questo caso esige una fase supplementare d'inchiesta», dichiarò Meeker. «Il procuratore distrettuale m'informa che il suo ufficio non ha ancora raggiunto la decisione se processare di nuovo la signora Lewis, ci sono tuttora da esaminare nuove prove. Tuttavia, sono convinto che sarebbe illegale trattenerla ancora in carcere e pertanto sono pronto a rilasciarla, signora Lewis, sulla parola. È chiaro che dovrà rendersi disponibile in caso di un ulteriore procedimento.» «Naturalmente», rispose Sarah sottovoce. «Ora... può andare.» Bret si fece avanti e baciò sua moglie. «Grazie a Dio è finita!» esclamò. Sarah ricambiò il bacio, ma senza passione. Il giudice Meeker la capiva: ci sarebbe voluto del tempo e magari l'aiuto di uno psicologo, ma si sarebbe ripresa, grazie a quel bravo giovane. «Congratulazioni», disse Gresh stringendole la mano. Meeker doveva presenziare a un altro processo, perciò, dopo aver salutato i Lewis, uscì per andare in aula. Sarah andò in una piccola stanza a cambiarsi e quando riapparve, dopo pochi minuti, appariva notevolmente nervosa.
«Che cos'ha?» chiese Bret a Evans. «Nervi», rispose l'avvocato. Era contento di vedere Sarah libera, anche se avrebbe preferito che la riconquistata libertà fosse merito suo. Bret accompagnò la moglie a casa. Non trovarono nessuno all'uscita, la stampa non sapeva neppure che la detenuta fosse libera. Avrebbe dovuto essere un momento di festa, ma i due parlarono appena, ciascuno immerso nei propri pensieri, pensieri diversi. «Vorrei portarti fuori a pranzo», disse Bret, «ma saresti riconosciuta e non è consigliabile.» «Non voglio uscire», rispose Sarah. «Voglio solo andare a casa con te.» «Vuoi che chiami un medico?» «Sì, ma più tardi. Ora desidero solo vedere la mia casa, le mie piante, il frigorifero. Non immagini che cosa possano significare queste piccole cose.» «Credo di capire.» «So che non comprenderò mai esattamente ciò che mi è capitato. È troppo strano.» «Non pensarci più», suggerì Bret. «Non farà parte del tuo futuro.» «Sì, invece. Eccome.» Bret entrò nel garage e le porse un paio di occhiali neri e un foulard che aveva portato con sé, in modo che non venisse riconosciuta mentre salivano fino al loro appartamento. Dopo qualche minuto, apriva la porta di casa. Aveva decorato l'appartamento con palloncini e festoni di benvenuto, nel caso la notizia si fosse divulgata e la stampa fosse piombata a congratularsi. Ma Bret pensava a tutt'altro. Doveva pur esserci un modo per venirne fuori... «Bentornata a casa», esclamò. «Per sempre.» Per poco non si soffocò con le sue stesse parole. Lei era tornata. Viva. Si abbracciarono e lui mormorò: «Sarà di nuovo come ai vecchi tempi. Dimmi solo che cosa devo fare». «Resta qui», rispose Sarah. «Voglio fare il giro della casa, per riprendere confidenza. Qui non ci sono sbarre, vero?» «No.» «Mi ci riabituerò... presto.» Prese a girare per l'appartamento, aprì quasi tutti i cassetti, raccolse qualche lettera dalla pila di posta che si era accumulata sul tavolo. Bret
l'osservava attento, ancora incredulo. Forse era solo un brutto sogno. Ma non era un sogno. Era lei, in carne e ossa. Ed era tornata. Sarah aveva un'espressione seria, quasi cupa, come se un fardello le pesasse nella mente. «Bret», disse, «vorrei discutere di qualcosa con te.» «Sì?» «Si tratta... di ciò che abbiamo appena passato.» «Certamente», acconsentì lui. «Parleremo di tutto ciò che vorrai.» Sarah si avvicinò alla valigetta che aveva portato dalla prigione e l'aprì. «Non è incredibile che quanto hanno scoperto nella cassaforte di Shel abbia deciso la mia libertà?» chiese, mentre cercava qualcosa. «Certo», rispose Bret, chiedendosi dove volesse arrivare e che cosa stesse cercando. «Hanno trovato anche altre cose», annunciò Sarah. «Davvero?» Non gli piacevano quelle ultime parole. Altre cose. Sarah tirò fuori dalla valigetta una busta chiusa. «Hanno trovato questa.» «Che cos'è?» «È una lettera indirizzata a Sarah Lewis, personale. È di Shel. Sul fondo della busta ha scritto: 'Da recapitare in caso di mia morte improvvisa o di scomparsa'.» Dapprima Bret non parlò. Era stupito e decisamente a disagio. «Perché Shel avrà fatto una cosa simile?» chiese finalmente. «Hai letto quello che dice?» «Sì, l'ho letto, e credo che dovresti leggerlo anche tu.» «Io? Perché...» Sarah gli porse la busta. «A voce alta, per favore», lo invitò. «Per tutti e due.» Lui prese il foglio dalla busta e lo spiegò. «A voce alta», ripeté Sarah. Bret non ne era affatto entusiasta, provava una sensazione molto spiacevole ma, senza batter ciglio, attaccò: Cara Sarah, spero che non leggerai mai questa lettera, perché se dovessi farlo, significherebbe che mi è capitato qualcosa. Ciò che sto per dirti ti sconvolgerà. Anzi, è meglio che tu ti sieda.
Bret s'interruppe un attimo e guardò sua moglie. Lei lo fissava con uno sguardo intenso. «Voglio che tu sappia...» riprese a leggere Bret. Poi ammutolì. «Vai avanti», ordinò Sarah con voce gelida. «Ma tutto questo è ridicolo, è...» «Leggi!» «Voglio che tu sappia che Bret e io abbiamo ucciso Ramy e ti abbiamo incastrata, addossandoti la colpa... Di nuovo Bret si fermò. «Senti, Sarah, Shel è sempre stato geloso di me, lo sai. L'hai detto tu stessa. Questa è soltanto...» «Vai avanti!» scattò Sarah. Il suo viso era di pietra. E Bret andò avanti. Noi due eravamo stanchi del matrimonio e abbiamo pensato che potevamo liberarci facilmente delle nostre mogli, uccidendo l'una e incastrando l'altra. Così si eliminava il problema delle carte bollate per i rispettivi divorzi. So che ti stai chiedendo perché ammetto tutto questo. Conosco Bret da un sacco di tempo e mi è simpatico, ma non mi fido completamente di lui. È sempre pronto a fare di tutto, pur di ottenere ciò che vuole... come far processare sua moglie per omicidio e assistere alla sua esecuzione. Tu, sua moglie da vent'anni. E allora ho pensato: se è capace di tanto, che cosa potrebbe fare a me? Io sono l'unico a conoscere la vera storia e Bret è un calcolatore. Perciò, se mi succede qualcosa, ti arriverà questa lettera. Sarà la mia vendetta contro di lui, così non se la caverà mai. Devo farlo, capisci, non posso vivere con l'idea che qualcuno possa fregarmi... Bret s'interruppe abbassando la mano che reggeva il foglio. I morti non parlano, aveva pensato quando aveva ucciso Shel. Ma un morto era tornato e raccontava una storia. «Shel aveva un modo tutto suo di guastare le cose», borbottò. Sarah rimase in silenzio, limitandosi a fissare il marito. Poi, di scatto, lui si precipitò al tavolo dove teneva la pistola e aprì il cassetto. «Ce l'ho io», disse Sarah.
Era così. «L'ho presa mentre giravo nell'appartamento», spiegò lei. «Mi dispiace che tu non te ne sia accorto.» Prese la pistola da una tasca del vestito. «Che inferno ci hai fatto passare!» esclamò con una fermezza che non aveva mai mostrato prima. E poi, con calma, senza tradire alcuna emozione, piantò cinque proiettili nel corpo di Bret Lewis. La faccia di lui s'irrigidì, ma riuscì a restare in piedi, come se fosse l'unica cosa onorevole da fare. Rimase in piedi immobile per alcuni terribili istanti. Infine crollò. Mentre si accasciava sul pavimento, guardò in su, verso Sarah per l'ultima volta. «Chiedi la momentanea infermità mentale», bisbigliò. Calcolatore fino all'ultimo. Epilogo Sarah Lewis, di nuovo rappresentata da Woody Evans, venne assolta per legittima difesa. Il procuratore distrettuale di Washington, optando la non prosecuzione del processo, accettò le sue dichiarazioni, secondo cui Bret si era lanciato a prendere la pistola per ucciderla. La Rossa scrisse che l'opinione pubblica si era schierata dalla parte dell'imputata e che perciò il procuratore distrettuale non poteva avanzare altra proposta. Sarah venne liberata e tornò a lavorare al Museo aerospaziale, ma dopo sei settimane rassegnò le sue dimissioni. La sua presenza attirava troppa curiosità. Si trasferì a Pittsburgh, dove trovò un impiego come insegnante di ingegneria aeronautica in un college locale e non si risposò mai più. Bret fu sepolto nella piccola tomba di famiglia, alla periferia di New York. Aveva sempre desiderato essere sepolto ad Arlington, e un parente aveva avanzato una richiesta in tal senso al ministero della Difesa. Ma la richiesta venne respinta. Motivazione: il defunto non aveva i requisiti di servizio per la sepoltura ad Arlington. I Black stamparono le foto di Bret con Alison Carver, ma non ne ricavarono nulla. Alla gente e ai lettori non interessavano gli intrighi dei morti. Alison Carver dichiarò che le foto erano false e venne rieletta. Shel Jordan. Che dire di un uomo che non si fidava di Bret Lewis e beveva il suo champagne? In un certo senso, Shel fece un'altra... apparizione. Bret non poteva saperlo, ma il terreno dove aveva sepolto il suo vecchio
amico era stato venduto a certi imprenditori edili e i resti di Shel vennero alla luce durante gli scavi. Tuttavia, furono risepolti immediatamente, senza neppure essere identificati. È un'abitudine dei costruttori non denunciare il rinvenimento di cadaveri e la polizia non vuole saperne. E poi, come qualche poliziotto disse a qualche costruttore, in circostanze simili: «Se un individuo è sepolto laggiù, probabilmente se l'è meritato». FINE